JUDE FISHER IL RISVEGLIO DELLA MAGIA (Sorcery Rising, 2002) I miei ringraziamenti a Joy, Jim, Dick, Emma, Mike e Joe per...
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JUDE FISHER IL RISVEGLIO DELLA MAGIA (Sorcery Rising, 2002) I miei ringraziamenti a Joy, Jim, Dick, Emma, Mike e Joe per il loro incoraggiamento durante questo lungo viaggio; a Henry Teece, J.R.R. Tolkien e i creatori di saghe, che mi hanno spinto a sognare; a Viggo e l'Islanda per corvi, parole e guerrieri; a scogliere marine, pietra arenaria e cupole di granito; e a John, Danny e Russ, per l'attenzione che dimostrano sempre.
Prologo Il giorno in cui il Padrone gli mostrò il mondo fu il giorno in cui Virelai
divenne un uomo. E la faccenda si rivelò alquanto pericolosa, tutt'altra cosa rispetto a ciò che il mago aveva avuto in mente. Quando la porta di ghiaccio della grande sala nella Torre gli si spalancò di fronte, Virelai provò un istante di puro terrore. Sentì l'aria gelida dell'interno protendersi verso di lui per afferrarlo, come un vuoto in quella fitta tenebra capace di risucchiarlo e inghiottirlo per sempre. Il tono lugubre di Rahe quando l'aveva esortato a entrare, «Benvenuto, Virelai, nel mio mondo», era stato altrettanto poco incoraggiante. Il mago infatti aveva cominciato a comportarsi in modo molto strano negli ultimi tempi. In numerose occasioni Virelai l'aveva sorpreso ad accendere piccoli fuochi nel parco, nelle cucine, e una volta persino nel suo studio; di questi rimanevano perniciosi fumi nell'aria e tra le ceneri frammenti di cuoio anneriti e peli puzzolenti, radici e tuberi, artigli, denti e piccoli pezzi di ossa. Fatto allarmante, dato che gli unici altri occupanti di Santuario, Virelai ne era certo, erano lui e il famiglio del Padrone, una gatta nera che lui chiamava Bëte. E poi erano cominciate a sparire delle cose: rotoli e pergamene, tomi di magia, registri e taccuini dalla biblioteca; piante e boccette dall'erbario, tirate giù con tanta fretta che sul pavimento erano rimasti fiori e foglie secche, cocci di vasi e macchie essiccate di una sostanza che ricordava un po' troppo il sangue, per i gusti di Virelai. E nel curiositar, la sala in cui Rane teneva i suoi oggetti più preziosi (fini cristalli, tagliati e grezzi, pietre di ogni dimensione, forma e colore, minerali e metalli e gemme, tutti etichettati con nomi e proprietà magiche, statuette e gioielli di squisita fattura, coltelli e spade, punte di lancia e frecce, e altri oggetti senza nome, tanto misteriosi da sfuggire a qualsiasi tentativo di catalogazione), tutti coperti da sottili fogli di ghiaccio semitrasparente, senza dubbio per impedire che il suo goffo apprendista ci mettesse sopra le sue sudice mani, insomma nel luogo dove di solito regnava il perfetto ordine, ora c'era il caos della distruzione. I manufatti erano infranti o irriconoscibili, le pietre e i metalli fusi insieme in un'orribile massa informe, probabilmente a causa di quella che doveva essere stata un'enorme esplosione di energia magica. Persino l'enorme scheletro ricostruito col filo metallico della bestia che Rahe chiamava il Drago di Farem era stato fatto a pezzi e sparso per tutta la sala come dalla mano di un gigante colto da un eccesso d'ira. Solo il Padrone poteva aver causato una simile distruzione, ma a quale scopo? E se il Padrone era uscito di senno, quanto tempo sarebbe passato prima che cominciasse a sfogare la sua rabbia distruttrice contro i suoi
unici compagni? Perciò in quel momento, mentre se ne stava in piedi davanti alla soglia della stanza immersa nel buio, ansimando dopo la lunga salita su per la stretta scala a chiocciola, con quell'aria che gli gelava il sangue e il respiro caldo del mago sulla nuca, Virelai pensò seriamente di darsela a gambe. Ma proprio allora il Padrone schioccò le dita e un fuoco celeste pallido illuminò la stanza, rivelando il più bizzarro spettacolo che Virelai avesse mai visto in tutti i ventinove anni trascorsi in quello strano posto. Al centro della sala c'era un enorme globo ovale di luce, e al suo interno quello che poteva essere descritto solamente come un mondo. Nuvole bianche galleggiavano su distese di blu, verde e marrone: oceani e isole, laghi e continenti. I raggi del sole, provenienti da una fonte che Virelai non riusciva a cogliere, orlavano le nubi di oro brunito e gettavano ombre in movimento su terra e mare. Virelai trattenne il fiato e fece un passo avanti. «Non toccare niente, ragazzo!» Rahe posò una mano sulla spalla di Virelai per trattenerlo. Per una volta Virelai non si risentì per quell'appellativo, tanto era affascinato dallo spettacolo di fronte a lui. «Che magia è questa, Padrone?» Il mago non rispose. Tese invece una mano e tirò una corda. Ci fu un improvviso cambiamento di luce nella camera e quando Virelai alzò gli occhi verso l'alto, vide un enorme congegno fatto di leve e carrucole e cristalli, costruito intorno all'apertura. Il sole illuminò i cristalli, creando raggi prismatici che colpirono il globo da una miriade di angolazioni, modificando la vista su quel mondo. E dove prima c'erano oceani e strisce di terra, ora si animava un panorama più particolareggiato... tetti di case in legno e torba, mucche e pecore su ripidi pascoli, persone piccole come insetti che si affrettavano alle loro faccende. Un gabbiano passò tra le nubi in un lampo di bianco e Virelai istintivamente si ritrasse. «Il regno isolano di Eyra» dichiarò il mago. Tirò un'altra leva e il terreno si precipitò verso Virelai a velocità impressionante. Bambini che correvano ridendo su una spiaggia di ciottoli, inseguendo un piccolo cane marrone; donne che stendevano il bucato su lunghi fili lungo un muro di cinta. Barche che ondeggiavano in un porto riparato. «E questo è il continente meridionale, dove si trova l'impero d'Istria e i grandi deserti...» Una città con alti edifici di pietra e centinaia di persone in abiti dai colori vivaci che si affaccendavano per le strade; poi la luce divenne forte e inclemente e un'ampia distesa di sabbia invase il globo, la superficie ondu-
lata delle dune disturbata solamente da un'unica fila di nere figure che a fatica si faceva strada nella sabbia. Un altro strattone alla leva e Virelai si ritrovò a fissare sbalordito il volto di una vecchia con un ciuffo di capelli bianchi sulla sommità del capo adornato di conchiglie e piume, e con più di una dozzina di catene d'argento intorno al collo sottile. La donna lo fissò e aprì la bocca per dire qualcosa che Virelai non poté sentire, e poi fu trascinata via in un turbinio di luce, mentre nuvole bianche e una catena di grandiose montagne incappucciate di neve prendevano il suo posto. «È bellissimo» mormorò Virelai, emozionato e intimorito. «Ma non capisco.» «Virelai... Vi-re-lai! Pensa, ragazzo, pensa. È Elda.» Il mago variò nuovamente la distanza focale in modo che il globo tornasse a mostrare l'abbozzo di mondo, tutto forme astratte e colori indefiniti. Elda. Virelai pensò alle carte geografiche che aveva esaminato nello studio, antiche, accartocciate, tutte ingiallite, con scarabocchi di grossolani triangoli per le montagne, sottili linee ondulate per le onde dell'oceano, chiazze astratte di marrone tra il blu per i continenti... e la parola 'Elda' scritta all'interno di un sole radiante in cima o al centro o su un lato delle mappe: qualcosa nella sua testa si accese. Com'era stato stupido a non capire che quei segni rappresentavano qualcosa di più che semplici simboli sulla carta. A credere che Santuario fosse l'unica cosa esistente al mondo. «Posso andarci?» Guardò il mago con un'espressione estasiata sul viso. Il Padrone rise, una risata inclemente. «Oh, no, credo di no. Non dureresti un minuto. Guarda...» I cristalli si riallinearono e ci fu un'altra vertiginosa discesa. Un mercato, dove una donna spezzava il collo a un pollo e subito tendeva la mano verso un altro mentre il primo ancora batteva flebilmente le ali. In una stanza buia un uomo era disteso su una ruota, mentre un altro avvicinava orrendi strumenti di tortura alla sua carne. Da qualche altra parte alcuni uomini si combattevano su un'arena impregnata di sangue. Virelai guardò con orrore mentre il braccio di uno dei contendenti veniva mozzato. Un altro strattone alla leva e vide due uomini tenere giù una figura snella con un mantello nero, mentre un terzo strappava la stoffa per denudarne la pallida pelle e un quarto allargava le gambe della figura che si dimenava, penetrandola poi con un grugnito. Sotto un sole impietoso, uomini incatenati spaccavano pietre sul fianco lacerato di una collina, sorvegliati da guardie a cavallo
con fruste e pungoli. Virelai guardò tutto questo a bocca aperta. E ancora... un villaggio di montagna assaltato da soldati, donne e bambini trafitti da lance; un uomo appeso per il collo a un albero; gente e animali con la gola tagliata e donne avvolte da rossi mantelli che raccoglievano il sangue in grandi piatti. Un gruppo di persone adornate di conchiglie, piume e catene d'argento lapidate da una folla inferocita; donne nude bruciate su roghi e uomini legati a pali di legno nel calore bruciante... poi tutto cambiò, e Virelai si ritrovò su una nave in alto mare, a guardare una balena arpionata che veniva trascinata vicino a un gruppo di barche mentre degli uomini la trafiggevano a morte, trasformando l'acqua intorno a essa in una pozza rosso sangue. «Basta!» gridò, e tentò di fuggire. «Perché credi che io sia venuto qui, ragazzo?» Un altro scatto del marchingegno e apparve una minuscola isola, bianca e tranquilla contro il mare grigio e minaccioso, circondata da banchi di ghiaccio galleggiante e nascosta da turbinanti nebbie. «Per allontanarmi da tutto questo. Ho chiamato questo posto Santuario, ed è un vero rifugio. Dovresti ringraziarmi per averti portato qui salvandoti da quell'orrore.» Quindi sospirò. «Tutto cade in rovina e svanisce, ragazzo: la vita, l'amore, la magia. Non c'è niente che valga la pena di salvare, alla fine. Tanto vale distruggere tutto, lasciare che la natura segua il suo corso.» Rahe diede alla leva un selvaggio strattone, e le immagini della fortezza di ghiaccio rotearono nel globo di luce: le cucine, poi il laghetto ornamentale con i cigni e le statue di ghiaccio, quindi il cortile interno, infine un labirinto di corridoi. Un improvviso lampo di luce dorata e Virelai scorse una donna nuda, la lunga schiena rosea alla luce delle candele, e una massa di capelli biondo argento a nascondere la curva del sedere mentre dormiva... sul letto del Padrone. Rahe imprecò, tirò una corda e la stanza ricadde nell'oscurità. Virelai, che stava per chiedere al mago chi fosse quel miracolo, fu distratto da una sensazione strana: qualcosa sembrava prendere vita nei suoi pantaloni. Allungò la mano per indagare e scoprì con orrore che una parte prima innocente della sua anatomia era diventata dura e informe. Allarmato, la spinse via in mezzo alle gambe, ma l'immagine della donna continuava a fare capolino nella sua mente, e quell'oltraggiosa appendice si ostinava a risollevarsi, pulsante e insistente. Lo ossessionarono tutto il giorno mentre faceva le sue faccende, quella
pelle nuda e il suo indisciplinato membro. Ma ancor di più la scoperta che c'era un mondo là fuori, altra gente, altri luoghi, infinite possibilità, che Rahe gli aveva tenuto nascosto, come se lui non avesse una vita o una volontà proprie. Come se fosse come uno qualsiasi degli altri oggetti posseduti dal mago. Si sentiva come parte di un esperimento del Padrone, una cosa piena di sostanze pericolose pronta a esplodere da un momento all'altro. Non appena poté, scivolò via di soppiatto alla stanza segreta della torre, contando ogni passo: terzo incrocio a destra del corridoio est, cinquantanove passi, poi la porta nascosta, seguita da centosessantotto tortuosi gradini di ghiaccio. Aveva memorizzato la strada anche se il Padrone aveva tentato di confondergli la mente. Gli ci volle un po' per capire il funzionamento delle leve, ma ben presto con entusiasmo febbrile riuscì a far comparire ogni possibile immagine di Elda, e se ne nutri finché non ne fu stordito, intossicato. Alla fine tentò di rivedere la donna nella camera del Padrone, ma per quanto delicatamente manovrasse le leve, non riuscì a trovare alcun segno di lei. Stava quasi per desistere quando si imbatté in un'immagine di Rane stesso, in piedi nel camino del salone principale, gli abiti in fiamme. Fumo di un colore sinistro saliva verso il soffitto. Un'immagine impressionante. Virelai tenne ferma la leva e guardò. Sul tappeto davanti al camino c'era Bëte, la testa inclinata di lato, gli occhi verdi spalancati, a fissare con attenzione il vecchio, quando improvvisamente con un forte grido (anche se Virelai non udì alcun suono) il mago allargò le braccia. Il fumo, che si stava pigramente incanalando lungo le pareti per fuggire attraverso le intercapedini del soffitto, fu improvvisamente risucchiato nella bocca del Padrone, che lasciò fuoriuscire dalle sue narici solo pochi fili color porpora e verde. Virelai si accigliò. Un istante dopo la gatta era tra le braccia del Padrone, naso a naso con lui. Il mago aprì la bocca e come in un'immagine speculare distorta, Bëte fece altrettanto. Il fumo cominciò a riversarsi dall'uomo all'animale finché gli occhi della gatta brillarono di una forte luce. Poi l'animale saltò dalle braccia del mago, si accomodò di nuovo sul tappeto davanti al focolare e cominciò a leccarsi il posteriore con cura esagerata. Rahe uscì dal camino, lasciando dietro di sé braci fredde e nere quanto l'antica lava; con un gesto rozzo e una serie di parole confuse fece un incantesimo che a Virelai sembrò uno degli otto Parametri dell'Essere, mate-
rializzando con un lampo di luce un'enorme quercia al centro della stanza. I rami scricchiolarono e ondeggiarono pericolosamente nello spazio ristretto. Pezzi del tetto di ghiaccio si sbriciolarono e caddero, ma il Padrone non sembrò curarsene. Al contrario, la fronte aggrottata per la concentrazione, chiamò l'albero a sé come aveva chiamato il fumo e le fiamme; l'albero obbedì, volando con un turbinio di foglie e corteccia attraverso la stanza. Grandi intrecci di verde e marrone gli crearono un vortice intorno. E l'albero svanì nella bocca di Rahe, foglie e rami, corteccia e radici, senza lasciare traccia. Bëte, che durante l'ultima magia non si era mossa di un millimetro, ora studiò l'anziano mago con interesse. Rahe strizzò gli occhi e tossì. Con un silenzioso plop, una ghianda cadde ai piedi della gatta. Lei la annusò incuriosita, poi fece altrettanto con la mano del Padrone che la raccoglieva. Il mago spinse la ghianda contro il muso della gatta, ma l'animale serrò i denti. Il Padrone spinse più forte. Le zanne affilate si dischiusero e presero la ghianda in bocca, mentre il mago con una mano le teneva chiuso il muso e con l'altra le accarezzava la gola. Gli occhi dell'animale si spalancarono, come se fosse stato preso dal panico; poi la gatta deglutì. Rahe fece un sorriso folle e disse qualcosa per tranquillizzare Bëte. Poi si piegò e raccolse un pezzettino di terriccio, o qualcosa di ugualmente minuto, dal pavimento. Mormorò qualche parola, fece due giravolte e lo lanciò in aria. La stanza sembrò incresparsi davanti, poi, dove prima era la quercia, all'improvviso apparve una grande creatura alata, alta più di tre metri, la testa ricoperta di spine, le zampe ad artiglio e interamente rivestita di squame luminose. Persino nella relativa sicurezza della stanza, Virelai gemette per l'orrore. E, cosa ancora più incredibile, sembrò che la bestia l'avesse udito, perché girò l'enorme testa verso di lui e lo guardò con gli occhi sfaccettati e indecifrabili di un moscone, aprendo le mostruose fauci. Poi sembrò che il mago le dicesse qualcosa, perché l'orrenda creatura voltò nuovamente la testa. Liberato da quel terribile sguardo, Virelai diminuì la distanza focale dei cristalli in tempo per vedere la bestia rimpicciolirsi, girare intorno a se stessa e correre verso il suo creatore. Un attimo dopo il Padrone era solo nella stanza, e incolume. Dalla sua bocca sporgeva un piccolo oggetto bianco, che Rahe tirò fuori con cautela e tese al suo famiglio: era un grosso uovo bianco. Bëte si mostrò interessata. Annusò l'uovo, lo prese con cautela in bocca e saltando con agilità giù dal tavolo portò la sua preda sul tappeto, dove si mise a mangiarlo lentamente con un
lato della bocca. Virelai ripensò a qualcosa che il Padrone aveva detto nella stanza della torre. Ma allora era così turbato dalle visioni di Elda che non ne aveva capito il senso. Ora tutto era più chiaro. Non c'è niente che valga la pena di salvare, alla fine. Tanto vale distruggere tutto, lasciare che la natura segua il suo corso. Rahe stava invertendo i suoi incantesimi, stava distruggendo tutta la sua magia. Nella mente di Virelai calò come un velo rosso... Il Padrone si raddrizzò, si passò una mano sul volto esausto e cominciò a camminare su e giù per la camera. La gatta balzò su un tavolo dov'era un grosso crogiolo contenente un mucchio di ceneri e quelli che sembravano un paio di cardini d'ottone bruciacchiati. Virelai fissò i cardini. Qualcosa gli venne alla mente. Li aveva già visti, li aveva già visti... Regolò leggermente la leva e l'immagine della stanza cambiò. Dov'era il grande volume rilegato in pelle in cui il Padrone registrava ogni procedura e ogni scoperta, aggiungendola alla saggezza dei suoi predecessori? Dov'era il Grande Libro del Fare e del Disfare? Il terribile sospetto divenne certezza. Virelai lasciò in fretta la stanza e scese le scale tre gradini alla volta per poi correre a perdifiato lungo i familiari corridoi della fortezza. Che spreco, che stupido, insensato spreco! L'ira lo travolgeva come le onde di una tempesta. Il vecchio sciocco! Il vecchio mostro! Una fontana di lava ribolliva sotto la sua pelle pallida, ma nel corso degli anni aveva imparato a controllare la rabbia. Nessuna traccia di ciò che provava si rifletteva negli occhi freddi e chiari come quelli di una seppia. Ventinove anni: ventinove anni di irragionevoli pretese, di inutile disciplina, di 'prendi questo e porta quello', di umiliazioni; per ventinove anni picchiato per un capriccio e chiamato 'ragazzo'. E ora Rahe stava cancellando tutti i sentieri verso la magia che Virelai aveva seguito con tanta pazienza, li stava cancellando e immagazzinando in quel maledetto gatto. Proprio ora che lui stava cominciando a capirci qualcosa, ad acquisire una qualche padronanza delle complesse strutture della magia! Era troppo da sopportare. Quando raggiunse il salone, sia il Padrone che il suo famiglio se n'erano andati. Virelai andò al lungo tavolo e fissò il crogiolo. Sembrava davvero contenere i resti del Libro del Fare e del Disfare. Virelai prese i due cardini e li soppesò. Sembravano due oggetti dozzinali, privi di magia, inutili senza il grande libro che dovevano racchiudere. Li rimise nel crogiolo, col cuore pesante come il freddo metallo.
Sul pavimento sotto il tavolo giacevano abbandonati alcuni frammenti di pergamena, strappati e appallottolati. Virelai li raccolse. Il primo aveva perso il suo terzo superiore e cominciava a metà di una frase. Il giovane lo scorse rapidamente: l'incantesimo per riportare un cavallo in corsa alla sua forma originaria di sperma di stallone; lo gettò di nuovo a terra. Il secondo pezzo era quasi intero e Virelai ricordava le parole mancanti, e anche se non vedeva nessun utilizzo immediato per un incantesimo che rimuoveva le rocce cadute dall'imbocco di una caverna, lo mise ugualmente in tasca. Il terzo frammento conteneva un'orrenda ricetta ideata dal Padrone stesso e una lugubre descrizione dei suoi effetti. Virelai la lesse una volta senza grande interesse, poi si bloccò. Sollevò la testa di scatto. I suoi occhi si strinsero. La lesse di nuovo. Cominciò a sudare e il cuore prese a martellargli nel petto. Stringendo la pergamena in mano come se fosse il suo passaporto per sfuggire dall'inferno, corse alle cucine. Santuario era stato scavato così in profondità nel ghiaccio e nelle cavità rocciose sotto di esso che le pareti delle stanze e dei corridoi erano simili a quelle di caverne in cui l'uomo non aveva messo mai piede: scure e tenebrose, pronte a gelarti fino al midollo. Persino le torce che bruciavano nei portalampada lungo i bui passaggi nel cuore della fortezza sembravano avere poco effetto. A malapena tremolarono quando Virelai passò loro accanto più tardi quella sera, portando la cena del Padrone su un vassoio. Per l'ultima volta. Il freddo che sentiva non era solo fisico: la magia del Padrone produceva un gelo tutto suo. Dove il ghiaccio lasciava il posto a strati di roccia i minerali luccicavano alla luce fioca delle candele: feldspato e pirite, cristobalite e tormalina, grovacca e orneblenda e pegmatite. Per Virelai, a cui era stato insegnato a percepire l'armonica naturale, ciascuno aveva una risonanza diversa, una voce diversa. Gli piaceva pensare a quelle voci come alle anime della terra, intrappolate nei cristalli da millenni, e forse lo erano davvero. Virelai aveva visto il Padrone parlare alle pareti: già allora l'aveva considerato un pazzo. Verso il centro del labirinto le pareti brillavano d'oro e d'argento. Virelai aveva imparato nelle sue letture che anche se molti minerali avevano pochissimo valore nelle terre al di fuori, nel mondo che ora conosceva come Elda, altri erano considerati 'tesori'. Se era davvero così, allora la gente di Elda doveva assegnare un valore assolutamente arbitrario a tutte quelle
rocce diverse, perché alcune di quelle considerate inutili (le più frequenti nei tunnel) erano notevolmente simili nell'aspetto a quelle per cui gli uomini combattevano nelle antiche storie. Quarto passaggio: vicolo cieco. Prendi la prima porta dopo la stalattite, scendi tre gradini, premi la parete dietro l'arazzo. Vicino alle stanze del Padrone, Virelai divenne cauto, dubbioso. Sollevò il coperchio di metallo che proteggeva la cena di Rahe e la annusò di nuovo, facendo attenzione a non inalare troppo i suoi vapori per paura che anche solo l'odore potesse fargli del male. Ma nonostante i velenosi ingredienti che aveva aggiunto allo stufato in base alla ricetta della vecchia pergamena, non percepì niente di strano. Sorrise. Quando Virelai la raggiunse, la porta della camera del Padrone era leggermente socchiusa e si sentivano delle voci dall'interno. Il cuore di Virelai prese a battere forte. Si chinò e sbirciò attraverso la fessura della porta. Per poco il vassoio non gli sfuggì di mano. Il sangue gli affluì all'improvviso alla testa, al petto... ai lombi. La sua mascella si spalancò come un cancello aperto. Virelai continuò a fissare sbalordito, studiando ogni dettaglio della scena. Poi fece un sorriso crudele. 'A colui che approfitta delle opportunità, tali opportunità verranno concesse, e colui che prenderà in mano il proprio Destino verrà ricompensato tre volte tanto': non era così che dicevano i libri? Virelai si rallegrò della propria fortuna. Tre volte tanto, davvero! Bussò alla porta. «La vostra cena, mio signore.» Ci fu un silenzio, seguito da un leggero fruscio di pesanti tende. Poi: «Lascia il vassoio fuori, Virelai» disse la voce del Padrone, leggermente lamentosa. «Sono un po' occupato in questo momento.» «Certamente, mio signore: che possiate goderne.» Bëte la gatta uscì dalla camera del Padrone e guardò Virelai tornare sui suoi passi nel lungo corridoio. Girò intorno al vassoio, annusò il piatto coperto e si ritrasse con uno starnuto. Gli unici testimoni della partenza di Virelai la mattina dopo furono le rondini di mare che frequentavano la baia sottostante, e una procellaria, alle cui ali la luce dorata del sole d'inverno donava un'oleosa iridescenza.
La procellaria continuò a volare, ignara del dramma che si stava consumando sotto di lei: aveva ancora molte miglia di gelido oceano da percorrere. Le rondini di mare, invece, erano incuriosite dal grosso baule di legno che la figura avvolta da un mantello stava trascinando su uno sloop a un albero, pericolosamente vicino a rovesciarsi. I vivaci uccelli scendevano in picchiata e roteavano sopra la barca sperando in qualcosa da mangiare. Bëte la gatta, fasciata senza tante cerimonie in un lenzuolo stretto con corde di cuoio, giaceva sul ponte, immobile tranne che per gli occhi, che guizzavano seguendo il luccichio del piumaggio, gli occhi neri luminosi, i becchi rossi: così vicini e così inaccessibili. Virelai, che alla fine aveva vinto la sua battaglia per stivare il baule, salì a bordo, levò gli ormeggi e spinse la barca lontano dal frangiflutti, remando maldestramente verso l'oceano. Una volta fuori dalla baia, la forza delle onde fece rullare lo sloop in maniera allarmante. La gatta, schizzata dalla gelida acqua di mare, miagolava pietosamente. Virelai mancò un colpo di remi; imprecò, li tirò in barca e armeggiando goffamente riuscì a issare la vela. Per un po' la vela rimase lì, floscia come il bargiglio di un tacchino. Poi una leggera brezza gonfiò la stoffa e cominciò a spingere lo sloop lentamente e inesorabilmente di nuovo verso la riva, fino a quando la prua, con il suo occhio dipinto che fissava davanti a sé, urtò il molo da dove si era appena staccata, mentre gli uccelli di mare gridavano la loro derisione. Virelai nascose la testa tra le mani. Era uno sciocco, uno sciocco, uno sciocco: non era neppure capace di guidare una minuscola barca. Idiota, lo rimproverò la sua voce interna. Usa la magia! Un incantesimo del vento: era una cosa semplice, ma la memoria sembrava averlo abbandonato. Frugando nella borsa tirò fuori un piccolo taccuino e scorse rapidamente le pagine. Poi slegò la testa della gatta dalla fasciatura e recitò un breve sortilegio. Bëte lo fissò con odio, poi tossì. La vela tornò ad afflosciarsi, poi si gonfiò dal lato opposto. Le rondini di mare, colte alla sprovvista dall'improvviso cambio di vento, virarono per correggere la propria rotta. La barca fece lentamente vela verso l'oceano. Virelai si protesse gli occhi dal sole nascente e guardò la luce contornare le curve ingannevoli e i rilievi di quella che per tutta la vita aveva considerato la sua casa. All'occhio inesperto poteva sembrare la tipica vasta distesa di ghiaccio di una regione artica: enormi banchi impilati l'uno sull'altro da infinite tempeste, ghiaccio scolpito in improbabili forme dai terribili venti marini; un luogo gelido, selvaggio e inospitale per tutti tranne che per pochi uccelli di mare e narvali. Ma all'apprendista del mago Santuario
si rivelò in tutto il suo magico splendore. Dove una cornice in penombra incontrava una scogliera di ghiaccio Virelai, stringendo gli occhi, vide la parete curva del grande salone incontrare l'austera facciata della torre orientale; dove blocchi di ghiaccio giacevano alla rinfusa come sparpagliati dalla mano di un dio, vide eleganti scalinate che conducevano giù alle balaustre e alle statuine di un giardino classico che a un altro sarebbe apparsa come una monotona distesa di bianchi campi innevati. Guglie e pilastri, colonne e pareti, tutti perfettamente proporzionati e abilmente lavorati; fredde superfici candide orlate d'oro e di rosa dal romantico sole nascente. Il Padrone aveva meticolosamente curato il suo reame di ghiaccio in ogni dettaglio. Niente lì era naturale, niente avveniva per caso. Virelai si chiese se l'avesse guardato da quello stesso punto, e forse da quella stessa barca, quando aveva concepito la forma di Santuario. Come lui stesso si fosse ritrovato lì, e per quale scopo, Virelai non lo sapeva, ma aveva intenzione di scoprirlo. Allontanandosi dall'isola di ghiaccio, fece rotta verso Sud, dove il mondo cominciava. Prima parte 1 Sacrilegio Katla Aransen era in piedi a prua del Dono di Fulmar mentre la nave solcava le grigie onde del mare. La schiuma creata dal passaggio della nave le spruzzava il viso bagnandole i lunghi capelli rossi, ma a Katla non importava. Era il suo primo, vero viaggio, e anche se erano in mare già da due settimane, lei aveva diciannove anni ed era impaziente di vedere il mondo: non avrebbe sopportato di perdersi neppure un minuto di quello spettacolo. Dietro di sé sentiva la grande vela di lana oleata schioccare e sbattere nel forte vento che portava via la voce di suo padre, mentre urlava i suoi ordini ai marinai. Molti di loro, Katla li aveva visti, erano accoccolati a mezza nave tra il carico e le casse, tentando di scaldarsi intorno al fuoco acceso nel mastello di ferro. Un fischio segnalò l'inizio della preparazione del pasto serale: la carne veniva conservata in secchi di cuoio pieni di acqua marina finché non sapeva altro che di sale, e cucinarla mettendola direttamente sulla brace ardente era l'unico modo per renderla commestibile.
Una mano calda sulla sua spalla. Katla si voltò di scatto e vide Fent, suo fratello gemello, accanto a lei. La lunga frangetta rossa era appiccicata al viso; il resto dei capelli l'aveva legato con lacci di cuoio perché non gli finisse negli occhi. «Ascolta questo, sorellina» la esortò allegramente puntando un ginocchio contro la frisata per tenersi in piedi «e dimmi cosa ne pensi.» Tirò fuori dalla tunica uno spago annodato a intervalli irregolari nella complicata maniera eyrana che serviva sia come aiuto alla memoria che come lingua. Muovendo agilmente le dita su e giù lungo i nodi, Fent cominciò a declamare: Dal mare del Nord al mare d'Oro Dolcemente navigava la nave col collo di cigno Sulle schiene dei cavalli bianchi di Sur. Seguendo il Sentiero della Luna, Giunsero i Rocciacaduti dalle Isole Eyrane Lesti alla pianura della Luna Caduta. Fent si avvolse lo spago intorno alla mano facendone una cocca, poi lo ripose con cura sotto la tunica prima di guardare speranzoso verso la sua gemella. «Hai ripetuto 'luna'» osservò Katla con un sorriso e vide Fent accigliarsi per la costernazione. «E non sono sicura di quel 'Rocciacaduti'.» «'Il clan dei Rocciacaduta' non ci stava» replicò Fent irritato. «Metricamente non andava bene.» «Io insisterei con la scherma se fossi in te, fratello. Lascia la composizione a Erno.» Loro cugino, Erno Hamson, nonostante fosse molto capace con le armi, in fondo all'animo era un giovane serio e tranquillo e al momento era fuori portata d'orecchio. «Come se tu fossi in grado di distinguere un verso ben fatto da... Ahi! Che c'è?» Le dita di Katla si erano improvvisamente strette intorno ai bicipiti di suo fratello, conficcandosi nella carne anche attraverso lo spesso farsetto. «Terra: riesco a sentirla.» Fent la fissò sbalordito, un pizzico di ironia negli occhi grigi. «Riesci a sentire la terra?» Katla annuì. «Ci sono delle rocce davanti a noi. Le mie dita formicolano.»
Fent rise. «Giuro che sei un cucciolo di troll, sorellina! Ma cosa c'è tra te e le rocce? Quando non le stai scalando, riesci a percepirle da chissà quale distanza! L'Istria è ancora lontana diverse miglia: nostro padre ha calcolato che avvisteremo la terra alle prime luci dell'alba.» Ma Katla si stava proteggendo gli occhi con la mano, e fissava una macchia scura che si intravedeva appena all'orizzonte. «Laggiù...» «Una nuvola.» «Non sono sicura che non sia...» C'erano nuvole in abbondanza, ammassate all'orizzonte in grossi cumuli e alte torri, disseminate per l'ampia distesa del cielo che stava già cominciando a imbrunire e a striarsi di rosso, poiché il sole aveva già perso la sua giornaliera battaglia con la notte che avanzava: un cielo di sangue, come l'avrebbe chiamato Erno. Un acuto grido interruppe le loro fantasticherie. Sopra di loro un uccello bianco sorvolò la nave, virando bruscamente. Fent lo fissò, la bocca spalancata per la sorpresa. «Un gabbiano» mormorò incredulo. «Quello era un gabbiano di scogliera.» Katla gli strinse ancora il braccio. «Vedi?» La forma scura all'orizzonte si stava precisando di minuto in minuto: non un banco di nubi, ma solida terra, un lungo, buio altopiano circoscritto a occidente da terre più elevate immerse nella nebbia in lontananza. «La pianura della Luna Caduta.» Sentì la gioia nella voce del padre senza aver bisogno di vedergliela riflessa sul viso. Si voltò di scatto, gli occhi accesi d'entusiasmo, cercando la sua attenzione. «Terra, padre: l'ho vista io per prima.» «E prima ancora l'aveva percepita» mormorò Fent, chiaramente irritato. Aran Aranson fece un ampio sorriso, rivelando bianchi denti affilati contro la pelle scurita dal sole e la fitta barba nera appena striata di grigio. Davanti a loro i particolari della terra stavano cominciando a diventare sempre più nitidi; i minuscoli punti di colore contro il nero gradualmente si rivelarono essere grosse tende dai colori vivaci, mentre i punti di luce più forti tra di esse erano di certo fuochi d'accampamento. Mentre la nave entrava nella lunga insenatura, il gruppetto sul ponte vide un'intera schiera di altri vascelli ancorati non lontano dalla riva. «L'Istria: non ne senti l'odore? È l'odore di una terra straniera, Katla, l'odore dell'Impero del Sud.» Tutto ciò che Katla riusciva a sentire era l'odore del sale e del mare e il sudore di corpi vissuti per settimane senza acqua fredda per potersi lavare, ma non lo disse.
«Una terra straniera...» sussurrò emozionata. «Sì, e un mucchio di bastardi Istriani» sibilò Fent tra i denti. Al Sud dolce e leggiadro Vivono pigri e grassi Carne stagionata per i lupi. Non gli serviva una cordicella annodata per ricordare quei versi. Ma come poteva suo padre essere così allegro vedendo la terra del loro antico nemico? Fent non riusciva davvero a capirlo. Si voltò per dire qualcosa, ma Aran stava già gridando ordini ai rematori mentre correva lungo il ponte, scartando agilmente le casse del carico, il fuoco per la cucina e il resto dello sbalordito equipaggio. Lanciando uno sguardo cupo a Katla, Fent seguì il padre e prese il suo posto ai remi insieme agli altri. Katla guardò la grande vela a righe che veniva ammainata. Gli uomini corsero a svolgere i proprio compiti. La giovane vide il padre rimettersi al timone per guidarli tra le scogliere e i lunghi e grigi cavalloni, poi tornò a voltarsi verso la nuova terra. La pianura della Luna Caduta. Un luogo da leggenda. C'erano volute ore, o così era sembrato a Katla, per accamparsi. Quando ebbero finito di mettere in acqua le faering, le due barche a remi, ed ebbero raggiunto la riva, la Stella del Navigante già brillava luminosa nel cielo. Distesa sul terreno stranamente immobile, stanca morta, Katla non riusciva a dormire per l'eccitazione. Era una vita che sentiva parlare della Grande Fiera: i racconti dei giovani sulle gare di corsa, il lancio dei massi e le sfide con la spada; i pettegolezzi, i commerci, i matrimoni combinati, l'elenco di nomi dal suono bizzarro e le funeste alleanze politiche. E aveva visto con i propri occhi gli elaborati gioielli d'argento che suo padre aveva regalato a sua madre quando gli affari erano andati bene, e le mostruose e ruvide pelli di yeka che coprivano i loro letti nei mesi invernali. Questa però era la sua prima Grande Fiera e Katla non vedeva l'ora che cominciasse. Avvolta in una pelle di foca con la pelliccia all'interno per avere più calore, Katla alzò la testa sopra gli uomini che russavano: lontano, i fuochi illuminavano la zona dove si sarebbe tenuta la fiera; fissò di nuovo con sguardo rapito la grande rupe che si ergeva ripida dalla pianura, illuminata da una luce tremula. Era quella che aveva percepito da tutte quelle miglia
di distanza, in mare aperto: ora Katla ne era certa, mentre si voltava per ammirare meglio il suo massiccio profilo. Doveva essere il Castello di Sur, pensò con un fremito di eccitazione, un terreno sacro. Secondo la sua gente, gli Eyrani, il popolo del Nord, era lassù che il loro dio Sur si era riposato per la prima volta dopo essere caduto dalla luna, e da lì aveva contemplato il suo nuovo regno. E avendolo trovato tristemente imperfetto, si era incamminato nel mare, sperando di poter trovare la strada di casa seguendo il percorso dei raggi della luna sulle onde. Il Sentiero della Luna, pensò Katla, ricordando i versi di Fent. Povero Sur, sperduto e solo in una terra desolata. Il dio aveva marciato attraverso l'oceano settentrionale, facendo rimbalzare sassi sulla superficie per distogliere la mente dal tremendo freddo che provava (sassi così grandi che avevano formato le isole e le scogliere dell'Eyra), finché era scomparso nelle nebbie ai confini del mondo. Lì, rassegnato al fatto che non avrebbe mai trovato la strada di casa, aveva creato un'enorme fortezza sotto le onde, nella profondità dell'oceano. Gli Eyrani la chiamavano 'il Grande Sepolcro', o 'il Grande Palazzo'. I marinai dispersi avevano un posto al lungo tavolo di Sur, si raccontava; e se un membro di un clan affogava ed entrava nel Palazzo, era risaputo che gli altri l'avrebbero seguito molto presto. Katla aveva sentito dire che gli Istriani raccontavano una storia diversa. Loro non amavano il mare, e non credevano neppure nell'esistenza di Sur, e questo era già di per sé una spaventosa eresia. Pregavano invece una qualche divinità del fuoco, una creatura di sesso femminile che si diceva fosse uscita nuda da un vulcano nelle montagne d'Oro, illesa e con un grosso gatto legato a una catena d'argento. Falla la Misericordiosa, così la chiamavano: un appellativo a dir poco sbagliato, dal momento che nel suo nome la gente del Sud bruciava miscredenti e malfattori a migliaia, sacrifici per placare la dea e quietare il cuore infuocato del mondo. Il Castello di Sur. Le dita di Katla cominciarono a prudere. Sarebbe andata a dargli un'occhiata l'indomani mattina come prima cosa: doveva esserci una via per salire fino in cima. Combattimenti e gioielli e pelli di mostri... e ora una nuova rupe da scalare: la Grande Fiera era di certo un evento portentoso, per offrire tanti svaghi diversi. Katla rimase lì sdraiata, sorridendo finché il sonno non la colse. Quando alla fine chiuse gli occhi, in sogno percepì la rupe che l'attirava a sé, come se l'enorme roccia fosse parte della Stella del Navigante e Katla una calamita, attirata verso di essa attraverso un mare oscuro.
La mattina dopo all'alba Katla gettò da parte la pelle di foca e sgattaiolò fuori dall'accampamento come una volpe che fugge dalla stia. Intorno a lei nessun altro si mosse. Risalì la spiaggia più in fretta che poté, la sabbia nera le scricchiolava sotto i piedi. All'ombra del Castello di Sur alzò gli occhi per guardare la cima. La grande rupe si ergeva davanti a lei, avvolgendola nella sua gelida ombra. Da lì sembrava più alta e più scoscesa. Nubi scure si addensavano intorno alla vetta, promettendo pioggia: doveva sbrigarsi. Sentì una stretta allo stomaco e il suo cuore prese a battere più forte: una reazione normale per lei prima dell'inizio di una scalata, ma anche utile, poiché l'ansia tendeva a migliorare la sua concentrazione. Sopra di lei saliva una lunga spaccatura verticale disseminata di piccole fessure: la via più ovvia per l'ascesa, o così pareva. In alcuni punti il solco sembrava abbastanza largo da poterci infilare dentro un ginocchio e mantenersi in equilibrio, mentre quasi a metà strada si restringeva fino a diventare una fessura appena sufficiente per infilarci il pugno. Su entrambi i lati, in piccole increspature della superficie, i cristalli incastonati nella roccia brillavano alla luce del mattino: ottimi punti d'appoggio, pensò Katla. Allungò la mano verso l'alto e trovò il primo appiglio: una fessura frastagliata all'interno del solco. Era fredda e umida sotto le dita, e tagliente anche, ma solida. Mentre la stringeva, una scossa di energia le percorse la mano fino al braccio. Per Katla quella era ormai una sensazione familiare, il magico rapporto con le rocce e le pietre e i minerali che racchiudevano. Aspettò che il guizzo di energia le percorresse il corpo fino alla testa, aspettò che il ronzio disorientante svanisse, e poi si dedicò anima e corpo alla rupe. Sorreggendosi all'appiglio, sollevò un piede nella crepa. Staccarsi dal suolo era sempre la parte più difficile. Una volta issatasi nel solco, Katla ritrovò l'equilibrio e cominciò a salire spedita, mano dopo mano, metodica e attenta, uscendo di tanto in tanto dalla fenditura per trovare una migliore stabilità quando la parete diventava troppo ripida. Al tatto la roccia le ricordava le scogliere corrose dal mare di casa sua: tutte butterate e rese taglienti dall'appetito corrosivo delle onde, e dolorose sulla pelle come cirripedi. Riusciva a sentirla sotto i piedi anche attraverso il cuoio delle scarpe. Solo Sur sapeva che aspetto avrebbero avuto le sue mani una volta arrivata in cima, anche se le stava posizionando con più cautela del solito. Non che fosse una ragazza vanitosa, al contrario: ma avrebbe dovuto rispondere a troppe domande imbarazzanti se fosse tornata coperta di graffi e tagli. Il piacere della scalata ben presto cancellò ogni preoccupazione; all'in-
circa a metà percorso cominciò a piovere, ma la parete si fece meno ripida: Katla sì mise in piedi in equilibrio su uno spuntone roccioso e si guardò intorno, ammirando le tende dai colori vivaci degli altri frequentatori della fiera. Katla non aveva mai visto delle tonalità così brillanti: sulle isole l'unica tinta vivace che era possibile produrre era un giallo piuttosto disgustoso che sembrava ricavato dall'urina di maiale, ma in realtà derivava da un lichene, raschiato dalle scogliere di granito che formavano l'ossatura della sua terra natia. Serviva comunque un po' di urina per fissare il colore in modo che non scolorisse alla prima pioggia. La puzza non durava a lungo, solo una settimana o due. Tra quelle scogliere di granito Katla aveva scoperto per la prima volta la magia intrinseca nelle venature delle rocce. Lì aveva cominciato ad arrampicarsi dappertutto con grande disinvoltura, a malapena cosciente degli abissi spalancati sotto i suoi piedi, delle fauci dell'oceano che minacciavano di inghiottirla, delle terribili conseguenze di una caduta. Lì aveva raccolto uova di gabbiano in tarda primavera e finocchi marini in estate. Aveva pescato da cornici scoscese e tirato su un iridescente sgombro dietro l'altro da insenature nascoste. E a volte aveva scalato le scogliere solo per il piacere di essere dove nessun altro aveva mai messo piede. Altre due mosse e Katla posò le mani sulla piatta sommità della rupe: infilando il piede destro in una tagliente fessura spinse con tutte le forze finché le braccia riuscirono a sopportare tutto il suo peso. Poi tirò su i piedi e all'improvviso si ritrovò in cima al Castello di Sur, in cima al mondo. Seduta lì, con i piedi che penzolavano oltre il bordo e la pianura della Luna Caduta sotto di lei, una meravigliosa sensazione di benessere la pervase. Fu perciò sorpresa e piuttosto costernata quando qualcuno cominciò a gridare, apparentemente contro di lei. «Ehi, tu, lassù!» Il secondò grido era nell'Antica Lingua. Katla si guardò intorno. Al lato opposto della rupe due anziani gentiluomini stavano salendo con passo incerto e ansimando per la fatica una serie di gradini abilmente scavati nella roccia. Qualcuno aveva premurosamente disposto un paio di corrimani di corda su entrambi i lati delle scale e le due figure vi si stavano sorreggendo mentre salivano gridando verso di lei. Indossavano lunghe tuniche rosso scuro con paramonture di broccato finemente ricamato: persino da dove si trovava, a una settantina di metri di distanza, Katla riusciva a vedere i fili d'argento brillare alla debole luce. Uomini ricchi, pensò. Non
certo Eyrani, o almeno diversi da qualunque Eyrano lei avesse mai visto. La gente del Nord non avrebbe mai potuto permettersi abiti del genere, roba che valeva almeno un carico l'uno, e anche se avessero potuto, non li avrebbero mai messi per scalare una rupe... «Scendi giù immediatamente!» Il primo dei due vecchi aveva raggiunto l'ultimo gradino, e sollevando le sue voluminose vesti, stava guadagnando velocità. Katla si portò una mano all'orecchio e poi si strinse nelle spalle: il gesto universale per indicare che non sentiva una parola di quello che stavano dicendo. Infuriata, la testa grigia agitò il suo bastone. «Il Consiglio e le Guardie della Grande Fiera...» «Del cui comitato direttivo noi facciamo parte...» «Giusto, fratello. Del cui comitato direttivo noi facciamo parte, hanno dichiarato la Rupe di Falla terreno sacro!» La rupe di Falla? Il secondo uomo stava per raggiungere il fratello. Scosse il pugno nella direzione di Katla. «Pagherai per non aver mostrato il debito rispetto, giovanotto!» Katla li guardò sbalordita. Giovanotto? Doveva essere cieco. Si alzò in piedi e con rabbia si sciolse i capelli. Li teneva sempre legati in una coda, durante le scalate. Ora le ricaddero intorno alle spalle in tumultuose ondate. In quello stesso momento il sole sbucò da dietro le nubi, trasformando la pioggia battente in una doccia d'argento e i capelli di Katla in un fiammeggiante falò. Il secondo vecchio andò a sbattere contro il primo. «Oh, Grande Dea, Signora del Fuoco, è... una donna!» Non sembravano affatto contenti. Katla, decidendo che era meglio non scoprire cosa li affliggesse così tanto, si congedò e se ne andò, ripercorrendo agile e veloce il solco che aveva appena scalato. C'era un detto che le vecchie del Nord ripetevano spesso (in effetti c'era un detto per tutto in Eyra): 'la persona cauta sopravvive all'eroe'. Come i suoi fratelli, lei aveva sempre pensato che fosse una grande sciocchezza, ma forse in questo caso il detto aveva ragione. Saro Vingo emerse dal padiglione di famiglia battendo le palpebre alla luce di un giorno che doveva ancora decidere se volgere al brutto o al bel-
lo. La testa gli doleva come se qualcuno l'avesse calpestata durante la notte. Per una qualche ragione suo padre aveva deciso che la prima visita di Saro alla Grande Fiera dovesse essere festeggiata con una grande sbornia a base di araque: suo zio, i suoi cugini e suo fratello maggiore, Tanto, gli avevano messo davanti un bicchiere dopo l'altro finché il fiasco del potente liquore ambrato non si era svuotato. Ovviamente anche loro l'avevano seguito, bicchiere dopo bicchiere, ma erano più esperti. E ora se ne stavano ancora a dormire, accoccolati sul pavimento in mezzo ai cani e al vomito, o crollati sui giacigli cosparsi di sete, a russare tra le pile di arazzi e scialli portati in dono al re del Nord per questa sua prima Grande Fiera. Anche se, a dir la verità, perché mai la gente dell'Impero dovesse darsi pena di adulare un barbaro, Saro non riusciva davvero a immaginarlo. E solo Falla sapeva cosa se ne sarebbe fatto delle meravigliose stoffe istriane che adesso puzzavano di araque e vomito. Ma gli Eyrani erano noti per essere gente molto poco raffinata: probabilmente il re avrebbe pensato che quell'odore aveva qualcosa a che fare con il processo di tintura. Saro era curioso di posare gli occhi sulle donne del Nord. Tutti i giovani alla loro prima fiera erano affascinati all'idea: era stato l'argomento principale di conversazione durante il viaggio per arrivare fin lì dalle valli del Sud. Re Ravn Asharson stava venendo alla Grande Fiera, si diceva, per scegliersi una moglie, e i nobili eyrani avrebbero portato le loro figlie e sorelle nella speranza di concludere un'unione regale. Per quanto riguardava Saro, era quella la cosa più importante di tutta la fiera: non certo le noiose complicazioni della contrattazione con grassi mercanti che lo facevano sentire un perfetto idiota perché non conosceva le loro subdole regole di compravendita. Si diceva che le donne di Eyra fossero tra le più belle di tutta Elda, e quello sì che era interessante. Saro in realtà non aveva idea di che aspetto avesse una donna, per non parlare poi di valutarne la bellezza. A casa le donne venivano tenute nascoste per la maggior parte del tempo: da quando aveva compiuto quindici anni ed era stato iniziato al sesso, aveva a malapena visto sua madre. Ripensò a lei in quel momento, a come si muoveva silenziosa da una stanza all'altra, fasciata da capo a piedi in un sabatka dai fantastici colori con solo le mani e la bocca in vista: una meravigliosa ed esotica farfalla. Un attimo dopo ricordò l'incontro che l'aveva fatto diventare un uomo: suo padre che pagava per farlo entrare in una stanza in penombra nei vicoli di Altea; l'odore di una donna all'interno, muschiato e rancido; il tocco delle sue mani fredde e delle sue labbra calde su di lui; il suo incontrollabi-
le orgasmo e la vergogna che ne era seguita. Invece girava voce che gli uomini delle isole del Nord consentissero alle loro donne di andare in giro liberamente, e di mostrare non solo le mani e la bocca, ma anche l'intero viso e a volte persino gli arti e il seno. Il pensiero di un tale sacrilegio fece palpitare il cuore di Saro. E non solo quello. Le sue guance pallide erano ancora arrossate per quegli sporchi pensieri quando sentì un grido. Voltandosi vide due anziani istriani che avevano un seggio al consiglio direttivo delle città stato, Greving Dystra e suo fratello Hesto, salire faticosamente i gradini che portavano alla cima della Rupe di Falla. Agitavano le braccia e gridavano. Incuriosito, Saro si incamminò tra i tendoni raggruppati sotto la rupe e, proteggendosi gli occhi dal sole, guardò verso l'alto. In cima alla rupe era seduto un ragazzo, con una semplice tunica marrone e stivali lunghi. Il giovane si stava alzando in piedi, chiaramente imbarazzato di essere stato scoperto a profanare un terreno sacro. Greving stava scuotendo il pugno in direzione dell'intruso e anche Hesto aveva raggiunto l'ultimo gradino, quando il ragazzo si voltò per affrontarli e, con uno scatto della mano, slegò la cordicella che teneva stretti i suoi capelli sulla nuca. La luce sbucata improvvisamente tra le nubi colpì un viso delicato, incorniciato da una sgargiante cascata di capelli rosso fuoco, e Saro si ritrovò senza fiato. Persino a quella distanza la sorpresa di vedere una ragazza, e non una semplice ragazza, ma una creatura barbarica con gambe e braccia nude che aveva sfidato tutti i precetti e la decenza salendo in cima alla Rupe sacra, lo colpì come un pugno nello stomaco. Inaspettatamente le ginocchia gli si piegarono e Saro si ritrovò seduto sul terreno sabbioso. Quando guardò di nuovo in alto, la visione era svanita. Se Katla aveva sperato di ritornare al campo dei Rocciacaduta senza essere notata, si era sbagliata di grosso. Superata la salita che portava alla spiaggia, guardò in giù verso la distesa di sabbia vulcanica dove solo un'ora prima le faering e il loro addormentato equipaggio giacevano come balene spiaggiate, e scoprì con sgomento che erano tutti in piedi e al lavoro, operosi come formiche, sotto l'occhio vigile di suo padre. «Per l'ancora di Sur» imprecò Katla a bassa voce. «Ora sono nei guai.» La Dono di Fulmar era ancorata a un centinaio di metri dalla riva, e ondeggiava dolcemente alla pallida luce del sole appena sorto. A quella distanza appariva splendida e piena di grazia, con lo scafo a fasciame sovrapposto elegante quanto il corpo di un vero cigno. Ma Katla sapeva che
vista da vicino era uno spettacolo di gran lunga più impressionante: i listelli di quercia segnati da anni di viaggi nelle turbolente acque del Nord, le frisate incavate e spaccate dagli scogli, dagli scontri e dai violenti colpi d'ascia dei nemici, il lungo collo a prua culminante in una spaventosa testa di troll femmina, la bocca spalancata e ogni dente finemente delineato con cura amorevole e superstiziosa. Ovviamente la provocatoria polena era stata tirata giù prima di entrare nelle acque neutrali della Luna Caduta e ora giaceva avvolta nella tela per le vele accanto all'albero, calato all'approssimarsi delle secche. Non sarebbe stata una mossa astuta, aveva detto Aran, ricordare ai vecchi nemici i pessimi tempi andati proprio ora che si stava preparando a spennarli come polli. Una dozzina di membri dell'equipaggio era sulla nave, e i robusti Eyrani stavano calando grosse casse e barili di legno in una delle strette barche a remi che tremava e oscillava sotto il peso del carico. La seconda faering stava arrivando in quel preciso momento in prossimità della spiaggia. Quattro uomini saltarono giù da prua in un turbine di spuma bianca contro il nero della terra, e trascinarono la piccola barca su per la salita come se fosse leggera quanto una sirena. Katla vide suo fratello maggiore, Halli, e il suo gemello, Fent, insieme a Tor Leeson e al loro cugino Erno Hamson. «Proprio quello che mi serve» gemette Katla. «Un pubblico.» A testa alta la giovane si incamminò risoluta giù per la duna vulcanica per affrontare l'inevitabile castigo, la sabbia nera che scricchiolava con cattiveria sotto i suoi piedi. Prima ancora di aver fatto pochi metri, vide suo padre voltarsi e studiarla accigliato, le mani nodose e segnate dalle intemperie piantate sui fianchi. «Dove sei stata?» Aran Aranson era un uomo robusto, anche per gli standard eyrani. Sua moglie, Bera, spesso raccontava in tono scherzoso che prima che si sposassero, quando la madre lo vedeva arrivare alla loro fattoria in sella al pony (i piedi di Aran così vicini al terreno che sembrava che da un momento all'altro l'uomo e l'animale potessero inciampare e razzolare poco dignitosamente a terra) diceva: «Ecco che arriva Aran Aranson, quel tuo grosso orco, Bera. Bada: se avrete dei figli nasceranno dei troll e ti spaccheranno in due come un ciocco di legno!» E poi scoppiava a ridere fragorosamente e ricopriva il povero ragazzo di mille attenzioni finché non arrossiva, sapendo di essere stato ancora una volta oggetto del suo scherno. Aveva ancora un gran senso dell'umorismo, nonna Rolfsen, e la sua risata
spesso echeggiava nella notte nebbiosa fuori dalla casa colonica di Rocciacaduta. Suo genero però non aveva mai imparato da lei, e ora fissava la sua figlia vagabonda senza mostrare neppure l'ombra di un sorriso. Katla aveva impiegato anni a imparare come ammaliare suo padre per farsi perdonare le sue piccole malefatte; ma quando vide il cipiglio sul volto e lo sguardo duro degli occhi si fece piccola per la paura. Con le labbra blu che tradivano una tortina di frutta sgraffignata a un tavolo, Katla si lambiccò il cervello per trovare una scusa plausibile. «Sono solo andata a fare una passeggiata, a guardare il sole sorgere sul Castello di Sur» disse, non volendo dirgli una flagrante bugia, dato che la spedizione era cominciata pressappoco in quel modo. «Non siamo in Eyra» rispose in tono duro Aran, sottolineando l'ovvio. «Non puoi andartene in giro da sola alla Grande Fiera. Non è sicuro.» Quindi non era rabbia, dopo tutto, ma preoccupazione! Era preoccupato per lei. Un'ondata di sollievo la travolse e Katla scoppiò a ridere. «E di chi dovrei aver paura? Io non temo nessuno, specialmente non gli uomini.» Sorrise. «Sai benissimo che so difendermi. Non ho vinto forse io la gara di lotta la scorsa estate?» Era vero. Snella, veloce e sfuggente com'era, nessuno era stato in grado di bloccarla a terra. Lottare con Katla era come lottare con un'anguilla. Denudò i bicipiti e li flesse come per dimostrare che aveva ragione. Martellare il metallo e manovrare il soffietto nella fucina avevano avuto il loro effetto: un muscolo duro e piuttosto pronunciato fece la sua impressionante comparsa. «Chi vorrebbe litigare con una così?» Ma il padre non ne fu affatto impressionato. Muovendosi molto più in fretta di quanto sembrasse possibile per un uomo della sua taglia, Aran allungò di scatto la mano come un lupo che si avventa su un coniglio e le afferrò un braccio con tale durezza che Katla trasalì. Quando la lasciò andare, sulla sua pelle leggermente abbronzata erano visibili i segni delle dita. Il sorriso di Katla svanì e la giovane arrossì di rabbia. Un imbarazzato silenzio cadde tra padre e figlia. Katla, temendo di non riuscire a controllarsi, puntò lo sguardo sul terreno e cominciò quasi senza volere a disegnare un intricato motivo con la punta dello stivale sulla sabbia nera. Mentre il silenzio si prolungava, la sua mente imprevedibile si ritrovò a studiare il modo di incorporare quel motivo nell'elsa della prossima daga che avrebbe lavorato. «Gli uomini dell'Impero sono strani riguardo alle donne» spiegò alla fine Aran. «Non ci si può fidare di loro. Hanno delle usanze bizzarre che pos-
sono renderli pericolosi. Un paio di prese imparate tra ragazzi di campagna non potrebbero salvarti. E inoltre tu sei qui perché io ho accettato di portarti, pur di controvoglia. Non c'era bisogno che ti portassi a una Grande Fiera: ho rinunciato a un passeggero pagante per te. Sono sotto di due pezzi di sardonica a causa tua, dal momento che quest'anno Fosti Barbadicapra voleva disperatamente venire. Avrei potuto comprare a tua madre un bello scialle e dei fini gioielli, con il ricavato. Perciò dopo aver privato tua madre del suo dono e il vecchio Fosti del suo posto sulla nave, puoi almeno ripagare la mia generosità non facendo niente, e intendo dire niente, senza il mio permesso. È chiaro? E non ti allontanare mai dalla mia vista.» Katla aprì la bocca per protestare, poi ci ripensò. Avrebbe aspettato che il suo umore migliorasse, poi l'avrebbe circuito con le sue astuzie femminili. Persino nelle isole, dove le donne lavoravano sodo quanto gli uomini ed erano considerate loro pari nella maggior parte delle cose, Katla aveva scoperto che le sue grazie le fornivano un vantaggio deliziosamente ingiusto sui fratelli. «Sì, padre» rispose con apparente docilità, e guardandolo da sotto le ciglia socchiuse fu felice di vedere la sua espressione ammorbidirsi. «Be', bada di farlo» concluse in tono poco convincente. Figlie. Perché sono tanto più difficili dei maschi da gestire? In quel momento uno dei suoi rampolli arrivò dalla spiaggia. Suo fratello e i suoi cugini non erano molto lontani. Ragazzi alti e muscolosi, gli Aranson e i loro cugini erano un gruppo piuttosto impressionante. Halli aveva preso da suo padre: grosso e scuro, con un naso che con l'età molto probabilmente sarebbe diventato aquilino. Fent, come sua sorella, aveva i capelli rosso fuoco di Bera, un'ossatura fine e pelle morbida... e la vanità di entrambe, perché si radeva come un uomo del Sud. Ma con un esercizio costante i suoi muscoli erano diventati d'acciaio e nella sua corporatura sottile era stipata l'energia di tre uomini. Erno Hamson e Tor Leeson invece erano così biondi che i capelli e le barbe risplendevano come fossero d'argento. Erno, la cui madre era morta di recente, aveva incorporato nella treccia sinistra un complicato motivo di nodi del ricordo, completo di conchiglie e strisce di stoffa. Dopo due settimane in mare i listelli di tessuto erano sbiaditi e incrostati di sale, ma i nodi erano più stretti che mai. Una sera mentre Erno era al timone per il suo turno di guardia, Katla lo aveva sentito recitare a voce bassa i versi composti per sua madre quando aveva intrecciato i capelli, mentre le dita scorrevano sui nodi e sui legacci per fissare il motivo nella sua testa...
Questa stoffa il blu dei tuoi occhi Questa conchiglia la tua generosità, Questo è il nodo per la saggezza prodigata, ma mai imposta Questo per quando mi hai curato dalla febbre... ...ed era rimasta sorpresa di come una persona che di giorno era distante e diffidente la notte potesse diventare così dolce. Per questo Erno aveva quasi cominciato a piacerle. «Allora la vagabonda è tornata!» esclamò Fent in tono allegro. «Pensavi di riuscire a sfuggire ai tuoi doveri, eh?» «Sottrarti ai tuoi compiti?» Tor le fece una boccaccia. «Lasciarli tutti ai ragazzi con i muscoli?» si associò Halli, al cui sguardo acuto non era sfuggita la prova di forza tra padre e figlia. Erno non disse niente: ammutoliva sempre in presenza di Katla. Aran sembrò impaziente. «Avete portato le tende e i banchetti insieme con il carico?» I giovani annuirono. «Bene, allora. Fent e Erno, e tu, Katla, venite con me a montare le bancarelle. Halli e Tor, sorvegliate che l'equipaggio scarichi tutto dalla nave. Io tornerò tra un'ora e faremo registrare e pesare la sardonica.» Fent fece un ampio sorriso alla sorella, mostrando gli incisivi affilati come quelli di una volpe. «Tu puoi portare le corde» disse. «Dato che sei solo una ragazza.» Evitando con facilità il pugno di Katla, Fent corse lungo la spiaggia verso le cataste di attrezzature. Leggere assi di frassino giacevano tra grossi rotoli di pelle, lana cerata e corda. Poco più in là, in mezzo a un caos di ciotole, piatti, coltelli e piccole asce, c'erano due enormi calderoni di ferro completi di supporti e uncini per le pentole, messi giù senza tanti complimenti sulla sabbia da qualcuno che aveva fretta di andare a prendere il carico successivo. Fent raccolse un po' di cianfrusaglie e le gettò in uno dei calderoni fino a riempirlo. «Ecco» disse poi a Katla. «Se pensi di essere abbastanza forte.» Un calderone di ferro di quelle dimensioni era tremendamente pesante... e quello era pieno fino all'orlo di utensili da cucina, per di più. Katla l'aveva imparato a sue spese: una volta uno era caduto da un gancio arrugginito e per poco non l'aveva menomata a vita. Era riuscita a scansarsi abbastanza in fretta da evitare di farsi schiacciare un piede, ma un semplice colpo di
striscio le aveva fatto saltare un'unghia e per una settimana aveva dovuto andare in giro col piede fasciato, talmente gonfio che non poteva infilare gli stivali. Con uno sguardo omicida al fratello, Katla sollevò l'affare con due mani e riuscì a fare qualche traballante passo con il calderone che strisciava sulla sabbia prima di bloccarsi affannata. Ogni fibra delle sue braccia protestava per il peso: le sembrava che si fossero già allungate di almeno un palmo! I ragazzi scoppiarono a ridere. Persino suo padre sorrideva. Katla li guardò stringendo gli occhi, poi prese di nuovo il calderone con una mano, agitando freneticamente l'altro braccio per trovare un equilibrio; raddrizzò il braccio che portava il peso e la schiena in modo che la tensione corresse attraverso le ossa invece che attraverso i muscoli, un trucco che aveva imparato arrampicandosi sulle sporgenze rocciose. Il calderone si sollevò con riluttanza e urtò dolorosamente contro la sua gamba. Katla si morse il labbro e resistette. Dopo alcuni minuti di sudata fatica, raggiunse la sommità della duna, posò il calderone e si guardò indietro. Gli uomini non la stavano più guardando; avevano raccolto il resto delle attrezzature e si erano messi in marcia dietro di lei. Quando la raggiunsero, Aran prese il calderone e lo scambiò con un rotolo di stoffa per la tenda. «Non devi provarmi niente, figlia» disse con dolcezza, e i suoi occhi erano verdi come il mare. «Io so che il tuo cuore è grande come quello di qualsiasi uomo.» Detto questo, con la facilità con cui avrebbe sollevato un secchio di legno, Aran raccolse il calderone e si allontanò a grandi passi. Aran e la sua famiglia lavorarono in fretta e con efficienza, scambiandosi a malapena qualche indicazione, e meno di un'ora dopo avevano già eretto un paio di tende che sarebbero servite da spazio abitativo per tutta la durata della Grande Fiera. E anche se le tende eyrane non erano sfarzose e colorate come i ricchi padiglioni istriani che Katla aveva visto ai piedi del Castello di Sur, erano pur sempre a prova di intemperie e molto spaziose con i loro sei metri circa di lunghezza, quattro di larghezza e oltre tre metri di altezza al centro, abbastanza grandi per ospitare la famiglia, l'equipaggio, il carico e le mercanzie. Una gelida brezza soffiò improvvisa dal mare, facendo sbattere il tetto di pelle conciata della tenda. Katla, con i capelli sfuggiti alla treccia che le volavano intorno al viso, stava tendendo le corde di un tendone quando si ritrovò di fronte un uomo dell'Impero con un ricco mantello blu. Con la
carnagione scura e il mento rasato era chiaro che non era un uomo delle isole. Aveva un sottile cerchietto d'argento nei capelli neri in tono con la spruzzata di grigio sulle tempie, e una pelle così liscia che sembrava legno levigato. Era più alto di lei, ma non di molto, eppure la fissò dall'alto in basso come se lei fosse qualcosa di spiacevole che lui era in procinto di calpestare. Katla lo fissò con sguardo interrogativo, incerta, per una volta nella vita, su cosa dire. Aran giunse silenziosamente al fianco di sua figlia. «C'è qualcosa che posso fare per voi?» chiese. Gli occhi del ricco straniero fissarono con insolenza le braccia nude di Katla e i suoi capelli al vento, posandosi un po' troppo a lungo su quel poco che si intravedeva dalla scollatura della sua tunica striata di sudore, poi si voltarono verso Aran. «Credo che voi vendiate dei bei coltelli» affermò con sicurezza. La sua voce era bassa e suadente, e parlava l'Antica Lingua con appena una traccia di accento. Aran annuì. «Ma non siamo aperti fino a mezzogiorno.» «Vorrei essere il vostro primo cliente, per assicurarmi di poter scegliere il meglio delle vostre merci.» «Allora dovrete tornare quando apriremo» replicò Aran. Dal suo tono Katla capì che c'era qualcosa in quello straniero che lo irritava. L'Istriano sollevò un elegante sopracciglio. «Capisco.» Fece una pausa. Tirò fuori una scarsella che portava appesa alla vita e la soppesò pensosamente nel palmo. «Non potrei persuadervi ad aprire il vostro banchetto ora, per una somma che potremmo concordare insieme?» Aran rise. «No. Non saremo pronti fino a mezzogiorno» ripeté. Gli occhi dello straniero lampeggiarono. Si scostò leggermente il mantello in modo da mostrare per un secondo le insegne del suo casato, poi lo lasciò ricadere. «È imperativo che io abbia la prima scelta delle vostre merci. Voglio solo le migliori.» «Sono lusingato che la nostra reputazione abbia raggiunto anche i paesi lontani» replicò Aran soppesando le parole. «Forse potremmo aprire poco prima di mezzogiorno per vostra comodità, e Katla qui vi mostrerà le sue migliori lame. Sono tutte damascate con i più fini...» «Questa... donna?» L'Istriano sembrò sbigottito. «Lasciate che una donna mostri le lame per vostro conto?» Aran lo guardò con diffidenza. «Naturalmente. Sono tutte opera di Katla,
le migliori in tutta l'Eyra, anche se potrebbe sembrare deplorevole che io decanti le capacità di mia figlia...» Lo straniero fece un passo indietro come se Aran avesse appestato l'aria tra di loro. Poi fece un complicato gesto con la mano sinistra e disse qualcosa di misterioso nella sua lingua madre. Alla fine dichiarò: «Non posso comprare un'arma toccata da una donna, sarebbe impensabile. Buona giornata.» Girò i tacchi. Poi, come se ci avesse ripensato, si voltò parlando direttamente a Katla: «C'è una voce che gira secondo cui una giovane donna eyrana è stata colta sul fatto in cima alla Rupe di Falla all'alba questa mattina» disse, e la sua voce era fredda e pericolosa. «Spero per il vostro bene, e per il bene della vostra famiglia che sono sicuro vi vuole molto bene, che quella persona non foste voi.» Katla lo fissò con gli occhi spalancati. «Certo che no» rispose immediatamente, guardandolo dritto in faccia. Dopo tutto era stata solo 'colta' nel senso di 'vista', non nel senso di 'catturata', quindi non era una bugia. «Perché» continuò l'uomo «per una donna violare la Rupe di Falla è un delitto capitale. La Rupe è terreno consacrato alla Dea. Ogni altra femmina che posi il piede sulla cima compirebbe una gravissima profanazione.» A quel punto Fent fece un passo avanti, furioso. «La Rupe appartiene a Sur...» cominciò a dire, ma suo padre lo interruppe con espressione dura: «Non può essere stata mia figlia perché, come potete vedere, sono molte ore che lavoriamo insieme e in tutto questo tempo non si è mai allontanata dalla mia vista.» L'Istriano sembrò soddisfatto. «Le mie scuse.» Fece per allontanarsi, ma Aran si affrettò a dire: «Posso chiedervi perché avete sospettato di mia figlia?» «Be', per i suoi capelli, ovviamente. I due nobili che si sono imbattuti in lei l'hanno descritta in dettaglio. Lunghi capelli rossi, hanno detto, lunghi capelli legati in una treccia che la donna ha slegato e sbandierato nella loro direzione.» Aran rise. «È usanza nel Nord, come voi ben sapete, mio signore, sia per gli uomini che per le donne portare i capelli lunghi, e molti, come mio figlio Fent qui presente, li hanno sia lunghi che rossi. Temo che quei gentiluomini non siano nel fiore degli anni e quindi che non abbiano una vista molto acuta.» L'Istriano rifletté per un momento. Poi chinò la testa. «In effetti è possibile, signore: i Dystra sono piuttosto anziani. Forse si sono sbagliati. Lo
spero per il bene di vostra figlia, perché la storia si sta spargendo e le guardie stanno cercando il trasgressore: lei potrebbe avere qualche... problema se qualcun altro dovesse giungere alle mie stesse conclusioni.» Aran sostenne il suo sguardo con assoluta compostezza, e a quel punto il nobile istriano annuì. «Che possiate avere una fiera fortunata» disse in tono formale, e si allontanò, il bel mantello blu che sventolava elegantemente nella brezza. Gli Eyrani lo guardarono allontanarsi. Quando non fu più a portata d'orecchio, Aran afferrò Katla per la spalla. «Piccola strega! Ho promesso a tua madre che non ti avrei tolto gli occhi di dosso e già ti sei cacciata nei più tremendi guai.» La squadrò da capo a piedi, notando la sua tunica corta, le gambe nude e il manto di capelli spettinati. Poi, senza dire una parola, la bloccò con un braccio mentre con l'altro afferrava il coltello decorato che Katla portava sempre alla cintura. «Tienile su i capelli, Fent» disse in un tono che non ammetteva rifiuti. Erno, in piedi dietro di loro, trattenne il fiato. Katla, rendendosi conto di quello che suo padre stava per fare, si divincolò. Ma Aran era molto più forte dei giovani inesperti che aveva sconfitto ai tornei estivi. Rafforzando la presa, tagliò le manciate di capelli rosso fuoco che Fent teneva tesi con un'espressione addolorata. La lama temprata, una delle migliori che Katla avesse mai fatto e di cui andava fin troppo fiera, dimostrò il suo valore tagliando di netto i riccioli aggrovigliati. Grandi fasci di capelli caddero silenziosamente al suolo ardendo come il fuoco che un tempo aveva creato il nero terreno coperto di cenere della pianura della Luna Caduta. «Raccoglili» ordinò Aran a Erno, che esitò, ma poi si mise in ginocchio e cominciò a nasconderli nella sua tunica. Pochi secondi dopo Aran lasciò andare la figlia. Per un momento Katla rimase lì in piedi come un orso in trappola, e il suo corpo emanava ondate di furia. Poi sì voltò e corse come se avesse tutti i demoni del mondo alle calcagna. Fent fissò la ciocca di capelli che teneva in mano, ancora calda, come una piccola creatura vivente fatta di fuoco, poi la lasciò cadere lentamente al suolo. Guardò il padre. Aran fece una smorfia. «È per il suo bene. Se dovessero scoprirla, la brucerebbero viva.» Mise il pugnale alla cintura e si ripulì le mani sul corpetto di pelle. Sottili ciocche rosse volarono via nella brezza. Aran le guardò con un'espressione indecifrabile, poi, gridando un ordine ai ragazzi, si incamminò verso
la spiaggia per andare a badare alla sardonica. Erno, bianco in volto, guardò Fent con espressione sbigottita. Fent sostenne il suo sguardo. «Hai sentito quello che ha detto.» E quando Erno esitò, aggiunse: «Non succederà mai. Se cercassero di portare via Katla, tutta l'Eyra si leverebbe in armi.» Diede un calcio alla polvere accanto alla ciocca di capelli, poi ripose il mazzuolo e i picchetti rimasti all'interno della tenda. «Andiamo.» Corsero per raggiungere il loro capoclan che si allontanava. 2 Gli Erranti Saro Vingo e suo fratello maggiore Tanto avevano appena finito di strigliare il secondo gruppo di purosangue della famiglia Vingo: una dozzina dei migliori puledri istriani, tutti vivacità, eleganti teste strette, mantelli luccicanti e denti gialli affilati. Proprio grazie a quest'ultima proprietà, e in particolare a una bellezza di nome Messaggero della Notte, una bestia di un anno dal temperamento ombroso, Tanto era seduto a terra, la mano stretta intorno all'avambraccio. «Maledetta creatura!» Si strofinò la pelle con ferocia. I segni rossi dei denti spiccavano sulla pelle scura. Aveva perso la pazienza con il cavallo, un baio dall'ossatura delicata con una stella bianca sulla fronte, stringendolo con troppa forza mentre cercava di spazzolare il ciuffo di capelli sulla fronte. Saro sapeva bene che non si doveva imporre la propria volontà agli animali in quel modo, e infatti lui non veniva mai morso. Stranamente, però, gli animali non amavano molto suo fratello: Tanto veniva sempre preso a calci o morso o graffiato. I gatti di casa gli passavano alla larga, le orecchie basse, rasentando i muri; nelle lunghe e calde notti istriane, quando gli ultimi raggi di sole si riversavano dalle alte finestre indorando i pavimenti lucidati, i levrieri lo spiavano con occhi ansiosi ogni volta che si muoveva dalla sua sedia, il che non accadeva spesso, a patto che accanto a lui ci fosse un boccale di birra o un fiasco di araque. «Un giorno la manderò al macello, quella bestia» mormorò Tanto in tono cupo. «Ho detto a nostro padre l'ultima volta che mi ha morso che avremmo fatto meglio a darlo in pasto ai cani piuttosto che portarlo con noi fino alla Grande Fiera con gli altri cavalli.» Raccolse un pezzo di pietra nera, se lo rigirò tra le dita per qualche secondo e poi lo tirò con forza con-
tro l'animale. Poiché aveva un'ottima mira, lo colpì nel punto più doloroso, tra la coscia e il fianco, e la povera creatura si impennò e corse dall'altra parte del recinto, il panico negli occhi. «Inutile bastardo!» Saro si accigliò, ma non disse niente. Messaggero della Notte era il migliore della mandria, un animale dalle zampe lunghe che amava la velocità e che probabilmente un giorno avrebbe vinto qualunque corsa a cui l'avessero iscritto. Ma Saro aveva imparato da tempo a non intervenire durante i frequenti scoppi d'ira del fratello: da bambino, il minimo commento in quei momenti gli aveva procurato tagli e lividi. Ripose perciò gli attrezzi per la strigliatura nel morbido rotolo di stoffa e disse: «Allora, in quale gara pensi di avere le migliori possibilità?» L'umore di Tanto cambiò all'improvviso. Fu come se un vento forte avesse spazzato via le nuvole nere e il sole avesse cominciato a splendere sul suo mondo. Ragazzo affascinante e atletico, e conscio di esserlo, niente gli faceva più piacere di qualcuno che si interessava a lui, anche se era solo il suo miserabile fratello minore. Scosse la testa e la luce danzò sui suoi riccioli neri, sulle guance affilate e ben rasate e sull'incavo della gola, per risplendere poi sul prezioso girocollo in sardonica, a fasce alternate di calcedonio rosso e lucente quarzo. La sua espressione si rilassò in un sorriso deliziato. «Ma tutte ovviamente, fratello! Mi sono allenato parecchio, sai.» Era vero. Mentre Saro e i ragazzi più giovani venivano percossi sulle nocche dal loro arcigno precettore nel freddo e noioso silenzio della casa del sapere, fuori al sole Tanto attraversava il lago con le sue poderose bracciate, o scagliava lance su lontani bersagli di paglia sotto l'occhio attento di zio Fabel; oppure prendeva a pugni uno schiavo vestito di pelle imbottita; o ancora era fuori con il padre, Favio Vingo, sulle colline, a infilzare conigli con l'arco corto. Vedendo nel figlio maggiore il campione della Grande Fiera che lui non era mai stato, Favio aveva comprato a Tanto solo le armi migliori: sciabole d'acciaio Forent e pugnali del Nord riccamente ornati; archi intagliati da antiche querce e frecce equilibrate con le penne di oche allevate specificatamente per quello scopo presso il lago Jetra, giù sulla pianura Tilsen. Tanto poteva scegliere il meglio di ogni cosa, dal primo taglio dell'arrosto alla più esclusiva delle cortigiane di suo padre; ed era giusto, a suo parere, considerate le ricchezze e la fama che le sue prodezze avrebbero recato al nome della famiglia. Saro sorrise al fratello che continuava a parlare, fingendo di ascoltare interessato le sue infinite vanterie e lasciando che il risentimento che prova-
va per lui sbollisse dietro la tranquilla facciata. Lui aveva sempre fallito in tutte le discipline in cui Tanto eccelleva. Sembrava non avere la necessaria forza fisica né la coordinazione per competere con lui, né con altri, quanto a questo: la paura dell'acqua lo faceva irrigidire e andare a fondo; le lance lasciavano la sua mano seguendo imprevedibili traiettorie che gettavano gli schiavi nel panico; le delicate spade del Sud gli sfuggivano goffamente di mano; e in quanto al pugilato... Forse gli mancava la volontà di vincere. E in ogni caso, con Tanto in giro, era inutile: perché tentare solo per essere puniti per il fallimento? Sembrava più facile accettare i propri limiti e convivere con l'inevitabile delusione di suo padre. «Saro, tu non sarai mai buono a niente» ripeteva Favio Vingo, e Saro era arrivato ad accettare l'idea come un'ineluttabile verità. Inoltre, pensò vedendo come il fratello non riuscisse neanche a prendere fiato per quanto si vantava, se bisognava essere come Tanto per avere successo, allora chi voleva essere un campione? «... perciò nell'arte della scherma dovrei eccellere, con quella mia nuova lama damaschinata, anche se il padre di Fortran gli ha dato un guardamano dorato per la sua sciabola e Haro ha preso lezioni per tutta l'estate da quel maestro che viene da Gila» concluse Tanto senza fiato. «Ma è chiaro, fratello: chi mai potrebbe competere con te?» Tanto sorrise concorde, poi si stiracchiò e si allontanò senza fretta per andare a supervisionare il lavoro degli schiavi alla staccionata. Alto e muscoloso, camminava con una grazia che Saro non avrebbe mai avuto. Eppure, delle zie gentili, i cui occhi brillavano attraverso i veli delle loro sabatica, avevano spesso commentato che i due ragazzi si somigliavano come 'pigne dallo stesso ramo'. Cosa che non aveva fatto piacere a Tanto. E Saro, anche se i due fratelli avevano in effetti una certa somiglianza superficiale, si era sentito un imbroglione, in colpa per l'errore di giudizio delle zie. Tanto stava dando una raffica di ordini alle maestranze senza il minimo dubbio di non averne il diritto. Immediatamente gli schiavi raddoppiarono i loro sforzi, badando di non incrociare il suo sguardo. I puledri trottarono verso l'altro lato del recinto, soffiando dai loro eleganti nasi e guardando fiduciosi verso Saro. Assicuratosi che l'attenzione di Tanto fosse rivolta altrove, Saro infilò la mano nella scarsella all'interno della tunica e tirò fuori dei pezzi di carrube essiccate che aveva portato di nascosto. Né Tanto né suo padre approvavano il suo 'viziare' gli animali in quel modo. «Sono qui per farci guadagnare del denaro» diceva sempre Favio. «Molto denaro.
Non sono cuccioli da vezzeggiare.» I cavalli purosangue erano considerati dei beni preziosi in Istria, per il prestigio sociale, come oggetto di curiosità, per le corse e per attirare i migliori ufficiali degli eserciti permanenti che ogni provincia si vantava di avere, e il loro commercio era una delle maggiori fonti di reddito per la famiglia Vingo. Solo i membri della famiglia avevano il permesso di curare gli animali, perché Favio, un uomo molto superstizioso quando si trattava di denaro, era convinto che un estraneo avrebbe contaminato la purezza del lignaggio dei suoi purosangue consacrati alla dea Falla. Ed era per questo che quest'anno entrambi i suoi figli avevano viaggiato fino alla pianura della Luna Caduta seguendo la via più lunga, perché le chiatte per gli animali erano troppo lente e ingombranti per affrontare le acque tumultuose del fiume Alta o il mare aperto, e dovevano quindi viaggiare sul placido e tortuoso fiume d'Oro. Tanto, ovviamente, si era lamentato a gran voce per non aver potuto viaggiare sulla nave di famiglia, La Vergine di Calastrina, con il resto del clan, ma in quell'unica cosa suo padre non l'aveva accontentato. «Ragazzo mio,» aveva detto «il pagamento del tuo matrimonio e il tuo futuro successo potrebbero dipendere dal prezzo che otterremo per i purosangue quest'anno. Ricorda: abbi cura degli animali con estrema diligenza e affronta il viaggio con fiducia, perché se tutto va come pianificato prima della Grande Fiera del prossimo anno tu sarai signore di un dominio tutto tuo, proprietario di una moglie nobile e di un bel castello.» Dopodiché Tanto aveva smesso di lamentarsi. Appena lasciata la tenuta di famiglia, però, aveva evitato i cavalli, lasciando allegramente tutto il lavoro a Saro, mentre lui se ne stava tutto il tempo a studiare le carte idrografiche del fiume e a dare ordini all'equipaggio. Conoscendo il suo carattere irascibile, gli uomini avevano obbedito in silenzio, anche se Saro li aveva colti a scambiarsi sguardi divertiti: anche un bambino poteva guidare una chiatta lungo il fiume d'Oro. All'odore delle carrube, i puledri si affollarono intorno a Saro, spingendolo con i loro vellutati musi finché il giovane non fu costretto a rimettere a posto i bocconcini e ad allontanarli a forza. Messaggero della Notte, però, era rimasto lontano dal gruppo, guardandolo con diffidenza. Lentamente, Saro si mosse tra gli altri cavalli e lo raggiunse. Gli tese poi la mano, vuota, con il palmo all'insù. Il baio strabuzzò gli occhi. Quando Saro allungò la mano per accarezzargli la guancia, Messaggero della Notte sollevò la testa, ma non indietreggiò. Con gesti lenti e misurati, il giovane infilò la mano nella tunica e recuperò una manciata di pezzi di carrube. Senten-
done l'odore, il cavallo divenne remissivo. Le sue labbra gli sfiorarono la mano, e le carrube sparirono come per magia. Un attimo dopo il giovane si ritrovò la testa del puledro premuta contro il petto, il muso seppellito nella tunica, finché dovette spingerlo via. In quell'attimo la scarsella si sganciò dalla cintura e cadde a terra, e le carrube si sparsero ovunque. Il rumore fu quello di una piccola cascata. La testa di Tanto si voltò di scatto, e con il volto rabbuiato il giovane guardò i sei migliori puledri dell'allevamento della famiglia Vingo stretti intorno al suo fratellino a ingozzarsi avidamente. La figlia di Aran Aranson corse fino a quando una dolorosa fitta al fianco non la costrinse a rallentare. La rabbia l'aveva portata a più di un chilometro di distanza, oltre il limite della zona fieristica. Nessuno aveva fatto molto caso a una ragazza che correva tra le bancarelle, con la gente che andava e veniva di fretta in ogni direzione: tutti erano impegnati a mettere in piedi i propri banchetti, a piantare tende e padiglioni, a costruire palizzate temporanee per il bestiame, a legare cavalli e cani ai paletti. Dalla cima di una collina rocciosa Katla guardò indietro verso la fiera e si colpì l'addome con le nocche per tentare di alleviare il dolore. Stupida! Era così arrabbiata che si era dimenticata di respirare nel modo giusto. A casa correva per chilometri senza fermarsi, le lunghe gambe la sospingevano attraverso brughiere e pascoli, su e giù per le colline. E non aveva mai fitte del genere. Maledetto suo padre e i suoi modi da prepotente! Lei era una donna ormai, e meritava rispetto: come osava trattarla come se fosse una pecora ribelle al tempo della tosa? E maledetti anche Fent ed Erno, che se n'erano rimasti lì come gli inutili sciagurati che erano, senza neppure tentare di alzare una mano per fermarlo. Non era delusa da Fent, ma certo lo era da Erno, che avrebbe potuto almeno protestare. Katla aveva pensato di piacergli almeno un po', a giudicare dalla sua timidezza quando lei era nei paraggi; ma chiaramente anche lui era codardo e inutile come tutti gli altri uomini. Si passò distrattamente una mano sulla testa, sentendo per la prima volta gli spuntoni irregolari che avevano preso il posto dei capelli. La sua testa era stranamente leggera. Era una sensazione piuttosto piacevole, notò Katla con una certa sorpresa. Be', almeno lavarli non sarebbe più stato fastidioso come era di solito, quando la lunga coda le rimaneva incollata alla schiena come un gatto bagnato per ore e ore. Rise quando la colpì un altro pensiero: suo padre non l'avrebbe messa in mostra di fronte a re Ravn come potenziale sposa!
Quando Breta, Jenna e Tian avevano sentito che sarebbe andata alla Grande Fiera, non avevano fatto che parlare di lui: re Ravn Asharson, così affascinante, così forte e, a quanto si diceva, impaziente di trovare una compagna come uno stallone in calore. Avevano riso ed erano arrossite, fantasticando per ore e ore sui particolari più noiosi: i vestiti che avrebbero indossato, gli inchini e gli sguardi che gli avrebbero rivolto, e come avrebbero convinto i loro padri a perorare la loro causa presso i nobili. Jenna era riuscita a persuadere suo padre a portarla alla fiera quest'anno, ma Katla dubitava che sarebbe mai riuscita a partecipare a quella gara di possibili spose. Il clan degli Acquachiara, pur ricco e di antico retaggio, si era sempre occupato di costruzioni navali e Katla sospettava che il padre di Jenna avesse già messo l'occhio su uno dei suoi fratelli per la figlia. Halli, probabilmente, essendo il più vecchio. E forse il suo austero fratello maggiore aveva già un debole per la civettuola Jenna. A Jenna piacevano gli uomini bruni, e molto probabilmente avrebbe scelto Halli, ma solo dopo che la sua stupida infatuazione per Ravn Asharson si fosse definitivamente esaurita. Sarebbero tutti andati al Raduno: ogni famiglia eyrana che pagava la decima al re o lo riforniva di navi, equipaggi o soldati era la benvenuta a partecipare a qualsiasi evento di corte. Le genti del Nord non erano amanti delle eccessive cerimonie, che Sur fosse lodato. Katla non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare della sua testa rasata per il ricevimento reale, e mancavano solo un paio di giorni. Aveva avuto intenzione di intrecciare i capelli all'ultima moda, secondo lo stile che le aveva mostrato Jenna quando era tornata da Halbo il mese prima con un meraviglioso vestito nuovo nella migliore seta del Sud, lucente come una foglia di agrifoglio e bordato di merletti galiani in argento. Katla non aveva nessun meraviglioso vestito nuovo. Aveva puntato tutto sui suoi capelli, più lucenti e appariscenti di quelli di Jenna, convinta che quello che le mancava in fatto di abbigliamento sarebbe stato compensato dalla sua aureola fiammeggiante, come l'aveva chiamata con orgoglio sua madre. Non c'era rimasto molto di quell'aureola, adesso. Bera si sarebbe infuriata al ritorno, inveendo contro Aran per aver rovinato il futuro della figlia, e non solo con il re! Ma Katla non era affatto dispiaciuta: non credeva che un marito l'avrebbe portata alla Grande Fiera con lui come aveva fatto suo padre, per non parlare poi di lasciarla andare da sola in giro per le isole, scalare scogliere e cavalcare cavalli selvaggi. No, a lei nessun marito avrebbe messo le briglie, ingravidandola prima ancora che potesse respirare e non smettendo finché non avesse partorito un intero clan. Gli Eyrani
consideravano le famiglie numerose una benedizione di Sur; e in effetti era un risultato difficile da raggiungere, dal momento che tanti morivano per le faide e per i mari perigliosi. Le ragazze che Katla conosceva non parlavano d'altro che di matrimoni, a quanto le sembrava: quali ragazzi erano i più carini e quali avevano le prospettive migliori; quale sarebbe stato il loro prezzo e cosa avrebbero indossato per la giunzione delle mani; quanti bambini avrebbero avuto e come li avrebbero chiamati. A Katla quei discorsi sembravano un elenco di costrizioni, e il fatto che fossero loro stesse a contribuire al proprio futuro confinamento le appariva una perversione. Era difficile per lei farsi delle amiche quando non condivideva nessuno dei loro sogni. Di recente Katla se ne era allontanata per coltivare sempre di più i suoi interessi solitari, e non rimpiangeva affatto le loro stupide chiacchiere. In quello stesso periodo aveva cominciato a considerare i suoi fratelli e i loro amici come compagni migliori rispetto alle persone del suo stesso sesso, e aveva apprezzato il cameratismo nato mentre lavoravano insieme nel podere di famiglia o condividevano le avventure sull'isola. Una volta aveva portato Halli con sé a scalare il promontorio di Punta del Lupo, certa di aver visto un folletto delle rocce in una caverna vicino a una sporgenza sulla cima. Usando una serie di manovre combinate e una corda fatta di pelle di foca, Katla si era ritrovata a penzolare dalle spalle del suo alto fratello, riuscendo poi ad aggrapparsi alla sporgenza e a tirarsi su, solo per trovarsi faccia a faccia con un gabbiano infuriato, le ali aperte, le grida di rabbia che fendevano l'aria e i pulcini, con gli occhi enormi e la ridicola peluria, che le beccavano coraggiosamente le mani. Alla faccia del folletto delle rocce! Halli aveva riso così tanto che era caduto dalla sporgenza, ma fortunatamente la corda si era impigliata sul bordo dello strapiombo: con Katla a fare da contrappeso, i due erano rimasti sospesi sul mare, ridendo della propria avventatezza fino a sentirsi male. Ed era successo solo l'anno precedente. Di certo non era un comportamento molto dignitoso per una giovane donna in età da marito. Katla si passò le mani sulla tunica, notando le grosse chiazze di sale lasciate dagli schizzi dei remi, le striature di sudore, le macchie di cibo e di sporcizia. A parte le condizioni davvero pietose in cui era, quella tunica non avrebbe comunque potuto indossarla ancora a lungo, se non altro per decoro: era infatti un po' troppo corta sulle gambe e cominciava a stringere parecchio intorno al petto. Forse sarebbe riuscita a vendere abbastanza coltelli da potersi permettere degli abiti nuovi alla fiera. Aveva visto della
pelle acquistata alla Grande Fiera morbida come la stoffa, che poteva essere cucita con un normale ago, e non con quelli enormi e difficili da manovrare usati per mettere insieme la pelle di cavallo eyrana. Ne avrebbe potuto ricavare un lussuoso farsetto. Non che Katla avesse intenzione di cucirselo da sola... No, avrebbe persuaso sua madre a confezionarlo per lei, dal momento che il cucito non era un'attività in cui Katla eccelleva: se fosse stato per lei avrebbe prodotto dei punti lunghi mezzo palmo per finire il prima possibile, e se qualcuno avesse obiettato, avrebbe risposto con un 'Be', funziona, no?'. In effetti doveva ammettere che più di un indumento fatto da lei si era scucito all'improvviso, spesso in circostanze imbarazzanti, ma questo non l'aveva resa più paziente. Forse, pensò ritornando a fantasticare sugli acquisti, avrebbe potuto prendere un paio di camicie di buona fattura, un corpetto ricamato e dei gambali di pelle scamosciata. E un paio di scarpe a punta. E degli stivali lunghi per cavalcare... Scoppiò a ridere: avrebbe dovuto vendere tutta la merce per permettersi un tale guardaroba! La cosa più giusta da fare era soffocare l'orgoglio e ritornare immediatamente alla tenda di famiglia a lavorare. Ma il trattamento subito le bruciava ancora, e rimase sulla collina a guardare le nubi diradarsi velocemente per scoprire un cielo blu come l'uovo di un pettirosso. Le colline lontane emersero dalle tetre ombre rivelando pendii ammantati di porpora e ruggine: lì di sicuro mirtilli ed erica si stavano contendendo con felci ed erbe un po' di spazio vitale, come sulle colline di casa sua. Improvvisamente fece capolino nella sua mente il pensiero che forse scalare la Rupe era stata un'impresa avventata, che lei non aveva pensato affatto alle conseguenze e che forse meritava la sua punizione... Ma Katla lo scacciò via con forza, provando invece l'improvviso e bruciante desiderio di continuare a correre, lontano dalla fiera e su per quelle strane colline, prendere uno di quei lunghi e tortuosi sentieri e arrivare fino in cima a dominare con lo sguardo il vasto continente meridionale. E lo fece. «Chi era quell'uomo?» chiese Fent, il viso soffuso di curiosità. Il nobile istriano corrispondeva esattamente a ciò che lui si era aspettato: arrogante, sprezzante, scortese e per di più fanatico religioso. In piedi sulla spiaggia Aran Aranson si schermò gli occhi e guardò le sue due barche a remi che affrontavano le onde verso di lui, piene fino all'orlo di uomini e merci. Passò qualche minuto, e la domanda continuò ad
aleggiare senza risposta tra di loro. Alla fine Fent fu costretto a ripeterla. Aran si voltò per studiarlo, cogliendo il pericoloso lampo negli occhi del suo ragazzo più giovane, notando le mani strette a pugno lungo i fianchi. «È una persona che dovresti evitare» disse con voce pacata. La risposta servì solo a irritare Fent ancora di più. «E perché dovrei evitarlo? Sono più che in grado di tenere testa a un debole uomo del Sud come quello, nobile o no.» E quando suo padre continuò a guardarlo senza rispondere «In nome di Sur, chi diamine è?» insisté, ancora infuriato al ricordo del comportamento altezzoso dello straniero, del disprezzo dimostrato verso Katla, del suo strano fervore religioso. Aran serrò la mascella. «Si chiama Rui Finco, Signore di Forent, ed è pericoloso mettersi sulla sua strada. Lascia i clienti come quelli a me. Siamo qui per commerciare e non tollererò problemi di alcun genere.» «Non mi piace» insistette caparbio Fent, ma la luce battagliera nei suoi occhi si era spenta. «Che un cliente piaccia o meno non ha importanza per gli affari.» E con quelle parole, Aran si addentrò tra i flutti per tirare a riva una delle sue faering cariche. La vegetazione delle colline risultò completamente diversa da quella dell'Eyra: Katla vide per lo più carici e licheni dagli strani colori e zolle d'erba che spuntavano come ciuffi di penne. La salita era alquanto ripida, ma il dolore al fianco non tornò e Katla raggiunse la cima in meno di mezz'ora, ansante ma felice di aver esplorato quella terra più di quanto avessero fatto i suoi fratelli. Poco prima di raggiungere la sommità delle colline si voltò per guardare verso la zona della fiera. Da lassù il Castello di Sur era un minuscolo sasso, mentre le persone si affaccendavano intorno come insetti e le navi in mare sembravano uccelli a riposo sul mare luccicante. Ma quando arrivò in cima invece di essere ricompensata per i suoi sforzi con una superba vista dell'esotica terra d'Istria, Katla non vide altro che montagne, vaste catene montuose allineate una dopo l'altra come un esercito a difesa del suo territorio... E poi ricordò che le navi ancorate al largo della pianura della Luna Caduta non erano solo eyrane: tra di esse spiccavano anche quelle strane ed eleganti dell'Istria, con gli occhi intagliati sia a prua che a poppa in modo che la nave potesse vedere in ogni direzione. Quindi anche la maggioranza degli Istriani veniva alla fiera annuale via mare, e non via terra.
Chi era allora tutta quella gente trecento metri più in basso? Laggiù la valle sembrava una cintura ingioiellata, assurdamente verde tra vaste distese di rocce cadute e pendii pietrosi, una stretta fascia di terreno che si snodava come un serpente di smeraldo ai piedi delle montagne. E su quel sentiero, a distesa d'occhio, arrancavano diversi carri e centinaia di grandi, nere e lente creature che avanzavano in una lunga, lunghissima fila, con minuscole figure appollaiate come colorate coccinelle sulla schiena. Katla rimase a bocca aperta: erano i nomadi, le genti vagabonde di Elda, che facevano quello per cui erano famosi, viaggiare per il mondo. Era la cosa più affascinante che Katla avesse mai visto. Li vide farsi strada attraverso un valico... stavano venendo alla Grande Fiera! All'improvviso Katla scoppiò a ridere, il volto teso verso il cielo, il sole caldo sulla pelle. Era proprio vero, se Sur chiudeva una porta era per aprire un portone: se non avesse scalato quella rupe, suo padre non avrebbe avuto motivo di tagliarle i capelli, e se lei non avesse perso i suoi capelli, non sarebbe corsa via infuriata e non sarebbe finita lì, a contemplare quello spettacolo segreto. Come dicevano nel Nord: «Ciò che è probabile può accadere... ma anche l'improbabile.» Ed era vero. Fu l'arrivo di Fabel Vingo che salvò Saro dalle probabili percosse del fratello. «Belle bestie quest'anno, eh, Tanto?» «Davvero, zio. Come puoi vedere» e tese il braccio ferito per mostraglielo. «Saro e io abbiamo pagato a caro prezzo per farle apparire al meglio!» Fabel fece una sonora risata di approvazione. «Ah, bene! Sono sempre i più vivaci a ottenere il prezzo migliore... e non vale solo per i cavalli, eh, ragazzo?» La sincera e fragorosa risata di Tanto si unì a quella dello zio. Saro li guardò, sorridendo debolmente. Non poteva far vedere che la battuta non l'aveva entusiasmato, anche se capiva perché dovessero ridere in quel modo. Lo zio Fabel prese il maggiore dei suoi nipoti per un braccio e insieme camminarono intorno al recinto: Fabel indicava i punti di forza di ciascun cavallo e Tanto annuiva con espressione interessata, come fosse affascinato da ogni parola. Saro sospirò e diede un calcio a terra. A volte la vita sapeva essere davvero ingiusta. Qualsiasi idiota poteva vedere che Tanto non era affatto interessato agli animali; per lui erano solo borse di cantari che camminavano, pronti per essere scambiati per il prezzo della sposa.
Era ironico, pensò Saro strisciando pigramente un piede a terra, che suo fratello non cogliesse l'analogia: se i cavalli venivano scambiati con il denaro, qual era la differenza con lui? Una volta diventato ricco e famoso vincendo alle gare della Grande Fiera, non sarebbe stato venduto anche lui al miglior offerente? Non si sarebbe accasato con la figlia di chi poteva offrire alla famiglia Vingo l'affare migliore? Saro fu deliziato da una fantastica visione: il fratello, nudo nel recinto di vendita, i capelli e i muscoli lucidati con l'olio di semi di lino, gli occhi spalancati per la paura, portato in giro con una briglia lunga insieme al resto dei ragazzi in età da marito. Il battitore d'asta con il suo bastone d'argento indicava i bei pettorali scolpiti, il portamento elegante, la curva del collo, i polpacci muscolosi; lo colpiva leggermente sul sedere con la frusta per mostrare l'aggraziato trotto e infine faceva scorrere il bastone lungo i fianchi e sollevava le parti intime di Tanto perché il pubblico potesse commentare (con disprezzo) la sua virilità e la lunghezza del suo... «Saro!» La testa di Saro si sollevò di scatto, dolorosamente. Favio Vingo aveva raggiunto suo fratello e Tanto, e ora stava andando da lui. Grazie a Falla, i suoi familiari non sapevano leggere nel pensiero, pensò Saro, altrimenti l'avrebbe preso lui un bel paio di frustate. «Buongiorno, padre.» Favio Vingo era un uomo basso, ma molto muscoloso. Quel giorno nascondeva la vergogna di una calvizie incipiente sotto un turbante di seta dai colori sgargianti, fermato da una spilla con un enorme smeraldo. «Ho qualcosa da mostrarti, Saro. Vieni con me.» Suo padre gli fece un luminoso sorriso: l'araque doveva fare ancora effetto su di lui, pensò Saro impietoso, altrimenti non si sarebbe mostrato così magnanimo verso una persona che disprezzava tanto. Stampandosi sul viso la sua espressione più compiacente, Saro prese il braccio offertogli dal padre e si incamminò accanto a lui. «Cosa volete mostrarmi, padre?» «Le parole non renderebbero giustizia all'esperienza: devi vedere con i tuoi occhi. Ricordo che fui testimone di una simile scena durante la mia prima visita alla Grande Fiera...» Si interruppe. «Per Falla! Oltre venticinque anni fa: ci crederesti? Venticinque anni. Venticinque visite alla pianura della Luna Caduta, per la Signora! E ancora ricordo quella prima volta come se fosse ieri: quanta eccitazione, eh, Fabel?» Fabel Vingo guardò verso di loro da sopra la spalla. «Ah, sì. Anch'io ri-
cordo la mia prima volta alla fiera... ma credo che sia stato qualche anno dopo di te, fratello.» Gli fece l'occhiolino e si voltò per continuare la sua conversazione con Tanto, non prima di essersi passato con noncuranza le mani tra i folti capelli. Favio fece una smorfia. «Non fu solo la sua prima volta alla Grande Fiera, quella» disse con un tono di voce troppo alto per essere destinato solo alle orecchie di Saro, ma non ottenne alcuna reazione da suo fratello. Si incamminarono tra le stalle degli animali e le baracche dei mandriani e dei servitori, e ben presto si ritrovarono in un terreno non ancora occupato. Il sole, che in quel momento era al culmine nel cielo, splendeva sulla sabbia vulcanica, e in quel calore le montagne orientali parevano ergersi sulla pianura a ondate, come una marea. Le nuvole della mattina erano scomparse, e il cielo era del profondo e immacolato blu di un vaso jetrano. Favio si riparò gli occhi con la mano. Saro, seguendo il suo esempio, fissò davanti a sé nella foschia. Tanto e Fabel, già annoiati, cominciarono a discutere degli intricati lavori di damasco saldato che potevano essere commissionati agli armaioli del Nord specializzati in coltelli ornamentali e spade incise. Lavori notevoli, a quanto si diceva, ma certo non economici. «Oh!» L'esclamazione sfuggì dalla bocca di Saro prima che potesse trattenersi. Apparendo al centro della strada immersa nel calore come se fosse uscita dal cuore di una leggenda, o come gli ingannevoli miraggi raccontati da esploratori partiti alla ricerca del leggendario Santuario, luccicando al sole e ingrandita dalle ondate di calore, una carovana di nomadi si stava avvicinando lentamente alla zona della fiera, un ondulato e lunghissimo millepiedi che sollevava nuvole di polvere al passaggio. «Viandanti!» «Sì, ragazzo» disse Fabel allegramente. «La Gente Perduta, gli Erranti: eccoli che arrivano, pronti a spennarci ancora una volta come polli!» 3 Incantesimi Jenna Finnsen si guardò nello specchio di metallo lucidato che Halli Aranson aveva appena portato al loro tendone come 'regalo per una giovane alla sua prima visita alla Grande Fiera'. L'aveva sentito annunciarsi all'ingresso del padiglione ed era prontamente sparita dietro il divisorio, la-
sciandolo a strisciare i piedi imbarazzato davanti a suo padre. Che buzzurro, pensò. Era solo un ragazzo di campagna grande e grosso senza buone maniere, anche se disperatamente innamorato di lei. Jenna sorrise, poi guardò con orrore i propri grandi occhi grigi sparire dentro le piccole pieghe di grasso della pelle e rughe sottili formarsi intorno al naso e alla bocca. «Oh, no» mormorò disperata. «Così non va. Non devi sorridere quando incontrerai Ravn. Seria e misteriosa, ecco come conquistare il suo cuore.» Si ricompose rapidamente e tornò alla sua fantasticheria preferita. Tenendo lo specchio sollevato a una trentina di centimetri sopra la testa, guardò verso l'alto da sotto le ciglia bionde e si rivolse a una presenza invisibile, mormorando: «Sì, sire, il mio nome è Jenna Finnsen, figlia di Finn Larson del clan Acquachiara, che rifornisce la vostra casa reale con le migliori navi.» Al che il re rispondeva immancabilmente: «Se non mi aveste detto il vostro nome, l'avrei indovinato dalla curva elegante del vostro collo, delicato come quello di un cigno, che di certo ispira vostro padre per le prue delle sue adorabili navi.» Jenna avrebbe abbassato con modestia lo sguardo, attirando gli occhi del re verso il suo fiorente seno, annidato come una coppia di uova d'anatra tra tutto quel delicato pizzo galiano. Quindi, travolto dalla sua straordinaria bellezza, l'avrebbe presa per il mento e, dopo aver mormorato altri complimenti ancora più poetici, si sarebbe rivolto alla folla riunita: ci sarebbero state tutte le sue cosiddette amiche, convinte che una cosa del genere non sarebbe mai accaduta, e i giovani degli isolotti locali, incluso Tor Leeson che una volta, quando avevano entrambi tredici anni, le aveva detto che somigliava alla mucca da latte di sua madre. Il re avrebbe annunciato che aveva scelto la sua sposa, la squisita e nobile Jenna, e che ora potevano tutti andarsene, e il più in fretta possibile, perché lui voleva restare solo con il suo amore. Poi l'avrebbe sollevata tra le sue braccia (Jenna immaginava i muscoli guizzanti, la facilità con cui l'avrebbe stretta al suo petto, il battito accelerato del suo cuore) e... Abbassando lo specchio finché non fu al livello del suo viso, Jenna chiuse gli occhi e lo baciò appassionatamente. La fredda superficie si appannò come una donna che arrossisce. «Allora ti piace lo specchio?» Sobbalzando, Jenna lo strinse al petto e si voltò per affrontare colui che aveva parlato. «Io... pensavo che te ne fossi andato.»
Halli fece una smorfia. «Sono uscito qualche minuto fuori con tuo padre per discutere di affari.» Gli occhi di Jenna si strinsero con sospetto. Sperava non fosse il tipo di affare che pensava lei, perché le seccava non poco l'idea di diventare parte di una qualche transazione terriera tra clan, una postilla in un affare deciso tra uomini. «Che genere di affari?» chiese in tono sgarbato, andando all'attacco prima che lui potesse approfondire la faccenda dello specchio. «Stavo pensando di commissionargli una nave.» «Le navi di mio padre sono le migliori al mondo: non sono per chiunque!» Halli batté sorpreso le palpebre. «Il nostro denaro è buono come quello di chiunque altro» disse in tono pacato. Quando lei non si degnò di rispondere, il giovane continuò: «Re Ravn sta cercando uomini con navi proprie per esplorare la Via del Corvo alla ricerca di un passaggio per l'Estremo Occidente, e io intendo offrire i miei servigi e» la fissò con sguardo penetrante «guadagnare denaro a sufficienza per comprare un po' di terra e prendere moglie...» «E hai qualcuno in mente per questo... onore?» Gli occhi di Halli non lasciarono i suoi. «Potrei.» «Anche i maiali potrebbero volare.» Halli aveva litigato fin troppo con la sua impertinente sorellina per lasciarsi spiazzare da risposte acide di quel genere. «Be', sai, alla fiera di mezza estate di Sundey un paio d'anni fa» disse «un uomo affermava di poter far vedere agli altri i maiali volare... e sì, anche le pecore.» Jenna sbuffò. «Era la pozione che vendeva... roba fatta con funghi velenosi per i più creduloni.» «Molto probabile.» Halli tacque per un momento. «Ma quando ne bevvi un sorso fu una giovane quella che vidi volare: si era pazzamente innamorata della luna e stava saltando su e giù con frenesia, dando un ben misero spettacolo di sé. Ma per quanto in alto volasse, quell'altezzosa luna non la notava affatto.» Jenna lo fissò sbalordita. «Stava sprecando tutta la sua gioventù, sperando di ottenere ciò che non poteva avere» concluse Halli con voce pacata. Jenna impiegò un po' a capire. Poi tutto a un tratto un violento rossore le accese il collo, le guance e persino la punta delle orecchie. La sua mano si strinse intorno allo specchio. «Be', avevo intenzione di chiederti se volevi venire con me a vedere i
nomadi arrivare, con le loro pozioni magiche fatte di funghi velenosi per i più creduloni, ma vedo che tali frivolezze non sono di tuo gusto, Jenna. Perciò ti saluto, per il momento, fino al Raduno, e forse parleremo ancora dopo quell'evento, che ne dici?» Halli chinò la testa e uscì con eleganza dalla tenda. Ci fu qualche attimo di silenzio, seguito da uno scroscio di risa fuori dal tendone. Jenna riconobbe le risate di suo padre, di suo fratello Matt e dei suoi cugini, Thord e Gar. Furiosa, gettò a terra lo specchio e ci saltò sopra fino a quando la sua liscia superficie non fu tutta ammaccata. «Hai mai cavalcato uno yeka, Joz?» «No.» «E tu, Mazza?» «No.» «E tu, Mam?» «Oh, non scocciare, Dogo.» «Io sì: ho cavalcato uno yeka quando lavoravo per il duca di Cera, comandando quel gruppo che ha attraversato per primo il passo Skarn. Se puzzava? Cavoli, se puzzava!» «Oh, ma chiudi il becco.» Imperterrito, Dogo si girò verso il compagno alla sua sinistra, un'enorme montagna d'uomo perennemente accigliato e vestito da capo a piedi di cuoio macchiato e maglia di ferro. «Doc, tu hai mai cavalcato uno di quei cosi?» L'omone lo guardò senza battere ciglio. «Pussa via, Fiatodicane.» «Va bene, Doc. Scusa, Doc.» Per alcuni secondi tornò il silenzio. I cinque mercenari si appoggiarono alla palizzata che dovevano piantonare (una delle molte cose che c'erano da fare alla Grande Fiera e una tra le più facili, per di più, e per questo non molto ben pagata) e guardarono gli Erranti entrare nel recinto della fiera con gli enormi e pelosi yeka e i carretti, i carrozzoni e le cianfrusaglie, uomini e donne nei loro indumenti eccentrici e colorati. «Ti sei mai fatto leggere la mano, Joz?» «No.» «E tu, Mazza?» «No.» «Mam?» La donna lo guardò con freddezza.
«E tu, Doc? Sei mai andato da una di quelle chiromanti per farti leggere la mano, eh?» «Diamo un'Occhiata alla tua, di mano, Dogo.» «Bene. Cosa ci vedi?» «Una linea della vita maledettamente corta se non la smetti di blaterare.» «Oh.» Una lunga fila di capre con nappe rosse alle orecchie passò davanti a loro, condotta da una coppia di cani pezzati e da un ragazzo che faceva capriole. Dietro il gruppo, su un carretto a sei ruote, diverse donne abbronzate e due uomini con enormi baffi, tutti con copricapi di seta arancione, file su file di perle d'avorio e poco altro addosso, erano distesi tra una pila di cuscini ad aspirare fumo profumato da un'enorme boccia piena di beccucci. Un coro di fischi segnava l'avanzare del carro. «Ti sei mai fatta un'Errante, Doc?» «Dogo Fiatodicane...» «Sì, Doc?» Ci fu un rumore sordo e un grido di dolore. Aran Aranson guardò la grande carovana arrivare e provò una grande gioia, come se avesse sentito le prime note della sua canzone preferita. Vedere gli Erranti aveva sempre quell'effetto su di lui: gli faceva credere nell'esistenza di infinite possibilità. C'era qualcosa di tremendamente affascinante nei nomadi e in ciò che portavano con sé, qualcosa di magico, di stimolante... di pericoloso. Che mostrava immediatamente la banalità del commercio e dei pettegolezzi e delle politiche di corte, sollevando la Grande Fiera su un piano dell'esistenza più alto. Poteva essere l'odore delle spezie che usavano per cucinare, esotico e complesso, o i loro profumi, sfuggenti, inafferrabili, difficili da riconoscere; oppure il loro chiacchiericcio in una lingua straniera, o semplicemente il sapere che quella gente aveva viaggiato in lungo e in largo per Elda e di conseguenza aveva visto e conosciuto molto più di quanto lui avrebbe mai visto o conosciuto in vita sua. Se avesse dovuto ammetterlo con se stesso, Aran Aranson avrebbe confessato di invidiare gli Erranti. Invidiava la loro mancanza di radici, di responsabilità, il loro liberale spirito di comunità. Ma più di tutto invidiava quegli orizzonti sempre in mutamento, il pensiero che ogni giorno avrebbe arricchito la propria conoscenza del mondo e di se stessi. Aran guardò una donna nomade passargli davanti nella sua voluminosa veste in lana di yeka intessuta d'argento; un uomo con il viso tatuato dalla
sommità della testa al mento; ragazzi che ridevano e correvano con un gruppo di cani malridotti. Piccole capre nere e polli dalle piume esotiche. Intere tribù di bambini, tutti occhi luminosi e denti bianchi che spiccavano sul volto dorato. Un mulo passò ondeggiando, carico di bisacce piene di candele di ogni forma e colore, accompagnato da un uomo dal volto spigoloso che portava una dozzina di lanterne di carta alte quasi un metro. Come fosse riuscito a mantenerle intatte con i forti venti dei monti Skarn Aran non riusciva davvero a immaginarlo. Il serio capoclan continuò a fissare e a fissare, finché dopo un po' si rese conto che c'era qualcosa che non andava nella propria faccia: gli sembrava rigida e strana. Gli ci volle un momento o due per rendersi di non aver fatto altro che sorridere per tutto il tempo. «Sembra che ti stia divertendo, papà.» Aran si voltò. Era Katla, con i capelli massacrati e una tunica sporca. «Cosa dirà tua madre quando ti vedrà?» La squadrò da capo a piedi sgomento. «Era l'unica cosa che mi è venuta in mente di fare.» Katla si passò le dita tra la zazzera sudata. «In realtà devo dire che mi piace. Non mi va a finire negli occhi quando corro.» Afferrò suo padre per un braccio. «Non sono bellissimi, i nomadi, voglio dire? Li ho visti arrivare dalla cima di quella collina laggiù... sono scesi giù da un passo di montagna!» «Sì.» Aran tornò a guardare il lungo corteo. «Sono gente straordinaria, gli Erranti. Veri esploratori. Niente può mettersi sul loro cammino quando hanno deciso la strada da prendere, né montagne né foreste né deserti.» Katla guardò gli occhi di suo padre riempirsi di desiderio. Doveva essere un nomade mancato, pensò, ricordando le storie che le aveva raccontato intorno al fuoco sui viaggi dei suoi antenati nelle zone inesplorate del mondo, e vedendo i suoi occhi bruciare di rimpianto si sentì più vicina a lui di quanto si fosse mai sentita in vita sua. «Immagina... attraversare un deserto a cavallo di uno yeka, con il sole sul viso e il vento caldo che ti sfiora la schiena» mormorò. «O scalare montagne dove la neve non si scioglie mai e da lì vedere tutti i continenti di Elda.» Ma suo padre non aveva intenzione di essere coinvolto in una discussione del genere. Curvò le spalle come se sentisse le responsabilità della sua vita pesargli addosso. «Tu sei una ragazza» disse, sottolineando l'ovvio. «Non sei fatta per l'esplorazione.» Colpita dall'ingiustizia di quell'affermazione, sua figlia si inalberò. «Perché no? Ci sono molte donne tra i nomadi, che cavalcano yeka, guidano
carri e carrozzoni. E lassù» e indicò la palizzata «ho visto una donna in armatura di pelle che sembrava non meno dura dei suoi compagni. Perché io non posso scegliere una vita del genere? Io so correre più veloce di un uomo, so scalare montagne, nuotare e domare un cavallo, e sì, so anche combattere.» «I nomadi sono diversi da noi, Katla. Vivono in base a regole diverse. E in quanto alle spade in vendita, quelli non hanno alcuna regola.» Gli occhi di Katla lampeggiarono. «Io la definirei libertà.» Aran si voltò per guardare sua figlia. «Le donne eyrane gestiscono fattorie e case, e crescono famiglie. Quale potere più grande di quello di creare un luogo sicuro e accogliente per gli altri, di coltivare la terra e portare nuova vita al mondo?» «Potere?» Katla fece una smorfia di disprezzo. «Le donne eyrane vengono vendute dai maschi della loro famiglia allo sposo più conveniente e affrontano tutto con il sorriso sulle labbra; partoriscono bambini su bambini, solo per perderli per il freddo o la febbre o gli spiriti maligni... e se crescono fino a diventare uomini li perdono per le faide o negli oceani! Le donne sgobbano da mattina a sera e poi fino a mezzanotte, e non hanno mai un momento per loro stesse. Non è quello il genere di potere che desidero per me.» «Parole coraggiose, sorellina!» Fent le mise un braccio intorno alle spalle. «Forse preferiresti sposare un nobile istriano, come quello che ha costretto papà a tagliarti tutti i capelli?» «Fent!» La voce di Aran era dura, ma suo figlio minore sembrò non notarlo. «Cara sorella, riesco proprio a immaginarti con la testa coperta e il corpo tutto avvolto in raffinate sete (rosa? No, stonerebbe con i tuoi capelli, o quello che ne è rimasto; scarlatte, allora, o verdi), costretta a vedere solo altre donne durante il giorno e tuo marito la notte. Se re Ravn si sceglierà una moglie istriana da riportare sulle Isole con sé, credo che il meno che possiamo fare in cambio è dare in sposa Katla a uno dei loro nobili. Lo ucciderebbe a furia di chiacchiere! Oppure lo sottometterebbe con la sua forza bruta. Pensate, potrebbe essere la più grande arma dell'Eyra! Nessun Istriano potrebbe mai dichiararci guerra con Katla come sua moglie, non senza averla prima imbavagliata e chiusa nelle segrete!» «Fent, taci!» Questa volta nella voce di Aran c'era una nota pericolosa. «Non voglio sentire parlare di guerra. Siamo in pace da oltre vent'anni, e io
da parte mia ringrazio Sur per questo.» «Pace!» esclamò Fent con disprezzo. «Quella che è stata la nostra vera patria per più di mille di anni giace a un tiro di sputo da queste montagne e i figli dei figli dei figli dei bastardi che ce l'hanno portata via camminano per questa fiera senza neppure un fremito di paura nei loro cuori; e anzi, ci trattano come stupidi barbari. Prendono in giro le nostre usanze, insultano le nostre sorelle e pretendono che apriamo i nostri banchetti prima del dovuto, così da poter comprare le nostre armi... ma no, noi non dobbiamo parlare di guerra!» Aran si passò una mano sul viso come per riprendere il controllo di sé, e quando parlò di nuovo fu a voce bassa. «Quando hai visto morire tuo padre di fronte ai tuoi occhi a causa di un mercenario dell'Impero e ti sei preso un colpo di spada nel fianco per tentare di salvarlo; quando hai visto navi in fiamme e gli uomini gridare mentre il fuoco li divorava; o quando hai visto un uomo impazzito per la fame tanto da tentare di mangiare il proprio braccio, o donne uccidere i propri bambini piuttosto che vederli stuprare o diventare schiavi... allora non sei più così ansioso di parlare di guerra.» Fent distolse lo sguardo. «Lo so bene, padre. Ma tutto quello che hai appena detto rende solo più evidente la verità: siamo qui alla Grande Fiera, a fare affari con il nostro antico nemico.» C'era disprezzo in quell'ultima frase, ma Aran decise di lasciargliela passare liscia. Katla, al contrario, non ne aveva l'intenzione. «Fent! Non puoi parlare così a nostro padre.» Fent la fissò sorpreso. Poi sorrise. «Il bue che dice cornuto all'asino!» Poi si voltò verso Aran. «Padre, le mie scuse. Non parlerò più di inimicizia. Ma se non posso uccidere gli Istriani, per lo meno li spennerò ben bene quando compreranno i nostri prodotti e tu sarai orgoglioso di me. E poi, per poter avere la nave lunga su cui Halli e io abbiamo messo gli occhi dovremo avere molto successo alla fiera.» Aran sollevò un sopracciglio. «Come?» Katla si irrigidì. «Halli e io ne abbiamo parlato e riparlato. È ora che ci mettiamo in proprio. Vorrei chiedere il tuo permesso, padre, di prendere la nostra parte di profitti...» «Ammesso che ce ne saranno...» «Ammesso che ce ne saranno, e commissionare una nave a Finn Larson. Sarà una grande nave, da centoventi remi, non meno: dovrà essere un vascello piuttosto robusto per affrontare i grandi mari della Via del Corvo...»
«Avete intenzione di andare nell'Estremo Occidente?» Katla era pietrificata. Gli occhi di Aran brillarono con improvviso interesse. «Ci uniremo alla flotta della nuova spedizione che il re sta organizzando.» «Posso venire anch'io?» «Katla.» Il tono di rimprovero di Aran era gentile, ma fermo. «Proprio tu fra tutti non partirai verso il tramonto. Ho altri progetti per te.» «Cosa?» esclamò allarmata. «Cosa vuoi dire?» «Lo scoprirai molto presto» rispose Aran, facendole l'occhiolino. Poi si voltò verso suo figlio minore. «Non sono sicuro che la vostra parte di guadagni vi consentirà di comprare una nave, per non parlare poi di una di quelle di Finn.» Fent sembrò contrariato. «Ma Halli ha detto...» Aran gli fece un ampio sorriso astuto. «Ma farò un patto con te, figliolo. Se la vostra quota non sarà sufficiente per farvi comprare una nave lunga, io vi darò la mia e quella di vostra madre e anche quella di Katla.» «Padre!» Katla era scandalizzata. «Non puoi farlo, non senza consultarci, almeno. E i nostri debiti? C'è il nuovo porcile e poi siamo già in debito con zia Margan per il pascolo... e...» «Katla, il denaro che guadagnerai con le tue armi sarà tutto tuo, essendo il frutto del tuo duro lavoro. Ma il denaro usato per comprare le merci era mio, e di conseguenza anche il rischio commerciale lo è, quindi deciderò io come sarà speso qualunque profitto che faremo. Il progetto di Fent e Halli è audace, e io ammiro l'ambizione nei miei figli. E so che la loro madre sarebbe d'accordo, e anche se possono esserci dei gingilli che può desiderare dalla fiera, sono sicuro che capirà la ragionevolezza del rimandare un piacere per poi vederselo ritornare moltiplicato un migliaio di volte dall'Estremo Occidente! Inoltre, figlia, non pensavo che tu avresti voluto il tuo prezzo della sposa a disposizione così presto.» «Io... no.» Katla scosse la testa, e l'inaspettata leggerezza del movimento le ricordò ancora una volta la perdita dei capelli. «Io non voglio affatto un marito!» «Non dire mai una cosa del genere, bambina.» «Comprerò io alla mamma le sete e le granaglie che desidera» disse Katla in tono duro. Poi si voltò verso Fent. «Ma se avessi detto che potevo venire anch'io, avresti potuto avere anche la mia parte della sardonica e tutto quello che avrei guadagnato con le spade, e te l'avrei dato volentieri.»
Fent le diede un leggero pugno sul braccio. «Tieniti i tuoi spiccioli, sorellina. E poi avrai bisogno di tutto il denaro che riuscirai a racimolare per pagare un uomo che ti sposi con i capelli che ti ritrovi ora!» E poi schivò un colpo. Aran guardò i suoi due figli sparire pian piano, tra una finta e un colpo schivato, in mezzo alla folla che aumentava di minuto in minuto. Poi tutto sembrò svanire intorno a lui. «La Via del Corvo» sussurrò, gli occhi fissi nel vuoto. «Ah, l'Estremo Occidente!» «Allora, Halli, a Jenna è piaciuto lo specchio?» «Più di quanto le piaccio io» rispose tristemente Halli. «L'ho sorpresa a sussurrargli parole d'amore come se fosse il re.» Erno rise. «È una sciocca, Halli. Non so cosa ci vedi in lei.». Tor Leeson ridacchiò. «Da quando sei diventato un esperto in materia, Erno Hamson? Basta che una ragazza ti guardi e tu diventi rosso e scappi via.» Erno arrossì davvero, e chinò la testa. «Inoltre» continuò Tor con un luccichio malizioso negli occhi «se il tuo giudizio su Jenna è così duro, deve di certo significare che il tuo cuore è promesso a un'altra...» «Non è vero!» Halli, a cui non piacevano le liti, intervenne. «Dimenticherà le sue fantasie una volta che il re avrà scelto la sua sposa e lei avrà un uomo tutto suo. E poi viene da una buona famiglia.» «Non avrai messo gli occhi su una delle navi lunghe di suo padre, vero, Halli?» osservò acutamente Tor. Halli sostenne il suo sguardo. «Non sarebbe l'unica ragione del mio interesse.» Tor rise. «Ma non è neppure una brutta ragione. Giuro che monterei la piccola e rotondetta Jenna io stesso per mettere le mani su una di quelle bellezze!» «Siete proprio una bella coppia voi due!» dichiarò Erno con furia. Si alzò goffamente in piedi con le braccia strette intorno al petto come per non far cadere qualcosa e guardò i suoi cugini con occhi di fuoco. «Vado a fare una passeggiata.» Si arrampicò sulle pile di blocchi di sardonica, di cui ciascun pezzo era stato pesato, registrato e certificato dal mastro di fiera e dai suoi assistenti
durante quel lungo pomeriggio, e uscì spingendo da parte il lembo della tenda. Tor lo guardò andare via con una strana luce negli occhi. «Ha davvero una brutta cotta per Katla» disse. Halli si strinse nelle spalle. «Lei non lo vorrà, però.» «Certo che no.» Tor rise. «Lei vorrà me.» Erno camminò con passo malfermo tra le tende eyrane, il cuore che gli martellava nelle orecchie. «Idiota!» continuò a ripetere a se stesso. «Idiota!» Se Halli avesse sospettato che amava sua sorella l'avrebbe di certo detto a Katla, e lui non avrebbe potuto sopportarlo. Katla Aransen non era una ragazza gentile, doveva ammetterlo: ne avrebbe riso, l'avrebbe detto ai suoi amici e poi avrebbe continuato a ignorarlo come aveva sempre fatto, ma sarebbe stato peggio, perché avrebbe saputo per certo che lei non aveva alcun interesse per lui. Passò davanti a Falko e Gordi Livson, che chinarono il capo e gli sorrisero e poi tornarono a costruire la staccionata del loro recinto; poi vide gli Edelson e loro sorella, Marin, una ragazza magra di diciassette anni con gli occhi scuri e dolci di una foca. «Ciao, Erno.» Erno chinò la testa, ma non seppe cosa dire. Tor aveva ragione: faceva sempre la figura dell'ebete con le ragazze. Tuttavia Marin lo raggiunse e si incamminò al suo fianco. «Dove stai andando?» «Oh, stavo solo passeggiando.» «Posso venire con te?» «Certamente.» Camminarono insieme in un imbarazzato silenzio finché non raggiunsero la palizzata che delimitava la zona fieristica. Una grande folla si era radunata intorno alla recinzione per fissare a bocca aperta i nuovi arrivati, ma quella era la terza Grande Fiera di Erno e l'arrivo degli esotici nomadi lo affascinava poco. Marin, ovviamente, era incantata. «Ho sentito dire che hanno il dono della magia, gli Erranti» sussurrò eccitata. Erno guardò tutta quella polvere e il rumore. «Di certo fanno credere di averlo» replicò. «Ma quanti di quelli che fanno siano solo trucchi e mistificazioni, non saprei dirlo.» Marin sembrò delusa. «Ho risparmiato del denaro» disse, aprendo il sac-
chetto di pelle che portava appeso al collo e mostrandogli il contenuto. Erno vide luccicare alcune monete. «C'è una pozione che voglio comprare.» «Di che si tratta?» chiese Erno, la curiosità che lo spingeva a superare l'imbarazzo. Marin arrossì. «Non posso dirtelo.» Si passò nervosamente le mani sulla tunica. «Perché no?» Lei lo fissò. «Perché sei un uomo. È una cosa da donne.» Fu la volta di Erno di arrossire. Nessuno lo aveva mai chiamato uomo prima. Si appoggiarono contro la palizzata e guardarono gli ultimi carri di nomadi passare. Conclusa la sfilata, la folla cominciò a disperdersi ed Erno, con un improvviso tuffo al cuore, credette di vedere Katla Aransen correre verso di lui tra la gente, ma poi si rese conto che era Fent, i lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle e i denti affilati luccicanti. Subito dopo il ragazzo svanì. Oltre la palizzata la polvere nera tornò a posarsi al suolo. «Andiamo a dare un'occhiata all'accampamento degli Erranti» suggerì Marin. «Non sono sicuro che tuo padre...» fece per dire Erno, ma lei lo stava già trascinando per un braccio. «Vieni!» La zona assegnata dal mastro di fiera ai nomadi era all'estremità orientale del territorio fieristico, dove non c'era acqua corrente. Nelle alte scogliere che la sovrastavano gli uccelli marini stridevano giorno e notte. Grandi colonie di gabbiani e gazze marine, urie e beccacce si appollaiavano in equilibrio precario sulle strette cornici di roccia prima di lanciarsi in mare alla ricerca di cibo per i loro piccoli sempre affamati. I gabbiani imperversavano in tutta la zona fieristica, attaccando i banchetti di cibarie, irritando il bestiame, rovistando tra i mucchi di letame e di immondizia: si diceva che i gabbiani della Grande Fiera fossero capaci di rubare il cibo di mano se non si stava attenti. I nomadi, tuttavia, non sembravano affatto infastiditi, e anzi raccoglievano il guano dalle rocce e le piume che volavano giù dai loro nidi, ma per quale scopo Erno non ne aveva idea. Stava appunto parlandone con Marin, e lei sembrava interessata più di quanto lo sarebbe stata la maggior parte delle ragazze, quando qualcosa lo colpì sulla schiena; una donna alta con un turbante a righe e orecchini di bronzo gridò qualcosa in una lingua incomprensibile, mentre i suoi due
compagni, un uomo con due orecchini d'argento sul sopracciglio e un altro sul labbro, e un ragazzo con metà faccia dipinta di nero, cominciarono a ridere e a indicarli. «Che succede?» chiese Marin, guardandosi intorno. «Perché ridono? Perché guardano proprio noi?» Erno si accigliò. «Non lo so.» La donna disse qualche altra parola e continuò a indicare Erno. Poi diede una spinta al ragazzo, che si alzò con un sorriso e venne verso di loro. «Ma-na, eech-an-jee-my?» disse, la testa inclinata di lato come quella di una scimmietta. «Cosa?» Il ragazzo sorrise. Aveva degli enormi occhi neri e denti molto bianchi. «Ey-ra-ni?» «Sì.» «Mia madre dice: 'Tu avrai grande fortuna'.» Ridacchiò. Erno lo guardò perplesso. Il ragazzo saltò dietro di lui e gli passò un dito sul retro della tunica. Sollevandolo per farglielo vedere, disse di nuovo: «Grande fortuna, vedi?» Marin scoppiò a ridere. Era sterco di gabbiano. L'uccello incriminato stava ancora volando in cerchio sulle loro teste, strillando con voce rauca. Il ragazzo afferrò Erno per il braccio e lo tirò verso il carro dove la donna col turbante e il suo amico si stavano alzando in piedi. La donna avanzò, la mano tesa. Il suo avambraccio era ricoperto di braccialetti di bronzo dal gomito al polso. Dovevano pesare una tonnellata, pensò Erno, ma la donna si muoveva come se non le importasse. Nell'Antica Lingua disse: «Benvenuto, giovanotto. Sembra che tu stato benedetto!» «Benedetto?» Erno scosse la testa. «Questa era una delle due tuniche migliori che ho, quindi non ne sono molto sicuro.» La donna si voltò verso Marin. «Tua... sorella?» «No» disse Marin, sorridendo. «Innamorata, allora» replicò la donna facendole l'occhiolino. Erno scosse la testa con forza. «No, no, siamo solo amici. Siamo venuti per trovare un venditore di pozioni per Marin.» La donna studiò la giovane con espressione interrogativa. «Fezack Cantastelle?» Marin annuì. «Sì... il nome era proprio quello!»
La donna si voltò e disse qualcosa al suo compagno. L'uomo fece schioccare la lingua tra i denti e fischiò, poi svanì nel carro. Un attimo dopo tornò con un'anziana donna aggrappata al braccio. Era completamente calva a eccezione di una corona di piume colorate e un ciuffo di capelli bianchi. Appeso allo scuro collo scheletrico aveva una collana formata da venti o trenta sottili catene d'argento. «Io sono Fezack» disse in una voce stridula come quella di un uccello. «Rajeesh.» Appoggiando i palmi delle mani l'uno contro l'altro, chinò la testa proprio come un uccello che becca un verme da terra. «B-buongiorno, signora» balbettò Marin, sbalordita. «Vai, forza» la esortò Erno. «Chiedile la pozione.» Marin lo fissò con gli occhi spalancati. «Non posso, non con te qui.» Tutto a un tratto la vecchia fu accanto a Marin. «Vieni con me, piccola, vieni nel carro e dimmi cosa vuoi che prepari per te.» Erno le diede una leggera spinta. «Vai» disse sorridendo. «Vivi la tua avventura.» Marin sembrò incerta sul da farsi. «Non te ne andare senza di me.» «Non lo farò.» Erno guardò Marin e Fezack Cantastelle sparire nel carrozzone insieme. L'altra donna gli sorrise. «Nessun pericolo, non preoccuparti.» Tese una mano in cui stringeva un panno colorato. «Ti ripulisco schiena.» Quando sorrise, Erno vide delle piccole gemme incastonate nei denti della donna e un minuscolo anello d'argento conficcato nella punta della lingua. L'Errante lo fece voltare e ripulì la tunica dal guano con la cura che avrebbe dimostrato sua madre, se fosse stata ancora viva. «Allarga braccia.» Erno fece come gli era stato detto. «Eee-kor-ni! Cosa questo?» Erno guardò in basso e vide la donna col turbante inginocchiata ai suoi piedi con la mano piena di capelli rosso dorato. Il suo cuore mancò un battito: erano i capelli di Katla, caduti dalla tunica dove li aveva nascosti. La donna li sollevò mettendoli accanto a quelli di Erno mentre il suo sorriso si allargava. «Non tuoi?» «No.» Erno sentì il calore sul viso, sul collo e sulle orecchie. Guardò con espressione colpevole verso il carro. E se Marin fosse uscita in quel momento e avesse visto quella strana scena?
Recuperò i capelli da terra e dalle mani della donna col turbante e tornò a nasconderli nella camicia sotto la tunica. «No, non sono miei.» «Capelli di ragazza?» «Sì.» «Un'innamorata, allora?» «Lei non è la mia innamorata.» «Ah, ma vorresti lei essere.» Mortificato, Erno annuì. «Fezack può aiutare. Lei prende capelli e tesse magico amuleto: tu lo indossi vicino al tuo cuore e ragazza ti amerà.» Erno rise. «Se solo fosse così semplice.» «Può esserlo. Dammi capelli.» Tese il panno colorato, ora macchiato di guano. «Non ho denaro.» «Tu avuto la fortuna del gabbiano: per questo noi diamo incantesimo gratuito.» Cosa poteva dire senza essere scortese? Erno mise una mano sotto la camicia, poi appoggiò con cura le ciocche tagliate di Katla nel fazzoletto. La donna ripiegò gli angoli e se lo mise sull'ampio petto, sotto la camicia. «Lo do a madre in segreto» disse. «Tu torna domani.» Il lembo della tenda che copriva il carro si aprì e ne uscì Marin, stringendo al seno una bottiglia di vetro scuro con un tappo d'argento cesellato. «Strofinala all'alba e al tramonto» trillò l'anziana donna. «Alba e tramonto, ricorda.» «Grazie» rispose nervosamente Marin. Fece un inchino e scese i gradini. Corse verso Erno, studiando con ansia la sua espressione per vedere se aveva capito cosa significavano le istruzioni della vecchia, ma lui stava fissando la donna col turbante e il suo viso era rosso come il sole al tramonto. «Grazie ancora» gridò Marin allontanandosi. L'uomo con gli anelli sul sopracciglio le fece un fischio e quello che sembrava un gesto osceno. Marin afferrò il braccio di Erno e insieme si allontanarono in fretta dall'accampamento dei nomadi nella luce del tramonto. «Padre!» La figura che lo accolse era in piedi nella semioscurità del retro del padiglione, avvolta in vesti di uno scintillante grigio. Anche quando si avvi-
cinò alla luce della torcia, tutto quello che fu visibile di lei erano le mani, strette a pugno lungo i fianchi, e la bocca, pallida, non dipinta e al momento stretta in una linea sottile. In piedi in quel modo, alta e magra e assolutamente immobile, al nobile Tycho Issian sembrava un pilastro di granito che affrontava le implacabili onde del Mare del Nord. La sabatka che indossava, il costume tradizionale delle donne istriane rispettabili, una volta era appartenuta a sua madre. Decoroso all'estremo, l'abito nascondeva alla vista ogni parte del corpo, dai piedi avvolti da pianelle fino alla testa velata; anche così Tycho sapeva che sotto quei freddi drappeggi si nascondevano le stesse attraenti curve che aveva avuto l'adorabile Alizon quando l'aveva incontrata per la prima volta, una dolce diciottenne al mercato degli schiavi di Gibeon. Era stata la sua bocca a conquistarlo: svelate da un unico taglio nell'austera sabatka nera, l'abito standard imposto dal mercante di schiavi a tutta la sua merce, le sue labbra erano morbide e carnose e perfettamente delineate in un rosso che ricordava ben altre labbra. Avendo visto quella bocca Tycho aveva dovuto vedere anche il resto di lei. Non era la normale procedura chiedere di ispezionare la merce di un onesto mercante in quel modo, ma Tycho era un uomo molto persuasivo: mezz'ora e due dozzine di cantari dopo aveva concluso un'ispezione molto accurata e piuttosto soddisfacente. Tutto ciò era avvenuto prima che lui diventasse noto ai più, prima che acquisisse il suo titolo nobiliare e le sue terre; e a quel punto, quando lui era diventato il nobile Tycho Issian, la sua amata Alizon aveva ormai imparato così bene le usanze sociali d'Istria, il loro paese adottivo, che neppure la duchessa di Cera avrebbe potuto avere sentore delle sue umili origini. «Selen, mia cara.» «Immagino che se mi avete disturbato poco prima delle preghiere deve essere per una buona ragione.» Così distante, così fredda, pensò suo padre con ammirazione. La madre era stata un'ottima maestra. Ma se somigliava almeno un poco ad Alizon, c'era di certo il fuoco sotto quelle fredde membra, una fornace di lava tra quelle cosce lisce... Tycho sentì il suo membro risvegliarsi e raccolse in fretta le idee. «I Vingo potrebbero venire a trovarmi oggi.» La giovane non rispose, così lui continuò: «La loro offerta sta diventando sempre più interessante.» «Per voi, forse.» «Per me, sì. Sono molto ansiosi di unire le loro terre alle nostre e le loro sorti politiche, ovviamente. La somma che offrono per l'affare è... niente
affatto insignificante.» «E risanerebbe i vostri debiti con l'Erario?» Tycho la guardò sorpreso. Non pensava che studiasse i libri mastri con tale attenzione. «Oh, sì, salderebbe i miei debiti.» «Il che vi permetterebbe di candidarvi per l'ultimo seggio rimasto nel Consiglio, vero, padre?» Gli occhi di Tycho si strinsero. Era di certo un bene che le donne non potessero mettere becco negli affari di stato se trascorrevano il loro tempo in quel modo, spiando e facendo calcoli e avventandosi sulle mancanze e sulle ambizioni degli uomini come degli avvoltoi sulle carogne. «È tempo che tu abbia un marito, Selen, e io credo che Tanto Vingo sarà perfetto per te.» «E io non ho voce in capitolo?» La voce della giovane era glaciale. Tycho sorrise. «Nessuna.» «E se non pronunciassi le mie promesse?» «Ti farò frustrare finché non lo farai.» L'immagine della giovane in ginocchio, denudata fino alla vita e con la frusta che appoggiava la sua lingua rossa sulla sua morbida pelle era quasi troppo deliziosa da contemplare. «Non osereste...» «Oh, non mettermi alla prova, figlia. Non ne ricaveresti alcun profitto.» «Invece il profitto è tutto quello che importa a voi.» Tycho sollevò un sopracciglio. «Non l'unica cosa, figlia; ma ti garantisco che è una delle cose che mi stanno più a cuore.» «Cuore? Voi? Quando Falla vi ha creato ha messo un carbone spento nel vostro petto.» Tycho rise. «Ah, figlia, figlia. Che uomo felice sarà il giovane Tanto con una tale vipera a riposare sul suo seno la notte.» Sospirò. «Assicurati, mia cara, di colorare bene la tua bocca quando verranno domani per la promessa formale.» Nel silenzio che seguì Tycho percepì il viso di sua figlia irrigidirsi sotto il velo; quasi riuscì a vedere i suoi occhi stringersi in due fredde fessure e un muscolo guizzare sulla sua guancia. «Quindi mi vendereste come una puttana, vero?» disse alla fine. «Perché allora non compiere l'opera e vendermi al re del Nord?» La mano di suo padre la colpì sulla guancia con una velocità che li sorprese entrambi. «Eresia!»
La testa di Selen si sollevò di scatto con aria di sfida. «Almeno gli Eyrani trattano le loro donne con un minimo di decenza, invece di tenerle nascoste, incartate come pasticcini, e farle uscire solo per appagare la loro lussuria.» «Per Falla, vuoi tacere?!» ruggì Tycho. «Oppure mi batterete di nuovo? Ma sarebbe un peccato rovinare la merce, nell'eventualità che i Vingo richiedessero un'ispezione più accurata, non credete? Potrebbero non pagare l'intero prezzo stabilito per delle merci avariate.» «Tu ti presenterai all'ora stabilita domani, Selen, con la bocca chiusa e dipinta in modo perfetto, oppure io ti darò alle Figlie, e che Falla mi aiuti.» Con quelle parole Tycho si voltò e se ne andò. Selen lo guardò andare via e sentì crescere in lei una tremenda disperazione. Come poteva trattarla come una merce da vendere al miglior offerente? Non provava più alcun sentimento per lei? Quando era piccola, prima della Velatura, Selen ricordava bene com'era mentre la guardava giocare con i cuccioli di levriero nel cortile della loro casa. Il suo viso non era così austero allora. Cosa l'aveva cambiato in tutti quegli anni? Non era una semplice minaccia, ne era sicura, quella di darla alle Figlie di Falla, perché suo padre era un uomo di violente passioni. Non era solo la ricerca della ricchezza e del piacere che lo facevano ardere di desiderio: c'era anche il suo amore per la Dea. Tycho adorava Falla con un ardore estremo, un fanatismo che si osservava raramente anche tra i più devoti Istriani, che rasentava il feticismo. La loro villa era disseminata di statuette della Dea in avorio, sardonica, legno e argento. Immagini della Dea nuda, dalla vita stretta e il petto piatto come quello di un ragazzo e con il suo fedele gatto ai piedi, proteggevano la porta di casa; erano di guardia come silenziose guerriere nei corridoi e si nascondevano nelle nicchie con le candele votive; gettavano il loro sguardo malvagio sui letti dai soffitti e spiavano le persone nei bagni piastrellati, una mano dietro la schiena e l'altra a coprire la bocca. Gli occhi della Dea e quelli del felino seguivano ogni movimento degli abitanti della casa, sempre. E sempre, sempre il braciere fumava per le offerte, con il suo puzzo di incenso e di morte. Selen aveva imparato a considerare malsana una fede che richiedeva tali appariscenti osservanze. E perciò anche in questo affare suo padre sarebbe uscito vincitore: perché avrebbe guadagnato prosperità e potere vendendola ai Vingo, o punti per la sua anima vendendola alle Figlie. Da qualsiasi punto di vista guardasse alla faccenda, lei ne sarebbe uscita
perdente. Lottando contro il panico che minacciava di attanagliarla, Selen cominciò a considerare le sue possibilità. Aveva indagato con estrema cautela tramite la sua rete di informazioni tutta al femminile, e aveva scoperto che i Vingo non erano gente eccessivamente religiosa né crudele. Ma quando aveva toccato l'argomento Tanto Vingo, le sue domestiche erano stranamente ammutolite, per poi affrettarsi a compensare la loro esitazione con tutta una serie di chiacchiere sulla sua avvenenza e le sue doti atletiche, come se la cosa potesse impressionarla. E come se lei non avesse notato la loro titubanza. Sciocche! Quindi: o presa e impacchettata per diventare schiava del sesso e fattrice di eredi di un signorotto dalla testa vuota, oppure consegnata nelle mani delle temute Figlie di Falla, per dedicare la sua vita alla causa della Dea. Selen sospirò, la sua mente rifuggiva spaventata da entrambe le prospettive. La costrinse a concentrarsi. In quanto alla prima, non riusciva a immaginare di poterla sopportare. Il solo pensiero delle mani di un uomo sul suo corpo le faceva venire la nausea. Dalla seconda, invece, si sentiva quasi tentata. Almeno avrebbe avuto i suoi libri e tempo per la contemplazione, avrebbe potuto fare del giardinaggio e vivere in serenità con altre donne... a meno che, ovviamente, la sua fede non venisse messa alla prova. E quello era il nocciolo del problema. Selen non aveva mai sentito la fiamma di Falla ardere nel suo cuore e stava cominciando a trovare i riti giornalieri un inutile dovere. Avrebbe potuto continuare a fingere anche sotto l'attento sguardo delle Figlie? Si diceva che sottoponessero le novizie a prove che solo chi credeva veramente poteva superare. Si diceva anche che coloro che fallivano venivano dolorosamente sacrificate... «Vorrei tanto essere nata uomo.» Nella sua rabbia senza riflettere l'aveva detto ad alta voce. Si portò le mani alla bocca, spaventata. Una tale affermazione era la più grande eresia che ci fosse: sì poteva essere bruciate solo per averla pensata. «Falla, oh, Dea, datrice di luce, io, fatta a tua immagine, ti ringrazio per il tuo generoso dono» mormorò automaticamente. Come se l'avesse chiamato, dall'esterno arrivò il suono delle campane, mentre il Gridatore portava la sua chiamata alla preghiera per tutto il quartiere istriano della Fiera. Dove pochi momenti prima c'era stato il basso mormorio delle chiacchiere e del commercio, non ci fu altro che un silenzio di tomba. Selen fissò con odio la statuetta di sardonica sulla colonna nell'angolo
della tenda: i suoi occhi ciechi, il suo impietoso sorriso, il suo pomposo atteggiamento, il suo inumano compagno. Con un muto gemito, voltò la schiena all'idolo, si accasciò sul pavimento e nascose la testa tra le mani. 4 Vanità La mattina dopo Katla si svegliò con l'odore di un suolo straniero e di tela incerata nelle narici. Aprì gli occhi. La luce del sole filtrava attraverso il tendone soffondendo una luce bianca; anche alle prime luci dell'alba Katla ne sentiva il calore, promessa di un giorno rovente e senza nubi. D'inverno, quando la famiglia sedeva attorno al fuoco nella loro casa colonica, con il vento che ululava fuori dalle finestre e la pioggia che sferzava il tetto di torba, suo padre e i suoi fratelli, raccontando delle loro precedenti visite alla Grande Fiera, avevano parlato spesso del vasto cielo blu della pianura della Luna Caduta e del caldo che rendeva impossibile camminare senza sudare copiosamente. Katla aveva pensato che esagerassero. Ora invece era chiaro che come al loro solito avevano mancato di infondere un po' di poesia nelle loro descrizioni, e addirittura avevano minimizzato. Katla rotolò su un fianco all'interno della sua pelle di foca, trovò i suoi stivali e con un singolo, agile movimento si alzò dal suo giaciglio e si mise in piedi. Infilando gli stivali sotto il braccio, scivolò fuori dal tendone, saltando con cautela i fratelli addormentati. Halli dormiva come al solito sulla schiena, la folta barba nera che oscurava la parte inferiore del suo viso. Fent, al contrario, giaceva tutto raggomitolato in un angolo con le pelli ben tirate intorno a sé, come la volpe a cui il più delle volte somigliava. Oltre la tenda divisoria Tor Leeson russava scomposto occupando due terzi del giaciglio, mentre Erno, che gli dormiva accanto, era ruzzolato contro la parete del tendone, la testa sollevata su un sacchetto di grano. Katla sorrise: nel sonno come nella vita… Mentre lo pensava, le palpebre di Erno si sollevarono e il giovane la guardò. Katla trattenne il fiato. La bocca del giovane cominciò a muoversi come per formare una parola, ma Katla scosse la testa, si chinò su di lui e gli mise un dito sulla bocca. Un attimo dopo era sparita. Erno fissò il lembo della tenda aperto. Tirò fuori una mano da sotto le
pellicce e se la premette con forza sulle labbra, come se così facendo potesse conservare per sempre nella memoria il ricordo del dito fresco e leggero di Katla sulla pelle. Suo padre le aveva detto che non voleva perderla di vista. Ma poiché al momento i suoi occhi erano chiusi, Katla immaginò che il divieto di allontanarsi da lui non valesse. Inoltre, pensò, preparandosi a rispondere a un'eventuale accusa, non poteva certo negarle il permesso di visitare le latrine. Le tende delle abluzioni erano state erette lungo la discesa che portava alla spiaggia, dove il giorno prima una squadra di schiavi dell'Impero aveva scavato una serie di profondi canali dalle tende fino alla riva, in modo che gli escrementi sprofondassero nella sabbia nera o fossero portati via dalla marea. Uno spreco di ottimo piscio, pensò Katla mentre usava i bagni; nelle isole si conservava l'urina in alti barili e la si usava per fissare i colori, fertilizzare il terreno, preservare la carne di balena e raffreddare i metalli. Quando rimaneva a corto dell'olio ricavato dai pesci, Katla aveva preso l'abitudine di immergere le punte di lancia e i pugnali ancora arroventati nel barile fuori dalla fucina. Non funzionava bene come l'olio, e il puzzo era tremendo, ma era mille volte più efficace dell'acqua, come Katla aveva imparato a sue spese; per una qualche ragione faceva molto meno vapore e il metallo si induriva più in fretta. Il ferro non era così facile da trovare sulle isole da sprecarlo impunemente. Di nuovo fuori sulla spiaggia, Katla si incamminò senza fretta davanti alle altre tende per tornare sui suoi passi. I gabbiani gridavano sopra la sua testa; in basso, sull'acqua luccicante, un cormorano ripiegò le ali, si immerse e svanì sotto la superficie. Katla aspettò per qualche minuto che riapparisse, ma non lo vide tornare su. Di sicuro aveva nuotato parecchio sott'acqua per riapparire dove lei non poteva vederlo. Katla sorrise. Adorava guardare quei particolari uccelli marini, padroni com'erano di ben due elementi. Strascicando i piedi sulla sabbia nera, Katla continuò a camminare, superando altre tende. Davanti all'ultima si fermò e si mise in ascolto. Sembrava esserci un esagerato rumore di spruzzi all'interno. Katla si accigliò, perplessa. Aspettò, ma il rumore di cascata continuò, costellato di tanto in tanto da un gemito e poi da un rumore metallico. Incapace di controllare la propria curiosità, Katla infilò la testa nella tenda. All'interno una donna con una pallida tunica eyrana era accucciata con la testa in un secchio. A Katla sembrò di riconoscerla. «Jenna?» chiese in tono incerto.
Il secchio si rovesciò rumorosamente e un rivolo di liquido giallo si riversò a terra e sulle morbide scarpe in pelle di capretto della donna. «Per le tette di Sada!» «Jenna, una bestemmia del genere sulla bocca di una giovane donna ben educata: tu mi stupisci!» La figura strizzò la sua lunga coda di capelli in una striscia di tessuto e si raddrizzò, battendo le palpebre sugli occhi arrossati. «Cosa stai facendo, in nome di Sur?» Katla fissò Jenna, poi il secchio, poi di nuovo Jenna. «Non riuscirai mai ad affogarti in quel modo, sai.» Jenna Finnsen la guardò furiosa. «Quello che faccio non sono affari tuoi, Katla Aransen.» Sollevò la testa con un gesto imperioso, ma l'effetto non fu quello desiderato, perché il turbante le scivolò di lato e cadde nella sabbia, liberando un odore acido nell'ambiente caldo e chiuso della latrina. Katla scoppiò a ridere. «Oh, Jenna! Di certo mio fratello non vale un tale sforzo!» «Halli!» Jenna recuperò il suo fazzoletto e tentò di asciugarsi i riccioli fradici. «Credi che sopporterei una cosa del genere per il tuo stupido fratello?» «Non sono sicura di chi sia lo stupido in questa storia» disse Katla allegramente. «Pensi davvero che tingendo i tuoi capelli con il piscio conquisterai il cuore di re Ravn Asharson, Stallone del Nord?» Jenna le lanciò uno sguardo velenoso. Poi il suo viso divenne la maschera della disperazione. «Oh, Katla. Cosa devo fare? Mio padre ha detto che posso venire al Raduno e che mi presenterà a lui, anche se non l'ho ancora convinto a offrirgli la mia mano, ma ci sto lavorando... Ma se Ravn sceglierà un'altra, credo che il mio cuore si spezzerà.» Katla non sapeva cosa dire. Jenna era una ragazza sciocca, ma le voleva ugualmente bene. Povero Halli: sarebbe mai riuscito a sopportare i suoi modi capricciosi? Si chinò per raddrizzare il secchio, arricciando il naso all'odore che emanava. «Per Sur, Jenna, devi essere davvero determinata.» «Lo sono, veramente.» Katla scosse la testa. Sembrava che non ci fosse niente da dire. Guardò il liquido giallo sparire assorbito dalla sabbia scura. «Vieni» disse alla fine. «Torniamo dalle nostre famiglie prima che sentano la nostra mancanza. Forse se ti sciacqui subito i capelli con l'acqua pulita non attirerai le mosche.» Ma quando uscirono c'erano molta più gente sveglia e in giro di prima. Una vera e propria folla si stava radunando sulla spiaggia, e tutti si scher-
mavano gli occhi dal sole e guardavano verso il mare. Katla seguì il loro esempio. All'orizzonte, stagliate contro le onde luccicanti e il celeste del cielo, una dozzina di grandi vele quadre inequivocabilmente appartenenti a navi lunghe eyrane. «Oh!» Jenna le fissò con gli occhi spalancati. «La flotta di re Ravn! Oh, Katla, lo vedremo arrivare!» Strinse la sua amica per la vita. C'erano lacrime di entusiasmo nei suoi occhi. Poi la sua espressione cambiò improvvisamente. «I miei capelli... oh, Katla, i miei capelli... Cosa farò?» «Sciocchina, non ti vedrà tra la folla. Coprili con un fazzoletto.» Con abili dita Katla avvolse la stoffa intorno ai capelli di Jenna e fece un passo indietro per ammirare il proprio lavoro. «Ecco: ti dà un aspetto esotico.» «Grazie, Katla» disse Jenna. Poi distolse in fretta lo sguardo, imbarazzata. «Avevo intenzione di chiederti dei tuoi, sai, ma ero troppo presa dai miei problemi.» «I miei cosa?» «I tuoi capelli, Katla. Cosa ti è successo?» Katla si portò una mano alla testa. Poi sorrise, un guizzo di denti bianchi sul viso sottile e abbronzato. «Oh, questo! Me n'ero dimenticata. Mio padre me li ha tagliati ieri, in parte come punizione e in parte come protezione.» «Per cosa?» «Ho scalato il Castello e degli Istriani mi hanno visto. Hanno detto che erano del Consiglio della Grande Fiera e che quello è terreno sacro. Gli uomini vengono multati per una tale violazione, mentre per le donne è un delitto capitale.» Rise senza gioia. «E io che ho fatto mostra delle mie chiome fluenti come se volessi sfidare tutto ciò in cui credono!» Jenna rimase senza fiato. «Vuoi dire che se ti prendono ti giustizieranno?» Katla si accigliò. Fino a quel momento non aveva riflettuto molto sulla cosa. Scalare una rupe era un piacere così innocente! E quasi religioso, da un certo punto di vista: per lei toccare una roccia o un metallo era la cosa più simile all'adorazione che ci fosse, anche se si trattava di adorare Elda stessa e non una specifica divinità... E qualcuno diceva che si vedeva la mano di Sur nel suo lavoro. Ma in fin dei conti, rifletté, chi poteva decidere quale divinità possedeva una rupe? Le sembrava tutto così ridicolo. «L'idea è quella, immagino.»
Jenna era sbalordita. «Ma Katla, è orribile. Non dovresti essere in giro. Dovresti nasconderti.» «Allora sembrerei ancora più colpevole. Inoltre» aggiunse Katla ridendo «guardami: come potrebbero mai pensare che ero io quella donna?» «Lo so, ma...» Jenna studiò con ansia il viso di Katla. «Oh, Katla, i tuoi poveri capelli: cosa farai per il Raduno?» «Sono solo capelli, Jenna» si affrettò a dire. In realtà le mancavano, anche se non voleva ammetterlo. «Meglio che perdere la testa.» «Se fosse capitato a me non ne sarei stata tanto sicura.» «Jenna, tu sei proprio una donna sciocca e vanitosa!» «Hai ragione, è vero, ma non posso farci niente.» Jenna prese Katla per mano. «Andiamo dai nomadi più tardi e vediamo se riusciamo a trovare dei nastri e delle trecce per legare quello che resta dei tuoi capelli.» Fece una pausa. «E forse potrò trovare qualcosa per farmi notare dal re.» Abbassò la voce a un sussurro. «Sanno fare magie, sai, gli Erranti. Incantesimi e pozioni e cose simili. Marin Edelsen c'è andata ieri con Erno, e ha detto a Kitten Soronsen che ne hanno di tutti i tipi.» Katla sentì un piccolo brivido percorrerla. Erno e Marin? Aveva creduto che lui fosse interessato a lei, non alla piccola Marin Edelsen tutta pelle e ossa. Poi si stupì di se stessa. Era quel sentimento che chiamavano gelosia? Di certo era impossibile, dal momento che lei non aveva alcun interesse per Erno... Oppure no? «Oh, guarda» esclamò, cambiando argomento. «Vedi il corvo sulla vela della prima nave?» Un grande uccello nero con le ali spiegate era sulla vela a strisce dell'imponente nave: il corvo, latore di buone notizie e guardiano della saggezza, il mitico signore dell'aria e dei sentieri della gente perduta, che era appoggiato sulla spalla sinistra di Sur e gli gracchiava i suoi pensieri nell'orecchio buono, ed era anche il simbolo del loro re. «Quella è la sua nave» mormorò Jenna. «Lì c'è lui.» «Buongiorno, sorella. Bel copricapo, Jenna, molto jetrano.» Fent rivolse un sorriso insincero alla ragazza bionda, poi arruffò la zazzera di Katla. Dietro di lui Katla vide suo padre e Halli che conversavano animatamente, e dietro di loro Erno. Allontanò infastidita la mano di suo fratello. «Devi sempre trattarmi come se fossi il tuo cagnolino?» chiese infuriata, lisciandosi i capelli. «Hai sempre avuto il cuore di un bastardino, sorella... e ora anche il pe-
lo.» «Sta' attento che potrei anche mordere, fratello.» «E farmi venire la bava alla bocca e la fobia dell'acqua?» «Ti lavi così poco che credo che tu ce l'abbia già, quella paura.» «Piccola cagna...» «Non è solo per i tuoi capelli rossi se ti chiamano la Volpe, fratello.» «Katla!» Jenna era scandalizzata. «Fent, dovresti scusarti con tua sorella. E Katla, anche tu.» Katla sorrise a entrambi, niente affatto pentita. «Io non ho sorelle con cui scusarmi, Jenna cara. Mi dispiace se le nostre punzecchiature scherzose ti hanno offeso, ma vedrai che ti ci abituerai se diventerai parte della famiglia.» Fent ridacchiò e Jenna sembrò infuriata. Poi un'ombra cadde su di loro. «Buongiorno, Jenna. Sono felice di vedere che stai tenendo d'occhio la mia vagabonda figliola.» «Mi stava dando una mano a lavarmi i capelli, signore» rispose Jenna, incontrando per un attimo gli occhi severi di Aran Aranson per poi cogliere l'espressione allarmata di Katla. Aran, notando quello scambio di sguardi, sorrise. «Ci credo, dal momento che ora ne ha così pochi dei suoi di cui avere cura, e inoltre dubito che sarebbe così sciocca da andarsene di nuovo in giro da sola per la fiera, per paura di perdere qualcosa di più prezioso.» Al che Fent rispose prontamente: «Sai che se prendessero Katla ogni Eyrano qui presente combatterebbe per lei, vero, padre?» Aran lo guardò per un istante. «Preferirei che la mia sciocca figlia non fosse la causa di un confronto violento, Fent. E ti proibisco di parlare così. In particolare con il Raduno che ci aspetta. Re Ravn ha già abbastanza questioni di stato a cui pensare senza che la nostra Katla si aggiunga ai suoi problemi.» «Volete dire la scelta della sua sposa?» intervenne ansiosa Jenna. «Sì, tra le altre cose.» «E gli presenterete Katla al Raduno, signore?» Aran rise. «Nelle attuali circostanze, credo di no.» «E tu, Jenna» disse la voce profonda di Halli «tuo padre ti presenterà al re?» Jenna arrossì. «Io... non ne sono ancora sicura.» «Be', se è qui per stringere delle utili alleanze politiche, come ho sentito dire, sarà molto probabile che scelga un'Istriana. La figlia del nobile Prio-
nan, forse, o una delle ragazze della pianura di Altan.» A quelle parole Jenna emise un gemito e fuggì. In un attimo sparì dalla vista, inghiottita dalla folla radunata per vedere arrivare le navi eyrane. «Quindi pensate che il nobile Tycho accetterà la vostra nuova offerta, padre? Accetterà il nostro prezzo?» Favio sorrise con affetto al suo figlio prediletto. «Come potrebbe non farlo, Tanto? Noi possiamo offrirgli l'unica cosa che non può comprare: il nostro buon nome di famiglia e tutto quello che ne deriva. E sua figlia avrà il fior fiore della gioventù istriana, colui che vincerà i Giochi della Grande Fiera e conquisterà ogni cuore.» «L'avete vista, padre? Non vorrei una ragazza brutta, o peggio, una minorata.» Tanto si accigliò al solo pensiero. «Stai tranquillo, ragazzo mio: ho sentito che è una rosa tra le donne. Ma la vedrai più tardi quando andremo a presentare la nostra domanda formale, e se non ti piacerà quello che vedrai, discuteremo ulteriormente la parte finanziaria prima di prendere una decisione. Cosa ne pensi, figliolo?» «È perfetto, padre. Mi attengo al vostro giudizio, in questa come in tutte le altre cose.» Che ipocrita, pensò Saro con amarezza. Riesce sempre a dire la cosa giusta e a ottenere quello che vuole. Guardò il padre fare a Tanto quel sorriso stucchevole che riservava solo a lui, quindi distolse lo sguardo per fissare oltre le teste dei presenti la flotta che entrava lentamente nella baia, le file compatte di remi che a malapena disturbavano la superficie del mare con il loro ritmo disciplinato. Come sono eleganti queste navi eyrane, pensò, con le loro prue alte e i loro scafi ampi e bassi. Non c'era da meravigliarsi che gli Eyrani avessero viaggiato in lungo e in largo per i turbolenti oceani: sembravano nel loro elemento, come uno stormo di grandi aquile di mare che attendono il momento giusto per colpire. E nemmeno che così tanti nobili del Sud stessero pensando di unire le loro fortune con quelle di questi grandi razziatori ed esploratori, offrendo le loro figlie al re del Nord: chi sapeva quali tesori poteva avere in serbo l'Estremo Occidente? Saro era certo che se avesse avuto una sorella suo padre non avrebbe avuto nessuna remora a offrirla in moglie a Ravn Asharson all'imminente Raduno, anche se altri avrebbero potuto considerarlo un insulto alla Dea. Era curioso di scoprire qualcosa di quella corte barbara, anche se gli Eyrani visti finora alla fiera erano stati una grossa delusione, poiché non gli sembravano molto diversi dagli Istriani che conosceva. Portavano i capelli lunghi, e solo
Falla sapeva cosa volevano dire quei nodi e quelle trecce così complicate, ma per il resto sembravano ubriaconi, avidi, litigiosi e dediti solo al proprio interesse come qualsiasi mercante o nobile di Elda. A eccezione, ovviamente, delle loro donne. Ne aveva viste poche finora in giro per la fiera, a parte le nomadi. Ma queste gli sembravano eccessivamente esotiche e stravaganti, con tutti i loro orecchini e i loro tatuaggi, le teste rasate, il trucco bizzarro e gli abiti raffazzonati, tanto che a malapena riusciva a considerarle degli esseri umani. Ma era ancora ossessionato dalla ragazza intravista sulla Rupe di Falla il giorno prima, tutta braccia e gambe nude e dorate... e quella magnifica cascata di capelli rossi! Aveva camminato per tutta la fiera la sera prima, sbirciando tra i banchetti non ancora montati, scendendo giù alla spiaggia, passando lentamente davanti alle tende delle donne, arrivando persino all'inizio del quartiere dei nomadi, ma di lei nessuna traccia. E non c'era da meravigliarsi, visto l'editto emanato dai Dystra. Ed eccoli lì quei due, ovviamente, Greving e Hesto, proprio di fronte alla famiglia Vingo al margine della spiaggia, pronti ad accogliere re Ravn Asharson non appena avesse messo piede sulla sabbia, come se quello fosse il giardino del loro palazzo, e lui un loro onorato ospite. Cosa volevano? si chiese Saro. Imporgli la loro nipote, il Cigno di Jetra, al Raduno? Chiedere in cambio navi e sardonica, o di diventare più forti dei loro vicini e quindi annettersi più terre? Così era il mondo ormai, belle parole e gesti ipocriti, transazioni concluse e alleanze forgiate, tradimenti e doppi giochi, i buoni principi dimenticati tranne quando l'orgoglio e il potere entravano in gioco? «Non mi paiono granché le loro navi» stava dicendo Tanto. «Guardate come sono esposte alle intemperie, e che pescaggio basso! Sono certo che un'onda più grande del normale potrebbe farle rovesciare.» Rise. Saro lo fissò, ma Tanto si era ormai infervorato, e con la mano sul braccio di suo padre, stava indicando tutti i difetti della flotta eyrana. «Vedete? Non hanno alcun riparo a bordo... e diamine, neppure schiavi a remare per loro! Che gente primitiva devono essere se persino il loro re viaggia in una tale maniera!» Saro stava invece pensando che uomini duri sembravano, quelli del Nord, con i loro muscoli delle braccia ben sviluppati che si flettevano con il movimento dei remi, i capelli lunghi legati per scoprire volti dalle fattezze marcate, le barbe che accentuavano i menti prominenti. Duri e bellicosi, gente che non temeva né l'oceano né le tempeste. Forse aveva malgiudica-
to i loro compatrioti presenti alla fiera, che tenevano i muscoli nascosti nelle maniche e parlavano con cortesia l'Antica Lingua. «Quello è il loro re?» stava chiedendo adesso Tanto. «Quell'uomo alto con la tunica scura in piedi a poppa?» «Sì, figliolo, quello è re Ravn.» «Non sembra affatto un re. Non hanno nessun orgoglio, questi uomini del Nord, che il loro re debba indossare gli stessi vecchi abiti che indossano anche loro? Non ha corona, non ha il collare simbolo del potere... non ha neppure un mantello!» Lo zio Fabel rise. «Loro attribuiscono meno importanza all'aspetto, questo è vero, ragazzo. Ma cionondimeno Ravn Asharson è un vero re, come vedrai. È di certo un uomo che non passa inosservato, ed è più alto della media.» Due uomini stavano tirando in barca il grande remo di governo a poppa, mentre la prima nave del gruppo entrava nelle acque basse della baia della Luna Caduta. Altri ammainarono la vela, ma nessuno si mosse per tirare giù la spaventosa figura che ornava il dritto di prora della nave, con la sua testa di drago dalla bocca spalancata. Un insulto deliberato, si chiese Saro, o una svista? I suoi pensieri furono interrotti dalla voce insistente di suo fratello: «Perché non disarmano i loro remi?» chiese Tanto. «Non possono avvicinarsi di più con le navi.» La risposta arrivò prima di quanto si aspettassero. L'uomo alto e robusto a poppa che lo zio Fabel aveva identificato come il re del Nord saltò sulla frisata davanti alla barra del timone e con un'unica parola di comando ai suoi uomini corse per tutta la lunghezza della nave saltando agilmente da un remo all'altro finché non ebbe toccato tutti e venti quelli di dritta, i piedi sicuri e precisi su ciascuna asta arrotondata e scivolosa. L'equipaggio della nave reale esultò e batté i piedi in segno di approvazione per quella prova di abilità, ma quando raggiunse l'ultimo remo invece di risalire verso il ponte Ravn sorrise ai suoi uomini, poi tornò sulla frisata e da lì corse su per la spaventosa polena e si lanciò con forza dalla cima, eseguendo una perfetta capriola. Fu un salto enorme, quasi sufficiente per farlo atterrare sulla terraferma. Quasi... Il re cadde infatti nelle acque basse con un forte tonfo, infradiciando gli anziani fratelli Dystra e tutti quelli intorno a lui con un'enorme ondata, e poi si alzò, scuotendosi come avrebbe fatto un cane e ridendo per tutto il tempo come se fosse stata una cosa dannatamente divertente. Dalla destra di Saro si levò un grido di rabbia. Il giovane si voltò per
guardare, l'incantesimo dello strano arrivo ormai spezzato. Tanto stava saltellando su e giù, il volto livido di rabbia, le mani che tentavano di spazzolare i ricchi pannelli color porpora della sua tunica. «Rovinata! Puttana di una Dea, è rovinata! Non si possono togliere le macchie di sale dal velluto in seta, lo sanno tutti. Il bastardo. L'ha fatto di proposito! Ora cosa indosserò quando andremo dal nobile Tycho? Non ho niente nel mio guardaroba che non mi faccia sembrare un povero, e metterò in imbarazzo la famiglia.» Non saranno certo i tuoi abiti a farlo, pensò con cattiveria Saro. Nel frattempo Fabel e Favio, anche loro schizzati da re Ravn, sorridendo con indulgenza nei confronti di uno dei consueti scoppi d'ira di Tanto, lo presero ciascuno per un braccio e lo trascinarono via. «Non serve a nulla gridare, ragazzo» stava dicendo lo zio Fabel. «Siamo venuti per un po' di spettacolo, e non puoi lamentarti se l'hai avuto, anche se un po' troppo da vicino. Le tuniche sono cose semplici da rimpiazzare, ma non dimenticherai questa esperienza per un po', vero?» Lo zio incrociò lo sguardo di Saro sopra la testa di un furioso Tanto e gli fece l'occhiolino. Saro, sorpreso, gli sorrise. Così andava molto meglio, pensò Katla, contemplando il mondo da dietro le tavole del suo banchetto: un po' di spettacolo per ravvivare la fiera, e dal loro re, per di più. Quando era tornata al quartiere eyrano dove erano situate le loro tende e i loro banchetti, tutti stavano già parlando di quello che era successo: il vecchio trucco della corsa sui remi, che facevano i marinai ubriachi a notte fonda quando la birra finiva, per impressionare una donna o vincere una scommessa, anche se Katla dubitava che quelli avrebbero avuto la stessa grazia di Ravn Asharson. Adesso quasi capiva quasi - perché la povera Jenna era cotta di lui. E a nessuno erano sfuggiti i ricchi vestiti degli Istriani infradiciati. Katla era rimasta sorpresa dal risentimento verso gli uomini del Sud celato dietro l'apparente cortesia degli Eyrani. Era evidente nei loro sguardi scaltri, nelle loro risate; nei loro occhi, nella gioia segreta per la perversa provocazione della polena. Forse Fent aveva ragione, dopo tutto: forse l'ostilità era solo latente. Aveva sentito lui e Tor sbraitare sull'inimicizia dei loro due paesi, li aveva sentiti lamentarsi di terre rubate e antichi massacri, aveva udito le storie di guerra degli anziani, anche se suo padre parlava poco dell'argomento. Lei aveva vissuto tutta la sua vita in pace: non riusciva a condividere l'amarezza.
Era ironico, pensò, il fatto che in quel momento stesse disponendo delle armi sul proprio banchetto. Ma i pezzi che aveva portato erano così belli! Più oggetti d'arte, o gioielli, in realtà, che strumenti di morte. E infatti mentre martellava le barre di ferro e ripiegava ripetutamente il metallo rovente su se stesso, guardava il fuoco diventare prima di un rosso pulsante e poi di un bianco fumante; quando il ferro si raffreddava, diventando di un nero fuligginoso tanto che a malapena poteva intravedere i margini d'acciaio; quando lo levigava con la striscia di cuoio e guardava le minuscole scorie cadere via; quando lo raffreddava e poi lo riscaldava e poi lo levigava di nuovo, col legno, questa volta, poi con la lana d'acciaio e infine con il guanto di pelle di pecora; quando vedeva i motivi nascosti prendere forma sulla superficie del metallo come se fossero stati sempre lì, in attesa di essere scoperti dalla mano che meglio sapeva svelare l'incantesimo del ferro... mentre faceva tutto questo, Katla pensava solo alla bellezza e all'equilibrio di un lavoro ben fatto, e mai all'affondo omicida o al modo in cui le punte uncinate di una lancia si sarebbero conficcate nel loro bersaglio. Mai a quello. Togliendo un'altra arma dalla tela incerata che la proteggeva, Katla passò la mano lungo la lama leggermente affusolata. Proprio un buon lavoro. «Un bel pezzo.» Katla fece un salto, ma era solo Tor. «Mi hai spaventata. Cosa ci fai qui? Non dovresti guadagnarti vitto e alloggio altrove?» Tor si strinse nelle spalle. Si chinò poi sul banchetto e passò le mani sulla spada che lei aveva appena scartato. «Un bell'esemplare, davvero bello.» Le sue dita seguirono i motivi sul metallo. Katla le guardò, senza parlare. Tor aveva dita lunghe, dalle punte larghe e smussate, con le nocche ricoperte da piccoli riccioli di peli dorati. «Proprio come serpenti, o minuscoli draghi, vedi? Nuotano per la lunghezza della lama, pronti a dare alla loro vittima una bella dose del loro veleno.» Tor rise, e con un unico, fluido movimento sollevò la spada sopra la testa e la calò a pochi centimetri dalla testa di Katla, ma lei lo fissò negli occhi, determinata a non trasalire. La bocca del giovane si contorse, delusa per la mancanza di reazione; poi, continuando a guardarla negli occhi, abbassò la spada e passò il pollice lungo uno dei bordi affilati. Mentre il sangue cominciava a sgorgare le fece un sorriso crudele. Katla non riuscì più a sostenere il suo sguardo. Abbassando il capo, vide la sottile linea rossa luccicare sul polpastrello. «Piuttosto affilata» disse Tor con approvazione. «Taglierebbe di netto la
gamba di un uomo, direi.» Katla sollevò un sopracciglio. «Sembra che tu abbia in mente qualcuno.» «È possibile.» Tendendo il pollice sanguinante verso di lei, le rivolse un sorriso lascivo. «Dammi un bacino per far guarire la bua, Katla.» Disgustata, lei gli spinse via la mano. «Dicono che se una vergine sente il sapore del sangue di un uomo sarà legata a lui per sempre.» «Oh, davvero?» «Sì.» Tor rimise a posto la spada con cura esagerata, poi si voltò di scatto e la afferrò per il mento. Furiosa, Katla fece un balzo indietro, gli occhi accesi dalla rabbia, ma Tor non mollò la presa e tentò di inclinare la testa per baciarla. Quando Katla piegò la testa per un attimo come se volesse arrendersi, Tor le si avvicinò. Da sotto la sua nuova frangetta irregolare, Katla sorrise con cattiveria. Ovviamente lui non aveva prestato molta attenzione agli incontri di lotta che lei aveva sostenuto. Alzò la testa di scatto e gli assestò un forte colpo sul mento. «Ah!» Tor si portò le mani alla bocca. Dal labbro inferiore sgorgava del sangue nel punto in cui con tutta probabilità si era morso. «Sembra che sarai legato per sempre a te stesso, Tor. Non importa: dicono che non c'è migliore amore dell'amore per se stessi, e sono certa che tu hai già fatto parecchia pratica.» Tor si passò la mano sulla faccia, sporcando in modo grottesco la sua barba, poi si allontanò a grandi passi tra le bancarelle, la risata di Katla che gli risuonava nelle orecchie. Come suo fratello potesse affermare di non avere 'niente da mettere' Saro non riusciva davvero a immaginarlo guardando l'enorme guardaroba in legno che gli schiavi avevano trascinato nella sua tenda. Non aveva mai visto delle vesti così ricche: tuniche e mantelli in favolosi broccati e morbidi tessuti di ogni colore dell'arcobaleno, rifiniti in argento o in rame; camicie di puro lino, morbidi stivali di pelle in una dozzina di stili diversi e persino un paio di pianelle incrostate di pietre preziose che un furbo sarto cerano aveva assicurato essere identiche a quelle indossate dai nobili dell'Estremo Occidente (anche se Saro non capiva come qualcuno fosse potuto venire a conoscenza di una tale informazione, dal momento che
nessuno aveva mai messo piede in quella terra leggendaria, e meno che mai un grasso mercante che a malapena riusciva a fare un piano di scale) e che erano l'ultima moda tra gli Istriani più ricchi. Per Saro erano ridicole, con quelle punte strette e i fastidiosi ammassi di gemme: come portare uno strano crostaceo al piede, un'aragosta o una grancevola. Eppure erano proprio quelle pianelle, insieme con una tunica rosso ciliegia tempestata di perle, una sottoveste verde chiaro e una calzamaglia rosa, ciò che Saro era stato mandato a recuperare, una volta che suo fratello si era calmato a sufficienza da spedirlo in tono imperioso a fare questa commissione. Gettò con disgusto gli abiti su una trapunta di piume d'oca. Era abbastanza evidente che Tanto non lo avrebbe aiutato con i cavalli quella mattina. Ci fu un breve scoppio di imprecazioni fuori dalla tenda e il suono di carne che colpiva altra carne: chiaramente uno schiavo aveva incautamente incrociato la strada di Tanto. «Idiota! Sembra che abbia perso la vista anche all'altro occhio per come va in giro... Ah, eccellente, fratello: non è elegante come quella color porpora, ma dovrà andare bene. Ora aiutami a togliermi di dosso questi stracci puzzolenti. Sono deciso a fare la migliore impressione possibile.» Tanto si tolse la tunica bagnata, strappando il delicato merletto intorno al collo nella fretta di liberarsene. Venticinque minuti dopo, agghindato e profumato dopo che il povero Saro aveva dovuto correre avanti e indietro per trovare l'acqua tiepida al profumo di lavanda e i gioielli giusti, Tanto era pronto. Saro lo guardò senza riuscire a nascondere la sua meraviglia: ma davvero voleva sembrare un grasso fenicottero davanti alla sua futura moglie? «Dovrei fare colpo, eh, fratello?» disse Tanto, vedendo l'espressione sbigottita di Saro. «Ah, sì, senza dubbio. Non credo che la ragazza ti dimenticherà tanto facilmente.» «La ragazza? E cosa m'importa di quello che pensa lei? È suo padre che voglio impressionare, non una sciacquetta qualsiasi.» «Sei pronto, figliolo? Dobbiamo andare.» Tanto uscì con aria baldanzosa dalla tenda. Se Favio riteneva eccentrico l'aspetto di suo figlio, non lo diede a vedere, ma lo schiavetto con un occhio solo che lo accompagnava lo guardò a bocca aperta e per poco non lasciò cadere la gerla che portava. Il padiglione del nobile Tycho era quanto più possibile lontano dal quar-
tiere eyrano: la sua gente era arrivata presto alla pianura della Luna Caduta con rigide istruzioni, e aveva montato le enormi tende su un'altura erbosa con un'ottima vista sulla fiera e sul mare luccicante. Lassù l'aria era un po' più pulita e persino più fresca: in basso tra le stalle e i recinti del bestiame il sole di mezzogiorno rendeva quasi impossibile respirare. Ma l'umore di Tanto era diventato sempre più nero da quando si erano messi in marcia. Prima di tutto un ragazzo eyrano con una tunica di pelle macchiata e una serie di coltelli in mano aveva riso apertamente al vederlo, e aveva chiamato una ragazza cicciotella con un asciugamano intorno alla testa a vedere l'ultima moda tra i giullari; poi un uomo magro con bionde trecce e la barba aveva fatto un pezzo di strada con loro fissandolo con tanta insistenza che era finito contro un gruppo di mercenari ed era caduto; quelli, a loro volta, l'avevano indicato e si erano messi a ridere, e un piccoletto grasso li aveva seguiti per un po', imitando la camminata rigida di Tanto; infine, come ciliegina sulla torta, Tanto aveva perso una delle sue stupide pianelle nella sabbia fina mentre affrontavano la salita verso la tenda del nobile Tycho, e Saro aveva dovuto inginocchiarsi e cercare a tentoni tutto intorno per recuperarla. Quando aveva tentato di rimettergliela, Tanto si era limitato a tendere il piede irrigidito, senza fornire alcun aiuto, da ragazzo viziato quale era. Quando raggiunsero il grande tendone, Tanto era accigliato e silenzioso: niente affatto un buon segno. Uno schiavo con un'immacolata tunica di lino bianco e il marchio del Signore di Cantara sulla guancia uscì silenziosamente dall'ombra del padiglione e li accompagnò dentro. All'interno era meravigliosamente fresco. Altri due silenziosi schiavi, in piedi ai lati della stanza principale, agitavano dei grandi ventagli, mentre sulla sommità del tendone un'apertura consentiva all'aria di circolare e a un fascio di luce di andare a colpire, se intenzionalmente o per volere divino non era dato di sapere, proprio il Signore di Cantara: un uomo distinto di media altezza con la pelle brunita, il naso aquilino e un abbigliamento sobriamente elegante. «Benvenuti, miei signori» disse Tycho Issian, inchinandosi cortesemente a ciascuno di loro. Tanto rispose con un minimo di cortesia e poi si accasciò a gambe larghe sulla più vicina panca ricoperta di cuscini. Saro aspettò di vedere quale sarebbe stata la reazione del Signore di Cantara agli abiti bizzarri e alle cattive maniere di suo fratello, ma se Tycho Issian aveva notato qualcosa di strano nel comportamento o nell'abbigliamento di Tanto, non lo diede a vedere. Seguirono i soliti convenevoli e il passaggio di numerose coppe di ara-
que aromatizzato alle rose, che Tanto e lo zio Fabel presero liscio e che aveva un gusto potente e corposo, anche se diverso da qualsiasi cosa Saro avesse mai assaggiato prima. Il giovane notò tuttavia che il nobile Tycho aveva annacquato sapientemente il suo, e seguendo il suo esempio, Saro decise di posare il suo bicchiere sul tavolo dopo aver bevuto appena un sorso. Alla fine Favio disse: «Abbiamo riflettuto sui termini che desideriamo offrire, mio signore, per questa eccellente unione. In modo che tutto sia chiaro senza possibilità di fraintendimenti, il mio scrivano li ha annotati perché possiate studiarli» e porse al Signore di Cantara un rotolo annodato con uno stravagante nastro. Tycho sciolse il nastro con dita lunghe e attente, srotolò lentamente la pergamena e guardò con attenzione il contenuto scritto in grosse lettere nere. «Ventimila: molto generoso, e anche per quanto riguarda i purosangue. Poi la fortezza e le terre di Altea, in cambio del castello di Virrey. Un luogo interessante, anche se un tantino... remoto...» Scrutò il resto del documento in silenzio, gli occhi attenti che si muovevano lungo le righe. Poi alzò lo sguardo. «Qui non si parla della terra che confina con il fiume d'Oro presso il promontorio di Felin» disse con voce pacata. Favio e Fabel si scambiarono uno sguardo imbarazzato. Saro ebbe l'impressione che fossero stati colti sul fatto. Favio tese la mano per prendere il rotolo e passò in rassegna l'elenco. «Stupida creatura! Il mio scrivano, mio signore, voglio dire, che stupida svista! Sapevo che quell'uomo non stava prestando attenzione.» Si allungò sul tavolo, si versò un altro bicchiere dell'opaco liquido alla rosa e lo bevve in un unico sorso come per distrarre l'attenzione dalla bugia. Il nobile Tycho si riprese il rotolo. «Lo immaginavo» disse con voce dolce. «Un'incresciosa omissione. Ma non preoccupatevi. Ho il mio scrivano qui con me: si occuperà lui delle correzioni.» Fece un piccolo gesto a uno degli schiavi, che sparì nell'oscurità sul retro della tenda. Un momento dopo ricomparve insieme a un giovane magro con la testa fasciata alla maniera jetrana che portava una piuma d'oca, un vasetto e un altro, più disadorno documento. Favio fece una smorfia. Mentre Tycho si chinò per tornare a sedere, Fabel si strinse impercettibilmente nelle spalle. «E la terra che si estende dal villaggio di Fasal fino a Talsea nel Nord, e delimitata a Sud dal promontorio di Felin, con accesso al fiume d'Oro, il suo ponte a pedaggio e la stazione delle chiatte» dettò Favio, la voce piatta
e rassegnata. «Scusatemi, padre.» Tanto si allungò e lo prese per un braccio. «E la donna?» sibilò, udibile a tutti i presenti. «Voglio dare un'occhiata alla ragazza prima che tu dia via tutta la mia eredità...» Gli occhi di Tycho si strinsero, poi si piantarono su Tanto. «Lasciate che chiami mia figlia» disse con voce suadente. «È impaziente di vedere il giovane nobile al quale potrebbe essere fidanzata.» Fece una pausa per far sì che la velata restituzione dell'offesa ricevuta cogliesse nel segno. «Forse le vostre signorie vorrebbero studiare i termini della mia parte dell'accordo mentre la nobile Selen viene accompagnata da noi?» Prendendo la pergamena dallo scrivano, la passò a Favio Vingo, poi si voltò e chiamò con voce dura il nome della figlia. Saro guardò suo padre battere le palpebre, una, due volte, per poi allontanare il documento e fissarlo da una certa distanza. Oh, Falla, pensò Saro all'improvviso. È ubriaco. «Padre» disse a voce bassa «vorreste che ve lo leggessi io? So che i vostri occhi vi hanno dato dei fastidi negli ultimi tempi.» Favio lo guardò perplesso, ma non gli porse il documento. «Non interferire» si intromise Tanto ad alta voce. «Ti abbiamo portato con noi solo per dovere, ma questi non sono affari tuoi.» Come se avesse aspettato nell'anticamera per tutta l'ora precedente, la nobile Selen si materializzò all'improvviso al fianco di suo padre. Indossava una sabatka di un colore scuro, nero con una punta color melanzana, di taglio molto semplice e severo, ma del lino più prezioso. Senza alcun ornamento, la copriva da capo a piedi e sembrava più un abbigliamento da funerale che un abito adatto per quella che altri avrebbero potuto considerare un'occasione gioiosa. Con la testa bassa, solo le mani erano visibili. La figura velata fece un passo avanti, le mani con i palmi in su nel tradizionale saluto, e chinò la testa prima a suo padre, poi ai più anziani Vingo e in ultimo a Tanto e a suo fratello. Tanto si chinò in avanti, gli occhi impazienti di passarla in rassegna. Da quello che appariva dietro la sabatka, il corpo era alto e snello, il che era già una vista piacevole, notò il giovane. E quando si muoveva lo faceva con grazia silenziosa, un'ottima cosa per una donna. Ma quando la giovane entrò nel cono di luce, la bocca di Tanto si spalancò per la meraviglia. Dietro di lei si udì un sibilo di disapprovazione: la prima emozione che il nobile Tycho Issian aveva mostrato durante la visita. L'unica fessura nel velo della sabatka rivelava che Selen Issian aveva co-
lorato le sue labbra come quelle di una puttana di strada. La forma esagerata era stata riempita con un arcobaleno di luccicanti colori. Il sole giocava sugli splendenti gialli e porpora, sul rosso scarlatto e sul verde, ogni colore dello spettro rappresentato come sulla tavolozza di un rappresentante di cosmetici. E alla destra del labbro superiore, piegato in un sorriso senza, gioia, un neo argentato a forma di mezzaluna era stato incollato sulla pelle leggermente olivastra: il simbolo universale delle prostitute che preferivano offrire un servizio molto particolare. Lo sguardo di Tanto viaggiò avidamente sulla bocca di Selen, per poi posarsi sul neo artificiale. I suoi occhi si spalancarono, poi si riempirono di gioia. «È un tesoro, mio signore» sussurrò rivolto al nobile Tycho. «Un vero tesoro.» La bocca di Selen Issian si strinse con durezza. Favio Vingo sembrava sorpreso. Fabel sembrava inchiodato sul posto. Le sopracciglia del nobile Tycho erano corrugate in un formidabile cipiglio. Sembrava sul punto di esplodere. Saro fissò tutti i presenti, poi tornò sulla colonna scura che era la ragazza. C'era qualcosa nell'aria, qualcosa di simile a una carica elettrica, una tensione sessuale latente, un sentimento di sfida, tutte cose di cui non riusciva a capire appieno la portata. Favio tossì, una sola volta, e riportò la sua attenzione al documento. «Ah, questo mi sembra in ordine, nobile Tycho. Vogliamo firmare le nostre rispettive offerte e suggellare il nostro patto?» Da dietro il velo si sentì la giovane restare senza fiato. La sottile figura cominciò a ondeggiare. Poi Selen Issian si accasciò al suolo. Quando riprese i sensi il padiglione era vuoto... a eccezione di suo padre, in piedi su di lei, il volto tetro e risoluto. In mano aveva una striscia di cuoio. Seconda parte 5 Oro Tycho Issian attraversò a passo deciso la fiera, senza guardare né a destra né a sinistra finché non raggiunse la zona di vendita degli schiavi, si-
tuata, a suo parere giustamente, vicino ai recinti del bestiame. A metà della giornata, praticamente le prime ore della fiera, la zona era già affollata di clienti in cerca di affari vantaggiosi. L'odore degli animali aleggiava pungente nell'aria calda e immobile. All'altezza delle prime tende un grasso mercante del Sud stava mostrando una ragazza di montagna di nove o dieci anni. Anche avvolta nella voluminosa sabatka, si vedeva che la ragazzina era molto magra e con una spalla molto più alta dell'altra: di certo non la 'robusta sguattera' che l'uomo aveva tanto decantato. Nessuno stava facendo offerte. Dietro di lei era disposta una variegata collezione di uomini in catene, scuri e robusti, tutti presumibilmente appartenenti allo stesso clan di campagna, catturati e resi schiavi durante le recenti insurrezioni nel Sud e vestiti in modo da attirare chi cercava dei mandriani o dei valletti. Non era il caso di Tycho. Passò rapidamente oltre. Il successivo venditore aveva merce più appetibile: tutte donne, e tutte molto ben vestite e presentate. Le schiave si stringevano l'una accanto all'altra sulla piattaforma rialzata. Due di loro si tenevano per mano, come per cercare un po' di conforto umano. Tycho riusciva a intravedere le manette ai polsi. Si fece strada tra la piccola folla che ascoltava il discorsetto da imbonitore del mercante. «...signore delle Alture di Farem: belle, generose, capaci e volenterose, e tutte della stessa famiglia. Donne dalle gambe lunghe e in perfette condizioni fisiche, con il sangue dei fieri capotribù del deserto che scorre nelle loro vene: come potete resistere al loro fascino? Falla sa che io non potrei!» E a quel punto si chinò in avanti con sguardo lascivo verso il pubblico, e molti scoppiarono a ridere. Alcuni contarono di nascosto il denaro nelle loro borse, altri fissavano la piattaforma col volto privo di espressione, pronti a mercanteggiare per strappare le migliori condizioni. «Posso vendere le signore da sole o in gruppo. Ma immaginate il piacere, signori, che potreste trarre dall'intero lotto. Ci sono offerenti per il gruppo da cinque?» Sospinte dagli assistenti del mercante, le donne avanzarono sulla pedana. Le lacrime avevano striato i cosmetici che erano stati accuratamente applicati sulle loro bocche. Tycho voltò la schiena a quella scena e passò oltre... Non era tanto il fatto che tali tristi spettacoli non gli piacevano, pensò mentre camminava, quanto che l'ovvio in quel momento non lo attirava affatto, pur voglioso com'era da quando aveva visto con sgomento la bocca
di sua figlia dipinta in maniera così provocante, e poi l'aveva picchiava per il suo atto di sfida, con pazienza e cura per non lasciare segni indelebili. Il ricordo di lei che si rannicchiava sotto i suoi colpi, che tentava di non mostrare la sua debolezza, che ricacciava indietro le lacrime gli infiammò i lombi. Doveva trovare una donna con cui adorare la Dea, e in fretta. Si rimproverò per aver lasciato a Cantara la sua compagna di letto preferita, ma era stato necessario, dato il suo attuale stato. La sciocca aveva pensato di ingannarlo, nascondendo la rotondità della pancia e del seno sotto una sabatica di stoffa più pesante. Ma lui non pagava bene il suo personale senza un motivo: la governante era andata da lui non appena aveva visto Noa vomitare una mattina. Appena in tempo: era pericoloso abortire dopo le sedici settimane e anche se era arrabbiato con Noa per aver tentato di tenerlo, non voleva vederla morire sotto il coltello del chirurgo. Sarebbe stato uno spreco di risorse, e solo Falla sapeva che ne aveva ben poche da sprecare in quel momento. Sperava sempre quando visitava i mercati degli schiavi di trovare un'altra Alizon: una bellezza fiera, pacata e intelligente, che fosse in grado di stimolare molto più il suo desiderio, rivelandosi una compagna eccitante in quelle calde e buie notti accanto al lago, tra i boschetti di limoni. Non una moglie dalla schiavitù: mai più. La sua posizione, per quanto debole, ora era troppo pubblica e lo sarebbe stata ancora di più dopo l'alleanza con i Vingo, e il posto al Consiglio Istriano che gli avrebbero sicuramente concesso una volta pagato il suo debito. Con enormi sforzi si era assicurato il rispetto dei suoi pari e degli anziani del Consiglio: era conosciuto per la sua eloquenza e per la sua religiosità. In gioventù aveva pensato di combinarle entrambe e abbracciare il sacerdozio, ma gli eventi avevano cospirato contro questo suo desiderio. Si affrettò ad allontanare quegli spiacevoli ricordi dalla mente. Le donne sulla pedana successiva avevano la pelle scura, e non erano di suo gusto. Impaziente, e con il membro che gli pulsava con insistenza contro la tunica, si avviò verso il quartiere dei nomadi. Aran Aranson studiò la posizione del sole: c'era ancora abbastanza tempo prima che il commercio nel quartiere eyrano entrasse nel vivo, e si mise in marcia. Sapeva esattamente dove stava andando: Edel Ollson gli aveva detto di aver visto un Errante mettere in mostra una collezione di mappe e carte nautiche. Erano insolite, aveva detto Edel: delle pergamene così anti-
che da essere fragili al tocco e con i bordi color nocciola, come se fossero state toccate da lingue di fuoco. In quanto alla materia di cui erano fatte Edel non era sicuro: pelle di capra, forse, oppure (Edel si era avvicinato ad Aran, gli occhi che lampeggiavano di preoccupazione) pelle umana! Edel Ollson aveva sempre avuto una fervida immaginazione, pensò Aran sorridendo. Era il tipo di uomo che stava sempre a elaborare nuovi progetti e non ne portava mai a termine uno. Non ci si poteva fidare della parola di un uomo del genere: potevano persino non essere mappe quelle che aveva visto. Probabilmente erano antiche canzoni d'amore scritte per nobili dame, spartiti musicali o persino copioni di teatro. Edel, come la maggior parte degli Eyrani, non aveva mai imparato a leggere, preferendo tenere memoria delle cose con l'uso tradizionale dei nodi e delle trecce, e Aran stesso aveva una conoscenza solo rudimentale della scrittura. Ma forse anche un uomo come Edel poteva capire la differenza tra musica e carte nautiche... Valeva la pena di indagare. Aran Aranson amava le mappe. Le mappe per lui erano una meraviglia del creato: le linee lossodromiche e le rose dei venti, le intricate linee costiere e le catene montuose stilizzate, le isole sparse e i mostri degli abissi abilmente disegnati. Ma più di tutto amava le mappe per tutte le promesse di viaggi ancora da compiere che gli offrivano. Aran camminò a passo veloce tra i banchetti eyrani, salutando con il capo un uomo qui e gridando un saluto a un altro lì, gli occhi costantemente all'erta... Sembrava esserci meno sardonica in giro quest'anno: le riserve si stavano forse esaurendo? I prezzi avrebbero potuto alzarsi. Ma davanti ai primi due banchetti di sardonica, quello di Hopli Garson e Fenil Soronson, c'era calma piatta. Halli forse avrebbe dovuto cercare altrove il denaro per la sua nave lunga, pensò con amarezza. Il terzo, tuttavia, nonostante l'ora era gremito. Aran allungò il collo. Su ciascun lato della bancarella c'erano pile di scura pietra striata, ignorate dagli astanti. Gli uomini si stavano invece accalcando l'uno sull'altro per mettere le mani su un pezzettino di roccia luccicante al centro. Aran Aranson si alzò in punta i piedi. Sentì un tuffo al cuore: era oro, o almeno così sembrava, un grosso, luccicante pezzo di metallo giallo. Oro: il più raro di tutti i prodotti della terra. Avevano scavato buche in tutte le pianure istriane per cercarlo seguendo anche la più piccola diceria; avevano aperto miniere alle pendici della montagne d'Oro, solo per scoprire che quegli arcigni picchi di dorato avevano solo il nome. In Eyra molti uomini erano usciti di senno nel tentativo di setacciarlo nei
gelidi ruscelli e nei laghetti delle brughiere. Gli unici campioni del nobile metallo erano stati ritrovati dai più coraggiosi e fortunati nei relitti delle antiche navi venutesi a fracassare sulle infide scogliere delle isole eyrane anni prima, navi completamente diverse dai semplici vascelli del Nord o del Sud, navi che racchiudevano meravigliosi manufatti, testimonianze di un'epoca passata e di una civiltà perduta. Aran ricordava il favoloso scettro che aveva visto una volta a palazzo a Halbo: massiccio e tempestato di gemme, così pesante che ci volevano due uomini per portarlo, rinvenuto generazioni prima al largo dell'Isola del Sud e attualmente usato per l'investitura dei re eyrani. Alla Grande Fiera di sei o sette anni prima uno dei nobili istriani se n'era andato in giro sfoggiando un collare d'oro così pesante che doveva camminare piegato. Il giorno dopo l'uomo era stato ritrovato morto sulla spiaggia, il sangue rappreso in piccole pozze su cui aleggiavano mosche e stercorari. Il collare, ovviamente, era sparito e nessuno l'aveva più visto da allora. Era stato di certo smontato, secondo Aran, fuso e incorporato in qualche centinaio di altri gioielli ed else di pugnali, venduti, e probabilmente indossati, clandestinamente. Aran si accigliò. Nessuno avrebbe avuto il fegato di mostrare un tesoro così insolito tanto apertamente, a meno che non fosse l'uomo più ricco di tutta l'Eyra. Eppure Aran non conosceva l'uomo dietro il banchetto; era vestito con semplicità e le due guardie in piedi dietro di lui non erano dei professionisti: il loro equipaggiamento era vecchio e obsoleto, tanto che il pomo della spada di uno di loro finiva con la punta arrotondata, uno stile fuori moda ormai da un paio di generazioni. Né l'arma sembrava così ben tenuta da poter essere un cimelio di famiglia, tramandato da padre a figlio come spesso avviene. Anche se non si poteva mai dire, e Aran sapeva bene che le apparenze potevano ingannare. Per un po' osservò quello che stava succedendo davanti al banchetto, mentre gli astanti toccavano l'oro come fosse un talismano e poi si allontanavano per spargere la voce. Nessuno comprò la sardonica. Aran si avvicinò al banco. «Posso vederlo?» «Naturalmente.» L'uomo gli fece un cenno di invito, come se fosse abituato a tali richieste. Aran tese la mano e poggiò la punta delle dita sulla roccia. Era fredda e ruvida al tocco, anche se attirava i raggi del sole su ogni luccicante piano della sua superficie irregolare come un magnete. Le sue dita formicolarono al contatto.
Ritirò la mano: non aveva mai toccato dell'oro prima. I cantastorie dicevano che l'oro era caldo e sensuale, ma forse si trattava di una licenza poetica. «Come siete venuto in possesso di un esemplare così bello?» chiese in tono adulatorio. «Un baratto, signore, un ottimo affare.» «Posso chiedervi con chi?» «Un viaggiatore, ed è tutto quello che dirò, signore.» Un Errante, pensò Aran. Sentì un piccolo brivido di eccitazione. I racconti dello zio Ketil su magia e tesori gli ritornarono improvvisamente alla mente come se avesse ancora nove anni e fosse seduto nuovamente sulle ginocchia del vecchio. «E quest'uomo stava offrendo dell'oro davanti a tutti nel quartiere dei nomadi?» Il venditore guardò Aran con sospetto. «È inutile che lo andiate a cercare: questo pezzo era tutto ciò che aveva» si affrettò a dire. L'aveva detto un po' troppo in fretta, pensò Aran. Salutò l'uomo e si incamminò a passo veloce verso il quartiere dei nomadi, senza prestare attenzione agli altri banchetti eyrani, ai recinti del bestiame o al mercato degli schiavi. Sarebbe stato facile per un altro uomo essere distratto dal suo scopo, ma Aran ignorò le tentazioni che lo circondavano. Ci sarebbe stato tempo per trastullarsi, per scegliere almeno un piccolo dono per Bera. In quel momento la sua impazienza lo spingeva ad avanzare, e mentre sul suo viso c'era la sua solita espressione severa, dentro di sé sorrideva come un bambino. Oro: se avesse potuto portare con sé anche la più piccola pepita sarebbe stato per lui il talismano che aveva sempre cercato nella sua vita, il punto di svolta che l'avrebbe portato via dalla tediosa esistenza alla fattoria per salpare nell'infinito blu dell'orizzonte... Ci volle un po' per trovare il venditore di mappe, e ci riuscì solo chiedendo a una donna alta con le piume nei capelli. La donna si portò le mani all'orecchio, chinandosi verso di lui per sentire la domanda, che Aran ripeté lentamente, gesticolando per indicare un uomo che srotolava una pergamena. Poi le mostrò la sua rosa dei venti, comprata nel negozio di forniture navali a Halbo, costruita nello stile più nuovo e avanzato. La donna gliela prese e scoppiò in una rauca risata come per far vedere che aveva capito cosa voleva, e fece per riporla nella sua scarsella.' Quando lo prese per mano e gli toccò la tunica nel punto in cui copriva i suoi genitali, Aran si rese conto con orrore che la donna aveva considerato l'oggetto come un pagamento in cambio dei suoi servigi. In tutta fretta Aran scosse la testa e
recuperò la preziosa rosa dei venti. La donna lo fissò divertita mentre lui disegnava qualcosa sulla sabbia nera, una costa, e poi mimò una barca sulle onde. Dopo qualche momento di quella pantomima, la donna sorrise, mostrando una bocca di monconi limati (una prostituta, quindi, di sicuro appartenuta a un mercante di schiavi del Sud) e batté le mani. Disse qualcosa di incomprensibile, e poi, vedendo che lui non la capiva, camminò per un po' insieme a lui, il braccio intrecciato al suo. Aran stava cominciando a pensare che l'avesse completamente frainteso ed era in procinto di spingerla via quando la donna lo tirò verso un carro tutto di legno, più grande degli altri, con un banchetto a colori vivaci e protetto da un tendone. Sotto il tendone c'era un uomo alto, pallido e magro e davanti a lui, sparsi su una stoffa sgargiante, c'era una pila di rotoli di pergamena. Aran sentì il cuore accelerare. Mise una moneta nella mano della nomade e lei si inchinò, sorrise e si allontanò. Stava per avvicinarsi al banchetto quando la sua attenzione fu attirata da un leggero movimento alla periferia del suo campo visivo. Sui gradini del carrozzone c'era un gatto nero con luminosi occhi verdi. Sul suo collo c'era appoggiata una mano, di un bianco impressionante contro il nero del suo pelo, le dita affusolate con unghie periate perfettamente ovali. Del padrone della mano non si vedeva altro: solo le dita che si muovevano ritmicamente, ipnoticamente, sull'animale. Le fusa si sentivano anche a quella distanza. Aran quasi non riuscì a distogliere gli occhi da quella sensuale carezza, dalla bella mano. Ma l'attrattiva delle mappe era troppo forte. Non appena si voltò nuovamente verso il banchetto, l'uomo alto sollevò la testa. I loro occhi si incontrarono e Aran provò una forte sensazione: irritazione, forse repulsione. L'uomo, così pallido da essere incolore, le fattezze larghe e piatte, era una creatura dall'aspetto strano, pensò Aran, anche se di solito non era tipo da esprimere simili giudizi. Era di un'età indefinita, la pelle del viso completamente priva delle normali rughe che la vita regalava, ma gli occhi non erano quelli di un giovane. La sua provenienza, poi, era impossibile da determinare. «Posso dare un'occhiata alle vostre mappe?» si affrettò a chiedere nell'Antica Lingua. Senza dire una parola, l'uomo chinò la testa in quello che sembrò un gesto di assenso. Aran prese il primo rotolo che gli capitò tra le mani e lo srotolò con cura. Qualcosa in quel foglio gli faceva prudere le dita, ma forse era solo la sua impazienza. Era una cartina geografica che mostrava
le isole a est della sua, disegnate in meticolosi dettagli per mostrare persino le scogliere e i banchi rocciosi che si rivelavano solo con la bassa marea. Le aree di pesca erano indicate con banchi di sgombri finemente disegnati, mentre le balene spruzzavano i loro getti nei mari più profondi del Nord. Uno strumento utile, ma Aran conosceva bene le aree di pesca. Sorrise e arrotolò di nuovo la pergamena. La successiva mostrava l'entroterra istriano, in particolare le montagne d'Oro e i laghi e i fiumi che vi nascevano. In vari punti erano state disegnate delle chiatte a indicare le migliori rotte di navigazione verso il mare. La terza mappa era molto approssimativa. Le montagne erano triangoli sul quadrante orientale e yeka molto stilizzati marciavano lungo l'area vuota da lì al mare. 'Terreta prion' lesse Aran, tracciando con le dita le parole scritte al centro della mappa. Le terre del deserto. Interessante... ma lui era un marinaio, non un cavaliere, né era mai salito in groppa a uno yeka. Deluso, posò anche quella mappa. «State cercando qualcosa di specifico?» chiese l'uomo in un eyrano senza accento. Aran sollevò di scatto la testa dai suoi sogni a occhi aperti. Poi la scosse. «Non proprio.» Tacque, poi abbassò la voce in modo che nessun altro potesse sentirli. «Anche se un mio amico mi ha parlato di una mappa di una certa isola piena di tesori. E un altro uomo mi ha mostrato una parte di quei tesori.» L'uomo sorrise senza scoprire i denti, le labbra pallide tese sul volto glabro. Il sorriso non raggiunse gli occhi, freddi e chiari come quelli di una seppia. «Mostratemi le vostre mani.» Aran lo fissò sbalordito. «Come?» «Le vostre mani.» C'era una leggera impazienza nella voce dell'uomo ora, e a meno che Aran non si fosse sbagliato, anche una punta di durezza. Lentamente Aran tese le mani. Il venditore di mappe gliele prese, girandole con i palmi in alto, e cominciò a studiarle in silenzio, passando leggermente la punta delle sue dita su e giù lungo la loro rugosa superficie. Aran si sentì a disagio. Nessun uomo l'aveva mai toccato in quel modo: sperò che nessuno che conosceva passasse da quelle parti e vedesse quello strano spettacolo. Dopo diversi lunghi minuti Aran non riuscì più a sopportarlo. «Cosa vedete?» chiese.
L'uomo non sollevò gli occhi. «Vedo che siete un uomo di mare, e da parecchio tempo. Non ci vuole una grande abilità di chiromante per scoprirlo, perché le vostre mani sono state irruvidite dal sale e dalle corde e avete calli causati dai remi. Tuttavia lavorate anche la terra, anche se forse meno volentieri. E qui» rivoltò la mano destra di Aran per indicare la lunga cicatrice bianca sul polso muscoloso e abbronzato «qui è dove siete stato ferito da una sottile sciabola di acciaio di Forent, combattendo i nemici istriani all'incirca diciannove o vent'anni fa.» Aran scoprì che stava trattenendo il respiro. Lo lasciò uscire di getto. «Notevole» disse alla fine. Si ritrovò a sorridere all'uomo. «Cos'altro vedete?» «Voi avete un animo avventuroso, al momento frustrato dalle circostanze. Ma se seguirete i vostri istinti e utilizzerete la vostra esperienza, potrete superare gli ostacoli sul vostro cammino e di trovare il tesoro che cercate, anche se potrà essere necessario spargere un po' di sangue in cambio di tale fortuna.» Le sue dita seguirono una linea trasversale sul palmo di Aran e, dove l'uomo toccò la sua pelle, Aran sentì il gelo del mare nelle vene. «Il sangue di altri. E la fortuna è davvero grande.» Il venditore di mappe sollevò lo sguardo e fu ricompensato da un lampo di luce negli occhi scuri dell'Eyrano. «Per il giusto prezzo» disse abbassando la voce «potrei essere in grado di aiutarvi a fare il primo passo verso un tale destino.» «Sì?» Il venditore di mappe inclinò la testa di lato. «Ci si può fidare, mi chiedo, del fatto che manterrete un tale segreto?» «Fidare?» «Ho in mio possesso un frammento di un'antica mappa: indica la strada per un'isola nascosta chiamata Santuario, la fortezza di un grande mago ora addormentato in un sonno magico. In questa fortezza c'è una fortuna in oro e argento, gemme e monete, rari manufatti e strumenti magici. Se dovessi farvi avere questo frammento, sarebbe per il prezzo che io chiederò.» Aran si tirò indietro, improvvisamente dubbioso. «Ho sentito parlare di questo posto, ma solo nei racconti. Di certo è solo un parto della fantasia, una storia da raccontare intorno al fuoco...» L'uomo sorrise. Da dietro il bancone tirò fuori un pezzetto dello stesso luccicante metallo che Aran aveva visto sul banchetto del venditore di sardonica, e lo posò sul palmo della mano ancora tesa dell'Eyrano. Poi premette le dita di Aran intorno a esso. La palla di metallo pesava ed era troppo grande per poterla stringere tutta. Aran aprì la mano e sollevò il metallo
verso il viso. Le sfaccettature brillarono al sole, quasi accecandolo con i loro riflessi. Gli pareva di stringere un carbone ardente. «Oro!» Battendo le palpebre, lo posò sul banchetto. «Tenetelo» disse il venditore di mappe. «Ce n'è molto di più nel luogo da dove quello è venuto.» «La fortezza?» «Esatto. Vorreste saperne di più?» «Lasciatemi vedere la mappa.» L'uomo si voltò per entrare nel carro. Mentre si avvicinava ai gradini il gatto si ritirò, le labbra scoperte a mostrare i denti, il pelo sollevato, poi si infilò di scatto all'interno del carro. Ci fu un certo tramestio, poi il suono di una conversazione, breve e mormorata, quindi il venditore di mappe riapparve, stringendo un sacchetto di pelle. Da lì estrasse un foglio piegato di un materiale che sembrava più morbido della carta, anche se era scurito dal tempo e una parte era stata strappata via. Il lato superiore non recava alcuna scritta. Lentamente il venditore di mappe lo girò. Aran lo studiò avidamente. Anche se la mappa era parziale era chiaro che il cartografo, chiunque fosse, aveva preso molto a cuore il suo lavoro. Una rosa dei venti era stata posizionata sull'angolo superiore destro, con il braccio meridionale che puntava diagonalmente verso l'angolo sinistro mancante. Intorno alla cornice decorata, dove solitamente venivano indicati i punti cardinali, Aran riusciva a malapena a distinguere le parole 'Isenfelt', 'Estrea', 'Eaira' e 'Oceana prion'. Al centro della rosa una scritta: 'Sanctuarii'. Aran trattenne il fiato. La grafia era molto antica, persino lui lo sapeva. Linee di intersezione erano state disegnate sull'intera superficie, irradiandosi dalle punte della bussola, e una mano diversa aveva scritto cifre e notazioni illeggibili, forse dei calcoli per la navigazione. Aran si avvicinò di più, riconoscendo improvvisamente un complesso ghirigoro di costa. «L'isola delle Balene! E quello è il continente dell'Eyra settentrionale!» Studiò la cartina più attentamente, la inclinò di lato e guardò di nuovo. I tratteggi incrociati e le cancellature nascondevano diversi dettagli nella parte in alto a destra. «Ma è meravigliosa! Quanto volete?» Cominciò ad aprire la scarsella, ma la mano dell'uomo scattò come un serpente che colpisce. «Niente denaro, signor navigatore. Niente denaro.» Aran si accigliò. «Cosa, allora? Ho della sardonica di buona qualità, se volete fare un baratto, e mia figlia fa i coltelli più belli di tutta l'Eyra...»
«Quello che chiedo è infinitamente più prezioso. Quello che chiedo, signor avventuriero, è: ci si può fidare di voi? Perché se la risposta è sì, ho un compito da affidarvi, e se giurate che lo porterete a termine la mappa sarà vostra e solo vostra.» «Di me ci si può fidare: sono conosciuto come un uomo di parola.» «Allora venite dentro, signore, suggelliamo il patto, e la mappa sarà vostra.» Fu con un certo disgusto per se stesso che il nobile Tycho Issian si scoprì a guardare le Erranti con interesse. Non c'era dubbio che fossero creature affascinanti sotto quella pelle macchiata e dipinta, sotto le piume e i gingilli d'osso, le strane trecce e gli indumenti bizzarri, ma la vista di così tanta pelle nuda e non consacrata era difficile da sopportare per un uomo delle sue convinzioni. Tycho vagava frastornato tra i carri e i banchetti. Abili giocolieri gli danzarono accanto; ragazzini tentarono di vendergli bastoncini di dolcefumo; musicisti gli chiesero delle monete; una donna acrobata camminò verso di lui sulle mani, il seno nudo che si intravedeva sotto strati di ambra e perline colorate, ballonzolante e ricoperto della sottile polvere nera della pianura vulcanica. Quel dettaglio lo accompagnò, sgradito ma persistente, mentre zigzagava tra banchetti di gioielli e cartomanti, intrecciatoli di capelli e venditori di portafortuna. Stava tentando di scansare un uomo alto e scuro che si stava allontanando dal banchetto di un venditore di mappe quando la vide: infilava la testa fuori da un carro dai colori sgargianti per guardare l'uomo alto. Fu solo un attimo, ma bastò. Un paio di occhi verde mare incorniciati da ciglia scure; un naso lungo e dritto; pelle chiara come l'ala di un cigno e labbra così rosa che sembravano quelle di un bambino. Gli occhi, però, non appartenevano a un innocente. Tycho sentì il suo spirito risollevarsi... e non solo quello. E poi la donna svanì. Si precipitò verso il carro nel quale era scomparsa, ma un uomo non più giovanissimo gli si parò davanti, facendo quello strano inchino dei nomadi. «Rajeesh. Come posso aiutarvi, mio signore?» Parlava senza intonazioni: di certo il suo non era un accento eyrano, ma neppure istriano. Fin troppo chiaro per essere un uomo del deserto, nonostante il suo modo di fare, troppo pallido e con gli occhi troppo chiari per essere sceso dalle montagne. Capelli, sopracciglia e ciglia parevano incolo-
ri. Sembrava una pianta per troppo tempo privata della luce, cresciuta senza sole e circondata da erbacce in un posto freddo e buio. Tycho lo studiò con curiosità. «Togliti di mezzo, amico» disse poi, la voce improvvisamente cupa per la disperazione. L'uomo sorrise. Un sorriso lento, non molto piacevole. «Ah» esclamò, e gli fece l'occhiolino. Tycho si irritò, sentendosi insultato dallo sguardo d'intesa dell'uomo, dal suo tono confidenziale. «C'era una donna...» L'uomo annuì. «Sì, mio signore?» «La donna. Nel tuo carro... la voglio.» Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle. Una terribile e gelida ondata di paura lo avvolse. C'era qualcosa di sbagliato in questo, qualcosa di tremendamente sbagliato. L'albino piegò leggermente la testa. «Tutti gli uomini cercano una fontana per poter placare la loro sete. E la Rosa Eldi è come un oceano. Ogni uomo cerca la Rosa di Elda» disse criptico. «Chi non lo farebbe?» Tycho lo fissò perplesso. «Di cosa stai parlando? Voglio solo una donna: quella nel tuo carro. È tua? Me la venderesti?» Cominciò ad aprire il sacchetto di pelle che portava alla cintura, ma l'uomo sollevò una mano. «Io mi occupo di mappe e carte nautiche» rispose con voce pacata. «Sono quelle che vendo. La Rosa di Elda non può essere comprata.» «Se è una donna, allora può essere comprata. Tutte le cose hanno un prezzo...» Tycho inorridì a sentire il tono della propria voce, così lamentoso e insinuante. Il venditore di mappe appoggiò una mano sul braccio del nobile istriano. Anche attraverso il lino della tunica, Tycho sentì le sue dita fredde e appiccicose, come quelle di una creatura di mare, di una medusa... di una cosa non del tutto viva. Provò una gran voglia di ritrarsi. «Se non posso comprarla» disse allora in tono più deciso «forse potremo concludere un accordo affinché io possa prenderla in prestito per un'ora o due?» «Prenderla in prestito, mio signore? Quello che viene preso in prestito e poi perduto non potrà mai essere restituito.» Tycho si accigliò, perplesso. «Non fare giochetti con me, venditore di mappe. Perché dovrei perderla? Ti darò duecento cantari per un'ora.» Duecento cantari, una piccola fortuna: ma cosa stava dicendo? Doveva essere impazzito. Ma l'uomo pallido non ebbe alcuna reazione.
«Mi rammarico di non poterla barattare, mio signore: il suo destino è altrove.» L'immagine del volto chiaro e dei grandi occhi verdi comparve all'improvviso nella mente di Tycho Issian. Il cuore cominciò a battere all'impazzata, il sangue a pulsare in ogni centimetro del suo corpo. La schiena gli formicolava, e la testa sembrava scoppiargli come se fosse assalito dalla febbre. «Il matrimonio, allora» dichiarò con voce roca. «La prenderò in moglie.» Ma cosa stava dicendo? Questa era vera pazzia, la possessione di uno spirito. Quell'offerta, per lo meno, aveva destato una reazione. Una strana luce si accese negli occhi del venditore di mappe. «Matrimonio voi dite, mio signore?» Tycho fece un profondo respiro, intenzionato a rimangiarsi le sue avventate parole. E invece disse: «Sì, la sposerò. Dammela ora e la sposerò subito, non appena sarà possibile eseguire i rituali del caso. Per Falla, lo giuro.» L'uomo scosse lentamente la testa. «Ah, sapevo che era preziosa, signore, ma forse avevo sottovalutato il suo vero valore. Invero, signore, non credo che mi separerò da lei al momento. Vi auguro buona giornata, mio signore.» E con quelle parole chiuse rumorosamente le imposte della sua bancarella e si ritirò nel carro. Tycho Issian martellò la porta per dieci minuti, ma nessuno rispose. «Katla! Katla!» Era Jenna, ed era chiaro che aveva corso: il suo ampio petto si sollevava affannosamente. Le guance erano rosse come mele. Gli occhi brillavano. «Cosa c'è, Jenna?» Katla posò un altro dei suoi pugnali cesellati e indietreggiò di un passo per ammirare il proprio lavoro. Era davvero una notevole serie di esemplari, disposti com'erano sul panno di un bel rosso scuro, le lame che luccicavano alla luce del sole. Ne aveva già venduti due: uno a un ricco fattore eyrano del continente e un altro a un Istriano dalla voce pacata con corti capelli argentati e modi aristocratici. Katla gli aveva fatto pagare un prezzo esorbitante: sembrava che potesse permetterselo. «Papà mi presenterà al re, mi offrirà come potenziale sposa!» La testa di Katla si sollevò di scatto. «Cosa?» «Ha acconsentito, finalmente! Re Ravn mi vedrà domani sera e sceglierà
me come sua sposa.» Il suo viso era estasiato, gli occhi luminosi e perduti nel suo sogno: sembrava un gatto di campagna che usciva satollo dalla dispensa. Jenna si chinò sul banchetto e afferrò il braccio di Katla. «Quindi devi venire con me ora, subito, al quartiere nomade. Dobbiamo comprare portafortuna e pozioni e fiocchi e... Oh, Katla!» «Non posso venire ora» rispose Katla perplessa, pensando che Finn Larson doveva aver perso la testa. Probabilmente per il continuo assillo che gli aveva dato sua figlia. E tanti saluti al povero Halli, dopo che la famiglia l'aveva incoraggiato in quel modo. La venalità del costruttore di navi e l'incostanza di sua figlia la fecero infuriare, inasprendo il suo tono di voce. «È così che io mi guadagno da vivere, vendendo queste cose: non posso andarmene in giro per la fiera seguendo i tuoi capricci!» «Non ti arrabbiare, Katla.» La giovane si voltò e trovò suo padre in piedi dietro di lei, negli occhi la stessa espressione sognante di Jenna Finnsen. Nella mano destra stringeva un rotolo di antica pergamena. «Vai a divertirti con la tua amica. È la tua prima fiera, dopo tutto.» «Ma, papà, il mio banchetto! Mi serve ogni moneta che riesco a guadagnare se dovrò risarcirti delle spese che hai sostenuto per me e avanzare qualcosa per me stessa...» Aran liquidò le sue obiezioni con un cenno della mano. «Non ci saranno problemi di denaro, mai più.» Infilò la mano nella scarsella e tirò fuori la pepita d'oro. Gli occhi di Katla si spalancarono. Jenna Finnsen rimase senza fiato. «Oh, è oro! Quant'è bello. Oro...» «Dove l'hai preso, papà?» chiese Katla, improvvisamente sospettosa. Qualcosa non andava in questa storia; era come se il mondo andasse improvvisamente alla rovescia. Aran sorrise e rimise con cura l'oro nella scarsella. Poi gli diede degli amorevoli colpettini. «Ah, per dirtelo dovrei raccontarti una storia lunga e strana. Vai pure, Katla: ci penserò io al tuo banchetto. Conosco i prezzi delle tue cose, non preoccuparti. E...» le mise in mano una moneta «divertiti.» «Ma, papà, e la sardonica?» «Se ne sta occupando Halli. Era ora che si prendesse anche lui qualche responsabilità. È un uomo cresciuto, e presto farà la sua strada.» Sorrise a Jenna, che arrossì e distolse lo sguardo.
La sensazione di inquietudine di Katla non fece che crescere mentre si dirigevano verso il quartiere nomade. Jenna continuava a starnazzare come un'oca in un cortile... abiti con paramonture ricamate, le ultime acconciature galiane, scarpette col tacco a forma di cuore. La mente di Katla rifuggiva dal suo ridicolo chiacchiericcio come una rana che tenta di non affogare nella risacca. Era difficile per lei sapere cosa era meglio dire alla sua amica in tali circostanze: se le avesse detto la verità - ossia che re Ravn era venuto di certo per fare un matrimonio strategico, il che significava terre e potere, denaro e influenza, e che anche se Finn Larson era il migliore costruttore di navi dell'Eyra non era di certo un nobile, né sua figlia era di una tale bellezza da influenzare il giudizio di un uomo - l'avrebbe fatta soffrire e forse rivoltare contro di lei. Perché come diceva sempre sua nonna: «Il latore di cattive notizie non è mai amato.» Perciò decise di annuire e sorridere indicando a Jenna i banchetti con i fronzoli più belli: bottoni d'avorio scolpiti a forma di cervi, ermellini e strani animali dai lunghi colli simili a mucche malriuscite; nastri multicolore; merletti così fini da sembrare ragnatele. Ma Jenna sapeva cosa stava cercando e tali ornamenti, pur distraendola per un po', non erano il suo scopo. «La venditrice di incantesimi» disse dopo che ebbero vagato per quasi un'ora. «Laggiù!» Indicò un carro colorato su cui era stato fissato uno striscione con un nome scritto in maniera stentata nell'Antica Lingua. Katla strinse gli occhi e lo studiò un momento. Non era né veloce né molto brava a leggere: quando era piccola, imparare a leggere meglio le sarebbe costato troppe ore seduta in casa, e il suo spirito irrequieto non aveva sopportato l'idea di starsene al chiuso, sulle ginocchia della madre, mentre i fratelli correvano per il cortile ridendo e giocando. «Fezack Cantastelle?» esclamò alla fine. «Che razza di nome è? Se pensi che sia un nome vero sei più sciocca di quanto ho sempre creduto» aggiunse con scherno. Jenna gettò indietro la testa e il sole le tinse i capelli di ogni sfumatura d'oro. Era possibile, pensò Katla sorpresa, che l'urina dopo tutto avesse fatto il suo dovere. «Gli Erranti si scelgono da soli i loro nomi: è un segno di libertà. Ma non sai niente? È stata Marin a parlarmi di Fezack Cantastelle. È una vera maga quella donna, ha detto lei: le ha venduto una pozione per farle crescere il seno, ed è già almeno tre centimetri più grande di ieri.» «Quando saranno più grandi di almeno un palmo dimmelo e manderò
Tor a controllare.» Jenna rise. «Quello sì che è un vero uomo» disse. «Odio pensare dove ha già messo le sue mani.» Poi guardò l'amica con espressione maliziosa. «Anche se forse tu ne sai più di quello che dici.» «Certo che no! Non è altro che uno sciocco bestione.» Katla rabbrividì. «Erno potrebbe essere più di tuo gusto allora? Silenzioso e timido, il tipo che non si vanta di quello che ha nei pantaloni?» «Jenna! E poi cosa potresti sapere tu di queste cose?» «Le ragazze parlano.» «E quale ragazza saprebbe una cosa del genere?» «Marin dice che è un bell'uomo, Erno Hamson. Ecco perché sta facendo tutto il possibile per rendersi più attraente.» «E a Erno piacciono le donne con le mammelle da mucca, eh?» replicò Katla con furia. Pensò al suo seno, sodo come quello di un ragazzo e poco più grande. Non c'era molto su cui mettere le mani per un uomo. Forse avrebbe dovuto comprare la pozione di Marin. Katla sorrise. Che Sur me ne scampi, pensò. Sii grata di poter correre senza farti venire un paio di occhi neri! «Forza, allora. Andiamo a trovare la tua maga.» Stavano per bussare alla porta, un vero capolavoro nel suo genere, dipinta di un bel blu scuro e decorata con un firmamento di stelle e con la luna in tutte le sue fasi, quando questa si spalancò e ne uscì fuori un giovane con passo malfermo, la testa girata per salutare la venditrice di pozioni. «Portalo vicino al tuo cuore» stava dicendo la vecchia «e il suo amore ti riscalderà...» Il ragazzo sbatté contro Katla, che cadde all'indietro sui gradini, atterrando bruscamente al suolo, dove scoppiò a ridere. Era Erno. Per un secondo il giovane fissò Jenna, appiattita contro il lato del carro, poi il suo sguardo si posò con orrore sulla ragazza dai capelli corti. A quel punto infilò rapidamente qualcosa sotto la camicia. All'improvviso Katla smise di ridere e lo guardò con interesse. Sembrava esserci qualcosa di diverso in lui, qualcosa di sorprendente, impressionante persino. Incorniciato dalla meravigliosa volta celeste artificiale, tutta ori e argenti luccicanti sullo sfondo scuro, per un attimo Erno le sembrò Sur che sorgeva dall'oceano del Nord per guardare meravigliato il suo nuovo regno. Poi, con un imbarazzato cenno del capo, Erno fuggì, correndo come un
coniglio tra le bancarelle. Katla lo guardò finché non svanì dalla sua vista, poi scosse la testa come turbata da qualcosa e si rimise in piedi. Jenna, stringendo con trepidazione il suo sacchetto di denaro, era già entrata nel carro. Katla corse su per le scale per unirsi a lei. L'Errante era davvero uno spettacolo. Non era tanto il fatto che non aveva mai visto una donna calva, pensò Katla, ricordando la vecchia Ma Hallasen: i capelli le erano caduti, così si diceva, quando aveva appreso la notizia della morte del marito per mano di razziatori dodici anni prima. Segnata da quell'evento, ora viveva in una casupola lungo il fiume con l'unica compagnia di un gatto e di una capra. Ma Fezack Cantastelle, con la sua strana acconciatura di penne orgogliosamente irta sul capo, aveva la testa perfettamente ovale e del marrone brunito di una ghianda. Jenna aveva già aperto l'argine, tanto che la nomade, investita da un torrente di parole, cominciò ad agitare freneticamente le mani. Poi fischiò e gracchiò come una taccola e alla fine, con voce chiara, disse: «Ora calma, ragazza. Più piano per Fezack, per favore. Vecchie orecchie, mente lenta» e Jenna ripeté la sua richiesta, senza però tutta l'infiorettatura sul re e il suo cuore, sulla promessa di suo padre e su tutta la gente che ci sarebbe stata al Raduno. «Qualcosa per cui mi noti» concluse. «Qualcosa che attirerà la sua attenzione solo su di me.» La vecchia si chinò in avanti e toccò i capelli di Jenna. «Che bei capelli, come oro filato.» Jenna fece una smorfia. «Tantissime donne eyrane hanno i capelli così» disse. «Non è sufficiente perché lui mi noti. Non avete una pozione o qualcosa del genere?» Fezack sorrise. Aveva delle piccole gemme rosse incastonate nei denti che catturavano la luce come minuscole lucciole. Poi annuì con forza. «Ho quello che serve. Non a buon mercato, però.» «Non m'importa» rispose Jenna senza riflettere. Versò il contenuto del suo sacchetto nel palmo della vecchia. «Prendete quello che volete.» La vecchia chinò la testa sulla mano tesa di Jenna e scavò tra le monete con un'unghia lunga e ricurva. Alla fine pescò due o tre monetine e le strinse l'una dopo l'altra tra i denti per esaminarle. Poi le fece scivolare in una piccola tazza di ceramica su uno scaffale dietro di lei e andò sul retro del carro. «Spero che tu sappia quello che stai facendo» sussurrò Katla. «Io non so se mi fiderei di lei.»
Il mento di Jenna si sollevò in un gesto di ostinazione. «È la mia unica possibilità» disse risoluta. «Non devo lasciarmela sfuggire.» Fezack Cantastelle tornò un attimo dopo con una piccola fialetta di vetro. La mise in mano a Jenna e sollevando i suoi lunghi capelli dorati le bisbigliò qualcosa nell'orecchio in modo che Katla non potesse sentire. Poi si raddrizzò e aprì la porta per invitarle a uscire. Le due ragazze la salutarono inchinandosi con cortesia e un attimo dopo si ritrovarono fuori nel sole accecante, battendo le palpebre per il contrasto con l'interno tetro e mal ventilato del carro. La vecchia era sui gradini e le guardava. «Solo quando avrai il suo sguardo su di te» ricordò a Jenna, agitando severamente un dito. «Ricorda.» «Vedi le tette di quella lì, Joz?» «Mmm.» «La vedi, Mazza? La bionda robusta che cammina con quel ragazzetto magro laggiù vicino ai banchetti dei dolci?» «Sì. Molto carina.» «Non mi dispiacerebbe infilare la mia salsiccia nella sua pagnottina.» «Sei davvero uno sporcaccione, Dogo.» «E non solo a parole, ad avere la possibilità...» «Basta che tieni le tue manacce a posto quando ci sono io in giro.» «Sì, Mam.» Una pausa. Poi: «Eppure scommetto che ne hai di storie da raccontare, eh, Mam, di quando lo facevi per mestiere.» «Non sono storie per bambini piccoli, Dogo.» «Vieni da me questa notte e scoprirai che non sono tanto piccolo.» Un rumore di schiaffo. «Ahi! E questo per cos'era?» «I bambini non dovrebbero dire bugie.» «E chi parlerebbe più, allora?» 6 Un dono Fent Aranson e Tor Leeson si allontanarono in tutta fretta dal banchetto di sardonica, lasciando Halli a gridare loro dietro tutta una serie di inintelligibili oscenità. «Ben fatto, Tor. Non avrei potuto sopportare Halli un momento di più.
Da un po' di tempo parla solo di Jenna, Jenna questo e Jenna quello e poi non sa parlare d'altro che della nave lunga su cui ha messo gli occhi. È tutto il pomeriggio che mi decanta i benefici del mettere su famiglia: una bella moglie, guadagnare abbastanza denaro per comprare una fattoria, metterne da parte un po' ogni giorno, non spendere tutti i soldi - tutti i miei soldi, per Sur! - in donne e nel bere!» «Pensavo che ci tenesse molto a viaggiare nell'Estremo Occidente.» «Solo per ottenere il denaro e comprare terra e bestiame, non per divertimento, non come me.» «È un barboso conformista, tuo fratello maggiore» sentenziò Tor. «Non è capace di divertirsi. Jenna Finnsen... bah, tutta ciccia e abiti eleganti, quella lì. Io preferisco una ragazza con un po' più di sostanza, un po' di immaginazione e un po' di muscoli, pronta ad avvinghiarmisi addosso per un paio d'ore e poi contenta di andarsene per la sua strada.» Il giovane fece un sorriso crudele, poi scosse la testa. «Donne: non sono altro che un peso per uomini come te e me.» Fent lo guardò con la coda dell'occhio. «Non sei riuscito a guadagnarti i favori di mia sorella, eh?» «È una vipera, con tanto di morso avvelenato. Ma a me piacciono le donne con un po' di mordente.» «Giusto.» Fent rise. «Il quartiere nomade?» «Il quartiere nomade.» «Donne o vino?» «Entrambi!» «Andiamo a prenderci una bella e chiassosa sbronza.» «Andiamo a prenderci una bella e chiassosa sbronza e a trovarci un paio di puttane erranti da scopare fino alla morte!» Saro Vingo si allontanò di soppiatto dal padiglione di famiglia non appena poté. Non ne poteva più di suo fratello che blaterava della sua futura moglie. «Una volta che l'avrò nel mio letto, non potrà alzarsi per un mese» continuava a dire. «Ma hai visto quella bocca? Non vede l'ora, stanne certo.» In quei momenti Saro si vergognava di essere un Vingo, e persino di essere istriano. Oppure essere un uomo significava questo? Camminò attraverso le bancarelle a testa bassa, evitando gli occhi dei passanti. Era così che tutti gli uomini parlavano delle loro mogli? Di certo suo padre non aveva mai parlato così di sua madre... Illustria, così alta e serena, la bocca dipinta di sobri prugna e viola, che parlava a
voce così bassa che tutti nella stanza tacevano per sentire quello che aveva da dire: forse anche Fabel una volta l'aveva chiamata puttana e si era vantato con gli altri di ciò che gli sarebbe piaciuto farle? Saro arrossì, sentendosi coinvolto in virtù del suo stesso sesso nella potenziale umiliazione della ragazza e sapendo che lui non era certo migliore. Le cose che gli erano venute in mente da quando aveva visto quella ragazza barbara sulla Rupe... La sua scarsella tintinnava a ogni passo, facendogli venire in mente un'idea: avrebbe comprato un regalo a sua madre, qualcosa di esotico, qualcosa a cui nessun altro avrebbe pensato. Con passo risoluto si diresse verso il quartiere nomade. Quando raggiunse i primi banchetti il sole aveva appena cominciato la sua lunga e lenta discesa verso il mare, gettando una strana luce su ogni cosa. Era bizzarro e allo stesso tempo eccitante camminare per la fiera, in quella zona della fiera, da solo. Piccoli fremiti di impazienza gli percorsero la schiena. Chi sapeva che tipo di avventure avrebbe potuto avere, quale gente strana avrebbe potuto incontrare? Si fece strada tra le innumerevoli bancarelle che offrivano chincaglieria e stoffe dai ricchi disegni, cibi dall'odore esotico e fiaschi di chissà quali strane bevande. Intorno a un banchetto specializzato in araque aromatizzato si era riunito un nutrito gruppo di giovani chiassosi che bevevano assaggi di liquore e riducevano al silenzio con le loro grida il padrone del banchetto, un vecchio raggrinzito senza un dente in bocca. Saro si allontanò in fretta. Comprò un pasticcino speziato e si fermò per un po' davanti a un teatro di marionette. Su un palcoscenico dai colori sgargianti, in un chioschetto di stoffa a righe nel quale si nascondevano i marionettisti, tre grotteschi fantocci piantati su bastoni e mossi da fili chiacchieravano camminando su e giù. Avevano dita lunghe e sottili e nasi a punta, arti sottilissimi e abiti dorati. Saro non aveva idea di cosa rappresentassero le figure, e quando un quarto personaggio fece la sua entrata, una marionetta più piccola con un abito bianco che il pubblico applaudì come fosse un eroe, continuò a guardare sempre più perplesso. Questa condusse le tre più grandi in un viaggio attraverso una tavola di montagne dipinte e poi in un buco scuro nel fondale. Poi batté le sue mani di legno e un grande sbuffo di fumo verde avvolse il palcoscenico, con grande gioia degli spettatori. Quando il fumo si diradò le tre figure più grandi erano svanite, lasciando solo quella bianca, con un minuscolo gatto di legno ai suoi piedi, e tutti applaudirono. Saro si ritrovò
a fare lo stesso: gli sembrava un atto di cortesia dovuto. Una ragazza bassa dai capelli scuri con un anello d'argento al naso e un altro sul sopracciglio destro uscì improvvisamente dal fondale e si inchinò; poi con uno stravagante gesto della mano produsse una grossa sacca di pelle, che tese di fronte a sé. Gli astanti cominciarono a gettare monete nella borsa, poi si allontanarono. Saro fu l'ultimo. Quando gli si avvicinò la ragazza unì i palmi delle mani e si inchinò a lui. «Rajeesh, mina Istrianni» disse. Saro tentò goffamente di imitare il suo inchino e ripeté lo strano saluto, che per una qualche ragione la fece scoppiare a ridere. Poi Saro le chiese, lentamente e scegliendo accuratamente le parole dell'Antica Lingua, cos'era quello che aveva appena visto. «Rahay e i Maghi!» esclamò la giovane sorpresa. «Non sai proprio niente?» Saro fece una smorfia. «A quanto pare no. Sono arrivato alla fine dello spettacolo e ho visto solo l'ultima scena.» «Vieni con me mentre preparo il chiosco per lo spettacolo di questa sera e ti racconterò la storia, se vuoi.» «Mi piacerebbe molto.» La ragazza scomparve nel chioschetto e cominciò a ripulire il palcoscenico dalla polvere dell'esplosione con le mani, poi con un sorriso gli mostrò le palme. Erano di un verde luccicante. «Vuoi sentire l'odore della magia?» Saro rise. «Magia? Quella è solo polvere verde!» «Forse ora lo è, ma nella storia...» Gli tese la mano e lui la prese per un attimo tra le sue. Le sue dita era minuscole, come quelle di un bambino. La polvere aveva un odore aspro, pungente e assolutamente sconosciuto: l'odore di un altro paese, di un altro mondo. In una voce cantilenante la giovane cominciò il suo racconto: Rahay era dell'Occidente il re, Saggio e prodigo come non ce n'è. In pace regnava, nell'oro nuotava E la sua gente ricca e felice viveva. Ma s'appressavano eventi funesti Perché su una nave partirono lesti Tre maghi stranieri, sentito dell'oro,
Per rubare del saggio re il tesoro. Giunser dal mare alla sua corte (Sugli scogli la nave trovò la morte), E re Rahay, uomo furbo e astuto, Sorridendo rivolse loro tale saluto: «Se desiate restare nel ricco mio regno di tre desideri pagare dovrete il pegno.» I maghi accettaron con gioia di esaudire Pensando già a come la promessa tradire. «Anelo del monte muovere la roccia, dal cielo chiamare di fuoco una freccia» Questi furon due dei desideri del re. Ma i maghi ricordaron che in tutto eran tre. «Di magica arte riempite il mio gatto: in codesto modo suggelleremo il patto.» Le mani al gatto imposero i maghi... «Fatto» dissero, e sorrisero vaghi. Per tre di si ubriacarono e operaron sconcezze, i tre maghi si macchiaron di orrende nefandezze. Su di loro attirarono la malasorte Persino a un bambino diedero la morte. Ma poi il re li portò sulle colline Dove gli antri brillavan dell'oro più fine Tutto accadde in un lampo: I maghi intrappolò senza via di scampo. Dal cielo un fulmine tosto chiamò e in due la grotta si spezzò. Poi pronunciò della magia le parole eterne, La roccia mosse a coprir le caverne. Tornato a corte accarezzò il gatto
Finché ogni incantesimo non gli fu fatto. Ricco e fecondo il suo regno diventò E per sempre il suo popolo lo adorò. Rahay era dell'Occidente il re, Saggio e prodigo come non ce n'è. In pace regnava, nell'oro nuotava E la sua gente ricca e felice viveva. La ragazza si ripulì le mani macchiate di verde sulla tunica. «L'Antica Lingua non ha la rima nello stesso punto dell'originale, così mi dicono, ma questa è la versione che mi hanno insegnato. E se avessi dovuto seguire le tradizioni, avrei dovuto accompagnarlo con la cetra, ma la mia è così scordata che dovresti ringraziarmi per la non averla presa!» Saro mise la mano nella scarsella e tirò fuori una moneta d'argento. «Ti ringrazio ugualmente» disse, porgendogliela. «Mi è piaciuto molto il tuo racconto.» La ragazza la spinse via. «Non insultarmi con il tuo denaro: questo non era uno spettacolo a pagamento. Ho scelto io di raccontarti la storia. Consideralo un mio dono per te, in occasione della tua prima Grande Fiera.» «Come lo sai?» Saro le sorrise e fu felice di vederla rispondere al sorriso, gli occhi scuri che illuminavano il viso liscio e abbronzato... Il suo viso di donna completamente nudo. Saro provò un'improvvisa vergogna per quel pensiero e chinò la testa per nascondere il rossore. Quando la sollevò di nuovo, la ragazza lo stava scrutando attentamente. «Mi fissi come se non avessi mai visto il volto di una donna prima d'ora.» Saro si sentì stupido. «Mi spiace, davvero» balbettò. «È solo che dal paese da dove provengo le donne non mostrano i loro volti. Indossano un velo che lascia scoperte solo la bocca per mangiare, parlare e...» «Tu sei Istriano.» Saro annuì, anche se quella della ragazza non era una domanda. «La tua gente ha strani modi con le donne.» La nomade rise, raccogliendo le marionette e districando i fili e i bastoni che aveva lasciato cadere alla fine della rappresentazione. «Nasconderle in quel modo per gelosia. Gli uomini devono avere una gran paura.» Passò una delle marionette a Saro, che la prese con attenzione. Era di squisita fattura: scolpita dalle ma-
ni di un maestro, con ogni fattezza e ogni dito delineato con estrema cura. Spostò una delle aste e uno degli arti si mosse; vide come si poteva muovere ogni singolo dito, per fare diversi gestì, persino il pugno. Pensò a quello che la ragazza aveva detto, girando e rigirando la marionetta tra le mani con curiosità. Alla fine disse: «Si dice che il potere di Falla brilli negli occhi di una donna. Forse abbiamo paura di quel potere.» La ragazza rise. «E fate bene! Ora dammi quel mago prima che tu gli tolga tutto l'oro di dosso.» Mise a posto tutte le marionette in una pratica scatola di legno con scompartimenti per tenere le aste e i fili separati. «Allora, cosa ci fai qui in mezzo ai Viaggiatori durante la tua prima fiera, mio giovane signore?» «Sono venuto a cercare un dono per mia madre.» «Bravo ragazzo.» La nomade lo guardò con approvazione. «Alle donne piacciono i regali. Hai qualcosa in mente?» Saro scosse la testa. «Un gioiello, forse» aggiunse in tono poco convinto. La giovane batté le mani. «Ti porterò da mio nonno, allora. È specializzato in pietre dell'umore, incastonate in collane e braccialetti, anelli e spille, o meglio ancora sciolte, da tenere in mano. Tua madre ne rimarrà incantata.» «Ma perché sono chiamate pietre dell'umore?» «Perché cambiano colore a seconda dell'umore di chi le porta.» Saro rise. «E come può una pietra fare una cosa del genere?» La ragazza si strinse nelle spalle. «Chiedilo a mio nonno: è lui l'esperto.» «In pietre?» «No, sciocchino: in umori.» Il banchetto del vecchio nomade era proprio dietro quello dell'araque che Saro aveva notato prima, ma la folla ora era aumentata, sia nelle dimensioni che per la confusione. Giovani Istriani con le facce ben rasate e tuniche ricamate bevevano fianco a fianco con uomini del Nord con trecce e farsetti di pelle, e anche se dava un'impressione strana vederli così vicini, sembrava che l'universalità di una buona bevuta li avesse accomunati in allegria: un giovane, che sembrava Ordono Qaran di Talsea, aveva un braccio intorno alle spalle di un Eyrano con barba e capelli chiarissimi, e tutti cantavano una vecchia canzone da ubriachi, ciascuno nella propria lingua, ma più o meno con la stessa intonazione. Saro riconobbe altri ragazzi, tutti amici di suo fratello e di qualche anno più grandi di lui, per la maggior
parte compagni di caccia e di allenamento: Diaz Sestran, con un ridicolo farsetto arancione e argento, Leonic Bakran e... oh, Falla, lì c'era anche Tanto in persona, che barcollava col volto acceso e gli occhi annebbiati scolandosi le ultime gocce di una fiaschetta viola. Saro sospirò e accelerò il passo. «Li conosci?» chiese la ragazza con curiosità, guardando le loro pagliacciate. Uno degli Istriani aveva sollevato un Eyrano e lo stava portando in giro sulle spalle. L'Eyrano, un giovane dai capelli rossi lunghi e il sorriso crudele, brandiva un coltello dall'aspetto sinistro. «C'è mio fratello, purtroppo» rispose Saro a denti stretti. «E tu non hai voglia di unirti a lui?» «Nessuna. Sono venuto qui per evitarlo.» La ragazza rise. «Si sta divertendo troppo per notarti. Vieni.» La bancarella del nonno della nomade era piena zeppa di catenine e oggetti luccicanti, tutti con pietre bianco latte incastonate e lucidate fino a farle brillare. Il vecchio stesso le portava alle dita, alle orecchie e al braccio, inserite in fasce. Aveva persino una singola pietra dell'umore al centro della fronte, appesa a un sottile cerchietto d'argento, come un enorme terzo occhio. E a differenza di quelle sul banchetto, di un pallido bianco opaco, la pietra indossata dal vecchio aveva tutte le tonalità di un cielo privo di nubi. «Nonno!» «Guaya, mia cara.» Gli occhi neri del vecchio erano piccoli, rotondi e luminosi come quelli di un pettirosso. Inclinò la testa per guardare la ragazza, poi dall'altra parte per studiare Saro, proprio come un uccellino. «Questo è il mio amico...» «Saro» si affrettò a dire il giovane. «Il mio amico Saro vuole qualcosa per sua madre.» Saro sorrise al vecchio. Lei, Guaya, l'aveva chiamato 'amico', e anche se era solo una straniera che non poteva avere più di dodici o tredici anni, Saro si sentì riscaldato da quelle parole. «Guaya» inciampò sulla pronuncia: la lingua nomade aveva un po' troppe sillabe per i suoi gusti «Guaya ha detto che le vostre pietre cambiano colore a seconda delle emozioni di una persona...» Senza dire una parola, il vecchio prese un ciondolo, una pietra lunga a forma di pera sospesa a una sottile catena d'argento con una montatura molto semplice. Era elegante e raffinata e quando il vecchio la toccò la pietra assunse subito quelle tonalità di blu che avevano le altre pietre che
indossava. La porse a Saro e immediatamente il colore cambiò, passando a un ocra e un giallo mostarda. «Tu sei felice in questo momento, anche se nel tuo intimò provi un sentimento più forte: ira, forse, o persino paura.» Saro lo fissò a bocca aperta. Guaya si chinò in avanti e gli prese la collana dalle mani. Gli ocra si trasformarono in un luminoso oro. Il vecchio rise. «È un'anima candida, la mia Guaya, e molto serena.» «È un oggetto delizioso» mormorò Saro. Studiò gli altri oggetti esposti, ma il vecchio aveva scelto senza dubbio il migliore. «Quanto vorreste per questo?» Stava per aprire la sua scarsella e tirare fuori il contenuto quando ci fu un urlo più forte dalla bancarella adiacente, seguito da un forte schianto e molte grida. «Sta succedendo qualcosa laggiù, Doc.» «Un po' di baraonda, Joz.» «Ci mettiamo al lavoro, Mazza?» «Sì, perché no? Non mi dispiace una bella rissa alla Grande Fiera.» «Non si può mai sapere chi ci si può ritrovare a picchiare!» «Tu vieni, Mam?» «Non essere stupido: non veniamo pagati per questo genere di cose.» «Fa' come ti pare.» «Non mi dispiacerebbe prendere uno di quei gaglioffi istriani a calci nelle palle.» «Solo sta' attento, Dogo: sono un tantino più grandi di te.» «E correvan giù a frotte, andavano a prendere le botte...» Il nobile Tycho Issian stava attraversando la fiera, dopo aver finalmente trovato un temporaneo sollievo alle sue pene per mano di una donna di carnagione scura con conchiglie intrecciate fra i capelli (anche se per tutto il tempo che aveva lavorato su di lui Tycho non aveva fatto altro che pensare a un paio di mani bianche e a due occhi verde mare), quando notò un certo trambusto a uno dei banchetti di liquori. Due giovani si stavano azzuffando, ma fortunatamente non sembravano armati. Quello alto e biondo fece scattare il pugno e colpì il giovane istriano proprio sotto le costole. Quando questo, vestito con un abito rosso ciliegia stranamente familiare, si piegò su se stesso, l'Eyrano sollevò bruscamente il ginocchio e il suo av-
versario si accasciò al suolo, stringendosi i genitali e gemendo. Ci fu un momento di quiete, sembrò che l'incidente fosse finito lì: qualcuno avrebbe potuto fare la battuta giusta e tutti sarebbero tornati a bere. Ma in quel momento di silenzio innaturale il biondo gridò: «Prendi questo per quella puttana della tua dea, schifoso bastardo! Falla aprirà la gambe davanti a Sur e lo ringrazierà per la concessione!» Tycho si bloccò, raggelato. Il sangue gli affluì al viso e poi defluì, lasciandolo pallido come un uomo del Nord. Davanti al banchetto si scatenò l'inferno. Fino a un attimo prima i giovani avevano anche potuto essere compagni di bevute e di scherzi grossolani, ma adesso erano solo Istriani ed Eyrani, adoratori della Dea e seguaci di Sur. La storia e la religione li separavano più ancora della lingua, della cultura e del sapere: nemici per più di un centinaio di generazioni durante l'ascesa e la caduta di innumerevoli dinastie, la distruzione di città, la profanazione di templi, i giovani ricordarono in quel momento con feroce passione a quale dei due mondi appartenevano di diritto e attaccarono con improvvisa e sbalorditiva violenza. Rancori serbati per più di duecento anni vennero inaspettatamente in superficie; offese subite raccontate dai familiari accanto al fuoco; nonni morti e genitori feriti; fortune perdute in guerra e debiti inestinguibili. Il banchetto si rovesciò con un forte schianto mentre il piccolo nomade che lo gestiva scappava da una parte all'altra come un topo in trappola tentando di schivare i colpi. Poi, con un grido, quattro uomini in armatura si gettarono nella mischia e cominciarono a tirare pugni a caso, senza curarsi se colpivano Eyrani o Istriani. Per un po' sembrò che la loro intrusione potesse calmare gli animi; ma un giovane dai capelli di fuoco tirò fuori un coltello e improvvisamente ci fu sangue sulla sua lama argentata. Un giovane istriano con un assurdo costume arancio e argento cadde al suolo con le mani strette sulla pancia. Il figlio minore di Sestran, si rese conto Tycho con un sussulto. Anche la sua mano andò al pugnale che portava alla cintura, ma le sue dita non avevano ancora toccato l'impugnatura che la rissa si era già riaccesa e aveva coinvolto un'altra bancarella. Due giovani del Nord indietreggiarono, fronteggiati da quattro o cinque del Sud. Uno degli Eyrani era il giovane alto dai capelli rossi che aveva ferito il giovane Sestran. Sollevò la mano con il coltello, una minaccia, a quanto pareva, ma due del Sud gli furono addosso e glielo strapparono via. Un Istriano alto con corti capelli scuri e un grosso naso gridò di trionfo e si gettò sull'Eyrano con il suo col-
tello in mano. Il giovane del Nord tentò di fuggire, ma così facendo indietreggiò finendo contro la bancarella del gioielliere, che in parte lo stava nascondendo alla vista. «Saro!» Guaya gli strinse il braccio terrorizzata: all'improvviso fu pieno di uomini che si azzuffavano. Ci fu un acuto gemito di disperazione e Saro si voltò giusto in tempo per vedere il vecchio sparire alla vista mentre il suo banchetto si rovesciava in un turbinio di tavole e tendaggi. Le pietre dell'umore volarono dappertutto, brillando del più scuro cremisi e porpora se toccarono la pelle di un uomo, per poi ricadere bianche e inerti al suolo. Un paio di uomini stretti in un violento abbraccio venne verso di loro, le facce contorte dall'odio, i pugni che roteavano ferocemente. Saro afferrò Guaya e la spinse dietro di sé. La sentì tremare nella sua presa. Poi qualcuno gli tirò un violento colpo alla tempia e Saro cadde al suolo, la polvere nera della pianura in bocca e negli occhi, e i piedi degli altri uomini che lo calpestavano e lo prendevano a calci. Nel punto in cui era stato colpito gli sembrò che il cranio si fosse gonfiato a dismisura, il sangue che pulsava dolorosamente al suo interno. Tentò di alzare la testa e una tremenda ondata di nausea lo investì. Qualcuno gli diede un calcio in pancia e Saro si piegò in due, vomitando. Con un tremendo sforzo riuscì a rotolare sotto quello che rimaneva del banchetto, per ritrovarsi faccia a faccia con il vecchio, il sangue che gli scorreva copioso sul viso da un brutto taglio sulla fronte. La pietra che aveva lì brillava chiara e limpida, un blu tenue, quasi bianco in mezzo a così tanto rosso. «Nonno!» All'improvviso Guaya gli fu accanto, i capelli pieni di sangue e la tunica mezza strappata. Grosse lacrime le rigavano le guance scure. Appoggiò la testa del vecchio sul suo grembo. «È gravemente ferito: dobbiamo portarlo via di qui.» Saro annuì frastornato: era il massimo che poteva fare. Chiuse gli occhi e inghiottì un fiotto di bile che gli era salita in gola. Poi si trascinò in piedi, usando uno dei pali della bancarella come supporto. Quello che vide fu sbalorditivo: sembrava un campo di battaglia. Due uomini si contorcevano al suolo: uno era Diaz Sestran, si rese conto Saro con un brivido, l'altro era un giovane Eyrano con i capelli castano chiaro e trecce sulla barba. Aveva una profonda ferita sulla coscia da cui sgorgava un fiotto di sangue. Intorno a loro una dozzina circa di giovani se le stava dando di santa ragione,
con coltelli o bastoni ricavati dai pali spezzati dei banchetti, e nell'aria echeggiavano grida di rabbia e di violenza. Saro si chinò e tirò in piedi il nomade. Il vecchio era leggero come un fringuello, tutto pelle e ossicini che sembrava potessero spezzarsi come ramoscelli sotto le sue mani. Guaya corse dall'altra parte, infilò la spalla sotto una delle ascelle del nonno e insieme cominciarono a trascinarlo via. Ce l'avrebbero fatta, se non fosse finito loro addosso un uomo basso con una vecchia armatura di cuoio. Un alto Istriano con una tunica rosso ciliegia che lo inseguiva con un coltello d'argento in mano. L'uomo basso prese Saro per un braccio facendolo roteare e il vecchio fu strappato alla sua stretta e gettato in avanti. Ci fu un rumore di impatto, una specie di scricchiolio, seguito da un orribile grido affannoso, e quando Saro ritrovò l'equilibrio vide Guaya, il viso distorto dal dolore e dall'odio, che tentava disperatamente di colpire suo fratello Tanto con i piccoli pugni, e il vecchio disteso a terra con il coltello piantato nel petto. Tanto la stava tenendo lontana da lui con la mano aperta poggiata sulla sua fronte e un'espressione di puro disgusto sul viso. Poi le diede una forte spinta, si voltò, posò il piede sul petto del vecchio, recuperò il coltello e si allontanò. Saro, inchiodato sul posto, lo fissò incredulo. L'uomo basso che Tanto stava inseguendo svanì tra la folla. Con un urlo orribile, Guaya cadde piangendo sul corpo del nonno. Il vecchio sollevò lentamente la mano verso di lei e le accarezzò una guancia. I suoi occhi erano spenti. Saro si inginocchiò accanto a loro, troppo sconvolto per fare qualcosa per aiutarlo. Nel punto da cui Tanto aveva tirato fuori il coltello un getto di sangue sgorgava inesorabile dalla ferita, macchiando la tunica bianca del nomade. Saro lo guardò quasi affascinato, poi istintivamente posò le mani sulla ferita, tentando di fermare l'emorragia. Il sangue gli sgorgò tra le dita, piccole fontane dense e inarrestabili. Così tanto sangue... Saro non riusciva a immaginare come il corpo di un uomo potesse contenerne così tanto, e meno che mai il corpo di un uomo così fragile, così anziano. Sentiva il veloce e debole pulsare del suo cuore che si dibatteva come un uccellino in gabbia sotto la sua mano. Spinse di nuovo, più forte. E mentre spingeva, il vecchio girò la testa. I suoi occhi scuri penetrarono in Saro e la nausea tornò a farsi sentire, diversa questa volta, più simile a un capogiro. Poi il nomade posò la mano sulla sua e sussurrò qualcosa in una lingua che Saro non capiva, una lingua costellata di piccoli getti d'aria che in un uomo più forte sarebbero stati dei suoni sibilanti. E poi morì. Saro capì l'esatto momento in cui lo spirito del noma-
de lo abbandonò, e non solo per il modo in cui i suoi occhi si spensero e la sua bocca si spalancò come in un'espressione di rammarico, ma perché la pietra dell'umore sulla sua fronte perse tutto il suo colore, sbiadendo dalle più tenui tinte pastello a uno squallido e uniforme grigio. Saro sentì la propria mente diventare una fredda, chiara pozza di calma, un placido laghetto di montagna, la superficie priva anche della più piccola onda. Tutto intorno ci fu un momento di assoluta pace... e poi Saro fu investito da una serie di forti rumori: l'acuto grido di una donna sconvolta; urla di uomini, infuriati o terrorizzati; il pianto di un bambino. Saro sollevò la testa. Tanto era in piedi a una certa distanza, lo sguardo vuoto, inespressivo. Accanto a lui c'era il nobile Tycho Issian, la mano sulla sua spalla... Una mano che approvava, si rese conto Saro in quel momento di assoluta chiarezza, non una mano che fermava. Una vecchia corse verso di lui, le braccia tese, il viso pitturato striato di lacrime. Cadde in ginocchio accanto al morto e cominciò a coprirgli il volto di baci. Improvvisamente imbarazzato davanti a tanto dolore e intimità, Saro si alzò e il sangue scivolò via dal suo corpo in grandi torrenti. Le sue mani ancora gocciolavano. Si voltò e cominciò ad allontanarsi, da quella scena di morte, dal fratello e dai curiosi... ma all'improvviso una mano gli strinse il braccio. E Saro fu sommerso da un'ondata di dolore e disperazione: qualcuno aveva ucciso suo nonno, senza necessità, con disinvoltura, e poi se n'era andato; era morto di fronte a lei, la luce era svanita dai suoi occhi. Paura, una terribile paura: perché nonna avrebbe avuto il cuore spezzato, e chi avrebbe badato a loro ora che suo nonno non c'era più? Saro batté le palpebre, scosse la testa. La mano ricadde, e con essa se ne andò il caos di emozioni, lasciandolo come un pesce gettato fuori dall'acqua, che si dibatte debolmente in un ambiente sconosciuto. Guardò in basso. Guaya, la ragazzina, era in piedi accanto a lui, gli occhi grandi e pieni di lacrime. Tese la mano, porgendogli il ciondolo che Saro aveva scelto per sua madre. Nel palmo della ragazza la pietra aveva assunto il blu del cielo d'inverno, striato di pallidi filamenti color porpora come al tramonto. Saro intuì il dolore e la paura di lei, ma non fu la pietra a comunicarglieli: sentiva dentro di sé qualcosa di nuovo e spaventoso, qualcosa che gli era entrato nell'anima come un ospite indesiderato. «Ha detto che voleva farti un dono» disse la ragazza con voce pacata. «Credo che intendesse questo.» Saro scosse lentamente la testa. «No» rispose. «Non la collana, non era
quello che intendeva.» Sorrise, e sentì le lacrime cominciare a cadere. La ragazzina lo fissò senza capire, poi gli spinse ugualmente il ciondolo nella mano e fuggì via. 7 Rosa del mondo Al sicuro nel suo carro nel quartiere nomade, Virelai aveva guardato la rissa con interesse e con non poco timore. Aveva visto il banchetto di pietre dell'umore rovesciarsi con uno forte schianto, e il vecchio sparire sotto una baraonda di gente infuriata. Aveva visto un piccolo e grasso mercenario tentare di sfuggire alla furia di un giovane Istriano alto il doppio di lui e vestito con una terribile tunica rosso ciliegia che senza dubbio aveva fornito al mercenario ampio spunto per le offese che avevano acceso l'ira dell'uomo del Sud. Poi l'aveva visto finire dritto contro il vecchio Hiron e spedirlo contro la punta del coltello dell'inseguitore. Una scena straordinaria per una persona cresciuta negli angusti confini di Santuario, dove la sua unica esperienza di violenza era stata limitata a un occasionale ceffone sull'orecchio. Ma l'indifferente brutalità con cui l'Istriano aveva poi recuperato il suo coltello insanguinato, appoggiando addirittura un piede sul petto del morto per fare leva, l'aveva lasciato in uno stato di profonda agitazione e allo stesso tempo di perversa eccitazione. L'azione era stata segno di qualcosa di più profondo e di più oscuro della semplice crudeltà. Aveva rivelato un'indifferenza per il valore della vita umana, un'ossessione per se stesso con l'esclusione di tutto il resto, uno smodato, violento egoismo. Virelai non credeva che esistessero uomini capaci di un tale aberrante comportamento, e non era più riuscito a staccare gli occhi da quell'uomo, affascinato e disgustato allo stesso tempo. Guardò l'assassino passare lentamente tra la folla per andare da un nobile vestito con abiti di seta semplici, ma eleganti. Con un sussulto, Virelai riconobbe la persona che proprio quel pomeriggio gli aveva offerto del denaro, il matrimonio, e per poco anche la sua anima per la donna (se tale poteva essere definita) che giaceva tranquilla sul letto dietro di lui. Un uomo che se n'era andato a mani vuote, e con intenzioni omicide negli occhi. Che strana gamma di emozioni possedevano questi uomini, pensò, così estreme... e ogni reazione così esagerata rispetto alle circostanze che l'avevano provocata. Sembravano un genere di umanità completamente
diverso dai nomadi con cui aveva viaggiato negli ultimi mesi, per quanto anche i Viaggiatori fossero molto dissimili tra di loro. Gli Erranti, come li chiamavano gli stranieri, erano placidi, gentili l'uno con l'altro, gentili persino con l'ultimo dei loro animali. In tutti quei mesi Virelai non aveva mai visto nessun nomade alzare la voce o la mano su un altro. Questi altri, invece, gli ricordavano i cani selvaggi che si erano messi alle calcagna di uno yeka che avevano perso nelle Pianure, e l'avevano divorato pezzo per pezzo, come se infliggere la maggiore violenza possibile alla carne della povera bestia fosse già di per sé una ricompensa. E mentre i nomadi vivevano allegramente alla giornata, questi altri tramavano per ottenere ricchezza e potere, pensando al modo in cui poter controllare e manipolare il prossimo, e sfruttarlo insieme al mondo che condividevano. Virelai aveva guardato e imparato. La loro avidità e la loro ingenuità lo avevano sorpreso, al pari della propria ingegnosità. Se il Padrone gli aveva insegnato qualcosa, era proprio come usare il cervello, e lui aveva messo crudelmente a frutto quella capacità. Imitando il tono misterioso e autoritario di Rahe, e usando i luccicanti pezzi di metallo che aveva preso da Santuario (se per capriccio o per una sorta di premonizione non avrebbe saputo dirlo) e le mappe copiate dalla biblioteca, Virelai aveva già trovato una mezza dozzina di creduloni, cacciatori di tesori e di gloria disposti a intraprendere il rischioso viaggio verso Nord. Di certo uno di loro sarebbe riuscito a superare le tempeste e i banchi di ghiaccio e ad arrivare alla fortezza per eliminare il vecchio per sempre... La maledizione che Rahe aveva messo su di lui, e che ricordava ogni anno il giorno che scherzosamente definiva il 'comple-vita' di Virelai, gli impediva di uccidere il Padrone con le sue mani. Temeva che si avverassero le tremende immagini che il mago gli aveva fatto apparire nella mente: torture per mano di demoni senza volto, lande desolate, infinite agonie... Spedire il vecchio in un lungo, lunghissimo sonno finché qualcun altro non assolvesse a quel compito gli era sembrato tuttavia un ottimo metodo per aggirare i dettami del sortilegio. Ma cosa fare con la Rosa Eldi? C'era molto da guadagnare con lei, denaro e potere, se solo fosse riuscito a pensare con chiarezza... Come se i pensieri di Virelai avessero sfiorato la sua mente, la figura dietro di lui cominciò a muoversi. «Cosa c'è, Lai?» La donna si alzò con un unico, agile movimento per sbirciare fuori dalla porta da sopra la spalla di Virelai. La gatta, invisibile nell'oscurità del carro, cominciò a fare le fusa. «Cosa hai visto?»
Ciocche dei suoi capelli biondissimi gli sfiorarono la guancia, facendolo rabbrividire suo malgrado. Un brivido che non riuscì a trattenere gli attraversò pelle, muscoli, fibre e ossa per mettere fermamente le radici nel suo inguine. È il momento di un'altra misura di bromo, pensò tetro, per tenere a bada la sua diabolica influenza. Aveva scoperto che l'estratto di avena selvatica era l'unico rimedio per placare il bruciante desiderio che sentiva costantemente in presenza della donna. Fortunatamente, più si allontanava da Santuario più le sue pozioni facevano effetto, come se il dominio del Padrone su di lui scemasse man mano che la distanza tra loro aumentava. Ma il potere della Rosa Eldi non accennava a diminuire. Il viaggio in barca era stato il momento peggiore, perché allora non aveva avuto del bromo da prendere. Era colpa sua, si rimproverò Virelai, in primo luogo perché l'aveva portata via e poi per aver aperto quel maledetto baule invece di gettarlo in mare o venderlo al primo mercante. Aveva sollevato il coperchio durante un periodo particolarmente noioso in mare: con la magia che gonfiava le vele e il miagolio del gatto finalmente cessato grazie a un pezzo di stoffa stretto intorno al muso, Virelai non aveva avuto nient'altro da fare che fantasticare sulla creatura rubata. Un solo sguardo a quegli straordinari occhi e Virelai era stato perduto, sopraffatto da incontrollabile lussuria. Il problema era che anche se lei fosse stata disposta, e stranamente non era sembrata dimostrargli antipatia, il corpo di Virelai non sembrava equipaggiato per portare a termine l'atto che tanto desiderava. Per lui era stata una scoperta davvero strana, dopo aver vissuto a lungo un'esistenza isolata e innocente. Perché anche se la vista della creatura faceva ardere tutto il suo corpo di desiderio, un fuoco che si concentrava essenzialmente nel suo inguine, in presenza della Rosa Eldi, la carne in quel punto si rifiutava di essere all'altezza della situazione, rimanendo pallida e flaccida sin da quando l'aveva toccata per la prima volta nella stanza del Padrone. Era davvero un mistero, pensava Virelai: un mistero maledettamente strano e ingiusto. E ancora più ingiusto era il fatto che il gatto si era dimostrato inutile in quel particolare caso. Un fatto straordinario, davvero, considerata la quantità di magia che conteneva. Se non fosse stato per l'avena selvatica, e per il guaritore nomade che ne aveva gentilmente suggerito l'uso, di sicuro sarebbe impazzito. «Non c'è niente da vedere ora» disse, allontanandosi con cautela per evitare un ulteriore, e pericoloso, contatto. «C'è stata una lotta e qualcuno è stato ucciso.»
Gli occhi verdi come il mare si spalancarono. Virelai si affrettò a distogliere lo sguardo. «Ucciso?» La Rosa Eldi si accigliò. «Reso morto?» La sua comprensione di tali concetti era ancora notevolmente limitata, nonostante tutti i suoi sforzi per istruirla, e persino la sua capacità di parlare e capire l'Antica Lingua era stata lacunosa in principio, come se il Padrone non la considerasse una dote importante in una creatura da usare solo in un modo. «Sì, reso morto» rispose con voce piatta. «Chi era?» Adesso era impaziente di sapere: si sentiva dal tono della sua voce. Era strano, rifletté Virelai, che lei avesse imparato a usare toni di voce diversi, mentre tutto quello che diceva lui, che pure le aveva insegnato a parlare, rimaneva caparbiamente privo di inflessioni, per quanto si sforzasse di porvi rimedio. «Era Hiron Nebbiamarina, il venditore di pietre dell'umore.» «E com'è giunto alla sua morte?» «È stato pugnalato al cuore da un giovane Istriano... o piuttosto, è finito sul suo coltello.» La Rosa Eldi rifletté per un momento. «Non puoi fare niente per lui?» chiese alla fine. Virelai si girò e la guardò con curiosità, mentalmente preparato al turbamento che quello sguardo gli avrebbe procurato. «Io non sono il Padrone» mormorò. «Nel caso tu l'abbia dimenticato.» A quel punto lei sorrise e sulle sue guance si formarono due deliziose fossette. «Non l'ho dimenticato» rispose. «Come potrei?» Prese in braccio il gatto e se lo strinse al petto. Due paia di sfavillanti occhi verdi lo guardarono senza emozione. «Ma guardatevi! Tutti sporchi di sangue, con gli abiti laceri e la puzza di piscio e di araque che si sente da lontano un miglio. Avete portato il disonore su voi stessi e sul clan dei Rocciacaduta.» Aran Aranson camminava su e giù per la bancarella, l'espressione rabbuiata e le sopracciglia che formavano un'unica linea nera sulla fronte. «Tor: come più anziano dei due e mio figlio adottivo mi aspettavo che avessi imparato a comportarti meglio mentre sei sotto la mia responsabilità. E in quanto a te, Fent, mi addolora vedere ancora una volta che non posso fidarmi a lasciarti allontanare dalla mia vista. Pensavo che dopo la Grande Fiera dell'anno scorso avessi imparato la lezione... ma no. A parte
il tuo comportamento nel quartiere nomade, hai lasciato tuo fratello da solo al banchetto tutto il pomeriggio. Per questo rinuncerai alla tua parte del profitto di oggi, per quanto basso possa essere.» Fent, mortificato, abbassò la testa. Così non fece altro che farla pulsare ancora più forte, per gli effetti dell'alcool e per un colpo che gli aveva lasciato un bernoccolo grosso come un uovo di gabbiano sulla tempia. Tor, tuttavia, continuò a fissare un punto oltre la spalla sinistra del patrigno. I suoi occhi brillavano. Katla ebbe l'impressione che si stesse godendo quella scenata quanto la bevuta e la rissa. «Voi non sembrate rendervi conto che un conflitto con gli Istriani è l'ultima cosa che l'Eyra può permettersi in questo momento. Le nostre risorse sono scarse: ci stiamo ancora rimettendo in piedi dopo l'ultima sanguinosa guerra; il nostro re è giovane, inesperto e circondato da avventurieri e politici. E voi vi ubriacate e cominciate una rissa con un gruppo di giovani Istriani pieni di soldi. Saremo fortunati se non avremo un prezzo del sangue da pagare...» «Non siamo stati noi a cominciare» obiettò Tor con voce piatta, spostando lo sguardo inespressivo sul volto furioso di Aran. «Era già in corso.» Sorrise, ricordando con improvviso piacere il gemito di dolore estorto a quel giovane istriano vestito di rosa. «Siamo rimasti coinvolti per aiutare i nostri amici.» Fent, sapendo che era una spudorata menzogna, continuò a fissare il terreno tra le sue scarpe. Aran sostenne lo sguardo di Tor per alcuni, lugubri secondi. Nell'aria c'era una tremenda tensione. Katla si ritrovò a trattenere il fiato... tanto che, quando da fuori la tenda si udirono delle voci, si sentì quasi sollevata. Quasi. Il lembo della tenda si scostò per rivelare un paio di guardie della Grande Fiera, le spade sguainate. Indossavano mantelli blu che li identificavano come tutori della legge, ma dall'aspetto erano entrambi Istriani, con i loro volti ben rasati e gli occhi scuri. Tutte le guardie della Fiera quell'anno appartenevano all'Impero. Nel suo primo anno alla Grande Fiera come re, Ravn non era riuscito a fornire un contingente eyrano. C'erano stati dei mugugni da parte dei mercanti del Nord, ma secondo Katla i tutori dell'ordine erano tutori dell'ordine, qualunque fosse la loro provenienza. «Stiamo cercando tre malfattori» disse la prima guardia in un'Antica Lingua fortemente accentata, entrando nella tenda. «Due si suppone siano Eyrani. C'è stata una rissa al quartiere nomade e un giovane Istriano è stato
gravemente ferito. Stiamo cercando il responsabile.» «Aveva i capelli rossi» aggiunse il secondo fissando Katla, che sedeva vicino all'ingresso. Fent, nascosto nell'ombra, fece per uscire allo scoperto, ma Tor sollevò una mano. Katla si alzò in piedi. «Vi sembro appena uscita da una rissa?» chiese sarcastica. Rotoli di nastri colorati e perline le caddero dal grembo. «Stavo comprando qualcosa da indossare al Raduno.» La seconda guardia arrossì, ma la prima, imperturbata, dichiarò con un leggero sorriso: «Il secondo malfattore che cerchiamo è una giovane Eyrana che ha commesso sacrilegio sulla Rupe di Falla.» Katla sentì il cuore battere con improvvisa forza. «Un sacrilegio?» ripeté stupidamente. «Un crimine punibile col rogo.» Tor uscì dall'ombra. «Non intimidite oltre questa giovane donna» disse con voce dura, mettendosi tra Katla e gli Istriani. «Non è lei quella che cercate, sono io.» La seconda guardia lo squadrò da capo a piedi. «I vostri capelli sono gialli» replicò in tono brusco. «Quindi non corrispondete alla descrizione di colui che ha ferito Diaz Sestran. E i testimoni dicono che chi ha scalato la Rupe era una donna.» Tor fece un rozzo inchino. «Al vostro servizio.» Le due guardie si scambiarono sguardi attoniti. «Sprecate il nostro tempo con tali prese in giro» esclamò infuriato il primo, cercando di vedere dietro Tor. «La cosa non ci piace affatto.» Aran prese un fiasco di terraglia e uscì dall'ombra. «Mi scuso per l'irriverenza del giovane Tor» disse in tono solenne, tendendo il recipiente. «Come potete vedere, non corrisponde a nessuna delle due descrizioni. Per favore, prendete questo fiasco di sangue di stallone per ripagarvi del tempo perduto e come segno di amicizia in occasione di questa fiera.» Il primo uomo lo prese e lo annusò sospettoso, ritraendo poi di scatto la testa. Passò il fiasco al suo compagno. «Cos'è questo?» chiese. «Piscio di cavallo?» Tor scoppiò in una risata sguaiata. «È il migliore vino delle isole del Nord» rispose Aran irritato. La seconda guardia ne bevve un sorso e cominciò a tossire. Si ripulì la bocca, scosse la testa e rise. «Se questo è il migliore alcolico che l'Eyra produce, allora avete tutta la mia simpatia, amico. Per questo e per quell'i-
diota di vostro figlio.» Girò i tacchi e uscì. La luce del sole al tramonto brillò all'improvviso nella tenda e illuminò Katla. Il primo uomo la guardò con curiosità. «I vostri capelli sono tagliati in modo abominevole» osservò con scarsa cortesia. Katla deglutì. «È vero. Ma questa è la moda sulle nostre isole, in particolare nella stagione calda.» L'uomo continuò a fissarla. I suoi occhi erano scuri e penetranti. Katla, abituata a quelli chiari e luminosi degli uomini delle isole del Nord scoprì che il suo sguardo la innervosiva, ma lo sostenne ugualmente. Alla fine l'uomo si strinse nelle spalle, poi le fece un mezzo sorriso. «Nonostante tutto, avete un bel viso. Se ci sarà da ballare al Raduno, forse vorrete fare una danza con me.» E con quelle parole se ne andò. Katla lo guardò uscire, ammutolita per la sorpresa. «La stagione calda!» esclamò ridendo Aran. «In Eyra? Per fortuna quell'uomo è un idiota.» «Sì» disse Tor. «Un bel viso, davvero!» Quando Tanto Vingo tornò al padiglione di famiglia non indossava più la tunica rosso ciliegia che l'avrebbe fatto risaltare un po' troppo tra gli altri Istriani, ma un farsetto blu notte donatogli dal nobile Tycho Issian come gesto, pensò Tanto, di vera solidarietà familiare. Be', in fondo adesso erano quasi parenti: bisognava solo attendere la fine della Grande Fiera e pagare il prezzo della sposa. Due ottime tuniche perse in un giorno solo. Eppure... Tanto toccò la delicata seta. Era un indumento piuttosto sobrio per i suoi gusti, ma di eccellente fattura e squisitamente rifinito. Lo immaginò in una tonalità più chiara di blu jetra, e si vide con estrema chiarezza attraversare le sale del Consiglio mentre gli altri nobili si inchinavano e sussurravano frasi di ammirazione. Il nobile Tanto Vingo, erede delle tenute di Cantara. Suonava davvero bene. Quasi gli faceva dimenticare il dolore sordo all'inguine dove quel maledetto Eyrano gli aveva dato una ginocchiata. «Padre, zio» li salutò con un ampio sorriso, e fu sorpreso di vederli girarsi verso di lui con visi ansiosi, tesi. Oh, Falla, pensò, hanno sentito del vecchio. «Non è stata colpa mia...» cominciò a dire. «Cielo, no, figliolo. Lo sappiamo. Non è affatto colpa tua.» «Vieni a sederti vicino a noi, ragazzo mio» disse Fabel in tono burbero, indicando la panca imbottita accanto a sé. «Meglio che ti prepari per una brutta sorpresa.» Tanto si accigliò. Forse dopo tutto non si trattava del vecchio nomade.
Suo padre si chinò in avanti ansiosamente e gli posò una mano sul ginocchio. «Mi dispiace, Tanto. C'è stato un contrattempo. Dal punto di vista finanziario, intendo.» Tanto lo fissò senza capire. «Cosa?» Un atroce sospetto cominciò a insinuarsi in lui, attanagliandogli lo stomaco. Favio fece una smorfia guardando suo fratello, poi si voltò nuovamente verso il figlio. «Il Consiglio ha chiesto il rimborso del prestito che ci ha fatto lo scorso anno. Avrebbe dovuto essere quinquennale, ma di certo c'è qualcosa che bolle in pentola...» «Quello che intende dire tuo padre, Tanto, è che forse non abbiamo abbastanza denaro per concludere l'accordo...» «Forse potremmo offrirgli dell'altra terra, Fabel: forse la terra a ovest della scogliera di Felin...» «Ma quelle terre fanno parte dei terreni del mio allevamento, Favio...» «Lo so, fratello, lo so, ma cos'altro possiamo fare? Qui stiamo parlando del futuro di Tanto: il futuro della famiglia Vingo, il futuro del nostro nome tramandato nelle generazioni future in ricchezza e gloria.» «E tu sai bene quanto me, fratello, che non è la terra che vuole, il nobile Tycho. È nei debiti fino al collo: deve all'Erario una piccola fortuna, da quello che ho sentito dire. Perché altrimenti ci darebbe sua figlia così di buon grado? Non è che abbia un disperato bisogno di allearsi con la nostra tanto aristocratica famiglia: gli serve il denaro! E se hanno chiesto la restituzione del nostro debito puoi scommettere sulle tette di Falla che hanno chiesto anche la restituzione del suo. Se non avrà il denaro da noi, venderà sua figlia al prossimo che gli offrirà dei cantari sull'unghia, non un insignificante appezzamento di terreno pieno di alberi di pino.» «Scusatemi, ma io sono qui: io, il soggetto di questa bella discussione che state avendo. Io, Tanto Vingo, vostro nipote, vostro figlio. Perciò non continuate a parlare di me come se non esistessi.» Tanto incenerì con lo sguardo prima suo zio e poi suo padre. «State dicendo che non potete permettervi il prezzo della sposa per Selen Issian?» Suo padre annuì stancamente. Tanto era indignato. «Puttana di una Dea, come osate mettermi in questa situazione?» Afferrò con un gesto isterico il farsetto di seta. «Il mio futuro suocero mi ha appena donato questo elegante indumento come segno di benevolenza e voi mi dite che non ci sono soldi?» Suo zio sollevò le braccia in quello che voleva essere un gesto conciliante, ma Tanto si voltò verso di lui come se volesse colpirlo. Fabel, che era
una spanna più basso di suo nipote, si allontanò impaurito. «Ci dispiace molto, Tanto, davvero. Se ci fosse qualcos'altro da fare...» Si strinse nelle spalle. Tanto abbassò il pugno. «Be', sono fottuto allora, non è vero?» disse con rabbia. «Niente moglie, niente titolo, niente futuro, e tutto a causa della vostra maledetta incompetenza.» In quel momento poco propizio Saro entrò nel padiglione. Tanto si voltò di scatto, gli occhi fuori dalle orbite. «E tu cosa vuoi, piccolo bastardo? Sei venuto per goderti la mia sconfitta, eh?» Saro lo fissò senza capire. L'ultima volta che l'aveva visto, stava ripulendo il sangue di un vecchio dalla sua lama di Forent, come se stesse togliendosi dello sterco dalla scarpa. Ma la discussione non sembrava affatto un interrogatorio a Tanto per il suo misfatto. Il fratello pareva invece pieno di legittima ira contro loro padre e lo zio Fabel. Favio fece un passo verso di lui. «Meglio che tu vada a fare una passeggiata, figliolo, finché non avremo finito questa discussione» disse spingendolo di nuovo fuori. La tela non è una buona barriera contro il suono: era stato per ragioni di decoro e per impedire ulteriori scoppi d'ira da parte di suo fratello che Saro era stato allontanato. Lì fuori riusciva infatti a sentire perfettamente quello che stava succedendo e non poté fare a meno di sorridere. Non c'era abbastanza denaro per suggellare l'accordo matrimoniale: una situazione davvero imbarazzante. Dopo un attimo di calma, i lembi della tenda si sollevarono e Tanto uscì, il viso rosso e gli occhi pieni di rabbia. Saro si affrettò a sedersi concentrandosi su una stringa rotta della scarpa. Stranamente, il fratello gli si sedette accanto. «Sciocchi incompetenti! Ma non hanno proprio nessuna lungimiranza quando si tratta di finanze?» Saro alzò lo sguardo, ma l'osservazione sembrava diretta al cielo più che a lui. Tanto strinse preoccupato il suo collare di sardonica e aggiunse: «Dobbiamo trovare ancora settemila cantari, perciò ora dovrò vincere la gara di scherma e tu, fratello, dovrai cavalcare quel puledro come se la tua vita dipendesse da questo.» Saro lo fissò sbalordito. «Cosa?» «La corsa dei puledri. Il primo premio è alto, e a me serve quel denaro.» «Ma...» I pensieri di Saro galopparono più velocemente di qualsiasi cavallo. Messaggero della Notte aveva ottime possibilità di vincere: era lesto
e ben addestrato, ma l'avevano destinato alla riproduzione, non alle corse: era stato addestrato a camminare a testa alta con passo solenne intorno al recinto per mostrare le sue migliori qualità, e non a correre sulla pista con una schiera di altri stalloni. Saro aveva sentito raccontare delle corse che si facevano alla Grande Fiera: cavalli morti nel trambusto, feriti dal morso e dalle redini; fantini con ossa rotte e costole fratturate... Non che i fantini contassero in quelle corse: erano i cavalli che venivano dichiarati vincitori. Saro scosse la testa. «Mi spiace, Tanto. Se vuoi farlo correre sono affari tuoi. Discutine con nostro padre.» Si era aspettato che il fratello desse in escandescenze al suo rifiuto, ma il tono di Tanto fu insinuante. Guardò Saro negli occhi e rese la sua voce dolce come il miele. Saro l'aveva visto usare lo stesso trucco diverse volte con le schiave. A volte funzionava. «Fallo per me, fratello, ti prego, per tutti noi. Il futuro benessere della nostra intera famiglia dipende da questa alleanza. Pensa a come sarà orgogliosa la mamma, a quanto sarà felice di vedermi sposato e con delle tenute tutte mie...» Tese la mano e gli afferrò il braccio. All'improvviso Saro si trovò investito da emozioni non sue: bramosia di potere, una furia repressa a fatica, una violenza infantile, incontrollabile, bruciante, e qualcosa di ancora più oscuro e seppellito nel profondo. Distolse lo sguardo dal volto affascinante e ansioso di suo fratello, e i suoi occhi si posarono sull'oggetto che ancora stringeva in mano. La pietra dell'umore, ora di un bel verde dorato, luccicava nel suo palmo. Si scrollò di dosso la mano di Tanto e si alzò prima che suo fratello potesse vedere la gemma. «Lo farò» disse, e fu sorpreso della propria decisione. «Ma solo in cambio di una promessa.» «Qualsiasi cosa, fratello.» «Se vincerò il premio, potrai prenderne la metà per il contratto matrimoniale. L'altra metà la dovrai portare di persona all'anziana nomade a cui hai ucciso il marito come prezzo del sangue.» Tanto lo fissò incredulo. La sua bocca si spalancò. Poi scoppiò a ridere. «Non puoi parlare sul serio, fratello. Per quel vecchio? Un prezzo del sangue, come quello che si paga per un guerriero caduto? Per un vecchio mendicante rinsecchito senza un casato? Sarei uno sciocco.» Tu sei uno sciocco. Saro non lo disse, ma sapeva che era vero. Uno sciocco crudele, caparbio ed egoista: aveva visto il subbuglio nella mente del fratello, tutta concentrata su un unico, frivolo scopo.
«Queste sono le mie condizioni.» Gli occhi di Tanto si strinsero. Suo fratello minore, che lui aveva tiranneggiato con successo per tanti anni, ora lo fronteggiava in questo modo? Era intollerabile. La sua mente fece un rapido calcolo. Duemila e cinquecento per la gara di scherma, mille e cinquecento per il tiro con l'arco, se le vinceva entrambe. Se si fosse piazzato solo secondo sarebbero stati guai. Che Falla li dannasse tutti, il piccolo bastardo doveva vincere la corsa, e dargli almeno tre dei quattromila del premio. E ai fuochi eterni la famiglia del vecchio... Tanto Vingo guardò suo fratello direttamente negli occhi e sorrise. «Prometto» mentì. Il nobile Tycho Issian, disteso sul suo letto tra i cuscini, fissava le colorate tende di taffettà. Un bicchiere di torbido araque era appoggiato sul tavolino di legno intarsiato accanto a lui, ancora pieno. Che avesse gli occhi aperti o chiusi, il volto di quella donna era sempre davanti a lui, pallido e delicato, la bocca piena di promesse come un fiore in boccio. I capelli dell'oro più puro. Le mani dalle lunga dita affusolate, che sarebbero state così morbide e fresche sul suo corpo... Il fuoco avvampò di nuovo in lui. Aveva tentato con la preghiera, inutilmente: ogni volta che immaginava la dea, gli appariva con il volto della nomade e il sacro diventava sgradevolmente, ed ereticamente, profano. Aveva tentato con i bagni freddi: ma persino il ruvido asciugamano aveva risvegliato nuovamente la sua passione, e l'aria che evaporava dalla sua pelle diventava nella sua mente eccitata la bocca di lei che lo sfiorava. Tycho non aveva mai conosciuto un tale tormento. Alla fine si gettò addosso il mantello, e senza dire una parola agli schiavi di guardia alla porta, uscì nell'oscurità e si diresse di nuovo verso il quartiere nomade. Re Ravn Asharson era disteso a terra, la testa scomodamente appoggiata alla sua cassa da marinaio, e ascoltava i suoi nobili litigare. Gli uomini erano fuori dalla tenda a erigere il grande padiglione per il Raduno e Ravn avrebbe di gran lunga preferito stare con loro, a tirare corde e calcolare gli angoli, invece che morire di noia ascoltando dei tediosi discorsi politici. Succedere al trono dopo la morte del suo illustre padre nell'ultimo anno gli aveva portato ben pochi vantaggi e moltissimi grattacapi, oltre alla neces-
sità di dover imparare quella che gli altri definivano 'l'arte di governare', in cui si era scoperto molto poco versato e ancor meno interessato. «Ma vi dico che non possiamo fidarci della parola di questi nobili istriani» stava dicendo con foga il conte di Capotempesta. «Hanno le loro ragioni per vendere le loro figlie al re, e questo di per sé è già abbastanza strano e assolutamente contrario alle loro usanze: la loro considerazione delle donne è così alta che in Istria sono gli uomini a pagare il prezzo della sposa. Qualcosa bolle in pentola, credete a me. La mia teoria è che hanno intenzione di usarci per trovare un passaggio verso l'Estremo Occidente: gli serve che noi affrontiamo i mari e poi tracciamo le carte nautiche per loro, e poi vedrete che si rivolteranno contro di noi come cani. L'Impero è una bestia affamata, difficile da saziare: senza dubbio hanno già bruciato a quella cagna della loro dea gli schiavi in eccesso. Ravn ha bisogno di una brava moglie eyrana, una donna forte, diretta, sincera come la regina Auda, non di un'intrigante donna del Sud.» «L'offerta del Signore di Jetra è però molto allettante» replicò il conte Forstson. «Balle di seta e gemme e quelle delicate ceramiche...» Il conte di Isolaustrale rise. «Che donnicciola che sei, Egg. Delicate ceramiche! Tutte le coppe si rompono quando vengono gettate nel fuoco, credi a me.» Egg Forstson, conte di Isola delle Pecore, si strofinò tristemente la testa calva e si versò del vino. Robaccia, paragonata ai dolci rossi del Sud, ma era tutto ciò che avevano. Il denaro era scarso nelle corte del Nord: lui stesso aveva approvvigionamenti migliori nella sua tenda, dal momento che era venuto alla Grande Fiera principalmente per assaporare i lussi che l'Istria e i nomadi potevano fornire. Non era facile persuaderlo ad affrontare la traversata di quei tempi. «Ho notato che nessuno ha offerto acciaio di Forent come parte del prezzo della sposa» osservò Capotempesta. «Sì. Se lo tengono tutto per loro, come sempre.» «A me non dispiacerebbe avere un'altra possibilità per dimostrare loro cosa può fare un po' di normale ferro» replicò in tono severo il conte di Capotempesta. «Ero solo un ragazzo quando l'acciaio di Forent si prese questo.» Sollevò il braccio sinistro, che finiva in un moncone rivestito di pelle. «Sto sempre all'erta nel caso trovassi l'uomo che brandiva quella lama.» Egg Forstson si accigliò. Parlare dell'ultima guerra agitava gli animi, i vecchi ricordi ancora pulsavano come una ferita non rimarginata. Era spo-
sato da soli due anni quando fu chiamato alle armi: due anni e due belle bambine, e un terzo in arrivo (quale buon Eyrano avrebbe aspettato i riti matrimoniali prima di portarsi a letto la sua donna?) e aveva dovuto partire con la flotta da guerra del vecchio re. Era sopravvissuto al mal di mare e alle privazioni, alle tempeste e ai naufragi, alle frecce, alle lance e alle spade e a una dozzina di ferite minori, ed era tornato in Eyra quattro anni dopo sentendosi fortunato di essere ancora vivo. Fortunato, cioè, finché non era arrivato alla fattoria: l'aveva trovata deserta, il tetto della casa colonica tutto bruciato e gli scheletri degli animali massacrati disseminati sull'aia. Non aveva mai più saputo che fine avessero fatto sua moglie e le sue figlie: l'opinione più diffusa era che fossero state vendute come schiave nei mercati del Sud, e anche dopo la precaria tregua lui aveva battuto i quartieri degli schiavi ogni anno alla Grande Fiera nella speranza di ritrovare la sua amata Brina. Ma come fare, dal momento che le donne erano tutte così velate? E le sue figlie sarebbero state grandi ormai, se ancora vivevano. Tentò di pensare alle sue piccine come donne adulte, ma l'immagine si rifiutava di formarsi nella sua mente. E quanto al terzo figlio non sapeva neppure il sesso. Eppure a ogni Grande Fiera i suoi occhi venivano attirati da un movimento casuale, dall'ondeggiare di un'anca, dal gesto di una mano, l'inclinazione di una testa e il suo cuore si fermava... E ogni anno le sue speranze venivano infrante. Nonostante tutto non riusciva a smettere di chiedersi come avrebbero potuto vivere in quel momento, in un paese straniero con un clima caldo e belle case, lontano dalle spiagge battute dalle tempeste del Nord, con le sue fortezze con i tetti di torba e i robusti torrioni, e nel corso degli anni, mentre il dolore diventava ricordo, aveva cominciato a guardare agli oggetti più comuni della vita degli Istriani con un occhio diverso, invece che con lo sguardo di un uomo che aveva perso tutto ciò che amava. Forse Brina aveva toccato quel piatto, quel bicchiere? Si era meravigliata anche lei della squisita invetriatura blu delle ceramiche di Jetra? Le sue figlie avevano ancora un qualche vago ricordo dell'Eyra, oppure parlavano come native istriane, tutte cadenze ritmiche e sibili leggeri? Si chiedeva continuamente cosa avrebbe fatto se avesse ritrovato una di loro, per quanto remota fosse quella possibilità. Avrebbe contrattato con cortesia con il loro mercante, cercando di strappare il prezzo migliore? O si sarebbe avventato su di lui, assetato di sangue, per riprendersi con la forza quello che era suo? O avrebbe soltanto chiuso gli occhi a quella vista, e se ne sarebbe andato? «... Egg?»
Era la voce del re. La sua testa si sollevò di scatto. «Cosa ne pensate voi della figlia del conte Fall Herinson?» «Un'avvenente fanciulla, mio signore.» Ravn rise. Conosceva già l'opinione di Egg: per lui Ragna era una piccola sfacciata opportunista, seppure affascinante, e che lui, Ravn, aveva ben poco in comune sia nel carattere che come potenzialità con il suo povero padre, re Ashar Stenson, ed era uno sciocco quando si trattava di donne. «Sì. È vero. Ma non va bene ugualmente, immagino...» Il padre di Ragna, Fall Herinson, era un ubriacone buono a nulla che si era mangiato tutta la sua nobile eredità, e anche se era improbabile che potesse portare guai a corte, era anche ugualmente improbabile che avesse da offrire molto più della verginità di sua figlia. Anche quella, del resto era ormai perduta da tempo... Ravn guardò speranzoso i nobili lì riuniti. Capotempesta sembrava più arcigno che mai. Aveva ancora speranze per sua figlia, una ragazzotta ventitreenne che aveva avuto la sfortuna di ereditare il mento quadrato e le sopracciglia sporgenti del padre, ma il re non aveva il cuore di dirgli che avrebbe preferito sposare la sua preziosa giumenta che portarsi a letto sua figlia. C'erano altri nobili che manovravano per guadagnare posizioni, Ravn lo sapeva bene: suo cugino Erol Bardson sperava di legare nuovamente il suo sangue alla stirpe reale; il consigliere di suo padre, il conte Keril Sandson, un uomo con gli occhi troppo vicini per i suoi gusti; e tanti altri che senza dubbio al Raduno gli avrebbero presentato le loro figlie calde e disponibili insieme alle loro doti in cambio di qualche avanzamento o privilegio a corte. Era un gioco pericoloso, questo del matrimonio. E noioso: tutte le donne, o almeno tutte quelle che non si era ancora portato a letto, erano delle scrofe, mentre i loro parenti maschi erano dei cinghiali in calore che aspettavano il momento opportuno per azzannarlo e prendersi il trono. «No, sire» disse con fermezza Isolaustrale. «I forzieri devono essere riempiti. Portatevela a letto se proprio dovete, ma sposarla no.» Ravn sospirò. Questa storia sarebbe stata ancora più seccante del previsto. E non era di grande aiuto il fatto che le donne istriane fossero tutte così avvolte nella stoffa che a malapena si capiva se erano magre o grasse, caste o vogliose. Gli piaceva il dettaglio delle labbra, però, pitturate di mille sfumature, quello squarcio di colore tra tutte quelle stoffe scure. Ma gli Istriani avevano idea di com'era allusiva quella fessura, di com'erano lascive le sue implicazioni? Ravn ne dubitava: erano anche loro gente noiosa, più interessata al commercio e alla loro spietata religione che ai veri piace-
ri della vita. Alle loro donne probabilmente avrebbe fatto bene gustare un po' della vita che si faceva a Nord: un po' di sano divertimento, invece degli arroganti palpeggiamenti dei loro insipidi mariti. Non si era mai portato a letto una donna del Sud finora: forse valeva quasi la pena di sposarsene una per il gusto della novità... «Mio signore...» Ci fu una certa confusione alla porta. Ravn sollevò lo sguardo e vide che due giovani erano entrati nella tenda: uno, alto e biondissimo, sosteneva l'altro, un ragazzo magro con lunghi capelli castano chiaro sciolti e l'intera gamba destra, avvolta in bende di fortuna, fradicia di sangue. In un lampo Isolaustrale saltò su dalla sua panca. «Thuril! Per Sur, ragazzo mio, cosa ti è successo?» «Un graffio con uno spillo istriano, padre, ecco tutto» rispose il ragazzo ferito sorridendo debolmente, e poi svenne. «Istriani... ubriachi... nel quartiere nomade» spiegò il giovane biondissimo, senza fiato. «Una zuffa...» aggiunse, come se ce ne fosse bisogno. Il conte prese il figlio tra le braccia. Ravn, scosso dalla sua apatia dalla prospettiva di fare finalmente qualcosa, era già fuori a chiamare il guaritore della nave reale. Gli altri nobili si scambiarono sguardi ansiosi. Stranamente fu Egg Forstson invece del superstizioso Capotempesta a ricordare il vecchio detto: «Il sangue versato alla fiera riflette l'andamento dell'anno: una vita perduta, e ci saranno sommosse; di più, e sarà guerra.» Più tardi quella notte Aran Aranson, nell'intimità della tenda dei Rocciacaduta, ascoltò per qualche istante il respiro regolare dei membri del suo clan; poi tirò fuori la mappa dalla tunica e se la rigirò tra le mani sotto la luce tremolante della candela. Davvero un oggetto ben fatto, concluse per la seconda volta. Non era solo l'insolito uso dei vari inchiostri colorati, viola e blu per le profondità dell'oceano, verdi per le linee costiere e rosso per le terre, che suscitava la sua ammirazione, ma anche la straordinaria precisione delle lettere e delle linee che il cartografo aveva disegnato. La calligrafia era minuta, a malapena leggibile, specialmente per una persona non molto pratica di lettura; ma ciascuna minuscola rientranza della linea costiera prometteva una baia segreta, ciascuna linea frastagliata un banco di scogli o un affioramento superficiale. Erano però i segni più indistinti verso il bordo superiore della carta ad attirare il suo sguardo con grazia
seducente: lì, circondato da linee spezzate che suggerivano una costa in continuo cambiamento, in mezzo a un oceano segnato a intervalli regolari da una singola parola, 'ghiaccio', c'era il gioiello dei gioielli: 'Sanctuarii', la terra dell'oro. Istintivamente posò le dita sul pesante pezzo di minerale che penzolava contro il suo fianco nella scarsella. Nonostante l'ora tarda c'era ancora gente in giro a fare bisboccia al quartiere nomade. Lì pareva essersi radunato chiunque cercasse un po' di divertimento, perché il resto della fiera era silenzioso e tranquillo. Tycho Issian non cercava divertimento, ma una nuova vita: aveva preso una decisione da cui dipendeva tutto il suo futuro. Avrebbe scommesso tutto ciò che aveva su un unico lancio di dadi, su un singolo gesto avventato, e a patto che riuscisse a ottenere il risultato che bramava, non gl'importava niente del resto del mondo. Era la disperazione a guidarlo. Si fece strada a gomitate tra una moltitudine di persone che guardavano una donna inghiottire lasciva dozzine di spade fiammeggianti che un uomo tatuato con enormi pantaloni le gettava contro; distolse gli occhi da una coppia di prostitute pitturate che lo chiamavano fischiando attraverso le fessure tra i denti (una di loro, si rese conto con sgomento vedendo le conchiglie bianche luccicare tra i suoi capelli, era la donna dei cui servizi si era avvalso quello stesso giorno); poi fu costretto a deviare per evitare una grossa folla riunita intorno a quello che sembrava uno spettacolo di fenomeni da baraccone. Inorridito (perché coloro che adoravano con devozione Falla credevano nella perfezione della forma umana: i bambini deformi nell'estremo Sud del paese venivano di norma donati alla Dea, lasciati di notte sulle fredde pendici delle colline dove inevitabilmente rendevano i loro spiriti alla luce delle stelle), si scoprì improvvisamente incapace di distogliere lo sguardo da un bambino senza braccia in equilibrio precario su un cucciolo di yeka con due teste. Tenendosi aggrappato alla bestia con le ginocchia, il bambino faceva girare lo yeka in precisi cerchi, entrando e uscendo da un tortuoso percorso di nastri rossi sul terreno, sorridendo felice mentre la folla applaudiva entusiasta. Un uomo basso e rotondo vestito di pelle consunta, con un anello d'argento a un orecchio e una borchia luccicante al naso, rise sguaiatamente e rivendicò un'altra pila di monete del suo compagno. Tycho distolse lo sguardo. Scommettere in quel modo su uno scherzo di natura gli sembrava nel migliore dei casi una perversione, e nel peggiore
un affronto mortale alla Dea. Di certo non era un bel presagio per l'impresa che stava per affrontare. Fu con una certa trepidazione che arrivò al carro del venditore di mappe. Il denaro portato in pegno della sua buona fede tintinnava contro la coscia. Il carrozzone, però, era immerso nell'oscurità. Tycho ci girò intorno, tentò di sbirciare dalle finestre, ma non c'era segno di vita. Quando però tornò di fronte al carro dopo aver compiuto la sua circumnavigazione, trovò un grosso gatto nero seduto sui gradini. Tycho lo fissò. Il gatto lo fissò a sua volta, ma quando l'Istriano tese la mano per toccarlo (perché mai, poi, dato che non gli piacevano affatto i gatti) l'animale si erse sulle zampe, sollevò il pelo in una minacciosa cresta dapprima sulla testa, poi lungo l'intero corpo arcuato fino a raggiungere la lunga coda, e cominciò a soffiare. Tycho fece un passo indietro e si scontrò con il venditore di mappe, che era apparso silenzioso come un fantasma dietro di lui. «Non credo che voi piacciate al gatto, signore» disse il venditore di mappe con la sua voce stranamente piatta. Tycho si trattenne dal rispondere in modo acido. «No, sembra di no» disse invece, salutando l'uomo con un cenno del capo. «Di solito sa giudicare bene il carattere delle persone» continuò il venditore di mappe, chinandosi per prendere in braccio l'animale, che si lasciò toccare e si afflosciò tra le sue braccia, le orecchie ancora dritte mentre guardava diffidente Tycho. L'uomo aprì la porta del carro e spinse il gatto all'interno. L'animale scomparve nell'oscurità senza guardarsi indietro. Tycho si schiarì la voce. «Sono venuto per concludere un affare con te, venditore di mappe» dichiarò con voce altisonante. L'uomo pallido lo guardò senza dire una parola. Poi sorrise. Quel sorriso mise Tycho a disagio. Era come guardare una chiazza d'olio profumato spargersi sulla superficie dell'acqua in una ciotola: qualcosa che galleggiava in superficie, ma non penetrava in profondità. Tycho si affrettò a slegare la sua scarsella e la tese al venditore di mappe. Lo sguardo dell'uomo si posò sulla borsa, ma non fece alcun movimento per prenderla dalla mano di Tycho. «Un anticipo» si affrettò a dire Tycho prima di pentirsi della sua decisione. L'uomo sollevò un sopracciglio. «Ah, sì?» «Per la donna» continuò Tycho. «Ti darò ventimila cantari per lei alla fine di questa fiera. Prendi questi come acconto per l'intera somma: sono cinquemila.»
Cinquemila cantari erano già di per sé una grossa somma: ci si poteva comprare una mandria di yeka con cinquemila cantari, o costruire una villa, o comprare un appezzamento di buona terra. Con ventimila si poteva erigere un piccolo castello e mantenere un esercito permanente. Tycho non aveva mai avuto ventimila cantari in mano, né presso il suo banchiere, in nessun momento della sua vita. Erano una fortuna enorme. Ed era esattamente la somma che si aspettava di ricevere alla fine della Grande Fiera, dopo aver venduto sua figlia a quel presuntuoso, ma ricco zoticone di Tanto Vingo. Una volta ripagato il Consiglio, avrebbe avuto un guadagno netto di ben tredicimila cantari... Scacciò il debito dalla sua mente, e quell'ossessionante pensiero se ne andò più che volentieri. Pazzia: questa era pazzia, ma non poteva farci niente. Il viso del venditore di mappe era diventato stranamente inespressivo. Era il viso di un giocatore di carte che valutava le probabilità, si chiese Tycho, o era semplicemente sbalordito? Qualunque cosa fosse, decise che era il momento per insistere. «È una somma di denaro davvero enorme, venditore di mappe» disse, puntualizzando l'ovvio. «Non potresti guadagnare tanto neanche in un centinaio di Grandi Fiere.» L'uomo inclinò la testa. «Dov'è la vostra terra, nobile Istriano?» chiese. Era una domanda impudente per un nomade. Oltraggiosa, persino. Ma a Tycho non importava molto dell'etichetta in quel momento. «Nell'estremo Sud, al confine con le montagne.» Il viso del venditore di mappe divenne ancora più inespressivo. Poi l'uomo chinò leggermente il capo come se stesse confermando qualcosa a se stesso. Prese la scarsella dalla mano tesa dell'Istriano, la soppesò con interesse, sbirciò al suo interno e poi la fece scivolare dentro la sua tunica voluminosa, dove scomparve senza emettere alcun suono. «Accetterò la vostra offerta,» disse l'uomo con voce piatta, e il cuore di Tycho mancò un battito «ma a una condizione.» «Qualsiasi cosa.» «Con i vostri ventimila vi guadagnerete non solo la donna più bella del mondo, ma anche i miei servigi e quelli del mio gatto...» L'uomo fece un piccolo inchino. «Non possiamo venire separati, vedete.» Tycho si accigliò. Che cosa se ne faceva di un venditore di mappe, per non parlare di un animale pulcioso? L'uomo sorrise di nuovo. «Vedo la domanda che si è formata nella vo-
stra mente» rispose lentamente. «Ma abbiamo la nostra utilità, Bëte e io. E io non potrei lasciare che la Rosa Eldi se ne vada in giro per il mondo da sola. Sarebbe molto... pericoloso.» «La proteggerò con la mia vita.» «Non è questo che intendevo, signore.» L'uomo sostenne il suo sguardo con una calma sconcertante finché Tycho non fu costretto a distogliere il suo. «Come vuoi, allora» rispose in tono brusco, mentre i dubbi si affollavano nella sua mente. «Hai il denaro come pegno della mia buona fede: ora posso vedere la donna per qualche minuto come pegno della tua?» «Un istante.» L'uomo pallido aprì la porta e scivolò silenziosamente all'interno. Ci fu uno scricchiolio, un fruscio di stoffa e un mormorio di voci. All'interno del carrozzone si accese una luce. L'uomo riapparve, poi si voltò e fece un gesto con la mano per chiamare la figura dietro di lui. Tycho, che aveva sperato di poter entrare nel carro per avere qualche momento di intimità con la donna, provò una forte delusione, ma ogni traccia di disappunto svanì quando lei apparve, gli occhi rotondi e neri come quelli del gatto nella luce fioca. La donna voltò lentamente la testa verso il nobile istriano e lo guardò per la prima volta negli occhi. Tycho pensò che il cuore gli sarebbe scoppiato nel petto tanto batteva forte. Il sangue gli ribolliva nelle orecchie, sul viso, nel petto. Tentò di sorriderle, di lenire l'ansia che doveva di certo provare per una tale bizzarra situazione, ma scoprì di non poterlo fare. Si ritrovò invece a camminare verso di lei come un uomo in trance. Quando fu a un passo di distanza da lei prese il suo adorabile viso tra le mani. Scoprì che era più facile baciarla con gli occhi serrati. Non appena le loro bocche si toccarono, la lingua della donna saettò tra le labbra di Tycho, come se lei avesse capito l'intensità del suo desiderio. La sensazione fu così inattesa, talmente impossibile da descrivere che le ginocchia di Tycho si piegarono e i lombi si infuocarono, ma quando alla fine si staccò incontrò lo sguardo di lei su di sé, intenso e penetrante, e capì che i suoi occhi erano stati aperti per tutto il tempo. 8 Voci Durante la giornata successiva la Grande Fiera continuò animata come
sempre, ma gli animi restarono per la maggior parte tranquilli. Gli affari continuarono con alacrità nel settore istriano e in quello eyrano, dove vennero concluse compravendite e completate transazioni, suggellate alleanze familiari e vendute merci di vario genere. Come sempre la gente andò a divertirsi al quartiere nomade; ma nell'aria aleggiava un'indefinibile tensione, come se parole forti stessero per essere pronunciate, pugni stessero per volare o lacrime stessero per essere versate. Per coloro che avevano orecchie fini e la curiosità di ascoltare, nell'aria aleggiavano interessanti frammenti di conversazioni che valeva la pena ascoltare: «Dicono che il re del Nord prenderà in moglie la Signora di Jetra...» «Molti lo vedrebbero come un sacrilegio, mandare una creatura della Dea in terre pagane...» «Sì, be', forse non si arriverà a questo.» «Cosa vuoi dire? Tutti dicono che prenderà il Cigno...» «Ah, be', quando verrà a prenderla» la voce diventa un sussurro «potrebbero esserci dei soldati ad attenderlo.» «Per fare cosa? Di certo neppure l'Impero sarebbe così arrogante da credere di poter assassinare il re del Nord sul suolo sacro e cavarsela impunemente!» «No, assassinio no. Non da quello che dicono le mie fonti.» «Allora cosa?» «Hai notato che il Consiglio sta chiedendo la restituzione di tutti i debiti a questa fiera?» «È vero: e in verità non ho molto gradito quando sono venuti da me con la loro richiesta. Un pagamento anticipato, che pretesa. Ci siamo accordati per quindicimila adesso e il resto nel mese del Raccolto, ma avevo ancora altri due anni per ripagare il prestito, perciò non sono affatto un uomo felice. Ma cos'ha a che fare questo con il re del Nord? Di certo non si aspetterà che noi gli paghiamo il prezzo della sposa, quando lui ci sta rubando la nostra dama più bella!» «Ah, no, credo di no. Diciamo solo che la tentazione di fare propri i tesori dell'Estremo Occidente potrebbe rivelarsi fatale per il nostro amato Consiglio.» «E il re del Nord sta organizzando una spedizione...» «Esattamente.» «Se Ravn sceglierà la figlia di Keril Sandson dovremo muoverci in fret-
ta.» «Ho parlato con il capo di una banda di spade in vendita: il suo prezzo è stato assai... ragionevole.» «Ho sentito parlare di un luogo dove persino i vasi da notte sono fatti dell'oro più puro.» «Non capisco come mai sono tutti così assurdamente eccitati da tutto questo gran parlare dell'Estremo Occidente. Faremmo meglio a estrarre il minerale dalle nostre montagne.» «Oh, no, nessuno si avventurerebbe mai in una tale impresa. Ci sono mostri lassù, ho sentito dire: qualcuno ha visto un gigante con una testa di lupo da quelle parti solo l'altra settimana... e sì, anche grosse lucertole volanti.» «Ma senti a che storie vai credendo! Sei davvero un credulone, Pasto. Crederesti che lo stagno sia argento e l'ottone oro.» «Non è vero.» La voce era indignata. «Ma credo che ci siano grandi ricchezze che attendono gli spiriti avventurosi.» «Qualcuno ti ha messo queste parole in bocca. Per quanto ne sappiamo, l'Estremo Occidente potrebbe essere povero quanto il resto del mondo a quest'ora.» «Chi ha parlato dell'Estremo Occidente?» «Oh, c'è un'altra leggendaria terra di tesori allora, vero? Un'altra impresa impossibile in cui vuoi trascinarci tutti? Haran, i tuoi occhi sono diventati più scaltri di quelli di una donnola...» «Ho una mappa.» «Alcuni di quei ragazzi istriani sono davvero belli.» «Delle meraviglie senza la barba.» «Mi piaceva quello scuro con il collare di sardonica.» «Sono tutti scuri, stupida. Quale intendi?» «Quello che ha vinto la gara di tiro con l'arco. Sembrava il Grande Horen il Cacciatore quando ha scoccato quella freccia. La sua pelle era come legno di ciliegio lucidato. Gli si vedevano tutti i muscoli del petto quando ha piegato il braccio...» «È ora che ti trovi un marito, Fara, credi a me.» «Ne ho avuto uno strano un paio di giorni fa, Felestina.» «Un uomo strano: questa sì che è una novità.»
«Eppure è così: era così duro che ero alquanto preoccupata per la mia salute. Duro come una roccia, e più o meno altrettanto sensibile. Ma la cosa davvero strana è che dopo un attimo che avevamo finito, era già pronto per dell'altro...» «Alcuni di questi nobili istriani sono arrapati peggio dei lupi. È la loro religione, sai. Soffoca i loro bisogni naturali finché non danno di matto per soddisfarli.» «Cosa indosserai per il Raduno, Jenna?» «L'abito verde, credo.» «Dicono che il verde porti sfortuna.» «Ma fa risaltare i miei occhi.» «Pensi che ti avvicinerai a re Ravn tanto che lui possa notare i tuoi occhi?» «Pensavo di cominciare lasciando slacciati i primi tre occhielli del corpetto.» «Di certo non saranno i tuoi occhi che guarderà in quel caso...» «Oro, ha detto. Oro dappertutto.» «E quando raggiungeremo l'isola non dobbiamo fare altro che uccidere il vecchio?» «Così ha detto.» «Dovremo mettere insieme un equipaggio.» «Sì, ma senza fare troppo chiasso, o ci ritroveremo una flotta con cui competere.» «Non è strano?» «Cosa, Fezack?» «Vedi quella ragazzina laggiù, la ragazza del Nord che è venuta da me qualche giorno fa?» «La vedo.» «Guardala meglio, sciocca. Il suo seno...» «Di certo ha una bella dimensione.» «Quando è venuta da me era piatta come una tavola. La pozione che le ho dato era per incoraggiare il suo corpo a iniziare i normali processi di crescita, ma questo improvviso eccesso di seno non è naturale...» «Forse ha imbottito il corpetto con dei panni...» «Forse. Potrei pensarlo anch'io se non fosse per le altre cose che ho nota-
to di recente.» «Ossia?» «Non hai notato che finalmente c'è il silenzio nel carro di Lornack?» «È vero, non tossisce più. Forse è l'aria secca di queste parti...» «Ma sì, l'aria secca! E pensi che l'aria secca possa spiegare perché Feria ha partorito un bambino con due teste?» «Ma non è sopravvissuto...» «O il neonato con le squame sulle braccia e gli artigli di un'aquila alla città di Talsea?» «Zitta, madre, non così forte...» «C'è della magia all'opera: vera, forte magia. La sento nelle ossa.» «Non dire queste cose, madre. Gli Istriani possono tollerare qualche incantesimo innocuo o una pozione qua e là, ma i tempi in cui bruciavano gente come noi non sono tanto lontani da averli dimenticati. Nessuno vorrebbe vedere quei fuochi riattizzati...» «Dovremo essere caute. Annacqua un po' le tue pozioni, mia cara. Offri solo le predizioni più rassicuranti, anche se dovessi vedere l'intero destino. C'è un potere in azione, e sta diventando sempre più forte.» «Mi faresti un favore, Doc?» «Dipende.» «Dai un'occhiata a questo per me, vuoi?» «Bleah! Mettilo via, Dogo. Perché nel nome di tutte le Furie credi che abbia voglia di vedere il tuo disgustoso uccello?» «Tu t'intendi di queste cose, Doc: ti ho visto curare ferite e roba simile. Guarda: sta crescendo. È da ieri che cresce, da quando ho comprato della roba da una di quelle venditrici di pozioni...» «Sembra proprio che ti servano i servigi della mia Felestina, amico. Ci penserà lei a fartelo rimpicciolire.» «È una guaritrice, Doc?» «Guaritrice un cazzo. È la mia puttana preferita, amico mio.» I Giochi stavano attirando enormi folle: il primo giorno per il tiro con l'arco e il lancio del giavellotto, poi per le eliminatorie del nuoto e della scherma, ma soprattutto per la lotta libera, per la quale centinaia di giovani, il fior fiore dell'Istria e dell'Eyra, si erano denudati rimanendo in calzoncini corti e si erano spalmati il corpo di olio per sfuggire alla presa degli avversari. Le donne eyrane e le Nomadi si erano radunate intorno alle
corde, incitando e acclamando i loro campioni preferiti e fischiando contro chi ritenevano sleale o poco attraente. Un ragazzo istriano particolarmente robusto e tarchiato con una zazzera di capelli neri era stato bersagliato con frutta matura quando aveva sconfitto all'ultima ripresa il favorito eyrano, un ragazzo alto proveniente dalle isole Nere, i cui penetranti occhi blu avevano mandato in estasi più di una giovane donna. Katla aveva continuato a guardare, impassibile. Halli, inutile sacco di farina che non era altro, era andato giù alla seconda ripresa. Tra tutti i membri del clan dei Rocciacaduta la lotta libera era il suo sport, quello in cui lei aveva primeggiato nei Giochi delle Isole. Avrebbe potuto persino dare del filo da torcere all'Istriano, non in quanto a forza, perché lui aveva dei muscoli notevoli, ma di certo in quanto ad agilità e tecnica. Anche se poi sarebbe stato difficile immobilizzarlo a terra. Lì alla fiera però, non avrebbero mai lasciato partecipare una donna, e non c'era neppure modo di mascherarsi: anche se era piuttosto piatta, Katla immaginava che avrebbero notato la differenza se si fosse denudata fino alla vita. Già solo per venire a guardare le gare si era dovuta avvolgere una striscia di stoffa colorata intorno alla testa, su ordine di suo padre, dopo che le guardie erano venute a far visita alla loro tenda. «O così o tingi di nero quello che ne rimane» aveva detto Aran Aranson tetro. Fent, invece, attirava sguardi dovunque andava, anche se le accuse di rissa erano state ritirate già da tempo dal ragazzo istriano ferito, che si stava ristabilendo. No, a colpire gli astanti erano i capelli rossi, insieme al viso dai lineamenti eleganti e all'agile corporatura. Il sacrilegio di una donna che metteva piede sulla Rupe aveva risvegliato qualche atavico ricordo negli uomini del Sud più fondamentalisti: la voce si era sparsa, la colpevole ancora in giro, non si parlava d'altro. Fent notò che molti Istriani lo squadravano mentre passava, come se fossero determinati a non lasciarsi abbindolare dai suoi abiti maschili o dal suo passo virile. Due volte era stato fermato, ma era bastato uno sguardo più attento alla rossa barbetta sul suo mento ed era stato lasciato andare. Tor, che lo aveva accompagnato in una di queste spedizioni, gli aveva suggerito di indossare una delle tuniche di Katla e di ostentare un'andatura provocante per dare a tutta quella gente qualcosa di cui parlare davvero, e si era guadagnato una mascella dolorante. Più seriamente, il giorno prima due sorelle con i capelli rossi, provenienti delle isole Chiare, erano state fermate e prese in custodia. Avendo solo dodici e quattordici anni, e non sapendo parlare molto bene l'Antica Lingua erano rimaste in cella per quasi tutto il giorno, balbettando patetica-
mente in eyrano mentre guardie del Sud dal volto severo toccavano loro i capelli e facevano domande incomprensibili nella musicale lingua istriana che le giovani stavano ammirando proprio quella mattina, mentre ascoltavano un paio di spadaccini del Sud scambiarsi amenità durante le eliminatorie. Alla fine la famiglia aveva notato la loro assenza; dopo aver girato in lungo e in largo, aveva radunato un gruppo piuttosto vasto di persone per la loro ricerca; alla fine si erano recati alla tenda delle guardie della Grande Fiera, più per denunciare la scomparsa delle ragazze che per il sospetto che fossero lì. L'ira della folla quando si era venuta a sapere la verità aveva spinto le guardie ad agire con maggiore cautela; l'incidente aveva causato risse quella notte, e ancora c'era parecchia tensione in giro. «Mi hai visto, Saro?» Tanto Vingo saltò la corda e gli diede una pacca sulla schiena così forte che Saro gemette. «Sono stato magnifico, per quanto non spetti a me dirlo. Hai visto come l'ho spiazzato alla fine? Finta, finta, blocco, girata» mimò la sua vittoria a beneficio di Saro «poi ho lasciato che mi desse quel colpo obliquo sul pugnale, e bam! dritto sotto il suo braccio. Se non fosse stato per quello stupido bottoncino da competizione che ti fanno mettere sulla punta l'avrei infilzato per benino.» Saro rimase lì, barcollante, gli occhi vitrei, sentendo la gioia per il trionfo e la sete di sangue avvolgerlo al tocco di Tanto... e poi la sensazione svanì bruscamente com'era arrivata, lasciandolo come svuotato, stordito. «Ho rovinato il pugnale, però.» Tanto tirò fuori l'arma dal fodero e la agitò sotto il naso del fratello. La lama, benché leggermente intaccata, era praticamente intatta, anche se c'erano piccoli schizzi di sangue rappreso sul filo. Saro si chiese se fosse il sangue dell'avversario nel duello o dell'anziano venditore che Tanto aveva ucciso così inutilmente. Era tipico di suo fratello non curarsi di pulire la sua arma: era un lavoro da schiavo, ma a quanto sembrava non aveva neppure pensato di ordinare a qualcuno di farlo. «Dovrò comprarne un altro prima della finale di domani. Non posso permettermi che l'arma di qualche bastardo resti impigliata nella tacca.» «Ma Tanto, non puoi permetterti un nuovo pugnale, non se...» «Vincerò la gara di scherma e tu, mio caro Saro, vincerai la corsa dei cavalli, così io avrò il mio prezzo della sposa e denaro d'avanzo, perciò
non farmi la predica per una cosina insignificante come un pugnale.» E con quelle parole afferrò Saro per un braccio e lo trascinò con sé verso il quartiere istriano. «Ho visto i Vingo, mia colomba, e concluderemo la nostra alleanza domani sera. Avevo sperato che potesse essere oggi, ma per qualche ragione hanno voluto rimandare. Senza dubbio hanno problemi di liquidità, come tutti!» Selen Issian notò con disgusto che il padre sembrava insolitamente allegro quel giorno. Immaginava che stesse già contando il denaro, o decidendo esattamente come dilazionare i pagamenti al Consiglio per tenere quanto più possibile del suo prezzo della sposa per i propri scopi. Domani sera. Questo sarebbe stato il suo ultimo giorno e la sua ultima notte come donna libera: dopodiché sarebbe stata spedita in qualche tenda piena di cuscini e... Com'era che dicevano con tanta delicatezza? Ah, sì, iniziata all'essere donna. Selen sentì nuovamente la rabbia crescere in lei e si costrinse a fissare il pavimento: se il padre avesse visto la resistenza nei suoi occhi l'avrebbe picchiata di nuovo. Non era sorprendente che avesse usato la cinghia su di lei dopo il modo in cui si era dipinta le labbra, ma la cosa peggiore era che il suo atto di sfida le si era ritorto contro. Sapere che aveva reso il ragazzo dei Vingo così voglioso era anche peggio delle botte. «Ti ho comprato qualcosa di speciale, mia cara, per la cerimonia.» Tycho batté le mani e due schiavetti entrarono correndo: Felo e Tarn, notò Selen con un piccolo fremito di emozione. Persino loro le sarebbero mancati. Erano stati catturati tre anni prima in un'incursione contro le tribù delle colline, ricordò all'improvviso, provando per la prima volta un pizzico di simpatia. Quanti anni avevano ora, sette o otto? Avere solo quattro o cinque anni e vedere la propria famiglia uccisa, il proprio villaggio bruciato, essere venduti come schiavi e, cosa ancora peggiore, essere venduti a degli stranieri di cui non conoscevano neppure la lingua ed essere frustrati finché non l'avevano imparata: un terribile destino davvero. Selen tentò di paragonarlo al proprio per sentirsi meglio, ma non ci riuscì. I bambini appoggiarono un fagotto ai piedi del loro padrone e con mani abili slegarono la moltitudine di nodi che lo tenevano insieme. Quindi si alzarono senza dire una parola e fecero un passo indietro, obbedienti, sparendo poi dalla porta.
Tycho sollevò un sopracciglio guardando la figlia. «Non vuoi vedere cos'è?» la invitò con voce dolce. Selen lo fissò, poi guardò il fagotto. I suoi piedi sembravano inchiodati a terra. Tycho sbuffò, deluso, poi si chinò egli stesso sul pacchetto, ne afferrò il contenuto, si rialzò, e con un gesto ostentato dispiegò una tunica della più fine seta color arancio che Selen avesse mai visto. La giovane trattenne il fiato. «Bello, no?» Selen annuì con riluttanza, sentendo le lacrime salirle agli occhi. Il suo abito nuziale, l'arancione che simboleggiava il sacro fuoco di Falla, la forza generatrice del mondo che sarebbe stata invocata alla cerimonia. C'erano delle fessure ricamate al livello del seno e dell'inguine, quella sopra orizzontale e quella sotto verticale, al momento chiuse da nastri di satin. Selen sapeva a cosa servivano: le sue donne erano state piuttosto esaurienti al riguardo. Re Ravn si massaggiò il collo, si stiracchiò e sospirò. I suoi occhi si mossero stancamente sulle carte nautiche e le cartine geografiche che aveva studiato nelle ultime due ore, nel bel mezzo di un dibattito animato (tra i suoi nobili, almeno) sui vantaggi e gli svantaggi meno evidenti di possibili alleanze con il Sud. Le parole sulle mappe, e quelle nell'aria, avevano smesso già da tempo di avere un senso per lui. Aveva scoperto infatti che se non si concentrava, le pergamene di un color sabbia sbiadito diventavano confuse e indistinte, una specie di deserto in cui i dettagli scritti con l'inchiostro brillavano come miraggi. Ravn rimpiangeva con tutto il cuore i giorni prima di diventare re, quando poteva partire per mare a suo piacimento. «Aran Aranson del clan dei Rocciacaduta è qui per vedervi, sire.» La testa di Ravn si sollevò di scatto. «E chi è?» «Un uomo delle Isole Occidentali, sire.» «Un'interruzione, finalmente.» Ravn sorrise. «Fatelo entrare.» Capotempesta e Isolaustrale sembrarono infastiditi da quell'improvvisa intrusione nel mezzo di una discussione politica di importanza così vitale, ma Egg Forstson scattò prontamente in piedi a sentire nominare il suo vecchio compagno d'armi. «Aran, mio caro amico!» Mentre si infilava sotto il tendone, l'alto Occidentale si ritrovò stretto in
un forte abbraccio e sopraffatto da un odore di muffa e di animale, anche se era impossibile dire se emanassero dall'uomo che lo abbracciava o dall'enorme pelliccia ingiallita che Forstson indossava anche in piena estate. Egg fece un passo indietro continuando a tenere Aran per le braccia, e lo studiò con espressione raggiante. «È passato troppo tempo, amico mio.» «Un anno, quasi preciso, dall'ultima Grande Fiera.» Aran sorrise a sua volta, il viso scuro e severo improvvisamente trasformato da un'espressione che usava raramente. Contro la pelle segnata dalle intemperie e la barba scura i suoi denti brillarono come ghiaccio fresco. Il conte di Isola delle Pecore, invece, pensò Aran, sembrava stanco e ingrigito, come se l'anno trascorso fosse passato a ritmi diversi per loro: l'uomo più anziano si stava volontariamente avviando verso la tomba, mentre lui, Aran, correva più forte possibile nella direzione opposta. Avevano combattuto fianco a fianco, schiena a schiena, in alcune delle battaglie più sanguinarie dell'ultima guerra, ragazzi accomunati dalla sorte quando la nave su cui si trovava Aran era stata incendiata e affondata durante un'incursione contro il porto istriano di Hedera: lui e i sopravvissuti del Dente di Drago erano stati portati su L'Orsa, la bella e vecchia nave del padre di Egg. Gli Istriani erano riusciti a bloccare l'entrata del porto; la nave era stata circondata, e frecce incendiarie erano cominciate a piovere da tutte le parti, dando fuoco alla vela, al ponte, agli abiti; poi grappini d'arrembaggio erano stati tirati contro i bordi della nave; uomini urlanti lanciavano armi dallo sciame di piccole barche radunato attorno alla nave in attesa che L'Orsa prendesse fuoco e l'equipaggio si gettasse in mare. Dalle armature e dalle armi molto diverse di quegli uomini era stato chiaro che per la maggior parte si trattava di mercenari. Aran avrebbe giurato che alcuni una volta erano Eyrani. Curioso come l'Impero avesse sempre abbastanza denaro per pagare gli altri per combattere per suo conto, aveva pensato Aran quando i primi uomini avevano cominciato ad abbordarli. Ma poi c'era stato un grande boato da dietro di loro e la nave del vecchio re, la Navigante, aveva forzato il blocco andando a cozzare contro le navi istriane più leggere, spargendo i loro pezzi come paglia al vento. Bei giorni, pensò Aran, e ora ci siamo ridotti a fare affari con l'antico nemico. Quanto desiderava partire di nuovo per una grande impresa! Toccò la mappa sotto la sua tunica come fosse un talismano, e fece un passo avanti. «Ho una richiesta da farvi, sire.» Chinò la testa con tutta la deferenza
dovuta da un vassallo al suo re. Ravn guardò la sommità della testa scura di Aran. «Parlate, allora, Occidentale. Ditemi cosa vorreste chiedermi.» Aran guardò con diffidenza gli altri uomini presenti. «È una faccenda privata, mio signore.» «Questi sono i miei consiglieri più fidati: di certo potete presentare la vostra richiesta di fronte a loro.» Aran sembrò a disagio. Ravn sorrise. «Forse è qualcosa di troppo personale per un pubblico.» Si voltò verso i nobili. «Andate a prendere un po' di vino, ragazzi: ho la gola secca come il letto di un lago asciutto! Andate al banchetto di Sorva Nasopiatto e assicuratevi che vi dia la sua migliore botte di sangue di stallone. Lui giurerà di non avere niente del genere, ma l'avrà nascosto da qualche parte: l'ho sentito vantarsene con Foril Senson. E se pretende di essere pagato, ricordategli che mi deve ancora il dazio per i suoi ultimi due carichi. Sarà una botte molto grossa, se conosco bene Sorva: probabilmente vi toccherà portarla in tre!» I tre nobili si scambiarono sguardi perplessi. Nessuno di loro sembrava felice del compito assegnatogli. Capotempesta rivolse ad Aran il suo sguardo più torvo e Isolaustrale gemette alzandosi dal tavolo. Egg Forstson diede invece all'Occidentale una pacca sulla schiena e gli augurò buona fortuna. «Non è un tipo che parla molto» disse al re prima di uscire «ma quello che dice di solito vale la pena di essere ascoltato. Le lame più affilate sono quelle che sibilano meno.» Quando se ne furono andati Ravn indicò ad Aran una panca e studiò l'uomo con curiosità. Gli sembrava di aver già incontrato Aran Aranson una volta in passato: alla corte a Halbo quando era stato incoronato e i nobili e i proprietari terreni erano venuti tutti a giurargli lealtà. Ravn allora l'aveva giudicato arcigno, arcigno e inflessibile, a disagio nei suoi abiti eleganti e tra i lussi e le feste; un personaggio fuori dal comune, a suo modo. Uno della vecchia scuola, anche se non era affatto un vecchio. Ricordò che suo padre aveva parlato molto bene di lui. «Dunque, qual è questa richiesta segreta, Aran Aranson?» Dopo un attimo di esitazione, durante il quale cercò le parole per meglio comunicare il suo desiderio e non le trovò, Aran infilò la mano nella tunica e tirò fuori la mappa, come se quella sapesse parlare meglio. Srotolandola con estrema cura la dispiegò sulle altre carte nautiche che tappezzavano il
tavolo. Poi prese quattro pietre che trattenevano le altre cartine e le posò sulla sua, in modo da appiattirla il più possibile. Le sue dita tracciarono i contorni delle vaste distese di terra con amorevole lentezza. Aran conosceva a memoria ogni linea, ogni scogliera, ogni insenatura della costa: aveva trascorso le ultime tre notti sveglio alla luce di una candela a guardare e riguardare ogni dettaglio magistralmente disegnato: la rosa dei venti, i margini decorati, i punti di navigazione e le proiezioni. Il re lo guardò con espressione annoiata. Un'altra mappa: era stanco di vederne. L'unica mappa che veramente gli interessava era quella con il passaggio attraverso la Via del Corvo verso l'Estremo Occidente. Ma forse, rifletté, se si fosse deciso a prendere moglie come tutti lo spingevano a fare e si fosse assicurato in fretta un erede, avrebbe potuto partire lui stesso per quella spedizione... Aran alzò lo sguardo con ansia e fu scioccato di vedere gli occhi del re persi nel vuoto. «L'ho avuta da un venditore di mappe nomade» si affrettò a dire, cercando di risvegliare l'interesse di Ravn. «È un oggetto davvero mirabile. Vedete qui» indicò il contorno di un'isola «l'isola delle Balene, disegnata con enorme accuratezza. E qui» spostò le dita a sud e a est «la vostra capitale, sire, Halbo.» Il re si chinò per guardare il segno sulla mappa. «Ah, sì» disse stancamente. «Anche se sembra scritto male.» Aran fissò sbalordito le lettere ormai familiari. Il cartografo aveva messo una croce sulla 'o', ma a lui quello sembrava l'unico particolare insolito. Preferì tacere. «E quassù, sire.» Le sue dita volarono sulla parte superiore della mappa, tra le parole 'Isenfelt' e la parola 'ghiaccio' ripetuta come un mantra, e poi a destra. «Guardate questa straordinaria rosa dei venti.» «Davvero ben disegnata» disse il re con voce piatta. «Un abile lavoro, questo è certo. Ma perché mi state mostrando questa mappa, Aranson? Non vedete che ne ho a bizzeffe di mie?» «Guardate con più attenzione, sire» insistette Aran. Le sue dita toccarono la parola all'interno della rosa dei venti. «Qui, signore.» «Sanctuarii» lesse il re. Poi alzò lo sguardo. «Santuario?» «Sì, sire.» Ravn rise. «Leggende per bambini! L'ultima dimora di re Rahay e del suo gatto!» Rahay della terra dell'oro si stancò Prese il suo gatto e per mare andò,
Del Nord affrontò le bufere con prodezza Giunse a Santuario, la gelida fortezza. Aran chinò la testa. «Sì, sire.» Ravn si diede una pacca sulla coscia, continuando a ridere. «E voi avete trovato la mappa per la terra segreta dal mago?» Aran alzò lo sguardo, la speranza che gli brillava negli occhi. «Sì, sire.» Rifletté per un momento. «E questo, anche.» Infilò la mano nella tasca della tunica e tirò fuori il pezzo di metallo che gli aveva dato il venditore di mappe. Brillava nella sua mano, una luce gialla e sfrontata al sole di mezzogiorno. Sembrava ancora più pesante di quanto ricordasse, pesante e ossessivo. Il re lo fissò, poi lo prese con circospezione dalla mano dell'Occidentale. Sembrò vibrare nel suo palmo come una cosa vivente. Ravn si accigliò, tentò di concentrarsi. Senza più l'oro in mano, Aran si sentì improvvisamente turbato, perduto. Guardò Ravn sollevarlo alla luce, stringere gli occhi, soppesarlo nel palmo. Poi glielo restituì, quasi con riluttanza. Un'espressione addolorata gli passò per un istante sul viso. «Abbastanza carino» disse alla fine. «Ma un tesoro solo per coloro che vogliono crederci.» Stringendo il suo piccolo tesoro Aran si sentì nuovamente carico di energia. Provò un improvviso moto di rabbia, ma mantenne un'espressione indecifrabile. Senza l'appoggio del re non avrebbe mai potuto raccogliere i fondi necessari per la sua impresa. Ripose con cura la pepita nella tasca della tunica. «Vorrei chiedervi una nave, sire. Per il viaggio. Dedicherei la regione a voi, una volta messovi piede. La chiamerei con il vostro nome: Terra di Re Ravn.» «E mi porterete tutti i suoi tesori?» «Sì, sire, ovviamente.» Ravn rise. «Una nave, in cambio di un carico di rocce luccicanti?» «Oro, sire» insistette caparbio Ravn. L'uomo sembrava molto sicuro di quello che diceva: sarebbe stato facile essere trascinato dalla sua passione. Ravn richiamò alla mente lo scettro reale, ricordò come l'antico manufatto sembrasse carico di magia nella sua stretta durante l'incoronazione. Quel giorno era ubriaco, reduce dalla sbronza del banchetto funebre tanto che a malapena si reggeva in piedi, ma ricordava la particolare lucentezza dello scettro, come un pezzo di sole tenuto in mano. Quella pepita invece, anche se l'aveva fatto improvvisa-
mente sentire pieno di forza... Sentì la sua certezza vacillare, ma solo per un brevissimo istante. Un re doveva essere risoluto e non mostrare alcuna indecisione. Scostando le pietre dagli angoli della mappa, la arrotolò senza cura e la restituì ad Aran Aranson. «Rinunciate alla vostra sciocca idea, amico. Prendete parte invece alla mia spedizione nell'Estremo Occidente. Almeno sappiamo che quello esiste! E nel frattempo, godetevi la fiera. Siete qui per commerciare?» «Sardonica, sire.» «Bene, bene.» Aran guardò gli occhi del re tornare inespressivi, come se la noia avesse di nuovo preso il sopravvento. «Ebbene,» disse alla fine in tono freddo, sentendo la rabbia e la delusione crescere dentro di sé, «prenderò congedo da voi, sire.» La testa di Ravn si sollevò di scatto. Il re vide la disperazione negli occhi dell'altro uomo e sorrise. «Non così in fretta, Aran Aranson. Ora che avete avuto il beneficio della mia saggezza, almeno fatemi la cortesia di concedermi una perla della vostra.» Aran si bloccò, la rabbia che minacciava di esplodere da un momento all'altro. «Chi credete che dovrei prendere in moglie, amico mio? È una questione tediosa, questa del matrimonio politico, e le donne che mi offrono sono così insipide. Inoltre sembra che ognuno dei miei consiglieri tiri l'acqua al suo mulino.» «Io non ho nessun consiglio da dare, né mulino da alimentare.» Ravn si strinse nelle spalle. «Ma di certo dovete avere un'opinione, no?» Ci fu un certo trambusto fuori dalla tenda, un rumore di piedi strascicati e voci soffocate come se qualcuno stesse cercando di far entrare qualcosa di ingombrante in uno spazio angusto. I nobili Capotempesta, Isolaustrale e Forstson erano tornati, a quanto sembrava, con una botte grande quanto un bue. Re Ravn balzò in piedi, improvvisamente pieno di energia. «Il mio sangue di stallone! Eccellente!» I tre nobili trascinarono faticosamente la botte attraverso l'apertura della tenda, lasciandola cadere con tale forza che il tavolino traballò e tutte le carte nautiche e le mappe non più bloccate dalle pietre volarono a terra silenziosamente. Isolaustrale, a cui appartenevano per la maggior parte essendo carte nautiche disegnate ai tempi di suo nonno e anche prima, si gettò in ginocchio e cominciò a raccoglierle con trepidazione.
Aran, vedendo un'opportunità per andarsene in quel caos, girò intorno all'enorme botte e si diresse verso l'entrata della tenda senza salutare. «Chi dovrei scegliere, Occidentale?» gli gridò dietro il re. «Dovrei prendere una brava ragazza del Sud o una misteriosa donna del Nord?» «Prendetevi un troll come moglie, per quel che me ne importa» fu la risposta di Aran Aranson, pronunciata a voce bassa, ma udibile, prima di sparire oltre il lembo della tenda. 9 Affari Era già il tardo pomeriggio quando i fratelli Vingo trovarono la strada per il banchetto delle armi, anche se si erano messi in marcia diverse ore prima. Tanto era stato distratto da abiti e gioielli, dagli innumerevoli banchetti di araque, vini speziati e dolci con le noci che facevano girare la testa, e alla fine da un gruppo di danzatrici esotiche che viaggiavano con i nomadi, ma che affermavano di provenire da tribù meridionali del deserto (e tutti conoscevano le strane pratiche in cui quelle tribù erano specializzate). Con indosso niente altro che un migliaio di sottili strisce di pelle abilmente legate, che gli astanti potevano (con una piccola offerta) slegare mentre loro danzavano e roteavano su se stesse come trottole; quelle donne muscolose e dagli occhi duri avevano incantato Tanto per tutta l'ultima ora, e Saro stava cominciando a infuriarsi davvero. Oltre a ciò, aveva scoperto che camminare tra la folla presentava ora una certa difficoltà. Si era scontrato con un uomo, e l'aveva assalito una terribile ansia per la salute della moglie malata; un altro uomo, guardando le donne del deserto, aveva sfiorato il suo braccio e lui aveva sentito tutti i suoi più lascivi pensieri su quello che gli sarebbe piaciuto fare con una danzatrice nuda, delle strisce di pelle e un gruppo di uomini. Saro si era scostato bruscamente, sentendosi sporco egli stesso, ma un istante dopo era stato colpito al gomito da un uomo che aveva una tremenda nausea. Alla fine, esausto per tali indesiderate intromissioni nella sua mente, aveva trascinato via Tanto tirandolo per un braccio. «La gara di scherma comincia domani a metà mattina: vuoi prendere quel pugnale o no? Inoltre se continuerai a spendere con quelle danzatrici non ti rimarrà niente per comprarlo.» Tanto si scrollò di dosso la sua mano con furia. «Se presto mi dovrò
sposare mi merito prima un po' di divertimento.» «Ma pensavo che volessi questo matrimonio!» «Voglio il castello. Voglio il titolo. Voglio essere indipendente, finalmente. E se dovrò sposare la figlia bacchettona di un nobile qualsiasi per avere tutto questo, lo farò. Quello che non voglio è che il mio fratellino tanto ammodo mi faccia fare una figuraccia davanti a tutti.» Saro sospirò, tentato di voltargli le spalle e tornare al padiglione di famiglia, lasciandolo barcollare in mezzo alla fiera solo e ubriaco per il resto della serata. Ma la verità era che sarebbe stato più che felice di vedere suo fratello sposato e lontano dalla tenuta, e prima era meglio era, per lui, gli schiavi, i gatti, i cavalli e tutta la fauna circostante... «Siamo passati davanti al banchetto di un armaiolo laggiù sulla sinistra, tra il venditore di pelli di pecora e il fabbricante di corde.» E così ora erano lì, a sbirciare da sopra le spalle di un certo numero di clienti una vasta gamma di armi dalla squisita fattura, elegantemente disposte su un panno di velluto blu. Era stato il velluto, infatti, ad attirare inizialmente l'attenzione di Tanto. Mentre era stata la ragazza dietro il banchetto ad attirare quella di Saro. Alta e asciutta, sulle braccia nude ogni muscolo risaltava sotto la pelle dorata mentre la giovane sollevava le armi e le porgeva dal lato dell'impugnatura ai potenziali acquirenti. Il suo viso, chinato mentre indicava gli intricati intarsi e i disegni forgiati sulle lame, era espressivo e intelligente; il naso era lungo, gli zigomi pronunciati e le sopracciglia eleganti come le ali di un gheppio, fulve e sollevate all'insù. Ma quei capelli! Rossi come i tizzoni di un fuoco morente, un fuoco calpestato da una dozzina di piedi. Qua e là spuntavano ancora dei riccioli, ma la maggior parte era dritta sulla testa, come se qualcuno avesse usato su di lei le forbici per tosare le pecore. Erano i capelli di un ragazzo di bottega, di un garzone di stalla, di un monello di strada. E la tunica che indossava, di rozza pelle macchiata di cibo e sale marino, troppo corta sulle gambe e troppo stretta sotto le braccia, serviva solo ad accentuare l'immagine del caos. Chi mai avrebbe messo una tale creatura a vendere delle merci così preziose? Le armi erano chiaramente di prim'ordine: persino da dove si trovava, Saro poteva vedere dal modo in cui i possibili clienti le maneggiavano che erano perfettamente bilanciate e che i pugnali erano mortalmente affilati. Eppure la ragazza parlava con una certa autorità, rispondendo a tutte le domande, anche le più difficili. Si chinò per prendere un fodero di legno intagliato da una scatola per terra e Saro fu deliziato dalla vista di una coscia abbronzata: il
cuore gli batté come quello di un coniglio in trappola. Quando si raddrizzò, la giovane lo colse a fissarla. I loro occhi si incontrarono, quelli della ragazza beffardi, come sapesse cosa stava pensando, e Saro spalancò i suoi. C'era qualcosa in quella ragazza, qualcosa che non riusciva a definire. Cercò un indizio in quegli occhi grigio blu, ma ora lei stava parlando con un uomo enorme all'altro capo del banchetto di un motivo a nodi che era stato incorporato nel disegno della spada a cui lui era interessato. L'arma era più corta e più larga di una lama di Forent, più pesante di una sciabola del Sud, e nelle grosse mani segnate da cicatrici dell'uomo appariva assolutamente letale. Saro si chinò verso di loro per ascoltare cosa dicevano. «E questo» spiegava la giovane «è il Drago di Wen.» Indicò un intricato disegno in argento che si curvava intorno all'elsa. «Vedete? Questa è la coda, avvolta intorno al suo avversario, il Lupo delle Terre Innevate, e le sue ali sono qui e qui, dispiegate lungo le guardie.» L'uomo brizzolato chinò la testa e tracciò con le dita il disegno con espressione soddisfatta. «E la testa esce fuori proprio qui nel pomo: ho fresato la gemma rossa qui - vedete il suo occhio? - in modo che sia liscia al tatto. Ditemi cosa ne pensate.» L'uomo d'armi sollevò la spada con entrambe le mani per provarne l'equilibrio, poi fece un passo indietro ed eseguì alcuni complicati movimenti con l'arma in mano. La folla si fece da parte per fargli spazio. Nonostante l'età e le imponenti dimensioni, l'uomo era notevolmente agile: danzò alla sua destra e fece un affondo, poi indietreggiò con una disinvolta torsione della schiena e fece descrivere alla spada un luccicante arco in modo che la lama fendesse il sole al tramonto, in quello che in combattimento sarebbe stato sicuramente un colpo mortale. «È una vera bellezza, Katla Aransen» ammise. «La migliore che ho mai provato.» La passò alla donna in piedi accanto a lui: non sua moglie, di certo, ma un'isolana all'apparenza spietata, il mento squadrato e la pelle del colore del pino stagionato. La donna indossava lo stesso stravagante completo del compagno: un farsetto di cuoio e di cotta di maglia composta da luccicanti dischi di metallo e ferro opaco, legato con dei lacci sul petto. Aveva tre coltelli alla cintura e un altro legato alla coscia. Una spada le pendeva a tracolla sulla schiena. «Cosa ne pensi, Mam?» La donna prese l'arma, la passò da una mano all'altra, poi la sollevò per esaminare i disegni. «Davvero eccellente» dichiarò alla fine. «Davvero
eccellente, Joz.» «Sì, è un bell'oggetto» convenne l'uomo, riprendendogliela dalle mani «e dura come un diamante. Hai superato te stessa, Katla. È leggera e più affilata di qualsiasi arma dei tuoi concorrenti. Mi fa formicolare le dita dalla voglia di usarla. Sei sicura di non aver usato la magia nel forgiarla?» Le fece un ampio sorriso. Katla sorrise a sua volta. Poi scosse la testa. «Falko, lui usa l'olio di balena per raffreddare le lame, e Trello Lungocorno giura di usare il sangue, anche se io so che non è vero. In quanto a me, ho il mio metodo» spiegò Katla, toccandosi il lato del naso. Rise. «Non sono sicura di poterlo chiamare magia, però.» Saro rimase a bocca aperta. La ragazza, Katla, aveva forgiato quelle armi? Di certo aveva sentito male... Ma Tanto era già arrivato a quella conclusione prima di lui. «Ehi, tu, sì, tu! Sei una donna o un troll del Nord, per affermare di aver forgiato queste armi?» Il giovane fissò la folla degli astanti, gli occhi spalancati e leggermente vitrei. «Le donne non sanno fare le spade: sarebbe come...» si frugò nella mente alla ricerca di un'analogia «... come se gli uomini ricamassero i panni!» Ci fu una risata sguaiata in fondo alla folla, seguita da un certo trambusto mentre la gente si faceva da parte per far passare Tanto. Saro riusciva a sentire l'odore di araque che emanava dal fratello. Guardò l'anziano uomo d'armi e i suoi compagni: la donna, altri due uomini alti che sembravano duri come l'acciaio e un piccoletto grasso che appariva annoiato e stranamente distratto. Probabilmente una volta erano Eyrani di origine, ma il loro equipaggiamento suggeriva una dozzina di influenze straniere. Inoltre il fatto di avere una donna combattente con loro era già una stranezza in sé. Spade in vendita, allora, e probabilmente molto pericolosi. Saro trattenne il fiato, ma quello che la donna aveva chiamato Joz rimase fermo lì, a sorridere guardando Katla, la mano alla cintura. Gli occhi di Katla si strinsero minacciosi. «Da quello che ho sentito dire» disse con sarcasmo «ricamare i panni è l'unica cosa per cui sono buoni gli uomini del Sud.» Ci fu uno scroscio di risa questa volta, e non solo dai mercenari. «Non c'è bisogno che combattiamo noi le tue battaglie per tuo conto, eh, ragazza?» osservò Joz. «Ha la lingua di sua madre, la nostra Katla Aransen» disse un uomo alto con la barba accanto a lui.
«Sì, ricordo di aver sofferto per la lingua affilata di Bera Rolfsen una volta o due in gioventù!» «È stato allora che hai perso la tua mano, eh, Mazza?» «No, quello è stato un cane di un Istriano non molto più vecchio di questo mocciosetto durante la battaglia al porto di Hedera.» Tanto, per una volta a corto di parole, non poté che sogghignare con disprezzo, ma fortunatamente le spade in vendita erano di buon umore. L'uomo alto di nome Joz cominciò a contrattare con Katla sul prezzo della spada, finché la ragazza non tirò fuori un fodero di pelle rivestito di lana oleata e suggellò il patto con quello. Il vecchio uomo d'armi contò un mucchietto di monete nella mano di Katla, e lei le trasferì prontamente in una scatola di ferro dietro il banchetto, raggiante per la vendita. Ora che l'affare era stato concluso, gli altri acquirenti cominciarono ad allontanarsi l'uno dopo l'altro, finché rimasero soltanto i due Istriani. Tanto, allora, cominciò a giocherellare con alcuni dei pugnali decorati in mostra, fingendo disinteresse. «Un coltellino da cucina» dichiarò con disprezzo guardando il primo della fila. «Robaccia da due soldi.» Katla gli gettò uno sguardo ostile, poi, ignorandolo deliberatamente, cominciò a riporre gli oggetti più grandi. Era arrivata l'ora di chiusura: il sole stava tramontando e le erano rimasti solo quei due idioti da servire. Non c'erano molte possibilità di concludere una grossa vendita, specie con un moccioso presuntuoso che non capiva la differenza tra un gladio e uno stuzzicadenti. Tanto fissò la nuca della ragazza, irritato perché non gli prestava attenzione. Prese due pugnali e cominciò a sbattere le lame tra loro, prima con delicatezza e poi con maggiore forza, come un bambino capriccioso che sbatte due giocattoli insieme. Il metallo emise un delicato tintinnio. Saro gli diede una gomitata. «Cosa stai facendo?» «Sto mettendo alla prova la lama» rispose Tanto in tono scontroso, continuando a fissare la schiena di Katla. «Non vedo perché sborsare del denaro per un'arma che potrebbe spezzarsi durante la finale.» Katla si voltò di scatto e lo fissò. «Tu sei arrivato alla finale di scherma?» Una nota di sbalordito disprezzo inasprì le morbide vocali dell'Antica Lingua. Tanto sollevò un sopracciglio. «Farei fuori volentieri anche quel vecchio sciocco» disse, indicando l'uomo del Nord che aveva comprato la spada e che si era trattenuto davanti alla bancarella del fabbricante di corde.
Katla rise. «Joz Mano d'orso? Ne dubito! Si è fatto strada con la spada per tutto il mondo e ritorno, quel vecchio lì! Non avresti la minima possibilità con lui. Ma guardatevi!» Katla incluse Saro nel suo sguardo di disprezzo, poi le sue mani scattarono dall'altra parte del banchetto e afferrarono le mani dei due fratelli, torcendo gli avambracci per passare in rassegna la loro pelle scura. «Non avete nemmeno una cicatrice. Non avete mai visto un giorno di vera azione in vita vostra.» Saro fu improvvisamente invaso da un'ondata di calore: un gioioso buonumore, la sicurezza di una giovane donna che si sentiva a suo agio nel suo corpo sano, con i muscoli sviluppati dal duro lavoro alla fucina e da anni di scalate, niente affatto turbata dalle vanterie e dalle minacce di un giovane ubriaco. Lui non avrebbe mai avuto il coraggio di fare quello che aveva fatto lei. Un'immagine improvvisa, vivida e indelebile apparve nella mente di Saro. «Eri tu» mormorò, ritirando la mano per sfuggire al conturbante tocco della ragazza del Nord. «Tu, quella che ho visto sulla Rupe...» E poi si bloccò, atterrito. Il tempo sembrò rallentare. Saro vide il volto di Katla impallidire... e l'improvvisa consapevolezza su quello di Tanto. Riuscì persino a percepire l'esatto momento in cui suo fratello ricordò la taglia offerta quella mattina per la cattura della criminale, prima che Tanto cominciasse a urlare... «Guardie! A me!» Saro lo colpì. Fu un gesto automatico, spontaneo: il suo pugno si abbatté sulla mascella del fratello con forza sbalorditiva. Tanto cadde a terra come un sasso. Katla corse fuori dal banchetto. Fissò sbalordita Saro, poi suo fratello, che giaceva a terra tramortito, le braccia allargate, una mano ancora stretta sul pugnale con cui stava giocherellando. La sua mascella era scivolata di lato. Saro si chiese con una certa soddisfazione solo in minima parte mitigata dal senso di colpa se gliel'avesse rotta. Diverse persone si voltarono sentendo il trambusto, ma vedendo Tanto a terra e il fratello che sorrideva tornarono alle loro conversazioni. «Perché l'hai fatto?» chiese Katla con voce piatta, gli occhi grigi oscurati da un'indecifrabile emozione. Saro la guardò con espressione seria. «Io... io non lo so. È successo e basta.» Tacque per un istante, toccando Tanto con la punta del piede, ma non ci fu alcuna reazione. «Eri tu, vero? In cima alla Rupe?» chiese a voce bassa. «Solo che i tuoi capelli erano lunghi allora.»
Katla gli lanciò uno sguardo d'intesa. «Tu sei un Istriano» disse in tono cupo. «Non potrei certo ammetterlo con te.» «È vero, lo sono. Ma non sono uno tra i più devoti credenti.» E mentre lo diceva, si accorse che era la verità. Ricordò le lunghe mattine di studio con i sacerdoti, lesti con la verga e severi nelle loro tuniche nere. Ricordò le monotone cadenze con cui snocciolavano le preghiere di rito, i sinistri annunci dei tormenti che attendevano coloro che disprezzavano Falla o persino il suo maledetto gatto. Come poteva credere alle loro spaventose storie, a tutte quelle crudeli minacce? Un vulcano avrebbe eruttato solo perché non venivano fatti i giusti sacrifici alla divinità? Una casa avrebbe dovuto bruciare solo perché il suo proprietario aveva pronunciato un'offesa? Non aveva mai visto un vulcano, ma aveva visto abbastanza fuoco da sapere che era una forza naturale, non magia, e in quanto a Falla, come faceva a credere in qualcosa che non aveva mai visto con i suoi occhi? Secondo lui il culto della Dea era solo una scusa per punire, per controllare, un modo per tenere la gente in riga. Ora, messo di fronte a quella nuova realtà, alla possibilità di una morte assurda e non necessaria, Saro aveva inquadrato finalmente le cose nella loro giusta prospettiva. «Mettere al rogo qualcuno solo per aver scalato una rupe è... be', stupido, barbaro.» «Lo farebbero veramente?» Il viso di Katla era curioso, attento. Saro rise. «Oh, sì, non c'è dubbio. È una religione crudele. Prospera sulla sofferenza del prossimo.» Katla era indignata. «Ma tutto quello che ho fatto è stato scalare una rupe: cosa c'è di male? E poi questa terra era nostra, e fino a non molto tempo fa, ossia ai giorni del mio bis-bisnonno, e ancora prima di lui. Era territorio eyrano, la pianura della Luna Caduta, i monti Skarn, il fiume d'Oro fino a Talsea. La tua gente ce l'ha rubato, ha cacciato i coloni dalla loro terra, ha assassinato e violentato tutti coloro che non sono riusciti a fuggire abbastanza in fretta. Oppure li ha resi schiavi per servire il loro maledetto Impero. Non l'abbiamo dimenticato, sai, neppure ora.» Katla lo guardò con espressione irata. «Lo so. L'ultima guerra non è finita da molto. Mio padre vi ha combattuto.» «Anche il mio.» «E mio nonno vi è morto.» «Anche il mio.» A quel punto Katla rise, e Saro notò i suoi denti affilati, come quelli dell'animale selvatico a cui somigliava quando si accalorava in quel modo. «E
poi chi può dire che quella è la Rupe di Falla? Se proprio deve appartenere a qualcuno, è di Sur. Noi la chiamiamo il Castello di Sur.» «Ma è la stessa cosa, non credi? In fondo si sostituisce un dio con un altro.» «Almeno il nostro non ci chiede di uccidere gente in suo nome.» Saro si strinse nelle spalle. «Giusto.» Katla sorrise. Il sorriso le trasfigurò totalmente il volto, notò Saro, e cambiò persino il colore dei suoi occhi. Così sembrava meno... selvaggia. Poi la ragazza tese la mano e lo afferrò di nuovo per un braccio, e di nuovo un'ondata di calore lo avvolse. Questa volta, però, insieme alla gratitudine della ragazza, sentì nascere dentro di sé un calore che si diffuse in tutto il corpo. «Grazie per non avermi denunciata» disse Katla con semplicità. «Dimmi il tuo nome. Mi piace sapere con chi sono in debito.» Saro glielo disse e la ragazza annuì come se lo stesse immagazzinando nella sua memoria a futuro ricordo. «E se dovesse ricordare quando si sveglierà?» chiese Saro all'improvviso, disperato al solo pensiero. «Troverà un'altra persona al banchetto, che non conoscerà alcuna ragazza con i capelli irti come la saggina di una scopa.» La giovane rise. «Ad ogni modo, credo che farei meglio a tenerli nascosti per il momento, non credi?» Prese un pezzo di stoffa da sotto il banchetto e se l'avvolse in un attimo intorno alla testa. «Ecco. Una principessa jetrana!» Saro sorrise. Ma cosa pensava questa gente del Nord di loro? «Ti pagherò per il pugnale» disse, raccogliendo l'arma che Tanto ancora teneva in mano. Sembrava calda al tocco, come se pulsasse di vita propria. Sconcertato, Saro gliela tese. Katla scosse la testa. «Non devi. È un mio dono di ringraziamento. E mi darà grande piacere se lo terrai tu, invece di lasciarlo a quel tuo detestabile fratello.» Saro le sorrise incerto, poi fece scivolare il pugnale nella sua tunica, dove continuò a pulsare leggermente... o era il battito del suo cuore quello che sentiva? Era difficile dirlo: questa ragazza lo turbava davvero. Tentò di concentrarsi su quello che lei aveva detto. «Tanto crede che nessuna donna possa resistere al suo fascino.» «Non ha viaggiato molto, allora» rispose Katla, studiando l'Istriano privo di conoscenza. «È di certo una compagnia più piacevole quando è così che quando è sveglio, direi.»
«Faresti meglio a sparire prima che si riprenda.» «Giusto.» Katla gli fece un altro di quei suoi stupendi sorrisi, poi con mani esperte cominciò ad avvolgere ciascuna arma nel suo pezzo di stoffa oleata e a riporla in un'enorme scatola di ferro. Saro si voltò per guardare il fratello e si ritrovò faccia a faccia con un alto e giovane uomo del Nord con una barba biondissima e capelli intrecciati in complicati nodi e strisce di stoffa colorata, conchiglie e pezzetti d'argento. «Stai avendo problemi qui, Katla?» Katla si voltò, allarmata, ma quando vide il nuovo arrivato, sorrise. «Salve, Erno» disse, la voce piena di affetto. «Nessun problema, non più almeno.» Saro sentì il suo cuore stringersi come in una morsa mentre guardava i due giovani. Fa' che sia suo fratello, si ritrovò a pregare, un fratello, e niente altro. Ma l'espressione negli occhi dell'uomo alto mentre guardava Katla riporre le sue merci era tutt'altro che fraterna. Un gemito riportò l'attenzione di Saro al problema di suo fratello. Guardò in basso. Le palpebre di Tanto avevano cominciato ad aprirsi. «Tanto? Mi senti?» La mano di Tanto si aprì e si richiuse con furia spasmodica e per un attimo Saro pensò che sarebbe scattata verso l'alto per colpirlo, ma il movimento sembrava più un riflesso involontario. Un attimo dopo Tanto sollevò per un istante entrambe le gambe e all'improvviso si mise a sedere, sin troppo in fretta per un uomo che era stato colpito alla testa. Difatti il giovane si portò le mani alle tempie e gemette di nuovo. «Co-cosa è accaduto?» chiese stordito, tentando di mettere a fuoco il volto di Saro. «Non ricordi, fratello?» rispose Saro in tono cauto. Tanto si accigliò, e fu evidente che lo sforzo di mettere ordine nei suoi pensieri gli procurava un dolore ancora peggiore. «Ricordo...» Saro trattenne il fiato. «Ricordo... la donna... la donna straniera...» I battiti del cuore di Saro accelerarono. Si guardò intorno e vide Katla, che aveva chiuso la sua cassa con una grande chiave di ferro, girarsi e scomparire tra le bancarella dopo aver sussurrato qualcosa a Erno. All'improvviso Saro si sentì come svuotato. «Quale donna straniera?» chiese con voce brusca. Tanto lo incenerì con lo sguardo sentendo quel tono. «La danzatrice, stupido... quella con... i nastri di pelle...»
Saro, che stava trattenendo il fiato, espirò il più normalmente possibile. «Oh, quella. Nient'altro?» «Come sono finito qui a terra?» Tanto si guardò intorno con espressione accusatoria e non vedendo nessun altro da incolpare, fissò suo fratello con occhi di fuoco. Saro, tentando disperatamente di evitare una bugia vera e propria, si strinse nelle spalle. «Hai bevuto parecchio» disse in tono conciliante. In effetti era quella la causa di tutto. Se Tanto non si fosse fermato a ogni banchetto di araque tra la tenda dei Vingo e il banco di Katla probabilmente non sarebbe stato così aggressivo e non avrebbe provocato Katla a prendersi gioco di loro perché non avevano cicatrici. Saro ricordò la meravigliosa sensazione delle forti dita di lei sulla pelle del suo avambraccio e capì che quel ricordo non avrebbe smesso di tormentarlo. «Hai bisogno di aiuto per tornare alla tenda di famiglia?» L'alto Eyrano, Erno, era tornato. Tese una mano a Tanto, che la fissò come fosse un bastone ricoperto di escrementi. «Non da te» disse con malagrazia, mettendosi a fatica in ginocchio. Poi afferrò Saro alla cintura e si tirò in piedi. Erno lo guardò pensosamente, tanto che Saro si chiese se l'avrebbe preso a pugni. Niente gli avrebbe dato una maggiore soddisfazione, pensò sorridendo tra sé. Ma il biondo uomo del Nord disse semplicemente: «Fa' come vuoi» e voltò sui tacchi per sparire tra la folla. Saro lo guardò allontanarsi e si sentì improvvisamente depresso. L'uomo del Nord era tutto quello che lui non sarebbe mai stato, o almeno così gli sembrava: alto, muscoloso, atletico, un uomo di azione e di poche parole, un guerriero, forse, e con tutta probabilità l'amante di Katla, per di più. Quel pensiero lo riempì di un'opprimente tristezza. Katla si fece strada tra i banchetti della fiera come se fosse in trance. Saro Vingo, che aveva colpito suo fratello per salvarla dalla morte. Saro Vingo, con gli occhi come il velluto nero e un sorriso incerto che increspava le sue guance lisce. Saro Vingo: un nome straniero per un uomo straniero. Persino il modo in cui le sillabe accarezzavano la sua lingua era affascinante. Katla ripensò a quando lo aveva afferrato, alla sua pelle calda sotto le sue dita e il ricordo, vivido come un'allucinazione, indugiò sulla sottile peluria nera del suo avambraccio, setosa come il pelo di un gatto, sull'apertura della sua tunica proprio sotto l'incavo della gola che aveva rivelato un petto muscoloso. Il colore di quella pelle era seducente. Qualcosa tremò in
lei, nel profondo. «Katla?» Sobbalzò con aria colpevole e si ritrovò come per magia sulla soglia della tenda di famiglia con i suoi fratelli che la guardavano con curiosità, distratti momentaneamente dalla cassa di legno aperta in mezzo a loro. Ma cosa le prendeva ora? Katla si riscosse con un sorriso mesto. Prima guardava con aria trasognata Erno, proprio lui fra tutti, e ora si scioglieva per un ragazzo istriano che aveva incontrato solo una volta e che probabilmente non avrebbe mai più rivisto. Sarebbe diventata peggio di Jenna se non fosse stata attenta! Lasciò cadere la sua cassetta a terra con un tonfo. Poi, rapida come un serpente, avvolse il braccio intorno al collo di Halli, stringendolo allegramente. «Che succede, fratellino?» Era più vecchio di lei di sette anni e due volte più grosso, ma quella era diventata la loro battuta preferita. «Giochi a fare il banchiere con il volpino qui presente, eh?» Halli si guardò intorno e le sorrise maliziosamente, il suo tipico sorriso lento e canzonatorio. Poi la sua mano scattò e le afferrò il braccio, mentre la spalla si incuneava sotto l'ascella, sollevandola e rovesciandola a terra di fronte a lui. Katla cadde pesantemente al suolo, mancando la dura cassa di legno di un soffio. «Ahi!» Fent scoppiò a ridere. «Così impari a ridere di Halli quando è stato buttato fuori dalla gara di lotta al secondo round.» «Ha riso di me?» Halli sembrava offeso. Appoggiò le dita sulla pancia di Katla e cominciò a muoverle su di lei come fosse un grande ragno peloso. Katla gridò e rise, riportata indietro ai giochi dell'infanzia da quell'assalto, e un attimo dopo si ritrovò a battere i piedi come una bambina di tre anni. Poi Fent si unì a loro, finché i tre fratelli non finirono a rotolare sul pavimento facendosi il solletico a vicenda e ululando come animali. Ad un certo punto, inevitabilmente, la cassetta del denaro si rovesciò, versando il contenuto dappertutto. Fu questa scena che accolse loro padre di ritorno dalla fallimentare udienza con Ravn Asharson. Da qualche parte tra la tenda del re e la sua, aveva incontrato Erno. Entrambi avevano un'espressione lugubre sul volto. «Per i sette inferni, cosa sta succedendo qui?» gridò Aran. «Si sentivano le vostre grida per tutta la fiera!» Improvvisamente calò il silenzio. I tre combattenti si districarono e si alzarono in piedi, le teste basse per la vergogna. Le monete giacevano sparse tutto intorno a loro, luccicando come se volessero accusarli delle loro ma-
lefatte. «Da dove è venuto tutto questo denaro?» Aran si chinò e frugò tra le monete, raccogliendo un pezzo da venti cantari e un paio da dieci per poi agitarli in aria. «Abbiamo venduto Tor come schiavo» dichiarò Fent serio. Il pugno di Aran scattò come un fulmine e colpì in testa il figlio minore. Fent fece un passo indietro, scioccato. Strinse le mani a pugno. Per un attimo sembrò sul punto di avventarsi su suo padre, ma poi abbassò la testa. «Abbiamo trovato un compratore per tutta la partita» spiegò Halli con voce pacata. «Un tagliapietre di Forent a cui sono state commissionate venti statue per la loro dea. Ha detto che voleva solo il meglio e la nostra è la più pura che ha trovato, perciò ci ha pagato un buon prezzo. Andremo da Finn Larson domani per parlare della nostra nave.» L'espressione di Aran si fece improvvisamente indecifrabile. La sua mente lavorava furiosamente. Forse gli era stata appena offerta la soluzione al suo problema. Niente accadeva nella vita senza una ragione, si diceva, e Sur guardava con occhio benevolo alla sua impresa. «Non si parlerà più di spedizioni nell'Estremo Occidente in questa famiglia» disse asciutto. «Ma papà!» Halli era furioso. «Il nostro piano è stato sempre quello di unirci alla spedizione del re. Tu hai detto che ci avresti finanziato con la vendita della sardonica, che ci avresti dato anche la tua quota e quella della mamma...» «Basta! Non ho intenzione di parlare oltre di questo. Katla, questa sera ti tingerai i capelli di nero. Erno mi ha detto cosa è successo prima...» «Erno!» Katla lo incenerì con lo sguardo, infuriata per il suo tradimento. «Hai detto che non l'avresti detto a nessuno: hai promesso!» Erno sembrò a disagio. «L'ha detto perché era preoccupato per te. Usa questa» Aran le lanciò una boccetta di vetro «e poi tieni la testa sempre fasciata. Non vogliamo che qualcuno faccia domande imbarazzanti sul nuovo colore dei tuoi capelli, ma almeno se le guardie verranno nuovamente a cercarti, qui non troveranno nessuna ragazza dai capelli rossi. Cuoio e maglia di ferro sono meglio di cuoio e seta. La prudenza non è mai troppa.» «E che dirò a quella guardia che mi ha chiesto una danza?» chiese Katla in tono ribelle. «Potresti nascondere i tuoi capelli con questa» suggerì timidamente Erno. Le tese un grosso fazzoletto di squisita fattura. L'aveva trovato in uno dei banchetti dei nomadi, e gli era costato una piccola fortuna. L'aveva
scelto per i suoi colori: blu e verdi accesi, il grigio delle nubi in tempesta e degli occhi di Katla, con un pizzico di porpora proprio come loro. La donna che l'aveva tessuto gli aveva sorriso dicendogli che la stoffa era incantata, lui l'aveva fraintesa e aveva detto che anche a lui sembrava incantevole. «No, no» l'aveva corretto con gentilezza la donna. «Incantata. Protegge dagli elementi, per questo ha le tonalità del cielo e del mare, e questo, questo è per proteggere dal fuoco.» La donna aveva ripreso la stoffa dalle goffe mani di Erno e l'aveva spiegata con cura. «Vedi?» Lungo uno dei bordi era stata intessuta una lunga fila di vivide fiamme. Era stato proprio quel motivo rosso fuoco a convincerlo: gli sembrava un ottimo presagio, perché era proprio del colore dei capelli di Katla, ma non credeva affatto che la stoffa avesse proprietà magiche. Katla, trattenendo il respiro, dispiegò il fazzoletto e una nuvola di colore fluttuò nella tenda in penombra: verdi e blu e grigi che roteavano in delicate spirali, il morbido bianco della nebbia di mare che permeava il tutto, e lungo il bordo inferiore una profusione di toni caldi, arancio e cremisi, oro e vermiglio, curvati per dare vita a una famelica fiamma. Fent fece un fischio. «Deve esserti costato una fortuna, Erno.» Lui non riusciva a immaginare di potersi affezionare a una donna tanto da spendere cifre del genere per un regalo, ma Erno si limitò ad arrossire e passandogli accanto sparì nelle profondità del tendone. Più tardi quella notte, Saro tolse la collana con la pietra dell'umore dalla sacca che portava intorno al collo e la tenne nel palmo della mano: la pietra aveva lo spaventoso verde degli occhi di un gatto. La mattina dopo sul presto Fent e Halli si ritrovarono fuori dalla tenda di Finn Larson, con la cassetta di legno in mano. Erano nervosi: non erano mai andati contro la volontà di loro padre prima d'ora. Il costruttore di navi doveva essere in piedi da parecchio tempo: seguendo i suoi ordini i garzoni correvano già su e giù per sbrigare le loro faccende, e suo figlio Matt stava avvolgendo delle pergamene in rotoli di pelle impermeabile. Larson era un uomo corpulento, grosso di corporatura e forte di muscoli. Le sue spalle, rivelate dal farsetto senza maniche, erano pelose e possenti come quelle di un toro. Fent si chiese se sua figlia avesse ereditato le stesse caratteristiche del padre, sotto tutti quei merletti e quei fronzoli. Se era così, la notte delle nozze Halli avrebbe avuto una bella sorpresa.
In realtà la sorpresa non fu solo di Halli, e non riguardò direttamente Jenna Finnsen. «Salve, ragazzi. Come state questa mattina?» Finn fece a entrambi l'occhiolino, chiaramente di ottimo umore. «Stiamo bene, grazie, signore» rispose Halli con cortesia, appoggiando la cassa a terra ai piedi del costruttore. «E abbiamo una proposta per voi.» «Ah, davvero?» Finn si stava divertendo. Dopo aver mandato uno dei suoi ragazzi a prendere tre sgabelli e una caraffa di birra impedì loro di dire altro finché non l'ebbero prosciugata insieme. «Ora cosa potreste offrirmi voi che non mi abbia già offerto vostro padre?» «Nostro padre?» «Sai, ragazzo mio, Aran l'orco, Aran l'orso... È così che lo chiamavamo quando combattevamo fianco a fianco nell'ultima guerra. Halli si chinò in avanti, scuro in volto. «Che cosa vi ha offerto mio padre?» «Be', ragazzo mio, mi ha commissionato la nave migliore che farò quest'anno: a fasciame sovrapposto e del migliore legno di quercia stagionata proveniente nientemeno che dalla piantagione di Keril Sandson. La polena di tasso deve essere scolpita dal grande Gunnil Kerrson in persona: ne ho recuperata una da un vecchio vascello del padre di Ravn, ma credo che possa servire allo scopo. E poi un rompighiaccio di ferro temprato. Assegnerò quindici dei miei uomini al suo assemblaggio.» «Un rompighiaccio?» esclamò Fent, sbalordito. «È stata una delle sue prime richieste.» «Ma a quanto si dice non c'è ghiaccio nel passaggio per l'Estremo Occidente, nemmeno un po'. Gorghi e tempeste, quelli sì... Ma non c'è alcun bisogno di un rompighiaccio.» Finn Larson si strinse nelle spalle. «Io accetto gli ordini come mi vengono fatti, ragazzo; e se tuo padre vuole un rompighiaccio...» Halli li interruppe: «Quello che vuole nostro padre da voi non è affar nostro. Noi abbiamo un altro ordine per voi: sessanta remi, prua e poppa ad assi incurvate, veloce e lineare, è tutto quello che chiediamo. L'ultima volta che abbiamo parlato di una nave del genere avete detto che sarebbe costata intorno ai seimila cantari. Abbiamo qui la maggior parte della somma per voi.» Il costruttore di navi sembrò divertito. «Sembra che il clan dei Rocciacaduta sia piuttosto ben fornito di contante al momento» osservò, strofinandosi allegramente le mani. «Bene, bene, vediamo il colore del vostro
denaro, così che possa cominciare i miei calcoli. Ho avuto parecchio lavoro grazie a questa Fiera, molto più di quanto mi aspettassi. Spero che la nave non vi serva in fretta come agli altri.» «Per l'autunno» rispose Halli, soppesando le parole. «Autunno di quest'anno.» «Ah» esclamò Finn. «Be', sono accadute cose più strane. Naturalmente trovare il legno giusto per le travi incurvate è più difficile che per quelle diritte. Farò del mio meglio.» «È tutto ciò che vi chiediamo.» Fent prese la cassa e la svuotò sul pavimento. Ci fu un gran rumore, stranamente sordo, e un rivolo di pezzi di sardonica si rovesciò fuori, sollevando una nuvola di polvere. I due fratelli fissarono increduli il mucchio di pietre. Finn Larson scoppiò a ridere, i denti che brillavano tra la folta barba grigia. «Chi dorme... non piglia... pesci!» ansimò tra le risa, stringendosi l'enorme pancia e dondolando da una parte all'altra sul suo sgabello, le grasse mani che si contraevano spasmodiche sulle pieghe del farsetto. Alla fine riuscì a prendere abbastanza aria da dire: «Be', sembra che voi due ragazzi siate ricchi di pietre semipreziose, mentre vostro padre è improvvisamente ricco di monete. Ma a quanto ne so voi siete anche più poveri di sorelle!» «Sorelle?» La voce di solito profonda di Halli si alzò di un'ottava ora che il loro fallimento diventava ancora più surreale. «Ne abbiamo solo una, a quanto ne so: Katla, l'amica di Jenna.» «Sì, che presto sarà Katla, la nuova moglie di Finn. Le monete che Aran avevano non erano sufficienti, perciò abbiamo fatto un accordo leggermente più creativo. Ed è una bella ragazza, Katla, anche se un po' selvaggia. Ma presto le toglieremo certe idee dalla testa.» I due fratelli lo fissarono esterrefatti. Poi si guardarono. «In nome del cielo, cosa ha fatto?» Terza parte 10 Intuizioni Più tardi quella mattina Jenna Finnsen, che aveva ascoltato una bizzarra e sconcertante conversazione fuori dalla tenda di famiglia, andò a cercare
Katla per cercare di capirci qualcosa. Ma quando raggiunse il suo banchetto, l'amica non c'era: al suo posto dietro la luccicante esposizione di armi c'era Erno Hamson, e in quello spazio ristretto appariva a disagio, fuori posto nella sua tunica intessuta a mano accanto al ricco velluto blu. Nelle sue grosse mani il pugnale che stava mostrando a un ricco Istriano sembrava quasi uno spillo. Jenna sorrise. «Un abilissimo artigiano» lo sentì dire al nobile. «Sì, uno dei migliori delle isole del Nord.» Poi Erno incrociò il suo sguardo e si affrettò a distogliere gli occhi da lei, imbarazzato. «Non troverai Katla qui.» Jenna si voltò di scatto. Dietro di lei c'era la piccola Marin Edelson. Solo che non era più tanto piccola. Persino nascosto dalla stola ricamata avvolta intorno alle spalle e annodata sul davanti, il seno di Marin era enorme. Salutando la ragazza più giovane, Jenna scoprì che le era quasi impossibile distogliere lo sguardo da quella fantastica vista. Con riluttanza si costrinse a sollevare gli occhi sul suo viso. «Erno dice che non sta bene» continuò Marin. «Forse non sarà neppure in grado di venire al Raduno.» Aggiunse quel dettaglio in tono trionfante, o almeno così sembrò a Jenna. «Perciò sto aspettando qui che Erno abbia un momento di pausa per chiedergli se gli andrebbe di riservarmi una danza.» «Marin!» Jenna era scandalizzata. «Non puoi chiedere a Erno di ballare con te. Non è corretto. Non si fanno queste cose.» Marin sembrò sospettosa. «E cosa ci sarebbe di sbagliato? Lui non appartiene a Katla, qualsiasi cosa lei possa pensare» aggiunse con rancore. «Non puoi chiedere a lui di ballare con te: non è così che si fa, o almeno non lo fanno le donne adulte. E Sur sa che mi sembri una donna piuttosto adulta ora, Marin. Per i cieli, fin troppo!» Marin intrecciò le braccia sul petto, ma quel seno prorompente non ne voleva sapere di essere contenuto. Non appena la ragazzina premette su di esso dal basso, si sollevò straripando gioiosamente dallo scialle come se avesse vita propria. Con un grido, Marin si affrettò a risistemarsi l'abito. «Oh, Jenna,» gemette, afferrando il braccio della ragazza più vecchia «cosa farò ora? Non vuole smetterla di crescere!» Jenna si permise di guardarlo di nuovo. Sul corpo sottile di Marin la dimensione delle sue nuove appendici sembrava in effetti eccessiva. «Dovresti ringraziare i Fati per un tale dono» disse il più gentilmente possibile. «Dopo anni in cui sei stata piatta come una tavola dovresti essere felice
che il normale sviluppo femminile sia finalmente cominciato. Un seno di notevoli dimensioni non è affatto una brutta cosa. Di certo io ho intenzione di sfruttare al massimo il mio con l'abito che indosserò per il re. Tu cosa indosserai questa sera, Marin?» La ragazza sembrò ancora più infelice. «Io... io non lo so. Il vestito che avrei dovuto indossare, sai, quello blu con le rifiniture di pelliccia» Jenna annuì «ora è troppo stretto. L'ho provato la scorsa notte e ho rotto le cuciture. Oggi non riesco neppure a tirarlo su oltre la vita. Non è naturale, Jenna, davvero, non lo è.» «Ma certo che lo è, mia cara» replicò Jenna nella sua voce più confortante e materna. «È la cosa più naturale del mondo.» «Ma non lo è!» Marin si chinò in maniera confidenziale verso Jenna. «Devi promettere che non lo dirai a nessuno, perché di certo riderebbero di me per la mia stupidità, ma sono andata dai Viaggiatori.» Si guardò intorno con aria colpevole, e la sua voce divenne un sussurro. «È magia. Una magia che è andata terribilmente storta. Ho comprato una pozione. Per farlo crescere. Per... per far sì che Erno mi notasse.» Jenna rimase senza fiato, ricordando la sua conversazione con Kitten Soronsen in cui la maligna ragazza le aveva gioiosamente (ed erroneamente) riferito che Marin aveva portato Erno dagli Erranti per comprare una pozione d'amore per lui, un'idea che all'epoca Jenna aveva giudicato assurda. Che cosa patetica, pensò in quel momento, che la piccola Marin tutta pelle e ossa sia dovuta arrivare fino a questo punto per farsi notare da un uomo. E con un tale increscioso risultato, per di più... Dovette reprimere una risata per quanto era grottesco. E tutto per Erno Hamson, quello zuccone. Chiunque poteva vedere che non aveva occhi che per Katla Aransen. Sospirò. Povera Marin. «Magia?» Inconsciamente, Jenna si toccò i capelli. «Bene» disse allegramente. «Allora è facile sistemare la faccenda.» «Davvero?» «Certamente. Andremo dritte da chi ti ha venduto la pozione e gli chiederemo di darti qualcosa che inverta l'effetto.» Marin la fissò a bocca aperta, come se fosse un oracolo che aveva appena emesso la sua sentenza. «Oh, Jenna, tu sei così intelligente!» Poi il suo viso tornò a rabbuiarsi. Frugò nella scarsella che aveva alla vita e ne versò il contenuto sul palmo della mano. Ne caddero fuori due piccole monete d'argento. «Oh, povera me. Non sono abbastanza.» «Quanto ti è costata la prima pozione?»
«Dodici cantari.» «Dodici cantari?» «Erano tutti i miei risparmi» disse Marin sulla difensiva. Dodici cantari. Jenna ne aveva almeno venti nella propria scarsella, ma non aveva alcuna intenzione di darli a Marin Edelsen. Poi un'idea le si formò nella mente. Prese Marin per un braccio e cominciò a trascinarla via dal banchetto di Katla. «Vieni con me!» «Ma...» Marin gettò uno sguardo implorante da sopra una spalla a Erno, che però aveva accuratamente abbassato lo sguardo, facendo tutto il possibile per fingere di non notare le due ragazze. «Ma dove stiamo andando? Il quartiere nomade è nell'altra direzione. Non capisco...» «Non c'è assolutamente motivo di andare al quartiere nomade se non hai i soldi per pagare una nuova pozione. Perciò andiamo a procurarci quei soldi.» «Ma come?» Jenna non rispose. Continuò invece a trascinare Marin per un braccio finché la ragazza non perse il suo precario equilibrio e dovette correre dietro all'amica per restare in piedi. «Jenna» gemette Marin a voce alta, tanto che la testa di Erno si sollevò di scatto. «Da quella parte ci sono i Giochi...» «Lo so, sciocchina. Ed è esattamente lì che stiamo andando. Dove ci sono gare ci sono anche scommesse. C'è questo giovane Istriano di cui parlano tutti, mi ha detto Fara Gilsen. Bello come un dio e con un nome meravigliosamente esotico: Tanto Vingo.» Jenna si godette il modo in cui quel nome accarezzava il suo palato. «Vincerà di certo la gara di scherma, così ha detto Fara. Scommetteremo le tue monete d'argento su di lui e così raddoppieremo il denaro.» Batté le mani, soddisfatta della propria trovata. «Sarà un gioco da ragazzi!» Marin la seguì, confusa su come avrebbe dovuto comportarsi una signora: non poteva chiedere un ballo all'uomo che le piaceva, ma poteva allegramente mischiarsi con le canaglie e gli imbroglioni al banco delle scommesse. Se suo padre l'avesse vista lì di certo le avrebbe mollato un bello scapaccione. Impaurita, ma spinta dalla disperazione, trottò timidamente dietro a Jenna, il seno che sobbalzava dolorosamente a ogni passo. Tanto Vingo stava avendo un attacco di collera. Il suo ultimo incontro cominciava tra meno di mezz'ora e lui aveva appena scoperto che il pugnale danneggiato il giorno precedente era ancora nel suo fodero, e ormai era
troppo tardi per fare qualcosa. Eppure aveva un vago ricordo del fatto che in un momento imprecisato tra quando se n'era andato in giro per la fiera con suo fratello il pomeriggio precedente e quella stessa sera in cui suo padre e suo zio l'avevano incoraggiato a prendersi una sbronza di araque, lui aveva avuto tra le mani un'altra arma: un pugnale perfettamente bilanciato che aveva accarezzato il suo palmo con la sua mortale lama. Poteva ancora sentirlo pulsare nella mano, come un arto amputato. «Non è così grave, Tanto, davvero» disse il padre in tono rassicurante. Saro lo guardò recuperare l'arma che il fratello aveva gettato al suolo e spolverarla. «Vedi? Le tacche sono molto piccole.» «È rovinato!» ruggì Tanto. «Proprio come tutto il resto. Per le tette della Dea, come posso vincere la gara di scherma con una lama rovinata? Anche contro quel vecchio trasandato? E se non vincerò, allora Saro farà meglio a vincere la corsa dei puledri, o la sua vita non varrà un soldo bucato.» Era vero, e Saro lo sapeva. Si scusò e andò a badare ai cavalli. Si era svegliato quella mattina da un sonno agitato. Per tutta la notte era stato visitato da sogni il cui significato non gli era affatto chiaro; persino quelli che cominciavano bene avevano mostrato il loro lato oscuro. Nel sogno che ricordava più distintamente era a cavallo e correva attraverso una brughiera sconosciuta. Sulla sua testa le nubi correvano per il cielo dietro di lui, ma se il suo cavallo continuava a galoppare lui rimaneva sempre illuminato, mentre se rallentava era certo che le ombre proiettate dalle nuvole sarebbero strisciate verso di lui e lo avrebbero avvolto nella loro oscurità. Era indispensabile che corresse più di quelle ombre, ma qualunque potesse essere la ragione, gli sfuggiva completamente. Il suo cuore batteva a ritmo con gli zoccoli del cavallo. Quando un lago era improvvisamente apparso davanti a lui, Saro aveva capito che era perduto. E poi il cavallo era svanito e lui si era ritrovato ad affondare giù, sempre più in basso, tentando disperatamente di respirare, finché era stato inghiottito dall'oscurità e aveva capito che doveva essere annegato. Ma proprio mentre lo pensava una creatura marina era venuta verso di lui, apparendo dal nulla e spingendosi con possenti zampate tra le acque, una creatura marina con occhi grigi che gli erano familiari. Lui l'aveva abbracciata con gioia e insieme erano tornati in superficie; le nuvole erano passate innocue sulla loro testa, lasciandoli entrambi a dondolare nelle acque tranquille immersi in una pozza di luce dorata. Una creatura marina in un lago d'acqua dolce? Doveva essere impazzito. Si era districato dalle coperte e si era messo a sedere sul bordo del letto,
ricordando gli avvenimenti del giorno prima. E poi aveva messo la mano sotto il cuscino, e lì c'era il pugnale che aveva nascosto là sotto, il pugnale che lei aveva fatto, con i suoi intricati disegni e la lama luccicante dove il metallo era stato ripiegato su se stesso, forgiato e riforgiato finché non era emerso il suo drago naturale a rispecchiare quello damascato che si avvolgeva elegantemente sull'elsa. Saro l'aveva preso e l'aveva cullato nella mano come fosse una cosa vivente... e come una cosa vivente il pugnale aveva pulsato nel suo palmo, emanando calde vibrazioni in tutto il suo corpo. «Katla» disse ora, ricordando di nuovo. «Katla Aransen.» Il suono del suo nome era come un incantesimo per lui. Finì di strigliare il mantello del baio e appoggiò la testa alla fragrante pelle dell'animale. Sentì il cavallo tremare sotto la sua guancia, poi la sua mente si agitò e si aprì. Conforto, un senso di cameratismo; la cognizione che qui c'era l'essere con le mani ritmiche, gentili, che muoveva la spazzola seguendo l'andamento del pelo invece di spingerla a forza tra i nodi per tirare; che questo era colui che aveva del cibo delizioso all'interno della sua pelle, mentre l'altro portava solo dolore e paura: la pietra che colpiva, il piede che feriva... Saro si allontanò dal cavallo con un sussulto e il contatto con la mente dell'animale cessò immediatamente. Sentì un calore avvampargli le guance, poi un gelo avvolgere il suo corpo. Era già abbastanza spiacevole che il cosiddetto dono dell'anziano nomade gli rivelasse i pensieri nascosti delle altre persone, ma ritrovarsi a scrutare nella mente di un cavallo era davvero disorientante. Messaggero della Notte nitrì e lo colpì delicatamente col muso, ma Saro si scansò, la mente ancora in subbuglio. Di certo ora cavalcare quel cavallo gli sarebbe sembrata una sorta di intrusione, di violazione... anche se cavalcare un qualsiasi cavallo avrebbe causato un lui la stessa reazione. Come poteva pensare di affrontare la vita se non poteva più toccare né uomo né animale senza essere invaso da un indesiderato flusso di sentimenti e pensieri? Quell'idea era troppo terribile per poterla contemplare e la mente di Saro rifuggì da essa. Tentò disperatamente di concentrarsi sull'oggi, su ciò che poteva controllare: c'era la faccenda della corsa da risolvere. Gettò la spazzola nella polvere e se ne andò. Avrebbe detto alla sua famiglia che il cavallo era zoppo, che non poteva correre. Forse suo padre e suo zio avrebbero potuto trovare un altro modo per procurarsi il prezzo della sposa e salvarlo da un pestaggio. Ma allora cosa ne sarebbe stato di Guaya e della sua povera nonna? Senza il denaro che lui aveva deciso di vincere per loro, come se la sarebbero cavata? I pensieri gli turbinavano incessanti
nella mente, disperatamente confusi. Il problema si complicò, rivelò nuove implicazioni e conseguenze, divenne insolubile. I suoi pensieri erano aggrovigliati come le otto braccia del mitico Flagello delle Navi dopo che l'eroe Sirio il Grande l'aveva sconfitto. Quando raggiunse l'arena della gara di scherma non aveva ancora idea di cosa avrebbe detto o fatto. Una discreta folla si era radunata per l'incontro e le guardie dai mantelli blu avevano difficoltà a tenere gli spettatori al di là delle corde che segnavano i confini dell'arena, perché molti altri ne continuavano ad arrivare, da soli o in gruppi, come se si fosse sparsa la voce in tutta la fiera che questo era l'evento sportivo più importante. Dei due schermitori, però, solo uno era già arrivato: Tanto, che camminava con aria baldanzosa nell'arena come se gli appartenesse, sorridendo e stringendo le mani delle donne più carine che si chinavano sulle corde per offrirgli una parola di incoraggiamento, una carezza come portafortuna... un segno del loro favore. Tanto ne baciò una sulla guancia, un'altra, più voluttuosamente, sulle labbra. Le donne risero scioccamente e arrossirono. La seconda legò un nastro ricamato intorno al suo bicipite, da dove fluttuò nella leggera brezza come un vessillo. Una donna nomade gli gettò un fiore e il giovane, prendendolo al volo, se lo mise dietro l'orecchio. Le donne adorarono quel gesto, notò Saro con amarezza. Tanto le aveva affascinate tutte: le più timide si agitavano e arrossivano se lui le guardava, le più sfacciate mettevano in mostra i loro seni e facevano battutine piccanti. Saro si rese conto con una punta di invidia che questo era ciò che si guadagnava a possedere una bellezza esteriore e una certa arroganza: alle donne non importava affatto l'uomo che c'era sotto la patina luccicante, la crudeltà e la meschinità che lui conosceva così bene, fintanto che potevano amoreggiare ed essere stuzzicate. Saro desiderò con improvvisa passione di poter trasferire a ciascuna di loro il dono del vecchio nomade. Allora forse sarebbero state meno ansiose di attirare l'attenzione di suo fratello. Dall'altra parte dell'arena la folla cominciò a dividersi per far passare un uomo alto con il copricapo di stoffa tipico degli uomini del deserto. Attraversava con passo sicuro la folla, seguito da una mezza dozzina di suoi seguaci, tutti abbigliati alla stessa, esotica maniera. Quando raggiunse le corde, invece di passarci sotto come si faceva di solito, le superò con un agile balzo. La folla ammutolì per un istante, poi gli spettatori ricominciarono a parlare tutti insieme. «La Fenice, ecco come lo chiamano» sentì dire Saro da un uomo di fronte a lui al suo compagno «l'uccello mitico che rinasce dalle sue ceneri.»
Saro studiò l'uomo del deserto con più attenzione, incuriosito. Nonostante il suo aspetto imponente non era più alto di Tanto, notò con un leggero disappunto. Il copricapo lo faceva apparire più slanciato, ma faceva comunque una certa impressione, magro ma muscoloso com'era. Un uomo che poteva trarre in inganno, pensò Saro, uno che non andava in giro a pavoneggiarsi per il suo valore. Gli indumenti della Fenice erano vecchi e trasandati. La sua camicia, di cui si intravedevano i polsini e l'orlo, era macchiata e consumata, di un colore indefinito. Sopra l'uomo del deserto indossava un farsetto di pelle conciata, stretto in vita con una cintura di stoffa intrecciata, e un corsaletto di cuoio più spesso coperto da un centinaio di tondelli di ferro sovrapposti. I calzoni alla cavallerizza erano della stessa tonalità smorta del farsetto, legati nello stile barbaro dal ginocchio alla caviglia con strisce di pelle incrociata che non era stata del tutto ripulita dalle tracce di carne e pelo. Ciuffi neri e marroni spuntavano qua e là all'incrocio dei lacci, ma Saro non riusciva neppure ad azzardare un'ipotesi su che tipo di ripugnante creatura avesse donato la sua raccapricciante pelle a quello scopo. Con le pieghe del copricapo che nascondevano tutto tranne gli occhi, era difficile dire quanti anni potesse avere la Fenice. Dal portamento, sicuro, risoluto, Saro lo immaginava tra i trenta e i cinquant'anni, o anche più. E gli occhi non erano d'aiuto: neri e brillanti, ma quando l'uomo abbandonava il suo cipiglio (o il sorriso, era difficile dirlo) le rughe sottili agli angoli erano pallide contro la pelle scurita da anni di sole e di vento. Un duro, pensò Saro: di certo non un 'vecchio trasandato', come lo aveva definito il suo stupido fratello. La frase 'un consumato uomo d'armi' apparve improvvisamente nella mente di Saro, come se l'esatta definizione di quelle parole fosse lì in piedi di fronte a lui. E in effetti descriveva perfettamente quell'uomo, che sembrava consumato e indurito dalle intemperie della vita come un tronco di tasso o di quercia lasciato in balia degli elementi a stagionare. E quando arrotolò le maniche della sua maglia, Saro vide che un intrico di cicatrici bianche gli segnava l'avambraccio. Che possibilità poteva avere suo fratello contro un uomo del genere? Eppure Tanto non sembrava affatto preoccupato dall'aspetto minaccioso del suo avversario. Sembrava anzi completamente indifferente mentre si crogiolava nell'ammirazione della folla. Una donna gli gridò se aveva già una moglie. «Oggi sono ancora scapolo!» dichiarò Tanto, allargando le braccia come per abbracciarle tutte. «Ma domani?» Le donne sembrarono tutte sbocciare sotto il suo sguardo. Saro notò una
ragazza con un bel corpo e una testa di capelli biondi trascinare verso le corde la sua compagna, una strana creatura con braccia sottili e un enorme seno, e poi vide delle donne nomadi con le teste rasate e i denti ingioiellati lanciare fischi di approvazione a suo fratello. Due vecchie eyrane con abiti tessuti in casa e sciarpe dai colori sgargianti gridarono apprezzamenti sulla lunghezza delle gambe di Tanto, messe in accurata evidenza dalla calzamaglia viola che aveva scelto come complemento della sua tunica ricamata verde chiaro: i denti di suo fratello brillarono bianchissimi contro la pelle scura quando sorrise in risposta. Sembrava proprio un puledro di razza tutto agghindato per una parata di stato, lustro e agile di gambe. Ma se Tanto era un puledro, l'uomo più anziano era uno stallone del deserto, pensò Saro, e andò a piazzare la sua scommessa. Quando arrivò dall'allibratore fu sorpreso di scoprire che le quotazioni di Tanto erano salite: ora era dato vincente con tre colpi andati a segno invece di quattro. Era opera delle donne, senza dubbio. C'era voluto più tempo del previsto a Jenna e Marin per raggiungere l'arena della competizione di scherma, dal momento che lungo la strada si erano imbattute in tutta una serie di interessanti distrazioni. Marin era rimasta particolarmente affascinata dalla gara di lancio del masso, in cui uomini giganteschi, quasi tutti Eyrani, a quanto pareva, sollevavano enormi massi e li gettavano con forti grida a pochissimi centimetri di distanza dai loro piedi. Un uomo con una barra di misurazione segnava poi la distanza che ciascun uomo raggiungeva, ma a Jenna, a cui non piacevano gli uomini troppo massicci, non sembrava uno sport molto avvincente. Il combattimento dei cavalli, nel recinto accanto, era troppo sanguinario per poterlo descrivere. Le ragazze si erano affrettate ad allontanarsi, distogliendo gli occhi dalle bestie che urlavano, le carni lacerate e gli zoccoli che colpivano. Poi erano arrivate ai quadrati dove si svolgevano gli incontri di lotta libera, e lì era stato il turno di Jenna di volersi fermare a guardare, perché in quale altro luogo una ragazza poteva ammirare così liberamente e così a lungo dei bei corpi maschili svestiti? Con l'eccezione forse della gara di nuoto, solo che ora erano piuttosto lontane dalla spiaggia... Ma c'era una scommessa da fare, ricordò a Marin trascinandola per il braccio, come se l'idea di fermarsi lì fosse venuta alla ragazza più giovane. E infatti ebbero appena il tempo di piazzare la loro scommessa e di trovare dei posti davanti alle corde. Le guardie chiamarono i due concorrenti per esaminare le loro armi e leggere loro le regole.
«È molto attraente» sussurrò Marin alla sua amica mentre Tanto fletteva i muscoli e faceva un paio di finte di allenamento. «Ma ha una mascella crudele. Invece mi piace molto l'uomo del deserto.» Jenna la guardò di traverso. «Ma cosa ne capisci tu di uomini? La mascella crudele, dice lei! Se il mio cuore non fosse già promesso a re Ravn, lo getterei ai piedi di Tanto Vingo senza pensarci un attimo.» Jenna fece una risata sprezzante. «Perché, a parte il re, lui è l'uomo più affascinante che abbia mai visto. E poi cosa si vede dell'uomo del deserto? Niente, a parte gli occhi e le mani. E non mi paiono sufficienti per giudicare, no?» «È più di quanto possono vedere gli Istriani quando scelgono le loro spose» osservò Marin in tono leggermente petulante «perché loro vedono solo le labbra e le mani. E quando re Ravn sceglierà il Cigno di Jetra, sarà tutto ciò che vedrà di lei, fino alla notte di nozze.» Jenna sembrava furiosa. Si guardò intorno per vedere se qualcuno stava ascoltando la loro conversazione, ma tutti erano concentrati sui due contendenti, che in quel momento venivano perquisiti dalle guardie per accertarsi che non avessero armi nascoste. Marin notò Saro, ed ebbe pietà della sua amica. «Guarda» si affrettò a dire per cambiare argomento. «Guarda quello laggiù, dietro l'uomo con quella barba enorme.» Jenna seguì lo sguardo di Marin. In effetti c'era qualcosa in quel giovane del Sud dall'altra parte dell'arena. Come il concorrente istriano era ben fatto e di carnagione scura, ma le sue fattezze sembravano meno delicatamente cesellate e i suoi capelli erano più lunghi e meno lucenti. Jenna notò che si muoveva con cautela tra gli altri spettatori come se non volesse essere toccato, ma sempre senza distogliere lo sguardo nero e intenso da Tanto Vingo. Forse erano amanti... Jenna aveva sentito dire dai servitori di corte a Halbo, gente che notoriamente amava fare pettegolezzi scurrili, che negli stati del Sud a volte gli uomini vivevano con altri uomini come marito e moglie. C'era persino una versione della storia del mago Arahaï in cui il mago aveva litigato col suo amante, anch'egli un potente mago, ed era stato costretto a seppellirlo sotto terra, in una caverna tutta di cristallo e oro, e ogni giorno per il resto della sua vita andava a visitare la sua tomba e piangeva. La sua magia l'aveva abbandonato, lasciando il suo cuore ridotto in cenere. Era tutto molto poetico, a parere di Jenna. E poi c'erano i racconti sugli antichi eroi, che parlavano di amanti che andavano in guerra insieme, uomini e uomini, uomini e donne e persino, cosa inimmaginabile per Jenna, donne e donne: tutti combattevano fianco a fianco, proteggendo
l'altro o morendo nel tentativo, ma nessun Eyrano da lei interpellato aveva voluto parlarne, come se fosse un qualcosa di cui vergognarsi, un argomento da evitare. Spesso Jenna si immaginava nei panni di una guerriera, come Fyrnir di Legnoscuro, con l'armatura e l'elmo luccicanti, una spada d'argento in mano, a combattere schiena contro schiena con il suo signore e amante re Ravn. In quei momenti riusciva persino a sentire il calore della dorata pelle di lui attraverso la corazza... Il clangore del metallo contro metallo la riportò bruscamente alla realtà, e all'improvviso la folla cominciò ad animarsi con fischi e grida. La Fenice al primo assalto spinse il giovane Istriano contro le corde alla loro sinistra; il giovane fu costretto a scostarsi lateralmente, parando mentre ruotava, i piedi che danzavano abilmente sul terreno coperto di cenere. Ciononostante mentre si voltava verso di loro, Jenna vide che l'uomo del Sud aveva un ghigno feroce sul volto arrossato per l'eccitazione. L'argento che aveva scommesso le sembrò all'improvviso fuori pericolo. «Forza, Tanto!» gridò, e sentì il suo grido ripetuto dalla folla tutto intorno a lei. L'uomo del deserto, nonostante l'aria di mistero e di grande esperienza, non sembrava molto amato da quel lato dell'arena. Ancora una volta la Fenice lo attaccò e ancora una volta Tanto riuscì a scartare di lato. La pesante spada del Nord che l'uomo del deserto brandiva fendette l'aria con tutta la grazia di un'ascia da macello. Tanto la bloccò con il pugnale nella sinistra e la sollevò di scatto verso l'alto, infilando contemporaneamente la sua lama di Forent sotto il braccio alzato dell'avversario per colpirlo sul corsaletto. «Colpito!» gridò l'arbitro, e «Colpito! Colpito!» gli fece eco la folla. Jenna strinse entusiasta il braccio di Marin. «Vedi?» L'uomo del deserto guardò Tanto ritirarsi dal lato opposto dell'arena. Fece ondeggiare la sua spada davanti a sé mentre gridava in una versione molto gutturale dell'Antica Lingua: «Ti farò a pezzi, bel faccino! Riporterò quelle gambette viola a casa con me e le darò in pasto ai miei lupi!» Per tutta risposta Tanto sollevò il pugnale in un gesto chiaramente offensivo in qualsiasi cultura. La Fenice imprecò e caricò attraverso l'arena. Ancora una volta Tanto scartò; ma quando tentò la stessa manovra che gli aveva fatto guadagnare un punto, l'uomo del deserto, inaspettatamente veloce e agile, fece una finta e schivò il colpo, sbilanciando Tanto in avanti. Un infido piede lo aiutò a cadere, e all'improvviso il giovane istriano si ritrovò faccia a terra nella polvere. Gli occhi dell'uomo del deserto si illuminarono di astuzia
animale. La sua spada si abbatté come per tagliare Tanto a metà... se il filo non fosse stato smussato in accordo alle regole della competizione. Ma l'uomo si bloccò all'ultimo momento, facendo un mezzo passo indietro in modo che la parte piatta della sua arma colpisse con forza l'Istriano sul sedere. Doveva essere stato un duro colpo, perché Tanto gemette come un cane bastonato. «Colpito!» gridarono gli sparuti sostenitori dell'uomo del deserto. «Colpito» concesse l'arbitro. Tanto si rimise in piedi con un balzo. Ogni fibra del suo corpo trasudava furia, e quando si voltò il rossore eccitato con cui aveva cominciato l'incontro era diventato un livido color porpora. Non era così affascinante ora, pensò Marin con tetra soddisfazione. Tanto si scagliò contro la Fenice, il braccio con cui teneva la spada rigido come l'albero di una nave. Persino con il bottone sulla punta, pensò Saro preoccupato, una carica del genere poteva trapassare un uomo da parte a parte; ma la Fenice si limitò a sollevare la mano di guardia e a spingere via la sottile lama di Forent con il suo pugnale come fosse uno spiedo. Tanto tornò alla carica e di nuovo l'uomo più anziano gli bloccò al volo la spada e la allontanò con un elegante gesto della mano. Il furioso balletto delle cariche e delle parate andò avanti per diversi minuti, con la folla che urlava fino a perdere la voce. E poi le sorti si rovesciarono. Parando l'ultimo assalto di Tanto con il suo pugnale, la Fenice fece un passo avanti verso l'Istriano, facendo passare innocua la spada di Tanto sotto il suo braccio. Poi ruotò, alzò la spalla in modo da spingerla contro il petto di Tanto e sollevò così l'avversario più leggero, sbattendolo a terra. Se Katla fosse stata lì l'avrebbe riconosciuta come una mossa della lotta libera eyrana, una delle sue preferite, progettata per ritorcere contro l'avversario il suo stesso slancio e fargli colpire il suolo con il doppio della forza. La folla insorse. «Scorretto!» gridò una donna alla destra di Jenna. «Scorretto!» gridarono gli Istriani che guardavano. La Fenice fece un passo indietro con una scrollata di spalle. Guardò l'arbitro, ma sul volto dell'uomo si leggeva solo disapprovazione. Tanto, intravedendo una possibilità, balzò in piedi e caricò l'uomo del deserto con tutta la sua forza. Nonostante fosse sfinito, il suo addestramento non era stato vano. Attraversò l'arena in tre enormi balzi, con il braccio teso, e la punta della sua spada nonostante il bottone si conficcò tra i dischi
del corsaletto dell'avversario prima che la Fenice avesse anche solo il tempo di reagire. L'uomo del deserto ruggì e fece un balzo indietro, ma la lama di Tanto era ormai incastrata, e quando la Fenice indietreggiò, il giovane Istriano non ebbe altra scelta che seguirlo. La brutale spada del Nord calò sulla testa di Tanto. Era un colpo che se fosse andato a segno gli avrebbe di certo spaccato in due il cranio, filo della lama smussato o meno, ma i tempi di reazione di Tanto erano davvero ottimi. La sua mano sinistra si sollevò di scatto, bloccando l'enorme lama con una parata che gli salvò la vita. Volarono scintille e il tremendo stridore del metallo contro il metallo tormentò le orecchie degli astanti... e poi il pugnale di Tanto si infranse. I pezzi volarono tutto intorno come una pioggia di stelle cadenti, spargendosi per tutta l'arena. Una scheggia colpì l'uomo del deserto sul viso tra le pieghe del copricapo. Sgorgò del sangue, ma Tanto, con la mano del pugnale intorpidita e la spada ancora incastrata nella corazza dell'avversario, rimase immobile per lo stupore. L'uomo del deserto allora brandì il proprio pugnale e glielo puntò alla gola. «Vittoria!» gridarono i suoi sostenitori. «Vittoria.» L'arbitro fece un passo avanti per separare i due combattenti e la folla esplose. Ci vollero ben due mantelli blu per tirare fuori l'arma istriana dalla corazza della Fenice, e quando la liberarono, Tanto la strappò dalle mani delle guardie, la rinfilò con forza nel fodero e uscì come una furia dall'arena senza preoccuparsi di recuperare l'elsa ingioiellata del pugnale rotto. Ricordò però di prendere con malagrazia la borsa con il premio per il secondo posto. Un giovanissimo Errante, svelto di occhi e di mano, scivolò sotto le corde mentre l'attenzione di tutti era ancora rivolta ai due contendenti e fece sparire in tasca quel che restava del pugnale con un sorriso di trionfo. Pochi attimi dopo scoppiò una zuffa tra lui e un grosso Eyrano, che si trovò poi a dover affrontare un gruppo di Istriani inferociti. La Fenice si asciugò il sangue dagli occhi; con un pezzo di stoffa premuto sul viso, reclamò il premio e sparì silenziosamente tra la folla. Marin andò a riscuotere la sua vincita: irritata dal modo in cui Jenna l'aveva trascinata in giro, aveva scommesso sull'uomo del deserto. Il raccoglitore di scommesse le fece cadere in mano un fiume di monete d'argento. Dietro di lei, Saro era l'unico Istriano in coda. Quando arrivò il suo turno, l'uomo lo guardò con curiosità, poi si toccò ripetutamente il lato del naso e gli fece l'occhiolino. Saro non aveva idea di cosa significasse quel gesto,
ma prese il denaro e si avviò verso il recinto dove aveva lasciato Messaggero della Notte. Ora avrebbe dovuto vincere quella dannata corsa. Mentre camminava tra la folla senza guardarsi intorno, fu chiamato da una voce familiare. «Saro, aspetta!» Quando si voltò, vide suo zio che correva per raggiungerlo. Saro si sentì morire, ma non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché tutto ciò che Fabel disse fu: «Sono venuto solo per augurarti buona fortuna, ragazzo.» E sorridendo tese la mano e gli arruffò i capelli. Un bizzarro miscuglio di sensazioni sembrò penetrare in lui attraverso il cuoio capelluto: preoccupazione che potesse perdere la corsa, perché era difficile avere fiducia nel ragazzo, che non era un atleta nato e non era abbastanza duro con gli animali, e in Messaggero della Notte, che non aveva rispetto per nessuno e di certo si sarebbe impennato e avrebbe spedito il ragazzo oltre le corde in pochi secondi; paura che non avrebbero mai raccolto in tempo il prezzo della sposa se lui avesse fallito, e solo Falla sapeva cosa avrebbe fatto Tanto a quel punto, perché quel ragazzo era chiaramente instabile, nonostante la sua bellezza e le sue capacità fisiche; e Favio, anche Favio ne sarebbe rimasto deluso, e lui si sentiva già abbastanza in colpa da non desiderare di vederlo ulteriormente umiliato. Tutto questo Saro lo sentì nel brevissimo tempo che impiegò la mano di Fabel a passare tra i suoi capelli; e mentre le dita lasciavano la sua testa a Saro rimase un'ultima, sconcertante immagine: gli occhi di una donna, spalancati per la sorpresa e per la gioia mentre un uomo la montava. Sentì la sua voce, come un sussurro attraverso il tempo: «Oh, Fabel, Fabel.» Gli ci volle tutto il tempo necessario per arrivare al recinto, sellare Messaggero della Notte e condurlo alla gabbia di partenza per rendersi conto che la voce che aveva sentito non era quella di sua zia, ma di sua madre. «Fezack! Fezack! Guarda: vedo la corsa dei cavalli!» Il ragazzo saltellava di gioia, un ampio sorriso stampato sul viso. «Guarda, nonna, nel cristallo.» «Ragazzino, non essere sciocco. La corsa comincerà solo fra un'ora o anche più.» Fezack Cantastelle era stanca: c'era stata una lunga fila di clienti quel giorno. Uomini che volevano l'ardimento che non avevano; donne che volevano la bellezza che la natura non aveva loro donato; gente che voleva conoscere il futuro, interpretare i presagi e i sogni; altri che volevano fatture contro un vicino o un concorrente. Questi ultimi Fezack li
aveva cacciati via con rabbia. «I Viaggiatori non fanno mai del male: non è nelle nostre usanze, non chiedetelo neppure!» Gli ultimi due clienti ad aver bussato alla porta dipinta con il sole e la luna avevano comprato da lei delle pozioni che avevano funzionato fin troppo bene, e ora ne cercavano un'altra pozione per invertire l'effetto della prima. La ragazza Fezack la ricordava bene, anche se il suo povero seno era irriconoscibile. Era stata un'esperienza mortificante per entrambe. L'anziana donna si avvicinò per guardare da sopra le spalle del nipote, anche se era poco più alta di lui. Guardò il cristallo, ma non vide nulla. Il bambino di solito non era tipo da inventare le cose, ma era anche vero che c'erano stati diversi strani accadimenti a quella fiera. E non solo alla Grande Fiera, a dir la verità. No: già alcune settimane prima Fezack aveva notato qualcosa, qualcosa di intangibile, come una tensione nell'aria, qualcosa che faceva rimescolare il sangue, come se gli elementi basilari di cui era costituito il mondo stessero subendo una strana e impercettibile metamorfosi... «Guarda: vedi lì, tra quella grande nuvola di polvere, due cavalli che lottano. Uno marrone con un uomo grosso sulla schiena e uno scuro, cavalcato dal ragazzo che ha salvato Guaya... Oh, guarda! Quello marrone ha del sangue sui denti e quello scuro una ferita sulla spalla...» Fezack si accigliò. Spinse con delicatezza da parte suo nipote e si chinò sopra la grande roccia levigata, un pezzo di cristallo grigio rosato. Era stato estratto con una certa difficoltà da una caverna nelle montagne occidentali, nel punto in cui la catena delle montagne d'Oro incontrava la distesa di aguzzi picchi vulcanici conosciuti come la Spina Dorsale del Drago. Erano stati i suoi genitori a estrarlo, esclamando di gioia per la sua purezza e la sua dimensione: era un pezzo di valore e loro credevano ancora nell'antica magia, secondo la quale tali rocce captavano e trasmettevano la magia della terra, rimasta inattiva per gli ultimi duecento anni e anche di più. I ricordi cominciavano ormai a farsi nebulosi per Fezack, ma quel giorno era scolpito nella sua memoria. Ricordava che avevano appena lasciato un raduno di tribù delle colline che celebravano la vittoria contro un nobile istriano e i suoi soldati, autori di un'incursione per ridurli in schiavitù, che ora giacevano morti sotto la frana provocata dalle donne delle colline mentre gli uomini conducevano il nemico ignaro sotto le rupi. I Viaggiatori non approvavano la violenza, ma non credevano neppure nell'asservimento del prossimo, quindi si erano uniti alle celebrazioni senza troppe remore. Eppure Fezack aveva provato una bruttissima sensazione il giorno dopo,
quando si era diretta con i suoi genitori e gli altri nomadi su per le montagne, e il ritrovamento del cristallo non aveva alleviato la sensazione che qualcosa non andava. E in effetti avevano incontrato una truppa di Istriani più tardi quella sera, mentre scendevano lungo il valico: avevano trovato i loro compagni massacrati e avevano sentito raccontare di nomadi che avevano causato la frana con la loro magia. I suoi genitori erano stati uccisi, così come sette degli uomini. Le donne sopravvissute erano state violentate. Sua figlia, Alisha, era il risultato della violenza. Fezack non provava nessun affetto per la gente del Sud. Appoggiando le mani su entrambi i lati del cristallo sentì il potere pulsarle dentro: un debole formicolio dei palmi e dei polsi, un leggero intorpidimento delle braccia. Era abituata a quella sensazione, all'energia quasi impercettibile che emetteva la roccia, sufficiente per curare un leggero mal di testa o per assorbire il dolore di un livido o di una storta. La divinazione del futuro però era sempre sembrata al di là delle capacità dell'oggetto, fino a quel momento. Fu perciò con una certa meraviglia che Fezack sentì il cristallo impadronirsi di lei, penetrare nelle profondità della sua mente e poi cercare una via d'uscita. Ondate di calore cominciarono a risalire lungo le sue braccia ossute: Fezack le sentì diffondersi nel suo petto, nel collo, salire su attraverso le ossa del cranio, dove sembrarono darle energia finché l'anziana nomade non si sentì brillare di una pallida luce bianca, che bruciava dietro i suoi occhi. E a quel punto vide: un caos di cavalli che combattevano, i loro zoccoli che calpestavano la lava della pianura sollevando turbinanti nuvole di polvere nera; il volto terrorizzato di un uomo, anzi, no, poco più di un ragazzo, gli occhi scuri spalancati per il panico e per qualcos'altro, una consapevolezza, un orrore, mentre un altro uomo, più grosso, più vecchio, con in mano una frusta, si protendeva verso di lui e gli stringeva una spalla, portando indietro il braccio per prepararsi a colpirlo. Altri corridori passarono loro accanto in un turbine di movimento e quando la polvere svanì Fezack cercò il ragazzo, ma non riuscì a vederlo da nessuna parte. L'uomo con la frusta era a terra, calpestato dal suo stesso cavallo. L'anziana nomade inclinò la pietra per cercare un'angolazione migliore, ma la scena divenne sfocata e cambiò: tutto divenne nero e Fezack sentì odore di sangue. Gridò spaventata e ritirò le mani dal cristallo. «Non devi toccare la pietra» ordinò a suo nipote con insolita severità. La voce le tremava, e non solo la voce. Prese una coperta di lana dallo scaffale dove riponeva la biancheria da letto durante il giorno e vi avvolse stret-
tamente il cristallo, poi lo sollevò e scese i gradini del carro barcollando. Quando raggiunse il carrozzone di sua figlia gridò il suo nome. «Alisha!» Ci furono rumori all'interno del carro, voci soffocate e un precipitoso fruscio di stoffa. Poi fu la volta di un rumore di passi e la porta venne socchiusa. Sua figlia mise fuori la testa. Aveva le spalle nude, e intorno al corpo teneva un lenzuolo avvolto alla bell'e meglio. Le guance erano arrossate e i capelli in disordine. «Madre?» Fezack notò lo stato in cui era Alisha e l'improvviso silenzio nel carro, e fece un debole sorriso. «Credi forse che criticherei la tua scelta in fatto di uomini dal momento che mi guardi con aria così colpevole, figlia?» chiese con voce pacata, le braccia e la schiena piegate sotto il peso della grande roccia. «Potresti. Lui non è uno di noi.» «Chi è lo so bene.» Entrambe tacquero. Poi Fezack gemette. «Figlia, mi vuoi lasciare a combattere con questo affare?» Infilando il capo del lenzuolo nella fascia che si era stretta intorno al seno, Alisha scese dal carro a piedi nudi e trasferì con cautela il peso del cristallo nelle sue braccia. Il lenzuolo la seguì come uno strascico mentre si dirigeva insieme a sua madre dietro il carro dove avevano sistemato un tavolino basso per mangiare. «Il cristallo ha cominciato a funzionare, all'improvviso e senza preavviso. Falo l'ha usato per vedere il futuro. E poi l'ho visto anch'io. E che shock è stato, Alisha, davvero! Non credo che potrei sopportare di vedere ancora ciò che ho visto lì, e non so neppure se la mia visione era vera o falsa. Sarei felice di avere un'altra opinione.» Con cautela tolse la coperta che avvolgeva la roccia, dispiegandola sul tavolino. Il cristallo brillava, anche senza il tocco di una mano, e le sue sfaccettature erano ancora opalescenti per i resti della visione. Alisha fece una smorfia. «Non l'ho mai visto così prima. Non sono sicura di volerci avere niente a che fare ora che è in questo stato. E poi» la donna si mise a braccia conserte, lanciando alla madre uno sguardo ribelle «sono sicura di non avere il dono.» «Mia madre, sua sorella, mia nonna e la mia bisnonna e sua madre prima di lei, tutte avevano il dono. Si dice che Arnia Uccello del Mattino potesse vedere il vero attraverso due continenti con l'ausilio di un cristallo ben più
piccolo di questo.» «Favole, sciocchezze, madre! Quel tipo di magia non funziona più da secoli.» «Qualcosa è cambiato. Per favore, guarda. Fallo per me, Alisha.» Con un sospiro Alisha raccolse il lenzuolo intorno a sé e si sedette a gambe incrociate davanti al tavolo. Ci un movimento alla piccola finestra circolare sul retro del carro. Una tendina si mosse e Fezack intravide un viso bianco e una testa di capelli chiari prima che la figura scomparisse. Anche Alisha fissò la finestra, poi si affrettò a distogliere lo sguardo quando sua madre riportò l'attenzione su di lei. Con espressione scettica afferrò la roccia con entrambe le mani. E poi la sua espressione cambiò. I suoi occhi si spalancarono. Il sangue cominciò a defluirle dal viso e Alisha cominciò a rabbrividire. Quando alla fine tolse a fatica le mani dal cristallo, stava tremando come una foglia. «Dobbiamo spargere la voce. Dobbiamo fare le valige e andarcene, madre, ora, il più presto possibile.» Fezack Cantastelle fece a sua figlia un debole sorriso. «Anche tu hai visto ciò che ho visto io. Morte e distruzione e fiamme. Gli antichi si stanno risvegliando, figlia: li sento muoversi. La magia è tornata, e porta la morte con sé.» 11 Affiliazioni «Hai fatto cosa?» Troppo stupefatta per dire altro, Katla si accasciò pesantemente sulla panca. Era come se le sue ginocchia avessero assorbito lo shock causato dalla dichiarazione di suo padre prima che una qualsiasi altra parte di lei ne avesse la possibilità. «Finn Larson è un brav'uomo, e ricco, per di più.» Tutto il colore era svanito dal volto di Katla, a parte due chiazze rosse su ciascuno zigomo. Gli occhi erano neri e vuoti come due buchi per la pesca praticati nel ghiaccio. Tutto ciò che riuscì a dire fu: «Ma è vecchio.» Aran si risentì. «Ha un paio d'anni meno di me...» «E perché io dovrei sposare un uomo della tua età?» gridò Katla. Contro la sua volontà grosse lacrime cominciarono a bruciarle gli occhi. Le ricac-
ciò indietro, furiosa per aver perso il controllo. «Quando ti ho chiesto se mi avevi portata qui per darmi in sposa a qualcuno, hai detto che avevi altri piani per me» lo accusò. «Ed era vero. Stavo per accettare l'offerta di Finn di prenderti in affidamento, per farti frequentare le lezioni di corte insieme a Jenna. Tua madre e io ne avevamo discusso. Pensavamo che avrebbe potuto insegnarti a diventare una signora...» «Per poi potermi vendere a un prezzo più alto?» «Per il tuo stesso bene, Katla. Ma guardati: sembri un maschiaccio. Corri e ti arrampichi e lotti con i ragazzi: non sai cucinare né cucire né indossare un abito decente. È stato Finn stesso a suggerire di trasformare l'affidamento in un'offerta di matrimonio, e la cosa mi ha sorpreso. Ma mi è sembrato davvero entusiasta all'idea.» «Non lo farò. Fuggirò via.» «Tu non farai niente del genere. Gli ho dato la mia parola. Ormai ho promesso.» «La tua parola? E cosa m'importa della tua parola? Ora ti dirò qual è la mia, di parola!» Katla scattò in piedi. «La mia parola è no. Mai.» Sconvolta, Katla tentò di correre fuori dal tendone, ma Aran le si mise davanti e la spinse nuovamente a sedere. «Ascoltami, Katla. È una buona offerta. Lui ha tre case, il cantiere navale di Acquachiara e influenza presso il re. E faremo tutto nel modo stabilito. Porterà gli anelli di fidanzamento al Raduno questa sera e faremo l'annuncio formale. Tu ripartirai con Jenna per Halbo sulla Sirena, e lui ti raggiungerà lì per la benedizione e il congiungimento alla prima luna piena del mese dell'Abbondanza della Pesca.» Il congiungimento. Katla rabbrividì. L'Abbondanza della Pesca. Fece un rapido calcolo mentale. Mancavano meno di trenta giorni. Si voltò di scatto verso Halli, che era in piedi alla sinistra di loro padre e sembrava sconvolto quanto lei. «Halli, non puoi lasciarglielo fare! Tu dovevi sposare Jenna e ora non potrai farlo, perché io sarei tua madre acquisita. Non puoi impedire tutto questo?» Halli abbassò la testa. Sembrava non riuscisse a guardarla negli occhi. «Mi dispiace, Katla. Papà ha impegnato l'onore del nostro clan. Non possiamo rimangiarci la parola.» «Onore? È tutto ciò di cui t'importa? E che mi dici del tuo cuore, Halli? Pensavo che amassi Jenna, che avessi intenzione di commissionare una
nave e salpare per fare fortuna in modo da poterla sposare!» A quel punto Halli sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano privi di qualsiasi espressione. «È tutto finito ora» disse con voce piatta. «Nostro padre ha altri piani.» Katla si voltò verso Fent. «E tu? Hai intenzione di startene lì e lasciare che mi faccia questo?» Fent scosse lentamente la testa. «È nostro padre, Katla. Lui ha fatto il patto, e la sua parola è legge. Mi dispiace.» Un imbarazzante silenzio calò sul gruppo. Nessuno aveva il coraggio di guardare gli altri. Fu la voce di Tor a infrangere la tregua. «Qualunque cosa Finn ti ha abbia offerto per Katla» disse ad Aran Aranson «io ti darò lo stesso.» La testa di Katla si sollevò di scatto. «Quindi ora sono diventata un capo di bestiame per cui contrattare, eh?» esclamò incenerendolo con lo sguardo. Tor si strinse nelle spalle. «Pensavo solo che avresti preferito un giovane al vecchio Finn Larson. Uno senza pancia e con un po' di fuoco nelle vene.» «Ma non voglio te!» replicò Katla con disprezzo. Si strinse le braccia al petto come se sentisse un freddo improvviso. Tutta la famiglia l'aveva tradita: coloro che lei pensava l'avrebbero difesa fino alla morte. E dov'era Erno, si chiese tutto a un tratto? Forse lui l'avrebbe salvata. Di certo non poteva amare la piccola Marin Edelsen: era impossibile. No. Amava lei, ne era sicura. Avrebbe potuto aiutarla a fuggire. Il pensiero era sbucato fuori all'improvviso, dal nulla, ma dopo aver girato per qualche istante nella sua testa Katla non riuscì più a sbarazzarsene. Erno: era lui la risposta. Avrebbe aspettato fino al Raduno e in tutto quel caos sarebbero sgattaiolati via prima che il fidanzamento fosse annunciato. Avrebbero potuto prendere una delle faering e remare lungo la costa. Lei avrebbe indossato i suoi pantaloni e la tunica sotto l'abito, avrebbe preparato le sue cose nascondendole da qualche parte per prenderle in seguito. Cominciò a fare un elenco mentale di ciò che le sarebbe servito: il pugnale con il topazio incastonato nell'impugnatura, la sua migliore spada corta, il farsetto di pelle, troppo pesante da indossare sotto l'abito, gli stivali... Vedendo sua figlia così abbattuta, a testa china, Aran sentì una stretta al cuore. Si era aspettato uno scoppio d'ira, un rifiuto, la furia. Non certo quell'improvvisa rassegnazione, quella resa. Era una brava ragazza, nonostante il suo caratterino, ed era la sua preferita. Era stato difficile conclude-
re quell'accordo, checché lei potesse pensare, difficile dal punto di vista emotivo, nonostante i potenziali vantaggi. Non riusciva a pensare alla vita di sua figlia con Finn. Anche se sembrava una brava persona, c'erano state strane voci sulla dipartita della prima moglie. Era morta di parto, questo era certo, ma secondo qualcuno le doglie erano cominciate prima del previsto a causa di un pugno in pancia. Aveva perso prima il bambino e poi la vita, quando il sangue si era rifiutato di fermarsi, nonostante tutto quello che avevano tentato di fare le donne con i loro licheni e la loro pilosella. Alcuni dicevano anche che lei si era lasciata andare, e che la volontà è più forte di qualsiasi erba in questi casi. Aran si costrinse a non pensarci. Katla avrebbe avuto Jenna con sé almeno per un po' di tempo, e loro erano tanto amiche. Ma nei meandri della sua mente un pensiero continuava ad assillarlo: promettendo Katla in quel modo e negando a Halli il suo sogno aveva fatto davvero una brutta cosa. La sua mano vagò verso la tasca della tunica. Strinse per un attimo la pepita d'oro e tutto gli sembrò di nuovo a posto. Sbraitando un ordine ai suoi figli, scostò il lembo della tenda e uscì fuori alla luce. Halli e Fent si scambiarono un breve sguardo imbarazzato e lo seguirono. Tor fece un mezzo passo verso Katla, ma quando lei non sollevò lo sguardo, si voltò e seguì gli altri. Solo qualche minuto dopo Katla si rese conto di non aver chiesto in cambio di cosa era stata venduta. Cosa ci poteva essere di così prezioso in tutta Elda per cui suo padre potesse vendere la sua unica figlia? Saro appoggiò la mano sul lucido collo di Messaggero della Notte e sentì il suo cuore battere veloce e forte per l'eccitazione e per la presenza degli altri cavalli contro cui avrebbe dovuto correre. Li avrebbe sconfitti tutti, perché nessuno era veloce come lui; lui era il signore del vento e tutte le puledre lo volevano. Il ragazzo sulla sua schiena non era più pesante di una pulce: niente poteva fermarlo. Sputò fuori l'aria dalle narici con una sonora sbuffata e agitò la testa con impazienza. Saro si scoprì a sorridere. Se solo avesse avuto anche lui la fiducia in se stesso che aveva lo stallone... Ma non sembrava che gli restasse altro da fare che lasciare Messaggero della Notte a briglie sciolte; erano tutti lì, dietro la corda che li tratteneva sulla linea di partenza: Leonic Bakran su Dovere Filiale; Ordono Qaran su un grande animale bianco con la criniera intrecciata di nastri rossi; il figlio
maggiore di Calastrina su un bel pezzato castrato con gli occhi spiritati e un andamento nervoso e una dozzina di altri corridori, uomini del Nord e delle colline, e persino un cavaliere del deserto su un cavallo dorato dalle orecchie alla coda. Saro pensò a Guaya. Pensò alla sua casa senza quel tiranno di suo fratello dentro. Doveva vincere. Doveva. Abbassò la mano e accarezzò il collo del cavallo sperando che il proprio panico non invadesse la mente dello stallone. Il nobile Tycho Issian si lisciò il davanti della tunica che aveva indossato per il Raduno. Era la migliore che aveva, anche se aveva intenzione di trattenersi poco. Il tempo necessario per ottenere la dote dai Vingo, trovare il venditore di mappe e fare lo scambio. C'era un prete ad aspettarlo: avrebbe sposato la donna prima di portarsela a letto, per santificare la loro unione agli occhi della Dea. Cosa ci poteva essere di più decoroso? Schioccò le dita e prontamente apparve uno degli schiavetti, nell'abito di velluto che Tycho gli aveva comprato per l'occasione, i ribelli riccioli neri allisciati con l'olio profumato. Quale dei due era? Felo o Tarn? Tycho non riusciva davvero a ricordarlo. I suoi pensieri erano confusi: non riusciva a togliersi la donna dalla mente. «Come ti chiami, ragazzo?» disse con voce aspra al piccolo. Il ragazzino lo fissò sorpreso. Lavorava nella casa del nobile Tycho da più di quattro anni ormai, da quando era stato acquistato insieme ad altri al mercato di Gibeon. Negli ultimi due era stato il servitore personale del padrone, insieme con Felo, suo cugino, un membro della stessa tribù delle colline. Era la prima volta che il padrone dimenticava il suo nome. «Tarn, mio signore» si affrettò a rispondere. «Tarn, tu camminerai dietro di me al Raduno, e quando prenderemo il forziere dalla famiglia Vingo, lo porterai per me, senza inciampare né camminare curvo, non importa quanto possa pesare, e mi seguirai dovunque andrò, il più velocemente possibile. È chiaro?» «Sì, mio signore.» Tycho annuì. Dovevano portare il denaro al quartiere nomade in fretta e senza intoppi, poiché già quella mattina un funzionario del Consiglio era venuto al suo padiglione chiedendo udienza. Tycho sapeva di cosa si trattava: altri nobili alla fiera si erano lamentati perché era stata chiesta loro la restituzione anticipata dei debiti e lui in quel momento non aveva intenzione di ridare al Consiglio il denaro che gli avevano prestato. Aveva spedito un ragazzo a mandare via l'uomo, con tutte le dovute buone maniere,
ovviamente, e solo dopo avergli offerto un bicchiere di araque di rose e un dolcetto di mandorle... mentre lui scivolava via silenziosamente dall'uscita posteriore del padiglione. Tycho si concesse di pensare per pochi istanti alla Rosa Eldi. Era un nome strano persino per una nomade, rifletté per la millesima volta dopo quel fatidico bacio, e lei non aveva la carnagione scura di quella gentaglia. Rosa di Elda, Rosa del Mondo, tradusse nell'Antica Lingua. Le stava a pennello, doveva ammettere, con il suo colorito così delicato e il grazioso collo. Ah, Rosa Eldi. Presto allargherò i tuoi petali e sprofonderò nel tuo profumo. Presto sarai mia... «È stata una stupidaggine. Una pazzia. Un gesto da irresponsabile. Cosa avrebbe detto vostro padre non riesco neppure a immaginarlo. E ora guardatevi. Come spiegherete questo ai nobili che verranno a rendervi omaggio questa sera?» Erano più di due ore che Capotempesta continuava a sbraitare, dopo che il conte di Isola delle Pecore aveva detto la sua e se n'era andato via infuriato. Re Ravn Asharson sospirò, staccò la benda dal viso, esaminò l'ultimo versamento di sangue, la ripiegò per scoprire un punto meno sporco e la premette di nuovo con forza sulla guancia. Quella dannata ferita non voleva proprio smettere di sanguinare e il colpo aveva anche fatto annerire e gonfiare la pelle intorno all'occhio. Sarebbe stato davvero uno spettacolo quella sera, ma non gliene importava un fico secco. Era stata una vera e propria sfortuna che il pugnale del ragazzo si fosse spezzato in quel modo: fino a quel momento lui si era assicurato che l'Istriano non gli facesse alcun danno, nonostante tutto il suo elaborato lavoro di gambe e quella carica furiosa. «E cosa mai dirà la vostra futura sposa a vedervi così tutto contuso e sanguinante? Siete fortunato a non aver perso quell'occhio.» «Per l'amor di Sur, amico mio, smettetela di darmi il tormento. Mi sembrate mia madre quando a sette anni caddi dalle scale del castello mentre inseguivo Breta.» «Sire, mi perdonerete se vi dico che persino un bambino di sette anni avrebbe avuto il buonsenso di non fare quello che avete fatto voi questo pomeriggio.» Capotempesta si accasciò sulla panca, come se avesse improvvisamente esaurito tutta l'energia. Sembrava vecchio, pensò Ravn, un vecchio noioso.
«Era solo per divertirmi un po'. Sto impazzendo di noia in questo posto. Non posso andare in giro per la fiera per paura di essere assassinato da qualche oscuro personaggio, e solo perché una delle vostre cosiddette spie ha sentito una voce; non posso partecipare ai Giochi per paura che qualcuno possa infilzarmi o rompermi il collo; non posso farmi nessuna donna per paura di uno scandalo...» «Voi siete il nostro unico re» disse Capotempesta con maggiore gentilezza. «E non avete ancora un erede. Se dovessimo perdervi, nel Nord scoppierebbe la guerra civile. E voi lo sapete, sire, quindi dovete capire la nostra preoccupazione.» «E se sposassi la figlia di Keril Sandson?» Ravn guardò il suo principale consigliere con un'aria di sfida. Sapeva che era l'ultima cosa che Capotempesta voleva. O forse la penultima... Il conte si strofinò il mento con la mano che gli restava in un gesto di stanchezza. «Alla fine sarete voi a dover scegliere, sire. Ma dovete sapere che è esattamente ciò che Sandson va pianificando da mesi. Perché pensate che si sia fatto vedere a corte così di frequente? Non certo perché vi vuole bene, sire, checché ne possiate pensare. L'ho visto parlottare nei corridoi con il conte di Capo delle Cascate, e con quel serpente di Erol Bardson. E noi tutti sappiamo che Bardson ha trascorso gli ultimi mesi a rafforzare il suo esercito personale...» «Ah, il mio amato cugino. Anche lui con la sua figliola da farmi sposare. Ed è un peccato, perché è un bel pezzo di ragazza, quella. Il che è più di quanto si possa dire di tutte le altre. Be', se vi è di consolazione, Bran, non credo che sceglierò nessuna delle bellezze che stanno cercando di affibbiarmi.» Guardò il viso del vecchio rilassarsi. «Ma non credete che questo significhi che sceglierò la vostra Breta.» L'immagine della giovane si formò nella sua mente... Una ragazza robusta, il che non gli dispiaceva di per sé: un po' di carne da stringere durante l'amplesso non era affatto una brutta cosa, né lo era la morbidezza della coscia di una donna su cui poggiare la testa durante il sonno, ma per Sur, che faccia! Persino da bambina quando lui la rincorreva e la prendeva in giro per tutto il palazzo a Halbo era già brutta come un alce. Bastava una barba, e sarebbe stato come fottersi suo padre... «Sapete ciò che vi abbiamo consigliato» disse Capotempesta con freddezza. «Scegliete una delle Eyrane, Ella Stensen o Filia Jansen, o la figlia del conte di Promontorio Grande... o persino Jenna Finnsen, perché anche se suo padre è solo un costruttore navale, è maledettamente capace, e la
ragazza non è affatto brutta. Scegliete una di loro, indipendentemente da ciò che il Sud ha da offrire. Non possiamo fidarci dei nobili dell'Impero, come tutti noi che ricordiamo l'ultima guerra possiamo dirvi.» Ravn alzò gli occhi al cielo. Perché i suoi consiglieri erano tutti così vecchi? Non riuscivano a pensare ad altro che alle vecchie guerre, alle tradizioni. «Ma avete perso tutto il vostro spirito di avventura, Bran? Non bramate mai un cambiamento, una sorpresa nella vostra vita? Non vi viene mai il desiderio di scoprire cos'hanno le ragazze del Sud sotto tutte quelle vesti?» «Ho avuto abbastanza 'sorprese', come le definite voi, Ravn, ventidue anni fa» rispose Capotempesta irritato, agitando il moncone della sua mano in faccia al re. «E scommetto che sotto le loro vesti le donne del Sud hanno esattamente le stesse cose di quelle del Nord.» «Non vorrete dirmi, Bran, che non l'avete scoperto da solo quando razziavate i porti del Sud... Che non vi siete concesso anche voi un minimo di saccheggio e violenza, qualche stupro e un paio di razzie.» Ravn si accomodò contro lo schienale della panca e si godette il viso di Capotempesta che si rabbuiava. Se fosse servito per distogliere il vecchio zoticone dal suo strepitare e allo stesso tempo per imbarazzarlo, era tutto tempo ben speso. E la verità era che a lui invece interessava davvero scoprire cosa nascondevano le donne del Sud, qualunque cosa dicessero i suoi nobili consiglieri. L'idea di una ragazza straniera nel suo letto, con un odore e un aspetto diverso dalle robuste bionde o rosse a cui era così abituato, una che avrebbe potuto avere qualche freccia particolare al suo arco e che non l'avrebbe sfinito con le chiacchiere incessanti delle Eyrane, era piuttosto affascinante... e ai sette inferni le conseguenze. E se anche avesse significato rimescolare un po' le acque e lasciare che antichi odi e nuove cospirazioni venissero a galla, be', che pure fosse! Capiva benissimo le teorie e controteorie che i suoi nobili avevano snocciolato con tanto ardore davanti a lui, su come le diverse fazioni si sarebbero alleate l'una con l'altra, su come un'alleanza qui poteva portare a una rivolta lì, su come la scelta di una sposa delle Isole Occidentali avrebbe infuriato il conte di Promontorio Grande, mentre scegliere la figlia di Promontorio Grande gli avrebbe fatto guadagnare l'ostilità di Erol e dei suoi cospiratori, o su come scegliere una delle donne del Sud gli avrebbe fatto rivoltare contro i suoi tradizionali sostenitori per lasciarlo in balia del malcontento e della rivolta nel suo stesso paese, e addirittura nelle mani di una qualche subdola macchinazione dell'Impero. Il fatto era che non gli impor-
tava, non gli importava davvero. La vita era stata alquanto noiosa per lui negli ultimi tempi alla corte del Nord. Si era portato a letto ogni donna che gli piaceva e anche alcune che non gli piacevano affatto; aveva combattuto duelli e iniziato faide dilapidando le finanze di stato per riportare la pace tra i clan; l'unica prospettiva che gli sembrava avesse ancora un qualche briciolo di interesse era trovare personalmente il passaggio per l'Estremo Occidente, e i suoi nobili non glielo avrebbero mai permesso finché non si fosse assicurato un erede per dare stabilità al maledetto regno. Perciò una moglie, una moglie qualsiasi, era la sua priorità al momento. Forse avrebbe scelto il Cigno di Jetra, dopo tutto; a meno che sotto tutte quelle vesti non somigliasse a un tricheco. La Rosa di Elda giaceva nel suo letto nel carro del venditore di mappe, il gatto nero sdraiato accanto e uno scialle verde lasciato cadere ad arte sulla tavola di legno: lì aveva versato la maggior parte del sonnifero che Virelai le aveva dato prima di uscire. Un sordo brontolio si levava dal gatto mentre accarezzava il suo morbido pelo. Quando Virelai non era in giro aveva notato che l'animale era molto più felice, più rilassato. Ora era disteso sulla schiena con un piccolo rivolo di saliva che gli colava come il filo di una ragnatela dalla bocca e tutte e quattro le zampe allargate sotto il tocco delle sue dita. Aveva forse lo stesso effetto sugli animali che sugli uomini? si chiese guardando con la coda dell'occhio la creatura che godeva beata delle sue carezze. Anche il gatto era affascinato da lei? La sua mano si bloccò mentre rifletteva su quell'idea, non sapendo se la cosa le facesse piacere o meno. A volte la turbava vedere gli uomini ammutolire per la meraviglia, osservare le loro pupille riempirsi di desiderio, guardare il risveglio dell'organo nei loro pantaloni e sapere che reagivano solo alla sua aura, al suo aspetto esteriore e al suo tocco, non alla donna che realmente era. E chi era lei? Le belle sopracciglia della Rosa Eldi si aggrottarono per la frustrazione. I suoi ricordi erano così vaghi, così recenti. A volte si chiedeva se il Padrone le avesse deliberatamente fatto perdere la memoria, con tutte le sue pozioni e i suoi incantesimi, per impedirle di smarrirsi. Per impedirle di provare un senso di perdita, di confusione, per non farle sentire il desiderio di tornare dalla sua gente, qualunque fosse. Pensò tali cose senza collegare le parole a formare delle frasi: un'altra lacuna della sua istruzione al Santuario, con Rahe come suo unico tutore. Solo ora stava cominciando a capire e a usare le lingue di Elda, che Virelai faceva del suo meglio per insegnarle. Ma mentre imparava, aveva la sensa-
zione che ci fosse un profondo divario tra le parole e ciò che significavano nel mondo degli uomini, perché il mondo degli uomini le era del tutto incomprensibile. L'unica cosa che capiva era il desiderio e come farlo divampare. Il Padrone era stato molto esauriente nell'insegnarle tutti gli aspetti di quel particolare argomento. Quando Virelai tornò nel carrozzone pochi minuti dopo trovò la Rosa Eldi molto più sveglia di quanto si fosse aspettato, data la dose particolarmente forte che le aveva somministrato quello stesso giorno per evitare dei problemi in vista dell'affare con il potente nobile del Sud. Era stufo di viaggiare con i puzzolenti yeka e quel decrepito carro, con le sue ruote scricchiolanti e l'assale posteriore danneggiato. Per ora era riuscito a tenerlo insieme solo grazie all'incantesimo di unione tirato fuori a fatica dal gatto, che nella circostanza lo aveva morso, costringendolo a cercare aiuto dalla figlia della vecchia venditrice di pozioni per curarlo. Eppure quell'episodio aveva avuto il suo lati positivi... Virelai diede un calcio al telaio marcio della porta mentre entrava. Quell'inutile affare probabilmente non avrebbe retto il viaggio di ritorno sui monti Skarn. La prospettiva di viaggiare verso Sud col nobile Issian aveva fatto nascere nella sua mente tutta una serie di fantasie estremamente piacevoli, basate sugli antichi libri che il Padrone teneva in biblioteca, con le loro figure a colori squisitamente disegnate. Virelai riusciva quasi a vedere il palazzo che lo aspettava: un palazzo di calda arenaria dorata immerso nel verde delle lussureggianti colline dell'Istria, un palazzo odoroso del profumo degli alberi di limoni e di olivi, un palazzo pieno di tende di seta e soffici cuscini e leggiadre donne dalla carnagione scura. Quando aveva letto nei libri del Padrone che gli Istriani fasciavano le loro donne in ampie vesti e le tenevano nascoste, li aveva considerati pazzi: se lui avesse avuto un palazzo pieno di donne, aveva pensato allora, le avrebbe costrette a correre nude in ogni stanza. Ora, sotto l'incantesimo della Rosa Eldi, riusciva a comprendere perché volessero limitare il potere di tali creature. Sospirò. «Cosa c'è, mio tesoro?» mormorò la Rosa Eldi in quel suo tono di voce stranamente privo di espressione. La gatta lo guardò con espressione ostile e si mise a sedere. Virelai aveva notato che si teneva sempre vicina alla donna, come se la considerasse suo territorio.
«Stavo pensando ai lussi che ci attendono nelle ricche terre del Sud» rispose sorridendo. «Quando tu sarai la signora del palazzo e io il mago di corte.» Anche se sapeva che quella non era l'unica ragione per cui sorrideva... e che lei sarebbe stata la signora di quelle terre solo il tempo necessario perché lui mettesse in atto il suo piano. Sarebbe stato a dir poco strano ritornare nella terra in cui era nato, forse persino rivedere la gente della tribù delle colline che secondo il racconto del Padrone l'aveva abbandonato, lui, uno sfortunato bambino albino, nelle caverne sopra il villaggio per tre fredde notti nella speranza che morisse. Virelai immaginava di dover essere grato a Rahe per averlo salvato, ma era difficile provare gratitudine dopo quasi trent'anni di tormenti. La donna lo guardò col volto privo di espressione, anche se lui avrebbe giurato che il colore dei suoi occhi era cambiato dall'ultima volta che l'aveva vista. La Rosa Eldi si mise a sedere e tirò giù le gambe dal giaciglio, spodestando la gatta. Con un miagolio di protesta Bëte saltò a terra, scansò Virelai e uscì sui gradini, dove cominciò a lavarsi con energia, come se non avesse aspettato altro. Quando Virelai tornò a guardare verso il letto si ritrovò a fissare la lunga distesa di pelle bianca dove la vestaglia della Rosa Eldi si era aperta, come per caso. «Perché desideri darmi al nobile del Sud?» gli chiese con curiosità, anche se il suo tono di voce non cambiò nonostante la domanda. Virelai fissò le sue gambe così a lungo che gli sembrò che la sua pelle brillasse sotto il suo sguardo. «Ho le mie ragioni.» Era una frase che aveva preso da Rahe, la frase preferita dal Padrone quando non desiderava dare spiegazioni, ossia quasi sempre. Passò accanto alla donna per raggiungere l'armadietto dei medicinali e la sua provvista di bromo in polvere. Quando si voltò per prendere dell'acqua con cui mischiarlo, scoprì che la Rosa Eldi aveva allargato le gambe mostrandogli ogni dettaglio delle sue parti femminili. Rosa del Mondo, un nome davvero appropriato. La donna sollevò un sopracciglio vedendo l'espressione angosciata di Virelai. Si chinò in avanti e la seta della sua vestaglia scivolò a scoprire una spalla. Virelai si morse il labbro finché il dolore non seppellì il disperato desiderio che provava. «Copriti» disse in tono brusco, gettandole lo scialle. «Conosco il tuo gioco.» Per tutta risposta la Rosa Eldi si alzò e aprì la vestaglia su fin oltre le cosce, fissandolo negli occhi per tutto il tempo. Quando la aprì di più per mostrare i fianchi e le parti intime Virelai scoprì che non poteva fare a
meno di guardare, e fu perduto. La donna era completamente glabra e bianca come il latte, tranne che nel punto in cui la piega centrale era arrossata e leggermente dischiusa, come se anche lei fosse piena di desiderio... Anche se una parte del suo cervello gli ricordò pazientemente l'inutilità dell'impresa, il suo lato animale non poté fare a meno di togliersi i vestiti. Quando la vestaglia della donna si aprì sul seno, lui era già nudo dalla vita in giù, esponendo all'impietosa vista della Rosa Eldi il suo membro recalcitrante, completamente disinteressato come se avesse davanti una brocca di latte o una luna estiva. La donna si chinò per baciarlo, avviluppando le labbra di Virelai tra le sue come le aveva visto fare con il nobile del Sud. Un fuoco gli percorse il corpo. Non c'era da meravigliarsi, pensò assurdamente nel bel mezzo dell'abbraccio, non c'era davvero da meravigliarsi che gli uomini del Sud venerassero una donna che li faceva bruciare. Forse questa volta sarebbe stato diverso. Forse sarebbe potuto accadere un miracolo e quella parte di lui restia a cooperare sarebbe improvvisamente aumentata di volume, si sarebbe spinta verso l'alto come la punta di una felce che cresce verso la luce, e lui avrebbe finalmente penetrato il cuore del mistero di quella donna e saputo la verità su di lei. Ma mentre lo pensava sapeva già che un miracolo del genere non sarebbe accaduto, e sentì il cuore inaridirsi dentro il petto. Ciononostante giacquero insieme e Virelai trasse un po' di conforto dalle fresche mani della donna sulla sua pelle surriscaldata. Dopo un po' lei disse: «Mi porterai con te al Raduno questa sera?» Virelai si rizzò a sedere, turbato. Il sedativo che le aveva somministrato doveva aver esaurito il suo effetto. La fissò con sospetto, ma le sue pupille erano dilatate e nere come al solito, il viso indifferente e composto. «Perché mi chiedi questo? Sai che non è possibile.» Le mani non cessarono le loro ritmiche carezze mentre parlavano e ben presto Virelai si ridistese accanto a lei, ipnotizzato come il gatto prima di lui. Per qualche minuto la Rosa Eldi non disse una parola, poi si spostò in modo che il suo viso giganteggiasse su quello di lui. Solo il contorno delle pupille brillava di quello straordinario color verde mare, mentre stelle dorate illuminavano il nero dei suoi occhi. Per un tempo lunghissimo Virelai le guardò danzare e fluttuare come la luce del sole su acque profonde. Quando tornò in sé erano già trascorse molte ore, il carro era nell'oscurità e la Rosa Eldi era sparita.
12 Tentazioni Saro aveva capito che la frusta si sarebbe abbattuta su di lui prima ancora che l'uomo facesse il gesto di colpirlo: quando l'altro corridore l'aveva afferrato per la spalla lui ne aveva 'visto' le intenzioni, nitide come se le stesse già mettendo in pratica. E anche Messaggero della Notte, il cui intuito era formidabile, aveva capito. Il cavallo e il cavaliere avevano perciò abilmente scartato di lato sbilanciando l'assalitore, al quale non era rimasto che agitare freneticamente l'altro braccio per non cadere. L'uomo non aveva potuto trattenere la sua frusta, che era ugualmente calata, colpendo il suo stesso cavallo con così tanta forza che lo stallone marrone si era impennato con un nitrito e aveva gettato a terra il suo cavaliere. Altri corridori erano passati loro accanto, sollevando una grande nuvola di polvere, e Messaggero della Notte, fortemente eccitato, con l'intero corpo che vibrava per la rabbia e l'adrenalina, era scattato avanti per inseguirli, le orecchie basse e il collo teso in avanti. Saro fu costretto ad aggrapparsi alla criniera del baio per non cadere, mentre lo stallone si faceva strada tra un gruppo di cavalli subito dietro quelli in testa, mentre il sangue e il sudore si mescolavano sul suo mantello in una schiuma rosata. Un grosso Eyrano con lunghi capelli biondi in sella a un enorme cavallo pezzato di grigio stava contendendo il comando della corsa a un Istriano con un magnifico stallone nero e all'uomo del deserto su uno dei famosi cavalli dorati della pianura meridionale. I due uomini del Sud sembravano aver stipulato una sorta di patto, perché tentavano di tagliare fuori l'Eyrano stringendolo tra i loro cavalli e cercando di far impigliare le zampe del suo animale in un mantello che trascinavano dietro di loro. L'Eyrano ringhiò e sollevò un braccio per colpire, l'uomo con il cavallo dorato frenò bruscamente e Messaggero della Notte ne approfittò per infilarsi nel varco. L'uomo del Nord sembrò sorpreso, ma poi fece scattare il pugno come un martello contro il fianco di Saro. Il giovane sentì un forte dolore sotto le costole, seguito dal nitrito di un cavallo che capì essere Messaggero della Notte, poi una forte corrente d'aria e alla fine il tremendo impatto con il suolo coperto di cenere. Gli zoccoli dei cavalli rimbombavano tutto intorno a lui. Istintivamente Saro si raggomitolò su se stesso e aspettò che tutti i cavalli fossero passati, il cuore che batteva come impazzito mentre tentava di fare l'inventario delle sue ferite. Una costola rotta, forse, per il pugno
dell'Eyrano; un dolore al ginocchio sinistro dove uno zoccolo lo aveva colpito di striscio; doloretti vari al fianco e al braccio per la caduta. Ma il dolore peggiore era quello dell'acuta delusione. Tutti i suoi piani erano falliti e ora avrebbe dovuto anche affrontare l'ira del fratello. Un'infinità di tempo dopo il rumore dei cavalli e dei cavalieri svanì, e Saro sentì grida di esultanza levarsi dalla folla al traguardo. Si mise a sedere, ma ogni osso e muscolo del suo corpo si lamentava. All'altra estremità del campo un cavallo scuro ornato di ghirlande di fiori di cartamo intrecciati veniva portato in trionfo nel recinto del vincitore. Del cavaliere non c'era traccia. Saro si alzò schermandosi gli occhi dal bagliore del sole. Il cavallo stava scalciando agitato, insofferente all'idea di essere toccato dai funzionari della corsa. Era un baio, e sulla fronte aveva una stella bianca... Saro si accigliò, perplesso. Forse qualcuno era riuscito a salire in groppa a Messaggero della Notte nel bel mezzo del caos e a portarlo alla vittoria? Era un'idea assurda. O quello era un altro cavallo? Saro cominciò a correre, ma a ogni passo che faceva riusciva a distinguere sempre meglio lo stallone: ossatura elegante, collo lungo e arcuato, la ferita sulla spalla sinistra a malapena visibile tra le ghirlande del vincitore. Finalmente ricordò quello che gli aveva raccontato suo zio delle corse alle Grandi Fiere precedenti. Aveva seppellito quei ricordi nel profondo della sua mente, insieme a tutti gli orrendi dettagli di carni strappate e arti rotti e cavalli rimasti feriti così gravemente da dover essere soppressi. Era il cavallo il protagonista della corsa, non il cavaliere: si cavalcava l'animale solo per tenerlo in pista, per far sì che non deviasse per sfuggire alle fruste e ai pungoli, ma se l'animale arrivava al traguardo senza il suo carico umano era comunque un valido vincitore. Anzi, dai puristi quella veniva considerata la migliore vittoria, perché solo un cavallo con spirito e forza d'animo poteva vincere senza l'incitamento di un cavaliere. Saro sorrise. Passò sotto le corde del recinto e un attimo dopo si ritrovò ad accettare la pesante borsa di cantari e i complimenti degli organizzatori della corsa come in un sogno. E in realtà era davvero come essere in un sogno, quel bizzarro stato in cui si trovava mentre camminava tra la folla radunata al traguardo, con la gente che gli dava pacche sulla schiena e gli stringeva il braccio o gli prendeva la mano per congratularsi e farsi attaccare un po' della sua fortuna. Era come camminare lungo un infinito tunnel buio sul quale si aprivano a caso un centinaio di porte, offrendogli scorci dell'esistenza di altri individui, a volte visivi, più spesso confusi, ma tutti che si fondevano in un mare di colore, di facce, di caotiche emozioni. Il
dolore nel punto in cui l'Eyrano l'aveva colpito era diminuito, perciò Saro concluse che la costola era incrinata, non rotta, un altro colpo di fortuna. Quando riuscì a tornare al padiglione di famiglia dei Vingo, dopo aver ricondotto Messaggero della Notte al suo recinto e aver pagato uno degli schiavetti per strigliarlo e dargli da mangiare, si sentiva uno straccio e gli doleva tutto, da capo a piedi. Non c'era nessuno nell'enorme tenda. Soppesò il denaro del premio nella mano: cinquemila cantari, una somma enorme. E con i duemila del secondo premio di Tanto e al denaro che suo padre e suo zio erano riusciti a mettere insieme, faceva una cifra sufficiente a comprare a Tanto una moglie, un castello e l'alleanza con il nobile Tycho Issian. E lui, Saro, avrebbe finalmente avuto la villa di famiglia tutta per sé, e anche tutta l'attenzione di suo padre... Posò il sacchetto del denaro sul tavolo e si sedette a gambe incrociate sui cuscini di seta. Senza dubbio Tanto e loro padre erano già in giro a festeggiare tra le bancarelle, o alla ricerca di altri fronzoli da aggiungere ai loro già vistosi abiti per il Raduno di quella sera: lui sapeva che l'avevano visto vincere, perché li aveva intravisti tra la folla mentre conduceva il baio lungo la pista per il suo giro d'onore, anche se non c'era stata traccia dello zio Fabel. Saro aveva spinto lo sgradito ricordo di quello che aveva visto nella testa di suo zio nella parte più recondita della propria mente per tutta la durata della corsa; ma ora quell'immagine tornò prepotentemente a galla, ancor più vivida di prima, ogni profumo e gemito tangibili come se lui stesso stesse partecipando a quell'orribile atto di incesto. Madre! pensò con angoscia. Come hai potuto farlo? Non era stata costretta, questo lui lo sapeva, e non l'aveva capito soltanto dal desiderio che le aveva letto negli occhi. Impossibile sapere quando quell'atto aveva avuto luogo, se era stato un incidente isolato o una relazione duratura. Ripensando al passato, Saro tentò di ricordare un'occasione in cui i due si erano ritrovati insieme in pubblico, in cui magari c'era stato un qualche indizio del loro tradimento nel modo in cui sua madre aveva guardato lo zio Fabel, o se suo zio le si era avvicinato mentre gli altri non guardavano... ma non riuscì a ricordare niente che avrebbe potuto mettere in dubbio il loro onore. Aveva forse commesso un terribile errore nel credere sua madre capace di una cosa del genere? Dormire con un altro uomo era un delitto punibile con il rogo: di certo sua madre, quella donna silenziosa, rispettosa, non avrebbe mai rischiato la sua vita in quel modo! Ma l'immagine era venuta da lui spontaneamente, non aveva legami con
le sue fantasie più recondite. Era una forma di divinazione, una specie di magia, poter vedere nei cuori degli uomini in quel modo, e se qualcuno l'avesse scoperto anche lui avrebbe rischiato di subire il fuoco mortale della Dea. Era chiaro che lui in realtà non sapeva niente di sua madre, che si era solamente formato un'immagine di lei nella sua testa, un'immagine di bontà e compassione, mitezza e arrendevolezza, costruita come un mosaico mettendo insieme le qualità che gli uomini istriani apprezzavano così tanto nelle loro donne. Apprezzavano... o imponevano loro? Per un attimo Saro si sentì disgustato per la propria stupidità quasi quanto per il peccato di sua madre; ma quel momento passò in fretta e al suo posto arrivarono la rabbia e la sensazione di essere stato tradito, e allo stesso tempo la certezza che quanto aveva scoperto lo poneva al di fuori della famiglia: che conoscere il loro segreto lo allontanava da loro per sempre. E chi era lui, se non il figlio di suo padre? Un Vingo, forse... ma un Vingo contaminato dal peccato e dall'inganno. Poi un terribile pensiero gli balenò nella testa. Ma era davvero il figlio di suo padre? O era forse il prodotto di quella relazione che aveva scoperto? Parte della sua mente era già impegnata in frenetici calcoli... ventun'anni prima suo padre era stato chiamato in guerra, lasciando la tenuta al fratello. Quale migliore opportunità? Saro era nato mentre suo padre era impegnato a proteggere i porti del Nord dal nemico eyrano, aveva visto suo figlio minore un anno e mezzo dopo la sua nascita. Saro aveva sempre pensato che per quello suo padre non l'aveva mai amato come Tanto. Tutto combaciava in quel mosaico, con una terribile ineluttabilità. Ora Saro sapeva, con una certezza che rese il suo cuore freddo e pesante come il ferro, che era davvero così: Fabel Vingo era il suo vero padre e, cosa più importante, Favio Vingo l'aveva sempre saputo, e aveva deciso di riversare la sua delusione e la sua animosità su Saro invece che sull'amato fratello, scegliendo nel contempo di non perdere sua moglie sul rogo. Ciò spiegava l'amarezza di suo padre, pensò Saro; ma era ugualmente difficile perdonargli la sua freddezza. Un intruso, pensò. Sono un reietto della mia stessa famiglia. E lo sono da più di vent'anni: un indesiderato. Prese la borsa del premio e versò le monete sul tavolo. Poi le contò, separandole in due pile, una per Tanto, come aveva promesso, e una per Guaya... un'indesiderata, come lui. Tanto avrebbe dovuto mettere insieme il denaro mancante per il prezzo della sposa in un altro modo, o pregare il nobile Tycho di abbonargli il
resto. Sapeva che non si sarebbe mai scusato come aveva promesso di fare, ma già solo costringerlo a promettere era stata una grande soddisfazione. Rimise nella sacca le monete per i nomadi, si alzò e prese una pergamena, una penna d'oca e dell'inchiostro e lasciò a suo fratello un messaggio per accompagnare la pila di monete rimasta sul tavolo. Poi si avvolse in un mantello, agganciò la sacca alla cintura e lasciò il padiglione. Ciò che sarebbe stato sarebbe stato. I Gridatori stavano chiamando i credenti in Falla la Misericordiosa alla preghiera del tardo pomeriggio quando Saro si incamminò fuori dal quartiere istriano diretto a ovest, verso il quartiere nomade. Lì sembravano esserci meno banchetti di quanti ne ricordasse, e alcuni carri sembravano carichi, come se gli occupanti si stessero preparando a partire. Saro si fece strada tra gli ultimi clienti della giornata e i proprietari delle bancarelle e alla fine si ritrovò in uno spazio libero. Era evidente dalle impronte scure sul terreno altrimenti cosparso di guano che lì c'erano stati tre o quattro carri, ora misteriosamente svaniti. Eppure la fiera sarebbe finita solo tra due giorni, rifletté. Ma forse quelle persone dovevano andare da qualche altra parte, o semplicemente avere un vantaggio sul resto della carovana. Solo in quel momento gli venne in mente che Guaya e sua nonna avrebbero potuto essere in uno dei carri già partiti, e che se anche fossero state ancora lì, non aveva idea di dove trovarle. Stava ancora pensando e scrutando il quartiere nomade, quando un ragazzino gli venne addosso. «Na-gash!» esclamò il bambino, finendo col sedere a terra per la forza della collisione. Poi si strofinò la testa, che aveva sbattuto contro il fianco di Saro e la sacca di denaro appesa alla vita. Sollevò gli occhi su Saro con un'espressione di assoluta confusione, e tutto ciò che Saro sentì da lui quando lo toccò fu il suo stupore per il fatto che qualcuno potesse avere un corpo così duro e pieno di bitorzoli. Poi l'espressione del ragazzino cambiò in una di gioia e il piccolo nomade gridò: «Jeesh-tan-la, Guaya!» Saro si voltò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con la ragazza nomade: stava trascinando due enormi marionette i cui arti continuavano a intrecciarsi con i suoi. «Tan-la, Falo» rispose la giovane a voce bassa, guardando dietro Saro. Il ragazzino balzò in piedi, apparentemente ancora tutto intero nonostante la caduta, e corse via. Saro sentì un'ondata di sollievo. Sorrise a Guaya. «Ti ho trovato: è fanta-
stico!» Ma Guaya lo fissò senza sorridere. «Ti stavo cercando» continuò Saro, ora a disagio. «E allora? Mi hai trovata. Cosa vuoi?» Non era affatto la stessa allegra bambina che aveva fatto colpo su di lui, pensò Saro. Ora sembrava che non avesse né mangiato né dormito da quando suo nonno era morto, e forse era proprio così. E lui che non vedeva l'ora di darle il denaro,' di vedere la sua gioia e la sua gratitudine, di sedersi magari per un po' con lei per farsi dire il significato dei colori delle pietre dell'umore e in particolare di quella strana tonalità di verde apparsa nel pendente la notte passata. Ma ora la morte di suo nonno sembrava frapporsi tra di loro, rendendo tutto questo impossibile. Adesso lei era un'Errante, un membro di quel popolo disprezzato e negletto di Elda, e lui era il figlio di un nobile istriano... e di chi fosse veramente figlio aveva poca importanza, si rese conto Saro. Appartenevano a due mondi diversi e neppure il denaro avrebbe mai cambiato questo fatto, anche se avrebbe potuto aiutare la famiglia di Guaya a tirare avanti. Saro tirò la cordicella che teneva legato il sacchetto del denaro alla cintura. «Mi dispiace per la tua perdita...» cominciò a dire in modo formale, ma la ragazza lo interruppe con veemenza. «Ti dispiace? La tua gente non sa cosa significa quella parola, né in istriano né nell'Antica Lingua. L'Impero si è fatto strada bruciando e assassinando gente innocente da qui fino alle montagne meridionali. Ha bruciato mia madre per la sua magia e ucciso mio padre quando ha tentato di salvarla. E ora si è preso anche il mio povero nonno, tanto era assetato del nostro sangue. L'Impero non sarà contento finché non ci ucciderà tutti.» Saro tacque, scioccato. Quello che lei aveva detto non coincideva con la casualità degli eventi di cui era stato testimone, la rissa, l'inseguimento, l'uomo che inciampava e l'avventato colpo di pugnale di Tanto, eppure conteneva un'ineluttabile verità. La sua gente era arrogante e spietata e piegava gli altri al proprio volere. Gli Istriani costringevano gli altri popoli ad adottare le loro leggi e la loro religione, li privavano della loro libertà e li davano alla Dea per ogni minima offesa. Saro chinò la testa, mortificato. «Tieni» mormorò. Le tese la borsa, e quando lei non si mosse per prenderla, la lasciò cadere ai suoi piedi. «Non ti ricompenserà mai per ciò che ha fatto mio fratello e non ti ridarà tuo nonno. Ma è qualcosa. È il massimo che posso fare. Mi dis...» S'interruppe, mordendosi il labbro. Sentì gli oc-
chi bruciare per le lacrime. Se le asciugò con forza col dorso della mano, ma continuarono a scendere. La ragazza nomade lo guardò con curiosità. Non aveva mai visto un uomo adulto piangere prima, tranne che di gioia, come per la nascita di un bambino o per la prima volta che aveva visto l'oceano, e non era certo la gioia l'emozione che scuoteva l'uomo del Sud. Lo guardò voltarle le spalle, imbarazzato, e allontanarsi. E quando fu arrivato a qualche metro di distanza lo vide guardare indietro. Allora infilò le marionette recalcitranti sotto un braccio e raccolse la borsa: odiava vederlo in quello stato, e quella era la sola cosa che poteva fare per farlo sentire meglio. Nella tenda dei Rocciacaduta, Katla Aransen stava radunando di nascosto le sue cose. Sotto un sontuoso abito rosso aveva infilato un paio di leggeri pantaloni gialli di pelle di cinghiale e una tunica aderente di lino bianco, e già si sentiva morire dal caldo. Le scarpe invece erano un problema: Katla era sicura che suo padre avrebbe notato i suoi vecchi stivali di pelle se li avesse tenuti indosso, perché anche se avesse camminato in modo più decoroso del solito ed evitato le danze, dubitava di poterli tènere nascosti. Alla fine scelse un paio di pianelle di pelle di alce allacciate alle caviglie, abbastanza piatte da poter essere usate per correre. Avrebbe persuaso Erno a portare anche i suoi stivali insieme al fagotto che stava preparando, per nasconderlo in una delle faering. Aveva avvolto la sua spada corta e il suo pugnale in uno scialle: ora aggiunse le pietre focaie, un pezzo di formaggio duro, un piccolo filone di pane e un fiasco di vino rubato a Tor. L'acqua sarebbe stata preferibile, ma suo padre era seduto con Halli sul barile d'acqua fuori dalla tenda, assicurandosi che lei non sgattaiolasse via. Come Halli avesse potuto rinunciare a tutti i suoi progetti per un capriccio del padre non riusciva ancora a capirlo. Si sentiva quasi più dispiaciuta per la mancanza di spina dorsale del fratello che per il tradimento del padre. Finì di legare il fagotto, lo posò sul giaciglio dove dormiva e ci gettò sopra degli abiti in ordine sparso per nasconderlo. Il vestito rosso era un dono di fidanzamento di Finn Larson riportatole da suo padre, che era andato in giro tra i banchetti con il costruttore di navi per acquistarlo. Rosso come i suoi capelli, aveva detto ridendo Fent prima di vedere l'espressione ferita sul volto di sua sorella. Lei non avrebbe voluto indossarlo, perché farlo le sembrava una sconfitta, un insulto, ma alla fine l'aveva preso, obbediente, pensando di mettere così suo padre su una falsa pista facendogli credere che era rassegnata ad accettare i suoi progetti
per lei. Era in effetti un abito magnifico, come suo padre le aveva fatto notare, cucito e ricamato addirittura dalle sarte della madre del re. Era rifinito con un merletto d'argento e i pannelli rigidi e ricamati del corpetto molto scollato spingevano in alto il suo seno tanto da mettere bene in evidenza quel poco che ne aveva. Con la tunica sotto riusciva a malapena a respirare e aveva dovuto tagliare il collo della camicia con il suo coltello in modo che non si vedesse. Con i capelli tagliati ora tinti di un nero poco uniforme (Katla se li era colorati in fretta e di malavoglia, tanto che aveva ancora le mani e le unghie macchiate nonostante le avesse strofinate per bene) nascosti sotto lo scialle di seta regalatole da Erno, non era certo una preda ambita con cui un uomo ricco avrebbe potuto pavoneggiarsi, pensò ironica. Ben gli stava, a Finn Larson; e poi il grasso costruttore di navi avrebbe avuto ben poco tempo per mettere in mostra la sua presunta futura sposa. «Katla!» Era la voce di Jenna, carica di eccitazione. Oh, dèi, pensò Katla. Proprio quello che mi ci vuole ora. «Katla, sei pronta?» La testa di Jenna fece capolino nell'apertura della tenda. Indossava un vestito di un tremendo verde pallido, con una scollatura così profonda che quasi le si intravedevano i capezzoli tra il pizzo d'argento. Come quel vestito potesse stare su Katla proprio non riusciva a immaginarlo. Che spettacolo sarebbero state loro due insieme: l'Abbondanza e la Carestia personificate. Katla rise. «Oh, Katla, sono felice che tu non sia sconvolta!» Jenna entrò di corsa, il viso tondo illuminato di gioia. I suoi capelli erano nascosti da una specie di turbante. Forse l'incantesimo della nomade era andato storto. «Perché dovrei essere sconvolta?» Katla rivolse alla sua amica un sorrìso serafico. «Mio padre mi ha venduto a tuo padre e ora sarò la tua malvagia matrigna. Cosa ci potrebbe essere di più bello?» Qualcosa nel tono di Katla sconcertò Jenna... ma dal momento che non poteva proprio pensare a qualcun altro che non fosse se stessa per più di qualche istante, sorrise e cominciò a chiacchierare animatamente. «Cosa ne pensi?» Fece una giravolta e Katla dovette salvare le candele prima che il suo abito prendesse fuoco. «Non è meraviglioso?» Incrociò le braccia sotto il petto, che si sollevò in maniera allarmante. «Di certo questo dovrebbe attirare l'attenzione di re Ravn, non credi?» «In caso contrario direi che sarebbe cieco come una talpa.» «Oh, Katla, sono sicura che sceglierà me. Me lo sento, qui dentro.» Si
batté la gabbia toracica bene imbottita. «Tutti dicono che io sarei la scelta più sicura per il re, perché nessuno si fida di quelli del Sud né delle macchinazioni di Erol Bardson. E poi a lui piacciono le donne prosperose, a quanto ho sentito: quindi uno a zero per me contro il Cigno di Jetra.» Direi anche due abbondanti, pensò Katla con ironia. «Davvero?» disse invece in tono gentile. «È magra peggio del bastone di una lancia, dice mio fratello, e ha praticamente lo stesso fascino, tutta avvolta com'è in quelle vesti informi.» Katla aveva visto solo due di quelle misteriose donne istriane alla fiera che trottavano da un padiglione all'altro, accompagnate da un codazzo di schiave minuscole e vestite allo stesso modo. Sembravano così bizzarre, così esotiche che ne era rimasta affascinata. Le venne in mente che se avesse avuto delle vesti del genere avrebbe potuto facilmente nasconderci sotto tutti i suoi abiti, stivali compresi. E molto probabilmente anche la barca. «La somma che offriamo è cinquemila cantari.» «Per uno?» «Per il lavoro.» Mam era in piedi a gambe larghe con le mani saldamente piantate sui fianchi. Nessun azzimato e profumato nobile dell'Impero poteva farle paura. «Per i miei uomini, venticinquemila.» Cinque era già una somma decente, anche se non quello che si soleva definire 'un riscatto da re', pensò con una certa ironia. L'uomo rise. Era alto per essere un Istriano, con un naso aquilino e la fronte stempiata. La sua pelle era come il legno di noce levigato e sulla spalla destra portava l'emblema del Supremo Consiglio Istriano. Dietro di lui c'erano altri quattro nobili, tutti apparentemente imbarazzati da quella donna straniera con i capelli schiariti dal sole legati con nodi, pezzi di stoffa, fili di conchiglie e piume, gli abiti e la corazza vecchi e consunti e le armi perfettamente lucidate. L'impresa in cui si erano imbarcati era segreta e scellerata, e rivelare tali piani a uno straniero era a dir poco rischioso. Ma coinvolgere una donna - e che donna! - era scandaloso, praticamente un sacrilegio. Ciononostante il nobile continuò. «Sei.» «Venti, o ce ne andremo.» «Otto, o vi farò incarcerare.» «Quindici, mio Signore di Forent, o vi infilzerò all'istante.» Il sorriso di
Mam era maligno, la sua bocca piena di denti rotti o mancanti. L'Istriano continuò a sorridere. Posò le mani con i palmi all'ingiù sul tavolino che li separava e si chinò in avanti. «Non riuscireste neppure a sfoderare la spada.» «Lo credete davvero, eh? Io sarei pronta a scommetterci su una bella sommetta, e aggiungerei anche i vostri amichetti al piatto.» Uno degli altri nobili fece un passo avanti a quelle parole, scuro in volto, e afferrò il loro capo per la spalla. «Questa donna è una barbara, Rui» disse, incurante del fatto che lei fosse lì di fronte a lui. «Sei pazzo a fidarti di lei.» «State calmo, nobile Varyx. Mi è stata caldamente raccomandata.» Uno degli altri nobili si avvicinò e sussurrò qualcosa nell'orecchio del nobile Varyx. Mam sorrise. «Quello che lui intende dire è che siamo stati noi a dare fuoco al palazzo del duca di Gila.» La donna si chinò in avanti con fare da cospiratore. «Nessuno ne è uscito vivo: siamo stati molto scrupolosi.» Il nobile Varyx sembrò sconvolto, ma Rui Finco, Signore di Forent, era impassibile. «Ricordate: proprio perché questo gruppo è guidato da una donna barbara abbiamo bisogno di loro. Quale Eyrano sospetterebbe di una donna che presenta i suoi rispetti al suo re?» «Ma di certo non vestita in quel modo.» Il nobile Varyx posò il suo sguardo altezzoso su Mam, studiando le sue mani callose e le ginocchia robuste, i polpacci duri e nodosi come le radici di un albero, la pelle dura come il cuoio e il naso rotto. «Be', la vestiremo meglio, e anche i suoi compagni, ovviamente.» «Se ci metteremo d'accordo, potrete vestirmi come vorrete» lo interruppe con impazienza Mam nel suo istriano fluido ma dal terribile accento. Sorrise all'espressione di frustrazione dei nobili mentre cercavano di ricordare tutte le parole avventate che si erano lasciati sfuggire. «Anche se sono sicura che neppure un pizzo galiano potrebbe trasformare Mazza in una bella donna.» Il capo dei nobili le fece un debole sorriso. «Ne sareste sorpresa. Diecimila, ultima offerta.» «Quattordici.» Rui Finco digrignò i denti. «Dodici.» «Datemene tredici e con una stretta di mano suggelleremo il patto.» «Dodici e all'inferno di Falla: non vi toccherò mai.» «Seimila subito.»
L'Istriano la incenerì con lo sguardo. Per tutta risposta Mam gli fece l'occhiolino. Poi si raschiò la gola, aprì il pugno, sputò copiosamente sul palmo della mano e afferrò quella del nobile, inghiottendola nella sua. Rui Finco tentò di tirarla via, ma lei era troppo forte per lui. L'espressione sul suo viso valeva quasi la differenza che non era riuscita a spuntare. «Affare fatto.» Mam lo lasciò andare. Il nobile aprì le dita doloranti e studiò il palmo disgustato. Fece cenno a uno schiavetto di avvicinarsi. «Puliscila.» Il ragazzo corse via, tornando dopo pochi secondi con un panno umido con cui strofinò via lo sputo e il muco. Era già abbastanza brutto assoldare una donna barbara per quel lavoro, ma dover avere i suoi empi fluidi su di lui... «Sì, affare fatto. Ora ricordate: se le cose dovessero andare storte e lui dovesse morire, seimila è tutto quello che avrete.» Mam fece una smorfia. Poi sorrise. «Seimila è comunque più di quanto i miei ragazzi hanno visto negli ultimi tempi: con altri sei che ci aspettano lo avvolgeremo nella seta e ve lo consegneremo con un fiocco.» Che idiota, pensò. Erano veramente così disperati da pagare tanto? L'aveva semplicemente messo alla prova: avrebbe accettato anche ottomila, e al volo, solo per il gusto di farlo. «Il viola è un'ottima scelta, Tanto: sono sicuro che somiglierai al giovane Alesto.» Tanto si accigliò e rimise a posto la tunica sullo scaffale dell'esposizione senza ripiegarla, il che irritò non poco il proprietario del banchetto, che si affrettò a sistemarla incenerendolo con lo sguardo. Nonostante avesse prestato pochissima attenzione durante le lezioni, Tanto ricordava che secondo le scritture Alesto era stato l'amante di Falla, l'uomo che lei aveva scelto per accoppiarsi tra tutti i mortali più per la sua bellezza che per il suo cervello. Suo padre chiaramente aveva dimenticato la fine incresciosa e bruciante che aveva fatto Alesto... «Dobbiamo tornare, padre» disse con impazienza. Nell'ultima ora aveva cominciato a tormentarlo un dubbio su Saro e il denaro del premio. «Ah, sì, dobbiamo prepararci per questa sera. E congratularci col giovane Saro per la vittoria.» Era un peccato che si fossero persi la corsa, rifletté Favio. La vittoria del figlio gli era sembrata così improbabile che si era fatto distrarre dalle ballerine esotiche che Tanto sembrava così desideroso di guardare; di conseguenza erano arrivati alla pista appena in tempo per
vedere Messaggero della Notte tagliare per primo il traguardo. «È stata davvero una bella impresa, non c'è che dire. Ho sempre detto che il ragazzo ne sarebbe stato capace.» Non era vero, ma si sentiva in vena di generosità, date le circostanze. «È una bella fortuna per noi, anche se dubito che ne decanteremo troppo le lodi al nostro Signore di Cantara: non vogliamo che pensi di aver scelto il genero sbagliato, eh, Tanto?» Ma suo figlio maggiore era in un mondo tutto suo. La mente di Tanto si era ancora una volta perduta nel ricordo del neo di bellezza che Selen Issian aveva disegnato sul viso, il neo e quelle labbra... «Fra quanto tempo potremo celebrare il matrimonio, padre?» chiese all'improvviso. Favio Vingo sorrise. Ricordava quanto era stato ansioso di prendere Illustria come moglie. Ah, Illustria... il pensiero vagò verso un lontano passato, divenne spiacevole e fu cacciato via. «Be', ragazzo mio, bisognerà fare dei progetti accurati, questo è certo: ci sono diversi nobili e il loro seguito da tenere in considerazione, la data giusta, i giusti auspici, i sacrifici, tutto quel genere di cose. Temo che non potremo fissare una data prima del mese del Raccolto.» «Raccolto?» gemette Tanto, scioccato. Aveva sperato di portarsi a letto la donna quella sera stessa, l'indomani al massimo. Il mese del Raccolto era ancora a più di quattro lune a venire, e anche se era dispiaciuto all'idea di dover rinunciare a una sontuosa cerimonia in cui lui sarebbe stato al centro dell'attenzione, scoprire se Selen Issian avrebbe acconsentito alla perversione che il suo neo simboleggiava valeva la rinuncia. Favio sorrise allo sgomento di suo figlio ed ebbe pietà di lui. «Ma ovviamente quella è solo la cerimonia della Dea, Tanto. Non c'è bisogno di aspettare così a lungo per portarti a letto la tua sposa: troveremo un prete questa sera stessa per consacrare l'unione, se suo padre è d'accordo. Presto potrete fornicare come una coppia di gatti di montagna! Che una ragazza celebri il Congiungimento con la pancia piena del seme del marito è il modo migliore per rendere grazie alla Dea.» Tanto sentì un fuoco nei lombi. Avrebbe potuto averla quella notte! Anche se aveva fatto le sue esperienze con almeno un centinaio di prostitute non aveva mai provato ciò che provava ora pregustando quel momento. Prima l'atto era sempre stato impersonale, frettoloso. Ma questo no, questo sarebbe stato diverso. Sarebbe stato possesso. Si sentiva già un uomo nuovo. Si lasciarono alle spalle i banchetti per tornare al quartiere istriano. Men-
tre camminavano i Gridatori stavano annunciando le preghiere serali, un lugubre lamento che fendeva l'aria del crepuscolo. Favio, uomo pio, si mise immediatamente in ginocchio e cominciò la sua cantilena. Tanto alzò gli occhi al cielo. Un altro ritardo! Ciononostante lo imitò il più decorosamente possibile, recitando però le preghiere così in fretta che finì almeno mezzo minuto prima di suo padre. Non appena Favio pronunciò l'ultima frase, 'nella salvezza del tuo fuoco per sempre', Tanto balzò in piedi, lo prese per un gomito e lo fece rialzare. «Venite, ora, padre: la sera s'approssima e non voglio che prendiate freddo» dichiarò con falsa sollecitudine. Nel padiglione dei Vingo i candelieri erano tutti accesi e nell'aria si sentiva l'odore del dolce incenso di cartamo. «Lo stanno sprecando» si lamentò Favio irritato. «Ma hanno idea di quanto costa?» Era la prima volta che Tanto sentiva suo padre lamentarsi del costo di qualcosa. Era evidente che la forzata restituzione del debito al Consiglio aveva creato un significativo buco nelle finanze dei Vingo. Per la prima volta Tanto si rese conto di quanto doveva essere importante questa alleanza per suo padre. Sorrise. Ne sarebbe valsa la pena, ne era sicuro. Unire le due tenute li avrebbe resi invincibili nella lotta per il potere nella loro provincia e lui e Selen avrebbero fondato una dinastia che sarebbe stata ricordata per secoli. All'interno del tendone una pila di denaro luccicava sul tavolo alla luce delle candele. Appoggiata su di essa c'era un biglietto, scritto nella calligrafia poco elegante di Saro. Tanto capì tutto con un solo sguardo. Le monete chiaramente erano molto meno della somma vinta da Saro. Favio prese il biglietto e lo lesse ad alta voce: Caro Tanto, ecco la metà che ti ho promesso. Poiché so che tu tieni al tuo onore molto più che all'argento, con l'altra metà adempirò ai tuoi obblighi. Ci vedremo senza dubbio più tardi al Raduno. Tanti auguri da tuo fratello, Saro Vingo Favio fissò Tanto, che era impallidito. «Cosa significa questo?» Tanto strappò il biglietto dalla mano del padre e lo lesse con disperazione, come se nei pochi secondi che erano passati la parole avessero potuto
cambiare di significato. «Significa che sono perduto.» Si accasciò sui cuscini e seppellì la testa tra le mani. Il biglietto cadde lentamente al suolo. Favio, confuso, si sedette accanto a lui. «Sei perduto? Ma non capisco, ragazzo mio: cosa vuol dire con 'i tuoi obblighi'? E perché non viene al Raduno con noi, e dice invece che ci vedremo lì?» Tanto si trascinò in piedi. «Scoverò quel piccolo bastardo e gli tirerò fuori quel maledetto denaro, potete starne certo!» E così dicendo corse verso la stanza laterale del padiglione dove dormiva Saro, aprendo il lembo della tenda con così tanta forza che si ruppe. Suo padre lo guardò con un'espressione afflitta sul viso, poi recuperò il biglietto dal pavimento e lo rilesse. Saro era sparito: il suo mantello non c'era. Tanto si guardò intorno con furia per la stanza per cercare di capire dove suo fratello avrebbe potuto nascondere il denaro. Aprì il baule in cui Saro teneva i suoi effetti personali, ma tutto ciò che trovò furono degli indumenti intimi piegati con cura, delle calzamaglie, un paio di pianelle di pelle di daino e delle candele con le pietre focaie. Accanto al baule, sul pavimento rivestito da stuoie di giunco, il calamaio e la penna erano state gettati lì in tutta fretta, tanto che una goccia di inchiostro nero aveva macchiato la stuoia, diffondendosi come un cancro sulla delicata superficie verde. Tanto diede un feroce calcio al baule, che si rovesciò travolgendo il calamaio, e l'inchiostro si sparse sul lino bianco di una camicia e sulla chiara pelle di daino macchiandoli irrimediabilmente. Tanto fissò il danno con sguardo tetro, poi si avventò sul letto di Saro. Tolse la coperta e la gettò dall'altra parte della stanza. Tastò disperatamente sotto il giaciglio, ma inutilmente. Stava per rialzarsi quando un luccichio d'argento attirò la sua attenzione. Afferrando il cuscino, sotto non trovò però le monete come aveva sperato per un gioioso istante, ma un pugnale dalla lama finemente decorata. Lo prese e lo soppesò tra le mani, la fronte corrugata per lo sconcerto. Il manico e la lama erano perfettamente bilanciati e l'impugnatura sembrava fatta per la sua mano. Quell'arma gli ricordava qualcosa... Era proprio il pugnale che era andato a cercare il giorno prima della gara sapendo che il suo era rovinato. Maledetto Saro: se l'avesse avuto non avrebbe mai perso e a quest'ora avrebbe avuto altri duemila cantari nella scarsella e nessun grattacapo. Si strofinò le tempie, riflettendo. Perché il suo patetico, debole fratello avrebbe dovuto avere un'arma superba come quella? Perché avrebbe dovuto avere un'arma, e per di più sotto il cuscino? Aveva davvero così tanta paura di lui? Il pen-
siero lo fece quasi sorridere. Aveva ragione ad aver paura, perché se mai l'avesse preso si sarebbe pentito di aver comprato un'arma del genere, con una lama così affilata. Riusciva a immaginare con chiarezza che tipo di taglio avrebbe potuto infliggere con una lama del genere. Avrebbe lasciato una cicatrice in un posto non troppo visibile, su una natica forse, o sotto la pianta di un piede. E se Saro aveva dato il denaro alla nomade, allora presto la sgualdrinella avrebbe raggiunto suo nonno. Tanto piantò il pugnale nel cuscino e lo strappò, sollevando una nuvola di bianche piume d'oca. Le piume volteggiarono pigramente, poi si posarono, ricoprendo il terreno come una spruzzata di neve. Fu in quel momento che Favio entrò nella stanza. L'anziano nobile si guardò intorno sgomento. «Per Falla, che caos! Non ho mai visto niente di più disgustoso. Il ragazzo deve essere impazzito per la gioia della vittoria. Ho sempre detto che non era forte di spirito... ma questo! È una vergogna. Quel cuscino da solo mi è costato un cantari... e questo cos'è?» Si chinò per raccogliere la camicia di lino bianco, coperta di macchie d'inchiostro nero. «La Dea aborre le persone sciatte. Saro dovrebbe vergognarsi per aver trattato le sue cose in questo modo, e se ne pentirà quando lo vedrò.» «Pentirsi di cosa, fratello?» Fabel era apparso dietro alle spalle di Favio. Si guardò intorno, poi emise un breve fischio. «Oh, per la Dea, che pasticcio. Eppure non è un cattivo ragazzo, il nostro Saro, niente affatto. Che corsa, eh? Ottima, direi. E ho già avuto due offerte davvero buone per l'animale, per di più. Dovremmo riuscire a venderlo bene domani.» Toccò Tanto sulla spalla con il pezzo di pergamena. «Vedo che ci raggiungerà al Raduno con il resto del denaro. Bravo ragazzo, eh? Ti sta salvando da te stesso.» Fece l'occhiolino. «In caso contrario avresti potuto spenderli tutti in donne e vino, eh, Tanto?» Tanto riuscì a fargli un debole sorriso. «Ah, certo, zio.» Favio sembrò improvvisamente sollevato. «Ma certo, ma certo. Ci raggiungerà lì con il denaro. Che bravo ragazzo che è. Vieni allora, Tanto, sbrighiamoci. Andiamo a farti bello, così il nobile Tycho sarà orgoglioso di darti in sposa sua figlia. Fabel, in quanto a quei doni per il re del Nord...» Mentre Tanto usciva riuscì a sentire distintamente le parole «Venduti, fratello, e a meno di quanto li avevamo pagati» e suo padre imprecò come mai l'aveva sentito fare.
13 Il Raduno Pur essendo preoccupata per i suoi piani di fuga, Katla non poté fare a meno di ammirare stupefatta la folla al Raduno. Non era soltanto il gran numero di persone a sbalordirla, nell'enorme padiglione con il tetto di tela increspata e gli alti pilastri, ma la sarabanda di colori, la straordinaria ostentazione di abiti di lusso. Tutti, o almeno così sembrava, si erano vestiti in modo eccessivamente elegante per l'occasione. Almeno gli Eyrani: infatti mentre gli uomini dell'Impero indossavano le loro ricche vesti con una noncuranza che denotava un assoluto disinteresse per la serata, le genti del Nord si erano adornate di tutti i gioielli e i fronzoli di cui disponevano, come per far vedere all'antico nemico che non erano affatto barbari, dopo tutto. I tessuti che si vedevano di solito al Nord erano colorati con le tinture naturali delle isole: delicate sfumature di verde, giallo e rosa malva ricavate dai licheni e dalle erbe, oppure lilla e rossi dalle bacche estive, colori che promettevano molto, ma che ben presto sbiadivano in un marrone opaco. Ma era chiaro che ogni partecipante al raduno aveva messo da parte i propri abiti eyrani in favore delle tinte di colore più sgargianti che erano riusciti a trovare. Evidentemente per molta gente la fiera era andata bene: quelle stoffe non erano a buon mercato. Katla vide Falko e Gordi Livson con tuniche ricamate cremisi e gialle, accanto a Edel Ollson e Hopli Garson con indosso farsetti di un verde e un arancio forti. Edel Ollson si era anche concesso il lusso di un cappello ornato di ridicolissime penne, enormi penne verdi con grossi occhi blu che spuntavano alle estremità. Non potevano di certo essere vere, pensò Katla: nessun uccello poteva sperare di sopravvivere con un piumaggio così vistoso. Gli occhi di Jenna brillavano. E anche le sue guance e il suo naso. Era già al suo terzo bicchiere di vino del Sud, notò Katla, che invece ancora sorseggiava il primo. Avrebbe dovuto farselo durare se voleva mantenersi lucida; ma Jenna non aveva tali inibizioni. In quel momento stava indicando un punto dall'altra parte della tenda, e urlando con voce stridula: «Vedi quell'uomo laggiù? Deve essere molto, ma molto ricco.» Katla seguì il suo dito e vide un nobile Istriano di media altezza con la pelle molto scura. I capelli neri erano tirati indietro con un semplice cerchietto d'argento, per-
ciò chiaramente non erano i suoi gioielli ad avere attirato l'attenzione di Jenna. «Quella stoffa color porpora è terribilmente costosa. Dicono che sia fatta con le lumache di mare.» Katla la fissò incredula. «Le lumache? Non credo proprio: nonna Rolfsen e io abbiamo fatto esperimenti con le lumache. La tinta che ne abbiamo ricavato era di un terribile marrone chiaro.» Jenna fece schioccare i denti con impazienza. «Non le lumache comuni, sciocchina: lumache di mare. Si trovano solo in una remota striscia di terra che costeggia l'oceano orientale, e ciascuna deve essere schiacciata a mano.» Katla fece una smorfia. «Non riesco a immaginarlo. Ma la stoffa non puzza?» Jenna rise. «Credi che un uomo del genere la indosserebbe se puzzasse? In ogni modo non capisco cosa ti disgusta tanto, visto il vestito che indossi.» Katla arrossì. «Non è stata una mia scelta, sai. L'ha scelto tuo padre.» Jenna sembrava aver preso piuttosto bene la nuova situazione, pensò Katla. Ma molto più probabilmente era così entusiasta all'idea di essere presentata a re Ravn che non riusciva a pensare ad altro. Katla capiva bene come si sentiva. Anche lei riusciva a malapena a fare conversazione. Ancora non c'era segno di Erno e lei stava cominciando a sentirsi decisamente agitata. «Sai come fanno a rendere il cremisi così brillante?» Katla tirò su la gonna e la esaminò, come se facendolo potesse indovinare la risposta. «Immagino che sia qualcosa di altrettanto disgustoso.» Jenna sorrise con aria saputa. I denti e le gengive erano macchiati dello strano colore rosso grigiastro del vino, notò Katla. Con quel sorriso sembrava un camminatore della notte, uno dei morti viventi delle isole del Nord che a meno che non venissero sepolti al sicuro sotto le pietre del portico di casa, vagavano per le terre dopo il tramonto, mantenendo le loro parvenze umane grazie al sangue degli animali che succhiavano. «Pidocchi» disse allegramente Jenna. Katla fece una smorfia. «Ne schiacciano più di un milione per ottenere una tazza di colorante.» «No!» «È vero.» Se Jenna aveva pensato di disgustare Katla, aveva fatto male i suoi conti. «Mi sembra una cosa piuttosto costosa» commentò Katla pensierosa. «Con questo abito dovrei ricavarci un buon prezzo, allora.»
Jenna la guardò perplessa, ma poi Katla esclamò: «Oh, guarda!» Un gruppo di donne istriane era apparso all'ingresso, circondato da una folla di uomini dell'Impero. Le donne erano forse una mezza dozzina, tutte avvolte da capo a piedi nelle loro voluminose sabatka. Katla vide le loro mani pallide che si agitavano come falene mentre parlavano, e le loro labbra lucenti che spuntavano dalle fessure delle loro vesti. Gli uomini le circondavano come se anche loro, come lei, potessero fuggire. Katla le fissò sbalordita: chissà se le loro vite dietro il velo erano davvero peggiori di quella che attendeva lei se non fosse riuscita a fuggire. Ci fu uno scroscio di argentine risate e una delle donne agitò le mani come se quello che un'altra aveva detto l'avesse deliziata. Katla vide la bocca di una donna alta muoversi, e poi ci fu un altro scoppio di risa. «Quale pensi che sia il Cigno di Jetra?» chiese Jenna con una certa ostilità, come irritata dalla loro allegria. «Dicono che sia alta e magra, ma a me sembrano tutte uguali.» «Non lo so.» E non le importava. Dov'era Erno? Ora che ci pensava, non l'aveva visto per tutta la giornata. Possibile che l'avesse abbandonata al suo destino? Forse in realtà voleva Marin Edelsen. Quel pensiero la fece rabbrividire. Non aveva mai pensato a cosa avrebbe potuto fare senza il suo aiuto. Sarebbe stato difficile governare la faering da sola: quelle erano barche larghe e servivano due persone allo scalmo, un remo per ciascuno. Katla combatté il panico con determinazione. Avrebbe trovato una barca più piccola se avesse dovuto farlo. Strinse le mani a pugno. Maledizione, sarebbe fuggita a nuoto! Fissò lo sguardo sopra la folla. Da qualche parte al suo fianco Jenna stava continuando a chiacchierare incessantemente, la voce poco più del ronzio di una zanzara, descrivendo la gente che entrava: Kitten Soronsen e Fara Garsen, la grossa Breta Bransen, il conte di Promontorio Grande e sua figlia; il conte Sten e sua figlia Ella; Ragna Fallsen, che si diceva fosse l'amante del re, una donna statuaria con un superbo manto di capelli neri e occhi grigi all'insù; i conti di Capotempesta e Isolaustrale; Egg Forstson, conte di Isola delle Pecore, con Filia Jansen, sua nipote, al braccio. Katla li guardò entrare nella tenda già affollata, prendere del vino e dei pasticcini dal lungo tavolo e riunirsi in piccoli gruppi per spettegolare. Poi vide una donna dall'aspetto strano con un enorme abito verde entrare a grandi passi, seguita da un uomo piccolo che sembrava estremamente a disagio in un corsetto attillato e pantaloni stretti. Dietro di loro altre tre donne istriane avanzarono e si bloccarono immediatamente, forse per abi-
tuarsi alla tenue luce delle candele che filtrava attraverso la spessa garza dei loro veli. E poi Katla trattenne il fiato, perché laggiù c'era quel giovane che era venuto al suo banchetto. Non ricordava il suo nome, forse non l'aveva mai saputo. Il giovane era in compagnia di due Istriani più anziani, entrambi vestiti in modo molto elegante, uno più basso di una spanna dell'altro e con in testa un turbante di seta colorata molto simile al suo. Entrarono tutti nel padiglione e si guardarono intorno. All'improvviso l'uomo più alto strinse gli occhi e indicò un punto tra la folla. Katla si voltò per vedere cosa stesse indicando e si ritrovò a guardare negli occhi di Saro Vingo. Sentì un brivido percorrerla, ma lo imputò al vino. Al contrario di quella che probabilmente era la sua famiglia, Saro indossava una tunica ordinaria e aveva un mantello sul braccio. Sembrava a disagio, pensò Katla, quasi preoccupato. Il gruppetto cominciò a muoversi verso di lui tra la folla come una piccola flottiglia di barche attraverso un mare in tempesta. «Dov'è il mio denaro, Saro?» Tanto arrivò per primo, scuro in volto. Favio e Fabel apparvero nella sua scia. «Sì, forza, ragazzo» disse Favio da qualche passo di distanza. «Non vediamo l'ora di concludere questa faccenda.» Saro guardò dall'uno all'altro e alla fine fissò suo fratello. «Tu sai dov'è il denaro, Tanto» rispose con voce pacata. «Pensavo che mi avresti ringraziato per non averlo detto apertamente davanti a tutti.» «Piccolo bastardo» sibilò Tanto a voce bassa in modo che solo loro due potessero sentire. «Lo sai che mi serve ogni moneta. Come hai potuto anteporre un'insignificante sgualdrinella nomade agli interessi della tua famiglia?» Il tempo sembrò fermarsi. Saro sentì il sangue pulsargli nelle orecchie, il cuore battere sempre più forte. Poi raddrizzò le spalle, come per sopportare un colpo. Aveva sempre saputo che sarebbero arrivati a questo: a un rifiuto e all'accesa discussione che ne sarebbe seguita. Forse aveva persino cercato quel confronto per la scusa che gli avrebbe fornito: il pugno clandestino che gli aveva assestato con enorme soddisfazione il giorno prima aveva liberato qualcosa in lui, l'aveva reso più forte. C'era un leggero rigonfiamento sulla mascella di Tanto, notò Saro per la prima volta, ma il fratello non aveva ancora collegato le due cose. Saro continuò a tacere. «Il denaro» lo esortò Favio da dietro la spalla di suo figlio maggiore, il viso tirato e ansioso. «Non abbiamo ancora tutta la somma necessaria per il prezzo della sposa, figliolo, e l'onore della nostra famiglia dipende da
questo accordo.» Saro li studiò tutti in silenzio. Poi sorrise, un sorriso lento, triste. Il suo sguardo si attardò per un attimo sullo 'zio' Fabel, e vide nei suoi occhi il sospetto, un'improvvisa diffidenza. «Mi dispiace, padre, zio, fratello. Non ho più quel denaro. Tanto sa perché, e se insisterete, sono certo che vi racconterà una storia o un'altra. Che scegliate di crederci o meno sta a voi. A me non importa più. Sembra che per salvare il cosiddetto onore della mia famiglia sia necessario agire con crudeltà e con l'inganno, e a me non piace.» Si strinse nelle spalle. «Perciò ho preso una decisione, e non è una decisione che a voi piacerà. Vi saluto.» Fece loro un rapido inchino, dispiegò il mantello che portava sul braccio e lo indossò come fosse una seconda pelle. Poi si voltò e svanì tra la folla. Favio e Tanto si scambiarono sguardi afflitti. Fabel fissò Saro che si allontanava, gli occhi accesi di un'indecifrabile emozione. Alla fine si rivolse al fratello: «Favio, temo che il nobile Tycho stia venendo dalla nostra parte. Spero che abbiate una scusa pronta.» E sparì anche lui, lasciando Favio e Tanto ad affrontare il Signore di Cantara. «Nobile Tycho, i miei saluti.» Favio tentò di nascondere la sua costernazione dietro uno stravagante inchino. «Mio signore. Tanto.» Gli occhi di Tycho erano stranamente lucidi, eccitati. Il suo viso era acceso, il rossore visibile nonostante il colore scuro della pelle. Forse, pensò Favio aggrappandosi a una tenue speranza, aveva bevuto troppo, e magari sarebbero riusciti a negoziare un prezzo più basso, o un giorno di tregua. Ma il Signore di Cantara non era dell'umore per sprecare tempo. «Avete il mio prezzo della sposa?» Lo sguardo di Tanto passò in rassegna il gruppetto di donne istriane vicino al palco dei musicisti. Una di loro era sicuramente Selen Issian. Sentì il suo membro indurirsi al solo pensiero. «Mio signore...» cominciò, ma il nobile Tycho stava fissando intensamente suo padre. «Ventimila cantari, questa notte: credo fosse questo il nostro accordo, nobile Favio.» «Certamente, mio signore. Tuttavia...» «Devo averli ora.» Gli occhi di Tycho si strinsero e fissarono l'uomo più anziano con spaventosa intensità. Favio Vingo fece una risatina nervosa. «Non abbiamo tutto il vostro denaro qui, mio signore, ma l'avremo senz'altro domani.»
Una mano scura scattò per afferrare la veste di Favio intorno al collo, stringendola fin quasi a soffocarlo. «Ora, o mai più!» Favio tentò di parlare, ma non ci riuscì. Guardò Tycho con occhi sgranati, pieni di paura. «Mio signore, vi prego.» Tanto posò la mano sul braccio di Tycho. Il giovane stava sudando e sembrava disperato quando il Signore di Cantara. «Lasciate andare mio padre. Vi giuro che vi procurerò il denaro entro un'ora.» Tycho si scrollò di dosso la mano del giovane, ma lasciò andare la veste di Favio. A quel punto il viso di Favio Vingo aveva assunto il colore del sedere di un mandrillo. L'anziano Istriano si riscosse, si schiarì la voce, si risistemò la veste e il cerchietto che gli era scivolato su un occhio e si affrettò a fare un passo indietro, lontano da quel pazzo. La gente intorno a loro aveva cominciato a notare la scena, puntando il dito dalla loro parte e parlottando in tono concitato. Favio fissò suo figlio. Tanto sembrava sconvolto, terrorizzato... ma che fosse per la paura di vedere suo padre strozzato di fronte ai suoi occhi o per il pensiero di perdere la sua sposa era impossibile dirlo. «Un'ora» dichiarò il Signore di Cantara. «Un minuto dopo e la venderò al primo che mi farà una buona offerta.» Tycho sbraitò un ordine al suo schiavetto e si allontanò nella direzione del palco. La folla si divise al suo passaggio, affrettandosi a fargli strada. Favio si passò una mano tremante sul viso. «Quell'uomo è pazzo» disse ad alta voce. Si rivolse alla gente intorno a lui, ma nessuno ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi. «Dobbiamo annullare l'accordo. Ciò che il Signore di Cantara ha appena fatto cancella ogni obbligo che potremmo avere avuto con lui. Possiamo fare di meglio per te, figliolo.» «No, padre.» Tanto era atterrito. «Non possiamo. Io devo averla: la desidero troppo.» Ma Favio era irremovibile. «Non voglio che la nostra famiglia si allei con quell'uomo. È evidentemente uno squilibrato, e si dice che la pazzia si tramandi di padre in figlio. Ti ritroverai con una moglie pazza, Tanto, con dei figli pazzi a tormentarti. Avevo già sospettato qualcosa del genere, dal neo che quella creatura si era applicata sul viso quando suo padre ce l'ha presentata. Nessuna nobildonna sana di mente si sognerebbe di comportarsi in quel modo; e nessun padre sano di mente consentirebbe a sua figlia di trattare la sua futura famiglia con una tale mancanza di rispetto. Non ac-
consentirò mai all'unione, e la cosa finisce qui. Tu andrai da lui, Tanto, e gli dirai che la famiglia Vingo ha deciso di non concludere l'accordo.» «Io... non posso...» cominciò a dire Tanto, ma suo padre gli aveva già voltato le spalle e si stava allontanando nella direzione opposta. Erno seguiva controvoglia Aran Aranson e i suoi figli, i piedi più pesanti del piombo. In verità non avrebbe voluto partecipare affatto al Raduno. Perché andare a un evento pubblico come quello solo per vedere la donna che amava venire promessa in matrimonio a un altro uomo? L'amuleto fatto con i capelli che portava sotto la tunica gli dava prurito, come a ricordargli la futilità del suo tentativo. Non aveva mai creduto nella magia, e questa era la prova decisiva. Katla non pensava affatto a lui... eccola laggiù con Jenna Finnsen, a ridere e a bere vino come se non avesse una preoccupazione al mondo. E non era certo una grande consolazione vedere che aveva nascosto i capelli nella sciarpa che lui le aveva comprato. Gli occhi di Erno passarono in rassegna l'abito cremisi, con i suoi pannelli di pizzo e i delicati ricami, l'ampia gonna e le maniche larghe come andavano di moda, e si posarono sul rigonfiamento di pelle scura che si intravedeva dalla scollatura del corpetto molto stretto. Una bella donna, pensò all'improvviso, nonostante la sua magrezza e gli occhi pieni di malizia. La sua bellezza ora sarà evidente anche agli altri come lo è sempre stata a me. Quel pensiero fu una sorta di shock. La bellezza di Katla a lui si era rivelata grazie a mille piccoli e insoliti dettagli: l'intensità argentea del suo sguardo mentre guardava una rete piena di pesci, il modo in cui la luce del sole ammorbidiva le spigolose fattezze del suo viso, e in cui i capelli rossi, arruffati e costellati di aghi di pino, sobbalzavano dietro di lei come la criniera di un cavallo mentre correva. Si era rivelata nel modo in cui si mordeva il labbro mentre esaminava una saldatura; o nel sudore che faceva brillare le sue braccia al fuoco della fucina. Amava il fatto che fosse in grado di forgiare una spada e di brandirla bene quanto un uomo; l'amava per la sua imprevedibilità, la sua lingua tagliente e le piccole gioie selvagge di cui godeva: in breve l'amava per quel suo essere così diversa dalle altre donne che conosceva. Ma l'ortodossa eleganza di quella sera era un chiaro segno che tutto il suo spirito selvaggio era svanito, messo da parte per seguire il cammino tradizionale di ogni giovane donna... ossia essere barattata dalla famiglia in cambio di ciò che lui non avrebbe mai potuto offrire: denaro, prestigio, un'utile alleanza. Vederla così gli faceva venire voglia di piangere, o di farsi strada verso di lei tra la folla con la spada sguainata, per trascinarla via verso l'oblio.
E ora lei li aveva visti. Erno vide il suo sorriso svanire, la sua espressione cambiare. Mentre si avvicinavano notò che le sue nocche erano sbiancate nel punto in cui stringeva la coppa di vino. «Figlia.» «Padre.» «Finn arriverà con un leggero ritardo. Aveva un affare dell'ultimo minuto di cui occuparsi.» Era forse sollievo quello che leggeva sul suo viso? Quando Aran si voltò per dire qualcosa a Fent, Erno scoprì gli occhi di Katla su di lui, arditi e ansiosi. Sostenne il suo sguardo meglio che poté, ma sentì il sangue arrossargli la pelle bianca del collo. Cosa voleva da lui ora che era troppo tardi? Tentò di mettere ordine nei propri pensieri. Gli occhi di Katla erano enormi, le pupille così scure che avevano quasi inglobato le iridi. Il sottile cerchio grigio argenteo che ne rimaneva sembrava bruciargli dentro. «Ho fame» disse Katla all'improvviso. «Sì, anch'io» replicò Jenna, prendendole il braccio. Katla si scosse di dosso la mano dell'amica. «Resta qui, Jenna. Ti porterò io qualcosa. Erno, dammi il tuo braccio e accompagnami ai tavoli.» Jenna li fissò, sbalordita, poi si voltò verso Aran che le stava facendo un complimento per l'abito. Senza dire una parola, Erno offrì a Katla il braccio e le dita di lei lo afferrarono come gli artigli di un falco, le unghie conficcate nella carne. Erno la sentì tremare, sentì il sangue pulsare veloce e forte attraverso i polpastrelli delle dita. Katla sembrò fluttuare accanto a lui, l'abito rosso che a malapena sfiorava il terreno, come se tutto il suo peso fosse spostato sulla dita strette intorno al suo braccio. Quando arrivarono a un paio di metri dai tavoli la giovane si staccò da lui e si girò per guardarlo negli occhi. «Erno, mi serve il tuo aiuto.» «Devi solo chiedere. Qualsiasi cosa.» «Devo fuggire di qui. Questa notte. Ora. Prima che mi fidanzino.» Erno si guardò intorno, ma Jenna e gli Aranson erano impegnati in varie conversazioni. Nessuno sembrava aver notato che il suo cuore era diventato improvvisamente un faro di speranza che illuminava tutto il suo corpo. Prese Katla per un gomito e la spinse tra la folla verso l'ingresso. Si fermarono per far entrare una donna alta, avvolta così bene in una tunica lunga e in uno scialle di seta che di lei intravidero solo un barlume del viso pallido e un lampo degli occhi verdi quando si chinò per passare sotto il lembo della tenda, e poi furono fuori dall'enorme padiglione nell'aria del crepu-
scolo. «Da questa parte.» Ora era Katla che lo precedeva, zigzagando agilmente tra i cavi d'ancoraggio per aggirare il padiglione e dirigersi verso il quartiere eyrano. Camminarono in silenzio, senza toccarsi, per alcuni minuti, finché il suono delle voci non si smorzò in lontananza. La luna saliva sulla loro testa, velata da alte nubi. Il suo bagliore argenteo delineava il volto di Katla. «Ho preparato tutto» mormorò. Quello che doveva chiedergli era una follia, e lo sapeva, e non poté che vuotare il sacco tutto d'un fiato: «Erno, mi aiuterai a fuggire? Ho pensato di prendere una delle faering, ma da sola non posso farcela. Verrai con me sfidando la mia famiglia?» «Sì.» Non esitò un istante. Non ce n'era bisogno. «Significherà una faida di sangue, sai.» «Lo so.» «Non potremo più tornare indietro.» «Anche questo so. Dove andremo?» Katla chinò la testa. «Non ci avevo pensato» ammise. «Non ho pensato altro che a remare il più lontano possibile, lungo la costa.» Erno annuì, senza parlare. Due fuggitivi dalla legge eyrana: il padre di Katla l'avrebbe di certo bandito da Rocciacaduta, e i suoi beni, quei pochi che aveva, sarebbero stati confiscati. La sua vita sarebbe finita. Erno scoppiò a ridere. Katla lo fissò, perplessa. Come poteva ridere quando lei gli stava chiedendo così tanto? Sembrava un pazzo, ma un pazzo meraviglioso, la pelle così scura e i capelli quasi bianchi alla luce della luna, i denti affilati che brillavano come quelli di un lupo. E poi anche lei rise: era davvero una situazione ridicola... Lei era lì in piedi sulla pianura della Luna Caduta, con l'abito tinto di rosso grazie a dei poveri pidocchi schiacciati, i capelli tagliati e colorati di nero, la sua vita in pericolo solo perché aveva scalato una rupe, in procinto di baciare un uomo che conosceva da tutta la vita, a cui fino a poco tempo prima non aveva mai pensato, disposto a rischiare tutto per lei... In procinto di baciare... Fu Erno a fare la prima mossa. Afferrò le spalle di Katla, le tirò indietro la testa e posò le labbra sulle sue. Per un attimo tutto ciò che Katla riuscì a sentire fu il sangue che le pulsava nelle orecchie; poi si arrese al bacio come se non ci fosse altro nella notte che le loro labbra, unite, e tutto il resto
del mondo fosse svanito in quella spirale che li trascinava sempre più giù, più giù... E poi Katla cominciò a sentirsi frastornata, disorientata. Un odore forte, pungente, permeava l'aria. Qualcosa stava bruciando. Qualcosa stava bruciando su di lei, scottando la pelle esposta proprio sopra la profonda scollatura del vestito. «No!» Spinse via Erno. Un punto circolare sulla tunica del giovane, proprio al centro del petto, aveva cominciato a bruciare, tingendo il lino bianco di un opaco color ruggine. Fili di fumo salirono dal colletto della tunica, prima radi, poi in grosse spirali. Erno guardò verso il basso, confuso, aprì il colletto della tunica e sbirciò all'interno. Rendendosi conto di cosa stesse bruciando, si allontanò in fretta da Katla, voltandole le spalle in modo che non potesse vedere. L'amuleto era diventato di un vivace color rosso brace come se volesse prendere fuoco e ridurre entrambi in cenere. Erno trattenne il fiato. Maledizione, era per quello che lei l'aveva baciato... Strappò il laccetto e tirò fuori quel maledetto affare. Non appena perse contatto con la pelle sopra il suo cuore lo strano bagliore si spense. La maggior parte dei capelli erano bruciati, e mentre lo tirava fuori, ciò che rimaneva dell'amuleto perse la sua forma e ciocche annerite caddero lentamente al suolo. Katla le fissò sbigottita. Poi si chinò e ne raccolse una. Il fuoco li aveva scuriti, ma lei avrebbe riconosciuto i suoi capelli ovunque. Le implicazioni del perché Erno dovesse indossare un oggetto fatto dei suoi capelli intrecciati sotto la camicia, un oggetto che prendeva fuoco in quel modo corrodendola come se fosse acido, divennero improvvisamente chiare nella sua mente. «Magia» sussurrò alla fine. Un incantesimo. Un incantesimo d'amore? Un inganno. Si sentì svuotata, inaridita, come se tutte le emozioni l'avessero abbandonata. Guardò di nuovo Erno e si rese conto di non provare assolutamente niente per lui, a parte una profonda delusione. Lui non riusciva a guardarla negli occhi. Si stava fissando le scarpe come se ne fosse affascinato, e i capelli intrecciati, con tutti i loro pezzi di stoffa e le conchiglie del ricordo, gli ricadevano sul viso per nasconderne l'espressione infelice. Katla scacciò via i residui delle emozioni indotte dall'amuleto e si costrinse a pensare con chiarezza. Non era cambiato niente, almeno per lei:
stava a Erno ora decidere se voleva ancora aiutarla, anche senza che il suo amore fosse corrisposto grazie a un artificio. Gli fece un sorriso malinconico. «Se hai intenzione di venire, faremo meglio ad affrettarci, prima che si accorgano della mia assenza.» Erno esitò, come se cercasse di trovare qualcosa da dire per migliorare la situazione. Alla fine si limitò ad annuire e cominciò a incamminarsi con passo deciso verso la tenda dei Rocciacaduta. «Duemila cantari, Fortran. Non ti chiedo altro.» Fortran Dystra guardò il suo amico con curiosità. «Per l'amor di Falla, cosa ci fai con duemila cantari a quest'ora della notte?» Poi capì. Sorrise, dando a Tanto un amichevole pugno sul braccio. «È per una donna, vero?» Tanto si costrinse a sorridere. «Si potrebbe dire così.» Ma Fortran scosse la testa. «Li ho persi tutti ai cavalli» disse affabilmente. «Non mi aspettavo che quel moscerino di tuo fratello vincesse. Ho puntato tutto su Dovere Filiale, purtroppo.» Il sorriso di Tanto si afflosciò. «Non preoccuparti» continuò Fortran. «Domani ti renderai conto che ti ho fatto risparmiare un fortuna. Nessuna donna vale duemila cantari per una notte.» Fece una risata. «Prendi dell'altro vino per schiarirti le idee!» Fortran era l'ultima speranza di Tanto: nessuno dei suoi cosiddetti amici aveva potuto o voluto prestargli il denaro. Buttò giù la coppa di tiepido vino jetrano che Fortran gli aveva offerto in un solo sorso. Poi disse: «Hai visto il nobile Tycho Issian?» Fortran sollevò un sopracciglio. «Non lo chiederei a lui il denaro se fossi in te» rispose. «L'ho visto passare di qui poco fa con il viso scuro come la notte.» «Aveva sua figlia con sé?» «Selen? Oh-oh, cosa sta succedendo qui, Tanto?» «C'era?» «No. Non credo che sia venuta. Ma perché...» Ma Tanto gli aveva già voltato poco cortesemente le spalle e si stava facendo strada tra la folla. Bëte era alquanto restia a cooperare. Virelai era riuscito a intrappolare il perfido animale nel carro, ma lì dentro, dopo aver corso per un po' su e giù in preda al panico alla ricerca di una via d'uscita, alla fine si era ficcato
sotto il letto. E là sotto Virelai lo stava guardando, gli occhi verdi della gatta che brillavano con aria di sfida nella semioscurità. Virelai si leccò i graffi sanguinanti sul dorso della mano. Il sangue era salato e amarognolo, mentre i bordi sollevati erano ruvidi contro la sua lingua. E per fortuna che aveva tentato un incantesimo calmante sulla creatura... Quando si era svegliato e aveva scoperto che la Rosa Eldi era scomparsa il suo primo pensiero era stato correrle dietro: era arrivato fino al confine del quartiere nomade prima di rinunciare. Con quella folla che andava e veniva a quell'ora della sera, gente che chiudeva le bancarelle, portava merci su e giù, riportava gli yeka al loro recinto, Virelai era salito su un banchetto abbandonato; da lì aveva cercato i luminosi capelli lunghi della donna per almeno dieci minuti prima di ricordare che lo scialle verde scuro sul letto non c'era più, e di conseguenza i suoi occhi avrebbero potuto passare almeno una decina di volte sulla Rosa Eldi così abbigliata senza notarla. Maledizione. Avrebbe dovuto usare la gatta per attirarla di nuovo a sé. Per questo adesso se ne stava lì carponi con il sedere in aria, una posa molto poco dignitosa, la testa ficcata sotto il letto basso e le mani tutte graffiate e doloranti nel tentativo di attirare fuori il piccolo demone. Il cibo e le moine avevano completamente fallito. La forza era tutto ciò che gli restava. Scivolò sulla pancia e cominciò a strisciare sotto il letto. La gatta, tuttavia, determinata a mantenere una distanza di sicurezza tra di loro, indietreggiò fino all'angolo più lontano. Scoprì poi le labbra nere per mostrare i luccicanti denti bianchi e soffiò. L'ultima volta che era successo Bëte aveva colpito, non a caso o spinta dal panico, ma con un gesto calcolato per infliggere il maggior danno possibile. All'improvviso Virelai si rese conto che il suo viso esposto era terribilmente vulnerabile. Si ritirò lentamente da sotto la cuccetta. C'era un vecchio mantello appeso sul retro della porta. Virelai lo prese, se lo avvolse su entrambe le mani e tentò di nuovo di afferrare l'animale. Era un mantello di spesso serge, eppure quando riuscì a mettere le mani sulla gatta sentì i suoi artigli, o i suoi denti, conficcarsi come aghi infuocati nelle delicata pelle tra il pollice e l'indice della mano sinistra. Gridò di rabbia e di dolore, poi calò la mano destra su Bëte, trovò la sua testa (ah, erano i suoi denti, allora) e la strinse con forza sul collo. La pelle morbida in quel punto riempì la sua mano sotto le pieghe del mantello. Sentì la gatta lasciare la presa sulla sua mano, incapace di resistere all'istinto infantile di rilassarsi, anche se era cosciente che chi le stringeva il collo non era ovviamente sua madre, se mai ne aveva avuta una.
Virelai strisciò all'indietro, si mise in ginocchio e tenne l'infido animale lontano da sé. La gatta rimase appesa, immobile ma niente affatto pentita, e anzi pronta a infliggere altri tormenti non appena l'avesse lasciata andare. Finalmente in grado di concentrare le sue capacità su Bëte, Virelai la fissò negli occhi e mormorò un incantesimo. Contro la propria volontà la gatta si rilassò. Lui si sedette sul bordo del letto, e premendo con forza i pollici contro i lati della sua mascella, la costrinse ad aprire la bocca. C'era sangue sui suoi denti, notò Virelai: il suo sangue. In quell'istante ebbe una gran voglia di fracassarle la testa contro il lato del carro. Era una sensazione davvero strana, quella rabbia. Strana e insolita: Virelai non aveva mai provato niente del genere in vita sua. Anche quando stava avvelenando il Padrone non aveva provato alcun odio: era stata una decisione presa a sangue freddo per fuggire con la Rosa Eldi e quello che rimaneva della magia. Sentì la rabbia defluire dal suo corpo. «Ora Bëte, ascoltami: dammi l'incantesimo per riportare indietro i Perduti e ti lascerò andare. Mi hai sentito?» Per tutta risposta gli occhi della gatta brillarono d'odio. Le sue membra potevano anche essere immobilizzate, ma lei sapeva bene chi era il nemico. Virelai premette la bocca contro il muso liscio di Bëte, sentì l'aria calda che le usciva dal naso contro le sue labbra. Poi ci fu un leggero suono sibilante e Virelai sentì, più che vedere, forti luci nella sua testa. Le luci si infransero e ruotarono su se stesse, poi tornarono a fondersi insieme. Virelai vide la Rosa Eldi entrare in un enorme padiglione tutto illuminato da candele e affollato di gente. Il Raduno. La osservò mentre credendosi nascosta a tutti sotto l'ampio scialle, si guardava intorno, gli occhi verde mare che saettavano incuriositi su tutte quelle persone, i velluti e le sete, gli ornamenti e i gioielli, tutti che bevevano e mangiavano come animali. La donna si voltò all'improvviso e Virelai vide i suoi occhi spalancarsi per lo shock. Poi la Rosa Eldi chinò la testa e si allontanò dal suo sguardo indagatore sparendo tra la folla. «Per l'amore del paradiso infuocato, cosa stai facendo con quell'animale?» La testa di Virelai si sollevò di scatto. La gatta, sentendo che l'incantesimo che la tratteneva si indeboliva, approfittò dell'occasione. Irrigidendosi, si divincolò dalle mani del venditore di mappe e balzò sulle pareti del carro come fosse appesa a un filo. Alla fine cadde in uno spazio ristretto tra la stufa di ceramica e il baule degli abiti e si acquattò lì. Sulla soglia del carro c'era il nobile Tycho Issian. Virelai si alzò lenta-
mente, ripulendosi le mani sui pantaloni. Piccoli ciuffi di pelliccia nera caddero al suolo. Il nobile, notò Virelai, stava facendo strani gesti con le mani, come per allontanare qualcosa di malvagio. L'incantesimo aveva lasciato un leggero odore di zolfo nell'aria. Oppure la gatta aveva emesso qualcosa di spiacevole da una parte del suo corpo... «Ah» disse il venditore di mappe, cercando di apparire calmo e indifferente. «Siete venuto per la Rosa Eldi, immagino.» «Dov'è?» «Ci aspetta al Raduno, mio signore.» Virelai vide lo sguardo di Tycho Issian posarsi sui graffi che spiccavano sulle sue mani pallide: di certo il nobile si stava chiedendo se era stato il gatto o la donna a farglieli. «Avete il denaro?» chiese per distrarlo. «No. Non ancora. Ma lo avrò. Presto.» «Bene, allora diamoci il tempo per portare a termine i nostri rispettivi incarichi, mio signore, e compiamo lo scambio al Raduno.» Scortò il nobile Tycho Issian alla porta, quasi spingendolo giù per le scale, poi lo seguì fuori e chiuse il chiavistello per impedire alla gatta di fuggire. Che il nobile Issian si portasse pure via la Rosa Eldi: dalla luce nei suoi occhi e dal colore del suo viso sembrava che ostacolare i piani dell'Istriano avrebbe potuto rivelarsi molto pericoloso. Dalla sua posizione strategica sul palco, uno stordito Ravn guardò la gente andare e venire dal tendone. Si era preparato a quella maledetta serata bevendo quanto più vino del Sud era riuscito a trovare, ma neppure in quel modo era riuscito a calmare la propria irrequietezza. Guardò lo scrivano che tentava disperatamente di tenere il conto di tutti i tributi che si erano accumulati ai suoi piedi: tappeti circesiani a sufficienza per tappezzare l'intera sala del trono di Halbo e tutte le stanze del castello; urne e vasi e calici che con tutta probabilità si sarebbero infranti al primo accenno di tempesta durante il ritorno a casa; vasetti di spezie e mucchi di erbe provenienti dalle pianure meridionali e dalle colline orientali: almeno il cibo di quell'inverno avrebbe avuto un qualche sapore oltre a quello di sale e fumo; balle di seta, e con quelle anche la sua nobile madre sarebbe stata sistemata per un po', se solo fosse riuscito a persuaderla a rinunciare ai deprimenti grigi che indossava dalla morte di suo padre. Quel bel color acquamarina le avrebbe donato, pensò Ravn, evidenziando le leggere sfumature blu dei suoi capelli ancora corvini. Era il colore di Sur, il colore del mare del Dio illuminato dal sole, e con quella scusa forse sarebbe riuscita a
convincerla. Quella tonalità avrebbe donato anche a Ragna Fallsen, pensò all'improvviso, incrociando i suoi occhi dall'altra parte della stanza, dove stava ballando con il figlio maggiore di Erol Bardson, Ham. Un giovane robusto, roseo e bene in carne come un maiale. Solo Sur sapeva cosa pensava di fare Ragna incoraggiandolo in quel modo: difficile ingelosire il suo compagno di mille acrobazie a letto con uno zotico del genere. E a dire la verità, lui si stava davvero stancando di Ragna, nonostante la sua bellezza e tutta la sua inventiva. Di recente infatti aveva scoperto che possedeva una lingua piuttosto tagliente, tanto da lamentarsi con una certa sfrontatezza se lui veniva a letto senza aver fatto il bagno o ubriaco. Davvero insopportabile, dal momento che entrambe le cose capitavano piuttosto spesso... Gli occhi di Ravn vagarono verso il gruppo di donne del Sud sedute tranquille dall'altro lato del padiglione accanto al palco dei musicisti, dove si erano stabilite da quando erano arrivate, con i servitori ai loro piedi e i loro uomini alle spalle. Guardò il modo raffinato in cui mangiavano i loro pasticcini e sorseggiavano il loro vino, mani bianche e bocche scure e tutto il resto un mistero, e sentì il suo pene indurirsi per la prima volta quel giorno. Tranquille, docili, ma demoni in camera da letto: così aveva sentito dire. Ricordò quanto gli aveva confidato quella mattina uno dei suoi rematori, una storia raccontata da un amico di un amico, un capitano mercenario che in quel momento teneva lontani i predoni del mare dalla costa istriana: di come una puttana dell'Impero era riuscita a farsi un intero equipaggio di uomini delle navi lunghe, una trentina almeno e tutti uomini esperti, in meno di un'ora, riuscendo al contempo a dar loro un tale piacere con le sue mani fresche e la bocca calda che quando era venuto il suo turno il capitano aveva gridato per l'orgasmo e poi aveva perso la testa per quasi tre giorni. Ravn aveva sentito raccontare la stessa cosa anche delle donne degli Erranti. In effetti aveva avuto intenzione di fare una visitina al quartiere nomade ancora mascherato da Fenice dopo la gara di scherma, se non fosse stato per quella maledetta ferita. Un peccato, pensò in quel momento, riempendo la coppa dalla caraffa ai suoi piedi, perché i Viaggiatori si erano guadagnati una certa reputazione per la loro creatività e immaginazione, anche se non erano passati molti anni da quando il Sud aveva affermato di aver bruciato gli ultimi veri operatori di magia. Sesso con una maga: quella sì che era un'idea interessante... Tuttavia ora erano state tutte, e tutti, ridotti in cenere nel nome della Dea: intere tribù, si diceva, intere carovane distrutte, le teste mozzate lasciate
all'aperto per gli uccelli necrofagi, gli avvoltoi dell'estremo Sud. Non c'era da meravigliarsi che avessero ceduto quelle terre desertiche al Signore di Cantara, pensò, ricordando le noiosissime ore di istruzione sull'Impero e le sue province impartitegli da Capotempesta e Isolaustrale prima della Grande Fiera di quest'anno. Dovevano essere infestate dagli spiriti dei morti, spettri e camminatori della notte, perché come ogni buon Eyrano sapeva, tagliare la testa dal corpo e poi separarli nella sepoltura lasciava lo spirito libero di vagare. E bruciare il corpo non serviva a niente: l'unica era mettergli dei pesi per impedirgli di alzarsi, che fosse in terra o sott'acqua... Rabbrividì, nonostante il tepore di quella notte, le migliaia di candele accese, la vicinanza di così tanti esseri umani. La sua mente aveva vagato in direzioni talmente strane nell'ultima mezz'ora... Non era da lui riflettere su cose del genere: lo faceva sentire a disagio, non in pace con se stesso. La sua mano si posò per un momento sulla catena che portava al collo, sul portafortuna nascosto tra i peli del petto: l'ancora di Sur riprodotta in argento, che impediva alle anime che solcavano l'oceano della vita di essere trascinate via dalle onde del male. «Mi sembrate turbato, sire. C'è qualcosa che volete che vi procuri, un'altra caraffa di vino, forse?» Isolaustrale era al suo fianco, il volto raggrinzito pieno di ansia sotto la barba brizzolata. Ravn rise. «Ho già bevuto tanto da far galleggiare una nave nel mio stomaco. Portatemi le ragazze, Isolaustrale: forse riusciranno a migliorare il mio umore.» «Sì, naturalmente, mio signore. Le ragazze, allora. Ricordate ciò che abbiamo detto.» «Portatemele e basta.» Ce n'erano dieci, gli avevano detto, un numero di ottimo auspicio: il numero dell'equipaggio della nave di Sur, il Corvo, i compagni scelti da Lui in persona per governare il vascello che accompagnava coloro che erano morti in nome del Dio del Mare alle Spiagge della Pace. 'Dieci per il Dio', diceva il detto, quindi 'dieci per il re' suonava piuttosto bene. Forse le avrebbe scelte tutte: in fondo non c'era scritto nei vecchi annali che il lascivo re Blacken aveva avuto quindici mogli? Dieci era di certo una scelta contenuta. Isolaustrale si allontanò per conferire con Egg Forstson. Questi annuì e poi si fece strada tra i capannelli di persone per cercare il conte di Capotempesta, occupato a intrattenere con un macabro racconto un gruppo di ragazze eyrane con abiti colorati e stranissimi copricapi. Ravn vide la fi-
glia di Bran, Breta, arrossire e portarsi le mani alla faccia. Che ragazza sciocca: eppure doveva sapere che la sua presentazione non era altro che una formalità. Egg diede un bacio a sua nipote e la lasciò al braccio di Breta. Le due ragazze si scambiarono uno sguardo sgomento, poi scoppiarono a ridere. Il conte di Isola delle Pecore si diresse poi verso un gruppo di uomini alti che parlavano con una ragazza con un abito verde molto scollato e una specie di turbante argentato in testa. Quando Egg arrivò e disse qualcosa, tutti si girarono per guardare il re. Gli occhi di Ravn si strinsero quando riconobbe nell'uomo più anziano Aran Aranson, quell'arrogante omone che era stato così scortese con lui il giorno prima. Fu felice di vederlo distogliere lo sguardo, all'apparenza turbato, e poi lo vide guardarsi intorno come se avesse perso qualcuno. L'uomo corpulento con la barba accanto a lui doveva essere il costruttore di navi fornitore della real casa, Finn Larson. Quindi la ragazza robusta in verde doveva essere la figlia di cui gli avevano parlato. Ravn sospirò e perse immediatamente interesse. Dall'altro lato del padiglione le donne completamente avvolte nelle loro vesti avevano cominciato ad alzarsi mentre i loro servitori si sparpagliavano davanti a loro. Ravn le guardò fluttuare attraverso il padiglione come se galleggiassero nell'aria, e gli venne in mente il vecchio detto sui cigni: sopra il pelo dell'acqua non si vedeva altro che la loro grazia, mentre sotto era tutto uno sbattere frenetico di zampe. Forse lo stesso valeva per il Cigno di Jetra. E forse lui l'avrebbe scoperto di persona più tardi... La prima a essere presentata, tuttavia, fu la figlia del nobile Prionan. Ravn non prestò molta attenzione alle lusinghe dell'Istriano né alla pretenziosa descrizione della sua pretenziosa figlia. Quello stesso pomeriggio aveva tentato di offrirgli un gruppo di schiavetti incatenati, bambini vestiti in modo così sgargiante che aveva pensato fossero una troupe di saltimbanchi; poi il nobile dell'Impero gli aveva chiarito qual era il loro scopo. Era stato impossibile per Ravn non mostrare il suo disgusto. Le isole del Nord non avevano la schiavitù, aveva spiegato a quell'uomo: la gente lavorava in modo più efficiente se veniva trattata decentemente e se riceveva una qualche forma di pagamento, invece di venire addestrata a compiere atti innaturali sotto la minaccia di morte. Ma il nobile Prionan aveva schioccato i denti, agitato il dito contro Ravn e mormorato qualcosa di inintelligibile nella sua sibilante lingua. Ora Ravn lo congedò con impazienza: territori costieri protetti o no, non si sarebbe alleato con quest'uomo.
Al suo posto arrivò prontamente il conte di Promontorio Grande, portando con sé sua figlia, Lian. Il conte era un uomo alto e magrissimo sui cinquanta, e sua figlia sembrava scheletrica quanto suo padre. Non aveva nemmeno un po' di carne sulle ossa, osservò Ravn irritato immaginando le sue anche spigolose che premevano contro di lui a letto. Non pensò neppure per un istante di accettare l'offerta di uomini e di una fortezza allo stretto degli Squali. Poteva anche essere in una posizione strategica, ma Ravn aveva saputo dalla sua rete di informazioni che era in rovina e che lo stretto degli Squali era battuto da briganti e reietti della società. Sorrise. «Vi ringrazio per la vostra offerta, mio signore di Promontorio Grande. Ci rifletterò attentamente.» Chinò la testa in segno di saluto a Lian, che gli fece un inchino abbastanza profondo da confermare al suo occhio allenato la mancanza di doti della pretendente. Ravn sospirò. La figlia del conte Sten invece, Ella, era molto ben dotata, ma anche molto insignificante, il viso così lentigginoso che pareva sporco di fango. Eppure doveva essere un tipo voglioso, pensò Ravn. Le bellezze di corte di solito davano tutto per scontato; le ragazze più bruttine, invece, erano spesso molto più desiderose di compiacerlo. «Deliziosa ragazza, Sten» disse il più allegramente che poté. Il conte, uno dei migliori amici di suo padre, veterano di cento risse, rispose al sorriso con un ghigno lascivo, rivelando diversi buchi tra un dente e l'altro. Probabilmente era stato colpito un po' troppo forte in una di quelle risse, pensò Ravn: sembrava non starci più molto con la testa. L'arrivo del duca di Cera causò un po' di scompiglio. Ravn guardò con una certa meraviglia la folla dividersi impaurita di fronte a lui, finché la causa del subbuglio non fu chiara: due bestie dalle zampe enormi con denti come falci. La pelliccia color dell'erica diventava di un color grigio scuro come il cielo in tempesta nel punto in cui i loro muscoli guizzavano sui robusti fianchi. Macchie quasi porpora costellavano i loro morbidi mantelli e i loro occhi erano grandi e dorati come quelli dei gufi della neve che a volte si intravedevano nelle lontane distese del Nord. Intorno al collo portavano collari di solido argento con un'insolita pietra blu incastonata. «Leopardi di montagna, mio signore» declamò orgogliosamente il duca. «Provenienti nientemeno che dalle montagne d'Oro. Solo l'unica coppia in cattività in tutta l'Elda. Li ho catturati quando erano cuccioli e cresciuti io stesso: mangeranno dalla vostra mano, e cattureranno una preda per voi più velocemente di qualsiasi segugio. Immaginate come sarebbe cacciare nelle vostre foreste del Nord con una coppia del genere! Niente può resi-
stere alla loro temibile grazia e alle loro potenti mascelle.» Nella sua testa Ravn immaginò la scena con chiarezza: riusciva a sentire persino il suono dei corni da caccia e lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli attutito dalla neve. Si vide correre davanti ai suoi uomini con quelle magnifiche bestie al guinzaglio, inseguendo il cervo che non era riuscito a catturare l'inverno passato. Era allettante, quel quadro; ma non possedeva la smisurata vanità necessaria a farsi condizionare nella sua scelta da quei due gattoni. Inoltre trasportarli con sé in Eyra su una nave lunga probabilmente sarebbe costato la vita a qualcuno del suo equipaggio, se non alle bestie stesse. Ringraziò il duca con profusione di parole, declinando la sua offerta con estrema cortesia. Il palazzo di Halbo non era il posto adatto per delle creature così selvagge, dichiarò: sarebbe stato come confinare delle aquile in una voliera. Il duca di Cetra si strinse nelle spalle: lui aveva diverse aquile nella sua collezione, perciò non era del tutto sicuro di aver capito cosa intendesse dire il re del Nord. Ma in fondo era sollevato: era stato il Consiglio a insistere perché offrisse la sua adorata Caramon al re barbaro, sacrilegio o no. Se l'uomo del Nord l'avesse presa, aveva pensato, lei avrebbe avuto a proteggerla le bestie sacre alla Dea. Il nobile Sestran offrì gioielli e botti di vino e una quota dei suoi ricchi campi di spezie, ma sua figlia era alta meno della metà di Ravn e larga quasi altrettanto, un fatto impossibile da nascondere neppure sotto la sabatica color ciliegia che indossava. Fu poi il turno di due anziani uomini dell'Impero vestiti di broccato rosso scuro, entrambi con ampie pappagorge, grigie sopracciglia a ciuffo e catene elaborate al collo: i nobili Dystra, membri stimati del Consiglio Istriano. Dietro di loro una donna snella in vesti di seta blu notte. «Mio signore d'Eyra...» cominciò uno. «...vi porgiamo i nostri saluti» continuò l'altro. «...i nostri termini sono generosi.» Il primo dei due tirò fuori con un gesto ostentato una pergamena, da cui i due cominciarono a leggere a turno, le loro voci così innaturalmente simili che se Ravn avesse chiuso gli occhi l'avrebbe creduta una sola. Non aveva comunque bisogno di prestare attenzione al loro bizzarro modo di fare: sapeva che ciò che offrivano era quello di cui il Nord aveva bisogno, ossia il passaggio attraverso lo stretto Circesiano tramite l'ampio fiume d'Oro; un passaggio per chiatte di grano, minerali e legno, tutte cose di cui cominciava a esserci estrema penuria nelle isole del Nord. Ma ora veniva la
parte interessante. «...siamo onorati di presentare...» dichiarò il primo. «...la più famosa bellezza dell'Impero...» continuò il secondo. «...il Cigno di Jetra...» Ravn si raddrizzò sulla sedia, poggiò i gomiti sulle ginocchia e appoggiando il mento tra le mani studiò la figura vestita di blu che i due anziani nobili fecero avanzare. Queste maledette vesti, pensò: ecco una donna che vale la pena esaminare e tutto ciò che riesco a vedere di lei è quella delicata bocca e quelle belle mani. Per Sur, come potevano affermare che era una famosa bellezza quando nessuno poteva valutarne il fascino? Ma la bocca era davvero molto bella e non aveva nessuna di quelle sottili rughe che denotavano irritabilità e un brutto carattere, come aveva scoperto di recente: sul volto di Ragna Fallsen sembrava che ne spuntasse una al giorno. «Miei cortesi signori, mia Signora di Jetra, la vostra è un'ottima offerta e mi riservo di valutarla con più attenzione, se vorrete avere pazienza con me.» Gli anziani nobili annuirono, sorrisero e fecero un inchino, poi annuirono, sorrisero e si inchinarono di nuovo e si portarono via tra la folla il loro bene più prezioso, il famoso Cigno. E ora Ravn doveva affrontare con tutta la cortesia possibile il suo infido cugino, Erol Bardson, che stava per presentargli la sua protetta. Erol evitò di guardarlo negli occhi; la ragazza, invece, lo fissò con guardo insolente, niente affatto intimorita. Le sue pupille erano di un viola scuro, ornate da lunghe ciglia chiare. Un'insolita combinazione in quel viso pallido e finemente cesellato. La ragazza sollevò il mento con aria di sfida mentre lui la fissava. Il coraggio non le mancava, pensò Ravn. Era infuriata che il suo tutore dovesse metterla in mostra così, e non aveva paura di darlo a vedere. Erol aveva giocato bene le sue carte, pensò Ravn, vestendo elegantemente la ragazza e presentandola in quel modo; tuttavia la sua offerta era fin troppo pericolosa per poter essere presa in considerazione, nonostante tutto il potere e l'influenza che aveva ereditato Erol. Una volta che la ragazza gli avesse dato un erede maschio, quei due avrebbero trovato un modo per liberarsi di lui mettendo poi il bambino sul trono, con Erol, suo protettore, come vero re. Capotempesta aveva insistito parecchio sulla necessità di evitare di cadere in una trappola del genere. Breta Bransen sapeva che Ravn non avrebbe scelto lei. Era innamorata di lui sin da quando aveva sette anni, persino dopo che lui l'aveva spinta nell'abbeveratoio dei cavalli per vedere se sarebbe affogata. «Tua madre è
una strega!» l'aveva presa in giro con crudeltà. Se mia madre fosse una strega, ricordava di aver pensato Breta, mi avrebbe fatto più simile a lei, pallida, dai capelli scuri e snella e non mi avrebbe lasciata sola. Perciò ora, mentre Ravn le sorrideva e lodava il suo abito, Breta rispose debolmente al sorriso e si fece subito da parte per lasciare il posto alla sua più graziosa cugina. «Sire, ho l'onore di presentarvi mia nipote, Filia Jansen, una ragazza di diciassette primavere e molto abile con l'ago. Ha fatto con le sue mani un bellissimo arazzo per la vostra sala, come segno della stima che prova per vostra grazia.» Forstson esortò la ragazza ad avvicinarsi. Timidamente, e sbirciandolo per tutto il tempo da sotto le ciglia con i suoi occhi verde chiaro, la giovane srotolò l'arazzo. In effetti era proprio un lavoro superbo e Filia doveva averci lavorato a lungo: le figure erano finemente ricamate e colorate ad arte. La scena ritratta, però, era presa da una storia che lui aveva sempre odiato: la Montagna Nera. Una storia tragica: l'amato marito della buona regina Fira, re Fent, era stato catturato dai troll e portato nella Montagna Nera. Ogni anno i mostri esigevano un tributo, sotto forma di orzo e granturco, mucche e pecore, balene e aringhe, e ogni anno venivano meno alla promessa di liberare il re. Quindici anni dopo, il regno era sull'orlo della carestia e non c'era niente con cui pagare il tributo. La regina era andata di persona alla Montagna Nera e aveva pregato affinché risparmiassero la vita a suo marito. I troll erano usciti, alti come l'albero di una nave, larghi come una vela, i denti grossi come macigni, e avevano riso della sua preghiera. «Abbiamo mangiato il re quindici anni fa, donna. L'abbiamo arrostito col miele e abbiamo giocato agli astragali con le sue ossa. Perciò se non ci saranno altri tributi, dovremo accontentarci di quello che abbiamo.» E avevano arrostito e mangiato la povera regina Fira. La morale era, come il conte di Isola delle Pecore era stato ben felice di spiegare al giovane Ravn seduto sulle sue ginocchia, che conviene essere pragmatici, prendere quello che si può invece di aspettare l'adempimento di vuote promesse. Ravn aveva sempre pensato che fosse una storia stupida: se fosse stato suo padre quello catturato dai troll, lui avrebbe portato un esercito con sé alla montagna e l'avrebbe rasa al suolo. Congedò Egg e sua nipote con un gesto stanco. Ora si stava annoiando. I leopardi di montagna erano stati un'interessante distrazione, ma Ravn sapeva che ora la sua scelta si stava inevitabilmente restringendo al Cigno dell'Impero o alla figlia del costrut-
tore di navi. Salutò Finn Larson con un cenno del capo, e quando lo vide Jenna pensò che sarebbe svenuta. «Sire» disse Finn, inchinandosi fin dove la sua grossa pancia lo permetteva «vi do la mia unica figlia, Jenna, i cui attributi sono quanto di meglio possiate desiderare.» E il corpulento ometto ebbe l'ardire di fare l'occhiolino al suo re. Ravn, che non sapeva se essere irritato o divertito, posò gli occhi su quell'ultima ragazza. Conosceva bene i vantaggi di una tale unione: la nuova flotta per conquistare un passaggio attraverso la Via del Corvo, l'utile neutralità politica... Ma la ragazza fu una sorpresa: grossa, ma ben fatta come una delle navi di suo padre, il viso arrossato per il caldo e il vino (be', almeno le piaceva bere). Jenna fece un passo avanti. Aveva provato quel momento per mesi: si sarebbe inchinata profondamente perché il re avesse la migliore vista possibile del suo seno, poi l'avrebbe guardato tra le ciglia con espressione seducente mentre scioglieva il copricapo e lasciava ricadere i suoi capelli dorati in morbide onde... la sua dote migliore a suo parere, e quella che le avrebbe fatto conquistare il cuore del re. Tuttavia gli occhi scuri di Ravn su di lei, con le loro palpebre pesanti, sensuali, la confusero al punto che slegare il particolare nodo che aveva fatto per buona fortuna divenne problematico. Ma alla fine le sue goffe dita riuscirono nell'impresa e il telo di stoffa cadde al suolo. La folla trattenne il fiato. Ciocca dopo ciocca i suoi capelli luccicanti sfuggirono alla seta che li tratteneva, trasformati dall'incantesimo della nomade nel momento in cui le ricadevano sulle spalle. «Se davvero vuoi che lui ti noti» aveva detto Fezack Cantastelle «devi aspettare che i suoi occhi siano su di te e avere quindi tutta la sua attenzione.» «Voglio che sembrino un mare di granturco» aveva detto Jenna, immaginando una cascata d'oro, una distesa di mille sfumature. Ora quella frase le si ritorse contro. Se avesse detto 'granturco maturo' avrebbe forse potuto migliorare il loro colore, ma Jenna non aveva prestato sufficiente attenzione a come aveva formulato il suo desiderio: verde, quello era il colore dei suoi capelli, verde come qualsiasi campo di granturco appena spuntato. E la magia si era spinta oltre. Dal verde luccicante caddero giù topi campagnoli e api, lombrichi e terriccio. La gente più vicina a lei agitò freneticamente le mani, sollevò i
piedi impaurita. Un'allodola uscì dalla criniera di Jenna e volò in alto tra i pali di sostegno, dove cominciò a trillare impaurita. Il re iniziò a ridere, finché non si rese conto che quello non era affatto uno scherzo concepito per il suo divertimento, perché la ragazza gridava isterica e si batteva la testa con i pugni. E poi una donna alta uscì dalla folla. Indossava una lunga tunica chiara, uno scialle verde scuro le copriva la testa. La sua pelle, quando tese le mani verso la ragazza, era bianca come il latte, le dita lunghe e sottili, le unghie rosa come la madreperla. Toccò la testa della figlia del costruttore di navi e l'illusione, perché illusione era, cessò all'istante. Jenna si accasciò tra le braccia di suo padre, i lunghi capelli, di nuovo biondi e inanimati, a coprire la sua vergogna. Delle creature che erano spuntate dai suoi capelli non c'era più alcuna traccia. Un trucco, dopo tutto. Il re si appoggiò allo schienale della sedia, irritato per l'inganno, per l'assurda teatralità della faccenda. Un uomo pratico come Finn Larson non avrebbe dovuto prestarsi a una cosa del genere. Fece cenno alla donna alta di allontanarsi, ma lei non lo fece. Mosse invece un passo verso di lui. La sua mano si tese per toccargli la guancia tumefatta. «Avete subito una ferita» la sentì dire Ravn, come da una grande distanza. Lo scialle scuro che le avvolgeva la testa le era scivolato sulle spalle. Lo sguardo di Ravn fu attirato dal suo viso. Lì c'era un perfetto ovale pallido ad attenderlo, e un paio di occhi verde mare. Le dita fredde della donna gli sfiorarono la pelle. Ravn sentì il suo cuore fermarsi. Da qualche parte, fra le travi del tendone, un'allodola cantò. 14 Pazzia Tanto afferrò un'altra coppa dal vassoio di un servitore che gli passava accanto. La roba buona era finita, osservò, perché quel vino era più cattivo dei pensieri che gli affollavano la mente. Malgrado ciò se lo scolò d'un fiato e ne prese un'altra coppa. La testa gli cominciava a pulsare, un dolore sordo che gli era familiare e che lasciava presagire i tremendi postumi della sbornia che l'avrebbero tormentato la mattina dopo, ma al momento non gl'importava.
Maledetto il suo ipocrita fratellino. Maledetto il suo stupido padre e lo zio Fabel. E in quanto al nobile Tycho Issian, sperava che le più ardenti fiamme della Dea lo divorassero presto. Ma non prima di averlo accettato come suo genero, a qualunque costo. Svuotò la coppa in un solo sorso, a malapena consapevole dell'aspro e speziato liquido che gli bruciava la gola. Stava per andare a cercare un servitore per farsela riempire di nuovo quando vide il Signore di Cantara entrare nel padiglione. Accanto a lui c'era un uomo alto e magro quasi privo di colore. Suo malgrado Tanto lo fissò, sbalordito. I capelli dell'uomo erano così pallidi da essere quasi bianchi, e nel pallore del suo viso i lineamenti erano indistinti. Sembrava una lampreda, pensò Tanto, un'anguilla viscida e sfuggente. I due uomini si addentrarono a grandi passi tra la folla, le teste inclinate l'una verso l'altra come se fossero impegnati in una importante conversazione. La venderò al primo che mi farà una buona offerta. Il nobile Tycho Issian era stato fedele alla sua ignobile parola: aveva trovato un compratore. Tanto sentì una furia incontrollabile crescere in lui. Quindi aveva concluso un accordo per sua figlia con quello... quello... quella lumaca d'uomo? Gettò a terra la coppa vuota e cominciò a farsi strada tra la gente verso di loro, poi cambiò idea e si bloccò. Cosa poteva fare? Affrontare il Signore di Cantara, prendere a pugni la lumaca, far sapere a tutti che la sua famiglia non aveva il denaro per pagare il prezzo della sposa? No. Rifletté per un momento, la testa ovattata che gli girava. No, assolutamente. Sorrise. Aveva un'idea migliore. Fuori le stelle splendevano luminose e la luna era avvolta da una nube passeggera. L'aria fredda schiarì la mente di Tanto, rafforzando la sua determinazione. Il giovane fissò per un attimo la città di tela che si stendeva lungo la nera e arida pianura e si mise in marcia verso il quartiere istriano. Superò i grandi tendoni del nobile Prionan e del suo seguito, piantati vicino al grande padiglione come se questo potesse conferire loro una maggiore autorevolezza. I colorati vessilli di famiglia pendevano immoti nell'aria senza vento. Passò accanto ai padiglioni appartenenti ai Qaran di Talsea e all'enorme complesso di tende del duca di Cera. Mentre li superava in tutta fretta un profondo ringhio lo raggiunse nell'oscurità. Era un suono che non aveva mai sentito. Per un momento Tanto si bloccò, pensando che la Dea avesse visto i suoi pensieri e gli avesse mandato dei grossi gatti per farlo a pezzi;
ma poi ricordò i due leopardi di montagna che il duca aveva offerto al re del Nord. Dunque l'offerta del duca di Cera non era stata accettata e i felini erano stati riportati nelle loro gabbie. Cosa importava alla Dea dei suoi piani? Tanto rise e riprese la sua strada. Ben presto si trovò a camminare all'ombra della grande Rupe che torreggiava sulla pianura: non c'era da meravigliarsi che gli uomini del Nord la definissero 'Castello'. E lì, alle pendici della Rupe, c'era il padiglione della sua famiglia. Non c'era nessuna luce accesa: gli schiavi dovevano essere già a letto, pensò, o a divertirsi altrove in assenza dei padroni. Ma non era quella la sua destinazione. Passò silenziosamente oltre. Oltre la Rupe di Falla la pendenza del terreno aumentava gradualmente. Tanto accelerò il passo per compensare l'inclinazione, i piedi che affondavano nella cenere vulcanica. Salì sulla collina e superò le tende dei Sestran e quelle appartenenti a Leonid Bakran e alla sua famiglia. Davanti a lui si presentò un grosso gruppo di padiglioni. Incurante delle conseguenze del suo sconfinamento, Tanto entrò nel cerchio delle tende e si trovò in una tranquilla zona recintata. Il terreno era stato trasformato in un giardino jetrano per la meditazione, tutto pietre ornamentali e terracotta, ciotole d'acqua e di polveri profumate. Ghirlande di cartamo abbellivano un piccolo tempio e sul braciere le ceneri erano ancora ardenti. Qualcuno aveva fatto sacrifici alla Dea non molto tempo prima: il puzzo dolciastro e rancido di carne e peli bruciati gli invase le narici mentre passò accanto al braciere. Così tanta pena, e tutto per questa stupida Grande Fiera. Che idea trasportare tutti quei vasi e quelle pietre dalla pianura jetrana. L'avevano costruito di certo per il Cigno, pensò. Perché avesse con sé un ultimo pezzettino del suo amato Sud prima di venire condotta via nelle isole eyrane con quel bastardo del re del Nord. Quel pensiero lo fece infuriare ancora di più. Una nobildonna venduta ai barbari dalla sua avida e intrigante famiglia, invece di essere data a un meritevole uomo dell'Istria. Un uomo come lui. Era un insulto per lui e per ogni altro forte maschio del Sud. Diede un calcio con cattiveria a uno dei vasi di terracotta e lo guardò rompersi con un soddisfacente rumore di cocci. Pezzi di argilla cotta si sparsero per il giardino. Poi Tanto diede un calcio all'altare. Le ghirlande di cartamo si spezzarono, ricoprendolo con una pioggia di petali profumati e col polline ocra dei loro stami. Alesto, pensò. Alesto: l'amante della Dea Falla, portato da lei avvolto proprio in una nube del genere: la fragranza del paradiso, per benedire l'unione tra un mortale e una dea. Quel pensiero fu sufficiente a esortarlo a continuare. Con rinnovata de-
terminazione percorse gli ultimi metri quasi di corsa, e il profumo del cartamo lo accompagnò per tutta la strada. Il padiglione del Signore di Cantara era buio, come aveva immaginato. Ma la tenda più piccola vicina a esso brillava dall'interno di una tenue luce rosa pallido. Da dove si trovava, Tanto riusciva a intravedere il contorno di due persone all'interno: una figura seduta e un'altra, molto più piccola, accovacciata. Una di quelle doveva essere senz'altro Selen. L'altra probabilmente una schiava. Il cuore di Tanto cominciò a battere forte per l'eccitazione. All'entrata del padiglione si bloccò. C'era un basso mormorio di voci, no, di una sola voce. Fece due profondi respiri per calmarsi. Si passò le mani sui capelli in disordine, si sistemò la tunica finemente ricamata, tirò su la calzamaglia che si era spiegazzata e gli indumenti intimi. Cosa le avrebbe detto proprio non lo sapeva, ma quello che stava per fare gli sembrava così naturale, così giusto che sapeva che avrebbe trovato le parole al momento opportuno. Sollevò il lembo della tenda e sbirciò all'interno. Selen Issian era seduta sul letto e una giovane schiava avvolta nella sabatka sedeva ai suoi piedi. Selen aveva la testa china su un fascio di fogli di pergamena legati insieme con un nastro e stava leggendo ad alta voce alla ragazza. Dall'inclinazione della testa, la ragazzina era affascinata da quello che Selen le stava leggendo... un antico racconto di dei e mostri, dame leggiadre e principi coraggiosi pronti a combattere per portarle in salvo. Tanto si ritrovò a sorridere. Era una scena talmente idilliaca. Immaginò Selen seduta in quel modo fra qualche anno con la loro bambina ai piedi, e lui con le gambe sollevate su uno sgabello accanto a un braciere, un fiasco di araque al suo fianco. Riusciva a vedere quella scena così chiaramente che quando passò sotto il lembo della tenda ed entrò nel padiglione gli sembrò di entrare in casa sua. Il rumore che fece entrando fu soffocato dal fruscio di una pagina di pergamena che veniva girata, eppure la schiava voltò la testa all'improvviso. Queste ragazze delle colline, pensò Tanto, divertito: sempre all'erta come i gatti. La ragazzina disse qualcosa che non riuscì a sentire e la testa di Selen si sollevò di scatto. Non indossava la sabatka tradizionale, osservò Tanto con un brivido di eccitazione, ma solo una leggerissima veste di seta e uno scialle intorno alla testa e alle spalle. Gli occhi di Tanto studiarono avidamente il suo viso. Sua moglie, questa era sua moglie. E quanto era fortunato, perché era davvero adorabile, come aveva sempre saputo: la pelle leggermente olivastra, gli occhi neri spaventati, grandi e scuri come
quelli del cerbiatto che aveva abbattuto col suo migliore arco l'anno prima. E la bocca...! Quella bocca che lui aveva imparato a conoscere così bene nei suoi sogni più bollenti non era colorata, ma non per questo era meno attraente. Selen si alzò a fatica, impedita nei movimenti dalla schiava che le si era aggrappata alle gambe. «Uscite» riuscì a dire, la voce bassa per la rabbia, ma Tanto aveva già colmato la distanza tra di loro, gli occhi infuocati di passione. E Alesto percorse i pavimenti di marmo del palazzo estivo ed esortò il suo amore a prendere forma umana in modo che potessero dare libero sfogo al loro reciproco desiderio. «Selen, amore mio. Diamo libero sfogo al nostro reciproco desiderio...» Con un grido di orrore Selen tese un braccio per tenerlo a distanza, ma Tanto vide soltanto la sua pelle chiara che usciva da sotto lo scialle dorato, la perfezione del suo braccio che lasciava presagire l'adorabile morbidezza del corpo liscio. Dai pilastri di fuoco ella arrivò con il gatto, Bast, al suo fianco, ma la Dea congedò Bast, dicendo che non aveva bisogno di protezione ora che il suo amore era venuto. E poi lo prese per mano... Tanto fece un passo avanti. «Manda via la ragazza, Selen. Ora sono qui, non ti serve nessun altro.» Tese la mano e le tolse lo scialle. L'indumento scivolò giù lungo la veste di seta per cadere tra i cuscini sul pavimento. La schiavetta lo fissò, poi alzò gli occhi verso le spalle nude della sua padrona, la bocca spalancata per l'orrore. Per un uomo vedere una donna così era un sacrilegio, un peccato agli occhi della Dea, e lei, Belina, di certo sarebbe stata punita per questo. E non dalla Dea; no, era molto più preoccupata del padre della signora e della sua propensione a usare la frusta. Avrebbe dovuto urlare, chiedere l'aiuto di Sharo e Valer nella camera accanto o correre per andare a cercare Tarn... Cominciò a formare la parola 'aiuto', ma dalla sua bocca non uscì che un minuscolo gemito. L'uomo distolse lo sguardo dalle braccia nude della sua padrona e fissò gli occhi su di lei. Belina riusciva a sentire il peso del suo sguardo persino attraverso il velo. È così bello, pensò in maniera sconclusionata. Lui le sorrise e lei si ritrovò a fare altrettanto. Come poteva qualcuno così bello fare del male... Tanto fissò sorpreso la mano che stringeva il pugnale. La bella lama del Nord scintillò, l'argento macchiato di rosso. Non aveva avuto intenzione di
colpire la ragazza, ma improvvisamente lei era lì, accasciata tra i cuscini colorati sul pavimento, il suo sangue che colava sullo scialle dorato in un rivolo scuro. Selen Issian cominciò a tremare. Fissò il corpo della sua schiava personale con espressione incredula. Poi si voltò verso Tanto Vingo. «No» disse, la voce a malapena udibile. E poi «No!» Ormai era impossibile tornare indietro. Tanto allontanò il corpo della ragazza con un paio di calci, poi lasciò cadere il pugnale e spinse Selen con forza sul letto, cercando allo stesso tempo di strapparle la veste. Ci fu un rumore di stoffa lacerata e l'indumento si aprì all'altezza del collo giù fino alla vita seguendo la trama della seta. Tanto fissò sbalordito il seno di Selen. I capezzoli, scuri e rotondi, lo fissarono a loro volta in modo accusatorio. Improvvisamente Tanto scoprì che due mani non gli bastavano. Il primo pensiero fu di stringere entrambi i seni nei suoi palmi, ma gli serviva una mano per impedirle di gridare e un'altra per liberarsi il pene. L'istinto animale prese il sopravvento. Tanto si gettò su di lei, la bocca avida, ma la sua lingua insinuante incontrò una barriera di denti serrati. Con una mano finì di strapparle via la veste, mentre con l'altra tirò fuori il suo membro dalla costrizione della calzamaglia e degli indumenti intimi. Un paio di spinte cieche, disperate, e fu dentro, grugnendo come un maiale. Una tempesta di agonia e di oltraggio, furiosa e ululante, sgorgò da Selen Issian. La giovane allontanò la testa da lui con disgusto. «Dea, aiutami!» gridò. Poi cominciò a colpire il suo invasore, ma Tanto, gli occhi vitrei, continuò a spingere, incurante della tempesta di pugni sulla schiena, l'orgasmo che si avvicinava. Alla fine una mano si staccò da lui per cercare a tentoni sul pavimento. La pelle calda di Selen si imbatté in qualcosa di freddo. Le sue dita si chiusero su di esso. L'elsa del pugnale nella sua mano fu come una preghiera esaudita. Erno aveva insistito, in un attacco di cavalleria, o perché si sentiva in colpa, per portare il suo fagotto oltre alla propria borsa. «Non ho molto che posso dire mio» aveva detto con un sorriso mesto quando Katla aveva osservato scettica la sacca di pelle quasi vuota con cui era uscito dalla tenda di famiglia. Mentre aveva pronunciato quelle parole Katla si era resa conto che lo sguardo di Erno si era inavvertitamente posato sullo scialle dai bellissimi colori che lei indossava come copricapo. La giovane era arrossita. Chiara-
mente la maggior parte di quello che Erno aveva posseduto l'aveva speso per comprarglielo. «Ecco» si era affrettata a dire, cominciando a levarsi il copricapo, ma «No» aveva insistito lui. «L'ho comprato pensando a te. Non ho nessun altro nella mia vita a cui poterlo dare e dubito che a me starebbe altrettanto bene.» Perciò Katla lo indossava ancora, anche se contrastava con il farsetto di pelle consumata che si era infilata sulla tunica di lino. Il vestito di broccato rosso l'avevano piegato meglio che avevano potuto e l'avevano infilato nella borsa di Erno. «Potremo venderlo giù lungo la costa» aveva insistito Katla quando Erno aveva suggerito che sarebbe stato più decoroso lasciarlo nella tenda per Finn Larson in segno di scusa, e come testimonianza del rifiuto della sua offerta. «Inoltre se troveranno il vestito saranno certi che sono fuggita» aveva obiettato «e dove si dirigerebbe un buon Eyrano se non verso il mare? Almeno continueranno a cercare una ragazza con un lungo abito rosso, non una fuggitiva. Potrebbe rallentarli giusto il tempo che ci occorre per doppiare il primo promontorio.» Ora stavano correndo veloci e silenziosi attraverso il quartiere eyrano, diretti a est verso il settore istriano e la spiaggia su cui erano state tirate in secca le barche. Sembrava non esserci nessuno in giro, come se ogni altro essere umano della fiera fosse stipato nel grande padiglione. Persino nel quartiere della gente del Sud, di solito molto popoloso, non si imbatterono in anima viva. Superarono un gruppo di tende di stile meridionale raggruppate ai piedi del Castello di Sur e lì Katla si fermò. Inclinò la testa di lato, fissando la grande massa scura stagliata contro il cielo stellato. Poi si bagnò le labbra. «Se ne avessimo il tempo, scalerei di nuovo la Rupe, ora» disse con un ampio sorriso. Erno le lanciò uno sguardo curioso. «Allora sei stata tu?» Katla rise. «Naturalmente.» «Quando ti ha tagliato i capelli ho pensato che tuo padre fosse ingiusto e crudele.» Katla si strinse nelle spalle. «Quando ha preso il denaro di Halli e Fent e l'ha dato a Finn Larson ho pensato la stessa cosa. Vedere svanire tutti i propri sogni, com'è successo ai miei fratelli, è peggio che perdere i capelli.» «Ma lui ti ha venduto al costruttore di navi.» «Sì. Ma non è durata molto, eh?» Katla era raggiante di gioia. Si guardò intorno, poi guardò di nuovo la Rupe. I suoi occhi brillavano alla luce della
luna. Per un attimo Erno pensò che le ricordava un elfo, e prima che lui potesse dire qualcosa, Katla si slacciò la spada e corse verso la rupe, trovò la serie di crepe che aveva usato in precedenza e cominciò la scalata. Stavolta la scarica di bianca energia che le diede la roccia fu più forte. Forse era il pericolo che aumentava la sensazione. Erno gettò giù le borse in un gesto di esasperazione. «Cosa pensi di fare, per i sette inferni? Sei impazzita? Un attimo prima ti preoccupi di guadagnare tempo per la fuga e ora vuoi scalare proprio la rupe che ti ha messo nei guai?» Tacque per un attimo, come aspettandosi una risposta. Quando non ne ottenne nessuna, alzò leggermente la voce. «Se non ti uccideranno gli Istriani, lo farò io!» Dall'alto gli giunse una risatina, e poi: «È una rupe così bella, Erno. Come posso resistere?» Erno non poté fare altro che restare lì, impotente, le mani strette a pugno, gli occhi che saettavano costantemente tra la silenziosa zona della fiera dietro di loro e l'agile figura che scalava il Castello. La guardò muoversi con sicurezza, sistemare, i piedi con estrema precisione prima di poggiarci sopra il peso, saggiare la roccia sopra la sua testa con la mano prima di tirarsi su. Nel punto in cui la fessura si restringeva e poi si protendeva verso l'esterno vicino alla cima Erno la guardò col cuore in gola penzolare per un secondo o due prima di fare la mossa che la portò a superare l'ostacolo. I minuti passarono lenti, tanto da sembrare ore. Erno sentì un cane ululare, poi il latrato sinistro si disperse nell'aria fredda e silenziosa della sera. Un cavallo nitrì da qualche parte a ovest, poi tornò a tacere. Non arrivò nessuno. Un gabbiano, in contrasto con le abitudini notturne dei suoi simili, apparve all'improvviso sopra la Rupe, cominciò a volteggiare e vedendo Katla lassù si allontanò in tutta fretta. Alla fine Katla raggiunse la cima. Erno la vide correre su e giù sulla superficie pianeggiante della Rupe, agitando le braccia in un parossismo di gioia, e il suo cuore si riempì di un perverso orgoglio. Lo spirito selvaggio era tornato, e più forte di prima, e lui l'amava ancora di più. Poi all'improvviso Katla abbassò le braccia e corse verso il margine occidentale della Rupe. Sbirciò verso il basso dal lato della terraferma, poi sparì alla vista di Erno. Un attimo dopo ricomparve, agitando furiosamente le braccia per attirare la sua attenzione. Il cuore di Erno mancò un battito. Era stata vista? Qualcuno era già sulle loro tracce? Imprecò per i minuti sprecati nella scalata, per la pura stupidità dell'impresa: ora Katla era lì, bloccata sul Castello di Sur, senza un posto dove nascondersi né una via di
scampo. Katla, da parte sua, non sembrava affatto colta dal panico, ma eccitata. La vide cominciare la discesa, mano dopo mano, lungo una specie di scala di corda istallata per i meno agili dall'altro lato della Rupe, e in brevissimo tempo fu di nuovo a terra, correndo verso di lui. «Erno, Erno, svelto!» Katla si chinò e raccolse la spada e il fagotto e cominciò a correre in salita in direzione del lato occidentale del Castello. Erno non ebbe altra scelta che seguirla, anche se ora si stavano dirigendo dalla parte opposta rispetto alle barche e alla via di fuga che avevano progettato. Anche con il fagotto in mano e correndo in salita Katla fu più veloce di lui. Con la testa bassa e ansimando per lo sforzo, Erno non vide ciò che Katla aveva osservato dall'alto della Rupe finché non le furono addosso. Katla si gettò a terra accanto alla figura nuda e inginocchiata, ricoperta di sangue con un pugnale in mano. Lunghe ciocche di capelli neri le coprivano le spalle strette, ma non potevano nascondere la rotondità del suo seno. Una donna... «Stai bene?» chiese Katla in eyrano, e quando non ricevette altra risposta che un'occhiata perplessa, ripeté la domanda nell'Antica Lingua. La donna annuì lentamente. Rivoli di lacrime avevano scavato pallidi canali nello sporco sul suo viso. Singhiozzando, la giovane tentò di coprirsi con le mani senza riuscirci. Katla guardò Erno. «Smettila di fissarla a bocca aperta e dammi il vestito!» Quando lui esitò, troppo sbalordito per capire, Katla gli strappò la borsa di mano e tirò fuori l'abito di broccato. Poi prese il pugnale dalle mani della ragazza e lo gettò a terra. Con una manica dell'abito le ripulì il viso e le mani dalla maggior parte del sangue. «Sapevo che sarebbe tornato utile» disse sorridendo alla donna. «Rosso su rosso, non si vedrà neppure.» Mise una mano sotto il gomito della donna e la tirò in piedi. C'erano macchie di sangue sulle gambe e sul pelo pubico. Erno distolse lo sguardo, tremendamente imbarazzato, ma Katla cercò di scuoterlo dal suo torpore. «Per l'amor di Sur, Erno, aiutami. Non dirmi che non hai mai visto una donna nuda prima.» Non l'aveva mai vista, in effetti. Ma non aveva intenzione di dirlo a Katla. Rimproverandosi perché vedeva la giovane come una donna invece che come una persona bisognosa del suo aiuto, prese un lembo del vestito, lo sollevò dall'orlo alla vita e aiutò Katla a infilarlo sulla testa della donna. Insieme poi sistemarono la scollatura e chiusero i lacci sulla schiena. Mentre la vestivano Erno non poté fare a meno di notare che quella ragazza
aveva un corpo molto diverso da quello di Katla. Non aveva muscoli, anche se la pelle era liscia e gli arti ben formati, ed era più stretta di Katla in vita e nelle spalle, ma più larga sui fianchi, cosicché l'abito le stava largo nella parte superiore del corpo anche con i lacci ben tirati. «Grazie» disse la donna nell'Antica Lingua. «Per Falla, vi ringrazio.» Katla ed Erno si scambiarono uno sguardo. Una donna istriana allora, come avrebbero dovuto capire dal colorito, se non altro: perché chi aveva mai visto una donna del Sud correre nuda e insanguinata per la pianura della Luna Caduta? «Cosa vi è successo?» chiese Erno lentamente nell'Antica Lingua. La donna sembrò turbata. Cominciò a piangere. Erno si sentì più inutile di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Tese una mano per toccarla, ma lei si ritrasse di scatto. Per nascondere la sua confusione Erno si chinò per raccogliere il pugnale da terra. Anche se era imbrattato di sangue, aveva qualcosa di familiare... «Questo non è uno dei tuoi?» chiese a Katla a bassa voce in eyrano. Lei lo fissò perplessa, poi guardò l'arma. Un attimo dopo gliela prese di mano, la soppesò e poi, incurante dello sporco, la ripulì sulla coscia dei pantaloni. La sollevò alla luce della luna e rimase senza fiato. Era davvero una delle sue. E non solo, era il pugnale che aveva regalato al giovane Istriano solo due giorni prima al suo banchetto. Guardò di nuovo la donna, riflettendo. Di certo il gentile Saro non poteva aver niente a che fare con questo... Sentì un brivido percorrerla. «Chi sei?» chiese in tono incalzante, ritornando all'Antica Lingua. «Dimmi cosa ti è successo.» La donna si strofinò gli occhi per asciugare le lacrime, poi si allontanò i capelli dal viso. Sollevò il mento. Dev'essere difficile per lei, pensò Katla, riconoscendo lo scatto d'orgoglio. Si infilò il pugnale nella cintura e prese la mano della donna in segno di incoraggiamento. «Mi chiamo Selen Issian» disse la giovane. «Un uomo ha assassinato la mia schiava, poi mi ha preso con la forza. Credo...» Tentò di reprimere un altro singhiozzo, poi riacquistò il controllo. «Credo di averlo ucciso.» Spinta da un indefinibile terrore, Katla rafforzò la stretta sulla sua mano. «Dimmi chi era...» Selen Issian la guardò perplessa. «Il figlio dei Vingo» rispose. «Dovevamo fidanzarci questa sera, anche se io ero contraria. Lui non voleva aspettare.» Katla sentì il mondo che le cadeva addosso. Saro Vingo un violentatore, e morto? Un'ondata di nausea la avvolse, seguita da un'ondata di pietà, non
sapeva se per la donna che quella sera doveva essere promessa, come lei, a un uomo che non amava, o per se stessa. «Devo fuggire» continuò Selen Issian. «Mio padre...» Si voltò verso Katla, gli occhi neri spalancati. «Aiutami. Se mi troveranno di certo mi bruceranno per la sua morte.» Un'altra donna che fuggiva dalla sua famiglia e dal rogo. Tutto questo era davvero strano. Katla fece un profondo respiro, poi guardò Erno. Lui annuì: come potevano negarle il loro aiuto? «Be', almeno in questo sei fortunata, perché anche noi stiamo scappando: sei la benvenuta se vuoi venire con noi.» Selen Issian fece un debole sorriso. «Non ho niente da offrirvi se non i miei ringraziamenti.» «Non c'è tempo neppure per quelli» replicò Katla sorridendo. «Vieni.» Si stavano avvicinando al lato occidentale del Castello di Sur e avevano appena cominciato la loro discesa verso il mare argenteo quando ci fu un grido. Katla si guardò intorno, gli occhi spalancati. Dietro di loro nel quartiere istriano un gruppo di torce danzava nell'oscurità. Le grida si fecero più forti. «Corriamo!» gridò Erno. Afferrò Selen Issian per un braccio e la trascinò con sé. Katla si mise il fagotto sulla schiena e corse dietro di loro, girandosi ogni tre passi per valutare la distanza degli inseguitori. Zigzagarono tra un gruppo di tende, corsero attraverso una sorta di recinto pieno di ciottoli cosparso di fiori e che puzzava di morte. Altre tende, un piccolo gruppo di persone ubriache che tornavano barcollando dal quartiere nomade, che li fissarono come fossero una sorta di estemporaneo diversivo, e infine si ritrovarono al limite della spiaggia. Il terreno era ruvido e tagliente e ferì i piedi nudi di Selen, tanto che di lì a poco c'era di nuovo del sangue sulle sue gambe. La giovane tentò di reprimere i gemiti di dolore, ma era impossibile tenere il passo con l'uomo del Nord dalle lunghe gambe; inciampò sull'orlo del vestito e cadde in avanti sul terreno. Erno corse da lei, vide i suoi piedi rovinati e si bloccò, sconvolto. Katla si voltò verso gli inseguitori. Una linea di fiaccole segnava la loro posizione. Avevano aggirato i padiglioni istriani invece di passarci in mezzo, ma ora si stavano avvicinando, e in fretta. Katla tornò a voltarsi verso Erno. «Prendila in braccio e corri giù oltre il crinale verso il mare» disse. «Vai verso le faering. Io li attirerò dall'altra parte.» «Perché dovrebbero seguire te? Se stanno cercando Selen, di certo non perderanno tempo dietro a qualcuno con abiti eyrani...»
Katla perse la pazienza. «Senti, prendila in braccio e corri: è la sua unica possibilità. Io non posso portarla in fretta quanto te, e se ci dividiamo almeno li confonderemo. Ci vedremo alle barche. Mettine una in acqua e allontanatevi: io posso sempre seguirvi a nuoto.» Erno la fissò, senza parole, ma non c'era tempo per ulteriori discussioni: le prime torce stavano già sbucando fuori dal gruppo di tende. Il giovane afferrò allora il mento di Katla e la baciò con forza sulla bocca. Poi issò Selen Issian sulle spalle e si calò oltre il crinale per scomparire ben presto alla vista. Katla aspettò fino a quando il gruppo degli inseguitori non la vide, poi ricominciò a correre, ma dall'altra parte, lontano dal mare. Sentì le grida dietro di lei, acute ed eccitate come quelle di cacciatori che avvistano la preda: il suo stratagemma aveva funzionato. Si infilò di nuovo tra le tende istriane, a testa bassa. Il fagotto divenne un peso ora che correva a tutta velocità. Rifletté per un momento e lo nascose dietro un tendone con una lunga fila di bandiere legate a un palo in modo da poterlo ritrovare facilmente, e continuò a correre. Le grida si avvicinarono tanto che Katla riuscì a distinguere le singole voci, anche se non capiva le parole. Le ci volle un momento o due per rendersi conto che il motivo era che gli uomini parlavano in istriano. Perfetto. Anche se l'avessero presa, avrebbero dovuto lasciarla andare. Pochi minuti dopo era riuscita a seminarli tra il caos di tende e padiglioni, e si ritrovò di nuovo nel recinto cosparso di ciottoli. Lì si fermò, l'aria che le bruciava nei polmoni. Non sono poi così in forma, dopo tutto, si rimproverò tristemente. Malgrado ciò era sicura di aver dato a Erno il tempo necessario a raggiungere le barche. Si piegò in avanti, sentendo il sangue scorrerle nella testa avvolta dal turbante, e tentò di riprendere fiato. Un forte odore di incenso le invase le narici: proveniva da una ghirlanda di fiori arancioni sparsi a terra sotto i suoi piedi. Curiosa nonostante tutto, Katla ne raccolse uno e lo esaminò. Granelli del suo polline scuro le scivolarono tra le mani. Era diverso da qualsiasi fiore avesse mai visto: un'esotica specie del Sud che non sarebbe mai sopravvissuta nel ventoso Nord. Lo buttò via con un certo disgusto, poi si ripulì le mani sulla tunica. Guardò in alto verso il Castello di Sur che si stagliava di fronte a lei. Se l'avesse scalato di nuovo per scendere dalla parte del mare avrebbe potuto far perdere le sue tracce. Ma poi ricordò il fagotto con le sue cose. Maledizione. Ripensò a quello che conteneva e si rese conto con un certo sconforto che non poteva permettersi di abbandonarlo. Scivolando silenziosamente fuori
dal giardino dalla stessa parte da cui era arrivata, si infilò tra i padiglioni e si guardò intorno. Niente altro che oscurità. Nessun segno degli inseguitori, né delle bandiere. Corse di nuovo giù per la collina, zigzagando tra le tende. Quando arrivò all'ultimo dei padiglioni si fermò e guardò verso il mare. Niente, a parte la spiaggia vulcanica e l'acqua illuminata dalla luna che bagnava la sabbia con le sue onde argentee. Lentamente riprese fiato. Guardando di nuovo verso occidente, individuò il più alto dei vessilli a una trentina di lunghezze alla sua sinistra sulla salita. Eccellente. Uscì nello spazio aperto tra due padiglioni senza pensarci un attimo. Una voce tremendamente vicina dietro di lei gridò nell'Antica Lingua: «Fermo!» Un'altra dichiarò: «Muoviti e ti uccideremo sul posto, feccia eyrana.» Le ci volle un po' per rendersi conto del significato di quell'ultima frase. Si voltò di scatto. Tre guardie della Grande Fiera erano in piedi dietro di lei, e due le puntavano contro dei grossi archi. Katla riconobbe uno degli uomini. Il suo cuore cominciò a battere molto in fretta. Si preparò all'azione: se si fosse gettata a terra rotolando fino a infilarsi tra le tende, avrebbe potuto seminarli di nuovo. Se fosse riuscita ad arrivare alla Rupe, avrebbe potuto risalire lungo la crepa prima che la raggiungessero. Era l'ultimo posto dove avrebbero guardato, e a quel punto quella via la conosceva a memoria: avrebbe potuto scalarla a occhi chiusi... Si gettò a terra e sentì la prima freccia sibilare sopra la schiena. Rotolò su se stessa e rimettendosi in piedi ricominciò a correre. A testa bassa scartò verso le tende sul lato occidentale e urtò qualcosa. Lo colpì così forte che cadde, senza fiato. Quando alzò lo sguardo scoprì che era finita contro un'altra guardia, che ora le puntava la spada alla gola. «Riesci a vederla?» Virelai, più alto di una testa della maggior parte dei presenti, si guardò intorno tra la folla. Ora sapeva cosa cercare: quel maledetto scialle verde. Sprazzi di verde continuavano ad attirare il suo sguardo: un copricapo, una tunica, un abito verde foresta, una donna massiccia con un vestito color smeraldo, il mantello color muschio di un uomo, una giovane donna pallida con un abito verde acido e oro. I suoi occhi si posarono poi su un uomo dai capelli scuri sopra un palco, circondato da una gran confusione di tappeti e vasi colorati, ninnoli e fiaschi. Uno scrivano era seduto accanto a lui, la penna posata sopra un foglio di pergamena e gli occhi spalancati, che pareva volessero uscirgli dalle
orbite. Virelai sapeva bene cosa significava quello sguardo: per questo aveva imparato a tenere la Rosa Eldi ben nascosta alla vista altrui. Si scostò di lato per guardare oltre un gruppo che gli stava bloccando la vista e lei era lì, apparentemente assorta in una conversazione con l'uomo dai capelli neri. «Ah, e quali sarebbero le tue intenzioni ora?» mormorò Virelai osservando la scena con curiosità. «Cosa? Cosa hai detto?» Il nobile Tycho Issian strinse la spalla del venditore di mappe in una morsa d'acciaio. «Hai detto qualcosa?» Virelai girò la testa. Guardò la mano sulla sua spalla, poi posò lo sguardo pallido e imperturbabile sul viso disperato del nobile del Sud. Mentre gli occhi di Tycho si stringevano in un preludio di rabbia, il venditore di mappe tornò a guardare la Rosa Eldi, e cominciò a farsi strada tra la gente verso di lei. Vicino alla pedana la folla era più fitta. Uomini ben rasati dalla pelle olivastra in abiti sontuosi, assistiti dal loro seguito, si erano riuniti da un lato dell'uomo sul palco, mentre uomini con la barba insieme alle loro donne affollavano l'altro lato. Virelai li guardò con curiosità. Sembravano starnazzare tutti come oche, ma nessuno sembrava in grado di staccare gli occhi da quanto stava accadendo di fronte a loro. Dietro di lui qualcuno emise un gemito soffocato. Le labbra di Virelai si piegarono in un leggero sorriso. Quindi anche il nobile del Sud l'aveva vista, alla fine. La faccenda si faceva interessante. Tycho Issian spinse di lato il venditore di mappe con una spallata, imprecando. Poi caricò un gruppo di Eyrani, che si voltarono a guardarlo con aperta ostilità. Uno di loro, giovane e con i capelli rossi, gridò qualcosa e tentò di metterglisi davanti, ma niente poteva fermare Tycho. Si fece strada con sgarbata violenza spingendo da parte il nobile Prionan, mandando all'aria due anni di delicate manovre politiche per avvicinarsi a quell'uomo; poi incuneò una spalla tra i vecchi Greving e Hesto Dystra. Del Cigno di Jetra, che si diceva fosse la donna più bella che Falla avesse mai creato, non si sarebbe nemmeno accorto se non fosse stato per la momentanea irritazione di ritrovarsi il piede della donna sotto il suo. Continuò ad avanzare senza una parola di scuse, finché non rimase nessuno tra lui e la sua meta, a parte una donna con un abito verde. L'uomo dai capelli scuri si era alzato, e stringendo le mani della Rosa Eldi la stava sollevando sul palco accanto a lui. I suoi occhi non lasciarono il viso della donna neppure per un istante. Tycho sentì il sangue ribollirgli nel corpo come un fiotto di lava incan-
descente. Il suo calore gli invase gli arti, il petto, il viso, i lombi. Lei era lì, il suo gioiello, a solo un metro di distanza, la Rosa del Mondo, il cuore della sua vita, la donna che avrebbe sposato quella notte stessa... I rumori sembrarono attutirsi tutto intorno a lui come se fosse finito in una bolla d'aria. E poi: «Sposarla? Mio signore, non potete!» La voce era scandalizzata, stridula per la costernazione. Tycho si voltò di scatto per rispondere con il suo pugno a chi aveva parlato, ma si rese conto con crescente orrore che quelle parole non erano rivolte a lui. Una nuvola di confusione lo avvolse, seguita dalla consapevolezza che si era appena perso qualcosa di cruciale nella conversazione tra la Rosa Eldi e l'uomo dai capelli scuri. Un uomo alto con la barba passò tra la folla e si avvicinò a grandi passi al palco. «Sire, ve lo ripeto: non potete prendere questa donna in moglie.» Lo seguì un secondo uomo del Nord, brizzolato come un vecchio orso, la barba un cespuglio grigio. «Ravn, ma cosa vi viene in mente? Questa è pazzia.» Ravn. Re Ravn Asharson. Lo Stallone del Nord. Il barbaro signore delle isole eyrane, venuto qui per scegliere la sua sposa. Tycho era sicuro di impazzire. Da parte sua, la Rosa Eldi lasciò cadere lo scialle per mostrare i suoi capelli biondo argento, lisci e morbidi come una cascata d'acqua, la pelle di un bianco perfetto e gli occhi verde mare. Uno strano silenzio calò sulla sala, diffondendosi tra la folla come le increspature prodotte da un sasso gettato nell'acqua, o la devastante spirale di una tromba d'aria. Nel silenzioso occhio del ciclone la Rosa Eldi prese la mano del re del Nord. Gli separò delicatamente le dita, infilò l'indice della mano destra di Ravn nella sua bocca rosata, poi lo tirò fuori e soffiò dolcemente su di esso. Alla fine si chinò verso di lui. «Dillo di nuovo» lo incalzò con quella sua voce bassa, priva di inflessioni. «Per loro.» Ravn Asharson si erse in tutta la sua statura. Ruggì qualcosa nel gutturale linguaggio dell'Eyra. Poi: «Ho scelto la mia regina!» gridò nell'Antica Lingua. E la Rosa Eldi sorrise. Virelai la fissò, sbalordito. Non l'aveva mai vista cambiare espressione prima d'allora. Non aveva creduto che fosse capace di farlo. Aran Aranson aveva guardato la scena con una certa meraviglia, ma la
sua mente non era del tutto concentrata sulla scelta del re. Aveva perduto sua figlia. Anche Erno Hamson non si trovava da nessuna parte, e i due fatti messi insieme gli causavano genuina preoccupazione. Sapeva che il giovane Erno aveva 'un debole' per Katla, come avrebbe detto nonna Rolfsen, almeno da un paio d'anni, ma non aveva mai dato molta importanza alla cosa: Katla non avrebbe mai scelto per sé un uomo così buono e taciturno come il povero, timido Erno. Aran conosceva la sua chiassosa e ribelle figliola sin troppo bene. O pensava di conoscerla. Molto probabilmente Erno stava facendo la parte della zia nubile, disse a se stesso, portandola a fare una passeggiata per calmarle i nervi. Erano ormai venti minuti o più che tentava di mascherare l'ansia crescente dietro una facciata di cortesia, soprattutto davanti a Finn Larson. Il costruttore di navi era preso dal sicuro trionfo di Jenna con il re e aveva continuato a tirarlo per un braccio: Aran non era riuscito a svignarsela. «Guarda in quale nobile famiglia tua figlia entrerà a far parte» aveva continuato a dire Finn. «E presto avremo anche una parentela regale.» Poi gli aveva fatto l'occhiolino. «Chi altri potrebbe scegliere Ravn se non la mia bellissima figliola? Gli Istriani potranno anche offrirgli appariscenti tentazioni per indorare le loro offerte, ma Ravn è un uomo perbene: sceglierà una ragazza del Nord. Ti sono eternamente grato, Aran, amico mio, per aver messo da parte il tuo buon figliolo rendendo possibile questa unione.» E ora erano tutti lì, con Jenna che piangeva per l'imbarazzo e per il fatto che il re stava scegliendo una qualche sconosciuta mendicante in moglie, da sciocco qual era; e Katla, sulla quale era fondato il suo accordo con Finn, e quindi tutti i suoi sogni, era svanita con Erno Hamson. Aran Aranson non era un tipo ansioso di natura, ma stava cominciando a sentire uno strano brivido lungo la schiena. C'era qualcosa di sbagliato in questa faccenda, qualcosa di tremendamente sbagliato. Sua madre, una donna superstiziosa che affermava di essere in grado di prevedere il futuro e che in parecchie occasioni era stata fin troppo chiaroveggente per la sua pace mentale, avrebbe detto che sentiva i fili delle antiche Tessitrici che gli sfioravamo la pelle mentre tessevano il suo fato. Le dita di Aran trovarono la pepita d'oro che aveva in tasca, e la accarezzarono con amore. Il fremito che l'oggetto gli trasmise percorse il suo braccio fino al petto, dove si soffuse in un'ondata di conforto. Quello era il suo portafortuna... di certo tutto sarebbe andato bene. Più rilassato e decisamente più sollevato, Aran si guardò intorno; i suoi occhi alla fine si posarono su un uomo alto e pallido che torreggiava tra la
folla come un giglio in un prato. Era il venditore di mappe, notò con una certa sorpresa, l'uomo che gli aveva affidato il segreto della ricerca di cui aveva fatto la sua ragione di vita e la pepita che aveva in tasca. Come se riconoscesse il suo precedente padrone il pezzo di roccia tremò nella sua mano, un movimento così inaspettato che le dita di Aran lo lasciarono andare come se scottasse. Mentre si staccava dal suo talismano, nella sua mente si fece strada un pensiero strano, un collegamento. Guardò per la prima volta con attenzione la donna con il re. C'era qualcosa in lei... qualcosa di... magnetico... Guardò la sua mano pallida muoversi ritmicamente sul braccio del re e ricordò quella stessa mano, quello stesso gesto, sul gatto nero sui gradini del carro del venditore di mappe. Perplesso, Aran fissò prima la donna, poi l'uomo. Che fosse qualche tipo di trucco, una qualche commedia? Si guardò attorno con più attenzione: vide una donna robusta con un tremendo vestito verde muoversi verso il palco a grandi passi, sollevando il davanti dell'abito come una donna abituata a indossare tali indumenti non avrebbe mai fatto; un uomo piccolo che la seguiva; e, cosa ancora più strana, un gruppetto di matrone istriane nelle loro voluminose sabatka si staccò dalle altre donne velate accanto al palco dei musicisti e cominciare a spingersi tra la folla in maniera molto poco femminile. I peli sulla sua nuca cominciarono a rizzarsi. Stava ancora guardando questa strana convergenza di persone quando ci fu un certo trambusto all'entrata del padiglione, e una squadra di uomini in uniforme entrò di gran carriera, gridando qualcosa su un assassinio e un rapimento. In mezzo a loro c'era sua figlia, Katla, legata e sporca di sangue. 15 Prigioniera «Katla!» Aran sentì quel grido emergere come un acuto e tormentato ululato dalla propria bocca, un suono strano e innaturale per lui. E poi si ritrovò a farsi strada tra la folla, incurante della gente che si frapponeva tra lui e sua figlia. Dietro di sé, sentiva Fent gridare improperi contro le guardie, mentre Halli, come sempre più misurato, si scusava con le famiglie che i tre uomini spingevano da parte per passare, ma la loro voce sembrava provenire da molto lontano.
Un clamore si levò dalle famiglie eyrane abbastanza vicine da vedere le guardie e la figura che trascinavano con loro. «Chi hai detto che è?» «Katla Aransen.» «La bella figlia di Aran Aranson? Ma è impossibile... di certo è un ragazzo.» «Non può essere Fent Aranson?» «No, stupido, guarda, è lì proprio dietro suo padre, che minaccia una strage.» Una risata. «Allora quello è davvero il giovane Fent: è sempre stato un esagitato.» «È Katla Aransen, te lo dico io: ho sentito suo padre gridare il suo nome.» «Ma l'ho vista prima: indossava un abito rosso, molto elegante.» «Quella è Katla Aransen, te lo giuro.» «Per Sur, è vero. Ma perché?» «Hanno preso una delle nostre ragazze...» «Toglietele le mani di dosso, bastardi istriani!» Le ultime parole si propagarono come un incendio tra i clan eyrani. Tutti cominciarono a spingere verso la parte anteriore del Raduno, dove gli uomini armati stavano conducendo la prigioniera. Facilmente riconoscibili dagli elmi crestati e dai mantelli blu, le guardie della Grande Fiera avevano sguainato le spade e sembravano pronte a usarle. Ravn staccò a fatica lo sguardo dalla sua futura sposa, distratto dal rumore. Liberato da quei penetranti occhi verdi gli sembrò di vedere e sentire tutto più chiaramente, come se fosse appena risalito in superficie dopo un'immersione. Sotto il palco vide tutta una serie di movimenti caotici: un gruppo di guardie della Grande Fiera spingeva avanti un prigioniero, mentre la folla dietro di loro veniva nuovamente separata da un gruppo di Eyrani furiosi che urlavano e agitavano i pugni in aria. All'improvviso l'umore generale era pericolosamente cambiato in peggio e lui non si era accorto di niente. Si sentì raggelare. Lui era il re e questo era il suo Raduno, questa gente erano i suoi sudditi, eppure stranamente non si era reso conto di cosa stava accadendo. Si sentì confuso, disorientato. Aveva bevuto parecchio vino... ma la sensazione di distacco, di indifferenza non era il familiare stordimento dovuto all'ubriachezza. Era più come emergere da un sogno, un sogno che non era del tutto suo. Scosse la testa e guardò verso la folla. L'argento delle spade delle guardie luccicava alla luce delle candele.
Spade: finalmente qualcosa che riusciva a capire. «Fermi tutti!» gridò per farsi udire sopra il frastuono. «Mettete via quelle spade: questo è un pacifico Raduno, non tollererò armi qui dentro.» Il capitano delle guardie lo fissò, senza capire. Ravn lo fissò a sua volta, infuriato dall'insolenza dell'uomo; poi si rese conto che aveva parlato in eyrano. Ripeté quanto aveva detto nell'Antica Lingua. Il capitano delle guardie si erse in tutta la sua statura, offeso. Non diede ordine ai suoi uomini di deporre le armi, e invece di presentarsi a Ravn Asharson, passò davanti al re del Nord e avanzò verso il gruppo di nobili istriani. In fondo erano loro che pagavano la sua retribuzione annuale, ragionò l'uomo, ora che Rui Finco, Signore di Forent, guidava il comitato per la Grande Fiera, che decideva in merito a tali faccende. «I saluti di Falla ai miei nobili signori questa sera» disse in tono solenne in istriano. «Porto dinanzi a voi un prigioniero che abbiamo catturato con la forza mentre fuggiva dalla scena di un crimine.» Il Signore di Forent, un uomo snello e attraente con un semplice cerchietto d'argento appoggiato alle tempie brunite e un naso da predatore, in un primo tempo era sembrato turbato dagli eventi, ma poi si dimostrò all'altezza della situazione. Sollevando un elegante sopracciglio, studiò il capitano delle guardie con interesse. Poi si voltò verso il nobile Prionan accanto a lui. «Una rappresentazione teatrale per ravvivare la serata, mio signore?» chiese con affabilità. Prionan si strinse nelle spalle. «Non ne so niente, se anche fosse.» Rui Finco si rivolse allora al capitano delle guardie in istriano. «Temo che non ci abbiano insegnato le nostre battute, signore.» Sorrise. «Ma andate avanti, sono sicuro che riusciremo a improvvisare.» Il capitano delle guardie sembrò a disagio. «Non è una pantomima, mio signore» rispose. «È una faccenda mortalmente seria. C'è stato un morto...» Tutti i presenti che capivano la sibilante lingua del Sud ammutolirono. «Mortalmente e morto: un divertente gioco di parole. Bravo!» Hesto Dystra batté le mani. Piuttosto vicino ai settanta, le sue facoltà mentali non erano più quelle di una volta. «Questa non è una commedia!» gridò alla fine il capitano delle guardie, talmente irritato da dimenticare le buone maniere. Il Signore di Forent spostò allora lo sguardo sul prigioniero, e vide un giovane all'apparenza pelle e ossa con un occhio nero, con indosso una
tunica macchiata e sporca di sangue e un copricapo tremendamente sgargiante. Come se fosse consapevole del suo sguardo, la testa del ragazzo si sollevò di scatto e il prigioniero cominciò a urlargli qualcosa nella gutturale lingua del Nord. Il signore di Forent lo guardò con maggiore interesse. La sua conoscenza dell'eyrano era rudimentale, ma utile allo scopo. «Eccellente» dichiarò in istriano. «Avremo il nostro intrattenimento, dopo tutto, perché il prigioniero si dichiara innocente di tutte le accuse!» Il suo sguardo spaziò sulla folla inferocita. Passò all'Antica Lingua. «Avremo un processo!» gridò. «Ci serve silenzio per sentire sia le accuse che la risposta del prigioniero.» A quel punto tre uomini eyrani fecero irruzione tra la gente assiepata intorno al gruppo con la rabbia negli occhi. «Cos'è questa assurdità, nel nome di Sur?» ruggì Aran Aranson. Il nobile istriano lo studiò con sospetto. «Il prigioniero è trattenuto in quanto presunto esecutore di un crimine» disse in un corretto eyrano dal pesante accento. «Quale crimine?» chiese Fent da dietro le spalle di suo padre. Il Signore di Forent si consultò brevemente con il capitano delle guardie. «L'uomo arrestato è sospettato di rapimento, sacrilegio e...» fece una pausa per vedere la reazione del prigioniero «omicidio...» «Omicidio?» gridò Aran, sbalordito. «Katla?» Halli sembrava frastornato. «Uomo?» gemette Katla. Poi scoppiò a ridere. In un'Antica Lingua dall'inflessione perfetta disse: «Credo che abbiate preso la ragazza sbagliata.» Con un inchino impacciato visto le corde che le serravano i polsi, si tolse la fascia multicolore che le nascondeva i capelli. O almeno quello che ne era rimasto... Maledizione: aveva dimenticato quel piccolo particolare. Tosati, colorati in modo poco uniforme e bagnati di sudore, i capelli si ergevano in diseguali spuntoni sulla sua testa, accentuando le fattezze spigolose del viso e l'innaturale lucentezza dell'occhio gonfio. Vista così sembrava ancora di più il malvivente pronto a tutto che l'accusavano di essere. Ci fu un silenzio perplesso mentre coloro che erano più vicini a Katla cercavano di dare un senso allo strano gesto del prigioniero, mentre altri allungavano il collo per cercare di vedere meglio. Gli anziani fratelli Dystra fecero capannello e cominciarono a mormorare furiosamente tra di loro. Una delle guardie inclinò la testa e studiò Katla con curiosità. Il capitano della guardia fissò il prigioniero come per prendere mental-
mente nota di qualcosa. Il grosso Eyrano dai capelli scuri stava di nuovo sbraitando. Qualcosa riguardo a sua figlia... Rui Finco lo guardò con freddezza. «Parla più lentamente, uomo del Nord. Non riesco a seguire le tue farneticazioni.» Gli occhi di Aran Aranson lampeggiarono pericolosamente. «Ho detto: questa è mia figlia, una figlia di Eyra e come tale dovrebbe essere interrogata secondo la legge eyrana, che richiede che il nobile eyrano di più alto rango giudichi il suo caso. Io chiedo che re Ravn Asharson giudichi questa faccenda, perché so che mia figlia Katla dice sempre la verità, e non posso mettere la sua vita in mano ai nemici del mio popolo...» Il nobile Rui Finco sostenne lo sguardo di Aran per diversi istanti, poi si voltò per conferire con i nobili Prionan e Dystra. Hesto Dystra si strinse nelle spalle. «È suo diritto.» Il nobile Prionan acconsentì. «La Grande Fiera è tenuta su territorio neutrale.» Il Signore di Forent annuì. «Come volete.» Girò le spalle ai suoi pari e guardò verso il palco, solo per scoprire che lo sguardo del re era stato ancora una volta attratto dalla donna nomade dalla pelle chiara. Fissò il bel quadretto mentre la sua mente lavorava furiosamente. Le cose non stavano andando secondo i piani. Dando una veloce occhiata alla folla del Raduno, notò le varie posizioni dei mercenari, disseminati in diversi punti del padiglione con i loro bizzarri travestimenti. Incrociò lo sguardo della donna robusta con un vestito verde che non le donava affatto, scosse impercettibilmente la testa nella sua direzione e la guardò tornare a confondersi tra la folla. Saltando sulla pedana con l'agilità di un gatto, Rui Finco puntò verso il re del Nord, che fissava immobile e perplesso la strana creatura che aveva posato la sua mano bianca sul suo braccio. Che cosa bizzarra, pensò, che si dovesse arrivare a questo, in una notte del genere. Mentre si avvicinava vide la testa di Ravn Asharson sollevarsi, ma i suoi occhi erano persi nel vuoto come quelli di un sonnambulo. Forse si sarebbe presentata l'occasione giusta quando questa faccenda fosse stata risolta; e anche la donna poteva essere utile, dato il misterioso effetto che aveva su di lui. «Sire» disse con voce pacata nell'Antica Lingua «abbiamo una situazione qui che richiede la vostra immediata attenzione.» Prese il braccio di Ravn per guidarlo lungo il palco verso le guardie, felice e al tempo stesso disgustato per la facilità con cui il re del Nord si lasciò trascinare. All'improvviso sentì un gelo su un lato del suo volto. Si girò e vide la donna che
lo fissava, gli occhi verdi duri come la malachite. «Non temete, mia signora» si ritrovò a dirle suo malgrado. «Ve lo riporterò molto presto.» «Ne sono certa» disse a bassa voce la Rosa Eldi. «Ne sono certa.» Katla fu sollevata senza tante cerimonie sul palco, dove tentò goffamente di non cadere. Col ginocchio piegato per mantenersi dritta, batté le palpebre sotto lo sguardo indagatore di tante persone. Alla faccia della fuga senza dare nell'occhio, pensò con amarezza: avrebbe dovuto nuotare per diverse miglia per raggiungere Erno se mai fosse scampata a questo pasticcio. Guardò re Ravn Asharson che veniva staccato dalle braccia di una donna alta e pallida e condotto verso di lei da un nobile istriano con un semplice cerchietto d'argento tra i capelli. Quindi il re non ha scelto il Cigno di Jetra, dopo tutto, fu l'irrilevante pensiero che le passò per la testa. Almeno sarà di consolazione per la povera Jenna. Ora che erano l'uno accanto all'altro, i due uomini apparivano stranamente simili: entrambi alti, scuri e ben fatti, anche se uno aveva la barba e l'altro, come dettava la moda del Sud, era perfettamente rasato. La luce tremula delle candele giocava su zigomi alti di analoga eleganza, si rifletteva in due paia di occhi scuri. Ma quando si avvicinarono, Katla notò che la loro somiglianza finiva lì, perché il nobile istriano era più vecchio del re, e il suo volto più duro. Un attimo dopo il suo cuore prese a battere all'impazzata quando si rese conto che quest'uomo a cui gli altri mostravano deferenza e che aveva quello strano nome straniero era la stessa persona che era venuta al loro banchetto il primo giorno della fiera. Oh, Sur, pensò, già da quel giorno mi ha bollato come miscredente. Un fanatico pericoloso, ecco ciò che le era sembrato allora, quando aveva parlato loro in toni minacciosi della donna scoperta in cima a quella che lui chiamava la Rupe di Falla, e poi era rimasto sconvolto alla sola idea che Aran consentisse a una donna di toccare una spada, per non parlare poi di forgiarla lei stessa. Il capitano delle guardie la mise sgarbatamente in posizione di fronte al re. Qualcuno aveva portato il suo trono da questa parte del palco, dove era seduto in solitario splendore, la corona leggermente di traverso, gli occhi vitrei. Visto così le ricordava il finto re della pantomima messa in scena da un gruppo di teatranti che aveva intrattenuto il clan a Rocciacaduta lo scorso inverno: volgare e vistosamente ubriaco. Si sentì morire. Per la prima volta da quando l'avevano catturata ebbe paura. «Il tuo nome, prigioniera» declamò il capitano della guardia. «Katla Aransen.»
Re Ravn sembrò guardarla con più attenzione, come se tentasse di capire doveva aveva già sentito quel nome. «Signore» la incalzò la guardia con una certa prosopopea. Katla lo fissò con una strana luce negli occhi. Nessuno l'avrebbe costretta a chiamare qualcun altro 'signore'. Il capitano della guardia la incenerì con lo sguardo, sapeva riconoscere la testardaggine quando la vedeva. Gli sarebbero bastati pochi minuti da solo con questa ragazzina in un posto tranquillo, pensò, e le avrebbe insegnato lui un po' di rispetto. L'uomo si raddrizzò, si riempì i polmoni d'aria e cominciò a elencare le accuse ad alta voce: «Katla Aransen: sei stata arrestata per sospetto omicidio...» «Chi è stato ucciso?» gridò qualcuno dalla folla. Il capitano della guardia si fermò, irritato dall'interruzione. «Una schiava» rispose rivolgendosi alla folla. «Una giovane schiava è stata brutalmente assassinata e la sua padrona rapita. E il tempietto fatto costruire dai Signori di Jetra per il Cigno è stato orribilmente profanato...» Oh, per i sette inferni, pensò Katla in quel momento, guardando la propria tunica macchiata di cartamo. Io non ho fatto altro che stato raccogliere quei dannati fiori: non credo che si possa definire profanazione... Alcuni Istriani sembrarono improvvisamente meno interessati: una schiava... be', era di certo increscioso, e avrebbe comportato una spesa per sostituirla, ma almeno non era una delle loro. E in quanto alla profanazione del tempio... non era un gesto un po' troppo ostentato costruire un giardino per la meditazione nel bel mezzo della Grande Fiera? Voleva dire andare in cerca di guai, ecco la verità. Ma il rapimento... quello sì che sembrava interessante. Vedendo Ravn Asharson che veniva guidato lungo il palco da Rui Finco, il nobile Tycho Issian aveva sentito un piccolo barlume di speranza crescere in lui. Sembrava che Falla, difensore di tutti coloro che si amavano veramente, gli stesse offrendo la possibilità di reclamare finalmente la sua sposa, per salvarla dalla profanazione del re barbaro. Tentare di farsi strada verso il palco attraverso la folla degli smaniosi astanti in attesa dell'imminente processo, simili a spettatori davanti a una fossa di leoni, fu come nuotare contro corrente. Eppure vedendola lì, pallida e silenziosa, bella come il suo nome, perfetta in ogni dettaglio, Tycho sapeva che avrebbe rischiato ogni cosa, reputazione, ricchezza e figlia, per quella donna. Bramava prenderla tra le sue braccia, renderla sacra alla Dea secondo tutte le
leggi della santa Istria, portarla a casa a Cantara e nasconderla da tutti quegli occhi profanatori per sempre. Il pensiero delle mani dell'uomo del Nord su quella fresca pelle chiara, della bocca di lui che esplorava i suoi più reconditi segreti, gli era insopportabile. Quella che doveva affrontare non era semplicemente un'impresa per poter concludere il suo patto matrimoniale, pensò: era una sacra missione per salvare un'anima. Perciò quando il capitano della guardia annunciò ad alta voce le accuse contro il prigioniero in principio lui non prestò attenzione alle parole di quell'uomo. Fu solo quando la gente cominciò a fissare lui che smise di spingersi tra la folla. «Cosa succede?» chiese con rabbia all'uomo che gli sbarrava la strada. «Cosa volete?» L'uomo di fronte a lui era un ricco mercante di Gila. Conosceva il nobile Tycho Issian da un paio di impegnativi scambi commerciali che avevano avuto, e anche per la sua reputazione: un uomo crudele, si diceva, crudele e... strano, ma un uomo la cui stella era rapidamente in ascesa. «Vostra figlia, mio signore» disse il mercante in tono esitante. «Stanno parlando di vostra figlia.» Infuriato Tycho si guardò intorno. I più vicini a lui si spaventarono per l'espressione dei suoi occhi. «Cosa volete dire di mia figlia?» gridò. «Il prigioniero è accusato di coinvolgimento in un rapimento» rispose ad alta voce il capitano delle guardie. «Il rapimento della nobile Selen Issian, mio signore.» Chinò la testa verso Tycho e rabbrividì. Non essere andato da lui immediatamente per riferirgli in privato le notizie sulla scomparsa della figlia era un errore che avrebbe potuto rimpiangere. Tycho sentì il suo cuore fermarsi. Selen rapita... Ma come poteva essere? L'espressione del suo viso cambiò senza che riuscisse a controllarsi. Si mosse verso il palco, e la folla si divise per lasciarlo passare. Il capitano delle guardie abbassò la voce quando Tycho fu abbastanza vicino. «Mio signore, temo che dei banditi eyrani abbiano spietatamente ucciso la vostra schiavetta e portato via vostra figlia. Abbiamo preso uno dei criminali che fuggiva dalla scena del crimine.» «Ma perché...» La voce di Tycho si spezzò. Fissò il prigioniero, senza capire. Senza Selen tutto era perduto: il prezzo della sposa, la Rosa Eldi, tutto. «Perché questo... essere dovrebbe cospirare per rapire mia figlia?» Fissò gli occhi neri per la rabbia sul capitano delle guardie. L'uomo trasalì. Un attimo dopo il Signore di Cantara era balzato sulla pedana e stava cor-
rendo verso Katla, le braccia tese, le dita piegate come artigli. Anche se le guardie corsero verso di lui da ogni angolo, Tycho riuscì ugualmente ad afferrarla per la gola, incurante, nella sua disperazione, della tremenda prospettiva di contaminarsi le mani con quel gesto. «Perché?» gridò, e poi: «Cosa ne hai fatto di lei, puttana?» I soldati staccarono Tycho dalla prigioniera e lo riaccompagnarono sotto il palco. Lì, come dal nulla, un uomo alto e pallido apparve per posargli una mano sulla spalla in segno di conforto e mormorargli qualcosa all'orecchio. Il Signore di Cantara si calmò, come distratto dal suo proposito. «Continuate!» gridò re Ravn sopra il baccano. «Abbiamo trovato questa... donna che fuggiva dalla scena del crimine, mio signore» dichiarò pomposamente il capitano delle guardie. «E probabilmente, se la Dea ci sorriderà, avremo anche un testimone delle atrocità commesse. Nel frattempo abbiamo questo...» E tirò fuori dal mantello un pugnale dall'aspetto letale e lo brandì verso la folla. Era un'arma di stile settentrionale, con squisite decorazioni di damasco saldato. Qualcosa di un rosso cupo aveva sporcato la lama argentata e aveva formato spessi coaguli sull'impugnatura ornata con un magnifico drago. Re Ravn prese il pugnale dalle mani dell'uomo e lo studiò con attenzione. Un lavoro veramente ben fatto: una vera opera d'arte, elegantemente funzionale come una buona nave lunga eyrana. Vedendo il pugnale, il viso di Aran Aranson si fece duro come la pietra. Sotto il colorito scuro, il sangue defluì per lasciare un grigio pallore. Aveva riconosciuto la lama: era una delle migliori di Katla. Altri Eyrani sospirarono e poi mormorarono fra loro: il lavoro di Katla Aransen era molto conosciuto nelle isole del Nord. «Io non ho ucciso nessuno, non ho ferito nessuno e non ho rapito nessuno» disse Katla ad alta voce nell'improvviso silenzio. «Lo giuro in nome di Sur.» «E questo pugnale?» La voce di Rui Finco era calma e distaccata. Prese l'arma dal re del Nord e la rigirò tra le mani, attento a non toccare la lama ancora appiccicosa, poi la restituì al capitano delle guardie, ripulendosi con disgusto le mani sul farsetto. «È un'arma dall'aspetto insolito» osservò. Pensò all'arma che aveva fatto acquistare dai mercenari, molto più pratico che sceglierne una lui stesso. «Molto particolare.» «È una delle mie.» Il mento di Katla si sollevò in aria di sfida. Le diede
un certo piacere guardare quel fanatico nobile negli occhi e dichiarare apertamente il suo mestiere. «L'ho fatta io: saper forgiare armi di ottima qualità è una delle mie doti.» Qualcuno dalla folla gridò «Sì, senza dubbio: lei è un armaiolo di prim'ordine, è la verità.» «Le migliori lame dell'Eyra» gridò un altro con voce burbera. Katla strinse gli occhi: quell'ultima affermazione era sembrata provenire da una dama velata alla guisa delle donne del Sud, il che era a dir poco strano. «Tuttavia» continuò «è una delle tante che ho... venduto durante questa fiera.» (Era la verità, ragionò Katla: era stato uno scambio, un pagamento perché Saro l'aveva salvata.) «Qualcuno l'aveva gettata tra le tende e io l'ho raccolta.» «Davvero una bella storia» la schernì il nobile Prionan. «E se anche fosse come dici, che tu ne sia tornata in possesso proprio ora mi sembra una coincidenza veramente eccessiva.» Poi si voltò raggiante verso la folla, come per gioire della potenza della propria logica. «E cosa stavi facendo, per fuggire via dalla scena del crimine?» chiese re Ravn. Katla sentì gli occhi di suo padre su di lei. Ormai non poteva più mentire. «In effetti stavo fuggendo quando ho trovato il pugnale, e ho pensato che fosse uno spreco vederlo buttato via così. Ma non stavo fuggendo dalla scena di un crimine, bensì dal mio imminente fidanzamento» ammise. «Ecco perché sono vestita così.» Indicò il suo vecchio farsetto macchiato e consunto. «Non desideravo sposare l'uomo che mio padre aveva scelto per me, ed ero determinata a sfuggire a un tale fato.» Katla studiò il volto ansioso di suo padre e sostenne il suo sguardo. Gli occhi di Aran non mostravano altro che angoscia: né rabbia, né accuse. Katla sorrise. La sua voce si addolcì e divenne poco più di un sussurro. «E ancora non voglio sposare Finn Larson, padre...» «Finn Larson?» le fece eco il re. Riportò alla mente il costruttore di navi: un barile d'uomo ben oltre i cinquant'anni, niente affatto adatto a questa appassionata ragazza. Ben vestita e con i capelli lunghi non gli sarebbe per niente dispiaciuto fare un paio di capriole con lei, pensò. La voce dura di Aran Aranson interruppe il piacevole sogno a occhi aperti. «Katla, non mi ero reso conto che l'avresti presa così male da fuggire da qui, dal tuo clan, da me» dichiarò da sotto il palco. «Annullerò il fidanza-
mento, te lo giuro.» La gente cominciò a mormorare, ora curiosa. «Chi doveva sposare?» gridò qualcuno in fondo alla sala. «Finn Larson» rispose una matrona eyrana. «Finn Larson è un vecchio caprone!» gridò qualcun altro, e ci furono delle risate. «Lasciate andare la ragazza» gridò qualcuno in eyrano, e il grido fu ripreso da parecchia gente nella folla. Ravn Asharson chiese il silenzio. «Hai del sangue addosso» fece notare a Katla. «Ho ripulito il coltello» disse Katla con sincerità. «Ma solo per esaminarlo meglio.» «Tu menti!» Fu un grido flebile, ma ugualmente efficace. Tutte le teste si voltarono nella direzione della voce. Dal fondo del grande padiglione una barella veniva portata attraverso la folla. Su di essa giaceva Tanto Vingo, avvolto in un mantello donatogli da una delle guardie, la testa sepolta nelle sue pieghe in modo che solo il volto facesse capolino, livido, come quello di un uomo risvegliato dalla morte. «Siete stati tu e i tuoi amici eyrani a uccidere la schiava e a rapire la figlia del Signore di Cantara!» gemette con voce piena di disprezzo. «Tu che mi hai attaccato quando io mi sono gettato tra la tua arma assassina e la nobile Selen.» Il viso di Tanto era bianco per la perdita di sangue. Sotto il mantello qualcuno l'aveva bendato alla bell'e meglio intorno ai fianchi, ma già del sangue rosso come il vino stava cominciando a filtrare attraverso lo spesso lino. Tanto puntò un dito tremante contro la figura legata sul palco. «Ecco l'uomo: quello che mi ha pugnalato!» Guardò i volti degli astanti, vide la loro sete di sensazioni forti, i loro occhi avidi. Katla lo fissò incredula. Era un incubo, un assaggio dei tormenti dei sette inferni. Il mondo aveva assunto una prospettiva surreale, era guidato da un incomprensibile sistema di nuove regole. «Non è vero! Questa è pazzia!» «Pazzia, invero, portare via una donna in questo modo, e una nobile donna istriana, per di più.» Tanto si tirò su a fatica su un gomito, gli occhi lampeggianti d'ira. Che fortuna, aveva pensato quando le guardie che lo portavano gli avevano dato la notizia che uno straniero fosse stato così opportunamente sorpreso con le mani sporche di sangue e il pugnale in mano, e un altro uomo fosse stato visto fuggire via con una donna strana-
mente somigliante a Selen Issian. La Dea di certo lo guardava con occhio benigno. Aveva sempre saputo che la sua unione con Selen era benedetta. Persino la ferita non gli sembrava tanto grave ora, anche se stava cominciando a sentire un gelo intorno alla vita... Mentre lo trasportavano più vicino al palco, Tanto studiò l'uomo che sarebbe andato al rogo al suo posto. Era un bandito, senza dubbio, con quella tremenda tunica tutta macchiata e sporca, e quel groviglio di capelli in testa. Ma c'era qualcosa in quell'uomo, qualcosa nei suoi occhi, nel naso lungo, nell'espressione dura... Gli occhi di Tanto guizzarono dal re del Nord al nobile Rui Finco per poi posarsi sul pugnale che il capitano teneva in mano. Il suo pugnale, o almeno quello che aveva trovato sotto il cuscino di Saro. Qualcosa sì risvegliò nei meandri della sua mente, come un prurito o il ronzio di un insetto... «Posso vedere l'arma, signore?» chiese alla guardia. La folla si aprì silenziosamente per consentire alla lettiga di passare e il capitano delle guardie posò con attenzione il pugnale nelle mani tese di Tanto. Fu come se la lama stesse comunicando con lui. Il suo peso, la testa del drago che si adattava perfettamente alla curva del suo palmo... La sensazione risvegliò un ricordo, riportò a galla un collegamento. Tanto fissò nuovamente il volto del prigioniero, e questa volta notò le ossa delicate, le labbra, il leggero rigonfiamento della tunica poco sopra la vita stretta. E poi il ricordo si ridestò improvviso: il banchetto dell'armaiolo, l'irascibile donna che stava mostrando le armi, quest'arma, suo fratello, che per nessuna ragione gli tirava un pugno... No, una ragione c'era. Cosa aveva detto Saro? Ti ho visto sulla Rupe... E ricordò la ricompensa. Sacrilegio. Quella parola guizzò come un serpente nella sua mente. Tanto rise. «Miei signori, credo che mi dobbiate un debito di gratitudine, oltre che duemila cantari... Questa persona che avete arrestato è... una donna!» Aspettò i mormorii di sorpresa, ma non ce ne fu nessuno. Si guardò intorno, poi scosse la testa come per schiarirsela e continuò: «Questa è la stessa donna che avete cercato per tutta la fiera. È la donna che ha scalato la nostra sacra Rupe!» Gli Istriani nella folla rimasero senza fiato. Rui Finco si accigliò. Dimenticando nell'eccitazione del momento che il
processo era stato rimesso nelle mani del re eyrano, si rivolse direttamente alla prigioniera. «Tu hai scalato la Rupe di Falla?» «Sì, l'ha fatto, l'ha fatto!» Greving Dystra era quasi fuori di sé per l'emozione. Tirò la manica di suo fratello. «Noi l'abbiamo vista, non è vero, fratello?» Hesto studiò il prigioniero con gli occhi stretti. «Quella che abbiamo visto aveva lunghi capelli rossi» disse in tono dubbioso. Una delle guardie fece un passo avanti. «Posso parlare, mio signore?» chiese a Rui Finco. Il Signore di Forent fece segno di sì con la testa. «Mentre stavo facendo i miei giri di ronda con Nuno Gastin qui presente» indicò un'altra guardia «siamo andati nella tenda del clan dei Rocciacaduta per fare delle domande di routine» disse. «Tutti mi sono sembrati eccessivamente ansiosi di sbarazzarsi di noi, e io ho notato allora che la ragazza aveva i capelli tagliati corti in modo assolutamente barbaro. Lei ha detto che era per il caldo dell'estate in Eyra...» L'uomo arrossì «Ma in seguito ho scoperto che nelle isole del Nord non c'è un clima del genere. Di conseguenza ho pensato, mio signore, che la ragazza si fosse presa gioco di me per puro divertimento, ma ora capisco il mio errore.» «Nondimeno non sono rossi» insistette il vecchio Hesto Dystra. «I miei occhi saranno anche miopi, ma riesco ancora a distinguere i colori.» Ignorando le proteste del re del Nord, il Signore di Forent salì sul palco. «Abbassa la testa» ordinò a Katla. Per tutta risposta, lei lo incenerì con lo sguardo. Non si sarebbe sottoposta a un'umiliazione del genere. Sollevò invece la testa e fissò con aria di sfida la folla davanti a sé. «Ho scalato io la Rupe» dichiarò. Poi guardò gli anziani Dystra. «Ero io quella che avete visto» aggiunse, quasi con gentilezza. «La prima volta.» «La prima volta?» Rui Finco la fissò sbalordito. «Oh, sì» rispose Katla. «L'ho scalata di nuovo poco tempo fa.» Il clamore cominciò con un basso mormorio, poi con discussioni sempre più accese. Ognuno cominciò a parlare sempre più forte per farsi sentire sopra il frastuono. Qualcuno cominciò a gridare. In mezzo al frastuono una voce eyrana gridò: «Non è sacrilegio: la rupe appartiene al nostro Sur!», mentre un Istriano urlava:«Ha profanato il nome della nostra Dea. Deve bruciare!» Quell'ultima voce era vicina a Tanto, e al giovane sembrò familiare. Si guardò intorno, e si ritrovò a nemmeno un metro di distanza dal nobile Tycho Issian. Gli occhi del nobile del Sud erano fuori dalle orbite, la sua
mano si agitava nell'aria. Accanto a lui c'era l'uomo alto, magro e pallido che Tanto aveva visto prima. A differenza del Signore di Cantara, il suo viso non mostrava traccia di emozione. Rui Finco si voltò verso Ravn Asharson. «Mi sembra, sire» disse con voce melliflua «che questa faccenda non sia più in mano vostra ora. Finché riguardava dei normali crimini commessi su territorio neutrale, potevamo sottomettere il caso al giudizio eyrano. Ma temo che la profanazione della Rupe di Falla sia tutta un'altra faccenda.» «Ma è la nostra rupe» dichiarò re Ravn. «E tutto quello che lei ha fatto è stato scalarla.» «È il Castello di Sur» confermò il duca di Isolaustrale da sotto il palco. «Lo è da sempre.» Il Signore di Forent rise. Si voltò per guardare il nobile eyrano. «Vecchio,» disse, e i suoi occhi erano duri come l'ossidiana «i tempi cambiano. La pianura della Luna Caduta possiamo anche condividerla in parti uguali con voi, ma la Rupe di Falla fu ceduta a noi dal vostro vecchio re, re Ashar Stenson, il Lupo della Notte, il Signore delle Ombre, padre di re Ravn qui presente, in cambio di... Come posso definirlo? Un favore. O forse dovrei dire il nostro silenzio su una questione imbarazzante.» Fissò con freddezza l'attuale re, che sostenne imperturbabile il suo sguardo. «Dicono che buon sangue non mente, mio signore» disse a Ravn a voce così bassa che solo Katla riuscì a sentirlo. Gli occhi di Ravn si strinsero. Il suo mento si sollevò in un'espressione caparbia. «Non capisco di cosa stiate parlando, nobile del Sud» sibilò. «Ma non gradisco il vostro tono.» Rui Finco si strinse nelle spalle. «Come desiderate. Forse voi e io discuteremo di queste faccende più tardi, in un luogo più... intimo.» Poi alzò la voce. «Nel frattempo, credo che dobbiate rimettere la ragazza alla legge istriana. Lei ha ammesso il sacrilegio, e vedete con i vostri occhi la ferita che ha inflitto a questo giovane coraggioso. Di certo questo è abbastanza per voi... Non desideriamo che ci siano ulteriori violenze qui questa notte.» C'era un tono di vellutata minaccia nella sua voce. Ravn Asharson tentennò. Si voltò per guardare verso la Rosa Eldi, che era in piedi come una statua. I loro occhi si incontrarono e ancora una volta Ravn sentì una straordinaria ondata di calore avvolgerlo, calore e qualcos'altro. Tornò a voltarsi verso il nobile istriano. «Non sono ancora convinto della gravità della sua colpa» disse lentamente. «E finché non lo sarò, devo almeno insistere su un giudizio congiunto: giustizia eyrana al pari
della giustizia istriana.» Rui Finco inclinò la testa, poi si voltò verso la folla. «Cosa ne dite, nobili membri del Consiglio: acconsentirete affinché la donna sia sottoposta a giudizio congiunto?» «Io non ho obiezioni» dichiarò Prionan. I fratelli Dystra conferirono brevemente. «Nello spirito di buona volontà di questo Raduno, concordiamo con Prionan.» «No!» Un grido scandalizzato. Tycho Issian, Signore di Cantara, si era allontanato dall'alto nomade e si stava facendo strada con le unghie verso il palco. «Non potete farlo!» ululò. Si issò sul palco e si rivolse al nobile istriano suo pari. «Mio signore di Forent, Rui, è mia figlia colei che è stata portata via; il mio futuro genero che è stato crudelmente ferito in sua difesa; la mia schiava che è stata brutalmente assassinata. Non credete che abbia il diritto di esprimere il mio parere?» Rui Finco annuì. «Vi prego, parlate, Tycho, e poi prenderemo la nostra decisione.» Tycho si voltò verso la folla. Respirando profondamente, sentì il tempo rallentare il suo corso. Era la sua unica possibilità e doveva sfruttarla nel migliore dei modi. Oh, Falla la Misericordiosa! pregò tra sé. Falla, Signora del Fuoco, ti imploro di aiutare questo tuo indegno adoratore. Aiutami a raggiungere il mio scopo e io ti offrirò sacrifici per tutti i giorni della mia vita. Lascia che abbia la stella del mio cielo, l'amore dei miei lombi, la Rosa del Mondo, e avrai sangue in abbondanza prima che questo giorno sia finito. L'unica possibilità per portare via la Rosa Eldi al re del Nord era in mezzo a una tremenda confusione. Confusione e violenza. Doveva sfruttare l'occasione che gli si era presentata come un dono del cielo usando al meglio tutte le sue capacità. Cosa importava se sua figlia era scomparsa? Se fosse riuscito a portare gli Istriani nella folla a un sufficiente grado di legittima indignazione, non avrebbe avuto alcun bisogno del prezzo della sposa: chi poteva sapere chi sarebbe caduto morto nel fervore della battaglia? I suoi occhi saettarono da Ravn Asharson, seduto sul suo trono come l'inutile marionetta che era, all'alto e pallido venditore di mappe, il viso inclinato verso le figure sul palco come un fiore che solleva la testa verso il sole. Tycho non provava che disprezzo per entrambi. Gioca prima la carta degli affetti, gli disse la sua voce interiore; conquista il pubblico e poi spingilo a fare ciò che vuoi.
La voce rotta come se fosse scosso da violente emozioni, Tycho Issian cominciò: «Mia figlia» gemette in istriano «la mia adorata Selen, una ragazza più bella, più affettuosa, più devota di qualsiasi altra, era giunta qui con me alla Grande Fiera, il più meraviglioso degli eventi, con una speranza nel cuore. Aveva sperato di maritarsi, amici miei, di dedicare se stessa a Falla al servizio di suo marito. Come ogni giovane virtuosa, quello era il suo sogno. Avrebbe dovuto sposarsi domani, con l'uomo che avevo scelto per lei, un giovane di signorile e onesta famiglia. Io non l'avevo mai vista così felice, miei signori, mie signore» allargò le mani ad abbracciare la folla «come quando aprì il pacco che le portai e trovò il suo abito da sposa all'interno.» Una donna singhiozzò. Tycho si strofinò gli occhi asciutti. Guardò verso gli astanti. «Sarebbe stato il momento più felice della mia vita, e di quella della mia adorata Selen: mi sarei trovato accanto a lei al tempio domani per darla in sposa al giovane Tanto Vingo. Ma quella felicità ci è stata crudelmente strappata, da questa... creatura» indicò Katla, che lo fissava con gli occhi stretti, non capendo una parola del discorso «e dai suoi complici, senza dubbio intenzionati a violare il suo virgineo corpo, a stuprare l'ancella della Dea! E nel loro bieco tentativo hanno assassinato la ragazza che le era più cara al mondo, una schiava che lei aveva aiutato a crescere sin da neonata, quando era stata salvata da una tribù di montagna colpita da una pestilenza.» Una bugia bella e buona, ma Tycho sentì la folla sempre più coinvolta nell'ardore del suo discorso. «E hanno ferito questo giovane coraggioso, un uomo proveniente da una nobile e onorata famiglia istriana, i Vingo, che tutti voi conoscete, un giovane che, a rischio della sua vita, ha tentato di opporsi alla barbarie!» Tanto sollevò con modestia una mano verso la folla come per riconoscere il proprio eroismo. «Non è stato niente, mio signore» riuscì a dire con un debole sorriso. Stava cominciando a sentirsi mancare. «Per la virtù della nobile Selen, rifarei lo stesso e anche di più.» Mise giù le gambe dalla barella e appoggiò con cautela i piedi al suolo. Avrebbe camminato verso il Signore di Cantara, gli avrebbe preso la mano e gli avrebbe giurato obbedienza. Quando avessero recuperato la sua sposa, come avrebbe potuto Tycho negargli il matrimonio, con o senza il prezzo pattuito? Era difficile mettere i piedi in posizione: gli sembravano due macigni, freddi e insensibili. Spingendosi con le mani sulla lettiga, cercò di raddrizzarsi. Le sue gambe, restie a collaborare come gli arti di una marionetta senza fili, ce-
dettero all'istante, facendolo cadere a terra in un turbinio di stoffa. «Un eroe!» gridò un uomo con un sontuoso abito nero. «Un vero eroe istriano!» «Un eroe?» Questa parola del Sud Katla la conosceva. Conosceva anche l'uomo a terra. È stato il figlio dei Vingo, aveva detto la donna istriana. Ma non era stato Saro Vingo. Presa dal panico e dalla rabbia, Katla aveva dimenticato il suo disgustoso fratello. Ora però alzò la voce sul clamore, e si rivolse alla folla nell'Antica Lingua: «Ascoltate la mia storia!» gridò, usando la classica frase introduttiva dei cantastorie. «Quest'uomo non è un eroe: è uno stupratore e un assassino! Ho trovato la donna di cui parlate, Selen Issian, nuda e sanguinante mentre mi stavo allontanando dal Raduno, intenta a fuggire verso la libertà. Lei mi ha detto che aveva pugnalato quest'uomo, questo Tanto Vingo, quando lui aveva ucciso la sua serva e aveva aggredito lei, e poi era fuggita per chiedere aiuto...» A quel punto la donna doveva essere in salvo, pensò Katla, e anche Erno. «E il mio amico e io le abbiamo dato quell'aiuto. Sarà ormai lontana da qui, adesso, lontana dall'uomo che l'ha stuprata, lontana dal padre che voleva farla maritare contro la sua volontà.» «Silenzio!» Tycho Issian si voltò verso di lei. «Non soddisfatta dei tuoi orrendi delitti, ora vuoi anche infamare coloro che l'amavano di più. Non ci sarà mai fine ai tuoi peccati? Non hai vergogna?» Dietro di sé sentiva l'umore della folla oscillare in due direzioni: gli Eyrani invocavano libertà per la prigioniera, gli Istriani il rogo. Sorrise con freddezza a Katla. Lei lo fissò, raggelata dal suo sguardo. È come guardare negli occhi una vipera, pensò all'improvviso. Nonostante si proclamasse affranto e disperato, in quegli occhi non vide emozioni, ma solo un mortale e orribile calcolo. Tycho tornò a voltarle le spalle. «Ma non vedete?» continuò in accorato istriano. «Miei signori del Consiglio, mie signore dell'Impero, voi che siete i fiori della terra del Sud, i rappresentanti di tutto ciò che c'è di più prezioso nel sacro paese di Falla: non vedete che siamo circondati di odio? Questi uomini del Nord sono barbari che persino dopo aver compiuto i più orrendi delitti osano negare, osano mentire davanti alla Dea stessa. Questa gente non ha onore. Non ha fede. Tutto ciò che vogliono è farci del male, distruggerci, in ogni modo possibile. Le azioni che questa donna e la sua banda di saccheggiatori hanno portato a compimento possono sembrarvi un attacco personale contro di me, e invero le mie perdite sono rilevanti: mia figlia, che amavo con tutta l'anima, è scomparsa» Tycho enumerò i
punti sulle dita di una mano sollevata «la mia dolce serva, una seconda figlia per me, è stata orribilmente assassinata. Il mio amico qui» e indicò Tanto Vingo «gravemente ferito in sua difesa. Tutte queste cose io le sento profondamente nel mio cuore. Ma anche voi dovreste sentirle: perché questi sono attacchi non solo contro di me e contro tutto ciò che è mio, ma anche contro l'Istria.» Permise che le parole cadessero nel silenzio come pietre in un pozzo, e guardò le ondate della reazione che provocarono spargersi su tutta la folla del Raduno. «Questi del Nord sono uomini e donne di immonde usanze e impure abitudini. Assassini, rapitori, profanatori, tutti loro. Odiano il Sud da più di cinquecento anni, lo odiano e lo invidiano. Quante guerre abbiamo combattuto in tutto questo tempo con lo stesso nemico? Dodici o più; e ogni volta la Dea ci è stata propizia e ci ha consentito di spingerli sempre più lontano dalle sue fertili coste, lontano dalle terre natie del fuoco e della purezza, più in profondità nei mari del Nord e nelle distese rocciose a cui loro appartengono con la loro barbara religione, il loro sciocco dio, il loro cibarsi di balene e di cavalli e altre ignobili pratiche. Una ventina d'anni fa la Rupe è stata consacrata al nome della Dea; lavata col sangue, purificata col fuoco dedicato a Falla la Misericordiosa, salvatrice della anime. Ma cosa abbiamo visto a questa Grande Fiera se non irriverenza e profanazione? La prigioniera, con l'indifferenza che ci si poteva aspettare da lei visto le sue empie origini, ha profanato la Rupe della Dea non una, ma due volte, tale è il disprezzo in cui lei, una tipica Eyrana, tiene le nostre più sacre credenze. Non contenta di ciò, ha distrutto un luogo sacro, un tempio costruito con mani amorevoli per onorare una donna coraggiosa e di provata dirittura morale.» Si inchinò al Cigno di Jetra e ai suoi anziani nonni. «Profanazione contro gli uomini e le donne del nostro Impero: una violazione dei luoghi sacri alla Dea. Sacrilegio: il più ignobile di tutti i peccati.» «Sacrilegio...» mormorarono gli Istriani nella folla. «Profanazione...» Il Signore di Cantara divenne meditabondo. Cominciò a passeggiare per il palco, con tutti gli occhi puntati addosso. Guardò verso il basso dove il duca di Cera era accanto al nobile Sestran, entrambi scuri in volto. «E di cosa siamo stati tutti testimoni questa sera?» Si guardò intorno come se si aspettasse che la folla rispondesse alla domanda. Gli astanti pendevano dalle sue labbra, ansiosi di sentire la prossima incriminante affermazione.
«Non solo abbiamo visto che non hanno rispetto per la nostra fede, ma non provano neppure altro che disprezzo per la generosità e i sacrifici delle nostre più nobili famiglie.» Si voltò per guardare re Ravn Asharson. «Molti fra noi ritenevano un sacrificio troppo grande concedere a un tale barbaro una delle nostre più dolci e pie fanciulle, e possiamo quindi rallegrarci che una tale offerta non sia stata necessaria, vista la scelta folle e offensiva di quest'uomo...» Fu gridato 'Vergogna!' e 'È la verità che esce dalla bocca di Falla!' e 'Barbaro!' Tycho fece una pausa, aspettando che il mormorio raggiungesse il suo apice e poi svanisse di nuovo. «Questa è la donna che lui ha scelto, calpestando la mano tesa in segno di pace, le offerte di ricchezze condivise, i contratti matrimoniali con i fiori della nostra terra: offerte fatte dai nostri più grandi nobili, uomini che avevano preferito vedere le loro preziose figlie portate via in terre straniere verso una vita di tormenti piuttosto che tenere i leggiadri doni di Falla confinati nei nostri forzieri. E inoltre, per aggiungere oltraggio all'offesa, questa donna che lui ha giudicato migliore delle più nobili Istriane è una creatura che può essere venduta e comprata, una donna dalla dubbia moralità arrivata qui senza invito dai carrozzoni degli Erranti!» La folla degli Istriani cominciò a strepitare, anche se nessuno pensò di chiedere al Signore di Cantara come faceva a essere in possesso di una tale informazione. Gli Eyrani, nel frattempo, incapaci di capire le sibilanti parole dell'esagitato nobile del Sud, stavano diventando sempre più inquieti. Rui Finco si accigliò. Non era convinto che la faccenda fosse così chiara come Tycho Issian aveva suggerito, ma il fervore anti-eyrano poteva essere ugualmente d'aiuto per il suo scopo. Agitò allora le braccia e chiese silenzio nel padiglione. «Grazie, mio signore di Cantara, per il vostro eloquente e appassionato discorso.» Poi si voltò verso re Ravn. «Tycho Issian ha detto la sua, e le sue argomentazioni sono state estremamente... persuasive. Il Consiglio Istriano a questo punto ha la sensazione che se non verrà fatta giustizia contro questa donna, ci saranno delle scene spiacevoli. Cosa dite voi?» Ravn sembrò infastidito. «Non sono riuscito a capire più di una parola su cinque di ciò che gridava quel pazzo, ma a me sembrava fomentasse disordini. Tuttavia, se consegnerete la ragazza a me, vi prometto che sarà adeguatamente punita... per il ferimento del giovane, se non altro, poiché
non sono ancora convinto della sua colpa per le altre questioni.» «E quale forma di punizione sceglierete, se dovessimo rimetterla alla legge eyrana?» «Per il ferimento, un prezzo del sangue che la sua famiglia dovrà pagare alla famiglia dell'uomo ferito.» Rui Finco sorrise. «Temo che non sia affatto sufficiente, sire.» «E cos'altro vorreste?» «Lasciate che mi consulti con gli altri nobili.» Conferì brevemente con Prionan e i Dystra, poi tornò a voltarsi verso il gruppo sulla pedana. Nell'Antica Lingua dichiarò: «Non c'è dubbio che atti esecrabili sono stati compiuti questa sera. Tuttavia, ciò che è veramente indubbio è che questa donna ha ammesso di aver profanato una terra sacra all'Impero, terra concessa al Sud nel trattato stipulato alla fine dell'ultima guerra. E l'ha fatto non una sola volta per ignoranza, ma due, ben sapendo che stava commettendo un atto sacrilego. E per questo, mio signore, io vorrei il vostro consenso per un rogo.» «Un rogo?» Ravn sembrava scioccato. «Ma non è consono alle usanze eyrane.» Il Signore di Forent lo guardò con espressione placida. «La violenza che la donna ha compiuto è stata commessa contro l'Istria, non contro l'Eyra. È un fuoco purificatore quello che cerchiamo, per cancellare per sempre il ricordo di questa terribile faccenda. Io credo che se controllerete lo statuto della Grande Fiera troverete che questa decisione rispetta in pieno le sue disposizioni.» Aran Aranson afferrò il conte di Isola delle Pecore per un braccio. «Egg, dimmi cosa sta succedendo. Qualcuno qui dice che vogliono bruciare mia figlia.» «Potranno anche volerlo fare» replicò Egg Forstson «ma non lo faranno mai.» Il viso di Isolaustrale si colorò di un rosso scuro e pericoloso. In eyrano il conte gridò ad alta voce: «I nobili dell'Impero dicono che la bruceranno!» Un ruggito di sfida si sollevò dagli Eyrani nella folla. Gli Istriani cominciarono a formare gruppi compatti. Qualcuno urlò «Bastardi Istriani!» «Barbari assassini!» rispose una voce istriana. Alcuni tafferugli cominciarono a scoppiare per tutto il tendone del Raduno. Ravn guardò la folla inferocita. Volti accesi dal vino. Coltelli che brillavano alla luce delle candele. Gente furiosa, pronta a fare la pelle al vicino
straniero. Era così che il suo regno doveva cominciare, a questa prima Grande Fiera, al suo Raduno? Un improvviso desiderio che tutto questo finisse per starsene tranquillo e nudo con la sua sposa tra le braccia lo sopraffece. Dopo tutto era solo una ragazza che volevano; meglio lei che la guerra. «Fermi, Eyrani!» gridò. La sua gente si quietò, ma gli Istriani no. «Bruciatela!» gridarono, sia nella lingua dell'Impero che nell'Antica Lingua. Aran Aranson si precipitò sul palco. Senza curarsi del protocollo regale, afferrò il re per un braccio. «Sire, è una pazzia! Stanno dicendo che bruceranno mia figlia per aver scalato una rupe...» Re Ravn Asharson fissò la figura inginocchiata di fronte a sé. C'erano lacrime negli occhi dell'uomo. Ravn provò un immediato disgusto. Nessun Eyrano adulto avrebbe mai dovuto piangere. All'improvviso collegò il volto e il nome dell'uomo che aveva di fronte, e provò per lui una forte antipatia. «Toglietemi le mani di dosso, vecchio!» «Salvate mia figlia, sire, vi imploro...» «Aran Aranson, signore di Rocciacaduta, voi una volta siete venuto da me chiedendo una nave.» «È vero, signore.» «Io vi ho chiesto un consiglio, credo.» Aran si accigliò. «Io... io non ricordo, sire.» Ravn Asharson rise. «Lasciate che ve lo ricordi io, allora. Vi ho chiesto chi avrei dovuto prendere in moglie, e voi avete detto che per quanto ve ne importava avrei potuto scegliere un troll.» Si voltò verso i nobili istriani. «Prendete la ragazza e bruciatela» disse con asprezza nell'Antica Lingua. In eyrano invece mormorò: «Ho la mia sposa troll a cui badare.» 16 Sacro fuoco Lo scontro iniziò immediatamente, un'esplosione di violenza: come se tutti aspettassero solo un'occasione per dare sfogo ai pensieri omicidi che albergavano dietro una maschera di signorilità. In principio furono solo gruppi isolati di persone e i danni vennero fatti con pugni e piedi; ma poi alcuni Istriani cominciarono a fare a pezzi i tavoli imbanditi e ben presto ci furono mazze e bastoni nella mischia. Poi fu la volta dei coltelli. Un uomo con un pugnale conficcato in un occhio barcollò in mezzo a un gruppo di
donne istriane, che gridarono e fuggirono verso l'uscita. All'improvviso ci furono cinquecento disperati che correvano per lasciare il tendone. Le donne dell'Impero, intralciate dalle loro voluminose gonne, inciamparono e caddero e furono calpestate dalla successiva ondata di ospiti urlanti. La tela si gonfiò e cominciò a sbattere al vento nei punti in cui i cavi d'ancoraggio si erano staccati sotto la pressione della folla. I pilastri principali ondeggiarono e minacciarono di cadere. I candelieri furono rovesciati. In un attimo la tela prese fuoco e un soffocante fumo nero cominciò a spandersi sul Raduno. La gente tossì, senza fiato, e si fece strada alla cieca verso i margini del tendone. Quelli fortunati riuscirono a uscire all'aria notturna strisciando sotto la tela ormai allentata. Un gruppo di Eyrani guidato da Halli Aranson si fece strada a fatica contro la marea contraria fino ad arrivare a pochi metri dal palco, dove Katla era ancora circondata dalle guardie della Grande Fiera, tutte con le spade sguainate. Vedendo gli Eyrani venire verso di loro, il capitano della guardia ordinò a quattro dei suoi uomini di respingerli. Con la sua spada d'acciaio di Forent ricavò un'altra uscita nel tendone attraverso la quale le guardie si ritirarono leste con il loro prigioniero. Urlando come un demone, Tor Leeson balzò sul palco, spingendo da parte un gruppo di impauriti nobili istriani, e si gettò attraverso la tela tagliata all'inseguimento del gruppo. Con un enorme bastone colpì la sfortunata ultima guardia della fila. L'uomo cadde urlando, ma un tonfo sordo lo fece tacere bruscamente. Tor rientrò nel padiglione brandendo una spada istriana, una luce folle negli occhi. «Dietro di me, ragazzi!» gridò, e gli Eyrani esultarono. Aran afferrò Halli per un braccio. «Vado a prendere tutte le armi che riuscirò a portare» gridò sopra il frastuono. «Resta con Tor... e vedi se riesci a trovare Fent.» Non c'era segno di suo figlio minore: non appena erano cominciati i disordini, Fent si era gettato nella mischia come un cane feroce in un combattimento. Halli alzò il pugno in segno di assenso, si infilò nel buco della tenda dietro a suo cugino e fu inghiottito nella notte. In mezzo al caos Fent Aranson alzò gli occhi dall'uomo che aveva appena tramortito con un pezzo di legno: vide tre donne istriane con voluminose sabatka nere gettare via le loro vesti per rivelare tre uomini dall'aspetto truce in pieno assetto di guerra. Incuriosito, Fent si fece strada a testa bassa tra la mischia verso di loro. A pochi metri di distanza si rese conto che
quello con la barba era Joz Manodiorso, un mercenario proveniente da una fattoria poco fuori Capo delle Balene, che sin dalla fine dell'ultima guerra vendeva i propri servigi al migliore offerente. La gente diceva che non avrebbe mai potuto soddisfare la sua brama d'azione continuando a fare il contadino sull'Isola del Nord: dalla fine dell'ultima guerra era diventato una spada in vendita. Ma perché un gruppo di spade in vendita avrebbe dovuto travestirsi da donne istriane al Raduno, Fent non riusciva davvero a immaginarlo. Tuttavia alla sua mente in subbuglio non importava affatto la ragione di una scena tanto bizzarra: quella gente era eyrana di nascita e aveva delle spade. Questo era tutto ciò che contava al momento. E anzi, pensò stringendo gli occhi per vedere in mezzo al fumo, la spada che Joz aveva appena sguainato gli sembrava assai familiare. Corse più vicino per vederla meglio. La luce delle candele illuminava il Lupo delle Terre Innevate avvolto dalle spire del Drago di Wen... era una delle spade di Katla, una delle migliori. «Joz!» gridò. «Joz Manodiorso!» L'uomo brizzolato si voltò e guardò verso la folla, ma il caos era troppo per poter distinguere i dettagli. Incitando i suoi compagni, si gettò verso il palco. Un attimo dopo, scavalcando corpi che si trascinavano e gente ferita, Fent li seguì. Seduto sullo steccato del recinto degli animali, Saro Vingo guardò le spire di denso fumo nero alzarsi dall'altra parte della fiera. Aveva vagato senza meta per un'ora o poco più, in un eccesso di furia che in seguito si era trasformata in dubbio e confusione. Sarebbe stato difficile tornare indietro, visto ciò che aveva fatto e detto. Nella foga del momento era stato spinto dall'odio per suo fratello per ciò che aveva fatto, dall'odio per suo zio per la visione di sua madre, dall'odio per suo padre per la sua preferenza per Tanto. Aveva pensato di abbandonare la sua famiglia, fuggire dalla loro avidità e mancanza di principi, una volta per tutte. Ma adesso non ne era più sicuro. Dove poteva andare? Il suo primo pensiero andò a Katla Aransen: quel viso asciutto e quelle mani forti, il modo in cui il suo tocco l'aveva fatto rabbrividire. Ma l'Eyra era troppo straniera per lui: non parlava la dura lingua delle genti del Nord, non aveva alcun mestiere né talento per sopravvivere tra gente così dura, bellicosa. Andarsene in giro con gli Erranti, guardare il mondo sfilare davanti a sé dal retro di un carro, attraversare passi di montagna e larghe pianure, foreste di pini e vasti altipiani era una tentazione. Ma quale nomade avrebbe accolto nel suo carro lui, il
figlio di un nobile istriano, membro di una razza che perseguitava i Viaggiatori da secoli, fratello dell'uomo che aveva ucciso a sangue freddo il nonno di Guaya? Neppure la giovane nomade aveva voluto parlargli. Era ancora avvolto nelle spire dell'indecisione quando vide il fumo levarsi a est. Si incamminò allora in quella direzione, dapprima curioso, poi spinto da uno strano impulso. Sarebbe stato più facile passare lungo il margine della spiaggia che zigzagare tra le tende: Saro quindi corse direttamente giù per la collina e verso lo spazio aperto, poi svoltò nella direzione del quartiere istriano e del grande padiglione. Illuminata dalla luna, una lunga barca a remi del Nord stava solcando le basse onde a una trentina di metri dalla riva. Un uomo alto la stava portando attraverso le secche, la luce pallida che trasformava i suoi capelli e la sua barba in luccicante argento, mentre a prua sedeva una donna con un abito rosso scuro. Saro li fissò con attenzione, mentre un terribile sospetto si andava formando nella sua mente. Katla Aransen indossava un abito molto simile a quello l'ultima volta che l'aveva vista. E l'uomo era di certo quello che era venuto al suo banchetto, l'uomo a cui aveva sorriso con così tanto calore... Saro sentì il suo cuore battere forte come se si fosse ritrovato improvvisamente sull'orlo di un abisso. Il momento in cui l'aveva vista per la prima volta sulla Rupe alla pallida luce del mattino si collegò a questo momento di partenza e di perdita a formare un cerchio chiuso e perfetto. Lei se n'era andata; e con lo stesso uomo alto del Nord che lui aveva visto al suo banchetto. Già allora, pensò con amarezza, già allora avevo capito. Dimenticando il fumo si girò di scatto, voltando le spalle alla scena che gli aveva procurato un tale improvviso e inatteso dolore. Con i piedi che scricchiolavano sulla nera pietra pomice, Saro si trascinò tristemente verso il quartiere istriano e si preparò ad affrontare l'ira collettiva della sua famiglia. Mam tirò fuori la daga dalle pieghe del suo ridicolo abito verde, tagliò l'orrendo affare dal collo alla vita e se lo scrollò di dosso come una mantide si libera del bozzolo. Sotto aveva la sua amata corazza di cuoio e maglia di ferro, la spada preferita legata a una coscia e i coltelli da lancio all'altra. La donna sorrise. Un bel fuoco contribuiva sempre in modo egregio alla confusione. Aveva tentato di appiccarlo in modo che procurasse la maggiore quantità di fumo e il minimo danno, ma la tela era stata a cuocere per quattro giorni al sole e il fuoco si era sviluppato più velocemente di quanto
si era aspettata. Come sempre Mam affrontò la cosa con filosofia. La maggior parte della gente venuta al Raduno era lì per scopi squisitamente personali: grassi mercanti che intendevano finalizzare grassi affari; grassi nobili che tentavano di vendere le loro grasse figlie, tutti che volevano una cosa o l'altra. Lei aveva poca simpatia per quel genere di persone. Dall'età di undici anni era vissuta contando solo sulle sue stesse forze, dopo essere rimasta orfana per colpa della guerra e delle razzie. Suo zio Gastan l'aveva accolta in casa per un po', ma ben presto lei aveva scoperto il perché, e non le ci era voluto molto a decidere che una vita al freddo e alla fame in un fosso o all'ombra di una siepe era preferibile a una sotto un tetto caldo con un libidinoso vecchio maiale. Da ottime vipere quali erano, Joz, Mazza e Doc si liberarono delle loro pelli istriane e guardarono il loro capo. Mam diede il segnale a Fiatodicane. Dogo scattò immediatamente e si arrampicò a fatica sul palco. Capotempesta e Isolaustrale erano impegnati a spingere il re e la sua pallida donna attraverso un taglio nella tela, mentre Egg Forstson guidava un altro gruppo di uomini e donne eyrane, incluso il tarchiato costruttore di navi e la sua figliola dai capelli chiari. Mentre gli altri arrivavano di corsa attraverso la folla, Mam fece un rapido gesto nella lingua dei segni che avevano ideato per comunicare nel frastuono della battaglia: Mazza si staccò dalla formazione per raggiungere Dogo, che si stava già infilando con entusiasmo nel buco della tenda come un cane ammaestrato che salta un cerchio di fuoco. Mam sorrise. I suoi uomini erano i migliori, proprio come aveva detto quel bastardo di un nobile istriano. Aspettò che Joz e Doc la raggiungessero, poi balzò sul palco e seguì il gruppo del re nell'oscurità. Davanti a sé riusciva a intravedere il luccichio della veste della donna nomade, simile a un faro nel buio. Molto gentile da parte sua, pensò Mam. Li raggiunsero in pochi secondi. «Lasciate che vi assistiamo, sire» gridò. Il re si voltò lentamente. «Chi è là?» «Dovremmo portare voi e la vostra donna lontano da qui» continuò Mam con voce dolce, ignorando la domanda. Isolaustrale si frappose tra Mam e il suo re. «Mercenari, sire» disse. «Voi e la vostra signora continuate ad andare. Bran e io ci occuperemo di loro...» Alla pallida luce della luna Ravn Asharson vide il suo fidato consigliere cadere in ginocchio, gli occhi spalancati per la sorpresa. Un fiotto di sangue cominciò a sgorgargli dalla bocca. Poi Isolaustrale cadde al suo suolo.
Incurante del terribile suono del metallo che grattava sull'osso, Mam ritirò la lama dalle costole del vecchio. Poi fece un inchino al re. «Consentitemi, sire.» Passando sopra al cadavere di Isolaustrale si piazzò al lato destro del re e lo prese per il braccio. Doc si ripulì la spada sulla gamba. «Bella nottata, eh, sire?» Joz sollevò la Rosa del Mondo issandola sopra la spalla come fosse un sacco di grano. «Ora vi scorteremo in un luogo molto più sicuro, mio signore.» Mam sorrise con ferocia animalesca. Dodici anni prima aveva impiegato settimane a limarsi i denti fino ad appuntirli in quel modo, ma non se n'era mai pentita. Essere una bella bambina non gli aveva procurato che guai, ma avere i denti di un lupo l'aveva tirata fuori da parecchie situazioni difficili. Aveva pensato spesso a fare una visitina allo zio Gastan, ma il solo fatto di sapere di poterlo fare in ogni momento era sufficiente per tenerla allegra. Sbattendo le palpebre confuso, ancora sotto l'influenza della malia della Rosa Eldi, re Ravn Asharson, Stallone del Nord, la seguì come un agnellino. Rui Finco alzò lo sguardo sorpreso quando Mam entrò all'improvviso nel suo padiglione, spingendo il re del Nord davanti a sé. Balzò su dal divano così in fretta che lo schiavo che gli stava togliendo gli stivali cadde all'indietro ai piedi di Mam. «Fuori!» ordinò al ragazzo. «Chiama il nobile Varyx.» Mam notò con un certo piacere che gli indumenti dell'affabile nobile istriano non erano in ottime condizioni. Una manica di costoso pizzo galiano era tutta bruciacchiata, mentre strisce nere imbrattavano il farsetto celeste. «Vi abbiamo portato il vostro pacco» disse Mam sorridendo. «Ma non avreste dovuto portarlo qui!» «Come potevamo assicurarci il resto della nostra ricompensa con tutto quel caos?» Re Ravn Asharson si guardò intorno come un sonnambulo risvegliato dal sonno. «Perché mi avete portato qui?» chiese. «Dov'è Isolaustrale?» «Temo che il conte avesse degli affari improrogabili altrove» rispose allegramente Mam. «Perciò vi abbiamo portato da questo bravo gentiluomo.» Il Signore di Forent fece segno al re del Nord di sedersi. Mentre Joz appariva sulla soglia con la Rosa Eldi sulla spalla, disse con voce tagliente:
«Resta fuori, tu, con la puttana degli Erranti. Mi serve che il re abbia la mente lucida.» Mam annuì. Joz gli fece l'occhiolino. «È una perla rara, questa, Ravn. Non posso certo biasimarvi.» E salutandolo dall'alto dei suoi due metri e dieci, sparì fuori dalla tenda. Non appena fu certo di avere l'assoluta attenzione del re, il Signore di Forent aprì un piccolo cassetto, tirò fuori qualcosa e posò una scatoletta intarsiata su tavolo tra lui e Ravn Asharson. «Apritela» ordinò. Con un cipiglio perplesso, Ravn la prese. La esaminò per qualche momento prima di trovare il meccanismo segreto. Una parte della scatola si aprì di scatto e Ravn guardò all'interno. Il nobile istriano spinse una candela dalla sua parte. «Nel caso vi servisse un po' più di luce» disse. Ravn chiuse la scatola. Il suo volto sembrava teso, ansioso. «Dove l'avete preso?» Rui Finco sorrise. «Potremmo dire che l'ho avuto... tramite un comune parente.» Sostenne imperturbabile lo sguardo di Ravn. Dall'altro lato del padiglione Mam guardò l'interazione tra i due nobili con crescente interesse. Visti di profilo, notò per la prima volta, avevano una certa somiglianza, anche se il Signore di Forent aveva diversi anni più del re del Nord. E anche la loro reputazione non era poi così diversa. Rui Finco non aveva moglie, ma si diceva che avesse generato un centinaio di bambini, tanti da formare un suo esercito privato. Mam strinse gli occhi e guardò Ravn Asharson considerare possibilità e conseguenze, mentre l'inquietudine gli si addensava come una nube di tempesta nello sguardo. «Chi altri sa di questo?» Il Signore di Forent abbassò la voce. «Sono così felice di non avervi dovuto raccontare tutta la triste storia» disse. «Brutti tempi quelli... Lasciatemi pensare: vostro padre, naturalmente, che Falla l'abbia in gloria; mio padre, ma essendo un uomo orgoglioso ha portato il segreto nella tomba. Non prima di aver arrostito qualche centinaia di nomadi operatori di magia, in ogni caso...» «Nessun altro?» «Un piccolo e fidato gruppo di miei pari...» «Bastardo.» Rui Finco rise. «Un'interessante scelta di parole!» Tacque per un momento. «E ovviamente la vostra nobile madre. Sono sicuro che se glielo chiederete al vostro ritorno sarà ben felice di raccontarvi tutto. Un pesante fardello da portare per... ventitré anni? Dev'essere stata dura per lei essere
arida come il deserto e dover accettare il figlio di un'altra come suo. La discrezione è una cosa meravigliosa in una donna» aggiunse, alzando la voce a beneficio del capo dei mercenari. «E io vi pagherò per la vostra, signora, e presto. Ma prima re Ravn ha un certo documento da firmare.» Srotolò una pergamena e gliela tese in modo che potesse studiarla. «Credo che i diritti per metà dei beni che riporterete attraverso la Via del Corvo siano un'equa ricompensa per il mio silenzio, non credete, re del Nord? Anche se sarei curioso di vedere cosa succederebbe nel vostro regno se le vostre vere origini venissero rivelate.» Rui Finco si accarezzò pensosamente il mento. «Ho sentito dire che da voi in Eyra ci si vanta molto del proprio casato di appartenenza: sarebbe davvero interessante essere testimoni dello sconvolgimento e degli spargimenti di sangue che di certo seguirebbero alla rivelazione che la regina Auda non è in realtà la vostra vera madre.» Ravn impallidì. «Mio padre me l'ha detto prima di morire, ma chi crederebbe a voi?» Gettò sul tavolo la pergamena. «Sapete bene che non la firmerò mai.» La luce era tornata a brillare nei suoi occhi. Anche il sorriso del Signore di Forent era tornato. «Se non lo farete, ordinerò semplicemente a questa buona signora di infilzarvi all'istante e di gettare il vostro cadavere in un luogo opportunamente compromettente...» Ci fu un certo trambusto fuori dalla tenda, seguito dal grido di una donna oltraggiata. Un attimo dopo, una donna con lunghi capelli scompigliati entrò inciampando nella tenda con una velocità tale da suggerire che una mano l'aveva aiutata a farlo. La luce delle candele illuminò un volto pieno e arrossato e dei capelli biondi con una leggerissima sfumatura di verde. «Ah, sì, l'adorabile e nobile Jenna» disse allegramente Rui Finco. Si alzò in piedi e le fece un inchino. «Benvenuta, mia cara.» Guardò divertito la confusione sul volto di Ravn. «Jenna farà una lunga visita a Forent come mia ospite» continuò sorridendo. «Così mi assicurerò la collaborazione del suo buon padre, anche se Falla sa che l'ho già pagato più di quanto avrei dovuto.» «Non verrò mai!» gridò furiosa Jenna. «Fatela tacere» ordinò Rui Finco a Mam. Mam fece uno dei suoi sorrisi da lupo a Jenna. «Scegli, mia cara. O chiudi la bocca o sarò costretta a fartela chiudere io.» Jenna rabbrividì. «Brava ragazza.»
Il Signore di Forent tornò poi a voltarsi verso il re del Nord. «Allora, mio signore, il documento.» Prese una penna e un calamaio dal cassetto del tavolo. «E se non riusciremo a trovare il passaggio verso l'Estremo Occidente?» Il nobile Rui Finco si strinse nelle spalle. «Dovremo giungere a un altro accomodamento.» Uno schiavo apparve sulla porta. «Il nobile Varyx, signore» annunciò, e un ossuto Istriano entrò nella tenda, studiò gli occupanti della stanza e scoppiò a ridere. «Eccellente, Rui. Saremo ricchi come Rahay!» Salutò il re del Nord con un cenno del capo. «Re Ravn, i miei ossequi. Felice di vedere che avete prudentemente acconsentito alla nostra richiesta. Volete che vi faccia da testimone?» Si chinò sul tavolo e sbirciò la pergamena. Ravn Asharson squadrò il nobile del Sud, il volto duro come la pietra. Poi sorrise. Salutò anch'egli il nobile Varyx con un cenno del capo. E poi spinse da parte il documento. Proprio mentre Varyx stava iniziando ad accigliarsi perplesso, ci fu un improvviso movimento. Il tavolo si rovesciò, il calamaio volò in aria e un attimo dopo la punta di una luccicante spada apparve sotto il mento di Rui Finco. Sull'elsa c'era la mano di Ravn. Il nobile Varyx fissò il proprio fodero vuoto con l'aria da sciocco. «Per le tette di Falla!» esclamò. Senza staccare gli occhi dal Signore di Forent, Ravn recuperò la scatola intarsiata con la mano libera e se la infilò sotto la tunica. «Fate qualcosa, donna!» gridò con voce stridula Rui Finco al capo dei mercenari, tutto il suo sangue freddo svanito. «Vi pagherò un extra!» «Io raddoppierò qualunque cosa vi deve» promise Ravn a Mam, sorridendo. La donna rise. «Triplicatelo!» gridò. Gli occhi di Ravn brillavano. «Una delle più belle navi di Finn Larson» replicò «e denaro a sufficienza per comprarvi un equipaggio: avete la mia parola di re.» Mam lo guardò con occhi cupidi. «Affare fatto!» «Quando avremo finito qui, riportate la ragazza al suo vecchio» ordinò Ravn. A Jenna disse con gentilezza: «Voi direte a vostro padre che so dei suoi infidi accordi con l'antico nemico, ma che ora ce ne sarà uno nuovo.» Jenna, eccitata e intimidita dalla presenza del suo idolo, si limitò ad annuire e ad arrossire. Ai nobili istriani Ravn chinò la testa in cenno di saluto. «Bene, signori» disse, premendo la spada leggermente più forte contro la trachea di Rui
Finco. Una sottile linea rossa scese lungo la lama. «Ottimo acciaio di Forent» rifletté divertito. «Sarebbe alquanto ironico se doveste incontrare la vostra fine in codesto modo. Ma io non sarò mai chiamato assassino di fratelli.» Ritirò la spada, la gettò al capo dei mercenari, poi balzò sopra il tavolo caduto e si diresse verso l'uscita; con una certa soddisfazione notò che l'inchiostro versato aveva rovinato il bel mantello di seta del nobile Varyx. «Sorvegliateli per dieci minuti» disse a Mam «un tempo sufficiente perché io porti la mia sposa sana e salva alle navi.» Mam passò la lama di Forent nella mano sinistra, tirò fuori la propria spada con la destra e guardò i nobili istriani con espressione allegra. «Bene» disse. «Chi di voi è il primo?» Fuori nella notte fredda, Fent Aranson correva veloce e silenzioso tra le tende. Seguendo i mercenari al padiglione del nobile del Sud aveva ascoltato una conversazione che non era destinata alle orecchie di un Eyrano. La sua mente era in subbuglio. Finn Larson un traditore del suo paese: la cosa gli faceva ribollire il sangue. Il costruttore di navi aveva intenzione di vendere i suoi migliori vascelli all'Impero Istriano, e soprattutto gli stava vendendo anche il vantaggio che il Nord aveva sul suo antico nemico: il dominio degli oceani e i mezzi con cui esplorarli. La Via del Corvo, pensò furioso, era quello il loro scopo, avidi bastardi che non sono altro. La Via del Corvo, quel meraviglioso, misterioso passaggio verso il leggendario Estremo Occidente; la Via del Corvo, che tormentava i sogni di ogni vero navigante eyrano. Come aveva potuto Finn Larson tradirli tutti in quel modo? Fent aveva la migliore arma di Katla in mano. Finora aveva usato il suo pomo; ora aveva intenzione di usare la lama. Quando uscì dal padiglione del Signore di Forent, Ravn trovò Doc che si stringeva la testa tra le mani e camminava stordito in su e in giù. Joz Manodiorso era a terra con il sangue che gli usciva da una ferita alla tempia. Ma la Rosa Eldi era svanita. Il fuoco era fuori controllo e minacciava di consumare ogni cosa sul suo cammino. «Dobbiamo andarcene da questo posto!» gridò l'uomo pallido, tirando con urgenza la manica del nobile Tycho. Il Raduno si era trasformato da un celebrazione a quella che sembrava un'improvvisa sommossa. A Virelai la cosa risultava davvero incomprensibile. Una tale violenza, un tale caos.
Gli girava la testa. Ricordò i tafferugli ai banchetti dei nomadi che avevano causato la morte del vecchio Hiron, ma quella era stata una semplice zuffa rispetto a questo brutale tumulto. E il fumo! Gli occhi gli lacrimavano talmente che a malapena riusciva a distinguere l'espressione del nobile istriano mentre lo pregava di aiutarlo. «Se usciamo di qui» disse alla fine «posso riportarla da voi.» A quel punto Tycho Issian afferrò il venditore di mappe per un braccio e lo trascinò tra la folla. «Devi farlo» dichiarò in tono lugubre. «Per la Dea, lo farai o ti cuocerò io stesso a fuoco lento.» C'era troppa confusione sul palco di fronte a loro; trascinando Virelai con sé, Tycho si diresse verso un'altra uscita. «Da questa parte!» Guardò indietro per accertarsi che il venditore di mappe l'avesse sentito: una grande lingua di fuoco aveva avvolto il pilastro centrale e stava danzando tra le corde che tenevano insieme il tendone. «In fretta!» Tycho spinse da parte una ragazza piangente che gridava il nome di suo padre, calpestò un uomo che era caduto tossendo di fronte a lui e avanzò inesorabilmente. Il venditore di mappe aspettò che l'uomo caduto si rialzasse, ma fu nuovamente trascinato via da Tycho. Inciampando sui corpi, la bocca spalancata in un muto grido, Virelai scoprì che non aveva altra scelta che seguirlo. Mentre si avvicinavano all'uscita i mucchi di corpi e di coloro che cercavano di superarli divennero sempre più alti. Spietato per sua natura, il Signore di Cantara estrasse il coltello cerimoniale che portava alla vita e pugnalò ai reni una donna di fronte a lui che tentava di scalare l'ostacolo senza riuscirci. «Togliti... dai... piedi!» Ogni pausa corrispondeva a una coltellata. Nonostante il coltello fosse stato fabbricato per scopi puramente ornamentali, e avesse una lama piccola e meno che affilata, nelle mani disperate di Tycho Issian divenne mortale. La donna scivolò a terra senza neppure un lamento. Un uomo fu colpito alla gola mentre si voltava per protestare. Il caldo fiotto di sangue imbrattò la faccia di Virelai. Il giovane tentò di urlare, ma scoprì che i suoi polmoni erano troppo pieni di fumo. «Arrampicati, maledizione!» gli stava gridando il nobile del Sud. «Sali lassù!» Tycho posò i piedi sulla donna morta e tirò su il venditore di mappe prendendolo per il braccio, poi incuneò la spalla sotto di lui e lo lanciò sopra il mucchio di cadaveri. Virelai si ritrovò a volare, prima verso l'alto, e poi, a una certa velocità, verso il basso. Sentì l'aria fresca sulla pelle, dopodiché ci fu l'impatto, duro, con il terreno e all'improvviso Virelai fu fuori, nella notte, e i suoni e
gli odori di quell'orrore sembravano svaniti, come se appartenessero a un altro mondo. Quando si rese conto che era ancora vivo e relativamente indenne, aprì gli occhi e guardando in alto vide le stelle lontane che brillavano su di lui. Le Voci, forti dapprima al contatto con il terreno, alla fine scomparvero, come se il battito del cuore, rallentando, le avesse fatte tacere. Virelai rimase lì per diverso tempo con la bocca che si apriva e chiudeva come quella di un pesce insabbiato, e poi sentì un acuto dolore sotto le costole. «Alzati, maledizione!» Il nobile del Sud ritirò il piede, e Virelai lo guardò tornare verso di lui come se il tempo avesse rallentato il suo corso; non capì quel movimento finché non lo colpì di nuovo, al che gridò e si alzò a fatica in piedi. Tycho gli stava puntando contro il coltello. Sulla punta della lama brillava del sangue. «Io ti ho salvato la vita, miserabile escremento di topo, e non sono neppure sicuro del perché: hai cercato di vendermi qualcosa che non ti apparteneva, e non sono nemmeno convinto che tu sia capace di riportarla indietro.» Fece un passo avanti, la mano con la lama che tremava per la rabbia. «Mio signore...» Ora Virelai aveva davvero paura. Cominciò a pentirsi di aver lasciato Santuario: nonostante tutti i suoi difetti, il Padrone non l'aveva mai trattato così male. Si impose di riacquistare l'autocontrollo. «Io posso fare magie!» confessò all'uomo che lo minacciava. «Ero apprendista di un grande mago, da cui ho imparato molti misteri.» Stava esagerando un po', doveva ammetterlo, ma finché aveva il gatto era quasi vero... «Posso ritrovare la Rosa Eldi e con un incantesimo riportarla da me.» «Come hai fatto prima?» chiese Tycho in tono canzonatorio. «Mio signore, era tutto così confuso, non riuscivo a concentrarmi. Portatemi al mio carro, in un luogo tranquillo...» «E per quanto riguarda mia figlia?» Virelai si accigliò. La figlia. Cosa aveva a che fare la figlia con lui? «Puoi riportare indietro anche lei?» Era stata portata via da altri, gli sembrò di ricordare come in sogno. «Io... posso provare, mio signore.» «Se potrai restituirmele entrambe, signor mago» disse l'Istriano con velenoso sarcasmo «allora ti risparmierò la vita.» Virelai deglutì. Tentò di concentrarsi sul problema. La ciotola divinatoria di cristallo, dell'acqua e avrebbe potuto perlomeno scoprire dove si trovava la ragazza. E in quanto alla Rosa Eldi...
«Dovete permettermi di prendere... determinati oggetti dal mio carro» disse. «Poi farò ciò che potrò.» Bande armate vagavano per la fiera come branchi di cani da caccia. Tycho Issian e Virelai passarono vicino a uno scontro diretto tra un gruppo di Eyrani e alcuni giovani del Sud, ma nell'oscurità era difficile dire chi stesse vincendo. Più avanti nel settore settentrionale, tutto era caos. La gente correva e gridava; c'era fumo e fuoco dappertutto. «Non è qui dentro!» gridò una voce istriana. «Neppure qui» disse un'altra. «Brucia quelle che hai controllato!» Un ragazzo alto e dai capelli scuri con una tunica arancione arrivò correndo da dietro un angolo con una torcia in mano, e fu ben presto raggiunto da un altro. A Tycho sembrò di riconoscerli. Poi alcune donne eyrane uscirono fuori da una tenda, armate con utensili da cucina. Una colpì il secondo ragazzo con un calderone di ferro legato a una catena che faceva roteare sopra la testa come una mazza ferrata; l'altra donna brandiva un enorme mestolo. Uno degli Istriani cadde a terra con la testa fracassata; l'altro buttò la torcia e se la diede a gambe. Più avanti Virelai e Tycho furono costretti a gettarsi a un lato della strada mentre una piccola mandria di cavalli correva loro incontro, nitrendo per il terrore. Sembrava che nessuno li stesse guidando. Arrivarono alla zona della fiera riservata ai nomadi. Era il settore più tranquillo, e più buio. Virelai si guardò intorno. Più della metà dei carri se n'era già andata, e in lontananza riuscì appena a intravedere la coda di una lunga fila di veicoli e animali che si allontanavano furtivamente tra le colline ai piedi dei monti Skarn. Molti oggetti erano stati gettati via nella fretta di partire: stoviglie giacevano abbandonate ai margini della strada, pezzi di stoffa erano stati calpestati dagli zoccoli degli yeka e persino un teatrino delle marionette con lo sfondo dipinto delle caverne d'oro era stato dimenticato contro un carro capovolto. Virelai lo guardò, la testa chinata di lato, e uno strano sorriso piegò le sue labbra. «Non ti attardare, sciocco» ringhiò Tycho, spingendo il venditore di mappe con una manata sulla schiena. Il carro che aveva condiviso nei mesi passati con la Rosa Eldi e il famiglio del Padrone era sempre allo stesso posto, ma mentre prima era stato circondato da altri carri, ora era lì, isolato, e i suoi yeka erano scomparsi. Qualcosa morì silenziosamente in Virelai. Non che avesse formulato un piano per sfuggire al nobile del Sud; ma ora senza i suoi animali qualsiasi
possibilità gli era preclusa. Almeno sembrava che nessuno avesse toccato il carro, perché la porta era ancora chiusa col chiavistello come l'aveva lasciata lui. «Vi chiederei di restare qui, signore» disse a Tycho «mentre io prendo le cose che mi necessitano.» Il Signore di Cantara annuì con impazienza. Virelai aprì la porta di una fessura e scivolò dentro, richiudendola in fretta dietro di sé. All'interno era buio, e Virelai sentì gli occhi della gatta su di sé già prima di vedere la bestia. Un movimento sul divano rivelò la sua posizione. Virelai scorse la sagoma dell'animale, poi vide la sospettosa luce verde del suo sguardo. «Ora, Bëte» mormorò con una punta di disperazione nella voce «piccola Bëte, vieni con Virelai, che non ti farà alcun male.» Prese il contenitore di vimini che aveva fabbricato per la creatura tanti mesi prima quando alla fine avevano toccato terra, e lo posò con cautela sul divano. Poi aprì la porticina. «Bëte, tesorino mio, piccina, dolcezza...» La gatta fece le fusa e Virelai si rese conto con un certa sorpresa che le aveva parlato con la voce del Padrone. Bëte si alzò in piedi, si stiracchiò allungando prima le zampe posteriori e poi quelle anteriori, e alla fine, imprevedibile come tutti i felini, si avvicinò alla gabbietta e si sedette al suo interno. Guardò Virelai come se si aspettasse qualcosa da lui, poi cominciò a lavarsi il muso. Virelai la fissò incredulo per qualche istante, poi, ricordando cosa doveva fare, si affrettò a chiudere la porticina. Muovendosi metodicamente per il carro, raccolse gli effetti personali che più gli erano necessari: le sue erbe, inclusa la scatolina di bromo, anche se forse non avrebbe più rivisto la Rosa del Mondo; i libricini di formule magiche che aveva scritto da solo; i pochi incantesimi salvati dal tentativo del Padrone di distruggerli; un coltello affilato che sospettava gli sarebbe servito. Ignorò l'oro e le mappe, ormai inutile robaccia per lui, ma recuperò la sua ciotola divinatoria e qualche indumento... All'improvviso si bloccò. Sullo schienale dell'unica sedia del carro era appoggiata una sottoveste di seta. Virelai la raccolse e se la portò al viso. Se la passò sulla pelle con gli occhi chiusi e respirò profondamente. Riusciva a sentire il suo odore. Riusciva a sentire il suo odore... Ci fu un colpo sulla porta. «Sbrigati, venditore di mappe...» Con la gabbietta del gatto in una mano e il fagotto con le sue cose sotto il braccio Virelai uscì faticosamente dalla porta stretta ed emerse nella notte. «Mio signore» disse a Tycho, mentre la fiducia in se stesso tornava a
crescere di minuto in minuto «sono pronto.» Trascinando i piedi Saro affrontò la salita verso la Rupe. Stava per girare a ovest verso la tenda dei Vingo quando con la coda dell'occhio vide qualcosa muoversi velocemente attraverso la spiaggia. Si voltò e guardò verso il Raduno. Un'enorme bestia dalle molte zampe si stava allontanando da quello che probabilmente era un falò celebrativo sfuggito al controllo. Sentì delle grida, ma che fossero di rabbia o di allegria era troppo lontano per dirlo. Guardò l'essere muoversi velocemente verso est finché non riuscì a distinguere le singole figure: un gruppo di giganti che circondava un figura più piccola, inseguito da un folto gruppo di ordinari mortali. Saro strinse gli occhi per vedere meglio. Mentre si avvicinavano, i giganti si trasformarono in guardie della Grande Fiera con i loro strani elmi ornati di code di cavallo; in mezzo a loro c'era un ragazzo magro dai capelli scuri legato con delle corde. Saro si voltò dall'altra parte. Di sicuro il vino era scorso a fiumi e qualcuno si era comportato male. Che peccato che non sia Tanto, pensò con rabbia, e continuò a salire su per la collina. Al padiglione di famiglia fu sorpreso di trovare le luci accese e gli schiavi che correvano su e giù come presi dal panico. Saro raddrizzò la schiena, sollevò il mento ed entrò nella tenda. All'interno suo zio Fabel era seduto sui cuscini del pavimento con la testa fra le mani. Sollevò il viso e la sua espressione si illuminò. «Saro... grazie al cielo...» «Non pensavo che sarei stato il benvenuto» cominciò a dire Saro, ma suo zio balzò in piedi e corse nella camera accanto. «Favio! Favio, Saro è tornato sano e salvo!» Ci fu un breve scambio di parole e Favio Vingo entrò nella stanza principale. Il suo viso era disfatto, gli occhi spenti. Attraversò in fretta il tendone e abbracciò suo figlio minore. Il suo viso era bagnato di lacrime. Saro lo allontanò da sé allarmato. «Cosa è accaduto?» «È tuo fratello...» Favio riusciva a malapena a parlare, tanto forte era l'emozione che gli serrava la gola. «Pensano che morirà...» «Morire? Tanto?» Saro era sbalordito. L'ultima volta che aveva visto suo fratello l'unica cosa che era morta era stata la promessa che aveva fatto. «Morire di cosa?» Ma ora suo padre stava singhiozzando. Un attimo dopo un uomo corpulento con una tunica rosso scuro uscì dalla stanza dalla quale era appena venuto suo padre, strofinandosi nervosamente le mani. «Ho fatto quanto ho potuto per lui, signore. Il flusso di
sangue si è quasi fermato e, ehm, la ferita è chiusa, almeno per il momento. Se si sveglierà, farete bene a legarlo, in caso la cauterizzazione non tenesse. Ma temo fortemente che se anche dovesse sopravvivere, vostro figlio non potrà generare dei figli...» Le spalle di Favio tremarono, scosse dai singhiozzi. Saro fissò incredulo il chirurgo. Non genererà figli? Cauterizzazione? Era come entrare nel sogno sconclusionato di qualcun altro. Fabel, nel frattempo, seguì l'uomo fuori dal padiglione, mettendogli un sacchetto di monete in mano. «Tornerò come prima cosa domattina» dichiarò allegramente il cerusico, stringendo al petto la borsa del denaro. «Ho così tante altre visite da fare con tutti questi tumulti. Vi auguro la grazia della Dea.» E con quelle parole sparì; dalla fretta con cui si allontanò era palesemente contento all'idea di andarsene prima che il paziente morisse. «Cosa è accaduto?» chiese di nuovo Saro. «Il mio coraggioso ragazzo...» cominciò Favio. «Il mio buono e coraggioso ragazzo...» «Sembra che Selen Issian sia stata attaccata da una banda di criminali eyrani che volevano stuprarla» si affrettò a spiegare Fabel. «Tanto ha sentito il trambusto ed è entrato per fermare il loro malvagio tentativo. A quel punto avevano già ucciso la sua piccola schiava e stavano aggredendo la nobile Selen. Lui li ha combattuti come ha potuto, ma ha ricevuto una tenibile ferita.» Abbassò la voce. «Hanno trovato la veste della nobile Selen strappata in due e lei è scomparsa...» Qualcosa in quella descrizione sembrava improbabile a Saro, ma non voleva pensare male di suo fratello in tali terribili circostanze. «Hanno catturato questa gente?» chiese invece. «Ah» disse Fabel. «Hanno preso la ragazza che era con loro.» «La ragazza?» L'idea di una banda di stupratori accompagnati da una donna rafforzò la sua inquietudine. «Una giovane donna dall'aspetto rude proveniente dalle isole del Nord. Aveva anche scalato la Rupe della Dea, la puttana.» Il cuore di Saro diventò di ghiaccio. «Ed è ancora nelle loro mani?» chiese, pensando alla figura sulla barca. «La bruceranno fra poco» rispose Fabel con una smorfia di disgusto. «Immagino che dovrei andare anch'io per farmi vedere... come presenza simbolica dei Vingo, sai, dato lo stato del povero Tanto. Ma non ho lo stomaco per affrontare un rogo. Un brutto modo di andarsene, fiamme di Falla o meno.»
L'immagine della figura simile a uno spaventapasseri che camminava tra le guardie si presentò davanti agli occhi di Saro. Era Katla Aransen che avevano catturato, ora ne era certo. E la donna sulla barca? Non c'era tempo per scervellarsi su quel rompicapo. Scuro in volto, attraversò la stanza e andò in camera sua, tornando un attimo dopo con la spada in mano. Poi, senza dire una parola al suo sbalordito zio o al suo singhiozzante padre, sparì attraverso il lembo della tenda e cominciò a correre come se sentisse il fiato dell'enorme gatto di Falla sul collo... «Madre, madre!» Alisha Uccello del Mattino martellava la porta dipinta col sole e con la luna del carro della vecchia venditrice di incantesimi. Ma non ci fu risposta. «Madre, dobbiamo andare via subito, prima che i tumulti ci raggiungano. Non c'è tempo: dobbiamo fare in fretta!» Niente. Posò un occhio sulla fessura tra i cardini e intravide una luce tenue all'interno del carro. «Madre!» gridò. «So che sei là dentro.» Un attimo dopo la porta si schiuse leggermente e la luce della luna si rifletté su un occhio scuro e tondo. Poi una mano ad artiglio saettò fuori, afferrò Alisha per il collare della tunica e la tirò dentro. La porta si richiuse immediatamente dietro di lei. «Zitta» sussurrò Fezack Cantastelle, posando un dito sulla bocca della figlia. «Disturberai il cristallo.» Nell'oscurità del carro la grande roccia brillava e mandava scintille. Alisha non l'aveva mai vista neppure mandare un tenue bagliore senza il tocco di una mano umana prima, ma ora nessuno la stava toccando. «La magia è tornata» sussurrò l'anziana donna, stringendosi le braccia al petto come per contenere il suo meraviglioso segreto. «È davvero tornata, finalmente...» «Madre, quando abbiamo guardato nel cristallo ieri non abbiamo visto altro che morte e odio, e il fuoco, il fuoco che brucia...» «Qualcosa è cambiato. Qualcosa ha interrotto il disegno.» «Lasciami vedere.» Alisha si sistemò sul pavimento e con un profondo respiro posò le mani a entrambi i lati della roccia. Motivi di luce colorata si rincorsero sul suo viso, inondarono l'interno del carro e si riversarono qua e là su uno specchio di stagno levigato, una brocca di ceramica blu, un fascio di penne e conchiglie appese e una fila compatta di piccoli vasi. Ombre allungate danzarono sul pavimento e caddero sulla veste rattoppata dell'anziana don-
na, sulla sua lucida fronte calva, sugli orecchini e sul ciuffo di capelli in testa. All'interno del cristallo minuscole figure correvano su e giù freneticamente, brandendo spade e torce, le bocche aperte in urla silenziose. Sacche isolate di combattimenti erano in corso tra le tende: Eyrani contro Istriani, Istriani contro Eyrani, a gruppi di tre, quattro e cinque, o più grandi dove lo spazio lo permetteva. Alisha vide un uomo alto e biondo combattere contro una coppia di guardie dai mantelli blu; alle sue spalle un uomo con la barba nera e l'espressione minacciosa brandiva una piccola, ma mortale ascia. Un ragazzo magro con un farsetto di pelle macchiata veniva legato a un palo eretto in fretta e furia, e schiavi istriani correvano su e giù con le braccia piene di legna da accumulare intorno al palo; sulla spiaggia altri facevano a pezzi una barca degli uomini del Nord. Un'altra imbarcazione giaceva sventrata sulla sabbia, le coste che brillavano bianche alla luce della luna come la carcassa di una grande creatura marina. Vide un uomo giovane dalla carnagione scura con la disperazione negli occhi correre come un forsennato, la spada in alto in mezzo al caos; e un altro, ai margini dei combattimenti, che fissava sopra le teste e tra i padiglioni in fiamme come se cercasse qualcosa che aveva perduto. Nella direzione opposta Alisha scrutò nell'oscurità finché non trovò Virelai, il venditore di mappe, sorvegliato da un uomo dallo sguardo crudele armato con un coltello curvo e insanguinato; l'albino fissava in una ciotola d'acqua che teneva saldamente con una mano. Nell'altra stringeva per il collo un gatto nero. La nomade li fissò incredula. La magia con l'ausilio dei famigli era stata proibita secoli prima; ma lì davanti a lei c'era Virelai: era stata con lui poche ore prima, l'aveva tenuta stretta con gentilezza e l'aveva lasciata dondolarsi sulle sue dita fino a raggiungere l'orgasmo senza lamentarsi neppure una volta di non essere rimasto soddisfatto; e ora stava praticando l'antica e dimenticata arte. I loro occhi si incontrarono. Con un gemito, Alisha staccò le mani dal cristallo. Immediatamente le immagini si appannarono. «L'hai visto?» chiese Fezack. «Hai visto la cosa che ha interrotto il disegno?» Alisha scosse la testa per liberarsi di quella indesiderata intrusione. Un attimo dopo si riprese abbastanza da rispondere a sua madre. «Ho visto solo quello che ho visto ieri, niente di più e niente di meno.» L'anziana donna fece schioccare i denti con rabbia. «Non ti ho insegnato bene come pensavo» dichiarò, spingendo da parte sua figlia. «Lascia che te lo mostri...»
Fezack si accucciò e afferrò il cristallo con violenza. Le stesse scene di carneficina e crudeltà riaffiorarono sulle sfaccettature del cristallo, finché con la forza della sua volontà, o almeno così sembrava, Fezack trovò quello che stava cercando. «Ecco!» sibilò. «Guarda, è lì!» Annuì freneticamente. Alisha si chinò in avanti e appoggiò le mani di traverso sopra quelle di sua madre. Al centro della scena qualcosa di strano stava accadendo. La nomade strinse gli occhi, mosse la testa da una parte all'altra nel caso la visione dipendesse dall'angolazione delle sfaccettature. Ma no: qualcosa si stava muovendo attraverso la folla, qualcosa senza forma né aura, qualcosa che non gettava alcuna ombra, anche se la gente si faceva istintivamente da parte al suo passaggio. Il cristallo segnalava il suo camminare con giochi di luce guizzante, onde che si infrangevano davanti a esso. «Cos'è, madre?» chiese Alisha spaventata. «Non lo so» rispose lentamente l'anziana donna. «Ma se può nascondersi dall'occhio del cristallo, ha più potere di quello che una qualsiasi cosa naturale dovrebbe possedere.» «Ahi!» Il venditore di mappe lasciò improvvisamente andare la ciotola divinatoria come se l'avesse scottato e il gatto miagolò pietosamente quando la mano di Virelai si strinse intorno alla sua gola. «Cosa?» chiese Tycho Issian. «Cosa hai visto?» Virelai si strofinò gli occhi. Sembravano infiammati. «Vostra figlia è viva, in una barca con un uomo del Nord...» Tycho imprecò in modo osceno. «E la Rosa Eldi?» Virelai chinò la testa. «Mi è sembrato di averla vista tra la folla intorno al rogo, ma... non ne sono sicuro.» Come poteva dire a questo pazzo che quando l'aveva percepita lei aveva respinto il suo sguardo, ammantandosi nell'ombra e sparendo alla sua vista? E che poi aveva incontrato gli occhi di un'altra persona, anch'essa intenta a scrutare con la magia? Tycho afferrò il venditore di mappe. La ciotola divinatoria si rovesciò sopra il gatto, che ululò di disgusto. L'animale tentò di liberarsi, ma Virelai si affrettò a ficcarlo nella gabbietta. Furioso per il trattamento poco dignitoso, il gatto soffiò e colpì, graffiando Virelai sulle nocche con i suoi artigli affilati. «Ohi» gemette Virelai. «Il gatto...» «Che Falla si porti quella maledetta creatura» ringhiò Tycho. «Portami dalla Rosa Eldi.»
Alla tenda di Finn, Larson Fent trovò due mercenari seduti fuori, le spade sulle ginocchia: un uomo grosso con un viso bitorzoluto e un nanetto tondo come una mela. Sembravano annoiati. Quando lo videro arrivare, si alzarono in piedi e i loro occhi si accesero di interesse. «Il costruttore di navi è dentro?» chiese Fent soppesando le parole. Gli prudevano le mani. I due mercenari si scambiarono uno sguardo. «Chi vuole saperlo?» «Digli che c'è Fent Aranson, il fratello della sua futura moglie.» Il piccoletto sbuffò e fece un gesto osceno. L'uomo grosso lo spinse nella tenda. «Basta, Dogo. E sta' attento a quello che dici.» Un attimo dopo Finn Larson uscì dalla tenda. Il suo volto era tirato, come se la situazione gli fosse sfuggita di mano. Quando vide Fent lì in piedi, sorrise di sollievo. «I combattimenti sono finiti, ragazzo?» «No» rispose Fent a denti stretti. La vista del costruttore di navi che sorrideva era troppo. «Come avete potuto farlo?» gridò. Gli occhi gli bruciavano per le lacrime. Fent le ricacciò furiosamente indietro. Finn sembrò allarmato. «Fare cosa, ragazzo? È stato tuo padre a offrirmela esplicitamente, sai...» «Sapete bene che non intendo questo. Come avete potuto dare agli Istriani la chiave per la Via del Corvo?» Il panico fece spalancare gli occhi del costruttore di navi. «Non gliel'ho data, ragazzo» riuscì a dire alla fine. «No» rispose Fent e i suoi occhi erano di nuovo dei pezzi di ghiaccio. «Gliel'avete venduta.» Finn Larson, già scioccato, lo sembrò ancora di più quando il Drago di Wen andò a segno. Fent ritirò la lama e indietreggiò con agilità, pronto a respingere i colpi dei mercenari. Il costruttore di navi si guardò la pancia aperta. «Sembra che abbia mangiato bene negli ultimi anni» furono le sue ultime e sconclusionate parole. Poi le sue ginocchia si piegarono e Finn Larson cadde faccia a terra. «Mam non sarà troppo felice di questo, eh, Mazza?» commentò il piccoletto, rovesciando il corpo con il piede. «Aveva detto di tenerlo al sicuro, no?» «E io l'ho fatto, non credi?» All'improvviso si udì un grido e una figura corse accanto a Fent e si gettò in ginocchio davanti al corpo. «Padre!» gemette Jenna Finnsen. Fent cominciò a sentirsi a disagio, e non solo per la punta della spada
che sentì all'improvviso pungolarlo tra i reni. Lasciò cadere il Drago di Wen al suolo. La pressione sulla schiena cessò. La donna che aveva visto spogliarsi al Raduno apparve di fronte a lui. «Per i sette inferni, perché l'hai fatto?» «Stava tradendo l'Eyra» rispose con freddezza Fent. Mam alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma cresci!» esclamò. «Ora hai fatto perdere al tuo re il suo costruttore di navi e a me una nave.» C'era qualcosa che non andava in questa storia: Fent non riusciva a capire da quale parte stava quella gente. «Ma stava costruendo navi per l'Istria...» protestò. «Noi tutti vendiamo i nostri servigi per il prezzo che più ci conviene, che sia denaro o un qualche ridicolo concetto di lealtà verso il re e il paese» disse Mam con un sospiro. «In quanto a me, io preferisco il denaro, e quella nave era il mio mezzo per ottenerne più di quanto tu possa mai sognarne.» «Mio padre ha dato a Finn Larson tutto il denaro che avevamo» disse Fent. «Ma se mi aiutate a salvare mia sorella dal rogo, potrete prenderlo voi.» Mam rise. «Ora che il vecchio è morto, potremmo prenderlo ugualmente.» Joz Manodiorso, con un bernoccolo grande quanto un uovo sulla tempia, apparve in quel momento accanto al suo capo. Vide il Drago di Wen a terra vicino al ragazzo, si chinò, lo raccolse e lo soppesò tra le mani. «Mi sarebbe dispiaciuto perdere questa spada» disse lentamente. «È di ottima fattura.» La infilò nel fodero vuoto, poi alzò lo sguardo. «Sarebbe un peccato veder bruciare la ragazza, Mam. Un vero peccato, e senza alcuna buona ragione.» «Vecchio sciocco sentimentale.» Mam tese la mano per dargli un buffetto sull'orecchio. Poi posò una mano sulla spalla di Jenna. «Porta fuori il forziere di tuo padre e dallo a Dogo. Dogo, tu assicurati che sia lei che il denaro arrivino sani e salvi alla barca, va bene?» Il piccoletto fece l'occhiolino alla ragazza che ancora piangeva. «Giusto, capo.» «Da' al ragazzo la tua spada.» «Ma...» «Dagli la tua spada. Sai benissimo che sei più bravo a usare quel tuo infido coltello in un corpo a corpo.»
Con riluttanza Dogo cedette la sua spada a Fent. Il giovane guardò il capo dei mercenari senza capire, ma per tutta risposta la donna lo incenerì con gli occhi. «Tu mi hai già causato abbastanza guai questa notte» disse. «Vedi di non causarmene altri. E ora andiamo a prendere tua sorella.» Katla camminava a fatica in mezzo alle guardie. Era difficile camminare in fretta con le mani legate in quel modo e l'asta di una lancia nella schiena. Nessuna delle guardie le aveva più parlato: ora che si erano allontanati dal Raduno avevano ricominciato a parlare solo in istriano. Le venne in mente qualcosa che aveva detto suo padre dopo la prima visita delle due guardie alla loro tenda: com'era strano che le guardie della Grande Fiera quest'anno fossero solamente istriane. La sua mente aveva cominciato a vagare verso pensieri sciocchi e irrilevanti sin da quando l'avevano condannata al rogo. Era forse così che si comportava la gente quando temeva per la propria vita? si chiese Katla. Forse il fatto di riempire la propria testa di un mare di sciocchezze aiutava a soffocare il panico? In realtà la propria mortalità non era una cosa su cui Katla aveva mai riflettuto molto. Era stata vicina alla morte diverse volte mentre scalava le scogliere vicino a Rocciacaduta: un nome che da solo avrebbe dovuto farla esitare, se solo si fosse soffermata a pensarci. In uno dei casi più memorabili un appiglio a cui si era aggrappata aveva ceduto con una pioggia di sassi e ghiaia ed era crollato davanti a lei, graffiandole la fronte. Non aveva avuto il tempo di pensare a niente a parte reggersi con l'altra mano, saldamente infilata in una crepa, mentre i piedi cercavano freneticamente un punto d'appoggio a trenta metri sopra il mare e sopra le rocce taglienti giù in basso; quindi si era affrettata a salire fino in cima come un coniglio spaventato, la mente annebbiata per l'eccesso di adrenalina. Oppure quel giorno che aveva pescato con Halli nella tempesta a più di un miglio al largo, quando la barca si era improvvisamente rovesciata, gettandoli nelle acque gelide. Katla ricordò le onde grigie che si richiudevano sulla sua testa, la bruciante sensazione del sale in gola, nel naso, negli occhi; e quanto erano stati fortunati che il vecchio Fosti Barbadicapra e suo figlio stessero pescando a pochi metri di distanza. Il vecchio Fosti... Gli occhi di Katla si appannarono. Se non avesse insistito a venire alla Grande Fiera e a prendere il posto di Fosti sul Dono di Fulmar, ora non si sarebbe trovata in questo guaio. Era la sua testardaggine che l'aveva messa in questa situazione, e ora non sembrava esserci più niente che potesse fare per tirarsene fuori. In lontananza sulla collina riusciva a intravedere alcune persone che cor-
revano su e giù intorno a una struttura di colore scuro, una massa informe con un albero o qualcosa del genere che sporgeva al di sopra. Katla si lambiccò il cervello per qualche minuto nel tentativo di capire cosa potesse essere, pensando avesse a che vedere con le navi. Fu con un certo turbamento che alla fine lo riconobbe per quello che era: un rogo, pronto per essere acceso. L'albero era un palo conficcato nel terreno, mentre la massa informe un grande mucchio di legna accatastata alla base. Katla si sentì raggelare. Aveva sentito parlare dei roghi, di come gli Istriani avevano bruciato vivi centinaia di nomadi accusati di stregoneria ed eresia, in modo che le loro anime potessero volare verso la Dea del Sud, ma non si sarebbe mai aspettata di vedere una tale atrocità con i suoi occhi, per non parlare poi di esserne lei la vittima, lei la cui pelle presto si sarebbe annerita e accartocciata... «Katla!» La voce familiare interruppe i suoi morbosi pensieri. La testa di Katla si sollevò di scatto. La retroguardia della sua scorta sembrava avere qualche problema. «Continua a camminare, prigioniera!» gridò l'uomo dietro di lei, spingendola con forza nella schiena. «Bastardo di un Istriano» pensò Katla. Fece finta di inciampare, poi si gettò all'improvviso di lato, facendo finire uno dei due soldati alla sua destra contro il compagno. I due barcollarono e quello verso l'esterno perse l'equilibrio sul terreno in pendenza e cadde. Dal punto in cui si trovava a metà della duna Katla vide una testa bionda piuttosto familiare apparire dietro di lei. Una spada luccicò alla luce della luna e poi sparì alla vista; un uomo gemette. Poi Tor Leeson apparve in cima alla duna. Il davanti della sua tunica era tutto macchiato di sangue, e così anche le maniche, i capelli e la barba, ma il giovane aveva un luminoso sorriso sul volto. La seconda guardia gli si avventò prontamente contro, ma Tor rise, e schivando la lama di Forent, calò con forza la sua larga spada del Nord. Il potente colpo di taglio spaccò in due la testa dell'uomo, che cadde senza un gemito. «Tor...» L'uomo dei Rocciacaduta le fece il suo sorriso più feroce, poi si voltò con agilità per affrontare la sfida successiva. La guardia ringhiò qualcosa di inintelligibile in istriano. «Tua madre deve aver giaciuto con una capra!» replicò Tor nell'Antica Lingua, sorridendo con cortesia. L'uomo si accigliò, tentando di dare un senso alle parole dal forte accento, poi si rabbuiò in preda alla rabbia e caricò il robusto uomo del Nord. Tor fece una finta e schivò, roteando la sua spada con ferocia. Ci fu il rumore sordo
dell'impatto e la gamba della guardia si staccò all'altezza del ginocchio, mentre il suo sangue spruzzava dappertutto. L'uomo guardò in basso, le sopracciglia aggrottate, poi perse l'equilibrio. «È un'ottima spada, Katla!» gridò Tor. «Te l'avevo detto che avrebbe tranquillamente potuto staccare la gamba di un uomo.» Katla incrociò il suo sguardo per un solo istante, il tempo sufficiente per vedere nei suoi occhi qualcosa di più della sete di sangue. Poi due guardie la tirarono in piedi e le altre richiusero il varco lasciato aperto dai feriti. Tre di loro assalirono Tor, ma Halli gli apparve accanto, i denti bianchissimi che brillavano tra la folta barba nera. Brandiva un'ascia. Katla la riconobbe come la piccola accetta che avevano portato per tagliare la legna, ma a vederla così insanguinata sembrava che avesse tagliato ben altro quella sera. I due uomini sembrarono scambiarsi una facezia, perché Katla vide la bocca di Halli aprirsi in quella che sembrava una grassa risata; poi si rese conto del suo errore. Tor cadde improvvisamente in avanti, il sangue che gli sgorgava dalla bocca. Dal centro della sua schiena sporgeva una lancia istriana, la cui testa era conficcata nel corpo del biondo Eyrano fino alle punte uncinate. Katla vide una donna con indosso un'armatura e conchiglie nei capelli finire colui che aveva tirato la lancia, e poi un robusto mercenario corse verso suo fratello, ma mentre cercava di girarsi per guardare Halli le guardie la spinsero così forte che quasi dovette correre, e non riuscì più a vederlo. Fu allora che Katla conobbe la disperazione più nera. Saro Vingo scese correndo giù dalla duna appena in tempo per vedere il capitano delle guardie legare con violenza Katla Aransen al palo. Almeno, notò il giovane, le avevano concesso di avvolgere lo scialle di seta colorato intorno alla testa, anche se non sembrava essere stato un gesto di compassione quanto di scherno. Katla lo guardava rabbuiata, ma si rifiutava di gridare per il dolore. Saro sentì il suo cuore gonfiarsi di rabbia fino a scoppiare. Studiò la scena. Ai piedi del rogo erano in corso feroci combattimenti... a eccezione di un piccolo spazio sul lato est, dove brillava una pallida luce argentata. Saro fissò quella luce, e mentre lo faceva la pietra che aveva nel sacchetto intorno al collo cominciò a pulsare sul suo petto come un secondo cuore. La toccò, perplesso, improvvisamente distratto da tutta la confusione e l'orrore, e la sentì viva sotto le sue dita. Quando la tolse dal sacchetto di pelle era diventata color rosso fuoco, ma al suo centro una scintilla di oro
puro brillava come un minuscolo faro. La strinse nel palmo: brillava così forte che riusciva a vedere il contorno delle ossa della sua mano attraverso la pelle. L'energia proveniente dalla pietra fluì nel suo braccio e si soffuse nel suo petto e poi nella sua testa, al punto che Saro si chiese se i suoi occhi non fossero diventati due fari che brillavano nella notte, ma quando avanzò nessuno sembrò badare a lui. Tenendo lo sguardo fisso su Katla, si mosse verso il varco che aveva intravisto e fu sorpreso di trovarsi di fronte una donna alta e pallida, ferma in mezzo ai combattimenti che continuavano incessanti intorno a lei senza mai sfiorarla, e anzi lasciandole sempre almeno un metro di spazio libero in tutte le direzioni. Lo sguardo della donna non era rivolto alla ragazza legata al palo, ma alla torcia che proprio in quel momento il capitano delle guardie stava accostando alla pira. Fiamme rosseggianti nacquero e crebbero all'improvviso. Saro vide gli occhi di Katla Aransen spalancarsi, poi chiudersi di scatto. Con la spada in una mano e la pietra dell'umore stretta nell'altra come un talismano, si incamminò deciso verso il rogo. Un Istriano che non conosceva gli venne incontro correndo, inseguito da un uomo del Nord dalla barba nera che brandiva una piccola ascia. Il terrore, puro e disperato, lo consumò per un istante, e sentì i propri piedi spingerlo a fuggire dietro l'Istriano... Poi il momento passò e Saro si ritrovò all'interno dello spazio vuoto intorno alla donna pallida. Quando lei si voltò per guardarlo, Saro pensò che il suo cuore si sarebbe fermato. Qualcosa in quegli occhi verdi lo pietrificò. Poi sentì lo sguardo bruciante della donna frugargli dentro. La donna sorrise. Saro si ritrovò a fare un passo verso di lei. Quando le arrivò vicino, lei gli prese la mano sinistra tra le sue. In quell'istante la pietra dell'umore si riempì di un tale calore che gli bruciò il palmo e Saro gridò, ma la presa della donna si fece più forte. L'energia che aveva sentito nella pietra sembrò aumentare di un migliaio di volte. Attraversando bruciante la sua mano, viaggiò attraverso le sue arterie come un'orda urlante che scende da una montagna per attaccare il nemico sulle pianure, invase i suoi muscoli finché ognuno di essi si gonfiò agonizzante, percorse il midollo nelle ossa; ma ancora la donna non lo lasciava andare. Una serie di immagini esplose nella sua testa: donne la cui pelle si liquefaceva scoprendo le ossa, uomini che fissavano mani trasformate in carboni ardenti, teste di morti e scheletri incandescenti che danzavano davanti ai suoi occhi. E alla fine la donna lasciò la presa. Come una marionetta sui suoi bastoni, Saro si ritrovò a camminare accanto alla donna pallida e verso le fiamme. Un uomo con il mantello blu e
un elmo crestato gli gridò qualcosa, ma Saro si limitò a sollevare la mano sinistra e a toccare la fronte del capitano delle guardie con la pietra dell'umore. Gli occhi dell'uomo brillarono per un istante di una luce argentea, poi diventarono di un nero profondo, e l'uomo cadde morto ai piedi di Saro. Un Eyrano e un uomo del Sud, stretti in un combattimento corpo a corpo, gli si pararono davanti. Uno di loro sfiorò la mano sinistra di Saro e un attimo dopo giacevano entrambi privi di vita al suolo. Saro li fissò senza capire. Tornando a infilare la pietra dell'umore all'interno della tunica, passò sopra ai due corpi come in un sogno, gli occhi fissi su Katla. Il fuoco era già ad altezza d'uomo e scoppiettava così forte da coprire i rumori della battaglia. Attraverso il fumo che si alzava nel cielo, Saro vide le mani della ragazza del Nord stringersi convulsamente dietro la schiena. Vide i suoi gambali di cuoio fumare e ribollire per il calore; vide la punta dei suoi stivali prendere fuoco. «Katla Aransen!» gridò Saro, e gli occhi della giovane si aprirono di nuovo, il grigio roccia diventato quasi porpora al luccichio delle fiamme. Quando vide Saro venire verso di lei, la spada sollevata, si spalancarono increduli. «Forza, allora!» gridò, la voce roca e spezzata. «Trapassami con la tua spada qui, ora, legata come una bestia sacrificale. Uccidimi per la tua Dea! Almeno sarà più veloce del fuoco...» Saro balzò sulla pira e pezzi di legno infuocato scivolarono sotto i suoi piedi per rotolare verso il cerchio dei combattenti. Il fumo era soffocante: Saro riusciva a malapena a distinguere la pelle dalle corde, ma sapeva che il tempo era prezioso. Trattenendo il fiato calò la lama d'Istria. Miracolosamente le corde si spezzarono di netto, lasciando segni di pelle chiara contro la pelle annerita al fumo. Sorreggendo Katla per il braccio per tenerla in piedi, Saro si chinò e tagliò i ceppi che le imprigionavano le caviglie, poi fece un passo indietro, non sapendo cos'altro fare. Priva di qualsiasi appoggio, Katla inciampò e cadde a testa in giù tra il fuoco. Lo scialle sulla testa si slegò per avvolgerla come le ali di una farfalla. Dal lato opposto della pira, Aran Aranson guardò l'Istriano entrare nel fuoco, la spada sollevata come un eroe vendicatore, e desiderò con ogni fibra del suo essere di poter trasformare la sua buona spada eyrana in un arco. Il ragazzo stava per infilzare sua figlia davanti ai suoi occhi e non sembrava ci fosse niente che potesse fare per impedirlo. Le parole tempestavano la sua mente come piccioni in trappola: 'una scintilla di speranza
può essere alimentata fino a diventare un fuoco', avrebbe detto nonna Rolfsen. E 'non perdere mai la speranza'. «Mai!» gridò Aran Aranson. Incurante di chi colpiva pur di arrivare a sua figlia, si lanciò tra la calca. Vide sua figlia cadere e ne individuò la posizione grazie al lampo di colore dello scialle. Con un urlo di rabbia, andò alla carica tra le fiamme, insensibile all'improvviso puzzo di peli bruciati che lo avvolse. Gettando via la sua spada, afferrò il farsetto di Katla e con la forza della disperazione la issò per poggiarsela sulla spalla. Lo scialle volò nell'aria per poi tornare a coprirli entrambi. Aran se lo strappò di dosso e lo gettò a terra. Voltandosi, trovò Saro Vingo sul suo cammino. «Togliti di mezzo, bastardo istriano!» gridò, sentendosi bruciare la gola per il fumo. «Se mai ti rivedrò, ti strapperò il cuore e lo darò in pasto a quella puttana della tua dea!» Poi saltò tra la folla e cominciò a correre più forte che poté. Dietro di lui qualcuno gridò e indicò qualcosa. L'uomo accanto a lui gettò la spada e fissò sbalordito davanti a sé. Aran si voltò. Giù sulla spiaggia il fuoco era diventato una luccicante conflagrazione bianca, ogni fiamma argentea spruzzata d'oro, il fumo aveva assunto uno spaventoso colore verde. Il fuoco che fino a un attimo prima aveva quasi superato la sommità del palo ora tremolò e diminuì di intensità. Mentre il fumo svaniva, la gente cominciò a mormorare. Le armi furono gettate. I nemici cominciarono ad allontanarsi l'uno dall'altro. Tutti gli occhi erano fissi sul rogo, e gli Istriani facevano gesti nervosi per scongiurare l'empia magia. Gli Eyrani invece fissavano perplessi la strana scena. A un lato della pira c'era la donna con la veste chiara, i suoi capelli argentei illuminati dai riflessi dorati e verdi delle fiamme che si spegnevano. «Eccola: la Rosa Eldi!» Il nobile Tycho Issian indicò freneticamente oltre i resti del rogo. «Grazie alla Dea, è incolume.» Ciò che intendeva dire in realtà era che il re del Nord non era ancora riuscito a fuggire con lei. «Ora! Fai ora la tua magia.» Virelai si chinò verso la gabbietta del gatto. «Allora, Bëte» disse con voce suadente «ricordi l'incantesimo del ritorno?» Il gatto lo guardò con gli occhi verdi e duri. Poi cominciò a miagolare. «Straordinario» mormorò Fezack Cantastelle, il viso illuminato dalla luce del cristallo.
Sua figlia si accigliò. «È certo una magia di un qualche tipo» disse lentamente. «Ma quale, proprio non lo so.» Si chinarono entrambe di nuovo sulla grande roccia. «Dov'è la ragazza?» chiese Alisha a bassa voce. «Non riesco a vederla.» «Suo padre l'ha portata in salvo» rispose Fezack. Inclinò il cristallo in modo che Alisha potesse vedere meglio. «Vedi? La sta portando verso il mare.» Guardando più da vicino, Alisha vide un gruppo di uomini del Nord riuniti intorno alle barche. Guardò l'uomo robusto con i capelli bruciacchiati appoggiare sua figlia sulla spiaggia; lo vide prendere dell'acqua di mare e lavarle il viso: lei non si mosse. Poi l'uomo del Nord chiamò un uomo magro dai capelli rossi e insieme la sollevarono sui sedili dei rematori di una grossa barca a remi. «Non l'hanno vista fuggire?» chiese perplessa indicando la folla. «Di certo si sono accorti che sulla loro dannata pira non c'è più.» E infatti lo vedevano. Le due nomadi videro un uomo infilarsi a fatica tra la legna ancora calda e recuperare un pezzo di stoffa intatto dal centro della pira. L'Istriano lo tenne sollevato perché la folla potesse vederlo e gridò qualcosa. All'improvviso i volti degli astanti si contorsero per la rabbia e la paura, le bocche che si aprivano come caverne spazzate dal vento notturno. «Pensano che sia stregoneria» disse Fezack. «Trucchi con la stoffa e le luci, gli sciocchi.» «E non lo sono?» Fezack tolse le mani dal cristallo e guardò sua figlia con solennità. «Oh, no» rispose. «È una cosa molto più seria. Si potrebbe persino definirlo un miracolo, anche se non è un buon auspicio per il nostro popolo in questo momento. Dobbiamo fuggire senza indugio. Vai a prendere Falo. Io metterò le redini allo yeka. Svelta, Alisha, ci sono le nostre vite in gioco.» «Magia!» Il grido si sollevò nell'aria e fu ripreso da altri. L'uomo con lo scialle agitò con ferocia l'oggetto nelle sue mani. «È volata via: io l'ho vista. Ha usato questo come ali, finché non le è servito più!» «Stregoneria!» «Non ha scalato la Rupe di Falla: ci è volata sopra come una cornacchia...» «Strega eyrana!»
«I loro uomini rapiscono e violentano le nostre donne...» «Sputano sulla nostra Dea...» «Sacrilegio, eresia e stregoneria: ecco cosa fanno al Nord!» «Come possiamo sopportare tali orrori?» «Guerra, dico io!» «Guerra!» «Finalmente ti ho trovato. Ho setacciato tutta la fiera per cercarti, amore mio.» Le braccia di re Ravn Asharson si chiusero intorno alla vita della Rosa Eldi e lei si voltò per guardarlo con un sorriso che gli mozzò il fiato. «Dobbiamo andare» disse la donna. «Lui sta cercando di riportarmi indietro: sento le antiche parole che mi attirano da lui...» Ravn si accigliò. «Svelto, ora, prima che usino il Vincolo.» Gli prese la mano e cominciò a spingerlo verso il mare. «Ci sono serie questioni in gioco qui» disse lentamente il re, sentendo la sua volontà venire meno. «Si parla di guerra... Ti farò portare in salvo dai miei uomini, ma io devo restare qui...» La Rosa del Mondo posò una mano fresca sulla sua bocca e Ravn sentì il sangue affluire alla sua testa così rapidamente che vacillò. «Portami alla tua nave» sussurrò la donna. «Fammi giacere nel tuo letto.» Privo di volontà, Ravn si lasciò condurre giù verso la spiaggia, mentre dietro di lui le grida che inneggiavano alla guerra aumentavano e infuriavano come fulmini in una tempesta. Parte quarta 17 Nord e Sud La faering ondeggiava sconsolata sul mare avvolto nell'oscurità. Erano all'incirca a trecento metri dalla riva e molto più a est rispetto alla fiera, nascosti all'ombra di una barbara nave del Nord con la prua scolpita come una testa d'orso che ruggiva piano nella notte. Selen, tremante a prua, la fissava con timore. Durante le ultime ore era stata strappata così repentinamente dall'unica vita che conosceva che non sapeva più neppure chi
fosse. Aveva ucciso un uomo e perduto il suo futuro. Adesso era lì, dentro un ricco abito confezionato per una donna eyrana che le lasciava il viso e la parte superiore del torace completamente esposti, sola con uno sconosciuto, un uomo che non parlava la sua lingua e che non aveva proferito parola da quando avevano lasciato la spiaggia. L'Eyrano era seduto di fronte a lei, massiccio e immobile come una roccia, la luce della luna che brillava nei suoi occhi mentre scrutava dietro di lei il silenzioso tratto di acqua che li divideva dalla pianura della Luna Caduta. Aveva tirato i remi in barca e sedeva immobile da più di un'ora, simile a un falco che osserva la preda. Niente finora aveva disturbato la liscia oscurità del mare, né un uccello marino, né una foca, né la testa quasi rasata della donna barbara che li aveva lasciati sulla spiaggia. Selen rabbrividì. Con mani tremanti si strinse l'orlo dell'abito intorno ai piedi, ma quella stoffa non era stata tessuta per la fredda notte sul mare. Selen tremava da quando avevano lasciato la fiera, anche quando era stata tutta sudata per la corsa tra le dune: i brividi che la scuotevano non erano dovuti solo al freddo. L'uomo del Nord continuava a guardare dietro alle sue spalle, e se si era accorto del suo disagio non l'aveva dato a vedere in alcun modo. La luna sbucò da dietro una nuvola. Quando la sua luce illuminò il viso dell'Eyrano e trasformò i suoi capelli e la sua barba in una cascata argentea, Selen pensò che non aveva mai visto un uomo così disperato. Pochi istanti dopo l'oscurità tornò e Selen lo sentì gemere come di dolore. «Non verrà» disse alla fine l'uomo. Lo disse in tono così piatto che lei capì che non era solo la mancanza di familiarità con l'Antica Lingua che privava di inflessioni la sua voce: il suo era il tono di chi aveva perso ogni speranza. Selen aprì la bocca per negare, ma il freddo ebbe il sopravvento e scosse il suo corpo con così tanta forza che fu come una seconda violenza. I brividi continuarono incessanti. «Oh» mormorò alla fine «fa così freddo...» «Per Sur... non ci avevo pensato!» La barca ondeggiò violentemente quando Erno si alzò, e improvvisamente Selen fu assalita dal suo odore, acuto e salato e orribilmente maschile, e le sue braccia furono intorno a lei per strofinarle con vigore la schiena. Un attimo dopo Erno si staccò bruscamente da lei. «Mia signora, mi dispiace...» balbettò, e poi tacque, sconvolto. Lei si era irrigidita come un palo al suo tocco: Erno aveva persino sentito la sua mascella serrarsi per la paura. In quel momento di puro terrore Selen fu vagamente consapevole che
l'uomo si era allontanato da lei, che il suo calore e il suo odore non l'avvolgevano più e che la barca stava di nuovo ondeggiando. Ma pur sapendo di trovarsi lì sul mare, gelata fino al midollo e con i piedi nudi e insanguinati poggiati sulla carena di una barca eyrana, da qualche parte nella sua mente lei era di nuovo nel tepore della sua tenda, intrappolata sotto l'opprimente peso dell'uomo che la stava aggredendo, la mente che gridava per il panico e l'orrore. In un mondo, Tanto stava soffocando le sue grida indignate con una mano e recitando, cosa assurda e scioccante, La deflorazione di Alesto di Kalento, sottolineata da movimenti osceni in una regione a cui lei non riusciva neppure a pensare. Nell'altro, invece, qualcuno le stava mettendo in mano una morbida stoffa parlandole come si calma un cavallo nervoso. Selen batté le palpebre stordita, riportata alla realtà dal calore contro la sua pelle, e guardò in basso. In grembo aveva un mantello di lana feltrata. La trama era grossolana e in quella luce fioca sembrava macchiato, ma quella stoffa era morbida come la pashkin più fine e preziosa. Sollevando lo sguardo, Selen vide che l'uomo del Nord la stava guardando. La pallida luce della luna delineava gli angoli del suo viso ansioso, gli occhi così penetranti da metterla in imbarazzo. Selen strinse con gratitudine il mantello, felice di avere qualcosa di pratico da fare per distrarsi, se lo avvolse intorno alle spalle e infilò le mani sotto le ascelle. Per diversi minuti rimase seduta in quel modo finché i brividi non si calmarono a sufficienza da permetterle di parlare. «Avete ragione» disse all'improvviso, costringendosi per la disperazione a riprendere il filo della conversazione che avevano interrotto. «Non verrà.» Erno chinò la testa, un gesto di sconfitta e rassegnazione. «Lo so» disse alla fine. «Lo so.» Selen lo guardò recuperare i remi con una smorfia. Li infilò negli scalmi con cura esagerata come per guadagnare qualche secondo ancora; poi, con un ultimo sguardo disperato verso la spiaggia cominciò a remare con lena per uscire da dietro il riparo offerto dalle navi ancorate al largo. Per molto tempo non ci fu alcun suono, a parte lo sciabordio dell'acqua contro la barca, il tonfo dei remi che si immergevano e riaffioravano, e il respiro ritmico di Erno nell'aria notturna. Selen chiuse gli occhi. Dormire, pensò. Sì, dormire mi farebbe bene... Lasciò che i piccoli rumori la cullassero e la trasportassero via da se stessa, nella notte tranquilla. Forse fu il respiro affaticato dell'uomo, o l'odore salino dell'oceano o il dondolio della barca, ma poco dopo essere scivolata nel sonno un'ondata di
panico la travolse. All'improvviso immagini del suo assalitore cominciarono a esploderle nella mente. Selen spalancò gli occhi e fissò il mare, ma il viso stravolto dalla libidine le apparve di nuovo tra le onde nere, e la luce della luna sulla schiuma prese la forma della macchia di sangue sulla tunica bianca di Belina... L'orribile invasione del suo corpo si ripeté davanti ai suoi occhi, ogni volta arricchita di nuovi e più vividi dettagli: la stretta delle mani di Tanto, l'espressione folle nei suoi occhi, la sensazione del manico del pugnale nel suo palmo; il modo naturale in cui le sue dita lo avevano stretto, come fosse una spazzola o un cucchiaio; il modo in cui il corpo di Tanto si era irrigidito e la sua bocca si era afflosciata quando il pugnale era penetrato in lui la prima volta; il fiotto di sangue sulle sue mani... Lo shock del liquido caldo sulla sua pelle e la facilità con cui la carne di lui si era lacerata l'avevano terrorizzata così tanto che la sua mente cosciente l'aveva abbandonata; in preda a una repulsione insostenibile, tutto quello che era riuscita a fare era stato tirare fuori la lama e colpirlo ancora, e ancora, finché non era caduto, liberandola dal peso oppressivo del suo corpo. No, pensò con forza. Non voglio pensare a queste cose. Se continuerò a pensarci, impazzirò. Si costrinse a svuotare la mente da ogni pensiero e fissò con determinazione il mare davanti a sé. Tutto ciò che riusciva a vedere era un'informe distesa d'acqua nera fusa con l'informe distesa di cielo nero in un punto impercettibile. Il mio futuro, pensò con improvvisa paura. Il mio futuro è vuoto e misterioso come la notte. Quando doppiarono il primo promontorio a est della pianura, Selen si voltò sul sedile di legno: le luci delle torce e i fuochi della Grande Fiera sbiadirono fino a diventare non più grandi di capocchie di spillo, quindi furono nascoste da alte scogliere le cui cornici gremite di uccelli marini biancheggiavano alla luce della luna. Erno remò per tutta la notte. A un certo punto Selen cadde in un sonno esausto, fortunatamente privo di sogni. Si svegliò sentendo il calore sul viso, e quando aprì gli occhi, vide il cerchio rosso del sole salire lentamente all'orizzonte. Le strisce di luce che si riversavano sul mare le avevano sfiorato le guance e la fronte, destandola. A poppa della barca, troppo vicina per i suoi gusti, c'era una figura, la sagoma delineata dalla strana luce dell'alba, il viso nient'altro che un'ombra contro l'ardente luccichio dei capelli. Spaventata, Selen cadde all'indietro dal sedile. «Karon!» gridò, e si coprì il viso con le mani, in preda al terrore. Si guardò freneticamente intorno. Non c'era nessun posto dove andare. Quello era Karon, venuto a
prenderla, perché lei stava morendo; o meglio, era già morta e ora la Dea avrebbe preso il suo cuore e l'avrebbe pesato mettendo sull'altro piatto della bilancia un carbone spento... La figura si chinò in avanti nella luce e si trasformò nel grosso uomo del Nord che l'aveva salvata sulla spiaggia della Luna Caduta. Era la prima volta che Selen lo vedeva alla luce del giorno e non poté fare a meno di fissarlo sbalordita. Era davvero un uomo impressionante, pensò scioccata: i capelli e la barba talmente biondi da sembrare d'argento, intrecciati in quel modo barbaro che usavano gli uomini del Nord, con pezzetti di osso e conchiglie e strisce di stoffa sbiadita; le fattezze del suo volto erano dure e scolpite come quelle di una quercia intagliata, e gli occhi... «Come dite, mia signora?» Selen tornò in sé con un gemito. Nello shock di vedere il volto del suo salvatore aveva dimenticato di non avere il velo a coprirla. Confusa, distolse gli occhi dallo sguardo intento dell'uomo, posandoli sui nodi strani e intricati che gli ornavano la barba. «Mi sono risvegliata da un sogno» mentì, non sapendo come spiegare il suo errore allo straniero. «Non capivo dov'ero.» Erno sorrise: un'altra rivelazione. Prima, al buio, era sembrato severo e minaccioso, il viso teso e guardingo; ora il sorriso accese una luce nei suoi occhi blu e gli allentò i muscoli della mascella. «Mi avete chiamato 'Karon'» disse continuando a sorridere. «Io ho buone orecchie. Non è il traghettatore che porta le anime infedeli attraverso il fiume di fuoco affinché Falla le giudichi e le castighi?» Selen lo fissò, sbalordita. Il sorriso di Erno si fece più ampio. «Non siamo tutti barbari come credete nel Nord, sapete. Alcuni di noi possiedono pergamene. E sì, qualcuno sa persino leggere. Io ho faticosamente letto tutta la Canzone della fiamma, tradotta nell'Antica Lingua, e anche parti di Precetti per una vita di devozione all'Unica in originale. Non posso dire di aver capito molto di entrambi, ma dei versi mi sono piaciuti molto.» Fece una pausa. «'E Karon sollevò il suo corpo per posarlo nella nave nera, e con la vela nera ammainata come l'ala di un corvo, vogò in silenzio verso il fumo scuro che saliva dal Regno del Fuoco'. Temo però di non riuscire a immaginare come sarebbe nella vostra lingua: troppi strani suoni per un povero Eyrano.» «Pensavo che gli uomini del Nord disprezzassero tali fantasie» replicò Selen, spinta dalla sorpresa a usare un tono di voce più aspro di quello che avrebbe voluto.
«Pensavate che tutto quello che facevamo fosse navigare, combattere e stuprare i nostri prigionieri? Be', odio deludervi...» Gli occhi di Selen si spalancarono, poi, con suo grande orrore, si riempirono di lacrime. «Mi dispiace» si affrettò a dire Erno, furioso con se stesso. «Per il corvo di Sur, avete ragione» aggiunse con amarezza. «Sono buono solo per maneggiare la spada e i remi. Dovrei lasciare i bei discorsi agli altri. Sur sa che non mi hanno mai portato a niente di buono.» La donna istriana si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Per favore, non dite un'altra parola» disse, e guardò il viso dell'uomo farsi nuovamente serio, gli occhi tristi. Il silenzio cadde tra di loro, e fu subito lacerato dal lugubre grido di un gabbiano in lontananza, sopra la terra. Selen si voltò per guardarlo volteggiare sulla baia contornata di verde e poi più su, verso le dolci colline intervallate da spuntoni di roccia lambiti dalle onde. Quando guardò verso il punto da cui erano partiti, vide le cime ravvicinate dei monti Skarn, i picchi innevati che brillavano d'oro nella luce del mattino. Tre ore dopo che il sole era arrivato al punto più alto del cielo, doppiarono un altro promontorio e furono premiati dalla vista di un porto in lontananza. Nelle acque tranquille ondeggiava una miriade di vascelli, un centinaio di case si arrampicava sulle pendici boscose delle colline. Su un picco svettava una fortezza di pietra con un'alta torre di guardia. La cittadina sembrava piccola e tranquilla, la risposta a una preghiera. Selen si leccò le labbra secche e sentì i morsi della fame. Curioso che il suo corpo dovesse avanzare pretese così semplici e impellenti persino nelle circostanze più drammatiche. Il suo compagno tirò i remi in barca, si riparò con la mano gli occhi arrossati dal sole e guardò la città senza dire una parola. Dopo un momento lasciò cadere la mano. «Sono spiacente di dover infrangere il nostro voto di silenzio,» disse con riluttanza «ma avete idea di cosa sia questo posto?» L'uomo strinse gli occhi per la forte luce. Selen lo guardò incredula. «E come potrei saperlo?» chiese. «La pianura della Luna Caduta è l'unico posto dove sono mai stata in vita mia. Io vengo da Cantara.» Come se quello spiegasse tutto. «Pensavo che poteste conoscere almeno un po' il vostro paese» insisté Erno.
«Non si insegna la geografia, alle donne dell'Istria» replicò Selen con amarezza. «Non viene ritenuto utile per gente come noi che non avrà mai la libertà di spostarsi oltre il giardino di casa, o che al massimo compirà il viaggio necessario per essere venduta a un marito. Con una vita del genere, riuscite a immaginare la tentazione che la vista di una mappa potrebbe costituire? Potremmo renderci conto che il mondo è un posto molto più vasto di quello che pensavamo e sentirci ancora più confinate di quanto non siamo già. Potremmo essere sedotte da nomi esotici e dal richiamo di terre lontane. Potremmo persino pensare di contrastare il volere dei nostri padri, che sanno meglio di noi quale strada le nostre vite dovrebbero percorrere. Potremmo persino fuggire via verso il mare.» Erno notò il luccichio nei suoi occhi e il tono aspro della sua voce: quella silenziosa donna del Sud le ricordava Katla quando era di cattivo umore. Annuì, non sapendo cosa dire. Lui invece ne aveva viste a dozzine, di mappe dell'Istria, e ora avrebbe tanto voluto averle guardate con più attenzione. Ciononostante, rifletté, che differenza faceva il nome di quella città? Era un porto straniero, come tutti i porti di quel paese, d'altronde. Si affrettò a rimettere i remi in acqua e remò con maggiore alacrità per allontanarsi. «Cosa state facendo?» chiese Selen allarmata. Erno la guardò con solennità. «Voi cosa pensate che faccia?» «Vi state allontanando dalla città.» «Esattamente.» «Ma ci serve cibo, e acqua, e riposo...» «Se volete riposare, fate pure» tagliò corto l'uomo. Selen si voltò per guardare la città allontanarsi dietro di loro. «Non capisco. Perché non entriamo in porto? Avete idea di dove siamo?» «Alla fin fine è un porto istriano, e io cosa sono? Un marinaio eyrano, solo in mare con una nobildonna istriana rapita con indosso l'abito di un'altra; e per di più una donna che ha del sangue sul viso e lividi sulle braccia.» Selen si portò le mani alla faccia. «Sangue?» Quello di Tanto o il suo? Il pensiero del sangue di Vingo sulla sua faccia era troppo orribile da contemplare. Con furia disperata si chinò sul lato della barca e fissò le onde color verde opaco, ma l'acqua era troppo mossa per dare un buon riflesso. Allora ne prese una manciata e si strofinò vigorosamente il viso, restando senza fiato per il freddo; alla fine si asciugò con un angolo dell'abito rosso. «Se n'è andato?» chiese presentando il viso a Erno con la voce petulante
di un bambino viziato. La sua pelle, rinfrescata dalla fredda acqua di mare, brillava di vitalità e i suoi occhi erano scuri e dolci come quelli di una foca. Per un attimo Erno intravide la bella ragazza senza preoccupazioni che doveva essere stata solo il giorno prima; poi, quasi come se la giovane si ritraesse in se stessa sotto i suoi occhi, l'espressione guardinga ritornò, e insieme riaffiorarono le ombre nere simili a mezzelune sotto i suoi occhi e le rughe di tensione agli angoli della bocca. Fu come se gli avesse permesso di vedere troppo di sé. All'improvviso Erno si sentì a disagio in sua presenza. «Se n'è andato» confermò con voce pacata e si diede da fare con i remi. Sentì gli occhi di lei sul viso e capì che stava riflettendo sulle sue parole. La giovane tacque a lungo ed Erno quasi dimenticò che era lì, concentrato com'era sul movimento delle onde e dei remi, dei remi e delle onde. Alla fine la zona costiera si fece più impervia, e apparvero calette e fiordi dove gli alberi arrivavano fin dentro il mare. L'entrata delle prime due insenature che oltrepassarono era bloccata dagli scogli, ma una terza cala sembrava offrire un passaggio libero fino a riva. Facendo girare la barca con un solo remo, Erno si diresse verso terra, verso quella che gradualmente si rivelò essere un'ampia spiaggia di ciottoli circondata da betulle. Lo scafo grattò sui sassi ed Erno saltò in acqua. Trascinò la barca fuori dalle onde, fece scendere la donna istriana e poi tirò la faering a riva. Selen si allontanò a fatica da lui risalendo lungo la spiaggia, le gambe deboli e piene di crampi. Vacillando leggermente, con i ciottoli che le ferivano i piedi nudi, si guardò lentamente intorno. Dietro di lei sentì l'Eyrano che mormorava qualcosa, come da una grande distanza... ma già i suoi demoni la stavano chiamando e perciò lei li respinse insieme a quella voce e si costrinse a studiare con attenzione il nuovo ambiente che la circondava. Alberi di betulle, felci, rovi. (Le mani di Tanto, la sua bocca...) Sporgenze rocciose tra le foglie; ombre scure dietro di esse. (Il sangue...) Da un lato della spiaggia le rocce bianche si ergevano fino a diventare scogliere, mentre dall'altro si intravedeva un basso promontorio. (La lama del coltello che strideva contro la cartilagine e le ossa...) Tra le alghe gettate sulla spiaggia dal mare, pezzi di legno marcio, conchiglie, un pesce morto, mosche ronzanti. Selen si sentì improvvisamente scoraggiata. Non c'era un riparo, nessun segno di abitazione e il sole aveva cominciato la sua lenta discesa verso occidente. Ma cos'era venuto in mente all'uomo del Nord di fermarsi lì? Si voltò, e scoprì che se n'era andato. Si guardò intorno, sentendo il panico ritornare, ma non c'era segno di lui... né sulla spiaggia, né
in mare, né tra gli alberi. La barca era rimasta lì dove lui l'aveva tirata in secca, inclinata da un lato, l'acqua di sentina che colava luccicante sui ciottoli. La borsa dell'Eyrano non c'era più. Selen aprì la bocca per chiamarlo, ma si rese conto che non gli aveva neppure chiesto il nome. Si avventurò per qualche metro oltre il margine del bosco per cercarlo, ma non era mai stata oltre il giardino ben curato di casa sua, e sempre in compagnia degli schiavi di famiglia. Qui c'erano rovi che si avvinghiavano avidamente al suo ingombrante abito rosso e rami d'edera in attesa di catturare un piede incauto e dovunque un silenzio che le faceva accapponare la pelle. Poco più avanti il silenzio fu rotto dal fruscio di una qualche creatura nel sottobosco. Per i suoi nervi già provati fu davvero troppo. Selen si affrettò a tornare verso la spiaggia, si avvolse nel mantello di lana e aspettò il ritorno dell'Eyrano. E se non tornerà, io senza dubbio morirò di fame o di freddo, pensò tetramente, e così lui non dovrà più sopportare di avermi con sé. Di lì a poco il freddo dei ciottoli cominciò a insinuarsi tra la stoffa. Passarono molte ore ed era già molto buio quando l'uomo del Nord tornò. Selen sentì dei passi sui ciottoli dietro di lei e si tirò a fatica in piedi. «Dove siete stato?» gridò infuriata. «Mi avete lasciata sola senza dire una parola. Pensavo che ve ne foste andato per sempre e mi aveste abbandonata al mio destino.» Erno gettò un fagotto a terra, che produsse una serie di rumori diversi, come se celasse i più disparati oggetti. «Quasi vorrei averlo fatto!» La voce dell'uomo era lugubre, la sua solita cortesia scomparsa. Scioccata dalla veemenza del suo tono, Selen tacque. Pochi attimi dopo l'uomo del Nord aggiunse: «Inoltre, vi ho detto piuttosto chiaramente che sarei andato a studiare il terreno. E ho detto anche che quando l'acqua nella barca si fosse asciugata, avreste fatto meglio a cercare riparo al suo interno e aspettarmi lì.» Selen ricordò allora il vago mormorio delle sue parole e il modo in cui lei le aveva ignorate, e si sentì arrossire nell'oscurità, in parte per l'imbarazzo, emozione insolita per lei, e in parte per la rabbia. «Come avete potuto pensare che potessi restare in quell'affare puzzolente un momento di più!» esclamò. «Forse avrei fatto meglio a restare alla Grande Fiera e affidare il mio destino al giudizio di gente civile piuttosto che perire a causa della noncuranza di un barbaro.»
Ci fu un momento di silenzio in cui Selen sentì gli occhi dell'uomo sul suo viso. Poi l'uomo del Nord rise, ma non era una risata piacevole. «Gente civile! Se non ho frainteso le vostre parole quando io e Katla vi abbiamo trovato, temevate che la vostra cosiddetta gente civile vi avrebbe bruciato per il vostro crimine.» «Il mio crimine?» Il tono di voce di Selen crebbe per l'indignazione. «Avete ucciso un uomo, o così credo abbiate detto.» «Era un porco, una creatura meschina. Ha ucciso la mia schiava. Lui... lui mi ha... aggredita. Io mi stavo solo difendendo.» «Io ho scelto di credervi» disse Erno con freddezza. «Altri, più barbari di me, forse non l'avrebbero fatto.» Cominciò a slegare i nodi che chiudevano l'enorme fagotto. «Come osate trattarmi in questo modo, come se mi steste facendo un favore ad accettare la mia parola?» La rabbia annientò in un colpo il freddo e lo shock. «Io sono la nobile Selen Issian, unica figlia del Signore di Cantara!» Erno fece un profondo respiro. Qualcosa in lui era cambiato nelle ultime ore, rendendolo più duro e irritabile. «Ieri, Selen Issian, voi potevate anche essere un membro di un nobile casato istriano con schiavi da tiranneggiare e denaro da sprecare; ma oggi siete una reietta, sola al mondo, priva della protezione della legge e della vostra famiglia. Non vedo che differenza ci sia tra noi, a parte il fatto che io almeno sono il proprietario dei vestiti che indosso.» La bocca di Selen si spalancò per lo stupore. E poi la giovane si gettò contro di lui. I suoi pugni, induriti dalla rabbia, lo colpirono sul petto, sulle braccia, sul collo. Un colpo lo prese sotto il mento e la sua mascella si chiuse dolorosamente facendogli tremare i denti. Erno fece un passo indietro, sbalordito dalla violenza della donna, turbato all'idea che fosse stato lui a scatenarla. La donna continuò ad attaccarlo, gridando nella lingua del Sud, che in quel momento non sembrava affatto dolce. Tutto ciò che Erno riuscì a capire fu la parola istriana hama, 'uomo', ripetuta all'infinito. L'Istriana gli graffiò il collo e gli morse il braccio. Tentò anche di dargli un calcio in mezzo alle gambe, ma lui vide la veste rossa sollevarsi alla luce della luna e schivò il colpo. Meno male, pensò, che non aveva un coltello questa volta. Alla fine riuscì a stringerle entrambi i polsi con una mano, mentre con l'altra la attirava a sé e la teneva stretta contro il suo petto in modo che non potesse fare altri danni. Rimasero fermi in quel modo per diversi minuti, finché Erno non la sentì calmarsi. E continuò ugualmente a
tenerla stretta, pensando che non aveva mai abbracciato una donna per così tanto tempo, a parte sua madre quando stava morendo, e lei era stata fragile e minuta come un uccellino quando era arrivata alla fine, tutta un'altra cosa rispetto al demone istriano che teneva ora tra le braccia. E poi pensò a Katla, e a come l'aveva baciata fuori dal Raduno, alla sensazione delle labbra di lei sulle sue; a come le mani di Katla avevano afferrato le sue spalle, a come lei aveva inclinato la testa perché i loro nasi non si scontrassero e a come lui si era chiesto come faceva lei a sapere con esattezza come accendere il suo desiderio. E poi ricordò l'odore dell'amuleto che aveva preso fuoco, il puzzo acre dei capelli bruciati... all'improvviso sentì il bisogno di allontanare la donna istriana da lui. La spinse via con più forza di quella che avrebbe voluto usare, perché la donna cadde pesantemente a terra, ma nella sua disperazione lui non lo notò neppure. Corse giù per la spiaggia fino all'acqua e lì, con gli occhi che gli bruciavano e la mente in subbuglio, vomitò rumorosamente, ansimando e tossendo finché non ci fu più niente da espellere. Riportata in sé dalla caduta, Selen rimase a terra ad ascoltare i terribili suoni che faceva l'Eyrano e provò un momento di genuino terrore. Aveva forse mangiato qualcosa di velenoso mentre era via? E se fosse morto? Lei sarebbe rimasta lì, sola, senza viveri né riparo e senza nessuno al mondo a cui chiedere aiuto... Sarebbe riuscita a remare da sola fino a qualche cittadina della costa in cui non avessero sentito parlare del Signore di Cantara e della figlia scomparsa? Le sembrava alquanto improbabile. Selen si rese conto che mentre lei era tutta presa dai suoi egoistici pensieri, i conati di vomito si erano trasformati in qualcos'altro. Si accigliò. L'uomo del Nord stava forse morendo? Sembrava essere diventato improvvisamente molto silenzioso, a parte degli strani rumori soffocati. Selen trattenne il respiro e tese le orecchie per ascoltare meglio. Stava piangendo! Non aveva mai sentito un uomo piangere, e la cosa la spaventava ancora di più. Selen si mise a sedere, e i ciottoli scricchiolarono sotto di lei. L'Eyrano smise improvvisamente. Guardando nell'oscurità, Selen vide una sagoma scura che si stagliava contro il mare luccicante. Poi la sagoma si alzò e cominciò ad allontanarsi da lei lungo la spiaggia. Selen sentì più che vedere il momento in cui l'uomo del Nord lasciò la spiaggia, perché lo scricchiolio dei ciottoli sotto i suoi stivali si trasformò nel fruscio della vegetazione. Per diversi minuti Selen rimase immobile come una statua, le braccia strette intorno alle ginocchia, ad ascoltare i suoni che lui faceva
nella foresta, temendo che se si fosse mossa di nuovo lui, sentendola, avrebbe deciso di abbandonarla davvero. E chi potrebbe biasimarlo? pensò, vergognandosi improvvisamente del suo scoppio d'ira. Poi sentì nuovamente i suoi passi sui ciottoli. Seguirono dei piccoli rumori che Selen non riuscì a interpretare e all'improvviso un fiotto di colore illuminò la notte: l'Eyrano, chino su un piccolo cono di bastoncini in un cerchio di pietre, soffiava sulla piccola fiamma, che prese vita e cominciò ad ardere luminosa. «Ecco» disse l'Eyrano e gettò qualcosa ai piedi di Selen. Qualunque cosa fosse cadde con un leggero tonfo sui ciottoli. Perplessa, Selen si chinò in avanti, tese la mano e la ritirò di scatto con un gemito. «Un animale morto!» gridò inorridita. «Perché mi avete portato un animale morto?» «Dovreste mangiare.» Selen fissò la sagoma scura sul terreno. Era piccola e piena di pelo. La toccò con cautela con il piede e l'animale cadde di lato, rivelando una coda bianca e lunghe orecchie. Un coniglio, con la pancia tutta insanguinata dove gli erano state rimosse le interiora. «Come posso mangiarlo?» chiese Selen disgustata. «Spellatelo e cucinatelo sul fuoco» rispose Erno con voce cupa. Poi le voltò le spalle. «Ma non so come si fa!» «Allora mangiatelo crudo e con la pelliccia, per quel che me ne importa!» Selen lo guardò sgomenta. Per un momento le venne voglia di piangere; poi però afferrò la creatura e la portò alla luce. «Datemi un coltello» disse con rabbia. Erno la studiò per un momento con circospezione, poi le gettò il suo coltello. «Fate scivolare la lama tra la pelliccia e la carne» spiegò con maggiore gentilezza. «Poi strappate via la pelle. Non è difficile.» La guardò per un momento mentre lottava goffamente con il cadaverino, poi si allontanò nell'ombra. Lacrime di autocommiserazione bruciarono gli occhi di Selen e lei le ricacciò indietro furiosa. Che sia maledetto nell'inferno di fuoco della Dea, pensò: avrebbe cucinato e mangiato tutto lei, compresa la pelliccia, se lui non fosse tornato. Qualche tempo dopo era riuscita a strappare la maggior parte della pelle dall'animale, anche se sentire quella carne viscida e fredda sotto le sue dita
le aveva fatto venire da vomitare. Poi l'aveva cotta a sufficienza da farle tornare l'appetito. Dato che l'uomo del Nord non tornava, Selen cedette alla fame e divorò quanto poteva dell'animaletto; solo all'ultimo ricordò che la buona educazione avrebbe voluto che ne lasciasse una parte per lui. Si sedette e aspettò con quel poco che rimaneva dell'animale in mano, aspettò finché il fuoco si affievolì e la luna salì allo zenit. Alla fine l'Eyrano tornò; senza dire una parola, si sedette di fronte a lei e fissò le fiamme morenti. Rimase così, taciturno e scuro in volto per diversi minuti, quindi frugò nella borsa e tirò fuori un pezzo di spago colorato. Cominciò poi a farvi dei complicati nodi, cantilenando per tutto il tempo nella gutturale lingua eyrana. Legò una piuma, nera e luccicante, a uno dei nodi, mentre a un altro attaccò una conchiglia bucata. Infilò la mano nella tunica e tirò fuori un sacchettino di pelle, da cui estrasse una ciocca di setosi capelli rossi, bruciacchiati a un'estremità, e la intrecciò nell'ultimo nodo. Cominciò una nuova cantilena per quell'ultimo nodo, il più complicato di tutti, ma dopo un momento la sua voce si spezzò e l'Eyrano tacque. La luce dei tizzoni ancora ardenti illuminò i suoi occhi bassi mentre continuava a rigirare lo strano manufatto tra le mani. Selen moriva dalla voglia di chiedergli cosa fosse e perché l'aveva fatto, ma non riusciva a trovare le parole. Erno, però, sentì gli occhi della donna su di sé. «Mi dispiace per quello che ho detto prima» disse, sollevando lo sguardo. «O piuttosto, per il modo in cui l'ho detto.» Selen ebbe la sensazione che stesse cercando di distrarsi da qualche cosa, ma non poteva certo ignorare l'offerta di pace che le stava facendo. «Perché non avete mangiato con me?» chiese, ma lui si limitò a stringersi nelle spalle. Poi: «Come vi chiamate, uomo del Nord?» insistette Selen. Quella, a quanto pareva, era una domanda più facile. «Erno Hamson, del Clan dei Rocciacaduta, originario delle Isole Occidentali dell'Eyra» rispose. «Allora, Erno Hamson, sono io che dovrei scusarmi» mormorò Selen. «Per salvarmi dall'ira di mio padre e della famiglia dell'uomo che ho ucciso voi rischiate la vostra vita. Non avevo mai pensato che ci potesse essere tanta nobiltà tra gli uomini che vengono chiamati nostri nemici, ma vedo che ho molto da imparare.» Selen tacque per un momento, cercando le parole giuste. «La prima cosa che ho imparato è che un nemico non è sempre ciò che sembra, e neppure un amico. E che ci si può fidare meno della Dea che di un alto e silenzioso uomo del Nord dal cuore spezzato.» Erno tirò indietro di scatto la testa come se lei l'avesse aggredito di nuo-
vo. «Come fate a saperlo?» chiese. «Siete una veggente, che riesce a scrutare nell'anima di un uomo e ad ascoltare i suoi più reconditi pensieri?» «Ho visto il modo in cui l'avete baciata, sulla spiaggia.» Erno si passò una mano sul viso. «E come l'avete aspettata per tutto quel tempo, finché non avete capito che non sarebbe venuta. E allora ho visto la luce abbandonare i vostri occhi.» «Era buio.» Selen sorrise con tristezza. «Era ancora più buio dopo.» Un pesante silenzio calò in mezzo a loro, finché alla fine la curiosità di Selen ebbe la meglio. «E quell'ultima cosa che avete legato in quella vostra serie di nodi è una ciocca dei suoi capelli, vero? Ho notato il colore dove la tintura non aveva preso e ho capito che c'era qualcosa sotto. Ditemi, siete un mago? Cercate di riportarla da voi costruendo un talismano?» Le mani di Erno strinsero convulsamente l'intreccio che aveva fatto per Katla. Selen vide le sue nocche sbiancare. «Quando vi ho lasciato ho attraversato le colline per arrivare a quella città che avevamo visto. Le notizie hanno viaggiato più velocemente di noi. Già delle guardie erano arrivate dalla Grande Fiera, alla ricerca di una banda di razziatori del Nord e di una nobile istriana rapita. E avevano portato con loro delle notizie. Katla Aransen, sono stati molto precisi sul nome, è morta. È stata catturata quando ha attirato le guardie lontano da noi. Aveva con sé il pugnale che voi avevate gettato a terra e non hanno creduto alla sua storia. L'uomo che avete detto di aver ucciso è risorto miracolosamente, a quanto pare, e l'ha accusata lui stesso. E così la vostra gente tanto civile l'ha bruciata. L'hanno bruciata come un animale. L'hanno bruciata finché non c'è rimasto niente di lei che uno scialle finemente tessuto, uno scialle con proprietà magiche; uno scialle, hanno detto loro, fin troppo costoso e raffinato per una donna barbara dei Rocciacaduta. Hanno detto che doveva averlo rubato a voi durante l'aggressione.» Gli occhi blu di Erno erano diventati duri e freddi come la pietra. Lo sguardo di Selen cadde sui resti del coniglio che teneva ancora in mano, e con un brivido li gettò via. I resti del corpicino giacquero tra di loro sui carboni ormai freddi come un'accusa. «Gliel'avevo comprato io quello scialle,» continuò Erno con voce piatta «e ora è morta e noi siamo qui, vivi e liberi. Siamo degli assassini, voi e io. Io ho ucciso la donna che amavo più della mia stessa vita, e voi, che pensavate di averne ucciso uno, in realtà ne avete uccisa un'altra...»
La sua voce si spezzò. Erno si spinse a fatica in piedi, girò ancora una volta l'intreccio tra le mani, accarezzando col pollice la sottile ciocca di morbidi capelli... Poi lo gettò tra i tizzoni e si incamminò lungo la spiaggia. Si accasciò sui ciottoli al riparo della barca. Anche se Selen continuò a guardarlo per più di un'ora, non si mosse neppure una volta. 18 La regina delle Isole del Nord Ravn Asharson, re del Nord, accese una candela e guardò giù verso la forma addormentata della donna che aveva preso in moglie. In verità la loro unione non era stata ancora formalizzata da tutti i rituali richiesti dalla legge: la loro partenza dalla Grande Fiera era avvenuta così in fretta che non c'era stato il tempo per tali inezie. Però avevano preso la carne e il sale insieme, la prima per la terra, l'altra per il mare, e lui se l'era già portata a letto un paio di dozzine di volte o anche più; il tutto in pochissimi giorni, con l'unico riparo di una tenda di cuoio tra loro e il resto dell'equipaggio di curiosi. Tra un giorno, con il vento a favore, avrebbero visto l'indistinto contorno delle scogliere delle isole di Stagno e da lì c'era meno di mezza giornata di navigazione dalla sua fortezza di Halbo. Allora i latori della legge avrebbero potuto fare tutte le noiose e inutili cerimonie che volevano. Ravn avvicinò la candela in modo che il suo cerchio di luce illuminasse la guancia della donna, la linea lunga e diritta del suo naso contro il cuscino, il modo in cui una ciocca dei suoi lunghi capelli si era intrecciata durante i loro esercizi e ora le copriva la gola e una spalla nuda: una sirena catturata in una rete d'oro. E che preda! Ravn si ritrovò a trattenere il fiato per paura di svegliarla e sorrise, l'ampio, pigro sorriso di un gatto chiuso per sbaglio in una pescheria. Era l'uomo più fortunato del mondo, pensò. Prima di poterselo impedire, aveva già afferrato un lembo della pelliccia di orso delle nevi e l'aveva spostato verso il basso per denudare l'areola e il capezzolo del suo seno sinistro, pallido e timido come gli statici rosati che crescevano sulle scogliere occidentali del continente; ricordò come all'apice della passione quella dolcissima parte di lei era diventata di un rosso scuro, carnale. Persino ora, esausto e soddisfatto com'era, sentì uno spasmo di caldo desiderio impadronirsi dei suoi lombi, e provò una leggera vergo-
gna. Era turbato dal contrasto tra la vulnerabile creatura addormentata davanti a lui, quasi una bambina raggomitolata su se stessa, e la selvaggia tentatrice che l'aveva cavalcato sino all'oblio fino a notte fonda, i capelli che si agitavano come serpenti intorno al corpo e il sudore che le colava giù sulla pancia. Ravn aveva conosciuto molte donne nella sua vita, ma nessuna come questa. Le donne dell'Eyra erano spesso belle, more o bionde che fossero, o con i capelli rossi tipici delle Isole Occidentali: snelle e dalle gambe lunghe, o con corpi floridi e robusti come quelli dei loro preziosi cavalli di montagna, lui le aveva amate tutte. Non aveva mai dovuto cercare il piacere sessuale, perché in un modo o nell'altro era stato il piacere a trovare lui. Era bello essere il re, questo era certo; ma anche prima dell'incoronazione e in un'epoca in cui la successione sembrava un evento a dir poco remoto, donne e ragazze di ogni tipo gli si erano offerte con tanta grazia e allegria che lui non aveva mai sopportato di essere scortese e rimandarle via insoddisfatte. Ravn amava le donne e le donne amavano Ravn. I primi anni lui le aveva trovate tutte affascinanti, un paese inesplorato da scoprire. Avevano tutte un odore diverso; tutte provavano sentimenti diversi; tutte si comportavano in maniera diversa. E quando parlavano, la notte tardi o la mattina presto, chiuse nella sua camera da letto, distese tra le pelli d'orso e di foca, le pellicce di volpe e di coniglio, lui le ascoltava: aveva imparato più di quanto si sarebbe mai aspettato dalle loro chiacchiere. Molto più che in compagnia degli altri uomini. Le donne sapevano raggranellare frammenti di conoscenza ovunque, come piccole gazze ladre che raccolgono oggetti luccicanti per i loro nidi e poi li sanno mettere insieme per dare loro interessanti forme, creando storie assolutamente logiche con la più improbabile serie di incidenti e le loro osservazioni. Ravn era rimasto sorpreso di scoprire quanto spesso quelle storie si erano rivelate vere, in parte o del tutto, quando le fonti da cui erano state raccolte erano così diverse. Un bottone mancante ritrovato in un luogo insolito (un'osservazione casuale di Janka, che gli faceva il bagno), uno sguardo furtivo tra due cortigiani apparentemente estranei tra loro, notato da Therinda Rolfsen, una moglie brutta spedita via sul continente per portare a termine un'impresa impossibile, storia riferita da Kiya Fennsen: i frammenti erano stati collegati insieme ed era nata la voce di una relazione passionale tra una delle più nobili dame della corte del Nord e uno dei più poveri, ma affascinanti amministratori di proprietà terriere del re: mentre è
via, la moglie di quell'uomo muore per una caduta da cavallo attraversando le pericolose Brughiere Selvagge, e poche settimane dopo l'amministratore precedentemente squattrinato si ritrova improvvisamente elevato al rango di castaido del maniero del Conte di Jorn. In meno di un anno, dopo che suo marito il conte di Jorn viene dato per disperso in mare, la nobile Garsen e il castaido diventano marito e moglie. Da un piccolo bottone di osso di balena a due morti senza testimoni: Ravn aveva così imparato a prestare attenzione, quando ne aveva voglia, anche alle più piccole cose del mondo. E fu per questo che guardando la Rosa Eldi si chiese come potesse una donna nomade che aveva viaggiato per mesi e mesi attraverso montagne e pianure e i vasti deserti del Sud alla mercé del sole e del vento possedere una pelle di tale purezza. Era come se il mondo non potesse lasciare alcun segno su di lei... o come se lei non fosse di questo mondo. Lui non le aveva chiesto molto di sé perché in verità avevano parlato molto poco. Ma le poche domande che le aveva fatto, mentre giacevano insieme la notte, con il vento che faceva scricchiolare la vela sulla loro testa, il fragore del mare tutto intorno a loro e le voci soffocate degli uomini di guardia, non gli avevano permesso di scoprire molto di lei. Certe volte mentre parlavano lei lo guardava come se potesse vedere attraverso di lui, attraverso lo scafo della nave e dentro le profonde e scure acque sotto di loro. Altre volte bastava gli facesse il più piccolo dei sorrisi e tendesse la mano per toccarlo sul viso o sul braccio e ogni parola che stava per dirle gli sfuggiva di mente, come uno stormo di uccelli spaventati. Come se sentisse i suoi occhi su di lei, la donna si mosse. Altre donne, aveva notato Ravn nel corso degli anni, si svegliavano lentamente, con un tremolio di palpebre, uno stiracchiamento, uno sbadiglio, un momentaneo disorientamento. La Rosa Eldi, invece, sembrava avere il sonno leggero di un gatto, e come un gatto passava dall'immobilità del sonno alla lucidità della veglia nello spazio di un attimo. «Dove sono?» La donna si mise a sedere di scatto, battendo le palpebre alla luce della candela e le pellicce caddero via in una nuvola di bianco. Per un momento Ravn ammutolì alla vista del suo corpo nudo improvvisamente rivelato in tutta la sua perfezione, poi abbassò la candela e si inginocchiò accanto a lei. «Dov'eri ieri, e il giorno prima, amore mio: al sicuro sulla mia barca che attraversa l'oceano diretta verso il mio regno.» Ogni volta che si svegliava era come se il sonno avesse cancellato la sua memoria: le prime parole erano sempre per quella domanda. Ora fece se-
guire a quella prima domanda una seconda, ancora più strana: «Chi sono io?» La prima volta Ravn aveva pensato che stesse scherzando, che quello fosse un gioco che le piaceva fare per farsi fare i più strani complimenti, e perciò lui aveva sempre risposto con cose come 'il desiderio del mio cuore' o 'mia moglie e mia regina', 'la donna più adorabile' o 'la creatura più perfetta in tutto il mondo conosciuto'. Ma ogni volta lei aveva insistito, gli occhi pieni di mistero alla prima luce dell'alba che penetrava attraverso il lembo della tenda: «Il mio nome: dimmi il mio nome.» E così le aveva mormorato: «Sei la regina delle Isole del Nord, ora, la Signora dell'Eyra», ma lei aveva scosso la testa frustrata finché lui non le aveva detto: «La Rosa Eldi, tu sei la Rosa Eldi, Rosa del Mondo...» «Io ti conosco solo come la Rosa Eldi» ripeté ora. «Tu sei la Rosa del Mondo. È tutto quello che so di te, dal momento che non vuoi dirmi altro.» «La Rosa Eldi. Rosa del Mondo.» Lo ripeté più e più volte, come una preghiera... o come se stesse cercando di impararlo a memoria. Quel giorno, il quinto che trascorreva con lei, lo ripeté solo quattro volte. Il primo giorno lo aveva fatto una dozzina di volte o anche più; forse la situazione stava migliorando. Ravn si era chiesto se essersi ritrovata sola su una strana nave con gente di cui non conosceva la lingua l'avesse resa comprensibilmente nervosa e insicura di sé; oppure, ipotesi improbabile dato il comportamento disinibito e impavido che teneva la notte, se avesse paura di lui. Ma ora, come una rivelazione, gli tornò alla mente il ricordo di uno dei consiglieri di suo padre: l'uomo era stato colpito da un osso di bue gettato da una delle guardie del re nel bel mezzo di una rissa. Un osso piuttosto grosso, ricordò Ravn: l'osso di una coscia, o forse della mascella, e aveva colpito l'uomo proprio su una tempia e l'aveva tramortito all'istante. Il giorno dopo il poveretto era di nuovo in piedi e andava in giro con un bernoccolo in testa grande come un uovo di gabbiano, ma non ricordava quello che gli era accaduto, né il suo nome. Le guardie si erano divertite con lui ed erano riuscite a persuadere il consigliere, un uomo timido e mansueto che non avrebbe mai fatto male neppure a una mosca, che quel bernoccolo se l'era andato a cercare, perché aveva tormentato una delle servette con suggerimenti lascivi e lei gliele aveva date di santa ragione con il ramaiolo. Il consigliere, sconvolto per quanto aveva fatto, era persino andato a cercare la ragazza in questione per scusarsi con lei, accrescendo l'ilarità delle guardie. Il consigliere alla fine aveva recuperato la memoria, ricordò Ravn, ma non aveva mai ricordato
gli eventi della sera in cui l'aveva persa. Chinandosi in avanti prese tra le mani la testa di sua moglie, sentendo il consueto brivido di eccitazione percorrergli la mano e il braccio mentre la toccava. Allargò le dita, premendo i polpastrelli sul cranio, ma le ossa sembravano lisce e regolari al tocco; un istante, dopo lei tirò indietro la testa di scatto. «Cosa stai facendo?» chiese con voce piatta. «Ti sei per caso fatta male?» chiese lui con gentilezza. «Hai mai battuto la testa?» Ci fu una pausa, come se lei stesse riflettendo sul significato della domanda. «No.» Lo disse con decisione, come per impedire qualsiasi ulteriore discussione, e per sottolineare la fine della conversazione si scostò da lui e si alzò in piedi. La sua testa sfiorò il tetto della tenda e la candela posata sul ponte illuminò la pelle liscia delle sue gambe e gli ovali perfetti delle ginocchia, lasciando in ombra il resto di lei. «Desidero andare fuori» disse passandogli davanti diretta verso il lembo della tenda, nuda come il giorno in cui era nata. Nei giorni precedenti Ravn aveva imparato a scattare in piedi in tali circostanze: ora infatti la raggiunse prima che potesse uscire e la avvolse nel suo mantello. «È freddo là fuori» disse. «Il vento che spira dal mare la mattina presto può essere piuttosto... tonificante.» Non riusciva a spiegarle l'indecoroso interesse che l'equipaggio avrebbe mostrato per il suo corpo nudo, anche perché in qualche oscuro angolo della sua mente gli era nato il terribile sospetto che i loro sguardi le avrebbero dato un perverso piacere. Uscirono insieme sul ponte. Era vero: il vento era secco e freddo e penetrava la stoffa e la carne per giungere fino all'osso, ma la Rosa Eldi sembrava non notarlo affatto. La pelle di Ravn, pur abbronzata e temprata da anni di esposizione agli elementi, si stava rapidamente corrugando in un attacco di pelle d'oca, ma i piedi nudi e i polpacci di sua moglie rimanevano lisci come seta circesiana. A est il sole era appena spuntato all'orizzonte; la lunga striscia di nuvole color porpora si era tinta d'oro, e strisce di luce rosso scuro macchiavano la parte bassa del cielo come un tuorlo d'uovo rotto. «Ci sarà una tempesta» affermò arcigno il timoniere, gli occhi fissi non sul suo re, ma sulla donna in piedi vicino alla frisata con i capelli chiari mossi dal vento e il viso esposto all'aria gelida.
Ravn sorrise. «Venti più forti per spingerci a casa, Odd.» L'uomo rise, gettando indietro la testa a mostrare una fila di denti gialli, ricurvi e affilati come quelli di un ratto. Il suono attirò l'attenzione di Egg Forstson, che attraversò con cautela il ponte che beccheggiava, leggermente verde in viso. Negli ultimi anni il suo stomaco aveva cominciato a ribellarsi ai ritmi oppressivi dell'oceano, spingendolo a tornare alla sua tenuta e a godere della pace di una vita sulla terra. «Non dovreste incoraggiare... la vostra signora a mostrarsi» mormorò Egg, incapace di costringersi a pronunciare lo strano nome che la donna usava. «Turba gli uomini.» Non era la prima volta che il conte di Isola delle Pecore gli faceva notare la cosa, e in effetti tutto intorno a loro sembrava che l'equipaggio avesse smesso di lavorare e fosse piombato uno strano silenzio. Un gruppetto di marinai che giocava agli astragali sul ponte aveva perso interesse nel gioco, e gli uomini stavano fissando tutti nella stessa direzione come se possedessero un unico paio di occhi. Altri marinai avevano smesso di lucidare i loro coltelli, di preparare la zuppa per la colazione o di ripulire i pesci catturati quella mattina; e due uomini che stavano sistemando il sartiame sul pennone avevano lasciato cadere le corde dalle mani inerti, prendendo in pieno volto un terzo uomo occupato a riparare il suo sacco a pelo di cuoio. Il suo grido di dolore ruppe l'incantesimo della Rosa Eldi e diede a Ravn l'opportunità per andare da lei, metterle un braccio intorno alle spalle e attirarla verso di sé. In principio lei fece resistenza, spingendosi invece verso il mare, ma poi un pensiero sembrò abbandonare la sua mente e la donna si rilassò tra le braccia di Ravn. «Cos'è che ti affascina tanto, amore mio?» sussurrò Ravn con il volto seppellito nei suoi profumati capelli. «Non hai mai visto il mare prima di questo viaggio?» La Rosa Eldi sembrò elaborare la domanda, come se la stesse traducendo lentamente dall'Antica Lingua in un linguaggio più complesso. Alla fine disse. «Mi spaventa. La sua vastità.» Ravn annuì lentamente. Ricordò il suo primo viaggio, quando era stato entusiasta di trovarsi a bordo di una delle più belle navi lunghe insieme al padre, trattato come ogni altro membro dell'equipaggio: un uomo finalmente. Ma poi avevano remato fuori dal porto naturale di Halbo, con le sue scogliere protettive e i robusti frangiflutti, avevano issato la vela e avevano attraversato le tranquille acque costiere diretti verso quelle turbo-
lenti dell'oceano del Nord. Aveva sentito la prima folata di vento marino, forte e implacabile, sferzare la cima delle onde sollevando furiosamente la bianca schiuma e facendo scricchiolare di protesta le assi della nave; aveva visto la terra dietro di loro allontanarsi fino a diventare una sottile linea grigia, e davanti nient'altro che schiere su schiere di alte onde a perdita d'occhio. Allora aveva pensato, cosa che aveva tentato di non fare più da allora, che erano su una nave minuscola, come un guscio di noce in balia di una piena, e che solo un sottile scafo di fasciame sovrapposto li divideva dalle acque fredde e ribollenti che andavano giù, sempre più giù fino a raggiungere il Grande Sepolcro sul fondo dell'oceano, dove giacevano molti dei suoi antenati; uno scafo che poteva piegarsi e spezzarsi tra le grinfie del mare come un fuscello. Perciò Ravn tenne stretta la donna e disse: «Siamo tutti nelle mani di Sur qui fuori, questo è vero. Ma la mia è una solida nave e ho un buon equipaggio, e casa è a solo un giorno di navigazione ormai. E poi saremo nella mia capitale e tu sarai la benvenuta nel mio castello: mia madre ti accudirà, le sue serve ti coccoleranno e non dovrai mai più viaggiare in mare aperto in futuro.» A quelle parole la Rosa Eldi si accigliò leggermente. Una sottile linea apparve tra le sue sottilissime sopracciglia, a solcare l'immacolata fronte. «Sirio?» disse. Ravn sollevò un sopracciglio. «Sirio? Perdonami, mia signora: non so cosa intendi dire. Le nostre lingue sono molto diverse, immagino.» «Ah» disse lei. Poi: «Sur» ripeté e «Sirio.» «Tu chiami il nostro dio con un altro nome?» chiese Ravn, sbalordito. Lei lo guardò ancora più perplessa. «Dio?» gli fece eco. «Cos'è un dio?» «Non lo sai?» Lei scosse la testa. Ravn si passò una mano sul viso. Se qualcuno gliel'avesse chiesto, avrebbe dovuto ammettere che trovava quelle conversazioni alquanto snervanti. Era come spiegare il mondo a un bambino, e un bambino straniero, per di più; e i bambini andavano bene per giocare ad azzuffarsi o per sorprenderli con regali o caramelle, ma essere costretti a spiegare loro la religione non era un qualcosa che lo faceva sentire a proprio agio. Ma, rifletté Ravn, quella donna ora era sua moglie: non sapeva niente delle tradizioni del Nord, e lui l'aveva scelta tra tutte le altre, quindi doveva fare del suo meglio. Si schiarì la voce. «Un dio è l'essere che preghiamo per ottenere il suo favore e il suo aiuto:
per avere venti favorevoli quando facciamo un viaggio, oppure un fattore potrebbe pregare per il bel tempo quando deve spuntare il raccolto...» «Cosa vuol dire 'pregare'?» Ravn la fissò incredulo. «Ma ce l'avrai anche tu un tuo dio da pregare! Tutti hanno un dio, persino i dannati Istriani hanno quella strega, il demone del fuoco, Falla.» Lei si strinse nelle spalle. «La mia vita è stata molto... isolata.» «Egg?» Ravn invitò il suo primo consigliere ad avvicinarsi, sentendo che la conversazione stava cominciando a prendere una piega un po' troppo strana per i suoi gusti. «Voi siete più capace di me a spiegare queste cose. Suvvia, fate il bravo, portatela in un posto tranquillo affinché non turbi l'equipaggio e raccontatele di Sur e di com'è la nostra religione nel Nord. Non possiamo lasciare che sconvolga la mia devota madre con le sue strane usanze nomadi, non credete? Quando approderemo a Halbo mi aspetto che sappia recitare la Preghiera del Marinaio persino al contrario! Nel frattempo, devo controllare la nostra posizione con il navigatore.» Ravn diede una pacca sulle spalle del conte di Isola delle Pecore e con un ampio sorriso si allontanò verso prua, superando agilmente rotoli di corda e sedili dei rematori, barili e casse e gambe allungate finché non raggiunse la prua stupendamente scolpita e l'uomo dal viso severo che governava la nave. Egg lo guardò allontanarsi con crescente sconforto, poi si voltò verso la donna pallida. «Mia signora» disse inchinandosi con cortesia. «Per favore, venite con me e io risponderò alle vostre domande come meglio potrò.» Quando lei gli sorrise e posò la mano sul suo braccio il conte sentì uno insolito calore all'addome e pochi momenti dopo si sorprese a sorriderle come uno sciocco e inesperto ragazzino. Le diede dei colpetti affettuosi sulla mano, poi la tolse con gentilezza dal suo braccio, sentendo allo stesso tempo la sensazione nei suoi lombi svanire e la lucidità di mente ritornare. Gli sembrò di riuscire quasi a capire perché Ravn aveva scelto questa creatura come sua sposa: quasi, ma non del tutto. Un re non doveva pensare con l'uccello, specialmente quando si trattava di prendere decisioni strategiche che avrebbero riguardato non solo quale donna avrebbe riscaldato il suo letto, ma anche, come risultato della sua scelta, come si sarebbero schierate le fazioni rivali che lo circondavano: di fronte a lui e in piena vista, sia col ginocchio piegato che con le spade sguainate, oppure dietro di lui, con pugnali avvelenati e piani sussurrati. Aver scelto questa sconosciuta donna nomade era la cosa peggiore che Ravn avrebbe potuto fare, anche
se tipica, pensò Egg, di quel giovane dissoluto e ignorante. Solo Sur sapeva se non avevano provato a cambiarlo, lui, Capotempesta e Isolaustrale... Il conte scosse la testa per cacciare via l'immagine di quella notte alla fiera, ma sapeva che sarebbe tornata da lui durante il sonno come succedeva in questi casi, non importa quante guerre avesse combattuto o di quante morti fosse stato testimone, insieme con la visione delle membra tagliate e delle donna che bruciava; e di questa strana, giovane moglie che vagava incolume tra la violenza della folla come se appartenesse a un altro mondo. «Ti sei per caso fatto male alla testa?» chiese la donna, sollevando la mano e posando i polpastrelli sul cranio di Egg esattamente come Ravn aveva fatto con lei pochi minuti prima. Sbalordito dall'intimità di quel gesto, il conte fece un passo indietro. Si sentiva confuso, turbato, stranamente violato. «Molte volte» sussurrò. «Sia dentro che fuori.» «Dentro?» La donna chiuse gli occhi per un istante, ondeggiando leggermente sui calcagni in perfetta sincronia con il rollio della nave. Un marinaio nato, pensò Egg all'improvviso, per quanto dicesse di essere vissuta segregata. Quando li riaprì lo straordinario verde delle sue iridi sembrò turbinare e poi schiarirsi, come nubi in movimento su un mare illuminato dal sole. E poi la donna rise. Egg si ritrovò a farle eco con una risata, sentendosi leggermente più forte ora che il collegamento tra di loro era stato interrotto. Ma lo era stato davvero? Improvvisamente gli apparve davanti agli occhi l'immagine di sua moglie com'era stata quando lui era partito per la guerra, una bella ragazza bionda di venticinque anni con le guance arrossate e gli occhi pieni di allegria, le loro due bambine che si nascondevano dietro le sue gonne, incerte di fronte al papà con indosso tutta quella roba di cuoio e maglia di ferro, il grande elmo sotto il braccio e la spada a tracolla sulla schiena; e la pancia di Brina era già bella grossa perché aspettava il bambino che lui non aveva mai visto... «Lei è viva» disse la donna nomade, e il sorriso che gli fece fu abbagliante. «È più vecchia di com'è nella tua testa, ma è ugualmente lei. I suoi capelli sono rossi ora, e corti, sotto il velo.» «Brina, viva?» «Si chiama Brina? Non ho mai sentito quel nome prima. È questa la donna, sì?» Le sue dita gli sfiorarono la fronte. In principio Egg vide solo il contorno di una donna con una sabatica istriana in una tonalità di blu che era quasi
nero; poi fu come se il velo divenisse trasparente e lui potesse vederla, la sua sposa di tanti anni prima, la sua Brina, rapita dai razziatori. Il viso era solcato da rughe e la bocca era indurita dall'età e dalle brutte esperienze, ma i suoi occhi erano ancora del luminoso blu che lui ricordava, lo sbalorditivo blu di una pervinca, e i suoi capelli, come aveva detto la donna, non erano più stretti in lunghe trecce dorate, ma tinti di un rosso scuro e tagliati molto corti... «Come...» fece per dire. Poi indietreggiò, le mani che istintivamente facevano il segno dell'ancora di Sur affinché il Dio lo ancorasse saldamente alla terra di fronte a una tale spaventosa magia, la bocca che si muoveva silenziosa, come se le parole che ribollivano in lui - mistificazione, stregoneria, il tipo peggiore di magia, rubare e stravolgere i ricordi di un uomo in questo modo - non riuscissero a trovare un modo per uscire dalle sue labbra e riversarsi nell'aria fredda del mattino, dove non avrebbe più potuto rimangiarsele. Poi il conte si voltò di scatto e fuggì da lei, inciampando sugli ostacoli che il re aveva così agilmente evitato solo pochi momenti prima, e raggiunta la frisata dall'altro lato vomitò nelle acque mosse là sotto. Ciò gli procurò un coro di rauche risate e fischi da parte dell'equipaggio. Ravn, che stava parlando con il navigatore, si voltò e fissò incredulo il suo primo consigliere. Erano quasi cinquant'anni ormai che il conte di Isola delle Pecore andava per mare e in condizioni ben peggiori di quelle. Se non riusciva a sopportare un mare leggermente mosso come se la sarebbe cavata con la tempesta che il timoniere aveva previsto? Era tempo che il vecchio si ritirasse nella sua fattoria, pensò Ravn, e non per la prima volta, prima di diventare lo zimbello di tutti, o peggio, prima che il suo re lo diventasse a causa sua. Nel frattempo la Rosa Eldi era rimasta sola vicino alla frisata, immobile, il mento sollevato ad affrontare il vento come la più formidabile delle polene, le mani leggermente appoggiate sul bordo. Con le gambe larghe e le ginocchia leggermente piegate fronteggiava il rollio e il beccheggio della nave come un vecchio marinaio; solo che il mantello reale si stava gonfiando, sollevandosi a scoprire la sua pelle bianca, bianchissima... Senza dire una parola al navigatore, Ravn partì di gran carriera lungo il ponte come un cervo con le corna abbassate, affrontando senza battere ciglio i calderoni e i bollitori e tutti gli attrezzi usati per preparare il pasto mattutino, i corpi distesi, i barili e le corde, finché non fu al fianco della sua sposa, a stringerle intorno al corpo le morbide pieghe del mantello.
«Torna con me al riparo nella nostra camera da letto, amore mio» disse «e io ti porterò una tazza di farinata d'avena e dello sgombro fresco per rompere il tuo digiuno.» «Non desideri prendermi di nuovo?» chiese lei, il viso innocente come quello di un bambino, ma la sua mano, meno casta, scese a stringergli i genitali. Ravn rabbrividì. «Non ora, mia signora, no: perché ho altri doveri di cui occuparmi.» «Più tardi, allora, mio signore.» La mano si chiuse infallibilmente sull'asta del suo pene che si stava già indurendo. Nonostante il desiderio che sentiva crescere in lui, Ravn abbassò la mano e lo liberò dalla stretta della Rosa Eldi. «Più tardi, certamente.» 19 Incubi Il sole del mattino si era alzato ed era tramontato senza che Tanto avesse ripreso conoscenza. Innumerevoli guaritori erano venuti e poi se n'erano andati, schioccando la lingua e scuotendo la testa: uomini simili a corvi con teste pelate e vesti nere svolazzanti, vetusti medicastri con occhi piccoli e luccicanti che se ne andavano con più oro di quello con cui erano arrivati e lasciavano il paziente come l'avevano trovato, malgrado tinture, sanguisughe, fasce imbevute di erbe e compresse calde. E alla fine era stato trovato un chirurgo, e ciò che aveva dovuto fare per salvare la vita del paziente era stato tremendamente brutale. Durante tutto il tempo Tanto aveva sudato e si era lamentato. Le sue palpebre avevano tremato e il cuore di Favio Vingo aveva palpitato per un istante, ma poi si erano sollevate a mostrare le bianche cornee sottostanti. La terza settimana dopo che il chirurgo aveva tagliato via ciò che rimaneva della virilità di Tanto, i suoi capelli avevano cominciato a cadere mentre suo padre li pettinava; poi era stata la volta dei peli sul petto e sulle gambe, sotto le ascelle e sull'inguine. Alla fine era rimasto pallido e liscio come una ragazzina, tranne che nel punto in cui era stato ferito e dove il chirurgo aveva praticato l'incisione, perennemente gonfio e infiammato. Pus maleodorante e altri disgustosi fluidi riempivano incessanti le bende, che dovevano essere cambiate tre volte al giorno. Il costo dei lini puliti e delle me-
dicine stava diventando esorbitante. Mentre la chiatta si faceva lentamente strada lungo il fiume d'Oro, Favio Vingo dovette vendere il suo migliore mantello, i suoi gioielli e due dei suoi stalloni per finanziare le cure di Tanto. Quando oltrepassarono la città di Talsea, con i suoi enormi edifici di pietra che si ergevano sulle antiche colonne color ocra verso il cielo spietatamente blu, e raggiunsero la stazione commerciale di Pex, Favio scoprì non solo che gli era rimasto molto poco da vendere, ma anche che aveva perso fiducia nella medicina tradizionale. A Pex, allora, l'insignificante cittadina fluviale in cui era usanza sostare durante il viaggio dalla Grande Fiera sulla pianura della Luna Caduta verso le province del Sud, Favio ordinò che la chiatta fosse ancorata a valle del ponte a cinque arcate e balzò a terra. Un'ora prima del tramonto, quando Fabel Vingo e l'equipaggio stavano cominciando ad agitarsi, tornò, trascinando con sé una donna urlante con piume nei capelli, tre o quattro lunghe trecce di conchiglie che le pendevano sulla schiena e un'enorme borsa nera che le sbatteva contro la coscia. «Cosa credi di fare, in nome di Falla?» chiese Fabel, fissando la nomade da sopra la spalla del fratello. «Non puoi portarla a bordo.» Una cosa era fantasticare sugli Erranti da lontano, guardare meravigliati le colorate carovane di yeka farsi strada lentamente verso la Grande Fiera, comprare gingilli e regali per le donne, e persino, in caso di estrema necessità, adorare la Dea con una delle loro abili puttane, a patto che venisse fatto solo durante le caotiche due settimane della fiera; ma già permettere a una donna di mettere piede su una nave portava sfortuna; portarci una nomade e la sua empia magia era una pazzia. Specialmente considerate le punizioni contro gli operatori di magia e chi li frequentava annunciate dal Consiglio dopo l'ultima fiera. «Lei può salvarlo: ne sono sicuro!» Favio caricò la donna sulla passerella e la spinse avanti mentre lei gridava e protestava nella sua strana lingua. Alla fine della passerella si bloccò e fissò Fabel, che le bloccava la strada. Poi tese un dito dall'unghia molto lunga e lo toccò sulla fronte, farfugliando qualcosa di inintelligibile nella sua voce acuta. Fabel non si mosse, incenerendola con lo sguardo. «Sei pazzo? È una Viaggiatrice, Favio, una strega.» «Allora lascia che usi la sua magia su Tanto.» «È eresia, fratello!» Favio sollevò il mento con espressione testarda. «Non m'importa.» Spin-
se la nomade finché non andò a sbattere contro Fabel, che si scansò facendosi il segno del fuoco di Falla per allontanare il male. «Vuoi dannare anche la sua anima oltre alla tua, fratello?» «Lui non morirà. Non lo lascerò morire.» Passando accanto alla nomade che si stava guardando intorno perplessa, Fabel posò una mano sul braccio di suo fratello. «Favio, ascoltami. Nelle condizioni in cui è potrebbe essere una benedizione...» Il viso di Favio divenne cupo per la rabbia. «Non è uno dei tuoi preziosi cavalli a cui si può tagliare la gola quando non riesce più a correre.» Lanciò a Fabel uno sguardo velenoso. «Se ci fosse Saro disteso lì, non diresti una cosa del genere.» Non erano mai arrivati tanto vicini a riconoscere la verità sulla paternità di Saro. Fabel impallidì. Passò accanto alla guaritrice e si diresse verso la parte opposta della chiatta, la schiena rigida, le gambe che lo portavano a passi furiosi verso i recinti dei cavalli. Era già a metà strada quando si rese conto che l'oggetto dell'ultima parte della conversazione era in piedi accanto alla palizzata e lo guardava con occhi spenti. Era troppo tardi per tornare indietro, pensò Fabel, e ora Favio avrebbe pensato che si era diretto da quella parte di proposito, come per schierarsi con il figlio che aveva concepito. Be', oramai non c'era niente da fare. Affrettò il passo, sentendo gli occhi di suo fratello sulla schiena penetranti come punteruoli. «I cavalli sono tranquilli, ragazzo» disse con forzata allegria. Saro gli fece un debole sorriso. Aveva dormito molto poco durante il viaggio, e le ultime settimane erano state tra le peggiori della sua vita. Aveva accudito il fratello notte e giorno per quanto ne era stato capace. Aveva stretto i denti per sopportare l'agonia e il tremendo odio che sentiva ribollire come lava sotto la superficie della coscienza di Tanto ogni volta che lo toccava, girandolo per prevenire le piaghe da decubito, cambiandogli le bende sporche, dandogli da mangiare... pulendolo. Per una qualche perversa ragione Favio aveva ritenuto 'giusto' che Saro si occupasse di lui. «Dopo tutto,» aveva detto, guardando con occhi di ghiaccio il ragazzo che aveva presentato al mondo come il suo secondo figlio, «sei in debito con tuo fratello, perché se non fosse stato per il tuo smisurato orgoglio e il tuo egoismo niente di tutto questo sarebbe accaduto.» Saro non era riuscito a farsi spiegare dal padre perché fosse colpa sua se Tanto era stato ferito, e il momento in cui sarebbe stato possibile discutere della faccenda in maniera civile era svanito con l'unico sguardo che si era-
no scambiati lui e Favio mentre erano in piedi al capezzale di Tanto quella prima notte, prima che Favio, con un sospiro disgustato, distogliesse gli occhi e lasciasse la stanza con la testa tra le mani. Era la conferma del tremendo sospetto che albergava nella sua mente, ossia che suo padre avrebbe preferito vedere lui disteso lì al posto di Tanto, l'orgoglio e la gioia dei Vingo; Saro, che aveva fallito in ogni cosa in cui il fratello maggiore aveva eccelso; Saro, che somigliava troppo a un più giovane Fabel; Saro, che gli ricordava in ogni momento l'infedeltà di sua moglie e la propria debolezza nel non rivelare l'adulterio. E così Saro aveva sopportato la doppia sofferenza del risentimento di suo padre e dell'orribile empatia che lo legava al fratello morente più strettamente di quanto non fosse mai stato, e ogni giorno si sentiva un po' più morto anche lui. E i sogni... Saro si costrinse a non pensare a quella che era la più grande sofferenza di tutte. «Buongiorno, zio Fabel» disse ora. «Sono felici che la chiatta si sia fermata; ma Messaggero della Notte ha perso l'appetito.» Fabel sembrò allarmato. Erano stati costretti a lasciare la pianura della Luna Caduta prima di poter concludere la vendita dello stallone. Era un ottimo affare e per fortuna con un allevatore che si trovava a meno di un giorno di distanza dalla città di Altea, perciò Fabel sperava di concluderlo ugualmente al loro ritorno. Dopo la disastrosa fiera, era l'unica buona prospettiva all'orizzonte. Si arrampicò a fatica sulla palizzata e si diresse verso il recinto degli stalloni. Il cavallo lo guardò con occhi stanchi, sollevò la testa e indietreggiò. «Buono, buono, cavallino...» Fabel tese una mano e toccò il collo arcuato dello stallone. Era caldo e duro sotto la sua mano, ma gli sembrava normale. Fece una smorfia. Il ragazzo aveva troppa immaginazione: il cavallo sembrava stare bene. «Be', probabilmente mangerà quando avrà fame» gridò da sopra la spalla. Saro si strinse nelle spalle. «Non credo che stia bene» insistette. «E una delle giumente ha il respiro affannoso.» Indicò a suo zio un bel cavallo baio. «Beve molta acqua ultimamente.» Fabel scosse la testa. «I cavalli si innervosiscono sulla chiatta, lo sai, Saro.» «Ho visto mio padre portare a bordo una guaritrice nomade» disse in tono esitante. Aveva studiato attentamente tutti gli animali quel giorno, toccandoli mentre li accudiva e ascoltando i loro silenziosi pensieri, anche se
lo turbava farlo. Avevano caldo e si sentivano fiacchi. Poteva dipendere dal mutare del clima man mano che si muovevano verso sud. Ma aveva percepito anche una certa ansia tra gli animali, un'ansia che significava paura e malattia, anche se finora c'erano stati pochissimi sintomi evidenti. Quello che lo preoccupava di più era che potesse essere quella stessa epidemia che aveva fatto strage del bestiame un paio d'anni prima, subito dopo una Grande Fiera. Era sembrato un mistero allora, un flagello mandato dalla Dea. Saro si era trovato a pensarci sentendo il puzzo terribile della carne di cavallo bruciata quando il loro vicino Fero Lasgo, costretto a uccidere tutto il bestiame, lo bruciò su enormi pire, il cui spesso fumo nero aveva invaso lentamente i campi in un giorno particolarmente afoso e senza vento. A quanto ricordava Saro, quella malattia era iniziata in maniera innocua, proprio come gli era sembrato di intuire quel giorno.' I nomadi erano famosi per come accudivano gli animali, e se il morbo fosse stato individuato in tempo, e curato... «Pensavo che forse, quando avrà pensato a mio fratello, potrebbe dare un'occhiata a...» Fabel scosse impaziente la testa. «La vita di tuo fratello è nelle mani di Falla ora, e non è bene farla infuriare con questa empia magia. Se la Signora crederà che non abbiamo fede in lei, di certo si porterà via Tanto, ma tuo padre non vuole sentire ragioni. Dobbiamo fermarlo, ragazzo mio, ma lui non vuole ascoltarmi. Potresti provare tu, però.» Guardò Saro con espressione speranzosa. Ma Saro scosse la testa. «Non ascolterà neppure me. Ma in ogni caso devo parlarle.» Superstizione o no, non poteva stare a guardare mentre i cavalli si ammalavano e morivano, se c'era un modo per impedirlo. Fabel sembrò dubbioso. «Oh, non credo, ragazzo: tutto quello che mi sembra in grado di fare è gridare e fischiare. Dubito che capisca una parola di istriano. Ma potresti portarla via di peso dalla stanza prima che abbia la possibilità di usare la sua empia magia su di lui...» Ma Saro se n'era già andato. La stanza di suo fratello era bollente come un forno, e la cosa non era certo strana con tre persone stipate in uno spazio che a malapena riusciva a contenere il letto che vi era stato posto. Ai piedi del letto Favio Vingo guardava disperato mentre la nomade posava le mani sul corpo febbricitante di suo figlio e scuoteva lentamente la testa. «Brutta ferita» stava dicendo in un istriano dal pesante accento. «Il col-
tello che.... fatto questo... buco... kalom.» «Parla istriano, donna, o almeno nell'Antica Lingua, vecchia megera ignorante!» Favio alzò le braccia al cielo e cominciò a camminare avanti e indietro, anche se le dimensioni della stanza non gli consentivano più di tre passi. «Puoi... guarire... la ferita... di mio... figlio?» gridò, enfatizzando ogni parola come se parlasse a un bambino sordo. «Puoi... farlo... stare... bene?» «No, no...» La nomade scosse la testa ancora più in fretta, le mani che si agitavano nell'aria per la frustrazione. «Kalom ealadanna... forte magia... la più antica. Ealadanna kalom; rajenna festri.» Favio si accigliò. «Non capisco.» Saro, spinto da un impulso che non comprendeva appieno, fece un passo oltre la soglia. Ritrovandosi all'interno e non sapendo cosa fare, congiunse i palmi delle mani e si inchinò alla guaritrice alla maniera nomade che aveva imparato da Guaya, ma senza l'errore che aveva commesso allora. «Rajeesh, mina konani.» Le sopracciglia della guaritrice si sollevarono di scatto come le ali di un'allodola. La donna sorrise felice e poi riversò su di lui un torrente di parole incomprensibili: «Felira inni strimani eesh-anni, Istrianni mina. Qaash-an firana periani thina; thina brethriani kallanish isti - sar an dolani fer anna festri. Rajenna festri: er isti festriani, ser-thi?» Saro agitò freneticamente le braccia. «No, no» si affrettò a dire nell'Antica Lingua. «Non capisco quello che dici...» Ma la vecchia era come un fiume in piena che non poteva essere fermato. «Ser-thi, manniani mina? Brethriani thina ferin festri mivhti, morthri purini, en sianna sar hina festrianna. Rajenna festri en aldri bestin an placanea donani. Konnuthu-thi qestri jashni ferin sarinni?» Senza riflettere, Saro le mise una mano sul braccio per fermarla e fu improvvisamente invaso dal suo orrore per una ferita che non si sarebbe risanata, che non avrebbe mai potuto risanarsi. Perché la lama che l'aveva causata era stata forgiata con l'antica magia - ealadanna kalom; rajenna festri - la magia della terra era tornata; male a coloro che fanno male, e l'arma lo sapeva: suo fratello aveva commesso un gesto malvagio, aveva ucciso l'innocenza, e perciò la ferita inflitta da quell'arma sarebbe imputridita e non sarebbe mai guarita finché il male commesso non fosse stato espiato e chi aveva inflitto la ferita non lo avesse perdonato. Konnuthu-thi qestri jashni ferin sarinni? Lui conosceva l'arma che aveva inflitto la ferita?
Come avrebbe potuto? Ma aveva dei sospetti: il pugnale che... lei, la bella armaiola... gli aveva donato era sparito la sera del Raduno e lui non l'aveva più visto da allora. Ma ricordava il modo in cui aveva tremato nella sua mano, la sensazione di magia che lui aveva imputato ai propri sentimenti per la donna che l'aveva forgiato piuttosto che alla vera natura dell'oggetto. Saro credeva nella magia ora: oh, sì che ci credeva! Non ne era forse ossessionato giorno e notte? Sbalordito, si voltò verso suo padre. «Credo stia dicendo che la ferita si è infettata perché il coltello che l'ha inflitta l'ha giudicato malvagio.» Mentre lo diceva sapeva bene che sembrava una follia, e infatti Favio Vingo sembrò in procinto di esplodere alla sola idea, ma Saro insistette. «Credo che l'arma che ha inflitto la ferita fosse quella che aveva fatto la ragazza eyrana.» Saro non se la sentiva più di pronunciare il suo nome. «Lei me l'aveva regalata una volta che io e Tanto eravamo al suo banchetto, ma Tanto deve averla presa...» Saro esitò. C'era qualcosa che non andava: non aveva riflettuto sulle implicazioni delle sue parole. Favio lo guardò con aria di trionfo. «Lo sapevo! Lo sapevo! Lei ha tentato di ucciderlo con la sua stregoneria, quella puttana eyrana. Ha avvelenato la lama contro di lui: non mi meraviglia che il mio povero ragazzo non riesca a guarire!» Perversamente felice di avere finalmente una ragione per la febbre persistente di Tanto, Favio sorrise come un folle. «Quella piccola strega eyrana: è stata lei a fare questo a mio figlio, non Selen, come aveva detto. Io sapevo che avevamo ragione a darla alle fiamme. L'ha avvelenato con la sua empia magia e poi ha tentato di avvelenarlo anche con le sue parole. Dannazione, ragazzo» si chinò e scosse Tanto per la spalla come per condividere quel meraviglioso sapere con lui «è stata bruciata, e ringraziamo Falla per questo! Ora tutto quello che ci serve è che questa Errante ti dia un incantesimo per contrastare la perversa magia dell'Eyrana...» Saro guardò disperato la guaritrice. Come poteva far capire a suo padre la verità? Ma la nomade ora stava indietreggiando, il viso distorto dal terrore. Saro pensò che fosse per il modo in cui Favio aveva gioito per la morte della ragazza, ma poi si rese conto con un brivido che gli occhi della donna erano fissi su di lui, occhi così spalancati per lo shock che lui riusciva a vedere il giallo delle cornee tutto intorno alle enormi pupille nere. Era di lui che aveva paura, non di suo padre, non del suo malvagio e incurabile fratello: no, era stato il suo tocco che aveva causato un tale cambiamento in lei.
Ma perché? «Non temere!» gridò angosciato. «Per favore, non voglio farti del male.» La donna avrebbe dovuto passargli accanto per fuggire dalla stanza. Ecco perché si guardava freneticamente intorno per cercare un'altra uscita, come un gatto spaventato che si trova davanti un cane ringhiante e cerca disperatamente una qualsiasi via di fuga, non esitando ad affrontare né l'acqua né il fuoco pur di allontanarsi dal pericolo imminente. Saro fece un passo verso di lei e inorridì vedendola tremare per la paura. Attraversando la distanza che li divideva in due veloci passi, la prese per le spalle per rassicurarla, ma non appena la toccò fu lui a essere avvolto da un'ondata di sensazioni. Non c'era sollievo in lei, ma solo puro, irrazionale terrore: perché di fronte a lei, che la toccava, c'era colui che portava la leggendaria pietra della morte intorno al collo con la stessa noncuranza con cui un altro avrebbe potuto indossare una catenina d'argento. Bastava che tirasse fuori la pietra della morte dal suo sacchetto di pelle e la tenesse in mano; anche il minimo tocco avrebbe separato il corpo dall'anima, portandola nelle distese desolate tra le stelle come era accaduto agli altri. Lei riusciva a sentire le sue morti su di lui. Uomini, tutti, e combattenti, di certo: ma cosa gli avrebbe impedito di prendersi l'anima di una povera donna indifesa, pericolosamente ignaro com'era del suo potere? Aveva già preso tre - o quattro? - vite senza capire cosa stava facendo. Difficile dire con esattezza quante, perché i fantasmi delle loro anime torturate si agitavano confusi nell'aura oscura che lo circondava, un'aura che puzzava di fumo e fiamme, di abiti e capelli bruciati. Per i Gemelli, i tempi dei roghi erano tornati, così avevano sentito dire, e di certo sarebbero periti tutti... «Ahhhhhhh!» Con un grido la nomade si liberò con uno strattone dalla presa di Saro. Mentre Saro combatteva contro il diluvio di immagini riversate nella sua mente, la donna approfittò del suo turbamento e gli corse accanto diretta verso la porta, attenta nonostante la sua disperazione a non sfiorarlo nemmeno mentre fuggiva. Il suono dei suoi piedi nudi risuonò sul legno delle scale e sul ponte sopra di loro, poi echeggiò in lontananza. «Be', valle dietro, forza!» ruggì Favio. Ma quell'idiota di suo figlio era crollato a terra, tenendosi la testa e singhiozzando come un bambino. Per il resto del giorno, e per tutta la notte e la mattina successiva, Saro si
mise a letto e si rifiutò di alzarsi, nonostante le minacce di suo padre e, in seguito (con un certo panico, perché perdere un figlio per una ferita e un altro per la pazzia era più di quanto Favio potesse sopportare) le sue suppliche. Bevve il vino e l'acqua che gli schiavi gli portarono e mangiò il pane, le carni speziate e i datteri lasciati al suo fianco quasi senza rendersi conto di ciò che stava facendo. E per tutto il tempo le immagini rubate alla mente della nomade continuarono a turbinargli nella testa come i cocci luccicanti di uno specchio rotto, frammenti di ricordo che non riuscivano a ricomporsi. Vide i volti di tre uomini che non conosceva; una guardia della Grande Fiera con crudeli occhi scuri e un alto elmo crestato, un biondo uomo del Nord con trecce nei capelli e una lunga barba biforcuta, il naso a becco come quello di un uccello da preda, gli occhi chiari che sprizzavano fuoco; un Istriano dal viso rubicondo, la spada sollevata e la bocca aperta in un grido di rabbia che si trasformava all'improvviso, e senza motivo, in paura. Vide la propria mano sollevarsi, toccare il primo uomo sulla fronte, vide gli occhi della guardia scintillare improvvisamente d'argento, poi diventare neri e vuoti. Vide gli altri due, che sembravano lottare l'uno contro l'altro, cadere morti senza una causa apparente ai suoi piedi. Vide se stesso fissare la pietra che teneva nel palmo della mano; la vide trasformarsi dal rosso di una brace ardente a un calore bianco che delineò tutte le ossa della sua mano attraverso la pelle quando richiuse le dita su di essa. Per quanto tentasse di collegare quelle immagini così disparate, niente, a parte la spiegazione che la sua mente rifuggiva ogni volta che tentava di metterla a fuoco, riusciva a metterle insieme per dar loro una forma. E alla fine, più e più volte, da molte angolazioni diverse come se si trovasse in più di un luogo allo stesso tempo, una volta da destra, poi da sinistra e una volta addirittura da sopra, vide la ragazza eyrana (Katla, Katla, Katla, gridò pietosamente il suo cuore spezzato) legata a un palo. Vide il fumo della pira salire in grandi nuvole nere nel cielo. Poi tornò dentro se stesso, grato di avere finalmente un unico punto di vista riconoscibile come suo, e vide con terribile e indesiderata chiarezza la punta degli stivali di pelle della giovane che si accartocciavano e ribollivano, le corde che le segavano la pelle nuda dei polsi, gli occhi pieni di odio vedendolo avvicinarsi tra il fumo che bruciava i polmoni; la bocca che si apriva e sì chiudeva su un fiume di parole che fortunatamente lui non poteva più sentire. E poi nient'altro; persino ora, nonostante il contatto con la guaritrice,
riusciva a ricordare solo che si era svegliato il giorno dopo con una tremenda sensazione di impellente disastro, il presagio di un cataclisma. Quando suo zio era entrato nella sua stanza a mezzogiorno (aveva saputo l'ora perché aveva sentito i preti richiamare i fedeli alla preghiera, le loro grida forti e ossessionanti in quella che gli sembrava un'aria innaturalmente immota) per vedere come stava, lui l'aveva afferrato per un braccio e aveva preteso di sapere cosa stava accadendo, perché provava quella strana sensazione di pericolo. Perché là fuori era tutto così calmo. E Fabel aveva gettato indietro la testa e aveva riso. «Sei un eroe, ragazzo mio!» aveva esclamato. «Tutta l'Istria verrà a sapere come ti sei gettato senza paura nei fuochi di Falla per assicurarti con una buona lama di Forent che l'anima della strega eyrana raggiungesse il giudizio della Dea prima che la sua magia potesse salvarla.» «Io l'ho uccisa?» Saro era rimasto sbalordito. Il suo cuore aveva pulsato dolorosamente contro il petto, la mente in subbuglio. Non avrebbe mai sollevato la mano contro Katla Aransen, di certo era un tremendo errore, uno scherzo di pessimo gusto. «Io ho usato la mia spada contro la ragazza eyrana?» «Ti abbiamo visto tutti, ragazzo mio» aveva detto con orgoglio Fabel. «È stato un nobile tentativo, un atto eroico. Stanno già componendo canzoni su di te, te lo giuro... anche se è stato tutto vano.» «Cosa volete dire?» Il cuore di Saro si era come fermato, e lui si era sentito per un istante come un colibrì immobile a mezz'aria in attesa di qualcosa. «Come vano?» «La strega ha usato la sua magia per sfuggire alle fiamme, o così dicono.» «Ma come?» Fabel si strinse nelle spalle. «Chi conosce i modi delle streghe, Saro? È svanita nell'aria, non lasciando altro dietro di sé che quel misterioso pezzo di stoffa che aveva intorno alla testa.» Lo scialle. Da qualche parte nella mente annebbiata di Saro c'era stato il ricordo di quello scialle, un affarino di mille colori che brillava come di luce propria in mezzo alle fiamme. «E come... come sono arrivato qui?» Fabel aveva sorriso con affetto e il suo petto si era gonfiato d'orgoglio. «Ah, be', sono stato io, ragazzo mio. Il fumo e le esalazioni ti avevano stordito, o almeno così sembrava: eri caduto al margine della pira e ti saresti bruciato se Haro Fortran e io non ti avessimo visto. Siamo corsi da te, ti
abbiamo trascinato via e io ti ho riportato qui. Impressionante la forza che si trova in se stessi nel momento del bisogno» aggiunse in tono compiaciuto. «Haro ha già abbozzato una canzone per te: Mentre infuriava la battaglia alla Grande Fiera Sguainò la spada nella notte più nera, Affinché la strega assaggiasse di Falla il potere. Nobile impresa degna di un vero cavaliere. Piuttosto buona, a mio parere. Sarà felice di sentire che ti sei ripreso. Sono sicuro che vorrà cantarti di persona il resto.» «Ma io non sono un cavaliere, non sono un eroe» fu tutto ciò che riuscì a dire Saro. Era inesplicabile, bizzarro, tremendamente preoccupante. Saro aveva girato la testa verso il cuscino e aveva pianto, ma per cosa non avrebbe saputo dirlo con esattezza. Fabel, imbarazzato da un tale debolezza, se n'era andato in silenzio. E quello era tutto ciò che Saro era riuscito a scoprire, sia da Fabel che da chiunque altro, fino a quel giorno. Era stato spesso visitato da frammenti di incubi, da una vaga, indefinita sensazione di fallimento e infelicità; e, cosa peggiore di tutte, era stato ossessionato più e più volte dalla visione degli occhi di Katla, dell'odio bruciante con cui l'aveva guardato mentre andava verso di lei tra le fiamme. Nonostante tutte le prove che sembravano dimostrarlo, Saro non avrebbe mai accettato l'idea che aveva avuto intenzione di ucciderla, né lei né gli uomini le cui facce gli erano state mostrate dalla nomade, perché di certo non era nella sua natura. Ma nella sua mente cresceva sempre di più il sospetto che nonostante la sua volontà, lui era , in un modo terribile e incomprensibile, pienamente responsabile della loro morte. 20 Il ritorno a casa Ma Katla Aransen era ancora viva, anche se giaceva come morta. Era in quello stato da giorni, da quando il Dono di Fulmar si era messo in viaggio verso Rocciacaduta attraverso le acque agitate dell'oceano del Nord, cosciente solo del sale che le seccava il viso e della sensazione fuggevole e incessante di cadere e risollevarsi tra i picchi e le valli di quel
mare ostile. Con la mente in bilico tra il torpore e una veglia mai completa, Katla sentiva in lontananza le voci dell'equipaggio risuonare come grida di avvoltoi su un campo di battaglia dal quale lei continuava a sfuggire nei suoi sogni, a piedi o trascinandosi in ginocchio oppure legata a un cavallo nero che galoppava instancabile nella notte. Nessuno, a quanto sembrava, poteva far niente per indurla a uscire da quel mondo in cui si era rifugiata. Erano dovuti partire con tanta fretta che Aran non aveva avuto il tempo di chiamare un guaritore, decidendo giustamente che fuggire dalla maledetta pianura della Luna Caduta doveva essere la loro principale preoccupazione. Lontani dagli incendi e ormai fuori portata delle più lente navi istriane, Aran aveva curato egli stesso le ferite di sua figlia, bagnandole con acqua di mare e coprendole con delicatezza con strisce ricavate dalla sua migliore tunica di lino. Le aveva strappate con mani tremanti e furiose, imprecando per tutto il tempo contro se stesso e le proprie debolezze. Ma per le ferite che non poteva vedere, le più profonde, non aveva potuto fare niente. Nelle due settimane che impiegarono per la traversata, mentre i venti soffiavano incessanti e le correnti li trascinavano verso la loro meta, i capelli di Katla ricominciarono a crescere, un violento rosso che si faceva lentamente strada tra le chiazze di nero: un colore estremo che contrastava sgradevolmente con le bruciature e le croste lasciate dal fuoco. Ma il fatto che fossero apparsi di nuovo anche sul lato dove le fiamme l'avevano lambita, come se lo scialle di Erno avesse davvero agito come magico scudo tra il suo corpo e la potenza distruttiva del rogo, alimentava le speranze di Aran. Ogni giorno l'imponente Eyrano veniva a toccare i nuovi ciuffi, morbidi come piume sotto i suoi polpastrelli callosi, delicati segni della salute interiore di sua figlia, e pregava (per la prima volta in vita sua la divinità delle donne, Feya) per un miracolo. Il miracolo avvenne il giorno prima che avvistassero terra. Fent era seduto accanto alla sua gemella, come era solito fare nei momenti liberi tra i turni di guardia e di lavoro, annodando uno spago e creando versi senza senso e indovinelli. Quel giorno ne aveva inventato uno nuovo per lei: Non ho confini Ma possiedo un fondo. Viaggio avanti e indietro
Ma non lascio mai casa. Sussurro e strepito Ma non ho la bocca. La mia generosità è infinita Quanto forte è la mia ira. L'argento mi attraversa, L'azzurro mi sovrasta. Ti lascio riposare sulla mia pelle Ma in me c'è la morte. Chi sono io? Ci un leggerissimo movimento dalla figura raggomitolata accanto a lui e poi, con estrema chiarezza, una voce disse: «Il mare.» Sorpreso, Fent si guardò intorno. Halli era il più vicino a lui dei membri dell'equipaggio, ma gli voltava le spalle e stava conversando con Kotil Gorson, il navigatore, e non c'era nessun altro a portata d'orecchio. Accigliandosi, Fent tornò ai suoi nodi. Un attimo dopo la voce tornò. «Non mi hai sentito? Ho detto 'Il mare'. Troppo facile, fin troppo facile: il fondo marino e le maree, i pesci d'argento e il cielo e tutto il resto. E poi non c'era rima. La capra della vecchia Ma Hallsen è un poeta migliore di te!» Guardando in basso sbalordito, Fent trovò gli occhi di sua sorella, profondi e blu come l'oceano stesso, spalancati e fissi su di lui, pieni di divertimento. Fent le fece un enorme sorriso, poi emise un grido assordante: «Papà! Papà! È sveglia! Katla è sveglia!» Tutto questo chiasso, pensò Katla, per una che stava solo dormendo. Tentò di mettersi a sedere e rimase sbalordita dallo sforzo che richiedeva. Per le palle di Sur, che dolore! E che strano che Fent non abbia reagito alla frecciatina... Improvvisamente spaventata, sollevò il braccio e tentò di prendere Fent per la manica, ma la mano le sembrava debole e pesante, e non riusciva a sentirsi le dita. «Quanto tempo ho dormito?» Sfinita anche da quel piccolissimo sforzo, ricadde sul ponte e gli occhi le si richiusero. Confuse immagini di una frenetica caccia la invasero: un
inseguimento tra le tende, lungo una spiaggia scura illuminata dalla luna all'ombra di una grossa rupe; una folla di gente dalla quale volti familiari emergevano e poi svanivano uno dopo l'altro: Jenna, poi suo padre, Finn Larson, con le labbra rosse umide di lussuria; Halli con l'ascia sollevata sulla testa; Erno abbracciato a una strana donna dai capelli scuri; un Eyrano dalla barba bionda, la bocca aperta in un grido, la punta di una lancia che gli spuntava dal petto; e un Istriano che veniva verso di lei, la spada sollevata, una strana luce argentea che gli lampeggiava negli occhi. Con un movimento improvviso si portò la mano destra di fronte al volto e la fissò. Era un fagotto di stoffa: un affare informe simile a una clava tutta bendata. «Cosa mi è successo?» E un pensiero, subitaneo e sicuro, attraversò la sua mente: che l'uomo con la spada le aveva reciso la mano, che quel goffo moncone bendato era tutto quello che le rimaneva. Non avrebbe mai più potuto arrampicarsi, mai più potuto battere il ferro, mai più potuto lottare, mai più mangiare o vestirsi da sola... Disperata, cominciò a strappare via la stoffa con i denti. «Katla!» Distratta dal suo tentativo, Katla alzò lo sguardo e vide suo padre che la guardava. Non furono i suoi occhi, luccicanti di improbabili lacrime, ma la barba corta, le sopracciglia mancanti e i capelli bruciacchiati che notò per primi. «Che ti è successo, papà? Ti sei avvicinato troppo al fuoco da campo?» «Si potrebbe dire così.» Aran Aranson fece a sua figlia un mezzo sorriso. Era la prima volta che guardava davvero la sua bocca, pensò Katla con curiosità. Ora che si era risvegliata come da un lungo sonno tutto le sembrava eccezionalmente vivido, come se ogni dettaglio fosse un pezzo cruciale del mosaico del mondo. Era una bella bocca per un uomo, decise Katla: i denti erano affilati e bianchi e leggermente distanziati come quelli di un cane, le labbra chiaramente definite e carnose, anche se la linea del labbro superiore era interrotta da una pallida cicatrice che correva su fino al naso. Katla non l'aveva mai notata prima. Aran guardò gli occhi di sua figlia scrutare il suo volto. Inconsciamente portò la mano alla cicatrice, le dita che tracciavano i suoi contorni poco familiari tra la barba che andava ricrescendo. «Dove te la sei procurata quella, papà?» L'espressione di Aran divenne mesta e solenne. «Vorrei poter dire che è
stata una ferita guadagnata con onore in combattimento contro il Sud, ma temo che sia stato al mio primo Raduno, poco fuori Halbo. Io e alcuni degli altri ragazzi di Rocciacaduta esagerammo con la birra, venimmo colti a rubare un'altra botte. Io inciampai e caddi... ed ero troppo ubriaco per mettere le mani avanti a proteggermi la faccia! Una volta portavo la barba corta come quella di Fent, ma da quel giorno...» Si chinò in avanti e le fece l'occhiolino. «Ho detto a tua madre che me la sono fatta in duello.» Poi si portò un dito alle labbra. «Ora zitta, mi raccomando.» Katla sentì le lacrime bruciarle gli occhi. «Ho perduto la mia mano, papà? Dimmelo, presto...» Aran si inginocchiò accanto a lei e cominciò a toglierle le bende con una delicatezza sorprendente per un uomo così grosso e forte. Mentre le fasce venivano via, Katla cominciò a vedere la forma della mano sotto di esse, e poi riuscì a sentire le dita, rigide e doloranti, ma ugualmente dita. Ma quando l'ultimo pezzo di lino cadde sul ponte, quello che vide fu spaventoso: una mano e un polso gonfi due volte le dimensioni normali, la pelle raggrinzita e di un rosa luccicante dove non era nera e piena di croste; e le sue dita prima lunghe e sottili e di un bel bronzo dorato ora erano fuse insieme in una grande appendice rossa di carne bruciata. Katla rimase senza fiato. Fissò il mostro all'estremità del suo braccio con gli occhi spalancati. Quella cosa non poteva certo appartenere a lei... Quella era la sua mano, o erano i suoi occhi a giocarle brutti scherzi? Katla batté le palpebre e guardò, poi le batté di nuovo e guardò ancora. «Cosa mi è accaduto?» «Hanno cercato di bruciarti viva, amore mio. E ancora oggi non sono neppure sicuro del perché... Se è stato per la Rupe o per qualche altra sciocchezza.» La fine del Raduno era tutta sfocata nelle mente di Aran: tutto ciò che riusciva a ricordare era sua figlia in pericolo, l'insopportabile arroganza degli Istriani e la loro gioia alla prospettiva di un rogo. Katla si accigliò. «Ricordo di aver scalato la Rupe.» Al solo pensiero la sua mano destra cominciò a prudere e a formicolare. Katla allontanò quell'immagine dalla sua mente, determinata a non riflettere troppo sull'orrore della ferita. Ne aveva viste di peggio, disse a se stessa, ricordando la tremenda ustione del giovane Bard nella fucina l'estate precedente. Anche la sua pelle si era fusa, ma poi era guarita. Più o meno. «Io ti ho tagliato i capelli per quello» spiegò Aran, passandole la mano sulla testa. «L'ho scalata di nuovo, papà, poco prima che mi catturassero.»
Le stava tornando in mente ora, tutta la sequenza degli eventi: la fuga dal Raduno dopo che Erno l'aveva baciata (no, si corresse Katla con severità, dopo che tu hai baciato Erno: magia o no, era così che era andata); lei che aveva scalato il Castello di Sur, sentendo il potere della roccia scorrerle nelle vene; la donna del Sud, nuda, che correva tra i padiglioni lungo la spiaggia; e il pugnale, il suo pugnale, uno dei suoi migliori (il damasco saldato sulla lama era sempre stato il suo segno distintivo, più che se ci avesse inciso sopra il suo nome), tutto sporco di sangue. Si guardò intorno, e dietro il padre vide Halli e Fent che sorridevano di sollievo; dietro di loro c'erano Gar e Mord, Kotil Gorson e Ham il timoniere. Girandosi verso prua vide un gruppetto di una dozzina di rematori che giocavano agli astragali, e anche se c'erano diverse teste bionde tra quelle chinate sugli ossicini di pecora, nessuna era bionda quanto quella di Erno... «Dov'è Erno, papà? E la ragazza?» «Quale ragazza?» chiese Aran in tono brusco. «Erno mi stava aiutando a fuggire per evitare il fidanzamento con Finn Larson» spiegò con sincerità, e vide il volto di suo padre rabbuiarsi. «Giù sulla spiaggia ci siamo imbattuti in una donna istriana che temeva per la sua stessa vita: qualcuno l'aveva aggredita, disse, e lei credeva di averlo ucciso. Io ho convinto Erno a portarla in salvo, gli ho detto di portarla via con la barca: lei temeva che l'avrebbero bruciata per il suo crimine.» Le sue sopracciglia si corrugarono; poi Katla sorrise, un sorriso selvaggio, animalesco, uno sprazzo della vecchia Katla. «E invece hanno tentato di bruciare me, no? Ricordo frammenti di quello che è accaduto: le guardie che mi catturavano, l'Istriano che è apparso improvvisamente al Raduno, il suo sangue dappertutto e lui che mentiva spudoratamente; e il fuoco... Ma cosa è accaduto a Erno, e a Tor?» «Di Erno non so niente. In quanto a Tor...» Aran chinò il capo. Sarebbe stata davvero dura dire a Ella Stenson come il suo amato, seppure scapestrato figlio era morto. Fu Halli a parlare, la mascella serrata, gli occhi socchiusi per la rabbia. Katla pensò che sembrava invecchiato di dieci anni da quando erano partiti da casa. «Tor è morto in battaglia, tentando di salvarti dagli Istriani. Si è preso una lancia nella schiena.» L'orrenda immagine dell'uomo biondo con la punta della lancia che gli sporgeva dal petto le balenò per un istante nella mente. Katla chiuse gli occhi. Tor Leeson, morto per salvarla dal rogo. Un tale animale... chi l'avrebbe mai creduto capace di un'azione simile? E all'improvviso Katla si
vergognò del proprio affrettato giudizio. È morto con coraggio, ed è stata mia la colpa. Farò un'offerta a Sur quando saremo a casa a Rocciacaduta, e pregherò che la sua anima possa riposare in pace nel Grande Sepolcro. Ma essendo morto di una morte di terra, sarebbe stato accettato nel palazzo di Sur sotto l'oceano al banchetto degli eroi? Oppure la sua anima sarebbe stata trasportata attraverso le vene metallifere del mondo fino al cuore della montagna sacra, dovunque essa si trovasse? Prima d'ora Katla non si era mai soffermata a riflettere su questioni di tale complessità, perché la morte in battaglia non l'aveva mai toccata così da vicino. Tutti sapevano che quando si moriva si diventava un tutt'uno con la terra e il mare, creta nelle mani di Sur da riplasmare come volesse. Mentre coloro che morivano in mare o in battaglia Egli li conservava per sé, circondandosi così di soldati e marinai che gli sarebbero serviti alla fine del mondo, quando lui e gli altri dei, il Lupo delle Terre Innevate e l'Orsa, avrebbero dovuto combattere contro i mostri del mondo, il Drago di Wen, il Gatto di Fuoco e il Serpente, per decidere l'esito finale. Ma tutte queste finora le erano sembrate solo storie interessanti, abbellite da significativi dettagli e intessute di sottili battute e aforismi; racconti per bambini, affinché questi li memorizzassero e inventassero fantasiose variazioni sul tema; canzoni con cui i bardi li intrattenevano tutti all'Alta Festa. Ora invece si rendeva conto che costituivano l'intelaiatura delle loro vite, e delle loro morti, come quelle cornici di legno che le donne usavano per tenere ferme le stoffe mentre creavano gli arazzi, per bloccare l'immagine, per impedire che scivolasse via in un caos di lana intrecciata... «Mi dispiace che sia morto» mormorò Katla. «E spero che Erno sia riuscito a portare via quella povera donna.» Aran scosse la testa. «Spero sia riuscito a salire su una delle altre barche» disse in tono lugubre. «Non ho idea di cosa potrebbero fargli se venisse sorpreso in una barca rubata con un'Istriana nuda.» «Oh, ma non era nuda!» Katla rise nonostante tutto. Rifiutando la mano che suo padre le offriva, si tirò su a sedere appoggiando la testa e le spalle contro la tavola più bassa della frisata. «Le ho dato il mio abito rosso della giunzione delle mani.» Fent scoprì i denti in un sorriso. «Probabilmente le sta molto meglio che a te, sorellina troll.» La mano buona di Katla scattò per colpirlo ai reni e Fent si piegò in due, più per la sorpresa che per il dolore. «Ohi!»
«Non molestare il troll che dorme, o uno che si è appena svegliato.» Durante le ore successive Katla scoprì la vera estensione delle sue ferite. Dove lo scialle non aveva potuto raggiungerla ci avevano pensato gli stivali a proteggere le sue gambe e i suoi piedi dalle fiamme; eppure c'erano chiazze arrossate o bruciacchiate su tutte le gambe nei punti in cui il cuoio si era sciolto, alcune delle dimensioni di una monetina, altre grandi quanto il palmo di una mano. Sopra la mano deforme il suo braccio destro aveva perso lo strato superiore di pelle dalla spalla fino al gomito, ma Katla era sempre guarita molto in fretta e la nuova pelle stava già cominciando a ricrescere, tesa e luccicante intorno alle croste. Malgrado ciò tutto l'arto era rigido e terribilmente dolorante, come se il danno si estendesse molto più in profondità: persino sfiorarlo con il lino delle bende la faceva urlare. Eppure c'era un punto nella parte superiore del suo braccio, proprio all'esterno dei bicipiti, in cui una striscia di pelle sembrava essere rimasta intatta, una zona che seppure stimolata in vari modi non le faceva male. Katla lo sapeva perché da quando aveva scoperto quello strano punto non aveva fatto altro che pungolarlo e pizzicarlo senza pietà. E anzi, sembrava addirittura più sano e più liscio di prima. Un dono del cielo, per quanto piccolo, pensò. Avrò una pelle ruvida e squamosa come quella di un drago su tutto il lato sinistro del corpo, con l'eccezione di un punto in cui potrò sfoggiare la cute più morbida e più bella di tutta l'Eyra. «Lancerò una nuova moda» annunciò a Fent quando lui lo notò. «Praticando un grosso buco nelle maniche delle mie tuniche e mostrando solo questa zona di pelle nuda. Come le donne istriane e le loro bocche.» «Ah, com'è vero» esclamò Fent sorridendo. «Incredibilmente provocante, il fatto di non poter vedere altro che quelle labbra dipinte. Tor diceva...» Si bloccò all'improvviso. «Maledizione.» Katla distolse lo sguardo. «Aveva chiesto a nostro padre la mia mano, sai...» «C'ero anch'io» le ricordò Fent in tono distaccato. «... per salvarmi da Finn Larson.» Katla tacque per un momento. «Pensi che papà abbia intenzione di andare avanti con quella questione dopo tutto quello che è successo?» Fent sembrò perplesso. «Quale questione?» «Il matrimonio... con Finn.» Un'espressione indecifrabile apparve sul viso del suo gemello. «Ne dubito» disse. Sembrava a disagio.
Katla, che di solito sapeva leggere nei pensieri del fratello come se fossero i suoi, si accigliò. «E perché? C'è qualcosa che non mi vuoi dire. Forza, sputa l'osso, volpino.» «Lui è... morto. Finn Larson.» «Morto?» La mente di Katla cominciò a lavorare freneticamente. C'era stata una confusione tremenda quando le guardie l'avevano trascinata verso il rogo, e mentre la legavano al palo e accendevano il fuoco tutto intorno alla pira erano scoppiati dei disordini. Ma non le sembrava di aver visto il grasso costruttore di navi tra i combattenti, per quanto si sforzasse di ricordare. E poi non riusciva proprio a immaginarlo combattere gli Istriani per lei... «L'ho ucciso io.» Katla lo fissò, sbalordita. Suo fratello, il suo fratellino, come l'aveva sempre considerato, aveva ucciso un uomo. E non un uomo qualsiasi, e neppure un nemico, ma l'uomo con cui il padre aveva concluso il patto matrimoniale, il più grande costruttori di navi dell'Eyra, il padre di Jenna. «Ma come... perché? Non per me, di certo...» Fent non riuscì a trattenere una risata. «Il mondo non gira intorno a te, sai.» E così le raccontò della conversazione ascoltata fuori dalla tenda del nobile istriano e di come aveva colto di sorpresa il grosso mercenario prendendo in prestito la sua spada. «Mi è sembrato giusto in quel momento» concluse. «Prendere il Drago di Wen, voglio dire, dal momento che l'avevi fatta tu sembrava quasi mia... e stava così bene nel palmo della mia mano, sembrava quasi che gioisse mentre lo infilzavo, quel traditore.» Katla guardò sbigottita una luce folle lampeggiare negli occhi del gemello. Non prova rimorso, pensò. Nessun rimorso. «Ma non siamo in guerra con l'Istria» osservò soppesando le parole «e il nostro re avrebbe persino potuto prendere una delle loro donne come sposa: cosa c'era di male se Finn vendeva alla gente del Sud qualche nave? Sono sicura che li aveva spennati per bene al momento di chiedere il suo compenso...» Due chiazze rosse apparvero sulle guance di Fent. «Ma non capisci proprio niente della storia delle nostre due razze?» esclamò, e il suo tono era freddo e tagliente come una delle lame di Katla. «Hanno rubato la nostra terra e ucciso la nostra gente per centinaia di anni, spingendoci sempre più a nord, finché non c'è rimasto altro che dei miserabili mucchietti di roccia inospitale nel mezzo di un oceano infido e la capacità di costruire navi e farle navigare. E ora la guerra incombe di nuovo e tu vorresti startene a
guardare mentre ci portano via anche quel poco che ci resta? Saresti stata una moglie perfetta per quel traditore.» E con quelle parole balzò in piedi e si allontanò a grandi passi furiosi per andarsi a sedere al timone, la testa dritta a sfidare il forte vento come uno degli dèi vendicatori. Katla lo guardò finché capì che non si sarebbe voltato e non le avrebbe dato la soddisfazione di guardarla negli occhi. Poi, esausta, si addormentò di nuovo. Poco dopo l'alba, Katla sentì l'antico e familiare richiamo che pulsava sotto la sua pelle, nelle sue vene. La terra. Sento la terra che mi chiama. Questa volta era più forte di quanto lo fosse mai stato prima. Riusciva persino a sentire gli scogli sotto la chiglia mentre attraversavano le acque oscure e profonde del mare Occidentale, come contrappunto alla musica più forte proveniente dalle isole. Con passo incerto avanzò fino al timone, dove Kotil Gorson era in piedi accanto a suo padre, a fissare l'orizzonte grigio dove non c'era ancora alcun segno dell'Eyra. La pioggia cadeva incessante da un cielo cupo. Il tempo più adatto, pensò Katla, per il nostro inglorioso ritorno a casa. In quel momento il Dono di Fulmar solcò una grossa onda, un altro segno che la terra era vicina, e tutti e tre dovettero aggrapparsi alla frisata per non cadere. «Uau!» L'onda lunga passò. Staccando le mani dalla frisata, Katla si voltò verso Kotil e il padre. «L'avete sentito?» Entrambi la guardarono senza capire. «Una grossa onda» osservò Kotil, laconico come al suo solito. «No» replicò Katla. «Non quella...» Tacque, poi tornò a posare con estrema cautela la mano buona sull'asse superiore della frisata. Sotto il suo palmo il legno della nave pulsava di energia, una vibrazione potente che indicava qualcosa di più della semplice scossa di assestamento in seguito all'impatto tra il mare e le assi. «Questo» disse con forza. Prese una delle mani di Aran e la premette contro quella stessa superficie. «Non lo senti? È quasi come se mormorasse, come se avesse una vita propria...» Aran la guardò in modo strano. Le sue dita si chiusero sul legno, poi tornarono a distendersi. «Sento il rollio del mare, l'urto delle onde...» rispose. Poi si accigliò. «Ma tu non avresti dovuto alzarti, Katla. Mi sembri pallida. Perché non vai a distenderti finché non arriveremo a terra? Non manca molto, al massimo qualche ora.» «Lo so» mormorò Katla turbata. «Io... lo sento...» Tremando si voltò e barcollò faticosamente fino a metà della nave, in-
consapevole degli sguardi perplessi dei due uomini, indifferente a tutto ora che aveva stabilito quel collegamento: sentiva solo il fremito del legno sotto i suoi piedi e il richiamo che la nave sembrava ricevere dalla terra dalla quale quel legno proveniva, un richiamo trasmesso e amplificato dalle fredde acque grigie nelle quali navigavano. Era come se in tutto il tempo in cui lei aveva dormito nel mondo fosse stata infusa nuova vita, e ora quella vita stesse comunicando proprio con lei, Katla, e solo con lei. Avvistarono le Isole Occidentali a metà pomeriggio: dapprima l'isola di Uomo, di cui intravidero appena il lungo asse Nord-Sud mentre sfioravano la sua costa occidentale. Una volta entrati nel canale tra Isolalunga e Rocciacaduta, Katla vide il fumo che si alzava dagli insediamenti intorno alla Casa Lunga da più di cinque miglia di distanza, trasportato silenziosamente dal vento verso est, e l'improvvisa fitta di nostalgia che sentì per la sua casa la colse di sorpresa. Pochi minuti dopo Aran si aggirava per il ponte lanciando ordini con la voce chiara e profonda di un uomo soddisfatto e sicuro di quello che faceva, perché le navi erano ciò che Aran conosceva meglio: solcare l'oceano col vento in poppa, decifrare i segni del cielo e i movimenti del mare, fare delicate manovre per entrare in porto. La grande vela quadra fu ammainata e legata e il lungo pennone smontato e posato longitudinalmente sul ponte. Con sei uomini dell'equipaggio a manovrare gli stragli il grosso albero venne fuori dal suo alloggiamento e fu calato sul ponte con poco più di un tonfo, un'operazione difficile anche per gente esperta. Katla, impressionata, guardò attentamente tutte le manovre. Un giorno, pensò, un giorno avrò una nave tutta mia per andare dove voglio. Era venuta da chissà dove, quell'idea, tanto che a Katla sembrò quasi il pensiero di un altro, estraneo e improbabile: ma da qualche parte nella sua anima il seme era stato piantato. Di lì a poco gli uomini presero posto ai remi dopo averli calati in mare, e dopo pochi minuti la nave, leggera senza il peso del carico, fu nelle acque più calme dello stretto di Rocciacaduta. L'indistinta massa di grigio e verde cominciò a scomporsi nella miriade di dettagli dell'isola che Katla chiamava casa. Più lontano, a occidente, brullo contro il cielo di un pallido blu, il faraglione noto come l'Ago di Sur si ergeva come una grande torre bianca, circondato da gabbiani e urie. Nell'entroterra dietro l'Ago le piccole baie della costa meridionale emergevano di tanto in tanto dalla spuma dei marosi, alcune protette da frastagliati scogli, altre aperte al vento e alle maree, le spiagge pallide come mezzelune dorate sullo sfondo di fitti intrichi di
ginestre e rovi che ne impedivano l'accesso da terra. Da quel punto le scogliere cominciavano a salire vertiginosamente verso gli imponenti strapiombi della costa orientale, il più lontano punto visibile, sormontati dal massiccio Dente del Segugio. Ci sarà senz'altro una vedetta lassù, pensò Katla. E ci avrà impiegato un'ora buona per arrampicarsi fino alla cima per sorvegliare l'arrivo delle navi. E i palmi delle sue mani cominciarono a prudere e a formicolare, quasi riuscissero a sentire il granito contro la pelle, i taglienti cristalli di mica sotto le dita. C'era sempre una persona di guardia a Rocciacaduta: Aran aveva insistito su quell'abitudine sin da quando era tornato dalla guerra. Spesso Katla si era offerta volontaria, perché adorava salire lassù seguendo il suo percorso preferito: una via non troppo difficile se si prendeva il corridoio meridionale, dove due colonne di roccia si fondevano a formare un ampio spigolo che costituiva un ottimo appiglio. E poi il mare aperto alle sue spalle e la fantastica vista dei cento metri di bianco granito sotto i piedi. Katla era solita sedere lassù in estate con le gambe penzoloni oltre il bordo, indifferente al baratro che si apriva sotto di lei: guardava i gabbiani dalle ali nere volteggiare più in basso e scrutava incuriosita le macchie arancioni dei licheni che fiorivano come calendule sulle sporgenze rocciose. E difatti, come aveva immaginato, mentre si avvicinavano alla riva intravide una minuscola figura in cima al Dente Vigli, (molto probabilmente, uno dei ragazzi che avevano lasciato a casa quando erano partiti, o suo cugino Jarn, entrambi abili scalatori) e il suo cuore fece un balzo. Salirò fino in cima come prima cosa domattina, promise a se stessa, prima che il sole sorga, così potrò guardare le ombre dei banchi di pesci intorno alla costa prima dell'uscita delle barche da pesca. E poi, con un dolore sordo alla bocca dello stomaco, Katla si rese conto che scalare il Dente del Segugio sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe fatto la mattina dopo, e per molte mattine a venire. La delusione le fece bruciare gli occhi e serrare la gola come se avesse ingoiato qualcosa di troppo amaro da mandare giù. Non piangerò, disse a se stessa con ferocia. Non lascerò che nessuno di loro mi veda piangere. È stata una mia scelta, una mia colpa, e devo sopportare con coraggio le conseguenze. Si asciugò il viso con l'informe mano fasciata e fissò con rabbia davanti a sé, gli occhi socchiusi per impedire che altre lacrime cadessero giù. Il Dono di Fulmar doppiò il promontorio e fu improvvisamente avvolto dalla fredda ombra prima del Dente di Segugio e poi dall'alta Punta del
Corvo. Alla fine il porto naturale di Rocciacaduta si aprì davanti a loro, accogliendoli nel suo abbraccio, e a un tratto tutto il paesaggio sullo sfondo si offrì ai loro occhi: pascoli e colline scoscese, recinti e campi d'orzo, e poi la casa colonica e i fabbricati annessi, i tetti di torba delle case più piccole, i sentieri sabbiosi che conducevano tra felci e ginestre alle cave, e la gente dappertutto, che correva come insetti. Troppo lontani per capire chi fossero, era però ugualmente possibile seguire il loro cammino giù verso il porto: tutte le tinte naturali delle isole erano in mostra sui loro indumenti, i blu e i rosa dell'erica, i verdi e i marroni, gli ocra e i rosa opachi. Una grande folla di persone si era radunata sul frangiflutti costruito dal nonno di Aran quando aveva fondato Rocciacaduta più di cent'anni prima, e molta gente ancora stava arrivando verso la spiaggia dietro di esso. Mentre la nave aggirava il frangiflutti, Katla cominciò a distinguere i volti dei singoli individui: sul muraglione mentre passavano vide zio Margan e Kar Pieded'albero che gridavano e agitavano le mani; Bran Mattson e le figlie Ferra e Suna; Fellin Navegrigia e sua moglie Otter, Forna Stensen e Gunnil Larson. Un cane da pastore, una bestia enorme dal pelo grigio e la lingua lunga quasi quanto mezza testa, correva come impazzito su e giù davanti al gruppo degli astanti, la coda che sferzava l'aria in un parossismo di gioia. I bambini piccoli erano stati issati sulle spalle. Per molti di loro, pensò Katla, sarà la prima volta che vedono una nave grande quanto la nostra tornare dalla Grande Fiera: prego Sur che non sia l'ultima. Il discorso di Fent sulla guerra l'aveva innervosita non poco, a dover essere sincera. Al riparo del muro diverse piccole barche ondeggiavano all'ancora. La maggior parte era probabilmente ancora fuori a pesca, perciò quelle rimaste erano certo di proprietà dei membri dell'equipaggio del Dono di Fulmar, o delle altre navi che la seguivano. Anche i volti sulla spiaggia stavano diventando riconoscibili. Gli Erlingson, tutti e quattro sui cinquanta, tutti vestiti in maniera identica e con le stesse barbe grigio ferro e i nasi enormi, erano leggermente in disparte dal gruppo principale; in quello Katla intravide Stein Garson e il vecchio Rolf Finnson, Ma Hallasen e la sua amica Tian; Fotur Kerilson e le vecchie del clan dei Roccia delle Foche... Devono aver tirato su le loro gonne e corso come conigli per essere arrivate qui prima degli altri, pensò Katla, e sorrise a quell'idea. Breta la grassa, Kit Farsen e Hildi la magra litigavano per un cestino: torte per i ragazzi, senza dubbio. Era diventata quasi una tradizione, cercare di attirare nel proprio letto uno dei marinai di ritorno da un vi-
aggio con del cibo fatto in casa, nella speranza di ricevere un bel gioiello o uno scialle. Nessuno pensava male di loro per questo, e una o due delle ragazze avevano persino sposato il loro marinai alla fine, e tutto era andato a posto. Alla fine della prima fila Katla vide Ella Stensen, la madre di Tor, che scrutava con ansia la nave per cercare di vedere quel buono a nulla di suo figlio, e il cuore le si strinse. Distolse a fatica lo sguardo da quel volto martoriato: Ma Stensen aveva perso il marito, il fratello e un altro figlio l'anno precedente, rispettivamente per il mare, una rissa da ubriachi e una caduta da cavallo. Katla scrutò attentamente le altre facce per cercare sua madre e sua nonna, ma inutilmente. All'improvviso fu assalita dal terrore, cosa insolita per lei. Ma cosa potrebbe mai accadere loro qui a Rocciacaduta? rifletté. Le disgrazie peggiori che si erano abbattute su quelle spiagge erano stati strani e isolati disastri naturali, venti e maree anomale, come le grandi tempeste di una decina d'anni prima: avevano strappato via la torba dai tetti delle fattorie, demolito la palizzata e distrutto gli alberi che Halli aveva piantato a tredici anni per costruire le proprie navi. Katla ricordava con quanto orgoglio aveva riportato con sé le piantine dal continente e la cura amorevole con cui le aveva piantate, ignorando tutti i consigli, sulla collina dietro la casa colonica. Aveva raccontato in dettaglio a tutta la famiglia della magnifica nave che avrebbe costruito con quelle querce... finché nonna Rolfsen non l'aveva preso per mano e condotto giù nella valle dove crescevano gli alberi più vecchi dell'isola, quelli conservati per il boschetto consacrato alla dea Feya, e gli aveva mostrato un segno su una quercia maestosa che suo nonno aveva fatto il giorno in cui si erano fidanzati. «Cinquant'anni fa, per l'esattezza» aveva detto con voce stridula, indicando il nodo dell'amore inciso a non più di un paio di metri sulla sua testa. «Cinquant'anni, ragazzo mio, e potresti avere alberi a sufficienza per una barca a remi. Ma dovrai vivere quanto il Lupo delle Terre Innevate prima di poter ricavare una nave lunga da questi arboscelli!» Ma quando venne il grande vento e li abbatté tutti come erba sotto la mano di un gigante, Halli aveva ugualmente pianto come un bambino. Katla, che aveva solo sette anni, aveva pensato che la fine del mondo, quell'apocalittico evento di cui aveva sentito parlare nelle storie della sua prima infanzia, era di certo arrivato. Poi, pochi giorni dopo che la tempesta era cessata, i corpi di cinque uomini erano stati portati a riva dalle onde a Capo Foca. Nessuno li aveva riconosciuti: non erano delle Isole Occidentali, questo era certo, e a giudicare dagli strani indumenti e dalla pelle scura e dagli strani segni sul
corpo non sembravano neppure Eyrani. Forse Istriani dell'estremo Sud, la cui nave era stata sorpresa in mare dalla tempesta e spinta fuori rotta verso Nord, ma non era stato trovato nessun relitto insieme a loro. Gli isolani avevano scavato una fossa per i corpi sulla spiaggia dove il mare li aveva riportati, e li avevano rimandati alla loro Dea tra le fiamme, invece che restituirli all'oceano com'era l'usanza del Nord. Dopo una settimana due delle donne e quattro degli uomini che avevano aiutato a bruciare i corpi si erano ammalati: le loro pelle si era riempita di piaghe rosse, seguite da febbre alta e improvviso deperimento. Tre di quei sei erano morti, e nel giro di un mese metà di Rocciacaduta era stata colpita da quella misteriosa malattia. Tutti erano terrorizzati. Katla ricordava ancora di essere stata avvolta in panni imbevuti di tinture di erbe dall'odore pungente preparate da sua nonna, ma nonostante le precauzioni tutta la famiglia era stata colpita dalla malattia, ritrovandosi piena di pustole rosse da capo a piedi. La febbre se n'era andata in fretta, però, e non erano deperiti: erano stati fortunati, a differenza di altri. Trentacinque persone, uomini sani, donne forti e bambini vivaci, erano morti in quella strana epidemia. Poi, così com'era arrivata, la malattia era scomparsa, lasciando debolezza e avvilimento nella sua scia, ma nessun altro morto. E se la malattia fosse tornata? si chiese Katla. O se qualche altra disgrazia avesse tenuto lontane sua madre e sua nonna dalla folla che salutava il loro ritorno a casa? Ma mentre quel pensiero le sfiorava la mente la gente si mosse e Katla intravide i capelli rossi di sua madre e poi la temibile nonna Rolfsen che si faceva strada tra la folla agitando il suo fido bastone, e tirò un enorme sospiro di sollievo. Con un gran tonfo una dozzina o più di membri dell'equipaggio balzò nelle acque poco profonde del porto, gemendo per il freddo; gli uomini trascinarono a riva le grandi corde che avrebbero usato per tirare il Dono di Fulmar in secca sulla spiaggia, dove sarebbe stata calafatata e raddobbata per il prossimo viaggio. Le faering vennero messe in mare e l'equipaggio cominciò a calarsi con entusiasmo nelle piccole barche. Katla guardò il proprio braccio fasciato e sentì la rigidità e il dolore delle gambe. Non sarebbe stato facile calarsi in una barca, ma che fosse dannata se tornava a casa dalla sua prima Grande Fiera come un'inutile invalida. Quando suo padre e i suoi fratelli le si avvicinarono, con identiche espressioni di preoccupazione sul volto, Katla li cacciò come fossero fastidiose zanzare. «Lasciatemi in pace! Ci penserò da sola.» Abituato alle maniere della sua testarda figlia, Aran si strinse nelle spalle
e si allontanò. «Ti manca il bacio gelido del mare del Nord, eh, sorellina?» la prese in giro Fent. Katla si irrigidì, determinata più che mai a dimostrare che poteva farcela. Arrancando come un'oca zoppa, si avvicinò alla frisata in corrispondenza della barca più vicina. Halli la seguì. «Potresti aspettare, sai» le disse a voce bassa, così che nessun altro potesse sentire. «Andranno a prendere i rulli e tra non molto trascineranno la nave a riva, e tu potresti scendere direttamente sulla terraferma. Nessuno avrebbe meno stima di te per questo.» «No!» Katla era decisa: i suoi occhi lampeggiarono pericolosamente. Senza dire un'altra parola, si piegò e strinse la frisata con la mano buona, poi fece passare la gamba destra oltre il bordo, trasalendo contro la sua volontà per il lampo di dolore che le percorse la schiena. Era un bel salto fino alla scialuppa, ora che il Dono di Fulmar era insolitamente alta sull'acqua senza il suo carico, perciò Katla strinse i denti, chiuse gli occhi, e si lasciò andare. Mani gentili bloccarono la sua caduta. La piccola barca ondeggiò pericolosamente, ma ormai Katla era a bordo. Un paio di uomini dell'equipaggio mise i remi in mare e remò vigorosamente verso riva. «Stai bene, ragazza?» chiese una voce burbera, e Katla si voltò e trovò Kotil Gorson dietro di lei, gli occhi blu che brillavano in modo strano nella ragnatela di rughe della sua faccia scura e segnata dalle intemperie. «Starò bene» rispose lei e gli sorrise, anche se sentiva dolore in tutto il corpo. L'uomo annuì. «Bello sforzo, ragazza mia. Sono felice che non ti hanno bruciata. Sarebbe stata una grave perdita dopo Tor e Erno.» Katla si morse il labbro. I suoi occhi tornarono a posarsi su Ma Stensen: una donna alta e magra i cui lunghi capelli biondi nell'ultimo anno erano sbiaditi in un orrendo bianco striato di giallo, come il manto di un pony che Katla aveva una volta. Aveva fatto tutta la strada da Punta delle Cascate nel Nord dell'isola, senza dubbio confidando nella parte di denaro che Tor avrebbe guadagnato con la sardonica. Più a Nord si andava più la vita era dura sulle Isole eyrane: le fattorie rendevano sempre meno, pescare era sempre più pericoloso e con solo il fratellino di Tor, Matt, ad aiutarla, il suo futuro sarebbe stato davvero nero. Forgerò la spada più bella che abbia mai fatto, non appena potrò, promise Katla a se stessa, e la venderò per dare il ricavato a Ella Stensen. Difficilmente avrebbe compensato la perdita di suo figlio, ma il dono sarebbe valso più di mille parole.
Pochi minuti dopo la scialuppa approdò sulla spiaggia sassosa e altre mani gentili l'aiutarono a scendere a riva. Il terreno le sembrò stranamente instabile sotto i piedi, come se fosse stato il mare quello fermo per tutti quei giorni di viaggio, mentre la terra si era mossa e continuava a muoversi. Katla tentò di dondolare per seguire il moto delle onde che non c'erano e si ritrovò a cadere faccia a terra, con gran divertimento della folla che non aveva ancora notato il braccio fasciato né le altre ferite meno evidenti. Rimase lì, stordita, mentre le voci e le risate le fluivano intorno come un altro mare; poi qualcosa cominciò a pulsare attraverso la guancia che toccava il terreno, poi attraverso il fianco, il petto, le braccia e le gambe. Seguì un calore, non insopportabile, ma dolce e avvolgente, e a Katla sembrò quasi di galleggiare in una pozza d'acqua calda. Il sangue le ronzava e brusiva nella testa. Qualcuno la prese sotto le ascelle e cominciò a raddrizzarla; lei lo seguì malvolentieri, sentendosi ancora più stordita e disorientata quando si staccò dal terreno. Una volta in piedi Katla fu vagamente cosciente di persone che le parlavano, di un abbraccio e poi un altro e del profumo familiare di acqua di lavanda che usava sempre sua madre; poi sentì che si muoveva tra la gente, spinta da mani altrui, lontana dall'acqua. Qualche tempo dopo, Katla non avrebbe saputo dire quanto, tornò in sé con un sussulto, e si ritrovò in piedi davanti alla Casa Lunga al loro podere a Rocciacaduta. Come ci fosse arrivata lo ricordava appena. C'era gente che si aggirava di fronte agli edifici annessi alla casa colonica e gli animali vagavano per i pascoli oltre il recinto. Dietro la casa la cascata conosciuta come la Vecchia scendeva giù dalle pendici rocciose per gettarsi nel laghetto in un flusso continuo di acqua bianca e schiuma, e più su, oltre la cascata, la montagna si stagliava stranamente nitida contro il cielo blu. Katla fece un profondo respiro e sentì il proprio corpo reagire all'ingresso di aria nei polmoni. Poi Ferg, il loro cane, uscì come una furia dal cancello, abbaiando così forte da risvegliare i morti, e si lanciò contro di lei a tutta velocità, sbavando di adorazione. Istintivamente Katla si voltò leggermente di lato e il cane la colpì in pieno sul braccio ferito. Con un grido che era più di sorpresa che di dolore, Katla fece un balzo indietro e lo allontanò con l'altra mano, finché Aran non lo chiamò e il cane corse obbediente dal suo padrone. Il braccio di Katla pulsava dalla spalla alla punta delle dita, ma l'ondata di agonia che si era aspettata di provare non si materializzò. Confusa, Katla lasciò che la portassero dentro la casa, sentendosi un'imbrogliona mentre tutti la ricoprivano di attenzioni.
21 Argento e pietre Nel suo castello a Cantara, nel roccioso sud dell'Istria, Tycho Issian fremeva di rabbia. Essere arrivato così vicino a possedere la Rosa Eldi e vedersela portare via dalle mani era già abbastanza terribile, ma averla perduta nel licenzioso abbraccio del re barbaro era molto, molto peggio. La sua perdita lo assillava da sveglio, ma ancor più nel sonno: ogni notte lei visitava i suoi sogni, gli occhi verdi, la bocca calda e le mani compiacenti. Alcune mattine Tycho avvertiva la sua presenza in maniera così forte che riusciva persino a sentirne il profumo, una fragranza inebriante, leggermente muschiata; si voltava nel letto per attirarla di nuovo a sé, trovando il lato sinistro del materasso freddo e liscio, tristemente vuoto. In paragone la perdita di sua figlia Selen sembrava un male minore, tranne che quando ricordava le parole del venditore di mappe (che ora a malincuore chiamava 'il mago', anche se le sue magie erano del tutto inadeguate): «In una barca con un uomo del Nord.» Solo un intenso interrogatorio gli aveva permesso di avere informazioni leggermente più dettagliate: «Un uomo alto, giovane, con una barba così bionda da sembrare quasi d'argento, con trecce e conchiglie nei capelli.» Era quell'ultimo particolare che era rimasto impresso a Tycho. I bizzarri intrecci e i nodi che gli Eyrani sembravano fare dappertutto, nei capelli, nelle barbe e in quegli assurdi pezzi di spago che usavano al posto delle pergamene per scrivere e fare di conto, per il nobile istriano erano un'ulteriore prova - se pure gliene serviva una oltre quella fondamentale dell'eretica adorazione del loro dio dell'oceano - della loro natura primitiva e selvaggia. Quale destino attendeva Selen nelle mani di un nemico, un nemico che oltretutto non sapeva né leggere né scrivere, e per di più legava strani oggetti ai propri capelli? Aveva costretto Virelai a scrutare ripetutamente nella ciotola divinatoria per cercare di scoprire dove fossero entrambe le donne, pur ritenendolo un inutile esercizio: dove altro potevano essere dirette se non nel gelido e malvagio Nord? Malgrado ciò aveva obbligato il mago a tali ricerche più per rafforzare il proprio potere sull'uomo che per ottenere preziose informazioni. E ogni volta la ciotola aveva restituito solo vaghe immagini di nebbia e nuvole, scogliere e mari. Alla fine Tycho aveva cominciato a stancarsi e aveva cercato di persuadere il mago a trovare metodi per tra-
sformare l'ottone e le altre leghe in argento puro. Virelai, tuttavia, offeso dal costante disprezzo del Signore di Cantara, aveva continuato a praticare la divinazione in privato nella sua stanza. Una notte, forse aiutato da Bëte che stranamente gli si era appollaiata in grembo, la sua ostinazione era stata ricompensata da un singolo, e interessante, particolare. Su un promontorio che sembrava troppo verde e boscoso per appartenere alle brulle isole del Nord, un uomo alto con la testa avvolta in un turbante e una donna piccola dai capelli scuri con un abito rosso salivano lungo un sentiero ripido attraverso un boschetto roccioso. Virelai aveva guardato il vestito della donna impigliarsi in un rovo, costringendola a perdere qualche secondo nel tentativo di liberarsi; ma l'uomo alto non si era neppure voltato; così, pochi attimi dopo, la donna aveva tirato via il vestito con forza, lasciando un piccolo lembo di stoffa rossa sul cespuglio, e gli era corsa dietro quasi terrorizzata. Virelai aveva visto la figlia di Tycho solo per un attimo nel cristallo durante i caotici eventi della Grande Fiera, ma i suoi occhi scuri e spaventati gli erano rimasti impressi: li avrebbe riconosciuti ovunque. Dopo aver riflettuto, tuttavia, Virelai aveva deciso di tenere quella piccola informazione per sé. Avrebbe potuto non essere una vera visione, e ciò gli avrebbe causato solo ulteriori umiliazioni e probabilmente un'altra delle dolorose punizioni del nobile. Tutto quello che aveva sofferto per mano del Padrone era diventato un leggero disagio in paragone. Il mago si rammaricava con sempre maggiore frequenza del modo in cui aveva avvelenato il vecchio, lasciandolo sprofondato in un sonno che avrebbe potuto ucciderlo per disidratazione e inedia prima che uno qualsiasi degli impazienti esploratori del Nord raggiungesse l'isola. E se il Padrone fosse morto in quel modo per mano sua, anche se solo come estrema conseguenza delle sue azioni, allora la maledizione che il mago gli aveva esposto con dovizia di spaventosi particolari si sarebbe sicuramente abbattuta su di lui. Virelai aveva creduto che il suo piccolo stratagemma con le mappe e la promessa di un inestimabile tesoro fosse infallibile, una formidabile astuzia, perché se il vecchio fosse morto per mano altrui nessuno avrebbe potuto imputare a lui la sua dipartita, no? Ma quel rassicurante pensiero era ben presto svanito per far strada al panico, e lui si era ritrovato a chiedersi disperato se ci fosse un modo per fuggire da Tycho Issian e tornare a Santuario in tempo per salvare il vecchio. Forse, pensava sempre più spesso negli ultimi tempi, se fingessi che è stato solo un terribile incidente...
Miracolosamente i cavalli si ripresero, grazie alle cure di Saro e a una fonte di acqua pulita, ma Tanto non mostrò alcun significativo miglioramento, e Saro cominciò a temere il momento in cui sarebbe tornato a casa. Aveva sempre amato la città e i dintorni di Altea. Il fiume d'Oro sboccò nella grande e fertile pianura ai piedi delle montagne meridionali, e Saro guardò verso le serpeggianti terrazze di aranceti e vigneti, costellate di boschetti di alti pioppi e maestosi abeti, di campi di spezie ed erbe balsamiche e dalle enormi distese color malva delle piantagioni di lavanda, ma invece di sentirsi confortato dalla bellezza del paesaggio si ritrovò attanagliato da una morsa di gelido panico. Non poteva negare di essere una persona completamente diversa dall'ingenuo e speranzoso giovane partito da casa solo poche settimane prima, e che lì, in quel magnifico luogo, lo attendeva un futuro ben diverso da quello che si era sempre immaginato. Costretto ad accudire suo fratello che peggiorava di giorno in giorno (il solo odore della ferita in putrefazione a volte era sufficiente per farlo star male) mentre addolorati parenti andavano e venivano, scuotendo la testa e senza dubbio pensando nel loro intimo che era un peccato che il destino dei due fratelli non fosse invertito. Saro era sicuro che sarebbe presto impazzito. E poi c'era il piccolo particolare di sua madre, ora che conosceva il segreto della sua paternità. Saro paventava il momento in cui l'avrebbe guardata negli occhi, perché temeva che lei avrebbe in qualche modo capito ciò che lui aveva scoperto: allora la vergogna l'avrebbe distrutta e lui non avrebbe sopportato di causarle tanto dolore. Di tanto in tanto Saro fissava in lontananza, dove la Spina Dorsale del Drago si ergeva simile a un banco di basse nubi grigie all'orizzonte, e si chiedeva se avrebbe avuto il coraggio di sparire per sempre, magari persino di prendere Messaggero della Notte e allontanarsi con lui verso l'oblio. E per fare cosa? pensò con amarezza. Non sarebbe durato più di pochi giorni nelle zone più selvagge del Sud: molto probabilmente sarebbe stato assassinato dalle feroci tribù che infestavano le pendici di quelle montagne mentre vagava, senza meta e senz'acqua, nel paesaggio ostile. E se invece si fosse diretto da qualche altra parte nelle zone civilizzate dell'Istria il suo furioso padre gli avrebbe di certo mandato dietro delle spie, e Saro sarebbe stato riportato a casa con la forza prima che potesse disonorare oltre il nome dei Vingo. E così Saro era lì, in procinto di mettere piede sul suolo natio ancora una volta. Ogni passo lo faceva sentire più vicino a una prigione da cui forse
non sarebbe mai più uscito. «Sciocco! Nessuno potrebbe mai confondere questo con l'argento!» I segni dei denti di Tycho erano evidenti sulla patina grigia luccicante che ricopriva l'interno ancora di rame della moneta. «Non puoi corrompere in qualche modo quel dannato gatto, o usare la forza o qualcosa del genere?» Virelai fissò perplesso la pila di metallo. Aveva lavorato per tutto il giorno, con la povera Bëte incatenata alla gamba del tavolo che miagolava furiosa, ma era riuscito solo a trasferire l'aspetto dell'argento a quelle monete. E, come Tycho aveva detto, il risultato avrebbe ingannato solo un cieco. «Sto facendo del mio meglio, mio signore» disse con voce stanca. «Ma non è ancora perfetto, lo ammetto.» Aveva cominciato più di una settimana prima fondendo alcune monete di rame e tentando di operare un incantesimo di trasformazione su di loro, ma tutto quello che ci aveva guadagnato era stato un informe ammasso di metallo che valeva meno della somma delle monete... e una sonora dose di legnate. Il Signore di Cantara amava molto picchiare il prossimo. Dopo una serie di inutili tentativi, Virelai aveva improvvisamente avuto l'idea di lavorare sull'illusione, meritandosi tutta una serie di lodi sperticate da Tycho... ma solo finché il nobile non si era reso conto che ciò che il mago gli offriva non era una pepita di solido argento e di conseguenza la risposta a tutti i suoi problemi finanziari, ma un trucco dozzinale. Solo il giorno dopo il pestaggio che ne era seguito Virelai era stato in grado di parlare abbastanza bene da spiegare il suo stratagemma, guadagnandosi un cenno di riluttante assenso. Le richieste del Consiglio per la restituzione del debito di Tycho si stavano facendo sempre più pressanti. Proprio quella mattina aveva ricevuto un messaggero da Cera: i nobili suoi pari nella loro infinita bontà avevano deciso di estendere il periodo del credito di altri trenta giorni, ma non di più. La pergamena che il messaggero gli aveva consegnato in modo alquanto esitante (dal che Tycho aveva dedotto che l'uomo aveva fatto l'impensabile e si era spinto a srotolare la pergamena e a leggere quello che c'era scritto) diceva infatti nei termini più cortesi che lo Stato aveva un bisogno urgente di quei fondi; se il Signore di Cantara non avesse soddisfatto la richiesta, il Consiglio non avrebbe avuto altra scelta che dichiararlo un apostata, requisire il suo castello e tutti i suoi beni mobili e metterli nelle mani di Balto Miron. Quel deforme idiota! Il pensiero del grasso culo
di Balto che si sedeva a fatica su una delle sue belle sedie di quercia, intagliate a mano dai migliori artigiani delle Foreste Blu, o delle sue più belle schiave trascinate a forza nel suo letto procurava a Tycho un dolore fisico. Il Signore di Cantara cominciò immediatamente a formulare un piano che avrebbe soddisfatto tutti i suoi bisogni in un colpo solo. Saro guardò sua madre inginocchiarsi accanto alla barella di Tanto e si rese conto con amarezza e con un certo sollievo che non avrebbe dovuto preoccuparsi affatto che lei potesse leggergli nell'anima: da quando era arrivato non l'aveva degnato neppure di uno sguardo. Illustrila fece scorrere le mani sul viso pallido di Tanto e sulla calva cupola rosata della sua testa e le sue spalle cominciarono a tremare. Doveva essere uno shock per lei vedere il suo bellissimo ragazzo ridotto in quelle condizioni. Il luccicante manto di capelli neri era svanito, così come la pelle dorata, le fattezze dure e affilate, la linea netta della mascella, tutto sostituito da una pallida e incavata maschera di morte. Le sopracciglia e le ciglia di Tanto contrastavano spaventosamente con la carnagione ora giallastra; anche se almeno quelle erano rimaste intatte, nessun accenno di barba si intravedeva sulle guance dalle pelle molle, cascante. E i cambiamenti non si fermavano lì, pensò lugubre Saro, ricordando il tremendo spettacolo nascosto dalle lenzuola, anche se il puzzo doveva dare a Illustria un'indicazione dello stato di Tanto: l'odore era quello di una persona che stesse marcendo dall'interno. Quando alla fine sua madre sollevò la testa, Saro notò che la parte anteriore della sua sabatka era così bagnata che quasi si intravedeva il luccichio degli occhi attraverso il velo, anche se la donna non aveva emesso alcun suono. La stoffa è così leggera, o sono insolitamente potenti le lacrime di una madre che piange per la perdita del figlio preferito? Era un pensiero insolitamente impietoso per lui, e Saro se ne vergognò immediatamente. Senza pensarci fece un passo verso sua madre e le posò delicatamente una mano sulla spalla... e fu improvvisamente assalito dal suo dolore. Era così forte che per qualche istante dimenticò di interrompere il contatto, mentre un'ondata di disperazione dopo l'altra si infrangeva sulla spiaggia della sua mente; quando alla fine staccò la mano la stanza sembrò ondeggiare intorno a lui e le ginocchia gli cedettero. «Saro!» La forma scura di sua madre si stagliava sopra di lui, la bocca dipinta nei colori di Falla, rosso e oro... Per dare il benvenuto a suo marito, fu l'irrile-
vante pensiero di Saro, o a suo fratello Fabel? «Non toccatemi» si affrettò a dire quando vide la sua mano tendersi verso di lui. «Sto bene, davvero.» Si raddrizzò. «Hai un aspetto orribile.» La voce di sua madre era poco più di un sussurro. «Il viaggio è stato lungo, madre. Sono molto stanco, ecco tutto.» Si affrettò a rimettersi in piedi, trasalendo mentre il suo corpo registrava le conseguenze della caduta. La pietra dell'umore, al sicuro nella sua scarsella di cuoio, sbatté contro il suo petto, e Saro sollevò automaticamente una mano per fermarne il movimento. All'improvviso un odore acido riempì la stanza. Era un aroma che gli era diventato fin troppo familiare a quel punto. «Devo lavarlo di nuovo» disse con voce piatta, girandosi verso sua madre. «Forse potresti chiedere a una delle ragazze di aiutarmi?» «Sciocchezze.» Il tono di Illustria era serio e deciso, e ogni traccia delle lacrime versate era svanita. «Io l'ho accudito per anni quando non poteva farlo da solo e lo farò di nuovo. È solo malato: lo farò tornare in salute io stessa.» Una tale sicurezza a dispetto delle schiaccianti apparenze, pensò Saro; e con quale rapidità era passata dall'isteria al controllo di sé. Non c'era da meravigliarsi che fosse riuscita a nascondere la sua infedeltà così bene. «Nostro padre ha detto che devo occuparmene io.» «E io dico che lo faremo io e le mie donne, e che nessun altro entrerà in questa stanza senza il mio esplicito permesso.» «Si arrabbierà.» «Tu lascia che si arrabbi: non ho intenzione di perdere entrambi i miei figli. Tu sembri stanco morto, Saro: vai a riposare. Parlerò io a tuo padre.» E così per i successivi quindici giorni Saro si era ritrovato con molto tempo libero a disposizione. Illustria aveva mantenuto fede alla sua parola e in quell'unica questione aveva imposto la sua volontà su quella del marito. Saro aveva sentito le loro voci irate penetrare anche i più spessi muri della casa, provenienti dalla camera di Tanto (una delle camere degli ospiti al piano terra, dove era più facile portare l'acqua), poi dal corridoio di fuori e alla fine dall'entrata della stanza delle donne. Si era meravigliato che una donna così riservata come sua madre potesse diventare una tale belva quando i suoi istinti protettivi si risvegliavano. La pesante porta di quercia aveva sbattuto con così tanta forza che le pareti avevano tremato; e poi il silenzio. Saro aveva immaginato che sua madre avesse avuto la meglio: da
quel momento aveva trovato la porta della camera di suo fratello sorvegliata da Fina, una donna grande e grossa il cui comportamento taciturno e poco cortese era dovuto tanto al suo temperamento irascibile quanto alla perdita della lingua a opera del crudele mercante di schiavi di Gibeon da cui l'avevano acquistata. Saro aveva cominciato perciò a trascorrere il suo tempo principalmente passeggiando per le colline, con la scusa di far esercitare i cani da caccia, ma più che altro per sfuggire all'odore del corpo in decomposizione di suo fratello e alla quiete oppressiva della villa. Si sedeva tra gli arbusti di salvia e malva selvatica a guardare le allodole volare nel cielo blu e a mangiare il pane e il formaggio presi dal tavolo della colazione. I cani si aggiravano allegramente tra le tane dei conigli e i terrapieni di calcare e gli riportavano bastoni e pietre e una volta persino un piccolo serpente marrone con una testa a ciascuna estremità del corpo, il quale, miracolosamente intatto nonostante le affilate fauci del cane, l'aveva guardato con uno sguardo penetrante dei suoi quattro occhi color rame prima di scivolare nuovamente tra le fessure delle rocce. E a volte Saro si ritrovava a pensare alla selvaggia ragazza del Nord con i capelli fiammeggianti in cima alla Rupe di Falla; e poi afferrava quel pensiero e lo ricacciava con cura nella sua mente, prima che il tremendo destino della giovane tornasse a tormentarlo. Qualche tempo dopo una carovana di mercanti passò dalla città di Altea, e Favio, con un improvviso e insolito gesto di ospitalità, invitò i visitatori nella sua casa. Anche loro, a quanto pareva, erano stati alla Grande Fiera e se n'erano andati presto come i Vingo; ma lentamente, lungo una rotta piuttosto tortuosa che li aveva portati di città in città a vendere le merci che avevano acquistato in fiera. Oltre a diversi lingotti d'argento, avevano raccolto anche un bel po' di pettegolezzi durante il loro passaggio. «C'è molta gente infuriata a Cera e Forent» disse il capocarovana, un certo Gesto Ardum. Era un uomo robusto sui cinquant'anni e gli piaceva vantarsi di aver visto il mondo e di conoscere bene quello che vi accadeva. Ogni sua frase era condita di nomi famosi, come se fosse convinto che i suoi fioriti discorsi avrebbero avuto un maggiore peso grazie alla conoscenza fugace dei nobili o degli artisti che nominava. Saro aveva immediatamente preso Gesto in antipatia. Anche in quel momento ne stava menzionando un altro, sottolineando le sue parole con la coscia di pollo mezza masticata che agitava nell'aria. «Il mio amico, il nobile Palto, che ha un
grande castello, sapete, alla periferia di Cera, dice che Rui Finco era furioso dopo la fiera; che se ne andava in giro scuro in volto a imprecare contro gli uomini del Nord, dicendo che erano diventati troppo sicuri di sé e che il loro nuovo re era un uomo pericoloso e che era necessario fargli abbassare la cresta. E ovviamente i Dystra erano sconvolti dal fatto che avesse sdegnosamente rifiutato il Cigno in favore di una puttana degli Erranti; anche se il poeta Fano Cirio, che spesso trascorre le sue estati alla corte di Jetra, mi ha detto in confidenza che la giovane nobile è piuttosto sollevata di non dover intraprendere il viaggio verso nord, perché l'aspetto barbaro degli uomini eyrani l'aveva allarmata non poco.» «E il Signore di Cantara sta fomentando considerevolmente gli odi» aggiunse uno degli altri mercanti, felice di poter fare sfoggio della propria conoscenza dei meccanismi politici dell'Istria. Fabel rise. «Maledetto pazzo.» «Maledetto pazzo e ricco» lo corresse Gesto. «Ho fatto degli ottimi affari con il nobile Tycho il mese scorso: non mi piace che si parli male di lui.» «Il suo non è un nome che viene pronunciato alla leggera in questa casa» replicò Favio Vingo a denti stretti. Gesto si portò una mano alla bocca, apparentemente dispiaciuto. «Le mie scuse, signore: avevo dimenticato lo spiacevole contrasto tra voi e il Signore di Cantara alla fiera. Qualcosa che aveva a che vedere con un contratto di matrimonio, se non sbaglio...» Favio lo incenerì con lo sguardo. «Non dovreste ascoltare i pettegolezzi degli stolti» tagliò corto. «Quell'uomo è pazzo, e da dove avete preso l'idea che sia ricco, proprio non lo so: era così a corto di denaro alla Grande Fiera che ha insultato me e la mia famiglia in maniera imperdonabile.» «Con tutto il mio rispetto, devo dissentire con voi su tale argomento, perché il Signore di Cantara ha pagato per i suoi acquisti da noi, ossia dei superbi gioielli jetrani, pezzi da collezione, e un assortimento delle migliori gemme, con lingotti di argento puro. Non ha discusso neppure una volta il prezzo che io gli ho quotato, cosa da vero gentiluomo, e aveva grandi riserve del prezioso metallo nei suoi bauli: le ho viste con i miei occhi.» Favio si accigliò e tacque. Dopo un attimo disse: «Pensavo che non foste ancora arrivati fino a Cantara.» Gesto Ardum rise. «Ah, no, e con il nobile Tycho assente non credo che ci avventureremo così a Sud. No, è stato a Cera che l'abbiamo incontrato, e stava facendo una notevole impressione da quelle parti. Viaggia con un
servitore nomade, un uomo alto, strano, pallido, con un gatto nero che tiene al guinzaglio: non ho mai visto niente del genere. Davvero un quadretto inquietante.» Qualcuno aggiunse entusiasta: «E poi è un uomo molto pio, il nobile Tycho Issian. Pio e patriottico.» «Sì» intervenne un altro mercante in tono amaro. «Pio e patriottico, direbbero alcuni: in quanto a me, io dico uno zelota bigotto.» Gesto rise con cortesia e si chinò sul tavolo. «Lindo ha preso in sposa una donna del Nord, ci credereste?» disse a voce bassa, con un sorriso poco piacevole. «Gli piacciono selvagge. Ad ogni modo, il Signore di Cantara è arrivato a corte in un grande turbinio di fervore mistico, ha pagato il suo debito al Consiglio con grande ostentazione e da allora sta sollevando quanto più sdegno possibile contro gli Eyrani. Dice che dovremmo mandare le nostre navi a nord per 'liberare' le loro donne dal giogo crudele della loro eretica religione e convertirle a Falla.» «Liberarle nei nostri bordelli, molto probabilmente!» Un ironico scroscio di applausi e di pugni battuti sul tavolo accolse tale affermazione. «E qualcuno ascolta queste sue sciocchezze?» chiese Fabel. «Sono trascorsi più di vent'anni dalla fine dell'ultima guerra. Coloro che ricordano portano rancore e coloro che non erano abbastanza grandi immaginano la guerra come un salutare esercizio, oserei dire. Coloro che sono a favore della guerra sono una minoranza, per ora: ma ogni giorno che passa sempre più gente sembra dare ascolto a Tycho Issian.» Favio posò il coltello, scuro in volto. Aveva a malapena toccato il suo cibo quella sera, così come quasi tutte le altre sere da che era tornato dalla Grande Fiera. Le sue guance erano scavate, la pelle intorno agli occhi opaca e solcata da nuove rughe. «Mi addolora dover concordare con quell'arricchito, ma mio figlio giace morente per mano di briganti eyrani...» Gesto Ardum si scambiò uno sguardo significativo con un altro mercante, un uomo alto e scuro con gli occhi molto ravvicinati e una bocca sottile. Quell'uomo che, rifletté Saro, non aveva mai detto il suo nome, distolse lo sguardo e rivolse la sua attenzione al suo piatto: delizioso riso allo zafferano e fragrante agnello arrosto con le albicocche, la specialità locale. «Ah, be', sono solo chiacchiere al momento, naturalmente» continuò Gesto. Si chinò in avanti con fare da cospiratore. «Sarebbe un'impresa alquanto costosa, invadere il Nord. Il nobile Palto dice che non abbiamo navi a sufficienza per farlo, né l'esperienza necessaria. E ingaggiare la quantità
di rinnegati necessaria a crearsi un passaggio fino a Halbo sarebbe dispendioso, e non solo in termini di denaro...» «Cosa volete dire?» Fabel svuotò il proprio boccale e si appoggiò allo schienale della sedia, le braccia ripiegate sull'evidente pancetta in una parodia della soddisfazione. «Mi sembra che abbiamo avuto diverse buone annate sia nei campi che nelle miniere... E di certo abbiamo pagato così tante tasse di recente che i loro maledetti forzieri a Cera dovrebbero traboccare di denaro! A volte mi chiedo dove mai finiscano tutte quelle monete, perché di certo non tornano qui: sono già cinque anni che il maledetto ponte di Costia è crollato e ancora non l'hanno ricostruito!» Gesto si guardò intorno con melodrammatica teatralità. Poi si chinò ancora di più verso i suoi ospiti. «Dicono» e i suoi occhi brillavano «che dall'Erario manchi una significativa somma di denaro. O anche che il nobile Steward abbia tenuto male i conti, e lui, ovviamente, nega con fermezza che l'ammanco abbia qualcosa a che vedere con lui. Prima ha minacciato di dare le dimissioni quando i registri contabili sono stati contestati e poi ha cominciato a blaterare di un incendio nel palazzo del duca di Gila lo scorso anno; a quel punto un certo numero di nobili è corso da lui per cercare di calmarlo. Una faccenda alquanto strana, a giudizio del nobile Palto, anche se non vedo proprio perché qualcuno dovrebbe darsi la pena di dare fuoco al castello di quel vecchio spilorcio. In un modo o nell'altro, però, il Consiglio Supremo è stato costretto a chiedere la restituzione dei debiti in tutto il paese ben prima della scadenza, e questo non ha certo fatto piacere a un gran numero di persone che potrei menzionare.» Il mercante scosse tristemente la testa. «È stato anche brutto per gli affari, devo dire, anche senza tutti gli altri bizzarri incidenti.» «Incidenti?» Favio lo guardò perplesso. «Una delle chiatte del duca di Galia si è rovesciata in un mare piatto come una tavola al largo dell'Isola del Maiale. Un attimo prima i rematori procedevano di buona lena e un istante dopo un vento malefico è sbucato dal nulla e l'ha rovesciata. Una maledetta seccatura per il duca: ha perso più di un centinaio di nuovi schiavi.» «Non potevano nuotare?» chiese Saro ingenuamente. Ci fu uno scroscio di risate tutto intorno al tavolo. Gesto quasi si strozzò con il grosso pezzo di agnello che si era appena messo in bocca. «Nuotare! Ah, ah! Magnifico, ragazzo mio!» Il mercante tossì e batté il palmo della mano sul tavolo, sputando pezzi di agnello dappertutto. «Nuotare!»
Saro si guardò intorno perplesso. Fabel si chinò verso di lui e disse con gentilezza: «Sono i ceppi che portano, Saro: è per non farli scappare, vedi, ma se la nave si rovescia...» Un'improvvisa e orribile immagine gli si presentò allora davanti agli occhi: decine e decine di uomini e donne terrorizzati che tentavano di liberarsi dai ceppi mentre il torbido oceano del Sud li reclamava in mezzo a una valanga di assi rotte e acqua ribollente, gli occhi spalancati, le bocche aperte in urla silenziose, mentre il mare correva a riempire ogni spazio vuoto, vivente o inanimato che fosse... Quando riuscì a liberarsi da quella visione da incubo, uno degli altri mercanti stava raccontando con dovizia di particolari di una carovana con un carico di tappeti da Circesia investita da un'enorme mandria di cavalli selvaggi che sembravano sbucare terrorizzati dal Deserto delle Ossa. «I migliori tappeti del mondo... ridotti a brandelli!» fu l'indignato commento dell'uomo alla fine del racconto, ma Saro rabbrividì: cavalli provenienti dal tremendo Deserto delle Ossa? Davvero bizzarro. «Io ho sentito dire di un enorme serpente che sarebbe saltato fuori dal Vuoto Meridionale e avrebbe inghiottito uno yeka intero...» «Un serpente!» rise un altro. «Che ridicole sciocchezze!» «Anch'io ho sentito quella storia» protestò un altro mercante. «E anche di peggio.» Li deliziò con gli improbabili dettagli di come un'aquila avrebbe portato via un bambino sulla pianura Tilsen, volando poi con le sue enormi ali verso la sua tana nelle montagne d'Oro. «L'ha strappato dalle braccia della sua povera madre!» esclamò l'uomo. «E aveva ali grandi quanto questa stanza!» «Io non ho visto nessun'aquila gigante quando sono stato su quelle montagne. Però so per certo che ci sono fuoriuscite di vapore dal Picco Rosso» lo interruppe con voce piatta l'uomo senza nome. Tutti i commensali tacquero per ascoltarlo, come se una montagna che emetteva vapore non fosse sbalorditiva come enormi serpenti o immensi rapaci. «L'ho visto io stesso solo cinque giorni fa.» Il Picco Rosso era nelle profondità delle grandi montagne meridionali. Saro si chiese cosa ci facesse quell'uomo in quella strana e remota regione, e come avesse fatto poi a unirsi a una carovana che proveniva dal Nord del paese. «Ma il Picco Rosso non erutta da più di duecento anni!» esclamò Fabel. L'uomo senza nome lo guardò con espressione ironica. «Forse è vero... ma io ho sentito il terreno muoversi sotto i miei piedi e non mi sono attar-
dato a scoprire perché. Ho spronato il mio cavallo finché non si è rotto una gamba e ho dovuto comprarne un altro dagli uomini delle colline sulle Alture di Farem.» Favio Vingo sollevò un sopracciglio. «Sono sorpreso che abbiano voluto fare affari con voi: non corre buon sangue tra la nostra gente e le tribù delle colline.» L'uomo senza nome sorrise. Infilò una mano sotto il mantello e tirò fuori una sacca di pelle, che svuotò poi sul tavolo. Una pioggia di pietre luccicanti cadde accanto al suo piatto, e la luce delle candele brillò sulle sfaccettature delle gemme grezze grandi quanto un occhio. Saro rabbrividì. Pietre dell'umore. Persino non tagliate e non levigate le avrebbe riconosciute ovunque. «Prendetene una» disse l'uomo a Favio. Favio tese la mano e scelse la più grande, delle dimensioni di un uovo di gallina. A contatto con la sua pelle la pietra si illuminò di un blu scuro, innaturale, venato di porpora. La pietra nel sacchetto che Saro portava intorno al collo, nascosto sotto la tunica, cominciò a pulsare come in simbiosi con il suo simile... oppure era il suo cuore che aveva cominciato a battere più forte? Favio lasciò cadere la pietra come se scottasse. «Per l'infuocato palazzo di Falla, cosa significa?» L'uomo senza nome rise e recuperò la pietra. Nel suo palmo divenne di un caldo color arancio che brillava come un tizzone ardente. «I nomadi le chiamano pietre dell'umore» rispose. «Le tagliano per farne dei bei gioielli da comprare per la propria signora e giudicarne così l'umore. Sono molto popolari a corte, ho sentito dire: un potente ausilio alla seduzione! Ma gli uomini delle colline intorno alle Alture di Farem le chiamano 'le Lacrime della Dea': secondo una leggenda lei avrebbe pianto per un fratello o un amante perduto, e queste pietre incanalerebbero il suo potere. Non la smetteva più di decantarmi le loro proprietà miracolose, intendo dire il tizio che mi ha venduto il cavallo, ma mi ha dato il suo pony migliore per un paio di queste, quindi non mi lamento di certo.» «Posso?» Fabel tese la mano e l'uomo vi fece cadere la pietra, che perse immediatamente la sua brillantezza e divenne di un colore ocra più opaco. Fabel fece una smorfia. «Non sembra che io le piaccia molto.» L'uomo rise. «Siete preoccupato per qualcosa, direi.» Fabel lo guardò accigliato e gli restituì la pietra. Nella mano dell'uomo sembrò riprendere vita. Poi, sentendo lo sguardo penetrante di Saro su di
sé, l'uomo si voltò. «Ecco, prendila anche tu, figliolo: vediamo che bei colori sei in grado di tirarle fuori.» Saro spinse indietro la sedia. «Temo di dovermi scusare!» si affrettò a dire, e corse via dalla stanza, una mano sulla bocca come se dovesse vomitare. Dietro di lui sentì risate e lazzi: «Vai a liberare un po' di spazio, ragazzo: c'è ancora parecchio vino da farci entrare!» Un uomo esclamò ridendo: «Al ragazzo serve un po' più di allenamento!» E un altro: «Ma crescete delle donnicciole qui ad Altea, eh, Favio?» Fuori in corridoio Saro appoggiò la fronte contro il freddò intonaco del muro e aspettò che il cuore rallentasse i suoi battiti. Ricordò il terrore della vecchia guaritrice nomade per la pietra dell'umore che lui portava: l'aveva chiamata 'pietra della morte' e nella sua mente l'Errante l'aveva vista come un oggetto bianco e luccicante, molto diversa dall'innocua pietra con cui l'uomo senza nome li aveva fatti trastullare a tavola. Sono stato uno sciocco, pensò. Avrei dovuto semplicemente toccare la pietra, guardarla cambiare colore e poi restituirla, e così sarebbero stati contenti. Portò quel pensiero con sé fuori alle latrine dove fece i propri bisogni e si lavò la faccia e le mani. Dall'altra parte del giardino un gufo gridò, il suo verso echeggiava con straordinaria chiarezza nell'aria notturna. Un istante dopo un altro suono lacerò il silenzio: un ululato selvaggio in lontananza che gli fece accapponare la pelle. Il giovane si mise in ascolto, ma il verso non si ripeté e Saro si chiese se l'avesse immaginato. Erano anni ormai che non c'erano più lupi sulle colline intorno ad Altea. Erano stati tutti cacciati fino a causarne l'estinzione ai tempi del suo bisnonno. L'unico lupo che Saro aveva mai visto era la testa impagliata sulla parete della camera di suo padre, un trofeo talmente polveroso e mangiato dalle tarme da somigliare ben poco all'orgogliosa e selvaggia creatura che era stato una volta. Saro rimase lì fuori per alcuni minuti tentando di calmare la strana agitazione che provava, ascoltando i nitriti dei cavalli, la brezza tra i pioppi e i grilli tra i cespugli. Poco tempo dopo sentì delle voci, e quando si voltò, vide due dei mercanti che barcollavano fuori dalla porta. Troppo ubriachi per arrivare fino alle latrine, i due urinarono sulle aiuole, tenendosi l'uno all'altro e ridendo a crepapelle. Povere calendule di mamma, pensò Saro e sentì un disperato bisogno di scoppiare a ridere. Guardò i mercanti rientrare a fatica in casa, ignari della sua presenza, e dopo un attimo li seguì dentro. All'interno il rumore dalla sala dei banchetti era quasi insopportabile e all'improvviso Saro scoprì di non avere voglia di tornare ad ascoltare le
barzellette sconce o a partecipare alle gare di bevute che di certo erano iniziate in sua assenza. Tali attività non erano mai state il suo forte e, dal momento che Tanto aveva sempre amato mettersi in mostra con gli uomini come con le donne, di solito era facile per Saro scivolare in secondo piano, le mani strette intorno a una coppa di vino da sorseggiare molto lentamente, sorridendo e annuendo e facendo finta di godere di quell'umorismo volgare mentre non desiderava altro che la solitudine della propria stanza. E anche senza Tanto presente, dubitava che qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza. Poteva sempre dire che era svenuto in giardino, e fornire loro un altro motivo di divertimento la mattina dopo. Passò in fretta davanti alla porta della sala dei banchetti e si incamminò lungo il corridoio, passando davanti al giardino d'inverno dove sua madre era solita intrattenere le ospiti di sesso femminile; ma era silenzioso e buio. Le candele erano state spente non molto tempo prima, perché si sentiva ancora l'odore della cera calda nell'aria. In fondo al corridoio c'erano le stanze degli ospiti, e quella di suo fratello. Saro stava per salire le scale quando fu distratto da un suono. C'era qualcuno nella stanza di Tanto: si sentiva il mormorio di una voce. Saro si accigliò. Sua madre aveva proibito a tutti tranne che alle sue donne l'accesso a quella stanza, ma il suono che Saro sentiva aveva un tono piuttosto basso: la voce di un uomo. Si avvicinò silenziosamente alla porta e rimase in ascolto. Da lì le parole divennero più chiare. «Oh, Tanto, Tanto, vederti disteso così, privo di conoscenza... Non so nemmeno se puoi sentirmi. Cerco segni di vita nei tuoi occhi, ma sono neri e vuoti come le Pozze Avvelenate di Beria.» Un singhiozzo. Era suo padre che piangeva, e Saro non ne fu sorpreso. «Ti ricordo com'eri da ragazzo, così lesto di gambe e di lingua, così bello da affascinare tutti con le tue fattezze e la tua energia, e ora...» Ci fu un fruscio, poi Favio continuò: «Devo sapere se sei ancora vivo in questo guscio in decomposizione, figlio mio. Devo sapere se senti la mia presenza, o almeno se sogni, perché non credo di poter sopportare ancora per molto di vederti morire davanti ai miei occhi. Perdonami per aver disturbato il tuo lungo riposo, Tanto, se mai io ti stia disturbando. Dicono che l'anima continui a vivere a lungo dopo che il corpo è venuto a mancare, ma non dicono niente di questa vita senza vita, e io devo sapere...» Saro scostò la tenda dietro la porta e vide Favio Vingo chino sul corpo immobile di suo figlio. Qualcosa nella sua mano pulsava della luce livida di una ferita in cancrena.
«Lascia che la pietra mi dica quello che accade dietro questa pallida e gelida fronte...» «No, padre!» Senza riflettere Saro fece due passi avanti per fermarlo, proprio nel momento in cui Favio Vingo premeva la pietra dell'umore sulla fronte del figlio. Per un istante la pietra pulsò di un pallido blu grigiastro; poi, quando Saro prese suo padre per la spalla, si accese all'improvviso di un bianco così luminoso da ferire gli occhi, per diventare poi di un potente, scintillante color oro. Una saetta di pura energia percorse la mano destra di Saro, facendogli rafforzare la stretta sulla spalla di Favio, finché sentì che le loro ossa avrebbero potuto fondersi insieme. Poi risalì con furia lungo il braccio fino a entrargli nella testa. Saro gridò per il dolore, un dolore bruciante e spietato come quello di un rogo, e come contrappunto si levò l'urlo di suo padre, pieno di agonia e terrore. La pietra dell'umore che portava intorno al collo prese vita; Saro le sentì entrambe su di sé come due enormi cuori che battevano, con lui intrappolato in mezzo, pieno di così tanta vita che gli sembrò di dover scoppiare da un momento all'altro per spandersi nella notte come pioggia incandescente. E un attimo dopo il loro grido si arricchì di una terza e più stridente nota che risuonò e sbatté contro le pareti della camera come un animale in trappola. Con un tremendo sforzo, Saro si liberò da quel contatto. Immediatamente la luce di entrambe le pietre si spense, gettando la stanza in un buio così completo che sembrò che qualcuno avesse oscurato il sole. Saro sentì suo padre crollare al suolo, il suo respiro affannoso e una preghiera mormorata: «Oh, Falla, oh, Falla, oh, Falla...» E poi un'altra voce, acuta e piena di panico: «Sono cieco! Puttana di una dea, sono cieco!» 22 La seither Il tempo passò e Katla continuò a migliorare. Alla fine dell'estate poteva correre di nuovo e cavalcare un cavallo con una mano sola; ma qualsiasi altra cosa, arrampicarsi o lavorare il metallo, nuotare e pescare, e persino vestirsi e andare alle latrine da sola, era diventata un'impresa tremendamente frustrante. Delle scottature sulle gambe e sulla spalla non rimanevano ormai che
pallide cicatrici, ma la sua mano destra restava ostinatamente contorta e rattrappita, le dita fuse insieme in un'orrenda massa di tessuto cicatrizzato rosso e bianco che Katla, pur non essendosi mai considerata una persona vanitosa, preferiva nascondere. I bambini più piccoli davano appena un'occhiata alla ferita e fuggivano via: la cosa la turbava, specialmente dal momento che c'erano altri a Rocciacaduta che avevano subito ferite ben peggiori e non attiravano la stessa attenzione. Kar Pieded'albero, così chiamato perché aveva un palo di legno al posto di una gamba persa (così diceva) tra le fauci di un mostro marino, era quasi una curiosità locale; ma la sua menomazione non era così evidente e non causava più commenti. Poi c'era Grimma Kallsen, nata con una macchia rosso scuro su metà del volto, ma il suo sorriso era la prima cosa che si notava di lei. Uomini più vecchi avevano cicatrici, guadagnate in guerra, nelle gare di scherma, nelle risse da taverna e in incidenti di pesca; ma le donne a Rocciacaduta raramente se ne andavano in giro con menomazioni del genere, e inoltre la storia di Katla si era sparsa in lungo e in largo per le isole. Impietosita dal turbamento di sua nipote, nonna Rolfsen aveva adattato diverse tuniche in modo che una manica più lunga potesse essere stretta in fondo con un laccetto di pelle per nascondere la mano offesa. Tutta una schiera di guaritori era andata e venuta, dopo aver somministrato pozioni e applicato impiastri al braccio ferito, con l'unico risultato di farla correre alle latrine per vomitare o liberarsi in altri modi. Per tutto il tempo nonna Rolfsen non aveva fatto che schioccare la lingua per esprimere la sua disapprovazione, finché un giorno aveva afferrato sua figlia per un gomito e le aveva sussurrato qualcosa in un orecchio. «Festrin Occhiosolo!» aveva esclamato Bera. «Non puoi parlare sul serio.» «Niente altro ha funzionato: come può peggiorare le cose?» «Ma Festrin Occhiosolo è una seither!» sibilò Bera, lanciando un'occhiata a Katla per assicurarsi che non avesse sentito. Ma Katla aveva sentito. «Una seither? Davvero?» Bera si voltò di scatto, gli occhi blu stretti per la rabbia. «Ha le orecchie di un pipistrello!» esclamò nonna Rolfsen ridendo. Katla non aveva mai incontrato un seither in carne e ossa prima, anche se quando aveva dodici anni era sgattaiolata nell'Antico Sepolcro con molti altri bambini per vedere le ossa dell'unico sepolto lì, come prova di coraggio. Non era successo niente, anche se Fent aveva giurato di averle viste muoversi quando una nuvola era passata sopra la luna; e due giorni dopo la
verruca che Tian aveva sulla punta del naso era misteriosamente svanita, il che era di certo una prova della magia che aleggiava in quel luogo. Le ossa erano lunghe, ricordò ora Katla, lunghe e sottili, ingiallite e molto fragili, e la gente diceva il seither a cui appartenevano era sempre stato un vecchio, almeno da quando lo conoscevano, poiché la sua longevità era il risultato dell'antica magia della terra che egli esercitava. «Inoltre» stava dicendo Bera a sua madre, ignorando il commento della figlia e voltandole risolutamente le spalle come per escluderla dalla discussione «come fai a contattare Festrin Occhiosolo?» Nonna Rolfsen si toccò un lato del naso e guardò sua figlia con espressione scaltra. «I vecchi hanno i loro metodi» rispose criptica. «Ho sentito che potremo accogliere qui da noi la seither fra non molto tempo.» «Cosa? Qui?» Bera si erse in tutto il suo metro e cinquanta. La sua pelle chiara era arrossata e due chiazze rosa le ravvivavano le guance. Proprio come Fent quando è arrabbiato, pensò Katla. E proprio come il suo gemello, la madre sapeva essere notevolmente caparbia e irritante. «Nessuno mi ha informato di questo.» Nonna Rolfsen, abituata agli scoppi d'ira di sua figlia, si strinse nelle spalle. «Ho sentito che Festrin viaggia con i teatranti.» Mancavano soli pochi giorni all'Alta Festa; anche se il raccolto nelle selvagge e rocciose Isole Occidentali di solito non era abbondante, quell'anno il tempo nelle ultime settimane, quelle cruciali, era stato perfetto: un periodo di leggere piogge seguito da un sole insolitamente caldo che aveva portato un'abbondante crescita. Cosa alquanto insolita, il grano era alto quasi quanto un uomo, mentre l'orzo era un lussureggiante mare verde pallido; e avevano dovuto puntellare i rami dei meli nella Valletta di Rolf per impedire che si spezzassero sotto il peso dei frutti. I mari intorno alle isole non erano stati immuni a tale abbondanza: negli ultimi tempi i pescatori avevano portato a riva reti su reti piene di merlani e persici, sgombri e aringhe. Le rastrelliere per l'essiccamento erano piene e le scorte di sale erano state quasi del tutto consumate, mentre giorno e notte dall'affumicatoio si levavano grandi nubi di fumo profumato. E il bel tempo si era prolungato anche dopo il raccolto, cosicché i granai erano stati riempiti fino all'inverosimile. Sarebbe stata una bella festa quell'anno, ed era un bene: i teatranti erano più di venti, inclusi i musicisti, ed era il turno di Rocciacaduta di dar loro ospitalità. Bera si accigliò. «Perché Aran non me l'ha detto?» «Dirti cosa?»
Bera si voltò di scatto per affrontare suo marito, che era arrivato silenziosamente alle spalle di Katla. Molte donne sarebbero state intimidite da un uomo così grosso: le sue spalle riempivano la soglia lasciando a malapena qualche centimetro da entrambi i lati. Ma Bera si piantò le mani sui fianchi stretti e lo incenerì con lo sguardo come un piccolo gatto selvatico. «Che i teatranti pensano di portare una seither con loro quest'anno.» Gli occhi di Aran saettarono colpevoli verso sua suocera e Katla vide il sorriso sdentato di sua nonna allargarsi con aria di sfida e capì immediatamente la situazione. «Io... ehm» balbettò Aran. «Non lo sapevo» mentì in modo poco convincente, e nonna Rolfsen scoppiò in una fragorosa risata. «Povero ragazzo» disse. «Non prendertela con lui, Bera cara. È stata colpa mia. Ricordi quando ha mandato il messaggero a Halbo per chiedere a Morten Danson se voleva accettare la commissione per la sua nave?» Bera si morse un labbro. «Quella ridicola rompighiaccio» replicò in tono lugubre. «Proprio quella. Be'...» La nonna fece un altro dei suoi furbeschi sorrisi; ma in fondo, pensò Katla, nonna Rolfsen aveva fatto della malizia la sua ragione di vita. «Ho mandato di nascosto anch'io un messaggio alla capitale. A Tarn Volpe.» Tarn Volpe era il capo della compagnia teatrale: un uomo aitante non più giovanissimo, con impressionanti occhi verdi e un manto di capelli color ruggine tutti intrecciati. Katla l'aveva giudicato attraente, anche se, a trent'anni, un tantino vecchio per lei. Aveva solo quindici anni l'ultima volta che la sua compagnia aveva visitato Rocciacaduta, una quindicenne pelle e ossa più sottile dell'asta di una lancia; ma questo non aveva impedito a Tarn di rimpinzarla di birra mentre sua madre non guardava e di tentare di convincerla ad andare con lui in uno dei granai. Le orecchie di Katla si rizzarono. La cosa poteva essere davvero interessante. «E?» Bera fissò sua madre con occhi di ghiaccio, uno sguardo che era famoso per trasformare anche uomini grandi e grossi in balbettanti ombre di loro stessi, ma nonna Rolfsen era un'indomabile ribelle. «Gli ho suggerito che avrebbe potuto guadagnarsi dei favori qui da noi se avesse portato la mia vecchia amica Festrin con sé.» «La tua vecchia cosa?» La voce di Bera si fece tagliente. Nonna Rolfsen ridacchiò. «Ho vissuto quasi il doppio dei tuoi anni, mia cara, e non tutto quello che ho fatto è trasparente come una delle tue amate insenature fra gli scogli.»
Curiosare tra le piccole baie dell'isola era stato uno dei passatempi preferiti di Katla da bambina. Guardò sua madre con rinnovato interesse: forse c'era qualche altra cosa che avevano in comune, oltre all'ossatura e ai capelli... Bera sbuffò. «A quanto pare è più come una pozza sporca e fangosa che altro. Associarsi a negromanti e fannulloni dietro le mie spalle, invitarli in casa mia... per curare mia figlia, e chiamarli amici. Non ospiterò nessuna schifosa seither in questa casa. Non mangeranno il pane e il sale alla mia tavola; no, e né pesce né birra!» «Bera!» «Per Feya, lo giuro. Nessuna seither metterà piede oltre questa soglia. Sono degli abomini e non devono essere tollerati dai timorati di Dio.» Aran guardò sua moglie con orrore. «Moglie, non puoi pensarlo davvero: questo è il peggiore degli insulti. Tu porterai il disonore su questa casa.» Per tutta risposta Bera si limitò a fare due passi avanti, posò una mano aperta sulla spalla del marito, lo spinse con fermezza fuori dalla porta e marciò davanti a lui in cortile senza dire un'altra parola. Passarono tre giorni prima che parlasse di nuovo con uno di loro. Sembrava che durante il tempo che mancava all'Alta Festa Bera avesse riflettuto sulla sua pericolosa affermazione, perché di lì a poco anche lei come gli altri aveva cominciato a occuparsi dei preparativi per i festeggiamenti. Katla prese l'abitudine di bighellonare al porto con Ferg: dopo tutto non poteva essere di grande aiuto in cucina con una mano sola. E con nessuna attitudine culinaria, grazie a Sur, pensò sorridendo tra sé. La mano offesa aveva la sua utilità quando si trattava di evitare noiose incombenze quali pelare patate o spellare animali, arrostire o mettere sotto salamoia; ma non le impedì di portarsi via un tortino di pollo mentre si affrettava a uscire di casa in quel quarto giorno in cui aveva deciso di dedicarsi a scrutare l'orizzonte aspettando l'arrivo delle navi. Lo mangiò seduta sul frangiflutti con la schiena appoggiata a una barca a remi rovesciata e le gambe che dondolavano oltre il bordo. Ferg arricciò il naso all'odore della sfoglia - «Vita comoda, la tua, amico mio!» lo rimproverò Katla - ma divorò i pezzetti di pollo così in fretta che era impossibile che li avesse gustati. E poi le leccò la mano buona per dimostrarle la sua gratitudine e si accucciò accanto a lei sulle pietre calde, gli occhi stretti in due fessure di soddisfazione. Insieme, Katla e il suo cane ascoltarono i gabbiani gridare nel cielo
e guardarono il sole fare disegni scintillanti sull'acqua. Poco dopo il segugio cominciò a russare, e anche Katla si appisolò. Katla! Sentì il suo nome con chiarezza, ma la voce le era sconosciuta. Nel sogno stava correndo, e qualcosa la inseguiva. Non osava voltarsi, per paura di inciampare e cadere, ma sentiva il suo ruggito, gelido e primitivo: stava venendo a prenderla e lei sapeva per certo, in una parte fredda e oscura del suo cuore, che aveva già consumato la sua famiglia. Sulla sua testa il cielo era diventato rosso scuro, e lugubri nuvole nere bordate di cremisi avevano inghiottito il sole. Katla sentì le prime gocce di pioggia sulle guance. Sollevò la mano destra per asciugarsi il volto e scoprì che era intatta, perfetta, le dita lunghe e sottili e separate come un tempo. Quasi ipnotizzata da quella vista, si rese conto che riusciva a vedere le sue ossa attraverso la pelle, ombre nere avvolte da carne sottile e semitrasparente, come se i raggi del sole potessero penetrare la sua mano e farla brillare. Poi il bagliore svanì e Katla vide che c'era sangue sulle dita; quando sollevò lo sguardo verso il cielo altro sangue le macchiò la faccia. A quella vista una terribile paura si impadronì di lei. Ma c'era una luce chiara in lontananza, e qualcuno da laggiù la stava chiamando, se solo avesse potuto correre più veloce della cosa che era dietro di lei... «Katla!» La giovane si svegliò di soprassalto e si ritrovò distesa all'ombra di suo fratello Halli. Dietro di lui il sole creava un alone rosso intorno ai suoi capelli scuri. «Io...» Katla si sentì improvvisamente in colpa. Per il tortino? chiese una vocina nella sua testa. O per qualcosa di peggio? Aveva ancora la pelle d'oca sulle braccia per il sogno, e sentiva un piccolo brivido lungo la spina dorsale. Il cane, percependo il suo disagio o forse misteriosamente influenzato anche lui dal sogno, cominciò a latrare. Halli tese la mano a Ferg, che la annusò con circospezione e si tranquillizzò. Poi sorrise a Katla e indicò il mare. «Guarda: le navi dei teatranti!» E infatti eccole delinearsi all'orizzonte: due grosse e scure vele quadre si avvicinavano contro il cielo blu. Katla si riscosse dal torpore e allungando il collo per guardare suo fratello, si costrinse a sorridere. «Sei venuto per dirmi questo, fratello, o sei qui per rimproverarmi perché non ho assolto ai miei compiti?» Halli sembrava diventare più grande e più responsabile ogni giorno che passava. Come se in qualche modo stesse prendendo il posto del padre: Aran non riusciva a
parlare di altro che del suo folle progetto di organizzare una spedizione per trovare Santuario, con grande vergogna di sua moglie. C'era stato uno scambio di male parole tra loro (le uniche che Katla ricordasse in tutti i suoi diciannove anni di vita) per diverse notti da quando aveva annunciato il suo piano: commissionare la migliore nave rompighiaccio che fosse mai stata costruita (che sarebbe costata tutto il denaro messo da parte, dal momento che quello guadagnato con la vendita della sardonica alla fiera era chissà come finito nelle mani di un gruppo di mercenari) e portare ogni uomo sano di Rocciacaduta con sé alla ricerca della terra leggendaria segnata nella sua preziosa mappa. «Tu non sei più l'uomo che ho sposato!» aveva gridato Bera. «Ho scelto un padre per i miei figli e un marito per me, un uomo di cui potessi fidarmi, che potesse provvedere alla nostra famiglia, non un pazzo ossessionato da una leggenda, che si porta dietro un pezzo di carta rifilatogli da qualche imbroglione alla Grande Fiera come Giacomino e i suoi semi di fagioli!» Per tre mattine Katla aveva trovato suo padre a dormire sul fieno della stalla quando era andata a sellare il suo pony per una cavalcata all'alba. «No.» Halli sembrò ferito. «Pensavo solo che...» Un'espressione addolorata gli incupì il viso; poi il giovane si sedette accanto a Ferg sul muraglione. Il vecchio segugio lo guardò con aria di rimprovero, si scostò da lui e appoggiò la testa in grembo a Katla, dove cominciò a sbavare. «Mi dispiace, Katla. Mi dispiace davvero.» Katla si accigliò. «Per cosa ti dispiace?» Halli si schiarì la voce e abbassò lo sguardo, le sopracciglia scure unite in una linea cespugliosa, proprio come quelle di suo padre quando era furioso o perplesso. «Che non ti abbiamo salvato dal fuoco. Che... la tua mano sia rimasta scottata. Che tu non possa più arrampicarti.» Katla sentì un groppo in gola e le lacrime bruciarle gli occhi. «È stata colpa mia» mormorò con voce roca. Poi tese la mano buona e gli strinse l'avambraccio, sentendo il calore del suo corpo e i folti peli neri sotto le dita. «Hai fatto tutto ciò che potevi. Tu e... Tor. Io ti ho visto. Hai ucciso un uomo con l'ascia.» «Ne ho uccisi tre.» Halli sembrava distrutto. «Non avevo mai ucciso nessuno. Ci penso continuamente.» Ci fu un breve silenzio che Katla non seppe come riempire, poi Halli continuò: «Fent pensa che presto ci sarà la guerra, sai. Allora dovrò uccidere di nuovo. Tutti noi dovremo farlo. Volevo intercettare Tarn Volpe e i suoi uomini prima che arrivassero da noi, per scoprire quali sono le notizie dalla corte, se il re sta già radunando le
truppe.» Alzò lo sguardo e il suo viso era straziato. «Forse la spedizione di papà non è un'idea così stupida, dopo tutto.» Katla rise. «Oh, lo è. Ma quanto sarebbe divertente, eh? Tu pensi che mi lascerà venire, Halli?» Halli sbuffò, colto di sorpresa. «Ne dubito. Non puoi neppure remare, e certo non puoi tirare una cima. A cosa ci serviresti?» Katla si irrigidì e pochi secondi dopo Halli fece una smorfia. «Mi dispiace. Non volevo...» «Sì che volevi, e hai ragione» replicò Katla in tono triste. «Non me ne andrò mai più di qui. Impazzirò e finirò come la vecchia Ma Hallasen, a vivere in solitudine con la mia capra e il mio gatto, a parlare da sola in una lingua che nessun altro può capire.» «Sei già sulla buona strada!» La testa di Ferg si sollevò di scatto, un accenno di ringhio nella gola: ma era solo Fent, con un grande sorriso stampato sul volto. «Credi che Ravn avrà già cominciato a radunare le truppe?» I suoi occhi erano luccicanti e smaniosi. «Prenderò la nave di ritorno con i teatranti se è così. E Katla, quella spada, quella che hai fatto la scorsa estate su commissione e che poi non è mai stata reclamata: posso averla io?» «Quella con la corniola incastonata nel pomo?» «Quella, sì. Una vera bellezza... anche se non squisita come il Drago. Quella sì che era un'arma. E come scivolava nella carne!» Halli guardò con sospetto il fratello, poi si voltò verso Katla. «Pensavo che fosse stato Joz Manodiorso a comprare quella spada da te.» Katla incenerì Fent con lo sguardo. Stranamente gli sembrava molto importante non rivelare a Halli che era stato suo fratello ad assassinare il padre di Jenna. «Sì, è così. E no, non puoi averla. La Spada Rossa è mia e ho intenzione di imparare a usarla con la mano sinistra. Ah, guarda... quello è il Lupo delle Terre Innevate!» La prima nave era ormai abbastanza vicina da poter distinguere il grande lupo che adornava la sua vela, con la spira di un enorme serpente tra le fauci. La testa del serpente giganteggiava sopra il lupo, le mascelle aperte per colpire, mentre la coda era attorcigliata in modo bizzarro tra le zampe dell'altro animale formando un bordo decorativo intorno alla vela. Una fila di colorati scudi ornamentali era stata montata lungo la parte esterna della frisata, e il sole luccicava sulle loro guarnizioni di borchie. Il Lupo delle Terre Innevate era una bella nave, e solo a vederla risollevava lo spirito. Tarn era sempre stato un tipo stravagante. La seconda nave, invece, aveva un sole raggiante sulla vela e la testa di
un grosso orso scolpita sulla prua. Più tozza e più corta del Lupo delle Terre Innevate, era ugualmente un ottimo vascello. Katla lo guardò affrontare le onde con espressione compiaciuta. «Chissà su quale nave si trova Festrin Occhiosolo» disse pensosa. Fent le gettò uno sguardo sospettoso. «E cosa ne sapresti tu di una seither?» «La nonna le ha mandato un messaggio» disse Katla con aria di sufficienza, felice di sapere qualcosa che Fent non era riuscito a scoprire. «Per chiederle di guardare la mia mano.» Fent fece il segno dell'ancora di Sur. «Quella è magia, sorella. Pensavo che ne avessi avuto abbastanza della magia alla pianura della Luna Caduta.» Katla lo incenerì con lo sguardo, poi gli agitò in faccia la sua mano offesa. «Vedi questa, volpino? La sua unica utilità al momento è colpire in testa gli idioti come te: ma che sia dannata se vivrò per sempre con questo obbrobrio.» «Sarai dannata per sempre se lascerai che una seither ti tocchi.» Fent si allontanò infuriato lungo il frangiflutti per aspettare che le navi entrassero in porto, i pugni fermamente piantati sui fianchi. Halli mise una mano sulla spalla della sorella. «Qualunque cosa possa servire, Katla» disse. «Devi fare qualunque cosa possa servire al tuo povero braccio. Fent è una testa calda, uno sciocco, e non devi dargli retta. Non ho mai sentito parlare male di questa Festrin né di nessuno di questi operatori di magia. E se la nonna pensa che la seither potrà fare qualcosa per te, a me sta bene. Terrò d'occhio io Fent, ti do la mia parola.» Le sue dita si strinsero per un attimo sulla sua spalla, poi Halli si alzò in piedi e andò a unirsi al fratello. Katla li guardò lì, in piedi di fronte a lei, di spalle: uno così alto, largo e scuro da poter essere scambiato per loro padre, l'altro rosso, più piccolo di ossatura, ma così pieno di energia che sembrava sprizzare scintille tutto intorno a lui nell'aria del pomeriggio. Spesso si sentiva più vicina a Halli che al gemello, così come si sentiva più vicina al padre che alla madre, nonostante le differenze e i problemi tra loro. Com'era possibile, si chiese, che le buone qualità fossero divenute così esagerate in uno, mentre nell'altro avessero preso una piega così pericolosa? A volte le sembrava di non conoscere più Fent. Con un sospiro si liberò con gentilezza del cane e si tirò su in piedi. Ferg, comodamente adagiato sulle calde pietre, la guardò dispiaciuto.
«Forza, amico mio» lo esortò Katla. «Andiamo a vedere quali mostri questi teatranti hanno portato con loro, eh?» Festrin Occhiosolo non era facile da individuare come si era aspettata. Tra le persone sulle navi, due dozzine e più, tutti sembravano in possesso di entrambi gli occhi. Non c'erano vecchiette fragili e curve tra di loro, per quanto poteva vedere, e nessuno con i capelli bianchi. C'erano diverse donne, però: due non più giovanissime, che riempivano mirabilmente le profonde scollature delle loro tuniche, alcune più giovani, bionde e slanciate, e una molto alta con lunghi capelli chiari, tutte vestite con pantaloni a righe e farsetti come gli uomini e che si muovevano con efficienza lungo il ponte riavvolgendo le sartie e riponendo la vela. Katla, sopraffatta da un raro momento di insicurezza, provò una fitta di invidia per il modo sicuro in cui sbrigavano i loro compiti. Tra gli uomini Tarn Volpe era il più riconoscibile, in piedi a prua del Lupo delle Terre Innevate con indosso una tunica rossa e oro, i lunghi capelli rossi mossi dal vento come le fiamme di un fuoco. Katla individuò anche altri che erano con lui, uomini dai muscoli flessuosi e dall'aspetto esotico come i grossi felini che aveva visto nei recinti alla Grande Fiera. Gli acrobati, pensò. Ricordava di averli ammirati balzare e fare capriole per tutta la casa durante la loro ultima visita; lei si era fatta un livido grande quanto una padella sulla coscia destra tentando di copiare i loro stravaganti salti sulla spiaggia dopo che se n'erano andati. Guardò Halli e Fent andare ad accogliere i loro ospiti come voleva la tradizione, e aspettò finché anche l'ultimo dei teatranti non fosse sbarcato. Ma ancora non c'era traccia di una donna con un occhio solo, né di qualcuno che potesse anche lontanamente apparire un seither. Perplessa, seguì la compagnia lungo la strada che portava alla Casa Lunga con Ferg alle calcagna. Evidentemente la maga non era venuta, nonostante la richiesta di sua nonna. Avrebbe dovuto parlare da sola con nonna Rolfsen per scoprire cos'era andato storto. Ma quando arrivarono alla casa c'era già un certo trambusto. Sua madre era in piedi sulla soglia a braccia conserte, e appariva ancora più piccola tra i grandi pilastri intagliati e con la folla di grossi uomini urlanti di fronte a lei. Davanti al gruppo c'era suo marito. Bera aspettò che il clamore cessasse. Poi disse in tono duro: «Finché non mi direte chi è la seither, nessuno entrerà in casa mia.» «Moglie, non è questo il modo di accogliere della gente che ha navigato per centinaia di miglia per divertirci tutti! Hanno fame e sete...»
«Sì» esclamò il gruppo di teatranti in coro. «Abbiamo sete, è vero!» «...e la legge del re ci obbliga a offrire loro pane e sale...» «E birra!» s'intromise una voce, e gli altri gli fecero eco. «...perché se il re dovesse venire a sapere di una tale mancanza di ospitalità, potrebbe bandirci dal regno.» Bera arrossì per la rabbia. «Il nostro cosiddetto re non ha fatto niente per salvare mia figlia dal rogo istriano, e questo è quello che penso di lui e delle sue leggi!» La donna sputò a terra ai piedi di Aran e la folla si azzittì sbalordita. Poi una donna alta che portava con sé una grossa bisaccia si fece largo tra la folla, girò intorno ad Aran Aranson e si inchinò di fronte a Bera, il lungo manto di capelli dorati che le coprivano il viso e le spalle. «Signora di Rocciacaduta, chiedo il vostro perdono: non avevo intenzione di causarvi offesa venendo qui. E anzi, poiché mi è stato chiesto di venire, pensavo di trovare un'accoglienza migliore.» Bera la guardò con sospetto. «La vostra presenza non mi offende affatto» rispose con solennità. «Non ho intenzione di cacciare nessuna semplice viaggiatrice dalla mia casa.» La donna si alzò e si scostò dal viso i lunghi capelli, e Bera si portò le mani alla bocca per soffocare un grido. Katla trasalì vedendo che sul bel viso affilato e abbronzato della donna c'era un singolo occhio, proprio al centro della fronte. Nonna Rolfsen scostò sua figlia e corse ad abbracciare la donna con un occhio solo. «Festrin, Festrin... non sei invecchiata di un giorno dall'ultima volta che ci siamo viste.» «Oh, sono invecchiata, Hesta, sono invecchiata. Solo che su di me non appaiono i segni della vecchiaia come sulla tua gente.» La seither studiò con solennità nonna Rolfsen, poi le fece un sorriso di una dolcezza infinita. In ultimo tese la mano a Bera, che la guardò come se le fosse stata offerta un'aringa vecchia di nove giorni e si rifiutò di stringerla. Festrin alzò le spalle. «Come volete. Andrò a visitare il tumulo sepolcrale di mio nonno e ritornerò più tardi. Se ancora non vorrete che metta piede in casa vostra, onorerò la vostra decisione, anche se i Fati potrebbero considerarla con minore equanimità.» Rimettendosi in spalla la bisaccia, si voltò e si fece strada tra i teatranti, che si fecero da parte, le teste chine e gli occhi bassi. «Mi ha minacciato!» Bera si girò verso suo marito. «L'hai sentita? Ha minacciato di mettermi contro i Fati.»
«Taci, moglie» disse Aran, anche se in realtà era impallidito anche lui. «Non era una minaccia quella, e tu ti stai comportando male. Diamo il benvenuto alla compagnia in casa nostra e lasciamo che si mettano comodi. Pregherò la seither di tornare e tu non dirai più nulla contro di lei.» Di certo, pensò Katla guardando Bera annuire e tornare silenziosamente in casa, la magia della seither aveva già cominciato a operare, perché non aveva mai visto sua madre cedere così facilmente. I teatranti, nel frattempo, misero i loro bagagli nei piccoli fabbricati annessi alla casa e seguirono il signore di Rocciacaduta in casa, pronti a godersi la cena e la birra. E così, mentre nessuno guardava, Katla sgattaiolò via con Ferg al seguito e si diresse verso l'Antico Sepolcro. La seither la stava aspettando... o così parve a Katla. Era seduta a gambe incrociate sulla sua bisaccia all'entrata dell'antica tomba, e sbucciava una mela con il suo coltello. Quando Katla apparve da dietro il terrapieno, Festrin le tese metà della mela e Katla le si avvicinò, tentando con tutte le sue forze di non fissare quell'unico occhio blu. Prese il frutto e si sedette accanto a lei senza dire una parola. Rimasero sedute insieme per un po', mangiando la mela, mentre Ferg girava loro intorno, con la pancia che sfiorava il terreno e le orecchie basse; ma neppure lui emise un suono. Alla fine la seither disse «Mostrami la tua mano, Katla Aransen.» «Voi sapete chi sono!» esclamò Katla sorpresa. Festrin gettò indietro la testa e rise, una risata forte e aspra che spaventò Ferg al punto di farlo allontanare con la coda tra le gambe. Non era la reazione che Katla si era aspettata. «Sono venuta su richiesta di tua nonna: nel suo messaggio mi ha detto che la sua bella nipote piena di talento stava soffrendo e...» Indicò la mano offesa di Katla nascosta dalle bende. «È difficile non notarlo, persino per una persona con un occhio solo.» Katla sorrise, sentendosi una sciocca. Poi cominciò a slegare le fasce finché l'orrenda cosa rossa e rosa all'estremità del suo braccio non fece capolino in tutta la sua bruttezza. Festrin non trasalì a quella vista. Ripose invece con cura il suo coltello, poi prese la mano tra le sue. Immediatamente ondate di formicolante calore si dipartirono dal braccio di Katla, diffondendosi poi nel suo petto fino a raggiungere l'altro braccio. Fu una sensazione alquanto strana. Festrin sorrise. «Avevo ragione» disse. «L'ho pensato non appena ti ho visto.»
«Cosa?» «Sei stata toccata. Non direttamente, forse, ma in qualche altro modo.» Katla la guardò perplessa. «Non capisco cosa intendete. Toccata da cosa?» «Dev'essere stata latente in te già da prima, però» rifletté la seither, ignorando la domanda di Katla. «Raramente mi sono imbattuta in una manifestazione così forte del dono.» «Quale dono?» Mentre le due donne parlavano, Aran Aranson era apparso silenziosamente dietro di loro, e Ferg, sollevato al vedere il proprio padrone, prese posto accanto a lui. La seither studiò l'alto Occidentale con sguardo pensoso. «Anche voi non siete completamente immune dal suo potere» disse criptica «ma in voi il mistero ha preso un altro corso, e non per il meglio, temo.» Aran si accigliò. «Da dove vengo io la gente dice quello che pensa senza giri di parole, piuttosto che nascondersi dietro discorsi arcani.» Festrin si alzò e Katla si rese conto con sorpresa che era davvero molto alta, tanto che superava suo padre di mezza spanna. Riflettendo, la giovane capì che fino a quando non era arrivata alla loro casa, la seither aveva camminato china, a testa bassa. Con un brivido Katla ricordò le lunghe ossa gialle nel sepolcro dietro di loro. «Alla maggior parte della gente di solito non piace sentire quello che ho da dire» disse Festrin. «Li sconvolge sentire la verità nuda e cruda.» «Io non sono 'la maggior parte della gente'» replicò Aran in tono austero. «E nelle questioni che riguardano me e la mia famiglia, mi piace sapere esattamente come stanno le cose.» La seither tese una mano e lo toccò sulla guancia. Aran sentì un leggero calore, poi niente. «Ah» disse la donna. Ritirò la mano, si guardò la punta delle dita per un istante, poi se le strofinò come se le stesse ripulendo dalla farina. «Non è questo il momento» aggiunse poi. «Ho fame e sono stanca. Posso sedere alla vostra tavola, o vostra moglie è ancora decisa a farmi restare fuori alle intemperie? Perché se è così, allora resterò qui con la carne della mia carne» indicò la tomba «e mi rifocillerò con i miei viveri.» «E io resterò con voi!» gridò Katla con rabbia. Aran alzò gli occhi al cielo, frustrato. Poi si inchinò alla seither e disse che sua moglie non aveva avuto l'intenzione di bandirla dalla loro tavola e che lui era venuto proprio per accompagnarla al banchetto. Tornarono in silenzio alla casa, dove il loro arrivo fu segnato solo da una
breve pausa nella conversazione. Era sorprendente, pensò Katla, che la loro casa potesse ospitare così tanta gente. Lungo le pareti erano stati montati tavoli su cavalletti, carichi di ogni sorta di prelibatezza: pane di frumento e pane di mele, formaggio di capra e di pecora, carni pressate, pesce marinato, grosse cosce di agnello e manzo, polli arrostiti e bistecche di foca e di squalo, tortini di pesce e pollo, enormi spigole arrosto e trote riempite di frutta, e grandi barili di birra e botti del migliore sangue di stallone delle isole. Gli ospiti erano disposti lungo entrambi i lati dei tavoli, con le spalle al muro o al fuoco che scoppiettava allegramente nel camino circolare al centro della sala. Se si era particolarmente suscettibili al potere intossicante del sangue di stallone, era meglio sedere nella parte esterna dei tavoli, ricordò Katla con un sorriso. Aran prese posto in una sedia dallo schienale alto e fece cenno alla seither di sedere accanto a lui. Gli occhi di Bera saettarono malevoli verso la donna; poi la madre di Katla distolse lo sguardo con manifesta indifferenza e si mise a chiacchierare con fare civettuolo con Tarn Volpe. Katla studiò per un istante i posti rimasti vuoti, uno alla sinistra di Tarn Volpe e un altro accanto a Festrin Occhiosolo, e si affrettò a sedersi vicino alla seither. «Allora, dimmi, Tarn» disse Aran ad alta voce, interrompendo sua moglie. «Quali notizie ci sono dal nuovo costruttore di navi di corte? Accetterà la mia commissione?» Tarn sembrò a disagio. Tossì. «Ah, no, Aran. Morten dice che non può lasciare il cantiere: ha ereditato molto del lavoro in sospeso di Finn Larson, e solo per quello ne avrà fino alla prossima primavera. Ti raccomanda un certo Fly Raglan, però, che era suo apprendista e ora si è messo in proprio.» «Non voglio il suo maledetto apprendista! Voglio l'uomo che ha costruito il Lupo delle Terre Innevate, se non posso avere Finn Larson...» «Sì, solo nostro signore Sur potrà avvalersi dei servigi di Finn d'ora in poi!» esclamò ridendo uno degli uomini di Tarn. Tarn abbassò la voce. «Morten dice che non vuole incontrarvi perché ha sentito una voce secondo cui sarebbe stato vostro figlio ad assassinare Finn Larson.» Aran era sbalordito. «Cosa, Halli avrebbe ucciso il suo futuro suocero? Ma è una pazzia.» Tarn si portò un dito alle labbra. «Fent» mormorò. Aran spalancò gli occhi. «Cosa?» Bera infilò la testa tra i due uomini. «Cosa ha detto?»
«Niente» rispose Aran in tono irritato. Scosse la testa come per cacciare via quella spiacevole informazione, poi si allungò verso Tarn. «Allora non vuole accettare la mia commissione? E se gli offrissi un prezzo migliore?» Tarn Volpe scosse la testa. Poi si diede da fare con mezzo pollo. «'Non toccherei il suo denaro neppure con l'estremità di un remo' sono state le sue esatte parole» riferì Tarn con la bocca piena, mentre il sugo gli colava sul mento e sulla barba. «'Sono solo un branco di cani pazzi, i Rocciacaduta' ha aggiunto. Inoltre ho sentito che ha già accettato una commissione per una nave da Fenil Sorenson.» «Davvero?» Aran si fece pensieroso. «Molto grossa?» «Sessanta remi, a quanto mi hanno detto.» Aran annuì. «Interessante.» Aveva visto Fenil per qualche minuto alla Grande Fiera: lui e Hopli Garson, che di solito non era un tipo socievole, erano sembrati confabulare come due cospiratori. Ma Aran non avrebbe mai pensato che fossero degli avventurieri: erano due classici uomini di terra, proprietari di miniere di sardonica sul continente a meno di cinquanta miglia l'una dall'altra, e per quanto ne sapeva lui l'unica volta che affrontavano il mare era in occasione del viaggio annuale verso la fiera. Dopo quella conversazione Aran divenne stranamente taciturno. Pettegolezzi, voci e notizie sembrarono sfiorarlo senza lasciare il segno; di tanto in tanto annuiva distrattamente, anche se era chiaro che in realtà la sua mente era altrove. Qualcuno raccontò che delle strane maree avevano portato a riva un mostro sulla spiaggia del promontorio della Balena, un gigantesco narvalo con occhi umani. Secondo altri la creatura aveva forma umana, ma con le pinne e un grande mento peloso. Un altro si affrettò a raccontare la storia di una creatura di mare che aveva inghiottito un'intera barca di pescatori nel Canale Blu a ovest dello Stretto degli Squali: una bestia più lunga di tre navi messe insieme, con denti come spade. I suoi vicini di tavola dissero che doveva essere solo una balena che era deviata dal suo solito percorso e che, risalendo in superficie, aveva fatto rovesciare la nave, o forse era stata semplicemente una grande onda. Ma per quanto amasse tutti quei racconti di mostri, ciò che interessò di più Katla furono le chiacchiere sul re e la sua nuova moglie. In fondo era stato per colpa della pallida nomade, almeno indirettamente, se lei era stata messa al rogo: re Ravn non avrebbe mai permesso che una cosa del genere accadesse a uno dei suoi sudditi se non sotto incantesimo. E ora sembrava che la donna avesse operato la sua magia anche su altri. Uno della compagnia stava dicendo che aveva praticamente rubato il cuore di tutta la corte del Nord...
con l'eccezione di quello della regina Auda, la madre di Ravn. «Ha dato una sola occhiata alla Rosa Eldi» dichiarò il teatrante, un uomo snello e dai capelli scuri che si chiamava Mord. «Le ha voltato la schiena, è andata in camera sua e da allora non ne è più uscita.» Ci fu un mormorio di sorpresa dagli abitanti di Rocciacaduta: così lontani com'erano dalla corte tali pettegolezzi erano sempre affascinanti per loro. Bera quasi dimenticò quanto era furiosa con il marito, e insisté con Tarn perché le riferisse tutti i dettagli possibili su quella strana donna straniera. Persino la seither sembrò interessata all'argomento, perché si chinò in avanti e posò il suo potente sguardo blu su Tarn Volpe. «È un raro gioiello» spiegò Tarn con aria sognante. «Ha completamente stregato il re: non ho mai sentito parlare di guerra per tutto il tempo che siamo stati a corte, non da Ravn, perlomeno. Trascorreva gran parte delle sue giornate rintanato nelle sue stanze con la sua regina, e sembrava un tantino malfermo sulle gambe ogni qual volta si faceva vedere, se capite cosa intendo. Stupefacente, davvero: non ho mai visto una donna così pallida e dall'aspetto più fragile, ma quegli occhi... ti trapassano come una spada. La nuova regina potrebbe uccidere con un solo sguardo.» Tarn si strinse il petto e cadde rotolando dalla panca tra le risate divertite della gente intorno a lui. Fu il segnale per l'inizio dello spettacolo. I teatranti balzarono in piedi dai loro posti, anche se alcuni barcollavano per la stanchezza; i musicisti scomparvero per un istante fuori dalla casa per poi riapparire con le braccia piene di strani strumenti e costumi. I due gruppi si riunirono a un lato della sala. Tarn conferì brevemente con loro e il complessino attaccò un allegro motivetto. Da sotto la pila di indumenti lasciati accanto alla porta Tarn Volpe tirò fuori un mantello bordato di pelliccia, una grossa spada di legno, una parrucca nera che sembrava fatta di crine di cavallo e un'enorme corona riccamente ornata. Nel frattempo uno degli uomini aveva indossato un enorme abito bianco e lunghi capelli di paglia dorata e si aggirava per i tavoli con una camminata smaccatamente seducente, sollevando la gonna per mostrare prima un accenno di gamba, poi il sedere nudo e peloso. Katla toccò il braccio di suo padre. «Perché vestire un uomo da donna quando ci sono donne nella loro compagnia?» chiese perplessa. Aran, strappato dai suoi sogni a occhi aperti, sorrise. «Rideresti se la parte della regina la facesse una bella ragazza invece di un goffo zoticone?»
Katla rifletté sulla questione. Poi, logica come sempre, chiese: «Allora perché non far interpretare a una donna il ruolo del re?» Aran sembrò scioccato. «Be', quello sarebbe un atto di alto tradimento.» Katla si accigliò e rivolse la sua attenzione alla divertente commediola che stava cominciando dall'altra parte della sala. Laggiù, Tarn Volpe giaceva come tramortito tra le braccia della sua amata, mentre uno dei menestrelli cantava: Il re del Nord si aggirava senza posa Per la Grande Fiera in cerca di una sposa Uno stuolo di ragazze gli era stato presentato Ma l'amore della sua vita non aveva trovato Pingui e ossute, belle e brutte More, rosse o bionde tutte Persino le chiome verdi aveva una Ma il re disse, 'Non me ne piace nessuna'. Oh, c'erano ragazze con lunghe... E qui, con un gesto, Tarn incoraggiò il pubblico a partecipare: «Mani!» gridò una delle donne. «Gambe!» urlò Kotil Gorson, sollevando il suo boccale. «Lingue!» esclamò un altro, e varie voci entusiaste si unirono al coro. «Chiome!» li corresse Tarn a voce alta. La 'Rosa Eldi' arrotolò la sua orrenda parrucca di paglia per coprirsi timidamente il volto e uno dei commedianti cadde morente ai suoi piedi; un altro tese la mano per sfiorarle i capelli e ovviamente la parrucca scivolò via e la 'regina' dovette recuperarla dopo una zuffa con il suo ammiratore, se la rimise in testa al contrario, poi tastò alla cieca finché non riuscì a rimettersela dritta. E alcune con grandi... «Denti!» «Tette!» gridò Fent ubriaco. «Culi!» urlò nonna Rolfsen piegandosi in due dalle risate. «Occhi» li rimproverò Tarn fingendo sdegno, e la 'Rosa Eldi' si strinse
l'enorme seno finto e camminò impettita davanti al pubblico. «Occhi!» ruggì Tarn, e ci fu uno scroscio di risate. Tutte le ragazze eran leggiadre e belle, ma nessuna giammai tra quelle come la Rosa Eldi dei nomadi il fiore, la donna più bella, il suo grande amore. A quel punto Tarn posò le mani sull'enorme seno finto della Rosa del Mondo, e si guadagnò un sonoro schiaffo dall'altro teatrante, che fece un gesto osceno alla folla per poi sollevare il re, issarselo sulla spalla col sedere all'aria e uscire marciando dalla stanza in un crescendo di grida e fischi. Persino sua madre stava ridendo, notò Katla; ma Aran se ne stava lì seduto con lo sguardo trasognato, come se i menestrelli avessero appena suonato una ballata epica. Qualche minuto dopo Katla lo vide tirare fuori dalla tunica un pezzettino di pergamena ripiegata e guardarlo per un istante con espressione estasiata; poi Aran si alzò e andò dai suoi figli e tutti e tre lasciarono la sala. Curiosa, Katla si mosse sulla sedia e fece per alzarsi, ma Festrin le posò una mano sul braccio. «Resta qui a parlare con me, Katla Aransen» mormorò. Katla, sorpresa, tornò a sedersi. «In cosa credi tu?» chiese la seither. Era una domanda difficile, perché Katla non sapeva che tipo di risposta la donna si aspettasse da lei, perciò dopo un momento rise e disse semplicemente: «In me stessa.» Avrebbe dovuto essere una battuta, ma Festrin inclinò la testa di lato e il suo grande occhio studiò Katla con solennità. Poi le sue labbra si tesero in un sorriso. «Mi sembra che questa tua fede ti abbia già messo nei guai diverse volte. E so che ci sono molte cose di te stessa che ancora non sai. Quali sono le cose che sai fare meglio?» Ipnotizzata dal suo occhio, Katla rispose senza pensare: «Oh, scalare rupi e pareti rocciose, e fabbricare coltelli e spade...» E poi si bloccò quando si rese conto di ciò che aveva detto. Ancora una volta Festrin sorrise. «E allora quale fede ti è rimasta ora che con una mano sola non puoi fare nessuna di queste cose?» Katla sentì delle inconsuete lacrime bruciarle gli occhi. «Io... non lo so.» La seither si chinò su di lei. «Che mi dici di Elda, Katla? Del tuo colle-
gamento con il mondo... non lo senti? Io credo di sì, anche se ancora non lo capisci.» Katla fissò perplessa la donna con un occhio solo. Ricordò come le palme delle mani le formicolavano sempre quando lavorava il metallo; la scarica di energia che sentiva a volte percorrerle le braccia quando scalava; il modo in cui il Castello di Sur le aveva parlato, in un linguaggio che solo il suo sangue e il suo corpo comprendevano; come le assi della nave avevano improvvisamente pulsato di vita mentre si avvicinavano alle isole. Come il solo far scivolare la mano sul caldo granito della sala quella mattina le aveva sciolto le ossa come gelatina, e per un istante lei aveva percepito delle parole nella sua testa, come se il mondo stesse cercando di comunicare con lei. «Ti è accaduto qualcosa di recente, Katla Aransen, qualcosa che non è collegato alla tua menomazione, qualcosa che ti ha portato in contatto con la magia della terra. Riesco a sentirla dentro di te e tutto intorno a te... la sento dappertutto negli ultimi tempi, ma in te, Katla, è forte. Cosa ti è accaduto? Tua nonna mi ha detto solo che sei rimasta scottata. È stato nella fucina?» «Gli Istriani hanno tentato di bruciarmi alla Grande Fiera.» L'occhio di Festrin lampeggiò. «Sono degli sciocchi superstiziosi e pericolosi, gli Istriani. Hanno distrutto migliaia di povere anime che portavano in sé la magia senza neppure saperlo, che avevano solo offerto innocue pozioni o piccoli incantesimi.» «Non è stato per stregoneria» spiegò Katla, e le raccontò la sua storia. Quando arrivò al rogo, aggrottò la fronte, perplessa. «Ricordo di aver visto mio fratello Halli e nostro cugino Tor tra la folla; ricordo di essere stata legata al palo, e la luce del fuoco, e ricordo un Istriano che pensavo fosse mio amico venire verso di me con la sua spada... Poi non ricordo niente altro finché non mi sono svegliata sulla nostra nave, diretta a casa.» «E questo» Festrin toccò la mano ora senza bende «è accaduto durante il rogo?» Katla annuì. «Rivorresti indietro la tua mano, Katla? Com'era una volta, forte e sottile, con quattro dita e un pollice, perfetta com'era prima del rogo?» Non c'era neanche bisogno di pensarci. «Certamente.» «Allora devi trovare il modo per credere in te stessa come non hai mai fatto prima, e se riuscirai a farlo, io potrò aiutarti a curarti da sola.» Katla si sentì stranamente delusa. Si era aspettata un sì o un no, o un
qualche assurdo rito da ciarlatano o una cura istantanea e prodigiosa. Aiutarla a guarire da sola suggeriva un processo lungo e noioso e nessuna vera speranza di un miracolo. Katla abbassò la testa. «Oh» mormorò. Festrin rise, e la durezza della risata fece girare le teste di parecchi dei presenti nella loro direzione. «Portami a vedere i coltelli che produci» disse. Fuori era buio e le stelle brillavano sparse nel cielo. Katla, tenendo in mano una torcia che aveva preso accanto al fuoco, condusse la seither attraverso il giardino verso la fucina. Superarono l'edificio annesso, fuori dal quale qualcuno stava vomitando rumorosamente, e le stalle, dove i pony nitrirono leggermente al loro passaggio. Mentre si avvicinavano al fienile, Katla si rese conto che c'era qualcuno dentro, perché una lanterna gettava lunghe ombre dalla porta aperta. Perplessa, fece cenno a Festrin di seguirla in silenzio e le due donne si avvicinarono furtive alla porta. Ancor prima di raggiungerla, Katla sentì la voce di suo padre nella tersa aria notturna. «Ci serve Danson. Il Dono di Fulmar non è adatta allo scopo. Non riuscirebbe mai a superare i banchi di ghiaccio galleggiante dell'estremo Nord.» «Potremmo modificarla noi.» Era la voce di Halli, piena e profonda, e sempre più simile a quella di Aran. «Non è adatta all'installazione di un rompighiaccio: il Dono di Fulmar è fatta per essere veloce. Con altro peso si capovolgerebbe in alto mare» replicò Aran impaziente. Fu la volta di Fent, la voce meno cupa e più tagliente, in linea con il suo aspetto. «Io dico di uccidere Tarn Volpe, prendere il Lupo delle Terre Innevate e modificarlo.» «Fent! Non puoi dire sul serio.» Halli sembrava scioccato, ma Katla conosceva il suo gemello fin troppo bene. «Certo che non dice sul serio. Inoltre ci servirebbe ugualmente Morten Danson per fare il lavoro. Se devo affrontare acque inesplorate voglio farlo con una nave costruita su misura, non con una che è stata messa insieme alla bell'e meglio con vecchi relitti.» Aran sembrava irritato. «Maledetto quell'uomo per aver rifiutato il mio denaro. Ho già perso una fortuna con Finn Larson.» Tacque per un momento, improvvisamente pensoso. Poi: «Non è che per caso hai recuperato il mio denaro quando l'hai assassinato, eh?» chiese con amarezza a Fent. Ci fu un momento di sbigottito silenzio. La seither afferrò il braccio di
Katla. «Dovremmo andarcene» sussurrò. «Non mi piace la piega che hanno preso gli eventi.» Ma Katla era così presa dal suo dramma familiare che non sentì neppure la mano della donna. Dal fienile si udì un rumore di zuffa e poi un grido inarticolato, e alla fine la voce infuriata di Halli. «Tu! Tu hai ucciso il padre di Jenna? Dimmi che non è vero, Fent! Di certo neppure tu...» «...potresti uccidere un grasso e vecchio traditore?» «Basta!» ruggì Aran. «Questa famiglia deve restare unita. Pagherò Tarn Volpe per riportarvi con lui quando tornerà a Halbo per lo spettacolo alla cerimonia nuziale di Ravn: nessuno noterà un altro paio di poveri zoticoni nella sua compagnia. Sono certo che Tarn non saprà resistere a un tale evento; a quel punto voi potrete prendere da parte Danson e perorare la nostra causa con lui e vedere quanto sapete essere... persuasivi.» «Vuoi dire, dargli una botta in testa e portarlo qui che lui lo voglia o no?» chiese Fent ridendo. «Voglio dire fare tutto il necessario. Dovrete prendere in prestito due dei suoi knarr da trasporto più grandi e caricarvi il legno necessario. E non fategli perdere i sensi prima che vi abbia detto quali uomini e quali attrezzi gli serviranno per il lavoro...» «Ma non potete rapire la gente così!» La voce di Halli era rauca per la rabbia. «Tu sei pazzo e lui è un assassino, e io non voglio avere niente a che fare con questo!» «Allora non sei più mio figlio» rispose Aran con voce dura. Festrin si chinò su Katla. «È una notte infausta. Non voglio sentire altro.» Katla annuì con riluttanza. A lei sembrava tutto così eccitante. Se Halli non vuole andare, pensò, andrò io. Guardò in basso e la luce della torcia illuminò la luccicante e informe massa arancione che aveva al posto della mano. Si sentì morire. In silenzio condusse la seither alla fucina. Una volta dentro accese due lanterne, le appese e gettò via la torcia. La calda luce illuminò un'officina molto ben tenuta: gli attrezzi erano ordinatamente appesi lungo le pareti, oppure giacevano oliati e luccicanti sugli scaffali. Il grande mantice di pelle odorava di cera e aveva solo una leggera spolverata di fuliggine; ma il fuoco era spento e non c'era neppure un tizzone nel camino, l'unico leggero segno di incuria in tutta la fucina. L'espressione sul volto di Katla fu eloquente: Festrin temette di vederla crollare da un momento all'altro. «Tuo padre è preda di una pericolosa ossessione» disse per distrarre la
ragazza. «Una nave viene fatta con una parte vitale di Elda, presa in prestito dal mondo e alla fine restituita a esso; ma una nave costruita contro la propria volontà potrebbe non servire bene il proprio padrone. Tuo padre sta mettendo alla prova i Fati: loro potrebbero misurare la sua stoffa e decidere di tagliarla prima del tempo se persiste nei suoi piani.» Katla tacque. «E tu, Katla Aransen, cosa ne sarà di te? Sento la magia della terra in te; ma ha toccato il tuo cuore, o quella parte di te è oscura e tormentata come quella dei tuoi cari?» «Mio padre e i miei fratelli sono uomini buoni e coraggiosi» replicò Katla furiosa. «Non parlate così di loro.» La seither strinse le labbra con forza come per imprigionare le parole che avrebbe voluto dire. Poi: «Molto bene» continuò. «Mostrami il tuo lavoro. Forse potrò capire il colore del tuo cuore da ciò che hai forgiato col metallo.» A Katla sembrava estremamente improbabile, ma andò ugualmente verso il grande baule di legno sulla parete di fondo e lo aprì. All'interno, avvolti con cura in morbida lana e stoffa oleata, c'erano alcuni dei suoi pezzi migliori: la spada con la corniola che piaceva così tanto a Fent, alcuni dei suoi migliori coltelli (quelli che erano venuti meno perfetti di quanto voleva li aveva spietatamente fusi di nuovo e rilavorati), e alcune delle armi che aveva portato alla Grande Fiera e che Aran aveva recuperato in fretta e furia dal loro banchetto. Da quella collezione Katla scelse la Spada Rossa, un coltello ornamentale con un pomo squisitamente decorato, e una delle sue più recenti creazioni: un pugnale semplice, ma con un'elegante damascatura. Furono questi gli oggetti che posò sul tavolo di fronte alla seither. Festrin si chinò su di loro. Passò un dito sulla Spada Rossa. «Un ottimo lavoro» disse compiaciuta. Sollevò la lama e ne provò l'equilibrio. «Non ho mai avuto un gran bisogno di armi nella mia lunga vita. O almeno non di semplici manufatti di metallo e pietra.» Katla provò una leggera irritazione. Così Festrin credeva che il suo lavoro fosse semplice, eh? Le prese la spada con la corniola dalle mani. In quell'istante una leggera luce rossa brillò lungo la lama per culminare in un forte bagliore intorno alla mano di Katla. Sorpresa, la giovane si affrettò a posare la spada sul tavolo. Quando alzò lo sguardo, c'era un'espressione divertita sul volto della donna. «È così allora» disse. «È così.» Sorrise a Katla, poi, ignorando il coltello ornamentale, prese il pugnale damascato. Nella sua lunga mano non sem-
brava più grande di un coltello da cucina. Festrin se lo rigirò tra le mani ed emise dei suoni di apprezzamento. I suoni divennero sempre più chiari finché sembrarono quasi una lingua che Katla non riusciva a capire, anche se il suo cervello formicolava e ronzava per lo sforzo. Poi la parola 'bello' si insinuò nella sua mente, seguita da 'raro'. Katla continuò a fissare la seither, ma le labbra della donna non si mossero. «Avete detto qualcosa?» chiese Katla perplessa. Straordinario. Le labbra della seither si curvarono in un sorriso dolce. «Oh, sì» rispose. «Ma in un modo che solo tu puoi sentire.» Katla si accigliò. «Non capisco.» La donna premette il pugnale nella mano di Katla e ancora una volta la luce brillò, più luminosa questa volta, come se il metallo fosse illuminato da un fuoco interno. Katla rimase senza fiato. Guardò lingue di fuoco saettare su e giù lungo i disegni della lama, illuminando ogni squisito dettaglio. Quando la donna ritirò la mano la luce tremolò per un istante e si tinse di blu; ma poi tornò a brillare, più forte di prima. Festrin rise deliziata. «Il tuo cuore sa più della tua testa, mia cara. Ed è stato con il cuore che hai forgiato quest'arma. Pensa solo a quello che potresti ottenere ora che la magia si è risvegliata. Mi chiedo se questa affinità si manifesti solo con il metallo» rifletté. «Sarei curiosa di sapere cosa accadrebbe se lavorassi la pietra o il legno.» Katla appoggiò tremante il pugnale sul tavolo. Si sentiva le ginocchia di gelatina. Piccoli fremiti le percorrevano le braccia. «Sarà difficile che lavori qualcosa con una mano sola» disse tristemente. «Allora cerchiamo di porre rimedio alla situazione» dichiarò la seither. Prese la mano destra di Katla tra le sue. Prendi il pugnale, Katla. La mano sinistra di Katla si strinse sull'impugnatura prima ancora che il pensiero si completasse. La luce brillò di nuovo, rossa e bianca; e poi, senza sapere cosa stesse facendo o perché, Katla scoprì di aver accostato la punta alla sua mano offesa e di aver cominciato a tagliare. La seither posò una mano su quella di Katla per guidarla. «Non esitare» disse la donna ad alta voce. «Fidati di te stessa. Fidati di me. Fidati della magia.» Il tessuto cicatrizzato cominciò a separarsi, ma sgorgò pochissimo sangue. Katla lo fissò incredula. Di nuovo il pugnale discese sulla mano deforme e lei lo guardò con meraviglia, come se si muovesse di sua volontà, o come se fosse uno spettacolo messo in scena da altri per lei. Un pezzo di carne morta cadde al suolo, seguito da un altro, e Katla continuò a guarda-
re con un misto di repulsione e interesse. Se ne verrà via ancora, pensò una parte della sua mente, non mi rimarrà altro che un moncherino insanguinato. Lo splendore del pugnale era così forte da abbagliare, lasciandole una bianca immagine residua negli occhi anche quando distoglieva lo sguardo, e l'intero braccio sinistro di Katla sembrava fervere di attività, mentre calde vibrazioni si rincorrevano lungo le ossa dell'altro fino alla spalla, per poi penetrarle nel petto e percorrere tutto il corpo fino alle gambe. Persino le piante dei piedi le formicolavano e bruciavano mentre l'energia fluiva fuori dal suo corpo verso le pietre del pavimento. Katla sentiva il lastricato assorbire tutta quell'energia, la sentiva mentre veniva risucchiata nel terreno sottostante per poi concentrarsi di nuovo e ritornare da lei. Il viso della seither era inondato di luce: il suo unico occhio brillava come una luna. Un altro taglio e Katla 'vide' l'immagine del suo indice e del pollice, contornati da un bagliore rosso, ma separati e integri. Potrei prendere in mano un cucchiaio ora, pensò Katla in maniera sconclusionata. Potrei stringere un paio di tenaglie... Era come se la pressione sulle sue dita si fosse allentata e Katla sentì il forte desiderio di contrarre la mano, ma la resistenza era ancora troppo forte. Abbassò di nuovo il coltello, e questa volta sentì l'ingresso della lama con maggiore intensità, tanto che dovette mordersi il labbro per impedirsi di gridare per la paura e l'orrore. Stranamente non c'era alcun dolore, solo la sensazione della lama che penetrava nella carne e della forza che essa applicava. Katla si rese conto che un altro dito era stato liberato dalla massa informe della sua mano. Il formicolio divenne più forte, la luce ancora più accecante. All'improvviso Katla percepì un'altra voce tra le vibrazioni: una voce profonda e bassa e molto, molto lontana... Più un borbottio della terra che una voce, in verità, più simile al cuore dell'oceano che pulsava incessante. Il suono era difficile da distinguere, ma non era la seither, non questa volta. Katla chiuse gli occhi in modo che la luce non potesse distrarla e protese la mente verso quella voce, seguendola giù, sempre più giù, attraverso le pietre del lastricato, attraverso la roccia sottostante. Poi: Ascoltami! mormorò la voce. Io ti sento: persino dalla mia prigione di pietra io ti sento: ascoltami! Sirio ti chiama, attraverso la terra di Elda, io ti chiamo affinché tu venga a liberarmi. Sono prigioniero qui da trecento anni e nessuno mi ha sentito. Vieni da me... «Katla!»
Gli occhi di Katla si spalancarono. Scioccata da quella nuova invasione, la giovane lasciò cadere la mano, lasciando Festrin a controllare da sola il pugnale macchiato di sangue. «Mio Dio! Cosa le stai facendo?» Con una luce folle negli occhi, i capelli una corona rosso sangue nel bagliore accecante, Fent afferrò la spada con la corniola e si gettò sulla seither. «Lasciala stare, strega!» gridò e con un unico colpo infilzò la donna con un occhio solo. Festrin guardò in basso dove l'elsa si era fermata contro le sue costole. La palpebra del suo occhio sbatteva furiosamente. Poi una lunga mano si sollevò e si strinse intorno alla gola di Fent, le dita che si serravano in un gesto convulso finché il giovane non strabuzzò gli occhi e staccò le mani dalla Spada Rossa. «È... male... interrompere... una guarigione...» La donna tossì e del sangue scuro le sgorgò dalla bocca scivolando lungo il mento. «Che tutte... le tue imprese... possano... culminare nel... disastro.» Festrin sorrise in modo dolce, grottesco; poi si accasciò al suolo, dove giacque inclinata in una strana angolazione, sollevata per metà dall'elsa della spada. Katla, strappata dalla sua inerzia, spinse Fent da parte e si gettò in ginocchio accanto alla seither. «Festrin, ascoltami!» La propria voce le sembrava strana, più profonda e sonora. Voltò la donna con sorprendente facilità, e posando entrambe le mani sull'elsa, tirò fuori la spada con la corniola. Un fiotto di sangue schizzò nell'aria, colpendole il viso, ma Katla si accorse a malapena dello strano calore sulla sua pelle. L'arma brillava come un fulmine nelle sue mani e con la coda dell'occhio Katla vide Fent indietreggiare barcollando, e gridare qualcosa di incomprensibile. Dietro di lui apparve un'altra figura, ma l'attenzione di Katla ora era sulla donna morente. Gettò da parte la Spada Rossa, ma la luce continuò a pulsare lungo le sue braccia. Senza nemmeno riflettere, infilò la mano appena creata nel foro lasciato dalla spada nel petto della donna, e la luce si spense all'improvviso. Un'ondata di calore l'avvolse, seguita da un'altra e un'altra ancora. Poi Katla sentì l'energia defluire da lei e una parte di lei pianse per quella perdita. Lasciami andare! gridò una voce nella sua testa. Lasciami andare! Rimbombò nel suo cranio, una vocina piccola e miserabile come un pipistrello intrappolato in un caverna, echeggiando nella sua mente finché la testa non cominciò a farle male. Era troppo, troppo. Sto morendo, pensò Katla disperata, sentendo le ultime vestigia di quel fuoco che l'abbandonavano. Qui e ora, sto morendo.
Con un gemito cadde all'indietro e sentì la fredda notte avvolgerla. 23 L'uso della magia Esausto dopo una lunga giornata di lavoro per il suo nuovo padrone, le mani che puzzavano di stagno e di altre leghe senza valore, Virelai si avvicinò alla finestra della sua stanza nella Torre Alta e guardò lo stupendo panorama della città di Cera. Non aveva importanza quanto tempo avrebbe trascorso lì, rifletté: non si sarebbe mai abituato all'idea che c'era così tanta gente al mondo. Era diventato il suo passatempo preferito ogni volta che poteva: guardare le persone correre su e giù per le strette stradine con i loro carri e i loro cestini, le loro bestie da soma e i loro schiavi; erano tutti così impegnati, così ansiosi, ciascuno con le proprie vite, le proprie preoccupazioni, i propri drammi. Perché il Padrone non mi ha mai parlato di tutto questo? si chiese, come faceva ogni giorno da quando il nobile Tycho Issian l'aveva portato lì. Ma conosceva la risposta, da quando aveva visto la Rosa Eldi nella camera del Padrone: Rahe gli aveva tenuto nascosto il resto del mondo perché sapeva che Virelai ne sarebbe stato tentato, che non sarebbe stato in grado di resistere alle lusinghe dei suoi segreti. E ora aveva scambiato un padrone che cercava di tenerlo segregato per un altro che faceva la stessa cosa. Perché la vista da quella torre, così come la vista da un nido d'aquila su un picco inaccessibile, rappresentava il minimo della distanza consentito tra Virelai e le tentazioni del mondo: Tycho se n'era accertato non appena lui era riuscito nell'incantesimo di cambiamento sui metalli base che gli erano stati portati, creando per il Signore di Cantara una fortuna in quello che sembrava argento agli occhi di tutti, tranne che a quelli di un mago. E all'inizio Virelai non si era preoccupato della cosa, entusiasta per il successo della sua magia. Per ventinove anni era stato apprendista di un mago, ma in tutto quel tempo Rahe non gli aveva insegnato che gli incantesimi più elementari, tendendolo sempre lontano dalla magia che cambiava la natura o anche solo l'aspetto delle cose. In verità il suo apprendistato era stato poco più che una schiavitù: portare le cose di qua e di là, cucinare e in generale fare tutto ciò che gli ordinava il Padrone. Macinava le polveri per gli esperimenti di alchimia, accendeva i crogioli e puliva le storte, strappava i cuori agli uccellini che Rahe faceva apparire dal nulla per operare la sua magia più oscura e li bruciava con il sangue del
suo stesso dito. Virelai non aveva provato nulla per quei minuscoli essermi spaventati, perché erano stati creati con la magia ed erano destinati a vivere poco. Ora però stava cominciando a sentire delle strane fitte di rimorso, specialmente guardando le piccole rondini nere che svolazzavano intorno alle grondaie delle ville sulla collina sotto il castello. Si chiese se era stato crudele negare a quei minuscoli uccelli magici la stessa libertà di trovare dei compagni, fare nidi e allevare i piccoli. «Ogni creatura ha diritto a vivere» disse ora ad alta voce «indipendentemente da come è venuta al mondo.» Mentre lo diceva capì che era una profonda verità. Dietro di lui sul letto Bëte si mosse, sbadigliò e un attimo dopo Virelai sentì una voce solleticargli l'interno del cranio. Finalmente, diceva. Finalmente si è risvegliato. Due giorni dopo Rui Finco camminava a grandi passi lungo il viale d'Ambra della capitale dell'Istria; notò a malapena l'ostentata eleganza dell'ampia via alberata e ignorò del tutto i giochi d'acqua delle fontane all'incrocio con la Grande Strada Occidentale. Neppure il modo in cui la luce del sole trasformava in una grande cortina dorata la parete del palazzo del duca in cima alla collina attirò la sua attenzione. Un mercante che portava una botte di vino sulle spalle lo spintonò all'imbocco della Via del Mercato, ma invece di rimproverarlo aspramente come avrebbe fatto di solito, il Signore di Forent accelerò il passo, il suo attraente viso rabbuiato. Dall'insuccesso alla Grande Fiera, quando aveva perso il re del Nord, il suo più utile strumento di ricatto, i servigi del migliore costruttori di navi del mondo (per non parlare di tutti i fondi legati ai progetti che aveva con lui) e la fiducia degli altri nobili coinvolti nel complotto, i piani di Rui erano andati sempre più storti. Ora doveva del denaro ai nobili Prionan e Varyx, e Prionan non era stato molto comprensivo per la perdita del suo investimento. Varyx, ovviamente, era stato testimone dell'accaduto, anzi, era stato per la sua stupidità che Ravn Asharson era riuscito a fuggire; ma ciò non sembrava impedirgli di trattare Rui con eccessiva familiarità, mentre prima gli aveva sempre mostrato la dovuta deferenza e sottomissione. Perdere la faccia con i propri pari era stata la conseguenza peggiore di quel fallimento: ormai non poteva più fare a meno di ammetterlo. Ci sarebbe voluta una mossa audace per riconquistare la loro fiducia, e lui doveva riuscirci a tutti i costi se voleva perseguire i suoi piani. E perciò passeggiava per la capitale nel disperato tentativo di sfuggire al soffocante isolamento del palazzo, con i suoi sussurri e le sue maligne risate, i capannelli di uomini che tace-
vano o si scioglievano quando lui entrava in una stanza, e la sensazione di essere ineluttabilmente caduto in disgrazia senza possibilità di rialzarsi. Costringendo la sua mente inquieta a calmarsi, Rui si fece strada tra i mercanti e i clienti del primo pomeriggio, abbassandosi per passare sotto i tendoni e zigzagando tra le casse di arance e limoni, i fasci di erbe aromatiche, le trecce di agli e peperoncini piccanti, i gruppetti di polli essiccati e di oche jetrane, tra i banchetti che vendevano dolci dei più orrendi colori, vasetti di spezie, gioielli d'argento, pietre preziose e arazzi, balle di seta e merletti di Galia, tappeti ed enormi vasi di bronzo, fiaschi di vino e araque e gli alcolici amari e resinosi del profondo Sud: Rui li superò tutti degnandoli a malapena di uno sguardo, pensando con una certa sorpresa che sembrava più facile del solito attraversare il mercato a quell'ora del Quinto Giorno. Sbucando alla fine nei vicoli dall'altra parte della piazza, Rui trovò la città ancora più deserta. Due gatti magri che si crogiolavano al sole tra la pescheria e il negozio di granaglie saettarono via così in fretta al suo arrivo che Rui non vide altro che un movimento ai margini del campo visivo; un attimo dopo si ritrovò nell'ampio viale che costeggiava i giardini sotto la Collina dell'Oratore. Lì, dove di solito c'era poca gente e ogni tanto una recita di versi da parte di uno sconosciuto autore, adesso era tutto un brulicare di persone e un frastuono di voci. Centinaia e centinaia di persone sembravano essere state attratte verso la collina e la circondavano per una cinquantina di metri in tutte le direzioni. Rui Finco si bloccò meravigliato. Non era normale per i cittadini di Cera riunirsi per altre ragioni che non fossero la celebrazione di festività religiose o di feste del fuoco; ma questa... questa sembrava tanto una predica sbraitata a pieni polmoni, e il fervore religioso era una cosa rara nella decadente capitale istriana: ciascuno osservava i precetti senza eccessivo entusiasmo, e poi continuava a spennare il prossimo negli affari e a visitare i bordelli; oppure trasformava l'adorazione in un'ostentazione pubblica, per guadagnare punti davanti agli altri e conquistarsi il favore politico. Rui allungò il collo per vedere l'uomo che aveva generato un tale interesse, e inorridì quando scoprì chi era. Tycho Issian, il Signore di Cantara. Dietro di lui, leggermente in disparte e più alto di una testa, c'era l'uomo pallido che aveva visto in compagnia del Signore di Cantara al Raduno; accoccolato tra le sue braccia, un piccolo gatto nero tutto bardato con un'e-
legante guinzaglio rosso con museruola. Rui si accigliò, perplesso. Che bizzarro spettacolo era questo? Si fece strada tra la folla finché non riuscì a sentire meglio le parole del nobile. La gente era silenziosa e attenta come sotto un potente incantesimo e sembrava pendere dalle labbra di Tycho Issian... una cosa disdicevole, invero: nonostante fosse venuto improvvisamente in possesso di un'enorme fortuna che spendeva a destra e a manca senza ritegno, cos'era in fondo quell'uomo se non un villano rifatto? «Loro non sono come noi!» stava gridando in quel momento, le mani che si agitavano nell'aria come impazzite. «Sono un abominio! Trattano le loro donne come fossero le più sordide puttane degli Erranti, esponendo le loro parti più intime allo sguardo lascivo di ogni uomo che non si vergogna di guardarle. Chiunque abbia mai visitato la Grande Fiera almeno una volta può testimoniare che questa è la verità! È possibile vedere ogni dettaglio del loro viso, e a volte persino le braccia e il seno nudo...» La folla gemette all'unisono. «Chiunque può sfiorare la guancia di una donna o toccarle i capelli; si può persino fissarle negli occhi, tanto queste donne sono cresciute sfrontate, senza alcuna conoscenza dei dettami della Dea.» «Vergogna!» gridò qualcuno, e altri gli fecero eco. «E invece che aver cura di loro nell'ambiente sicuro e confortevole di una casa, tenendole lontane dalle tentazioni e dai problemi come facciamo noi con le creature di Falla, non si occupano affatto delle donne sotto la loro custodia: le lasciano andare in giro dove vogliono, consentono loro di lavorare nei campi, sulle navi e persino, e io trovo che questa sia la prova più scioccante della loro barbarie, di diventare guerriere e combattere al fianco degli uomini in conflitti in tutto il mondo.» Rui ebbe un'improvvisa visione di Mam, quella delicata dama eyrana con il suo farsetto di cuoio e le sue cicatrici, che si sputava nella mano e poi afferrava la sua, e si perse la frase successiva: senz'altro qualcosa di increscioso, dal momento che aveva suscitato forti grida scandalizzate. «Sì, il Cigno di Jetra!» ringhiò Tycho, chiarendo l'attuale argomento in discussione. «Quando offrì se stessa come ultimo sacrificio del nostro popolo, come simbolo della nostra mano tesa in segno di amicizia attraverso l'oceano del Nord, il Cigno di Jetra fu rimandata piangente alla sua famiglia, mentre lo sporco re barbaro sceglieva una donna degli Erranti come sua sposa. «Possiamo restare impotenti a guardare l'eresia e il sacrilegio commessi davanti ai nostri occhi? Possiamo voltare le spalle incuranti mentre il fiore
delle donne istriane viene sdegnosamente rifiutato in favore di una puttana straniera? Possiamo limitarci a pregare che Falla li riconduca in tempo alla ragione? Invece io vi dico che dovremmo offrire noi stessi come suoi messaggeri, come latori del suo fuoco! Io vi dico che dovremmo dichiarare una guerra santa contro questi adoratori di falsi dèi, questi mostri che trattano la gente civile con tale disprezzo da rapire delle nobildonne durante un pacifica assemblea e portarle via per i loro empi piaceri...» Un mormorio di costernazione si levò dalla folla riunita. «La mia bambina!» gridò Tycho. «La mia bella, devota figlia Selen, rubata da briganti e stupratori del Nord nella mia stessa tenda alla Grande Fiera, per non fare mai più ritorno. In questo momento potrebbe persino essere nuda in mezzo a un branco di lupi del Nord, il viso e il corpo esposto ai loro avidi occhi, la sua lingua strappata via così che non possa più pronunciare il nome di Falla, la sua schiena insanguinata dai segni della frusta...» Rui si sentì vacillare come un ubriaco, sentì la propria bocca aprirsi per unire la propria voce al grido scandalizzato della folla, e con quella piccola parte del suo cervello che rimaneva ancora lucida si chiese cosa mai stesse accadendo lì. «Forse proprio in questo momento viene gettata a terra e toccata con lussuria da queste bestie, con le loro penne e conchiglie e barbe intrecciate. Forse viene montata da una decina di loro alla volta... potrebbe persino essere ingravidata! Costretta a portare il figlio di quei mostri! Immaginate: una nobildonna istriana trattata in quel modo, nel modo in cui trattano tutte le loro donne, nel modo in cui avrebbero trattato il Cigno stesso! «Permetteremo che tale empio comportamento rimanga impunito? Oppure porteremo noi stessi il fuoco di Falla alle loro spiagge, per mondarli dei loro peccati? Non salveremo le loro donne e passeremo a fil di spada i loro uomini? Non cancelleremo la loro razza da Elda?» «Lo faremo!» gridò la folla. «Il fuoco di Falla!» «Passiamoli a fil di spada!» «Salviamo le donne!» «Purifichiamo il mondo!» Rui sentì quelle parole ronzare nella propria testa e si affrettò a scuoterla come per snidare una vespa intrappolata al suo interno. Fece un passo indietro, poi un altro e un altro ancora, e a ogni passo il ronzio diminuiva, finché non si ritrovò fuori dal cerchio dalla folla, alla fresca ombra dei
castagni, una zona che non sembrava toccata da qualunque sortilegio avessero operato quelle parole. Al sicuro sotto gli alberi, Rui guardò con interesse per altri dieci minuti Tycho Issian che trasformava la folla di onesti cittadini istriani in una marmaglia inferocita, chiedendo a gran voce il sangue dell'antico nemico. Lo ascoltò con attenzione, e mentre lo faceva il sospetto che era nato in lui quella prima volta al Raduno divenne una certezza. Nella sua mente cominciò a prendere forma un piano. «Mio Signore di Forent.» «Nobile Issian, che piacere» rispose Rui Finco, mentendo con un gran sorriso. «Sono felice che abbiate accettato il mio invito.» Il nobile del Sud entrò nelle lussuose stanze del Signore di Forent (a Rui piaceva vivere bene ogni volta che si trovava nella capitale, e anche se a lui personalmente non interessavano i lussi, gli servivano per impressionare gli altri) come un gatto che entra con fare guardingo nel territorio di un rivale. Rui guardò soddisfatto mentre Issian ammirava con riluttanza le panche dall'alto schienale squisitamente intarsiate e incrostate di gemme, gli specchi d'argento e i ricchi tappeti circesiani, le costose candele santorinvane, il tempietto finemente decorato della Dea, tutto circondato da sete rosse e oro a ricordare le fiamme sacre; e il preziosissimo arazzo che rappresentava la Battaglia della baia di Sestria (scelto con cura per l'occasione). Almeno, pensò Rui Finco, non ha portato con sé quel suo pallido servitore, e provò un considerevole sollievo. Tycho attraversò la stanza e si sedette con meticolosa cura sulla panca più bella sotto un candelabro riccamente decorato; sistemò la veste intorno a sé per mostrarla nella sua luce migliore e assicurarsi che il Signore di Forent capisse quanto era costata. Il fatto che fosse un indumento estremamente prezioso in verità era difficile da ignorare, perché nonostante il taglio classico e la sobria tinta blu notte, la luce delle candele rivelava ogni filo d'argento del ricamo della sua paramontura, dell'orlo, dei polsi e del colletto e giocava sui minuscoli bottoni d'argento finemente cesellati che adornavano il davanti della tunica in una quantità superiore a quella dettata dalla pura funzionalità. Era un abito che di certo era costato diverse centinaia di cantari, immaginò Rui, e sembrava creato per lanciare un preciso messaggio: 'Il Signore di Cantara è un uomo di ottimo gusto e di smisurata ricchezza, e per la giusta causa è disposto a spendere il suo denaro con generosità. Inoltre ci si può fidare che manterrà un segreto a costo della vita.' In realtà il Signore di Forent non aveva alcuna intenzione di fidarsi di
lui, abito sontuoso o meno, ma non era la fiducia la cosa più importante in quel momento. «Nella fede di Falla io servo la signoria vostra» disse Rui Finco: il tradizionale saluto tra persone di simile rango, e quindi una manifesta lusinga, dal momento che si sapeva molto poco del passato del nobile del Sud, mentre il nobile lignaggio di Rui era noto a tutti. Tycho sorrise, un sorriso piccolo, tirato, che a malapena gli increspò le labbra e non raggiunse i suoi occhi. «Dovreste chiedere piuttosto come io posso servire voi, mio signore.» La sua non era una risposta tradizionale, né tantomeno cortese. Rui trattenne a fatica la tagliente replica che si ritrovò sulla punta delle labbra, e gli restituì il freddo sorriso. «Dovete considerarmi un pessimo ospite davvero» disse con gelida grazia, e batté le mani. Un istante entrarono due leggiadre cameriere, vestite con sabatica identiche di un stoffa rosa così leggera e trasparente da irridere lo scopo stesso per cui erano concepite. Portavano una bottiglia di araque speziato con essenza di rose e zenzero, una brocca di acqua di sorgente, coppe di prezioso vetro smerigliato e un piatto di dolcefumo. Con una certa soddisfazione Rui guardò gli occhi avidi del suo ospite soffermarsi sulle donne mentre posavano gli oggetti sul tavolino basso, piegandosi con fare provocante di fronte al Signore di Cantara. Il nobile Finco riusciva a sentire il profumo di acqua di rose muschiata in cui si erano bagnate a più di venti passi di distanza. Era la miscela più simile al profumo con cui la Rosa Eldi aveva inondato il suo padiglione alla Grande Fiera quella fatidica notte, prima che lui la mandasse via, con un enorme sforzo di volontà, insieme al mercenario. Il trucco stava avendo sul signore del Sud esattamente l'effetto sperato, perché gli occhi di Tycho, solitamente neri e spietati, erano diventati sognanti, e la sua bocca si era spalancata come quella di un gatto che pregusta un succulento pasto. Era tutto ciò che serviva al Signore di Forent per dimostrare la sua teoria. Le donne fecero un profondo inchino, muovendo le mani bianche in gesti di estrema cortesia, poi uscirono. Una delle due, di nascosto dell'ospite, fece boccuccia al suo padrone mentre gli passava davanti e la punta della sua lingua scese per un istante per leccarsi il labbro inferiore; poi anche lei svanì fuori dalla porta. Con uno sforzo, Rui trattenne un sorriso. Maria: una vera monella impertinente. Non vedeva l'ora di gustare quella bocca più tardi in privato... Mentre il Signore di Cantara era ancora in uno stato di profonda agita-
zione, Rui riempì una coppa di araque, lo diluì con un leggerissimo spruzzo d'acqua e passò il bicchiere al suo ospite. Tycho lo prese senza dire una parola e ne bevve una buona metà quasi tutta d'un sorso prima di tornare in sé. Trasalendo fissò il bicchiere che aveva in mano e in quell'istante Rui capì quello che stava pensando. «Non mi abbasserei mai a usare del veleno, mio nobile Tycho; inoltre, come voi avete detto, possiamo davvero aiutarci l'un l'altro. E quale uomo non ha bisogno di un alleato in questi tempi burrascosi?» Tycho posò con estrema attenzione il bicchiere sul tavolo e si ripulì la bocca. Non era abituato all'araque: sentiva già che gli stava dando alla testa. Prendendo la brocca d'acqua, annacquò quello che ne era rimasto e svuotò il bicchiere. «Alleati, sì.» Guardò verso la porta, che era chiusa. Poi tornò a fissare il Signore di Forent seduto di fronte a lui. Nella sua mente si fece strada il pensiero, certamente dovuto all'alcool, che questo nobile dell'Est con il suo bel viso affilato somigliava un po' troppo al re del Nord per i suoi gusti, nonostante la differenza di età e di razza. Lo studiò per un istante, notando gli zigomi alti che mettevano in risalto gli occhi, il naso dritto e di considerevoli dimensioni, il mento con un leggero incavo al centro, che nell'uomo del Nord era nascosto da una barba scura tagliata corta, la mascella forte e i denti affilati... Una somiglianza sconcertante: ogni volta che pensava al barbaro che aveva portato via il suo amore un'ondata di odio gli invadeva il cuore. «Quindi voi appoggereste una guerra nel Nord, mio signore?» Rui sollevò un sopracciglio. Di solito non incoraggiava un approccio così diretto. Tuttavia quell'uomo veniva del profondo Sud del continente e si sapeva ben poco del suo passato: evidentemente aveva ancora molto da imparare sulla corte e i suoi intrighi. «Un conflitto porterebbe... determinati vantaggi» rispose soppesando le parole. «Ma la guerra è una questione estremamente dispendiosa, con tutte le navi da costruire e i mercenari da pagare, per non parlare poi del costo di armarci noi stessi contro il nemico e dei danni che ne avrebbe il commercio...» Tycho sorrise. Era un sorriso di grande appagamento e fiducia in se stesso. Guardò Rui con occhi penetranti e si chinò in avanti. «Ah» disse. «Non credo che il denaro sarebbe un problema.» «E cosa la signoria vostra riterrebbe un problema, allora?» «I cuori e le menti degli uomini. Ci vorrà una notevole forza di persuasione per convincere il Consiglio a intraprendere questa guerra: non tutti ne vedranno la necessità.»
Fu il turno di Rui Finco di sorridere. «Ah, sì» replicò. «I cuori degli uomini. E i loro lombi.» Il suo sorriso divenne spiacevolmente intimo. Rui si chinò sul tavolo e toccò il braccio del Signore di Cantara, che istintivamente si ritrasse. «Non allarmatevi, mio signore: non provo alcun desiderio per il mio stesso sesso. Una donna compiacente, o persino una riluttante... eh, mio signore? Non ho mai desiderato altro. Le donne sono un grande mistero, non credete, amico mio? Con o senza veli, noi siamo ignari della loro vera natura... ma come ci attraggono, con i loro impercettibili cenni e le loro mani perfette, le loro dolci voci e le loro labbra morbide, i loro profumi seducenti e la promessa di quella pelle calda sotto le vesti!» Tycho sembrò esterrefatto. «Perché vedete, mio signore di Cantara, io conosco i vostri pensieri, ho visto nel vostro cuore. Conosco il vostro vero desiderio e la vostra vera motivazione.» Rui si alzò, posò i palmi delle mani sul tavolino di fronte a sé e si chinò in avanti per mettere la bocca a un paio di centimetri dall'orecchio destro del nobile Issian. «La Rosa Eldi» sussurrò, e si raddrizzò. Tycho lo fissò con il volto privo di qualunque espressione: le violente emozioni che si agitavano in lui erano tradite solo dal colore terreo del viso su cui le vene risaltavano in maniera impressionante. Rui Finco tornò a sedersi sulla sua panca con la schiena appoggiata alla parete. Il suo sguardo si posò intenzionalmente sull'arazzo sopra la testa del Signore di Cantara, che ritraeva scene della Battaglia nella baia di Sestria, una campagna combattuta durante la Terza Guerra per salvare la costa settentrionale dell'Istria dagli invasori eyrani. Sopra la testa di Tycho antiche galee solcavano le acque azzurre del mare Istriano, le file serrate di remi delineate alla perfezione, le vele ammainate per un combattimento ravvicinato e per impedire che venissero danneggiate dalle frecce infuocate degli uomini del Nord. Come usare l'arma del nemico contro di lui, pensò Rui con un sorriso malvagio che non raggiunse i suoi occhi. All'insaputa degli Eyrani il comandante della flotta del Sud, suo nonno, Luis Finco, Signore di Forent, aveva armato le navi con grandi rostri di ferro montati sulla chiglia sotto la linea di galleggiamento e quindi praticamente invisibili. Aveva poi invitato la flotta del Nord a ingaggiare battaglia da distanza ravvicinata, al che, ordinando ai rematori di remare a tutta forza, gli Istriani avevano lanciato le loro navi contro quelle eyrane e le avevano affondate, con grandi spargimenti di sangue. Era stata una delle più famose vittorie dell'Istria: gli Eyrani sopravvissuti erano stati castrati e venduti come schiavi. Gli Istriani i cui nonni avevano combattuto nella Terza Guerra
ancora si vantavano della Battaglia della baia di Sestria: quella vittoria era la prova che le navi istriane non avevano nulla da invidiare a quelle del Nord. Ma Rui conosceva la verità: avevano vinto quello scontro solo grazie alla scaltrezza di suo nonno, e perché aveva avuto luogo in acque istriane, vicino a casa. Il Sud non era in grado di costruire il genere di navi in cui gli uomini del Nord eccellevano, navi che potevano affrontare le tempeste e i venti, navi che potevano solcare l'oceano come un grosso uccello solca il cielo, né aveva gli uomini in grado di governarle. Muovere guerra contro il Nord avrebbe avuto un senso solo assicurandosi i servigi di un altro costruttore di navi eyrano disposto a tradire il suo paese, e di un numero di mercenari sufficiente a condurre la flotta sin lassù. E se il Signore di Cantara, qualunque fossero le sue motivazioni, aveva il denaro necessario e la volontà di contribuire ad alimentare i venti di guerra, era la persona che lui stava cercando. Specialmente, pensò Rui, dal momento che Tycho sarebbe stato in debito con lui per aver tenuto per sé le proprie deduzioni... E quanto gli piaceva che gli altri gli dovessero dei favori! «Come l'avete scoperto?» sussurrò l'altro uomo. C'era disperazione nei suoi occhi, notò Rui con una certa soddisfazione. Nutrire per una puttana nomade un desiderio tale da spingersi a usare il nome della Dea e invocare una guerra santa solo per metterle le mani addosso non era certo il comportamento onorevole di un nobile istriano devoto e patriottico. Ciononostante Rui si chinò di nuovo in avanti e posò con comprensione una mano sul braccio del Signore di Cantara. «Ho gli occhi, mio signore. L'amore brucia potente dentro di voi, è evidente. E quale miglior motivo per un conflitto che salvare il sesso debole dai barbari in nome dell'amore?» Tycho sospirò. «È un sollievo per me poter parlare di questa faccenda» mormorò. «Non ho mai provato niente del genere per una donna. Io non credo...» Tacque per un istante, riflettendo. «Non credo che sia del tutto umana, la Rosa Eldi. Di certo è diversa da qualsiasi donna abbia mai visto, o speri di vedere ancora. Credo che sia in qualche modo in contatto con il divino, e perciò io devo averla, vedete. Devo salvare la sua anima.» Assurdo, pensò Rui. Quest'uomo è così ossessionato da quella creatura da metterla su un piedistallo, e trasforma una vile emozione in puro argento come farebbe un alchimista. «Di certo è una creatura straordinaria» disse invece ad alta voce. «E ditemi per favore, mio signore, cosa sperate di ottenere voi da una guerra contro gli Eyrani?» chiese Tycho con uno sguardo improvvisamen-
te penetrante. Ah, ora arriviamo al sodo. «Voglio la Via del Corvo» rispose Rui senza mezzi termini e guardò il nobile del Sud negli occhi. Era solo una parte della verità, ma vide nell'espressione calcolatrice sul viso del Signore di Cantara che era una spiegazione sufficiente. Tycho annuì lentamente. «La Via del Corvo» ripeté. «Il passaggio verso le antiche terre. Siete sicuro che esista?» «Gli uomini del Nord credono di sì, e questo mi basta. Sono già più di due anni che Ravn cerca di riunire una flotta per tentare di trovare quel passaggio: pensate a tutte quelle belle navi eyrane, pronte per essere catturate...» «Ma in una guerra quelle navi si muoverebbero contro di noi.» «Certamente, mio signore. Ma immaginate se dovessimo colpire Halbo prima che la guerra venisse formalmente dichiarata, invadere la capitale, rubare le loro navi... e la loro Rosa...» Tycho lo guardò con gli occhi stretti in due fessure. «Trovare gli uomini giusti per quel lavoro richiederà tempo, e denaro...» Rui si strinse nelle spalle. «Tutto sta nel pianificare la cosa alla perfezione. Ma con le mie strategie e il vostro argento...» Ecco: l'aveva detto. Guardò il Signore di Cantara riflettere sulla sua proposta e si chiese cosa avrebbe deciso. Avrebbe dovuto ucciderlo, ovviamente, se avesse preso la decisione sbagliata; c'erano moltissimi incidenti che potevano capitare a un ingenuo visitatore del Sud nella decadente città di Cera. Il silenzio che seguì fu lungo e imbarazzante. Rui cominciò a pensare al modo in cui sbarazzarsi dell'uomo nel modo migliore. Alla fine Tycho sorrise. «Il mio argento è a vostra disposizione, mio signore di Forent.» In principio Virelai si era chiesto se la voce fosse esistita solo nella sua immaginazione. Ultimamente era alquanto preoccupato per la sorte del Padrone, e di conseguenza per la propria, perciò per diverso tempo le parole 'si è risvegliato' gli avevano dato da pensare. Ma se era il mago a essersi svegliato, chi stava informando Virelai di quel fatto? Lui aveva lasciato il Padrone da solo a Santuario, non ne aveva alcun dubbio. E se Rahe era sveglio, Virelai era certo che il Padrone si sarebbe premurato di informarlo personalmente e in maniera molto poco gentile. A quel punto i suoi sospetti erano caduti sul gatto: chi sapeva infatti di cosa erano capaci le bestie magiche? Ma per quanto Virelai tentasse di persuaderla con lusinghe o con minacce, Bëte non gli offriva altro che uno
sguardo di disprezzo e un irritato scatto della coda. Da quando aveva sentito quella voce per la prima volta Virelai era diventato nervoso come un topo che sente il verso di un predatore: si svegliava nel cuore della notte al minimo suono, mentre di giorno trasaliva per qualsiasi strano rumore e stava sempre, sempre con l'orecchio teso ad aspettare il ritorno della voce. Poi una notte il suo nuovo padrone era venuto da lui in uno stato di tremenda agitazione, gli occhi che brillavano come se qualcuno gli avesse acceso un fuoco nella testa. Incapace di stare immobile anche solo per un istante, Tycho aveva camminato su e giù per la stanza, parlando a una tale velocità che Virelai era riuscito a malapena a capire una parola su tre, le mani che si aprivano e si chiudevano come bocche fameliche. Innervosita, Bëte si era nascosta sotto il letto, da dove aveva soffiato per tutto il tempo. Altro argento: sembrava quello il senso principale delle farneticazioni di Tycho. Gli serviva molto argento, e il più in fretta possibile. Non c'era un altro modo, aveva chiesto a Virelai, per produrne di più? Stava avendo problemi a reperire lo stagno e l'ottone necessari alla trasformazione; e inoltre di recente aveva comprato delle quantità talmente grandi di quei metalli che il loro prezzo era salito alle stelle. Ben presto il processo di trasformazione non avrebbe dato alcun profitto, considerato il tempo e gli sforzi necessari a rivendere le merci acquistate con l'argento fasullo. Non poteva operare la sua magia sui mattoni magari... o addirittura sul pane? Virelai aveva tentato di spiegargli ancora una volta, con estrema pazienza, la differenza tra la magia necessaria per modificare l'aspetto di materiali simili tra loro, come i metalli, e quella necessaria a cambiare la natura intrinseca delle cose, ma Tycho l'aveva del tutto ignorato, e aveva continuato tutto infervorato a sproloquiare di navi, battaglie e di un Sentiero dei Corvi o qualcosa del genere. Per diverse volte nella sua filippica Virelai aveva sentito il nome della Rosa Eldi, e poi, con un certo astio, quello di Ravn Asharson, re dell'Eyra: quel barbaro, quella canaglia, quel pirata. Quindi il Signore di Cantara aveva dato una pacca sulle spalle al suo mago e se n'era andato in tutta fretta come era arrivato, lasciando Virelai a riflettere perplesso sulle istruzioni che gli aveva impartito. E così il giovane mago aveva raddoppiato i suoi sforzi, finché Cera non era rimasta a corto di lingotti di stagno. A quel punto avevano dovuto pagare un fabbro del luogo perché concedesse loro l'uso della sua fucina, e Virelai aveva dovuto lavorare anche di notte, per creare da solo il materiale grezzo: aveva fuso i piatti di peltro e le tazze di stagno, gli ornamenti d'ot-
tone e i candelabri che gli schiavi di Tycho erano andati a comprare o rubare nei mercati della città. E per tutto il tempo Virelai aveva tenuto la gatta al suo fianco, legata con quel ridicolo guinzaglio rosso e con la museruola per impedirle di miagolare incessantemente, per attingere alla sua forza e alla sua magia. Sarebbe arrivato il momento della resa dei conti tra lui e l'animale, Virelai ne era certo; perché gli occhi del gatto che riflettevano il fuoco della fucina lo fissavano continuamente con un odio mortale. Infine una sera il Signore di Cantara mandò uno schiavo alla fucina per invitare Virelai nelle stanze del padrone: «Per bere qualcosa,» disse il ragazzo «solo per bere qualcosa.» Virelai lo fissò sbalordito. «Cosa sta succedendo ora?» chiese. La lega di metallo stava bollendo nel suo enorme calderone, gli stampi erano lì pronti in attesa e lui era ancora una volta indietro con il programma. «Vuole che torni al castello per bere qualcosa?» Il ragazzino, Felo, pensò Virelai, anche se lui e Tarn erano così simili che era difficile per lui dire quale dei due fosse, annuì ripetutamente e lo prese per mano. «Subito, subito, o mi picchierà. E ha detto 'porta il gatto'.» Come se avesse capito, Bëte si strofinò intorno alle gambe del bambino finché il piccolo non rise e la prese in braccio. Virelai guardò lo spettacolo con gli occhi stretti. Se tentassi di farlo io mi riempirebbe di graffi, pensò con amarezza, ben consapevole di avere profonde cicatrici su tutte le mani e le braccia a dimostrarlo. Le stanze del Signore di Cantara erano situate al piano inferiore rispetto alla minuscola stanza di Virelai, e gli erano state affittate dal Duca a un prezzo non certo modico. L'alloggio di Virelai era semplice e disadorno, arredato solo con un letto di pietra ricavato nella parete con sopra un giaciglio di paglia e una misera e puzzolente coperta di lana (disagi che Virelai accettava di buon grado, perché gli ricordavano la sua stanza a Santuario). Le stanze di Tycho Issian invece testimoniavano l'amore del suo padrone per la vita comoda. I pavimenti erano coperti di tappeti circesiani tessuti con antichi simboli mistici che si diceva portassero ricchezza a coloro che vi camminavano sopra, la mobilia era stata tutta realizzata dai migliori artigiani delle Foreste Blu, e statue della Dea adornavano ogni nicchia e ogni recesso. Quella sera l'aria era impregnata di incenso di cartamo: il nobile probabilmente si era dedicato alla preghiera. Ma Tycho non sembrava una persona la cui anima fosse stata placata da una lunga meditazione; al contrario, appariva estremamente agitato, il volto arrossato e il respiro che puzzava di araque puro.
Virelai si guardò intorno. Sulla panca fuori dalla stanza del nobile c'era un mantello che non aveva mai visto, e sotto una striscia di una sostanza scura e vischiosa. Virelai si accigliò, perplesso. Era raro che il padrone bevesse i vini rossi della regione: li considerava dannosi per la salute, dal momento che riscaldavano il sangue e annebbiavano la mente. Felo lasciò andare il gatto, che corse immediatamente verso la macchia e la annusò con grande interesse. Un attimo dopo da dietro la porta arrivò un suono soffocato e quando Virelai fissò perplesso il suo padrone, vide con allarme che i suoi occhi erano spalancati e vitrei. «Dannazione, pensavo fosse morto!» Con due grandi passi Tycho raggiunse la porta della sua stanza e la aprì di scatto. Sul pavimento all'interno giaceva una forma scura, che gemeva e stringeva qualcosa stranamente somigliante al coltello ornamentale del Signore di Cantara, quello con la lama curva e seghettata che usava per tagliare il suo pompelmo mattutino. Virelai la fissò sbigottito. La forma si rivelò un uomo grasso con i capelli scuri che si stavano ingrigendo, il viso agonizzante rivolto verso il pavimento, il corpo raggomitolato intorno alla ferita come quello di una vespa morente. «Mio signore...» mormorò Virelai, e al suono della sua voce l'uomo si voltò. Virelai lo fissò: aveva già visto quell'uomo... Era Gesto Ardum, il mercante al quale il nobile aveva pagato un'enorme fortuna illusoria in cambio di una partita di gioielli e pietre preziose, poi rivenduta o data via per guadagnarsi i favori dei nobili del Consiglio. Tycho strinse la spalla del suo mago con la mano tremante per la rabbia. «È venuto qui per lamentarsi» sibilò con furia. «Sembra che l'argento che gli abbiamo dato non fosse così puro come appariva.» Ah, pensò Virelai con il cuore in gola. Mi chiedevo appunto quanto sarebbe durata l'illusione. Era passato poco più di un mese da quando avevano fatto affari con quel mercante. «Devi sbarazzarti di lui! Non posso permettermi che lo trovino qui: rovinerebbe la mia reputazione. Uccidilo e trasformalo in qualcosa... qualcosa di piccolo, qualcosa che tu e Felo potrete portare fuori di qui e di cui potrete sbarazzarvi senza attirare l'attenzione.» Virelai lo fissò inorridito. «Non posso farlo!» Fece un passo indietro, ma il Signore di Cantara lo seguì. «Devi farlo!» «Non posso uccidere, mio signore. Vi prego... c'è una maledizione su di me...»
«Un anatema? E a me cosa importa?» «Se ucciderò qualcuno, morirò anch'io e voi rimarrete senza mago...» A quelle parole Tycho si bloccò. Poi, col viso contorto per la rabbia, si girò verso il mercante, e mettendo il piede sull'enorme pancia dell'uomo, tirò fuori il suo coltello. L'uomo si contorse e gridò. Un getto di sangue fuoriuscì dalla ferita, seguito da un altro quando Tycho seppellì il coltello nella grassa gola di Gesto Ardum. I movimenti e i gemiti cessarono all'istante e un pesante silenzio discese sulle stanze. Tycho Issian si voltò verso il suo mago. Il suo viso era una maschera di sangue. Anche il coltello era insanguinato, e così le sue mani. Virelai aveva visto demoni nei libri del Padrone che sembravano più umani. La testa gli cominciò a ronzare, mentre le sue stesse parole continuavano a girargli e rigirargli nella mente finché non dovette aprire la bocca e lasciarle uscire: «Ogni creatura ha diritto a vivere» disse ad alta voce. «Indipendentemente da come è venuta al mondo...» «Ho appena salvato la tua vita con questo gesto» disse ingiustamente il nobile «e ci vorranno anni prima che tu riesca a ripagarmi per quanto ho fatto. Puoi cominciare liberandomi di questa cosa.» E così Virelai si era messo al lavoro sul cadavere di Gesto Ardum; ma la carne non si trasformava altro che in carne, e per quanto tentasse, tutto ciò che riusciva a fare era cambiare l'aspetto del mercante. Alla fine riuscì a trasformarlo in una vecchia così decrepita che Tycho gridò: «Basta! Così almeno nessuno potrà portarmela dinanzi e dire che tra lei e me c'è qualche collegamento!» Poi costrinse il mago a fare a pezzi i ricchi abiti di Ardum e ordinò a lui e Felo di sollevare il corpo oltre il davanzale e buttarlo giù in strada. Virelai lo guardò rotolare via, un'informe massa rigida che scomparve nel boschetto di alberi sottostante. Diversi piccioni si sollevarono dai rami, bruscamente svegliati dal loro sonno, ma oltre questo non ci fu alcun segno che qualcuno avesse scoperto il corpo. Due ore più tardi, dopo aver strofinato e pulito con accanimento, Virelai giaceva nel suo letto, rigido come un cadavere, e fissava il soffitto illuminato dalla luce argentea della luna. Era un colore che aveva cominciato a odiare. Non riusciva a dormire. Non osava dormire; ogni volta che chiudeva gli occhi non vedeva altro che il sangue sul volto di Tycho e la furia omicida nei suoi occhi. Alla fine scese dal letto e andò alla finestra. Con le mani appoggiate al davanzale, fissò fuori nell'oscurità, la testa vuota come un
tamburo. Un istante dopo la torre vibrò, una tremenda pulsazione che cominciò sotto le sue dita e poi risalì lungo le braccia e le spalle fino a raggiungere le ossa del cranio. Attraverso la vibrazione Virelai percepì le pietre della torre incontrare le vene rocciose della terra all'altezza delle fondamenta, e poi sentì quelle vene viaggiare attraverso Elda, lontano, sempre più lontano... Vieni da me! gridò una voce, e Virelai seppe che era quella voce, quella che aveva aspettato con ansia di udire di nuovo. Vieni a Sud, nel profondo Sud, alle montagne! Pur nella sua disperazione, la voce assunse un tono più scaltro. Vieni al Sud e liberami, e io ti ricompenserò. Come mi ricompenserai? chiese Virelai nella sua testa. Io so chi sei. Siete voi, Padrone? È Rane che parla? Solo il Padrone conosceva la sua storia. Virelai ora aveva paura. Ci fu un silenzio, poi il mondo tremò di nuovo. Io sono Sirio, rimbombò la voce. Vieni a Sud alle grandi caverne oltre la Spina Dorsale del Drago. E porta mia sorella, e il gatto... Un grande calore invase la stanza e la vibrazione aumentò di intensità, emettendo anche un rumore basso, simile a un ronzio. Preso dal panico Virelai staccò le mani dal davanzale e interruppe lo strano contatto. Ma il rumore era ancora molto forte e qualcosa stava respirando nella stanza dietro di lui. Trepidante, Virelai si voltò e scoprì che Bëte non c'era più. Al suo posto c'era una mostruosa creatura: un'enorme pantera nera, gli occhi che brillavano come carboni ardenti, che emetteva un forte suono dalla gola. La pantera aprì la sua enorme bocca per offrire a Virelai lo spiacevole spettacolo dei suoi denti affilati come coltelli e della grande lingua rossa. L'Uomo, la Donna e la Bestia, disse una voce nella sua testa. Saremo riuniti. Nel frattempo... Le ali della notte si dischiudono per abbracciare le isole dell'oceano del Nord. Hanno già gettato la loro ombra sulla brughiera di Acquanera e su Capo del Cavallino, sul lago di Isolalunga e sul Vecchio di Capoccidente; su Halbo e su Isolaustrale e su Rocciacaduta nelle Isole Occidentali. Nella baia di Promontorio Grande le barche da pesca beccheggiano prese da un improvviso vortice di corrente, le onde sbattono contro i robusti scafi di
legno prima di infrangersi con un fragore di schiuma bianca sul frangiflutti. Sulle scogliere di roccia basaltica che costeggiano le gelide acque dello stretto degli Squali, gli ultimi uccelli marini si sono appollaiati, nascondendo la testa sotto le ali. Le loro grida sono cessate, ma essi non dormono: sbucato dal nulla, un vento freddo ha appena spazzato le ripidi pareti a picco sull'abisso, arruffando le loro penne e svegliando i loro piccoli. Presso l'Insenatura del Lupo a Isola Bella, la più settentrionale e più brulla delle isole (mai nome fu più sbagliato), l'unico movimento che può attirare l'attenzione di un osservatore è quello di due gatti a caccia di una preda e di un po' di divertimento, che attraversano lo spazio illuminato dalla luna tra le reti da pesca e le nasse per i granchi. Mentre una nuvola nasconde per qualche istante l'argenteo occhio della luna, uno dei gatti sobbalza, drizzando il pelo sulla schiena e contraendo i muscoli delle zampe. L'altro si accascia improvvisamente a terra, le orecchie basse. In lontananza un bambino piange, il suo sonno disturbato da un incubo. A Capotempesta tutti i cani cominciano a ululare all'unisono e nei pascoli sulle colline, dove le pecore hanno trascorso la giornata a ruminare la dolce erba estiva, il gregge bela ansioso. Qualcosa di selvaggio si è svegliato, qualcosa di antico e primordiale. Gli animali lo sentono, anche se non sanno cos'è; gli uccelli lo percepiscono, anche se non sanno da dove venga. A duemila miglia di distanza sulla pianura Tilsen, branchi di cavalli selvaggi sentono il terreno muoversi sotto i loro piedi e fuggono terrorizzati. I cigni sul lago Jetra, disturbati nel loro rifugio tra le canne, si gettano in acqua, starnazzando agitati. A Cantara le donne nella cucina della fortezza raddrizzano le pentole e le bottiglie che ondeggiano pericolosamente sugli scaffali. Sulle montagne d'Oro, a cinque giorni di cavallo verso Sud, si ode improvviso un rombo come di tuono, e una lastra di granito lunga quanto una spiaggia e alta quanto una quercia si stacca da un picco innevato e rovina fragorosamente tra i burroni. Un'enorme aquila bianca, il cui nido è appena crollato, rotea infuriata tra i picchi, gridando la sua protesta. In basso una capra di montagna, con le corna elegantemente arrotolate alle estremità del piccolo cranio, è meno fortunata. Piccoli tremori non sono insoliti qui nel continente meridionale. I suoi più antichi abitanti, i nomadi e gli striminziti pini che bordeggiano l'arido deserto, ricordano un tempo in cui tali movimenti della terra avvenivano ogni giorno, segno dell'incessante passaggio di fiumi di lava che inghiottivano tutto quanto sul loro cammino. Ma non c'è più stato un vero terremo-
to né una grande eruzione vulcanica da più di duecento anni... non da quando l'antico fu deposto sotto la terra. Alle montagne d'Oro una carovana di nomadi interrompe bruscamente il proprio cammino: una vecchia, Fezack Cantastelle, che stava scrutando nel grande cristallo dentro il suo carrozzone, ha appena emesso un grido assordante e si è gettata dai gradini, finendo sotto gli zoccoli dello spaventato yeka che spingeva il carro successivo. Sua figlia Alisha corre subito da lei; ma non c'è niente da fare, perché Fezack sta morendo. I suoi occhi sono ormai vitrei e un rivolo di sangue le esce dalla bocca, insieme a delle parole che Alisha coglie a fatica nella confusione che regna intorno a lei. «Salvateci! Il Mostro si sveglia!» E poi la vecchia muore, passando irrevocabilmente nell'oscuro Aldilà. Il cristallo giace ancora sui sassi dove è caduto, miracolosamente intatto e assolutamente imperscrutabile. Tra i ghiacci e le banchise al culmine del mondo, un vecchio si passa una mano fredda e tremante sulla faccia. Emergendo dal più lungo sogno del mondo, apre gli occhi. Senza la magia, la fortezza è una gelida distesa desolata; i candelieri sono vuoti, il fuoco si è spento, intorno alla cornice della porta si sono formati spuntoni di ghiaccio. È possibile che questo vecchio sia il mostro di cui la nomade parlava? No di certo: è debole come un topolino dopo un lungo letargo, i suoi muscoli si sono asciugati su un corpo già scheletrico, la sua pelle è gialla e tesa come una vecchia pergamena. Il Padrone si mette a sedere a fatica. Quanto tempo ha dormito? Gli sembra un'eternità. Le sue giunture scricchiolano e la bocca è arida come un deserto, lo stomaco vuoto pulsa di un dolore sordo. Il Padrone si acciglia, ricordando il suo sogno. In esso una creatura che lui aveva creato con la polvere e lo sputo, che aveva amato e curato per lungo tempo, più di quanto essa stessa potesse sospettare, gli si era rivoltata contro e l'aveva aggredito, privandolo dei suoi poteri, della sua mente e delle cose più care che aveva. «Rosa» chiama il mago con voce querula. «Rosa, mia cara, perché hai lasciato che dormissi così a lungo?» Si volta per cercare il grande baule di legno intagliato nel quale il suo amore è solita dormire... ma è sparito: c'è solo un leggero strato di polvere appena caduta. «Virelai?» tenta di gridare nell'aria gelida. «Bëte...» Ma se ne sono andati tutti, via, nel mondo... il mago lo sa, non attende
che il silenzio gli risponda. La magia è sfuggita alla sua presa, e ora percepisce il gelo, non per il ghiaccio che lo circonda, ma dentro di sé. Il Fato ha appena stretto la sua gelida mano intorno a quell'antico organo che una volta chiamava cuore, e l'ha chiusa con delicatezza: un modo gentile per ricordargli che l'ordine naturale, o innaturale, di Elda si sta ristabilendo. Mentre lui dormiva il mondo è cambiato. Il caos lo attende, caos e morte, e non solo per se stesso. Ci vorrà un miracolo per porre rimedio alla situazione; perché là fuori, oltre la sua volontà, al di fuori del suo controllo, la magia si sta risvegliando... FINE