FRANK SCHÄTZING IL QUINTO GIORNO (Der Schwarm, 2004) Per Sabina, un amore più profondo dell'oceano Hishuk ish ts'awalk Tribù dei nuu-chah-nulth, Vancouver Island PROLOGO 14 gennaio Huanchaco, costa del Perú Senza che il mondo ne sapesse nulla, quel mercoledì si compì il destino di Juan Narciso Ucañan. Solo alcune settimane dopo, il suo caso s'inserì in un contesto più ampio, anche se il suo nome non venne mai evocato. Era semplicemente uno dei tanti. Se fosse stato possibile chiedergli cos'era successo quel mattino, sarebbero emerse le analogie con vicende simili, avvenute contemporaneamente in tutto il globo. E forse l'esperienza del pescatore, proprio perché derivava da un'ingenua visione del mondo, avrebbe rivelato una serie di complesse corrispondenze, destinate a diventare palesi soltanto in seguito. Ma Juan Narciso Ucañan non poteva dire più nulla e lo stesso valeva per l'oceano davanti alla costa di Huanchaco, nel nord del Perú. Ucañan rimase muto come i pesci che si erano presi la sua vita. Quando infine la sua vicenda fu inserita in una statistica, gli avvenimenti erano già arrivati a un diverso grado di sviluppo ed eventuali informazioni sulla fine di Ucañan erano ormai d'interesse secondario. Del resto, anche prima del 14 gennaio, nessuno s'interessava particolarmente a lui o alla sua esistenza. Così almeno la vedeva Ucañan. Non gli piaceva che, nel corso degli anni, Huanchaco fosse diventata un paradiso balneare. Gli stranieri restavano sbalorditi di fronte a un mondo che sembrava perfetto, con gli indigeni che uscivano in mare su barche di giunchi apparentemente fuori dal tempo. La maggior parte dei suoi compaesani lavorava sui pescherecci a strascico,
nelle fabbriche di farina e olio di pesce che, nonostante la diminuzione del pescato, consentivano al Perú di restare tra i primi Paesi nella produzione ittica insieme col Cile, con la Russia, con gli Stati Uniti e con le principali nazioni asiatiche. A dispetto del Niño, Huanchaco si sviluppava in ogni direzione, hotel si affiancavano a hotel e le ultime riserve naturali venivano sacrificate senza scrupoli. Tutti, in un modo o nell'altro, riuscivano a combinare affari. Tutti tranne Ucañan, cui non era rimasto altro che la sua pittoresca barchetta, un caballito. Erano stati i conquistadores a chiamarla così, sbalorditi alla vista di quelle bizzarre imbarcazioni. Ma era solo questione di tempo: anche i caballitos sarebbero spariti. Tutto lasciava pensare che il millennio appena cominciato avesse deciso di eliminare Ucañan. Ormai gli sembrava di non essere più padrone delle proprie sensazioni. Da una parte si sentiva punito. Dal Niño, che, a memoria d'uomo, aveva sempre colpito il Perú e contro cui non poteva fare nulla. Dagli ambientalisti, che nei loro congressi parlavano di overfishing e di diboscamento; in quelle occasioni, le teste dei politici si giravano lentamente a guardare gli armatori dei pescherecci, e allora si capiva che avevano gli stessi interessi. Poi guardavano Ucañan, che comunque non era responsabile del disastro ecologico. Non era stato lui a volere le fabbriche galleggianti e neppure i trawler giapponesi e coreani che, a duecento miglia marine dalla costa, attendevano solo di fare incetta di pesci. Ucahan non aveva colpa di nulla, ma stentava a crederci. Quella era l'altra sensazione che lo faceva sentire un miserabile. Come se fosse lui a strappare al mare tonnellate di tonni e di sgombri. Aveva ventotto anni ed era uno degli ultimi del suo popolo. I suoi cinque fratelli maggiori lavoravano a Lima. Lo consideravano uno sciocco perché si ostinava a uscire in mare con una barca più piccola di una tavola da surf, aspettando nelle acque costiere ormai spopolate bonitos e sgombri che non arrivavano mai. Cercavano di spiegargli che non si poteva restituire la vita ai morti. Ma quella che Ucañan voleva salvare era la vita di suo padre, che, nonostante i suoi settant'anni, era uscito a pesca ogni giorno. Almeno fino a qualche settimana prima. Ormai il vecchio Ucañan non ci andava più: restava sdraiato in casa, afflitto da una tosse strana e col viso coperto di macchie; perdeva progressivamente lucidità, però Juan Narciso si era convinto che, se avesse tenuto in vita le antiche tradizioni, pure il vecchio sarebbe rimasto vivo. Più di mille anni fa, ancor prima dell'arrivo degli spagnoli, gli antenati di
Ucañan, gli yunga e i moche, usavano barche di giunchi. Avevano popolato la regione costiera dall'estremo nord fino alla zona dell'odierna città di Pisco, e rifornivano di pesce la grande capitale Chan Chan. Allora, il territorio era ricco di wachaques, acquitrini prossimi alla costa, alimentati da fonti sotterranee di acqua dolce. Lì un tempo cresceva lussureggiante la canna di palude, con cui Ucañan e quelli che erano rimasti nelle sue stesse condizioni legavano ancora i loro caballitos, non diversamente da come avevano fatto i vecchi. Costruire un caballito richiedeva abilità e calma interiore. Erano imbarcazioni singolari. Lunghe dai tre ai quattro metri, con la prua a punta, ricurva verso l'alto, quei fasci di giunchi erano leggeri come piume e praticamente inaffondabili. Una volta ce n'erano a migliaia a solcare le onde della zona costiera: era il tempo della «pesca d'oro», perché anche nelle giornate peggiori i pescatori tornavano a casa con un bottino molto più ricco di quello che gli uomini come Ucañan neppure osavano sognare. Ma gli acquitrini erano spariti e, con loro, anche i giunchi. Il Niño almeno era prevedibile. Ogni due anni, nel periodo di Natale, la corrente di Humboldt, di solito fredda, si riscaldava a causa dell'assenza degli alisei e il mare s'impoveriva di sostanze nutritive, quindi sgombri, bonitos e acciughe non arrivavano. Visto il periodo in cui si manifestava, gli antenati di Ucañan avevano chiamato quel fenomeno El Niño, «Gesù Bambino». A volte, Gesù Bambino si limitava a portare un po' di confusione nella natura senza gravi conseguenze, ma ogni quattro o cinque anni scatenava una punizione divina sugli uomini, come se volesse eliminarli dalla faccia della Terra: uragani, temporali trenta volte più violenti del solito e valanghe di fango costavano la vita a centinaia di persone. Il Niño andava e veniva, era sempre stato così. Non ci si poteva fidare di lui, ma in qualche modo ci si poteva arrangiare. Tuttavia, da quando la ricchezza del Pacifico era stata depredata dalle reti a strascico, la cui dimensione era tale da poter contenere dodici jumbo jet uno di fianco all'altro, le preghiere non servivano più a niente. Forse, mentre i flutti facevano ondeggiare il suo caballito, Ucañan pensava: Sono davvero stupido. Stupido e colpevole. E forse sono colpevoli anche le associazioni dei pescatori e quelli che hanno firmato gli accordi internazionali. Tutti noi ci siamo affidati alla protezione di un santo cristiano che non può nulla contro El Niño. Un tempo in Perú c'erano gli sciamani, rifletté. Ucañan aveva sentito raccontare di ciò che gli archeologi avevano trovato nel tempio precolom-
biano nei pressi della città di Trujillo, immediatamente alle spalle della Piramide della Luna: novanta scheletri, uomini, donne e bambini, uccisi a pugnalate. In un tentativo disperato di fermare la devastante marea del 560, il sommo sacerdote aveva sacrificato la vita di novanta persone, e il Niño se n'era andato. Chi bisognava sacrificare per fermare l'overfishing? Ucañan rabbrividì a quel pensiero. Era un buon cristiano, amava Gesù Cristo e san Pedro, il protettore dei pescatori. Aveva sempre partecipato con devozione ai festeggiamenti per il giorno di san Pedro, in cui la statua di legno del santo veniva portata in barca di villaggio in villaggio. Al mattino erano tutti in chiesa, ma di notte bruciavano i sacri fuochi. Lo sciamanesimo era in piena fioritura. Ma quale dio poteva venire in soccorso, visto che lo stesso «Gesù Bambino» non era responsabile della miseria dei pescatori, sopraffatto com'era dalla confusione delle forze della natura e dagli interventi di politici e lobbysti? Ucañan guardò il cielo e socchiuse le palpebre. Prometteva di essere una bella giornata. Il nord-ovest del Perú aveva un aspetto idilliaco. Da giorni non si vedeva una nuvola in cielo. A quell'ora i surfisti erano ancora a letto. Prima che il sole facesse capolino, Ucañan aveva portato in mare il suo caballito a colpi di pagaia, solcando le dolci onde in compagnia di una dozzina di pescatori. Adesso il sole iniziava lentamente a spuntare dietro le montagne scure e il mare aveva una luce pastello. L'infinita distesa, poco prima argentea, aveva assunto una delicata tonalità di blu. All'orizzonte s'intravedevano le sagome di gigantesche navi da carico che si dirigevano verso Lima. Indifferente alla bellezza del giorno che stava sorgendo, Ucañan tirò fuori il calcal, la tradizionale rete rossa dei caballitos, lunga alcuni metri e munita di ami di varie dimensioni. Osservò con occhio esperto le maglie finemente annodate. Se ne stava in piedi sulla barchetta di giunchi; nei caballitos non c'era spazio a sufficienza per sedersi, ma a poppa c'era un'ampia stiva per l'attrezzatura e le reti. Ucañan aveva appoggiato la pagaia di traverso davanti a sé, una caña guayaquil tagliata a metà che in Perú non usava più nessuno. Apparteneva a suo padre. La portava con sé in modo che il vecchio potesse sentire la forza con cui Juan Narciso la spingeva nell'acqua. Ogni sera, da quando il padre si era ammalato, Juan gli metteva accanto la pagaia, facendogli posare sopra la mano destra, così poteva sentire il perpetuarsi della tradizione, l'unica cosa che dava senso alla sua esistenza.
Sperava che il padre capisse che cosa stava toccando. Ormai non riconosceva più neppure il figlio. Ucañan finì d'ispezionare il calcal. L'aveva già controllato a terra, ma le reti erano costose e meritavano la massima attenzione. Perdere una rete significava la fine. Nella fatale partita a poker, in cui si giocavano le risorse residue del Pacifico, Ucañan era un perdente, ma non per questo poteva permettersi di essere negligente o, ancora peggio, di attaccarsi alla bottiglia. Non sopportava gli occhi di quei disperati che lasciavano marcire le loro barche e le reti. Sarebbe morto se un giorno, guardandosi allo specchio, avesse visto quegli occhi. Intorno si estendeva la zona di pesca della piccola flotta di caballitos che quel mattino era uscita con lui. Le barche erano molto distanziate, a mezzo miglio dalla spiaggia, ma i «cavallini» non saltavano su e giù come al solito. Il moto ondoso era appena percettibile. Nelle ore successive, i pescatori sarebbero rimasti fermi in quel punto, armati di pazienza e fatalismo. Comparvero grandi barche, alcune di legno, e un trawler, che passò vicino a loro e si diresse verso il mare aperto. Ucañan osservava indeciso gli uomini e le donne che lasciavano scivolare in acqua i loro calcal, assicurandosi di tenerli legati alla barca con una cima. Boe rosse e rotonde splendevano sulla superficie del mare. Sapeva che anche lui avrebbe dovuto calare le reti, ma ripensò ai giorni precedenti e non fece nulla, se non continuare a guardare. Qualche acciuga. Tutto lì. Seguì con lo sguardo il trawler che diventava sempre più piccolo. Anche quell'anno c'era il Niño, ma tutto sommato era innocuo. Finché si manteneva entro certi limiti, mostrava un'altra faccia, sorridente e benevola. Attirati dalla temperatura più elevata rispetto a quella della corrente di Humboldt, normalmente per loro troppo fredda, arrivavano tonni pinna gialla e pesci martello. Così, a Natale, sulle tavole erano assicurate porzioni abbondanti. Certo, i pochi pesci piccoli, prima che nelle reti dei pescatori, arrivavano nello stomaco dei pesci grandi, ma non si poteva avere tutto. In quelle giornate, chi usciva in mare aveva almeno la possibilità di portare a casa un bel boccone. Pensieri oziosi. I caballitos non si spingevano così al largo. Con la protezione del gruppo, si arrischiavano ad allontanarsi di una decina di chilometri dalla terraferma. I «cavallini» sopportavano anche il mare grosso, perché cavalcavano la cresta dell'onda. Al largo il problema diventava la corrente. Se era violenta e se il vento soffiava da terra, per riportare a riva
il caballito si poteva contare solo sulla forza dei propri muscoli. E alcuni pescatori non erano più tornati. Ucañan se ne stava accucciato sui giunchi intrecciati. L'attesa del banco di pesci, che anche quel giorno non sarebbe arrivato, era iniziata alle prime luci dell'alba. Fece scorrere lo sguardo sulla vastità del Pacifico alla ricerca del trawler. C'era stato un periodo in cui avrebbe potuto trovare facilmente lavoro su una grande nave o in una fabbrica di farina di pesce, ma quei tempi erano passati. Alla fine degli anni '90, a causa delle devastazioni del Niño, molti operai avevano perso il lavoro. I grandi banchi di acciughe erano spariti. Che cosa doveva fare? Non poteva permettersi un altro giorno senza pescare niente. Potresti insegnare il surf a qualche señorita. L'alternativa era quella. Un lavoro in uno degli innumerevoli hotel che con la loro prepotenza avevano distrutto la vecchia Huanchaco. Pescare turisti. Indossare una giacchetta ridicola. Preparare cocktail. Oppure far emettere gridolini di piacere ad americane viziate. Prima col surf e con lo sci d'acqua; poi, di notte, in camera. Ma Juan sapeva che il padre sarebbe morto il giorno in cui lui avesse reciso il legame col passato. Anche se il vecchio non era più in sé, avrebbe comunque percepito che suo figlio minore era venuto meno ai suoi princìpi. Strinse i pugni finché le nocche non gli diventarono bianche. Poi afferrò la pagaia e si mise a remare con tutte le forze per seguire il trawler ormai scomparso. I suoi movimenti erano nervosi, bruschi per la rabbia. Ogni volta che immergeva la pagaia, la distanza dagli altri aumentava. Avanzava velocemente. Quel giorno, lo sapeva, non ci sarebbero stati frangenti alti e improvvisi e neppure correnti insidiose o violenti venti da nord-ovest che gli avrebbero impedito il ritorno. Se non rischiava subito, non l'avrebbe fatto mai più. Nelle acque profonde c'erano sempre tonni, bonitos e sgombri. E non erano lì solo per i trawler. Appartenevano anche a lui. Dopo parecchio tempo si fermò e si voltò indietro. Huanchaco, con le sue casette addossate l'urta all'altra, era diventata molto piccola. Intorno si vedeva solo acqua. Nessun caballito aveva seguito il suo esempio. La piccola flotta era rimasta molto indietro. Una volta, il padre gli aveva detto: «Un tempo in Perú avevamo solo un deserto, quello nell'interno. Ormai i deserti sono diventati due e il secondo è il mare, proprio davanti alla porta di casa. Siamo diventati abitanti del
deserto che temono la pioggia». Era ancora troppo vicino. Mentre Ucañan remava con pagaiate vigorose, sentì ritornare la sicurezza di un tempo. Era elettrizzato e immaginava di cavalcare all'infinito sull'acqua col suo «cavallino», fino ad arrivare là dove, sotto la superficie, sfrecciavano i banchi di pesci splendenti come l'argento, scintillanti cascate nella luce del sole, e fin dove i grigi dorsi delle balene si levavano sopra i flutti e i pesci spada saltavano. Spinse con la pagaia, come per allontanarsi dalla puzza del tradimento. Sembrava quasi che le sua braccia si muovessero da sole. Quando finalmente lasciò la pagaia e si voltò indietro; il villaggio dei pescatori era diventato una minuscola sagoma squadrata circondata da puntini bianchi, la muffa della nuova epoca in espansione che brillava nel sole: gli hotel. Sentì crescere il timore: non si era mai avventurato così al largo. Non col caballito. Sapeva bene che era completamente diverso avere sotto i piedi delle assi anziché un fascio di giunchi sottile e appuntito come un becco. Anche se la nebbiolina in lontananza poteva ingannarlo, tra lui e Huanchaco dovevano esserci almeno sei miglia. Era solo. Ucañan si fermò un istante e recitò una breve preghiera perché san Pedro lo riportasse a casa sano e salvo con la barca piena di pesci. Poi inspirò profondamente l'aria salmastra del mattino, prese il calcal e lo fece scivolare lentamente in acqua. Le maglie con gli ami scomparvero nell'abisso trasparente, finché non rimase solo la boa rossa vicina al caballito. Che cosa poteva succedere? Il tempo era bello e lui sapeva perfettamente dove si trovava. Dal fondale si ergeva un massiccio di lava solidificata, una catena montuosa frastagliata in miniatura. Le sue cime arrivavano appena sotto la superficie dell'acqua ed erano rivestite da anemoni di mare, conchiglie e gamberi. Un gran numero di piccoli pesci abitava nelle sue crepe e nei suoi anfratti. Ma si potevano prendere anche pesci di grandi dimensioni come tonni, bonitos e pesci spada. Per i trawler era troppo pericoloso pescare in quella zona: correvano il rischio di finire sugli affilati speroni di roccia; inoltre non c'erano pesci a sufficienza per i loro standard. Ma per il coraggioso cavaliere di un caballito sarebbe stata più che sufficiente. Per la prima volta in quel giorno, Ucañan sorrise. La barca beccheggiava. Rispetto alle immediate vicinanze della costa, le onde erano un po' più
alte, ma la sua barca di giunchi reggeva bene. Si stiracchiò e guardò il sole, di un giallo pallido, che si era levato sulle montagne. Poi riprese la pagaia e, con pochi colpi, guidò il caballito nella corrente. Passò l'ora successiva a piegarsi sulle ginocchia e a rialzarsi, osservando la boa che danzava sull'acqua. In meno di un'ora aveva già preso tre bonitos. Erano nella stiva aperta del caballito, grassi e splendenti. Ucañan era elettrizzato. Era più di quanto avesse pescato nelle ultime quattro settimane... In effetti poteva tornare indietro, ma, visto che era lì, tanto valeva aspettare ancora. Il giorno era iniziato benissimo. Era probabile che finisse ancora meglio. Inoltre aveva tutto il tempo che voleva. Mentre il caballito procedeva lungo gli scogli, Ucañan lasciò più corda al calcal e osservò la boa che si allontanava, ballonzolando. Teneva sempre d'occhio la superficie dell'acqua, per scorgere le zone in cui si faceva più chiara: erano i punti in cui le rocce diventavano più alte. Doveva tenersi a una distanza sufficiente per non danneggiare la rete. Sbadigliò. Sentì la cima tirare leggermente. Un istante dopo, la boa sparì tra l'increspatura delle onde. Poi riemerse, saltò fuori, ballonzolò per qualche secondo e, infine, fu di nuovo trascinata sott'acqua. Ucañan afferrò la cima che, tendendosi, gli scorticò i palmi delle mani. Bestemmiò. Subito dopo il caballito s'inclinò da una parte e lui lasciò la presa per non sbilanciare la barca. La boa splendeva, rossa. La cima andava dritta verso il fondo, tesa come un arco, e faceva sprofondare lentamente la poppa dell'imbarcazione. Che diavolo stava succedendo? Nella rete doveva essere finito qualcosa di molto grosso e pesante. Forse un pesce spada... Ma un pesce spada sarebbe stato più veloce e avrebbe trascinato il caballito. Qualunque cosa fosse finita nella rete voleva andare verso il fondo. Ucañan cercò freneticamente di riprendere la cima, ma la barca fu scossa da un altro colpo. Il pescatore fu trascinato in avanti e finì tra le onde. Andò sotto e l'acqua gli entrò nei polmoni. Riemerse tossendo e sputando, e vide il caballito semiaffondato. La prua a punta si era sollevata: era quasi verticale. Dalla stiva aperta uscirono i bonitos appena catturati e ritornaro-
no in mare. Alla vista dei pesci che sparivano in acqua, Ucañan fu preso dalla rabbia e dall'amarezza. Ma ormai erano persi e non poteva cercare di riprenderli: prima di tutto doveva salvare il caballito e quindi se stesso. La pesca di un mattino. Tutto inutile! La pagaia galleggiava poco più in là, ma Ucañan non ci badò. Con tutta la forza si gettò sulla prua per cercare di spingerla verso il basso e finì sott'acqua col caballito, che comunque ritornò implacabilmente a sollevarsi. Allora avanzò frenetico, rivolto a pancia in giù sui giunchi verso, la poppa. Con la mano destra frugò nella stiva aperta finché non trovò quello che stava cercando. Sia ringraziato san Pedro! Il suo coltello non era scivolato in acqua e neppure la maschera da sub, il suo bene più prezioso insieme col calcal. Tagliò la cima con un colpo solo. Immediatamente il caballito venne sbalzato in alto. Ucañan ruotò su se stesso e vide il cielo girare su di lui; poi finì di nuovo con la testa sott'acqua e infine si ritrovò sdraiato sulla barca di giunchi che aveva ripreso a ondeggiare dolcemente, come se non fosse successo nulla. Si alzò, confuso e ansimante. La boa non si vedeva più. Fece scorrere lo sguardo sulla superficie dell'acqua alla ricerca della pagaia e la vide galleggiare tra le onde poco lontano. Fece muovere il caballito remando con le mani, raggiunse la pagaia e poi osservò la zona circostante. Erano loro, le macchie chiare nell'acqua cristallina. Ucañan imprecò ad alta voce. Si era avvicinato troppo alle formazioni sottomarine e il calcal si era impigliato. Non c'era da meravigliarsi che fosse stato trascinato sott'acqua. E, dove c'era la rete, naturalmente c'era anche la boa. Finché la rete rimaneva impigliata nelle rocce, la boa non poteva riemergere, era strettamente legata. Ucañan rifletté. Sì, la spiegazione doveva essere quella. Tuttavia era sorpreso dalla violenza che, per un pelo, l'aveva portato alla rovina. Sembrava del tutto plausibile che avesse perso la rete tra le rocce, ma sul resto non era sicuro Aveva perso la rete! Non poteva permetterselo. Con rapidi colpi di pagaia, riportò il caballito nel punto in cui, poco prima, era avvenuto l'incidente. Guardò in basso e cercò di scorgere qualcosa nell'acqua cristallina, ma vide solamente una chiazza chiara, dai contorni indefiniti. Della rete e della boa non c'era traccia. Cos'era successo?
Era un marinaio, aveva trascorso la vita in mare. Ucañan non aveva bisogno di strumenti tecnologici per sapere che quello era il posto giusto. Era lì che aveva tranciato la cima, per impedire che la sua barca di giunchi fosse trascinata sott'acqua. La sua rete era laggiù da qualche parte. Doveva recuperarla. A Ucañan non piaceva l'idea d'immergersi. Benché fosse un nuotatore provetto, come la maggior parte dei pescatori aveva paura dell'acqua. Ben pochi pescatori amavano davvero il mare, che giorno dopo giorno li chiamava a sé, e molti, sebbene avessero pescato per tutta la vita e vissuto grazie al mare, non avevano un buon rapporto con esso. Il mare si prendeva un po' della loro forza vitale a ogni battuta di pesca e lasciava, nelle osterie del porto, figure inaridite e silenziose che non si aspettavano più nulla. Ma Ucañan aveva la sua protezione! Il regalo di un turista che l'anno precedente aveva portato con sé a pesca: una maschera da sub. La prese dalla stiva, ci sputò dentro e spalmò con cura la saliva perché non si appannasse sott'acqua. Poi la sciacquò, se la premette contro il viso e strinse la cinghia dietro la nuca. Era una maschera molto costosa, coi bordi di morbido lattice. Non aveva il boccaglio, ma non gli serviva. Lui sapeva tenere il fiato per il tempo necessario a liberare una rete dalle rocce. Ucañan valutò quanto fosse alto il rischio di essere attaccato da uno squalo. A quella distanza dalla costa, in genere, non c'erano esemplari pericolosi per l'uomo. Talvolta erano stati avvistati pesci martello, mako e smerigli che saccheggiavano le reti da pesca, ma molto più al largo. In Perú, i grandi squali bianchi non si facevano vedere. Inoltre c'era una bella differenza tra l'immergersi in mare aperto e, come in quel caso, nelle immediate vicinanze di rocce e scogliere che offrivano una certa protezione. Decise che quanto era accaduto alla sua rete non era opera di uno squalo. La colpa era solo della sua sbadataggine. Tutto lì. Inspirò profondamente e poi si tuffò tra le onde a corpo morto. Doveva scendere il più velocemente possibile. S'immerse, aumentando rapidamente la distanza tra sé e la superficie. Dalla barca, l'acqua gli era apparsa scura e impenetrabile; adesso invece aveva intorno un mondo limpido e piacevole. La vista sulla scogliera vulcanica era perfetta e le rocce sembravano macchiate dalla luce del sole. Vide pochi pesci, ma non vi prestò molta attenzione. I suoi occhi stavano esaminando la formazione rocciosa alla ricerca del calcal. Non poteva indugiare troppo se non voleva rischiare che il caballito si allontanasse. In caso non avesse scorto nulla nei secondi successivi, sarebbe risalito, per poi ritentare.
Non poteva tornare senza rete, anche se fossero stati necessari dieci tentativi, anche se ci fosse voluta mezza giornata! Poi vide la boa. Si muoveva dolcemente dieci-quindici metri sopra uno sperone frastagliato. La rete era appena sotto e sembrava impigliata in diversi punti. Minuscoli pesci di barriera sciamarono tra le maglie e fuggirono in tutte le direzioni quando Ucañan si avvicinò. Si raddrizzò, batté i piedi e si apprestò a liberare il calcal. La corrente gli gonfiava la camicia aperta. Si accorse che la rete era completamente strappata. Osservò sbalordito quello scempio. Non poteva essere dovuto soltanto alle rocce. Perdio, che cosa si era scatenato? E dov'era adesso quel qualcosa? Preso dall'inquietudine, Ucañan cominciò ad affannarsi intorno al calcal. Era talmente malridotto che ci sarebbero voluti giorni per rammendarlo. Cominciava a mancargli l'aria. Forse non ce l'avrebbe fatta al primo tentativo, ma doveva riuscirci perché un calcal, anche se strappato, aveva comunque un certo valore. Si fermò. Non aveva senso. Conveniva prima risalire, vedere dov'era il caballito e poi reimmergersi. Stava ancora riflettendo quando successe qualcosa. Sulle prime, Ucañan pensò che una nuvola avesse coperto il sole. Le tremolanti macchie di luce sulle rocce erano sparite, la struttura rocciosa e la vegetazione sottomarina non proiettavano più l'ombra... Rimase sconcertato. Le sue mani, la rete... Tutto stava perdendo colore. Una simile trasformazione non poteva dipendere solo dalle nuvole. Nel giro di qualche secondo, il cielo sopra Ucañan si era oscurato. Lasciò il calcal e guardò in alto. Fin dove i suoi occhi riuscivano a vedere, si stendeva un banco di pesci scintillanti, lunghi un braccio. Per lo stupore, Ucañan lasciò uscire dai polmoni una parte dell'aria che salì, in bolle, verso la superficie. Si chiese da dove fosse arrivato così all'improvviso quel banco gigantesco. Non aveva mai visto nulla del genere. I corpi sembravano quasi immobili; solo di tanto in tanto un pesce dava un colpo di coda e si precipitava in avanti. Poi, di colpo, il banco corresse la propria rotta di alcuni gradi. Tutti gli animali seguirono quel movimento e i corpi si strinsero ancora di più.
Il tipico comportamento di un banco. Eppure qualcosa non quadrava. Ma non era tanto il comportamento dei pesci a disorientarlo, quanto i pesci stessi. Erano troppi. Ucañan ruotò su se stesso. Ovunque guardasse, vedeva quell'enorme quantità di pesci allungarsi all'infinito. Piegò all'indietro la testa e intravide il suo caballito, che segnava la scintillante superficie con un leggero movimento. Poi il banco si serrò completamente, diventando ancora più scuro. L'aria residua cominciò a bruciargli dolorosamente nei polmoni. Sgombri, pensò, sbalordito. Nessuno osava sperare che sarebbero tornati. In fondo avrebbe dovuto esserne felice. Gli sgombri avevano un buon prezzo sul mercato, e una rete piena di quei pesci avrebbe sfamato per un bel po' di tempo un pescatore e la sua famiglia. Ma Ucañan era tutt'altro che felice. In lui si stava insinuando il terrore. Quel banco era incredibile. Si estendeva da orizzonte a orizzonte. Erano stati gli sgombri a distruggere il calcal? Com'era possibile? Devi andartene, si disse. Si staccò dalle rocce. Sforzandosi di mantenere la calma, risalì lentamente, continuando a espirare. Poi sbatté contro i pesci, stretti l'uno all'altro. Lo dividevano dalla superficie dell'acqua, dalla luce del sole e dalla sua barca. Il banco era completamente bloccato, un'infinita distesa d'indifferenza dagli occhi vitrei. Sembrava quasi che i pesci fossero comparsi improvvisamente proprio per lui, come se lo aspettassero. Mi vogliono bloccare, pensò. Mi vogliono impedire di raggiungere la barca. Fu colto dal panico. Il cuore gli batteva all'impazzata. Ormai non si curava più del calcal strappato e della boa. Non rivolse neppure un pensiero al suo caballito: pensava solo a sfondare quella massa mostruosa per tornare in superficie, alla luce, nel suo elemento naturale, al sicuro. Alcuni pesci guizzarono di lato. E, in mezzo a loro, comparve qualcosa che serpeggiò verso Ucañan. Dopo un po', il vento si fece più fresco. Il cielo era sempre sgombro di nuvole. Era una bella giornata. Il moto ondoso era leggermente aumentato, benché ciò non costituisse un pericolo per un uomo in una piccola barca.
Però non si vedeva nessun uomo. Non si vedeva nessuno, da nessuna parte. Solo un caballito, uno degli ultimi di quel genere, galleggiava lentamente verso l'oceano sconfinato. PARTE PRIMA ANOMALIE «Il secondo versò la sua coppa nel mare che diventò sangue come quello di un morto e perì ogni essere vivente che si trovava nel mare. Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. Allora udii l'angelo delle acque che diceva: 'Sei giusto, tu che sei e che eri...'» Apocalisse, 16: 3-5 «La settimana scorsa, sulla costa cilena, si è spiaggiato un gigantesco cadavere non identificato che all'aria aperta si è decomposto in poche ore. Secondo le dichiarazioni della guardia costiera cilena, si tratta solo di una piccola parte di una massa molto più grande, che era stata vista galleggiare in mare. Gli esperti cileni hanno escluso la possibilità che si tratti di un vertebrato, perché completamente privo di ossa. La massa è inoltre troppo grande per essere pelle di balena e non ne ha neppure l'odore. Le attuali conoscenze rivelano una sorprendente somiglianza coi cosiddetti globster. Tali masse gelatinose arrivano sulle coste sempre più di frequente. Al momento non è possibile ipotizzare da quale animale provengano.» CNN, 17 aprile 2003 4 marzo Trondheim, costa norvegese In fondo, la città era troppo affascinante per ospitare scuole superiori o centri di ricerca. Specialmente a Bakklandet o a Mollenberg, non c'era nulla che potesse far pensare a una metropoli tecnologica. Nel mezzo dell'idillio variopinto di case di legno ammodernate, parchi, chiesette rurali, pala-
fitte sul fiume e cortiletti pittoreschi sembrava non esserci posto per l'idea di progresso. E invece, proprio a due passi da lì, c'era l'NTNU, il più grande politecnico norvegese. Poche città riuscivano a coniugare passato e futuro altrettanto bene come Trondheim. E per quello Sigur Johanson si considerava fortunato ad abitare a Mollenberg, in via Kirkegata, una strada che pareva fuori dal tempo. La sua casa color ocra, col tetto a capanna, un balconcino dipinto di bianco e la porta con l'architrave avrebbe entusiasmato ogni regista hollywoodiano. Benché Johanson ringraziasse il destino di averlo portato a occuparsi di biologia marina, e soprattutto di uno dei settori di ricerca più legati al presente, il «qui e ora» lo interessava solo marginalmente. Era un visionario e, come tutti i visionari, era affezionato tanto agli ideali assolutamente nuovi quanto a quelli passati. La sua vita era permeata dallo spirito di Jules Verne. Nessuno aveva saputo coniugare lo scoppiettante ritmo dell'era delle macchine, l'ultraconservatore comportamento cavalleresco e il gusto dell'impossibile come il grande scrittore francese. Il presente era una lumaca che si portava sul dorso necessità oggettive e banalità e per questo non trovava spazio nell'universo di Sigur Johanson, il quale, pur sapendo di essergli assoggettato e di dovergli concedere qualcosa, lo disprezzava per il modo in cui esso trattava quello che lui gli concedeva. In quel tardo pomeriggio invernale, di ritorno da un fine settimana interamente dedicato al passato, Johanson guidava la sua jeep lungo Ovre Bakklandet verso l'NTNU. Alla sua destra si snodava lo splendente fiume Nidelva. Era stato nei boschi e aveva visitato i villaggi della zona che sembravano non essere neppure stati sfiorati dal tempo. D'estate avrebbe preso la Jaguar, mettendo nel bagagliaio un cestino da picnic con pane appena sfornato, pâté di fegato d'oca acquistato in gastronomia e avvolto in carta stagnola e una bottiglia di Gewürztraminer, preferibilmente del 1985. Fin da quando si era trasferito lì da Oslo, Johanson aveva scoperto una serie di luoghi in cui non si trovavano né gli abitanti di Trondheim, in cerca di tranquillità, né turisti. Due anni prima, per caso, era finito sulla riva di un laghetto appartato e lì, con grande gioia, aveva visto una piccola casa di campagna da ristrutturare. C'era voluto del tempo per trovare il proprietario - un dirigente della società di ricerche petrolifere Statoil che si era temporaneamente trasferito a Stavanger, - ma poi l'acquisto della casa era stato concluso in fretta. L'uomo era stato felicissimo di aver trovato un acquirente e l'aveva venduta a poco prezzo. Nelle settimane successive, Johanson l'aveva fatta rimettere in sesto da alcuni russi immigrati illegalmente e l'a-
veva trasformata sul modello dei rifugi che i signori del XIX secolo amavano adibire a residenza di campagna e luogo di piacere. Durante le lunghe serate estive, lui sedeva nella veranda con vista sul lago, leggeva i più visionari tra i classici - da Thomas More a Jonathan Swift e H.G. Wells - ascoltava Mahler e Sibelius, il pianoforte di Glenn Gould e le composizioni di Ravel nell'interpretazione di Celibidache. Aveva anche raccolto una voluminosa biblioteca. Johanson possedeva due copie di quasi tutti i suoi libri preferiti e lo stesso valeva per i CD. Non poteva pensare di rinunciarvi, ovunque si trovasse. Johanson guidava lungo il terreno leggermente in salita. Davanti a lui c'era il blocco principale dell'NTNU, un imponente edificio spolverato di neve, costruito all'inizio del XX secolo. Sembrava quasi un castello. Dietro di esso si estendeva la zona universitaria vera e propria, coi fabbricati per le aule e coi laboratori. Diecimila studenti popolavano un'area che sembrava una piccola città. Ovunque dominava una vitalità rumorosa. Si concesse un momento per gustare il ricordo della sensazione di benessere provata al lago. Era stato fantastico, lì, da solo e in uno stato di profonda ispirazione. Talvolta, l'estate precedente, aveva portato con sé una ragazza, un'assistente del dipartimento di Cardiologia, conosciuta durante un viaggio per recarsi a un congresso. Erano arrivati in fretta al dunque, ma, alla fine dell'estate, per Johanson quella storia era già finita. Non voleva legami, soprattutto perché sapeva valutare perfettamente la realtà: lui aveva cinquantasei anni e lei trenta di meno. Bello per qualche settimana; inaccettabile per la vita, soprattutto perché ormai ciò che aveva vissuto era molto più di quanto gli restava da vivere. Posteggiò nel parcheggio a lui riservato e si avviò verso l'edificio della facoltà di Scienze naturali. Quando entrò nel suo ufficio, aveva la mente ancora persa nel ricordo del lago e quasi non si accorse di Tina Lund che stava alla finestra e che si era voltata al suo arrivo. «Sei un po' in ritardo», ironizzò la donna. «È colpa del vino rosso oppure c'era qualcuno che non ti voleva lasciar andare?» Johanson sorrise. Tina Lund lavorava per la Statoil ed era impegnata nei centri di ricerca della Sintef. La fondazione Sintef era una delle più grandi strutture di ricerca indipendenti d'Europa e le industrie norvegesi offshore dovevano proprio alla Sintef il loro sviluppo nei settori più all'avanguardia. Era principalmente grazie alla stretta collaborazione tra la Sintef e l'NTNU che Trondheim si era guadagnata la fama di centro per le tecnologie sperimentali. Gli impianti della Sintef erano distribuiti in tutta la zona. E Tina
Lund, che nel corso di una breve e rapida carriera era diventata vice capo progetto per la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, da alcune settimane aveva piantato le tende al Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, di fatto una succursale della Sintef. Mentre si levava il cappotto, Johanson osservò la figura alta e slanciata della donna. Tina gli piaceva. Alcuni anni prima tra loro era sbocciato l'amore, ma solo per poco: si erano resi subito conto che sarebbe stato meglio lasciar perdere e mantenere soltanto una buona amicizia. Da allora, si scambiavano informazioni sul lavoro e ogni tanto andavano a mangiare insieme. «Gli uomini anziani devono farsi delle belle dormite», ribatté Johanson. «Vuoi un caffè?» «Se c'è.» Guardò nell'ufficio della segreteria e ne trovò una caffettiera piena. La sua segretaria non c'era. «Solo latte», gridò Tina. «Lo so.» Sigur Johanson versò il caffè in due grandi tazze e in una aggiunse il latte, poi tornò nel suo ufficio. «So tutto di te. Te ne sei dimenticata?» «Non sei arrivato al punto di conoscermi così a fondo.» «No, grazie al cielo. Siediti. Come mai sei qui?» Tina prese il caffè e ne bevve un sorso, ma non fece neppure il gesto di sedersi. «Per un verme, credo.» Johanson aggrottò le sopracciglia e la osservò. Tina ricambiò lo sguardo come se si aspettasse una presa di posizione ancor prima di sentire la domanda. Aveva un temperamento impaziente. Lui bevve un sorso. «Credi?» Invece di rispondere, lei prese dal davanzale della finestra un contenitore di acciaio smerigliato e lo appoggiò sulla scrivania davanti a Johanson. «Guarda dentro.» Lui sbloccò la chiusura e sollevò il coperchio. Il contenitore era per metà pieno d'acqua, nella quale si attorcigliava qualcosa di lungo e peloso. Lo osservò con attenzione. «Hai idea di cosa sia?» chiese Tina. Lui scrollò le spalle. «Vermi. Due esemplari. Davvero magnifici.» «Anche noi siamo della stessa opinione. È la specie che ci fa impazzire.» «Voi non siete biologi. Sono policheti.» «Lo so, che sono policheti.» Tina esitò. «Li puoi esaminare e classifica-
re? Ci servirebbero dei dati il prima possibile.» «Certo.» Johanson si chinò sul piccolo contenitore. «Come ho già detto, sono senza dubbio policheti. E anche belli. Tutti colorati. Il fondale marino è abitato da animaletti simili. Ma non ho idea di che specie siano. Perché vi preoccupano?» «Se solo lo sapessimo...» «Non lo sapete?» «Arrivano dal margine continentale. Da settecento metri di profondità.» Johanson si grattò il mento. Gli animali nel contenitore guizzavano e si attorcigliavano. Volevano mangiare, pensò lui, però lì non c'era niente. Trovava singolare che fossero ancora vivi. La maggior parte degli organismi soffriva quando veniva portata in superficie da una simile profondità. Sollevò lo sguardo. «Posso provarci. Domani va bene?» «Sarebbe l'ideale.» Tina fece una pausa, poi riprese: «Hai notato qualcosa, vero? Ti si legge negli occhi». «Forse.» «Che cosa?» «Non posso dirlo con sicurezza. Non sono un classificatore di specie, non sono un tassonomo. Ci sono policheti di tutti i colori e di tutte le forme possibili. Non ne conosco tutta la gamma, però ne conosco una buona quantità. Questi qui mi sembrano... Non lo so, appunto, non lo so.» «Peccato.» Il viso di Tina si rabbuiò, ma subito dopo lei sorrise. «Perché non li esamini subito e a pranzo mi dici il tuo parere?» «Così in fretta? Credi che non abbia niente da fare?» «Se penso a che ora sei arrivato, non posso credere che tu sia sommerso di lavoro.» Sfortunatamente aveva ragione. «Va bene», sospirò Johanson. «Possiamo trovarci all'una nella caffetteria. Dovrei tagliarne dei pezzettini... Posso farlo oppure avevi intenzione di stringere amicizia con loro?» «Fa' come credi. A dopo, Sigur.» Tina uscì in fretta. Johanson la seguì con lo sguardo e si chiese se una storia con lei non sarebbe stata divertente. Ma Tina viveva di corsa. Troppo frenetica per uno come lui che amava la tranquillità e odiava rincorrere gli altri. Controllò la posta, fece una serie di telefonate rimandate da tempo e infine portò in laboratorio il contenitore coi vermi. Si trattava di policheti, senza dubbio. Appartenevano al tipo degli anellidi, come le sanguisughe, e in fondo non erano una forma di vita particolarmente complessa. Il motivo per cui affascinavano gli zoologi era di tutt'altra natura. I policheti erano
una delle più antiche forme di vita conosciute; i ritrovamenti fossili dimostravano che esistevano in una forma pressoché invariata già dal Medio Cambriano, cioè da circa cinquecento milioni di anni. Abitavano negli abissi marini, ne smuovevano i sedimenti ed erano il nutrimento per pesci e granchi. La maggior parte degli uomini ne era disgustata, soprattutto perché gli esemplari conservati nell'alcol perdevano i loro splendidi colori. Johanson, invece, vedeva in loro i sopravvissuti di un mondo sommerso e gli sembravano di una bellezza unica. Guardò per qualche istante i corpi rosa con le escrescenze tentacolari e i bianchi ciuffi setolosi. Poi innaffiò entrambi i vermi con una soluzione di cloruro di magnesio, per distenderli. C'erano diversi modi per uccidere un verme. Il più comune era metterli nell'alcol, nella vodka o nell'acquavite. Per l'uomo si sarebbe trattato di una morte in stato di ebbrezza... non il modo peggiore per crepare, insomma. I vermi la vedevano in modo diverso e, se prima non li si distendeva, nella lotta contro la morte essi si trasformavano in un duro groviglio. Col cloruro di magnesio, invece, i muscoli degli animali si distendevano, potendo così operare in piena libertà. Per precauzione, Johanson congelò uno dei due vermi. Era sempre bene tenere un esemplare di riserva nel caso si volessero fare analisi genetiche o determinare il numero degli isotopi stabili. Immerse nell'alcol il secondo verme, lo osservò ancora un po', lo distese sul piano di lavoro e lo misurò. Era quasi diciassette centimetri. Poi lo tagliò per il lungo ed emise un leggero fischio. «Ragazzo mio, hai proprio dei bei dentini», borbottò. Anche all'interno, il verme mostrava la caratteristica struttura degli anellidi. La proboscide, che i policheti potevano estrarre velocissimamente per catturare una preda, era ritratta nell'involucro protettivo. Il verme era inoltre dotato di mascella chitinosa, con diverse file di minuscoli denti. Johanson aveva già esaminato molte creature simili, ma quella mascella superava per dimensioni tutte quelle che conosceva. Più osservava quel verme, più s'insinuava in lui il sospetto che quella specie non fosse ancora stata classificata. Bene, pensò. Fama e onore! Quando mai si riesce a scoprire una nuova specie? Non ne era ancora sicuro, così consultò intranet e frugò per un po' nella giungla dei dati. In effetti era sorprendente: quel verme c'era e, nel contempo, non c'era. Pian piano Johanson fu preso dalla curiosità. Era così affascinato dal suo lavoro che quasi si dimenticò del motivo per cui stava facendo quegli esami. Infatti fu costretto a precipitarsi verso la caffetteria
dell'università, lungo i viali con le coperture di vetro, perché era in ritardo di un quarto d'ora. Entrò di corsa e, a un tavolo nell'angolo, vide Tina, che gli stava facendo un cenno. La raggiunse. «Mi dispiace... È tanto che aspetti?» chiese. «Ore e ore. Sto morendo di fame.» «Possiamo prendere lo spezzatino di tacchino. La settimana scorsa era ottimo», consigliò lui. Tina annuì. Chi conosceva Johanson, sapeva che in fatto di gusti era più che affidabile. Lei ordinò una Coca-Cola e lui si concesse un bicchiere di Chardonnay. Mentre Tina si agitava sulla sedia, Sigur, impassibile, continuava ad annusare il bicchiere per sentire se il vino aveva odore di tappo. «Allora?» chiese lei. Sigur bevve un sorso e schioccò le labbra. «Come deve essere: fresco e intenso.» Tina lo guardò senza capire. Poi strabuzzò gli occhi. «Molto buono.» Johanson posò il bicchiere e accavallò le gambe. In un certo senso, si divertiva a mettere alla prova la pazienza di Tina. Se la meritava, quella tortura, visto che aveva avuto la faccia tosta di presentarsi da lui il lunedì mattina con del lavoro da fare. «Anellidi, classe dei policheti... Ma questo lo sapevamo già. Non ti aspetti mica un rapporto completo, vero? Richiederebbe settimane o mesi. Per il momento, potrei classificare i tuoi due esemplari come mutazione o nuova specie. Oppure entrambe le cose.» «Non sei molto preciso.» «Perdonami. Dove li avete trovati, esattamente?» Tina gli descrisse il luogo. Si trovava a una notevole distanza dalla terraferma, là dove lo zoccolo continentale norvegese scendeva a strapiombo nelle profondità marine. Johanson ascoltava, pensieroso. «Posso chiedere che cosa ci fate da quelle parti?» domandò. «Analizziamo i merluzzi.» «Oh! Ce ne sono ancora? Mi fa piacere.» «Che spiritoso. Sai bene quali sono i problemi che s'incontrano nell'estrazione del petrolio. Non vogliamo essere accusati di aver trascurato qualche dettaglio.» «Costruite una piattaforma? Credevo che le estrazioni fossero in calo.» «Per il momento non è un problema mio», disse Tina leggermente innervosita. «Il mio problema è se si può costruire là. Così al largo non ab-
biamo ancora osato. Dobbiamo esaminare i presupposti tecnici e dimostrare che il nostro lavoro sia ecocompatibile. Andiamo a vedere che cosa nuota là sotto e com'è fatto l'ambiente, così non rischiamo di deturparlo.» Johanson annuì. Il problema di Tina erano i risultati della Conferenza del mare del Nord, in seguito alla quale il ministero della Pesca aveva manifestato una certa perplessità sui milioni di tonnellate d'acqua di produzione inquinata che venivano pompate in mare. I numerosi impianti offshore nel mare del Nord e lungo la costa norvegese estraevano dai fondali marini il petrolio con l'acqua di produzione, rimasta mescolata al greggio per milioni di anni e satura di prodotti chimici. In genere, durante l'estrazione, l'acqua veniva separata in modo meccanico dal petrolio greggio e scaricata direttamente in mare. Per decenni, nessuno aveva messo in discussione quella prassi, ma poi il governo aveva incaricato il Martinek di effettuare uno studio, e i risultati avevano fatto sobbalzare tanto gli ambientalisti quanto i gruppi petroliferi. Certe sostanze contenute nelle acque di produzione danneggiavano il sistema riproduttivo del merluzzo, perché avevano l'effetto di un ormone femminile. I pesci maschi diventavano sterili o cambiavano sesso. E sembrava che pure altre specie fossero minacciate. L'estrazione rischiava di subire un blocco immediato, e i petrolieri erano stati costretti a cercare altre alternative. «È giusto che vi tengano d'occhio. E più lo fanno con attenzione, meglio è», disse Johanson. «Mi sei davvero d'aiuto.» Tina sospirò. «In ogni caso, per gli scavi sulla scarpata continentale abbiamo fatto esami approfonditi, eseguendo misurazioni sismiche e mandando i robot a settecento metri per fare fotografie.» «Fotografie di vermi.» «Già. Ne siamo rimasti sbalorditi. Non ci aspettavamo di trovarli là sotto.» «Be', i vermi sono ovunque. E al di sopra dei settecento metri? Li avete trovati anche lì?» «No.» Tina si agitò di nuovo sulla sedia, impaziente. «Allora, che mi dici di quelle maledette bestie? Vorrei archiviare la faccenda... Abbiamo ancora una montagna di lavoro da fare.» Johanson appoggiò il mento alle mani. «Il problema del tuo verme è che in realtà sono due», disse. Lei lo guardò senza capire. «Certo che sono due vermi.» «Non intendo il numero, ma la specie. Se non mi sbaglio, appartengono a una specie scoperta da poco, di cui non si sa praticamente nulla. Sono
stati trovati nel golfo del Messico, dove vivono sul fondo del mare ed evidentemente sfruttano i batteri, che a loro volta usano il metano come fonte di energia e di sviluppo.» «Hai detto 'metano'?» «Sì. E ora la faccenda si fa avvincente. I tuoi vermi sono troppo grossi per la loro specie. Voglio dire, ci sono policheti che possono diventare lunghi due metri e più. E alcuni sono anche molto vecchi. Ma questi sono di un calibro differente e hanno un'origine diversa. Se i tuoi vermi sono identici a quelli del golfo del Messico, allora, dal momento della scoperta, devono essere cresciuti parecchio. Quelli del golfo misurano al massimo cinque centimetri, questi sono tre volte tanto. Inoltre non erano mai stati trovati sulla scarpata continentale norvegese.» «Interessante. Come lo spieghi?» «Non farmi ridere! Non posso spiegarlo. Al momento, l'unica risposta che posso darti è che siete incappati in una nuova specie e farvi i miei complimenti. Esteriormente somiglia al verme del ghiaccio messicano, tuttavia, per dimensioni e per altre caratteristiche fisiche, è un verme completamente diverso. Per meglio dire, è un verme che credevamo estinto da tempo, un piccolo mostriciattolo del Cambriano. Mi meraviglia soltanto che...» Esitò. La zona era stata setacciata così minuziosamente dalle compagnie petrolifere che un verme di quelle dimensioni doveva essere stato notato da tempo. «Soltanto...?» lo incalzò Tina. «Ma sì. O finora siamo stati ciechi, oppure i tuoi nuovi amici prima non erano lì. Forse sono arrivati da zone più profonde.» «Quindi si pone il problema del perché siano risaliti.» Tina rimase per un po' in silenzio. Poi disse: «Quando puoi finire il rapporto?» «Quanto stressi!» «Non posso aspettare un mese!» «Va bene», disse Johanson, alzando le braccia per rabbonirla. «Dovrò spedire i tuoi vermi in tutto il mondo, e per questo ho le persone giuste. Dammi due settimane. E non cercare di accorciare i tempi. Con tutta la buona volontà, non si può fare più in fretta.» Tina non ribatté. Arrivò il cibo, ma lei non lo sfiorò neppure, continuando a fissare il vuoto davanti a sé. «E si nutrono di metano?» domandò quindi. «Di batteri che si nutrono di metano», la corresse lui. «Un sistema simbiotico particolarmente complicato che ti possono spiegare meglio persone
più esperte di me. Ma ciò vale per il verme che credo sia imparentato col tuo. Non posso dire nulla di più.» «Se è più grande di quello del golfo del Messico, allora ha anche più appetito», borbottò Tina. «Sicuramente più di te», osservò Johanson, guardando il piatto davanti alla donna. «Comunque mi sarebbe d'aiuto se potessi fornirmi altri esemplari della specie.» «Non mancano di certo.» «Ne avete altri?» Tina annuì, con una singolare espressione negli occhi. Poi iniziò a mangiare. «Una dozzina. Ma sulla scarpata ce ne sono molti di più», rispose. «Molti?» «Approssimativamente...» Fece una pausa, quindi concluse: «Be', direi qualche milione». 12 marzo Vancouver Island, Canada I giorni passavano, ma la pioggia non cessava. Leon Anawak non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva piovuto così tanto. Guardò fuori, verso l'oceano piatto e uniforme. L'orizzonte era come una linea di argento vivo tra la superficie dell'acqua e le incombenti masse nuvolose. Laggiù sembrava profilarsi una pausa dopo giorni di scrosci ininterrotti, ma di più non si sapeva. Poteva anche scendere la nebbia. L'oceano Pacifico mandava quello che voleva, in genere senza preavviso. Senza perdere di vista la linea dell'orizzonte, Anawak accelerò la velocità del Blue Shark e avanzò. Lo zodiac - così erano chiamati i grandi gommoni dotati di potenti motori - era completamente occupato: dodici persone in tuta antipioggia, armate di binocoli e videocamere. E quella gente si stava ormai perdendo d'animo. Da oltre un'ora e mezzo era in attesa delle balene grigie e delle megattere che in febbraio avevano lasciato la Bassa California e le acque calde intorno alle Hawaii per spostarsi in massa nella zona estiva di nutrimento: l'Artico. Ogni volta percorrevano sedicimila chilometri. Il loro viaggio le portava dal Pacifico, attraverso il mare di Bering, al mare dei Ciukci fino al limite del pack, il paese della cuccagna, dove si riempivano la pancia di granchi e gamberetti. Quando le giornate tornavano ad accorciarsi, riprendevano a ritroso il lungo viaggio verso il Messico.
Lì, protette dalle orche, i loro peggiori nemici, mettevano al mondo i piccoli. Due volte all'anno, i branchi degli enormi mammiferi marini passavano dalla British Columbia e dalle acque prospicienti Vancouver Island; erano mesi in cui nelle stazioni di osservazione delle balene, in località come Tofino, Ucluelet e Victoria, si registrava il tutto esaurito. Quell'anno non era così. Già da tempo gli esemplari delle due specie avrebbero dovuto mostrare la testa o la coda per le foto d'obbligo. In quel periodo, la possibilità di vedere le balene era così elevata che la Davies Whaling Station garantiva un secondo viaggio gratis nel caso non se ne fossero viste. Ma due ore senza avvistamenti erano indice di un giorno proprio sfortunato. Una settimana poteva offrire qualche motivo di preoccupazione, però una cosa simile non era mai capitata: sembrava che le balene si fossero perse da qualche parte tra la California e il Canada. Anche per quel giorno, insomma, niente di niente. Le videocamere erano riposte e a casa non ci sarebbe stato nulla da raccontare, se non la navigazione nei pressi di una magnifica costa rocciosa... peccato che fosse nascosta da una cortina di pioggia. Abituato a fornire spiegazioni durante gli avvistamenti, Anawak si sentiva la lingua incollata al palato. Nel corso dell'ultima ora e mezzo aveva raccontato la storia della regione e gli aneddoti migliori nel tentativo di non deprimere ulteriormente i turisti. Ma ormai sembrava che nessuno volesse più saperne di cetacei e orsi bruni. Le sue manovre diversive di riserva erano terminate e lui si chiedeva dove diavolo fossero finite le balene. In realtà si sarebbe dovuto preoccupare dei turisti che avevano pagato, ma al momento non poteva far nulla per loro. «Torniamo indietro», decise. Silenzio di delusione. Il viaggio di ritorno attraverso il Clayoquot Sound richiedeva almeno tre quarti d'ora e tutti erano bagnati fin nelle ossa. Ma lo zodiac disponeva di due potenti motori che, spinti al massimo, garantivano un viaggio adrenalinico e l'unica cosa che Anawak ormai poteva offrire ai clienti era il brivido della velocità. Smise di piovere non appena comparvero le case di Tofino e il molo della Davies Whaling Station. Le colline e le sagome delle montagne sembravano ritagliate nel cartone grigio, le cime erano avvolte dalla foschia e dalle nuvole. Prima di ormeggiare lo zodiac, Anawak aiutò i passeggeri a scendere, perché la scaletta che conduceva al molo era scivolosa. Sulla terrazza dell'edificio della stazione si era già radunato il gruppo successivo, in
attesa di un'avventura che non ci sarebbe stata. Ma Anawak non se ne curava più. Era stanco di preoccuparsi degli altri. «Se va avanti così, dovremo cambiare mestiere», gli disse Susan Stringer, non appena fu entrato nella biglietteria. Era dietro il bancone e sistemava gli opuscoli nell'apposito espositore. «Potremmo osservare scoiattoli, che ne dici?» La Davies Whaling Station era un vero bazar - un negozio pieno di opere di artigianato, souvenir kitsch, vestiti e libri - e Susan Stringer era incaricata di gestirla. Come aveva fatto anche Anawak, lavorava per pagarsi gli studi. Anawak, invece, laureatosi quattro anni prima, era rimasto alla Davies a fare lo skipper. Nei mesi estivi si era dedicato alla scrittura di un libro sull'intelligenza e sulle strutture sociali dei mammiferi marini; quel libro, insieme coi suoi spettacolari esperimenti, aveva attirato l'attenzione degli specialisti, che avevano iniziato a trattarlo come un astro nascente della scienza. Alla spicciolata, gli erano arrivate offerte allettanti, posti ben retribuiti di fronte ai quali l'idea di una vita semplice in mezzo alla natura di Vancouver Island rischiava di perdere il suo fascino. Anawak sapeva che prima o poi avrebbe ceduto e si sarebbe stabilito in una delle città da cui provenivano le offerte: il suo futuro sembrava già deciso. Aveva trentun anni e ben presto sarebbe diventato professore oppure avrebbe avuto un posto di ricercatore in un grande istituto, avrebbe pubblicato articoli su riviste specialistiche e partecipato a congressi. Avrebbe abitato nell'attico di una casa di lusso, contro le cui fondamenta si sarebbero infrante le ondate del traffico dell'ora di punta. Cominciò a sbottonare la tuta arancione. «Se almeno si potesse fare qualcosa», disse cupo. «Fare che cosa?» «Cercare.» «Non volevi parlare con Rod Palm dell'interpretazione degli esami telemetrici?» «L'ho fatto.» «E allora?» «Non c'è molto, a quanto pare. In gennaio hanno messo dei rilevatori di posizione a qualche leone marino e a qualche foca, tutto lì. I dati ci sono, ma le trasmissioni finiscono poco dopo l'inizio della migrazione. Silenzio radio.» «Non preoccuparti. Arriveranno. Migliaia di balene non spariscono nel nulla.»
«A quanto pare invece è proprio così.» Lei sorrise. «Forse sono in coda a Seattle. A Seattle c'è sempre coda.» «Molto spiritosa.» «Forza, rilassati! Anche i primi anni qualche volta hanno tardato. Che dici, ci vediamo stasera allo Schooners?» «Io... no. Devo preparare l'esperimento col beluga», rispose Anawak. Susan lo osservò, accigliata. «Se lo vuoi sapere, esageri un po' col lavoro.» Lui scosse la testa. «Devo farlo, Susan. Per me è importante e poi non capisco nulla del corso azionario.» La stoccata era rivolta a Roddy Walker, il ragazzo di Susan. Faceva il broker a Vancouver e avrebbe trascorso qualche giorno a Tofino. La sua idea di vacanza consisteva nel dare sui nervi agli altri, parlando ininterrottamente al cellulare o elargendo consigli finanziari, ovviamente sempre a voce altissima. Susan aveva compreso da tempo che tra i due giovani non sarebbe mai nata un'amicizia, soprattutto dopo che Walker aveva tormentato Anawak per una serata intera, interrogandolo sulle sue origini. «Forse non ci crederai, ma Roddy sa parlare anche di altre cose», disse lei. «Davvero?» «Se glielo si chiede con gentilezza», disse. Una frase un po' tagliente. «Va bene. Allora verrò più tardi», concluse lui. «Sciocchezze. Non verrai neppure più tardi.» Anawak sorrise. «Se me lo chiedi con gentilezza...» Sapevano entrambi che non si sarebbe presentato, tuttavia Susan disse: «Ci troviamo verso le otto, in caso ci ripensi. Forse dovresti alzare il tuo sedere ricoperto di molluschi. C'è anche la sorella di Tom e viene per te». La sorella di Tom non era il peggiore degli argomenti per convincerlo. Ma Tom Shoemaker era il direttore amministrativo della Davies, e ad Anawak non piaceva l'idea di stringere legami proprio quando aveva già in mente di andarsene. «Ci penserò.» Susan sorrise, scrollò la testa e uscì. Anawak andò avanti a servire i clienti finché non comparve Tom, che gli concesse mezza giornata di libertà. Uscì sulla strada principale di Tofino. La Davies Whaling Station si trovava proprio all'ingresso del paese. L'edificio era carino: una tipica casa di legno con frontone rosso, terrazza sul tetto e un prato sul davanti da cui, come simbolo, spuntava una coda di ba-
lena alta sette metri, fatta con legno di cedro. Nelle immediate vicinanze iniziava un bosco di abeti. Lì il Canada appariva esattamente come lo immaginavano gli europei. Ad alimentare quell'atmosfera contribuivano gli indigeni, che, di sera, alla luce delle lanterne antivento, raccontavano di orsi arrivati fin nei loro giardini e di cavalcate sul dorso delle balene. Non tutto era vero, ma la maggior parte sì. Vancouver Island nutriva con entusiasmo il mito di rappresentare l'essenza stessa del Canada. La striscia di costa occidentale tra Tofino e Port Renfrew - con le spiagge che scendevano dolcemente verso il mare, le baie singolari, circondate da abeti secolari e cedri, le paludi, i fiumi e il panorama frastagliato - attirava ogni anno frotte di visitatori. Con un po' di fortuna, era possibile vedere balene grigie, lontre e leoni marini che prendevano il sole nei pressi della costa. Per molti, quell'isola era sempre un paradiso, anche quando il mare mandava la pioggia. Anawak non degnò il panorama di uno sguardo. S'inoltrò nel paese e svoltò verso il molo. Lì c'era ancorata una barca a vela, un dodici metri, vecchia e cadente. Apparteneva a Davie, il direttore della stazione. Non volendo investire denaro per riportarla in mare, Davie l'aveva affittata per una cifra bassissima ad Anawak, che ne aveva fatto la sua casa. Aveva anche un appartamento a Vancouver, ma ci andava soltanto se si doveva fermare in città un po' più del solito. Scese sottocoperta, prese un plico di appunti e tornò alla stazione. A Vancouver aveva un'auto - una Ford arrugginita -, ma, per le dimensioni dell'isola, era sufficiente prendere in prestito la vecchia Land Cruiser di Shoemaker. Salì, accese il motore e si avviò verso il Wickaninnish Inn, un hotel di lusso distante pochi chilometri, situato su una parete rocciosa a strapiombo con una splendida vista sull'oceano. Il cielo si era ulteriormente aperto e in alcuni punti s'intravedeva l'azzurro. La strada ben asfaltata costeggiava la fitta foresta. Dopo una decina di minuti, Anawak lasciò la macchina in un piccolo parcheggio e proseguì a piedi, scavalcando un gigantesco albero caduto, che stava lentamente marcendo, e imboccando un sentiero in salita, che serpeggiava nella Verde penombra. C'era odore di terra umida e l'acqua gocciolava. Dai rami degli abeti pendevano licheni e muschio. Sembrava che tutto fosse animato. Quando raggiunse il Wickaninnish Inn, il breve distacco dalla società umana aveva già avuto il suo effetto. Dato che il cielo si era in parte rasserenato, lui poteva sedersi in tutta tranquillità sulla spiaggia, in compagnia dei suoi appunti. La luce sarebbe stata sufficiente ancora per un po'. Men-
tre scendeva le scale a zig-zag, di legno, che portavano dall'hotel al mare, pensò che forse si sarebbe potuto finalmente gustare una cena al Wickaninnish Inn. La cucina era di prima categoria, e l'idea di essere lì - irraggiungibile da Walker e dalle sue sciocchezze - a guardare il tramonto del sole migliorò ulteriormente il suo umore. Circa dieci minuti dopo, sistemati su un albero caduto il laptop e i fogli, Anawak vide una figura scendere le scale e passeggiare lungo la spiaggia, vicino all'acqua blu argento. C'era bassa marea, e la sabbia illuminata dalla luce del sole calante era punteggiata dal legname portato dal mare. Quella persona sembrava non avere la minima fretta, però era evidente che, sebbene la stesse prendendo alla larga, stava puntando proprio verso l'albero di Anawak. Lui aggrottò la fronte e cercò di mostrarsi il più indaffarato possibile. Dopo un po' sentì il rumore leggero e scricchiolante dei passi che si avvicinavano e allora fissò i suoi appunti, ma ormai la concentrazione se n'era andata. «Salve», disse una voce cupa. Anawak sollevò lo sguardo. Davanti a lui c'era una donna gracile, dall'aria distinta. Aveva in mano una sigaretta e gli sorrideva gentilmente. Doveva avere quasi sessant'anni. I capelli erano grigi e corti e il viso appariva abbronzato e segnato da numerose rughe. Indossava un paio di jeans e una giacca a vento scura, ed era a piedi nudi. «Salve», replicò Anawak, in tono meno brusco di quanto avrebbe voluto. Nel momento in cui aveva alzato lo sguardo, non aveva più percepito la presenza della donna come un disturbo. I suoi occhi blu scuro scintillavano di curiosità. Da giovane doveva essere stata molto attraente, pensò lui. Ed emanava ancora un certo fascino. «Che cosa ci fa qui?» chiese la donna. In altre circostanze, Anawak avrebbe risposto a monosillabi e poi si sarebbe concentrato di nuovo sul lavoro. C'erano molti modi per far capire alle persone di andare al diavolo. E invece rispose: «Sto lavorando a un articolo sui beluga. E lei?» La donna fece un tiro di sigaretta, poi si sedette sul tronco, come se lui l'avesse invitata. Anawak la osservò di profilo, notando il naso piccolo e gli zigomi alti, e si rese conto che non era una sconosciuta. L'aveva già vista da qualche parte. «Anch'io sto lavorando a un articolo», disse la donna. «Ma temo che nessuno lo vorrà più leggere, se aspetterò ancora a pubblicarlo.» Lo guar-
dò. «Oggi ero sulla sua barca.» Ecco chi era... La donna minuta con gli occhiali da sole e il cappuccio tirato sulla testa. «Che cos'è successo alle balene? Non ne abbiamo incontrata neppure una.» «Non ce ne sono», replicò Anawak. «Perché?» «Non faccio che chiedermelo.» «Non lo sa?» «No.» La donna annuì, come se conoscesse bene quello stato d'animo. «Posso immaginare quello che le passa per la testa. Anche i miei non arrivano, ma, al contrario di lei, ne conosco il motivo.» «I suoi cosa non arrivano?» domandò Anawak. «Forse non dovrebbe stare ad aspettare... Dovrebbe cercare», disse la donna, eludendo la domanda di Anawak. «Certo che cerchiamo.» Appoggiò i fogli e si stupì della sua franchezza. Era come se stesse parlando a una vecchia amica. «Cerchiamo in tutti i modi.» «E come lo fate?» «Coi satelliti. Osservazioni a distanza. Inoltre siamo in grado di localizzare i movimenti dei branchi con l'ecoscandaglio. Ci sono varie possibilità.» «E tuttavia continuano a sfuggirvi?» chiese la donna. «Nessuno immaginava che non arrivassero. All'inizio di marzo ci sono stati degli avvistamenti all'altezza di Los Angeles, poi basta.» «Forse avreste dovuto guardare meglio», lo incalzò lei. «Sì, forse.» «E sono sparite tutte?» «No, non tutte.» Anawak sospirò. «È una cosa un po' complicata. Vuole sentirla?» «Altrimenti non l'avrei chiesto.» «Qui ci sono delle balene. Stanziali», cominciò lui. «Stanziali?» «Davanti a Vancouver Island si possono osservare ventitré specie diverse di balene. Alcune migrano periodicamente: balene grigie, megattere, balenottere minori; altre vivono nella zona. Abbiamo solo tre specie di orche.»
«Orche?» «Sì, orche.» «Ah! Le orche assassine.» «Quella definizione è del tutto priva di senso», replicò Anawak, seccato. «Le orche sono pacifiche e infatti non si sono mai registrate aggressioni all'uomo. 'Orca assassina'... Queste sciocchezze sono state diffuse da Cousteau, che non si vergogna a definire l'orca come 'nemico pubblico numero uno'. Oppure da Plinio nella sua Storia naturale! Sa che cosa scrive? 'Una mostruosa massa di carne armata di denti barbari'. Che sciocchezza. Possono dei denti essere barbari?» «I dentisti possono essere barbari», osservò lei, facendo un altro tiro di sigaretta. «Okay, ho capito. Che cosa vuol dire orca?» Anawak era sorpreso. Nessuno gli aveva mai fatto una simile domanda. «È una definizione scientifica», rispose. «E cosa vuol dire?» «Orcinus orca. 'Colui che appartiene al regno dei morti'. Ma, per piacere, non mi chieda chi si è inventato una cosa del genere.» Lei ridacchiò. «Ha detto che ci sono tre specie di orche.» Anawak indicò l'oceano. «Le orche 'offshore', di cui sappiamo pochissimo. Vanno e vengono, di solito in grandi gruppi. In genere vivono molto al largo. L'orca 'transiente' che invece vive da nomade in piccoli gruppi. Forse è quella che corrisponde meglio all'immagine del killer. Mangia di tutto: foche, leoni marini, delfini, uccelli... Attacca anche le balenottere azzurre. Qui, dove la costa è rocciosa, rimangono esclusivamente in acqua, ma a sud si trovano delle transienti che cacciano sulla spiaggia. Vanno all'asciutto e aggrediscono le foche e altri animali. Affascinante!» Si fermò, in attesa di una nuova domanda, ma la donna rimase in silenzio, limitandosi a soffiare il fumo nell'aria della sera. «La terza specie vive nelle immediate vicinanze dell'isola», proseguì allora Anawak. «Stanziali. Grandi famiglie. Conosce l'isola?» «Abbastanza.» «A est della terraferma c'è uno stretto, il Johnstone Strait. Le stanziali sono lì per tutto l'anno. Mangiano esclusivamente salmone. È dall'inizio degli anni '70 che studiamo la loro struttura sociale.» S'interruppe e la guardò, sbalordito. «Come siamo arrivati qui? Di che cosa le stavo parlando?» Lei sorrise. «È colpa mia. Mi dispiace, le ho fatto perdere il filo. Ma io devo sempre sapere tutto. Probabilmente faccio anche saltare i nervi con le
mie continue domande.» «Deformazione professionale?» «Sono nata così. Mi voleva spiegare quali balene sono sparite e quali no.» «Sì, lo volevo, ma...» «Non ha tempo.» Anawak esitò. Gettò un'occhiata ai fogli e al laptop. Nel corso della serata avrebbe dovuto finire l'articolo. Ma la serata era lunga. E poi aveva fame. «Soggiorna al Wickaninnish Inn?» le chiese. «Sì.» «Che cosa fa stasera?» «Oh!» Lei sollevò le sopracciglia e gli sorrise. «L'ultima volta me l'hanno chiesto dieci anni fa. Eccitante.» Sorrise anche lui. «A dire la verità, a spingermi a chiederlo è stata la fame. Pensavo che avremmo potuto continuare la nostra conversazione a tavola.» «Buona idea.» La donna si lasciò scivolare giù dal tronco, spense la sigaretta e ripose il mozzicone nella giacca a vento. «Però l'avverto: parlo con la bocca piena. E se la mia attenzione non viene tenuta desta, non faccio altro che parlare e interrompere con domande. Quindi dia il meglio di sé. A proposito...» Gli tese la mano destra. «Sono Samantha Crowe. Mi chiami Sam, come fanno tutti.» Si accomodarono a un tavolo vicino a una delle vetrate che delimitavano il ristorante. Era proprio davanti all'hotel e dominava sulle rocce, come se volesse gettarsi in mare. Dalla sommità si godeva la splendida vista del Clayoquot Sound con le sue isole, della baia e delle foreste che si stendevano nell'entroterra. Era un posto ideale per osservare le balene. Quell'anno, però, bisognava accontentarsi degli animali marini che arrivavano dalla cucina. «Il problema è che le orche offshore e quelle transienti non sono arrivate», spiegò Anawak. «Quindi, al momento, sulla costa occidentale non ci sono orche. Le stanziali sono tante come sempre, tuttavia preferiscono evitare questa zona, sebbene il Johnstone Strait sia per loro sempre meno accogliente.» «Come mai?» «Come si sentirebbe se dovesse dividere casa sua con traghetti, cargo, linee di navigazione di lusso e imbarcazioni per la pesca sportiva? Là fuori è tutto un rimbombare di navi a motore. Inoltre la zona prospera grazie al-
l'industria del legno e le linee di cargo portano intere foreste in Asia. La deforestazione provoca l'insabbiamento dei fiumi in cui i salmoni deponevano le uova. E le stanziali mangiano solo salmoni.» «Capisco. Ma lei non si preoccupa solo per le orche, vero?» chiese la donna. «Sono le balene grigie e le megattere a rappresentare un vero rompicapo. Forse hanno fatto una deviazione, oppure si sono stancate di essere osservate.» Anawak scosse la testa. «No, non è così semplice. I grandi cetacei che arrivano al largo di Vancouver Island ai primi di marzo non mangiano da mesi, perché, durante l'inverno trascorso nella Bassa California, hanno consumato tutto il grasso accumulato. Solo qui riescono a trovare il nutrimento.» «Forse si sono spostate molto più al largo», ipotizzò Samantha. «Là non c'è cibo a sufficienza. La Wickaninnish Bay, per esempio, offre alle balene grigie la parte fondamentale del loro nutrimento che al largo non troverebbero: Onuphis elegans.» «Elegans? Suona chic», commentò Samantha. Anawak sorrise. «È un verme, lungo e sottile. Nella baia sabbiosa è presente in quantità enormi, e le balene grigie lo mangiano a quattro palmenti. Senza questo pasto intermedio non riuscirebbero ad arrivare fino all'Artico.» Bevve un sorso d'acqua. «E, intorno alla metà degli anni '80, è successo: non sono arrivate. Però allora si conosceva il motivo. Le balene grigie erano quasi del tutto estinte. Cacciate a morte. Da allora le abbiamo decisamente rimesse in forza. Credo che oggi, nel mondo, se ne possano trovare ventimila esemplari, la maggior parte in queste acque.» «E non ne è arrivata neanche una?» «Le balene grigie stanziali ci sono, però sono poche», rispose Anawak. «E le megattere?» «Stessa storia. Sparite.» «Ha detto che sta scrivendo un articolo sui beluga?» domandò ancora Samantha. Anawak la fissò. «Che ne dice di raccontarmi qualcosa di lei? La curiosità non è un suo diritto esclusivo», replicò. Samantha Crowe gli lanciò uno sguardo divertito. «Davvero? Lei sa già la cosa più importante. Sono una vecchia scocciatrice e faccio domande.» Sopraggiunse un cameriere e servì ai due, gamberoni giganti con risotto allo zafferano. A dire la verità, stasera avresti voluto star qui da solo, senza nessuno a far domande, pensò Anawak. Eppure apprezzava la compa-
gnia di Samantha. «Che cosa chiede? A chi e perché?» Lei tirò fuori dalla corazza un gamberone profumato d'aglio. «Semplice. Io chiedo: c'è qualcuno?» «C'è qualcuno?» «Esatto.» «E la risposta qual è?» La polpa del gamberone le sparì tra due file di denti bianchissimi. «Non l'ho ancora avuta.» «Forse dovrebbe chiedere a voce più alta», propose Anawak, facendo il verso a quello lei che gli aveva detto sulla spiaggia. «Lo farei volentieri», disse Samantha, masticando. «Tuttavia, al momento, il mezzo e le possibilità mi bloccano a una distanza di circa duecento anni luce. Dalla metà degli anni '90 abbiamo analizzato sessanta miliardi di misurazioni e, di trentasette, non siamo ancora riusciti a capire se siano di origine naturale o il tentativo di qualcuno di dirci: 'Ciao'.» Anawak la fissò. «Il SETI? Lei è del SETI?» chiese. «Esatto. Search for Extra Terrestrial Intelligence. Del progetto di ricerca PHOENIX, per essere precisi», confermò Samantha. «Lei ascolta lo spazio.» «Circa un migliaio di stelle simili al sole che abbiano più di tre miliardi di anni, sì. È solo un progetto fra i tanti, ma forse il più importante, se mi permette l'immodestia.» «Perbacco!» «Non tenga la bocca aperta, Leon, non è una cosa così straordinaria. Lei analizza il canto delle balene e cerca di capire se ci stanno raccontando qualcosa. Noi ascoltiamo lo spazio perché siamo convinti che brulichi di civiltà intelligenti. Probabilmente lei, con le sue balene, ha ottenuto risultati migliori dei nostri.» «Io ho solo un paio di oceani; lei ha tutto l'universo.» «Ci muoviamo in dimensioni diverse, lo ammetto. Però ho sentito dire che delle profondità marine si sa ancora meno che dell'universo.» Anawak era affascinato. «E lei ha ricevuto segnali che potrebbero dimostrare l'esistenza di forme di vita intelligente?» «No, abbiamo captato segnali che non riusciamo a classificare. Le possibilità di ottenere un contatto sono molto basse, forse addirittura irrealistiche. A dire il vero, per la frustrazione dovrei gettarmi dal ponte più vicino, tuttavia mi piace troppo mangiare queste cosettine qui, e poi sono ossessionata. Più o meno come lei con le sue balene.»
«Io, perlomeno, so che esistono.» «Al momento pare di no», sorrise Samantha. Anawak avrebbe voluto fare mille domande. Il SETI l'aveva sempre interessato. Il progetto di ricerca d'intelligenze extraterrestri era stato formalmente avviato dalla NASA in occasione del Columbus Day del 1992. Ad Arecibo, in Portorico, era stato costruito il più grande radiotelescopio della Terra per portare a termine un progetto rivoluzionario. Nel frattempo, il SETI, grazie alla generosità degli sponsor, aveva intrapreso altri progetti in tutto il mondo, finalizzati alla ricerca di vita extraterrestre. Il PHOENIX era uno dei più noti. «È lei la donna che Jodie Foster ha interpretato in Contact?» chiese. «Io sono la donna che vorrebbe salire sullo stesso trabiccolo che nel film porta Jodie Foster dagli extraterrestri. Sa, per lei faccio un'eccezione, Leon. Normalmente sono presa da attacchi isterici se qualcuno mi chiede del mio lavoro. Ogni volta sono costretta a spiegare per ore quello che faccio.» «Anch'io.» «Appunto. Lei mi ha raccontato qualcosa e io sono in debito. Cos'altro vuole sapere?» Anawak non ebbe bisogno di riflettere. «Perché finora non avete ottenuto risultati?» Samantha sembrava divertita. Spazzolò i gamberoni giganti dal piatto e attese un po' prima di rispondere. «Chi ha detto che non ne abbiamo ottenuti? La Via Lattea contiene circa cento miliardi di stelle. Individuare pianeti simili alla Terra presenta qualche difficoltà, perché la loro luce è troppo debole. Riusciamo a postularne l'esistenza solo con calcoli matematici, ma teoricamente dovrebbero essere tantissimi. Comunque il problema rimane: provi lei ad ascoltare un miliardo di stelle!» «Certo», sorrise lui. «È molto più facile occuparsi di ventimila megattere.» «Come vede, c'è da invecchiare con un simile impegno. È un po' come se lei dovesse dimostrare l'esistenza di un pesce minuscolo e per farlo dovesse passare al setaccio ogni litro d'acqua dell'oceano. Ma i pesci si muovono. Potrebbe ripetere la procedura fino al giorno del giudizio e magari arrivare alla conclusione che un simile pesce non esiste. E invece ce ne sono tantissimi, solo che nuotano sempre in un litro d'acqua diverso da quello che lei sta osservando. Ora, il PHOENIX osserva contemporaneamente diversi litri d'acqua, ma diciamo che noi ci limitiamo al Georgia Strait. Capisce? Là fuori ci sono delle civiltà. Non lo posso provare, ma sono con-
vintissima che il loro numero sia enorme. Peccato che l'universo sia infinitamente grande. Questo annacqua le nostre possibilità molto più di quanto non faccia il distributore automatico di caffè ad Arecibo.» «La NASA non aveva trasmesso un messaggio nell'universo?» chiese Anawak. «Ah.» Gli occhi della donna brillavano. «Intende dire che non stiamo solo in ascolto, ma mandiamo anche segnali? Certo che l'abbiamo fatto. Nel 1974, da Arecibo, abbiamo spedito un messaggio verso M13, un ammasso stellare globulare. Ma ciò non risolve il nostro problema. Ogni segnale, che provenga sia da noi sia da altri, va perso nello spazio interstellare. Sarebbe un caso incredibile se venisse ricevuto da qualcuno. Inoltre stare ad ascoltare costa meno che mandare messaggi.» «Tuttavia aumenterebbe le possibilità.» «Forse non vogliamo aumentarle», disse Samantha. «Perché no?» «Noi vorremmo, però molti sono diffidenti. C'è gente convinta che sarebbe meglio non attirare l'attenzione perché 'loro' potrebbero arrivare qui e portarci via la nostra bella Terra. Uh! Potrebbero addirittura mangiarci.» «Ma è una sciocchezza.» «Non so se è una sciocchezza. Personalmente credo anch'io che un'intelligenza in grado di fare viaggi interstellari abbia ormai superato lo stadio del caos», replicò Samantha. «D'altra parte, credo anche che un simile argomento non possa essere trattato con leggerezza. L'umanità deve riflettere su come farsi notare. Altrimenti c'è il rischio di creare equivoci.» Anawak rimase in silenzio. Improvvisamente gli tornarono in mente le balene. «Non le capita mai di scoraggiarsi?» le chiese. «A chi non è mai successo? Ma per quello ci sono le sigarette e i video.» «E se raggiungesse il suo scopo?» «Buona domanda, Leon.» Samantha fece una pausa, strisciando distrattamente il dito sul piano del tavolo. «In fondo, è da anni che mi chiedo quale sia il nostro vero scopo. Credo che, se conoscessi la risposta, interromperei le ricerche. Una risposta è sempre la fine di una ricerca. Forse siamo tormentati dalla solitudine della nostra esistenza, dall'idea di essere un caso che non si è ripetuto da nessun'altra parte. Ma forse vogliamo anche la prova che siamo soli e quindi occupiamo davvero la posizione privilegiata che sosteniamo ci spetti nel creato. Non lo so. Perché lei studia balene e delfini?» «Sono... curioso.» No, non è del tutto vero, pensò Anawak mentre ri-
spondeva. È più che semplice curiosità. Ma che cosa sto cercando? Samantha aveva ragione. In fondo facevano la stessa cosa. Ciascuno tendeva l'orecchio nel proprio cosmo e sperava di ottenere risposte. Ciascuno provava il profondo desiderio di trovare una società di esseri intelligenti che non fossero umani. Una follia. Sembrava che Samantha avesse intuito i suoi pensieri. «Non facciamoci illusioni, la questione non è se, alla fine delle nostre ricerche, troveremo intelligenze aliene. In realtà, alla base delle nostre ricerche c'è una sola domanda: come cambierebbe l'umanità dopo la scoperta di altre intelligenze? Cosa ci resterebbe? E cosa perderemmo per sempre?» La donna si appoggiò allo schienale, si raddrizzò e gli rivolse un sorriso gentile. «Sa, Leon, credo che alla fine sia solo l'eterna domanda sul senso della vita.» Continuarono a parlare un po' di tutto, ma non di cetacei e di civiltà extraterrestri. Intorno alle dieci e mezzo - dopo aver bevuto un ultimo drink davanti al camino - si salutarono. Samantha gli aveva detto che sarebbe partita due giorni dopo. Uscirono dal ristorante e si accorsero che le nuvole erano sparite e il cielo stellato sembrava volerli risucchiare. Rimasero per un po' a guardarlo. «Non le capita di averne abbastanza delle sue stelle?» chiese Anawak. «Ne ha abbastanza delle sue balene?» «No, certo che no», replicò lui, sorridendo. «Spero che riesca a ritrovare i suoi animali.» «Glielo farò sapere, Sam.» «Lo verrò a sapere di certo, ma non da lei, perché le conoscenze sono sempre precarie. È stata una bella serata, Leon. Se c'incontreremo di nuovo ne sarò felice, ma lei sa bene come vanno le cose. Si prenda cura dei suoi animali... Credo che abbiano in lei un buon amico. Lei è una brava persona.» «Come fa a saperlo?» chiese lui. «Visto ciò di cui mi occupo, per me convinzione e conoscenza sono necessariamente sulla stessa lunghezza d'onda. Faccia attenzione.» Si strinsero la mano. «Forse ci rivedremo come orche», scherzò Anawak. «Perché proprio come orche?» «Gli indiani kawkiutl credono che i buoni rinascano come orche.» «Davvero? Mi piace.» Sembrava che tutto il viso di Samantha sorridesse. La maggior parte delle sue rughe era dovuta alle risate, pensò Anawak.
«E lo crede anche lei?» gli domandò. «Certo che no.» «Perché no? Non lo è anche lei?» «Sono che cosa?» chiese Anawak, benché sapesse benissimo che cosa intendesse. «Un indiano.» Anawak s'irrigidì. Si vedeva attraverso gli occhi di quella donna. Un uomo tarchiato, di media statura, con zigomi ampi e pelle color rame, gli occhi leggermente a fessura e i capelli folti, nerissimi e lisci che gli cadevano sulla fronte. «Qualcosa del genere», disse dopo una lunga pausa. Samantha Crowe lo fissò. Poi tirò fuori dalla giacca a vento il pacchetto di sigarette e ne accese una. «Già. Sono ossessionata anche da queste cose. Stia bene, Leon.» «Stia bene, Sam.» 13 marzo Costa norvegese e mar di Norvegia Sigur Johanson non vedeva e non sentiva Tina Lund da una settimana. Nel frattempo, aveva sostituito un professore ammalato e tenuto qualche lezione in più del previsto. Era stato anche impegnato nella stesura di un articolo per il National Geographic e si era occupato delle nuove forniture per la sua enoteca; per farlo, aveva ripreso la corrispondenza, interrotta da tempo, con un conoscente di Riquewihr, in Alsazia, un rappresentante della rinomata enoteca Hugel & Fils in possesso di alcuni vini rari che Johanson prevedeva di regalarsi per il suo compleanno. Inoltre aveva scovato un vinile con un'esecuzione dell'Anello del Nibelungo diretta da Sir Georg Solti. Così le serate erano trascorse velocemente. I vermi di Tina erano finiti in secondo piano, sotto lo schiacciante predominio di Hugel e Solti, e lì sarebbero rimasti, almeno fino all'arrivo dei risultati degli esami. Nove giorni dopo il loro incontro, finalmente Tina lo chiamò. Sembrava di ottimo umore. «Pare proprio che ti sia rilassata», constatò lui. «Devo preoccuparmi della tua obiettività scientifica?» «Forse», rispose Tina, tutta allegra. «Spiegati.» «Più tardi. Ascolta, domani la Thorvaldson sarà sul margine continentale
e calerà un robot. Vuoi esserci?» «Al mattino sono impegnato. I miei studenti devono prendere confidenza col sex appeal dei solfobatteri», disse lui. «È un peccato. La nave salpa proprio al mattino.» «Da dove?» «Da Kristiansund.» Kristiansund si trovava circa un'ora di macchina a sud-ovest di Trondheim, su una costa rocciosa battuta dal vento e dalle onde. Dal vicino aeroporto partivano gli elicotteri per le piattaforme di produzione, che si allineavano lungo lo zoccolo continentale norvegese. Solo al largo della Norvegia c'erano settecento piattaforme per l'estrazione del petrolio e del gas. «Non posso raggiungerla dopo?» propose Johanson. «Sì, forse», mormorò Tina dopo un istante di silenzio. «Non è una cattiva idea. Anzi, adesso che ci penso, potremmo andarci insieme. Che cosa fai dopodomani?» «Nulla che non possa rinviare.» «Affare fatto. Andiamo insieme e passiamo la notte sulla Thorvaldson. Avremo tutto il tempo per le osservazioni e per le analisi.» «Ho capito bene? Vuoi venire con me?» domandò stupito Johanson. «Certo. Io... Sì, insomma, potrei trascorrere una mezza giornata, sulla costa e tu potresti raggiungermi nel primo pomeriggio. Poi voliamo insieme sulla piattaforma petrolifera Gullfaks e da lì prendiamo il transfer per la Thorvaldson», propose lei. «Mi piace quando segui l'impulso del momento. Ma potrei sapere perché complichi le cose?» «Come? Te le sto rendendo più facili, no?» «Appunto. Le stai rendendo più facili a me. Tu potresti essere a bordo già domattina», disse Johanson. «Sono contenta di farti compagnia.» «Che affascinante bugiarda. Okay. Allora, tu sei sulla costa. Dove ti trovo?» chiese lui. «A Sveggesundet», rispose Tina. «Mio dio! Quel buco di paese! Perché proprio Sveggesundet?» «È carino, invece. Ci troviamo al Fiskehuset. Sai dov'è?» «Ho esplorato a sufficienza la zona per conoscere i pochi elementi di civiltà presenti a Sveggesundet. Non è il ristorante sulla costa vicino alla vecchia chiesa di legno?» «Proprio quello.»
«Alle tre?» «Alle tre va benissimo. All'elicottero ci penso io. Verrà a prenderci direttamente là.» Tina fece una pausa, quindi chiese: «Ti sono arrivati i risultati delle analisi?» «Purtroppo no. Probabilmente arriveranno domani.» «Sarebbe perfetto.» «Ci saranno. Non preoccuparti.» Chiusero la conversazione. Johanson aggrottò la fronte. Rieccolo, il verme. Ritornava in primo piano e richiedeva tutta la sua attenzione. In effetti era sorprendente che in un ecosistema da tempo conosciuto comparisse improvvisamente una nuova specie. I vermi in sé non avevano nulla di preoccupante. Non a tutti piacevano, ma se gli uomini diffidavano di collettività organiche c'era una spiegazione psicologica. A parte quello, i vermi erano molto utili. Ha senso che siano lì, pensò Johanson. Se sono davvero imparentati coi vermi del ghiaccio, allora vivono grazie al metano, anche se indirettamente. E giacimenti di metano si trovano su tutta la scarpata continentale, anche davanti alla Norvegia. Però restava una faccenda singolare. Le analisi dei tassonomi e dei biochimici avrebbero risposto a tutte le domande. Tuttavia, finché non c'erano i risultati, lui poteva dedicarsi a scegliere tra i Gewürztraminer di Hugel. Al contrario dei vermi, in genere semplici da identificare, trovare il vino giusto era molto difficile, specialmente per certe annate. Il giorno seguente, quando Johanson entrò nel suo ufficio, trovò due lettere con le analisi tassonomiche. Soddisfatto, scorse velocemente i risultati, con l'intenzione di metterli subito da parte. Invece li rilesse con maggiore attenzione. Strani animali, in effetti. Infilò tutto nella borsa e andò a lezione. Due ore dopo, era sulla jeep e stava attraversando il paesaggio collinare e i fiordi in direzione Kristiansund. Ormai era iniziato il disgelo. Gran parte della neve era sparita, lasciando posto a una campagna nera e marrone. In quei giorni, le condizioni meteorologiche rendevano difficile la scelta dell'abbigliamento. All'università, metà del personale era raffreddato. Johanson si era premunito e aveva preparato una valigia che forse era troppo pesante per il volo in elicottero, ma non aveva voglia di prendersi un raffreddore sulla Thorvaldson, e so-
prattutto non tollerava che la scelta del suo abbigliamento fosse dettata dal mezzo di trasporto. Tina l'avrebbe preso in giro nel vederlo con tutto quel bagaglio, ma non gli importava. Se fosse stato possibile, si sarebbe portato anche una sauna da viaggio. Inoltre nel suo bagaglio c'erano alcune cose che sarebbero state senza dubbio utili durante una notte su una nave in compagnia di una donna. Sì, erano solo amici, ma ciò non implicava che dovessero tenere le distanze. Johanson guidava lentamente. Avrebbe potuto raggiungere Kristiansund in un'ora, ma la fretta non faceva per lui. A metà percorso, la strada costeggiava l'acqua e procedeva lungo una serie di ponti, pertanto lui si gustò la vista di quel panorama selvaggio. Nei pressi di Halsa, imboccò la strada che passava sui fiordi, scorgendo vari ponti che attraversavano l'acqua color ardesia. La stessa Kristiansund sorgeva su diverse isole. Superò la città e passò sull'isola di Averoy, un luogo carico di storia, giacché era stato uno dei primi a essere abitato subito dopo l'ultima glaciazione. Sveggesundet, un pittoresco villaggio di pescatori, sorgeva sulla punta estrema dell'isola. Durante l'alta stagione, era invaso da eserciti di turisti e le barche viaggiavano senza sosta tra le isole. In quel momento c'era poca gente, ma già s'intravedeva l'attesa dell'imminente estate, foriera di guadagni. Dopo due ore di viaggio, svoltò nel parcheggio ghiaioso del Fiskehuset, un ristorante la cui terrazza offriva una bella vista sul mare. Era chiuso e non c'era anima viva. Tina era seduta a un tavolo di legno, all'aperto, incurante del freddo, ed era in compagnia di un giovane che Johanson non conosceva. Il modo in cui i due se ne stavano vicini sulla panca gli fece però sorgere un sospetto. Si avvicinò e tossicchiò. «Sono in anticipo?» Lei sollevò lo sguardo. Nei suoi occhi c'era uno straordinario luccichio. Johanson osservò l'uomo che le stava vicino - un trentenne di corporatura atletica, coi capelli biondo scuro e con un viso dai bei lineamenti - e il sospetto divenne certezza. «Posso tornare più tardi», disse cortesemente. Lei fece le presentazioni. «Kare Sverdrup... Sigur Johanson.» Il biondo sorrise a Johanson e gli tese la mano destra. «Tina mi ha raccontato molte cose di lei.» «Spero nulla che la possa inquietare.» Kare sorrise. «Al contrario, so che lei è un intrattenitore straordinariamente affascinante.» «Un vecchiaccio straordinariamente affascinate», lo corresse Tina. «Un libidinoso vecchiaccio», completò Johanson. Si sedette sulla panca di fronte ai due, sollevò il colletto della giacca a vento e appoggiò vicino a
sé la borsa contenente le analisi. «La parte tassonomica. Molto esauriente. Posso fare una sintesi, se vuoi.» Guardò Kare. «Non vorremmo annoiarla. Tina le ha raccontato di cosa si tratta oppure si è limitata a guardarla, sospirando d'amore?» Tina gli gettò un'occhiataccia. «Capisco.» Johanson aprì la borsa e tirò fuori le buste. «Allora, ho mandato uno dei tuoi vermi al Forschunginstitut di Francoforte e un altro allo Smithsonian Institute: ci lavorano i migliori tassonomi che io conosca e sono specialisti nel campo dei vermi. Un altro verme è andato a Kiel, per essere analizzato col microscopio elettronico a scansione lineare, ma non ho ancora i risultati. Manca anche l'analisi dello spettrometro di massa. Anzitutto ti posso dire su che cosa sono d'accordo gli esperti.» «Davvero?» Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Sono d'accordo sul fatto che non sono d'accordo.» «Illuminante.» «Sostanzialmente hanno confermato la mia prima impressione. Si tratta, con un certo margine di verosimiglianza, di Hesiocaeca methanicola, noto anche come 'verme del ghiaccio'.» «Il mangiametano?» «La definizione non è corretta, mia cara, ma fa lo stesso. Questa è la prima parte. La seconda è che le mascelle enormemente pronunciate e le numerose file di denti fanno sorgere dei dubbi. Queste caratteristiche fanno pensare a un predatore, oppure a uno scavatore o a un macinatore. E questo è strano.» «Perché?» «Perché ai vermi del ghiaccio non servono apparati tanto grandi. È vero che hanno le mascelle, ma sono decisamente più piccole.» Kare ridacchiò, imbarazzato. «Mi scusi, dottor Johanson, io non capisco molto di questi animali, però m'interessano. Perché non hanno bisogno delle mascelle?» chiese. «Perché vivono in maniera simbiotica», spiegò Johanson. «Assumono batteri che a loro volta vivono negli idrati di metano...» «Negli idrati?» chiese Kare. Johanson gettò una fugace occhiata a Tina e lei scrollò le spalle, borbottando: «Spiegaglielo». «È semplice. Forse ha sentito dire che gli oceani sono pieni di metano», cominciò.
«Sì, in questo periodo non si legge altro.» «Il metano è un gas. Si trova in grandi quantità sul fondale marino lungo la scarpata continentale. La superficie del fondale è gelata. Acqua e metano si uniscono in una sorta di ghiaccio, che resiste solo se sottoposto a pressioni elevate e basse temperature. Ecco perché si trova solo a una certa profondità. Questo ghiaccio si chiama 'idrato di metano'. Fin qui tutto chiaro?» Kare annuì. «Bene. Nell'oceano ci sono batteri ovunque. Alcuni assimilano il metano: lo mangiano e separano l'acido solfidrico. È vero che i batteri sono microscopici, però la loro quantità è tale che essi ricoprono il fondale marino come un tappeto. Infatti parliamo di 'tappeti di batteri'. Questi tappeti si trovano prevalentemente dove ci sono idrati di metano. Domande?» «Non ancora», disse Kare. «Presumo che ora entrino in gioco i vermi.» «Esatto. Ci sono vermi che vivono dei prodotti di rifiuto dei batteri. Hanno un legame simbiotico con loro. In alcuni casi, il verme mangia i batteri e li tiene dentro di sé; in altri casi, essi vivono su di lui. In un modo o nell'altro, procurano il nutrimento ai vermi. Per questo il verme vive sugli idrati. Si mette comodo, si concede un bel boccone di batteri e non fa molto altro. Per esempio, non ha bisogno di scavare perché non mangia il ghiaccio, ma i batteri che ci stanno sopra. Si limita a rotolare su se stesso per sciogliere un avvallamento e poi se ne sta lì, tutto soddisfatto.» «Capisco», disse Kare lentamente. «Il verme non ha nessun motivo di spingersi in profondità. Ma gli altri vermi lo fanno?» «Ci sono specie diversissime. Alcune mangiano i sedimenti o i tessuti presenti sui sedimenti, oppure elaborano il detritus», rispose Johanson. «E cos'è?» «È tutto ciò che, dalla superficie, affonda negli abissi marini. Cadaveri, particelle, resti di ogni genere. Ci sono vermi che non vivono in simbiosi coi batteri e quindi hanno potenti mascelle per afferrare la preda o scavare.» «In ogni caso, i vermi del ghiaccio non hanno bisogno di mascelle», disse Kare. «Certo, hanno piccole mascelle per triturare minuscole quantità di idrati o per filtrare i batteri. Ma non dei dentoni come quelli degli esemplari di Tina», rispose Johanson. Quell'argomento sembrava appassionare sempre più Kare. «Se i vermi scoperti da Tina vivono in simbiosi coi batteri che mangiano il metano...»
«... dobbiamo chiederci a che cosa serve quell'arsenale di mandibole e denti», confermò Johanson. «Adesso la questione diventa ancora più intrigante. I tassonomi hanno trovato un secondo verme che sembra avere una struttura mandibolare simile. Si chiama Nereis, ed è un predatore che si trova a tutte le profondità. Il piccoletto di Tina, dunque, ha le mandibole e i denti del Nereis, ma il suo aspetto fa pensare a un antenato preistorico del Nereis. Per così dire, un Tyrannereis rex.» «Sembra inquietante», fu il commento di Kare. «Più che altro sembra un ibrido», lo corresse Johanson. «Dobbiamo aspettare le analisi al microscopio e quelle genetiche.» «Sulla scarpata continentale ci sono idrati di metano a non finire», intervenne Tina, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Potrebbe essere.» «Aspettiamo.» Johanson tossicchiò e osservò Kare. «E lei, di che cosa si occupa? Anche lei nel ramo del petrolio?» L'altro scosse la testa. «No», rispose allegramente. «M'interesso di tutto ciò che si può mangiare. Faccio il cuoco.» «Che piacere! Lei non sospetta neppure quanto sia snervante avere sempre a che fare con gli accademici.» «Cucina da dio», precisò Tina. Probabilmente non è l'unica cosa che fa da dio, pensò Johanson. Peccato. Si consolò pensando che avrebbe gustato con Tina le prelibatezze che aveva portato con sé. A pensarci bene, si sentiva sollevato. A volte provava attrazione per Tina Lund, ma ringraziava il destino ogni volta che si lasciavano senza che fosse successo niente. Era una donna troppo impegnativa per lui. «E come vi siete conosciuti?» chiese poi, benché non gliene importasse nulla. «L'anno scorso ho rilevato il Fiskehuset», spiegò Kare. «Tina è stata qui qualche volta, ma non avevamo fatto altro che salutarci.» Le mise il braccio sulle spalle e lei gli si avvicinò. «Fino alla settimana scorsa.» «Già», borbottò Johanson, levando gli occhi al cielo. «Si vede.» Mezz'ora dopo, si trovavano sull'elicottero, insieme con una dozzina di operai petroliferi. Johanson guardava fuori, in silenzio. Sotto di loro scorreva la superficie del mare, uniformemente grigia e frastagliata. Sorvolavano in continuazione cargo, traghetti, petroliere e navi che trasportavano gas. Infine comparvero le piattaforme. Da quando una compagnia petrolifera americana, in una tempestosa notte invernale del 1969, aveva scoperto il petrolio, il mare del Nord si era trasformato in una bizzarra zona indu-
striale, poggiata su enormi pali ed estesa dall'Olanda fino alla piattaforma Haltenbank, davanti a Trondheim. Nelle giornate limpide, si potevano scorgere dozzine di gigantesche piattaforme. Viste dall'elicottero, sembravano giocattoli per giganti. Raffiche di vento scuotevano il velivolo, che si alzava e si abbassava. Johanson si sistemò meglio le cuffie antirumore. Tutti portavano cuffie e tute protettive; stavano così stretti che le loro ginocchia si toccavano e ogni movimento doveva essere coordinato. A causa del rumore, poi, era impossibile parlare. Tina aveva chiuso gli occhi. Era troppo abituata a quei voli per esserne disturbata. L'elicottero virò e proseguì verso sud-ovest. La sua meta, Gullfaks, era un insieme di piattaforme di proprietà della società petrolifera statale Statoil. L'impianto di estrazione Gullfaks C era una delle più grandi piattaforme della parte settentrionale del mare del Nord. Con le sue duecentottanta persone, formava una piccola comunità. A dirla tutta, Johanson non avrebbe potuto atterrare lì. Erano passati anni da quando aveva fatto il corso per ottenere il permesso di salire su una piattaforma e, nel frattempo, le norme di sicurezza si erano fatte più severe. Ma Tina aveva i contatti giusti. Comunque quello sarebbe stato solo uno scalo intermedio, perché sarebbero saliti immediatamente a bordo della Thorvaldson, che, da almeno un'ora, si trovava nei pressi della Gullfaks C. Una violenta turbolenza fece abbassare improvvisamente l'elicottero. Johanson si aggrappò ai braccioli, ma nessun altro reagì. I passeggeri, in prevalenza uomini, erano abituati a ben altre tempeste. Tina voltò la testa, aprì per un attimo gli occhi e gli fece l'occhiolino. In un certo senso, Kare Sverdrup era proprio fortunato. Chissà se sarebbe stato in grado di reggere il passo di Tina... L'elicottero si abbassò ancora e fece un'altra virata, dando l'impressione che stesse precipitando in mare. Poi comparve un grattacielo bianco, che sembrava svettare sull'acqua, e il velivolo si preparò all'atterraggio. Per un momento, dal finestrino, si vide tutta la Gullfaks C: un colosso su quattro piloni di cemento armato, pesante un milione e mezzo di tonnellate, con un'altezza complessiva di quasi quattrocento metri, di cui oltre la metà era sott'acqua, dove i pilastri si ergevano in mezzo a un intrico di serbatoi. Il grattacielo bianco, l'ala residenziale, occupava solo una piccola parte di quella gigantesca costruzione. Il corpo principale si presentava al profano come un caos di ponti invasi da strumenti tecnologici e da macchinari misteriosi, collegati da fasci di condutture, affiancati da gru e sormontati dal-
la cattedrale dei lavoratori petroliferi, la torre d'estrazione. Sulla punta di un gigantesco braccio metallico, proteso verso il mare, ardeva una fiamma che non si spegneva mai, alimentata dal gas separato dal petrolio. L'elicottero si abbassò sulla pista in cima all'ala residenziale e atterrò in modo sorprendentemente dolce. Tina sbadigliò, si stiracchiò per quanto lo consentiva lo spazio angusto e attese che i rotori si fermassero. «È stato un bel volo», disse. Qualcuno rise. Gli sportelli si aprirono e i passeggeri scesero. Johanson si avvicinò al bordo della pista d'atterraggio e guardò in basso. Almeno centocinquanta metri sotto di lui, le onde schiumavano. Un vento tagliente gli gonfiava la tuta. «Esiste qualcosa che possa affondare questo affare?» chiese. «Non c'è nulla che non possa essere affondato. Su, vieni. Non vorrai mettere radici, eh?» Tina lo prese sottobraccio e lo trascinò nella direzione degli altri passeggeri, che erano spariti nella parte opposta della pista. Sul pianerottolo della scala d'acciaio c'era un uomo piccoletto e tarchiato, con folti baffi bianchi. «Tina, hai nostalgia del petrolio?» gridò, gesticolando. «Quello è Lars Jörensen», spiegò lei. «È il responsabile del traffico aereo e marittimo della Gullfaks C. Ti piacerà, è un provetto giocatore di scacchi.» Nel frattempo Jörensen li aveva raggiunti. Indossava una T-shirt della Statoil e a Johanson sembrò un benzinaio. «Avevo nostalgia di te.» disse Tina, ridendo. Jörensen sorrise. La strinse al petto e i suoi baffi sparirono sotto il mento della donna. Poi strinse la mano a Johanson. «Avete scelto una pessima giornata», borbottò. «Col bel tempo si vede tutto l'orgoglio dell'industria petrolifera norvegese. Isola per isola.» «Non c'è movimento?» chiese Johanson, mentre scendeva la scala a chiocciola. Jörensen scosse la testa. «Non più del solito. Sei mai stato su una piattaforma?» Come la maggior parte degli scandinavi, anche Jörensen aveva adottato subito il «tu». «Un po' di tempo fa. Quanto estraete?» «Sempre meno, temo. Da parecchio tempo alla Gullfaks la quantità è stabile: duecentomila barili da ventun pozzi petroliferi. Adire la verità, potremmo essere soddisfatti, ma non lo siamo. Già si vede la fine.» Indicò il mare. A qualche centinaio di metri, Johanson scorse una petroliera ormeggiata a una boa. «La stiamo giusto riempiendo. Ne deve arrivare ancora
una, poi per oggi è finita. Prima o poi cominceranno a diminuire. La roba si esaurisce lentamente e nessuno ci può fare nulla.» I punti di estrazione non erano direttamente sotto la piattaforma, ma tutt'intorno a essa e a una certa distanza. Quando il petrolio arrivava in superficie, veniva depurato dall'acqua e dal sale, separato dal gas e immagazzinato nei serbatoi intorno ai piloni della piattaforma. Da lì, veniva pompato alle boe di carico attraverso gli oleodotti. Intorno alla piattaforma c'era una zona di sicurezza di cinquecento metri, che non poteva essere oltrepassata da nessun mezzo, a eccezione delle navi fabbrica della piattaforma stessa. Johanson sbirciò oltre il parapetto metallico. «Non dovrebbe esserci la Thorvaldson?» chiese. «È all'altra boa. Da qui non potete vederla», spiegò Jörensen. «Non possono avvicinarsi neppure le navi oceanografiche?» «No, la Thorvaldson non è della Gullfaks ed è troppo grossa per i nostri gusti. Non vogliamo altri guai! Ne abbiamo già abbastanza coi pescatori, che non vogliono capire di spostare altrove il loro maledetto culo.» «Avete difficoltà coi pescatori?» «Eccome. La settimana scorsa ne abbiamo beccati alcuni che avevano inseguito un banco di pesci fin sotto la piattaforma. Ne capitano in continuazione, di grane simili. Recentemente c'è stata una situazione critica alla Gullfaks A. Una piccola nave cisterna con un guasto ai motori stava andando sotto la piattaforma. Abbiamo mandato giù alcuni dai nostri per allontanarla, ma l'equipaggio è riuscito a riprendere in tempo il controllo.» Quello che Jörensen raccontava con tanto distacco in realtà era la catastrofe che tutti temevano: una nave cisterna piena fino all'orlo che si staccava dall'ormeggio e finiva contro una piattaforma. Una collisione avrebbe potuto far vacillare le isole più piccole, ma il vero pericolo era rappresentato dall'esplosione. Sebbene la piattaforma fosse dotata di un sistema antincendio che alla minima presenza di fuoco sprigionava tonnellate d'acqua, l'esplosione di una petroliera sarebbe stata la fine. Simili incidenti erano rari e accadevano per lo più nel Sudamerica, dove le norme di sicurezza erano applicate con minor rigore. Nel mare del Nord ci si atteneva alle prescrizioni. Quando il vento soffiava troppo forte, le navi non venivano caricate. «Sei dimagrito», disse Tina a Jörensen, mentre lui le teneva aperta la porta. Entrarono nella zona residenziale e attraversarono un corridoio ai cui lati si aprivano porte identiche che conducevano agli alloggi. «Non fanno da mangiare bene, qui?»
«Troppo bene», ridacchiò Jörensen. «Il cuoco è davvero bravo. Dovresti vedere la nostra mensa», proseguì, rivolto a Johanson. «Il Ritz al confronto è un chiosco da spiaggia. No, il direttore della piattaforma ha dichiarato guerra alle pance, altrimenti c'è il licenziamento.» «Davvero?» «Direttive della Statoil. Non so se si arriverà a tanto, ma la minaccia funziona. Nessuno vuole perdere il lavoro.» Raggiunsero una scala stretta e scesero. Vennero loro incontro alcuni uomini, diretti verso il fondo della piattaforma. Mentre i loro passi risuonavano nel vano d'acciaio, Jörensen li salutò, poi disse ai visitatori: «Eccoci, capolinea. Ora la scelta è vostra. A sinistra, beviamo insieme un caffè e chiacchieriamo ancora per una mezz'oretta. A destra, si va alla nave». «Berrei volentieri un caffè...» disse Johanson. «Grazie», lo interruppe Tina. «Ma abbiamo poco tempo.» «La Thorvaldson non salpa senza di voi», mugugnò Jörensen. «Potreste tranquillamente...» «Non voglio arrivare a bordo all'ultimo momento», lo interruppe lei. «La prossima volta mi prenderò più tempo, promesso. E porterò con me anche Johanson. È tempo che qualcuno ti batta a scacchi.» Jörensen rise e uscì all'aperto, scrollando le spalle. Tina e Sigur lo seguirono e furono investiti da una folata di vento. Si trovavano sul bordo più basso del blocco residenziale. Il fondo della passerella su cui procedevano era formato da fitte grate di acciaio e, attraverso le maglie, si scorgeva il mare mosso. C'era molto più rumore che sulla pista di atterraggio degli elicotteri; l'aria esplodeva di sibili e rimbombi. Jörensen si avviò lungo la passerella, dove si trovava un gommone arancione coperto e appeso a una gru. «Che cosa dovete fare a bordo della Thorvaldson? Ho sentito che la Statoil vuole costruire ancora più al largo.» «Possibile», rispose Tina. «Una piattaforma?» «Non c'è ancora nulla di definitivo. Forse anche una SWOP» SWOP era l'acronimo di Single Well Offshore Production System. Per trivellazioni fino a una profondità di trecentocinquanta metri venivano usate le SWOP, navi simili a gigantesche petroliere dotate di un sistema di estrazione, legate con un tubo di trivellazione alla testa del pozzo petrolifero. Così risucchiavano direttamente dal fondale marino il petrolio greggio e servivano anche come deposito provvisorio.
Jörensen diede un buffetto sulla guancia di Tina. «Allora non farti venire il mal di mare, piccola.» Salirono sull'imbarcazione, che era grande e spaziosa, con pareri rigide e file di panche. A bordo con loro c'era solo il timoniere. Un leggero tremolio attraversò lo scafo non appena la fune della gru si mise in movimento, facendo abbassare la barca. Dai finestrini laterali vedevano scorrere la grigia superficie screpolata di cemento. Poi improvvisamente si ritrovarono a dondolare tra le onde. I venti li arpionarono come uncini e li portarono sotto la piattaforma. Faticando a stare in piedi, Johanson si sistemò dietro il timoniere e si mise a osservare la Thorvaldson. La poppa della nave oceanografica era caratterizzata dai tipici scalmi, con cui venivano calati in mare i batiscafi e gli altri strumenti per la ricerca. Poi il timoniere accostò. Ormeggiarono e salirono su una scala a pioli d'acciaio assicurata allo scafo. Per un attimo, mentre si trascinava appresso il bagaglio, Johanson pensò che forse non era stata un'idea così brillante portare con sé metà del suo guardaroba. Tina, che si stava arrampicando davanti a lui, si voltò e disse: «Dalla valigia sembra che tu abbia intenzione di trascorrere qui le vacanze...» Johanson sospirò, rassegnato. «Mi ero già illuso che non te ne fossi accorta.» Nel mondo, ogni grande costa è circondata da una zona d'acqua relativamente bassa, la zona dello zoccolo continentale, profonda al massimo duecento metri. In sostanza, lo zoccolo continentale non è altro che la prosecuzione sottomarina della placca continentale. In alcune parti del mondo si estende solo per un breve tratto; in altre per centinaia di chilometri, finché il fondale non sprofonda negli abissi marini, in certi punti di colpo e in verticale, in altri con terrazze che digradano dolcemente. Al di là del mare dello zoccolo continentale, comincia l'universo sconosciuto di cui gli scienziati sanno ancora meno che dello spazio. Gli uomini tengono totalmente sotto controllo lo zoccolo continentale, ma non gli abissi marini. Sebbene i mari poco profondi costituiscano circa l'otto per cento della superficie marina, quasi tutto il pescato mondiale proviene da lì. L'animale terrestre uomo viveva d'acqua: ecco perché due terzi dei suoi esemplari si sono insediati su una stretta striscia di costa larga appena sessanta chilometri. Sulle carte oceanografiche, la regione dello zoccolo continentale davanti al Portogallo e nel nord della Spagna appare come una sottile striscia. Invece circonda ampiamente le isole britanniche e la Scandinavia, al punto
che le due regioni s'incontrano a formare il mare del Nord, mediamente profondo tra i venti e i centocinquanta metri, quindi molto basso. Il piccolo mare dell'Europa settentrionale, che nella forma attuale esiste da diecimila anni, non sembra avere nulla di particolare, a parte le difficili condizioni determinate dal freddo e dalle correnti. Tuttavia ha un ruolo centrale per l'economia mondiale. È una delle zone più trafficate della Terra, su cui si affacciano nazioni industriali molto sviluppate e il più grande porto di tutti i tempi, Rotterdam. Il canale della Manica è diventato una delle rotte più frequentate del mondo. In quello strettissimo spazio manovrano cargo, petroliere e traghetti. Sono passati trecento milioni di anni da quando sono spariti gli enormi acquitrini che legavano il continente all'Inghilterra, l'oceano si espandeva e si ritirava. Fiumi impetuosi trascinavano fango, piante e resti di animali nel bacino settentrionale che, col passare del tempo, si era trasformato in una coperta di sedimenti spessa chilometri. Mentre il terreno si abbassava, nascevano filoni di carbone. Nuovi strati si addossavano gli uni sugli altri e pressavano i sedimenti di arenaria e pietra calcarea sottostanti. Contemporaneamente, nelle profondità, la temperatura si alzava. I resti organici nella roccia subivano processi chimici complessi e, sotto l'effetto della pressione e del calore, si trasformavano in petrolio e gas. Una parte era filtrata attraverso la roccia porosa sul fondale marino, perdendosi nell'acqua. La maggior parte, però, era rimasta nei giacimenti sotterranei. Per milioni di anni lo zoccolo continentale era stato tranquillo. Era stato il petrolio a portare il cambiamento. La Norvegia, una nazione di pescatori ormai in declino, si era gettata sui tesori appena scoperti nei fondali marini - come l'Inghilterra, l'Olanda e la Danimarca - e, nel giro di trent'anni, era diventata la seconda esportatrice mondiale di petrolio. Il grosso dei giacimenti, e quindi circa la metà di tutte le risorse europee, si trovala al di sotto dello zoccolo continentale norvegese. E le riserve di gas norvegesi avevano più o meno le stesse dimensioni. Si costruirono piattaforme dopo piattaforme. I problemi tecnici erano risolti senza curarsi dei costi per l'ambiente. Così si era trivellato sempre più in profondità, e le semplici strutture dei primi anni si erano trasformate in torri di trivellazione alte come l'Empire State Building. Progetti di piattaforme sottomarine completamente telecomandate stavano ormai diventando realtà. Sembrava che la festa non dovesse mai finire. E invece sarebbe finita, e pure in fretta. La quantità di pescato e le estrazioni di petrolio erano diminuite in tutto il mondo. Quello che si era forma-
to in milioni di anni sarebbe scomparso in meno di quarant'anni. Molti giacimenti nel mare dello zoccolo continentale erano pressoché esauriti. Cominciava a delinearsi il fantasma di un gigantesco deposito di rottami: non si sapeva che cosa fare delle piattaforme abbandonate, perché nessuna forza al mondo sarebbe stata in grado di smuoverle. Solo una via di salvezza sembrava ancora aperta: al di là dello zoccolo continentale, sulla scarpata continentale e negli estesi bacini abissali, si trovavano giacimenti inviolati. Tuttavia le piattaforme tradizionali non erano adatte a sfruttarle, così Tina e il suo gruppo stavano progettando impianti di altro tipo. Non sempre la scarpata era ripida, infatti c'erano punti in cui digradava in terrazze che offrivano un terreno ideale per stazioni sottomarine. Ciò nonostante, a causa dei rischi legati a un progetto che prevedeva una simile distanza dal margine continentale, bisognava prevedere una forza lavoro ridotta al minimo. In fondo, con la diminuzione della quantità di estratto, aveva subito una battuta d'arresto anche la fortuna dei lavoratori petroliferi che, nel corso degli anni '70 e '80, erano stati assai richiesti e ben retribuiti. Per la Gullfaks C, per esempio, si progettava una riduzione del personale fino a due dozzine di unità. E c'erano piattaforme come quella chiamata «L'uomo sulla luna», un impianto nel canale norvegese, che ormai funzionavano quasi completamente in automatico. Alla fine gli affari petroliferi del mare del Nord erano diventati deficitari. Ma interromperli avrebbe comportato problemi ancora più gravi. Quando Johanson uscì dalla sua cabina, a bordo della Thorvaldson regnava un'atmosfera tranquilla. La nave non era particolarmente grande. Un gigante delle ricerche come la Polarstern, del porto di Brema, avrebbe permesso anche l'atterraggio di un elicottero, ma la Thorvaldson aveva bisogno di spazio per le attrezzature e così Sigur e Tina l'avevano raggiunta via mare. Johanson andò verso il parapetto e guardò fuori. Nelle due ore precedenti, si erano lasciati alle spalle tutto l'insediamento di piattaforme, le cui isole erano collegate da trasporti aerei. Ormai si trovavano oltre le isole Shetland, al di là del margine continentale e, così al largo, non c'erano più costruzioni. Si riconoscevano in lontananza i profili delle isolate torri di perforazione, ma non si aveva più l'impressione di essere in una sovraffollata zona industriale. Sotto la nave, poi, si stendevano approssimativamente settecento metri d'acqua. La scarpata continentale era misurata e cartografata, ma si aveva solo una vaga idea della zona delle tenebre eterne. Grazie alla luce di potenti proiettori, era stato possibile osservarne
alcuni settori, però il quadro generale ancora mancava. Era come se in tutta la Norvegia, la notte, fosse stato acceso un unico lampione. Johanson pensò al suo Bordeaux e alla piccola «collezione» di formaggi francesi e italiani che aveva in valigia. Si mise alla ricerca di Tina e la trovò impegnata nelle operazioni di controllo del robot. L'automa era appeso al braccio della gru: era un aggeggio rettangolare con un telaio di tubi, alto almeno tre metri e tecnologicamente all'avanguardia. Sulla parte superiore, chiusa, c'era scritto il nome: Victor. Nella parte anteriore, Johanson vide una telecamera e un braccio prensile ritratto. Tina lo guardò, raggiante. «Impressionato?» Johanson girò intorno a Victor. «Un grande aspirapolvere giallo», commentò. «Sei un disfattista.» «Va bene, ne sono affascinato. Quanto pesa questo affare?» chiese Johanson. «Quattro tonnellate. Ehi, Jean!» Un uomo magro, coi capelli rossi, sbucò da dietro un groviglio di cavi. Tina gli fece un cenno. «Jean-Jacques Alban è il primo ufficiale di questo rottame galleggiante. Senti, Jean, devo sistemare ancora alcune cose. Ma Sigur è spaventosamente curioso e vuole sapere tutto su Victor. Occupati di lui, per favore.» Tina sparì di corsa e Alban la seguì con lo sguardo in cui si leggeva un'aria di divertita rassegnazione. «Credo che lei abbia di meglio da fare che raccontarmi la storia di Victor», borbottò Johanson. «Nessun problema.» Alban sorrise. «Un giorno Tina riuscirà anche a superare se stessa. Lei è l'uomo dell'NTNU, vero? È lei quello che ha esaminato i vermi.» «Ho solo espresso la mia opinione. Come mai quegli animaletti vi creano tanti problemi?» Alban fece cenno di no. «Ci preoccupiamo della composizione del suolo qui sulla scarpata. I vermi li abbiamo scoperti per caso e occupano quasi esclusivamente le fantasie di Tina.» «Pensavo che immergeste il robot per i vermi», si meravigliò Johanson. «Gliel'ha detto Tina?» Alban guardò l'automa e scosse la testa. «No, quella è solo una parte della missione. Naturalmente qui non prendiamo nulla alla leggera: stiamo preparando l'installazione di una stazione di misurazione di lungo periodo. La piazziamo esattamente sopra il giacimento
petrolifero che abbiamo rilevato. Se arriviamo alla conclusione che il luogo è sicuro, allora ci mettiamo una stazione di estrazione sottomarina.» «Tina ha accennato a una SWOP.» Alban lo guardò come se non sapesse cosa dire. «Non credo. È ormai praticamente certo che si farà una stazione sottomarina. Se poi è cambiato qualcosa, mi deve essere sfuggito.» Ah-ah. Non ci sarà una piattaforma galleggiante, allora, pensò Johanson. Ma forse era meglio non approfondire l'argomento. Allora rivolse ad Alban alcune domande sul robot subacqueo. «È un Victor 6000, un Remotely Operated Vehicle, abbreviato in ROV», spiegò l'altro. «Può arrivare fino a seimila metri e lavorare alcuni giorni a quella profondità. Lo guidiamo dalla superficie e riceviamo i dati in tempo reale per mezzo di cavi. Stavolta resterà sott'acqua quarantott'ore. Tra le altre cose, naturalmente, deve anche prendere una bella bracciata di vermi. La Statoil non vuole essere accusata di minacciare la biodiversità.» Fece una pausa. «Che cosa ne pensa di quelle bestiole?» «Nulla, per ora», rispose Johanson, evasivo. Poi sentì un rumore di macchinari e vide che il braccio della gru si metteva in movimento, sollevando Victor. «Venga», disse Alban. A metà della nave passarono davanti a cinque container alti come un uomo. «La maggior parte delle navi non è attrezzata per l'utilizzo di Victor. L'abbiamo preso a noleggio dalla Polarstern, perché è proprio quello che ci serve.» «Cosa c'è nei container?» domandò Johanson. «Le unità idrauliche per l'argano, i gruppi motore, tutte le carabattole possibili. In quello davanti, si trova la sala di controllo del ROV. Stia attento alla testa.» Entrarono nell'angusto container attraverso una porta bassa. Johanson si guardò intorno. Più della metà dello spazio era occupato dal quadro di comando, con due file di monitor; alcuni erano spenti, altri mostravano i dati del ROV e informazioni sulla navigazione. Davanti a essi c'erano diverse persone, tra cui anche Tina. «Quello al posto di guida è il pilota», spiegò Alban a voce bassa. «Alla sua destra c'è il copilota, che si occupa anche del braccio prensile. Victor è sensibile e preciso, ma bisogna essere molto abili per farlo funzionare come si deve. La postazione successiva è quella del coordinatore. Tiene i contatti con l'ufficiale di guardia sul ponte in modo che la nave e il robot possano lavorare in sincronia. Dall'altra parte siedono gli scienziati. Que-
sto è il posto di Tina, che si occuperà della telecamera e di salvare le immagini. Siamo pronti?» «Potete immergerlo», disse Tina. L'uno dopo l'altro, anche gli ultimi monitor si accesero. Johanson vide parte della poppa, del braccio della gru, il cielo e il mare. «Ora vede quello che vede Victor», gli spiegò Alban. «Dispone di otto telecamere: una telecamera principale con lo zoom, due obiettivi di pilotaggio per la navigazione e cinque telecamere supplementari. La qualità delle immagini è straordinaria: anche a diverse migliaia di metri di profondità riceviamo immagini nitide e dai colori brillanti.» L'inquadratura cambiò. Il robot veniva abbassato. Il mare si avvicinava, poi l'acqua sciabordò sull'obiettivo e infine Victor s'inabissò. I monitor mostravano un mondo verde-azzurro che si faceva via via più torbido. Nel container giunsero gli uomini e le donne che fino a poco prima avevano lavorato alla gru. Lo spazio si fece ancora più ristretto. «Accendere il faro», disse il coordinatore. Di colpo, lo spazio intorno a Victor divenne luminoso. Era una luce diffusa. Il verde-azzurro impallidì e al suo posto, nella zona al di fuori del fascio del proiettore, il nero aumentò. Nell'inquadratura entrarono alcuni piccoli pesci, poi tutto sembrò pieno di minuscole bollicine. Johanson sapeva che in realtà si trattava di plancton, composto da miliardi di microscopiche forme di vita. Passarono meduse rosse e ctenofori trasparenti. Dopo un po', lo sciame di particelle divenne più denso. Il barimetro indicava cinquecento metri. «Che compito deve svolgere Victor?» chiese Johanson. «Deve raccogliere campioni d'acqua, dei sedimenti e anche delle forme di vita», rispose Tina senza voltarsi. «E soprattutto deve girare materiale video.» Nell'inquadratura entrò qualcosa di frastagliato. Victor si stava inabissando lungo una ripida parete. Aragoste rosse e arancione muovevano le loro lunghe antenne. Il mare era già molto buio, ma i riflettori e le telecamere riportavano i colori naturali con tonalità sorprendentemente intense. Victor passò davanti a spugne e cetrioli di mare, poi il terreno cominciò a farsi progressivamente più piano. «Ci siamo», disse Tina. «680 metri.» «Okay.» Il pilota si chinò in avanti. «Facciamo una virata.» La scarpata sparì dagli schermi. Per un po' videro solo l'acqua, poi improvvisamente, nell'oscurità nera e blu, si delineò il fondale marino.
«Victor è preciso al millimetro», disse Alban, visibilmente orgoglioso. «Se vuole può anche fargli infilare la cruna di un ago.» «Grazie, a quello ci pensa il mio sarto. Dove si trova esattamente?» chiese Johanson. «Proprio sopra un plateau. Nel sottosuolo c'è molto petrolio.» «Ci sono anche idrati di metano?» Alban lo fissò, pensieroso. «Sì, certo. Perché me lo chiede?» «Così. E la Statoil vuole costruire lì una stazione?» «È il luogo ideale. Ameno che non ci sia qualche controindicazione.» «Per esempio i vermi.» Alban scrollò le spalle. Johanson notò che al francese quell'argomento non piaceva. Osservarono il robot che sorvolava un mondo sconosciuto, superando ragni marini che camminavano con le zampe rigide e pesci che razzolavano tra i sedimenti. Le telecamere riprendevano colonie di spugne, meduse luminose e seppie. In quelle zone non c'erano molti esseri; in compenso, sul fondale, si trovava una grande varietà di forme di vita. Dopo un po', il paesaggio assunse un aspetto bitorzoluto e screpolato. Dal fondo si levavano strutture stratificate. «Sono smottamenti ricoperti di sedimenti», spiegò Tina. «Sulla scarpata norvegese ci sono già stati diversi scivolamenti.» «Che cosa sono quelle strutture a scogliera?» chiese Johanson. Il fondale era cambiato di nuovo. «Sono formazioni create dalle tempeste. Ci stiamo dirigendo verso il bordo del plateau», rispose Tina. «I vermi li abbiamo trovati non lontano da lì.» Fissarono i monitor. Nella luce dei riflettori era comparsa una macchia di grandi dimensioni e di colore più chiaro. «Un tappeto di batteri», osservò Johanson. «Sì. Segno della presenza di idrati di metano.» «Là», disse il pilota. Sul monitor comparvero gigantesche macchie bianche. Erano i punti in cui il metano congelato s'immagazzinava direttamente sul fondale. Poi, però, Johanson vide un'altra cosa e si accorse subito che l'avevano notata anche gli altri. Nella sala di controllo scese una cappa di silenzio. Parte degli idrati era sparita sotto un brulichio rosa. In un primo momento fu ancora possibile riconoscere i singoli vermi, poi la massa di corpi aggrovigliati divenne inestricabile. Tubi rosa con ciuffi bianchi si attorcigliavano l'uno sull'altro.
Uno degli uomini al quadro di comando emise un gridolino di disgusto. Come siamo condizionabili, pensò Johanson. Rabbrividiamo davanti a tutto ciò che striscia e brulica, ma è una cosa del tutto normale. Rabbrividiremmo di noi stessi se potessimo vedere le orde di acari che si muovono sui nostri pori e si nutrono di sebo, i milioni di microscopici acari che si mettono comodi nei nostri materassi, per non parlare dei miliardi di batteri presenti nelle nostre viscere. Tuttavia quello che stava vedendo non piaceva neppure a lui. Le fotografie scattate nel golfo del Messico avevano mostrato una popolazione altrettanto grande, ma gli ammali erano più piccoli e vivevano inattivi nelle loro nicchie. Quelli, invece, si spostavano, strisciavano sul ghiaccio: un'imponente massa brulicante che copriva completamente il fondale. «Procedere a zig-zag», ordinò Tina. Il ROV cominciò a nuotare in una specie di slalom. L'immagine era sempre la stessa: vermi ovunque. Improvvisamente il terreno s'inabissò. Il pilota riportò subito il robot sul bordo del plateau. I potenti fasci luminosi permettevano una visibilità di pochi metri, ma si aveva l'impressione che quelle creature coprissero tutta la scarpata. A Johanson sembravano ancora più grandi degli esemplari che Tina gli aveva fatto esaminare. Un attimo dopo, l'immagine divenne nera. Ma, superato il bordo che cadeva a strapiombo per un centinaio di metri, Victor proseguì a tutta velocità. «Girare», disse Tina. «Osserviamo la parete del precipizio.» Il pilota manovrò Victor, facendolo ruotare. Nella luce dei proiettori formicolavano delle particelle. Qualcosa di grande e chiaro s'inarcò davanti all'obiettivo della telecamera, lo occupò interamente per un attimo e poi si ritirò, fulmineo. «Che cos'era? Ritornare alla posizione precedente», gridò Tina. Il ROV si girò dalla parte opposta. «Se n'è andato.» «Movimento circolare!» Victor si fermò, poi si mise a ruotare sul proprio asse. Si vedevano solo tenebre impenetrabili e il plancton illuminato dai riflettori. «C'era qualcosa», confermò il coordinatore. «Forse un pesce.» «Allora doveva essere un pesce maledettamente grosso», brontolò il pilota. «Ha riempito completamente l'inquadratura.» Tina si voltò e guardò Johanson, che scosse la testa. «Non ho idea di che
cosa fosse.» «Okay, andiamo a dare un'occhiata più in basso.» Il ROV si mantenne vicino alla scarpata. Dopo pochi secondi, apparve un terreno scosceso. Alcuni blocchi di sedimenti spuntavano dal terreno, ma il resto era coperto di corpi rosa. «Sono ovunque», mormorò Tina. Johanson le andò vicino. «Avete un'idea della consistenza dei giacimenti di idrati presenti in questa zona?» «Qui è tutto pieno di metano. Idrati, sacche di gas all'interno del terreno, gas che fuoriesce...» rispose lei. «Mi riferisco in particolare al ghiaccio in superficie.» Tina premette alcuni tasti del suo terminale e, su un monitor, apparve una carta del fondale marino. «Le macchie chiare sono i giacimenti che abbiamo cartografato.» «Mi puoi indicare l'attuale posizione di Victor?» «All'incirca qui.» La donna indicò una zona di grandi dimensioni, contrassegnata da un colore diverso rispetto al resto. «Bene. Portatelo là e fatelo salire in diagonale», ordinò Johanson. Tina passò le indicazioni al pilota e i riflettori ritrovarono il fondale libero dai vermi. Dopo un po', tuttavia, il terreno riprese a salire e, dall'oscurità, sbucò di colpo una parete verticale. «Più in alto», disse Tina. «Molto lentamente.» Dopo qualche metro, si ripresentò la stessa immagine. Corpi rosa, di forma tubolare, con ciuffi bianchi. «Un classico», disse Johanson. «Che vuoi dire?» «Se la vostra carta è giusta, la maggiore estensione di idrati è proprio qui. Vale a dire che i batteri sono sul ghiaccio e trasformano il metano, e i vermi mangiano i batteri», spiegò lui. «È un classico pure che siano milioni?» domandò Tina. Johanson scosse la testa. Tina si appoggiò allo schienale. «Va bene», disse all'uomo che controllava il braccio prensile. «Mettiamo Victor all'opera. Deve prendere un bel mucchio di quegli animaletti e poi dare un'occhiata al terreno, ammesso che con quella massa di vermi si possa parlare ancora di terreno.» Erano già le dieci passate quando qualcuno bussò alla cabina di Johanson. Lui aprì la porta e Tina entrò, lasciandosi cadere sulla piccola sedia
che, insieme con un tavolo minuscolo e col letto, costituiva l'unico mobilio della stanza. «Ho gli occhi che mi bruciano», disse. «Alban mi sostituisce per un po'.» Poi scorse il piatto di formaggi e la bottiglia aperta di Bordeaux. «Avrei dovuto immaginarlo.» Rise. «È per questo che te la sei svignata, eh?» Johanson aveva lasciato la sala di controllo mezz'ora prima per prepararsi lo spuntino. «Brie des Meaux, taleggio, munster, formaggio di capra stagionato e un po' di fontina piemontese», presentò i formaggi seguendone l'ordine sul piatto. «Inoltre ho una baguette e del burro.» «Sei matto.» «Ne vuoi un bicchiere?» «Certo che ne voglio un bicchiere. Cos'è?» «Un Pauillac. Devi perdonarmi se non posso decantarlo, ma la Thorvaldson è caratterizzata dalla sgradevole mancanza di bicchieri di cristallo. Avete visto qualcos'altro d'interessante?» Tina prese il bicchiere e lo vuotò per metà. «Quegli animaletti di merda sono adagiati sugli idrati. Ovunque.» Johanson si accomodò di fronte a lei sul bordo del letto e prese a spalmare il burro sulla baguette. «Davvero singolare.» Tina prese il formaggio. «Ormai anche gli altri sono convinti che ci sia da preoccuparsi. Soprattutto Alban.» «Durante la vostra ultima ricognizione non erano così tanti?» «No... Be', sì, erano fin troppi per i miei gusti, però in quella occasione erano troppi solo per i miei gusti, non per quelli degli altri.» Johanson le sorrise. «Lo sai, chi ha gusto si trova sempre in minoranza.» «Va bene, comunque domattina riportiamo su Victor con una bella scorta di vermi. Così, se ne avrai voglia, potrai giocare con loro.» Si alzò, masticando il formaggio, e guardò fuori dall'oblò. Il cielo si era rasserenato. La luce della luna scivolava sulle onde e si rifrangeva. «Ho già guardato il video centinaia di volte. Quella cosa chiara... Alban pensa che sia un pesce, ma, se fosse così, allora dovrebbe avere le dimensione di una manta o di qualcosa di ancora più grande. Inoltre non aveva una forma riconoscibile.» «Forse era un riflesso di luce», ipotizzò Johanson. Tina si girò verso di lui. «No. Era distante alcuni metri, proprio al confine della zona illuminata. Era enorme e piatto e si è ritirato come un fulmine, come se non potesse sopportare la luce, oppure avesse paura di essere scoperto.»
«Potrebbe essere qualsiasi cosa.» «No, non qualsiasi cosa.» «Anche un banco di pesci può tirarsi indietro fulmineamente. Se poi nuota tenendosi molto serrato può dare l'impressione di un...», insistette lui. «Non era un banco di pesci, Sigur! Era piatto. Una superficie che si muove, in un certo senso... vitrea. Come una grande medusa», esclamò Tina. «Una grande medusa. Allora hai scoperto cos'era.» «No, no!» La donna fece una pausa e tornò a sedersi. «Va' a guardarti le riprese. Non era una medusa.» Proseguirono a mangiare per un po' in silenzio. «Hai mentito a Jörensen», disse improvvisamente Johanson. «Non ci sarà nessuna SWOP. Perlomeno nessuna che possa occupare operai petroliferi.» Tina sollevò lo sguardo, si portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando il vino, e poi lo posò con cautela. «È vero.» «Perché? Temevi di spezzargli il cuore?» «Forse.» Johanson scosse la testa. «Il cuore glielo spezzerete comunque. Non c'è più lavoro per gli operai petroliferi, vero?» «Ascolta, Sigur, non volevo mentirgli, ma... Maledizione, tutto questo settore industriale si sta trasformando e la forza lavoro rimane tagliata fuori. Che ci posso fare? Jörensen sa che è così. Sa anche che il personale della Gullfaks C sarà ridotto a un decimo di quello attuale. Costa meno convertire tutta la piattaforma che continuare a impiegare duecentottanta persone. La Statoil sta pensando di eliminare completamente il personale della Gullfaks B. Possiamo farla funzionare guidandola da un'altra piattaforma, ma anche così i margini di guadagno sarebbero risicati.» «Mi stai dicendo che il vostro business non rende più?» disse lui. «L'affare offshore ha reso soltanto finché l'OPEC non ha fatto una politica di rialzo dei prezzi, cioè fino all'inizio degli anni '70. Dalla metà degli anni '80, i prezzi sono crollati. E quando i giacimenti saranno esauriti, crollerà anche l'Europa settentrionale, se non sfrutteremo i giacimenti più al largo... Però essi si trovano a grande profondità, dove si può lavorare solo con l'aiuto dei ROV e degli AUV.» AUV era un'altra sigla del vocabolario delle esplorazioni negli abissi marini e, da qualche tempo, era sulla bocca di tutti. Gli Autonomous Un-
derwater Vehicles funzionavano di fatto come Victor, ma non erano più legati alla nave madre dal cordone ombelicale artificiale. Le industrie offshore guardavano con grande interesse allo sviluppo di quel robot da immersione. Era come un esploratore planetario in grado di spingersi nelle zone più inospitali, era estremamente flessibile e manovrabile e, entro certi limiti, si rivelava persino in grado di prendere decisioni autonome. Con l'aiuto degli AUV si concretizzava la possibilità d'installare stazioni di estrazione del petrolio a cinque o seimila metri di profondità e di sorvegliarle. «Non ti devi giustificare», disse Johanson, mentre si versava del vino. «Non puoi farci nulla.» «Io non mi giustifico», ribatté Tina, in tono seccato. «Inoltre tutti potremmo fare qualcosa. Se l'umanità non consumasse tanto combustibile, il problema non esisterebbe.» «Be', non subito, ma in futuro sì. Comunque la tua sensibilità ecologica ti fa onore.» «E allora?» replicò lei, acida. Non le era sfuggito il tono ironico della voce di Sigur. «Forse ti sembrerà impossibile, ma le industrie del petrolio sanno anche imparare.» «Sì, ma che cosa?» «Nei prossimi decenni dovremo occuparci dello smantellamento di oltre seicento piattaforme perché non sono più economicamente convenienti e ormai si sono rivelate inadatte alle nuove tecnologie! Lo sai che cosa costa? Miliardi! Nel frattempo lo zoccolo continentale sarà completamente esaurito! Quindi non trattarci come se fossimo gentaglia.» «Va bene.» «Naturalmente adesso tutti si scagliano contro le stazioni sottomarine senza personale. Ma, se non le costruiamo, domani l'Europa dipenderà completamente dagli oleodotti del Medio Oriente e del Sudamerica e a noi rimarrà solo un cimitero in mare», continuò Tina. «Non ho nulla in contrario. Mi chiedo solo se siete perfettamente consapevoli di quello che fate.» «Che vuoi dire?» «I problemi tecnici per mettere in funzione stazioni automatizzate sono enormi», disse Johanson. «Sì, certo.» «Voi progettate l'estrazione di enormi quantità di petrolio in zone caratterizzate da una pressione estrema, utilizzando miscele altamente corrosive
e, oltretutto, con strutture prive di manutenzione.» Johanson esitò. «Fate grandi progetti, ma in realtà non avete la più pallida idea di come sia realmente laggiù.» «Lo stiamo scoprendo.» «Come oggi? Ne dubito. È un po' come la nonna che va in vacanza e scatta un po' d'istantanee, convinta che le permettano di conoscere il Paese in cui è stata. Avete la tendenza a individuare una zona e a esaminarla solo finché non vi sembra che possa essere quella giusta. Ma non cercate di comprendere il complesso sistema di relazioni in cui v'inserite.» «Rieccoci», si lamentò Tina. «Ho forse torto?» «Conosco così bene il concetto di 'ecosistema' che potrei scriverci sopra una canzone e cantarla pure al contrario. O nel sonno. Dimmi un po', sei contro le ricerche petrolifere?» «No, penso solo che si debba conoscere bene il mondo in cui ci s'inserisce.» «E, secondo te, perché siamo su questa nave?» «Sono sicuro che ripeterete i vostri errori. Alla fine degli anni '70, vi siete fatti contagiare dalla febbre dell'oro e avete riempito di costruzioni il mare del Nord. E ora tutta quella roba è soltanto un fastidio. Dovreste evitare di agire in maniera affrettata anche negli abissi marini», rispose Johanson. «Se fossimo frettolosi come dici, perché ti avrei mandato quei maledetti vermi?» gli chiese Tina. «Hai ragione. Ego te absolvo.» Lei si morse il labbro inferiore e Johanson decise di cambiare argomento. «Per parlare di cose più piacevoli, Kare Sverdrup mi sembra un tipo a posto.» Tina aggrottò la fronte. Poi si rilassò e sorrise. «Credi?» «Assolutamente.» Johanson allargò le braccia. «Non è stato molto gentile da parte tua tenermelo nascosto, ma posso capire.» Tina fece girare il vino nel bicchiere. «È tutto così bello», sussurrò. Per un po' non dissero nulla. «È amore?» chiese poi lui, rompendo il silenzio. «Per chi? Per me o per lui?» «Per te.» «Mmm.» Tina sorrise. «Credo di sì.» «Credi?» «Sono una ricercatrice. E prima devo fare delle ricerche», fu la risposta
di lei. Se ne andò a mezzanotte passata. Sulla porta si voltò, lanciando uno sguardo ai bicchieri vuoti e alle croste di formaggio. «Qualche settimana fa, con tutto questo mi avresti conquistata», mormorò. Sembrava quasi dispiaciuta. Johanson la spinse dolcemente nel corridoio. «Alla mia età, riesco a farmene una ragione... Ma adesso va'! Va' a fare ricerche!» Lei si chinò in avanti e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie per il vino.» Poi uscì. La vita consiste nel cercare compromessi tra un'occasione perduta e l'altra, pensò Johanson, mentre chiudeva la porta. Poi sorrise e scacciò quel pensiero. Non poteva proprio lamentarsi: di occasioni ne aveva sfruttate sin troppe. 18 marzo Vancouver e Vancouver Island, Canada Leon Anawak trattenne il respiro. Vieni, dai. Facci questo favore. Era la sesta volta che il beluga nuotava davanti allo specchio. Il piccolo gruppo di giornalisti e studenti che si era radunato nella sala di osservazione sotterranea dell'acquario di Vancouver si bloccò in un silenzio reverente. Attraverso la gigantesca vetrata potevano vedere per intero l'interno della vasca. Raggi solari obliqui danzavano sulle pareti e sul fondo e, dato che la sala di osservazione era nell'oscurità, il gioco di luci e ombre si riverberava sui volti dei presenti. Anawak aveva marcato il beluga sulla mandibola con un cerchio tracciato grazie a una vernice atossica. Il punto era stato scelto in modo che il cetaceo potesse vederlo solo se osservava la propria immagine riflessa. Sulle pareti di vetro riflettenti della piscina erano stati sistemati due specchi, e adesso il beluga stava nuotando lentamente davanti a uno di essi. Lo faceva con una consapevolezza tale da non lasciare ad Anawak il minimo dubbio sull'esito dell'esperimento. Il corpo bianco si girava leggermente nel passare davanti alla vetrata, come se il cetaceo volesse mostrare agli astanti la sua mandibola segnata. Poi l'animale scese più in profondità, finché non arrivò alla stessa altezza dello specchio. Si fermò, si sollevò e mosse la testa prima in una direzione, poi in quella opposta. Evidentemente cer-
cava di scoprire da quale angolazione si vedeva meglio il cerchio. Continuò a muoversi così per un bel pezzo davanti allo specchio, agitando le pinne e voltando la piccola testa con la caratteristica bombatura della fronte. Era davvero inquietante: un essere così diverso dall'uomo, eppure con un comportamento incredibilmente simile a quello umano... A differenza dei delfini, che avevano un repertorio limitato, i beluga erano capaci di dare molte espressioni al volto. Per un istante, sembrò persino che facesse un sorriso. Gli uomini teadono ad attribuire stati d'animo a beluga e delfini proprio a causa di quei presunti sorrisi. In realtà, gli angoli della bocca sollevati sono frutto di una serie di peculiarità fisiognomiche utilizzate per la comunicazione. I beluga potevano anche abbassare gli angoli della bocca, senza per questo esprimere tristezza. Sapevano addirittura sporgere le labbra come se fossero di buon umore e stessero fischiettando. Poco dopo, tuttavia, il beluga sembrò perdere ogni interesse. Forse aveva esaminato a sufficienza la propria immagine riflessa... A ogni buon conto, nuotò verso l'alto con una curva elegante e si allontanò dalla vetrata. «È tutto», disse Anawak a bassa voce. «E questo che vuol dire?» chiese una giornalista. «Già. Lui sa chi è. Torniamo su.» Dal sottosuolo risalirono alla luce del sole. Alla loro sinistra c'era la piscina e tutti la fissarono. Appena sotto l'increspatura delle onde videro scivolare i corpi dei due beluga. Anawak aveva volutamente evitato di spiegare agli osservatori l'esatto corso dell'esperimento. Voleva raccogliere le impressioni dei partecipanti con la certezza che non avessero letto nel comportamento dei cetacei quello che lui desiderava leggerci. Le sue osservazioni furono confermate in pieno. «Mi congratulo», disse infine. «Avete appena partecipato a un esperimento che è entrato nella storia delle ricerche sul comportamento: la coscienza di sé allo specchio. Sapete di che cosa sto parlando?» Gli studenti lo sapevano, i giornalisti un po' meno. «Non fa niente», disse Anawak. «Ve la riassumo io. L'idea della coscienza di sé allo specchio è nata negli anni '70. Per decenni i test si sono limitati quasi esclusivamente ai primati. Non so se il nome Gordon Gallup vi dice qualcosa...» Circa la metà dei presenti annuì, gli altri scossero la testa. «Va bene, Gallup è uno psicologo della State University of New York. Un giorno gli venne un'idea folle: mise a confronto diverse specie di scimmie con la loro immagine allo specchio. La maggior parte la ignorò,
altre cercarono di aggredirla perché pensavano si trattasse di un intruso. Alcuni scimpanzé, invece, si riconobbero nell'immagine e la utilizzarono per studiarsi. Era una cosa straordinaria, perché la maggior parte dei membri del regno animale non è in grado di riconoscersi allo specchio. Gli animali esistono, provano sensazioni, agiscono e reagiscono. Ma non hanno consapevolezza di sé. Non riescono a percepirsi come individui a sé, diversi dai loro simili.» Proseguì, spiegando che Gallup aveva segnato col colore la fronte delle scimmie e le aveva messe davanti allo specchio. Gli scimpanzé avevano capito subito chi vedevano nello specchio. Ispezionavano il segno, ne determinavano la posizione con le dita e annusavano. Gallup aveva proseguito l'esperimento con altre scimmie, pappagalli ed elefanti. Ma gli unici animali ad aver avuto quel comportamento erano stati gli scimpanzé e gli orangutan, cosa che portò Gallup a concludere che essi avevano la percezione di sé e quindi una certa coscienza di se stessi. «Ma Gallup andò oltre. Da tempo, sosteneva l'ipotesi che gli animali non potessero condividere la psiche delle altre specie. Ma il test dello specchio gli fece cambiare idea. E, oggi, non si limita a credere che determinati animali abbiano coscienza di sé, ma anche che tale condizione permetta loro d'immedesimarsi negli altri. Gli scimpanzé e gli orangutan attribuiscono opinioni agli altri individui e sviluppano compassione. Sono in grado di scindere le loro condizioni psichiche da quelle degli altri. Questa è la tesi di Gallup, che ha trovato molti sostenitori.» Fece una pausa. Sapeva che poi avrebbe dovuto mettere un freno ai giornalisti. Non voleva ritrovarsi a leggere che i beluga erano i migliori psichiatri, che le focene avrebbero fondato un'associazione per il salvataggio dei naufraghi e gli scimpanzé un club scacchistico. «In ogni caso, è significativo che fino agli anni '90, per il test dello specchio, siano stati usati quasi esclusivamente animali terrestri», proseguì. «Inoltre è vero che si speculava già da tempo sull'intelligenza di delfini e balene, benché fornirne la dimostrazione non suscitasse di certo l'interesse delle industrie alimentari. La carne di scimmia e la sua pelliccia interessano solo una minima parte dell'umanità. Al contrario, la caccia alle balene e ai delfini ha ben altre dimensioni e subirebbe un duro colpo se si dimostrasse l'intelligenza e la consapevolezza di sé di tali animali. Molti sono stati tutt'altro che entusiasti quando, alcuni anni fa, abbiamo iniziato i test dello specchio con le focene. Abbiamo rivestito le pareti della piscina in parte con vetri riflettenti, in parte con specchi veri e propri. Poi abbiamo segnato le focene con un pennarello nero. Ed è stato già piuttosto sorpren-
dente notare come i nostri soggetti ispezionassero le pareti finché non trovavano gli specchi. Evidentemente avevano capito che potevano vedere meglio il segno se l'immagine riflessa era più definita. Ma siamo andati oltre: abbiamo marcato alcuni animali con un pennarello che conteneva inchiostro e altri con uno che conteneva solo acqua. Temevamo che le focene reagissero solo allo stimolo tattile; invece si fermavano a lungo a esaminarsi davanti allo specchio solo i soggetti col segno visibile.» «Le focene ottenevano una ricompensa?» chiese uno degli studenti. «No, e non le abbiamo neppure allenate per il test. Durante l'esperimento abbiamo addirittura segnato diverse parti del loro corpo, per evitare gli effetti dell'apprendimento e dell'abitudine. Da alcune settimane stiamo facendo lo stesso esperimento coi beluga. Abbiamo segnato sei volte i cetacei, due volte col pennarello 'finto'. Li abbiamo osservati. Ogni volta nuotavano verso lo specchio e cercavano il segno. Per due volte non l'hanno trovato e hanno interrotto subito la ricerca. A mio avviso, abbiamo ottenuto la dimostrazione che i beluga hanno lo stesso livello di autoconsapevolezza degli scimpanzé. Per alcuni aspetti, i cetacei e gli uomini possono essere considerati molto più simili di quanto pensavamo.» Una studentessa alzò la mano. «Vuole dire...» Esitò. «I risultati vogliono dire che delfini e beluga hanno intelletto e coscienza, giusto?» «È così.» «Come può dimostrarlo?» Anawak era allibito. «Non ha sentito? Non ha visto cos'è successo?» «Certo. Ho visto che un animale ha registrato la propria immagine allo specchio, quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ciò dimostra necessariamente la coscienza di sé?» «Si è data la risposta da sola, affermando: Quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ha coscienza di sé.» «Non credo.» La studentessa fece un passo avanti e Anawak la osservò, aggrottando le sopracciglia. Aveva capelli rossi, un piccolo naso a punta e incisivi un po' troppo grandi. «Il vostro tentativo evidenzia attenzione consapevole e coscienza dell'identità fisica. E, a quanto pare, lo fa con successo. Ma non basta per dimostrare che questi animali possiedono una coscienza permanente dell'identità. Da esso non si possono fare speculazioni sul loro atteggiamento nei confronti degli altri esseri viventi.» «Non ho detto questo», si difese Anawak. «Certo. Ha difeso la tesi di Gallup secondo cui determinati animali sono in grado d'individuare se stessi rispetto agli altri...»
«Ho parlato di scimmie.» «... Cosa che, sia detto tra parentesi, è controversa. In ogni caso, lei non ha posto nessun limite quando si è messo a parlare di focene e beluga. Oppure mi è sfuggito qualcosa?» «In questo caso non c'è nessun limite da porre», ribatté Anawak, contrariato. «Che gli animali si riconoscano è dimostrato.» «Alcuni esperimenti lo lasciano pensare, certo.» «Dove vuole arrivare?» La ragazza lo fissò, spalancando gli occhi. «Non è evidente? Lei può vedere come si comporta un beluga. Ma come fa a sapere che cosa pensa? Conosco il lavoro di Gallup. Crede di aver dimostrato che un animale può immedesimarsi in un altro. Ciò presuppone che gli animali pensino e provino sensazioni come noi. Quello che oggi ci ha mostrato è un tentativo di umanizzazione.» Anawak era senza parole. Quella studentessa gli stava ritorcendo contro gli stessi argomenti. «Ha davvero questa impressione?» chiese. «Lei ha detto che i cetacei potrebbero essere più simili a noi di quanto abbiamo creduto finora.» «Lei non ha ascoltato bene, Miss...» «Delaware. Alicia Delaware.» «Miss Delaware.» Anawak si concentrò. «Ho detto che i cetacei e gli uomini potrebbero essere più simili di quanto pensavamo.» «E dov'è la differenza?» «Nel punto di vista. Non vogliamo dimostrare che la scoperta di tratti comuni rende i cetacei più simili agli uomini. La questione non è mettere l'uomo come figura ideale, ma vedere parentele sostanziali...» «Comunque non credo che la consapevolezza di sé di un animale sia paragonabile a quella dell'uomo. Le premesse di fondo sono troppo distanti. A cominciare dal fatto che gli uomini hanno una consapevolezza permanente di sé, attraverso cui...» «Sbagliato», la interruppe Anawak. «Anche gli uomini sviluppano una consapevolezza permanente solo a determinate condizioni. È dimostrato. Dai diciotto ai ventiquattro mesi, i bambini cominciano a riconoscere la propria immagine allo specchio. Fino a quel momento non sono in grado di riflettere sul loro 'essere se stessi'. Rispetto al cetaceo che abbiamo visto poco fa, sono ancora meno consapevoli della loro condizione intellettuale. E la smetta di fare continuamente riferimento solo a Gallup. Noi ci stiamo sforzando di comprendere gli animali. Perché non ci piova anche lei?»
«Io volevo solo...» «Voleva? Sa che effetto farebbe al beluga se la vedesse mentre si guarda allo specchio? Lei si dipinge il viso, quindi che cosa dovrebbe pensare? Dovrebbe dedurre che lei è in grado d'identificare la persona nello specchio. Tutto il resto gli sembrerebbe un'idiozia. Però, se dovesse considerare il suo gusto in fatto di abbigliamento e make-up, il beluga arriverebbe a dubitare della sua capacità di riconoscersi allo specchio. Metterebbe addirittura in dubbio la sua condizione mentale.» Alicia Delaware arrossì e parve intenzionata a rispondere, ma Anawak non le lasciò il tempo. «Naturalmente questi test sono solo l'inizio», disse. «Nessuno che faccia ricerche serie su delfini e balene vuole rinverdire l'ameno mito degli amici dell'uomo. Verosimilmente, delfini e balene non hanno un particolare interesse per l'uomo, soprattutto perché abitano un diverso spazio vitale, hanno altri bisogni e derivano da una linea evolutiva diversa dalla nostra. Ma se il nostro lavoro può portare a trattarli con maggiore rispetto, e quindi a proteggerli al meglio, allora ne vale la pena.» Rispose ancora ad alcune domande e lo fece il più velocemente possibile. Alicia Delaware si tenne in disparte, con aria imbarazzata. Infine Anawak si congedò dal gruppo e attese che si allontanasse. Poi si mise a parlare con la sua équipe scientifica, fissò i successivi appuntamenti e le altre procedure. Finalmente solo, si avvicinò al bordo della piscina, respirò profondamente e si rilassò. Il lavoro col pubblico non gli piaceva... e in futuro sarebbe stato costretto a trattare sempre più spesso con gli estranei. La sua carriera procedeva senza ostacoli, sostenuta da una fama ormai consolidata d'innovatore. Quindi, prima o poi, avrebbe dovuto litigare con tutte le Alicia Delaware di questo mondo, ragazze appena uscite dall'università e che, sempre chine sui libri, non avevano mai visto neppure un litro d'acqua marina. Si piegò sulle ginocchia e sfiorò l'acqua fredda della piscina. Era mattina presto. Di solito, i test e le visite scientifiche avevano luogo prima dell'apertura dell'acquario o dopo la sua chiusura. Dopo settimane di pioggia, marzo faceva bella mostra di sé con una serie di giornate straordinariamente belle e il primo sole sfiorava col suo gradevole calore la pelle di Anawak. Che cosa aveva detto quella studentessa? Che lui cercava di umanizzare gli animali? Quella critica gli rodeva. Anawak si faceva vanto di trattare la scienza con misura. Anzi tutta la sua vita era improntata al senso della misura: lui
non beveva, non andava alle feste e non si metteva mai in mostra, sostenendo tesi azzardate, solo per creare scompiglio. Non credeva in Dio e non accettava neppure nessun comportamento improntato alla religiosità. Provava avversione per ogni forma di esoterismo. Evitava di proiettare valori tipicamente umani sugli animali, quando gli era possibile. I delfini, per esempio, erano diventati le vittime di un'idea romantica non meno pericolosa dell'odio e dell'arroganza: venivano considerati migliori degli uomini e alcuni credevano persino che l'emulazione dei delfini fosse un modo attraverso il quale gli esseri umani potevano migliorare se stessi. Quella sfrenata idolatria verso i delfini era figlia dello stesso fanatismo che li perseguitava: o erano tormentati a morte o amati a morte. Quella Miss Delaware coi denti da coniglio aveva preteso di spiegargli quello di cui lui stesso era convinto. Anawak continuò a sfiorare l'acqua. Dopo un po' arrivò il beluga segnato, una femmina lunga quattro metri. Tirò fuori la testa e si lasciò dare qualche buffetto, mentre emetteva dei deboli fischi. Anawak si domandò se il beluga condividesse delle sensazioni umane e potesse capirle. In fondo non c'era la minima prova di quel fatto. Almeno in quello, Alicia Delaware aveva ragione. Però era anche vero che non esisteva la minima prova che non fosse così. Il beluga emise una sorta di cinguettio e si rituffò sott'acqua. Su Anawak era calata un'ombra. Si voltò e si ritrovò davanti un paio di stivali da cowboy con tanto di ricami. Oh, no, pensò. Non adesso! «Allora, Leon», disse l'uomo che si era avvicinato al bordo della piscina. «Chi maltrattiamo oggi?» Anawak si alzò e osservò il nuovo arrivato. Jack Greywolf sembrava appena uscito da un film western. Il suo fisico gigantesco e muscoloso era infilato in un abito di pelle. Sull'ampio petto, penzolava un gioiello indiano. Sotto il cappello ornato di piume, scendeva sulle spalle e sulla schiena una chioma nera e splendente come seta. Era l'unica cosa che appariva curata in Jack Greywolf, che, per il resto, sembrava rimasto per settimane nella prateria senza acqua e sapone. Anawak guardò il suo viso abbronzato su cui c'era un sorrisetto ironico. «Chi ti ha fatto entrare, Jack?» chiese, con un ghigno appena accennato. «Manitou in persona?» Il sorriso di Greywolf si allargò. «Permesso straordinario», spiegò. «Ah, sì? Da quando?»
«Da quando abbiamo l'autorizzazione papale di darvi bacchettate sulle dita. Sciocchezze, Leon, sono entrato poco fa, come tutti gli altri. Hanno aperto da cinque minuti.» Incredulo, Anawak guardò l'orologio e vide che Greywolf aveva ragione. Quella sosta presso la vasca dei beluga gli aveva fatto perdere la nozione del tempo. «Spero sia un incontro casuale», disse. Greywolf fece una smorfia. «Non del tutto.» «Allora stavi cercando proprio me?» Anawak si avviò lentamente, costringendo Greywolf a seguirlo. I primi visitatori stavano gironzolando fra le strutture dell'acquario. «Che posso fare per te?» «Lo sai.» «La solita solfa?» «Associati a noi.» «Scordatelo.» «Vieni con noi, Leon, tu sei uno dei nostri. Non puoi essere davvero interessato a permettere che una massa di ricchi bastardi fotografi a morte le balene.» «Infatti non lo sono.» «La gente ti ascolta. Se prendessi ufficialmente posizione contro il whale watching, tutta la discussione assumerebbe un peso diverso. Uno come te ci sarebbe molto utile.» Anawak si fermò e guardò Greywolf con aria di sfida. «Esatto. Vi sarei molto utile. Ma io non voglio essere utile a nessuno se non a quelli che ne hanno davvero bisogno.» «Loro!» Greywolf indicò col braccio teso la vasca dei beluga. «Loro ne hanno bisogno! Mi viene da vomitare a vederti qui, in intima armonia coi prigionieri! Li rinchiudete o li braccate e questo è un assassinio a rate. Ogni volta che uscite con le vostre barche, uccidete un po' quegli animali.» «Sei vegetariano?» «Come?» chiese Greywolf, disorientato. «Mi stavo proprio chiedendo a chi hanno tolto la pelle per fare la tua giacca», replicò l'altro, incamminandosi. Ancora sbalordito, Greywolf rimase immobile per un momento, poi, a lunghe falcate, raggiunse Anawak. «È c'è un'altra cosa. Gli indiani hanno sempre vissuto in armonia con la natura. Dalle pelli degli animali hanno...» «Risparmiami la storiella.» «Ma è così.» «Jack, posso dirti qual è il tuo problema? Anzi, per la precisione, i pro-
blemi sono due. Primo: ti atteggi a difensore dell'ambiente, ma in realtà stai conducendo una guerra fuori dal tempo per gli indiani che ormai hanno risolto le loro vertenze in altro modo. Secondo: non sei un vero indiano.» Greywolf impallidì. Anawak sapeva che il suo interlocutore era già stato processato diverse volte per lesioni personali e si chiedeva fino a che punto avrebbe potuto provocare quel gigante. Sarebbe bastata una sberla di Greywolf per chiudere definitivamente ogni discussione. «Perché dici queste stronzate, Leon?» «Sei un mezzo indiano», disse Anawak. Si fermò davanti alla vasca delle lontre marine e guardò i loro corpi scuri sfrecciare sott'acqua come siluri. Il pelo luccicava sotto i primi raggi del sole. «No, non è solo questo, tu sei indiano come lo è un orso bianco siberiano. Questo è il tuo vero problema: non sai a chi appartieni, non sai dove sbattere la testa e con le tue arie da ambientalista credi di poter pisciare sui piedi di quelli che ritieni responsabili della tua condizione. E ora lasciami andare.» Greywolf socchiuse le palpebre nel sole. «Non riesco a sentirti, Leon», disse. «Perché non sento neppure una parola? Sento sempre e solo rumori. Uno scroscio, come quando si rovescia una carriola di ciottoli su un tetto di lamiera.» «Augh!» «Al diavolo, non dovremmo litigare. In fondo, che cosa voglio da te? Solo un po' di sostegno.» «Non ti posso sostenere», replicò Anawak. «Ma guarda un po', e io che sono stato così gentile da venire a informarti della nostra prossima azione. Non avrei dovuto farlo.» Anawak drizzò le orecchie. «Che cosa avete intenzione di fare?» «Tourist watching.» Greywolf rise sonoramente. I suoi denti bianchi brillavano come avorio. «E che vuol dire?» «Usciamo in mare e fotografiamo i tuoi turisti. Li talloniamo e cerchiamo di beccarli. Così dovrebbero farsi un'idea di che cosa vuol dire essere inseguiti e avere qualcuno che cerca di metterti le mani addosso.» «Te lo posso far vietare.» «E invece non puoi, perché questo è un Paese libero. Non lasciamo che nessuno stabilisca per noi quando possiamo uscire con le nostre barche e dove dobbiamo andare. Capisci? L'azione è preparata e decisa, ma, se tu ci vieni incontro, potrei ripensarci e annullarla», ribatté Greywolf.
Anawak lo fissò. Poi si girò e se ne andò. «Tanto le balene non arrivano», disse. «Perché le avete costrette ad andarsene», fu la risposta di Greywolf. «Noi non abbiamo fatto nulla.» «Ah, già, è vero, l'uomo non è mai colpevole. La colpa è degli stupidi animali. Sono loro a nuotare verso gli arpioni, oppure a mettersi in posa perché vogliono una foto per l'album di famiglia. Ma ho sentito che ritornano. Negli ultimi giorni non sono forse ricomparse alcune megattere?» «Solo un paio», disse Anawak. «I vostri affari potrebbero mettersi male. Vuoi rischiare che le nostre azioni li facciano crollare definitivamente?» insinuò Greywolf. «Vaffanculo, Jack.» «Ehi, questa è la mia ultima offerta.» «Era ora.» «Accidenti! Leon! Almeno metti una buona parola per noi! Abbiamo bisogno di soldi. Ci finanziamo solo con le offerte, Leon! Fermati. È per una buona causa, non capisci? Noi vogliamo la stessa cosa.» «No, non vogliamo la stessa cosa. Buona giornata, Jack.» Anawak accelerò il passo. Avrebbe voluto correre, ma non voleva dare a Greywolf l'impressione che stesse fuggendo. L'ambientalista rimase fermo. «Carogna cocciuta!» gli gridò dietro. Anawak non rispose. Superò deciso il delfinario e si diresse verso l'uscita. «Leon, sai qual è il tuo problema? Forse io non sarò un vero indiano, ma il tuo problema è che tu sei un vero indiano!» «Io non sono un indiano», borbottò Anawak. «Ah, scusa», gridò Greywolf come se l'avesse sentito. «Tu sei un caso particolare. Perché non sei nella tua terra, dove c'è bisogno di te?» «Bastardo», sibilò Anawak. Tremava di rabbia. Prima quella capra cocciuta, poi Jack Greywolf. Avrebbe potuto essere una giornata magnifica, iniziata con un esperimento coronato da successo. E invece lui si sentiva svuotato e infelice. «Nella tua terra...» Che cosa si credeva quella montagna di muscoli senza cervello? Con che faccia tosta gli rinfacciava le sue origini? «Dove c'è bisogno di tei» «Io sono dove c'è bisogno di me», sbuffò. Una donna gli passò vicino e lo fissò, sbalordita. Anawak si guardò intorno. Era fuori, in strada. Sempre tremando di rabbia, salì in auto, diretto all'imbarco per Tsawwassen, e lì prese il traghetto per Vancouver Island.
Il giorno seguente si alzò presto. Alle sei era sveglio e, dopo essere rimasto per un po' a fissare il basso tetto della cuccetta, aveva deciso di andare alla Davies Whaling Station. Nuvole rosa sfilavano lungo l'orizzonte e il cielo cominciava lentamente a schiarirsi. Nell'acqua, liscia come uno specchio, si riflettevano le montagne vicine con tonalità scure, le case, le barche. Di lì a poche ore sarebbero apparsi i primi turisti. Anawak andò sino alla fine del pontile dov'era ormeggiato lo zodiac, si appoggiò al parapetto di legno e guardò per un po' il mare aperto. Amava quella piacevole sensazione della natura che si sveglia prima degli uomini. Lì non c'era nessuno che lo infastidisse. Quelli come l'insopportabile fidanzato di Susan Stringer erano a letto e tenevano la bocca chiusa. Verosimilmente anche Alicia Delaware dormiva... il sonno dell'ignoranza. E poi c'era Jack Greywolf. Le sue parole riecheggiavano nella mente di Anawak. Forse Greywolf era un perfetto idiota, ma purtroppo era riuscito ancora una volta a mettere il dito nella piaga. Osservando due piccoli pescherecci, Anawak rifletté se era il caso di chiamare Susan e convincerla a uscire in mare con lui. Greywolf non aveva mentito: erano state avvistate le prime megattere. Evidentemente arrivavano alla spicciolata, con grande ritardo. La cosa in sé era positiva, però non spiegava dove si fossero cacciate per tutto quel tempo. Forse sarebbero riusciti a identificarne qualcuna. Susan aveva fiuto, senza contare che la sua compagnia gli piaceva. Era una delle poche persone che non tirava mai in ballo la storia delle sue origini, indagando se era indiano oppure asiatico. O chissà cosa. Samantha Crowe l'aveva fatto. Strano, a lei avrebbe potuto raccontare tutto. Ma la ricercatrice del SETI stava per partire. Tu pensi troppo, Leon. Anawak decise di non svegliare Susan e di andare da solo. Entrò nella stazione e mise in una borsa impermeabile il laptop, la telecamera, il binocolo, il registratore, l'idrofono, le cuffie e un cronometro. Poi prese una barretta di müesli, due lattine di tè freddo e portò tutto sul Blue Shark. Guidò lentamente il gommone scoppiettante attraverso la laguna e accelerò solo quando si fu allontanato a sufficienza dalle case. Lo zodiac sfrecciava, con la prua sollevata, e il vento colpiva il viso di Anawak, spazzando i pensieri cupi.
Senza passeggeri e fermate intermedie, procedeva molto velocemente. Dopo meno di venti minuti, scorse un gruppo di minuscole isole che spuntavano dal mare argentato, mosso da onde lunghe e distanziate, e proseguì a velocità ridotta. Anawak stava all'erta, cercando di non farsi scoraggiare. Le megattere erano state avvistate, senza dubbio. E non erano quelle stanziali, bensì le transienti, provenienti dalla Bassa California e dalle Hawaii. Giunto al largo, Anawak spense il motore e fu immediatamente avvolto da un silenzio assoluto. Aprì una lattina di tè freddo, bevve e poi si mise a prua col binocolo. Passò quasi un'eternità prima che qualcosa facesse capolino, ma il dorso scuro sparì subito. «Fatti vedere. Lo so che sei lì», sussurrò Anawak. Perlustrava attentamente l'oceano. Per alcuni minuti non accadde nulla. Poi, poco più in là, dall'acqua emersero due figure lisce, a breve distanza l'una dall'altra. Sui loro dorsi si levavano bianche nuvole di vapore, simili a fumo denso. La loro comparsa fu accompagnata da un rombo, simile a una serie di colpi di fucile. Anawak fissava quello spettacolo con gli occhi spalancati. Megattere. Scoppiò a ridere, felice. Come tutti gli esperti, era in grado di riconoscere la specie soltanto dal getto. Nei grandi cetacei, il ricambio dell'ossigeno coinvolgeva ogni volta alcuni metri cubi di aria. Quella che avevano nei polmoni veniva compressa ed espulsa regolarmente dallo sfiatatoio. Una volta uscita, si allargava, si raffreddava e si condensava in una sorta di vaporizzazione. Forma e altezza del getto variavano anche all'interno della stessa specie, a seconda del tempo d'immersione e delle dimensioni. Pure il vento giocava un certo ruolo. Ma quelle erano senza ombra di dubbio le caratteristiche nuvole di condensa del getto delle megattere. Anawak accese il laptop e avviò il programma. Aveva salvato le schede di centinaia di cetacei che passavano regolarmente in quella zona. Per i profani, era quasi impossibile riconoscere la specie o addirittura il singolo individuo, da quel poco che i cetacei tenevano fuori dall'acqua, senza contare che, spesso, la visuale era resa difficile dal mare grosso, dalla nebbia, dalla pioggia o dalla luce abbagliante del sole. Tuttavia ogni animale aveva segni caratteristici. Il modo più facile per identificarli era osservare le pinne caudali che, durante l'immersione, si levavano spesso dall'acqua. Ogni esemplare aveva una coda diversa. Ciascuna aveva un disegno caratteristi-
co e potevano esserci differenze nella forma e nella struttura. Anawak sapeva riconoscere molte code, ma il suo archivio fotografico rendeva il lavoro più facile. Era pressoché sicuro che fossero due vecchie conoscenze. Dopo un po', i dorsi neri riemersero. Prima, appena visibili, comparvero i piccoli rilievi con gli sfiatatoi. Poi si sentì il fischio quasi simultaneo alla vaporizzazione dell'espirazione. Gli animali non s'inabissarono subito, ma fecero emergere ancora di più i dorsi, mostrando le pinne dorsali piatte e smussate. Quindi si piegarono pigramente in avanti e s'immersero. Anawak riconobbe chiaramente la dentellatura della colonna vertebrale. Infine sollevarono lentamente le code. Velocissimo, prese il binocolo e cercò di scorgerne la parte inferiore, ma non ci riuscì. Non importava. Erano arrivate. La prima dote di un osservatore di balene è la pazienza. Inoltre c'era ancora tempo prima dell'arrivo dei turisti. Aprì la seconda lattina e addentò la barretta di müesli. In breve tempo, la sua pazienza venne ricompensata. D'un tratto si accorse che, a poca distanza dall'imbarcazione, cinque dorsi solcavano l'acqua. Sentì il cuore battergli all'impazzata. Gli animali erano vicinissimi. Attese impaziente la comparsa delle code. Quello spettacolo lo stregava a tal punto che, in un primo momento, non percepì la figura monumentale vicino alla barca. Ma era ritta proprio davanti a lui. Anawak voltò la testa e trasalì. Dimenticò i cinque dorsi e rimase a bocca aperta. Il cranio della megattera si era levato dai flutti senza fare rumore. Era così vicino da sfiorare il bordo dell'imbarcazione. Usciva dall'acqua di quasi tre metri e mezzo, la bocca chiusa e corrugata ricoperta di crostacei balani ed escrescenze. Al di sopra della bocca, un occhio grande come un pugno fissava il passeggero dello zodiac. Al di sopra delle onde si vedevano gli attacchi delle imponenti pinne pettorali. La testa sembrava immobile come una roccia. Era il benvenuto più impressionante che Anawak avesse mai avuto. Gli era capitato più di una volta di vedere quegli animali da vicino. Si era avvicinato a loro in immersione, li aveva accarezzati e vi si era aggrappato. Li aveva persino cavalcati. Capitava spesso che balene grigie, megattere e orche emergessero con la testa vicino alle imbarcazioni per esaminarle e controllare il territorio. Ma quella volta era diverso. Sembrava quasi che fosse la megattera a osservare Anawak, non il con-
trario. E non era interessata allo zodiac. Il suo occhio, collocato tra palpebre rugose come quelle degli elefanti, fissava esclusivamente la persona sul gommone. Sott'acqua, la sua vista era acutissima, ma la marcata curvatura dei cristallini la condannava alla miopia non appena abbandonava il suo elemento naturale. Tuttavia, a una distanza così ravvicinata, era in grado di vedere perfettamente Anawak. Lentamente, per non spaventare l'animale, lui allungò la mano e gli accarezzò la pelle liscia e umida. La megattera non fece neppure cenno d'immergersi. Il suo occhio si spostò, poi puntò di nuovo su Anawak. Era una scena d'intimità quasi grottesca, un momento di felicità assoluta, ma Anawak si chiedeva a che cosa stesse mirando l'animale con quella lunga osservazione. In generale, le occhiate dei mammiferi duravano pochi secondi. Per i cetacei era molto faticoso rimanere in posizione verticale. «Dove sei stata per così tanto tempo?» chiese a bassa voce. Un tonfo appena percepibile arrivò dall'altra parte dello zodiac. Anawak si voltò appena in tempo per vedere un'altra testa levarsi. La seconda megattera era un po' più piccola, ma altrettanto vicina. Anch'essa fissava Anawak. Lui non provò neppure ad accarezzare l'altro animale. Che cosa volevano? Cominciò a sentirsi a disagio. Era insolito, per non dire bizzarro, sentirsi osservato. Una cosa simile non gli era mai capitata. Tuttavia, si chinò sulla borsa, tirò fuori in fretta la fotocamera digitale, la sollevò e disse: «Non muovetevi». Forse aveva commesso un errore. Se era così, era la prima volta nella storia del whale watching che le megattere mostravano un'esplicita avversione per le macchine fotografiche. Come dietro comando, le due teste gigantesche tornarono a immergersi. Sembravano due isole che sprofondano in mare. Un leggero gorgoglio, qualche bolla... e Anawak era di nuovo solo in quell'immensità rilucente. Si guardò intorno. Il sole era ormai sorto e, tra le montagne, si stendeva la foschia. La piatta superficie del mare si tingeva di blu. Non c'erano megattere. Anawak ansimò. Solo in quel momento si rese conto che il cuore gli batteva all'impazzata. Rimise la macchina fotografica nella borsa, riprese il binocolo, poi cambiò idea. I suoi nuovi amici non potevano essere lontani. Prese il registratore, si mise le cuffie e lasciò scivolare lentamente in acqua
l'idrofono. I microfoni subacquei erano così sensibili da riuscire a cogliere anche il rumore delle bolle d'aria in risalita. Sentì fruscii e rimbombi, ma nulla che potesse essere ricondotto alle megattere. Anawak attese il loro caratteristico verso. Non sentì nulla. Infine riportò a bordo l'idrofono. Dopo un po', a una certa distanza scorse le nuvole del respiro vaporizzato. Ma non le seguì. Che gli piacesse o no, era giunto il momento di rientrare. Mentre tornava a Tofino, immaginò la reazione entusiasta dei turisti se quello spettacolo si fosse ripetuto. Ne avrebbero parlato a tutti. La Davies e le sue balene ammaestrate. Sarebbero stati sommersi dalle richieste. Fantastico! Lo zodiac avanzava sulle acque tranquille, e lo sguardo di Anawak si posò sulle foreste vicine. Forse un po' troppo fantastico. 23 marzo Trondheim, Norvegia Sigur Johanson fu strappato al sonno da un suono acuto. Cercò tastoni la sveglia, finché non si rese conto che era il telefono. Si sollevò, imprecando, e stropicciandosi gli occhi. Ma il suo senso dell'orientamento sembrava non volersi attivare e lui ricadde all'indietro. Gli girava la testa. Cos'era successo la sera prima? Aveva fatto bisboccia con alcuni colleghi. C'erano anche degli studenti. Erano partiti con l'intenzione di andare a cena all'Havfruen, un ristorante situato all'interno di un magazzino dismesso nei pressi del Gamie Bybru, l'antico ponte della città. All'Havfruen proponevano raffinati piatti di pesce e alcuni buoni vini. Alcuni ottimi vini, ricordò improvvisamente. Erano rimasti seduti a un tavolo vicino alla finestra e avevano guardato il fiume Nidelva, coi moli e con le piccole imbarcazioni private, osservando come scorresse lentamente verso il fiordo di Trondheim. Anche nelle loro gole il vino scorreva a fiumi. Qualcuno si era messo a raccontare barzellette. Poi Johanson era sceso col proprietario in una cantina umida e si era fatto mostrare i tesori ottimamente conservati e gelosamente custoditi. Il problema di quella mattina era dovuto al fatto che il proprietario aveva stappato alcuni di quei tesori. E forse non era neppure l'unico problema.
Ho cinquantasei anni, pensò con un sospiro, mentre si alzava faticosamente a sedere. Non devo più fare cose del genere. No, sbagliato, devo farle, ma non devo permettere a nessuno di chiamarmi così presto dopo che le ho fatte. Intanto il telefono continuava a suonare, cocciuto. Con gemiti esagerati, se ne rendeva perfettamente conto - esagerati soprattutto perché non c'era nessuno a udirli -, si tirò in piedi e, nonostante le vertigini, riuscì ad arrivare in salotto. Aveva lezione quel giorno? Il pensiero lo colpì come un pugno. Terribile! Un'immagine mostruosa: stare davanti agli studenti con l'aspetto di un vecchio - be', in fondo lo era -, quasi incapace di tenere la testa eretta. Avrebbe giocherellato col colletto della camicia e con la cravatta, almeno finché non sarebbe riuscito a schiodarsi la lingua. Si sentiva la bocca impastata e gli sembrava di essere totalmente incapace di muoversi e di articolare verbo. Quando infine sollevò la cornetta, ricordò che era sabato e il suo umore migliorò di colpo. «Johanson», disse con voce sorprendentemente limpida. «Mio Dio, ce ne hai messo di tempo a rispondere.» Era Tina Lund. Johanson strabuzzò gli occhi e si lasciò cadere nella poltrona di fronte al televisore. «Che ore sono?» chiese. «Sono le sei e mezzo, perché?» «È sabato.» «Lo so che è sabato. Qualcosa che non va? Hai una voce...» «Non sono particolarmente in forma. Cosa vuoi da me, a quest'ora sconsiderata?» Tina ridacchiò. «Volevo convincerti a venire a Tyholt.» «Al Marintek? E che diavolo dovrei venirci a fare?» «Pensavo che sarebbe carino fare colazione insieme. Kare è a Trondheim per qualche giorno e gli farebbe certamente piacere vederti.» Tina fece una pausa, quindi riprese: «Inoltre volevo chiederti una cosa». «Mi pareva. Non è da te chiamarmi solo per un invito a colazione.» «No, non hai capito. Volevo sentire la tua opinione su una cosa.» «Che cosa?» «Non al telefono. Vieni?» «Dammi un'ora», disse Johanson, sbadigliando con tanto vigore che pensò di essersi slogato la mascella. «No, facciamo due. Prima voglio passare dall'università. Probabilmente sono arrivate altre analisi sui tuoi vermi.» «Sarebbe perfetto. Non è strano? Prima ero io a fare cose bizzarre, ades-
so è il contrario. Okay, prenditi il tempo necessario, ma muoviti.» «Agli ordini», borbottò Johanson. Sempre in preda alle vertigini, s'infilò sotto la doccia. Dopo una mezz'ora passata a sbuffare sotto il getto d'acqua, cominciò a sentirsi relativamente meglio. Era come se il vino avesse fiaccato le sue capacità sensoriali. Gli sembrava che la sua immagine allo specchio si sdoppiasse. C'era da chiedersi se in quelle condizioni sarebbe riuscito a guidare. Tra poco l'avrebbe saputo. Fuori c'era il sole e faceva caldo. La Kirkegata era quasi deserta. Nella luce del primo mattino, i colori delle case e il verde degli alberi splendevano con particolare intensità. Sembrava quasi che Trondheim stesse facendo le prove generali per la primavera. Con quel clima straordinariamente bello, gli ultimi residui di neve si erano già sciolti. Johanson decise che quella giornata era di suo gradimento e che gli piaceva pure l'idea che Tina l'avesse svegliato. Si mise a fischiettare una melodia di Vivaldi per dar sfogo a quella improvvisa esplosione di buon umore e per impedire che lo condizionasse troppo mentre guidava la jeep sul Gloshaugen. Ufficialmente, durante il fine settimana, l'NTNU era chiuso, ma quasi nessuno si atteneva a quella norma. Anzi era il momento migliore per leggere la posta, rispondere alle e-mail e lavorare indisturbati. Una volta arrivato, entrò nell'ufficio postale,, rovistò nella sua casella e ne estrasse una busta rigonfia, proveniente dal Forschungsinstitut und Naturmuseum Senckenberg di Francoforte. Quasi certamente conteneva le analisi di laboratorio che Tina stava aspettando con tanta ansia. Johanson infilò in tasca la busta senza aprirla, lasciò l'università e si diresse verso Tyholt. Il Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, era strettamente collegato all'NTNU, al Sintef e al centro di ricerca della Statoli. Oltre a diverse cisterne per le simulazioni e gallerie delle onde, vi era anche la più grande piscina d'acqua marina al mondo, utilizzata per la ricerca. Serviva per simulare i venti e il moto ondoso con modelli in scala. Praticamente ogni costruzione destinata a galleggiare sullo zoccolo norvegese era stata testata in quella vasca lunga ottanta metri e profonda dieci. Sistemi generatori di onde producevano correnti e tempeste in miniatura, con cavalloni alti fino a un metro. Con una piattaforma in scala ridotta era una dimensione devastante. Johanson pensò che proprio lì Tina stesse testando la stazione sottomarina destinata a essere installata sulla scarpata continentale. Infatti la trovò nel padiglione del bacino, intenta a discutere con un
gruppo di scienziati. La scena faceva uno strano effetto. Nell'acqua c'erano alcuni sommozzatori che nuotavano intorno a una piattaforma di estrazione formato giocattolo. Petroliere in miniatura navigavano in mezzo alle barche a remi dei tecnici. A una prima occhiata, sembrava un incrocio tra un laboratorio, un negozio di giocattoli e un laghetto per le gite in barca durante le domeniche estive; ma la prima impressione ingannava. Senza il Marintek, il settore offshore praticamente non sarebbe esistito. Tina lo vide e interruppe la conversazione. Gli andò incontro, ma, per farlo, fu costretta a girare intorno alla vasca. Come sempre, si muoveva a passi rapidi. «Perché non hai usato la barca?» chiese Johanson. «Non siamo al laghetto del parco», ribatté Tina. «Tutto deve essere perfettamente coordinato. Se passo in mezzo alla simulazione provocando delle onde, centinaia di lavoratori petroliferi perderebbero la vita e la responsabilità sarebbe mia.» Gli diede un bacio sulla guancia. «Oh, Sigur... Pungi.» «Tutti gli uomini con la barba pungono», borbottò luì. «Puoi essere contenta che Kare si rada, altrimenti non avresti nessun motivo per preferirlo a me. A che cosa state lavorando? Alla soluzione dei vostri problemi sottomarini?» «Nei limiti del possibile. La piscina ci consente simulazioni realistiche fino a mille metri; a profondità superiori, i dati sono troppo imprecisi.» «Comunque è sufficiente per il vostro progetto.» «Certo, ma usiamo anche i computer per elaborare scenari alternativi. A volte si discostano dai risultati del bacino, allora cambiamo i parametri finché non raggiungiamo un allineamento soddisfacente.» «La Shell mira a una stazione posta a duemila metri di profondità. L'ho letto ieri sul giornale. Avete concorrenza.» «Lo so. La Shell ha incaricato il Marintek. È una bella gatta da pelare. Vieni, andiamo a fare colazione.» Una volta in corridoio, Johanson disse: «Continuo a non capire perché non volete utilizzare le SWOP. Non è più facile lavorare da una costruzione galleggiante, se riuscite ad andare in profondità con le tubature flessibili?» Lei scosse la testa. «Troppo rischioso. Le costruzioni galleggianti devono essere ancorate...» «Lo so, tutte...» la interruppe lui. «... e possono staccarsi», finì Tina.
«Però tutte le piattaforme sono ancorate allo zoccolo continentale.» «Si, ma a profondità minori. Più in basso ci sono correnti di altro tipo e un diverso moto ondoso. Ma non è solo il problema dell'ancoraggio. Se le condutture di estrazione vengono spinte a profondità elevate, diventano instabili e noi non vogliamo un disastro ecologico. Inoltre non si troverebbe nessuno disposto a lavorare tanto al largo su un ponte galleggiante. Persino i più incalliti vomiterebbero anche l'anima. Andiamo di qua.» Salirono una scala. «Credevo che andassimo a colazione», disse Johanson sorpreso. «Certo, ma prima voglio mostrarti una cosa.» Tina spalancò una porta. Si trovavano in un ufficio proprio sopra il padiglione del bacino. Dall'ampia finestra si vedevano file di case coi tetti spioventi illuminati dal sole e parchi che si estendevano verso il fiordo. «Che magnifica mattinata», mormorò Johanson. Tina si avvicinò a una scrivania. Prese due sedie di resopal e aprì un laptop dall'ampio schermo. Mentre il computer caricava il programma, la donna tamburellava sul piano del tavolo. Infine comparvero alcune fotografie che lui conosceva. Mostravano una macchia chiara, lattiginosa, che ai bordi si perdeva nel nero. «Sono le immagini riprese da Victor. Quella cosa sulla scarpata», disse Johanson. «Quella cosa che non mi dà pace», confermò Tina. «Avete scoperto cos'è?» «No, però sappiamo che cosa non è. Non è una medusa, non è un banco di pesci. Abbiamo analizzato la sequenza con migliaia di filtri. Questa è la migliore che siamo riusciti a ottenere.» Ingrandì la prima fotografia. «Quando quell'essere è finito davanti all'obiettivo, era colpito dalla luce violenta del riflettore. Ne abbiamo visto una parte, ma naturalmente in maniera molto diversa da come l'avremmo vista senza luce artificiale.» «Senza luce, a quella profondità, non avreste visto nulla», osservò lui. «Infatti!» «A meno che non si sia di fronte a un caso di bioluminescenza...» Si bloccò. Tina gli scoccò un'occhiata soddisfatta. Le sue dita danzarono sulla tastiera e l'immagine cambiò di nuovo. Stavolta apparve un dettaglio del bordo superiore destro. Proprio dove la chiazza illuminata si perdeva nel buio s'intravedeva qualcosa. Una luminosità di un blu intenso attraversata da linee più chiare. «Se s'illumina un oggetto luminoso, non si vede più
nulla della sua luminosità. E i riflettori di Victor abbagliano tutto. Tranne ai margini, dove la luce si disperde. Lì si riesce a riconoscere qualcosa. A mio giudizio è la prova che abbiamo a che fare con un essere luminoso. E anche molto grande», disse lei. La bioluminescenza era una caratteristica di molti abitanti degli abissi, ottenuta grazie a batteri con cui essi vivevano in simbiosi. C'erano organismi luminosi anche sulla superficie marina, come alcune alghe e piccole seppie. Però il vero mare di luce cominciava là dove spariva la luce del sole. Nel buio totale degli abissi marini. Johanson fissò lo schermo. Il blu si riusciva più a intuirlo che a vederlo. Un occhio non abituato non l'avrebbe notato. Ma la telecamera del robot aveva una definizione molto elevata. Probabilmente Tina aveva ragione. Si fregò la barba. «Secondo te, quanto è grande?» «Difficile dirlo. A giudicare dalla rapidità con cui è sparito, doveva essere al limite del fascio luminoso. Ad alcuni metri di distanza. Tuttavia la sua superficie ha occupato quasi tutto l'obiettivo. Che ne deduci?» «La parte che abbiamo visto dovrebbe essere grande dai dieci ai dodici metri quadrati.» «Quella che abbiamo visto!» Tina fece una pausa. «La luminosità ai margini induce a pensare che probabilmente quella che abbiamo visto non era la parte più grande.» A Johanson venne un'idea. «Potrebbe essere una massa di pLancton. Microrganismi. Ce ne sono di luminosi...» «E come spieghi il disegno?» domandò Tina. «Le linee chiare? Un caso. Siamo noi a credere che sia un disegno. Abbiamo pensato che anche i canali di Marte formassero un disegno.» «Io non credo che sia plancton», disse lei. «Quello che vediamo non è così chiaro.» «E invece sì. Guarda un'altra volta.» Tina aprì le immagini successive. L'oggetto si ritirava sempre più nell'oscurità. In effetti, si era visto per poco più di un secondo. Il secondo e il terzo ingrandimento mostravano ancora la macchia debolmente luminescente. Ma, nel corso della sequenza, sembrava che la posizione delle linee fosse cambiata. Nella quarta, le linee erano sparite del tutto. «Ha spento la luce», mormorò lui, sbalordito. Poi rifletté. Alcune specie di polpi comunicavano attraverso la bioluminescenza. Non era così insolito che un animale, in caso di pericolo, spegnesse, per così dire, l'interruttore e sparisse nell'oscurità. Ma quell'animale era grandissimo. Molto più grande
di qualsiasi specie conosciuta di piovra. L'inevitabile conclusione non gli piaceva affatto. Non si trattava di un essere originario del margine continentale norvegese. «L'Architeuthis», disse. «Il calamaro gigante», confermò Tina. «È la prima cosa che viene in mente. Ma la sua presenza non è mai stata segnalata in queste acque.» «Sarebbe la prima volta che vediamo quell'essere vivo.» Non era del tutto vero. Da molto tempo circolavano storie incredibili sugli Architeuthis. Come prova della loro esistenza, erano stati addotti alcuni cadaveri, giunti a riva. Una prova non decisiva, perché la carne del calamaro era come gomma. Più la si tirava, più si allungava, soprattutto nella fase di decomposizione. Pochi anni prima, a ovest della Nuova Zelanda, nelle reti dei ricercatori erano finiti alcuni giovani animali, il cui profilo genetico non lasciava dubbi: nel giro di diciotto mesi, si sarebbero trasformati in calamari giganti, lunghi fino a venti metri e pesanti fino a dieci quintali. Però nessun essere umano aveva mai visto vivo uno di quegli animali. L'Architeuthis viveva negli abissi ed era impossibile dire se fosse luminoso. Johanson corrugò la fronte. Poi scosse la testa. «No.» «Che cosa, no?» «Ci sono troppi elementi contrari. Questa non è la zona dei calamari giganti.» «Certo, ma...» Tina agitò le mani. «In realtà non sappiamo dove vivono. Non sappiamo nulla.» «Non vivono in questa zona», insistette lui. «Neppure i vermi dovrebbero essere qui», precisò Tina. Vi fu un momento di silenzio. «E se anche fosse?» riprese infine Johanson. «Gli Architeuthis non sono aggressivi. Di che vi preoccupate? Fino a oggi non c'è stato un solo uomo aggredito da un calamaro gigante.» «I testimoni non la pensano così.» «Oddio, Tina! È possibile che abbiano seguito qualche barca. Ma. non è il caso di mettersi a discutere sulla minaccia rappresentata dai calamari giganti per l'estrazione petrolifera. Devi ammettere che è ridicolo.» Tina osservò scettica l'ingrandimento della fotografia. Poi chiuse il file. «Okay, hai qualcosa per me? Qualche risultato?» Johanson tirò fuori la busta e l'aprì. Dentro c'era una spessa mazzetta di fogli, fittamente stampati. «Santo cielo», si lasciò sfuggire lei. «Aspetta, dovrebbe esserci un riassunto. Ah, eccolo!»
«Fammi vedere.» «Un attimo.» Lui scorse il rapporto. Tina si alzò e andò alla finestra. Poi si mise a camminare avanti e indietro. «Su, dimmi qualcosa», sbuffò. fohanson aggrottò la fronte e sfogliò il plico. «Hmm, interessante.» «Sputa il rospo», insistette lei. «Confermano che si tratta di policheti. E, benché loro non siano propriamente tassonomi, scrivono di essere arrivati alla conclusione che il verme presenta sorprendenti somiglianze con la Hesiocaeca methanicola. Data questa circostanza, si meravigliano per la mascella così pronunciata e poi scrivono... Qui si fa più particolareggiato... Ah, ecco. Hanno esaminato le mandibole. Molto potenti e indubbiamente pensate per trivellare e scavare.» «Fin lì c'eravamo arrivati anche noi», esclamò Tina, impaziente. «Aspetta. Hanno fatto anche altri esami. Analisi della composizione degli isotopi stabili e la spettrometria di massa. Oh! Il nostro verme è leggero, meno novanta per mille.» «Potresti esprimerti in maniera comprensibile?» chiese Tina. «È proprio metanotrofo. Vive in simbiosi coi batteri che decompongono il metano. Come posso spiegartelo? Allora, gli isotopi... Sai cosa sono gli isotopi?» «Sono atomi di un elemento chimico con lo stesso numero atomico, ma un diverso numero di massa.» «Molto bene. Ma andiamo oltre. Per esempio, il carbonio esiste con diversi pesi. C'è il carbonio 12 e il carbonio 13. Se mangi qualcosa in cui c'è prevalenza di un carbonio più leggero, quindi un isotopo più leggero, anche tu sarai più leggera. Chiaro?» «Se mangio qualcosa, sì. Logico.» «E nel metano c'è un carbonio molto leggero. Se il verme vive in simbiosi coi batteri che mangiano questo metano, allora i batteri diventano più leggeri, e, se il verme li mangia, anche lui diventa leggero. E il nostro è molto leggero», proseguì lui. «Voi biologi siete davvero ridicoli. Come fate a scoprire queste cose?» «Facciamo cose terribili. Secchiamo il verme e lo trituriamo fino a ottenere polvere di verme e poi lo ficchiamo nella macchina di misurazione. Andiamo avanti: microscopio elettronico a scansione lineare... Hanno colorato il DNA... una procedura molto approfondita...» «Piantala!» Tina gli si avvicinò e gli strappò i fogli di mano. «Non vo-
glio un trattato accademico, voglio capire se possiamo trivellare o no.» «Potete...» Johanson riprese i fogli e lesse le ultime righe. «Fantastico!» «Che cosa?» Lui sollevò la testa. «Queste bestie sono piene di batteri. Dentro e fuori. Endosimbionti ed esosimbionti. Sembra che i tuoi vermi siano un vero e proprio autobus per i batteri.» Tina lo guardò, sconcertata. «E questo che vuol dire?» «È un controsenso. Il tuo verme vive indubbiamente negli idrati di metano. Quasi scoppia di batteri. Non dovrebbe andare a caccia e scavare buchi. Se ne dovrebbe stare sdraiato sul ghiaccio, bello grasso e bello pigro. E invece possiede mandibole giganti per scavare e le orde che arrivano dalla scarpata mi sembrano tutt'altro che pigre e grasse. Anzi mi sembrano particolarmente vivaci.» Rimasero di nuovo in silenzio per un po'. Infine Tina domandò: «Che cosa fanno laggiù, Sigur? Che razza di animali sono?» «Non lo so», rispose Johanson. Forse sono davvero arrivati direttamente dal Cambriano. Non ho idea di che cosa ci facciano laggiù.» Esitò. «Non so neppure se la loro presenza abbia importanza. Che possono mai fare? Rotolano, sì, ma è poco probabile che si mettano a rosicchiare gli oleodotti.» «E allora cosa rosicchiano?» Johanson fissò il riassunto delle analisi. «Ci sono altri scienziati che potrebbero darci ulteriori informazioni. Se anche loro non ci sanno dire nulla, allora non ci resta che aspettare e scoprirlo di persona», disse. «Preferirei non dover aspettare.» «Bene. Mando loro qualche esemplare.» Johanson si stiracchiò, sbadigliando. «Forse avremo fortuna e verranno a dare un'occhiata con la nave oceanografica. In un caso o nell'altro, devi pazientare un po'. Per il momento non possiamo fare nulla. Per questo, se sei d'accordo, ora vorrei fare colazione e dare qualche buon consiglio a Kare Sverdrup.» Tina sorrise. Ma non sembrava particolarmente soddisfatta. 5 aprile Vancouver e Vancouver Island, Canada Gli affari si rimisero in moto. In altre circostanze, Anawak avrebbe condiviso la gioia di Shoemaker.
Le balene ritornavano e il gestore non parlava d'altro. E infatti, l'una dopo l'altra, arrivarono balene grigie, megattere, orche e addirittura alcune balenottere minori. Naturalmente anche Anawak era felice del loro ritorno. Non c'era nulla che avesse desiderato di più. Però avrebbe preferito collegare il loro ritorno ad alcune risposte: in particolare si chiedeva dove si fossero nascoste per tutto quel tempo, visto che non erano riusciti a rintracciarle né i satelliti né le sonde. E poi non riusciva a dimenticare quel memorabile incontro. Si era sentito come una cavia da laboratorio. Le due megattere l'avevano osservato con calma e attenzione, come se fosse sul tavolo anatomico. Erano esploratrici? E che cosa dovevano esplorare? Assurdo! Chiuse la cassa e uscì. I turisti si erano raccolti sul molo. Con le loro tute color arancione sembravano un gruppo di soldati dei reparti speciali. Anawak inspirò la fresca aria mattutina e li raggiunse. Poi sentì arrivare qualcuno di corsa. «Dottor Anawak!» Si fermò e, voltandosi, scorse Alicia Delaware. Si era raccolta i capelli rossi in una coda di cavallo e portava occhiali da sole alla moda, di colore blu. «Posso venire anch'io?» chiese. Anawak la squadrò. Poi guardò lo scafo blu del Blue Shark. «Siamo al completo», rispose. «Sono arrivata di corsa.» «Mi dispiace. Tra mezz'ora parte la Lady Wexham. È molto più confortevole. Grande, cabine interne riscaldate, snack bar...» «Non voglio. Sono sicura che c'è ancora un po' di spazio per me. Magari dietro!» «Nella cabina siamo già in due, Susan e io.» «Non ho bisogno di un posto a sedere.» Alicia sorrise. Con quei grandi denti sembrava un coniglio lentigginoso. «La prego! Non ce l'ha con me, vero? Vorrei tanto uscire in mare con lei. A dire il vero vorrei uscire solo con lei.» Anawak aggrottò la fronte. «Non mi guardi così!» Alicia Delaware strabuzzò gli occhi. «Ho letto tutti i suoi libri e ammiro il suo lavoro.» «Non ho avuto questa impressione.» «Per quello che è successo all'acquario?» Fece un gesto come per scacciare il ricordo. «Mettiamoci una pietra sopra. La prego, dottor Anawak, sono qui ancora per un giorno soltanto. Mi farebbe un piacere enorme.»
«Abbiamo le nostre regole», replicò Anawak, ma in un tono che suonò fiacco e meschino persino a lui. «Mi stia a sentire, testone», esclamò Alicia. «Sono fatta d'acqua. L'avverto: se non mi prende con sé, mi scioglierò in lacrime durante il volo di ritorno a Chicago. Vuole assumersi questa responsabilità?» concluse, fissandolo divertita. Anawak non poté fare altro che mettersi a ridere. «Va bene. Per quello che mi riguarda, può venire.» «Davvero?» «Sì. Ma non mi rompa le scatole con le sue teorie astruse.» «Non sono le mie teorie, sono le teorie di...» «Sarebbe ancora meglio se tenesse la bocca chiusa.» Alicia si preparò a replicare, ma poi ci ripensò e annuì. «Aspetti qui», disse Anawak. «Le prendo una tuta.» Alicia mantenne la promessa per ben dieci minuti. Le case di Tofino erano appena scomparse dietro il pendio ricoperto di boschi, quando si avvicinò ad Anawak e gli tese la mano. «Mi chiami pure Licia», disse. «Licia?» «Sta per Alicia. Alicia è un nome stupido. Almeno così mi pare. Naturalmente i miei genitori non la pensavano così, ma non ci chiedono il nostro parere quando ci danno il nome: è sempre stata una situazione penosa. Lei si chiama Leon, vero?» Lui strinse la mano che la ragazza gli aveva teso. «È un piacere, Licia.» «Bene. E ora dovremmo chiarire una cosa», disse lei. Anawak lanciò un'occhiata a Susan, che stava guidando lo zodiac, chiedendole silenziosamente aiuto. Lei rispose al suo sguardo, ma poi scrollò le spalle e si dedicò esclusivamente alla rotta da seguire. «Che cosa?» chiese allora, con cautela. «Quello che è successo all'acquario... Be', sono stata stupida e saccente. Mi dispiace.» «Già dimenticato.» «Ma devi scusarti anche tu.» «Come? E di che?» Lei abbassò lo sguardo. «Nulla da dire sul fatto che tu abbia ridicolizzato le mie opinioni davanti ad altre persone, ma non avresti dovuto esprimerti in quel modo sul mio aspetto.» «Io non ho...» Al diavolo. «Hai detto che un beluga che mi vedesse mentre mi trucco dubiterebbe
della mia intelligenza.» «Non era mia intenzione offenderti. Era solo un paragone... astratto», spiegò lui. «Era un pessimo paragone.» Anawak si grattò la testa. Si era arrabbiato con Alicia perché era arrivata all'acquario col suo armamentario d'idee preconcette, dimostrandosi così un'ignorante. Ma probabilmente lui non era stato da meno. E, senza dubbio, con la sua esplosione di rabbia l'aveva offesa. «Va bene. Ti porgo le mie scuse.» «Accettate.» «Ti riferivi a Povinelli», affermò lui. Lei sorrise, pensando che, in fondo, Anawak l'aveva presa sul serio. Daniel Povinelli era il più importante antagonista di Gordon Gallup nella discussione sull'intelligenza e sulla consapevolezza di sé dei primati e degli altri ammali. Lui concordava con Gallup sul fatto che gli scimpanzé che si riconoscono allo specchio avevano una rappresentazione di se stessi. Altrettanto decisamente, però, negava che tale circostanza li rendesse capaci di capire le proprie condizioni mentali e quindi anche quelle degli altri esseri viventi. Per Povinelli non era affatto dimostrato che gli animali possedessero la comprensione psicologica propria dell'uomo. «Povinelli sta percorrendo una strada coraggiosa», disse Alicia. «Le sue opinioni appaiono superate, ma lui non se ne cura. Per Gallup è molto più facile, perché fa chic parlare di scimpanzé, delfini e chissà cos'altro come soggetti con gli stessi diritti dell'uomo.» «Sono soggetti con gli stessi diritti dell'uomo», obiettò Anawak. «In senso etico.» «Lasciamo perdere. L'etica è un'invenzione degli uomini», disse lui. «Nessuno ne dubita. Nemmeno Povinelli.» Anawak fece scorrere lo sguardo lungo l'insenatura. Nel suo campo visivo entrarono alcune isolette. «Lo so dove vuoi arrivare», disse dopo una breve pausa. «Tu credi che dimostrare l'esistenza di tratti umani negli animali non sia la strada giusta per arrivare a trattarli più umanamente.» «È arrogante», gridò Alicia. «Ti do ragione. Non risolve il problema. Ma la maggior parte degli uomini crede che una forma di vita meriti di essere protetta quanto più somiglia agli esseri umani. È più facile uccidere un animale anziché un uomo. Diventa più difficile se vediamo l'animale come un nostro parente prossimo. È un concetto che la maggior parte delle persone è pronta ad accettare,
anche se si fonda sul presupposto della superiorità umana. C'è invece una minoranza che non considera l'umanità l'apice della creazione e crede che, nella scala di valore della vita, l'uomo non sia al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, ma molto più semplicemente di fianco. Riguardo a ciò che pensa la maggior parte, rimane un problema: come posso pretendere che a un animale o a una pianta siano dedicate le stesse attenzioni che si prestano agli uomini, se considero il valore della vita umana superiore a quello di una formica, di una scimmia o di un delfino?» «Ehi!» Alicia batté le mani. «La pensiamo allo stesso modo.» «Quasi. Credo che tu sia un po' troppo... messianica nelle tue concezioni. Personalmente difendo l'idea che la psiche di uno scimpanzé o di un beluga mostri punti di contatto con quella umana.» Alicia stava già per obiettare qualcosa, ma Anawak la fermò, sollevando una mano. «Va bene, formuliamolo in un altro modo: potremmo salire nella scala di valori di un beluga - ammesso che i cetacei abbiano simili pensieri - se il beluga scoprisse in noi delle somiglianze con lui.» Sorrise. «Forse alcuni beluga ci considerano anche intelligenti. Detto così ti piace di più?» Alicia arricciò il naso. «Non lo so, Leon. Perché non mi abbandona la sensazione che tu mi stia spingendo in una trappola?» «Leoni marini!» gridò Susan Stringer. «Là davanti.» Anawak si riparò gli occhi con la mano. Si stavano avvicinando a un'isoletta coperta da una misera vegetazione. Su uno scoglio dormicchiava al sole un gruppo di leoni marini Stellar. Alcuni sollevarono stancamente la testa e osservarono l'imbarcazione. «Non si tratta di Gallup o Povinelli, vero?» Anawak prese la macchina fotografica e scattò alcune foto. «Ti consiglio un'altra discussione. Siamo d'accordo sul fatto che una scala di valori assoluta non esiste e che esiste solo una rappresentazione umana. Faccenda chiusa. Entrambi siamo assolutamente contrari all'umanizzazione degli animali. Io sono convinto che, entro certi limiti, sarà possibile comprendere il loro mondo interiore... afferrarli intellettualmente, diciamo. Inoltre credo che con certi animali abbiamo più cose in comune che con altri e che quindi troveremo la strada per comunicare. Tu, invece, credi che tutti i non umani ci saranno eternamente estranei. Non abbiamo nessun accesso alla mente degli animali, quindi non ci sarà mai nessuna comunicazione. Saremo inesorabilmente divisi e l'unica cosa sensata da fare è lasciarli in pace.» Alicia rimase in silenzio per un po'. Lo zodiac superò lentamente l'isola coi leoni marini. Susan spiegava le caratteristiche fondamentali di quegli
animali ai passeggeri, che intanto, come Anawak, scattavano foto. «Ci devo pensare», disse infine la ragazza. E lo fece davvero. O se non altro non aprì quasi bocca finché non furono in mare aperto. Anawak era soddisfatto. Era una buona cosa che il tour fosse iniziato coi leoni marini. La popolazione delle balene non aveva ancora raggiunto la sua consistenza abituale. Una roccia coperta di leoni marini dava un taglio positivo alla spedizione e forse avrebbe aiutato in caso non ci fossero stati gli avvistamenti sperati. Ma i suoi timori si dimostrarono privi di fondamento. A poca distanza dalla costa incontrarono un branco di balene grigie. Erano un po' più piccole delle megattere, ma pur sempre di dimensioni impressionanti. Alcune arrivarono molto vicino e guardarono con circospezione fuori dall'acqua, suscitando l'entusiasmo dei passeggeri. Sembravano pietre vive, macchiettate, con le potenti mascelle ricoperte di crostacei balani e copepodi, parassiti infestanti. Molti dei passeggeri fotografavano e riprendevano freneticamente. Altri osservavano rapiti. Anawak aveva visto uomini adulti mettersi a piangere alla vista di una balena che si levava dall'acqua. A una certa distanza c'erano altri tre zodiac e una nave più grassa con lo scafo rigido. Tutti avevano spento i motori. Susan trasmetteva per radio gli avvistamenti. Praticavano un whale watching rigidamente regolamentato, ma qualcuno come Jack Greywolf sarebbe sceso in campo anche contro quello. Jack Greywolf era un idiota. Un idiota pericoloso, per giunta. Anawak diffidava di quello che stava progettando. Tourist watching... Ridicolo! Ma se fossero arrivati a scontrarsi apertamente, Greywolf avrebbe avuto i media dalla sua parte. Avrebbe gettato il discredito sulla Davies Whaling Station, e il grande senso di responsabilità con cui conducevano le escursioni coi turisti sarebbe stato ignorato. Le manovre di disturbo degli ambientalisti - anche se si trattava di personaggi equivoci come i membri dell'associazione di Greywolf, la Seaguard - avrebbero reso la condanna inappellabile. Nessuno si sarebbe preso la briga di soppesare le affermazioni di organizzazioni serie e quelle di fanatici dello stampo di Jack Greywolf. In genere, le valutazioni serie arrivavano solo quando la stampa aveva già diffuso le notizie e il danno era fatto. E Greywolf non era l'unica preoccupazione di Anawak. Osservava l'oceano con attenzione, pronto a scattare fotografie. Si chie-
deva se non soffrisse ancora della paranoia provocata dall'incontro con le due megattere. Vedeva fantasmi, oppure c'era stato davvero un cambiamento nel comportamento degli ammali? «A destra!» gridò Susan. Le teste delle persone sullo zodiac seguirono il suo braccio teso. Numerose balene si erano avvicinate all'imbarcazione e s'immergevano con movimenti suggestivi. Le loro code sembravano fare dei cenni ai passeggeri. Anawak scattava foto per l'archivio. Skoemaker sarebbe stato felicissimo. Era un viaggio esemplare, come se le balene volessero indennizzare per la lunga attesa i whale watcher offrendo loro uno spettacolo generoso. Più al largo tre grandi balene grigie tenevano la testa fuori dall'acqua. «Queste non sono balene grigie, vero?» chiese Alicia. Masticava un chewing-gum e guardava Anawak come se si aspettasse una ricompensa. «No. Sono megattere.» «Mi pareva. Da dove viene questo stupido nome? Non vedo nessuna gobba.» «Infatti non ce l'hanno. Ma la fanno quando s'immergono. Credo che il nome derivi dalla caratteristica curvatura del corpo», spiegò Anawak. Alicia sollevò le sopracciglia. «Pensavo che derivasse da quella piccola gobba sulla bocca. Da quella escrescenza.» Anawak sospirò. «Fai ancora il bastian contrario, eh?» «Scusa.» Si mise ad agitare le braccia, eccitata. «Ehi, cosa fanno quelle laggiù? Che cosa fanno quelle?» Le teste delle tre megattere avevano colpito contemporaneamente la superficie dell'acqua. Avevano spalancato le gigantesche bocche al punto che si poteva vedere il palato rosa. Si distinguevano chiaramente i fanoni e le imponenti gole sembravano gonfie. Tra le balene vorticava la schiuma e qualcos'altro che luccicava come lustrini. Come dal nulla erano comparsi stormi di gabbiani e gavie, che volteggiavano intorno alla scena e volevano prendere parte alla festa. «Mangiano», chiarì Anawak, continuando a fotografare. «Incredibile! Sembra quasi che vogliano mangiare noi.» «Su, non renderti più stupida di quello che sei.» Alicia spostava il chewing-gum da una guancia all'altra. «Non capisci le battute», disse annoiata. «So bene che si nutrono di plancton e di piccoli animaletti. Semplicemente non l'avevo mai visto fare. Pensavo che scivolassero con la bocca aperta.» «La balena bianca australe fa così», disse Susan da sopra la spalla. «Le
megattere hanno un loro metodo. Nuotano sotto un banco di piccoli pesci, o krill, e lo circondano con un cerchio di bolle d'aria. I piccoli animali non amano le acque turbolente, così cercano di tenersi lontano dalla cortina di bolle e stanno stretti l'uno all'altro. Le balene emergono, aprono la bocca e... gulp.» «Non stare a spiegarglielo. Senza dubbio queste cose le sa meglio di te», disse Anawak. «Gulp?» fece eco Alicia. «Si dice così per le balenottere boreali. La 'procedura gulp'. Possono allargare la gola, che si trasforma in un gigantesco deposito per il cibo. Con un'enorme sorsata inghiottiscono plancton e pesci, che rimangono bloccati nei fanoni quando le balene risputano fuori l'acqua.» Anawak si accostò a Susan. Alicia ebbe l'impressione che volesse parlarle a quattr'occhi. Susan si sporse dalla cabina di guida e iniziò a spiegare ai passeggeri la «procedura gulp». Quando ebbe finito, Anawak le chiese a bassa voce: «Come ti sembrano?» Susan voltò la testa. «Le balene?» chiese. «Sì.» «Che domanda ridicola...» esclamò Susan. Poi rifletté. «Come al solito, credo. E a te, come sembrano?» «Le trovi normali?» domandò Anawak. «Certo. Sono in piena febbre dello show, se è questo che vuoi dire. Sì, e sono anche maledettamente brave.» «Non noti qualcosa... di diverso?» Lei socchiuse le palpebre. Il sole splendeva abbagliante sull'acqua. Vicino all'imbarcazione emerse un dorso grigio chiazzato e poi sparì. Le megattere si erano di nuovo ritirate sotto la superficie. «Di diverso?» ripeté Susan, allungandosi. «Che intendi?» «Ti ho raccontato delle due megattere che sono emerse improvvisamente vicino alla barca», spiegò lui. Le aveva chiamate «megattere» e non «balene». La sua idea era così folle che, usando il nome scientifico, sperava di darle almeno una parvenza di serietà. «Sì, e allora?» lo incalzò lei. «Ma sì. È strano.» «Me l'hai già raccontato. Una per parte. T'invidio. Assolutamente mitico. E io non c'ero», disse Susan. «Non so se sia stato mitico. Mi sembrava quasi che stessero valutando la
situazione... come se stessero tramando qualcosa...» «Parli per enigmi.» «Non è stato molto piacevole», concluse Anawak. «Non è stato piacevole?» Susan scosse la testa, sbigottita. «Ti devo consolare? Quello è proprio il tipo d'incontro che sogno. Vorrei essere stata al tuo posto.» «No, non è vero, al mio posto non ti saresti divertita. Continuavo a chiedermi chi era a osservare l'altro e a che scopo...» «Leon. Erano megattere, mica agenti segreti.» Lui si passò una mano sugli occhi. «Okay, dimenticatelo. Ma sì, è una follia. Mi devo essere sbagliato.» Il walkie-talkie di Susan gracchiò e si sentì la voce di Tom Shoemaker. «Susan? Vai sulla 99.» Tutte le stazioni trasmettevano e ricevevano sulla frequenza 98. Era comodo perché così si aveva sempre il quadro degli avvistamenti. Anche la guardia costiera di Tofino usava la frequenza 98 e purtroppo lo facevano pure diversi pescatori sportivi, che avevano un'idea non proprio positiva del whale watching. Ma ogni stazione aveva un proprio canale per le conversazioni private. Susan cambiò frequenza. «C'è Leon, lì vicino?» chiese Shoemaker. «Sì, è qui.» Passò ad Anawak la radio. Lui la prese e parlò per un po' con Shoemaker. Poi disse: «Va bene, arrivo... Sì, si può fare anche senza preavviso... Comunicagli che vado non appena torniamo. A presto.» «Di che si tratta?» chiese Susan non appena lui le ebbe restituito la radio. «Di una richiesta. Dalla Inglewood.» «La Inglewood? La società armatrice?» «Sì. La chiamata è arrivata dalla direzione. Non hanno fornito molti dettagli. Hanno detto solo che hanno bisogno di un parere, e piuttosto in fretta. Strano. A Tom è sembrato che avessero così tanta fretta che avrebbero voluto teletrasportarmi.» La Inglewood aveva mandato un elicottero. Nemmeno due ore dopo aver parlato per radio con Shoemaker, Anawak vedeva scorrere sotto di sé lo spettacolare paesaggio di Vancouver Island. Colline ricoperte di abeti si alternavano a montagne scoscese, fiumi scintillanti e invitanti laghetti di colore verde-azzurro. Tuttavia la bellezza dell'isola non poteva nascondere il
fatto che l'industria del legno aveva colpito duramente le foreste. Nel corso degli ultimi cento anni, si era sviluppata fino a diventare il ramo industriale più importante della regione. In ampie aree il diboscamento aveva lasciato il segno. Superarono l'isola di Vancouver Island e sorvolarono il trafficatissimo Georgia Strait: navi di linea, traghetti, cargo e yacht privati. In lontananza si dipanavano le imponenti catene montuose delle Montagne Rocciose, con le loro vette innevate. Torri di vetro blu e rosa contornavano un'ampia insenatura, su cui atterravano e decollavano idrovolanti che sembravano uccelli colorati. Il pilota parlò con la stazione di terra. L'elicottero si abbassò, effettuò una virata e si fermò sopra l'area di carenaggio. Poco dopo, atterrarono su uno spazio libero delle dimensioni di un gigantesco parcheggio. Su entrambi i lati c'erano cataste di legno di cedro in attesa di essere spedite. Un po' più lontano, si scorgevano mucchi di zolfo e carbone. Al molo era ormeggiato un gigantesco cargo. Anawak vide un gruppo di persone da cui si staccò un uomo che venne incontro a loro. I suoi capelli svolazzavano nei vortici creati dall'elica. Indossava un cappotto e stava curvo per difendersi dal vento. Anawak slacciò la cintura di sicurezza e si preparò a scendere. L'uomo spalancò il portello. Era alto e imponente, aveva poco più di sessant'anni e un viso tondo, dall'aria gentile e dagli occhi vivaci. Sorrise tendendo la mano ad Anawak. «Sono Clive Roberts, il managing director.» Si strinsero la mano. Anawak seguì Roberts fino al gruppo, evidentemente impegnato a ispezionare il cargo. Vide marinai e persone in abiti civili. Continuavano a guardare la parte destra della nave, le camminavano di fianco, si fermavano e gesticolavano. «È stato molto gentile a venire subito», disse Roberts. «Ci scusi. Normalmente non siamo così poco diplomatici, ma la faccenda è maledettamente urgente.» «Non c'è problema», rispose Anawak. «Di che si tratta?» «Di un incidente. Probabilmente», fu la risposta di Roberts. «Quella nave laggiù?» «Sì, la Barrier Queen. Per essere precisi, abbiamo avuto problemi coi rimorchiatori che avrebbero dovuto trainarla in porto.» «Lo sa, vero, che sono un esperto di cetacei? Uno studioso del comportamento di balene e delfini?» chiese Anawak. «Si tratta proprio di questo, del loro comportamento.» Roberts lo presentò agli altri. Tre erano del management della società
armatrice, gli altri rappresentavano i partner tecnici. Un po' più in là, due uomini scaricavano l'equipaggiamento da sub da un furgone. Roberts prese in disparte Anawak. «Al momento, purtroppo, non possiamo parlare con l'equipaggio», disse in tono preoccupato. «Ma le farò avere una copia del rapporto non appena sarà disponibile. Non vorremmo che la faccenda venisse divulgata inutilmente. Posso fidarmi di lei?» «Ma certo.» «Bene. Le faccio un riassunto degli avvenimenti. Poi toccherà a lei decidere se restare o andarsene. In un caso o nell'altro, provvederemo a tutte le spese e a risarcire il disturbo che le abbiamo procurato.» «Non c'è nessun disturbo», disse Anawak. Roberts lo guardò, pensieroso. «Deve sapere che la Barrier Queen è una nave praticamente nuova. Rigirata come un calzino poco tempo fa, perfetta in tutto e certificata. Un cargo da sessantamila tonnellate, che finora abbiamo spedito via mare senza problemi, anche con carichi pesanti; di solito fa la rotta per il Giappone. Per la sicurezza spendiamo cifre da capogiro, molto più di quanto dovremmo. Insomma, la Barrier Queen era sulla via del ritorno, completamente carica.» Anawak annuì. «Sei giorni fa, intorno alle tre di notte, ha raggiunto la zona delle duecento miglia marine al largo di Vancouver. Il timoniere ha virato di cinque gradi, una correzione di routine. Non ha ritenuto necessario guardare la strumentazione. In lontananza si vedevano le luci delle altre navi, che permettevano di orientarsi anche a occhio nudo, e infatti quelle luci avrebbero dovuto spostarsi verso destra. Invece sono rimaste dov'erano. La Barrier Queen ha continuato a procedere diritta. Il timoniere ha girato ancora il timone, senza nessun visibile cambiamento di rotta; allora l'ha girato del tutto e, improvvisamente, esso ha cominciato a funzionare. Fin troppo.» «La nave è andata addosso a qualcuno?» chiese Anawak. «No. Le altre imbarcazioni erano troppo lontane. Ma evidentemente il timone si era bloccato a fine corsa. E l'uomo non riusciva più a raddrizzarlo. Un timone bloccato a fine corsa a una velocità di venti nodi... Voglio dire, le grandi navi non si possono fermare così, come se niente fosse! A causa dell'elevata velocità, la Barrier Queen ha iniziato a girare in un cerchio molto stretto e poi si è piegata di lato. Dieci gradi di pendenza... Ha idea di che cosa voglia dire?» «Posso immaginarlo.» «Poco sopra lo specchio dell'acqua, ci sono le aperture per il drenaggio
del ponte dei veicoli. Quando c'è il mare grosso vengono incessantemente svuotati, ma altrettanto velocemente l'acqui torna a riempirli. Con un'inclinazione di quel genere, può succedere che rimangano sott'acqua. Allora la nave si riempie in un batter d'occhio. Per fortuna il mare era calmo, ma la situazione si presentava comunque critica. Non si riusciva a raddrizzare il timone.» «Per quale motivo?» chiese Anawak. Roberts tacque per un momento, poi rispose: «Lo ignoriamo. Sappiamo solo che il guaio c'è stato. La Barrier Queen ha fermato le macchine, ha lanciato il mayday e ha aspettato. Non poteva manovrare. Diverse navi nella zona hanno cambiato prudentemente rotta e, da Vancouver, sono partiti due rimorchiatori da recupero. Sono arrivati due giorni e mezzo dopo, nel primo pomeriggio. Un rimorchiatore da sessanta metri e un'imbarcazione da venticinque metri. In queste operazioni, la cosa più difficile è lanciare la gomena dal rimorchiatore, in modo che possa essere afferrata a bordo della nave. Durante una tempesta, tale procedura può durare ore: si lancia prima la gomena più sottile, poi quella un po' più spessa e infine quella pesante. Ma in questo caso non avrebbero dovuto esserci problemi: il tempo era buono e il mare tranquillo. Eppure i rimorchiatori sono stati ostacolati». «Ostacolati? Da chi?» «Ma sì...» Roberts s'irrigidì, come se fosse imbarazzato. «Tutto fa sembrare che... Ha mai sentito parlare di attacchi delle balene?» Anawak sobbalzò. «Alle navi?» chiese. «Sì. A grandi navi.» «Molto raramente.» «Raramente?» Roberts drizzò le orecchie. «Qualcosa del genere è già successo?» «C'è solo un caso sicuro. È successo nel XIX secolo e Melville lo ha trasformato in un romanzo.» «Vuol dire Moby Dick? Pensavo fosse solo un libro.» Anawak scosse la testa. «Moby Dick è la storia della baleniera Essex. In effetti è stata affondata da un capodoglio. Una nave di quarantadue metri, ma di legno e probabilmente già un po' marcia. Comunque, sì, è successo. Il capodoglio ha cozzato contro la nave che, nel giro di qualche minuto, si è riempita d'acqua. L'equipaggio è rimasto per settimane in mare sulle lance di salvataggio... Ah, sì, poi ci sono altri due casi, avvenuti negli anni scorsi davanti alle coste australiane! Due pescherecci rovesciati!» «Com'è successo?» chiese Roberts.
«Sono stati fracassati dalle code. La maggior parte della forza delle balene risiede nella coda.» Anawak rifletté. «Un uomo è morto, ma credo sia morto per un attacco cardiaco quand'è caduto in acqua.» «Che balene erano?» «Non si sa. Gli animali sono spariti troppo velocemente. Inoltre, quando accadono fatti del genere, si hanno altre cose per la testa che osservare le balene.» Anawak sollevò lo sguardo verso l'imponente Barrier Queen. Era visibilmente integra. «In ogni caso, non riesco a immaginare un attacco delle balene a questa nave.» Roberts seguì il suo sguardo. «Sono stati i rimorchiatori a essere attaccati», spiegò. «Non la Barrier Queen. Sono stati colpiti sul fianco. Evidentemente volevano rovesciarli, ma non ci sono riuscite. E poi hanno cercato d'impedire il lancio della cima, poi...» «Attaccati?» «Sì.» «Impossibile.» Anawak fece cenno di no. «Una balena può rovesciare qualcosa che sia più piccolo di lei o al massimo grande quanto lei. Non una cosa più grossa. Non attaccherebbe nulla di più grande di lei, a meno che non vi fosse costretta.» «L'equipaggio giura che è successo. Le balene hanno...» «Quali balene?» lo interruppe lui. «E chi lo sa? Come ha risposto lei, poco fa, alla stessa domanda? Si hanno altre cose per la testa.» Anawak aggrottò la fronte. «Va bene. Facciamo questo gioco. Supponiamo che i rimorchiatori siano stati attaccati dalle balenottere azzurre, i cetacei più grandi. La Balaenoptera musculus raggiunge i trentatré metri e arriva a pesare centoventi tonnellate. È l'animale più grande che esista sulla Terra. Supponiamo che una balenottera azzurra cerchi di affondare una nave lunga più o meno come quella. La balenottera deve essere almeno altrettanto veloce, meglio ancora se più veloce della nave. Ma, sulle brevi distanze, può raggiungere i cinquanta-sessanta chilometri all'ora. Ha una forma adatta alle correnti, idrodinamica. Eppure quale spinta può sviluppare? E quale controspinta sviluppa l'imbarcazione? In parole semplici, chi respinge chi, se le persone a bordo contromanovrano?» «Centoventi tonnellate sono un bel peso», osservò Roberts. Anawak indicò il furgone con un cenno del capo. «Riuscirebbe a sollevarlo?» «Che cosa? Quel veicolo? Certo che no.»
«Eppure potrebbe anche puntellarsi. Un corpo in acqua non può farlo. Non si riesce a sollevare qualcosa che sia più pesante di se stessi, poco importa che si stia parlando di un uomo o di una balena. E non si può ignorare il rapporto tra le masse. Ma soprattutto si deve calcolare il peso della balena contro quello dell'acqua spostata. Non rimane molto. Solo la forza della coda. È possibile che riesca a spostare la rotta della nave, ma, dopo il colpo, probabilmente schizzerebbe via. È un po' come il biliardo, capisce?» Roberts si grattò la fronte. «Alcuni pensano che fossero megattere. Altri balenottere comuni, e quelli a bordo della Barrier Queen dicono di aver visto dei capodogli...» «Tre specie che non potrebbero essere più diverse.» Roberts esitò. «Dottor Anawak, io sono un uomo razionale. Propendo a credere che il rimorchiatore sia semplicemente incappato in un branco. Forse non sono state le balene a urtare la nave, ma il contrario. Forse l'equipaggio ha manovrato maldestramente... Tuttavia rimane fuori discussione che gli animali hanno affondato il rimorchiatore più piccolo.» Anawak lo guardò, esterrefatto. «Quando le gomene erano già tese all'inverosimile tra la prua della Barrier Queen e la poppa del rimorchiatore, molti animali sono saltati fuori dall'acqua e le sono balzati addosso. In un caso come questo non c'è da sottrarre il volume dell'acqua spostata, e i marinai hanno detto che si trattava di esemplari molto grandi.» Roberts fece una pausa, quindi riprese: «Il rimorchiatore è stato trascinato giù e capovolto. È affondato». «Santo cielo! E l'equipaggio?» «Due dispersi. Gli altri sono stati salvati. Riesce a immaginare come mai quegli animali abbiano fatto una cosa del genere?» Bella domanda, pensò Anawak. Le focene e i beluga si riconoscono allo specchio. Pensano? Fanno progetti che possiamo comprendere anche solo approssimativamente? Che cosa le muove? Le balene conoscono la differenza tra ieri e oggi? Che interesse possono avere ad allontanare o ad affondare un rimorchiatore? Forse i rimorchiatori hanno minacciato loro o i loro piccoli. Ma come? «Non è un comportamento tipico delle balene», disse infine. Roberts sembrava disperato. «Lo penso anch'io, ma l'equipaggio la vede in modo diverso. Anche il rimorchiatore più grande è stato attaccato. Sono riusciti a fissare le gomene solo dopo la fine delle aggressioni.» Anawak si guardava i piedi, rimuginando. «Un caso», mormorò. «Un
terribile caso.» «Crede davvero?» «Forse ci capiremmo qualcosa di più se sapessimo che cos'è successo al timone», ipotizzò Anawak. «Per questo abbiamo richiesto i sommozzatori», annuì Roberts. «Tra qualche minuto dovrebbero essere pronti.» «Nel furgone hanno un equipaggiamento di riserva?» «Penso di sì.» Anawak annuì. «Va bene. Vado sotto con loro.» Come ovunque nel mondo, l'acqua del porto era un incubo: una brodaglia sudicia in cui c'erano in sospensione tante sostanze quante erano le molecole d'acqua. Il fondo era ricoperto da una fanghiglia spessa metri, da cui si levavano mulinando particelle e sostanze organiche. Il mare si chiuse sopra la testa di Anawak e lui si domandò come avrebbe fatto a vedere qualcosa lì in mezzo. Aveva l'impressione di affondare in una nebbia marrone. Percepiva in modo confuso le figure dei due sommozzatori davanti a sé, e più oltre una vaga macchia scura, la poppa della Barrier Queen. I sommozzatori guardarono verso di lui e unirono indice e pollice nel segno di okay. Anawak rispose nello stesso modo. Fece uscire l'aria dal jacket e scivolò lungo la poppa. Dopo qualche metro, tutti accesero la lampada del casco. La luce diffusa era potente. Mentre scendevano, l'aria gorgogliava rumorosamente nelle orecchie di Anawak. Dalla semioscurità si delineò il timone, scalfito e sporco. Era anche inclinato. Anawak cercò a tentoni la console del profondimetro. Otto metri. I due sommozzatori sparirono oltre la pala del timone. Si vedeva solo la luce delle loro lampade. Anawak si avvicinò dall'altra parte. Sulle prime vide soltanto i bordi arrotondati dei mitili, che si accumulavano l'uno sull'altro formando sculture bizzarre. Poi capì che era incrostato di conchiglie rigate e si avvicinò. Nelle fessure, proprio dove la pala ruotava nel pozzo, gli organismi erano diventati un pastone compatto, scheggiato e triturato. Non c'era da meravigliarsi che non fossero riusciti a muovere il timone. Si era grippato. Scese ancora. Anche lì era tutto pieno di mitili. Con cautela, Anawak afferrò la massa. I piccoli animali, lunghi al massimo tre centimetri, erano stretti l'uno all'altro. Con estrema attenzione, per non tagliarsi con le valve affilate, le tirò, finché non riuscì a staccarne alcune. Erano semiaperte. All'interno si attorcigliavano i filamenti di bisso con cui avevano cercato di tenere la presa. Le mise nella rete che teneva alla cintura.
Non sapeva granché dei mitili. Alcune specie di molluschi avevano un bisso simile, una sorta di piede sfrangiato e vischioso. Tra questi, i più noti e famigerati erano le cozze zebrate, introdotte dal Medio Oriente. Si erano diffuse qualche anno prima nell'ecosistema americano ed europeo e avevano iniziato a distruggere la fauna indigena. Se quelle che avevano ricoperto il timone della Barrier Queen erano cozze zebrate, c'era poco da meravigliarsi che fossero ammassate in mucchi così spessi. Quando arrivavano da qualche parte, quelle cozze si diffondevano immediatamente in quantità mostruose. Anawak girò nel palmo della mano i mitili distaccati. Eh, sì, sembrava proprio che il timone fosse infestato da cozze zebrate. Ma com'era possibile? Le cozze zebrate distruggevano prevalentemente gli ecosistemi d'acqua dolce. Vivevano e prosperavano anche nell'acqua salata, certo, però come avevano potuto fissarsi su una nave che navigava in mare aperto, dove non c'era altro che acqua per chilometri di profondità? Oppure si erano attaccate già in porto? La nave arrivava dal Giappone. Il Giappone era afflitto dalla piaga delle cozze zebrate? Su un lato, sotto di lui, tra il timone e la poppa, si levavano dal torbido due pale arcuate, spettrali nelle loro dimensioni. Anawak scese ancora e batté le pinne finché non riuscì ad abbracciare il bordo di una delle pale. Fu colto da una sensazione di malessere. L'elica aveva un diametro di oltre quattro metri. Si trattava di una struttura di acciaio del peso di otto tonnellate. Per un istante immaginò come doveva essere quando girava a pieno regime. Sembrava incredibile che qualcosa potesse anche soltanto sfiorare questa cosa gigantesca. Qualsiasi cosa che si fosse avvicinata troppo sarebbe stata immediatamente distrutta. Eppure i mitili erano anche sull'elica. La conclusione era ovvia, però ad Anawak non piaceva affatto. Fece scorrere lentamente le mani dal bordo al centro dell'elica e le sue dita toccarono qualcosa di scivoloso. Frammenti di una sostanza chiara si staccarono e caddero verso di lui. Ne afferrò uno e lo tenne proprio davanti alla maschera. Gelatinoso. Gommoso. Sembrava tessuto. Anawak girò e rigirò tra le mani quella cosa fibrosa, poi la fece sparire nel raccoglitore e procedette a tentoni. Uno dei sommozzatori gli si avvicinò dalla parte opposta. Con la lampada del casco sembrava quasi un alie-
no. Gli fece segno di avvicinarsi. Anawak si staccò e nuotò verso di lui. Si lasciò lentamente scivolare in basso, finché le sue pinne non toccarono l'albero a gomiti alla fine del quale vi era l'elica. Lì la sostanza vischiosa era abbondante e si era attorcigliata intorno all'albero come una guaina. I sommozzatori cercarono di staccarne alcuni brandelli e Anawak li aiutò. Ma era uno sforzo inutile. La maggior parte era così attorcigliata che, a mani nude, non sarebbero mai riusciti a staccarla. Nella testa gli risuonò il racconto di Roberts sull'attacco delle balene ai rimorchiatori. Assurdo. Perché una balena dovrebbe sabotare la manovra di aggancio di un rimorchiatore e far affondare la Barrier Queen? Il cargo non poteva manovrare, quindi col mare grosso avrebbe corso il rischio di naufragare. È vero che al momento era calmo, ma prima o poi le onde si sarebbero alzate. Le balene volevano impedire che la Barrier Queen raggiungesse acque sicure? Gettò un'occhiata all'indicatore dell'aria. Ce n'era abbastanza. Sollevando i pollici, indicò ai due sommozzatori che voleva ispezionare lo scafo e loro gli fecero il segno di okay. Si allontanarono dall'elica e nuotarono lungo la parete; Anawak era più in profondità, dove lo scafo si piegava a formare la chiglia. La luce della sua lampada scivolava sullo strato esterno d'acciaio. La pittura sembrava ancora nuova; solo in alcuni punti si riconoscevano graffi e cambiamenti di colore. Continuò a scendere verso il fondo e tutto divenne ancora più scuro. Anawak guardò verso l'alto. Due luci diffuse gli indicavano la posizione dei sommozzatori che stavano ispezionando la parete. Che cosa poteva succedere? In fondo sapeva dov'era. Tuttavia sentiva crescere l'inquietudine. Batté i piedi e scivolò lungo lo scafo. Non c'erano danni visibili. Un attimo dopo, la luce della lampada si fece più debole. Anawak sollevò la mano per controllarla. Poi si rese conto che il problema non era nella lampada, ma in ciò che illuminava. Fino a poco prima, la vernice della nave aveva riflesso regolarmente la luce. Adesso invece era inghiottita dalla scura massa di cozze che ricopriva lo scafo della Barrier Queen. Da dov'erano sbucate? Anawak pensò di raggiungere i sommozzatori, poi decise di scendere sotto lo scafo. Sulla chiglia, l'infestazione dei mitili era ancora maggiore. La parte inferiore della Barrier Queen era completamente ricoperta, quindi la nave doveva pesare molto di più. Impossibile che nessuno se ne fosse
accorto. Una simile massa era sufficiente per rallentare sensibilmente il cargo. Ormai era sotto la chiglia e poté voltarsi sulla schiena. Pochi metri sotto di lui iniziava la fanghiglia del bacino portuale. L'acqua era così torbida che non vedeva quasi più nulla, se non la montagna di conchiglie. Con rapidi colpi di pinna nuotò verso prua; di colpo il manto di cozze terminò. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse massiccia la proliferazione. Pendeva sotto la Barrier Queen con uno spessore di quasi due metri. Cos'era? Al margine dell'escrescenza si spalancava una crepa. Anawak rimase sospeso davanti a quella crepa, indeciso. Poi allungò la mano verso il polpaccio, dove in una custodia, teneva il coltello. Lo estrasse e lo conficcò nella montagna di cozze. La crosta si crepò. Qualcosa saettò fuori e lo colpì sul volto, quasi strappandogli l'erogatore dalla bocca. Lui rimbalzò all'indietro e sbatté la testa contro lo scafo. Davanti ai suoi occhi esplose una luce violenta. Voleva risalire, ma sopra di lui c'era la chiglia. Con violenti colpi di pinne, cercò di allontanarsi dai mitili. Si voltò e si vide di fronte un'altra montagna di piccole conchiglie dure. I suoi margini sembravano attaccati allo scafo con qualcosa di gelatinoso. Sentì crescere la nausea. Si sforzò di restare calmo e, attraverso le particelle che vorticavano nell'acqua, cercò di vedere l'essere che l'aveva aggredito. Era sparito. Anawak non vedeva più nulla, se non la bizzarra crosta di conchiglie raggrumate. Solo allora si accorse che stringeva qualcosa in mano. Il coltello. Non l'aveva mollato. Dalla lama penzolava un pezzo di sostanza lattiginosa e trasparente. Anawak la avvolse nel tessuto sintetico del raccoglitore, poi cercò il modo di andarsene. Non sentiva il bisogno di altre avventure. Risalì con movimenti misurati, cercando di tenere sotto controllo il battito cardiaco - diventato quasi frenetico - finché non raggiunse il lato della nave e, in lontananza, scorse il debole bagliore dei due sommozzatori. Li raggiunse. Anche loro erano incappati in quelle infestazioni e uno dei due stava staccando dei mitili col coltello. Anawak lo osservava, nervoso, temendo di veder qualcosa saettare fuori. Ma non accadde nulla. Il secondo subacqueo sollevò il pollice e tutti e tre salirono lentamente verso la superficie. Benché l'acqua rimanesse torbida anche negli ultimi metri, il chiarore aumentava. Poi, improvvisamente, tutto riprese forma e
colore. Anawak socchiuse le palpebre nella luce del sole. Si tolse la maschera, felice di respirare l'aria fresca. Sul molo c'erano Roberts e gli altri. «Che c'è la sotto?» Il manager si chinò in avanti. «Avete trovato qualcosa?» Anawak tossì e sputò l'acqua del porto. «Può ben dirlo!» Erano radunati nei pressi del furgone. D'accordo coi sommozzatori, Anawak si era assunto il ruolo di portavoce. «Mitili che bloccano un timone?» chiese Roberts, incredulo. «Sì. Cozze zebrate.» «Santo cielo, come può succedere una cosa del genere?» «Bella domanda.» Anawak aprì il contenitore dei campioni che teneva alla cintura e, con cautela, fece scivolare i pezzi di gelatina in un altro contenitore pieno di acqua marina. Le condizioni del tessuto lo preoccupavano. Sembrava che la decomposizione fosse già iniziata. «Posso solo fare supposizioni, ma i fatti dovrebbero essersi svolti così: il timoniere gira il timone di cinque gradi. Ma il timone non si muove, perché è bloccato dalle cozze che vi si sono aggrappate. In fondo, non è così difficile bloccare un timone, e questo lo sa meglio di me. Solo che non accade praticamente mai. Lo sa anche il timoniere, e per questo non gli passa neppure per la testa che qualcosa possa aver bloccato il timone. Pensa di averlo girato meno di quanto crede, quindi lo gira ancora, ma il timone non si muove. In effetti il motore del timone sta lavorando a pieno regime, cercando di rispondere al comando. Infine il timoniere lo ruota del tutto e finalmente la pala si libera. Mentre gira, le cozze si frantumano, ma non si staccano. Il pastone di mitili blocca il timone, esattamente come la sabbia in un ingranaggio. Si grippa e non torna più indietro.» Si scostò i capelli bagnati dalla fronte e guardò Roberts. «Ma la cosa inquietante non è questa.» «C'è dell'altro?» «Le prese a mare sono libere, però l'elica è completamente ricoperta di mitili. Non ho idea di come questa massa si sia potuta attaccare alla nave, ma una cosa si può affermare con certezza: contro un'elica in movimento si sarebbe rotta la conchiglia anche del più coriaceo dei molluschi. Quindi o gli animali si sono attaccati in Giappone - cosa che mi sorprenderebbe, dato che, fino a duecento miglia marine dal Canada, il timone ha funzionato perfettamente - oppure sono arrivate non appena sono state spente le macchine.» «Vuol dire che hanno colpito la nave in mare aperto?»
«Sarebbe meglio dire aggredito», spiegò Anawak. «Cerco d'immaginare cos'è successo. Un gigantesco banco di mitili si attacca al timone. Quando la pala si blocca, la nave s'inclina. Pochi minuti dopo, si fermano le macchine e l'elica. Continuano ad arrivare altre cozze, si attaccano al timone per, diciamo così, cementare il blocco, poi raggiungono l'elica e il resto dello scafo.» «Come hanno fatto ad arrivare lì tonnellate di mitili?» chiese Roberts, guardandosi intorno, disperato. «In mezzo all'oceano!» «Perché le balene allontanano i rimorchiatori e saltano sulle gomene? È stato lei a iniziare con le storie bizzarre, non io.» «Sì, ma...» Roberts si mordicchiò il labbro inferiore. «Succede tutto contemporaneamente. Sembra quasi che ci sia un legame. Però non ha senso. Mitili e balene.» Anawak esitò. «Quand'è stato controllato l'ultima volta lo scafo della Barrier Queen?» «Ci sono controlli costanti. E la Barrier Queen ha una vernice speciale. Non si preoccupi, è ecocompatibile! Non ci si può attaccare nulla. Forse dei crostacei balani...» «Là sotto c'è ben più che qualche crostaceo balano.» Anawak si fermò, lo sguardo fisso nel vuoto. «Ma ha ragione! Quella roba non poteva essere lì. È come se la Barrier Queen fosse stata sottoposta per settimane a un'invasione di larve di mitili, e inoltre... c'era quella cosa in mezzo alle cozze...» «Quale cosa?» Anawak raccontò dell'essere uscito dalla montagna di mitili. Mentre parlava, gli sembrava di rivivere la scena. Lo shock, la testa battuta contro la chiglia... Gli rimbombava ancora. Aveva visto le stelle... No, erano lampi di luce. Un lampo di luce, per essere preciso. Improvvisamente si rese conto che il lampo non era stato nella sua testa, ma nell'acqua. Quella cosa aveva lampeggiato. Rimase letteralmente senza parole. Si dimenticò di continuare il suo rapporto perché aveva compreso che quell'essere era luminescente. Se era così, probabilmente arrivava dalle profondità abissali. Quindi era difficile che si fosse aggrappato allo scafo della Barrier Queen in un porto. Doveva essere arrivato in mare aperto, avvolto dai mitili. Forse le cozze avevano rinchiuso quell'essere perché serviva loro come nutrimento. Oppure come
protezione. E se fosse stata una piovra... «Dottor Anawak?» Anawak riportò lo sguardo su Roberts. Sì, una piovra, pensò. È la cosa più probabile. È troppo veloce per essere una medusa. E troppo forte. Ha letteralmente spaccato le conchiglie, come se fosse un unico muscolo elastico. Poi gli venne in mente che quella cosa era balzata fuori nel momento esatto in cui lui aveva infilato la lama nella fessura. Doveva averla ferita col coltello. Le ho fatto male? Di certo la punta del coltello ha provocato un riflesso... No, non esagerare, pensò. Che cos'hai visto davvero in quella brodaglia? Sicuramente ti sei spaventato. «Dovete far ispezionare il bacino del porto», disse a Roberts, poi indicò i recipienti chiusi. «Ma prima bisogna mandare questi campioni il più in fretta possibile all'istituto di Nanaimo per farli esaminare. Li metta sull'elicottero. Li porterò io, so a chi affidarli.» Roberts annuì, poi lo prese in disparte e sibilò: «Maledizione, Leon! Che cosa pensa davvero di questa faccenda? È impossibile che una copertura spessa metri si formi nel giro di poco tempo. La nave non è stata in giro per settimane.» «Queste cozze sono una peste, Mister Roberts...» «Clive.» «Clive, quelle bestie non si muovono a caso, ma come se fossero un commando d'assalto. Almeno per quello che ne sappiamo.» «Ma non così in fretta», replicò Roberts. «Ciascuno di quei maledetti molluschi può mettere al mondo fino a duecentomila discendenti all'anno. Le larve si muovono con la corrente, oppure come passeggeri clandestini tra le squame dei pesci e tra le piume degli uccelli acquatici. Nei laghi americani, si sono trovati dei punti in cui sono insediati fino a novecentomila esemplari per metro quadrato, e sono arrivati praticamente in una notte. Otturano le tubature dell'acqua, i circuiti di raffreddamento delle zone industriali nei pressi dei fiumi, gli acquedotti; distruggono le tubature ed evidentemente si trovano a proprio agio sia nell'acqua salata sia in quella dei laghi e dei fiumi.» «Va bene, ma stiamo parlando di larve», obiettò Roberts. «Di milioni di larve.» «Per me, possono anche essere miliardi e trovarsi nel porto di Osaka o in mare aperto. Che differenza fa? Mi vuole convincere che, negli ultimi giorni, sono diventate tutte adulte e complete di conchiglia? Insomma, è proprio sicuro che abbiamo a che fare con la cozza zebrata?»
Anawak guardò il furgone dei sommozzatori, che stavano sistemando l'equipaggiamento. I contenitori dei campioni, sigillati alla meno peggio, erano davanti a tutto il resto, in una cesta di plastica. «Siamo di fronte a un'equazione con molte incognite», disse. «Se davvero le balene hanno cercato di allontanare i rimorchiatori, dobbiamo chiederci il perché. Sulla nave stava succedendo qualcosa che non doveva essere portata a termine? Perché doveva affondare dopo essere stata bloccata dalle cozze? E poi c'è questo organismo sconosciuto che si dà alla fuga nel momento in cui invado il suo nascondiglio. Cosa le sembra tutto ciò?» «Il sequel di Independence day. Crede davvero...» cominciò Roberts. «Aspetti. Prendiamo la stessa equazione. Un branco di balene grigie e megattere particolarmente nervose si sente disturbato dalla Barrier Queen. In più, arrivano due rimorchiatori e le urtano. Le balene li urtano a loro volta. Per puro caso, la nave è stata attaccata poco prima da una piaga biologica che ha preso all'estero, come un turista che si prende la malaria, e in alto mare un calamaro si è infilato nella montagna di cozze.» Roberts lo fissava. «Sa, io non credo alla fantascienza», proseguì Anawak. «Tutto sta nell'interpretazione. Mandi là sotto un paio di uomini. Devono raschiare i sedimenti, guardare se c'è ancora qualche ospite inatteso e catturarlo.» «Quando pensa che potremo avere i risultati da Nanaimo?» chiese Roberts. «In pochi giorni, credo. Sarebbe molto utile se avessi una copia del referto», rispose Anawak. «In via confidenziale», sottolineò Roberts. «Ovviamente. In via altrettanto confidenziale, vorrei parlare con l'equipaggio.» Roberts annuì. «L'ultima parola non spetta a me. Ma vedrò che cosa riesco a fare.» Ritornarono al furgone e Anawak s'infilò il giubbotto. «È la prassi che prevede di consultare gli scienziati in casi simili?» chiese. «Simili casi non sono di prassi.» Roberts scosse la testa. «È stata una mia idea, avevo letto il suo libro e sapevo che lei si trovava a Vancouver Island. La commissione d'indagine non ne è particolarmente entusiasta. Ma io penso che sia stata la cosa giusta. Non è che ci capiamo molto di balene.» «Farò del mio meglio. Carichiamo i campioni sull'elicottero. Prima li portiamo a Nanaimo, meglio è. Li metteremo direttamente nelle mani di
Sue Oliviera. È la direttrice del laboratorio. Una biologa molecolare molto in gamba.» Il cellulare di Anawak suonò. Era Susan Stringer. «Devi ritornare qui il più presto possibile», gli disse. «Cos'è successo?» «Abbiamo avuto un contatto radio col Blue Shark. Sono fuori, in mare, e hanno dei problemi.» Anawak sospettò il peggio. «Con le balene?» «Non dire sciocchezze.» Il tono di Susan lasciava chiaramente intendere che ormai lo considerava irrecuperabile. «Che problemi vuoi che ci siano con le balene? È quello stupido bastardo che crea problemi, quel maledetto stronzo.» «Quale bastardo?» «E chi se non Jack Greywolf?» 6 aprile Kiel, Germania Due settimane dopo aver consegnato a Tina Lund i risultati definitivi delle analisi sui vermi, Sigur Johanson era seduto in un taxi che lo stava portando nel luogo più rinomato tra i geografi marini europei, il centro di ricerca Geomar. Quando servivano notizie sulla formazione, sullo sviluppo e sulla storia del fondale marino, si consultavano sempre gli scienziati di Kiel. Persino James Cameron era andato lì per avere un riscontro sulla fattibilità di progetti come The Abyss o Titanic. Il lavoro degli scienziati del Geomar era difficile da spiegare alla gente comune. A prima vista, rovistare tra i sedimenti e misurare la salinità dell'acqua non sembravano attività destinate a portare un contributo concreto alla soluzione dei più urgenti problemi dell'umanità. In effetti, era difficile spiegare ai profani ciò che, ancora all'inizio degli anni '90, la maggior parte degli scienziati non aveva voluto credere: i fondali marini, lontani dalla luce e dal calore del sole, non erano un deserto roccioso privo di vita. Là sotto, la vita brulicava. Certo, si conoscevano da tempo le specie esotiche lungo le pareti dei camini idrotermali degli abissi. Tuttavia, quando fu chiamato a lavorare al Geomar, nel 1989, il geochimico Erwin Suess dell'Oregon State University aveva raccontato cose ancora più bizzarre: oasi di vita nei pressi delle fonti fredde abissali,
misteriose energie chimiche che salivano dall'interno della Terra e massicci giacimenti di una sostanza che, fino ad allora, aveva ricevuto pochissima attenzione, in quanto ritenuta un prodotto bizzarro e privo d'importanza: l'idrato di metano. Da poco le scienze della Terra cominciavano a uscire dall'ombra in cui loro stesse - come la maggioranza delle scienze - si erano relegate troppo a lungo. Cercavano di aprirsi all'esterno, nutrivano la speranza di poter prevedere e controllare le catastrofi naturali, le trasformazioni climatiche e ambientali. Sembrava che il metano potesse dare una risposta ai problemi energetici del futuro. La fame d'informazioni della stampa si era risvegliata e i ricercatori avevano imparato - all'inizio con timidezza, poi progressivamente con modi da popstar - a piegare a proprio vantaggio l'interesse che si era risvegliato. IL taxista che stava portando Johanson verso il fiordo di Kiel sembrava non aver capito nulla di tutto ciò. Da venti minuti esprimeva il suo dissenso, chiedendosi come fosse possibile che avessero messo un centro di ricerca costato milioni nelle mani di alcuni pazzi, di gente che, ogni due mesi, partiva per una crociera dispendiosa, mentre quelli come lui riuscivano a campare a stento. Johanson, che parlava perfettamente il tedesco, non aveva voglia di correggere quelle convinzioni, anche perché il taxista era un fiume in piena. Inoltre parlava gesticolando e faceva sbandare paurosamente la macchina. «Non si sa che cosa combinano», stava infatti brontolando. «Ma lei è un giornalista?» chiese poi, vedendo che Johanson non gli rispondeva. «No. Sono un biologo.» L'uomo cambiò argomento all'istante e si dedicò alle devastanti conseguenze delle frodi alimentari. Evidentemente aveva visto in Johanson uno dei responsabili di quello spreco. Borbottava contro la verdura geneticamente modificata, i costosissimi prodotti biologici e intanto provocava il suo passeggero. «Ah, un biologo. Lei sa che cosa si può mangiare senza preoccupazioni? Io non lo so. Non si può mangiare più nulla. Non si dovrebbe mangiare più nulla di quello che c'è in commercio. Non bisognerebbe dargli più nemmeno un centesimo.» L'auto finì sulla corsia opposta. «Se non mangia, morirà di fame», disse Johanson. «E allora? Che importanza ha di cosa si muore? Se non si mangia si muore, se si mangia si muore per quello che si mangia.» «Lei ha senza dubbio ragione. Personalmente, tuttavia, preferirei morire
mangiando un filetto piuttosto che nello scontro con quell'autocisterna.» Per nulla impressionato, il taxista imboccò l'uscita, tagliando tre corsie e sempre procedendo a grande velocità. L'autobotte strombazzò. Alla sua destra, Johanson vide il mare. Procedevano lungo la riva orientale del fiordo di Kiel. Dalla parte opposta, enormi gru svettavano verso il cielo. Evidentemente il taxista aveva preso male l'ultima osservazione di Johanson, perché non aveva più detto una parola. Attraversarono le strade della periferia con le casette dal tetto spiovente, finché non comparve l'ampio complesso di edifici di cemento, vetro e acciaio che non avevano nulla a che fare con quella tranquillità piccolo borghese. Il taxista svoltò in modo brusco nella zona dell'istituto e si fermò facendo stridere le gomme. Johanson ispirò profondamente, pagò e scese con la consapevolezza di aver vissuto negli ultimi quindici minuti un'esperienza decisamente peggiore di quella sull'elicottero della Statoil. «Mi piacerebbe proprio sapere che cosa combinano là dentro», disse il taxista. Sembrava quasi che parlasse al volante. Johanson si chinò e lo guardò attraverso il finestrino del passeggero. «Lo vuole davvero sapere?» «Sì.» «Cercano di salvare il lavoro dei taxisti.» L'altro lo guardò, sbalordito. «Non capita spesso di portare qui dei clienti...» mormorò. «Ma per farlo la sua macchina deve muoversi. Se finisce la benzina, i vostri rottami potete anche demolirli, a meno che non si possa farli funzionare con qualcos'altro, e quel qualcosa è nel mare. Metano. Combustibile. Stanno cercando di renderlo utilizzabile.» Il taxista aggrottò la fronte, poi disse: «Sa qual è il problema? Che nessuno ci spiega queste cose». «C'è su tutti i giornali», replicò Johanson. «C'è sui giornali che legge lei, caro signore. Nessuno si sforza di spiegarlo a me.» Johanson era tentato di rispondere. Invece si limitò ad annuire e chiuse la portiera. Il taxi voltò e sfrecciò via. «Dottor Johanson!» gridò qualcuno. Da un edificio rotondo di vetro uscì un giovane abbronzato e venne verso di lui. Johanson gli strinse la mano. «Gerhard Bohrmann?» «No, Heiko Sahling, biologo. Il dottor Bohrmann arriverà con un quarto d'ora di ritardo, sta tenendo una lezione. Posso accompagnarla da lui, op-
pure magari andiamo a berci un caffè al bar.» «Lei che cosa preferisce?» «Per me è lo stesso. Molto interessanti i suoi vermi, sa?» «Se ne è occupato lei?» «Ce ne siamo occupati tutti. Venga, conserviamo il caffè per dopo. Gerhard finirà tra poco; intanto andiamo a sentire la sua lezione.» Entrarono in un foyer molto elegante. Sahling lo condusse lungo una scalinata e sopra una passerella d'acciaio. Per essere un istituto scientifico, il Geomar somigliava fin troppo a un edificio che volesse vincere un premio architettonico, pensò Johanson. «In genere le lezioni si tengono nell'auditorium», spiegò Sahling. «Ma oggi abbiamo in visita una scolaresca.» «Lodevole.» Sahling sorrise. «Per i quindicenni non c'è differenza tra un auditorium e un'aula. Allora abbiamo girato con loro per tutto l'istituto. Avevano il permesso di guardare ovunque e di toccare quasi tutto. Abbiamo tenuto il deposito delle rocce per ultimo. Lì Gerhard racconta loro la storia della buona notte.» «Su che cosa?» «Sugli idrati di metano», rispose Sahling. Aprì una porta a vetri. La passerella proseguiva anche oltre. Il deposito delle rocce era grande come la metà di un hangar. L'edificio era aperto verso il molo e Johanson fissò lo sguardo su una nave molto grande. Lungo le pareti erano accatastate casse e apparecchiature. «Qui vengono immagazzinati provvisoriamente i campioni», disse Sahling. «Prevalentemente sedimenti e campioni di acqua marina. Archiviamo la storia della Terra. Ne siamo particolarmente orgogliosi.» Sollevò una mano, facendo un cenno di saluto. Da sotto, un uomo molto alto rispose e tornò a dedicarsi al gruppo di adolescenti. Johanson si appoggiò al parapetto della passerella e lo ascoltò. «... Uno dei momenti più eccitanti che abbiamo vissuto», stava dicendo il dottor Gerhard Bohrmann. «La benna, a circa ottocento metri di profondità, aveva scavato alcuni quintali di sedimenti infarciti di una sostanza bianca e aveva versato i frammenti sul piano di lavoro. Per essere precisi, solo quello che era arrivato in superficie.» «Era nel Pacifico», mormorò Sahling. «Nel 1996, sulla Sonne, circa cinquanta miglia marine al largo dell'Oregon.» «Dovevamo fare in fretta. L'idrato di metano è molto instabile e inaffidabile», proseguì Bohrmann. «Credo che non ne sappiate molto di queste
cose, quindi cercherò di spiegarlo in modo che nessuno muoia di noia. Che succede negli abissi marini? Tra le altre cose, c'è del gas. Il metano biogeno, per esempio, si forma in milioni di anni, attraverso la decomposizione dei resti di animali e piante. Quando le alghe, il plancton e i pesci si decompongono, liberano una gran quantità di carbonio organico. Della decomposizione si occupano alcuni batteri. Negli abissi marini, ci sono temperature molto basse e una pressione straordinaria. Ogni dieci metri, la pressione dell'acqua aumenta di un bar. I sommozzatori in carne e ossa arrivano a cinquanta metri di profondità, massimo settanta. Ma è tutto lì. Il record d'immersione con aria compressa è di centoquaranta metri, ma è una cosa che sconsiglio vivamente. Simili tentativi in genere finiscono con la morte. E qui stiamo parlando di una profondità di cinquecento metri! Lì la fisica funziona a modo suo. Per esempio, se una grande concentrazione di metano sale dall'interno della Terra fino al fondale marino, laggiù succede una cosa straordinaria. Il gas si lega con l'acqua fredda degli abissi e diventa ghiaccio. Vi sarà capitato di leggere sul giornale il concetto di ghiaccio di metano. Non è del tutto corretto. Non è il metano a congelare, bensì l'acqua circostante. Le molecole dell'acqua si cristallizzano in minuscole strutture a gabbia, al cui interno si trova la molecola di metano. Comprimono il gas e lo costringono in uno spazio più ristretto.» Uno studente alzò la mano, esitante. «Hai una domanda?» Il ragazzino nicchiò. «Cinquecento metri non è proprio profondo, vero?» disse infine. Bohrmann lo osservò per alcuni secondi in silenzio, poi disse: «Non sei particolarmente impressionato, vero?» «Sì, certo. Pensavo solo che... Jacques Picard è stato con un batiscafo nella fossa delle Marianne, ed è profonda undicimila metri. Voglio dire, quella sì, che è profonda. Perché quel ghiaccio non si trova anche laggiù?» «Tanto di cappello... Hai studiato la storia dei viaggi umani negli abissi. E tu, cosa pensi?» Il ragazzo rifletté un po', poi scrollò le spalle. «Ma è chiaro», rispose una ragazza al suo posto. «Laggiù c'è pochissima vita. Dai mille metri di profondità viene decomposta poca materia, quindi c'è poco metano.» «Lo sapevo», mormorò Johanson sul ponte. «Le donne sono più intelligenti.» Bohrmann sorrise compiaciuto alla ragazza. «Giusto. Naturalmente ci
sono delle eccezioni. E in effetti si trovano idrati di metano anche a grandi profondità, anche a tre chilometri... basta che si depositino sedimenti con un alto contenuto di materiale organico. Per esempio, in alcuni mari dello zoccolo continentale. Abbiamo cartografato concentrazioni di idrati anche in acque molto basse, dove la pressione non dovrebbe essere sufficiente. Ma se la temperatura è molto fredda, si arriva comunque alla formazione di idrati, per esempio sullo zoccolo continentale polare.» Tornò a rivolgersi a tutta la scolaresca. «Tuttavia i giacimenti principali si trovano sulle scarpate continentali, tra i cinquecento e i mille metri. Metano compresso. Poco tempo fa, abbiamo esaminato, al largo della costa nordamericana, una montagna sottomarina alta mezzo chilometro e lunga venticinque chilometri. È costituita per lo più di idrati di metano. Una parte è sotto, nella roccia, l'altra è sul fondale marino. Abbiamo scoperto che l'oceano ne è pieno. Ma sappiamo anche altro: le scarpate continentali sottomarine sono tenute insieme prevalentemente dagli idrati di metano! È come la malta. Se si togliessero di colpo tutti gli idrati, la scarpata continentale sarebbe bucherellata come un formaggio svizzero. Con la differenza che il formaggio mantiene la propria forma anche coi buchi. Le scarpate, invece, crollerebbero!» Bohrmann aspettò qualche secondo perché le sue parole facessero effetto, quindi riprese: «Ma non è tutto. Come vi ho detto, gli idrati di metano sono stabili solo con un'elevata pressione associata a temperature basse. Ciò non vuol dire che tutto il metano è congelato: lo sono solo gli strati superiori. Perché, nell'interno della Terra, le temperature tornano a salire e in profondità, nei sedimenti, ci sono bolle di metano non congelato. Rimangono gassose. Ma, visto che gli strati superiori congelati sono come un coperchio, il gas non può uscire». «Ho letto qualcosa su questo argomento», disse una ragazza. «I giapponesi stanno cercando di estrarlo, vero?» Johanson era divertito. Ricordava i suoi anni di scuola. In ogni classe c'era sempre uno studente eccezionalmente preparato che sapeva già la metà di quello che avrebbe dovuto imparare. Pensò che quella ragazza non fosse particolarmente benvoluta dai compagni. «Non solo i giapponesi», rispose Bohrmann. «Tutto il mondo vorrebbe estrarlo. Ma è molto difficile. Quando portiamo in superficie i frammenti di idrati anche solo da ottocento metri di profondità, le bolle di gas si staccano dai detriti già a metà strada. Quello che riusciamo a portare in superficie non è poco, tuttavia è solo una parte di quello che abbiamo estratto.
Ho detto che gli idrati di metano diventano subito instabili. Se a cinquecento metri di profondità la temperatura dell'acqua si alzasse di un solo grado, gli idrati potrebbero diventare instabili di colpo, così li potremmo prendere e infilarli subito in una cisterna con l'azoto liquido, dove rimarrebbero stabili. Ma venite un po' qua.» «È bravo», osservò Johanson, mentre Bohrmann si avviava con la scolaresca verso una scansia di acciaio grezzo saldato. Vi erano stipati contenitori di diversa grandezza. In basso c'erano quattro taniche color argento. Bohrmann ne tirò fuori una a fatica, s'infilò i guanti e sollevò il coperchio. Si sentì un sibilo e uscì un vapore bianco. Alcuni degli studenti fecero istintivamente un passo indietro. «È solo azoto.» Bohrmann infilò la mano nel contenitore e tirò fuori un blocco grande come un pugno, che sembrava un grumo di ghiaccio sudicio. Dopo pochi secondi, il grumo cominciò a sibilare e a scricchiolare debolmente. Lui fece un cenno alla ragazza che era intervenuta poco prima e, quando lei si fu avvicinata, staccò un pezzo dal grumo e glielo allungò. «Non aver paura. È freddo, ma non è pericoloso», le disse. «Puzza», commentò la ragazza. Alcuni studenti risero. «Esatto. Puzza di uova marce. Questo è il gas. Si disperde.» Bohrmann ruppe il frammento in altri pezzi e li distribuì. «Guardate cosa succede. Le strisce di sporco nel ghiaccio sono particelle di sedimenti. Tra qualche secondo, non resteranno che qualche briciola e una pozzanghera d'acqua. Il ghiaccio si scioglie, le molecole di metano escono dalla loro gabbia e si volatilizzano. Si può descrivere anche così: quello che poco fa era stabile sul fondale marino, nel giro di pochissimo tempo si trasforma in niente. Ecco ciò che vi volevo mostrare.» Fece una pausa. Gli studenti avevano rivolto tutta la loro attenzione ai frammenti che, sibilando, diventavano sempre più piccoli. Di tanto in tanto si levavano commenti ironici sulla puzza. Bohrmann attese finché i frammenti non si furono sciolti, poi proseguì: «Ma intanto è successo anche qualcosa che non avete potuto vedere. Ed è decisivo per comprendere il rispetto che abbiamo per gli idrati. Poco fa, vi ho detto che le gabbie di ghiaccio sono in grado di comprimere il metano. Da ogni centimetro quadrato degli idrati che avete avuto in mano, si sono liberati 165 centimetri cubi di metano. Quando gli idrati si sciolgono, il volume aumenta di 165 volte. E di colpo. Quello che rimane è la pozzanghera nelle vostre mani. Puoi infilarci la punta della lingua», disse alla ragazza. «Dicci che sapore ha.»
La studentessa lo guardò, scettica. «In quella roba puzzolente?» «Non puzza più. Il gas si è volatilizzato. Ma, se non ti fidi, lo farò io.» Tra le risatine dei compagni, la ragazza abbassò lentamente la testa e leccò l'acqua. «È acqua dolce», gridò poi, sbalordita. «Esatto. Quando l'acqua gela, il sale viene, per così dire, eliminato. Per questo l'Antartico è la più grande riserva d'acqua dolce della Terra. Gli iceberg sono d'acqua dolce.» Bohrmann chiuse il recipiente stagno con l'azoto liquido e lo infilò di nuovo nello scaffale. «Quello che avete visto è il motivo per cui l'estrazione di idrati è oggetto di sentimenti tanto contrastanti. Se i nostri interventi rendono instabili gli idrati, forse la conseguenza sarà una serie di reazioni a catena. Che cosa succederebbe se esplodesse la malta che tiene insieme la scarpata continentale? Che effetti ci sarebbero sul clima mondiale se tutto il metano delle profondità marine si liberasse nell'atmosfera? Il metano è un gas serra e potrebbe scaldare ulteriormente l'atmosfera; allora i mari diventerebbero ancora più caldi e così via. Noi stiamo riflettendo proprio su queste domande.» «E allora perché cercate di estrarlo?» chiese un altro studente. «Perché non lo lasciate laggiù e basta?» «Perché potrebbe risolvere i problemi energetici», disse la ragazza, facendo un passo in avanti. «Ho letto che i giapponesi non hanno combustibili propri e devono importarli. Il metano risolverebbe i loro problemi.» «È una follia», ribatté il compagno. «Se crea più problemi di quelli che potrebbe risolvere, allora è solo dannoso.» Johanson si mise a ridacchiare. «Avete ragione entrambi.» Bohrmann sollevò le braccia. «Potrebbe risolvere i problemi energetici. Per questo non è più un problema esclusivamente scientifico. Le multinazionali dell'energia hanno preso in mano la ricerca. Stimiamo che negli idrati marini ci sia il doppio di metanocarbonio che in tutti i giacimenti di gas naturale, petrolio e carbone presenti sulla Terra messi insieme. Solo sulla dorsale di idrati al largo dell'America, cioè in un'area di ventiseimila chilometri quadrati, ne sono stipate trentacinque gigatonnellate. È cento volte il fabbisogno annuale di gas degli Stati Uniti!» «È impressionante», disse Johanson sottovoce a Sahling. «Non sapevo che ce ne fosse tanto.» «È anche di più», replicò il biologo. «Non mi ricordo esattamente il numero, ma lui lo sa di certo.» Come se Bohrmann avesse sentito, disse: «Probabilmente - possiamo so-
lo ipotizzarlo - nel mare ci sono più di diecimila gigatonellate di metano congelato. Inoltre vi sono anche riserve a terra, nel permafrost dell'Alaska e della Siberia. Solo per darvi un'idea della quantità, tenete presente che oggi, nei giacimenti utilizzabili di carbone, petrolio e gas naturale, ci sono in tutto circa cinquemila gigatonnellate. Non c'è da meravigliarsi se le società energetiche si stanno rompendo la testa per estrarre gli idrati. Una minima percentuale raddoppierebbe in un colpo le riserve energetiche degli Stati Uniti, che sono di gran lunga i maggiori consumatori. Ma è sempre la solita storia: le industrie vedono una gigantesca riserva di energia, la scienza una bomba a orologeria, quindi si cerca d'instaurare una collaborazione, naturalmente sempre nell'interesse dell'umanità. Così siamo arrivati alla fine della nostra spedizione. Grazie di essere stati qui». Ridacchiò sotto i baffi. «Volevo dire, di avermi ascoltato.» «E di aver capito qualcosa», mormorò Johanson. «Speriamo», aggiunse Sahling. «Avevo un'immagine diversa di lei», disse Johanson alcuni minuti dopo, quando strinse la mano a Bohrmann. «Nelle foto su Internet hai baffi.» «Tagliati.» Bohrmann si toccò il labbro superiore. «In fondo, è addirittura colpa vostra.» «Come?» «Ho riflettuto in continuazione sui vostri vermi. Anche stamattina. Ero davanti allo specchio e un verme è strisciato davanti al mio occhio interiore e ha fatto una rotazione che, per motivi inesplicabili, il mio rasoio ha seguito. Ho tagliato una punta e così ho sacrificato tutti i baffi alla scienza.» «Allora ho sulla coscienza i suoi baffi.» Johanson sollevò le sopracciglia. «Ogni tanto cambiare fa bene.» «Non c'è problema. Ricresceranno non appena partiremo per la spedizione. In mare se li fanno crescere tutti. Non so perché. Forse abbiamo bisogno di sembrare avventurieri per non soffrire il mal di mare. Venga, andiamo in laboratorio. O forse vuole prima una tazza di caffè? Possiamo fare una puntata al bar.» «No, sono troppo curioso, il caffè può aspettare. Parte per un'altra spedizione?» «In autunno», annuì Bohrmann, mente attraversavano passerelle e corridoi di vetro. «Vogliamo andare nella zona di subduzione delle Aleutine e fare ricerche sulle fonti fredde. Ha avuto fortuna a trovarmi a Kiel. Sono
tornato dall'Antartico quattordici giorni fa; c'ero rimasto quasi otto mesi. La sua telefonata è arrivata un giorno dopo il mio rientro.» «Posso chiederle che cos'ha fatto per otto mesi all'Antartico?» «Ho portato gli uwis sul ghiaccio.» «Chi?» Bohrmann sorrise. «Gli Uberwinterer, gli 'svernatori'. Scienziati e tecnici. A dicembre hanno cominciato il loro turno nella stazione. La squadra al lavoro sta estraendo carote di ghiaccio da quattrocentocinquanta metri di profondità. Non è incredibile? Quel vecchio ghiaccio contiene la storia del clima degli ultimi settemila anni!» Johanson pensò al taxista e disse: «La maggior parte delle persone non si entusiasma per cose simili. Non riescono a capire il rapporto tra la conoscenza della storia del clima e la fine delle carestie. Oltretutto non serve a vincere i prossimi mondiali di calcio». «Qualche responsabilità l'abbiamo anche noi. La scienza si è chiusa nel proprio guscio», osservò Bohrmann. «Lo crede? La sua piccola conferenza sembrava tutt'altro che 'chiusa'.» «Però non so se questa apertura all'opinione pubblica serva a qualcosa», sospirò Bohrmann, mentre scendevano una rampa di scale. «Di fronte al disinteresse generale, i giorni di 'porte aperte' cambiano poco. Poco tempo fa ne abbiamo avuto uno e c'era un sacco di gente. Ma se avesse chiesto a qualcuno dei visitatori se sia giusto che vengano stanziati dieci milioni di nuovi finanziamenti...» Johanson tacque per un attimo, poi disse: «Credo che il vero problema siano gli universi che dividono noi scienziati. Che ne pensa?» «Perché comunichiamo poco?» «Sì, la comunicazione è scarsa anche tra la scienza e l'industria, tra gli scienziati e i militari.» «O tra la scienza e i colossi del petrolio?» chiese Bohrmann, scoccandogli una lunga occhiata. Johanson sorrise. «Sono qui perché qualcuno ha bisogno di una risposta. Non per estorcerla.» «L'industria e i militari dipendono dagli scienziati, che gli piaccia o no», s'intromise Sahling. «Comunichiamo, certo. Ma il problema è che non possiamo mediare i nostri punti di vista.» «Del resto non lo si vuole neppure!» esclamo Johanson. «Giusto. Ciò che i nostri uomini fanno sul ghiaccio potrebbe servire a evitare una carestia. Ma potrebbe anche portare alla costruzione di una
nuova arma. Guardiamo la stessa cosa, ma ognuno la vede in modo diverso», disse Sahling. «E tutto il resto ci sfugge», confermò Bohrmann. «Quegli animali che ci ha mandato, dottor Johanson, ne sono un buon esempio. Non so se per causa loro si dovranno mettere in discussione i progetti sulla scarpata continentale, ma, quando sono nel dubbio, tendo ad agire con precauzione e a sconsigliare gli interventi. Forse è questa la differenza di fondo tra l'industria e la scienza. Noi diciamo: finché non è sufficientemente provato quale ruolo abbiano questi vermi, non possiamo consigliare una perforazione. L'industria parte dalla medesima premessa, ma arriva a un altro risultato.» «Finché non è dimostrato quale ruolo giochino questi vermi, non ne giocano nessuno», disse Johanson. E poi, guardando Bohrmann, aggiunse: «E lei che ne pensa? Giocano qualche ruolo?» «Non posso ancora dirlo. Quello che ci ha mandato è... Sì, è a dir poco insolito. Non vorrei deluderla, quello che abbiamo scoperto finora avrei potuto anche dirglielo per telefono, ma... Insomma, ho pensato che lei volesse saperne di più. E qui possiamo mostrarle diverse cose.» Raggiunsero una pesante porta d'acciaio. Bohrmann azionò un interruttore sulla parete e la porta si aprì senza un rumore. Nel centro della stanza oltre la porta si trovava un'imponente cisterna, alta come una casa di due piani. In essa, a intervalli regolari, erano inseriti degli oblò. Scale d'acciaio conducevano a passerelle circolari e poi alle apparecchiature, erano collegate alla cisterna tramite tubature. Johanson entrò. Su Internet aveva visto delle fotografie di quella cosa, ma non si era aspettato che fosse così grande. Fu colto da una vertigine all'idea della pressione mostruosa che doveva esserci in quella cisterna piena d'acqua. Lì dentro, un individuo non sarebbe sopravvissuto neppure un minuto. Quella cisterna era il motivo per cui Johanson aveva mandato una dozzina di vermi all'Istituto di Kiel. Si trattava di un simulatore di abissi marini. Conteneva un mondo artificiale, con tanto di fondale marino, scarpata e zoccolo continentale. Bohrmann fece scivolare la porta d'acciaio alle sue spalle. «Ci sono persone che dubitano del senso e dello scopo di questa struttura», disse. «Il simulatore può dare solo un quadro approssimativo della realtà, ma è sempre meglio che dover uscire ogni volta in mare. Oggi come ieri, il problema della geologia marina rimane invariato: riusciamo a vedere soltanto una minuscola porzione della realtà. Perlomeno qui siamo in grado di a-
vanzare tesi di ordine generale, benché sia necessario farlo con estrema cautela. Per esempio, possiamo studiare meglio la dinamica degli idrati di metano in diverse condizioni.» «Lì dentro ci sono degli idrati di metano?» chiese Johanson. «Circa due quintali e mezzo», rispose Bohrmann. «Recentemente siamo riusciti a estrarne una parte. Ma preferiamo non fare troppa pubblicità alla cosa. Le industrie vorrebbero che mettessimo subito il simulatore al loro servizio. E a noi farebbero molto comodo i soldi dell'industria. Ma non al prezzo di mettere in discussione la nostra libertà di ricerca.» Johanson piegò la testa all'indietro e osservò la cisterna. Sopra di lui, sulla passerella circolare più alta, si era radunato un gruppo di scienziati. L'intera scena aveva un che d'irreale, come se fosse uscita da un film di James Bond degli anni '80. «Nella cisterna, si possono regolare pressione e temperatura», proseguì Bohrmann. «Al momento, corrispondono a una profondità marina di ottocento metri. Sul fondo è immagazzinato uno strato di idrati stabili spesso due metri, che in natura corrisponde a una quantità da venti a trenta volte superiore. Al di sotto dello strato, simuliamo il calore dell'interno della Terra e così abbiamo gas libero. Quindi un fondale marino completo in scala.» «Affascinante», disse Johanson. «Ma che cosa fate esattamente? Voglio dire, potete osservare lo sviluppo degli idrati, ma...» Cercava le parole adatte. Sahling gli venne in aiuto. «Che cosa facciamo qui, oltre a osservare?» «Sì.» «Attualmente stiamo cercando di mettere a punto le condizioni di un'era geologica di cinquantacinque milioni di anni fa. Più o meno tra Paleocene ed Eocene, sembra che sulla Terra ci sia stata una catastrofe climatica di grandi dimensioni. L'oceano si è letteralmente ribaltato. Il settanta per cento di tutti gli esseri viventi sul fondale marino è morto. Intere zone degli abissi si sono trasformate in luoghi inadatti alla vita. Invece sui continenti c'è stata una rivoluzione biologica. Nell'Artico sono comparsi i coccodrilli e i primati, e i moderni mammiferi sono migrati dalle latitudini subtropicali verso il Nordamerica. Una confusione straordinaria.» «Come fate a saperlo?» «Grazie ai carotaggi. Tutta la conoscenza sulla catastrofe climatica deriva da carotaggi a duemila metri di profondità sui fondali marini.» «I carotaggi spiegano quello che è successo?» chiese Johanson.
«C'entra il metano», rispose Bohrmann. «A quell'epoca, il metano si deve essere surriscaldato e la gran massa di idrati è diventata instabile. Le scarpate continentali sono scivolate e hanno liberato altro metano. Nel giro di qualche millennio, forse addirittura di secoli, si sono sprigionati nell'oceano e nell'atmosfera miliardi di tonnellate di gas. Un circolo vizioso. Il metano genera un effetto serra trenta volte superiore a quello dell'anidride carbonica. L'atmosfera si è riscaldata e, a sua volta, ha riscaldato ulteriormente gli oceani che hanno liberato altri idrati, e così via, all'infinito. La Terra era diventata un forno. L'innalzamento attuale della temperatura delle acque profonde, compreso tra i due e i quattro gradi, non è niente a confronto dell'innalzamento di quindici gradi avvenuto allora, ma non è da sottovalutare», concluse. «Per alcuni un disastro, per altri... un inizio di riscaldamento. Capisco. Nel prossimo capitolo della nostra breve conversazione inseriremo anche il declino dell'umanità, vero?» disse Johanson. «Non accadrà così presto. Ma effettivamente ci sono alcuni indizi, secondo i quali ci troviamo in una fase di delicata fluttuazione dell'equilibrio. Le riserve di idrati nell'oceano sono molto instabili. È questo il motivo per cui dedichiamo tanta attenzione ai vostri vermi.» «Che cosa c'entra un verme con le condizioni di stabilità degli idrati di metano?» domandò Johanson. «Di fatto nulla. Il verme del ghiaccio popola la superficie degli strati superiori del ghiaccio per molte centinaia di metri. Ne scioglie qualche centimetro e si accontenta dei batteri.» «Però questo verme ha le mascelle...» «Quel verme è una creatura senza senso. Guardi lei stesso.» Si avviarono verso un quadro di comando semicircolare alla fine del padiglione. A Johanson ricordava la centrale di comando di Victor, solo un po' più grande. La maggior parte delle due dozzine di monitor era accesa e mostrava riprese dall'interno della cisterna. «Osserviamo quello che succede con ventiquattro telecamere; inoltre ogni centimetro cubo è sottoposto continuamente a misurazioni», spiegò Bohrmann. «Le macchie bianche sui monitor della fila superiore sono idrati. Vede? Qui a sinistra c'è la zona in cui, ieri mattina, abbiamo messo i policheti.» Johanson socchiuse le palpebre. «Vedo solo ghiaccio», disse. «Osservi meglio.» Johanson studiò ogni particolare dell'immagine e improvvisamente si
accorse di due macchie scure. Le indicò. «Che cos'è? Un infossamento?» Sahling scambiò qualche parola col tecnico. L'immagine s'ingrandì, rendendo visibili i due vermi. «Le superfici sono bucate», disse Sahling. «Ecco il filmato accelerato.» Johanson vide i vermi che si muovevano, contraendosi sul ghiaccio. Ogni tanto annusavano qua e là, come per capire da dove venisse l'odore. Nella riproduzione accelerata, i loro movimenti erano strani e bizzarri. I ciuffi setolosi vibravano, come elettrizzati. «Stia attento ora!» esclamò Sahling. Uno dei vermi si era fermato. Sembrava percorso da onde pulsanti. Poi sparì nel ghiaccio. «Mio Dio, scava», mormorò Johanson. Il secondo animale era un po' distante e muoveva la testa come se seguisse il ritmo di qualche musica. D'un tratto estrasse fuori la proboscide con le mascelle chitinose. «Mangia il ghiaccio!» urlò Johanson, fissando il video. Ma, nello stesso istante, pensò: Di che ti meravigli? Vivono in simbiosi coi batteri che estraggono gli idrati di metano, e quindi hanno le mandibole per scavare. Tutto ciò lasciava spazio a una sola conclusione: i vermi volevano arrivare ai batteri che si trovano nel ghiaccio più profondo. Johanson continuò a fissare, come stregato, i corpi pelosi che si rivoltavano negli idrati. A velocità accelerata le parti posteriori del loro corpo vibravano. Poi, in modo improvviso, sparirono, lasciando solo le macchie scure dei buchi sul ghiaccio. Non c'è motivo di agitarsi, pensò allora. Anche altri vermi scavano. Alcuni trivellano le navi fino a distruggerle... Ma perché scavano gli idrati? «Dove sono gli animali?» chiese. Sahling guardò il monitor. «Sono morti.» «Morti?» «Crepati. Asfissiati. I vermi hanno bisogno di ossigeno.» «Lo so. È il senso di tutta la simbiosi. I batteri nutrono il verme ed esso, girando vorticosamente, procura l'ossigeno ai batteri. Ma cos'è successo qui?» «Qui è successo che hanno scavato fino alla morte. Hanno fatto dei buchi, divorando il ghiaccio come se fosse un'autentica leccornia, finché non sono finiti nella sacca di gas, dove sono soffocati», spiegò Sahling. «Kamikaze», mormorò Bohrmann. «In effetti sembra proprio un suicidio», annuì Johanson. Poi aggiunse: «Oppure sono stati ingannati da qualcosa».
«Possibile. Ma da che cosa? All'interno degli idrati non c'è nulla che possa giustificare un simile comportamento.» «Forse il gas che c'è la sotto?» ipotizzò Johanson, sfregandosi la fronte. «Ci abbiamo pensato anche noi. Tuttavia non spiega perché essi si suicidino.» Johanson rivide dentro di sé il brulichio sul fondale marino e il suo malessere crebbe. Se milioni di vermi si mettono a scavare nel ghiaccio, quali potrebbero essere le conseguenze? Bohrmann sembrò intuire i suoi pensieri. «Gli animali non possono destabilizzare il ghiaccio», disse. «In mare, lo strato di idrati è molto più spesso che qui. Questi animaletti impazziti scalfiscono solo la superficie e al massimo un decimo dello strato di ghiaccio. Poi inevitabilmente muoiono.» «E allora? Esaminerà altri vermi?» «Sì. Ne abbiamo ancora qualcuno. Forse sfrutteremo anche l'occasione per dare un'occhiata sul posto. Credo che la Statoli ci darà il benvenuto. Nelle prossime settimane, la Sonne deve andare in Groenlandia. Potremmo anticipare la partenza della spedizione e fare una visita al luogo in cui ha trovato i policheti.» Bohrmann sollevò le mani. «Ma questa decisione non spetta a me. Devono prenderla altri. Heiko e io abbiamo solo avuto l'idea.» Johanson guardò la gigantesca cisterna e pensò ai vermi morti al suo interno. Alla fine mormorò: «Sì, è una buona idea». Più tardi, Johanson andò al suo hotel per cambiarsi. Cercò di raggiungere telefonicamente Tina Lund, ma non ci riuscì. La immaginò tra le braccia di Kare Sverdrup e riagganciò. Bohrmann l'aveva invitato a cena in uno dei bistro più alla moda di Kiel. Si osservò nello specchio del bagno. Doveva spuntarsi la barba almeno di un paio di millimetri. Tutto il resto era a posto. La chioma - un tempo nera, ora striata di grigio - gli cadeva rigogliosa sulle spalle. Sotto le ciglia lunghe e nere lampeggiava lo sguardo di sempre. C'erano momenti in cui si compiaceva del proprio carisma. In altri - soprattutto di prima mattina non riusciva più a scorgerlo. Fino ad allora erano bastate un paio di tazze di tè e un minimo di cura per rimettersi in ordine. Non molto tempo prima, una studentessa l'aveva paragonato all'attore tedesco Maximilian Schell, e Johanson si era sentito lusingato, ma poi aveva scoperto che Schell aveva settant'anni. Quindi aveva cambiato crema idratante. Frugò nella valigia e scelse un pullover con la cerniera, si mise la giacca
e si avvolse una sciarpa attorno al collo. Non era vestito bene, ma a lui piaceva così. Coltivava la propria trascuratezza e gli piaceva infischiarsene della moda. Solo nei momenti di profonda sincerità era disposto ad ammettere che il suo aspetto trasandato costituiva anch'esso una moda, che lui seguiva in modo non dissimile da come facevano gli altri, pronti ad adottare ogni nuova tendenza. E, sempre in quelle rare occasioni, ammetteva pure che dedicava più tempo alla sua chioma in disordine di quanto non facesse la maggior parte dell'umanità per mantenere una pettinatura perfetta. Dopo aver sorriso alla propria immagine riflessa, uscì dalla stanza, lasciò l'hotel e prese un taxi per raggiungere il luogo dell'appuntamento. Bohrmann lo stava aspettando. Chiacchierarono a lungo del più e del meno, bevvero vino e mangiarono delle sogliole fantastiche. Dopo un po', tuttavia, la conversazione ritornò sugli abissi marini. Durante il dessert, come per caso, Bohrmann chiese: «Lei conosce i progetti della Statoil?» «Solo a grandi linee. Non sono un esperto di questioni petrolifere.» «Che cosa stano progettando? È difficile che vogliano costruire una piattaforma così al largo...» «Non è una piattaforma», lo corresse Johanson. Bohrmann sorseggiò il caffè, poi disse: «Mi scusi, non voglio costringerla a parlare. Non so quanto siano confidenziali queste informazioni, ma...» «Non c'è problema. Sono un noto chiacchierone. Se mi confidano qualcosa, non può essere un segreto.» Bohrmann rise. «Allora, cosa crede che vogliano costruire?» «Stanno pensando a una soluzione sottomarina. A una stazione completamente automatizzata.» «Qualcosa del tipo SUBSIS?» «Cos'è il SUBSIS?» chiese Johanson. «SUBSIS è l'acronimo di Subsea Separation and Injection System. Una stazione sottomarina. Ci lavorano da qualche anno sul giacimento di Trollfeld della fossa norvegese», spiegò Bohrmann. «Non ne avevo mai sentito parlare.» «Chieda al suo committente. Il SUBSIS è una stazione d'estrazione. Si trova a trecentocinquanta metri di profondità sul fondale oceanico, dove separa acqua e gas dal petrolio. Al momento, questo processo ha ancora luogo sulle piattaforme e l'acqua di produzione viene dispersa in mare.» «Ma certo!» esclamò Johanson, ricordando che Tina aveva fatto cenno a quella cosa. «L'acqua di produzione rende sterili i pesci, no?»
«Il SUBSIS potrebbe risolvere questo problema. L'acqua inquinata viene immediatamente compressa nei pozzi di trivellazione, così spinge verso l'alto il petrolio, che a sua volta viene separato dall'acqua che viene ricompressa nel pozzo e così via. Il petrolio e il gas arrivano alla costa tramite oleodotti. In sé, è una cosa davvero raffinata...» «Ma...» «Non so se c'è un ma. A quanto pare il SUBSIS può lavorare senza problemi fino a cinquecento metri di profondità. Il costruttore sostiene che non ci sarebbero problemi neppure a duemila metri e i colossi petroliferi sperano nei cinquemila.» «È realistico?» chiese Johanson. «A medio termine, sì. Tutto ciò che funziona su scala ridotta funziona anche su grande scala, ne sono convinto, e i benefici sono a portata di mano. Ben presto le stazioni automatizzate faranno sparire le piattaforme.» «Mi sembra però che lei non condivida l'euforia generale», osservò Johanson. Bohrmann si grattò la testa. Sembrava che non sapesse come replicare. «Quello che mi preoccupa non è la stazione sottomarina, ma la faciloneria con cui si procede.» «La stazione sarebbe telecomandata?» «Sì, completamente. E da terra.» «Ciò vuol dire che le riparazioni e la manutenzione sono fatte dai robot», osservò Johanson. Bohrmann annuì. «Capisco», disse Johanson. «La questione ha pro e contro. Quando ci si addentra in un territorio sconosciuto, ci sono sempre dei rischi. E nessun luogo è più sconosciuto delle profondità abissali. È giusto automatizzare gli strumenti anziché rischiare vite umane. Va bene mandare un robot per osservare gli avvenimenti e fare qualche esperimento. Ma qui la questione è completamente diversa. Come pensano di riuscire a riportare sotto controllo un incidente a cinquemila metri di profondità, col petrolio che esce dal pozzo ad altissima pressione? Il terreno non si conosce. Gli unici dati noti sono quelli delle misure. Nelle profondità abissali siamo ciechi. Con l'aiuto dei satelliti, di sonar speciali o con le onde sismiche, possiamo disegnare una carta morfologica del fondo oceanico, precisa fino al mezzo metro. Col BSR - il Bottom Simulating Reflection - possiamo investigare la presenza di giacimenti di gas e di petrolio, in modo che si possa dire: 'Qui puoi trivellare', oppure:
'Qui c'è il petrolio, là gli idrati, e laggiù bisogna fare attenzione...' Ma che cosa ci sia là sotto - che cosa ci sia davvero - non lo sappiamo.» «Quello che ho sempre detto», mormorò Johanson. «Non vediamo gli effetti delle nostre azioni», mormorò Bohrmann. «Se succede un casino, non possiamo semplicemente far finta di niente... Non mi fraintenda, non sono contro l'estrazione di materie prime. Ma sono contrario a ripetere gli errori. Quando c'è stato il boom petrolifero, nessuno si è preoccupato di come smaltire i rottami installati allegramente in mare. Si sono scaricate sostanze inquinanti e chimiche nel mare e nei fiumi col motto: 'Tanto li assorbiranno'. Sono stati sprofondati nell'oceano materiali radioattivi; sono state sfruttate le risorse e annientate forme di vita senza minimamente curarsi di quanto complesse siano le interdipendenze.» «Ma arriveremo alle stazioni automatizzate?» chiese Johanson. «Senza dubbio. Sono economiche, rendono accessibili i giacimenti cui non arriverebbero gli uomini. E prossimamente tutti si butteranno sul metano. Perché brucia inquinando meno di tutti gli altri combustibili. Giusto! Perché un passaggio dal petrolio e dal carbone al metano rallenterebbe l'effetto serra. Giusto anche questo. È tutto giusto, finché si rimane sul piano ideale. Ma alle industrie piace confondere il piano ideale con quello della realtà. Vogliono confonderli. Fra tutte le previsioni, si sceglierà sempre quella più ottimistica, in modo che si proceda più velocemente, anche se non si sa nulla dell'universo in cui mettono le mani.» «Ma come ci riusciranno? Come si fa a estrarre gli idrati se si distruggono lungo la strada per arrivare in superficie?» «Anche per questo entrano in gioco le stazioni automatizzate. Si sciolgono gli idrati a grande profondità, per esempio riscaldandoli; s'imprigiona in imbuti il gas liberato e lo si convoglia in superficie. Sembra fantastico, ma chi ci garantisce che lo scioglimento non provochi una reazione a catena e che non si ripeta una catastrofe come nel Paleocene?» «Crede davvero che sia possibile?» Bohrmann allargò le braccia. «Ogni attacco mosso senza riflettere è un'azione suicida. Ma ormai si è già cominciato. L'India, il Giappone e la Cina sono molto attivi.» Sorrise, sconsolato. «E neppure loro sanno che cosa c'è la sotto. Non sanno nulla.» «Vermi», mormorò Johanson, pensando alle riprese che Victor aveva fatto sul fondale oceanico. E alla sinistra creatura che era sparita così velocemente nell'oscurità. Vermi. Mostri. Metano. Catastrofe climatica.
Doveva assolutamente bere qualcosa. 11 aprile Vancouver Island e Clayoquot Sound, Canada Anawak era furioso. L'animale, dalla testa alla coda, misurava oltre dieci metri. Era una delle più grandi orche migratrici che avesse mai visto, un esemplare imponente. Nelle fauci semiaperte, luccicavano le tipiche file serrate di piccoli denti a forma di cono. Verosimilmente l'animale era già molto vecchio, tuttavia sembrava scoppiare di energia. Solo se si guardava con attenzione si notavano i punti in cui la pelle bianca e nera aveva perso splendore e appariva opaca e ricoperta di croste. Aveva un occhio chiuso e l'altro coperto. Sebbene quell'orca fosse gigantesca, ormai non era più pericolosa per i salmoni. Era distesa su un fianco nella sabbia umida. Era morta. Lui aveva riconosciuto subito l'orca: era indicata nel suo archivio con la sigla J-19, ma era stata soprannominata Gengis per la pinna dorsale ricurva come una sciabola. Girò intorno all'animale e, a breve distanza da esso, vide John Ford - il direttore del programma di ricerca sui mammiferi marini dell'acquario di Vancouver - che conversava con Sue Oliviera, la direttrice del laboratorio di Nanaimo, e un terzo uomo. Si trovavano sotto gli alberi nei pressi della spiaggia. Ford fece cenno ad Anawak di avvicinarsi e gli presentò lo sconosciuto: «Il dottor Ray Fenwick, del Canadian Department of Fisheries and Oceans». Fenwick era venuto per eseguire l'autopsia. Dopo aver saputo della morte di Gengis, Ford aveva consigliato, tanto per cambiare, di non fare gli esami a porte chiuse, ma direttamente sulla spiaggia. Voleva far vedere l'anatomia di un'orca al maggior numero possibile di giornalisti e di studenti. «Inoltre sulla spiaggia fa un altro effetto», aveva detto. «Non è così asettico e distante. Proprio sotto il naso abbiamo un'orca morta e il mare. È il suo spazio vitale, non il nostro. È quasi davanti alla porta di casa sua. Se facciamo qui l'autopsia, susciteremo più comprensione, più compassione, più sgomento. È un trucco, ma funzionerà.» Avevano discusso quell'eventualità in quattro: Ford, Fenwick, Anawak e Palm della stazione di ricerca marina sulla Strawberry Island, una minuscola isola nella baia di Tofino. Da quella postazione, la squadra della Strawberry Island monitorava l'ecosistema del Clayoquot Sound. Palm era
un'autorità per quanto riguardava la popolazione delle orche. Si erano subito trovati d'accordo nel condurre l'autopsia in pubblico perché avrebbe attirato l'attenzione. E le orche avevano davvero bisogno di attenzione. «Dall'aspetto, si direbbe morta per un'infezione batteriologica», osservò Fenwick, rispondendo a una domanda di Anawak. «Ma non mi azzarderei a dire altro.» «Già», disse Anawak cupo. «Ricordate cosa successe nel 1999? Sette orche morte. E tutte infettate.» «The torture never stops...» Sue Oliviera canticchiò il verso di una canzone di Frank Zappa, poi guardò Anawak e, con aria da cospiratrice, gli fece un cenno del capo. «Vieni un po' con me.» Anawak la seguì fino al cadavere dell'orca. Lì accanto erano già pronte due valigie di metallo e un container con le attrezzature per l'autopsia. Aprire un'orca era ovviamente ben diverso dal praticare un'autopsia su un essere umano. Era un lavoro durissimo, che comportava una grande fuoriuscita di sangue e una puzza bestiale. «Tra poco arriverà la stampa con al rimorchio un'orda di dottorandi e di studenti», disse Sue, gettando un'occhiata all'orologio. «Visto che il destino ci ha fatti incontrare in questo luogo di lutto, possiamo cogliere l'occasione per parlare delle analisi dei tuoi campioni.» «Avete scoperto qualcosa?» chiese Anawak. «Più o meno.» «E avete già informato la Inglewood.» «No, ho pensato che prima fosse meglio parlarne tra noi.» «Il modo in cui lo dici mi fa pensare che non siano buone notizie.» «Mettiamola così: da una parte siamo meravigliati, dall'altra siamo perplessi», borbottò Sue. «Per quanto riguarda i mitili, non esiste letteratura che li descriva.» «Avrei potuto giurare che erano cozze zebrate», disse lui. «In un certo senso sì. Ma anche no.» «Spiegati.» «Ci sono due possibili interpretazioni», cominciò Sue. «O abbiamo a che fare con un parente della cozza zebrata, oppure con una mutazione. Quelle... cose sembrano cozze zebrate, hanno le stesse stratificazioni, ma nel loro bisso c'è qualcosa di bizzarro. I filamenti che formano il piede sono particolarmente spessi e lunghi. Per scherzo tra noi le abbiamo chiamate 'cozze a reazione'.» «Come?»
Sue fece una smorfia. «Non ci è venuto in mente niente di meglio. Ne abbiamo molte vive e dispongono... Insomma, non si comportano come di solito fanno le cozze zebrate, ma, entro certi limiti, possiedono una capacità di navigazione. Aspirano l'acqua e poi la sputano fuori. Il colpo le spinge in avanti. Inoltre utilizzano i filamenti di bisso per stabilire la direzione. Come piccole eliche. Non ti ricorda qualcosa?» «Le seppie per nuotare usano una spinta simile a quella dei razzi», esclamò Anawak. «Alcune. Ma c'è anche un altro parallelo. Ci possono arrivare solo i cervelloni, ma per fortuna di quelli in laboratorio ne abbiamo a sufficienza. Parlo dei dinoflagellati. Alcuni di questi organismi unicellulari hanno due flagelli alla fine del corpo. Con uno determinano la direzione; l'altro lo fanno ruotare per spostarsi in avanti», spiegò Sue. «Non ci stiamo spingendo un po' troppo in là?» «Diciamo che si potrebbe intravedere una convergenza. Ci si attacca a tutto. Comunque non conosco altri mitili che si muovano nello stesso modo. Questi sono mobili come un banco di pesci. E, nonostante la conchiglia, riescono in qualche modo a spingersi.» «Ciò spiegherebbe come abbiano potuto raggiungere la carena della Barrier Queen in alto mare», rimuginò Anawak. «Ed è questo che vi meraviglia?» «Sì.» «E cos'è che vi lascia perplessi?» chiese lui. Sue si avvicinò al fianco dell'orca morta e accarezzò la pelle nera. «Quei frammenti di tessuto che hai preso sott'acqua. Non sappiamo da che parte incominciare... Per essere precisi, non possiamo nemmeno incominciare. La sostanza si è decomposta. Quel poco che abbiamo potuto analizzare ci porta alla conclusione che la sostanza appesa allo scafo e quella sul tuo coltello sono la stessa cosa. E questo è tutto, perché non siamo in grado di ricondurla a nulla di conosciuto.» «Quindi la cosa che ho scacciato dallo scafo a colpi di coltello era E.T.?» «La capacità di contrazione del tessuto è del tutto sproporzionata. Di grande consistenza e nel contempo enormemente flessibile. Non sappiamo cosa sia.» Anawak aggrottò la fronte. «Segni di bioluminescenza?» «Possibile. Come mai lo chiedi?» «Perché ho avuto l'impressione che quella cosa per un attimo abbia lam-
peggiato.» «Quella cosa che ti ha steso, vuoi dire?» «Sì, è balzata fuori non appena ho smosso il rivestimento.» «Probabilmente l'hai tagliata e lei non l'ha trovato particolarmente divertente. Anche se dubito che questo tessuto possieda qualcosa di simile a un sistema nervoso, qualcosa che le faccia provare dolore. In sostanza è solo... un ammasso di cellule.» Un gruppo di persone stava attraversando la spiaggia, diretto verso di loro. Alcuni reggevano una telecamera, altri avevano bloc-notes. «Si comincia», disse Anawak. «Sì.» Sue li guardò, perplessa. «Che facciamo, ora? Devo mandare i dati alla Inglewood? Temo che non sappiano cosa farsene. Detto chiaramente, vorrei avere altri campioni. In particolare di quel tessuto.» «Mi metto in contatto con Roberts», propose Anawak. «Bene. Buttiamoci nella mischia.» Fenwick e Ford si mossero, preparandosi ad agire. Anawak osservò l'orca e si sentì travolgere dalla rabbia e dalla disperazione. Era davvero deprimente. Gli animali erano stati lontani per settimane e adesso ce n'era uno morto sulla spiaggia. «Merda!» Sue aggrottò la fronte e borbottò: «Risparmiati il malumore per la stampa». L'autopsia durò oltre un'ora, durante la quale Fenwick, assistito da Ford, estrasse le viscere, il cuore, il fegato e i polmoni, spiegando contemporaneamente la struttura anatomica dell'orca. Venne tirato fuori il contenuto dello stomaco: una foca semidigerita. A differenza delle stanziali, le orche transienti e quelle offshore mangiavano leoni marini, focene e delfini e talvolta attaccavano anche i grandi misticeti. Fra gli spettatori, i giornalisti scientifici erano la minoranza. La maggior parte era costituita da reporter televisivi o della carta stampata. In sostanza, dunque, erano pressoché digiuni di nozioni scientifiche. Così Fenwick illustrò anzitutto le caratteristiche specifiche della struttura del corpo. «La forma è quella di un pesce, ma solo perché la natura ha dotato di questa struttura genetica un essere che si trasferisce dalla terra all'acqua. Una cosa del genere accade spesso: la chiamiamo convergenza. Specie completamente diverse, quando incontrano determinate esigenze ambientali, si sviluppano in modo convergente, quindi negli effetti con strutture simili.» Allontanò una parte della spessa pelle esterna e fece uscire il grasso.
«Ancora una differenza: pesci, anfibi e rettili sono a temperatura variabile, cioè a sangue freddo; ciò significa che la loro temperatura corporea corrisponde alla temperatura dell'ambiente circostante. I merluzzi, per esempio, ci sono sia a capo Nord sia nel Mediterraneo, solo che a capo Nord abbiamo misurato una temperatura corporea di 4 °C, mentre i merluzzi del Mediterraneo hanno una temperatura di 24 °C. Per i cetacei non è così. Sono a sangue caldo. A sangue caldo come noi.» Anawak osservò i presenti. Fenwick aveva appena detto una cosa da niente, che però funzionava sempre: «come noi». A quelle parole, la gente drizzava le orecchie. I cetacei sono come noi. Rieccola, la stretta linea di confine all'interno della quale gli uomini cominciano a dare valore alla vita. «Che si trattengano nell'Artico o nella Bassa California, i cetacei hanno sempre una temperatura costante di 37 °C», proseguì Fenwick. «Per questo formano uno strato di grasso che noi chiamiamo 'blubber'. Vedete questa massa grassa bianca? L'acqua assorbe il calore, ma questo strato impedisce che il calore corporeo vada disperso». Si guardò intorno. Le sue mani inguantate erano rosse e vischiose per il sangue e il grasso dell'orca. «Ma nel contempo il blubber può essere una condanna a morte per i cetacei. I problemi di tutti i mammiferi marini che s'incagliano sono due: il peso del corpo e questo straordinario strato di grasso. Una balenottera azzurra lunga trentatré metri e pesante centotrenta tonnellate è quattro volte più pesante del più grande sauro che sia mai comparso sulla faccia della Terra, ma anche un'orca arriva a nove tonnellate. Solo in acqua, grazie alla legge di Archimede - secondo cui ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto pari al peso del volume di liquido spostato - possono esistere esseri di queste dimensioni. A terra, le balene sono schiacciate dal loro stesso peso, e l'effetto isolante del grasso fa il resto, perché non possono rilasciare il calore che ricevono dall'ambiente. Molti dei cetacei incagliati muoiono per shock da surriscaldamento.» «Anche questa?» chiese un giornalista. «No. Negli ultimi anni, di tanto in tanto, ci sono capitati animali il cui sistema immunitario non funzionava più. Morivano per infezione. J-19 aveva ventidue anni. Non era un animale giovane, però, in media, le orche vivono trent'anni. Quindi si tratta di una morte prematura e non si vedono segni di lotta. Credo sia stata un'infezione batteriologica.» Anawak fece un passo avanti. «Se volete sapere a che cosa è dovuta, possiamo spiegarvelo», disse, sforzandosi di mantenere un tono oggettivo.
«Gli esami tossicologici dimostrano che le orche, passando davanti alla British Columbia, si contaminano con PCB e altri veleni dispersi nell'ambiente. Quest'anno abbiamo trovato nel tessuto grasso delle orche centocinquanta milligrammi di PCB. Nessun sistema immunitario umano avrebbe la minima possibilità di resistere.» I giornalisti si girarono verso di lui. Nei loro occhi, Anawak vide un insieme di sgomento e concitazione. Aveva appena dato loro una storia di cui scrivere. Sapeva di avere il gruppo in pugno. «Il problema peggiore è che questi veleni si accumulano nel grasso», proseguì. «Ciò significa che vengono trasferiti al cucciolo col latte materno. Ci dicono che i bambini vengono al mondo con l'AIDS e noi inorridiamo. Allora, vi prego, estendete un po' il vostro orrore e comunicate anche quello che avete visto qui. Nessuna specie al mondo è più avvelenata delle orche.» «Dottor Anawak...» Un giornalista si schiarì la voce. «Che cosa succede se gli uomini mangiano la carne di questi cetacei?» «Assumono una parte dei veleni.» «Con conseguenze mortali?» «Sul lungo periodo è probabile.» «Esiste una responsabilità, anche indiretta, delle imprese che scaricano i veleni in mare o delle industrie del legno nella malattia e nella morte di molti uomini?» Ford gli gettò una rapida occhiata. Anawak esitò. Era un punto delicato. Naturalmente quell'ipotesi era fondata, ma l'acquario di Vancouver cercava di evitare ogni scontro diretto con le industrie della zona, e si sforzava di percorrere le vie diplomatiche. Dipingere l'élite politica ed economica della British Columbia come una potenziale banda di assassini avrebbe inasprito il confronto. E Anawak non voleva mettere i bastoni tra le ruote a Ford. «Mangiare carne contaminata inevitabilmente danneggia la salute umana», rispose. «Ma la carne viene consapevolmente contaminata dalle industrie», lo incalzò il giornalista. «Proprio in merito a questo stiamo cercando soluzioni. In collaborazione coi responsabili.» «Capisco.» Il giornalista annotò qualcosa. «Penso specialmente alle persone della sua terra, dottor...» «La mia terra è questa», lo interruppe Anawak.
Il giornalista lo guardò, sbalordito. Come avrebbe potuto capire? Probabilmente aveva fatto ricerche accurate. «Non volevo dire questo», affermò. «Intendevo le sue origini...» «Non è che nella British Columbia si mangi molta carne di balena o di foca», lo interruppe di nuovo Anawak. «Invece ci sono pesanti avvelenamenti tra gli abitanti del Circolo Polare. In Groenlandia e Islanda, in Alaska e ancora più a nord, nel Nunavut, e naturalmente anche in Siberia, in Kamčatka, nelle Aleutine e ovunque i mammiferi marini siano l'alimento quotidiano. Il problema non è tanto dove gli animali si avvelenano. Il problema è che migrano.» «Crede che le balene siano consapevoli dell'avvelenamento?» chiese una studentessa. «No.» «Ma lei nelle sue pubblicazioni parla di una certa intelligenza. Se gli animali dovessero capire che nel loro cibo c'è qualcosa che non va...» «Gli uomini fumano finché non muoiono di cancro ai polmoni. Sono perfettamente consapevoli dell'avvelenamento, eppure continuano a fumare e gli uomini sono indubbiamente più intelligenti delle balene.» «Come fa a esserne così sicuro? Magari è esattamente il contrario.» Anawak sospirò. «Dobbiamo vedere i cetacei come cetacei», replicò, sforzandosi di mantenere un tono pacato. «Sono molto specializzati, ma è proprio questa specializzazione che li limita. Un'orca è un siluro vivente con una linea perfettamente idrodinamica, però le mancano gambe e mani prensili, non ha mimica e non ha la vista bipolare. Lo stesso vale per i delfini, le focene e per ogni specie di odontoceti o misticeti. Non sono piccoli semiumani. Forse le orche sono più intelligenti dei cani, i beluga sono così intelligenti da essere consapevoli della propria individualità e i delfini possiedono senza dubbio un cervello singolare. Ma, per favore, si chieda, in fin dei conti, a che cosa li ha portati. I pesci abitano lo stesso spazio vitale di delfini e balene, il loro stile di vita è per molti aspetti simile, eppure hanno una quantità di neuroni che riempirebbe un quarto di ditale». Anawak fu quasi felice di sentire la suoneria attutita del suo cellulare. Fece un cenno a Fenwick perché continuasse l'autopsia, si allontanò un poco e rispose. «Ah, Leon», disse Shoemaker. «Puoi schiodarti da dove sei adesso?» «Forse. Cos'è successo?» «È di nuovo qui.»
La rabbia di Anawak era incontenibile. L'ultima volta che era ritornato precipitosamente a Vancouver Island, Jack Greywolf e i suoi compagni della Seaguard si erano già allontanati, lasciando dietro di loro due imbarcazioni cariche di turisti infuriati, che strillavano per essere stati fotografati e osservati come bestie. Shoemaker li aveva calmati a stento, offrendo a tutti una seconda escursione gratuita. Poi le acque si erano calmate. Tuttavia Greywolf aveva ottenuto ciò che voleva. Aveva creato scompiglio. Alla Davies stavano valutando le varie possibilità. Dovevano procedere contro gli ambientalisti o ignorarli? Seguire le vie ufficiali significava andare in tribunale. Per le organizzazioni serie, la gente come Greywolf era una spina nel fianco, ma un processo avrebbe offerto a un'opinione pubblica disinformata un quadro distorto. Senza dubbio, molti sarebbero stati disposti a simpatizzare con Greywolf e coi suoi slogan. In via non ufficiale, invece, avrebbero potuto impelagarsi in un'approfondita discussione. Ma a che cosa conducessero le discussioni con Greywolf era dimostrato dalle sue varie condanne. Dipendeva da loro se lasciarsi intimidire o no. Oltretutto non sarebbe stato molto utile. Avevano molto lavoro e forse Greywolf avrebbe smesso di seccarli. Così avevano deciso d'ignorarlo. Forse era stato un errore, pensava Anawak, mentre guidava il piccolo gommone a motore lungo la costa del Clayoquot Sound. Probabilmente la smania di mettersi in mostra di Greywolf sarebbe stata soddisfatta se gli avessero almeno scritto una lettera per esprimergli il loro biasimo. Qualcosa che gli segnalasse che era tenuto in considerazione. Anawak esaminava con attenzione la superficie dell'acqua. L'imbarcazione andava veloce e lui non voleva rischiare di spaventare le balene o addirittura di ferirle. Più volte, in lontananza, scorse le imponenti code; a un certo punto, poi, non distante da lui, spuntò tra le onde una pinna dorsale nera e splendente. Nel frattempo, lui parlava via radio con Susan Stringer, che si trovava sul Blue Shark. «Che cosa fanno quei tipi?» chiese. «Stanno diventando violenti?» La radio gracchiò. «No», disse la voce di Susan. «Fanno fotografie, come l'ultima volta, e c'insultano.» «Quanti sono?» «Due barche: sulla prima ci sono quattro persone, tra cui Greywolf; sulla seconda ce ne sono tre. Cielo! Adesso si sono messi a cantare.» Tra i fruscii della radio, arrivò debolmente un rumore ritmato. «Suonano il tamburo», gridò Susan. «Greywolf picchia sul tamburo e gli altri cantano. Can-
zoni indiane! Non capisco nulla.» «Restate calmi, capito? Non cedete alle provocazioni. Tra pochi minuti sarò lì.» «Scusa, Leon, ma... Che razza d'indiano è, quel bastardo? Non so che cosa stia facendo, però, se chiama gli spiriti dei suoi antenati, voglio almeno sapere che cosa comparirà.» «Jack è un millantatore», disse Anawak. «Non è un indiano.» «No? Pensavo...» «Sua madre è una mezza indiana. Tutto lì. Vuoi sapere qual è il suo vero nome? O'Bannon, Jack O'Bannon. Altro che Greywolf.» Ci fu una pausa, mentre Anawak si avvicinava alle barche a tutta velocità. Adesso il rumore dei tamburi arrivava fino a lui. «Jack O'Bannon», ridacchiò Susan. «È fantastico. Penso che gli dirò subito...» «Non farai proprio nulla. Mi vedi?» «Sì.» «Non fare nulla. Aspetta e basta», le ordinò Anawak. Poi mise via la radio e fece un'ampia curva, che lo portò verso il mare aperto. Ormai vedeva chiaramente la scena. Il Blue Shark e la Lady Wexham si trovavano in mezzo a due gruppi di megattere molto distanziati tra loro. Qua e là si scorgevano code e nuvole di vapore. Lo scafo bianco della Lady Wexham, lungo ventidue metri, splendeva nella luce del sole. Due piccole e malridotte imbarcazioni da pesca sportiva, entrambe dipinte di rosso vivo, giravano intorno al Blue Shark; erano così vicine che sembravano pronte all'arrembaggio. Il battito del tamburo si fece più forte e si confuse con un canto monotono. Se Greywolf si era accorto dell'avvicinamento di Anawak, non lo dava a vedere. Stava in piedi sulla sua barca, batteva un tamburo indiano e cantava. Il suo seguito - due uomini e una donna - cantava con lui e, di tanto in tanto, lanciava imprecazioni e maledizioni. Ma non era tutto: i membri del gruppetto fotografavano le persone sul Blue Shark oppure tiravano loro qualcosa di luccicante. Anawak socchiuse gli occhi. Erano pesci. No, resti di pesce. Alcuni passeggeri si rannicchiavano, altri li tiravano indietro. Quasi cedette all'impulso di andare addosso alla barca di Greywolf, per vedere come quel colosso se la sarebbe cavata in mare, ma si dominò. Si avvicinò alla barca e gridò: «Smettila, Jack! Parliamo». Greywolf non si voltò neppure, continuando instancabilmente a suonare il tamburo. Anawak guardò i volti nervosi e stressati dei turisti. Poi dalla
radio giunse una voce: «Ciao, Leon, che piacere vederti!» Era lo skipper della Lady Wexham, che si trovava a un centinaio di metri di distanza. Le persone sul ponte stavano appoggiate al parapetto e guardavano l'altra imbarcazione assediata. Alcuni scattavano foto. «Tutto bene, da voi?» s'informò Anawak. «Tutto bene. Che facciamo con quello stronzo?» «Non lo so ancora. Magari tento un approccio pacifico.» «Fammi sapere se devo buttarlo in mare.» «Prenderò in considerazione la proposta.» Le barche rosse a motore degli ambientalisti avevano intanto iniziato a urtare il Blue Shark. Ogni volta che la sua barca cozzava contro lo scafo, Greywolf vacillava, però non smetteva di suonare il tamburo. Le piume sul suo capo ondeggiavano al vento. Dietro le barche si levò una coda e poi un'altra, ma nessuno si curava delle balene. Susan Stringer guardava Greywolf con ostilità. «Ehi, Leon, Leon!» Una passeggera del Blue Shark si mise a gesticolare verso Anawak. Era Alicia Delaware. Lui la riconobbe per via degli occhiali blu. «Chi sono quelli? Perché sono qui?» Anawak rimase stupito. Ma quella ragazza non gli aveva detto e ripetuto che era in procinto di partire? Mah, comunque, al momento non aveva importanza. Accostò la barca a quella di Greywolf, si mise di traverso e batté le mani. «Okay, Jack. Grazie. Avete suonato bene. Ora dimmi che cosa vuoi.» Greywolf cantò a voce ancora più alta. Un monotono alzarsi e abbassarsi di sillabe dal suono arcaico, lamentose e nel contempo aggressive. «Jack, maledizione!» Improvvisamente scese il silenzio. Il colosso lasciò penzolare il tamburo e si girò verso Anawak. «Posso esserle utile?» «Di' ai tuoi di smetterla, così possiamo parlare. Parleremo di tutto, però adesso smettetela.» I lineamenti di Greywolf s'indurirono. «Non la smetteremo», gridò. «Cos'è questa sceneggiata? Dove vuoi arrivare?» «Volevo spiegartelo all'acquario, ma tu eri troppo occupato per starmi a sentire.» «Sì, non avevo tempo.» «E ora non ho tempo io.» I compagni di Greywolf risero ed esultarono. Anawak cercò di contenere la rabbia. «Ti faccio una proposta, Jack. Tu
la pianti con questa storia e noi ci troviamo stasera alla Davies in modo che tu possa spiegarci che cosa, secondo te, dovremmo fare.» «Dovete sparire. Ecco cosa dovete fare.» «Perché? Che facciamo di male?» Nelle immediate vicinanze si levarono due isole scure, rugose e macchiate come roccia. Balene grigie. Molto vicine. Sarebbero stati splendidi soggetti fotografici, ma Greywolf aveva rovinato l'escursione. «Andatevene», gridò Greywolf. Guardò i passeggeri del Blue Shark e alzò le braccia. «Andatevene e non disturbate la natura. Vivete in sintonia con lei, invece di osservarla in questo modo. Le vostre navi a motore appestano l'aria e l'acqua. Ferite gli animali con le vostre eliche. Li braccate per una foto. Li uccidete col rumore. Questo è il mondo delle balene. Andatevene. Non è posto per gli uomini.» Che tirata, pensò Anawak, chiedendosi se Greywolf credesse davvero a quello che diceva. I suoi compagni lo applaudirono, entusiasti. «Jack! Posso ricordarti che lo stiamo facendo per proteggere le balene? Noi facciamo ricerca! Il whale watching ha fornito alla gente un nuovo punto di vista su questi animali. Se intralci il nostro lavoro, danneggi gli interessi della natura.» «E tu sai quali sono gli interessi di una balena?» chiese Greywolf in tono di scherno. «Sei capace di guardare nelle loro teste, signor ricercatore?» «Jack, lascia perdere queste stronzate indiane. Che cosa vuoi?» Greywolf rimase per un attimo in silenzio. I suoi compagni avevano smesso di scagliare i pezzi di pesce addosso agli occupanti del Blue Shark e lo guardavano. «Vogliamo raggiungere l'opinione pubblica», rispose infine. «Ma dove sarebbe l'opinione pubblica? Qui non la vedo», replicò Anawak, con un ampio movimento del braccio. «Vedo soltanto qualche persona su una barca. Per favore, Jack, parliamo, se vuoi, ma lascia a noi il compito di raggiungere l'opinione pubblica. Confrontiamoci. Tuttavia chi perde deve darsi per vinto.» «Ridicolo», disse Greywolf. «Così parla l'uomo bianco.» «Merda!» Anawak perse la pazienza. «Io sono meno 'uomo bianco' di te, Mister O'Bannon. Torna coi piedi per terra!» Greywolf lo fissò come se avesse appena incassato un pugno. Poi sul suo volto si aprì un sorriso. Indicò la Lady Wexham. «Secondo te, perché la gente sulle vostre barche sta fotografando e filmando con tanta solerzia?»
«Riprendono te e i tuoi stupidi trucchetti.» «Bene.» Il sorriso di Greywolf si allargò. «Molto bene.» Di colpo, Anawak comprese. Tra i passeggeri della Lady Wexham c'erano dei giornalisti. Greywolf li aveva invitati a partecipare allo spettacolo. Maledetto bastardo! Stava per fare un commento tagliente, quando si accorse che Greywolf fissava la Lady Wexham e la indicava col braccio teso. Allora seguì il suo sguardo e rimase senza fiato. Proprio davanti alla nave, una megattera si era catapultata fuori dall'acqua. Per sollevare così in alto quel corpo massiccio era necessaria una spinta mostruosa. Per un momento sembrò quasi che l'animale si sostenesse esclusivamente sulla coda. Solo la punta della pinna caudale era ancora sott'acqua; il resto del corpo era dritto in aria e sovrastava il ponte della Lady Wexham. Si vedevano chiaramente i lunghi solchi sulla mascella e sulla parte inferiore del ventre. Le enormi pinne laterali erano aperte e parevano ali di un bianco vivo, con marezzature nere e bordi nodulosi. Sembrava che l'animale volesse uscire del tutto dall'acqua. Un coro di stupore generale si levò dalla Lady Wexham. Poi il corpo imponente si rovesciò lentamente su un fianco e colpì la superficie dell'acqua creando un'esplosione di spuma. Le persone in coperta si ritrassero e la Lady Wexham sembrò rivestirsi di una cappa di schiuma. Quindi apparve qualcosa di scuro e di massiccio. Una seconda megattera uscì dagli abissi, come se qualcosa l'avesse sparata fuori. Era molto vicina alla nave, circondata da una nuvola di lucenti goccioline d'acqua. Ancor prima che dalle barche si levassero grida di terrore, Anawak seppe che quel balzo non avrebbe mancato il bersaglio. La megattera colpì con tanta violenza la Lady Wexham che l'imbarcazione oscillò paurosamente, cigolando e gemendo. Poi l'animale s'immerse e le persone in coperta caddero bocconi. Intorno alla nave, l'acqua schiumava e vorticava. D'un tratto, molti dorsi scuri si avvicinarono e due teste balzarono di nuovo fuori dall'acqua, gettandosi con tutto il loro peso contro lo scafo. «Questa è la vendetta», gridò Greywolf, come invasato. «La vendetta della natura!» La Lady Wexham era lunga ventidue metri, quindi molto più lunga di una megattera. Era stata autorizzata dal ministero dei Trasporti e rispondeva alle norme di sicurezza della guardia costiera canadese per le navi pas-
seggeri: era sicura in caso di tempesta, di frangenti alti diversi metri e persino di scontro fortuito con una balena che fosse pigramente uscita dall'acqua. La Lady Wexham era stata concepita per essere sicura anche in quel caso. Ma non per un attacco. Anawak sentì che i motori erano stati azionati. Sotto la violenza dei corpi in caduta, la nave si era minacciosamente inclinata di lato. Su entrambi i ponti di osservazione regnava un panico indescrivibile. Tutti i vetri erano andati in frantumi. Si levavano grida ovunque, le persone s'intralciavano a vicenda senza rendersene conto. La Lady Wexham si mise in movimento, ma non andò molto lontano. Un altro cetaceo si catapultò fuori dall'acqua e si scagliò contro la parete laterale del ponte. Neanche quell'attacco sarebbe stato sufficiente per affondare la nave, però la fece oscillare ancora di più. I pensieri di Anawak correvano all'impazzata. Probabilmente lo scafo si era già squarciato in alcuni punti. Doveva fare qualcosa. Forse poteva allontanare gli animali. Portò la mano sulla leva del gas. Nello stesso istante, grida altissime squarciarono l'aria. Non arrivavano dalla Lady Wexham, bensì da un punto alle sue spalle. Si voltò di scatto. La scena aveva qualcosa di surreale. Proprio sopra la barca degli animalisti si levava il gigantesco corpo di una megattera. Sembrava quasi non avere peso: un essere di monumentale bellezza, con la bocca incrostata, tesa verso le nuvole, che se ne stava lì, a dieci-dodici metri sopra le teste degli uomini. Per un attimo che sembrò eterno, l'animale rimase sospeso, girandosi lentamente su se stesso e muovendo le gigantesche pinne, come se facesse dei cenni. Anawak scrutò quel gigante. Non aveva mai visto nulla di così terribile e magnifico al contempo. Jack Greywolf, gli uomini sul Blue Shark, lui stesso... Tutti tenevano la testa sollevata, con gli occhi sbarrati, aspettando di capire cosa sarebbe successo. «Mio Dio», sussurrò Anawak. Il corpo della megattera si abbassò, come al rallentatore, e la sua ombra si allungò sulla barca rossa degli ambientalisti. Cresceva sopra la prua del Blue Shark, diventando sempre più lunga. Infine il corpo del gigante ricadde. Veloce, sempre più veloce... Anawak diede gas e lo zodiac balzò in avanti. Anche la barca di Greywolf aveva fatto una partenza lampo, ma la sua direzione era sbagliata ed essa sbandò verso Anawak. Si scontrarono. Anawak fu sbalzato all'indie-
tro, ma riuscì a vedere che un compagno di Greywolf era caduto in mare e che lo stesso Greywolf aveva perso l'equilibrio. Poi la barca degli attivisti proseguì veloce nella direzione opposta, mentre il suo gommone si diresse a tutto gas verso il Blue Shark. In un'esplosione di schiuma, le nove tonnellate del corpo della megattera schiacciarono sotto di sé la barca rossa, la spinsero sott'acqua e colpirono la prua del Blue Shark, la cui poppa si sollevò quasi in verticale. Gli escursionisti, nelle loro tute color arancione, vorticavano nell'aria. Per un attimo il Blue Shark si bilanciò sulla punta, girò sul proprio asse e si rovesciò su un fianco. Anawak abbassò la testa e il suo gommone passò rapido sotto lo zodiac che si stava ribaltando, urtò qualcosa di massiccio al di sotto della superficie dell'acqua e lo scavalcò. A fatica, Anawak riuscì a riprendere il timone, sterzò bruscamente e rallentò. Quella davanti ai suoi occhi era una scena incredibile. Della barca degli ambientalisti erano rimasti solo relitti. Il Blue Shark si era capovolto e, tra le onde, alcune persone nuotavano, gridando selvaggiamente, mentre altre rimanevano immobili. Le loro tute si erano gonfiate automaticamente, ma Anawak temeva che qualcuno fosse morto, schiacciato dal peso dell'animale. Un po' più in là, vide la Lady Wexham rimettersi in movimento sbandando, circondata da dorsi e code. Un colpo improvviso scosse la nave che s'inclinò ancora di più. Con cautela, per non ferire nessuno, Anawak guidò il gommone verso la gente in mare. Intanto, sulla frequenza 98, comunicò la propria posizione. «Problemi», disse poi, ansimando. «Probabilmente dei morti.» Tutte le imbarcazioni avrebbero ricevuto la richiesta d'aiuto. Non aveva tempo per spiegare cos'era successo. A bordo del Blue Shark c'era una dozzina di passeggeri, oltre a Susan Stringer e al suo assistente. Poi c'erano gli ambientalisti. In tutto una ventina di persone, ma in acqua se ne vedevano di meno. «Leon!» Era Susan! Stava nuotando verso di lui. Anawak le afferrò le mani e la tirò a bordo. Tossendo e ansimando, lei si lasciò cadere sul fondo del gommone. A una certa distanza, Anawak scorse le pinne dorsali di diverse orche, che, sollevando le teste nere, sembravano dirette verso il luogo del disastro. Si muovevano come se fossero consapevoli della loro meta e questo ad Anawak non piaceva affatto. Poi individuò Alicia, che reggeva fuori dall'acqua la testa di un giovane
la cui tuta non si era gonfiata. Anawak avvicinò la barca alla studentessa e, aiutato da Susan, issò a bordo il giovane svenuto. Alicia strinse le mani di Anawak, ma rimase aggrappata al gommone e aiutò Susan a portare a bordo altre persone. Alcuni si avvicinavano con le proprie forze, allungavano le braccia e le due donne li aiutavano a salire. La barca si riempì in fretta; i superstiti si aggrappavano a essa con frenesia. Intanto Anawak continuava a perlustrare la superficie dell'acqua. «Là ce n'è un altro!» gridò Susan. Poco lontano galleggiava un corpo. Era a faccia in giù, ma, a giudicare dalle spalle larghe, si trattava di un uomo. Non aveva la tuta. Uno degli ambientalisti. «Presto!» Anawak si sporse oltre il parapetto, con Susan accanto. Presero l'uomo per le braccia e lo sollevarono. Fu facile. Troppo facile. La testa dell'uomo cadde all'indietro, rivelando gli occhi ormai spenti. Anawak comprese perché era così leggero: era troncato alla vita. Gli mancavano le gambe e il bacino. Dal torso pendevano strisce di carne, arterie e viscere. Susan annaspò e lo lasciò andare. Il cadavere si rovesciò, sfuggi alla presa di Anawak e ricadde in acqua. A destra e a sinistra, le pinne delle orche solcavano l'acqua. Erano almeno dieci, forse di più. Un colpo scosse lo zodiac. Anawak balzò al timone, diede gas e partì. Davanti a loro, tre dorsi imponenti uscirono dalle onde e s'inarcarono, Anawak virò di colpo. Le tre orche emersero. Altre due arrivavano dalla parte opposta, dirigendosi verso l'imbarcazione. Anawak fece un'altra virata. Sentiva gridare e piangere. Anche lui era preso da un terrore che lo attraversava come una corrente elettrica e gli faceva venire la nausea... Eppure una parte di lui guidava imperterrita lo zodiac, in uno slalom tra i corpi bianchi e neri che cercavano di sbarrargli la strada. Da destra sentì qualcosa fracassarsi rumorosamente. D'istinto voltò il capo e vide la Lady Wexham sommersa da una nube di schiuma. Più tardi si sarebbe ricordato che era stato quel momento di disattenzione a determinare il suo destino. Se non fosse rimasto a guardare la grande nave, forse ce l'avrebbero fatta. Di certo avrebbe visto il dorso picchiettato di grigio, avrebbe scorto la balena emergere e sollevare la coda dall'acqua proprio nella loro direzione. E invece, quando vide la coda piombare sibilando su di lui, era troppo
tardi. Vennero colpiti sul fianco. Normalmente un urto simile non sarebbe bastato a ribaltare il gommone, ma stavano andando troppo veloci ed erano molto inclinati nella virata. Fatalmente, l'imbarcazione fu colpita proprio nel momento di massima instabilità. Venne scagliata in alto, per un momento si librò nel nulla, poi cadde su un fianco e si capovolse. Anawak fu scaraventato fuori. Volava. Volteggiava nell'aria. Poi finì contro la schiuma e l'acqua verde. Un attimo dopo era sott'acqua e sprofondava nel buio, senza orientamento, senza la percezione del sopra e del sotto. Fu attraversato da un gelo paralizzante. A fatica, si riscosse, riuscì a tornare in superficie, boccheggiando, poi finì di nuovo con la testa sott'acqua. Stavolta il gelo gli entrò nei polmoni. Fu preso dal panico. Batteva disperatamente i piedi e muoveva con frenesia le braccia, ormai completamente fuori di sé. Tossendo e sputando, riuscì ancora una volta a tornare in superficie, ma dell'imbarcazione non c'era traccia. Nel suo campo visivo entrò solo la costa, che si alzava e si abbassava. Si voltò, fu sollevato da un'onda e finalmente vide le teste degli altri. Ma non di tutti... Forse di una mezza dozzina. Da una parte c'era Alicia e dall'altra Susan. In mezzo, c'erano le nere pinne dorsali delle orche. Solcavano l'acqua attraverso il gruppo dei naufraghi, poi s'immersero. Una delle teste umane sparì sott'acqua e non riemerse più. Una donna anziana vide l'uomo andare sotto e lanciò un grido. Sbatteva incontrollabilmente le braccia, come impazzita. Nei suoi occhi c'era orrore puro. «Dov'è la barca?» urlò. Dov'è la barca? pensò Anawak. Non sarebbero riusciti ad arrivare a riva nuotando. Se avessero raggiunto l'imbarcazione, magari avrebbero potuto salirci sopra e sperare di non essere aggrediti. Se fosse stata capovolta, rimaneva comunque la possibilità di aggrapparsi a essa. Ma la barca sembrava sparita e la donna chiedeva aiuto a voce sempre più alta. Anawak nuotò verso di lei. La donna lo vide arrivare e gli tese le mani. «La prego», singhiozzò. «Mi aiuti.» «Sì, sì», gridò Anawak. «Ma stia calma!» «Sto annegando!» «Non annegherà.» Anawak si diresse verso di lei a lunghe bracciate. «Non può annegare. La tuta la sostiene.» Ma la donna non gli diede retta. «Mi aiuti! Mio Dio, non lasciarmi morire! Non voglio morire!» «Non abbia paura, io...» Improvvisamente gli occhi della donna si spalancarono e lei fu trascinata
sott'acqua. Il suo urlo finì in un gorgoglio. Qualcosa sfiorò le gambe di Anawak. Fu preso da un terrore indicibile. Si sollevò un poco e lanciò uno sguardo all'intorno, riuscendo a individuare lo zodiac che galleggiava, capovolto. Tra il gruppo di naufraghi e l'isola della salvezza c'erano solo poche bracciate. Solo pochi metri... e tre siluri neri che stavano piombando sulle persone in acqua. Come paralizzato, Anawak fissò le orche che attaccavano. Una voce nella sua testa diceva: Nessuna orca ha mai attaccato un uomo! Nei confronti degli esseri umani, le orche sono curiose, pacifiche, o addirittura indifferenti. Le balene non attaccano le navi. No, non lo fanno. Nulla di tutto ciò può essere vero... Era così sconcertato che, benché avesse sentito il rumore, non capì subito che cosa fosse. Era un rombo, un ruggito che si avvicinava e diventava sempre più forte. Poi fu afferrato da un cavallone e qualcosa di rosso scivolò tra lui e le balene. Venne preso e trascinato a bordo. Greywolf non gli prestò la minima attenzione. Guidò l'imbarcazione verso il resto del gruppo, si chinò di nuovo e afferrò le braccia tese di Alicia. Senza sforzo la sollevò dall'acqua e la sistemò su una panca. Anawak si sporse e afferrò un uomo ansimante, tirandolo su a fatica. Poi scrutò la superficie dell'acqua alla ricerca degli altri. Dov'era Susan? Infine la vide. «Là!» urlò. Emergeva tra due creste di onde, sorreggendo una donna semisvenuta. Le orche avevano circondato lo zodiac rovesciato e si avvicinavano da tutte le parti. Le loro lucide teste nere solcavano l'acqua. Nelle bocche appena aperte splendevano file di denti color avorio. Di lì a pochi secondi avrebbero raggiunto Susan e l'altra donna. Ma Greywolf era di nuovo al timone e manovrava la barca con sicurezza. Anawak cercò di afferrare Susan. «Prima la donna», gridò lei. Aiutato da Greywolf, portò la donna al sicuro. Susan cercò d'issarsi a bordo con le proprie forze, ma invano. Dietro di lei, l'orca s'immerse. Nel mare deserto e apparentemente privo di vita era rimasta solo Susan. Non c'era nessuno oltre lei. «Leon?» Allungò le braccia, negli occhi il terrore. Anawak le afferrò la mano destra. Nell'acqua verde-azzurra, qualcosa di molto grande e veloce stava rie-
mergendo. La mandibola si spalancò, file di denti chiari sullo sfondo di un palato rosa, e si richiuse appena al disotto della superficie. Susan gridò, poi si mise a picchiare il pugno sulla bocca che la teneva stretta. «Vattene!» urlava. «Via, animale di merda!» Anawak strinse con forza il giubbotto della donna. Susan lo guardava. Nei suoi occhi c'era un terrore mortale. «Susan! Dammi l'altra mano.» La teneva stretta, deciso a non cedere, ma l'orca aveva afferrato Susan alla vita e la tirava con una forza incredibile. Susan emise un grido, prima soffocato, poi acuto, e smise di colpire la bocca dell'orca. Poi fu strappata dalle mani di Anawak con una violenza inaudita. Lui vide la sua testa sparire sott'acqua, le sue braccia, le dita tese. L'orca spietata la stava trascinando sotto. Per un istante, si vide ancora scintillare la tuta, sfaccettata come in un caleidoscopio, poi essa sbiadì, si dissolse, sparì. Anawak fissò l'acqua, sbalordito. Dal fondo salì qualcosa di luccicante. Un getto di bolle d'aria. Scoppiarono sulla superficie producendo schiuma. Tutt'intorno l'acqua era colorata di rosso. «No», sussurrò. Greywolf lo prese per le spalle e lo trattenne. «Non c'è più nessuno», disse. «Andiamocene.» Anawak era stordito. Quando l'imbarcazione si mise in moto, rombando, lui barcollò e si rimise in equilibrio. La donna che Susan aveva salvato sedeva su una delle panche laterali e gemeva, mentre Alicia le parlava con voce tremante. L'uomo che aveva tirato fuori dall'acqua fissava davanti a sé. A una certa distanza, Anawak sentì un rumore tumultuoso, girò la testa e vide la nave bianca circondata da pinne e dorsi. A quanto pareva, la Lady Wexham riusciva appena ad avanzare, piegata com'era su un fianco. «Dobbiamo tornare indietro», gridò Anawak. «Non ce la fanno.» Greywolf lanciò la barca a tutta velocità verso la costa. Senza voltarsi, disse: «Scordatelo». Anawak gli si avvicinò, strappò il walkie-talkie dal supporto e chiamò la Lady Wexham. Ma lo skipper non rispose. «Dobbiamo aiutarli, Jack! Maledizione, torna indietro...» «Non se ne parla! Con la mia barca non abbiamo la minima possibilità. Possiamo considerarci fortunati di essere ancora vivi.» E il peggio era che aveva ragione. «Victoria?» urlava Shoemaker al telefono. «Che diavolo stanno facendo
a Victoria? Cosa vuol dire: 'hanno fatto richiesta'? A Victoria hanno una loro guardia costiera. Nel Clayoquot Sound ci sono dei passeggeri in acqua, forse sta anche affondando una nave, una skipper è morta e noi dovremmo aver pazienza?» Rimase ad ascoltare, andando avanti e indietro nel negozio. Poi si fermò di colpo. «Che vuol dire: 'non appena possibile'? Non me ne frega niente! Allora devono mandare qualcun altro... Come? Mi stia a sentire...» Benché Shoemaker fosse a qualche metro da lui, la voce nella cornetta strillava al punto che pure Anawak la sentiva. Nella stazione regnava il caos. C'era anche Davie, il direttore. Lui e Shoemaker parlavano in continuazione in qualche cornetta o apparecchio, davano istruzioni oppure stavano ad ascoltare, sbalorditi. In Shoemaker, lo stupore raggiunse il culmine. Infine l'uomo abbassò il ricevitore e scosse la testa. «Cos'è successo?» chiese Anawak a Shoemaker. Poi gli fece segno di parlare a bassa voce e gli si avvicinò. Durante l'ultimo quarto d'ora, da quando Greywolf aveva portato la sua barca malridotta a Tofino, la Davies Whaling Station si era riempita di gente. La notizia dell'attacco si era diffusa come un lampo. L'uno dopo l'altro erano arrivati anche gli altri skipper che lavoravano per la Davies. Ormai le frequenze erano disperatamente sature. I commenti sarcastici dei pescatori che si trovavano nelle vicinanze e che avevano fatto rotta sul luogo della disgrazia - «Ah, ragazzi, ma si può essere così stupidi da non riuscire a evitare una balena...» - erano cessati. Chi cercava di portare soccorso veniva immediatamente aggredito. E le ondate degli attacchi sembravano estendersi lungo tutta la costa. Ovunque era scoppiato l'inferno, senza che nessuno fosse in grado di dire che cosa stesse succedendo davvero. «La guardia costiera non ci può mandare nessuno», sibilò Shoemaker. «Sono tutti fuori, al largo di Victoria e Ucluelet. Dicono che ci sono molte imbarcazioni in difficoltà.» «Che cosa? Anche là?» «Pare che ci siano stati molti morti.» «Sto giusto ricevendo qualcosa da Ucluelet», gridò loro Davie. Si appoggiò dietro il banco e girò la manopola della sua radio a onde corte. «Un peschereccio ha ricevuto la richiesta di soccorso di uno zodiac e stava prestando soccorso quand'è stato attaccato. Se l'è svignata.» «È stato attaccato da cosa?» «Non ricevo più niente. È sparito.» «E la Lady Wexham?» chiese Shoemaker.
«Nulla. La Tofino Air è uscita con due aerei. Ho appena avuto un breve contatto.» «E allora?» gridò Shoemaker senza fiato. «Vedono la Lady?» «Sono appena partiti, Tom», rispose Davie. «Perché su quegli aerei non ci siamo anche noi?» «Domanda stupida, perché...» «Maledizione, quelle sono le nostre imbarcazioni! Perché non ci siamo anche noi, su quei maledetti aerei?» Shoemaker correva avanti e indietro, completamente fuori di sé. «Cos'è successo alla Lady Wexham?» «Dobbiamo aspettare.» «Aspettare? Non possiamo aspettare! Io vado.» «Che vuoi dire?» domandò Davie. «Là fuori c'è ancora uno zodiac, no? Possiamo prendere il Devilfish e andare a vedere.» «Sei impazzito?» gridò uno degli skipper. «Non hai sentito quello che ha raccontato Leon?! È una faccenda per la guardia costiera.» «Però là non c'è nessuna maledetta guardia costiera!» strillò Shoemaker. «Forse la Lady Wexham si potrà mettere in salvo da sola. Leon ha detto...» «Forse, forse! Io vado.» «Basta!» Davie sollevò le mani e lanciò a Shoemaker uno sguardo di avvertimento. «Tom, non voglio mettere altri uomini in pericolo se non è assolutamente necessario.» «Tu non vuoi mettere altre barche in pericolo», latrò Shoemaker. «Aspetteremo di sentire quello che ci dicono i piloti. Poi decideremo il da farsi.» «È una decisione sbagliata!» concluse Shoemaker. Davie non rispose. Girò la manopola della radio per cercare di mettersi in contatto coi piloti degli idrovolanti, mentre Anawak chiedeva alla gente di uscire dalla stazione. Di tanto in tanto si sentiva tremare le ginocchia e provava un senso di vertigine. Probabilmente era sotto shock. Avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi stendere un attimo e chiudere gli occhi, ma era probabile che, così facendo, avrebbe rivisto Susan trascinata negli abissi dall'orca. La donna che doveva la propria vita a Susan era su una panca di fianco all'ingresso e sembrava svenuta. Anawak non poté fare a meno di lanciarle un'occhiata irosa. Senza di lei, Susan ce l'avrebbe fatta. L'uomo salvato era seduto lì vicino e piangeva. Aveva perso la figlia che si trovava con lui sul
Blue Shark. Alicia lo assisteva. Sebbene anche lei fosse appena sfuggita alla morte, dimostrava un grande autocontrollo. Correva voce che ci fosse un elicottero in arrivo per portare i superstiti all'ospedale più vicino, ma al momento nessuno ci contava troppo. «Ehi, Leon!» chiamò Shoemaker. «Vieni con me? Tu sai meglio di tutti a cosa dobbiamo stare attenti.» «No, Tom, tu non vai», sbottò Davie con tono tagliente. «Nessuno di voi idioti deve tornare là fuori», disse una voce profonda. «Vado io.» Anawak si girò. Greywolf era entrato nella stazione e, scostandosi dalla fronte i lunghi capelli, si stava facendo largo tra la gente. Dopo aver portato a terra Anawak e gli altri, era rimasto sulla barca per verificarne i danni. In silenzio, tutti fissarono quel gigante dalla lunga criniera, vestito di pelle. «Che stai dicendo?» chiese Anawak. «Dove vai?» «Fuori, alla vostra nave. A prendere la vostra gente. Io non ho paura dei cetacei. A me non fanno niente.» Anawak scosse la testa, seccato. «Generoso da parte tua, Jack, davvero. Ma faresti bene a tenerti alla larga.» «Leon, piccolo uomo.» Greywolf digrignò i denti. «Se mi fossi tenuto alla larga, tu saresti morto, non dimenticarlo. Siete voi quelli che avrebbero fatto meglio a tenersi alla larga. Fin dall'inizio.» «Da che cosa?» sibilò Shoemaker. Con gli occhi ridotti a una fessura, Greywolf si voltò verso di lui. «Dalla natura, Shoemaker. Siete voi i responsabili di questo disastro. Voi, con le vostre barche e le vostre maledette telecamere. I miei compagni e i turisti sono morti per colpa vostra e di quelli cui avete sfilato i soldi dalle tasche. Era inevitabile che succedesse.» «Stupido bastardo!» gridò Shoemaker. Alicia, che aveva assistito alla scena vicino all'uomo in lacrime, si alzò. «Non è uno stupido bastardo!» disse con decisione. «Ci ha salvati. E ha ragione, senza di lui saremmo tutti morti.» Shoemaker sembrava sul punto di prendere Greywolf per il collo. Anawak sapeva bene che dovevano ringraziare il gigante, ma in passato Greywolf gli aveva creato fin troppi problemi, quindi non disse nulla. Per alcuni secondi, sui presenti calò un silenzio insopportabile. Alla fine, Shoemaker girò sui tacchi e, con passo rigido, andò verso Davie. «Jack...» mormorò Anawak. «Se esci adesso ci sarà qualcuno che dovrà venire a pescare te in mezzo all'acqua. La tua barca è un pezzo da museo.
Non ce la farai un'altra volta.» «Vuoi lasciar morire la gente là fuori?» chiese Greywolf. «Non voglio lasciare morire nessuno. Nemmeno te.» «Oh, ti preoccupi della mia insignificante persona. Sono così commosso che potrei vomitare. Ma io non pensavo alla mia barca. Ne ha già passate abbastanza. Prendo la vostra.» «Il Devilfish?» «Sì.» Anawak strabuzzò gli occhi. «Non posso dare via così la nostra barca. E meno che mai a te.» «Allora vieni anche tu.» «Jack, io...» «Può venire anche Shoemaker. In fondo i vermiciattoli ci possono servire come esca, visto che finalmente le orche hanno capito chi sono i loro veri nemici e hanno cominciato a mangiarli.» «Ti mancano davvero delle rotelle, Jack», disse Anawak. Greywolf si chinò verso di lui. «Ehi, Leon», sibilò. «Alcuni miei compagni sono morti. Credi che non me ne freghi niente?» «Non dovevi portarli con te.» «Non ha senso stare a discutere ora, no? Si tratta della vostra gente. Io non dovrei uscire, Leon. Forse mi dovresti un po' più di riconoscenza.» Anawak lanciò un'imprecazione e si guardò intorno. Shoemaker era al telefono. Davie parlava al walkie-talkie. Gli skipper presenti e il gestore cercavano di mandare via la gente rimasta nella stazione, ma con scarsi risultati. Davie alzò lo sguardo e fece un cenno ad Anawak. «Che ne pensi della proposta di Tom?» chiese sottovoce. «Possiamo davvero aiutarli o è un suicidio?» Anawak si mordicchiò il labbro inferiore. «Che cosa dicono i piloti?» «La Lady è piegata su un lato e sta imbarcando acqua.» «Mio Dio.» «Pare che la guardia costiera possa mandare da Victoria un grande elicottero per il recupero. Ma dubito che arriverà in tempo. Sono già maledettamente impegnati e continuano ad arrivare notizie di altri disastri.» Anawak rifletté. Il pensiero di tornare nell'inferno da cui era appena sfuggito lo terrorizzava. Ma si sarebbe rimproverato per tutta la vita se non avesse fatto il possibile per salvare la gente a bordo della Lady Wexham. «Greywolf vuole andare», replicò.
«Jack e Tom nella stessa barca? Santo cielo! Pensavo volessimo risolvere i problemi, non crearne altri.» «Greywolf potrebbe risolverne alcuni. Sì, è un fanatico, ma potremmo aver bisogno di lui. È forte e coraggioso.» Davie annuì, cupo. «Tienili d'occhio, hai capito?» «Certo.» «E se capite che non c'è nulla da fare, tornate indietro. Non voglio che qualcuno si metta a giocare all'eroe.» «Va bene.» Anawak raggiunse Shoemaker, attese che finisse la telefonata, e poi gli comunicò la decisione di Davie. «Prendiamo con noi quell'indiano della domenica?» chiese Shoemaker, sdegnato. «Sei impazzito?» «A dire la verità, credo che sia lui a prenderci con sé.» «Con la nostra barca!» «Tu e Davie siete i capi, però io so cosa ci aspetta. Posso valutare meglio quello che ci serve. E so che saremo più che contenti di avere Greywolf con noi.» Il Devilfish aveva le stesse dimensioni e lo stesso motore del Blue Shark, quindi era veloce e maneggevole. Anawak sperava che, in tal modo, sarebbero potuti sfuggire alle orche, anche se gli enormi mammiferi marini avevano dalla loro parte il fattore sorpresa. Nessuno poteva dire dove e quando sarebbero comparsi. Mentre lo zodiac rombava sulla laguna, Anawak continuava a chiedersi il perché di quelle aggressioni. Si era sempre ritenuto un esperto di animali, ma era sbalordito e incapace di trovare una spiegazione che fosse almeno in parte sensata. L'unica cosa certa era la somiglianza con quello che era successo alla Barrier Queen. Le balene avevano cercato di capovolgere la nave. Dovevano avere qualche infezione, pensò. Una sorta di rabbia. Era l'unica spiegazione: dovevano essere ammalate. Ma una malattia può contagiare contemporaneamente tutte le specie? Gli sembrava di ricordare che all'attacco avessero partecipato megattere, orche e anche balene grigie. Più ci pensava, più si convinceva che, ad affondare il suo zodiac, era stata una balena grigia, non una megattera. Forse gli animali erano impazziti a causa delle sostanze chimiche? La concentrazione di PCB nell'acqua marina e negli alimenti avvelenati aveva completamente sconvolto il loro istinto? Le orche si avvelenavano con salmoni contaminati e con altre creature piene di tossine. Le megattere e le
balene grigie, invece, mangiavano plancton. Il loro metabolismo funzionava diversamente da quello dei carnivori. La malattia non era una spiegazione. Osservò la lucente superficie dell'acqua. Quante volte era uscito in quella zona pregustando la gioia dell'incontro coi cetacei? Ogni volta era stato consapevole dei potenziali pericoli, ma non aveva mai avuto paura. Al largo, sull'oceano, poteva calare improvvisamente la nebbia. Il vento poteva girare di colpo e sollevare onde subdole, com'era successo nel 1998, proprio nel Clayoquot Sound, quando uno skipper e un turista avevano perso la vita in quel modo. E naturalmente le balene, benché fossero pacifiche, rimanevano sempre esseri imprevedibili, di dimensioni strabilianti e con una forza enorme. Ogni whale watcher esperto lo sapeva. Ma non aveva senso temere la natura. Un essere umano poteva essere aggredito - anche in casa propria - da altri uomini oppure venire investito da un'auto. In casi simili, c'erano poche possibilità di uscirne illesi. Evitare una balena infuriata, invece, era possìbile: bastava non entrare nel suo spazio vitale. Se lo si faceva, allora il pericolo diventava concreto e bisognava accettarlo. Se si decideva di affrontare una tempesta oppure un animale selvaggio, allora non si riteneva che quelle cose fossero terrificanti. La paura cedeva il posto al rispetto e Anawak aveva sempre avuto un grande rispetto. Ora, per la prima volta, aveva paura. Alcuni idrovolanti stavano sorvolando il Devilfish. Anawak era nella cabina di guida con Shoemaker, che aveva voluto guidare, benché Greywolf avesse sostenuto di saperlo fare molto meglio. Greywolf era a prua e scrutava l'acqua alla ricerca di segnali sospetti. Alla loro sinistra si levavano le propaggini ricoperte di foreste di alcune isolette. Numerosi leoni marini se ne stavano pigramente sdraiati sulle pietre, come se nulla potesse scuotere la loro placidità. Lo zodiac li oltrepassò rombando e senza diminuire la velocità; raggiunse il mare aperto. Infinito, monocromo, intimo e sconosciuto nel contempo. Oltre la laguna, le onde erano più alte e lo zodiac le superava, sbattendoci contro. Nell'ultima mezz'ora il mare era diventato più mosso. All'orizzonte si ammassavano le nubi. Non sembravano nuvole di tempesta, ma senza dubbio le condizioni stavano peggiorando velocemente, come accadeva spesso da quelle parti. Anawak cercava la Lady Wexham e, in un primo momento, temette che fosse affondata. A una certa distanza, vide una nave da crociera ferma, una delle tante che in quella stagione facevano rot-
ta verso l'Alaska passando al largo del Canada occidentale. «Che ci fanno lì?» urlò Shoemaker. «Probabilmente hanno captato la richiesta d'aiuto.» Anawak guardò col binocolo. «MS Artik. Da Seattle. La conosco. Negli ultimi anni è passata diverse volte.» «Leon, laggiù!» Piccole e sghembe, appena visibili dietro le creste delle onde, apparvero improvvisamente le sovrastrutture della Lady Wexham. La maggior parte della nave era sommersa. I passeggeri si erano riuniti sul ponte e sulla piattaforma d'avvistamento a poppa. Schiuma e acqua vaporizzata annebbiavano la visuale. Molte orche nuotavano intorno al relitto. Sembrava quasi che stessero aspettando che la Lady Wexham affondasse per scagliarsi sui suoi occupanti. «Santo cielo», gemette Shoemaker, inorridito. «Non posso crederci.» Greywolf si voltò e gli fece cenno di rallentare. Shoemaker obbedì. Un dorso grigio e terribile si levò dall'acqua immediatamente davanti a loro, seguito da altri due. Le balene rimasero per qualche secondo in superficie, fecero uscire uno sfiato vaporoso a forma di V e s'immersero senza mostrare le pinne caudali. Anawak sospettava che si stessero avvicinando sott'acqua. Poteva letteralmente fiutare la minaccia dell'attacco. «Via!» urlò Greywolf. Shoemaker diede gas. Il Devilfish si sollevò quasi in verticale e partì a tutta velocità. Dietro di loro, le tre balene balzarono fuori dall'acqua e ripiombarono giù senza fare danni. Lo zodiac si lanciò verso la Lady Wexham che stava affondando. In coperta e sul ponte, i passeggeri si misero a gesticolare freneticamente. Anawak vide con sollievo che tra i sopravvissuti c'era anche lo skipper. Le nere pinne dorsali si spostarono dalla loro traiettoria e s'immersero. «Tra poco le avremo addosso», disse Anawak. «Le orche?» Shoemaker lo guardava con gli occhi spalancati. Per la prima volta sembrava aver compreso appieno ciò che stava succedendo. «Cosa vogliono fare? Rovesciare lo zodiac?» «Potrebbero farlo senza problemi, ma distruggere le imbarcazioni tocca alle balene più grandi. Sembra quasi che gli animali abbiano sviluppato una divisione dei compiti. Le megattere e le balene grigie affondano le navi, mentre le orche sistemano i passeggeri.» Shoemaker impallidì. «Arrivano i rinforzi», gridò.
Infatti due piccole barche a motore si erano staccate dalla MS Artik e si stavano avvicinando lentamente. «Digli che devono dare gas, altrimenti sono fottuti, Leon», gridò Greywolf. «A quella velocità sono una preda facile.» Anawak prese in mano la radio. «MS Artik, qui Devilfish. Dovete prepararvi a essere attaccati.» Per qualche secondo ci fu solo silenzio. Il Devilfish aveva quasi raggiunto la Lady Wexham. Il suo scafo era sferzato dalle onde. «Qui è la MS Artik. Che cosa può succedere, Devilfish?» «Fate attenzione alle balene che saltano. Cercheranno di affondare le vostre barche.» «Balene? Ma che sta dicendo?» «Fareste meglio a tornare indietro.» «Abbiamo ricevuto la richiesta d'aiuto di una nave che si è rovesciata.» Anawak barcollò quando lo zodiac sbatté duramente contro la cresta di un'onda. Poi si rimise in equilibrio e gridò nella radio: «Non abbiamo tempo per discutere. Dovete andare più veloce!» «Ehi, vuole prenderci per i fondelli? Andiamo in soccorso della nave che sta affondando. E basta.» Ritto a prua, Greywolf cominciò a gesticolare. «Devono fuggire», gridò. Le orche avevano cambiato rotta. Si erano allontanate dal Devilfish, dirette in mare aperto, verso la MS Artik. «Merda!» imprecò Anawak. Davanti alle barche che si stavano avvicinando balzò fuori una megattera, circondata da una corona di acqua luccicante. Per un momento rimase come immobile nell'aria e poi si lasciò cadere su un fianco. Anawak respirava affannosamente. In mezzo agli spruzzi vide le due barche avvicinarsi. «MS Artik, richiamate subito i vostri uomini. Subito! Qui ci pensiamo noi», esclamò. Shoemaker ridusse la velocità. Il Devilfish era ormai nei pressi del contorto ponte della Lady Wexham, cui si aggrappava una dozzina di uomini e donne. Ognuno si teneva disperatamente a qualcosa per non scivolare in acqua. Le onde si frangevano sul ponte, schiumando. Un altro piccolo gruppo si era messo al sicuro sulla piattaforma di avvistamento a poppa. Erano appesi al parapetto, quasi fossero scimmie, scossi dalle onde. Il Devilfish s'infilò tra il ponte e la piattaforma. Sotto lo zodiac splendevano il verde e il bianco del ponte mediano. Shoemaker guidò verso il ponte finché il bordo di gomma non ci sbatté contro. Una grande onda rag-
giunse la barca e la sollevò. Salirono lungo la torre del ponte come su un enorme ascensore. Per un momento, Anawak poté quasi toccare le mani tese delle persone. Guardò i volti terrorizzati, sui quali si dipinse una vaga speranza, poi il Devilfish tornò giù, seguito da un grido di delusione. «Sarà difficile», disse Shoemaker tra i denti. Anawak si guardò intorno, nervoso. Evidentemente le balene avevano perso interesse per la Lady Wexham. Si erano raggruppate davanti alle barche della MS Artik, che stavano effettuando una serie di goffe manovre diversive. Dovevano fare in fretta. Non potevano sperare che gli animali restassero lontani in eterno; e poi la Lady Wexham sprofondava sempre più. Un cavallone verde e frastagliato riportò in alto il Devilfish. Anawak vide passare davanti a sé la vernice che si sfogliava dalla torre del ponte. Greywolf saltò dalla barca e si aggrappò a una scaletta. L'acqua lo coprì fino al petto, poi l'onda defluì e lui rimase sospeso nell'aria, un collegamento vivente tra le persone sopra di lui e lo zodiac. Allungò verso l'alto la mano libera. «Sulle mie spalle», gridò. «L'uno dopo l'altro. Tenetevi aggrappati a me. Aspettate. Quando la barca sale, saltate.» Esitavano. Greywolf ripeté le indicazioni. Finalmente, una donna afferrò il suo braccio e, con movimenti incerti, si lasciò scivolare giù. Un momento dopo era aggrappata al colosso e si teneva alle sue spalle. Lo zodiac balzò in alto. Anawak riuscì a prendere la donna e a tirarla a bordo. «Il prossimo!» Finalmente l'operazione di salvataggio era cominciata. A uno a uno i naufraghi si aggrappavano all'ampia schiena di Greywolf e finivano a bordo del Devilfish. Anawak si domandava per quanto il mezzo indiano avrebbe avuto la forza di restare aggrappato alla scala. Sopportava il proprio peso e quello dei passeggeri, si teneva con una mano sola ed era costantemente immerso a metà nell'acqua, che lo strattonava in giù quando il mare rifluiva. Il ponte cigolava terribilmente. I materiali si deformavano, emettendo gemiti cavernosi. Le giunture metalliche si spaccavano, schioccando. Sul ponte era rimasto solo lo skipper, quando improvvisamente risuonò uno spaventoso stridio e la parte superiore del corpo di Greywolf sbatté duramente contro la parete. Lo skipper perse la presa e precipitò davanti a lui. Dall'altra parte del relitto, si sollevò la testa di una balena grigia. Greywolf lasciò il piolo della scala e balzò via. Non lontano da lui, sbuffando, riemerse lo skipper e, con poche, robuste bracciate; riuscì a raggiungere lo zodiac. Verso di lui si tesero alcune mani, che lo sollevarono a bordo. An-
che Greywolf aveva raggiunto lo zodiac, ma fu trascinato indietro da un cavallone. A pochi metri da lui, emerse una pinna dorsale. «Jack!» Anawak s'intrufolò in mezzo alla gente e raggiunse la poppa. Guardava le onde. La testa di Greywolf comparve tra i flutti. Sputò acqua, s'immerse e poi sbucò di colpo sulla superficie, proprio accanto al Devilfish. La pinna dorsale dell'orca si girò e si diresse verso di lui. Le braccia muscolose di Greywolf si sollevarono e colpirono lo scafo di gomma. L'orca sollevò dall'acqua il suo muso rotondo e splendente. Anawak afferrò Greywolf, altri lo aiutarono e, unendo le forze, gli uomini riuscirono a portare a bordo quel gigante alto due metri. La pinna dorsale descrisse un semicerchio e si diresse dalla parte opposta. Imprecando, Greywolf si liberò delle mani che lo volevano aiutare e con un colpo si scostò i lunghi capelli dal volto. Perché l'orca non l'ha attaccato? pensò Anawak. Poi rammentò quello che aveva detto Greywolf: «Io non ho paura dei cetacei. A me non fanno niente». C'era qualcosa di vero in quella sciocchezza? Ma subito dopo si rese conto che l'orca non poteva attaccare. Il ponte mediano, sommerso sotto lo zodiac, non le aveva lasciato sufficiente profondità. Nelle immediate vicinanze del Devilfish erano al sicuro dalle orche, almeno finché non si comportavano come le loro parenti sudamericane, che proseguivano la caccia anche nelle acque basse o addirittura all'asciutto. Fino all'affondamento della Lady Wexham restava loro un periodo di tregua che avrebbero dovuto usare in ogni modo. Risuonò un urlo collettivo. Un esemplare gigantesco di balena grigia si scagliò contro una delle barche della MS Artik che si stava avvicinando. Volarono macerie ovunque. L'altra fece ululare il motore, virò e fuggì. Anawak fissava il luogo in cui la balena aveva affondato l'imbarcazione e, con orrore, vide molti dorsi grigi che si muovevano dal luogo della disgrazia verso il Devilfish. Ci risiamo, pensò. Shoemaker era come paralizzato e guardava quella scena a occhi sbarrati. «Tom!» gridò Anawak. «Dobbiamo andare a prendere la gente a poppa.» «Shoemaker!» Greywolf digrignò i denti. «Che c'è? Ti si è gelato il culo?» Tremando, l'uomo riprese il timone e guidò il Devilfish verso la piatta-
forma di avvistamento. Un cavallone sollevò lo zodiac, lo strappò indietro e lo scaraventò direttamente verso la piattaforma. La poppa del Devilfish sbatté con violenza contro il parapetto al quale stavano aggrappati i superstiti. Dalla profondità rimbombò il rumore di materiale sottoposto a una tensione pazzesca. Anawak immaginò il bordo della parete che si strappava ulteriormente e le sovrastrutture che cadevano, l'una dopo l'altra. Shoemaker ansimava. Non riusciva a spingere il Devilfish sotto il parapetto per permettere a quelle persone di saltare giù. I dorsi grigi s'inarcavano verso la Lady Wexham, in piena rotta di collisione. Di nuovo il relitto vibrò a causa di un colpo terribile. Una donna venne strappata via dal parapetto e cadde in acqua, urlando. «Shoemaker, maledetto idiota!» gridò Greywolf. In molti si fecero avanti e tirarono a bordo la donna. Anawak si chiedeva per quanto tempo ancora la Lady Wexham avrebbe retto. Non ce la faremo, pensò, disperato. In quell'istante accadde un miracolo. Ai lati della nave si levarono due dorsi imponenti. Anawak ne riconobbe subito uno, per via della fila di cicatrici biancastre, a forma di croce, che correva lungo la colonna vertebrale. All'animale, che evidentemente si era procurato quelle ferite quand'era molto giovane, avevano dato il nome di Scarback. Scarback era una balena grigia molto vecchia, che aveva già ampiamente superato l'età media della sua specie. Il dorso dell'altra balena non mostrava segni particolari. I due animali se ne stavano tranquilli nell'acqua e si lasciavano cullare dalle onde. L'una dopo l'altra scaricarono rumorosamente il loro getto, producendo una nuvola di sfavillanti goccioline. Il fatto singolare non fu tanto l'apparizione delle due balene grigie, quanto il comportamento delle orche, che s'immersero immediatamente. Quando i loro dorsi ricomparvero, si erano allontanate di un bel pezzo. Circondavano sempre la nave, ma tenevano una rispettosa distanza. Qualcosa diceva ad Anawak che non aveva nulla da temere dai nuovi arrivati. Al contrario: essi avevano cacciato gli aggressori. Quanto sarebbe durata la tregua era impossibile a dirsi, ma la svolta inattesa degli avvenimenti aveva permesso di tirare il fiato. Anche Shoemaker era riuscito a dominare il panico e stavolta guidò con sicurezza lo zodiac sotto il parapetto. Anawak vide avvicinarsi una grande onda e si preparò. Era l'ultima possibilità. Lo zodiac balzò in alto.
«Saltate!» urlò. «Ora!» Il cavallone che aveva sollevato il Devilfish si riabbassò. Le persone che erano riuscite a saltare nello zodiac caddero l'una sopra l'altra. Si levarono grida di dolore. Chi era caduto in acqua riuscì ad arrivare a bordo grazie all'aiuto degli altri passeggeri. Infine riuscirono a raccoglierli tutti. Ormai non restava che andarsene. No, non tutti erano in salvo. D'un tratto si accorsero che c'era ancora un bambino. Piangeva, le mani disperatamente aggrappate alla ringhiera. «Salta!» gridò Anawak, allargando le braccia. «Non avere paura.» Greywolf gli si avvicinò. «Alla prossima ondata lo prendo.» Anawak si guardò alle spalle. Una gigantesca montagna d'acqua rotolava verso di loro. «Credo che non dovrai aspettare molto», disse. Dalla profondità risuonarono ancora i rumori dello scafo che si stava sfasciando. Le due balene grigie tornarono lentamente a immergersi. La nave si riempiva sempre più velocemente d'acqua gorgogliante; poi, improvvisamente, il ponte sparì in un vortice e la poppa si alzò. La prua della Lady Wexham cominciò ad affondare. «Più vicini, presto!» gridò Greywolf. In qualche modo, Shoemaker riuscì a dar seguito all'ordine. La prua del Devilfish grattò contro il ponte cui era aggrappato il ragazzino, che strillava a pieni polmoni. Spintonando tutti, Greywolf si precipitò a poppa. Nello stesso istante, l'onda sollevò lo zodiac e sul parapetto si gonfiarono cortine di schiuma. Greywolf si sporse e riuscì ad afferrare il bambino, ma poi il Devilfish sbandò, facendo perdere l'equilibrio a Greywolf, che cadde tra le file di sedili. Però le sue braccia si stendevano in alto e le mani forti erano serrate come una morsa intorno alla vita del piccolo. Anawak guardò verso il mare. Nel punto in cui, fino a pochi secondi prima, c'era il bambino aggrappato al parapetto, adesso c'erano soltanto dei mulinelli. Vide la Lady Wexham sparire negli abissi, poi lo zodiac cadde nell'incavo dell'onda. Il salto fu tale che ad Anawak si rivoltò lo stomaco, come se fosse su un ottovolante. Shoemaker partì a tutto gas. Le onde lunghe e regolari che arrivavano dal Pacifico non potevano diventare pericolose per il Devilfish, anche se era strapieno, a meno che lo skipper non commettesse qualche errore. Ma Shoemaker sembrava aver ritrovato la sua forma migliore. Nei suoi occhi non c'era più il panico. Saltarono sopra una cresta dell'onda e la superarono, prendendo la rotta verso la costa. Anawak fissò la MS Artik e vide che la seconda barca era sparita. Poi, tra
le onde, scorse la pinna caudale di una megattera. Gli sembrò quasi che stesse facendo loro un cenno d'addio. Non sarebbe più stato capace di guardare quella cosa senza pensare al peggio. I messaggi radio rivelavano che era scoppiato l'inferno. Pochi minuti dopo, il Devilfish superò la striscia d'isole che divideva il mare aperto dalla laguna. Almeno il fatto di non aver perso anche il Devilfish riuscì a rasserenare un po' Davie. Lo zodiac, stracarico come una nave di profughi, era legato strettamente al molo. Lessero i nomi dei dispersi. Alcuni dei presenti svennero. Poi la Davies Whaling Station si svuotò, in fretta come si era riempita. Praticamente tutti avevano mostrato segni d'ipotermia, così la maggior parte si fece accompagnare da amici e congiunti alle ambulanze in attesa. Altri avevano ferite gravi, ma non era dato sapere quando ci sarebbe stato un elicottero disponibile per trasportarli all'ospedale di Victoria. Dalla radio continuavano ad arrivare notizie terribili. Davie era stato bombardato da accuse, insinuazioni e minacce da parte dei passeggeri. Nel frattempo era comparso Roddy Walker, il fidanzato di Susan, e si era messo a urlare che avrebbe citato in tribunale il responsabile della stazione. Sembrava che a nessuno interessasse chi fosse il vero responsabile dell'accaduto e la spiegazione più semplice - senza motivo, i cetacei avevano aggredito gli esseri umani - non fu accettata quasi da nessuno. Le balene non facevano cose del genere. Le balene erano pacifiche. Le balene erano meglio degli uomini. Alcuni, a Tofino, arrivarono a incolpare i whale watcher, come se fossero stati loro a uccidere a sangue freddo i passeggeri del Blue Shark e della Lady Wexham, idioti che correvano rischi inutili e che erano usciti in mare con navi malandate. In effetti la Lady Wexham aveva un bel po' di anni sulle spalle, ma ciò non aveva mai ridotto la sua capacità di tenere il mare. Però, al momento, nessuno voleva sentire scuse. Erano riusciti a riportare a casa la maggior parte dell'equipaggio e dei passeggeri. In molti avevano ringraziato Anawak e Shoemaker, ma il vero eroe era Greywolf. Riusciva a essere ovunque contemporaneamente: parlava, ascoltava, organizzava e si offriva di accompagnare personalmente con l'ambulanza. Agli occhi di Anawak, quella specie di Madre Teresa alta due metri offriva uno spettacolo disgustoso. Imprecò tra i denti, ma non aveva tempo per occuparsi di Greywolf. Sentiva che la situazione gli stava sfuggendo di mano.
Certo, Greywolf aveva rischiato la vita, e loro avrebbero dovuto ringraziarlo in ginocchio. Ma Anawak non ne aveva la minima voglia: quell'improvvisa esplosione di altruismo era molto sospetta. L'impegno di Greywolf per i passeggeri della Lady Wexham non era di certo dovuto al suo amore per l'umanità, di questo Anawak era certo. In fondo, per quel mezzo indiano la giornata era stata più che positiva. La gente gli credeva, si fidava di lui. Di lui, che aveva predetto una fine ingloriosa per il turismo imperniato sull'osservazione delle balene. Ed era successo proprio così. Non li aveva forse messi in guardia? Quanti testimoni avrebbero confermato la lucida capacità di analisi di Greywolf? Non poteva desiderare un palcoscenico migliore. Anawak sentì crescere la rabbia. Di pessimo umore, tornò nella stazione deserta. Bisognava scoprire la causa del comportamento degli animali! Rammentò la vicenda della Barrier Queen. Roberts gli doveva mandare il rapporto. Ne aveva assolutamente bisogno. Prese il telefono e si mise in contatto con la società armatrice. Gli rispose la segretaria di Roberts. Il managing director era in riunione e non poteva essere disturbato. Anawak spiegò il suo ruolo nell'ispezione della Barrier Queen e fece intendere che c'era una certa urgenza. La donna ripeté che la riunione non poteva essere interrotta. Sì, aveva sentito del disastro. Era terribile. S'informò delle condizioni di Anawak e, in tono quasi materno, espresse tutta la sua preoccupazione, ma non gli passò Roberts. Doveva riferirgli qualcosa? Anawak esitò. Roberts gli aveva promesso il rapporto in via riservata e lui non intendeva metterlo in difficoltà. Forse era meglio non menzionare quell'accordo. Poi gli venne in mente una cosa. «Si tratta dei mitili che erano attaccati alla poppa della Barrier Queen», disse. «Dei mitili e probabilmente di altre sostanze e forme di vita. Ne abbiamo mandato alcuni campioni all'istituto di Nanaimo. Laggiù hanno bisogno di rifornimenti.» «Di rifornimenti?» «Di altri campioni. Presumo che nel frattempo la Barrier Queen sia stata esaminata da cima a fondo.» «Sì, certo», disse la segretaria in tono meravigliato. «Ora dov'è la nave?» chiese Anawak. «Nel bacino di carenaggio.» Fece una pausa. «Riferirò a Mister Roberts che è urgente. Dove dobbiamo mandare i campioni?» «All'istituto. All'attenzione della dottoressa Sue Oliviera. Grazie, lei è molto gentile.»
«Mister Roberts la chiamerà appena possibile.» Poi la donna riagganciò. E questo che significa? Improvvisamente le ginocchia di Anawak si misero a tremare. La tensione delle ore precedenti stava lasciando il posto allo sfinimento. Si appoggiò al banco e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, vide davanti a sé Alicia. «Che ci fai qui?» le chiese seccamente. Lei scrollò le spalle. «Sto bene. Non devo farmi visitare.» «E invece devi. Sei caduta in acqua e da queste parti l'acqua è dannatamente fredda. Va' all'ambulanza prima che ci accusino di averti fatto venire un raffreddore.» «Ehi!» Lo fulminò con un'occhiata. «Io non ti ho fatto niente, è chiaro?» Anawak si staccò dal bancone, le girò le spalle e si avvicinò alla finestra posteriore. Il Devilfish era ormeggiato alla banchina come se non fosse successo nulla. Cominciava a piovigginare. «Cosa volevi ottenere con quella sciocchezza del tuo 'ultimo giorno' a Vancouver Island?» chiese. «Non avrei dovuto prenderti con me. Ma tu perché mi hai fatto una testa così...» «Io...» iniziò Alicia, poi s'interruppe. «Be', sì, volevo assolutamente venire. Sei arrabbiato?» Anawak si girò. «Odio essere preso in giro.» «Mi dispiace.» «No, non ti dispiace. Ma fa lo stesso. Perché non sparisci e ci lasci fare il nostro lavoro?» Fece una smorfia. «Va' con Greywolf che vi prende tutti per la manina.» «Mio Dio, Leon!» Alicia gli si avvicinò e lui si scostò. «Volevo assolutamente venire in mare con te. Mi dispiace di averti mentito. Okay, sono qui per un paio di settimane, e non vengo da Chicago, ma studio Biologia all'University of British Columbia. Che cosa devo fare? Pensavo che alla fine avresti trovato divertente questa balla...» «Divertente?» gridò Anawak. «Ma hai le rotelle a posto? Che c'è di divertente nell'essere presi per i fondelli?» Gli stavano saltando i nervi, ma non poteva farci nulla e gridava contro di lei, benché sapesse che aveva ragione. Quella ragazza non gli aveva fatto nulla. Proprio nulla. Alicia indietreggiò, sussultando. «Leon...» «Perché non mi lasci in pace? Vattene.» Si aspettava che se ne andasse, invece rimase lì. Anawak si sentiva stordito. La stanza girava. Per un momento ebbe paura che le gambe gli cedessero, poi improvvisamente tutto ritornò normale e mise a fuoco Alicia che
gli porgeva qualcosa. «Cos'è?» borbottò. «Una videocamera.» «Questo lo vedo. Ma perché?» «Prendila.» Lui allungò la mano, prese la videocamera e la osservò. Era una Sony Handycam molto costosa e con la copertura impermeabile usata dai turisti, ma anche dagli scienziati. «E allora?» Alicia allargò le braccia. «Pensavo che volessi scoprire cos'è successo.» «Non sapevo che la cosa ti riguardasse.» «Smettila una buona volta di riversare su di me la tua rabbia!» sbottò lei. «Là fuori avrei potuto morire, e questo è successo solo un paio d'ore fa. Potrei essere sulla tua ambulanza a urlare, e invece cerco di aiutarti. Vuoi scoprire cos'è successo o no?» Anawak respirò profondamente. «Okay.» «Hai visto quali animali hanno attaccato la Lady Wexham?» «Sì, balene grigie e megattere...» «No», Alicia scosse impaziente la testa. «Non quali specie. Quali individui! Sei riuscito a identificarli?» «È successo tutto troppo in fretta.» Alicia rise. Era una risata amara, ma pur sempre una risata. «La donna che abbiamo tirato fuori dall'acqua era con me sul Blue Shark. Era sotto shock, completamente fuori di sé. Tuttavia, quando voglio qualcosa non me la lascio scappare...» «Quindi...?» «... Quindi le ho visto questa videocamera appesa al collo. Era assicurata bene, perciò non è andata persa neppure in acqua. In ogni caso, quando voi siete tornati in mare, ho parlato un po' con la donna e lei mi ha detto che ha filmato per tutto il tempo, anche quando si è avvicinato Greywolf! In un certo senso era profondamente impressionata da lui, così ha continuato a riprenderlo.» Fece una pausa. «Se ricordo bene, dal nostro punto di vista, la Lady Wexham era alle spalle di Greywolf.» Anawak annuì e d'un tratto comprese dove voleva arrivare Alicia. «Ha ripreso l'attacco», mormorò. «Ha filmato soprattutto le balene che ci hanno attaccato. Non so se sarai in grado d'identificarle, ma tu vivi qui e conosci gli animali. È una ripresa di buona qualità», confermò Alicia. «Immagino che ti sia dimenticata di chiedere il permesso di tenere la vi-
deocamera», borbottò Anawak. Alicia lo guardò con aria provocatoria. «E allora?» Lui si girò la videocamera tra le mani. «Va bene. Lo guardo.» «Lo guardiamo», esclamò Alicia. «In questa storia voglio esserci anch'io. E, santo cielo, non chiedermi perché. È semplicemente così, okay?» Anawak la fissò. «Inoltre, da adesso in poi, sarai gentile con me.» Lui espirò lentamente e, con le labbra tirate, osservò la videocamera. Doveva ammettere che, fino a quel momento, quella di Alicia era la migliore idea che fosse venuta fuori. «Ci proverò», disse. 12 aprile Trondheim, Norvegia L'invito raggiunse Johanson mentre si stava preparando per andare al lago. Dopo il suo ritorno da Kiel, aveva raccontato a Tina dell'esperimento nel simulatore di abissi marini, però era stata una conversazione breve. Tina era impegnatissima in diversi progetti e il tempo che le rimaneva lo trascorreva con Kare Sverdrup. Johanson aveva l'impressione che non fosse concentrata su quella faccenda. Sembrava totalmente presa da qualcosa che non aveva a che fare col suo lavoro, ma preferì evitare di farle domande. Qualche giorno dopo, Bohrmann lo chiamò per comunicargli le ultime novità. A Kiel avevano continuato gli esperimenti sui vermi. Johanson, che aveva già preparato le valigie e stava uscendo di casa, decise che, prima di uscire, avrebbe potuto fare una telefonata a Tina e spiegarle cosa stava succedendo. Ma non riuscì a pronunciare neppure una parola. «Non puoi venire da noi?» gli chiese subito lei. «Dove? All'istituto?» «No, al centro di ricerca della Statoil. Ci sono in visita i capi progetto. Da Stavanger.» «E che cosa dovrei fare? Raccontare loro una storia dell'orrore?» «Quello l'ho già fatto io. Ora vogliono i particolari. Ho proposto che sia tu a spiegarli», disse Tina. «Perché proprio io?» chiese Johanson. «Perché no?»
«Avete montagne di analisi», disse Johanson. «Potrei solo ripetere quello che altri hanno già scoperto.» «Potresti fare di più», ribatté Tina. «Potresti... esprimere le tue sensazioni.» Per un attimo, lui fu incapace di parlare. «Sanno che non sei un esperto di ricerche petrolifere, e tantomeno un vero specialista di vermi e simili», proseguì concitata. «Ma tu all'NTNU hai un'ottima fama, sei neutrale e non compromesso come noi. Noi giudichiamo dal nostro punto di vista.» «Voi giudicate secondo l'ottica della fattibilità.» «Non solo! Guarda che alla Statoil ci sono molte persone, ognuna delle quali è in grado di determinare al meglio una cosa specifica e...» «Idioti specializzati, appunto.» «Per niente!» Tina era seccata. «Con gli idioti specializzati questi progetti non si possono fare. Qui tutti sono troppo coinvolti. Mio Dio, come posso esprimerlo... Abbiamo bisogno di più opinioni dall'esterno.» «Dei vostri affari io non capisco nulla», disse Johanson. «Naturalmente non ti costringe nessuno.» Tina sembrava sempre più nervosa. «Puoi anche lasciar perdere.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Va bene, non ho intenzione di lasciarti in questa situazione. Tra l'altro ci sono anche alcune novità da Kiel e...» «Posso considerarlo un sì?» «Va bene! Quand'è l'incontro?» «Ce ne saranno diversi, d'incontri. In effetti siamo tutti molto presi.» «Va bene. Oggi è venerdì. Il fine settimana non ci sono e lunedì potrei...» «Questo è...» lo interruppe lei. «Veramente sarebbe...» «Sì?» disse Johanson, tormentato dai peggiori presentimenti. Lei lasciò trascorrere qualche secondo. «Cosa avevi intenzione di fare durante il fine settimana?» chiese poi, in tono colloquiale. «Saresti andato al lago?» «Brillante intuizione. Vuoi venire con me?» Lei rise. «Perché no?» «Oh, oh! E Kare che ne pensa?» «Non m'interessa. Che cosa dovrebbe pensare?» Rimase in silenzio per qualche istante, poi sbottò: «Maledizione!» «Se tu fossi brava in tutto come nel tuo lavoro...» mormorò Johanson. Forse lei non lo sentì neppure.
«Sigur, per favore! Non puoi rinviare la tua gita? Ci troviamo tra due ore e pensavo... Non sei tanto lontano da qui, non sarà una cosa lunga. Ti libererai in un batter d'occhio. Potresti partire già stasera.» «Io...» «Dobbiamo andare avanti con questa faccenda. Abbiamo dei tempi da rispettare, sai che costi ci sono, e ci sono già i primi rallentamenti soltanto perché...» «Va bene, vengo!» «Sei un tesoro.» «Devo venirti a prendere?» «No, sarò già là. Sono così felice, grazie! È molto gentile da parte tua.» E riagganciò. Johanson lanciò un'occhiata malinconica ai suoi bagagli. Quando entrò nella grande sala del centro di ricerca Statoil, si rese conto che la tensione nell'aria era quasi tangibile. Tina Lund era seduta in compagnia di altri tre uomini a un enorme, lucido tavolo nero. Il sole del tardo pomeriggio dava un po' di calore all'interno, arredato con vetro e acciaio e dipinto con tonalità scure. Le pareti erano letteralmente tappezzate da diagrammi e disegni tecnici. «Eccolo», annunciò la receptionist, consegnando Johanson ai presenti come se fosse un regalo di Natale. Uno degli uomini balzò in piedi e si diresse verso di lui con la mano tesa. Aveva corti capelli neri e portava occhiali alla moda. «Sono Thor Hvistendahl, vice direttore del centro di ricerca Statoil. Ci scusi se abbiamo approfittato del suo tempo con un preavviso così breve, però Tina Lund ci ha assicurato che lei non aveva in programma niente di meglio.» Johanson lanciò a Tina un'occhiata inequivocabile, poi strinse la mano all'uomo. «In effetti non avevo nulla in programma», disse. Tina sorrise tra sé e lo presentò agli altri. Come Johanson si era aspettato, uno di essi era giunto lì dalla sede centrale della Statoil, a Stavanger. Si trattava di un giovane tarchiato coi capelli rossi e con gli occhi chiari, dall'espressione amichevole. Era il rappresentante del management board, nonché un membro del comitato esecutivo. «Finn Skaugen», tuonò, stringendogli la mano. Il terzo uomo, completamente calvo, aveva un'espressione seria e profonde rughe intorno alla bocca; in più, era l'unico a portare la cravatta. Si
trattava del diretto superiore di Tina. Si chiamava Clifford Stone, proveniva dalla Scozia ed era il capo progetto delle nuove esplorazioni. Stone fece un gelido cenno di saluto a Johanson. Non sembrava particolarmente entusiasta della presenza del biologo, ma forse era ombroso di natura. Aveva la faccia di chi non ride mai. Johanson scambiò qualche convenevole, rifiutò un caffè e si sedette. Hvistendahl tirò davanti a sé un pacco di fogli. «Veniamo subito alla faccenda», disse. «Conosce la situazione. Non siamo in grado di valutare con esattezza se siamo davvero impantanati o se la nostra reazione è stata esagerata. È al corrente delle norme cui si deve attenere l'industria petrolifera?» «Quelle emerse dalla Conferenza del mare del Nord?» azzardò Johanson. Hvistendahl annuì. «Sì, tra le altre. Siamo sottoposti a una serie di restrizioni. Da quelle connesse alle leggi per la tutela ambientale alle possibilità tecniche. Ma naturalmente sui punti non regolamentati bisogna fare i conti con l'opinione pubblica. In breve, dobbiamo essere cauti in tutto. Greenpeace e altre organizzazioni ci stanno addosso come le zecche, ma va bene così. Conosciamo i rischi di una trivellazione, e sappiamo che cosa ci aspetta se prendiamo in considerazione un giacimento e calcoliamo i tempi.» «Vuol dire che ce la possiamo cavare da soli», disse Stone. «In genere è così», annuì Hvistendahl. «Comunque non tutti i progetti arrivano alla fase esecutiva, e questo per motivi che può ben immaginare: la composizione dei sedimenti è instabile; corriamo il rischio di trivellare una bolla di gas; alcuni impianti non vanno bene a causa delle correnti e così via. In genere, però, riusciamo a capire in fretta che cos'è possibile fare. Tina esegue i test al Marintek; noi facciamo le solite prove, andiamo a vedere là sotto, facciamo ulteriori perizie, poi costruiamo.» Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Ma stavolta c'è quel verme», disse. Hvistendahl fece un sorriso tirato. «Per così dire.» «Ammesso che le bestioline giochino qualche ruolo», borbottò Stone. «A mio avviso non ne giocano nessuno.» «Come fa a saperlo?» «Perché i vermi non sono una novità. Si trovano ovunque.» «Non come questi.» «Perché? Perché rosicchiano gli idrati?» Stone fulminò Johanson, pronto
ad attaccare. «Ma i suoi amici di Kiel dicono che non c'è nulla di cui preoccuparsi, giusto?» «Non hanno detto questo. Hanno detto...» «Che i vermi non possono destabilizzare il ghiaccio.» «Lo divorano.» «Ma non lo possono destabilizzare!» Skaugen si schiarì la gola. Sembrò un'eruzione. «Credevo avessimo invitato il dottor Johanson perché volevamo sentire le sue valutazioni», dichiarò, guardando di traverso Stone. «E non per comunicargli quello che crediamo noi.» Stone si morse il labbro inferiore e fissò il piano del tavolo. «Se ho capito bene, nel frattempo Sigur ha ottenuto nuovi risultati», intervenne Tina, sorridendo con aria incoraggiante. Johanson annuì. «Posso farvi un breve riassunto.» «Animaletti di merda», borbottò Stone. «Probabile. Al Geomar ne hanno messi altri sei sul ghiaccio e tutti hanno iniziato a scavare. Due altri esemplari sono stati collocati su uno strato di sedimenti che non conteneva idrati e loro non hanno fatto nulla. Non hanno divorato e non hanno scavato, tuttavia erano irrequieti.» «Che cos'è successo a quelli che hanno scavato il ghiaccio?» «Sono morti.» «A che profondità sono arrivati?» «Hanno raggiunto la bolla di gas... Tutti tranne uno.» Johanson guardò Stone, che lo fissava da sotto le sopracciglia aggrottate. «Ma questo non porta a conclusioni definitive sul loro comportamento in natura. Sulla scarpata continentale, gli strati di idrati sono spessi dozzine, centinaia di metri. Gli strati nel simulatore misurano al massimo due metri. Bohrmann ritiene che nessuno dei vermi possa arrivare oltre i tre o quattro metri, ma questo è difficile da verificare nelle circostanze date.» «Perché i vermi muoiono?» chiese Hvistendahl. «Perché hanno bisogno di ossigeno e, nei buchi, l'ossigeno è scarso.» «Ma anche gli altri vermi scavano nel terreno», obiettò Skaugen. Poi proseguì con un sorriso: «Come vede ci siamo dati da fare per non apparire completamente idioti davanti a lei». Johanson restituì il sorriso. Skaugen gli piaceva. «Quegli animali s'infilano nei sedimenti», disse. «E i sedimenti sono forati. All'interno c'è abbastanza ossigeno. Inoltre è difficile che un animale scavi così in profondità. Negli idrati di metano, invece, è come se fossero infilati nel cemento. Pri-
ma o poi soffocano.» «Capisco. Conosce altri animali che si comportano così?» «Intende animali votati al suicidio?» «Si tratta di un suicidio?» «Il suicidio presuppone un'intenzione», disse Johanson. «E i vermi non agiscono con intenzione. Sono condizionati dal loro comportamento.» «Ci sono animali che si suicidano?» «Certo che ci sono», disse Stone. «Quei maledettissimi lemming si buttano in mare.» «Non lo fanno», disse Tina. «Certo che lo fanno!» Tina gli mise una mano sul braccio. «Tu paragoni le mele alle pere, Clifford. Per molto tempo si è accettata l'idea che i lemming si suicidassero collettivamente, perché una cosa simile sembrava interessante e fuori dal comune. Poi si è osservato meglio il fenomeno e si è scoperto che i lemming sono semplicemente cretini.» «Cretini?» Stone guardò Johanson. «Come sono cretini gli uomini quando sono in gruppo. I lemming che sono davanti vedono che là c'è una scarpata, ma vengono spinti da quelli dietro, come se fossero a un concerto pop. Si spingono l'un l'altro in mare, finché non riescono a fermarsi.» «Ci sono animali che si sacrificano. Questo è altruismo», intervenne Hvistendahl. «Sì, ma l'altruismo ha sempre un senso», ribatté Johanson. «Le api mettono in conto di morire dopo la puntura, perché il pungiglione serve per la protezione dello sciame, specialmente della regina.» «Quindi non c'è nessuna intenzione nel comportamento dei vermi?» «No.» «Santo cielo!» sbuffò Stone. Voi state cercando di trasformare questi vermi in mostri che possono impedire la costruzione di stazioni di estrazione sul fondale marino. È stupido!» «Ancora una cosa», riprese Johanson, senza prestare attenzione al capo progetto. «Il Geomar vorrebbe fare delle ricerche sul campo. Naturalmente in collaborazione con la Statoil.» «Interessante.» Skaugen si chinò in avanti. «Vogliono mandare qualcuno?» «Una nave oceanografica. La Sonne.» «È molto gentile da parte loro, ma potrebbero usare la Thorvaldson per
le ricerche.» «Stavano già preparando una spedizione. Inoltre la Sonne è tecnologicamente più avanzata della Thorvaldson. Per loro si tratta soprattutto di verificare alcuni dati ottenuti col simulatore», disse Johanson. «Quali dati?» «L'aumento della concentrazione di metano. I vermi, scavando, hanno liberato del gas che è finito in acqua. Inoltre vorrebbero dragare qualche quintale di idrati. Insieme coi vermi. Intendono fare osservazioni su grande scala.» Skaugen annuì e intrecciò le dita. «Finora abbiamo parlato solo dei vermi», disse. «Ha visto quella sinistra ripresa video?» «Di quella cosa in mare?» Skaugen sorrise cupamente. «La cosa? Suona come un horror. Che cosa ne pensa?» «Non so se i vermi debbano essere messi in relazione con quella... con quell'essere.» «E che cosa pensa che sia?» «Non ne ho idea», rispose Johanson. «Lei è un biologo. Le viene in mente qualcosa?» «Bioluminescenza. Lo fa pensare l'elaborazione del materiale video fatta da Tina. Gli esseri viventi più grandi non hanno bioluminescenza, almeno per quanto riguarda i mammiferi.» «Tina Lund ha alluso alla possibilità che si tratti di un calamaro gigante.» «Sì, ne abbiamo discusso», disse Johanson. «Ma è inverosimile. Struttura e superficie del corpo non permettono una simile conclusione. Inoltre presumiamo che gli Architeuthis vivano in tutt'altra regione.» «Allora che cos'è?» «Non lo so.» Calò il silenzio. Stone giocherellava nervosamente con una penna. «Posso chiedere che tipo di stazione state progettando?» riprese Johanson con tono riflessivo. Skaugen gettò un'occhiata a Tina. Lei scrollò le spalle. «Ho detto a Sigur che stiamo pensando a un impianto sottomarino. E che non sappiamo ancora se si potrà realizzare.» «Che cosa sa di tali strutture?» chiese Skaugen rivolto a Johanson. «Conosco i SUBSIS», rispose Johanson. «Da poco.» «Ne sa parecchio», commentò Hvistendahl. «Sta diventando uno specia-
lista, dottor Johanson. Se farà altre tre o quattro riunioni con noi...» «Il SUBSIS è un primo stadio», sbuffò Stone. «Noi siamo ben oltre il SUBSIS. Possiamo andare più in profondità e i sistemi di sicurezza scongiurano ogni rischio.» «Il nuovo sistema è progettato dalla FMC Kongsberg, una ditta che elabora soluzioni per gli abissi», spiegò Skaugen. «Si tratta di uno sviluppo del SUBSIS. In verità, non abbiamo dubbi sull'istallazione di questi sistemi. Siamo solo indecisi se portare l'oleodotto a una delle piattaforme in superficie oppure farlo arrivare fino a terra. In entrambi i casi avremmo grandi distanze e dislivelli da superare.» «Non c'è anche una terza possibilità?» chiese Johanson. «Non si potrebbe usare una nave di produzione che galleggi proprio sopra la stazione?» «Sì, ma quest'ultima sarebbe sempre sul fondo», disse Hvistendahl. «Come ho già detto, sappiamo valutare i rischi, almeno finché sono rischi definibili», proseguì Skaugen. «Coi vermi, entrano in gioco fattori che non conosciamo e non possiamo spiegare. Forse ha ragione Clifford, e potrebbe essere davvero un'esagerazione ritardare i tempi solo perché non riusciamo a catalogare una nuova specie di vermi, oppure perché qualcosa di sconosciuto nuota davanti a un obiettivo. Ma, finché non abbiamo certezze, dobbiamo muoverci con cautela e fare tutto il possibile per non correre rischi. Non le stiamo chiedendo di prendere una decisione al nostro posto, dottor Johanson. Però le chiedo: che cosa farebbe al nostro posto?» Johanson si sentiva a disagio. Stone lo fissava con crescente ostilità. Hvistendahl e Skaugen sembravano interessati, mentre Tina non tradiva la minima emozione. Avremmo dovuto metterci d'accordo prima, pensò. Ma Tina non aveva cercato di accordarsi con lui. Forse preferiva così. Forse voleva che fosse lui a mettere un freno al progetto. O forse no. Appoggiò le mani sul tavolo. «In linea di massima, costruirei la stazione», disse. Skaugen e Tina lo guardarono, sbalorditi. Hvistendahl aggrottò la fronte, mentre Stone si appoggiò allo schienale con un'espressione di trionfo. Johanson lasciò passare qualche secondo poi continuò: «Sì, la costruirei, ma solo dopo ulteriori ricerche del Geomar e dopo un suo nulla osta. Sulla creatura del video difficilmente avremo altre informazioni. Non sono nemmeno sicuro che ce ne dobbiamo occupare. Decisivo, invece, è comprendere quale effetto potrebbe avere sulla stabilità della scarpata conti-
nentale l'arrivo in massa di una specie finora sconosciuta di vermi che divora gli idrati. E anche i rischi per la stabilità che possono derivare dalle continue perforazioni. Finché tutto questo non sarà chiaro, il mio consiglio è congelare il progetto». Stone serrò le labbra. Tina sorrise. Skaugen scambiò uno sguardo con Hvistendahl. Poi guardò Johanson negli occhi e annuì. «La ringrazio, dottor Johanson. Grazie per il suo tempo.» Più tardi, quando Johanson aveva già caricato il suo fuoristrada e stava facendo un giro in casa per controllare che fosse tutto a posto, qualcuno bussò alla sua porta. Era Tina. Aveva appena iniziato a piovere e lei aveva i capelli come incollati alla testa. «È andata bene.» «Davvero?» Johanson si fece di lato per permetterle di passare. Lei entrò, si scostò i capelli bagnati dalla fronte e annuì. «In fondo, Skaugen aveva già deciso. Voleva solo la tua benedizione.» «E chi sono io, per benedire i progetti della Statoil?» «Ti ho già detto che hai un'ottima fama. Ma per Skaugen la questione va oltre. Dovrà assumersi delle responsabilità, e tutti gli esperti lavorano per la Statoil oppure sono in qualche modo collegati con le multinazionali, quindi devono essere considerati di parte. Voleva qualcuno che non giocasse sottobanco e tu sei fuori da questo vespaio e completamente disinteressato alla messa in opera della stazione.» «Allora Skaugen ha congelato il progetto?» «Finché il Geomar non avrà chiarito la situazione.» «Accidenti!» «Gli piaci.» «Anche lui mi piace.» «Sì, la Statoil si può considerare fortunata ad avere al vertice uno come lui.» Tina era rimasta nell'ingresso e teneva le braccia abbandonate lungo i fianchi. Benché fosse sempre in movimento e sicura di sé, in quel momento appariva stranamente indecisa. Frugò con gli occhi la stanza. «Dov'è il tuo bagaglio?» «Perché?» «Non volevi andare al lago?» «Il bagaglio è in macchina. Hai avuto fortuna, stavo per uscire di casa.» La fissò. «Posso fare ancora qualcosa per te, prima di potermi tranquillamente ritirare nella mia solitudine? E ti assicuro che stavolta parto! Basta
rinvii.» «Non volevo fermarti. Volevo solo raccontarti cosa aveva deciso Skaugen e...» «Molto gentile da parte tua.» «E chiederti se la tua offerta è ancora valida.» «Quale?» chiese lui, benché lo sapesse benissimo. «Mi avevi proposto di venire con te.» Johanson si appoggiò alla parete vicino al guardaroba. Improvvisamente si vide piombare addosso una montagna di problemi. «Ti ho anche chiesto che cosa ne pensa Kare.» Tina scosse bruscamente la testa. «Non devo chiedere il permesso a nessuno, se è questo che intendi.» «No, non intendevo questo. Semplicemente non voglio equivoci.» «Non ce ne saranno», disse lei, convinta. «Se voglio andare al lago, è una decisione esclusivamente mia.» «Non mi sembra il caso...» L'acqua le scendeva dai capelli e le scorreva sul viso. «Allora perché l'hai proposto?» chiese. Già, perché? si chiese Johanson. Perché mi sarebbe piaciuto. Però una cosa così, senza mandare tutto all'aria. Non si sentiva minimamente obbligato nei confronti di Kare Sverdrup. Ma l'improvvisa disponibilità di Tina ad accompagnarlo al lago lo irritava. Fino a qualche settimana prima, tra loro c'erano state solo conversazioni sporadiche e appuntamenti a pranzo che facevano parte di un flirt recitato con ironia e privo di qualsiasi sbocco. Ma quello che stava accadendo non faceva parte della solita recita. Di colpo capì che cosa lo disturbava. Nello stesso istante, comprese perché negli ultimi giorni Tina era stata così distratta nel lavoro. «Se voi due avete dei problemi, lasciami fuori dal gioco», borbottò. «Capito? Puoi venire, ma io non sono qui per mettere Kare sotto pressione.» «Forse la tua immaginazione si è spinta un po' troppo in là», disse Tina. «Va bene. Forse hai ragione. Lasciamo perdere.» «Sì.» «Devo riflettere.» «Fallo.» Una pausa di silenzio. «Va bene», disse infine Johanson. Si chinò in avanti, le diede un bacio leggero sulla guancia e la spinse gentilmente fuori. Poi chiuse la porta alle
loro spalle. Avrebbe fatto la maggior parte del tragitto col buio e sotto la pioggia, ma in fondo preferiva così. Avrebbe ascoltato Finlandia di Sibelius. Sibelius e le tenebre. Sarebbe stato perfetto. «Ritorni lunedì?» gli chiese Tina, mentre si avviavano alla macchina. «Forse domenica pomeriggio.» «Possiamo sentirci per telefono.» «Certo. Cos'hai in mente di fare?» Lui scrollò le spalle. «Il lavoro non mi manca.» Si trattenne dal fare un'altra domanda su Kare Sverdrup. Ma Tina disse: «Kare è via tutto il fine settimana. È dai suoi genitori». Johanson aprì la portiera del guidatore e si fermò. «Non devi lavorare sempre.» Lei sorrise. «No. Naturalmente no.» «Inoltre... non potresti comunque venire con me. Non ti sei portata niente per trascorrere un fine settimana al lago.» «E che cosa serve?» «Prima di tutto buone scarpe. E poi qualcosa di caldo da indossare.» Tina si guardò. Calzava stivali coi lacci dalla spessa suola. «Cos'altro serve?» chiese. «Ma sì, ti ho detto, un pullover...» Johanson si passò una mano sulla barba. «In casa ne ho qualcuno.» «Mmm. Perché non si sa mai.» «Giusto. Perché non si sa mai.» La guardò. Poi scoppiò a ridere. «Okay, signora Complicazione. Ultima possibilità per venire.» «Io sarei quella complicata?» Tina spalancò la portiera del passeggero e sorrise. «Ne discuteremo durante il viaggio.» Era già buio quando raggiunsero la strada sterrata che portava alla casupola. La jeep si arrampicò lungo la riva, sotto la silhouette degli alberi. Davanti a loro c'era il lago, simile a un cielo adagiato nella foresta, e la sua superficie era piena di stelle. Le nuvole si erano aperte, mentre a Trondheim probabilmente stava ancora piovendo. Johanson portò la valigia in casa, poi raggiunse Tina sulla veranda, facendo scricchiolare le tavole di legno. Ogni volta che andava lì si sentiva avvolgere dal silenzio che, paradossalmente, diveniva ancora più evidente perché era pieno di rumori: fruscii, stridii e leggeri crepitìi, il lontano grido di un uccello, movimenti nel sottobosco, rumori inafferrabili. Una piccola scala conduceva dalla veranda a un prato che digradava dolcemente. Da lì
si stendeva un pontile sghembo. In fondo era ormeggiata, immobile, la barca con cui a volte usciva a pescare. Tina guardava il lago. «E tutto questo è solo tuo?» chiese. «In genere sì.» Rimase in silenzio per un po'. «Devi stare proprio bene con te stesso.» Johanson sorrise. «Che cosa te lo fa pensare?» «Se qui non c'è nessun altro... vuol dire che la tua compagnia ti deve essere proprio gradita.» «Oh, sì. Quando sono qui posso fare quello che voglio. Posso piacermi, detestarmi...» Tina si voltò verso di lui. «Che cosa intendi? Che ti detesti?» «A volte. E quando accade mi detesto proprio per questo. Vieni dentro. Preparo un risotto.» Entrarono. Nella piccola cucina, Johanson affettò le cipolle, le fece soffriggere nell'olio d'oliva e aggiunse il riso carnaroli. Mescolò i chicchi di riso con un cucchiaio di legno finché non furono ricoperti di olio, aggiunse brodo di pollo e continuò a mescolare in modo che la massa non bruciasse. Nel frattempo, aveva tagliato a fettine dei funghi porcini, li aveva scottati nel burro e li aveva lasciati friggere a fuoco lento. Tina lo guardava, affascinata. Non sapeva cucinare, e Johanson lo sapeva: non aveva la pazienza necessaria per farlo. Lui stappò una bottiglia di vino rosso, lo lasciò decantare e riempì due bicchieri. La solita procedura, funzionava sempre. Avrebbero mangiato, bevuto, parlato, fumato. E poi sarebbe successo quello che di solito succedeva quando un vecchio bohémien e una giovane donna si trovavano da soli in un luogo romantico. Maledetti automatismi! Perché diavolo è venuta? Avrebbe fatto in modo che quella serata seguisse il proprio corso. Tina era seduta in cucina, indossava un pullover di Johanson e sembrava completamente rilassata, cosa che non avveniva da tempo. I tratti del suo volto avevano riacquistato delicatezza. Lui era irritato: aveva cercato di convincersi che lei non era il suo tipo... Troppo frenetica, troppo nordica, coi suoi capelli lisci e biondissimi. Adesso doveva ammettere che non era vero. Avresti potuto trascorrere un lungo, tranquillo fine settimana, pensò. Ma hai voluto proprio complicarti la vita, idiota! Mangiarono in cucina. A ogni bicchiere, Tina era sempre più rilassata. Parlarono del più e del meno e stapparono un'altra bottiglia.
Intorno a mezzanotte, lui disse: «Non fa tanto freddo. Hai voglia di fare un giro in barca?» Tina si portò le mani alla fronte e sorrise. «Con nuotata?» «Al tuo posto, lascerei perdere. Forse tra un paio di mesi, quando farà più caldo. No, andiamo in mezzo al lago, portiamo con noi la bottiglia e...» S'interruppe. «E?» chiese lei. «Guardiamo le stelle.» Si fissarono a lungo e Johanson sentì che la sua resistenza interiore stava cedendo. Sentiva se stesso dire cose che non avrebbe voluto dire; c'era qualcosa che premeva tutti i pulsanti giusti e tirava tutte le leve giuste per azionare il meccanismo. Risvegliava aspettative, invitava se stesso e Tina a fare quello che in genere si era portati a fare se ci si trova nei pressi di un lago solitario in compagnia di qualcuno. Avrebbe voluto essere ancora a Trondheim e, nel contempo, desiderava stringerla tra le sue braccia. Le si avvicinò finché non sentì il suo respiro sul viso. Malediceva la piega che avevano preso le cose, ma nel contempo non riusciva a trattenersi. «Bene. Allora andiamo», decise. Fuori non c'era vento. Percorsero il pontile e saltarono sulla barca. Tina perse l'equilibrio, e Johanson le afferrò un braccio. Avrebbe voluto ridere. Come nei film, pensò. Come in un maledetto filmetto romantico con Meg Ryan che inciampa e il protagonista che l'afferra. Santo cielo! Era una barchetta di legno, e gli era stata venduta insieme con la casa. La prua era coperta da un'asse che formava una piccola stiva. Tina si sedette là sopra a gambe incrociate, mentre Johanson accendeva il motore. Il cupo borbottio non sembrò disturbare la pace di quella magnifica notte attraversata dai rumori della foresta. Sembrava piuttosto in armonia con essi. Durante il breve viaggio non dissero neppure una parola. Infine Johanson mise al minimo il motore e poi lo spense. Si trovavano a buona distanza dalla casa. Lui aveva lasciato accese le luci della veranda, che si specchiavano nell'acqua vicina alla riva formando strisce increspate. Ogni tanto si sentiva un leggero tonfo: erano pesci che balzavano fuori dall'acqua per prendere un insetto. Johanson si avvicinò a Tina, la bottiglia piena a metà nella mano destra. La barca dondolava dolcemente. «Stenditi sulla schiena... e l'universo con tutto quello che racchiude sarà tuo. Prova», la invitò. Tina lo guardò. I suoi occhi splendevano nell'oscurità. «Hai mai visto le stelle cadenti?» gli chiese.
«Sì. Più volte.» «E hai desiderato qualcosa?» «Sono piuttosto carente di sostanza romantica.» Si sedette accanto a lei. «Me le sono semplicemente gustate.» Tina ridacchiò. «Non credi a niente, vero?» «E tu?» «Io sono l'ultima persona al mondo che possa credere a qualcosa.» «Lo so. I fiori o le stelle cadenti non hanno il minimo effetto su di te. Kare avrà il suo bel daffare. La cosa più romantica che ti si possa regalare è un'analisi di stabilità delle costruzioni marine ad alta tecnologia.» Tina continuava a guardarlo. Poi gettò all'indietro la testa e si distese lentamente. Il pullover si alzò, mettendo in mostra l'ombelico. «Lo credi davvero?» Lui si appoggiò ai gomiti e la osservò. «No, non lo credo.» «Credi che non sia romantica?» «Credo che tu non abbia mai pensato che cosa vuol dire essere romantici.» I loro sguardi s'incontrarono un'altra volta. A lungo. Troppo a lungo. Johanson si ritrovò le dita tra i capelli di lei e li accarezzò lentamente. «Forse puoi farmi vedere che cosa vuol dire», sussurrò lei, chinandosi in avanti. Tra le loro labbra vibrava un sottile strato di aria calda. Lui le mise una mano dietro la nuca. I loro occhi erano chiusi. Baciare. Ora. Nel cervello di Johanson, si rincorrevano migliaia di rumori e di pensieri, che poi si condensarono in un vortice, lacerando la sua concentrazione. Entrambi erano ancora immobili, ma carichi di tensione, come in attesa di un segnale, di un'autorizzazione: qui, prego, in duplice copia, una per lei e una per lei. Adesso può baciare la sposa. Ora può essere appassionato, veramente appassionato. Non è così male, ma ora, per favore, ci creda! Sia appassionato, uomo! Che succede? pensò lui. Cosa c'è che non va? Sentiva il calore del corpo di Tina, sentiva il suo profumo, ed era un profumo raffinato, fantastico, invitante. Però era come se fosse nel posto sbagliato. Quell'invito non era rivolto a lui. «Non funziona», disse Tina nello stesso istante.
Per la durata di un respiro, ancora sospeso sul crinale tra capitolazione e orgogliosa resistenza, Johanson si sentì come se fosse caduto nell'acqua gelida. La tensione sparì. Si spense. Quello che restava delle braci della passione si volatilizzò nell'aria limpida del lago e lasciò spazio a un incredibile sollievo. «Hai ragione», disse. Si sciolsero lentamente l'uno dall'altra, contrariati, come se i loro corpi non avessero ancora compreso quello che le menti avevano già pattuito da tempo. Lui vide negli occhi della donna la stessa domanda che probabilmente Tina stava leggendo nei suoi: Abbiamo rovinato tutto? Abbiamo mandato tutto all'aria? Lo abbiamo distrutto per sempre? «Tutto okay?» le chiese. Tina non rispose. Johanson si mise seduto davanti a lei, con la schiena appoggiata al bordo della barca. Poi ricordò che teneva ancora in mano la bottiglia, e gliela porse. «Evidentemente la nostra amicizia è troppo forte per l'amore.» Sapeva che suonava banale e patetico, ma sortì l'effetto voluto. Lei si mise a ridacchiare, prima con nervosismo, poi evidentemente sollevata. Prese la bottiglia, bevve una lunga sorsata, e rise ancora di più. Si coprì il volto con una mano come se volesse cancellare quella risata troppo forte e del tutto fuori luogo, ma essa continuava a uscire, sebbene soffocata dalle dita. Poi anche Johanson scoppiò a ridere senza freni. «Puah!» fece lei. Rimasero in silenzio per un po'. «Sei arrabbiato?» gli chiese infine a bassa voce. «No, e tu?» «Io... no, non sono arrabbiata. Per niente. È solo che... È tutto così sconclusionato. Sulla Thorvaldson, sai, la sera nella tua cabina, ancora un minuto e... voglio dire, sarebbe potuto succedere, ma oggi...» Le prese di mano la bottiglia e bevve. «No», disse lui. «Siamo sinceri, sarebbe andata nello stesso modo. Proprio come stasera.» «Da che cosa dipende?» «Tu lo ami.» Tina strinse le braccia intorno alle ginocchia. «Parli di Kare?» «E chi se no?» Rimase a fissare il vuoto, per molto tempo, e Johanson bevve di nuovo. Non era compito suo fare chiarezza nei sentimenti di Tina Lund. «Credevo di potergli sfuggire, Sigur.»
Pausa. Se Tina si aspettava una risposta, l'avrebbe aspettata a lungo, pensò lui. Avrebbe dovuto capirlo da sola. «Siamo sempre stati così distanti, tu e io», disse Tina dopo un po'. «Nessuno dei due voleva legarsi: una premessa ideale. Però non l'abbiamo mai verificata. Non c'è stato un solo momento in cui abbia pensato: ora deve assolutamente succedere. Io... non sono mai stata innamorata di te. Non ho mai voluto essere innamorata. Ma l'idea che prima o poi potesse succedere aveva un suo fascino. Ognuno continua a vivere la propria vita: niente obblighi, niente legami. Ero addirittura convinta che sarebbe successo presto, lo credevo ineluttabile! Poi improvvisamente è arrivato Kare, e ho pensato: mio Dio, che dolce legame! Tutto o niente. L'amore è un dolce legame e questo è...» «Questo è amore.» «A dire la verità, pensavo fosse altro. Come l'influenza. Non riuscivo più a concentrarmi sul lavoro, ero costantemente altrove con la testa, avevo la sensazione che mi mancasse la terra sotto i piedi, ed è una cosa che nella mia vita non ha senso.» «Così hai pensato che, prima di perdere definitivamente il controllo, era il caso di verificare l'opzione uno.» «Sei arrabbiato!» «No. Ti capisco. Neanch'io ero innamorato di te.» Rifletté. «Ti ho desiderato. Tra parentesi, proprio da quando sei insieme con Kare. Ma io sono un vecchio cacciatore. Pensavo fosse seccante che qualcuno mi contendesse la preda, non lo sopportavo e ciò ha offeso la mia vanità...» Sorrise. «Hai visto quello splendido film con Cher e Nicolas Cage, Stregata dalla luna? Uno chiede: come mai gli uomini vogliono andare a letto con le donne? E la risposta è: perché hanno paura della morte. Mmm. Come mi è venuto in mente?» «Perché tutto ha a che fare con la paura. La paura di essere soli, la paura che accada qualcosa senza essere interpellati; ma la peggiore di tutte è la paura di scegliere e sbagliare... Tu e io non potremo avere altro che un rapporto, ma con Kare... Con Kare non posso avere altro che un legame. Non c'è voluto molto perché lo capissi. Si desidera qualcuno che non si conosce neppure, lo si vuole a ogni costo. Ma puoi ottenerlo solo se prendi anche tutta la sua vita. Da qui nasce una sorta d'incertezza che rende diffidenti.» «Perché potrebbe rivelarsi un errore.» Lei annuì.
«Sei già stata con qualcuno?» chiese. «In questo modo, voglio dire.» «Una volta», rispose Tina. «Molto tempo fa.» «Il tuo primo amore?» «Mmm.» «Cos'è successo?» «Nulla di originale. Davvero. Io mi aspettavo qualcosa di travolgente, ma di fatto lui a un certo punto ha detto basta e a me è rimasto solo il dolore.» «E poi?» Appoggiò il mento sulle mani. Se ne stava lì, seduta nella luce della luna, con una piccola ruga verticale tra le sopracciglia: era splendida. Tuttavia Johanson non sentiva la minima traccia di rammarico. Né per quello che aveva cercato di fare, né per com'era andata. «Dopo sono sempre stata io a lasciare gli altri.» «L'angelo vendicatore.» «Sciocchezze. No, a volte quelli che conoscevo mi davano sui nervi. Troppo lenti, troppo carini, troppo duri di comprendonio. Altre volte sono scappata per mettermi al sicuro prima... Lo sai che sono veloce.» «Non costruiamoci una bella casa, perché potrebbe arrivare una tempesta e distruggerla.» Tina sollevò gli angoli della bocca. «Troppo elegiaco per me.» «Può essere. Ma è così.» «Sì, può essere.» Tina aggrottò la fronte. «C'è anche un'altra possibilità: costruisci la casa e, prima che qualcuno la possa distruggere, la distruggi tu stesso.» «Kare uguale casa.» Da qualche parte, un grillo iniziò a cantare. Lontano, un altro gli rispose. «Ci sei quasi riuscita», disse Johanson. «Se oggi avessimo fatto l'amore, avresti avuto motivi sufficienti per dare a Kare il benservito.» Lei non rispose. «Credi che saresti riuscita a ingannare te stessa?» «Mi sarei detta che, per il mio stile di vita, sarebbe stato decisamente meglio un rapporto con te, invece di stringere un legame. Andare a letto con te l'avrebbe in un certo senso... confermato.» «Ti saresti scopata la tua conferma, in un certo senso.» «No.» Lo fulminò con un'occhiata. «Che tu ci creda o no, ti volevo proprio.» «Va bene.»
«Tu non sei semplicemente quello che mi serve per fuggire, se è questo che pensi. Non ti ho solo...» «Va bene, va bene!» Johanson sollevò le mani. «Sei innamorata.» «Sì», replicò lei in tono cupo. «E non dirlo in quel tono. Ripetilo» «Sì. Siiì!» «Va meglio», sorrise lui. «E ora, dopo averti rivoltata come un calzino e aver visto che sei una fifona, potremmo vuotare il resto della bottiglia alla salute di Kare.» «Non lo so», disse lei con un sorriso tirato. «Non sei ancora sicura?» «A volte sì. A volte no. Sono... confusa.» Johanson fece passare la bottiglia da una mano all'altra, poi disse: «Io ho già distrutto una casa, Tina. Tanti anni fa. Ed eravamo ancora dentro la casa quando l'ho distrutta. Abbiamo sofferto, ma ce la siamo cavata. O, meglio, uno dei due se l'è cavata. Ancora oggi non so se sia stato giusto». «Chi era l'altro abitante?» «Mia moglie.» Tina sollevò le sopracciglia. «Sei stato sposato?» «Sì.» «Non me l'avevi mai detto.» «Ci sono molte cose che non ti ho raccontato. Mi piace tenere i segreti.» «Cos'è successo?» «È successo e basta.» Sospirò. «Divorzio.» «Perché?» «Così. Senza un motivo particolare. Niente scenate, niente piatti che volano. Solo la sensazione che la mia vita fosse a un punto morto. E in verità, la paura che potesse rendermi... dipendente. Vedevo profilarsi all'orizzonte una famiglia, bambini e un botolo bavoso in giardino; mi vedevo assumermi la responsabilità dei bambini, del cane e, giorno dopo giorno, la responsabilità annientava l'amore... Allora, il divorzio mi era sembrata la cosa più saggia.» «E oggi?» «A volte penso che forse è stato l'unico errore della mia vita.» Guardò trasognato il lago. Poi si riprese la bottiglia e la sollevò. «In questo senso: arrivederci! Quello che vuoi fare, fallo.» «Io non so cosa fare», disse. «Non lasciarti prendere dalla paura. Hai ragione, tu sei veloce. Sii più
veloce della paura». La guardò. «Quando ho deciso per il divorzio, la paura è stata più veloce di me. Qualunque cosa tu decida senza la spinta della paura, è la decisone giusta.» Tina sorrise. Poi si chinò verso di lui e prese la bottiglia. Con grande sorpresa di Johanson, rimasero al lago per tutto il fine settimana. La loro storia d'amore era andata a monte durante la notte, e lui pensava che, il giorno seguente, Tina gli avrebbe chiesto di tornare a Trondheim. Ma si sbagliava. La situazione si era chiarita. Erano venute meno le basi del loro eterno flirt. Avevano trascorso il tempo tra passeggiate, chiacchiere e risate; avevano scacciato dalla mente il resto del mondo - l'università, le piattaforme di perforazione, i vermi - e Johanson aveva cucinato i migliori spaghetti alla bolognese della sua vita. Era stato il più bel fine settimana al lago che riuscisse a ricordare. Rientrarono domenica sera. Johanson accompagnò Tina fino alla porta di casa. Per un attimo, poco dopo essere entrato in casa propria, Johanson avvertì di nuovo, dopo molti anni, la differenza tra stare solo ed essere solo. Ricacciò indietro quel pensiero perché rischiava di scatenare una serie di dubbi su se stesso e renderlo malinconico. Doveva fermarsi prima. Portò la valigia in camera da letto. Anche lì c'era un televisore, come in salotto. Johanson lo accese e fece zapping finché non trovò la trasmissione di un concerto alla Royal Albert Hall. Kiri Te Kanawa cantava arie della Traviata. Lui cominciò a disfare la valigia, canticchiando le arie trasmesse dalla televisione e riflettendo sulla reale natura del suo immancabile drink della buonanotte. Dopo un po' la musica finì. Preso dalle difficoltà di piegare una camicia, non si era accorto che il concerto era terminato. Stava lottando con una manica riottosa e in sottofondo si sentiva il telegiornale. «... resa nota dal Cile. Per ora non è confermato che la scomparsa della famiglia norvegese sia in relazione con altri casi simili avvenuti contemporaneamente sulle coste del Perú e dell'Argentina. Anche lì, nelle scorse settimane, sono sparite molte barche di pescatori; alcune sono state avvistate col motore acceso, ma senza nessuno a bordo. Per il momento, non c'è traccia dei passeggeri. La famiglia composta da cinque persone era partita con un trawler per fare pesca d'altura. Le condizioni meteorologiche erano ottime e il mare calmo.» Piega la manica verso destra e mettila all'interno. Che cos'hanno detto
in televisione? «Nel frattempo, il Costarica ha registrato un'invasione di meduse di dimensioni insolite. Migliaia di caravelle portoghesi sono comparse nei pressi della costa. Quattordici pèrsone venute in contatto con queste velenosissime meduse sono morte, molte altre sono rimaste ferite, tra queste due inglesi e un tedesco. Un numero ancora imprecisato di persone è disperso. L'ente del turismo del Costarica ha annunciato l'istituzione di un'unità di crisi, ma smentisce la notizia che le spiagge sarebbero state chiuse ai turisti. Al momento non c'è nessun pericolo immediato per la balneazione.» Johanson s'immobilizzò con la manica della camicia in mano. «Che bastardi», mormorò. «Quattordici morti. Avrebbero già dovuto chiudere tutto.» «Anche davanti alla costa australiana, banchi di meduse hanno creato preoccupazioni. Dovrebbe trattarsi delle vespe di mare, animali molto velenosi. Le autorità locali sconsigliano vivamente la balneazione. Negli ultimi cento anni, in Australia sono morte diciassette persone a causa del veleno delle vespe di mare, un numero superiore a quello delle vittime dovute agli attacchi degli squali. Si è inoltre saputo di gravi incidenti mortali anche nelle acque del Canada occidentale. Non si conoscono ancora le cause dell'affondamento di diverse imbarcazioni da turismo. Probabilmente sono entrate in collisione tra loro per un errore di navigazione.» Johanson si girò. L'annunciatrice del telegiornale stava voltando un foglio e intanto fissava la telecamera con un sorriso vuoto. «E ora le altre notizie del giorno.» Caravelle portoghesi, pensò Johanson. Ricordava una donna a Bali che, scossa dai crampi, era accovacciata sulla spiaggia. Lui non era entrato in contatto con quella «cosa». E neppure la donna aveva toccato la caravella. Durante una passeggiata sulla spiaggia, avevano pescato con un bastone una cosa nell'acqua bassa vicino a riva, qualcosa che era parso loro di una bellezza strana e singolare, una sorta di vela eterea galleggiante. Dato che lui era molto prudente, era rimasto a una certa distanza. Avevano girato la cosa da una parte e dall'altra alcune volte, finché, essendo ricoperta di sabbia, aveva perso ogni fascino, e poi lei aveva commesso quello stupido errore... Le caravelle portoghesi appartenevano ai sifonofori, una famiglia che presentava per gli scienziati ancora molti enigmi. In realtà, le caravelle non erano propriamente meduse, ma una colonia navigante, formata da un gran numero di singoli animali, centinaia o migliaia, con compiti diversificati.
La loro vela di gelatina cangiante, blu o rossa, riempita d'aria s'innalzava sull'acqua e permetteva alla colonia di navigare col vento. Quello che c'era sotto la vela non si vedeva. Però, se ci si finiva in mezzo, si sentiva. Le caravelle portoghesi trascinavano dietro di sé una cortina di tentacoli che potevano raggiungere i cinquanta metri di lunghezza, ricoperti da centinaia di migliaia di minuscole cellule urticanti, dotate di sensori. La struttura e la funzione di quelle cellule rappresentavano un capolavoro dell'evoluzione, un efficientissimo arsenale. Ogni cellula custodiva una capsula, in cui si trovava una sorta di tubicino arrotolato, che terminava con una punta a forma di arpione e che veniva rovesciato all'esterno come il dito di un guanto. Bastava sfiorarlo per mettere in moto una dinamica impressionante nella sua precisione. Nel momento in cui il sensore registrava il contatto, il tubicino si srotolava con la stessa pressione di settanta pneumatici che scoppiavano. Migliaia di arpioni ricoperti di uncini penetravano nel corpo della vittima, come punture sottocutanee, e iniettavano una miscela di albumina e proteine, che attaccava contemporaneamente i globuli rossi e le cellule nervose. La conseguenza era un'immediata contrazione della muscolatura. Si avvertivano dolori come se del metallo fuso entrasse nel corpo, si entrava in uno stato di shock, la respirazione si bloccava e infine si aveva un collasso cardiaco. Se si aveva la fortuna di trovarsi nei pressi della riva e si veniva soccorsi subito, si poteva sopravvivere. I sommozzatori o i nuotatori che finivano nel groviglio dei tentacoli al largo non avevano speranze. Quella donna, a Bali, non aveva fatto altro che toccare con un dito del piede il bastone su cui era rimasto un po' di veleno. Una quantità piccola, ma sufficiente perché l'incontro diventasse indimenticabile. Tuttavia, in confronto alla Chironex fleckeri, alla vespa di mare australiana, le caravelle portoghesi erano praticamente innocue. Nel corso della storia dell'evoluzione, la natura era arrivata a creare impressionanti miscele di veleni. E, nel caso delle vespe di mare, aveva fatto un vero capolavoro. Il veleno di un unico animale era sufficiente a uccidere duecentocinquanta uomini. L'efficientissimo inibitore nervoso provocava un'immediata perdita di coscienza. La maggior parte delle vittime moriva per collasso cardiaco e annegamento nel giro di alcuni minuti, spesso addirittura di qualche secondo. Mentre fissava il televisore, Johanson ragionava su quei fatti. Stavano cercando di prendere per scemi i telespettatori. Era mai succes-
so che su un'unica costa ci fossero quattordici morti contemporaneamente? E che tutte le vittime fossero state uccise dalla stessa specie di meduse? E che cosa voleva dire quell'altra storia, quella della scomparsa delle navi? Caravelle portoghesi nel Sudamerica, vespe di mare in Australia, invasione di policheti in Norvegia. Non vuol dire niente, pensò. Le meduse si muovono in banchi. E non c'è estate senza la piaga delle meduse. I vermi erano un'altra faccenda. Ripose gli ultimi capi d'abbigliamento, spense il televisore e andò in sala per ascoltare un CD o per leggere qualcosa. Ma Johanson non ascoltò un CD e non prese neppure un libro. Andò avanti e indietro, poi guardò dalla finestra la strada illuminata dai lampioni. Era così tranquillo, al lago. Era così tranquillo, lì. Ma, se era tutto troppo tranquillo, allora qualcosa non andava. Sciocchezze, pensò Johanson. Che cosa c'entra via Kirkegata con tutto ciò? Si versò una grappa, la sorseggiò e cercò di non pensare al telegiornale. Gli venne in mente qualcuno che avrebbe potuto chiamare per avere informazioni. Olsen rispose dopo il terzo squillo. «Stavi già dormendo?» chiese Johanson. «I bambini mi hanno tenuto sveglio», disse Olsen. «È il compleanno di Maria, ha cinque anni. Com'è andata al lago?» Olsen era un padre di famiglia sempre di ottimo umore. Conduceva una vita borghese, cioè una vita che faceva inorridire Johanson. Non si frequentavano al di fuori del lavoro, se non per la pausa di mezzogiorno. Ma Olsen era una brava persona ed era dotato di senso dell'umorismo. Doveva avere per forza senso dell'umorismo, altrimenti, secondo Johanson, non avrebbe potuto reggere a cinque figli e a una dozzina di parenti sempre intorno. «Qualche volta dovresti venire con me», gli propose Johanson, senza pensarlo davvero. Con la medesima convinzione avrebbe potuto dirgli: «Dovresti far saltare per aria la tua macchina» oppure: «Dovresti vendere un paio dei tuoi bambini». «Certo, volentieri», rispose Olsen. «Hai visto il telegiornale?» Ci fu una breve pausa. «Vuoi dire per le meduse?» «Esatto! Pensavo che t'interessasse. Cos'è successo?»
«E cosa vuoi che sia successo? Le invasioni ci sono sempre state. Rane, cavallette, meduse...» «Mi riferisco in particolare alle caravelle portoghesi e alle vespe di mare.» «Questo è insolito», disse Olsen. «Ne sei sicuro?» «È insolito che le due specie più pericolose di meduse turbino il mondo. E quello che hanno detto al telegiornale suona quantomeno bizzarro.» «Diciassette morti in cento anni», suggerì Johanson. «Stupidate.» Olsen sbuffò, sprezzante. «Meno?» «Di più! Molte di più, circa novanta, se conti anche il golfo del Bengala e le Filippine, per non parlare dei dati nascosti. Naturalmente l'Australia ha problemi con quella robaccia gelatinosa, specialmente con le vespe di mare, da tempo immemorabile. Le vespe di mare depongono le uova a nord di Rockhampton, alle foci dei fiumi. Quasi tutti gli incidenti accadono nelle acque basse. Nel giro di tre minuti sei morto.» «La stagione è giusta?» chiese Johanson. «Per l'Australia, sì. Da ottobre a maggio. In Europa, rompono le scatole quando sulle spiagge si muore dal caldo. L'anno scorso eravamo a Minorca e quasi i bambini ci sono finiti in mezzo, perché c'erano tonnellate di Velella...» «Cosa c'era?» «Velella velella, detta anche barchetta san Pietro. Molto carina, se non comincia a puzzare al sole proprio davanti a te. Una cosettina violetta. Tutta la spiaggia era lilla... Le hanno infilate con pale e rastrelli in centinaia di sacchi, non puoi fartene un'idea, e dal mare ne arrivavano in continuazione. Lo sai che sono un fan delle meduse, ma era troppo anche per me. Mi sono sentito urlare nelle orecchie da mattina a sera. Comunque, in Europa, abbiamo la piaga delle meduse in agosto o in settembre, ma in Australia è naturalmente il contrario. Quello che accade laggiù è singolare.» «E cosa ci sarebbe di singolare?» «Le vespe di mare si avvicinano alla spiaggia dov'è piatta», spiegò Olsen. «Al largo della costa è difficile trovarle. E non sono mai state viste prima nei pressi della Grande Barriera Corallina. Ma ho sentito che c'erano anche là. Per quanto riguarda le Velella è diverso. Normalmente stanno in mare aperto. Ancora oggi non sappiamo che cosa le porti sulle spiagge ogni due decenni... Anzi sappiamo poco delle meduse in generale.»
«Le spiagge non vengono protette con le reti?» domandò Johanson. Olsen rise a squarciagola. «Sì, e la gente s'illude che funzionino, ma non servono a niente. Le meduse rimangono impigliate nelle reti, ma i tentacoli si staccano e passano attraverso le maglie. E quelli non si vedono.» Fece una pausa. «Perché sei così ansioso di sapere tutte queste cose? È un argomento che conosci bene.» «Sì, ma non quanto te. M'interessa scoprire se abbiamo davvero a che fare con delle anomalie.» «Ci puoi scommettere», ringhiò Olsen. «Guarda che la comparsa delle meduse è sempre legata alle alte temperature dell'acqua e allo sviluppo del plancton. Sai bene che, se c'è un bel calduccio, il plancton si sviluppa alla grande, e le meduse mangiano il plancton. Così il cerchio si chiude. Ecco perché quegli animaletti compaiono nella tarda estate e spariscono qualche settimana dopo. Questo è il corso delle cose... Aspetta un attimo.» In sottofondo si sentiva urlare. Johanson si chiese quando andavano a letto i figli di Olsen e soprattutto se mai ci andassero. In passato, ogni volta che aveva telefonato a Olsen, le cose erano andate sempre nello stesso modo. Olsen gridò qualcosa per contenere la lite. Le urla si fecero ancora più alte, poi cessarono e lui fu di nuovo al telefono. «Scusa. Litigano per i regali. Allora, se vuoi sentire il mio parere, simili invasioni di meduse derivano dall'eccessiva fertilizzazione del mare. La colpa è nostra. La fertilizzazione provoca la crescita del plancton e così via. Quando i venti soffiano da ovest o da nordovest, ce le troviamo davanti alla porta di casa.» «Sì, ma quelle sono invasioni del tutto normali. Qui parliamo di...» cominciò Johanson. «Aspetta. Volevi sapere se siamo di fronte a un'anomalia. La risposta è sì. E verosimilmente si tratta di un'anomalia che non riconosciamo come tale. A casa hai delle piante?» «Che? Ah, sì.» «Una yucca?» «Sì. Due.» «Anomalie. Capisci? La yucca è importata, e pensa un po' da chi.» Johanson strabuzzò gli occhi. «Voglio sperare che non ti metterai a parlare di un'invasione di yucca. Le mie sono assolutamente pacifiche.» «Non voglio dire questo. Voglio dire semplicemente che non siamo più in grado di giudicare cos'è naturale e cosa no. Nel 2000 sono stato nel golfo del Messico per fare ricerche sulle invasioni di meduse. Giganteschi
banchi di roba tremolante minacciavano la sopravvivenza dei pesci. Avevano invaso la Louisiana, il Mississippi e l'Alabama e divoravano le uova e le larve dei pesci, come pure il plancton. La maggior parte dei danni è stata fatta da una specie che in realtà non doveva essere là: era una medusa australiana, la medusa del Pacifico. Importata.» «Invasione biologica», disse Johanson. «Esatto. Distruggono la catena alimentare e pregiudicano la pesca. Una catastrofe. Qualche anno prima, si è sfiorato il disastro ecologico nel mar Nero, perché, negli anni '80, qualche nave da carico aveva importato con l'acqua di zavorra alcune meduse. Non erano originarie di quella zona. All'inizio la situazione è stata sgradevole, poi il mar Nero si è ritrovato nella merda. C'erano oltre ottomila meduse per metro quadrato... Sai cosa vuol dire?» Era infuriato. «E ora questa faccenda delle caravelle portoghesi. Sono comparse in Argentina, e non è la loro zona. Certo, l'America centrale, anche il Perú, forse il Cile. Ma così a sud? Quattordici morti in un colpo! Sembra un attacco. E poi le vespe di mare. Che ci fanno così vicine alla costa? È come se qualcuno le avesse stregate.» «Quello che mi dà da pensare è che si tratta proprio delle due specie più pericolose», disse Johanson. «Proprio così», confermò Olsen. «Ma aspetta un attimo; qui non siamo in America, e non mi lancerei a fare ipotesi di una cospirazione. Ci sono altre spiegazioni. Alcuni pensano che sia colpa del Niño, altri dicono che sia colpa del riscaldamento della Terra. A Malibu c'è stata un'invasione di meduse come non se ne vedeva da decenni; a Tel Aviv sono comparsi dei cosi giganteschi. Riscaldamento, importazione, si spiega tutto.» Johanson ormai lo ascoltava appena. Olsen aveva detto una cosa che continuava ad assillarlo: Come se qualcuno le avesse stregate. «... si accoppiano nelle acque basse», stava continuando Olsen. «E un'altra cosa: se parliamo di una nascita insolitamente elevata, non parliamo di migliaia, bensì di milioni. E questo vuol dire che la situazione non è sotto controllo. Non sono morte solo quattordici persone, ma molte di più, te lo garantisco io.» «Mmm...» «Mi stai ancora ascoltando?» «Certo. Ho l'impressione che sia tu ora a spacciare teorie su qualche cospirazione.» Olsen rise. «Sciocchezze. Di certo si tratta di anomalie. Osservato in superficie, ha l'apparenza di un fenomeno ciclico, ma secondo me è qualco-
s'altro.» «Te lo dice la tua pancia?» chiese Johanson. «La mia pancia mi dice che stasera ho mangiato involtino di manzo. Non è in grado di dire altro. No, lo dice la mia testa.» «Bene. Grazie. Volevo solo sentire la tua opinione.» Rifletté. Doveva raccontare a Olsen dei vermi? Forse la Statoil non sarebbe stata particolarmente felice di dare in pasto all'opinione pubblica quell'argomento, e Olsen parlava un po' troppo. «Ci vediamo domani a pranzo?» chiese Olsen. «Sì, volentieri.» «Vedrò se riesco a raccogliere qualcos'altro sulla faccenda.» «Va bene. A domani», disse Johanson e riagganciò. Solo in quel momento rammentò che avrebbe voluto chiedere a Olsen anche della navi scomparse. Ma non voleva ritelefonargli. Il giorno dopo ne avrebbe saputo abbastanza. Si chiese se l'invasione delle meduse l'avrebbe elettrizzato allo stesso modo se non avesse saputo dei vermi. No. Probabilmente no. Non erano le meduse. Erano le connessioni. Ammesso che ce ne fossero davvero. Il mattino seguente, durante il tragitto verso l'NTNU, Johanson aveva ascoltato il notiziario, non aveva scoperto niente di più di quanto già sapeva: c'erano barche e persone disperse in diverse parti del mondo. Si facevano speculazioni a non finire, ma nessuno forniva una vera spiegazione. La sua prima lezione era alle dieci; aveva quindi tempo sufficiente per leggere le e-mail e la posta. Fuori pioveva a dirotto e un cielo plumbeo incombeva su Trondheim. Quando Olsen infilò la testa nel suo ufficio, Johanson aveva appena acceso la lampada da tavolo e si era messo alla scrivania con una tazza di caffè, necessaria per svegliarsi completamente. «Folle, vero?» esclamò Olsen. «Non finisce.» «Che cosa non finisce?» «Una notizia funesta dopo l'altra. Non ascolti i notiziari?» Johanson si dovette concentrare. «Parli delle navi scomparse? Volevo proprio chiedere la tua opinione. Ieri, a furia di parlare di meduse, me ne sono dimenticato.» Olsen scosse la testa ed entrò. «Pensavo che mi volessi offrire un caffè», disse, guardandosi intorno con interesse. Tra le caratteristiche allo stesso tempo apprezzabili e snervanti di Olsen c'era anche la curiosità.
«Nella stanza a fianco», spiegò Johanson. Olsen si appoggiò alla porta aperta che si apriva sull'ufficio contiguo e ordinò ad alta voce un caffè. Poi si sedette e lasciò vagare lo sguardo nella stanza. La segretaria entrò, posò sgarbatamente una tazza sulla scrivania e, prima di andarsene, indirizzò a Olsen uno dei suoi sguardi assassini. «Ma che cos'ha?» si meravigliò Olsen. «Il caffè io me lo faccio sempre da solo», disse Johanson. «La caffettiera è proprio lì di fianco con latte, zucchero e tazze.» «Permalosa la signora, eh? Mi dispiace. La prossima settimana porterò dei biscotti fatti in casa. Mia moglie fa dei biscotti fantastici.» Olsen bevve rumorosamente. «Non hai sentito le ultime notizie?» «Certo, in auto mentre venivo qui.» «Dieci minuti fa c'è stata una breaking news della CNN. Sai che in ufficio ho un piccolo televisore... È acceso tutto il giorno.» Olsen si chinò in avanti. La luce della lampada da tavolo si rifletteva nella sua calvizie incipiente. «In Giappone è esplosa una nave che trasportava gas. Quasi contemporaneamente, nello stretto di Malacca, sono entrate in collisione due portacontainer e una fregata. Per essere precisi, una delle navi portacontainer è affondata e l'altra, ormai ingovernabile e in fiamme, è finita contro la fregata militare. C'è stata un'esplosione.» «Mio Dio.» «Ed è ancora mattina presto.» Johanson si scaldò le mani con la tazza. «Per quanto riguarda lo stretto di Malacca non mi sorprende. È strano che non capiti più spesso...» «Sì, ma questa è una strana coincidenza, non credi?» C'erano tre stretti che concorrevano per il titolo di via d'acqua più trafficata del mondo: il canale della Manica, lo stretto di Gibilterra e lo stretto di Malacca, che si trovava sulla rotta dall'Europa verso l'Asia sudorientale e il Giappone. Il problema del commercio mondiale via mare gravitava intorno a quei tre stretti. Solo nello stretto di Malacca transitavano ogni giorno circa seicento tra superpetroliere e cargo e, talvolta, fino a duemila navi percorrevano le acque tra Malaysia e Sumatra, in un canale lungo quattrocento chilometri, ma largo solo ventisette nel punto più stretto. India e Malaysia insistevano affinché i capitani delle petroliere facessero rotta verso sud e attraversassero lo stretto di Lombok, ma era come parlare ai sordi. La deviazione riduceva il guadagno. Così circa il quindici per cento del commercio mondiale continuava a transitare per lo stretto di Malacca. «Si sa com'è successo?» chiese Johanson.
«No. L'incidente è appena avvenuto.» «Terribile.» Johanson bevve un sorso. «Ma che razza di storia è, quella delle navi scomparse?» «Come? Non ne sai nulla neppure tu?» «Altrimenti non avrei chiesto», borbottò Johanson, un po' nervoso. Olsen si chinò in avanti e abbassò la voce. «Pare che nel Sudamerica, sulla costa del Pacifico, da tempo spariscano bagnanti e pescherecci. Sono fatti di cui si parla poco, specialmente in Europa. Il tutto è iniziato in Perú. Prima è sparito un pescatore: la sua barca è stata ritrovata qualche giorno dopo in mare aperto. Trattandosi di una piccola barca di giunchi, si è ipotizzato che l'uomo fosse stato trascinato in mare da un'onda, ma da settimane in quella zona il tempo era buono. Dopodiché cose simili si sono ripetute in continuazione. Infine è scomparso un piccolo trawler.» «Santo cielo, come mai non se n'è saputo nulla?» Olsen allargò le braccia. «Perché nessuno ama fare pubblicità a queste cose. Il turismo è troppo importante. Inoltre sono accadute in una zona lontanissima, dove vivono molti uomini con la pelle scura e i capelli lunghi che a noi sembrano tutti uguali.» «Però sulle meduse le informazioni le hanno date, benché le invasioni siano avvenute lontano da qui.» «C'è una bella differenza, no? Là sono morti veri turisti americani, un tedesco e chissà chi altro. In Cile è sparita una famiglia norvegese. Sono usciti in mare con un peschereccio per un'escursione gestita da un'azienda locale. Pesca d'altura. E, puf!, quei preziosissimi uomini biondi sono spariti. Non si può non darne notizia.» «Va bene, ho capito.» Johanson si appoggiò allo schienale. «E non ci sono stati contatti radio?» «No, mio caro Sherlock Holmes. È stato lanciato un SOS, ma nient'altro. Nella maggior parte delle navi scomparse, l'alta tecnologia si limitava al fuoribordo.» «Niente tempeste?» «Mio Dio, no! Nulla che potesse rovesciare le barche.» «E cos'è successo nel Canada occidentale?» «A quelle navi che pare siano entrate in collisione? Non ne ho idea. Qualcuno dice che si siano scontrate con balene di pessimo umore. Che ne so io? Il mondo è misterioso e terribile e anche tu sei un po' misterioso con tutte queste domande. Offrimi un altro caffè... No, aspetta, vado a prepararmelo da solo.»
Olsen sembrava essersi installato definitivamente nell'ufficio di Johanson. Quando infine se ne andò - non prima di aver bevuto una notevole quantità di caffè -, Johanson guardò l'orologio. Gli rimanevano pochi minuti prima della lezione. Chiamò Tina Lund. «Skaugen ha preso contatto con altre società di esplorazione in tutto il mondo: vuole sapere se hanno avuto problemi analoghi», disse lei. «Coi vermi?» «Esatto. Presume che gli asiatici sappiano dell'esistenza di quelle bestiole.» «Perché?» «Sei stato tu a riferirci quello che aveva detto il tuo uomo di Kiel, cioè che in Asia stanno cercando di estrarre gli idrati di metano. Così Skaugen vuole tastare il polso alle società che se ne occupano.» In sé non è una cattiva idea, pensò Johanson. Skaugen ha fatto uno più uno. Se i policheti sono così golosi di idrati, allora devono trovarsi soprattutto dove gli uomini sono altrettanto golosi di metano. D'altra parte... «Temo che gli asiatici prenderanno Skaugen per il naso», borbottò. «Credi che non dovrebbe dir loro nulla?» «Forse non sino in fondo. E non ora.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Già.» Johanson cercò le parole adatte. «Non voglio mettermi al vostro posto, ma supponiamo che a qualcuno venga in mente di forzare i tempi per la costruzione di una stazione sottomarina, benché laggiù strisci della robaccia sconosciuta...» «Noi non lo facciamo.» «È soltanto una tua ipotesi.» «Hai sentito anche tu che Skaugen ha seguito il tuo consiglio.» «Questo gli fa onore. Ma qui si tratta di denaro o sbaglio? Qualcuno potrebbe avere un'altra opinione e dire: 'Vermi? Non ne sappiamo nulla, non li abbiamo mai visti'.» «E costruire comunque?» «Non può succedere nulla. Voglio dire, si può essere arrestati per carenze tecniche, ma non per via di animali che mangiano il metano. Chi si prenderebbe mai la briga di dimostrare che nella zona di estrazione c'era una massa di vermi?» «La Statoil non nasconderebbe una cosa simile.» «Non sto parlando di voi. Per i giapponesi, un'efficiente estrazione di
metano compenserebbe il boom petrolifero. Molto di più! Diventerebbero immensamente ricchi. Credi che in questa faccenda gli asiatici giochino a carte scoperte?» Tina esitò. «No.» «E voi?» «Al momento, queste supposizioni non ci portano da nessuna parte. Dobbiamo scoprire che cosa stanno facendo prima che siano loro a scoprire che cosa stiamo facendo noi. Abbiamo bisogno di osservatori indipendenti. Gente che non possa essere messa in relazione con la Statoil. Per esempio...» Tina sembrò fermarsi a riflettere. Poi disse: «Non potresti sentire un po' in giro?» «Io? Dovrei cercare all'interno delle società petrolifere?» «No, negli istituti, nelle università, presso gente come quelli di Kiel. Non si fanno ricerche in tutto il mondo sugli idrati di metano?» «Certo, ma...» «E rivolgersi ai biologi, ai biologi marini! Ai sommozzatori dilettanti! E chissà a chi altro!» urlò lei. «Forse... Forse potresti fare tutto tu. Potremmo darti un finanziamento. Sì, è la cosa migliore: chiamo Skaugen e gli chiedo di fissare un budget! Potremmo...» «Ehi, calma!» «Sarebbe un lavoro ben pagato, a prescindere dal fatto che non avresti molto da fare.» «Sarebbe un pasticcio. Voi potreste farlo altrettanto bene.» «Sarebbe meglio se lo facessi tu. Tu sei neutrale.» «Accidenti, Tina.» «Nel tempo di questa telefonata avresti potuto chiamare già tre volte lo Smithsonian Institute. Ti prego, Sigur, sarebbe semplicemente... Cerca di capire: se come gruppo industriale esponessimo i nostri interessi vitali, avremmo addosso migliaia di organizzazioni ambientaliste. Aspettano solo quello.» «Ah-ah! Allora avete interesse a nascondere tutto sotto il tappeto.» «Sei un bastardo.» «Talvolta.» Tina sospirò. «E allora, secondo te, cosa dovremmo fare? Non credi che tutto il mondo ci accuserebbe delle cose peggiori? Ti giuro che la Statoil non farà nulla sinché non avremo chiarito il ruolo di questi vermi. Ma, se andassimo ufficialmente a bussare a troppe porte, la voce correrebbe, finiremmo subito nel mirino e non potremmo più muovere un dito.»
Johanson si stropicciò gli occhi, poi guardò l'orologio. Le dieci passate. La sua lezione. «Tina, devo lasciarti. Ti chiamo più tardi.» «Posso dire a Skaugen che ci stai?» «No.» Silenzio. «Okay», disse infine lei con voce fioca. Sembrava che la stessero portando al macello. Johanson respirò profondamente. «Posso almeno pensarci?» «Sì. Naturalmente. Sei un tesoro.» «Lo so. Il mio problema è proprio questo. Ti richiamo.» Prese i suoi appunti e si affrettò verso l'aula. Roanne, Francia Mentre, a Trondheim, Johanson stava iniziando la sua lezione, a duemila chilometri di distanza, Jean Jérôme esaminava con occhio critico dodici astici bretoni. Jérôme osservava sempre criticamente, lo faceva per principio. Il suo costante scetticismo era dovuto al luogo in cui lavorava: il Troisgros era l'unico ristorante in Francia a poter vantare trent'anni ininterrotti di tre stelle sulla Guida Michelin; e Jérôme non voleva entrare nella storia come colui che le aveva perse. Il suo settore di responsabilità riguardava tutto quello che arrivava dal mare. Era, per così dire, il signore del pesce ed era in piedi dalla mattina presto. La giornata degli intermediari commerciali cominciava molto prima della sua e cioè alle tre del mattino, a Rungis, un paese a quattordici chilometri dal centro di Parigi. Fino a pochi anni prima, Rungis era privo d'importanza, ma poi, quasi da un giorno all'altro, era diventato la mecca della cucina più raffinata. In un territorio di quattro chilometri quadrati, Rungis riforniva di alimenti le grandi città, i commercianti, i cuochi e tutti coloro che erano sufficientemente pazzi da trascorrere la loro vita in una cucina. A Rungis era rappresentata l'intera nazione. Latte, panna, burro e formaggi dalla Normandia, squisiti ortaggi bretoni, succosi frutti dal sud. Fornitori di ostriche Belon e Marenne e del Bassin d'Arcachon e pescatori di tonni da St-Jean-de-Luz arrivavano velocissimi, percorrendo le autostrade su camion scoppiettanti coi loro carichi. Camion frigoriferi coi crostacei si aprivano la strada tra furgoncini e auto private. Quello era il primo luogo di tutta la Francia in cui arrivavano le prelibatezze.
La qualità era un fattore decisivo. Gli astici arrivavano ovviamente dalla Bretagna, ma bisognava fare attenzione, perché c'erano esemplari splendidi e altri meno attraenti. In breve, dovevano necessariamente avere alcune caratteristiche ben precise perché, al momento della consegna a Roanne, un cliente come Jean Jérôme, per esempio, fosse soddisfatto. Jérôme prendeva gli astici l'uno dopo l'altro, li girava e li rigirava, scrutandoli. Gli animali erano disposti in gruppi di sei in casse di polistirolo, rivestite con una specie di felce. Si muovevano appena, ma naturalmente erano vivi, come doveva essere. Le loro chele erano legate. «Bene», disse Jérôme. Era la miglior lode che potesse tributare. In effetti era molto soddisfatto di quegli astici. È vero che erano piccoli, ma per le loro dimensioni erano molto pesanti e avevano una splendente corazza blu scuro. Tranne gli ultimi due. «Troppo leggeri», disse. Il commerciante aggrottò la fronte, prese uno degli astici che aveva ricevuto l'approvazione di Jérôme e uno degli altri e li soppesò, uno per mano. «Ha ragione, Monsieur Jérôme», ammise, sbigottito. «Mi devo scusare.» Stava lì, come una statua della Giustizia del mercato del pesce, gli avambracci piegati ad angolo e le mani distese. «Ma non c'è molta differenza. Una piccolezza, vero?» «Sì, forse non è molto per una birreria che serve pesce», borbottò Jérôme. «Ma noi non siamo una birreria che serve pesce.» «Mi dispiace. Posso tornare indietro e...» «Non si preoccupi. Dovremo solo capire quale dei nostri clienti ha lo stomaco più piccolo.» Il commerciante si scusò ancora. Si scusò nell'uscire e verosimilmente aveva continuato a scusarsi anche durante il viaggio di ritorno, mentre Jérôme era già nella splendida cucina del Troisgros e si occupava del menù serale. Aveva messo gli astici in una vasca con acqua fresca, dove se ne stavano immobili, apatici. Passò un'ora e Jérôme decise di scottare gli animali. Aveva preparato un calderone d'acqua: era consigliabile lavorare in fretta gli astici vivi, dato che gli animali in cattività tendevano a deteriorarsi internamente. Scottarli non voleva dire cuocerli, bensì ucciderli con l'acqua bollente. Più tardi, poco prima di essere serviti, venivano cotti a fuoco lento. Jérôme attese finché l'acqua non raggiunse il bollore, prese gli astici dalla vasca e li infilò velocemente nell'acqua a testa in giù. L'aria usciva dai vuoti della corazza con uno stridio ben udibile. Li metteva l'uno dopo l'altro nel calderone e
poi li tirava subito fuori. Il nono e il decimo morirono. La mano di Jérôme prese l'undicesimo - ah, è vero, era quello più leggero! - e lo mise nell'acqua bollente. Dieci secondi sarebbero bastati. Senza badarci troppo tirò fuori l'animale col grande mestolo... E gli sfuggì un'imprecazione. Che diavolo era successo? La corazza era letteralmente spezzata in due e una chela era rimasta nell'acqua. Inconcepibile. Jérôme sbuffò di rabbia. Appoggiò l'astice - o, meglio, quello che ne restava - sul tavolo da lavoro e lo girò sulla schiena. Anche la parte inferiore era frantumata e, nell'interno, dove doveva esserci la carne gustosa, c'era solo una patina gelatinosa e biancastra. Sbalordito, Jérôme guardò nel calderone. Nell'acqua ribollente galleggiavano pezzi e fili che solo con molta fantasia potevano essere scambiati per carne di astice. Be', pazienza... In realtà aveva bisogno soltanto di dieci astici. Jérôme non limitava mai gli acquisti al minimo, ma era noto per il suo equilibrio. Nell'interesse dell'economia, si doveva essere sempre ben consapevoli delle quantità da cucinare, ma sempre con la precauzione di avere una piccola riserva di sicurezza. In quel momento, i suoi princìpi si rivelarono quanto mai utili. La faccenda era comunque seccante. Si chiese se l'animale fosse malato. Guardò la vasca: c'era ancora un astice, il secondo dei due più piccoli. Be', ormai non poteva fare altro che metterlo nella pentola. Ah, no, là dentro nuotava ancora quella robaccia bianca. Improvvisamente gli venne un'idea. L'animale malato era più leggero, quello ancora vivo lo era altrettanto... Significava qualcosa? Forse gli animali si consumavano da soli, oppure erano divorati da un virus o da un parassita. Jérôme esitò, poi prese il dodicesimo astice dalla bacinella e lo posò sul piano di lavoro per osservarlo. Le lunghe antenne rivolte all'indietro si agitavano a scatti e le chele legate si muovevano debolmente. Non appena venivano tolti dal loro ambiente naturale, gli astici tendevano a una grande indolenza. Jérôme diede un colpetto all'animale e vi si chinò sopra. L'astice muoveva le zampe come se volesse scappare, ma restava fermo; dal punto in cui la coda segmentata entrava nella corazza colava qualcosa di trasparente. Che cos'era? Jérôme si piegò sulle ginocchia. Era vicinissimo all'animale, all'altezza degli occhi, per così dire. L'astice sollevò leggermente la parte superiore del corpo e, per un se-
condo, sembrò squadrare Jérôme coi suoi occhi neri. Poi esplose. L'apprendista cui Jérôme aveva dato l'incarico di squamare il pesce si trovava a soli due metri di distanza, tuttavia uno scaffale sottile e senza copertura, che ospitava arnesi da cucina e spezie, gli impediva di vedere il fornello. Sentì l'urlo straziante di Jérôme e, spaventato a morte, lasciò cadere il coltello. Vide Jérôme barcollare via dal fornello con le mani premute sul viso e balzò verso di lui. Insieme urtarono rumorosamente contro il piano di lavoro di fronte. Le stoviglie sferragliarono e qualcosa cadde a terra, rompendosi rumorosamente. «Cos'è successo?» gridava l'apprendista, nel panico. «Cos'è successo?» Arrivarono anche gli altri cuochi. La cucina era una fabbrica nel senso migliore del termine: ciascuno aveva un proprio compito. Uno si occupava solo della selvaggina, un altro solo delle salse, un terzo della farcia, un altro ancora delle insalate, uno della pasticceria e così via. In un attimo, intorno al fornello regnò la più grande confusione. Poi Jérôme si tolse le mani dal volto e, tremando, indicò il tavolo da lavoro. Sui suoi capelli c'era una sostanza appiccicosa e trasparente, che gli colava anche sul viso e sul collo. «È... esploso», ansimò. L'apprendista si avvicinò al piano di lavoro e fissò schifato l'astice in frantumi. Non aveva mai visto una cosa simile: solo le zampe erano intatte; le chele erano sul pavimento, la coda sembrava fosse stata sparata da una pressione altissima e la corazza del dorso si era spalancata. «Che cosa gli ha fatto?» sussurrò. «Fatto? Fatto?» urlò Jérôme con le mani sollevate e la faccia che era una smorfia di disgusto. «Non ho fatto proprio nulla! È esploso, è stato lui. È esploso!» Gli portarono dei tovaglioli per pulirsi, mentre l'apprendista toccava esitante quella robaccia sparsa ovunque. Quello che toccava era enormemente compatto, di una consistenza gommosa, ma si scioglieva in fretta e colava sul piano di lavoro. Seguendo un impulso, prese da una mensola un vasetto col tappo a vite e, usando un cucchiaio, lo riempì coi pezzi di gelatina, facendovi colare anche un po' di liquido. Poi chiuse bene il vasetto. Calmare Jérôme non era per nulla facile. Infine qualcuno gli portò un bicchiere di champagne e soltanto così lui riuscì a riprendersi un po'. «Portatelo via», ordinò con voce strozzata. «Per l'amor del cielo, portate via quella schifezza. Io vado a lavarmi.»
Gli aiuto cuochi si misero immediatamente all'opera per rimettere in ordine la postazione di Jérôme, pulirono il fornello e il ripiano circostante, smaltirono i rifiuti, lavarono il calderone e naturalmente versarono nello scarico l'acqua in cui gli astici avevano vissuto i loro ultimi istanti. L'acqua iniziò il percorso degli scarichi nel sottosuolo, gorgogliò nelle tubature e lì si mischiò con tutto quello che la città lascia defluire per poi riciclarlo. L'apprendista prese il vasetto con la gelatina. Non sapeva ancora che cosa farci, quindi chiese disposizioni a Jérôme, che era appena riapparso in cucina coi capelli lavati e i vestiti puliti. «Forse hai fatto bene a conservare un po' di quella robaccia», disse Jérôme, cupo. «Lo sa il cielo che cos'è.» «Vuole vederla?» «Dio me ne guardi, no! Però bisogna farla esaminare. Mandiamola dove possono farlo. Ma, per favore, senza dire nulla delle circostanze, hai capito? Al Troisgros non succedono cose simili.» Infatti la storia non uscì dalla cucina del ristorante. E fu un bene, perché avrebbe messo in cattiva luce il Troisgros. Benché nessuno, nel ristorante, avesse la minima responsabilità nell'episodio, qualcuno avrebbe potuto mettere in circolazione la voce che al Troisgros gli astici saltavano in aria, spruzzando ovunque una disgustosa gelatina. E la cosa peggiore che può capitare a un ristorante di alto livello è che si diffondano dubbi sulla sua igiene. L'apprendista osservò attentamente la sostanza nel vasetto. Non appena aveva iniziato a decomporsi, vi aveva versato un po' d'acqua, perché pensava che potesse servire a conservarla. Quel tessuto gli ricordava - ammesso che potesse davvero ricordare qualcosa - le meduse e lui sapeva che le meduse resistevano solo in acqua, perché erano fatte quasi esclusivamente d'acqua. Evidentemente era stata una buona idea perché i frammenti si stabilizzarono. Il Troisgros fece una discretissima telefonata, in seguito alla quale il vasetto fu mandato alla vicina Università di Lione per farne esaminare il contenuto. E così esso arrivò sulla scrivania di Bernard Roche, docente di Biologia molecolare. Nel frattempo, nonostante l'acqua, il processo di decomposizione della gelatina era continuato e ormai nel vasetto galleggiava solo pochissima sostanza solida. Roche sottopose immediatamente quel poco che era rimasto a diversi test, tuttavia gli ultimi grumi si decomposero prima che lui potesse esaminarli accuratamente. Riuscì comunque a documentare
alcuni legami molecolari che lo sbigottivano e irritavano allo stesso tempo. Tra l'altro, trovò una neurotossina di grande efficacia, anche se non poteva dire se provenisse dalla gelatina o dall'acqua nel vasetto. Una cosa era certa: quell'acqua era satura di materiale organico e di diverse sostanze. Visto che al momento non aveva il tempo di esaminarla, Roche decise di conservare il contenuto residuo del vasetto e di fare ricerche più accurate nei giorni seguenti. E l'acqua finì nel frigorifero. La sera stessa, Jérôme si ammalò. Cominciò col provare una leggera nausea, ma il ristorante era pieno e lui non ci fece caso, continuando come al solito a seguire le coreografie della cucina. I dieci astici che non erano esplosi erano di qualità eccezionale e non ne servirono altri. Nonostante lo sgradevole incidente del pomeriggio, tutto procedeva liscio, proprio com'era abitudine al Troisgros. Intorno alle dieci, la nausea di Jérôme aumentò e a essa si aggiunse un leggero mal di testa. Poco dopo, si accorse che aveva difficoltà a concentrarsi: dimenticò di terminare una portata e di dare alcune indicazioni. Il decorso perfetto ed elegante della serata subì un'impercettibile battuta d'arresto. Jean Jérôme era un professionista e sapeva quand'era il momento di gettare la spugna. Si sentiva davvero male, così affidò la responsabilità del seguito della serata alla sua vice, una cuoca di grande talento che aveva fatto l'apprendistato a Parigi nel rinomato Ducasse; le disse che voleva fare una breve passeggiata nel giardino del ristorante e uscì. Il giardino comunicava direttamente con la cucina. Era di una bellezza eccezionale, durante la bella stagione: era là che gli ospiti venivano ricevuti, prendevano l'aperitivo e gli hors d'oeuvres, per poi essere condotti nel ristorante attraverso la cucina, dove veniva offerta loro una breve dimostrazione. Adesso il giardino era deserto, discretamente illuminato. Jérôme passeggiò avanti e indietro per qualche minuto. Attraverso l'ampia vetrata poteva seguire la frenetica attività della cucina, ma si accorse che non riusciva a mettere a fuoco lo sguardo per più di qualche secondo. Nonostante l'aria fresca, respirava a fatica e sentiva un'enorme pressione sul petto. Gli sembrava di avere le gambe di gomma. Per precauzione si sedette a uno dei tavoli di legno e ripensò agli avvenimenti della mattina. Si era ritrovato il corpo dell'astice tra i capelli e sul viso, sicuramente aveva respirato qualcosa... Probabilmente gli era finito del liquido in bocca, oppure aveva inghiottito un frammento di quella sostanza.
Che fosse il pensiero dell'animale esploso, o semplicemente la conseguenza della sua malattia, improvvisamente vomitò con violenza tra le piante ornamentali. Mentre era ancora lì, ansante e mezzo strozzato, pensò che quella robaccia era uscita. Bene. Avrebbe bevuto un sorso d'acqua e sarebbe stato subito meglio. Si risollevò, ma il mondo intorno a lui vorticava. Si sentiva bruciare, il suo campo visivo si era ristretto e gli sembrava di guardare in una spirale. Devi alzarti, pensò. Devi alzarti e andare in cucina a controllare che sia tutto a posto. Niente può andare storto. Non al Troisgros. Avanzò a fatica, strascicando i piedi, ma prese la direzione opposta. Dopo due passi, non ricordava più che voleva andare in cucina. Non sapeva più nulla e non vedeva più nulla. Crollò sotto gli alberi che circondavano il giardino. 18 aprile Vancouver Island, Canada Non finiva mai. Anawak sentiva gli occhi stringersi e arrossarsi, le palpebre gonfiarsi e tutt'intorno gli si erano formate rughette che non avrebbe dovuto avere, perché era troppo giovane. Era rimasto a fissare lo schermo finché la testa gli non era caduta sul tavolo. Dopo il delirio sulla costa occidentale, non aveva fatto altro che guardare video, senza peraltro riuscire ad assimilare che una minima parte del materiale. Erano registrazioni la cui esistenza era dovuta a una delle invenzioni più rivoluzionarie nella ricerca sul comportamento: la telemetria animale. Alla fine degli anni '70, i ricercatori avevano sviluppato un metodo rivoluzionario per osservare gli animali. Fino ad allora, erano state possibili solo osservazioni imprecise sulla zona di diffusione e sulle migrazioni di alcune specie; di conseguenza, sulla vita di molti animali, sui loro sistemi di caccia, sulla riproduzione e sui bisogni di ogni singolo individuo era possibile solo fare speculazioni. Naturalmente c'erano migliaia di animali oggetto di costante osservazione, ma quasi sempre vivevano in cattività e non era possibile trarre conclusioni attendibili sul loro comportamento in natura. Un animale in cattività non faceva nulla di quello che avrebbe fatto se fosse stato in libertà, più o meno come un carcerato in cella non offriva dati significativi sulla vita che avrebbe condotto come uomo libero.
E anche se gli animali venivano studiati nel loro ambiente naturale, le conoscenze restavano insufficienti: o scappavano o non si facevano neppure vedere. Nei fatti, più un ricercatore osservava l'oggetto dei suoi studi, più quello si allontanava. Nel caso di specie meno timide - come gli scimpanzé o i delfini -, gli esemplari osservati regolavano il proprio comportamento sulla base dell'osservatore, reagivano aggressivamente o con curiosità, talvolta diventavano vanitosi e si mettevano in posa; in breve, impedivano ogni conoscenza oggettiva. Quando poi si stancavano, scomparivano nella boscaglia, volavano via o s'immergevano sotto la superficie dell'acqua, dove finalmente si comportavano in maniera conforme alla loro natura. Ma era impossibile seguirli. Fin dai tempi di Darwin i biologi si erano posti domande cui non avevano saputo rispondere: come sopravvivono gli animali nelle fredde acque dell'Antartico? Come si può osservare un biotopo sotto una coltre di ghiaccio? Come si vede il mondo durante il volo sul Mediterraneo verso l'Africa se non si è su un aereo, bensì sulla schiena di un'oca selvatica? Che cosa capita a una singola ape nel giro di ventiquattr'ore? Come si ottengono dati sulla frequenza dei colpi d'ala, sul ritmo cardiaco, sulla pressione del sangue, sul comportamento alimentare, sulle prestazioni fisiologiche nell'immersione, sull'immagazzinamento dell'ossigeno e sulle conseguenze dell'influsso antropico, come il rumore delle navi o le esplosioni sottomarine, sui mammiferi marini? Come raggiungere gli animali là dove nessun essere umano poteva seguirli? La risposta era arrivata con una tecnologia grazie alla quale gli spedizionieri potevano determinare la posizione dei loro mezzi senza lasciare l'ufficio, e gli autisti riuscivano a trovare una strada in città sconosciute. Quella tecnologia era già comunemente acquisita senza che si sospettasse che di lì a poco avrebbe rivoluzionato la zoologia. La telemetria. Già alla fine degli anni '50, gli scienziati americani avevano elaborato progetti per dotare di sonde alcuni animali. La marina degli Stati Uniti aveva iniziato a lavorare coi delfini ammaestrati, tuttavia i primi tentativi erano falliti per le dimensioni delle trasmittenti, troppo pesanti. A che cosa serviva raccogliere informazioni con un cronotachigrafo sulla schiena di un delfino, se proprio quello strumento ne influenza il comportamento? Era stato un problema irresolubile finché la microelettronica non era andata incontro a una svolta: minuscoli cronotachigrafi e telecamere ultralegge-
re fornivano ogni informazione sulla vita degli animali, senza che questi ultimi ne fossero infastiditi. Essi vagavano per le foreste oppure s'immergevano sotto i lastroni di ghiaccio del McMurdo Sound portandosi appresso un oggetto high-tech di appena quindici grammi. Gli animali fornivano così informazioni sul loro stile di vita, sull'accoppiamento, sul modo di cacciare e sulle rotte di migrazione. Era possibile volare in mezzo mondo con uccelli di ogni specie. La tecnologia si era evoluta a tal punto che anche gli insetti erano stati dotati di microtrasmittenti che pesavano un millesimo di grammo, prendevano l'energia dalle onde radar e rimandavano onde a frequenza raddoppiata, in modo che i dati fossero ricevibili anche a oltre settecento metri di distanza. La maggior parte delle misurazioni erano affidate alla telemetria satellitare, un sistema tanto semplice quanto geniale. I segnali dei trasmettitori degli animali venivano ricevuti da ARGOS, un sistema di satelliti dell'agenzia spaziale francese CNES, e poi rispediti alla centrale di controllo a Tolosa e verso Fairbanks, negli Stati Uniti, da dove, nel giro di meno di due ore, venivano diffusi a una serie d'istituti in tutto il mondo. La ricerca su balene, foche, pinguini e tartarughe marine si era sviluppata come un settore specifico della telemetria, permettendo di osservare il più affascinante, perché quasi inesplorato, spazio vitale della Terra. Cronotachigrafi ultraleggeri immagazzinavano dati provenienti da notevoli profondità: registravano temperatura, profondità e durata delle immersioni, posizione, direzione e velocità. Ma il loro segnale non era in grado di passare attraverso l'acqua, così i satelliti ARGO erano condannati alla cecità rispetto agli abissi marini. Le megattere, che trascorrevano la maggior parte della loro vita lungo le coste della California, rimanevano in superficie al massimo un'ora al giorno. Quindi, mentre gli ornitologi potevano osservare le cicogne migratrici e ricevere dati in tempo reale, i ricercatori marini erano come tagliati fuori non appena le balene s'immergevano. Per poterle studiare davvero, avrebbero dovuto seguirle sul fondo del Pacifico con la telecamera, ma per un sommozzatore sarebbe stato impossibile e i sommergibili erano troppo lenti e poco manovrabili. Ma gli scienziati dell'University of California di Santa Cruz erano infine riusciti a trovare la soluzione: una telecamera sottomarina del peso di pochi grammi e resistente alla pressione. Avevano fissato lo strumento a diversi cetacei. In breve, si erano scoperti alcuni fenomeni sorprendenti e, nel giro di poche settimane, le conoscenze sui mammiferi marini si erano considerevolmente ampliate. Sarebbe stato fantastico poter seguire balene
e delfini con le sonde trasmittenti come si faceva con gli altri animali, ma purtroppo era difficile, se non impossibile. Ecco perché Anawak non poteva avere tutte le informazioni che avrebbe desiderato sull'ambiente delle balene. Nel contempo, però, le informazioni erano anche troppe: nessuno sapeva dire a che cosa bisognasse prestare particolare attenzione, quindi ogni informazione poteva essere importante. Migliaia di ore di filmati e registrazioni audio, misurazioni, analisi, statistiche. «Progetto Sisifo», come lo chiamava John Ford. Perlomeno Anawak non si poteva lamentare per la mancanza di tempo: la Davies Whaling Station era stata sollevata dalla responsabilità degli incidenti, ma era chiusa; solo le grandi navi percorrevano la zona costiera occidentale del Canada e del Nordamerica. Quello di Vancouver Island non era stato un incidente isolato; episodi simili erano avvenuti contemporaneamente da San Francisco fino all'Alaska. Nel corso della prima ondata di attacchi, oltre cento piccole navi e barche erano state affondate o gravemente danneggiate. Durante il fine settimana, il numero degli attacchi era drasticamente diminuito, ma solo perché nessuno osava uscire in mare se non su grandi traghetti o cargo. Continuavano a rincorrersi notizie contraddittorie e anche sul numero delle vittime c'erano informazioni poco affidabili. Diverse commissioni e unità di crisi internazionali avevano iniziato il loro lavoro, ma finora l'unica conseguenza era stata la presenza invasiva di velivoli. Ovunque lungo la costa crepitavano elicotteri, in cui stavano pigiati soldati, scienziati e politici che fissavano il mare con uno stato d'animo comune: la perplessità. Seguendo la prassi di quegli staff, i dirigenti dei settori operativi del team governativo avevano coinvolto specialisti esterni. L'acquario di Vancouver, con Ford al vertice, fu adibito a centro per la raccolta dei dati rilevanti. Erano stati coinvolti praticamente tutti gli istituti e tutte le strutture di ricerca che si occupavano di vita marina. Per Ford era un peso opprimente, un compito di cui faticava a tracciare i contorni. Nel corso del tempo, erano stati elaborati scenari per ogni possibile avvenimento - dal terremoto del secolo all'attacco terroristico -, però non per un caso come quello. Ford non esitò a lungo e a sua volta propose come consulente Anawak, che, tra gli scienziati del Nordamerica e del Canada, meglio di tutti sapeva che cosa passava nella testa di una balena. Perché solo là poteva trovarsi la risposta: posto che le balene fossero animali intelligenti, si doveva pensare che fossero impazzite? E, in caso contrario, cos'era successo? Ma neppure Anawak, in cui venivano riposte grandi speranze, conosceva
la risposta. Aveva richiesto tutto il materiale telemetrico raccolto dall'inizio dell'anno sulla costa del Pacifico e, da ventiquattr'ore, lui e Alicia analizzavano le sequenze video, con l'aiuto dei collaboratori dell'acquario. Studiavano i dati relativi alle posizioni, ascoltavano i rumori registrati dagli idrofoni, ma senza arrivare a risultati utili. All'inizio della migrazione dalle Hawaii e dalla Bassa California fino all'Artico, nessuna delle balene portava strumenti telemetrici a parte due esemplari, i cui cronotachigrafi erano però caduti poco tempo dopo che essi avevano lasciato la California. Di fatto, le uniche conoscenze provenivano dal video della donna sul Blue Shark. L'avevano studiato più volte nella Davies Whaling Station insieme con gli altri skipper che sapevano riconoscere le pinne caudali delle balene. Dopo diverse proiezioni e ingrandimenti erano finalmente riusciti a riconoscere due megattere, una balena grigia e alcune orche. Alicia aveva ragione. Il video era una traccia. La rabbia di Anawak nei confronti della studentessa era svanita. Non stava mai zitta e parlava prima di pensare, ma, dietro i modi risoluti, c'era una mente brillante, con notevoli capacità analitiche. Inoltre Alicia aveva tempo. I suoi genitori vivevano nelle British Properties, il quartiere bene di Vancouver, avevano assicurato ad Alicia un'esistenza agiata, ma non si facevano mai vedere. Anawak si era convinto che cercassero di compensare l'eclatante mancanza d'interesse e di tempo per la figlia rifornendola di soldi, che peraltro sembravano non interessarle; tuttavia la mettevano in condizione di spendere senza problemi e di seguire la propria strada. In fondo, la situazione era perfetta: Alicia vedeva quell'insperata collaborazione come una possibilità di nutrire con la pratica i suoi studi di biologìa e Anawak, dopo la morte di Susan Stringer, aveva bisogno di un'assistente. Susan... Ogni volta che pensava alla skipper era preso dalla vergogna e dal senso di colpa per non essere riuscito a salvarla. Continuava a ripetersi che niente al mondo avrebbe potuto salvarla dopo che era stata afferrata dall'orca, ma era costantemente roso dal dubbio. Cosa sapeva davvero dei pensieri di un cetaceo, lui che aveva pubblicato saggi e trattati sull'autocoscienza delle focene? Come si convinceva un'orca a lasciare la sua vittima? Quali argomenti erano accessibili a una mente intelligente che funzionava diversamente da quella umana? C'era davvero una possibilità? Poi tornava a ripetersi che le orche erano animali. Molto intelligenti, certo, ma animali. E, per loro, una preda era una preda.
D'altra parte, gli esseri umani normalmente non rientravano tra le prede delle orche. Ma le orche avevano davvero mangiato i passeggeri finiti in acqua? O li avevano semplicemente uccisi? Assassinati... Si poteva accusare un'orca di omicidio? Anawak sospirò. Girava a vuoto, gli occhi gli bruciavano sempre di più. Prese svogliatamente un altro CD, lo rigirò indeciso tra le mani e lo mise via. La sua concentrazione era esaurita. Aveva trascorso tutto il giorno all'acquario, aveva parlato ininterrottamente con diverse persone oppure telefonato senza riuscire a fare passi avanti. Si sentiva sfinito e vuoto. Spense il monitor e guardò l'orologio: le sette passate. Si alzò e andò a cercare John Ford. Il direttore era impegnato in una riunione, quindi cercò Alicia. La trovò seduta in una sala riunioni fuori uso, impegnata coi dati della telescrivente. «Hai voglia di una bistecca di capodoglio?» chiese Anawak con un sorrisetto tirato. Alicia sollevò la testa e ammiccò. Aveva sostituito gli occhiali blu con le lenti a contatto, che mantenevano comunque un sospetto colore blu. Se si riusciva a ignorare i denti da coniglio, non era brutta. «Certo. Dove?» «C'è un chiosco decente qui all'angolo.» «Sciocchezze, un chiosco!» esclamò divertita. «T'invito io.» «Non è necessario.» «Da Cardero's.» «Ah, santo cielo.» «È un bel posto.» «Lo so che è un bel posto. Ma, primo non mi devi invitare, e secondo trovo che il Cardero's sia... ma sì, come dire...» «Io trovo che sia di classe.» Il ristorante bar Cardero's si trovava nel mezzo del porto degli yacht, Coal Harbour. Era grande, arioso, col tetto alto e con ampie finestre. Un luogo alla moda. Si poteva godere di uno splendido panorama e di una cucina West Coast di notevole qualità. Nel bar limitrofo scorrevano generosamente drink che venivano trangugiati da giovani con abiti dal taglio perfetto. Anawak sapeva che i suoi jeans lisi e il pullover non sarebbero stati adatti... Inoltre nei locali alla moda lui si sentiva a disagio. Alicia invece era come... predestinata al Cardero's. E Cardero's sia.
Andarono al porto con la vecchia Ford di Anawak ed ebbero fortuna. In genere, per trovare posto da Cardero's bisognava prenotare molto tempo prima, ma in un angolo c'era un tavolo libero, un po' in disparte, proprio come piaceva ad Anawak. Presero la specialità della casa: salmone con soia, zucchero e limone, grigliato su legno di cedro. «Okay», disse Anawak non appena il cameriere si fu allontanato. «Che cosa abbiamo?» «Per quanto mi riguarda, ho fame», esclamò Alicia. «Tutto il resto rimane un mistero.» Anawak si massaggiò la fronte. «Forse ho trovato qualcosa. Mi ha aiutato il video di quella donna.» «Il mio video.» «Ma certo», borbottò Anawak con fare ironico. «Ti dobbiamo tutto.» «Quantomeno mi dovete un'idea. Che cos'hai trovato?» «Qualcosa da mettere in relazione coi cetacei non identificati. Mi sono accorto che all'attacco hanno partecipato solo le orche transienti. Nessuna delle stanziali.» «Mmm...» Lei arricciò il naso. «È vero, in effetti le stanziali non hanno fatto niente di male.» «Appunto. Nel Johnstone Strait non ci sono stati attacchi. E là c'erano dei kayak.» «Allora il pericolo viene dagli animali migratori.» «Dalle orche transienti e probabilmente da quelle offshore. Le megattere e la balena grigia identificate sono migratrici. Tutte e tre hanno trascorso l'inverno nella Bassa California, è documentato. Abbiamo mandato per email le foto delle pinne caudali all'Istituto di biologia marina di Seattle, dove confermano che, negli ultimi anni, quegli animali sono stati avvistati là.» Alicia lo guardò irritata. «Non è una novità che le megattere e le balene grigie migrino.» «Non tutte.» «Oh. Pensavo...» «Quando Shoemaker, Greywolf e io siamo tornati in mare, è successa una cosa bizzarra. Me n'ero quasi dimenticato. Dovevamo portare a bordo i passeggeri della Lady Wexham. La nave stava affondando ed eravamo sotto l'attacco di un gruppo di balene grigie. Ero sicuro che non saremmo nemmeno riusciti a salvare la nostra pelle, figuriamoci quella di qualcun altro. Ma improvvisamente sono emerse vicino a noi due balene grigie e
non ci hanno fatto niente. Sono rimaste semplicemente per un po' nell'acqua e le altre si sono ritirate.» «Erano stanziali?» «Per tutto l'anno, sulla costa occidentale c'è una dozzina di balene grigie. Sono troppo vecchie per sopportare la fatica delle migrazioni. Quando i branchi arrivano da sud, le vecchie vengono riaccolte con un rituale di saluto. Ho riconosciuto una di quelle stanziali e non era ostile nei nostri confronti. Al contrario, credo che le dobbiamo la vita.» «Non ho parole! Vi hanno protetti!» «Be', sono sorpreso...» Anawak sollevò le sopracciglia. «Una simile umanizzazione che esce dalle tue labbra?» «Da tre giorni a questa parte, credo praticamente a tutto.» «'Protetti' mi sembra esagerato, ma credo che abbiano tenuto lontano le altre. Non avevano simpatia per gli aggressori. Con una certa cautela, si potrebbe concludere che lo strano comportamento riguardi solo gli animali migratori. Gli stanziali - di qualsiasi specie - sono pacifici. Sembra quasi che si rendano conto che gli altri non ci stanno più con la testa.» «Potrebbe essere...» disse Alicia, pensierosa, «Insomma, buona parte degli animali sparisce sulla strada dalla Bassa California a qui, in mare aperto. Le orche aggressive vivono appunto al largo, nel Pacifico.» «Appunto. Bisognerebbe cercare il motivo del loro cambiamento proprio là, negli abissi del mare blu, al largo.» «Cercare... Ma cosa?» «Lo scopriremo», disse John Ford. Era comparso vicino a loro, tirò a sé una sedia e si accomodò. «E prima che quei tipi del governo mi facciano impazzire con le loro continue chiamate.» «Mi sono accorta di un'altra cosa», disse Alicia durante il dessert. «Le orche si divertivano, ma le balene più grandi no.» «Cosa te lo fa pensare?» chiese Anawak. «Ma sì», esclamò lei, con la bocca piena di mousse al cioccolato. «Prova a immaginare di dover saltare contro qualcosa per capovolgerlo. O di lasciarti cadere su una cosa che ha spigoli e angoli. Non correresti il serio rischio di ferirti?» «Hai ragione», disse John. «Gli animali potrebbero essersi feriti. E non c'è animale che si ferisca spontaneamente se non per il mantenimento della specie o la protezione della prole.» Si tolse gli occhiali e li pulì meticolosamente. «Vogliamo provare a buttar lì qualche teoria assurda? E se tutta la faccenda fosse stata una sorta di protesta?»
«Contro che cosa?» «Contro la caccia alle balene.» «Una protesta delle balene contro la caccia alle balene?» esclamò Alicia, incredula. «In passato, ci sono stati attacchi ad alcune baleniere», disse Ford. «Specialmente se minacciavano i piccoli.» Anawak scosse la testa. «Non ci credi neppure tu.» «Era un'ipotesi.» «Vuoi dire che non si rendono conto di essere cacciate?» chiese Alicia. «È una sciocchezza.» Anawak alzò gli occhi al cielo. «Non riconoscono la sistematicità della caccia. I globicefali si spiaggiano sempre nelle stesse insenature. Alle isole Fær Øer, i pescatori ne spingono interi branchi e li colpiscono con efferata determinazione: un massacro in piena regola. Oppure guarda in Giappone, a Futo, dove si massacrano focene comuni e marsovini. Gli animali sanno da generazioni che cosa li aspetta: perché ritornano sempre lì?» «Non è di certo segno di una particolare intelligenza», annuì John. «D'altra parte, per quanto si conoscano bene le conseguenza ogni anno si vaporizzano propellenti e si dibosca la foresta tropicale. Anche questo è il segno di un'intelligenza non particolarmente acuta, non credete?» Alicia aggrottò la fronte e spazzolò gli ultimi resti della mousse. «È vero», esclamò Anawak dopo un momento. «Che cosa?» «Alicia ha ragione, gli animali devono essersi feriti saltando contro le navi. Se ti venisse in mente di uccidere delle persone, che faresti? Ti piazzeresti tranquillo in un posto che ti permette una buona visuale, e poi faresti fuoco. Ma staresti bene attento a non spararti nei piedi.» «A meno che tu non sia pazzo.» «O ipnotizzato.» «O malato. O confuso. Ecco, l'ho detto; quegli animali sono confusi.» «Un lavaggio del cervello, forse?» «Smettiamola di dire idiozie,» Per un po' nessuno disse nulla. Erano tutti assorti nei loro pensieri, a dispetto del crescente frastuono all'interno del Cardero's. Dai tavoli vicini arrivavano stralci di conversazioni. Gli avvenimenti recenti dominavano la stampa e la vita pubblica. Qualcuno metteva in relazione quanto accaduto lungo la costa con le avarie nelle acque asiatiche. In Giappone e nello stretto di Malacca erano avvenuti in breve tempo i peggiori disastri navali
dell'ultimo decennio. Ci s'intratteneva su questioni specialistiche e si scambiavano teorie, ma sembrava proprio che quei tragici avvenimenti non avessero tolto l'appetito agli avventori. «E se dipendesse dai veleni?» chiese infine Anawak. «Dal PCB, da tutta quella porcheria. Che qualcosa faccia impazzire gli animali?» «In ogni caso li fa infuriare», ironizzò John. «L'ho già detto, protestano. Perché gli islandesi chiedono un aumento delle quote di pesca, i giapponesi li incalzano e i norvegesi se ne infischiano della IWC, dell'International Whaling Commission. Perché anche i makah vogliono rimettersi a cacciarle. Ehi! È per questo!» Sorrise. «Devono averlo letto sui giornali.» «Tenuto conto che sei il direttore del comitato scientifico, mi sembra che tu non abbia le idee molto chiare», disse Anawak. «Per non parlare della tua fama di scienziato serio.» «Makah?» fece eco Alicia. «Una tribù dei nuu-chah-nulth», spiegò John. «Indiani dell'ovest di Vancouver Island. Da anni stanno cercando di ottenere dai tribunali il diritto di riprendere la caccia alle balene.» «Che cosa? Ma dove vivono? Sono pazzi?» «Il Signore ti conservi il tuo sdegno da persona civile, ma l'ultima volta che i makah hanno cacciato balene è stato nel 1928», sbadigliò Anawak. Riusciva appena a tenere gli occhi aperti. «Non sono stati loro a portare al limite dell'estinzione le balene grigie, quelle azzurre e le megattere. Per i makah è una questione di salvaguardia della loro cultura; infatti sostengono che ormai nessuno di loro padroneggia più la caccia tradizionale alla balena.» «E allora? Per mangiare carne di balena basta andare al supermercato.» «Non interrompere le nobili perorazioni di Leon», la ammonì Ford, versandosi il vino. Alicia fissò Anawak. Nei suoi occhi cambiò qualcosa. Per favore, no, pensò lui. Lui aveva l'aspetto di un indiano, ma Alicia avrebbe tratto le conclusioni sbagliate. Anawak poteva letteralmente sentire l'arrivo della domanda. Avrebbe dovuto spiegare e non c'era nulla che odiasse di più. Lo odiava e avrebbe voluto che Ford non avesse iniziato a parlare dei makah. Scambiò una rapida occhiata col direttore. Ford capì. «Ne parleremo un'altra volta», propose. E, prima che Alicia potesse aprire bocca, disse: «Dobbiamo parlare della teoria dell'avvelenamento con Sue Oliviera, Ray Fenwick o Rod Palm. Ma, per dirla senza pe-
li sulla lingua, io non ci credo. L'inquinamento si forma col petrolio fuoriuscito e con lo scarico in mare d'idrocarburi clorurati e sai meglio di me a quali conseguenze porta: indebolimento del sistema immunitario, infezioni, morte prematura... Non alla pazzia.» «Se non sbaglio, qualche scienziato ha sostenuto che le orche della costa occidentale sarebbero morte nel giro di trent'anni», intervenne Alicia. Anawak annuì, cupo. «Dai trenta ai centoventi anni, se si va avanti così. Perdendo la loro fonte di nutrimento, i salmoni, se non scompaiono per il veleno, le orche migrano. Devono cercare il nutrimento in zone che non conoscono, s'impigliano nelle reti da pesca... tutto si somma.» «Dimentica la teoria dell'avvelenamento», sbuffò Ford. «Se si trattasse solo di orche, potremmo parlarne. Ma orche e megattere che elaborano una strategia comune... Non lo so, Leon.» Anawak rifletté. «Conoscete il mio modo di vedere», disse poi a bassa voce. «Sono ben lontano dall'attribuire intenzioni agli animali o dal sopravvalutare la loro intelligenza, ma... Non avete anche voi la sensazione che vogliano sbarazzarsi di noi?» Lo guardarono. Si era aspettato di scontrarsi con energici dinieghi. Invece Alicia annuì. «Sì. Tranne le stanziali.» «Tranne le stanziali», annuì Anawak. «Perché non sono state con le altre nel luogo in cui è successo qualcosa. Le balene che hanno affondato il rimorchiatore... Insomma, ve l'ho detto! La risposta è là, al largo.» «Mio Dio, Leon.» Ford si appoggiò allo schienale e bevve un generoso sorso di vino. «In che film siamo finiti? Andate e combattete l'umanità?» Anawak rimase in silenzio. Il video della donna non portò altri risultati. A tarda sera, Anawak si trovava nel letto nel suo piccolo appartamento di Vancouver, ma non riusciva a dormire. Fu allora che maturò l'idea di studiare una delle balene dal comportamento anomalo. Gli animali avevano assorbito qualcosa che li dominava. Forse, se fossero riusciti a dotarne uno di telecamera e trasmettitore, le risposte sarebbero arrivate. La questione era come riuscirci con una megattera furiosa. Impresa difficile, considerando che anche quelle pacifiche non stavano mai ferme. E poi c'era il problema della pelle... Munire di trasmettitore una foca era ben diverso che attrezzare una balena. Una foca non era difficile da catturare. I cerotti biodegradabili con cui venivano fissati i trasmettitori rimanevano attaccati al pelo, si seccavano
velocemente e, a un certo punto, si staccavano da soli. Grazie alla muta annuale, sparivano anche gli ultimi residui del cerotto. Ma balene e delfini non avevano il pelo. Poche cose erano più lisce della pelle di orche e delfini: al tatto essa sembrava un uovo appena sgusciato ed era ricoperta da un sottile strato di gel, che serviva a ridurre la resistenza alle correnti e a tenere lontani i batteri. Lo strato superiore cambiava in continuazione. Lo staccavano gli enzimi e, coi salti, esso cadeva in brandelli lunghi e sottili, insieme con tutti gli inquilini indesiderati e coi trasmettitori. E la pelle delle balene grigie non offriva una presa migliore. Senza accendere la luce, Anawak si alzò e si avvicinò alla finestra. L'appartamento si trovava in un vecchio condominio con vista su Granville Island e lui, di notte, poteva guardare le luci della città. Esaminò le diverse opzioni. Ovviamente erano possibili alcune astuzie. Gli scienziati americani assicuravano con ventose le trasmittenti e gli strumenti di misurazione. Le sonde venivano fissate agli animali che nuotavano nei pressi di un'imbarcazione o tra le onde di prua, con l'ausilio di lunghe aste. In genere era possibile avvicinarsi abbastanza per portare a termine l'operazione. Era pur sempre una strada. Tuttavia, anche il trasmettitore con la ventosa riusciva a reggere alle correnti solo per qualche ora. Altri attaccavano gli strumenti sulla pinna dorsale. Ma in quei giorni il vero problema era come avvicinarsi a una balena senza essere immediatamente attaccati. Si potevano stordire gli animali... Ma era troppo complicato. Inoltre i cronotachigrafi non sarebbero bastati, c'era bisogno di telecamere. Telemetria satellitare e immagini video. Improvvisamente gli venne un'idea. C'era un metodo. Richiedeva un buon tiratore. Le balene erano bersagli grandi, tuttavia era consigliabile qualcuno che sapesse sparare bene. Di colpo, Anawak divenne frenetico. Corse alla scrivania, si collegò a Internet e visitò alcuni siti. Poi frugò in un cassetto, finché non trovò l'indirizzo web dell'Underwater Robotics & Application Laboratoy Team di Tokyo. Ormai sapeva come fare. Bisognava percorrere le due strade. L'unità di crisi avrebbe dovuto sborsare una gran quantità di denaro, ma nessuno avrebbe battuto ciglio perché quel tentativo poteva servire alla spiegazione del problema. I suoi pensieri vorticavano. Era quasi mattina quando finalmente si addormentò. Il suo ultimo pensiero riguardò la Barrier Queen e Roberts. Anche quello era un problema.
Il manager non l'aveva richiamato, benché Anawak avesse cercato più volte di sapere qualcosa. Sperava che la Inglewood avesse almeno mandato i campioni a Nanaimo. E che ne era del rapporto? Non gli piaceva essere tenuto all'oscuro. Come poteva fare tutto il giorno dopo? Mi devo alzare per scrivere degli appunti, pensò. Come prima cosa... Nello stesso istante si addormentò, esausto. 20 aprile Lione, Francia Bernard Roche si rimproverava per aver lasciato passare troppo tempo prima di analizzare i campioni d'acqua. Ma ormai non c'era nulla da fare. Come avrebbe potuto sospettare che un astice potesse uccidere un uomo? E probabilmente più d'uno? Jean Jérôme, il cuoco del Troisgros, a Roanne, non si era più svegliato dal coma ed era morto ventiquattr'ore dopo che un astice bretone contaminato gli era scoppiato in faccia. Non si conoscevano ancora le cause del decesso, l'unica cosa certa era che il suo sistema immunitario non aveva funzionato, evidentemente in seguito a uno shock da sostanze altamente tossiche. Anche se non era facile dimostrarlo, sembrava proprio che la responsabilità fosse dell'astice, e in particolare della sostanza al suo interno. Anche altri membri del personale di cucina si erano ammalati: il più grave era l'apprendista che aveva toccato e conservato quella strana sostanza. Soffrivano tutti di vertigini, nausea, mal di testa e difficoltà di concentrazione. Già quello delineava un quadro molto grave, specialmente per il Troisgros, che si era trovato in una situazione imbarazzante. Ma Roche era molto preoccupato per il numero di persone che si presentavano dai medici lamentando, seppure in forma attenuata, gli stessi sintomi che avevano condotto alla morte Jérôme. E temeva il peggio da quando aveva scoperto dov'era finita l'acqua in cui il cuoco aveva riposto gli astici. La stampa aveva smorzato i toni, anche per riguardo al ristorante, ma naturalmente l'annuncio era stato dato. E Roche aveva sentito notizie analoghe giungere anche da altri luoghi, a dimostrazione che, evidentemente, non era stato colpito solo il Troisgros. A Parigi erano morte allo stesso modo diverse persone che avevano consumato carne di astice avariata...
Almeno così si diceva, ma Roche sospettava che la causa fosse un'altra. Le notizie arrivavano da Le Havre, Cherbourg, Caen, Rennes e Brest. Roche aveva incaricato un assistente di continuare le ricerche. Poi, siccome cominciava a delinearsi un quadro in cui gli astici bretoni giocavano un ruolo inglorioso, mise da parte tutto il resto e si dedicò esclusivamente all'analisi dei campioni di acqua. Di nuovo si trovò di fronte a legami insoliti, che lo lasciavano perplesso. Era indispensabile avere altri campioni, così fece prendere contatti con le città colpite. Sfortunatamente a nessuno era venuto in mente di conservare un po' di quella sostanza. Non erano esplosi altri astici oltre a quello di Roanne; si parlava sempre di animali immangiabili, la cui carne era stata buttata via, e di esemplari che avevano fatto una pessima impressione già prima della cottura perché c'era qualcosa che fluiva dal loro interno. Roche si augurava che qualcuno si fosse dimostrato intelligente come l'apprendista, ma pescatori, commercianti all'ingrosso e personale di cucina non avevano mai lavorato in un laboratorio. Fu il primo ad accreditare certe speculazioni: ipotizzò che nella corazza dell'astice non ci fosse un solo organismo, bensì due. Uno dei quali, gelatinoso, si era decomposto ed era sparito completamente; l'altro, invece, era vivo, presente in quantità notevole e a Roche risultava funestamente noto. Osservò nel microscopio. Migliaia di sfere trasparenti, simile a palline da tennis, formicolavano l'una sull'altra. Se la sua ipotesi era vera, all'interno di quelle sfere doveva trovarsi un pedunculus arrotolato su se stesso, una specie di proboscide. Era stato quell'essere a uccidere Jean Jérôme? Roche prese un ago sterile e se lo infilò nella punta del pollice, facendone uscire una gocciolina di sangue. Con cautela la iniettò nel campione sul vetrino e tornò a guardare attraverso la lente del microscopio. Ingranditi di settecento volte, i globuli di Roche sembravano petali rosso rubino. Si spostavano barcollando nell'acqua, tutti pieni di emoglobina. Immediatamente le sfere trasparenti si attivarono, estrassero le loro proboscidi e balzarono fulmineamente sulle cellule umane. I peduncoli s'infilarono come aghi. Quegli inquietanti microbi si coloravano lentamente di rosso, mentre i globuli si prosciugavano. Quando un globulo era prosciugato, balzavano su un altro, e intanto s'ingrossavano. Era proprio quello che Roche temeva. Ognuno di quegli esseri poteva contenere fino a dieci globuli: al massimo in tre quarti d'ora avrebbero terminato il loro lavoro. Continuò a guardare, affascinato, e si accorse che tutto procedeva più velocemente di quanto aves-
se pensato, molto più velocemente. La scena finì dopo quindici minuti. Roche rimase immobile davanti al microscopio. Poi annotò: «Si tratta probabilmente di Pfiesteria piscicida». Il «probabilmente» l'aveva messo per scrupolo, poiché era sicuro di aver appena classificato l'agente patogeno responsabile delle malattie e delle morti. Ciò che lo turbava era l'impressione di avere a che fare con un esemplare mostruoso della Pfiesteria piscicida. Si andava di superlativo in superlativo, perché in sé la Pfiesteria piscicida era già mostruosa: un mostro che misurava un centesimo di millimetro, uno dei più piccoli predatori del mondo. E nel contempo uno dei più pericolosi. Si trattava di un vampiro. Era un argomento di cui aveva letto molto. Il primo incontro della scienza con la Pfiesteria non risaliva a molto tempo prima. Era avvenuto negli anni '80, con la morte di cinquanta pesci di laboratorio nella North Carolina State University. L'acqua in cui nuotavano i pesci era pulita, ma si registrava la presenza nell'acquario di nuvole di organismi unicellulari in sospensione. Poi l'acqua era stata cambiata e altri pesci erano stati immessi nell'acquario. Quei pesci, tuttavia, non erano sopravvissuti neppure un giorno: qualcosa li aveva uccisi, e pure con grande efficienza. Pesciolini rossi, spigole macchiate, tilapia africane... Tutti morivano, spesso nel giro di qualche ora, a volte di minuti. Gli scienziati avevano inoltre osservato che le vittime, prima di morire tra mille tormenti, erano scosse da contrazioni. E che ogni volta comparivano come dal nulla quei misteriosi microbi e altrettanto improvvisamente sparivano. Progressivamente il quadro si era fatto più chiaro. Una botanica aveva identificato il sinistro organismo come un flagellato, appartenente a una specie sconosciuta fino a quel momento. Un dinoflagellato, un'alga. Ce n'erano molte specie: la maggior parte era innocua, ma alcune ormai da tempo si erano rivelate vere e proprie pesti. Contaminavano interi allevamenti di molluschi. Erano insomma i dinoflagellati a provocare la pericolosissima «marea rossa», che colorava il mare di rosso sangue o di marrone. E si sapeva che attaccavano i crostacei. Tuttavia quegli esemplari sembravano del tutto inoffensivi rispetto all'organismo appena scoperto. Perché la Pfiesteria piscicida si differenziava dai suoi simili; la sua aggressività era impressionante e, in un certo senso, ricordava le zecche. Non per la forma, ma perché mostrava una pazienza simile. Stava appostata, apparentemente priva di vita, sul fondo delle acque. Ogni singolo organi-
smo aveva intorno una capsula, una specie di ciste che lo proteggeva. In tal modo, la Pfiesteria poteva resistere anni senza cibo. Finché non passava in zona un banco di pesci, i cui escrementi arrivavano sul fondo e risvegliavano l'appetito degli organismi unicellulari. Quello che succedeva in seguito poteva essere descritto solo come un attacco lampo. Le alghe si staccavano a miliardi dalle loro cisti e risalivano, utilizzando i due flagelli all'estremità del corpo come sistema di locomozione: uno ruotava come un'elica; l'altro guidava l'organismo nella direzione desiderata. La Pfiesteria si attaccava al corpo di un pesce e liberava un veleno che paralizzava il sistema nervoso dell'animale e, nel contempo, faceva buchi grandi come una moneta nella pelle. Poi infilava la proboscide nelle ferite e assumeva gli umori della preda morente. Quand'era sazia, si staccava dalla vittima e si lasciava cadere di nuovo sul fondo, tornando a incapsularsi. In sé, le alghe tossiche erano fenomeni normali, come i funghi in un bosco. Alcune di esse erano note fin dai tempi biblici. Nell'Esodo veniva descritto un fenomeno che sembrava corrispondere con sorprendente esattezza a una «marea rossa»: «Aronne alzò il bastone, percosse le acque che erano nel fiume sotto gli occhi del faraone e sotto gli occhi dei suoi servitori; e tutte le acque che erano nel Fiume furono cambiate in sangue. I pesci che erano nel fiume morirono e il fiume fu inquinato, tanto che gli egiziani non potevano più bere l'acqua del fiume. Vi fu sangue in tutto il Paese d'Egitto». Quindi non c'era nulla di straordinario nel fatto che le alghe uccidessero alcuni pesci... La novità era nel modo, nella brutalità con cui lo facevano. Era come se una malattia fosse uscita dall'acqua e avesse attaccato il mondo, una malattia il cui sintomo più spettacolare si chiamava Pfiesteria piscicida. Attacchi velenosi ad animali marini, nuove malattie dei coralli... tutto ciò esprimeva le condizioni in cui versavano i mari in tutto il mondo: indeboliti dagli scarichi di sostanze dannose, afflitti dall'overfishing, soggetti alla cementizzazione irresponsabile delle coste e al riscaldamento del clima. Si discuteva se le invasioni di alghe fossero un evento periodico o un fenomeno del tutto nuovo, intanto però era certo che invasioni di quelle dimensioni non si erano mai viste e che la natura era maestra nella creazione di nuove specie. Gli europei esultavano perché non erano toccati dalla Pfiesteria, ma in Norvegia morivano migliaia di pesci e l'allevamento di salmoni era sull'orlo della rovina. Stavolta l'assassino si chiamava Chrysochromulina polypeis, una sorta di zelante fratellino della Pfiesteria, e nessuno osava prevedere quali altri organismi sarebbero com-
parsi. Ora la Pfiesteria piscicida aveva attaccato gli astici bretoni. Ma era davvero Pfiesteria piscicida? Il dubbio tormentava Roche. Il comportamento delle cellule non lasciava dubbi, anche se la Pfiesteria appariva molto più aggressiva di quanto descritto nella letteratura scientifica. Soprattutto lui si chiedeva come mai l'astice fosse sopravvissuto così a lungo. Le alghe provenivano dal suo interno? Insieme con quella sostanza? La massa gelatinosa che si decomponeva all'aria sembrava essere qualcosa di completamente diverso dalle alghe, qualcosa di assolutamente sconosciuto. Provenivano entrambe dall'interno dell'astice? Ma cos'era successo alla carne dell'astice? Si trattava davvero di un astice? Roche cadde in un profondo smarrimento. Di una cosa però era assolutamente certo: qualunque cosa fosse, adesso si trovava nell'acqua potabile di Roanne. 22 aprile Mar di Norvegia, margine continentale Sul mare, il mondo sembrava fatto esclusivamente di acqua, ed era separato dal cielo solo da un labile confine. Così, nelle giornate serene, persi in quell'infinito, si aveva l'impressione di essere letteralmente risucchiati nell'universo; mentre con la pioggia era difficile comprendere se si era ancora sulla superficie del mare o se si era sommersi. Anche i marinai più incalliti trovavano deprimente la monotonia della pioggia. L'orizzonte si cancellava, il nero delle onde si perdeva nelle masse di nuvole senza contorno e lasciava l'impressionante immagine di un universo senza luce, senza forma e senza speranza. Nel mare del Nord e nel mar di Norvegia le torri di perforazione offrivano dei punti di riferimento. Ma al largo, sulla scarpata continentale, dove da due giorni incrociava la Sonne, la maggior parte delle piattaforme era troppo lontana per poter essere vista a occhio nudo. Anche le poche torri visibili sparivano nella pioggia sottile. Era tutto bagnato fradicio e un freddo umido s'infilava sotto le giacche impermeabili e le tute degli scienziati e dell'equipaggio. A quella monotona pioggerellina, tutti avrebbero preferito una vera pioggia, con gocce grosse e battenti. Sembrava che l'acqua non arrivasse solo dal cielo, ma che risalisse anche dal mare. Era uno dei giorni
più infelici che Johanson ricordasse. Si tirò il cappuccio fin sulla fronte e si diresse verso poppa, dove il personale tecnico era impegnato nel recupero della multisonda. A metà strada, Bohrmann gli si affiancò. «Anche lei continua a sognare vermi?» chiese Johanson. «Non ancora», rispose il geologo. «E lei?» «Mi rifugio nell'idea di recitare in un film.» «Buona idea. Chi è il regista?» «Che ne dice di Hitchcock?» «Gli uccelli in una versione per geologi marini?» Bohrmann fece una risata amara. «Una bella rappresentazione... Ah, ma sono già a buon punto!» Bohrmann lasciò Johanson e si affrettò verso poppa. Appeso alla gru, emerse un grande telaio rotondo, nella cui metà superiore si trovavano alcuni tubi di plastica che contenevano campioni d'acqua provenienti da diverse profondità. Johanson rimase a osservare per un po' il recupero della multisonda e dei campioni degli strati, poi arrivarono in coperta Stone, Hvistendahl e Tina Lund. Stone corse da lui. «Che dice Bohrmann?» chiese. «Dice: 'Houston, abbiamo un problema.'» Johanson scrollò le spalle. «Bah, non dice molto.» Stone annuì. La sua aggressività aveva lasciato il posto a un profondo abbattimento. Nel corso delle misurazioni, la Sonne aveva seguito il corso sudorientale della scarpata continentale fino al di sopra della Scozia, mentre le telecamere sulla slitta mandavano immagini dal fondale. La slitta, un massiccio telaio che somigliava a una scansia d'acciaio piena di apparecchiature in disordine, disponeva di diversi strumenti di misurazione, di potenti proiettori e di un occhio elettronico che filmava e mandava le immagini ai monitor del laboratorio attraverso cavi a fibre ottiche, il tutto mentre la nave la trascinava. Per le riprese video, la Thorvaldson disponeva del più moderno Victor. La nave oceanografica norvegese seguiva il corso della scarpata in direzione nord-est e analizzava l'acqua del mare norvegese fino a Tromsø. Le due navi avevano iniziato il loro tragitto dal punto in cui si sarebbe dovuta costruire la stazione, e adesso stavano facendo il percorso inverso. Al loro incontro, due giorni dopo, avrebbero avuto tutti i rilievi necessari della scarpata dello zoccolo continentale norvegese e del mare del Nord. Bohrmann e Skaugen avevano proposto di comportarsi come se la regione non fosse mai stata studiata prima. E sembrava davvero così. Da quando Bohrmann aveva presentato i primi dati, nulla sembrava più corrispondere
alla normalità. Era successo durante la riunione del mattino, non appena erano comparse sui monitor le prime immagini trasmesse dalla slitta. Avevano calato la multisonda durante un crepuscolo freddo e umido. Johanson aveva cercato d'ignorare l'effetto ascensore della Sonne che affondava improvvisamente nei cavalloni. I primi campioni d'acqua intanto erano stati mandati nel laboratorio di sismologia, dov'erano stati analizzati. Dopo, Bohrmann aveva invitato il team nella sala riunioni del ponte principale. Erano tutti radunati intorno al lucido tavolo di legno, e, in breve, la curiosità aveva catturato la loro attenzione. Avevano smesso di stropicciarsi gli occhi, sbadigliando, e stringevano le tazze del caffè, il cui calore cominciava a diffondersi lentamente alle dita. Bohrmann aveva tenuto lo sguardo fisso su un foglio, aspettando pazientemente che si radunassero tutti. «Posso offrirvi un primo risultato», disse infine. «Non è rappresentativo, giacché si tratta solo di un'istantanea.» Sollevò lo sguardo, lo fissò un momento su Johanson poi lo spostò su Hvistendahl. «Conoscete tutti il concetto di 'pennacchio di metano'?» Un giovane della squadra di Hvistendahl scosse incerto la testa. «Si parla di 'pennacchio di metano' quando il gas esce dal fondale marino, si miscela con l'acqua, entra nella corrente e sale», spiegò Bohrmann. «In genere, rileviamo questi pennacchi dove una zolla terrestre scivola sotto l'altra, la pressione schiaccia i sedimenti e li ammassa. La conseguenza è che da lì sgorgano fluidi e gas. Un fenomeno ampiamente noto.» Si schiarì la voce. «Ma vedete, a differenza dell'oceano Pacifico, nell'Atlantico non troviamo simili zone di alta pressione, quindi non ve ne sono nemmeno davanti alla Norvegia, dove i margini continentali in gran parte non sono attivi. Tuttavia, stamattina, abbiamo rilevato in questa zona un pennacchio di metano ad alta concentrazione che, nelle primissime misurazioni, non era comparso.» «Quanto è elevata la concentrazione?» chiese Stone. «È a un livello allarmante. Abbiamo rilevato valori simili al largo dell'Oregon. In una zona con fuoriuscite massicce.» «Bene.» Stone cercò di non assumere un'espressione corrucciata. «Per quello che ne so, il metano esce in continuazione al largo della Norvegia. Lo sappiamo fin dai primi progetti. Si sa che il fondale marino rilascia sempre dei gas, e ogni volta è perfettamente spiegabile. Perché stavolta volete seminare il panico?»
«La sua interpretazione non evidenzia il nocciolo della faccenda.» «Mi ascolti», sospirò Stone. «A me interessa soltanto se le sue rilevazioni offrono davvero motivo di preoccupazione. Finora non mi pare. Stiamo sprecando tempo.» Bohrmann sorrise cortesemente. «Dottor Stone, in questa zona, e soprattutto più a nord, la scarpata continentale è letteralmente cementata dagli idrati di metano. Si tratta di strati spessi da sessanta a cento metri, enormi coperchi di ghiaccio. Ma sappiamo anche che quegli strati, nelle zone più verticali, talvolta si staccano. Da lì esce da anni del gas che, secondo i nostri calcoli di stabilità, non dovrebbe proprio uscire. Tenuto conto della pressione e della temperatura dovrebbe congelarsi immediatamente, eppure ciò non succede. Sono quelle le fuoriuscite di cui stiamo parlando. Si può convivere con esse, si può anche decidere d'ignorarle, ma non possiamo illuderci di essere al sicuro solo perché abbiamo sviluppato qualche diagramma e qualche curva. Lo dico ancora una volta, la concentrazione di metano libero nelle colonne d'acqua è oltremodo elevata.» «Si tratta davvero di fuoriuscite di gas?» chiese Tina. «Voglio dire, il metano sale dall'interno della Terra, o forse il gas proviene da...» «Dagli idrati che si sciolgono?» Bohrmann esitò. «È una domanda decisiva. Se gli idrati stanno iniziando a decomporsi, significa che è cambiato qualcosa nei parametri di quella zona.» «E lei crede che sia così?» volle sapere Tina. «In realtà ci sono solo due parametri: pressione e temperatura. Ma non abbiamo misurato un riscaldamento dell'acqua e il livello del mare non è sceso.» «Lo dicevo», gridò Stone. «Cerchiamo risposte a domande che nessun essere umano ha mai posto. Voglio dire, abbiamo il prelievo di un campione.» Si guardò intorno cercando cenni di assenso. «Un unico, maledetto campione!» Bohrmann annuì. «Ha ragione, dottor Stone, si tratta soltanto di speculazioni. Ma noi siamo qui proprio per trovare la verità.» «Stone mi dà sui nervi», disse Johanson a Tina, non appena furono nella mensa. «Che ci sta a fare qui? Sembra che voglia impedire i test. Ed è proprio lui a dirigere il progetto.» «Potremmo gettarlo in mare.» «In mare scarichiamo già di tutto.» Presero un altro caffè e andarono sul ponte.
«Che ne pensi del risultato?» chiese Tina, tra un sorso e l'altro. «Non si tratta di un risultato. È solo un dato provvisorio.» «Va bene. Che ne pensi di questo dato provvisorio?» «Non lo so.» «E dai...» «L'esperto è Bohrmann.» «Credi che dipenda dai vermi?» Johanson ripensò alla conversazione con Olsen. «Non credo proprio», disse con cautela. «Sarebbe prematuro credere a qualcosa.» Sorseggiò il caffè e sollevò la testa. Sopra di lui si stendeva il cielo grigio. «So soltanto una cosa: che ora preferirei essere a casa invece che su questa nave.» Tutto ciò era accaduto il giorno precedente. Mentre venivano analizzati gli ultimi campioni d'acqua, Johanson si ritirò nella sala radio dietro il ponte. Attraverso il satellite poteva entrare in contatto con tutto il mondo. Aveva cominciato a costruire una banca dati e a spedire e-mail a istituti e scienziati, mascherando il tutto come una ricerca d'interesse personale. Le prime risposte erano state deludenti: nessuno aveva osservato i nuovi vermi. Poche ore prima, aveva preso contatto con le altre spedizioni marine. Tirò indietro una sedia, sistemò il laptop in mezzo agli apparecchi radio e aprì la posta elettronica. Anche stavolta il bottino era magro. L'unica notizia interessante arrivava da Olsen: gli comunicava che l'invasione di meduse nel Sudamerica e in Australia era evidentemente fuori controllo. Non so se voi là fuori ricevete notizie, ma ieri notte è successo qualcosa. Le meduse si spostano in gruppi lungo la costa. I notiziari dicono che è come se stessero consapevolmente muovendosi verso le zone abitate dagli esseri umani. Una cosa priva di senso, ovvio. Ah, già: c'è stata un'altra collisione. Due portacontainer in Giappone. Inoltre continuano a sparire imbarcazioni, ma stavolta ci sono state richieste di aiuto. Le storie strane dalla British Columbia continuano a eccitare la stampa senza che si scopra nulla di concreto. Si potrebbe quasi credere alle voci che, tanto per cambiare, sarebbero le balene a cacciare gli uomini. Ma grazie a Dio non si può credere a tutto. Questo è tutto per il programma Buon umore da Trondheim. Non annegare. «Grazie», ringhiò Johanson di cattivo umore.
Effettivamente ascoltavano raramente i notiziari. Sulle navi oceanografiche si viveva come in un buco spazio-temporale. La scusa ufficiale era che non si ascoltavano i notiziari perché c'era troppo da fare. In realtà, si voleva essere lasciati in pace da politica e guerra, almeno finché le onde continuavano a colpire lo scafo. Poi, però, dopo uno o due mesi sul mare, improvvisamente ci si sentiva come svanire e si provava nostalgia del proprio solido posto all'interno della civiltà, delle gerarchie, dell'hightech, dei cinema e dei McDonald's. E si sentiva la mancanza di un pavimento che non continuasse a dondolare. Johanson non riusciva a concentrarsi. Continuava a vedere nella sua mente quello che aveva osservato ininterrottamente per due giorni sui monitor. Vermi. Ormai erano arrivati a una certezza: la scarpata continentale brulicava di vermi. Le superfici e le vene di metano ghiacciato erano sparite sotto milioni di corpi rosa sussultanti, che cercavano d'infilarsi nel ghiaccio: un'unica massa impazzita. Non era più un fenomeno localizzato. Era un'invasione a tappeto che si estendeva lungo tutta la costa norvegese. Come se qualcuno li avesse stregati... Qualcuno doveva aver osservato fenomeni simili. Perché non lo abbandonava la sensazione che tra i vermi e le meduse ci fosse una relazione? Ma quale dimostrazione credibile avrebbe potuto dare? Era una sciocchezza! Una sciocchezza, già. Ma una sciocchezza che sembra l'inizio di qualcosa, pensò improvvisamente. Qualcosa su cui finora abbiamo potuto gettare solo uno sguardo fugace. Quello era solo l'inizio. Una sciocchezza ancora più grossa, si rimproverò. Si stava collegando alla CNN per leggere qualcosa sulle notizie cui Olsen aveva accennato, quando Tina entrò e gli mise davanti una tazza di tè nero. Johanson la guardò e lei gli sorrise con aria da cospiratrice. Dopo la gita al lago, si comportava spesso così con lui. Il profumo di Earl Grey si diffuse nell'aria. «A bordo abbiamo simili raffinatezze?» chiese Johanson, meravigliato. «A bordo non abbiamo nulla del genere», rispose Tina. «Una cosa del genere si porta se si sa che a bordo c'è una persona particolare.» Johanson sollevò le sopracciglia. «Come sei premurosa. Che piacere
vuoi, stavolta?» «E se volessi solo un grazie?» «Grazie.» Tina diede uno sguardo al laptop. «Fai passi avanti?» «Niente. Che ne è delle analisi degli ultimi campioni?» «Non ne ho idea. Ero impegnata in cose più importanti.» «Oh. C'è qualcosa di più importante?» «Tenere la manina all'assistente di Hvistendahl.» «E perché?» «Dà da mangiare ai pesci», rispose Tina con una scrollata di spalle. «È carne fresca.» Johanson scoppiò ridere. Tina usava il vocabolario dei marinai. Sulle navi oceanografiche s'incontravano due mondi: quello formato dall'equipaggio e quello costituito dagli scienziati. Si sfioravano con le migliori intenzioni, cercavano di assumere espressioni, stili di vita e manie l'uno dell'altro, si studiavano per un po' finché non si trovavano, per così dire, in acque sicure. Fino a quel momento regnava una rispettosa distanza, che si compensava con qualche battuta. «Carne fresca» era la definizione che i marinai davano dei novellini, per i quali, dopo aver lasciato la terraferma, la vita da marinaio diventava meno affidabile del contenuto del loro stomaco. «La prima volta hai vomitato anche tu», notò Johanson. «Tu no?» «No.» «Figurati.» «Davvero, no.» Johanson alzò una mano come se volesse giurare. «Puoi vederlo tu stessa. Non soffro il mal di mare.» «Okay, non soffri il mal di mare.» Tina estrasse un foglio e lo mise sul tavolo. C'era annotato un indirizzo web. «Dopo potrai andare immediatamente nel mar di Groenlandia. Un conoscente di Bohrmann è già là. Si chiama Bauer.» «Lukas Bauer?» «Lo conosci?» Johanson annuì lentamente. «Ricordo un congresso alcuni anni fa a Oslo, durante il quale Bauer tenne una relazione. Credevo si occupasse di correnti marine.» «È un costruttore. Costruisce tutto il possibile, dagli equipaggiamenti per gli abissi oceanici alle cisterne ad alta pressione. Bohrmann ha detto
che ha collaborato all'invenzione del simulatore di abissi marini.» «E Bauer è al largo della Groenlandia?» «Da settimane», annuì Tina. «Hai ragione, il suo lavoro riguarda le correnti marine. Sta facendo dei rilievi. Un altro candidato per la tua ricerca sui vermi.» Johanson prese il foglietto. Non aveva sentito parlare di quella spedizione. C'erano giacimenti di metano anche al largo della Groenlandia? «E come procede Skaugen?» chiese. «Faticosamente.» Tina scosse la testa. «Non come vorrebbe. Gli hanno messo la museruola, se capisci cosa voglio dire.» «Chi? I suoi superiori?» «La Statoil è un'industria statale. Devo essere più esplicita?» «Allora non scoprirà nulla», borbottò Johanson. Tina sospirò. «Gli altri non sono stupidi. Se si cerca di spillare informazioni senza darne, se ne accorgono, e si attengono al codice di riservatezza.» «L'avevo detto.» «Sì, sei sempre molto scaltro.» Fuori risuonarono alcuni passi e uno degli uomini di Hvistendahl si affacciò alla porta. «Sala riunioni», disse. «Quando?» «Subito. Abbiamo le analisi.» Sigur e Tina si scambiarono un'occhiata. Nei loro sguardi c'era l'ansiosa attesa di quello che in fondo già sapevano. Johanson chiuse il laptop e, insieme con Tina, seguì l'uomo sul ponte di comando. La pioggia scorreva sui vetri. Bohrmann si sosteneva con le nocche al piano del tavolo. «Finora abbiamo trovato la stessa situazione lungo tutto il margine continentale», disse. «Il mare è saturo di metano. I nostri risultati concordano con quelli della Thorvaldson, con alcune piccole variazioni, ma il quadro è lo stesso.» Fece una pausa. «Non voglio girarci intorno. In ampie zone, qualcosa ha iniziato a destabilizzare gli idrati.» Nessuno si mosse. Nessuno disse una parola. Lo fissavano e aspettavano. Poi le voci degli uomini della Statoil si accavallarono. «Che significa?» «Gli idrati di metano si liberano? Ma aveva detto che i vermi non potevano destabilizzare il ghiaccio!»
«Ha registrato un riscaldamento? Senza riscaldamento...» «Quali conseguenze...?» «Per favore!» Bohrmann sollevò una mano. «È così. Sono ancora dell'idea che questi vermi non possano provocare gravi danni. D'altro canto, dobbiamo tener presente che la destabilizzazione è iniziata con la loro comparsa.» «Molto illuminante», borbottò Stone. «Da quanto tempo è iniziato il processo?» chiese Tina. «Abbiamo visto le analisi fatte dalla Thorvaldson alcune settimane fa, quando hanno scoperto i vermi», rispose Bohrmann, sforzandosi di mantenere un tono tranquillo. «Allora le misurazioni erano ancora normali. La crescita è iniziata dopo.» «Ma che cosa sta succedendo, allora?» volle sapere Stone. «Là sotto diventa più caldo o no?» «No.» Bohrmann scosse la testa. «I parametri per la stabilità degli idrati non sono cambiati. La fuoriuscita di metano può dipendere solo da processi che avvengono nel profondo dei sedimenti. In ogni caso, più in profondità di quanto possano scavare questi vermi.» «Come fa a saperlo?» chiese Stone. «Abbiamo dimostrato...» Bohrmann esitò, poi riprese: «Con l'aiuto del dottor Johanson, abbiamo dimostrato che, senza ossigeno, gli animali muoiono. Riescono a raggiungere solo pochi metri di profondità». «Avete i risultati di una cisterna», disse Stone, sprezzante, come se Bohrmann fosse il suo peggior nemico. «Se non è l'acqua a scaldarsi, forse potrebbe essere il fondale marino», propose Johanson. «Vulcanismo?» «È solo un'idea.» «Un'idea plausibile, ma non in questa zona.» «È possibile che nell'acqua ci siano i residui di ciò che i vermi hanno mangiato?» «Non in simili quantità. Dovrebbero aver raggiunto il gas libero oppure essere in grado di sciogliere gli idrati.» «Ma non possono raggiungere il gas libero», insistette caparbiamente Stone. «No, ho detto che...» «Lo so che cos'ha detto. Voglio dirle come la vedo io: il verme ha un calore corporeo, come ogni essere vivente cede calore, quindi scioglie lo
strato superficiale, solo un paio di centimetri, ma quanto basta...» «La temperatura corporea di un abitante degli abissi è identica a quella dell'ambiente circostante», disse con freddezza Johanson. «Tuttavia, se...» «Clifford.» Hvistendahl mise una mano sul braccio del capo progetto. Sembrava un gesto amichevole, ma Johanson sentì che Stone aveva appena ricevuto un chiaro avvertimento. «Perché non ci limitiamo ad attendere le prossime analisi?» «Ah, dannazione.» «Non serve a niente, Cliff. Smettila di costruire teorie.» Stone guardava il pavimento. Era calato il silenzio. «E quali sarebbero le conseguenze se la fuoriuscita di metano non si fermasse?» chiese Tina dopo qualche istante. «Ci sono molti scenari possibili», rispose Bohrmann. «La scienza descrive fenomeni nel corso dei quali spariscono interi campi di idrati. Si sciolgono nel giro di un anno. Può essere che qui stia succedendo proprio questo, e probabilmente il processo è stato messo in moto dai vermi. In tal caso, nei prossimi mesi, al largo della Norvegia, si libererà nell'atmosfera moltissimo metano.» «Uno shock da metano come cinquantacinque milioni di anni fa?» «No, la quantità di metano non è sufficiente per ottenere un simile effetto. Ancora una volta, non voglio fare speculazioni. D'altra parte, non posso immaginare che il processo continui all'infinito senza riduzione della pressione e aumento della temperatura, e noi non registriamo né l'uno né l'altro. Nelle prossime ore, manderemo sott'acqua la videocamera, forse dopo ne sapremo di più. Vi ringrazio.» E, con quello, Bohrmann lasciò la sala riunioni. Johanson mandò un'e-mail a Lukas Bauer. Ormai gli sembrava di essere un biologo investigatore: Ha visto questo verme? Lo potrebbe descrivere? Lo riconoscerebbe se fosse messo a confronto con altri cinque vermi?È stato questo verme a rubare la borsetta a quella signora anziana? Chi avesse informazioni al riguardo è pregato di recarsi al più vicino centro di ricerca. Dopo qualche esitazione, scrisse alcune parole cortesi sul loro precedente incontro a Oslo e chiese se, per caso, al largo della Groenlandia, nell'ultimo periodo, avesse registrato concentrazioni di metano insolitamente alte. Finora, nelle sue richieste aveva evitato di toccare quel punto.
Poi andò sul ponte e scorse la videoslitta che penzolava, appesa all'argano: era sorvegliata dal team di geologi di Bohrmann, che la stavano sollevando. Un po' più in là, un gruppo di marinai stava accovacciato a chiacchierare sulla grande cassa per gli spazzoloni, davanti all'officina del ponte. Nel corso degli anni, la cassa era stata elevata al rango di rifugio, qualcosa a metà tra il posto di vedetta e il salotto. Vi era stato steso sopra un panno e alcuni la chiamavano semplicemente «il divano». Là si facevano battute sui movimenti impacciati di dottori e dottorandi, che quindi evitavano con cura quel luogo. Ma quel giorno non si sentivano risate o spiritosaggini: la tensione aveva contagiato anche l'equipaggio. La maggior parte dei marinai aveva un'idea approssimativa di ciò che gli scienziati stavano facendo. Ma sapevano che sulla scarpata continentale c'era qualcosa che non andava e tutti erano preoccupati. Bisognava agire in fretta. Bohrmann fece procedere lentamente la nave per esaminare il luogo attraverso le immagini video e i dati rilevati dal sonar. Proprio sotto la Sonne si trovava un esteso campo di idrati. In quel caso, «testare» significava calare in mare un mostro che sembrava arrivare dal Giurassico della ricerca marina: una benna dotata di telecamera, una bocca d'acciaio pesante varie tonnellate. Non era esattamente l'ultimo ritrovato tecnologico. Era il modo più brutale, ma anche il più affidabile, per strappare - nel vero senso della parola - al fondale marino un pezzo della sua storia. La benna scavava il sottosuolo, si spingeva in fondo, mordeva, aprendo una ferita, e raccoglieva quintali di fango, ghiaccio, fauna e pietrisco che poi portava nel mondo degli uomini. I marinai la chiamavano TRex. Quando la si vedeva appesa all'argano di poppa, con le mandibole spalancate, pronta a lanciarsi in acqua, il nomignolo risultava decisamente azzeccato. Un mostro al servizio della scienza. Come tutti i mostri, tuttavia, la benna, sebbene dotata d'incredibili capacità, era nel contempo goffa e stupida. Era attrezzata con una videocamera e con potenti proiettori che consentivano di vedere il fondale; in tal modo, essa poteva essere aperta al momento giusto. Inoltre la benna era assolutamente incapace di avvicinarsi furtivamente al suo obiettivo. Per quanto la si posasse con cautela - e a questa cautela c'erano dei limiti, perché era comunque necessaria una certa violenza per potersi addentrare nei sedimenti! -, la maggior parte degli abitanti del fondale fuggiva subito, a causa dell'ondata che la grande bocca generava davanti a sé. Pesci, vermi, granchi e tutto quello che era capace di muoversi velocemente registravano il pericolo molto prima che la benna colpisse. Anche i sistemi tecnologici più
elaborati dovevano confrontarsi con lo stesso problema. Un ricercatore marino americano, in tono amareggiato, aveva detto: «Laggiù ci sono tantissime forme di vita. Il problema è che si spostano non appena arriviamo». Mentre la benna veniva calata con l'argano di poppa, Johanson si deterse la pioggia dagli occhi e andò nella sala di controllo. Il marinaio che si occupava dell'argano si serviva di un joystick per alzare e abbassare la benna. Nelle ultime ore, aveva già guidato la slitta, ma sembrava comunque concentrato e tranquillo. E così doveva essere. Osservare per ore l'immagine pallida e opaca del fondale marino poteva avere un effetto ipnotico. Un momento di disattenzione e apparecchiature costose come una Ferrari restavano per sempre sul fondale. Nella sala c'era penombra, i visi delle persone in piedi e sedute erano resi pallidi dalla luce dei monitor. Il mondo era sparito, c'era solo il fondale marino, di cui gli scienziati studiavano la superficie come fosse un messaggio cifrato. Ogni dettaglio poteva fornire informazioni sull'insieme, comunicare messaggi codificati in modo complesso, dare voce alla tortuosa lingua di Dio. Fuori, la benna stava scendendo. Sulle prime, quasi sembrò che l'acqua schizzasse fuori dal monitor; poi la bocca d'acciaio s'inabissò attraverso una pioggia di plancton. Tutto divenne verde-blu, poi grigio, infine nero. Punti più chiari schizzavano via come comete: minuscoli gamberetti, krill, cose indefinibili. Il viaggio della benna creava lo stesso tipo di tensione di certi episodi di Star Trek. Mancava solo la musica. Nel laboratorio c'era un silenzio assoluto. Poi, improvvisamente, sul monitor apparve il fondale marino, ma poteva essere tranquillamente anche la superficie lunare. L'argano si fermò. «Meno 714», disse il marinaio addetto alla manovra. Bohrmann si chinò in avanti. «Non ancora.» Sullo schermo si videro alcuni mitili, che sembravano soddisfatti di stare sugli idrati. La maggior parte era sparita sotto i corpi rosa che si contorcevano e vibravano. Nella mente di Johanson s'insinuò l'idea che i vermi non scavassero solo il ghiaccio, ma mangiassero anche i molluschi nelle loro conchiglie. Immaginava di vederli tirar fuori la proboscide armata di chele per strappare pezzi di carne dei molluschi e portarli all'interno del loro corpo tubolare. Non c'era modo di vedere il ghiaccio sotto quell'assedio di esseri striscianti, ma tutti nella sala di controllo sapevano che era lì, esattamente sotto di loro. Ovunque salivano bolle e frammenti luccicanti: schegge di idrati. «Ora», disse Bohrmann.
La telecamera sfrecciò. Per un attimo sembrò che i vermi si sollevassero per accogliere la benna. Poi divenne tutto nero. La bocca d'acciaio s'infilò nel metano e si chiuse lentamente. «Che diavolo...?» sibilò il marinaio. Sul pannello di controllo dell'argano scorrevano dei numeri. Poi si fermarono. Infine ripresero a scorrere. «La benna è affondata... Ha sfondato.» Hvistendahl si portò in avanti. «Che succede?» «Non c'è più niente. Gli idrati non hanno più nessuna resistenza.» «Tirala su», urlò Bohrmann. «Presto.» Il marinaio tirò il joystick verso di sé. L'indicatore si fermò e poi andò a ritroso. La benna chiusa risaliva. Le telecamere esterne mostravano un grande buco, da cui uscivano grandi bolle danzanti. Poi si sollevò un'impressionante quantità di gas che si riversò sulla benna, la avvolse e la fece sparire in un vortice ribollente. Mar di Groenlandia Alcune centinaia di chilometri a nord rispetto alla posizione della Sonne, Karen Weaver aveva appena finito di contare. Cinquanta giri della nave. Camminava su e giù dal ponte, attenta a non disturbare il lavoro degli scienziati. Poteva sembrare strano, ma era contenta che Lukas Bauer non avesse tempo per lei. Aveva bisogno di muoversi... Certo, avrebbe preferito scalare un iceberg o dedicarsi a qualche altra impresa estrema, perché soltanto così avrebbe potuto smaltire le scariche di adrenalina. A bordo delle navi oceanografiche non si poteva fare molto. Karen era stata in sala macchine e si era annoiata a morte davanti ai tre ridicoli motori. Quindi non le restava che correre. Su e giù dal ponte. Davanti agli assistenti di Bauer che stavano preparando i cinque drifter, davanti ai marinai che facevano il loro lavoro oppure la seguivano con lo sguardo, verosimilmente facendo commenti salaci. Dalla sua bocca semiaperta uscivano a intervalli regolari delle nuvolette bianche. Su e giù dal ponte. Doveva lavorare sulla resistenza, perché quello era il suo punto debole. In compenso era straordinariamente forte. Nuda, Karen Weaver sembrava una statua di bronzo, con la pelle splendente sotto cui si distendevano impressionanti fasci di muscoli. Tra le scapole si aprivano le ali di un falco
tatuato ad arte, una creatura strana col becco spalancato e con gli artigli tesi. Karen Weaver non aveva i muscoli gonfiati delle body-builder. Sarebbe potuta diventare una modella, solo che era troppo piccola e le sue spalle erano troppo larghe. Un piccolo panzer ben costruito, avido di adrenalina e pronto a trovarsi sull'orlo di qualche precipizio. In quel caso, il precipizio si stendeva sotto di lei per quasi tre chilometri. La Juno stava navigando sulla piana abissale che si estendeva al disotto dello stretto di Fram, da cui le fredde acque artiche scorrevano verso sud. Al centro della circonferenza che toccava Islanda, Groenlandia, nord della Norvegia e Svalbard si trovava uno dei due polmoni dei mari della Terra. Era ciò che succedeva lì a interessare Lukas Bauer. E anche Karen Weaver, o meglio i suoi lettori. Bauer le fece cenno di avvicinarsi. Era completamente calvo, con occhiali dalle lenti gigantesche e un pizzetto bianco. Il suo aspetto lo avvicinava al modello del professore svagato molto più di tutti gli altri scienziati che Karen Weaver avesse mai conosciuto. Aveva sessant'anni e la schiena curva, ma in quel corpo magro e piegato c'era un'energia indomabile. Karen Weaver ammirava gli uomini come Lukas Bauer. Ammirava il superuomo che c'era in essi, la loro forza della volontà. «Venga qui, Karen!» gridò Bauer con voce chiara. «Non è incredibile? Qui sotto precipitano circa diciassette milioni di metri cubi d'acqua al secondo. Diciassette milioni!» La guardò, raggiante. «È venti volte la portata di tutti i fiumi della Terra.» «Dottor Bauer...» Karen lo prese sotto braccio. «Me l'ha già detto tre volte!» Bauer socchiuse le palpebre. «Davvero? Non mi dica.» «Piuttosto si è dimenticato di spiegarmi come funziona il suo drifter. Se vuole che mi occupi dei comunicati stampa, deve dedicarmi un po' di tempo.» «Ma certo, il drifter... Pensavo che fosse chiaro. Lei è qui per questo.» «Sono qui per elaborare simulazioni al computer del movimento delle correnti, in modo che si possa sapere dove stanno andando i suoi drifter. L'ha già dimenticato?» «Ah, certo. Lei non può, lei non ha... Cioè, purtroppo, non ho tempo. Ho ancora tante cose da fare. Perché non dà un'occhiata e...» «No, dottor Bauer. Stavolta no. Mi voleva spiegare qualcosa sul sistema di funzionamento.» «Sì, certo. Nelle mie pubblicazioni...»
«Ho letto le sue pubblicazioni, dottor Bauer, e ne ho capito circa la metà. E ho una formazione scientifica. Gli articoli scientifici divulgativi devono essere scritti in modo che tutti capiscano.» Bauer la guardò, contrariato. «Sono convinto che i miei trattati siano perfettamente comprensibili.» «Sì. Lo sono per lei e per un paio di dozzine di suoi colleghi in tutto il mondo.» «Eh, come? Se si studia il testo con attenzione...» «No, dottor Bauer, me lo spieghi lei.» Lui aggrottò la fronte, poi sorrise indulgente. «Nessuno dei miei studenti si azzarderebbe a interrompermi così spesso. Posso interrompermi soltanto io.» Scrollò le spalle magre. «Ma che cosa posso fare? Non posso respingerla. No, non posso. Mi è simpatica, Karen. Lei è una... cioè, una... mi ricorda... Ah, non fa niente. Guardiamoci un po' il drifter.» «E poi parleremo dei risultati del suo lavoro. Ho ricevuto alcune richieste.» «Sì? Da chi?» «Da riviste, da trasmissioni televisive e da alcuni istituti.» «Interessante.» «No, solo logico. La conseguenza del mio lavoro. A volte mi chiedo se capisca come sia difficile fare l'addetto stampa.» Bauer fece un sorriso birichino. «Me lo spieghi.» «Volentieri, anche se sarebbe la decima volta. Ma prima mi racconti lei qualcosa.» «No, non è possibile», esclamò Bauer, agitato. «Dobbiamo calare in acqua il drifter, e subito dopo devo urgentemente...» «Dopo deve fare quello che mi ha promesso», lo ammonì Karen. «Ma, bambina mia, io ricevo richieste in continuazione. Sono in corrispondenza con scienziati di tutto il mondo! Non può neanche immaginare che cosa vogliono da me. Poco fa ho ricevuto un'e-mail in cui qualcuno mi chiede di un verme. Un verme, pensi un po'! E vuole sapere se abbiamo misurato un aumento della concentrazione di metano. Certo che l'abbiamo rilevato, ma come fa a saperlo? Vede che devo...» «Posso occuparmene io. Mi renda sua complice.» «Finché...» «Se le sono davvero simpatica.» Bauer spalancò gli occhi. «Ah, capisco.» Cominciò a ridacchiare. Le spalle curve vibrarono. «Vede, è proprio per questo che non mi sono spo-
sato: si vive sotto un costante ricatto. Va bene... Venga, venga.» Karen lo seguì. Il drifter era appeso al braccio della gru sopra la grigia superficie del mare. Era lungo diversi metri e infilato in una base di sostegno; in mezzo alla struttura c'era un tubo sottile e splendente e due contenitori sferici di vetro formavano la parte superiore. Bauer si stropicciò le mani. Il piumino gli era indubbiamente troppo grande e lo rendeva simile a un bizzarro uccello artico. «Allora, mettiamo questa cosa nella corrente, che la trascinerà con sé come una... particella d'acqua virtuale», disse. «Prima giù in verticale, infatti proprio qui sotto l'acqua cade, come le ho detto prima... Allora, naturalmente non si vede un processo di caduta, capisce, ma cade... bene... Uh, come posso spiegarglielo?» «Possibilmente senza parole strane.» «Va bene, va bene. Faccia attenzione, perché non è difficile. Deve sapere che l'acqua non ha sempre lo stesso peso: la più leggera è l'acqua dolce e calda; l'acqua salata è più pesante di quella dolce, molto più pesante. In fondo il sale ha un peso, no? A sua volta, l'acqua fredda è più pesante di quella calda, ha una densità maggiore, quindi diventa tanto più pesante quanto più si raffredda.» «Dunque l'acqua fredda e salata è la più pesante», completò Karen Weaver. «Giusto, giustissimo!» si rallegrò Bauer. «Quando parliamo di correnti marine, dobbiamo tenere presente che esse scorrono su diversi piani. Le correnti calde sono superficiali, le più fredde sono sul fondo e, in mezzo, ci sono le correnti intermedie. Allora, succede che una corrente possa scorrere per migliaia di chilometri in superficie, finché non capita in una zona fredda, dove, ovviamente, l'acqua si raffredda, vero? E se l'acqua diventa più fredda...» «Diventa più pesante.» «Brava, sì. Diventa più pesante e sprofonda. La corrente superficiale diventa una corrente intermedia o addirittura profonda, e l'acqua rifluisce. Ovviamente funziona allo stesso modo nel caso contrario. Dal basso verso l'alto, dal freddo al caldo. In questo modo, tutte le correnti marine del mondo sono costantemente in movimento. Sono tutte collegate l'una all'altra, in uno scambio costante.» Il drifter fu lasciato andare sulla superficie dell'acqua. Bauer si affrettò al parapetto e guardò giù, poi si girò e fece un cenno impaziente a Karen. «Venga, venga qui, si vede meglio.»
Lei si avvicinò. Gli occhi di Bauer scintillavano. «Sogno che questo drifter venga trascinato da tutte le correnti», disse. «Sarebbe veramente fantastico, scopriremmo tantissime cose.» «A che cosa servono quelle sfere di vetro?» «Come? Che cosa? Ah, sì. Corpi spinta. Permettono al drifter di muoversi nella colonna d'acqua. In basso ci sono dei pesi, ma il vero cuore è quella barra là in mezzo. Là dentro c'è tutto: guida elettronica, microcontroller, accumulatori d'energia. Ma anche un idrocompensatore. Non è fantastico? Un idrocompensatore!» «Sarebbe ancora più fantastico se mi spiegasse che cos'è.» «Oh, ah... naturalmente.» Bauer si tirò il pizzetto. «Già, abbiamo riflettuto su come il drifter... Allora, è così: i liquidi sono praticamente incomprimibili, non si può schiacciarli, ma l'acqua fa eccezione. Non si può comprimerla molto, ma un po' sì. E noi lo facciamo. La comprimiamo in quella barra in modo che all'interno ci sia sempre la stessa quantità, ma facendo anche in modo che l'acqua sia a volte più leggera e a volte più pesante. Così, mantenendo lo stesso volume, il drifter cambia il proprio peso.» «Geniale.» «In effetti. Possiamo programmarlo in modo che faccia tutto da solo: compressione, decompressione, compressione, decompressione, affondare, risalire, affondare, tutto senza il nostro intervento... Carino, vero?» Karen annuì e guardò la lunga struttura che s'immergeva nelle onde grigie. «In questo modo, il drifter può muoversi da solo in mare per mesi, se non per anni, e mandare segnali acustici. Noi possiamo localizzarlo e ricostruire velocità e percorso delle correnti. Ah, s'immerge. È andato.» Il drifter era sparito in mare. Bauer annuì soddisfatto. «E ora dove va?» chiese Karen. «Questa è una bella domanda.» Lei lo osservò. Lo sguardo di Bauer si illuminò, poi lui fece un sospiro rassegnato. «Lo so. Vuole parlare del mio lavoro.» «E in questo momento.» «Lei è una rompiscatole, cara mia, e anche testarda. Va bene, andiamo in laboratorio. Ma l'avverto, i risultati del mio lavoro sono inquietanti, per usare un eufemismo...» «Il mondo ama farsi inquietare. Non ha sentito? Invasioni di meduse, anomalie, persone disperse, un disastro navale dietro l'altro. I suoi risultati
sarebbero in ottima compagnia.» «Ah, sì?» Bauer scosse la testa. «Probabilmente ha ragione. Non riuscirò mai a capire il lavoro dell'addetto stampa. Ma io sono solo un professore, andrebbe oltre le mie capacità.» Mar di Norvegia, margine continentale «Dannazione», imprecò Stone. «Questo è un blowout.» Nella sala di controllo, tutti fissavano il monitor, come stregati. Là sotto sembrava scoppiato l'inferno. Bohrmann disse al microfono: «Dobbiamo andarcene. Comando al ponte. Avanti tutta». Tina si girò e corse fuori dalla stanza. Johanson esitò, poi le corse dietro. Gli altri li seguirono. Scoppiò il panico. Improvvisamente sembrava che tutti a bordo si fossero messi in movimento. Johanson corse sul ponte, dove marinai e tecnici, coordinati da Tina, stavano spostando a fatica la cisterna frigorifera. Quando la Sonne si mise in movimento, sul braccio dell'argano il cavò vibrò. Tina vide Johanson e lo raggiunse di corsa. «Cos'è successo?» gridò lui. «Siamo incappati in una bolla. Vieni.» Lo trascinò verso il parapetto. Arrivarono anche Hvistendahl, Stone e Bohrmann. Due dei tecnici della Statoil stavano sul ripido bordo di poppa, proprio sotto il braccio della gru, e guardavano fuori, incuriositi. Bohrmann gettò uno sguardo al cavo tesissimo. «Ma che sta facendo?» sibilò. «Perché quell'idiota non ferma l'argano?» Si allontanò dal parapetto e corse all'interno. Nello stesso istante, il mare cominciò a schiumare selvaggiamente. La Sonne andava a tutta velocità. Il cavo della benna si tese all'inverosimile, gemendo. Un uomo corse sul ponte sopra il braccio della gru, facendo cenni disperati. «Via di lì», gridava agli uomini della Statoil. «Attenti!» Johanson lo riconobbe. Era il «cane pastore», come lo chiamava l'equipaggio, il primo ufficiale. Hvistendahl si girò e prese a gesticolare verso gli uomini. Poi tutto accade in un attimo. Si trovarono di colpo in mezzo a un geyser scrosciante e sibilante; sotto la superficie dell'acqua, inoltre, comparve la sagoma della benna. Si diffuse un insopportabile odore di zolfo, la poppa della Sonne si abbassò, poi la bocca d'acciaio saltò fuori dall'inferno ribollente, oscillando come un'altalena gigantesca. Il più arretrato
dei due uomini della Statoil vide la benna arrivare e si gettò a terra. L'altro spalancò gli occhi, terrorizzato, fece un passo all'indietro e inciampò. L'ufficiale balzò verso di lui per cercare di rialzarlo, ma non fu abbastanza veloce. La benna si schiantò contro l'uomo a terra e lo scagliò in aria. L'uomo tracciò un ampio arco, scivolò sulle assi e atterrò sulla schiena. «Oh, no», gemette Tina. «Maledizione!» Lei e Johanson scattarono contemporaneamente. Il primo ufficiale e i membri dell'equipaggio erano in ginocchio vicino all'uomo. «Non toccatelo», disse l'ufficiale. «Voglio...» iniziò Tina. «Chiamate il medico, presto.» Tina si mordicchiò nervosamente un'unghia. Johanson sapeva quanto odiasse essere condannata all'inattività. Poi lei si avvicinò alla benna che oscillava, colando fango. «Aprite», gridò. «Tutto quello che è rimasto deve essere messo nella cisterna.» Johanson guardò l'acqua: dal mare uscivano ancora puzzolenti bolle di gas, ma per fortuna erano diminuite. La Sonne si era allontanata velocemente. Gli ultimi frammenti di ghiaccio di metano saliti in superficie galleggiavano tra le onde e si scioglievano. La benna si aprì, stridendo, e lasciò cadere quintali di fango e ghiaccio. Gli uomini del laboratorio di Bohrmann e i marinai si affrettarono a mettere più idrati possibile nell'azoto liquido che fumava e sibilava. Johanson si sentiva spaventosamente inutile. Si girò, andò da Bohrmann e lo aiutò a raccogliere i frammenti. La coperta era piena di piccoli corpi setolosi: alcuni sussultavano, si rivoltavano e tiravano fuori la proboscide con le mandibole. La maggior parte sembrava non essere sopravvissuta alla rapida risalita, uccisa dall'improvviso cambio di temperatura e di pressione. Johanson sollevò uno dei frammenti e lo osservò con attenzione. Il ghiaccio era attraversato da canali, dentro i quali c'erano vermi morti. Girò da tutte le parti il frammento, finché lo stridio e il sibilo della massa in decomposizione non gli ricordarono di metterlo al sicuro il più in fretta possibile. Altri frammenti erano ancora più bucherellati: la decomposizione vera e propria era quindi cominciata al di sotto dei canali scavati dai vermi. Aperture a forma di cratere si spalancavano nel ghiaccio coperto in parte da filamenti vischiosi. Che cos'era successo? Johanson si dimenticò il contenitore refrigerato. Sbriciolò il fango tra le dita, pensando che sembrava il resto di una colonia di batteri. Era normale
che sulla superficie degli idrati ci fossero tappeti di batteri, ma come mai si trovavano così in profondità nei grumi di ghiaccio? Il frammento si sciolse nel giro di qualche secondo. Johanson si guardò intorno. La poppa era diventata una pozzanghera fangosa. L'uomo che era stato colpito dalla benna era sparito. Anche Tina, Hvistendahl e Stone avevano lasciato il ponte. Allora vide Bohrmann appoggiato al parapetto e lo raggiunse. «Cos'è stato?» Bohrmann si passò una mano sugli occhi. «Abbiamo avuto un blowout. La benna è sprofondata per più di venti metri. È uscito il gas. Ha visto la bolla gigantesca sullo schermo?» «Sì. Che spessore ha il ghiaccio in quel punto?» «Sarebbe meglio dire che spessore aveva. Da settanta a ottanta metri, almeno.» «Allora laggiù deve essere tutto devastato.» «Evidentemente. Dobbiamo scoprire se si tratta di un caso unico. E dobbiamo fare in fretta.» «Vuole prelevare altri campioni?» «Naturalmente», brontolò Bohrmann. «La disgrazia di poco fa non sarebbe dovuta succedere. L'uomo all'argano ha continuato a sollevare la benna a tutta velocità. Avrebbe dovuto fermarla, invece.» Guardò Johanson. «Ha notato qualcosa quando il gas è salito?» «Ho avuto l'impressione che sprofondassimo.» «È sembrato anche a me. Il gas ha ridotto la tensione superficiale dell'acqua.» «Vuole dire che abbiamo rischiato di affondare?» «Difficile dirlo. Ha mai sentito parlare del 'buco della strega'?» «No.» «Dieci anni fa, un uomo è uscito in mare e non è più tornato. L'ultima cosa che ha detto per radio era che voleva farsi un caffè. Poco dopo, una nave da ricerca ha trovato il relitto. A cinquanta miglia marine dalla costa, affondato a una profondità insolita sul fondo del mare del Nord. I marinai chiamano quella zona 'buco della strega'. Il relitto non aveva il minimo danno ed era appoggiato verticalmente sul fondale. Come se fosse sprofondato come un sasso, come qualcosa che non potesse galleggiare.» «Sembra quasi il triangolo delle Bermuda.» «Ha colto nel segno. L'ipotesi è proprio questa, l'unica che regge a un esame accurato. Tra le Bermuda, la Florida e Porto Rico ci sono sempre violenti blowout. Quando il gas sale nell'atmosfera, può addirittura incen-
diare le turbine degli aerei. Un blow-out di metano più grande di quello che abbiamo appena visto rende l'acqua così sottile che si affonda.» Indicò la cisterna frigorifera. «Manderemo quel materiale a Kiel il più presto possibile. Lo analizzeremo, così sapremo che cosa succede là sotto. E lo scopriremo, glielo prometto. Per colpa di quella schifezza abbiamo perso un uomo.» «È...?» «È morto sul colpo.» Johanson rimase in silenzio. «Prenderemo i prossimi campioni con l'autoclave anziché con la benna. È molto più sicuro. Dobbiamo fare chiarezza. Non voglio stare a guardare mentre si costruiscono sconsideratamente delle stazioni sul fondale marino.» Bohrmann sbuffò e si staccò dal parapetto. «Ma ormai ci siamo abituati, eh? Cerchiamo di spiegare come funziona il mondo e nessuno ci ascolta. E ora che succede? I colossi industriali sono i nuovi committenti della ricerca. Noi due siamo su una nave da queste parti soltanto perché la Statoil ha trovato un verme. Fantastico. L'industria paga i ricercatori perché lo Stato non può più farlo. Non c'è più traccia della ricerca di base. Questo verme non è visto come oggetto di ricerca, ma come un problema che bisogna far sparire dalla faccia della Terra. È richiesta la ricerca applicata, e fatta in maniera tale che le industrie possano avere carta bianca. Forse però il problema non è il verme. Ci ha mai pensato? Forse è qualcosa di completamente diverso e, mentre eliminiamo un problema, ne creiamo uno molto più grande. Sa una cosa? Talvolta mi viene da vomitare.» Percorrendo alcune miglia marine verso nord-est, fecero una dozzina di carotaggi dei sedimenti senza altri incidenti. L'autoclave, un tubo con rivestimento isolante lungo cinque metri inserito in un telaio, risucchiava come una siringa il campione dal fondale marino. Ancora in profondità, il tubo era chiuso ermeticamente da una valvola. In tal modo, all'interno, c'era un piccolo universo sigillato: sedimenti, ghiaccio e fango insieme con la superficie intatta, acqua di mare ed esseri viventi che continuavano a sentirsi a proprio agio perché, nel tubo, temperatura e pressione erano mantenute costanti. Bohrmann fece portare il tubo chiuso nella cella frigorifera della nave per non creare scompiglio nelle forme di vita raccolte con cura. A bordo non era possibile esaminare i carotaggi; solo nel simulatore di abissi marini c'erano le condizioni adatte. Per il momento, dovevano limitarsi ad analizzare l'acqua del mare e a fissare i monitor. Nonostante la drammaticità, l'immagine sempre uguale degli idrati rico-
perti di vermi aveva qualcosa di noioso. Nessuno aveva voglia di parlare. Nella luce pallida dei monitor, sembravano impallidire anche tutti i presenti, gli uomini di Bohrmann, quelli del petrolio, i marinai. L'uomo della Statoil morto teneva compagnia ai carotaggi nella cella frigorifera. Il previsto incontro con la Thorvaldson nel luogo in cui si progettava di costruire la stazione era stato disdetto per poter raggiungere il più presto possibile Kristiansund, dove avrebbero lasciato il cadavere e portato i campioni al vicino aeroporto. Johanson se ne stava nella sala radio o nella sua cabina e valutava le risposte che aveva ricevuto. Non esisteva nessuna descrizione del verme, nessuno l'aveva mai visto. Alcuni dei suoi corrispondenti avevano manifestato il dubbio che si trattasse di vermi del ghiaccio messicani, cosa che non contribuì granché all'avanzamento delle conoscenze. A tre miglia marine da Kristiansund, Johanson ricevette una risposta da Lukas Bauer. La prima risposta positiva, ammesso che il contenuto potesse definirsi tale. Lesse il testo e si mordicchiò il labbro inferiore. I contatti coi colossi dell'energia spettavano a Skaugen; da Johanson ci si aspettava che s'informasse presso istituti e scienziati che non fossero in evidente rapporto col mondo delle esplorazioni petrolifere. Ma, dopo l'incidente con la benna, Bohrmann aveva detto una cosa che metteva la questione sotto una luce diversa. L'industria paga i ricercatori perché lo Stato non può più farlo. Quale istituto poteva ancora fare ricerca liberamente? Se la ricerca dipendeva sempre più dall'economia, allora quasi tutti gli istituti si trovavano a lavorare per i colossi industriali. Non si finanziavano con risorse pubbliche. Se non volevano rinunciare al loro lavoro, non avevano altra scelta. Anche il Geomar di Kiel stava trattando un accordo finanziario con la Deutsche Ruhrgas, che aveva intenzione di sponsorizzare una cattedra per lo studio degli idrati del gas. L'idea di fare ricerca coi soldi dei colossi industriali era seducente, ma era schiava degli sponsor, che volevano veder trasformati in risultati i loro cospicui investimenti. Johanson rilesse la risposta di Bauer. Aveva trattato la faccenda nel modo sbagliato. Prima di rivolgere domande in tutto il mondo, avrebbe dovuto mettere sotto la lente d'ingrandimento i legami occulti tra ricercatori e industria. Mentre Skaugen tentava un approccio sull'argomento coi consigli d'amministrazione dei colossi industriali, lui poteva fare il terzo grado agli scienziati «collaborazionisti». Prima o poi, qualcuno avrebbe parlato.
Il problema era mettersi sulle tracce di quei legami. No, non era un problema. Bastava lavorare con impegno. Si alzò e lasciò la sala radio per cercare Tina. 24 aprile Vancouver Island e Clayoquot Sound, Canada Alluci, talloni. Anawak si dondolava impazientemente sui piedi. Si metteva in punta di piedi e poi si lasciava cadere all'indietro, insistendo imperterrito in quel movimento. Era mattina presto. Il cielo splendeva di un azzurro intenso, una giornata che sembrava uscita dal più ruffiano dei dépliant. Anawak era nervoso. Alluci, talloni. Alluci, talloni. In fondo al molo di legno attendeva un idrovolante. Il suo scafo bianco si specchiava nel blu intenso della laguna sfaccettata dalle increspature delle onde. L'aereo era uno di quei leggendari Beaver DHC-2 che la ditta canadese De Havilland aveva costruito cinquant'anni prima. Erano ancora in servizio perché, dopo di loro, il mercato non aveva offerto niente di meglio. Il Beaver era arrivato anche in Polonia. Era senza dubbio robusto e sicuro. Proprio quello che serviva per ciò che Anawak aveva in mente. Guardò la palazzina del check-in, pitturata di rosso e bianco. Il Tofino Airport, a pochi minuti di macchina dalla città, non aveva nulla in comune coi classici aeroporti. Ricordava molto di più un insediamento di cacciatori o di pescatori. Qualche bassa casa di legno disposta pittorescamente su un'ampia baia, contornata da colline coperte di boschi dietro cui svettavano le montagne. Gli occhi di Anawak si spostarono sul viale d'accesso che, dalla strada principale, passando sotto alberi giganteschi, conduceva alla laguna. Gli altri sarebbero arrivati da un momento all'altro. Aggrottò la fronte ascoltando la voce che usciva dal suo cellulare. «Ma è stato due settimane fa», replicò infine. «In tutto questo tempo, Mister Roberts non ha voluto o potuto parlare con me. Eppure aveva detto di volermi tenere al corrente.» La segretaria suggerì che Roberts era un uomo molto impegnato. «Lo sono anch'io», sbottò Anawak. Smise di dondolarsi e si sforzò di essere gentile. «Mi ascolti, ormai ci troviamo di fronte a una vera escalation.
Ci sono evidenti legami tra i nostri problemi e quelli della Inglewood. Se ne renderà conto anche Mister Roberts se...» Ci fu una breve pausa. «Che somiglianze ci sarebbero?» chiese poi la donna. «Somiglianze con le balene, ovvio», spiegò lui. «La Barrier Queen ha avuto un guasto al timone.» «Sì, certo. Ma i rimorchiatori sono stati attaccati», le ricordò Anawak. «Un rimorchiatore è affondato, sì», disse lei in tono cortese ma freddo. «Ma non so nulla delle balene. Comunque riferirò a Mister Roberts che lei ha chiamato.» «Gli dica che è nel suo interesse.» «Si metterà in contatto con lei nelle prossime settimane.» Anawak sussultò. «Ha detto 'settimane'?» «Mister Roberts è in viaggio.» Ma che cos'è successo? pensò Anawak. Poi, cercando faticosamente di controllarsi, aggiunse: «Inoltre il suo capo aveva promesso di mandare altri campioni delle infestazioni della Barrier Queen all'istituto di Nanaimo. E adesso, per favore, non mi dica che non ne sa nulla. Sono stato là sotto e ho raccolto quel materiale dallo scafo. Si tratta di conchiglie e probabilmente anche di qualcos'altro.» «Mister Roberts mi avrebbe informato se...» «A Nanaimo hanno bisogno di campioni!» «Se ne occuperà al suo ritorno.» «È troppo tardi! Ha capito? Ah, non fa niente, richiamerò.» Con un gesto di stizza mise via il telefono. Poi scorse la Land Cruiser di Shoemaker che stava percorrendo il viale d'accesso. Il fuoristrada svoltò nel piccolo parcheggio di fronte alla palazzina del check-in e si fermò di botto, facendo schizzare la ghiaia da sotto i pneumatici. «Non siete un esempio di puntualità», gridò Anawak, di pessimo umore, andando verso la Land Cruiser. «Accidenti, Leon! Sono soltanto dieci minuti», esclamò Shoemaker. Al seguito, aveva Alicia e un massiccio giovane di colore con la testa rasata e con gli occhiali da sole. «Non essere così cattivo. Dovevamo aspettare Danny.» Anawak diede la mano al ragazzo massiccio che gli sorrise gentilmente. Era un tiratore di balestra dell'esercito canadese ed era stato messo ufficialmente a disposizione di Anawak. Aveva con sé la sua arma, una balestra di alta precisione, supertecnologica. «È bella, quest'isola», disse Danny. Tra una parola e l'altra, masticava un
chewing-gum e sembrava che la sua voce dovesse aprirsi la strada in una zona paludosa. «Cosa devo fare esattamente?» «Non le hanno detto nulla?» si meravigliò Anawak. «Ma certo, devo sparare con la balestra a una balena. Sono sbalordito. Pensavo fosse vietato.» «E infatti lo è. Venga, le spiegherò tutto sull'aereo.» «Aspetta.» Shoemaker gli spalancò davanti un giornale. «Hai già letto?» Anawak scorse il titolo. «'L'eroe di Tofino'?» «Greywolf sa vendersi bene, eh? Nell'intervista, quel bastardo fa il modesto, ma leggi un po' quello che dice più avanti. Ti verrà da vomitare.» «'... Ho fatto solo il mio dovere di cittadino canadese'», mormorò Anawak. «'Naturalmente eravamo in pericolo di vita, ma volevo rimediare almeno in parte ai danni causati dall'irresponsabile pratica del whale watching. Da anni il nostro gruppo sostiene che gli ammali sono sottoposti a uno stress pericoloso, i cui effetti sono impossibili da valutare.' Ma è pazzo?» «Va' avanti a leggere.» «'Non si può accusare la Davies Whaling Station di aver violato i regolamenti. Ma non si può neppure dire che si sia comportata nella maniera corretta. Speculare sul turismo delle balene sotto la copertura della protezione dell'ambiente non è un comportamento migliore di quello dei giapponesi, che, nelle acque artiche, minacciano l'estinzione di alcune specie di cetacei. Anche là si parla ufficialmente di scopi scientifici, ma nel 2002 sono finite nei supermercati oltre quattrocento tonnellate di carne di balena, venduta come prelibatezza. Il bello è che la caccia è consentita solo per fare ricerca scientifica sulla genetica.'» Anawak lasciò penzolare il giornale. «Che stronzo.» «Non è vero quello che dice?» chiese Alicia. «Per quello che ne so, i giapponesi le massacrano proprio in nome di questo presunto programma di ricerca.» «Certo che è vero», sbuffò Anawak. «La perfidia sta proprio in questo: Greywolf ci ha messo in relazione con quelle cose.» «Con tutta la mia buona volontà, non so dove voglia arrivare», disse Shoemaker scuotendo la testa. «E te lo chiedi? Vuole diventare importante.» «Ma sì, lui...» Alicia fece un gesto vago. «Be', comunque è un eroe.» Quel commento era del tutto inatteso. Anawak la fulminò con lo sguardo. «Ah, sì?»
«Certo. Ha salvato numerose vite umane. Non mi sembra gentile che adesso si metta a sputare veleno su di voi, ma indubbiamente è stato coraggioso e...» «Greywolf non è coraggioso», ringhiò Shoemaker. «Se quel verme fa qualcosa, è per avere un tornaconto. Ma stavolta ha esagerato. Avrà problemi coi makah... Non troveranno divertente che un loro sedicente fratello di sangue si schieri in maniera così brutale contro la caccia alle balene. Vero, Leon?» Anawak rimase in silenzio. Danny spostava il chewing-gum da una guancia all'altra. «Allora, quando si parte?» chiese. Nello stesso istante, il pilota dell'idrovolante gridò qualcosa dal portellone aperto. Anawak girò la testa e vide l'uomo fare alcuni segni. Sapeva che cosa significavano. Ford si era messo in contatto con loro. Era il momento. Senza dar seguito alle ultime considerazioni di Shoemaker, gli diede una pacca sulle spalle. «Quando torni alla stazione, potresti farmi un piacere?» «Certo. Per come siamo messi, abbiamo tutto il tempo del mondo.» «Potresti controllare se sui giornali, nelle ultime settimane, è apparso qualcosa sull'avaria della Barrier Queen? Fa' qualche ricerca anche su Internet, però. Magari ne hanno parlato in televisione...» «Sì, certo. Ma perché?» «Così.» «Un semplice 'così' non mi basta.» «Perché credo che non sia stato detto nulla.» «Hmm.» «Almeno io non mi ricordo. E tu?» Shoemaker piegò all'indietro la testa e socchiuse le palpebre neL sole. «No. Rammento qualcosa sulle catastrofi navali in Asia, però... Mah, da quand'è cominciata questa faccenda, mi è passata la voglia di leggere. Però hai ragione. Ora che ci penso, sono state date pochissime notizie su quell'incidente. Forse nessuna.» Anawak guardò cupamente verso l'idrovolante. «Sì», disse. «Andiamo.» Non appena l'idrovolante si fu alzato da terra, Anawak disse a Denny: «Deve sparare una sonda nel blubber della balena. 'Blubber' è il termine scientifico per indicare lo strato di grasso. Si tratta di una parte insensibile al dolore. Per anni abbiamo avuto il problema di far rimanere attaccati i trasmettitori alla pelle delle balene. Recentemente, un biologo di Kiel ha
avuto l'idea di usare una balestra con frecce speciali, al cui fusto sono fissati una trasmittente e uno strumento di misurazione. La punta della freccia s'infila nel grasso e la balena porta in giro gli apparecchi per un paio di settimane senza accorgersene.» Danny lo guardò. «Un biologo di Kiel? Bene.» «Crede che non funzioni?» «No, mi chiedo solo se qualcuno si è assicurato che non faccia davvero male alla balena. Si tratta di un maledetto lavoro di precisione. Come si fa a essere sicuri che la freccia non penetri oltre lo strato di grasso?» «Grazie alla cotenna di maiale», disse Anawak. «Come?» «Hanno testato l'arma sulla cotenna di maiale finché non sono stati in grado di determinare con precisione la profondità che raggiungeva la punta. Tutta una questione di calcoli.» «Ma guarda un po'», commentò Danny, sollevando le sopracciglia oltre il bordo degli occhiali da sole. «Ah, i biologi.» «E che succede se si spara a un uomo?» chiese Alicia dal sedile posteriore. «Anche in quel caso la freccia penetra solo un po'?» Anawak si voltò verso di lei. «Sì. Un po' troppo. Lo uccide.» Il DHC-2 virò. Sotto di loro risplendeva la laguna. «Avevamo diverse opzioni», disse Anawak. «Il problema centrale è che per molto tempo abbiamo potuto fare solo osservazioni saltuarie delle balene. Piazzare sonde con la balestra si è dimostrato il metodo più sicuro. Il cronotachigrafo registra frequenza cardiaca, temperatura del corpo e dell'ambiente, profondità, velocità di nuoto e altre cose ancora. Attrezzare le balene con le telecamere è più difficile.» «Perché non spariamo anche la telecamera con la balestra?» chiese Danny. «Non mi sembra una cosa difficile.» «Perché non si può sapere come cadrebbe. Inoltre preferirei vedere le balene, vorrei osservarle e questo si può fare solo se la telecamera è dietro di loro, non sulla loro schiena.» «Per questo usiamo l'URA», spiegò Alicia. «Un robot nautico giapponese.» Anawak sorrise, divertito. Alicia aveva pronunciato quelle parole come se fosse stata lei a inventare quel robot. Danny si guardò intorno. «Non vedo nessun robot.» «Infatti non è qui.» L'idrovolante aveva raggiunto il mare aperto e procedeva vicinissimo al-
le onde. Normalmente, al largo di Vancouver Island, c'erano sempre in viaggio piroscafi, zodiac e kajak, ma ormai neppure i più coraggiosi osavano uscire in mare aperto. Si spingevano al largo soltanto i grossi cargo e i traghetti, cui le balene non potevano fare nulla. Così la superficie dell'acqua era deserta, a parte una nave gigantesca. Sembrava che niente potesse affondare quella nave o anche solo metterla in difficoltà. L'idrovolante si allontanò dalla riva rocciosa e si diresse verso la nave. «L'URA è sul Whistler. Quel rimorchiatore laggiù», disse Anawak. «Il suo momento arriverà quando riusciremo a trovare la nostra balena.» John Ford era a poppa del Whistler e si riparava con la mano gli occhi dalla violenta luce del sole. Vide il DHC-2 avvicinarsi velocemente. Qualche secondo dopo, l'idrovolante si posizionò proprio sopra il rimorchiatore e fece un'ampia virata. Ford teneva la radio accostata alla bocca e chiamava Anawak sulla frequenza anti-intercettazione. Un'intera serie di frequenze era stata riservata a scopi scientifici e militari. «Leon? Tutto bene?» «Ti sento, John. Dove le hai viste l'ultima volta?» «A nord-ovest. A meno di duecento metri da noi. Le abbiamo avvistate circa cinque minuti fa, ma si tengono a distanza. Dovrebbero essere otto o dieci animali. Ne abbiamo identificati due. Uno ha preso parte all'attacco alla Lady Wexham, l'altro, la settimana scorsa, ha affondato un trawler a Ucluelet.» «Non hanno cercato di attaccarvi?» «No. Evidentemente siamo troppo grandi.» «E tra di loro? Come si comportano tra di loro?» «Pacificamente.» «Bene. Probabilmente appartengono tutte allo stesso gruppo, ma dobbiamo concentrarci su quelle identificate.» Ford seguì con lo sguardo il DHC-2 che diventava sempre più piccolo, poi lo vide inclinarsi, fare una larga virata e tornare indietro. Spostò lo sguardo sul ponte del Whistler. Era un rimorchiatore per il recupero in alto mare e apparteneva a una ditta privata di Vancouver: era lungo più di sessanta metri e largo quasi quindici. Con un dislocamento di centosessanta tonnellate, il Whistler era uno dei rimorchiatori più potenti del mondo. Troppo grande e pesante perché una balena potesse rappresentare un pericolo. Ford riteneva che neppure una megattera che saltasse dritta sulla poppa sarebbe riuscita a ottenere nulla di più che un violento scossone.
Però non si sentiva tranquillo. All'inizio, le balene avevano attaccato qualsiasi cosa, ma poi sembrava che avessero imparato a scegliere solo le imbarcazioni che erano in grado di danneggiare. Accanto a orche, balene grigie e megattere, onnipresenti negli attacchi alle navi, erano comparsi anche balenottere e capodogli. Ed era evidente che tutti quegli animali avevano imparato bene: non avrebbero attaccato il rimorchiatore, poco ma sicuro. Ed era proprio quel fatto ad aumentare l'inquietudine di Ford. Una simile furia distruttiva non poteva essere accompagnata dalla capacità di differenziare gli obiettivi. Pareva che, dietro il comportamento dei mammiferi marini, si celasse un'intelligenza e lui si chiedeva come avrebbero reagito al robot. Chiamò via radio il ponte. «Si va», disse. Il BHC-2 volava in cerchio sopra di loro. Dopo l'identificazione di diversi aggressori, grazie ai video e alle fotografie, era iniziata la ricerca degli animali. Il rimorchiatore incrociava da tre giorni davanti a Vancouver Island e quella mattina, finalmente, li avevano trovati. In un branco di balene grigie, avevano riconosciuto due pinne dorsali coi segni visti nelle foto e nei video degli attacchi. Ford si chiese se erano davvero in grado di scoprire la verità. Rabbrividì al pensiero delle voci sempre più insistenti che si alzavano dalle associazioni dei pescatori e dalle imprese armatrici, sostenendo che la cautela del comitato scientifico non avrebbe portato nessun risultato e richiedendo quindi l'impiego della forza militare. A detta loro, sarebbe bastato uccidere qualche balena, e le altre avrebbero capito che non era conveniente aggredire gli uomini. La richiesta era tanto ingenua quanto pericolosa perché trovava un terreno fertile. In effetti, al momento, i mammiferi marini si erano giocati in un colpo solo il credito che aveva procurato loro l'impegno degli animalisti. L'unità di crisi aveva risposto affermando che non si sarebbe ottenuto nulla con la violenza. Era necessario prima comprendere i motivi che avevano portato al comportamento anomalo dei cetacei. Al massimo, la violenza avrebbe permesso di combattere i sintomi. Ford non sapeva quale sarebbe stata la decisione ultima del governo, ma si capiva chiaramente che i pescatori e i cacciatori illegali di balene erano pronti ad affrontare la situazione a modo loro. La perplessità generale che regnava sulle decisioni da prendere non sarebbe stata fugata dal disaccordo delle parti avverse. Un brodo di coltura ideale per l'iniziativa individuale. Guerra sul mare. Ford osservò il robot a poppa. Era ansioso di vedere cosa sapeva fare l'URA che avevano ricevuto dal
Giappone in breve tempo e senza intoppi burocratici. Il robot era stato realizzato solo pochi anni prima. I giapponesi sostenevano che serviva per la ricerca e non per la caccia, ma le associazioni ambientaliste occidentali erano scettiche. Quella struttura cilindrica lunga tre metri, strapiena di strumenti di misurazione e di telecamere ipersensibili, veniva considerata da loro una macchina infernale, progettata per localizzare tutti i luoghi di svezzamento delle balene in vista di una possibile fine alla moratoria del 1986 sulla caccia ai cetacei. Al largo dell'isola giapponese di Kerama, l'URA era riuscito a localizzare una megattera e l'aveva seguita per molto tempo. Grazie a quel successo, il robot aveva trovato la più completa approvazione anche durante la Conferenza internazionale sui mammiferi marini di Vancouver. Però la diffidenza restava. Non era un segreto che il Giappone comprasse sistematicamente l'appoggio dei Paesi più poveri per ottenere la revoca della moratoria. Il governo giapponese spacciava quella sorta di mercato delle vacche come «diplomazia»... e lo stesso governo finanziava abbondantemente l'Università di Tokyo, cui apparteneva anche l'Underwater Robotics & Application Laboratory Team, che aveva realizzato il robot. «Forse oggi farai qualcosa di sensato», disse Ford sottovoce all'URA. «Salva la tua reputazione.» L'apparecchio scintillava al sole. Ford si avvicinò al parapetto e guardò fuori. Dall'alto, le balene si vedevano meglio e si potevano identificare. Dopo un po', in successione, emersero alcune baLene grigie, che solcarono le onde. Nella radio risuonò la voce proveniente dal posto di osservazione sul ponte. «A destra dietro di noi. Lucy.» Ford si girò di scatto, prese il binocolo e fece in tempo a vedere una pinna caudale intaccata di colore grigio scuro che s'immergeva. Lucy! Una delle balene si chiamava così. Era una magnifica balena grigia, lunga quattordici metri. Lucy si era scagliata contro la Lady Wexham. Forse era stata lei a squarciare la sottile parete dello scafo. «Confermo», disse Ford. «Leon?» Erano tutti sintonizzati su quella frequenza a prova d'intercettazioni. Quelli sul DHC-2 sentivano ciò che veniva detto a bordo del Whistler. «Confermo», disse Anawak alla radio. Ford socchiuse le palpebre nel sole e vide l'aereo abbassarsi proprio nel
punto in cui era scomparsa la pinna caudale. «Si comincia», disse, più a se stesso che agli altri. «Buona caccia.» Da cento metri d'altezza, il rimorchiatore sembrava un modellino costruito con cura. Invece i mammiferi marini sembravano ancora più grandi. Anawak vide diverse balene grigie nuotare tranquillamente appena sotto la superficie dell'acqua. I raggi del sole danzavano su quei corpi colossali. E benché fossero lunghi un quarto del Whistler, apparivano assurdamente molto più imponenti. «Giù», disse. Il DHC-2 si abbassò. Si diresse verso il banco e si avvicinò alla posizione in cui Lucy si era immersa. Anawak sperava che la balena grigia non stesse facendo il giro per mangiare, altrimenti avrebbero dovuto attendere a lungo. Ma probabilmente lì era troppo profondo. Le balene grigie si alimentavano in un unico modo, come le megattere. S'immergevano sul fondo e aravano tra i sedimenti, ingurgitando gli organismi del fondale marino: piccoli granchi, plancton e il loro piatto preferito, i nematodi. Gli enormi solchi di quelle orge di cibo percorrevano il fondale al largo di Vancouver Island, ma raramente quei giganti grigi andavano nelle acque più profonde. «Tra poco ci siamo», disse il pilota. «Danny?» Il tiratore scelto sorrise. Poi aprì il portellone laterale e lo ribaltò. Una folata d'aria fredda entrò nell'abitacolo e vorticò tra i capelli dei passeggeri. Il rumore divenne fortissimo. Alicia prese la balestra e la passò a Danny. «Non avrà molto tempo», disse Anawak. Doveva parlare a voce molto alta per superare il crepitio del vento e il rumore del motore. «Quando Lucy emerge, ha solo pochi secondi per sparare la sonda.» «A dire la verità, è più un problema vostro che mio», replicò Danny. Con l'arma nella mano destra, scivolò dal sedile finché non si trovò seduto per metà sulla sbarra sotto l'ala. «Pensate solo a portarmi più vicino.» Sgranando gli occhi, Alicia scosse la testa. «Non posso guardare.» «Che cosa?» chiese Anawak. «Non può andare lì. Lo vedo già in acqua.» «Non aver paura», rise il pilota. «I giovani possono fare questo e altro.» L'idrovolante sfrecciò proprio sopra le onde, quasi alla stessa altezza del ponte del Whistler. Sorvolarono il punto in cui Lucy si era immersa. Non si vedeva nulla. «Volare in cerchio», gridò Anawak al pilota. «Molto stretto. Lucy rie-
mergerà proprio dov'è sparita.» Il DHC-2 virò di colpo e il mare sembrò rovesciarsi su di loro. Danny penzolava dalla sbarra come una scimmia, con una mano aggrappata al bordo del portellone e stringendo nell'altra la balestra carica. Sotto di loro si delineò la sagoma di una balena in emersione. Poi un dorso gigantesco, grigio e splendente, ruppe la superficie dell'acqua. «Iuhu!» strillò Danny. «Leon!» Era Ford alla radio. «Non è quella giusta. Lucy nuota più avanti, sulla nostra destra.» «Maledizione!» sbottò Anawak. Si era sbagliato. Evidentemente Lucy era fermamente decisa a non attenersi alle regole. «Danny! No.» Il pilota smise di volare in cerchio e si abbassò ancora di più. Sotto di loro, le onde s'incalzavano. Si avvicinarono alla poppa del rimorchiatore. Per un momento sembrò che stessero volando dritti contro la svettante struttura del Whistler, poi il pilota corresse la rotta e passarono appena sopra la massiccia nave. Un po' più avanti, Lucy riemerse, mostrando le pinne caudali. Anche Anawak riconobbe l'animale dalle caratteristiche tacche nella coda. «Rallentare», disse. Il pilota obbedì, ma naturalmente erano ancora troppo veloci. Dovevamo prendere un elicottero, pensò Anawak. Così, invece, sarebbero passati a tutta velocità sopra il bersaglio e poi sarebbero dovuti tornare indietro, nella speranza che la balena non sparisse. Ma Lucy non era scomparsa negli abissi. Il suo corpo imponente splendeva nella luce del sole. «Sorpassare, girare, tornare indietro!» Il pilota annuì. «E per favore non vomitate», aggiunse. Piegò l'idrovolante con tale rapidità che esso sembrò reggersi sulla punta dell'ala. Attraverso il portellone aperto, si vedeva luccicare una parete verticale d'acqua, spaventosamente vicina. Alicia gridò, mentre Danny, con la balestra in mano, urlava per il divertimento. Al confronto, un ottovolante era una passeggiata. Per un momento, Anawak percepì tutto come al rallentatore. Non avrebbe mai creduto che un idrovolante potesse ruotare come un compasso, come se la punta di un ala fosse l'ago. Ma il velivolo descrisse un semicerchio perfetto e subito dopo si rimise in. orizzontale. Rombando, l'idrovolante puntò sulla balena e sul Whistler in avvicina-
mento. Trattenendo il respiro, Ford osservava l'idrovolante che si raddrizzava dopo quella virata da far rizzare i capelli. I pattini sfioravano quasi l'acqua. Ricordava vagamente che la Tofino Air impiegava anche un ex pilota della Canadian Air Force. Adesso sapeva chi era. Il corpo cilindrico dell'URA era appeso alla gru del rimorchiatore oltre il parapetto. Erano pronti a sganciare lo strumento non appena il tiratore avesse piazzato la trasmittente. Si vedeva chiaramente la schiena grigia della balena. Non si era immersa. Il velivolo e la balena si muovevano velocemente l'uno verso l'altra. Ford guardava Denny accovacciato sotto l'ala e intanto sperava che fosse sufficiente un unico colpo. Il dorso di Lucy si sollevò sulle onde. Danny alzò la balestra, chiuse un occhio e posò la mano sul metallo. L'uomo rimase assolutamente immobile per qualche istante. Poi, senza mutare espressione, premette il grilletto. Solo lui sentì in quel momento il leggero sibilo prodotto dalla freccia attrezzata che, vicinissima al suo orecchio, lasciò l'arma a oltre duecento chilometri all'ora. Un secondo dopo, l'uncino metallico perforò il grasso della balena ed entrò in profondità, senza che Lucy se ne accorgesse. L'animale inarcò la schiena e s'immerse. La trasmittente sporgeva, obliqua, sul suo dorso. «L'abbiamo presa!» urlò Anawak alla radio. Ford diede il segnale. La gru sciolse il robot dall'ancoraggio. L'URA affondò tra le onde. Il contatto con l'acqua provocò l'emissione di un impulso che azionò i motori elettrici. Sprofondando, l'apparecchio si mosse in direzione della balena. Qualche secondo dopo l'URA non si vedeva più. Ford strinse i pugni, trionfante. «Sì!» Il DHC-2 passò scoppiettando vicino al Whistler. Sul puntello dell'ala, Danny sollevò la balestra, ululando. «Ce l'abbiamo fatta!» «Grande!» «Un colpo e ... accidenti, hai visto? Incredibile!» «Uau!» A bordo dell'idrovolante parlavano tutti contemporaneamente. Danny si voltò verso i compagni, sorrise e cominciò a riportarsi all'interno. Anawak
stava allungando la mano per aiutarlo, quando vide qualcosa salire dall'acqua. Rimase immobile, terrorizzato. Una balena grigia stava salendo velocemente, come se volesse spiccare un balzo. Il corpo enorme si avvicinava, velocissimo. Proprio sulla loro traiettoria di volo. «Risalire!» urlò Anawak. L'idrovolante si sollevò verticalmente, facendo urlare e gemere il motore. Danny ricadde all'indietro. Anawak riuscì a gettare uno sguardo su una testa gigantesca piena di cicatrici, su un occhio, sulle mandibole chiuse. Poi il velivolo prese un colpo terribile. Là dove c'erano l'ala destra e Danny, ormai c'era soltanto una stanga piegata. Anawak cercò un appiglio da qualche parte, ma tutto girava. Alicia gridava, il pilota gridava, lui stesso gridava e il mare veniva verso di loro. Qualcosa di duro - era ferro? - lo colpì in faccia. Nelle orecchie sentiva ululare. Lo stridio infernale del metallo che si rompeva. Spuma. Verde scuro. Più niente. A cinquanta metri di profondità, il computer di bordo stabilizzò il corpo cilindrico dell'URA. Il robot si tarò e seguì la balena più vicina. A una certa distanza, appena riconoscibili nella penombra, si vedevano gli altri animali. L'occhio elettronico dell'URA registrava tutto, senza che il computer attribuisse immediatamente un significato alle impressioni ottiche. Si misero in moto anche le altre funzioni. Nonostante gli eccezionali sensori ottici, la vera forza dell'URA dipendeva dalle percezioni acustiche. In quel caso il suo creatore aveva dimostrato di essere un genio. I sistemi acustici permettevano al robot di ritrovare i mammiferi marini anche dieci o dodici ore dopo che si erano allontanati, e di seguirli in qualunque direzione si spostassero. Il robot seguiva il loro canto. I quattro idrofoni dell'URA, sensibilissimi microfoni subacquei sistemati intorno al corpo del robot, percepivano in ogni momento non soltanto i suoni che gli animali emettevano, ma anche le coordinate della fonte. Se una balena emetteva un suono alto e sottile, i microfoni non ricevevano il rumore contemporaneamente, bensì prima l'uno e poi l'altro. Nessun orec-
chio umano sarebbe stato in grado di registrare quel minimo ritardo e le conseguenti differenze d'intensità. Solo un computer poteva farlo. In tal modo, l'onda sonora colpiva prima e più forte l'idrofono più vicino alla fonte e poi, di seguito, gli altri tre. Sulla base di quei dati, il computer creava uno spazio virtuale e forniva le coordinate dell'autore del suono. Lo spazio si riempiva progressivamente coi segnali di posizione, che si muovevano seguendo gli spostamenti delle balene. In un certo senso, il branco veniva «ricostruito» all'interno del computer. Sparendo negli abissi, anche Lucy aveva emesso una serie di suoni. Nel computer era immagazzinata una voluminosa massa di dati sugli specifici suoni delle balene e di altri pesci, e anche le voci di ogni singolo animale. L'URA setacciò il proprio catalogo elettronico, ma non trovò Lucy come individuo. Allora creò automaticamente un gruppo di coordinate che corrispondevano a Lucy, lo confrontò con altri gruppi di coordinate, classificò tutti gli altri animali davanti a lui come balene grigie e aumentò la velocità di due nodi per avvicinarsi. Non appena ebbe individuato acusticamente e rilevato la posizione delle balene, il robot procedette con le registrazioni ottiche. Nella sua banca dati erano memorizzate la forma delle pinne caudali e la sagoma delle balene, unite alle pinne dorsali, alle pinne pettorali e agli aspetti significativi del corpo di singoli individui. Stavolta la macchina ebbe più fortuna. L'occhio elettronico scansionò le pinne caudali che si alzavano e abbassavano davanti a lui e ne identificò velocemente una come quella di Lucy. Erano infatti stati inseriti tutti i dati delle balene che avevano partecipato agli attacchi, in modo che il robot sapesse quali erano gli animali cui doveva dedicare tutta la propria attenzione. L'URA corresse la rotta di qualche grado. Il canto delle balene permetteva contatti vocali a oltre cento miglia marine di distanza. Le onde sonore in acqua si diffondevano cinque volte più velocemente che nell'aria. A Lucy piaceva nuotare, veloce e libera. Ma lui non l'avrebbe più persa. 26 aprile Kiel, Germania La porta di ferro si aprì scorrendo lateralmente e lo sguardo di Bo-
hrmann spaziò sulla gigantesca costruzione del simulatore. Il simulatore di abissi marini sembrava aver portato la natura a una dimensione comprensibile per l'uomo, senza doverla esiliare nel limbo della pura teoria. Anche se su scala ridotta, era possibile controllare il mare. Il macchinario rappresentava un mondo di seconda mano, una di quelle copie idealizzate di cui gli uomini si fidavano più che della realtà: chi voleva sapere qualcosa sulla vera vita del Medioevo dopo che Hollywood l'aveva già mostrata a modo suo? A chi interessava come moriva un pesce, come sanguinava, come veniva tagliato e come gli venivano strappate le interiora se si poteva comprarli belli puliti e adagiati su un letto di ghiaccio? I bambini americani disegnavano i polli con sei zampe, perché le cosce di pollo erano vendute in confezioni da sei. Si beveva il latte da scatole di cartone e si era disgustati da una mammella. La sensibilità del mondo si deformava e, in tal modo, l'arroganza cresceva. Bohrmann era entusiasta del suo simulatore e delle possibilità che gli forniva. Nel contempo, però, esso rivelava quanto fosse concreto il rischio di cecità della ricerca allorché si riproduceva un modello dell'oggetto invece di osservare l'originale. L'obiettivo che s'imponeva sempre più prepotentemente alla scienza non era comprendere il pianeta, bensì piegarlo alla propria volontà. Nella colorata Disneyland degli equivoci scientifici, l'azione umana riceveva nuove, spaventose giustificazioni. Ogni volta che entrava nel padiglione, la mente di Bohrmann era percorsa dagli stessi pensieri: non saremo mai certi di ciò che è possibile, ma possiamo sapere da cos'è meglio stare alla larga. Eppure non ne vogliamo sentir parlare. Due giorni dopo l'incidente sulla Sonne, lui era di nuovo a Kiel. I carotaggi nei contenitori frigoriferi erano arrivati separatamente, con un cargo veloce ed erano stati affidati a Erwin Suess, il quale, con un team di geochimici e biologi, si era messo immediatamente all'opera per analizzare il bottino. Quando Bohrmann era arrivato all'istituto, le analisi erano già iniziate. Da ventiquattr'ore gli scienziati stavano instancabilmente cercando di scoprire le cause dello scioglimento, e a quanto pare le avevano trovate. Il simulatore poteva idealizzare la realtà, ma forse, in quel caso, aveva portato alla luce la verità sui vermi. Erwin Suess aspettava Bohrmann davanti al pannello di controllo. Era in compagnia di Heiko Sahling e della biologa molecolare Yvonne Mirbach, specializzata sui batteri degli abissi marini. «Abbiamo preparato una simulazione al computer», disse Suess. «Non tanto per noi, quanto perché tutti
possano capire.» «Quindi non è più solo un problema della Statoil», mormorò Bohrmann. «No.» Suess mosse il cursore sul monitor e cliccò su un'icona. Apparve una raffigurazione grafica. Mostrava la sezione di una copertura di idrati spessa cento metri, che faceva da coperchio a una bolla di gas. Sahling indicò un sottile strato scuro sulla superficie. «Quelli sono i vermi», disse. «Passiamo all'ingrandimento», spiegò Suess. Apparve una sezione della superficie di ghiaccio. Ormai i vermi si riconoscevano a uno a uno. Suess ingrandì ancora l'immagine finché un singolo esemplare non occupò quasi tutto lo schermo. Il verme era stilizzato e solo alcune parti avevano colori vivaci. «Il rosso rappresenta i solfobatteri», disse Yvonne Mirbach. «Il blu, gli archaea.» «Endosimbionti ed ectosimbionti», mormorò Bohrmann. «Il verme è conficcato nei batteri, che a loro volta s'insediano su di lui.» «Esatto. È un'associazione. Batteri di specie diversa che collaborano.» «L'avevano già capito anche gli scienziati consultati da Johanson», proseguì Suess. «Hanno prodotto pagine e pagine di analisi sullo stile di vita simbiotico dei vermi, ma non hanno tratto la conclusione corretta. Nessuno si è mai chiesto che cosa facciano effettivamente queste associazioni. Noi siamo partiti dal presupposto che i vermi destabilizzano il ghiaccio, benché sapessimo bene che non era possibile. E infatti non sono i vermi.» «I vermi sono solo il veicolo», ipotizzò Bohrmann. «È così.» Suess cliccò un'icona. «Qui c'è la risposta al vostro blowout.» Il verme stilizzato cominciò a muoversi. A causa del poco tempo disponibile, la rappresentazione era stata realizzata in maniera molto grossolana. Era più una sequenza di singole immagini che un film. La proboscide a tenaglia saettò fuori e il verme cominciò a trivellare il ghiaccio. «Attenzione, ora», lo ammonì Suess. Bohrmann fissava le immagini. Suess aveva ridotto l'ingrandimento. Si vedevano diversi animali che trascinavano i loro corpi sul ghiaccio. Poi, improvvisamente... «Mio Dio!» esclamò Bohrmann. Poi cadde un silenzio totale. «Se succede così su tutta la scarpata continentale...» mormorò Sahling
dopo qualche istante. «Succederà», disse Bohrmann in tono inespressivo. «Ed è assai probabile che accada simultaneamente. Avremmo potuto arrivarci già a bordo della Sonne. I frammenti di idrati erano coperti di batteri.» Ciò che aveva visto era più o meno quello che si aspettava. Aveva temuto e contemporaneamente sperato di sbagliarsi. Ma la realtà era ancora peggiore. Ammesso che quella fosse la realtà. «Ogni singola cosa successa qui è già nota», riprese Suess. «Singolarmente, ognuno dei fenomeni è già stato osservato, nulla di nuovo. La novità sta nell'effetto combinato. Non appena si uniscono tutti i componenti, la decomposizione degli idrati diventa evidente.» Sbadigliò. Sembrava davvero una cosa fuori luogo di fronte al quadro spaventoso che avevano tracciato, ma nelle ultime ventiquattr'ore nessuno di loro aveva chiuso occhio. «Tuttavia non riesco a spiegarmi perché i vermi siano lì.» «Neanch'io», disse Bohrmann. «E ci penso da molto più tempo di te.» «E ora chi informiamo?» chiese Sahling. «Hmm...» Suess portò un dito sul labbro superiore. «E chi se no? La questione è chiara, giusto? Quindi anzitutto dovremmo informare Johanson.» «Perché non subito la Statoil?» propose Sahling. «No.» Bohrmann scosse la testa. «In nessun caso.» «Credi che facciano il doppio gioco?» «Johanson è la scelta migliore. Credo che sia neutrale come la Svizzera. Dobbiamo lasciare a lui la scelta se...» «Non c'è tempo «, lo interruppe Sahling. «Se la simulazione si avvicina anche solo in maniera approssimativa a quello che sta succedendo sulla scarpata continentale, allora dobbiamo avvertire immediatamente il governo.» «E tutti gli Stati sul mare del Nord.» «Buona idea. L'Islanda, per esempio.» «Ehi, fermi!» Suess sollevò le mani. «Non stiamo guidando una crociata.» «Non si tratta di questo.» «E invece si tratta proprio di questo. Per ora abbiamo solo una simulazione.» «Certo, ma...» «No, ha ragione», lo interruppe Bohrmann. «Non possiamo seminare il panico rendendo pubblico questo fatto. Neppure noi sappiamo esattamente
come stanno le cose. Voglio dire, sappiamo quello che succede, ma i risultati sono delle proiezioni. Al momento possiamo solo affermare che finiranno nell'atmosfera grandi quantità di metano.» «Ma sei pazzo?» urlò Sahling. «Sappiamo dannatamente bene quello che succederà.» Bohrmann si accarezzava distrattamente la zona in cui gli stavano ricrescendo i baffi. «Va bene, rendiamolo pubblico. Otterremo una dozzina di prime pagine. Ma quali sarebbero le conseguenze?» «Quali sarebbero le conseguenze se si pubblicasse su un giornale che un meteorite colpirà la Terra?» rifletté Suess. «Il paragone ti sembra azzeccato?» «In un certo senso, sì.» «Sono dell'idea che non dobbiamo decidere da soli», intervenne Yvonne Mirbach. «Procediamo per gradi. Per prima cosa parliamo con Johanson. In fondo, è lui che si occupa dei contatti. Inoltre, se osserviamo la cosa da un punto di vista strettamente scientifico, l'onore spetta a lui.» «Quale onore?» «I vermi li ha scoperti lui.» «No, li ha scoperti la Statoil. Comunque, per quello che mi riguarda, l'onore può andare a Johanson. E poi?» «Informiamo i governi.» «E rendiamo pubblica la cosa?» «Perché no? Viene pubblicato tutto. Sappiamo dei programmi nucleari coreani e iraniani e di qualche idiota che diffonde gli agenti patogeni del carbonchio. Sappiamo tutto della BSE, della peste suina e delle verdure manipolate geneticamente. In Francia, le persone si ammalano e muoiono a dozzine per qualche batterio nella carne di molluschi andata a male. E nonostante queste notizie, nessuno corre in montagna a nascondersi!» «No», disse Bohrmann. «Naturalmente no, ma se riflettessimo in pubblico su un possibile effetto Storegga...» «Per questo i dati sono troppo superficiali», disse Suess. «La simulazione mostra quanto la decomposizione proceda velocemente. E mostra anche tutto il resto.» «Ma non dice con certezza assoluta quello che succederà.» Bohrmann fece per rispondere, ma si arrestò. Suess aveva ragione. Potevano ipotizzare quello che sarebbe successo, ma non dimostrarlo. Se fossero usciti allo scoperto, senza avere provato in ogni dettaglio la loro teoria, le lobby del petrolio si sarebbero scatenate. E le loro argomentazioni sa-
rebbero cadute come un castello di carte. Era troppo presto. «Va bene», disse. «Di quanto tempo abbiamo bisogno per avere risultati inoppugnabili?» Suess aggrottò la fronte. «Di una settimana, credo.» «È maledettamente troppo tempo», commentò Sahling. «Ma sentilo!» Yvonne Mirbach scosse la testa, innervosita. «Il tempo è maledettamente poco. Se hai bisogno di una perizia tassonomica su un nuovo verme, tu stai a girarti i pollici per mesi, e noi...» «Data la situazione, è troppo tempo.» «Tuttavia i falsi allarmi non portano a niente. Andiamo avanti», replicò Suess. Bohrmann annuì. Non riusciva a staccare lo sguardo dal monitor. La simulazione era finita sullo schermo, ma continuava nella sua mente, facendogli venire i brividi. 29 aprile Trondheim, Norvegia Sigur Johanson entrò nell'ufficio di Olsen, si chiuse la porta alle spalle e sedette di fronte al biologo. «Hai tempo?» Olsen sorrise. «Per te mi sono fatto in quattro», rispose. «Cos'hai trovato?» Olsen abbassò la voce. «Con cosa devo incominciare? Con le storie di mostri? Con le catastrofi naturali?» Stava cercando di dare un tocco di mistero alle sue scoperte. E ci riusciva pure. «Tu con cosa incominceresti?» «Va bene.» Olsen ammiccò con aria scaltra. «Che ne diresti se, per una volta, incominciassi tu? Perché non mi dici qualcosa del motivo per cui ho dovuto recitare per giorni la parte di Watson, mio caro Holmes?» Ancora una volta, Johanson si chiese quanto potesse raccontare a Olsen, il quale non stava più nella pelle per la curiosità. D'altronde lui, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente. Ma, se gli avesse detto qualcosa, nel giro di poche ore l'intero NTNU l'avrebbe saputo. Improvvisamente gli venne un'idea... così assurda da suonare credibile. Olsen l'avrebbe considerato uno scemo, ma almeno l'avrebbe lasciato in pace. Abbassò a sua volta la voce e disse: «Ci ho pensato a lungo e sono arrivato a una teoria».
«Vale a dire?» «È tutto pilotato.» «Che cosa?» «Le anomalie: le meduse, la sparizione delle barche, i morti e i dispersi... Mi è semplicemente venuta l'idea che ci siano dei legami molto in alto.» Olsen lo guardò, sbalordito. «Chiamiamolo un 'grande piano'.» Johanson si appoggiò allo schienale e scrutò Olsen, per capire se aveva abboccato. «E con questa idea cosa vorresti ottenere? Il premio Nobel o un posto in manicomio?» «Né l'uno né l'altro.» Olsen continuava a fissarlo. «Mi prendi in giro.» «No.» «Sì, invece. Parli di... Che ne so, di che parli? Del diavolo? Di poteri occulti? Di omini verdi? Di X-files?» «È solo un'idea. Voglio dire, ci devono essere delle relazioni, no? Tutti i fenomeni si manifestano contemporaneamente! E tu credi che sia un caso?» «Non lo so.» «Vedi, non lo sai. E non lo so neanch'io.» «Che tipo di relazioni stai immaginando?» Le mani di Johanson si muovevano leggermente. «Dipende solo da quello che tu hai da offrirmi.» «Ah, sì.» Olsen fece una smorfia. «Bella pensata. Tu non sei un idiota, Sigur. Deve esserci molto di più.» «Raccontami qualcosa, poi vedremo.» Olsen scrollò le spalle, aprì un cassetto e tirò fuori una pila di fogli. «Il bottino di Internet», disse. «Se non fossi così dannatamente pragmatico, potrei finire col credere alle scemenze che spari.» «Allora, che cosa c'è?» «Le spiagge dell'America centrale e meridionale sono state chiuse. Le persone non vanno più in acqua e le meduse intasano le reti dei pescatori. Nel Costarica, in Cile e in Perú si parla di apocalisse gelatinosa causata dalla caravella portoghese incrociata con un'altra specie, molto piccola, con tentacoli molto lunghi e molto velenosi. All'inizio, si era pensato alle vespe di mare, ma l'aspetto è completamente diverso. Forse una nuova specie.» Un'altra specie nuova, pensò Johanson. Vermi mai visti prima, meduse
mai viste prima... «E le vespe di mare in Australia?» chiese. «Lo stesso scenario.» Olsen frugò nel suo pacco di fogli. «Diventano sempre di più. Una catastrofe per i pescatori. Il turismo è in ginocchio.» «E che ne è dei pesci della zona? Le meduse non li attaccano?» «Sparitibus.» «Come?» «Non ci sono più. I grossi banchi sono semplicemente spariti dalle coste colpite. Gli equipaggi dei pescherecci sostengono che hanno lasciato le loro zone d'origine e sono andati in mare aperto.» «Ma là non trovano da mangiare.» «Forse si sono messi a dieta. Che ne so io?» «E nessuno ha una spiegazione?» «Sono state istituite ovunque unità di crisi», disse Olsen. «Ma non si riesce a sapere niente. Ci ho provato.» «Questo significa che la situazione reale è ancora peggiore.» «Forse.» Olsen prese un foglio. «Se guardi questa lista, trovi una serie di comunicati stampa che sono stati diffusi e immediatamente dopo sono spariti. Meduse sulla costa dell'Africa occidentale, probabilmente anche in Giappone, di certo nelle Filippine. Sospetti su casi di morte, poi smentite, poi silenzio. Attento, però, perché adesso si fa interessante. C'è un'alga che da alcuni anni si aggira come un fantasma tra i media. Un'alga killer, Pfiesteria piscicida. C'è poco da fare se ti capita tra capo e collo: fa ammalare uomini e animali. Sinora ha infestato occasionalmente l'altra parte dell'Atlantico, ma ultimamente pare sia comparsa in Francia. E non in quantità modesta.» «Morti?» «Certamente. I francesi non sprecano tante parole per spiegare la loro situazione, ma, a quanto pare, l'alga è arrivata con gli astici. È tutto lì dentro, l'ho raccolto per te.» Olsen spinse verso Johanson alcuni fogli. «Poi c'è la faccenda delle imbarcazioni scomparse. Ci sono state decine di richieste d'aiuto, ma non si riesce a capire che cosa sia successo perché i contatti si sono interrotti troppo presto. Qualunque cosa sia successa, deve essere accaduta molto in fretta.» Agitò un altro foglio. «Ma chi sarei io se non ne sapessi di più del resto dell'umanità? Tre di queste richieste d'aiuto sono finite nella rete.» «Eh?» «Qualcosa ha attaccato le imbarcazioni.» «Attaccato?»
«Proprio così.» Olsen si grattò il naso. «Acqua al mulino della tua teoria del complotto. Il mare si solleva contro gli uomini, indignato per lo schifo che si ritrova dentro. Solo perché ci scarichiamo un po' d'immondizia e sterminiamo pesci e balene. Ah, a proposito di balene, l'ultima che ho sentito è che, nel Pacifico orientale, hanno attaccato in massa le navi. Pare che nessuno si fidi più ad andare in mare.» «Si sa...?» «Non fare domande stupide. No, non si sa. Non si sa niente. Ah, come sono stato solerte! In ogni caso, non si spiegano le cause delle collisioni e delle catastrofi delle petroliere. Blocco totale delle informazioni. La tua teoria finora ha qualche validità: le notizie sono state diffuse, ma ora qualcuno ha steso una cortina di silenzio. Proprio una situazione da X-files, eh?» Olsen aggrottò la fronte. «In ogni caso: troppe meduse, troppi pesci... Tutto appare sovradimensionato.» «E nessuno sa da che cosa dipenda?» «Ufficialmente nessuno ha avuto il coraggio di sostenere che potrebbero esserci delle relazioni. Andrà a finire che le unità di crisi daranno la colpa al Niño oppure al riscaldamento della Terra. Il tema dell'invasione biologica funziona alla grande, così si possono pubblicare articoli speculativi.» «I soliti sospetti.» «Si, ma non spiegano niente. Sono anni che meduse, alghe e bestiacce simili girano il mondo nell'acqua di zavorra delle navi. Conosciamo il fenomeno.» «Certo», disse Johanson. «Vedi, è lì che voglio arrivare. Se da qualche parte imperversa un'orda di vespe di mare, benissimo. Ma se in tutto il mondo accadono contemporaneamente cose inverosimili, allora la faccenda è ben diversa.» Olsen avvicinò gli indici e li guardò, pensieroso. «Allora, se vuoi davvero stabilire delle relazioni, io non parlerei d'invasione biologica, bensì di anomalie del comportamento. Si tratta di esempi di aggressività. Finora non si erano mai viste cose simili.» «Non hai trovato altro su qualche nuova specie?» «Santo cielo, non ti basta questo?» «Chiedevo soltanto.» «Che cos'hai in sospeso?» volle sapere Olsen. Se adesso gli chiedo dei vermi, capirà tutto, pensò Johanson. È vero che non sa come valutare l'informazione, ma intuirà che da qualche parte nel mondo c'è un'invasione di vermi. «Niente di concreto», disse.
Con uno sguardo torvo, Olsen gli allungò il resto dei fogli. «Quando ci sarà l'occasione, mi racconterai tutto quello che evidentemente ora non mi vuoi raccontare?» Johanson prese i fogli e si alzò. «Un giorno o l'altro andiamo a berci un bicchierino.» «Certo. Non appena ho tempo. Sai, con la famiglia...» «Grazie, Knut.» «Di niente.» Johanson uscì in corridoio. Da un'aula arrivavano alcuni studenti che gli sciamarono davanti, alcuni ridendo e chiacchierando, altri col volto serio. Si fermò e li seguì con lo sguardo. Di colpo non gli parve più così assurdo che dietro quegli avvenimenti ci fosse una regia occulta. Al largo delle isole Svalbard, mar di Groenlandia Sull'acqua si diffondeva la luce della luna. Era un panorama che invitava l'equipaggio ad andare in coperta. Quella notte, lo spettacolo del mare di ghiaccio toglieva il fiato. Era una scena che si vedeva raramente, ma Lukas Bauer non se ne curava. Era in cabina, chino sui suoi appunti e sembrava alla ricerca del proverbiale ago nel pagliaio, solo che il pagliaio aveva le dimensioni di due oceani. Karen Weaver aveva fatto davvero un buon lavoro e gli era stata di grande aiuto, ma due giorni prima lei era sbarcata a Longyearbyen, sull'isola di Spitsbergen, per fare delle ricerche. Quella donna conduceva una vita inquieta, almeno secondo Bauer, la cui vita non si poteva certo definire tranquilla. Come giornalista scientifica si era occupata soprattutto di argomenti marini. Bauer presumeva che la scelta professionale di Karen fosse dovuta unicamente al fatto che il suo lavoro le avrebbe permesso di viaggiare gratis nei luoghi più inospitali del mondo. Amava le situazioni estreme e in ciò si differenziava da Bauer, che invece le detestava con tutto il cuore. Era però posseduto dal demone della ricerca, che lo portava a non curarsi minimamente delle comodità. Molti ricercatori erano così. Erano considerati a torto degli avventurieri, e invece non facevano altro che mettere in conto l'avventura pur di arrivare alla conoscenza. A Bauer mancavano una poltrona comoda, gli alberi e gli uccellini e soprattutto una birra tedesca fresca appena spinata. Soprattutto gli mancava la compagnia di Karen Weaver. Quella ragazza testarda gli era entrata nel
cuore. Senza contare che stava cominciando a cogliere il senso e lo scopo del lavoro dell'addetto stampa: se voleva che l'opinione pubblica s'interessasse alla sua attività, doveva utilizzare un vocabolario magari non precisissimo, ma proprio per questo comprensibile a tutti. Karen gli aveva spiegato che molti non avrebbero compreso il suo lavoro, perché non sapevano come e dove nasceva la Corrente del Golfo, intorno alla quale ruotava tutto ciò che lo scienziato stava sperimentando in quei giorni. Bauer non riusciva a crederci. Non poteva pensare che ci fossero persone che ignoravano cosa fosse un drifter, ma Karen gli aveva spiegato che ben pochi potevano sapere che cosa fosse, perché i drifter erano troppo nuovi e limitati ad ambiti specialistici. Quello era riuscito ad accettarlo. Ma la Corrente del Golfo! Che cosa insegnavano a scuola? Karen aveva ragione. In fondo lui, voleva raggiungere l'opinione pubblica affinché condividesse le sue preoccupazioni e facesse pressione su chi deteneva il potere. Ed era molto preoccupato. Le sue preoccupazioni nascevano nel golfo del Messico. Da lì, lungo le coste sudamericane e dall'Africa meridionale, scorreva una corrente di superficie calda. Ai Caraibi essa si scaldava ulteriormente e continuava a scorrere verso nord. Acqua calda e molto salata che, essendo molto calda, rimaneva in superficie. Quell'acqua costituiva il teleriscaldamento dell'Europa: la Corrente del Golfo. Scorreva fino a Terranova - trasportando con sé un miliardo di megawatt di calore, corrispondenti alla produzione di duecentocinquantamila centrali atomiche - dove s'incontrava con la corrente fredda del Labrador e si disperdeva. Là si formavano i cosiddetti eddies, masse circolari d'acqua calda, che si spostavano verso nord. I venti da ovest facevano evaporare l'acqua, provocando fruttuose piogge sull'Europa e, nel contempo, elevando la concentrazione salina nel mare. La corrente avanzava oltre la costa norvegese, dove prendeva il nome di «corrente norvegese», e portava calore nell'estremo Nordatlantico, permettendo alle navi di passare a sud-ovest delle Svalbard. L'influsso caldo terminava soltanto tra la Groenlandia e la Norvegia settentrionale. In quel punto la corrente norvegese, alias Corrente del Golfo, incontrava l'acqua fredda dell'Artico che, accompagnata da venti gelidi, la raffreddava rapidamente. Già molto salata e ormai assai fredda, l'acqua diventava così pesante che la sua massa precipitava. Ciò non avveniva su tutto il fronte, ma in vortici, che cambiavano la propria posizione a seconda del moto ondoso e quindi non si potevano trovare al
primo tentativo. Quei vortici avevano un diametro compreso tra i venti e i cinquanta metri e circa una decina di essi arrivava al chilometro quadrato; dove fossero esattamente, però, dipendeva dalla configurazione quotidiana di mare e vento. Causa prima di tutto era il mostruoso gorgo prodotto dalle masse d'acqua che sprofondavano. Era quello il segreto della Corrente del Golfo e delle sue propaggini. In realtà, essa non scorreva verso nord, veniva piuttosto trascinata là dalla gigantesca pompa appena sotto l'Artico. A una profondità di due o tremila metri, l'acqua freddissima riprendeva la via del ritorno compiendo l'intero viaggio intorno alla Terra. Bauer aveva preparato una serie di drifter nella speranza che seguissero il corso dei canali. Ma, nel frattempo, sembrava aver perso la speranza di trovarne uno. Avrebbero dovuto essere ovunque. E invece sembrava che la grande pompa avesse interrotto il proprio lavoro, oppure che si fosse spostata in una zona sconosciuta. Bauer era lì proprio perché sapeva di quel problema e dei suoi effetti. Non si aspettava quindi di trovare tutto in ordine, ma neanche di non trovare nulla. E questo era causa per lui di gravi, gravissime preoccupazioni. Prima che sbarcasse, aveva condiviso le sue preoccupazioni con Karen Weaver. Da allora, le mandava regolarmente e-mail coi rapporti sulla situazione e le confidava i suoi peggiori timori. Alcuni giorni prima, il suo team aveva rilevato che la concentrazione di gas nel mare del Nord era salita a picco, e lui aveva valutato la possibilità che ciò fosse in qualche modo in relazione con la scomparsa dei canali. Adesso, solo nella sua cabina, ne era quasi sicuro. Lavorava senza posa, mentre la notte polare induceva anche i più incalliti marinai a starsene appoggiati al parapetto a guardare lo spettacolo. Sedeva, curvo su pile di calcoli, diagrammi e schede. Di tanto in tanto, mandava un'e-mail a Karen Weaver per salutarla e per metterla al corrente delle sue ultime scoperte. Era così sprofondato nel suo lavoro, che per un po' riuscì a ignorare il tremolio che percorreva la nave, finché la tazza di tè sulla sua scrivania non gli si rovesciò sui pantaloni. «Al diavolo!» sbraitò. Il tè bollente gli scorreva sulla coscia e tra le gambe. Spinse indietro la sedia e si alzò per constatare i danni. Poi si bloccò, le mani aggrappate allo schienale della sedia, e si mise in ascolto. Si sbagliava? Ma no, sentiva davvero gridare. A quel suono, si aggiunse un rumore di
passi pesanti, frenetici. Là fuori stava succedendo qualcosa. Il tremolio si fece più intenso. La nave vibrava. Improvvisamente qualcosa gli fece perdere l'equilibrio. Gemendo, sbatté contro la scrivania. Un attimo dopo il pavimento gli mancò sotto i piedi, come se tutta la nave fosse finita in un buco. Bauer fu sbattuto a terra sulla schiena. Fu preso dal terrore, un terrore profondo, mostruoso. Si rialzò a fatica e barcollò fuori dalla cabina. Sentiva urla altissime. I motori erano stati accesi. Qualcuno gridò qualcosa in islandese. Bauer non capì che cosa, perché conosceva solo l'inglese, ma non gli sfuggì il panico che permeava quella voce e che venne amplificato dalla voce che aveva risposto. Un maremoto? Lo scienziato percorse in fretta il corridoio e la scala per raggiungere la coperta. La nave ondeggiava selvaggiamente e lui faticava a reggersi in piedi. Barcollando, arrivò all'aperto e sentì un odore disgustoso. Allora comprese cosa stava succedendo. Riuscì a raggiungere il parapetto e a guardare fuori. Tutt'intorno, il mare ribolliva di bianco. Come se fossero in una pentola. Non c'erano onde. Non c'era tempesta. Erano bolle. Gigantesche bolle che salivano. Di nuovo perse l'equilibrio e cadde in avanti, battendo violentemente la faccia contro l'assito. Il dolore gli esplose nella testa. Quando riuscì a sollevare lo sguardo, gli occhiali si erano rotti. Senza occhiali, lui era praticamente cieco. Riuscì comunque a vedere il mare che si richiudeva sopra la nave. Mio Dio! pensò. Mio Dio, aiutaci. 30 aprile Vancouver Island, Canada La notte risplendeva di un verde cupo. Non faceva né caldo né freddo... C'era una sorta di gradevole assenza di temperatura. L'atto del respirare sembrava finito tra gli eventi privi di sviluppo, rimpiazzato da una funzione estesa, che permetteva di muoversi liberamente tra gli elementi. Dopo essere caduto attraverso quell'universo verde scuro, Anawak fu preso dall'euforia e distese le braccia, sentendosi un Icaro che aveva scelto gli abissi come cielo. Sprofondava, ubriacato dalla sensazione di mancanza di peso. Sul fondo c'era qualcosa che splen-
deva, un paesaggio ampio e ghiacciato. Poi l'oceano verde scuro si trasformò in un cielo notturno. Era sul bordo di una distesa di ghiaccio e guardava l'acqua nera e tranquilla. Sopra di lui, un'infinità di stelle. Com'era meraviglioso starsene lì. Il bordo di ghiaccio si sarebbe staccato dalla terraferma e avrebbe navigato per il mare del Nord, sempre più a settentrione, e lui, come passeggero, sarebbe andato là dove non lo attendevano domande pressanti, bensì una casa. La sua casa. Sarebbe stato a casa. La nostalgia si liberò nel petto di Anawak e gli fece venire le lacrime agli occhi, lacrime che scintillavano, che lo accecavano. Le scrollò via ed esse caddero nel mare nero, illuminandolo. Dalle profondità, qualcosa saliva verso di lui. L'acqua prese la forma di una figura che sembrava attenderlo a una certa distanza, là dove lui non poteva andare. Era là, rigida e cristallizzata, e la sua superficie imprigionava la luce delle stelle. «L'ho trovata», disse la figura. Non aveva né viso né bocca, ma Anawak conosceva quella voce. Si avvicinò, ma c'era il bordo del ghiaccio e nell'acqua nera nuotava qualcosa di grande che faceva venir voglia di fuggire. «Che cos'hai trovato?» chiese Anawak. Fu terrorizzato dalla sua stessa voce. Le parole gli arrivavano a fatica alle labbra, dopo averlo tormentato come animali feroci. Al contrario di quanto pronunciato, o forse solo pensato, dalla figura, le sue parole non attraversarono il perfetto silenzio del paesaggio ghiacciato. D'un tratto un freddo tagliente lo colpì. Cercò con lo sguardo quella cosa nell'acqua, ma era sparita. «Allora, come va?» gli chiese una voce. Anawak girò la testa e vide l'esile figura di Samantha Crowe, la ricercatrice del SETI. «Ti manca la pratica nel parlare», gli disse. «Il resto riesci a farlo meglio. A dire la verità, è terribile!» «Mi dispiace», balbettò Anawak. «Sì? Va bene. Forse dovresti iniziare a esercitarti. Ho trovato i miei extraterrestri. Lo sapevi? Finalmente abbiamo stabilito un contatto. Non è meraviglioso?» Anawak sussultò. Non lo trovava affatto meraviglioso. Aveva una paura terribile degli extraterrestri di Samantha Crowe, e non sapeva perché. «E... chi sono? Che cosa sono?» La ricercatrice del SETI indicò l'acqua nera oltre il bordo del ghiaccio.
«Sono là fuori», disse. «Credo che saranno contenti di conoscerti, perché amano avere contatti. Ma tu dovresti sforzarti un po' di più.» «Non posso», disse Anawak. «Non puoi?» Samantha Crowe scosse la testa, perplessa. «Perché non puoi?» Anawak fissò gli imponenti dorsi scuri che solcavano l'acqua. Erano dozzine, centinaia. Sapeva che erano lì per lui. Improvvisamente comprese che si stavano avvicinando a causa della sua paura. Si nutrivano di paura. «Io... non posso». «Su, su, non fare il vigliacco. Devi cominciare», replicò Samantha con ironia. «È la cosa più facile del mondo. Per te è molto più facile che per noi. Noi dobbiamo stare in ascolto di tutto il maledetto universo.» Anawak tremava ancora di più. Si avvicinò al bordo e guardò fuori. All'orizzonte, dove il cielo stellato accoglieva in sé il mare nero, splendeva una luce lontana. «Va'», disse Samantha. Ho volato, pensò Anawak. Ho volato attraverso un oceano verde scuro, pieno di vita, e non ho avuto la minima paura. Che cosa può succedere? L'acqua sarà solida come il terreno e io raggiungerò quella luce, trascinato dalla mia volontà. Sam ha ragione. È facile. Non c'è nulla di cui avere paura. Davanti ai suoi occhi emerse un animale gigantesco, e una colossale coda a due punte si levò contro le stelle. Nulla di cui avere paura. Ma aveva esitato troppo e la vista delle pinne caudali l'aveva reso incerto. Né la sua volontà né la forza del sogno lo aiutavano a mettere fuori gioco le leggi della natura. Quando infine fece un passo avanti, sprofondò immediatamente nel gelo del mare, che si richiuse sopra la sua testa. Era tutto nero. Anawak voleva gridare e ingoiò dell'acqua, che entrò dolorosamente nei suoi polmoni. Sprofondava implacabilmente, annaspando. Il cuore gli batteva all'impazzata, gli martellava nelle tempie, rimbombava come colpi di martello... Anawak trasalì e batté la testa contro l'asse. «Maledizione», imprecò. Si sentiva ancora battere. Ma non era più un rimbombo. Anzi era un rumore smorzato, come di nocche sul legno. Si rotolò su un fianco e vide Alicia, che, leggermente chinata in avanti, spiava nella sua cuccetta. «Scusa», disse la ragazza. «Non sapevo che ti saresti alzato di scatto.» Anawak la fissò. Alicia? Ah, sì. Lentamente i ricordi si ricomposero. Si
tenne la testa, fece un grugnito tormentato e si lasciò cadere all'indietro. «Che ore sono?» «Le nove e mezzo.» «Dannazione.» «Hai un aspetto terribile. Hai fatto un brutto sogno?» «Mah, cose assurde.» «Posso preparare il caffè.» «Un caffè? Ottima idea.» Si toccò il punto in cui aveva battuto la testa e sussultò. Sarebbe spuntato un bel bernoccolo. «Dov'è quella stupida sveglia? Doveva suonare alle sette.» «Non l'hai sentita. E non c'è da meravigliarsi, dopo quello che e successo.» Alicia andò nella piccola cucina e si guardò intorno. «Dov'è...» «Nel pensile, a sinistra. Caffè, filtri, latte e zucchero.» «Hai fame? So preparare colazioni fantastiche...» «No.» Lei scrollò le spalle e riempì d'acqua la caldaia della macchina del caffè. Anawak la osservò per qualche secondo, poi si sollevò dalla cuccetta. «Girati, devo infilarmi qualcosa.» «Non fare tante scene. Non ti guardo mica.» Lui aggrottò la fronte mentre osservava i suoi jeans. Erano appallottolati sulla panca vicino alla cuccetta. Vestirsi si rivelò molto difficile. Aveva le vertigini e la gamba ferita gli faceva male se la piegava. «John ha chiamato?» chiese. «Sì. Prima.» «Dannazione.» «Che cosa c'è?» «Anche un vecchio decrepito ci mette meno tempo a infilarsi i pantaloni. Al diavolo, perché non ho sentito la sveglia? Volevo assolutamente...» «Sai una cosa? Sei uno scemo, Leon. Un vero scemo. Due giorni fa sei sopravvissuto a un incidente aereo. Hai un ginocchio gonfio e, secondo me, qualche rotella del tuo cervello è andata fuori posto. Abbiamo avuto una fortuna incredibile. Potremmo essere morti come Danny e il pilota, invece siamo vivi. E tu ti lamenti per la tua dannata sveglia e perché non riesci a fare la ruota. Hai finito?» Anawak si sedette sulla panca. «Sì, ho finito. Cos'ha detto John?» «Ha raccolto tutti i dati e ha guardato i video.» «Fantastico. E allora?» «Niente. Ti devi formare da solo la tua opinione.»
«È tutto?» Alicia riempì il filtro con la polvere di caffè, lo mise sulla caldaia e accese la macchinetta. Dopo qualche secondo, la stanza si riempì di leggeri schiocchi e gorgoglii. «Gli ho detto che stavi ancora dormendo», disse. «Ha risposto che non ti dovevo svegliare.» «Perché?» «Perché devi guarire. Ha detto così, e a ragione.» «Io sono guarito», ribatté Anawak, testardo. Ma non ne era sicurissimo. Quando il DHC-2 era entrato in collisione con la balena grigia aveva perso la superficie portante. Danny, il tiratore, era probabilmente morto sul colpo; gli uomini del Whistler non avevano trovato il suo cadavere, ma sul fatto che fosse morto non c'erano dubbi. Non era riuscito a rientrare in tempo e il portellone laterale dell'idrovolante era rimasto aperto durante la caduta. Anawak doveva ringraziare quella circostanza se era ancora vivo. Con l'impatto era stato scaraventato fuori. Non ricordava nulla di ciò che era accaduto in seguito, neppure come si era procurato quel brutto stiramento al ginocchio. Era rinvenuto solo a bordo del Whistler a causa del dolore pulsante. Subito dopo, aveva visto Alicia sdraiata vicino a lui, e il dolore aveva perso ogni importanza. Sembrava morta. Prima che l'orrore lo sopraffacesse, gli avevano spiegato che non era morta e che aveva avuto ancora più fortuna di lui. Il corpo del pilota aveva attutito il colpo. Benché fosse semincosciente, Alicia era uscita dal relitto che si stava inabissando. L'idrovolante era affondato nel giro di un minuto. L'equipaggio del Whistler era riuscito a recuperare Anawak e Alicia, ma lo sfortunato pilota era sparito negli abissi col suo DHC-2. Nonostante la tragedia, l'operazione si poteva comunque definire un successo. Danny aveva piazzato la sonda. L'URA aveva seguito la balena ed era stato possibile registrare ventiquattr'ore di filmati senza che gli animali attaccassero il robot. Anawak sapeva che le riprese erano state mandate di prima mattina a John Ford e si era fermamente riproposto di recarsi all'acquario. Inoltre il Centre National d'Etudes Spatiales aveva fornito i dati telemetrici ricevuti fino a quel momento dal cronotachigrafo che Lucy portava sul dorso. Se l'idrovolante non fosse precipitato, avrebbero avuto tutti i motivi per essere contenti. E invece la situazione stava peggiorando. Morivano sempre più uomini. Anawak stesso era stato per due volte vicinissimo alla morte. Forse aveva elaborato così in fretta la morte di Susan Stringer perché la rabbia contro
Greywolf aveva cauterizzato tutti gli altri sentimenti. Ora, due giorni dopo la caduta dell'aereo, si sentiva malissimo. Come colpito da una malattia che, dopo essere stata repressa per anni, esplodeva, reclamando il proprio diritto di manifestarsi. Si sentiva insicuro, aveva dubbi su se stesso e avvertiva un'inquietante mancanza di energia. Probabilmente era ancora sotto shock, ma lui non ci credeva. Si trattava di ben altro. Da quand'era stato scaraventato fuori dall'idrovolante, di tanto in tanto aveva le vertigini, dolori al petto e attacchi di panico. No, non era guarito, e lo stiramento del ginocchio non era il vero problema. Anawak si sentiva mutilato dentro. Aveva trascorso quasi tutto il giorno precedente dormendo. Erano venuti a trovarlo Davie, Shoemaker e gli skipper. Ford aveva telefonato più volte, chiedendo sue notizie. Nessun altro si era particolarmente preoccupato per lui. Mentre i genitori di Alicia e un mucchio di suoi amici - compreso un suo ex fidanzato deciso a far valere i diritti maturati nel corso di una relazione durata due anni - avevano fatto pressione su di lei affinché lasciasse Vancouver Island, la partecipazione al destino di Anawak si esauriva nella cerchia dei colleghi. Era malato e sapeva che nessun medico avrebbe potuto aiutarlo. Alicia gli mise davanti una tazza di caffè appena fatto e lo fissò attraverso i suoi occhiali blu. Anawak ne bevve un sorso, si scottò la lingua e si allungò per prendere il radiotelefono. «Posso farti una domanda personale, Leon?» disse lei. Lui si fermò e scosse la testa. «Più tardi.» «Più tardi quando?» Anawak sospirò e compose il numero di Ford. «Non abbiamo ancora finito con le osservazioni», spiegò il direttore. «Prenditi del tempo e riposati.» «Hai detto ad Alicia che mi devo formare un'opinione senza essere influenzato.» «Sì, dopo che abbiamo esaminato tutto. La maggior parte è roba noiosa. Prima che tu venga qui, è meglio se ci guardiamo il resto. Forse potresti risparmiarti la strada.» «Va bene, quando finirete?» «Non ne ho idea. Siamo qui in quattro a guardare i nastri. Dacci un paio d'ore. No, tre. È meglio se mando un elicottero a prenderti oggi nel primo pomeriggio. Elegante, vero? Questo è il vantaggio dell'unità di crisi. C'è
sempre un elicottero a disposizione.» Ford rise. «Però non ci dobbiamo abituare a questi lussi.» Fece una pausa. «In compenso ho un'altra cosa per te. Adesso non ho il tempo di raccontartela, ma sarebbe meglio che tu chiamassi Rod Palm.» «Palm? Perché?» «Ha parlato un'ora fa con Nanaimo e con l'Istituto di scienze oceanografiche. Puoi parlare anche con Sue Oliviera, ma visto che Palm è a due passi da casa tua...» «Maledizione, John! Perché, quando c'è qualcosa da raccontare, non mi chiama mai nessuno?» «Volevo aspettare che ti svegliassi.» Anawak chiuse bruscamente la chiamata e telefonò a Palm. Il direttore della stazione di ricerca sulla Strawberry Island rispose subito. «Ah!» esclamò. «Ford ti ha parlato.» «Sì, l'ha fatto. A quanto pare, avete trovato qualcosa che scuoterà il mondo. Perché non mi hai chiamato?» «Lo sanno tutti che hai bisogno di riposo.» «Ah, sciocchezze.» «Va bene, va bene, volevo aspettare che ti svegliassi.» «È la seconda volta nel giro di un minuto che me lo sento dire. No, è la terza, se si conta anche la preoccupazione permanente di Alicia. Sto bene, maledizione.» «Perché non fai un salto qua?» propose Palm. «Con la barca?» «Sono soltanto poche centinaia di metri. E poi nella baia non è ancora successo nulla.» «Va bene, sarò lì tra dieci minuti.» «Fantastico. A presto.» Alicia lo guardò da sopra il bordo della tazza e aggrottò la fronte. «Qualche novità?» «Tutti mi trattano come un invalido», brontolò Anawak. «Non mi pare.» Lui si alzò, aprì il cassetto sotto la cuccetta e frugò alla ricerca di una camicia pulita. «Evidentemente a Nanaimo hanno scoperto qualcosa», borbottò. «E cosa?» chiese Alicia. «Non lo so.» «Ah.»
«Vado da Palm.» Esitò, poi disse: «Se hai voglia e tempo puoi venire anche tu, okay?» «Mi vuoi con te? Quale onore!» «Non essere sciocca.» «Non lo sono.» Arricciò il naso. I bordi dei suoi incisivi sfregavano il labbro inferiore. Dovrebbe proprio fare qualcosa per quei denti, pensò Anawak. Ogni volta che la guardava, si sorprendeva a controllare se c'era una carota nei dintorni. «Da due giorni hai la luna di traverso. È quasi impossibile fare una conversazione educata», lo rimproverò lei. «L'avresti anche tu se...» s'interruppe. Alicia lo guardò. «C'ero anch'io sull'idrovolante», mormorò. «Mi dispiace.» «Sono quasi morta dalla paura. Un'altra sarebbe corsa subito a casa dalla mamma. Ma tu hai perso la tua assistente, quindi io non corro dalla mamma e ti rimango a fianco, stupido musone. Cosa mi volevi raccontare?» Anawak si toccò il bernoccolo sulla testa. Faceva male e diventava sempre più grande. Anche il ginocchio faceva male. «Nulla. Ti sei calmata?» «Non sono affatto nervosa.» «Bene. Allora vieni.» «Comunque vorrei farti una domanda personale...» «No.» Andare alla piccola isola col Devilfish aveva qualcosa d'irreale. Quasi come se gli attacchi delle settimane precedenti non ci fossero stati. Strawberry Island era poco più di una collina ricoperta di abeti, il cui perimetro si poteva percorrere a piedi in cinque minuti. Quel giorno, il mare era liscio come una tavola e non c'era vento. Un sole caldo diffondeva una luce bianca. Anawak si aspettava in ogni momento di veder comparire una coda o una schiena nera con un'alta pinna dorsale. Ma, dall'inizio degli attacchi, a Tofino si erano viste solo due orche. Erano stanziali e non avevano mostrato segni di aggressività. Evidentemente la teoria di Anawak era vera: il mutamento di comportamento riguardava solo i cetacei che migravano. Si chiese ancora per quanto. Lo zodiac si accostò al molo di attracco dell'isola. La stazione di Palm era proprio di fronte. Si trovava all'interno di un vecchio veliero, che un tempo era il British Columbia Ferry e ora si allungava pittorescamente sulla riva, sostenuto da tronchi e circondato da pezzi di legno e ancore arrug-
ginite. Serviva a Palm sia come ufficio sia come abitazione. Ci vivevano anche i suoi due figli. Anawak si sforzava di non zoppicare. Alicia taceva. Evidentemente era arrabbiata con lui. Poco dopo tutti e tre erano davanti alla nave, seduti intorno a un piccolo tavolo adornato con corteccia di betulla. Alicia beveva una Coca-Cola con la cannuccia. Intorno si vedevano le palafitte. Benché Strawberry Island fosse soltanto a poche centinaia di metri da Tofino, era molto più tranquilla. I rumori si sentivano solo in lontananza. In compenso era possibile sentire i suoni prodotti dalla natura. «Come va il ginocchio?» chiese Palm. Era un uomo premuroso, con una barba bianca che sembrava quasi formata da fiocchi, la testa pelata e la pipa perennemente in bocca, tanto che si era portati a pensare che l'avesse avuta fin dalla nascita. «Non parliamone.» Anawak allungò il braccio destro e cercò d'ignorare il bum bum che aveva nella testa. «Piuttosto dimmi che cosa avete scoperto.» «A Leon non piace che ci s'informi sulla sua salute», commentò Alicia, tagliente. Anawak borbottò qualcosa d'incomprensibile, ma, dentro di sé, ammise che lei aveva ragione. Il suo umore era come un barometro che segnava tempesta. Palm si schiarì la voce. «Sono rimasto a lungo con Ray Fenwick e Sue Oliviera», disse. «Dopo l'autopsia pubblica di J-19 siamo rimasti in stretto contatto. Ma non solo per questo. Il giorno del vostro atterraggio di fortuna, si è arenata un'altra balena. Una balena grigia che non conoscevo. Non aveva segni particolari. Fenwick non poteva venire, così ho fatto io stesso l'autopsia con altre persone, così da mandare a Nanaimo i soliti campioni per le analisi. Un lavoraccio, ti dico. Ho operato in piedi nella cassa toracica e, dopo aver tolto il cuore, sono scivolato fuori. Il sangue e i liquidi che gocciolavano da sopra mi erano arrivati fin negli stivali. Sembravo uno zombie subito dopo pranzo. Questo è il lato romantico della mia attività. Naturalmente abbiamo preso anche un pezzo di cervello.» Il pensiero di un'altra balena spiaggiata colmò Anawak di un dolore pungente. Non riusciva a odiare gli animali per quello che avevano fatto. Per lui restavano creature meravigliose che bisognava difendere e proteggere. «Di che cos'è morta?» chiese. Palm allargò le braccia. «Direi di un'infezione. La stessa che Fenwick ha
diagnosticato per Gengis. La cosa strana è che nell'animale abbiamo trovato anche altre cose che non c'entrano nulla.» S'indicò la testa e mosse in cerchio il dito. «Fenwick ha trovato una sorta di grumo nel cervello. Sul diencefalo, per essere precisi. Con propaggini suddivise tra la massa del cervello e la calotta cranica.» Anawak rizzò le orecchie. «Coaguli di sangue in entrambi gli animali?» «Il sangue non c'entra, anche se all'inizio l'avevamo pensato. Fenwick e Sue Oliviera pensano che il responsabile delle anomalie sia il rumore. Non vogliono parlarne finché non trovano altri indizi, ma nel frattempo Fenwick si è letteralmente aggrappato alle conseguenze delle ricerche col sonar...» «Ti riferisci al Surtass LFA?» «Esatto.» «Scordatelo. Non è possibile.» «Si può sapere di che parlate?» intervenne Alicia. «Il governo americano, da un paio d'anni, ha riservato alla Marina un trattamento speciale», spiegò Palm. «Le ha dato il permesso di usare un sonar a bassa frequenza per la localizzazione di sommergibili. Si chiama Surtass LFA e viene testato con assiduità.» «Davvero?» Alicia era inorridita. «Pensavo che la Marina fosse vincolata al trattato di protezione dei mammiferi marini.» «Tutti siamo vincolati a tutti i trattati possibili», commentò Anawak con un sorriso cupo. «E ci sono tutte le possibili scappatoie. Gli Stati Uniti evidentemente non riescono a resistere alla tentazione di sorvegliare l'ottanta per cento dei mari della Terra, e questo col Surtass LFA è possibile. Così il presidente è stato assai solerte a svincolare la Marina da ogni trattato. Non dimenticare che il nuovo sistema è già costato trecento milioni di dollari e che, secondo i responsabili, non danneggia le balene.» «Ma il sonar danneggia le balene. Lo sa anche un idiota.» «Purtroppo non è sufficientemente dimostrato», disse Palm. «In passato si è rilevato che le balene e i delfini sono molto sensibili al sonar, ma non si può dire con certezza quali effetti abbia sulla caccia, sulla riproduzione e sulla migrazione.» «Ridicolo», sbuffò Anawak. «A 180 decibel si sfondano i timpani delle balene. Ognuno degli altoparlanti subacquei del nuovo sistema produce un rumore di 215 decibel. La forza complessiva del segnale è anche superiore.» Alicia guardava ora l'uno ora l'altro. «E... che cosa succede agli anima-
li?» «È appunto per questo che Fenwick e Sue Oliviera sono arrivati alla teoria del rumore», disse Palm. «Già da anni gli scandagli sonar della Marina fanno spiaggiare delfini e balene in diverse parti del mondo. Molte balene sono morte. Mostravano copiosi versamenti di sangue nel cervello e nell'orecchio interno. Le tipiche ferite causate da forti rumori. Gli ambientalisti sono riusciti a dimostrare che, nelle immediate vicinanze dei luoghi in cui sono morte le balene, c'erano state delle esercitazioni NATO, ma prova a farlo ammettere ai tizi della Marina!» «Lo smentiscono?» «Non hanno fatto che smentire per anni interi. Ora, però, sono stati costretti ad ammettere le loro responsabilità, almeno in alcuni casi. Il problema è che ne sappiamo ancora troppo poco. Conosciamo solo i danni subiti dalle balene morte e ognuno sviluppa la propria teoria. Lanwick, per esempio, crede che i rumori sottomarini possano portare anche alla follia collettiva.» «Non ha senso», brontolò Anawak. «Il rumore toglie il senso dell'orientamento, non porta ad attaccare le navi, ma a spiaggiarsi.» «Mi sembra che la teoria di Fenwick sia degna di attenzione», disse Alicia. «Ah, sì?» «Perché no? Gli animali vanno fuori di testa. Prima solo alcuni, poi sempre di più, fino a una sorta di psicosi di massa.» «Non dire fesserie! Sappiamo di mesoplodonti che si sono spiaggiati alle Canarie dopo che la NATO ha portato a termine le sue esercitazioni. Nessun animale è più sensibile al rumore dei mesoplodonti. Certo che sono andati fuori di testa. Presi dal panico, non hanno trovato altra soluzione che uscire dal loro elemento, e così sono finiti sulla spiaggia. I cetacei scappano dal rumore.» «Oppure attaccano chi lo emette», rispose Alicia, cocciuta. «Chi? Gommoni e fuoribordo? Che rumore sarebbe?» «Allora sarà stato qualche altro rumore. Esplosioni sottomarine.» «Non qui.» «Come fai a saperlo?» «Lo so.» «Devi sempre avere ragione.» «Questo lo dici tu!» sbottò Anawak. «Inoltre gli spiaggiamenti ci sono sempre stati, da secoli. Anche nella
British Columbia. Ci sono tradizioni orali...» «Lo so. Lo sanno tutti.» «E allora? Anche gli indiani avevano il sonar?» «Si può sapere che c'entra tutto questo col nostro argomento?» «Eccome se c'entra. Gli spiaggiamenti delle balene possono essere strumentalizzati senza riflettere sulle conseguenze e...» «Quindi io non rifletto?» Alicia lo fulminò con un'occhiata. «Quello che voglio dire è semplicemente che gli spiaggiamenti delle balene non dipendono per forza da rumori prodotti artificialmente. E viceversa, il rumore può portare anche a conseguenze diverse dagli spiaggiamenti.» «Ehi!» Palm sollevò le mani. «State litigando inutilmente. Lo stesso Fenwick, negli ultimi tempi, si è reso conto che la sua teorìa del rumore è tutt'altro che solida, riguarda sempre la follia collettiva, ma... Volete ascoltarmi?» Lo guardarono. «Allora», proseguì Palm dopo essersi assicurato la loro completa attenzione. «Fenwick e Sue Oliviera hanno trovato il coagulo e hanno concluso che si trattava di una deformazione dovuta a un'influenza esterna. In superficie appariva come un'emorragia e, all'inizio, l'hanno considerata tale. Poi hanno isolato la sostanza e l'hanno sottoposta ai soliti esami. Hanno scoperto che la sostanza era soltanto intrisa del sangue della balena. La sostanza in sé era una massa senza colore che si è decomposta all'aria.» Palm si chinò in avanti. «Sono comunque riusciti a esaminarne alcuni residui. I risultati coincidono con quelli di un test su campioni di alcune settimane fa. Avevano già visto quella sostanza nella testa delle balene. A Nanaimo.» Anawak rimase in silenzio per qualche secondo. «E di che si tratta?» chiese con voce roca. «Della stessa cosa che hai trovato tra le conchiglie sullo scafo della Barrier Queen.» «La sostanza sul cervello delle balene e quella dello scafo della nave...» «Sono identiche. È la stessa sostanza. Materia organica.» «Un organismo estraneo», mormorò Anawak. «Qualcosa di estraneo, sì.» Sebbene fosse in piedi solo da poche ore, Anawak si sentiva sfinito. Tornò a Tofino con Alicia. Salirono la scaletta del molo, ma il ginocchio gli ostacolava i movimenti e gli rendeva difficile addirittura pensare con
chiarezza. Si sentiva disperato, depresso e abbandonato alla mercè di una situazione inquietante. A denti stretti, Anawak raggiunse zoppicando la Davies Whaling Station, prese una bottiglia di succo d'arancia dal frigorifero e si lasciò cadere su una poltrona dietro il bancone. Nella sua mente, i pensieri s'inseguivano in un girotondo assurdo, come quello di un cane che cerca di afferrarsi la coda. Alicia gli si avvicinò. Si guardò intorno, indecisa. «Prenditi qualcosa.» Anawak indicò il frigorifero. «Quello che vuoi.» «La balena che ha abbattuto l'idrovolante...» iniziò lei. Anawak aprì la bottiglia e bevve una lunga sorsata. «Scusa se non posso farlo io. Come ti ho detto, serviti pure.» «Si è ferita, Leon. Forse è morta.» Anawak rimase qualche secondo a riflettere. «Sì», disse infine. «È probabile.» Alicia si avvicinò a uno scaffale su cui erano allineati vari modelli in plastica di balene. Ce n'erano di tutte le dimensioni: alcune erano lunghe un pollice, altre avevano le dimensioni di un avambraccio. Diverse megattere si reggevano sulle pinne pettorali. Lei ne prese una e la rigirò tra le dita. Anawak la guardava allarmato. «Non lo fanno volontariamente», disse Alicia. Lui si grattò la fronte. Poi si chinò in avanti e accese il piccolo televisore portatile vicino alla radio. Forse se ne sarebbe andata senza bisogno di chiederglielo. Non aveva nulla contro di lei. In fondo si vergognava del suo umore nero, del suo comportamento scorbutico e scostante, ma il bisogno di restare solo cresceva di minuto in minuto. Alicia ripose la balena di plastica sullo scaffale. «Posso farti una domanda personale?» Di nuovo! Anawak stava per darle una risposta brusca, poi invece si limito a scrollare le spalle. «Per me...» «Sei un makah?» Per la sorpresa, quasi gli cadde la bottiglia dalle mani. Era quello che gli voleva chiedere. Voleva sapere perché somigliava a un indiano. «Cosa te lo fa pensare?» sbottò. «Poco prima che l'aereo partisse, hai detto una cosa a Shoemaker e cioè che Greywolf avrebbe avuto dei problemi coi makah perché si era scagliato così violentemente contro la caccia alle balene. I makah sono indiani, vero?»
«Sì.» «È la tua gente?» «I makah? No. Non sono un makah.» «Sei...» «Senti... Non prendertela, ma non sono in vena di raccontare storie di famiglia.» Lei strinse le labbra. «Okay.» «Ti chiamo non appena Ford si mette in contatto.» Anawak fece un sorriso stentato. «O mi chiami tu. Forse chiamerà ancora te per non svegliarmi.» Alicia scosse la chioma rossa e si avviò lentamente verso la porta. Lì si fermò. «Ancora una cosa», mormorò, senza voltarsi. «Deciditi a ringraziare Greywolf per averti salvato la vita. C'ero anch'io, ho visto cos'è successo.» «Tu eri...» sobbalzò. «Sì. Certo. Puoi detestarlo per tutto il resto, però merita di essere ringraziato. Senza di lui saresti morto», disse. E se ne andò. Anawak la seguì con lo sguardo. Sbatté la bottiglia sul tavolo e respirò profondamente. Ringraziare Greywolf. Era sempre seduto e, facendo zapping, trovò una delle tante edizioni speciali trasmesse in quei giorni sulla situazione al largo della British Columbia. Dagli Stati Uniti si ricevevano trasmissioni analoghe. Gli attacchi avevano di fatto paralizzato il traffico navale regionale. Nello studio televisivo c'era una donna con indosso la divisa della Marina. Aveva i capelli neri e corti pettinati all'indietro. Il volto dai tratti asiatici denotava una bellezza severa. Forse la donna era cinese. No, era una mezza cinese. C'era un dettaglio decisivo che stonava col resto. Erano gli occhi: chiari, acquamarina, assolutamente non asiatici. In sovrimpressione c'era scritto: Generale comandante JUDITH LI, US NAVY. «Dobbiamo considerare perse le acque della British Columbia?» stava chiedendo l'intervistatore. «Considerarle, come dire, restituite alla natura?» «Non credo che dobbiamo rendere qualcosa alla natura», rispose Judith Li. «Viviamo in armonia con la natura, anche se ci sono alcune cose da migliorare.» «Al momento, sembra che non ci sia molta armonia.» «Siamo in stretto contatto coi più prestigiosi scienziati e istituti di ricer-
ca. Senza dubbio è preoccupante il fatto che da un giorno all'altro gli animali abbiano modificato il loro comportamento, ma sarebbe comunque sbagliato drammatizzare la situazione e seminare il panico.» «Non crede a un fenomeno di massa?» «Speculare su quale tipo di fenomeno si tratti presuppone si abbia a che fare con un fenomeno. Al momento parlerei di un insieme di avvenimenti simili...» «Di cui l'opinione pubblica non sa quasi nulla», la interruppe l'altro. «Come mai?» «Io penso invece che sia informata.» Judith Li sorrise. «Per esempio in questo momento.» «Cosa che ci fa piacere e ci sorprende nel contempo. Negli ultimi giorni, infatti, tanto nel suo Paese quanto nel nostro l'informazione è stata a dir poco scarsa. È quasi impossibile avere l'opinione di un esperto, perché i vostri uffici bloccano ogni contatto.» «Eppure Greywolf le ha blaterate, le sue teorie. Non avete sentito?» ringhiò Anawak. C'era stato qualcuno che aveva chiesto un'intervista a John Ford? O a Ray Fenwick? Rod Palm era uno dei più importanti studiosi di orche, ma era stato forse sentito da qualche giornale o rete televisiva? Lui stesso, Leon Anawak, poco tempo prima aveva ricevuto il plauso di American Scientific per un articolo sull'intelligenza dei mammiferi marini, eppure non era comparso nessuno a mettergli un microfono sotto il naso. Solo in quel momento Anawak si rese conto dell'assurdità della situazione. In ogni altra circostanza - attentati terroristici, disastri aerei, catastrofi naturali - nel giro di ventiquattr'ore ogni esperto, o chiunque si spacciasse per tale, veniva trascinato davanti alle telecamere per dare spiegazioni all'opinione pubblica. Loro, invece, lavoravano in silenzio. Inoltre doveva prendere atto che, dopo l'intervista al giornale, non si era più sentito neppure Greywolf. Nei giorni precedenti, l'ambientalista radicale non si era lasciato sfuggire l'occasione per mettersi in mostra, ma ora non si parlava più dell''eroe di Tofino'». «Lei la vede in maniera un po' unilaterale», disse con tranquillità Judith Li. «La situazione è senza dubbio insolita. In pratica non esistono casi simili. Ovviamente controlliamo che nessun cosiddetto 'esperto' tiri conclusioni affrettate, ma soltanto perché non vogliamo doverlo smentire in seguito. A parte questo, al momento non vedo nessuna minaccia che non si possa contrastare.» «Vuol dire che avete la situazione sotto controllo?»
«Ci stiamo lavorando.» «Alcuni sostengono che avete fallito.» «Non so che cosa si aspettino da noi. Lo Stato non può mettere in campo contro le balene le navi militari e i Black Hawks.» «Ogni giorno sentiamo parlare di nuove vittime. E comunque finora il governo canadese si è limitato a dichiarare le acque della British Columbia zona di guerra...» «Solo per le navi piccole. Il normale traffico di cargo e traghetti non è stato modificato.» «Di recente, non ci sono forse state ripetute segnalazioni della scomparsa di navi?» «Ripeto: erano barche di pescatori, piccole imbarcazioni a motore», spiegò Judith Li con tono infinitamente paziente. «Riceviamo in continuazione notizie di navi scomparse. E le verifichiamo. Ovviamente usiamo tutti i mezzi a disposizione per cercare i superstiti. Vorrei però sottolineare che ogni incidente in mare aperto non ancora chiarito non deve essere messo subito in relazione con gli attacchi degli animali.» L'intervistatore si sistemò gli occhiali. «Mi corregga se sbaglio, ma a Vancouver non c'è stata anche l'avaria di un grande cargo della società armatrice Inglewood, nel corso della quale è affondato un rimorchiatore?» Judith Li congiunse la punta delle dita. «Intende la Barrier Queen?» L'uomo gettò un'occhiata agli appunti alla sua destra. «Esatto. Di quell'incidente non si sa quasi nulla.» «Naturalmente no», sbottò Anawak. Lui sapeva cos'era successo, però negli ultimi due giorni si era dimenticato di parlarne con Shoemaker. «La Barrier Queen ha avuto un guasto al timone», replicò Judith Li. «Un rimorchiatore è affondato durante una manovra sbagliata di aggancio.» «Non in seguito a un attacco? Le notizie che ho...» «Le sue notizie sono false.» Anawak s'irrigidì. Ma che diavolo diceva quella donna? «Potrebbe almeno spiegarci qualcosa sulla caduta di un idrovolante della Tofino Air, avvenuta due giorni fa?» «Sì, un idrovolante è caduto.» «Pare che sia entrato in collisione con una balena.» «Stiamo esaminando anche questo caso. Mi perdoni se non posso dare spiegazioni su ogni singolo avvenimento, ma il mio lavoro si svolge a un livello superiore...»
«Naturalmente.» L'uomo annuì. «Allora parliamo della sua posizione. In che cosa consiste il suo lavoro? Come possiamo immaginarlo? Al momento pare che lei non possa fare altro che reagire alla situazione.» Sul volto di Judith Li comparve una traccia di divertimento. «Se permette, è nella natura stessa dell'unità di crisi limitarsi a reagire. Noi partiamo da situazioni di crisi, le guidiamo e le risolviamo. Ci occupiamo di fornire velocemente una diagnosi, diamo interpretazioni complete e chiare, cerchiamo di prevenire e ci occupiamo delle evacuazioni. Ma, come ho già detto, qui siamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Non possiamo offrire modelli di prevenzione e di diagnosi con la stessa efficienza con cui lo faremmo in uno scenario conosciuto. Tutto il resto è sotto controllo. In mare non c'è più una sola imbarcazione che possa correre pericoli a causa degli animali. I trasporti più importanti delle navi a rischio sono stati sostituiti col traffico aereo lungo la costa. Le grandi navi dispongono di una scorta militare, la sorveglianza aerea è totale e abbiamo fornito mezzi imponenti alla ricerca scientifica.» «Avete escluso la forza militare...» «Non esclusa, relativizzata.» «Gli ambientalisti ritengono che i cambiamenti del comportamento siano dovuti all'influenza della civiltà. Rumore, veleni, traffico marino...» «Siamo sulla strada giusta per scoprire se ciò corrisponde a verità.» «E a che punto siete?» «Lo ripeto: non faremo speculazioni finché non avremo risultati concreti, e non permetteremo a nessuno di farle. Allo stesso modo, non permetteremo ai pescatori irritati, alle industrie, agli armatori, alle associazioni che si occupano di whale watching o ai sostenitori della caccia alle balene di prendere in mano la situazione, provocando un'escalation. Se gli animali attaccano è perché sono costretti a farlo o perché sono malati. In entrambi i casi, non ha senso rispondere con la violenza. Dobbiamo eliminare le cause, così spariranno anche i sintomi. E fino ad allora dovremo evitare l'acqua.» «Grazie.» L'intervistatore si voltò verso la telecamera. «Era il generale comandante Judith Li della Marina degli Stati Uniti. Da alcuni giorni riveste la carica di responsabile militare dell'unità di crisi e della commissione d'inchiesta unificata degli Stati Uniti e del Canada. E ora le altre notizie del giorno.» Anawak abbassò il volume del televisore e chiamò Ford. «Chi diavolo è questa Judith Li?» chiese.
«Oh, non l'ho ancora conosciuta personalmente», rispose Ford. «È sempre in volo nella zona.» «Non sapevo che gli Stati Uniti e il Canada avessero unificato le unità di crisi.» «Non devi sapere tutto. Tu sei un biologo.» «Ti ha intervistato qualcuno sugli attacchi delle balene?» «Ci sono state delle proposte, ma poi si sono arenate. Hanno richiesto più volte la tua presenza in televisione.» «Ah, sì? E perché nessuno...» «Leon...» Ford sembrava ancora più stanco che al mattino. «Che ti devo dire? Judith Li ha bloccato tutto. Forse è meglio così. Se fai parte di una squadra sfatale o militare, ci si aspetta che tu tenga la bocca chiusa. Tutto quello che fai è vincolato al segreto.» «E perché noi possiamo scambiarci informazioni liberamente?» «Perché siamo sulla stessa barca.» «Ma quella soldatessa racconta stronzate! Come per la Barrier Queen, per esempio...» «Leon...» Ford sbadigliò. «Tu c'eri quand'è successo?» «Adesso non cominciare.» «Non lo faccio. Sono convinto almeno quanto lo sei tu che le cose si siano svolte esattamente come ha detto il tuo Mister Roberts, quello della Inglewood. Tuttavia rifletti: un'invasione di mitili, strani animaletti mai descritti dalla scienza, una disgustosa sostanza viscida, una balena che salta su una gomena... Questo è ciò che esce dal tuo caso Barrier Queen. Ah, già, e poi non bisogna dimenticare che, nella darsena, qualcosa ti ha colpito in faccia e se l'è data a gambe e che Ray Fenwick e Sue Oliviera hanno trovato della sostanza gelatinosa nel cervello delle balene. Vorresti rendere tutto ciò di dominio pubblico?» Anawak rimase in silenzio. «Perché la Inglewood mi ha tagliato fuori?» chiese infine. «Non ne ho idea.» «Qualcosa dovresti saperlo. Tu sei il responsabile della raccolta dati.» «Certo! E per questo sul mio tavolo sono impilati quintali di dossier. Accidenti, Leon, non lo so! Ci tengono a stecchetto.» «Anche la Inglewood e l'unità di crisi sono sulla stessa barca.» «Eccome. Potremo discuterne per ore, ma vorrei finire quei maledetti video e ci vorrà molto più tempo di quanto credessi. Uno dei nostri è ha letto col mal di pancia. E tanti saluti. Non potremo vederci prima di stanot-
te.» «Dannazione», sibilò Anawak. «Stammi bene. Ti chiamo io, okay? Oppure chiamo Alicia nel caso tu voglia fare un pisolino...» «Sono raggiungibile.» «A proposito, Alicia sta migliorando, non trovi?» Certo che stava migliorando. S'impegnava molto più di quanto si potesse sperare. «Sì», borbottò Anawak. «Non è male. Posso fare qualcosa?» «Riflettere. Potresti andare a fare una passeggiata o interpellare qualche capo tribù nootka.» Ford sorrise controvoglia. «Di certo gli indiani sanno qualcosa. Sarebbe fantastico se improvvisamente ti raccontassero che tutto questo è già successo millenni fa.» Buffone, pensò Anawak. Terminata la conversazione, Anawak fissò il televisore acceso. Dopo qualche minuto, iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza. Il ginocchio gli doleva, ma lui non si fermò, come se volesse punirsi per non essere perfettamente in forma. Continuando così, sarebbe caduto in paranoia. Già era tormentato dal sospetto che qualcuno lo volesse tagliare fuori. Nessuno lo chiamava e, se non era lui a chiedere, nessuno gli diceva niente. Lo trattavano come un invalido. E poi non riusciva a camminare con scioltezza. Va bene, nell'ultimo periodo erano successe tante cose, forse un po' troppe. Prima era stato scaraventato fuori da una barca, poi da un idrovolante che stava precipitando, okay, okay... Si sbagliava. Si fermò davanti alle balene di plastica. Nessuno stava cercando di tagliarlo fuori. Nessuno lo trattava come un invalido. Ford non gli poteva mostrare nulla finché non avesse finito di esaminare il materiale, e non voleva caricarlo di lavoro, chiamandolo all'acquario per dare una mano. Alicia stava cercando di aiutarlo. Erano premurosi, nulla di più e nulla di meno. Era lui che sì considerava un invalido e non riusciva a sopportarsi. Che doveva fare? Quando continui a girare in cerchio che cosa puoi fare? pensò. Rompere il cerchio. Fare qualcosa che ti rimetta in sesto. Qualcosa che non devi pretendere dagli altri, ma da te stesso. Fa' qualcosa d'insolito. Cosa poteva fare di straordinario? Che cosa aveva detto Ford? Di rivolgersi a un capo tribù nootka.
Di certo gli indiani sanno qualcosa. Sapevano davvero qualcosa? Gli indiani del Canada si erano trasmessi le loro conoscenze di generazione in generazione, finché l'Indian Act del 1885 non aveva messo il bavaglio alla tradizione orale. Sulle prime, li avevano privati della loro identità, spingendoli a lasciare la loro patria e a mandare i figli alle Residential School: in tal modo - così si diceva -, si sarebbero integrati nella comunità dei bianchi. L'Indian Act si era rivelato un'arma a doppio taglio: da un lato, tendeva generosamente una mano per favorire l'integrazione degli indiani in un mondo straniero, dall'altro, ignorava il fatto che gli indiani erano già perfettamente integrati nella loro società, una società che, però, non andava a genio a chi aveva stilato il trattato. L'incubo dell'Indian Act produceva ancora i suoi effetti, ma da alcuni decenni, gli indiani avevano cominciato a riprendere il controllo sulla loro vita. Molti riannodavano il filo della tradizione nel punto in cui era stato tagliato, quasi cento anni prima. Il governo canadese si adoperava perché fosse corrisposto loro un risarcimento, ma non accennava neppure al recupero della loro cultura. Erano sempre meno gli indiani che conoscevano le antiche tradizioni. A chi poteva chiedere? Agli anziani. Zoppicando, Anawak raggiunse la veranda e guardò la strada principale. Praticamente non aveva contatti coi nootka o, meglio, coi nuu-chahnulth, come essi stessi si chiamavano, cioè «Quelli che vivono lungo le montagne». Oltre ai tsimshian, ai gitksan, agli skeena, agli haida, ai kwakiutl e ai coast salish, i nootka erano uno dei clan principali che abitavano la costa occidentale della British Columbia. Per chi fosse digiuno dell'argomento era pressoché impossibile tracciare le giuste relazioni tra i diversi clan, tribù e gruppi linguistici. Chi provava ad addentrarsi nella cosiddetta cultura indiana, spesso falliva già al primo tentativo, ancor prima d'imbattersi nel regno dei dialetti regionali e dei sistemi di vita che differivano da una baia all'altra. Il consiglio di Ford poteva essere preso soltanto come una battuta, una bella idea per un film d'azione in cui alcune leggende dimenticate conducono alla soluzione del mistero. Il problema era che gli indiani non erano un unico popolo, ma tanti popoli. Ed era vero che, per conoscere le storie riguardanti il Pacifico al largo di Vancouver Island, la cosa migliore era chiedere ai nootka, gli indiani delle isole occidentali. Ma si correva il rischio di perdersi tra i miti delle diverse tribù di cui i nootka erano com-
posti, ognuna delle quali abitava il proprio territorio. La tradizione dei nootka era strettamente legata al paesaggio di Vancouver Island e le mitologie erano profondamente radicate nella natura, quindi era possibile trovare un denominatore comune, ma il resto era spaventosamente ingarbugliato. In generale, tutti i nookta raccontavano una storia della creazione in cui il ruolo principale era svolto dal Transformer, il «trasformatore». Nella tribù dei dididath, il lupo aveva una grande importanza, ma non mancavano le storie sulle orche. Ma tentare di comprendere le orche tralasciando i lupi sarebbe stato il primo errore di una lunga serie, perché, nel ciclo del Transformer, uomini e animali erano legati spiritualmente. Non solo ogni creatura aveva la possibilità di trasformarsi in un altro essere, ma alcune mantenevano anche una doppia natura: se un lupo entrava in acqua si trasformava in un'orca e se un'orca andava sulla terra si trasformava in lupo. Orche e lupi avevano la stessa sostanza, e raccontare storie sulle orche senza pensare ai lupi era, per i nootka, una cosa priva di senso. Per tradizione, i nootka erano cacciatori di balene, quindi conoscevano innumerevoli storie su quegli animali. Ma nessuna delle tribù raccontava la medesima storia, e quelle identiche erano narrate in modo diverso, a seconda del luogo da cui provenivano. In linea di massima, anche i makah appartenevano ai nootka... o forse no, come sostenevano alcuni. Di certo entrambe le tribù parlavano wakashan. I makah e gli eschimesi erano le uniche tribù del Nordamerica ad avere il diritto di cacciare le balene, un diritto sancito da un trattato. Ed era in corso un acceso dibattito perché, dopo quasi un secolo senza cacciare, quelle tribù volevano riprendere la tradizione. I makah non vivevano a Vancouver Island, ma sulla punta nordoccidentale dello Stato di Washington. Nei loro miti c'erano diverse storie sulle balene, miti che si ritrovavano anche presso i nootka, che vivevano sulle isole. Invece, per quanto riguardava il comportamento delle balene, il loro modo di pensare, di sentire e le loro intenzioni, ciascuno aveva il proprio punto di vista. Non c'era da stupirsi, visto che si trattava di leggende in merito a un essere che non veniva chiamato balena, bensì iihtuup, «grande mistero». Fa' qualcosa di straordinario. Senza dubbio chiedere consiglio agli indiani era una cosa straordinaria. Se la cosa straordinaria avesse portato risultati, si sarebbe visto soltanto in seguito. Anawak fece un sorriso amaro. Proprio lui... Viveva da vent'anni a Vancouver, eppure sapeva poco degli indiani loca-
li, perché in fondo non ne voleva sapere nulla. Solo di tanto in tanto sentiva una nostalgia indefinita per il suo mondo. Quella sensazione gli era penosa, così la combatteva strenuamente, per impedirle di crescere. Alicia lo aveva preso per un makah, ma lui, tutto sommato, si sentiva assolutamente inadatto a immergersi nei miti indigeni. E Greywolf lo era ancora meno. Greywolf è meschino, pensò con rancore. Oggi nessun indiano si sognerebbe di darsi un cognome così - «Lupo Grigio» - che sembra uscito dal Far West. I capi delle tribù si chiamano «Norman George» o «Walter Michael» o «George Frank». Nessuno si chiama «John-Due-Piume» o «Lawrence-Balena-Che-Nuota». Solo uno sbruffone senza cervello come Jack O'Bannon poteva far ricorso a un nome da libro per bambini. Proprio Jack, che si atteggia da indiano, è troppo stupido per essere definito indiano. Greywolf era un ignorante! E lui? Così non arriverò a niente, pensò, contrariato. Io ho l'aria di un indiano e cerco di allontanare da me tutto ciò che è indiano. Lui non lo è e cerca con tutte le forze di esserlo. Siamo due ignoranti. Siamo entrambi ridicoli, ognuno a proprio modo. Due falliti. Quel maledetto ginocchio! Lo rendeva pensieroso. E lui non voleva pensare! Non aveva bisogno che un'Alicia Delaware, con quei suoi modi da prima della classe, lo spingesse indietro, verso il mondo da cui era arrivato. A chi poteva chiedere? A George Frank! Era uno dei capi che conosceva. Non viveva fuori dal mondo. A eccezione dei rapporti di lavoro e occasionalmente di una birra bevuta in compagnia, i bianchi e gli indiani non legavano particolarmente, ma non avevano neppure nulla gli uni contro gli altri. Era una coesistenza pacifica. Tuttavia, di tanto in tanto, nascevano delle amicizie. George Frank era meno di un amico, ma era pur sempre una conoscenza. Inoltre era un tipo simpatico, nonché taayii hawil dei tla-o-qui-aht, una tribù dei nootka della zona intorno a Wickaninnish. Se un hawil era un capo - un capo tribù -, il taayii hawil era addirittura qualcosa di più, un capo superiore, per così dire. Tra i taayii hawiih era un po' come nella famiglia reale inglese, giacché il loro rango si trasmetteva per linea ereditaria. La vita quotidiana della maggior parte delle tribù era retta da capi eletti, però i capi ereditari gode-
vano comunque della massima considerazione. Anawak rifletté. Nel nord dell'isola i capi superiori erano chiamati taayii hawiih; nel sud, invece, taayii chaachaabat. Non voleva rendersi ridicolo. Probabilmente Gorge Frank era un taayii chaachaabat, ma come diavolo faceva a esserne certo? Era meglio evitare le espressioni indiane. Poteva far visita a George Frank. Non viveva lontano: era poco distante dall'Wickaninnish Inn. Più ci pensava, più l'idea gli piaceva. Invece di aspettare la telefonata di Ford, poteva rompere il cerchio e vedere dove sarebbe arrivato. Sfogliò la guida alla ricerca del numero di Frank e lo chiamò. Il taayii hawil era a casa. Anawak gli propose di fare una passeggiata lungo il fiume. «Allora sei venuto per sapere qualcosa delle balene», disse Frank quando, una mezz'ora dopo, lui e Anawak si avviarono sotto i giganteschi alberi frondosi. Anawak annuì. Il capo si grattò la fronte. Era un uomo piccolo, col volto pieno di rughe, gli occhi neri e un'espressione gentile. I capelli erano scuri come quelli di Anawak. Sotto la giacca a vento portava una T-shirt con la scritta SALMON COMING HOME. «Voglio sperare che non ti aspetti da me qualche perla di saggezza indiana.» «No.» Anawak era felice di quella risposta. «L'idea è stata di John Ford.» «Quale?» sorrise Frank. «Il regista o il direttore dell'acquario di Vancouver?» «Il regista credo sia morto. Vagliamo tutte le possibilità, magari nella storia sono già accaduti episodi simili.» Frank indicò il fiume sulla cui riva stavano passeggiando. L'acqua scorreva, gorgogliando e trascinando rami e foglie. Il fiume nasceva dalle alte montagne che facevano da sfondo al paesaggio ed era in parte insabbiato. «La tua risposta è là», disse Frank. «Nel fiume?» L'altro sorrise. «Hishuk ish ts'awalk.» «Okay. Allora passiamo alle perle di saggezza indiana» «Una sola. Pensavo la conoscessi.» «Non conosco la vostra lingua. Solo qualche parola.»
Frank lo osservò per qualche secondo. «Va bene, è il pensiero centrale di quasi tutte le culture indiane. I nootka lo reclamano per sé, ma credo che, in altri luoghi, si dica la stessa cosa con parole diverse: 'Tutto è uno'. Quello che succede al fiume succede agli uomini, agli animali, al mare. Quello che succede a uno succede a tutti.» «Vero. Alcuni la chiamano 'ecologia'.» Frank si chinò, tirando a riva un ramo che si era impigliato nel groviglio di radici lungo il fiume. «Che ti devo dire, Leon? Non sappiamo nulla che non sappia anche tu. Posso tendere le orecchie, chiamare alcune persone... Ci sono molti canti e leggende. Ma non conosco nessuno che ci possa aiutare. Voglio dire, in tutte le nostre tradizioni troverai esattamente quello che cerchi, ma il problema è proprio quello.» «Non capisco.» «Certo, noi vediamo gli animali in maniera un po' diversa. I nootka non hanno mai preso la vita di una balena. È la balena che ha regalato la propria vita, con un atto consapevole, capisci? Nella fede dei nootka, tutta la natura è consapevole di se stessa, una grande coscienza condivisa.» Stava avanzando lungo un sentiero fangoso. «Guarda qui, che vergogna. La foresta è diboscata. Pioggia, sole e vento erodono il terreno e i fiumi si trasformano in fogne. Guarda qui, se vuoi sapere che cosa succede alle balene. Hishuk ish ts'awalk.» «Hmm. Ti ho raccontato in che cosa consiste il mio lavoro?» «Tu cerchi la coscienza, credo.» «L'autocoscienza.» «Sì, mi ricordo. Me l'hai raccontato nel corso di una bella serata. È stato l'anno scorso. Io ho bevuto birra e tu acqua. Tu bevi solo acqua, vero?» «Non mi piace l'alcol.» «Hai mai bevuto?» «Praticamente no.» Frank si fermò. «Già, l'alcol. Tu sei un buon indiano, Leon. Bevi acqua e vieni da me perché pensi che noi siamo in possesso di qualche conoscenza segreta.» Sospirò. «Quando, quando, le persone la smetteranno di valutarsi in base a cliché? Gli indiani avevano un problema con l'alcol, e alcuni ce l'hanno ancora, ma ci sono anche quelli che di tanto in tanto bevono volentieri un goccio. Oggi, se un bianco vede un indiano con una birra, dice subito: 'Che tragedia terribile, abbiamo portato quella gente ad attaccarsi alla bottiglia...' Noi siamo o i poveri ingannati o i custodi di una saggezza altissima. E tu, Leon, che cosa sei? Un cristiano?»
Anawak non era particolarmente sorpreso. Le poche volte che si era intrattenuto con George Frank, la conversazione era andata sempre nello stesso modo. Il taayii hawil conversava apparentemente senza un filo logico, saltava come uno scoiattolo da un argomento all'altro. «Non appartengo a nessuna Chiesa», disse Anawak. «La sai una cosa? Ho provato a leggere la Bibbia. Una saggezza altissima. Se chiedi a un cristiano perché c'è un fuoco nella foresta e lui ti risponde che Dio si manifesta nelle fiamme, allora farà riferimento alle antiche tradizioni, dove effettivamente Dio si manifesta in un roveto ardente. Secondo te, è possibile che un cristiano spieghi in questo modo l'incendio di una foresta?» «Certo che no.» «Tuttavia per lui la storia del roveto ardente è molto importante, se è un vero credente. Anche gli indiani credono alle loro tradizioni, ma sanno esattamente quale rapporto esse hanno con la realtà. Non è importante se una cosa è effettivamente come viene raccontata, quello che conta è l'idea. Nelle nostre leggende, troverai tutto e non troverai niente. Non puoi prenderle alla lettera, devi coglierne il senso.» «Lo so, George. Ho soltanto la sensazione che siamo bloccati. Ci spacchiamo la testa, ma non riusciamo a capire perché gli animali sono impazziti.» «E credi che la vostra scienza non possa andare oltre?» «In un certo senso, sì.» Frank scosse la testa. «Non è così. La scienza è una cosa meravigliosa, permette agli uomini di fare cose incredibili. Il problema è il punto di vista. Cosa guardi quando applichi il tuo sapere? Guardi la balena che è cambiata. Non riconosci più la tua amica. Come mai? È diventata una nemica. Che cosa l'ha spinta? Le hai fatto qualcosa? O l'hai fatto al suo mondo? Ma in quale mondo vive una balena? Tu cerchi un danno che le è stato arrecato e ne trovi tanti: i diboscamenti demenziali, le acque inquinate, il turismo spinto all'eccesso, l'avvelenamento del cibo degli animali e lo scompiglio prodotto nel loro mondo dal rumore che noi facciamo. Abbiamo preso possesso dei luoghi in cui fanno crescere i loro piccoli. Nella Bassa California non è stato costruito un impianto per ottenere il sale?» Anawak annuì, cupo. Nel 1993, l'UNESCO aveva dichiarato la laguna di San Ignacio patrimonio naturale dell'umanità. Era l'ultimo luogo ancora intatto del Pacifico in cui si riproducevano le balene grigie e altre specie di animali e vegetali sull'orlo dell'estinzione. A dispetto di tutto ciò, la Mitsu-
bishi aveva costruito un impianto di desalinizzazione. In futuro avrebbe pompato dalla laguna ventimila litri d'acqua al secondo, che sarebbero rifluiti in piscine di essiccazione grandi più di cento miglia quadrate. L'acqua sarebbe rientrata nella laguna come acqua di scarico. Nessuno sapeva quale effetto avrebbe avuto sulle balene. Moltissimi ricercatori, attivisti e premi Nobel avevano protestato contro l'impianto, che minacciava di diventare un pericoloso precedente. «Vedi, questo è il mondo delle balene come tu lo conosci», continuò Frank. «Esse ci vivono dentro, ma questo mondo è solo una catena di circostanze con cui le balene possono sentirsi a proprio agio oppure no. Forse il problema non sono le balene, Leon. Forse le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere.» Acquario di Vancouver Mentre Anawak ascoltava le parole del taayii hawil, John Ford ormai ci vedeva doppio. Doveva controllare due monitor, e lo stava facendo da ore. Il primo mostrava le immagini del nastro magnetico su cui erano raccolte le riprese effettuate dall'URA di Lucy e delle altre balene grigie; il secondo mostrava uno spazio virtuale, una struttura di coordinate a linee in cui brillavano dozzine di luci verdi. Indicavano il banco e cambiavano continuamente posizione. Immediatamente dopo il suo ammaraggio, il robot era riuscito a stabilire un rapporto tra il disegno delle pinne caudali di Lucy e gli specifici suoni che la balena emetteva, per poter localizzare l'animale e determinare la sua posizione, che ora appariva come un punto nello spazio delle coordinate. Non avrebbe perso Lucy neppure nelle tenebre più profonde. Sul secondo monitor scorrevano anche i dati della sonda ancora infilata nel grasso della balena: frequenza cardiaca, profondità d'immersione, dati di posizione, temperatura e misura della pressione. La sonda e l'URA offrivano un quadro completo di quello che era successo a Lucy nelle ultime ventiquattr'ore. Ventiquattr'ore nella vita di una balena impazzita. All'interpretazione dei dati, nel laboratorio, lavoravano quattro persone. Ford e due aiutanti erano seduti nella penombra, i visi illuminati dai monitor. Il quarto posto era vuoto. Un innocuo virus gastrico aveva ridotto il team e l'aveva costretto a un turno di notte. Senza togliere gli occhi dal monitor, Ford si allungò di lato e s'infilò in bocca una manciata di patate fritte ormai fredde, prendendole da una con-
tenitore di cartone. Lucy non sembrava pazza. Nelle ore precedenti, aveva fatto quello che di solito facevano le balene quando vagavano nell'oceano. Aveva mangiato in compagnia di una dozzina di suoi simili adulti e di due ancora giovani. Ogni volta che, tra cortine di alghe, andava sul fondo e smuoveva il limo sabbioso per filtrare vermi e granchi sollevava gigantesche masse di fango. Si era girata su un fianco e, con la sottile testa arcuata, aveva scavato veri e propri solchi. All'inizio, Ford era rimasto affascinato a guardare il monitor, benché non fosse la prima volta che vedeva riprese di balene grigie intente a mangiare. Tuttavia l'URA forniva immagini totalmente nuove, perché seguiva le balene come se facesse parte del branco. Molte balene si riconoscevano chiaramente. Per vedere un capodoglio mangiare era necessario scendere negli abissi, ma le balene grigie preferivano le acque più basse. Così, ormai da ore, Ford osservava quelle immagini, in cui si alternavano continuamente luce e semioscurità. Per qualche minuto, Lucy riemerse in superficie, spinse il fango attraverso i fanoni, aspirò l'aria a pieni polmoni, la buttò fuori e s'immerse. Era sempre stata abbastanza vicina alla riva, tanto che la maggior parte delle riprese non era stata fatta a più di trenta metri di profondità. Ford guardava i corpi marmorizzati e coperti di cicatrici strisciare tra i sedimenti. L'acqua s'intorbidiva. Il robot non aveva difficoltà a seguire gli animali, perché essi rimanevano in zona. Cambiavano continuamente direzione, qualche metro da una parte, un breve tratto dall'altra, emergevano, s'immergevano, mangiavano, emergevano, s'immergevano. Ford diceva spesso che Vancouver Island era un autogrill in cui le balene gironzolavano pigramente. E in effetti la definizione era azzeccata. Emergere, immergersi, mangiare. Ford cominciava ad annoiarsi. Solo una volta comparvero in lontananza le figure bianche e nere delle orche, ma sparirono subito. In genere quegli incontri si svolgevano pacificamente, sebbene le orche fossero tra i pochi nemici pericolosi delle grandi balene. Le orche non si fermavano neppure davanti alle balenottere azzurre. Quando attaccavano, lo facevano in gruppo e con estrema brutalità. Mangiavano la lingua e le labbra della vittima, poi lasciavano sprofondare lentamente sul fondo quel colosso mutilato e moribondo. Mangiare, emergere, immergersi. A un certo punto, Lucy si addormentò o perlomeno così parve a Ford.
L'ambiente diventava sempre più scuro. Stava calando la sera. Restava solo un'ombra, appena percepibile sullo sfondo: il corpo di Lucy sospeso in acqua, che sprofondava lentamente e altrettanto lentamente risaliva. Erano molti i mammiferi marini che riposavano in quel modo. Nel giro di qualche minuto, arrivavano semiaddormentati in superficie, respiravano, sprofondavano ancora in acqua e si addormentavano. Non dormivano mai più di cinque o sei minuti, tuttavia riuscivano a sommare quelle brevi fasi, ottenendo un sonno ristoratore. Infine i monitor diventarono neri. Solo lo spazio delle coordinate mostrava la distribuzione del branco. Notte. Continuare a guardare senza vedere nulla era di una noia mortale. Ogni tanto lampeggiava qualcosa, una medusa o una seppia. Per il resto, c'era solo il buio assoluto. Sul secondo monitor continuavano a scorrere i dati con le informazioni sul metabolismo di Lucy e sull'ambiente circostante. I punti verdi si muovevano pigramente nello spazio virtuale. Non tutti gli animali del branco dormivano di notte. Le balene si riposavano in momenti diversi. I dati rivelavano variazioni di profondità, quindi anche allora Lucy e le altre mantenevano il comportamento tipico della fase di alimentazione. A seconda della profondità, la temperatura oscillava di mezzo grado. Non di più. Il cuore della balena grigia batteva in continuazione, a volte più lento, a volte più veloce. Gli idrofoni dell'URA coglievano tutti i possibili rumori sottomarini: fruscii, gorgoglii, richiami delle orche e canti delle megattere, ruggiti e ringhi, il lontano rombo dell'elica di una nave. Ford se ne stava seduto davanti a un monitor nero e sbadigliava sino a far schioccare le mascelle. Raccolse le ultime patate fritte. Le sue dita unte si bloccarono. Lui lasciò cadere le patate fritte e socchiuse le palpebre. Il monitor rivelava una variazione dei dati. Fino a quel momento, la profondità aveva oscillato tra zero e trenta metri. Ora erano quaranta... cinquanta. Lucy stava cambiando posizione. Nuotava verso il mare aperto e intanto s'inabissava. Le altre balene la seguivano. Avevano smesso di ciondolare: ora si muovevano con la velocità della migrazione. Dove vai così di fretta? pensò Ford. Il battito cardiaco di Lucy rallentò. S'immergeva rapidamente. A quel punto, i suoi polmoni contenevano soltanto iì dieci per cento delle riserve
di ossigeno, forse meno. Il resto era accumulato nel sangue e nei muscoli. Una sistemazione perfetta per grandi profondità. Lucy era sotto i cento metri. Fino a quel momento, la balena non aveva sganciato dal sistema circolatorio nessuna delle parti vitali del corpo. L'eccedenza di pressione sanguigna veniva stipata in una rete di vene estremamente elastiche; muscoli e metabolismo funzionavano senza ossigeno. Nel corso di milioni di anni si era sviluppato l'effetto combinato di una serie di processi sorprendenti, consentendo a quelli che una volta erano animali terrestri di muoversi senza problemi tra la superficie e centinaia o, addirittura, migliaia di metri di profondità, mentre la maggior parte dei pesci rischiava la vita già con una differenza di cento metri. Lucy continuava a scendere - centocinquanta metri, duecento - e intanto si allontanava dalla terraferma. «Bill? Jackie?» disse Ford, senza voltarsi verso i due assistenti. «Venite a vedere.» I due si raccolsero intorno ai monitor. «Scende.» «Sì e molto in fretta. È già a quasi due miglia dalla terraferma. Tutto il branco va verso il mare aperto.» «Forse si stanno solo spostando un po' più in là.» «Ma perché a quella profondità?» «Perché di notte il plancton affonda, non è così? Anche il krill. Tutte le prelibatezze si spostano più in basso.» «No.» Ford scosse la testa. «Avrebbe senso per altre balene, non per quelle che arano il fondale, non c'è motivo...» «Guardate! Trecento metri.» Ford si appoggiò allo schienale. Le balene grigie non erano particolarmente veloci. Potevano fare un breve scatto, ma al massimo raggiungevano i dieci chilometri all'ora e solo nelle zone più superficiali. Se non dovevano fuggire, in genere si trascinavano pigramente. Da che cosa erano spinte? Era senza dubbio un comportamento anomalo. Le balene grigie si nutrivano quasi esclusivamente degli animali presenti sul fondale. Raramente si spostavano a più di un miglio dalla costa, e in genere restavano molto più vicine. Ford non sapeva che cosa avrebbero trovato a trecento metri di profondità. Verosimilmente qualcosa di buono. Ma era strano che le. balene grigie s'immergessero oltre i centoventi metri. Gli scienziati fissavano i monitor.
Improvvisamente qualcosa luccicò nella parte inferiore del reticolato virtuale. Un lampo verde che s'infiammò per un attimo e poi sparì. Uno spettrogramma! La rappresentazione grafica di un'onda sonora. Poi un'altra. «Che cos'è?» «Rumori! Un segnale particolarmente forte.» Ford arrestò la rappresentazione in tempo reale e fece ripartire il programma. Osservarono la sequenza una seconda volta. «È un segnale fortissimo», esclamò. «Come un'esplosione.» «Non può essere stata un'esplosione, l'avremmo sentita. È un infrasuono.» «Lo so anch'io. Mi chiedo solo chi...» «Là! Eccola ancora!» I punti verdi nella griglia delle coordinate si erano fermati. La potente emissione si ripeté una terza volta, poi sparì. «Si sono fermate.» «A che profondità sono?» «Trecentosessanta metri.» «Incredibile. Che ci fanno là sotto?» Lo sguardo di Ford si spostò sul monitor di sinistra, dove continuavano le riprese video dell'URA. In teoria, avrebbe dovuto essere tutto nero. La bocca dello scienziato si aprì e rimase spalancata. Poi lui sussurrò: «Guardate là». Il monitor non era più nero. Vancouver Island Anawak trovava la compagnia di Frank molto rilassante. Avevano bighellonato lungo la spiaggia davanti al Wickaninnish Inn e parlato dei progetti ambientali in cui era impegnato Frank. Il taayii hawil, nato da una famiglia di pescatori, era proprietario di un ristorante. Ma coi tla-o-qui-hat aveva dato vita a un'iniziativa per ridurre gli effetti del diboscamento. «Salmon Coming Home» era un tentativo di riportare alle condizioni originarie il complesso ecosistema del Clayoquot Sound, in buona parte distrutto dalle industrie del legno. Nessuno tra i tla-o-qui-hat s'illudeva di poter riportare in vita la foresta pluviale, ma c'era comunque molto da fare. A causa del diboscamento, il sole faceva seccare il terreno, che veniva spazzato via dalle piogge, finiva nel fiume e nei laghi e li inta-
sava, insieme con le pietre e coi resti dei giganteschi alberi abbattuti. I salmoni sparivano perché non trovavano più luoghi in cui deporre le uova e la loro scomparsa toglieva il cibo agli altri animali. L'associazione Salmon Coming Home addestrava volontari per pulire i fiumi e riaprirne il corso. Lungo i corsi d'acqua si costruivano argini di protezione, che venivano piantumati con ontani a crescita rapida. Gli attivisti cercavano faticosamente di ricostruire almeno in parte l'equilibrio tra foresta, animali e uomo. Era un impegno assiduo, non confortato dalla speranza di un rapido successo. «Lo sai che molti vi guardano con ostilità perché volete riprendere la caccia alle balene?» disse Anawak dopo un po'. «E tu?» chiese Frank. «Cosa ne pensi?» «Che non è molto saggio.» Frank annuì, pensieroso. «Forse hai ragione. Le balene sono protette, perché cacciarle? Molti di noi sono contrari. Non sappiamo più come si caccia una balena. Non conosciamo quasi più il rito del uusimich, la preparazione spirituale alla caccia. D'altra parte, sono quasi cento anni che non cacciamo balene e oggi chiediamo di catturare cinque o sei animali. È una quota irrilevante. Noi siamo pochi. I nostri antenati hanno vissuto grazie alle balene. I cacciatori di balene si sottoponevano a rituali che duravano mesi o addirittura anni. Prima di andare a caccia, purificavano lo spirito per essere degni del dono della vita che la balena faceva loro. Non arpionavano la balena migliore, ma quella che era loro destinata, quella cui loro erano destinati da una forza misteriosa, da una visione in cui la balena e il cacciatore si riconoscevano. Capisci? È questa spiritualità che vogliamo conservare.» «D'altra parte, una balena porta un bel mucchio di denaro», borbottò Anawak. «Il direttore della pesca dei makah ha stimato il valore di una balena grigia in mezzo milione di dollari americani. Ha detto schiettamente che oltreoceano la carne e l'olio sono molto richiesti, e naturalmente si riferiva all'Asia. Poi ha sottolineato i problemi economici dei makah e l'elevata disoccupazione. Non mi pare sia stato molto saggio, anzi direi addirittura che è stato molto gretto. Nelle sue parole non c'era traccia di spiritualità.» «È vero anche questo, Leon. Puoi pensare che i makah vogliano tornare a cacciare per vero amore della tradizione o che lo vogliano fare per avidità di denaro, ma rimane certo che non hanno mai fatto valere un loro diritto e che in questi decenni sono stati i bianchi a portare i cetacei sull'orlo del-
l'estinzione. E non mi pare l'abbiano fatto per motivi spirituali, vero? I bianchi sono stati i primi a considerare la vita alla stregua di merce. È un'idea da cui non eravamo mai stati neppure sfiorati. E ora, dopo che tutti si sono serviti, uno di noi osa parlare di denaro, e subito veniamo attaccati come se fossimo noi a minacciare la sopravvivenza della natura. Non te ne sei accorto? Gli uomini primitivi hanno sempre vissuto con parsimonia di ciò che poi i bianchi hanno distrutto. Prima distruggono, poi improvvisamente si svegliano e vogliono proteggere l'ambiente. Si atteggiano a salvatori, ma in realtà proteggono l'ambiente soltanto da chi non lo minaccia. La responsabilità dello sterminio delle balene è di Paesi come il Giappone e la Norvegia, ma loro possono continuare a lanciare gli arpioni. Noi non abbiamo estinto neanche una specie, eppure veniamo puniti. È sempre stato così. È così in tutto il mondo.» Anawak rimase in silenzio. «Siamo un popolo disorientato», riprese Frank. «Molte cose sono migliorate, tuttavia penso che siamo prigionieri di un conflitto che difficilmente riusciremo a risolvere da soli. Ti ho raccontato che, dopo ogni battuta di pesca, dopo ogni affare che chiudo con successo, dopo ogni festa, metto da parte qualcosa per il corvo? Il corvo è sempre affamato.» «No, non me l'avevi detto.» «Lo sapevi?» «No.» «Il corvo non rientra nei miti delle nostre isole, ma in quelli degli haida e dei tlingit. Da noi trovi le storie di Kánekelak, il Transformer. Però ci è caro anche il corvo. I tlingit dicono che parla per i poveri, come ha fatto Gesù Cristo. Allora metto da parte un pezzetto di carne o di pesce per il mai sazio corvo, che un tempo era un figlio dell'uomo-animale, Ashamed. Suo padre l'aveva nascosto nella pelle di corvo e l'aveva chiamato Wigyét. Wigyét fu mandato in giro per il mondo dopo che aveva divorato il suo villaggio. Per il viaggio ricevette una pietra su cui potersi riposare, e la pietra è diventata la Terra in cui viviamo. Grazie a un trucco, Wigyét rubò la luce del sole e la portò sulla Terra. Io do al corvo ciò che è del corvo. D'altra parte, so anche che il corvo è il risultato di un processo evolutivo alla cui origine ci sono aminoacidi, proteine e organismi unicellulari. Amo i nostri miti della creazione, ma guardo anche i notiziari televisivi, leggo e so che cos'è il Big Bang. Anche i cristiani lo sanno, tuttavia nelle loro Chiese raccontano dei sette giorni della creazione e dei dieci comandamenti. Ma loro si sono permessi il lusso di cambiare mentalità lentamente, e di trovare nel
corso dei secoli una via per coniugare mitologia e scienza moderna. Invece da noi si è preteso che lo facessimo in fretta. Siamo stati gettati in un mondo che non era il nostro e che non potrà mai essere il nostro. Ora, ritorniamo nel nostro mondo e ci accorgiamo che ci è estraneo. Questa è la maledizione dello sradicamento, Leon. Alla fine, non ti senti più a casa da nessuna parte, né nel mondo straniero né nella tua patria. Gli indiani sono stati sradicati. Ora i bianchi fanno del loro meglio per rimettere le cose a posto... Ma come possono aiutarci visto che si sono sradicati essi stessi? Distruggono il mondo che li ha generati. Anche loro hanno perso la patria. In un modo o nell'altro, è così per tutti.» Frank guardò a lungo Anawak. Poi sorrise, un sorriso segnato da decine di rughe. «È stata davvero una bella e patetica lezione indiana, eh, amico mio? Vieni, andiamo a bere qualcosa. Ah, già, che stupido... Tu non bevi.» 1° maggio Trondheim, Norvegia Prima dell'incontro, avevano appuntamento nella caffetteria, ma Tina non arrivava. Johanson bevve un caffè e guardò le lancette dell'orologio, dietro il bancone, che sembravano strisciare sul quadrante. Strisciavano anche i vermi, altrettanto stoici e imperterriti, senza tregua. Ogni secondo che passava, trivellavano il ghiaccio sempre più in profondità. E, fino a quel momento, non c'era modo di fermarli. Johanson rabbrividì. Il tempo non passa, fugge via, gli sussurrò una voce. L'inizio di qualcosa. Un piano. Tutto è pilotato... Che idea assurda. Un piano di chi? Che cos'hanno pianificato le cavallette quando si sono divorate il raccolto di un'estate? Nulla. Avevano fame e sono arrivate. Che cosa progettano i vermi, che cosa progettano le alghe o le meduse? Che cosa progetta la Statoil? Skaugen era ritornato in volo da Stavanger e voleva un rapporto dettagliato. A quanto pareva, era riuscito a fare un passo avanti e adesso era ansioso di confrontare i risultati. Era stata Tina ad avere l'idea di parlare prima a quattr'occhi con Johanson, per concordare una posizione comune. Ma ora lui era lì, solo, a bersi il caffè.
Probabilmente era stata trattenuta. Forse da Kare, pensò. Sulla nave, e anche dopo, non avevano più parlato della loro vita privata e Johanson aveva evitato accuratamente di fare domande. Odiava l'invadenza e l'indiscrezione, senza contare che Tina, al momento, sembrava avere tempo solo per se stessa. Il cellulare suonò. Era lei. «Dove diavolo sei?» gridò Johanson. «Ho dovuto bere anche il tuo caffè.» «Mi dispiace.» «Non importa, per me il caffè non è mai abbastanza. Seriamente, che cos'è successo?» «Sono già nella sala riunioni. Volevo chiamarti, ma eravamo troppo impegnati.» Aveva una voce strana. «È tutto a posto?» chiese Johanson. «Certo. Vuoi venire? La strada la conosci.» «Arrivo subito.» Dunque Tina era già lì. Quindi dovevano parlare di qualcosa che non era destinato alle orecchie di Johanson. Ma certo... Il loro maledetto progetto di trivellazione. Quando entrò nella sala, Tina, Skaugen e Stone erano davanti a una grande carta, che mostrava la zona in cui era stata pianificata la trivellazione. Il capo progetto stava parlando con Tina e cercava di controllarsi. Lei sembrava tesa. Anche Skaugen non aveva una faccia contenta. All'ingresso di Johanson si girò, sollevando gli angoli della bocca in un sorriso appena accennato. Hvistendahl era in fondo alla sala e stava telefonando. «Sono arrivato troppo presto?» chiese Johanson in tono cauto. «No, è un bene che sia arrivato.» Skaugen indicò il tavolo nero e lucido. «Sediamoci.» Tina sollevò lo sguardo. Sembrava che si fosse accorta solo in quel momento di Johanson. Lasciò Stone a metà del discorso, andò verso Johanson e lo baciò sulle guance. «Skaugen vuole dare il benservito a Stone», gli sussurrò. «Ci devi aiutare, hai capito?» Johanson non fece una piega. Tina voleva che lui la sostenesse. Era impazzita a coinvolgerlo in una simile situazione? Lei si sedette. Hvistendahl chiuse il cellulare. Johanson avrebbe voluto andarsene subito, lasciando Tina coi suoi problemi. Con molto distacco disse: «Allora, per prima cosa, ho fatto delle ricerche mirate, com'eravamo d'accordo. Cioè mi sono rivolto ai ricercatori e agli istituti che hanno rice-
vuto incarichi o sono stati consultati dalle industrie energetiche». «È stata una manovra intelligente?» chiese Hvistendahl sorpreso. «Pensavo che volessimo agire senza attirare l'attenzione... Ascoltare i rumori del bosco, insomma.» «Il bosco era troppo grande, ho dovuto limitarlo.» «Voglio sperare che lei non abbia detto a nessuno che noi...» «Niente paura. Ho solo fatto un po' di domande. Un biologo curioso dell'NTNU.» Skaugen strinse le labbra. «Immagino che non sia stato sommerso d'informazioni.» «Dipende.» Johanson indicò una cartellina. «Basta leggere tra le righe. Gli scienziati non sono bravi a mentire, odiano fare politica. Quello che ho è un dossier di sfumature. Qua e là si può letteralmente vedere il bavaglio. In ogni caso, ho la ferma convinzione che il nostro verme sia stato trovato anche da altri.» «Ne è convìnto, ma non lo sa per certo», disse Stone. «Finora nessuno l'ha ammesso esplicitamente. Ma alcuni sono diventati improvvisamente molto curiosi.» Johanson guardò Stone direttamente negli occhi. «Soltanto ricercatori d'istituti che lavorano a stretto contatto con industrie petrolifere. Uno di loro s'interessa esclusivamente dell'estrazione del metano.» «Chi?» chiese Skaugen in tono aggressivo. «Uno a Tokyo... Un certo Ryo Matsumoto. Il suo istituto per la precisione, con lui non ho parlato.» «Matsumoto? E chi è?» chiese Hvistendahl. «Il più importante ricercatore giapponese di idrati», rispose Skaugen. «Anni fa, per arrivare al metano, ha condotto prove di carotaggio sul permafrost canadese.» «Quando ho rivolto ai suoi uomini alcune domande sui vermi, sono entrati in fibrillazione», proseguì Johanson. «Mi hanno posto altre domande. Volevano sapere se i vermi potevano destabilizzare gli idrati. E se ce n'erano tanti.» «Questo non prova che Matsumoto abbia informazioni sui vermi», borbottò Stone. «E invece sì. Perché lavora per la JNOC», ringhiò Skaugen. «La Japan National Oil Corporation? Si occupa di metano?» «Eccome. Nel 2000, a Nankai-Trog, Matsumoto ha iniziato a sperimentare diverse tecniche di estrazione. Sui risultati dei test c'è il silenzio totale,
ma da allora è trapelato che, nel giro di pochi anni, inizierà l'estrazione a scopi commerciali. Quell'uomo canta come nessun altro il Cantico dei cantici dell'era del metano.» «Va bene», annuì Stone. «Ma non ha confermato di aver trovato i vermi.» Johanson scosse la testa. «Provi a immaginare il nostro piccolo giochino da detective a parti invertite. Le domande vengono rivolte a noi. Specialmente a me, in quanto rappresentante della cosiddetta ricerca indipendente. La persona in questione, che è pure un libero ricercatore e consigliere della JNOC, adduce una curiosità scientifica su qualcosa. Naturalmente io sobbalzerei, ma non gli andrei a dire che abbiamo informazioni su quelle bestioline. Vorrei sapere che cos'ha scoperto lui. Quindi cercherei di spremerlo esattamente come gli uomini di Matsumoto hanno fatto con me, e commetterei un errore. Farei domande troppo precise, troppo mirate. Se il mio interlocutore non è stupido, capirà alla svelta che ha fatto centro.» «Se le cose stanno così, in Giappone c'è lo stesso problema», disse Tina. «Non abbiamo prove», insistette Stone. «Lei, dottor Johanson, non ha la minima prova che qualcun altro sia incappato in quei vermi.» Si chinò in avanti. La montatura dei suoi occhiali brillava. «D'informazioni di questo genere non ce ne facciamo nulla, dottor Johanson! La verità è che nessuno poteva prevedere la comparsa del verme, appunto perché non è mai comparso in nessun luogo. Chi non le dice che Matsumoto avesse esclusivamente un interesse scientifico?» «Il mio istinto», disse Johanson impassibile. «Il suo... istinto?» «Mi dice anche che c'è molto di più. Anche i sudamericani hanno trovato il verme.» «Ah, sì?» «Sì.» «Anche loro le hanno posto domande insolite?» «Esatto.» «Lei mi delude, dottor Johanson.» Stone storse la bocca in una smorfia ironica. «Pensavo fosse uno scienziato. Da quando le sue conclusioni si basano sull'istinto?» «Cliff», disse Tina senza neppure guardarlo. «È meglio se tieni la bocca chiusa.» Stone le lanciò uno sguardo sdegnato. «Io sono il tuo capo», abbaiò. «Se qui c'è una che deve tenere la bocca...»
«Basta!» Skaugen sollevò le mani. «Non voglio più sentire neanche una parola.» Johanson osservò Tina, che riusciva a stento a trattenere la rabbia, e si chiese cosa le avesse fatto Stone. Tutta quella rabbia non poteva essere dovuta solo al caratteraccio del capo progetto. «Comunque sia, penso che il Sudamerica e il Giappone si tengano ben strette le loro informazioni», disse. «Esattamente come facciamo noi. In questo momento è molto più facile avere dati affidabili sull'analisi dell'acqua marina che sui vermi abissali. Per qualche motivo, l'acqua viene analizzata ovunque, mi è stato confermato da diverse fonti.» «E cos'è stato trovato?» «Sono state registrate concentrazioni di metano insolitamente alte nelle colonne d'acqua. Un fenomeno che rientra nel quadro che abbiamo delineato.» Johanson esitò. «Per quanto riguarda i giapponesi - scusi le frequenti intrusioni del mio istinto, dottor Stone - ho avuto una sensazione. Mi è sembrato che gli uomini di Matsumoto volessero farmi sapere la verità, ma si sentissero obbligati alla riservatezza. Tuttavia, se volete sapere la mia opinione, a nessun ricercatore indipendente e a nessun istituto verrebbe mai in mente di usare la tattica se, in gioco, c'è la vita di molte persone. Non ci sono motivi sostenibili per tenere riservate simili informazioni. Può accadere solo se...» Allargò le braccia e non finì la frase. Skaugen lo guardò, aggrottando la fronte. «Se ci sono in gioco interessi scientifici», concluse. «Voleva dire questo?» «Sì. Era quello che volevo dire.» «Vuole aggiungere qualcosa al suo rapporto?» Johanson annuì e prese un foglio dalla sua cartellina. «A quanto pare, solo in tre zone del mondo si registrano elevate concentrazioni di metano. In Norvegia, in Giappone e nella parte orientale dell'America latina. Ma c'è anche Lukas Bauer.» «Bauer? Chi è?» chiese Skaugen. «Uno scienziato che studia le correnti marine al largo della Groenlandia e lo fa usando dei drifter. Gli ho mandato un messaggio sulla nave. Ora vi leggo la risposta. 'Caro collega, il suo verme mi è sconosciuto ma, in effetti, in Groenlandia abbiamo registrato eccezionali fuoriuscite di metano. Nel mare si raggiungono grandi concentrazioni. Probabilmente esiste un legame con le discontinuità che stiamo osservando. Una brutta faccenda, se dovessimo avere ragione. Perdoni la scarsità di dettagli, ma sono straordinariamente impegnato. Le allego un file con un rapporto dettagliato di
Karen Weaver, una giornalista che mi dà una mano e mi dà sui nervi. Per altre questioni si rivolga a lei all'indirizzo:
[email protected]'.» «A quale discontinuità si riferisce?» «Non ne ho idea. A suo tempo, a Oslo, ho avuto l'impressione che Bauer fosse gentile, sì, ma un po' distratto. E alla sua e-mail non c'era allegato nessun file. Gli ho scritto di nuovo, ma finora nessuna risposta.» «Forse dovremmo scoprire a cosa sta lavorando Bauer», disse Tina. «Bohrmann dovrebbe saperlo, no?» «Credo che lo sappia la giornalista», disse Johanson. «Karen...?» «Karen Weaver. Il nome mi suonava noto, e infatti ho ricordato di aver letto alcuni suoi articoli. Una vita interessante: ha studiato informatica e biologia, però ha anche praticato molto sport. Si occupa prevalentemente di mare, ma il suo vero interesse va ai grandi sistemi. Rilievo degli oceani, tettonica a placche, trasformazioni climatiche... Ultimamente ha scritto vari articoli sulle correnti marine. Per quanto riguarda Bohrmann, se non si fa sentire entro la fine della settimana, lo chiamo io.» «E tutto questo dove ci porta?» chiese Hvistendahl. Gli occhi azzurri di Skaugen sembrarono aggrapparsi a Johanson. «Ha sentito che cos'ha detto il dottor Johanson, no? L'industria si comporta in modo meschino perché vuole tenere per sé informazioni fondamentali per la salvezza dell'umanità. Su questo siamo d'accordo, non c'è bisogno di discutere. Ieri pomeriggio ho partecipato a un'importante riunione coi nostri capi e ho espresso il mio parere. La Statoil ha informato subito il governo norvegese.» Stone sollevò la testa. «Come? Su che cosa, visto che non abbiamo a disposizione risultati definitivi e nessun...» «Sui vermi, Clifford. Sulla decomposizione degli idrati. Sul pericolo di una catastrofe da metano. Sulla possibilità di una solifluzione sottomarina. Per i miei gusti, i risultati sono più che sufficienti.» Si guardò intorno, cupo. «Il dottor Johanson sarà felice di sentire che il suo istinto è un affidabile indicatore della realtà. Stamattina ho avuto il piacere di trascorrere un'ora al telefono coi vertici tecnici della JNOC. Naturalmente la JNOC è al di sopra di ogni sospetto. Tuttavia supponiamo, in via ipotetica, che il Giappone abbia puntato tutto sulla conquista di una posizione dominante nell'estrazione del metano e che quindi voglia essere il primo a farlo. In secondo luogo, diamo spazio all'idea irrealistica che i giapponesi siano disposti a correre dei rischi e che non si curino delle perplessità espresse dagli spe-
cialisti.» Skaugen posò lo sguardo su Stone. «Ipotizziamo anche il caso assurdo che alcuni individui, per pura ambizione, passino sotto silenzio le perizie e ignorino gli avvertimenti. Tutto ciò sarebbe terribile! Allora dovremmo accusare la JNOC di aver scandalosamente taciuto l'esistenza di un verme, perché quella scoperta avrebbe potuto distruggere in una notte il loro sogno di diventare i primi produttori di metano. Se così fosse, bisognerebbe concludere che hanno taciuto per settimane.» Nessuno disse una parola. Skaugen digrignò i denti. «Ma noi non vogliamo essere così rigidi. Come sarebbero andate le cose se Neil Armstrong fosse rimasto nella sua navicella spaziale perché timoroso di uno stupido verme? E, come già detto, sono solo illazioni. Così, la JNOC mi ha assicurato che, in effetti, anche loro hanno trovato animali simili nel mar del Giappone, ma che li hanno scoperti solo tre giorni fa. Non è il colmo?» «È una porcheria», sibilò Hvistendahl. «E cosa pensa di fare la JNOC?» chiese Tina. «Oh, presumo che informerà il governo. È un'industria statale, proprio come la nostra. Ora che sono consapevoli di non essere gli unici ad aver trovato quel verme, non possono più permettersi di far finta di niente. Cosa che nessuno vuole fare, né noi né loro. E sono sicuro che, se accennassimo la medesima cosa ai sudamericani, di sicuro domani, del tutto casualmente, anche loro troverebbero un verme simile. Che sorpresa! Ci chiamerebbero subito per informarci. Il mio non vuole essere un atto d'accusa, perché noi non siamo migliori.» «Certo», disse Hvistendahl. «Altre opinioni?» «Solo da poco abbiamo raggiunto la consapevolezza di quanto la situazione fosse critica.» Hvistendahl sembrava seccato. «Inoltre sono stato io il primo a proporre d'informare il governo.» «Infatti nessuno ti ha mosso accuse», mormorò Skaugen. A Johanson sembrò di essere stato coinvolto in una rappresentazione teatrale. Aveva capito che Skaugen aveva messo in scena la condanna di Stone. Sul volto di Tina si era distesa un'aria di livida soddisfazione. Ma non era stato Stone a trovare il verme? «Clifford», disse improvvisamente Tina, rompendo il silenzio. «Quando ti sei imbattuto per la prima volta nel verme?» Stone impallidì. «Lo sai», disse. «C'eri anche tu.» «E non prima?» Stone la guardò. «Prima?»
«Prima. L'anno scorso. Quando hai sperimentato sul campo il prototipo del Kongsberg. A mille metri di profondità.» «Che cosa vorresti dire?» sibilò Stone, guardando Skaugen. «Non era un'iniziativa individuale. Avevo le spalle coperte. Ehi, Finn, di che cosa mi volete accusare?» «Certo che avevi le spalle coperte», disse Skaugen. «Avevi proposto di sperimentare una stazione sottomarina di nuovo tipo, concepita per una profondità massima di mille metri.» «Esatto.» «Concepita teoricamente.» «Ovvio, teoricamente. Fino al primo esperimento sul campo è tutto teorico. Ma voi avete praticamente dato il via libera.» Stone guardò Hvistendahl. «Anche tu, Thor. L'abbiamo testata e voi avete dato Tokay.» «È vero», disse Hvistendahl. «L'abbiamo fatto.» «E allora?» «Ti avevamo incaricato di esaminare la zona e di stendere una perizia per sapere se era veramente possibile iniziare un'attività su un'area...» proseguì Skaugen. «Questa è una porcata!» lo interruppe Stone. «Voi eravate d'accordo sulla zona.» «... non sufficientemente testata. Sì, ci siamo presi la responsabilità del rischio. Ma a condizione che tutte le perizie fossero inequivocabilmente favorevoli.» Stone saltò in piedi. «E lo erano», gridò, tremando per l'agitazione. «Siediti», disse Skaugen con freddezza. «T'interesserà sapere che ieri sera si è interrotto ogni contatto col prototipo Kongsberg.» Stone rimase impietrito. «Io non ho la responsabilità diretta della sorveglianza. Io non ho costruito la stazione, ho solo accelerato il progetto. Di che mi accusi? Di non essere al corrente dell'interruzione dei contatti?» «No. Ma, sotto la spinta degli avvenimenti, abbiamo ricostruito esattamente l'installazione del prototipo Kongsberg. E così siamo incappati in due perizie di cui tu allora... Be', come posso dire? Ti eri dimenticato?» Le dita di Stone si aggrapparono al piano del tavolo. Johanson ebbe l'impressione che stesse crollando. Stone barcollò, poi si riprese e, col volto inespressivo, si lasciò lentamente cadere sulla sedia. «Non ne so nulla.» «Nella prima si afferma che la distribuzione degli idrati e dei giacimenti di gas in quella zona è difficile da cartografare. Nel rapporto si avverte che il rischio d'incappare nel gas libero durante la trivellazione è ridotto, ma
non si può escludere al cento per cento.» «Era praticamente escluso», disse Stone con voce roca. «Praticamente non vuol dire al cento per cento.» «Ma il progetto non prevedeva di sfruttare il gas! Abbiamo estratto petrolio. La stazione funziona, il prototipo Kongsberg è un successo completo. Un successo tale che avete deciso di dargli seguito e stavolta ufficialmente.» «Nella seconda perizia si afferma che avete trovato sugli idrati un verme fino a quel momento sconosciuto», intervenne Tina. «Ma certo, che diamine! Era il verme del ghiaccio.» «L'hai esaminato?» «Perché io?» «L'avete esaminato?» «Era... Certo che l'abbiamo esaminato.» «La perizia dice che non è stato inequivocabilmente identificato come verme del ghiaccio. E che era presente in gran quantità. Nelle sue immediate vicinanze è stato rilevato del metano libero, tuttavia non è stato possibile stabilire con certezza se ciò fosse in rapporto con la presenza dei vermi.» Stone era diventato bianco come la cera. «Non è così... Non è esattamente così. Gli animali si trovavano in una zona molto limitata.» «Ma era una presenza massiccia.» «Noi abbiamo costruito di fianco. Io... Quella perizia... non aveva una vera rilevanza.» «Siete riusciti a classificare i vermi?» chiese Skaugen, tranquillo. «Eravamo sicuri che...» «Siete riusciti a classificarli?» Stone digrignò i denti. A Johanson pareva che, da un momento all'altro, avrebbe afferrato la gola di Skaugen. «No», disse a fatica, dopo una lunga pausa. «Bene», annuì Skaugen. «Cliff, per il momento sei sospeso da tutti i tuoi compiti. Tina assumerà il tuo ruolo.» «Non puoi...» «Ne parleremo più tardi.» Stone guardò Hvistendahl, in cerca di aiuto, ma lo scienziato fissava dritto davanti a sé. «Accidenti, Thor. La stazione funziona.» «Sei un idiota», mormorò Hvistendahl in tono piatto. Stone era sbigottito. Il suo sguardo correva sui due uomini che avevano
appena deciso il suo destino. «Mi dispiace», disse. «Non volevo... Volevo solo che andassimo avanti con la stazione.» Johanson si sentiva turbato. Allora era quello il motivo per cui Stone aveva ripetutamente sminuito il ruolo dei vermi. Sapeva che aveva commesso un errore. Aveva voluto essere il primo a mettere in funzione con successo un prototipo di stazione sottomarina automatizzata. Quella stazione era figlia di Stone, un'occasione unica per la sua carriera. E, per un po', le cose erano andate bene. Lo sviluppo era già delineato: prima l'esito positivo di un esperimento non ufficiale durato un anno, poi la messa in funzione e alla fine una serie di stazioni a profondità sempre maggiori. Una marcia trionfale, per Stone. Ma poi erano ricomparsi i vermi. E stavolta non si limitavano a occupare pochi metri quadrati. A Johanson faceva quasi compassione. «Mi dispiace coinvolgerla in questa sgradevole situazione, dottor Johanson, ma lei fa parte della squadra», disse Skaugen. «Sì, certo.» «Sembra che ci stia sfuggendo tutto di mano. Disgrazie, anomalie... La gente è più attenta e le industrie del petrolio sono perfetti capri espiatori. Gli errori non sono ammessi. Possiamo contare ancora su di lei?» Johanson sospirò, poi annuì. «Bene. A dire la verità, era quello che ci aspettavamo da lei. Non mi fraintenda, la decisione è stata tutta sua, ma, poiché dovrà dedicare più tempo al suo ruolo di coordinatore scientifico, noi, per precauzione, ci siamo permessi di parlarne con l'NTNU.» Johanson quasi schizzò in piedi. «Come?» «Per parlar chiaro, li abbiamo pregati di accordarle un congedo provvisorio. Inoltre l'ho proposta per l'unità di crisi governativa.» Johanson fissò prima Skaugen, poi Tina. «Un momento...» ansimò. «È un vero lavoro di ricerca», intervenne Tina. «La Statoil ti mette a disposizione un budget e ogni possibile supporto.» «Avrei preferito...» «Lei è arrabbiato», lo interruppe Skaugen. «E io la capisco. Ma ha visto come sia precaria la situazione sulla scarpata continentale, e nessuno ha più informazioni di lei e degli uomini del Geomar. Ovviamente può rifiutare, ma... Per favore, non lo faccia. Lo consideri un lavoro nell'interesse della collettività.» Johanson si sentiva quasi male per la rabbia. Gli salì alle labbra una risposta tagliente, ma la ricacciò indietro. «Capisco», disse, gelido.
«E quale sarebbe la sua decisione?» «Naturalmente non assumerò questo ruolo.» Lanciò a Tina uno sguardo che forse non sarebbe riuscito a sgretolarla, ma sicuramente l'avrebbe trapassata. La fissò per un po', poi distolse gli occhi. Skaugen annuì. «Ascolti, dottor Johanson: la Statoil le è oltremodo riconoscente. Tutto quello che ha fatto per noi le assicura la nostra più completa gratitudine. Ma deve sapere una cosa: per quello che mi riguarda, lei ha guadagnato un amico. Noi l'abbiamo scavalcata per la faccenda dell'NTNU, ma, in compenso, io mi lascerò scavalcare da lei, se dovesse essere necessario. Per lei mi lascerò crocifiggere, va bene?» Johanson osservò quell'uomo massiccio e lo fissò nei piccoli occhi azzurri. «Okay», disse. «Ci penserò ancora.» «Sigur! Vuoi fermarti una buona volta?» Tina gli correva dietro, ma lui camminava imperterrito lungo il vialetto lastricato che conduceva al parcheggio. Il centro di ricerca era in mezzo al verde, in una posizione idilliaca, su una collina vicina al fiordo, ma lui non si curava della bellezza del paesaggio. Voleva tornare nel suo ufficio. «Sigur!» Lei lo raggiunse, ma lui continuò a camminare. «Perché fai tutte queste scene, testone?» gli gridò. «Vuoi che continui a correrti dietro?» Johanson si fermò di colpo e si girò. Tina quasi gli finì addosso. «Perché no? Sei così veloce...» sibilò. «Idiota», sbottò lei. «Ah, sì? Sei veloce a parlare, veloce a pensare, sei addirittura sufficientemente veloce da pianificare tutto per i tuoi amici prima ancora che possano dire cosa ne pensano. Una corsetta non dovrebbe ucciderti.» «Bastardo presuntuoso!» replicò Tina, furente. «Credi davvero che volessi decidere io in quale direzione mandare la tua maledetta vita da misantropo?» «No? Ah, questo mi tranquillizza.» E riprese a camminare. Tina esitò, poi lo rincorse di nuovo. «Okay, avrei dovuto dirtelo. Mi dispiace, davvero.» «Avreste dovuto chiedermelo!» «Volevamo farlo, maledizione. Skaugen è stato poco diplomatico, hai capito male.» «Ho capito che avete mercanteggiato per me con l'università, come se fossi un cavallo.» «No.» Gli prese la manica della giacca e lo costrinse a fermarsi. «Ab-
biamo sondato il terreno, nient'altro. Volevamo sapere se ti avrebbero concesso un congedo, in caso avessi accettato.» Johanson sbuffò. «Ah, be', allora è tutto diverso.» «Te l'abbiamo detto con le parole sbagliate, tutto lì. Santo cielo, te lo giuro. Che devo fare? Dimmi: che cosa devo fare?» Johanson rimase in silenzio. Il suo sguardo e quello di lei si spostarono contemporaneamente sulle dita di Tina, ancora aggrappate alla stoffa della giacca. Lei lasciò la presa e lo guardò. «Nessuno ti vuole scavalcare. Se ci ripensi, bene, altrimenti non se ne fa nulla.» Da qualche parte, un uccello cantava. Il vento che arrivava dal fiordo portava il rumore di motori lontani. «In caso non accettassi, ti troveresti in una situazione non particolarmente facile, o sbaglio?» disse infine Johanson. «In un certo senso», mormorò lei, passandogli una mano sulla manica per togliere le pieghe. «Vale a dire?» «Non preoccuparti per me. Riuscirò a cavarmela. Non chiedere prima il tuo parere è stata una mia decisione e... Ma sì, mi conosci: ho precorso un po' i tempi con Skaugen.» «Cosa gli hai detto?» «Che lo farai.» Sorrise. «Ho giurato sul mio onore. Ma, come ho già detto, non è un problema tuo.» Johanson sentì la rabbia dissolversi. Avrebbe voluto tener duro ancora un po', solo per principio, per non permettere a Tina di cavarsela così facilmente. Ma la rabbia era sparita. Lei se la cavava sempre. «Skaugen si fida di me», riprese lei. «Non potevo incontrarti nella caffetteria. Abbiamo avuto una conversazione a quattr'occhi e lui mi ha spiegato che, a Stavanger, aveva scoperto le perizie occultate da quello stronzo di Stone. È tutta colpa sua. Se avesse giocato a carte scoperte, non ci troveremmo in questa situazione.» «No, Tina.» Lui scosse la testa. «Lui credeva davvero che quei vermi non rappresentassero un pericolo.» Stone non gli piaceva, ma Johanson sentiva la necessità di difendere il capo progetto. «Voleva solo andare avanti.» «Se davvero li considerava innocui, perché ha nascosto le perizie?» «Avrebbero ritardato il suo progetto. Neanche voi vi sareste preoccupati troppo di quei vermi, ma avreste fatto comunque il vostro dovere e rinviato
il tutto.» «Come vedi ci stiamo preoccupando di quei vermi.» «Adesso sì, ma solo perché sono troppi. Avete avuto paura. Quando Stone li ha trovati, erano diffusi in una zona limitata, vero?» «Hmm.» «Una superficie densamente popolata ma ristretta. Cose del genere succedono tutti i giorni. Gli animali piccoli compaiono spesso in grandi masse. E viene da dire: 'Che potranno mai fare un po' di vermi?' Nel golfo del Messico, quando sono stati trovati i vermi del ghiaccio, nessuno si è sognato di dichiarare lo stato d'allarme, eppure erano proprio sugli idrati.» «Non nascondere niente è una questione di principio. Lui aveva la responsabilità del progetto.» «Certo.» Johanson guardò verso il fiordo. «E ora la responsabilità ce l'ho io.» «Abbiamo bisogno di un dirigente scientifico», disse Tina. «Io mi fido solo di te.» «Santo cielo», esclamò Johanson. «Ce l'hai fatta.» «Davvero?» «Sì, accetto.» «Pensa un po'...» Tina era raggiante. «Potremo lavorare insieme.» «Ora non cercare di farmi cambiare idea. Cosa succederà adesso?» Lei esitò. «Ma sì, hai sentito, Skaugen mi vuole mettere al posto di Stone. Può farlo come soluzione provvisoria, ma non può prendere una decisione definitiva. Per quella ha bisogno dell'approvazione da Stavanger.» «Skaugen...» borbottò Johanson. «Perché ha messo in croce Stone in quel modo? E io che ci facevo lì? Dovevo fornirgli le munizioni?» «Skaugen è un uomo integerrimo, anche se, secondo alcuni, esagera», spiegò Tina. «Vede dove normalmente gli altri chiudono gli occhi, e questo lo rende furioso.» «Se è così, si rivela soprattutto umano.» «In fondo ha il cuore tenero. Se gli dovessi proporre di dare un'altra possibilità a Stone, probabilmente sarebbe d'accordo.» «Capisco», disse Johanson lentamente. «Ed è proprio quello cui stai pensando.» Lei non rispose. «Mah, sei proprio l'incarnazione dell'assistenza sociale, Tina.» «Skaugen mi ha lasciato la scelta», replicò lei, senza dar seguito alla battuta. «Questa stazione sottomarina... Stone ne sa tantissimo. Più di me. Ora
Skaugen vuole uscire con la Thorvaldson per vedere che cos'è successo là sotto e perché non riceviamo più segnali. In realtà, l'operazione dovrebbe essere guidata da Stone. Ma se Skaugen l'ha sospeso, dovrò occuparmene io.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Dare a Stone un'altra possibilità.» «Per salvare la stazione.» «Ammesso che ci sia ancora qualcosa da salvare. Oppure per rimetterla in attività. Skaugen ha già deciso di promuovermi, ma, se chiude un occhio, Stone rimarrebbe in gioco e potrebbe seguire la missione della Thorvaldson.» «E tu, nel frattempo, cosa faresti?» «Andrei a Stavanger a fare rapporto al presidente. Così Skaugen avrebbe l'occasione d'inserirmi in quell'ambiente.» «Congratulazioni, fai carriera», disse Johanson. Ci fu un breve silenzio. «Lo voglio?» mormorò Tina. «Come faccio a sapere cosa vuoi?» «Non lo so neanch'io, maledizione!» Johanson pensò al fine settimana al lago. «Non ne ho idea», replicò. «Nulla ti vieta di avere un compagno e fare comunque carriera, se è questo che ti fa esitare. A proposito, ce l'hai ancora?» «Anche questo è un problema.» «Il povero Kare sa perché sta con te?» «Non siamo stati più molto insieme da quando... Da quando tu e io...» Lei scosse la testa. «Mentre passeggiamo nell'intimità di Sveggesundet o andiamo sulle isole, in un certo senso mi sembra di far parte di una messinscena completamente separata dal mondo reale.» «Almeno è una bella messinscena?» «È come andare in un luogo di cui si è innamorati», spiegò lei. «Ogni volta si va in visibilio. Una scenografia splendida, però, quando bisogna allontanarsi, scorrono le lacrime. Si vorrebbe restare. E, nel contempo, ci si chiede se davvero si vuole vivere nel posto più bello del mondo e se è ancora il più bel posto del mondo. Noi siamo abituati a vedere la nostra vita... Mio Dio, come posso dire? Perdiamo il senso del meraviglioso giorno per giorno. E allora cerchiamo qualcosa che non c'è. Capisci?» Sorrise timidamente. «Scusa, è tutto terribilmente sdolcinato e confuso. Non sono brava in queste cose.»
«No. Direi proprio di no.» Johanson la guardò, cercando i segni dell'indecisione. E invece vide una donna che aveva già deciso. Però lei non lo sapeva ancora. «Se non sei disposta a vivere in un luogo, allora vuol dire che non lo ami», commentò. «Al lago abbiamo parlato proprio di queste cose, ricordi? Forse dovresti andare da Kare e dirgli che lo ami e che vuoi diventare vecchia come il cucco insieme con lui. Mi faresti un grande favore, così non sarei costretto a seguirti ogni due giorni nei pantani delle tue ampollose allegorie.» «E se va male?» «Ma tu non sei una fifona.» «E invece sì», sussurrò. «Lo sono.» «Diffidi della tua felicità. L'ho fatto anch'io una volta e non è stato un bene.» «E allora? Oggi sei felice?» «Sì.» «Senza limiti?» Johanson alzò le braccia in un disperato gesto di difesa. «Ma chi è felice senza limiti? Non mi faccio illusioni su me stesso e sugli altri. Voglio i miei flirt, il mio vino, i miei divertimenti e voglio decidere finché devono durare. Tendo alla discrezione, ma non alla compensazione. Ogni psichiatra con me si annoierebbe a morte, perché io voglio solo la mia tranquillità. Tutto sommato, mi va alla grande. Ma io sono io. La mia felicità dipende da circostanze diverse dalle tue. L'affido solo a me stesso. Tu devi ancora impararlo, e lo devi imparare in fretta. Kare non è né un luogo né una casa. Non aspetterà in eterno.» Tina annuì. Si era alzato il vento e giocava coi suoi capelli. Johanson si rese conto di quanto gli era cara. Era contento che al lago non fossero arrivati a quel tipo di rapporto che portava impressa una data di scadenza, determinando così la durata del suo affetto. «Se Stone andrà sulla scarpata continentale, potrò entrare a Stavanger», ragionò Tina. «Questo va bene. La Thorvaldson è già pronta in mare, Stone potrebbe salire a bordo domani o dopodomani. Per Stavanger ci vorrà più tempo. Dovrò scrivere un rapporto dettagliato. Così avrei un paio di giorni per andare a Sveggesundet e là... lavorare.» «Lavorare, certo», sorrise Johanson. «Perché no?» Lei strinse le labbra. «Devo riflettere e parlarne con Skaugen.» «Fallo», la spronò Johanson. «E pensa in fretta.»
Di ritorno alla sua scrivania, Johanson guardò le e-mail in arrivo. Nulla che gli fornisse qualche indicazione. Soltanto l'ultima suscitò il suo interesse non appena ebbe dato uno sguardo al mittente:
[email protected]. Johanson la aprì. Salve dottor Johanson, grazie per la sua mail. Sono appena tornata da Londra e, al momento, posso soltanto dire che non ho la minima idea di che cosa sia successo a Lukas Bauer e alla sua nave, perché abbiamo perso ogni contatto. Se vuole possiamo incontrarci tra qualche giorno... Magari ci aiuteremmo a vicenda. A metà della prossima settimana sarò nel mio ufficio di Londra. In caso volesse incontrarmi prima, sappia che, al momento, sono in visita alle isole Shetland. Magari potremmo incontrarci qui. Mi faccia sapere cosa preferisce. KAREN WEAVER «Guarda un po' come sa essere cooperativa la stampa», mormorò Johanson. Lukas Bauer era sparito? Forse doveva incontrare un'altra volta Skaugen. Al massimo, se avesse presentato la sua teoria, si sarebbe reso ridicolo. Ma era davvero una teoria? Di fatto l'unica prova che aveva era la brutta sensazione che il mondo fosse in bilico e che la colpa fosse del mare. Se voleva sviluppare seriamente quel pensiero, era tempo di preparare un dossier. Rifletté. Doveva incontrare Karen Weaver il più presto possibile. Perché non alle isole Shetland? Sarebbe stato un po' complicato per gli aerei, ma non rappresentava un gran problema, visto che pagava la Statoli. No, pensò improvvisamente. Non è per nulla complicato. Skaugen non aveva forse detto che si sarebbe fatto mettere in croce per lui? Non era necessario arrivare a tanto. Sarebbe bastato mettere a disposizione un elicottero. Era una buona idea! Un elicottero di servizio. Non uno di quelli che sembravano una specie di autobus di linea volanti, no. Uno di quelli usati dai manager, veloci e confortevoli. Visto che Skaugen lo aveva reclutato con la forza, doveva fare qualcosa per lui.
Johanson si appoggiò allo schienale e guardò l'orologio. Di lì a un'ora aveva lezione e poi un incontro in laboratorio coi colleghi per discutere un'analisi del DNA. Aprì una nuova cartelle e scrisse il nome del file: IL QUINTO GIORNO. Gli era venuto così, d'istinto. Forse era un nome po' troppo poetico, però non riuscì a pensare a nulla di meglio. Secondo la Bibbia, il quinto giorno era quello in cui Dio aveva creato il mare e i suoi abitanti. E adesso erano proprio il mare e i suoi abitanti a creare problemi. Iniziò a scrivere. E, di minuto in minuto, tutto gli apparve più chiaro. 2 maggio Vancouver e Vancouver Island, Canada Da ventotto ore, Ford e Anawak stavano studiando quell'unica sequenza. Prima soltanto nero. Poi l'emissione di un potente impulso sonoro oltre il limite dell'udito umano. Tre volte. Quindi la nuvola. Una nuvola blu, fosforescente, comparsa d'un tratto sul monitor, come un universo in espansione. Non si trattava di una luce intensa, ma di un blu fioco, un leggero chiarore diffuso, sufficiente tuttavia a scorgere le massicce figure delle balene. La nuvola si era poi allargata rapidamente. Doveva essere enorme. Aveva occupato tutto lo schermo e le balene le stavano davanti, immobili, come stregate. Erano trascorsi alcuni secondi. Nelle profondità della nuvola si scorgevano dei movimenti. Improvvisamente era balzato fuori qualcosa che somigliava a un fulmine strisciante, con punte sottili che saettavano in tutte le direzioni. Aveva toccato una delle balene - Lucy - su un lato della testa. La scarica non era durata neppure un secondo. Altri fulmini avevano toccato altri animali. Era come un temporale sottomarino, finito con la stessa velocità con cui era iniziato. Quindi il filmato era sembrato scorrere al contrario. La nuvola si era ritirata in se stessa, era collassata e sparita. Lo schermo era tornato nero. Gli uomini di Ford avevano rallentato sempre più la sequenza, fatto tutto il possibile per ottimizzare la qualità dell'immagine e ottenere più luminosità, ma anche dopo ore di analisi il video con la fuga notturna delle balene restava un mistero.
Infine Anawak e Ford avevano preparato un rapporto per l'unità di crisi. Avevano ottenuto il permesso di far arrivare da Nanaimo un biologo specializzato in bioluminescenza e lui, dopo un'iniziale perplessità, era arrivato alle loro stesse conclusioni: la nuvola e i lampi luminosi erano presumibilmente di origine organica. L'esperto aveva sostenuto che i lampi erano il risultato di una reazione a catena nella struttura della nuvola, ma non era stato in grado di dire come si fossero prodotti e quale scopo avessero. La forma a serpentina e il fatto che sulle punte diventassero più sottili facevano pensare a un calamaro, ma, in tal caso, doveva trattarsi di un animale enorme. Senza contare che non c'erano certezze sulla luminescenza dei calamari giganti. E comunque non si sarebbero spiegate la presenza della nuvola e tantomeno l'origine di quei fulmini. Tutti avevano compreso istintivamente una cosa: la nuvola doveva essere legata al comportamento anomalo delle balene. Avevano scritto tutto nel rapporto, ma il rapporto era sparito in un buco nero, nero come lo schermo dopo che la luce bluastra si era dissolta. Gli scienziati chiamavano confidenzialmente «buco nero» l'unità di crisi nazionale, perché come i buchi neri ingoiava tutto senza rivelare nulla. In un primo tempo, il governo canadese aveva cercato d'instaurare un rapporto stretto coi ricercatori. Ma da quando, qualche giorno prima, era stato deciso ufficialmente di unificare le unità di crisi di Canada e Stati Uniti sotto la guida americana, gli scienziati avevano cominciato a nutrire il sospetto di essere semplicemente sfruttati. L'acquario, l'istituto di Nanaimo, la stessa University of Vancouver erano stati degradati al rango di fornitori, cui non veniva detto nulla, se non che dovevano ricercare e inserire nei rapporti tutte le conoscenze acquisite, le ipotesi fatte e le perplessità rilevate. Né John Ford né Leon Anawak e neppure Rod Palm, Sue Oliviera e Ray Fenwick sapevano come venissero interpretati gli input che fornivano. Non sapevano neppure quale opinione avesse l'unità di crisi. Erano privati dello strumento più importante per le loro ricerche: il confronto con gli altri gruppi di ricerca, sia militari sia statali. «E tutto questo da quando Judith Li ha preso il timone. Direttrice dell'unità di crisi... Non ho idea di che cosa diriga. Ho come l'impressione che ci abbia preso per i fondelli», brontolò Ford. Sue Oliviera si rivolse a Leon Anawak. «Sarebbe molto utile avere altri mitili.» «Non riesco a mettermi in contatto con nessuno della Inglewood», disse Anawak. «Con me non parlano e Judith Li sostiene ufficialmente che si è
trattato di un errore durante la manovra di aggancio. I mitili non vengono neppure nominati.» «Ma tu sei stato là sotto. Abbiamo bisogno di quella robaccia. E di quella sostanza inquietante. Perché ci ostacolano in questo modo? Pensavo che dovessimo dare una mano!» «Perché non prendi contatto tu stessa con l'unità di crisi?» «Tutto deve passare attraverso Ford. Non capisco, Leon. A cosa servono queste unità?» Già, a cosa servivano? Qual era lo scopo dell'unità di crisi congiunta tra gli Stati Uniti e il Canada, rappresentata dal generale comandante Li? Il motivo era ovvio: entrambi i Paesi avevano lo stesso problema da risolvere, entrambi avevano dato disposizioni per lo scambio di conoscenze ed entrambi avevano steso su tutto un velo di silenzio. Forse doveva essere così. Forse lavorare in segreto era intrinseco alla natura delle commissioni d'inchiesta e delle unità di crisi. Quando mai una commissione d'inchiesta si era trovata a dover svolgere un lavoro del genere? I membri permanenti di simili unità normalmente si dannavano l'anima coi terroristi, con gli incidenti aerei, coi sequestri di ostaggi, con le crisi politiche e militari, coi colpi di Stato. Cose segrete, certo! Tuttavia un'unità di crisi entrava in azione anche se c'erano problemi con una centrale nucleare o con una diga, se bruciavano le foreste oppure le acque sfondavano gli argini, se la terra tremava, se i vulcani eruttavano e in caso di carestia. Anche quelle erano cose segrete? Forse, ma perché? «Le cause delle eruzioni vulcaniche e dei terremoti sono note», spiegò Tom Shoemaker quella mattina, quando Leon diede fiato alla sua rabbia. «Puoi temere la terra, ma non hai motivo di diffidarne. Lei non ti fa delle porcate e non cerca d'ingannarti. Queste cose le fanno solo gli uomini.» Erano in tre a far colazione sulla nave di Anawak. Il sole faceva capolino tra bianche masse nuvolose e si diffondeva un gradevole tepore. Un leggero vento scendeva dalle montagne verso la costa. Probabilmente sarebbe stata una giornata splendida, ma a nessuno interessavano più le belle giornate. Soltanto Alicia, incurante di tutte le cose sgradevoli, dava prova di un sano appetito e si stava spazzolando le uova strapazzate. «Avete sentito di quella nave cisterna che trasportava gas?» «Quella saltata in aria in Giappone?» Tom sorseggiò il suo caffè. «Roba vecchia, l'hanno detto nei notiziari.» Alicia scosse la testa. «Non mi riferivo a quella. Ieri ne è colata a picco un'altra. È bruciata nel porto di Bangkok.»
«Si conosce la causa del disastro?» «No. Strano, vero?» «Forse si è trattato solo di un guasto tecnico», disse Anawak. «Non si devono vedere fantasmi ovunque.» «Parli come Judith Li.» Shoemaker sbatté la tazza sul tavolo. «E comunque avevi ragione. Sulla Barrier Queen sono state date pochissime notizie, mentre hanno scritto del rimorchiatore affondato.» Anawak non si era aspettato nulla di diverso. L'unità di crisi li teneva a stecchetto e forse ciò faceva parte del gioco. Cercati da solo il tuo cibo. Ma se era così, loro avrebbero cercato. Dopo l'incidente con l'idrovolante, Alicia aveva iniziato a setacciare Internet. Se gli stessi collaboratori dell'unità di crisi erano tenuti all'oscuro, che cosa mai sarebbe arrivato all'opinione pubblica negli altri Paesi? In quali altre parti del mondo c'erano state aggressioni da parte di balene? Sempre ammesso che ci fossero state... Oppure aveva ragione George Frank, il taayii hawil dei tla-o-qui-aht, quando aveva detto: «Forse il problema non sono le balene, Leon. Forse le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere». Evidentemente Frank aveva colto nel segno, anche se Anawak si era sentito ancora più perplesso dopo che Alicia gli aveva mostrato i risultati delle sue dettagliate ricerche. Aveva esaminato siti sudamericani, tedeschi, scandinavi, francesi, giapponesi e australiani e, a quanto pareva, ovunque erano avvenuti incidenti devastanti con le meduse. «Le meduse?» Shoemaker si era messo a ridere. «E che fanno? Saltano addosso alle navi?» All'inizio, Anawak non aveva individuato una relazione. Che razza di problema era quello che si manifestava sotto forma di balene e di meduse? Ma poi ci aveva ripensato: forse l'invasione di animali urticanti altamente velenosi mostrava punti di contatto, al momento invisibili, con le aggressioni delle balene. E se fossero stati due sintomi dello stesso problema? Un accumulo di anomalie... Alicia aveva riportato il parere di uno scienziato del Costarica, il quale ipotizzava che, a imperversare nel Sudamerica, non fossero le caravelle portoghesi, bensì una specie simile, finora sconosciuta, eppure ancora più pericolosa e mortale. Ed era solo l'inizio. «All'incirca nello stesso periodo in cui qui avevamo a che fare con le balene, nel Sudamerica e nell'Africa meridionale sparivano navi», sintetizzò Alicia. «Barche a motore e cutter. Si è trovato solo qualche relitto, nient'altro. Ora, se fai uno più uno...»
«Ottieni una quantità di balene», concluse Tom. «Perché queste cose non le dicono anche qui? Il Canada è fuori dal mondo?» «Non siamo mai stati particolarmente interessati ai problemi degli altri Paesi», osservò Anawak. «Non c'interessano, e agli Stati Uniti interessano ancora meno.» «In ogni caso, gli incidenti di grandi navi sono in misura nettamente superiore alla media», disse Alicia. «Collisioni, esplosioni, affondamenti. E sapete cos'altro c'è di molto strano? L'epidemia in Francia. È stata provocata da alghe negli astici. Si sta diffondendo in un baleno un agente patogeno che non si riesce a controllare. Credo siano colpiti anche altri Paesi, ma più si ricerca, più il quadro si fa sfumato.» Di quando in quando, Anawak si stropicciava gli occhi, pensando che il rischio di rendersi ridicoli era in agguato. Sembrava proprio che si stessero abbeverando a una delle fonti predilette della fantasia americana: la teoria del complotto. Negli Stati Uniti, una persona su quattro era convinta delle più assurde fantasticherie. C'erano teorie secondo cui Bill Clinton era un agente russo e tantissime persone s'interessavano agli UFO. Pura follia. Che interesse poteva avere una nazione a nascondere avvenimenti che colpivano migliaia di persone? Senza contare che non era facile tenere segreti avvenimenti di quel genere. «Ora fate attenzione», disse Alicia. «Tofino ha milleduecento abitanti ed è formata di fatto da tre strade. Eppure è impossibile che si sappia sempre tutto di tutti. Giusto?» «E allora?» «Qualsiasi località è troppo grande perché si possa sapere tutto di tutti. A maggior ragione un intero pianeta.» «Verità evidente. La mente dell'uomo è un secchio che trabocca in fretta.» «Un governo non può bloccare le notizie, ma può sminuirne la portata. Ti preoccupi perché l'informazione è scarsa. In realtà le informazioni ci sono, ma la maggior parte circola solo nel Paese in cui si sono svolti i fatti e quel poco che arriva all'esterno è sempre presentato come notizia secondaria. Verosimilmente, tutto quello che ho trovato su Internet era apparso sui giornali e nelle televisioni locali. Noi semplicemente non l'abbiamo saputo.» Shoemaker socchiuse le palpebre. «È davvero così?» disse, incerto. «Come sempre, abbiamo bisogno di maggiori informazioni», affermò Anawak. Smosse bruscamente le uova strapazzate e le fece uscire dal piat-
to. «Cioè, alcune le abbiamo. Le altre le ha Judith Li. Sono certo che ne sa ben più di noi.» «Allora chiedi a lei», propose Shoemaker. Anawak sollevò le sopracciglia. «A Judith Li?» «Perché no? Se vuoi sapere, chiedi. Al massimo riceverai un no e qualcosa detto tra i denti, ma non staresti peggio di come stai ora.» Anawak rimuginò in silenzio. Non avrebbe ottenuto la minima informazione. Non le otteneva neppure Ford, che pure continuava a tempestare di domande Judith Li. D'altra parte, l'idea di Shoemaker non era così stupida. Si potevano anche fare domande senza che l'interlocutore se ne rendesse conto. Forse era proprio arrivato il momento di prendersi le risposte. Più tardi, quando Shoemaker se ne fu andato, Alicia mise sul tavolo, davanti ad Anawak, una copia del Vancouver Sun. «Volevo aspettare che Tom se ne andasse», disse. Anawak gettò un'occhiata alla prima pagina. Era il numero del giorno precedente. «L'ho letto.» «Tutto?» «No, solo l'essenziale.» Alicia sorrise. Negli ultimi giorni, Anawak non aveva dimostrato né cortesia né riguardi nei suoi confronti - per non parlare del suo costante cattivo umore -, eppure lei era stata davvero gentile. Dalla loro conversazione nella stazione, non aveva più toccato l'argomento delle sue origini. «Allora leggi quello che non è essenziale.» Anawak sfogliò il giornale e comprese immediatamente quello che Alicia intendeva. Era un breve articolo: poche righe corredate dalla fotografia di una famiglia felice, padre, madre e un bambino, che guardava con riconoscenza un uomo molto alto. Il padre stringeva la mano all'uomo e tutti sorridevano all'obiettivo. «Incredibile.» «Puoi pensare quello che vuoi», disse Alicia. I suoi occhi scintillavano. Quel giorno i suoi occhiali avevano lenti gialle e la montatura era decorata da croci di Strass. «Ma non sembra un gran bastardo.» Il piccolo Bill Sheckley (cinque anni), che lo scorso 11 aprile è stato salvato per ultimo dalla nave da diporto Lady Wexham che stava affondando, può tornare a sorridere. Oggi i suoi genitori sono andati a prenderlo all'ospedale di Victoria, dov'era rimasto per
qualche tempo in osservazione. Durante il salvataggio, Bill ha sofferto d'ipotermia e, come conseguenza, ha contratto la polmonite. Ora l'ha superata e, con essa, ha superato pure lo shock. Oggi i genitori ringraziano soprattutto Jack «Greywolf» O'Bannon, un ambientalista di Vancouver Island, che ha guidato l'azione di salvataggio e si è occupato in maniera commovente della convalescenza del piccolo Bill. L'«eroe di Tofino», così viene chiamato da allora O'Bannon, ha trovato posto non soltanto nel cuore del bambino. Anawak chiuse il giornale e lo buttò sul tavolo. «Shoemaker sarebbe uscito dai gangheri», disse. Per un po' non parlarono. Anawak guardava le nuvole che si spostavano lentamente e cercava di attizzare la sua rabbia contro Greywolf, ma stavolta non ci riusciva. La rabbia si rivolgeva contro chi ostacolava il lavoro suo e di Ford, contro quell'arrogante soldatessa e, per motivi inesplicabili, contro se stesso. Soprattutto contro se stesso. «Che cosa vi ha fatto Greywolf?» chiese infine Alicia. «Lo hai visto tu stessa.» «I pesci lanciati ai turisti? Va bene, ha esagerato. Si potrebbe anche considerarla una sorta di richiesta.» «Greywolf è solo un piantagrane.» Anawak si passò una mano sugli occhi. Sebbene fosse mattina, si sentiva stanco e privo di forze. «Non fraintendermi», disse cautamente Alicia. «Ma quell'uomo mi ha tirato fuori dall'acqua e se penso a quello che sarebbe stato di me... Due giorni fa sono andata a cercarlo. A casa non c'era. Si trovava a Ucluelet, in una birreria. Allora mi sono avvicinata e ... Ma sì, l'ho ringraziato.» «E allora?» chiese Anawak in tono distratto. «Che cos'ha detto?» «Non se lo aspettava.» Anawak la guardò. «Era davvero sorpreso», continuò Alicia. «E contento. Poi ha voluto sapere come stavi.» «Come sto io?» «Sai cosa penso?» Alicia incrociò le braccia e le appoggiò sul piano del tavolo. «Sono convinta che abbia pochi amici.» «Forse si dovrebbe chiedere perché.» «Gli vai a genio.»
«E cosa dovrei fare? Sciogliermi in lacrime e santificarlo?» «Raccontami qualcosa di lui.» Mio Dio, perché? pensò Anawak. Perché adesso dovrei mettermi a parlare proprio di Greywolf? Non possiamo parlare di cose più piacevoli? Qualcosa di davvero piacevole e divertente, per esempio... Rifletté. Non gli venne in mente nulla. «Una volta eravamo amici», mormorò. Si aspettava di vedere Alicia balzare in piedi con un grido di trionfo «Ah, ecco, avevo ragione!» -, invece lei si limitò ad annuire. «Si chiama Jack O'Bannon e arriva da Port Townsend, nello Stato di Washington. Suo padre era irlandese e ha sposato una mezza indiana, una suquamish, credo. Comunque sia, negli Stati Uniti Jack ha fatto tutti i lavori immaginabili: buttafuori, camionista, grafico pubblicitario e guardia del corpo. Infine è stato sommozzatore nei SEALS. Lì ha trovato la sua vocazione: addestratore di delfini. Lo faceva bene, ma poi gli hanno riscontrato dei difetti cardiaci. Niente di grave, solo che nei SEALS sono dei duri. Benché avesse una bacheca piena di decorazioni, Jack capì che con la Marina era finita.» «Come in Canada?» «Jack ha sempre avuto un debole per il Canada. All'inizio aveva cercato di entrare nell'industria cinematografica, a Vancouver. Pensava che la sua statura e la sua faccia gli avrebbero permesso di diventare attore, ma era totalmente privo di talento. A dire la verità, nella sua vita non è riuscito a combinare niente perché gli saltano subito i nervi e ogni volta picchia qualcuno sino a farlo finire in ospedale.» «Oh!» fece Alicia. Anawak digrignò i denti. «Mi dispiace se ho rovinato il tuo idolo. Non è che ci tenessi particolarmente.» «Va bene. E dopo?» «Dopo?» Anawak si versò un bicchiere di succo d'arancia. «È finito in galera. Non ha mai truffato o imbrogliato nessuno: è stato il suo temperamento irrequieto a farlo finire dentro. Quand'è uscito, naturalmente è stata ancora più dura. Nel frattempo aveva letto vari libri sulla difesa della natura e sulle balene, e aveva deciso che bisognava fare subito qualcosa. E perché no? Così andò da Davie, che aveva conosciuto durante un viaggio a Ucluelet, e gli chiese se aveva bisogno di uno skipper. Davie gli disse che l'avrebbe assunto, a patto che non creasse problemi. Jack sa essere molto affascinante, quando vuole.» Alicia annuì. «Ma non è riuscito a essere sempre affascinante.»
«Per un po' di tempo sì. Di colpo si è registrato un imponente afflusso di clienti, specialmente donne. Tutto andava per il meglio. Fino al giorno in cui lui ha dato un ceffone a una.» «A una cliente?» «Esatto.» «Accidenti.» «Già. Davie voleva licenziarlo, ma io sono riuscito a convincerlo a dargli una seconda possibilità. Così non l'abbiamo licenziato. Ma che cosa ti combina quell'idiota?» Ecco tornare la rabbia contro Greywolf. «Tre settimane dopo, fa la stessa scena. A quel punto, Davie doveva licenziarlo. Tu cosa avresti fatto?» «Credo che l'avrei liquidato la prima volta», sussurrò Alicia. «Perlomeno non devo preoccuparmi del tuo futuro», ironizzò Anawak. «In ogni caso, se fai tanto per una persona che ti ripaga in quel modo, anche il più grande affetto si dissolve.» Ingollò il succo d'arancia, lo mandò giù e tossì. Alicia allungò un braccio e gli batté sulla schiena. «Da quel momento è andato completamente fuori di testa», riprese. «Jack ha un secondo problema. A un certo punto, nella sua frustrazione, è arrivato da lui il grande Manitou e gli ha detto: 'Da oggi ti chiami Greywolf e devi proteggere le balene e tutto ciò che popola la Terra, l'aria e l'acqua... Va' e combatti'. E poiché lui ce l'aveva con noi, si è convinto di dover combattere contro di noi. A questo aggiungi che ancora oggi è convinto che io sia dalla parte sbagliata, solo che non me ne sarei ancora accorto.» Era sempre più furioso. «Butta tutto all'aria, non ha la minima idea di che cosa sia la protezione dell'ambiente e neppure degli indiani cui sente di appartenere. Gli indiani ridono a crepapelle di lui. Sei stata a casa sua? Ah, no, l'hai pescato in una birreria! La sua baracca è un vero museo del kitsch indiano. Sì, si piegano in due dal ridere, tranne quelli che non sanno cosa fare della loro vita, i ragazzetti che non fanno un tubo, quelli che si rifiutano di lavorare, i picchiatori e gli ubriaconi... Loro lo trovano fantastico, e lo stesso si può dire di un mucchio di anziani hippy bianchi e di quei surfisti che non sopportano di essere visti dai turisti mentre si grattano la pancia. Ah, e ci sono anche quelli che amavano il campeggio libero e che ora non possono più cagare dove vogliono e lasciare in giro la loro immondizia. Greywolf ha raccolto la feccia: anarchici e falliti, vagabondi e neoattivisti contro la violenza dello Stato, freak ambientalisti militanti espulsi da Greenpeace perché ne danneggiavano la reputazione, indiani che non sono mai stati graditi alle loro tribù, criminali e tutta la gentaglia possibile. Alla maggior
parte di questi malviventi non interessa niente delle balene; vogliono solo menare un po' le mani per rendersi importanti, solo che Jack non se ne rende conto e crede che la sua organizzazione sia davvero ambientalista. Pensa un po', finanzia quella gentaglia lavorando come boscaiolo e come guida per chi vuole vedere gli orsi, e lui stesso vive in una baracca pericolante che non useresti nemmeno come cuccia per un cane! Perché permette che tutti si divertano alle sue spalle? Perché uno come Jack si trasforma in una figura tragica? Quel gigantesco bastardo! Me lo sai dire?» Anawak si fermò e prese fiato. In alto, nel cielo, un uccello marino gridava. Alicia spalmò del burro su un pezzo di pane, ci mise sopra della marmellata e se lo infilò in bocca. «Magnifico!» esclamò. «Vedo che ti piace sempre.» Il nome Ucluelet derivava dalla lingua nootka e significava all'incirca «porto sicuro». Esattamente come Tofino, anche Ucluelet sorgeva protetto da una baia naturale e, nel corso degli anni, il piccolo villaggio di pescatori, con le sue casette di legno e suoi graziosi locali e ristoranti, era diventato una pittoresca attrazione per i whale watcher. La casa di Greywolf si trovava nella parte meno attraente di Ucluelet. Su un lato della strada principale si apriva un sentiero infestato di erbacce, grande appena per far passare un'automobile e adatto a distruggere gli ammortizzatori. Dopo alcune centinaia di metri, il sentiero terminava in una radura circondata da alberi antichissimi. La casa, una baracca malridotta con una stalla diroccata e vuota, sorgeva proprio là in mezzo. Dal villaggio non si vedeva. Bisognava conoscere la strada. Che la baracca fosse tutt'altro che confortevole, lo sapeva meglio di tutti il suo unico abitante. Finché il tempo reggeva - e secondo Greywolf il concetto di brutto tempo era qualcosa compreso fra un tornado e la fine del mondo -, lui se ne stava fuori, andava per i boschi, guidava i turisti a vedere gli orsi bruni e faceva tutta una serie di lavoretti occasionali. Le probabilità di trovarlo là erano praticamente nulle, anche di notte. O dormiva all'aperto, in mezzo alla natura, o nella camera delle turiste desiderose di avventure e convinte di aver accalappiato un selvaggio purosangue. Era primo pomeriggio quando Anawak arrivò a Ucluelet. Aveva progettato di andare a Nanaimo e da lì prendere il traghetto per Vancouver. Per diversi motivi aveva preferito evitare l'elicottero. Shoemaker l'avrebbe accompagnato fino a Ucluelet, dove aveva un appuntamento con Davie, e
aveva così dato ad Anawak una scusa per fare una tappa in paese. Davie stava pensando ad altri tour avventurosi: se non puoi più offrire alla gente due ore in mare, allora offri una settimana sulla terraferma. Anawak si era rifiutato di partecipare alla conversazione nel corso della quale Davie e Shoemaker volevano discutere la nuova struttura dell'azienda. Qualunque sviluppo ci fosse stato, sentiva che il suo periodo a Vancouver Island si stava avviando alla conclusione. Che cosa lo tratteneva davvero lì? Cosa gli restava, dopo la fine del whale watching? Una paralisi che cercava di mimetizzare con l'amore per l'isola, di cui gli era rimasto come sgradevole ricordo un ginocchio dolorante. Sciocchezze. Erano anni che cercava di allontanarsi. È vero, quegli anni gli avevano portato una laurea e vari riconoscimenti, ma quel tempo era ormai perso. Un conto era non vivere nel modo sbagliato, un altro avere la morte davanti agli occhi e, nelle settimane precedenti, lui aveva rischiato due volte di perdere la vita. L'incidente con l'idrovolante aveva cambiato tutto. Anawak sentiva una minaccia dentro di sé. Qualcuno aveva fiutato la sua paura ed era tornato sulle sue tracce, qualcuno che lui pensava di aver dimenticato. Un gelido fantasma gli offriva l'ultima possibilità di prendere in mano il suo destino e, se lui avesse fallito, gli prospettava un futuro di solitudine e miseria. Il messaggio era chiarissimo: rompi il cerchio. Il vecchio adagio così caro agli psicologi. Anawak aveva camminato lungo il sentiero infestato di erbacce, senza particolare fretta, come se non avesse una meta precisa. Aveva percorso la strada principale e, all'ultimo momento, aveva svoltato, come se di colpo gli fosse venuta un'idea. Era giunto nella radura, davanti a quell'orribile catapecchia, e si chiedeva cosa diavolo ci facesse lì. Salì i pochi scalini della misera veranda e bussò. Greywolf non era in casa. Girò alcune volte intorno alla capanna. Si sentiva deluso, senza riuscire a spiegarsi il perché. In fondo sapeva che non avrebbe trovato nessuno. Pensò di andarsene. Un tentativo l'aveva fatto. Tuttavia non poteva. Gli venne in mente l'immagine di un uomo col mal di denti che suona il campanello di uno studio dentistico e se ne va subito perché non gli viene aperto all'istante. I suoi piedi lo ricondussero alla porta d'ingresso. Allungò la mano e abbassò la maniglia. Spinse la porta, che si aprì con un leggero cigolio. Da quelle parti era normale lasciare la casa aperta. Un pensiero gli strappò un
brivido. Anche in un altro posto si viveva così. Per un momento si bloccò, indeciso, poi entrò. Non entrava in quella casa da un'eternità, e rimase sorpreso da quello che vide. Nei suoi ricordi, Greywolf viveva in mezzo a una sudicia confusione. Invece Anawak vide una stanza semplice ma accogliente, alle cui pareti erano appese maschere indiane e arazzi. Intorno a un tavolo basso di legno c'erano sedie intrecciate e colorate. Coperte indiane decoravano un sofà. Due scaffali erano pieni di ogni possibile oggetto di uso quotidiano, ma anche di sonagli di legno che i nootka usavano nelle cerimonie e nei canti rituali. Non c'era un televisore. Due piastre indicavano che quella camera serviva anche da cucina. Un passaggio conduceva a una seconda stanza. Quella in cui Greywolf dormiva, ricordò Anawak. Per un momento fu tentato di guardarsi intorno. Continuava a chiedersi perché fosse lì. Quella casa lo risucchiava in un buco temporale, verso un passato che lui non era sicuro di voler rivivere. Fissò una grande maschera che sembrava tenere d'occhio tutta la stanza. La maschera lo guardava. Si avvicinò. Molte maschere indiane avevano i tratti somatici simbolicamente portati all'eccesso: occhi enormi, sopracciglia oltremodo arcuate, nasi a becco. Quella era la fedele immagine di un volto umano. Mostrava il viso tranquillo di un giovane col naso dritto, con le labbra tonde e piene e la fronte alta. I capelli erano infeltriti, ma sembravano veri. Se si prescindeva dal fatto che le pupille erano bucate, in modo che chi la portava potesse vedere, gli occhi col bulbo dipinto di bianco apparivano sorprendentemente vivi. Guardavano tranquilli e severi, quasi come in trance. Anawak rimase immobile davanti alla maschera. Ne aveva visti a bizzeffe, di quegli oggetti. Le tribù le preparavano con legno di cedro, corteccia e cuoio e si potevano comprare in qualsiasi negozio di souvenir. Ma una maschera del genere non si trovava nei negozi di souvenir. «È dei pacheedaht.» Si girò. Greywolf era proprio dietro di lui. «Per uno che 'vuol essere un indiano' sei bravo ad avvicinarti di soppiatto», disse Anawak. «Grazie.» Greywolf sorrise. Non sembrava seccato per quella visita inattesa. «Non posso restituirti il complimento. Per essere un indiano completo sei una vera schiappa. Probabilmente avrei potuto farti fuori e non te ne saresti neppure accorto.» «Da quanto tempo mi stai dietro?»
«Sono appena entrato. Non faccio giochetti, dovresti saperlo.» Greywolf fece un passo indietro e fissò Anawak come se si fosse reso conto soltanto in quel momento che non l'aveva invitato. «A proposito, che vuoi?» Bella domanda, pensò Anawak. Involontariamente girò il capo verso la maschera, come se quella potesse parlare al suo posto. «Hai detto che è dei pacheedaht?» «Non sai neppure questo?» Greywolf sospirò e scosse la testa, indulgente. Onde lucenti gli percorsero i lunghi capelli. «I pacheedaht...» «Lo so chi sono i pacheedaht», disse Anawak, seccato. Il territorio di quella piccola tribù nootka era a sud di Vancouver Island, al di sopra di Victoria. «M'interessa la maschera. Sembra antica. Non come la paccottiglia che vendono ai turisti.» «È una copia.» Greywolf gli si avvicinò. Anziché il sudicio abito di pelle, portava jeans e una camicia scolorita, i cui disegni a quadri erano appena riconoscibili. Fece scorrere le dita sul profilo del volto di legno di cedro. «È la maschera di un antenato. L'originale è custodito dalla famiglia Queesto nel suo HuupuKanum. Ti devo spiegare che cos'è un HuupuKanum?» «No.» Anawak conosceva la parola, ma non sapeva esattamente che cosa significasse. Un qualche rituale. «Un regalo?» «L'ho fatta io», disse Greywolf. Si girò. «Vuoi bere qualcosa?» Anawak fissò la maschera. «L'hai...» «Nell'ultimo periodo ho intagliato parecchia roba. Una nuova passione. I Queesto non hanno nulla in contrario se copio le loro maschere. Vuoi qualcosa da bere o no?» Anawak si girò. «No.» «Allora, che cosa ti porta qui?» «Volevo ringraziarti.» Greywolf si lasciò cadere sul bordo del sofà e s'immobilizzò come un animale pronto al balzo. «Per che cosa?» «Ti devo la vita.» «Oh! Per quello! Pensavo che non te ne fossi accorto.» Greywolf scrollò le spalle. «Di niente. C'è altro?» Anawak era rimasto in mezzo alla stanza, sconcertato. Per settimane era stato oppresso da quel pensiero, e adesso era fatta. Grazie, prego. In fondo ora poteva andarsene. Aveva fatto quello che doveva. «Cos'hai da bere?» chiese invece. «Birra o Coca-Cola. La settimana scorsa, la ghiacciaia ha tirato le cuoia.
È stato difficile tirare avanti. Ma adesso funziona.» «Va bene. Una Coca-Cola.» D'un tratto, Anawak si accorse che il gigante era insicuro. Greywolf lo fissava come se non sapesse come procedere. Indicò il piccolo frigorifero vicino al fornello. «Serviti pure. Per me una birra.» Anawak annuì. Aprì il frigorifero e prese due lattine. Un po' irrigidito, si accomodò di fronte a Greywolf, su una delle sedie di vimini. Bevvero entrambi e, per un po', nessuno dei due parlò. «Allora, Leon?» «Io...» Anawak rigirò la lattina tra le mani. Poi la posò. «Ascolta, Jack, parlo sul serio. Sarei dovuto venire molto tempo prima. Mi hai ripescato dall'acqua e... Ma sì, sai che cosa penso delle tue azioni e delle tue pose da indiano. Non posso negare di essere stato maledettamente arrabbiato con te. Ma questo è un altro paio di maniche. Senza di te, molte persone non sarebbero più in vita. Questo è molto più importante e... sono venuto per dirtelo. Ti chiamano l''eroe di Tofino' e credo che, in un certo modo, tu lo sia davvero.» «Stai parlando sul serio?» «Sì.» Calò di nuovo un lungo silenzio. «Tu sostieni che le mie sono pose da indiano... Invece è qualcosa in cui io credo. Te lo devo spiegare?» In altre circostanze, dopo quelle parole la conversazione sarebbe immediatamente finita. Anawak si sarebbe innervosito e Greywolf gli avrebbe urlato qualche insulto... No, anzi: sarebbe stato Anawak a insultare Jack per primo. «Va bene», sospirò. «Spiegamelo.» Greywolf lo guardò a lungo. «Ho un popolo cui appartengo. Ne ho scelto uno.» «Oh, fantastico. Te ne sei scelto uno.» «Sì.» «E ti hanno scelto anche loro?» «Non lo so.» «Se posso dirtelo, sei il fenomeno da baraccone del tuo popolo. Oppure il personaggio di un western di serie Z. E che ne dice il tuo popolo? Pensa che tu gli stia facendo un piacere?» «Il mio compito non è fare un piacere a qualcuno.» «E invece sì. Se vuoi appartenere a un popolo, ti assumi la responsabilità
dell'appartenenza davanti a quel popolo. È così.» «Lui mi accetta. Non voglio nulla di più.» «Ti prende in giro, Jack!» Anawak si chinò in avanti. «Non lo capisci? Hai raccolto intorno a te un manipolo di falliti. In mezzo a loro ci sarà pure qualche indiano, ma di quelli con cui il tuo popolo non vuole avere nulla a che fare. Nessuno capisce perché lo fai. Non lo capisco nemmeno io. Tu non sei un indiano... Al massimo lo sei al venticinque per cento, il resto è bianco e prevalentemente irlandese. Perché non senti di appartenere agli irlandesi? Almeno il nome sarebbe appropriato.» «Perché non lo voglio», rispose Greywolf, tranquillo. «Non c'è più un unico indiano che porti un nome come quello che ti sei dato tu.» «Ci sono io.» Inutile, pensò Anawak. Sei venuto per ringraziarlo, l'hai ringraziato, tutto il resto è roba vecchia. Perché stai ancora qui? Dovresti andartene. Ma non se ne andò. «Okay, per favore, spiegami una cosa: se dai tanto valore all'essere accettato dal popolo che hai scelto, perché tanto per cambiare non provi a essere un vero indiano?» «Come te?» Anawak sobbalzò. «Lasciami fuori da questa storia.» «Perché?» ringhiò Greywolf, pronto ad attaccare. «Non capisco perché dovrei prendere le bastonate che sono indirizzate a te.» «Perché sono io a darle!» Improvvisamente sentì rimontare la rabbia, più forte che mai. Ma stavolta non aveva voglia di riportarsela a casa come al solito, di rinchiuderla dentro di sé facendosi venire l'ulcera. Era troppo tardi. Non si poteva tornare indietro. Si sarebbero dovuti guardare negli occhi e sapeva che cosa voleva dire. Ogni vittoria che otteneva su Greywolf comportava una sconfitta per se stesso. Greywolf lo guardava da sotto le palpebre semichiuse. «Non sei venuto per ringraziarmi, Leon.» «Invece sì.» «Ci credi? Sì, ci credi. Ma sei qui anche per altro.» Fece un sorriso beffardo e incrociò le braccia. «Allora, sputa il rospo. Cosa devi dire di così importante?» «Solo una cosa, Jack. Puoi chiamarti mille volte Greywolf, ma rimani quello che sei. Un tempo c'erano regole che portavano gli indiani a scegliere un nome, e nessuna di queste è adatta a te. Appesa là hai una bella ma-
schera, ma non è l'originale. È un falso, esattamente come il tuo nome. E ancora una cosa: anche la tua stupida organizzazione ambientalista è un falso.» Improvvisamente gli era uscito quello che non avrebbe voluto dire. Non quel giorno. Non era venuto per offendere Greywolf, ma non poteva impedire che accadesse. «Con te ci sono fannulloni e farabutti che si sono messi comodi sulle tue spalle. Non te ne accorgi? Non ottieni nulla. La tua idea di protezione delle balene è infantile. Hai scelto un popolo? Sciocchezze. Il popolo che ti sei scelto non avrà la minima comprensione per le tue follie.» «Se lo dici tu.» «Sai maledettamente bene che il popolo che ti sei scelto vuole riprendere a cacciare le balene. Mentre tu vuoi impedirlo. Ti fa onore, ma evidentemente non hai ascoltato la tua gente. Agisci contro il popolo cui dici...» «Palle, Leon. Tra i makah ci sono molti che la pensano come me.» «Certo, ma...» «Gli anziani della tribù, Leon! Non tutti gli indiani credono che un gruppo etnico debba esprimere la propria cultura attraverso sacrifici rituali. I makah fanno parte della società del XXI secolo, come tutti gli altri abitanti dello Stato di Washington.» «Conosco questo argomento», replicò Anawak, sprezzante. «Non deriva né da te né da qualche anziano della tribù, ma da una conclusione della See Shepherd Conservation Society, una società per la protezione degli animali, nel vero senso della parola. Non sei nemmeno in grado di offrire argomenti tuoi, Jack. Mio Dio, non riesco a crederci. Copi anche i tuoi stessi argomenti!» «Non lo faccio, io...» «Inoltre è assurdo prendere di mira proprio la Davies», lo interruppe Anawak. «Ah! Ecco che arriviamo alla questione. È per questo che sei qui.» «Sei stato uno di noi, Jack. Non hai imparato niente? Solo il whale watching ha chiarito una volta per tutte che balene e delfini valgono di più da vivi che da morti. Ha attirato l'attenzione su un problema che altrimenti non sarebbe mai arrivato con questa forza all'opinione pubblica. Fare whale watching significa proteggere la natura! Quasi dieci milioni di persone ogni anno vanno in mare per scoprire le meravigliose creature che lo abitano. La resistenza contro la caccia alle balene cresce anche in Giappone e in Norvegia perché noi offriamo questa possibilità. Hai capito? Dieci milioni di persone che altrimenti avrebbero visto le balene solo in televisione! E
forse neanche quello! Il nostro lavoro scientifico ci mette in condizione di difendere le balene nel loro ambiente, e senza il whale watching ciò non sarebbe stato possibile.» «Augh!» «E allora perché? Perché ci combatti? Perché sei stato cacciato via?» «Non sono stato cacciato. Me ne sono andato!» «Tu sei stato cacciato!» gridò Anawak. «Licenziato, giubilato, ti hanno dato il benservito. Hai fatto delle idiozie e Davie ti ha sbattuto fuori. Ma hai una tale fiducia in te stesso che non hai elaborato questo fatto, più o meno come non hai accettato quel Jack O'Bannon che hai cercato di cancellare e che ricomparirà non appena ti taglierai i capelli, ti toglierai i vestiti di pelle e abbandonerai quel tuo nome ridicolo. Tutta la tua ideologia poggia su equivoci e falsificazioni. Sei uno zero, una nullità! Produci solo merda! Danneggi la protezione della natura, danneggi i nootka, non sei a casa in nessun luogo, non hai patria, non sei irlandese e non sei indiano... Ecco qual è il tuo maledetto problema, e l'idea che siamo qui a litigare su queste cose, come se non avessimo ben altre preoccupazioni, mi fa uscire di testa!» «Leon...» sibilò Greywolf. «Mi fa impazzire vederti così.» Greywolf si alzò. «Leon, chiudi la bocca. Può bastare.» «Invece non basta. Al diavolo, potresti fare molte cose sensate, sei una montagna di muscoli e non sei stupido, allora che cosa...» «Piantala, Leon!» Greywolf girò intorno al tavolo e andò verso Anawak, stringendo i pugni. L'altro sollevò lo sguardo, chiedendosi se sarebbe bastato un pugno per spedirlo nel mondo dei sogni. Greywolf era stato licenziato perché, con quello schiaffo, aveva rotto la mandibola alla turista. Di certo, la sua lingua troppo lunga gli sarebbe costato un paio di denti. Ma Greywolf non lo colpì. Appoggiò le mani sui braccioli della sedia di Anawak e si chinò su di lui. «Vuoi sapere perché mi sono scelto questa vita? Vuoi saperlo davvero?» Anawak lo fissò. «Coraggio!» «No, non lo vuoi sapere, stronzetto presuntuoso.» «E invece sì. Solo che tu non hai nulla da dire.» «Tu...» Greywolf digrignò i denti. «Tu sei un maledetto idiota. Sì, tra le altre cose sono anche irlandese, ma non sono mai stato in Irlanda. Mia madre è una mezza suquamish. Non è mai stata accettata pienamente né dai
bianchi né dagli indiani, così ha sposato un immigrato che a sua volta non era stato accettato da nessuno.» «Commovente. Me l'hai già raccontato. Dimmi qualcosa di nuovo.» «No, ti racconterò solo la verità e tu mi farai il piacere di ascoltare! Hai ragione: non basta travestirsi da indiano per diventarlo. Ma non diventerei un irlandese neppure se mi scolassi litri di Guinness, e tantomeno potrei essere un normalissimo americano bianco solo perché in famiglia abbiamo anche un po' di quel sangue. Io non sono autentico. Non appartengo davvero a niente... E la sai una cosa? Maledizione, non posso farci nulla!» I suoi occhi scintillavano. «A te basta sollevare il culo per cambiare qualcosa. Ti guardi alle spalle e trovi la tua storia. Io non ho mai avuto la possibilità di guardarmi alle spalle per trovare la mia storia.» «Sciocchezze!» «Oh, certo, avrei potuto imparare le buone maniere e fare le cose ammodo. Viviamo in una società aperta, no? Se hai successo, nessuno ti chiede quali sono le tue origini. Ma io non l'ho mai avuto. Ci sono incroci etnici che hanno ricevuto il meglio da tutto il mondo. Si sentono a casa ovunque. I miei genitori sono povera gente, semplice e confusa. Non hanno mai capito che il loro figlio aveva bisogno di rafforzare la sicurezza in se stesso, di sviluppare un senso di appartenenza. Si sentivano sradicati e incompresi, e io ho ricevuto il peggio da tutto il mondo! Ho fallito in tutto. C'era una sola cosa che sapevo fare bene, ma ho fallito anche in quella.» «Ah, già. La Marina. I tuoi delfini.» Greywolf annuì, truce. «In Marina stavo bene. Ero il miglior addestratore che avessero mai avuto e non facevano domande stupide. Ma, non appena sono stato fuori, è crollato tutto. Mia madre ha fatto impazzire mio padre con le sue usanze indiane, e lui ha fatto impazzire lei con la sua costante nostalgia dell'Irlanda. Ognuno dei due cercava in qualche modo di affermarsi. Non credo che volessero vantarsi delle loro origini, ma semplicemente arrivare da qualche parte e dire: non sono un bastardo! Questa è la mia patria, ehi, qui sono a casa!» «Quelli erano problemi loro. Non avresti dovuto farli diventare anche tuoi.» «Ah, sì?» «Accidenti, Jack! Sei grande e grosso eppure sostieni di essere stato così traumatizzato dai conflitti dei tuoi genitori che non riesci più a rimetterti in sesto?» Anawak ansimava, furioso. «Che differenza fa se sei indiano, mezzo indiano o chissà che altro? Siamo soltanto noi i responsabili della nostra
patria interiore. Non lo sono i genitori, non lo è nessun altro.» Greywolf non replicò. Poi nei suoi occhi si accese un lampo di soddisfazione e, in quell'istante, Anawak comprese di aver perso. Doveva andare così. «Ma di chi stiamo parlando, in realtà?» chiese Greywolf con un sorriso malizioso. Anawak tacque e abbassò lo sguardo. Greywolf si alzò lentamente. Non sorrideva più e sembrava esausto. Andò verso la maschera e vi si fermò davanti. «Okay, forse sono un idiota», mormorò. «Non prendertela.» Anawak si passò una mano sugli occhi. «Siamo due idioti.» «Tu sei il più idiota dei due. Questa maschera arriva dal HuupaKanum del capo Jones. Tu non hai idea di cosa sia, vero? Te lo dico io. Il HuupaKanum è una scatola, dove si conservano maschere, ornamenti per la testa, oggetti cerimoniali e così via. Ma non è tutto. Nel HuupuKanum ci sono i diritti ereditati degli haiviih e dei chaachaabat, dei capi. L'HuupaKanum documenta il loro territorio, la loro identità storica, i loro diritti ereditari. Dice agli altri chi sei e da dove vieni.» Si voltò. «Uno come me non potrebbe mai entrare in possesso di un HuupaKanum. Tu sì. Tu potresti essere orgoglioso. Ma rinneghi quello che sei e le tue origini. Io devo portare la responsabilità del popolo cui sento di appartenere. Tu appartieni a un popolo, ma l'hai abbandonato! Mi accusi di non essere autentico. Non potrò mai esserlo, ma lotto per conquistarmi un pezzo di autenticità. Tu, invece, sei autentico, però non vuoi essere quello che sei, e non sei quello che vuoi essere. Hai detto che sembro uscito da un western di serie Z... È vero, ma almeno questa è la professione di un certo modo di vivere. Quando ti chiedono se sei un makah, tu sobbalzi.» «Come fai a saperlo...? Ah, certo. Alicia. È stata qui.» «Non rimproverarla», disse Greywolf. «A te non ha osato domandarlo una seconda volta.» «Cosa le hai raccontato?» «Non le ho raccontato niente, maledetto vigliacco che non sei altro. Vuoi venire a raccontare a me che cos'è la responsabilità? Vieni qui e osi spiattellarmi quelle idiozie sulla patria interiore, che non dipende dai genitori ma da noi stessi? Proprio tu? Leon, forse la mia vita sarà ridicola, ma tu... tu sei già morto.» Anawak rifletté. «Sì», disse poi lentamente. «Hai ragione.»
«Io ho ragione?» Anawak si alzò. «Sì. Ti ringrazio ancora per avermi salvato la vita. Hai ragione.» «Ehi, aspetta», Greywolf sbatteva le palpebre, nervoso. «Cosa... cos'hai intenzione di fare?» «Vado.» «Così? Hmm. Ma sì, Leon, io... Cioè, che tu sei già morto, io non... Maledizione, non volevo ferirti, io... Al diavolo, non stare lì in piedi, siediti.» «Perché?» «La tua... Coca-Cola! Non hai finito di berla.» Anawak sospirò, rassegnato. Si risedette, prese la lattina e bevve. Greywolf lo guardò, gli passò davanti e si lasciò di nuovo sprofondare sul sofà. «Com'è davvero la storia di quel bambino?» chiese Anawak. «Pare che tu gli sia proprio entrato nel cuore.» «Quello che abbiamo preso sulla nave?» «Sì.» «Cosa vuoi che sia? Aveva paura. Mi sono occupato di lui.» «Tutto lì?» «Certo.» Anawak sorrise. «A dire la verità, ho avuto l'impressione che tu volessi finire a ogni costo sui giornali.» Per un attimo, Greywolf sembrò seccato. Poi rispose al sorriso. «Certo che volevo finire sui giornali. Mi arrapa finire sui giornali. Qualcuno ci riesce, qualcun altro no.» «L''eroe di Tofino'.» «E allora? È fantastico! Persone assolutamente sconosciute mi hanno dato pacche sulle spalle. Non tutti possono far parlare di sé con esperimenti pionieristici sui mammiferi marini. Si prende quello che si può.» Anawak finì la sua bibita. «E come va la tua... ehm... organizzazione?» «La Seaguard?» «Sì.» «In malora. Dopo che metà dei membri ha perso la vita durante l'aggressione delle balene, l'altra metà si è dispersa al vento.» Greywolf aggrottò la fronte. Sembrava quasi che stesse ascoltando una voce dentro di sé. Poi tornò a posare lo sguardo su Anawak. «Leon, sai qual è il problema della nostra epoca? Gli uomini perdono importanza. Tutti sono sostituibili. Non ci sono più ideali e senza ideali non c'è nulla che ci possa rendere più
grandi di quello che siamo. Ciascuno cerca disperatamente la prova che il mondo senza di lui sarebbe un po' diverso. Io ho fatto qualcosa per quel bambino. Forse era una cosa priva di senso. Forse mi ha dato un po' d'importanza.» Anawak annuì lentamente. «Sì. Te l'ha data senz'altro.» Zona portuale, Vancouver Poche ore dopo la visita a Greywolf, Anawak guardava il molo alla luce del tramonto. Deserto. Come tutti i porti del mondo, anche quello di Vancouver era un cosmo autonomo di dimensioni enormi in cui sembrava non mancare nulla, se non la possibilità di orientarsi. Alle spalle di Anawak c'era il deposito dei container con le montagne spigolose delle casse dai colori irreali. Gru ferme si stagliavano contro il cielo blu argenteo della sera. I profili dei cargo per le automobili si delineavano come gigantesche scatole da scarpe. E poi navi portacontainer, cargo ed eleganti navi frigorifero bianche. Alla sua destra, si allineavano i magazzini. Un po' più avanti vedeva tubature che scorrevano l'una sull'altra, lamiere e parti di sistemi idraulici. Ancora più avanti iniziava la zona dei bacini di carenaggio e, oltre, c'era quella dei bacini galleggianti. La brezza portava fin là l'odore delle vernici. Evidentemente si stava avvicinando alla meta. Senza un'automobile, in quel luogo si era perduti. Anawak aveva dovuto chiedere ad alcune persone e per un bel pezzo aveva fatto domande vaghe, perché non riusciva a definire l'oggetto della sua ricerca. Gli avevano detto dove si trovavano i bacini galleggianti perché da lì doveva prendere le mosse per trovare quello che cercava. Nel porto di Vancouver c'erano bacini di tutte le dimensioni, compreso il secondo più grande bacino galleggiante del mondo, capace di sollevare oltre cinquantamila tonnellate. Ma, con sua grande sorpresa, quando le domande erano diventate più precise, Anawak era stato indirizzato al bacino di carenaggio, la darsena artificiale che veniva chiusa per mezzo di paratie prima che l'acqua fosse pompata fuori. Dopo aver sbagliato per due volte la strada, finalmente arrivò alla meta. Parcheggiò la macchina sotto un edificio molto alto, si mise in spalla la sacca sportiva strapiena e si mosse lungo la recinzione, finché non trovò una porta scorrevole leggermente aperta. Da lì scivolò all'interno.
Davanti a lui c'era un'area acciottolata, circondata da baracche. Subito dopo, sembrava che, dal terreno, salissero le sovrastrutture di una gigantesca nave. La Barrier Queen. Si trovava in un bacino lungo almeno duecentocinquanta metri. Ai lati si levavano gru su rotaie. La zona era illuminata da potenti riflettori. In giro non si vedeva nessuno. Mentre osservava attentamente lo spiazzo illuminato, Anawak si chiedeva se quello che si accingeva a fare non fosse inutile. La barca era in secca da settimane; probabilmente le incrostazioni erano state tolte e, con esse, tutto ciò che vi era nascosto dentro. Eventuali residui negli interstizi e nelle fessure dovevano essersi seccati ormai da tempo. Della cosa nascosta tra i mitili non era sicuramente rimasto nulla. In fondo, lui non sapeva cosa voleva ottenere dall'ispezione alla Barrier Queen. Era un tentativo fondato sulla fortuna, su una vaga speranza. Se avesse trovato qualcosa che potesse essere utile al laboratorio di Nanaimo, l'avrebbe preso con sé. Se invece non avesse trovato niente, avrebbe sacrificato una sera all'avventura. La «cosa» dello scafo. Era piccola, grande al massimo come una razza o una seppia. L'organismo aveva emesso una luce a lampi. Lo facevano molti abitanti del mare: cefalopodi, meduse, pesci degli abissi... Tuttavia Anawak era convinto di aver rivisto quel lampo quando aveva osservato con Ford le riprese dell'URA. La nuvola luminosa era molto più grande della «cosa», ma quello che era avvenuto al suo interno gli aveva ricordato in maniera sorprendente l'esperienza fatta sotto lo scafo della Barrier Queen. Se si trattava davvero della stessa forma di vita, allora la faccenda si faceva emozionante. Perché la sostanza nella testa delle balene, la materia sullo scafo della nave e l'essere che era fuggito sembravano identici. Le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere. Osservò lo spazio circostante con maggiore attenzione e, un po' in disparte, vide diversi fuoristrada parcheggiati davanti a una delle baracche. Le finestre erano illuminate. Rimase immobile. Erano veicoli militari. Che ci facevano lì i militari? Improvvisamente si rese conto che si trovava nel mezzo di uno spiazzo illuminato e si mise a correre, chino in avanti. Si fermò solo al bacino di carenaggio. Era così concentrato sulla presenza dei militari che, per qualche secondo, rimase a fissare il bacino senza rendersi conto di quello che vedeva. Poi spalancò gli occhi per la sorpresa. Dimenticò i veicoli e si avvicinò. Il bacino era pieno. La Barrier Queen non era in secca. Dove si sarebbe dovuta vedere la
nave sostenuta da impalcature, s'increspavano minuscole onde. Il livello dell'acqua era a otto-dieci metri dal fondo del bacino. Anawak si mise in ginocchio e fissò l'acqua nera. Perché l'avevano riempito? Avevano finito di riparare il timone? Ma allora avrebbero potuto portare fuori la Barrier Queen. Rifletté. E improvvisamente comprese. Per l'eccitazione, fece scivolare a terra la borsa così velocemente che provocò un gran rumore. Spaventato, guardò lungo il molo deserto. Il cielo si scuriva a vista d'occhio. Fasci luminosi rischiaravano il bacino con una fredda luce verdastra. Anawak si mise in ascolto, in attesa di sentire dei passi, ma udì solo i rumori della città, portati fin lì dal vento. Poi, scrutando il bacino pieno, fu assalito dai dubbi. A spingerlo fin lì era stata la rabbia scatenata dalla reticenza dell'unità di crisi, ma chi era lui per mettere in discussione quelle decisioni? Stava facendo un'azione da Rambo, probabilmente troppo grande per lui. Prima non ci aveva pensato. D'altra parte, ormai era lì. Cosa poteva mai succedere? Nel giro di venti minuti sarebbe sparito, portandosi appresso qualche informazione. Anawak aprì la sacca sportiva. C'era tutto. Non aveva escluso la possibilità di doversi immergere. Se la Barrier Queen fosse stata nel bacino galleggiante, sarebbe stato meglio avvicinarsi dal mare aperto. Ma lì era più facile. Era perfetto! Si liberò dei jeans e del resto del vestiario, prese la maschera, le piane, la torcia elettrica e un contenitore che si fissò ai fianchi. La custodia del coltello, legata a una gamba, completava l'attrezzatura. Non avrebbe avuto bisogno dell'ossigeno. Nascose la sacca sotto un blocco per gli ormeggi. Con l'equipaggiamento stretto sotto il braccio, si affrettò lungo il bacino, finché non raggiunse una scaletta che conduceva verso il basso. Lanciò un'ultima occhiata al molo. Le finestre della baracca erano sempre illuminate. Non si vedeva nessuno. Veloce e silenzioso, scese la scaletta, s'infilò maschera e pinne e si lasciò scivolare in acqua. Un freddo tagliente gli arrivò fin nelle ossa. Senza la tuta di neoprene doveva fare in fretta; a ogni buon conto, non aveva intenzione di restare a lungo sott'acqua. Con potenti colpi di pinna s'immerse e, con la torcia accesa, si diresse verso la carena. L'acqua era un po' meno torbida rispetto alla precedente immersione nel bacino del porto e lui vedeva chiaramente davanti a sé lo scafo d'acciaio. La luce della lampada faceva risplendere la
vernice rossa. Passò le dita sulla superficie, si bloccò per un attimo, si staccò e riprese a nuotare. Solo pochi metri più avanti, la parete spariva sotto una spessa incrostazione di cozze. Affascinato, continuò a nuotare. La carena era incrostata esattamente come prima. Dopo aver percorso circa la metà della distanza dalla prua, gli sembrò addirittura che le incrostazioni fossero aumentate. Allora non le avevano staccate! Avevano studiato il materiale e quello che poteva nascondersi dentro direttamente sulla nave. Ecco perché la Barrier Queen si trovava nel bacino di carenaggio: a differenza del bacino galleggiante, in caso di emergenza esso poteva essere chiuso ermeticamente, in modo che nulla finisse in mare. La Barrier Queen era stata trasformata in un laboratorio. E avevano riempito il bacino affinché quello che c'era attaccato e ciò che ci viveva dentro rimanesse in vita. Improvvisamente Anawak comprese anche il motivo dei veicoli militari. Se Nanaimo, come istituto civile, era stato tagliato fuori, ciò significava una cosa sola. L'esercito aveva avocato a sé le ricerche. Tutto il resto procedeva a porte chiuse. Anawak esitò, di nuovo assalito dai dubbi. Era ancora in tempo per lasciar perdere. Poi scacciò quel pensiero. Non gli sarebbe servito molto tempo. Estrasse velocemente il coltello e cominciò a staccare alcune cozze. Faceva attenzione a non danneggiarle: toglieva gli animali passando con cautela la lama sotto il bisso filamentoso e li staccava con un colpo deciso. Concentrato e sistematico. Nel suo contenitore, finivano un mitilo dopo l'altro. Bene. Sue gli avrebbe gettato le braccia al collo. Il bisogno di respirare divenne opprimente. Anawak rinfoderò il coltello e riemerse per prendere fiato. Nei suoi polmoni penetrò il freddo. Sopra di lui si levava lo scafo, ritto e scuro. Respirò diverse volte profondamente. Doveva cercare un punto simile a quello da cui si era scagliata contro di lui quella cosa lampeggiante. Forse quell'essere si nascondeva ancora tra le incrostazioni. Stavolta sarebbe stato pronto. Mentre si stava preparando a immergersi, sentì alcuni passi leggeri. Si voltò, sbirciando oltre il bordo del bacino. Due figure lo stavano percorrendo ed erano a metà strada tra due lampioni. Guardavano in basso. Senza far rumore, si lasciò sprofondare sotto la superficie dell'acqua. Probabilmente erano guardiani. O lavoratori che avevano fatto tardi. Sicuramente c'erano molte persone con un buon motivo per passare di lì a quel-
l'ora. Avrebbe dovuto fare molta attenzione nel lasciare il bacino. Poi gli venne in mente che, sebbene lui fosse sott'acqua, la luce della torcia rimaneva visibile. La spense. Fu circondato dall'oscurità. Che stupido. Da che parte stavano andando quei due? Verso poppa... Forse poteva nuotare verso la prua e riprendere le ricerche da lì. Si mise in movimento con colpi regolari di pinna. Dopo un po' riemerse, si girò sulla schiena, respirò con lo sguardo indirizzato al muro della banchina, ma non vide nessuno. All'altezza dell'ancora, si lasciò di nuovo sprofondare e toccò prudentemente la parete. Anche lì i mitili formavano bizzarre incrostazioni. Cercava una fessura o una grande cavità, ma non trovò nulla del genere. L'ideale sarebbe stato prenderne altri e poi sparire velocemente. A causa della fretta, staccò gli animali con minor cura. Le mani gli tremavano. Si rese conto che il suo era un piano da dilettante. Aveva un freddo terribile e la punta delle dita era quasi insensibile. La punta delle dita... Improvvisamente si rese conto che riusciva a vederla. Si guardò. Scorgeva anche le braccia e le gambe. Splendevano... No, era l'acqua che aveva iniziato a risplendere. Era fluorescente, di un colore blu scuro. Mio Dio, pensò. Un attimo dopo, venne abbagliato da una luce violenta e, d'istinto, sollevò le braccia per proteggersi gli occhi. Lampi di luce. La nuvola. Che cosa stava succedendo? Perché era andato lì? Ma non erano lampi. La luce violenta aveva un'intensità costante. Anawak si rese conto che era illuminato da un proiettore subacqueo. Altri riflettori si erano accesi lungo la soletta del bacino e rischiaravano lo scafo della Barrier Queen. Vide chiaramente l'incrostazione solcata e ondulata dei mitili e rabbrividì. I fari si erano accesi per lui. L'avevano scoperto! Per un attimo non seppe cosa fare. Ma c'era solo una strada. Doveva andare verso poppa, raggiungere la scaletta e risalire nel punto in cui aveva lasciato la sacca. Col cuore martellante, passò in fretta davanti alle luci violente. Sentiva l'acqua scrosciargli nelle orecchie. Cominciava a mancargli l'aria, ma non voleva riemergere prima di aver raggiunto la scala. Eccola, saliva a zig-zag lungo la soletta del bacino. Afferrò la ringhiera e si tirò su. Dall'alto sentì arrivare ordini impartiti ad alta voce e uno scalpiccio di piedi in corsa. In fretta si tolse la maschera e
le pinne, attaccò la torcia alla cintura e scivolò verso l'alto finché non riuscì a vedere oltre il bordo. I fucili erano puntati su di lui. Nella baracca diedero ad Anawak una coperta. Aveva cercato di spiegare ai soldati che era uno scienziato membro dell'unità di crisi, ma non gli avevano dato retta. Il loro compito era tenerlo prigioniero. Dato che non aveva opposto resistenza né cercato di fuggire, l'avevano portato nella baracca, dove c'erano un sacco di soldati e un ufficiale di servizio che lo stava tormentando con una raffica di domande. Anawak sapeva che non aveva senso inventarsi una storia. Non l'avrebbero comunque lasciato andare. Così raccontò chi era e perché era là. In breve, raccontò la verità. L'ufficiale lo ascoltò, pensieroso. «Può dimostrarlo?» chiese. Anawak scosse la testa. «I miei documenti sono nella sacca, là fuori. Potrei andarla a prendere.» «Ci dica dov'è.» Spiegò ai soldati dove aveva nascosto la sacca. Cinque minuti dopo, l'ufficiale aveva in mano i suoi documenti e li osservava con attenzione. «Se i suoi documenti non sono falsi, lei si chiama Leon Anawak, residente a Vancouver...» «Non ho fatto altro che ripeterlo.» «Dovrà spiegare molte cose. Vuole un caffè? Mi sembra infreddolito.» «Sono parecchio infreddolito.» L'ufficiale si alzò dalla scrivania, andò al distributore automatico e schiacciò un tasto. Uscì un bicchiere di plastica che si riempì di un liquido fumante. Anawak bevve a piccoli sorsi e sentì entrare un po' di calore nel corpo intirizzito. «Non so se credere alla sua storia», disse l'ufficiale, mentre gli girava lentamente intorno. «Se appartiene davvero all'unità di crisi, perché non ha fatto una richiesta ufficiale?» «Lo chieda ai suoi superiori. Sono settimane che cerco di prendere contatto con la Inglewood.» L'ufficiale aggrottò la fronte. «Lei è un collaboratore indipendente?» «Sì.» «Capisco.» Anawak si guardò intorno. Ipotizzò che la stanza ammobiliata con sedie di resopal e tavoli consunti fosse la sala per la pausa pranzo dei lavoratori del bacino, trasformata in una centrale operativa provvisoria. Aveva com-
pletamente sbagliato a valutare la situazione. «E ora?» chiese. «Ora?» L'ufficiale gli si sedette di fronte e intrecciò le dita. «Per prima cosa devo pregarla di restare qui. Il caso non è così semplice. Lei si trova in una zona militare.» «Non ci sono cartelli, se mi permette di farglielo notare.» «Non c'è neppure un cartello che autorizzi a entrare, dottor Anawak.» Anawak annuì. Di che poteva lamentarsi? Era stata un'idea balorda. O forse no... Perlomeno adesso sapeva che l'esercito si stava occupando della cosa, che stava studiando gli organismi sullo scafo e che li teneva in vita. Era poco probabile che i mitili raccolti per Sue Oliviera raggiungessero Nanaimo, almeno finché i capi continuavano a fare ostruzionismo. L'ufficiale prese la radio dalla cintura e parlò brevemente con qualcuno. «Lei è davvero fortunato», disse poi. «Verrà qualcuno che si occuperà di lei.» «Perché non prende i miei dati e mi lascia andare?» «Non è così semplice.» «Non ho fatto niente d'illegale», disse Anawak. Ma non suonava molto convincente neppure alle sue orecchie. L'ufficiale sorrise. «Le leggi sulla violazione di domicilio valgono anche per i membri delle unità di crisi. Sulla base del diritto civile.» Poi se ne andò, lasciando Anawak coi soldati. Non gli parlavano, ma lo tenevano d'occhio. Perlomeno il caffè era riuscito a scaldarlo... quello e la rabbia per aver mandato tutto all'aria. Si era dimostrato un perfetto idiota. L'unica consolazione era la prospettiva di ottenere qualche informazione da chi doveva «occuparsi» di lui. Attese mezz'ora senza fare assolutamente nulla. Poi sentì un elicottero avvicinarsi. Voltando la testa, sbirciò attraverso la finestra che dava sul bacino portuale. Un fascio luminoso entrò nella baracca e un potente proiettore scivolò sull'acqua. Poco dopo, quando l'elicottero sorvolò l'edificio e si abbassò, il rumore dei rotori si fece assordante. Il rombo si trasformò poi in un battito ritmico. L'elicottero era atterrato. Anawak sospirò. Adesso avrebbe dovuto raccontare tutto una seconda volta. Chi era? Che cosa stava cercando? Sentì dei passi avvicinarsi e frammenti di conversazione. Entrarono due soldati. Dietro di loro, c'era l'ufficiale, che annunciò: «Ci sono visite per lei, dottor Anawak». Poi fece un passo di lato e la silhouette di un'altra persona comparve nel riquadro illuminato della porta. Anawak la riconobbe subito. Rimase ferma
per un attimo come se volesse osservare all'intorno, quindi si avvicinò lentamente finché non gli fu proprio davanti. Anawak la guardò negli occhi. Due acquamarine in un viso asiatico. «Buonasera», disse lei con voce bassa e raffinata. Era il generale comandante Judith Li. 3 maggio Thorvaldson, scarpata continentale norvegese Clifford Stone era nato ad Aberdeen, in Scozia, secondo di tre figli. Fin dai primi anni di vita, gli era andato tutto male. Era piccolo, mingherlino e animato da una cattiveria che non aveva nulla d'infantile. La sua famiglia lo trattava con distacco, come se fosse una disgrazia, un contrattempo penoso che, se ignorato, sarebbe diventato meno gravoso da sopportare. Clifford non doveva portare la responsabilità del primogenito e non era coccolato come la sorella minore. Non si poteva dire che fosse maltrattato, perché in fondo non gli mancava nulla. Tranne il calore delle attenzioni. Non aveva mai provato la sensazione di eccellere in qualcosa. Da bambino non aveva amici e, intorno ai diciotto anni, aveva cominciato a perdere i capelli. Nessuno sembrava interessato alla possibilità che lui si diplomasse brillantemente. Il suo professore gli aveva comunicato il risultato finale con una certa sorpresa, come se si fosse accorto soltanto allora di quel ragazzo insignificante, con gli occhi neri così penetranti. Ma era un ottimo risultato, così il professore gli aveva fatto un cenno gentile col capo, gli aveva sorriso e nello stesso istante si era dimenticato quel viso magro. Stone aveva studiato ingegneria, rivelandosi molto portato per quella materia. Finalmente - e all'improvviso - aveva ottenuto quel riconoscimento cui aveva sempre ambito. Ma esso era rimasto confinato nell'ambito della sua vita professionale. Lo Stone privato era pressoché inesistente e non tanto perché nessuno volesse avere rapporti con lui, quanto perché lui stesso non si concedeva una vita privata. Il semplice pensiero di una vita privata gli faceva paura, significava ricadere nella mancanza di considerazione da parte degli altri. L'ingegnere Clifford Stone, con la sua intelligenza brillante, faceva carriera alla Statoil, ma disprezzava per le sue paure l'uomo calvo che la sera tornava a casa da solo, finché arrivò a togliergli ogni
diritto all'esistenza. Il colosso petrolifero era diventato la sua vita, la sua famiglia, la sua ragion d'essere, perché dava a Stone qualcosa che, a casa, lui non aveva mai provato. La sensazione di essere davanti agli altri. Di essere il primo. Era una sensazione nel contempo inebriante e angosciosa, un inseguimento continuo. Col passare del tempo, Stone aveva cominciato a nutrire una vera ossessione per la supremazia assoluta, benché nessun successo lo appagasse veramente, dato che non avrebbe saputo come e con chi festeggiare i trionfi. Quando raggiungeva una meta, era incapace di fermarsi anche solo per un attimo. Andava avanti come un ossesso. Fermarsi un attimo, probabilmente, avrebbe significato gettare uno sguardo a un ragazzo magro, dai lineamenti straordinariamente adulti; un ragazzo ignorato tanto a lungo che, alla fine, aveva iniziato a ignorare se stesso. E non c'era nulla che Stone temesse più di quegli esigenti occhi neri. Alcuni anni prima, la Statoil aveva creato un settore che doveva occuparsi della sperimentazione di nuove tecnologie. Stone si era reso immediatamente conto delle possibilità insite nell'imminente messa in opera di stazioni automatizzate per l'estrazione. Dopo aver sottoposto ai vertici dell'azienda una serie di proposte, gli era stata affidata la costruzione di una stazione, ideata dalla rinomata industria tecnologica FMC Kongsberg. In quel periodo, le stazioni sottomarine non erano una novità, ma il prototipo Kongsberg proponeva un sistema totalmente innovativo, economico e in grado di rivoluzionare le estrazioni offshore. Il governo ne era a conoscenza e approvava la costruzione, ma non in via ufficiale. E Stone sapeva che l'installazione era stata affrettata. Si temeva che associazioni come Greenpeace, se avessero saputo dell'esistenza di quella stazione, avrebbero richiesto una serie di test supplementari che si sarebbero protratti per mesi, se non per anni. La diffidenza era comprensibile; l'estrazione del petrolio era pur sempre ai primissimi posti nella statistica degli errori umani e delle scelte moralmente discutibili. Nessun groviglio d'interessi tra quelli che percorrevano il pianeta teneva gli ambientalisti col fiato sospeso quanto i cosiddetti interessi vitali dell'industria degli oli minerali. Così l'installazione era rimasta un segreto. Anche quando la Kongsberg aveva pubblicato il progetto su Internet, non aveva detto che la Statoil l'aveva già messo in attività. Laggiù negli abissi lavorava un fantasma che non toglieva il sonno ai suoi costruttori soltanto perché funzionava in automatico. Stone non aspettava altro. Dopo infinite serie di test, si era convinto di aver escluso ogni rischio. A che cosa sarebbero serviti ulteriori esperimen-
ti? I risultati ottenuti avrebbero soddisfatto anche la tipica insicurezza che lui credeva di scorgere nei colossi industriali a conduzione statale e che disprezzava. C'erano inoltre due fattori che escludevano ogni dilazione. Il primo era l'aumento delle possibilità di Stone di entrare, in quanto precursore tecnologico, negli spaziosi uffici del management board. Il secondo era che la guerra del petrolio, nonostante la strumentalizzazione della politica internazionale e gli attacchi armati per il controllo di Stati sovrani, minacciava di risolversi in una sconfitta per tutte le parti in gioco. In fondo, il problema non era prevedere quando sarebbe uscita l'ultima goccia di petrolio, ma quando l'estrazione non sarebbe più stata economicamente vantaggiosa. Il tipico sviluppo della resa di un giacimento seguiva le leggi della fisica. Dopo la prima perforazione, il petrolio veniva spinto fuori dalla pressione e spesso zampillava per decenni. Col tempo, però, la pressione si riduceva. Sembrava che la terra non volesse più dare il petrolio, che lo trattenesse in minuscoli pori con una pressione capillare. In tal modo, ciò che all'inizio usciva spontaneamente, ora doveva essere estratto con grande spesa. Costava un capitale. La quantità estratta diminuiva rapidamente molto prima che il giacimento fosse esaurito. Sottoterra poteva esserci ancora petrolio, ma, se estrarlo richiedeva più energia di quanta ne procurasse, allora era meglio lasciarlo dov'era. Era quello il motivo per cui gli esperti dell'energia, alla fine del Secondo Millennio, si erano così clamorosamente sbagliati, affermando che le riserve fossili erano assicurate per decenni. In teoria avevano ragione. La terra era imbevuta di petrolio, ma o non si poteva raggiungere o non c'era proporzione tra le spese e i ricavi. Questo dilemma, all'inizio del Terzo Millennio, aveva portato a una situazione inquietante. L'OPEC, che negli anni '80 era stata considerata morta e sepolta, festeggiava una rinascita da zombie. Non perché avesse sciolto il dilemma, ma semplicemente perché disponeva delle riserve maggiori. Ai Paesi del mare del Nord, che non volevano farsi imporre il prezzo dall'OPEC, restava solo la possibilità di abbassare drasticamente i costi, sfruttando gli abissi marini con stazioni totalmente automatizzate. L'interesse per le profondità abissali doveva però fare i conti con una serie di problemi, a partire dalle condizioni estreme di pressione e temperatura. Per chi fosse riuscito a risolverli, tuttavia, si sarebbero spalancate le porte di un secondo Eldorado. Non in eterno, è vero, ma sufficientemente a lungo per un settore che viveva grazie a un mondo disperatamente dipendente da petrolio e gas.
Stone, la cui vita era determinata dal desiderio di arrivare primo, aveva preparato una perizia, forzato i tempi per lo sviluppo del prototipo e consigliato la costruzione. La Statoil lo aveva assecondato. D'improvviso, il suo spazio d'azione e il suo credito erano aumentati enormemente. Lui curava in modo esemplare i contatti con le società incaricate dello sviluppo del progetto e otteneva la precedenza assoluta per i desideri e le esigenze della Statoil. Ma era sempre perfettamente consapevole di camminare sul filo del rasoio. Finché non ci fossero state critiche sull'attività del colosso industriale, il consiglio di amministrazione avrebbe visto Stone come un vero conquistatore. Tuttavia, se si fossero dovuti presentare all'opinione pubblica per spiegare situazioni di emergenza, senza dubbio l'avrebbero mollato. L'uomo migliore era sempre il miglior capro espiatorio. Stone sapeva che doveva riuscire a ottenere un posto nel consiglio di amministrazione prima che a qualcuno venisse in mente di sacrificarlo. Bastava che il suo nome fosse collegato una volta soltanto alle idee d'innovazione e di profitto e tutte le porte si sarebbero spalancate. A lui sarebbe bastato scegliere in quale compiacersi di entrare. Almeno aveva immaginato la faccenda in questi termini. E adesso stava su quella maledetta nave. Non sapeva con chi prendersela: con Skaugen che l'aveva tradito o con se stesso? Non rientrava tutto nelle regole del gioco che ben conosceva? Perché si agitava? Era accaduto. Lo scenario peggiore era diventato realtà. Tutti si mettevano al sicuro. Skaugen sapeva che prima o poi i disastrosi avvenimenti sulla scarpata continentale sarebbero arrivati all'opinione pubblica. Se non si voleva rischiare di fare una pessima figura, nessuno poteva rimanere in silenzio ancora a lungo. Il sondaggio fatto dalla Statoil tra le altre industrie petrolifere aveva avviato un processo che non si poteva più fermare. Tutti erano sotto pressione. Con la minaccia di una catastrofe ambientale, gli accordi segreti non erano più possibili. Ormai si trattava unicamente di vedere chi, in quella situazione, se la sarebbe cavata con un'elegante virata e chi sarebbe stato abbattuto. Stone schiumava di rabbia. Skaugen che recitava la parte della brava persona gli faceva venire il vomito. Finn Skaugen era il peggiore di tutti. Il suo gioco era di gran lunga più perfido di quello che lui avrebbe potuto concepire, anche nel suo momento più nero. Che cos'era successo? Naturalmente Stone aveva agito con ampi margini di manovra, ma perché aveva potuto farlo? Perché gli avevano concesso quegli spazi! Pazzesco! E lui non li aveva neppure sfruttati appieno. Un verme sconosciuto, e allora?
Ovviamente aveva «dimenticato» quella perizia idiota. Nessun verme aveva mai rappresentato un pericolo per i viaggi via mare e per le piattaforme di produzione. Migliaia di navi passavano ogni giorno in mezzo a minuscoli esseri viventi. Restavano forse in porto a causa di una nuova specie di granchio? Di nuove specie se ne scoprivano in continuazione. Poi c'era la faccenda degli idrati. Da morire dal ridere. Le fuoriuscite di gas erano sotto controllo. Ma cosa sarebbe successo se avesse divulgato quelle perizie? Maledetti burocrati, che razzolavano in tutto ciò che doveva essere servito caldo finché non lo trasformavano in una poltiglia fredda. Avrebbero ritardato la costruzione, senza motivo, assolutamente senza motivo. La colpa è del sistema, pensò Stone, livido. E anzitutto di Skaugen. Ma anche di quella marmaglia del consiglio di amministrazione, che dava pacche sulle spalle sorridendo e diceva: 'Fantastico, ragazzo, va' avanti così, ma non farti beccare, perché noi non c'entriamo niente...' e infine aveva scaricato tutta la responsabilità su di lui. Poi c'era Tina. Pure lei era colpevole: aveva tramato con Skaugen per prendere il suo posto, probabilmente si faceva scopare da quel bastardo! Sì, doveva essere così. Avrebbe scopato anche con lui? Maledetta puttana. Si era persino umiliato a ringraziarla, perché quella stupida vacca aveva intercesso per lui, e Skaugen gli aveva dato la possibilità di ritrovare la stazione scomparsa. Ma quell'offerta aveva un significato evidente. Non era una possibilità, ma una trappola. Tutti. Tutti l'avevano tradito! Ma gliel'avrebbe fatta vedere lui. Clifford Stone non era ancora liquidato. Qualunque cosa fosse successa alla stazione, lui l'avrebbe scoperto e l'avrebbe rimessa a posto. Soltanto allora si sarebbe visto chi aveva fatto le scarpe all'altro. Lui sarebbe andato sino in fondo. Personalmente! Nel frattempo, la Thorvaldson aveva scandagliato col sonar il luogo in cui si doveva trovare la stazione, ma invano. Sembrava che la morfologia del fondale si fosse trasformata, rivelando una fossa che, fino a pochi giorni prima, non c'era. Stone non poteva negare che, al pensiero di quella fossa, gli veniva la tremarella, non diversamente dall'equipaggio e dall'équipe tecnica. Ma rimosse la paura. Pensò solo al viaggio sottomarino e al fatto che, alla fine, avrebbe squarciato il velo di mistero. Clifford Stone, l'impavido. Un uomo d'azione! Sul ponte di poppa della Thorvaldson, il batiscafo attendeva di portarlo a
novecento metri di profondità. Prima, tuttavia, avrebbero dovuto mandare in ricognizione il robot, come avevano caldamente consigliato JeanJacques Alban e tutti gli altri a bordo. Victor aveva ottime telecamere, un braccio prensile assai sensibile e gli strumenti necessari per una rapida acquisizione dei dati. Ma se Stone fosse andato di persona, avrebbe fatto più impressione. Alla Statoil avrebbero capito che Clifford Stone non era un amico a mezzo servizio. Inoltre lui non condivideva il punto di vista di Alban. Sulla Sonne aveva parlato con Gerhard Bohrmann dei viaggi in batiscafo. Bohrmann si era immerso col leggendario Alvin al largo dell'Oregon. Mentre lo raccontava, i suoi occhi avevano assunto un'aria trasognata. Aveva detto: «Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti. Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità... Non pensavo fosse così. Non c'è paragone». Aveva anche detto che nessun organo di senso artificiale e nessuna acquisizione mediata avrebbe potuto sostituire quell'esperienza. Stone sorrise, cupo. Stavolta era il suo turno. Si era mosso con intelligenza. Grazie ai suoi ottimi contatti era riuscito a procurare il batiscafo. Si trattava di un DR 1002, un Deep Rover dell'americana Deep Ocean Engineering, uno dei modelli di nuova generazione, piccolo e maneggevole. Sullo scafo, da cui partivano due braccia prensili snodate, c'era una sfera completamente trasparente. All'interno si vedevano due sedili, apparentemente comodi, con a fianco tutti gli strumenti di controllo. Quando si avvicinò al Deep Rover, Stone si mostrò molto soddisfatto della scelta. Il batiscafo era legato alla gomena del braccio della gru e sollevato in modo che ci si potesse infilare dalla botola sul pavimento. Il pilota, un uomo tarchiato, ex aviatore della Marina, che tutti chiamavano semplicemente Eddie, era già all'interno e controllava gli strumenti. Come al solito, prima che un batiscafo s'immergesse, il ponte di poppa formicolava di marinai, tecnici e scienziati. Stone si guardò intorno, scorse Alban e gli fece un fischio. «Dov'è il fotografo?» gli gridò. «E il tipo con la telecamera?» «Non ne ho idea», rispose Alban mentre si avvicinava. «Il cameraman l'ho visto poco fa bighellonare da qualche parte.» «Allora dovrebbe farmi il piacere di bighellonare da queste parti», sbuffò Stone. «Non c'immergiamo senza aver documentato tutto.» Alban aggrottò la fronte e guardò verso il mare. La giornata era nebbiosa, con una pessima visuale. «Puzza», disse. Stone scrollò le spalle. «È per il metano.»
«Peggiorerà.» In effetti sul mare aleggiava un odore ripugnante. Se in superficie c'era un simile odore, voleva dire che in profondità doveva esserci moltissimo metano libero. Avevano visto tutti che cos'era successo alla scarpata continentale, avevano visto i vermi e le bolle che risalivano. Nessuno poteva o voleva farsi un'idea di come sarebbe finito quel processo, ma di certo, se tutto il mare puzzava come se fosse esploso un intero carico di bombe puzzolenti, non era un buon segnale. «Tornerà tutto calmo», disse Stone. Alban lo guardò. «Ascolti, Stone, al suo posto lascerei perdere.» «Che cosa?» «L'immersione.» «Ah, sciocchezze! Dov'è quel maledetto fotografo?» «È troppo rischioso.» «Sciocchezze.» «Inoltre il barometro sta scendendo. Precipita. Avremo tempesta.» «La tempesta è insignificante per un batiscafo, devo spiegarle anche questo? C'immergiamo e basta.» «Stone, lei è un idiota! Perché lo fa?» «Perché così potremo avere un quadro più chiaro in breve tempo», lo catechizzò Stone. «Santo cielo, Jean, non sia così fifone. Nulla riuscirà a rompere quello scafo e di certo non ci riusciranno un po' di vermi. Può raggiungere chilometri di profondità...» «A quattromila metri l'involucro collassa», lo informò Alban in tono secco. «E l'imbarcazione è certificata fino a mille.» «Lo so anch'io, e allora? Vogliamo scendere a novecento metri, chi ha mai parlato di quattromila? Cosa può succedere?» «Non lo so. So soltanto che il fondale sotto di noi è cambiato e che nelle colonne d'acqua c'è sempre più gas. Il sonar non riesce a localizzare la stazione e non sappiamo perché.» «Forse c'è stato uno smottamento. O una frana. Nel peggiore dei casi, la nostra stazione è sprofondata un po'. Cose che capitano.» «Sì. Forse.» «Allora, qual è il problema?» «Il problema è che un robot potrebbe fare la stessa cosa», sbottò Alban. «Ma lei vuole assolutamente giocare all'eroe.» Stone indicò con due dita i propri occhi. «Con questi posso valutare molto meglio la situazione. Capisce? Direttamente sul luogo. Così si risol-
vono i problemi: si va e li si affronta.» «Va bene. Okay.» «Allora, quando c'immergiamo?» Stone guardò l'orologio. «Ah, tra mezz'ora. No, tra venti minuti. Fantastico.» Fece un cenno a Eddie all'interno del batiscafo. Il pilota sollevò la mano, poi tornò a dedicarsi alla console. Stone sorrise. «Cosa vuole di più? Abbiamo il miglior pilota che ci sia in circolazione. E, in caso di necessità, quell'affare lo so guidare anch'io.» Alban rimase in silenzio. «Allora è tutto chiaro. Bene. Voglio guardare ancora una volta il piano d'immersione. Per qualsiasi evenienza, sono nella mia cabina. E per favore, Jean, vada a prendere quei maledetti uomini per le riprese. Li porti qui, a meno che non siano caduti in mare.» Trondheim, Norvegia «Dopobarba», borbottò Johanson. Era possibile che avesse finito il dopobarba? No, impossibile. Lui era Sigur Johanson, il magazziniere delle cose belle. Vino e cosmetici non finivano così, come se niente fosse. Da qualche parte doveva avere ancora una boccetta di Kiton eau de toilette. Impaziente tornò in bagno e rovistò nell'armadietto a specchi. Doveva uscire di casa in fretta, perché l'elicottero lo aspettava sullo spiazzo del centro di ricerca, per portarlo all'incontro con Kaxen Weaver. Ma per lui, che dava importanza al suo aspetto accuratamente trasandato, preparare la valigia era un compito ben più difficile che per qualunque altro essere umano. Una persona normale non si perdeva in astrusità come scegliere con accuratezza il colore sbagliato della giacca. Trovò il dopobarba dietro due barattoli di gel per capelli. Mise la boccetta nel nécessaire, che schiacciò nella borsa da viaggio tra un volume di poesie di Walt Whitman e un libro sul Porto e chiuse la cerniera. Era una borsa in stile bagaglio a mano, d'obbligo per i nobili londinesi durante i party in campagna all'inizio del XIX secolo. I passanti di pelle erano cuciti a mano e il fatto che la maniglia fosse un po' consumata trovava la piena approvazione di Johanson. Il quinto giorno! Aveva messo in borsa il CD? Ne aveva copiato uno coi dati che documentavano la sua straordinaria teoria della regia superiore? Forse si sareb-
be presentata l'occasione di parlarne con la giornalista. Controllò ancora una volta. C'era, ricoperto da camicie e calzini. Con passi elastici lasciò la sua casa in via Kirkegata e salì sul fuoristrada. Per qualche motivo si sentiva su di giri, pieno di una voglia di fare quasi isterica. Prima di accendere il motore, dedicò ancora uno sguardo alla facciata della sua casa. Prese la chiave tra il pollice e l'indice della mano destra e fece per infilarla nel quadro. D'un tratto capì che cosa lo assillava. Cercò di scacciare il pensiero. Azione contro riflessione. Fischiare nella foresta. Trallallì, trallallà... Su Trondheim si stendeva una nebbia umida che sfumava tutti i contorni. Anche la sua casa, dall'altra parte della strada, sembrava più scialba del solito. Quasi un dipinto. Cosa succede alle cose che si amano? Perché era rimasto per ore davanti ai quadri di Van Gogh e aveva sentito dentro di sé una pace come se non fossero stati dipinti da un paranoico disperato, ma da un uomo assolutamente felice? Perché nulla poteva distruggere l'immagine. Naturalmente un quadro poteva essere distrutto. Ma, finché esisteva, l'immagine racchiusa nei colori a olio era assoluta. I girasoli non sarebbero mai appassiti. Sul ponte di Langlois, presso Arles, non sarebbero mai cadute le bombe. Nulla poteva togliere a un dipinto la sua bellezza. Anche se ci si spennellava sopra, l'originale, per quanto nascosto, esisteva ancora. Quello che era orribile restava orribile, quello che era bello non avrebbe mai perso la propria bellezza. Anche il ritratto dell'uomo coi lineamenti scavati e la benda bianca all'orecchio, che guardava l'osservatore coi suoi occhi profondi, possedeva una certa rassicurante fiducia, perché lui, almeno nel quadro, non poteva diventare ancora più infelice, non poteva invecchiare. Impersonava un momento fissato in eterno. Aveva vinto. Alla fine, aveva trionfato sugli aguzzini e sugli ignoranti, se ne era sbarazzato con la forza del suo pennello e del suo genio. Johanson osservava la casa. Perché non può restare così? pensò. Se solo fosse un quadro e nel quadro ci fossi anch'io... Ma lui non viveva in un quadro, non abitava in una galleria in cui poter passare in rassegna le scene della sua vita. La casa al lago... Quella sì, che avrebbe potuto essere un quadro fantastico, con a fianco il quadro della
donna da cui aveva divorziato e quelli delle donne che aveva conosciuto, di qualcuno dei suoi amici e naturalmente uno di Tina. Anche mano nella mano con Kare. Sì, perché no? Un quadro in cui Tina trovasse la pace, per sempre. Le avrebbe invidiato la pace e la serenità d'animo. Di colpo lo assalì una cupa ansia da abbandono. Là fuori il mondo cambia, pensò. Si unisce contro di noi. È stato deciso in un luogo segreto, e noi non c'eravamo. Gli uomini non c'erano. Una casa così bella, così tranquilla... Accese il motore e partì. Kiel, Germania Erwin Suess entrò insieme con Yvonne Mirbach nell'ufficio di Bohrmann. «Chiama Johanson», disse. «Subito!» Bohrmann sollevò la testa. Conosceva il direttore del Geomar da tempo sufficiente per capire che doveva essere successo qualcosa di eccezionale. Qualcosa che aveva sconvolto profondamente Suess. «Che cos'è successo?» chiese, benché intuisse la risposta. Yvonne Mirbach prese una sedia e si accomodò. «Abbiamo fatto elaborare al computer tutti gli scenari. Il collasso avverrà prima di quanto pensassimo.» Bohrmann aggrottò la fronte. «L'ultima volta non eravamo sicuri che si sarebbe arrivati a un collasso.» «Invece temo di sì», disse Suess. «Il consorzio di batteri?» «Sì.» Bohrmann si appoggiò allo schienale e sentì la fronte ricoprirsi di un sudore freddo. Non può essere, pensò. Sono solo batteri, microscopici esseri viventi. Si ritrovava a fare pensieri da bambino. Com'è possibile che qualcosa di così piccolo distrugga uno strato di ghiaccio spesso oltre cento metri? Non può essere. Cosa può fare un microbo a migliaia di chilometri quadrati di fondali marini? Non è immaginabile. Non è realistico. Non può succedere. Sapevano poco dei consorzi. Però, negli abissi, microrganismi di diverse specie si erano riuniti in un sistema simbiotico. I solfobatteri si erano alleati con gli archaea, unicellulari primigeni, una delle più antiche forme di vita. La simbiosi funzionava con grande successo. Solo pochi anni prima, erano stati scoperti i primi consorzi sulla superficie degli idrati di metano. I solfobatteri assimilavano con l'aiuto dell'ossigeno quello che ri-
cevevano dagli archaea, cioè idrogeno, biossido di carbonio e diversi idrocarburi. Infatti gli archaea eliminavano quelle sostanze dopo aver gustato il loro cibo preferito. Il metano. In un certo senso, anche i solfobatteri vivevano di metano, ma non direttamente. Infatti, la maggior parte del metano si trovava in sedimenti privi di ossigeno ed essi non potevano vivere senza ossigeno. Ma gli archaea sì. Erano in grado di raggiungere il metano senza bisogno di ossigeno anche a chilometri di profondità sotto la superficie terrestre. Si valutava che ogni anno trasformassero trecento milioni di tonnellate di metano marino, probabilmente a tutto vantaggio del clima terrestre, perché il metano scisso non entrava nell'atmosfera come gas serra. Da quel punto di vista erano quasi una sorta di polizia ambientale. Perlomeno finché si distribuivano su ampie superfici. Ma vivevano anche in simbiosi coi vermi. E quegli strani vermi, con le loro mostruose mandibole, ospitavano miriadi di consorzi di solfobatteri e archaea, sia dentro sia sopra di loro. A ogni metro che scavavano negli idrati, i vermi portavano i microrganismi sempre più in profondità, e quelli cominciavano a distruggere il ghiaccio dall'interno. Come un cancro. A un certo punto, i vermi e i solfobatteri morivano, ma gli archaea continuavano impassibili a divorare il ghiaccio, fino ad arrivare al gas libero. Trasformavano quella che una volta era la massa compatta degli idrati in una massa porosa e friabile, e il gas usciva. I vermi non possono destabilizzare gli idrati. Bohrmann si sentiva pronunciare quelle parole. Vero. Ma quello non era compito loro. I vermi avevano solo lo scopo di portare all'interno del ghiaccio il loro carico di archaea. Come degli autobus: idrati di metano, scendere, tutti al lavoro. Perché non ci ho riflettuto? pensò Bohrmann. Abbassamento della temperatura dell'acqua marina, diminuzione della pressione idrostatica, terremoti... Tutto ciò apparteneva al repertorio degli orrori elaborato dalla ricerca sugli idrati. Nessuno aveva pensato seriamente ai batteri, sebbene fosse noto quello che facevano. Nessuno si sarebbe neppure sognato di sviluppare lo scenario di una simile invasione. Nessuno avrebbe ritenuto possibile l'esistenza di un verme che si rivela un suicida metanotrofo. Il gran numero di vermi e la loro estensione su tutta la scarpata continentale erano cose assurde, inesplicabili! Era impossibile che ci fosse un esercito di archaea trascinato dal proprio fatale appetito!
E poi ritornò a pensare: Come diavolo sono arrivati quegli animali? Che cosa li ha portati là? O chi? «Il problema è che la nostra prima simulazione si basava su un'equazione lineare», disse Yvonne Mirbach. «Ma la realtà non procede in maniera lineare. Abbiamo a che fare con uno sviluppo in parte esponenziale, in parte caotico. Il ghiaccio si rompe, il gas sottostante schizza fuori spinto dalla pressione e trascina con sé frammenti di ghiaccio. Il fondale marino si sfonda, cosicché il momento del collasso si avvicina a folle velocità...» «Va bene.» Bohrmann sollevò la mano. «Quanto tempo?» «Qualche settimana, qualche giorno, qualche...» Yvonne esitò. «C'è un fattore d'imponderabilità. Continuiamo a non sapere se effettivamente accadrà. Quasi tutto indica che succederà, ma lo scenario è talmente insolito che non riusciamo quasi ad andare oltre le teorie terroristiche.» «Lasciamo perdere il nascondiglio diplomatico. Qual è la tua opinione?» Yvonne lo guardò. «Non ne ho.» Fece una breve pausa. «Se tre formiche legionarie finiscono sotto un grande mammifero, sicuramente moriranno; se lo stesso mammifero finisce in mezzo a qualche migliaio di loro, sarà spolpato vivo. Per quanto riguarda i vermi e i microrganismi, immagino una cosa del genere. Capito?» «Chiama Johanson», ripeté Suess. «Digli che temiamo un effetto Storegga.» Bohrmann espirò lentamente. Poi, senza dire una parola, annuì. Trondheim, Norvegia Erano sul bordo della pista d'atterraggio, da dove si poteva vedere il fiordo. La riva di fronte quasi non si scorgeva. L'oceano si stendeva davanti a loro, come una lastra di acciaio opaco sotto un cielo che diventava sempre più grigio. «Sei uno snob», disse Tina, gettando un'occhiata all'elicottero in attesa. «Certo che sono uno snob», ribatté Johanson. «Quando si è reclutati con la forza, ci si può permettere anche un certo snobismo, non credi?» «Non ricominciare.» «Anche tu sei una snob. Nei prossimi giorni potrai andare in giro con un elegante fuoristrada.» Tina sorrise. «Allora dammi la chiave.»
Johanson frugò nelle tasche del cappotto, tirò fuori le chiavi della jeep e gliele mise in mano. «Fa' attenzione, mentre sono via.» «Non aver paura.» «E non pensarci neppure, a imboscarti lì sopra con Kare.» «Non c'imboschiamo nelle macchine.» «V'infratterete ovunque. Comunque hai fatto bene a seguire il mio consiglio e spezzare una lancia in favore del povero Stone. Ora può andare a ripescare la sua stazione.» «A costo di disilluderti, il tuo consiglio non ha giocato il minimo ruolo. Graziare Stone è stata esclusivamente una decisione di Skaugen.» «Allora è stato graziato?» «Se riesce a riportare la situazione sotto controllo, potrebbe sopravvivere all'interno del gruppo.» Guardò l'orologio. «Più o meno in questo momento si sta immergendo col batiscafo. Incrociamo le dita.» «Come mai non manda un robot?» «Perché non ha tutte le rotelle a posto.» «Davvero?» «Credo voglia dimostrare che una crisi del genere si può risolvere solo alla sua maniera. E che Clifford Stone è insostituibile.» «E voi glielo permettete?» «Perché no? È ancora il capo progetto. Inoltre su un punto ha ragione. Se scende di persona, potrà valutare meglio la situazione.» Johanson immaginò la Thorvaldson in un grigio senza contorni, e Stone che s'immergeva, circondato dal buio verso un mistero. «Sembra che sia proprio coraggioso.» «Sì.» Confermò Tina. «È uno stronzo, ma non si può dire che non sia coraggioso.» «Allora forza.» Johanson prese la borsa da viaggio. «Non fare danni alla mia macchina.» «Non preoccuparti.» Andarono insieme verso l'elicottero. Skaugen gli aveva affettivamente messo a disposizione il fiore all'occhiello del gruppo petrolifero, un grande Bell 430, il non plus ultra nel comfort e nella tranquillità di volo. «Che tipo è questa Karen Weaver?» chiese Tina davanti al portellone. Johanson le fece l'occhiolino. «È giovane e bellissima.» «Idiota.» «Che ne so? Non ne ho idea.» Tina esitò un attimo, poi lo abbracciò. «Sta' attento, d'accordo?»
Johanson le diede qualche pacca affettuosa sulla schiena. «Va tutto a rotoli... Cosa vuoi che mi succeda?» «Nulla.» Rimase in silenzio per un momento. «Se non altro, il tuo consiglio ha prodotto qualche effetto. Quello che hai detto è stato determinante.» «La decisione di andare da Kare?» «Osservare le cose da un altro punto di vista... Sì, la decisione di andare da Kare.» Johanson sorrise. Poi la baciò sulle guance. «Ti telefono non appena arrivo.» «Okay.» Lui salì sul velivolo e gettò la borsa sul sedile dietro al pilota. L'elicottero aveva posto per dieci passeggeri, ma tutto lo spazio era a sua esclusiva disposizione. Sarebbe stato un viaggio di tre ore. «Sigur!» Lui si voltò verso di lei. «Sei... Credo che tu sia davvero il mio migliore amico.» Sollevò le braccia in un gesto quasi disperato e le lasciò ricadere. Poi sorrise. «Cioè, quello che voglio dire è...» «Lo so già», sorrise Johanson. «Non sei brava in queste cose.» «No.» «Neanch'io.» Si chinò in avanti. «Più qualcuno mi piace, più mi sento stupido a dirglielo. Per quello che ti riguarda, probabilmente sono l'uomo più stupido di tutti i tempi.» «Era un complimento?» «Più o meno.» Chiuse il portellone e il pilota azionò i rotori. Lentamente il Bell si sollevò e la figura di Tina divenne sempre più piccola. Poi l'elicottero abbassò il muso e volò fuori dal fiordo. Il centro di ricerca che si lasciavano alle spalle sembrava un giocattolo. Johanson si mise comodo e guardò fuori, ma non c'era molto da vedere. Trondheim era sparita nella nebbia. L'acqua e le montagne scorrevano sotto di loro come macchie senza colori e sembrava che il cielo li volesse inghiottire. Gli ricadde addosso quella cupa sensazione. Paura. Paura di che cosa? È solo un volo in elicottero, si disse. Alle isole Shetland. Che cosa può succedere?
Ogni tanto gli capitava di avere simili sbalzi d'umore. Troppo metano e troppa robaccia mostruosa. Inoltre quel tempaccio. Forse avrebbe dovuto fare una colazione più abbondante. Prese dalla borsa il volume di poesie e cominciò a leggere. Sulla sua testa i rotori scoppiettavano, ma il rumore arrivava attutito. Il suo cappotto, nella cui tasca era infilato il cellulare, stava appallottolato sulla fila di sedili dietro di lui. Tutto ciò e il fatto che fosse sprofondato nella lettura di Walt Whitman fecero sì che non sentisse il telefono quando esso si mise a suonare. Thorvaldson, scarpata continentale norvegese Stone aveva deciso di pronunciare qualche parola prima di salire sul batiscafo. Il cameraman lo riprendeva e l'altro tipo scattava fotografie. Doveva essere una documentazione completa sull'impresa, in modo che la Statoil si rendesse conto quanto Clifford Stone fosse professionale e come prendesse sul serio l'idea di responsabilità. «Un passo a destra», disse il cameraman. Stone obbedì e scacciò due tecnici dall'inquadratura. Poi ci ripensò e fece loro cenno di avvicinarsi. «Mettiti dietro di me», disse. Probabilmente avrebbe fatto un effetto migliore se nell'inquadratura ci fossero stati anche due tecnici. Nulla doveva dare l'impressione che fossero all'opera giocatori d'azzardo e avventurieri. L'uomo alzò la telecamera. «Abbiamo finito?» gridò Stone. «Ancora un momento. Non va bene. Copre il pilota.» Stone fece un altro passo di lato. «Adesso?» «Meglio.» «Non dimenticare le foto», disse Stone all'altro. Il fotografo si avvicinò e, come per tranquillizzarlo, azionò l'otturatore. «Okay», disse il cameraman. «Giriamo.» Stone guardò deciso nell'obiettivo. «Ora scenderemo per vedere che cos'è successo al nostro prototipo. Al momento, sembra che la stazione, dalla sua posizione originaria... Ah... Dov'era prima... Accidenti.» «Non c'è problema. Rifacciamo.» Stavolta andò bene. Stone spiegò con parole molto concrete che avevano intenzione di cercare la stazione per un'ora. Fece un riassunto delle conoscenze acquisite, accennò al cambiamento della morfologia di quel settore
della scarpata ed espresse la propria opinione secondo cui, a causa di una destabilizzazione dei sedimenti, la stazione doveva essere scivolata più in basso. Aveva un tono molto deciso e forse era un po' troppo arido, ma d'altronde non era uno showman. Gli venne in mente che tutti i grandi scopritori e inventori avevano pronunciato una frase particolarmente intelligente prima o dopo essersi rimboccati le maniche. Qualcosa di eccezionale. «È solo un piccolo passo per me, ma un grande passo per l'umanità...» Qualcosa del genere. Quella era stata roba di gran classe. Naturalmente avevano raccomandato a Neil Armstrong di dirlo come se fosse stato un pensiero spontaneo, ma non cambiava niente. «Veni, vidi, vici...» Giulio Cesare. Niente male. Colombo aveva detto qualcosa? E Jacques Picard? Rifletté. Non gli venne nulla. Decise che non era necessario inventarsi qualcosa. Le riflessioni di Bohrmann sui viaggi in batiscafo non suonavano male. Stone si schiarì la voce. «Naturalmente potevamo mandare un robot», disse infine. «Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti.» Come va avanti? Ah, sì. «Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità... Non pensavo fosse così. Non c'è paragone. E... e ci dà la migliore... ehm, la migliore visuale... per vedere che cos'è successo... ehm... e che cosa possiamo fare.» L'ultima frase era stata tremenda. «Amen», disse sottovoce Alban sullo sfondo. Stone si girò, scivolò sotto il batiscafo e s'infilò nel portello. Il pilota gli tese la mano, ma Stone ignorò l'aiuto. Si sollevò e prese posto. Era un po' come essere in un elicottero oppure in una attrazione high-tech di Disneyland. La cosa straordinaria era la sensazione di essere ancora all'esterno, benché i rumori dal ponte non gli arrivassero più. La sfera di vetro acrilico spessa alcuni centimetri li schermava. «Devo spiegarle ancora qualcosa?» chiese Eddie con gentilezza. «No.» Eddie gli aveva già spiegato tutto poco prima. Lo aveva fatto in maniera molto approfondita e coi suoi tipici modi tranquilli. Stone gettò uno sguardo alla piccola console computerizzata davanti a loro. La sua mano destra scivolò sui comandi di guida a fianco del sedile. All'esterno, il fotografo scattava in continuazione e il cameraman riprendeva. «Bene», disse Eddie. «Andiamo a divertirci.» Uno strattone scosse il batiscafo. Improvvisamente oscillarono sopra il
ponte, poi ci passarono lentamente sopra. Ora sotto di loro si vedeva la superficie agitata dell'acqua. Per un momento rimasero là, appesi, immobili a guardare la poppa della Thorvaldson. Alban sollevò le mani coi pollici levati e Stone gli fece un rapido cenno col capo. Nelle prossime ore avrebbero comunicato solo col telefono sottomarino. Non c'era un cavo a fibre ottiche che legava il batiscafo alla nave madre, non c'era nulla, se non le onde sonore. Non appena il braccio della gru li avesse sganciati, sarebbero rimasti soli. Lo stomaco di Stone cominciò a contrarsi. Ci fu un altro strattone. Quando si sciolsero dalla gomena, sopra di loro risuonò un clonc. Il batiscafo entrò in mare, fu sollevato da un'onda, poi Eddie aprì il serbatoio e l'acqua entrò, gorgogliando. L'oceano si chiuse sopra la sfera. Il Deep Rover affondò come una pietra, circa trenta metri al minuto. Stone teneva lo sguardo fisso all'esterno. Sullo scafo erano spente tutte le luci, eccetto le piccole luci di posizione. Conveniva risparmiare energia, perché laggiù sarebbe servita. Solo pochi pesci si facevano vedere. A cento metri di profondità, il blu cupo del mare si scurì e i due si ritrovarono immersi nelle tenebre vellutate. All'esterno brillò qualcosa di simile a un lampeggiante dei pompieri. Prima una volta, poi tutt'intorno a loro. «Meduse luminose», spiegò Eddie. «Belle, vero?» Stone era affascinato. Aveva già partecipato a diverse immersioni col batiscafo, ma mai con un Deep Rover. Effettivamente sembrava che non ci fosse nulla tra loro e il mare. Le luccicanti luci rosse della console e degli strumenti di servizio sembravano volersi unire ai banchi di animaletti fluorescenti che nuotavano tutt'intorno. Il pensiero che la sua stazione si trovasse in quell'universo sconosciuto sembrò improvvisamente a Stone tanto assurdo che per poco lui non scoppiò a ridere. Io sono l'ideatore del progetto, pensò. Che sia stato seduto troppo a lungo dietro una scrivania? Così a lungo da non riuscire più a cogliere la realtà? Allungò le gambe fin dov'era possibile. Mentre scendevano, i due scambiarono solo qualche parola. Con l'aumentare della profondità cresceva anche il freddo, ma non era insopportabile. Rispetto a batiscafi come l'Alvin MIR o lo Shinkai, che potevano raggiungere i seimila metri, il Deep Rover disponeva di un sofisticato sistema di regolazione interna della temperatura. Prudentemente, Stone aveva indossato dei calzini - le scarpe non erano permesse all'interno dei batiscafi, per evitare che gli strumenti fossero
danneggiati da un calcio involontario - e un caldo pullover di lana. Nonostante il freddo, si stava bene. Eddie, vicino a lui, era tranquillo e concentrato. Di tanto in tanto, dall'altoparlante, usciva una voce gracchiante: erano chiamate di controllo dei tecnici della Thorvaldson. Le parole erano comprensibili, ma distorte perché sott'acqua le onde sonore si mischiavano con mille altri rumori. Scendevano e scendevano. Dopo venticinque minuti, Eddie mise in funzione il sonar. Leggeri fischi e scricchiolii entrarono nella sfera e si sovrapposero al dolce ronzio degli strumenti elettrici. Si avvicinavano al fondale. «Preparare popcorn e Coca-Cola», scherzò Eddie. «Inizia lo spettacolo.» Poi accese i proiettori esterni. Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese Lars Jörensen era sulla piattaforma superiore del vano con la scala d'acciaio che portava dall'eliporto alla zona residenziale e guardava la torre di perforazione. Si era appoggiato al parapetto con le braccia incrociate e le punte dei suoi baffi bianchi vibravano al vento. Nelle giornate limpide sembrava di poter toccare la torre, ma quel giorno era difficile vederla. Col passare delle ore, con l'infittirsi della foschia che precedeva la tempesta in arrivo, diventava sempre più irreale, come se volesse impallidire completamente per diventare un puro ricordo. Dall'ultima visita di Tina, Jörensen era diventato malinconico. Continuava a chiedersi cosa volesse costruire la Statoil sulla scarpata continentale. Senza dubbio stavano progettando una stazione completamente automatizzata e magari collegata a una nave di produzione. Tina era convinta di averlo abbindolato con le sue risposte, ma lui non era stupido. Aveva capito quello che stavano facendo; intendevano mettere da parte gli uomini e sostituirli con le macchine. In fondo aveva senso. Una macchina non si preoccupava della buona cucina come faceva lui, non dormiva, lavorava in condizioni pericolosissime... e tutto ciò senza chiedere lo stipendio. Inoltre non si lamentava e, dopo qualche anno, poteva essere buttata nella spazzatura. D'altra parte, Jörensen si chiedeva come un robot potesse sostituire occhi e orecchie e prendere decisioni intuitive. Di certo, senza uomini, non c'erano errori umani. Ma se le macchine sbagliavano e non c'erano uomini nelle vicinanze, allora succedeva come in quei film di fantascienza che lui
spesso guardava di notte, quando il mare sbatteva contro i piloni. L'uomo avrebbe perso il controllo. E le macchine non si curavano della vita e dell'ambiente, né avevano la minima comprensione per gli interessi degli uomini che le costruivano e che intanto si autoeliminavano, spinti da un'idea di razionalizzazione. La luce scemava. Il cielo divenne ancora più grigio e iniziò a piovigginare. Che giorno di merda, pensò Jörensen. Non bastava che da un po' di tempo il mare puzzasse come se l'acqua fosse piena di prodotti chimici. Ora ci si metteva anche il tempo a far toccare il fondo della tristezza. Lavoriamo su delle rovine, rifletté. Una città fantasma in mare, piena di zombie che vengono esorcizzati l'uno dopo l'altro. Quando il giacimento sarà esaurito, resterà una carcassa inutile. I lavoratori saranno mandati a spasso, le piattaforme verranno liquidate, e il futuro lo vedremo in televisione. Riprese video di un mondo in cui non potremo entrare quando ce ne sarà bisogno. Jörensen sospirò. Quelle riflessioni potevano aiutare qualcuno? Erano espresse con troppa semplicità? Erano troppo di parte, troppo grette, troppo presuntuose? L'automobile aveva segnato la fine delle carrozze pubbliche. Ma c'era forse qualcuno che le voleva ancora, le carrozze? Probabilmente su tutta quella faccenda avevano ragione gli altri e lui era solo un vecchio che odiava l'idea di andare in pensione. Eppure c'era stato un momento magico. Uomini splendenti di nero, grondanti petrolio, si erano abbracciati, mentre alle loro spalle uno zampillo usciva dal terreno sabbioso, sprizzando verso il cielo e promettendo ricchezza. Era successo davvero? Nel Gigante c'era quella scena con James Dean... Amava la scena con James Dean molto più di quella con Bruce Willis in Armageddon, sebbene quest'ultima si svolgesse su una vera piattaforma, mentre Il gigante era ambientato nel Texas. In quella scena, James Dean era felice e saltava come un pazzo, completamente ricoperto di petrolio. A guardarlo era un po' come essere seduto in grembo al nonno e ascoltarlo raccontare di quando lui era giovane e tutto era più bello. Lo si ascoltava, credendo a ogni parola. Poi, a un certo punto, non gli si credeva più. Già, un nonno. Io sono un nonno! pensò Jörensen. Ancora pochi mesi, poi tutto sarà alle mie spalle. Finito, passato. E comunque mi andrà me-
glio rispetto a chi è giovane oggi. Non mi potranno più licenziare per colpa della razionalizzazione, smetterò da solo. E poi c'è ancora la pensione. C'è quasi da sentirsi in colpa a troncare prima che arrivi la fine... Ma non è più un mio problema. Ne avrò altri. Dalla costa lontana si avvicinava un rumore. Un rimbombo ritmico, che divenne il crepitio di un elicottero. Jörensen alzò la testa. Conosceva tutti i modelli che passavano da quelle parti. Già da lontano, e nonostante il cattivo tempo, vide un Bell 430 passare sulla Gullfaks e sparire nella foschia. Il rumore delle pale tornò a essere un rimbombo lontano e poi sparì del tutto. Goccioline di pioggia fini come polvere ricoprivano tutta la zona con una splendente umidità. Jörensen pensò che forse era il caso di rientrare. Aveva un'ora libera, cosa che capitava raramente, e poteva guardare la televisione o leggere, oppure giocare con qualcuno a scacchi. Ma non aveva voglia di rientrare. Non quel giorno. Gli sembrava di abitare in una bara d'acciaio. Non voleva farsi seppellire là dentro. Almeno il mare appariva come al solito: grigio, increspato, un continuo su e giù. Lontano, dietro la torre, sulla punta del braccio esterno, bruciava la fiamma del gas. Il faro dei dispersi. Ehi, ma certo! Sembrava il titolo di un film! Niente male per un vecchione che da anni sorvegliava ogni giorno il traffico di elicotteri e navi. Forse in pensione avrebbe potuto scrivere un libro. Su un'epoca che, di lì a qualche decennio, pochissimi avrebbero ricordato. L'era delle grandi piattaforme. E il titolo sarebbe stato: Il faro dei dispersi. Nonno, raccontaci una storia... L'umore di Jörensen migliorò un po'. Non era una cattiva idea. Forse non era un giorno così di merda. Kiel, Germania Gerhard Bohrmann aveva l'impressione di sprofondare nelle sabbie mobili. Andava continuamente da Erwin Suess e Yvonne Mirbach, che stavano elaborando nuovi scenari col computer, con risultati sempre più drammatici. Intanto cercava di raggiungere Sigur Johanson. Aveva chiamato la segreteria dell'NTNU, ma gli avevano detto che Johanson era in viaggio e che non avrebbe tenuto neppure le lezioni. No, non si sapeva neppure quando sarebbe rientrato. Era stato messo in congedo, a quanto pareva per
svolgere un incarico governativo. Bohrmann poteva immaginare benissimo quale incarico fosse. Allora aveva provato a casa di Johanson. Poi ancora sul cellulare. Niente. Alla fine, si era rivolto di nuovo a Suess. «Deve pur esserci qualcuno che gravita nell'orbita di Johanson e che è in grado di prendere una decisione», disse Erwin. «Tutti quelli della Statoil, ma sarebbe come se non avessimo detto niente. Questione di riservatezza... Però, se questo problema continua a essere trattato in segreto e si arriva all'effetto Storegga, allora ci troveremo di fronte a una situazione che nessuno sarà in grado di gestire.» «Che facciamo quindi?» «Con la Statoil non otterremo nulla.» «Va bene.» Suess si stropicciò gli occhi. «Hai ragione. Allora ci rivolgeremo al ministero della Ricerca Scientifica e a quello dell'Ambiente.» «A Oslo?» «E a Berlino. Ma anche a Copenhagen, ad Amsterdam. Ah, sì, e a Londra. Ne ho dimenticata qualcuna?» «Reykjavik.» Bohrmann sospirò. «Santo cielo. D'accordo, facciamo così.» Suess guardò fuori dalla finestra del suo ufficio. Da lì si vedevano il fiordo di Kiel, la zona con le imponenti gru dove si caricavano le navi, gli uffici commerciali e i silos. Un cacciatorpediniere della Marina galleggiava come sospeso tra il grigio dell'acqua e del cielo. «Cosa dicono le simulazioni su Kiel?» chiese Bohrmann. Strano che non ci avesse ancora pensato. Erano così vicino all'acqua... «Potrebbe andare bene.» «È pur sempre una consolazione.» «Cerca comunque di parlare con Johanson.» Bohrmann fece un cenno di assenso e uscì. Deep Rover, scarpata continentale norvegese Benché Eddie avesse acceso i sei riflettori esterni, la visuale rimaneva molto limitata. I quattro proiettori alogeni al quarzo da centocinquanta watt e le due luci da quattrocento watt HMI illuminavano debolmente una zona di circa venticinque metri di raggio. Non si riuscivano a distinguere strutture solide. Quasi accecato dopo il lungo viaggio nel buio, Stone socchiuse le palpebre. Il Deep Rover s'inabissava tra cortine di perle scintil-
lanti. «Che cosa sono?» chiese, chinandosi in avanti. «Dov'è il fondale marino?» Poi capì che cosa stava risalendo verso di loro. Erano bolle. Salivano a vite, alcune goffamente e sussultando, altre - più piccole - come se fossero legate a un filo. Il sonar continuava a emettere i suoi caratteristici sibili e schiocchi. Con le sopracciglia aggrottate, Eddie studiava i segnali luminosi della console: stato delle batterie, temperatura esterna e interna, riserve di ossigeno, pressione della cabina e tutti gli altri dati ricevuti dai sensori esterni. «Tanti auguri», ringhiò. «È metano.» La cortina di perle divenne più fitta. Eddie sganciò i due pesi d'acciaio fissati allo scafo e spinse aria nei serbatoi per stabilizzare il batiscafo. Quelle manovre avevano lo scopo di farli restare sospesi, invece loro continuavano a sprofondare. «Non riusciamo a portare su il culo. Non posso crederci!» Nella luce dei proiettori apparve il fondale. Si avvicinavano troppo velocemente. Stone riuscì a vedere fessure e buchi, poi furono di nuovo avvolti dalle bolle. Eddie imprecò e fece uscire altra acqua dai serbatoi. «Cos'è successo?» chiese Stone. «Abbiamo problemi con la spinta?» «Credo sia il gas. Siamo in mezzo a un blowout.» «Dannazione.» «Calma.» Il pilota accese l'elica. Il batiscafo cominciò a muoversi in avanti attraverso le collane di bolle. Per un momento, Stone si sentì come su un ascensore che si ferma dolcemente. Cercò con lo sguardo il batimetro. Il Deep Rover sprofondava più lentamente, ma la velocità con cui si avvicinava al fondale era ancora troppo elevata. Tra poco si sarebbero schiantati. Stone si morse le labbra e lasciò che Eddie facesse il proprio lavoro. In una situazione del genere non c'era niente di peggio che distrarre il pilota con le chiacchiere. Vide le cortine di bolle diventare più spesse e il fondale che s'intravedeva in mezzo al blowout inclinarsi lentamente. Il pattino destro sparì in un violento gorgoglio e il batiscafo si piegò di lato. Trattenne il respiro. Erano fuori. Fino a un attimo prima, il mare ribolliva; adesso invece avevano davanti agli occhi il fondale tranquillo. Il batiscafo riprese a salire. Senza particolare fretta, Eddie manovrò la valvola e fece entrare acqua marina nei serbatoi finché il Deep Rover non si fu stabilizzato e scese dolcemente lungo la
scarpata. «Tutto sotto controllo», disse. Ora procedevano a una velocità massima di due nodi, cioè di 3,7 chilometri all'ora. Facendo jogging si andava più veloci, ma negli abissi non ci si poteva muovere troppo in fretta. Inoltre si trovavano nella zona in cui Stone aveva installato la stazione. Non poteva essere lontana. Il pilota sorrise. «Avremmo dovuto metterlo in preventivo, vero?» «Non un blowout di questa violenza.» «No? Il mare puzza come una fogna, quindi il gas da qualche parte deve uscire. Già, ma per lei non aveva importanza. Lei voleva assolutamente immergersi.» Stone non si degnò di rispondere. Si concentrò, cercando i segni degli idrati, ma al momento non ne vedeva. L'unica cosa visibile erano i vermi. Sul fondale riposava un pesce piatto, simile a una sogliola. Al loro avvicinarsi, si sollevò pigramente, fece vorticare il fango e nuotò fuori dalla zona illuminata. Era irreale stare là, mentre sulla sfera di vetro acrilico l'acqua esercitava una pressione di cento chili per centimetro quadrato. Era tutto artificiale: la zona illuminata del plateau abissale con le sue ombre cangianti prodotte dal passaggio del Deep Rover, il nero in ogni direzione oltre la luce diffusa, la pressione interna mantenuta costante dalle apparecchiature, l'aria che usciva regolarmente dalle bombole, e il biossido di carbonio della respirazione che veniva eliminato chimicamente. Nulla invitava a trattenersi in quella situazione. Stone provò a parlare, ma la lingua gli si appiccicò al palato. Ricordò che non beveva da ore. Per ogni evenienza, a bordo c'erano delle Human Range Extender, bottiglie speciali cui far ricorso se proprio non si poteva aspettare, benché, prima di salire su un batiscafo, si consigliava caldamente di vuotare la vescica. Dal primo mattino, lui e Eddie avevano mangiato solo sandwich con burro di noccioline e durissime barrette di cioccolato e crusca. Alimenti per l'immersione. Alimenti nutrienti e secchi come la sabbia del Sahara. Cercò di rilassarsi. Eddie fece un breve rapporto alla Thorvaldson. Di tanto in tanto vedevano molluschi e stelle marine. Con un movimento della mano, il pilota indicò l'esterno. «Sorprendente, vero? Siamo a più di novecento metri e c'è buio pesto. Tuttavia questo luogo è chiamato zona della luce residua.» «Non ci sono zone in cui l'acqua è così limpida che la luce arriva fino a
mille metri?» chiese Stone. «Certo. Ma nessun occhio umano è in grado di percepirla. Oltre i cento, centocinquanta metri per noi è buio pesto. È mai stato oltre i mille metri?» «No, e lei?» «Qualche volta.» Eddie scrollò le spalle. «È più o meno dannatamente buio come qui. Preferisco stare dove c'è la luce.» «Come? Nessuna ambizione di raggiungere le grandi profondità?» «A quale scopo? Picard è riuscito ad arrivare a 10.740 metri. Io non ne ho voglia. È stata un'impresa scientifica di prima classe, ma non c'era quasi niente da vedere.» «Come fa a saperlo?» «Non lo so, ma posso immaginarlo. Voglio dire, anche se la bentosfera è più divertente del batiscafo, è comunque un mortorio.» «Scusi, ma... Picard non è arrivato a 11.340 metri di profondità?» chiese Stone. «Oh, già.» Eddie sorrise. «Lo so, è scritto in tutti i libri di scuola. Un errore. Dipende dallo strumento di misurazione. Lo avevano calibrato in Svizzera, nell'acqua dolce. Capisce? L'acqua dolce ha una densità diversa. Per questo hanno sbagliato le misurazioni durante l'unica immersione con equipaggio nel punto più basso della superficie terrestre. Avevano...» «Ehi!» Davanti a loro, il cono di luce sparì nell'ombra. Nell'avvicinarsi, si resero conto che il fondale cadeva a strapiombo. La luce si perdeva nel precipizio. «Si fermi.» Le dita di Eddie volarono su tasti e bottoni. Sviluppò una controspinta e il Deep Rover si fermò. Poi cominciò progressivamente a girarsi. «Una corrente piuttosto forte», mormorò il pilota. Il batiscafo continuò lentamente a ruotare finché i proiettori non illuminarono il bordo del precipizio. «Sembra quasi che sia crollato da poco... Una cosa molto fresca.» Gli occhi di Stone si muovevano nervosamente. «Che dice il sonar?» «Si scende di almeno quaranta metri. A destra e a sinistra non sono in grado di dirlo.» «Questo vuol dire che il plateau...» «Qui non c'è più. È crollato.» Stone si mordicchiò il labbro inferiore. Dovevano essere nelle immediate vicinanze della stazione. Ma un anno prima là non c'era nessun precipizio. Probabilmente non c'era neppure qualche giorno prima. «Scendiamo
ancora», decise. «Guardiamo un po' dove si arriva.» Il Deep Rover si mise in moto e scese lungo la parete dello strapiombo. Dopo circa due minuti, i proiettori illuminarono di nuovo il fondo. Sembrava un campo di macerie. «Dovremmo risalire di qualche metro», disse Eddie. «Qui è troppo frastagliato, potremmo sbattere da qualche parte.» «Sì, un attimo. Maledizione, davanti a noi! Guardi.» Nel campo visivo era comparsa una grossa tubatura pesantemente danneggiata. Giaceva di traverso, sopra grandi frammenti di pietrisco, e spariva oltre il cono di luce. Dalla tubatura uscivano dense e scure chiazze di petrolio che salivano verticalmente. «È un oleodotto», gridò Stone, sconvolto. «Mio Dio.» «Era un oleodotto», precisò Eddie. «Seguiamone il corso.» Stone rabbrividì. Sapeva dove andava quell'oleodotto, sapeva da dove arrivava. Erano nella zona della stazione. Ma non c'era più niente. D'un tratto, davanti a loro, comparve una parete frastagliata ed Eddie la evitò per un pelo, riuscendo ad alzare il batiscafo. La seguirono per un pezzo - sembrava non finire mai - e alla fine passarono appena sopra il bordo. In quell'istante, Stone si rese conto che quella non era una parete, bensì un gigantesco pezzo di fondale marino che si era sollevato. Dalla parte opposta scendeva ancora verticalmente. Nella luce, vorticavano particelle di sedimenti che rendevano più difficile vedere i dintorni. Poi le luci illuminarono un'altra corrente di bolle che risalivano velocemente. Schizzavano fuori da una fossa coi bordi a spigolo. «Santo cielo», sussurrò Stone. «Cos'è successo qui?» Eddie non rispose. Virò in modo da evitare le bolle. La visuale peggiorò. Per un po', persero di vista l'oleodotto, poi esso ricomparve nel fascio di luce dei proiettori. Proseguiva verso il basso. «Dannata corrente», eslcamò Eddie. «Siamo trascinati nel blow-out.» Il Deep Rover cominciò a sprofondare a vite. «Seguiamo l'oleodotto», ordinò Stone. «È una follia. Dovremmo risalire.» «La stazione è qui», dichiarò Stone. «Dovremmo vederla da un momento all'altro.» «Non vedremo niente. Qui è tutto distrutto.» Stone non replicò. Davanti a loro, l'oleodotto era piegato verso l'alto,
come se un pugno gigantesco l'avesse colpito, e terminava con un troncone strappato. L'acciaio frastagliato formava bizzarre sculture. «Vuole andare ancora avanti?» Stone annuì. Eddie manovrò fino ad arrivare proprio sopra il tubo. Rimasero per un momento sospesi sopra l'apertura seghettata, simile a una bocca gigantesca. Poi il batiscafo superò l'oleodotto. «Qui si precipita», disse Eddie. Intorno a loro riapparvero le perle. Stone strinse i pugni. Si rese conto che Alban aveva visto giusto. Avrebbero dovuto mandare il robot. Ma ormai rinunciare gli appariva assurdo. Doveva sapere! Si sarebbe presentato a Skaugen solo con un rapporto dettagliato. Stavolta non si sarebbe fatto liquidare. «Avanti, Eddie.» «Lei è pazzo.» Dietro il tubo strappato, il campo di macerie scendeva a strapiombo e la pioggia di sedimenti aumentava. Per la prima volta, anche Eddie mostrava una certo nervosismo. In ogni momento potevano incontrare nuovi ostacoli. Poi videro la stazione. In realtà scorsero soltanto dei sostegni trasversali, ma Stone comprese subito che il prototipo Kongsberg non esisteva più. Giaceva sotto le macerie del plateau crollato, cinquanta metri più in basso rispetto alla posizione originale. Osservò con attenzione. Dai puntelli metallici si staccava qualcosa che saliva verso di loro. Bolle. No, più che semplici bolle. A Stone vennero in mente i colossali vortici di gas che aveva visto a bordo della Sonne durante il blowout, quando la benna con la telecamera era sprofondata. Improvvisamente fu preso dal panico. «Via!» gridò. Eddie sganciò la restante zavorra. Il batiscafo fece un balzo e schizzò verso l'alto, seguito dalle bolle gigantesche. Poi si ritrovarono in mezzo al vortice e colarono a picco. Intorno a loro, il mare ribolliva. «Merda!» urlò Eddie. «Che succede là sotto?» Era la voce stridula del tecnico a bordo della Thorvaldson. «Eddie? Rispondi! Qui registriamo qualcosa di strano... Sta salendo una gran quantità di gas e di idrati.» Eddie schiacciò il tasto per rispondere. «Mollo l'involucro! Risaliamo.»
«Cos'è successo? Avete...» La voce del tecnico sparì sotto un rumore assordante. Sibili e schiocchi. Eddie aveva sganciato il blocco delle batterie e parte dell'involucro. Era l'estrema manovra d'emergenza per perdere peso. Il resto dello scafo con la sfera di vetro acrilico iniziò a risalire ruotando. Poi un violento colpo scosse il veicolo. Stone vide un gigantesco blocco di roccia trascinato in alto dal gas. La sfera si ribaltò. Furono colpiti un'altra volta e Stone sentì il pilota gridare. Stavolta il colpo li scagliò fuori dal blowout e il Deep Rover venne proiettato verso l'alto. Stone era aggrappato ai braccioli, più coricato che seduto. Eddie si era accasciato contro di lui e aveva gli occhi chiusi. Sul volto gli scorreva del sangue. Stone registrò con terrore che ormai poteva contare solo su se stesso. Cercò febbrilmente di ricordare come si faceva a riportare in equilibrio il batiscafo. I comandi si potevano trasferire da Eddie a lui, ma come? Eddie glielo aveva mostrato. Era quel bottone. Stone lo schiacciò mentre cercava di togliersi di dosso il pilota. Non era sicuro che l'elica funzionasse ancora dopo che l'involucro era stato sganciato. Sul batimetro le cifre scorrevano, mostrando che ora stavano risalendo molto velocemente. In fondo poter manovrare non era importante; l'importante era continuare a salire. Nel Deep Rover non c'erano problemi di decompressione. La pressione della cabina corrispondeva alla pressione sulla superficie dell'acqua. Si accese una luce d'allarme. Il proiettore sul pattino destro si spense. Poi si spensero tutte le altre luci. Tutto intorno a Stone divenne nero. Lui cominciò a tremare. Stai calmo, pensò. Eddie ti ha spiegato il funzionamento. C'è un apparato di emergenza per l'energia. Uno dei bottoni nelle file superiori della console di servizio. Se non s'inserisce in automatico, bisogna farlo manualmente. Toccava gli interruttori e intanto continuava a fissare il buio. Che c'era laggiù? Coi proiettori spenti doveva essere buio pesto. Invece si vedeva una luce. Erano già così vicini alla superficie? Le ultime cifre del batimetro, poco prima che i riflettori si spegnessero, indicavano poco più di settecento metri. Il batiscafo stava sempre scivolando lungo la scarpata. Erano ancora molto al di sotto dello zoccolo continentale, fuori dalla portata della luce del giorno. Un'allucinazione?
Stone socchiuse le palpebre. La luce risplendeva di un debole blu, così debole che si poteva intuire più che vedere. Si levava dagli abissi, e aveva la forma di una specie di tubo a imbuto, la cui parte inferiore si perdeva nell'oscurità. Stone trattenne il respiro. Forse era impazzito, ma avrebbe potuto giurare che quella cosa diventava tanto più luminosa quanto più si avvicinava. La maggior parte delle onde luminose era assorbita dall'acqua. Quindi doveva essere parecchio distante. E gigantesca. Il tubo si mosse. L'imbuto sembrò allungarsi, mentre il resto della struttura si piegò. Immobile, come stregato, con le dita bloccate alla ricerca dell'interruttore per inserire la batteria d'emergenza, Stone fissò quella cosa. Non poteva che essere bioluminescenza filtrata da milioni di metri cubi d'acqua, particelle e gas. Ma quale essere vivente luminoso aveva quelle dimensioni incredibili? Un calamaro gigante? Era più grande di qualsiasi calamaro. Era più grande anche della più audace rappresentazione fantastica di un calamaro. O era la sua fantasia? Un'allucinazione provocata dall'improvviso passaggio dalla luce alle tenebre? Immagini fantasma dei proiettori spenti? Più fissava la cosa luminosa, più gli sembrava impallidire. Il tubo sprofondava lentamente. Poi sparì. Immediatamente, Stone riprese la ricerca del tasto per attivare la batteria d'emergenza. Il batiscafo saliva, tranquillo e regolare. Sentì un brivido di sollievo all'idea che tra poco sarebbe arrivato in superficie e si sarebbe lasciato alle spalle quell'incubo. Quando Eddie aveva sganciato l'involucro, non si era liberato delle telecamere. Che avessero ripreso anche quella cosa luminosa? Riuscivano a registrare un impulso così debole? Doveva essere così. Non si era trattato di un'allucinazione. Stone rammentò le straordinarie riprese fatte da Victor. Quella cosa che improvvisamente era uscita dal cono di luce. Mio Dio, pensò. In cosa ci siamo imbattuti? Ah, ecco l'interruttore! Ronzando, il sistema elettrico d'emergenza si mise in funzione. Per prima cosa si accesero le luci sulla console, poi i proiettori esterni. Da un momento all'altro, il Deep Rover si ritrovò a scivolare in un bozzolo di luce. Eddie era disteso, immobile, con gli occhi aperti.
Stone si chinò su di lui, ma, improvvisamente, dietro Eddie, comparve qualcosa. Una nuvola rossastra. Si stava rovesciando sul batiscafo. Convinto di dover manovrare per non sbattere contro la parete, Stone afferrò i comandi. Ma poi si rese conto che era il contrario. Era la parete che stava sbattendo contro di loro. Stava andando verso di loro. La scarpata continentale gli stava crollando addosso. Fu l'ultima cosa che Stone comprese prima che la violenza dell'impatto mandasse in mille pezzi il vetro acrilico della sfera. Elicottero Bell 430, mar di Norvegia Quand'erano decollati da Trondheim, Johanson aveva previsto di fare un volo tranquillo. Invece si ballava e lui non riusciva a dedicarsi adeguatamente a Whitman. Nella mezz'ora precedente, il cielo era diventato minacciosamente nero. Sembrava così basso da dare l'impressione di voler schiacciare in mare l'elicottero, che era anche scosso da violente raffiche di vento. Il pilota si voltò. «Tutto a posto?» «Benissimo.» Johanson chiuse il libro e guardò fuori. La superficie del mare era coperta da una nebbia fittissima. Lui riusciva a malapena a distinguere qualche piattaforma o nave. Si rese conto che in quei minuti il moto ondoso era sensibilmente aumentato. Si stava avvicinando una violenta tempesta. «Non si preoccupi», disse il pilota. «Non abbiamo nulla da temere.» «Non mi preoccupo. Cosa dice il servizio meteorologico?» «Che ci sarà vento.» Il pilota lanciò un'occhiata al barometro sulla console di comando. «A quanto pare, avremo un piccolo uragano.» «Carino da parte sua non avermi detto niente prima.» «Non lo sapevo. Le previsioni del tempo non sono sempre affidabili. Ha paura di volare?» «Certo che no. Trovo che volare sia fantastico», disse Johanson con decisione. «È precipitare che non mi piace.» «Non precipiteremo. Per chi lavora nel settore offshore questa è robetta da bambini. Oggi non succederà niente di peggio che qualche sballottamento.» «Quanto abbiamo ancora?»
«Siamo oltre la metà.» «Va bene.» Johanson riaprì il libro. Mille altri suoni si mescolavano al rumore del motore. Schiocchi, strepiti, fischi... A un certo punto, gli sembrò perfino di sentire un segnale, che risuonava a intervalli regolari da qualche parte dietro di lui. Che cosa non sapeva fare il vento con l'acustica! Johanson si girò verso i sedili posteriori, ma il segnale pareva cessato. Tornò a dedicarsi al pensiero di Walt Whitman. L'effetto Storegga Diciottomila anni or sono, a metà dell'ultima Era Glaciale, il livello dell'acqua in tutto il pianeta era all'incirca centoventi metri più basso che all'inizio del Terzo Millennio. Gran parte della massa d'acqua era «bloccata» nei ghiacciai. Sulle zone dello zoccolo continentale c'era quindi una minore pressione e alcuni dei mari odierni non esistevano. Altri, nel corso della glaciazione, divennero sempre più bassi, altri ancora si asciugarono e si trasformarono in estesi paesaggi acquitrinosi. La diminuzione della pressione dell'acqua, tra l'altro, provocò in diverse parti del globo l'instabilità degli idrati di metano. Nelle regioni più elevate della scarpata continentale si liberarono in breve tempo gigantesche quantità di gas. La gabbia di ghiaccio in cui il metano era prigioniero e compresso si sciolse. Ciò che per migliaia di anni aveva funzionato come malta, tenendo unita la scarpata continentale, divenne un esplosivo. Improvvisamente, il metano liberato aumentò di centosessantaquattro volte il proprio volume. Nella sua fuga verso l'esterno, fece pressione su pori e fessure dei sedimenti e lasciò dietro di sé rovine porose. Come conseguenza, le scarpate continentali cominciarono a crollare su se stesse, trascinandosi appresso buona parte dello zoccolo continentale. Inimmaginabili quantità di materiale scivolarono come slavine di fango a centinaia di chilometri di distanza nelle profondità abissali. Il gas raggiunse l'atmosfera e provocò spaventosi mutamenti climatici. Ma lo smottamento ebbe anche altri effetti immediati, non solo sulla vita nel mare, ma anche sulle regioni costiere della terraferma e sulle isole. Nella seconda metà del XX secolo, gli scienziati fecero un'inquietante scoperta. Davanti alla costa della Norvegia centrale, s'imbatterono nelle tracce di un simile smottamento. Per la precisione, erano stati più smottamenti a trascinare via buona parte della scarpata continentale. Un processo
avvenuto nel corso di quarantamila anni. Diversi fattori erano entrati in gioco: stagioni calde che avevano elevato la temperatura media delle correnti marine della zona o periodi di glaciazione, appunto come quello di diciottomila anni prima, nel corso dei quali le temperature erano rimaste basse, ma era calata la pressione dell'acqua. In altri termini, le fasi di stabilità degli idrati - dal punto di vista della storia della Terra - rappresentavano un'eccezione. Ma in una simile eccezione vivevano gli uomini della cosiddetta epoca moderna. Ed essi tendevano a interpretare la loro condizione di tranquillità come la regola. Un errore. A quell'epoca, cinquemilacinquecento chilometri cubi dello zoccolo continentale norvegese erano stati trascinati negli abissi da frane gigantesche. Tra Scozia, Islanda e Norvegia, gli scienziati avevano trovato un deposito di sedimenti lungo ottocento chilometri. La cosa davvero inquietante era che la più grande delle frane della scarpata continentale non risaliva a molto tempo prima: si parlava di meno di diecimila anni. A quella scoperta si era dato il nome di «effetto Storegga» e si sperava che non si ripetesse più. Naturalmente era una speranza priva di senso. Ma forse la tranquillità sarebbe durata ancora per altri millenni. E probabilmente nuove ere glaciali o periodi di caldo avrebbero provocato solo scivolamenti di dimensioni sopportabili, se non fosse comparso da un giorno all'altro un certo verme col suo carico di batteri e non avesse creato le condizioni per quello che ora stava succedendo. Non appena s'interruppe il contatto col batiscafo, Jean-Jacques Alban, a bordo della Thorvaldson, intuì che non avrebbe mai più rivisto il Deep Rover e i suoi occupanti. Ma non aveva la minima idea delle dimensioni di ciò che stava accadendo a poche centinaia di metri sotto lo scafo della nave oceanografica. Senza dubbio la decomposizione degli idrati era in uno stadio molto avanzato: durante l'ultimo quarto d'ora, la puzza aveva raggiunto un'intensità insopportabile e sulle onde, che diventavano sempre più alte, galleggiavano schiumando pezzi di ghiaccio di dimensioni sempre maggiori. Alban sapeva altresì che indugiare sulla scarpata continentale equivaleva a un suicidio. L'aumento del gas avrebbe abbassato la tensione superficiale dell'acqua e la nave sarebbe affondata. Qualunque cosa stesse accadendo negli abissi era assolutamente imprevedibile. Alban detestava il pensiero di abbandonare il Deep Rover e il suo equipaggio, ma qualcosa gli diceva senza possibilità di equivoci che Stone e il pilota erano morti. Tra gli scienziati e i membri dell'equipaggio regnava una grande agita-
zione. Non tutti erano in grado d'interpretare correttamente il significato della schiuma e della puzza, ma la tempesta generava negli uomini un senso d'insicurezza. Si era scagliata dal cielo come un dio infuriato e sollevava con violenza crescente le onde del mar di Norvegia, che si schiantavano contro lo scafo della Thorvaldson, frangendosi in una miriade di gocce luccicanti. Tra poco sarebbe stato quasi impossibile reggersi in piedi. In quella situazione, Alban doveva soppesare molti fattori contrastanti. La sicurezza della Thorvaldson non si valutava con gli interessi degli armatori né con le esigenze degli scienziati. Si misurava unicamente col valore delle vite umane. E tra di esse c'erano anche quelle degli uomini sul batiscafo, sul cui destino il suo istinto era molto più convincente di quello che gli diceva la testa. Restare e scappare erano scelte sbagliate e giuste nel contempo. Alban fissò il cielo nero e si asciugò la pioggia dal volto. Nello stesso momento, il mare sconvolto si calmò per qualche istante. Lui sapeva che si trattava soltanto di una tregua, che la tempesta sarebbe poi ripresa con furia raddoppiata. E decise di restare. Sotto di lui era in corso un disastro. Improvvisamente gli idrati decomposti - fino a poco prima stabili estensioni di ghiaccio che s'infiltravano nei sedimenti, ora trasformati da vermi e batteri in un ammasso di rovine - crollarono su loro stessi. Per un tratto di centocinquanta chilometri, il legame ghiacciato di acqua e metano si trasformò in un'esplosione di gas. Mentre Alban decideva di mantenere la posizione, il gas si apriva la strada verso la libertà, faceva saltare pareti verticali, strappava pezzi di roccia, faceva tremare la scarpata continentale. E la fece precipitare. Nel giro di qualche secondo, chilometri cubi di detriti crollarono. Tutta la parte superiore del bordo continentale si mise in movimento, mentre, più in basso, gli strati collassavano e crollavano. In una mostruosa reazione a catena, le masse scivolarono l'una sull'altra, sfondarono le ultime strutture ancora solide e le trasformarono in fango. La piattaforma continentale tra Scozia e Norvegia, con le sue pompe, i suoi oleodotti e le sue piattaforme mostrò le prime fenditure. In mezzo alla tempesta, qualcuno gridò verso Alban. Lui girò su se stesso e scorse il vice direttore scientifico che gesticolava freneticamente. Nella tempesta, le sue parole si comprendevano appena. «La scarpata!» Fu l'unica cosa che Alban riuscì a sentire.
Dopo la breve calma ingannatrice, il mare infuriava più che mai, incalzando la Thorvaldson. Alban gettò un'occhiata disperata verso la gru che aveva calato in acqua il Deep Rover. Le onde schiumavano. La puzza di metano era insopportabile. Distolse a fatica lo sguardo e corse a metà della nave. Il vice direttore scientifico gli afferrò la manica della giacca. «Venga, Alban! Mio Dio! Deve vedere.» La nave vibrava. Dal fondo del mare saliva un cupo gorgoglio. Entrambi gli uomini avanzarono barcollando sulla stretta scala fino al ponte. «Là!» Alban fissò il monitor del sonar, che rilevava costantemente il fondale marino. Non credeva ai suoi occhi. Il fondale non c'era più. Era come guardare in un maelstrom. «La scarpata sta scivolando.» Nello stesso istante, Alban ebbe la conferma di quello che il suo istinto gli aveva suggerito: l'ingegnere pazzo e il pilota erano morti. «Dobbiamo andar via! Subito!» Il timoniere si girò verso di lui. «E dove?» Alban cercò di riflettere. Aveva la piena consapevolezza di quello che stava succedendo là sotto e sapeva cosa li aspettava. Correre verso un porto era escluso. Alla Thorvaldson restava una sola possibilità: dirigersi il più velocemente possibile verso le acque profonde. «Comunicare per radio», ordinò. «Norvegia, Scozia, Islanda... Tutti i residenti devono evacuare immediatamente la costa. Trasmettere in continuazione! Informiamo tutti quelli che possiamo raggiungere.» «Che ne è di Stone e di...» iniziò il vice direttore. Alban lo guardò. «Sono morti.» Non osava neppure immaginare la violenza dello smottamento. E quello che mostrava il sonar era sufficiente a farlo rabbrividire. Si trovavano ancora in una zona critica. Pochi chilometri all'interno dello zoccolo continentale e sarebbero affondati. Andando al largo, diretti verso il cuore della tempesta, probabilmente ne sarebbero usciti con le ossa rotte, ma si sarebbero salvati. Alban pensò alla morfologia della scarpata. Da nord-ovest, il fondale digradava in ampie terrazze. Se avevano fortuna, la slavina si sarebbe fermata nelle zone superiori. Nel caso di un effetto Storegga, però, non si sarebbe più fermata. Tutta la scarpata continentale sarebbe scivolata negli abissi per una larghezza di centinaia di chilometri e fino a una profondità di oltre tremila metri. Le masse sarebbero penetrate sino al fondo abissale a est
dell'Islanda e quindi avrebbero scosso il mar di Norvegia e il mare del Nord con violenza inaudita. Dove dovevano andare? Alban distolse lo sguardo dalla strumentazione. «Rotta verso l'Islanda», disse. Franarono milioni di tonnellate di fango e macerie. Quando le prime propaggini della slavina raggiunsero il canale Fær ØerShetland, sulla scarpata continentale tra Scozia e fossa norvegese non c'erano più terrazze, ma c'era soltanto una massa libera che precipitava sempre più, devastando tutto ciò che fino a poco prima aveva forma e struttura. Una parte della slavina si diresse a ovest delle isole Fær Øer e infine si fermò contro i banchi che circondavano il bacino islandese. Un'altra parte della slavina si divise lungo il rialzo tra l'Islanda e le Fær Øer. La maggior parte, però, avanzava nel canale Fær Øer-Shetland come su un gigantesco scivolo. Nulla poteva fermarla. Lo stesso bacino abissale che migliaia di anni prima aveva accolto lo scivolamento di Storegga, ora si riempiva con una slavina ancora più grande, che procedeva inarrestabile e creava un gigantesco risucchio. Poi crollò il bordo dello zoccolo continentale. Fu semplicemente strappato via per una larghezza di cinquanta chilometri. Ed era solo l'inizio. Sveggesundet, Norvegia Subito dopo la partenza di Johanson, Tina Lund aveva caricato i bagagli sulla jeep di Johanson e se n'era andata. Guidava velocemente. La pioggia che stava iniziando a cadere rendeva le strade viscide e la foschia riduceva la visibilità. Probabilmente Johanson avrebbe protestato, ma Tina era dell'idea che dalle auto si dovesse sempre pretendere il massimo. A ogni chilometro che l'avvicinava a Sveggesundet, si sentiva più leggera. Finalmente aveva deciso. Dopo aver chiarito la faccenda con Stone, aveva chiamato Kare e gli aveva proposto di passare insieme un paio di giorni al mare. Sebbene contento, Kare era stato anche un po' sorpreso... almeno così le era sembrato. Qualcosa nella sua reazione le aveva fatto sospettare che forse Johanson aveva ragione. Doveva raddrizzare l'andamen-
to a zig-zag delle settimane precedenti, altrimenti Kare l'avrebbe lasciata. Ebbe quasi paura che quell'istante fosse già passato e che Kare avesse in serbo parole inquietanti sul futuro del loro rapporto. Johanson aveva distrutto una casa, certo. Ma si poteva sempre cercare di costruirne un'altra. La jeep percorreva velocemente la strada principale di Sveggesundet, che si snodava lungo la costa. Tina sentiva il battito cardiaco accelerare. Lasciò la macchina in un parcheggio pubblico al di sopra del Fiskehuset. Di lì, una strada e un sentiero conducevano alla spiaggia, che non era di sabbia, ma di rocce e ghiaia levigata, coperta di muschio e felci. Il paesaggio intorno a Sveggesundet era piatto, ma romanticamente selvaggio, e il Fiskehuset, con la sua terrazza sul mare, offriva uno splendido panorama anche quel giorno, nonostante la pioggia e la scarsa visibilità. Tina percorse lentamente la breve distanza che la separava dal ristorante ed entrò. Era ancora chiuso e Kare non c'era. Un'aiuto cuoca, che stava trasportando ceste di verdura, le disse che era andato in paese. Forse doveva recarsi in banca o dal barbiere, comunque non aveva detto quando sarebbe stato di ritorno. Colpa mia, pensò Tina. Avevano appuntamento lì. Era stata troppo veloce, arrivando con molto anticipo. Adesso non le rimaneva che sedersi nel ristorante ad aspettare. Ma le sembrava una cosa troppo stupida. Sarebbe stato del tutto fuori luogo, uscirsene con un: «Cucù, guarda un po', sono già arrivata!» O peggio ancora con un: «Ciao, Kare, dov'eri finito? È un po' che ti aspetto!» Uscì sulla terrazza del Fiskehuset e la pioggia la colpì sul viso. Altri sarebbero rientrati immediatamente, ma Tina era insensibile al cattivo tempo. Aveva trascorso l'infanzia in campagna e amava le giornate di sole, ma anche le tempeste e la pioggia. Solo in quel momento si accorse come le raffiche di vento che nell'ultima mezz'ora avevano scosso la jeep si fossero trasformate in una vera tempesta. Non c'era più nebbia, ma in compenso le nuvole, basse nel cielo, s'inseguivano. Il mare era increspato e coperto di schiuma bianca. C'era qualcosa di strano. Era stata spesso lì e conosceva bene la zona. Tuttavia le sembrava che la riva fosse più ampia del solito. La ghiaia e le rocce, sebbene le onde s'infrangessero con violenza, si estendevano più del consueto. Sembrava quasi che ci fosse una bassa marea fuori programma. Ti sbagli, pensò.
Con decisione improvvisa, prese il cellulare e compose il numero di Kare. Poteva dirgli che era già lì. Meglio così che veder naufragare la sorpresa. Quel giorno non sarebbe riuscita a sopportare un muso lungo o anche solo la minima mancanza di gioia. Il telefono suonò quattro volte, poi rispose la segreteria. Va bene. Il destino ha voluto diversamente, rifletté. Si scostò dalla fronte i capelli ormai bagnati e rientrò, nella speranza di trovare in funzione la macchina del caffè. Tsunami Il mare era pieno di mostri. Da tempo immemorabile, esso offriva spazio a miti, metafore e paure primordiali. I compagni di Ulisse erano caduti vittime di Scilla, un orrendo mostro a sei teste. Per intimorire la vanitosa Cassiopea, Poseidone aveva creato Ceto e, per vendetta, aveva scatenato contro Laocoonte - insospettito dal cavallo di legno lasciato sulla spiaggia di Troia - due giganteschi serpenti marini, che avevano avvolto nelle loro spire lui e i suoi figli. Alle sirene si poteva sfuggire soltanto tappandosi le orecchie con la cera. Ondine, sauri di mare, polpi giganti, Vampyroteuthis infernalis popolavano le fantasie più inquietanti. Persino la bestia della Bibbia, quella con «dieci corna e sette teste», era uscita dal mare. Ma proprio la scienza, per sua natura votata allo scetticismo, da quand'era stata ritrovata la latimeria e dimostrata l'esistenza dei calamari giganti, parlava del nocciolo di verità contenuto non solo nelle leggende, ma anche nelle notizie più inquietanti. Per millenni, l'umanità aveva temuto gli abitanti degli abissi, ma poi si era messa con entusiasmo sulle loro tracce. Per lo spirito illuminato non c'era nulla d'inviolabile, nemmeno la paura. I mostri erano diventati i migliori compagni di gioco, gli autentici eppure immaginari animali di peluche della ricerca. Tranne uno. Il peggiore di tutti. Esso trascinava nel panico anche la mente più illuminata. Quando si sollevava dal mare e arrivava sulla terra portava morte e distruzione. Il suo nome si doveva ai pescatori giapponesi, che in alto mare non percepivano nulla del suo orrore e poi, al loro ritorno, trovavano il villaggio distrutto e i parenti morti. Avevano trovato per quel mostro una parola che tradotta alla lettera voleva dire «onda in porto». Infatti tsu stava per «porto» e nami per «onda».
Tsunami. La decisione di Alban di far rotta verso le acque profonde dimostrava che lui conosceva il mostro e le sue caratteristiche. L'errore più grande sarebbe stato quello di cercare l'apparente protezione del porto. Così fece l'unica cosa giusta. Mentre la Thorvaldson combatteva col mare grosso, la scarpata e i margini dello zoccolo continentale continuavano a scivolare nell'abisso. Si era generato un vortice che faceva sprofondare ampie superfici del mare. Le onde si allargavano dal luogo della frana, propagandosi con violenza ad anello in tutte le direzioni. Ma sopra il centro di quel cataclisma - un'area di diverse migliaia di chilometri quadrati - erano ancora così piatte da risultare indistinguibili dalle onde di tempesta. Superavano di circa un metro il livello del mare. Ma poi raggiungevano la zona piatta dello zoccolo continentale. A suo tempo, Alban aveva imparato che cosa rendeva diverse le onde di uno tsunami da quelle normali... In pratica tutto. Normalmente, il moto ondoso dipendeva dai venti. Quando l'irradiazione solare riscaldava l'atmosfera, il calore non si divideva equamente in tutte le zone della superficie terrestre. C'erano venti regolatori che, facendo attrito con la superficie dell'acqua, generavano onde. Gli stessi uragani sollevavano il mare al massimo a quindici metri. Le onde giganti, come le famigerate freak waves, erano eccezioni. La velocità di punta delle normali onde di tempesta era intorno ai novanta chilometri all'ora e l'effetto dei venti era limitato agli strati superficiali del mare. A una profondità di duecento metri era tutto tranquillo. Le onde dello tsunami, invece, non venivano create in superficie, ma negli abissi. Non erano il risultato della velocità del vento, ma di una scossa sismica, e le onde generate dalla scossa si muovevano a una velocità molto superiore. E l'energia si diffondeva lungo tutta la colonna d'acqua, sino al fondale marino. In tal modo, le ondate toccavano sempre il fondo, a qualunque profondità. Era tutta la massa d'acqua a entrare in movimento. Il miglior esempio di cosa fosse uno tsunami era stato mostrato ad Alban non con una simulazione al computer, ma in un modo molto più semplice. Qualcuno aveva riempito d'acqua un secchio di stagno e l'aveva colpito sul fondo, dall'esterno. Sulla superficie si erano formate diverse onde concentriche. I colpi si erano diffusi a tutta l'acqua contenuta nel secchio, che era stata spinta fuori sotto forma di onda. Gli avevano detto che doveva immaginarsi quell'effetto moltiplicato per
milioni di volte. Semplice. Lo tsunami generato dallo smottamento viaggiò all'inizio in tutte le direzioni a una velocità che toccava i settecento chilometri all'ora, con creste molto lunghe e basse. Soltanto la prima ondata trasportò un milione di tonnellate d'acqua e una corrispondente quantità d'energia. Dopo pochi minuti, raggiunse il margine della piattaforma continentale. Il fondale marino, divenuto più pianeggiante, frenò l'onda e ne rallentò il fronte, senza però ridurre l'energia trasportata. Le masse d'acqua continuarono a spingersi in avanti e, dato che la velocità era diminuita, cominciarono ad accavallarsi. Più il fondale diventava basso, più lo tsunami si alzava, mentre la lunghezza delle sue onde si restringeva drammaticamente. Sulle loro creste cavalcavano le onde della tempesta. Allorché lo tsunami raggiunse le prime piattaforme di trivellazione sullo zoccolo continentale del mare del Nord, la velocità era scesa a quattrocento chilometri all'ora, ma esso era già diventato alto quindici metri. Quindici metri non erano un'altezza tale da preoccupare eccessivamente le piattaforme. Almeno finché si trattava di normali onde di tempesta. Ma le ondate che si propagavano dal fondale marino fino alla superficie dell'acqua, accompagnate da una montagna d'acqua alta quindici metri, avevano l'effetto d'urto di un jumbo jet. Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese Per un momento, Lars Jörensen pensò addirittura di essere troppo vecchio per trascorrere gli ultimi mesi sulla Gullfaks C. Tremava. Che cos'era successo? Tremava con tale intensità che ogni cosa sembrava tremare con lui. Non riusciva a spiegarsi il perché. Non si sentiva male. Forse era depresso, ma non malato. Cominciava così un attacco di cuore? Poi si accorse che era la piattaforma a tremare, non lui. La Gullfaks C tremava. Rendersene conto fu uno shock. Fissò la torre di perforazione e poi il mare aperto. Sotto, infuriava la tempesta, ma lui ne aveva viste di peggiori e non avevano mai fatto tremare la piattaforma. Quel tremito Jörensen lo conosceva solo dai racconti: quando si sbagliava a fare una perforazione e si creava un blowout, che spingeva gas o petrolio ad alta pressione verso l'alto, allora poteva succedere che tutta la piattaforma vibrasse violentemente. Ma sulla Gullfaks una
cosa del genere era impossibile. Il petrolio veniva pompato da giacimenti semivuoti in cisterne sottomarine, e ciò non avveniva sotto la piattaforma, bensì a una certa distanza. Nel lavoro offshore esisteva una sorta di top ten delle potenziali catastrofi. Gli scheletri d'acciaio su cui poggiava la maggior parte delle piattaforme potevano cedere. Le freak waves, le onde giganti che, di tanto in tanto, erano formate dal vento e dalle tempeste, rappresentavano uno dei peggiori incidenti ipotizzabili nel settore dell'industria petrolifera. Allo stesso modo, si temevano le collisioni coi barconi staccatisi dagli ormeggi e con le petroliere sfuggite al controllo. Tutto ciò faceva parte della hit parade degli orrori, in cima alla quale c'era la perdita di gas. Le perdite erano difficili da trovare, in genere si scoprivano solo quand'era troppo tardi ed esse erano entrate in contatto col fuoco. In tal caso, esplodeva tutta la piattaforma, com'era successo alla Piper alpha sul versante inglese. Era stata la più grande catastrofe dell'industria petrolifera, costata la vita a centosessanta persone. Ma i maremoti erano l'incubo per antonomasia. Jörensen lo capì. Quello era proprio un maremoto. Poteva succedere qualsiasi cosa. Se la terra tremava, si perdeva ogni controllo. Il materiale si deformava e si strappava. C'erano fughe e incendi. Se un terremoto faceva vibrare una piattaforma, si poteva soltanto sperare che non succedesse di peggio, che il fondale marino non sprofondasse e non franasse, che le costruzioni ancorate reggessero al colpo. Ma subito dopo la scossa c'era un altro problema contro cui non c'era nulla da fare, proprio nulla. E quel problema stava raggiungendo la piattaforma. Jörensen lo vide avvicinarsi e comprese che non c'erano più speranze. Si girò per scendere di corsa le scale d'acciaio e fuggire dalla zona esposta ai venti. Accadde tutto in fretta. Inciampò e cadde. Istintivamente si aggrappò alla grata del pavimento. Esplose un rumore infernale, una serie di ruggiti e rimbombi, come se la piattaforma si stesse spezzando. Si sentirono grida, poi un boato assordante lacerò l'aria e Jörensen venne sbattuto contro il parapetto. Un dolore violento gli percorse il corpo. Era aggrappato alla grata e il mare sembrava sollevarsi. Sopra di lui, il metallo si rompeva, stridendo. Comprese con terrore che la piattaforma si stava piegando. La sua mente si annebbiò. Quando si è in preda al panico, spesso si fanno cose prive di senso, come stri-
sciare verso l'alto per cercare di sfuggire all'acqua che si sta avvicinando. E Jörensen si trascinò sul piano inclinato che poco prima era ancora un pavimento e che adesso s'inclinava sempre più. Poi si mise a gridare. Le forze lo abbandonarono. Le dita della mano destra si staccarono dalla grata di metallo e lui rimase aggrappato col solo braccio sinistro, che prese un colpo tremendo. Gridando come un pazzo, sollevò la testa e vide la torre di trivellazione che si rovesciava e il braccio con la fiamma del gas non più orizzontale sull'acqua, ma verticale, stagliato contro il cielo nero come la pece. Per un istante sembrò quasi che la fiamma si levasse ancora di più. Un saluto agli dei. Ehi, lassù, stiamo arrivando... Poi tutto esplose in una nube di braci gialle e Jörensen venne catapultato in mare. Non sentì dolore quando l'avambraccio si strappò, benché la sua mano sinistra fosse ancora aggrappata alla grata. Prima ancora che le fiamme potessero raggiungerlo, lo tsunami si abbatté a tutta velocità contro la piattaforma e distrusse la Gullfaks C. I pilastri di cemento sparirono negli abissi col margine continentale. Nonno, raccontaci una storia... Oslo, Norvegia La donna aveva la fronte imperlata di sudore. «Che vuol dire? Si riferisce a una specie di reazione a catena?» Apparteneva all'unità di crisi permanente del ministero dell'Ambiente ed era abituata a confrontarsi con gli scenari più devastanti. Conosceva il Geomar e sapeva che non era solito proporre teorie azzardate, quindi cercò di afferrare il più velocemente possibile quello che lo scienziato tedesco le stava dicendo al telefono. «Non proprio», rispose Bohrmann. «Si tratta piuttosto di un evento simultaneo. La distruzione avviene lungo la scarpata continentale. Ovunque nello stesso momento.» La donna deglutì. «E... quali zone sarebbero colpite?» «Dipende da dove avviene esattamente la rottura e da quanto è lunga. Credo che buona parte della costa norvegese sia coinvolta. Le onde di uno tsunami si diffondono per migliaia di chilometri. Dobbiamo informare tutta la popolazione costiera dell'Islanda, della Gran Bretagna, della Germania... Tutti.» La donna guardò fuori dalla finestra dell'edificio del governo. Pensò alle
piattaforme in mare. Erano centinaia fino a Trondheim. «Che conseguenze ci sarebbero per le città costiere?» chiese poi, in tono inespressivo. «Dovreste evacuarle immediatamente.» «E per le industrie offshore?» «Mi creda, è difficile dirlo. Nella migliore delle ipotesi, ci sarà una serie di piccoli scivolamenti. Allora si ballerà solo un po'. Nella peggiore delle ipotesi...» In quell'istante, la porta si aprì e un uomo dal volto terreo entrò di corsa. Porse alla donna un foglio e le fece cenno di chiudere la conversazione. Lei prese la stampata e diede una scorsa al breve testo. Era la trascrizione di una trasmissione radio. L'aveva mandata una nave. Thorvaldson, lesse. Poi andò avanti a leggere e si sentì come se il suolo le oscillasse sotto i piedi. «Ci sono segnali che annunciano l'arrivo dello tsunami», stava dicendo Bohrmann. «La popolazione sulla costa deve essere informata affinché li possa riconoscere. Un po' prima che si scatenino, si osserva un rapido sollevamento e abbassamento della superficie marina. Più volte di seguito. Un occhio esperto se ne accorge. Dopo dieci o venti minuti, l'acqua si ritira e si allontana dalla riva. Diventano visibili scogliere e rocce che normalmente sono sott'acqua. Al più tardi in quel momento bisogna recarsi nelle zone più elevate.» La donna non replicava, lo ascoltava appena. All'inizio della telefonata aveva cercato d'immaginare che cosa sarebbe successo se le parole dell'uomo al telefono avessero avuto un fondo di verità. Ora immaginava quello che stava già succedendo. Sveggesundet, Norvegia Tina Lund stava morendo di noia. Era sciocco starsene in quel ristorante deserto a bere caffè. Ogni forma d'inattività le sembrava una tortura. L'aiuto cuoca era stata gentile e aveva acceso per lei la macchina per il caffè espresso. Il cappuccino era buonissimo e, nonostante il cattivo tempo e la visibilità ridotta, dalla grande finestra panoramica si godeva una splendida vista sul mare. Ma per Tina quell'attesa era insopportabile. Stava prendendo col cucchiaio la schiuma di latte nella tazza, allorché qualcuno entrò, portando con sé una folata di vento. «Ciao, Tina.»
Lei alzò lo sguardo. Era un amico di Kare e lei lo conosceva solo come Åke. Noleggiava barche a Kristiansund e, nei mesi estivi, guadagnava un sacco di soldi. Scambiarono qualche parola sul tempo, poi Åke chiese: «Che cosa fai qui? Una visita a Kare?» «Era mia intenzione», disse Tina con un sorriso tirato. Åke la guardò con aria stupita. «Allora come mai te ne stai qui da sola? Perché quello stupido non è dove dovrebbe essere, cioè vicino a te?» «Colpa mia. Sono arrivata in anticipo.» «Chiamalo.» «L'ho fatto. Segreteria telefonica.» «Ah, giusto!» Åke si diede una pacca sulla fronte. «Dov'è ora non c'è campo.» Tina drizzò le orecchie. «Sai dov'è?» «Sì, poco fa ero con lui all'Hauffen.» «L'Hauffen? La distilleria?» «Sì. Comprava delle grappe. Ne abbiamo assaggiata qualcuna, ma... Tu conosci Kare. Beve meno alcol di un monaco in quaresima e mi sono dovuto sobbarcare da solo gli assaggi.» «È ancora là?» «Quando me ne sono andato, stava ancora in taverna a chiacchierare. Perché non vai lassù? Sai dov'è l'Hauffen?» Tina lo sapeva. La piccola distilleria, che produceva un'ottima acquavite non destinata all'esportazione, si trovava su un altopiano a sud, a dieci minuti di cammino. Se avesse preso la strada verso l'interno, in macchina sarebbe arrivata in due minuti. Tuttavia le piaceva l'idea di fare una breve passeggiata. Era stata seduta fin troppo. «Vado a piedi», annunciò. «Con questo tempaccio?» Åke fece una smorfia. «Be', fai come vuoi. Ma sta' attenta che ti cresceranno le pinne.» «Sempre meglio che le radici.» Si alzò e lo ringraziò per l'informazione. «A dopo. Tornerò con lui.» Una volta fuori, si tirò sulla testa il cappuccio della giacca, scese verso la spiaggia e si mise in marcia a fatica. Nei giorni limpidi, da lì si poteva vedere la piccola distilleria. Ora essa appariva come un'ombra grigia nella pioggia che cadeva di traverso. Sarebbe stato felice di vederla? Incredibile! Ragionava come un'adolescente innamorata. Tina Lund, incapace d'intendere e di volere. Certo che sarebbe stato felice. Poteva essere
diversamente? Si allontanò dal Fiskehuset, facendo scorrere lo sguardo sul mare. Si rese conto che poco prima si era sbagliata. Aveva pensato che la spiaggia rocciosa fosse più grande del solito, invece era come sempre. No, sembrava addirittura più stretta. Per un attimo si bloccò. Com'era possibile sbagliarsi a quel modo? Forse era a causa della tempesta. Le onde si spingevano verso l'interno, ma non sempre con la stessa profondità. Probabilmente ora stavano diventando più violente. Scrollò le spalle e andò avanti. Era bagnata da capo a piedi quando entrò nella distilleria, ma nel piccolo ingresso non trovò nessuno. Sulla parete opposta c'era una porta di legno aperta. Dalla cantina arrivava una luce. Non esitò e scese. Trovò due uomini appoggiati a una botte con un bicchiere in mano, intenti a conversare. Erano i fratelli proprietari della distilleria, due vecchi signori gentili con la faccia scavata dal tempo. Kare non c'era. «Mi dispiace», disse uno dei due. «È andato via da qualche minuto. L'hai mancato per un pelo.» «Era a piedi?» chiese. Forse avrebbe potuto raggiungerlo. «No.» L'altro scosse la testa. «Col fuoristrada. Ha comprato qualcosa. Non molto, ma troppo per portarlo a piedi.» «Ha detto se voleva tornare al ristorante?» «Sì, stava andando al ristorante.» «Okay. Grazie.» «Ehi, aspetta.» Il più vecchio si staccò dalla botte e si avvicinò. «Dato che sei venuta per niente, almeno beviti un goccetto con noi. È un'assurdità venire in una distilleria e andarsene sobri!» «Grazie, è molto gentile, ma...» «Ha ragione», confermò entusiasta il fratello. «Devi bere qualcosa.» «Io...» «Fuori c'è il finimondo, bambina mia. Come puoi pretendere di tornare indietro senza avere qualcosa di caldo nella pancia?» La guardavano tutti e due con gli occhi teneri. Tina sapeva che, se si fosse fermata per un bicchierino, avrebbe dato loro una grande gioia. E perché no? «Uno solo», disse. I fratelli si sorrisero e fecero un cenno di assenso, felici come se avessero appena conquistato Costantinopoli.
Isole Shetland, Gran Bretagna L'elicottero si preparò all'atterraggio. Johanson guardò in basso. Avevano sorvolato la costa, ne avevano seguito il corso e adesso si trovavano sopra il piccolo eliporto dove Karen Weaver lo aspettava. Le scogliere degradavano dolcemente verso est e finivano in un'insenatura arcuata. Da lì in poi il terreno era più piatto. Si allineavano interminabili spiagge di sabbia e ghiaia, e alle loro spalle si stendeva il tipico paesaggio delle Shetland, brullo e coperto di muschio con collinette solcate da strade serpeggianti. L'eliporto apparteneva a una stazione di osservazione marina che ospitava una mezza dozzina di scienziati. Ma forse era esagerato definire «eliporto» uno spiazzo di pietrisco più o meno rotondo in mezzo a una distesa grigio-verde. La stazione era poco più di un insieme di baracche sghembe. Una strada stretta scendeva dalla collina e finiva in un molo. Johanson non vide neanche una barca. Vicino alle baracche c'erano due fuoristrada e un furgoncino Volkswagen arrugginito. Karen Weaver si trovava là perché stava scrivendo un articolo sulle foche. Usciva in mare con gli scienziati, s'immergeva con loro e abitava con loro nelle baracche. Un'ultima raffica di vento scosse il Bell, poi finalmente l'elicottero si posò a terra. «Grazie a Dio ce l'abbiamo fatta», sospirò il pilota. Al margine del campo d'atterraggio, Johanson scorse una figurina, i cui capelli svolazzavano al vento. Pensò che fosse Karen Weaver e rifletté che gli piaceva come lo stava aspettando lì, in quella landa desolata. Non lontano dalla donna c'era una motocicletta sul cavalletto. Tutto di suo gusto. Un'isola fuori dal tempo e una figura solitaria... Si stiracchiò, rimise nella borsa il libro delle poesie di Whitman e prese il cappotto. «Per quanto mi riguarda, potremmo farci un altro volo», disse. «Però mi dispiacerebbe far aspettare la signora.» Il pilota si girò verso Johanson e aggrottò la fronte. «Sta solo recitando la parte del duro o non si è davvero accorto di quello che è successo?» Johanson cercava d'infilarsi le maniche del cappotto. «Questo dovrà scoprirlo da solo. Lei ha di certo esperienza coi membri dei consigli d'amministrazione.» «Sì, certo» «E allora? Sono un duro?» «Non lo so. Forse sta solo bluffando. La maggior parte di quelli con cui
sono stato in viaggio mi avrebbe assordato con le urla.» «Anche Skaugen?» «Skaugen?» Il pilota rifletté per un attimo. «No. Credo che nulla possa impressionare Skaugen.» Mi sarei meravigliato del contrario, pensò Johanson. «Ce la fa a venirmi a prendere domani in tarda mattinata? Diciamo a mezzogiorno?» «Nessun problema.» Attese finché il portellone non si aprì, poi scese la scaletta. Era un duro? Nel suo intimo era contento di rimettere i piedi sulla terra. Il pilota doveva ripartire, ma evidentemente non lo considerava un problema perché era abituato ai repentini cambiamenti delle condizioni meteorologiche. Si sarebbe concesso solo una breve pausa e poi sarebbe ripartito per Lerwick, dove avrebbe fatto rifornimento. Johanson si mise in spalla la borsa da viaggio e si avviò verso la figura in attesa. Il cappotto si gonfiava e gli si avvolgeva intorno alle gambe, ma almeno non pioveva. Karen Weaver gli andò incontro. Curiosamente, a ogni passo sembrava diventare più piccola. Quando finalmente gli fu davanti, lui valutò che doveva essere alta un metro e sessantacinque. Aveva una corporatura solida: i jeans si tendevano sulle gambe muscolose e, sotto la giacca di pelle, si delineavano larghe spalle. Per quello che Johanson poteva vedere, non era truccata. Però sembrava attraente. L'abbronzatura era dovuta alla vita all'aperto, era frutto del sole cocente... Lo stesso sole che aveva fatto emergere anche le numerose lentiggini, distribuite sugli ampi zigomi e sulla fronte. Il vento smuoveva una cascata di riccioli castani. Lei lo fissò, interessata. «Lei è Sigur Johanson», esordì con sicurezza. «Com'è stato il volo?» «Orribile. Mi sono dovuto aggrappare alla rassicurante compagnia di Walt Whitman.» Guardò verso l'elicottero. «Ma il pilota sostiene che sono un duro.» Lei sorrise. «Vuole mangiare qualcosa?» Strana domanda da fare subito dopo i saluti, pensò. Poi si rese conto che aveva fame. «Volentieri. Dove?» Lei fece un cenno col capo verso la motocicletta. «Potremmo andare al villaggio vicino. Se ha sopportato il volo, dovrebbe reggere anche alla Harley. Alla stazione faremmo prima, ma solo nel caso in cui lei abbia una predilezione per il manzo sotto sale e la zuppa di piselli in scatola.» Johanson la guardò e si accorse che i suoi occhi erano di un insolito blu
intenso. Il blu del mare profondo. «Perché no?» disse. «Gli scienziati sono in mare?» «No, è troppo mosso. Sono al villaggio per fare provviste. Qui sono libera, anche se il massimo della mia arte culinaria è aprire una scatoletta. Venga.» Johanson la seguì sullo spiazzo sassoso dell'eliporto verso la stazione. L'edificio non appariva così sghembo come gli era sembrato visto dall'alto. «Dove sono le barche?» chiese. «Preferiamo non lasciarle fuori», spiegò Karen, indicando la baracca più vicina all'acqua. «L'insenatura non è molto protetta, perciò, dopo averle usate, le riportiamo nella baracca vicina al mare.» Il mare... Dov'era il mare? Johanson sobbalzò e si fermò. Là dove, fino a poco prima, i frangenti avevano sferzato la spiaggia, adesso si stendeva una piana fangosa da cui spuntavano rocce piatte. Il mare si era ritirato. Doveva essere successo nel corso degli ultimi minuti. In ampie zone si vedeva solamente il terreno. Neppure un terremoto avrebbe provocato un effetto simile in così breve tempo. L'acqua si era ritirata per centinaia di metri. Karen Weaver avanzò ancora di qualche passo, poi si voltò verso di lui. «Che c'è? Non ha più fame?» Lui scosse la testa. Nelle sue orecchie risuonò un rumore, crebbe, divenne più alto. In un primo momento, lui pensò a un grande aereo che sorvolava l'acqua a bassa quota e che si era fermato sull'isola. Ma quello non era il rumore di un aereo. Sembrava il brontolio di un temporale in avvicinamento, solo che era troppo uniforme... Non potevano essere tuoni e non cessava... Improvvisamente capì. Karen Weaver seguì il suo sguardo. «Che diavolo è quello?» Johanson stava per rispondere, poi però vide l'orizzonte scurirsi. E anche lei lo vide. «All'elicottero!» gridò. La giornalista sembrava impietrita. Poi si mise a correre. Insieme corsero verso l'elicottero. Johanson vide la cabina di guida e il pilota che testava gli strumenti. Ci volle qualche secondo perché l'uomo si accorgesse delle due figure lanciate verso di lui. Johanson gli fece segno di abbassare la scaletta. Sapeva che il pilota non poteva vedere quello che stava arrivando dal mare. L'elicottero era girato con la cabina verso l'entroterra.
L'uomo aggrottò la fronte, poi annuì. Il portellone si aprì con un sibilo e la scaletta scese. Il rimbombo si avvicinava. Era come se tutto il mondo stesse avanzando verso l'isola. Ed è proprio così, pensò Johanson. Il posto sbagliato. Il momento sbagliato. Atterrito e affascinato, si bloccò sulla scaletta, guardando il mare che tornava a ricoprire la piana fangosa. Mio Dio, non è possibile! Non può succedere nella nostra epoca, a persone civili. Era una cosa da libro di storia. Tutti sapevano che, nel corso di milioni di anni, meteoriti, eruzioni vulcaniche e maremoti avevano cambiato la faccia della Terra... Eppure sembrava che, grazie a una sorta di trattato segreto, simili avvenimenti fossero finiti per sempre con l'inizio dell'era tecnologica. «Johanson!» Qualcuno gli diede un colpo. Lui si riscosse e si affrettò a salire gli scalini, seguito da Karen Weaver. L'elicottero aveva iniziato a vibrare. Poi Johanson scorse lo sbalordimento negli occhi del pilota e gridò: «Parta, subito!» «Che razza di rumore è? Che succede?» «Via, sollevi questa carcassa!» «Non posso fare i miracoli. Cosa devo fare? Verso dove devo volare?» «Non ha importanza. Bisogna prendere quota.» I rotori si misero in moto, scoppiettando. Il Bell si staccò dal suolo e salì di un metro, poi di due metri. Ma la curiosità del pilota ebbe il sopravvento sulla paura. L'uomo girò l'elicottero di centottanta gradi, in modo da vedere il mare. Sul suo volto si dipinse il terrore. «Oh, santo cielo», esclamò. «Là!» Karen indicò le baracche. «Là fuori!» Johanson girò la testa. Un uomo in jeans e T-shirt stava uscendo di corsa dall'edificio principale. Correva a perdifiato, gesticolando e teneva la bocca spalancata. Johanson guardò Karen, perplesso. «Credevo...» «Anch'io.» La donna osservava terrorizzata la figura che si avvicinava. «Dobbiamo scendere. Oddio, giuro che non sapevo che Steven fosse rimasto qui, pensavo che tutti...» Johanson scosse energicamente la testa. «Non ce la può fare.» «Non possiamo abbandonarlo.» «Guardi là fuori, maledizione. Non ce la può fare. Non ce la facciamo
neanche noi...» Karen lo spinse da parte e gli passò davanti, diretta al portellone. Ma il pilota inclinò l'elicottero sulla striscia di sabbia, verso l'uomo che stava correndo, e lei perse l'equilibrio. Il velivolo fu colpito da una serie di violente raffiche che lo fecero vibrare. Il pilota imprecò ad alta voce. Per un attimo persero di vista lo scienziato, poi se lo ritrovarono vicinissimo. «Ce la può fare», gridò Karen. «Dobbiamo scendere!» «No», sussurrò Johanson. Lei non lo sentì. Non poteva sentirlo. Anche il frastuono dei rotori spariva nel rimbombo del mare che si rovesciava verso la costa. Johanson sapeva che non avrebbero potuto salvare lo scienziato. Oltretutto avevano perso tempo prezioso e ormai dubitava che loro stessi riuscissero a cavarsela. Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla figura che stava correndo e a guardare dritto davanti a sé. L'ondata era gigantesca. Doveva essere alta trenta metri. Una parete verticale scrosciante di acqua grigio-nera. Poche centinaia di metri la separavano dalla riva, ma si avvicinava con la velocità di un treno. Restavano solo pochi secondi prima della collisione. Non c'era tempo sufficiente per prendere a bordo l'uomo e sfuggire alla massa d'acqua. Tuttavia il pilota provò ancora una volta ad avvicinarsi allo scienziato in fuga. Forse sperava che potesse saltare all'interno dal portellone aperto, oppure che riuscisse ad afferrare uno dei pattini... Insomma a fare una di quelle cose che al cinema riuscivano sempre, a patto di essere Bruce Willis o Pierce Brosnan. L'uomo inciampò e cadde. È finita, pensò Johanson. Tutto divenne scuro. Dal vetro della cabina non si vedeva più il cielo, ma solo l'onda. Riempiva il loro campo visivo, si lanciava contro di loro ad altissima velocità. Si erano giocati l'unica possibilità. Non c'era più niente da fare. Al massimo, con una risalita verticale, sarebbero stati travolti a metà del gigantesco frangente. Se avessero volato rasoterra verso l'interno, avrebbero guadagnato tempo per riprendere quota, ma l'acqua li avrebbe raggiunti comunque. Lo tsunami era più veloce del Bell che, oltretutto, doveva anche girarsi. I pochi secondi che avevano ancora a disposizione non sarebbero bastati. In un momento di lucidità, Johanson si chiese come potesse osservare quella massa d'acqua senza perdere la ragione. Poi fu riportato bruscamente alla realtà da una manovra del pilota... l'unica manovra giusta. L'uomo spinse all'indietro l'elicottero e contemporaneamente lo fece alzare. Il muso
del Bell si abbassò e tutti loro si ritrovarono a fissare il terreno. Però non stavano cadendo, anzi si stavano allontanando dal suolo e dall'ondata incombente. Il Bell ruggiva come se gli ingranaggi volessero esplodere. Johanson non avrebbe mai creduto che un elicottero potesse compiere una simile manovra - forse non lo credeva nemmeno il pilota -, eppure funzionò. L'ondata incombeva su di loro, sbavando come un animale affamato. Turbinò sulla spiaggia e cominciò a ripiegarsi su se stessa. Montagne di schiuma inseguivano il Bell nella sua fuga pazzesca. Lo tsunami ruggiva e urlava. Un attimo dopo, l'elicottero prese un colpo terribile e Johanson fu scagliato contro la parete laterale, appena di fianco al portellone aperto. L'acqua lo colpì sul viso, sbatté la testa contro la parete e vide lampi rosso scuro. Poi le sue mani toccarono una sbarra di metallo e vi si aggrapparono. Fu percorso da un dolore lancinante. Non era più in grado di dire se lo spaventoso scroscio che sentiva nelle orecchie provenisse dall'onda o dalla sua testa, se stesse aumentando o calando. Il suo unico pensiero era che sarebbero stati travolti e annientati. Ormai attendeva solo la fine. Poi la luce tornò. La cabina era piena di acqua vaporizzata. Sopra l'elicottero correvano nere nubi frastagliate. Ce l'avevano fatta. Erano scampati allo tsunami, riuscendo a superare di un pelo la cresta. L'elicottero continuò a salire e intanto virò, in modo che si potesse vedere la costa. Ma la costa non c'era più. Si scorgeva soltanto una violenta ondata, che, senza aver perso velocità, si spingeva verso l'interno e ingoiava la campagna. La stazione, i veicoli e lo scienziato erano spariti. Alla loro destra, dove la costa si alzava in verticale, esplodevano sugli scogli fontane di schiuma che schizzavano verso il cielo, molto più in alto del Bell, come se volessero unirsi alle nuvole. Karen si rialzò a fatica. Quando il getto d'acqua aveva colpito il Bell, lei era caduta sulla fila di sedili. Guardava fuori e continuava a ripetere: «Mio Dio!» Il pilota taceva. Era terreo e gli tremava la mandibola. Ma ce l'aveva fatta. Inseguirono l'ondata. La massa d'acqua procedeva sullo sfondo a una velocità molto più elevata di quella dell'elicottero. Una collinetta entrò nel loro campo visivo; l'ondata ci passò sopra e si riversò, schiumando, nella pianura retrostante, senza quasi rallentare Il terreno era così pianeggiante che l'acqua si sarebbe spinta all'interno per chilometri. Johanson vide una
serie di macchie bianche... Erano pecore, che fuggivano disperate. Poi sparirono anch'esse. Una città costiera sarebbe stata rasa al suolo, pensò. No, sbagliato. Sarà rasa al suolo. Non una sola, ma praticamente tutte le città sulla costa del mare del Nord sarebbero sprofondate nel maelstrom. Lo tsunami, ovunque si fosse generato, in quello stesso istante si stava diffondendo a cerchio, com'era tipico delle onde provocate da un impulso. La sua furia distruttrice avrebbe raggiunto la Norvegia, l'Olanda, la Germania, la Scozia e l'Islanda. Quando Johanson si rese conto della catastrofe in atto, si piegò su se stesso, come se qualcuno gli avesse versato del metallo fuso in grembo. Allora rammentò chi c'era a Sveggesundet. Sveggesundet, Norvegia Non si può negare che i fratelli Hauffen abbiano notevoli doti d'intrattenitori, pensò Tina. Facevano tutto il possibile per spingerla a restare. Avevano persino affermato di essere amanti di gran lunga migliori di Kare Sverdrup. Intanto le davano colpetti sui fianchi e le facevano cenni birichini. Tina fu costretta a bere un'altra grappa prima che acconsentissero a lasciarla andare. Guardò l'orologio. Se fosse partita subito, sarebbe arrivata puntuale al Fiskehuset. Talmente puntuale da essere quasi patetica, rifletté. Chi è così puntuale ha bisogno di qualcosa. Un paio di minuti di ritardo l'avrebbero probabilmente messa in una condizione di superiorità. Stupida. Non era necessario andare di corsa al Fiskehuset. I due vecchi esigevano un abbraccio. Lei era la compagna giusta per Kare, giuravano, una donna che non disdegnava la buona acquavite. Dopo una serie di complimenti, battute e buoni consigli, Tina venne finalmente accompagnata fuori dalla cantina da uno dei fratelli. Il vecchio le aprì la porta, guardò la violenta pioggia che cadeva di traverso e decise che lei non poteva uscire senza ombrello. Tina si sforzò di spiegargli che non lo usava mai, perché il suo lavoro prevedeva di stare all'aperto con ogni clima, ma fu come parlare al muro. Così lui andò a prendere l'ombrello. Dopo un ultimo abbraccio, Tina riuscì ad allontanarsi e prese a camminare nella pioggia, con l'ombrello chiuso. Ne vedremo delle belle, pensò. Il cielo era diventato ancora più nero e il vento soffiava con violenza
crescente. Accelerò il passo. Non aveva appena deciso di prendersi un po' di tempo? Non sei capace di andare piano, eh? Johanson aveva perfettamente ragione. Lei viveva sempre a tutto gas. E allora? Lei era fatta così e adesso voleva raggiungere l'uomo che aveva deciso di amare. Da qualche parte si sentiva un debole suono. Si fermò. Era il suo cellulare! Mi chiamai Maledizione, da quanto tempo sta suonando? Trattenendo il fiato, aprì la cerniera lampo della giacca a vento e frugò alla ricerca del telefono. Probabilmente aveva già chiamato diverse volte, ma nella cantina non c'era campo. Eccolo. Lo tirò fuori e rispose, convinta di sentire la voce di Kare. «Tina?» Sobbalzò. «Sigur. Oh, è... Sei gentile a chiamarmi, io...» «Dov'eri, maledizione? È un sacco di tempo che cerco di raggiungerti!» «Mi dispiace, io...» «Dove sei?» «A Sveggesundet», replicò lei, esitante. La voce di Johanson era distorta; evidentemente stava parlando in mezzo a un fortissimo rimbombo, ma c'era anche dell'altro. Un tono di voce che lei non aveva mai sentito e che le faceva paura. «Sono lungo la spiaggia, c'è un tempaccio, ma mi conosci...» «Vattene!» «Come?» «Devi andartene subito!» «Sigur! Ma sei matto?» «Adesso, subito!» Johanson ansimava. Le parole crepitavano contro di lei come la pioggia, sempre più distorte da fruscii e scariche, al punto che pensò di non aver capito. Poi improvvisamente comprese quello che le stava dicendo e, per un attimo, le sembrò che le gambe fossero diventate di gomma. «Non so dov'è l'epicentro!» urlò Johanson. «Evidentemente l'onda ci mette di più per arrivare da voi, ma è lo stesso, non ti resta altro tempo. Vattene, perdio, vattene subito!» Lei fissò il mare. La tempesta infuriava. «Tina?» urlò Johanson. «Io... okay.» Lei inspirò profondamente, riempiendo i polmoni. «Okay, okay!»
Poi gettò via l'ombrello e cominciò a correre. Attraverso la pioggia riusciva a vedere le luci gialle e invitanti del ristorante. Kare... pensò. Dobbiamo anzitutto prendere la macchina, la mia o la sua. Aveva lasciato la jeep cinquecento metri sopra il ristorante, ma vicino al Fiskehuset c'erano alcuni posti auto ed era lì che Kare parcheggiava di solito. Correndo, Tina cercava di scorgere l'auto, ma la pioggia le scorreva sul viso. Tentò di asciugarla e allora le venne in mente che i parcheggi riservati si trovavano sull'altro lato dell'edificio e quindi da lì non si potevano vedere. Corse ancora più velocemente. Un rumore si mischiava all'ululato del vento e al ruggito delle onde. Una specie di risucchio. Senza smettere di correre, Tina si voltò. E vide una cosa inimmaginabile. Incespicò e poi non poté far altro che fermarsi a guardare il mare che stava sparendo, come se qualcuno avesse tolto il tappo a una vasca gigantesca. Quindi comparve un fondo nero, frastagliato. Il mare si stava ritraendo, velocissimo. Fu allora che sentì il rimbombo. Socchiuse le palpebre e si asciugò di nuovo la pioggia dal volto. All'orizzonte, nella tempesta, si stava manifestando qualcosa d'indefinito, ma di imponente. Prendeva forma a poco a poco. In un primo momento, lei pensò che si stesse addensando un nuovo fronte nuvoloso, ancora più nero. Ma il fronte si avvicinava troppo rapidamente ed era troppo verticale. Involontariamente fece un passo indietro. Riprese a correre. Senza auto era perduta, non c'erano dubbi. Doveva superare il villaggio, raggiungere una zona più elevata. Respirava profondamente e lentamente per contenere il panico che cresceva. Aveva forza sufficiente per continuare a correre, ma non le sarebbe servito a niente. L'ondata era più veloce. Davanti a lei il sentiero si biforcava: a sinistra, procedeva fino al ristorante; a destra, iniziava una scorciatoia in salita che portava dalla costa fino allo spiazzo dov'era parcheggiata la jeep di Johanson. Se avesse risalito di corsa quel sentiero ce l'avrebbe fatta. Poi si trattava di allontanarsi a tutto gas. Ma che ne sarebbe stato di Kare se lei fosse andata via? Sarebbe stato spacciato. No, impossibile, impensabile, non poteva lasciarlo là. Non voleva andarsene senza di lui. I due vecchi della distilleria avevano detto che sarebbe andato direttamente al Fiskehuset. Dunque si trovava là e la stava aspettando. Non meritava di essere lasciato solo. E lei non meritava di rimanere ancora sola. Nessun essere umano lo meritava.
Con ampie falcate superò la biforcazione e corse verso l'edificio illuminato. Non era lontana dal Fiskehuset. Sperava che la macchina di Kare fosse là. Il rimbombo si avvicinava molto velocemente, ma lei cercò d'ignorarlo per non farsi paralizzare dal terrore. Anche lei era veloce. Sarebbe stata più veloce dell'ondata, la sua velocità sarebbe bastata per due. La porta della terrazza del ristorante si spalancò, qualcuno saltò fuori e rimase bloccato a fissare il mare. Era Kare. Tina lo chiamò. La sua voce si perse negli ululati del vento e nel rombo dell'onda in avvicinamento. Kare fissava l'acqua, senza reagire. Non fu neppure sfiorato dall'idea di guardare verso di lei, che pure lo chiamava disperatamente. Poi corse via. Scomparve sull'altro lato della casa. Tina emise un gemito. Instancabile, continuò a correre. Un momento dopo, sentì in mezzo alla tempesta il debole rumore di un motore che si accendeva. Qualche secondo dopo, la macchina di Kare comparve sul retro del ristorante, poi imboccò a grande velocità la strada verso l'altura. Il cuore di Tina quasi si fermò. Non poteva farle quello. Non poteva andarsene senza di lei. Doveva averla vista! Non l'aveva vista. Kare ce l'avrebbe fatta. Forse. Fu presa dallo sconforto. Continuò a correre in mezzo a sterpaglie e pietrisco, non più verso il ristorante, ma verso l'alto, verso il parcheggio. Dopo aver superato la biforcazione, fu costretta ad attraversare una striscia di terreno roccioso, che la rallentò. Ma era l'unica strada che le rimaneva. La sua ultima possibilità era la jeep. Dopo qualche metro, si trovò davanti un ostacolo, una grata alta due metri. Afferrò le maglie, si tirò su e, con un balzo, arrivò dall'altra parte. Aveva perso altri secondi preziosi, e intanto l'onda si avvicinava. Ma improvvisamente, dietro le cortine di pioggia, scorse la nera silhouette della jeep, ed era più vicina di quanto avesse pensato, a portata di mano. Corse ancora più veloce. Le rocce lasciarono posto al prato. Sotto i suoi piedi c'era il terreno del parcheggio. Bene! E là c'era la macchina. Forse ancora cento metri. Meno. Forse cinquanta. Quaranta. Corri, Tina, corri!
L'asfalto tremava. Il sangue le martellava nelle vene e le rimbombava nelle orecchie. Corri! La mano scivolò nella tasca della giacca e afferrò le chiavi dell'auto. Le suole degli stivali colpivano il terreno con un ritmo regolare. Negli ultimi metri scivolò, ma non era importante, era arrivata. Sbatté contro la macchina. Su, apri! Sentì le chiavi scivolarle via di mano. No! pensò. Ti prego, non adesso! Presa dal panico, tastava ovunque, girava su se stessa. Mio Dio, dove sono quelle maledette chiavi? Devono essere qui, da qualche parte... Calò l'oscurità. Lentamente, Tina sollevò la testa e vide l'ondata. Non aveva più fretta. Ormai sapeva che era troppo tardi. Aveva vissuto in fretta, sarebbe morta in fretta. Sperava che almeno finisse velocemente. Talvolta si era chiesta come sarebbe stato morire, che cosa poteva passare per la testa quando ci si rendeva conto che non c'era più nessuna possibilità di fuga. La morte avrebbe detto: «Eccomi qui. Hai cinque secondi, pensa a qualcosa, quello che vuoi. Oggi sono generosa e, se vuoi, puoi passare in rassegna tutta la tua vita, ne avrai il tempo». Non era forse così? Mentre un'auto si schiantava, di fronte a un proiettile o nel corso di una caduta mortale... Non si diceva forse che la vita intera scorreva davanti agli occhi? Le immagini dell'infanzia, il primo amore, una sorta di Best of? Tutti dicevano che era così, quindi così doveva essere. Ma l'unica cosa che Tina sentiva era il terrore che la morte potesse farle male, che potesse farla soffrire. Si vergognava un po' che la sua vita finisse in modo così desolante. La morte aveva mandato tutto all'aria. Era l'unica cosa che riusciva a pensare. Dentro di lei, non scorreva nessun film hollywoodiano. Non c'erano grandi pensieri. Non c'era una fine dignitosa. Davanti ai suoi occhi, lo tsunami colpì il ristorante di Kare e lo ridusse in macerie. La parete d'acqua raggiunse il parcheggio. Qualche secondo dopo, sfrecciò lungo l'altura. Lo zoccolo continentale Mentre l'onda, allargandosi, raggiungeva la terraferma, sullo zoccolo continentale aveva già lasciato una distruzione inimmaginabile.
Una parte delle piattaforme di perforazione e delle stazioni di pompaggio, costruite direttamente sul margine continentale, era sparita negli abissi con la scarpata. Soltanto quello, nel giro di qualche minuto, era costato la vita a migliaia di persone. Ma era solo un assaggio di ciò che lo tsunami avrebbe fatto sullo zoccolo continentale. Come in un tamponamento, le masse d'acqua spinte in avanti si ammucchiarono l'una sull'altra, in un fronte verticale che cresceva sempre più, a mano a mano che il fondo si abbassava. Sotto il loro impatto, le strutture portanti delle piattaforme di produzione, costruite con un sistema di ponteggi, si spezzarono come fiammiferi. Nel giro di nemmeno quindici minuti, si rovesciarono oltre ottanta piattaforme, incapaci di reggere quel peso. Per molte di esse, il colpo fatale non venne inferto dalla parete d'acqua - le piattaforme di produzione del mare del Nord erano progettate per sopportare onde di circa quaranta metri senza subire gravi danni, cosa che statisticamente avveniva una volta ogni cento anni -, ma da un insieme di diversi fattori. Nei normali frangenti, si misurava una pressione di dodici tonnellate per metro quadrato, sufficiente per strappare gli argini di un porto e scagliarli nel centro della città, per far vorticare in aria piccole navi e spezzare in due le petroliere e i grandi cargo. Quelli erano i danni causati da onde generate dal vento. La loro forza d'urto si misurava in modo diverso da quella delle onde di uno tsunami. Si poteva dire che, rispetto a uno tsunami delle stesse dimensioni, un frangente era roba da poco. Già a metà dello zoccolo continentale, lo tsunami provocato dallo smottamento raggiungeva un'altezza di venti metri. Ma, nonostante l'altezza, la sua cresta sarebbe passata sotto la coperta delle piattaforme. A essere fatale fu la violenza con cui esso colpì le strutture portanti. Sul lungo periodo, le piattaforme petrolifere, come le navi, erano soggette al logoramento del mare. Dato che, in base alle statistiche, un'onda da quaranta metri si produceva una volta ogni secolo, i progettisti avevano costruito le piattaforme in maniera tale che potessero sopportarla. A partire da questo elemento, seguendo una logica tesa alla rassicurazione, le piattaforme erano state classificate come costruzioni in grado di reggere per cento anni. Era dunque vero che, statisticamente, potevano sopportare per un secolo l'effetto del vento e del mare, ma ciò ovviamente non significava che avrebbero potuto reggere per cento anni a onde anomale continue. Ed era assai probabile che non avrebbero retto neppure a una grande ondata, perché soltanto di rado il deterioramento era il risultato di onde mostruose. In genere, esso era la conseguenza del continuo logorio provocato da onde
più piccole e dalle tempeste. In breve tempo, in ogni piattaforma si creava un tallone d'Achille, benché nessuno potesse dire con precisione dove si trovasse. In dieci anni, quei punti deboli potevano subire un logoramento che corrispondeva a quello subito da altri punti in cinquant'anni. E anche un'onda di medie dimensioni poteva rivelarsi un grave problema. I calcoli matematici sono una brutta bestia. Le medie statistiche, su cui si basa la progettazione delle costruzioni marine, partono da affermazioni ideali e non dalla realtà. Il concetto di logoramento medio può essere valido negli uffici e nelle teste dei costruttori, ma la natura non conosce le medie e non si attiene alle statistiche. La natura è fatta di una successione incalcolabile di situazioni momentanee ed estreme. Forse, in certe acque, si possono rilevare onde alte mediamente dieci metri, ma, se s'incappa in un esemplare di trenta metri, che statisticamente non esiste, il valore medio non porta nessun aiuto. E si muore. Lo tsunami spazzò via il paesaggio di torri d'acciaio, superando in un attimo il loro limite di logoramento. I piloni si ruppero, le saldature si spezzarono, le costruzioni sopracoperta si ribaltarono. Soprattutto nella parte inglese, dove prevalevano i ponteggi a tubi d'acciaio, la forza d'urto dell'onda distrusse quasi tutte le costruzioni o le danneggiò gravemente. Da anni la Norvegia era specializzata nei piloni di cemento armato e lì lo tsunami trovò meno punti deboli. Tuttavia il disastro non fu meno devastante, perché le onde spararono proiettili giganteschi contro le torri di estrazione: le navi. Teoricamente, la maggior parte delle navi non poteva reggere onde di più di venti metri d'altezza. Secondo le statistiche, gli scafi sopportavano al massimo onde di 16,5 metri. La realtà però era diversa. A metà degli anni '90, onde anomale abbattutesi sulla Scozia avevano procurato un buco grande come una casa nella petroliera Mimosa da tremila tonnellate, ma la nave se l'era cavata. Nel 2001 un frangente di trentacinque metri al largo del Sudafrica stava per affondare la nave da crociera MS Bremen, ma non c'era riuscito. Nello stesso anno, all'altezza delle Falkland, la Endeavour, una nave lunga novanta metri, era caduta vittima di un fenomeno che gli scienziati chiamavano le «tre sorelle», tre onde in sequenza con un'altezza di trenta metri. La Endeavour era stata gravemente danneggiata, ma era riuscita a trovare rifugio in porto. In genere, però, delle navi che facevano simili incontri non si sapeva più nulla. La più subdola delle onde giganti era il cosiddetto «buco nell'oceano». Il fronte dell'onda formava una sorta di profonda voragine in cui la
nave finiva di prua o di poppa. Se le onde si trovavano a una certa distanza, in genere c'era tempo sufficiente per risalire e scalare il dorso dell'onda successiva. Se erano serrate, la situazione cambiava. La nave cadeva nella voragine e l'onda seguente, troppo vicina, la inghiottiva, facendola sprofondare sotto un muro d'acqua. E se anche la nave fosse riuscita a riemergere dalla voragine, cominciando a risalire, si poteva solo sperare che l'onda non fosse troppo alta o troppo verticale. In genere, però, lo era. Allora si cercava di fare l'impossibile, cioè di risalire un piano verticale. Normalmente erano le navi più piccole a sprofondare, quelle che avevano una lunghezza inferiore all'altezza dell'onda, ma spesso neppure i giganti dell'oceano ce la facevano. Venivano rovesciate e cadevano a testa in giù. Simili onde giganti, che nascevano dall'azione combinata di vento e correnti, procedevano a una velocità di cinquanta chilometri all'ora, raramente maggiore. E comunque erano sufficienti a provocare catastrofi. Ma erano una cosa da niente rispetto allo tsunami che in quel momento imperversava sullo zoccolo continentale. Quasi tutti i rimorchiatori, le petroliere e i traghetti che ebbero la sfortuna di trovarsi sul mare del Nord furono spazzati via come giocattoli. Alcuni si sfasciarono, altri entrarono in collisione coi pilastri di cemento delle piattaforme o con le boe di carico cui erano ancorati. Neppure i pilastri di cemento armato ressero a quell'impatto. Molti colossi crollarono e quelli che non erano crollati furono distrutti dagli incendi, innescati dalle esplosioni delle navi cariche di combustibile che si schiantavano contro i piloni. Tutte le torri di perforazione esplosero, in una reazione a catena. Macerie in fiamme vennero scagliate a centinaia di metri di distanza. Lo tsunami strappò le piattaforme ancorate dal fondale marino e le rovesciò. E tutto ciò accadde soltanto qualche minuto dopo che l'onda circolare si era staccata dal suo epicentro, spostandosi a grande velocità verso le coste e le masse continentali. Ognuno di quegli avvenimenti era l'incubo per antonomasia dei viaggi in mare e dell'industria offshore. Ma ciò che stava succedendo quel pomeriggio sul mare del Nord era molto più di un incubo diventato realtà. Era l'Apocalisse. La costa Otto minuti dopo il crollo dello zoccolo continentale, lo tsunami aveva colpito le scogliere delle isole Fær Øer, quattro minuti dopo aveva rag-
giunto le Shetland e due minuti dopo si schiantava contro la terraferma scozzese e contro la costa sudoccidentale della Norvegia. Per ricoprire completamente la Norvegia sarebbe dovuta cadere in mare quella cometa che s'ipotizzava avrebbe potuto distruggere l'umanità. Il Paese era una montagna unica, contornata da coste a picco il cui margine superiore difficilmente poteva essere raggiunto dalle onde. Ma la Norvegia viveva sull'acqua e grazie all'acqua. Quasi tutte le città più importanti erano sul mare, ai piedi d'imponenti montagne, protette da piccole isole piatte. Oppure sorgevano proprio sulle ìsole. Città portuali come Egersund, Haugesund e Sandnes, a sud, erano condannate dall'onda che si stava avvicinando. E lo stesso si poteva dire di Ålesund e Kristiansund, più a nord, e delle centinaia di paesi tutt'intorno. La sorte peggiore toccò a Stavanger. Lo sviluppo di uno tsunami nel momento in cui raggiungeva la costa dipendeva da diversi fattori: dalle scogliere, dalle foci dei fiumi, dalle montagne sottomarine, dai banchi di sabbia, dalle isole che si trovavano davanti alla costa e dalla pendenza delle spiagge. Tutto ciò poteva ridurre o aumentare l'effetto dello tsunami. Stavanger, il centro dell'industria offshore norvegese, città chiave del commercio e della navigazione, una delle più antiche, belle e ricche città della Norvegia, sorgeva direttamente sul mare, di fatto senza protezione. All'esterno del porto, si stendeva una serie di basse isolette, collegate da ponti. Immediatamente prima dell'arrivo dell'onda, il governo norvegese aveva mandato alle autorità cittadine un messaggio di allarme che doveva essere diffuso immediatamente via radio, televisione e Internet. Ma restava pochissimo tempo. Un'evacuazione non era neppure ipotizzabile. L'avviso scatenò una confusione indescrivibile. Nessuno sapeva esattamente che cosa si stava abbattendo su Stavanger. A differenza degli Stati costieri del Pacifico, costretti da sempre a convivere con gli tsunami, in Europa e nel Mediterraneo non c'erano centri di allerta. Mentre il PTWS - acronimo di Pacific Tsunami Warning System - con sede principale nelle Hawaii, era diffuso in oltre venti Stati del Pacifico, dall'Alaska al Giappone e dall'Australia fino al Cile e al Perú, in un Paese come la Norvegia il fenomeno degli tsunami era pressoché ignoto. E anche per questo motivo, gli ultimi minuti di Stavanger furono dominati da una sensazione di terrore impotente. L'ondata colpì la città senza che nessuno fosse riuscito a mettersi in salvo. Lo tsunami continuò a crescere anche dopo aver distrutto i piloni dei ponti tra le isole, sollevandosi in tutti i suoi trenta metri. A causa della no-
tevole lunghezza dell'onda, non ripiegò subito su se stesso, ma si schiantò contro le protezioni del porto, ridusse a pezzi banchine ed edifici e continuò a correre velocissimo verso la città. La città vecchia, con le sue case di legno del tardo XVII secolo e dei primi del XVIII secolo, fu rasa al suolo. A Vågen, l'antico bacino portuale, l'ondata s'ingorgò e ricadde sul centro della città. I flutti distrussero il più vecchio edificio di Stavanger, la cattedrale, che risaliva al 1125. Prima abbatterono tutte le finestre, poi i muri e infine si trascinarono appresso le macerie. Con la violenza di un attacco missilistico, l'onda spazzò via tutto ciò che incontrava sulla sua strada. E non era solo l'acqua a distruggere la città, ma anche il fango che essa trascinava con sé, insieme con tonnellate di pietre, navi e automobili, sparate come proiettili. La parete verticale si era trasformata in una montagna scrosciante di spuma. Lo tsunami si muoveva un po' più lentamente in mezzo alle strade, ma in compenso era molto più caotico. Nella spuma era imprigionata dell'aria che veniva compressa nell'impatto fino a una pressione di oltre quindici bar, sufficiente per deformare una lastra corazzata. L'acqua spezzava gli alberi come se fossero stati fiammiferi e li trasformava in proiettili. Neppure un minuto dopo aver colpito i primi sbarramenti del porto, l'onda aveva già distrutto la zona portuale e il quartiere immediatamente retrostante. Per gli abitanti di Stavanger non ci fu nessuna possibilità di salvezza. Qualcuno si mise a correre, cercando di sfuggire alla parete d'acqua apparsa così improvvisamente, ma era tutto inutile. La stragrande maggioranza delle vittime venne schiacciata dall'acqua, pesante come cemento. Non si provava nemmeno dolore. Chi sopravviveva allo schianto, finiva compresso contro le case oppure stritolato tra le macerie. Paradossalmente non annegò nessuno, tranne quelli che erano prigionieri nelle cantine. Anche là, però, la maggior parte venne uccisa dalla violenza della massa d'acqua oppure fu soffocata dal fango. La morte per annegamento era orribile ma rapida. Quasi nessuno poté rendersi conto di cosa stava succedendo. Ma chi era rimasto bloccato in uno spazio chiuso, senza ossigeno, e si ritrovava immerso nell'acqua gelida, sentiva che il cuore cominciava a battere irregolarmente, trasportando meno sangue, e infine si fermava. Eppure il cervello viveva ancora. Solo dopo dieci o venti minuti si spegneva l'ultima attività elettrica e arrivava la morte. Due minuti dopo, la spuma aveva raggiunto la periferia di Stavanger; più
gli spazi si facevano ampi, più si abbassavano i flutti ribollenti. La velocità dello tsunami diminuiva. L'acqua imperversava e schiumava per le strade. Chi era stato travolto non aveva avuto scampo, ma in compenso la maggior parte delle case aveva retto alla pressione. Tuttavia chi era rimasto in vita e pensava di essere al sicuro si sbagliava di grosso. Perché lo tsunami non dispiegava il suo orrore solo all'arrivo. Quando se ne andava era quasi peggio. Knut Olsen e la sua famiglia vissero il riflusso dell'ondata a Trondheim, dove lo tsunami era arrivato qualche minuto più tardi. Al contrario di Stavanger, che si era offerta alla devastazione su un piatto d'argento, Trondheim era protetta dal fiordo. Affiancato da grandi isole e difeso da una lingua di terra, il fiordo procedeva per quasi quaranta chilometri nell'entroterra prima di aprirsi in un ampio bacino, sul cui bordo orientale era stata costruita la città. Molte città norvegesi sorgevano nelle zone interne dei fiordi. Osservando la carta del Paese, si era indotti a credere che neppure la violenza di un'ondata alta trenta metri avrebbe potuto minacciare seriamente quella città. E invece fu proprio il fiordo a rivelarsi una trappola mortale. Se uno tsunami arrivava in uno stretto di mare o in un'insenatura a forma d'imbuto, le masse d'acqua non erano più spinte solo dal basso, ma anche dai lati. Parecchie migliaia di tonnellate d'acqua si comprìmevano in uno stretto canale. L'effetto era catastrofico. Il fiordo di Sogen, a nord di Bergen, era lungo ma stretto, collocato tra ripide pareti rocciose; lì l'altezza dell'acqua crebbe in maniera drammatica. La maggior parte delle località lungo quel fiordo sorgeva al di sopra delle scogliere, sul plateau. L'acqua schizzò fino alla loro altezza, ma non fece gravi danni. Andò diversamente al termine del fiordo lungo quasi cento chilometri, dove, su una bassa penisola, sorgevano villaggi e piccole città, gli uni di fianco alle altre. L'ondata li rase al suolo e si fermò solo contro la montagna alle loro spalle. La schiuma schizzò fino a duecento metri di altezza e strappò il manto boschivo, poi la massa d'acqua ricadde su se stessa e si propagò nei fiumi limitrofi. Il fiordo di Trondheim era più largo di quello di Sogen e le sue pareti erano meno alte. Inoltre, poiché verso il fondo si allargava, i frangenti potevano suddividersi meglio. Tuttavia la montagna d'acqua che raggiunse Trondheim fu ancora sufficientemente alta per distruggere il porto e una parte della città vecchia. Il fiume Nidelva uscì dagli argini e si spinse nei
quartieri di Bakklandet e Mollenberg. Slavine di schiuma riducevano a pezzi le vecchie case. In via Kirkegata quasi tutte le case caddero sotto la violenza dell'acqua, anche quella di Sigur Johanson. La graziosa facciata venne abbattuta, il rivestimento di legno fu disintegrato e il tetto crollò sotto il devastante fronte d'acqua. Le macerie, ormai diventate parte integrante della massa d'acqua, vennero trascinate via dall'onda, che tuttavia perse forza contro le fondamenta dell'NTNU, si fermò, formando spaventosi vortici, e cominciò a rifluire. Gli Olsen abitavano in una strada dietro via Kirkegata, e la loro casa, costruita in legno come quella di Johanson, resse l'impatto dello tsunami. Tremò e oscillò. All'interno, i mobili si rovesciarono, le stoviglie si ruppero e il pavimento delle stanze anteriori s'incurvò. I bambini furono presi dal panico. Olsen gridò alla moglie di portarli sul retro della casa. Non sapeva cosa fare, ma pensò che, se l'acqua colpiva la casa nella parte anteriore, forse in quella posteriore sarebbero stati al sicuro. Mentre il resto della famiglia fuggiva, lui si arrischiò a guardare, trattenendo il fiato, da una delle finestre sul davanti. Il pavimento di legno sotto i suoi piedi continuò a incurvarsi e a scricchiolare rumorosamente senza tuttavia rompersi. Olsen si aggrappò al telaio della finestra, deciso a fuggire subito nel retro se la casa fosse stata colpita da un'altra ondata. Guardava sbalordito la città distrutta, vedeva alberi, auto e persone galleggiare nei gorghi dell'acqua, sentiva le grida e il rombo dei muri che crollavano. Poi l'aria fu scossa da diverse esplosioni e dal porto si levarono nuvole rosse e nere. Era la cosa più spaventosa che avesse mai visto. Il pensiero di dover proteggere la famiglia tuttavia lo riscosse. L'unica cosa importante era la sopravvivenza dei figli e della moglie. E, se possibile, anche la sua. D'un tratto, l'onda sembrò fermarsi. Olsen guardò ancora un po' fuori, poi con cautela si spostò sul retro. Fu immediatamente subissato dalle domande. Vide il terrore negli occhi dei figli e sollevò le mani in un gesto rassicurante, sebbene fosse anche lui spaventato a morte. Poi annunciò che ormai era finita e che non dovevano più temere nulla. Ovviamente non era finita, per niente. Dovevano uscire. Gli venne l'idea di fuggire attraverso i tetti, ma la moglie lo rimproverò di aver visto troppi film di Hitchcock e gli chiese come pensava di fare coi bambini. Olsen non seppe come rispondere. Lei allora propose di aspettare. A lui non venne in mente niente di meglio, così si disse d'accordo e ritornò alla finestra sul davanti della casa.
Stavolta, quando guardò fuori, vide che l'ondata stava rifluendo. La massa d'acqua si spostava sempre più velocemente verso il fiordo. Ce l'abbiamo fatta, pensò. Si sporse ancora di più verso l'esterno. Nello stesso momento, un colpo scosse la casa. Olsen si aggrappò al telaio della finestra. Il pavimento crollò. Lui avrebbe voluto saltare indietro, ma non c'era più nulla. Nel pavimento del soggiorno si era spalancata una voragine, in cui entrava la pioggia. Olsen cadde in avanti. Sulle prime, credette di essere stato gettato fuori dalla finestra. Poi comprese che la facciata della casa si stava staccando come un cartone incollato male, e s'inclinava verso i flutti. Gridò con tutte le sue forze. Gli abitanti delle Hawaii, che convivevano da generazioni con quel mostro, sapevano bene che cos'era il riflusso. Le masse d'acqua che rifluivano generavano un enorme risucchio, che trascinava in mare tutto ciò che era ancora in piedi o cercava di restarci. L'acqua trascinava tutto con sé. Le persone sopravvissute al primo atto della catastrofe morivano in quel momento, e la loro morte era molto più orribile. Era accompagnata dalla lotta per la sopravvivenza nella corrente, dal tentativo di nuotare contro un risucchio spietato, dalle forze che cedevano. I muscoli si paralizzavano. Si veniva travolti da oggetti che vorticavano ovunque, le ossa si rompevano. In una resistenza disperata, ci si aggrappava ovunque, si veniva strappati e trascinati in mezzo al fango e alle macerie. Il mostro arrivava dal mare per divorare e, quando tornava indietro, portava con sé una preda. Quando la facciata della casa era crollata, Olsen non sapeva queste cose, tuttavia le capì in un lampo. Ecco perché si era messo a gridare. Gridava per la sua vita. Sapeva che sarebbe morto. Mentre cadeva, altre esplosioni risuonarono dal porto: le navi e i depositi di petrolio stavano saltando in aria. Praticamente tutti i sistemi elettrici della città erano saltati. I cortocircuiti si succedevano. Forse sarebbe morto perché l'acqua era percorsa dalla corrente elettrica. Pensò alla sua famiglia. Ai suoi bambini. A sua moglie. Poi per un attimo pensò a Sigur Johanson e alle sue sorprendenti teorie e sentì crescere la rabbia. La colpa era di Johanson. Gli aveva taciuto qualcosa. Qualcosa che li avrebbe potuti salvare. Quel maledetto figlio di puttana sapeva che cosa stava succedendo! Poi non pensò più nulla a parte una cosa: sei morto. Con un frastuono assordante, la facciata cadde contro un grosso albero,
incredibilmente ancora in piedi. Olsen fu scagliato fuori dalla finestra a testa in giù. Le sue mani annasparono nel vuoto e si aggrapparono a qualcosa. Foglie e corteccia. Vedeva i flutti fangosi ribollire sotto di lui. Si afferrò al ramo e agitando le gambe riuscì a sollevarsi. Dall'alto piovevano parti del frontone, assi e intonaco. Lo mancarono per un pelo. Quella che una volta era stata la parte anteriore della sua casa si stava deformando, andava in frantumi e poi crollava. Preso dal panico, Olsen cercò di arrivare più vicino al tronco. Più in basso, si stendeva un ramo più grosso, che lui poteva raggiungere. Forse poteva metterci sopra un piede. Sentiva l'albero gemere e oscillare e si lasciò penzolare, col fiato sospeso. Gli ultimi resti della facciata crollarono rumorosamente nei flutti, trascinando con sé foglie e rami. Un colpo attraversò il ramo di Olsen e a lui sfuggì la presa. Improvvisamente si trovò appeso con una mano sola. Guardò in basso. Le forze lo stavano abbandonando. Se fosse caduto, non avrebbe avuto speranze. Girò faticosamente la testa e cercò di gettare un'occhiata alla sua casa o, meglio, a ciò che ne era rimasto. Ti prego, fa' che non siano morti. La casa era ancora in piedi. Poi vide la moglie. Aveva strisciato in ginocchio fin sul bordo e guardava verso di lui. I suoi lineamenti esprimevano una truce determinazione, come se volesse gettarsi in acqua da un momento all'altro per andare a prenderlo. Naturalmente non poteva aiutarlo, ma era là e gridava il suo nome. La sua voce era ferma e quasi arrabbiata, come se gli stesse ordinando di mettere al sicuro il suo culo maledetto e di tornare a casa, dove lo stavano aspettando. Olsen rimase per un momento a guardarla. Poi tese i muscoli. La sua mano libera si sollevò e afferrò il ramo. Strinse il legno e riprese a spostarsi finché i suoi piedi non arrivarono proprio sopra il ramo più grosso. Lentamente si lasciò scivolare verso il basso. Adesso aveva un appoggio solido. Reggeva. Un tremito gli percorse le spalle. Staccò le dita dal ramo e si aggrappò al tronco, sentì lo sforzo dell'albero per reggere al riflusso, schiacciò il volto contro la corteccia e continuò a guardare la moglie. Sembrava non finire mai. L'albero resse e così fece anche la casa. Quando l'acqua ebbe portato il proprio tributo al mare, finalmente cominciò a ritirarsi, lasciando un deserto di macerie e di fango. Olsen aiutò la moglie e i figli a lasciare la casa. Presero le cose indispensabili - carte di credito, soldi, documenti e alcuni ricordi personali raccolti in fretta - e le
infilarono in due zaini. La macchina di Olsen era sparita. Sarebbero dovuti andare a piedi, ma era sempre meglio che restare là. Lasciarono in silenzio la strada devastata e andarono dall'altra parte del fiume, lontano da Trondheim. Distruzione L'ondata continuava a espandersi. Sommerse la costa orientale della Gran Bretagna e la Danimarca occidentale. All'altezza di Edimburgo e Copenhagen, lo zoccolo continentale diventava molto basso. Si alzavano i Dogger Bank, un ricordo dell'epoca in cui parti del mare del Nord erano ancora una terra asciutta. I Dogger Bank erano stati a lungo delle isole. Gli animali che le abitavano erano stati costretti a spostarsi sempre più in alto, a causa del crescere delle acque, e alla fine erano annegati. Ora i banchi si trovavano tredici metri sotto il livello del mare e frenavano l'onda in arrivo, facendola crescere in altezza. A sud dei banchi sorgevano le piattaforme, vicinissime l'una all'altra, e numerose in particolare lungo la costa sudorientale inglese e a nord del Belgio e dell'Olanda. Là l'ondata imperversò con maggiore violenza rispetto alla parte settentrionale, tuttavia la struttura frastagliata dello zoccolo continentale, i banchi di sabbia, i crepacci e i crinali frenarono lo tsunami. Le isole Frisone furono completamente sommerse, tuttavia ridussero l'energia dell'ondata, che colpì l'Olanda, il Belgio e la Germania settentrionale con minore violenza. La massa d'acqua raggiunse L'Aia e Amsterdam a meno di cento chilometri all'ora e distrusse buona parte della zona vicino al mare. Ad Amburgo e a Brema si scatenò una furiosa alta marea. Le due città si trovavano nell'interno, ma in compenso le foci dell'Elba e del Weser non erano protette. Lo tsunami rotolò lungo il corso dei fiumi e inondò le zone circostanti prima di raggiungere le città anseatiche. Anche a Londra il livello del Tamigi crebbe e il fiume schiantò le barche contro i ponti. Le propaggini dell'onda anomala arrivarono nelle strade di Dover e furono percepibili anche in Normandia e sulla costa bretone. Solo il Baltico, con Copenhagen e Kiel, sfuggì al disastro. Anche lì l'alta marea infuriò, ma dove s'incontravano lo stretto di Skagerrak e quello di Kategat, lo tsunami si avvitò su se stesso e crollò. In compenso, nell'estremo nord l'ondata colpì la costa dell'Islanda e raggiunse la Groenlandia e le isole Svalbard. Immediatamente dopo la catastrofe, gli Olsen si erano diretti verso zone
più elevate. Più tardi, lo stesso Knut Olsen non fu in grado di dire perché si erano comportati così, benché quella fosse stata una sua idea. Forse aveva il vago ricordo di un film sugli tsunami o di un articolo che aveva letto da qualche parte. Forse fu solo un'intuizione. Comunque la fuga salvò la vita alla famiglia. La maggior parte delle persone sopravvissute all'arrivo e al riflusso dello tsunami morì subito dopo. Dopo la prima ondata, molti tornarono nei loro villaggi e alle loro case per vedere cosa ne era rimasto. Ma lo tsunami si diffondeva con una serie di onde, l'una di seguito all'altra, e la loro grande lunghezza faceva sì che la seconda ondata colpisse soltanto quando si credeva di essere ormai scampati alla catastrofe. Accade così anche quella volta. Dopo circa un quarto d'ora, arrivò la seconda ondata, non meno violenta della precedente, e concluse l'opera iniziata dalla prima. Venti minuti più tardi, ne arrivò una terza, alta la metà, poi una quarta e infine più nulla. In Germania, Belgio e Olanda le procedure di evacuazione erano fallite, nonostante il maggior tempo a disposizione. Giacché praticamente tutti possedevano un'automobile, moltissimi avevano giudicato buona l'idea di usarla per scappare. Ma la scelta si era rivelata pessima. Neppure dieci minuti dopo l'allarme, le strade erano irrimediabilmente intasate. E l'onda aveva sciolto l'ingorgo a modo suo. Un'ora dopo che la scarpata continentale era smottata, le industrie offshore del Nordeuropa non esistevano più. Quasi tutte le città costiere delle zone limitrofe erano distrutte, in parte o completamente. Centinaia di migliaia di persone avevano perso la vita. Solamente l'Islanda e le isole Svalbard, poco popolate, l'avevano scampata senza vittime. La spedizione congiunta della Thorvaldson e della Sonne aveva scoperto che i vermi avevano distrutto gli idrati anche a nord, fino a Tromsø. La scarpata era scivolata a sud. In un primo momento, le conseguenze dello tsunami non lasciarono modo di riflettere sulla possibilità di mettere in conto anche un collasso della scarpata nord. Probabilmente Bohrmann avrebbe avuto una risposta a quel problema. Ma neppure Bohrmann sapeva esattamente dove fossero avvenuti i crolli. E anche Jean-Jacques Alban, che era riuscito a portare la Thorvaldson sufficientemente al largo e a metterla al sicuro, non aveva la minima idea di che cosa fosse successo negli abissi. Le esplosioni continuavano a rimbombare in mare e tra le rovine delle
città costiere. Alle urla e ai pianti dei sopravvissuti si mischiavano il rumore degli elicotteri, l'ululato delle sirene e i comunicati degli altoparlanti. Era una cacofonia dell'orrore, ma sopra il rumore aleggiava un silenzio plumbeo. Il silenzio della morte. Passarono tre ore prima che l'ultima ondata rifluisse in mare. Poi smottò la scarpata continentale settentrionale. PARTE SECONDA CHÂTEAU DISASTER Dal rapporto annuale delle associazioni ambientaliste «Nonostante il divieto del 1994, lo scarico di scorie nucleari in mare continua come prima. Nelle acque prospicienti l'impianto francese di rigenerazione e smaltimento delle scorie, i sommozzatori di Greenpeace hanno registrato una radioattività superiore di diciassette milioni di volte rispetto alle zone non interessate dagli scarichi. Davanti alla Norvegia, fuchi e gamberi sono contaminati col tecnezio, una sostanza radioattiva. Il centro per la radioprotezione norvegese ne ha identificato la fonte nell'impianto inglese di rigenerazione e smaltimento di Sellafield. E i geologi americani vogliono calare scorie altamente radioattive sul fondale marino, facendo scivolare i contenitori antiradiazioni attraverso tubi lunghi chilometri dentro fosse che verranno coperte dai sedimenti. «Dal 1959, l'Unione Sovietica ha depositato enormi quantità di scorie radioattive, compresi i reattori smantellati, nel mare Artico. Oltre un milione di armi chimiche si arrugginisce sul fondale marino, a una profondità tra i cinquecento e i quattromilacinquecento metri. Particolarmente pericolosi sono i contenitori arrugginiti dei gas velenosi, sprofondati da Mosca nel 1947. Al largo della Spagna, sono depositati centinaia di migliaia di fusti con materiale debolmente radioattivo proveniente dalla medicina, dalla ricerca e dall'industria. Gli scienziati marini hanno trovato nell'Atlantico, a oltre quattromila metri di profondità, il plutonio disperso nei mari del Sud durante i test atomici.
«Il servizio idrografico inglese ha elencato 57.435 relitti sui fondali marini, tra cui anche i resti di sommergibili nucleari americani e russi. «Il velenosissimo DDT danneggia più gli organismi marini che tutti gli altri esseri viventi. Attraverso le correnti si propaga ovunque e s'inserisce in diverse catene alimentari. Nel grasso dei capodogli sono stati trovati composti di polibromo, utilizzati come sostanze ignifughe per computer e rivestimenti dei televisori. Il novanta per cento di tutti i pesci spada pescati è avvelenato dal mercurio e il venticinque per cento anche dai PCB. Nel mare del Nord agli esemplari di Buccinum undatum femmina cresce il pene. La causa potrebbe essere la vernice delle navi, contenente tributilstagno. «Ogni trivellazione petrolifera danneggia il fondale marino per una superficie di venti chilometri quadrati, un terzo della quale è praticamente priva di vita. «I campi elettrici dei cavi sottomarini disturbano l'orientamento di salmoni e anguille. Inoltre l'elettrosmog pregiudica lo sviluppo delle larve. «La diffusione delle alghe e la moria di pesci crescono drammaticamente in tutto il mondo. Israele non ha firmato il trattato per fermare lo scarico di rifiuti in mare e, fino al 1999, un'unica ditta ha scaricato in mare sessantamila tonnellate di rifiuti velenosi all'anno: piombo, mercurio, cadmio, arsenico e cromo trasportati dalle correnti arrivano fino in Siria e a Cipro. Nel golfo di Tunisi vengono pompati in mare ogni giorno 12.800 tonnellate di fosfati provenienti dalle industrie di fertilizzanti. «Settanta delle duecento più importanti specie marine sono state dichiarate dalla FAO a rischio di estinzione. E intanto il numero dei pescatori aumenta. Nel 1970 erano tredici milioni, nel 1997 erano già trenta milioni. La pesca con le reti a strascico, utilizzate per la cattura di merluzzi, cicerelli e salmoni dell'Alaska, ha effet-
ti devastanti sul fondale. Vengono letteralmente raschiati via interi ecosistemi. Mammiferi marini, pesci predatori e uccelli acquatici non trovano più niente da mangiare. «Il bunker C, un olio combustibile denso, il propellente più usato dalle navi, prima della combustione viene purificato da cenere, metalli pesanti e sedimenti. Rimangono rifiuti compatti che molti comandanti non smaltiscono correttamente, ma scaricano di nascosto in mare. «Al largo del Perú, a quattromila metri di profondità, ricercatori di Amburgo hanno condotto una sperimentazione per l'elaborazione di un progetto per la più grande raccolta a fini commerciali di noduli di manganese. La loro nave trascinava avanti e indietro un aratro su un pezzo di fondale marino ampio undici chilometri quadrati. Sono morte innumerevoli forme di vita. Anni dopo, la regione non si era ancora ripresa. «Durante i lavori di costruzione nelle Florida Keys fu gettata in mare della terra che si depositò sulle barriere coralline: gran parte delle forme di vita lì presenti è morta soffocata. «I ricercatori marini credono che anche le grandi concentrazioni di biossido di carbonio nell'atmosfera, causate dal crescente uso di combustibili fossili, blocchino la formazione delle scogliere. Quando il CO2 si scioglie rende l'acqua acida. Senza curarsi di ciò, i grandi gruppi energetici progettano di pompare direttamente in mare enormi quantità di CO2 per ridurre l'inquinamento atmosferico.» 10 maggio Château Whistler, Canada La notizia lasciò Kiel a trecentomila chilometri al secondo. Il testo, preparato sul laptop da Erwin Suess nel centro di ricerca Geomar, si spostò nella rete, configurato in una massa di dati digitali e fu trasformato in segnale luminoso da un diodo laser. Poi fu sparato con una
lunghezza d'onda di 1,5 millesimi di millimetro infrarosso in un cavo a fibre ottiche, insieme con milioni di telefonate e pacchetti di dati. La fibra permetteva ai fasci di luce di scorrere in un diametro doppio di quello di un capello e li rifletteva verso l'interno per non farli uscire. A velocità folle, le onde sfrecciavano dall'interno del Paese fino alla costa, attraversando ogni cinquanta chilometri in un amplificatore ottico, finché la fibra non spariva in mare, avvolta in un mantello di rame, impacchettata in diversi strati di filo metallico e di morbido isolante. Sott'acqua, il fascio di cavi aveva lo spessore di un robusto avambraccio umano. Correva sul fondo dello zoccolo continentale, sotterrato per essere protetto dalle ancore e dalle reti dei pescatori. Il TAT-14 - quello era il nome ufficiale - era un cavo transatlantico che collegava l'Europa al continente americano. Era uno dei cavi in grado di reggere il carico maggiore. Solo nel Nordatlantico c'erano dozzine di cavi simili. Centinaia di migliaia di chilometri di cavi a fibre ottiche formavano in tutto il mondo la spina dorsale dell'era dell'informazione. Tre quarti della loro capacità servivano al world wide web. Il Project Oxygen legava 157 Paesi in una sorta di super Internet. Un altro sistema collegava otto cavi a fibre ottiche per una capacità di carico di 3,2 terabit, che corrispondeva a quarantotto milioni di telefonate fatte contemporaneamente. Da tempo, fibre spesse quanto una filigrana avevano soppiantato la tecnica satellitare. La sfera terrestre era circondata da un intreccio di cavi capaci di condurre la luce, in cui correvano in tempo reale i bit e i byte della società della comunicazione, le telefonate, i video, la musica, le e-mail. Non erano i satelliti a formare il villaggio globale, ma i cavi. La notìzia di Erwin Suess schizzò verso nord, tra la Scandinavia e la Gran Bretagna. Superata la Scozia, il TAT-14 svoltava a sinistra. Oltre lo zoccolo continentale delle Ebridi avrebbe dovuto snodarsi sul profondo fondale marino, non più interrato, ma appoggiato sulla superficie. Ma non c'erano più né il margine continentale né il fondale marino. Meno di un centoventesimo di secondo dopo essere partita da Kiel, la notizia passò sotto gigatonnellate di fango, arrivò nella zona al di sotto delle isole Fær Øer, e finì in una matassa strappata. Il robusto involucro, coi suoi cavi di rinforzo e con gli strati di materiale flessibile, era tranciato di netto, le fibre ottiche tagliate facevano uscire i loro messaggi nei sedimenti. La slavina aveva travolto il cavo con tale violenza che le due estremità tranciate giacevano a centinaia di chilometri l'una dall'altra. Il TAT-14 riprendeva solo nel bacino islandese, un inutile pezzo di alta tecnologia, che
arrivava sullo zoccolo continentale a sud di Terranova e da lì correva fino a Boston, dove s'inseriva nel collegamento via terra. Infine, attraverso le Montagne Rocciose, l'autostrada dei dati raggiungeva la zona costiera montuosa del Canada occidentale a nord di Vancouver, direttamente nella stazione di scambio del famoso hotel di lusso Château Whistler, ai piedi della Blackcomb Mountain, dove il cavo a fibre ottiche si trasformava in un convenzionale cavo di rame. Un fotomoltiplicatore riconvertiva nuovamente il processo e trasformava gli impulsi luminosi in segnali digitali. In altre circostanze, sarebbe stato digitalizzato in questo modo anche il messaggio proveniente da Kiel, e sarebbe apparso in forma di e-mail anche sul laptop di Gerhard Bohrmann. Ma, in quelle circostanze, il collegamento di Bohrmann era tagliato fuori esattamente come quello di milioni di altre persone. Una settimana dopo la catastrofe, nel Nordeuropa i collegamenti transatlantici Internet ed e-mail erano quasi completamente bloccati, e i contatti telefonici - quand'erano possibili - avvenivano solo via satellite. Bohrmann era seduto nella grande hall dell'hotel e fissava lo schermo. Sapeva che Suess voleva mandargli un documento con la curva di crescita della popolazione dei vermi e le proiezioni di quello che sarebbe potuto succedere in altre parti del mondo colpite da infestazioni simili. Una volta superato lo shock, a Kiel lavoravano come ossessi. Imprecò. Il presunto mondo così piccolo era tornato di nuovo grande, pieno di spazi invalicabili. Al mattino, gli avevano detto che, nel corso della giornata, le e-mail sarebbero state ricevute via satellite, ma fino a quel momento non si era ancora visto nulla. A quanto pareva, erano ancora vincolati al cavo distrutto. Bohrmann sapeva che l'unità di crisi stava lavorando febbrilmente, tuttavia Internet collassava in continuazione. E lui presumeva che non dipendesse tanto dalle carenze tecniche quanto dalla volontà. Era vero che i satelliti lavoravano alla perfezione, ma l'esercito americano non aveva ancora dato la completa disponibilità a trasferire sui satelliti il traffico dei cavi ottici transatlantici. Prese il telefono satellitare che l'unità di crisi gli aveva messo a disposizione, si mise in contatto con Kiel e attese. Dopo diversi squilli, finalmente all'istituto risposero e gli passarono Suess. «Non è arrivato niente», disse Bohrmann. «Valeva la pena tentare.» La voce di Suess si sentiva bene, ma Bohrmann era irritato per il ritardo con cui rispondeva. Non riusciva ad abituarsi alle telefonate satellitari. Il segnale partito dal trasmettitore doveva risalire per circa trentaseimila chilometri e discendere di altrettanti per
raggiungere il ricevente. Ci si telefonava facendo lunghe pause e sovrapponendosi parzialmente. «Anche da noi non funziona nulla. Peggiora di ora in ora. Non si riesce più a raggiungere la Norvegia, in Scozia tutto tace, la Danimarca ormai esiste solo sulla carta geografica. E non credere che ci sia qualche piano d'emergenza.» «Eppure noi ci stiamo telefonando», disse Bohrmann. «Stiamo telefonando perché gli americani sono attrezzati. Stai sfruttando la superiorità militare di una grande potenza. In Europa... Scordatelo! Tutti vogliono telefonare, tutti sono in ansia perché non sanno nulla di parenti e amici. C'è un intasamento di dati. Le poche reti libere sono occupate dalle unità di crisi e dai governi.» «Allora, che facciamo?» disse Bohrmann dopo una pausa d'indecisione. «Non lo so. Forse riparte la Queen Elizabeth. I dati ti arriveranno fra sei settimane, se mandi un messaggero a cavallo sulla costa a prenderli.» Bohrmann fece una risata amara. «Parliamo seriamente», disse. «Allora ti devi procurare qualcosa per scrivere. Non posso fare diversamente.» «Ho da scrivere», sospirò Bohrmann. Mentre annotava quello che Suess gli diceva, un gruppo di uomini in uniforme attraversò la hall alle sue spalle e si avviò verso gli ascensori. Il loro comandante era un nero alto, dai tratti etiopi. Aveva i gradi di maggiore delle forze armate americane e una targhetta col nome PEAK. Il gruppo entrò in uno degli ascensori. La maggior parte scese al secondo o al terzo piano. Gli altri lasciarono l'ascensore al quarto. Il maggiore Salomon Peak rimase sull'ascensore e proseguì fino al nono piano. Là c'erano le gold executive suite, il meglio delle cinquecentocinquanta camere dello Château. Lo stesso Peak abitava in una junior suite al piano inferiore. Una normalissima camera singola gli sarebbe bastata. Non dava importanza al lusso, ma la direzione dell'hotel si era preoccupata di fornire all'unità di crisi le stanze migliori. Mentre camminava lungo il corridoio, il rumore dei passi attutito dal tappeto, non riusciva a levarsi dalla mente quello che era successo durante la riunione pomeridiana. Incrociava uomini e donne, con abiti civili e in uniforme. Le porte erano aperte e permettevano di vedere all'interno delle suite, trasformate in uffici. Dopo qualche secondo raggiunse una grande porta. Due soldati lo salutarono e Peak rispose con un cenno. Uno dei due bussò e attese la risposta dall'interno, poi aprì di scatto e fece entrare il maggiore.
«Come va?» disse Judith Li. Si era fatta portare dalla palestra un tapis roulant. Peak sapeva che Judith Li passava più tempo su quel nastro che a letto. Da lì guardava la televisione, sbrigava la corrispondenza, dettava memorandum, ordini e discorsi grazie al sistema di riconoscimento vocale del suo laptop, faceva telefonate, riceveva informazioni su ogni cosa, oppure pensava. Stava correndo anche in quel momento. I capelli neri tenuti da una fascia erano lisci e splendenti. Indossava una tuta leggera, con pantaloncini corti e stretti. Nonostante il ritmo sostenuto, il suo respiro era regolare. Ogni volta, Peak doveva richiamare alla memoria che quella donna sul tapis roulant aveva quarantotto anni. Judith Li sembrava averne meno di quaranta ed era in forma perfetta. «Non male», disse Peak. «Grazie.» Si guardò intorno. La suite aveva le dimensioni di un appartamento di lusso ed era adeguatamente arredata. Classici elementi canadesi - molto legno e atmosfera rustica, un caminetto - si mescolavano con l'eleganza francese. Accanto alla finestra c'era un pianoforte a coda. Anche quello proveniva da un altro ambiente, cioè dalla grande hall. Judith Li l'aveva fatto portare nel suo appartamento, come il tapis roulant. Sulla sinistra, un corridoio a volta conduceva in una grande camera da letto. Peak non aveva visto il bagno, ma aveva sentito dire che disponeva di una vasca per idromassaggio e di una sauna. Dal punto di vista di Peak, l'unico oggetto sensato era il massiccio tapis roulant nero, benché apparisse del tutto incongruo a quell'appartamento arredato con cura. Lui pensava che il lusso e il design non si confacessero alla vita militare. Peak proveniva da una famiglia semplice e non si era arruolato perché fornito di uno spiccato senso estetico, bensì per sfuggire alla vita in strada che troppo spesso conduceva alla galera. La costanza e un instancabile impegno gli avevano permesso di finire il college e gli avevano aperto una carriera come ufficiale. Il suo successo era di esempio per molti, ma ciò non cambiava le sue origini. Continuava a sentirsi molto più a suo agio in una tenda o in un motel economico. «Abbiamo ricevuto le ultime analisi dei satelliti della NOAA», disse, passando davanti a Judith Li per guardare la valle dalla grande finestra panoramica. Il sole era alto sui boschi di cedri e abeti. Lo scenario delle montagne era stupendo, ma Peak non ci fece caso. Al momento era molto più interessato agli sviluppi previsti per le ore seguenti. «E allora?»
«Avevamo ragione.» «C'è una somiglianza?» «Sì, tra i rumori intercettati dall'URA e lo spettrogramma non identificato del 1997.» «Bene», disse Judith Li con aria soddisfatta. «Molto bene.» «Non so se sia un bene. È una traccia, ma non spiega nulla.» «E cosa si aspettava? Che l'oceano ci spiegasse qualcosa?» Judith Li schiacciò il tasto stop sul tapis roulant e saltò giù. «Abbiamo messo in piedi tutto questo circo proprio per scoprirlo. Il gruppo è al completo?» «Ci siamo tutti. Tranne uno.» «Chi?» «Quel biologo norvegese, quello che ha scoperto i vermi. Dovrei guardare, si chiama...» «Sigur Johanson.» Judith Li andò in bagno e ritornò con un asciugamano intorno alle spalle. «Veda di ricordarsi i nomi, Sal. Nell'hotel ci sono trecento persone, di cui settantacinque scienziati... Dovrebbe riuscire a ripetere i nomi.» «Mi vuole dire che lei ha in testa trecento nomi?» «Ne ho in testa anche tremila, se serve. S'impegni.» «Sta bluffando», disse Peak. «Vuole mettermi alla prova?» «Perché no? In compagnia di Johanson c'è una giornalista inglese, da cui speriamo di avere informazioni su quello che sta succedendo al Circolo Polare. Sa come si chiama?» «Karen Weaver», rispose Judith Li, frizionandosi i capelli. «Vive a Londra. È una specialista del mare, nonché una patita di computer. Si trovava a bordo di una nave sul mar di Groenlandia che poi è affondata con uomini e topi.» Sorrise a Peak coi suoi denti bianchi come la neve. «Se solo avessimo per ogni cosa un quadro completo come per questo affondamento...» «Magari.» Peak si concesse un sorriso. «Ogni volta che discutiamo della mancanza d'informazioni, Vanderbilt s'irrigidisce.» «È comprensibile. La CIA odia non riuscire a ottenere informazioni. È già arrivato?» «È stato avvisato.» «Avvisato? Che vuol dire?» «È già in elicottero.» «La capacità di trasporto dei nostri velivoli mi sorprende, Sal. Mi suderebbero le mani se dovessi volare con quel grasso maiale. Ma non fa nien-
te. Mi faccia sapere se allo Château Whistler arrivano altre notizie sconvolgenti prima che caliamo le carte.» Peak esitò. «Come possiamo chiedere a tutti l'impegno di tenere la bocca chiusa?» «Ne abbiamo parlato mille volte.» «Lo so che se n'è parlato mille volte. Ma mille volte meno del necessario. Laggiù c'è gente di ogni tipo, gente che non è abituata a mantenere un segreto. Hanno famiglia e amici. Arriveranno schiere di giornalisti e faranno domande...» «Non è un problema nostro.» «Potrebbe diventarlo.» «Facciamoli entrare nell'esercito.» Judith Li allargò le braccia. «Poi li sottoponiamo alle leggi di guerra. Chi apre bocca sarà fucilato.» Peak s'irrigidì. Judith gli fece un cenno. «Era una battuta, Sal.» «Non sono dell'umore adatto per le battute», ribatté Peak. «So bene che Vanderbilt vorrebbe applicare il diritto militare a tutti, ma è impossibile. Almeno la metà di questa gente è straniera e la maggior parte di questa metà è europea. Se rompono gli accordi non possiamo fare nulla.» «Allora comportiamoci come se potessimo farlo.» «Vuole fare pressioni? Non funzionerebbe. Nessuno coopera sotto pressione.» «Chi ha parlato di pressione? Mio Dio, Sal, perché vuole sempre crearsi dei problemi? Quella gente vuole essere d'aiuto. Inoltre, se si convince che la violazione del rapporto di fiducia porta all'espulsione dal gruppo, starà zitta. Credere rende forti.» Peak la guardò, scettico. «C'è altro?» «No. Possiamo cominciare.» «Bene, ci vediamo più tardi.» Peak se ne andò. Judith Li lo seguì con lo sguardo, pensando con divertimento alla scarsa conoscenza del genere umano che caratterizzava quell'uomo. Era un eccellente soldato e uno straordinario stratega, ma faticava a distinguere gli uomini dalle macchine. Sembrava quasi convinto che, nel corpo umano, ci fosse da qualche parte un settore da programmare in modo da essere sicuri che le istruzioni fossero eseguite. In un certo senso, quasi tutti i laureati a West Point cadevano in quell'errore. L'accademia militare americana più
elitaria in assoluto era ben nota per i suoi spietati metodi di addestramento, alla fine del quale, però, non c'era altro che l'obbedienza, un'obbedienza inculcata a forza. Le preoccupazioni di Peak erano infondate, non capiva proprio niente di psicologia di gruppo. Judith Li pensò a Jack Vanderbilt, il vice direttore della CIA. Non le piaceva: puzzava, sudava e aveva un alito spaventoso, però sapeva fare il suo lavoro. Durante le ultime settimane, e soprattutto dopo il terribile tsunami che aveva devastato l'Europa settentrionale, il settore di Vanderbilt si era messo in funzione a pieno regime. I suoi uomini avevano tracciato una sbalorditiva visione d'insieme. In altre parole: le risposte continuavano a scarseggiare, ma il catalogo delle domande era completo. Rifletté se fosse necessario mandare alla Casa Bianca un rapporto intermedio. In fondo c'erano ben poche novità, ma il presidente stravedeva per lei e l'ammirava per la sua intelligenza. Era perfettamente consapevole della considerazione di cui godeva, ma si guardava bene dallo sbandierarla in pubblico, perché sarebbe stato controproducente. Era una delle poche donne tra i generali americani e ciò rendeva la sua posizione drammaticamente instabile. Molti militari di alto rango e vari politici la guardavano con sospetto. E il suo rapporto confidenziale con l'uomo più potente del mondo non contribuiva a rendere il quadro più limpido. Quindi Judith Li perseguiva i suoi obiettivi con prudenza. Non si metteva mai in primo piano. Non faceva mai allusioni alla solidità del rapporto tra lei e il presidente. Lui, per esempio, non gradiva che un problema fosse definito «complesso», perché la complessità era lontanissima dal suo modo di pensare. Il più delle volte, quindi, era lei a spiegargli la complessità del mondo con parole semplici; lo stesso presidente, poi, chiedeva spiegazioni a Judith Li se il punto di vista del segretario alla Difesa o dei membri del consiglio di sicurezza nazionale gli apparivano incomprensibili. E lei gli spiegava anche le posizioni del segretario di Stato. In nessun caso, Judith Li avrebbe permesso che le idee del presidente fossero pubblicamente ricondotte alla loro fonte reale. Se le veniva fatta una domanda, la sua risposta cominciava sempre con: «Il presidente crede che...» oppure con: «L'opinione del presidente a questo riguardo è...» I giornalisti non dovevano sapere che era lei a veicolare idee e nozioni al signore della Casa Bianca, ad allargare i suoi orizzonti intellettuali e soprattutto a fornirgli punti di vista e giudizi. I membri della cerchia più ristretta, tuttavia, lo sapevano. Ma lei aspettava che i suoi meriti fossero riconosciuti al momento opportuno. Come col
generale Norman Schwarzkopf, che lei aveva conosciuto nel 1991, durante la Guerra del Golfo: un intelligentissimo stratega con una notevole abilità tattica nelle questioni politiche, un uomo che non si lasciava intimidire da niente e da nessuno. Quando lo aveva incontrato, Judith Li aveva già alle spalle un percorso sorprendente: diploma in Scienze politiche e Storia alla Duke University, prima donna laureata a West Point in Scienze naturali, all'interno di un programma specifico per ufficiali di Marina, corsi d'insegnamento al War Naval College. Schwarzkopf l'aveva presa sotto la sua ala protettrice e si era preoccupato che fosse invitata a convegni e seminari, così da incontrare le persone giuste. Di per sé disinteressato alla politica, «Stormin' Norman» le aveva spianato la strada verso quel mondo in cui i confini tra politica ed esercito erano sfumati e le carte si rimescolavano continuamente. Il suo potente protettore le aveva inizialmente procurato il ruolo di vice comandante delle forze di terra nell'Europa centrale. Nel giro di breve tempo, Judith Li aveva riscosso una notevole popolarità nella cerchia diplomatica. Formazione, cultura e doti naturali le erano state particolarmente utili. Il padre, un americano, proveniva da una famiglia di generali e aveva giocato un ruolo importante nella sicurezza della Casa Bianca, prima di doversi ritirare per motivi di salute. Sua madre, una cinese, era un'apprezzata violoncellista, che suonava nell'orchestra della New York City Opera. Per la loro unica figlia, entrambi nutrivano grandi speranze. Judith aveva preso lezioni di danza e di pattinaggio sul ghiaccio, nonché di pianoforte e di violoncello. Aveva accompagnato il padre nei suoi viaggi in Europa e Asia e quindi, fin da giovanissima, si era formata un'opinione precisa sulle differenze culturali. Le caratteristiche etniche e l'evoluzione storica esercitavano su di lei una passione irrefrenabile che la spingeva a porre continuamente domande a chiunque incontrasse, aiutata in ciò anche dal fatto che, già a dodici anni, parlava il mandarino - la lingua della madre -, a quindici si esprimeva correntemente in tedesco, francese, italiano e spagnolo e a diciotto aveva raggiunto un buon livello di giapponese e coreano. I suoi genitori erano stati severissimi per tutto ciò che riguardava le buone maniere, il modo di vestire e il rispetto delle regole della buona società, dimostrando invece una sorprendente tolleranza per tutto il resto. I princìpi presbiteriani del padre e la filosofia di vita della madre, forgiata dal buddhismo, convivevano in un rapporto armonico, come la loro vita. Tuttavia la cosa più sorprendente era che, al momento del matrimonio, il padre aveva assunto il nome della moglie, cosa che aveva messo in moto
una lunga e faticosa battaglia contro le autorità. Quel gesto d'amore per la donna che aveva lasciato la sua terra pur di seguirlo aveva portato alle stelle l'ammirazione di Judith per il padre, il quale, in realtà, era un uomo dalle mille contraddizioni. Sosteneva, per esempio, di essere in parte un liberale e in parte un repubblicano ultraconservatore e andava fiero di quella dicotomia. Una ragazza con un carattere meno forte, costretta alla pressione di una famiglia che le imponeva la perfezione in ogni disciplina, probabilmente sarebbe crollata. Ma Judith Li non l'aveva fatto: dopo aver saltato due classi, aveva ottenuto la licenza liceale con voti eccezionali, cominciando così a nutrire la convinzione di poter diventare ciò che voleva, fosse pure il presidente degli Stati Uniti d'America. A metà degli anni '90, il dipartimento della Difesa le aveva offerto il posto di vice capo di stato maggiore, con delega alle operazioni e alla pianificazione; contemporaneamente era stata chiamata a occupare la cattedra di Storia a West Point. Presso il dipartimento della Difesa lei godeva ormai di una grande considerazione e il suo crescente interesse per la politica era stato notato da molti. Le mancava soltanto un rilevante successo militare. Il Pentagono riteneva indispensabile avere un'esperienza sul campo prima di dare il via libera all'ascesa ai livelli più alti, e quindi Judith Li agognava una bella crisi globale. Non aveva dovuto attendere a lungo. Nel 1999 aveva preso parte al confitto nel Kosovo come vice comandante delle operazioni e aveva scritto il suo nome nel libro degli eroi. Finita la campagna militare, era diventata generale comandante a Fort Lewis e, dopo aver impressionato il presidente con un rapporto sulla sicurezza interna, era stata chiamata proprio nel consiglio di sicurezza nazionale. Judith Li aveva adottato una linea dura. Per molti aspetti, il suo pensiero era ancora più intransigente di quello dell'amministrazione repubblicana, ma in lei l'elemento trainante era il patriottismo. Era convinta che al mondo non esistesse un Paese migliore e più giusto degli Stati Uniti d'America e aveva argomentato questa sua affermazione in modo acuto ed esaustivo. Improvvisamente si era ritrovata nel cuore del potere. Judith Li, la perfezionista dal sangue freddo, conosceva la bestia in agguato dentro di lei: una calda, indomabile emotività che, a quel punto, poteva diventare tanto utile quanto dannosa, a seconda della mossa che si apprestava a compiere. Così aveva soppresso l'impulso a enfatizzare le proprie capacità militari e politiche. Era sufficiente che, in certe serate alla Casa Bianca, sostituisse l'uniforme con un abito da sera e suonasse Cho-
pin, Brahms e Schubert agli ascoltatori rapiti, che guidasse nella danza il presidente sino a fargli credere di volteggiare come Fred Astaire, che cantasse per la sua famiglia e i vecchi amici repubblicani le canzoni dei padri fondatori... Quella parte della messinscena riguardava solo lei. Allacciava abilmente stretti rapporti personali, condivideva la passione per il baseball del segretario alla Difesa e quella del segretario di Stato per la storia europea. Si lasciava invitare sempre più spesso in forma privata e trascorreva interi fine settimana nel ranch del presidente. Davanti al mondo era rimasta umile, tenendo per sé le opinioni personali sulle questioni politiche. Obbediva alle regole del gioco che si svolgeva tra politica ed esercito, appariva colta, affascinante e sicura di sé, sempre vestita correttamente, però mai rigida o spocchiosa. Le erano state attribuite senza fondamento - una serie di relazioni con uomini assai influenti, ma lei ignorava elegantemente i pettegolezzi. Era impossibile farle perdere la calma. Ai giornalisti, ai deputati e ai sottoposti forniva bocconcini ben digeribili di certezze e convinzioni, era sempre organizzata e preparata al meglio, ricordava un'enorme quantità di dettagli, li richiamava come da un archivio e li riduceva in formule chiare e comprensibili. Così, sebbene nemmeno lei sapesse cosa stava succedendo nell'oceano, anche stavolta riuscì a trasmettere al presidente un quadro esatto della situazione. Nel voluminoso dossier stilato dalla CIA mancavano solo pochi punti decisivi. Ecco perché Judith Li si trovava allo Château Whistler. E lei sapeva bene cosa significava. Era l'ultimo, grande passo che le restava da fare. Forse avrebbe dovuto chiamare il presidente. Così, semplicemente. A lui piaceva. Poteva raccontargli che gli scienziati e gli esperti erano riuniti, sottintendendo che avevano accettato l'invito informale degli Stati Uniti, benché nei loro Paesi avessero problemi a non finire. Poteva spiegargli che i satelliti della NOAA avevano riconosciuto alcuni tratti simili tra i rumori non identificati. Cose del genere gli piacevano, era un po' come dire: «Signore, abbiamo fatto un passo avanti». Naturalmente non si aspettava che il presidente sapesse cosa s'intendeva con termini quali bloop e upsweep, e perché la NOAA credeva di aver sciolto il mistero delle origini dello slowdown. Erano cose che andavano troppo nel dettaglio, cose inutili. Qualche parola ottimistica sul collegamento satellitare a prova d'intercettazione e il presidente sarebbe stato felice. E un presidente felice era sempre utile. Decise di farlo.
Nove piani sotto di lei, Leon Anawak notò un bell'uomo coi capelli brizzolati e la barba. Stava attraversando lo spiazzo antistante l'hotel accompagnato da una donna piccola e abbronzata, con una gran massa di riccioli castani e le spalle larghe, che indossava jeans e una giacca di pelle. Anawak valutò che avesse poco meno di trent'anni. I nuovi arrivati portavano un bagaglio che fu immediatamente preso in carico dagli inservienti dell'hotel. La donna scambiò qualche parola con l'uomo con la barba, si guardò intorno e, per un momento, fissò lo sguardo su Anawak. Poi si scostò i riccioli dalla fronte e sparì nella hall. Anawak rimase a fissare il punto in cui, fino a poco prima, c'era la donna. Poi alzò la testa, si riparò gli occhi dai raggi obliqui del sole e lasciò scorrere lo sguardo sulla facciata neoclassica dello Château. L'hotel di lusso sorgeva in un panorama da sogno, che corrispondeva perfettamente all'immagine stereotipata del Canada. Da Vancouver si prendeva la Highway 99 lungo la Horseshoe Bay e si raggiungevano le montagne: lì si trovava il gigantesco hotel, che sorgeva in mezzo a una foresta su un dolce pendio circondato da imponenti cime, che splendevano di bianco anche durante i mesi estivi. Le montagne Blackcomb e Whistler formavano una delle zone sciistiche più belle del mondo. Ora, in maggio, gli ospiti venivano lì prevalentemente per giocare a golf e per fare passeggiate. Si poteva esplorare la zona con la mountain bike, oppure essere portati sulle nevi eterne con l'elicottero. Lo Château disponeva anche di un ristorante eccezionale e offriva ogni comfort immaginabile. Ma tutto ciò era ovvio, dato che il luogo era così remoto. Meno ovvia era la dozzina di elicotteri militari che stazionavano nelle vicinanze. Anawak era arrivato da due giorni. Aveva collaborato nella preparazione della conferenza di Judith Li insieme con Ford, che da ventiquattr'ore volava avanti e indietro tra l'acquario di Vancouver, Nanaimo e lo Château Whistler per visionare il materiale, analizzare i dati e riportare le ultime conoscenze acquisite. Il ginocchio gli faceva ancora male, ma non zoppicava più. La limpida aria di montagna aveva in qualche modo snebbiato i suoi pensieri e lo sconforto seguito all'incidente con l'idrovolante si era trasformato in un dinamismo nervoso. Nel frattempo erano accadute così tante cose che la sua cattura da parte della pattuglia militare sembrava lontanissima. Eppure, da quando aveva incontrato Judith Li - in una situazione penosa, doveva ammetterlo - non erano ancora passate due settimane. Gli errori da dilettante compiuti da Anawak durante la sua «missione notturna» avevano divertito non poco
Judith Li. Ovviamente l'avevano tenuto d'occhio fin dal suo arrivo in auto e lo avevano seguito mentre percorreva la banchina. Poi si erano limitati a osservarlo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Infine l'avevano catturato e Anawak si era vergognato a tal punto da convincersi che non avrebbe mai più avuto il coraggio di mettere piede fuori di casa. Invece l'aveva fatto, eccome. Non doveva più gettare le sue conoscenze nel buco nero dell'unità di crisi, dato che adesso si trovava al centro del buco nero che inghiottiva tutto, come John Ford e, da poco, Sue Oliviera. Adesso poteva conferire anche con Roberts della Inglewood, il quale era stato il primo a protestare per il silenzio che gli era stato imposto in alto loco. Imbavagliato da Judith Li, Roberts era stato costretto a negarsi. In un paio di casi, era addirittura vicino al telefono, mentre la sua segretaria buttava fumo negli occhi ad Anawak. La conferenza era pronta e Anawak non poteva far altro che aspettare. Così era andato a giocare a tennis, per vedere come il ginocchio avrebbe reagito allo sforzo. Intanto il mondo precipitava nel caos e l'Europa era sommersa da montagne d'acqua. Il suo partner di gioco era un francese piccolo, con le sopracciglia cespugliose e il naso prominente. Si chiamava Bernard Roche, un batteriologo arrivato la sera prima da Lione. Mentre l'America si scontrava coi più grandi animali del pianeta, Roche stava combattendo una battaglia disperata contro i più piccoli. Anawak guardò l'orologio: si sarebbero trovati tra mezz'ora. L'hotel era chiuso ai turisti e strettamente controllato dal governo, tuttavia era pieno come in alta stagione. Dovevano essere arrivate alcune centinaia di persone. Oltre la metà apparteneva in un modo o nell'altro all'United States Intelligence Community. Erano in maggioranza collaboratori della CIA, che avevano trasformato in tutta fretta lo Château in una centrale di comando. Era presente un intero reparto dell'NSA, la National Security Agency, attrezzato per ogni possibile spionaggio elettronico, per garantire la riservatezza dei dati e per la cartografia. L'NSA occupava il quarto piano. Il quinto era riservato ai collaboratori del dipartimento della Difesa statunitense e ai servizi segreti canadesi. Al sesto alloggiavano gli esponenti del SIS britannico e del Security Service, insieme con delegazioni dell'esercito e dei servizi segreti tedeschi. I francesi avevano mandato un gruppo della Direction de la Surveillance du Territoire ed erano presenti anche i servizi segreti svedesi e il finlandese Pääesikunnan Tiedusteluosasto. Era un incontro senza precedenti di servizi segreti, un impiego senza pari di uomini e mezzi con lo scopo di riuscire a comprendere quello che stava succeden-
do nel mondo. Anawak si massaggiò la gamba. Sentiva ancora delle punture dolorose. Non avrebbe dovuto giocare a tennis. Un altro elicottero militare si preparava all'atterraggio e la sua ombra coprì Anawak, che lo guardò per un istante, poi si girò e rientrò. C'era gente ovunque. Tutti si muovevano in fretta, veloci ma senza frenesia, come in un complicato balletto messo in scena sotto il tetto a spioventi della hall, simile a quello di una chiesa. La metà delle persone sembrava costantemente impegnata al telefono. Gli altri erano di fronte ai loro laptop e stavano seduti su accoglienti gruppi di poltroncine sotto i pilastri di pietra naturale che dividevano la «navata» centrale della hall da quelle laterali: scrivevano o fissavano concentrati lo schermo. Anawak cercò di non urtare nessuno mentre si dirigeva al bar, dove c'erano John Ford e Sue Oliviera. Erano in compagnia di un uomo alto, coi baffi, che si guardava intorno con aria infelice. Toccò a Ford occuparsi delle presentazioni. «Leon Anawak... Gerhard Bohrmann. Non stringere troppo forte la mano a Gerhard, Leon, altrimenti si stacca.» «Gomito del tennista?» chiese Anawak. «Penna a sfera.» Bohrmann fece un sorriso amaro. «Ho scritto sotto dettatura per un'ora intera quello che fino a due settimane fa avrei potuto richiamare con un clic. Sembra di essere nel Medioevo.» «Credevo che si potessero usare i satelliti.» «I satelliti sono sovraccarichi», gli fece notare Ford. «Da domani dovrebbe essere tutto a posto.» Sue sorseggiò il tè. «Ho sentito dire che hanno allestito una rete solo per l'hotel.» «A Kiel non siamo sufficientemente preparati per il satellite», commentò Bohrmann, cupo. «Nessuno è preparato a tutto ciò.» Anawak ordinò dell'acqua. «Quand'è arrivato?» «L'altro ieri. Ho collaborato alla preparazione della conferenza.» «Anch'io. Strano, evidentemente non ci siamo incontrati.» «Possibile.» Bohrmann scosse la testa. «Quest'hotel è pieno di corridoi. Qual è la sua specializzazione?» «Mammiferi marini. Ricerca sull'intelligenza.» «Leon ha alle spalle un paio d'incontri non troppo piacevoli con delle megattere», intervenne Sue. «Evidentemente non hanno gradito che lui continuasse a spiare nelle loro teste... Oh! Guardate là. Che ci fa qui?»
Tutti voltarono la testa verso la hall. Un uomo si stava dirigendo verso agli ascensori. Anawak riconobbe in lui il tizio visto pochi minuti prima insieme con la giovane donna dai riccioli castani. «E chi sarebbe?» chiese Ford aggrottando la fronte. «Non andate mai al cinema?» Sue scrollò la testa. «È quell'attore tedesco. Come si chiama? Scholl... no, Schell. È Maximilian Schell! È splendido, non trovate? Dal vero è ancora meglio che sullo schermo.» «Controllati», borbottò Ford. «Che ci fa qui un attore?» «Sue potrebbe avere ragione», disse Anawak. «Non ha forse recitato in quel film catastrofico... Sì, Deep impact! La Terra viene colpita da un meteorite e...» «Tutti noi stiamo recitando in un film catastrofico», lo interruppe Ford. «Non dirmi che non te ne sei accorto.» «Questo vuol dire che dobbiamo aspettarci l'arrivo di Bruce Willis?» Sue strabuzzò gli occhi. «È lui o no?» «Si risparmi la fatica di andare a chiedergli un autografo», rise Bohrmann. «Non è Maximilian Schell.» «No?» Sue sembrava delusa. «No. Si chiama Sigur Johanson ed è norvegese. Potrebbe raccontarvi qualcosa di ciò che è successo nel mare del Nord. Lui, io, alcune persone di Kiel e altri della Statoil...» Bohrmann scrutò l'uomo e la sua espressione tornò a incupirsi. «Ma è meglio se non gli chiedete nulla. O, meglio, lasciate che sia lui a parlarne per primo. Viveva a Trondheim e di Trondheim non è rimasto molto. Ha perso la sua casa.» Quello era l'orrore reale. La prova che le immagini televisive erano vere. Anawak bevve l'acqua. «Okay.» Ford guardò l'orologio. «Abbiamo ciondolato abbastanza. Andiamo su e sentiamo quello che hanno da dirci.» Lo Château disponeva di diverse sale riunioni. Judith Li aveva scelto uno spazio di media grandezza, quasi troppo piccolo per il gruppo di agenti dei servizi segreti, rappresentanti degli Stati e scienziati che avrebbe preso parte alla conferenza, ma sapeva per esperienza che le persone sedute molto vicine o si prendono per i capelli o sviluppano un forte spirito di gruppo. In nessun caso, comunque, hanno la possibilità di mantenere le distanze o d'intrattenersi su altri argomenti. Inoltre, sempre con quell'intento, la sistemazione dei posti non seguiva criteri di accorpamento per nazionalità o specializzazione.
Ogni posto disponeva di un tavolinetto, di un blocco per gli appunti e di un laptop. Per i supporti video della conferenza c'era uno schermo di tre metri per cinque, dotato di casse acustiche: su di esso sarebbe stata proiettata una presentazione realizzata con Powerpoint. Nell'atmosfera accogliente ma spartana di quell'ambiente, la concentrazione di strumenti hightech appariva straniante e artificiale. Comparve Peak e andò a sedersi in uno dei posti riservati ai relatori. Lo seguiva un uomo tondo come una palla, che indossava un abito sgualcito e con grosse chiazze scure sotto le ascelle della giacca. Aveva i capelli radi, di un biondo quasi bianco. Tese la mano a Judith Li, ansimando rumorosamente. Le sue dita erano gonfie e rotonde come palloncini. «Salve, Suzie Wong», disse. Judith Li strinse la mano di Vanderbilt e resistette alla tentazione di asciugarsela immediatamente sui pantaloni. «Jack, è un piacere vederla.» «Come sempre.» Vanderbilt sorrise. «Offra a quei signori un bello show, mi raccomando. Se nessuno applaude, faccia uno strip-tease e potrà contare sui miei applausi.» Si passò la mano sulla fronte sudata, sollevò un pollice e poi, facendo l'occhiolino, si sedette pesantemente vicino a Peak. Judith lo osservò con un sorriso gelido. Vanderbilt era il vice direttore della CIA, un uomo davvero in gamba. E, al momento opportuno, lei l'avrebbe annientato, lentamente e con grande soddisfazione. Aveva ancora un po' di strada da percorrere, certo, tuttavia, che lui fosse in gamba oppure no, alla fine se lo sarebbe lasciato alle spalle, quel porco. La sala si riempì. Molti dei presenti non si conoscevano e andarono a sedersi in silenzio. Judith Li attese, paziente, finché non finirono il brusio e il rumore delle sedie. La tensione era palpabile. Ma lei avrebbe potuto descrivere la condizione di spirito di ogni singolo individuo soltanto rivolgendogli un'occhiata. Judith sapeva guardare dentro l'anima della gente. Aveva imparato a farlo. Si avvicinò al podio, sorrise e disse: «Rilassatevi». Un mormorio attraversò la sala. Alcuni accavallarono le gambe e si appoggiarono rigidamente allo schienale. Solo il bel professore norvegese, con la sciarpa ricamata gettata con noncuranza intorno al collo, se ne stava seduto sulla sedia con aria quasi annoiata. Sembrava che nella sua testa stesse scorrendo un film ben diverso da quello di tutti gli altri. I suoi occhi scuri si posarono su Judith e lei cercò di valutarlo. Ma Sigur Johanson parve sottrarsi al suo esame. Judith se ne chiese il motivo. Quell'uomo aveva perso la sua casa, era stato colpito dalla catastrofe più di tutti gli altri pre-
senti in quella sala. E allora perché non era depresso? Poteva esserci un unico motivo. Johanson non era minimamente interessato alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Aveva una sua teoria, che lo tormentava, riempiendolo di dubbi. Forse ne sapeva più di tutti... o almeno ne era convinto. Judith Li decise che l'avrebbe tenuto d'occhio. «So che siete sotto pressione», proseguì. «E voglio davvero ringraziarvi perché avete reso possibile questo incontro. Vorrei ringraziare in particolare gli scienziati. Sono intimamente convinta che, grazie alla vostra collaborazione, riusciremo a guardare gli avvenimenti del recente passato alla luce di una nuova speranza. Voi ci date il coraggio.» Judith parlava senza enfasi, in tono cordiale e tranquillo, e intanto guardava direttamente ognuno di loro. Così facendo, si guadagnò un'attenzione assoluta. Soltanto Vanderbilt sembrava impegnato in tutt'altro e cioè a pulirsi i denti con uno stuzzicadenti. «Molti di voi si saranno chiesti perché non abbiamo tenuto questo incontro al Pentagono, alla Casa Bianca o presso la sede del governo canadese. In primo luogo, volevamo offrirvi un ambiente gradevole e le attrattive dello Château Whistler sono leggendarie. Ma il suo punto di forza è la posizione. Le montagne sono sicure, le coste no. Al momento, nessuna città costiera del Canada o dell'America può essere considerata sicura per un incontro come questo.» Fece scorrere lo sguardo sui volti dei presenti. «Questo è un motivo. L'altro è la vicinanza alla costa della British Columbia. Abbiamo a che fare con anomalie nel comportamento e mutazioni, c'è una scarpata continentale con giacimenti di metano... In breve, là c'è tutto ciò che, al momento, richiede la nostra attenzione. Dallo Château possiamo arrivare al mare in elicottero in pochissimo tempo, portando altresì con noi una gran quantità di strumenti di ricerca, in particolare all'istituto di Nanaimo. Già da alcune settimane abbiamo costituito allo Château una base militare per osservare il comportamento dei mammiferi marini. Di fronte agli sviluppi in Europa abbiamo deciso di trasformare la base militare in un centro di crisi per tutto il mondo. E i migliori per gestire questa crisi siete voi, signore e signori.» Fece una pausa per permettere alle sue parole d'imprimersi nella mente dei presenti. Gli individui radunati in quella sala dovevano avere piena consapevolezza della loro importanza. Se, a dispetto delle tragiche circostanze, fossero riusciti a sviluppare un certo orgoglio e la sensazione di
appartenere a un'élite, sarebbe stato un bene. Per quanto sembrasse paradossale, li avrebbe aiutati a tenere la bocca chiusa. «Il terzo motivo è che qui non saremo disturbati. Lo Château è completamente isolato dai media. Naturalmente non passa inosservato che un hotel di questo genere si riempia di colpo e che, intorno a esso, volino elicotteri militari. Ma non ci sono state comunicazioni ufficiali su ciò che stiamo facendo qui. Se ci chiedono qualcosa, parliamo di un'esercitazione, una cosa talmente vaga che può dar luogo a congetture di qualsiasi tipo, però a niente di concreto. Quindi nessuno ha ancora scritto niente.» Judith Li s'interruppe, quindi riprese: «Non si può dare in pasto all'opinione pubblica tutto quello che sta succedendo. Non possiamo permetterlo. Il panico sarebbe l'inizio della fine. Mantenere la calma significa essere capaci di agire. Permettetemi di parlare in modo schietto: in guerra, la prima vittima è sempre la verità. E noi siamo in guerra. E per vincere questa guerra anzitutto dobbiamo comprenderla. Abbiamo un dovere verso noi stessi e verso l'umanità. In concreto, ciò significa che, da questo momento in poi, non dovrete più parlare con nessuno del vostro lavoro in questa unità di crisi, nemmeno coi vostri familiari e coi vostri amici. Al termine della conferenza, ognuno di voi sottoscriverà una dichiarazione, ai cui contenuto noi diamo molta importanza. Vi sarei grata se esprimeste eventuali dubbi prima che vi sia mostrato quanto abbiamo raccolto. Naturalmente siete liberi di non firmare. Non comporterà il minimo problema. Ma chi fa questa scelta deve lasciare subito la sala e farsi riportare immediatamente a casa.» Dentro di sé fece una scommessa. Non se ne sarebbe andato nessuno. Ma ci sarebbe stata qualche domanda. Attese. Qualcuno alzò la mano. L'uomo si chiamava Mick Rubin. Proveniva da Manchester ed era un biologo specializzato in molluschi. «Questo vuol dire che non potremo lasciare lo Château?» «Lo Château non è una prigione», rispose Judith Li. «Potete andare dove volete e quando volete. L'unica cosa che non dovete fare è parlare del vostro lavoro.» «E se...» Rubin esitò. «E se lo fate lo stesso?» Judith esibì un'espressione crucciata. «Capisco che questa domanda doveva essere fatta. Bene, noi smentiremo ogni vostra dichiarazione e ci assicureremo che non possiate violare una seconda volta gli accordi.»
«E questo... ehm... è in vostro potere? Voglio dire, lei è...» «Autorizzata? La maggior parte di voi dovrebbe sapere che, tre giorni fa, la Germania ha dato vita a un'iniziativa per esaminare gli eventi nell'ambito dell'Unione Europea ed è stato concordato che la presidenza venga assunta dal ministero dell'Interno tedesco. Contemporaneamente, in via precauzionale, la NATO ha dichiarato la sospensione del patto Atlantico. In Norvegia, in Gran Bretagna, in Belgio, in Olanda, in Danimarca e nelle Fær Øer vige lo stato d'emergenza, in tutta la nazione o in alcune regioni. Anche il Canada e gli Stati Uniti cooperano, sotto la responsabilità di questi ultimi e pure altre nazioni vorrebbero impegnarsi. Visto lo sviluppo della situazione mondiale, non è escluso che le Nazioni Unite assumano una sorta di direzione unificata. Ovunque vengono abolite le regole comuni, sostituite con la nuova divisione di competenze. Di fronte a questa situazione eccezionale, sì, siamo autorizzati.» Rubin si morse il labbro inferiore e annuì. Non ci furono altre domande. «Bene», disse Judith Li. «Allora possiamo cominciare. Prego, maggiore Peak.» Peak si alzò. La luce del lampadario cadeva sulla sua pelle color ebano e la faceva risplendere. Lui schiacciò un sensore del telecomando e, sul grande schermo, apparve un'immagine dal satellite. Mostrava una costa punteggiata di località. «Forse è cominciato tutto da un'altra parte, forse in un momento precedente», disse. «Però oggi diciamo che è cominciato tutto qui, in Perú. La località un po' più grande al centro dell'immagine è Huanchaco.» Illuminò diverse zone del mare con un puntatore laser. «Nel giro di pochi giorni, questa località ha perso ventidue pescatori, benché le condizioni meteorologiche fossero ottimali. Alcune barche sono state ritrovate nell'oceano. Tempo dopo, sono sparite imbarcazioni sportive, yacht a motore e piccole barche a vela. Al massimo si è trovato qualche relitto.» Richiamò una nuova immagine e proseguì: «Gli oceani sono sottoposti a una costante osservazione; sono pieni di sonde galleggianti e di robot che trasmettono una gran massa d'informazioni sulle caratteristiche delle correnti, sulla concentrazione salina, sulla temperatura, sul contenuto di anidride carbonica e su ogni altra cosa possibile. Le stazioni di rilevamento sui fondali marini registrano lo scambio di acqua e sostanze coi sedimenti. Una flotta di navi oceanografiche solca i mari di tutto il mondo e, in orbita, abbiamo centinaia di satelliti civili e militari. Si potrebbe credere che ritrovare navi scomparse non costituisca un problema, ma le cose non sono così semplici.
Infatti, i nostri satelliti, come tutto ciò che è dotato di occhi, sono soggetti alle famose zone cieche.» La rappresentazione grafica mostrava una parte della superficie terrestre. Era sorvolata da satelliti di diverse dimensioni e collocati a varie altezze. Sembravano insetti. «Non cercate di mantenere uno sguardo d'insieme sul caos di oggetti spaziali artificiali», spiegò Peak. «Sono tremilacinquecento, senza contare sonde spaziali extraorbitali come la Magellano. La maggior parte delle macchine che gira lassù è un ferrovecchio. In funzione ce ne sono circa seicento e voi li avrete in parte a disposizione. Compresi i satelliti militari.» L'ultima frase era stata pronunciata con una certa ritrosia. Quindi Peak spostò il puntatore laser su un oggetto a forma di bidone, dotato di pannelli solari. «Un satellite americano KH-12 Keyhole, costruito con sistema ottico. Di giorno ha una risoluzione sui dieci centimetri... In altre parole, consente quasi di riconoscere il volto di una persona. Per le riprese notturne è dotato di ricettori infrarossi e a intensificazione di luce residua, ma purtroppo è completamente inutile con le nuvole.» Peak indicò un altro satellite. «Molti satelliti spia sono dotati di sensori di ripresa attiva a microonde, cioè radar, e per loro le nuvole non rappresentano un ostacolo. Non fanno fotografie, ma riproducono il mondo al centimetro: scansionano la superficie e producono un modello tridimensionale. Ma anch'essi hanno un tallone d'Achille. Le immagini radar hanno bisogno di essere interpretate. Il radar non riconosce i colori, non vede attraverso il vetro, il suo mondo è esclusivamente una forma.» «Perché non si uniscono le tecnologie?» chiese Bohrmann. «Talvolta si fa, ma è molto costoso. In fondo, questo ci porta al problema principale della sorveglianza via satellite. Per poter coprire per un giorno intero un certo Paese o un determinato settore di oceano, è necessaria la cooperazione di diversi sistemi che siano in grado di analizzare grandi aree. Anche se si vogliono immagini dettagliate di una singola zona molto ristretta, bisogna mettere in conto varie istantanee. I satelliti seguono le orbite. La maggior parte ha bisogno di circa novanta minuti per ritornare sullo stesso luogo.» «Ma ci sono molti satelliti che rimangono sempre nello stesso punto», intervenne un diplomatico finlandese. «Non possiamo posizionarli sulle zone critiche?» «Si trovano troppo in alto. I satelliti geostazionari sono stabili solo a un'altezza di 35.888 chilometri. Il dettaglio più piccolo che si può ottenere
da quell'altezza misura otto chilometri. Non si vedrebbe neppure se l'isola di Helgoland sprofondasse in mare.» Peak fece una pausa, poi proseguì: «Tuttavia, da quando abbiamo compreso su cosa dovevamo puntare l'attenzione, abbiamo iniziato ad attrezzare i nostri sistemi». Sullo schermo apparve una superficie d'acqua ripresa a bassa quota. La luce del sole cadeva obliqua sulle onde, rendendo la struttura superficiale del mare simile a un vetro smerigliato. Si vedevano anche piccole imbarcazioni e minuscole figure allungate. L'immagine seguente - più ravvicinata - rivelò alcune barche color giallo, su ognuna delle quali era accucciata una persona. «Uno zoom del KH-12», disse Peak. «La zona della piattaforma continentale al largo di Huanchaco. Quel giorno sono scomparsi diversi pescatori. Giacché siamo nelle prime ore del mattino, i riflessi rimangono nei limiti, ed è un bene, perché così abbiamo potuto fare queste riprese.» L'immagine successiva mostrava un'ampia superficie argentea, su cui andavano alla deriva due delle barche gialle. «Pesci. Un banco enorme. Nuotano circa tre metri sotto la superficie dell'acqua, quindi possiamo vederli. Il problema dell'acqua marina è che conduce poco o niente le onde elettromagnetiche, ma, se l'acqua è limpida, coi nostri sistemi ottici riusciamo ugualmente a vedere almeno un po' in profondità. Con gli infrarossi, siamo in grado di rilevare il calore di una balena fino a trenta metri di profondità. È per questo che i militari amano tanto la gamma degli infrarossi, essa rende visibili i sommergibili sott'acqua.» «Che pesci sono?» chiese una giovane donna dai capelli neri. Il suo cartellino la identificava come un'ecologa del ministero dell'Ambiente di Reykjavik. «Merluzzi?» «Forse. O forse anche sardine sudamericane.» «Devono essere milioni. Sorprendente. Per quello che ne so, il Sudamerica è ormai in una condizione disperata di overfishing.» «Ha ragione», disse Peak. «Anche il fatto che quel banco si trovi spesso nella zona in cui spariscono nuotatori, subacquei e piccole barche da pesca è una cosa che ci sta dando del filo da torcere. Al momento parliamo di banchi anomali. Quattro mesi fa, per esempio, un banco di aringhe al largo della Norvegia ha affondato un peschereccio di diciannove metri.» «L'ho sentito», disse l'ecologa. «La nave si chiamava Steinholm, giusto?» Peak annuì. «Gli animali finiti nella rete hanno continuato a nuotare, passando sotto la barca, mentre l'equipaggio voleva issarli a bordo. La na-
ve si è inclinata. L'equipaggio ha cercato di tagliare i cavi, ma è stato inutile. Hanno dovuto abbandonare la Steinholm, che è affondata nel giro di dieci minuti.» «Poco dopo abbiamo avuto un caso simile al largo dell'Islanda», precisò l'ecologa. «Sono annegati due marinai.» «Lo so. Tutti casi eccezionali, si potrebbe dire. Ma, se mettiamo insieme i casi eccezionali in tutto il mondo, nelle ultime settimane i banchi di pesci hanno affondato più navi di quante ne abbiano mai affondate prima. Qualcuno dice che è un caso, sostenendo che i banchi lottano per sopravvivere. Altri notano il corso sempre identico degli eventi e vi riconoscono una specie di strategia. Non escludiamo che gli animali si lascino catturare perché vogliono rovesciare la nave.» «Ma è una follia!» gridò un rappresentante della Russia. «Da quando i pesci hanno una volontà?» «Da quando affondano i pescherecci», ribatté Peak, asciutto. «Nell'Atlantico lo fanno. Nel Pacifico, invece, sembra che abbiano imparato a evitare le reti, benché ci sfugga completamente come facciano. Si potrebbe arrivare alla conclusione che il banco mette in atto un processo cognitivo e improvvisamente sa che cos'è una rete a strascico o una rete di circuizione e come evitarle. Ma, se avessero sviluppato una simile capacità di apprendimento, gli animali dovrebbero anche aver sviluppato un senso per le dimensioni.» «Nessun pesce, nessun banco, può vedere una rete con un'apertura di centodieci metri di altezza e centoquaranta di larghezza», disse qualcuno. «Tuttavia sembra che i pesci riconoscano le reti. Le flotte di pescherecci lamentano gravi perdite. Ne è colpita tutta l'industria alimentare.» Peak si schiarì la voce. «Il secondo motivo della scomparsa di uomini e navi è sufficientemente noto. Ma ci è voluto un po' perché il KH-12 potesse documentare simili avvenimenti.» Anawak fissava lo schermo. Sapeva cosa sarebbe successo. Aveva già visto le immagini e lui stesso aveva fornito del materiale, ma ogni volta gli si stringeva la gola. Pensò a Susan Stringer. Le riprese erano state proiettate a un ritmo così serrato da sembrare quasi le sequenze di un film. In mare aperto c'era uno yacht a vela lungo circa dodici metri. Non c'era vento, il mare era piatto, le vele raccolte. A poppa erano seduti due uomini; sulla coperta di prua due donne prendevano il so-
le. Qualcosa di molto grande, di massiccio, nuotava vicinissimo all'imbarcazione. Si riconosceva ogni particolare del corpo gigantesco. Era una megattera adulta. Con lei ce n'erano altre due. Le loro schiene avevano rotto la superficie dell'acqua, poi uno degli uomini si era alzato e aveva indicato il mare. Le donne avevano sollevato la testa. «Ora», disse Peak. Le balene avevano superato l'imbarcazione. A sinistra, qualcosa era apparso nel blu profondo, raggiungendo la superficie. Era un'altra balena, ed era balzata fuori dall'acqua. Saltava, spruzzando acqua con le pinne pettorali. Le persone a bordo erano rimaste immobili, come stregate. Il corpo massiccio si era rovesciato. Aveva colpito di traverso l'imbarcazione, spezzandola in due. L'albero si era schiantato, poi un'altra balena era saltata sul relitto. In un attimo, l'idillio si era trasformato in uno spaventoso inferno. La barca affondava. I relitti galleggiavano, dispersi in un cerchio di schiuma che si allargava. Gli uomini non si vedevano più. «Pochi di voi hanno vissuto sulla propria pelle simili attacchi», disse Peak. «Per questo vi abbiamo mostrato queste immagini. E ormai gli attacchi non sono più limitati al Canada e agli Stati Uniti, ma si sono diffusi in tutto il mondo, bloccando una parte consistente del traffico di piccole navi.» Anawak chiuse gli occhi. Chissà com'era stata, vista dall'alto, la collisione del DHC-2 con la megattera. Era stata filmata anche quella? Non aveva avuto il coraggio di chiederlo. L'idea che un insensibile occhio di vetro avesse vissuto con lui quel momento gli era insopportabile. Come se stesse seguendo i suoi pensieri, Peak riprese: «Questo genere di documentazione potrebbe apparirvi cinica, signore e signori. Ma noi non ci limitiamo a guardare. Dov'è stato possibile, ci siamo sforzati di fornire un soccorso immediato». Gettò al suo laptop un'occhiata gelida. «Purtroppo in simili casi si arriva sempre tardi.» Peak sapeva che si stava muovendo in un terreno minato. Le sue parole rivelavano che, sebbene avessero visto gli incidenti, non avevano fatto granché per impedirli. «Immaginate la diffusione degli attacchi come una specie di epidemia», riprese, «un'epidemia iniziata a Vancouver Island. I primi casi dimostrabili si sono limitati alla zona al largo di Tofino. Per
quanto possa suonare inverosimile, in vari casi si sono potute osservare alleanze strategiche. Le imbarcazioni sono state attaccate da balene grigie, megattere, balenottere comuni, capodogli e altre grandi balene, mentre le orche, più piccole e veloci, si sono occupate di eliminare gli uomini finiti in acqua.» Il professore norvegese alzò la mano. «Che cosa la spinge a presumere che si tratti di un'epidemia?» «Non ho detto che è un'epidemia, dottor Johanson», rispose Peak. «Ho affermato che il modo di espansione sembra quello di un'epidemia. Nel giro di poche ore, si è allargata da Tofino a sud, fino alla Bassa California, e a nord, in Alaska.» «Non sono per nulla sicuro che si diffonda.» «È evidente.» Johanson scosse la testa. «Intendo dire che questa interpretazione potrebbe portarci alla conclusione sbagliata.» «Dottor Johanson, se volesse darmi il tempo di esporre la mia relazione...» replicò Peak, in tono paziente. Johanson proseguì, imperterrito. «E se avessimo a che fare con avvenimenti contemporanei, coordinati in un modo un po' impreciso?» Peak lo guardò. «Sì», disse controvoglia. «Potrebbe essere così.» Lo sapeva. Johanson aveva elaborato una teoria. E Peak si era arrabbiato perché non gli piaceva che i civili interrompessero i militari. Judith Li era divertita. Accavallò le gambe, si appoggiò allo schienale e si sentì addosso lo sguardo interrogatorio di Vanderbilt. L'uomo della CIA sembrava convinto che lei avesse anticipato qualcosa a Johanson. Lei ricambiò lo sguardo, scosse la testa e si rimise ad ascoltare l'esposizione di Peak. «Sappiamo che le balene aggressive sono esclusivamente le non stanziali», stava dicendo il maggiore. «Le stanziali appartengono strettamente a un territorio, per così dire. Quelle che migrano, invece, si spostano per lunghi tratti, come le balene grigie o le megattere, oppure si spostano in mare aperto come le orche cosiddette offshore. Per questo - con una certa cautela - abbiamo sviluppato una teoria: la causa del cambiamento nel modo di agire degli animali è da cercare nel mare aperto.» Comparve un planisfero sul quale si vedevano i punti in cui erano stati segnalati gli attacchi delle balene. Un tratteggio rosso tracciato dall'Alaska fino a capo Horn. Altre zone si estendevano ai due lati del continente afri-
cano e lungo l'Australia. Poi il planisfero sparì, lasciando il posto a un'altra carta. Anche lì le zone costiere erano colorate. «Il numero delle specie marine con un comportamento aggressivo nei confronti dell'uomo aumenta drammaticamente. In Australia si moltiplicano gli attacchi degli squali, come pure in Sudafrica. Nessuno va più a nuotare o a pescare. Le reti antisqualo, in genere sufficienti per tenere lontani gli ammali, sono a pezzi, senza che nessuno sia in grado di dire cosa le abbia distrutte. I nostri sistemi ottici non possono chiarire la questione e, per quanto riguarda i robot, i Paesi del Terzo Mondo sono tecnologicamente inadeguati.» «Lei non crede a un insieme di coincidenze?» chiese un diplomatico tedesco. Peak scosse la testa. «La prima cosa che s'impara in Marina, signore, è valutare il pericolo degli squali. Sono animali pericolosi, ma non aggressivi. Non siamo di loro gusto. La maggior parte degli squali sputa subito un braccio o una gamba...» «Consolante», mormorò Johanson. «Eppure diverse specie sembrano aver cambiato i loro gusti per quanto riguarda la carne umana. Nel giro di poche settimane, gli attacchi degli squali sono decuplicati. Migliaia di squali azzurri, che di solito abitano i mari profondi, sono arrivati nella zona dello zoccolo continentale. Mako, squali bianchi e pesci martello arrivano in branco, come i lupi, attaccano una zona costiera e in breve tempo fanno danni enormi.» «Danni?» chiese un deputato francese con un forte accento. «Che vuol dire? Morti?» E cos'altro, idiota? sembrò pensare Peak. «Sì», rispose. «Attaccano anche le barche.» «Mon Dieu! Che cosa può fare uno squalo a una barca?» Peak sorrise, cupo. «Uno squalo bianco adulto è in grado di affondare una piccola barca a morsi oppure andandole addosso. Sono documentati anche casi di squali che hanno attaccato alcune zattere, affondandole. Se poi all'attacco partecipano più animali contemporaneamente, allora non c'è speranza di sopravvivere.» Mostrò l'immagine di un bel polpo, la cui superficie era adornata di lucenti cerchi blu. «Hapalochlaene maculosa. Il polpo dalle macchie blu, lungo venti centimetri. Vive in Australia, in Nuova Guinea, nelle isole Salomone... È uno degli animali più velenosi della Terra. Col morso, inietta nella ferita un enzima tossico. Quasi non ci si accorge di niente, ma due
ore dopo si è morti.» La serie d'immagini proseguì, mostrando una panoramica di bizzarri esseri viventi. «Pesci pietra, tracine, scorfani, vermocani, coni... Nel mare abita una gran quantità di animali velenosi. Nella maggior parte dei casi, le tossine vengono usate come difesa. Nella frequenza degli incidenti si assiste a un aumento più o meno consistente della curva. Tuttavia, per alcuni animali, la curva statistica è schizzata in alto e per questo fatto c'è una spiegazione semplice: specie che prima se ne stavano mimetizzate e nascoste hanno iniziato ad attaccarci.» Roche si chinò verso Johanson. «È possibile che qualcosa che trasforma uno squalo trasformi pure un granchio?» lo sentì sussultare Judith Li. «Cosa ne pensa?» Johanson si voltò verso di lui e rispose: «Ci può mettere la mano sul fuoco». Peak informò i presenti sugli enormi gruppi di meduse, ormai diventati una vera invasione che minacciava il Sudamerica, l'Australia e l'Indonesia. Johanson ascoltava con gli occhi semichiusi. La caravella portoghese provocava uno shock anafilattico che uccideva nel giro di qualche secondo. «Per semplicità dividiamo gli avvenimenti in tre categorie», disse Peak. «Mutamenti del comportamento, mutazioni, catastrofi ambientali. Essi sono conseguenza l'uno dell'altro. Finora abbiamo parlato di comportamenti anomali. Ma, per quanto riguarda le meduse, sembra che siano avvenute delle mutazioni. Le vespe di mare sono sempre state in grado di navigare, però adesso pare che esse siano diventate delle vere maestre... Si ha addirittura l'impressione che abbiano un'elica. L'impressione che se ne ricava è quella che le vespe di mare vogliano eliminare dalla zona ogni presenza umana. E noi non possiamo farci niente. Il turismo subacqueo è praticamente morto, ma il danno maggiore è per i pescatori.» Comparve una nave fattoria, di quelle che preparavano i pesci per la conservazione. «Questa è l'Anthanea. Quattordici giorni fa, l'equipaggio ha issato a bordo un carico enorme di Chironex fleckeri, cioè di vespe di mare. Per meglio dire, qualcosa che pensiamo fossero vespe di mare. È stato un errore non lasciare immediatamente in mare quanto catturato. I marinai hanno aperto la rete e, di conseguenza, sul ponte si sono scaricate tonnellate di veleno puro. Alcuni operai sono morti subito, altri dopo, quando i tentacoli - lunghi svariati metri - si sono diffusi in tutta la nave. Inoltre quel giorno pioveva e l'acqua ha portato ovunque le parti velenose delle meduse. Nes-
suno è in grado di dire come abbia fatto il veleno a finire nell'acqua potabile, fatto sta che nessuno sull'Anthanea è sopravvissuto. Da quel momento si è molto più prudenti e si tengono pronte delle tute protettive, ma ciò non cambia la sostanza del pericolo. In ampie partì del mondo, ormai, non si pesca più pesce, ma veleno.» Non pescano più pesce perché non ce n'è più, rifletté Johanson. Per correttezza avresti dovuto dirlo, Peak. Anche se non è la vera causa di quello che sta succedendo. O forse sì? Certo che era un motivo. Uno degli infiniti motivi. Pensò ai vermi. Organismi mutati che improvvisamente sembravano consapevoli di quello che facevano. Possibile che nessuno capisse quello che stava succedendo? Si vedevano i sintomi di una malattìa il cui agente patogeno era sempre presente, ma non si rendeva mai palese, camuffandosi in modo magistrale. L'uomo aveva spopolato i mari, lasciando solo qualche miserabile pesce, e i banchi sopravvissuti avevano imparato a evitare le trappole mortali, mentre «soldati» armati di veleno davano il colpo di grazia a quella pratica degenerata chiamata pesca. Il mare uccideva gli uomini. E tu hai ucciso Tina, pensò Johanson con freddezza. Tu l'hai convinta a non lasciare Kare. Ti ha ascoltato, altrimenti non sarebbe andata a Sveggesundet. Era colpevole? Come poteva sapere quello che sarebbe successo? Probabilmente Tina sarebbe morta anche a Stavanger. Cosa sarebbe successo se le avesse consigliato di prendere un volo per le Hawaii o per Firenze? Si sarebbe convinto di aver salvato Tina? Ognuno combatteva contro il proprio demone personale. Bohrmann era tormentato dall'idea che avrebbe potuto mettere in guardia il mondo molto tempo prima. Ma come? Sulla base di un'ipotesi? Di un'intuizione inquietante? Avevano lavorato a pieno ritmo per acquisire conoscenze. Non erano stati abbastanza veloci, comunque ci avevano provato. Bohrmann era colpevole? E la Statoil? Finn Skaugen era morto. All'arrivo dell'ondata, si trovava al porto di Stavanger. Johanson stava cominciando a vedere il manager della Statoil sotto un'altra luce. Skaugen era stato un manipolatore. Gli era piaciuto incarnare la coscienza buona di un settore malvagio, ma aveva agito
nel modo giusto? Anche Clifford Stone era stato vittima della catastrofe, però era davvero quel mostro senza cuore che Skaugen gli aveva dipinto? Vermi, meduse, balene, squali... Pesci intelligenti. Alleanze. Strategie... Johanson pensò alla sua casa di Trondheim. L'idea di averla persa non lo angosciava troppo. La sua vera casa era altrove, sulla riva dello specchio che, nelle notti limpide, conteneva tutto l'universo. Là aveva trovato davvero se stesso e si era creato un rifugio di bellezza e di verità. La capanna era una sua creazione esclusiva, l'incarnazione della sua anima. Custodiva quell'intimità che non avrebbe potuto trovare posto in nessun altra casa. Dopo il fine settimana con Tina non c'era più andato. Era successo qualcosa? Le acque dei laghi erano tranquille. Ma lui era preoccupato. Doveva andare a vedere se era successo qualcosa e farlo il prima possibile. Non importava quanto lavoro gli sarebbe caduto addosso. Peak richiamò una nuova immagine. Un astice... No, i resti di un astice. Sembra esploso, pensò Johanson. «Hollywood ne farebbe un film intitolandolo Il messaggero dell'orrore», disse Peak con un sorriso torvo. «E, in questo caso, la definizione coglierebbe nel segno. Nell'Europa centrale si sta diffondendo un'epidemia causata da animali come questo. Ringraziamo il dottor Roche, che ha identificato il passeggero clandestino. Si tratta di un'alga unicellulare dal nome di Pfiesteria piscicida. Una delle circa sessanta specie di dinoflagellati tossici conosciuti. La Pfiesteria è la peggiore delle alghe killer, come abbiamo tragicamente imparato da ciò che è accaduto sulla costa orientale degli Stati Uniti, in particolare nelle acque costiere del North Carolina. In quella zona, nel 1997, la Pfiesteria uccise milioni di pesci. I loro cadaveri galleggiavano in banchi sulla superficie dell'acqua e mostravano ferite aperte, rosicchiate. Per i pescatori fu un disastro economico, ma anche sanitario. Molti soffrirono di disturbi nelle percezioni e le loro braccia e le loro gambe si coprirono di ulcere sanguinanti. Alcuni furono costretti ad abbandonare il lavoro. Gli scienziati che esaminarono la Pfiesteria accusarono danni persistenti alla salute.» Fece una breve pausa. «Nel 1990, a Howard Glasgow, un ricercatore dell'University of North Carolina che aveva individuato la Pfiesteria durante un'analisi di laboratorio, successe una cosa al limite dell'incredibile. Mentre il suo cervello lavorava a pieno regime, il suo corpo aveva preso a muoversi al rallentatore: sembrava quasi che le
sue membra rifiutassero di obbedirgli. Interpretando quei sintomi come la prova che le tossine della Pfiesteria potevano diffondersi anche nell'aria, Glasgow mise gli organismi in un laboratorio sicuro, senza sapere che, all'interno di quel laboratorio, c'era una presa d'aria montata al contrario e dunque collegata direttamente col suo ufficio. Così Glasgow respirò l'aria avvelenata per sei mesi di fila, con risultati devastanti: mal di testa così forti da impedirgli di lavorare, perdita del senso dell'equilibrio, lesioni al fegato e ai reni... Se faceva una telefonata, cinque minuti dopo non se ne ricordava più. Gli capitava addirittura di dimenticare il proprio numero di telefono, il proprio nome o dove fosse casa sua. Quasi tutti pensavano che avesse un tumore al cervello o soffrisse di Alzheimer, ma Glasgow non ne voleva neppure sentir parlare. Infine decise di sottoporsi a una serie di analisi presso la Duke University e, grazie a esse, emerse la verità: da mesi il suo sistema nervoso era sottoposto a un attacco chimico. Altri ricercatori, entrati in contatto con la Pfiesteria, soffrivano di polmoniti e bronchiti croniche. E tutti - lentamente ma inesorabilmente - stavano perdendo la memoria. Tutto ciò a causa di un organismo che non si riusciva a comprendere.» Peak presentò una serie d'immagini al microscopio elettronico. Mostravano diverse forme di vita. Alcune sembravano amebe con escrescenze a forma di stella, altre parevano sfere squamose o pelose, altre ancora somigliavano ad hamburger, dalla cui parte centrale si dipartivano dei tentacoli. «Ecco la Pfiesteria», spiegò. «L'alga può cambiare il proprio aspetto nel giro di qualche minuto, può crescere di dieci volte, può inastarsi e poi balzare fuori dalla ciste, trasformandosi da innocuo essere unicellulare a zoospora estremamente tossica. La Pfiesteria può assumere venti forme diverse, e ogni volta cambia anche le proprie caratteristiche. La tossina è stata isolata. Il dottor Roche e la sua équipe lavorano a pieno ritmo su di essa, tuttavia hanno preoccupazioni ben più gravi rispetto ai ricercatori delle nostre parti. L'organismo finito nelle tubature pare non sia la Pfiesteria piscicida, ma una varietà molto più pericolosa. Pfiesteria piscicida significa 'Pfiesteria che uccide i pesci'. Il dottor Roche ha battezzato l'esemplare da lui scoperto Pfiesteria homicida, 'Pfiesteria che uccide gli uomini'.» Peak sottolineò le difficoltà nel controllare l'alga. Il nuovo organismo sembrava riprodursi con cicli esplosivi e, una volta entrato nell'acqua, non c'era più nulla da fare. Finiva nel suolo e secerneva il suo veleno, che era quasi impossibile filtrare. Il problema era proprio quello. Molte delle vittime finivano letteralmente divorate dalla Pfiesteria, avevano ferite in tutto
il corpo, ferite che, invece di guarire, s'infiammavano e suppuravano. Ma la cosa peggiore era il veleno. Le autorità s'impegnavano disperatamente per depurare canali e tubature, ma non riuscivano a impedire che l'organismo si diffondesse altrove. Il tentativo di liberarsene col calore e con sostanze chimiche non faceva altro che sostituire una piaga con un'altra. La Pfiesteria homicida era praticamente incontenibile. La Pfiesteria piscicida attaccava il sistema nervoso. La nuova specie lo attaccava con un'aggressività tale che, nel giro di poche ore, paralizzava un individuo, lo faceva cadere in coma e morire. Solo poche persone sembravano resistere a quell'aggressione. E, dato che Roche non era ancora riuscito a comprendere la struttura della tossina, si sperava almeno di capire il perché di quella resistenza, ma l'équipe del docente di Biologia molecolare stava lottando contro il tempo. La diffusione della malattia sembrava aver superato ogni tentativo di circoscriverla. «L'alga è arrivata in un cavallo di Troia», disse Peak. «All'interno di crostacei. In un 'astice di Troia', se volete... O, per meglio dire, in qualcosa che somigliava a un astice. Evidentemente gli animali erano vivi al momento della cattura, solo che la loro carne era diventata una specie di sostanza gelatinosa, e incapsulate là dentro vivevano colonie di Pfiesteria. L'Unione Europea ha vietato la cattura e l'esportazione di crostacei. Al momento, i casi di malattia e di morte sono limitati alla Francia, alla Spagna, al Belgio, all'Olanda e alla Germania. L'ultimo conteggio provvisorio parla di quattordicimila vittime. Nel continente americano, sembra che i crostacei siano ancora... crostacei, ma anche noi stiamo pensando di proibirne la vendita.» «Terribile», sussurrò Rubin. «Da dove arrivano queste alghe?» Roche si girò verso di lui. «Le hanno create gli uomini», rispose. «L'ingrasso dei suini sulla costa occidentale americana scarica in acqua quantità impressionanti di liquami e la Pfiesteria vive benissimo nelle acque inquinate. Si nutre di fosfati e nitrati, che vengono sparsi sui campi con le feci degli animali e finiscono nei fiumi. O con gli scarichi delle industrie. Perché stupirsi che quelle bestie si trovino a proprio agio nelle fogne delle grandi città, così sature di sostanze organiche? Siamo noi a generare tutte le Pfiesterie di questo mondo. Non le abbiamo inventate noi, ma noi facciamo in modo che diventino dei mostri.» Roche fece una pausa e tornò a guardare Peak. «Se il Baltico perde ogni forma di vita e i pesci muoiono, come sta succedendo da alcuni anni, la causa è negli allevamenti di maiali in Danimarca. I liquami portano alghe, che si riproducono in maniera e-
sponenziale. Le alghe assorbono l'ossigeno e i pesci muoiono. Le alghe tossiche fanno anche di peggio e nessuna zona può considerarsi al sicuro.» «Ma perché non si è fatto qualcosa prima?» chiese Rubin. «Prima?» Roche rise amaramente. «Certo che si è fatto qualcosa, amico mio. Perlomeno si è cercato di fare qualcosa. Ma dove vive lei? Però, anziché promuovere studi seri, si è lasciato che i ricercatori venissero derisi. Alcuni hanno addirittura ricevuto minacce di morte. Si dice che il North Carolina's Department of Health, Environment, and Natural Resources abbia insabbiato il caso della Pfiesteria per proteggere gli interessi di alcuni influenti rappresentanti politici che, guarda caso, erano gli stessi allevatori di maiali. Naturalmente dobbiamo chiederci quale folle ci abbia mandato gli astici infettati con la Pfiesteria. Ma questo non cambia il fatto che gli ostetrici della catastrofe siamo stati noi. In un certo senso, siamo sempre noi.» «Questi mitili hanno tutte le caratteristiche tipiche delle cozze zebrate. Però sanno fare una cosa che le normali cozze zebrate non fanno: navigare.» Peak era arrivato agli incidenti navali. Dopo aver infierito nella sala riunioni col bilancio della Pfiesteria, ora presentava statistiche non meno allarmanti. Su un planisfero s'intrecciavano linee colorate. «Ecco le principali vie di transito del traffico marittimo commerciale», disse, indicando l'immagine. «Per comprendere il loro corso è fondamentale analizzare la distribuzione dei beni trasportati. In genere, le materie prime vengono trasportate verso nord. L'Australia esporta la bauxite, il Kuwait il petrolio e il Sudamerica i minerali di ferro. Tutto si sposta a distanze che raggiungono le undicimila miglia marine verso l'Europa e il Giappone, in modo che a Stoccarda, Detroit, Parigi e Tokyo si possano produrre automobili, apparecchi elettrici e macchinari. Che a loro volta ritornano in Australia, nel Kuwait e in Sudamerica dentro navi portacontainer. Quasi un quarto del commercio mondiale si svolge nella zona asiatica del Pacifico, per un valore di cinquecento miliardi di dollari. Poco meno nell'Atlantico. I principali centri ad alta concentrazione industriale sono segnati in scuro. La costa orientale americana, con centro New York, l'Europa settentrionale col canale della Manica, il mare del Nord, il Baltico fino alle Repubbliche baltiche, il Mediterraneo e in particolare la riviera. I mari europei hanno un'importanza fondamentale nel commercio mondiale, il Mediterraneo serve anche come via marittima dalla costa orientale nordameri-
cana fino al canale di Suez. E non dimentichiamo il Giappone e il golfo Persico! Gli scambi sono in crescita nel mar Cinese, che insieme col mare del Nord, è il più trafficato della Terra. Per capire il corso del commercio mondiale via mare, bisogna tener presente questa rete, cioè capire cosa significa per una parte del globo se nell'altra i cargo affondano, quali produzioni vengono interrotte, quanti posti di lavoro vengono minacciati, a chi può costare la vita e chi potrebbe approfittare della disgrazia. Il traffico aereo ha eliminato le navi passeggeri, ma il commercio mondiale dipende dal mare. Nulla può sostituire le rotte marittime.» Peak fece una pausa, quindi riprese: «Spiegato il background, diamo qualche cifra. Ogni giorno duemila navi attraversano lo stretto di Malacca e quasi ventimila imbarcazioni ogni anno passano attraverso il canale di Suez. Questo rappresenta circa il quindici per cento del commercio mondiale. Tremila navi al giorno incrociano nella Manica per raggiungere il mare più trafficato del mondo, il mare del Nord. Circa quarantaquattromila navi all'anno collegano Hong Kong col resto del mondo. Migliaia e migliaia di cargo, petroliere, traghetti si muovono ogni anno in tutto il globo, per non parlare delle flotte di pescherecci, cutter, yacht a vela e barche sportive. Oceani, mari, canali e stretti registrano milioni di movimenti navali. Di fronte a questo traffico, l'occasionale affondamento di una superpetroliera o di un cargo non può di certo comportare una grave crisi nel traffico marittimo. Nessuno si lascia spaventare e non si rinuncia a riempire di petrolio le ultime bagnarole arrugginite e a spedirle in mare. La maggior parte delle circa settemila petroliere presenti nel mondo si trova in pessime condizioni. Oltre la metà è in attività da più di vent'anni... E molte delle superpetroliere possono essere tranquillamente definite dei rottami. A questo punto, si fanno dei calcoli: sì, la catastrofe è sempre in agguato, ma si rischia comunque. Tutto diventa un gioco d'azzardo. Se una petroliera finisce nell'incavo di un'onda, può piegarsi al centro anche di un metro, e una cosa del genere sfibrerebbe qualsiasi struttura. Tuttavia la petroliera continua a viaggiare, perché l'esito del viaggio rientra nel calcolo delle probabilità.» Peak sorrise tristemente. «Tuttavia se gli incidenti sono causati da fenomeni inspiegabili, allora ogni calcolo diventa inutile e i margini di rischio diventano imprevedibili. Entra in gioco una singolare psicologia. Noi la chiamiamo 'psicosi da squalo'. Nessuno sa dove sia uno squalo e chi sbranerà, eppure ciò basta per impedire a migliaia di turisti di andare in acqua. Statisticamente, suona impossibile che un'unica vittima possa danneggiare sensibilmente il turismo. Nella pratica, però, lo distrugge. Ora, pensate che, nel giro di poche setti-
mane, sulle rotte commerciali marittime si sono verificate quattro volte più avarie che in passato, e tutte non riconducibili a cause note. Fenomeni terrorizzanti, per cui non ci sono spiegazioni, fanno affondare anche navi in perfette condizioni. Non si sa chi sarà colpito e dove, e nemmeno come difendersi. Non si parla più di navi completamente arrugginite, di danni provocati dalle tempeste o di errori di navigazione, ormai non si parla neppure più di uscire in mare.» Peak era dunque arrivato ai mitili, che campeggiavano sullo schermo. Indicò un'escrescenza filamentosa che sbucava tra le file di conchiglie. «Con questo peduncolo, il bisso, di solito le cozze zebrate si aggrappano saldamente nel luogo in cui sono state trascinate dalle correnti. Il bisso è composto da filamenti appiccicosi costituiti da proteine. Le 'nuove' cozze zebrate hanno sviluppato questi filamenti sino a trasformarli in una sorta di elica. Il principio ricorda vagamente il modo di muoversi della Pfiesteria piscicida. In natura, le convergenze sono ben note, ma si realizzano nel giro di centinaia di migliaia o addirittura milioni di anni. Questi mitili non si sono mai fatti vedere fino a oggi, oppure hanno sviluppato le loro nuove capacità nel corso di una notte. Ciò induce a pensare a una rapida mutazione, perché, da molti punti di vista, si tratta sempre di cozze zebrate... Però esse sembrano sapere perfettamente dove vogliono andare. Per esempio, le prese a mare della Barrier Queen sono rimaste libere, ma il timone era completamente ricoperto.» Peak spiegò le modalità dell'avaria e l'attacco ai rimorchiatori. Anche se la Barrier Queen era riuscita a sfuggire, era comunque emerso come funzionava la strategia di collaborazione tra le cozze zebrate e le balene, esattamente come tra le balene grigie, le megattere e le orche. «Ma è una follia», disse un colonnello seduto in fondo alla sala. «Proprio no.» Anawak si girò verso di lui. «C'è un metodo.» «Follia pura! Vorrebbe dire che le cozze si sono accordate con le balene?» «No. Tuttavia c'è una collaborazione. Se lei avesse vissuto simili attacchi, la penserebbe in un altro modo. Noi pensiamo che l'aggressione alla Barrier Queen sia stata una sorta di test.» Peak premette un tasto sul telecomando e apparve la fiancata di una gigantesca nave. Una tempesta sollevava onde grandi come una casa al disopra dello scafo. «La Sansuo, una delle più grandi navi giapponesi per il trasporto di automobili», spiegò. «Gli ultimi carichi erano mezzi pesanti. Al largo di Los Angeles, la nave è finita in un banco di cozze zebrate. E-
sattamente come è successo alla Barrier Queen, si è bloccato il timone, ma stavolta c'era il mare grosso. La Sansuo è stata colpita a sinistra da un'onda gigantesca e ha cominciato a imbarcare acqua. Possiamo solo ipotizzare quello che è successo dopo. La violenza dell'onda anomala deve aver liberato alcuni camion all'interno, che probabilmente si sono schiantati contro le cisterne con l'acqua di zavorra. Uno ha colpito la parete. Quand'è stata fatta questa ripresa, non erano trascorsi più di quindici minuti dal momento in cui il timone era andato fuori uso. Un quarto d'ora dopo, la Sansuo si è spaccata ed è affondata.» Fece una pausa. «Nel frattempo abbiamo raccolto una lista di casi analoghi, una lista che diventa ogni giorno sempre più lunga. I rimorchiatori vengono attaccati e, nella maggioranza dei casi, si devono interrompere le operazioni di salvataggio. Il dottor Anawak ha ragione quando dice che nella follia c'è un metodo, perché, nel frattempo, siamo venuti a conoscenza di una variante della follia.» Peak presentò l'immagine satellitare di una nuvola nera, lunga chilometri. Si distendeva sulla terraferma, ma aveva origine davanti alla costa, dove si addensava intorno a un centro rosso. Sembrava quasi che un vulcano si fosse messo a eruttare in mezzo al mare. «Sotto questa nuvola si nascondono i resti della Phoebos Apollon, una nave per il trasporto del gas LNG. Classe post-Panamax, la più grande che ci sia. L'11 aprile, cinquanta miglia marine al largo di Tokyo, è improvvisamente scoppiato un incendio in sala macchine, che si è esteso alle quattro cisterne e ha provocato una serie di violente esplosioni. La Phoebos Apollon era esemplare sotto tutti i punti di vista, in perfette condizioni e revisionata regolarmente. L'armatore greco voleva sapere che cosa fosse successo, così ha mandato sott'acqua un robot.» Sullo schermo guizzarono alcuni lampi. Si vide scorrere un codice numerico, poi improvvisamente comparve uno sfarfallio su uno sfondo torbido. «In generale, le esplosioni di navi cisterna per il trasporto di gas sono rare. La nave sott'acqua era spezzata in quattro parti. Al largo di Honshu si scende fino a novemila metri e i resti erano dispersi su un'area di diversi chilometri quadrati. Infine il robot è riuscito a trovare la parte posteriore.» Nello sfarfallio apparve una struttura indistinta. La pala del timone, la poppa dalla forma arcuata, parti delle sovrastrutture. Il robot ci scivolò sopra e si abbassò, procedendo lungo l'involucro d'acciaio. Nell'immagine passò un solo pesce. «La corrente profonda trasporta una gran quantità di materiale organico, plancton, detriti e ogni cosa possibile», commentò Peak. «Non è facile manovrare laggiù. Vi risparmio l'intero filmato, ma
questo dovrebbe interessarvi.» Improvvisamente la telecamera fu vicinissima allo scafo, ricoperto da una sostanza raggrumata che, alla luce dei riflettori, scintillava e risplendeva come cera fusa. Rubin si chinò in avanti, con un'espressione nervosa in volto. «Com'è arrivata lì quella roba?» gridò. «Cosa crede che sia?» chiese Peak. «Sono meduse.» Rubin socchiuse le palpebre. «Piccole meduse. Devono essere milioni. Ma perché sono aggrappate alla nave?» «Come mai le cozze zebrate improvvisamente sanno navigare?» ribatté Peak. «Da qualche parte sotto quella gelatina ci sono le prese a mare e di certo sono irrimediabilmente intasate.» Un diplomatico alzò una mano, esitante. «Che cosa sono... ehm, esattamente...?» «Le prese a mare?» Ah, bisogna spiegare proprio tutto, pensò Peak. «Rientri squadrati in cui sbucano le tubature principali per il fabbisogno d'acqua, provvisti di una grata in modo che non entrino frammenti di ghiaccio e piante. All'interno della nave, le tubature si diramano e trasportano l'acqua marina risucchiata: negli impianti di desalinizzazione, nelle cisterne di zavorra, ma soprattutto nel circuito di raffreddamento dei motori. È difficile dire quando gli animali si siano attaccati allo scafo. Forse soltanto nel momento in cui la nave è affondata. D'altra parte... Immaginiamo questo scenario: il banco di meduse arriva verso la nave così serrato da sembrare una massa compatta. Dopo pochi secondi, gli animali hanno bloccato le prese a mare. Non entra più acqua, ma in compenso quella poltiglia organica penetra attraverso i buchi della grata di protezione. Arrivano sempre più animali. L'acqua rimasta viene pompata dalle macchine, poi tutte le tubature rimangono all'asciutto, e l'approvvigionamento di acqua di raffreddamento della Phoebos Apollon cessa da un momento all'altro. Il motore principale si surriscalda, l'olio lubrificante diventa rovente, la temperatura nella testa del cilindro sale, una delle valvole di scarico salta. Viene spruzzato fuori il carburante incendiato che innesca una reazione a catena, e il sistema antincendio non funziona perché non è più possibile pompare l'acqua.» «Una petroliera modernissima esplode perché le meduse intasano le prese a mare?» chiese Roche. Peak pensò a quanto fosse ridicola quella domanda. Radunati lì c'erano forse i migliori scienziati del mondo, e guardavano quelle immagini come
bambini delusi dal fallimento della tecnica. «Navi cisterna e cargo sono solo per metà prodotti di alta tecnologia. L'altra metà è antica. I motori diesel delle navi e i sistemi di manovra del timone possono essere molto complessi e all'avanguardia, ma in ultima analisi servono sempre a far girare un albero a vite e a muovere da una parte e dall'altra un pezzo d'acciaio. Si naviga col GPS, ma l'acqua di raffreddamento viene sempre pompata all'interno attraverso un buco. Perché dovrebbe essere diverso? Si naviga in questo modo. È così semplice... Di tanto in tanto, una presa a mare s'intasa, se vi entrano delle alghe o cose simili, ma poi essa viene pulita. Se una è intasata, si usano le altre. La natura non aveva mai attaccato le prese a mare, dunque perché migliorarle?» Lasciò passare qualche secondo. «Dottor Roche, se domani alcuni minuscoli insetti dovessero decidere di ficcarsi nelle sue narici, ciò costituirebbe un pericolo mortale per il suo fantastico, complicatissimo corpo. Non ha mai pensato che potrebbe succedere? Ecco qual è il nostro problema. Abbiamo mai pensato che queste cose avrebbero potuto accadere?» Johanson non ascoltava quasi più. Conosceva nei dettagli la parte seguente dell'esposizione, dato che erano stati lui e Bohrmann a strutturarla. Trattava dei vermi e degli idrati di metano. Quindi, mentre Peak parlava, lui affidava al laptop il corso dei propri pensieri. L'influenza sul sistema neuronale attraverso uno... Attraverso che cosa? Doveva trovare un concetto. Era faticoso trovare sempre nuove espressioni. Johanson fissava lo schermo con aria assente. L'unità di crisi aveva accesso al programma? Il pensiero che Judith Li e i suoi uomini potessero spiare i suoi pensieri lo spingeva a essere diffidente. Aveva la sua teoria e si sarebbe confrontato con gli altri soltanto quando lo avesse deciso lui. Il caso volle che a un certo punto il medio e l'anulare della sua mano sinistra scrivessero una parola. In realtà era ancor meno di una parola. Erano tre lettere, che apparvero sullo schermo del laptop. Yrr. Johanson fu tentato di cancellarle. Poi si fermò. Perché no? Qualsiasi parola poteva andare bene. E quella era persino meglio di una parola vera, perché impediva ogni possibilità d'interpretazione. In fondo, lui non sapeva di cosa stava scrivendo. Non c'era un concetto per esprimere ciò che stava facendo, quindi l'astrazione era la strada giusta.
Yrr. Suonava bene. Per il momento sarebbe rimasta così. Karen Weaver ascoltava, rosicchiando per bene la terza matita. «Forse il diluvio universale è stato altrettanto catastrofico», stava dicendo Peak, in conclusione del suo minuzioso excursus. «Le inondazioni fanno parte di diversi miti e tradizioni religiose. Forse la prima descrizione di uno tsunami, raccontata come una catastrofe naturale, risale al 479 avanti Cristo ed ebbe luogo nel mar Egeo. Nel 1755, Lisbona fu investita da un'onda alta dieci metri: i morti accertati furono sessantamila. Sappiamo anche con certezza dell'esplosione del Krakatoa, nel 1883. La camera vulcanica crollò e, come conseguenza, si ebbe la formazione di un'immensa caldera sottomarina. Due ore più tardi, ondate alte quaranta metri colpirono le regioni costiere di Sumatra e Giava, furono distrutti oltre trecento villaggi e morirono quasi trentaseimila persone. Nel 1933 uno tsunami molto più piccolo colpì la città giapponese di Sanriku e infuriò a nord-est di Honshu. Bilancio: tremila morti, novemila edifici distrutti, ottomila navi affondate. Nessuno di questi avvenimenti si avvicina neppure lontanamente allo tsunami dell'Europa settentrionale. Là, gli Stati costieri erano altamente industrializzati. Nel complesso, vivevano duecentoquaranta milioni di persone, in prevalenza sulle coste.» Si guardò intorno. La sala era immersa nel silenzio. «In un colpo, tutta la regione è cambiata dal punto di vista geologico», riprese Peak. «Le conseguenze per l'umanità non sono ancora prevedibili, ma per l'economia sono assolutamente devastanti. Alcune delle più importanti città portuali del mondo sono andate distrutte, in parte o completamente. Fino a pochi giorni fa, Rotterdam era una delle più importanti piazze commerciali di tutti i tempi, il mare del Nord una delle principali riserve di combustibili fossili, con una produzione di circa quattrocentocinquantamila barili di petrolio al giorno. La metà delle risorse petrolifere europee era al largo della costa norvegese, un'altra parte al largo dell'Inghilterra, senza contare che là si trovava anche una parte consistente dei giacimenti mondiali di gas naturale. Il numero delle vittime è valutato tra i due e i tre milioni, quello dei feriti e dei senzatetto è molto più alto.» Peak pronunciava quelle cifre come se stesse dando le previsioni del tempo, apparentemente senza la minima emozione. «Non è chiaro che cosa abbia provocato lo smottamento. I vermi rientrano senza dubbio tra le eccezionali mutazioni con cui abbiamo a che fare.
Nessun avvenimento naturale spiega la comparsa di questi eserciti di miliardi di vermi e batteri. Tuttavia i nostri amici di Kiel e il dottor Johanson ritengono che al puzzle manchi ancora una tessera. Che le distese di idrati diventassero così instabili solo a causa dell'infestazione non era ipotizzabile e quindi non era possibile prevedere una simile catastrofe. Deve essere entrato in gioco un fattore supplementare, che, con l'ondata, ha rivelato solo la parte superficiale del problema.» Con un brivido, Karen Weaver si raddrizzò sulla sedia. Benché l'immagine dal satellite apparsa in quel momento sullo schermo fosse stata scattata da una grande altezza, e risultasse sfocata e schiarita artificialmente, lei aveva riconosciuto subito la nave. «Questa ripresa spiega ciò che voglio dire», riprese Peak. «Stavamo sorvegliando la nave col satellite...» Come? Karen pensò di non aver capito bene. Stavano sorvegliando Bauer? «Una nave oceanografica, la Juno», proseguì Peak. «Le fotografie sono state scattate di notte da un satellite spia militare, l'EORSAT. Fortunatamente avevamo la visuale libera e il mare calmo, cosa insolita in quella zona. In quel momento, la Juno era davanti alle isole Svalbard.» Le luci della nave spiccavano pallide dalla superficie nera. Poi, improvvisamente, il mare si picchiettò di macchie chiare, che si allargavano finché esso non sembrò ribollire. La Juno si piegò a destra e a sinistra. Si girò. Poi affondò come un sasso. Karen era sconvolta. Nessuno l'aveva preparata a quello. Adesso sapeva dov'era Bauer. La Juno giaceva sul fondo del mar di Groenlandia. E lei prese dolorosamente consapevolezza del fatto che ora ne sapeva più di tutti gli altri. Bauer le aveva lasciato la sua eredità spirituale. «È stata la prima volta, dall'inizio delle anomalie, che abbiamo potuto osservare questo effetto», disse Peak. «Blowout di metano in questa zona ci erano noti da tempo, tuttavia...» Karen alzò la mano. «Non avete mai ipotizzato che potesse succedere qualcosa del genere?» Peak la scrutò. Il volto sembrava intagliato nel legno, tanto era immobile. «No.» «E che cosa avete fatto quando la Juno è affondata?» «Niente.» «Non avete fatto niente, benché la zona e la nave fossero sorvegliate con
un satellite?» Peak scosse lentamente la testa. «Abbiamo osservato una serie di navi che affondavano e abbiamo raccolto informazioni. Non si può essere contemporaneamente ovunque. Nessuno poteva pensare che proprio quella nave...» Karen lo interruppe: «Sbaglio, o gli effetti di simili blowout vi sono sufficientemente noti? Per esempio dal presunto mistero del triangolo delle Bermuda?» «Miss Weaver, noi...» «Detto in altri termini, se eravate a conoscenza che, in passato, alcune navi erano sparite in quel modo e se sapevate che nel mare del Nord aumentavano le fuoriuscite di metano, non avete sospettato quello che sarebbe successo alla scarpata continentale norvegese?» Peak la fissò. «Che vorrebbe dire?» «Voglio sapere se avreste potuto fare qualcosa!» L'espressione di Peak rimase completamente impassibile. Tenendo lo sguardo puntato su Karen e, nel silenzio di tomba, rispose: «Abbiamo sbagliato le valutazioni». Peak non aveva avuto scelta: doveva ammettere almeno in parte il fallimento della ricognizione aerea. Effettivamente avevano registrato una ripresa dei blowout al largo della Norvegia, ma anche tutte le altre possibilità. Non sapevano nulla solo dei vermi. Consapevole della situazione difficile in cui si trovava Peak, Judith Li si alzò, andando in suo aiuto. «Non avremmo potuto fare nulla», disse con calma. «Inoltre, Miss Weaver, vorrei pregarla di ascoltare per intero la relazione del maggiore prima di formulare accuse. Devo forse ricordarle che i consiglieri scientifici in questa sala sono stati scelti sulla base di due criteri, cioè specializzazione ed esperienza? Alcuni di loro sono stati direttamente coinvolti negli avvenimenti. Il dottor Bohrmann avrebbe potuto impedirlo? E il dottor Johanson? E la Statoil? Avrebbero potuto impedirlo, Miss Weaver? Crede davvero che al controllo dall'orbita sia collegata una task force onnipresente che arrivi immediatamente sul posto per soccorrere le vittime, qualunque cosa sia successa? Forse per questo dovremmo smettere di usare i satelliti?» La giornalista aggrottò la fronte. «Non siamo qui per rimproverarci a vicenda», dichiarò Judith Li con forza, prima che Karen potesse ribattere. «Chi è senza peccato scagli la
prima pietra. Così c'è scritto nella Bibbia, e spesso la Bibbia ha ragione. Siamo qui per impedire che capiti di peggio. D'accordo?» «Alleluia», mormorò Karen Weaver. Judith rimase per un po' in silenzio, poi sorrise. Dopo il bastone, era il momento della carota. «Siamo tutti sconvolti», disse. «Ha tutta la mia comprensione, Miss Weaver. Maggiore Peak, prosegua pure, la prego.» L'incertezza di Peak stava aumentando. I soldati non esprimevano critiche e dubbi in quel modo. Lui non aveva nulla contro le critiche e i dubbi, però odiava essere messo alla berlina e non poter rimettere a posto la situazione con un ordine. Improvvisamente provò un odio sordo verso la giornalista. E si chiese come avrebbe fatto a cavarsela con quella massa di scienziati. «Quella che avete visto era la fuoriuscita di una gran quantità di metano», riprese. «E, per quanto sia addolorato per la morte dei marinai, è mio dovere sottolineare che il gas fuoriuscito ci crea problemi ben maggiori. In seguito allo smottamento, si è liberata nell'atmosfera una quantità di metano milioni di volte maggiore di quella che ha affondato la Juno. Abbiamo inoltre elaborato scenari in caso si verifichino fuoriuscite di metano analoghe in tutto il mondo. Il risultato sembra una condanna a morte. L'atmosfera collasserà.» Tacque per un momento. Peak era un duro, ma quello che stava per comunicare faceva paura anche a lui. Pronunciò le parole con lentezza. «Devo portarvi a conoscenza del fatto che i vermi sono stati avvistati sia nell'Atlantico sia nel Pacifico. Per la precisione, la specie è stata avvistata sulle scarpate continentali dell'America settentrionale e meridionale, del Canada occidentale e del Giappone.» Silenzio di piombo. «Questa era la cattiva notizia.» Qualcuno tossì. Fu come una piccola esplosione. «La notizia buona è che l'infestazione non raggiunge neppure lontanamente le dimensioni di quella in Norvegia. Gli organismi occupano solo aree limitate. In definitiva, con quella concentrazione non sono in grado di procurare danni seri. Però noi dobbiamo impedire in qualsiasi modo che la loro presenza si rafforzi. A quanto pare, anche al largo della Norvegia, negli anni scorsi, erano stati riconosciuti piccoli insediamenti nella zona in cui la Statoil stava sperimentando un nuovo tipo di stazione.» «Il nostro governo non può confermare», disse un diplomatico norvege-
se seduto nelle ultime file. «Lo so», replicò Peak in tono ironico. «Ma praticamente tutte le persone coinvolte nel progetto sono morte. Le nostre fonti si limitano al dottor Johanson e al gruppo di ricerca di Kiel. Bene, abbiamo ottenuto una sorta di proroga. Dobbiamo utilizzarla per fare subito qualcosa contro quelle maledette bestioline.» Sobbalzò. Maledette bestioline... Un'espressione troppo emotiva. Non andava bene. Un commentatore sportivo avrebbe detto che era crollato negli ultimi metri. «Eccome, se sono maledette quelle bestiole, perdio!» tuonò una voce dal fondo. A parlare era stato un uomo dall'aspetto singolare, che era anche balzato in piedi. Svettava come una roccia, alto e massiccio. Indossava una tuta arancione e un berretto da baseball, dal quale spuntavano folti riccioli neri. Un paio di enormi occhiali colorati si reggeva a fatica su un naso troppo piccolo, ma talmente appuntito che balzava agli occhi, a dispetto della bocca grande come un forno. Quando apriva la bocca e spingeva in basso il mento colossale, somigliava a uno dei vecchietti brontoloni del Muppet Show. Sul suo cartellino c'era scritto: DOTTOR STANLEY FROST, VULCANOLOGO. «Ho visto in anteprima la documentazione», disse, in un tono da predicatore. «E non mi piace per niente. Ci stiamo concentrando sulle scarpate continentali delle zone densamente popolate...» «Sì, perché ciò corrisponde all'esempio norvegese. Prima pochi animali, poi da un giorno all'altro un'orda.» «Non dobbiamo concentrarci solo su quello.» «Vuole che ripeta quello che è successo nell'Europa settentrionale?» «Maggiore Peak! Ho forse detto che non dobbiamo badare alla scarpata continentale? Non ho sostenuto niente del genere! Ho parlato dell'esclusiva concentrazione su di essa, una cosa che - Dio me ne è testimone - è una stupidaggine colossale. È lampante. Il diavolo percorre altre strade.» Peak si grattò la testa. «Potrebbe chiarire la sua affermazione, dottor Frost?» Il vulcanologo inspirò profondamente. «No», rispose. «Come? Ho capito bene?» «Dobbiamo forse seminare il panico? No, vero? Allora prima devo fare chiarezza. Pensi alle mie parole.» Si guardò intorno, sicuro di sé, col mento gigantesco proteso in avanti, poi si sedette. Fantastico, pensò Peak. Prima la giornalista idiota e adesso quest'altro
pazzo. Vanderbilt avanzò pesantemente verso il podio. Judith Li lo seguì, socchiudendo le palpebre, e poi notò che il vice direttore della CIA stava inforcando un paio di occhiali ridicoli e la cosa la riempì di un misto di fastidio e ripugnanza. «'Maledette bestioline' è la definizione giusta, Sal», esordì Vanderbilt in tono giulivo. Quindi si guardò intorno, raggiante, come se dovesse comunicare la buona novella. «Ma noi daremo loro fuoco finché non gli bruceremo il culo. Ve lo prometto. Okay, veniamo alle nostre supposizioni. Non è molto. Il nostro carissimo petrolio, da cui siamo tutti così dipendenti e che tutti vorremmo scolarci, è andato a farsi fottere. Espresso in parametri economici, ciò significa che possiamo dire addio a una parte consistente della produzione mondiale. Per i cammellieri dell'OPEC è una gran botta. La navigazione internazionale si scontra con sempre nuovi scherzi della natura, e si blocca, come ha appena dimostrato esaurientemente Peak. E così il terrore mostra i suoi effetti. Sì, insomma, detto fra noi: gli attacchi di squali e balene sono storielle per bambini, onestamente, enormi sciocchezze. È seccante se un'intera famiglia americana non torna più a casa dopo essere uscita a pescare, ma all'umanità non importa un fico secco. Non è bello, anzi è una vera porcheria, se, in uno dei Paesi in via di sviluppo, un piccolo pescatore, che con la sua sardina quotidiana deve sfamare diciassette figli e tre mogli, è costretto a rimanere sulla spiaggia a fissare il mare con sguardo vuoto perché, uscendo a pescare, rischia di essere mangiato. Proviamo tutti un sincero dispiacere, ma non possiamo fare assolutamente nulla. L'umanità ha altri problemi. Sono i Paesi ricchi a essere stati colpiti. I pesci cattivi non si fanno più catturare, anzi spediscono nelle reti della robaccia velenosa, oppure fanno ribaltare i pescherecci. Benché si tratti di casi isolati, ormai quei casi sono maledettamente troppi. E questo è un male per i Paesi in via di sviluppo, perché non riceveranno più niente da noi.» Vanderbilt ammiccò furbescamente al di sopra del bordo degli occhiali. «Sapete, signori, se uno vuole distruggere il mondo, ne potrebbe far fuori due terzi semplicemente tenendo imp