MARY STEWART IL GIORNO FATALE (The Wicked Day, 1983) A Geordie Haddington con profondo affetto Prologo «Merlino è morto...
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MARY STEWART IL GIORNO FATALE (The Wicked Day, 1983) A Geordie Haddington con profondo affetto Prologo «Merlino è morto.» L'uomo lo aveva detto in un sussurro ed era a poco più della lunghezza di un braccio dalla donna ma le pareti dell'unica stanza della casetta parvero afferrare e rilanciare la frase come in un corridoio pieno di echi. E sulla donna l'effetto fu violento come se lui avesse gridato. Le mani che avevano dondolato la grande culla accanto al fuoco sussultarono vivacemente tanto da svegliare il bambino, rannicchiato sotto le coperte, che incominciò a frignare. Per quella volta, lei lo ignorò. I suoi occhi azzurri, chiari in un modo incongruo in quella faccia scura e raggrinzita come un'alga secca, passarono rapidamente dalla speranza al dubbio e alla paura. Non aveva bisogno di chiedere al suo uomo dove avesse appreso quella notizia. Qualche ora prima, quello stesso giorno, aveva visto la vela della nave mercantile avanzare verso il porto dove, al di sopra del grumo di casupole che formavano l'unico centro abitato dell'isola, stava la nuova casa della regina, a comando del porto principale. I pescatori, intenti alle loro reti oltre il capo, erano soliti avvicinarsi alla rotta di un nuovo arrivato e domandare a gran voce notizie. La bocca della donna si aprì come se vi tremassero sopra centinaia di domande, ma ne fece solo una: «Possibile che sia proprio vero? «Sì, questa volta è vero. Lo hanno giurato.» La donna portò una mano al petto nel segno di scongiuro contro gli incantesimi. Ma pareva ancora dubbiosa. «Be', hanno detto la stessa cosa l'autunno scorso...» esitò, poi diede al pronome un peso sotto cui parve piegarsi, «quando Lei era ancora giù a Dunpeldyr con il principino e stava aspettando i gemelli. Lo ricordo bene. Eri sceso al porto quando il mercantile è arrivato da Lothian e quando hai portato a casa la paga mi hai raccontato quello che aveva detto il capitano. Lì al palazzo c'era stata una festa, anche prima che arrivasse la notizia della morte di Merlino. Lei l'aveva
vista con i suoi poteri magici, ha detto. Ma poi non era vero. Era solo svanito, come aveva fatto tante altre volte.» «Sì, questo è vero. Era proprio svanito, per tutto l'inverno, nessuno sa dove. Ed è stato anche un brutto inverno, proprio come qui, ma la sua magia lo ha tenuto vivo perché alla fine lo hanno trovato, nella Foresta Selvaggia, pazzo come una lepre, e lo hanno portato su a Galava per curarlo. Adesso dicono che si è ammalato ed è morto lì, ancora prima che il Sommo Re tornasse dalle guerre. Questa volta è proprio vero, moglie, e lo sappiamo di prima mano. La nave lo ha saputo quando si sono fermati per fare acqua a Glannaventa e Merlino era lì, morto nel suo letto a nemmeno quaranta miglia di distanza. E c'era anche molto d'altro, notizie su qualche combattimento a sud della Foresta, e un'altra vittoria per il Sommo Re, ma il vento era troppo forte per poter capire tutto quello che dicevano e non sono riuscito ad avvicinare di più la barca. Adesso andrò al villaggio per sapere il resto.» Abbassò ancor più la voce fino a ridurla a un rauco filo di suono. «Nessuno del regno prenderà il lutto per questa notizia, nemmeno quelli che avevano legami di sangue. Credimi, Sula, stanotte a palazzo ci sarà un'altra festa.» Mentre parlava diede un'occhiata sopra la spalla verso la porta, quasi per paura che lì potesse esserci qualcuno in ascolto. Era un uomo piccolo e tarchiato con gli occhi azzurri e la faccia segnata dalle intemperie, come la hanno i marinai. Era un pescatore che per tutta la vita aveva fatto il suo mestiere in quella solitaria baia della più grande delle isole Orcadi, quella che chiamano Mainland. Sebbene di aspetto rozzo e un po' tonto, era onesto e abile nel suo lavoro. Si chiamava Brude e aveva trentasette anni. Sua moglie Sula era più giovane di quattro anni ma così irrigidita dai reumatismi e curvata dalle fatiche da sembrare già una vecchia. Pareva impossibile che il bambino nella culla fosse nato da lei. E, in effetti, non c'era nessuna somiglianza. Il bambino, un maschietto di circa due anni, aveva occhi e capelli scuri e nessuna traccia del colorito nordico che appare così spesso tra la gente delle isole Orcadi. La mano che stringeva le coperte della culla aveva ossa lunghe e sottili, i capelli scuri erano folti e serici e la curva della fronte e degli occhi dalle lunghe ciglia potevano persino indicare qualche traccia di sangue straniero. Ma il bambino non era la sola cosa incongrua in quel luogo. La casa era molto piccola, poco più di un tugurio. Sorgeva su un pezzetto pianeggiante di prato salmastro a poca distanza dalla costa, protetta sui due lati dal rialzarsi del terreno verso le scogliere che racchiudevano la baia e riparata dalle maree grazie alla barriera rocciosa che orlava la spiaggia trattenendo
i macigni ammucchiati sulla costa dalla tempesta. Nell'entroterra c'era la landa da cui scendeva un rigagnolo d'acqua che cadeva in una cascata in miniatura poco sotto la casupola, verso la spiaggia. Un po' prima della linea della marea, era stato arginato per formare un serbatoio artificiale. La casa era costruita bene, con le pietre raccolte sulla spiaggia. Erano lastre piatte di arenaria, tirate giù dalle scogliere dal vento e dal mare e lavorate dalla natura in modo da poter formare una specie di muro a secco facile da eseguire e ragionevolmente solido contro il maltempo. Non si usava malta e le fessure venivano colmate con il fango. Ogni tempesta ne lavava via un po' e bisognava aggiungerne dell'altro, così che da lontano la casetta pareva una rozza scatola di fango lisciato con un ciuffo di irsuti steli di erica che la incappucciava. La copertura era tenuta ferma da vecchie reti da pesca rammendate, appesantite alle estremità con delle pietre. Non c'erano finestre. La soglia era bassa e larga e un uomo doveva piegarsi in due per entrare. Era chiusa solo da una tenda di pelle di cervo sommariamente conciata e rigida come legno e il fumo del focolare interno sfuggiva in lente volute dai bordi. Ma all'interno quella pur miserrima dimora mostrava qualche segno di semplice comodità. La culla del bambino era di vecchio legno curvato, le coperte morbide e tinte vivacemente e il guanciale imbottito di piume. Sul ripiano di pietra che serviva da letto alla coppia c'era un pesante, quasi lussuoso copriletto di pelle di foca maculato e folto, di una qualità che normalmente sarebbe andata dritta nella casa di uno dei guerrieri o magari in quella della regina stessa. E sul tavolo - un'asse tarlata di relitto marino appoggiata su pietre, perché il legname scarseggiava nelle Orcadi - c'erano gli avanzi di un buon pasto: non carne rossa, certo, ma un paio di ali di pollo rosicchiate e un vaso di grasso d'anatra da mangiare con il pane nero. Gli abitanti di quella casa erano vestiti miseramente. Brude indossava una corta tunica rattoppata sopra la quale aveva infilato la giacca senza maniche di pelle di pecora che, in estate e in inverno, lo proteggeva in mare dalle intemperie. I piedi e le gambe erano avvolti in stracci. La veste di Sula era una cosa informe di lana filata in casa e tinta con il muschio, e per cintura portava un pezzo di corda di quella che aveva tessuto per le reti del marito. Anche i suoi piedi erano fasciati di stracci. Ma fuori della casetta, tirata a riva oltre il segno della marea disegnato dalle alghe nere e dalle conchiglie frantumate, c'era una buona barca, buona quanto tutte le altre dell'isola, e le reti stese ad asciugare sopra i massi erano molto migliori di quanto Brude avrebbe saputo farle. Erano un'importazione straniera, fatta
di materiali che non si potevano avere nelle isole del nord e al di sopra dei mezzi di una famiglia come quella. Le funi personali di Brude, intrecciate a mano con canne e rottami essiccati si stendevano dal tetto della casa fino a pesanti pietre di ancoraggio sull'erba. Alle corde erano appese carcasse di pesce da essiccare e un paio di grossi uccelli marini, due sule, da cui Sula aveva preso il nome. Una volta essiccata e riposta e con l'aggiunta di molluschi e alghe, quella roba avrebbe costituito il cibo per l'inverno. La promessa di un'alimentazione migliore era però presente con la mezza dozzina di galline che razzolavano lungo la linea della marea e con la capra dalle grosse mammelle che brucava l'erba salata. Era una limpida giornata dell'inizio dell'estate. Maggio, nelle isole, può essere crudele quanto qualunque altro mese ma quello era un giorno di sole e tiepide brezze. Le pietre della spiaggia parevano grigie e turchesi e rossicce, il mare vi si infrangeva pacificamente e l'erba della costa era costellata di garofanini e primule. Il ciglio di tutte le scogliere che delimitavano la baia era affollato di uccelli marini che si disputavano il territorio per nidificare e più vicino, sui ciottoli o sull'erba, i variegati ostricai covavano le loro uova o volavano gridando avanti e indietro lungo la marea. L'aria era appesantita dalle loro grida. Anche se qualcuno fosse stato a origliare fuori della porta della casupola, non avrebbe potuto sentire niente per il rumore del mare e degli uccelli ma, all'interno, il furtivo sussurrare continuava. La donna non diceva nulla ma l'apprensione era ancora visibile sulla sua faccia e alzò una manica per asciugarsi gli occhi. Suo marito parlò con impazienza. «Cosa ti piglia, donna? Non vorrai piangere per quel vecchio mago? Qualunque cosa sia stato Merlino con le sue magie per re Artù e per la gente del continente, per noi qui non è stato niente. E poi era vecchio e anche se la gente diceva che non sarebbe mai morto, dopo tutto pare che anche lui fosse mortale. E cosa ci trovi da piangere?» «Non piango per lui. Perché dovrei? Ma ho paura, Brude, ho paura.» «Per cosa?» «Non per noi. Per lui.» Diede una rapida occhiata verso la culla dove il bambino, sveglio ma ancora intontito dal sonnellino pomeridiano, giaceva piccolo e rannicchiato sotto le coperte. «Per lui?» chiese suo marito, sorpreso. «Perché? Certamente adesso tutto va bene per noi, e anche per lui. Sparito Merlino che era nemico del nostro re Lot e, a quanto si dice, anche di questo suo bambino, chi gli può far del male o farne a noi che lo alleviamo? Magari adesso potremo anche
smettere di stare attenti perché la gente non lo veda e non incominci a far domande. Magari adesso potrà correre fuori e giocare come gli altri bambini e non stare attaccato tutto il giorno alle tue sottane a farsi coccolare come vuoi tu. Comunque, non riuscirai a tenerlo ancora per molto. È uscito già da un po' dall'età della culla.» «Lo so, lo so. Ma non capisci che è di questo che ho paura? Di perderlo. Quando verrà per Lei il momento di riprenderselo...» «E perché? Se non lo ha portato via quando è arrivata la notizia della morte di re Lot, perché dovrebbe farlo adesso? Senti, moglie: quando il re suo marito se ne è andato, avresti pensato che era quello il momento in cui poteva avere in mente di far sparire quietamente anche il suo bastardo. È stato allora che io personalmente ho avuto paura. Be', adesso è il piccolo principe Gawain che è di diritto re delle Orcadi, ma c'è questo bambino, bastardo o no, che ha quasi... quanto?... quasi un anno più di lui, e qualcuno potrebbe dire...» «Qualcuno potrebbe dire troppo.» Sula parlò duramente e con una paura così palese che Brude, sorpreso, fece un passo verso la soglia, scostò bruscamente la tenda e guardò fuori. «Cosa ti piglia? Non c'è nessuno. E anche se ci fosse, non sentirebbe niente. Il vento si sta alzando e la marea è già molto alta. Ascolta.» Lei scosse la testa. Fissava il bambino. Le si erano asciugate le lacrime. Quando parlò lo fece in poco più che un sussurro. «Non fuori. Nessuno potrebbe avvicinarsi abbastanza senza che sentissimo urlare le gazze marine. È qui in casa che dobbiamo stare attenti. Guardalo. Non è più un neonato. Ascolta e certe volte sembra che capisca ogni parola.» L'uomo si avvicinò alla culla e ci guardò dentro. La sua faccia si ammorbidì. «Be', anche se non è vero adesso, lo sarà presto. Sa Dio se è abbastanza precoce. Noi abbiamo fatto quello per cui siamo stati pagati... e anche di più se si pensa che esserino malaticcio era quando ce lo hanno portato. Adesso guardalo. Qualunque uomo potrebbe andar fiero di un figlio come lui.» Si girò per prendere il bastone che stava appoggiato accanto alla soglia. «Senti, Sula, se qualche sventura avesse dovuto venirci, sarebbe arrivata prima. Se gli avessero voluto far del male, i pagamenti si sarebbero interrotti, non ti pare? Così smettila di agitarti. Non hai motivo di aver paura.» Lei annuì, ma senza guardarlo. «Sì. È stato sciocco da parte mia. Hai ragione, mi pare.»
«Ci vogliono ancora un po' di anni prima che il giovane Gawain si preoccupi di regni, e di bastardi di re, e per allora questo qui sarà stato dimenticato. E se questo vorrà dire che i pagamenti si interromperanno, cosa ce ne importa? Nel mio mestiere, un uomo ha bisogno di un figlio che lo aiuti.» Allora lei lo guardò e sorrise. «Sei un brav'uomo, Brude.» «Be',» fece lui, imbarazzato, spingendo da parte la tenda, «finiamola con questi discorsi. Adesso vado al villaggio a sentire quali altre notizie hanno portato i marinai.» Una volta sola con il bambino, la donna restò seduta per un poco senza muoversi, con la paura ancora dipinta in faccia. Poi la mano del bambino si allungò verso di lei che sorrise improvvisamente con un sorriso che riportò la gioventù, brillante e graziosa, alle sue guance e ai suoi occhi. Si chinò per tirarlo fuori dalla culla e se lo mise sulle ginocchia. Prese una crosta di pane nero dal tavolo, la inzuppò in una brocca di latte di capra e gliela avvicinò alle labbra. Il bambino prese il pane e incominciò a mangiare tenendo la testa bruna contro la spalla della donna. Lei gli posò la guancia sul capo e alzò una mano per accarezzarlo. «Gli uomini sono proprio sciocchi,» disse dolcemente. «Non vedono mai quello che salta agli occhi. Ma tu non sarai uno sciocco, tesoro mio, non con il sangue che hai dentro e con quel modo che hanno i tuoi occhi di guardare dritto attraverso le cose, eppure sei ancora tanto piccolo...» Fece una risatina tenendo la bocca contro i capelli del bambino che sorrise a quel suono. «Il bastardo di Lot, vero? Be', così dicono, e tanto meglio. Ma se vedessero quello che vedo io e se sapessero cosa ho immaginato in tutti questi mesi...» Strinse di più il bambino per calmarsi riandando con la mente a quelle notti di estate di due anni prima quando Brude, con un dono in oro che assicurava il suo silenzio, era partito non per il suo solito campo di pesca ma molto più a ovest, in acque più profonde. Per quattro notti aveva aspettato lì, brontolando contro la perdita della sua pesca ma mantenuto fedele e silenzioso dal dono in oro e dalla promessa della regina. Poi, alla quinta notte, una calma e chiara notte estiva delle Orcadi, la nave che veniva da Dunpeldyr si era infilata nella baia e aveva mollato l'ancora e una barca si era staccata dal suo fianco con a bordo tre uomini, soldati della regina, ai remi. Brude rispose al loro sommesso richiamo, poi i due scafi si sfiorarono. Un fagotto venne passato. L'imbarcazione si allontanò e sparì. Brude
diresse la sua verso terra ed andò a tutta velocità alla casetta dove Sula aspettava accanto alla culla vuota tenendo in grembo lo scialle che aveva tessuto per il suo bambino morto. Un bastardo, era tutto quello che avevano detto loro. Un bastardo reale. E in quanto tale un pericolo, da qualche parte, per qualcuno. Ma che un giorno, forse, avrebbe potuto essere utile. Quindi star zitti, nutrirlo, e un giorno il compenso potrà essere grande... Da molto per Sula il compenso aveva smesso di essere importante. Viveva con l'unico di cui avesse bisogno, il bambino stesso. Ma viveva anche con la costante paura che un giorno, quando sarebbe diventato utile per questo o quel remoto e regale personaggio, il suo bambino le sarebbe stato portato via. Da molto si era fatta una sua idea sull'identità di quei personaggi, anche se era abbastanza saggia da non parlare di loro nemmeno con suo marito. Non re Lot, di questo era certa. Aveva visto gli altri bambini che aveva avuto dalla regina: avevano i capelli rosso-oro di Morgause e il colorito acceso e la struttura tarchiata del loro padre. Nessuna caratteristica del genere compariva nel suo figlio adottivo. I capelli e gli occhi scuri avrebbero potuto essere di Lot ma la loro forma e la linea della fronte e degli zigomi erano diverse. E qualcosa nella bocca, nelle mani, nella struttura snella, nella pelle calda e chiara, oltre a un certo modo elusivo di muoversi e guardare lo marchiavano, per gli occhi sempre attenti di Sula, come figlio della regina, non del re. E, una volta stabilito questo, altre cose divennero chiare: gli uomini della regina che si erano affrettati a portar via il bambino da Dunpeldyr prima che re Lot tornasse a casa dalle guerre; il successivo massacro di tutti i bambini della città nel tentativo di cogliere e distruggere quell'unico bambino, un massacro attribuito da Lot e dalla sua regina a re Artù e al suo consigliere Merlino ma di fatto istigato (si mormorava) dallo stesso re Lot; e i regolari pagamenti, in denaro e oggetti, che venivano segretamente dal palazzo dove, da che c'era il bambino, re Lot aveva messo raramente piede. Quindi, dalla regina. E anche adesso che re Lot era morto, lei continuava a pagare e il bambino era ancora al sicuro. Questa, per Sula, era la prova definitiva. La regina Morgause, una signora non famosa per la sua dolcezza, difficilmente avrebbe provveduto al bastardo di suo marito; un bastardo, per di più, maggiore del maggiore dei principi legittimi e, come tale, magari, con un diritto di precedenza al regno. Dunque, un bastardo della regina. E di chi? Anche su questo punto, Sula
non aveva dubbi. Non aveva mai visto il fratellastro della regina Morgause, Artù il Sommo Re della Britannia, ma, come tutti gli altri, aveva sentito molte storie di quel taumaturgico giovane. E la prima di quelle storie riguardava la grande battaglia di Luguvallium, dove il ragazzo Artù, apparendo improvvisamente al fianco di re Uther, aveva guidato le sue truppe alla vittoria. Dopo - così continuava la storia, raccontata con orgoglio e indulgenza - ancora ignaro della sua vera parentela, era andato a letto con Morgause, la figlia bastarda di Uther e, di conseguenza, sorellastra di Artù. Il tempo calzava. L'età del bambino - e l'aspetto e i modi - erano giusti. E quel massacro di Dunpeldyr, che l'avesse ordinato Lot o Merlino, ne era la conseguenza e persino - tali erano le vie dei grandi - lo giustificavano. Ora Lot era morto e anche Merlino. Re Artù aveva altri, grandi problemi per la testa e inoltre - se tutte le storie che raggiungevano le taverne erano vere - aveva ormai dozzine di altri bastardi ed aveva scacciato dalla sua mente quel vergognoso concepimento, oppure lo aveva dimenticato. Quanto a Morgause, non avrebbe ucciso suo figlio. Questo mai. Ma adesso che re Lot e Merlino erano scomparsi, e il sommo Re era lontano, perché mai avrebbe dovuto vivere ancora qui? Perché c'era ancora bisogno di tenerlo nascosto in questo luogo solitario? Strinse il bambino sentendosi dentro una fredda e pesante paura. «Che la dea ti tenga al sicuro, che la spinga a dimenticarti. Ti lasci qui. Tesoro mio, mio Mordred, bambino mio venuto dal mare.» Il bambino, eccitato da quell'improvviso movimento, la strinse più forte con le braccia e disse qualcosa. Era impercettibile, soffocato contro il collo della donna ma lei trattenne il fiato e tacque, cullandolo e fissando sopra la testa del bambino le pareti della casupola. Dopo un po', i piccoli rumori abituali della stanza e il lungo mormorio del mare fuori della porta la calmarono. Il bambino si appisolò tra le sue braccia. Dolcemente, la donna incominciò a cantare per farlo dormire. Dal mare sei venuto, mio principe, mio Mordred. Sei sfuggito alla fata dai lunghi capelli Che si agita sull'onda. Da sua sorella sei venuto, la regina del mare Che mangia marinai annegati e trascina le navi Giù nelle acque profonde. Sei venuto alla terra per esserne il principe E crescerai, crescerai, crescerai.
*** Quella notte, la regina Morgause non fece festa. Quando le venne portata la notizia fresca della morte dell'odiato mago, rimase a lungo seduta in silenzio e poi, presa in mano una lampada, lasciò la luminosa sala dove la conversazione proseguiva ancora rumorosamente e si diresse alle stanze segrete del sotterraneo dove si dedicava alla sua magia nera, per attendere uno di quei bagliori di visione che sempre le giungevano. Nella prima stanza, la sua distilleria, c'era sul tavolo un flacone mezzo vuoto. Conteneva i resti del veleno che aveva preparato per Merlino. Sorridendo, varcò un'altra porta e si inginocchiò accanto alla pozza della visione. Non venne nulla di chiaro. Una camera da letto con una parete curva; forse una stanza in una torre? il letto con dentro un uomo, immobile come se fosse morto. E pareva un morto; un uomo vecchissimo, scheletrico, con i capelli grigi sparsi sul guanciale e la barba grigia aggrovigliata. Non lo riconosceva. Poi aprì gli occhi, ed era Merlino. Gli occhi scuri, terrificanti, affondati nel cranio grigio, guardavano dritto attraverso le miglia, attraverso i mari, negli occhi della regina inginocchiata accanto alla pozza segreta. Morgause, rannicchiata lì con le mani sul ventre come se volesse proteggere l'ultimo figlio non ancora nato di Lot, seppe immediatamente che ancora una volta le notizie riferite erano false. Merlino era ancora vivo e, per quanto fosse prematuramente invecchiato, con la salute spezzata dal veleno, aveva ancora abbastanza potere da ridurre a nulla lei e i suoi piani. Inginocchiata, incorniciò un frenetico, spaventato incantesimo che, viste le condizioni di debolezza del vecchio, avrebbe potuto servire a proteggere lei e la sua prole dalla vendetta di Artù. LIBRO PRIMO Il bambino venuto dal mare 1 Il ragazzo era solo, nel mondo estivo, con il brusio delle api. Stava disteso sulla schiena in mezzo all'erica sul promontorio della sco-
gliera. Non lontano da lui c'era la linea netta della landa scura dove aveva lavorato. La torba squadrata, ammucchiata come fette di pane nero lungo lo scavo, stava asciugando al caldo sole. Aveva lavorato dall'alba e la linea scavata era lunga. Ora la zappa stava inutilizzata contro la torba mentre il ragazzo sonnecchiava dopo il pasto di mezzogiorno. Una mano, stesa sull'erica, stringeva ancora i resti di una focaccia d'orzo. I due alveari di sua madre - rozze arnie di paglia d'orzo - erano a cinquanta passi dal ciglio della scogliera. Il profumo dell'erica era dolce e inebriante, come l'idromele che sarebbe stato fatto dal miele. Avanti e indietro, a volte a un dito dalla sua faccia, le api parevano lanciate da una fionda. L'unico altro rumore in quel sonnolento pomeriggio era il grido, lontano sotto di lui, degli uccelli marini nei loro nidi sulla scogliera. Qualcosa cambiò nella tonalità di quelle grida. Il ragazzo aprì gli occhi e rimase immobile, in ascolto. Sotto il nuovo, turbato urlare delle procellarie e delle gazze marine udì la profonda quadruplice nota di allarme dei grandi gabbiani. Non si muoveva di lì da mezz'ora o forse più e, in ogni caso, erano abituati a lui. Girò la testa e vide uno stormo di frenetiche ali alzarsi come un turbine di neve sopra il limite della scogliera, a circa cento passi di distanza. Lì c'era una insenatura, profondamente scavata e senza spiaggia di sotto. Centinaia di uccelli marini vi facevano il nido, procellarie, urie, cormorani e con loro il grande falco. Ora lo vedeva volare assieme ai gabbiani che urlavano andando avanti e indietro. Il ragazzo si mise a sedere. Non c'erano barche nella baia e, del resto, una barca non avrebbe provocato tutta quell'agitazione nella colonia che nidificava nella parte alta della scogliera. Un'aquila? Non ne vedeva. Al massimo, pensò, poteva essere un corvo predatore in caccia dei piccoli, ma ogni cambiamento nella monotonia del lavoro quotidiano era benvenuto. Si alzò in piedi. Trovandosi ancora in mano i resti della focaccia, fece per mangiarla, però ci vide sopra uno scarabeo e la gettò via con una smorfia di disgusto. Poi si mise a correre nell'erica verso l'insenatura da dove veniva quel fermento. Raggiunse il ciglio e guardò giù. Gli uccelli si avventarono più in alto, urlando. I puffini si staccarono dalla roccia sotto di lui planando goffamente con le zampe larghe e le ali rigide. I grandi gabbiani dalla schiena nera lanciavano le loro rauche grida. Le sporgenze dove le procellarie sedevano in fila sui loro nidi erano vuote degli uccelli adulti che volteggiavano e stridevano nell'aria. Si distese per avanzare e guardare direttamente giù nel precipizio della
scogliera. Gli uccelli si tuffavano oltre uno spunzone di roccia dove il timo selvatico e i garofanini di mare formavano un folto tappeto schizzato di bianco. Ciuffi di erica fremettero nel vento smosso dalle loro ali. Poi, in mezzo a tutta quella confusione, udì un suono nuovo, un grido simile a quello del gabbiano ma con una sottile differenza. Un grido umano. Veniva da qualche parte ai piedi della scogliera, invisibile al di là dello spunzone di roccia intorno al quale volteggiavano più fitti gli uccelli. Si allontanò cautamente dal ciglio e si rimise in piedi. Non c'era spiaggia ai piedi della scogliera, nessun posto in cui lasciare una barca, nient'altro che il mare che ininterrottamente si infrangeva ed echeggiava. Lo scalatore doveva essere disceso e c'era un unico motivo per cui uno cercasse di scendere laggiù. «Che pazzo», disse con disprezzo. «Non lo sa che ormai le uova devono essere tutte aperte?» Con una certa riluttanza si avviò lungo la sommità della scogliera fino a un punto da cui poté vedere, bloccato su una sporgenza al di là del picco roccioso, un altro ragazzo. Non lo conosceva. In quell'angolo solitario dell'isola c'erano poche famiglie e il figlio di Brude non si era mai sentito a suo agio con i figli degli altri pescatori. E, stranamente, i suoi genitori non lo avevano mai incoraggiato a unirsi a loro, nemmeno quando era bambino. Ora, a dieci anni, ben cresciuto e pieno di forza, aiutava suo padre nei lavori da uomo. Era da molto tempo che, nei suoi rari giorni di libertà, non si occupava più di giochi da bambino. Del resto, andare a cercar nidi, non era per lui un gioco da bambino anche se, ogni primavera, scendeva giù proprio da quel precipizio per raccogliere le uova appena deposte per poi mangiarle. Più tardi, lui e suo padre, armati di reti, andavano a catturare i piccoli che poi Suna spellava ed essiccava per far fronte alla penuria dell'inverno. Quindi, conosceva abbastanza bene la strada per scendere la scogliera. Sapeva anche quanto fosse pericolosa e il pensiero di caricarsi di uno tanto maldestro da restar bloccato e, probabilmente, in preda allo spavento, non gli faceva piacere. Il ragazzo lo aveva visto. Teneva la faccia girata verso l'alto e agitò una mano, chiamando ancora. Mordred fece una smorfia, poi alzò le mani a coppa verso la bocca. «Cosa c'è? Non riesci a tornare su?» Dal basso venne una espressiva pantomina. Pareva impossibile che quell'imprudente udisse quello che gli si gridava ma la domanda era ovvia, come pure la risposta. Si era fatto male a una gamba, altrimenti - e i suoi
gesti lo trasmettevano chiaramente - non si sarebbe nemmeno sognato di chiedere aiuto. Quella bravata ebbe poco o nessun effetto sul ragazzo in cima alla scogliera. Con un'alzata di spalle che indicava più fastidio che altro, il figlio del pescatore incominciò a scendere. Era difficile e, in due o tre posti, pericoloso e quindi Mordred scese cautamente, senza affrettarsi. Finalmente arrivò sulla sporgenza accanto all'altro. Si studiarono a vicenda. Il figlio del pescatore vide un ragazzo più o meno della sua età con un ciuffo di capelli di un vivace rosso-oro e occhi tra il verde e il nocciola. Aveva la carnagione chiara e colorita e i denti forti. E sebbene i suoi abiti fossero stracciati e macchiati dalla sporcizia della scogliera, erano fatti bene e di buon tessuto vivacemente tinto con colori che avevano l'aria di essere costosi. A un polso portava un braccialetto di rame non più brillante dei suoi capelli. Sedeva con una gamba sopra l'altra stringendo forte con le due mani la caviglia dolorante. Era ovvio che soffriva ma quando Mordred, con il disprezzo del lavoratore verso i suoi pigri superiori, cercò una traccia di lacrime, non ne vide. «Ti sei fatto male alla caviglia?» «Una storta. Sono scivolato.» «È rotta?» «Non credo, solo slogata. Mi fa male se cerco di alzarmi. Devo dire che sono proprio contento di vederti! Mi sembra di essere qui da anni. Non speravo che qualcuno fosse abbastanza vicino da sentirmi, specialmente con tutto questo rumore.» «Non ti ho sentito. Ho visto i gabbiani.» «Be', meno male. Sei un bravo arrampicatore, vero?» «Conosco queste scogliere. Vivo qui vicino. Va bene, dobbiamo cercare di farcela. Alzati e vedi come te la cavi. Riesci a mettere giù quel piede?» Il ragazzo dai capelli rossi esitò e parve un po' sorpreso, come se il tono dell'altro gli suonasse strano. Ma tutto quello che disse fu: «Posso provare. Ho provato anche prima e mi ha fatto venire la nausea. Non credo... Ci sono posti difficili qui, non è vero? Non faresti meglio ad andare a chiedere aiuto? Di' loro di venire con una corda.» «Non c'è nessuno per miglia qua attorno.» Mordred parlò con impazienza. «Mio padre è fuori con la barca. C'è solo mia madre ma lei non serve. Però posso andare a prendere una corda. Ne ho una su alla torbiera. Con quella ce la faremo benissimo.»
«D'accordo.» C'era un tentativo di sorriso allegro. «Ti aspetterò, non temere! Ma non metterci troppo, per piacere. A casa saranno preoccupati.» Nella casetta di Brude, pensò Mordred, la sua assenza non sarebbe stata certo notata. I ragazzi come lui dovevano rompersi una gamba e star via in un giorno di lavoro perché qualcuno incominciasse a preoccuparsi. No, questo non era leale. A volte Brude e Sula si mostravano ansiosi per lui quanto una chioccia con un solo pulcino. Non aveva mai capito perché, visto che non era mai stato ammalato un solo giorno. Quando si voltò per andare, scorse un cestino con il coperchio posato sulla sporgenza accanto al ragazzo. «Porto su il cesto adesso. Ci risparmierà fastidi dopo.» «No, grazie. Preferisco portarlo su io. Non sarà complicato, lo posso attaccare alla cintura.» Dunque, dopo tutto aveva trovato qualche uovo, pensò Mordred. Poi dimenticò la cosa e si occupò solo della scalata. Accanto alla torba tagliata c'era la rozza slitta di legno che veniva usata per trascinare vicino a casa le zolle. Attaccata alla slitta c'era una corda abbastanza robusta. Mordred la sfilò dagli anelli il più rapidamente possibile, poi andò di corsa verso il precipizio e scese nuovamente. Il ragazzo ferito pareva composto e allegro. Afferrò l'estremità della corda e, con l'aiuto di Mordred, se la legò saldamente alla cintura. Era una bella cintura, robusta e fatta di cuoio liscio con dei chiodi e una fibbia che parevano d'argento. Il cesto era già attaccato lì. Si avviarono faticosamente alla sommità. Ci impiegarono molto tempo, con frequenti pause per riposare o per studiare il modo migliore per far superare al ragazzo ferito ogni stadio dell'ascesa. Era chiaro che soffriva ma non si lamentò e ubbidì agli ordini a volte perentori di Mordred senza esitazione e senza mostrare paura. A volte Mordred andava avanti per saldare dove poteva la corda, poi scendeva per aiutare l'altro con l'appoggio del suo braccio o di una spalla. In alcuni punti strisciarono o avanzarono premendo il ventre contro la roccia e per tutto il tempo gli uccelli marini volteggiavano stridendo e smuovendo con il vento delle loro ali le erbe della scogliera mentre le loro grida echeggiavano e riecheggiavano sopra il profondo rombo e lo scroscio delle onde. Finalmente arrivarono. I due ragazzi raggiunsero la sommità e si issarono per l'ultimo breve tratto fino a raggiungere l'erica. Rimasero seduti lì, ansimanti e sudati, scrutandosi a vicenda, questa volta con soddisfazione e reciproco rispetto.
«Ti sono molto grato.» Il ragazzo dai capelli rossi parlava in un modo molto formale che conferiva alle parole un'autentica serietà. «E mi dispiace di averti dato questa noia. Scendere quella scogliera una volta è già abbastanza per chiunque ma tu sei andato su e giù come una capra.» «Ci sono abituato. In primavera andiamo a prendere le uova e più avanti i piccoli degli uccelli. Ma è un brutto pezzo di roccia. Sembra tanto facile, con le pietre lavorate a lastre a quel modo, ma non è solido, non è per niente solido.» «Non hai bisogno di dirmelo. È stato proprio quello che è successo. Sono stato fortunato a cavarmela solo con una caviglia slogata. E anche fortunato che tu fossi da quelle parti. Per tutto il giorno non avevo visto nessuno. Hai detto che vivi qui vicino?» «Sì. In una baia a circa mezzo miglio più in là. Mio padre è pescatore.» «Come ti chiami?» «Mordred. E tu?» Di nuovo quella vaga espressione di sorpresa, come se Mordred avesse dovuto saperlo. «Gawain.» Era ovvio che quel nome non significava nulla per il figlio del pescatore, che toccò il cestino che Gawain aveva deposto sull'erba tra loro. Ne usciva un bizzarro suono sibilante. «Cosa c'è lì dentro? Mi pareva che non potessero essere uova.» «Una coppia di giovani pellegrini. Non hai visto il falco femmina? Temevo che tornasse e mi sbattesse giù da quella sporgenza ma si è limitato a urlare. Comunque, le ho lasciato gli altri due.» Sorrise. «Naturalmente, ho preso i due migliori.» Mordred era sorpreso. «Pellegrini? Ma non è permesso! Cioè, sono riservati alla gente del palazzo. Ti metterai in un bel guaio se qualcuno te li vede. E come diavolo hai fatto ad avvicinarti al nido? So dov'è, è sotto quello spunzone con i fiori gialli, ma ad almeno una quindicina di piedi sotto quella cornice su cui ti trovavi.» «È abbastanza facile ma ci vuole un trucco. Guarda.» Gawain aprì un poco il cestino. Dentro, Mordred riuscì a vedere due uccellini già piumati ma ovviamente molto giovani. Sibilavano e si dibattevano nella loro prigione, con gli artigli impigliati in un groviglio di filo. «Me lo ha insegnato il falconiere.» Gawain richiuse il coperchio. «Si cala una palla di lana nel cesto e loro cercano di afferrarla. Il più delle volte ci si impigliano e quando sono ben dentro si può tirarli su. In quel modo si prendono i migliori, oltre tutto, i più coraggiosi. Ma bisogna stare attenti
alla madre.» «Li hai tirati su da quella sporgenza dove sei caduto? Quindi, dopo esserti fatto male...?» «Be', non avevo molte altre cose da fare dopo esser rimasto bloccato e, del resto, era per questo che mi trovavo lì» disse semplicemente Gawain. Era qualcosa che Mordred non riusciva a capire. Malgrado il nuovo rispetto che provava per l'altro, parlò impulsivamente: «Ma potresti metterti davvero nei pasticci, sai. Senti, dammi quel cesto. Se riusciamo a liberarli dalla lana, li riporterò giù e cercherò di risistemarli nel loro nido.» Gawain rise e scosse la testa. «Non puoi. Non preoccuparti. È tutto a posto. Mi era sembrato che tu non sapessi niente di me. Si dà il caso che io venga dal palazzo. Sono il figlio della regina, sì, il maggiore.» «Sei il principe Gawain?» Gli occhi di Mordred colsero nuovamente gli abiti, l'argento della cintura, l'aria di aver vissuto sempre bene, la sicurezza. Improvvisamente, per una sola parola, la sua se ne era andata assieme alla spontanea parità, anzi addirittura alla superiorità che l'arrampicata sulla scogliera gli aveva dato. Quello non era più uno sciocco ragazzino che aveva tirato fuori da un pericolo. Era un principe: il principe, per di più, erede al trono delle Orcadi, che sarebbe stato re delle Orcadi se mai Morgause avesse ritenuto opportuno ritirarsi - o ci fosse stata costretta. E lui, invece, era un contadino. Per la prima volta in vita sua si sentì molto consapevole del suo aspetto. Il suo unico indumento era una tunica di rozza stoffa tessuta da Sula con i fiocchi di lana raccolti dai cespugli e dai rovi dove le pecore li avevano lasciati. La cintura era un pezzo di corda ricavata dagli steli dell'orzo. I piedi e le gambe nudi erano macchiati di bruno dalla torba ed ora graffiati dalle rocce durante la scalata. Disse, esitando: «Be', ma non dovresti essere accompagnato? Pensavo... Non pensavo che i principi andassero in giro da soli.» «Non lo fanno. Me la sono svignata.» «E la regina non sarà arrabbiata con te?» chiese Mordred dubbiosamente. Finalmente vide un cedimento in tutta quella sicurezza. «Forse sì.» Le parole, dette con indifferenza ma un po' troppo forte, parvero a Mordred contenere una chiara nota di apprensione. Ma anche questo lo poteva capire e, persino, condividere. Era ben noto tra tutti gli isolani che la loro regina era una strega e andava temuta. Erano orgogliosi del fatto, proprio come sarebbero stati orgogliosi, e rassegnati, di un re guerriero brutale ma efficiente. Tutti, persino i suoi figli, potevano aver paura di Morgause senza
vergognarsene. «Ma forse questa volta non mi farà battere,» disse il giovane re delle Orcadi, speranzosamente. «Non quando saprà che mi sono fatto male al piede. E poi, ho preso i pellegrini.» Esitò. «Senti, non credo di poter tornare a casa senza aiuto. Ti castigheranno se lasci il lavoro? Farò in modo che tuo padre non abbia a perderci. Forse preferisci andare a dirgli dove sei...» «Non ha importanza.» Mordred parlò con improvvisa, rinnovata sicurezza. Dopo tutto, c'erano altre differenze tra lui e questo ricco erede delle isole. Il principe aveva paura di sua madre e ben presto avrebbe dovuto giustificarsi e riconquistarne il favore con i suoi due falchi. Mentre lui, Mordred... Disse con disinvoltura: «Non devo rispondere a nessuno. Ti aiuterò a ritornare. Aspetta, vado a prendere la slitta della torba e ti trascino fino a casa. Spero che la corda sia abbastanza forte.» «Be', se ne sei proprio sicuro...» Gawain prese la mano che gli veniva offerta e si tirò in piedi. «Comunque, sei abbastanza forte. Quanti anni hai Mordred?» «Dieci, quasi undici.» Se Gawain ricavò qualche soddisfazione dalla risposta, lo nascose. Uno di fronte all'altro, con gli occhi negli occhi, si vedeva che Mordred era più alto di almeno due dita. «Oh, hai un anno più di me. Probabilmente non avrai bisogno di portarmi lontano,» soggiunse Gawain. «Ormai si saranno accorti che non ci sono e qualcuno sarà stato mandato alla mia ricerca. Anzi, eccoli lì.» Era vero. Dall'alto della successiva frastagliatura, dove l'erica si alzava come per raggiungere il cielo, venne un grido. Tre uomini si avvicinarono di corsa. Due, con l'uniforme delle guardie reali, portavano spade e scudi. Il terzo guidava un cavallo. «Be', è una fortuna,» disse Mordred, «non avrai bisogno della slitta.» Raccolse la corda. «Allora, io me ne torno alla torba.» «Grazie ancora.» Gawain esitò: Era lui, adesso, che trovava la situazione un po' imbarazzante. «Aspetta un momento, Mordred. Non andartene. Ti ho detto che non ci avresti perso, e mi sembra più che giusto. Non ho denaro con me ma loro manderanno qualcosa... Abiti da quella parte? E come si chiama tuo padre?» «Brude il pescatore.» «Mordred, figlio di Brude,» disse Gawain annuendo. «Sono sicuro che lei ti manderà qualcosa. Se ti manda del denaro o un regalo, lo accetterai,
vero?» Fatta da un principe a un figlio di pescatore, era una strana domanda, anche se nessuno dei due ragazzi parve trovarla tale. Mordred sorrise, con un piccolo sorriso tirato che Gawain trovò stranamente familiare. «Certo. Perché non dovrei? Solo uno sciocco rifiuta i regali, soprattutto quando se li merita. E io non credo di essere uno sciocco» soggiunse Mordred. 2 Il messaggio dal palazzo giunse il giorno dopo. Fu portato da due uomini, guardie della regina a giudicare dagli abiti e dalle armi, e non era denaro né alcun genere di regalo: era una convocazione alla presenza reale. La regina, pareva, voleva ringraziare di persona il salvatore di suo figlio. Mordred, che stava scavando torba, si raddrizzò, li fissò e cercò di controllare, o almeno di nascondere, l'improvviso eccitamento che lo invadeva. «Adesso? Volete dire che devo venire con voi?» «Questi sono gli ordini» disse la più anziana delle due guardie, allegramente. «Ci ha detto proprio di riportarti lì con noi.» L'altro soggiunse, con rozza gentilezza: «Non c'è bisogno di spaventarsi, ragazzo. Tu hai agito bene e certamente ci sarà qualcosa per te.» «Non ho paura.» Il ragazzo parlò con la sconcertante sicurezza che aveva sorpreso Gawain. «Ma sono troppo sporco. Non posso andare dalla regina in questo stato. Prima dovrò andare a casa per rendermi decente.» Gli uomini si scambiarono un'occhiata, poi il più anziano annuì. «Mi sembra giusto. Quanto dista da qui la tua casa?» «È proprio lì, vedete dove il sentiero sale per la scogliera, e poi si scende. Solo pochi minuti.» Mentre parlava, si chinò a raccogliere la fune della slitta. Era già carica a metà. Gettò la zappa sopra al carico e si avviò, trascinando la slitta. L'erba del sentiero, secca e consumata, era scivolosa e facile per i pattini d'osso di balena. Andò rapidamente, seguito dai due uomini. In cima al pendio gli uomini si fermarono ad aspettare mentre il ragazzo, con la disinvoltura che gli veniva da quel compito quotidiano, girava la slitta per farle scendere la collina davanti a sé, tirando la corda perché servisse da freno. Lasciò correre la slitta contro la torba ammucchiata sull'erba dietro alla casa, poi mollò la corda e corse dentro. Sula stava macinando dei grani in un mortaio. Due galline erano entrate e bec-
chettavano accanto ai suoi piedi. Alzò gli occhi, sorpresa: «Sei in anticipo! Cosa succede?» «Madre, dammi la mia tunica buona, per piacere. Presto.» Afferrò lo straccio che serviva da asciugamano e si diresse nuovamente alla porta. «Oh, lo sai dov'è la mia collana? La stringa con le conchiglie rosse?» «Collana? E ti lavi a metà della giornata?» Sorpresa, Sula si era alzata mentre domandava: «Cosa succede, Mordred? Cosa è capitato?» Per una ragione che forse nemmeno lui sapeva, il ragazzo non le aveva detto niente del suo incontro con Gawain sulla scogliera. Riservato com'era per natura, forse il profondo interesse dei suoi genitori per tutto quello che faceva lo aveva indotto istintivamente a nasconder loro qualcosa della sua vita. Tenendo segreto quell'incontro con il principe, aveva accarezzato il pensiero della gioia di Sula quando la regina, come era certo, gli avrebbe dato una qualche ricompensa. Un compiaciuto senso di importanza, persino di esultanza, risuonò nella sua voce. «Ci sono messaggeri della regina Morgause, madre. Sono venuti a invitarmi a corte. Mi aspettano là fuori. Devo andare subito. La regina vuole vedermi.» L'effetto di quell'annuncio sorprese persino lui. Sua madre, che si stava dirigendo verso il letto, si fermò di botto, poi si girò lentamente, con una mano sul piano del tavolo come se avesse avuto paura di cadere senza quel sostegno. Il pestello le cadde dalle dita e rotolò sul pavimento dove le galline gli corsero incontro chiocciando. Parve non accorgersene. Nella fumosa luce della stanza, la sua faccia si era incavata. «La regina Morgause? Ti ha mandato a prendere? Già?» Mordred la guardò. «Già? Cosa vuoi dire, madre? Qualcuno ti ha raccontato quello che è successo ieri?» Sula, con voce tremante, cercò di riprendersi. «No, no, non volevo dire niente. Cosa è successo ieri?» «Niente di importante. Ero alla torbiera e ho sentito un grido venire dallo strapiombo ed era il giovane principe, Gawain. Sai, il maggiore dei figli della regina. Era giù a metà dello strapiombo, a caccia di giovani falconi. Si era fatto male a una gamba e sono dovuto andare a prendere la corda della slitta per aiutarlo a risalire. Ecco tutto. Solo dopo ho saputo chi era. Mi ha detto che sua madre mi avrebbe ricompensato ma non pensavo che sarebbe successo in questo modo, non così in fretta, comunque. Non te l'ho detto ieri perché volevo che fosse una sorpresa. Pensavo che saresti stata contenta.»
«Contenta? Certo che sono contenta!» Tirò un grande respiro, sempre reggendosi al tavolo. I pugni che stringevano il legno tremavano. Vide che il ragazzo la fissava e cercò di sorridere. «È una grande notizia, figliolo. Tuo padre sarà contento. Lei... ti darà dell'argento, non mi meraviglierebbe. È una gentile signora, la regina Morgause, e anche generosa quando le fa piacere.» «Non sembri contenta. Sembri spaventata.» Rientrò lentamente nella stanza. «Hai l'aria di star male, madre. Guarda, hai lasciato cadere il tuo pestello. Eccolo. Adesso mettiti a sedere. Non preoccuparti, troverò da solo la tunica. La collana è nella credenza anche lei, vero? La prenderò. Vieni, siediti.» La prese gentilmente e la rimise sullo sgabello. Standole accanto in piedi, era più alto di lei. Sula parve bruscamente riprendersi. Raddrizzò la schiena. Si prese tra le due mani le braccia sopra al gomito e le strinse saldamente. Gli occhi, che il lavoro accanto al fuoco di torba aveva arrossati, si alzarono a fissarlo con un'intensità che lo mise a disagio e gli diede la voglia di andarsene. Poi Sula parlò in un sussurro basso e pressante: «Senti, figlio mio: questo è un grande giorno per te, una grande occasione. Forse ne uscirà qualcosa, no? Il favore di una regina è una bella cosa... ma può anche essere una cosa dura. Tu sei ancora giovane, cosa puoi saperne degli adulti e dei loro modi? Non ne so molto nemmeno io ma so qualcosa della vita; e una raccomandazione ti posso fare, Mordred: non perdere mai la testa. Non ripetere mai quello che senti.» Suo malgrado, le si contrassero le mani. «E non dire mai a nessuno qualcosa che è stato detto qui, in casa tua.» «Certo che no! E del resto, quando mai vedo qualcuno con cui potrei parlare? E perché la regina o qualcun altro in quel palazzo dovrebbe interessarsi a quello che succede qui?» Lei si mosse con disagio e le sue mani si allentarono. «Non preoccuparti, madre. Non c'è niente di cui aver paura. Ho fatto un favore alla regina e se è una signora così gentile non vedo cosa altro possa uscire da questa storia se non del bene, non ti pare? Senti, adesso devo andare. Di' a mio padre che finirò la torba domani. E tienimi da parte un po' di cena, vuoi? Tornerò appena posso.» *** Per quelli che conoscevano Camelot, la corte del sommo Re, e persino per chi ricordava il tenore di vita della regina Morgause nel suo castello di
Dunpeldyr, il «palazzo» delle Orcadi doveva sembrare molto primitivo. Ma per il ragazzo che veniva dalla capanna del pescatore era splendido al di là di ogni immaginazione. Il palazzo stava dietro e sopra il gruppo di casette che costituiva il principale centro delle isole. Sotto al villaggio c'era il porto con i due moli gemelli che proteggevano l'ancoraggio profondo e dove anche le navi più grandi potevano ormeggiare con sicurezza. Moli, case, palazzo erano costruiti con le stesse lastre piatte di arenaria. Anche i tetti erano di grandi pietre issate chissà come e poi nascoste da un rivestimento di torba o di rami d'erica, con profondi spioventi che aiutavano a tener lontane le piogge invernali dalle porte e dai muri. Tra le case correvano strette strade, ripidi vicoli anch'essi pavimentati con le lastre così abbondantemente fornite dalle scogliere locali. L'edificio principale era la grande sala centrale. Era la sala «pubblica» dove si riuniva la corte, si tenevano le feste, si ascoltavano le petizioni e dove molti dei cortigiani - nobili, ufficiali, funzionari reali - dormivano la notte. Comprendeva una gran stanza oblunga su cui si aprivano altre piccole stanze. Fuori c'era un cortile cinto da mura dove vivevano i soldati e i servi della regina che dormivano negli edifici esterni e mangiavano accanto ai loro fuochi nel cortile stesso. L'unico ingresso era il portone principale, un portone massiccio fiancheggiato sui due lati da posti di guardia. A poca distanza dai principali edifici del palazzo e collegato ad essi da passaggi coperti, c'era l'edificio relativamente nuovo noto come «la casa della regina». Era stato costruito per ordine di Morgause quando era andata a stabilirsi alle Orcadi. Era un complesso di costruzioni più piccole ma non meno grandiose, molto vicino alla scogliera che qui cingeva la costa. Le sue mura parevano quasi un'estensione della sottostante scogliera a strati. Non molti della corte - solo le donne della regina, i suoi consiglieri e i suoi favoriti - avevano visto l'interno della casa ma si parlava con venerazione dei suoi moderni splendori e la gente del villaggio alzava gli occhi con meraviglia alle grandi finestre - una novità mai sentita prima - che erano state aperte anche nel muro verso il mare. Nell'entroterra del palazzo e del villaggio, si stendeva un pezzo di aperta campagna con l'erba rasata corta dalle pecore e usato dai soldati e dai giovani per esercitarsi con i cavalli e le armi. Alcune delle stalle, con i canili e i recinti per le mucche e le capre, erano fuori dalle mura del palazzo perché in quelle isole c'era poco bisogno di una difesa maggiore di quella fornita
dal mare e, al sud, dalle mura di ferro della pace di Artù. Ma in un punto della costa, oltre il terreno di esercitazione, c'erano i resti di una primitiva torre rotonda costruita prima della memoria d'uomo dai Vecchi e splendidamente adattabile sia come punto di osservazione che come imprendibile rifugio. Morgause, memore delle invasioni sassoni sul regno dell'isola maggiore, l'aveva fatta in qualche modo riparare e vi manteneva un posto di osservazione e guardia. La cosa, assieme alla guardia tenuta costantemente al portone del palazzo, faceva parte delle prerogative reali che, secondo la regina, si addicevano alla sua dignità. Anche se non fosse servito ad altro, diceva Morgause, avrebbe tenuto la mente sveglia e fornito qualche compito militare ai soldati come alternativa agli esercizi che finivano presto per diventare un divertimento o al bighellonare nel cortile del palazzo. Quando Mordred con la sua scorta arrivò al portone, il cortile era affollato. Un ciambellano lo aspettava per scortarlo subito dalla regina. Sentendosi goffo e strano nella sua tunica buona che indossava molto raramente ed era rigida come se fosse appena uscita dal telaio e odorosa di muffa, Mordred seguì la sua guida. Aveva i nervi tesi e non guardava nessuno tenendo la testa alta e gli occhi fissi sulle scapole del ciambellano, ma sentiva le occhiate e udiva i mormorii. Li prese per naturale curiosità mista a disprezzo: non poteva immaginare che il suo portamento era stranamente da cortigiano e la sua rigidezza molto simile a quella tipica del dignitoso formalismo della sala grande. «Il figlio di un pescatore?» continuò il sussurrio. «Oh, davvero? Questa l'abbiamo già sentita prima. Ma guardatelo un po'... Chi sarà mai sua madre? Sula? Me la ricordo. Carina. Lavorava qui al palazzo, al tempo di re Lot. Quanto è passato da quando ha visitato le isole? Dodici anni? Undici? Come passa in fretta il tempo... E il ragazzo deve avere proprio quell'età, non vi pare? Bene, bene, potrebbe essere interessante. Molto interessante...» Così si mormorava. Morgause ne sarebbe stata contenta, se li avesse sentiti e Mordred, che se ne sarebbe arrabbiato, non li sentiva. Ma sentiva il borbottio e anche gli sguardi. Irrigidì ancora più la schiena e desiderò che quella prova fosse già finita per il meglio e di ritrovarsi a casa. Poi raggiunsero la porta della sala e mentre i servi la spalancavano Mordred dimenticò i sussurri, la sua stranezza, tutto, eccetto la splendida scena che gli stava di fronte. Quando Morgause, che soffriva per lo scontento di Artù, aveva final-
mente lasciato Dunpeldyr per il suo altro regno delle Orcadi, un qualche scintillio del suo specchio magico doveva averla avvisata che quel soggiorno nel nord sarebbe stato lungo. Era riuscita a portare molti tesori dalla capitale meridionale di Lot. Il re che ora regnava lì per ordine di Artù, Tydwal, doveva aver trovato la fortezza priva di molti dei suoi agi. Era un uomo duro e non doveva essersene preoccupato molto. Ma Morgause, quella dama amante del lusso, si sarebbe considerata diminuita se le fossero state negate le apparenze della regalità ed era riuscita a crearsi un ambiente di comodità e colore per attenuare l'esilio e sottolineare la sua famosa bellezza. Su tutti i lati, le pareti di pietra erano tappezzate di stoffe tinte a colori brillanti. Le lisce pietre del pavimento non erano, come ci si sarebbe potuti aspettare, coperte di paglia ed erica ma rese lussuose da isole di pelle di cervo, brune, fulve e maculate. Le pesanti panche lungo le pareti laterali erano di pietra ma le sedie e gli sgabelli che stavano sulla piattaforma all'estremità della sala erano di legno finemente intarsiato e dipinto e rese vivaci da cuscini colorati; mentre le porte erano di robusta quercia, splendidamente ornate e odorose di olio e cera. Il figlio del pescatore non aveva occhi solo per questo. Il suo sguardo era fisso sulla donna che stava seduta nel seggiolone al centro della piattaforma. Morgause regina di Lothian e delle Orcadi era ancora una bellissima donna. La luce di una feritoia colpiva lo splendore dei suoi capelli che dall'originario oro rosato della gioventù erano passati a un ricco color rame. Gli occhi dalle lunghe palpebre erano verdi come smeraldi e la sua pelle aveva il pallore liscio e uniforme di un tempo. I bei capelli erano ornati d'oro e portava smeraldi alle orecchie e al collo. Indossava una veste color rame e le sottili mani bianche che teneva in grembo scintillavano di anelli. Dietro di lei cinque donne - le dame della regina - apparivano, malgrado gli abiti eleganti, scialbe e anziane. Quelli che conoscevano Morgause erano certi che quella loro apparenza fosse accuratamente studiata quanto la sua. Qualche decina di persone stavano sotto al palco, nella sala. Al ragazzo Mordred parvero una folla, ancor più piena di occhi di quella che stava riunita nel cortile. Si guardò attorno alla ricerca di Gawain o degli altri principi ma non li vide. Quando entrò, fermandosi nervosamente appena varcata la soglia, la regina era girata di lato e parlava con uno dei suoi consiglieri, un uomo piccolo e robusto dalla barba grigia che si chinava umilmente per ascoltarla mentre lei gli parlava. Poi vide Mordred. Si raddrizzò nel suo seggiolone e le lunghe palpebre
scesero a nascondere l'improvviso guizzo di interesse dei suoi occhi. Qualcuno sospinse il ragazzo da dietro, sussurrandogli: «Forza, va' su e poi inginocchiati.» Mordred obbedì. Si avvicinò alla regina ma quando avrebbe dovuto inginocchiarsi lei lo invitò con un gesto della mano a stare fermo. Attese, molto eretto e apparentemente controllato ma senza fare nessuno sforzo per nascondere l'ammirazione e la meraviglia che provava a quella prima vista della regalità in trono. Rimase lì semplicemente, a guardare. Se gli astanti si aspettavano che rimanesse attonito o che la regina lo rimproverasse per la sua impertinenza, furono delusi. Il silenzio che regnava nella sala era fatto di avido interesse unito a divertimento. La regina e il figlio del pescatore, isolati da quel silenzio, si misuravano a vicenda. Se Mordred avesse avuto una mezza dozzina di anni di più, gli uomini avrebbero capito molto più facilmente l'indulgenza, anzi il manifesto piacere con cui lei lo guardava. Morgause non aveva mai nascosto la sua predilezione per i bei giovani, un'inclinazione che le era permessa da un modo di regnare relativamente libero da quando Lot era morto. E in effetti, Mordred era abbastanza interessante, con il suo corpo snello e diritto, le ossa sottili e l'espressione di viva anche se controllata intelligenza negli occhi sotto le sopracciglia arcuate. La regina lo studiò: rigido ma tutt'altro che goffo nella sua tunica «buona», l'unica che aveva oltre agli stracci di ogni giorno. Ricordava il materiale che aveva mandato per farla, anni prima: un rozzo tessuto tinto con il paciuli che nemmeno gli schiavi di palazzo avrebbero voluto indossare. Qualunque cosa di meglio che fosse mancata dai cassoni, avrebbe suscitato curiosità. Al collo portava una collana di conchiglie con una specie di amuleto di legno che certo aveva ricavato lui stesso da un pezzo di relitto. I piedi, sebbene impolverati dalla strada nella brughiera, erano finemente formati. Morgause notò tutto questo con soddisfazione ma vide anche di più: gli occhi scuri, eredità del sangue spagnolo degli Ambrosii, erano di Artù: le ossa sottili, la fine piega della bocca, erano di Morgause stessa. Finalmente parlò. «Ti chiami Mordred, mi dicono.» «Sì.» La voce del ragazzo era resa rauca dal nervosismo. Si schiarì la gola. «Sì, signora.» «Mordred,» disse lei, pensosa. Il suo accento, anche dopo anni nel nord, era ancora quello dei regni del sud ma parlava chiaramente e lentamente con la sua bella voce e il ragazzo la capiva bene. Diede al suo nome la pronuncia delle isole: «Medraut, il ragazzo del mare. Dunque sei pescato-
re, come tuo padre?» Sì, signora. «Per questo ti hanno dato quel nome?» Lui esitò. Non riusciva a capire dove si volesse arrivare. «Credo di sì, signora.» «Lo credi.» Parlava con leggerezza e pareva preoccupata solo di lisciare una piega della veste. Solo il suo consigliere principale e Gabran, il suo attuale amante, conoscendola bene, immaginarono che la successiva domanda sarebbe stata importante. «Non lo hai mai domandato?» «No, signora. Ma so fare altre cose oltre a pescare. Scavo la torba e so ricoprire con le zolle un tetto, e costruire un muro e aggiustare la barca e... e anche mungere la capra.» Fece una pausa, incerto. Aveva sentito una vaga ilarità serpeggiare nella sala e anche la regina sorrideva. «E arrampicarti sulla scogliera come se fossi tu stesso una capra. E per questo» soggiunse, «dobbiamo esserti grati.» «Non è stato niente» disse Mordred. La sua fiducia era ritornata. Non c'era davvero niente di cui aver paura. La regina era una gentile signora, come Sula gli aveva detto, per niente simile a come lui si era immaginata una strega ed era incredibilmente facile parlarle. Le sorrise. «La caviglia di Gawain si è slogata malamente?» chiese. Un nuovo brusio percorse la sala. «Gawain,» che coraggio! E il bambino di un pescatore non fa conversazione con la regina, stando lì eretto come uno dei giovani principi a guardarla negli occhi. Ma parve che Morgause non notasse niente di insolito. Ignorò i mormorii. Non aveva mai smesso di osservare attentamente il ragazzo. «Non molto. Adesso che ha fatto un bagno ed è stato fasciato, riesce a camminare abbastanza bene. Domani tornerà all'esercizio delle armi. E di questo deve ringraziare te, Mordred, e io pure. Te lo ripeto, ti siamo riconoscenti.» «Gli uomini avrebbero fatto presto a trovarlo e io avrei potuto imprestargli la corda.» «Ma non lo hanno fatto e tu sei andato su e giù di lì due volte. Gawain mi ha detto che è un posto pericoloso. Dovrebbe essere frustato per quella sua prodezza, anche se mi ha portato due splendidi uccelli. Ma tu...» I bei denti mordicchiarono il labbro inferiore mentre studiava Mordred. «Tu devi avere una prova della mia gratitudine. Cosa ti piacerebbe?» Preso di sorpresa, il ragazzo deglutì, la guardò a occhi sbarrati e incominciò a balbettare qualcosa sui suoi genitori e la loro miseria, l'inverno
che si avvicinava e le reti ormai rammendate due volte di troppo, ma lei lo interruppe. «No, no. Questo è per i tuoi genitori, non per te. Ho già trovato i doni per loro. Mostrateli, Gabran.» Un giovane, biondo e bello, che le stava accanto si chinò e prese da dietro al seggiolone una cassetta. La aprì. In essa Mordred vide lane colorate, tessuti, una borsa di rete scintillante di argento, una fiasca di vino. Diventò scarlatto, poi pallido. Improvvisamente, la scena era diventata irreale, come un sogno. La fortuna incontrata sul precipizio, Gawain che parlava di ricompensa, la convocazione alla casa della regina... Tutto questo era stato eccitante con le sue promesse di qualche cambiamento nella monotonia della sua vita. Era venuto al palazzo aspettandosi al massimo una moneta d'argento, una parola dalla regina, qualche cosa di buono da mangiare, magari, che si sarebbe potuto avere dalle cucine del palazzo prima di correre a casa. Ma questo - la bellezza e la gentilezza di Morgause, l'insolito Splendore della sala, la magnificenza dei doni per i suoi genitori e la promessa che, con ogni probabilità, ci sarebbe stato qualcosa anche per lui... Vagamente, attraverso la confusione che gli faceva salire il cuore in gola, sentiva che era troppo. Qui c'era qualcosa di più. Qualcosa negli sguardi che i cortigiani si scambiavano, nell'incuriosito divertimento negli occhi di Gabran. Qualcosa che lui non capiva eppure lo metteva a disagio. Gabran chiuse il coperchio della cassetta, ma quando Mordred tese una mano per alzarlo di nuovo, Morgause lo fermò. «No, Mordred, non ora. Faremo in modo che la ricevano prima del tramonto di oggi. Ma io e te abbiamo ancora qualcosa di cui parlare, non ti pare? Cosa si addice a un giovane a cui il futuro re di queste isole è debitore della vita? Vieni con me, adesso. Ne parleremo in privato.» Si alzò. Gabran si mise rapidamente al suo fianco porgendo il braccio alla mano della regina ma Morgause, ignorandolo, scese dal palco e tese una mano al ragazzo. «Vieni» ripeté dolcemente la regina. I cortigiani fecero largo inchinandosi. La sua schiava scostò una tenda e apparve una porta nella parete laterale. Ai due lati stavano le guardie con la spada alzata. Mordred non si accorgeva più degli sguardi e dei mormorii. Aveva il cuore in gola. Non riusciva a immaginare cosa sarebbe successo ma, sicuramente, non potevano essere che altre meraviglie. Qualcosa scendeva dalle nuvole e aspettava proprio lui. La fortuna era nel sorriso della regina e nel tocco della sua mano. Senza saperlo, respinse gli scuri capelli dalla fronte con un gesto che era
tipico di Artù e, a testa alta, scortò regalmente Morgause fuori della sala. 3 Il corridoio tra il palazzo e la casa della regina era lungo, senza finestre ma illuminato da torce attaccate alle pareti. C'erano due porte sulla sua lunghezza, entrambe a sinistra. Una doveva essere la stanza del corpo di guardia; la porta era socchiusa e al di là Mordred udì voci di uomini e il ticchettio delle pietruzze con cui giocavano. L'altra dava sul cortile; ricordava di aver visto lì delle guardie. Adesso era chiusa ma, all'estremità del corridoio, era aperta una terza porta, tenuta da un servo per far passare la regina e il suo seguito. Al di là c'era una camera che fungeva apparentemente da anticamera agli appartamenti privati della regina. Era priva di mobili. A destra, da una feritoia, si vedeva una stretta striscia di cielo ed entrava il rumore del mare. Di fronte, sul lato verso la campagna, c'era un'altra porta a cui Mordred guardò con interesse e poi con venerazione. Quella porta era stranamente bassa e larga, della stessa forma primitiva della porta di casa dei suoi genitori. Era incassata in profondità, sotto una massiccia mensola di pietra e fiancheggiata da stipiti quasi altrettanto spessi. Aveva già visto degli ingressi così: portavano alle antiche camere sotterranee che si trovavano qua e là nell'isola. Alcuni dicevano che erano state costruite, come gli alti broch, dai Vecchi, che deponevano i loro morti in stanze di pietra sotterranee. Ma la gente più semplice le considerava luoghi magici, i sidhe o grotte nelle montagne che custodivano i cancelli dell'Aldilà; e gli scheletri che vi si trovavano, di uomini e bestie, erano i resti di imprudenti creature che si erano avventurate troppo all'interno di quegli oscuri recesso. Quando la nebbia avvolgeva le isole - il che era raro in quei mari ventosi - si diceva che gli dei e gli spiriti potevano esser visti aggirarsi sui loro cavalli coperti d'oro con i tristi fantasmi dei morti che fluttuavano attorno. Qualunque fosse la verità, gli isolani evitavano i rilievi che ospitavano quelle camere sotterranee ma pareva che la casa della regina fosse stata costruita accanto ad una di esse, forse scoperta solo quando erano state scavate le fondazioni. Ora l'ingresso era bloccato da una pesante porta di quercia con grandi cerniere di ferro e un massiccio catenaccio per tenerla ferma contro il qualcosa che stava in agguato dietro di essa, nel buio. Poi Mordred la dimenticò perché la grande porta davanti a loro si aprì tra
le due guardie armate e al di là c'era il bagliore del sole e il calore e il profumo della casa della regina. La stanza in cui entrarono era una copia della camera di Morgause a Dunpeldyr; una copia in piccolo ma pur sempre, agli occhi di Mordred, meravigliosa. Il sole vi irrompeva da una grande finestra quadrata sotto cui una panca formava un sedile rallegrato da cuscini azzurri. Vicino, in pieno sole, c'era una poltrona dorata con il suo posapiedi e accanto un tavolo con le gambe in croce. Morgause si mise a sedere ed indicò il sedile accanto alla finestra. Mordred, obbediente, prese posto e rimase lì ad aspettare in silenzio, con il cuore che batteva forte, mentre le donne, a un cenno della regina, si ritiravano con i loro ricami all'altra estremità della stanza, alla luce di una seconda finestra. Un servo si affrettò ad avvicinarsi alla regina con del vino bianco in un bicchiere d'argento e poi, su suo ordine, portò una tazza della dolce bevanda di miele a Mordred. Lui ne bevve un sorso, poi posò la tazza sul davanzale della finestra. Sebbene avesse la bocca e la gola asciutte, non poteva bere. La regina finì il vino e tese il bicchiere a Gabran che doveva già aver ricevuto i suoi ordini. Lui lo portò direttamente al servo che stava alla porta, chiuse la porta dietro l'uomo, poi andò a raggiungere le donne all'altro capo della stanza. Prese in un angolo un'arpa da ginocchio e, sistematosi su uno sgabello, incominciò a suonare. Solo allora la regina riprese a parlare e parlò sottovoce in modo che solo Mordred che le era vicino potesse udirla. «Bene, Mordred, adesso parliamo un poco. Quanti anni hai? No, non rispondere, lasciami vedere... Presto passerai il tuo undicesimo compleanno. Non ho ragione?» «S... sì,» balbettò il ragazzo, sorpreso. «Come avete... oh, certo, ve lo ha detto Gawain.» Lei sorrise. «Lo avrei saputo senza che me lo dicessero. So sulla tua nascita più di quanto sappia tu stesso, Mordred. Adesso indovini?» «No di certo, signora. Riguardo alla mia nascita? È stato prima che voi veniste a vivere qui, vero?» «Sì. E il re mio marito teneva ancora Dunpeldyr nel Lothian. Non hai mai sentito dire cosa successe a Dunpeldyr l'anno prima che il principe Gawain nascesse?» Lui scosse la testa. Non sarebbe riuscito a parlare. Non aveva ancora la minima idea del perché la regina lo avesse portato lì e gli stesse parlando a quel modo, segretamente, nella sua camera privata, ma tutti i suoi istinti lo
tenevano sul chi vive. Stava arrivando ora, certamente, il futuro che aveva temuto e al tempo stesso tanto fortemente desiderato con la strana, incessante e a volte violenta sensazione di rivolta che aveva avuto contro la vita per la quale era nato e alla quale si era creduto condannato fino alla morte, come tutti i simili dei suoi genitori. Morgause, seguitando a osservarlo attentamente, tornò a sorridere. «Allora, adesso ascoltami. È ora che tu sappia. Presto capirai perché...» Sistemò una piega della veste e parlò con levità, come se raccontasse un'inezia del passato, una di quelle storie che si raccontano a un bambino al chiarore della lampada. «Sai che re Artù è il mio fratellastro per parte di padre, il re Uther Pendragon. Molto tempo fa, re Uther decise il mio matrimonio con re Lot e, sebbene sia morto prima che potesse aver luogo, e sebbene mio fratello Artù non sia mai stato amico di Lot, ci sposammo. Speravamo che, attraverso il mio matrimonio, si potesse formare un'amicizia, o almeno un'alleanza. Ma, o per gelosia delle prodezze militari di Lot o, come sono persuasa, a causa di menzogne raccontategli da Merlino, il mago che detesta tutte le donne e che si crede maltrattato da me, re Artù si è sempre comportato più come un nemico che come un fratello e un giusto signore.» Fece una pausa. Gli occhi del ragazzo erano fissi, enormi, le sue labbra leggermente socchiuse. Morgause tornò a lisciarsi la veste e la sua voce assunse un tono più profondo, grave. «Poco dopo l'ascesa al trono di Britannia, Artù fu informato dal malvagio Merlino che a Dunpeldyr era nato un bambino, un figlio del re di lì, che sarebbe stato la sua rovina. Il Sommo Re non esitò. Inviò uomini al nord, a Dunpeldyr, con l'ordine di trovare e uccidere i figli del re. Oh, no» - un sorriso di grande dolcezza - non i miei. I miei non erano ancora nati. Ma, per assicurarsi che ogni bastardo, magari sconosciuto, di re Lot morisse, ordinò che tutti i bambini della città, al di sotto di una certa età, morissero.» Il dolore tremò nella sua gola. «Così, Mordred, in quella terribile notte decine di bambini vennero presi dai soldati. Furono portati sul mare in una piccola barca che rimase in balia dei venti e delle onde fino a quando cozzò contro una roccia e affondò e i bambini annegarono tutti. Tutti meno uno.» Mordred era immobile, come in preda a un incantesimo. «Io?» Il sussurro era appena udibile. «Sì, tu. Il bambino venuto dal mare. Ora capisci perché hai ricevuto quel nome? Era vero.»
Pareva che aspettasse una risposta. Lui disse, raucamente: «Credevo che fosse perché ero un pescatore come mio padre. Molti dei ragazzi che aiutano con le reti si chiamano Mordred o Medraut. Pensavo che fosse una specie di scongiuro per difendermi dalla dea del mare. Lei cantava una canzone che ne parlava. Mia madre, voglio dire.» Gli occhi verdi si apersero un po' di più. «Davvero? Una canzone? Che specie di canzone?» Mordred, incontrando quello sguardo, si riscosse. Aveva dimenticato l'ammonimento di Sula. Ora gli tornava alla mente ma che pericolo poteva esserci nella verità? «Una ninna-nanna. Quando ero piccolo. Non la ricordo bene, eccetto il motivo.» Morgause, con uno schiocco delle dita, allontanò l'argomento. «Ma non avevi mai sentito prima questa storia? I tuoi genitori non ti hanno mai parlato di Dunpeldyr?» «No, mai. Cioè» (parlava con palese onestà) «solo come ne parlano tutti, che voi abitavate lì con il re e che i tre principi maggiori sono nati lì. Mio... mio padre sa le notizie dalle navi che entrano in porto, da tutti i paesi oltre il mare, i paesi meravigliosi. Mi ha raccontato tante cose che io...» si morsicò le labbra, poi buttò fuori irresistibilmente la domanda che gli bruciava. «Signora, come hanno fatto mio padre e mia madre a salvarmi da quella barca e a portarmi qui?» «Non ti hanno salvato dalla barca. Sei stato salvato dal re di Lothian. Quando ha saputo quello che stava succedendo ai bambini ha mandato una nave per salvarli ma è arrivata troppo tardi per tutti all'infuori di te. Il capitano ha visto un relitto che ancora galleggiava, la fiancata della barca, con qualcosa che somigliava a un fagotto ancora attaccato dentro. Eri tu. Un'estremità del tuo scialle si era impigliata in un'asse spaccata e ti aveva salvato. Il capitano ti ha tirato su. Dagli indumenti che indossavi e dallo scialle che ti ha salvato la vita, ha capito quale di quei bambini eri. Così è salpato con te per le Orcadi dove avresti potuto crescere in sicurezza.» Fece una pausa. «Hai capito perché, Mordred?» Poteva leggere negli occhi del ragazzo che lo aveva capito già da molto. Ma lui abbassò le palpebre e rispose, timidamente come una bambina: «No, signora.» La voce, la piega della bocca, il contegno femmineo erano talmente quelli di Morgause che lei rise forte e Gabran, che era il suo amante da più di un anno, alzò gli occhi dall'arpa e si permise di sorridere con lei. «Allora te lo dirò io. Nel massacro vennero uccisi due dei bastardi del re di Lo-
thian. Ma si sapeva che nella barca ce n'erano altri due. Il terzo era stato salvato dalla misericordia della dea del mare che lo aveva tenuto a galla durante il naufragio. Tu sei un bastardo di re, Mordred, mio bambino venuto dal mare.» Se l'era aspettato, naturalmente. Lei guardò se si poteva scorgere una scintilla di gioia, o di orgoglio, o persino di perplessità. Non c'era. Il ragazzo si morsicava le labbra lottando contro un turbamento che avrebbe voluto esprimere ma non osava. «E allora?» finì per chiedere la regina. «Signora...» Un'altra pausa. «Allora?» Una sfumatura di impazienza. Dopo aver messo un dono regale tra le mani del ragazzo, sebbene falso, la signora cercava adorazione, non dubbi che non poteva capire. Non essendo mai stata mossa dall'amore, non le passava nemmeno per la testa che i sentimenti di suo figlio per i genitori adottivi potessero essere confrontati con il piacere e l'ambizione. Poi lui si decise a parlare: «Signora, mia madre Sula è mai stata a Dunpeldyr?» Morgause, a cui piaceva giocare con la gente come se fossero creature ingabbiate dai suoi capricci, gli sorrise e disse, per la prima volta durante quella conversazione, la semplice verità. «Naturalmente. Dove altro? Sei nato lì. Non te l'ho forse detto?» «Ma lei mi ha riferito di aver sempre vissuto alle Orcadi!» La voce di Mordred si alzò e il chiacchiericcio all'altro capo della camera si zittì per un momento prima che un'occhiata della regina facesse riabbassare la testa delle donne sul loro lavoro. Il ragazzo soggiunse, più sommessamente, come se fosse disperato: «È mio padre... Lui naturalmente non può sapere che lei... che io...» «Sciocco ragazzo, non mi hai capita.» La sua voce era indulgente. «Brude e Sula sono i tuoi genitori adottivi che ti hanno preso per ordine del re ed hanno mantenuto per lui il segreto. Sula aveva perso un figlio e ti ha preso per allattarti. Senza dubbio ti ha dato l'amore e le cure che avrebbe dato al suo bambino. Quanto alla tua vera madre» disse rapidamente, precedendo la domanda che lui in realtà era troppo attonito per fare, «questo non posso dirtelo. Per la paura, lei non ha detto niente né ha avanzato alcuna pretesa e, per timore del Sommo Re, nulla è mai stato detto. Lei non poteva che essere contenta di dimenticare la faccenda. Io non ho fatto domande, anche se sapevo che uno dei bambini era stato salvato dalla barca. Quando re Lot è morto e io sono venuta alle Orcadi per partorire il mio
figlio minore e allevare gli altri tre in sicurezza, ho preferito accantonare il problema. Come devi fare tu, Mordred.» Non sapendo cosa dire, lui rimase in silenzio. «Per quel che ne so, la tua vera madre potrebbe essere morta. Sognare di andare un giorno a cercarla sarebbe una follia... e a cosa servirebbe? Una ragazza della città, il piacere di una notte?» Studiò le palpebre abbassate e la faccia senza espressione del ragazzo. «Ora Dunpeldyr è nelle mani di un re che è una creatura di Artù. Non ci sarebbe nessun vantaggio in una ricerca del genere, Mordred, e ci potrebbero invece essere molti pericoli. Mi capisci ora?» «Sì, signora.» «Quel che farai quando sarai adulto è affar tuo, ma devi ricordarti sempre che re Artù è il tuo nemico.» «Dunque... sono io quello? Io sarò... la sua rovina?» «Chi può saperlo? Questo dipende dagli dei. Ma è un uomo duro e il suo consigliere Merlino è tanto astuto quanto crudele. Credi che vogliano correre dei rischi? Ma fino a quando rimani in queste isole - e fino a quando taci - sei al sicuro.» Un'altra pausa. Mordred chiese in un sussurro: «Ma allora, perché me lo avete detto? Manterrò il segreto, sì, lo giuro, ma perché volevate che lo sapessi?» «Per il debito che ho con te per via di Gawain. Se tu non lo avessi aiutato avrebbe potuto cercare di risalire da solo e sarebbe caduto uccidendosi. Ero curiosa di vederti e così ti ho mandato a chiamare con questa scusa. Forse sarebbe stato meglio lasciarti lì per tutta la vita, ignaro di tutto. I tuoi genitori adottivi non avrebbero mai osato parlare. Ma dopo quello che è successo ieri...» E fece un grazioso piccolo gesto deprecatorio. «Non tutte le donne desiderano nutrire i bastardi di loro marito ma io e la mia famiglia ti dobbiamo qualcosa e io pago i miei debiti. E adesso che ti ho visto e ho parlato con te, ho deciso come fare questo pagamento.» Il ragazzo non disse nulla. Pareva che avesse smesso di respirare. Dal fondo della stanza veniva il mormorio della musica assieme alle voci dolci delle donne. «Tu hai dieci anni,» disse Morgause. «Sei ben sviluppato e sano e credo che potrai rendermi qualche servizio. Non sono in molti in queste isole ad avere il sangue e la promessa di poter diventare un capo. In te credo di vedere questa promessa. È ora che tu lasci la tua casa adottiva e prenda il tuo posto qui con gli altri principi. Be', cosa ne dici?»
«Io... io farò come desiderate, signora,» balbettò il ragazzo. Era tutto quello che poteva dire, sopra le parole che andavano e venivano nel suo cervello, come la musica dell'arpa. Gli altri principi. È ora che tu prenda il tuo posto qui con gli altri principi... Più tardi, forse, avrebbe pensato ai suoi genitori adottivi con rimpianto e con affetto ma, per il momento, c'era posto solo per la vaga ma abbagliante visione di un futuro quale non aveva mai avuto nemmeno il coraggio di sognare. E questa donna, questa bella signora regale, gli avrebbe fatto la grazia di offrire a lui, bastardo di suo marito, un posto accanto ai suoi figli legittimi. Mordred, mosso da un impulso che non aveva mai sentito prima, scivolò giù dal sedile sotto la finestra e si inginocchiò ai piedi di Morgause. Con un gesto che era a un tempo aggraziato e commovente nella sua inesperienza, alzò una piega della veste di velluto color rame e la baciò. Poi le inviò uno sguardo di adorazione e sussurrò: «Vi servirò con la mia vita, signora. Non avete che da chiedere. È vostra.» Sua madre gli sorrise, soddisfatta della conquista che aveva fatto. Gli toccò i capelli con un gesto che gli fece salire il sangue al viso, poi tornò ad adagiarsi contro i cuscini, graziosa, fragile regina alla ricerca di braccia forti e spade pronte a proteggerla. «Potrà essere un servizio duro, Mordred. Una regina solitaria ha bisogno di tutto l'amore e la protezione che i suoi uomini d'armi possono darle. Per questo sarai addestrato assieme ai tuoi fratelli e vivrai con loro qui nel mio palazzo. Adesso andrai alla Baia delle Foche per prendere congedo dai tuoi genitori e poi porterai qui le tue cose.» «Oggi? Adesso?» «Perché no? quando le decisioni sono prese devono essere messe in atto. Gabran verrà con te e uno schiavo porterà i tuoi beni. Adesso, va'.» Mordred ancora troppo sbalordito e confuso per spiegarle che poteva portare tutti i suoi beni terreni da solo e in una sola mano, si alzò in piedi, poi si chinò a baciare la mano che lei gli tendeva. Era chiaro che, questa volta, la mossa cortigiana gli era venuta quasi con naturalezza. Poi la regina si voltò, congedandolo, e Gabran si trovò al suo fianco per farlo uscire in fretta dalla stanza, percorrere il corridoio e giungere nel cortile dove il cielo colorato del tramonto si stava già sbiadendo nel crepuscolo e l'aria odorava del fumo dei fuochi sui quali si cucinavano le cene. Un uomo che, dall'abbigliamento, pareva essere uno staffiere, si avvicinò con un cavallo già bardato. Era uno dei tozzi pony delle isole, color crema e peloso come una pecora.
«Vieni» disse Gabran, «già così saremo in ritardo per la cena. Immagino che tu non sappia cavalcare. Sali dietro di me. L'uomo ci può seguire.» Mordred si fermò. «Non è necessario, non ho niente da portare, davvero. E nemmeno voi avete bisogno di venire, signore. Se rimanete e andate a mangiare la vostra cena adesso, io posso fare una corsa a casa e...» «Farai presto a imparare che quando la regina dice che devo vanire con te, io devo venirci.» Gabran non si dette la pena di spiegare che i suoi ordini erano stati ancora più espliciti. «Non deve parlare da solo con Sula» aveva detto Morgause. «Qualunque cosa lei abbia immaginato, fino a ora sembra che non abbia detto niente. Ma adesso che sta per perderlo, chissà con cosa potrebbe venir fuori? L'uomo non ha importanza: è troppo stupido per immaginare la verità ma persino lui potrebbe raccontare al bambino la vera storia dell'accordo per cui è stato portato qui da Dunpeldyr. Così accompagnalo e sta' con lui e riportalo indietro alla svelta. Farò in modo che non torni più laggiù.» Così, Gabran disse seccamente: «Vieni, dammi la mano,» e con Mordred dietro di sé sulla cavalcatura, aggrappato alle sue spalle come un giovane falco pellegrino al suo gomitolo di stoppa, si avviò lungo il sentiero che portava alla Baia delle Foche. 4 Sula era stata seduta fuori della porta della casupola, nell'ultima luce del crepuscolo, intenta a sventrare e spaccare dei pesci per poi farli seccare. Quando il cavallo apparve in cima al sentiero della scogliera, aveva appena portato il secchio con i rifiuti giù alla riva dove le galline contendevano agli uccelli marini la loro parte di quel puzzolente pasto. Il rumore era assordante per via dei gabbiani che planavano attaccandosi e lottando tra loro e l'odore saliva nauseabondo nel vento. Mordred scivolò giù dalla groppa del pony appena Gabran ebbe tirato le redini. «Se mi aspettate qui, signore, correrò a prendere la mia roba. Tornerò in un attimo. Non... non impiegherò molto. Credo che mia madre se lo aspettasse, o almeno qualcosa di simile. Farò più in fretta che posso. Magari potrò ritornare domani, se loro vorranno, vero? Solo per parlare un poco.» Gabran, senza nemmeno darsi la pena di rispondere, scivolò giù anche lui dal cavallo e si avvolse le redini al polso. Quando Mordred, stringendo attentamente la cassetta dei doni, si avviò per il pendio, l'uomo lo seguì.
Sula, che stava ritornando alla casa, li vide. Aveva spiato la cima della scogliera in attesa del ritorno di Mordred e ora, vedendo come era accompagnato, rimase immobile per un momento, strigendo, senza accorgersene, contro il corpo il secchio vuoto. Poi, tornata in sé, lo buttò a terra accanto alla porta ed entrò in casa. Un debole bagliore giallastro apparve attorno al contorno della tenda quando accese la lampada. Il ragazzo scostò la tenda ed entrò precipitosamente portando la cassetta. Per quella volta, la stanza era sgombra dal fumo. Nelle giornate d'estate, Sula cuoceva il loro cibo sul fornello di creta all'esterno, su un fuoco di guano e fuco. Ma il puzzo di pesce invadeva tutta la baia e all'interno della casa l'odore dell'olio di pesce della lampada prendeva alla gola. Sebbene ci fosse stato abituato da sempre, Mordred, con i colori e i profumi della stanza della regina ancora vivi nella memoria, lo notò, con un misto di pietà, vergogna e un qualcosa che era troppo giovane per riconoscere come scontento di se stesso; vergogna perché Gabran intendeva chiaramente entrare con lui, e senso di colpa perché si vergognava che lo facesse. Con suo immediato sollievo, Sula era sola. Si stava asciugando le mani in uno straccio. Il sangue che usciva da un dito graffiato si mischiava, sullo straccio, alle resche e allo sporco dei pesci. Anche il coltello di selce posato sul tavolo era macchiato di sangue. «La mano, madre, te la sei tagliata!» «Non è niente. Ti hanno trattenuto molto.» «Lo so. La regina ha voluto parlarmi. Aspetta che ti racconto! Il palazzo è un luogo meraviglioso e sono andato proprio nella casa della regina... Ma, prima, guarda qui, madre! Mi ha dato dei regali.» Posò la cassetta sul tavolo e la aprì. «Madre, guarda! L'argento è per te e per mio padre, e la stoffa, guarda, non è bella? E pesante, anche, buona per l'inverno. E una fiasca di buon vino con un cappone che viene dalle cucine del palazzo. Tutto questo è per voi...» La sua voce si spense per l'imbarazzo. Sula non aveva nemmeno guardato quei tesori; seguitava ad asciugarsi le mani nello straccio sporco. Improvvisamente, Mordred si spazientì. Le tolse lo straccio e lo buttò via, indicando la cassetta. «Non vuoi nemmeno guardare? Non vuoi nemmeno sapere cosa mi ha detto la regina?» «Vedo che è stata generosa. Sappiamo tutti che può essere generosa quando ne ha voglia. E per te, cosa c'era?»
«Promesse.» Gabran parlò dalla porta, chinandosi per entrare. Quando ebbe rialzato la testa, era solo a un dito dalle pietre del tetto. Indossava una veste che gli arrivava al ginocchio, gialla con un'alta bordura verde. Pietre gialle scintillavano sulla sua cintura e portava un collare di rame inciso. Era un bell'uomo con una chioma crespa, bionda come la paglia d'orzo, che gli ricadeva sulle spalle e con gli occhi azzurri del nord. La sua presenza riempì la stanza e fece sembrare ancora più misera e squallida la casetta. Mordred ne era consapevole ma non Sula. Senza lasciarsi impressionare, fece fronte a Gabran come avrebbe fatto con un nemico. «Che specie di promesse?» Gabran sorrise. «Solo quelle che ogni uomo dovrebbe avere e Mordred, ormai, ha dimostrato di essere un uomo... o, almeno, così pensa la regina. Una tazza e un piatto per la sua carne e strumenti perii suo lavoro.» Sula lo fissò, muovendo appena le labbra. Non chiese cosa intendeva dire. Non fece neppure un gesto di ospitalità che era normale per la gente di quelle isole. Disse duramente: «Li ha già.» «Ma non come dovrebbe averli,» disse Gabran con gentilezza. «Sai bene quanto me, donna, che dovrebbe esserci argento sulla sua tazza e che i suoi strumenti non sono la zappa e gli ami da pesca ma una spada e una lancia.» Aspettare e temere qualcosa per tutta la vita non prepara alla sua venuta. Era come se le avesse puntato quella lancia nel petto. Alzò le mani per nascondere la faccia nel grembiule e si lasciò cadere sullo sgabello accanto al tavolo. «Madre, non fare così!» gridò Mordred. «La regina... mi ha detto... devi sapere cosa mi ha detto!» Poi, a Cabran, con disperazione: «Credevo che sapesse. Credevo che avrebbe capito.» «Capisce. Vero, Sula?» Un cenno di sì. Si dondolava avanti e indietro stretta nel dolore, ma non emise suono. Mordred esitava. Tra la rude gente delle isole, i gesti affettuosi erano rari. Le andò vicino ma si accontentò di toccarle una spalla. «Madre, la regina mi ha raccontato tutta la storia. Di come tu e mio padre mi avete preso dal capitano di mare che mi aveva trovato e mi avete allevato come se fossi vostro. Mi ha detto chi sono... o almeno, chi è il mio vero padre. Così adesso pensa che devo crescere al palazzo con gli altri... con gli altri figli di re Lot, e i nobili, e addestrarmi come guerriero.» Nemmeno allora lei parlò. Gabran, che osservava la scena dalla porta,
non si mosse. Mordred provò ancora. «Madre, dovevi saperlo che un giorno me lo avrebbe detto. E adesso che so... non devi essere dispiaciuta. Io non posso esserlo, questo lo devi capire. Non cambia niente qui, questa è ancora la mia casa e tu e mio padre siete ancora...» deglutì, «sarete sempre la mia gente, davvero, credimi! Un giorno...» «Sì, un giorno,» lo interruppe lei, duramente. Il grembiule scese. Nella tremante luce della lampada la sua faccia era di un pallore malato, striata dallo sporco del grembiule. Non guardò verso Gabran, elegante sulla soglia. Mordred la osservava ansiosamente e sulla sua faccia c'era amore, e disperazione, ma c'era anche qualcosa che lei riconosceva, uno sguardo di eccitazione e ambizione e la ferrea volontà di andare per la sua strada. Non aveva mai visto Artù, il Sommo Re della Britannia, ma guardando Mordred capiva che era davvero suo figlio. Disse, pesantemente: «Sì, un giorno. Un giorno tornerai, cresciuto e generoso, portando oro da dare ai poveretti che ti hanno allevato. Ma adesso cerchi di dirmi che niente è cambiato. A quanto dici non fa differenza chi tu sia...» «Non ho detto questo! Certo che fa differenza! Chi non sarebbe contento di sapere che è figlio di un re? Chi non sarebbe contento di avere l'occasione di portare le armi e magari, un giorno, di viaggiare e vedere i regni dell'isola grande dove succedono le cose che contano? Quando ho detto che niente sarebbe cambiato, intendevo in quello che sento... in quello che sento per te e per mio padre. Ma non posso fare a meno di voler andare! Ti prego, cerca di capire. Non posso fingere, non completamente, che mi dispiace.» Alla disperazione che c'era nella sua voce e nella sua faccia, Sula si ammorbidì improvvisamente. «Certo che non puoi, ragazzo. Devi perdonare una vecchia che ha temuto questo momento per tanto tempo. Sì, devi andare. Ma devi andare proprio adesso? Quel bel gentiluomo ti aspetta per portarti lì?» «Sì. Hanno detto che dovevo solo prendere le mie cose e tornare subito.» «E allora prendile. Tuo padre non ritornerà fino alla marea dell'alba. Potrai venire a trovarlo appena te lo permetteranno.» Un accenno di qualcosa che era quasi un sorriso. «Non preoccuparti, ragazzo. Gli dirò io cosa è successo.» «Sa tutto anche lui, vero?» «Certo che sa. E capirà che questo doveva succedere. Si era convinto a
dimenticarlo, credo, anche se io aveva presentato qualcosa in quest'ultimo anno. Sì, in te, Mordred. Il sangue parla. Ma sei stato un buon figlio per noi, per quanto ci fosse in te qualcosa che fremeva per una vita diversa... Siamo stati pagati per te, lo sai... Da dove credi che venisse il denaro per la buona barca e le reti straniere? Ma io ti avrei allattato anche per nulla, al posto di quello che ho perduto, e poi sei diventato come se fossi nostro e meglio ancora. Sì, sentiremo terribilmente la tua mancanza. È un mestiere duro per un uomo che sta diventando vecchio e tu lo hai molto aiutato, questo è certo.» Qualcosa pareva lavorare sulla faccia del ragazzo. Sbottò: «Non voglio andare! Non voglio lasciarti, madre! Non possono obbligarmi!» Lei lo guardò tristemente. «Andrai, figliolo. Adesso che hai visto com'è e l'hai gustato, andrai. Quindi, prendi le tue cose. Quel gentiluono ha fretta.» Mordred spostò lo sguardo da lei a Gabran. Questi annuì e disse, non sgarbatamente: «Dobbiamo affrettarci. Tra poco verranno chiuse le porte.» Il ragazzo andò al suo giaciglio. Era una mensola di pietra con un sacco riempito di felci secche come materasso e con una coperta azzurra stesa sopra. Da un ripostiglio nel muro sotto la mensola, prese le sue proprietà. Una fionda, qualche amo da pesca, un coltello, la sua vecchia tunica da lavoro. Non possedeva scarpe. Rimise sul letto la tunica e gli ami. Esitò per la fionda. Tastava il legno liscio che aderiva così bene alla sua mano e rigirò tra le ditta il sacchetto di sassi, arrotondati e lucenti, raccolti con tanta cura sulla spiaggia. Sula lo osservava senza dire niente. Tra loro erano sospese le parole non dette: gli strumenti per il suo lavoro: una spada e una lancia... Mordred si voltò. «Adesso sono pronto.» Era a mani vuote, tranne che per il coltello. Anche se uno dei tre notò il simbolismo del momento, non lo disse. Gabran allungò la mano verso la tenda della porta. Prima che potesse scostarla, venne spinto da parte e la capra si fece largo per entrare nella stanza. Sula si alzò dal suo sgabello e andò a prendere la ciotola per mungerla. «È meglio che tu vada. Torna quando te lo permetteranno e allora ci racconterai com'è la vita lì al palazzo.» Gabran teneva spalancata la tenda. Mordred si avviò lentamente alla porta. Cosa c'era da dire? Grazie non era abbastanza, eppure era più che abbastanza. Disse con impaccio: «Allora, arrivederci, madre,» ed uscì. Gabran lasciò ricadere la tenda dietro di loro.
Fuori la marea stava cambiando e il vento si era rinfrescato disperdendo l'odore di pesce. L'aria dolce gli venne incontro. Era come tuffarsi in un'acqua diversa. Gabran stava slegando il cavallo. Nel buio crescente i nodi erano difficili e dovette lavorarci sopra. Mordred esitò, poi corse indietro verso il puzzo della capanna. Sula stava mungendo la capra. Non alzò la testa. Mordred vide una traccia bagnata nella sporcizia della sua guancia, simile alla scia di una lumaca. Si fermò sulla soglia, stringendo la tenda, e disse raucamente e rapidamente: «Tornerò ogni volta che me lo permettono, davvero... Farò in modo che stiate bene, voi due. E un giorno... un giorno ti prometto che sarò qualcuno e mi occuperò di voi.» Sula non fece nessun segno. «Madre.» Non alzò gli occhi. Le sue mani non si erano mai fermate. «Spero» disse Mordred, «di non scoprire mai chi è la mia vera madre.» Si voltò e corse fuori di nuovo nel crepuscolo. *** «E allora?» chiese Morgause. L'alba era passata da molto. Lei e Gabran erano soli nella sua camera da letto. Nella stanza esterna dormivano le donne e nella stanza successiva i suoi cinque figli - i quattro avuti da Lot e quello avuto da Artù - dormivano già da molto. Ma la regina e il suo amante non erano in letto. Lei sedeva accanto a un fuoco di torba. Indossava una lunga veste da notte bianco-crema e pantofole di pelliccia fatte con la pelle invernale della lepre azzurra dell'Isola Alta. Portava i capelli sciolti sulle spalle che scintillavano nel bagliore del fuoco. In quella luce morbida dimostrava poco più di vent'anni ed era molto bella. Sebbene, come sempre, gli eccitasse i sensi, il giovane sapeva che non era quello il momento di mostrarlo. Ancora completamente vestito, con il mantello bagnato sul braccio, teneva le distanze e le rispondeva da suddito a monarca: «Va tutto bene, signora. È fatto, come voi desideravate che fosse fatto.» «Nessuna traccia di violenza?» «Nessuna. Dormivano... oppure avevano bevuto troppo del vino che voi avete mandato.»
Un piccolo sorriso, che l'innocenza avrebbe giudicato innocente, si formò sulla sua bocca. «Anche se l'hanno solo assaggiato, Gabran, era sufficiente.» Alzò su di lui i begli occhi, vide solo attonita ammirazione e soggiunse: «Credi che voglia correre dei rischi? Dovresti sapere che non è da me. Dunque, è stato facile?» «Molto facile. Sembrerà che abbiano bevuto troppo e siano stati sbadati, così la lampada è caduta, l'olio si è versato sul giaciglio e...» Un gesto finì la frase per lui. Morgause tirò un sospiro di soddisfazione ma qualcosa nella voce di Gabran la lasciava incerta. Sebbene lo avesse caro e fosse persino attaccata al suo giovane amante, si sarebbe liberata di lui in un attimo se le fosse convenuto farlo; ma per adesso aveva bisogno di lui e doveva mantenerlo fedele. Disse dolcemente: «Mi sembra che tu voglia dire 'troppo facile', vero Gabran? Lo so, mio caro. Agli uomini come te non piace un'uccisione facile e uccidere quella gente è come macellare delle bestie... non è lavoro per un uomo d'armi. Ma era necessario. Questo lo sai.» «Penso di sì.» «Mi hai detto che ti pareva che la donna sapesse qualcosa.» «O lo immaginava. Era difficile dirlo. Quella gente non ha espressione. Non potevo esserne sicuro. C'era qualcosa nel modo in cui gli parlava e la faccia che ha fatto quando lui le ha detto che gli avevate raccontato tutta la storia.» Esitò. «Se così è, allora lei, anzi tutt'e due, hanno serbato il silenzio per tutti questi anni.» «E con questo?» disse la regina. Alzò una mano verso il calore del fuoco. «Non significa che sarebbero andati avanti a serbarlo. Una volta partito il ragazzo, potevano pensare di avere subito un torto e la gente che porta in sé un rancore è pericolosa.» «Avrebbero osato parlare? E con chi?» «Con il ragazzo stesso, naturalmente. Mi hai detto tu che Sula lo ha invitato a ritornare lì e naturalmente, in principio, lui avrebbe avuto voglia di andarci. Una parola, un'allusione sarebbero state sufficienti. Pensi che ci voglia più di un respiro per alimentare una fiamma di ambizione che potrebbe distruggere tutti i miei piani per il futuro? Credimi sulla parola, era necessario. Gabran, caro ragazzo, tu puoi essere il migliore amante che una donna si sia mai portata a letto, ma non potrai mai reggere nessun altro regno che quello stesso letto.» «E perché dovrei volerlo?» Lei gli lanciò un sorriso, in parte affettuoso e in parte ironico. Imbaldan-
zito, Gabran fece un passo verso di lei ma la regina lo fermò. «Aspetta. Questa volta ti dirò perché. E non fingere di non aver mai avanzato delle ipotesi sui miei piani riguardo quel bastardo.» Rigirò la mano come se stesse ammirando lo scintillio degli anelli. Poi alzò gli occhi, confidenzialmente. «Può darsi che in parte tu abbia ragione. Forse ho fatto volare troppo presto il mio falco ma mi si è offerta l'occasione di togliere il ragazzo dalla sua casa adottiva e portarlo qui senza troppe domande. Inoltre, ha dieci anni ed è largamente tempo che venga addestrato nelle arti e nelle maniere di un principe. E una volta fatto questo passo, l'altro deve seguire. Fino a quando non viene il momento giusto, mio fratello Artù non deve avere idea di dove si trova. E nemmeno l'arcimago Merlino, che nei suoi giovani anni avrebbe potuto venire a saperlo anche dal solo mormorio delle canne sull'Isola Santa. Vecchio e rimbambito com'è, non rischiamo niente. Non ho tenuto segreto per tutti questi anni il figlio mio e di Artù perché adesso lui me lo porti via. È il mio lasciapassare per il continente. Quando sarà pronto per andarci, io andrò con lui.» Era di nuovo suo, notò. Compiaciuto, lusingato dalla confidenza, ansioso di servirla. «Tornerete a Dunpeldyr, volete dire?» «No, non a Dunpeldyr, no. A Camelot stessa.» «Dal Sommo Re?» «Perché no? Non ha figli legittimi e da quel che si dice è improbabile che ne abbia. Mordred è il mio lasciapassare alla corte di Artù... E poi, si vedrà.» «Sembrate molto sicura.» «Lo sono. L'ho visto.» E lo sguardo dei suoi occhi tornò a sorridere. «Sì, mio caro, nella pozza. Era limpida come cristallo... un cristallo da strega. Io e i miei figli, tutti quanti, a Camelot, vestiti come per una festa e carichi di doni.» «Allora, certo... non che voglia discuterlo, ma... non significa che avreste potuto essere salva anche senza quello che è stato fatto stanotte?» «Forse.» La sua voce era indifferente. «Non possiamo sempre leggere i segni con precisione e potrebbe darsi che la Dea sapesse già quello che sarebbe stato fatto stanotte. Adesso sono sicura di essere salva. Tutto quello che devo fare è aspettare la morte di Merlino. Già due volte, come sai, ne è giunta la notizia e per due volte mi sono rallegrata solo per poi scoprire che era falsa e che quel vecchio sciocco viveva ancora. Ma verrà il giorno in cui la notizia sarà vera. Ho provveduto a questo, Gabran. E quando avverrà, quando lui non sarà più al fianco di Artù, allora potrò andare sen-
za pericolo e Mordred con me. Posso trattare con mio fratello... Se non come trattavo con lui prima, almeno come tratta una sorella che ha qualche potere e ancora un po' di bellezza.» «Signora... Morgause...» Lei rise dolcemente e gli tese una mano. «Vieni, Gabran, non occorre essere gelosi. E nemmeno aver paura di me. Sai benissimo come affrontare tutte le stregonerie che uso con te. Il resto del lavoro di questa notte sarà più di tuo gusto. Adesso vieni a letto. Tutto è a posto, grazie a te. Mi hai servita più che fedelmente.» E anche loro lo avevano fatto. Ma Gabran non diede voce a quel pensiero. E ben presto, deposti i suoi panni bagnati e disteso nel letto accanto a Morgause, lo dimenticò e dimenticò anche i due corpi morti che aveva lasciato nel guscio fumante della casetta sulla spiaggia. 5 Mordred si svegliò presto, alla sua solita ora. Gli altri ragazzi dormivano ancora ma quella era l'ora a cui il suo padre adottivo l'aveva sempre chiamato per mettersi al lavoro. Per un momento rimase lì, incerto su dove si trovava, poi ricordò. Era nel palazzo reale. Era un figlio di re e gli altri figli del re erano lì che dormivano nella stessa stanza. Il maggiore di loro, il principe Gawain, era accanto a lui, nel suo stesso letto. Nell'altro letto dormivano i tre principi più giovani: vale a dire i gemelli e il piccolo Gareth. Non aveva ancora parlato con loro. La sera prima, dopo che Gabran lo aveva riaccompagnato al palazzo, era stato affidato a una vecchia donna che era stata la balia dei bambini reali; era ancora, gli aveva detto, la balia di Gareth e si occupava degli abiti dei ragazzi e, in qualche misura, del loro benessere. Accompagnò Mordred in una stanza piena di cassoni e cesti e gli trovò dei nuovi abiti. Non ancora armi, quelle le avrebbe avute domani, gli disse acidamente, fin troppo presto, e allora si sarebbe dedicato alle sue uccisioni e assassinii come tutti gli altri. Uomini! I ragazzi erano già un male ma almeno potevano ancora essere controllati e che tenesse a mente le sue parole, lei poteva magari essere soltanto una vecchia ma sapeva ancora punire quando di punire c'era bisogno... Mordred la ascoltava e taceva, tastando i suoi bei vestiti nuovi e cercando di non sbadigliare mentre la vecchia gli si affaccendava attorno. Dalle sue chiacchiere - e non taceva mai - venne a sapere che la regina Morgause era, a dir poco, una
genitrice bizzarra. Un giorno portava i ragazzi a cavalcare insegnando loro l'uso della terraferma di cacciare con il falcone e il cane; loro cavalcavano tutto il giorno e lei gli faceva far festa fino a tardi, poi, il giorno dopo, i ragazzi scoprivano di essere apparentemente dimenticati e avevano il divieto di entrare nelle sue stanze solo per venir poi convocati nuovamente alla sera per ascoltare un menestrello o intrattenere una regina annoiata e inquieta raccontandole la loro giornata. E i ragazzi non erano tutti trattati allo stesso modo. Forse l'unico principio dei romani che Morgause aveva serbato era quello del «divide et impera». Gawain, in quanto era il maggiore e l'erede, aveva più libertà e alcuni privilegi negati agli altri; Gareth, il minore e postumo, era il preferito. Restavano i gemelli e quelli, come capì Mordred dalle labbra strette e dallo scrollar del capo di Ailsa, erano già abbastanza difficili senza il costante stimolo della gelosia e delle energie frustrate. Quando finalmente, con gli abiti nuovi ripiegati sul braccio, Mordred la seguì nella camera da letto dei ragazzi, fu contento di scoprire che erano già lì tutti e quattro prima di lui e già profondamente addormentati. Ailsa tolse Gareth dal letto di Gawain, poi spinse da parte i gemelli e infilò il piccolo accanto a loro. Nessuno ebbe nemmeno un soprassalto. Li rincalzò bene e indicò in silenzio a Mordred il posto vicino a Gawain. Lui si spogliò e si infilò nel calore del letto. La vecchia si aggirò ancora per qualche minuto nella stanza per raccogliere gli abiti e deporli sulla cassapanca tra i letti, poi uscì chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Mordred dormiva già prima che lei lasciasse la stanza. E adesso era chiaro, un nuovo giorno, e lui era completamente sveglio. Si stiracchiò voluttuosamente sentendo l'eccitazione corrergli per tutto il corpo. La sentiva fin nelle ossa. Il letto era morbido e caldo e odorava solo leggermente delle pellicce conciate che lo ricoprivano. La stanza era grande e, ai suoi occhi, molto ben arredata con i due grandi letti e la cassapanca per gli abiti e lo spesso tappeto appeso davanti alla porta per riparare dalle correnti d'aria più forti. Pavimento e pareti erano fatti con le locali lastre di pietra piatta. A quell'ora mattutina, sebbene fosse estate, la stanza era molto fredda ma più pulita di quanto fosse mai stata la capanna di Sula e qualcosa nel ragazzo riconobbe la cosa come positiva. Tra i letti, sopra la cassapanca, c'era una stretta finestra attraverso la quale irrompeva l'aria del primo mattino, fresca, pulita e odorosa di vento salmastro. Non riusciva più a stare lì. Gawain, al suo fianco, dormiva ancora, rannicchiato come un cucciolo tra le pellicce. Nell'altro letto si poteva vedere
poco dei gemelli, salvo la cima delle loro teste; Gareth era stato spinto sul ciglio del letto e dormiva ancora, mezzo dentro e mezzo fuori. Mordred scivolò giù dal letto. Andò in punta di piedi fino alla cassapanca e, inginocchiato sopra, guardò fuori dalla finestra; da lì, sporgendosi, riusciva a vedere il cortile e il portone principale del palazzo. Il suono del mare arrivava sommesso, un mormorio sotto l'incessante chiamarsi e stridere dei gabbiani. Guardò dall'altra parte, oltre le mura del palazzo, dove un trattura si allungava verde tra l'erica verso la sommità di una collinetta. Al di là di quel curvo orizzonte c'era la sua casa adottiva. Suo padre doveva essere intento alla prima colazione e ben presto sarebbe uscito per il lavoro. Se Mordred voleva vederlo (per farla finita, disse una vocina subito zittita nel profondo del suo cervello) doveva andare adesso. Sulla cassa c'era la bella tunica che gli era stata data la sera prima, con un mantello, una spilla e una cintura di cuoio con la fibbia di rame. Ma proprio quando stava per prendere quei bei vestiti, cambiò idea e con qualcosa che somigliava a un'alzata di spalle, raccolse i suoi vecchi indumenti dall'angolo dove li aveva buttati e se li infilò. Poi, insinuandosi dietro la tenda della porta, uscì dalla stanza e percorse a piedi nudi il gelido corridoio di pietra fino alla sala. La sala era ancora piena di dormienti ma le guardie stavano cambiando il turno e i servi erano già in movimento. Nessuno lo fermò o gli rivolse la parola mentre si faceva strada sul pavimento ingombro e usciva nel cortile. Il portone esterno era aperto e una coppia di contadini stava tirando dentro un carro di zolle. Le due guardie li stavano a guardare tranquillamente, mangiando le focacce della prima colazione e bevendo a turno da un corno pieno di birra. Quando Mordred si avvicinò al portone uno degli uomini lo vide, fece un cenno all'altro e disse qualcosa di inudibile. Il ragazzo esitò, aspettandosi di venir fermato o, almeno, interrogato, ma nessuno dei due uomini fece atto di farlo. Anzi, quello che gli era più vicino alzò la mano in segno di saluto e poi si fece da parte per far passare il ragazzo. Forse nessun altro momento di cerimonia reale nella vita del principe Mordred uguagliò mai quello. Il suo cuore ebbe un gran sussulto e gli salì fino in gola mentre il sangue gli affluiva alle guance. Ma riuscì a pronunciare un «Buongiorno» abbastanza calmo prima di correre fuori dal cancello del palazzo e avviarsi per il verde trattura nella landa. ***
Corse lungo il trattura con il cuore che batteva ancora forte. Il sole sorse e lunghe ombre si stesero davanti a lui. La rugiada rabbrividì sulle erbe sottili, sulle canne accarezzate dal vento leggero, fino a che l'intero paesaggio tremò e fremette di luce come una copia sommessa dell'interminabile, doloroso e abbagliante scintillio del mare. In alto, le nubi si ritrassero e l'aria si riempì di canti mentre le allodole si lanciavano dai loro nidi nell'erica. L'aria fremeva di canti quanto la terra di luce. Ben presto raggiunse la sommità della brughiera e davanti a lui si stendeva il lungo, dolce pendio verso la scogliera e, oltre a quella, c'era l'infinito, scintillante mare. Da quel punto vedeva chiaramente al di là del mare, nella luce del primo mattino, le colline dell'Isola Alta. Oltre quella c'era il continente, il grande e meraviglioso territorio che gli isolani chiamavano, un po' per scherzo e un po' per ignoranza, «l'isola accanto». Molte volte, dalla barca di suo padre, ne aveva visto le scogliere settentrionali e aveva cercato di immaginare il resto; la sua vastità, le foreste, le strade e i porti e le città. Oggi, sebbene fosse ancora lontano, aveva smesso di essere un sogno. Era il Sommo Regno nel quale sarebbe un giorno andato e dove un giorno avrebbe avuto un ruolo importante. Se la sua nuova condizione significava qualcosa, significava questo. Avrebbe fatto in modo che così fosse. Rise forte di gioia e riprese a correre. Giunse alla torbiera. Si fermò deliberatamente, indugiando accanto al solco che aveva scavato solo ieri. Come sembrava già lontano. Adesso Brude avrebbe dovuto finirlo da solo, sebbene negli ultimi tempi si fosse lamentato di dolori alla schiena. Forse, pensò il ragazzo, dato che evidentemente lo lasciavano libero di andare e venire dal palazzo, avrebbe potuto venire ogni giorno all'alba per un'ora, prima che gli altri ragazzi si alzassero, e finire lo scavo. E se avesse avuto una vera posizione regale, con dei servi, forse avrebbe potuto mettere loro all'opera o far loro raccogliere licheni per i coloranti di sua madre. Il cesto era ancora lì vicino allo scavo dove lo aveva lasciato ieri. Lo afferrò e corse giù per il tratturo. I gabbiani erano alti e stridevano. Quel suono gli andò incontro, crudo sopra il vento del mare. C'era qualcos'altro in quel vento, uno strano odore, e nel grido dei gabbiani un acuto brivido di panico che lo toccò come la lama di un coltello. Fumo? C'era sempre fumo che usciva dalla casetta ma questo era un fumo diverso, un'acida, gelida e pesante emanazione con qualcosa che imitava il buon odore della carne arrosto nei rari giorni in cui Sula aveva della carne in pentola. Non era un odore buono; era nauseante,
un'orrida imitazione che rendeva sinistro il mattino. L'origine di Mordred, per perversa che fosse, aveva fatto di lui il figlio di un re guerriero e il nipote, doppiamente, di un altro. Questo fatto si combinava alla sua dura educazione contadina e rendeva per lui la paura qualcosa che andava immediatamente affrontato e scoperto. Gettò via il cesto dei licheni e corse a tutta velocità lungo il sentiero della scogliera verso un punto da cui avrebbe potuto guardare giù nella baia quella che era stata la sua casa. Era stata. La familiare casupola con la sua cucina d'argilla, i fili su cui essiccavano i pesci, i festoni di reti da pesca appese... era tutto svanito. Della sua casa rimanevano solo quattro mura, annerite e fumanti del fumo unticcio e puzzolente che appestava il vento del mare. Molte delle lastre terminali del tetto erano ancora al loro posto, tenute com'erano dai supporti di pietra costruiti nelle pareti, ma quelle al centro erano più sottili e fissate qua e là con pezzi di legno gettati a riva dal mare. L'impagliatura del tetto, essiccata dall'estate, era bruciata violentemente distruggendo anche i pezzi di legno che tenevano le lastre e queste si erano piegate, smosse e poi scivolate giù con il loro carico ardente di paglia trasformando in un rogo quello che era stata la sua casa. E proprio di un rogo doveva trattarsi. Perché ora, disgustoso, riconosceva l'odore che gli aveva rammentato le pentole di Sula. Sula stessa, con Brude, doveva essere lì dentro, sotto quella pila di ruderi bruciati. Il tetto era caduto direttamente sopra il loro giaciglio. Per Mordred che cercava brancolando una causa per quel disastro, c'era una sola spiegazione. I suoi genitori dovevano essere addormentati quando una scintilla del fuoco non più curato che stava all'esterno, sollevata dal vento, era caduta sulla paglia sécca del tetto e aveva provocato l'incendio. C'era solo da sperare che non si fossero mai svegliati, che fossero stati resi incoscienti dal fumo, che fossero stati uccisi dalla caduta del tetto prima ancora che il fuoco riuscisse a toccarli. Rimase lì a lungo, incredulo, nauseato e solo il vento tagliente che gli raggiungeva la pelle attraverso la tunica logora lo fece improvvisamente rabbrividire e muoversi. Strinse gli occhi per non vedere, quasi in una sciocca speranza che quando li avesse riaperti tutto sarebbe stato nuovamente al suo posto e quell'orrore solo un brutto sogno. Gli occhi, nuovamente aperti, erano selvaggi come quelli di un pony nervoso. Lentamente, si avviò per il sentiero, poi, improvvisamente, come se un invisibile cavaliere avesse usato su di lui frusta e speroni, si mise a correre.
*** Circa due ore dopo Gawain, mandato dal palazzo, lo trovò lì. Mordred era seduto su un masso a qualche distanza dalla capanna e fissava il mare. Vicino a lui c'era la barca capovolta di Brude. Gawain, pallido ed emozionato, lo chiamò per nome ma poiché Mordred non diede segno di udirlo, si avvicinò con riluttanza per toccarlo sulla spalla. «Mordred, mi hanno mandato a cercarti. Cosa è successo?» Nessuna risposta. «Erano... i tuoi... sono... là dentro?» «Sì.» «Cosa è successo?» «Come faccio a saperlo? Era già così quando sono arrivato.» «Dobbiamo... c'è qualcosa...» Mordred si riscosse. «Non avvicinarti. Non devi andare. Lasciali fare.» Parlò duramente, con autorità. Era il tono di un fratello maggiore. Gawain, in preda a un'inorridita curiosità, obbedì senza pensare. Gli uomini che erano venuti con lui erano già presso la casetta e si guardavano con esclamazioni soffocate, non si sapeva se di orrore o di semplice disgusto. I due ragazzi li osservavano, Gawain tra inorridito e affascinato, Mordred pallido, teso in tutti i muscoli. «Sei entrato?» domandò Gawain. «Certo. Dovevo farlo, no?» Gawain deglutì. «Be', penso che adesso dovresti tornare indietro con me. Bisogna dirlo alla regina.» Poi, visto che Mordred non si muoveva: «Mi dispiace, Mordred. È una cosa orribile quella che è successa. Mi dispiace. Ma adesso non puoi fare niente, devi capirlo. Lasciali fare. Andiamo, vuoi? Hai l'aria di star male.» «Sto benissimo. Avevo la nausea, ecco tutto.» Scivolò giù dal masso, si chinò verso una pozza nella roccia e si buttò in faccia una manata d'acqua. Si raddrizzò sfregandosi gli occhi come se uscisse dal sonno. «Adesso vengo. Dove sono andati gli uomini?» Poi, rabbiosamente: «Sono andati dentro? Cosa c'entrano loro?» «Devono farlo,» disse rapidamente Gawain. «Non capisci che la regina deve essere informata... Non è che loro - i tuoi - fossero gente qualunque, capisci?» Poi, dato che Mordred si voltava a fissarlo: «Non dimenticare chi sei adesso e anche loro, in un certo senso, erano al servizio del re. Lei deve
sapere quello che è successo, Mordred.» «È stato un incidente. Cosa altro?» «Lo so. Ma lei deve ricevere un rapporto. E gli uomini faranno tutto quello che si deve fare. Vieni, non abbiamo bisogno di rimanere. Non possiamo fare niente, proprio niente.» «Sì, c'è una cosa.» Mordred indicò la porta della casetta dove la capra, belando, scalpicciava avanti e indietro, impaurita da quell'insolito movimento, dall'odore, dal disordine, ma mossa dal dolore delle mammelle gonfie. «Possiamo mungere la capra. Hai mai munto una capra, Gawain?» «No. È facile? La mungerai adesso? Qui?» Mordred rise con il breve, rotto riso della tensione che si allenta. «No, la porteremo con noi. E anche le galline. Se prendi quella rete che sta sulla chiglia della barca, vedrò se riesco ad acchiapparle.» Si buttò sulla prima, la strinse in una presa esperta, poi passò a un'altra che stava frugando tra le alghe. Quel semplice gesto di rottura della tragedia funzionò, mentre il dolore e l'emozione si scaricavano nell'azione. Gawain, principe e futuro re delle Orcadi, rimase indeciso per un attimo, poi corse a fare quello che gli era stato ordinato e prese la rete stesa sulla chiglia della barca capovolta. Quando finalmente gli uomini uscirono dalla casetta e si fermarono indecisi sulla soglia, videro i due ragazzi che risalivano il sentiero. Gawain conduceva la capra e Mordred portava, buttato sulla spalla, un improvvisato sacco di rete pieno di galline schiamazzanti. Nessuno dei due ragazzi si voltò indietro. *** Furono ricevuti sulla porta del palazzo da Gabran che ascoltò in silenzio la storia da Gawain dopo di che, dette alcune parole gentili a Mordred, chiamò dei servi perché si occupassero degli animali. «Dovete mungerla subito!» insistette Mordred prima di entrare nel palazzo, sospinto da Gabran. «Bisogna dirlo alla regina. Andrò subito da lei. Mordred, va' a cambiarti e mettiti in ordine. Vorrà vederti. Gawain, va' con lui.» E corse fuori. Gawain lo seguì con lo sguardo, stringendo gli occhi, come se vedesse in lontananza qualcosa di brillante, poi disse sottovoce: «E un giorno, mio bel Gabran, non comanderai ai principi come se fossero i tuoi cani. Sappiamo di chi sei il cane, tu! Chi sei per dare la notizia a mia
madre al posto mio?» Scoccò un improvviso sorriso verso Mordred. «Ad ogni modo, oggi preferisco che lo faccia lui. Vieni, andiamo a pulirci.» I gemelli erano nella camera dei ragazzi, apparentemente affaccendati ma ovviamente ansiosi di dare una prima occhiata al loro nuovo fratellastro. Agravain stava seduto sul letto ad affilare il suo pugnale su una cote mentre Gaheris, sul pavimento, sfregava una cintura di cuoio con il grasso per ammorbidirla. Gareth non c'era. I gemelli erano robusti, ben sviluppati, con i capelli fulvi e il colorito acceso caratteristici dei figli che Morgause aveva avuto da Lot e, al momento, la loro espressione imbronciata era tutt'altro che di benvenuto. Ma era chiaro che avevano ricevuto l'ordine preciso che Mordred doveva essere accolto bene, perché salutarono in modo civile e poi rimasero a guardarlo come fa il bestiame quando qualcosa di strano e forse pericoloso è entrato nel suo pascolo. Un servo entrò subito con un catino d'acqua e un asciugamano che posò sul pavimento. Gawain corse alla cassapanca degli abiti e buttò la roba di Mordred sul letto. Poi frugò dentro il cassone alla ricerca delle sue cose mentre Mordred incominciava a spogliarsi. «Perché ti cambi?» domandò Agravain. «Nostra madre ci vuole,» disse Gawain sommessamente. «Perché?» chiese Gaheris. Gawain lanciò un'occhiata a Mordred che significava, chiaramente: «Non una parola. Non ancora.» Ad alta voce, disse: «Sono affari nostri. Saprete poi.» «Anche lui?» Agravain indicò Mordred. «Sì.» Agravain tacque osservando Mordred che si infilava una delle tuniche nuove, prendeva la cintura di cuoio lavorato con il suo fodero per il pugnale e il gancio per il corno dell'acqua. Chiusa la fibbia, si guardò attorno alla ricerca del corno montato in argento che gli aveva dato Ailsa. «È lì, sul davanzale della finestra» disse Gaheris. «Ti ha dato proprio questo? Sei fortunato. È una bellezza. È quello che avevo chiesto io» disse Agravain. Le parole non erano rabbiose né risentite, anzi non avevano alcuna espressione, ma gli occhi di Mordred si posarono un istante su di lui prima di agganciare il corno alla cintura. «Ce n'era solo uno.» Gawain parlò da sopra la spalla. «E tu e Gaheris dovete avere sempre cose uguali.» «Gareth riceverà quello d'oro» disse Gaheris. Parlò nello stesso tono
piatto, così poco infantile. Di nuovo Mordred lanciò un'occhiata e di nuovo le palpebre ridiscesero sui suoi occhi. Qualcosa si era registrato in quel cervello freddo ed era immagazzinato per il futuro. Gawain si lavò e asciugò la faccia, poi gettò l'asciugamano a Mordred che lo prese al volo. «Sbrigati, dopo dobbiamo pulirci i piedi. Lei fa un mucchio di storie per i tappeti.» Si guardò attorno. «A proposito, dov'è Gareth?» «Con lei, naturalmente,» disse Gaheris. «Ti aspettavi un completo comitato di ricevimento, fratello?» chiese Agravain. Conversare con i gemelli, pensò Mordred asciugandosi i piedi, era come parlare con un ragazzo e con il suo riflessivo. Gawain disse seccamente: «Basta così. Vi vedrò dopo. Vieni, Mordred, faremo meglio ad andare.» Mordred si alzò lisciando le morbide pieghe della tunica nuova e seguì Gawain verso la porta. Il servo, venuto a riprendere il catino, la teneva aperta. Gawain si fermò un attimo senza pensarci, con il gesto naturale di un ospite che cede il passo al suo invitato. Poi, come ricordandosi di qualcosa, passò rapidamente per primo lasciando che Mordred lo seguisse. La porta della regina era, come prima, vigilata dalle guardie. Le spade si abbassarono all'avvicinarsi dei due ragazzi. «Non voi, principe Gawain» disse uno di loro. «Ordini. Solo l'altro.» Gawain si fermò di botto, poi si fece da parte con la faccia impietrita. Quando Mordred lo guardò, con pronta una parola di mezza scusa, si voltò rapidamente, senza parlare, e si allontanò a gran passi lungo il corridoio. La sua voce risuonò perentoriamente e consapevolmente regale, quando chiamò un servo. «Tutti e tre» pensò Mordred. «Be', Gawain è ancora generoso per via del salvataggio sulla scogliera, ma gli altri due sono arrabbiati. Dovrò agire con prudenza.» Il veloce cervello dietro la fronte liscia sommò tutto assieme e trovò un totale che non gli dispiaceva. Dunque, lo vedevano come una minaccia. Perché? Perché, di fatto, era lui il figlio maggiore di Lot? In un punto nel profondo del suo animo quella piccola scintilla di emulazione, di desiderio, di aspirazione a grandi gesta, brillò come qualcosa di nuovo: l'ambizione. Discontinui ma chiari, i suoi pensieri si svolgevano. «Bastardo o no, io sono il figlio maggiore del re e questo a loro non piace. Significa che sono davvero una minaccia? Devo scoprirlo. Forse l'aveva sposata, mia madre, chiunque fosse...? O forse un bastardo può ereditare...? Artù stesso è stato concepito fuori del vincolo matrimoniale, e così
pure Merlino che trovò la spada del re di Britannia... Cosa conta, dopo tutto, essere bastardi? Quel che conta è ciò che un uomo è.» Le spade si alzarono. La porta della regina venne aperta. Spinse da parte quei pensieri confusi e insistenti e giunse al nocciolo della questione. «Devo agire con prudenza» pensò. «Più che con prudenza. Non c'è un motivo al mondo perché lei voglia favorire me ma, se lo fa, devo stare attento. Non solo a loro. Anche a lei. Soprattutto a lei.» Entrò. 6 Mordred, durante la solitaria veglia sulla spiaggia e poi il lungo, silenzioso ritorno al palazzo e il tonificante scambio con i gemelli nella camera dei ragazzi, aveva avuto tutto il tempo di riacquistare qualcosa di simile al suo consueto - ed incredibilmente adulto - autocontrollo. Morgause, scrutandolo attentamente mentre si avvicinava, non lo immaginò. Gli effetti ritardati del colpo erano ancora palesi e il disgusto e l'orrore di quello che aveva visto avevano tolto il sangue dal suo viso e la vita dai suoi movimenti. Il ragazzo che avanzava e si fermava davanti alla regina era pallido e silenzioso, con gli occhi rivolti a terra e le mani infilate nella nuova cintura, strette in pugni che parevano voler controllare le sue emozioni. Così lo interpretò Morgause. Era seduta nella sua poltrona accanto alla finestra dove il sole, penetrando, formava un'isola di calore. Gabran era nuovamente uscito portando con sé Gareth, ma le donne della regina erano presenti, all'estremità della stanza, in tre, intente al loro ricamo e una quarta riordinava un cesto pieno di lana appena filata. La rocca lucidata dall'uso era accanto a lei sul pavimento. A Mordred tornò in mente, proprio nel momento in cui meno lo desiderava, come Sula passava lunghe giornate sulla soglia della casa a filare, compito che negli ultimi tempi le era diventato particolarmente doloroso a causa delle dita deformate. Distolse lo sguardo, fissando il pavimento e sperando, con violenza, che le condoglianze e le gentilezze della regina non abbattessero il suo controllo. Non avrebbe dovuto temere. Morgause posò il mento sul pugno, guardandolo. Nei nuovi abiti era principesco e abbastanza simile ad Artù da farle stringere gli occhi e serrare le labbra mentre diceva con voce graziosa e priva di emozione quanto quella di un uccello: «Gabran mi ha detto quello che è successo. Mi dispiace.» Pareva del tutto indifferente. Mordred alzò gli occhi, poi li riabbassò e
non disse nulla. Del resto, perché avrebbe dovuto importarle? Per lei era un sollievo non dover più pagare. Ma per Mordred... Malgrado tutti gli orpelli della condizione principesca, vedeva la sua posizione. Senza un altro posto in cui andare, era completamente in balia della regina che, a parte il piccolo debito dei fatti della scogliera, non aveva alcun motivo di desiderare il suo bene. Non parlò. Morgause volle subito mettere in chiaro la situazione. «Sembra che, malgrado tutto, la Dea vegli su di te, Mordred. Se tu non fossi stato portato alla nostra attenzione, cosa ne sarebbe stato di te senza una casa o alcun altro modo di procurarti da vivere? Certo, avresti potuto benissimo morire insieme ai tuoi genitori adottivi tra le fiamme. Ma se tu fossi sfuggito, non avresti avuto niente. Saresti diventato il servo del primo contadino che avesse avuto bisogno di un abile aiutante per la barca e la pesca. Una servitù, Mordred, è difficile da spezzare quanto la schiavitù.» Lui non si mosse né alzò lo sguardo ma lei vide il debole tremito dei muscoli e sorrise tra sé. «Mordred, guardami.» Gli occhi del ragazzo si alzarono, senza espressione. La regina parlò seccamente. «Hai avuto un colpo ma devi lottare per buttartelo alle spalle. Adesso sai di essere un bastardo di re e che tutto quello che dovevi ai tuoi genitori adottivi era il cibo e l'alloggio - e anche quello per ordine del re molti anni fa. Anch'io avevo i miei ordini e vi ho ubbidito. Avrei potuto decidere di non toglierti mai dalla tua casa adottiva, ma il caso e il fato hanno voluto diversamente. Proprio il giorno prima che tu incontrassi il principe Gawain sulla scogliera, ho visto nel cristallo qualcosa che mi ha avvisata.» Fece una pausa su quella menzogna. C'era stato un breve lampo negli occhi del ragazzo. Lo interpretò come l'interesse tra spaventato e affascinato che i poveri portavano al suo preteso potere magico. Senza la magia, e il terrore che lei stessa aveva cura che evocasse, una donna avrebbe potuto difficilmente reggere quel regno aspro e violento, così lontano dalle protettive spade dei re che avevano il compito di tenere unita la Britannia. Continuò: «Non fraintendermi, non ho avuto premonizioni del disastro della notte scorsa. Se avessi guardato nella pozza... be', forse. Ma la Dea ha vie misteriose, Mordred. Mi ha detto che saresti venuto da me, e vedi, sei venuto. Così adesso è doppiamente giusto che tu debba dimenticare il passato e faccia del tuo meglio per diventare un guerriero che ha il suo posto qui a corte.» Lo scrutò, poi soggiunse in tono più dolce: «E sei davvero il ben-
venuto. Faremo in modo che tutti ti accolgano come tale. Ma, bastardo del re o no, Mordred, dovrai guadagnarti il tuo posto.» «Lo farò, signora.» «Allora, adesso va' e incomincia.» *** Così Mordred venne assorbito dalla vita del palazzo, una vita a suo modo dura e inflessibile quanto la sua precedente esistenza di contadino, e parecchio meno libera. Il caposaldo delle Orcadi non vantava nulla che un re del continente avrebbe riconosciuto come un terreno di addestramento militare. Fuori del palazzo, la landa saliva dolcemente verso l'entroterra e quella striscia selvaggia, abbastanza pianeggiante e, con il tempo buono, abbastanza secca perché i soldati ci si potessero muovere, serviva da campo di parata, terreno di esercitazione e anche campo di gioco per i ragazzi quando erano liberi di farlo. Il che era quasi ogni giorno per i principi delle Orcadi che non dovevano sottoporsi alle lezioni formali di arti della guerra come i figli dei grandi capi del continente. Se re Lot fosse stato ancora in vita e avesse mantenuto la sua sede a Dunpeldyr, nel suo regno continentale di Lothian, si sarebbe certo assicurato che almeno i suoi figli maggiori uscissero ogni giorno con spada o lancia o persino arco per conoscere i confini del loro paese natale e per vedere qualcosa delle terre che erano alleate e da cui minacce o aiuto potevano venire in tempo di guerra. Ma nelle isole non c'era bisogno di questo genere di vigilanza. Per tutto l'inverno - e l'inverno durava da ottobre a aprile, e a volte maggio - il mare custodiva le coste e spesso persino le isole vicine si vedevano solo come nubi fluttuanti dietro le altre nubi che passavano, cariche di pioggia o di neve, attraverso il mare. In certo modo, i ragazzi preferivano l'inverno. La regina Morgause se ne stava chiusa nel suo palazzo al riparo dai venti incessanti e passava la giornata accanto al fuoco, e loro erano liberi anche dal suo sporadico interesse. Erano liberi di unirsi ai cacciatori di cervi o cinghiali - sulle isole non c'erano lupi - e si godevano le cavalcate a rotta di collo quando, armati di lancia, seguivano i cani pelosi attraverso la selvaggia e difficile campagna. C'erano anche cacce alle foche, sanguinose, eccitanti scorrerie sulle rocce scivolose dove un passo falso poteva significare una gamba rotta, o peggio. Erano presto diventati abili con l'arco: le isole abbondavano di uccelli che potevano venir cacciati in ogni momento. Quanto a manovrare
la spada e alle arti di guerra, gli ufficiali della regina provvedevano al primo esercizio, il resto poteva venir appreso ogni sera girando attorno ai fuochi per la cena dei soldati nel cortile. Di apprendimento culturale non ce n'era. È possibile che, in tutto quel regno, la regina Morgause fosse la sola a saper leggere. Aveva una cassa piena di libri nella sua stanza e talvolta, accanto al fuoco invernale, ne srotolava uno sotto gli occhi ammirati delle donne che la imploravano di leggerlo per loro. Lo faceva solo di rado perché i suoi libri erano, in maggioranza, collezioni di vecchie leggende che venivano chiamate magie e la regina custodiva gelosamente le sue arti. Di queste i ragazzi non sapevano nulla e non se ne interessavano affatto. Qualunque fosse il potere - ed era abbastanza autentico - che per qualche scherzo del sangue era giunto fino a Morgause e alla sua sorellastra Morgana, non si era trasmesso a nessuno dei suoi figli. E loro lo avrebbero disprezzato. La magia, per loro, era una cosa da donne; e loro erano uomini; avrebbero avuto un potere da uomini; e lo perseguivano con tenacia. Mordred, forse, con più tenacia degli altri... Non si era aspettato che lo accettassero facilmente e subito nella fratellanza dei principi e, in effetti, ci furono difficoltà. I gemelli erano sempre assieme e Gawain si teneva vicino il giovane Gareth, proteggendolo dai pugni e dai calci dei gemelli e, al tempo stesso, cercando di indurirlo per contrastare l'eccessiva indulgenza di sua madre. Fu attraverso di lui che, alla fine, Mordred riuscì a entrare nel cerchio magico dei figli legittimi di Morgause. Una notte, Gawain si svegliò sentendo Gareth che singhiozzava sul pavimento. I gemelli lo avevano buttato fuori dal letto sulla fredda pietra e poi, ridendo, avevano ostacolato i tentativi del bambino di riarrampicarsi al caldo. Gawain, troppo assonnato per intraprendere un'azione drastica, tirò su Gareth nel suo letto, il che significava che Mordred doveva spostarsi e passare nel letto dei gemelli. Questi, completamente svegli e desiderosi di litigare, non si spostarono per fargli posto e, ciascuno dal suo lato del letto, si prepararono a difenderlo. Mordred rimase al freddo per qualche minuto a osservarli mentre Gawain, ignaro di quello che stava succedendo, confortava il bambino senza far caso alle risatine soffocate dei gemelli. Allora, senza tentare di mettersi nel letto, Mordred si protese improvvisamente in avanti e, con un rapido strappo, tolse dai corpi nudi dei gemelli il pesante copriletto di pelliccia e con quello si preparò a sistemarsi sul pavimento. Le loro grida infuriate riscossero Gawain che però si limitò a guardare, stringendo a sé Gareth e ridendo. Agravain e Gaheris, con la pelle d'oca
per il freddo, si gettarono tutti pugni e denti su Mordred. Ma lui era più rapido, più forte e spietato. Scaraventò Agravain sul letto con un pugno e lo lasciò lì con il fiato mozzo, poi i denti di Gaheris incontrarono il suo braccio. Allora afferrò la cintura di cuoio dalla cassa su cui l'aveva deposta e frustò l'altro ragazzo sulla schiena e sulle natiche fino a che lui mollò la presa e corse al riparo dietro al letto. Mordred non li seguì. Tornò a buttare la coperta su letto, lasciò cadere la cintura sulla cassa, poi si arrampicò nel letto coprendosi contro la gelida corrente che entrava dalla finestra. «Va bene. Adesso è tutto a posto. Venite sotto. Non vi toccherò più a meno che non mi costringiate.» Agravain, imbronciato e deglutendo a fatica, attese solo un minuto o due prima di obbedire. Gaheris, tenendosi le natiche con le mani, sputò: «Bastardo! Figlio di pescatore!» «Tutt'e due,» disse Mordred equamente. «Il bastardo mi rende maggiore di te e il figlio di pescatore più forte. Quindi, entra e taci.» Gaheris guardò Gawain, non ottenne nessun aiuto e, rabbrividendo, obbedì. I gemelli voltarono le spalle a Mordred e, apparentemente, si misero a dormire. Dall'altra parte della camera, Gawain, sorridendo, alzò la mano in un gesto che significava «Vittoria». Gareth, con le lacrime che gli si asciugavano sulle guance, sorrideva beato. Mordred rispose al gesto, poi si avvolse meglio nella coperta e si distese. Presto, ma non prima di essere sicuro che i gemelli erano davvero addormentati, si permise di rilassarsi nel calore della pelliccia e si abbandonò a un sonno in cui, come sempre, i sogni di desiderio e gli incubi erano mischiati in parti uguali. Dopo quella volta, non ci furono più vere liti. Agravain, in effetti, concepì una specie di riluttante ammirazione per Mordred e Gaheris, anche se in questo non seguiva il suo gemello, gli concesse una risentita neutralità. Gareth non fu mai un problema. La sua natura solare e la drastica maniera in cui Mordred aveva vendicato le sue sofferenze, fecero sì che diventasse amico di Mordred. Ma questi ebbe cura di non mettersi tra il bambino e l'oggetto della sua prima adorazione. Gawain era quello che contava di più e dato che aveva in sé qualcosa dei Pendragon, che rimpiazzava lo scuro sangue di Lothian e i perversi poteri di sua madre, avrebbe ben presto odiato ogni usurpatore. Per quel che riguardava Gawain, Mordred stesso rimase neutrale e attese. Era Gawain a dover fare il primo passo.
Così passò l'autunno, e l'inverno, e a suo tempo tornò l'estate. La Baia delle Foche era soltanto un ricordo. Mordred, nel comportamento, negli abiti e nella conoscenza delle arti necessarie un principe delle Orcadi, era indistinguibile dai suoi fratellastri. Essendo maggiore di quasi un anno, era fatalmente accoppiato più con Gawain che con i ragazzi più giovani e sebbene in principio Gawain avesse il vantaggio dell'allenamento, col tempo sarebbe diventato difficile scegliere tra i due. Mordred aveva astuzia, o acume, a testa fredda; Gawain aveva l'abbagliante brillantezza che nei giorni peggiori diventava durezza e, a volte, violenza. Nel complesso, si incontravano da pari a pari con le armi e si rispettavano con simpatia sebbene non con amore. L'amore di Gawain era ancora e sempre per Gareth e, in un modo forzato e spesso infelice, per sua madre. I gemelli ne avevano l'uno per l'altro. Mordred, sebbene accettato e apparentemente di casa, rimaneva sempre al di fuori della famiglia, autosufficiente e, apparentemente, soddisfatto di esserlo. Vedeva poco la regina e non si rendeva conto di quanto attentamente lei lo osservasse. Un giorno, quando l'autunno fu ritornato, scese alla Baia delle Foche. Arrivò in cima al sentiero della scogliera e si fermò, come aveva fatto tante volte, a guardar giù nella verde baia. Era ottobre e il vento soffiava forte. L'erica era nera e pareva morta e qua e là nei luoghi umidi il muschio di stagno cresceva folto e di un verde dorato. Mordred scese il pendio e si diresse con decisione, attraverso l'erba lavata dalla pioggia, verso la porta della sua casa adottiva. In piedi sulla soglia, si guardò attorno. Aveva piovuto forte durante tutta la settimana e pozzanghere recenti stavano qua e là. In una di esse, appariva qualcosa di bianco. Si chinò e la sua mano incontrò un osso. Per un agghiacciante secondo si fermò, poi con un movimento improvviso, afferrò la cosa e la sollevò. Era un frammento d'osso ma non poteva dire se umano o animale. Rimase lì, tenendolo in mano, cercando deliberatamente di fargli evocare emozioni o ricordi. Ma il tempo e le intemperie avevano fatto il loro lavoro: era ripulito, sterile, indifferente quanto le pietre della spiaggia. Qualunque cosa fossero state quelle persone e quella vita, era finito. Lasciò ricadere l'osso nella pozzanghera e si voltò per allontanarsi. Qualcosa nel suo spirito si dibatteva nello spazio d'aria che stava tra le Orcadi e i regni del continente che costituivano il Sommo Regno. «Ci andrò» si disse. «Perché altrimenti sarebbe successo quello che è successo? Ci andrò e vedrò cosa può fare un principe bastardo delle Orcadi. Lei non
può fermarmi. Prenderò la prossima nave.» Poi voltò le spalle alla baia e tornò al palazzo. 7 Non fu con la prossima nave e nemmeno l'anno dopo, che l'occasione si presentò. Nell'attesa Mordred, fedele alla sua natura, si accontentò di stare a guardare e aspettare il momento. Sarebbe andato ma non fino a quando non ci fosse stato qualcosa di sicuro per lui. Sapeva bene quante poche possibilità ci fossero nel mondo al di là delle isole per un ragazzo inesperto e impreparato: uno come lui - bastardo di re o no - poteva finire in uno stato di servitù senza un soldo o nella schiavitù. La vita nelle Orcadi era meglio. Poi, in quella terza estate al palazzo, una certa nave del continente entrò nel porto e divenne, improvvisamente, interessante. La Meridaun era un piccolo mercantile appena giunto da Caer y n'a Von, come ora la gente chiamava la vecchia città guarnigione romana di Segontium nel Galles. Portava vasellame, minerale, ferro di fusione e persino armi per un mercato illegale gestito dai piccoli fabbri delle baracche nel porto fortificato. Portava anche passeggeri e, per gli isolani che si erano raccolti sulla riva per salutarla, questi erano più interessanti delle pur necessarie mercanzie. Le navi portavano notizie e la Meridaun, con il suo carico misto di viaggiatori, portava la più grande notizia che si fosse avuta da anni. «Merlino è morto!» gridò il primo uomo che scese la passerella, tronfio per la notizia, ma prima che la folla, stringendosi ansiosamente attorno, potesse chiedergli altri dettagli, il secondo a scendere dichiarò a gran voce: «Non è vero, gente, non è vero! Non quando abbiamo lasciato il porto, ma è vero che è molto ammalato e non ci si aspetta che arrivi alla fine del mese...» Poco a poco, in risposta alla folla che invocava dettagli, emersero altre notizie. Il vecchio mago era certamente molto malato. C'era stata una recrudescenza della malattia ed era andato in coma - «un sonno simile alla morte» - e da molti giorni non si muoveva né parlava. Dal sonno poteva anche essere passato nella morte. I ragazzi erano scesi con gli altri al porto per raccogliere notizie. I principi più giovani, curiosi ed eccitati dalla confusione e dalla vista della nave, si spinsero avanti con la folla. Ma Mordred rimase indietro. Sentiva il brusio delle conversazioni, le domande gridate, il compiacimento delle
risposte. Era circondato dal rumore ma pareva che fosse solo. Era immerso in una specie di sogno. Già una volta, vagamente, nell'ombra di chissà dove, aveva sentito la stessa notizia raccontata in un sussurro carico di spavento. Tutta la vita aveva sentito raccontare storie di Merlino, il mago re, assieme a storie del Sommo Re stesso e della corte di Camelot; perché, allora, nel profondo di un sogno, aveva già sentito la notizia della morte di Merlino? Sicuramente, allora non era vero. Forse era vero adesso... «Non è vero.» «Come sarebbe?» Ritornò in sé con un sussulto. Si rese conto che doveva aver parlato ad alta voce? Gawain, accanto a lui, lo stava fissando. «Cosa vuoi dire, che non è vero?» «Ho detto una cosa simile?» «Lo sai. Di cosa stavi parlando? Di questa notizia sul vecchio Merlino? Come fai a saperlo? E cosa significa per noi, comunque? Pareva che stessi vedendo dei fantasmi.» «Forse era così... Io... non so cosa volevo dire.» Parlava con impaccio e la cosa era così poco da lui che Gawain lo fissò ancora più intensamente. Poi, i due ragazzi vennero spinti da parte da un uomo che si faceva largo tra la ressa. Reagirono rabbiosamente, poi si scansarono quando si accorsero che l'uomo era Gabran. L'amante della regina gridò perentoriamente sopra la testa della folla: «Voi, lì! Sì, tu e tu e anche tu... Venite con me! Portate le notizie che avete direttamente al palazzo. La regina deve essere la prima a sapere.» La folla indietreggiò un poco, imbronciata, e lasciò passare i messaggeri. Questi stavano volentieri con Gabran; si davano importanza e speravano, ovviamente, in una ricompensa. La gente li osservava mentre se ne andavano; poi tornò a rivolgersi alla riva per attaccarsi ai prossimi che sbarcavano. Erano commercianti, dall'aspetto: il primo, stando al bagaglio che portava il suo servo, era un orafo, poi veniva uno che lavorava il cuoio e, per ultimo, un medico viaggiante seguito dal suo schiavo carico di cassette, borse e bottiglie. La folla gli si strinse attorno curiosa. Non c'era un medico in quelle isole del nord e quando uno era malato andava dalla levatrice o, in casi estremi, dal santone o Papa Westray, quindi quella era un'occasione da non perdere. Il dottore, in effetti, non perse tempo per incominciare a fare affari. Rimase in piedi sulla banchina soleggiata e incominciò la sua roboante concione mentre lo schiavo estraeva medicine per tutte le
malattie che ci si poteva aspettare che colpissero gli abitanti delle Orcadi. La sua voce era sonora e fiduciosa e tenuta a un tono tale da poter sovrastare ogni altrui tentativo di fare affari. Ma l'orafo, che lo aveva preceduto giù dalla nave, non tentò di installare il suo banco. Era un vecchio, curvo e grigio, i cui abiti stessi esibivano esempi di un lavoro bello e raffinato. Si fermò all'estremità della folla, guardandosi attorno, e si rivolse a Mordred che gli era vicino. «Tu, ragazzo, puoi dirmi... ah, chiedo scusa, giovane signore. Dovete perdonare un vecchio che ha la vista cattiva. Adesso vedo che siete di qualità, e così imploro ancora la vostra gentilezza nel dirmi quale è la strada per la casa della regina.» Mordred indicò. «Dritto su per quella strada e girate a destra quando siete all'altare di pietra nera. Il sentiero vi porterà davanti al palazzo. È il grande edificio che potete vedere... Ma avete detto che la vostra vista è cattiva? Be', se seguite la folla, credo che la maggior parte vada lì adesso, per avere altre notizie.» Gawain fece un passo avanti. «Forse voi stesso sapete dell'altro? Quei tipi con le notizie per la corte... di dove sono? Di Camelot? E voi, orafo, di dove siete?» «Sono di Lindum, giovane signore, nel sud-est, ma viaggio, viaggio.» «E allora dateci voi delle notizie. Dovete aver sentito, durante il viaggio, tutto quello che gli uomini avevano da dire.» «Be', se è per questo, ho sentito molto poco. Non sono un gran marinaio, vedete, e così passo il tempo di sotto. Ma c'è qualcosa che quegli uomini non hanno menzionato. Immagino che volessero essere i primi a dare le notizie. C'è un corriere reale a bordo. Stava male quanto me, poveraccio, ma anche senza questo dubito che avrebbe condiviso le sue notizie con gente qualunque come noi.» «Un corriere reale? Dove è salito a bordo?» «A Glannaventa.» «Sarebbe nel Rheged?» «Proprio così, giovane signore. Non è ancora sbarcato, vero Gasso?» Si era rivolto allo schiavo, un uomo alto che stava dietro di lui e portava i bagagli. L'uomo scosse la testa. «Be', andrà dritto al palazzo, di questo potete essere certi. Se volete notizie calde, giovani signori, farete meglio a seguirlo. Quanto a me, sono un vecchio e finché riesco a continuare con il mio mestiere, il resto del mondo non mi interessa. Vieni, Casso, hai sentito? Su per quel sentiero fino all'altare di pietra nera. Poi gira a est.»
«A ovest» disse rapidamente Mordred allo schiavo. L'uomo assentì sorridendo, poi prese il braccio del suo padrone e lo guidò su per i rozzi gradini verso la strada. La coppia procedeva faticosamente e sparì dietro la capanna dove vivevano gli incaricati del porto. Gawain rideva. «Bene, questa volta il montone del palazzo ha fatto uno sbaglio? Scortare un paio di chiacchieroni dalla regina e non aspettare nemmeno di sapere che c'era a bordo un messaggero del re! Chissà...» Non finì la frase. Alcune grida e un certo trepestio sul ponte indicavano l'avvicinarsi di qualcuno di importante e in quel momento un uomo emerse da sotto, ben vestito e con la barba curata ma ancora pallido per il mal di mare. Alla cintura aveva una borsa da messaggero con lucchetto e sigillo. Scese la passerella dandosi molta importanza. Lasciando il medico, alcuni degli astanti si diressero verso di lui e con essi i ragazzi, ma rimasero delusi. Il corriere, ignorando tutti e rifiutando di rispondere alle domande, salì i gradini e si diresse rapidamente verso il palazzo. Nel momento in cui oltrepassarono le ultime capanne del villaggio, Gabran gli andò incontro di gran fretta, questa volta con una scorta reale di uomini armati. «Bene, adesso lo sa,» disse Gawain. «Vieni, sbrighiamoci.» E i ragazzi si avviarono su per la collina sulla scia del messaggero. *** La lettera che il corriere portava veniva dalla sorella della regina Morgana, regina di Rheged. Non c'era spreco d'amore tra le due signore ma un legame più forte dell'amore le univa: l'odio per il loro fratello, il re Artù. Morgause lo odiava perché sapeva che Artù detestava e temeva il ricordo del peccato che lo aveva indotto a consumare con lei; Morgana perché, sebbene sposata a un grande re guerriero, Urbgen, voleva un uomo più giovane e un regno più grande. È umano odiare quelli che, senza colpa, speriamo di distruggere e Morgana era pronta a tradire sia il fratello che il marito pur di realizzare i suoi desideri. Era sul primo di quei desideri che scriveva a sua sorella. «Ti ricordi Accolon? Adesso ce l'ho. Morirebbe per me. E dovrà farlo se, per caso, Artù o quel diavolo di Merlino dovessero sapere dei miei piani. Ma sta' tranquilla, sorella; so da fonte autorevole che quel mago è malato. Saprai che ha preso una pupilla in casa sua, una ragazza figlia di Dyonas delle Isole del Fiume, che era una delle Signore del Lago a Ynys Witrin. Adesso dicono
che è la sua amante e che, approfittando della sua debolezza, fa di tutto per apprendere da lui il suo potere e che è sul punto di rubargli tutto e lasciarlo a secco e confinato per sempre. So che si dice che il mago non può morire ma se questa storia è vera, allora una volta che Merlino sarà indifeso e soltanto la ragazza Nimuë si troverà in casa sua, chi può dire di quale potere noi vere streghe possiamo impadronirci?» Morgause, che leggeva stando accanto alla finestra, fece una smorfia di impazienza e disprezzo. «Noi vere streghe.» Se Morgana pensava anche solo di potersi avvicinare all'arte di Morgause, era solo una sciocca troppo ambiziosa. Morgause, che aveva guidato i primi passi della sua sorellastra nella magia, non poteva mai ammettere, neppure a se stessa, che la naturale attitudine di Morgana alla stregoneria l'aveva già portata a superare, con le sue pozioni sessuali e i suoi velenosi incantesimi, la strega delle Orcadi quasi quanto Merlino, ai suoi tempi, le aveva superate entrambe. Non c'era molto d'altro nella lettera. «Per il resto,» aveva scritto Morgana, «il paese è tranquillo e questo significa, temo, che il mio signore il re Urbgen sarà presto a casa per l'inverno. Corre voce che Artù vada in Bretagna, in pace, per far visita a Hoel. Al momento si trova a Camelot nelle gioie del matrimonio, sebbene non ci sia ancora segno di un erede.» Questa volta Morgause, leggendo, sorrise. Dunque, la Dea aveva sentito le sue innovazioni e apprezzato i suoi sacrifici. Le voci erano vere. La regina Ginevra era sterile e il Sommo Re, che non l'avrebbe ripudiata, doveva rimanere senza un erede del suo corpo. Guardò fuori della finestra. Eccolo lì quello che, tanti anni fa, avrebbe dovuto essere annegato. Se ne stava con gli altri ragazzi sul prato pianeggiante fuori delle mura, dove il servo dell'orafo aveva sistemato la tenda e la cucina del suo padrone, e il vecchio chiacchierava con i ragazzi mentre quello sistemava le sue cose. Morgause si staccò bruscamente dalla finestra e, al suo richiamo, un paggio arrivò di corsa. «Quell'uomo là fuori, è un orafo? Appena arrivato con la nave? Capisco. Allora, va' a dirgli di portarmi alcuni dei suoi lavori. Se è abile, allora qui ci sarà lavoro per lui e abiterà all'interno del palazzo. Ma il lavoro deve essere buono, adatto alla corte di una regina. Diglielo, o è inutile che mi disturbi.» Il ragazzo corse via. La regina, con la lettera in grembo, guardò oltre la brughiera, oltre il verde orizzonte dove il cielo rifletteva l'interminabile scintillio del mare e sorrise, vedendo ancora la visione che aveva avuto, racchiusa nel cristallo, delle alte torri di Camelot e di se stessa, con suo
figlio al fianco, che portava ad Artù i ricchi doni che sarebbero stati il suo lasciapassare per il potere e il favore. E il dono più ricco di tutti era lì, sotto la sua finestra: Mordred, il figlio del Sommo Re. *** Sebbene fino a quel momento solo la regina lo sapesse, quella sarebbe stata l'ultima estate che i ragazzi avrebbero passato assieme sull'isola, ed era una bella estate. Il sole splendeva, i venti erano caldi e moderati, la pesca e la caccia buone. I ragazzi passavano la giornata all'aria aperta. Da qualche tempo, sotto la guida di Mordred, erano persino usciti in mare, cosa che gli isolani non facevano facilmente per divertimento dato che le correnti, in quel punto d'incontro di due grandi mari, erano infide e pericolose. All'inizio, Gaheris. ebbe il mal di mare ma si vergognava di permettere che il «figlio di pescatore» avesse la meglio su di lui, così insistette e, con il tempo, diventò un discreto marinaio. Gli altri tre veleggiavano come gabbiani sulle onde e un nuovo rispetto crebbe tra i «veri principi» e il ragazzo maggiore quando videro quanto era bravo e con che autorità manovrava la barca in quelle acque difficili. Le sue abilità marinare, veramente, non furono mai messe alla prova in acque difficili; l'indulgenza della regina si sarebbe rapidamente esaurita se avesse saputo di qualche vero rischio e tutti e cinque tennero quindi la bocca chiusa sui momenti più eccitanti e poterono esplorare le coste senza venir mai rimproverati. Anche se i consiglieri di Morgause sapevano quali rischi si potevano incontrare anche nelle acque estive, non le dissero niente: un giorno Gawain sarebbe stato re e il suo favore veniva già ricercato. Morgause, di fatto, si interessava poco a quello che succedeva fuori delle mura del palazzo e «Alle streghe non piace navigare» diceva Gareth senza rendersi conto delle implicazioni delle sue parole. In effetti, i principi erano piuttosto orgogliosi della reputazione di strega della loro madre. Questa si rivelò in certo modo durante quell'estate. Beltane, l'orafo, e il suo schiavo Casso erano ospitati in uno degli edifici esterni del palazzo e ogni giorno si poteva vederli fare il loro mestiere nel cortile. Questo avveniva su ordine della regina: aveva dato loro argento e un po' di pietre preziose portate via anni prima da Dunpeldyr e li aveva messi a fabbricare monili, anelli da braccio e altri gioielli «adatti a un re». Non aveva detto a nessuno perché ma correva voce che la regina avesse avuto una visione magica riguardante oggetti di tanta bellezza e prezzo, e che il fabbro fosse
arrivato - per magia o chissà cosa - solo per far coincidere la realtà con il sogno. E, certamente, quegli oggetti erano molto belli. Il vecchio era un eccezionale artigiano, anzi, un artista di raro gusto che era stato istruito - come non si stancava mai di dire - dai migliori maestri. Sapeva lavorare sia alla moda celtica, con quei disegni di angoli secchi e linee fluide, sia anche secondo sistemi che diceva di aver appreso dai sassoni nel sud, con smalto e niello e i metalli trattati a filigrana. Il lavoro più fine lo faceva personalmente; era miope quanto più non si poteva per le cose normali, quasi cieco, ma poteva fare il lavoro da vicino con una precisione meravigliosa. I lavori più grandi e quelli più generici venivano eseguiti dallo schiavo Casso che di tanto in tanto era autorizzato ad accettare anche riparazioni e altre ordinazioni locali. Casso era silenzioso quanto Beltane era ciarliero e ci volle qualche tempo prima che i ragazzi - che passavano molte ore a gironzolare attorno al fuoco quando si faceva qualcosa di interessante - scoprissero che Casso era muto. Così tutte le loro domande erano rivolte a Beltane che parlava e lavorava allegramente e senza sosta: ma Mordred, che osservava silenzioso quasi quanto lo schiavo, vide che quest'ultimo perdeva ben poco dei discorsi che si facevano e, quando di tanto in tanto alzava gli occhi, dava l'impressione di un'intelligenza superiore a quella del suo maestro. L'impressione era momentanea e presto dimenticata: un principe non aveva pensieri da sprecare su uno schiavo muto e Mordred, in quei giorni, era completamente il principe, accettato dai suoi fratellastri - tanto da esserne sorpreso - e più che mai nelle grazie della regina. Così l'estate trascorse e, alla sua fine, la magica previsione della regina fu confermata. In una bella giornata di settembre, un'altra nave entrò in porto. E venne la notizia che cambiò la vita per tutti loro. 8 Era una nave reale. I ragazzi furono i primi a vederla. Quel giorno erano usciti con la loro barca e stavano pescando nel fiordo. La nave arrivò con il vento in poppa, le vele completamente spiegate e inalberando un pennone che, sebbene nessuno di loro lo avesse mai visto prima, riconobbero subito, con eccitazione. Un drago rosso in campo giallo oro. «Lo stendardo del Sommo Re!» Mordred, che era al timone, fu il primo a vederlo. Gaheris, che non si controllava mai molto, lanciò un grido di esultanza,
selvaggio quanto un grido di guerra. «Ci ha mandati a prendere! Andremo a Camelot! Nostro zio il Sommo Re si è ricordato e ci ha mandati a prendere!» Gawain disse, lentamente: «Dunque lei ha visto il vero. I doni d'argento sono per re Artù. Ma se lei è sua sorella, perché ha bisogno di portargli dei doni come quelli?» I suoi fratelli non gli diedero retta. «Camelot!» disse Gareth, sgranando gli occhi. «Non vorrà te.» Questa volta era Agravain, duro. «Sei troppo giovane. E, comunque, lei non ti lascerebbe andare. Ma se tuo zio il Sommo Re manda a prendere noi, come può impedircelo?» «Ci andresti?» Era Mordred, duro. «Cosa vuoi dire? Per forza. Se il Sommo Re...» «Sì, lo so. Volevo dire, hai voglia di andarci?» Agravain lo fissò. «Sei matto? Non volerci andare? E perché mai non dovrei volerlo?» «Perché il Sommo Re non è mai stato amico di nostro padre, ecco cosa Mordred vuol dire» intervenne Gaheris. E soggiunse, con cattiveria: «Be', possiamo capire perché Mordred non oserebbe andare, ma il Sommo Re è fratello di nostra madre, dopo tutto, e perché dovrebbe essere nemico nostro anche se lo era di nostro padre?» Lanciò un'occhiata a Gawain. «Era questo che intendevi? Che sta preparando quei tesori per pagarsi il ritorno a corte?» Gawain, affaccendato con una corda, non rispose. Gareth, comprendendo solo metà di quel che veniva detto, intervenne con calore: «Se lei ci va, allora porterà anche me, so che mi porterà!» «Pagarsi il rientro!» Agravain lo ripeté rabbiosamente. «Ma è una pazzia! È facile capire cosa è successo. È stato quel maledetto vecchio Merlino che ha avvelenato la mente del Sommo Re contro di noi, e adesso che finalmente è morto, perché sono pronto a scommettere che è questa la notizia che la nave porta, noi possiamo andare a corte a Camelot e guidare i Compagni del Sommo Re!» «Sempre meglio.» Mordred parlò ancora più duramente di prima. «Ti ho chiesto se avevi voglia di andarci perché mi ricordavo che tu non approvi la sua politica.» «Oh, la sua politica!» disse Agravain con impazienza. «Questo è diverso. Potrebbe essere l'occasione per andarcene di qui e trovarci dove succedono le cose. Lascia solo che io vada a Camelot e abbia almeno una mezza
occasione di vedere un po' di vita e di combattimenti, e al diavolo la sua politica!» «Ma che combattimenti ci saranno? Il punto è questo, non è vero? È per questo che eri tanto arrabbiato. Se davvero è deciso a concludere una pace durevole con Cerdic il Sassone, non vedrai nessun combattimento.» «Ha ragione» disse Gaheris. «Vedremo. Per prima cosa credo che nemmeno Artù riuscirà a far accettare e mantenere delle condizioni a un re sassone, e per seconda cosa quando io sarò lì e a portata di qualunque sassone, trattato o no, ci sarà da combattere!» «Belle parole» disse Gaheris con disprezzo. «Ma, se c'è un trattato...» incominciò Gareth, indignato. Gawain li interruppe. La sua voce era tesa e incolore per reprimere l'eccitazione. «Tenete la lingua a posto, tutti. Torniamo a casa e cerchiamo di sapere. Sarà sicuramente qualcosa di importante. Mordred, possiamo puntare verso riva?» (Mordred era il capo riconosciuto di quelle spedizioni in mare come Gawain lo era di quelle in terraferma.) Mordred annuì e diede gli ordini per ridurre la vela. Il fatto che assegnasse i compiti più duri ad Agravain non era forse un caso, ma questi non disse niente, si attaccò alle sartie e aiutò a portare la barca verso terra nella scia ormai larga della nave del re. *** Che la nave portasse o meno un messaggio riguardante i ragazzi, un inviato reale era stato sicuramente a bordo ed era andato a terra prima ancora che la nave fosse ormeggiata alla banchina. Sebbene non avesse parlato con nessuno salvo per un breve ringraziamento agli uomini della regina che lo avevano accolto, parte del suo messaggio era già nota all'equipaggio, e quando i ragazzi portarono in secca la loro barca e ne scesero, le parole passavano di bocca in bocca con un tono di riverenza e timore misto al furtivo eccitamento della povera gente al pensiero di un così importante cambiamento in alto loco. I ragazzi si avvicinarono alla folla, ascoltando dove potevano, interrogando quelli dell'equipaggio che già si trovavano sulla banchina. Era come avevano immaginato. Finalmente il vecchio mago era morto. Era stato seppellito, con uno splendido funerale, nella sua grotta di Bryn Myrddin, vicino a Maridunum dove era nato. Uno dei soldati che accom-
pagnavano il messo del re era stato lì in servizio e raccontava colorite storie del seppellimento, del dolore del Re, dei fuochi accesi in lungo e in largo in tutto il paese e, finalmente, del ritorno della corte a Camelot e dell'invio della nave reale alle Orcadi. Su questo punto i marinai erano vaghi ma correva voce, dissero, che la regina Morgause e la sua famiglia dovessero essere ricondotti subito sul continente. «Ve lo avevo detto!» disse Gaheris ai suoi fratelli, trionfante. Incominciarono a correre lungo la strada che portava al palazzo. Mordred, dopo un attimo di esitazione, li seguì. Improvvisamente, a quanto pareva, le cose erano cambiate. Era di nuovo tagliato fuori e i quattro figli di Lot, uniti nella dorata prospettiva che si apriva davanti a loro, parevano appena notarlo. Parlavano animatamente, seguitando a correre. «... ed è stato Merlino a consigliare al Sommo Re di fare la pace sassone» ansimò Agravain. «Così, forse, adesso vedremo nostro zio riprendere la spada» disse Gaheris tutto contento. «E avrà bisogno di noi...» «E romperà il suo giuramento?» chiese seccamente Gawain. «Forse non è soltanto noi che vuole» disse Gareth. «Forse vuole anche nostra madre, adesso che Merlino è morto. Era un uomo perfido, l'ho sentito dire, e la odiava perché era geloso delle sue magie. Me lo ha detto lei. Magari, adesso che è morto, nostra madre farà le magie per il Re al suo posto.» «La maga del re? Ne ha già una» disse Gawain. «Non lo sapete? La signora Nimuë» ha il potere di Merlino, e il re si rivolge a lei per ogni cosa. Così dicevano.» Ormai erano vicini al portone. Smisero di correre. Gareth si rivolse al suo fratellastro. «Mordred, quando andremo a Camelot, sarai l'unico a rimanere qui. Cosa farai?» L'unico a rimanere qui... Il primogenito del re delle Orcadi, lasciato solo, unico tra tutti i principi, alle Orcadi? Mordred vide lo stesso pensiero colpire Gawain nello stesso momento. Disse, brevemente: «Non ci ho pensato. Su, andiamo a sentire cosa ha da dire quell'uomo.» E corse dentro attraverso il portone. Gawain si fermò per un attimo sui suoi passi, poi lo seguì e gli altri con lui. Il palazzo era tutto un brusio di voci ma nessuno sapeva nulla di più di quanto i ragazzi avevano già sentito. L'inviato era ancora chiuso a colloquio con la regina. La gente si affollava nei corridoi e nella sala, ma cedet-
te il passo ai principi quando, dopo poco, ripuliti e cambiati, oltrepassarono le porte che conducevano alle stanze private della regina. Il tempo scorreva. La luce incominciava a svanire e i servi andarono attorno ad accendere le torce. Era ora di mangiare. Gli odori di cucina invasero le stanze rammentando ai ragazzi la loro fame. Eccitati com'erano, non avevano mangiato le focacce d'orzo che avevano nella barca. Ma la porta della regina seguitava a restare chiusa. Una volta udirono la sua voce che si alzava tagliente, ma era impossibile dire se per ira o eccitazione. I ragazzi erano a disagio e si guardarono tra loro. «Deve essere vero che dobbiamo andare» disse Agravain. «Quale altro messaggio avrebbe potuto mandare il Sommo Re nostro zio con una nave reale?» «Anche se così non è» disse Gawain, «possiamo sicuramente mandare un messaggio con la nave al Sommo Re nostro zio, almeno per ricordargli che esistiamo.» («E se uno di loro dice ancora una volta 'Il Sommo Re nostro zio'» pensò Mordred con selvaggia irritazione, «mi metterò a gridare 'Mio padre il re di Lothian e delle Orcadi', e vedremo cosa avranno da dire!») «Sst» disse ad alta voce, «sta uscendo. Adesso sapremo.» Ma non avrebbero saputo ancora niente. La porta della regina si aprì e l'inviato uscì tra le guardie con una faccia chiusa da cui non si poteva capire nulla, come è abituata a fare la gente di quel genere. Avanzò senza guardare né a destra né a sinistra e la gente gli fece largo. Nessuno gli rivolse la parola e i principi stessi si scostarono senza fare nessuna delle ansiose domande che bruciavano le loro labbra. Persino lì, in quelle isole perse tra i venti del nord, si sapeva che non si interroga un inviato del re così come non si può interrogare il re stesso. Lui li oltrepassò sfiorandoli come se non esistessero, come se un semplice messaggero del re fosse più importante di tutti i principi delle isole. Un ciambellano si avanzò per prendersi cura di lui e lo scortò nelle stanze messe a sua disposizione nel palazzo. E per tutto quel tempo la porta della regina rimase chiusa. «Voglio la mia cena» disse Gareth con decisione. «Sembra che l'avremo» disse Agravain, «molto prima che lei si decida a dirci cosa sta succedendo.» Si dimostrò che così era. Era tardi, quasi l'ora in cui solitamente i ragazzi si coricavano, quando la regina li mandò finalmente a chiamare. «Tutti e cinque?» ripeté Gawain quando venne il messaggio.
«Tutti e cinque» disse Gabran. Non poteva fare a meno di guardare con curiosità Mordred, e le altre quattro paia di occhi seguirono i suoi. Mordred, dominandosi contro l'improvviso insorgere dell'eccitazione, della speranza, dell'apprensione, pareva, come era sua abitudine, distaccato e inespressivo. «E sbrigatevi» disse Gabran tenendo aperta la porta. Si sbrigarono. *** Entrarono in fila nella camera di Morgause, silenziosi, in attesa e nervosamente ammirati per quello che vedevano lì. La regina aveva usato il lungo intervallo dopo l'uscita dell'inviato per cenare, parlare con i suoi consiglieri, avere un tempestoso ma soddisfacente piccolo interludio con Gabran, dopo di che si era fatta lavare dalle sue donne, vestire con le vesti di stato e aveva predisposto uno scenario regale per il colloquio con i suoi figli. Dalla sala aveva fatto portare il suo seggiolone dorato e vi stava seduta accanto al fuoco di torba con i piedi su uno sgabello cremisi. Nessun altro era presente; le donne erano state congedate da tempo. Fuori della finestra, la luna di mezzanotte, al suo pieno, era passata dall'oro all'argento e una stretta lama di luce attraversava il seggiolone di Morgause facendo scintillare l'oro e affondando nelle pieghe della sua veste. Aveva indossato uno dei suoi abiti più belli, un fluido splendore di velluto color bronzo. La cintura era d'oro e smeraldi e i capelli intrecciati con l'oro erano ornati da uno dei diademi reali: un sottile cerchio di rosso oro celtico che era appartenuto a re Lot e che i ragazzi, fino ad allora, avevano visto solo quando avevano avuto il permesso di partecipare formalmente ai consigli reali. Le torce erano state spente e nessuna lampada era accesa. Lei era seduta tra il fuoco e la luna, regale e bellissima. Mordred, forse l'unico dei cinque, notò quanto era pallida sotto l'insolito rossore delle gote. «Ha pianto» pensò, poi, con più realismo e con quel tocco di ghiaccio che era di Artù: «Ha bevuto. Gawain ha ragione. Se ne vanno. E cosa sarà di me? Perché mi ha chiamato? Forse perché hanno paura di lasciarmi qui solo, visto che sono il primogenito di Lot? Qui da solo, e figlio di re, cosa sarà di me?» La sua faccia non lasciò trasparire i pensieri che galoppavano; rimase immobile accanto a Gawain, più alto di lui di mezza testa, ed attese con l'aria di essere il meno interessato di tutta la stanza. Poi vide che, di tutti
loro, la regina guardava solo lui, Mordred, e il suo cure ebbe un sussulto, prima di avviarsi a un battito rapido e forte. Finalmente Morgause gli tolse gli occhi di dosso e li guardò tutti per un poco, in silenzio. Poi parlò. «Voi tutti sapete che la nave che si trova nel porto viene da parte di mio fratello re Artù e ha portato il suo ambasciatore con messaggi per me.» Nessuna risposta. Non se l'aspettava. Osservò la fila dei ragazzi, le facce sollevate, gli occhi che incominciavano a brillare di gioiosa aspettativa. «Vedo che avete fatto delle ipotesi e immagino che siano giuste. Sì, è finalmente venuta la convocazione che so avete desiderato per molto. E io pure, anche se è venuta in un modo che non posso considerare favorevole... Dovete andare a Camelot alla corte del Sommo Re vostro zio.» Fece una pausa. Gawain, il privilegiato, disse rapidamente: «Signora madre, se questo vi addolora me ne dispiace moltissimo. Ma non abbiamo sempre saputo che sarebbe successo? Proprio come sappiamo che l'addestramento e la fortuna, per quelli del nostro sangue, vanno prima o poi trovati sul continente e nel mezzo degli eventi e non qui in queste isole.» «Certo.» Una mano tamburellava sul tavolo dove si trovava, mezzo srotolata, la lettera del re. Mordred incominciò a chiedersi in che termini dovesse essere quella lettera per aver fatto cercare a Morgause la consolazione della bottiglia e per tenderla a un punto tale che pareva di veder vibrare ogni suo nervo come la corda di un liuto troppo accordato. Gawain, incoraggiato dalla sua breve risposta, chiese impulsivamente: «E allora, perché non vi rallegrate della convocazione? Non è che perderete...» «Non si tratta della convocazione in sé ma del modo in cui è venuta. Tutti sapevamo che un giorno sarebbe successo, quando... quando il mio principale nemico se ne fosse andato dal fianco del Re. Lo avevo previsto e avevo i miei piani. Avrei fatto restare qui te, Gawain: tu devi essere re e il tuo posto è qui, in mia presenza o meno. Ma lui ha chiesto di te e quindi devi andare. E quest'uomo che ci ha mandato, questo ambasciatore come lui si definisce (la sua voce era piena di disprezzo) deve star qui al tuo posto in qualità di reggente. E chi può dire a cosa questo porterà? Ti dirò francamente che ho paura. Paura che, una volta che tu e i tuoi fratelli sarete fuori dalle Orcadi, Artù ti voglia togliere, in favore di questa sua creatura, l'unica terra che ancora ti rimane, come ha preso Lothian, e lasci qui quest'uomo al posto tuo.» Gawain, rosso di eccitazione, era disposto a discutere. «Ma, madre... si-
gnora... sarà poi così? Qualunque cosa abbia fatto a Dunpeldyr per inimicizia verso nostro padre il re Lot, voi siete sua sorella e noi suoi stretti parenti, gli unici che ha. Perché dovrebbe volerci umiliare e spogliare?» E soggiunse, astutamente: «Non lo farà! Tutti quelli con cui ho parlato - marinai, viaggiatori e i mercanti che sono venuti qui da tutto il mondo - tutti dicono che Artù è un grande re e agisce solo secondo giustizia. Vedrete, signora madre, non c'è niente da temere.» «Parli come un ragazzino» disse bruscamente Morgause. «Ma una cosa è certa, qui non si può fare niente, non si guadagna niente disubbidendo alla convocazione del Re. Tutto quello che possiamo fare è fidarci del salvacondotto che ci ha mandato, ma una volta in presenza di Artù possiamo portare la nostra voce nel suo consiglio - fin nella Sala Rotonda se sarà necessario - e vedere se, in faccia a me, sua sorella, e a voi, suoi nipoti, può rifiutarci i nostri diritti su Dunpeldyr.» La nostra voce? I nostri diritti? Nessuno pronunciò le parole ma il pensiero passò da ragazzo a ragazzo con l'acidità della delusione. Nessuno di loro aveva ammesso con se stesso che quel tanto desiderato allargamento del loro mondo recava in sé anche la promessa di liberarli da una capricciosa regola materna. Ma ciascuno, ora, provava un deprimente senso di sconfitta. Morgause, madre e strega, lo lesse perfettamente. Le sue labbra si arricciarono. «Sì, ho parlato al plurale. Gli ordini sono chiari. Devo presentarmi alla corte di Camelot appena il Sommo Re ritorna dalla Bretagna. I motivi non sono spiegati. Ma devo portare con me», e la sua mano toccò nuovamente la lettera di Artù, «tutti e cinque i principi.» «Ha detto lui 'tutti e cinque'?» Questa volta la domanda esplose dai gemelli che parlarono assieme. Gawain non disse niente ma si voltò a fissare Mordred. Quanto a Mordred, non avrebbe potuto parlare. Una sensazione confusa lo aveva colto, di esaltazione, di delusione, di piani fatti e abbandonati, di orgoglio e di prevista umiliazione. E di paura. Doveva andare a Camelot per ordine del Sommo Re in persona. Lui, il bastardo di quel re un tempo nemico. Possibile che tutti e cinque i figli di Lot fossero convocati verso una dannazione che fino a quel momento era stata evitata solo dalla presenza del mago? Respinse immediatamente quel pensiero. No, i principi legittimi erano anche figli della sorella del Sommo Re; ma che diritto aveva lui, Mordred, ai favori di Artù? Nessuno: solo un ricordo di inimicizia e la storia di un passato tentativo di farlo morire annegato. Forse la memoria
di Artù era lunga e adesso avrebbe finito il lavoro iniziato con quel massacro di mezzanotte di tanti anni prima... Riportò la sua attenzione a quello che la regina stava dicendo. Avrebbero preso la loro nave, pareva, la Orc, che grazie alle magiche previsioni di Morgause era pronta, calafatata e dipinta e arredata con il lusso a cui lei non poteva rinunciare. E anche i doni che avrebbero portato erano pronti, e gli abiti per i ragazzi, le vesti e i gioielli per la loro madre Gabran sarebbe andato con loro, e gli uomini della guardia reale, e un Consiglio di quattro persone sarebbe rimasto in carica sotto l'ambasciatore del Sommo Re... E dal momento che il Sommo Re non sarebbe stato di ritorno a Camelot prima della fine di ottobre, il loro viaggio si poteva fare con comodo e avrebbero avuto il tempo di far visita alla regina Morgana a Rheged... «Mordred!» Lui sussultò: «Signora?» «Resta. Gli altri vadano. Ailsa!» La vecchia apparve sulla soglia della camera da letto. «Scorta i principi alla loro camera e occupati di loro. Vedi che non indugino a parlare ma vadano dritti a letto. Gabran, lasciami! No, di là. Aspettami.» Gabran girò sui tacchi ed entrò nella camera da letto. Gawain, seguendolo con una smorfia, incontrò gli occhi della madre, cancellò la smorfia dalla sua faccia e sospinse in avanti i suoi fratelli perché le baciassero la mano. Ailsa li portò fuori già rimbrottandoli prima ancora che la porta fosse chiusa. Mordred, solo con la regina, sentì la pelle fremere mentre si preparava ad ascoltare quel che lei gli avrebbe detto. 9 Quando la porta si richiuse dietro gli altri ragazzi, Morgause si alzò improvvisamente e andò alla finestra. La mossa la tolse dalla luce del fuoco per immergerla nell'argento cereo della luna. La luce fredda alle sue spalle lasciava la faccia e la figura nel buio ma accendeva il contorno dei capelli e della veste per cui pareva una creatura d'ombra bordata di luce, visibile a metà e totalmente irreale. Mordred sentì ancora la tensione della pelle come avviene a un animale che drizza il pelo all'avvicinarsi del pericolo. Era una strega e come tutti in quelle isole anche lui temeva i suoi poteri che considerava reali e naturali
quanto il buio che segue alla luce del giorno. Era troppo inesperto e troppo intimorito dalla regina per rendersi conto che lei era imbarazzata e anche, suo malgrado, profondamente a disagio. L'inviato del Sommo Re era stato freddo e conciso; la lettera che le aveva portato era soltanto un breve ordine reale, steso in forma ufficiale, che domandava la presenza sua e dei cinque ragazzi; non venivano chiariti i motivi, non si prevedevano scuse e sulla nave c'era una scorta di soldati che avrebbero assicurato l'esecuzione dell'ordine. Le domande di Morgause non avevano ottenuto niente di più dall'ambasciatore il cui freddo comportamento era già di per sé una minaccia. Non era certo, ma pareva probabile dai termini di quell'ordine, che Artù avesse scoperto dov'era Mordred; ovviamente sospettava, anche se non lo sapeva per certo, che il quinto ragazzo alla corte delle Orcadi fosse suo figlio. Come facesse a saperlo, Morgause non riusciva a immaginarlo. Era stato un pettegolezzo comune, tanti anni prima, che lei fosse andata a letto con il suo fratellastro Artù in prossimità delle nozze con Lot ed avesse a tempo debito partorito un figlio, ma si riteneva anche comunemente che quel figlio, insieme agli altri bambini di Dunpeldyr, fosse stato assassinato. Era sicura che nessuno lì alle Orcadi sapesse o sospettasse chi era Mordred: i sussurri, a corte, erano tutti sul «bastardo di Lot», il ragazzo a cui la regina aveva riservato i suoi favori. Naturalmente, c'erano anche altre voci più salaci, ma quelle divertivano soltanto la regina. Ma, chissà come, Artù sapeva. E la sua lettera non lasciava dubbi. I soldati l'avrebbero scortata a Camelot insieme a tutti i suoi figli. Morgause, davanti al figlio che sarebbe stato il suo passaporto per i favori di Artù, per un rinnovarsi del suo potere al centro degli affari, stava cercando di decidere se dirgli lì e subito di chi era figlio. Durante gli anni in cui era stato al palazzo, vivendo e imparando assieme ai suoi fratellastri, non aveva mai preso in considerazione l'idea di dirgli tutta la verità. Sarebbe venuto il momento, si era detta, di rivelarglielo e poi di usarlo; o il tempo o i suoi poteri magici le avrebbero detto quando. La verità era che Morgause, come molte donne che agiscono soprattutto attraverso la loro influenza sugli uomini, era più astuta che intelligente e, inoltre, era pigra per natura. Così gli anni erano passati, Mordred era rimasto nell'ignoranza e il suo segreto era noto solo a sua madre e a Gabran. Ma ora, chissà come, Artù, colpito dalla morte di Merlino, lo sapeva anche lui e mandava a chiamare suo figlio. E sebbene per anni Morgause avesse denigrato Merlino per odio e per paura, sapeva che era stato lui che
aveva originariamente protetto sia Mordred che lei dall'impetuoso furore di Artù. A allora, cosa voleva adesso Artù? Uccidere Mordred? Essere finalmente sicuro? Non riusciva a immaginarlo. Quel che sarebbe successo a Mordred non la preoccupava se non in quanto avrebbe influito anche su di lei e per se stessa era molto apprensiva. Dopo la notte in cui aveva giaciuto con il suo fratellastro per generare il bambino, non aveva più visto Artù; le storie del re potente e brillante non quadravano perfettamente con i suoi ricordi del ragazzo ardente che aveva portato con deliberazione nel suo letto. Restò con le spalle rivolte alla luna splendente. La sua faccia era nascosta e quando parlò la voce era freddamente normale. «Anche tu, come Gawain, hai parlato con i marinai e i mercanti che sbarcavano qui?» «Sì, certo signora. Di solito scendiamo al porto insieme alla gente per sentire le notizie.» «E qualcuno di loro... Voglio che tu cerchi di ricordare con esattezza... Qualcuno di loro, durante gli scorsi mesi o settimane, ha cercato di tirarti da parte per parlare con te, oppure ti ha fatto delle domande?» «Non credo... A che proposito, signora?» «Sul tuo conto. Chi sei e cosa fai qui al palazzo assieme ai principi.» Pareva un discorso ragionevole. «Molta gente, qui, ormai sa che sei un bastardo di re Lot che è stato allevato da genitori adottivi e, alla loro morte, è venuto qui. Quel che non sanno è che sei stato salvato dal massacro di Dunpeldyr e sei venuto qui per mare. Hai parlato di questo con qualcuno?» «No, signora. Voi mi avete detto di non farlo.» Frugando quella faccia controllata, quegli occhi scuri, fu convinta. Era abituata allo sguardo ambiguo dei bugiardi - i gemelli mentivano spesso, per il puro piacere di farlo - ed era certa che quella fosse la verità. Ed era anche certa che Mordred era ancora troppo intimorito da lei per disobbedirle. Volle accertarsene. «Meglio per te.» Vide un guizzo negli occhi del ragazzo e ne fu soddisfatta. «Qualcuno ti ha interrogato? Pensaci bene. Ti è parso che qualcuno sapesse o immaginasse?» Lui scosse la testa. «Non ricordo niente di simile. Gente che dice cose come: 'Siete del palazzo, vero? Dunque la regina ha cinque figli? Che signora fortunata!' ce n'è, e allora io dico che sono figlio del re e non della regina. Però di solito» soggiunse, «chiedono a qualcun altro notizie sul mio conto. Non a me.»
Le parole erano semplici ma il tono no. Significava: «Non oserebbero interrogare me, me, ma sono curiosi e quindi domandano. A me non interessa quello che si dice.» Colse, contro la luna, l'ombra di un sorriso. Gli occhi della regina erano vuoti e scuri, abissi di nulla. Persino i suoi gioielli erano appannati. Pareva farsi più alta. La sua ombra, proiettata dalla luna, diventava mostruosa, lo inghiottiva. L'aria era fredda. Suo malgrado, Mordred rabbrividì. Morgause lo osservava, seguitando a sorridere, mentre protendeva le prime scure antenne della sua magia. Aveva preso la decisione. Non gli avrebbe detto niente; il lungo viaggio a sud non doveva essere offuscato e reso difficile dalla reazione degli altri alla notizia della vera posizione di Mordred in quanto figlio del Sommo Re: o dalla consapevolezza, che era legata alla notizia, dell'incesto della loro madre con il suo fratellastro. Poteva essere una voce comune sul continente ma sulle isole nessuno avrebbe osato ripeterla: i suoi quattro figli non avevano sentito nulla. Nemmeno a se stessa Morgause osava chiedere come il fatto sarebbe stato accolto. Malgrado tutti i suoi poteri, non aveva idea del perché il Re li avesse convocati. Era possibile che avesse mandato a prendere Mordred solo per ucciderlo. In quel caso, pensò Morgause guardando freddamente suo figlio, lui non aveva bisogno di sapere niente... e nemmeno i suoi altri figli. Se così non era, quel che occorreva al momento era di legare a sé quel ragazzo, di assicurarsi la sua obbedienza e per questo aveva un piano ben collaudato. Timore e gratitudine, complicità e devozione: con quelli aveva messo alla prova e tenuto i suoi amanti; con quelli, adesso, avrebbe tenuto suo figlio. Disse: «Sei stato leale. Sono contenta. Lo sapevo ma volevo sentirlo da te. Non avrei avuto bisogno di chiedertelo. Questo lo sai, vero?» «Sì, signora.» Era sorpreso dal peso che pareva mettere in quella domanda ma rispose semplicemente: «Tutti sanno che voi sapete tutto perché siete...» Era stato sul punto di dire «una strega», ma ingoiò la parola e disse, invece: «dotata di poteri magici. Che potete vedere quel che è nascosto agli altri uomini dalla distanza e dal tempo.» Adesso era sicuro che lei stesse sorridendo. «Una strega, Mordred. Sì, proprio, sono una strega. Ho dei poteri. Forza, dillo.» Lui, obbediente, ripeté: «Siete una strega, signora, e avete dei poteri.» Morgause chinò la testa e la sua ombra diminuì, poi crebbe di nuovo. L'aria fredda sfiorò Mordred. «E fai bene ad esserne spaventato. Ricordati sempre. E quando verranno a interrogarti - come faranno - a Camelot, ri-
cordati quello che mi devi, come suddito e come... figliastro.» «Lo farò. Ma cosa... perché dovrebbero...?» Si fermò, confuso. «Cosa succederà quando arriveremo a Camelot? È questo? Bene, Mordred, voglio essere franca con te: ho avuto delle visioni ma non tutto è chiaro. Qualcosa offusca il cristallo. Possiamo immaginare cosa succederà ai miei figli, i suoi nipoti. Ma tu? Ti domandi cosa succederà di uno come te?» Mordred si limitò ad annuire, non fidandosi della sua voce. Ci sarebbe voluto ben altro spirito che quello del ragazzo cresciuto nelle isole per fronteggiare una strega al chiaro di luna. Pareva che Morgause creasse magia attorno a sé, nella luna che toccava le pieghe del suo abito e nella cascata di seta dei suoi capelli. «Ascoltami. Se farai come ti ordino, ora e sempre, non correrai nessun pericolo. C'è un potere nelle stelle, Mordred, e una parte è per te. Questo ho visto. Ah, vedo che ti piace.» «Signora?» Aveva immaginato, con i suoi poteri di strega, quali erano i suoi sogni e i suoi ingenui piani? Cercò di dominarsi, tremando. Lei notò il mento che si rialzava e i pugni che tornavano a stringere la cintura che aveva in vita. Guardando fuori della sua avvolgente oscurità, provò interesse e una specie di perverso orgoglio. Aveva coraggio. Era suo figlio, dopo tutto... Quel pensiero se ne tirò dietro un altro. «Mordred.» Gli occhi del ragazzo la cercarono nell'ombra. Lei li trattenne per un attimo lasciando che il silenzio scorresse. Era suo figlio, sì, e chi poteva dire quale frammento del suo potere poteva essere sceso in lui mentre lo teneva in grembo? Nessuno dei figli di Lot, quei robusti ragazzi di terra, ne aveva ereditato nemmeno un guizzo. Ma Mordred poteva essere l'erede non solo dei poteri che a lei erano venuti dalla madre bretone ma anche di qualche brillio del più grande potere dell'arcimago Merlino. Gli occhi scuri alzati verso di lei con fermezza erano di Artù ma erano anche simili a quelli dell'odiato incantatore che avevano contrastato i suoi fino a farglieli abbassare non una ma molte volte prima dell'ultima. Chiese, improvvisamente: «Non ti sei mai domandato chi sia tua madre?» «Ma certo. Certo. Però...» «Lo chiedo solo perché c'erano a Dunperldyr molte donne che si vantavano di avere la Vista. Che tua madre fosse una di quelle? Fai dei sogni, Mordred?»
Il ragazzo rabbrividiva. Attraverso il suo cervello passavano tutti i sogni, sogni di potere e incubi del passato; la casupola bruciata, i sussurri nel buio, paura, sospetti, ambizione. Cercò di chiudere la mente contro il magico sondaggio di Morgause. «Signora, non ho mai... cioè...» «Mai conosciuto la Vista? Mai avuto un sogno di premonizione?» La sua voce cambiò. «Quando, prima, era venuta la notizia della morte di Merlino, con il Meridaun, tu sapevi che non era ancora vero. Te lo hanno sentito dire. E gli eventi hanno provato che avevi ragione. Come facevi a saperlo?» «Non... non lo so, signora. Io... cioè...» Si morsicò le labbra ripensando confusamente alla folla del porto, alle grida, alla baraonda. Era stato Gawain a dirglielo? No, Gabran doveva averlo sentito. Si leccò le labbra e provò ancora, lottando manifestamente per trovare la verità. «Non sapevo nemmeno di aver parlato ad alta voce. Non significava nulla. Non la Vista o... quello che dite voi. Potrebbe essere stato un sogno, ma credo che fosse qualcosa che avevo sentito molto tempo fa e che poi risultò essere non vero, nemmeno quella volta. Mi fa pensare al buio, a qualcuno che sussurra e...» Si fermò. «E?» domandò lei duramente. «Bene, mi rispondi?» «E all'odore di pesce» mormorò Mordred al pavimento. Non la guardava, altrimenti avrebbe visto il lampo di sollievo e non l'ironia nella sua faccia. Morgause tirò un lungo respiro. Così, non c'era stata nessuna premonizione ma soltanto un ricordo della culla, un mezzo sogno della prima infanzia quando quegli stupidi paesani discutevano la notizia che era venuta da Rheged. Ma era meglio assicurarsene. «Uno strano sogno, davvero» disse sorridendo. «E, certamente, questa volta i messaggeri hanno ragione. Be', vediamo di assicurarcene. Vieni con me.» Poi, visto che lui non si muoveva, ripeté con una sfumatura di impazienza: «Vieni quando te lo ordino. Adesso guarderemo assieme nel cristallo e magari scopriremo che cosa ti riserba il futuro.» Lasciò la finestra illuminata dalla luna e gli andò vicino sfiorandogli il braccio nudo con il velluto, in un leggero alito di profumo simile a quello dei fiori di notte. Il ragazzo trasse un respiro incerto e la seguì come un drogato. Fuori della porta c'erano le guardie, immobili. A un cenno della regina, Mordred staccò una lampada dal muro, poi la seguì mentre gli faceva strada attraverso le stanze silenziose e poi nell'anticamera dove si fermò di fronte alla porta chiusa.
Durante i suoi anni a corte, il ragazzo aveva sentito molte storie su quello che si trovava dietro l'antica porta. Era una prigione, una camera di tortura, un luogo in cui si tessevano incantesimi, lo scrigno dove la regina strega parlava con la Dea in persona. Nessuno sapeva nulla per certo. Se qualcuno, a parte la regina, aveva mai varcato quella soglia, era certo che la regina era stata l'unica a uscirne. Mordred riprese a tremare e nella lampada la fiamma vacillò. Morgause non parlò. Sollevò una chiave che portava appesa a una catena in cintura e aprì la porta che girò silenziosamente sui cardini ingrassati. Ad un suo gesto, Mordred alzò la lampada. Davanti a loro una rampa di gradini scendeva ripida in un corridoio. Alla luce della lampada i muri brillavano per l'umidità che ne trasudava. Pareti e gradini erano della stessa roccia grezza, la roccia viva in cui i Vecchi avevano scavato le loro camere funebri. Il luogo odorava di fresco e umido e del salmastro del mare. Morgause richiuse la porta alle loro spalle. La lampada tremò nella corrente d'aria e poi bruciò più viva. La regina indicò, in silenzio, poi fece strada giù per i gradini e lungo un corridoio, diritto e pavimentato di pietre lisce ma così basso che dovevano chinarsi per non picchiare la testa contro il soffitto. L'aria in quel luogo era morta e si sarebbe detta silenziosa se ogni tanto non ci fosse stato un suono che pareva venire dalla roccia stessa; un mormorio, un mugolio, una pulsazione che Mordred, improvvisamente, riconobbe. Era il rumore del mare che echeggiava lungo il corridoio, più simile a una memoria delle acque che un giorno avevano dilavato quei luoghi, che al suono del vivo mare che c'era fuori. Pareva che tutti e due camminassero nei corridoi di una grande conchiglia la cui eco, venendo dritta dalle profondità, era respirata dall'aria. Era un suono che aveva sentito molte volte, da bambino, quando giocava con le conchiglie sulla spiaggia della Baia delle Foche. Per un momento, il ricordo dissipò le tenebre e la droga della paura. Presto, sicuramente, pensò il ragazzo, sarebbero sboccati in una caverna aperta sulla costa. Il corridoio svoltò a sinistra, poi si trovarono davanti a un'altra porta. Anche quella era chiusa ma rispose alla stessa chiave. La regina fece strada, lasciando il battente aperto. Mordred la seguì. Non era una grotta ma una piccola stanza, squadrata e spianata dai muratori, con il pavimento fatto delle solite lastre lisce. C'era una lampada appesa al soffitto di roccia. Contro una parete stava un tavolo sul quale c'erano libri, ciotole e barattoli sigillati, cucchiai e pestelli e altri strumenti d'avorio e d'osso o di bronzo lucidato dall'uso. Lastre di pietra erano state
conficcate nelle pareti per formare degli scaffali sui quali si trovavano altre scatole e barattoli e sacchetti di cuoio legati con filo di piombo e impressi con un sigillo che non riconosceva, composto da cerchi e serpenti intrecciati. Accanto al tavolo un seggiolone e contro un'altra parete una piccola stufa con accanto un secchio di carbone. Una fessura nel soffitto serviva a far uscire il fumo. La stufa doveva venir accesa spesso, o lo era stata molto di recente. La stanza era asciutta. Su uno scaffale alto scintillava una fila di qualcosa che Mordred prese per globi o barattoli di una strana ceramica chiara. Poi vide cos'erano: teschi umani. Per un terribile momento immaginò Morgause intenta a distillare le sue droghe, lì in quella stanza segreta, traendo le sue magie da sacrifici umani ed era lei stessa la Dea oscura rinchiusa nel suo regno sotterraneo. Poi si rese conto che non aveva fatto altro che raccogliere e riporre gli originari occupanti di quel posto quando la camera funeraria era stata trasformata per suo uso. Era brutto anche così. La lampada riprese a tremargli tra le mani facendo fremere lo splendore dei coltelli di bronzo e Morgause disse, con un mezzo sorrise: «Sì, fai bene ad avere paura. Ma loro non vengono qui.» «Loro?» «I fantasmi. No, tieni ferma la lampada, Mordred. Se devi vedere i fantasmi, assicurati di essere bene armato contro di loro quanto lo sono io.» «Non capisco.» «No? Bene, vedremo. Vieni, dammi la luce.» Gli tolse di mano la lampada e si diresse all'angolo dietro alla stufa. Allora lui si accorse che, anche lì, c'era una porta. Era fatta di legno di relitti, stretta ed alta, in forma di cuneo irregolare: era stata costruita per adattarsi a un'altra fessura naturale nella roccia. Si aprì con lo scricchiolio del legno tarlato e la regina fece cenno al ragazzo di varcarla. Questa, finalmente, era la grotta sul mare o, almeno, una sala interna di una grotta. Il mare si infrangeva e tuonava nelle vicinanze ma con il rimbombo e il risucchio vuoti di una forza spenta il cui potere si è spezzato altrove. Quella caverna doveva essere al di sopra di tutte le maree salvo le più alte; il pavimento era piatto e' asciutto e le sue lastre inclinavano solo leggermente verso la pozza dal lato della caverna verso il mare. L'unica uscita doveva essere immersa profondamente nelle acque. Non ce n'erano altre di visibili.
Morgause posò la lampada proprio sul ciglio dell'acqua. Immobile nell'aria senza correnti la sua luce illuminava le profondità simili a inchiostro della pozza. Doveva essere parecchio tempo che non veniva disturbata dalle maree. Era immobile e nera e profonda al di là dell'immaginazione o della vista. Nessuna luce poteva penetrare quel liquido nero; la luce della lampada non faceva che rimandare, netto e rimpicciolito, il riflesso della roccia che sovrastava l'acqua. La regina si lasciò cadere sulle ginocchia accanto alla pozza e trascinò giù Mordred accanto a sé. Si accorse che tremava. «Hai ancora paura?» Mordred disse, tra i denti serrati: «Ho freddo, signora.» Morgause, sapendo che stava mentendo, sorrise tra sé. «Presto te lo dimenticherai. Inginocchiati qui, prega la Dea e osserva l'acqua. Non parlare fino a quando non te lo ordino io. Adesso, figlio del mare, lasciaci sapere cosa ha da dirci la pozza.» Dopo quelle parole tacque anche lei e chinò lo sguardo sulle nere profondità dell'acqua. Il ragazzo rimaneva più fermo possibile, fissando anche lui l'acqua. La sua mente nuotava ancora nella confusione; non sapeva se sperare o temere di vedere qualcosa in quel cristallo morto. Ma non avrebbe dovuto temere. Per lui, l'acqua era soltanto acqua. Una volta, gettò un'occhiata in tralice alla regina. Non ne vedeva la faccia. Era inchinata sulla pozza e i capelli sciolti scendevano a formare una tenda di seta che ne raggiungeva la superficie. Era così immobile, così in trance che nemmeno il suo respiro muoveva la superficie su cui i suoi capelli si posavano come alghe. Mordred rabbrividì improvvisamente, poi tornò a fissare ostinatamente la superficie nera. Ma se i fantasmi di Brude e Sula e delle dozzine di bambini uccisi per colpa di Morgause erano presenti nella grotta, Mordred non ne vide traccia, non ne sentì il freddo respiro. Sapeva solo di odiare le tenebre, l'immobilità sepolcrale, il respiro trattenuto dal timore e dall'attesa, la leggera ma inconfondibile emanazione di magia che usciva dal corpo di Morgause raccolto nel trance. Era figlio di Artù e sebbene la donna, pur con tutte le sue magie, non potesse saperlo, quella breve ora in cui era stato partecipe dei suoi segreti lo avrebbe staccato per sempre da lei più che se fosse stato messo al bando. Nemmeno Mordred ne era consapevole: sapeva solo che il lontano risucchio e tuono del mare parlava di aria aperta, e vento, e luce sulla schiuma della marea e lo attirava irresistibilmente via da quella pozza morta e dai misteri che vi annegavano dentro.
Finalmente, la regina si mosse. Tirò un lungo respiro che pareva un brivido, poi buttò indietro i capelli e si alzò. Mordred saltò in piedi con sollievo e si diresse in fretta alla porta spalancandola per lei e seguendola poi attraverso il varco a cuneo con un senso di sollievo e di scampato pericolo. Persino la distilleria con i suoi sinistri spettatori pareva, dopo il silenzio della grotta e il respiro spettrale della strega, un luogo normale quanto le cucine del palazzo. Ora riusciva a distinguere l'odore degli olii che Morgause mischiava per preparare i suoi pesanti profumi. Mise il catenaccio alla porta e si voltò nel momento in cui lei posava la lampada sul tavolo. Pareva che già sapesse la risposta alla sua domanda perché gli parlò con leggerezza. «Bene, Mordred, adesso hai guardato dentro al mio cristallo. Cosa hai visto?» Il ragazzo non si fidava a parlare. Si limitò a scuotere la testa. «Niente? Mi stai dicendo che non hai visto niente?» Mordred ritrovò la voce. Gli uscì raucamente. «Ho visto una pozza di acqua di mare. E ho sentito il mare.» «Solo questo? Con quella pozza così piena di magia?» Sorrise e lui ne fu sorpreso. Scioccamente, aveva pensato che la regina sarebbe stata delusa. «Solo acqua e roccia. Una volta... mi è parso di vedere qualcosa che si muoveva ma doveva essere un'anguilla.» «Il figlio del pescatore.» Rise ma, questa volta, l'epiteto non era di scherno. «Sì, c'è un'anguilla. È stata portata dentro dalla marea l'anno scorso. Bene, Mordred, ragazzo venuto dal mare, non sei un profeta. Qualunque potere avesse la tua vera madre, non te lo ha trasmesso.» «Sì, signora.» Mordred parlava con palese sollievo. Aveva dimenticato che messaggio lei gli aveva ordinato di cercare nel cristallo. Desiderava con violenza che quel colloquio avesse fine. L'acre odore della lampada ad olio mischiato con i pesanti profumi degli unguenti della regina, lo opprimeva. Gli girava la testa. Persino il rumore del mare pareva a un mondo intero di distanza. Era intrappolato in quel silenzio, in quella antica tomba senz'aria, con quella regina maga che lo imbarazzava con le sue domande, che lo confondeva con il suo umore strano e mutevole. Adesso lo stava osservando con una strana espressione che gli fece scrollare le spalle come se improvvisamente si trovasse prigioniero del corpo che stava dentro ai suoi abiti. Disse, più per rompere il silenzio che perché gli interessasse sapere: «Avete visto qualcosa nella pozza, signora?»
«Certamente. Era ancora lì, la visione che ho avuto ieri, e prima di ieri, quando ancora il messaggio di Artù non era arrivato qui.» La sua voce si fece profonda e uniforme ma non trovò nessuna eco in quell'aria morta. «Ho visto una grotta di cristallo e in essa il mio nemico, morto e nella sua bara tra le candele, certo destinato a marcire dimenticato come deve dopo la maledizione che un tempo gli ho scagliato. E ho visto il Drago stesso, il mio caro fratello Artù, tra le sue torri dorate, accanto alla sua regina sterile, in attesa che la sua nave tornasse a Ynys Witrin. E poi me stessa e i miei figli e tu, Mordred, tutti assieme, carichi di doni per il Re e finalmente dentro alle porte di Camelot... finalmente... E lì la visione è svanita ma non prima che lo vedessi venire, Mordred, il Drago in persona... un drago senza ali, ora, e pronto ad ascoltare altre voci, a provare altre magie, a consultarsi con altri consiglieri.» Poi rise ma il suono era sgradevole quanto il suo sguardo. «Come ha già fatto una volta. Vieni qui, Mordred. No, lascia stare la lampada. Torneremo su tra un minuto. Vieni qui adesso. Più vicino.» Mordred si avvicinò per fermarsi in piedi davanti a lei. Morgause dovette alzare gli occhi per guardarlo. Poi lo prese con le mani per le braccia. «Come ha già fatto una volta,» ripeté, sorridendo. «Signora?» chiese raucamente il ragazzo. Le mani della regina gli stringevano le braccia. Poi, improvvisamente lo attirò a sé e prima che lui capisse che intenzioni aveva, si alzò e lo baciò a lungo sulla bocca. Attonito, un po' eccitato, stimolato dal suo profumo e da quell'inatteso bacio sensuale, restò nella sua stretta, tremando ma non, questa volta, di freddo o di paura. Lei lo baciò ancora e la sua voce era dolce come il miele contro le sue labbra. «Hai la bocca di tuo padre, Mordred.» La bocca di Lot? Di quel marito che l'aveva tradita giacendo con sua madre? E lei lo baciava? Magari lo voleva? Perché no? Era ancora una bella donna e lui era giovane e sessualmente esperto quanto qualunque ragazzo della sua età. C'era una certa dama a corte che aveva preso il suo piacere insegnandogli il piacere, e c'era anche una ragazza, la figlia di un pastore che viveva a discreta distanza dal palazzo, che lo stava ad aspettare quando cavalcava tra l'erica con il vento della sera che soffiava dal mare... Mordred, allevato nelle isole e quindi mai toccato né dalla civiltà romana né dall'etica cristiana celtica, non aveva più senso del peccato di quanto ne avessero un giovane animale o un'antica divinità dei celti, di quelle che ancora abitavano quelle terre e cavalcavano come arcobaleni nei giorni di
sole. E allora, come mai il suo corpo si ritraeva invece di rispondere a quello della regina? Perché gli pareva che in quella stretta qualcosa di maligno lo avesse sfiorato? Improvvisamente, lei lo respinse e prese la lampada. La sollevò, poi si fermò a guardarlo lentamente con quello sguardo imbarazzante. «Gli alberi possono diventare alti, a quanto pare, Mordred, e rimanere ancora come alberelli. Forse sei troppo figlio di tuo padre ma non lo sei ancora abbastanza... Bene, andiamo. Io dove il mio paziente Gabran mi aspetta e tu nel tuo letto di bambino con gli altri bambini. Ho bisogno di ricordarti che non devi dire niente di quello che è successo questa notte o di quello che ti posso aver detto?» Aspettava una risposta e Mordred riuscì a dire: «Di questo, signora? No, no.» «Questo? Cosa sarebbe 'questo'? Di tutto quello che hai visto o non visto. Magari hai visto abbastanza da sapere che io devo essere obbedita. Sì? Bene, allora, fa' come ti ordino e non correrai nessun pericolo.» Fece strada in silenzio e lui la seguì su per il corridoio e fuori nell'anticamera. La chiave girò dietro di loro nella serratura ben lubrificata. La regina non parlò e non lo guardò. Mordred si voltò e corse via da lei lungo i freddi corridoi e il palazzo buio fino alla sua camera da letto. 10 Durante i giorni che seguirono, Mordred, assieme agli altri ragazzi e a metà degli abitanti delle Orcadi, cercò di avvicinarsi abbastanza al messaggero del re da poter parlare con lui. Nel caso degli isolani e dei più giovani principi, era una questione di curiosità. Com'era il continente? E il favoloso castello di Camelot? E il re stesso di una dozzina di battaglie, e la sua bella regina? E Bedwyr, il suo amico, e gli altri compagni-cavalieri? Ma tutti, principi e borghesi, trovarono impossibile avvicinarsi a quell'uomo. Dopo la prima notte, dormì a bordo della nave reale, sbarcandone quotidianamente per farsi condurre al palazzo, ufficialmente per un atto di cortesia verso la regina Morgause ma in realtà, come si mormorava, per assicurarsi che i suoi preparativi proseguissero abbastanza rapidi da poter profittare del buon tempo d'autunno. La regina non aveva bisogno che le si facesse fretta. La sua nave, l'Orc, era accostata alla banchina, pronta in tutto salvo qualche tocco finale. Gli operai si davano da fare con le ultime dorature e pitture mentre le donne
cucivano la grande vela decorata. Dentro al palazzo, le donne di Morgause erano impegnate a terminare, accomodare e riporre i sontuosi abiti che la regina aveva previsto per essere ricevuta a Camelot. E Morgause passava ore nella sua stanza segreta sotto la roccia. Non stava consultando la Dea, come si sussurrava, bensì concuocendo unguenti e lozioni e profumi e certe droghe sottili che avevano fama di ridonare la bellezza e l'energia della gioventù. Nel suo angolo del cortile, Beltane l'orafo era ancora preso dal suo lavoro. I doni per Artù erano finiti, imballati con la lana nella cassa destinata ad accoglierli; il vecchio stava ora preparando i gioielli per Morgause stessa. Casso, lo schiavo muto che lo aiutava, era stato incaricato di modellare spille e fibbie per i principi; anche se non era un artista come il suo maestro, eseguiva bene i disegni che Beltane gli forniva e pareva apprezzare il tempo che i ragazzi passavano a guardarlo e a parlare attorno al fornello. Mordred, unico tra loro, cercava qualche specie di comunicazione con lui, ponendogli domande che, come risposta, non richiedevano più che un cenno di assenso o negazione, ma non era andato oltre pochi fatti che riguardavano Casso stesso. Era stato sempre uno schiavo; non era stato sempre muto ma la lingua gli era stata tagliata da un malvagio padrone; si considerava il più fortunato degli uomini ad essere stato preso da Beltane che gli aveva insegnato un mestiere. Una vita davvero squallida, pensava Mordred domandandosi - sia pure pigramente - da cosa potesse venire quell'aria soddisfatta che l'uomo ostentava; l'aria, se il ragazzo avesse saputo riconoscerla, di un uomo che è venuto a patti con i suoi limiti e si è fatto un posto nella vita che colma con la sua integrità. Mordred che, nella sua vita, aveva avuto poche occasioni di pensar bene degli uomini, supponeva semplicemente che lo schiavo avesse una qualche vita privata soddisfacente che gestiva in modo autonomo dal suo padrone. Donne, magari? Se le poteva certo permettere. Quando, una volta coricato il suo padrone, lo schiavo si univa ai soldati che giocavano ai dadi, aveva sempre monete in abbondanza e pagava con facilità la sua parte di vino. Mordred sapeva da dove veniva quel denaro. Non da Beltane, questo era certo; chi - a parte qualche piccolo regalo - paga mai i suoi schiavi? Ma c'era stato un giorno, circa un mese prima in cui Mordred aveva preso da solo una barchetta ed era uscito a pescare, tornando tardi nella mezza luce che era tutta la notte che le isole conoscevano durante l'estate. Ormeggiata al molo reale c'era una piccola nave mercantile; la maggior parte degli uomini erano a terra per la notte ma, apparentemente, alcuni ufficiali erano rimasti a bordo; udì la voce di
un uomo e poi un tintinnio che poteva essere quello di monete che passavano da mano a mano. Mentre legava la sua barca al molo nell'ombra del mercantile, vide un uomo scendere rapidamente la passerella e risalire attraverso il villaggio verso il portone del palazzo. Riconobbe Casso. Dunque, quell'uomo accettava del lavoro anche per conto proprio? I lavori leciti hanno raramente bisogno di essere conclusi a mezzanotte. Be', ognuno può fare quel che crede, si disse Mordred scrollando le spalle e si dimenticò presto di tutta la faccenda. *** Finalmente, il giorno venne. In una soleggiata mattina di ottobre, la regina con le sue donne, seguita dai cinque ragazzi, da Gabran e dal suo primo ciambellano si diresse al porto in solenne corteo. Dietro di loro un uomo recava le casse del tesoro destinato a Artù e un altro i doni per il re di Rheged e sua moglie, la sorella di Morgause. Un paggio trafficava con i guinzagli di due grandi cani della razza delle isole destinate a re Urbgen mentre un altro, con aria spaventata, portava con il braccio teso per starne più lontano possibile una gabbia di vimini in cui soffiava e ringhiava un gatto selvatico che sarebbe stato una curiosa aggiunta alla collezione di strani uccelli e bestie e rettili della regina Morgana. Con loro partiva una scorta di soldati di Morgause e per ultimo - apparentemente per onorarla ma con l'aria piuttosto di farle la guardia - marciava un distaccamento di soldati del re scesi dal Drago del Mare. Anche nella spietata luce del mattino, la regina era molto bella. I suoi capelli, lavati con essenze dolci e pettinati con ornamenti d'oro, scintillavano. Gli occhi erano vivaci sotto le palpebre dipinte. Normalmente preferiva i colori allegri ma quel giorno aveva scelto il nero e l'abito scuro conferiva alla sua figura un po' appesantita dai parti una snellezza quasi pari a quella della sua gioventù oltre a mettere in risalto i gioielli e la pelle lattea. La testa era alta e lo sguardo fiducioso. Gli isolani si erano affollati ai lati della strada e gridavano saluti e benedizioni. La loro regina, amante dei suoi comodi, non li aveva gratificati con molte scene simili a quella da quando era stata esiliata in quelle isole ma questa volta aveva offerto uno spettacolo veramente imponente di corteo reale con regina e principi e la loro scorta armata e ingioiellata e con lo sfondo offerto dalla nave del Sommo Re, su cui sventolava la bandiera con il drago, in attesa di scortare la Orc fino al continente.
Finalmente la Orc salpò, curvando nello stretto tra l'isola reale e quella vicina. Nella sua scia avanzava il Drago del Mare, un cane pastore che sospingeva lei e i suoi cinque figli a sud, dentro la rete tesa per loro dal Sommo Re Artù. *** Una volta fuori dalle Orcadi, con la regina e la sua famiglia imbarcati, il capitano del Drago del Mare non aveva motivo di affrettarsi: il Sommo Re era ancora in Bretagna e la presenza di Morgause sarebbe bastata per quando avesse fatto ritorno a Camelot. Inoltre aveva prudentemente calcolato del tempo extra per il viaggio nel caso che le navi incontrassero il maltempo come, molto presto, avvenne. Durante il passaggio del Muir Orc - lo stretto del mar delle Orcadi che sta tra il continente e le isole esterne - incontrarono un vento che era quasi una bufera e separò le due navi costringendo anche i passeggeri più robusti a scendere sottocoperta. Finalmente, dopo alcuni giorni tempestosi, la bufera si placò e la nave delle Orcadi raggiunse le acque riparate nell'estuario dell'Ituna e calò l'ancora. Il Drago del Mare raggiunse faticosamente lo stesso approdo qualche ora dopo e trovò i passeggeri delle Orcadi ancora a bordo ma intenti ai preparativi per scendere a terra e recarsi a Luguvallium, la capitale del Rheged, per far visita a re Urbgen e alla sua regina Morgana. Il capitano del Drago del Mare, sebbene perfettamente cosciente di essere scorta di prigionieri più che guardia d'onore, non vide ragione di impedire quel viaggio. Re Urbgen di Rheged, sebbene là sua regina si fosse comportata parecchio male nei confronti di suo fratello Artù, era sempre stato fedele servitore del Sommo Re; certo avrebbe fatto attenzione a che Morgause e la sua preziosa progenie fossero tenuti al sicuro e al riparo finché si riparavano le navi dai danni della tempesta. Morgause, che non vedeva motivo per domandare il permesso di fare quel viaggio, aveva già spedito una lettera a sua sorella dicendole di aspettarli. Ora venne mandato avanti un corriere e dopo un po' la comitiva, accuratamente scortata come prima, si mise in cammino verso il castello di re Urbgen. *** Per Mordred la cavalcata fu anche troppo corta. Quando la compagnia
ebbe lasciato la costa e si avviò verso l'interno attraverso le colline, notò che stava attraversando un paesaggio molto diverso da quello che aveva visto o era stato in grado di immaginare fino ad allora. La prima cosa a colpirlo fu l'abbondanza di alberi. Alle Orcadi, gli unici alberi erano pochi rachitici ontani e betulle e dei rovi piegati dal vento che si annidavano allo scarso riparo delle collinette. Qui c'erano alberi dappertutto, grandi alberi fronzuti, ciascuno con la sua isola di ombra e circondato dalla sua colonia di cespugli e felci e piante striscianti. Grandi foreste di querce ricoprivano la parte inferiore delle colline cedendo poi lo spazio superiore ai pini che crescevano fino ai piedi dei più alti picchi. Alla base di tutti i contrafforti di quei picchi si raccoglievano altri alberi, roveri e agrifogli e betulle e quelle gole così fittamente boscose parevano appese alle argentee creste delle montagne come le corde che trattenevano il tetto di paglia della capanna dei suoi genitori. Salici e ontani costeggiavano anche il più piccolo ruscello e lungo le strade, sui pendii, ai lati delle strisce di brughiera e posti a riparo di ogni casupola o ovile c'erano ancora altri alberi, tutti con i colori fulvi e dorati e rossi dell'autunno accanto al nero dell'agrifoglio e allo scuro accento dei pini. Sulla pista che seguivano a cavallo, cadevano le nocciole mature e sotto le argentee ragnatele dell'autunno le more tardive brillavano come granati. Gareth, eccitato, indicò un orbettino brunito che strisciava tra le felci e Mordred vide un cerbiatto che li osservava dal sottobosco al limitare della foresta, immobile quanto il suolo. Quando il loro percorso li portò su un alto passo e, tra le creste delle montagne, il paese si aprì in una distanza azzurrina, Mordred trattenne il cavallo e rimase a guardare. Era la prima volta che vedeva tanto lontano senza scorgere il mare. Per miglia e miglia l'unica acqua erano i laghetti che brillavano nelle valli e il bianco dei torrenti che si precipitavano giù dalle grigie rocce per alimentarli. Una collina dopo l'altra portava, in distanza, dove una grande catena di montagne si levava a formare un'unica cima quadrata e bianca. Montagne o nubi? Era lo stesso. Quello era il continente, il regno dei regni, la materia dei suoi sogni. Allora, una delle guardie si avvicinò con un sorriso e una parola e Mordred rientrò nel gruppo. In seguito si sarebbe ricordato solo vagamente del suo primo soggiorno a Rheged. Il castello era enorme, pieno di gente, grandioso e in fermento. I ragazzi vennero consegnati immediatamente ai figli del re e la sensazione fu quella di essere tolti di mezzo mentre una grande crisi, mai chiaramente
spiegata a loro, veniva affrontata. Re Urbgen, perfettamente cortese, era distratto e conciso; la regina Morgana non comparve del tutto. Pareva che di recente la si fosse tenuta in una clausura che somigliava molto a un imprigionamento. «Qualcosa che riguarda una spada» disse Gawain che era riuscito a cogliere una conversazione nella sala delle guardie. «La spada del Sommo Re. Lei l'ha portata via da Camelot mentre lui era all'estero e ne ha messo una copia al suo posto.» «Non solo la spada,» disse Gaheris. «Si è presa anche un amante e ha dato a lui la spada. Ma il Sommo Re lo ha ucciso ugualmente e adesso re Urbgen la tiene chiusa via.» «Chi te lo ha detto? Certo tuo zio non gli permetterebbe mai di trattare così sua sorella, qualunque cosa abbia fatto.» «Oh, sì. Per via della spada, che è stato un tradimento. Quindi il Sommo Re permetterà che sia tenuta prigioniera,» disse Gaheris con energia. «Quanto all'amante...» Ma a quel punto Gabran venne verso di loro attraverso il cortile per convocarli alle stalle e persino Gaheris, che pure non era famoso per il tatto, pensò bene di posporre la conversazione a un momento più opportuno. Scoprirono anche qualcos'altro, ma molto poco, dai due figli di Urbgen. Erano due adulti, figli del primo matrimonio del re, esperti uomini d'armi che si erano inizialmente inorgogliti del fatto che loro padre sposasse la giovane sorella di Artù ma che, ora, avrebbero voluto vederla andare via ed erano pronti ad appoggiare la richiesta di Urbgen che il suo matrimonio venisse annullato. La verità, a quanto pareva, era questa: Morgana, legata dal matrimonio a un uomo molto più anziano di lei, aveva preso per amante uno dei Compagni di Artù, un uomo di nome Accolon, coraggioso, ambizioso e focoso. Lei lo aveva persuaso, mentre Artù era lontano da Camelot, a rubare la sua grande spada Caliburn che veniva chiamata la Spada di Britannia, e l'aveva portata a Rheged lasciando al suo posto un'altra segretamente copiata nel nord da qualche creatura di Morgana. Cosa la regina intendesse farne non fu mai spiegato chiaramente. Non poteva aver pensato che il giovane Accolon, nemmeno con Urbgen tolto di mezzo e la Spada di Britannia in mano a Morgana sua sposa, potesse soppiantare Artù come Sommo Re. Era più probabile che avesse usato il suo amante per appoggiare la sua personale ambizione e che la storia raccontata alla fine a Urbgen fosse sostanzialmente vera. Aveva avuto dei sogni,
aveva detto, che l'avevano indotta ad aspettarsi l'improvvisa morte di Artù all'estero. Così, per prevenire il caos che sarebbe seguito all'evento, aveva preso la Spada di Britannia per assicurare quel simbolo a re Urbgen, esperto e brillante veterano di dozzine di battaglie e marito dell'unica sorella legittima di Artù. Era vero che Artù stesso aveva dichiarato che il suo erede sarebbe stato il Duca di Cornovaglia, ma il duca di Cador era morto e suo figlio Costantino era ancora piccolo... Così diceva la storia. Quanto alla sostituzione della spada reale con una copia senza valore, Morgana assicurava che era stato soltanto un trucco per aiutare il furto. La spada era solitamente appesa sopra la poltrona del Re nella Sala Rotonda di Camelot e, ormai, veniva tirata giù solo in occasione di cerimonie o per una battaglia. La copia era stata attaccata lì solo per ingannare gli occhi. Ma ne sarebbe derivata una tragedia. Artù era ritornato senza arma dai suoi viaggi e Accolon, temendo per sé e per Morgana se il furto fosse stato scoperto, sfidò il Re a combattere e, con la sua buona spada, attaccò Artù armato solo della fragile copia della sua Caliburn. L'esito di quello scontro era già parte della crescente leggenda del Re. Malgrado il vantaggio datogli dal suo tradimento, Accolon era stato ucciso e Morgana, temendo ora sia la vendetta del fratello che quella del marito, dichiarava a chiunque fosse disposto ad ascoltarla che quella battaglia non era stata provocata dal suo operato ma era solo responsabilità di Accolon e, dal momento che era morto, nessuno poteva contraddirla. Se piangeva il suo amante morto, lo faceva in segreto. Con chi l'ascoltava deplorava la follia di Accolon e protestava la sua devozione - fraintesa, lo ammetteva, ma reale e profonda - verso suo fratello Artù e il suo signore e marito. Di qui l'agitazione nel castello. Nessuna decisione era stata presa. La Dama Nimuë, successore di Merlino come consigliere di Artù, e (si diceva) successore anche del potere di Merlino, era venuta a nord per recuperare la spada. Il suo messaggio era chiaro. Artù non era disposto a perdonare sua sorella per quello che considerava un tradimento e qualora Urbgen desiderasse vendicare il tradimento del suo letto, aveva il permesso del Re di trattare la sua infedele sorella come meglio gli pareva. 11 Dopo cena, nella terza notte della loro visita, Mordred, evitando gli altri ragazzi, si diresse da solo dalla sala alle stanze dove erano alloggiati i principi. La sua strada lo portò attraverso una striscia di terra tra il com-
plesso principale degli edifici del castello e il fiume. Lì c'era un giardino, piantato e curato per il piacere della regina Morgana; le sue finestre guardavano sulle aiuole di rose, i cespugli fioriti e i prati lungo il corso d'acqua. Ora gli steli dei gigli morti si ergevano in un groviglio di erica bianca e caprifoglio e nel verde scuro dell'erba apparivano anelli di funghi. I segni sui muri accanto alle finestre della regina mostravano dove erano state appese le gabbie degli uccelli canori prima di essere portate dentro per l'inverno. I cigni poltrivano sulla sponda del fiume, certo in attesa del cibo che la regina era solita portare loro in tempi meno inquieti e un paio di pavoni bianchi come la neve erano volati ad appollaiarsi, come grandi fantasmi, su un alto pino. In estate, senza dubbio, quel luogo doveva essere grazioso e pieno di profumi e colore e canti di uccelli ma ora, nel freddo umido della sera autunnale, appariva deserto e triste, odoroso di foglie morte e di fango del fiume. Ma Mordred vi indugiò, affascinato da quel nuovo esempio del lusso del continente. Non aveva mai visto un giardino prima di allora, non aveva mai immaginato che un pezzo di terra potesse essere accuratamente progettato e piantato solo in nome della bellezza e del piacere del suo proprietario. Poco prima aveva scorto da una finestra una statua che pareva un fantasma contro lo scuro groviglio di foglie. Incominciò ad esplorare. Anche la statua era strana. Una ragazza, leggermente drappeggiata, si chinava per versare acqua da una sconosciuta conchiglia di altri mari dentro a una vasca che era sotto di lei. Le uniche statue che avesse visto prima erano i rozzi dei delle isole, pietre con occhi che guardavano. Quella ragazza era bella e quasi reale. Il crepuscolo trasformava in dolci ombre i licheni grigi che le chiazzavano le braccia e la veste. Ora la fontana era asciutta, la conchiglia vuota, ma la vasca di pietra era ancora piena d'acqua e dei resti dei gigli acquatici dell'estate. Sotto le foglie annerite, riusciva appena a vedere, vagamente, gli agili movimenti dei pesci. Lasciò la fontana morta e camminò senza far rumore attraverso il prato verso la riva del fiume e i cigni. Lì, di fronte al fiume e nascosto alle finestre del palazzo da un muro di mattoni coperto di rampicanti, c'era un ritiro, un luogo delizioso pavimentato a mosaico e dotato di una panca ricurva di pietra le cui estremità erano riccamente scolpite con grappoli e cupidi. Qualcosa stava sulla panca. Si avvicinò per guardare. Era un telaio da ricamo che tratteneva un quadrato di lino metà lavorato con un grazioso disegno di fragole con le foglie e i fiori intrecciati. Lo prese in mano con curiosità e scoprì che il lino era inzuppato e segnato dalla pietra dove era
rimasto. Doveva essere lì da qualche tempo, dimenticato. Non poteva sapere che la regina Morgana stessa lo aveva lasciato cadere quando, in quel loro insolito luogo di convegno, le era stata portata la notizia della morte del suo amante. Da quel giorno non era più tornata in giardino. Mordred tornò a deporre quel ricamo sciupato sulla panca e attraversò nuovamente il prato fino al sentiero sotto le finestre. Mentre lo faceva, in una delle finestre si accese una luce e delle voci gli giunsero chiaramente. Una era alta, per dolore o rabbia, e gli era sconosciuta ma l'altra, che le rispondeva, era la voce di Morgause. Colse le parole «nave» e «Camelot» e a quel punto, senza nemmeno prendere il tempo di pensare, lasciò il sentiero e si fece accanto al muro sotto la finestra per ascoltare. Le finestre erano senza vetri e incassate nel muro a poche spanne sopra la sua testa. Poteva cogliere solo frammenti, quando le due donne parlavano più forte o si avvicinavano alla finestra. Morgana - perché la prima voce risultò essere la sua - pareva camminare avanti e indietro nella stanza, irrequieta e turbata. Stava parlando. «Se mi chiude via... se solo osa! Io, la sorella del Sommo Re! Io che ho l'unica colpa di esser stata fuorviata per solerzia verso il regno di mio fratello e amore verso il mio signore! Cosa potevo farci se Accolon era pazzo d'amore per me? Potevo impedire che sfidasse Artù? Tutto quel che ho fatto...» «Sì, sì, questo me lo hai già raccontato.» Morgause non era impietosita ma impaziente. «Risparmiami, ti prego! Ma sei riuscite a farlo credere a Urbgen?» «Non vuole parlare con me. Se potessi solo avvicinarlo...» Morgause tornò a interromperla e il divertimento velava il disprezzo. «Perché aspettare? Sei la regina di Rheged e continui a dire a tutti quelli che ti ascoltano che non meriti dal tuo signore se non gratitudine e un po' di indulgenza per la tua follia. E allora, perché nasconderti qui? Se fossi in te, sorella, metterei la mia veste più bella e la corona di regina di Rheged e andrei nella sala, con il seguito, quando c'è un banchetto, o un consiglio. Dovrebbero ascoltarti, allora. E se lui è ancora indeciso, non si arrischierà a insultare davanti a tutta la corte la sorella di Artù;» «Con Nimuë presente?» chiese Morgana con amarezza. «Nimuë?» Morgause pareva notevolmente sorpresa. «La puttana di Merlino? È ancora qui?» «Sì, è ancora qui. E adesso è anche una regina, sorella, e quindi bada alla tua lingua! Ha sposato Pelleas dopo che è morto il vecchio mago, non lo
sapevi? Ha mandato a sud la spada ma è rimasta qui e abita non so dove in città. Immagino che lui non te lo abbia detto: tiene chiusa la bocca e spera solo che tu non la incontri!» Una stridula risata mentre Morgana tornava ad allontanarsi dalla finestra. «Per Ecate, come li disprezzo! Hanno tutto il potere e nemmeno un po' di coraggio. Lui ha paura di lei... e di me... e anche di te, ne sono certa! Come un cagnone tra dei gatti che soffiano... Oh, be', forse hai ragione. Forse...» Il resto andò perduto. Mordred attese sebbene l'argomento avesse per lui poco interesse. L'esito dei malcomportamenti della regina e dell'ira del re non lo riguardava minimamente. Ma era incuriosito da quello che aveva sentito dire della reputazione di Morgana e dalla disinvolta menzione di grandi nomi che fino a quel momento erano stati solo la materia di favole da raccontare la sera accanto alla lampada. Dopo circa un minuto, quando riuscì nuovamente a distinguere le parole, udì in effetti qualcosa che gli fece drizzare le orecchie. Morgause stava parlando. «Quando Artù sarà di ritorno a casa, andrai a parlargli?» «Sì. Non ho scelta. Mi ha mandata a prendere e mi dicono che Urbgen sta dando disposizioni per la mia scorta.» «Guardia, vuoi dire?» «E se così fosse, perché dovresti sorridere proprio tu, Morgause? Come la chiami tu la tua scorta di soldati del re che ti accompagna a sud per ordine di Artù?» C'era disprezzo nella sua voce. Morgause reagì immediatamente. «È un po' diverso! Io non ho mai agito falsamente verso il mio signore...» «Ah! Non dopo che ti ha sposata, ad ogni modo!» «... né mi sono mostrata traditrice verso Artù...» «No?» La risata di Morgana era selvaggia. «Traditrice, be', no! Traditrice non è esattamente la parola, vero? E lui non era il tuo re a quell'epoca, questo te lo assicuro!» «Preferisco non capirti, sorella. Non puoi avere l'intenzione di insultarmi...» «Oh, via, Morgause! Ormai lo sanno tutti! E proprio qui, in questo castello! E va bene, è stato molto tempo fa. Ma certo non crederai che adesso ti ha mandata a chiamare in ricordo dei vecchi tempi. Non ti sarai mica messa in testa che ti voglia vicino a sé? Nemmeno ora che Merlino se ne è andato, Artù ti rivorrà a corte. Credimi, tutto quel che vuole sono i bambini
e una volta che li avrà... «Non toccherà i figli di Lot.» La voce di Morgause si era alzata per la prima volta, dura e tagliente. «Nemmeno lui oserebbe! E perché dovrebbe? Qualunque disaccordo ci sia stato in passato tra lui e Lot, Lot è morto combattendo sotto la bandiera del Drago e Artù onorerà i suoi figli di conseguenza. Deve sostenere le pretese di Gawain, non può fare altrimenti. Non oserà lasciare che si dica che ha voluto completare il massacro dei bambini.» Morgana era proprio accanto alla finestra. La sua voce, bassa e quasi senza fiato, era tuttavia molto chiara. «Completarlo? Non lo ha mai incominciato. Oh, non fare quella faccia. Anche questo lo sanno tutti. Non è stato Artù a far massacrare i bambini. No, e nemmeno Merlino. Non fingere con me, Morgause.» Vi fu una piccola pausa, poi Morgause parlò con la sua solita indifferenza. «Storie passate, come l'altra cosa. E da quanto hai detto proprio ora, se tutto quel che voleva erano i ragazzi, non aveva bisogno di mandare a prendere anche me, bastavano loro. E invece no, ricevo l'ordine di recarmi a Camelot. E chiamala come vuoi, la scorta che ho è una scorta reale... Vedrai, sorella, riprenderò il posto che mi spetta di diritto, e i miei figli con me.» «E il bastardo? Cosa immagini che ne sarà di lui? O dovrei dire cosa conti di fare di lui?» «Cosa vuoi dire?» La voce di Morgana si alzò in tono di improvviso trionfo. «Ah, sì, questa è un'altra faccenda, vero? Ho toccato il punto dolente. Lì c'è un pericolo e tu lo sai, Morgause. Puoi raccontare tutte le storie che vuoi ma basta guardarlo per immaginare la verità... così, l'assassinio è fuori discussione, e allora? Merlino aveva predetto cosa sarebbe successo se lo avessi lasciato vivere. Il massacro Può essere una storia passata, ma chi può dire cosa farà Artù adesso che finalmente lo ha trovato?» La frase uscì mentre da qualche parte una porta si apriva e chiudeva. Risuonarono dei passi e la voce di un servo con un qualche messaggio, poi le due regine si allontanarono. Qualcun altro, probabilmente il servo, si avvicinò alla finestra e si sporse. Mordred rimase schiacciato contro il muro, immerso nell'ombra profonda. Attese, perfettamente immobile, fino a che l'oblunga proiezione della finestra apparve vuota e luminosa sul prato, allora corse senza far rumore nella camera da letto che divideva con gli altri ragazzi.
Il suo letto - perché lì dormiva da solo - era il più vicino alla porta, separato dagli altri da un contrafforte di pietra. Al di là del contrafforte, stavano Gawain e Gareth. Entrambi erano già addormentati. Dall'estremità della stanza, Agravain disse qualcosa in un sussurro e Gaheris grugnì e si voltò nel letto. Mordred mormorò un «buona notte» e poi, senza svestirsi, si tirò addosso una coperta e si distese ad aspettare. Giacque rigido nel buio, cercando di domare i suoi pensieri che galoppavano e di calmare il suo respiro. Dunque, aveva visto giusto. Il caso che lo aveva portato in giardino ne aveva dato la prova. Non veniva portato a sud per onore, come principe, ma per uno scopo che non riusciva a immaginare ma che quasi sicuramente sarebbe stato pericoloso. Imprigionamento, forse, o persino - la stridula malizia della voce di Morgana lo faceva apparire possibile - la morte per mano di re Artù. La protezione di Morgause, per la quale fino alla notte nel laboratorio era stato grato, si sarebbe probabilmente dimostrata inutile. Sarebbe stata impotente a proteggerlo e, di fatto, era sembrata indifferente alla cosa. Girò la testa sul duro cuscino, in ascolto. Nessun rumore veniva dagli altri eccetto il sommesso e regolare respiro del sonno. Fuori, il castello era ancora sveglio. Le porte dovevano essere ancora aperte ma presto sarebbero state chiuse e custodite per la notte. L'indomani lo avrebbe visto, sotto scorta con la comitiva delle Orcadi, di ritorno alla nave diretto a Camelot e a quello che lo aspettava lì. La Orc poteva anche non ormeggiare più prima di entrare a Ynys Witrin dove l'alleato di Artù, il re Melwas, teneva l'isola per il re. Se doveva scappare, bisognava farlo ora. Non riusciva a rendersi chiaramente conto di quando aveva preso quella decisione. Pareva essere lì pronta, inevitabile, in attesa solo del momento. Si sedette cautamente, respingendo la coperta. Si accorse che gli tremavano le mani e ne provò rabbia. Era abituato a cavarsela da solo, sì, o no? In un certo senso, era stato solo tutta la vita e si sarebbe ancora arrangiato. Non c'erano legami da rompere. L'unico legame affettivo che avesse mai conosciuto era stato ingoiato dalle fiamme in una notte di tanti anni prima. Adesso era il lupo fuori dal branco; era Mordred e Mordred dipendeva da Mordred e da nessun altro uomo né - e finalmente era un sollievo sentirsi libero da una gratitudine un po' dubbia - né da nessun'altra donna. Scivolò fuori dal letto e in un minuto o due aveva riunito le sue cose. Un mantello di pesante lana ruggine, la cintura, la sua arma, il prezioso corno da acqua, la borsa di capretto con le monete risparmiate in quegli anni. Indossava i suoi abiti migliori: gli altri erano ancora a bordo dell'Orc ma
non ci si poteva fare niente. Ammucchiò le coperte in modo che il letto desse l'impressione che lui ci fosse dentro, uscì senza rumore dalla stanza e, con il cuore che batteva forte, trovo la strada nell'intrico di corridoi vuoti fino al cortile. Senza saperlo passò proprio davanti alla stanza dove il giovane Artù lo aveva concepito in sua sorella Morgause. Il cortile, sebbene sempre illuminato, era quasi vuoto a quell'ora della notte perché la cena era terminata e gli uomini coricati o altrimenti occupati a giocare ai dadi accanto ai fuochi. Ci sarebbero state le guardie e un cane o due ma Mordred pensò che ce l'avrebbe fatta a scivolare via nell'ombra in un momento in cui gli uomini erano distratti. Quella notte, però, per tardi che fosse, c'era ancora un certo movimento. Alcuni uomini in livrea erano riuniti in fondo ai gradini che scéndevano dalla porta principale del castello. Mordred ne riconobbe due, i primi ciambellani del re. Uno di loro, con un gesto, mandò di corsa un paio di servi con le torce alla porta principale. Questa era spalancata e gli uomini la oltrepassarono e rimasero fuori a illuminare l'accesso al ponte. Da una luce nelle stalle e dal suono di zoccoli e di voci umane, si capiva che si stavano sellando i cavalli. Mordred arretrò nell'ombra di una porta profondamente incassata. Il primo senso di smarrimento cedeva il posto alla speranza. Se degli ospiti lasciavano il castello così tardi, sarebbe riuscito, nel generale andirivieni, a scivolare fuori tra i loro servi senza farsi notare. Un movimento in cima alla gradinata del castello, segnalò l'arrivo del re. Uscì assieme ai suoi due figli, ancora tutti e tre vestiti come lo erano stati per la cena. Con loro c'era un dama. Mordred, che non aveva ancora visto la regina Morgana, si chiese per un momento se potesse essere lei ma la dama era vestita da viaggio e il suo atteggiamento non era per nulla quello di una moglie colpevole e incerta sul perdono del suo signore. Era giovane e pareva senza scorta salvo per un paio di servi armati, ma si comportava come se fosse abituata alla deferenza e, al ragazzo che stava osservando, sembrò che re Urbgen si chinasse con una sorta di rispetto mentre le parlava, come se volesse convincerla di qualcosa, forse di rimandare la partenza fino a un momento migliore, ma senza insistere troppo, pensò acutamente Mordred. Lei lo ringraziò con grazia e decisione, diede la mano ai due principi, poi scese rapidamente la scala mentre i cavalli venivano condotti fuori dalle scuderie. Passò molto vicino a Mordred che riuscì a scorgere per un attimo il suo
viso. Era giovane e bella ma con una forza e una durezza che, anche rilassata, erano raggelanti. Il velo che le copriva i capelli scuri era trattenuto da un sottile diadema d'oro. Una regina, sì. Ma più di quello. Mordred capì subito chi doveva essere. Nimuë, amante e successore di Merlino il mago del re, Nimuë, «l'altro Merlino», la strega che, gli era parso, malgrado tutto il loro disprezzo, entrambe le sorelle di Artù temevano. Urbgen l'aiutò personalmente a montare a cavallo. Lei tornò a parlargli, questa volta sorridendo, come se lo rassicurasse su qualcosa. Gli tese la mano e lui la baciò e si ritrasse. La dama guidò il cavallo verso il portone ma, prima di lanciarlo, lo trattenne e si fermò. Non vide Mordred che si era premuto contro il muro in modo da essere fuori vista e disse duramente al re: «Re Urbgen, questi due uomini partono con me, e nessun altro. Controllate che le porte vengano chiuse alle mie spalle e mettete delle guardie alle camere dei vostri ospiti. Sì, vedo che mi capite. Tenete d'occhio la predatrice e la sua prole. Ho visto in sogno che uno dei figli se ne era volato via. Se ci tenete all'amore di Artù, tenete chiusa la gabbia e fate in modo che arrivino senza fallo nelle mie mani.» Non diede a Urbgen il tempo di rispondere e il suo cavallo balzò avanti. I due servi la seguirono. Il re, seguendola con lo sguardo, si strappò da chissà quale spiacevole pensiero e diede seccamente alcuni ordini. I portatori di torce entrarono di corsa e le porte vennero chiuse. Le spranghe scesero con uno schianto. Le guardie, sotto l'occhio del loro signore, rimasero sull'attenti. Il re scambiò ancora alcune parole con l'ufficiale di servizio, poi rientrò direttamente nel castello assieme ai suoi figli. I ciambellani e i servi lo seguirono. Mordred non attese oltre. Indietreggiò nell'ombra e si diresse alla porta più vicina per raggiungere l'ala del palazzo riservata ai ragazzi. Quella porta dava su un corridoio in cui si aprivano laboratori o magazzini. A quell'ora non c'era in giro nessuno. Si infilò dentro e incominciò a correre. L'intenzione era di ritornare nella camera da letto prima che le guardie andassero a montarci la guardia ma mentre correva lungo quella fila di porte, alcune chiuse, altre solo accostate, altre ancora spalancate, si rese conto che poteva esserci un'altra via di fuga. Le finestre. Le stanze alla sua sinistra dovevano aprirsi dritto sopra il fiume, con finestre alte ma non tanto da impedire a un ragazzo allenato di saltar giù e, quanto al fiume, non sarebbe stata una traversata piacevole in quella stagione ma si poteva fare. Magari poteva anche avere un po' di fortuna e trovare il ponte senza
sorveglianza. Diede un'occhiata in giro e controllò la prima porta aperta. Inutile, la finestra aveva inferriate. La porta seguente era chiusa a chiave. La terza era chiusa ma senza chiavistello. La aprì ed entrò cautamente. Era una specie di magazzino ma l'odore era insolito ed era anche piena di strani rumori, di piccoli movimenti e bisbigli e ogni tanto un pigolio e un frullo. Certo. Gli uccelli della regina. Le gabbie venivano tenute lì. Diede loro appena un'occhiata. La finestra era senza sbarre ma stretta. Troppo stretta? Ci corse. Una delle gabbie era posata sul davanzale a cuneo. La afferrò con entrambe le mani per posarla a terra. Qualcosa sibilò come una vipera, soffiò e si avventò. Il ragazzo mollò la gabbia e saltò indietro con il dorso della mano lacerato. Se lo portò alla bocca e sentì il sapore salato del sangue. Dalla gabbia due fuochi verdi lo fissavano e un minaccioso, basso brontolio incominciò a salire per trasformarsi in un urlo. Il gatto selvatico. Stava rannicchiato proprio in fondo alla gabbia, spaventoso e spaventato. Le piccole orecchie appiattite erano tirate all'indietro, invisibili tra il pelo ritto. Tutti i denti erano in mostra. Una zampa era ancora alzata, armata e pronta. Mordred, furibondo per lo spavento e il dolore, reagì come gli avevano insegnato. Il suo coltello saltò fuori. Alla vista della lama, il gatto selvatico - istinto o consapevolezza, poco importa - balzò immediatamente, furiosamente e la zampa armata si allungò fuori dalle sbarre. Si scagliò ripetutamente, premendo contro le pareti della gabbia, pronto all'attacco. La zampa e il petto erano insanguinati ma non dal sangue del ragazzo: qualcuno aveva infilato un topo morto tra le sbarre; il gatto non ne aveva mangiato ma il sangue si era sparso, poi coagulato e la gabbia puzzava. Mordred, lentamente, abbassò il coltello. Sapeva - e quale contadino delle Orcadi non lo sapeva? - molte cose sui gatti selvatici e sapeva che questo era stato preso dopo che tutti gli altri della cucciolata erano stati uccisi. E adesso era qui - poco più di un cucciolo - così piccolo, così feroce, così coraggioso, ingabbiato e puzzolente per il piacere di una regina. E quale piacere? Non sarebbero mai riusciti a domarlo, lo sapeva. Lo avrebbero stuzzicato e fatto combattere, magari con dei cani che lui avrebbe accecato e ridotto a mal partito prima che lo uccidessero. Oppure avrebbe semplicemente rifiutato il cibo e sarebbe morto. Il topo non era stato toccato. La finestra era troppo stretta perché potesse passarci. Per un attimo rimase lì a succhiarsi il sangue dalla mano, sforzandosi di vincere la delu-
sione che rischiava di cambiarsi vergognosamente in paura. Poi, con uno sforzo, riprese il dominio di se stesso. Ci sarebbe stata un'altra occasione. La strada per Camelot era lunga. Una volta fuori dal castello, gli sarebbe piaciuto vedere chi riusciva a tenerlo prigioniero. Che solo ci provassero a fargli del male. Come il gatto, lui non era una bestia rassegnata che aspetta in gabbia di essere fatta fuori. Sapeva lottare. Il gatto avventò ancora la zampa ma non poteva raggiungerlo. Mordred si guardò attorno, vide un bastone con la punta di ferro del tipo che i contadini usavano per catturare le vipere e con quello sollevò la gabbia e la depose con lo sportello verso la finestra. La gabbia riempiva quasi tutto lo spazio. Spinse il bastone dentro al gancio e sollevò cautamente lo sportello di vimini. La carcassa del topo si sollevò assieme e il gatto tornò a colpire, furibondo, quel nuovo pericolo. Si trovò a colpire nell'aria. Per due lunghi minuti rimase perfettamente immobile senza altro movimento che il fremere della pelliccia e il contrarsi della coda, poi lentamente, puntando alla libertà come avrebbe puntato a una preda, strisciò fino al limite della gabbia, al limite dell'apertura, e guardò giù. Mordred non lo vide andare. Era lì e poi, un istante dopo, non c'era più. Il prigioniero se ne era andato nella libera notte. L'altro prigioniero tolse la gabbia dalla finestra che per lui era troppo piccola, la buttò a terra e rimise il bastone dove lo aveva trovato. *** C'era già una guardia alla porta della camera da letto. Mosse la sua arma ma poi, vedendo chi si avvicinava, ebbe un movimento imbarazzato e puntò di nuovo a terra la spada. Mordred, che lo aveva previsto, si era avvolto nel mantello e, sotto, stringeva a sé le sue cose e nascondeva anche la mano ferita. «Una guardia? Come mai, è successo qualcosa?» «Ordine del re, signore. Ordine di proteggervi...» «Ah. C'è un ordine del re di riferire tutti i nostri movimenti?» Mordred lasciò pesare un momento di silenzio mentre l'imbarazzo dell'uomo aumentava. Poi sorrise: «No, non ero con la regina Morgause. Domandate sempre agli ospiti del re dove trascorrono la notte?» La bocca dell'uomo si aprì lentamente. Mordred lesse tutto con facilità: sorpresa, divertimento, complicità. Ficcò nella borsa la mano sana e ne tirò fuori una moneta. Avevano parlato sottovoce ma abbassò ancora di più il
tono: «Non lo direte a nessuno?» «Certamente no, signore. Scusatemi, per piacere. Grazie signore. Buonanotte signore.» Mordred gli passò davanti e si introdusse silenziosamente nella camera da letto. Malgrado tutta la sua prudenza, trovò Gawain sveglio, sollevato su un gomito e nell'atto di prendere il suo pugnale. «Chi è?» «Mordred. Tieni la voce bassa. Va tutto bene.» «Dove sei stato? Credevo che tu fossi a letto addormentato.» Mordred non rispose. Ritirarsi nel silenzio era una sua abitudine. Aveva scoperto che se non si risponde a una domanda imbarazzante, è raro sentirsela riproporre. Non sapeva che quella scoperta, solitamente, la si fa più avanti nella vita e che certe nature più deboli non la fanno mai. Andò al suo letto e, una volta nascosto dal contrafforte, vi lasciò cadere il fagotto e sopra il mantello. Gawain non doveva accorgersi che era completamente vestito. «Mi era parso di sentire delle voci,» sussurrò Gawain. «Hanno messo una guardia alla nostra porta. Stavo parlando con lui.» «Oh.» Gawain, come Mordred aveva calcolato, non pareva particolarmente interessato. Probabilmente non si rendeva conto che era la prima volta che a Rheged si istituiva una guardia del genere. E probabilmente avrebbe anche supposto che Mordred era uscito per i suoi bisogni. Tornò a stendersi. «Deve essere stato quello a svegliarmi. Che ora è?» «Deve essere mezzanotte passata.» Mordred, avvolgendo un fazzoletto attorno alla mano ferita, disse sommessamente: «E dobbiamo partire presto, domani mattina. Adesso è meglio dormire. Buona notte.» Dopo un po', anche Mordred dormiva. A mezza lega di distanza, al limitare del grande bosco che veniva chiamato la Foresta Selvaggia, un giovane gatto selvatico si sistemava nel cavo di un enorme pino e incominciava a ripulirsi la pelliccia dall'odore della prigionia. 12 Al mattino fu chiaro che l'ammonimento di Nimuë» era stato trasmesso alla loro scorta. I soldati fecero in modo che la comitiva delle Orcadi restasse unita e, con il maggior tatto possibile, travestirono quella stretta sorveglianza da onore. Morgause la prese come tale e così i quattro principi
più giovani che cavalcavano tranquillamente chiacchierando gaiamente con le guardie e ridendo ma Mordred, con un buon cavallo sotto di sé e la brughiera del continente che gli si apriva davanti, fremeva e taceva. Raggiunsero fin troppo presto il porto. La prima cosa evidente fu che la Orc era sola accanto al molo. Il Drago del Mare, spiegò il capitano della scorta, aveva subito solo pochi danni dalla tempesta e quindi aveva continuato la sua rotta a sud; lui e la scorta armata sarebbero saliti con loro sull'Orc. Morgause, seccata ma con l'apprensione che le cresceva dentro e quindi senza il coraggio di rivelarlo, fu costretta ad accettare e tutti si imbarcarono. La nave era un po' troppo affollata per essere ancora comoda ma i venti si erano calmati e il percorso fuori dall'estuario dell'Ituna e poi verso sud lungo la costa di Rheged fu calmo e persino piacevole. I ragazzi passarono il tempo in coperta ad osservare il paesaggio collinoso che sfilava sotto i loro occhi. I gabbiani si tuffavano e gridavano sulla scia della nave. Una volta incrociarono una flottiglia di barche da pesca e un'altra videro, in una piccola baia della costa montuosa, alcuni uomini montati sui pony che guidavano un gregge («probabilmente bestie rubate» disse Agravain che pareva apprezzare più che criticare la cosa) ma, a parte questi, non c'erano altri segni di vita. Morgause non si mostrò. I marinai insegnarono ai ragazzi a fare i nodi e Gareth cercò di suonare un piccolo flauto che uno di loro si era fabbricato con una canna. Tutti si improvvisarono delle lenze ed ebbero qualche successo mangiando così dei buoni pasti di pesce fresco. I principi erano eccitati per l'avventura e per quella che ritenevano l'abbagliante prospettiva in serbo per loro. Persino Mordred, in qualche momento, riuscì a dimenticare la nube di paura. L'unica pecca era il silenzio della scorta. I ragazzi interrogavano i soldati - i principi con innocente curiosità, Mordred con prudente astuzia - ma gli uomini e i loro ufficiali erano poco comunicativi quanto lo era stato l'inviato del re. Non riuscirono a sapere nulla sugli ordini del Sommo Re o sui piani per il loro futuro. E così per tre giorni. Poi, con il capitano della nave che alzava uno sguardo preoccupato alle vele improvvisamente flosce, l'Orc entrò a Segontium, sulla costa del Galles, proprio di fronte all'isola di Mona. Era un posto molto più grande del piccolo porto di Rheged. Caer y n'a Von, o Segontium come si era chiamata ai tempi dei romani, era una grande guarnigione militare, recentemente ricostruita decuplicando la sua vecchia forza. La fortezza si trovava sulla collina rocciosa sopra la città e al di là si levavano altre colline che risalivano fino alle altezze sempre velate
dalle nubi di Y Wyddfa, la Montagna Nevosa. Dalla parte del mare, al di là dello stretto canale azzurro come zaffiro sotto il sole, c'erano i campi dorati e le magiche pietre di Mona, l'isola dei druidi. I ragazzi stavano lungo il parapetto della nave, attenti ed eccitati. Finalmente anche Morgause uscì dalla sua cabina. Era pallida e sofferente, anche dopo un viaggio tanto tranquillo e facile. («Perché è una strega, capite» disse Gareth orgogliosamente al capitano della scorta.) Quando il capitano le disse che dovevano aspettare nel porto che il vento cambiasse, gli rispose con sollievo che non avrebbe dormito a bordo e mandò il ciambellano a riservare delle stanze alla locanda del porto. Era un luogo ricco e comodo e offrì delle buone camere. La compagnia scese allegramente a terra. Si fermarono lì per quattro giorni. La regina rimase nelle sue stanze con le donne. I ragazzi avevano il permesso di esplorare la città o, sempre attentamente sorvegliati, di scendere alla riva a caccia di granchi e molluschi. La seconda volta che vi andarono, Mordred, come se fosse in preda alla noia, ritornò indietro. Anche se non lo disse a portata d'orecchio dei suoi fratelli, lasciò capire alle due guardie che la caccia ai granchi non offriva nessun divertimento a un ragazzo che solo pochi anni prima la faceva per vivere. Li lasciò a quel passatempo e ritornò in città. Poi, nascondendo la sua ansia, percorse con passo tranquillo il sentiero che saliva allontanandosi dalle case e portava oltre la fortezza verso le distanti alture di Y Wyddfa. L'aria era sorprendentemente limpida dopo il gelo della notte. Le pietre erano già calde. Si mise a sedere. Per chiunque lo avesse visto, avrebbe avuto l'aria di godersi il panorama e il sole. In realtà si guardava attentamente per studiare una possibilità di fuga. Sopra di lui, in lontananza, un ragazzo accudiva un gregge di pecore. Più in su, oltre i pendii di pascoli sassosi, c'era un bosco, l'inizio della foresta che saliva a rivestire i fianchi della Montagna Nevosa. Un varco tra gli alberi mostrava il passaggio della strada che portava ad est. Lì era la via. La strada doveva sicuramente unirsi al famoso Sarn Elen, il ponte che portava giù a Deva e nei regni dell'interno. Lì avrebbe potuto facilmente far perdere le sue tracce. Aveva con sé tutto il suo denaro e, con la scusa del gelo della notte, anche il mantello. Un sassolino rotolò giù nel sentiero. Si guardò attorno e vide, a solo una dozzina di passi di distanza, le due guardie che stavano lì ostentatamente tranquille a guardare in lontananza la spiaggia che si stendeva sotto la città.
Ma si capiva che erano sul chi vive e di tanto in tanto il loro sguardo puntava su di lui. Erano gli stessi due uomini che avevano accompagnato i principi sulla riva del mare. Ora, piccoli in distanza, riusciva a vedere i suoi fratelli, facilmente riconoscibili tra gli altri cacciatori di granchi sulla spiaggia. Cercò di vedere la loro scorta ma non ci riuscì. Gli uomini avevano lasciato gli altri al loro passatempo e lo avevano seguito silenziosamente su per la collina. Le guardie erano per lui solo. Nel petto e nella gola di Mordred si gonfiò un'emozione che il gatto selvatico chiuso nella gabbia avrebbe riconosciuto. Aveva voglia di gridare, di schizzar fuori, di correre. Di correre. Saltò in piedi. All'istante gli uomini si mossero con finta indifferenza e gli si avvicinarono. Erano giovani e robusti. Non sarebbe mai riuscito a distanziarli. Rimase fermo. «È ora di rientrare, giovane signore,» disse uno di loro con cordialità. «Direi che è quasi ora di cena.» «I vostri fratelli stanno rincasando,» aggiunse l'altro, indicando con la mano. «Vedete, signore, sono laggiù. Vogliamo scendere, adesso?» La faccia di Mordred era ferma come pietra. I suoi occhi non tradivano nulla dell'emozione che lo riempiva. Qualcosa che nessun animale selvatico - e pochi uomini - avrebbe capito, lo manteneva silenzioso e apparentemente indifferente. In due profondi e fermi respiri dominò la paura e con essa la tremenda delusione, impedendole di prorompere. Gli pareva quasi di sentirsela colar fuori dalle dita come sangue. Al suo posto venne il leggero tremito della tensione allentata e poi il vuoto, la calma del suo abituale controllo. Annuì rivolto agli uomini, disse qualcosa di distaccato e cortese e tornò verso la locanda camminando tra loro. Provò ancora il giorno dopo. I principi, stanchi della spiaggia e della città, desideravano visitare la fortezza sulla collina, ma la loro madre non ne voleva sapere. In effetti, il capitano della scorta disse semplicemente che nemmeno i principi delle Orcadi avrebbero avuto il permesso di varcare le porte. Il posto era fortificato ed era tenuto sempre in stato di allarme. «Per cosa?» domandò Gareth. L'uomo accennò verso il mare. «Picti, irlandesi, sassoni. Chiunque.» «Il re Maelgon è qui?»
«No.» «Qual è la torre di Macsen?» la domanda apparentemente innocua era di Mordred. «Quale torre?» domandò Agravain. «Quella di Macsen. Qualcuno ne ha parlato ieri.» Il qualcuno era stato una delle sue guardie che aveva notato come la posizione della torre fosse molto in alto sulla collina, poco sotto il bosco. «È lassù» disse il capitano. «Da qui non si può vederla, però, è una rovina.» «Chi era Macsen?» domandò Gareth. «Non vi insegnano niente alle Orcadi?» L'uomo era indulgente. «Era l'imperatore della Britannia, Magno Massimo, spagnolo di nascita...» «Certo che questo lo sappiamo,» interruppe Gawain. «Siamo imparentati con lui. Era imperatore di Roma ed è stata la sua spada che Merlino ha alzato per il Sommo Re: Caliburn, la spada del re di Britannia. Tutti lo sanno! Nostra madre discende da lui, attraverso re Uther.» «E allora, non dovremmo visitare la torre?» chiese Mordred. «Non è all'interno della fortezza e quindi potremmo certo andarci. Anche se è in rovina...» «Mi dispiace.» Il capitano scosse la testa. «Troppo lontano. Contro gli ordini.» «Ordini?» Gawain incominciava a fremere, ma Agravain parlò con durezza rivolgendosi a Mordred: «Comunque, perché dovresti andarci tu? Tu non sei parente di Macsen! Noi lo siamo! Noi siamo reali anche attraverso nostra madre.» «Allora se io sono un bastardo di Lothian voi potete considerarvi dei bastardi di Macsen,» ribatté Mordred che sentiva la paura e la tensione trasformarsi in furore e per una volta non aveva tenuto a bada la lingua. Era abbastanza sicuro. I gemelli, leali alla regola del silenzio su quel che riguardava la loro madre, non avrebbero mai ripetuto l'insulto a Morgause. I loro metodi erano più diretti. Dopo un attimo di pura sorpresa, si buttarono addosso a Mordred urlando di rabbia e le loro energie represse esplosero in una vera battaglia nel cortile della locanda. Dopo che furono separati e battuti per la rissa la regina era talmente irritata da quell'incidente che proibì ogni escursione fuori dalla locanda. Così nessuno andò alla torre di Macsen e i ragazzi dovettero accontentarsi di giocare a ossicini, raccontarsi storie e fare finti combattimenti; roba da bambini, disse Mordred, questa volta con aperto disprezzo e se ne tenne lontano, ancora fremente.
Il giorno dopo alla sera, quasi d'improvviso, il vento cambiò, tornando a soffiare forte da nord. Sotto l'occhio attento della scorta, si imbarcarono e l'Orc puntò rapidamente a sud con vento costante finché poté entrare nelle quiete acque del mare di Severn. L'acqua era come vetro. «Proprio adatto all'Isola di Vetro», disse il comandante. E in effetti l'Orc veleggiò dentro a un estuario liscio come uno specchio, con i remi in funzione per l'ultimo tratto fino al piccolo molo di Ynys Witrin, l'Isola di Vetro, quasi all'ombra delle mura del palazzo di Melwas, il suo re. *** Il palazzo di Melwas era poco più di una grande casa nella piatta prateria che circondava la più grande delle tre isole sorelle chiamate Ynys Witrin. Due delle isole erano colline basse e verdi che si innalzavano dolcemente dalle acque. La terza era Tor, un'alta collina a forma di cono, simmetrica come un manufatto e incoronata alla base da frutteti di meli dove volute di fumo annunciavano le casette del villaggio che era la capitale di Melwas. Torreggiava sopra la pianura solcata dalle acque come un grande faro. E questa era, in effetti, una delle sue funzioni: la torretta di un faro sorgeva proprio in cima a Tor, il punto di segnale più vicino a Camelot stesso. Da quella sommità, fu raccontato ai ragazzi, le sue mura e le torri scintillanti si potevano vedere, chiare e vicine, attraverso la vitrea distesa del Lago. La fortezza di re Melwas stava appena sotto la sommità di Tor. La si raggiungeva con un sentiero tortuoso, profondamente scavato nella ghiaia della collina. In inverno, raccontavano gli uomini, il fango rendeva impossibile avvicinarsi alla cima. Ma del resto, in inverno non c'erano combattimenti. Il re e i suoi se ne stavano comodamente nella residenza sul lago colmando le giornate con la caccia che, in quelle zone, era soprattutto agli uccelli di palude. Le paludi si estendevano verso sud con le loro acque scintillanti, rotte di tanto in tanto dalle isole di salici e dai canneti dove gli abitanti del territorio avevano costruito le loro abitazioni su palafitte. Re Melwas ricevette la compagnia con gentilezza. Era un uomo alto, con la barba bruna, il colorito acceso e la bocca piena, dalle labbra rosse. Li salutò con il rituale bacio del benvenuto e anche se questo fu un po' troppo prolungato, Morgause non trovò niente da ridire. Quando presentò i suoi figli il re li accolse calorosamente e ancor più calorosamente elogiò la donna che aveva messo al mondo una così bella tribù. Mordred, come sempre, venne presentato per ultimo. Se, durante i saluti formali, lo sguar-
do del re era tornato un po' troppo spesso al ragazzo alto che stava dietro gli altri principi, nessuno salvo il ragazzo stesso parve notarlo. Poi Melwas, con un'altra occhiata insistente, tornò a rivolgersi a Morgause con la notizia che un corriere del Sommo Re la stava aspettando. «Un corriere?» Morgause era tagliente. «A me, la sorella del Re? Vorrete dire, uno dei suoi cavalieri. Con una scorta per noi?» Invece, no. Il messaggero era soltanto uno dei corrieri reali e consegnò a Morgause la comunicazione del re brevemente e con poche cerimonie. Morgause e i suoi dovevano rimanere a Ynys Witrin fino al giorno seguente quando sarebbero partiti a cavallo, con una scorta mandata da Artù, per Camelot. Lì il re li avrebbe ricevuti nella Sala Rotonda. I ragazzi più giovani, eccitati e quasi incapaci di controllarsi, non notarono nulla di strano, ma Gawain e Mordred capirono che in Morgause lottavano l'ira e una crescente apprensione mentre interrogava seccamente l'uomo. «Non ha detto niente di più, signora,» ripeté il corriere. «Solo che desiderava la vostra presenza domani nella Sala Rotonda. Fino a quel momento dovete restare qui. Dama Nimuë, signora? No, non è ancora ritornata dal nord. È tutto quello che so.» Si inchinò e se ne andò. Gawain, perplesso e incline ad essere irato, fece per parlare ma sua madre lo zittì con un cenno e rimase per un momento a mordersi le labbra e pensare. Poi si voltò rapidamente verso Gabran. «Fate chiamare le mie donne. Devono tirar fuori i nostri abiti e preparare per me la veste bianca e il mantello scarlatto. Sì, proprio adesso! Credete che me ne voglia star qui questa notte e andare domani su suo ordine alla Sala Rotonda? Non sapete cosa vuol dire? È la camera del consiglio di Artù, dove vengono emessi i giudizi. Oh, sì, ho sentito tutte quelle storie, con la 'Sedia pericolosa' per i malfattori e quelli che hanno delle lamentele contro il Sommo Re!» «Ma che pericolo può esserci per voi? Non gli avete fatto niente di male,» disse rapidamente Gabran. «Certo che no!» sbottò Morgause. «Ed è per questo che non andrò lì come una supplicante o una malfattrice per essere ricevuta davanti al Consiglio da mio fratello! Ci andrò adesso, stanotte, finché è a cena nella sala con la regina e tutta la corte. Vedremo allora se intende negare il suo stato alla madre di» - si interruppe e, ovviamente cambiò la frase che voleva dire - «a sua sorella e ai figli di sua sorella.» «Signora, vi lasceranno andare?»
«Non sono una prigioniera. Come possono fermarmi? Farebbero vedere a tutti che mi maltrattano. E poi, le truppe del re non sono forse ritornate a Camelot?» «Sì, signora, ma re Melwas...» «Quando mi sarò vestita, potete chiedere a re Melwas di venire a trovarmi.» Gabran fece per avviarsi con una certa riluttanza. «Gabran.» Si fermò e si voltò. «Prendete con voi i ragazzi. Dite alle donne che li preparino. Con i loro abiti di corte. Provvederò a che Melwas ci dia cavalli e scorte.» Strinse le labbra. «Purché siamo sorvegliati, Artù non potrà fargliene carico. In ogni caso, il rischio è di Melwas e non nostro. Adesso andate. Non verrete con noi. Ci seguirete domani assieme agli altri.» Gabran esitò ma, quando colse il suo sguardo, si inchinò e uscì dalla stanza. Non era difficile immaginare che tipo di persuasione avrebbe usato con Melwas. Alla fine, ebbe quello che voleva. Nel breve tramonto autunnale, il piccolo gruppo attraversò a cavallo la passerella che portava a est attraverso il lago. Morgause cavalcava una bella giumenta grigia riccamente bardata in verde e scarlatto e animante di campanelli. Mordred, con sua grande sorpresa, ricevette uno splendido cavallo nero pari a quello destinato a Gawain. La scorta armata mandata da Melwas scalpitava dietro di loro sullo stretto ponte. Alle loro spalle il sole si trasformò in una fornace di rame fuso che morì lentamente sfumando in verde e porpora. C'era un brivido di freddo nell'aria, un tocco di gelo che veniva con le ombre azzurrine del tramonto. Gli zoccoli dei cavalli arrancarono sulla sponda di ghiaia e poi la strada si aprì davanti a loro, una pallida striscia che si spingeva attraverso il paesaggio paludoso di canne e ontani. Anitre e trampolieri si levarono in volo allo scalpitio e l'acqua si increspò come metallo fuso. Il cavallo di Mordred scosse la testa e la briglia tintinnò d'argento. Suo malgrado, si sentì il cuore pieno di eccitazione. Poi, improvvisamente, qualcuno indicò qualcosa con un'esclamazione. Davanti a loro, alla sommità di un pendio coperto dalla foresta, con i pinnacoli imbandierati che nascondevano gli ultimi bagliori del tramonto e fiammeggiavano nel cielo della sera come torce, si levavano le torri di Camelot.
13 Era una città in cima a una montagna. Caer Carnei aveva la vetta piatta e molto larga ma sorgeva vistosa quanto Tor al centro di quel paesaggio piatto o appena ondulato. I fianchi scoscesi erano solcati orizzontalmente come se un gigantesco aratro fosse stato condotto attorno alla montagna. Quei solchi erano trincee destinate a respingere gli attacchi. Sulla cresta di quella montagna difesa le mura della fortezza cingevano la sommità come la corona cinge la testa di un re. In due punti, a nord-est e sud-ovest, quella massiccia difesa era interrotta dalle porte. Il gruppo di Morgause si avvicinava da sud-ovest, verso l'ingresso chiamato Porta del Re. Attraversarono un piccolo fiume tortuoso, poi seguirono la strada che saliva ripida tra fitti alberi. Alla sommità, nell'angolo delle mura esterne di Camelot, c'era il massiccio portale doppio, ancora aperto ma vigilato. Si fermarono mentre il capitano della scorta cavalcava avanti per parlare con l'ufficiale di guardia. Poi i due uomini tornarono assieme da Morgause che stava aspettando. «Signora.» L'ufficiale le fece un cortese inchino. «Non eravate attesa fino a domani. Non ho ordini riguardo ai vostri accompagnatori. Se volete aspettare qui, manderò su un messaggio...» «Il re è nella sala?» «Signora, sì, è a cena.» «Allora, portatemi da lui.» «Signora, non posso. Se volete...» «Sapete chi sono?» La gelida domanda contava di intimidire. «Certamente, signora.» «Sono la sorella del Sommo Re figlia di Uther Pendragon. Devo essere tenuta qui fuori ad aspettare come una supplicante o un corriere?» Un velo di sudore apparve sulla fronte dell'uomo ma, apparentemente, non si lasciò scomporre. «Certo che no, signora, non fuori dalla porta. Prego, entrate. Stanno venendo i soldati a chiuderla. Ma temo che dovrete aspettare qui mentre mando un messaggero alla sala. Ho degli ordini.» «Benissimo. Non voglio rendervi la vita difficile. Il mio ciambellano andrà con lui.» Morgause parlava con fermezza, senza scomporsi, come se non avesse il minimo dubbio che si potesse disubbidire ai suoi ordini. Addolcì le parole con uno dei suoi graziosi sorrisi. Mordred si accorse che era nervosa. La sua giumenta, intuendo i sentimenti di chi la cavalcava, scalpitò e scosse la testa facendo tintinnare i finimenti dorati.
L'ufficiale, con manifesto sollievo, acconsentì e il ciambellano, dopo poche parole con la sua padrona, si allontanò tra due guardie. Il gruppo di Morgause oltrepassò il profondo arco fortificato della Porta del Re e si fermò appena dentro per aspettare. Alle loro spalle, la grande porta si chiuse. Le sbarre scesero fragorosamente in posizione. Dall'alto dei camminamenti sulle mura, veniva il rumore dei passi ritmati delle sentinelle. Abbastanza ironicamente, quel suono che avrebbe dovuto ricordare a Mordred il fatto che era sostanzialmente un prigioniero costretto ad affrontare una fato ignoto e incerto, non raggiunse la sua coscienza. Era troppo occupato a guardarsi attorno. Questo era Camelot. Dentro alla porta, un sentiero portava su verso le mura del palazzo. Ad intervalli, lungo quella strada, dei pali reggevano torce infilate in anelli per illuminare la via. A metà di una salita abbastanza ripida, la strada biforcava portando, a sinistra a una porta nelle mura dietro alle quali si scorgevano le cime di alberi ora spogli. Un altro giardino? Un'altra prigione creata per il piacere di una regina? A destra la strada girava attorno alla cinta verso un altro portone più grande che doveva dare accesso alla città. Al di sopra delle mura si vedevano tetti e torrette di case, negozi e laboratori raggruppati attorno alla piazza del mercato e, ancora più a nord dietro di essi, le caserme e le stalle. Le porte della città erano chiuse e non si vedeva nessuno all'infuori delle sentinelle. «Mordred!» Mordred, riscosso dai suoi pensieri, alzò gli occhi. Morgause gli faceva cenno. «Vieni qui, accanto a me.» Sospinse il cavallo e si portò alla sua destra. Gawain fece per mettersi alla sinistra ma lei lo respinse con un gesto. «Stai con gli altri.» Gawain che, dopo la rissa/nel cortile della locanda, si era mantenuto freddo con Mordred, fece una smorfia mentre indietreggiava ma non disse nulla. Nemmeno gli altri parlarono.. Qualcosa della tensione di Morgause si era comunicata persino a Gareth. La regina non disse altro e rimase dritta e immobile a fissare le orecchie del cavallo. Il cappuccio era gettato indietro e la sua faccia appariva pallida e inespressiva. Poi cambiò. Mordred, seguendo la direzione del suo sguardo, vide il ciambellano che ritornava di fretta con le due guardie e, a qualche distanza dietro di loro, solo, un uomo scendeva la strada. Dalla brusca reazione della guardia della porta, capì di chi doveva trat-
tarsi e anche che la sua venuta era del tutto inattesa. Contro ogni precedente, Artù il Sommo Re era uscito da solo per riceverli alla porta esterna della sua fortezza. Il re si fermò a qualche passo di distanza e disse brevemente alle guardie: «Fateli entrare». Nessuna cerimonia di benvenuto. Né baci, né strette di mano, né sorrisi. Stava sotto a una delle torce e la luce guizzava sulla sua faccia fredda e indifferente quanto quella di un giudice. Il ciambellano corse a fianco di Morgause ma lei lo respinse con un gesto. «Mordred. La tua mano, prego.» Non c'era tempo per la sorpresa. Non c'era tempo che per un'unica, schiacciante apprensione. Scivolò giù dal suo cavallo, gettò le redini a un servo ed aiutò la regina a scendere. Lei gli prese per un attimo il braccio come se volesse dire qualcosa, poi lo lasciò andare ma lo tenne vicino a sé. Gawain, sempre imbronciato, si spinse in avanti senza essere invitato e, questa volta, venne ignorato. I servi portarono via i cavalli. Artù non si era ancora mosso. Morgause, con i due ragazzi uno per parte e i tre più giovani dietro, andò verso il re. Mordred non avrebbe mai potuto dire cosa rese tanto impressionante quel primo incontro con il Sommo Re. Niente cerimonie, niente seguito, nessuna delle apparenze della maestà e del potere; l'uomo non era nemmeno armato. Stava lì da solo, freddo, silenzioso e imponente. Il ragazzo sgranò gli occhi. Aveva davanti a sé un uomo solitario, vestito di una veste bruna orlata di martora, rimpicciolito dagli edifici illuminati alle sue spalle, dagli alberi che fiancheggiavano la strada, dalle spade delle guardie armate. Ma di fatto, in quel gelido, risuonante, ombroso spazio, nessuno aveva occhi se non per quell'uomo. Morgause si abbassò su quel suolo gelato davanti a lui, non nella profonda riverenza d'obbligo davanti al Sommo Re ma inginocchiandosi. Alzò una mano, prese Mordred per un braccio e lo tirò giù, anche lui, in ginocchio. Mordred sentì un leggero tremito nella sua stretta. Gawain, con gli altri ragazzi, rimase in piedi. Artù non li aveva degnati nemmeno di un'occhiata. La sua attenzione era tutta per il ragazzo inginocchiato, il bastardo, suo figlio, portato ai suoi piedi come un supplicante e che stava lì, con la testa alta e gli occhi che giravano attorno come un animale selvatico che si domanda da che parte fuggire. Morgause stava parlando: «Mio signore Artù, fratello... potete immaginare quale gioia sia stata per
me e la mia famiglia quando, dopo tutti questi anni, ci è giunta la notizia che avremmo potuto ancora essere alla vostra presenza e visitare la vostra corte sul continente. Chi non ha sentito parlare degli splendori di Camelot e non si è estasiato al racconto delle vostre vittorie e della vostra grandezza come re di queste terre? Grandezza che, da quella prima grande battaglia a Luguvallium, io e il mio signore re Lot, avevamo predetta per voi...» Lanciò un'occhiata alla faccia impassibile di Artù. Si era volutamente avventurata su un terreno pericoloso. A Luguvallium Lot aveva cercato prima di tradire Artù, poi di rovesciarlo, ma era stato allora che lui aveva giaciuto con Morgause e aveva concepito Mordred. Mordred, che stava ad occhi bassi come se studiasse il disegno del gelo sul suolo davanti a sé, colse il momento di incertezza prima che Morgause tirasse un lungo respiro e riprendesse a parlare. «Forse tra noi... tra voi e Lot e persino tra voi e me, fratello mio, ci sono state cose che è meglio non rievocare. Ma Lot è stato ucciso al vostro servizio e da allora io ho vissuto sola, tranquillamente, in esilio ma senza lamentarmi, dedicandomi alla cura e all'educazione dei miei figli...» Una leggera enfasi a questo punto e un'altra rapida occhiata in su. «Ora, mio signore Artù, sono venuta obbedendo al vostro ordine e imploro la vostra clemenza verso noi tutti.» Ancora nessuna risposta da parte del re, né alcun cenno di benvenuto. La bella voce lieve continuava e le parole ricadevano come sassolini nel silenzio. Mordred, sempre a occhi bassi, sentì qualcosa forte come un tocco e li alzò improvvisamente per trovare quelli del re fissi su di sé. Li incontrò per la prima volta, occhi che erano al tempo stesso familiari eppure strani, carichi di un'espressione che gli fece scendere un brivido per tutto il corpo, non di paura ma come se qualcosa lo avesse colpito sotto al cuore lasciandolo senza fiato. Con quel tocco, la sua paura sparì. Improvvisamente e per la prima volta da quando Morgause aveva velato la logica con le minacce e le stregonerie, vide chiaramente quanto erano state sciocche le sue paure. Perché quell'uomo, il re, avrebbe dovuto disturbarsi a perseguitare il bastardo di un nemico morto da tanti anni? Era al di sopra di queste cose. Era assurdo. Per Mordred l'aria si schiarì all'improvviso come se una fetida nebbia carica di magie si fosse dissolta. Era lì nella favolosa città, nel centro dei regni del continente. Molto tempo fa aveva fatto piani in questo senso, ne aveva sognato, aveva tramato. Nella paura e nella sfiducia provocate da Morgause aveva poi cercato di sfuggirvi ma qui era stato portato, come qualcosa destinato al sacrificio
alla sua Dea dall'altare nero. No, non rimaneva nessun pensiero di fuga. Tutte le sue vecchie ambizioni, i sogni della sua infanzia, ritornavano cristallizzati. Questo era quello che voleva, e voleva esserne parte. Qualunque cosa ci volesse per conquistarsi un posto in questi regni del Re, lo avrebbe fatto, anche a costo... Morgause stava ancora parlando, con un'insolita nota di umiltà. Mordred, con la nuova fredda luce che gli illuminava il cervello, ascoltava e pensava: «Ogni parola che dice è una menzogna. No, non una menzogna, i fatti sono abbastanza veri, ma tutto quello che è, tutto quello che sta cercando di fare... è tutto falso. Come fa lui a sopportarla? Certo, non si lascerà trarre in inganno. Non questo re. Non Artù.» «... quindi vi prego di non volermene, fratello, se sono venuta adesso invece di attendere domani. Come potevo aspettare con le luci di Camelot che vedevo così vicino da oltre il lago? Dovevo venire e assicurarmi che nel vostro cuore non mi serbate malevolenza. E vedete, vi ho obbedito. Sono qui con tutti i ragazzi. Questo alla mia sinistra è Gawain, il primogenito delle Orcadi, mio figlio e vostro servo. E anche i suoi fratelli. E questo, alla mia destra... Questo è Mordred.» Alzò gli occhi. «Fratello, non sa niente. Niente. Sarà...» Finalmente, Artù si mosse. La fermò con un gesto, poi fece un passo avanti e tese una mano. Morgause, trattenendo il fiato, piombò nel silenzio e vi pose la sua. Il re la sollevò. Tra i ragazzi e i servi che assistevano alla scena dalla porta, vi fu un momento di sollievo. Erano stati ricevuti. Tutto sarebbe andato bene. Mordred, alzandosi in piedi, provò anche lui quell'allentarsi della tensione. Persino Gawain sorrideva e Mordred si accorse di rispondergli. Ma, invece del rituale bacio di benvenuto, l'abbraccio e le parole di saluto, il re si limitò a dire: «Ho qualcosa da dirvi che non può essere detto davanti a questi ragazzi.» Si rivolse a loro. «Siate i benvenuti. Adesso tornate alla porta e aspettate.» I ragazzi obbedirono. «I doni,» disse il ciambellano, «i doni, presto. Non tutto va bene, a quanto pare.» Afferrò la cassetta che un servo teneva e corse avanti per deporla ai piedi del re, poi si ritirò subito, sconcertato. Artù non diede nemmeno un'occhiata al tesoro. Stava parlando a Morgause e sebbene chi stava alla porta non potesse né udire quel che si diceva né vedére la sua faccia, si poteva notare come l'atteggiamento della regina si irrigidisse dapprima nella sfida, poi tornasse alla supplica e persino alla paura e come invece il re rimanesse di pietra e con la faccia di pietra. Solo
Mordred, con la sua nuova chiarezza dettata dall'intuizione, vide in lui dolore, e stanchezza. Vi fu un'interruzione. Da dietro la porta venne un suono che aumentò rapidamente di intensità. Zoccoli di cavallo che avanzavano al galoppo su per la strada. La voce di un uomo chiamò raucamente. Una delle guardie della porta disse sottovoce: «Il corriere di Glevum! Per tutti i tuoni, ha fatto in fretta! Deve portare notizie che scottano!» L'altolà, un altro grido, il cigolio delle porte che si aprivano. Un cavallo stanco attraversò l'arcata. L'odore era quello del sudore esausto. Una parola a fiato mozzo da parte del corriere e il cavallo continuò senza fermarsi, dritto verso il punto il cui il re stava con Morgause. Il cavaliere quasi cadde di sella e si mise in ginocchio. Il re pareva irato per l'interruzione ma il corriere parlò con furia e, dopo una pausa, Artù fece cenno alle guardie. Due di loro si fecero avanti e si misero ai due lati di Morgause. Poi il re si voltò, con un cenno al Corriere, e si avviò su per la strada seguito dall'uomo. Ai piedi della gradinata del palazzo si fermò. Per qualche minuto i due, re e corriere, rimasero a parlare ma dalla porta i ragazzi non potevano udire né vedere nulla. Poi, improvvisamente, il re si girò e gridò. In un attimo, parve che la gelida tensione della notte andasse a pezzi; da una calma imbarazzata il posto passò al fragore di qualcosa di simile a ordini di guerra. Un grande stallone grigio da battaglia fu portato da due mozzi di stalla che lo tenevano, scalpitante, per il morso. Servi accorsero con il mantello e la spada del re. La porta si spalancò. Artù era in sella. Lo stallone grigio nitrì e poi balzò in avanti sotto lo sperone, passò davanti ai ragazzi e uscì dalla porta con la velocità di una spada lanciata. Gli stallieri condussero via il cavallo esausto del corriere e il corriere stesso li seguì trascinandosi. Alla porta, tutto era movimento e ordini seccamente lanciati. Gli uomini d'arme di Melwas si ritrassero e i ragazzi, con il ciambellano e i servi della regina, si videro sospingere frettolosamente su per la strada verso il palazzo, oltre il punto in cui stava ancora Morgause, rigida tra le due guardie. Nel momento in cui raggiungevano la porta del palazzo, un gruppo di cavalieri armati ne irruppe fuori e scese come una fiumana giù per la collina al seguito del re. Il galoppo svanì. Ancora una volta le porte esterne si chiusero fragorosamente. Gli echi svanirono nel silenzio. Pareva di tornare indietro, con un fremito, a una specie di pace. I ragazzi, in attesa alla porta del palazzo con
i servi e le guardie, stretti tra loro, si domandavano cosa fare, confusi e con un principio di paura. Gareth piangeva. I gemelli borbottavano tra loro lanciando occhiate tutt'altro che amichevoli a Mordred. Evitando loro e il broncio sprezzante di Gawain, Mordred, più ancora di prima, si sentì isolato. I suoi pensieri si agitavano come uccelli in gabbia. Ora aveva tutto il tempo di sentirsi in ansia. Finalmente qualcuno - un omone rosso in faccia e di modi decisi - venne da loro. Parlò direttamente a Mordred. «Sono Cei, il siniscalco del re. Dovete venire con me.» «Io?» «Tutti.» Gawain spinse da parte Mordred con una gomitata, fece un passo avanti e parlò. Era asciutto fino all'arroganza. «Sono Gawain... Dove ci portate e cosa ne è stato di mia madre?» «Ordini del re,» disse brevemente Cei, ma in modo poco rassicurante. «Lei deve aspettare fino a quando il re ritorna.» Poi, parlò più gentilmente a Gareth. «Non abbiate paura. Non vi succederà niente. Lo avete sentito dire che siete i benvenuti.» «Dove è andato?» domandò Gareth. «Non aveva sentito?» chiese Cei. «Sembra che, dopo tutto, Merlino sia ancora vivo. Il corriere lo ha visto per la strada. Il re gli è andato incontro. E adesso, volete venire con me?» 14 I ragazzi erano rimasti solo per poco a Camelot prima che giungesse l'ordine di spostare la corte a Caerleon per Natale. Nel frattempo erano stati alloggiati lontano dagli altri ragazzi e giovani, sotto le cure speciali di Cei, che era fratellastro di Artù e a conoscenza di tutte le sue decisioni. Fu lui a fare in modo che nessuna delle voci che circolavano tra la gente di Camelot giungesse alle orecchie dei ragazzi. Fino a quando Artù in persona non avesse parlato con Mordred, Mordred non doveva sapere niente. Cei immaginava, e giustamente, che il re volesse consultare Merlino prima di decidere cosa si doveva fare del ragazzo, o della stessa Morgause. Non videro Morgause; era alloggiata da un'altra parte, non prigioniera, si disse loro, ma con il divieto di comunicare con chiunque fino al ritorno del re. Di fatto, il re non ritornava. La storia della sua cavalcata selvaggia per raggiungere il suo vecchio amico fu portata a una città avida di notizie.
Era vero che il mago Merlino era vivo. Un attacco della sua vecchia malattia, uno stato di coma simile alla morte, era stato scambiato per la morte vera e propria, ma lui si era ripreso ed era riuscito a uscire dalla tomba sigillata dove era stato lasciato per morto. Ora era andato a cavallo con il re a Caerleon e i Compagni di Artù - lo scelto gruppo di cavalieri che erano i suoi più fedeli amici - erano andati con loro. La corte li avrebbe raggiunti. Così, per il tempo che rimaneva da passare a Camelot prima del trasloco della corte nel Galles, i ragazzi furono tenuti occupati con esercizi che li stancavano a morte ma erano ugualmente di loro gusto. Vennero affidati immediatamente ai maestri d'armi e tutto l'addestramento che avevano avuto sulle isole venne commentato con un sarcasmo che nemmeno Gawain riteneva offensivo e corretto con un rigoroso piano di lavoro. Lunghe ore venivano anche trascorse a cavallo e in quel campo nessuno di loro osava sostenere che l'insegnamento ricevuto alle Orcadi fosse adeguato. I cavalli del Sommo Re erano molto diversi dai rozzi pony delle isole, proprio quanto gli uomini d'armi di Morgause lo erano dagli scelti compagni di Artù. Ma non era sempre lavoro. C'era anche gioco in abbondanza ma costituito interamente da giochi di guerra, da ore passate su carte geografiche disegnate sulla sabbia o modellate - e questa era una gran novità per i ragazzi - in bassorilievo nella creta. In quest'ultima attività eccellevano e tra tutti loro Mordred aveva la mano più ferma e l'occhio migliore. E c'era la caccia. In inverno l'uccellagione nelle paludi era varia ed eccitante ma c'era anche la battuta al cervo e al cinghiale, nel territorio ondulato a est o tra i pendii boscosi che si alzavano verso i bassopiani del sud. La corte lasciò Camelot nella prima settimana di dicembre e con essa i ragazzi delle Orcadi. Ma non la loro madre. Per ordine di Artù, Morgause fu portata a Amesbury dove venne alloggiata in convento. Era una prigionia solo nominale e dolce, ma pur sempre prigionia. Le sue stanze erano vigilate dalle guardie del re e le pie donne sostituivano le sue dame di compagnia. Amesbury, luogo natale di Ambrogio, apparteneva al Sommo Re ed eseguiva alla lettera i suoi ordini. Una volta venuta la primavera e aperte le strade, sarebbe stata portata a nord a Caer Eidyn dove la sua sorellastra regina Morgana era già rinchiusa. «Ma cosa ha fatto?» domandava furiosamente Gawain. «Sappiamo cosa ha fatto la regina Morgana ed è giusto che sia punita. Ma nostra madre? Perché? È arrivata alle Orcadi poco dopo che nostro padre è stato ucciso. Il
re deve saperlo - doveva essere la primavera dopo il matrimonio della regina Morgana con il re di Rheged. Anni fa! Da allora non è mai stata fuori dalle isole. Perché, adesso, la vuole imprigionare?» «Perché, proprio a quel matrimonio, ha cercato di assassinare Merlino.» La risposta veniva da Cei che, solo tra tutti i nobili, trascorreva assieme ai ragazzi il loro tempo libero. Lo guardarono sgranando gli occhi. «Ma è stato tanti anni fa!» gridò Gawain. «Io c'ero - lo so perché me lo ha raccontato lei - ma non me ne ricordo affatto. Ero molto piccolo. Perché chiederle conto adesso di quello che è successo allora?» «E cosa è successo?» Questa volta era Gaheris a parlare, rosso in faccia. «Lui dice che ha cercato di assassinare Merlino,» disse Agravain. «Be', si direbbe che non c'è riuscita. E allora?» «Come?» chiese Mordred con calma. «Con sistemi da donna. Da strega, se preferite.» Cei non si era lasciato commuovere dalle domande dei ragazzi più giovani. «È successo proprio alla festa nuziale. Merlino era lì, in rappresentanza del re. Lei gli ha drogato il vino ed ha fatto in modo che bevesse un veleno più micidiale ancora quando lei non era più lì e non poteva essere accusata. E così è stato. Merlino si è ripreso ma è rimasto con quella malattia che recentemente lo ha colpito ancora e lo ha fatto ritenere morto... e che, alla fine, lo ucciderà. Quando Artù l'ha mandata a chiamare assieme a voi, si credeva che Merlino fosse morto e nella sua tomba. L'ha mandata a chiamare perché rispondesse del suo assassinio.» «Non è vero!» gridò Gaheris. «E anche se lo fosse,» disse Gawain, freddamente questa volta e con quell'arroganza aggressiva che aveva adottato da quando erano arrivati a Camelot, «cosa conta di fare? Dov'è la legge che dice che una regina non può distruggere il suo nemico come meglio le pare?» «È proprio così,» disse Agravain. «Lei ci ha sempre detto che era suo nemico. E che altro modo aveva? Le donne non possono combattere.» «Doveva essere troppo forte per i suoi incantesimi,» disse Garetti. «Non hanno funzionato.» L'unica emozione nella sua voce era il rimpianto. Cei li stava osservando. «C'è stato un incantesimo, sicuramente, e più volte provato, ma alla fine si è trattato di un avvelenamento a freddo. Si sa che questo è vero.» Si affrettò a soggiungere: «Ma, non ha senso parlarne fino a quando non avrete visto il re. Cosa potete saperne di queste questioni? Nel vostro regno fuori dal mondo vi hanno insegnato a pensare a Mer-
lino, e forse anche al re, come se fossero vostri nemici.» Fece una pausa, guardandoli ancora. I ragazzi tacevano. «Sì, vedo che è stato così. Be', fino a quando il re non avrà parlato con Merlino e con la regina Morgause, non toccheremo più l'argomento. Può reputarsi fortunata che Merlino non sia morto. E, quanto a voi, dovete accontentarvi dell'assicurazione del re che non vi sarà fatto del male. Ci sono cose da sistemare, vecchi conti di cui voi non sapete nulla. Credetemi, il re è un uomo giusto e i consigli di Merlino sono saggi, e duri solamente quando è necessario.» Quando li lasciò, i ragazzi esplosero in una concitata conversazione fatta di congetture. A Mordred che li ascoltava, parve che fossero più infuriati per se stessi che per la loro madre. Era una questione di orgoglio. Nessuno di loro avrebbe voluto essere nuovamente sotto il dominio di Morgause. Quella nuova libertà, quel mondo di uomini e di uomini d'azione, piaceva a tutti e persino Gareth che alle Orcadi aveva corso il rischio di diventare effeminato, si stava indurendo e si trasformava in uno di loro. Lui, come gli altri, non vedeva alcun motivo perché un principe si fermasse davanti all'assassinio se questo conveniva ai suoi piani. Mordred non disse nulla e gli altri non trovarono strana la cosa. Dopo tutto, che diritti aveva il bastardo sulla regina? Ma Mordred non li udiva nemmeno. Era di nuovo nel buio, con il fumo e l'odore di pesce e i sussurri spaventati: «Merlino è morto. Facevano festa al palazzo, e poi» - e poi - «è venuta la notizia.» E le parole della regina nel laboratorio, con le pozioni e il profumo e l'indefinibile odore del male, e la sensazione della bocca di Morgause sulla sua. Si scosse per liberarsi dai ricordi. Dunque, Morgause aveva avvelenato il mago. Era andata a nord, nelle isole, sapendo di aver già sparso il seme della morte,. E perché no? Il vecchio le era stato nemico: ed era anche il suo, di Mordred. E ora il nemico era vivo e sarebbe stato a Caerleon per Natale assieme agli altri. *** Caerleon, Città di Legioni, era molto diversa da Camelot. I romani vi avevano costruito una robusta fortezza, sul fiume che chiamavano Isca Silurum; quella fortezza, strategicamente situata sulla curva del fiume vicino alla sua confluenza con un corso minore, era, stata restaurata prima da Ambrogio e poi ingrandita da Artù che l'aveva riportata alle sue dimensio-
ni originarie. Una città era cresciuta al suo esterno, con una piazza del mercato, una chiesa e un palazzo accanto al ponte romano che - rappezzato qua e là e con nuovi lampioni - attraversava il fiume. Il re, con buona parte della corte, viveva nel palazzo fuori dalla fortezza. Molti dei suoi cavalieri alloggiavano dentro al forte, come pure, all'inizio, i ragazzi delle Orcadi. Vivevano ancora appartati con alcuni servi di Artù che si occupavano di loro assieme alle persone portate dalle Orcadi. Gabran, con palese disagio personale, era stato costretto a rimanere con i ragazzi; naturalmente, non era stato nemmeno messo in discussione che potesse seguire Morgause a Amesbury. Gawain, ancora dolorante per il miscuglio di vergogna riguardo sua madre e di gelosia personale, non perdeva nessuna occasione per far capire all'uomo che non aveva più nessuna posizione. Gaheris lo imitava ma più apertamente, come era sua abitudine, aggiungendo insulti al disprezzo per l'amante di sua madre. Gli altri due, forse meno consapevoli delle divagazioni sessuali di Morgause, lo notavano appena, Mordred aveva altro per la testa. Ma i giorni passavano e non succedeva niente. Se Merlino, reduce dalla morte, stava veramente contando di spronare Artù alla vendetta su Morgause e la sua famiglia, non aveva fretta di farlo. Il vecchio, indebolito dagli eventi dell'estate e dell'autunno, rimaneva quasi sempre nelle sue stanze nella casa del re. Artù passava buona parte del tempo con lui ed era noto che Merlino aveva partecipato a una o due delle riunioni del concilio segreto, ma i ragazzi delle Orcadi non lo avevano mai visto. Si diceva che Merlino stesso avesse sconsigliato un suo ritorno pubblico a casa. Non c'era stato nessun annuncio, nessuna scena di pubblica gioia. Con il passare del tempo, la gente finì per accettare semplicemente la sua presenza come se la «morte» del cugino del re e suo principale consigliere e il lutto di tutto il paese fossero stati un altro e più elaborato esempio dell'abitudine del mago di svanire e riapparire a piacere. Avevano sempre saputo, dicevano saggiamente, che il grande mago non poteva morire. Se aveva deciso di cadere in un coma simile alla morte mentre il suo spirito visitava le dimore dei morti, allora non poteva essere tornato che più saggio e potente che mai. Ben presto sarebbe partito per la sua grotta nella montagna, la sacra Bryn Myrddin e lì sarebbe rimasto, forse a volte invisibile ma tuttavia presente e potente per quelli che avevano bisogno di lui. Nel frattempo, se Artù aveva già trovato il tempo per discutere dei ragazzi delle Orcadi - che Mordred fosse, tra loro, di gran lunga il più importante, nessuno lo sospettava - non se ne diceva nulla.
La verità era che Artù, per una volta insicuro sul suo terreno, stava procrastinando. Poi la sua mano fu forzata, del tutto inavvertitamente, dallo stesso Mordred. Fu la sera prima di Natale. Per tutto il giorno una tempesta di neve aveva impedito ai ragazzi di uscire a cavallo o di esercitarsi con le armi. Con i giorni di festa, sia di Natale che del compleanno del re, così vicini, nessuno si preoccupò di dar loro il solito addestramento e così tutti e cinque passarono una giornata oziosa nella grande stanza dove dormivano con alcuni servi. Mangiarono troppo, bevvero più di quanto fossero abituati a fare il forte metheglin del Galles, litigarono e, alla fine, la smisero per osservare una partita che andava avanti da qualche tempo a un tavolo all'altra estremità della stanza. Si era alla fine e una folla di spettatori osservava, consigliava, incoraggiava. I giocatori erano Gabran e uno degli uomini del posto che si chiamava Llyr. Era tardi e le lampade erano quasi consumate. Il fuoco riempiva la stanza di fumo. Una corrente fredda da una finestra portava dentro un turbinio di neve che si ammucchiava a terra. Il dado cadeva, i segnapunti tintinnavano. Il gioco era abbastanza pari, le pile di monete venivano spinte da un giocatore all'altro a seconda della piega della fortuna. Lentamente, le pile divennero manciate. C'era argento e anche lo scintillio dell'oro. Poco a poco gli osservatori si zittirono; niente più battute, niente più consigli dato il valore della posta in gioco. I ragazzi stavano lì, affascinati. Gawain, dimenticata la sua ostilità, scrutava attentamente da sopra la spalla di Gabran. I suoi fratelli erano eccitati quanto lui. La contesa, infatti, mostrava segni di trasformarsi in Orcadi contro il resto e, per una volta, persino Gaheris si trovò dalla parte di Gabran. Mordred, che personalmente non era un giocatore, stava dall'altra parte del tavolo, casualmente nel campo opposto, e guardava con indifferenza. Gabran lanciò. Un uno e un due. Il punteggio era stato modesto. Llyr, con un paio di cinque poté proclamare, esultante: «Partita! Partita! Questo pareggia le vostre due ultime vincite! Ancora una, la decisiva. E i dadi sono con me, amico, quindi sputatevi sulle mani e pregate i vostri dei stranieri.» Gabran era acceso dal bere ma ancora abbastanza sobrio e abbastanza elegante da non ubbidire a nessuna di quelle due esortazioni. Spinse avanti la puntata e disse dubbiosamente: «Credo di essere ripulito. Mi dispiace, ma dovremo considerare decisiva questa partita. Avete vinto e io me ne vado a letto.»
«Oh, via.» Llyr agitò i dadi tra le mani in modo tentatore. «Sta venendo il vostro turno. Forse la fortuna cambierà. Forza, fate un tentativo. Posso accettare la scommessa sulla parola. Non fermiamoci adesso.» «Ma sono davvero ripulito.» Gabran staccò dal gancio la sua borsa e ci frugò dentro. «Niente, visto? E dove li andrò a prendere se perdo?» Affondò le dita nella borsa e poi la rovesciò e la scosse sopra al tavolo. «Ecco. Niente.» Non cadde fuori nessuna moneta ma qualcos'altro rotolò sul tavolo e rimase ad ammiccare alla luce della lampada. Era un talismano, un amuleto di legno sbiancato come argento dal mare e inciso rozzamente con due occhi e una bocca. Nei buchi degli occhi erano conficcate due perle di fiume azzurre e la curva della bocca ghignante era riempita di creta rossa. Un talismano della dea delle Orcadi, di fattura rozza e infantile ma ugualmente, per un abitante delle Orcadi, un simbolo potente. Llyr lo tastò con un dito. «Perle, eh? Be', non potrebbe andar bene come posta? Se vi porta fortuna ve lo riprenderete assieme a un sacco di altra roba. Lanciate voi per primo?» I dadi vennero scossi e lanciati e rotolarono ai due lati dell'amuleto. Prima che potessero fermarsi vennero bruscamente disturbati. Mordred, improvvisamente freddo, si chinò in avanti, allungò una mano e prese l'oggetto. «Dove lo avete preso?» Gabran alzò gli occhi, sorpreso. «Non lo so. Ce l'ho da anni. Non mi ricordo dove l'ho raccolto. Forse il...» Si interruppe. La bocca gli rimase aperta a metà. Continuando a fissare Mordred, diventò lentamente bianco. Se lo avesse annunciato ad alta voce non avrebbe confessato più apertamente che ora si ricordava da dove veniva il talismano. «Cos'è?» chiese qualcuno. Nessuno gli rispose. Mordred era bianco quanto Gabran. «L'ho fatto io.» Parlava con voce piatta e chi non lo conosceva l'avrebbe giudicata priva di qualunque emozione. «L'ho fatto per mia madre. Lo portava sempre. Sempre.» I suoi occhi erano incatenati a quelli di Gabran. Non disse altro ma la frase si finì da sola in silenzio. Fino a quando è morta. Ed ora, proprio come se fosse stato confessato ad alta voce, sapeva come era morta. Chi l'aveva uccisa, chi aveva ordinato l'assassinio. Non seppe come il coltello gli fosse venuto tra le mani. Ora tutti gli ar-
gomenti sul diritto di una regina di uccidere chi voleva erano dimenticati. Ma un principe lo poteva e lo avrebbe fatto. Con una pedata spinse via l'asse del tavolo che andò a pezzi. Anche il coltello di Gabran era a portata di mano. Lo afferrò e fece per alzarlo. Gli altri, intorpiditi dal bere e convinti di assistere a una violenta lite sul gioco, reagirono troppo lentamente. Llyr protestava bonariamente: «Va bene, va bene. Prendetevelo se è vostro.» Un altro cercò di afferrare la mano del ragazzo che stringeva il coltello ma Mordred lo evitò e balzò verso Gabran, tenendo bassa l'arma per poi puntarla abilmente in su verso il cuore. Gabran, sobrio ora quanto lui, vide che la minaccia era vera e mortale e si avventò. Le lame si toccarono ma il colpo di Mordred andò a segno. Il coltello affondò sotto le costole e rimase lì. Il coltello di Gabran cadde rumorosamente. Le due mani andarono al manico che sporgeva sotto le costole. Si piegò in due, in avanti. Delle mani lo afferrarono e lo distesero. C'era pochissimo sangue. Ora il silenzio era completo nella stanza, rotto solo dal breve, esausto respiro dell'uomo ferito. Mordred lanciò sui presenti uno sguardo che avrebbe potuto essere quello di Artù in persona. «Se lo è meritato. Ha ucciso i miei genitori. Quel talismano era di mia madre. Lo avevo fatto per lei e lo portava sempre. Deve averlo preso quando li ha uccisi. Li ha bruciati.» Non c'era uno dei presenti che non avesse ucciso o visto uccidere ma, a quelle parole, vennero scambiate occhiate di disgusto. «Li ha bruciati?» ripeté Llyr. «Bruciati vivi nella loro casa. Io l'ho visto dopo.» «Ho visto anch'io.» Gawain venne al fianco di Mordred, guardando in basso. «Era orribile. Erano povera gente, e vecchi. Non avevano nulla. Se questo è vero, Gabran... Avete bruciato la casa di Mordred?» Gabran trasse un profondo respiro come se i suoi polmoni fossero rimasti a corto di aria. «Sì.» «Allora meriti di morire,» disse Gawain, spalla a spalla con Mordred. «Ma erano già morti,» sussurrò Gabran. «Come sono morti?» domandò Mordred. «Veleno.» La parola fece correre un brivido attraverso i presenti. Gli uomini se lo ripetevano tra loro, così il sussurro corse per l'aria come un sibilo. L'arma delle donne. L'arma della strega. Mordred, immobile, sentì Gawain che si irrigidiva accanto a lui. «Tu gli
hai dato il veleno?» «Sì, sì. Con i doni. Un regalo di vino.» Nessuno degli uomini del posto parlò. E nessuno di quelli delle Orcadi aveva bisogno di farlo. Mordred disse sommessamente, più un'affermazione che una domanda: «Da parte della regina.» Gabran disse, in un altro respiro rantolante: «Sì.» «Perché?» «Nel caso che la donna sapesse... immaginasse... qualcosa su di voi.» «Cosa su di me?» «Non lo so.» «Stai morendo, Gabran. Cosa su di me?» Gabran, il favorito della regina, il giocattolo della regina, disse la sua ultima menzogna per la regina. «Non lo so... lo giuro.» «E allora muori,» disse Mordred e tirò fuori il coltello. *** Lo portarono immediatamente dal Sommo Re. 15 Artù non stava facendo niente di più importante che scegliere un cagnolino da una cucciolata di sei. Un ragazzo dei canili li aveva portati lì, con la madre in ansiosa attesa. I sei cuccioli guaivano e si rotolavano assieme attorno ai piedi del re. La cagna, inquieta e preoccupata, correva continuamente a riprendere uno dei suoi figli per rimetterlo nel cesto ma, prima che ne avesse afferrato un altro, il primo era già venuto fuori per raggiungere gli altri sul pavimento. Il re rideva ma quando le guardie portarono dentro Mordred il riso sparì dalla sua faccia come se una luce fosse stata spenta. Parve sorpreso ma si riprese subito. «Cosa succede, Arrian?» L'uomo a cui si era rivolto disse con imbarazzo: «Assassinio, signore. Una coltellata, uno degli uomini delle Orcadi. È stato questo giovane. Io non ho visto bene, signore. Ci sono altri, fuori, che hanno visto. Volete che li faccia entrare, signore?» «Più tardi, forse. Prima parlerò con il ragazzo. Li manderò a chiamare quando li vorrò. Adesso, lasciateli andare.»
L'uomo salutò e si ritirò. Il ragazzo del canile incominciò a raccogliere i cuccioli. Uno di loro, bianco, lo eluse e squittendo come un topino arrabbiato tornò di corsa ai piedi del re. Teneva tra i denti un pezzo di stoffa e lo masticava furiosamente. Artù abbassò gli occhi mentre il ragazzo metteva via il cucciolo. «Sì. Questo. Si chiamerà anche lui Cabal. Grazie.» Il ragazzo uscì con il cesto e la cagna. Mordred rimase dove gli uomini lo avevano lasciato, appena dentro dalla porta. Sentì, di fuori, la guardia che riprendeva il suo posto. Il re si alzò dalla sedia accanto al fuoco e andò al grande tavolo coperto di carte e tavolette. Vi sedette dietro e indicò il pavimento davanti a sé, dall'altro lato del tavolo. Mordred si avanzò e rimase lì in piedi. Tremava e gli occorse tutta la sua forza di volontà per controllare quella reazione al suo primo omicidio, all'orribile ricordo della casupola incendiata e al contatto dell'amuleto lavato dal mare nella sua mano. Ora temeva il confronto con l'uomo che gli avevano insegnato a considerare un feroce nemico. Ormai era sparita la convinzione che il Sommo Re non si sarebbe occupato di uno come lui. Mordred gli aveva appena fornito un pretesto perché lo facesse. Non aveva alcun dubbio che, ora, sarebbe stato ucciso. Aveva provocato una rissa nella casa del re e, sebbene l'uomo che aveva ucciso fosse uno della corte delle Orcadi e fosse stato giustamente punito per un indegno assassinio, Mordred, persino come principe delle Orcadi, non poteva sperare di sfuggire al suo castigo. E sebbene Gawain lo avesse sostenuto, non lo avrebbe certo più fatto ora che la confessione di Gabran aveva coinvolto anche Morgause nell'assassinio. Niente di tutto questo apparve sulla faccia del ragazzo. Rimase lì, pallido e silenzioso, con le mani strette dietro la schiena dove il re non poteva vederne il tremito. Teneva gli occhi bassi e la bocca stretta. La sua faccia era scura e ostinata ma Artù conosceva gli uomini e vide il tremito rivelatore sotto gli occhi e il rapido alzarsi e abbassarsi del petto del ragazzo. Le prime parole del re non furono allarmanti. «E se tu mi dicessi cosa è successo?» Gli occhi di Mordred si alzarono per incontrare quelli del re che lo osservava ma non con l'espressione che aveva messo in ginocchio Morgause sulla strada di accesso a Camelot. Ebbe anzi la fuggevole ma forte impressione che la principale attenzione del re fosse su qualcosa di molto diverso dal recente delitto di Mordred. Questo gli diede coraggio e quasi subito si trovò a parlare, liberamente secondo lui ma senza accorgersi come le apparentemente distratte domande di Artù lo guidassero attraverso tutti i detta-
gli, non solo dell'uccisione di Gabran ma anche della sua storia personale fin dagli inizi. Troppo turbato per chiedersi come mai il re volesse ascoltarlo, il ragazzo raccontò tutto: la vita con Brude e Sula, l'incontro con Gawain, la convocazione della regina e le successive gentilezze, la corsa alla Baia delle Foche con Gabran, l'orribile scoperta della casa incendiata. Era la prima volta dalla morte di Sula e dalla fine della sua infanzia che si trovava a parlare, anzi a confidarsi, con qualcuno con cui era facile comunicare. Facile? Con il Sommo Re? Mordred non notò neppure l'assurdità: Continuò. Ora parlava dell'uccisione di Gabran. Ad un certo punto del racconto fece un passo avanti verso il bordo del tavolo e posò il talismano davanti al re. Artù lo raccolse e lo studiò con il volto inespressivo. Sulla sua mano scintillava un grande rubino inciso che faceva apparire quella patetica cosa il rozzo giocattolo che era. Tornò a deporlo. Finalmente Mordred giunse alla fine. Nel silenzio che seguì, le fiamme del grande camino schioccavano come bandiere al vento. Di nuovo le parole del re furono inaspettate. Parlò come se la sua domanda uscisse da un pensiero a lungo trattenuto e pareva una domanda del tutto irrilevante dato l'argomento sul tavolo. «Perché ti ha chiamato Mordred?» Con tutti i discorsi familiari dietro di sé, il ragazzo rispose quasi immediatamente, con una sicurezza che solo un'ora prima sarebbe parsa impensabile: «Vuol dire il ragazzo venuto dal mare. È da lì che mi hanno avuto, dopo che ero stato salvato dalla barca in cui voi avevate fatto mettere i bambini per annegarli.» «Io?» «Ho sentito dire, in seguito, che non eravate stato voi, signore. Non so qual è la verità ma così mi hanno detto fin dal principio.» «Naturalmente. Lei non poteva dirti che questo.» «Lei?» «Tua madre.» «Oh, no!» disse subito Mordred. «Sula non mi ha mai detto niente né sulla barca né sulle uccisioni. È stata la regina Morgause a dirmelo, molto dopo. Quanto al mio nome, metà dei ragazzi delle isole si chiamano Mordred, Medraut... Il mare là è dappertutto.» «Lo ho sentito dire. Ed è per questo che ho impiegato tanto tempo a localizzarti, pur sapendo dove era tua madre. No, non sto parlando di Sula. Voglio dire la tua vera madre, la donna che ti ha partorito.»
La voce di Mordred uscì strozzata. «Lo sapete? Mi stavate... Volete dire che mi stavate cercando? Sapete davvero chi è mia madre... chi veramente sono?» «Dovrei.» Le parole uscirono pesanti, come se fossero caricate di un significato, ma Artù parve mutar direzione e si limitò a soggiungere: «Tua madre è la mia sorellastra.» «La regina Morgause?» Il ragazzo, fulminato, rimase a bocca aperta. «Proprio lei.» Artù lasciò le cose a quel punto per un momento. Una cosa per volta. Mordred batté rapidamente le palpebre mentre il suo cervello incamerava quel fatto nuovo, ripensando al passato, pensando al futuro... Finalmente alzò gli occhi. La paura era scomparsa; il passato, anche quello recente, dimenticato. Dietro i suoi occhi c'era un bagliore che parlava di una eccitazione incontrollabile. «Adesso capisco! Qualcosa mi ha detto. Solo allusioni... allusioni che non potevo capire perché la verità non mi era mai passata per la mente. Suo figlio... davvero suo figlio!» Un profondo respiro. «Allora è per questo che mi ha cercato! Gawain è stato solo una scusa. Mi era parso strano che volesse allevare uno dei bastardi di suo marito, avuto da una ragazza della città. E persino dimostrarmi la sua benevolenza! E invece ero suo e bastardo solo perché ero nato prima del tempo. Adesso capisco. Erano sposati da soli otto mesi quando sono nato io. E re Lot ritornò da Linnuis e...» Un'improvvisa pausa completa. L'eccitata comprensione svanì come se un'imposta si fosse chiusa davanti ai suoi occhi. Altri pezzi stavano andando al loro posto. Disse, lentamente: «È stato re Lot a ordinare il massacro dei bambini? Perché il suo primogenito aveva un'origine dubbia? E mia madre mi ha salvato e mi ha mandato da Brude e Sula alle Orcadi?» «È stato re Lot a ordinare il massacro, sì.» «Per uccidere me?» «Sì. E per attribuirmene la colpa.» «E perché?» «Per paura della gente, degli altri genitori i cui bambini erano stati uccisi. Ed anche perché, sebbene alla fine abbia combattuto ai miei ordini, Lot è sempre stato mio nemico. E per altre ragioni ancora.» L'ultima frase uscì lentamente. Artù, ancora cauto sulla strada che portava verso il momento in cui la principale verità avrebbe potuto essere detta,
pareva voler dare alle sue parole un peso tale da indurre Mordred a porre lui la domanda. Ma Mordred non si lasciava manovrare. Era tutto preso dalla sua lunga ossessione. Fece un passo avanti, posò le due mani a piatto sul tavolo e disse, con intensità: «Sì, altre ragioni! Le conosco! Io ero il figlio maggiore ma dato che ero stato concepito fuori dal vincolo matrimoniale temeva che in avvenire qualcuno potesse mettere in dubbio la mia nascita e creare disordine nel regno! Era meglio liberarsi di me e avere un altro principe dal matrimonio, uno che potesse a tempo debito prendere il regno senza discussione!» «Mordred, corri troppo. Devi ascoltare.» Forse Mordred non si accorse che il re aveva parlato con meno sicurezza del solito. Che, anzi, se si poteva usare questa espressione per il grande condottiero, pareva imbarazzato. Ma Mordred non pensava ad ascoltare. Tutte le implicazioni di quello che aveva appreso negli ultimi minuti gli si riversavano addosso in una abbagliante nube ma portavano con sé nuova fiducia, una diminuzione di prudenza, la travolgente soddisfazione di essere almeno in grado di dire tutto e di dirlo all'uomo che poteva farlo diventare vero. Continuò, balbettando un poco: «Non sono dunque, stando ai fatti, l'erede di Dunpeldyr? O, se Tydwal tiene quella cittadella per Gawain, allora l'erede delle Orcadi? Signore, i due regni sono molto distanti ed è difficile per un uomo solo reggerli entrambi. Non sarebbe questo il momento di dividerli? Avete detto che non permetterete alla regina Morgause di farvi ritorno. Lasciate, allora, che ci ritorni io!» «Non mi hai capito,» disse il re. «Tu non hai diritto a nessuno dei due regni di Lot.» «Non ho diritto!» Avrebbe potuto essere lo stesso Artù giovane a pronunciare quella frase che scottava come un arco che si raddrizza dopo che la freccia è volata via. «Ma se voi stesso siete stato concepito fuori dal vincolo matrimoniale da Uther Pendragon con la dama che era ancora Duchessa di Cornovaglia e non poteva sposarlo prima che un mese fosse trascorso!» Le aveva appena pronunciate e già avrebbe voluto potersi ingoiare quelle parole. Il re non disse niente e la sua espressione non cambiò ma Mordred piombò nel silenzio e con il silenzio ritornò la paura. Due volte nella stessa sera aveva già perduto la pazienza, lui, Mordred, che per anni aveva lottato contro il suo temperamento per acquisire, come una corazza contro l'insicurezza della sua vita, il gelido guscio del controllo.
Balbettando, cercò di ritrattare. «Mio signore, mi dispiace. Non volevo insultarvi... e nemmeno insultare la vostra signora madre. Volevo dire soltanto... ci ho pensato per tanto tempo, ho meditato su tutti i modi possibili per avere legalmente un posto, un luogo da governare... so di poterlo fare. Lo si sa... E pensavo a voi e a come entravate in tutto questo. Certo che lo facevo. Tutti lo sanno... cioè... tutti dicono...» «Che sono tecnicamente un bastardo?» Stranamente, il re non pareva arrabbiato. Poco a poco il coraggio di Mordred ritornava. Premette il pugno sul tavolo, alla ricerca di un punto di appoggio. Disse, cautamente: «Sì, signore. Ho fatto molte domande sulla legge, sapete. La legge del continente. Volevo sapere e poi domandare a voi. Mio signore, se Gawain va a Dunpeldyr allora, in nome della Dea, vi assicuro che io sono più adatto di Gaheris o Agravain per governare le Orcadi! E chi non immagina quante complicazioni e disordini potrebbero esserci se i gemelli venissero nominati eredi?» Artù non rispose subito. Mordred, fatta la sua implorazione, dette le parole, ripiombò nel silenzio. Il re si riscosse dai suoi pensieri e parlò. «Ti ho ascoltato perché ero curioso di sapere che genere d'uomo saresti diventato da adulto, con la strana educazione che hai ricevuto, così simile alla mia.» Un leggero sorriso. «Come 'tutti dicono', anch'io sono stato concepito fuori dal matrimonio e poi nascosto per molti anni. Per me sono stati quattordici anni ma ero in una casa dove fin dall'inizio mi insegnarono ad essere un cavaliere. Tu hai avuto meno di quattro anni di insegnamento del genere, ma mi dicono che li hai messi bene a frutto. Entrerai in possesso di quello che è tuo, credimi, ma non come hai previsto o immaginato. Adesso ascoltami. E mettiti a sedere, per piacere.» Perplesso, il ragazzo prese uno sgabello e sedette. Il re, invece, si alzò. Incominciò a camminare avanti e indietro per la stanza e a parlare. «Prima di tutto, qualunque sia la legge, qualunque siano i precedenti, non si parla nemmeno che tu assuma il regno delle Orcadi. Quello sarà per Gawain. La mia intenzione è tenere Gawain e i suoi fratelli qui, tra i miei cavalieri in armi e poi, quando sarà venuto il momento, e se lui lo vorrà, lasciarlo tornare al suo regno delle isole per mia volontà. E, nel frattempo, Tydwal resterà a Dunpeldyr.» Smise di camminare e tornò a sedersi. «Non è un'ingiustizia, Mordred. Tu non puoi pretendere né al Lothian né alle Orcadi. Non sei figlio di Lot.» Lo ripeté con enfasi. «Re Lot di Lothian non era tuo padre.»
Una pausa. Le fiamme ruggirono nel camino. Fuori, nel corridoio, qualcuno chiamò ed ebbe risposta. Il ragazzo chiese, con voce piatta e neutra. «Sapete chi sono?» «Dovrei,» disse il re per la seconda volta. La comprensione fu istantanea. Il ragazzo si rizzò sullo sgabello. Questo portò i suoi occhi allo stesso livello di quelli del re. «Voi?» «Io» disse Artù, e attese. Ci vollero un attimo o due e poi non il nauseato disgusto che si era aspettato ma semplicemente la meraviglia e un lento adeguarsi ai nuovi fatti. «Con la regina Morgause? Ma questo... questo...» «È incesto, sì.» Non aggiunse altro. Nessuna scusa, nessuna protesta di ignoranza di quella parentela quando Morgause aveva sedotto il suo giovane fratellastro. Alla fine, il ragazzo disse solamente: «Capisco.» Fu la volta di Artù di essere sorpreso. Così chiuso nella sua consapevolezza del peccato, nel disgusto al ricordo di quella notte con Morgause che, da allora, era diventata per lui un simbolo di tutto quello che è male e sporco, non aveva tenuto conto della reazione di quel ragazzo dall'educazione contadina di fronte a un peccato tutt'altro che insolito nelle solitarie isole della sua patria. In quella patria, certo, non sarebbe stato considerato un vero peccato. La legge romana non si era estesa fino a lì e non si poteva pensare che la Dea di Mordred - che era anche la dea di Morgause - avesse istillato molto senso del peccato nei suoi seguaci. In effetti, Mordred era già completamente preso da altre considerazioni. «Così, questo significa che io sono... io sono...» «Sì,» disse Artù e osservò la meraviglia, e attraverso di essa l'eccitazione, accendersi in quegli occhi così simili ai suoi. Non affetto - come avrebbe potuto esserci? - ma l'insorgere di una potente e innata ambizione. E perché no? pensò re Artù. Ginevra non avrà figli da me. Questo ragazzo è due volte un Pendragon, e da tutto quello che mi hanno riferito, ne ha il carattere quanto più non si potrebbe. In questo momento si sente come mi sono sentito io quando Merlino mi ha detto la stessa cosa ed ha messo tra le mie mani la Spada di Britannia. Lasciamo che lo provi. Il resto, se gli dei lo vogliono, verrà. Alla profezia di Merlino secondo cui il ragazzo avrebbe causato la sua caduta e la sua morte, non pensò mai. Il momento era, per lui, un momento
di gioia intatta. Intatta anche, miracolosamente, grazie all'indifferenza di Mordred per quel lontano peccato. Perché, proprio in quella mancanza di reazione, scoprì di poterne parlare. «È stato dopo la battaglia a Luguvallium. La mia prima battaglia. Tua madre, Morgause, venne al nord per curare suo padre re Uther che era ammalato e, sebbene non lo sapessimo, morente. Allora non sapevo di essere anch'io figlio di Uther Pendragon. Credevo che Merlino fosse il mio padre e in effetti lo amavo come tale. Non avevo mai visto Morgause. Sarai in grado di immaginare quanto era bella a vent'anni... Andai nel suo letto quella notte. Solo in seguito Merlino mi disse che Uther Pendragon era mio padre ed io l'erede del Sommo Regno.» «Ma lei lo sapeva?» Rapido come sempre, Mordred si era attaccato alla cosa non detta. «Credo di sì. Ma nemmeno la mia ignoranza può cancellare la mia parte di colpa. Questo lo so. Nel fare quello che ho fatto ho recato torto a te, Mordred. Così il torto persiste.» «Come? Mi avete cercato e portato qui. Non avreste avuto bisogno di farlo. Perché lo avete fatto?» «Quando ho ordinato a Morgause di venire qui,» disse Artù, «la consideravo colpevole della morte di Merlino che era - che è - l'uomo migliore di questo regno e quello che mi è più caro. Lei è ugualmente colpevole. Merlino è vecchio prima del tempo e porta in sé il germe del veleno che lei gli ha dato. Sapeva di essere stato avvelenato da Morgause ma per riguardo ai suoi figli non me lo ha mai detto. Pensava che dovesse vivere, purché rimanesse inoffensiva e in esilio, per allevarli in vista del giorno in cui mi sarebbero serviti. Ho saputo del veleno solo quando giaceva, noi credevamo, morente e ne ha parlato nel delirio, di quello e dei ripetuti tentativi di Morgause di ucciderlo con veleno o stregonerie. Così, dopo la sua sepoltura l'ho mandata a chiamare perché rispondesse del suo delitto e anche perché consideravo giunto il momento di togliere i suoi figli alle sue cure e farmene carico io.» «Tutti e cinque. Questo ha sorpreso tutti. Avete detto di aver avuto delle informazioni, signore. Chi vi ha parlato di me?» Artù sorrise. «Avevo una spia nel vostro palazzo. L'uomo dell'orafo, Casso. Lui mi ha scritto.» «Lo schiavo? Sapeva scrivere? Non lo ha mai dato a vedere. È muto e pensavamo che non potesse comunicare in nessun modo.»
Il re annuì. «Ecco perché ha tanto valore. La gente parla liberamente davanti a uno schiavo, specialmente se è muto. È stato Merlino a insegnargli a scrivere. A volte penso che persino i suoi atti più insignificanti fossero dettati da preveggenza. Bene, Casso ha visto e ascoltato abbastanza mentre era nella casa di Morgause. Mi ha scritto che il 'Mordred' che si trovava a corte doveva essere quello giusto.» Mordred riandava con il pensiero. «Credo di averlo visto mandare un messaggio. C'era un mercantile ormeggiato alla banchina. Aveva scaricato legname. L'ho visto salire a bordo e qualcuno gli ha dato del denaro. Ho pensato che facesse dei lavori per conto suo e l'orafo non lo sapesse. È stato allora?» «È molto possibile.» La memoria gli portò altri ricordi: Morgause e il suo sorriso misterioso quando lui parlava di sua «madre»; la prova per vedere se la sua Vista era passata al figlio; e Sula. Sula doveva sapere che un giorno lo avrebbero portato via. Aveva paura. Sospettava, allora, quello che un giorno sarebbe potuto succedere? Chiese lui improvvisamente: «Davvero li ha fatti uccidere da Gabran?» «Se lo ha detto lui, sapendo che stava per morire, puoi esserne sicuro,» disse il re. «Per lei era una cosa da nulla, come far volare il suo falcone addosso a una lepre. Ha fatto assassinare la tua prima nutrice, Macha, a Dunpeldyr e ha spinto Lot ad uccidere il bambino di Macha che aveva preso il tuo posto nella culla reale. E, sebbene sia stato Lot a dare gli ordini, è stata Morgause a istigare il massacro dei bambini. Questo lo sappiamo per certo. C'era un testimone. Ci sono state molte uccisioni, Mordred, e nessuna pulita.» «Tante uccisioni per me. Ma perché?» L'unico indizio che gli era stato dato in tutti quegli anni, lo aveva dimenticato anche lui come Artù nell'eccitazione e nelle esaltanti promesse di quell'incontro. «Perché mi ha tenuto vivo? Perché darsi la pena di nascondermi per tanti anni?» «Per usarti come uno strumento, una pedina, quel che preferisci.» Se, in quel momento, il re si ricordò la profezia, non volle farla pesare al ragazzo. «Magari come ostaggio, nel caso io avessi scoperto che aveva assassinato Merlino. È stato solo quando si è sentita al sicuro che ti ha tirato fuori dal tuo nascondiglio, ed anche allora il travestimento che ha scelto per te, quello del bastardo di Lot, era sufficiente a nasconderti. Ma non posso immaginare più di questo sui suoi motivi. Non ho il suo genere di astuzia.» E soggiunse, in risposta a una specie di appello negli occhi del ragazzo:
«Non viene dal sangue che dividiamo con lei, Mordred. Ho ucciso molti uomini ma mai con i suoi modi o per i suoi motivi. La madre di Morgause era una ragazza bretone, una indovina, ho sentito dire. Non devi temere in te quegli oscuri poteri.» «Non li temo,» disse subito Mordred. «Non ho nessuna Vista, non magica, me lo ha detto lei. Una volta ha cercato di scoprire se l'avevo. Credo che avesse paura che io potessi 'vedere' cosa era successo ai miei genitori adottivi. Così mi ha portato giù con lei nella camera sotterranea dove ha una pozza magica e mi ha detto di guardare se ci scorgevo delle visioni.» «E che visioni c'erano?» «Nessuna. Ho visto un'anguilla nella pozza. Ma la regina ha detto che c'erano delle visioni e lei le aveva viste.» Artù sorrise. «Ti ho detto che sei più del mio sangue che del suo. Per me, l'acqua è solo acqua anche se ho visto il fuoco magico che Merlino può chiamare dall'aria ed anche altre meraviglie, ma erano tutte meraviglie della luce. Morgause ti ha mostrato qualche sua magia?» «No, signore. Mi ha portato nella camera dove faceva i suoi incantesimi e mescolava pozioni magiche...» «Vai avanti. Cosa c'è?» «Niente. Davvero niente. Solo qualcosa che è successo lì.» Volse lo sguardo verso il fuoco rivivendo i momenti nel laboratorio, la stretta, il bacio, le parole della regina. Soggiunse, lentamente, tra sé, come se lo scoprisse in quel momento: «E ha sempre saputo che ero suo figlio.» Artù, osservandolo, fece un'ipotesi che era certezza. L'ondata d'ira che lo invase lo scosse. Dominandola, disse con dolcezza: «Anche tu, Mordred?» «Non è stato niente,» disse di nuovo il ragazzo, in fretta, come per toglierlo di mezzo. «Davvero niente. Ma adesso so perché provavo quel che ho provato.» Una rapida occhiata di là del tavolo. «Oh, succede, lo sanno tutti che succede. Ma non così. Fratelli e sorelle, questa è una cosa... ma madre e figlio? Quello no, mai. O, almeno, non lo ho mai sentito dire. E lei lo sapeva, vero? Lo sapeva. Mi domando perché volesse...» Lasciò morire la frase e tacque guardandosi le mani che ora teneva tra le ginocchia. Non chiedeva una risposta. Lui e il re sapevano già la risposta. Non c'era emozione nella sua voce ma solo perplessità disgustata, come si può riservarla a un appetito perverso. Il rossore se ne era andato dalle sue guance ed appariva pallido e teso. Il re pensava, con crescente sollievo e gratitudine, che non ci sarebbe stato nessun legame da rompere. Le violente emozioni creano i loro legami
ma quel che rimaneva tra Morgause e Mordred si poteva sicuramente rompere lì e subito. «Non la metterò a morte. Merlino è vivo e non è affar mio punirla qui ed ora. Inoltre, capirai che non ti posso tenere accanto a me - qui nella mia corte dove tanta gente conosce la storia e sospetta che tu sia mio figlio - e mettere a morte tua madre. Così Morgause vive. Ma non verrà lasciata libera.» Fece una pausa appoggiandosi allo schienale del seggiolone e guardandolo con gentilezza. «Bene, Mordred, siamo qui, all'inizio di una nuova strada. Non possiamo vedere dove ci porterà. Ho promesso di essere giusto con te e lo voglio veramente. Resterai qui alla mia corte con gli altri principi delle Orcadi e tu, come loro, avrai posizione reale in quanto mio nipote. Se la gente immaginasse la tua parentela, ti accorgeresti di raccogliere più rispetto, non meno. Ma devi capire che, a causa di quello che è successo a Luguvallium e per la presenza della regina Ginevra, non posso chiamarti apertamente 'figlio'.» Mordred si guardò le mani. «E quando ne avrete degli altri dalla regina?» «Non li avrò. È sterile. Mordred, fermiamoci qui, per adesso. Il futuro verrà. Prendi quello che la vita ti offre nella mia casa. Tutti i principi delle Orcadi avranno gli onori riservati a degli orfani reali e tu... credo che, alla fine, ne avrai di più.» Vide qualcosa guizzare negli occhi del ragazzo. «Non parlo di regni, Mordred. Ma chissà, magari anche di quelli, se sarai sufficientemente mio figlio.» Improvvisamente, il contegno del ragazzo andò a pezzi. Incominciò a tremare. Nascose la faccia tra le mani. Disse, con voce soffocata: «Pensavo che sarei stato punito per Gabran. Ucciso, persino. E, adesso, tutto questo. Cosa succederà? Cosa succederà, signore?» «Riguardo a Gabran, nulla,» disse il re. «È da compatire ma, in un certo senso, la sua morte è stata giusta. E quanto a te, per il momento molto poco, eccetto che stanotte non andrai nella tua camera assieme ai tuoi fratelli. Avrai bisogno di un po' di tempo da solo, per accettare tutto quello che hai appena saputo. Nessuno se ne sorprenderà; penseranno solo che sei tenuto isolato per via della morte di Gabran.» «Gawain e gli altri, dovranno sapere?» «Parlerò a Gawain. Gli altri non hanno bisogno di sapere nulla di più se non che anche tu sei figlio di Morgause e il maggiore dei nipoti del Sommo Re. Questo sarà sufficiente a spiegare la tua posizione qui. Ma a Ga-
wain dirò la verità. Deve sapere che non sei un rivale per Lothian o le Orcadi.» Voltò la testa. «Ascolta, fuori c'è il cambio della guardia. Domani è la festa di Mitra e il Natale dei cristiani e per te, immagino, una qualche festa dell'inverno dei tuoi dèi stranieri delle Orcadi. Per noi tutti, un nuovo principio. Sii benvenuto qui, Mordred. Va', adesso, e se puoi vedi di dormire.» LIBRO SECONDO I figli della strega 1 Appena prima di Natale la neve cadde fitta e le strade rimasero bloccate. Passò quasi un mese prima che il servizio regolare dei corrieri reali potesse riprendere. Non che avesse molta importanza: c'era ben poco di importante da riferire. Nel pieno dell'inverno gli uomini - anche i più bellicosi - se ne stavano a casa accanto al fuoco e badavano ai bisogni delle loro famiglie. Anche i celti e i sassoni se ne stavano nei loro focolari e se, alla luce dei fuochi invernali, affilavano le loro armi, tutti sapevano che non ce ne sarebbe stato bisogno fino alla primavera. Per i ragazzi delle Orcadi, la vita a Caerleon, sebbene limitata dalle intemperie, era ugualmente interessante e piena abbastanza da scacciare il ricordo della loro isola che, in ogni caso, non era mai stata un luogo molto confortevole d'inverno. I terreni di esercizio attorno alla fortezza venivano ripuliti e il lavoro continuava quasi quotidianamente malgrado la neve e il ghiaccio. Si poteva già notare una differenza. I quattro figli di Lot - specialmente i gemelli - erano ancora selvatici al punto da essere violenti ma, con il migliorare delle loro capacità migliorava anche il senso della disciplina che portava con sé un certo orgoglio. Il quartetto tendeva ancora a dividersi spontaneamente in due coppie, i gemelli da una parte e Gawain con il giovane Gareth dall'altra, ma c'erano meno liti. La principale differenza la si poteva scorgere nel comportamento verso Mordred. Artù aveva doverosamente parlato con Gawain in una lunga conversazione che doveva aver contenuto, assieme alla verità sulla nascita di Mordred, anche qualche pesante avvertimento. Il comportamento di Gawain verso il fratellastro era palesemente cambiato. Era una mistura di riserbo e sollievo. C'era sollievo nella consapevolezza che il suo rango di figlio maggiore di Lot non sarebbe mai stato messo in discussione e che il suo
titolo nei confronti del regno delle Orcadi sarebbe stato sostenuto dal Sommo Re in persona. Dietro questo si poteva vedere qualcosa del suo precedente riserbo, forse un risentimento per il fatto che la posizione di Mordred come bastardo del Sommo Re lo ponesse più in alto della sua; ma questo si accompagnava a prudenza alimentata dalla consapevolezza di quello che il futuro poteva tenere in serbo. Era noto che la regina Ginevra era sterile e quindi Gawain sapeva perfettamente che c'era ogni possibilità che un giorno Mordred potesse essere presentato come erede di Artù. Artù stesso era stato concepito fuori dal vincolo matrimoniale e riconosciuto solo quando era ormai adulto. Poteva venire anche il turno di Mordred. Si diceva che il Sommo Re avesse anche altri bastardi, almeno due, ma non erano a corte e non parevano godere del suo favore come invece Mordred. La stessa regina Ginevra voleva bene al ragazzo e se lo teneva vicino. Così Gawain, l'unico dei figli di Lot che sapesse la verità, aspettava il suo momento e tornava gradualmente verso la cauta amicizia che un tempo lui e il ragazzo di poco maggiore avevano condiviso. Mordred notò il cambiamento, ne riconobbe e capì i motivi e accettò l'apertura dell'altro senza sorpresa. Quello che invece lo sorprese fu il mutato atteggiamento dei gemelli. Loro non sapevano niente delle origini di Mordred e credevano che Artù lo avesse accettato solo come bastardo di Lot e, per così dire, un mezzo parente della casata delle Orcadi. Ma l'uccisione di Gabran li aveva colpiti entrambi. Agravain perché un'uccisione, qualunque uccisione, era per lui prova di quella che chiamava «virilità». Gaheris perché per lui era quell'uccisione e basta, un atto completamente giustificato che li vendicava tutti. Sebbene esteriormente indifferente quanto il suo gemello ai rari momenti di tenerezza di sua madre, Gaheris aveva coltivato fin dall'infanzia un cuore sofferente e geloso. Ora Mordred aveva ucciso l'amante di sua madre e per questo era disposto a concedergli rispetto e ammirazione. Quanto a Gareth, l'atto di violenza aveva ispirato anche a lui rispetto. Durante gli ultimi mesi alle Orcadi, Gabran era diventato troppo sicuro di sé e troppo arrogante e così anche il figlio minore di Morgause provava verso di lui un amaro risentimento. Mordred, vendicando la donna che aveva chiamato «madre», aveva in un certo senso agito per tutti loro. Così tutti e cinque si misero a lavorare assieme e nel cameratismo dei campi di addestramento e della sala dei cavalieri aveva incominciato a crescere un inizio di lealtà verso il Sommo Re. Con il disgelo di febbraio giunsero notizie da Camelot. I ragazzi ne ebbero dalla loro madre che si trovava ancora ad Amesbury. Sarebbe stata
mandata a nord nel convento di Caer Eidyn subito dopo il ritorno della corte a Camelot e, prima che partisse, i suoi figli avrebbero avuto il permesso di vederla. Lo accettarono quasi con indifferenza. Forse Gaheris, per ironia, era l'unico tra loro che sentisse la mancanza della madre: proprio Gaheris, quello che lei aveva sempre ignorato. Sognava ancora di lei, fantasticava di liberarla e riportarla sul trono delle Orcadi, trionfante e grata a suo figlio. Ma con la luce del giorno i sogni svanivano: nemmeno per lei avrebbe abbandonato la nuova ed eccitante vita della corte del Sommo Re e la speranza di poter entrare un giorno nel circolo dei Compagni favoriti. Alla fine di aprile, quando la corte si fu nuovamente sistemata per l'estate a Camelot, il re mandò i ragazzi a salutare la loro madre. Si mormorava che lo avesse fatto contro il parere di Nimuë che era venuta dalla sua casa di Applegarth per salutare il re. Merlino non era più con la corte: dopo la sua ultima malattia aveva vissuto in isolamento e quando il re lasciò Caerleon il vecchio mago si ritirò in cima alla sua montagna nel Galles lasciando a Nimuë l'incarico di sostituirlo come principale consigliere del re. Ma, questa volta, il suo parere non fu tenuto in considerazione e i ragazzi vennero mandati ad Amesbury con una scorta sufficiente e comandata da Gei stesso assieme a Lamorak, uno dei cavalieri. Lungo il viaggio sostarono a Sarum, dove il comandante diede loro alloggio tenendo in gran conto i nipoti del Sommo Re, e il giorno seguente proseguirono a cavallo per Amesbury che si trova al limite della Grande Pianura. Era una splendida mattina e i figli di Lot erano di ottimo umore. Avevano dei buoni cavalli, erano regalmente equipaggiati e desiderosi senza riserve di vedere nuovamente Morgause e di esibirle il loro splendore. Ogni timore che potessero aver avuto di lei nel passato era stato messo da parte. Avevano la parola di Artù che non sarebbe stata messa a morte e, sebbene fosse prigioniera, il tipo di reclusione offerto da un convento non era poi tanto diverso (o almeno così pensavano i suoi figli nella loro giovanile ignoranza) dalla vita che aveva condotto a casa dove stava quasi sempre appartata tra le donne della sua corte. Le grandi dame, si dicevano tra loro, spesso cercavano di avere una vita libera; certo non comprendeva potere o decisione o dominio ma all'arroganza della gioventù questa pareva comunque una parte non riservata alle donne. Morgause aveva agito da regina per il suo defunto marito e il suo giovane figlio ed erede, ma un potere del genere poteva solo essere temporaneo ed ora (Gawain lo diceva aperta-
mente) non era più necessario. Non potevano nemmeno esserci più amanti; e questo, per Gawain e Gaheris, gli unici che vi avessero fatto veramente caso, non poteva essere che bene. Che il convento se la tenesse più a lungo possibile: nel benessere, certo, ma impedendole di interferire nella loro nuova vita o di coprirli di vergogna prendendosi degli amanti che di loro erano poco maggiori. Così, andavano allegramente. Gawain era già lontanissimo da lei in spirito e Gareth era preso soltanto dall'avventura del momento. Agravain pensava solo al suo cavallo e alla tunica nuova e alle armi che poteva esibire («davvero adatte a un principe, finalmente!») e a tutte le sue nuove prodezze che avrebbe potuto raccontare a Morgause. Gaheris si preparava con una specie di piacere colpevole all'incontro: questa volta, certo, dopo una così lunga assenza, si sarebbe mostrata felice di vedere i suoi figli, avrebbe dato e ricevuto carezze e parole affettuose, e sarebbe stata sola, senza nessun amante accanto alla poltrona a guardarli e parlar male di loro. Solo Mordred cavalcava appartato e in silenzio, ancora una volta fuori dal branco. Notò con un moto di soddisfazione l'attenzione, che era quasi deferenza, riservatagli da Lamorak, e l'attento occhio di Cei sempre su di lui. Le voci avevano preceduto la verità a corte e né il re né la regina avevano fatto alcun tentativo di smentirle. Si lasciava vedere che, tra tutti e cinque, Mordred era quello che contava di più. Era anche l'unico dei ragazzi che provasse una sorta di timore per il prossimo incontro. Non sapeva quanto fosse stato detto a Morgause ma certo doveva aver saputo della morte del suo amante. E quella morte era avvenuta per sua mano. Così andavano verso Amesbury in una bella mattinata estiva con la rugiada scintillante che sgocciolava dagli zoccoli dei loro cavalli ed incontrarono Morgause e la sua scorta che cavalcavano nei boschi. Era una cavalcata per fare esercizio, non per piacere. Questo fu chiaro fin dal primo istante. Sebbene la regina fosse riccamente vestita nel suo favorito tessuto color ambra con una corta mantella di pelliccia che la riparava dalle brezze di primavera, la sua cavalcatura era una giumenta qualunque e ai suoi lati cavalcavano uomini nell'uniforme delle truppe di Artù. Dalla mano dell'uomo alla sua destra pendeva una redine fissata a un anello nella briglia della giumenta. Una donna, semplicemente vestita e incappucciata, cavalcava in coda a pochi passi, fiancheggiata anche lei da un paio di soldati. Fu Gareth il primo a riconoscere sua madre nel piccolo gruppo lontano di cavalieri. La chiamò alzandosi sulla sella e agitando la mano. Poi Gahe-
ris spronò il suo cavallo e lo oltrepassò in corsa; e gli altri, come una carica di cavalleria, si lanciarono attraverso il bosco; nel frattempo si sollevavano risate, grida di caccia e clamore di saluti. Morgause ricevette quel precipitarsi di giovani cavalieri con sorridente piacere. A Gaheris, che per primo si fece accanto alla giumenta, diede la mano e porse la guancia al suo caloroso bacio. L'altra mano la tese verso Cei che la portò doverosamente alle labbra e poi, passandola a Gawain, si ritirò per lasciar posto ai ragazzi. Morgause si sporse in avanti tendendo le braccia verso i suoi figli, radiosa in volto. «Guardate, guidano il mio cavallo e quindi posso cavalcare senza mani! Mi avevano detto che potevo sperare di vedervi presto ma non vi aspettavamo ancora! Dovete aver avuto nostalgia di me, come io di voi... Gawain, Agravain, Gareth, miei cari, venite a baciare vostra madre che per tutto questo lungo inverno ha spasimato di vedervi... Su, su, adesso basta... Lasciami andare, Gaheris, lascia che vi guardi tutti. Oh, miei cari ragazzi, è tanto tempo...» Quello slittamento nel pathos passò inosservato. Ancora troppo eccitati, troppo pieni della loro nuova importanza, i giovani cavalieri caracollavano attorno a lei. La scena assunse la vivacità di una gita di piacere. «Guardate, madre, questo è uno stallone delle scuderie personali del Sommo Re!» «Guardate, signora, questa spada! E l'ho anche usata! Il maestro d'armi dice che prometto bene per la mia età.» «State bene, signora regina? Vi trattano bene?» La domanda era di Gaheris. «Diventerò uno dei Compagni,» intervenne Gawain, burberamente orgoglioso, «e se ci sarà da combattere la prossima estate, ha promesso che sarò lì.» «Sarete a Camelot per Pentecoste?» chiese Gareth. Mordred non aveva spronato avanti assieme agli altri. Lei non parve notarlo. Non aveva nemmeno guardato dalla sua parte, dove lui cavalcava tra Cei e Lamorak mentre la compagnia riprendeva la strada per Amesbury. Rideva con i suoi figli e chiacchierava allegramente e li lasciava gridare e vantarsi e faceva domande su Camelot e Caerleon ascoltando i loro elogi entusiastici con lusinghiera attenzione. Di tanto in tanto lanciava uno sguardo gentile o una parola incantevole a Lamorak, il cavaliere che le era più vicino, o persino agli uomini della scorta. Si poteva pensare che fosse preoccupata dal rapporto che sarebbe stato fatto a Artù. Il suo sguardo era
mite e dolce, le sue parole innocenti e ansiose solo dei progressi dei suoi figli e piene di materna gratitudine per quello che il Sommo Re e i suoi collaboratori facevano per loro. Quando parlò di Artù - e lo fece con Cei sopra le teste di Gareth e Gaheris - fu per lodare la sua generosità verso i suoi figli («i miei ragazzi orfani che, altrimenti, sarebbero stati privati di ogni protezione») e la grazia del re, come la definiva, nei suoi stessi confronti. Era chiaro che immaginava un ulteriore atto di grazia. Rivolse i suoi begli occhi su Cei e chiese con dolce umiltà: «Il re mio fratello vi ha dunque mandato perché mi riportiate a corte?» Quando Cei, arrossendo e distogliendo lo sguardo, le disse di no, non aprì bocca ma chinò la testa e portò furtivamente una mano agli occhi. Mordred, che cavalcava da quel lato e un po' più indietro, vide che non c'erano lacrime ma Gareth si spinse accanto e le posò una mano sul braccio. «Sarà presto, mia signora! Sarà presto, sicuramente! Appena di ritorno gli rivolgeremo una supplica! Per Pentecoste, sicuramente!» Lei non rispose. Ebbe un piccolo brivido, si strinse addosso il mantello e alzò gli occhi al cielo, poi, con uno sforzo palese, raddrizzò le spalle. «Guardate, si sta rannuvolando. Non tratteniamoci qui, torniamo a casa.» Il suo sorriso era coraggioso. «Oggi almeno, Amesbury cesserà di sembrarmi una prigione.» Quando arrivarono al villaggio di Amesbury, Cei, alla sua sinistra, era apparentemente impassibile, Lamorak la guardava con aperta ammirazione e i figli di Lot avevano dimenticato di aver desiderato di liberarsi di lei. L'incantesimo era stato nuovamente tessuto. Nimuë aveva avuto ragione. I legami così recentemente forgiati a Caerleon si stavano già assottigliando. I fratelli Orcadi avrebbero riportato a loro zio il Sommo Re una lealtà molto meno che perfetta. 2 Il portone del convento era aperto e il portiere li aspettava. Rimase attonito per la sorpresa quando vide la compagnia di Camelot e gridò per chiamare un giovane vestito di sacco, un novizio che stava sarchiando tra le lattughe di un orto accanto al muro. Il novizio si avvicinò di corsa e quando la comitiva entrò nel cortile l'abate in persona, un po' senza fiato ma con immutata dignità, apparve sulla soglia della sua casa e rimase in attesa in cima alla scalinata per riceverli.
Persino lì, sotto gli occhi dell'abate, l'incantesimo di Morgause non venne meno. Cei, che si dirigeva con automatica cortesia per aiutarla a scendere da cavallo, venne battuto da Lamorak, con Gawain e Gaheris a distanza ravvicinata. Morgause, con un sorriso ai suoi figli, scivolò giù con grazia tra le braccia di Lamorak e rimase per un attimo attaccata a lui lasciando intendere che la cavalcata e l'eccitazione dell'incontro avevano messo a prova le sue fragili forze. Poi ringraziò garbatamente il cavaliere e tornò a rivolgersi ai suoi figli. Avrebbe riposato un poco nelle sue stanze, disse, mentre l'abate Luke si occupava di loro. Più tardi, nutriti e cambiati d'abito, li avrebbe ricevuti. Così, dopo aver trasformato, davanti alla malcelata irritazione dell'abate, la sua condizione di prigioniera in quella di regina che concede udienze, si diresse verso la parte del convento riservata alle donne, appoggiandosi al braccio di una delle sue dame di compagnia e seguita, come se si fosse trattato di una scorta reale, dalle sue quattro guardie. Negli anni seguiti alla sua incoronazione, e soprattutto da quando Morgause era arrivata lì come sua prigioniera, il Sommo Re aveva inviato doni e denaro alla fondazione di Amesbury per cui quel luogo era più grande e meglio tenuto di quando il re vi era arrivato la prima volta a cavallo per far seppellire suo padre nella Danza dei Giganti. Dove, dietro la cappella, c'erano stati i campi, ora c'era un giardino circondato da mura, con l'orto e la vasca per i pesci, e al di là un secondo cortile era stato costruito per far sì che la parte riservata agli uomini fosse separata da quella delle donne. La casa era stata ingrandita e non era più necessario che l'abate cedesse le sue stanze quando c'erano ospiti reali: un'intera ala ben costruita per alloggiare i visitatori si affacciava a sud sul giardino. Fu lì che i ragazzi vennero scortati dai due giovani novizi incaricati di vegliare sul loro benessere. Il dormitorio degli ospiti era una stanza lunga e soleggiata con una mezza dozzina di letti e senza nulla dell'austerità conventuale. I letti erano nuovi e comodi, con la testata dipinta, il pavimento era di pietra, ben spazzolato e coperto di tappeti tessuti a colori vivaci, le candele di cera erano pronte nei candelieri d'argento. Mordred, guardando fuori dalle larghe finestre dove il sole splendeva caldo sul prato, la vasca dei pesci e i meli in fiore, pensò duramente che senza dubbio Morgause poteva prendersi tutti i privilegi che voleva e, per di più, suscitare gratitudine; doveva essere un'ospite molto gratificante. Anche il pasto era buono. I ragazzi vennero serviti nel piccolo refettorio annesso all'ala degli ospiti e poi poterono uscire nel territorio del convento
e fuori dalla cinta, nella città, che in realtà era poco più di un villaggio. La loro madre li avrebbe ricevuti dopo la preghiera serale. Cei non si fece vedere: era chiuso via con l'abate Luke. Ma Lamorak rimase con i ragazzi e cedendo alla loro richiesta li accompagnò a cavallo nella Grande Pianura a due miglia circa da Amesbury, dove si trovava il grande anello di pietre chiamato la Danza dei Giganti. «Dove il nostro antenato, il grande Ambrogio, è sepolto e nostro nonno Uther Pendragon sta accanto a lui,» disse Agravain a Mordred con una sfumatura della sua vecchia arroganza. Mordred non disse nulla ma colse la rapida occhiata di Gawain e sorrise tra sé. Dall'espressione di Lamorak capì che anche lui doveva sapere la verità sul «nipote» maggiore di Artù. Come si conveniva a degli ospiti di un convento, andarono al servizio serale. Con una certa sorpresa, Mordred si accorse che anche Morgause presenziava. Mentre Lamorak e i ragazzi si avvicinavano alla porta della cappella, le suore passarono due a due con passi lenti e occhi bassi. In fondo alla piccola processione c'era Morgause, vestita semplicemente di nero e con la faccia velata. Due donne l'accompagnavano: una era la dama di compagnia che era uscita a cavallo con lei, l'altra pareva più giovane, con il viso senza età delle persone estremamente stupide e il pallore di chi non ha salute. Per ultima veniva l'abbadessa, una donna fragile e dal viso dolce, con un'aria di gentile innocenza che non era forse la miglior qualità per chi doveva reggere una comunità del genere. Era stata posta a capo della parte femminile del convento dall'abate che non era uomo da sopportare dei rivali in autorità. Da quando Morgause era arrivata, l'abate aveva avuto occasione di rimpiangere la sua scelta: madre Mary non era la persona più adatta a controllare quella reale prigioniera. D'altra parte, dal suo arrivo il convento aveva prosperato e così, finché la regina delle Orcadi veniva ben custodita, l'abate Luke non vedeva la necessità di intervenire contro la regola troppo blanda dell'abbadessa. Lui stesso non era del tutto immune di fronte al lusinghiero rispetto che Morgause gli riservava e nemmeno al fragile fascino che esibiva in sua presenza e, inoltre, c'era sempre la possibilità che un giorno o l'altro venisse restaurata, se non nel suo regno, almeno a corte dove, dopo tutto, era la sorellastra del Sommo Re... Fu la più giovane delle dame di Morgause a portare il messaggio della regina poco dopo la fine del servizio religioso. I quattro principi più giovani dovevano cenare con la loro madre. Li avrebbe mandati a prendere più tardi. La regina avrebbe invece visto subito il principe Mordred. Attraverso le obiezioni e le domande che si scatenarono, Mordred incon-
trò lo sguardo di Gawain. Unico dei quattro, pareva più impietosito che risentito. «Be', buona fortuna,» disse e Mordred lo ringraziò, lisciandosi i capelli e cingendo la cintura mentre la donna aspettava accanto alla porta sgranando gli occhi pallidi nella faccia molle e ripetendo, come se riuscisse solo a parlare meccanicamente: «I giovani principi devono cenare con la Signora, ma adesso vedrà il principe Mordred da solo.» Mordred, allontanandosi, udì Gawain che diceva sottovoce a Gaheris: «Non fare lo sciocco, non è certo un privilegio. Non lo ha guardato nemmeno un attimo, stamattina, no? E dovresti sapere perché. Non ti sarai dimenticato di Gabran? Povero Mordred, non invidiarlo!» *** Seguì la donna attraverso il prato. I merli saltellavano sull'erba alla ricerca di vermi e da qualche parte, tra i meli, un tordo cantò. Il sole era ancora caldo e l'aria carica del profumo dei fiori di melo e delle primule che costeggiavano il sentiero. Ma Mordred non si accorgeva di nulla, completamente ripiegato in se stesso, centrato sul colloquio che lo aspettava, desiderando, ora, di non aver sollevato obiezioni quando il re gli aveva detto: «Io ho rifiutato di vederla ma tu sei suo figlio e credo che glielo debba, se non altro per cortesia. Non avrai più bisogno di tornarci. Ma questa volta, questa sola volta, devi. Le ho portato via il suo regno e i suoi figli; che almeno non si dica che l'ho fatto con brutalità.» E nella sua testa, sopra quella voce della memoria, altre due si sovrapponevano, quella del bambino Mordred, il figlio del pescatore, e quella di Mordred il principe, figlio del Sommo Re Artù e ormai adulto. Perché dovrei avere paura di lei? Non può fare niente. È prigioniera e indifesa. Era il principe a parlare, alto e coraggioso nella sua tunica orlata d'argento e nel nuovo mantello verde. È una strega diceva il figlio del pescatore. È prigioniera del Sommo Re e lui è mio padre. Mio padre, disse il principe. È mia madre e una strega. Non è più regina, non ha potere.
È una strega ed ha assassinato mia madre. Hai paura di lei? Il principe era sprezzante. Sì. Perché? Cosa può fare? Non può nemmeno lanciare sortilegi. Non qui. Adesso non sei solo con lei in una tomba sotterranea. Lo so. Non so perché. È una donna sola, una prigioniera, senza aiuto, e io ho paura. Sotto il portico del chiostro delle donne c'era una porta laterale aperta. La donna gli fece cenno e lui la seguì in un breve corridoio che terminava con un'altra porta. Adesso il cuore gli martellava e aveva le mani bagnate. Se le strinse ai fianchi, poi le allentò deliberatamente cercando di ritrovare la calma. Sono Mordred. Sono padrone di me stesso, non sono proprietà né sua né del Sommo Re. La ascolterò e poi me ne andrò. Non la rivedrò mai più. Qualunque cosa sia, qualunque cosa dica, non può avere importanza. Sono io il padrone di me stesso e farò quello che voglio. La donna aprì la porta senza bussare e si fece da parte per lasciarlo entrare. *** La stanza era grande ma fredda e scarsamente arredata. I muri erano di cannicciata intonacata e dipinta, il pavimento di pietra era spoglio di tappeti. Da un lato, una finestra si apriva nel porticato, senza vetri e esposta alla brezza serale. Di fronte, un'altra porta. Contro la parete della stanza c'erano un lungo tavolo e una panca di legno inciso e lucidato. A un'estremità del tavolo, l'unica sedia, a schienale alto ed elaboratamente lavorata ma senza cuscini. La fiancheggiavano un paio di sgabelli. Il tavolo era preparato per il pasto serale, con piatti e tazze di peltro e terracotta e persino di legno. Una parte del cervello di Mordred - la parte che stava freddamente osservando, malgrado le mani sudate e il cuore impazzito - notò con un guizzo di divertimento che i suoi fratellastri avrebbero avuto un pasto frugale anche secondo i metri monacali. Poi la porta si aperse e Morgause entrò nella stanza. Già una volta, la prima in cui il cencioso figlio del pescatore era stato portato, tra le luci e i colori del palazzo, di fronte alla regina, non aveva avuto occhi per altro. Adesso, in quella stanza spoglia e fredda, dimenticò tutto il resto per guardarla.
Indossava ancora la veste nera con cui era andata in cappella, senza alcun colore o ornamento eccetto una croce d'argento che le pendeva sul petto. I capelli erano semplicemente raccolti in due lunghe trecce. Non era più velata. Avanzò per fermarsi accanto alla sedia, posando una mano sopra l'alto schienale e lasciando pendere l'altra lungo le pieghe dell'abito. Aspettò lì, immobile e silenziosa, mentre la dama di compagnia richiudeva la porta d'ingresso e si allontanava con il suo passo deciso e pesante per andarsene dalla porta interna. Mentre questa si apriva e chiudeva dietro di lei, Mordred scorse delle sedie ammucchiate e un bagliore d'argento nascosto da un mucchio di stoffe colorate. Qualcuno parlò e venne zittito. Poi la porta si rinchiuse silenziosamente e fu solo con la regina. Rimase immobile, in attesa. Morgause girò compostamente la testa e lasciò prolungare il silenzio. La luce che entrava dalla finestra giocava tra le pieghe della veste e la croce che aveva sul petto brillò. Improvvisamente, come un tuffatore che riemerge all'aria, Mordred vide chiaramente due cose: le nocche bianche del pugno che stringeva il tessuto nero lungo il fianco e il movimento del seno sotto il respiro accelerato. Dunque, anche lei affrontava quel colloquio con equanimità non perfetta. Era tesa quanto lui. Vide anche dell'altro. I segni sui muri da cui gli arazzi erano stati tolti; le macchie più chiare sul pavimento dove erano stati i tappeti; i graffi dove sedie e tavoli e lampade - tutti arredi abbastanza leggeri da poter essere spostati dalle donne - erano stati trascinati fuori e ammucchiati nella stanza interna, assieme con i cuscini e gli argenti e tutti i lussi senza i quali Morgause si sarebbe considerata tristemente maltrattata. E questo era il punto. Anche quella volta, come era sua abitudine, Morgause aveva predisposto la scena. Il semplice abito nero, la stanza nuda e fredda, la mancanza di dame: la regina delle Orcadi si preoccupava del rapporto che sarebbe stato fatto ad Artù e di quello che i suoi figli avrebbero trovato. Dovevano vederla come una prigioniera sola e oppressa, tenuta in un triste confino. Era abbastanza. La paura di Mordred svanì. Fece un cortese inchino e poi rimase tranquillamente in attesa, impassibile di fronte al silenzio e allo sguardo intenso della regina. Morgause lasciò ricadere la mano dallo schienale e raccogliendo un lembo della pesante sottana, passò davanti alla sedia e sedette. Lisciò la stoffa sopra le ginocchia, incrociò le mani, bianche contro il nero, sollevò la testa e lo squadrò lentamente dalla testa ai piedi. Allora lui si accorse che portava il diadema reale di Lothian e delle Orcadi. Le perle e gli sme-
raldi incastonati nell'oro scintillavano nell'oro rosso dei suoi capelli. Quando fu chiaro che lui non era né intimorito né sconcertato, Morgause si decise a parlare. «Vieni più vicino. Qui, dove posso vederti. Hmm. Sì, molto bene. 'Principe Mordred' sei adesso, mi dicono. Uno degli ornamenti di Camelot e la speranza di una spada al servizio di Artù.» Lui tornò ad inchinarsi e non disse nulla. Morgause strinse le labbra. «Dunque, te lo ha detto?» Si, signora. «La verità? Ha osato?» La sua voce ormai era indurita dal disprezzo. «Sembrerebbe la verità. Nessuno inventa una storia del genere per vantarsene.» «Ah, dunque il giovane serpente sa sibilare. Pensavo che tu fossi un mio devoto servitore, Mordred, ragazzo pescatore.» «Lo ero, signora. Quello che vi devo ve lo devo. Ma quello che devo a lui è pure qualcosa che devo.» «Un attimo di lussuria.» Morgause parlava sprezzantemente. «Un ragazzo dopo la sua prima battaglia. Un cucciolo ineducato che è corso dalla prima donna che gli ha fatto un fischio.» Silenzio. La voce della regina si alzò impercettibilmente. «Te lo ha detto, questo?» Mordred parlò con fermezza ma con una voce quasi priva di espressione. «Mi ha detto che sono suo figlio, da lui concepito nell'ignoranza che foste la sua sorellastra, dopo la battaglia di Luguvallium. Che immediatamente dopo avete fatto in modo di sposare re Lot, che avrebbe dovuto essere lo sposo di vostra sorella, e con lui andaste come sua regina a Dunpeldyr, dove io sono nato. Che re Lot, saputo di quella nascita troppo vicina al matrimonio e temendo di nutrire quello che sospettava essere un bastardo del Sommo Re, cercò di farmi uccidere ed a tal fine annegò tutti i bambini di Dunpeldyr facendone ricadere la colpa sul re. Che voi, signora, lo avete aiutato in questo, sapendo che mi avevate già salvato mandandomi alle isole dove Brude e Sula erano stati pagati per occuparsi di me.» Morgause si sporse in avanti. Muoveva le mani sui braccioli della sedia, aggrappandosi. «E ti ha detto Artù che anche lui ti voleva morto? Te lo ha detto, Mordred?» «Non ne aveva bisogno. Lo avrei saputo comunque.» «Cosa vuoi dire?» chiese duramente. Mordred scrollò le spalle. «Sarebbe stato ragionevole. Allora, il Sommo
Re contava di avere dei figli dalla sua regina. Perché avrebbe dovuto conservare me, il bastardo della sua nemica?» Il suo sguardo la sfidò. «Non potete negare di essere sua nemica, e nemmeno che anche Lot lo fosse. Ed è per questo che mi avete salvato, vero? Mi domandavo come mai avevate pagato Brude perché mi mantenesse, proprio me, il bastardo di Lot. E facevo bene a meravigliarmi. Non avreste mai mantenuto il figlio che Lot aveva avuto da un'altra donna. C'era una certa Macha, vero? Una donna il cui bambino è stato messo nella mia culla per attirare la spada di Lot e permettere al vostro di salvarsi?» Per un momento, Morgause non rispose. Aveva perso il colore. Poi disse, ignorando quell'ultima affermazione: «Dunque, ti ho sottratto alla vendetta di Lot. Questo lo sai. Lo ammetti. Cosa hai detto un momento fa? Che quel che mi devi me lo devi. La vita, dunque. Due volte, Mordred, due volte.» Si sporse in avanti. La sua voce pulsava. «Mordred, sono tua madre. Non dimenticarlo. Ti ho portato. Per te ho sofferto...» Lo sguardo di Mordred la fermò. Ebbe un momento per rendersi conto che qualunque dei quattro figli di Lot sarebbe già stato in ginocchio davanti a lei. Ma non questo. Non il figlio di Artù. Mordred stava parlando, freddamente. «Mi avete dato la vita, sì, per la lussuria di un momento. Siete stata voi a dirlo, non io. Ma è stato proprio così, vero, signora? Una donna che fa un fischio a un ragazzo per portarselo a letto. Un ragazzo che lei sapeva essere il suo fratellastro ma sapeva anche che sarebbe stato un giorno il Sommo Re. Per questo non vi debbo nulla.» La regina si infiammò immediatamente e la sua voce divenne stridula per il furore: «Come osi, tu, un bastardo, tirato su in un tugurio da una coppia di lerci contadini, parlare a me...» Lui si mosse. Improvvisamente era irato quanto lei. Gli fiammeggiavano gli occhi. «Dicono, mi pare, che il sole feconda le uova dei rettili mentre giacciono nel fango.» Silenzio. Il respiro di Morgause era sibilante. Tornò a sedersi e si strinse le mani in grembo. Con la momentanea perdita di controllo di Mordred, aveva avuto il tempo di ritrovare il suo. Disse sommessamente: «Ti ricordi che una volta sei venuto con me in una grotta?» Ancora silenzio. Mordred si inumidì le labbra ma non disse nulla. Lei annuì. «Immaginavo che lo avessi dimenticato. E allora, lascia che te lo ricordi. Lascia che ti ricordi che devi temermi, Mordred, figlio mio. Io sono una strega. Te ne farò ricordare e anche di una maledizione che un
tempo ho lanciato su Merlino che, anche lui, si era permesso di giudicarmi per quella imprudente notte d'amore. Lui, come te, si era dimenticato che bisogna essere in due per concepire un bambino.» Mordred si riscosse. «Una notte d'amore e un parto non bastano a fare una madre, signora. Dovevo di più a Sula e a Brude. Ho detto che non vi dovevo niente. Non è vero. Vi devo la loro morte. La loro orribile morte. Voi li avete uccisi.» «Io? Che pazzia è questa?» «Vorreste negarlo? Lo avrei dovuto sospettare già da molto tempo. Ma adesso lo so. Gabran ha confessato prima di morire.» Questo la scosse. Con sorpresa, si rese conto che non sapeva. Il colore le tornò alle guance, poi sparì di nuovo. Era molto pallida. «Gabran morto?» «Sì.» «Come?» Mordred disse, con soddisfazione: «L'ho ucciso.» «Tu? Per questo?» «Per cosa altro? Se la cosa vi addolora... ma vedo che non è così. Se mai aveste chiesto di lui o lo aveste cercato, qualcuno ve lo avrebbe detto, avreste saputo. Non ve ne importa nemmeno della sua morte?» «Parli come uno sciocco. A cosa poteva servirmi Gabran, qui? Oh, era un buon amante, ma Artù non avrebbe mai permesso che venisse qui da me. È tutto quello che ti ha detto?» «È tutto quello che gli ho chiesto. Perché, ha commesso altri assassinii per vostro conto? È stato lui a somministrare il veleno a Merlino?» «Questo è stato anni fa. Dimmi, il vecchio mago ti ha parlato? È lui che ti ha posto sotto il suo incantesimo come uomo di Artù?» «Non gli ho mai parlato,» disse Mordred. «L'ho appena visto. È tornato nel Galles.» «E allora, tuo padre il Sommo Re» - le parole erano cariche di scherno «che è stato tanto aperto con te, ti ha detto cosa aveva predetto Merlino? Per te?» Mordred rispose, con la bocca asciutta: «Me lo avete detto voi. Lo ricordo. Ma tutto quello che mi avete detto erano menzogne. Avete detto che era mio nemico. Ed era una bugia. Erano tutte bugie! Nemmeno Merlino è mio nemico! Tutte queste storie di una predizione...» «È la verità. Chiedilo a lui. O al re. Meglio ancora, chiedi a te stesso, Mordred, perché ti avrei tenuto in vita. Sì, vedo che adesso capisci. Ti ho tenuto in vita perché così facendo alla fine avrei avuto la mia vendetta con-
tro Merlino e contro Artù che mi disprezzavano. Ascolta. Merlino ha previsto che tu porterai la rovina su Artù. Per timore di questo mi ha scacciata da corte ed ha avvelenato la mente di Artù contro di me. Così, da quel giorno, figlio mio, ho fatto del mio meglio per affrettare il più possibile quella rovina. Non solo crescendoti e tenendoti lontano dalla spada di Lot ma con una maledizione rinnovata ad ogni notte di luna nuova fin dal giorno in cui sono stata bandita dalla corte di mio padre per trascorrere la mia gioventù in quel lontano e freddo angolo di regno. Io, la figlia di Uther Pendragon, allevata nella ricchezza e nell'allegria...» La interruppe. Aveva sentito una sola cosa. «Io la rovina di Artù? Come?» All'intonazione di quella voce, la regina incominciò a sorridere. «Se lo sapessi, non te lo direi certo. Ma non lo so. E non lo sapeva nemmeno Merlino.» «Perché non mi ha distrutto, se questo è vero?» Morgause fece una smorfia. «Aveva degli scrupoli. Tu eri figlio del Sommo Re. Merlino era solito dire che gli dei operano secondo vie tutte loro.» Un altro silenzio, poi Mordred disse, lentamente: «Ma in questa storia, sembra che dovranno operare attraverso le mani degli uomini. Le mie. E posso dirvi fin d'ora, regina Morgause, che non porterò nessuna rovina sul re!» «Come puoi evitarlo dato che né tu, né io, né Merlino sappiamo come accadrà?» «Eccetto che accadrà attraverso di me. E pensate che aspetterò passivamente che avvenga? Troverò un modo!» Morgause era sprezzante. «Perché fingere di essere tanto leale? Mi stai raccontando che gli vuoi bene, così all'improvviso? Non c'è né amore né lealtà in te. Guarda come ti sei rivoltato contro di me, eppure dichiaravi di volermi servire per tutta la vita.» «Non si può costruire su una roccia marcia,» disse Mordred, furiosamente. Adesso Morgause sorrideva. «Se io sono marcia, tu sei il mio sangue, Mordred. Il mio sangue.» «E anche il suo!» «Un figlio ha il marchio di sua madre,» disse Morgause. «Non sempre! Gli altri sono vostri, e del loro re, basta guardarli. Ma nessuno riconoscerebbe in me un vostro figlio!»
«Ma sei simile a me. E loro no. Loro sono guerrieri audaci e forti con il cervello da bestie selvatiche. Tu sei un figlio di strega, Mordred, con la lingua insinuante e sottile e un dente da serpente e un cervello che lavora in silenzio. La mia lingua. Il mio morso. Il mio cervello.» Fece un lento e ricco sorriso. «Possono tenermi chiusa per tutta la vita ma adesso mio fratello Artù si è preso vicino un altro come me: un figlio con la mente di sua madre.» Mordred sentì il freddo scendergli per le ossa. Disse raucamente: «Questo non è vero. Non potrete arrivargli addosso attraverso di me. Io sono padrone di me stesso. Non gli farò mai del male.» Morgause si sporse in avanti e parlò sommessamente, seguitando a sorridere: «Mordred, ascoltami. Sei giovane e non conosci il mondo. Io odiavo Merlino ma lui non si sbagliava mai. Se Merlino ha visto scritto nelle stelle che tu sarai la rovina di Artù, come puoi sfuggire? Verrà un giorno, il giorno perverso del destino, in cui lutto avverrà come lui ha predetto. E anch'io ho visto qualcosa, non nel cielo ma nella pozza sotterranea.» «Cosa?» domandò con voce strozzata. Lei parlò ancora sommessamente. Adesso la sua faccia era colorita e le brillavano gli occhi. Era molto bella. «Ho visto una regina per te, Mordred, e un trono se avrai la forza di prenderlo. Una bella regina e un alto trono. E vedo un serpente che si avventa contro il tallone del re.» Le parole parvero echeggiare nella stanza, profonde come il suono di una campana. Mordred parò precipitosamente, cercando di dissipare la magia: «Se mi volgessi contro di lui, allora sarei davvero un serpente.» «Se lo sei,» convenne dolcemente Morgause, «è un ruolo che condividi con il più splendente degli angeli, proprio quello che era più vicino al suo signore.» «Di cosa state parlando?» «Oh, storie che raccontano le monache.» Molto arrabbiato, Mordred disse: «Raccontate delle sciocchezze per spaventarmi. Non sono Lot e nemmeno Gabran, uno strumento che assassina per vostro incarico. Avete detto che vi somiglio molto. Benissimo. Adesso che sono avvisato, saprò cosa fare. Nessun potere al mondo potrà spingermi ad alzare la mano per uccidere, a meno che non lo voglia, e quella morte, ve lo giuro, non la vorrò mai dare. Lo giuro in nome della Dea.» Nessuna eco. La magia se ne era andata. Le parole urlate caddero nell'aria morta. Rimase lì ansimante con le mani contratte sull'elsa della spada. «Belle parole,» disse Morgause con molta leggerezza e ridendo forte.
Lui si voltò e corse fuori dalla stanza sbattendo la porta contro quel riso che lo seguiva come una maledizione. 3 Una volta di ritorno a Camelot il ricordo di Amesbury e della sua regina imprigionata incominciò a sbiadire e i ragazzi si immersero nella vita e nell'animazione della capitale. Inizialmente, Gaheris si lamentò a gran voce con tutti quelli che erano disposti ad ascoltarlo sulle condizioni che facevano tanto soffrire sua madre. Mordred, che avrebbe potuto illuminarlo, non disse niente. Né fece cenno al suo colloquio con la regina. I ragazzi più giovani lo sondavano di tanto in tanto ma, visto che non trovavano che silenzio, presto smisero e persero l'interesse. Gawain, che doveva aver immaginato il tenore della conversazione, non voleva forse rischiare un rifiuto e così non mostrò curiosità e non seppe nulla. Artù chiese a Mordred come era andata e poi, accettando le parole di suo figlio, «Abbastanza bene, signore, ma non abbastanza da farmi desiderare un altro incontro», si limitò ad annuire ed abbandonò l'argomento. Si era notato che il re era arrabbiato o impaziente quando si menzionavano le sue sorelle e così si evitava di farlo e, con il tempo, vennero quasi dimenticate. La regina Morgause non venne mandata a nord a raggiungere sua sorella Morgana. Fu quest'ultima, infatti, a scendere a sud. Quando re Urbgen, dopo un lungo e severo colloquio con il Sommo Re, l'aveva finalmente isolata e affidata alla giurisdizione del re, la regina Morgana era stata trattenuta per qualche tempo a Caer Eidyn ma alla fine aveva strappato al fratello il permesso di scendere a sud verso il suo castello - un castello che Artù stesso le aveva offerto in giorni più felici - tra le colline a nord di Caerleon. Una volta sistemata lì, con una guardia di soldati di Artù e quelle tra le sue dame che avevano accettato di rimanere in cattività con lei, si organizzò una specie di corte reale e si dedicò (così dicevano le voci e, una volta tanto, le voci avevano ragione) a tessere piccoli complotti carichi di odio contro suo fratello e suo marito, con la stessa cura e entusiasmo con cui una chioccia cova le sue uova. Di tanto in tanto, attraverso i corrieri reali, non mancava di assediare il re chiedendo vari favori. Una domanda ripetuta era che si permettesse «alla sua cara sorella» di raggiungerla a Castell Aur. Era noto che le due regali signore non si amavano affatto e Artù, quando si decise a pensarci sopra,
sospettò che il desiderio di Morgana fosse solo quello di unire le sue forze a quelle di Morgause e raddoppiare così il potere di quel che entrambe possedevano di magia. Qui le voci parlarono di nuovo, in un sussurro: si diceva che la regina Morgana superasse di gran lunga Morgause in potere e che non lo usasse mai a fin di bene. Così le richieste di Morgana vennero trascurate perché il re, come qualunque uomo tormentato dall'insistenza di una donna, tendeva a chiudere le orecchie e guardare dall'altra parte. Si limitò a riferire la richiesta al suo principale consigliere ed ebbe il buon senso di lasciare che fosse una donna a trattare con altre donne. Il parere di Nimuë era chiaro e semplice: tenerle sotto custodia e tenerle separate. Così le due regine rimasero sorvegliate una nel Galles e l'altra ancora ad Amesbury ma - sempre per consiglio di Nimuë - non troppo strettamente prigioniere. «Lasciate loro stato e titoli, i bei vestiti e i loro amanti,» disse e, quando il re alzò le sopracciglia, «Gli uomini dimenticano presto quello che è successo e una bella donna in difficoltà è al centro di complotti e diserzioni. Non create due martiri. Tra pochi anni, i più giovani non sapranno, o non si interesseranno, che Morgause ha avvelenato Merlino o ha assassinato a destra e sinistra. Hanno già dimenticato che lei e Lot hanno massacrato i bambini di Dunpeldyr. Date a qualunque malfattore un anno o due di castigo e ci sarà sempre qualche sciocco pronto a sventolare una bandiera e gridare, 'Che crudeltà, lasciatelo andare'. Concedete loro le cose che non contano, ma tenetele vicino e sorvegliatele sempre.» Così la regina Morgana tenne la sua piccola corte a Castell Aur e mandò frequenti lettere a Camelot e la regina Morgause rimase nel convento di Amesbury. Le venne permesso di migliorare le condizioni in cui viveva ma anche così la sua prigionia non era forse facile quanto quella di sua sorella perché implicava un'adesione almeno esteriore alla regola monastica. Ma Morgause aveva i suoi metodi. All'abate si presentava come una che, a lungo separata dalla vera fede nelle tenebre pagane delle Orcadi, era ansiosa e piena di volontà di imparare tutto quello che poteva sulla «nuova religione» dei cristiani. Le donne che la servivano partecipavano alle devozioni delle buone suore e passavano molte lunghe ore ad aiutarle nel cucito e in altri lavori più modesti. Si sarebbe potuto notare che la regina era ben contenta di delegare quella parte delle sue devozioni, ma era la cortesia personificata nei confronti dell'abbadessa e quell'anziana e innocente signora si lasciava facilmente ingannare dalle attenzioni di una che era sorellastra del Sommo Re, qualunque fossero i supposti crimini di cui
la si accusava. «Supposti crimini», Nimuë aveva ragione. Con il passar del tempo il ricordo dei crimini attribuiti a Morgause si faceva più debole e l'impressione, attentamente provocata dalla signora stessa, di avere lì una prigioniera dolce e devota al suo regale fratello, separata dai suoi diletti figli e lontana dal suo paese, crebbe diffondendosi anche fuori dalle mura del convento. E sebbene fosse comune conoscenza che il maggiore dei «nipoti» del Sommo Re aveva in realtà una più intima e scandalosa parentela con il trono... be', era successo tanto tempo fa, quando Artù e Morgause erano molto giovani e persino ora si poteva vedere quanto doveva esser stata bella... lo era ancora... Così gli anni passarono e i ragazzi divennero giovani uomini e presero il loro posto a corte e le cupe gesta di Morgause divennero una leggenda più che un'autentica memoria, e Morgause seguitò a vivere comodamente ad Amesbury: parecchio più comodamente, a dire il vero, di quanto avesse vissuto nella sua gelida fortezza di Dunpeldyr o nelle ventose Orcadi. Quel che le mancava e per cui smaniava era il potere, qualcosa di più di quello che esercitava sulla sua piccola corte privata. Con il passare del tempo divenne ovvio che non avrebbe mai lasciato Amesbury e che, di fatto, era stata dimenticata e così tornò segretamente alle sue arti magiche convincendosi che lì stava il seme dell'influenza e dell'autentico potere. Una dote le era certo rimasta: che dipendesse dalle piante attentamente curate nei giardini del monastero, o dagli incantesimi con cui venivano raccolte e preparate, gli unguenti e i profumi di Morgause esercitavano ancora la loro forte magia. La sua bellezza non la abbandonava e, con essa, il suo potere sugli uomini. Aveva degli amanti. C'era un giovane giardiniere che curava le erbe per le sue tisane, un bel giovane che aveva un tempo sperato di entrare nella confraternita. Si potrebbe dire che la regina gli fece un favore: quattro mesi come suo amante gli insegnarono che il mondo fuori da quelle mura offriva delle delizie a cui, a sedici anni, non poteva rinunciare. Quando alla fine lei lo congedò donandogli dell'oro, abbandonò il convento e andò ad Aquae Sulis dove conobbe la figlia di un ricco mercante e in seguito divenne straordinariamente ricco. Dopo di lui vennero altri e fu ancora più facile quando una guarnigione si stabilì per le esercitazioni nella Grande Pianura e gli ufficiali presero l'abitudine di cavalcare fino ad Amesbury dopo il lavoro per assaggiare quel che aveva da offrire la locale taverna in fatto di vino e intrattenimenti. Più semplice ancora quando Lamorak che in quel
lontano giorno aveva accompagnato i ragazzi in visita da loro madre, venne nominato comandante della guarnigione e fece visita al convento per domandare notizie della regina prigioniera. Lei lo ricevette personalmente e con molta grazia. Lamorak ritornò portando doni. Entro il mese erano amanti. Lamorak sosteneva che era stato amore a prima vista e lamentava che fosse passato tanto dal loro primo incontro durante la cavalcata nel bosco. Due volte, durante quegli anni, Artù dimorò nei paraggi, la prima volta con la guarnigione, la seconda proprio ad Amesbury nella casa del comandante. Nella prima delle due occasioni, malgrado gli sforzi di Morgause, rifiutò di vederla accontentandosi di prendere informazioni dall'abbadessa sulle condizioni di salute della prigioniera e sul suo benessere e inviando dei suoi delegati - Bedwyr e, ironicamente, Lamorak - a parlare con la regina. La seconda occasione fu circa due anni dopo. Avrebbe preferito dormire anche quella volta al quartier generale della guarnigione ma la cosa sarebbe parsa una scortesia verso l'ospitalità del comandante e così alloggiò in città. Diede ordine che, mentre si trovava sul luogo, Morgause non uscisse dalle mura del convento e fu obbedito. Ma una sera, mentre lui e una mezza dozzina dei suoi Compagni sedevano a cena con l'abate e il comandante della città, due delle donne di Morgause si fecero sulla porta per informare di una malattia della regina prigioniera e rivolgere una patetica implorazione al Re la cui presenza era desiderata al suo capezzale. Morgause desiderava soltanto, dissero, il perdono del re prima di morire. O, se era ancora offeso con lei, implorava - e si poteva capire dalle facce delle messaggere con quanto pathos - che si esaudisse almeno l'ultimo desiderio di una morente. Ed era quello di poter vedere ancora una volta i suoi figli. I figli di Lot non erano ad Amesbury con il re. Gaheris era con la guarnigione nella Pianura; Gawain con gli altri due fratelli era ancora a Camelot. L'unico dei cinque ad Amesbury era Mordred che, come sempre ormai, era al fianco di suo padre. A lui Artù, facendo allontanare le donne perché non lo sentissero, disse sommessamente: «Moribonda? Pensi che sia vero?». «Tre giorni fa era fuori a cavallo.» «Davvero? E chi lo dice?» «Il porcaro del bosco delle betulle. Mi sono fermato a parlare con lui. Una volta lei gli ha dato una moneta e così sta sempre attento se la vede. La chiama 'la bella regina'.»
Artù aggrottò la fronte e tamburellò sul tavolo. «C'è stato un vento freddo tutta la settimana. Forse avrà preso un raffreddore. Ma...» Fece una pausa. «Be', manderò qualcuno domani. Poi, se questa storia è vera, immagino che dovrò andare.» «E per domani tutto sarà convenientemente organizzato» Il re lo guardò intensamente. «Cosa intendi dire?» Mordred disse semplicemente: «Quando, quella volta, mi ha mandato a chiamare era sola in una stanza fredda e senza agi. Ma quegli agi li ho visti ammassati frettolosamente dietro la porta della stanza accanto.» Il corruccio di Artù aumentò. «Dunque la sospetti di imbrogliare. Ancora? Ma come? Cosa può fare?» Mordred si strinse nelle spalle come se sentisse freddo. «Chi può saperlo? Come mi ha ricordato più di una volta, è una strega. State lontano da lei, signore. Oppure... lasciate che vada io ad accertarmi se questa storia di malattia mortale è vera.» «Non hai paura delle sue stregonerie?» «Ha chiesto di vedere i suoi figli,» disse Mordred, «e io sono l'unico che si trovi qui ad Amesbury.» Non soggiunse che, sebbene il suo spirito si ritraesse da lei, carico com'era di paura di Morgause, sapeva di non correre pericolo. Sarebbe stato - gli pareva di sentire ancora quella voce sprezzante - la rovina di suo padre. A quel fine lo avrebbe risparmiato, come aveva fatto durante tutto quegli anni. Disse: «Se mandate adesso, signore, a dirle che la vedrete domattina, sarà allora - se questo è davvero un imbroglio - che farà i suoi preparativi. Io invece andrò adesso, stanotte.» Discussero ancora un poco, poi il re accettò. Tornò con riconoscenza dai suoi ospiti e mandò uno dei suoi Compagni a informare la regina Morgause che l'indomani sarebbe andato a farle visita. Come già in precedenza, mandò Lamorak. *** C'era un cavallo legato fuori dal muro del frutteto. In quel punto la cimasa era bassa e il ramo di un melo aveva forzato i mattoni verso l'esterno fino a farli sporgere e poi rompersi e cadere creando un punto dove, con un po' di agilità e l'aiuto di una sella di cavallo, ci si poteva arrampicare. La notte era senza luna ma il cielo brillava di stelle numerose quanto margherite in un prato. Mordred si fermò per osservare il cavallo. Qualco-
sa sia nell'animale che nella bardatura gli era familiare. Guardò meglio e vide sul pettorale il cinghiale d'argento delle Orcadi e riconobbe il roano di Gaheris. Gli passò una mano sulla spalla. Era umida e calda. Rimase lì per un momento a pensare. Se la notizia della malattia di Morgause era corsa, come corrono notizie del genere sulle ali del pettegolezzo, fino al quartier generale della guarnigione, Gaheris doveva essere saltato subito a cavallo per precipitarsi a trovare la regina. Oppure, visto che gli era stato rifiutato il permesso di accompagnare Artù ad Amesbury assieme a Mordred, era andato lì in segreto, deciso a vedere sua madre. In entrambi i casi la visita era furtiva, altrimenti sarebbe passato dal portone. Mordred, con una punta di divertimento, pensò che in ogni caso Morgause non si era aspettata quella visita e probabilmente, in quella notte fredda, non si era ancora spogliata delle sue comodità. Gaheris, quali che fossero i suoi sentimenti di lealtà, avrebbe dovuto confermare le notizie sulla salute di sua madre e le sue condizioni di vita che poi Mordred avrebbe riferite ad Artù. Seguì senza far rumore il muro del convento fino al portone, fu ispezionato sotto le lampade dalle guardie, mostrò il lasciapassare del re e venne introdotto. All'interno delle mura del convento non c'erano guardie e tutto taceva. Attualmente Morgause disponeva di un'ala del convento - l'edificio tra il frutteto e il porticato delle donne - tutta per lei e per le sue dame. Mordred oltrepassò la cappella e imboccò il porticato. Lì una monaca stava in una piccola guardiola accanto a un braciere acceso. Mordred mostrò anche a lei il lasciapassare, venne riconosciuto e poté procedere. Il porticato era buio e vuoto. L'erba al centro del chiostro era grigia sotto le stelle e persino le margherite si erano richiuse per la notte diventando invisibili. Una civetta volò silenziosamente sopra i tetti tra i rami degli alberi. L'unica luce veniva dal braciere nella guardiola. Mordred si fermò, indeciso. Era tardi, ma non ancora mezzanotte. Morgause, come molte streghe, era una creatura notturna; come mai da nessuna delle sue finestre usciva una luce? E certo, se la storia del letto di morte fosse stata vera, le sue donne avrebbero dovuto essere in piedi per assisterla. Forse un amante? Aveva sentito che si concedeva ancora dei piaceri. Ma se Gaheris era lì... Gaheris? Mordred bestemmiò ad alta voce, nauseato contro se stesso per aver avuto quel pensiero e poi ancora per la consapevolezza che era un sospetto giustificato.
Cercò la porta sotto al porticato, la trovò aperta, si introdusse e percorse quel corridoio che ben ricordava. Lì c'era la porta degli appartamenti della regina. Dopo un momento di esitazione, la aprì ed entrò senza bussare. La stanza non era come la ricordava ma come l'avrebbe vista se Morgause non l'avesse spogliata di tutti i suoi arredi. La luce delle stelle che entrava dalla finestra rischiarava gli arazzi, le superfici a cera dei mobili, l'argento e l'oro del vasellame. Folti tappeti attutivano i suoi passi. Attraversò la stanza fino alla porta interna che dava nell'anticamera della stanza da letto della regina. Lì si fermò. Le sue dame, o almeno una di loro, dovevano essere sveglie. Chinò la testa e bussò adagio. Si sentì un rumore da dentro alla stanza, un muoversi frettoloso seguito dal silenzio, come se il suo bussare avesse riscosso qualcuno che non voleva essere trovato lì. Mordred esitò ancora, poi strinse le labbra e allungò la mano verso la maniglia ma, prima che potesse mettercela sopra, la porta si aprì e Gaheris apparve sulla soglia con la spada in mano. L'anticamera era illuminata da un'unica candela. Persino in quella luce debole e diffusa si poteva vedere che Gaheris era bianco come un fantasma. Quando vide Mordred, diventò ancora più bianco. Aprì la bocca lentamente fino a formare una O e disse con voce ansante: «Tu?» «Chi aspettavi?» Mordred parlava molto piano allungando gli occhi dietro a Gaheris verso la porta della camera da letto della regina. Era chiusa e sopra era stata tirata una pesante tenda per tener lontane le fredde correnti della notte. Due donne stavano su due giacigli ai lati della porta della regina. Una era la dama di compagnia di Morgause, l'altra una suora probabilmente esonerata dai servizi notturni e messa lì a condividere la guardia a nome del convento. Entrambe dormivano profondamente e la suora russava addirittura con un fracasso che pareva un po' troppo pesante. Su un tavolo vicino al muro c'erano due tazze e la stanza odorava di vino speziato. La spada di Gaheris si mosse, ma indecisa, poi si accorse che Mordred non lo guardava neppure e tornò ad abbassarla. Mordred in un sussurro che era quasi un filo di voce, disse: «Mettila via, sciocco. Vengo per ordine del re, cosa credi?» «A quest'ora della notte? A fare cosa?» «Non a farle del male, altrimenti non avrei bussato alla porta né sarei venuto nudo come sono.» Quella parola, tra soldati, significava «disarmato» e per un cavaliere valeva quanto uno scudo. Tese le mani vuote. Gaheris infilò lentamente la lama nel fodero.
«Allora cosa...» stava incominciando, quando Mordred con un gesto gli impose il silenzio, lo oltrepassò per entrare nella stanza e, raggiunto il tavolo, prese una delle tazze e l'annusò. «E la donna che stava nella guardiola pareva faticasse a star sveglia quel tanto che bastava a guardarmi.» Incontrò lo sguardo di Gaheris e sorrise, tornando a posare la tazza. «Il re mi ha mandato perché era giunto un messaggio secondo cui era malata e morente. Lui stesso sarebbe venuto domani. Ma adesso credo che non ne abbia bisogno.» Alzò una mano rapidamente. «No, non temere. Non può essere vero. Queste donne sono state drogate ed è facile immaginare...» «Drogate?» Pareva che Gaheris stentasse a capire, poi mosse la testa e i suoi occhi frugarono gli angoli scuri della stanza come un animale che sente odore di nemico e la sua mano tornò all'elsa della spada. Disse, raucamente: «Allora c'è un pericolo!». «No. No.» Mordred si mosse rapidamente per prendere il fratellastro per il braccio e girarlo verso la porta della regina. «La droga è una delle pozioni della regina. Conosco l'odore. Quindi, metti da parte le tue paure e vieni via. È sicuro che non è né ammalata né in alcun altro pericolo. Il re non avrà bisogno di venire domani mattina ma tu avrai senza dubbio il permesso di vederla. Ha mandato a chiamare gli altri nel caso che la storia fosse vera.» «Ma come fai a sapere...?» «E tieni bassa la voce. Vieni, andiamo. Voglio mostrarti i begli arazzi dell'altra stanza.» Sorrise, scuotendo il braccio inerte dell'altro. «Oh, in nome di dio, possibile che tu non capisca? Ha con sé un amante, ecco tutto! E quindi né io né te possiamo farle visita stanotte.» Gaheris rimase per un momento rigido sotto la mano di Mordred, poi, con un gesto, si liberò e si precipitò verso la camera da letto. Tirò violentemente da parte la tenda e spalancò la porta mandandola a sbattere contro il muro. 4 Nell'interminabile, stupefatto momento prima che qualcuno si muovesse, videro tutto. Lamorak nudo, a cavalcioni, con la luce che scivolava sui muscoli sudati della sua schiena. Morgause sotto di lui, nascosta dalle ombre eccetto che per le mani irrequiete, agitate e i lunghi capelli sparsi sul guanciale. La sua camicia da notte giaceva in un mucchietto sul pavimento accanto agli abiti
di Lamorak. La cintura con il fodero della spada era accuratamente posata su uno sgabello dall'altra parte della stanza. Gaheris fece un suono rauco e disumano e afferrò di scatto la spada. Mordred, che era due passi dietro di lui, gridò un ammonimento: «Lamorak!» e tornò ad afferrare il braccio del fratellastro. Morgause gridò. Lamorak ansimò, girò la testa, vide, si staccò dal corpo della donna e corse verso la sua spada. La mossa la lasciò esposta alla spietata luce delle stelle: la posa scomposta, i segni dell'amore, la bocca spalancata, le mani che ancora si muovevano sopra lo spazio dove era stato il corpo del suo amante. Le mani ricaddero. Riconobbe Gaheris sulla soglia, con Mordred che si sforzava di trattenerlo, e il grido si controllò in un ansito mentre si rialzava frettolosamente dai guanciali per afferrare la coperta. Gaheris, bestemmiando, staccò la spada dalla cintura e l'abbassò sulla mano di Mordred, che lo tratteneva. La lama affondò e la presa di Mordred cedette. Gaheris riuscì a liberarsi. Lamorak aveva raggiunto lo sgabello e preso la sua cintura. Goffamente, ancora attonito, tirò l'elsa nella semi oscurità ma la cintura gli si avvolse attorno al braccio bloccandola. Affannandosi per liberarla, nudo com'era, si voltò per fronteggiare l'altra spada. Mordred, con il sangue che sgocciolava dalla mano tagliata, oltrepassò Gaheris mettendosi tra i due uomini, poi appoggiò le mani a piatto sul petto del fratellastro. «Gaheris! Aspetta! Non puoi uccidere un uomo disarmato. E non questo, non qui. Aspetta, pazzo! Lascia la faccenda al re!» Forse Gaheris non lo udì nemmeno, forse non sentì nemmeno le sue mani. Stava piangendo con duri, singhiozzanti sospiri e pareva fuori di sé. Non fece nessun tentativo di oltrepassare Mordred per attaccare Lamorak. Improvvisamente si voltò e staccandosi da entrambi gli uomini corse verso il letto della regina tenendo alta la spada. Stringendosi addosso la coperta, accecata dai capelli, Morgause cercò di rotolare via per evitarlo. Gridò ancora. Prima che gli altri due avessero capito le sue intenzioni Gaheris, accanto al letto, alzò la spada e l'abbassò con tutte le sue forze sul collo della madre. Poi ancora. E ancora. L'unico suono era quello sommesso e terribile del metallo che affondava nella carne e nel morbido letto. Morgause morì al primo colpo. La coperta sfuggì alle mani che l'avevano stretta e il corpo nudo ricadde nell'ombra pietosa. Meno pietosamente, la testa staccata a metà, rimase esposta alla
luce delle stelle sul cuscino inzuppato di sangue. Gaheris, inzuppato anche lui dal primo, terribile spruzzo di sangue, sollevò la spada arrossata per un altro colpo e poi, con un ululato da cane ferito, posò la testa sul guanciale accanto a quella di sua madre e pianse. Mordred si accorse di trattenere Lamorak con una stretta così forte da far male a entrambi. L'uccisione era stata così rapida, così imprevista che nessuno dei due uomini aveva fatto alcuna mossa cosciente. Poi Lamorak si riprese con un sussulto e una bestemmia strozzata e cercò di spingere da parte Mordred. Ma Morgause era morta e non si poteva più aiutarla e suo figlio stava in ginocchio, insensibile, indifferente a tutto, con la schiena indifesa rivolta verso di loro e la spada a dieci passi di distanza sul pavimento. La lama di Lamorak vibrò, e ricadde. Persino lì, persino in quel momento, il rigido addestramento funzionava. C'era stata una terribile carneficina ma ormai il sangue era freddo, la stanza era fredda e non c'era niente da fare. Lamorak rimase immobile nella stretta di Mordred, poi incominciò a battere i denti per la reazione, l'orrore, e il gelo dell'emozione violenta. Mordred lo lasciò andare. Raccolse gli abiti del cavaliere e li tenne come un fagotto tra le braccia. «Su, mettetevi questi e andate. Non serve a nulla restare. Anche se adesso fosse in condizioni di battersi con voi, non lo potrebbe fare qui e questo lo sapete.» Si chinò rapidamente a raccogliere la spada di Gaheris e poi, prendendo Lamorak per un braccio, lo sospinse verso la porta della camera da letto. «Adesso andate nell'altra stanza, prima che lui torni in sé. La cosa è fatta e possiamo solo cercare di impedire che quel pazzo la peggiori.» Nell'anticamera, le donne continuavano a dormire. Quando Mordred chiuse la porta, la suora si mosse nel sonno e mormorò qualcosa che avrebbe potuto essere «Signora?», poi si riaddormentò. I due uomini stavano rigidi, in ascolto. Nessun rumore, nessun movimento. Il grido di Morgause, per acuto che fosse stato, non era stato sentito attraverso i grossi muri e le porte chiuse, Lamorak aveva ripreso il controllo di sé. Era ancora molto pallido e pareva in preda alla nausea, ma non fece nessun tentativo di discutere con Mordred e incominciò a rivestirsi rapidamente lanciando solo un'occhiata o due alla porta chiusa della orribile camera. «Lo ucciderò, naturalmente,» disse con la voce impastata. «Ma non qui.» Mordred era freddo. «Fino a questo momento non avete fatto nulla di cui vi si possa accusare. Il re si arrabbierà abbastanza per questo pasticcio senza che vi ci mettiate anche voi a peggiorarlo. Quindi,
seguite il mio consiglio e andatevene, alla svelta. Quel che farete poi è affar vostro.» Lamorak, che si stava allacciando la tunica, alzò lo sguardo. «Cosa contate di fare?» «Cacciarvi via di qui, mandar via Gaheris e poi riferire al re. Ero stato mandato per questo, del resto. Non che abbia più importanza adesso, ma immagino che la sua storia di essere ammalata, addirittura morente, fosse una pura invenzione.» «Sì. Voleva vedere il re e implorarlo di liberarla.» Aggiunse, molto piano: «Stavo, per sposarla. L'amavo e lei amava me. Le avevo promesso che gli avrei parlato io, domani... oggi. Come mia moglie, sicuramente Artù l'avrebbe lasciata andar via di qui e vivere ancora in libertà. Non credete?» Mordred non rispose. Un altro strumento, stava pensando. Un tempo io ero il suo lasciapassare per il potere e adesso quest'uomo, povero sciocco credulone, doveva essere il suo lasciapassare per la libertà. Be', se ne è andata e il re non sarà molto dispiaciuto, ma nella morte, come in vita, infrangerà la pace di quelli che le sono vicini. Disse: «Sapevate che il re aveva mandato a chiamare Gawain e gli altri due figli?» «Sì. Cosa... cosa succederà qui?» Un'occhiata verso la porta. «Gaheris? Chi lo sa? Quanto a voi... Ho detto che non vi si poteva incolpare di nulla. Ma loro vi incolperanno, siatene certo. È anche probabile che, dato i tipi che sono, cerchino anche di uccidere Gaheris. Amano avere in famiglia sesso e assassinio.» Le parole, secche come spezie in polvere, indussero Lamorak, anche attraverso il dolore e la rabbia del momento, a guardare intensamente il giovane. Disse lentamente, come se facesse una scoperta del tutto nuova: «Voi... perché... siete uno di loro. Siete suo figlio. E parlate come se... come se...» «Sono diverso,» disse Mordred. brevemente. «Ecco il vostro mantello. No, quella macchia di sangue è mia, non fateci caso. Gaheris mi ha ferito alla mano. Adesso, in nome della Dea, andatevene e lasciatemi fare.» «Cosa farete?» «Chiuderò la stanza in modo che le donne non tirino giù il convento con le loro urla quando si sveglieranno, e porterò fuori Gaheris dalla parte da cui è entrato. Voi, naturalmente, siete entrato dalla porta principale? Le guardie sanno che siete ancora qui?» «No, sono uscito a tempo debito e poi... ho una via di accesso. Lei la-
sciava la finestra aperta quando sapeva...» «Sì, naturalmente. Ma allora, perché darsi la pena...» Stava per chiedere perché darsi la pena di drogare le due donne ma poi capì che, naturalmente, le faccende sessuali di Morgause dovevano esser tenute nascoste all'abbadessa. Non ci si poteva aspettare la connivenza di quelle sante donne. «Naturalmente, dovrò lasciare la corte», disse Lamorak. «Lo direte al re?» «Riferirò esattamente quello che è accaduto. Non credo che il re vi riterrà colpevole. Ma farete bene ad andarvene fino a quando Gawain e gli altri non saranno sistemati. Buona fortuna e cercate di essere veloce.» Lamorak, con un ultimo sguardo alla porta muta della camera da letto, uscì dalla stanza. Mordred diede un'occhiata alle donne addormentate, lasciò cadere la spada insanguinata di Gaheris in un angolo dove un inginocchiatoio la nascondeva alla vista, poi ritornò nella camera della regina e si chiuse la porta alle spalle. *** Trovò Gaheris in piedi, barcollante come un ubriaco, che si guardava attorno come se cercasse qualcosa che aveva perduto. Mordred lo prese per la spalla e, senza che opponesse resistenza, lo trascinò lontano dal letto. Chinandosi, tirò la coperta macchiata sopra il corpo morto. Gaheris, rigido come un sonnambulo, si lasciò condurre fuori dalla stanza. Una volta nell'anticamera e con la porta chiusa, parlò per la prima volta, con la voce impastata: «Mordred. È stato giusto. È stato giusto ucciderla. Era mia madre ma era una regina e fare così... portare la vergogna su di noi e su tutta la nostra stirpe... Nessuno può mettere in discussione il mio diritto, nemmeno Gawain. E quando ucciderò Lamorak... perché era Lamorak, vero? Il suo... l'uomo?» «Non ho visto chi era,» disse Mordred «ha preso su i suoi vestiti e se ne è andato.» «Non hai cercato di fermarlo? Avresti dovuto ucciderlo.» «Per amore di Ecate,» disse Mordred, «risparmia questi discorsi per dopo. Senti, mi è parso di sentire dei passi. Potrebbe essere l'ora dell'ufficio notturno. Chiunque potrebbe arrivare.» Non era vero ma servì a riscuotere Gaheris. Si guardò attorno con sor-
presa come se si accorgesse solo allora di essere in una situazione pericolosa. Poi disse seccamente: «La mia spada?» Mordred la sollevò dall'angolo e gliela mostrò. «Quando saremo fuori dalle mura. Vieni. Ho visto dove hai lasciato il tuo cavallo. Presto.» Stavano attraversando il frutteto quando Gaheris parlò di nuovo. Era sempre sull'orlo di un terribile senso di colpa. «Quell'uomo... Lamorak, so che era lui e anche tu lo sai. Lo hai chiamato per nome. Non cercare di coprirlo. Un uomo di Artù, uno dei Compagni. Deve essere ucciso anche lui e sarò io a farlo. Ma lei, lei andare a letto con un simile... Deve essere già successo prima, sai. Quelle donne erano drogate. Dovevano essere amanti...» Si inceppò su quella parola, poi continuò: «Una volta mi ha parlato di lui. Di Lamorak. Mi ha detto che aveva ucciso nostro padre re Lot e che lei lo odiava. Mentiva. A me. A me.» Mordred disse con calma: «Ma non capisci, Gaheris? Mentiva per accecarti e mentiva doppiamente. Lamorak non ha ucciso Lot. Come avrebbe potuto? Lot è morto per le ferite riportate nella battaglia di Caledon e lì combattevano dalla stessa parte. Così, a meno che Lamorak non abbia pugnalato re Lot alle spalle, e non sono cose da lui, non poteva essere il suo uccisore. Non ci hai mai pensato?» Ma Gaheris non aveva altri pensieri se non quelli che lo torturavano. «Lo ha preso come amante e mi ha mentito. Siamo stati tutti ingannati, persino Gawain: Mordred, gli altri diranno che quello che ho fatto è giusto, vero?» «Sai meglio di me quante probabilità ci sono che Gawain ti perdoni. O Gareth. Persino il tuo gemello potrebbe non sostenerti. E sebbene non creda che il re piangerà molto tua madre, dovrà accontentarli se i principi delle Orcadi domanderanno quella che per loro è giustizia.» «La chiederanno contro Lamorak!» «Per cosa?» disse freddamente Mordred. «L'avrebbe sposata.» Questo zittì Gaheris per un momento. Avevano raggiunto il muro del frutteto, si fermò sotto un melo e si voltò. La luna stava alzandosi dietro un velo di nubi e le macchie di sangue sul suo petto parevano nere. «Se non lo uccidono loro, lo farò io,» disse. «Puoi provare,» disse Mordred, asciutto. «E lui ucciderà te, non illuderti. E allora i tuoi fratelli cercheranno di ucciderlo. Lo capisci cosa ha portato il tuo lavoro di questa notte?» «E tu? Si direbbe che non ti importa niente di quello che è successo. Parli come se la cosa non ti toccasse.»
«Oh, mi tocca,» disse brevemente Mordred. «Adesso stiamo perdendo tempo. Quel che è fatto è fatto. Dovrai lasciare la corte, questo lo sai. Faresti bene ad andartene prima dell'arrivo dei tuoi fratelli. Scavalca il muro adesso, Gaheris. Il tuo cavallo è lì.» Gaheris si issò e Mordred, arrampicandosi dietro di lui, rimase a cavalcioni del muro mentre suo fratello slegava il cavallo e controllava i finimenti. Poi tese giù a Gaheris la sua spada. «Dove andrai?» gli chiese. «A nord. Non alle isole e anche Dunpeldyr è tenuta in nome di Artù. Cosa non lo è? Ma troverò un posto dove potrò vendere la mia spada.» «Per adesso, prendi la mia borsa. Ecco.» «Grazie, fratello.» Gaheris la afferrò. Saltò in sella. Questo la portò quasi all'altezza di Mordred. Tirò sulle redini per un momento mentre il roano scalpitava, ansioso di lanciarsi. «Quando vedrai Gawain e gli altri...» «Dovrò dire loro la verità e difendere la tua causa? Farò quel che posso. Addio.» Gaheris girò il cavallo. Ben presto non vi fu altro segno di lui che il rapido e smorzato scalpitio di zoccoli che si allontanava. Mordred saltò giù dal muro e tornò indietro attraverso il frutteto. 5 Così morì Morgause, la regina strega delle Orcadi e del Lothian, lasciando con la sua morte e le circostanze in cui era avvenuta un altro fardello di guai per il suo odiato fratello. I guai non furono da poco. Gaheris venne bandito e Lamorak, entrando a cavallo, pallido e silenzioso, al quartier generale per consegnare la sua spada, venne sollevato dal comando e invitato ad allontanarsi fino a che il polverone non si fosse dissipato. Non sarebbe avvenuto molto in fretta. Gawain, folle di orgoglio offeso più che di dolore, giurò a tutti i selvaggi del nord che si sarebbe vendicato sia di suo fratello che di Lamorak ed ignorò tutto quello che Artù gli disse, tanto le implorazioni che le minacce. Venne fatto notare che Lamorek aveva offerto a Morgause di sposarla e che la sua accettazione gli conferiva, come fidanzato, il diritto al suo letto e con questo anche il diritto di vendicare il suo assassinio. A questo suo diritto Lamorak, uno dei primi e più leali compagni di Artù, aveva rinunciato. Aveva giurato che, per quel che lo riguardava, Gaheris era salvo. Ma
nulla di questo valse a placare Gawain la cui ira aveva in sé una buona parte di pura e semplice gelosia sessuale. Altrettanto violento era il furore di Gawain nei confronti di Gaheris, ma in questo non trovava l'appoggio dei suoi fratelli. Agravain, che era sempre stato il capo dei gemelli, pareva sperduto senza Gaheris; cercò così di avvicinarsi a Mordred che, per ragioni sue, lo sopportava abbastanza volonterosamente. Gareth disse poco e si rinchiuse nel silenzio. Nella morte come nella vita sua madre lo aveva profondamente colpito: per amara che fosse la storia della sua terribile morte per il più giovane dei suoi figli, le storie della sua impurità, che ormai erano di comune conoscenza, lo ferivano ancora di più. Ma tutte le grida di vendetta erano destinate a morire. Lamorak se ne era andato, nessuno sapeva dove. Gaheris era svanito a nord nelle nebbie, Morgause era sepolta nel cimitero del convento e Artù tornò con i suoi seguaci a Camelot. Poco a poco, per semplice mancanza di alimento, la fiammata accesa dell'assassinio morì. Artù, affezionato ai suoi nipoti e segretamente sollevato dalla notizia della morte di Morgause, manovrò il più abilmente possibile, diede a Gawain tutta l'autorità che osò ed attese con prudente apprensione che l'uragano tornasse ad esplodere. Non riusciva a preoccuparsi troppo per Gaheris, ma Lamorak, che era innocente di tutto salvo che di follia, era certo condannato. Prima o poi l'amato Compagno di Artù si sarebbe scontrato con uno dei principi delle Orcadi e sarebbe stato ucciso, coraggiosamente o vigliaccamente. E la cosa non si sarebbe fermata lì. Anche Lamorak aveva un fratello che attualmente prestava servizio in Dumnonia con un certo Drustan, un cavaliere che Artù sperava di attirare al suo servizio. Era possibile che lui, o persino Drustan stesso che era amico intimo di entrambi i fratelli - giurasse ed esigesse a sua volta vendetta. Così Morgause, con la sua morte, fece quello che aveva contato di fare con la sua vita. Aveva innestato un cancro nella fiorente cavalleria della corte di Artù: non, ironicamente, il bastardo che aveva cresciuto perché fosse la sua rovina, ma i suoi tre figli legittimi maggiori, i suoi selvaggi, e ora quasi ingovernabili figli. Fuori da tutto questo, c'era Mordred. Si era dimostrato freddo e pieno di risorse, aveva evitato un ulteriore spargimento di sangue in quella micidiale notte e aveva guadagnato tempo per una saggia decisione. Che i principi delle Orcadi non volessero, o come alcuni dicevano non potessero, accettare una saggia decisione, non era certo colpa sua. Era palese che sempre
meno la corte lo considerava uno della «razza delle Orcadi». Sottilmente, la distanza fra lui e i suoi fratellastri aumentava. E, come Morgause morta, sempre meno veniva portata avanti la finzione del «nipote del sommo Re». Era semplicemente il «Principe Mordred», noto per essere vicino al re e per godere l'amore e il favore della regina. Qualche tempo dopo il suo ritorno a Camelot, Artù convocò un Consiglio nella Sala Rotonda. Era il primo Consiglio del genere a cui i due fratelli minori delle Orcadi erano autorizzati, in quanto Compagni, ad assistere. Persino Mordred, che con Gawain aveva ricevuto qualche anno prima quel rango, trovò un cambiamento: invece di sedere alla sinistra del re, come era stato suo privilegio negli ultimi due anni, fu condotto dall'usciere reale alla seggiola alla destra di Artù, dove sedeva solitamente Bedwyr. Bedwyr prese il posto alla sinistra. Se si sentiva declassato, non lo diede a vedere; rivolse a Mordred un sorriso che sembrava sincero e un piccolo, cerimonioso inchino che riconosceva il rango del giovane. Bedwyr, amico del re fin dai giorni della gioventù e suo costante compagno nel senso più stretto, era un uomo tranquillo con occhi da poeta e, dopo il re, la spada più micidiale dei regni della Britannia. Aveva combattuto al fianco di Artù durante tutte le grandi campagne e con lui aveva condiviso la gloria di spazzar via il terrore sassone dai confini della Britannia; Forse unico tra i gentiluomini guerrieri, non mostrava insofferenza per la lunga pace e quando Artù aveva dovuto recarsi all'estero su richiesta di alleati o parenti portando con se i suoi uomini d'arme, Bedwyr non era mai parso risentito per il fatto di dover restare a casa come reggente per il suo sovrano. Come Mordred sapeva, correvano voci a questo proposito: Bedwyr non si era sposato e, intimo com'era sia del re che della regina, si sussurrava che lui e la regina Ginevra fossero amanti. Ma Mordred, che stava anche lui costantemente con loro, non aveva mai colto un gesto o uno sguardo a sostegno di quelle voci. Ginevra era allegra e gentile con lui come l'aveva sempre vista con Bedwyr e forse, con un po' dell'innata gelosia insegnata da Morgause, avrebbe negato, persino con la spada, qualunque aperta allusione a un legame del genere. Così, ricambiò il sorriso di Bedwyr e sedette al suo nuovo posto d'onore. Vide Gawain chinarsi verso suo fratello e sussurrargli qualcosa all'orecchio e Agravain annuire, poi il re parlò aprendo il Consiglio e tacquero. La riunione si prolungava e Mordred notò con divertimento che Agravain e Gareth, dapprima rigidi per darsi importanza e attenti ad ogni parola, co-
minciarono presto ad annoiarsi e spazientirsi come se fossero seduti sulle spine. Gawain, come il cavaliere dalla barba grigia che gli stava accanto, sonnecchiava apertamente in un raggio di sole che entrava da una finestra. Il re, paziente e coscienzioso come sempre, sembrava compiere uno sforzo per scacciare le preoccupazioni. La tavola rotonda al centro della sala era sovraccarica di carte e tavolette e i segretari scrivevano senza sosta. Come sempre, i Consigli nella Sala Rotonda, trattavano per prima cosa argomenti di ordinaria amministrazione. Venivano ascoltate petizioni, annotate proteste, emessi giudizi. I messaggeri del re riferivano le informazioni accessibili a tutti e, più tardi, i cavalieri del re che ritornavano da qualche missione, riferivano le loro avventure al Consiglio. Erano i cavalieri erranti che fungevano ad un tempo da occhi di Artù e da suoi inviati. Anni prima, una volta concluse le guerre sassoni e sistemato il paese, Artù aveva studiato in qual modo occupare quelle che Merlino aveva chiamato «le spade in vacanza e gli spiriti inerti». Lui sapeva che la lunga e prosperosa pace che soddisfaceva la maggioranza degli uomini non era gradita ad alcuni dei suoi cavalieri, non solo quelli giovani ma anche i veterani di guerra, uomini che non conoscevano vita all'infuori di quella dei combattimenti. Non c'era più nessun bisogno dello scelto corpo di Compagni, i cavalieri che sotto Artù avevano guidato la cavalleria usandola come arma rapida e mortale durante le campagne sassoni. I Compagni rimanevano i suoi amici personali ma il loro rango di comandanti era mutato. Erano diventati i rappresentanti ufficiali del re e, come inviati armati di consegne reali e ciascuno al comando dei suoi uomini, viaggiavano per i regni rispondendo alle chiamate dei piccoli re o capi che necessitavano di aiuto e guida, portando con sé la giustizia del Sommo Re e la pace del Sommo Re, ovunque andassero. Pattugliavano anche le strade. I banditi erano ancora in agguato nelle parti più selvagge del paese, ai guadi e ai crocevia dove potevano tendere imboscate ai mercanti o ai ricchi viaggiatori. I Compagni li snidavano e li uccidevano o li consegnavano alla giustizia del re. Un altro importante compito era la protezione dei monasteri. Artù non si considerava un cristiano ma riconosceva la crescente importanza di quelle istituzioni come centri di sapere e di influenza per la pace. La loro ospitalità, inoltre, era parte essenziale del pacifico commercio lungo le strade. Tre di quei cavalieri si presentarono quel giorno. Mentre il primo si faceva avanti, nella sala vi fu un moto di interesse e persino quelli che sonnecchiavano si riscossero. A volte i rapporti riguardavano combattimenti; di tanto in tanto venivano condotti lì dei prigionieri o si narravano
strani avvenimenti di parti remote e selvagge del paese. Questo aveva diffuso tra gli ignoranti la credenza che Artù non sedesse mai a tavola per la cena senza aver prima sentito qualche storia di cose meravigliose. Ma non c'erano meraviglie da riferire. Uno dei cavalieri veniva dal Galles settentrionale, uno dalla Northumbria, il terzo, che era stato mandato a controllare i confini sassoni, dalla valle superiore del Tamigi. Fu quest'ultimo a riferire di una qualche attività, seppure pacifica, nel Suthrige, la regione a sud del Tamigi occupata dai sassoni medi: c'era stata una specie di visita ufficiale, gli pareva, di un gruppo di sassoni occidentali di Cerdic. Quello che veniva dal Galles settentrionale raccontò di una nuova istituzione monastica dove il Graal, o coppa cerimoniale cristiana, sarebbe stato alzato nella prima occasione festiva. Il cavaliere della Northumbria non aveva niente da riferire. Mordred, osservando dal suo posto accanto al re, notò con pronto interesse che Agravain, che aveva dimostrato aperta impazienza durante i discorsi dei primi due cavalieri, si era fatto immobile e attento. Quando l'uomo ebbe finito e venne congedato con i ringraziamenti del re, Agravain si rilassò palesemente e ricominciò a sbadigliare. «Northumbria?» pensò Mordred, poi mise da parte il pensiero e tornò a rivolgere la sua attenzione al re. Finalmente, la Sala fu sgombrata da tutti tranne i consiglieri e Compagni del re. Artù sedette sul trono e parlò. Affrontò subito la notizia che lo aveva indotto a convocare il Consiglio. La sera prima era giunto un corriere del continente con gravi notizie. Due dei tre giovani figli di Clodomiro, il re Franco, erano stati assassinati e loro fratello era scappato a rifugiarsi in un monastero da cui si pensava che non avrebbe osato uscire. Gli assassini, zii dei ragazzi, avrebbero certamente provveduto a spartirsi il regno di re Clodomiro. La notizia aveva gravi implicazioni. Clodomiro (che era stato ucciso l'anno prima in battaglia con i Burgundi) era uno dei quattro figli di Clodoveo, il re dei franchi salici che aveva guidato il suo popolo dalle terre nordiche a quello che era stato il prosperoso territorio dei galli romani, facendolo proprio. Selvaggio e crudele come tutti quelli della dinastia merovingia, era però riuscito a creare un regno stabile e potente. Alla sua morte, quel regno era stato diviso, come era consuetudine, tra i suoi quattro figli. Clodomiro e Cildeberto, i maggiori dei figli legittimi, avevano la parte centrale della Gallia, Clodomiro la parte orientale dove le sue terre confinavano con quelle dei burgundi ostili, Cildeberto, a ovest, quella par-
te della Gallia confinante con la penisola di Bretagna. E lì stava la complicazione. La Bretagna, detta Britannia Minore nel linguaggio comune, era di fatto quasi una provincia del Sommo Regno. Più di un secolo prima era stata popolata da uomini della Britannia Maggiore e il legame era rimasto forte; le comunicazioni erano facili, il commercio attivo e la lingua, pur con qualche variazione regionale, era la stessa. Il re di Bretagna, Hoel, era cugino di Artù e i due sovrani erano legati tra loro non solo dalla parentela e dai trattati di alleanza ma anche dal fatto che la Bretagna era ancora parte della federazione di terre note come Sommo Regno; lo erano pure la Cornovaglia o il territorio che circondava Camelot stessa. «La situazione,» disse il re «non è disperata; anzi potrebbe risolversi per il meglio dal momento che dei ragazzini non sono mai stati dei buoni governanti. Ma capite come stanno le cose. Clodomiro è stato ucciso a Vézeronce dai burgundi, l'anno scorso. I burgundi sono ancora ostili e aspettano soltanto l'occasione per attaccare nuovamente. Così abbiamo a est la vitale provincia centrale dei franchi con i burgundi e ad ovest la terra governata da re Cildeberto che circonda la nostra provincia celtica di Bretagna. Adesso il regno di Clodomiro verrà nuovamente diviso, nel qual caso re Cildeberto estenderà le sue terre a est mentre i suoi fratelli avanzeranno da nord e da sud. Il che significa che, finché ci conserviamo l'amicizia di quei re, li avremo come una barriera tra noi e i popoli germanici dell'est.» Fece una pausa, si guardò attorno e ripeté: «Finché avremo l'amicizia di quei re. Ho detto che la situazione non è disperata. Ma col tempo potrebbe esserlo. Dobbiamo essere preparati. Non ancora, come alcuni di voi desiderano, reclutando eserciti. Questo verrà in futuro. Ma formando alleanze, legami di amicizia cementati da offerte di aiuto e leale commercio. Se i regni di Britannia devono rimanere sicuri contro i devastatori che vengono da est, allora tutti i regni all'interno delle nostre coste devono unirsi per la loro difesa. Lo ripeto, tutti.» «I sassoni!» Era Cian, un giovane celta di Gwynedd. «Sassoni o inglesi,» disse Artù, «possiedono, secondo gli accordi, una buona parte delle terre costiere a est e sud-est, quelle che costituivano i territori della vecchia Costa Sassone, con tutti gli altri insediamenti concessi loro da Ambrogio e anche da me, dopo Badon Hill. Queste terre della Costa Sassone stanno come un muro attorno al Mare Stretto. Possono essere il nostro baluardo o possono tradire.» Fece una pausa. Non c'era bisogno di attirare gli sguardi. Tutti erano fissi su di lui. «Questo è quanto avevo da
dire al Consiglio. Ho chiesto un incontro con il loro re, Cerdic, capo dei sassoni occidentali, per parlare con lui della difesa. Al prossimo Consiglio sarò in grado di riferirvi l'esito di questo colloquio.» Poi si mise a sedere e gli uscieri si alzarono per evitare confusione e dare un ordine a quelli che volevano prendere la parola. Protetto dal rumore, Artù sorrise a Bedwyr. «Hai ragione. Un nido di vespe. Ma lascia che io parli e senta la loro opinione e quando andrò sarà, almeno nominalmente, con il loro appoggio.» Aveva ragione. Per l'ora di cena, tutti quelli che lo avevano voluto avevano espresso il loro parere. Il giorno dopo un corriere cavalcò fino al villaggio che il re dei sassoni occidentali chiamava la sua capitale e l'incontro venne combinato. Mordred sarebbe andato con il re. Utilizzò l'intervallo di tempo prima che la risposta di Cerdic arrivasse, per recarsi a Applegarth e incontrare Nimuë. 6 Dal giorno in cui Nimuë aveva fatto visita a re Urbgen di Rheged per impedire la sua fuga, Mordred non l'aveva mai più vista. Era sposata con Pelleas, re delle isole a occidente del Paese Estivo, dove il fiume Brue sfocia nel mare di Severn. Nimuë era nata principessa delle Isole del Fiume e conosceva suo marito fin dall'infanzia. Il loro castello era quasi in vista di Tor e quando Pelleas, che era uno dei Compagni di Artù, era con il re, Nimuë prendeva il suo posto di signora delle vergini del Lago nel convento su Ynys Witrin o altrimenti si ritirava da sola a Applegarth, la casa che Merlino aveva costruito vicino a Camelot e le aveva lasciata assieme al suo titolo e, si diceva, a molte altre cose. Si raccontava che durante la lunga malattia che aveva indebolito il vecchio mago tanto da portarlo a una morte apparente, avesse trasmesso tutte le sue conoscenze alla sua allieva Nimuë, inculcandole persino i suoi ricordi di infanzia. Mordred aveva sentito quelle storie e, sebbene con l'età adulta e la sua nuova sicurezza fosse diventato più scettico, ricordava l'impressione ricevuta a Luguvallium del potere della maga e pertanto si avvicinava a Applegarth con qualcosa che si sarebbe anche potuto definire nervosismo. Era una casa di pietra grigia costruita attorno a un piccolo cortile. Ad un angolo si ergeva una vecchia torre. Sorgeva tra pascoli ondulati ed era circondata da frutteti. Un corso d'acqua scendeva la collina accanto ai suoi
muri. Mordred guidò il cavallo fuori dalla strada sulla pista che risaliva il colle lungo il torrente. Era a metà strada quando un altro cavaliere lo raggiunse. Con sua sorpresa, vide che era il re che cavalcava da solo sulla sua giumenta grigia. Artù tirò le redini quando gli fu accanto. «Cercavi me?» «No, signore. Non immaginavo che foste qui.» «Ah, dunque Nimuë ti ha mandato a chiamare? Mi aveva detto che saresti andato da lei ma non quando o perché.» Mordred lo guardò, sorpreso. «Ha detto che sarei andato? Come poteva saperlo? Non lo sapevo nemmeno io. C'è... c'è qualcosa che volevo chiederle e sono venuto qui per una specie di impulso.» «Ah,» esclamò Artù. E dette una occhiata divertita a Mordred. «Perché sorridete, signore?» Mordred pensava con sollievo: non può nemmeno immaginare cosa ho in mente. Certo, lui non può immaginare. Ma Nimuë...? «Se non hai mai incontrato Nimuë, allora raddrizza la schiena e alza lo scudo,» disse Artù, ridendo. «Non c'è nessun mistero, almeno non del genere che i comuni mortali, come siamo io e te, possano capire. Sapeva che saresti andato perché sa tutto. Nient'altro. Saprà anche perché ci vai.» «Questo dovrebbe risparmiare una quantità di parole,» disse Mordred, seccamente. «Lo dicevo anch'io. A Merlino.» Un'ombra passò fuggevolmente sul viso del re. Il sorriso divertito ritornò subito. «Be', buona fortuna, Mordred. È ora che tu conosca la guida della tua guida.» E galoppò giù dalla collina verso la strada. Mordred lasciò il cavallo sotto l'arcata d'accesso al cortile ed entrò. Il posto era pieno di fiori e del profumo di erbe e lavanda e le colombe tubavano sul muro. C'era un vecchio vicino al pozzo, un giardiniere a giudicare dagli abiti. Alzò gli occhi, si toccò la fronte con una mano e indicò la strada verso la porta nella torre. «Bene,» pensò Mordred, «si direbbe che mi sta aspettando.» Salì i gradini di pietra e spinse la porta. La stanza era piccola e quadrata con un'unica grande finestra che si apriva a sud e sotto questa un tavolo. Accanto al tavolo, volgendogli le spalle e rivolta verso la porta, c'era una donna. Non parlò né fece alcun gesto di saluto. Quel che accolse Mordred, violento come una fredda esplosione, fu il suo sguardo gelido e ostile. Si fer-
mò sulla porta. «Principe Mordred.» Si inchinò. «Signora.» «Perdonatemi se vi ricevo qui. Stavo lavorando. Il re viene spesso e mi porta delle cose, così come le trova. Volete sedervi?» Mordred tirò a sé uno sgabello e sedette. Diede un'occhiata al tavolo ingombro. Non stava cuocendo qualche pozione su un braciere, come si era aspettato. Il «lavoro» consisteva piuttosto in un ammasso di tavolette e carte. Uno strumento che non conosceva stava nel vano della finestra, con la punta rivolta verso il cielo. Nimuë si mise a sedere, si voltò verso Mordred e attese. Lui disse subito: «Non ci siamo mai conosciuti, signora, ma io vi ho vista.» Nimuë lo guardò per un momento, poi annuì. «Il castello di Luguvallium? Sapevo che eravate vicino. Vi eravate nascosto nel cortile?» «Sì.» E soggiunse, ambiguamente: «Mi costate la libertà. Stavo cercando di scappare.» «Sì. Avevate paura. Ma ora sapete che non c'era motivo per il vostro timore.» Mordred esitò. Il tono della donna era ancora freddo e il suo sguardo ostile. «E allora, perché mi avete fermato? Speravate, allora, che il re mi avrebbe messo a morte?» Nimuë alzò le sopracciglia. «Perché me lo domandate?» «A causa della profezia.» «Chi ve ne ha parlato? Ah, sì, Morgause. No. Ho ammonito Urbgen a tenervi sotto controllo e ad assicurarsi che arrivaste a Camelot perché è sempre meglio tenere un pericolo dove si può vederlo che lasciarlo svanire e poi stare a domandarsi da che parte colpirà.» «Dunque, convenite che sono un pericolo. Credete nella profezia.» «Devo.» «Allora, lo avete visto anche voi? Nel cristallo, o nella pozza, o...» Diede un'occhiata allo strumento che stava davanti alla finestra «... nelle stelle?» Per la prima volta ci fu qualcosa di diverso dall'ostilità nello sguardo di Nimuë. Disse lentamente: «Merlino l'ha visto, e ha fatto la profezia, e io sono Merlino.» «Allora potete dirmi perché, se Merlino credeva nelle sue voci profetiche, ha lasciato che il re mi tenesse in vita? So perché Morgause lo ha fat-
to, mi ha salvato perché pensava che sarei stato la rovina del re. Me lo ha detto e quando sono cresciuto ha cercato di fare di me il suo nemico. Ma perché Merlino le ha permesso di partorirmi?» Nimuë tacque per qualche istante. I suoi occhi grigi lo scrutavano come se volessero tirar fuori dal suo cervello i segreti. Poi parlò: «Perché non voleva vedere Artù macchiato dalla colpa di assassinio, qualunque fosse la causa. Perché era abbastanza saggio da vedere che non possiamo scansare gli dei ma dobbiamo seguire come meglio possiamo i sentieri che hanno predisposto per noi. Perché sapeva che dal male apparente può anche venire un gran bene e dal bene può venire la dannazione e la morte. Perché ha anche visto che nel momento della morte di Artù la sua gloria avrà raggiunto e oltrepassato il suo apice ma che grazie a quella morte la gloria vivrà per divenire una luce e uno squillo di tromba e un respiro di vita per gli uomini a venire.» Quando smise di parlare parve che una eco dalla sua voce, debole come la vibrazione di una corda d'arpa, fremesse nell'aria fino a spegnersi nel silenzio. Poco dopo Mordred parlò: «Ma voi dovete sapere che io non porterò volutamente il male sul re. Gli devo molto, e niente di questo molto è male. Lui sapeva fin dall'inizio di questa profezia e, pur credendoci, mi ha preso alla sua corte e mi ha accettato come figlio. Come potete dunque pensare che io voglia danneggiarlo volutamente?» Lei disse, più dolcemente: «Non è necessario che sia per vostra volontà.» «State cercando di dirmi che non posso far niente per evitare questo fato di cui parlate?» «Quel che dovrà essere, sarà.» «Non potete aiutarmi?» «Ad evitare quello che sta scritto nelle stelle? No.» Mordred, con un moto di violenta impazienza, si alzò in piedi. Nimuë non si mosse, nemmeno quando fece un passo verso di lei e le rimase accanto, sovrastandola, come se volesse colpirla. «Ma è assurdo! Le stelle! Parlate come se gli uomini fossero pecore e peggio che pecore, esseri che si lasciano guidare da un fato cieco per eseguire la volontà di qualche dio malevolo! E cosa ne facciamo della mia volontà? Malgrado tutto quello che posso desiderare o fare, sono dunque condannato ad essere la morte e la rovina di un uomo che rispetto, di un re che servo? Devo dunque essere un peccatore, anzi il peggiore dei peccato-
ri, un parricida? Ma che dei sono mai questi?» Nimuë non rispose. Piegò la testa all'indietro e continuò a guardarlo. Lui disse, rabbiosamente: «Benissimo. Avete detto, e Merlino ha detto, e lo ha detto anche la regina Morgause che, come voi, era una strega,» - a quelle parole gli occhi di Nimuë fiammeggiarono, forse di irritazione, e Mordred provò un selvaggio piacere all'idea di averla colpita - «che attraverso me il re incontrerà la sua dannazione. Dite di non poterlo evitare. E allora? Cosa succederebbe se sfoderassi il mio pugnale, così, e mi uccidessi, qui e subito? Non basterebbe questo a evitare il fato che voi dite risiedere nelle stelle?» Non si era mossa al lampeggiare del pugnale, ma poi si mosse. Si alzò dalla seggiola e andò alla finestra. Rimase lì volgendogli le spalle, guardando fuori. Al di là della finestra c'era un pero sul quale cantava un merlo. Parlò senza voltarsi. «Principe Mordred, non ho detto che Artù incontrerà la sua dannazione per vostra mano e nemmeno in seguito a una vostra azione. Attraverso la vostra esistenza, ecco tutto. Quindi, uccidetevi pure adesso, se volete ma, attraverso la vostra morte, il suo fato potrebbe forse arrivargli addosso ancora più presto.» «Ma allora...» incominciò lui, disperato. Nimuë si voltò. «Ascoltatemi. Se Artù vi avesse ucciso nella vostra infanzia avrebbe potuto succedere che ci fosse una sollevazione contro di lui per la sua crudeltà e che, durante l'insurrezione, lui venisse ucciso. Se vi uccidete adesso, può darsi che i vostri fratelli, attribuendone a lui la colpa, lo rovinino. O anche che Artù stesso, precipitandosi qui a Applegarth appena saputa la notizia, cada da cavallo uccidendosi o rimanendo storpio mentre il suo regno gli crolla attorno.» Alzò le mani. «Mi capite, adesso? Il fato ha più di una freccia. Gli dei aspettano dietro una nube.» «Allora, sono crudeli.» «Questo lo sapete già, non è vero?» Mordred si ricordò il nauseante odore della casupola bruciata, la sensazione dell'osso levigato dal mare nella sua mano, il solitario grido dei gabbiani sopra la spiaggia. Incontrò gli occhi grigi e vi lesse la compassione. Disse con calma: «E allora, cosa può fare l'uomo?» «Tutto ciò che possiamo fare,» disse lei, «è vivere quello che la vita ci porta. Morire della morte che ci è data.»
«È una opinione pessimista.» «Davvero? Questo non potete saperlo.» «Cosa intendete dire?» «Voglio dire che non si può sapere cosa la vita porterà. Tutto quel che posso dirvi è questo: che per quanti anni di vita vi rimangano, per voi e per vostro padre, vedranno ambizioni realizzate e porteranno soddisfazioni e gloria, sia per lui che per voi.» A quelle parole, Mordred rimase in silenzio. Era più di quanto avesse immaginato o aspettato, era non solo una speranza ma addirittura una promessa di vita gratificante. Disse: «Così, non servirebbe che io lasciassi la corte e stessi lontano da lui?» «No.» «Perché mi vuole qui dove può vedermi? Perché è meglio affrontare una freccia di giorno che un pugnale di notte?» Vi fu l'ombra di un sorriso nella risposta. «Siete come lui,» fu tutto quello che Nimuë disse ma lui sentì che la conversazione si stava alleggerendo. Era una signora tetra, quella. Bella, sì, ma avrebbe preferito dover toccare un falcone. «Potete dirmi qualcos'altro?» «Non so niente di più.» «E Merlino lo saprà? E sarebbe disposto a dirmelo?» «Quel che sa lui lo so anch'io,» ripeté Nimuë. «Ve l'ho detto, io sono Merlino.» «Questo lo avete già detto. È una specie di indovinello per farmi sapere che il suo potere è scomparso, o semplicemente che non devo avvicinarlo?» Parlava di nuovo con impazienza. «Mi sembra di non aver fatto altro in tutta la vita che ascoltare voci di magiche morti e scomparse, e non sono mai vere. Ditemelo francamente, per piacere: se andassi a Bryn Myrddin, lo troverei?» «Se lui lo desidera, sì.» «Dunque è ancora lì?» «È dove è sempre stato, con tutti i fuochi e le glorie aleggianti attorno a sé.» Mentre parlavano, il sole aveva girato ed ora la colpiva in viso attraverso la finestra. Mordred vide le linee sottili sulla fronte liscia, l'ombra di stanchezza sotto ai suoi occhi, la trasparenza della sua pelle. Disse bruscamente: «Mi dispiace di avervi stancata.»
Lei non negò. Si limitò a dire: «Sono contenta che siate venuto,» e lo seguì verso la porta della torre. «Grazie per la vostra pazienza,» disse Mordred e stava per pronunciare un saluto formale quando un grido dal cortile lo fece sussultare. Tornò indietro e guardò giù. Nimuë fu in un attimo al suo fianco. «Farete meglio ad andare, adesso, e alla svèlta. Il vostro cavallo si è liberato dalla pastoia e credo che abbia mangiato qualche nuova piantina.» La sua faccia si illuminò di malizia, giovane e vivace come quella di una bambina che si comporta male in un tempio. «Se Varro vi ucciderà con il suo badile, come mi sembra probabile, vedremo cosa ne farà il fato di una simile evenienza!» Lui le baciò la mano e corse giù per riprendere il cavallo. Mentre si allontanava, Nimuë' lo seguì con uno sguardo che era nuovamente triste ma non più ostile. 7 Mordred temeva che il re gli domandasse di cosa aveva parlato con Nimuë, ma non lo fece. Il giorno dopo mandò a chiamare suo figlio e gli parlò della visita proposta al re sassone Cerdic. «Ti avrei lasciato qui a casa come responsabile, il che sarebbe stata un'utile esperienza per te, ma ti sarà ancora più utile conoscere Cerdic ed assistere ai colloqui, così lascerò come sempre Bedwyr. Con il rango di reggente dal momento che, ufficialmente, lascio il mio regno per uno straniero. Hai mai conosciuto un sassone, Mordred?» «Mai. Sono davvero dei giganti che bevono il sangue dei bambini?» Il re rise. «Vedrai. Certo, la maggior parte di loro sono grandi e le loro usanze sono diverse dalle nostre. Ma quelli che li conoscono e sanno parlare la loro lingua mi dicono che i loro poeti e artisti sono rispettabili. I loro guerrieri lo sono sicuramente. Li troverai interessanti.» «Quanti uomini porterete?» «Dato che siamo in pace, solo un centinaio. Un seguito regale e niente di più.» «Potete contare sul fatto che un sassone osservi la tregua?» «Cerdic sì, anche se con la maggior parte dei sassoni la fiducia viene solo dalla forza e il ricordo di Badon è ancora fresco. Ma questo non ripeterlo,» disse Artù. Tra i cento prescelti c'era anche Agravain, ma non Gawain né Gareth. I
due erano andati a nord quasi subito dopo la riunione del consiglio. Gawain aveva parlato di raggiungere Dunpeldyr e magari, di lì, le Orcadi e sebbene sospettasse che le intenzioni di suo nipote fossero ben altre, Artù non aveva visto nessuna buona ragione per impedirglielo. Sperando che Lamorak si fosse diretto a ovest per raggiungere suo fratello sotto le bandiere di Drustan, dovette accontentarsi di mandare un corriere con un avvertimento in Dumnonia. Il re e i suoi cento uomini si misero in viaggio in una bella e ventosa giornata di giugno. La loro strada li portò sugli altopiani. Piccole farfalle azzurre e fritillarie chiazzate volavano come nubi sul prato fiorito. L'allodola cantava. Il sole batteva in grandi fasci dorati sui campi quasi maturi e i contadini, bianchi dalla polvere sollevata dal vento, alzavano gli occhi e salutavano il gruppo con grandi sorrisi. Gli uomini cavalcavano tranquilli, parlando e ridendo, e l'umore era lieve. Salvo, palesemente, quello di Agravain. Cavalcava accanto a Mordred che stava un po' da parte, più indietro del re che stava parlando con Cei e Bors. «La nostra prima missione con il Sommo Re e guarda che roba. Un carnevale.» Parlava con disprezzo. «Tutto quel parlare di guerra e di regni che cambiano mano e di reclutare eserciti per difendere nuovamente le nostre coste, e questo è tutto quel che ne esce. Sta diventando vecchio, ecco la verità. Dovremmo prima ributtare quei sassoni in mare e poi ci sarebbe tempo per parlare... Invece no! Cosa facciamo? Andiamo a cavallo con i comandanti di tante battaglie, in una missione di pace. Dai sassoni. Alleati dei sassoni? Puah! Avrebbe dovuto lasciarmi andare con Gawain.» «Glielo hai chiesto?» «Certo.» «Anche quella era una missione di pace,» disse Mordred guardando dritto tra le orecchie del cavallo. «Non si prevedevano complicazioni a Dunpeldyr, solo qualche chiacchiera diplomatica con Tydwal. E c'era anche Gareth per contribuire alla calma.» «Non fare l'ingenuo con me!» disse rabbiosamente Agravain. «Sai benissimo perché è andato.» «Lo posso immaginare. Chiunque lo può immaginare. Ma se trova Lamorak, o notizie di lui, speriamo che Gareth riesca a persuaderlo a dimostrare un po' di buon senso. Perché altrimenti pensi che Gareth abbia chiesto di andare con lui?» Mordred si voltò per guardare in faccia Agravain. «E se incontrasse Gaheris, puoi sperare la stessa cosa anche tu. Immagino
che tu sappia dov'è Gaheris. Be', se Gawain riesce ad acciuffare uno dei due, farai meglio a non saperne niente. E io non voglio saperne niente.» «Tu? Tu sei talmente addentro nelle faccende del re che mi sorprende che tu non lo abbia avvisato.» «Non ce n'era bisogno. Deve sapere bene quanto te cosa conta di fare Gawain. Ma non può tenerlo in gabbia per sempre. Il re non è solito sprecare tempo su quello che non può impedire. Quel che può sperare, probabilmente invano, è che la ragione prevalga.» «E se Gawain incontra Lamorak, il che può succedere, magari per caso, cosa ti aspetti che faccia?» «Lamorak deve proteggere se stesso. Ne è perfettamente capace.» E soggiunse: «Accetta quello che la vita ti dà. Muori della morte che ti verrà.» Agravain lo guardò attonito. «Cosa? Che razza di discorsi sono questi?» «È qualcosa che ho sentito di recente. E cosa mi dici di Gaheris? Ti sta bene anche che Gawain incontri lui?» «Non troverà Gaheris,» disse fiduciosamente Agravain. «Oh, dunque sai dov'è?» «Cosa ne pensi? Certo che mi ha fatto sapere qualcosa. E questo il re non lo sa, puoi esserne sicuro! Non è onnisciente come credi tu, fratello.» Mordred non rispose, ma Agravain continuò senza bisogno di incoraggiamento: «Altrimenti non si sarebbe messo in un inutile viaggio come questo lasciando Bedwyr a Camelot.» «Qualcuno deve pur restare.» «Con la regina?» «Non sono né sciocco né sordo. Sento quello che le malelingue dicono. Ma faresti meglio a tenere a bada la tua, Agravain.» «Mi stai minacciando?» «Non ne ho bisogno. Lascia solo che il re senta una volta...» «Se è vero che sono amanti, dovrà pur sentirlo.» «Non può essere vero! Bedwyr è intimo del re e della regina, sì, ma...» «E dicono che il marito è sempre l'ultimo a sapere.» Mordred provò un impeto d'ira così violento che lo sorprese. Incominciò a parlare, guardando verso il re e i cavalieri che gli stavano ai lati e la sua voce era sommessa: «Smettila. Sono comunque discorsi sciocchi e qui qualcuno potrebbe sentirti. E tieni la lingua a posto con me. Non voglio entrarci.» «Eri pur pronto ad ascoltare quando si metteva in discussione la virtù di
tua madre.» Mordred disse, esasperato: «In discussione! Io ero lì; per dio! Li ho visti a letto assieme!» «E te ne è importato così poco che hai lasciato scappare quell'uomo!» «Lascia perdere, Agravain! Se Gaheris avesse ammazzato lì Lamorak, mentre il re stava ancora trattando con Drustan perché lasciasse la Dumnonia e si unisse ai Compagni...» «Hai pensato a quello? Con lei... loro... lì, sotto i tuoi occhi?» «Sì.» Agravain lo fissò sgranando gli occhi. Il sangue gli arrossava le guance e saliva fino alla fronte. Poi, con disprezzo e furore impotente, tirò le redini con tanta violenza che il sangue sprizzò sul morso. Mordred, liberato dalla sua presenza, proseguì da solo fino a quando Artù, voltandosi, lo vide e gli fece cenno di avvicinarsi. «Guarda! Ecco il confine. E siamo attesi. L'uomo al centro, quello biondo con il mantello azzurro, è Cerdic in persona.» *** Cerdic era grande, con i capelli e la barba argentei e gli occhi azzurri. Indossava una lunga veste grigia e, sopra, un mantello azzurro. Era disarmato salvo che per il pugnale ma un paggio alle sue spalle portava la sua spada, la pesante spada sassone dal fodero di cuoio rinforzato con oro lavorato. Sui lunghi capelli accuratamente pettinati portava una corona d'oro finemente cesellata e nella sinistra reggeva un bastone che, dalle finiture d'oro e dall'impugnatura incisa, pareva essere il bastone del comando reale. Dietro a Cerdic c'erano i suoi thegns, o signori della guerra, vestiti come il loro re salvo che non portavano corona ma degli alti copricapo di cuoio dai vivaci colori. Artù e i suoi scesero da cavallo. I re si salutarono. I due uomini alti, riccamente vestiti e scintillanti di gioielli, uno bruno e uno biondo, si scrutarono a vicenda come grandi cani trattenuti dal guinzaglio. Poi, come se una scintilla di simpatia si fosse accesa tra loro, entrambi sorrisero e, nello stesso istante, si tesero la mano. Si afferrarono per le braccia e si baciarono. Fu il segnale. Le file di biondi guerrieri alti si ruppero e avanzarono con grida di benvenuto. I mozzi corsero avanti con i cavalli e la comitiva tornò a montare in groppa. Mordred, chiamato con un cenno dal re, ricevette il
bacio di cerimonia di Cerdic e si trovò poi a cavalcare tra il re sassone e il fulvo thegn che, come si seppe poi, erano un cugino della regina di Cerdic. La capitale sassone non era lontana, forse a un'ora di cammino che percorsero senza fretta. I due re parevano soddisfatti e, fianco a fianco, chiacchieravano con l'interprete che si sforzava di cogliere e ripetere tutto quel che dicevano. Mordred, all'altro lato di Cerdic, poteva udire poco e quasi subito smise di sforzarsi tra le grida e le risa della truppa, mentre sassoni e britanni cercavano di capirsi a vicenda. Lui e il suo vicino, con gesti e sorrisi, riuscirono a scambiarsi i nomi: il thegn dai capelli rossi si chiamava Bruning. Alcuni dei sassoni, quelli che avevano passato tutta la vita nei territori federati della Costa Sassone, sapevano abbastanza della lingua degli altri. Si trattava in genere di uomini anziani mentre i più giovani dovevano affidarsi alla buona volontà e alle risa per stabilire qualche genere di rapporto. Agravain, scostante, cavalcava isolato con un gruppo di britanni più giovani che parlavano tra loro in tono sommesso, ed erano ignorati da tutti. Mordred, guardandosi attorno, trovò nel paesaggio che lo circondava, pur nelle poche miglia che stavano attraversando, una quantità di cose nuove che lo interessavano. In mancanza di un interprete, lui e Bruning si accontentavano di scambiarsi di tanto in tanto un sorriso indicando qualche punto che stavano attraversando. I campi erano coltivati in modo molto diverso; gli attrezzi usati dai contadini erano strani, alcuni rozzi, altri ingegnosi. Gli edifici che oltrepassavano erano molto diversi dalle strutture di pietra che conosceva; qui si usava poca pietra ma le capanne e le stalle rivelavano una grande perizia nella lavorazione del legno. Il bestiame che pascolava e le greggi erano grassi e parevano ben curati. Un branco di oche attraversò la strada strillando e facendo impennare i primi cavalli del gruppo. La guardiana del branco, una bambina dai capelli color paglia, con gli occhi azzurri rotondi e un grazioso visetto accesso dal rossore, lo inseguì agitando una verga. Artù, ridendo, le lanciò una moneta e lei, gridando qualcosa in risposta, la afferrò e corse dietro alle sue oche. I sassoni, a quanto pareva, non erano intimoriti dai re e in effetti la cavalcata che Agravain aveva raggiosamente definito un carnevale, incominciava davvero a somigliarvi. Gli uomini più giovani fischiarono e gridarono qualcosa dietro alla ragazzina che aveva rialzato la gonna e correva agile come un ragazzo esponendo generosamente le lunghe gambe nude. Bruning, indicandola, si chinò verso Mordred. «Hwaet! Faeger maegden!» Mordred annuì con un sorriso, poi si rese conto con sorpresa di quello
che gli stava lentamente succedendo da qualche minuto. Attraverso le grida e le risate gli era giunta qualche parola, a volte una frase che, senza tradurla consciamente, aveva capito. «Una bella ragazza! Guarda!» I suoni, tra gutturali e musicali, si collegavano nel suo cervello a immagini dell'infanzia; l'odore del mare, le barche dondolanti, le voci dei pescatori, la bellezza delle navi dalla prora acuta che a volte attraversavano i campi di pesca degli isolani; i grandi marinai biondi che entravano nei porti delle Orcadi per cercar riparo dal maltempo o, quando il tempo era bello, per commerciare. Non pensava che fossero stati sassoni, ma dovevano esserci molte inflessioni e parole comuni ai sassoni e ai norvegesi. Si mise ad ascoltare e trovò che il significato gli arrivava a brandelli, come una poesia imparata nell'infanzia. Ma, essendo lì Mordred, non disse niente e non diede segno. Seguitò a cavalcare ascoltando. Poi oltrepassarono la cresta di una collina erbosa e, sotto di loro, apparve la capitale dei sassoni. Il primo pensiero di Mordred, vedendo la capitale di Cerdic, fu che era poco di più di un villaggio rozzamente costruito. Il secondo fu di divertimento per come lui, il figlio del pescatore, doveva aver viaggiato dai giorni in cui un villaggio ancor più rozzamente costruito nelle isole lo aveva fatto ammutolire per l'ammirazione. La cosiddetta capitale di Cerdic era un insieme sparso di edifici di legno circondati da una palizzata. All'interno della palizzata, in posizione centrale, c'era la casa del re, una struttura oblunga, dalle dimensioni di un granaio e costruita interamente in legno, con un tetto aguzzo coperto di paglia e un'apertura centrale per il fumo. Alle due estremità della sala c'erano due porte e le finestre, strette e alte, erano disposte a intervalli lungo le pareti. Era costruita simmetricamente e la si sarebbe potuta dire bella fino a che la memoria non ritornava alle torri dorate di Camelot e alla grande struttura in pietra di origine romana di Caerleon o Aquae Sulis. Le altre case, pure costruite simmetricamente ma molto più piccole, stavano raggruppate attorno alla casa del re, apparentemente a caso. Tra di esse, accanto ad esse, persino lungo i loro muri, c'erano i ricoveri per gli animali. Gli spazi aperti tra gli edifici brulicavano di galline, maiali e oche e bambini e cani giocavano tra le ruote dei carri o tra gli alberi sparsi tra cui sorgevano le cataste di legna. L'aria odorava di sterco, di erba appena tagliata e di fumo di legna. Le grandi porte erano aperte. La comitiva le oltrepassò a cavallo passan-
do sotto un'arcata su cui sventolava lo stendardo di Cerdic, una sottile bandiera blu biforcuta che schioccava nella brezza come una frusta. Sulla porta della sala c'era la regina di Cerdic, pronta a ricevere i visitatori nella sua casa così come suo marito li aveva ricevuti ai confini del regno. Era alta quasi quanto suo marito, incoronata come lui e con le lunghe trecce bionde intrecciate con fili d'oro. Salutò Artù e, dopo di lui, Mordred e Cei con il bacio rituale di benvenuto e subito dopo, con sorpresa di Mordred, accompagnò la comitiva reale nella sala. Il resto della truppa rimase fuori dove, in seguito, le grida lontane e il cozzo di metallo e lo scalpitare di zoccoli indicarono che i più giovani guerrieri sassoni e britannici stavano gareggiando nel campo fuori dalla palizzata. La comitiva reale, accompagnata dall'interprete, sedette accanto al focolare al centro della sala dove il fuoco, appena preparato, non era stato ancora acceso. Due ragazze, che erano due copie bionde di Cerdic, si avvicinarono con brocche di idromele e birra. Fu la regina in persona ad alzarsi e, prese le brocche dalle mani delle sue giovani figlie, a servire gli ospiti. Poi le ragazze se ne andarono ma la regina rimase, tornando a sedersi alla sinistra del suo signore. La conversazione, forzatamente rallentata dalla necessità di tradurre, continuò lungo il pomeriggio. All'inizio si parlò soprattutto di questioni interne, commerci e mercati e di una possibile revisione, nel futuro, dei confini tra i due regni. Solo come corollario a questo, si passò alla fine a parlare di un'eventuale possibilità di reciproco aiuto militare. Cerdic era già al corrente della crescente pressione esercitata contro i suoi compatrioti nel loro sempre più ristretto territorio sul Continente. I Sassoni Orientali, più vulnerabili del popolo di Cerdic, stavano già cercando alleanze con gli inglesi tra il Tamigi e l'Humber. Lui stesso aveva avvicinato i Sassoni Medi di Suthrige. Quando Artù chiese se lui, Cerdic, aveva anche esplorato la possibilità di un'alleanza con i Sassoni Meridionali il cui regno, nell'estremo angolo sud-orientale della Britannia, era il più comodo territorio di sbarco per qualunque nave che arrivasse dal Mare Stretto, Cerdic fu guardingo. Da quando era morto il grande capo dei Sassoni Meridionali, Aelle, non c'era stato nessun condottiero degno di nota. «Nullità» fu l'espressiva parola usata dal re dei Sassoni Occidentali. Artù non insistette nella domanda ma passò alle notizie dal Continente. Cerdic non aveva saputo della morte dei figli di Clodomiro e si fece serio nel considerare i probabili cambiamenti che ne sarebbero derivati e la posizione sempre più rischiosa della Bretagna, l'unico stato cuscinetto tra i territori costieri della Britannia
e i minacciosi regni Franchi. Con il passare del tempo, l'idea che in un momento del prossimo futuro Britanni e Sassoni potessero unirsi nella difesa delle coste del loro paese non parve più tanto strana. Finalmente, il colloquio si concluse. Sulla soglia della sala il sole declinava, pallido. Dai campi, il rumore delle gare non veniva più. Le mucche muggivano mentre venivano condotte alla mungitura e l'odore dei fuochi di legna riempiva l'aria. Il vento era caduto. La regina si alzò e lasciò la sala in cui entrarono di corsa un paio di servi per disporre le assi per la cena e gettare una torcia per accendere il camino. Da qualche parte, risuonò un corno. Assieme, i guerrieri di Cerdic e di Artù rientrarono ancora eccitati e presero posto, apparentemente a caso, ai lunghi tavoli dove, urlando come se fossero ancora all'aria aperta e picchiando sul piano di legno le impugnature dei pugnali, chiesero cibo e bevande. Il rumore era terribile. I Compagni di Artù, dopo un momento di muta confusione, si unirono allegramente al tumulto. Il linguaggio non aveva più importanza. Quel che si diceva era più che chiaro a tutti. Poi, nuove grida si alzarono quando birra e idromele vennero portati, seguiti da grandi vassoi di carni arrostite ancora fumanti e sfrigolanti e i thegns sassoni che, fino a quel momento, avevano cercato di comunicare con gesti e scoppi di risa, si interruppero di botto e rivolsero la loro feroce attenzione al bere e al mangiare. Qualcuno tese a Mordred un corno - era levigato come avorio e magnificamente montato in oro -, qualcun altro lo riempì fino all'orlo e, allora, anche lui dovette dedicarsi completamente al suo piatto, cioè ad impedire ai suoi vicini di seguitare a caricarlo con i cibi migliori. La birra era forte e l'idromele ancora più forte. Ben presto, molti dei guerrieri furono ubriachi e si addormentarono là dove stavano seduti. Anche alcuni del seguito di Artù soccombettero a quella straordinaria ospitalità e incominciarono a sonnecchiare. Mordred, ancora sobrio ma sapendo che lo era solo grazie a uno sforzo, strinse gli occhi contro il sole calante che entrava dalla porta aperta e si sforzò di vedere cosa stavano facendo i re. Cerdic era acceso in volto e appoggiato allo schienale ma seguitava a parlare; Artù, sebbene il suo piatto fosse vuoto, appariva freddo quanto si poteva esserlo in quella sala surriscaldata. Mordred capì come aveva fatto: il suo grande cane, Cabal, steso sotto al tavolo accanto alla sua sedia si stava leccando i baffi. Il sole tramontò, le torce vennero accese e riempirono la sala di luce fumosa. Nella sera immobile, il fuoco ardeva vivace mentre il fumo saliva
attraverso l'apertura nel soffitto o si muoveva in volute tra i commensali costringendoli' a tossire e ad asciugarsi gli occhi. Finalmente, quando i piatti furono vuoti e i corni incominciarono ad essere più di rado allungati verso i servi che li riempivano, incominciò l'intrattenimento. Per primo venne un gruppo di menestrelli che danzarono al suono di trombe e corni, e con loro una coppia di giocolieri che, prima con palle colorate e poi con pugnali o qualunque cosa venisse loro lanciata dai signori ancora sobri, fecero sorprendenti arabeschi nell'aria fumosa. I due re lanciarono del denaro e i menestrelli, raccattandolo, si inchinarono e si ritirarono, seguitando a danzare e far giochi. Poi, l'arpista prese il suo posto. Era un uomo magro e scuro e indossava una veste ricamata di aspetto costoso. Sistemò il suo sgabello vicino al focolare e chinò il capo per accordare le corde. Mordred vide Artù che girava bruscamente la testa udendo il suono per poi adagiarsi nel suo seggiolone e disporsi all'ascolto, con la faccia in ombra. Poco a poco il rumore della sala si smorzò e si stabilì un silenzio rotto solo dal russare di qualche ubriaco e da qualche ringhio dei cani che, tra la paglia, si contendevano gli avanzi. L'arpista incominciò a cantare. Aveva una voce chiara e, come capitava spesso a uomini come lui, era esperto nelle lingue. Cantò dapprima nella lingua degli ospiti, una canzone d'amore e poi un lamento. Poi, nella sua lingua, cantò una canzone che, dopo la prima mezza dozzina di versi, incantò tutti quelli che l'ascoltavano, capissero o no le parole. ... Triste, triste l'uomo fedele Che sopravvive al suo signore. Vede il mondo ormai desolato Come un muro abbattuto dal vento, Come un castello vuoto dove la neve Turbina dentro dalle finestre aperte, Turbina sul letto a pezzi Sul nero focolare del camino... Bruning dai capelli rossi, che stava di fronte a Mordred, sedeva immobile e le lacrime gli scendevano giù per la faccia. Mordred, sfiorato dal tocco di un dolore da tempo dimenticato, doveva far ricorso a tutto il suo autocontrollo per non manifestare emozione. Improvvisamente, come se si fosse sentito chiamare per nome, si girò e vide suo padre che lo osservava. Gli
occhi dei due uomini, così simili, si incontrarono e rimasero uniti. In quelli di Artù c'era qualcosa dell'espressione che Mordred aveva visto in quelli di Nimuë: impotenza e tristezza. Nei suoi, lo sapeva, c'era ribellione e una feroce volontà. Artù gli sorrise e distolse gli occhi quando gli applausi incominciarono. Mordred si alzò in piedi e uscì dalla sala. Per tutta la durata del festeggiamento, di tanto in tanto gli uomini erano usciti per darsi sollievo e così nessuno fece caso a lui né lo seguì con lo sguardo. Le porte erano chiuse ma all'interno della palizzata lo spazio era libero. Bestie, polli e bambini, al calar del sole erano stati portati dentro per mangiare e dormire e ora anche gli uomini erano in casa con le loro donne. Mordred camminò lentamente lungo l'ombra della palizzata, cercando di pensare. Nimuë e il suo implacabile messaggio: La tua volontà non conta nulla, la tua esistenza è tutto. Il re, che molti anni prima aveva avuto lo stesso messaggio e lo aveva lasciato a quei crudeli e nebbiosi dei... Ma ci sarebbe stata l'ambizione soddisfatta, e la sua parte di gloria. Naturalmente, un uomo pratico non credeva in quelle parole incantatrici. E nemmeno poteva credere nelle profezie di sventura... Si premette il palmo sulla fronte. L'aria era fresca e dolce dopo il puzzo e il fumo della sala. Poco a poco gli si schiariva il cervello. Sapeva quanto ancora doveva essere lontano dal realizzare le sue ambizioni, quelle segrete ambizioni e quei desideri. Ci sarebbero voluti sicuramente molti anni prima che lui o il re dovessero temere quanto gli dei malvagi tenevano in serbo. Quello che Artù aveva fatto per lui in tutti gli anni passati, adesso poteva farlo lui per Artù. Dimenticare la «rovina» ed attendere che il futuro si manifestasse. Un movimento nell'ombra di un mucchio di legna attirò la sua attenzione. Un uomo, uno del seguito di Artù. Due uomini: no, tre. Uno di loro attraversò il bagliore di un distante fuoco da cucina. Mordred riconobbe Agravain. Non era lì fuori semplicemente per liberarsi. Si era seduto sulla stanga di un carro lasciato vuoto accanto alla catasta di legna e i suoi due compagni gli stavano accanto, in piedi, chinandosi per parlargli concitatamente. Uno di loro, Calum, lo conosceva; l'altro, gli parve di riconoscerlo. Erano entrambi due giovani celti, intimi amici di Agravain e, prima, di Gaheris. Quando Agravain, adirato, aveva lasciato il fianco di Mordred durante la cavalcata, aveva raggiunto il gruppo in cui cavalcavano quei due e qualche brandello della loro conversazione era giunto alle orecchie di Mordred. Improvvisamente, ogni pensiero su Nimuë e le sue fosche stelle gli uscì
dal cervello. I giovani celti: quelle parole avevano di recente assunto una specie di significato politico, nel senso di un partito di giovani uomini d'armi provenienti in maggioranza dai regni celti fuori dal paese e insofferenti della «pace del Sommo Re» e della centralizzazione del governo del paese basso oltre che stufi del ruolo di custodi della pace creato per i suoi cavalieri erranti. C'era stata poca opposizione palese; i giovani tendevano a mostrarsi sprezzanti verso «la piazza del mercato dei vecchi» nella Sala Rotonda; parlavano tra loro e alcuni dei loro discorsi, si diceva, sfioravano la sedizione. Così era per i mormorii, che nelle ultime settimane si erano intensificati come se qualcuno li alimentasse accuratamente, su Bedwyr e la regina Ginevra. Mordred si allontanò silenziosamente fino a che un granaio frappose la sua massa tra lui e il gruppetto di uomini. Camminando a testa china e, ormai, con il cervello freddo, riprese a pensare. Era vero che in tutti i suoi stretti rapporti con loro non aveva mai visto la regina favorire Bedwyr con parole o sguardi più degli altri uomini, se non come migliore amico di Artù e in presenza di Artù. Semmai, il suo comportamento con lui era eccessivamente cerimonioso. A volte, Mordred si era chiesto cosa potesse significare quell'aria di autocontrollo che di tanto in tanto aveva sentito tra due persone che pure si conoscevano da tanto tempo e con tanta intimità. No, si corresse, non autocontrollo. Piuttosto una distanza accuratamente mantenuta là dove la distanza non pareva necessaria. Varie volte Mordred aveva notato che Bedwyr pareva sapere cosa intendesse la regina senza che lei avesse bisogno di tradurre i suoi pensieri in parole. Respinse il pensiero. Quello era veleno, il veleno che Agravain aveva cercato di distillare. Ma c'era una cosa che poteva fare. Gli piacesse o no, era legato ai fratelli delle Orcadi e, negli ultimi tempi, più strettamente con Agravain. Se Agravain lo avesse avvicinato ancora, lo avrebbe ascoltato per scoprire se il malcontento dei giovani celti era qualcosa di più di una naturale ribellione di giovani contro le regole dei loro maggiori. Quanto alla campagna di mormorii riguardanti Bedwyr e la regina, anche quella doveva essere solo una questione di tattica. Un cuneo frapposto tra Artù e il suo più vecchio amico, il fidato reggente che serbava il suo sigillo e agiva come un suo alter ego, poteva essere lo scopo di qualunque partito che cercasse di indebolire la posizione del Sommo Re e di minarne la politica. Anche quello doveva ascoltare, Anche di quello, se ne trovava il coraggio, avrebbe dovuto avvisare il Re. Solo delle calunnie. Fatti non ce n'erano.
Non c'era niente di vero nelle storie su Bedwyr e la regina... 8 Non poté tuttavia evitarlo quando furono nuovamente a Camelot. Qualche tempo dopo il loro ritorno dalla capitale di Cerdic, il re fece chiamare Mordred e gli chiese di stare vicino al suo fratellastro e sorvegliarlo. Durante la conversazione il re disse di aver saputo da Drustan, il famoso capitano che aveva sperato di portare sotto le sue bandiere, che, essendo concluso il suo periodo di servizio in Dumnonia, lui stesso, il suo caposaldo nordico e le sue truppe di esperti uomini d'arme si sarebbero ben presto messi a disposizione del Sommo Re. In quel momento era in viaggio diretto a nord al suo castello di Caer Mord per rimetterlo in buone condizioni prima di venire a Camelot. «Fin qui,» disse Artù, «tutto bene. Ho bisogno di Caer Mord e avevo sperato proprio questo. Ma Druston, per una qualche questione d'onore del passato, è fratello di sangue di Lamorak per giuramento, e come se non bastasse, ha attualmente al suo servizio il fratello di Lamorak, Drian. Bene, mi ha già detto chiaramente che mi chiederà di invitare Lamorak a far ritorno a Camelot.» «E lo farete?» «Come posso evitarlo? Non ha fatto niente di male. Magari avrà scelto male il momento, e magari sarà stato ingannato, ma si era fidanzato con lei. E anche se non lo fosse stato,» disse il re allusivamente, «io sono l'ultimo uomo al mondo ad avere il diritto di condannarlo per quello che ha fatto.» «Ed io il penultimo.» Il re gli lanciò un'occhiata che era un mezzo sorriso ma la sua voce era calma. «Capisci cosa succederà. Lamorak ritornerà e poi, a meno che i tuoi tre fratelli maggiori non possano essere ricondotti alla ragione, avremo una faida che spaccherà a metà i Compagni.» «Dunque Lamorak è con Drustan?» «No. Non ancora. Non ti ho detto il resto. Adesso so che è andato in Bretagna ed ha abitato lì con il cugino di Bedwyr che tiene Benoic per suo conto. Ho ricevuto delle lettere. Mi dicono che Lamorak ha lasciato Benoic e si ritiene che stia andando per nave in Northumbria. Sembra probabile che sia al corrente dei piani di Drustan e speri di raggiungerlo a Caer
Mord. Cosa ti succede?» «Northumbria,» disse Mordred. «Mio signore, credo... so... che Agravain è in contatto con Gaheris e ho anche motivo di sospettare che Gaheris sia da qualche parte in Northumbria.» «Vicino a Caer Mord?» chiese seccamente Artù. «Non lo so. Ne dubito. La Northumbria è un grande paese e Gaheris, non può conoscere i movimenti di Lamorak.» «A meno che non conosca quelli di Drustan e tiri a indovinare, o che Agravain non abbia sentito delle voci qui a corte e lo abbia informato» disse Artù. «Bene. C'è solo una cosa da fare; far tornare i tuoi fratelli qui a Camelot dove possono essere sorvegliati e, in qualche misura, controllati. Manderò a Gawain un serio ammonimento e lo riconvocherò qui a sud. Al momento buono, se vi sarò costretto e se Lamorak sarà d'accordo, permetterò a Gawain di proporgli un combattimento, qui e pubblicamente. Questo dovrebbe bastare a raffreddare quel sangue caldo. Come Gawain riceverà Gaheris è affar suo e io non posso interferire.» «Farete ritornare Gaheris?» «Se è in Northumbria e Lamorak è diretto a Caer Mord...» «Secondo il principio che è meglio osservare la freccia mentre vola che lasciarla colpire non vista?» Per un momento, Mordred pensò di aver fatto un errore. Il re gli scoccò una rapida occhiata come se fosse sul punto di fare una domanda. Forse Nimuë aveva usato quella stessa immagine con lui e a proposito di Mordred stesso. Ma Artù lasciò passare il momento. Disse: «Questo lo lascerò a te, Mordred. Dici che Agravain è in contatto con il suo gemello. Farò sapere che la sentenza su Gaheris è revocata e manderò Agravain a riprenderlo. Insisterò perché tu vada con lui. Diffido di loro ma più che mandare te non posso fare. Non posso certo inviare delle truppe per assicurarmi che facciano ritorno. Credi che accetterà?» «Credo di sì. In un modo o nell'altro lo convincerò.» «Ti rendi conto che ti sto chiedendo di fare la spia? Di sorvegliare i tuoi stessi parenti? È qualcosa che puoi deciderti a fare?» Mordred disse, bruscamente: «Non avete mai osservato un cuculo nel nido?» «No.» «Al mio paese ce ne sono molti nella brughiera. Poco dopo aver covato le uova scaraventano i loro piccoli fuori dal nido e rimangono...» stava per dire «a governare» ma si fermò in tempo. Non lasciò nemmeno intendere
di aver pensato quelle parole e finì con impaccio: «Volevo solo dire che non infrangerò nessuna legge naturale, mio signore.» Il re sorrise: «Be', sono il primo io ad affermare che mio figlio sarà migliore di tutti quelli di Lot. Dunque, Mordred, sorveglia per me Agravain e riportameli qui tutti e due. Allora, forse,» concluse un po' stancamente, «al momento dovuto, le spade delle Orcadi potranno rientrare nel fodero.» Poco dopo quel colloquio, in una splendida giornata all'inizio di ottobre, Agravain seguì Mordred che, attraverso la piazza del mercato, entrava a Camelot, e lo raggiunse accanto alla fontana. «Ho il permesso del re di andare a nord. Ma non da solo, dice lui. E tu sei l'unico dei cavalieri di cui può fare a meno. Vuoi venire con me?» Mordred si fermò e si permise di lasciargli vedere uno sguardo sorpreso. «Alle isole? Credo di no.» «Non alle isole. Pensi che andrei lì in ottobre? No.» Agravain abbassò la voce sebbene nei paraggi non ci fosse nessuno eccetto due bambini che tuffavano le mani nella fontana. «Mi ha detto che revocherà il bando di Gaheris. Lo lascerà tornare a corte. Mi ha domandato dove poteva mandare il corriere ma io gli ho risposto che ero legato al segreto e non potevo rompere il giuramento. Così ha detto che magari potevo andare io e riportarlo qui, se tu venivi con me.» Un ghigno, appena velato. «Sembra che si fidi di te.» Mordred ignorò il sarcasmo. «Questa è una buona notizia. Molto bene. Verrò volentieri con te. Quando?» «Appéna possibile.» «E dove?» Agravain rise. «Lo scoprirai quando sarai arrivato lì. Ti ho detto che sono legato al segreto.» «Sei stato in contatto con lui durante tutto questo tempo?» «Certo. Non te lo aspettavi?» «Come? Per lettera?» «E come avrebbe potuto mandarmi delle lettere? Non ha uno scrivano che legga o scriva per lui. No, di tanto in tanto ho ricevuto dei messaggi da commercianti, tipi come quel mercante là che sta sistemando il suo banco di tessuti. E allora, fratello, preparati e domani mattina partiremo.» «Un viaggio lungo? Almeno questo devi dirmelo.» «Abbastanza lungo.» I bambini che giocavano lanciarono una palla tra i piedi di Mordred. Lui allungò un piede, la fece saltare su, la prese in mano e gliela ributtò. Si
sfregò le mani per ripulirle, sorridendo. «Benissimo. Sono contento di venire con te. Sarà bello tornare a cavalcare verso il nord. Continui a non volermi dire dove siano diretti?» «Lo saprai quando saremo lì,» ripeté Agravain. *** Finalmente, alla fine di un buio e nebbioso pomeriggio, arrivarono a una torretta semidiroccata sulla brughiera di Northumbria. Il luogo era selvaggio e desolato. Persino le deserte brughiere della principale isola delle Orcadi, con i loro lochs e la luce che parlava del mare onnipresente, parevano allegre in confronto a questa. Da tutte le parti si stendeva il terreno ondulato coperto dalla porpora dell'erica scura nella debole luce della sera. Il cielo era carico di nubi attraverso cui non passava nemmeno un raggio di sole. L'aria era immobile, senza vento, senza alcun fresco respiro dal mare. Qua e là ruscelli o fiumiciattoli il cui corso era segnato da file di ontani e da pallidi cespugli, dividevano le colline. La torre si trovava in una conca vicino a uno di quei corsi d'acqua. Il terreno era paludoso e dei massi erano stati disposti in modo da permettere di attraversare quell'acquitrino. La torre, foltamente coperta di edera e circondata da ciuffi di alberi da frutto e bacche, era stata probabilmente, un tempo, una piacevole residenza e ancora poteva esserlo in una giornata di sole. Ma in quella nebbiosa sera di autunno era un luogo tetro. Ad una finestra della torre brillava una debole luce. Legarono i cavalli a un albero e bussarono alla porta. Venne aperta da Gaheris in persona. Era stato via da corte solo pochi mesi ma già pareva che non fosse mai stato tra gente civilizzata. La barba rosso carota era cresciuta e i capelli spettinati gli scendevano sulle spalle. La giubba di cuoio che indossava era unta e sporca. Ma il suo viso si illuminò di piacere vedendo i due uomini e l'abbraccio che diede a Mordred era il più caloroso che quest'ultimo avesse mai ricevuto da lui. «Benvenuti! Agravain, non osavo sperare che tu potessi allontanarti e venirmi a trovare! E anche Mordred. Il re lo sa? Ma dovete aver mantenuto la parola, questo non ho bisogno di chiederlo. Sembra passato tanto tempo. Bene, entrate e riposatevi. Avrete tante cose da raccontarmi, questo è certo, quindi siate i benvenuti ed entrate.» Li introdusse in una stanza abbastanza piccola ricavata nella curva della
parete della torre, dove ardeva un fuoco di torba ed era accesa una lampada. Una ragazza, seduta accanto al focolare, cuciva. Alzò gli occhi, un po' intimidita e un po' spaventata alla vista degli sconosciuti. Aveva una faccia lunga e pallida, non sgradevole, e morbidi capelli bruni. Era miseramente vestita con un abito di stoffa tessuta in casa e le sgraziate pieghe della gonna non facevano nulla per nascondere la sua gravidanza. «I miei fratelli,» disse Gaheris. «Dà loro qualcosa da mangiare e da bere, poi occupati dei loro cavalli.» Non tentò nemmeno di presentarla. Lei si alzò e, mormorando qualcosa, fece un rapido e goffo inchino. Poi, posato il suo cucito, si diresse pesantemente a una credenza dall'altra parte della stanza e ne tirò fuori vino e carne. Mangiando, serviti dalla ragazza, i tre uomini parlarono di argomenti generici; l'agitazione nei regni franchi, la situazione della Bretagna, l'ambasciata sassone, il va e vieni dei cavalieri erranti di Artù e i pettegolezzi di corte anche se questi non toccarono mai il re e la regina. Il modo in cui la ragazza indugiava sul suo servizio sgranando gli occhi era un ammonimento sufficiente a non affrontare discorsi di quel genere. Finalmente, a un brusco richiamo di Gaheris sulla necessità di occuparsi dei cavalli, la ragazza uscì. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, Agravain che fremeva come un cane al guinzaglio, disse bruscamente: «Sono buone notizie, fratello.» Gaheris depose il boccale. Mordred vide, con infastidito disgusto, che aveva le unghie orlate di nero. Si sporse in avanti. «Dimmi, allora. Gawain vuole vedermi? Adesso sa che ho dovuto farlo? Oppure...» i suoi occhi brillarono in un lungo sguardo obliquo, «ha scoperto dov'è Lamorak e vuole che uniamo le nostre forze?» «No, niente del genere. Gawain è ancora a Dunpeldyr e non si sa niente di Lamorak.» Agravain, che non era mai sottile, stava palesemente dicendo quella che per lui era la verità. «Ma sono ugualmente buone notizie. Il re mi ha mandato perché ti riconduca a corte. Devi tornare a Camelot con me e Mordred.» Una pausa, poi Gaheris, arrossendo fino alle orecchie, lanciò un grido di esultanza, buttò in aria il boccale vuoto e lo riafferrò al volo. Allungò l'altra mano verso la brocca del vino e ne versò nuovamente per tutti. «Chi è la ragazza?» chiese Mordred. «Brigit? Oh, suo padre era intendente qui. Il luogo era sottoposto a una
specie di assedio da parte di un paio di fuorilegge e io li ho uccisi. Così ho ottenuto di potermi fermare liberamente.» Agravain sgranò gli occhi, poi annuì. «Ah. Sì. Dunque, nessun matrimonio.» «Nessuno.» Gaheris depose rumorosamente il boccale. «Scordatevene. Non ci sono legami. Su, ditemi tutto.» E, messo da parte l'argomento ragazza, i gemelli si immersero in una conversazione sul perdono del re, le sue possibili intenzioni e quelle di Gawain. Mordred, ascoltandoli, sorseggiava il suo vino e diceva poco. Ma notò che, cosa abbastanza sorprendente, il nome di Lamorak non veniva più menzionato. Poi la ragazza rientrò, tornò a sedersi al suo posto e riprese a cucire. Era un piccolo e semplice indumento destinato, pensò Mordred, al bambino che doveva nascere. Non disse niente ma passava gli occhi da un gemello all'altro, osservandoli e ascoltando attentamente. Quegli occhi erano ansiosi, ora, e con una traccia di paura. Nessuno dei gemelli fece nulla per nascondere l'esaltazione che provavano all'idea del richiamo di Gaheris a Camelot. Finalmente, con la lampada che ormai stava per spegnersi, si prepararono al sonno. Gaheris e la ragazza avevano un letto non lontano dal fuoco e, apparentemente, erano pronti a dividerlo con Agravain. Mordred, con suo sollievo e un po' di sorpresa, venne condotto fuori nella notte fresca e indirizzato a una scala che saliva curva lungo la parete esterna della torre. Portava a una piccola stanza superiore dove l'aria, sebbene gelida, era gradevolmente pulita. Un mucchio di erica e stracci formava un letto migliore di molti in cui aveva dormito. Stanco della cavalcata e della conversazione, si tolse gli abiti e poco dopo si addormentò profondamente. *** Quando si svegliò, era mattina. Fuori i galli cantavano e una fredda luce grigia filtrava tra le ragnatele della finestra a feritoia. Dalla stanza di sotto non veniva alcun rumore. Gettò via le coperte e, a piedi nudi, attraversò la stanza per guardar fuori dalla finestra. Poteva vedere il cadente ripostiglio che serviva da stalla e pollaio. La ragazza, Brigit, era lì con un cesto d'uova per terra accanto a sé. Stava spargendo i resti del cibo della sera prima per le galline che lo beccavano e raspavano starnazzando attorno ai suoi piedi.
La stalla era una struttura aperta, muro di fondo e pareti laterali, una mangiatoia di pietra e un tetto inclinato sorretto da pilastri fatti con tronchi di pino. Dalla finestra poteva vederne tutto l'interno. E quel che vide lo fece tornare di un balzo al letto, afferrare i vestiti e incominciare a vestirsi con fretta febbrile. Nella stalla c'era un solo cavallo. Il suo. Le funi a cui erano stati legati i cavalli dei suoi fratelli stavano abbandonate nella paglia assieme alle galline razzolanti. Si vestì rapidamente. Inutile prendersela con se stesso. Qualunque fosse la ragione che aveva indotto i suoi fratelli a ingannarlo e andarsene senza di lui, non avrebbe potuto prevederla. Raccolse la cintura con il fodero e, mentre ancora la allacciava, corse giù per le scale. La ragazza lo sentì e si voltò. «Dove sono andati?» le domandò. «Non lo so. A caccia, credo. Hanno detto di non svegliarvi e che sarebbero tornati presto, per la prima colazione.» Ma pareva spaventata. «Non fare la furba con me, ragazza. È importante. Devi avere un'idea di dove sono andati. Cosa sai?» «Io... no, signore. Non lo so. Davvero, signore. Ma ritorneranno. Magari domani. Magari tra due giorni. Io mi occuperò bene di voi...» Torreggiava su di lei. Si accorse che tremava. Si dominò e le parlò più gentilmente. «Ascolta... Brigit, vero? Non avere paura di me. Non ti farò del male. Ma è importante. È una faccenda del re. Sì, importante fino a questo punto. Tanto per cominciare, da quanto tempo se ne sono andati?» «Da circa quattro ore, signore. Sono partiti ancora prima dell'alba.» Mordred si morsicò le labbra. Poi, sempre gentilmente: «Brava ragazza. E adesso, ci deve essere dell'altro che puoi dirmi. Devi averli sentiti parlare. Cosa dicevano? Uscivano per incontrarsi con qualcuno, vero?» «Sì... sì. Un cavaliere.» «Hanno fatto un nome? Lamorak?» La ragazza tremava e si torceva le mani. «È così? Forza. Parla. Devi dirmelo.» «Sì. Sì. Il nome era quello. Era un cavaliere cattivo che aveva disonorato la madre del mio signore. Me ne aveva già parlato.» «Dove contavano di incontrare questo Lamorak?» «C'è un castello sulla costa, a molte miglia da qui. Quando il mio signore, ieri, è andato al villaggio, ha sentito... i commercianti passano di lì e lui
ci va per avere notizie... Ha sentito che questo cavaliere Lamorak doveva arrivare lì.» Ora le parole le uscivano accavallandosi. «Lo aspettavano dal mare, dalla Bretagna, credo, e non c'è porto vicino al castello, nessun punto sicuro dove sbarcare, con il tempo che abbiamo avuto, e così pensavano che sarebbe sbarcato a mezza giornata di cavallo a sud e poi, una volta che si fosse procurato un cavallo, avrebbe risalito la strada della costa. Il mio signore Gaheris voleva incontrarlo lì, prima che arrivasse al castello.» «Bloccarlo lungo il percorso, vorrai dire, e assassinarlo!» disse Mordred furiosamente. «Naturalmente, se Lamorak non lo ucciderà per primo. E anche suo fratello. È possibilissimo. È un veterano, uno dei compagni del re, un buon combattente. Ed è anche un uomo caro al re.» Lei lo fissò, sbiancando in viso. Le sue mani risalirono fino a stringersi una sull'altra sul petto, quasi volessero proteggere il bambino che portava. «Se ti è cara la vita del tuo signore,» disse duramente Mordred, «devi dirmi tutto. Quel castello... Si tratta di Caer Mord?» Lei annuì. «Dov'è e quant'è lontano?» Tese una mano. «No, aspetta. Preparami qualcosa da mangiare, presto, mentre sello il mio cavallo. Qualunque cosa. Il resto me lo dirai dopo, mentre mangio. Se vuoi salvare la vita del tuo signore, aiutami a mettermi in viaggio. Sbrigati, adesso.» Lei prese su il cesto di uova e si allontanò di corsa. Mordred andò all'abbeveratoio e si buttò acqua sulle mani e sul viso, poi gettò la sella e le briglie sul suo cavallo e, lasciandole sciolte, corse indietro verso la torre. La ragazza aveva disposto sul tavolo carne e pane, accanto alle fredde ceneri del fuoco. Piangeva mentre gli versava il vino. Mordred bevve rapidamente e masticò il pane mandandolo giù con altro vino. «E adesso, presto. Cosa è successo? Cos'altro hai sentito?» La minaccia che pesava su Gaheris le aveva sciolto la lingua. Gli raccontò senza esitazione: «Dopo che siete andato a dormire, la notte scorsa, hanno continuato a parlare. Io ero a letto. Mi ero addormentata, poi, visto che il mio signore non veniva, mi sono svegliata e ho sentito...» «E allora?» «Lui parlava di questo Lamorak che stava venendo a Caer Mord. Il mio signore era pieno di gioia perché ha giurato di ucciderlo, e adesso suo fratello era arrivato proprio nel momento giusto per andare con lui. Ha detto... il mio signore ha detto che questo era opera della Dea che aveva condotto lì suo fratello per aiutarlo a vendicare la morte di sua madre. Aveva giurato
sul sangue di sua madre...» Si inceppò e tacque. «Sì? Ti ha detto chi ha versato il sangue di sua madre?» «Ma certo, il cavaliere cattivo! Non è stato così, signore?» «Va' avanti.» «Quindi era pieno di gioia e hanno fatto il piano di partire subito assieme, senza dirvelo. Non sono venuti affatto a letto. Pensavano che fossi addormentata e sono usciti senza far rumore. Io... io non ho osato dire che avevo sentito quello che si erano detti; avevo paura e, per questo ho mentito con voi. Il mio signore parlava come se...» deglutì, «...come se fosse pazzo.» «E lo è», disse Mordred. «Va bene. È proprio quello che temevo. Adesso dimmi che strada hanno preso.» Poi, vedendola esitare ancora: «Quell'uomo è innocente, Brigit. Se il tuo signore Gaheris lo uccide, dovrà risponderne al Sommo Re Artù. Adesso non piangere, ragazza. Se mi dici la strada, forse farò a tempo a raggiungerli prima che il male sia compiuto. Il mio cavallo è riposato mentre quello di Agravain non lo è.» Pensò, con un sussulto di pietà che attraversò il disperato bisogno di fare in fretta, che qualunque cosa accadesse, probabilmente quella ragazza non avrebbe più rivisto il suo amante, ma non poteva farci nulla. Brigit non era che un'altra innocente da aggiungere a quelli che Morgause aveva colpito nella sua vita e nella sua morte. Le versò un po' di vino e le mise la tazza in mano. «Su, bevi. Ti farà sentire meglio. Presto, adesso. Dimmi la strada per Caer Mord.» Persino quel piccolo atto di gentilezza parve sopraffarla. Bevve inghiottendo le lacrime. «Non sono sicura, signore. Ma se cavalcate fino al villaggio, da quella parte, e poi scendete lungo il fiume, troverete una fucina e il fabbro vi saprà informare. Lui conosce tutte le strade.» E poi, riprendendo a singhiozzare. «Non ritornerà, vero? Sarà ucciso, o altrimenti mi lascerà e se ne andrà a sud, alla grande corte... Ma io non ho niente, e come farò ad aver cura del mio bambino?» Mordred depose sul tavolo tre monete d'oro. «Queste ti aiuteranno. Quanto al bambino...» si interruppe. Non aggiunse: «Farai meglio ad annegarlo appena nato.» Si limitò a dire arrivederci ed uscì nell'alba grigia. *** Ora che raggiunse il villaggio il cielo si era sbiancato e qua e là la gente si stava rimettendo al lavoro. Le porte della taverna erano chiuse ma un
centinaio di passi più avanti, dove la strada valicava uno stretto corso d'acqua, il fuoco della fucina era acceso e il fabbro si stava stiracchiando e sbadigliava con una tazza di birra in mano. «La strada per Caer Mord? È proprio questa qui, padrone. Si tratta di una giornata di cavallo. Andate fino al dio di pietra, poi prendere il tratturo a est verso il mare.» «Avete sentito dei cavalieri percorrere questa strada durante la notte?» «No, padrone. Quando dormo, dormo sodo,» disse il fabbro. «E il dio di pietra? Quanto è lontano?» Il fabbro passò i suoi occhi esperti sul cavallo di Mordred. «La vostra è una buona bestia, padrone, ma forse venite da lontano? Lo pensavo. Be', allora, senza spingerla troppo... diciamo, al tramonto? E da lì, solo una mezz'oretta al mare. È una buona strada. Sarete sano e salvo a Caer Mord, e senza pericoli, prima del buio.» «Di questo ne dubito,» disse Mordred spronando il suo cavallo e lasciando lì il fabbro con gli occhi sgranati. 9 Per Mordred, uomo delle Orcadi, il dio di pietra solitario sulla brughiera ondulata, era una vista familiare. Eppure, non del tutto familiare. Era un'alta pietra eretta posta nel centro solitario della brughiera. Ne aveva viste di simili molte volte, singole o disposte con altre in un largo anello, nelle brughiere delle Orcadi; ma lì le pietre erano lastre sottili e molto alte, frastagliate o smozzicate come se fossero state strappate alla scogliera vivente. Questa pietra, invece, era massiccia, di pesante granito grigio e lavorata in modo da sembrare un grosso pilastro. Alla sua base una lastra formava un altare piatto con un segno scuro al centro che avrebbe potuto essere sangue essiccato. La raggiunse al crepuscolo, mentre il sole, basso e rosso, proiettava la sua lunga ombra sulla nera erica. Si avvicinò sul suo cavallo stanco. Ai piedi dell'altare il sentiero si biforcava e Mordred fece imboccare all'animale quello diretto a sud-est. Dal pallido e selvaggio aspetto del cielo e da qualcosa di più familiare nell'aria che gli veniva incontro, sapeva che il mare non poteva essere lontano. Più avanti, al limitare della brughiera di erica, c'era una folta fascia boscosa. Ben presto fu tra gli alberi e gli zoccoli del cavallo calpestarono silenziosamente lo spesso tappeto di aghi di pino e foglie morte. Mordred gli
permise di mettersi al passo. Era stanco anche lui e il cavallo, che si era comportato valorosamente durante tutto il giorno, era quasi esausto. Ma avevano viaggiato in fretta e c'era una probabilità che potesse essere ancora in tempo. Alle sue spalle le nubi, accavallandosi, smorzavano i colori del tramonto. Con l'avvicinarsi della sera, si alzò il vento. Gli alberi stormirono e sospirarono. Più in fretta di quanto si fosse aspettato, la foresta incominciò a diradarsi e al di là dei tronchi apparve un cielo più chiaro. C'era un varco, lì. Forse il varco attraverso cui passava là strada? Ebbe, quasi immediatamente, la risposta. Dovevano esserci stati altri suoni, di zoccoli e metallo che cozzava, ma il vento glieli aveva portati via e il sospirare degli alberi li aveva nascosti. Ma ora, da un punto quasi in faccia a lui, venne un grido. Non di ammonimento, o paura, o rabbia, ma un grido di gioia così selvaggio da parer quasi folle. Il cavallo mosse le orecchie, poi le appiattì contro il cranio e stravolse gli occhi fino a mostrarne il bianco. Mordred affondò gli speroni e l'animale stanco si lanciò in un selvaggio galoppo. Nel buio della foresta mancò lo stretto sentiero. Il cavallo si trovò ben presto ad avanzare in un folto sottobosco di rovi, noccioli e felci alte fino alla vita. Il galoppo rallentò, divenne un trotto, un passo, un rotto avanzare che si interruppe quando Mordred tirò bruscamente le redini. Di lì, nascosto alla vista nella profonda ombra degli alberi, riusciva a vedere la piatta landa che si stendeva tra il bosco e il mare e la bianca linea della strada che la divideva. Su di questa giaceva Lamorak, morto. Non lontano era fermo il suo cavallo con i fianchi mossi dall'ansito e la testa china. Accanto al corpo, uno nelle braccia dell'altro, ridendo e dandosi gran manate nella schiena, c'erano Agravain e Gaheris. I loro cavalli brucavano lì vicino senza che nessuno li sorvegliasse. In quel momento, con una folata di vento, venne un rumore di cavalli. I fratelli si irrigidirono, si staccarono uno dall'altro, corsero verso i cavalli e montarono in sella precipitosamente. Per un momento Mordred pensò che sarebbero venuti a nascondersi nel bosco dove lui si trovava, ma era già troppo tardi. Avvicinandosi al galoppo da nord, apparvero quattro cavalieri. Il capo era un uomo grande, armato, su uno splendido cavallo. Socchiudendo gli occhi contro la luce del tramonto, Mordred ne riconobbe l'emblema: era Drustan stesso, venuto a cavallo con un paio di soldati per ricevere l'ospite atteso.
E accanto a lui cavalcava chi meno ci si sarebbe potuti aspettare: Gareth, il più giovane dei figli di Lot. Drustan aveva visto il corpo. Con un grande grido sfoderò la spada e sospinse il cavallo verso gli assassini. I due fratelli si voltarono prontamente per fronteggiarlo preparandosi a combattere ma Drustan, come se avesse riconosciuto in quel momento i due uccisori, frenò il cavallo e alzò la spada. Mordred, immobile nell'ombra, aspettava. La questione era ormai fuori dalle sue mani. Aveva fallito e se si faceva avanti adesso non avrebbe potuto dire niente che persuadesse i nuovi venuti del fatto che non aveva avuto alcuna parte nella morte di Lamorak e non era al corrente di nulla. Artù avrebbe saputo la verità ma Artù e la sua giustizia erano lontano. Tuttavia, parve che la giustizia di Artù fosse in vigore anche in quel luogo. Drustan, spronando in avanti, seguito dai suoi soldati, incominciò a interrogare i fratelli. Gareth era saltato giù dal cavallo e si era inginocchiato nella polvere accanto al cadavere di Lamorak. Poi tornò di corsa verso il gruppo di cavalieri e afferrò le redini di Gaheris gesticolando furiosamente e cercando di parlargli. I fratelli urlavano. Parole o frasi non si potevano udire sopra lo stormire dei rami nel vento. Gaheris aveva scrollato via Gareth e pareva che lui e Agravain stessero sfidando Drustan a combattere. E Drustan rifiutava. La sua voce giungeva a frammenti, chiara e dura e forte. «Non combatterò con voi. Conoscete gli ordini del re. Adesso porterò questo corpo laggiù, al castello e gli darò sepoltura... State sicuri che il prossimo corriere reale porterà questa notizia a Camelot... Quanto a voi...» «Codardo! Hai paura di combattere con noi!» L'urlo di rabbia giunse sul vento. «Non abbiamo paura del Sommo Re! È nostro parente!» «Ed è una vergogna che veniate da simile sangue!» Disse Drustan senza cerimonie. «Giovani come siete, siete già assassini e distruttori di uomini buoni. Quest'uomo che avete ucciso era miglior cavaliere di quanto voi mai sarete. Se fossi stato qui...» «Avresti subito la stessa sorte!» urlò Gaheris. «Anche se protetto dai tuoi uomini...» «Anche senza di loro ci sarebbe voluto ben altro che voi due ragazzini,» disse Drustan con disprezzo. Rinfoderò la spada e voltò le spalle ai fratelli. Fece un cenno ai soldati che raccolsero il corpo di Lamorak e ripartirono per dove erano venuti. Poi, trattenendo le redini, Drustan parlò a Gareth
che, risalito a cavallo, pareva esitare portando lo sguardo da Drustan ai suoi fratelli e di nuovo a Drustan. Anche da tanto distante, si vedeva che il suo corpo era irrigidito dalla disperazione. Drustan, facendogli un cenno e senza degnare di un'altra occhiata Gaheris e Agravain, girò il cavallo e seguì i suoi soldati. Mordred riportò silenziosamente il suo cavallo nel bosco. Era tutto finito. Agravain, che pareva tornato sobrio, aveva afferrato il fratello per il braccio e lo tratteneva cercando, probabilmente, di ragionare con lui. Le ombre si stavano allungando sulla strada. Gli uomini d'armi erano spariti. Gareth era dall'altro lato di Gaheris e parlava con Agravain. Poi, improvvisamente, Gaheris scrollò via la mano del fratello e spronò il cavallo. Galoppò su per la strada, all'inseguimento del gruppo di Drustan. La sua spada troppo facilmente pronta scintillava nella sua mano. Agravain, dopo un secondo di esitazione, spronò dietro di lui e la sua spada medesima uscì violentemente dal fodero. Gareth cercò di afferrare le redini di Agravain ma non ci riuscì. Gridò un ammonimento, alto e chiaro: «Signore, attenzione! Mio signore Drustan, guardatevi alle spalle!» Prima che le parole fossero finite, Drustan aveva girato il cavallo. Affrontò i due uomini assieme. Agravain colpì per primo. Il cavaliere più anziano parò il colpo di lato e la sua spada si abbatté sulla testa. La lama incise profondamente il metallo e il cuoio e affondò nel collo tra la spalla e la gola. Agravain cadde sprizzando sangue. Gaheris urlò e spinse avanti il cavallo calando la spada mentre Drustan si chinava dalla sella per liberare la sua lama. Ma il cavallo di Drustan indietreggiò. Il suo zoccolo armato colse la cavalcatura di Gaheris nel petto. Il cavallo nitrì e sbandò e il colpo fallì. Drustan sospinse il suo animale e colpendo dritto sullo scudo di Gaheris lo fece precipitare, squilibrato com'era, nella polvere dove giacque immobile. Gareth sopraggiunse al galoppo. Drustan, voltandosi per fronteggiarlo, vide che la sua spada era ancora nel fodero e alzò l'arma. In quel momento, i due soldati giunsero dopo aver deposto il loro fratello. Su ordine del loro padrone, fasciarono in qualche modo la ferita di Agravain, aiutarono Gaheris, intontito ma illeso, a rimettersi in piedi e poi ripresentarono loro i cavalli. Drustan, freddamente formale, offerse l'ospitalità al castello «fino a quando vostro fratello si sarà rimesso» ma Gaheris, sgarbato quanto era stato infido, si limitò a bestemmiare e si voltò. Drustan fece cenno ai soldati che si fecero vicini. Gaheris, ancora gridando qualcosa a proposito del
«re mio parente», cercò di resistere ma venne sopraffatto. L'invito si era tramutato in arresto. Alla fine i soldati si allontanarono al passo con Gaheris tra loro che portava adagiato sul cavallo il corpo inerte di suo fratello. Gareth li seguì con lo sguardo senza far cenno di volerli seguire. Non aveva mosso una mano per aiutare Gaheris. «Gareth?» disse Drustan. La sua spada era pulita e rimessa nel fodero. «Gareth, che scelta avevo?» «Nessuna,» disse Gareth. Scosse le redini e portò il suo cavallo al fianco di quello di Drustan. La strada era vuota nel crepuscolo che scendeva. Una sottile falce di luna sorse sul mare. Mordred, emergendo finalmente dall'ombra, si diresse a sud. *** Quella notte, dormì nei boschi. Il clima era rigido, ma avvolto nel mantello riuscì a tenersi abbastanza caldo e come cena gli rimaneva un po' del pane e della carne che gli aveva dato la ragazza. Il cavallo, legato a redini lunghe, brucò nel prato. Il giorno dopo di buon'ora cavalcò, questa volta, verso sud-est. Artù doveva essere in viaggio per Caerleon e lo avrebbe incontrato lì. Non c'era fretta. Drustan doveva aver già mandato un corriere con la notizia della morte di Lamorak. Dato che Mordred non era apparso sulla scena il re avrebbe certo immaginato la verità e cioè che i due fratelli, con qualche trucco, erano riusciti a sfuggirgli. Il suo incarico non era di tutelare la sicurezza di Lamorak: questa era affare di Lamorak stesso che aveva pagato per il rischio che aveva voluto correre; il compito di Mordred era stato di ritrovare Gaheris e portarlo a sud. Ora, una volta guarite le ferite dei gemelli, di questo si sarebbe occupato Drustan. Mordred poteva ancora rimanere al di fuori della faccenda ed era sicuro che il re lo avrebbe approvato per questo. Anche se i due fratelli non fossero sopravvissuti all'ira del re, gli altri mestatori tra i giovani celti, supponendo che Mordred ambisse qualunque forma di potere di cui gli riuscisse di impadronirsi, avrebbero potuto rivolgersi a lui e invitarlo ad unirsi ai loro piani. E immaginava che ben presto proprio questo il re gli avrebbe chiesto di fare. «E se lo farò,» mormorò quell'altra voce nel suo cervello, fredda come il ghiaccio, «e se continua la campagna per rovesciare Bedwyr e distruggerlo, chi potrà prendere il suo posto nella fiducia del re e nell'amore della regina se non io, suo figlio?»
*** Era un ottobre dorato, con notti fredde e giornate luminose e frizzanti. Le mattine scintillavano in una spolverata di brina notturna e alla sera il cielo era pieno delle grida delle cornacchie. Mordred prese comodamente tempo risparmiando il suo cavallo e, quando lo poteva, fermandosi in luoghi piccoli e semplici ed evitando le città. La solitudine, la malinconia dell'autunno, si addicevano al suo umore. Oltrepassò morbide colline è vallate erbose, boschi dorati e scoscesi passaggi rocciosi dove, sulle alture, gli alberi erano già spogli. Il suo buon cavallo baio era tutta la compagnia che gli serviva. Sebbene le notti fossero fredde, e si facessero sempre più fredde, trovò sempre un riparo di qualche genere - un ovile, una grotta, persino un argine boscoso - e non piovve mai. Legava il baio perché potesse pascolare, mangiava la razione di cibo che aveva portato con sé, si avvolgeva nel mantello per la notte, e si svegliava nella grigia mattina scintillante di gelo, si lavava nell'acqua gelida e si rimetteva a cavallo. A poco a poco la semplicità, il silenzio, la stessa durezza della cavalcata lo calmarono; era di nuovo Medraut, il figlio del pescatore, e la vita era semplice e pulita. Così giunse finalmente alle colline del Galles e a Viroconium dove quattro strade si incontravano. E lì al crocevia, come un altro benvenuto di casa, c'era una pietra eretta con il suo altare ai piedi. Dormì quella notte in un boschetto di noccioli e agrifoglio accanto al crocevia, protetto da un tronco caduto. La notte era più calda e stellata. Dormì e sognò di essere nella barca con Brude a pescare merluzzi che Sula avrebbe aperto ed essiccato per l'inverno. Ritiravano le reti piene di argento guizzante e mescolato al mormorio delle onde poteva sentire il canto di Sula. *** Si svegliò in una fitta nebbia. L'aria era più calda e l'improvviso mutamento di temperatura durante la notte l'avevano portata. Scosse via le goccioline dal mantello, fece colazione e, con un impulso improvviso, raccolse i resti del cibo e li depose sull'altare ai piedi della pietra erosa. Poi, mosso da un altro impulso che non tentò nemmeno di identificare, tolse dalla borsa una moneta d'argento e la posò accanto al cibo. Solo allora si rese
conto che, come nel sogno, qualcuno stava cantando. Era una voce di donna, alta e dolce, e la canzone era una di quelle che Sula aveva cantato. Gli venne la pelle d'oca. Pensò alla magia o a un sogno ad occhi aperti. Poi, a non più di dodici passi di distanza, un uomo uscì dalla nebbia guidando un mulo sul cui dorso stava seduta di traverso una ragazza. Al primo momento li prese per un contadino e sua moglie che andavano al lavoro, poi vide che l'uomo indossava una veste da sacerdote, che la ragazza era vestita altrettanto semplicemente in tela di sacco e soggolo e che i bei piedi che penzolavano sulle costole del mulo erano nudi. Erano cristiani, pareva: una croce di legno pendeva sul fianco dell'uomo e una, più piccola, sul petto della donna. Al collare del mulo c'era una campanella d'argento che suonava quando si muoveva. Il prete rallentò il passo quando vide l'uomo armato con il grande cavallo ma poi, quando Mordred lo salutò, sorrise e si fece avanti. «Maridunum?» ripeté in risposta alla domanda di Mordred. Indicò la strada che portava a occidente. «Da quella parte è meglio. È dura ma transitabile dappertutto e più corta della strada principale a sud per Caerleon. Venite da lontano, signore?» Mordred gli rispose civilmente, dandogli tutte le notizie che poteva. L'uomo non parlava con cadenza da contadino. Avrebbe potuto essere una persona educata, persino un cortigiano. La ragazza, notò in quel momento Mordred, era bella. Persino i piedi nudi che ciondolavano sui fianchi del mulo erano puliti e bianchi, di ossatura sottile e venati di azzurro. Sedeva in silenzio, osservandolo, per nulla turbata dal suo aspetto. Mordred colse l'occhiata del prete all'altare dove l'argento scintillava accanto al cibo. «Sapete di chi è questo altare?... O di chi è la pietra al crocevia?» L'uomo sorrise. «Non miei, signore. Questo è tutto quel che so. Quell'offerta è vostra? Sì? Allora Dio sa chi la riceverà,» disse l'uomo gentilmente. «Ma se avete bisogno di una benedizione, signore, allora il mio Dio, attraverso di me, può darvela. A meno che ci sia sangue sulle vostre mani.» «No,» disse Mordred. «Ma una maledizione dice che ci sarà. Come posso togliermela?» «Una maledizione? E chi l'ha fatta?» «Una strega» disse Mordred brevemente, «ma è morta.» «Allora, la maledizione potrebbe essere morta con lei.» «Ma prima di lei il mio fato è stato previsto, e da Merlino.» «Quale fato?» «Questo non posso dirvelo.»
«E allora chiedetelo a lui.» «Ah,» disse Mordred, «allora è vero che è ancora vivo?» «Così dicono. È lì in una grotta sulla montagna per quelli che hanno il bisogno o la fortuna di trovarlo. Bene, signore, non posso aiutarvi altrimenti che dandovi la mia cristiana benedizione e lasciandovi andare per la vostra strada.» Alzò la mano e Mordred chinò la testa, poi lo ringraziò, e cavalcò via. Prese la strada a ovest per Maridunum. Ben presto la campanella del mulo non si sentì più in distanza e Mordred fu di nuovo solo. *** Giunse al tramonto al monte chiamato Bryn Myrddin e dormì nuovamente in un bosco. Quando si svegliò c'era ancora la nebbia e dietro di essa sorgeva il sole. La foschia era colorata di rosa e un debole brillio appariva sui grigi tronchi delle betulle. Attese pazientemente, mangiando la galletta e l'uva che costituivano la sua prima colazione. Il mondo era silenzioso, nessun movimento all'infuori del lento insinuarsi della nebbia tra gli alberi e il masticare monotono del cavallo. Non c'era fretta. Aveva smesso di provare qualunque curiosità nei confronti del vecchio che cercava, il mago del re dalle mille leggende che era stato suo nemico (e dato che a dirlo era stata Morgause, la prendeva senza esitazione per una bugia) fin da quando era stato concepito. E non c'era neppure alcuna apprensione. Se la maledizione si fosse potuta togliere, certo Merlino l'avrebbe tolta. Altrimenti, senza dubbio, l'avrebbe spiegata. Improvvisamente, la nebbia scomparve. Una leggera brezza, calda per quella stagione dell'anno, passò frusciando nel bosco, spazzò via le volute di foschia e le disperse giù per la collina come fumo di un falò. Il sole, salendo verso la cima attraverso la valle, fiammeggiò scarlatto e oro nei suoi occhi. Il paesaggio era abbagliante. Salì a cavallo e si girò verso il sole. Ora vedeva dove si trovava. Le indicazioni del prete viaggiante erano state tanto precise da poter guidare chiunque anche attraverso quel territorio ondulato e senza punti di riferimento. «Quando raggiungerete il bosco, avrete oltrepassato i pendii superiori di Bryn Myrddin. Seguite il torrente, attraversatelo, troverete una pista. Girate ancora in su e cavalcate fino a un boschetto di rovi. Lì c'è una piccola roccia e un sentiero sale serpeggiando a lato di essa. Alla sommità della
roccia c'è il pozzo sacro e, lì accanto, la grotta del mago.» Giunse alla macchia di rovi. Lì, vicino alla roccia, smontò e legò il cavallo. Salì rapidamente per il sentiero, giunse su un terreno pianeggiante dove trovò nuovamente la nebbia, densa e chiazzata di rosso-oro dal sole, immobile come l'acqua di un lago. Avanzò a tastoni. Il prato era pianeggiante e folto. Ai suoi piedi, sforzando gli occhi, riusciva a distinguere qualche margheritina tardiva, coperta di brina e chiusa per difendersi dall'umidità. Da qualche parte, alla sua sinistra, veniva il rumore di uno sgocciolio d'acqua. Il pozzo sacro? Seguitò ad avanzare ma non riuscì a trovarlo. Inciampò su una pietra che rotolò via facendolo quasi cadere sulle ginocchia. Il silenzio, rotto solo dallo sgocciolio della sorgente, era magico. Suo malgrado, sentì fredde goccioline di sudore scendergli giù per la schiena. Si fermò. Si raddrizzò del tutto e gridò forte: «Ehi, lì! C'è qualcuno?» Un'eco, risuonando dalla parete di nebbia, rimbalzò ripetutamente dalle invisibili profondità della valle e morì nel silenzio. «C'è qualcuno? Sono Mordred, principe di Britannia, che vuole parlare con il suo congiunto Merlino. Vengo in pace. Cerco pace.» Ancora l'eco. Ancora il silenzio. Si mosse cautamente verso il rumore dell'acqua e le sue dita protese toccarono il bordo di pietra del pozzo. Si chinò verso l'acqua. Volute di nebbia salivano dal vetro levigato della superficie. Si chinò di più. Sotto il vetro le chiare profondità, oscuramente lucenti, guidarono in giù lo sguardo, lontano dalla nebbia. Sul fondo del pozzo c'era lo scintillio dell'argento, le offerte al dio. Dal nulla gli tornò un ricordo: la pozza sotto l'antica tomba dove Morgause gli aveva ordinato di guardare nel profondo cercando una visione. Lui non aveva visto altro che quello che era logico ci fosse lì. Qui, sulla collina sacra, fu lo stesso. Si raddrizzò. Mordred, il realista, non sapeva che un fardello era caduto dalle sue spalle. Secondo lui, la magia di Merlino era indubbiamente inoffensiva quanto quella di Morgause. Quello che aveva considerato un fato maledetto previsto con dolore da Merlino e distorto nel male da Morgause, in questo mondo di acqua limpida e nebbia luminosa, si riduceva a quella che era la sua forma autentica. Non era nemmeno una maledizione. Era un fatto, qualcosa destinato ad avvenire nel futuro, che era stato visto da un occhio condannato a vedere, qualsiasi fosse il dolore della Vista. Sarebbe successo, sì, ma solo come, prima o poi, succede di morire. Lui, Mordred,
non era lo strumento di un fato brutale bensì di cosa o chi creava lo schema in cui il mondo si muoveva. Vivi quello che la vita porta; muori della morte che verrà. Non riusciva a vedere la consolazione. Né, di fatto, seppe mai di essere stato consolato. Allungò la mano verso la tazza che stava sul bordo del pozzo; bevve e si sentì rinfrescato. Bevve al dio e, mentre rimetteva a posto la tazza, disse nella lingua della sua infanzia: «Grazie», e si voltò per andarsene. La nebbia era più fitta che mai, il silenzio intensissimo. Ora il sole era alto ma la luce, invece di ripulire l'aria, ardeva come un fuoco in mezzo alla grande nube. Il fianco della montagna era un turbine di fiamme e fumo, freddo sulla pelle, pulito per le narici, ma accecante per gli occhi e portatore di confusione e meraviglia per la mente. L'aria era cristallo puro, era arcobaleno, era diamante liquido. «È dove è sempre stato,» aveva detto Nimuë, «con tutti i suoi fuochi e le sue glorie erranti attorno a sé.» E «Se lui lo desidera, può darsi che tu lo trovi.» Lo aveva trovato. Aveva ottenuto risposta. Incominciò a cercare a tastoni la via del ritorno verso la roccia. Alle sue spalle, invisibile, lo sgocciolio della sorgente risuonava come le dolci, deboli note di un'arpa. Sopra c'era il turbinare della luce, là dove c'era il sole. Procedette lasciandosi guidare da quelle uniche presenze fino a che il suo piede toccò l'inizio del sentiero che scendeva. Quando raggiunse la base della montagna svoltò a oriente e cavalcò, dritto e veloce, verso Caerleon e suo padre. 10 Quando Mordred raggiunse Caerleon, le cose avevano già incominciato a sistemarsi. Il re si era molto irato per l'uccisione di Lamorak ed era certo un bene per Agravain che la sua ferita lo trattenesse a nord, assieme a Gaheris, fino alla guarigione. Drustan mandò il dovuto resoconto dell'incidente ad Artù ma a portarlo non fu un corriere reale bensì Gareth. E Gareth, sebbene non tentasse nemmeno di giustificare i suoi fratelli, implorò con successo dal re il perdono per loro. Per Gaheris invocò la pazzia, Gaheris che aveva amato Morgause e l'aveva uccisa. Gareth, pur nel suo dolore, era riuscito ad immaginare quello che era passato per la mente ferita di suo fratello mentre si inginocchiava nel sangue di sua madre. E Agravain, come sempre, si era comportato da scudo e pugnale accanto alla spada del suo gemello. Ora che Lamorak era morto, aveva sostenuto Gareth, era pro-
babile che Gaheris si buttasse alle spalle quel sanguinoso passato e riprendesse il suo posto di uomo leale. E Drustan, sebbene seriamente provocato, aveva teso la mano, quindi era possibile che il pendolo della vendetta si fermasse. Inaspettatamente, la maggior resistenza alle implorazioni di Gareth, venne da Bedwyr. Bedwyr, che deplorava il legame di sangue che univa Artù ai fratelli delle Orcadi, provava antipatia e diffidenza nei loro confronti e non perdeva occasione per mettere in guardia il re. La corte sapeva che stava usando tutta la sua influenza per evitare che i gemelli venissero richiamati. E dove mai era andato a finire Mordred, insisteva Bedwyr, sempre più sospettoso. Aveva forse assistito anche lui all'assassinio ed era scappato prima che Drustan e Gareth entrassero in scena? Mordred giunse a Caerleon in tempo per dissipare la confusione sulla sua parte nella faccenda e alla fine, malgrado Bedwyr, Gareth venne rimandato a nord per riportare a corte i suoi fratelli appena fossero entrambi guariti, nella mente e nel corpo. Gawain ritornò per breve tempo, poco dopo che la corte era ritornata a Camelot, mentre Agravain e Gaheris erano ancora a nord. Ebbe un lungo colloquio con Artù e, dopo, un altro con Mordred che gli raccontò quello che aveva visto dell'assassinio di Lamorak e di quel che era successo dopo, terminando con l'invito a Gawain ad accogliere la preghiera del re e mostrare la stessa indulgenza di Drustan evitando di aggiungere un'altra pietra al sanguinoso edificio della vendetta. «Lamorak lascia un giovane fratello, Drian, che cavalca con gli uomini di Drustan. Secondo la tua logica, ha il diritto di uccidere i tuoi fratelli, o anche te. E persino Gareth,» disse Mordred, «anche se dubito che questo sia probabile. Drustan avrà fatto in modo che Drian sappia quel che è successo e che la dea sia ringraziata! - Gareth tenga la testa a posto e si comporti da uomo intelligente. Ha potuto vedere, come chiunque fosse presente, che Gaheris aveva perso la testa. Se sottolineiamo questa circostanza, è possibile che quando ritornerà qui guarito, nessuno tenti di colpirlo.» E soggiunse, abilmente: «Credo che il re non si fiderà mai più di nessuno dei due gemelli ma se tu riesci a perdonare Gaheris per l'assassinio di nostra madre, o almeno a non agire contro di lui, allora forse riuscirai, assieme a me e a Gareth, a rimanere nel favore del re. Può darsi che ci sia ancora un futuro nobile per te e per me. Desideri sempre governare il tuo regno nordico, Gawain?» Mordred conosceva il suo uomo. Gawain era ansioso che nulla venisse a
interferire con il suo diritto sulle Orcadi o, addirittura, sul regno di Lothian. Quei due titoli non valevano nulla senza il continuo appoggio di Artù. Così la faccenda fu sistemata ma quando venne il momento del ritorno dei gemelli il re fece in modo che il fratello maggiore fosse lontano da Camelot. La regina Morgana, a Castell Aur nel Galles, gli fornì la scusa necessaria. Gawain venne mandato lì ufficialmente per indagare sulle lamentele dei contadini riguardo gli abusi di autorità dei guardiani di Morgana ma in realtà per essere tenuto alla larga fino a che non si fossero calmate le acque sull'assassinio di Lamorak. Tuttavia, a Mordred era chiaro che i dubbi di Bedwyr sul suo conto non erano ancora risolti. Al posto della contegnosa amicizia che il primo cortigiano di Artù gli aveva dimostrato negli ultimi tempi, Mordred aveva osservato il ristabilirsi della cauta attenzione che Bedwyr riservava anche ad Agravain e ad alcuni altri Giovani Celti. L'espressione «Giovani Celti», usata inizialmente con una certa leggerezza per indicare i giovani stranieri che tendevano ad unirsi tra loro, aveva ormai preso il significato di un soprannome, di un titolo chiaramente definito quanto quello dei cavalieri Compagni del Sommo Re. E, qua e là, le due linee si incrociavano; Agravain era in entrambe, come Gaheris e come finì per esservi anche Mordred. Artù, come Mordred aveva previsto, lo mandò a chiamare e gli chiese di tener d'occhio, una volta che fossero tornati a corte, i suoi fratelli e anche gli altri del partito dei Giovani Celti. Con una certa sorpresa, Mordred scoprì che, sebbene ci fosse un certo malcontento per certe posizioni di politica interna di Artù, non si tenevano però discorsi che potessero esser definiti sediziosi. In loro c'era ancora lealtà al nome e alla fama di Artù: era ancora il grande condottiero, circondato da gloria e autorità tali da mantenerli leali. Inoltre, i discorsi che aveva tenuto su una guerra prossima, li legavano a lui. Ma c'era inimicizia per Bedwyr. Gli uomini delle Orcadi che erano venuti a sud per unirsi ai figli di Lot al seguito di Artù, e altri del Lothian che avevano sperato nella successione di Gawain su quel regno (e avevano qualche piccola lamentela, vera o immaginaria, contro il northumbriano signore di Benoic) sapevano che Bedwyr non si fidava di loro e aveva fatto del suo meglio per bloccare il ritorno di Agravain e Gareth a corte arrivando ad invocare il loro bando nelle nordiche isole che erano la loro patria. Così quando, come era inevitabile tra giovani uomini, la conversazione finiva nei pettegolezzi su Bedwyr e la regina, Mordred fece presto a rendersi conto che questi erano provocati essenzialmente dall'odio verso Bedwyr e dal desiderio di fargli
perdere il favore del re. Quando Mordred, muovendosi prudentemente, lasciò intendere che avrebbe potuto persuadere il re a mettersi dalla loro parte, i Giovani Celti ritennero che fosse mosso dalla naturale gelosia di un figlio del re che avrebbe potuto diventare il vice di suo padre se Bedwyr fosse stato screditato. Come tale, Mordred era un importante acquisto per il partito. Venne quindi accettato e, con il tempo, considerato uno dei capi del partito persino da Agravain e Gaheris. *** A Camelot, Mordred aveva le sue stanze all'interno del palazzo reale ma, da circa un anno, possedeva anche una comoda casetta in città. Gliela teneva in ordine una ragazza della città che gli riservava anche la sua accoglienza ogni volta che poteva trovare un po' di tempo per lei. Lì, di tanto in tanto, si riunivano i Giovani Celti, apparentemente per una cena o per un'uccellagione nella palude ma in realtà per parlare, e Mordred per ascoltare. L'acquisto della casa era stato un suggerimento del re. Se Mordred doveva partecipare alle attività del partito, non era facile che ciò avvenisse nelle sue stanze all'interno della palazzo reale. Nell'atmosfera più libera della sua casa di scapolo, Mordred poteva più facilmente tenersi in contatto con le correnti di pensiero che muovevano quei giovani. Nella sua casa, una sera, si recarono Agravain, con Colles e Mador e altri Giovani Celti. Dopo cena, quando la donna ebbe lasciato accanto a loro il vino e si fu ritirata, Agravain portò bruscamente il discorso sull'argomento che, negli ultimi tempi, pareva ossessionarlo. «Bedwyr! In questo regno nessuno può andare da nessuna parte né diventare qualcuno senza l'approvazione di quell'uomo! Il re è plagiato. Amici di infanzia, figurarsi! Amanti di infanzia, direi! Ma deve stare a sentirlo ogni volta che il grande e potente Bedwyr decide di parlare! Cosa ne dici, Colles? Noi lo sappiamo, vero? Eh?» Agravain, come spesso capitava in quei giorni, era mezzo ubriaco per quanto la notte fosse appena incominciata. Era un parlare troppo scoperto, persino per lui. Colles, solitamente tracotante, cercò di fare una goffa marcia indietro: «Be', come tutti sanno, hanno combattuto assieme già molti anni fa. Fratelli d'armi, cose del genere. È più che naturale...» «Più che naturale solo a metà.» Agravain ebbe uno scoppio di risa nel
mezzo di un singulto. «Sono fratelli d'armi, hai perfettamente ragione, ma anche fratelli di letto quanto alla regina... Non hai sentito l'ultima? L'ultima volta che il re è stato via da corte, il signor Bedwyr se ne stava rannicchiato ben stretto nel letto della regina ancora prima che il cavallo del re fosse fuori dal cortile della Porta del Re.» «Dove lo hai saputo?» Mador fece duramente quella domanda. E Colles, che incominciava ad aver l'aria spaventata, disse: «A me lo hai detto tu. Ma sono chiacchiere e potrebbero non essere vere. Per prima cosa, il re non è così sciocco e se si fida di Bedwyr... e si fida anche di lei, del resto...» «Non è uno sciocco? È da sciocchi fidarsi. Mordred sarà certo d'accordo. Vero Mordred?» Mordred, che voltava le spalle alla compagnia per versare il vino, assentì brevemente. «Se fosse vero,» incominciò qualcuno speranzosamente, ma Mador lo interruppe. «Sei uno sciocco a parlare così, senza prove. Anche se ne avessero voglia, come oserebbero? Le dame della regina sono sempre lì con lei e anche di notte...» Agravain scoppiò a ridere e Gaheris, che stava al suo fianco, disse ghignando: «Mio povero innocente. Incominci a somigliare al mio santo fratello Gareth. Non impari mai niente? Agravain si porta a letto una delle cameriste di Ginevra ormai da quasi un mese. Se c'è qualcuno che può venir a sapere dei pettegolezzi è proprio lui.» «Vuoi dire che la camerista racconta che lui è stato lì di notte? Bedwyr?» Agravain annuì sopra il suo bicchiere di vino e Gaheris gracchiò, trionfante: «Allora lo abbiamo in pugno!» Ma Colles insistette: «Lo ha visto? Proprio lei, con i suoi stessi occhi?» «No,» rispose Agravain guardandosi attorno con aria di sfida. «Ma tutti sappiamo che questa storia è in giro ormai da molto e sappiamo anche che non c'è fumo senza arrosto. Guardiamo al di là del fumo e tiriamo fuori l'arrosto. Se riesco a trovare la prova, vi muoverete assieme a me?» «Muoversi? E come?» «Rendendo un servizio al re e togliendo Bedwyr dal letto e dal Consiglio del re!» Calum, dubbioso, disse: «Vorresti dirlo al re?» «E come, altrimenti? Andrà in bestia, come chiunque altro, ma poi ce ne
sarà grato. Qualunque uomo vorrebbe sapere...» «Ma, la regina?» A parlare era stato un giovane chiamato Cian, che veniva dallo stesso paese della regina nel Galles del Nord. «La ucciderà. Qualunque marito che scopra...» Arrossì e tacque. Era chiaro a tutti che evitava di guardare Gaheris. Agravain era sicuro e sprezzante. «Non farà mai del male alla regina. Non avete mai sentito cosa è successo quando Melwas del Paese Estivo l'ha portata via e tenuta per un giorno e una notte nella sua casa su una delle isole del lago? Non mi direte che quel lussurioso non se l'è fatta, ma il re se l'è ripresa senza una parola e le ha promesso che né per quello né per la sua sterilità l'avrebbe mai messa da parte. No, non le farà mai del male. Mordred, tu che lo conosci meglio di molti di noi e passi metà del tuo tempo con la regina, cosa ne dici?» «Per quel che riguarda la tenerezza del re per lei, sono d'accordo.» Mordred depose nuovamente la brocca del vino. Si appoggiò all'orlo del tavolo e li scrutò. «Ma sono tutte fantasticherie, vero? Ci sono in giro chiacchiere, le ho sentite anch'io ma vengono per la maggior parte da qui e sono senza prove. Senza nessun genere di prova. Fino a quando non si trova la prova, le chiacchiere rimangono solo chiacchiere nate come sono da desideri e ambizioni e non da fatti.» «Hai ragione, sai. disse un certo Melion, fratello di Cian. «Sono le solite chiacchiere che circolano quando una signora è bella come la regina e il suo uomo rimane lontano dal suo letto spesso e a lungo come è costretto a fare il re.» «Sono chiacchiere da uscio della camera da letto,» intervenne Cian. «Ci stai chiedendo di inginocchiarci per terra e sbirciare dal buco della serratura?» Dato che questo era proprio ciò che aveva fatto Agravain, lo negò con grande indignazione. Non era tanto ubriaco da non accorgersi che i presenti erano contrari a qualunque azione che potesse danneggiare la regina. Disse, virtuosamente: «Mi avete interpretato male, signori. Niente mi persuaderà a far del male alla bella signora. Ma se riuscissimo a trovare un modo per abbattere Bedwyr senza far del male a lei...» «Vuoi dire, giurare che è entrato a forza? Che ha violentato la regina?» «Perché no? Potrebbe essere possibile. La mia serva dirà qualunque cosa se la paghiamo e...» «E quella di Gareth?» chiese qualcuno. Era noto che Gareth corteggiava Linet, una delle dame della regina, una ragazza dolce e incorruttibile quan-
to Gareth. «Va bene, va bene!» Agravain, rosso in viso, si voltò di scatto verso Mordred. «Bisogna pensarci su bene ma, per la Dea oscura, abbiamo incominciato e sappiamo chi è con noi e chi non lo è! Mordred, cosa ne dici? Se riusciamo a trovare un modo che non coinvolga la regina, sei con noi? Tu sei quello tra noi che può meno essere amico di Bedwyr.» «Io?» Mordred fece un sorrisetto freddo che era tutto quel che rimaneva in lui di Morgause. «Amico di Bedwyr, primo maresciallo, migliore tra tutti i cavalieri, mano destra del re in battaglia e in camera di consiglio? Reggente in assenza di Artù, con tutto il potere di Artù?» Fece una pausa. «Abbattere Bedwyr? Cosa dovrei dire, signori? Che respingo in modo assoluto l'ipotesi?» Vi fu una risata e il tambureggiare con le tazze sul tavolo e grida di «Mordred per reggente!», «Be', perché no? E chi altro?», «Valerius? No, troppo vecchio.», «Be', allora Drustan? O Gawain?» E poi, in una specie di forzata unanimità, «Mordred reggente! Chi altro? Uno di noi! Mordred!» Poi entrò la donna e le grida si spensero e la conversazione si spostò sull'inoffensivo argomento della caccia dell'indomani. Quando se ne furono andati e la donna si mise a sparecchiare i resti di cibo e a ripulire dal vino sparso, Mordred uscì all'aria aperta. Suo malgrado, la conversazione e quell'investitura finale lo avevano scosso. Bedwyr eliminato? Lui stesso indiscussa mano destra del re e, in assenza del re, indiscusso reggente? Una volta lì e una volta che avesse dato buona prova come combattente e amministratore, cosa era più probabile se non che Artù lo nominasse suo erede? Ancora non lo era: l'erede del re era ancora Costantino di Cornovaglia, figlio di quel duca di Cador che Artù, in mancanza di un principe legittimo, aveva dichiarato erede dei regni. Ma era avvenuto prima che sapesse che un figlio suo sarebbe stato era già - concepito. Legittimo? Che importanza aveva quando Artù stesso era stato concepito nell'adulterio? Alle sue spalle la ragazza lo chiamò sommessamente. Mordred si guardò attorno. Era affacciata alla finestra della camera da letto e la calda luce della lampada cadeva sui lunghi capelli d'oro e su una spalla e un seno nudi. Le sorrise e disse, «Subito,» ma la vedeva appena. Nell'occhio della sua mente, contro l'oscurità, vedeva solo la regina. Ginevra, la dama dai capelli d'oro, ancora bella, con i grandi occhi grigio azzurri, la voce dolce e il sorriso pronto e con lei tutto lo spirito gentile e la gaiezza che illuminavano di piacere la sua stanza da ricevimento. Ginevra,
che amava così pazientemente il suo signore ma capiva la paura e la solitudine e, grazie a quella comprensione, aveva offerto la sua amicizia a un ragazzo insicuro e solo, lo aveva aiutato a uscire dal fango delle sue memorie infantili mostrandogli come si deve amare con cuore lieve. Le cui mani, toccando le sue con amicizia, avevano fatto ardere una fiamma che la bocca corrotta di Morgause non avrebbe nemmeno suscitato. L'amava. Non nello stesso modo ih cui aveva amato altre donne. Ce n'erano state molte nella sua vita, dalla ragazza delle isole con cui aveva fatto l'amore a quattordici anni in un anfratto tra l'erica, alla donna che lo accudiva ora. Ma i suoi pensieri per Ginevra non erano nemmeno in questo contesto. Sapeva solo di amarla e se le chiacchiere erano vere, allora, per Ecate, che Bedwyr venisse abbattuto! Il re non le avrebbe fatto del male, di questo era sicuro, ma avrebbe potuto, solo potuto, in nome del suo onore, metterla da parte... Non andò oltre. Forse non aveva nemmeno capito di essersi spinto tanto avanti. Cosa strana per Mordred, il freddo ragionatore, i suoi pensieri erano appena formulati. Era consapevole solo dell'ira per quei vili pettegolezzi, per la macchia sul nome della regina e della sua rinnovata sfiducia nei confronti dei gemelli e dei loro irresponsabili amici. Riconosceva, con apprensione, qual era il suo dovere come osservatore del re (spia del re, si disse con amarezza) tra i Giovani Celti. Avrebbe dovuto avvertire Artù del pericolo che correvano Bedwyr e la regina. Il re sarebbe riuscito subito a sapere la verità sulla faccenda e se un'azione andava intrapresa, era lui solo che doveva farlo. Il dovere era in quella direzione, indicata dalla fiducia del re. E di Bedwyr, che ne sarebbe stato se si fosse dimostrato che aveva tradito quella fiducia? Mordred scacciò il pensiero e, su un impulso che, se anche lo riconosceva, non avrebbe però mai ammesso, tornò in casa e prese il suo piacere con una violenza che gli era estranea quanto lo era stata quella tempesta mentale e che gli sarebbe costata, il giorno dopo, una collana d'oro come segno di pace. 11 Più tardi, quella notte, quando città e palazzo erano immersi nel silenzio, andò dal re. Artù, come spesso faceva in quei giorni, lavorava fino a tardi nel suo
studio. Il cane bianco Cabal stava disteso ai suoi piedi. Era lo stesso cucciolo che aveva scelto il giorno in cui Mordred era stato portato per la prima volta alla sua presenza. Adesso era vecchio e pieno di cicatrici in ricordo di cacce memorabili. Sollevò la testa quando Mordred venne introdotto e si sentì la sua coda battere sul pavimento. Il domestico si ritirò e il re invitò con un cenno il suo segretario ad uscire dalla stanza. «Come ti vanno le cose, Mordred? Sono contento ci e tu sia venuto. Contavo di mandarti a chiamare in mattinata ma stanotte è ancora meglio. Sai che presto dovrò andare in Bretagna?» «Se ne parla. Dunque è vero?» «Sì. È ora che mi incontri con mio cugino, il re Hoel. E voglio anche rendermi conto personalmente di come stanno andando le cose laggiù.» «Quando partite, signore?» «Tra una settimana. Per allora spero che il tempo sia buono.» Mordred diede un'occhiata alle tende della finestra gonfiate dal vento. «Ve lo hanno detto i vostri profeti?» Il re rise. «Vado a fonti più sicure che non gli altari o persino Nimuë a Applegarth. Chiedo ai pastori degli altipiani. Loro non sbagliano mai. Ma dimentico il mio ragazzo pescatore. Magari dovrei chiedere anche a te.» Mordred scosse la testa sorridendo. «Avrei potuto osare una profezia sulle isole, anche se lì persino i vecchi spesso non sapevano cosa dire; ma qui, no. È un mondo diverso. Un cielo diverso.» «Non hai nostalgia dell'altro?» «No. Ho tutto quello che voglio.» Soggiunse: «Mi piacerebbe vedere la Bretagna.» «Allora mi dispiace. Quel che volevo dirti è che conto di lasciarti qui a Camelot.» Suo malgrado, il cuore di Mordred ebbe un sobbalzo. Aspettava, senza guardare Artù nel caso che questi sapesse leggergli nel pensiero. Come se lo avesse fatto - il che, con Artù, era persino possibile - il re continuò: «Naturalmente, anche Bedwyr resterà qui. Ma questa volta voglio che tu faccia qualcosa di più che osservare come vanno le cose; sarai il vice di Bedwyr, come lui è il mio.» Vi fu una pausa. Artù notò con interesse, ma senza capirlo, che Mordred era impallidito ed esitava come se non sapesse che cosa dire. Alla fine, Mordred chiese: «E i miei... gli altri principi delle Orcadi? Vengono con voi o rimangono qui?»
Artù, fraintendendolo, rimase sorpreso. Non aveva pensato che Mordred fosse geloso dei suoi fratellastri. Se la sua missione fosse stata militare, forse avrebbe portato con sé Agravain e Gaheris facendo sfogare così un po' della loro energia e del loro scontento, ma dato come stavano le cose disse subito e con fermezza: «No. Gawain è nel Galles, come sai, ed è probabile che ci rimanga per qualche tempo. Gareth non mi ringrazierebbe proprio se lo allontanassi da Camelot con il suo matrimonio ormai tanto vicino. Gli altri due non possono certo aspettarsi dei favori da me. Rimangono qui.» Mordred taceva. Il re incominciò a parlare del suo prossimo viaggio e dello scambio di vedute che avrebbe avuto con re Hoel, poi del ruolo di Mordred come vice del reggente. Il cane si svegliò una volta e si grattò le pulci. Il fuoco era quasi esaurito e Mordred, ubbidendo a un cenno di suo padre, lo attizzò con la legna presa dal cesto. Il re, finito il discorso, guardò il giovane. «Sei molto taciturno. Coraggio, Mordred, ci sarà un'altra volta. O anche una volta in cui sarà Bedwyr a venire con me e tu rimarrai qui come re temporaneo. È una prospettiva che ti dispiace tanto?» «No. No. È... sono onorato.» «E allora, cosa c'è?» «Se vi domandassi di portare con voi Bedwyr questa volta, lasciando qui me, pensereste che supero persino le ambizioni di un principe. Ma io lo chiedo, mio re.» Artù lo fissò. «Cosa vuoi dire?» «Ero venuto per riferirvi quel che si dice tra i Giovani Celti. Si sono incontrati stasera a casa mia. E buona parte dei discorsi riguardavano Bedwyr. Ha nemici, nemici acerrimi che complottano per rovesciarlo.» Esitò. Aveva sempre saputo che sarebbe stato difficile ma non aveva immaginato quanto. «Signore, vi prego di non lasciare qui Bedwyr mentre andate all'estero. Non perché io aspiri alla reggenza. Corrono molte chiacchiere sul suo conto e...» Si fermò. Si inumidì le labbra. Disse, impacciato: «Ha dei nemici. Si parla.» Gli occhi di Artù erano ghiaccio nero. Si alzò. Mordred lo imitò. Con rabbia, si rese conto di tremare. Non poteva ignorare che fino ad allora chiunque avesse incontrato quello sguardo freddo era un uomo morto. Il re disse, con una voce piatta che pareva venire da grandi distanze: «Si parla sempre. C'è chi parla e c'è chi ascolta. Nessuno di questi due tipi può essere dei miei. No, Mordred, ti capisco molto bene. Non sono
sordo. E nemmeno cieco. Non c'è nulla di vero in queste chiacchiere. Non c'è nulla da dire.» Mordred deglutì. «No ho detto niente, signore.» «E non hai sentito niente. Adesso, va'.» Gli fece un cenno di congedo più breve di quello che aveva riservato al servo. Mordred si inchinò. Aveva una mano sulla porta quando il re lo fermò. «Mordred.» «Signore.» Si voltò. «Questo non cambia nulla. Tu rimani con il reggente come suo vice.» «Signore.» Il re disse, con una voce diversa: «Avrei dovuto ricordarmi che sono stato io a dirti di ascoltare e non ho quindi diritto di biasimarti se lo hai fatto o se me lo hai riferito. Quanto a Bedwyr, è consapevole delle ambizioni dei suoi nemici.» Abbassò lo sguardo e posò la punta delle dita sul tavolo davanti a sé. Ci fu una pausa. Mordred aspettava. Senza alzare gli occhi, il re soggiunse: «Mordred. Ci sono alcune questioni di cui è meglio non parlare, che è meglio non sapere. Mi capisci?» «Credo di sì,» disse Mordred. E in effetti, fraintendendo il re come il re aveva frainteso lui, pensava che così fosse. Era chiaro che Artù sapeva quel che si andava dicendo su Bedwyr e la regina. Sapeva ed aveva deciso di ignorarlo. Il che poteva significare soltanto una cosa: che ci fosse o no del vero, Artù non voleva che si intraprendesse alcuna azione. Voleva evitare quel genere di disordine che forzatamente deriva da un'aperta accusa contro il vice del re e la regina. E fin qui, Mordred aveva ragione. Ma non nella sua conclusione finale, che era quella di un uomo e non di un principe, che Artù fosse indifferente e avesse deciso di ignorare la cosa tanto per orgoglio quanto per politica. «Credo di sì, signore,» tornò a dire. Artù alzò gli occhi e sorrise. Lo sguardo vuoto era scomparso ma pareva molto stanco. «E allora tieni gli occhi aperti per me, figliolo, e servi la regina. E considera Bedwyr tuo amico e mio fedele servitore. E adesso, buona notte.» *** Poco dopo il re lasciò Camelot. Mordred scoprì che il suo lavoro come vice reggente implicava una serie di giornate nella Sala Rotonda ad ascoltare petizioni, alternate con altre passate a sorvegliare le esercitazioni delle
truppe, per concludere sempre la sera, dopo la cena pubblica nel salone (dove altre petizioni venivano portate alla tavola alta), con le pile di carte e tavolette nello studio del re. In pubblico, come sempre, Bedwyr prendeva il posto del re accanto alla regina ma, per quanto Mordred riusciva ad osservare, non provocava alcuna occasione per intrattenersi privatamente con lei e né lui né Ginevra tentavano mai di liberarsi della compagnia di Mordred. Quando il reggente parlava con la regina, come faceva ogni mattino, Mordred era al suo fianco; Mordred sedeva alla sinistra della regina ad ora di cena; Mordred camminava alla sua sinistra quando lei andava a prender aria in giardino in compagnia di Bedwyr e circondata dalle sue dame. Trovò che era straordinariamente facile lavorare con Bedwyr. Il più anziano faceva ogni sforzo per lasciare qualcosa alla responsabilità del suo vice. Ben presto passò a Mordred quasi tre giudizi su cinque con l'unica condizione che i verdetti venissero presi assieme, privatamente, prima di essere emessi. Il disaccordo era raro e con il passar dei giorni Mordred si accorse che sempre più decisioni erano sue. Era anche chiaro, con l'avvicinarsi del giorno del suo ritorno, che il lavoro in attesa di Artù era notevolmente inferiore a quello che aveva trovato dopo precedenti assenze. Ed era anche chiaro che, malgrado il suo carico di impegni fosse stato notevolmente alleviato, Bedwyr diventava più silenzioso e più nervoso. C'erano rughe sulla sua faccia e gli occhi mostravano un'ombra. A cena, chinandosi per ascoltare, con un sorriso fisso sulle labbra, la dolce voce della regina seduta accanto a lui, mangiava poco ma beveva molto. Dopo, nello studio, sedeva in silenzio per lunghi periodi, fissando il fuoco fino a che Mordred, o uno dei segretari, lo richiamava al lavoro con una domanda. Tutto questo Mordred, sempre attento, lo notò. Per lui, la vicinanza di Ginevra era gioia e tormento al tempo stesso. Se ci fosse stato uno sguardo, un tocco, un gesto di intesa tra lei e Bedwyr, Mordred era sicuro che lo avrebbe visto o sentito. Ma non ce n'erano. C'era solo il silenzio di Bedwyr e un senso di tensione che gli aleggiava attorno e forse un'eccessiva gaiezza nelle chiacchiere e le risate della regina quando, con le sue dame, presenziava a qualche funzione di corte. In entrambi i casi lo si poteva attribuire al peso della loro posizione e al nervosismo causato dall'assenza di Artù. Alla fine Mordred, memore del suo ultimo colloquio con il re, scacciò dalla mente il ricordo dei pettegolezzi dei Giovani Celti. Poi una sera, dopo cena, quando il sigillo del re era stato usato per l'ultima volta e il segretario, dopo averlo riposto nella sua scatola, salutò i due
uomini e si ritirò, si sentì bussare alla porta ed un servo entrò per annunciare un visitatore. Era Bors, uno dei cavalieri più vecchi, un Compagno che aveva combattuto con Artù e Bedwyr nella grande campagna ed era stato con loro a Badon Hill. Era un uomo semplice, devoto al re, ma noto per essere fremente nel desiderio di azione quanto i Giovani Celti. Non era un cortigiano, le cerimonie lo spazientivano e sognava la semplicità e l'animazione del campo. Rivolse a Bedwyr il saluto militare e disse con la sua abituale voce brusca: «Dovete andare dalla regina. C'è una lettera che vuole mostrarvi.» Vi fu un breve silenzio. Poi Bedwyr si alzò. «È molto tardi. Si sarà certo ritirata. Deve essere una cosa urgente.» «Così ha detto. Altrimenti non mi avrebbe mandato.» Mordred si era alzato quando lo aveva fatto Bedwyr. «Una lettera? È giunta con il corridore?» «Immagino di sì. Be', sapete come è arrivato tardi. Anche voi avete avuto la corrispondenza solo poco fa.» Era vero. L'uomo, atteso al tramonto, era stato ritardato da un'improvvisa inondazione ed era giunto da poco. Per questo avevano dovuto lavorare fino a così tardi. «Ma non ha parlato di nessuna lettera per la regina,» osservò Mordred. Bedwyr disse, seccamente: «Perché avrebbe dovuto farlo? È cosa che riguarda la regina e non noi, a meno che lei non decida di parlarmene. Benissimo, Bors. Ci andrò subito.» «Le dico che venite?» «Non occorre. Manderò Ulfin. Voi andate a letto. Anche voi, Mordred. Buona notte.» Mentre parlava aveva incominciato ad allacciarsi la cintura che si era tolto quando si erano messi al lavoro. Il servo gli portò il mantello. Con la coda dell'occhio vide Mordred che esitava e ripeté, con una certa durezza, «Buona notte.» Non c'era niente da fare. Mordred seguì Bors fuori dalla stanza. Bors percorse il corridoio con il suo lungo passo da uomo abituato all'aria aperta. Mordred, affrettandosi per raggiungerlo, non udì le rapide parole di Bedwyr al servo: «Va' a dire alla regina che sarò da lei tra poco. Dille... Senza dubbio le sue dame si saranno ritirate quando si è ritirata lei. Vedi che sia in compagnia quando arriverò. Non importa se le sue dame di compagnia dormono
già. Svegliale. Capito?» Ulfin era stato per anni il primo cameriere del re. Disse brevemente: «Sì, signore,» e uscì. Mordred e Bors, attraversando assieme il giardino esterno, lo videro affrettarsi verso le stanze della regina. Bors disse bruscamente: «Non mi piace.» «Ma, c'era una lettera?» «Non ne ho viste. E ho visto l'uomo quando è entrato a cavallo. Se è vero che portava una lettera per la regina, perché lei adesso ha bisogno di parlargliene? È quasi mezzanotte. Non poteva aspettare fino a domani mattina? Ve lo ripeto, non mi piace.» Mordred gli lanciò un'occhiata. Possibile che i mormorii fossero giunti fino alle orecchie di quel fedele veterano? Poi, Bors soggiunse: «Se fosse successo qualcosa al re, certo la notizia sarebbe stata portata anche a Bedwyr. Cosa possono dover discutere che abbia bisogno della segretezza di mezzanotte?» «Già, cosa?» disse Mordred. Bors gli rivolse un'occhiata penetrante, ma si limitò a borbottare: «Bene, bene, meglio che andiamo a letto e badiamo ai fatti nostri.» Quando raggiunsero la sala dove dormiva la maggior parte dei giovani scapoli, ne trovarono alcuni ancora svegli. Gaheris era sobrio, ma di poco. Agravain era ubriaco come al solito e verboso. Gareth era seduto a tavola con Colles e un paio d'altri; accanto al fuoco morente, giocavano a dadi. Bors augurò la buona notte e se ne andò e Mordred che, in assenza del re, viveva e dormiva all'interno del palazzo, si avviò verso la scala che portava alle sue stanze. Prima che la raggiungesse, uno dei giovani cavalieri, un gallese chiamato Cian, entrò dal cortile esterno urtando Bors nel varcare la porta. Rimase lì per un attimo, battendo le palpebre mentre abituava gli occhi al passaggio dal buio alla luce. Gaheris, immaginando dove era stato, lanciò alcune battute e Colles, con una risata rauca, gli fece notare che i suoi abiti erano ancora slacciati. Cian non badò alle loro parole. Con il suo passo deciso raggiunse il centro della sala e disse precipitosamente «Bedwyr è andato dalla regina. L'ho visto io. Dritto dalla porta privata e c'è una lampada sulla finestra della camera della regina.» Agravain balzò in piedi. «Lo ha fatto, per Dio!» Gaheris, con una smorfia, si alzò. Teneva la mano sulla spada. «Dunque, era vero! Lo sapevamo tutti! Adesso vedremo cosa dirà il re quando saprà
che sua moglie va a letto con un amante.» «E perché aspettare?» Era stato Mador a parlare. «Andiamo subito a coglierli sul fatto!» Mordred, dai piedi della scala, alzò la voce imperiosamente su quella confusione. «Lo ha chiamato lei. È giunta una lettera con il corriere. Potrebbe essere del re. Conteneva qualcosa che doveva discutere con Bedwyr. È stato Bors a portare il messaggio. Diteglielo, Bors!» «È vero,» disse il vecchio ma la sua voce suonava ancora preoccupata e Mador, acutamente, disse: «Non piace nemmeno a voi, vero? Avete sentito anche voi certe storie? Be', se devono consultarsi su una lettera del re, andiamo a raggiungerli! Che potrebbe obiettare?» Mordred gridò: «Fermatevi, sciocchi! Ve lo dico io, io c'ero! È vero! Siete tutti pazzi? Pensate al re! Qualunque cosa troviamo...» «Proprio così, qualunque cosa troviamo,» disse Agravain con voce impastata. «Se è un consulto, allora ci uniamo anche noi in quanto leali uomini del re...» «E se è un appuntamento di amanti lussuriosi,» intervenne Gaheris, «allora possiamo servire il re in altri modi.» «Non azzardarti a toccarla!» Mordred, scatenato dalla paura, si fece largo tra la ressa ed afferrò il braccio di Gaheris. «Lei? Non questa volta.» Gaheris, ubriaco ma perfettamente stabile, rise con gli occhi attraversati da fantasmi. «Ma Bedwyr, ah, se Bedwyr è dove penso io, cosa potrà fare il re se non ringraziarci per il lavoro di questa notte?» Bors gridava e veniva zittito. Mordred, sempre stringendo il braccio di Gaheris, parlava pacatamente, ragionevolmente, cercando di frenare l'impeto dei presenti. Ma avevano bevuto troppo, erano maturi per l'azione ed odiavano Bedwyr. Non c'era modo di fermarli. Sempre aggrappato alla manica di Gaheris, Mordred si trovò trascinato via con loro (erano almeno una dozzina, ormai, e anche Bors veniva sospinto e persino Gareth, bianco in faccia, era in coda) attraverso il porticato semibuio che costeggiava il cortile a giardino, e poi oltre la porta che dava sulle scale private della regina. Il servo che si trovava lì, assonnato ma sufficientemente sul chi vive, si staccò dal muro aprendo le labbra per lanciare un chi va là. Poi vide Mordred e, nell'attimo di esitazione che ne derivò, venne zittito da un colpo dell'impugnatura del pugnale di Colles. L'atto di violenza fu uno strappo che sciolse ogni remora. I giovani varcarono urlando la porta e si lanciarono su per le scale che portavano alle
stanze private della regina. Colles, in testa, picchiò sulla porta con l'elsa della spada, gridando: «Aprite! Aprite! In nome del re!» Bloccato tra la ressa sulla scala, mentre tentava di farsi largo per passare, Mordred udì dall'interno della stanza il grido di allarme di una donna. Poi altre voci, stridule e agitate, soffocate dal susseguirsi delle urla dalle scale. «Aprite questa porta! C'è un tradimento! Tradimento al re!» Poi, improvvisamente, tanto da render ovvio che non era stata chiusa a chiave, la porta si spalancò. Una ragazza la teneva aperta. La stanza era illuminata solo dalle lampade notturne. Tre o quattro donne si trovavano lì e dai voluminosi indumenti in cui erano avvolte si capiva che dovevano essere in camicia da notte e si erano alzate di fretta dai loro letti. Una di loro, un'anziana signora con i capelli grigi sciolti attorno al viso come se fosse stata appena riscossa dal sonno, corse alla porta della stanza interna dove dormiva la regina e si voltò per sbarrare la strada. «Cosa succede? Di cosa si tratta? Colles, questo è proprio sconveniente... E voi, principe Agravain? Se è lord Bedwyr che volete vedere...» «Fatti da parte, mamma,» disse qualcuno con il fiato corto. La donna venne scansata e Colles e Agravain, urlando: «Tradimento! Tradimento al re!» si lanciarono con le spade sguainate alla porta della regina. In mezzo al tumulto, al martellare contro la porta, alle urla spaventate delle donne, Mordred udì là voce affannosa di Gareth: «Linet? Non aver paura. Bors è andato a cercare le guardie. Rimani lì e tienti indietro. Non succederà niente...» Poi, tra un colpo e l'altro, la porta della regina si aprì improvvisamente e apparve Bedwyr. La camera da letto della regina era bene illuminata da una lampada d'argento a forma di drago. Gli attaccanti, presi di sorpresa, poterono cogliere in una sola occhiata tutto quello che c'era nella stanza. Il grande letto era contro il muro di fondo. Le coperte erano sfatte ma la regina era già coricata quando la lettera - se una lettera c'era - era giunta. Come le sue donne, era anche lei drappeggiata dal collo ai piedi in una calda veste sciolta di lana bianca orlata di azzurro. Le pantofole erano di ermellino bianco. I capelli biondi erano legati con nastri azzurri e le scendevano sulle spalle. Pareva una ragazzina. E pareva anche molto spaventata. Si era alzata dalla seggiola su cui era stata seduta e stringeva le mani di una terrorizzata dama di compagnia rannicchiata ai suoi piedi.
Bedwyr, in piedi sulla soglia, era vestito come Mordred lo aveva visto poco tempo prima ma non portava né la spada né il pugnale. Sebbene completamente vestito, di fronte alle spade di quelli al di là della porta era, nel linguaggio degli uomini d'armi, nudo. E, con la fulminea decisione dell'uomo d'armi, si mosse. Mentre Colles, ancora nel vano della porta, si gettava verso di lui con la spada, Bedwyr, spazzando via la lama con un gesto del suo pesante mantello, colpì l'attaccante alla gola. Mentre l'uomo indietreggiava, Bedwyr gli strappò di mano la spada e lo trafisse. «Porco! Assassino!» urlò Agravain. La sua voce era ancora appesantita dal vino, o dalla passione, ma la sua spada era ferma. Mordred, urlando qualcosa, lo afferrò ma Agravain si liberò per lanciarsi, con la lama mortale pronta, dritto verso Bedwyr. Il corpo di Colles bloccava metà della porta e per un istante Agravain fu solo a fronteggiare la spada di Bedwyr. A Bedwyr, veterano di migliaia di combattimenti, bastò quell'istante per deviare la lama scintillante di Agravain e affondargli la sua nel cuore. Anche quell'uccisione non placò gli assalitori. Mador, che era subito dietro Agravain, si insinuò sotto la guardia di Bedwyr prima che questi potesse ritirare la lama. Gareth, con la giovane voce rotta dalla disperazione, stava gridando: «Era ubriaco! In nome di Dio...» E poi, stridulo per il panico: «Gaheris, no!» Perché Gaheris, assassino di donne, aveva scavalcato di un balzo il corpo caduto di Agravain, aveva oltrepassato le spade ruotanti là dove Bedwyr combatteva e avanzava, con la spada tesa, sulla regina. Ginevra non si era mossa. Tutto lo scontro era durato solo qualche secondo. Se ne stava impietrita, con la sua dama in preda al terrore rannicchiata ai piedi e gli occhi fissi sul mortale lampeggiare del metallo attorno a Bedwyr. Se si accorse di Gaheris e della sua minaccia, non lo diede a vedere. Non alzò nemmeno una mano per fermare la lama. «Puttana!» urlò Gaheris e le si buttò addosso. La sua lama venne bloccata. Mordred stava saldo alle sue spalle. Gaheris si voltò bestemmiando. La spada di Mordred salì lungo la lama di Gaheris e le else si intrecciarono. Gaheris, spinto indietro, urtò contro la seggiola della regina e la fece volar via. La dama urlò e la regina si mosse finalmente con un grido, indietreggiando verso il muro. Gaheris, bestemmiando, fece per scagliarsi con il pugnale. Mordred liberò il suo con la mano sinistra e ne abbatté l'impugnatura con quanta più forza aveva sulla tempia del fratellastro. Gaheris cadde come una pietra. Mordred si voltò, ansimando, verso la regina e si trovò di fronte alla lama e agli occhi micidiali di
Bedwyr. Bedwyr, duramente impegnato nel combattimento, aveva visto attraverso il velo di sangue che colava da una leggera ferita sulla fronte, l'improvviso lanciarsi verso la regina e la lotta accanto alla sua seggiola. Si precipitò quindi verso di lei con una furia e una disperazione che non gli diedero il tempo di pensare. Gareth, esposto dalla caduta di Agravain, mentre seguitava a ripetere follemente «Era ubriaco!», fu trafitto e cadde nel suo sangue quasi ai piedi della regina. Poi la spada mortale, rossa fino all'elsa, impegnò quella di Mordred e Mordred, senza aver tempo né di parlare né di ritirarsi, lottò per la sua vita. Poi, gli parve che si creasse una nuova confusione. Una delle donne, incurante del pericolo, era corsa nella stanza e stava in ginocchio accanto al corpo di Gareth, piangendone il nome. Urla venivano dal corridoio dove altri erano corsi in cerca di aiuto. Bedwyr, senza smettere di combattere, gridava degli ordini e Mordred capì allora che la guardia era stata chiamata ed era lì. Gaheris si puntò sul pavimento cercando di alzarsi. La sua mano scivolò nel sangue di Gareth. Mador era stato afferrato da una guardia e trascinato via urlante. Gli altri, che ancora resistevano, vennero sopraffatti uno alla volta e trascinati via. La regina gridava qualcosa ma, nella confusione, non poteva essere udita. Mordred era consapevole essenzialmente di due cose: del freddo furore degli occhi di Bedwyr e del fatto che, persino attraverso quel furore, il reggente si tratteneva deliberatamente dall'uccidere il figlio del re. Un'occasione si offrì e fu ignorata; ne venne un'altra e fu schivata; la spada di Bedwyr scivolò sopra la lama di Mordred e colpì con precisione il giovane nella parte superiore del braccio che teneva la spada. Mentre Mordred indietreggiava barcollando, Bedwyr, seguendolo, lo colpì con l'impugnatura del pugnale assestandogli un pesante colpo sulla tempia. Mordred cadde. Cadde attraverso il braccio disteso di Gareth e le lacrime della ragazza che piangeva il suo amante gli piovvero sulla faccia. Non c'era più dolore, solo stordimento e il senso di una confusione che andava e veniva come le onde del mare. Il combattimento era terminato. La sua testa era a meno di un piede dall'orlo della veste di Ginevra. Si rese vagamente conto che Bedwyr scavalcava il suo corpo per prendere la mano della regina. Lo sentì parlare con voce bassa e incalzante: «Non vi hanno raggiunta? Va tutto bene?» E la sua risposta tremante, in quella voce dolce piena di dolore e paura: «Siete ferito. Oh, mio caro...» Ed il pronto tranquillizzarla di Bedwyr: «No. Solo un taglio. È finita. Devo lasciarvi con le
vostre dame. Calmatevi, signora, è tutto finito.» Gaheris, nuovamente in piedi ma sanguinante per un profondo taglio nel braccio, veniva trascinato via dalle guardie, intontito e incapace di resistere. Bors era lì, con una faccia da tragedia e parlava concitatamente, ma le parole andavano e venivano come il moto delle onde del mare, con il battito del polso di Mordred. Adesso incominciava il dolore. Una delle guardie disse: «Signora...» e cercò di sollevare Linet dal corpo di Gareth. Poi la regina fu lì, vicina, in ginocchio accanto a Mordred. Poteva sentirne il profumo, la morbidezza della veste bianca. Il suo sangue macchiò la lana ma lei non vi fece caso. Cercò di dire: «Signora,» ma non uscì nessun suono. In ogni caso, la regina non si preoccupava di lui. Le sue braccia avevano circondato Linet, la sua voce che parlava per confortare era carica di dolore. Finalmente la ragazza si lasciò rialzare e portare via e le guardie presero il corpo di Gareth. Appena prima di perdere conoscenza Mordred vide, accanto a lui sul pavimento, un foglio ciancicato che era caduto dalla veste della regina mentre si inginocchiava accanto a lui. Vide la scrittura elegante e regolare, la calligrafia di un esperto scrivano. E in fondo al messaggio, un sigillo. Conosceva quel sigillo. Era di Artù. Dopo tutto, la storia della lettera era vera. 12 Mordred, svegliandosi dal primo, profondo svenimento, emerse nella coscienza per ritrovarsi in casa sua, con la sua amante accanto al letto e Gaheris chino su di lui. La testa gli doleva ferocemente ed era molto debole. La ferita era stata frettolosamente ripulita e bendata ma il sangue sgorgava ancora e tutto il braccio e il fianco erano un'unica pulsazione di dolore. Non riusciva a ricordare nulla di come era arrivato lì. Non sapeva che, mentre veniva portato via dalla camera da letto della regina, Bedwyr aveva gridato alle guardie di tenerlo al sicuro e curargli le ferite. Bedwyr, in realtà, pensava solo di trattenere il figlio del re fino a quando il re stesso non fosse ritornato, ma le guardie, che non avevano assistito alla battaglia, presunsero, nella fretta e nella confusione, che Mordred fosse stato lì per aiutare il reggente e così lo portarono dritto a casa sua e lo affidarono alla sua amante. Gaheris (che era riuscito, fingendosi più gravemente ferito di quanto non fosse, ad eludere le guardie) lo aveva raggiunto lì valendosi della protezione della baraonda, con l'unico pensiero di uscire da Camelot prima dell'arrivo di Artù
e di usare Mordred a questo scopo. Perché Artù stava ritornando a casa molto prima del previsto. La lettera fatale, frettolosamente inviata dal re già in viaggio, avvisava Ginevra del suo imminente arrivo e le chiedeva di dirlo immediatamente a Bedwyr. La voce aveva già circolato tra le guardie: Gaheris le aveva sentite parlare. Il ritardo del corriere poteva significare che il re era solo a qualche ora di distanza da lì. Così, Gaheris si chinò ansiosamente sul letto. «Vieni, fratello, prima che si ricordino di te! Le guardie ti hanno portato qui per errore. Ben presto sapranno che eri con noi e ritorneranno. Presto! Dobbiamo andare. Vieni con me e ti porterò al sicuro.» Mordred si sforzò di guardarlo. Aveva la faccia rigata di sangue e la vista pareva sfocata; Gaheris afferrò una boccia di cordiale e ne versò un poco in una tazza. «Bevi questo. Sbrigati. Il mio servo è qui con me. Tra noi due, ce la faremo.» Il cordiale bruciò le labbra di Mordred. Un po' della nebbia di dolore si sollevò e la memoria fece ritorno. Era gentile da parte di Gaheris, pensò vagamente. Gaheris era buono. Lui aveva colpito Gaheris e Gaheris era caduto. Poi Bedwyr aveva cercato di ucciderlo, lui, Mordred, e la regina non aveva detto nemmeno una parola. Non allora e, apparentemente, nemmeno dopo se le guardie dovevano tornare per prenderlo come uno dei traditori... La regina. Voleva che lui morisse, anche se le aveva salvato la vita. E sapeva perché. Il motivo gli raggiunse la mente attraverso nubi fluttuanti, come una logica chiara e fredda. Lei sapeva della profezia di Merlino e, così, voleva che morisse. E anche Bedwyr. Quindi avrebbero mentito e nessuno avrebbe saputo del suo tentativo di fermare i traditori e del fatto che l'aveva salvata da Gaheris, assassino di donne. Quando il re fosse arrivato, lui, Mordred, il figlio di Artù, sarebbe stato bollato come traditore di fronte a tutti gli uomini... «Presto,» disse Gaheris, incalzante. Non venne nessuna guardia. Dopo tutto, era facile. Circondato da un braccio del fratellastro e con la sua amante dall'altra parte uscì, no, galleggiò, fuori nella strada buia dove, teso e silenzioso, il servo di Gaheris li aspettava con i cavalli. In qualche modo riuscirono a mettere Mordred in sella, in qualche modo lo tennero tra loro e poi furono fuori dalla città diretti alla Porta del Re. Lì vennero fermati a voce. Gaheris, tirandosi silenziosamente indietro, con la faccia coperta per ripararsi dal freddo, non disse niente. Il servo,
avanzando con Mordred, disse con impazienza: «È il principe Mordred. È ferito, come sapete. Dobbiamo portarlo a Applegarth. Abbiamo fretta.» Le guardie sapevano la storia che aveva circolato con il vento dell'alba. I cancelli vennero aperti, i cavalieri li varcarono e furono liberi. Gaheris disse, con esultanza: «Ce l'abbiamo fatta! Siamo fuori! Adesso liberiamoci di questo impaccio appena possiamo!» Mordred non avrebbe ricordato niente della cavalcata. Aveva una vaga consapevolezza di essere caduto, o di essere stato afferrato e buttato di traverso sul cavallo del servo mentre il terribile, sussultante galoppo proseguiva. Sentiva il calore del sangue che usciva attraverso le bende e poi, dopo quella che era parsa un'eternità, la meravigliosa immobilità quando i cavalli erano stati fermati. La pioggia gli batteva sulla faccia. Era fresca e gli dava sollievo. Il resto del suo corpo, strettamente avvolto com'era, era vestito di acqua calda. Di nuovo, galleggiava. I suoni andavano e venivano intermittenti come le pulsazioni del sangue che usciva dalla ferita. Qualcuno - era Gaheris - stava «dicendo: «Andrà bene così. Non avere paura. I fratelli si occuperanno di lui. Sì, anche del cavallo. Legalo qui. Presto. Adesso lascialo.» Posò la guancia sulla pietra bagnata. Tutto il suo corpo bruciava e pulsava. Era strano come, anche dopo che i cavalli si erano fermati, i colpi degli zoccoli continuassero ancora a risuonare nelle sue vene. Il servo si sporse sopra di lui e tirò una corda. Da qualche parte, in distanza, una campana tintinnò. Prima che il suono si spegnesse, i cavalli se ne erano andati. Non c'era alcun rumore al mondo se non quello ininterrotto della pioggia sul gradino di pietra dove lo avevano lasciato. *** Artù, arrivando quasi al seguito del corriere, entrò la mattina dopo nella città ancora in fermento come un alveare. Il reggente fu convocato prima ancora che il re si fosse liberato dalla sporcizia del viaggio. Quando Bedwyr venne annunciato, Artù era seduto dietro al tavolo del suo studio e, ai suoi piedi, il servo gli stava sfilando gli stivali infangati. Senza nemmeno un'occhiata ai due uomini, il domestico, presi gli stivali, si ritirò. Ulfin era stato al servizio di Artù durante tutto il suo regno. Aveva sentito più pettegolezzi di tutti e ne aveva fatti molto meno di tutti. Ma
anche lui, il silenzioso e fidato, uscì con sollievo. Era meglio non dire certe cose e nemmeno saperle. Lo stesso pensiero era nella mente dei due uomini. Negli occhi di Artù si poteva addirittura leggere un'implorazione al suo amico: «Non costringermi a fare domande. Cerchiamo, in un modo o nell'altro, di superare quest'imboscata e torniamo ai campi aperti della fiducia. Su questo silenzio sono in gioco più dell'amicizia, più dell'amore. In questo momento anche il mio regno sembra dipenderne.» Senza dubbio, se avessero ascoltato le sue prime parole, i principi delle Orcadi e molti della loro fazione sarebbero rimasti sorpresi. Ma sia il re che il reggente sapevano che, se del primo e maggiore guaio non si poteva parlare, il secondo si sarebbe invece dovuto affrontare presto: Gawain delle Orcadi. Il re infilò i piedi nelle pantofole di pelliccia, girò il suo seggiolone e disse con furiosa esasperazione: «Per tutti gli dei, avevate proprio bisogno di ucciderli?» Il gesto di Bedwyr era pieno di disperazione. «Che scelta avevo? Colles non potevo fare a meno di ucciderlo. Ero nudo e lui mi è venuto addosso con la spada. Ho dovuto prenderla. Non avevo tempo né alternative se non volevo che mi uccidesse. Quanto a Gareth mi dispiace sinceramente. La colpa è mia. Non potevo sapere che non era lì per tradimento ma solo perché era in mezzo al branco quando il grido è stato lanciato, e forse era anche in ansia per Linet. Confesso di averlo appena visto nella ressa. Ho effettivamente incrociato la spada con Gaheris, ma solo per un momento. Credo di averlo ferito - non più di un graffio ma poi è svanito. E dopo che Agravain è caduto, tutti i miei pensieri sono stati per la regina. Gaheris era il più scalmanato e stava ancora gridando insulti contro di lei. Mi ricordavo quello che aveva fatto con sua madre.» Esitò. «Questa parte è stata come un incubo. Le spade, gli insulti gridati, la ressa vicino alla regina e lei, povera signora, ammutolita e scossa da quei pochi secondi che c'erano voluti per passare dalla pace alla guerra sanguinosa. L'avete già vista, Artù? Come sta?» «Mi dicono che sta bene ma è ancora scossa. Era con Linet quando ho mandato a prendere notizie. Andrò da lei appena mi sarò ripulito. Adesso, ditemi il resto. Cosa ha fatto Mordred? Mi dicono che è ferito e che se ne è andato - è scappato - con Gaheris. È qualcosa che non riesco a capire. Era con i Giovani Celti per mia richiesta - di fatto, era venuto da me poco prima che lasciassi Camelot per dirmi qualche parola di ammonimento su
quello che contavano di fare... Questo non potevate saperlo. È stata colpa mia; forse avrei dovuto dirvelo ma c'erano alcuni aspetti...» Lasciò le spiegazioni a quel punto e Bedwyr si limitò ad annuire: era un terreno di discussione che entrambi gli uomini potevano esaurire senza scambiare una parola. Artù, aggrondato, abbassò gli occhi, poi li alzò verso quelli dell'altro. «Non vi si può biasimare per aver rivolto la spada contro di lui; come potevate immaginare? Ma la regina? Lui le è devoto... lo chiamavamo un amore da ragazzino e ne sorridevamo e lei pure, e così, perché mai avrebbe dovuto tentare di farle del male?» «Non è certo che lo abbia fatto. Non sono sicuro di quello che è successo. Quando ho incrociato la spada con Mordred, la faccenda era quasi conclusa. La regina era protetta alle mie spalle e le guardie erano arrivate. Lo avrei disarmato e poi avrei parlato con lui, oppure avrei aspettato la vostra venuta, ma lui è un combattente abile. Ho dovuto ferirlo per togliergli di mano la spada.» «Bene,» disse Artù pesantemente, «se ne è andato. Ma perché? E specialmente con Gaheris; a meno che Mordred non stia ancora spiando per me. Naturalmente, saprete dove sono andati.» «Da Gawain?» «Esattamente.» La voce di Artù si caricò di disperazione. «E cosa faremo di Gawain?» Bedwyr disse, con amarezza: «Lasciate che lo affronti io quando verrà.» «E che lo uccidiate? Se non lo farete, lui ucciderà voi. Questo dovete saperlo. E non voglio nessuna delle due cose. Per quanto fonte di guai sia Gawain, ho bisogno di lui.» «Sono nelle vostre mani. Mi manderete via, immagino. Capisco che non potete mandar via Gawain. E allora, quando e dove?» «Riguardo il quando, non immediatamente.»Artù esitò, poi guardò dritto negli occhi l'altro uomo. «Devo prima dare qualche pubblica manifestazione di fiducia in voi.» Come senza pensarci, la sua mano si tese sopra il tavolo. Era di marmo verde venato con i bordi di oro scolpito. Il re, entrando, vi aveva buttato sopra i guanti e Ulfin, nella sua fretta di andarsene, li aveva lasciati lì. Artù ne raccolse uno e lo passò tra le dita. Era un guanto di morbidissimo vitello, lavorato come velluto, con il polso ricamato di fili di seta dei colori dell'arcobaleno e piccole perle di fiume. Era stata la regina stessa a farli e non aveva permesso alle sue dame di darvi nemmeno un punto. Le perle venivano dai fiumi della sua terra natale.
Bedwyr incontrò gli occhi del re. I suoi, scuri occhi di poeta, erano profondamente infelici. Quelli del re erano altrettanto cupi ma serbavano una qualche gentilezza. «Quanto al dove, pensate che vostro cugino vi accoglierà nel vostro castello di famiglia in Bretagna? Mi piacerebbe che foste lì. Prima, se volete, andate da re Hoel di Kerrec. Credo che sarà contento di sapervi così vicino. Sono tempi di ansia per lui ed è vecchio e negli ultimi tempi non è stato bene. Ma parleremo di questo prima che partiate. Adesso devo vedere la regina.» Da Ginevra, con suo grande sollievo, il re seppe la verità. Lungi dall'attaccarla, Mordred aveva impedito che Gaheris la raggiungesse con la sua spada. Anzi, aveva addirittura messo a terra Gaheris prima di venir attaccato da Bedwyr. La sua successiva fuga, quindi, doveva aver avuto origine dalla paura di venir identificato (come, in effetti, lo aveva identificato Bedwyr) con la sleale fazione dei Giovani Celti. La cosa lasciava perplessi dato che Bors, come la regina, poteva ovviamente giurare sulla sua lealtà, ma la cosa più strana di tutte era: come mai era scappato proprio con Gaheris? La prima risposta venne, quando la interrogarono, dall'amante di Mordred. Gaheris, anche lui sanguinante e in preda al panico, era riuscito a convincerla del pericolo che correva il suo amante. Ancora più facile gli era stato persuadere il fratellastro, semisvenuto e indebolito, che la sua unica salvezza stava nella fuga. Lei aveva aggiunto le sue implorazioni a quelle di Gaheris e li aveva aiutati a montare a cavallo. E poi, li aveva visti partire. Le guardie della porta completarono il racconto e la verità fu chiara. Gaheris aveva portato l'uomo ferito come suo lasciapassare verso la libertà. Artù, ormai seriamente preoccupato per la salute e la sicurezza di suo figlio, mandò immediatamente i corrieri reali alla ricerca di Mordred con l'ordine di riportarlo a casa. Quando gli riferirono che né Gaheris né Mordred erano andati da Gawain, il re ordinò una ricerca in tutto il paese. L'ordine era di arrestare Gaheris. Doveva venir trattenuto fino a quando il re non avesse parlato con Gawain che era già in viaggio per Camelot. Gareth, unico dei morti, giaceva nella cappella reale. Dopo il funerale, Linet avrebbe portato il lutto a casa di suo padre. La questione era chiusa ma su Camelot incombeva ancora un'aura di disastro come se l'oro brillante delle sue torri, il rosso vivo e il verde e blu delle sue bandiere fossero macchiati dal grigiore della tristezza. La regina portava il lutto, per Gareth e per gli altri morti e per il sangue versato per quella che si definiva come
una lealtà fraintesa. Altri dicevano che piangeva la partenza del suo amante per la Bretagna. Ma si sussurrava più sommessamente di prima e il più delle volte le voci venivano energicamente negate. C'era stato fumo e fuoco ma ora il fuoco era spento e il fumo dissolto. Si vide che la regina baciava su entrambe le guance il reggente che partiva e, dopo di lei, il re fece lo stesso. E Bedwyr, apparentemente impassibile dopo l'abbraccio della regina, aveva gli occhi pieni di lacrime staccandosi dal re. La corte lo vide partire, poi si preparò con ansia ad accogliere Gawain. *** I gradini su cui Mordred era stato abbandonato appartenevano non ad una delle fondazioni protette dal re ma ad una piccola comunità che viveva lontana da qualche città o strada ed era votata al silenzio e alla povertà. Il tratturo che attraversava la loro valletta era usato solo dai pastori o da viaggiatori smarriti che cercavano una scorciatoia o, come nel caso di Gaheris, da fuggiaschi. Nessun messaggero giunse lì e nessuna notizia dei recenti avvenimenti nella capitale di Artù. I buoni fratelli curarono Mordred con la dovuta carità cristiana ed anche con qualche abilità perché uno di loro era un erborista. Non potevano in nessun modo immaginare chi fosse lo straniero che era stato lasciato sulla loro porta durante un temporale. Era vestito bene ma non portava armi né denaro. Doveva indubbiamente trattarsi di un viaggiatore che era stato derubato e doveva la vita alla paura - o forse alla pietà - dei ladri. Così, i frati curarono lo straniero, lo nutrirono con il loro semplice vitto e furono contenti quando, sparita la febbre, quello insistette per lasciare il loro tetto. Il suo cavallo era lì ed era una bestia qualunque. Gli riempirono la sacca da sella di pane nero, vino in una borraccia di cuoio, e una manciata di uva e lo lasciarono partire con la loro benedizione e, bisogna ammetterlo, un Te Deum privato quando fu in marcia. In quell'uomo amaro e silenzioso c'era qualcosa che li spaventava e il frate che aveva vegliato il suo sonno raccontava con terrore di parole pronunciate con sofferenza e paura dove ricorrevano i nomi del Sommo Re e della regina. Non si poteva capire altro perché Mordred, febbricitante, aveva delirato nella lingua della sua infanzia dove Sula e Ginevra e la regina Morgause andavano e venivano nell'ombra calda e tutte le facce erano sconosciute e le parole dolorose.
*** La ferita era cicatrizzata ma rimaneva un residuo di debolezza. Il primo giorno cavalcò per sole otto miglia, contento del passo calmo e regolare della sua cavalcatura. Per istinto, si diresse a nord. Trascorse quella notte nella capanna abbandonata di un taglialegna, nel cuore della foresta; non aveva denaro per una locanda e i frati non erano stati in grado di dargliene. Avrebbe dovuto vivere come facevano loro, di carità, pensò confusamente mentre si avvolgeva nel caldo mantello e si preparava ad aspettare il sonno. O, altrimenti, di lavoro. Quel pensiero, estraneo per tanti anni, gli suscitò una specie di amaro divertimento. Lavoro? Il lavoro di un cavaliere era combattere. Un uomo senza armi su un povero cavallo sarebbe stato preso solo dai più poveri e insignificanti signori. E anche quelli avrebbero fatto delle domande. E allora, che lavoro? Dalle incombenti nubi del sonno che avanzava, venne la risposta, senza più divertimento ma con in sé qualcosa di un antico desiderio. Navigare. Pescare. Estrarre torba. Coltivare un piccolo raccolto di grano e mieterlo. Una civetta, passando bassa sul tetto di paglia della capanna del taglialegna, lanciò il suo alto grido lacerante. Semiaddormentato e già con la fantasia sulle sponde del mare del nord, raggiunse Mordred come il grido di un gabbiano e parte di una decisione ormai presa. Sarebbe tornato a casa. Era già stato nascosto lì in passato. Ci si sarebbe nascosto ancora. E anche se fossero venuti a cercarlo tra le isole, sarebbe stato difficile trovarlo. Non gli passò per la mente di fare qualcosa di diverso che nascondersi tanto si erano conficcate nel suo delirio le menzogne di Gaheris e le sue personali convinzioni. Si girò sul fianco e dormì con l'aria fredda sulla faccia e il grido del gabbiano ancora nel sogno. Il giorno dopo puntò a occidente. Le due notti successive le trascorse all'aperto evitando i monasteri dove potevano aver saputo che Artù lo cercava. La terza la passò nella casupola di un contadino con cui divise quel che restava del pane e del vino dei frati e spaccò la legna per pagarsi l'alloggio. Il quarto giorno, raggiunse il mare. Vendette il cavallo e con il ricavato si pagò il passaggio a nord su una piccola nave commerciale, poco adatta a tenere il mare e che era l'ultima a partire per le isole prima che l'inverno chiudesse lo stretto.
*** Nel frattempo, Gawain giunse a Camelot. Artù gli mandò incontro Bors perché gli desse un resoconto completo della tragedia e temperasse, per quel che poteva, il dolore di Gawain per Gareth e Agravain e il suo furore verso chi li aveva uccisi. Bors fece del suo meglio ma tutte le sue parole, le sue asserzioni sull'innocenza della regina, il suo resoconto sull'ubriachezza di Agravain e la sua abituale (in quei giorni) violenza, sulle intenzioni omicide di Gaheris, sull'attacco contro il disarmato Bedwyr e sul combattimento nella penombra della camera da letto... tutto quello che disse non riuscì a smuovere Gawain. L'immeritata morte di Gareth era l'unica cosa di cui parlava e, incominciò a pensare Bors, ci avrebbe dormito, mangiato e sognato assieme. «Lo incontrerò e quando questo avverrà, lo ucciderò,» fu tutto quel che disse. «È stato mandato Via da corte. Il re lo ha bandito. Non per qualcosa che macchi la reputazione della regina ma...» «Per tenerlo lontano da me. Sì. Bene,» disse Gawain. «Posso aspettare.» «Se ucciderete Bedwyr,» disse Bors disperato «state certo che Artù ucciderà voi.» I brucianti occhi del principe delle Orcadi, venati di sangue, si puntarono su di lui. «E con questo?» Poi gli occhi si distolsero. Gawain alzò la testa. Erano in vista delle torri d'oro e il suono di una campana li raggiunse, lento, echeggiando sull'acqua che bandiva la strada. Sarebbero arrivati per il funerale di Gareth. Bors vide le lacrime sulle guance di Gawain e, trattenendo il cavallo, non disse più niente. *** Nessuno seppe mai cosa accadde tra Gawain e suo zio il Sommo Re. Rimasero chiusi assieme nell'appartamento privato del re per la maggior parte della giornata, da quando il funerale fu terminato fino quasi al mattino dopo. Poi, senza parlare con nessuno, Gawain andò nelle sue stanze, dormì per sedici ore, si alzò, si armò e andò ad esercitarsi sul campo. Quella sera mangiò alla taverna in città, passò lì la notte con una ragazza e ricomparve il giorno dopo sul terreno di esercitazione. Per otto giorni e notti fece così senza parlare con nessuno se non per
questioni di lavoro. Al nono giorno lasciò Camelot scortato e cavalcò per poche miglia fino a Ynys Witrin dove era alla fonda la nave del re, l'ultimo Drago del Mare. La nave alzò la sua vela d'oro, issò nel vento d'autunno il drago cremisi e subito salpò l'ancora diretta a nord. Era una decisione di Artù dovuta a due motivi: mandare il più lontano possibile quella fonte di guai a rinfrescarsi nel vento della distanza e del tempo; e dare al dolore di Gawain e al suo spirito furibondo qualcosa da fare. Aveva fatto una cosa ovvia, l'unica cosa a cui Mordred non aveva pensato. Gawain, re delle Orcadi, partiva per assumere il governo delle sue isole. LIBRO TERZO Il giorno fatale 1 Passò l'inverno e venne marzo con i suoi venti ruggenti e i violenti temporali. Poi il tempo si ammorbidì nella dolcezza di una primavera precoce. I garofani di mare coprirono le scogliere di rosso, fiori bianchi danzarono sulle macchie di rovi, i giacinti selvatici brillarono nell'erba. Dai lochs veniva il richiamo degli uccelli che nidificavano e la brughiera echeggiava del canto del chiurlo. Su ogni proda erbosa vicino al mare i cigni avevano costruito i loro castelli d'erba e in ognuno dormiva un grande uccello bianco con la testa sotto l'ala mentre il suo vigile compagno incrociava nei paraggi con la testa alta e le ali spiegate come vele. La superficie del mare rimandava l'urlo degli ostricari e dei gabbiani e il cielo alto fremeva del canto delle allodole. Un uomo e un ragazzo stavano lavorando sulla striscia di brughiera d'erica che copre il centro della più grande delle isole Orcadi. A quel tempo dell'anno, l'erica era scura e pareva morta ma ai bordi del sentiero segnato dai passi erano sbocciate le primule. Ai piedi dell'ondulata brughiera c'era una sottile striscia di pascolo, dorata dai narcisi. Al di là si stendeva un grande loch e ancora al di là di quello un altro, quasi parallelo e le due estremità dei laghi erano separate da una striscia di terra ben calpestata dagli zoccoli dei cavalli e dai passi perché quello era il luogo sacro delle isole. Lì c'erano i grandi anelli di pietre, immensi, immobili, enigmatici e temuti persino da quelli che non sapevano nulla del loro scopo o del perché
della loro costruzione. Era ben noto che nessun cavallo poteva attraversare quel sentiero tra il crepuscolo e l'alba e non si era mai visto un daino pascolare lì. Solo le capre, brucavano tra le pietre mantenendo l'erba corta e liscia per le cerimonie che ancora vi si svolgevano nelle giuste stagioni. I due lavoratori erano intenti a spianare un pezzo di brughiera non molto sopra quei lochs e il loro sentiero protetto. L'uomo era alto, snello, duro e, sebbene vestito come un contadino, non si muoveva come se lo fosse; i suoi erano i gesti misurati e sciolti di un corpo allenato. La sua faccia, ancora giovane ma segnata da amare pieghe era inquieta malgrado quel lavoro campestre e la giornata tranquilla. Accanto a lui il ragazzo, dagli occhi scuri come quelli del padre, lo aiutava ad inchiodare un'asse per gli alveari che avrebbero portato nella brughiera quando l'erica fosse fiorita per deporli sull'ordinata fila di piattaforme che li aspettava. Da loro, senza altro preavviso che il rumore degli zoccoli del cavallo attutito dall'erica e un'ombra che scese sopra il lavoro dell'uomo, giunse il re delle Orcadi, Gawain. L'uomo alzò gli occhi. Gawain, che stava per iniziare una formula di saluto, frenò bruscamente il cavallo e sgranò gli occhi. «Mordred!» Mordred lasciò cadere il martello che stava usando e si alzò lentamente in piedi mentre un gruppo di cavalieri, una dozzina circa con valletti e cani, si avvicinava al re salendo il pendio della collina. Il ragazzo interruppe quel che stava facendo e si raddrizzò per fissarli a bocca aperta. Mordred posò una mano sulla spalla del figlio per rassicurarlo. «Ma come! Gawain! Ti saluto.» «Tu?» disse Gawain. «Qui? Da quando? E chi è questo?» Il suo sguardo misurò il ragazzo. «No, non ho bisogno di chiederlo! Somiglia a Artù più...» Si controllò. Mordred disse, asciutto: «Non preoccuparti, parla solo la lingua delle isole.» «Per tutti gli dei,» disse Gawain, disorientato suo malgrado, «se non lo hai avuto prima di venire qui, devi essere arrivato prima di tutti noi!» Gli altri cavalieri li avevano raggiunti. Gawain, con un gesto, li mandò indietro perché aspettassero fuori portata d'orecchio. Scivolò già dalla sella e un palafreniere accorse per portar via il suo cavallo. Gawain si sedette su una delle piattaforme di legno. Mordred, dopo un attimo di esitazione, su un'altra. Il ragazzo, a un gesto del padre, incominciò a raccogliere gli attrezzi che avevano usato. Lo fece lentamente, seguitando a lanciare occhia-
te al re e al suo seguito. «E adesso,» disse Gawain, «raccontami. «Come e perché e tutto. Correva voce che tu fossi morto, altrimenti saresti stato trovato da molto ma io, chissà perché, non lo ho mai creduto. Cosa è successo?» «Hai bisogno di chiederlo? Gaheris deve avertelo detto. Pensavo che venisse a raggiungerti.» «Non lo sai? Ma certo, sono uno stupido. Come potresti saperlo? Gaheris è morto.» «Morto? Come? Non pensavo che, anche se...» «Il re non c'entra. Quella notte, Gaheris è stato ferito, una cosa da poco ma l'ha trascurata ed è diventata seria. Se fosse venuto da me... ma non lo ha fatto. Doveva sapere che non lo avrei accolto bene. È andato a nord dalla sua amante ma quando lo hanno ritrovato lì non c'era più niente da fare. Un altro,» soggiunse amaramente Gawain, «da mettere in conto a Bedwyr.» Mordred taceva. Non riusciva a piangere se non Gareth ma per Gawain, l'unico sopravvissuto di quel clan delle Orcadi così turbolento ma così legato, la perdita era pesante. Glielo disse e, per un poco, parlarono del passato e i ricordi erano resi più vivi dal paesaggio che si stendeva attorno a loro. Poi Mordred, scegliendo le parole, incominciò a tastare il terreno. «Parli di Bedwyr con amarezza. Questo lo capisco, credimi, ma Bedwyr non può esser tenuto responsabile della follia di Gaheris. Né, a dire il vero, di niente di quel che è successo quella notte. Non lo considero responsabile nemmeno di questo,» e si toccò brevemente la spalla. «Lo devi capire, Gawain, ora che il tuo dolore si è un po' placato. Quella notte, Agravain era il capo e con lui Gaheris. Erano decisi a distruggere Bedwyr anche se questo significava distruggere la regina. Niente che gli si potesse dire...» «Lo so. Li conoscevo. Agravain era uno sciocco e Gaheris un pazzo e macchiato di sangue per un crimine peggiore di quello commesso quella notte. Ma non pensavo a loro. Pensavo a Gareth. Meritava di meglio dalla vita che non essere assassinato da un uomo di cui si fidava, un uomo che aveva servito.» «In nome degli dei, non è stato un assassino!» Mordred parlò in tono concitato e suo figlio alzò gli occhi, allarmato. Mordred gli si rivolse con calma, nella lingua locale. «Riporta a casa gli strumenti. Per oggi non lavoriamo più. Di' a tua madre che verrò tra non molto. Non preoccuparti, va tutto bene.» Il ragazzo corse via. I due uomini lo seguirono con lo sguardo senza par-
lare mentre la sua figura sottile correva già per la collina. C'era una casetta, costruita in un avvallamento vicino ai lochs e il suo tetto di paglia si distingueva appena contro l'erica. Il ragazzo sparì dentro la bassa porta. Mordred tornò a voltarsi verso Gawain. Parlava con franchezza. «Gawain, non credere che non abbia pianto Gareth più di chiunque altro. Ma, credimi, la sua morte è stata un incidente, per quanto può essere un incidente una morte nel sangue in una folle mischia. E Gareth era armato. Bedwyr non lo era quando è stato attaccato. Dubito persino che per i primi minuti sapesse chi c'era all'estremità della sua spada.» «Ah, sì.» Nella voce di Gawain c'era ancora amarezza. «Lo sanno tutti che eri dalla sua parte.» La testa di Mordred si alzò di scatto. Il suo tono era incredulo: «Che cosa sai?» «Be', anche se non eri per Bedwyr eri però contro l'attacco. Il che, immagino, era sensato. Anche se fossero stati colti in letto assieme, nudi e abbracciati, il re avrebbe punito gli attaccanti prima di occuparsi di Bedwyr e della regina.» «Non ti capisco. E questo non ha importanza. Non si è mai trattato di adulterio.» Mordred parlava con rabbia repressa, con un'alterigia regale che stonava venendo da quel contadino che si rivolgeva al re splendidamente vestito. «Il re aveva mandato una lettera alla regina e lei voleva mostrarla a Bedwyr. Immagino che fosse per annunciare che stava tornando a casa. L'ho vista, in quella camera. E quando abbiamo fatto irruzione erano tutti e due perfettamente vestiti, anzi imbacuccati in abiti caldi e le dame della regina vegliavano nell'anticamera. Una di loro era nella camera da letto con Bedwyr e la regina. Non è una situazione favorevole all'adulterio.» «Sì, sì.» Gawain parlava con impazienza. «Tutto questo lo so. Ho parlato con mio zio, il Sommo Re.» Una certa eco in quelle parole, in quel luogo, riportò dei ricordi. Distolse lo sguardo e disse rapidamente: «Il re mi ha raccontato quello che è successo. Sembra che tu abbia cercato di fermare quello sciocco Agravain e so che hai impedito a Gaheris di far del male alla regina. Se solo l'avesse toccata...» «Aspetta. È questo che non capisco. Come fai a saperlo? Bedwyr non può aver visto quello che è successo, altrimenti non mi avrebbe attaccato come invece ha fatto. E credo che Bors fosse già andato a chiamare le guardie. Allora, come fa il re a conoscere la verità sullo svolgimento dei fatti?»
«Glielo ha detto la regina, naturalmente.» Mordred tacque. L'aria era piena del canto degli uccelli della brughiera ma quello che lui sentiva era silenzio, il silenzio carico di incubi di quelle notti piene di sogni. Lei aveva visto. Lei sapeva. Non lo aveva fatto scacciare. Disse lentamente: «Incomincio a capire. Gaheris mi ha detto che le guardie sarebbero venute a prendermi e dovevo lasciare Camelot per salvarmi. Mi avrebbe portato al sicuro, ha detto, malgrado il rischio che correva. Anche allora, per quanto fossi intontito, la cosa mi era parsa strana. Lo avevo colpito io, per difendere la regina.» «Gaheris, mio caro Mordred, non salvava la pelle di nessuno se non la sua. Non ti sei mai chiesto come mai le guardie lo hanno lasciato uscire dalle porte, pur sapendo certamente dell'agguato? Se Gaheris fosse stato solo lo avrebbero fermato. Ma il principe Mordred, visto che Bedwyr stesso aveva detto di averne cura...» «Non ricordo quasi niente. La cavalcata è come un brutto sogno. Parte di un brutto sogno.» «E allora, pensaci adesso. Questo è quanto è successo. Gaheris è uscito e appena ha potuto ti ha lasciato a morire o guarire, come Dio e i buoni frati avrebbero deciso.» «Sai anche questo?» «Dopo qualche tempo, Artù ha trovato il monastero, ma tu te ne eri andato. Ha mandato cavalieri a cercarti in lungo e in largo per tutto il paese. Infine, ti hanno considerato perduto o morto.» Un sorriso senza allegria. «Uno scherzo maligno degli dei, fratello. È stato Gaheris a morire, e sei stato tu ad essere pianto. Dovresti essere lusingato. Quando venne tenuto il Consiglio...» Mordred non udì il resto. Si alzò improvvisamente in piedi e si allontanò di qualche passo. Il sole stava tramontando e, ad occidente, l'acqua del grande lago brillava. Al di là, nel fiammeggiare del tramonto, incombevano le cime dell'Isola Alta. Trasse un profondo respiro. Era come tornare lentamente alla vita. Un tempo, tanto tempo fa, un ragazzo era stato lì così, sulla riva non lontana, con il cuore che correva attraverso le montagne e le acque verso i lontani regni. Ora c'era lì un uomo che guardava dalla stessa parte, aveva le stesse visioni e una dura amarezza che si faceva strada nel cervello. Non era stato braccato. Non era stato condannato. Il suo nome era ancora puro argento. Suo padre lo cercava in pace. E la regina... Gawain disse: «Un corriere sarà qui entro otto giorni. Mi lasci mandare
un messaggio?» «Non occorre. Andrò io stesso.» Gawain, guardando la sua faccia accesa, annuì. «E quelli?» Un gesto verso la lontana casetta. «Resteranno qui. Presto il ragazzo sarà in grado di prendere il mio posto e fare il lavoro di un uomo.» «Tua moglie. Lo è?» «Lei si definisce così. C'è stato qualche rito locale, dolci e un falò. Le faceva piacere.» Abbandonò l'argomento. «Dimmi, Gawain, quanto tempo resterai qui?» «Non lo so. Il corriere potrebbe portare notizie.» «Ti aspetti di essere convocato? Non ho bisogno di chiederti,» disse Mordred senza fingere, «perché sei qui nelle isole. Se ritorni, cosa ne sarà di Bedwyr?» La faccia di Gawain si indurì assumendo il caratteristico tratto familiare dell'ostinazione. «Bedwyr si comporterà con prudenza. E io pure.» Il suo sguardo era al di là di Mordred. Una donna era uscita dalla lontana casetta e, con il ragazzo accanto, guardava verso di loro. La brezza le modellava addosso la veste e i lunghi capelli svolazzavano in una nube dorata. «Sì, capisco,» disse Gawain. «Come si chiama il ragazzo?» «Medraut.» «Nipote del Sommo Re,» disse Gawain. «Lo sa?» «No,» disse Mordred seccamente. «E non lo saprà. Non sa nemmeno di essere mio. Lei si era sposata dopo che avevo lasciato le isole ed ha messo al mondo altri tre figli prima che suo marito annegasse. Era un pescatore. Lo conoscevo quando eravamo bambini. I genitori di lei vivono ancora e l'aiutano a occuparsi dei figli. Mi hanno accolto bene e sono stati contenti di vederci riuniti dopo tanto tempo ma ho capito che non si aspettavano di vedermi per molto e lei ha detto di non voler lasciare le isole. Ho promesso di provvederli di tutto il necessario. Per i bambini - per tutti e tre - sono il loro patrigno. Un giorno o l'altro Medraut saprà forse di essere il bastardo del 'bastardo di re Lot', ma questo è tutto, a meno che un giorno io non lo mandi a chiamare. E ce ne sono altri attorno. Che bisogno, allora, di alimentare ambizioni?» «Effettivamente.» Gawain si alzò in piedi. «Bene, vuoi restare con loro o vieni con me ad aspettare la nave? Il palazzo ti offrirà più comodità del tuo nascondiglio.»
«Dammi un giorno o due per sistemare le cose, e verrò.» Mordred rise improvvisamente. «Sarà interessante vedere come il lusso mi colpirà questa volta, dopo i mesi che ho passato nel mio vecchio mestiere! Non ho perduto il gusto per la pesca ma confesso che non mi rallegrava la prospettiva di scavare la torba!» *** Il sollievo e il piacere del re e la palese felicità della regina nel rivederlo furono, per Mordred, come l'esplodere dell'estate dopo un lungo inverno di carestia. Non molto venne detto sui tristi eventi di quella notte: era qualcosa che né il re né la regina desideravano rievocare. Chiesero invece notizie dei mesi di esilio di Mordred e ben presto, mentre lui raccontava dei suoi tentativi di rientrare nel duro ritmo di lavoro della sua infanzia, tutti e tre persero nel riso il ricordo di «quella terribile notte». Parlarono poi di Gawain e Mordred consegnò al re la lettera del suo fratellastro. Artù la lesse, poi alzò gli occhi. «Sai cosa dice?» «Per buona parte sì, signore. Mi ha detto di volervi implorare di lasciarlo ritornare a sud.» Artù annuì. La sua successiva osservazione rispondeva alla domanda che Mordred non gli aveva fatta. «Bedwyr è ancora in Bretagna, nel suo castello di Benoic, a nord della foresta che chiamano Perigliosa. In effetti, con nostro rincrescimento, sembra che si sia proprio sistemato lì. Si è sposato durante l'inverno.» Mordred, rientrato nel comportamento di corte, non mostrò sorpresa. Prima che potesse parlare, Ginevra, alzandosi, costrinse i due uomini ad alzarsi anche loro. Era pallida in viso e, per la prima volta, Mordred vide nella sua bellezza i segni della tensione e dell'insonnia. La sua bocca aveva perso qualcosa della sua gentile pienezza, come se si fosse irrigidita in troppi silenzi. «Mi ritirerò, con il vostro permesso, signori. Dopo tanto tempo avrete molte cose da dirvi.» Tese nuovamente la mano a Mordred. «Tornate presto a parlare con me. Desidero saperne di più delle vostre strane isole. Per il momento, bentornato nella vostra casa.» Artù attese finché la porta si fu richiusa alle sue spalle. Tacque per un momento e il suo sguardo era pesante e incupito. Mordred si domandò se stesse ripensando agli eventi di quella notte, ma tutto quel che disse fu:
«Avevo cercato di avvisarti, Mordred. Ma come potevi capirlo? E anche se lo avessi capito, cosa potevi fare più di quello che hai fatto? Be', sono cose passate. Ti ringrazio ancora, e adesso non parliamone più... Ma siamo costretti a discutere dei risultati. Quando hai parlato con Gawain, cosa ti ha detto di Bedwyr?» «Che si sarebbe dominato meglio che poteva.» «Lo dice anche nella sua lettera. Mordred, credi che manterrà la parola?» Mordred scrollò le spalle. «Per quel che può, immagino di sì. Vi è leale, signore, di questo potete essere sicuro. Ma conoscete il suo carattere, e che riesca a controllarlo...» Scrollò nuovamente le spalle. «Lo richiamerete?» «Non è stato bandito. È libero di venire e se lo farà di sua volontà, tutto dovrebbe andare abbastanza bene. Bedwyr è sistemato in Bretagna e mi ha scritto che sua moglie aspetta un bambino. Così, per il nostro bene e anche per quello di mio cugino Hoel, è meglio che rimanga lì. Ci sono guai in vista in Bretagna, Mordred e la spada di Bedwyr può essere necessaria lì, assieme alla mia.» «Già? Me ne avete parlato in passato. «No. Non per quello di cui parlavamo allora. C'è una situazione completamente nuova. Mentre eri nelle tue isole ci sono arrivate le notizie dall'estero che porteranno grandi cambiamenti negli imperi d'Oriente e Occidente.» Poi spiegò la situazione. Era giunta notizia della morte di Teodorico re di Roma e capo dell'Impero d'Occidente. Aveva regnato per trent'anni e la sua morte avrebbe provocato cambiamenti grandi quanto improvvisi. Sebbene goto e quindi, per definizione, barbaro, Teodorico, come molti della sua razza, aveva ammirato e rispettato Roma anche mentre combatteva per conquistarla e fondare un regno per il suo popolo nel dolce clima italiano. Aveva abbracciato quel che gli pareva migliore della cultura romana ed aveva tentato di restaurare, o puntellare, le strutture della legge romana e la pace romana. Sotto di lui goti e romani avevano continuato ad essere nazioni separate, legate alle loro leggi e responsabili davanti ai loro tribunali. Il re, dalla sua capitale di Ravenna, governava con giustizia e persino bontà reggendo con una legislazione leale sia Ravenna che Roma, dove gli antichi titoli di procuratore, console, legato erano ancora conferiti ed esercitati. A Teodorico era succeduta sua figlia con funzioni di reggente per il figlio decenne, Atalarico. Ma non si pensava che il ragazzo avesse delle probabilità di successione. Anche a Bisanzio c'erano stati cambiamenti. Il
vecchio imperatore Giustino aveva abdicato in favore del nipote Giustiniano ed aveva posto sul suo capo la corona d'Oriente. Il nuovo imperatore Giustiniano, ricco, ambizioso e servito da brillanti generali aveva fama di voler restaurare le perdute glorie dell'Impero romano. Si diceva che avesse già messo gli occhi sulla terra dei vandali nella zona meridionale del Mediterraneo ma pareva probabile che volesse prima estendere il suo impero verso occidente. I franchi di Cildeberto e dei suoi fratelli erano sempre attenti ad ogni movimento che venisse da oriente ma ora la perenne minaccia dei burgundi e degli alemanni andava sommata a quella, maggiore, di Roma. Dietro la barriera dei galli franchi, e alla mercé del loro volere, c'era la piccola terra di Bretagna. Delimitata su tre lati dal mare, sul quarto la Bretagna era difesa solo da un paese nominalmente franco ma, di fatto, per metà deserto: una densa foresta popolata da tribù diffidenti o gente sbandata dalle guerre che stava ammassata in villaggi provvisori e, con i suoi capi semi selvaggi, conduceva un'esistenza indipendente da qualunque forma di subordinazione ad altri. Recentemente, aveva scritto re Hoel, c'erano stati rapporti preoccupanti da alcuni di quegli insediamenti nella foresta a nordest della sua capitale. Erano filtrate notizie di incursioni, ruberie, attacchi violenti ad abitazioni e, per ultimo, un orribile caso di assassinio di massa in cui una fattoria era stata data deliberatamente alle fiamme e i suoi abitanti - otto persone e una mezza dozzina di bambini - bruciati vivi, dopo di che beni e animali erano stati rubati. La paura si era diffusa nella foresta e si incominciava a mormorare che i predoni fossero franchi. Non c'era stata conferma di questo ma il furore stava crescendo e Hoel temeva cieche rappresaglie e un casus belli, proprio nel momento in cui l'amicizia con i suoi vicini franchi era più che mai necessaria. «Gli uomini di Hoel potrebbero benissimo gestire da soli la faccenda,» disse Artù, «ma lui suggerisce che la mia presenza con alcuni dei Compagni e una dimostrazione di forza potrebbero essere un vantaggio, non solo per questa situazione ma anche per i fatti più gravi di cui mi ha scritto. Ma vedi da te.» Tese la lettera di Hoel a Mordred che, unico dei fratelli delle Orcadi, sotto la guida del prete che li aveva istruiti nella lingua del continente, si era preso la briga di imparare a leggere. Mordred incominciò faticosamente a decifrare il latino tracciato dallo scrivano di Hoel. Pareva che re Hoel avesse recentemente ricevuto un messaggio spedito
non dal nuovo imperatore ma da un ufficiale che sosteneva di rappresentarlo. Si trattava di un certo Lucio Quintiliano, soprannominato Iberico, cioè Spagnolo, recentemente nominato console. Scrivendo con arroganza veramente imperiale e citando Roma come se ancora scintillasse di aquile e legioni, aveva chiesto a Hoel oro e una leva di truppe - molte più di quante lui potesse mai raccoglierne - per «aiutare Roma a proteggere la Bretagna dai burgundi.» Non diceva quale sarebbe stata la pena per un rifiuto: non ne aveva bisogno. «Ma, i franchi? Il re Cildeberto?» chiese Mordred. «Come i suoi fratelli, è solo un'ombra di suo padre. Hoel ritiene che abbiano ricevuto anche loro la stessa richiesta e si direbbe quindi che Roma ha forze sufficienti per farsi ubbidire. Mordred, ho paura di questo imperatore. Le terre celtiche non hanno ancora dimenticato la diserzione di Roma e la minaccia della dominazione barbarica tanto da poter accettare un'altra volta il collare e la catena di Roma, qualunque 'protezione' porti con sé.» La situazione, pensò Mordred, non era senza ironia. Artù, biasimato in patria dai Giovani Celti per la sua adesione alla legge romana e al principio del governo centralizzato, era tuttavia pronto a resistere a un possibile tentativo di riportare il territorio celtico sotto la protezione romana. «Sotto il suo giogo, per meglio dire!» disse Artù in risposta al commento di suo figlio. «Sono passati da molto i tempi in cui, in cambio di un tributo, un re e il suo popolo venivano protetti. La Britannia è stata presa con la forza e poi costretta a pagare un tributo a Roma. In cambio, dopo l'insediamento, ha goduto di un periodo di pace. Poi Roma, egoista come sempre, ha tolto il suo scudo ed ha lasciato i suoi territori indeboliti aperti ai barbari. Noi in queste isole e i nostri cugini nella penisola di Bretagna siamo i soli ad aver mantenuto la nostra nazionalità e a rimanere stabili. Abbiamo conquistato la nostra pace. Adesso, Roma non può aspettarsi che le paghiamo debiti che non riconosciamo. Avremmo altrettanto diritto di domandare a lei dei tributi per i territori romani che ora sono nuovamente britannici!» Mordred disse, sorpreso: «State dicendo che questo nuovo imperatore Giustiniano? - ha domandato tributi a noi?» «No. Non ancora. Ma se li ha chiesti alla Bretagna, allora, prima o poi, li chiederà anche a me.» «Quando andate, signore?» «I preparativi sono già a buon punto. Andremo appena possibile. Sì, ho detto andremo. Voglio che tu venga con me.»
«Ma, con Bedwyr lontano, in Bretagna... o lascerete il duca Costantino qui come reggente?» Artù scosse la testa. «Non occorre. Non sarà una visita lunga. Il problema immediato sono questi guai con la foresta Perigliosa e non dovremmo impiegare molto a chiarirli.» Sorrise. Per il momento lascerò in carica il consiglio, con la regina, e manderò al duca Costantino un soporifero sotto forma di lettera che lo incarica della custodia dell'Occidente.» «Un soporifero?» «Una consolazione e una droga, magari, per quel gentiluomo violento e ambizioso.» Artù annuì vedendo il rapido alzar di sopracciglia di Mordred. «Sì. Troppo violento per i bisogni del paese, come penso da molto. Suo padre Cador, a cui avevo promesso il regno in mancanza di un erede del mio sangue, era di diversa lega. Furono interrotti in quel momento da un messaggio urgente giunto dal porto di Ynys Witrin dove era alla fonda il Drago del Mare. La nave era pronta a salpare ed equipaggiata. Così il re non disse altro e lui e Mordred si separarono per prepararsi al viaggio in Bretagna. 2 Come tanto spesso avviene, un guaio tirò l'altro. Mentre Artù e i suoi compagni erano ancora nel Mare Stretto, la tragedia, questa volta autentica e immediata, colpì la casa reale di Bretagna. La nipote di Hoel, Elen, sedicenne e bellissima, uscì un giorno dalla casa di suo padre per recarsi al castello di Hoel a Kerrec. Non arrivò mai. Le sue guardie e i suoi servi furono attaccati e uccisi e la ragazza, con una delle sue donne, la vecchia balia Clemency, fu rapita. L'altra donna della compagnia, sebbene illesa, era troppo scossa per poter offrire un resoconto coerente di quello che era successo: l'attacco aveva avuto luogo al crepuscolo, quasi in vista del luogo dove la comitiva si era proposta di trascorrere la notte e lei non aveva notato che insegna portassero gli attaccanti, né alcun'altra cosa che li riguardasse se non che il loro capo, quello che si era portata via Elen sul suo cavallo, era «un uomo gigantesco con occhi di lupo e i capelli come la pelliccia di un orso e le braccia come tronchi di quercia.» Hoel, pur scartando molta parte di quel racconto, saltò alla conclusione che l'oltraggio era opera dei farabutti che terrorizzavano la Foresta. Che fossero bretoni o franchi, la sua mano era ormai forzata. Le donne doveva-
no venir salvate e gli attaccanti puniti. Persino re Cildeberto non avrebbe potuto biasimare il re bretone se vendicava un simile oltraggio. Quando Artù e i suoi entrarono nel porto di Kerrec trovarono la città in subbuglio e fecero appena in tempo a mettersi alla testa della spedizione punitiva che era stata frettolosamente organizzata. Il primo capitano di Hoel, un fidato veterano, con una compagnia di cavalleria bretone, accompagnò Artù e i suoi. Il gruppo cavalcò veloce e più o meno in silenzio. Stando alle informazioni che si erano potute raccogliere dalla sopravvissuta donna di compagnia della principessa, l'attacco aveva avuto luogo su un tratto solitario di strada proprio là dove lasciava la foresta per costeggiare un lago salato. Era una delle lagune della costa, non proprio un'insenatura del mare ma ugualmente sensibile alle maree e, in primavera e in autunno, invasa dal mare. Raggiunsero la riva del lago poco dopo il crepuscolo e si fermarono sul luogo del ratto in attesa della luce e di Bedwyr che doveva raggiungerli. Erano parecchi giorni che non pioveva e pertanto Artù sperava che fosse rimasta qualche traccia della lotta e qualche impronta per indicare dove i banditi si erano diretti. Il messaggero di Hoel li aveva preceduti a Benoic e, proprio mentre venivano dati gli ordini per la fermata notturna, Bedwyr uscì dal buio seguito dai suoi uomini. Artù salutò con gioia l'amico e durante la cena discussero e pianificarono la loro mossa successiva. Nessun'ombra del passato pareva sfiorarli; l'unico riferimento, e anche questo obliquo, agli eventi che avevano fatto bandire Bedwyr nella Britannia Minore, si ebbe quando salutò Mordred. Avvenne dopo cena, mentre Mordred si stava dirigendo ai picchetti per controllare che il suo cavallo fosse stato bene accudito. Bedwyr lo raggiunse, apparentemente diretto ad eseguire lo stesso controllo. «Mi dicono che anche voi, Mordred, avete soggiornato nelle lontane tenebre. Sono contento di rivedervi accanto al re. Spero che vi siate completamente rimesso.» «Non certo grazie a voi» disse Mordred, ma sorridendo. «A pensarci bene, però, devo ringraziarvi. Mi avreste potuto uccidere e lo sapevamo entrambi.» «Non tanto facilmente. La decisione non è stata tutta mia, Mordred. Siete un valido combattente. Un giorno o l'altro potremmo incontrarci ancora... e con un po' meno lealtà.» «Perché no? Per il momento, mi dicono che devo rallegrarmi con voi.
Ho sentito che vi siete sposato. Chi è?» «Suo padre è Pelles, un re in Neustria che ha le terre confinanti con le mie. Anche lei si chiama Elen.» Il nome li riportò ai problemi del momento. Mentre ispezionavano i cavalli, Mordred disse: «Dovete conoscere il terreno qui attorno.» «Lo conosco bene. È a meno di un giorno di cavallo dal mio castello di famiglia a Benoic. Venivamo a caccia qui, e a pesca. Molte volte io e i miei cugini...» Si interruppe, raddrizzandosi. «Guardate laggiù, Mordred. Cos'è?» Era un punto di luce, rosso, guizzante. Un altro ondeggiò appena sotto. «È un fuoco, sulla riva. Quel che si vede è il riflesso.» «No, non sulla riva,» disse Bedwyr. «La costa è più in là. Però, lì c'è un'isola. Avevamo l'abitudine di sbarcare lì per accendere il fuoco e cuocere il pesce. Deve essere lì.» «Non ci vive nessuno?» «No. Non c'è proprio niente. Quella parte del lago è terra selvaggia e l'isola non è che un mucchio di sassi con felci ed erica e, alla sommità, un boschetto di pini. Se adesso c'è qualcuno vale la pena di andare a vedere di chi si tratta.» «Un'isola?» disse Mordred. «Può darsi. Una buona scelta, si direbbe, per una notte o due di violenza senza venir disturbati.» «È risaputo,» disse l'altro, molto seccamente. Pronunciando quelle parole si voltò e i due uomini tornarono da Artù. Il re aveva già visto il fuoco. Stava dando ordini e gli uomini erano corsi a sellare nuovamente i cavalli. Si rivolse a Bedwyr. «Hai visto? Be', potrebbe essere. Vale comunque la pena di andare a vedere. Qual è il modo migliore per raggiungerli? E senza metterli in allarme?» «Non si può prenderli di sorpresa con i cavalli. È un isola.» Bedwyr ripeté quello che aveva già detto a Mordred. «C'è una lingua di terra, roccia e ghiaia, che sporge dalla costa all'estremità del lago. È a circa tre miglia da qui. Metà della distanza la si può coprire seguendo la strada della costa, poi bisogna lasciarla ed entrare nella foresta. Non c'è più sentiero lungo la riva e per evitare il folto del bosco bisognerebbe fare una lunga deviazione. Un brutto andare, del tutto impossibile di notte. E la foresta si estende fino al mare.» «Allora sembra improbabile che i loro cavalli siano da quelle parti. Se
quello che sta sull'isola è il nostro violentatore, allora deve esserci andato in barca e il suo cavallo sarà ancora sulla strada della costa. Però, anche noi abbiamo bisogno di una barca.» «Dovrebbe essercene una non lontano. Questa è acqua da ostriche. I letti sono a poca distanza da qui e può darsi che lì troviamo una barca... a meno che, naturalmente, non sia proprio quella che ha preso lui.» Ma la barca del pescatore di ostriche c'era, ormeggiata accanto a un molo di pietre. La barca era rozza e piatta e normalmente veniva mossa con un palo, lentamente, sopra i letti di ostriche; ma c'erano anche dei remi legati assieme e conficcati nella terra come aste di bandiera. Mani volenterose afferrarono la barca e la spinsero fuori dal fondale. Gli uomini si muovevano veloci senza parlare. Artù, guardando verso il lontano chiarore, disse sommessamente: «Io prenderò la strada della costa. Bedwyr,» un sorriso risuonò nella sua voce, «siete voi l'esperto in spedizioni di questo genere. L'isola è vostra. Chi volete con voi?» «Questa barca non tiene più di due persone ed è difficile da manovrare se si va più in là della profondità del palo. Prenderò con me l'altro esperto. Il figlio del pescatore, se vuole venire.» «Mordred?» «Volentieri.» E soggiunse, brevemente, «un ripasso del mio soggiorno nelle isole?» e sentì Artù ridere piano. «Va', allora, e che Dio sia con te. Speriamo che la ragazza sia ancora viva.» La barca scese la sponda, incontrò l'acqua e rimase lì a dondolare. Bedwyr sedette cautamente a poppa impugnando il palo per usarlo come timone e Mordred, entrando agilmente dopo di lui, afferrò i remi e si preparò ad usarli. Con un'ultima spinta dalla riva furono in moto nelle tenebre. Potevano appena udire, sopra lo sciabordio del lago, i rumori sommessi della truppa che si allontanava tenendo i cavalli sui bordi morbidi del sentiero. Mordred remava con energia spingendo la goffa imbarcazione a buona velocità. Bedwyr, immobile a poppa scrutava alla ricerca del bagliore che lo guidasse verso l'isola. «Il fuoco deve essere quasi morto. Ho perso la luce... Ah, va tutto bene, adesso vedo la costa dell'isola. Un poco alla vostra sinistra. Ecco, così. Continuate come fate ora.» Ben presto l'isola fu chiaramente visibile nella notte. Era piccola, sco-
scesa, nera contro il buio, come se galleggiasse nella debole luminosità della laguna. Una leggera brezza increspava l'acqua e nascondeva il rumore dei remi. Ora che l'opportuna e in un certo senso pericolosa luce del fuoco era svanita, la notte pareva vuota e molto calma. C'erano le stelle e l'aria odorava di mare. Entrambi udirono nello stesso momento. Sopra l'acqua, in una pausa della brezza, venne un suono, sommesso e terribile che annullava l'illusione di quella pace notturna. Un lungo, penetrante ululato di dolore e paura. Dall'isola. Una donna che gridava. Bedwyr bestemmiò tra i denti. Mordred affondò più forte i remi e l'imbarcazione sussultò toccando i sassi della sponda. Tirò dentro i remi e si aggrappò a una roccia con un movimento esperto e controllato. Bedwyr saltò giù passandogli davanti, con la spada in pugno. Si fermò per un attimo avvolgendosi il mantello attorno al braccio sinistro. «Tirate su la barca, cercate la barca dell'uomo e affondatela. Se mi sfugge, state qui e uccidetelo.» Mordred era già sceso e si stava dando da fare con la corda. Dalla scura sponda alberata sopra di loro tornò di nuovo quel suono, disperato e terrificante. La notte era riempita da quel pianto. Bedwyr, passato dalla ghiaia agli aghi di pino, svanì in silenzio. Mordred fissò saldamente la barca, estrasse la sua arma e si mosse silenziosamente lungo la riva alla ricerca dell'altra barca. L'isola era piccola. In pochi minuti fu di ritorno al punto da cui era partito. Non c'era nessuna barca. Chiunque fosse, qualunque cosa avesse fatto, se ne era già andato. Mordred, con la spada pronta, si arrampicò rapidamente dietro Bedwyr verso il punto da cui veniva il pianto. Il fuoco non era del tutto spento. Un mucchio di cenere mostrava ancora qualche residuo bagliore. Lì accanto, alla sua debole luce, stava rannicchiata la donna che piangeva. I suoi capelli, sparsi sulla veste strappata di colore scuro, parevano chiari. Il fuoco era stato acceso alla sommità dell'isola dove un ciuffo di pini aggrappato a quella che pareva nuda roccia, aveva deposto un tappeto di aghi e dove un tumulo, costruito da molto, era crollato per il tempo e le intemperie formando una specie di rozzo riparo. A parte la figura rannicchiata e dolente della donna, pareva che non ci fosse nessuno. Mordred, di molti anni più giovane di Bedwyr, lo aveva raggiunto mentre arrivava al boschetto. Si fermarono entrambi. Lei li udì e alzò gli occhi. La luce delle stelle e il debole scintillio della
brace rivelarono che non si trattava della ragazza ma di una vecchia dai capelli grigi e dalla faccia simile a una maschera di paura e dolore. Il gemito si interruppe come se fosse stata colpita alla gola. Il suo corpo si irrigidì. La bocca si spalancò come se volesse urlare. Bedwyr tese una mano e parlò rapidamente: «Signora... madre... non abbiate paura. Siamo amici. Amici. Siamo venuti in aiuto» L'urlo si fermò in un verso strozzato. Sentirono il suo respiro, breve e rotto, mentre stringeva gli occhi sforzandosi di vederli. Avanzarono lentamente. «State calma, madre,» disse Bedwyr. «Siamo uomini del re...» «Di quale re? Chi siete?» La sua voce era ansimante e tremula ma, ora, conteneva la stanchezza del dolore e non la paura. Bedwyr aveva parlato nella lingua locale e lei rispose allo stesso modo. Il suo accento era più largo di quello di Bedwyr ma il linguaggio della Britannia Minore era abbastanza simile a quello dell'altro regno perché Mordred potesse capirlo facilmente. «Sono Bedwyr di Benoic e questo è Mordred, figlio di re Artù. Siamo uomini del re alla ricerca della principessa Elen. È stata qui? Eravate con lei?» Mordred, mentre Bedwyr parlava, si era fermato per raccogliere una manciata di aghi di pino e stecchi di legno spezzati. Li sparse sulla cenere e la fiamma si ravvivò, attaccò, tenne. La luce guizzò rossastra e permise di vedere più chiaramente la donna. Era vestita bene, se pure semplicemente, e doveva avere una sessantina d'anni. Gli abiti erano sporchi e strappati, come se uscisse da una specie di lotta. La faccia, contratta e distorta dal pianto, aveva un livido sulla guancia e le labbra erano rotte e incrostate di sangue. «Arrivate troppo tardi,» disse. «Dove è andata? Dove l'ha portata?» «Voglio dire troppo tardi per la principessa Elen.» Indicò verso il tumulo di pietra diroccato. Guardarono da quella parte. Ora, nella luce ravvivata dal fuoco potevano vedere che qualcosa - qualcuno - aveva frugato nello spesso strato di aghi di pino. Alcune delle pietre più piccole del tumulo erano state tirate giù e sopra stavano sparsi pigne e aghi. «Era tutto quel che potevo fare» disse la donna. Aveva teso le mani. Tremavano. Gli uomini le guardarono, scossi da orrore e pietà. Le mani erano graffiate, lacerate, sanguinanti.
I due cavalieri andarono al tumulo dove giaceva il corpo. Era nascosto malamente. Sotto le pietre e gli aghi di pino si vedeva la faccia della ragazza, sporca e contorta nella morte. Le erano stati chiusi gli occhi ma la bocca era ancora aperta e il collo, con i segni della morte sulla gola, aveva una piega forzata. Bedwyr, con una gentilezza che mai Mordred avrebbe sospettato in lui, disse, quasi tra sé: «Ha un bel viso. Che Dio le conceda la pace.» Poi, voltandosi: «Non temete, madre, tornerà a casa dai suoi ed avrà sepoltura reale in pace con i suoi dei. E quel lurido animale morirà e tornerà ai suoi per avere una giusta punizione.» Si staccò dalla vita una borraccia e si inginocchiò accanto alla donna per accostargliela alle labbra. Lei bevve, sospirò e dopo un momento parve più calma. Poco dopo fu in grado di dire quel che era successo. Non sapeva chi fosse il rapitore. Non era, affermò con loro sollievo, uno straniero. Aveva parlato poco e quel poco erano per lo più bestemmie, ma lui e i suoi scherani erano inconfondibilmente bretoni. Il rapporto sul «gigante» non era del tutto sbagliato: era un uomo grande in tutto, per statura, struttura e forza con una voce sonora e una risata sonora. Un toro d'uomo che era balzato fuori dalla copertura degli alberi assieme ad altri tre - gente rozzamente vestita come comuni ladri - e aveva assassinato con le sue mani quattro degli uomini di scorta della principessa prima ancora che avessero il tempo di riprendersi dalla sorpresa. I tre rimasti avevano combattuto valorosamente ma erano stati uccisi. Lei e la principessa erano state trascinate via, l'altra dama di Elen («un povero esserino che gemeva e urlava e se fossi stata una di quelle bestie l'avrei ammazzata sul posto», disse seccamente la nutrice) era stata lasciata in pace ma gli attaccanti, andandosene, si erano portati via i loro cavalli e quindi non temevano di essere inseguiti. «Ci hanno portato in questo posto, in riva al lago. Era ancora buio e quindi era difficile trovare la strada. Uno di loro rimase con i cavalli sulla riva e gli altri remarono fino a questa roccia. La mia signora era quasi svenuta ed io cercavo di curarla. Non avevo altro pensiero. Non avremmo potuto fuggire. L'uomo più grosso, il toro, la portò su fino a qui. Gli altri avrebbero voluto trascinarmi via ma io li ho scansati e mi sono messa a correre e quando hanno visto che non avevo nessuna intenzione di lasciare la mia signora, mi hanno lasciata stare.» Tossì e si leccò le labbra ferite. Bedwyr le porse nuovamente la borraccia ma lei scosse la testa e continuò:
«Del resto non posso parlare ma potete immaginarlo. Gli altri due mi tenevano mentre lui - il toro - la violentava. Lei non è mai stata forte. Una bambina graziosa ma sempre pallida e spesso ammalata durante i freddi inverni.» Si fermò di nuovo e chinò la testa. Teneva le dita strette torcendosi le mani. Dopo un po', Bedwyr chiese con dolcezza: «L'ha uccisa lui?» «Sì, o meglio, quello che le ha fatto l'ha uccisa. È morta. Lui ha bestemmiato e l'ha lasciata lì tra le pietre e poi è venuto verso di me. Io non ho gridato - quelli mi chiudevano la bocca con le loro sporche mani - ma avevo paura che adesso uccidessero anche me. Per quel che hanno fatto dopo... Ho passato i sessant'anni e uno pensa che... Bene, non parliamo più di questo. Quel che è fatto è fatto e adesso voi siete qui e ucciderete quell'animale mentre smaltisce dormendo la sua lussuria.» «Signora,» disse Bedwyr con fermezza, «morirà questa notte, se lo troviamo. Dove sono andati?» «Non lo so. Parlavano di un'isola e di una torre. È tutto quello che posso dirvi. Non pensavano di essere inseguiti, altrimenti avrebbero ucciso anche me. O forse, dato che sono degli animali, non ci hanno pensato. Mi hanno trascinata vicino alla mia signora e mi hanno lasciata. Dopo un po' ho sentito i cavalli che andavano. Credo che fossero diretti verso la costa. Quando sono riuscita a muovermi ho dato alla mia signora la sepoltura che potevo. Ho trovato un posto tre le pietre del tumulo dove qualcuno aveva lasciato una pietra focaia e un pezzo di ferro e così ho acceso il fuoco. Se non fossi riuscita a farlo sarei morta qui. Non c'è acqua né cibo ed io non so nuotare. Se avessero visto il fuoco e fossero tornati, allora sarei morta prima, ecco tutto.» Alzò gli occhi. «Ma voi - due giovani come voi contro quel mostro e i suoi seguaci... No, no, non dovete cercarlo da soli. Portatemi via con voi, vi prego, ma non cercatelo. Non voglio vedere altri morti. Riferite la mia storia a re Hoel e lui...» «Signora, veniamo da parte di re Hoel. Siamo stati mandati per ritrovare voi e la vostra signora e punire i rapitori. Non temete per noi. Io sono Bedwyr di Benoic e questo è Mordred, figlio di Artù di Britannia.» La donna li fissò nella flebile luce. Era chiaro che prima non li aveva sentiti o non aveva capito. Ripeté, ancora incredula: «Bedwyr di Benoic? In persona? Artù di Britannia?» «Artù è qui, non lontano, con le sue truppe. Re Hoel è ammalato ma ci ha mandati a cercarvi. Venite adesso, signora. La barca è piccola e non
adatta a tener bene il mare ma se volete venire con noi verso la salvezza, torneremo dopo e riporteremo la vostra signora perché abbia degna sepoltura.» Così fu fatto. Vennero improvvisate due barelle con i rami di pino e su di esse il corpo della ragazza, decentemente avvolto in un mantello, e la vecchia nutrice, crollata in un sonno febbrile, vennero portate sotto scorta a Kerrec. Il resto delle forze di Artù, guidate da Bedwyr, cavalcò verso il mare. La marea era bassa. La spiaggia si stendeva larga e piatta e grigia scintillando debolmente nel buio. Guadarono la foce del fiume dove si univano le acque del lago e la marea e poi davanti a loro, verso il mare, mentre l'alba avanzava, e videro il cono scosceso dell'isola che, secondo Bedwyr, doveva essere «la torre dell'isola» di cui i manigoldi avevano parlato. Dopo che la vecchia era stata abbandonata a morire sull'isola del lago, la marea era avanzata e poi si era ritirata nuovamente per cui non erano rimaste tracce sulla sabbia ma, all'interno, sulle terre piatte dove il fiume si apriva lo sbocco nel delta, le impronte dei cavalli erano chiare e portavano dritte alla costa e alla stradina artificiale che, durante la bassa marea, collegava l'isola alla terraferma. Le altre rocce dell'isola, coperte di pini, incombevano sul mare calmo e la marea, che proprio allora stava cambiando, spumeggiava alla loro base e tra le pietre del passaggio. Non si vedeva nessuna luce ma, seguendo il dito indicatore di Bedwyr, riuscirono a scorgere il contorno di una torre alla sommità. Il re la fissò, immobile sul suo cavallo in riva al mare, premendosi pensosamente le nocche della mano sulle labbra. Avrebbe potuto essere intento a contemplare la preparazione di un'aiola di rose nel giardino della regina a Camelot. Non aveva l'aria più bellicosa di quanto l'avesse in occasione della «missione di pace» presso Cerdic, quando Agravain aveva inveito tanto duramente contro l'apparente mitezza del «condottiero di battaglie». Ma Mordred, al suo fianco, con un interesse ed un'eccitazione che faticava a nascondere, sapeva di vedere per la prima volta, finalmente, l'Artù delle leggende: era un professionista, un esperto del suo mestiere, l'uomo che da solo aveva salvato la Britannia dal Terrore Sassone e che adesso stava decidendo come meglio affrontare una questione di modesta importanza. Finalmente, il re parlò: «Questo posto sembra mezzo in rovina. Quel tizio è un brigante, rintanato quassù come un castoro. Non è il caso di porre un assedio e nemmeno di attaccare. Sarebbe giusto portare qui i cani e stanarlo come un maiale sel-
vatico.» Vi fu un mormorio, una specie di ringhio da parte degli altri. Avevano visto il corpo della ragazza mentre lo portavano a riva. Il cavallo di Bedwyr indietreggiò improvvisamente come se sentisse la tensione del cavaliere. La mano di Bedwyr era già alla spada e dietro di lui, tra i Compagni, il metallo scintillò gelido nella luce dell'alba. «Riponete le spade.» Artù non diede nemmeno un'occhiata e non alzò la voce. Stava in sella, rilassato e tranquillo, con le nocche premute sulle labbra. «Stavo per dire che questa è faccenda per un uomo solo. Per me. Non dimenticate che la principessa Elen era mia parente e io sono qui per conto di re Hoel di cui era nipote e suddita. Il sangue di questo animale è per me.» Poi si voltò, zittendo il rinnovarsi del mormorio. «Se mi ucciderà, allora sarai tu, Mordred, a prenderlo. Dopo di te, se sarà necessario, allora Bedwyr e gli altri faranno quel che vorranno. Capito?» Si sentì assentire, da parte di qualcuno, con palese riluttanza. Mordred vide che Artù sorrideva mentre riprendeva a parlare: «Adesso ascoltatemi, prima che saliamo all'isola. Con lui ci dovrebbero essere almeno altri tre uomini. Sono carne per voi, fateli fuori come volete. Adesso può darsi che abbiano notato il nostro arrivo e certamente lo sapevano. Può darsi che vengano fuori ad affrontarci o può darsi che si barrichino nella torre. In questo caso sarà compito vostro tirarli fuori di lì con il fuoco e posare il loro capo davanti a me.» Scosse le redini e il cavallo avanzò nel mare fino al garretto. «Dobbiamo passare adesso. Se tardiamo ancora il mare coprirà il passaggio e loro scenderanno per prenderci con facilità mentre facciamo nuotare le nostre bestie fino a riva.» In questo, dimostrò di sbagliarsi. La banda, sicura del fatto che la marea stava salendo e, con la stupidità dei bruti, indifferente all'inseguimento, se ne stava tra le mura della torre e non aveva posto nessuna sentinella. Quattro di loro dormivano attorno ai resti della cena tra ossa rosicchiate e avanzi untuosi di cibo. Il capo, che era il più vicino al fuoco, era ancora sveglio e rigirava tra le sporche dita un paio di braccialetti e il talismano tempestato di gemme che aveva strappato dal bel collo di Elen. Poi, un rumore dovette colpirgli l'orecchio. Alzò gli occhi e vide Artù al chiaro di luna fuori dalla porta della torre. Il verso che lanciò fu proprio quello di un cinghiale braccato. Ed era altrettanto agile, un uomo gigantesco, con muscoli da fabbro ed occhi rossi e fiammeggianti da animale selvatico. Il re non avrebbe avuto scrupoli ad
ucciderlo disarmato - questo non era un combattimento, come aveva detto, ma l'abbattimento di bruti impazziti - ma nessuna spada avrebbe potuto esser maneggiata all'interno delle pareti della torre, così Artù dovette forzatamente rimanere dov'era e permettere all'uomo di afferrare la sua arma, un massiccio bastone molto più lungo della sua spada, e di avventarsi su di lui. I suoi compari, intontiti dal sonno e dalla sorpresa, lo seguirono inciampando e vennero afferrati dai cavalieri che aspettavano ai due lati della porta della torre e li uccisero immediatamente. Mordred, alle prese con un essere puzzolente il cui fiato odorava di fogna, si rese conto di trascurare ogni regola cavalleresca che un allenamento di anni gli aveva inculcato per tornare ai sistemi che erano un tempo serviti al figlio del pescatore nelle violente risse della sua fanciullezza. E alla fine furono in due contro uno. Mentre Mordred, inciampando, cadeva sotto il peso dell'altro, Bedwyr unendosi a lui con naturalezza, infilzò il bandito come un pollo e poi ripulì tranquillamente l'arma chinandosi sull'erba. Gli abiti dell'uomo morto erano troppo sporchi per quel compito. La banda fu sterminata al completo pochi secondi dopo essere uscita dalla torre. Poi i Compagni si fecero indietro per assistere all'esecuzione del capo. Al loro occhio esercitato fu chiaro che, in passato, doveva aver ricevuto qualche genere di addestramento. Era un bruto, ma un bruto coraggioso. Si precipitò su Artù, bastone contro spada e con la prima, formidabile sferzata danneggiò l'arma più corta dell'altro con un colpo che fece vacillare il re e risuonare il metallo del suo scudo. Il pesante bastone, scivolando lungo il metallo, trascinò per un attimo il gigante nel suo impeto e in quell'attimo Artù, ritrovato l'equilibrio, si avventò oltre il bastone e il braccio, dritto sulla gola scoperta che usciva dal corsetto di cuoio. Il gigante, malgrado le sue dimensioni, era rapido. Saltò indietro alzando il bastone e abbattendolo sulla spada che fece deviare. Ma il braccio e il corpo di Artù che seguivano il colpo, alzarono lo slancio e, al di sopra del bastone, colsero la faccia del gigante. La punta della spada gli toccò la fronte con un taglio breve e profondo, proprio sopra gli occhi. L'uomo gridò e Artù saltò indietro mentre il grande bastone riprendeva a roteare. Il sangue sgorgava e scorreva giù per la faccia del gigante. Lo accecava ma quella stessa cecità parve quasi sfavorire Artù perché l'uomo, infuriato dal bruciore della ferita, si avventò contro il re ignorando la spada, la evitò casualmente, la oltrepassò e si trovò petto a petto con il suo avversario. Con il suo grande peso e la sua presa da lottatore, incominciò a sospingere all'indietro e verso terra Artù.
Forse Mordred fu l'unico dei presenti ad apprezzare l'agilità e il colpo basso con cui il re si districò. Sfuggì alla presa del mostro, scansò di nuovo con apparente facilità il bastone e colpì con la sua lama l'uomo all'altezza delle ginocchia. Urlando, il gigante cadde di schianto come un albero, bestemmiando. Il re attese, composto come un danzatore, fino a che la punta del bastone toccò terra, poi tagliò il polso che lo teneva. Il bastone cadde nel punto dove aveva colpito il suolo. Prima ancora che il gigante potesse sentire il dolore della nuova ferita, il re scavalcò la pozza di sangue e gli affondò con precisione la lama nella gola. Ripresero i gioielli della principessa che erano nella torre in cui scaraventarono i corpi prima di darle fuoco. Poi il gruppo cavalcò fino a riunirsi con gli altri e tornò a portare le tragiche notizie a re Hoel. 3 Una cosa positiva venne anche dalla tragedia della principessa Elen. Era chiaro che i vicini Franchi di re Hoel non avevano niente a che fare con lo stupro e, quando fu noto che il «gigante» e i suoi loschi compari erano morti, gli abitanti dei villaggi e della foresta che avevano sofferto le ruberie dei predoni osarono finalmente parlare rendendo ben presto chiaro che le recenti incursioni e le violenze erano state opera di quella stessa banda. Di conseguenza, appena terminato il funerale ma prima che il tempo del lutto fosse trascorso, Hoel e Artù poterono incominciare a discutere le richieste fatte dal console Quintiliano. Decisero di inviare un'ambasceria, apparentemente per discutere le proposte dell'imperatore romano ma, in realtà, per vedere personalmente quali fossero le sue forze. Hoel aveva già mandato dei suoi incaricati da re Cildeberto e dai suoi fratelli per scoprire se avevano ricevuto anche loro la stessa richiesta e, se così era, come intendevano comportarsi. «Ci vorrà un po' di tempo» disse Hoel allungando i piedi verso il fuoco e sfregando una mano sopra il ginocchio artritico, «ma spero che rimarrai qui, cugino.» «Per spiegare le mie truppe in piena luce accanto alle tue, mentre la tua ambasceria va a indagare sulle forze di Iberico? Volentieri,» disse Artù. «Speravo anche che tu potessi aggiungere qualche peso alla nostra ambasceria,» disse Hoel. «Io mando Guerin. È furbo come una volpe. Capiranno solo metà di quello che dice e niente di quello che le sue proposte significano. Ci farà guadagnare tempo e frattanto avrò una risposta dai
Franchi. E allora, cugino?» «Certo. Per me, allora, Bors. Non ha astuzia ma la sua onestà è palese e quindi disarmante. Possiamo dirgli di lasciare la parte politica a Guerin. Mi piacerebbe poi che Valerio comandasse la scorta.» Hoel annuì. Erano nel suo appartamento privato del palazzo di Kerrec. Il vecchio re aveva potuto lasciare la camera da letto ma doveva ancora trascorrere la giornata seduto, avvolto nelle pellicce, accanto a un fuoco fiammeggiante. Con l'età, la sua struttura muscolosa si era troppo appesantita e questo aveva causato i soliti malanni: le sue ossa, come diceva lui, scricchiolavano nelle correnti d'aria della sua vecchia fortezza relativamente scomoda. Artù, con Mordred e due o tre gentiluomini di Hoel, aveva cenato con il re ed ora sorbiva una tazza di vino speziato. Bedwyr non era con loro. Su sua richiesta era tornato alle sue terre nel nord della Bretagna. La ragione che aveva dato era la salute della sua giovane sposa. Aveva confidato a Mordred, durante la cavalcata verso sud con il corpo della principessa assassinata, che la sua Elen, soggetta alle paure della sua condizione, aveva fatto sogni di morte e non avrebbe potuto riposare fino a che il marito non fosse ritornato sano e salvo. Così, una volta terminato il funerale, Bedwyr era ripartito per il nord lasciando che i Giovani Celti che facevano parte della spedizione di Artù mormorassero che aveva preferito andarsene prima di doversi trovare faccia a faccia con Gawain. Perché Gawain si stava dirigendo in Bretagna. Artù aveva considerato saggio invitare suo nipote, ormai ritornato tra le fila dei Compagni, per fargli condividere qualcosa delle azioni che si potevano presentare. Il combattimento previsto si era rivelato solo una spedizione punitiva contro una banda di briganti e, anche per questa, Gawain era salpato troppo tardi. Così ora, discutendo con Hoel della composizione dell'ambasceria, Artù suggerì che Gawain ne facesse parte. Dato che Hoel non poteva andare, Artù riteneva opportuno non andarci nemmeno lui ma qualche rappresentante della casa reale era bene fosse presente per conferire la giusta dignità all'occasione. Hoel, borbottando e accarezzandosi la barba, lanciò un'occhiata a Mordred fraintendendo il suo aggrottare la fronte e si schiarì la gola per parlare, ma Artù, che aveva colto lo scambio di occhiate, disse prontamente: «No, Mordred, no. Sarebbe la scelta più logica ma ho bisogno di lui altrove. Se io devo rimanere qui fino a che la faccenda è sistemata, lui deve ritornare nella Britannia Maggiore al mio posto. La regina e il Consiglio
stanno reggendo provvisoriamente il governo ma è tutto e ci sono questioni importanti che devono essere affrontate con più autorità di quanta io ne abbia lasciata a loro.» Si rivolse al figlio. «Dopo tutto quello che ho detto, eh? Riaddestrarti, proprio! Una remata sul lago e l'uccisione di un paio di banditi. Mi dispiace, Mordred, ma un dispaccio che ho ricevuto oggi lo rende necessario. Vuoi andare?» «Ovunque me lo ordiniate, signore. Certo.» «Allora, ne parleremo più tardi» disse il re e tornò alla discussione. Mordred, tra deluso ed eccitato, era comunque perplesso. Cosa poteva essere l'affare urgente che costringeva il re a cambiare i suoi piani? Solo ieri aveva parlato di mandare Mordred con l'ambasceria. Adesso, ci andava Gawain. E Mordred dubitava della saggezza di quella scelta. Il suo fratellastro stava arrivando con la speranza di un po' di azione e sarebbe stato deluso, se non arrabbiato, di vedersi mandare in una missione di pace. Ma Artù pareva fiducioso. Parlando in risposta ad alcune domande di Hoel, stava dichiarando che, di recente, nella questione della regina Morgana e durante gli ultimi mesi alle Orcadi e infine nel tono moderato che aveva assunto riguardo a Bedwyr, uccisore di Gareth, Gawain aveva dimostrato di aver acquisito una certa solidità e avrebbe trovato quell'avventura in terra straniera un'esperienza gratificante anche se si trattava solo di una missione diplomatica. E in questo Artù, come pareva essere suo destino ogni volta che si trovava a trattare con la discendenza e il sangue di Morgause, si sbagliava. Proprio mentre parlava, Gawain e i suoi seguaci, mentre la loro nave si avvicinava alle coste bretoni, affilavano le armi e parlavano con esultanza dei prossimi combattimenti. *** Più tardi Artù, augurata la buonanotte a Hoel, portò Mordred nel suo appartamento per il promesso colloquio. Fu un colloquio lungo che durò per buona parte della notte. Il re parlò per prima cosa del messaggio che lo aveva indotto a cambiare i suoi piani. Era un lettera della regina. Non gli forniva dettagli ma si dichiarava molto scontenta del suo ruolo sempre più precario. Riferiva che il duca Costantino, a Caerleon con il suo seguito di cavalieri, aveva annunciato la sua intenzione di trasferirsi a Camelot, «luogo più appropriato per chi governa il
Sommo Regno». La regina gli aveva mandato a dire di attenersi agli ordini di Artù ma la risposta era stata «perentoria e intemperante». «Temo quel che può succedere,» aveva scritto la regina. «Ho già avuto rapporti secondo cui, a Caerleon, anziché tenere lì le sue forze a disposizione del Consiglio, agisce e parla come se già governasse di pieno diritto o come unico e riconosciuto vice del Sommo Re. Mio signore Artù, aspetto ogni giorno il vostro ritorno. E vivo nel terrore di quello che potrebbe accadere se qualcosa di male accadesse a voi o a vostro figlio.» Letta la lettera, Mordred fu ansioso di andare. Non indugiò e non volle indugiare in un'analisi dei suoi sentimenti verso il duca Costantino. Bastava già che quell'uomo si comportasse come se Artù non avesse un figlio del suo sangue, per non parlare della stretta parentela con Gawain, figlio della sua sorellastra. E, come Artù aveva detto, quel che si raccontava su alcune gesta del Duca Costantino non prometteva niente di buono per il regno. Era un governante duro e un uomo crudele e la nota di paura nella lettera di Ginevra era facile da interpretare. Qualunque rimpianto Mordred provasse all'idea di allontanarsi dal re, scomparve. Quella reggenza, per breve che potesse essere, era il momento che aveva desiderato, un periodo di prova per quando avrebbe governato da solo in piena autorità. Non riteneva che Costantino, una volta che lui, Mordred, fosse stato di ritorno a Camelot e alla testa della guardia reale che vi si trovava, avrebbe insistito nelle sue arroganti pretese. Il ritorno di Mordred, con l'autorità del re e il sigillo del re, avrebbe dovuto essere sufficiente. «E quando sarai lì» disse il re toccando la sacca di lettere che recava il suo sigillo, «troverai il mio mandato per reclutare tutte le forze che riterrai necessarie per mantenere la pace in patria e per essere pronto nel caso qui succeda qualcosa.» Così, in reciproca fiducia, parlavano mentre la notte passava e il futuro pareva chiaramente certo dietro le nubi del presente quanto l'alba che poco a poco tingeva d'oro la linea del mare fuori della finestre. Se il fantasma di Morgause avesse vagato nella stanza debolmente illuminata e avesse sussurrato loro di ricordarsi del fato sinistro predetto tanti anni prima, avrebbero riso e si sarebbero aspettati di veder svanire quel fantasma al soffio delle loro risa. Eppure era l'ultima volta che si incontravano, come amici. Alla fine, il re tornò sull'argomento della prossima ambasceria. Hoel aveva grandi speranze nel suo successo ma Artù, sebbene lo avesse nascosto a suo cugino, era molto meno ottimista. «Potrebbe trasformarsi in uno scontro» disse. «Quintiliano serve un nuo-
vo padrone ed è anche lui in prova e sebbene io sappia poco di quelli che lo circondano, sospetto che tema di perdere credito presso il suo padrone trattando con noi. Anche lui ha bisogno di dare una manifestazione di forza.» «Una situazione pericolosa. Perché non ci andate personalmente, signore?» Artù sorrise. «Potresti dire che anche questa è una questione di credito. Se vado come ambasciatore, non posso portare le mie truppe e se l'ambasceria fallisce, sarei io a fallire. Sono in Bretagna come deterrente, non come arma... Non ho il coraggio di mostrarmi perdente, Mordred.» «Voi non potete perdere.» «Questo è il convincimento che dovrebbe placare Quintiliano e chi spera in una nuova Roma.» Mordred esitò, poi disse con franchezza: «Perdonatemi ma c'è qualcos'altro. Lasciatemi ora parlare come vostro vice se non come vostro figlio. Potete fidarvi di Gawain e degli altri giovani in una missione come questa? Se vanno con Valerio e Bors, credo che ci possano essere degli scontri.» «Può darsi che tu abbia ragione. Ma ci perderemo poco. Prima o poi si dovrà combattere e preferisco combattere qui, contro un nemico non ancora del tutto preparato, che nei miei confini al di là del Mare Stretto. Se i Franchi restano allineati con noi, allora potremo riuscire a scoraggiare questo imperatore. Se così non sarà, allora, per il momento, il peggio che può succedere è che perdiamo la Bretagna. In questo caso porteremo la nostra gente, quella che è rimasta, nuovamente in patria e ci troveremo ancora una volta schierati dietro i nostri mari benedetti.» Distolse lo sguardo e lo posò sul fuoco; i suoi occhi erano seri. «Ma alla fine succederà tutto di nuovo, Mordred. Non nel mio tempo né, piaccia a Dio, nemmeno nel tuo, ma prima che i tuoi figli siano vecchi, succederà. Non sarà un'impresa facile, chiunque la tenti. Prima il Mare Stretto e poi i bastioni dei regni angli e sassoni, tenuti da uomini che combattono per la loro terra. Perché pensi che abbia deciso di permettere ai sassoni di creare i loro piccoli regni? Uomini che combattono per quello che è loro. E prima che le nostre coste siano seriamente minacciate, avrò Cerdic dalla mia parte.» «Capisco. Mi domandavo perché non sembravate preoccupato per questa ambasceria.» «Abbiamo bisogno di guadagnare più tempo possibile. Se ci viene meno, combattiamo subito. Tutto qui. Adesso si sta facendo tardi ed è meglio che finiamo i nostri affari.» Tese una mano verso il tavolo dove si trovava una
lettera sigillata con il sigillo del drago. «Invincibile o no, ho preso in considerazione l'eventualità della mia morte. Qui c'è una lettera che dovrai usare in quell'eventualità. In essa informo il Consiglio che sei il mio erede. Il duca Costantino sa bene che il mio patto con suo padre era valido solo in mancanza di un figlio del mio sangue. Gli piaccia o no, deve accettarlo. Ho scritto anche a lui una lettera che non può contestare. Con quella lettera gli viene concesso un territorio; il suo ducato comprenderà anche le terre che mi sono venute dalla mia prima moglie, Ginevra di Cornovaglia. Spero che sarà soddisfatto. Se non lo è» (un bagliore negli occhi del re mentre si posavano su suo figlio) «sarà affar tuo, non mio. Tienilo d'occhio, Mordred. Se vivo, allora io stesso convocherò il Consiglio appena ritornerò a Camelot e tutto questo verrà sistemato pubblicamente e una volta per tutte.» Non è mai facile ricevere un'eredità da uno che è ancora vivo. Mordred, per una volta a corto di parole incominciò a parlare faticosamente, ma il re fece cenno di tacere e giunse poi all'argomento che Mordred avrebbe voluto veder affrontato per primo. «La regina,» disse Artù, fissando il fuoco. «Sarà sotto la tua protezione. La amerai e avrai cura di lei come se fossi suo figlio e farai sì che per il resto dei suoi giorni viva in sicurezza con gli onori e gli agi che le spettano. Non ti chiedo di giurarlo, Mordred, perché so di non averne bisogno.» «Lo giuro!» Mordred, in ginocchio vicino alla poltrona di suo padre, parlò per la prima volta con incontrollata emozione. «Lo giuro per tutti gli dei che esistono, per il Dio delle chiese del regno e per la Dea delle isole e gli spiriti che vivono nell'aria, giuro che manterrò il regno per la regina e la amerò e avrò cura di lei e le garantirò tutti gli onori come glieli garantireste voi se foste ancora il Sommo Re.» Artù prese tra le sue le mani del giovane e, rialzandolo, lo baciò. Poi sorrise. «E, adesso, smettiamo di parlare della mia morte che, ti assicuro, non verrà ancora per un bel po'! Ma quando verrà, metto il mio regno e la mia regina tra le tue mani con spirito tranquillo e con la benedizione mia e di Dio.» *** L'indomani Mordred salpò diretto a casa. Qualche giorno dopo la sua partenza l'ambasceria, allietata da stendardi colorati e piume svettanti, si mise in viaggio per l'accampamento del console Quintiliano Iberico.
Gawain e i suoi amici cavalcavano senza fretta. Sebbene la conversazione fosse di un genere che Mordred avrebbe riconosciuto - i giovani si rivolgevano a Gawain per avere una guida temeraria ed eccitante - si comportarono con decoro durante la cavalcata. Ma nessuno della fazione più giovane fece alcuno sforzo per nascondere la speranza che le pacifiche proposte sarebbero state respinte e si sarebbe visto finalmente un po' di movimento. «Dicono che Quintiliano sia un uomo impetuoso e un soldato astuto. Perché mai dovrebbe ascoltare un vecchio che gli porge il messaggio di un altro vecchio?» Tale era le descrizione che Mador faceva dell'ambasceria di re Hoel. Altri gli fecero eco: «Se non riusciremo a combattere, almeno ci vorranno sicuramente mostrare la loro abilità nella caccia e nelle gare e dovremo far vedere a questi stranieri cosa sappiamo fare!» Oppure: «Dicono che in Gallia i cavalli siano splendidi. Potremmo fare qualche affare, se le cose andranno al peggio.» Ma parve che fossero destinati alla delusione su tutti i punti. Il quartier generale di Quintiliano era un campo provvisorio allestito su un nudo tratto di brughiera. La compagnia arrivò verso la sera di una grigia giornata con un vento gelido che prometteva pioggia. Da ogni parte si stendeva l'erica morta della primavera, nera e bagnata e l'unico colore della brughiera erano il verde livido delle zone paludose o lo scintillio metallico dell'acqua. Il campo era disposto secondo lo schema romano. Era ben costruito con torba e legname robusto e abbastanza maestoso per essere una sistemazione temporanea ma i giovani britanni, ignoranti di arti belliche e abituati alle grandi strutture permanenti di origine romana di Caerleon e Segontium, si guardarono attorno con delusione e disprezzo. Era difficile dire se fosse stata prudenza o sollecitudine per la comodità dei suoi ospiti a indurre Quintiliano ad alloggiare i britannici fuori dalle mura del campo. Erano state erette delle tende a un centinaio di passi al di là del fossato, con i picchetti per legare i cavalli e un padiglione che serviva da sala. Lì vennero invitati a smontare e i loro stallieri portarono i cavalli alle stanghe per legarli. Poi, a piedi, per la strada principale, raggiunsero il centro del campo dove si trovava il quartier generale del comandante. Lì, Quintiliano e Marcello, il suo secondo in comando, ricevettero l'ambasceria con gelida cortesia. Vennero scambiati dei discorsi preparati in precedenza e imparati a memoria. Erano lunghi e talmente calcolati da diventare quasi incomprensibili. Non fu fatta menzione, da nessuna delle
due parti, del messaggio dell'imperatore o delle intenzioni di Hoel. Il resoconto sulla salute del vecchio re, in risposta all'indifferente domanda degli ospiti, conteneva dettagli, delicatamente esposti, sull'ansia di suo cugino Artù, ansia che aveva indotto quel guerriero a visitare il re di Bretagna. Si tralasciò il fatto che avesse portato con sé notevoli forze ma il console romano lo sapeva e gli altri sapevano che lui lo sapeva... Solo quando quel garbato affilar di lame fu concluso, Guerin e Bors si permisero di alludere, sia pure in modo ancora indiretto, alla posizione di Hoel e al supporto che gli dava Artù di Britannia. I giovani, che aspettavano doverosamente dietro i loro ambasciatori, scalpitando per la compassata inattività di quel viaggio e pensando al cibo e al divertimento, ebbero tempo di stufarsi di guardare attorno con curiosità e di scambiare occhiate con i guerrieri dell'opposta fazione che aspettavano, con uguale noia, dietro i loro comandanti. Questi comandanti, dopo una lunga e protratta consultazione resa più tediosa del necessario dal fatto che Bors parlava poco o nulla il latino e Marcello non parlava altro, decisero finalmente una pausa. L'indomani, disse Quintiliano avvolgendosi nel mantello e alzandosi, ci sarebbero stati altri colloqui. Nel frattempo, i visitatori desideravano certo riposare e rinfrescarsi. Sarebbero stati accompagnati alle tende preparate per loro. Gli ambasciatori si inchinarono con gravità e si ritirarono. La compagnia venne scortata attraverso il campo. «Senza dubbio,» disse il giovane che accompagnava Gawain, con una cortesia ridotta al minimo, «sarete stanco del viaggio. Troverete gli alloggi piuttosto rozzi, temo, ma noi siamo abituati a vivere al campo...» Mentre parlava, sbadigliò. Questo non significava niente di più del fatto che era stufo del suo compito quanto gli altri giovani ma Gawain, irritato, sprezzante e persuaso che ormai le sue speranze di gloria erano svanite, prese la cosa altrimenti. «Pensate forse che non siamo abituati alla vita rude? Il fatto che abbiamo scortato un'ambasceria di pace non significa che non siamo uomini d'armi e pronti sul campo quanto chiunque altro da questa parte del Mare Stretto.» Il giovane, sorpreso e subito dopo inviperito quanto l'altro, arrossì fino alla radice dei capelli chiari. «E in quale campo di battaglia siete mai stato signor Spaccone? E passato un bel po' di tempo da Agned e Badon! Anche il famoso Artù, di cui tanto parlavano i vostri amici, si troverebbe in qualche difficoltà a dover ingaggiare oggi una guerra disponendo di uomini
capaci soltanto di parlarne!» Prima che Gawain avesse il tempo di prender fiato: «E non valgono molto nemmeno in questo,» intervenne qualcun altro con una crudele imitazione dello stentato latino di Bors. Vi furono risate e un rapido tentativo di raffreddare il clima con qualche battuta ma la fronte di Gawain era cupa e volarono ancora parole scottanti. Il giovane biondo, che pareva uno di qualche importanza, riprese a parlare in uno scoppio d'ira: «E allora? Non avete fatto tutta questa strada solo per venirci a pregare di non combattervi? E adesso vi vantate di quello che i vostri comandanti sanno fare! Cosa volete che pensiamo di tanti vani spacconi?» Qui Gawain estrasse la spada e si lanciò verso di lui. Gli attoniti minuti che seguirono, di sbalordimento e poi di orrore e confusione mentre i compagni dell'uomo caduto si precipitavano a rialzarlo e verificare se era rimasto in vita, diedero ai britannici appena il tempo di scappare. Gawain gridando: «Ai cavalli!» era già a metà strada verso la fila dei picchetti, seguito da vicino dai suoi amici che, fin dal primo momento in cui si erano scambiate parole dure, avevano visto avvicinarsi la conclusione violenta. Gli ambasciatori, smarriti, esitarono solo un momento prima di seguirli. Se l'assalitore fosse stato qualcuno diverso dal nipote di re Artù avrebbero potuto dare ordine che venisse punito come si conviene a chi ha rotto una tregua ma, dato come stavano le cose, i capi sapevano che l'ambasceria, mai considerata» ricca di speranze, era ormai irrimediabilmente fallita e tutti loro, per aver rotto la tregua, erano in grave pericolo. Valerio, un vecchio soldato abituato alle decisioni immediate, prese il comando e fece montare e uscire tutta la spedizione al galoppo prima che i loro ospiti potessero rendersi conto di quello che era successo. Gawain, trascinato in un galoppo selvaggio in mezzo agli altri, si sforzava di tirar fuori dal gruppo il suo cavallo per ritornare indietro. «È una vergogna! Scappare via dopo quello che hanno detto, vergognatevi! Vergognatevi! Ci chiamavano codardi prima, come ci chiameranno adesso?» «Morti, sciocco!» Valerio, infuriato, non era nello stato in cui si controllano le parole, principe o non principe. Le sue mani piombarono sulle redini del cavallo di Gawain per trattenerlo al suo fianco. «Vergogna, principe! Sapevate cosa volevano ricavare i re da questa ambasceria. Se ne usciamo vivi, il che è dubbio, allora vedremo cosa avrà da dirvi Artù!» Gawain, ribelle e per nulla pentito, stava per rispondere quando arrivarono a un fiume e allargarono la formazione per farlo guadare dai cavalli.
E lo avrebbero guadato se ci fosse stato il tempo ma, proprio allora, apparvero gli inseguitori e non ci fu altra scelta che combattere. Valerio, furibondo e disperato, si voltò e diede gli ordini per l'attacco. Lo scontro, visti gli umori di entrambe le parti, fu breve, feroce e molto sanguinoso. Si svolse in corsa e terminò solo quando metà dei britannici e poco di più delle forze inseguitrici furono morti. Allora i romani, riuniti per pochi minuti di pausa al limitare di un boschetto, parvero consultarsi, dopo di che due di loro si staccarono e partirono verso est. Valerio, illeso ma esausto e sporco del sangue degli altri uomini, dopo averli seguiti con lo sguardo mentre si allontanavano, disse amaramente: «Sono andati a chiamare rinforzi. Bene. Non possiamo fare niente se restiamo qui. Andiamo. Subito. Prendete i cavalli sciolti e raccogliete quell'uomo laggiù. È ancora vivo. Gli altri dobbiamo lasciarli.» Questa volta non vi furono discussioni. I britannici si voltarono e partirono. I romani non fecero nessun tentativo di fermarli né vennero scambiati insulti. Gawain aveva avuto quel che voleva e dimostrato quello che non aveva bisogno di essere dimostrato. Ed entrambe le parti sapevano quello che, adesso, doveva succedere. 4 Mordred stava seduto accanto alla finestra dello studio del re a Camelot. Il profumo del giardino saliva con la brezza in improvvise folate di dolcezza. I meli erano già sfioriti ma i ciliegi erano ancora in piena fioritura, circondati dalle campanule e dalle grigie spighe degli ireos. L'aria echeggiava del ronzio delle api, del canto degli uccelli, dei rintocchi delle campane che suonavano in città per annunciare qualche funzione cristiana. I segretari reali se ne erano andati ed era solo. Sedeva immobile ripensando al lavoro fatto quel giorno ma, poco a poco, nel calore profumato, i suoi pensieri scivolarono nel sogno. Pareva passato così poco tempo da quando era nelle isole a vivere come aveva vissuto nella fanciullezza pensando amaramente di aver perso tutto in quell'unica notte in cui i fratelli delle Orcadi avevano messo a repentaglio se stessi e i loro amici in quel folle, crudele tentativo di togliere di mezzo Bedwyr: pensando anche ai compiti estivi che lo aspettavano: pescare ed essiccare il pesce, tagliare la torba, ricostruire muri e riparare la copertura del tetto per prepararsi al tremendo inverno delle Orcadi. Ed ora? La sua mano, posata sul tavolo, toccò il sigillo reale.
Un movimento fuori della finestra attirò il suo sguardo. La regina Ginevra passeggiava nel giardino. Il suo abito era di un dolce color tortora e scintillava nel suo movimento. Attorno, le saltellavano i due cagnolini bianco-argento. Di tanto in tanto lanciava una palla dorata e le bestiole la inseguivano a salti abbaiando e poi rissando quando il vincitore la riportava ai piedi della regina. Due delle sue dame, giovani e graziose, una in giallo primula e l'altra in azzurro, la seguivano. Ginevra, ancora bella e sicura nella sua bellezza, non era di quelle che per mettere in risalto il proprio fascino si circondano di persone insignificanti. Le tre belle creature, accompagnate dai cagnolini saltellanti, si muovevano con grazia nel giardino e i fiori di quel dolce maggio non erano più belli di loro. O almeno così pensava Mordred che era raramente un poeta. Seguì con lo sguardo la regina mentre la sua mano, ancora una volta ma del tutto inconsciamente, si allungava a toccare il drago del sigillo reale. Di nuovo scivolò nel sogno ma, questa volta, non riguardava le isole. Venne riportato bruscamente alla realtà dai rumori, inconfondibili e pressanti, che accompagnavano un messaggero del re che veniva introdotto negli appartamenti reali. Un ciambellano aprì la porta per annunciare un corriere e, mentre ancora stava parlando, l'uomo si precipitò davanti al reggente e si inginocchiò ai suoi piedi. A Mordred bastò un'occhiata per capire che erano notizie dalla Bretagna e che non erano buone notizie. Si appoggiò allo schienale del seggiolone e disse freddamente: «Calmati. Per prima cosa, il re sta bene?» «Sì, signore. Dio sia ringraziato! Ma le notizie sono abbastanza cattive.» L'uomo frugò nella sua borsa e Mordred tese la mano. «Hai delle lettere? Allora, mentre le leggo, ricomponiti e bevi una coppa di vino.» Il ciambellano, a cui non sfuggiva niente, entrò senza esser chiamato portando il vino che l'uomo bevve con riconoscenza. Mordred ruppe il sigillo dell'unica lettera che gli aveva portato e la lesse. Erano notizie brutte ma non tragiche per uno che rammentava l'ultima conversazione avuta con il re. Una volta ancora, pensò Mordred, il fato maligno evocato da Morgause era all'opera. Per dirla più prosaicamente, l'impetuosità del principe delle Orcadi aveva nuovamente portato la promessa di un prossimo disastro. Ma forse qualcosa si poteva salvare da quel disastro ed era da sperare che tutto quello che Gawain aveva fatto fosse soltanto di aver portato troppo presto le cose alla loro conclusione. La lettera del re, frettolosamente dettata, riferiva soltanto i fatti della di-
sastrosa ambasceria e della battaglia che ne era seguita. Alle domande di Mordred, il corriere fornì i dettagli. Raccontò del violento scambio tra Gawain e il romano, dell'assassinio, della fuga degli ambasciatori e della successiva battaglia sulle rive del fiume. La sua storia confermò quello che Artù accennava e cioè che ogni speranza di pace temporanea era sparita. Forse Hoel poteva essere in grado di scendere in campo ma, se così non fosse stato, Artù doveva assumere il comando dell'esercito di Hoel, assieme a quello delle forze che aveva portato con sé. Bedwyr era stato richiamato da Benoic. Artù aveva già mandato a convocare Urbgen, Maelgon di Gwynedd, Tydwal e il re di Elmet. Mordred doveva mandare lì quante più forze poteva, sotto il comando di Cei. Sarebbe anche stato saggio anticipare il suo incontro con Cerdic e metterlo al corrente della situazione. «Vedi Cerdic. Avvisa lui e i suoi vicini di sorvegliare le coste. Intanto, recluta quante più forze potrai. E garantisci la sicurezza della regina.» Mordred congedò l'uomo perché andasse a riposarsi. Sapeva che non c'era bisogno di impegnarlo alla discrezione: i corrieri reali erano scelti con cura e bene addestrati. Ma sapeva che la venuta dell'uomo non era passata inosservata e che pochi minuti dopo l'arrivo dell'esausto cavallo alla Porta del Re, le voci dovevano aver incominciato a circolare in tutta Camelot. Si alzò e andò accanto alla finestra. Il sole era un po' disceso verso occidente e le ombre si stavano allungando. Un tordo tardivo cantò su un cedro. La regina era ancora nel giardino. Stava tagliando dei lillà. La ragazza vestita di azzurro le camminava accanto portando un cesto piatto di vimini pieno dei fiori bianchi e viola. L'altra ragazza, con i cagnolini che abbaiavano e le saltavano attorno, si chinava, raccogliendo con una mano la veste, su una bordura di felci. Si rialzò stringendo in mano la palla dorata e, ridendo, la lanciò per i cani. Quelli la rincorsero, la raggiunsero nello stesso momento e caddero in un groviglio urlante mentre la palla, libera, rotolava via. «Garantisci la sicurezza della regina.» Per quanto si sarebbe potuta serbare quella serena pace nel giardino pieno di fiori? Forse la battaglia era già incominciata. Forse era finita. Con uno spargimento di sangue tale, pensò Mordred, da accontentare persino Gawain. I suoi pensieri andarono oltre ma vennero ripresi sotto controllo. In quel momento, forse, lui era già Sommo Re, se non di nome almeno... Come se quel pensiero fosse stato l'ombra di una fuggevole nube che la raggiungeva, vide la regina sussultare, poi alzare la testa come se ascoltas-
se un rumore che veniva da oltre i muri del giardino. La spiga di lillà che aveva tenuto tra le dita scattò indietro e riprese il suo posto tra gli altri fiori profumati. Senza guardare, la regina lasciò cadere il coltello d'argento nel cesto retto dalla ragazza che le stava accanto. Rimase immobile, salvo che per le mani che parvero alzarsi in un loro moto indipendente per stringersi sopra il seno. Lentamente, dopo un momento, si voltò e alzò lo sguardo verso la finestra. Mordred si ritrasse. Chiamò il ciambellano. «Mandate in giardino a domandare alla regina se posso parlarle.» *** C'era un pergolato, grazioso come una pittura su seta, rivolto a sud. Era coperto di rose precoci, una cascata di fiori rosa pallido a cui si mischiavano i boccioli color corallo e i petali appassiti quasi bianchi. La regina stava seduta lì su una panca di pietra riscaldata dal sole, aspettando di ricevere il reggente. La ragazza in giallo aveva portato via i cani, l'altra rimaneva lì ma si era ritirata all'estremità del giardino dove si mise a sedere su una panca sotto le finestre del palazzo. Aveva tirato fuori dalla borsa appesa in vita un lavoro di cucito e ci si dedicava con impegno, ma Mordred sapeva benissimo di essere osservato attentamente e sapeva anche quanto rapidamente si diffondevano le voci al palazzo. «Pareva serio; le notizie devono essere cattive...» Oppure «Pareva abbastanza allegro; il corriere ha portato una lettera e lui l'ha mostrata alla regina...» Anche Ginevra aveva portato con sé un lavoro. Un tovagliolo ricamato a metà era posato accanto a lei sulla panchina di pietra. Improvvisamente, un preciso ricordo lo assalì: il giardino di Morgana nel Nord, i fiori morenti e i fantasmi degli uccelli imprigionati e le voci rabbiose delle due streghe che parlavano accanto alla finestra sovrastante. E il ragazzo solo e spaventato che si nascondeva lì sotto, convinto di essere anche lui in trappola e con la prospettiva di una morte ignominiosa. Come il gatto selvatico nella sua stretta gabbia; il gatto selvatico, presumibilmente ormai morto da tanti anni ma, per merito suo, morto in libertà con la sua casa selvatica e i cuccioli fatti a volontà. Con la rapidità del lampo in cui vengono pensieri del genere tra un respiro e l'altro, pensò a sua «moglie» nelle isole, alla sua amante ormai partita da Camelot e comodamente sistemata a Strathclyde, ai suoi figli nati da quell'unione che crescevano in sicurezza - perché i figli di quel ragazzo solo potevano ora incorrere, e quanto facilmente, nella
puntura dell'invidia e dell'odio. Lui, come il gatto selvatico, aveva trovato la finestra verso la libertà. Anzi, di più, verso il potere. Di quelle due streghe intriganti, una era morta e l'altra, malgrado tutte le sue tanto conclamate capacità magiche, stava ancora rinchiusa nel suo castello prigione ed era ora soggetta alla sua volontà di reggente del Sommo Regno. Si inginocchiò davanti alla regina e le prese la mano per baciarla. Sentì il suo debole tremito. La regina la ritirò e se la lasciò cadere in grembo dove l'altra mano la strinse e la tenne saldamente. Parlò con calma forzata: «Mi dicono che è giunto un corriere. Dalla Bretagna?» «Sì, signora.» Al suo cenno si alzò, poi esitò. Lei gli fece segno di sedere e lui le si sedette accanto. Il sole era caldo e il profumo delle rose saturava l'aria. Tra i fiori rosa ronzavano forte le api. Una leggèra brezza muoveva i fiori e le ombre delle rose ondeggiavano e guizzavano sopra la stoffa grigia della veste della regina e la sua pelle chiara. Mordred deglutì, si schiarì la gola e parlò: «Non dovete temere, signora. Si sono verificati gravi eventi ma le notizie non sono del tutto cattive.» «Il mio signore sta bene, dunque?» «Certamente. La lettera era sua.» «E per me? C'è un messaggio per me?» «No, signora, mi dispiace. Ha scritto di gran fretta. Vedrete la lettera, naturalmente, ma lasciate che prima ve ne dica il senso. Sapete che un'ambasceria è stata mandata congiuntamente da re Hoel e re Artù a parlare con il console Lucio Quintiliano.» «Sì. Una missione intesa a verificare alcuni fatti, a guadagnare tempo ai regni dell'occidente perché potessero riunirsi in vista di una possibile nuova alleanza di Bisanzio e Roma con i germanici di Alemannia e Burgundia.» Sospirò. «Dunque, è finita male? Lo immaginavo. Come?» «Con vostra licenza, prima le buone notizie. Altre missioni erano in viaggio nello stesso momento per chiarire altri fatti. Erano stati mandati messaggeri ai re Franchi. Hanno ottenuto un incoraggiante successo. Tutti uniti, i Franchi resisteranno a qualunque tentativo degli eserciti di Giustiniano di riportare la dominazione romana. Si stanno armando.» Ginevra distolse lo sguardo oltre le file di cedri che il sole calante illuminava da dietro tingendoli di oro rosso. Le giovani foglie, lamine di oro martellato, brillavano della loro luce propria e le cime degli alberi, avvolte dall'ombra, ronzavano di api. Le «buone notizie» di Mordred non sembravano averle procurato piace-
re, gli parve che gli occhi della regina fossero pieni di lacrime. Seguitando a guardare quegli smaglianti tronchi con il loro mosaico di foglie dorate, la regina disse: «E la nostra ambasceria? Cosa è successo lì?» «Vi ha partecipato, per cortesia, un rappresentante della casa reale. Era Gawain.» Lo sguardo di Ginevra tornò immediatamente su Mordred. Aveva gli occhi asciutti. «E ha combinato guai.» Non era una domanda. «Sì. Ci sono state chiacchiere e spacconate stupide che sono passate a insulti e discussioni e i giovani hanno combattuto.» La regina mosse le mani come se volesse alzarle in un gesto classico di disperazione. Ma pareva più irata che addolorata. «Ancora!» «Signora?» «Gawain! Di nuovo! Sempre quel freddo vento del nord con il suo soffio gelido che spazza via tutto quello che è buono e vivo!» Si dominò, prese fiato e disse con uno sforzo visibile: «Perdonatemi, Mordred. Siete così diverso che mi dimentico sempre. Ma i figli di Lot, i vostri fratellastri...» «Signora, lo so. Sono d'accordo. Gawain ha ucciso uno dei giovani romani ed è venuto fuori che quell'uomo era nipote di Lucio Quintiliano. L'ambasceria è stata costretta a scappare e Quintiliano ha mandato Marcello in persona ad inseguirla. Hanno dovuto combattere e ci sono stati dei morti.» «Non Valerio? Non quel valoroso vecchio?» «No, no. Sono rientrati in buon ordine... con una specie di vittoria. Ma non prima che si fossero avuti alcuni scontri. Nel primo è stato ucciso Marcello e poi Petreio Cotta, che aveva assunto il comando dopo di lui, è stato fatto prigioniero e portato a Kerrec in catene. Ho detto che è stata una specie di vittoria. Ma capite cosa significa. Adesso il Sommo Re stesso deve scendere in campo.» «Ah, lo sapevo! Lo sapevo! E quante forze ha?» «Comanda l'esercito di Hoel oltre alle truppe che ha portato con sé e Bedwyr è stato richiamato da Benoic con i suoi uomini.» Freddamente, notò la leggera reazione a quel nome: non aveva osato chiedere se Bedwyr era anche lui salvo ma, adesso, lui glielo aveva detto e notò che il colore le ritornava sulle guance. Continuò: «Il re non sa ancora quanti uomini i re Franchi metteranno in campo, ma non saranno pochi. Dalla Britannia ha chiamato Rheged e Gwynedd con Elmet e Tydwal da Dunpeldyr. Qui io dovrò reclutare rinforzi con urgenza. Salperanno al comando di Cei. Tutto
andrà bene, signora, vedrete. Conoscete il Sommo Re.» «E anche loro lo conoscono,» disse la regina. «Lo affronteranno solo se lo supereranno di tre volte in numero e, sicuramente, possono riuscirci. Allora, persino lui correrà il pericolo di essere sconfitto.» «Non ne darà loro il tempo. Ho parlato di urgenza. Tutta questa faccenda è esplosa come un temporale d'estate e Artù intende attaccare sulla scia degli eventi anziché attendere. Sta già marciando su Autun per incontrare i Burgundi sul loro terreno, prima che si riuniscano alle truppe di Giustiniano. Prevede che i Franchi si uniscano a lui prima di raggiungere il confine. Ma sarà meglio che leggiate voi stessa la sua lettera. Calmerà le vostre paure. Il Sommo Re non manifesta alcun dubbio sul risultato, e perché dovrebbe? È Artù.» Lei lo ringraziò con un sorriso ma lui vide che la mano che allungava per prendere la lettera, tremava. Si alzò e uscì dal pergolato lasciandola sola a leggere. C'era un'affusolata colonna sormotata da un ben imitato capitello spezzato coperto dai gialli fiori del caprifoglio. Vi si appoggiò contro e attese, osservandola di tanto in tanto da sotto le palpebre abbassate. Ginevra lesse in silenzio. Vide quando raggiunse la fine della lettera ma lei la rilesse tutta nuovamente. Poi se la lasciò cadere in grembo e rimase per un poco a capo chino. Pensò che la stesse leggendo per la terza volta ma poi si accorse che aveva gli occhi chiusi. Era molto pallida. Staccò le spalle dalla colonna. Quasi suo malgrado, fece un passo verso di lei. «Cosa c'è? Cosa temete?» La regina sussultò e aprì gli occhi. Era come se, nel pensiero, fosse stata a miglia di distanza e lui l'avesse bruscamente richiamata. Scosse la testa e tentò di sorridere. «Niente. Proprio niente. Un sogno.» «Un sogno? Sulla disfatta del re?» «No, no.» Fece una risatina che pareva abbastanza autentica. «Sciocchezze di donne, Mordred. Le definireste così, ne sono certa. No, non fate quella faccia preoccupata, ve lo dirò anche se poi riderete di me. Gli uomini non capiscono cose del genere ma noi donne, noi che non possiamo fare altro che aspettare e sperare, abbiamo la mente troppo fervida. Basta che una volta pensiamo: 'Cosa ne sarà di me quando il mio signore sarà morto?' che subito, in un attimo, lo vediamo deposto in triste pompa nella sua bara e la sua fossa è scavata al centro delle Pietre Erette, il banchetto funebre è finito, il nuovo re arriva a Camelot, la sua giovane moglie è qui in giardino con le sue dame e la regina messa da parte, ancora nelle bianche
vesti da lutto, va mendicando nel reame un luogo dove la si voglia accogliere con onore e sicurezza.» «Ma signora,» disse Mordred, il realista, «certamente mio... il Sommo Re vi ha già detto le disposizioni che sono state prese per un simile evento.» «Sapevo che l'avreste definito una sciocchezza!» Con un manifesto sforzo di leggerezza, cambiò argomento: «Ma, credetemi, è qualcosa che ogni moglie fa. Cosa mi dite della vostra, Mordred?» «La mia...?» Ginevra parve confusa. «Mi sbaglio? Pensavo che foste sposato. Sono sicura che qualcuno mi ha parlato di un vostro figlio alla corte di Gwarthegydd di Dumbarton.» «Non sono sposato.» La risposta di Mordred fu un po' troppo rapida e un po' troppo enfatica. Lei parve sorpresa e lui le tese una mano, soggiungendo: «Ma avete sentito correttamente, signora. Ho due figli.» Un sorriso e una scrollata di spalle. «Chi sono, dopo tutto, per volere un legame matrimoniale? I due bambini sono di madri diverse. Melehan è il più giovane ed è quello che sta con Gwarthegydd. L'altro è ancora nelle isole.» «E le loro madri?» «La madre di Melehan è morta.» La menzogna venne con facilità. Dal momento che la regina pareva non sapere nulla della sua illecita sistemazione a Camelot, non gliela avrebbe confessata adesso. «L'altra è soddisfatta del legame tra me e lei. È una donna delle Orcadi e, nelle isole, hanno usanze differenti.» «Ma sposata o no,» disse Ginevra, sempre con quella leggerezza forzata, «è pur sempre una donna e anche lei, come me, deve vivere lo stesso sogno del giorno fatale in cui arriva un messaggero con notizie peggiori di quelle che voi avete portato a me.» Mordred sorrise. Se pensava che quella donna aveva troppe cose da fare per potérsene star lì a sognare della sua morte e sepoltura, non lo disse. Sciocchezze di donne, davvero. Ma mentre stendeva la mano per riavere la lettera e lei ci metteva dentro il rotolo, si accorse ancora che tremava. Questo cambiò i suoi pensieri sul suo conto. Per lui era stata la regina, la bella consorte del suo re, la fuggevole visione del suo desiderio, una creatura gaia, sana, potente, felice. Era un colpo, ora, vederla improvvisamente come una donna sola che viveva con la paura. «Non possiamo fare altro che aspettare e sperare,» gli aveva detto. Era qualcosa a cui non aveva mai pensato. Non era un uomo fantasioso e
nei suoi rapporti con le donne - a parte Morgause - seguiva essenzialmente la sua formazione contadina. Non avrebbe volutamente fatto del male a una donna ma non gli sarebbe mai passato per la mente di cambiare le sue abitudini per aiutarla o servirla. Al contrario, erano loro che dovevano aiutare e servire lui. Con uno sforzo che gli era estraneo, cercò di forzare la sua mente a pensare come avrebbe pensato una donna, e temere il fatto come l'aveva temuto la regina. Quando Artù avesse davvero incontrato la morte, cosa poteva aspettarsi lei dal futuro? Un anno prima la risposta sarebbe stata semplice: Bedwyr avrebbe portato la vedova a Benoic o nelle sue terre in Northumbria. Ma adesso Bedwyr era sposato e sua moglie aspettava un bambino. E c'era di più, per dirla tutta: Bedwyr non aveva molte probabilità di sopravvivere a, un'azione in cui Artù fosse stato ucciso. Persino ora, mentre Mordred e la regina parlavano in quel giardino pieno di profumi, poteva già essere incominciata la battaglia che avrebbe reso reale il suo sogno del giorno fatale. Ricordò la lettera che la regina aveva scritto ad Artù, con quell'inconfondibile nota di paura. Paura non solo per i pericoli che correva Artù ma anche lui, Mordred. «Voi e vostro figlio» aveva scritto. Adesso, con un improvviso lampo di verità, doloroso come un taglio, capì perché. Il Duca Costantino, ancora ufficialmente primo nella successione al trono e già con gli occhi puntati su Camelot, con un titolo che sarebbe stato grandemente rafforzato se, prima, poteva dichiarare che la reginareggente... Si rese conto che lo guardava con un'espressione tesa e interrogativa. Fu costretto a rispondervi. «Signora, quanto ai vostri sogni e alle vostre paure, voglio dirvi solo questo. Sono certo che la capacità del re e le vostre preghiere lo salveranno ancora per molti anni ma se qualcosa dovesse succedere, non temete per voi stessa...» La regina arrossì e, tutto quel che disse, cercando di sorridere, fu: «Niente regina messa da parte?» «Questo mai,» disse Mordred e si congedò. Nell'ombra del viale del giardino, lontano dalla vista del pergolato, si fermò. Il suo cuore correva, la sua carne bruciava. Rimase immobile mentre il caldo e i ronzii si spegnevano. Freddamente, scacciò il luminoso quadro che aveva in mente: le rose, gli occhi grigio-azzurri, il sorriso, il tocco delle mani tremanti. Era una follia. E, inoltre, un'inutile follia. Artù, Bedwyr... Qualunque cosa Mordred fosse o potesse essere, fino a che Artù e Bedwyr non fossero morti, con quella bella signora poteva essere solo un
povero e incerto terzo. Era da tempo senza una donna. A dire la verità era stato troppo occupato per pensarci. Fino ad ora. Quella notte avrebbe trovato il tempo e avrebbe scacciato quelle ardenti immagini. Ma sapeva, ugualmente, che quel giorno le sue ambizioni avevano preso una svolta diversa. Lei era sterile ma lui aveva due figli. Se poteva pensarci Costantino, poteva pensarci anche lui. E, per tutti gli dei del cielo e dell'inferno, Costantino non l'avrebbe mai avuta. Con la lettera del re stretta in pugno, tornò a gran passi allo studio reale e chiamò gridando i suoi segretari. 5 Passò qualche tempo prima che Mordred vedesse nuovamente la regina. Si era trovato immediatamente immerso nel turbinoso compito di equipaggiare e imbarcare le truppe che Artù gli aveva chiesto. In un tempo lodevolmente breve il corpo di spedizione salpò sotto il comando di Cei, il fratellastro del re, con la ragionevole speranza di unirsi all'esercito di Artù, prima che lo scontro avvenisse. Il corriere che ritornò da quel viaggio portò notizie che erano nel complesso confortanti: Artù, con Bedwyr e Gawain, si era già messo in marcia verso est e re Hoel, miracolosamente ripresosi con la prospettiva dell'azione, era andato con loro. I re Franchi, con un considerevole esercito, pareva stessero anche loro convergendo su Autun dove Artù avrebbe stabilito il campo. Dopo di queste, le notizie giunsero sporadicamente. Nessuna era cattiva ma, dato che giungevano molto tempo dopo il verificarsi dei fatti, non potevano essere soddisfacenti. Cei e i re britannici avevano raggiunto Artù, questo lo si sapeva. E così pure i Franchi. Il tempo era buono, il morale degli uomini era alto e durante la marcia non si erano incontrate difficoltà. Fin lì, tutto bene. Cosa la regina provasse, Mordred non lo sapeva e non aveva tempo di occuparsene. Stava attuando la seconda delle disposizioni di Artù, cioè reclutare e addestrare uomini per rafforzare l'esercito interno dopo la partenza delle forze di spedizione. Inviò lettere a tutti i piccoli re e signori del nord e dell'occidente e, dove gli pareva che andasse aggiunta della persuasione, si recò personalmente. La risposta fu buona: Mordred aveva messo chiaramente in tavola le ragioni della sua richiesta e la reazione dei regni celtici fu immediata e generosa. L'unico capo che non rispose affatto fu il duca Costantino. Mordred, pur tenendo d'occhio come
aveva promesso il ducato di Cornovaglia, non disse nulla, piazzò delle spie e raddoppiò la guarnigione a Caerleon. Poi, una volta concluso il reclutamento dei re e date le disposizioni per ricevere e addestrare il nuovo esercito, mandò finalmente a proporre al re sassone Cerdic l'incontro che Artù aveva suggerito. Era la fine di luglio quando giunse la risposta di Cerdic e quello stesso giorno, in un pomeriggio di nebbia piovosa, un corriere giunse dal fronte burgundo recando un unico breve dispaccio assieme ad altre testimonianze che, quando l'uomo le sparse sul tavolo davanti a Mordred, raccontavano una tragica storia. Come era abituale, buona parte delle notizie venivano imparate a memoria e riferite a voce. Il corriere incominciò a raccontarle al reggente che lo ascoltava immobile. «Mio signore, la battaglia è finita e la giornata è stata nostra. I romani e i burgundi sono stati messi in fuga e l'imperatore ha richiamato le forze rimaste. I Franchi hanno combattuto nobilmente al nostro fianco e da tutte le parti sono state compiute gesta meravigliose. Ma...» L'uomo esitò e si inumidì le labbra. Era chiaro che aveva dato per prime le buone notizie nella speranza di mitigare quel che avrebbe detto poi. Mordred non si mosse né parlò. Era consapevole di un cuore che gli batteva in gola, di una gola stretta e della necessità di mantenere ferma la mano posata sul tavolo accanto a quegli oggetti che, in un mucchietto scintillante, confermavano una tragica storia che non era stata ancora raccontata. Sigilli, anelli, emblemi d'ufficio, medaglie, tutti ricordi che, tolti ai morti, dovevano essere mandati alle vedove. C'era l'emblema di Cei, la spilla dorata del siniscalco reale. E una medaglia di Kaerconan, tanto conosciuta e scintillante che poteva essere solo di Valerio. Nessun anello reale, nessun grande rubino inciso con il Drago, ma... Ma l'uomo, il veterano di centinaia di rapporti sia buoni che cattivi, esitava. Poi, incontrando gli occhi di Mordred, deglutì e si schiarì la gola. Da molto tempo i portatori di cattive notizie non venivano più maltrattati o messi a morte come nei paesi barbari e quindi l'uomo non poteva temere punizioni o morte; tuttavia la sua voce era roca come se avesse paura quando riprese a parlare. Questa volta fu diretto sino alla brutalità. «Mio signore, il re è morto.» Silenzio. Mordred non si fidava a pronunciare parole o muoversi. La scena assunse i contorni vaghi e fumosi dell'irrealtà. Il pensiero era sospeso, incerto e senza peso come una goccia della pioggia sottile che cadeva
fuori della finestra. «È successo verso la fine della giornata di battaglia. Molti erano caduti, tra loro Cei, e Gugein, Valerio, Mador... Il principe Gawain ha combattuto nobilmente, è salvo, ma il principe Bedwyr è caduto ferito a sinistra. Si teme che anche lui morirà...» La sua voce continuò, elencando i morti e i feriti ma era dubbio se Mordred lo udisse o no. Finalmente si mosse, interrompendo il racconto. La sua mano andò alla pergamena che stava sul tavolo. «È tutto qui?» «Le notizie, signore, ma non i dettagli. Il dispaccio è stato mandato personalmente dal principe Bedwyr. Lo ha fatto scrivere mentre era ancora in condizione di parlare. La lista dei caduti seguirà appena saranno noti e controllati ma questo, signore, non poteva essere ritardato.» «Sì. Aspetta, allora.» Portò la lettera accanto alla finestra e, volgendo le spalle all'uomo, spiegò il foglio sul davanzale. La scrittura ordinata ballava sotto i suoi occhi. Il velo di pioggia che cadeva pareva essersi messo tra lui e la lettera. Si passò nervosamente il dorso della mano sul viso e si chinò più vicino. Alla fine, e dopo tre attente letture, il senso del messaggio raggiunse chiaramente il suo cervello e vi si fissò, fremente come una freccia che affonda profonda nella carne diffondendo non dolore ma un veleno che intontisce. Artù era morto. Le notizie che seguivano sulla totale vittoria e l'annientamento dei romani e dei burgundi, apparivano irrilevanti. Artù era morto. Il dispaccio, dettato frettolosamente in un'infermeria da campo, forniva pochi dettagli. Il corpo del Sommo Re non era stato ancora recuperato e lo si stava cercando tra le montagne di morti. Ma se il re fosse stato ancora vivo, diceva semplicemente Bedwyr, a quest'ora si sarebbe manifestato. Il reggente doveva presumere la sua morte e agire di conseguenza. La pergamena scivolò dalle mani di Mordred e cadde a terra. Lui non lo notò. Dalla finestra accanto a cui stava entrava l'aria umida, dolce e lavata del giardino della regina. Guardò le rose appesantite dalla pioggia, le foglie lucenti che tremavano sotto le gocce, l'erba umida. Non c'era nessuno. Ovunque lei si trovasse, doveva sapere dell'arrivo del corriere e certo lo stava aspettando. Avrebbe dovuto andare da lei e dirglielo. Artù. E Bedwyr. Sia Artù che Bedwyr. Era molto per lei, troppo. Ma prima doveva sentire il resto. Tornò a voltarsi verso il corriere: «Va' avanti.»
*** L'uomo adesso parlava scioltamente e aveva scordato le sue paure. Il reggente era di nuovo attento, non esattamente tranquillo ma controllato, e le sue domande erano rapide e precise. «Sì, mio signore, ero presente anch'io. Ho lasciato il campo quando era già buio, appena la notizia è stata sicura. Il re è stato visto combattere fin verso il tramonto anche se allora il grosso della resistenza era già finito e Quintiliano stesso era caduto. La situazione era caotica e già gli uomini stavano depredando i corpi dei morti e uccidendo i morenti per prenderne le armi e gli abiti. I nostri uomini non erano pietosi, ma i Franchi... Mio signore, quelli sono dei barbari. Combattono come lupi impazziti e non si possono controllare più che i lupi. Il nemico si è sbandato, è fuggito in varie direzioni ed è stato inseguito. Alcuni di loro hanno gettato le armi e hanno teso le mani per ricevere le catene implorando di aver salva la vita. È stato...» «Il re. Cosa mi dici del re?» «È stato visto cadere. Il suo stendardo era stato spezzato e nel crepuscolo non si poteva vedere bene dove stesse combattendo o quel che succedeva. Bedwyr, anche se già ferito si è trascinato da quella parte del campo e lo ha cercato, ed altri con lui lo chiamavano. Ma il re non si trovava. Molti dei corpi erano già stati spogliati e se il re era tra quelli...» «Il suo corpo non è stato ancora recuperato?» «Sì, signore. O, almeno, non quando io ho lasciato il campo. Sono stato fatto partire appena è stato troppo buio per cercare ancora. Può darsi che a quest'ora un altro dispaccio sia in viaggio. Ma si riteneva che la notizia dovesse esservi portata prima che altre voci raggiungessero il paese.» «È per questo che nessun segno, né spada né anello, mi è stato portato qui?» «Sì, signore.» Mordred rimase in silenzio per un momento. Poi parlò con difficoltà. «Si ritiene che vi sia ancora speranza per il Sommo Re?» «Signore, se aveste visto il campo... Ma, sì, c'è speranza. Anche nella nudità della morte, il corpo del Sommo Re sarebbe certo riconoscibile...» Sotto lo sguardo di Mordred, si fermò. Dopo qualche altra domanda, Mordred lo mandò via e rimase da solo a pensare.
C'era ancora una probabilità che Artù non fosse morto. Ma il suo dovere era chiaro. Prima che la notizia raggiungesse le coste della Britannia - e con la venuta della nave del corriere le voci dovevano già essersi diffuse come un incendio - doveva assumere il controllo del paese. Le sue mosse immediate erano facili da stabilire: una convocazione d'emergenza del Consiglio, una pubblica lettura della dichiarazione di successione di Artù con la ratifica della sua autorità, una copia di questa dichiarazione da inviare a tutti i re e un discorso ai comandanti dell'esercito. Nel frattempo, la regina aspettava e, mentre aspettava, soffriva. Sarebbe andato da lei e l'avrebbe consolata come poteva. E con quanto amore poteva. *** Prima che avesse il tempo di fare tre passi nella stanza, lei era già in piedi. In seguito si rese conto di non sapere a chi si fosse riferita con la prima domanda. Aveva detto, portandosi le mani alla gola: «È morto?» «Purtroppo sì, signora. Questo è il messaggio che mi è giunto. È stato visto cadere nel momento della vittoria ma, quando il messaggero è partito per venire da me, non avevano ancora ritrovato il suo corpo.» Era così pallida che pensò stesse per cadere. Le andò vicino e le tese le mani. Le sue le afferrarono forte. Disse con calore: «Signora, c'è speranza. E Bedwyr è vivo anche se ferito. Stava abbastanza bene da comandare la ricerca del corpo del re prima che scendesse la notte.» La regina chiuse gli occhi. Le sue labbra, sottili e socchiuse, si aprirono cercando aria come se stesse annegando. Batté le palpebre. Poi, come se la mano di un fantasma le fosse scivolata sotto al mento rialzandoglielo, si irrigidì e si fece più alta, sbarrando gli occhi e ricomponendosi. Tolse silenziosamente le mani dalla stretta di Mordred ma lasciò che la guidasse verso la poltrona. Le sue donne le si strinsero attorno con parole e gesti di consolazione ma lei le allontanò con un cenno. «Ditemi tutto quello che sapete.» «So molto poco, signora. La lettera era breve. Ma il messaggero mi ha fatto un resoconto.» Le riferì quello che l'uomo gli aveva detto. La regina ascoltò senza interrompere tanto che un casuale osservatore avrebbe potuto pensare che non prestava attenzione; pareva occupata a guardare le gocce di pioggia che scendevano una dopo l'altra lungo lo stelo di un rosaio che
pendeva fuori dal vano della finestra. Finalmente, Mordred finì di parlare. Le gocce corsero, si riunirono, si gonfiarono su una spina e ricaddero sul davanzale. La regina disse lentamente, con voce calma e morta: «Se davvero c'è speranza per la vita del re, allora certo un secondo corriere seguirà da vicino il primo. Nel frattempo, dobbiamo fare come il mio signore ha comandato.» «Supponendo che sia morto,» disse Mordred. «Supponendolo.» Poi, con un'improvvisa esplosione di dolore e terrore, «Mordred, cosa ne sarà, ora, della Britannia? Cosa succederà a noi? Ne parlavamo assieme così poco tempo fa... ed ora... ora il giorno è arrivato...» Mordred fece una mossa involontaria verso di lei, leggera ma sufficiente. Ginevra tornò ferma, controllata, regale. Ma gli occhi la tradivano. Non avrebbe potuto parlare di nuovo senza piangere. E questo non doveva succedere fino a quando non fosse stata sola. Mordred disse, con l'intonazione più piatta e pratica che gli riuscì di trovare: «Due cose devono essere fatte immediatamente. Devo vedere Cerdic. È già stato combinato un incontro. E ho convocato il Consiglio. Si riunisce stanotte. Fino a quando non verranno altre notizie a confermare o smentire questa notizia, è fondamentale che ci si renda conto che c'è ancora un potere centrale in Britannia, con un governante designato dal re che attua i suoi desideri.» Poi soggiunse, con gentilezza: «Quanto a voi, signora, credo che nessuno si meraviglierà se non presenzierete alla riunione del Consiglio.» «Sarò presente.» «Se lo desiderate...» «Lo desidero. Mordred, il corpo del Sommo Re non è stato ancora trovato. Voi avete il suo sigillo che voi ed io, come co-reggenti a Camelot, siamo stati autorizzati ad usare. Ma il suo anello e la sua spada, veri simboli della sovranità, possono essere portati a voi solo togliendoli al suo corpo morto.» «È così, signora.» «Quindi, presenzierò al Consiglio. Con la regina di Artù al vostro fianco per sostenervi, nessuno nel regno potrà non accettare il figlio di Artù come legittimo governante.» Mordred non trovò nulla da dire. Lei tese una mano e lui chinò la testa a baciarla. Poi la lasciò. Avrebbe avuto tempo per il suo lutto prima di prendere posto nella Sala Rotonda accanto al nuovo re di Britannia.
*** In un bosco di pini ai piedi delle colline a est di Autun, Artù si riscosse e si svegliò. Giaceva avvolto nel suo mantello, con la spada a portata di mano. La spalla e il fianco erano irrigiditi dalla contusione per il colpo che lo aveva abbattuto durante la battaglia, la testa gli doleva atrocemente ma, per il resto, era illeso. Il suo cavallo impastoiato accanto a lui, brucava l'erba. I suoi compagni, una quarantina di uomini, si stavano svegliando, come lui, alle prime luci velate di un nuovo giorno. Tre degli uomini si stavano già adoperando a ravvivare i resti anneriti del fuoco notturno. Altri portavano acqua, accuratamente attinta nei loro elmi di cuoio dal fiume che scorreva sui suoi massi lucenti a una cinquantina di passi di distanza. Erano allegri, ridevano e scherzavano ma sommessamente, per paura di disturbare il re addormentato. Gli uccelli cantavano tra gli olmi lungo il fiume e dallo scosceso fianco della valle veniva il belare delle pecore che un pastore faceva pascolare da quelle parti. Un rumore più forte fece voltare lo sguardo di Artù verso un punto al di là della linea dei boschi dove grandi uccelli neri si libravano e gridavano nella mattina nebbiosa. Lì giaceva il nemico che avevano inseguito lasciando il campo. Alcuni sopravvissuti, legati, erano lì vicino sotto gli alberi ma circa una trentina dei loro compagni non erano stati ancora sepolti e i loro corpi ormai rigidi erano esposti ai corvi e agli avvoltoi. Era mezzogiorno passato quando la sepoltura si concluse e il re riprese la strada verso Autun. A un miglio circa dal campo di battaglia, incontrò due cadaveri. Il messaggero che aveva mandato a Bedwyr e Hoel per informarli che era salvo e sarebbe ritornato con la luce del giorno aveva incontrato due sbandati dell'esercito di Quintiliano. Uno lo aveva ucciso; l'altro, ferito e ormai prossimo alla morte per il sangue perduto, aveva ucciso lui. Artù finì lui stesso l'uomo e spronò il cavallo al galoppo verso il suo quartier generale. 6 «Il trattato è nullo,» disse Cerdic. Lui e Mordred sedevano faccia a faccia. Si erano incontrati su un alto-
piano tra le colline. Era una bella mattina e le allodole cantavano follemente nel cielo azzurro. A sud si vedeva stagnare nell'aria immobile il fumo di un villaggio sassone. Qua e là, negli spazi liberi tra le macchie di vegetazione, l'oro verdastro dell'orzo quasi maturo spuntava tra i sassi bianchi ad indicare dove qualche contadino sassone si era conquistato la sopravvivenza lavorando quella terra pietrosa. Mordred era giunto con dignità regale. Il Consiglio, informato dei desideri di Artù prima che questi lasciasse la Britannia, non aveva sollevato la minima obbiezione alla presa di potere di Mordred; anzi, quei consiglieri che erano rimasti dopo la partenza del re e dei suoi compagni per la Bretagna erano per la maggior parte anziani e, nel loro dolore e nella paura provocata dalle notizie giunte dal campo di battaglia, avevano acclamato Mordred con sollievo. Mordred, esperto degli usi del Consiglio, si muoveva con prudenza. Sottolineò la dubbia natura delle notizie, parlò della speranza che ancora nutriva per la vita di suo padre, rifiutò ogni titolo salvo quello di reggente, rinnovò il suo giuramento di fede al Consiglio e rese omaggio alla regina di suo padre. Dopo di lui Ginevra, parlando brevemente e con fragile compostezza in nome di suo marito, affermò la sua convinzione che Mordred dovesse essere investito del potere di agire come meglio riteneva e, dando le sue dimissioni, lo propose come unico reggente. Il Consiglio, unanimemente commosso, accettò il suo ritiro e decise all'istante di inviare un messaggio a Costantino di Cornovaglia chiedendogli di dichiarare la sua lealtà al successore del Sommo Re. Alla fine Mordred parlò nuovamente di urgenza e rese chiara la sua intenzione di recarsi a sud il giorno dopo per incontrarsi con Cerdic. Avrebbe portato con sé un distaccamento delle nuove truppe, dato che non era mai saggio avvicinare i loro bravi vicini sassoni senza una qualche esibizione di forza. Anche questo fu approvato dal Consiglio. Così, scortato come un re, affrontò Cerdic sulle colline. Anche i sassoni fecero sfoggio di potenza. I thegns di Cerdic si ammassarono dietro il suo seggio e una tenda di tessuto dai colori brillanti ricamato con oro e argento fece da sfondo regale ai troni predisposti per lui e il reggente. Mordred studiava Cerdic con interesse. Era passato poco più di un anno da quando aveva incontrato per l'ultima volta il re sassone ma, in quel periodo, Cerdic era manifestamente invecchiato e non appariva in buona salute. Accanto al suo seggio stava suo nipote Ceawlin, una giovane copia di quel vecchio combattente, che si diceva avesse già messo al mondo una progenie di robusti ragazzi.
«Il trattato è nullo.» Il vecchio re lo disse in tono di sfida. Osservava attentamente Mordred. «Perché altrimenti sarei qui?» Non si poteva dedurre niente dal tono tranquillo del reggente. «Se è vero che il Sommo Re è morto, allora il trattato - lo stesso o un altro, riveduto secondo nuovi accordi - deve essere ratificato tra voi e me.» «Fino a quando non avremo notizie certe, è inutile che parliamo,» disse seccamente Cerdic. «Al contrario. L'ultima volta che ho parlato con mio padre mi ha conferito il mandato di stipulare un nuovo accordo con voi, anche se convengo che non ha molto senso discuterlo fino a che un'altra questione non è chiarita. Dubito di aver bisogno di dirvi di cosa si tratta.» «Sarebbe meglio venire al punto,» disse Cerdic. «Benissimo. Ultimamente mi è giunto all'orecchio che Cynric, vostro figlio, ed altri dei vostri thegns sono riuniti nelle vostre vecchie terre al di là dei Mare Stretto e ogni giorno altri uomini vanno a riunirsi sotto le loro bandiere. Le baie sono piene delle loro navi. Ora, con il trattato tra i nostri popoli reso nullo dalla morte del Sommo Re - ammesso che la notizia sia vera - cosa devo pensare di questo fatto?» «Non che ci prepariamo di nuovo alla guerra. Fino a quando non ci sarà la prova della morte di Artù, questo non sarebbe soltanto ignobile ma anche folle.» Vi fu un guizzo negli occhi del re mentre guardava Mordred. «Dovrei forse chiarire che in nessun caso contempliamo la guerra. Non con voi, principe.» «E allora?» «Solo che l'avanzata dei Franchi e il diffondersi a occidente di popoli che non ci sono amici ci costringono a muoverci a nostra volta verso occidente. Il vostro re ha fermato la sortita di questo imperatore ma ce ne sarà un'altra e, dopo di quella, un'altra ancora. Il mio popolo vuole una frontiera sicura. Si sta raccogliendo per imbarcarsi verso quelle coste, in pace. Dobbiamo riceverli.» «Capisco.» Mordred ricordò quello che gli aveva detto Artù durante il loro ultimo colloquio a Kerrec: «Prima il Mare Stretto e poi i bastioni dei regni sassone e inglese. Uomini che combattono per quello che è loro.» Così doveva aver pensato Vortigern quando aveva chiamato Hengist e Horsa a queste coste. Artù non era Vortigern e fino a quel momento aveva fatto bene a non dubitare di Cerdic: gli uomini combattono per quello che è loro e più uomini vegliavano sui bastioni della Costa, più tranquilli pote-
vano stare i regni celtici dietro di loro. Il vecchio re lo osservava attentamente come se indovinasse i pensieri che passavano dietro quella fronte liscia e quegli occhi inespressivi. Mordred incontrò il suo sguardo: «Siete un uomo d'onore, re, e anche un uomo saggio ed esperto. Sapete che né i sassoni né i britannici vogliono un'altra Badon Hill.» Cerdic sorrise. «Adesso mi avete fatto balenare davanti la vostra arma, principe, ed io la mia a voi. Questo è fatto. Ho detto che verranno in pace. Ma verranno e saranno molti. Quindi, parliamo.» Si sistemò nella sua poltrona rialzandosi sul braccio un lembo della veste azzurra. «Per il momento, immagino, dobbiamo supporre che il re sia morto?» «Credo di sì. Se facciamo piani per questo caso, potranno essere rivisti se sarà necessario.» «Allora, io dico questo. Sono disposto, e con Cynric che regnerà qui quando io sarò troppo vecchio per combattere, a rifare con voi il trattato che ho fatto con vostro zio.» Un'occhiata penetrante da sotto le sopracciglia cespugliose. «Era vostro zio l'ultima volta che ci siamo visti. Adesso è vostro padre, sembra?» «Padre, sì. E in cambio?» «Più terra.» «Era facile immaginarlo.» Mordred sorrise a sua volta. «Più uomini hanno bisogno di più terra. Ma siete già troppo vicini per la pace di molti. Come potete venire avanti? Tra le vostre terre e le nostre c'è questa striscia di altopiano.» Indicò con un gesto le chiazze delle coltivazioni di orzo. «Nessun aratro, nemmeno i vostri, re Cerdic, può trasformare questo altopiano sassoso in ricchi campi di grano. E mi dicono che i vostri vicini, i Sassoni Meridionali, non vi permettono più libertà di movimento da quelle parti.» Cerdic non rispose immediatamente. Allungò dietro di sé una mano e una guardia gli mise in pugno una lancia. Alle spalle di Mordred bisbigli e fruscio di metallo tradirono rapidi movimenti tra i suoi uomini d'armi. Fece un gesto con la mano dal palmo rivolto in giù e il movimento si calmò. Cerdic rovesciò la lancia e, chinandosi in avanti, incominciò a disegnare nella polvere. «Siamo qui, noi del Wesse. Qui, nel ricco angolo, i Sassoni Meridionali. E qui stiamo voi ed io in questo momento. Le terre a cui penso non sarebbero più vicine alla vostra capitale dei nostri attuali confini. Qui. E qui.» La lancia si mosse lentamente verso nord, poi, proprio quando Mordred
avrebbe protestato, virò ad est e attraverso la zona delle colline verso la valle superiore del Tamigi. «Da questa parte. Questa parte è folta foresta e qui è palude, scarsamente popolata e povera. Le due cose possono diventare buone.» «Certo, molte di queste terre sono già territorio sassone. Dove la vostra lancia si trova ora, quella è la regione meridionale, come la chiamano, dei Sassoni Centrali.» «Il Suthridge. Sì. Vi ho detto che non avremmo preso niente che potesse disturbarvi.» «E quelle genti accetterebbero il vostro popolo?» «Siamo d'accordo.» Il vecchio re alzò lo sguardo verso Mordred. «Non sono gente forte e si dice che i Sassoni Meridionali stiano puntando gli occhi in quella direzione. Ci accoglieranno bene. E renderemo buona la terra per noi e per loro.» Andò avanti a parlare dei suoi piani e Mordred a interrogarlo e così parlarono per qualche tempo. Poi, Mordred disse: «Ditemi, re. Le mie informazioni non sono sempre corrette.» (Questo non era vero e lui sapeva che Cerdic lo sapeva ma la battuta portò nella discussione un argomento che nessuno dei due avrebbe volentieri affrontato apertamente.) «Da quando Aelle è morto, c'è stato un capo degno di nota tra i Sassoni Meridionali? La loro terra è la migliore del sud e da molto mi sembra che il re che tiene Rutupiae e le terre alle sue spalle tiene in mano una chiave. La chiave per la parte principale del continente e il suo commercio.» Vi fu un bagliore di apprezzamento negli occhi del vecchio re. Non disse in tutte parole che i discendenti di Aelle non vedevano con altrettanta chiarezza la situazione ma, nuovamente, i due uomini si capirono. Si limitò a soggiungere, pensosamente: «Mi dicono - anche se, naturalmente, le mie informazioni non sono sempre corrette - che il porto di Rutupiae incomincia a interrarsi e non si fa nessun tentativo di liberarlo dal fango.» Mordred, che l'aveva sentita dire anche lui, espresse sorpresa e i due parlarono ancora per un po' con reciproco compiacimento e, alla fine, con la chiarissima certezza che se Cerdic decideva che quella porta verso il continente era degna di un'incursione dei Sassoni Occidentali, Mordred e i britannici come minimo si sarebbero trattenuti dall'entrarci dalla porta posteriore e, come massimo, avrebbero appoggiato il re dei Sassoni Occidentali. «Con, alla fine, il libero accesso dei mercantili britannici al porto, naturalmente,» disse Mordred.
«Naturalmente,» disse Cerdic. Così, con non poca soddisfazione dalle due parti, si concluse il colloquio. Il vecchio re ripartì verso sud con i thegns più anziani mentre i giovani guerrieri scortavano Mordred e le sue truppe per parte del viaggio verso nord con un gioioso accompagnamento di grida e giochi d'armi. Mordred cavalcò da solo per buona parte della strada, in testa alle truppe. Era appena consapevole del frastuono alle sue spalle dove sassoni e britannici parevano celebrare quella che, ora, era un'alleanza più che un semplice trattato di non aggressione. Sapeva, come lo aveva saputo Cerdic senza dirlo, che un accordo del genere non sarebbe stato tanto facile da concludere con il vincitore di Badon e delle battaglie che l'avevano preceduta. Era stato avviato un nuovo corso. Era incominciato il tempo dei giovani. I cambiamenti erano nell'aria. Piani a lungo soffocati gli ronzavano nel cervello e il sangue che condivideva con Ambrogio e Artù e Merlino correva finalmente libero con il potere di fare e di costruire. È certo che se, al suo ritorno a Camelot, avesse trovato ad attenderlo il corriere con le notizie della salvezza di Artù e del suo imminente ritorno, ci sarebbe stato una percettibile punta di disappunto mischiato al sollievo e alla gioia. *** Non c'era nessun corriere. Da giorni, ormai, il vento soffiava ostinatamente verso est sul Mare Stretto tenendo ferme le navi britanniche nei porti bretoni. Ma sospinse una nave dalla Cornovaglia alla Bretagna con lettere del duca Costantino. Erano identiche, indirizzate una a re Hoel e l'altra a Bedwyr e quest'ultima venne portata direttamente ad Artù che si trovava ancora a Autun. «Mordred si è rivelato nel suo vero colore. Ha diffuso la notizia per tutto il regno che re Artù è stato ucciso ed ha assunto la regalità. La regina ha dato le dimissioni da reggente e mi sono giunte lettere in cui mi si chiede di rinunciare ai miei diritti come erede di Artù e di accettare Mordred come Sommo Re. Ora sta trattando con Cerdic che deve difendere i porti della Costa Sassone contro chi arriverà e il cui figlio è in Sassonia a reclutare migliaia di uomini che, tutti, giureranno sudditanza a Mordred. «Nel frattempo Mordred il re parla con i re di Dyfed e Guent e con uomini di Mona e Powys e anche ora cavalca verso nord per incontrarsi con i capi di lì che hanno a lungo congiurato contro Artù il Sommo Re chieden-
do il diritto di governare come vogliono senza dipendere dalla Sala Rotonda e dal Consiglio. Mordred, da spergiuro qual è, promette loro autogoverno e cambiamenti della legge. Così si fa degli alleati. «Infine, con la scomparsa del Sommo Re, conta di prendere la regina Ginevra per moglie. L'ha alloggiata a Caerleon e si incontra lì con lei.» *** Sebbene l'interpretazione delle mosse di Mordred fosse di Costantino, i fatti principali esposti nella lettera erano veri. Appena ritornato dal suo incontro con Cerdic, Mordred aveva persuaso la regina a recarsi a Caerleon. Fino a che non si avesse la certezza della morte di Artù, il paese - per il momento in preda all'inevitabile panico e confusione che segue la morte improvvisa di un potente re - non avesse ritrovato la calma e il nuovo corso non fosse stato a punto e funzionante, desiderava, come aveva promesso, garantire la sua sicurezza. Camelot era una città forte quanto Caerleon ma era troppo ad est è, secondo Mordred, qualunque guaio dovesse capitare sarebbe arrivato da quella parte. L'occidente era sicuro. (Eccetto che, si disse, dal duca Costantino, il silenzioso ma risentito ex erede di Artù, che non aveva inviato alcuna risposta ai cortesi inviti del Consiglio di recarsi a discutere la questione alla Tavola Rotonda. Ma Caerleon, armata e difesa era sicura da lui come da qualunque malintenzionato.) Per i gusti di Ginevra, Caerleon era troppo vicina alla sua patria di Northgalis dove ora governava un cugino che un tempo avrebbe voluto sposarla e lo diceva un po' troppo spesso alla moglie che aveva finito per prendersi. Ma le alternative erano ancora meno comode. Ginevra avrebbe preferito rifugiarsi in un convento ma dei due migliori santuari, il più vicino il convento sull'Ynys Witrin - era nel Paese Estivo e la regina non voleva a nessun costo mettersi sotto la protezione del suo re, Melwas. L'altro, ad Amesbury, la città di Artù, che l'avrebbe accolta volentieri, non era certo riuscito a proteggere l'ultima regina che aveva ospitata. L'assassinio di Morgause pesava ancora su quel luogo. Così Mordred, trasformando la necessità in piacere, scelse Caerleon dove aveva già combinato incontri con quei re del nord e dell'ovest con cui aveva avuto occasione di parlare. Vi scortò personalmente la regina imbarcandosi con lei a Ynys Witrin in direzione dell'estuario dell'Isca sulle sponde del mare di Severn.
Il viaggio fu calmo, il mare tranquillo, le brezze fresche e leggere. Fu un intervallo dorato nel tumulto di quell'estate violenta. La regina rimase appartata con le sue dame ma alla mattina e alla sera di quei due giorni di viaggio Mordred andò a farle visita e parlarono. In una di quelle occasioni, lei gli disse, brevemente e senza dettagli, perché era stata così riluttante a prendere asilo presso re Melwas. Pareva che molti anni prima, nella calda primavera della gioventù, Melwas avesse rapito la regina con la forza e lo stratagemma e l'avesse portata in una remota isola nelle paludi del suo paese. Lì, grazie alla sua magia, Merlino l'aveva scoperta e aveva condotto Bedwyr a riprenderla in tempo. Artù e Melwas avevano combattuto in un violento duello alla fine del quale il re vincitore aveva risparmiato la vita di Melwas. «Dopo un fatto simile?» chiese Mordred tanto scandalizzato da rivolgere quella domanda così diretta. «Io lo avrei trascinato ai vostri piedi e lo avrei ucciso lì, lentamente.» «Confermando così ad ogni uomo e donna del regno la sua colpa e la mia vergogna?» Parlava con calma ma le sue guance erano arrossite, forse al ricordo di quella vergogna o forse per l'ardore del giovane. Mordred si morsicò le labbra. Si ricordò la storia che Agravain aveva raccontato ad una riunione dei Giovani Celti e a cui lui, Mordred, non aveva creduto. Dunque era vero; ed ora gli oscuri riferimenti fatti da Bedwyr e Artù sul luogo dello stupro della principessa Elen, divennero chiari. Ricordava anche dell'altro: il corpo della ragazza violata che giaceva sotto la approssimativa copertura di pietre e aghi di pino. Disse faticosamente: «Allora, dopo. Ma politica o non politica, io non lo avrei lasciato vivere.» Poi si congedò. Quando fu uscito, la regina rimase a lungo seduta immobile, guardando oltre la balaustra l'acqua scintillante e la lontana costa con i suoi alberi come nubi e le nubi sopra di essi come torri. Sistemata Ginevra negli agi del palazzo della regina a Caerleon, Mordred si immerse nel giro di incontri con i capi e i piccoli re riuniti nella fortezza per parlargli. Quel che non si era aspettato e che Costantino, duca occidentale, ben sapeva, era lo scontento, persino l'ostilità, che trovò in loro verso una parte della politica di Artù. Nelle remote terre del nord, la romanizzazione così cara ad Ambrogio e Artù non era mai stata accettata. Non erano solo i giovani a volere dei cambiamenti ma anche i re più vecchi scalpitavano contro quella che pareva loro una politica restrittiva di un centro di governo remoto e meridionale.
Mordred si mosse con prudenza, contò gli alleati che gli avevano giurato fedeltà e andò ogni sera a far visita alla regina. Era forse un po' triste vedere come Ginevra si illuminava alle sue visite e con quanta solerzia lo interrogava. Lui le rispondeva prontamente tenendola più informata di quanto avesse trovato il tempo di fare Artù su ogni avvenimento di governo. Non immaginava che Mordred cogliesse semplicemente ogni occasione per vederla e ogni mezzo per prolungare le sue visite lasciando che si sentisse sempre più a suo agio con lui, che si abituasse sempre più al suo ruolo di governante e protettore. Pensava solo che cercasse di recarle conforto e distrazione e di conseguenza gli era grata e la sua gratitudine, in quel periodo di incertezza, dolore e paura la portò (come Mordred aveva sperato) assai vicina alla tenerezza, quasi in vista dell'amore. Ad ogni modo, quando le prendeva la mano per baciarla o, con grande audacia, vi posava sopra la sua come per consolarla, Ginevra non si affrettava più a ritirarla. Quanto a Mordred, con la sua nuova autorità, l'incertezza sulla sorte del re, il brillante avvio di piani a lungo tenuti a freno, la vicinanza della tanto a lungo desiderata Ginevra, passava da un giorno all'altro trascinato dalla piena della sovranità e del potere ed è dubbio che, a quello stadio, avrebbe potuto tornare indietro. In amore, come in altre cose, viene un momento in cui la volontà si ritira e cede il passo al desiderio e allora nemmeno Orfeo, volgendosi indietro, può causare la scomparsa del suo amore. Aveva avuto quella visione di lei, la vera Ginevra, una donna sola e spaventata della vita, una foglia che poteva esser fatta volare in un angolo sicuro da qualunque vento forte. Lui sarebbe stato - era - la sua salvezza. Era abbastanza intelligente da vedere che lei lo capiva e la manovrava con dolcezza. Poteva aspettare. Così passavano i giorni e il vento chiudeva ancora il Mare Stretto e ciascuno di loro, costantemente, osservava la strada e il porto in attesa del messaggero dalla Bretagna. E ciascuno passava le ore della notte a fissare il buio e pensare, pensare e quando finalmente si addormentavano non era uno dell'altra che sognavano ma di Artù. Al duca Costantino che rimuginava nel suo castello in Cornovaglia, non pensavano affatto. 7 La lettera di Costantino venne portata ad Artù nel suo campo presso Au-
tun. Re Hoel che, dopo la battaglia, aveva ricominciato a sentire l'età e i malanni, era ritornato a casa. Artù era solo, a parte Gawain che, in quei giorni, era sempre al suo fianco. Era anche molto stanco. Era ritornato dalla breve spedizione punitiva nelle montagne per trovare nelle truppe una situazione prossima al panico da quando, pur continuando a cercare il suo corpo tra i mucchi di morti, si ritenevano senza re. Anche il suo ritorno poté rallegrarle solo parzialmente perché Bedwyr era ferito più gravemente di quanto volesse ammettere o gli altri avessero ritenuto: stava molto male e i chirurghi scuotevano la testa accanto alla branda su cui giaceva in stato di incoscienza in una dipendenza del padiglione reale. Così, Artù era solo in più di un senso. Bedwyr stava morendo. Cei, il fratellastro maggiore con cui era stato allevato, era morto. E così pure Caio Valerio, l'anziano veterano delle guerre di Ambrogio e amico di Uther Pendragon... La lista pareva interminabile, i nomi un elenco tratto dalla leggenda delle passate glorie di Artù, oppure un semplice appello dei suoi amici. Di quelli che gli erano vicini, solo Gawain era illeso e si era dimostrato un forte sostegno, gratificato com'era dalla gioia della sua prima grande battaglia e della clamorosa vittoria. A lui Artù che, per la prima volta, sentiva la sua età (sebbene fosse di molti anni più giovane di Re Hoel) si era rivolto con gratitudine e affetto. Incominciò a leggere la lettera del duca. Attraverso le pareti di cuoio della tenda sentiva i rantoli e i mormorii di Bedwyr che si agitava nel letto. Sarebbe morto prima del mattino, dicevano, se la febbre non cadeva. Di nuovo la lettera. Mordred... si comportava da Sommo Re, parlava con Cerdic, riuniva i re del Galles e del nord... «Bene,» disse Artù, aggrottando la fronte; gli doleva la testa e la tremula luce delle torce rendeva difficile la lettura: «Bene, tutto questo era prevedibile. Se Mordred ha ricevuto la notizia della mia supposta morte, è logico che abbia compiuto tutti questi passi. Ne avevamo parlato prima che lasciasse Kerrec. Doveva incontrarsi con Cerdic per ratificare il trattato e discutere un possibile nuovo insediamento nel futuro. Ora, se gli è stata annunciata la mia morte, può benissimo aver ritenuto opportuno negoziare su nuove basi dal momento che il vecchio trattato non sarebbe stato più valido.» «Nuove basi! Un'alleanza che sembra, al meglio, una follia e al peggio un pericolo mortale! E questa storia di Cynric che recluta nuovi Sassoni su questa sponda. Lo sapevate, zio?»
«Cynric? Oh, riunisce uomini sotto le sue bandiere in Sassonia. No, ma se è vero...» «Sono quasi sicuro che è vero,» disse Gawain.»Ho già sentito voci in questo senso al campo. Uomini che si ammassano sulle coste della Neustria. Navi alla fonda fitte come frecce in una faretra. E per cosa? Cynric salpa e Cerdic si muove verso i porti di sud-est per incontrarlo; allora, i Sassoni Meridionali resteranno presi tra i due e l'intero sud-est sarà di Cerdic con la libertà di invitare chi crede ad accrescere il suo esercito. I Sassoni Meridionali sono stati l'altro muro che lo tratteneva, ma chi lo tratterrà adesso?» I suoi occhi pieni di furore si piantarono in quelli del re come se la calma di questi lo esasperasse. Se sentì i rumori che arrivavano attraverso la parete, non lo diede a vedere. Non tentò nemmeno di abbassare la voce. «Senza dubbio, il prossimo corriere mi porterà un rapporto sui movimenti di Cynric.» Artù appariva stanco ma non troppo preoccupato. «Ma, per il resto di questa lettera, Gawain, ricordati chi la scrive. Il duca Costantino non ha preso bene la nomina a reggente di Mordred: deve aver preso ancora meno bene la sua investitura a mio unico erede. Tutto quello che dice qui» e indicò la lettera sul pavimento che Gawain si chinò a raccogliere, «tutto quello che dice aver fatto Mordred, io e Mordred avevamo deciso che venisse fatto. Abbiamo solo la parola di Costantino che non è certo la parola di un amico nel modo in cui è esposta.» «Ma non vi pare che Mordred avrebbe dovuto mandare un rapporto? Se è potuto passare l'uomo di Costantino...» «Se ha creduto alla notizia della mia morte,» disse Artù, «a chi avrebbe dovuto mandarlo?» Gawain fece per rendere la lettera a suo zio. «C'è, dell'altro, qui. Sull'altra facciata, vedete?» Artù riprese la lettera, vide le ultime frasi sul retro e incominciò a leggerle ad alta voce. «Infine, con la scomparsa del Sommo Re, conta di prendere la regina Ginevra per moglie. L'ha alloggiata a Caerleon e...» Non finì la frase ma la finì Gawain, su un tono stridulo dove l'ira si colorava di una specie di trionfo. «E si incontra lì con lei!» Guardò via, poi tornò a fronteggiare il re. «Zio, che vi creda morto o no, questo è comportarsi da traditore! Non ha ancora prove, non ha l'ombra di un motivo per allontanare la regina portandola a Caerleon per farle la sua corte. Dite che il resto di questa lettera potrebbe
essere vero... Se così è, allora anche questo deve essere vero!» «Gawain,» incominciò il re con voce stanca ma Gawain, eccitato, continuò: «No, dovete ascoltarmi! Sono vostro parente. Ascolterete da me la verità. Posso dirvi questo, zio: Mordred ha sempre voluto il regno. So quanto era ambizioso, anche a casa, nelle isole, ancora prima che sapesse di essere vostro figlio. Vostro figlio, sì! Ma pur sempre allevato da un pescatore, un contadino con l'avidità e la cupidigia del contadino e un senso dell'onore da pezzente. Ha colto al volo la prima occasione per prendersi quel che voleva. Qualcosa nel viso di Artù lo fermò. Era difficile dire di cosa si trattasse perché il re pareva un morto scolpito in pietra grigia. Qualcosa in lui faceva pensare a un uomo che vede ai suoi piedi un baratro colmo di lance e, con la pura ostinazione della fede, si aggrappa all'unico alberello che potrebbe impedirgli di caderci dentro. Nell'altra stanza, ora, regnava il silenzio. La voce di Artù era ancora ferma, ancora ragionevole, ma senza vita o intonazione. «Gawain. L'ultima cosa che ho imposto a mio figlio è stata che, nel caso della mia morte, si prendesse cura della regina e la proteggesse. Verso di lei, è come un figlio. Dobbiamo dimenticare quello che è stato detto.» Gawain chinò la testa e mormorò qualcosa che poteva essere una scusa. Artù gli tese la lettera. «Bruciala. Adesso. Così,» soggiunse mentre Gawain avvicinava la lettera a una torcia e la osservò annerirsi e accartocciarsi. «Adesso devo andare da Bedwyr. Al mattino...» Non finì. Incominciò a rimettersi in piedi, muovendosi lentamente, facendo forza sul bracciolo della sedia come un vecchio o un ammalato. Gawain, che gli voleva bene, fu colto da un improvviso rimorso e parlò con più gentilezza: «Mi dispiace, zio, credetemi. So che non volete credere queste cose di Mordred e quindi speriamo di ricevere presto sue notizie. Nel frattempo, posso fare qualcosa per voi?» «Sì, puoi andare a dare ordini per il nostro ritorno in patria. Qualunque sia la verità, devo fare ritorno. Dovrò affrontare o Mordred o Costantino. Non è questo il momento per portare più avanti la nostra vittoria o chiedere incontri con l'imperatore. Mi limiterò a mandargli un messaggio.» «Sì?» fece Gawain quando il re si interruppe.
Lo sguardo di Artù era impenetrabile. «Un compito che ti farà piacere. Vedi che il corpo di Lucio Quintiliano sia dissepolto e mandato all'imperatore, con questo messaggio: questo è il tributo che i britannici pagano a Roma. E adesso lasciami. Devo andare da Bedwyr.» *** Bedwyr non morì. Il silenzio che aveva spaventato il re non era di morte o coma, era sonno e l'ammalato se ne svegliò sfebbrato e con le ferite non più infette. Artù, malgrado quello che poteva aspettarlo, partì per la Britannia con la mente sgombra e il cuore leggero. *** Il re salpò finalmente in una giornata nuvolosa, con la schiuma che si staccava dalla cresta delle onde e il cielo basso su tanto pesante grigiore. La strega del mare teneva saldamente in pugno le acque del Canale. Sebbene il vento avesse finalmente cambiato direzione, mare e cielo parevano cospirare contro Artù. Persino i gabbiani, lembi strappati alle onde bianche, andavano avanti e indietro nel vento con strida che parevano irreali risate di scherno. Un mare tetro, senza scintillii, senza luce, spingeva verso nord la sua corrente sotto la spinta del vento. Una raffica colse lo stendardo del Drago del Mare e lo fece a brandelli che turbinarono via nel vento. «Un presagio,» sussurrarono gli uomini ma Artù, alzando gli occhi, rise e disse: «Ci ha preceduti. Se riusciamo a cogliere il vento, voleremo altrettanto veloci». E volarono in effetti. Quel che non potevano sapere era che i sassoni di Cynric avevano colto lo stesso vento favorevole e anche le loro navi facevano rotta sul Mare Stretto. Lunghe e basse com'erano, in quel mare agitato, i britannici non le videro fino a quando, nell'ultimo chiarore del tardo pomeriggio nuvoloso, mentre andavano col vento in poppa lungo la Costa Sassone simile a un muro bianco all'orizzonte, la vedetta del Drago del Mare non scorse qualcosa che somigliava alle navi sassoni veleggiare più vicino alla costa. Ma quando il re, con la pesante stanchezza che manifestava in quei giorni, si arrampicò fino a un punto di osservazione accanto all'albero, le navi o le loro ombre - erano sparite.
«Navi dei Sassoni Meridionali, colte dal cambiamento del vento,» disse il nostromo che era accanto ad Artù. «Fondale basso. Sono fortunate. Oramai saranno all'ancora e non ci daranno noia...» Non finì. Un grido dalla cima dell'albero li fece voltare tutti. Basso sul mare, schizzando fuori la pioggia come capelli di una strega, stava arrivando un uragano. La sua ombra volava come una condanna. Il nostromo gridò. I marinai si precipitarono ai loro posti. Re, cavalieri, marinai si aggrapparono al più prossimo appiglio. L'uragano fu loro addosso. In un istante tutto fu vento ululante e pioggia. L'aria era nera. L'acqua ricadeva come una cascata, sferzando le loro facce, coprendo gli occhi. La piccola nave sussultò, fremette, si fermò come se avesse colpito una roccia, poi avanzò, indietreggiò, sbandò come un cavallo spaventato. Le corde si tesero e saltarono. Tutta la struttura della nave gemette. Da qualche parte, uno schianto di legno diede l'allarme. L'uragano soffiò per forse dieci minuti. Quando, improvvisamente come era venuto, se ne andò volando sul mare sopra la sua ombra, la flotta, dispersa e danneggiata, si trovò senza saper come a portata di voce dalla costa. Ma la costa era quella Sassone Occidentale e non avevano modo di spingersi più a occidente contro un vento capricciosamente mutevole per raggiungere i porti della Dumnonia o persino l'incerto rifugio di Potters' Bay. Il re, con l'acqua che lambiva il ponte inferiore del Drago del Mare e due navi sorelle che avanzavano malamente al suo fianco, diede l'ordine. E così il mare portò a riva Artù nel territorio sassone dove Cynric, il figlio di Cerdic, in attesa dei dispersi della sua flotta di immigranti colpita dallo stesso uragano, si riposava con una squadra di suoi uomini dopo quel viaggio tempestoso. Da lui corse, proveniente dalle rovine del faro romano, la sentinella. Navi - tre navi e altre che si dirigevano a riva al loro seguito stavano entrando da ovest nel profondo porto. Non avevano bandiera né insegna. Ma dalla loro linea parevano navi britanniche e puntavano a riva dove certo non avevano diritto di stare. Nella luce che calava rapidamente, non aveva potuto rendersi conto delle loro cattive condizioni. Cynric non sapeva che la sua immigrazione era nota e approvata dai britannici; né poteva sapere che, in base al nuovo trattato tra Mordred e Cerdic, le navi britanniche avevano il diritto di prender terra in quel territorio. Trasse le conclusioni che poteva. Il suo arrivo era stato osservato e forse, ora, si tentava di contrastarlo. Inviò immediatamente un messaggio all'interno per riferire il suo arrivo e chiedere l'aiuto di Cerdic, poi riunì i suoi
uomini per opporsi allo sbarco dei britannici. *** Se i due contingenti fossero rimasti separati abbastanza a lungo da permettere ai due capi di riconoscersi e inviare o ricevere messaggi, nulla sarebbe successo. Ma si incontrarono nel crepuscolo di quel giorno oscuro e ciascuna delle due parti era presa solo dalla sua disperata situazione e cieca a tutto il resto. I sassoni erano stanchi dopo un viaggio tempestoso; buona parte di loro erano stranieri in quel paese e quindi facili all'apprensività. Avevano con loro anche donne e bambini. Nutriti delle leggende sulle guerre combattute per ogni pezzo di terra fin dal tempo di Hengist, vedendo che le truppe in arrivo erano in situazione di svantaggio mentre si avvicinavano a terra con le loro navi, afferrarono le armi e si precipitarono all'attacco. E Artù si trovava davvero in grande svantaggio. I suoi uomini erano ben addestrati ed esperti ma avevano riposato poco e alcuni di loro soffrivano molto per gli effetti del viaggio. Per fortuna le navi che trasportavano i cavalli, cercando una spiaggia piatta, si erano spinte oltre lungo la costa e così le bestie che erano sopravvissute indenni alla traversata erano riuscite a sbarcare a qualche distanza da lì. Ma, pur essendo la cavalleria il meglio dell'esercito di Artù, non poteva essere di aiuto contro gli uomini di Cynric. Artù e i cavalieri che erano con lui, affrontati dai sassoni armati mentre risalivano i ciottoli bagnati della riva, combatterono a piedi e senza alcun ordine. La battaglia si svolse disordinatamente e fu cruenta e disastrosa per entrambe le parti. Appena prima del buio, un messaggero ansimante giunse su un pony a fianco di Cynric. Il messaggio passò. Cerdic stava arrivando assieme al re di Britannia. Cynric doveva ritirarsi. Cynric, sollevato, si ritirò meglio che poteva e i suoi uomini raggiunsero l'interno nel buio, guidati dal messaggero verso l'esercito in arrivo dei Sassoni Occidentali. Artù, esausto ma illeso, ascoltò in silenzio il rapporto di qualcuno che aveva sentito gridare il messaggio dei sassoni. «Era Cynric in persona, signore, quello che guidava questo attacco. Adesso ha mandato a chiamare in aiuto suo padre e Cerdic sta arrivando. Con il nuovo re di Britannia, così ho sentito dire, che marcia contro di voi per aiutare Cynric e questi invasori.»
Artù, stanco a morte e dolente per le sue perdite che erano state ormai valutate, si appoggiò pesantemente alla spada confuso e, cosa insolita per lui, incerto. Qualcuno si stava avvicinando e i suoi passi scivolavano sui sassi. Artù si voltò, quasi sicuro di trovarsi il principe delle Orcadi al fianco, trionfante per quella prova di tradimento, ma era invece un soldato. «Signore, signore! Il principe Gawain è ferito. La sua nave si è sfasciata mentre toccava terra e lui è stato ferito ancora prima di poter scendere. Sembra che stia morendo.» «Accompagnami lì,» disse il re. Gawain era stato portato a terra su una barella ricavata dal fasciame schiantato della nave. I resti della nave stessa stavano ammassati sulla battigia. Corpi di morti e feriti erano sparsi sulla spiaggia come mucchi di abiti fradici. Gawain era cosciente ma aveva ricevuto una ferita mortale. Era cereo in volto e con il respiro affannoso e irregolare. Artù si chinò su di lui. «Come stai, nipote?» Le pallide labbra si mossero. Dopo un attimo, Gawain riuscì a sussurrare: «Sfortuna. Proprio mentre la guerra incomincia.» La guerra che aveva voluto, per cui aveva quasi lavorato. Il re respinse il pensiero e, chinandosi più vicino, inumidì le labbra del giovane con la sua borraccia di vino. Le labbra si mossero nuovamente. «Cosa dici? Non ho capito.» «Bedwyr,» disse Gawain. «Sì,» disse il re meravigliato. «Bedwyr sta abbastanza bene. Dicono che si riprenderà presto.» «Bedwyr...» «Gawain, so che hai molto da perdonare a Bedwyr ma se mi chiedi di portargli un messaggio che non sia di perdono e amicizia, chiedi invano, che tu sia morente o no.» «Non questo. Richiamate Bedwyr. Bisogna... Vi aiuterà a uccidere... Mordred... il traditore.» Artù non rispose. Ma dopo qualche istante si accorse che non era necessario. Così, consigliando fino alla fine assassinio e vendetta, morì il quarto dei figli di Morgause. Lasciandone solo uno. Mordred, suo figlio. Mordred, il traditore?
8 Mordred era di ritorno a Camelot quando lo raggiunse la notizia della battaglia sulla costa meridionale. Mancavano i dettagli. Consapevole del suo impegno con Cerdic, raccolse tutte le truppe disponibili e si diresse a sud incontrando l'esercito dei sassoni meridionali proprio nel momento in cui arrivava un secondo messaggero con un'ulteriore versione di quel che stava succedendo. La sua storia era la seguente: le navi militari di Artù erano state avvistate dagli abitanti della costa sassone quando le navi di Cynric, incapaci di raggiungere il porto alla foce. dell'Itchen, avevano da poco scaricato gli immigranti nei bassifondi protetti dall'isola di Seal. Poi un turbine di nubi e nebbia aveva nascosto la flotta. I nuovi arrivati sassoni, nervosi e non sapendo cosa aspettarsi dalle navi che si avvicinavano, si erano affrettati a mandare donne e bambini verso l'interno e si erano raccolti in formazione difensiva a portata dei segnali che venivano dal faro. Gli abitanti della costa, che erano scesi per accoglierli, cercarono di rassicurarli. Adesso erano al sicuro. Le navi del Sommo Re, fosse o meno a bordo il re stesso, non sarebbero entrate nei porti della costa che, per trattato, erano stati da molti anni ceduti ai sassoni. Ma a smentire le rassicurazioni era giunto in corsa l'uomo del faro, ansimando. Le navi avevano cercato protezione dall'uragano, erano venute a riva e stavano ora sbarcando uomini armati sulla spiaggia poco distante, verso ovest. Era chiaro che, essendo stato informato di questo fresco afflusso di immigranti sassoni, Artù aveva sperato di fermarli sul mare ma, non essendoci riuscito, aveva mandato a terra le sue truppe per ucciderli o farli prigionieri. A quanti mettevano in dubbio quella versione - erano i cittadini da molto immigrati e tra questi Cynric stesso - i nuovi venuti non avevano voluto dar retta. Il rischio era troppo grande. Se i britannici volevano agire e si dava loro il tempo di portare a riva i cavalli... tutti conoscevano la reputazione della cavalleria di Artù... Così i sassoni, disorganizzati e stanchi com'erano, si erano precipitati verso la spiaggia ed erano entrati in contatto con gli uomini di Artù. Avevano incontrato morte e disfatta ed ora, esausti, si trascinavano verso l'interno assieme agli spaventati abitanti dei villaggi della costa, con Artù e la sua cavalleria che li inseguivano. E, concluse il messaggero con un'occhiata di diffidenza verso Mordred, gli uomini, le donne e i bambini sassoni
imploravano aiuto dal loro re contro Artù, il violatore di trattati, l'invasore del loro legittimo regno, l'assassino di onesti e pacifici nuovi venuti. La dolorosa storia venne fuori faticosamente, nella rozza lingua dei contadini sassoni. È dubbio che Mordred ne capisse più di una parola su tre. Ma afferrò il fatto centrale e, rigido al fianco di Cerdic, sentì il freddo strisciargli addosso come se il sangue gli fosse uscito dal corpo per spargersi sul pietroso terreno ai suoi piedi. L'uomo smise di parlare, Cerdic incominciò a interrogarlo ma, interrompendolo e trascurando per una volta la cortesia, Mordred domandò aspramente: «Il Sommo Re? È questo che sta dicendo? Che Artù in persona è lì?» «Sì» disse Cerdic con grande autocontrollo. «Sembra che ci siamo mossi troppo presto, principe Mordred.» «Questo cambia tutto.» Mordred, con uno sforzo, cercò di minimizzare la cosa con calma ma la sua mente lavorava freneticamente. Quanto era successo poteva portare - anzi, aveva già portato - al disastro completo: per lui, per la regina, per il futuro della Britannia. Cerdic che lo osservava attentamente da sotto le folte sopracciglia, si limitò ad annuire. «Spiegatemi esattamente cosa è successo,» disse brevemente Mordred. «Ho capito poco. Ci potrebbe essere qualche possibilità di errore?» «Mentre andiamo,» disse Cerdic. «Cavalcate accanto a me. Non c'è tempo da perdere. Sembra che Artù non si sia accontentato di prendere i villaggi della costa ma ne abbia sospinto gli abitanti verso l'interno e stia raccogliendo la cavalleria per inseguirli. Dobbiamo andare a difenderli.» Quasi prima che avesse finito, Mordred, che si era morsicato le labbra con impaziente furore, esplose: «Ma è assurdo! Non solo c'è spazio per il dubbio ma, addirittura, non si può credere a questa storia! Il Sommo Re che rompe il suo trattato? Non è chiaro che quelle navi sono state trascinate a terra dall'uragano e gli uomini sono sbarcati dove hanno potuto? Per prima cosa, se avesse avuto intenzione di attaccare, avrebbe fatto sbarcare per prima la cavalleria. A me sembra che sia stato costretto a toccar terra e che la gente di Cynric lo ha attaccato per sospetto, senza nemmeno tentare di parlamentare.» «Questo è certamente vero. Ma, stando a quest'uomo, sapevano solo che quelle navi erano britanniche; la nave reale non batteva bandiera. Questo, di per sé, era sospetto...» «Allora è possibile che Artù non fosse personalmente presente. È stato visto? Riconosciuto? Se il suo stendardo non sventolava...»
«Una volta che i britannici hanno raggiunto la spiaggia, il Drago è stato issato. Era lì. Quest'uomo lo ha visto personalmente. E anche Gawain, incidentalmente, è morto.» Gli zoccoli dei cavalli battevano sommessamente sul terreno fradicio. La pioggia colava sulle loro facce. Dopo un lungo silenzio, Mordred disse, con la voce nuovamente fredda e ferma: «Allora, se Artù vive il suo trattato è ancora valido. Cancella la nuova alleanza che è stata fatta nella presunzione della sua morte. Quel che più conta, è certo che non avrebbe infranto quel trattato. Cosa avrebbe da guadagnarci? Ha combattuto solo perché è stato attaccato. Re Cerdic, non potete fare di questo un motivo di guerra.» «Per una ragione qualunque, il trattato è stato rotto,» disse Cerdic. «È entrato armato nel mio paese e ha ucciso la mia gente. E altri sono stati scacciati dalle loro case. Hanno chiesto il mio aiuto... Se non volete cavalcare con noi...» «Cavalcherò con voi. Se il re sta davvero portando a terra le sue truppe attraverso il territorio sassone, allora è necessario. Lui non vuole la guerra. Questo lo so. C'è stato un tragico errore. Conosco Artù e anche voi, re, dovreste conoscerlo. Preferisce la sala del Consiglio alla spada.» Il sorriso di Cerdic era amaro. «Dopo, forse. Quando ha fatto quello che vuole lui.» «Perché no?» ribatté Mordred. «Bene, cavalcate per raggiungere Cynric, se volete, ma parlate anche con Artù prima che vengano commesse altre follie. Se non volete farlo, allora dovete permettere che lo faccia io stesso. Re, possiamo ancora uscire da questa tempesta e raggiungere acque calme.» «Benissimo,» disse pesantemente il re, dopo una pausa. «Sapete voi cosa dovete fare. Ma se si arriva a una battaglia...» «Non si deve.» «Se Artù combatte, dovrò combatterlo. Ma voi... cosa ne sarà di voi, principe Mordred? Non siete più legato a me. E i vostri uomini vi obbediranno? Erano suoi.» «E adesso sono miei,» disse Mordred, brevemente. «Ma con il vostro permesso, non metterò alla prova la loro lealtà su questo campo. Se l'abboccamento fallisce, staremo a vedere.» Cerdic annuì e i due cavalcarono fianco a fianco in silenzio. Mordred, come gli eventi avrebbero dimostrato, aveva giudicato esattamente il suo esercito. La maggior parte delle sue truppe era formata da
uomini che erano stati addestrati e avevano prestato servizio sotto di lui e lo avevano accettato con convincimento come re. Se fosse iniziata una nuova guerra sassone il popolo - la gente di città, i mercanti, i contadini che ora prosperavano nelle loro terre rese sicure dai vecchi trattati - non avrebbe voluto saperne. Il recente annuncio di Mordred di voler ratificare il trattato e, ancor più, di stringere un'alleanza con il potente re dei Sassoni Occidentali, era stato calorosamente acclamato nelle sale di riunione e sulle piazze del mercato. I suoi ufficiali e soldati lo seguivano lealmente. Se avrebbero preso le armi contro Artù stesso, per qualunque ragione, era un altro problema. Ma, naturalmente, a questo non si sarebbe arrivati... Artù, lasciando pochi uomini di guardia alle navi mentre venivano riparati i danni della tempesta, guidò il resto del suo esercito verso l'interno, sperando di evitare gli sbandati sassoni e raggiungere il confine senza altri incidènti. Ma ben presto i suoi esploratori tornarono con la notizia che Cerdic stesso stava marciando in soccorso di suo figlio e si trovava tra i britannici e la loro terra. E subito dopo, in un varco tra le colline e la pianura, videro le lance e le criniere al vento della tribù di Cerdic e in coda, appena visibile attraverso la pioggia, quello che pareva il drago stesso dello stendardo di Artù. Meno confondibile era Mordred stesso che cavalcava al fianco di Cerdic alla testa dei sassoni. Le truppe lo riconobbero per prime. Mordred, il traditore. Il mormorio si diffuse tra le fila. C'erano uomini che avevano sentito le parole di Gawain morente ed ora, alla vista di Mordred stesso che si avvicinava con l'esercito sassone, ben visibile sul lucente cavallo nero che gli era stato donato da Artù, un ringhio si diffuse, come un'eco portata dal vento dell'ultimo respiro di Gawain. Mordred! Traditore! Fu come se il grido esplodesse nel cervello di Artù. I dubbi, l'accumulo di stanchezza e dolore, le accuse formulate da Gawain che, malgrado le sue colpe, Artù aveva amato, pesarono sul re ottenebrando la sua facoltà di pensare. Colto in quella indifesa confusione, dopo tanti dolori e perdite, si ricordò finalmente, come se il vento gli avesse portato la memoria dal passato, della catastrofe preannunciata da Merlino e ripetuta da Nimuë. Mordred, nato per essere la sua fine. Mordred, il portatore di morte. Mordred lì, su quell'oscuro campo di battaglia, che cavalcava contro di lui alla testa dei sassoni, i suoi antichi nemici... L'esercito di Cerdic si muoveva, si ammassava. Il re sassone, con il braccio alzato nel segno di comando, stava parlando a Mordred. Nella
massa alle spalle dei due uomini serpeggiavano minacciose grida e gli scudi cozzavano. Artù non era uomo da aspettare d'esser colto di sorpresa. Se ne valse, invece. Prima che Cerdic avesse il tempo di disporre la sua schiera per la battaglia, caricò con la cavalleria. Mordred, gridando, spronò in avanti ma la mano di Cerdic si abbatté sulle sue redini. «Troppo tardi. Oggi non ci saranno colloqui. Tornate dai vostri uomini. E tenetemeli lontani. Capito?» «Fidatevi di me,» disse Mordred e, fatto voltare il cavallo, gli allentò le redini sul collo e lo riportò al galoppo attraverso le fila sassoni. I suoi uomini, un po' alla retroguardia, non avevano ancora visto quel che era successo. Gli ordini del reggente furono brevi e incalzanti. «Scappate» non fu la parola usata ma la sostanza dell'ordine. Con gli ufficiali, fu conciso: «Il Sommo Re è qui e sta ingaggiando battaglia con Cerdic. Noi non c'entriamo. Non vi guiderò contro Artù ma nemmeno prenderò le parti di Artù contro un uomo a cui ho stretto la mano per stipulare un trattato. Che questo giorno giunga alla fine e allora chiariremo le cose da uomini ragionevoli. Riportate le truppe verso Camelot.» Così, senza spade insanguinate e con i cavalli freschi, l'esercito del reggente si ritirò verso la sua base lasciando il campo ai due anziani re. La stella di Artù era ancora alta. Come aveva predetto Merlino, era vincitore in ogni campo in cui scendeva. I sassoni si dispersero abbandonando il terreno e il Sommo Re, dopo aver raccolto i feriti e seppellito i morti, partì verso Camelot all'inseguimento delle truppe di Mordred in apparente fuga. Artù vinse il combattimento ma lasciò le terre nuovamente aperte ai loro possessori sassoni. I sassoni, raccolti i morti e contate le perdite, videro i loro vecchi confini ancora intatti. Ma Cerdic, guardando le truppe britanniche che lasciavano il campo, fece un voto. «Ci sarà un altro giorno, Artù. Un altro giorno.» 9 Il giorno venne. Venne con la speranza di tregua e il tempo di ritrovare il senno e la moderazione.
Mordred fu il primo a dimostrarlo. Non fece nessun tentativo di entrare a Camelot e tanto meno di occuparla contro il re. Fermò le sue truppe a poca distanza dalla cittadella, nella piatta campagna lungo il piccolo fiume Carnei. Era il loro terreno di esercitazione e c'era lì un accampamento provvisto di rifornimenti. Era un bene perché le voci di guerra erano circolate. Gli abitanti dei villaggi, come se ubbidissero alle parole portate dal vento, si erano ritirati nella cittadella e le loro donne, i bambini e il bestiame erano stati ospitati nella terra comune a nord est all'interno delle mura. Quella notte Mordred, facendo il giro, trovò i suoi uomini perplessi, quasi arrabbiati ma leali. L'opinione corrente era che il Sommo Re, per la sua età, mancasse di discernimento. Aveva ingannato il re sassone e questa era una faccenda presto perdonata; ma aveva anche ingannato suo figlio, il reggente Mordred, che era stato un fedele custode del regno e della moglie del re. Questo dissero a Mordred e furono visibilmente rallegrati quando Mordred li assicurò che la sua prossima mossa sarebbe stata di parlamentare; ben presto, disse, quegli oscuri avvenimenti sarebbero stati chiariti. «Nessuna spada verrà sguainata contro il Sommo Re, a meno che non siamo costretti a difenderci da lui e dalla calunnia.» *** «Ha chiesto di parlamentare» disse Artù a Bors. «Glielo concederete?» Le forze del re erano schierate a qualche distanza da quelle del reggente. Tra i due eserciti, il Carnei, un piccolo corso d'acqua che scorreva scintillante tra le canne e l'erba. Il cielo temporalesco si era schiarito e il sole splendeva ancora in tutta la sua forza estiva. Dietro le tende e gli stendardi di Mordred si ergeva la grande collina dalla cima piatta chiamata Caer Carnei, con le torri di Camelot incoronate d'oro contro il cielo. «Sì. Per tre ragioni. La prima è che i miei uomini sono stanchi ed hanno bisogno di riposo; sono in vista delle loro case che non vedevano da tante settimane e per questo sono ansiosi di arrivarci. La seconda cosa è che ho bisogno di tempo e rinforzi.» «E la terza?» «Be', può anche darsi che Mordred abbia qualcosa da dire. Non solo si trova tra i miei uomini e le loro case e mogli ma anche tra me e la mia. Questo richiede più spiegazioni di quante ne possa dare una spada.» I due eserciti si sistemarono guardinghi e i messaggeri, debitamente ono-
rati e scortati, passarono tra loro. Tre altri messaggeri partirono segretamente dal campo di Artù: uno per Caerleon con una lettera per la regina, uno per la Cornovaglia con la richiesta a Costantino di mettersi al suo fianco e uno per la Bretagna chiedendo l'aiuto di Bedwyr e, appena poteva, la sua presenza. Prima del previsto, l'atteso annuncio arrivò. Bedwyr, sebbene non ancora perfettamente rimesso, era in viaggio e, con la sua splendida cavalleria, sarebbe stato a fianco del re entro pochi giorni. Il vento era favorevole e il passaggio sarebbe stato rapido e tranquillo. Non era mai presto abbastanza. Era giunto all'orecchio del re che certi piccoli sovrani si stavano riunendo per marciare verso sud. E si riferiva anche che i sassoni si stavano raccogliendo lungo tutta la costa per marciare verso l'interno. Mordred non era responsabile di nessuna di queste cose e, sicuramente, le avrebbe impedite se, a quello stadio, fosse stato possibile; ma Mordred, come Artù, era, senza volerlo, privato della ragione perché sospinto di ora in ora verso quel punto da cui nessun può più fare un passo indietro. *** In un castello molto più a nord, accanto a una finestra da dove si sentivano gli uccelli mattutini cantare tra le betulle, Nimuë la maga buttò via le coperte e si alzò dal letto. «Devo andare ad Applegarth.» Pelleas, suo marito, allungò pigramente una mano e la attirò a sé restando sdraiato sul letto. «Tra i corvi che si avventano sul campo di battaglia?» «Chi ha detto che c'è un campo di battaglia?» «Voi, mia cara. Nel sonno, stanotte.» Si staccò da lui stringendosi addosso la camicia e lo guardò. Aveva gli occhi sbarrati, ancora velati dal sonno, e tragici. Lui le disse dolcemente: «Su, amore, lo so che è un dono duro da sopportare ma ormai dovresti esserci abituata. Ne hai parlato e lo hai aspettato per molto. Non puoi fare niente». «Solo ammonire e ancora ammonire.» «Li hai ammoniti entrambi. E prima di te ha fatto lo stesso anche Merlino. Mordred sarà la rovina di Artù. Adesso sta succedendo e sebbene tu dica che nel suo cuore Mordred non è un traditore, è stato portato ad agire
in modi che possono apparire infidi a tutti e specialmente al re.» «Ma io conosco gli dei. Parlo con loro. Cammino con loro. Loro non vogliono che noi smettiamo di agire solo perché crediamo che agire sia pericoloso. Hanno sempre minacce nascoste dal sorriso e la grazia sbircia da dietro ogni nube. Possiamo sentire le loro parole ma come le si può interpretare al di là di ogni dubbio?» «Ma Mordred...» «Merlino lo avrebbe voluto morto alla nascita e così pure il re. Ma da lui è già venuto molto bene. Anche ora, se possono essere indotti a parlarsi, il regno sarebbe ancora salvabile. Non me ne starò seduta qui senza far niente pensando alla maledizione degli dei. Andrò ad Applegarth.» «A fare cosa?» «A dire ad Artù che non c'è tradimento ma solo ambizione e desiderio. Due cose che lui stesso manifestava abbondantemente in gioventù. Mi ascolterà, mi crederà. Devono parlarsi o spaccheranno in due la Britannia e i suoi nemici entreranno dalla breccia che hanno aperta. E, questa volta, chi la riparerà?» *** Il corriere portò la lettera a Ginevra nel palazzo della regina a Caerleon. Conosceva l'uomo che aveva fatto molte volte la spola tra lei e Mordred. Rigirò la lettera tra le mani, vide il sigillo e diventò bianca come il gesso. «Questo non è il sigillo del reggente. È dell'anello del re, quello che portava al dito. Allora, lo hanno trovato? Il mio signore è davvero morto?» L'uomo, che era ancora piegato sul ginocchio, prese il rotolo che le era caduto di mano e, rialzandosi, indietreggiò di un passo, guardandola. «No, certo, signora. Il re è vivo e sta bene. Allora, non avete avuto la notizia? Ci sono stati brutti avvenimenti, signora, e le cose non vanno affatto bene. Ma il re è sano e salvo in Britannia.» «Vive? Artù è vivo? Allora, la lettera - datemi la lettera! - viene dal re in persona?» «Ma certo, signora.» L'uomo gliela mise in mano. Il colore le era ritornato sulle guance ma la mano con cui cercava di rompere il sigillo tremava. Una confusione di sentimenti le passava sul viso come ombre sopra un'acqua in movimento. All'altro capo della stanza, le sue dame, in un gruppetto sussurrante, guardavano ansiosamente e l'uomo, obbedendo a un
gesto della più importante di loro, lasciò la stanza. Le dame, avide di notizie, uscirono frusciando dietro di lui. La regina non si accorse nemmeno che se ne erano andate. Aveva incominciato a leggere. Quando la prima delle dame rientrò, trovò Ginevra sola e manifestamente disperata. «Ma come, signora, piangete? Quando il re è vivo?» Tutto quello che Ginevra riuscì a dire, fu: «Sono perduta. Sono in guerra e, comunque vadano le cose, io sono perduta». Più tardi, si alzò. «Non posso restare qui. Devo ritornare.» «A Camelot, signora? Gli eserciti sono lì.» «No, non a Camelot. Andrò ad Amesbury. Nessuna di voi è obbligata a venire con me, a meno che lo voglia. Lì non avrò bisogno di niente. Diteglielo da parte mia, per piacere. E aiutatemi a prepararmi. Andrò subito. Sì, adesso, stanotte.» Il messaggero di Mordred che arrivò mentre i carri mattutini per il mercato passavano rumorosamente sopra il ponte di Isca, trovò il palazzo in fermento e la regina partita. 10 Era una giornata splendida, l'ultima dell'estate. Al mattino presto gli araldi dei due schieramenti guidarono i capi al tanto atteso colloquio. Mordred non aveva dormito. Era rimasto tutta la notte disteso a pensare. Cosa dire. Come dirlo. Che parole usare che fossero abbastanza precise da non permettere alcuna falsa interpretazione ma non tanto brusche da creare antagonismo. Come spiegare a un uomo tanto stanco, tanto sospettoso e tanto pieno di dolore come l'anziano re la dicotomia che sentiva in sé lui, Mordred: la gioia del potere che poteva essere, ed era, incrollabilmente leale ma che non avrebbe mai più potuto essere secondario (Co-regnanti, magari? Re del Nord e del Sud? Artù avrebbe potuto prendere in considerazione qualcosa del genere?) Domani, al tavolo della tregua, lui e suo padre si sarebbero incontrati per la prima volta come condottieri di pari grado più che, come prima, da re e reggente. Ma due capi molto diversi. Mordred sapeva che, quando fosse arrivato il suo momento, non sarebbe stato una copia di suo padre bensì un re diverso. Artù apparteneva alla sua generazione e, per natura, suo figlio aveva pensieri e ambizioni incanalati diversamente. Sarebbe stato così persino senza la diversità della loro edu-
cazione. Il duro assolutismo di Mordred non era di Artù ma la dedizione di entrambi era la stessa: totale. Non poteva immaginare se il vecchio re si sarebbe mai indotto ad accettare i nuovi modi che Mordred auspicava, modi che si erano materializzati (anche se, alla fine, in modo screditante) nella dizione «Giovani Celti», senza considerarli un tradimento. E poi, c'era la regina. Questa era una cosa che non poteva dire. «Anche se foste morto, con Bedwyr vivo che probabilità potrei avere io?» Mugolò e si girò sul guanciale, poi si morsicò le labbra perché non voleva che le guardie lo sentissero. I presagi si alimentavano troppo in fretta quando gli eserciti erano in campo. Si considerava un capo. Persino adesso, con lo stendardo del Sommo Re che sventolava sopra il suo accampamento, i suoi uomini gli erano leali. E con loro, accampati al di là della collina, c'erano i sassoni. Tra lui e Cerdic, anche ora, c'era la possibilità di una fruttuosa alleanza; un'unione di coloni, l'aveva chiamata, e il vecchio sassone aveva riso... Ma non tra Cerdic e Artù; non ora, in futuro... Terreno pericoloso; parole pericolose. In quel momento era follia persino avere pensieri del genere. Si stava forse vedendo, in quel pericoloso momento, come un re migliore di Artù? Diverso, sì. Migliore, forse, almeno per il tempo a venire? Ma questo era peggio che follia. Si girò ancora alla ricerca di un posto fresco sul guanciale, cercando di rientrare nella mentalità del figlio di Artù, diligente, ammirato, pronto a conformarsi e obbedire. Da qualche parte, un gallo cantò. Dai vaghi confini del sonno, vide le galline scendere di corsa l'erba salmastra verso la costa sassosa. Sula spargeva il cibo. Sopra, i gabbiani planavano e gridavano e qualcuno si tuffava audacemente verso il mangime. Sula, ridendo, agitava un braccio per scacciarli. Acuto come il grido di un gabbiano, lo squillo della tromba annunciò il giorno dell'incontro. *** A mezzo miglio di distanza, nella sua tenda vicina alla riva del lago, Artù dormiva ma il suo era un sonno inquieto e vi entrò un sogno. Sognò di cavalcare lungo la riva del lago e lì, in piedi in una barca, spingendola con un palo, c'era Nimuë; solo che non era Nimuë, era un ragazzo, con gli occhi di Merlino. Il ragazzo lo guardò gravemente e ripeté, con la voce di Merlino, quello
che Nimuë gli aveva detto ieri quando, arrivando al convento di Ynys Witrin tra le sue vergini, aveva mandato a chiedere di parlargli. «Voi ed io, Emrys,» aveva detto dandogli il nome da ragazzo che Merlino aveva usato per lui, «ci siamo lasciati accecare dalla profezia. Abbiamo vissuto al ciglio della catastrofe e adesso ci sentiamo di fronte al fato da tanto minacciato. Ma ascoltate questo, Emrys: il fato è opera degli uomini, non degli dei. Le nostre follie ci condannano, non gli dei. Gli dei sono spiriti, lavorano attraverso le mani degli uomini e ci sono uomini abbastanza coraggiosi da alzare la testa e dire: 'Sono un uomo; non voglio'. «Ascoltatemi, Artù. Gli dei hanno detto che Mordred sarà la vostra fine. Se è vero sarà attraverso una sua azione. Non costringetelo a quell'azione... Vi dirò ora quello che avrebbe dovuto rimanere un segreto tra me e Mordred. È venuto da me qualche tempo fa, ad Applegarth a chiedere il mio aiuto contro il fato predetto per lui. Ha giurato di uccidersi piuttosto che farvi del male. Se non glielo avessi impedito, sarebbe morto allora. Quindi, chi è colpevole, lui o io? Ed è venuto ancora, sul Bryn Myrddin, a cercare il conforto che io, Merlino, potevo dargli. Se ha cercato lui di sfidare gli dei, allora, Artù, potete farlo anche voi. Deponete la spada e ascoltatelo. Non prendete altre decisioni ma parlate con lui, ascoltate e imparate. Sì, imparate. Perché state invecchiando, Artù-Emrys, e verrà il tempo, sta venendo, è venuto, in cui voi e vostro figlio potrete mantenere al sicuro la Britannia tra le vostre mani unite, come un gioiello posato tra la lana. Ma sciogliete la stretta e la vedrete cadere e andare in frantumi forse per sempre.» Nel sogno, Artù sapeva di aver accettato il suo consiglio; aveva organizzato l'abboccamento deciso ad ascoltare tutto quello che suo figlio aveva da dire; ma ugualmente Nimuë-Merlino aveva pianto, in piedi nella barca che si allontanava sul vitreo lago e svaniva nella nebbia. E poi, improvvisamente, mentre voltava il cavallo per salire verso il luogo dell'incontro, l'animale inciampò facendolo cadere a capofitto nell'acqua profonda. Appesantito dall'armatura - perché era armato di tutto punto per un colloquio di pace? - affondò sempre di più in un pozzo di acqua nera dove i pesci gli nuotavano attorno e i serpenti d'acqua, simili ad alghe, gli si avvolgevano alle membra impedendogli di muoverle... Gridò e si sveglio, fradicio di sudore come se fosse stato davvero sul punto di annegare ma quando i servi e le guardie accorsero, rise e scherzò e li mandò via per poi ricadere nel suo sonno. Questa volta fu Gawain ad apparirgli, un Gawain insanguinato e morto
ma carico, chissà come, di una grottesca energia, un fantasma del vecchio Gawain combattente. Anche lui giunse fluttuando sull'acqua del lago ma dalla sua superficie passò direttamente nella tenda del re, fermandosi accanto al suo letto dove estrasse un pugnale dal fianco incrostato di sangue e lo porse al re. «Bedwyr,» disse, non nel cavernoso sussurro in cui dovrebbero parlare i fantasmi, ma in un sibilo alto e metallico come quello dei pali della tenda che si piegavano nel vento. «Aspettate Bedwyr. Promettete qualunque cosa al traditore, terra, dominio, il Sommo Regno dopo di voi. E anche la regina. Qualunque cosa per tenerlo a bada fino all'arrivo di Bedwyr con le sue schiere. E allora, quando avrete la certezza della vittoria, attaccatelo e uccidetelo. «Ma questo sarebbe tradimento.» «Niente è tradimento se distrugge un traditore.» Questa volta il fantasma di Gawain parlò stranamente con la voce stessa di Artù. «In questo modo sarete sicuro.» Il pugnale macchiato di sangue cadde sul letto. «Schiacciatelo per sempre, Artù, siatene certo, certo, certo...» «Signore?» Il servo che toccava la spalla del re per svegliarlo indietreggiò quando il re, drizzandosi improvvisamente sul letto, si guardò attorno come se fosse infuriato, ma tutto quel che disse fu, bruscamente: «Dite che controllino come è fissata la tenda. Non posso dormire se tutto si muove come se soffiasse un uragano» *** Era stato convenuto, negli scambi tra gli araldi, che quattordici ufficiali di ciascuna parte si incontrassero in un punto a metà strada tra le schiere. C'era una striscia di arida brughiera non lontano dalle rive del lago, dove erano state piantate due piccole tende e tra loro un tavolo di legno su cui stavano le spade dei due condottieri. Se l'abboccamento fosse fallito, la dichiarazione formale dell'inizio della battaglia sarebbe stato l'estrarre o il sollevare una spada. Sopra una delle tende sventolava lo stendardo del re, il Drago in oro. Anche Mordred, in quanto reggente, aveva diritto a quell'insegna. Ma convinto della necessità di rientrare nella grazia di Artù e di non frapporre a quella grazia il sia pur minimo ostacolo, aveva dato ordine che il suo emblema reale venisse riposto e che per lui, fino al giorno in cui non fosse stato nuovamente proclamato erede di Artù, si portasse un sem-
plice stendardo bianco. Questo sventolava ora sulla sua tenda. Mentre i due uomini prendevano posto al tavolo, Mordred vide che suo padre lo sbirciava. Quello che non poteva sapere era che Artù stesso, da giovane, aveva inalberato uno stendardo bianco. «Il bianco è il mio colore,» aveva detto, «fino a quando non vi avrò scritto il mio motto. E, in qualunque modo mi si presenti, ce lo scriverò.» *** Da Nimuë nel suo convento di vergini dell'isola sul lago, si recò la sorella di Artù, la regina Morgana. Era una Morgana umile e ansiosa, consapevole di quale sarebbe stato il suo fato se Artù fosse stato sconfitto o ucciso in battaglia. Era stata nemica di suo fratello ma, senza di lui, era e sarebbe sempre stata nulla. Si poteva esser certi, ora, che avrebbe usato tutta la sua abilità e la sua vantata magia per il suo bene. Così Nimuë la accolse. Come Signora del convento sul lago, Nimuë non stava in soggezione davanti a Morgana, né come strega né come regina. Tra le sue vergini vi erano altre dame reali tra cui una cugina di Ginevra proveniente dal Galles del Nord, e un'altra di Manau Guotodin. Con loro mise Morgana a preparare medicine e ad approntare le barche che sarebbero state usate per trasportare i feriti fino all'isola dove li avrebbero guariti. Aveva visto Artù e gli aveva fatto il suo discorso ammonitore e lui aveva promesso di promuovere un abboccamento e permettere al reggente di dire quel che aveva da dire. Ma Nimuë, malgrado tutto quello che aveva detto a Pelleas, sapeva che gli dei erano dietro le nubi temporalesche che anche ora si ammassavano al di là del lago scintillante. Dall'isola si vedevano le tende che in distanza erano piccole come piccolo era lo spazio tra loro. Malgrado le nubi ammassate all'orizzonte, la giornata prometteva di essere splendida. *** Il giorno si consumava. Gli ufficiali che avevano accompagnato i loro capi al tavolo della tregua parevano inizialmente a disagio, sbirciavano con diffidenza amici o vecchi compagni che stavano dall'altra parte ma, dopo un po', si rilassarono e incominciarono a parlare tra loro dividendosi in
gruppetti dietro le tende dei loro rispettivi capi. Fuori dalla portata delle loro orecchie, Artù stava con Mordred. Di tanto in tanto si muovevano di comune accordo e facevano qualche passo avanti e indietro. A volte parlava uno, a volte l'altro. Gli osservatori, concentrati su di loro anche mentre parevano distrarsi, cercavano di capire quel che stava succedendo. Ma non ci riuscivano. Il re, che pareva stanco ed era molto corrucciato, ascoltava però con calma cortesia quello che il giovane gli stava dicendo con enfasi. Ancora più lontani e impossibilitati a vedere o udire qualcosa, gli eserciti guardavano e aspettavano. Il sole salì nel cielo. Il calore aumentò e dalla vitrea superficie del lago la luce riverberava fiammeggiando. I cavalli scalpitavano, soffiavano e agitavano la coda, spazientiti dal caldo e dalle mosche e tra i ranghi la leggera incertezza dell'attesa si trasformò in irrequietezza. Gli ufficiali, anch'essi nervosi, cercavano di calmarla come potevano ed osservavano il tavolo della tregua e il cielo con crescente tensione. Da qualche parte, in lontananza, risuonò ovattato il primo tuono. L'aria era pesante e la pelle degli uomini si tese nell'attesa dell'imminente temporale. Era probabile che nessuna delle due parti volesse la battaglia ma, per l'ironia che governa le questioni di violenza, più si prolungava la conversazione, più la tensione cresceva fino a un punto in cui la più insignificante scintilla avrebbe avviato un incendio che solo la morte sarebbe stata in grado di spegnere. Nessuno degli astanti era destinato a sapere mai di cosa avevano parlato Artù e Mordred. Qualcuno disse, più tardi - quelli che vissero tanto da poter parlare - che alla fine il re sorrise. Certo è che fu visto posare una mano sul braccio di suo figlio voltando con lui le spalle al tavolo su cui le loro spade sguainate giacevano fianco a fianco, e accanto a loro due coppe e una caraffa d'oro di vino. Quelli più vicini sentirono qualche parola: «...essere Sommo Re dopo la mia morte,» disse Artù, «e per il momento avere delle tue terre...» Mordred gli rispose qualcosa ma con voce troppo bassa per essere udita. Il re, ordinando con un gesto al servo di versare il vino, parlò nuovamente. «Cornovaglia» riuscirono a udire e, poco dopo, «Kent» e poi «può darsi che si dimostri che hai ragione.» Qui si fermò e si guardò attorno come se un rumore lo avesse disturbato. Un'improvvisa corrente d'aria, carica di temporale, aveva agitato la seta della sua tenda e le corde gemettero. Artù alzò le spalle come se volesse difendersi da una ventata fredda e guardò in tralice suo figlio con una stra-
na occhiata (fu il servo che, dopo, raccontò questa parte della storia) un'occhiata che si tradusse in un improvviso lampo di dubbio sulla faccia di Mordred come se, con il sorriso e le parole calme e l'offerta di vino, si volesse nascondere qualcosa. Poi, a sua volta, il reggente scrollò le spalle, sorrise e prese la coppa dalle mani di suo padre. Un movimento attraversò i ranghi in attesa, come una raffica di vento su un campo di grano. Il re alzò la coppa e il sole lampeggiò sull'oro. Un altro lampo che veniva dal gruppo accanto al suo padiglione, gli colpì gli occhi. Si girò di scatto, gridando. Ma era troppo tardi. Una vipera, un rettile maculato lungo non più di due spanne, era strisciata fuori dal suo nascondiglio per scaldarsi sul suolo caldo. Uno degli ufficiali di Artù, intento a osservare la scena al tavolo della tregua, indietreggiò calpestando senza vederla la coda dell'animale. Reagendo di scatto, la vipera lo morse. Girandosi per il dolore, l'uomo vide il rettile che si preparava a scattare ancora. Il suo riflesso, quello di un uomo addestrato a combattere, fu quasi altrettanto rapido. Estrasse la spada e l'abbatté sulla vipera, uccidendola. Il sole colpì il metallo. Il lampeggiare della spada, il braccio alzato del re, il suo improvviso movimento e il grido di comando giunsero alle schiere in attesa come il tanto atteso segnale. L'inazione, la tensione che aveva logorato i loro nervi ed era resa quasi insopportabile dal caldo temporalesco e dal sudore di quella lunga vigilia, scattarono improvvisamente in un selvaggio urlo da entrambe le parti del campo. Era la guerra. Questo era il giorno. Questo era il giorno malvagio del destino. Una dozzina di lampi risposero mentre gli ufficiali di entrambe le parti sguainavano le spade. Le trombe urlarono soffocando le grida dei cavalieri che, intrappolati tra i due eserciti, strapparono i cavalli ai palafrenieri e si voltarono per precipitarsi a trattenere le schiere che avanzavano. Non potevano essere uditi: i loro gesti, fraintesi come incitamenti all'attacco, furono sprecati. Fu una questione di secondi, secondi di furioso rumore e confusione, prima che le prime file dei due eserciti si incontrassero in un frastuono tonante. Il re e suo figlio furono spinti da parte, ognuno verso i suoi, Artù sotto il grande Drago, Mordred, non più reggente e figlio del re ma per sempre marchiato come traditore, sotto lo stendardo bianco sul quale, ormai, non sarebbe stato più scritto niente. E poi attraverso i campi, richiamati dalle trombe, come un mare di criniere sventolanti, vennero le
lance e il crine dei sassoni e le nere bandiere dei nordici che, come corvi, non vedevano l'ora di nutrirsi dei morti. *** Ben presto, ma troppo tardi per soffocare quei lampeggianti segnali, le nubi temporalesche si ammassarono attraverso il cielo caldo. L'aria si oscurò e in distanza venne il primo guizzo del lampo, l'araldo del temporale. *** Il re e suo figlio dovevano incontrarsi ancora. Verso la fine della giornata, con i suoi amici e i compagni di lunga data morti o morenti attorno a lui e le centinaia di cadaveri inutili sotto il cielo ora scuro e minaccioso, è dubbio che Artù potesse anche solo ricordare che Mordred era qualcosa di diverso da un traditore e un adultero. Il parlar chiaro, le verità esposte durante la conversazione al tavolo della tregua, la fede e la fiducia tanto riaffermate, tutto era svanito nel primo turbine dell'attacco. Era Artù, condottiero di battaglie, che ancora una volta scendeva in campo. Mordred era il nemico, gli alleati sassoni i suoi selvaggi soccorritori; questa battaglia era già stata combattuta, e molte volte. Era Glein e Agned, Caerleon e Linnuis, Cit Coit Caledon e Badon Hill. Alla fine della giornata, sovrastati dal tuono e con i lampi che fiammeggiavano bianchi dal cielo e dall'acqua del lago, Artù e Mordred si trovarono ancora una volta faccia a faccia. Non ci furono parole. Che parole potevano esserci? Per Mordred, come per suo padre, l'altro era ormai il nemico. Il passato era passato e non c'era altro futuro al di là del bisogno di raggiungere la fine di quel momento che avrebbe portato con sé la fine del giorno. Si disse dopo, nessuno sa da chi, che al momento dell'incontro i due uomini, ormai a piedi e bianchi di sudore e polvere del campo di battaglia, si riconobbero e Mordred frenò lo slancio e il colpo. Artù, il veterano, non lo fece. La sua lancia si infilò dritta e sicura sotto il costato di suo figlio. Il sangue sgorgò e colando lungo l'arma raggiunse come un caldo fiume la mano di Artù. Il re lasciò andare la lancia e portò la mano alla spada. Mordred si lanciò avanti come un cinghiale allo spiedo. L'estremità della lancia toccò terra. Lui vi si chinò sopra e, ancora portato in avanti dallo slancio del colpo frenato, si trovò a portata della spada di suo padre. La
mano di Artù, resa scivolosa dal sangue, annaspò per un attimo sull'elsa di Caliburn e in quel momento la spada di Mordred si abbatté, mentre lui cadeva morente, in un colpo mortale sul lato della testa del re. Mordred piombò nella pozza del suo sangue. Artù rimase per qualche istante immobile mentre la spada cadeva dalla sua mano insanguinata e l'altra mano si muoveva lentamente come se volesse scansare un colpo leggero e innocuo; poi, lentamente, il suo corpo si piegò e anche lui cadde e il suo sangue si mischiò a terra con quello di Mordred. Le nubi si ruppero e, simile a una cascata, cadde la pioggia. Epilogo Il freddo scroscio sulla faccia strappò per un attimo Mordred dalle tenebre. Tutto era tranquillo, i suoni soffocati e lontani simili a un'acqua distante che lambisce i sassi della riva. Un grido, lì vicino. «Il re! Il re! Un uccello cantò. Le galline scendevano alla ricerca del cibo. Un gabbiano gridò, parole questa volta: «Il re! Il re!» Poi, e questo gli diede la certezza che si trattava di un sogno, voci di donne. Non riusciva a vedere, non provava niente, ma vicino a lui c'era il fruscio di una gonna e una zaffata di profumo femminile. Le voci gli passavano sopra ma nessuna lo toccava. Una voce di donna disse: «Sollevatelo adagio. Qui. Sì, sì signore, state tranquillo. Andrà tutto bene.» E la voce del re, troppo debole da udire, seguita - davvero? - da quella di Bedwyr. «È qui. L'ho messa al sicuro. La Signora la terrà per voi fino a quando ne avrete ancora bisogno.» Ancora le voci di donna e la prima voce, forte: «Lo porterò a Applegarth dove provvederemo a curare le sue ferite.» Poi la pioggia, e lo scricchiolio degli scalmi e il rumore del pianto delle donne che svaniva nel fruscio dell'acqua del lago e nello scrosciare della pioggia. La sua guancia era posata su un cuscino di timo. La pioggia aveva lavato via il sangue e il timo profumava di estate. Le onde sciabordavano. I remi scricchiolavano. Gli uccelli marini gridavano. Una focena passò via, lucida nel sole. Lontano, all'orizzonte vedeva la linea dorata del regno dove, fin da quando era bambino, aveva sempre
desiderato di andare. Mary Stewart Edinburgo-Lochavje 1980-1983 La leggenda Mi sono servita di frammenti di due fonti; la «storia» scritta da Geoffrey di Monmouth nel dodicesimo secolo e la romanza da Le Morte d'Arthur di Malory, scritta nel quindicesimo. La Storia dei re di Britannia di Geoffrey di Monmouth. Al tempo dell'imperatore Leone, Lucio Iberico mandò un messaggio a re Artù chiedendogli di pagare tributi a Roma e ordinandogli altrimenti di comparire davanti al Senato per rispondere del fatto di non avere ubbidito. Un rifiuto significava che i romani avrebbero attaccato la Britannia. La risposta di Artù fu di riunire un esercito e salpare per la Bretagna dove, con suo cugino re Hoel, mandò a chiedere ai suoi alleati di unirsi a lui. Nel frattempo inviò ambasciatori a Lucio Iberico informandolo che non avrebbe pagato i tributi ma avrebbe invece combattuto. «Su questo gli ambasciatori partono, il re parte, i baroni partono né impiegano molto ad eseguire ciò che hanno avuto ordine di fare.» Nel frattempo, brutte notizie vengono portate ad Artù e Hoel. La nipote di Hoel, la principessa Helena, è stata rapita da un mostruoso gigante che è scappato con lei in cima al Mont St. Michel. Artù stesso, con Kay e Bedivere, partì per trattare con il mostro. Videro un fuoco di legna ardere sul monte e un altro su un'isola più piccola nei paraggi. Bedivere, mandato a spiare la situazione, trovò una piccola barca e remò fino all'isola dove, mentre sbarcava, udì l'ululato di una donna che si lamentava e trovò, accanto al fuoco, una vecchia che piangeva vicino a un tumulo recente. Il gigante aveva ucciso la principessa ed era tornato al suo nascondiglio del Mont St. Michel. Bedivere riferì ad Artù che inseguì il mostro fino in cima alla sua montagna e lo uccise in singolar tenzone. Re Artù riunì allora il suo esercito e marciò con i suoi alleati fino a Autun in Burgundia per incontrare l'esercito romano. Inviò prima un'ambasciata a Lucio Iberico per chiedergli di ritirarsi: altrimenti lui, Artù, avrebbe dato battaglia come aveva giurato. Gawain era con l'ambasciata e i ca-
valieri più giovani, ansiosi di combattere, spinsero Gawain a incominciare una lite. Cosa che fece e, dopo alcune parole accese, uccise un certo Gaio Quintiliano, nipote dello stesso Iberico. Così la battaglia ebbe inizio. Bedivere e Kay furono uccisi ma Artù fu vittorioso e si spinse ad est con l'intenzione di raggiungere Roma e diventare imperatore. Ma a questo punto sentì che suo nipote Mordred a cui aveva affidato il suo regno finché era assente aveva posto sul suo capo la corona e preso in moglie la regina Ginevra, malgrado il suo precedente matrimonio. Mordred aveva anche mandato Cheldric, duca dei Sassoni, in Germania per arruolare altri suoi compatrioti e portarli in Britannia per rafforzare l'esercito di Mordred. Per questo, avrebbe concesso più terre ai sassoni. Mordred aveva anche riunito gli Scoti, i Pitti e gli Irlandesi e si disponeva a resistere al ritorno di Artù in Britannia. Artù si affrettò a ritornare, sbarcò a Richborouth e lì sconfisse le truppe di Mordred ma, nel combattimento, Gawain fu ucciso. Mordred fuggì ma si installò nuovamente a Winchester dove aveva alloggiato la regina. Per la paura, lei fuggì in un convento presso Caerleon e lì prese il velo. Artù e Mordred combatterono nuovamente presso Winchester e ancora Mordred fu sconfitto e fuggì verso la Cornovaglia dove, nella battaglia finale sul fiume Carnei, sia lui che Artù caddero. Artù, che fu portato all'isola di Avilion per sanare le sue ferite, lasciò il regno a Costantino di Cornovaglia. Uno dei primi atti di Costantino fu di cercare entrambi i figli di Mordred e ucciderli «di morte crudele» sull'altare del santuario. Le Morte d'Arthur di Sir Thomas Malory. 1) Quando Artù seppe della nascita di Mordred, fece ricercare tutti i bambini nati nello stesso mese, nella speranza di trovare Mordred e distruggerlo. La nave su cui i bambini furono messi affondò ma Mordred fu raccolto da un buon uomo che lo allevò finché ebbe quattordici anni, poi lo portò a corte. 2) Quando i figli della regina Morgause seppero che la loro madre aveva preso per amante Sir Lamorak, Gawain e i suoi fratelli andarono alla sua ricerca in un castello presso Camelot con l'intenzione di catturare e uccidere Lamorak. Una notte, mentre Lamorak era con la regina, Gaheris colse l'occasione e, introdottosi completamente armato accanto al loro letto, afferrò la madre per i capelli e le staccò la testa. Dato che Lamorak era disarmato, Gaheris non poté ucciderlo. Lamorak non aveva altra scelta che
fuggire ma alla fine i fratelli Orcadi, con Mordred, lo rintracciarono e lo uccisero. 3) Qualche tempo dopo, Sir Tristram, sfidato da Agravain e Gaheris, rifiutò di combattere con loro avendoli riconosciuti dalla loro insegna come nipoti di Artù. «È una vergogna» disse, «che Sir Gawain e voi siate venuti da un così grande sangue e voi quattro fratelli portiate il nome che portate, perché sarete chiamati i più grandi distruttori e assassini di buoni cavalieri che circolino oggi in questo reame.» I fratelli gridarono insulti al cavaliere di Cornovaglia ma lui si voltò per allontanarsi sul suo cavallo. Agravain e Gaheris lo attaccarono immediatamente alle spalle. Tristram, costretto a combattere, colpì Agravain alla testa causandogli una grave ferita e disarcionò Gaheris. Gareth, parlando in seguito con Tristram, si dichiarò in contrasto con i suoi fratelli: «Non mi immischio nei loro affari e per questo nessuno di loro mi ama. Ed io comprendo che sono assassini di buoni cavalieri e per questo lascio la loro compagnia.» 4) Agravain e Mordred odiavano la regina Ginevra e Lancillotto. Agravain insistette perché si informasse il re di quello che lui giurava essere il loro adulterio (cosa che Lancillotto negò sotto giuramento). Agravain andò da Artù per dirgli che Lancillotto e la regina lo tradivano e dovevano essere processati come esigeva la legge. Si offrì di portare prove ad Artù. Il re, che avrebbe voluto solo ignorare l'accusa e amava sia la regina che Lancillotto, fu costretto ad agire. Accettò di andare a caccia dicendo a Ginevra che sarebbe stato via tutta la notte. Agravain e Mordred riunirono altri dodici cavalieri - tutti, pare, loro conterranei delle Orcadi - e si nascosero presso la camera da letto della regina ad attendere gli eventi. Quando Lancillotto disse a Sir Bors di essere stato convocato quella notte per parlare con la regina, Sir Bors, imbarazzato ma all'oscuro di quello che si stava preparando, cercò di fermarlo. Lancillotto rifiutò di ascoltarlo e andò a trovare la regina. A un momento dato i dodici cavalieri si precipitarono alla porta di Ginevra gridando: «Adesso siete presi!» e sfondarono la porta con una panca. Lancillotto, che era disarmato, si avvolse il mantello attorno al braccio, lasciò entrare il primo uomo e lo uccise. Le dame della regina lo aiutarono a indossare l'armatura del morto. Nella successiva mischia, Agravain venne ucciso e Gareth pure e Mordred fu ferito ma riuscì a scappare. Andò dritto dal re e gli disse dell'agguato e Artù si addolorò amaramente perché presagiva la fine della consorteria della Tavola Rotonda ed anche perché, per legge, doveva ora sottoporre Ginevra alla prova del fuoco.
Segue poi l'inevitabile salvataggio all'ultimo istante di Ginevra ad opera di Lancillotto e la fuga degli amanti al castello di Lancillotto, Joyous Gard. Artù lo inseguì e lo sconfisse in battaglia dopo di che Lancillotto restituì cerimoniosamente la regina a suo marito e fuggì oltremare. Lancillotto, «che governò tutta la Francia», andò al suo castello in Borgogna e riunì un altro esercito con cui affrontare re Artù. Artù, lasciato Mordred come reggente o «governante di tutta l'Inghilterra», andò con Gawain e una grande schiera al seguito ad attaccare Lancillotto in Borgogna. Avvenne una grande battaglia con terribili perdite da entrambe le parti. Ma poi venne riferito ad Artù che Mordred aveva falsificato delle lettere come se venissero da oltremare con la notizia che lui, Artù, era morto. Mordred aveva convocato un parlamento che l'aveva proclamato re e aveva poi dichiarato la sua intenzione di prendere Ginevra come sua regina. Ma lei, che non lo voleva, fuggì alla Torre di Londra e gli tenne testa. Mentre Mordred la implorava, sentì dire che re Artù stava ritornando al comando di un esercito e reclamava il suo regno. Mordred mandò allora messi in tutto il regno per cercare aiuto e lo ottenne in buona misura perché «era allora voce comune che con Artù non c'era altra vita che guerra e contese e con Sir Mordred c'era grande gioia e benessere... E così la gente di quel tempo pensava di essere più contenta con Sir Mordred di quanto lo fosse con re Artù.» Così Mordred guidò una grande schiera a Dover per fronteggiare suo padre appena sbarcava. Ne seguì una terribile battaglia. Gawain fu trovato morente in una barca semi-arenata e con il suo ultimo respiro consigliò ad Artù di perdonare Lancillotto e invitarlo a tornare per schiacciare Mordred. Poi Gawain morì e Artù inseguì Mordred e le sue schiere fuggiasche e diede battaglia ancora una volta sulle colline e ancora Mordred fu messo in fuga. Alla fine, le due schiere si fermarono «ad occidente verso Salisbury e non lontano dalla riva del mare». Nelle schiere di Mordred c'erano gli uomini «di Kent, Southsex, e Surrey, Estsex e di Southfolk e Northfolk». Ma, durante la notte, Artù fece brutti sogni e in essi venne Gawain che lo ammonì che se avesse combattuto all'indomani sarebbe stato ucciso. Ancora una volta Gawain gli consigliò di richiamare Lancillotto e di trattenere Mordred con promesse per rimandare la battaglia finché non fosse giunto aiuto e Mordred potesse essere distrutto. Così al mattino il re mandò messaggeri a Mordred promettendogli «terre e beni come crederete meglio... e alla fine Sir Mordred accettò di ricevere la Cornovaglia e il Kent nei giorni di Artù e, dopo i giorni di re Artù, tutta
l'Inghilterra.» Poi venne organizzato un incontro tra Mordred e il re. Ciascuno portò con sé quattordici cavalieri e si incontrarono in un luogo tra i due eserciti. I due capi avevano avvisato i loro eserciti che se l'abboccamento fosse fallito, il segnale dell'attacco sarebbe stato lo sguainare di una spada. «E così si incontrarono come previsto e si trovarono d'accordo in tutto, e venne portato il vino e bevvero.» Ma una vipera strisciò fuori da un piccolo cespuglio di erica e addentò al piede un cavaliere. L'uomo estrasse la spada per uccidere la vipera e a quel gesto le due schiere in attesa si attaccarono. Verso la fine di quel giorno di carneficina Artù trovò Mordred che, solo, sopravviveva alla sua schiera. Dell'esercito di Artù sopravvivevano solo Sir Lucan, Sir Bedivere e il re. Sir Lucan cercò di dissuadere Artù dal cercare Mordred perché «abbiamo vinto in campo; qui siamo vivi in tre e con Sir Mordred nessuno è rimasto vivo, e se ora partite di qui il giorno fatale del destino sarà passato.» Ma Artù, senza ascoltarli, attaccò e uccise Mordred e nel farlo ricevette lui pure la sua ferita mortale. Sir Bedivere lo portò alla riva del mare dove una barca lo aspettava; in essa stavano tre regine - sua sorella la regina Morgana, la regina di Northgalis e la regina delle Waste Lands, con Nimuë, la prima Signora del Lago. La barca alzò le vele diretta ad Avilion dove il re poteva essere curato delle sue gravi ferite. Nota dell'autore «Il giorno fatale del destino», come lo chiama Malory, è il giorno in cui la battaglia finale di Artù venne combattuta a Camlann. In quella battaglia, ci dicono, «caddero Artù e Medraut» Questo riferimento, tratto dagli Annales Cambriae che furono compilati tre o forse quattro secoli dopo Camlann, sono tutto quello che sappiamo su Mordred. Quando riappare qualche secolo dopo nei romanzi di Malory e dei poeti francesi, ha assunto il ruolo del malvagio necessario alle convenzioni del romanzo. Mordred il traditore, spergiuro e adultero è un'invenzione quanto lo è l'amante e gran cavaliere Lancillotto e i ruoli recitati da entrambi nelle leggende di «Re Artù e i suoi Nobili Cavalieri» sono piene delle inevitabili assurdità di una lunga serie di leggende. Nei frammenti di queste storie che sono stati usati per il mio libro, le assurdità parlano da sole. Nel crollo finale Artù, quel saggio ed esperto condottiero, non mostra né buon senso né moderazione; peggio, si macchia
dello stesso tradimento per cui condanna suo figlio. Se Artù avesse avuto qualche motivo per diffidare di Mordred (per esempio l'assassinio di Lamorak e lo smascheramento di Lancillotto e della regina), difficilmente avrebbe lasciato proprio lui come «capo dell'Inghilterra» e custode della regina mentre se ne andava in una spedizione dalla quale poteva anche non fare mai ritorno. Anche ammesso che avesse nominato Mordred reggente, è difficile capire perché Mordred, con la legittima speranza di diventare l'erede di suo padre, avrebbe dovuto falsificare una lettera intesa a comunicare che Artù era morto e, basandosi su quella, impadronirsi del regno e della regina. Sapendo che Artù era ancora vivo e con un grande esercito alle spalle, Mordred poteva essere sicuro che il re sarebbe tornato diritto a casa per punire suo figlio e riprendersi regno e regina. E ancora, la battaglia finale tra il re e il «traditore» fu provocata da un casuale incidente proprio nel momento in cui il re si disponeva a concludere una tregua con il malvagio Mordred, assicurandogli delle terre da governare. (È un'altra, sebbene minore, assurdità è che quelle terre fossero la Cornovaglia e il Kent, da parti opposte del paese, una già tenuta dai Sassoni e l'altra da Costantino.) Non si ha dunque alcuna prova per nessuna «storia di Mordred». È da notare che gli Annales Cambriae non sostengono nemmeno che lui e Artù combattessero da parti opposte. Sarebbe stato possibile - ed anche allettante - riscrivere completamente la storia e collocare Artù, con Mordred al suo fianco, contro i Sassoni che (come è detto nella Cronaca Anglo-Sassone) combatterono una battaglia contro i britannici nel 527 d.C. e presumibilmente la vinsero dal momento che la Cronaca non parla di disfatte sassoni. La battaglia, alla giusta data, potrebbe anche essere stata la battaglia di Camlann, l'ultima resistenza dei britannici contro i sassoni. Ma era una tentazione a cui bisognava resistere. Fino al momento in cui incominciai a studiare in dettaglio i frammenti che costituivano la storia di Mordred, lo avevo accettato senza discussione come il «cattivo», il malvagio che provoca la tragedia della caduta finale di Artù. Quindi, nei miei precedenti libri, avevo fatto prevedere a Merlino quel funesto destino. Quindi, non potevo riscrivere la battaglia di Camlann. Ho cercato invece di ripulire dalle assurdità la vecchia storia aggiungendo qualche pennellata di riabilitazione al ritratto del malvagio. Non ho fatto di Mordred un «eroe» ma, nella mia storia, è almeno un uomo coerente con le sue colpe e le sue virtù ed ha almeno qualche ragione a sostegno delle azioni che la leggenda gli ha attribuito.
Forse la cosa più eccitante nella storia degli ultimi anni del regno di Artù è il modo in cui gli eventi storici reali sono stati adattati alla leggenda. Artù è quasi sicuramente esistito e così forse Mordred ma dal momento che il traditore del romanzo era un prodotto dell'immaginazione del narratore, voglio anch'io proporre il Mordred della mia storia come altrettanto valido dal momento che anch'io, forse, mi sono guadagnata un mio posto tra quelli di cui Gibbon scrive con tanto disprezzo in Decadenza e caduta dell'impero romano: «Le declamazioni di Gildas, i frammenti e le favole di Nennio, gli oscuri accenni delle leggi e cronache sassoni e le storie ecclesiastiche del venerabile Bede sono state illustrate dalla diligenza, e a volte abbellite dalla fantasia, di una serie di scrittori le cui opere non ambisco né a censurare né a trascrivere.» Altre brevi note Camlann: il luogo dell'ultima battaglia di Artù non si può identificare con certezza. Alcuni studiosi hanno suggerito Birdoswald nella Northumbria (la Camboglanna romana), altri la romana Camulodunum (Colchester). Il luogo più comunemente accettato è in Cornovaglia, sul fiume Carnei e questo per i forti legami di Artù con la leggenda del Paese Occidentale. Io ho collocato la battaglia oltre il fiume Carnei, vicino a South Cadbury nel Somerset. In seguito ai recenti scavi compiuti, la collina di South Cadbury sembra avere buone probabilità di essere stata una roccaforte di Artù, forse «Camelot» stessa. Pertanto, non si vedeva il bisogno di cercare ulteriormente il luogo della battaglia finale. Non so quando il locale fiume sia stato chiamato Carnei ma la lunga catena nei paraggi era nota nell'antichità come Collina di Carnei. Inoltre, a quell'epoca, doveva anche esserci un lago e delle paludi che si estendevano all'interno dall'estuario del fiume Brue fin quasi a South Cadbury. Le colline della moderna Glastonbury dovevano allora essere isole Ynys Witrin o Isola di Vetro - e Caer Carnei stessa «non lontana dal mare». L'imbarcazione che portò Artù ferito a farsi curare ad Avilion doveva probabilmente percorrere solo un breve tragitto per raggiungere il leggendario luogo di cura. La data di Camlann: gli studiosi collocano la data della battaglia tra il 515 e il 539 d.C: è un intervallo ampio ma sembrerebbe ragionevole collocarla tra il 522 e il 527. Una data proposta per Badon Hill è il 506 e sap-
piamo, dagli Annales Cambriae, che Camlann ebbe luogo ventun'anni dopo. Segue un elenco di date «reali» (per distinguerle da quelle ipotetiche). 524 Clodomiro, figlio di Clodoveo e sovrano della parte centrale del Regno franco, viene ucciso a Vézeronce in battaglia con i Burgundi. Due suoi figli, di dieci e sette anni, vengono affidati alla vedova di Clodoveo, Clotilde, a Parigi, ma poi assassinati dai loro zii. Il terzo figlio scampa in un monastero. 526 Teodorico, re di Roma e imperatore d'Occidente, muore a Ravenna. 527 Giustino, anziano Imperatore d'Oriente, abdica in favore di suo nipote Giustiniano. 527 Secondo le Cronache Anglo-Sassoni, in quest'anno Cerdic e Cynric combattono contro i britanni in una località che viene chiamata CerdicesLeaga (Campo o bosco di Cerdic). Neustria: era questo il nome dato alla parte occidentale dell'Impero Franco dopo la sua divisione alla morte di Clodoveo nel 511. Drustan: Drust o Drystan, figlio di Talorc, è un guerriero dell'ottavo secolo che fu in seguito assorbito nella leggenda arturiana come Tristano. Linei: in una versione della leggenda di Gareth, egli sposa Liones, in un'altra sua sorella Linet. Figli di Artù: abbiamo i nomi di due, Amr e Llacheu. Convento: la parola non implicava sempre un edificio religioso per donne sole. Era usato in modo intercambiabile con monastero. Molte di queste fondazioni ospitavano comunità sia per uomini che per donne. La canzone dell'arpista: è una libera traduzione di un poema anglosassone, Il vagabondo, che nell'Ultimo incantesimo ho attribuito a Merlino. Seal Island: Selsey. Suthrige: Surrey.
FINE