*** File Asci ad uso esclusivo per non vedenti. WILBUR SMITH IL POTERE DELLA SPADA
Leggere prima La spiaggia infuocata ...
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*** File Asci ad uso esclusivo per non vedenti. WILBUR SMITH IL POTERE DELLA SPADA
Leggere prima La spiaggia infuocata dello stesso Autore.
La sete di vendetta e la lotta per il potere costituiscono il filo conduttore di una vicenda che ha per protagonisti due uomini destinati ad essere acerrimi nemici, fin dalla più tenera infanzia. Figli della stessa donna, l'affascinante Centaine de Thiry, ma di padri diversi, Shasa Courtney e Manfred De La Rey sono uno l'opposto dell'altro. Shasa, nato dal matrimonio di Centaine con Michael Courtney, valoroso ufficiale francese caduto nella Grande Guerra, ha ereditato dal padre la nobiltà d'animo e l'indole generosa. Cresciuto nel benessere grazie alle proprietà diamantifere abilmente conquistate dalla madre, Shasa sogna un futuro di democrazia e prosperità per il Sud Africa. Al contrario Manfred, frutto di una drammatica relazione tra Centaine e Lothar De La Rey, fuorilegge tedesco incontrato dalla donna nelle selvagge distese del Kalahari, non conosce che odio e desiderio di sopraffazione. Neppure la fine della guerra sembra porre termine alle ostilità tra i due che, su opposti fronti politici, combatteranno un'ultima, accesa battaglia per assicurarsi una nomina nel nuovo parlamento sudafricano: quel "potere della spada" in versione moderna che Manfred, incapace di sentimenti umanitari, vorrebbe usare per sostenere la violenza, Shasa invece, innamorato della vita e della bella Tara, per assicurare ai più deboli un domani migliore... WILBUR SMITH
E' nato nello Zambia nel 1933 e ha compiuto gli studi in Sud Africa alla Rhodes University. Per accontentare il padre si diede agli affari acquistando una fattoria, ma gli articoli scritti sui giornali universitari avevano acceso la sua immaginazione. Cominciò con brevi racconti, sotto lo pseudomino di Lawrence perchè Smith gli sembrava poco romantico. Poi fu la volta dei romanzi. Entusiasta cacciatore, giocatore di golf, pescatore e alpinista, Smith ha una rara capacità di concentrazione che gli permette di lavorare, spesso, a più libri contemporaneamente. Ma quel è la formula del suo successo? Smith ammette che i suoi personaggi vigorosi uomini d'azione - sono un misto di se stesso e di ciò che vorrebbe essere. Più precisamente, possiamo dire, di ciò che ogni uomo vorrebbe essere e ogni donna vorrebbe amare. Definito il più grande scrittore d'avventure di oggi, Smith vive con la terza moglie Danielle, impiegando il tempo libero a studiare il comportamento di animali e uccelli. Tra i successi di Smith ricordiamo: Come il mare, Il destino del leone, L'orma del califfo, La voce del tuono, Gli eredi dell'Eden, Dove finisce l'arcobaleno, La notte del leopardo, Un'aquila nel cielo, La spiaggia infuocata. Quando vola il falco. Wilbur Smith Il potere della spada Titolo originale: Power of the Sword Traduzione di: Carlo Brera IL POTERE DELLA SPADA A Danielle con tutto il mio affetto « Se, col sopruso, avessi fatto si che tutte le Leggi cambiassero a volontà del Potere della Spada, oggi non sarei qui. »
RE CARLO I D'INGHILTERRA Discorso sul patibolo, 30 gennaio 1649 La nebbia gravava sull'oceano, smorzando suoni e colori, ma i primi refoli della brezza mattutina già ne increspavano il grigiore in un lieve turbinio ondeggiante: ben presto sarebbe sparita verso l'entroterra. Il peschereccio era a tre miglia dalla costa e si manteneva ai bordi della corrente, in quella zona di confine in cui le acque luminose dei bassi fondali si mescolano a quelle piú scure e ricche di plancton vitale che sorgono dagli abissi, disegnando una linea netta di verde intenso. Lothar De La Rey era in cabina di pilotaggio, curvo sulla ruota del timone, e scrutava innanzi a se. Sentiva nel sangue un formicolio elettrico: era l'eccitazione della caccia che già tante volte aveva sperimentato e che sempre l'aveva sorretto, come una droga piú potente dell'oppio e dell'alcool. Gli tornavano in mente altre albe. Ricordò quando, appoggiato al bordo della trincea, aspettava che al reparto di fanteria scozzese venisse dato l'ordine di balzare all'assalto, nastri e kilt al vento, verso i loro Mauser puntati. Rabbrividì. Da allora c'erano state centinaia di albe d'attesa, per lo piú di caccia grossa. Il leone del Kalahari, il bufalo dal pelo ispido e le corna d'acciaio, il sagace e grinzoso elefante dalle preziose zanne d'avorio. Stavolta le prede erano di piccole dimensioni, ma in numero tale da non sfigurare in confronto alla vastità del mare. Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal ragazzo che s'avvicinava caracollando lungo il ponte a piedi nudi, le gambe lunghe e forti color bronzo. Era grande e grosso come un adulto, e per entrare in timoneria dovette curvarsi facendo bene attenzione a non rovesciare il caffè dalle tazze che portava, una per mano. « Zucchero? » chiese Lothar. « Quattro cucchiaini, papà », rispose lui sorridendo. La nebbia gli s'era condensata in grossi goccioloni sulle ciglia, inducendolo a sbatter gli occhi come un gatto addormentato. I suoi capelli biondi erano striati di ciocche platinate dal sole; le sopracciglia erano scure e folte e incorniciavano occhi color ambra che per contrasto parevano ancor piú chiari. « Pesce fresco, oggi », disse Lothar, e incrociò le dita in tasca per scongiurare la cattiva sorte che quella aperta affermazione avrebbe potuto scatenare. « Ne abbiamo bisogno », pensò. « Per sopravvivere abbiamo bisogno di molto pesce. » Cinque anni prima, ancora una volta, aveva seguito il richiamo dei corni di caccia: aveva venduto l'impresa di trasporti stradali e ferroviari che con tanti sforzi era riuscito a fondare e far prosperare, s'era indebitato a piú non posso e aveva investito il capitale nella nuova attività. Conosceva gli infiniti tesori che le gelide acque verdi della corrente del Benguela nascondevano. Li aveva già intravisti nei caotici giorni che precedettero la fine della Grande Guerra, quando per l'ultima volta aveva impugnato le armi contro gli odiati inglesi e il loro ignobile fantoccio Jan Smuts, allora a capo dell'esercito dell'Unione
Sudafricana. Da una base segreta nascosta fra le alte dune del deserto che fiancheggia l'Atlantico Meridionale, Lothar riforniva di carburante e di munizioni i sottomarini tedeschi incaricati di non dar tregua ai convogli di mercantili inglesi. Nelle lunghe attese fra un'operazione e l'altra, in quell'angolo sperduto del continente africano, aveva visto l'oceano gonfiarsi e ribollire. Era un tesoro che aspettava solo qualcuno che allungasse le mani, e da allora - faticando al sole e alla polvere, scavando passi e gallerie sulle montagne o tracciando strade nelle pianure infuocate - aveva continuato a pensarci, risparmiando soldi e facendo piani che gli permettessero di appropriarsene. Le imbarcazioni le aveva rimediate in Portogallo: erano attrezzate per la pesca delle sardine, ma arrugginite e male in arnese. Lí aveva trovato anche Da Silva, vecchio navigatore esperto d'ogni via di mare. Insieme a lui aveva rimesso in sesto la flotta, e a capo di un equipaggio ridotto all'osso era partito costeggiando alla volta dell'estremità meridionale dell'Africa. L'industria per conservare e inscatolare l'aveva adocchiata in California, a fianco d'un passaggio di tonni di cui una ditta aveva sovrastimato l'abbondanza, sottovalutando al tempo stesso i costi di pesca di questi imprevedibili « polli di mare ». Lothar aveva acquistato la fabbrica per una risibile percentuale di quel che era costata e l'aveva trasferita via mare, a pezzo a pezzo, fino al Sudafrica. Qui l'aveva rimontata fra le dune a fianco d'una stazione baleniera in disarmo a cui quella baia desolata doveva il nome di Walvis Bay. Nelle prime tre stagioni, lui e Da Silva avevano pescato a piene mani, decimando i banchi infiniti fino a estinguere il debito iniziale. Lothar aveva subito ordinato nuove imbarcazioni per sostituire i pescherecci portoghesi, ormai giunti alla fine del viaggio, e s'era ritrovato ancor piú indebitato di prima. Poi il pesce era sparito. Senza nessuna ragione apparente, gli sterminati banchi di sardelle s'erano dissolti. Restavano solo qua e là piccoli sciami sparuti. Cosí s'erano buttati in una ricerca disperata, addentrandosi in mare oltre cento miglia o risalendo la costa, ben al di là della massima distanza economicamente conveniente alla fabbrica. I mesi passavano come sempre uno dopo l'altro, e ognuno aggiungeva una riga alla somma degli interessi da pagare, mentre i costi fissi, la gestione della fabbrica e dei pescherecci, si accumulavano. Alla fine Lothar s'era trovato a dover implorare moratorie e nuovi prestiti. Due anni interi senza pesce. Poi, all'improvviso, quando già Lothar s'era dato per vinto, c'era stata qualche lieve deviazione nel flusso delle correnti oceaniche, qualche inavvertibile mutamento dei venti, e il pesce era tornato. Buon pesce fresco che ogni mattina si ripresentava come l'erba che ricresce. « Fa, che duri », pregò Lothar guardando nella nebbia.« Fa, che duri altri tre mesi. » Gli sarebbero bastati per pagare tutti i debiti e tornar libero. « Si alza », disse il ragazzo, e Lothar sbatté gli occhi e abbandonò i suoi pensieri. La foschia si stava squarciando come il sipario d'un teatro, e la
scena che rivelava ben si sarebbe adattata a un melodramma. Era troppo vivamente colorata per essere davvero naturale; l'alba fumava e risplendeva come uno spettacolo pirotecnico: arancione, oro e verde scintillavano sull'oceano, mentre le colonne ascendenti di nebbia prendevano il colore del sangue e delle rose, e l'acqua brillava di fuochi ultraterreni. Il silenzio incorniciava quella magica visione, un silenzio pesante e spesso come un cristallo, un silenzio che dava agli uomini l'idea d'esser sordi, i sensi rapiti da quello scenario meraviglioso. Poi il sole s'aprì una via attraverso la cortina di nebbia: un raggio brillante di luce quasi solida che danzava sulla superficie incendiando la corrente. L'acqua accanto alla costa si tinse del colore grigio-blu delle nuvole, e la linea di demarcazione tracciata dalle correnti abissali era netta come la lama d'un coltello. Verso il largo, l'oceano sembrava una pezza di velluto verde. « Daar spring hy! » gridò Da Silva dal ponte, indicando l'acqua scura: « Ecco che salta! » Un solo pesce, poco piú lungo della mano d'un uomo, guizzò fuori dell'acqua, un raggio d'argento brunito dalla luce solare. « Si comincia! » gridò Lothar eccitato. Il ragazzo curvò il capo spargendo gocce di caffè tutt'attorno, e si precipitò giú dalla scaletta che portava in sala macchine. Lothar allora azionò gli interruttori e spinse avanti la manetta, giusto mentre il ragazzo sì curvava sulla manovella. « Dai! » gridò il comandante, ed egli si inarco a contrastare la compressione dei quattro cilindri. Non aveva ancora tredici anni, ma era forte quasi quanto un uomo adulto. Nello sforzo, i muscoli del dorso si gonfiavano ritmicamente. « Adesso! » disse Lothar, e chiuse le valvole. Il motore, ancora caldo per il viaggio dal porto, si accese ruggendo e tossendo. Uno sbuffo di fumo oleoso scaturì dallo scappamento, poi il regime si regolarizzò. Il ragazzo corse in coperta e si avvicinò a Da Silva. Lothar fece rotta lungo il bordo della corrente. La nebbia svanì, e gli altri pescherecci apparvero alla vista. Anch'essi erano rimasti immobili ad attendere i primi raggi del sole, e ora solcavano con le prue la placida superficie. I marinai vociavano sul ponte e il suono di eccitate esclamazioni si confondeva col ritmico battito dei motori. Dai vetri della timoneria Lothar diede un'occhiata al ponte, lungo quindici metri, e controllò i preparativi. La lunga rete era già appesa alla murata, sull'esterno. La cima con i galleggianti era meticolosamente avvolta a spirale. Il peso complessivo della rete, a secco, era di sette tonnellate. Bagnata pesava molto di piú: era lunga centocinquanta metri, e in profondità ne pescava ventuno. Un sipario teatrale trasparente, appeso alla cima di galleggianti in sughero. Lothar l'aveva pagata piú di cinquemila sterline: quanto un normale pescatore può guadagnare in vent'anni di lavoro quotidiano. Le altre tre imbarcazioni erano equipaggiate con una rete simile, e ognuna rimorchiava, assicurata a una robusta cima, una lancia in legno a fasciame sovrapposto. Dopo un'attenta ispezione, Lothar si rese conto con soddisfazio-
ne che tutto era pronto per il lancio e tornò a guardare la superficie dell'oceano. Un altro pesce saltò, tagliando l'acqua in una scia scura. Come a un segnale convenuto, istantaneamente l'oceano si animò. Le onde scurirono come se una grossa nuvola avesse offuscato il sole. Ma la nuvola veniva dal basso, dalle profondità abissali. Le acque ribollivano come se stesse emergendo un mostro. « Pesce fresco! » grido Da Silva, volgendosi a guardare Lothar da sopra la propria spalla. Il suo volto era abbronzato e rugoso. Con un ampio gesto del braccio il vecchio indicò il tratto di mare ribollente, e parve che abbracciasse l'orizzonte. Lo sciame era lungo almeno un miglio marino, e cosí largo che l'estremità opposta si perdeva nei banchi di nebbia. In tanti anni di caccia, Lothar non aveva mai visto un simile ammasso di esseri viventi, una simile moltitudine di esemplari d'una sola specie. Al confronto, perfino le locuste che potevano oscurare il sole del pomeriggio africano, o i quelea, i minuscoli uccelli che si ammassavano sugli alberi in numero tale da spezzarne i rami, erano insignificanti famigliole. Anche i marinai degli altri pescherecci tacquero stupiti e spaventati, quando il banco raggiunse la superficie e l'acqua spumeggio bianca come un nevaio; innumerevoli milioni di corpi piccoli e slanciati apparvero a riflettere i raggi del sole, spinti fuor dell'acqua dalla pressione dei propri simili. Da Silva fu il primo a tornare padrone di sé. Si voltò e corse lungo il ponte, agile come un ragazzo. Si arrestò appena giunto all'altezza della timoneria. « Maria, madre di Dio! Speriamo di avere ancora una rete, quando questa giornata sarà finita! » Era una preoccupazione ben fondata, un avvertimento di cui tenere conto. Ma subito Da Silva corse a poppa e si calò nella lancia, mentre anche tutti gli altri scattavano ai propri posti. « Manfred! » chiamo Lothar. Il ragazzo, rimasto fino a quel momento immobile sul ponte, ipnotizzato da quello spettacolo grandioso, si riscosse e corse verso la cabina di pilotaggio. « Tieni il timone », gli disse Lothar. Era una responsabilità enorme, per uno cosí giovane. Manfred aveva però già dato prova di esserne all'altezza, quindi Lothar non si sentiva per nulla inquieto. Si sistemò a prua e si mise a segnalare la direzione da prendere senza nemmeno voltarsi. Quando ordinò di aggirare il banco, subito Manfred azionò il timone, e Lothar sentí il ponte inclinarsi sotto ai suoi piedi. « Quanto pesce », sussurrò il comandante, valutando le correnti, il vento e la distanza del banco. L'avvertimento di Da Silva riecheggiava fra i suoi pensieri. Il peschereccio e la rete potevano reggere 150 tonnellate di pesce, con abilità e fortuna forse 200. Di fronte a lui c'era uno sciame di milioni di tonnellate di sardelle. Un lancio avventato poteva imbrigliarne dieci o ventimila tonnellate. In questo caso, il loro peso e la loro forza avrebbero certamente lacerato le maglie, o forse addirittura potevano strappare la cima dei galleggianti trascinando tutto nelle profondità dell'oceano. Peggio ancora, se la cima teneva, potevano addirittura rovesciare il peschereccio. E Lothar non avrebbe perso solo una rete, ma anche la vita sua e di tutti i membri dell'equipaggio. E di suo figlio Manfred.
Senza accorgersene nemmeno, lanciò un'occhiata verso la timoneria. Manfred gli sorrise, raggiante per l'eccitazione. I suoi occhi ambrati scintillavano, i denti bianchissimi brillavano al sole. Era l'immagine di sua madre. Lothar sentí una fitta amara e tornò a concentrarsi sul lavoro. Per poco, quegli attimi di disattenzione non gli costarono cari. Il peschereccio stava quasi irrompendo nel banco, e se questo fosse successo i pesci lo avrebbero individuato. In una frazione di secondo, all'unisono, quello sciame di innumerevoli individui si sarebbe inabissato come un singolo organismo. Subito Lothar segnalò di allargare e Manfred obbedí all'istante. Il peschereccio quasi girò su se stesso. La prua sfiorò il banco e la rotta si stabilizzò parallelamente a esso a una distanza di poco piú di tre metri. Iniziò l'attesa dell'attimo piú favorevole per il lancio. Con un'ulteriore occhiata, Lothar si accorse che gli altri pescherecci lo seguivano pigramente, come intimiditi dall'enormità del banco che stavano aggirando. Swart Hendrick, un gigante d'uomo calvo, con la testa che nel sole dell'alba riluceva come una palla di cannone, gli lanciò uno sguardo dalla prua del suo peschereccio. Vecchio compagno d'armi e di alcune centinaia d'imprese disperate, aveva seguito Lothar nel gran salto dalla terra al mare, e adesso era un pescatore esperto e abile, cosí com'era stato esperto e abile cacciatore d'animali... e di uomini. Lothar gli inviò un rapido segnale di pericolo, passando il taglio di una mano sotto il palmo dell'altra. Swart Hendrick rise fra sè e rispose con un cenno. Aggraziate come ballerine, le quattro grosse imbarcazioni caracollavano piroettando attorno all'enorme banco, mentre gli ultimi strati di nebbia si disperdevano sospinti dalla brezza. Il sole illuminò l'orizzonte. Le dune del deserto lontano rosseggiavano come bronzo appena forgiato, uno scenario appropriato a quella drammatica fase della caccia. Il pesce manteneva una formazione compatta, e Lothar cominciò a disperare. Le sardelle erano in superficie da oltre un'ora, molto piú del solito. Da un momento all'altro potevano tuffarsi e sparire. Nessuno aveva ancora lanciato. Erano come mendicanti di fronte a un immenso tesoro, famelici e abbagliati dall'abbondanza. Lothar si sentí crescere dentro un sentimento d'ira e di sfida. Aveva aspettato fin troppo. « Lanciate, e che il diavolo mi porti », pensò, e inviò altri segnali a Manfred, stringendo gli occhi al bagliore del sole. Prima di commettere quella follia, udí Da Silva fischiare. Il vecchio portoghese stava ritto sulla lancia e gesticolava vivacemente. Lo sciame stava gonfiandosi. La massa circolare stava mutando forma. Da essa si dipartí un tentacolo, un'escrescenza o meglio una testa su un collo sottile che si staccava da quel corpo immane. Era ciò che stavano aspettando. « Manfred! » gridò Lothar e prese a mulinare il braccio destro. Il ragazzo ruotò il timone e il peschereccio si impuntò volgendosi indietro. La prua fendette la striscia di sardelle fra il grosso del banco e lo sciame che se n'era staccato, come la scure di un boia sul collo del condannato.
« Motore al minimo », segnalò Lothar, e la chiglia scivolò silenziosamente sul dorso dei pesci. L'acqua era cosí chiara che dal ponte si distinguevano le singole sardelle, ognuna incastonata in un arcobaleno di luce franta. Sotto, scuro e imponente come la parte sommersa di un iceberg, il banco verdeggiava. Quasi con delicatezza, Lothar e Manfred affondarono la chiglia in quella massa vivente, le eliche al minimo per non spaventare la preda. Finalmente, lo sciame piú piccolo si staccò del tutto. Come un cane da pastore con le pecore, Lothar manovrò in modo da isolarlo completamente rallentando o accelerando o curvando appena, con segnali subito messi in atto da Manfred. « E' ancora troppo grande! » mormorò. Avevano staccato una parte davvero dal grosso del banco, ma Lothar ne calcolò l'entità attorno al migliaio di tonnellate... o forse piú, a seconda della profondità dello sciame, che poteva solo indovinare. Era un rischio, un rischio maledettamente grosso. Con la coda dell'occhio intravedeva Da Silva che lanciava segnali di pericolo, e fischiava freneticamente agitandosi sulla lancia. Il vecchio aveva a sua volta valutato le dimensioni del banco, ed era preoccupato. Lothar sogghignò, strinse gli occhi e di proposito gli voltò le spalle. Poi segnalò a Manfred di regolare il regime del motore sulla velocità di lancio. A cinque nodi, ordinò a Manfred di far girare il peschereccio in tondo, costringendo il banco a mantenersi al centro del cerchio così descritto dall'imbarcazione. Poi si volse e mettendo le mani a imbuto davanti alla bocca gridò gli ordini. « Los », urlò, « lanciate la rete! » Il marinaio sulla poppa, un negro herero, mollò la cima di rimorchio della lancia che cominciò a restare indietro allontanandosi dalla nave e svolgendo velocemente la rete a strascico nella sua scia turbinante. Da Silva stava aggrappato al bordo e ancora protestava gesticolando. Via via che il peschereccio procedeva nella sua rotta circolare attorno al banco, il nastro marrone della rete si dipanava, mentre la cima di galleggiamento si srotolava sibilando come un pitone irritato. I sugheri si disposero a semicerchio, intervallati regolarmente come i grani di un rosario: un cordone ombelicale che assicurava l'agile lancia al peschereccio. Da Silva parve rassegnarsi solo nell'attimo in cui le macchine furono messe al minimo e la barca superò di slanciò la nave. Con precisi colpi di timone Manfred resiste alla trazione della rete e pian piano accostò la fiancata alla lancia ondeggiante. La trappola era chiusa. Da Silva si issò a bordo e grugni a Lothar: « Perderai la rete. Solo un pazzo potrebbe sperare di farcela, con un banco così grosso. Se ne andranno portandosi via tutto. Sant'Antonio e san Marco benedetti mi sono testimoni ». Ma Lothar stava già impartendo gli ordini necessari al recupero, e i pescatori herero si misero all'opera. Uno di essi prese la cima dei galleggianti che gli porgeva Da Silva, mentre un altro aiutava Lothar a tirare la cima di chiusura. La rete pescava ventuno metri, in profondità, ma sotto era aperta.
La cosa piú urgente era chiudere quella via di uscita prima che il banco la individuasse. Lothar assestava potenti strattoni alla cima e nello sforzo tendeva i muscoli dorsali sotto la pelle abbronzata: ben presto riuscì a passare il cavo sul tamburo del verricello. Correndo attraverso gli anelli d'acciaio, la cima richiuse la rete a sacco come fosse una gigantesca borsa da tabacco. In timoneria, Manfred badava a manovrare le macchine avanti e indietro, in una precisa alternanza, per evitare che la prua fendesse la rete o che questa si avvolgesse attorno all'elica. Da Silva era tornato sulla lancia e l'aveva portata dalla parte opposta rispetto al cerchio dei sugheri assicurandola alla cima dei galleggianti in modo da opporre una maggiore resistenza nel momento critico in cui lo sciame in preda al panico avrebbe cominciato a forzare la rete. Lavorando alacremente, Lothar continuò a tirare finché il cerchio di anelli d'acciaio non fu ammassato contro la fiancata, in un luccicante groviglio sonoro. Il banco non aveva piú vie d'uscita. Col sudore che colava dal collo a inzuppare la camicia, Lothar si appoggiò al parapetto ansimando, senza riuscire nemmeno a prender fiato per parlare. I capelli color argento erano madidi, e come incollati alla fronte e agli occhi. Gesticolò frenetici segnali a Da Silva. La cima di galleggiamento fu tesata fin quando i sugheri non disegnarono un cerchio perfetto che aleggiava dolcemente sulle morbide onde della corrente di Benguela, ben assicurato al peschereccio. Ma proprio mentre Lothar lo osservava, improvvisamente il cerchio cambiò forma: un tratto si appuntí allungandosi come se qualcuno lo tirasse: il banco s'era accorto della rete e tentava di sfondare, prima da un lato e poi dall'altro, trascinandola assieme alla lancia come uno straccio abbandonato in mare. Era una forza titanica e irresistibile come il Leviatano. «Per Dio, ne abbiamo prese ancor piú di quante pensassi», sbuffò ansando Lothar. Poi si riscosse, allontanò i capelli bagnati dagli occhi e corse in timoneria. Il banco stava strattonando la rete, facendo quasi volare sull'acqua la lancia, che cozzava contro il robusto fasciame del peschereccio. A ogni urto Lothar sentiva il ponte vibrare sotto i piedi. « Da Silva aveva ragione. Sono impazzite », sussurrò e afferro la maniglia della sirena. Diede tre suoni rauchi, la richiesta di soccorso; Poi corse sul ponte mentre già gli altri tre pescherecci si avvicinavano. Nessuno aveva avuto il coraggio e l'occasione di gettare la rete. « In fretta, per il demonio, in fretta! » gridò invano Lothar: erano troppo lontani per sentire. « Ci vogliono le braccia di tutti! » L'equipaggio esitò, riluttante a toccare la rete. « Muovetevi, brutti bastardi neri! » sbraitò Lothar, e diede subito l'esempio afferrando una cima. Bisognava stringere ancora il cerchio dei sugheri in modo da ridurre lo spazio d'azione del banco, e quindi anche la sua violenza. La rete era ruvida e tagliente come filo spinato, ma tutti insieme cominciarono a issarla, sfruttando il rollio dell'imbarcazione per
guadagnare centimetro dopo centimetro. Poi lo sciame si avventò ancora, e tutto il tratto che erano riusciti ad alare riprecipitò in acqua. Uno degli herero tardò troppo a mollare la presa, e la canapa arroventata dall'attrito gli scorticò le dita, mettendo a nudo rossa carne viva e ossa biancheggianti. Con un grido, l'uomo si portò le mani al petto cercando di fermare il sangue che sprizzava. Ma il getto continuò, e in breve il sangue gli arrossò la camicia sul petto e sullo stomaco. Infine anche i pantaloni ne furono intrisi. « Manfred! Dagli un'occhiata! » gridò Lothar, e tornò a occuparsi della rete. Il banco tentava ora di inabissarsi, e una parte dei galleggianti fu trascinata sotto la superficie. Da quel varco insperato uscirono sardelle a migliaia. « Magnifico », mormorò Lothar, « così tireranno meno. » Ma la maggior parte del banco era intrappolata: ancora una volta premette verso il basso, e il peschereccio si inclinò pericolosamente. I marinai aumentarono la presa, i volti color cenere: il pallore della pelle nera. Dall'altra parte del cerchio, la lancia cominciava a imbarcare acqua. A ogni strattone, veniva sballottata tanto violentemente che non c'era possibilità che resistesse ancora a lungo. « Staccatevi! » gridò Lothar. « Mollate la presa. » Il pericolo era troppo grande. La stagione precedente, un marinaio era caduto nella rete. Il pesce gli si era subito scagliato addosso e lo aveva spinto sotto la superficie, vincendo qualsiasi resistenza nello sforzo di fuggire. Quando, molte ore dopo, fu possibile recuperare il cadavere, si vide che i pesci si erano insinuati in ogni sua apertura. Attraverso la bocca erano entrati nello stomaco e nei polmoni. Gli occhi erano stati scalzati dalle orbite, e un pesce aveva raggiunto il cervello. Altri avevano sfondato il panno pesante dei calzoni e attraverso l'ano erano giunti nell'intestino, gonfiando il povero marinaio come un pallone. Era uno spettacolo difficile da dimenticare. « Molla la rete! » gridò ancora Lothar, e proprio in quel momento Da Silva precipitò in acqua, fuori del cerchio, e cominciò a nuotare freneticamente mentre già le sue pesanti scarpe lo tiravano a fondo. Ma Swart Hendrick fu pronto a ripescarlo. Due marinai si occuparono di lui, gli altri agganciarono la fune di galleggiamento e la assicurarono alla fiancata. « Se solo la rete tenesse », borbottò Lothar. Nel frattempo, infatti, anche gli altri due pescherecci si erano avvicinati e avevano a loro volta agganciato la fune di galleggiamento. Le quattro imbarcazioni ora formavano un cerchio attorno al banco, e gli equipaggi stavano freneticamente collaborando al recupero della rete. Centimetro per centimetro, dodici uomini per peschereccio la issavano all'unisono. Perfino Manfred partecipava alla manovra, stando alle spalle del padre. Tutti sudavano, ansimavano e soffrivano nello sforzo, le mani spellate dalla rude canapa delle cime. Infine riuscirono a vincere l'immenso sciame, che fu sollevato. I pesci sulla sommità si dibattevano nell'agonia, premendo col proprio peso sui compagni che morivano in fondo alla rete.
« Tiriamoli a bordo! » gridò Lothar, e su ogni peschereccio i marinai afferrarono la rete a mano dalle rastrelliere agganciate sull'esterno della timoneria. Questi enormi guadini erano simili alle reti acchiappa-farfalle, o a quelle che usano i bambini per catturare i granchi sulla scogliera, ma avevano un manico lungo nove metri, e la sacca poteva contenere una tonnellata di pesce. Il fondo era chiuso con un sistema di anelli d'acciaio attraverso cui correva una cima, esattamente come nella rete principale. Mentre questi attrezzi venivano messi manualmente in posizione, Manfred e Lothar aprirono il boccaporto della stiva. Poi tornarono ai loro posti, Lothar al verricello e Manfred a manovrare la cima di chiusura. Con un lungo gemito, l'argano alzò la rete a mano, mentre tre uomini agivano sul manico in modo da sistemarla nel giusto assetto. Manfred tirò la cima di chiusura facendo tintinnare gli anelli d'acciaio. Lothar inverti la marcia del motore del verricello e con un altro cigolio la rete si abbatté nella massa tremolante d'argento vivo. I tre uomini spinsero il manico con tutte le loro forze, in modo da piantare profondamente l'imboccatura della rete fra le sardelle agonizzanti. « Su! » gridò Lothar, e invertí di nuovo la marcia. La rete venne strattonata verso l'alto e pendette a mezz'aria colma d'una tonnellata di pesce. Manfred teneva ben tesata la fune di chiusura, opponendosi con tutto il suo peso e quasi sollevandosi dal ponte. Infine la rete venne spostata a bordo, proprio sopra l'apertura sulla stiva. « Molla! » gridò Lothar al figlio, e Manfred obbedí subito. Una cascata di pesce piovve sotto coperta, mentre le sottili scaglie strappate dal rude trattamento volteggiavano tutt'attorno come fiocchi di neve, rifrangendo al sole tenui barbagli di rosa e d'oro. Quando la rete si svuotò, Manfred tornò a tirare la fune, gli uomini rimisero il manico in posizione, e Lothar azionò il verricello per ripetere la manovra. Sugli altri pescherecci, gli equipaggi compivano la stessa operazione e a intervalli di qualche secondo, una tonnellata alla volta, il pesce veniva stivato. Intanto l'acqua di mare nebulizzata e le nuvole di scaglie piovevano sugli uomini al lavoro. Era un lavoro massacrante, monotono e ripetitivo. I marinai erano bagnati di gelida acqua d'oceano e coperti di squame. Via via che gli uomini in azione si stancavano, venivano sostituiti da quelli che erano rimasti a controllare l'aggancio della rete principale. Lothar restava al verricello, attento e instancabile, la capigliatura bionda e lucente di scaglie infiammata dal sole. «Monete d'argento», gongolò fra se mentre il pesce pioveva nelle stive dei suoi quattro pescherecci. « Non sono sardelle, sono soldi. Oggi riempiamo le stive di monete d'argento. » « In coperta! » gridò rivolto oltre il cerchio via via più stretto della rete principale, verso Swart Hendrick che stava a sua volta all'argano, a torso nudo, luccicante come ebano scuro. « In coperta! » urlò ancora, reagendo alla fatica fisica con il consueto vigore, una caratteristica che gli era sempre valsa il rispetto dei suoi uomini. Le stive erano già quasi piene, ognuna con oltre cento-
cinquanta tonnellate di pesce. Ora bisognava caricare in coperta. Altro rischio. Una volta strapieni, i pescherecci non potevano essere alleggeriti se non all'arrivo in porto, quando il pesce veniva convogliato dentro alla fabbrica. Caricare anche il ponte voleva dire aggiungere altre cento tonnellate di peso morto, molto oltre il limite di sicurezza. Se il tempo si fosse guastato, se il vento fosse cambiato, quel gigantesco mare si sarebbe gonfiato in un baleno e le onde avrebbero sommerso i pescherecci spedendoli in fondo ai glaciali abissi verde scuro. « Il tempo terrà », disse Lothar a se stesso manovrando il verricello. Stava cavalcando l'onda favorevole. Niente e nessuno poteva fermarlo. Si era assunto un rischio tremendo ed era stato ripagato con quasi mille tonnellate di pesce a cinquanta sterline la tonnellata. Cinquantamila sterline in una botta sola. Il piú grosso colpo di fortuna della sua vita. Avrebbe potuto perdere la rete, come pure il peschereccio e la vita. Invece con un solo lancio aveva ripianato tutti i suoi debiti. « Per Dio onnipotente », mormorò azionando le leve del verricello, « niente può andar male, adesso. Sono libero. Sono libero e forte. » Cosí, riempite le stive, iniziarono a caricare in coperta. Quand'ebbero terminato, il livello del pesce giungeva all'orlo del bastingaggio. Per recuperare la rete principale e sistemare le reti a mano nella rastrelliera i marinai dovettero aprirsi un varco nelle sardelle. Sopra i quattro pescherecci volteggiava un enorme stormo di uccelli di mare che aggiungevano le loro strida ai cigolii dei verricelli e piombavano sui pesci ingurgitandone la massima quantità possibile. Poi, sazi fino all'inverosimile e ormai incapaci di volare, si posavano sull'acqua abbandonandosi alle onde della corrente, e si allontanavano con le penne arruffate e i gozzi gonfi da scoppiare. A prua e a poppa d'ogni peschereccio stava un uomo armato d'un lungo arpione con cui trafiggeva o contrastava gli squali talvolta enormi che tentavano d'avvicinarsi all'immane preda degli uomini. Le pinne triangolari avrebbero infatti potuto tagliare la rete come enormi rasoi. Mentre uccelli e squali si abbuffavano, i pescherecci sprofondavano sempre piú. Infine, prima del pomeriggio, Lothar dovette chiudere la partita. Non c'era piú spazio nemmeno in coperta: ogni volta che giungeva un nuovo carico, la maggior parte dei pesci scivolava in mare a nutrire gli squali in attesa. Lothar spense il motore del verricello. C'erano forse ancora un centinaio di tonnellate di pesce, nella rete, per la maggior parte già morto o spappolato dal peso. « A mare! » ordinò. « Lasciateli andare e recuperate la rete. » I quattro pescherecci, tanto bassi sull'acqua che a ogni beccheggio imbarcavano acqua, fecero rotta verso la linea della costa come anatre pregne. Dietro di essi, una macchia di mezzo miglio quadrato di pesce morto, le pance all'aria, ricordava il sottobosco d'autunno coperto di foglie. Il cielo era popolato di gabbiani satolli, mentre sott'acqua gli squali proseguivano il loro festino.
Gli equipaggi si trascinarono attraverso i tremolanti ammassi di pesce ancora vivo e raggiunsero le brandine sotto coperta. Gli uomini piombavano nel sonno ancora bagnati e ricoperti di squame. In timoneria, Lothar trangugiò due tazze di caffè e diede un'occhiata all'orologio appeso sopra la vetrata anteriore. «Le quattro», disse. «C'è giusto il tempo per la nostra lezione. » « Oh no, papà, non oggi! » protesto Manfred. « Oggi è speciale. Dobbiamo per forza far lezione anche oggi? » Non c'erano scuole entro la baia. La piú vicina era la scuola tedesca di Swakopmund, a trenta chilometri di distanza. Lothar aveva dovuto far da padre e madre dal giorno in cui Manfred era nato. Lo aveva sollevato bagnato e sporco di sangue dal letto della puerpera. Sua madre non lo aveva mai nemmeno guardato. Era una clausola del loro innaturale contratto: lui avrebbe dovuto allevare il bambino completamente da solo, senza alcun aiuto a parte la balia nama per l'allattamento. Padre e figlio erano diventati una persona sola. Lothar non poteva sopportare di separarsi da Manfred nemmeno per un giorno. Si era perfino fatto carico della sua istruzione. « Nessun giorno è tanto speciale da smettere di studiare », disse. « Ogni giorno si impara. Non sono i muscoli a far l'uomo forte. » Si toccò la testa col dito, e aggiunse: « Questo è quel che fa l'uomo forte. Prendi i libri! » Manfred cercò Da Silva con gli occhi in cerca di solidarietà, ma senza successo. « Vieni al timone », disse Lothar al vecchio, e andò a sedersi al tavolino da carteggio. « Oggi si fa inglese, lascia perdere i libri d'aritmetica. » « Odio l'inglese! » protestò Manfred. « Odio l'inglese e odio gli inglesi. » Lothar annuì. « D'accordo, gli inglesi sono nostri nemici. Lo sono sempre stati e sempre lo saranno. Per questo dobbiamo armarci delle loro stessi armi. Per questo dobbiamo imparare la loro lingua. Quando verrà il giorno, la useremo contro di loro. » Lothar parlò in inglese per la prima volta. Manfred fece per rispondergli in afrikaans, il dialetto sudafricano d'origine olandese che era stato riconosciuto come lingua ufficiale dell'Unione Sudafricana nel 1918, un anno prima che Manfred nascesse. Lothar lo fermò con un cenno della mano. « Parla inglese », ammoní, « parla solo inglese. » Per un'oretta lavorarono assieme leggendo la versione della Bibbia di re Giacomo e una copia del Cape Times vecchia di due mesi. Lothar gliene dettò una pagina. Manfred, affaticato dallo sforzo insolito, continuava a rigirarsi la matita in mano, finché non riuscí piú a trattenersi. « Parlami del nonno, e del voto che hai fatto! » propose. Lothar sorrise: « Sei una scimmia. Crescerai e diventerai uno scimmione. Faresti qualsiasi cosa per evitare di lavorare ». « Per piacere, papà... » « Ma se te l'ho raccontato un centinaio di volte... » « Raccontamelo ancora. Oggi è una giornata speciale. »
Lothar sbirciò fuori della timoneria, verso il carico argentato. Il ragazzo aveva ragione, era una giornata speciale. Dopo cinque anni, era di nuovo libero e senza debiti. « D'accordo », rispose. « Te la racconto, ma in inglese. » Manfred chiuse il libro con entusiasmo e si appoggiò ai gomiti, in trepida attesa. La storia della grande ribellione gli era stata raccontata tante e tante volte che la sapeva a memoria, ed era in grado di correggere qualsiasi inesattezza o lieve discrepanza rispetto all'originale in cui incorresse il padre, oppure di fermarlo se saltava qualche particolare. « Allora », esordi Lothar, « era il 1914 e l'infido Giorgio V, re degli inglesi, dichiarò guerra al Kaiser Guglielmo di Germania. Tuo nonno e io sapevamo qual era il nostro dovere. Baciammo tua nonna e la salutammo... » « Di che colore aveva i capelli, mia nonna? » chiese Manfred. « Tua nonna era una splendida nobildonna tedesca, e i suoi capelli erano color del grano maturo al sole. » « Come i miei », anticipò Manfred. « Proprio come i tuoi », sorrise Lothar, e proseguì il racconto: « Tuo nonno e io uscimmo in groppa ai nostri cavalli da guerra per unirci al vecchio generale Maritz e ai suoi seicento eroi sulle sponde del fiume Orange pronti a dar battaglia a Slim Jannie Smuts. Slim è afrikaans per sleale, cattivo, infido ». Manfred annuí avido. « Continua, papà, continua. » Quando Lothar giunse al punto in cui le truppe di Jannie Smuts avevano domato la ribellione con le mitragliatrici e l'artiglieria, gli occhi di Manfred si rannuvolarono. « Ma avete combattuto come demoni, vero, papà? » « Combattevamo come disperati, ma loro erano troppi e avevano cannoni e mitragliatrici. Poi tuo nonno fu ferito allo stomaco, allora lo caricai sul mio cavallo e lo portai fuori del campo di battaglia », proseguì Lothar mentre grosse lacrime rigavano il volto di suo figlio. « Quando sentì che stava per morire, tuo nonno prese la Bibbia dalla tasca della sella che usava come cuscino, e volle che pronunciassi un voto tenendoci la mano sopra. » « Conosco quel giuramento. Lascia che lo dica io! » « Com'era, dunque? » « Il nonno disse: "Figlio mio, promettimi che la guerra contro gli inglesi non finirà mai". » « Si », confermò Lothar. « Questo era il voto solenne che feci a mio padre morente. » Poi prese la mano di Manfred e la strinse. Il vecchio Da Silva ruppe il silenzio tossicchiando e sputando fuori del finestrino della timoneria. « Dovresti vergognarti! Riempire così la testa del ragazzo di odio e di rancore! » « Chiudi il becco, vecchio », grugni Lothar. « Non sono affari tuoi! » « Grazie a Maria Vergine! » rispose Da Silva. « Questi sono affari di Satana. »
Lothar tornò a rivolgersi al figlio: « Metti via i libri, per oggi abbiamo finito ». Quindi girò sui tacchi, uscì dalla timoneria e andò a prua. Qui si sedette appoggiando la schiena alla mastra del boccaporto e cercò un sigaro nella tasca della camicia. Ne morse un'estremità e la sputò in mare, poi accese e aspirò il fumo fino in fondo ai polmoni. Il ragazzo lo seguì. Protese il capo oltre lo spigolo della mastra e attese timidamente. Quando vide che suo padre non lo scacciava - spesso era di cattivo umore, e voleva star solo - gli si sedette vicino. Come senza avvedersene, Lothar gli mise una mano sulla spalla. Il ragazzo rabbrividì di piacere al contatto: le dimostrazioni fisiche di affetto, da parte di suo padre, erano una rarità. Si avvicinò il piú possibile a lui, quasi senza respirare per non rischiare di rovinare quell'attimo, o di romperne l'incanto. La piccola flotta scivolava verso la costa e in breve supero la punta settentrionale che delimitava la baia. Gli uccelli marini la seguivano in formazioni compatte, e a lunghe schiere parallele si abbassavano talvolta fin sul pelo della gelida acqua verde, il collo piumato di giallo rilucente al sole che infuocava il deserto. Come una catena montuosa le dune bronzee circondavano un insignificante agglomerato di case sparse in fondo alla baia. « Spero che Willem abbia avuto il buon senso di accendere le caldaie », mormorò Lothar. « Abbiamo tanto pesce da far lavorare la fabbrica tutta la notte e tutta la giornata di domani. » « Non riusciremo mai a inscatolarlo tutto », disse il ragazzo. « No, per la maggior parte dovremo farne olio di pesce », rispose Lothar, e scrutò verso la baia. Manfred sentì che si irrigidiva. Con suo grande rammarico, Lothar gli tolse la mano dalla spalla e se la mise sugli occhi per ripararsi dal sole. « Quello stupido bastardo! » imprecò. Con i suoi occhi acuti da cacciatore aveva individuato le ciminiere e vedeva che non fumavano. « A che diavolo di gioco sta giocando? » ringhiò Lothar, e balzò in piedi bilanciandosi per adeguarsi al beccheggio. « Ha lasciato spegnere le caldaie. Ci vorranno sei o sette ore per riaccenderle, e il nostro pesce comincerà ad andare a male. Che sia dannato per l'eternità! » Poi scese in timoneria e si attaccò alla sirena per segnalare l'arrivo della flotta. « Con i soldi di questo carico voglio comprare una di quelle nuove radio a onde corte, in modo da poter parlare con la fabbrica anche dal mare. » Si interruppe ancora e guardò. « Cosa diavolo succede? » disse, e afferrò il binocolo appeso vicino al pannello dei comandi. Mise a fuoco e vide una piccola folla adunata davanti all'ingresso della fabbrica. C'erano anche degli operai, con i loro stivali di gomma. Avrebbero dovuto già essere ai propri posti, pronti al lavoro. « Ecco Willem. » Il direttore della fabbrica era in piedi in fondo al lungo molo di scarico, un pontile di legno proteso sul mare e sostenuto da massicci piloni di teak. « A che gioco sta giocando? Le caldaie spente e tutti a spasso... » C'erano due forestieri insieme a Willem. Erano vestiti in abiti civili scuri e avevano quell'aria arrogante e tronfia d'ufficialità che Lothar conosceva fin troppo bene, e temeva.
« Esattori delle tasse, o altri scagnozzi dello Stato », mormorò, e la rabbia si trasformò in disagio. Nessun rappresentante di nessun governo al mondo poteva portargli buone notizie. «C'è qualche guaio», disse, «proprio adesso che ho un migliaio di tonnellate di pesce. » Poi vide le auto. Erano rimaste nascoste dal muro della fabbrica finché Da Silva non aveva virato per entrare nel canale che lì avrebbe condotti in prossimità del pontile. C'erano due auto. Una era una vecchia Ford T piuttosto male in arnese, l'altra era un'auto piú lussuosa, nonostante la patina di fine sabbia del deserto che la ricopriva. Lothar sentì un tuffo al cuore. Non potevano esserci due auto di quel tipo in tutto il continente africano. Era una Daimler grossa come un elefante, dipinta di giallo narciso. L'ultima volta che l'aveva vista, era parcheggiata fuori degli uffici della Courteney Company, nella strada principale di Windhoek. Lothar era lì per chiedere un aumento del prestito da quella compagnia finanziaria, e si trovava sul lato opposto della strada. Aveva visto uscire la donna affiancata da due fedeli impiegati in colletto di celluloide bianco; uno dei due le aveva aperto la portiera, l'altro s'era dato da fare con la manovella d'avviamento. Disdegnando l'autista, era partita guidando personalmente, senza nemmeno guardare verso di lui, che era rimasto pallido e tremante per le intime emozioni che provava al solo vederla. Era successo circa un anno prima. Si riscosse dal ricordo solo quando Da Silva già costeggiava il pontile. Erano così bassi sull'acqua che per passare i cavi d'ormeggio al personale di terra dovettero sollevarli verso l'alto. « Lothar, questi signori vogliono parlare con te », disse Willem da sopra, sudando abbondantemente. « E' lei Lothar De La Rey? » chiese il piú piccolo dei due, tirandosi indietro il cappello polveroso in modo da scoprire una zona di pelle bianchissima sulla fronte. « Già », rispose Lothar con i pugni appoggiati sul fianco. « E voi chi diavolo siete? » « E' il proprietario della South West African Canning and Fishing Company? » « Ja », rispose Lothar in afrikaans. « Sono il proprietario. E allora? » « Sono lo sceriffo di Windhoek, e qui ho un mandato di sequestro di tutte le proprietà della compagnia », disse l'uomo sventolando un foglio di carta. « Hanno chiuso la fabbrica », aggiunse Willem con voce lamentosa, i baffi tremolanti. « Mi hanno fatto spegnere i fuochi sotto le caldaie. » « Non potete fare una cosa del cenere. Ho qui un migliaio di tonnellate di pesce da lavorare », gridò Lothar, gli occhi gialli scintillanti e fieri come quelli di un leopardo. « Questi pescherecci sono di proprietà della Compagnia? » continuò imperturbabile l'uomo, slacciandosi però la giacca e appoggiando la mano sulla fondina della pistola d'ordinanza, una pesante We-
bley. Poi guardò le altre tre barche da pesca che si stavano avvicinando agli ormeggi su entrambi i lati del molo, e senza aspettare una risposta proseguì placidamente. « Il mio assistente metterà i sigilli alle navi e al loro carico. Debbo avvertirvi che sarebbe un reato rimuoverli. » « Non potete farmi una cosa del genere », ripeta Lothar arrampicandosi sulla scaletta che portava sul pontile. Il suo tono non aveva piú nulla di aggressivo. « Devo far lavorare subito questo carico. Entro domattina puzzerà di carogna. » « Non le appartiene piú », disse lo sceriffo scuotendo il capo. « Appartiene alla Courteney Company, adesso. » Poi si rivolse al suo assistente, gli ordinò di sbrigarsi e fece per andarsene. « C'è anche lei, vero? » gli gridò Lothar. Lo sceriffo si arrestò e lo guardò. « C'è anche lei », ripete Lothar. « Quella è la sua automobile. Ha voluto venire di persona, vero? » « Sì, c'è anche lei. E' nell'ufficio », rispose lo sceriffo scrollando le spalle. Lothar si incamminò lungo il pontile, facendo scricchiolare i pantaloni impermeabili. Stringeva i pugni come chi stia per gettarsi in una mischia. Una folla di operai trepidanti lo attendeva. «Cosa sta succedendo, baas? Non ci lasciano lavorare, cosa dobbiamo fare? » « Aspettate », rispose Lothar, « sistemo io la questione. » « Saremo pagati lo stesso, baas? Abbiamo i bambini... » « Sarete pagati, ve lo prometto », disse Lothar. Era una promessa che non poteva assolutamente mantenere, se non vendeva il pesce. Ma doveva aprirsi un varco verso l'ufficio del direttore, dietro l'angolo della fabbrica. La Daimler era parcheggiata fuori della porta, e un ragazzo stava appoggiato al cofano giallo. Era evidentemente contrariato e annoiato. Aveva forse un anno piú di Manfred, ma era di qualche centimetro piú basso. Il suo corpo era piú sottile ed elegante. Era rimasto un pò al sole, e la sua camicia bianca s'era leggermente spiegazzata. I pantaloni di flanella erano impolverati e un pò troppo grandi per lui. Ma nel complesso aveva un aspetto aggraziato: era bello come una ragazza, con una pelle di pesca e occhi scuri color dell'indaco. Lothar si impietri vedendolo e, prima di mordersi le labbra, gridò: « Shasa! » Il ragazzo si ricompose in fretta, e si allontano i capelli appiccicati sulla fronte. « Come fa a conoscere il mio nome? » chiese, ma nonostante il tono distaccato i suoi occhi brillavano d'interesse mentre studiava Lothar con la sicurezza d'un adulto. C'erano almeno cento risposte a quella domanda, e tutte assieme si affollarono sulle labbra di Lothar: « Perché una volta, molti anni fa, ho salvato te e tua madre dalla morte, nel deserto. Perché ho collaborato al tuo svezzamento e ti ho portato in sella quando eri piccolo. Perché ti ho amato almeno quanto ho amato tua madre. Per-
ché sei fratello di Manfred. Ti riconoscerei ovunque, anche dopo tutto questo tempo » Invece Lothar disse: « Shasa è la parola dei boscimani per dire «buona acqua», l'elemento piú prezioso per loro ». « E' vero », rispose Shasa Courteney. Quell'uomo lo affascinava. C'era in lui una carica di violenza, quasi di crudeltà trattenuta a fatica, e i suoi occhi erano d'uno strano colore chiaro: anzi erano giallì come quellì di un gatto. « E' vero. E' un nome boscimano, ma il mio nome di battesimo è Michel. E' un nome francese, perché mia madre è francese. » « E dov'è? » chiese Lothar. Shasa guardo verso la porta dell'ufficio. « Non vuole essere disturbata », aggiunse, ma Lothar De La Rey passo oltre, tanto vicino a lui che riuscì a distinguere le scaglie di pesce che aveva fra i capelli. « Farebbe meglio a bussare », insistè Shasa abbassando la voce. Ma Lothar era già entrato, sbattendo la porta con tanta forza da rischiare di scardinarla. Si fermo sulla soglia, e il ragazzo poté vedere all'interno. Sua madre s'era alzata dalla poltrona vicina alla finestra e guardava l'intruso. Era sottile come una ragazza, e il crèpe-de-Cnine giallo del vestito le appiattiva il seno piccolo e grazioso stringendola in vita con una cintura bassa. Il cappello era calato sui capelli folti e scuri. Gli occhi erano grandi e quasi neri. Sembrava molto giovane, quasi come suo figlio. Ma a un tratto alzo il viso e mostrò il mento deciso, mentre gli occhi emanavano un barbaglio color miele. Allora a Lothar parve temibile come un uomo. Si guardarono a lungo, cercandosi reciprocamente in volto i segni del tempo passato dal loro ultimo incontro. « Quanti anni ha? » si chiese Lothar, e immediatamente se ne ricordò. « E' nata un'ora dopo la mezzanotte del primo giorno del '900, quindi ha l'età del ventesimo secolo. Per questo l'hanno chiamata Centaine. Ha trentun anni, quindi, e ne dimostra diciannove come quando l'ho incontrata che moriva dissanguata nel deserto, con profonde ferite di artigli di leone nella sua bella pelle. » « E' invecchiato », pensava Centaine. « Ha i capelli brizzolati, e attorno agli occhi e alla bocca gli sono spuntate delle rughe. Avrà piú di quarant'anni, adesso, e ha sofferto... non abbastanza, ma ha sofferto. Sono contenta che la mia pallottola non lo abbia ucciso. Sarebbe stato troppo rapido. Adesso è in mio potere, e vedrà... » Improvvisamente, del tutto contro la sua volontà e le sue aspettative, Centaine risentí quel corpo dorato sopra di sé, nudo, morbido e forte. Le parve di sciogliersi al caldo di un sole che veniva da dentro, irresistibile come la vampata di rossore che sentiva in volto. O come l'ira di scoprirsi incapace di controllare quel lato animale della sua vita emotiva. In tutto il resto era allenata come un atleta, ma quegli empiti di sensualità la sopraffacevano. Guardò oltre l'uomo sulla soglia, e appena fuori vide Shasa, il suo meraviglioso figlio, che la guardava curioso. L'ira divenne furore e vergogna: aveva l'impressione di esser stata colta in un momen-
to in cui i suoi sentimenti più bassi erano completamente a nudo. « Chiudi la porta », ordinò. La sua voce era tagliente e ferma. « Entra e chiudi la porta », ripeté, e andò alla finestra. Guardò fuori e recupero l'autocontrollo, poi si girò verso l'uomo che era ben risoluta a distruggere. La porta era chiusa. Shasa provo un attimo di cocente delusione. Sentiva che stava succedendo qualcosa di vitale importanza. Quello straniero con gli occhi gialli da gatto, quell'uomo che conosceva il suo nome e le sue origini, aveva toccato un tasto profondamente celato in lui, qualcosa di pericoloso ed eccitante. Poi quella strana reazione di sua madre, quel biancore improvviso che le era salito dalla gola al volto, e quell'espressione degli occhi assolutamente inusitata - senso di colpa? - quell'insicurezza del tutto nuova (lei non dubitava mai di nulla). Ce n'era abbastanza da suscitare in lui l'irresistibile desiderio di sapere cosa succedeva dietro la porta. Le pareti dell'ufficio erano di lamiera ondulata. « Se vuoi sapere qualcosa, va, a vedere », era uno degli adagi preferiti di sua madre. Quindi la sua unica preoccupazione mentre con passo felpato cercava di avvicinarsi alla baracca era che lei non lo cogliesse sul fatto. Appoggiò l'orecchio al metallo arroventato dal sole. Nonostante si sforzasse di ascoltare, sentiva solo un mormorio confuso. Anche quando lo straniero alzava la voce, non gli riusciva di distinguere le parole. La voce di sua madre era scura, bassa e incomprensibile. «La finestra», pensò, e girò l'angolo trovandosi immediatamente osservato da una cinquantina di occhi. Il direttore e gli operai erano rimasti a ciondolare davanti all'ufficio, e appena lui era sbucato dall'angolo s'erano affrettati a guardarlo. Shasa abbassò la testa e si allontanò. Tutti continuarono a guardarlo mentre con estrema nonchalance si avviava lungo il pontile come se quella fosse sempre stata la sua vera intenzione. Qualsiasi cosa stesse succedendo nell'ufficio, era definitivamente al di fuori della sua portata, a meno che non riuscisse a farselo raccontare dalla madre piú tardi, ma non c'era da sperarci. D'un tratto notò i quattro pescherecci ormeggiati da entrambi i lati del pontile, col loro carico d'argento scintillante, e la delusione bruciò assai meno. Ecco qualcosa in grado di scacciare la noia di quel pomeriggio nel deserto, pensò mentre camminava veloce sul pontile. Le barche lo avevano sempre affascinato. Queste, poi, erano particolarmente attraenti. Non aveva mai visto tanto pesce in una volta sola. Dovevano essercene delle tonnellate. Raggiunse il primo peschereccio. Era brutto e sporco, con strisce d'escrementi umani sulle fiancate, nei punti in cui i marinai scaricavano i buglioli. Puzzava di nafta e d'uomini sporchi in un ambiente troppo stretto. Non gli avevano nemmeno fatto la grazia d'un nome: sulla poppa smangiata dai flutti c'erano solo i numeri di immatricolazione. « Una barca dovrebbe sempre avere un nome », penso Shasa. « E ingiurioso e di cattivo auspicio negarglielo. » Il suo yacht di dodici metri, dono di sua madre per il tredicesimo compleanno, si chiamava
Il tocco di Mida, un nome suggerito da lei. Shasa torse il naso e tentò d dirigerlo altrove, disgustato e rattristato dalle miserevoli condizioni dei pescherecci. « Se è per questo che la mamma ha guidato fin da Windhoek... » pensò, ma non riuscí a concludere la frase, perché un ragazzo sbucò da dietro la timoneria. Indossava calzoni corti di tela tutti rattoppati, le gambe erano forti e abbronzate, e camminava a piedi nudi mantenendo senza difficoltà l'equilibrio nonostante le oscillazioni del peschereccio. Quando si accorsero l'uno dell'altro, i due ragazzi si irrigidirono bloccandosi come avrebbero fatto due cani. Poi si studiarono in silenzio. « Un dande, un signorino », pensò Manfred. Aveva visto due o tre ragazzi come quello durante le sue rare visite a Swakopmund, il posto di scambio piú a nord, sulla costa: figli di ricchi, vestiti d'abiti ridicoli e rigidi, con quella perenne espressione di superiorità dipinta in volto mentre seguono ligi i genitori. « Guarda che capelli unti di brillantina. E puzza come un mazzo di fiori. » « Un afrikaaner povero », fu invece la catalogazione immediata di Shasa. « Un bywoner, un abitante di catapecchie. » Sua madre gli aveva sempre proibito di giocare con quegli individui, ma a lui sembrava che con qualcuno valesse la pena di infrangere il divieto. Anzi forse proprio per questa proibizione lì trovava interessanti. Uno dei figli dell'addetto al garage, ad esempio, sapeva imitare il canto degli uccelli alla perfezione, e spesso riusciva a richiamarli davvero. Inoltre gli aveva insegnato a mettere a punto l'accensione della vecchia Ford che sua madre gli permetteva di usare anche se non aveva l'età per prendere la patente. La sorella di quel ragazzo aveva un anno piú di Shasa e gli aveva mostrato una cosa ancor piú notevole. Anzi, gli aveva persino permesso di toccarla, durante un incontro clandestino durato solo qualche attimo, dietro il casotto della miniera. Era una cosa calda, soffice e pelosa come un gattino. Era stata un'esperienza davvero importante, e aveva in mente di ripeterla al piú presto. Anche questo ragazzo sembrava interessante, e forse avrebbe potuto mostrargli la sala-macchine. Shasa guardò verso la fabbrica. Sua madre non lo stava tenendo d'occhio: poteva comportarsi in modo amichevole. « Salve », disse con gesto signorile, e sorrise premurosamente. Suo nonno, Sir Garrick Courteney - l'uomo piú importante della sua vita - lo ammoniva spesso: « Per diritto di nascita hai una posizione di spicco. Ciò non ti conferisce solo benefici e privilegi ma anche doveri. Un vero gentleman tratta gli inferiori, bianchi o neri, vecchi o giovani, uomini o donne, con considerazione e cortesia ». «Il mio nome è Courteney», disse. «Shasa Courteney. Mio nonno è Sir Garrick Courteney e mia madre è Centaine de Thiry Courteney. » Aspettò che quelle parole suscitassero l'usuale deferenza, ma vide che tardava a manifestarsi e proseguí piú sommesso: « E tu come ti chiami? » « Mi chiamo Manfred », rispose l'altro in afrikaans inarcando le sopracciglia sugli occhi d'ambra. Erano cosí scuri, sotto a quei capelli striati di platino, che parevano dipinti. « Manfred De La Rey,
come mio nonno, il mio prozio e mio padre, che hanno sbudellato tutti gli inglesi che incontravano. » Shasa fu sorpreso da quell'attacco imprevisto, e stava per andarsene quando notò un vecchio che da dietro i vetri della timoneria stava osservando la scena. C'erano anche due negri che si avvicinavano dal castello di prua. Non poteva ritirarsi. « Noi inglesi abbiamo vinto la guerra, e nel 1914 abbiamo sgominato i ribelli », disse. « Noi! » ripete Manfred, e si volse verso gli spettatori. « Questo giovane damerino profumato ha vinto la guerra! » I marinai emisero mormorii d'approvazione. « Annusatelo un pò, dovrebbe chiamarsi Ciclamino. Il soldato Ciclamino », incalzò Manfred e si voltò. Per la prima volta Shasa notò che era alto almeno cinque centimetri piú di lui, e che le sue braccia apparivano solide. « Cosí sei inglese, soldato Ciclamino. Allora probabilmente vivi a Londra, vero? » Shasa non si aspettava che un ragazzo povero potesse essere tanto sveglio e sarcastico. Era abituato ad avere sempre l'ultima parola. « Certo che sono inglese », disse risoluto, cercando una risposta definitiva per chiudere quel battibecco. « Allora vivi a Londra », insistette Manfred. « Vivo a Città del Capo. » « Ah, ah! » disse Manfred rivolgendosi a un pubblico sempre piú folto: Swart Hendrick si era avvicinato lungo il pontile, e tutti gli equipaggi si stavano adunando. « Per questo lì chiamano Soutpiel », annunciò. Quell'espressione volgare suscitò un'esplosione generale di ilarità. Manfred non si sarebbe mai permesso di usarla, se ci fosse stato suo padre. La traduzione esatta era « cazzo salato ». Shasa arrossí e istintivamente strinse i pugni. « Un soutpiel è uno con un piede a Cape Town e l'altro a Londra... » spiegò Manfred « ... e il battacchio a mollo nell'oceano Atlantico. » « Questa dovrai rimangiartela! » minacciò Shasa, troppo furioso per trovare una risposta piú efficace. Nessun « inferiore » gli aveva mai parlato a quel modo. « Rimangiarla? Tirarla indietro come fai con la tua pelle salata quando ti masturbi? » chiese Manfred esaltato dal consenso, e si avvicinò fin sotto Shasa, in piedi sul pontile. Shasa si lanciò senza preavviso, e Manfred non se l'aspettava ancora. Pensava che ci sarebbe voluto ancora qualche scambio di insulti, prima di passare ai fatti. Shasa gli piombò addosso da quasi due metri, lasciandolo senza fiato. I due rotolarono avvinghiati nella massa di sardelle. Shasa si accorse con raccapriccio della forza dell'avversario. Le sue braccia parevano assi di legno e le dita erano ganci da macellaio che gli artigliavano il volto. Solo la sorpresa e i polmoni sgonfi di Manfred lo salvarono da un'umiliazione immediata. Appena in tempo si ricordò delle raccomandazioni di Jock Murphy, il suo istruttore di boxe. « Non permettere mai che un uomo piú forte ti costringa al corpo a corpo. Tienilo sempre a distanza di braccio. »
Manfred cercava di serrargli il collo in una presa d'acciaio, mentre lottavano galleggiando nella tremolante massa di pesce. Shasa riuscí a disimpegnare una gamba e lo colpí con una ginocchiata, ma Manfred riuscí subito a riacchiapparlo. Allora roteò la testa e con la destra spinse il gomito dell'avversario riuscendo a indebolire la presa. Poi con una torsione del busto sgusciò fuori come gli aveva insegnato Jock. La scivolosa patina di squame che ormai ricopriva entrambi gli facilitò la manovra. In un attimo ebbe libero il sinistro, e sparò un diretto corto. « Il pugno piú utile che ti capiterà mai di usare », aveva detto il suo istruttore. Non era uno dei migliori che avesse mai tirato, ma colpí Manfred all'occhio abbastanza forte da respingerlo e permise a Shasa di defilarsi. L'imbarcadero era popolato di marinai di colore, con stivali di gomma e maglie girocollo. Vociavano eccitati come se stessero assistendo a un combattimento di galli. Sbattendo l'occhio offeso, Manfred si fece sotto, ma i pesci morti lo impacciavano e il sinistro saettò ancora, senza alcun preavviso: dritto, forte e inatteso, colpí lo stesso occhio. Manfred gridò di rabbia e si scagliò addosso all'avversario, protendendo le braccia. Shasa schivò piegandosi in avanti e colpí ancora, come gli aveva insegnato Jock: « Non spedire mai i colpi muovendo la spalla: spara solo il braccio ». Questa volta il jab sinistro colpí Manfred alla bocca, e gli ruppe il labbro. La vista del sangue del nemico incoraggiò Shasa, mentre il boato della folla risvegliava in lui un'eco primordiale. Colpí ancora di sinistro, mirando all'occhio già leso. « Quando l'hai segnato, colpisci sempre nello stesso punto », gli aveva detto Jock, e la frase gli risuonava in testa. Colpí ancora e ancora, e questa volta l'urlo di Manfred non era solo di rabbia ma anche di dolore. « Funziona », esultò Shasa, ma proprio in quell'istante andò a sbattere con la schiena contro la cabina. Manfred si accorse che il suo avversario era bloccato, e sogghignando trionfante si avvicinò pronto a ghermirlo. Shasa in preda al panico si curvò in avanti e si scagliò addosso a Manfred, centrandogli lo stomaco con la testa. Ancora una volta, Manfred rimase senza fiato e non riuscí a stringere la presa. I due rotolarono per qualche attimo ancora in mezzo ai pesci, poi in parte carponi, in parte di corsa o nuotando nel viscido ammasso, Shasa riuscí a raggiungere la scaletta e tentò di arrampicarsi sull'imbarcadero. La folla rideva di lui, mentre l'altro infuriato lo inseguiva ansimando. A metà scala, Manfred riuscí ad afferrargli una caviglia e vi si appese. Shasa cercò di resistere con tutte le forze avvinghiato a uno degli ultimi pioli, il volto a pochi centimetri dai piedi degli spettatori. Con l'altra gamba scalciò indietro e riuscí a colpire l'occhio di Manfred, che gridò e mollò la presa. Shasa raggiunse il pontile e si guardò intorno sperduto. Il suo ardore guerriero s'era raffreddato. Tremava.
Poteva scappare lungo l'imbarcadero, e l'avrebbe fatto molto volentieri. Ma gli uomini intorno a lui ridevano, e l'orgoglio non glielo permise. Si guardò in giro, e con orrore vide che Manfred era già in cima alla scala. Shasa non sapeva bene come mai si fosse trovato coinvolto in quel confronto, o quale fosse il nodo della disputa: semplicemente avrebbe voluto sottrarsene. Ma tutta la sua educazione e la sua istruzione glielo impedivano. Cercò di smettere di tremare e si preparò ad affrontare l'avversario. Anche Manfred tremava, ma non di paura. Il suo volto era gonfio di botte e rosso d'ira, e senza accorgersene sibilava attraverso il labbro spaccato. L'occhio era ridotto a una fessura su un bubbone purpureo. « Uccidilo, kleinbasie », lo incitavano i pescatori. « Ammazzalo! piccolo boss. » E i loro insulti riscossero Shasa, che inspirò profondamente e alzò i pugni mettendosi in guardia sinistra, nella classica posizione del boxeur. « Muoviti sempre », gli aveva detto Jock. Cominciò a saltellare sulle punte. « Guarda un pò », lo derise la folla, « salta come un pollo. Vuole danzare con te, Manfred. Insegnagli il valzer di Walvis Bay! » Tuttavia, Manfred era impressionato dalla disperata determinazione di quegli occhi blu scuro, e aveva imparato a temere quelle nocche spigolose e bianche. Cominciò a girargli attorno, sibilando minacce. « Adesso ti stacco un braccio e te lo faccio ingoiare. Poi ti faccio uscire i denti da dietro, in fila come soldati. » Shasa sbatté gli occhi ma tenne ben alta la guardia. Anche se i due contendenti erano completamente ricoperti di squame di pesce, quello scontro non aveva niente della comicità delle liti fra ragazzi. Era un combattimento in piena regola, e prometteva di diventare sempre meglio. Gli spettatori tacquero, mentre Shasa ruotava lentamente su se stesso per non perdere di vista l'avversario che seguitava a girargli attorno. Manfred si buttò a sinistra e dalla nuova posizione partí a'l'attacco. Nonostante il peso e le dimensioni di gambe e spalle, era molto veloce. Caricava a testa bassa, con un'espressione resa ancora piú feroce dalle sopracciglia aggrottate. Al confronto, Shasa sembrava fragile come una ragazzina. Le sue braccia erano sottili e bianche, le gambe erano troppo lunghe, ma si muoveva bene. Schivò l'assalto, e mentre arretrava il sinistro scattò ancora. Manfred fu colpito alle labbra. Si sentí lo schiocco delle nocche sui denti, e la sua testa si rovesciò indietro come se lo avessero tirato per le caviglie. La folla ruggí. « Vat hom, Manfred, prendilo! » Il ragazzo partí all'attacco, tirando una potente sventola circolare, di destro. Shasa la schivò di busto, e da sotto sparò un montante, sempre di sinistro, colpendo con precisione l'occhio di Manfred, ancora sbilanciato. Manfred si massaggiò e disse: « Combatti lealmente, vigliacco soutie! » « Ja », fece eco qualcuno fra la folla, « stai fermo e combatti da
uomo. » Nello stesso momento, Manfred cambiò tattica. Invece di fintare a destra e a sinistra, partí direttamente all'attacco, puntando sull'avversario e mulinando le braccia in una terrificante serie di colpi. Shasa arretrava velocemente, parando e schivando, e all'inizio riuscí a mettere a segno qualche altro jab e a lacerare la pelle di Manfred sull'occhio e sulla bocca. Ma era come se Manfred si fosse abituato a quei colpi: continuava l'assalto senza rallentare la sequenza automatica di pugni. Le sue nocche indurite dal lavoro sfioravano sempre piú spesso il bersaglio, e infine un colpo andò a segno, incontrando Shasa alla tempia. Shasa perse tutta la sua precisione e il tempismo di cui aveva dato prova cominciò a incrinarsi. Le gambe si fecero piú pesanti, e si preoccupò solo di schivare, senza piú contrattaccare. Manfred era instancabile, e lo premeva sempre piú da presso. Shasa, sempre piú stanco, cominciò a disperare. Un colpo lo raggiunse alle costole e gli tolse il fiato. Fece a tempo a vedere un altro pugno che stava colpendolo sul volto ma era troppo tardi per schivarlo. Allora si appese al braccio e cercò di frenarlo. Era esattamente quel che Manfred voleva: con l'altro braccio bloccò Shasa in una presa al collo e mormorò: « Non mi scappi piú, bastardo ». Poi voltò meticolosamente Shasa e, facendo roteare il destro, gli affibbiò un massacrante uppercut. Shasa non lo vide nemmeno arrivare, ma in qualche modo ne intuí la traiettoria, perché gli riuscì di prenderlo in mezzo alla fronte anziché in pieno volto. L'urto lo spinse indietro con tanta forza che si sentì come se gli avessero rotto l'osso del collo. Si rese conto che non avrebbe potuto incassare un altro colpo del genere. Pur con la vista annebbiata, capí d'essere sul bordo del pontile, e con le forze che gli restavano cercò di avvicinarsi ancor di piú. Manfred non si aspettava certo una mossa del genere, e si ritrovò sbilanciato. Ancora avvinghiati, i due contendenti caddero nuovamente sul mucchio di pesci e cominciarono ad affondare. Manfred tentò di colpire ancora, ma l'ammasso viscido e tremolante rese inefficace ogni sforzo. Così rinunciò e si limitò a tenere immobile Shasa, gravandogli addosso a peso morto e cacciandogli la testa sempre piú giú. Shasa si sentí mancar l'aria. Cercò di gridare ma un pesce gli si infilò in gola attraverso la bocca. Cominciò a scalciare e ad agitar le braccia con tutte le sue forze, ma non riuscí a liberarsi. Stava soffocando. L'oscurità piombò su di lui riempiendogli la testa del suono del vento. Le grida assassine della folla sul pontile si fecero sempre piú lontane. Infine i suoi movimenti divennero fiacchi, come se non lo riguardassero piú. « Sto morendo », penso con distaccato stupore. « Soffoco », fu il suo ultimo pensiero cosciente. « Sei venuta a distruggermi », disse Lothar De La Rey. « Hai fatto tutta questa strada per assistere alla mia rovina, e per poterne godere. » « Non sopravvalutarti », rispose lei. « Non ho tutto questo interesse per la tua persona. Sono venuta a proteggere i miei investimen-
ti. Sono venuta per cinquantamila sterline piú gli interessi. » « Se fosse davvero cosí, non mi avresti fermato proprio adesso. Ho un migliaio di tonnellate di pesce, sulle barche. Per domani sera potrei trasformarle in merce per cinquantamila sterline. » Centaine alzò impazientemente una mano per farlo tacere. La pelle era bruna, in contrasto con il chiarore del diamante sull'anello che aveva al dito: una pietra lunga quasi quanto una falange. « Vivi in un mondo di sogno », disse poi. « Il tuo pesce non vale nulla. Nessuno lo vorrebbe, a nessun prezzo. Certamente non a cinquantamila sterline. » « Ma questo è il suo valore: pesce in scatola e olio... » Ancora la donna lo zittí con un cenno. « I magazzini del mondo intero sono pieni di merci invendute. Non leggi i giornali? Non ascolti le notizie alla radio? Non vale niente, nemmeno il costo di lavorazione. » « Non è possibile », lui replico testardo. « Ho sentito che ci sono problemi di mercato, ma la gente deve pur mangiare. » « Ho pensato spesso a te », disse lei senza alzare la voce, come se spiegasse qualcosa a un bambino, « ma mai come a uno stupido. Cerca di capire che è successo qualcosa che non si era mai verificato. Il commercio si è fermato; le fabbriche chiudono; le strade delle principali città pullulano di disoccupati. » « E tu usi questa situazione come scusa per quel che stai facendo. Tu ti stai vendicando », disse Lothar, e si avvicinò. « Mi stai perseguitando per qualche immaginario torto che ti ho fatto tanto tempo fa... » « Il torto era reale », rispose lei indietreggiando un pò. « E' stata una cosa mostruosa, crudele e imperdonabile. Ma non c'è una punizione adeguata. Se esiste un Dio, te ne chiederà conto. » « Il bambino », proseguì lui. « Il bambino che abbiamo messo al mondo assieme... » « Non nominare il tuo bastardino », disse lei stringendosi una mano con l'altra per bloccarne il tremito. « Ricorda i patti. » « E' nostro figlio. Non puoi negarlo. Ti fa piacere distruggere anche lui? » « E' tuo figlio », lo contraddisse lei. « Non mi riguarda, non ha alcun peso nelle mie decisioni. La tua fabbrica è insolvente, e senza speranza. Non posso certo recuperare interamente i miei investimenti, ma spero di recuperarne una parte. » Attraverso la finestra aperta giungeva il suono di voci concitate, grida di uomini che sembravano una muta di cani in caccia. Nessuno dei due ci fece caso. Erano troppo occupati l'uno con l'altra. « Dammi un'altra possibilità, Centaine », disse Lothar, e subito s'accorse che la sua voce aveva assunto un tono di supplica. Ne fu disgustato: non gli era mai successo prima, nemmeno una volta in vita sua. Ma adesso non tollerava l'idea di dover ricominciare tutto da capo. Non sarebbe stata una novità: gli era già successo in un paio d'occasioni di restare senza niente, a parte il coraggio, la determinazione e l'orgoglio. Come in guerra, e sempre contro lo stesso nemico: gli inglesi e le loro ambizioni di dominio. Ogni volta aveva ricominciato da capo e aveva ricostruito la propria fortuna.
Adesso, la prospettiva gli pareva insopportabile. Essere messo a terra dalla donna con cui aveva generato Manfred, la donna che aveva amato e che contro ogni buon senso - Dio misericordioso amava ancora. Aveva quarantasei anni e non poteva piú contare sulle riserve d'energia di un uomo giovane. Gli sembrò di cogliere nello sguardo di Centaine un'ombra di comprensione, come se le sue parole fossero andate a segno. «Dammi una settimana, Centaine, solo una settimana. Non chiedo altro. » Lei non cambiò espressione. Ma quel che gli era parso un segnale di disponibilità, o pena, era in realtà profonda soddisfazione. Aveva atteso quel momento per anni e anni. « Ti ho detto di non usare il mio nome di battesimo », sibilò. « Te l'ho detto quando ho saputo che tu eri l'assassino di due persone che amavo piú di chiunque altro al mondo. Te lo dico ancora adesso. » « Una settimana. Solo una settimana. » La giovane si volse verso la finestra, incapace di ignorare oltre il vocio selvaggio che proveniva da fuori. « Un'altra settimana non servirebbe che a farti indebitare ancor di piú, e ad aumentare il mio passivo », disse scuotendo la testa. La sua voce s'era fatta tagliente, mentre lei continuava a guardar fuori. « Cosa succede sul pontile? » chiese appoggiandosi al davanzale e sporgendosi. « Shasa! » gridò a un tratto in preda all'ansia. « Dov'è Shasa? » Lothar volteggiò agilmente attraverso la finestra aperta e corse lungo l'imbarcadero, aprendosi un varco a spintoni attraverso la folla di marinai accalcati sul bordo. Suo figlio teneva l'altro per la testa, e lo colpiva ripetutamente. Lothar si fece strada a gomitate e raggiunse i due ragazzi proprio nel momento in cui stavano per cadere sul peschereccio. « Manfred! Fermati! » gridò, e sentì lo schianto di uno dei pugni di Manfred sul cranio di Shasa. « Razza di idioti! » ruggí verso gli spettatori. Il suo richiamo era stato soffocato dalle urla eccitate. Lothar era quasi in preda al panico: un pò per sincera preoccupazione per Shasa, e un pò per le reazioni che avrebbe avuto sua madre. « Lascialo! » gridò ancora, e si slancio in avanti. Ma prima che potesse afferrarli i due ragazzi volarono giú. Lothar cerco di raggiungere la scaletta, ostacolato dalla folla che premeva verso il bordo per non perdere nemmeno un istante della lotta. Questa volta dovette farsi strada a pugni, e finalmente raggiunse il ponte coperto di pesci d'argento. Manfred era addosso all'altro ragazzo, e gli spingeva la testa e le spalle sotto la massa di sardelle. Il suo viso era stravolto dall'ira e tumefatto. Sibilava minacce incoerenti attraverso le labbra gonfie e sanguinanti. Shasa non reagiva piú. La testa era sotto, ma il tronco e le gambe si dibattevano senza forza, come succede a un uomo colpito alla testa da una pallottola. Lothar afferro suo figlio per le spalle e tentò di distoglierlo, ma era come cercare di sottrarre la preda a un mastino. Allora lo solle-
vò di peso e lo scaraventò contro la timoneria con una tal violenza che Manfre1 perse qualsiasi velleità guerriera. Poi prese Shasa per i piedi e lo estrasse dal mucchio di sardelle. Il corpo scivolò fuori, bagnato e sporco. Gli occhi erano aperti, ma le pupille erano rivolte all'indietro e si vedeva solo il bianco della cornea. « Lo hai ucciso », ringhiò Lothar rivolto a suo figlio, e il sangue che l'ira aveva spinto nelle gote di Manfred riflui rapido, lasciando il ragazzo pallido i tremante. « Non volevo, papà, non... » C'era un pesce infilato nella bocca di Shasa, e dalle narici usciva del muco. « Stupido. Piccolo stupido», disse Lothar, infilando il pollice attraverso le labbra livide del ragazzo esanime. La sardella uscì facilmente. « Mi spiace, papà, non volevo... » sussurrò Manfred. « Se l'hai ucciso, hai commesso un terribile peccato », proseguì Lothar prendendo in braccio Shasa. « Avresti ucciso tuo... » Per poco, Lothar non pronunciò la parola fatale, ma riuscì a imprigionarla fra i denti, e si diresse verso la scala. « Non l'ho ucciso. Non è morto », balbettò Manfred. « Fra poco starà meglio di prima; vero, papà? » « No », rispose Lothar cupo, scuotendo la testa. « Non starà mai piú bene... mai piú. » Poi si avviò lungo la scala. La folla si aprì in silenzio al suo passaggio. Come Manfred, gli spettatori erano spaventati e in preda a senso di colpa: tenevano gli occhi bassi. « Swart Hendrick », chiamò Lothar guardando verso il suo aiutante. « Tu dovevi immaginare come sarebbe andata a finire. Avresti dovuto fermarli. » Lothar continuò a camminare: a metà del pontile Centaine lo stava aspettando immobile. Lothar si arrestò di fronte a lei. « E' morto », sussurrò Centaine. « No », rispose Lothar. Quasi volesse confermare, Shasa vomitò dall'angolo della bocca. «Presto», ordinò Centaine, «giralo sul fianco, altrimenti rischia di soffocare nel vomito. » Con il ragazzo adagiato in braccio come un palloncino sgonfio, Lothar corse nell'ufficio. Centaine liberò la scrivania. « Stendilo qui », disse, ma Shasa stava già tentando di mettersi a sedere. La madre lo aiutò sostenendolo per le spalle, e gli ripulì le labbra e le narici con la delicata stoffa della manica. « E' stato il tuo bastardo », chiese lanciando un'occhiata d'odio « E' stato lui a conciare così mio figlio, vero? » Lothar non rispose, ma Centaine non ne aveva bisogno. Lo aveva già capito solo guardandolo negli occhi. Shasa tossì ed eruttò un altro getto di vomito giallo. Subito gli tornarono le forze. Il respiro si fece regolare e gli occhi ricominciarono a vedere. « Fuori di qui », intimò Centaine china sul figlio. « Vi vedrò tutti e due all'inferno, tu e il tuo bastardo. »
La pista attraversava le grandi dune color arancio, seguendo le circonvoluzioni delle valli, e conduceva da Walvis Bay a Swakopmund: un tragitto di trenta chilometri. Le montagne di sabbia torreggiavano d'attorno, alte fino a 250 metri, con i bordi affilati come lame e declivi di velluto che riflettevano il caldo bagliore del sole. La pista non era altro che una traccia scavata dalle ruote nella sabbia e segnata ai bordi da frantumi di bottiglie di birra. Nessuno si sognava di intraprendere un viaggio proprio lì, senza adeguati rifornimenti di liquidi. A tratti, la delimitazione era interrotta dalle profonde buche scavate dalle auto uscite di pista e dai tentativi di strapparle alla morsa della sabbia fine: una vera e propria trappola per chi seguiva. Centaine guidava veloce, mantenendo sempre alti i giri del motore, attraversando di slancio le buche e correggendo la rotta con veloci assestamenti dello sterzo, in modo che la sabbia non facesse a tempo ad accumularsi sul bordo dei pneumatici, arrestando la ruota. Guidava come un pilota da corsa, ben appoggiata allo schienale di cuoio e con le braccia protese e pronte a contrastare la minima sollecitazione del volante. Teneva d'occhio un lungo tratto di pista, anticipando le manovre necessarie, e spesso cambiando marcia per uscire dai solchi quand'era opportuno. Ormai da tempo sprezzava l'elementare precauzione di portarsi dietro un paio di robusti servitori negri che spingessero l'auto in caso di panne. Ma a memoria di Shasa lei non era mai uscita di strada, nemmeno nei tratti peggiori della pista della miniera. Shasa era seduto davanti, di fianco a lei. Indossava un vestito di tela, ruvido ma lavato di fresco, preso dalle scorte della fabbrica. Il suo abito puzzolente di vomito e di pesce era ben chiuso nel portabagagli. Da quando erano partiti non aveva aperto bocca, come se volesse evitare di attrarre l'attenzione. Tuttavia non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Centaine s'era tolta il casco coloniale, e i suoi capelli sciolti volavano al vento, brillanti come antracite bagnata. « Chi ha cominciato? » chiese a un tratto, senza staccare gli occhi dalla strada. Shasa ci pensò su e rispose: « Non saprei. Io ho picchiato per primo ma... » La gola gli doleva ancora, e dovette fare una pausa. « Si? » chiese lei. « Era come se fosse tutto predisposto. Ci guardavamo ed era chiaro che ci saremmo scontrati. » Centaine tacque e lui proseguì: « Mi ha insultato ». « E come? » « Non posso ripetertelo. E' molto volgare. » « Ti ho chiesto come », disse Centaine, e Shasa riconobbe nella sua voce quel tono tagliente, che non ammetteva repliche, a lui ben noto. « Mi ha detto Soutpiel », disse in fretta, abbassando la voce. Per la vergogna distolse gli occhi, e non poté notare gli sforzi di Centaine per non scoppiare a ridere, e il lampo di autentico divertimento che le attraversò lo sguardo. « Te l'avevo detto che era volgare. »
« E così lo hai colpito. Un ragazzo piu giovane di te... » Shasa non sapeva d'essere il piú grande dei due, ma non si stupì che sua madre lo sapesse. Lei sapeva sempre tutto. « Sarà anche piú giovane, ma è un torello afrikaaner alto dieci centimetri piú di me », si difese. Centaine avrebbe voluto chiedergli che aspetto aveva quel ragazzo, se era biondo e attraente come suo padre era stato, e di che colore aveva gli occhi. Invece si limitò a concludere: « E cosí ti ha massacrato... » « Quasi vincevo », protestò fieramente Shasa, « gli ho chiuso gli occhi e gli ho insanguinato per bene la bocca. Quasi vincevo. » « Quasi non è sufficiente », lo interruppe lei. « Nella nostra famiglia vinciamo e basta. » Shasa si agitò a disagio sul sedile, e si schiarí la gola ancora indolenzita. « Non puoi vincere con uno piú grosso e piú forte di te », disse la donna. « Non devi partire all'attacco e farti cacciare un pesce morto in cola. » Shasa arrossí d'umiliazione «Piuttosto devi aspettare l'occasione favorevole, e combattere sul tuo terreno. Non devi accettare la lotta se non sei sicuro di vincere. » Shasa riflettè a lungo, considerando la cosa da ogni lato. « Tu lo hai fatto con suo padre, vero? » chiese piano, e lei fu tanto stupita della sua perspicacia che lo guardò e l'auto uscì dai solchi tracciati nella pista. Con uno scatto Centaine la riportò in carreggiata e poi annuí. « Sí. E' proprio quel che ho fatto. Noi siamo Courteney. Non dobbiamo combattere coi pugni. Noi combattiamo con i soldi, col potere e con la nostra influenza. E su questo terreno nessuno può batterci. » Il ragazzo tacque ancora, come per assimilare ogni parola, poi sorrise. Era bello, quando sorrideva, ancor piú di suo padre. Centaine sentí verso di lui uno slancio d'affetto quasi doloroso. « Me ne ricorderò, la prossima volta che lo incontro. Mi ricorderò quel che mi hai detto. » Nessuno dei due dubitava che Shasa e Manfred si sarebbero incontrati ancora, e certamente avrebbero continuato la lotta iniziata quel giorno. C'era vento di mare. La puzza di pesce marcio era cosí forte che seccava la gola e causava a Lothar profondi conati. I quattro pescherecci erano ancora agli ormeggi, ma le masse di pesce, in coperta, non erano piú d'argento. I mucchi si erano abbassati, e lo strato di sardelle esposto al sole s'era seccato assumendo un color grigio sporco. Mosconi d'un verde metallico, grossi come vespe, ronzavano tutt'attorno. Il pesce nelle stive s'era compresso sotto il gran peso, e dagli ombrinali usciva un getto continuo di sangue e olio che insozzava l'acqua della baia. Lothar aveva passato tutta la giornata alla finestra dell'ufficio a pagare gli operai e i pescatori che sfilavano allineati per uno. Aveva venduto il suo vecchio camion e dei mobili che non appartenendo alla ditta non erano stati pignorati. Un commerciante di Swakopmund, fiutando la disgrazia come gli avvoltoi, era arrivato poco do-
po lo sceriffo, e aveva acquistato tutto a pochi soldi. « C'è una recessione in corso, signor De La Rey », aveva detto. « Tutti vendono e nessuno compra. Ci sto rimettendo, mi creda. » Sommato ai liquidi che Lothar aveva nascosto sotto il pavimento della sua casa, il ricavato gli permetteva di pagare due scellini per ogni sterlina di salario arretrato che doveva agli operai. Non era tenuto a pagarli di persona, ovviamente, la responsabilità era della compagnia. Ma non era tipo da sottrarsi alle proprie responsabilità con dei cavilli, e quella era la sua gente. « Mi spiace », ripeteva a ognuno consegnandogli i soldi. « E' tutto quel che c'è. » E abbassava gli occhi. Quando l'operazione fu conclusa, e tutti i dipendenti si stavano mestamente allontanando a gruppi, Lothar chiuse l'ufficio e consegnò la chiave all'assistente dello sceriffo. Poi, assieme a suo figlio, percorse per l'ultima volta l'imbarcadero e sedette in fondo a esso, le gambe penzolanti sul mare. La puzza di pesce era greve come il loro umore. « Non capisco, papà », disse Manfred attraverso le labbra spaccate. « Abbiamo preso un sacco di pesce. Dovremmo essere ricchi. Cos'è successo? » « Siamo stati imbrogliati », rispose Lothar quieto. Fino a quel momento non aveva provato né ira né amarezza; solo un vago torpore. Due volte, prima d'allora, era stato colpito da una pallottola: da un Enfield 303, il fucile inglese, quando sulla strada di Omaruru cercava di contrastare l'invasione del Sudafrica tedesco da parte di Smuts; e ancora molti anni dopo, dalla Luger della madre di suo figlio. Al ricordo si toccò il petto, e cercò il piccolo rigonfiamento rugoso della cicatrice attraverso il cotone leggero della camicia. Era una sensazione identica: prima lo shock e l'ottuso torpore, poi il dolore e la rabbia. Adesso la collera stava montandogli dentro in ondate nere, e non tentava di resisterle. Anzi, si abbandonava volentieri a quella sensazione: lo aiutava a dimenticare d'essersi abbassato a implorare una donna che lo guardava sprezzante. « Non riusciremo mai a fermarli, papà? » chiese Manfred. Non ci fu alcun bisogno che specificasse di chi stava parlando. Conoscevano i loro nemici. Avevano imparato a conoscerli in tre guerre: nel 1881 c'era stata la prima guerra boera; nel 1899 la grande guerra boera, quando la regina Vittoria aveva spedito da oltre l'oceano le sue moltitudini in divisa kaki a distruggerli, e poi ancora nel 1914... quando il fantoccio degli inglesi Jannie Smuts s'era impegnato a eseguire gli ordini dei suoi padroni. Lothar scosse la testa. La collera gli impediva di parlare. « Ci deve essere un modo », insistette il ragazzo, « noi siamo forti. » Poi si ricordò del corpo di Shasa che si indeboliva sotto la sua presa e involontariamente strinse le mani. « Questa è la nostra terra, papà. Ce l'ha data Dio. E' scritto sulla Bibbia. » Come molti altri, anche gli afrikaner avevano una loro interpretazione di quel famoso passo delle Sacre Scritture: consideravano se stessi il popolo d'Israele, e il Sudafrica la Terra Promessa in cui latte e miele scorrevano a fiumi. Lothar taceva ancora, e Manfred lo prese per una manica:
« Dio l'ha data a noi, vero, papà? » « Sì », annuí cupo il padre. « Allora loro ce l'hanno rubata: la terra, i diamanti, l'oro e tutto il resto. E adesso ci hanno rubato il pesce e le barche. Ci deve essere un modo di riprendergli tutto. » « Non è cosí facile », disse Lothar, ed esitò. Come poteva spiegare al ragazzo qualcosa che non capiva bene nemmeno lui? Erano ridotti come mendicanti in una terra che i loro antenati avevano conquistato, strappandola a fucilate ai selvaggi che l'abitavano. «Quando sarai grande capirai, Manie», disse. «Quando sarò grande troverò il modo di batterli», ribatté Manfred con tanta veemenza che la ferita al labbro gli si riaprí e una goccia scarlatta colò fuori. « Vedrai se non ci riuscirò, papà. » « Be', forse ci riuscirai. Speriamo », rispose Lothar e gli mise un braccio attorno alle spalle. « Ti ricordi il voto che hai fatto al nonno? Io me lo ricorderò sempre. La guerra contro gli inglesi non finirà mai. » Sedettero assieme finché il sole non toccò le acque della baia, tingendole d'un colore bronzeo. Poi spaziarono lungo il pontile nell'ombra della sera, allontanandosi dal fetore attraverso le prime dune. Si avvicinarono a una baracca. Il camino fumava, un fuoco ardeva in mezzo alla cucina. Swart Hendrick, chino su una pentola, alzò gli occhi verso di loro. « L'ebreo si è preso le sedie e il tavolo, ma ho conservato le pentole e i boccali. » Si sedettero sul pavimento e mangiarono direttamente dalla pentola un porridge di granoturco insaporito con pesce disseccato. Nessuno parlò finché non ebbero finito. « Nessuno ti obbligava a restare », disse Lothar e Hendrick alzò le spalle. « Ho comprato caffè e tabacco. I soldi che mi hai dato bastavano appena. » « Non c'è piú niente. Tutto finito. » « E' successo altre volte », disse Hendrick accendendosi la pipa con un tizzone. « Ci hanno già spaccato la schiena. » « Questa volta è diverso. Non ci sono elefanti da cacciare o... » si interruppe, nuovamente soffocato dall'ira. Hendrick gli riempì il boccale di caffè. « E' strano », disse. « Quando l'abbiamo trovata era vestita di pelli. Adesso arriva con un'auto gialla, e noi restiamo in braghe di tela. » « E dire che io e te l'abbiamo salvata, nel deserto », disse Lothar. « Le abbiamo trovato i diamanti e lì abbiamo estratti per lei. » « Adesso che è ricca, è venuta a prendere quel che era nostro. Non avrebbe dovuto farlo », mormorò Hendrick scuotendo la testa. « No, non avrebbe dovuto. » Piano piano, Lothar raddrizzò le spalle. Hendrick notò il cambiamento, e si protese curioso verso di lui. Lothar sorrise per la prima volta da quando era sbarcato. « Si? » chiese Hendrick. « Cosa ti passa per la testa? L'avorio è
finito da tanto tempo... » « Niente avorio. Diamanti. » « Diamanti? Quali diamanti? » « Quali diamanti? » disse Lothar con un sorriso negli occhi gialli. « I diamanti che abbiamo trovato per lei, ovviamente. » « I suoi diamanti? » chiese Hendrick. « I diamanti della miniera H'ani? » «Quanti soldi hai?» chiese Lothar, e Hendrick distolse lo sguardo. « Ti conosco bene, metti sempre qualcosa sotto sale, tu. Quanti? » « Non molti », rispose Hendrick, e fece per alzarsi ma Lothar lo trattenne. « Hai guadagnato bene, la stagione scorsa. So benissimo quanto ti ho dato. » « Cinquanta sterline », grugni Hendrick. « No, hai molto di piú... » «Forse qualcosa», si rassegnò Swart. « Hai almeno cento sterline », stabilì Lothar. « Non ci serve di piú. Dammele e ti torneranno moltiplicate. E' sempre successo così, e sempre succederà. » Il sentiero era ripido e roccioso e la comitiva arrancava di primo mattino. Avevano lasciato la Daimler gialla alle pendici del monte, sulle rive del torrente Liesbeek, e avevano iniziato l'ascesa che era ancor buio. In testa c'erano due anziani individui vestiti in modo dimesso: scarponi ai piedi e cappelli macchiati di sudore in testa. Erano entrambi così magri da sembrare malnutriti, ma erano agili e scattanti, la pelle scura e screpolata di chi ha vissuto molto all'aperto. Un osservatore estraneo avrebbe potuto considerarli una coppia di vecchi manovali: ce n'erano molti come loro a spasso per le strade e i crocicchi in quella fase della Grande Depressione. L'osservatore estraneo avrebbe sbagliato di grosso. Il piú alto dei due saltabeccava agilmente su una gamba di legno ed era un Cavaliere Comandante dell'Ordine dell'Impero, insignito della piú alta onorificenza che il Regno Unito possa offrire, la Victoria Cross. Inoltre era uno dei piú eminenti storici militari del suo tempo, un uomo così ricco e distaccato dalle cose terrene che raramente si accollava il fastidio di inventariare il suo patrimonio o di contare i suoi soldi. « Vecchio Garry », lo chiamò il suo compagno, invece di usare: Sir Garrick Courteney. « Questo è il principale problema con cui dobbiamo fare i conti », aggiunse poi con la sua voce acuta, quasi femminile, arrotando le erre alla maniera di Malmesbury. « La nostra gente diserta le campagne e corre in città. Ma le fabbriche chiudono e non c'è piú lavoro. » Anche se s'era arrampicato per quasi seicento metri su per la Table Mountain, a un ritmo tale che i membri piú giovani della spedizione erano rimasti indietro, l'uomo respirava e parlava senza alcuna difficoltà. « E' la ricetta della catastrofe », assentì Sir Garrick. « In campagna sono poveri, ma in città muoiono di fame. E gli uomini in que-
ste condizioni sono pericolosi. La Storia lo insegna, Ou Baus. » L'uomo che in afrikaans Sir Garrick aveva chiamato « Vecchio capo » era un pò piú basso di statura, ma aveva un portamento ancor piú eretto. Aveva due allegri occhi azzurri nascosti dall'ombra del panama, e una barba grigia che parlando tremava. A differenza di Garry, non era ricco: possedeva solo una piccola fattoria sul Transvaal, e si interessava ai suoi debiti quanto Sir Garrick alla sua fortuna. Ma il suo regno era il Mondo e il Mondo l'aveva riempito di onori. Era stato insignito di lauree ad honorem da una quindicina di università fra le piú importanti, Cambridge, Oxford e Columbia University comprese. Era cittadino onorario di dieci città, fra cui Londra, Edimburgo e altre ancora. Era stato generale dell'esercito dei boeri e adesso era generale dell'esercito inglese, Compagno d'Onore, Consigliere di Sua Maestà e membro della Royal Society. Il suo petto non bastava per tutte le medaglie che aveva diritto di portare. Era senza dubbio l'uomo piú intelligente, saggio e carismatico che il Sudafrica avesse mai espresso. Sembrava che per lui non esistessero confini: era un cittadino del pianeta Terra. Proprio questo era stato il punto debole della sua armatura, e gli avversari ne avevano approfittato per colpirlo con le loro frecce piú velenose. « Il suo cuore è oltremare, non con voi », avevano detto, riuscendo infine ad affossare il partito sudafricano, per il quale era stato Primo Ministro, ministro della Difesa e degli Interni. Adesso era leader dell'opposizione. Tuttavia, pensava preferibilmente a se stesso come a un botanico, solo per necessità soldato e uomo politico. «Forse dovremmo aspettare gli altri», disse il generale Jan Smuts arrestandosi su una roccia piatta coperta di licheni e girandosi verso valle. Poi i due si incamminarono in discesa, tornando sui propri passi. Un centinaio di metri piú sotto, una donna procedeva scura in volto. Le sue ginocchia, sotto la gonna pesante, erano grosse e muscolose come i garretti di una puledra. Le braccia erano robuste come quelle di un marinaio. « Mia piccola colomba », mormoro rapito Sir Garry guardando la sua sposa. Dopo quattordici anni di serrato corteggiamento, era riuscito a impalmarla solo sei mesi prima. « Muoviti, Anna », diceva il ragazzo dietro di lei, « se no arriviamo stasera, e muoio dalla voglia di far colazione. » Shasa era alto quanto lei, ma largo la metà. « Vai avanti, se hai tanta fretta », ruggì lei. Il cappellino da sole era ben calcato sul viso roseo e tondo. Le sue fattezze potevano ricordare un bulldog amichevole. « Anche se non riesco a capire perché mai uno possa desiderare di andare in cima a questa maledetta montagna », aggiunse poi sottovoce. « Ti do una spinta », propose Shasa, e le appoggiò le mani sulle paffute chiappone. « Oh issa! Dai che sale! » « Smettila, ragazzaccio », disse Anna sussultando e aggiustandosi la veste. « Smettila o ti rompo il bastone sulla schiena! » Prima di diventare Lady Courteney, Anna era stata semplicemente Anna, l'amata governante di Shasa e l'amatissima domestica di sua madre. Il suo fulmineo balzo in avanti nella scala sociale non
aveva assolutamente alterato i loro rapporti. Arrivarono ansando e accapigliandosi. « Eccola, nonno! Consegna speciale! » scherzò Shasa rivolto a Garry Courteney, che separò i due con ferma cortesia. Quel ragazzo stupendo e quella donna dalle gote scarlatte erano i suoi tesori piú preziosi: sua moglie e il suo unico nipote. « Anna, non dovresti sovraffaticare così il ragazzo », disse con finta severità Sir Garrick, e la moglie lo colpi col bastone sul braccio metà per gioco e metà per autentica esasperazione. « In questo momento dovrei occuparmi del pranzo, invece di arrampicarmi su una montagna. » Aveva conservato l'accento fiammingo, ma grazie a Dio poté ripiegare sull'afrikaans per chiedere a Smuts: « Manca ancora molto, Ou Baas? » « Non molto, Lady Courteney, non molto. Ah, ecco gli altri. Cominciavo a preoccuparmi. » Centaine e i suoi compagni comparvero da dietro la svolta del sentiero. Lei indossava una gonna larga e leggera, al ginocchio, e un cappellino decorato di ciliege finte. « Sono sfinita, Ou Baas. Posso appoggiarmi a lei per l'ultimo tratto? » E anche se era appena un pò paonazzo per lo sforzo, il generale le offri galante il braccio. Furono i primi a raggiungere la cima. Quelle passeggiate sulla Table Mountain erano il modo tradizionale in cui la famiglia festeggiava il compleanno di Sir Garrick, e il suo vecchio amico Smuts faceva di tutto per non mancare. In vetta, tutti si sedettero a riprendere fiato sull'erba. Centaine e il vecchio generale stettero un pò discosti. Sotto di loro si stendeva la Constantia Valley, interamente in vista, disseminata di vigneti nel loro verde abito estivo e dei frontoni dei castelli olandesi che sotto al sole nascente mandavano barbagli grigio perla. Le montagne del Muizenberg e del Kabonkelberg, avvolte nella foschia, formavano un solido anfiteatro di roccia verso sud. A nord, le lontane montagne battezzate Hottentots Holland separavano il capo di Buona Speranza dal resto del continente. Incuneate fra le montagne, le acque di False Bay spumeggiavano sferzate dall'importuno vento che montava da sud-est. Lo spettacolo era così meraviglioso e imponente che i gitanti rimasero a contemplarlo in silenzio per alcuni minuti. Il generale Smuts fu il primo ad aprir bocca: « Allora, cara Centaine, di cosa volevi parlare? » « Sai leggere i pensieri, Ou Baas? » rispose lei sorridendo. « Come fai a sapere che devo parlarti? » « Alla mia età, se una bella donna mi si mette al fianco, posso star certo che si tratta di affari, e non di piacere. » «Tu sei uno degli uomini piú attraenti che abbia mai conosciuto... » « Un complimento! Allora dov'essere affar serio. » Centaine assunse un'espressione grave, confermando ciò che diceva Smuts. « Si tratta di Shasa », disse semplicemente, e prese un documento d'una sola pagina dalla tasca della gonna. Glielo porse: era una pagella scolastica. Il fregio d'intestazione era una mitra da vescovo, l'emblema della piú esclusiva scuola privata del paese
Il generale la scorse rapidamente. Centaine sapeva che il vecchio ufficiale leggeva in un soffio anche i documenti piú complicati e importanti, quindi non fu contrariata quando - dopo pochi secondi le restituì il foglio. Sicuramente aveva letto tutto, fino all'ultima riga: « Michel Shasa fa onore a se stesso e alla scuola Bishop's ». Il generale sorrise: « Devi essere molto fiera di lui... » aggiunse. « E' tutta la mia vita. » « Lo so », disse Smuts, « e ciò non sempre è saggio. I bambini diventano uomini in fretta, e quando se ne vanno si portano via la tua vita. Comunque, cosa posso fare per aiutarti? » « E' brillante, e ha una personalità molto spiccata. Sa trattare con la gente in modo molto particolare, anche con gli adulti. Mi piacerebbe che avesse un posto in Parlamento, tanto per cominciare. » Il generale si tolse il cappello e si passò le dita fra i capelli. « Non pensi che prima dovrebbe finire gli studi? » chiese sorridendo. « E proprio questo il problema. Vorrei sapere da te se per lui sarebbe meglio frequentare l'università in Patria, a Cambridge o a Oxford, o se la cosa potrebbe metterlo in cattiva luce presso gli elettori, in seguito. E se deve proseguire gli studi qui, è meglio Stellenbosch oppure l'Università di Città del Capo? » « Ci penserò su, Centaine, e ti farò sapere qualcosa quando sarà il momento di decidere. Ma fin d'ora posso metterti in guardia contro un errore, che deriva da un atteggiamento mentale controproducente. » « Sí, Ou Baas? » « La parola "Patria". E' una parola fatale. Shasa deve decidere qual è la sua Patria, se è qui o se è al di là dell'oceano. Se è l'Inghilterra, allora non può contare sul mio aiuto. » « Che stupida! » disse Centaine, ed era davvero irritata con se stessa. Le si scurí il volto, e le labbra si irrigidirono. Soutpiel. Un piede a Londra, l'altro a Cape Town. L'insulto non le parve piú molto divertente. « Non succederà piú », disse mettendogli una mano sul braccio, sincera. « Lo aiuterai? » « Facciamo colazione, mamma? » intervenne Shasa. « Metti il cestino in riva al ruscello! » rispose Centaine, e poi, rivolta al generale: « Posso contare su di te? » « Sono all'opposizione, Centaine... » « Non per molto. Il Paese dovrà prima o poi tornare in sé... » « In ogni modo, devi capire che adesso non posso prometterti niente », insistette il generale, soppesando le parole. « D'altra parte è ancora un bambino. Lo terrò d'occhio. Se mantiene quel che promette ora, e se soddisferà le mie aspettative, gli offrirò tutto il mio appoggio. Dio sa quanto bisogno c'è di uomini di valore. » La donna tirò un sospiro di sollievo, e lui proseguí piú sciolto. « Sean Courteney era un ottimo ministro, nel mio Governo. » Centaine sobbalzò. Quel nome le richiamava alla mente troppi ricordi, una gioia intensa e un dolore insopportabile: troppi pensieri ormai sepolti. Il vecchio ufficiale fece finta di non accorgersene e proseguì: « Era anche un buon amico, una persona fidata sotto tutti i punti di vista. Mi piacerebbe avere un altro Courteney fra i
miei ministri. Un amico leale nel mio Gabinetto ». Jan Smuts si alzò, e aiutò Centaine a fare lo stesso. « Ho fame come Shasa, e c'è un profumo troppo buono per resistere. » Tuttavia, quando il cibo fu servito, il generale mangiò assai parcamente. Gli altri aggredirono invece i piatti con appetito selvaggio, reso ancor piú acuto dalla camminata. Sir Garry prese alcune fette di agnello, maiale e tacchino arrosto, via via che Anna li tagliava. Melton Mowbray preferí uova e prosciutto, conserva di frutta, e spezzatino di piedini di maiale avvolti in una deliziosa gelatina. « Una cosa è certa», disse Cyril Slaine, uno dei funzionari di Centaine, « al ritorno il cesto sarà molto piú leggero. » « E adesso al lavoro! » incitò il generale alzandosi dal suo posto sulle rive del ruscello. « Cominciamo la giornata! » «Tutti in piedi», disse Centaine alzandosi in un turbinio di gonne, gaia come una ragazzina. « Cyril, lascia qui il cestino, lo riprenderemo al ritorno. » Seguirono la cresta del monte, il mondo intero ai loro piedi, finché il generale si arrampicò sulle rocce verso sinistra facendo irruzione in un ciuffo di bassa vegetazione. Un volo di uccelli si levò dai rami. Indignati per l'intrusione, presero quota velocemente, sbattendo le lunghe ali e mostrando il petto colorato di giallo. Solo Shasa riusciva a tener dietro all'anziano ufficiale, e prima che glì altri lì raggiungessero, i due si arrestarono su un costone roccioso. « Siamo qui riuniti », esordi il generale, « e il primo che troverà un disa guadagnerà sei penny! » Shasa sfrecciò via e, prima che gli altri potessero muoversi, lo sentirono gridare eccitato: «Ne ho trovato uno! I sei penny sono miei! » Tutti si radunarono attorno a lui e ammirarono il fiore, disponendosi in circolo. Il generale si inginocchiò, come in preghiera. « E' proprio un disa blu, uno dei fiori piú rari del mondo. E' della famiglia delle orchidee. » Le campanule che adornavano il gambo erano d'un meraviglioso blu ceruleo, a forma di testa di drago, con striature di porpora e bianco avorio. « Crescono sulla Table Mountain, e da nessun'altra parte. » Poi alzò la testa verso Shasa: « Vuoi esser tu, quest'anno, a rendere gli onori a tuo nonno? » Shasa si avvicinò incedendo solennemente, raccolse il fiore e lo porse a Sir Garry. La cerimonia del disa blu era tradizionalmente il fulcro della festa di compleanno, e tutti applaudirono gioiosi. Gonfia d'orgoglio, Centaine ripensò al giorno della nascita di suo figlio e al giorno in cui un vecchio boscimano gli aveva dato il nome di Shasa - Buona Acqua - danzando per lui in una valle sacra nel cuore del Kalahari. Le tornò in mente il canto augurale che il vecchio aveva composto e cantato per quell'evento. La lingua dei boscimani riecheggiò nel ricordo, scattante e pur dolce di fruscii, nitida e familiare e amata.
Le sue frecce voleranno alle stelle e quando gli uomini faranno il suo nome sarà udito così lontano... aveva cantato il vecchio E troverà buona acqua, ovunque andrò troverò buona acqua... Rivide il volto lungo e affilato del vecchio boscimano, ormai morto da chissà quanto tempo, rugosissimo ma ancora brillante d'un bel color albicocca, come ambra o miele scuro. Poi mormorò fra se, in lingua boscimana: « Cosí sia, nonno, così sia ». La Daimler era appena sufficiente a trasportarli tutti. Anna sedeva in grembo a Sir Garry, sommergendolo con la propria abbondanza. Quando Centaine imboccò la tortuosa strada che attraversava i boschi di alberi della gomma, Shasa si sporse da dietro incitandola ad accelerare. « Dài, mamma, hai tolto il freno a mano? » Seduto di fianco a Centaine, il generale teneva lo sguardo fisso al tachimetro: « Non può segnare giusto! Sembra di andare a centocinquanta chilometri l'ora ». Centaine imboccò l'ingresso della tenuta, centrando il muso dell'auto fra le due cancellate. Il frontone rappresentava delle ninfe danzanti, adorne di grappoli d'uva, ed era opera del famoso scultore Anton Anreith. Il nome della tenuta era scritto in grossi caratteri: WELTEVREDEN 1790 « Ben contento » era la traduzione esatta dell'espressione olandese. Centaine aveva acquistato la tenuta non appena pagati i debiti contratti per aprire la miniera di H'ani. Da allora ci aveva dedicato soldi, attenzioni e amore. Rallentò l'andatura fino a passo d'uomo. « Non voglio impolverare le viti », spiegò al generale, e il suo volto era cosí radioso da convincere subito l'anziano ufficiale che mai nome di tenuta era stato altrettanto appropriato. I braccianti di colore che stavano accudendo le vigne si alzarono per salutare. Shasa si sporse chiamando per nome i suoi preferiti, che sorrisero fieri d'esser prescelti. La strada, fiancheggiata da querce imponenti, conduceva al castello attraverso duecento acri di vigne. I prati erano di verdissime erba kikuyu. Il generale Smuts ne aveva portati alcuni ciuffi dalla Campagna d'Africa Orientale, nel 1917, e aveva scoperto che attecchiva bene in tutto il paese. Al centro del prato c'era la torre della campana, ancora usata per segnalare l'inizio e la fine del lavoro, come al tempo degli schiavi. Il castello aveva massicce muraglie bianche, il tetto merlato, e torri poliedriche disegnate da Anreith. La servitú si affrettò attorno all'auto gialla. « Il pranzo alle tredici e trenta », si limitò a ingiungere Centaine. Poi si rivolse al generale e disse: « Ou Baas, so che Sir Garry vuole
leggerti gli ultimi capitoli che ha scritto. Cyril e io abbiamo una mattinata piena di lavoro ». Si interruppe un attimo, poi si rivolse a Shasa: « E tu dove credi di andare? » « Io e Jock pensavamo di allenare il nuovo cavallo da polo. » L'animale era un regalo di compleanno di Cyril per Shasa. «Madame Claire ti starà aspettando», gli ricordò Centaine. « Non eravamo d'accordo che dovevi dedicare un pò di tempo alla matematica? » « Ma, mamma, oggi è un giorno di festa... » « Ogni giorno che passi inattivo, qualcun altro lavora. Quando lo incontrerai ti batterà... » « Oh mamma... » disse Shasa. Aveva sentito quell'adagio centinaia di volte. Guardò il nonno cercando un appoggio. « Devi fare matematica », lo deluse Sir Garry. « Ma come dicevi prima, oggi è un giorno di festa, e sono sicuro che dopo la lezione Centaine ti lascerà qualche ora di libertà. » Shasa guardò la madre speranzoso. « Posso spezzare una lancia per il mio giovane campione? » chiese il generale. Centaine dovette capitolare. « Hai dei complici di prim'ordine », disse a Shasa, « ma in ogni modo dovrai lavorare con la signora Claire fino alle undici. » Shasa si mise le mani in tasca e con le spalle curve andò a cercare l'insegnante. Anna sparí in casa a mobilitare i domestici, mentre Garry accompagnò il generale in studio, a discutere il suo nuovo manoscritto. « Bene », disse Centaine rivolgendosi a Cyril, « andiamo a lavorare. » L'uomo la seguì attraverso i pesanti portali in teak, e lungo tutto il corridoio. I tacchi risuonarono a lungo sul marmo del pavimento. Infine i due giunsero all'ufficio, che era l'ultima stanza. Gli altri funzionari lì stavano aspettando. Centaine non sopportava la presenza continua di persone del suo stesso sesso. I suoi piú stretti collaboratori erano tutti maschi, e piuttosto attraenti. L'ufficio era pieno di fiori. Ogni giorno era rifornito direttamente dai giardini di Weltevreden. Quel giorno brulicava di ortensie blu e di rose gialle. Centaine sedette al tavolo Luigi XIV che usava come scrivania. Le gambe erano di bronzo finemente lavorato, e il piano era ricco e « importante » come tutti i promemoria che vi si accatastavano. C'erano una dozzina di fotografie del padre di Shasa, in cornici d'argento, che documentavano tutta la sua vita, dai tempi della scuola ai mesi nell'aviazione di Sua Maestà. L'ultima lo raffigurava assieme ad altri piloti della sua squadriglia, in piedi accanto ai loro ricognitori monoposto. Le mani in tasca, il cappello buttato indietro, Michael Courteney le sorrideva con l'aria di non avere alcun dubbio sulla propria immortalità. Non doveva averne avuti nemmeno il giorno in cui era morto bruciato nel rogo del suo aereo. Centaine si sistemò sulla poltrona e mise a posto le fotografie, muovendole di pochi millimetri. Le domestiche non trovavano mai la posizione esatta. « Ho dato un'occhiata al contratto », disse a Cyril non appena questi si fu seduto sulla sedia di fronte a lei. « Ci sono solo due clau-
sole che non mi soddisfano. La prima è la ventisei. » Cyril la rintracciò diligentemente, e il lavoro della giornata iniziò. La miniera era sempre la prima preoccupazione di Centaine. Era la fonte da cui sgorgava tutto il resto. Mentre lavorava sentí l'anima tornare nelle vastità del Kalahari, fra quelle montagne blu e quelle valli che avevano celato per millenni le ricchezze su cui lei era incappata, il ventre grosso della prima gravidanza, come un animale libero e selvaggio. Il deserto aveva catturato una parte di lei. « Domani », pensò. « Domani io e Shasa ci torniamo. » Anche le vigne verdeggianti e i giardini di Weltevreden, naturalmente, la commuovevano fin nel profondo, ma le succedeva di stufarsene. Allora doveva tornare nel deserto, dove il sole le avrebbe purificato l'anima. Firmato l'ultimo documento, lo passò al primo segretario per la controfirma e andò alla finestra. Shasa, libero da impegni, stava addestrando il pony sotto lo sguardo attento di Jock. Era un cavallo un pò troppo grosso, per la nuova limitazione del peso imposta dalla Federazione Internazionale del Polo. Ma si muoveva assai bene. In fondo al prato, Shasa lo fece voltare e torno al gran galoppo. Jock gli tirò una palla e il ragazzo colpí di rovescio con la mazza. Sapeva stare in sella, e per la sua età aveva le braccia forti. Il colpo riuscí perfettamente, e la palla schizzò verso Centaine che ne seguí la traiettoria nel chiarore del sole. Shasa tirò le redini e arrestò il cavallo per ripetere la manovra nella direzione opposta. Quando ripassò vicino a Jock, l'istruttore gli servi un'altra palla, ma questa volta Shasa la colpì male, facendola caracollare mollemente sull'erba. « Vergogna, signorino Shasa! » disse Jock. « Hai falciato ancora! Devi portare il colpo con la spalla. » Jock Murphy era stato una scoperta di Centaine. Era un uomo massiccio, muscoloso, con il collo taurino e la testa completamente calva. Aveva fatto di tutto: Royal Marine, pugile professionista, trafficante d'oppio, maestro d'armi per un maragià indiano, allenatore di cavalli da corsa, buttafuori in un club di gioco d'azzardo di Mayfair. Adesso era l'allenatore di Shasa. Era un campione di tiro col fucile da guerra e da caccia, e con la pistola. Sapeva giocare magnificamente a polo e sul ring era formidabile: durante un incontro aveva ucciso un uomo; aveva partecipato al Trofeo Nazionale d'Ippica e trattava Shasa come un figlio. Una volta ogni tre mesi si gonfiava di whisky e diventava un demonio in carne e ossa. Allora Centaine mandava qualcuno all'ufficiò di polizia a pagare i danni e la cauzione. Lui si presentava il giorno dopo nel suo ufficio a giurare che non sarebbe mai piú successo, il cappello stretto al petto. « Mi dia un'altra possibilità, signora. Non so cosa mi abbia preso... » Quella sua debolezza permetteva a Centaine di giocarselo come una pedina e di fargli fare tutto quel che voleva. Non c'era lavoro per loro a Windhoek. Quando arrivarono, dopo un viaggio a piedi o sul cassone di qualche camion che lì aveva
presi a bordo, andarono subito all'accampamento di diseredati presso la linea ferroviaria, in periferia. Per tacito accordo, era permesso accamparvisi a chiunque non avesse lavoro. C'erano già un centinaio di disperati con le loro famiglie, e la polizia lì guardava con sospetto. Le capanne erano fatte di cartone e lamiera ondulata e di fronte a ognuna d'esse si ammassavano donne e uomini. Solo i bambini, magri, abbronzati e laceri, davano segni di vitalità, ingaggiando sfrenati caroselli tutt'attorno. Il campo odorava di legna bruciata e latrine. Qualcuno aveva piantato un cartello sulla ferrovia, scritto a mano: « Vaal Hartz? Per l'inferno, no! » Chiunque richiedesse l'assistenza dell'Ufficio di Collocamento veniva infatti per prima cosa spedito a lavorare all'immane progetto di irrigazione e bonifica dell'enorme valle del fiume Vaal Hartz. Un lavoro massacrante per due scellini al giorno. Voci sulle condizioni dei manovali erano rimbalzate al campo, e la polizia aveva dovuto soffocare dei disordini. I posti migliori del campo erano già occupati. I nuovi arrivati si sistemavano sotto un cespuglio, assicurando fogli di cartone ai rami piú alti per proteggersi dal sole, Swart Hendrick era già al lavoro attorno al fuoco e gettava manciate di farina in una pentola d'acqua bollente. Quando Lothar tornò da un'inutile ricerca di lavoro in città, alzò appena la testa. Lothar scrollò il capo, e lui tornò a concentrarsi sulla cucina. « Dov'è Manfred? » Hendrick glielo indicò con un cenno. Una dozzina di uomini stavano raggruppati ad ascoltare un individuo alto e barbuto che teneva un discorso. Aveva l'espressione intensa e gli occhi feroci di un fanatico. « Mal Willem », grugni Lothar, cercando la testa bionda di Manfred fra le altre. Una volta assicuratosi che Manfred fosse al sicuro, prese la pipa dalla tasca della camicia e la riempì di Magaliesberg. La pipa puzzava, e il tabacco era aspro e secco, ma costava poco. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un mozzicone di sigaro. Accese la pipa con un tizzone. Il sapore era disgustoso, ma l'effetto del tabacco fu fulmineo. Passò la borsa a Hendrick e si appoggiò al tronco del cespuglio. « E tu cosa hai trovato? » Hendrick aveva passato tutta la notte e parte della mattinata nel quartiere negro, dall'altro capo della città: se vuoi sapere tutto dei padroni, chiedilo ai servi che preparano la tavola e rifanno i letti. « Ho scoperto che non si può avere a credito nemmeno un bicchier d'acqua... e che le ragazze di Windhoek non lo fanno piú solo per amore », rispose sorridendo. Lothar sputò tabacco e diede un'altra occhiata al figlio. Lo preoccupava il fatto che non cercasse la compagnia di quelli della sua età. D'altra parte, gli adulti lo accettavano. « E poi? » chiese. « L'uomo si chiama Fourie. Ha lavorato in miniera per dieci anni. Viene qui con quattro o cinque camion una volta al mese e torna indietro carico di merci », disse Hendrick, e per un attimo tornò a occuparsi della preparazione del pasto, aggiungendo farina nella
pentola e legna sul fuoco. « Va, avanti. » « Il primo lunedí di ogni mese, invece, viene con un piccolo camion e quattro uomini armati di fucili da caccia e pistole. Vanno direttamente alla Standard Bank, nella via principale. Il direttore e alcuni impiegati escono da una porta secondaria. Fourie e uno dei suoi uomini scaricano una piccola cassa di metallo e la portano dentro. Poi vanno tutti al bar e bevono fino all'ora di chiusura. Il mattino dopo tornano alla miniera. » « Una volta al mese », ripetè Lothar. « Depositano l'intera produzione di un mese. » « Hai detto che vanno al bar? » chiese dopo una pausa e, quando il grosso negro annuí, aggiunse: « Ho bisogno di almeno dieci scellini ». « Per far che? » chiese Hendrick, sospettoso. « Uno di noi deve andare a bere qualcosa in quel bar, e siccome lì non servono i negri... » Lothar sorrise maliziosamente, poi alzò la voce e chiamò: « Manfred! » Il ragazzo era talmente affascinato dalle chiacchiere che stava ascoltando che non s'era nemmeno accorto dell'arrivo di suo padre. Saltò in piedi come una molla. Hendrick riempì una ciotola di porridge e ci versò sopra un mestolo di maas, denso latte cagliato. Poi passò il cibo a Manfred che nel frattempo s'era seduto vicino al fuoco. « Lo sapevi che è tutta una manovra degli ebrei proprietari delle miniere d'oro di Johannesburg, papà? » chiese Manfred con gli occhi brillanti di chi s'è appena convertito alla Vera Fede. « Cosa? » grugni Lothar. «La Depressione», rispose Manfred sillabando solennemente quella parola importante che aveva appena imparato. « E' stato tutto architettato dagli ebrei e dagli inglesi, per avere a disposizione tutti gli uomini che vogliono a poco prezzo, per farli lavorare nelle fabbriche e nelle miniere. » « Davvero? » fece Lothar sorridendo mentre alzava il cucchiaio pieno di porridge e latte. « E sono stati loro anche a provocare la siccità? » Pur se il suo rancore verso gli inglesi era grande, non erano stati loro ad architettare questo piano diabolico per rovinare tutte le fattorie della sua gente, inaridendo i campi e riducendo le bestie a mummie rinsecchite dalla fame. Lothar preferiva non travalicare i limiti della ragionevolezza. « E' così, papà », protestò Manfred. « Oom Willem ce l'ha spiegato per bene. » Poi si tolse di tasca un giornale e lo porse al padre. Era Die Vaderland, una pubblicazione in afrikaans: «La Patria ». Manfred indicò tremando d'indignazione una vignetta, sotto il titolo. « Guardate cosa ci fanno gli ebrei! » La vignetta raffigurava un uomo in frac e cilindro, col fermacravatta di diamanti e anelli preziosi a ogni dito. Dalle tasche gli uscivano mazzi di banconote. Era un personaggio ricorrente sulla prima pagina del giornale: aveva le labbra grosse e sporgenti, un gran naso a becco e scuri ricci semitici. Nel disegno brandiva una frusta, e stava accanto a un treno diretto verso lontane torri recanti la scritta « miniere d'oro ».
Sul treno erano stivati come animali uomini e bambini emaciati e sofferenti, donne scheletriche con gli occhi incavati. Erano in costume tradizionale, tutti laceri: le donne con le cuffie dette voortrekker e gli uomini con cappellacci a cencio che non davano adito a dubbi. Ma l'anonimo artista ce l'aveva anche scritto sotto che erano Die Afrikaner Volk, ovvero il popolo afrikaan. Lothar sorrise e restituì il giornale. Nella vita aveva conosciuto un pò d'ebrei, ma nessuno somigliava a quello lì. Molti lavoravano sodo come tutti gli altri, e con ogni probabilità adesso erano anche loro alla fame. « Se fosse così semplice... » disse scuotendo la testa. « Ma lo è, papà. Tutto quello che dobbiamo fare è sbarazzarci degli ebrei. L'ha spiegato Oom Willem. » Lothar stava per rispondere quando si accorse che l'odore del cibo aveva attirato tre bambini. Si mantenevano discretamente a distanza ma non perdevano d'occhio il cucchiaio nemmeno un istante, e ne seguivano il tragitto dal piatto alla bocca. La vignetta perse qualunque interesse. C'era una ragazzina di circa dodici anni, coi capelli biondi e fini come l'erba del Kalahari d'inverno. Era cosí magra che la sua faccia sembrava tutta occhi, ma aveva la fronte alta e liscia e gli zigomi sporgenti. I suoi occhi erano azzurri come il cielo del deserto. La sua veste era fatta di sacchi di farina cuciti insieme, e non aveva scarpe. Attaccate alla sua sottana c'erano due bambine piccole coi capelli rasati e le orecchie a sventola. Le gambe sottili erano abbronzate e parevano schizzar fuori dai laceri abitini kaki. La minore si succhiava il pollice di una mano e con l'altra stringeva un lembo della gonna a cui si appendeva. Lothar distolse gli occhi, ma subito il cibo perse il suo sapore. Ormai faceva fatica a inghiottire. Hendrick guardava da un'altra parte mentre Manfred era ancora tutto preso dal giornale. « Se gli do da mangiare, avrò addosso tutti i bambini del campo », mormoro Lothar, e decise di non consumare piú i pasti in pubblico. « Ci basta appena per stasera. Non possiamo dividerlo », confermò Hendrick. Lothar alzò il cucchiaio, ma lo lasciò cadere subito. Guardò il cibo che aveva nel piatto e poi lo porse alla ragazza che si avvicinò timida. « Prendi », disse Lothar, con malagrazia. « Grazie, zio », sussurrò lei. « Dankie, Oom. » Avvolse il piatto nella gonna per nasconderlo a occhi indiscreti e se ne andò tirandosi dietro le sorelline. Dopo un'ora tornò. Piatto e cucchiai erano stati lavati fino a farli brillare. « Oom, hai forse una camicia o qualcos'altro che ti possa lavare? » Lothar aprí il fagotto e tira fuori il suo vestito e quello di Manfred, ancora sporchi. La sera lei lì portò indietro, odorosi di soda e diligentemente piegati. « Mi spiace, Oom, non te lì posso stirare. » « Come ti chiami? » le chiese a un tratto Manfred. Lei si guardò
intorno e arrossì violentemente. « Sarah », sussurrò a occhi bassi. Lothar si abbottonò la camicia pulita. « Tira fuori 'sti dieci scellini », comandò. « Qui ci tagliano la gola se sospettano che abbiamo tutti quei soldi », protestò Hendrick. « Dài, non farmi perder tempo. » « E' l'unica cosa che non ci manca... » Contando il barista, c'erano solo tre persone nel bar all'angolo quando Lothar ci entrò. « Non c'è una gran folla stasera», osservò Lothar ordinando una birra, e il barista grugni. Era un ometto insignificante, con una massa di capelli grigi e gli occhiali cerchiati in ferro. «Ti pago da bere», disse Lothar, e l'espressione dell'uomo cambiò. « Prendo un gin, grazie. » Lo versò da una bottiglia particolare, che teneva sotto il banco, e tutti e due sapevano che il liquido incolore era acqua pura e che lo scellino d'argento finiva dritto nelle tasche del barista. « Alla salute! » L'uomo si piegò sul banco, pronto alla massima affabilità in cambio di uno scellino e la possibilità di un altro. Chiacchierarono oziosamente, trovandosi in pieno accordo sulla durezza dei tempi, sul fatto che le cose erano destinate ad andare ancora peggio, che ci voleva un pò di pioggia e che era tutta colpa del governo. « Da quanto tempo si trova in città, lei? E' la prima volta che la vedo. » « Sono qui da ieri... ed è già troppo », sorrise Lothar. « Non ho afferrato il suo nome. » Quando Lothar glielo disse, per la prima volta mostrò un genuino interesse. « Ehi! » gridò agli altri avventori. « Sapete chi è questo signore? E' Lothar De La Rey! Vi ricordate gli avvisi di taglia affissi durante la guerra? E' l'uomo che ha spezzato il cuore ai rooinekke! » Il termine significava « colli rossi », ed era uno spregiativo per indicare gli inglesi appena arrivati, il cui collo si arrossava per il sole. « Amici, questo è l'uomo che ha fatto saltare il treno a Gemsbokfontein. » L'approvazione degli altri clienti era così decisa che uno di loro si spinse fino a offrirgli una seconda birra, anche se prudentemente limitò la sua generosità al solo Lothar. « Cerco lavoro », disse Lothar quando ebbero fatto amicizia. Vi fu una risata generale. « Ho sentito che c'è lavoro alla miniera H'ani », insistè Lothar. « Se ci fosse, io lo saprei », gli assicurò il barista. « Gli autisti della miniera vengono qui tutte le settimane. » « Metteresti una buona parola per me? » domandò Lothar. « Farò qualcosa di piú. Tu passa di qui lunedí e ti farò fare conoscenza con Gerhard Fourie, l'autista capo. Siamo amiconi. Lui è informato di qualunque cosa accada alla miniera. » Quando Lothar uscí, era ormai divenuto uno di loro. Quattro sere piú tardi, quando si rifece vivo, il barista lo salutò ad alta voce.
« C'è Fourie », disse a Lothar. « All'altro capo del bar. Vi presento quando ho finito di servire questa gente qui. » I locali del bar erano semipieni, quella sera, e Lothar ebbe la possibilità di studiare il suo uomo in pace. Era un tipo dall'aspetto poderoso, di mezza età, con un ventre floscio e alquanto prominente a causa delle ore trascorse al volante. Nascondeva la calvizie con un riporto di capelli che crescevano sopra l'orecchio sinistro, aiutato da parecchia brillantina. Aveva maniere rozze ma franche, e parlava ad alta voce; lui e i suoi uomini avevano l'aspetto soddisfatto di chi ha appena concluso un lavoro difficile. Non sembrava uno che si potesse minacciare o spaventare, ma Lothar non aveva ancora preso una decisione sull'approccio da adottare. Il barista gli fece un cenno. « Vorrei farti conoscere un caro amico. » Si strinsero la mano. L'autista trasformò la stretta in una specie di gara, ma Lothar se l'era un pò aspettato e gli aveva preso le dita anziché il palmo, in modo che l'altro non potesse far forza. I loro sguardi si incrociarono e i due rimasero a fissarsi finché l'autista non sbatté le palpebre, cercando di ritirare la mano. Lothar lo lasciò. « Ti offro da bere. » Lothar si sentiva piú a suo agio, adesso: Fourie non era cosí duro come teneva a presentarsi, e quando il barista spiegò chi era Lothar e raccontò una versione esagerata delle sue prodezze di guerra, l'atteggiamento di Fourie si fece ossequioso, quasi servile. «Ascolta, amico. » Tirò Lothar da parte e abbassò la voce. « Erik mi ha detto che cerchi un posto alla miniera H'ani. Be', non c'è niente da fare. E' piú di un anno che non prendono nessuno. » « Sí. » Lothar annuí in tono di rimpianto. « Da che ho parlato di quel lavoro con Erik, mi hanno spiegato come stanno davvero le cose alla miniera H'ani. Non sarà facile, per tutti voi. » L'autista parve a disagio. « Di che cosa stai parlando, amico? Perché dici che non sarà facile per noi? » « Be', pensavo lo sapessi. » Lothar si finse stupito per l'ignoranza del suo interlocutore. « In agosto chiuderanno la miniera. Daranno il benservito a tutti. » « Cristo, no! » Gli occhi di Fourie erano pieni di paura. « Non è vero! Com'è possibile? » L'uomo era un codardo e per giunta un credulone, facile da impressionare e ancor piú facile da influenzare. Lothar ne fu malignamente lieto. « Mi spiace, ma è meglio sapere come stanno le cose, no? » « Chi te l'ha detto? » Fourie era terrorizzato. Ogni settimana passava col suo camion dall'accampamento degli hobo, gli straccioni della Grande Depressione, vicino alla ferrovia. Aveva visto le legioni dei disoccupati. «Esco con una delle donne che lavora per Abraham Abrahams. » Era l'avvocato che sbrigava tutti gli affari della miniera H'ani a Windhoek. « Ha visto la lettera della signora Courteney, da Città del Capo. Non c'e il minimo dubbio. La miniera sta per chiudere. Non riescono piú a vendere i diamanti. Non c'è nessuno che compra, neppure a Londra o a New York. » « Oh, mio Dio! Mio Dio! » sussurrò Fourie. « Che cosa faremo?
Mia moglie non sta bene e abbiamo sei figli. Gesú mio, i miei bambini moriranno di fame! » « Ma no, vecchio mio! Uno come te avrà sicuramente da parte un duecento bigliettoni. Non ti succederà niente di tragico. » Ma Fourie scosse la testa. « Be', se non hai niente da parte, ti conviene metter via un pò di soldi fra adesso e agosto, finché hai un lavoro. » « E come si fa? Con moglie e sei figli! » si lagnò Fourie, senza speranza. « Ho una cosa da dirti. » Lothar gli prese il braccio, con una stretta da amico preoccupato. « Usciamo di qui. Prendo una bottiglia di brandy. Andiamo da qualche parte dove si possa fare due chiacchiere. » Il sole era gia sorto quando Lothar tornò al campo, la mattina dopo. Avevano vuotato la bottiglia di brandy mentre le ore passavano una dopo l'altra, e avevano parlato. L'autista era intrigato e tentato dalla proposta di Lothar, ma tentennava perché aveva paura. Lothar era stato costretto a spiegargli ogni particolare del suo progetto, e a convincerlo punto per punto. Soprattutto per quel che riguardava la sicurezza di Fourie. « Nessuno potrà venirti a prendere. Ti do la mia parola d'onore. Sarai al sicuro anche se qualcosa dovesse andare male... e non andrà male proprio niente, te lo assicuro. » L'aveva convinto. Lothar aveva dato fondo alle sue arti di persuasione, e ora che si trascinava attraverso l'accampamento era stanco morto. Si accoccolò a fianco di Hendrick. « Caffè? » domandò, ruttando una zaffata di brandy. Hendrick scosse la testa. « Non ce n'è piú. » « Dov'è Manfred? » Hendrick accennò col mento. Manfred stava seduto sotto un arbusto spinoso all'estremità opposta del campo. La ragazza, Sarah, era accanto a lui, e le loro teste bionde quasi si toccavano mentre i due scorrevano un fascio di giornali. Manfred scriveva sui margini con un legnetto carbonizzato preso da uno dei fuochi del campo. « Manie le sta insegnando a leggere e scrivere », spiegò Hendrick. Lothar borbottò e si sfregò gli occhi iniettati di sangue. La testa gli faceva male per tutto il brandy che aveva bevuto. « Bene », disse. « Ho trovato il nostro uomo. L'abbiamo in tasca, ormai. » « Ah! » sogghignò Hendrick. « Allora ci servono i cavalli. » Il vagone ferroviario privato era stato un tempo di Cecil Rhodes, poi della società diamantifera De Beers. Centaine Courteney l'aveva comprato usato per una frazione del prezzo di un vagone nuovo, cosa che le dava molta soddisfazione. Era ancora una francese e conosceva il valore del denaro. Aveva chiamato da Parigi un giovane designer per rifare l'interno in stile art dèco, che faceva furore, e adesso non rimpiangeva neanche un penny dell'onorario che gli aveva pagato. Diede uno sguardo tutt'intorno, apprezzando le linee sobrie del-
l'arredamento, le capricciose ninfe ignude che reggevano i lampadari di bronzo, i disegni di Aubrey Beardsley incisi con maestria squisita nei pannelli di legno leggero, e le tornò in mente la prima impressione che le aveva fatto il designer: un omosessuale dai riccioli fluenti, gli occhi scuri e languidi, i lineamenti di un fauno stupendo, ma cinico e blasé. La prima impressione si era rivelata del tutto erronea, come aveva scoperto, non senza gioia, sul letto circolare che lui aveva installato nella stanza principale del vagone. Al ricordo sorrise, ma dovette subito tornar seria perché Shasa la stava osservando. « Sai, mamma, alle volte mi pare di poter leggere il tuo pensiero semplicemente guardandoti negli occhi. » Aveva l'abitudine di dir queste cose sconcertanti, e Centaine si sentí certa che fosse cresciuto un altro paio di centimetri nell'ultima settimana. « Spero proprio che non sia così. » Ebbe un brivido. « Fa freddo qui. » Il designer aveva incorporato, con una spesa enorme, una macchina che raffreddava l'aria nel salone. « Spegni quell'aggeggio, chéri, per favore. » Si alzò dalla scrivania e uscí sul balconcino del vagone, attraversando le porte di vetro zigrinato. L'aria calda del deserto le si precipitò addosso e le incollò le vesti sul corpo, mettendo in evidenza gli stretti fianchi da ragazza. Alzò il viso al sole e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli corti e ricciuti. « Che ora è? » domandò, sempre a occhi chiusi e con il viso alzato, e Shasa, che l'aveva seguita, si appoggiò alla balaustra e consultò l'orologio da polso. « Fra dieci minuti dovremmo essere sul ponte che attraversa l'orange, se il macchinista rispetta l'orario. » « Non mi sento mai a casa mia finché non ho passato l'Orange. » Centaine si sporse accanto a suo figlio e gli infilò una mano sottobraccio. Il fiume Orange raccoglie le acque del bacino occidentale del cono sud dell'Africa. Nasce in alto, fra le montagne innevate del Basutoland, e scorre per oltre duemila chilometri attraverso l'erboso veld e le gole selvagge. In certi periodi dell'anno è un rigagnolo limpido e sonnolento, in altri una tonante massa d'acqua bruna che trasporta un fertile limo color cioccolato, al punto da meritare all'Orange il soprannome di « Nilo del Sud ». Il fiume segnava il confine tra la Provincia del Capo e l'ex colonia tedesca dell'Africa Sudoccidentale. La locomotiva fischiò e i freni stridettero, facendo tremare gli attacchi del vagone. « Stiamo rallentando per imboccare il ponte. » Shasa si sporse dal balconcino, e Centaine si dovette trattenere per non dirgli di stare attento. « Domando scusa, ma non può mica trattarlo sempre come un bambino, signora », l'aveva avvisata una volta Jock Murphy. « E' un uomo ora, e un uomo corre i rischi che vuole. » I binari descrivevano una curva in discesa verso il fiume, e si riusciva a vedere la Daimler che viaggiava su un vagone scoperto dietro la locomotiva. Era nuova, perché Centaine cambiava macchina ogni anno. Era gialla come tutte quelle che l'avevano preceduta, ma il cofano era nero, e cosí pure i fregi intorno alle portiere. Il treno faceva
risparmiare un viaggio massacrante attraverso il deserto, ma da Windhoek alla miniera la ferrovia non c'era. « Eccolo! » esclamò Shasa. « Ecco là il ponte! » La struttura d'acciaio appariva leggera come una piuma, ragnatela tesa per ottocento metri sui piloni di cemento che scandivano il letto del fiume. La pulsazione regolare delle ruote motrici si alterò quando imboccarono la prima campata, e le travi d'acciaio sottostanti risuonarono come un'orchestra. « Il fiume dei diamanti », bisbigliò Centaine mentre si sporgeva con Shasa, a spalla a spalla, e scrutava giú fra le acque color caffè che mulinavano tra i piloni del ponte. « Da dove vengono i diamanti? » chiese Shasa. Sapeva benissimo qual era la risposta, ma gli piaceva sentirselo spiegare da lei. « Il fiume lì raccoglìe da tutti i crepacci e le grotte che incontra. Trascina quelli che sono stati proiettati in aria dalle eruzioni vulcaniche ai primordi di questo continente. Per centinaia di milioni di anni ha concentrato i diamanti e lì ha portati giú verso la costa. » Lo guardò di sottecchi. « E mi sai dire perché non vengono erosi, come tutti gli altri ciottoli? » « Perché sono la sostanza piú dura che si trovi in natura. Non c'è nulla che possa usurare o incidere un diamante », rispose lui con prontezza. « Niente è piú duro di un diamante, e niente è piú bello », concordò lei, e tenne la mano davanti al viso del figlio in modo che il grande brillante che portava al dito lo abbacinasse. « Arriverai ad amarli. Tutti quelli che lavorano coi diamanti lì amano. » « Il fiume », le ricordò lui. Shasa amava la voce di sua madre. Il suo accento, dove a tratti risuonava qualche asperità, lo incuriosiva. « Dimmi qualcosa del fiume », disse in tono di comando, e ascoltò avidamente mentre lei proseguiva. « Quando il fiume sbocca nel mare, i diamanti sono ormai stati sparpagliati lungo le sue spiagge. Queste spiagge sono cosí ricche di diamanti da essere dichiarate territorio proibito, Spieregebied. » « Vuoi dire che uno si può riempire le tasche di diamanti, raccoglierli come frutti caduti dall'albero? » « No, non è davvero cosí facile! » rise lei. « Puoi andare avanti vent'anni a cercare senza trovare neppure una pietra, ma se sai dove guardare e hai qualche attrezzatura, anche primitiva, e inoltre un bel pò di fortuna... » « E perché non lo possiamo fare noi, mamma? » « Perché vedi, mon chéri, altri sono arrivati prima. Tutto appartiene a un uomo chiamato Oppenheimer - Sir Ernest Oppenheimer e alla sua società, che è la De Beers. » « Una sola società possiede tutto quanto. Non è giusto! » protestò lui, e Centaine fu deliziata di notare la scintilla che brillava nei suoi occhi. Senza un pò di avidità, non sarebbe stato in grado di portare avanti i progetti che Centaine aveva in mente per lui. Erano piani accurati, e richiedevano che lei gli insegnasse a essere avido, di ricchezza e di potere. « Le concessioni del fiume Orange sono sue », annuí lei, « e sono sue anche le miniere di Kimberley, Wesselton, Bultfontein e tutte le
altre grandi miniere, ma, piú ancora che questo, Oppenheimer ha in mano la vendita di ogni singola pietra, anche di quelle che produciamo noi, quei pochi indipendenti... » « Ha in mano anche noi... Ha in mano la miniera H'ani? » domandò Shasa indignato, con le gote in fiamme. Centaine annuì. « Dobbiamo offrigli ogni diamante che estraiamo. La sua Central Selling Organization fissa i prezzi. » « E noi siamo costretti ad accettarli? » « No, per carità! Ma sarebbe molto poco avveduto da parte nostra se lì respingessimo. » « Che cosa potrebbe farci se rifiutassimo? » « Shasa, te l'ho già detto molte volte. Non lottare contro chi è piú forte di te. Non c'è molta gente piú forte di noi - perlomeno in Africa -, ma Sir Ernest Oppenheimer è uno di quelli che lo sono. » « Sì, ma che cosa ci potrebbe fare? » insistè Shasa. « Mangiarci vivi, mio caro, e niente gli darebbe piú piacere. Ogni anno che passa diventiamo piú ricchi e piú appetitosi. E' l'unico uomo sulla faccia della terra di cui dobbiamo avere paura, specialmente se fossimo casi sprovveduti da intrufolarci in questo fiume che appartiene a lui. » E lo indicò con un gesto ampio. Orange l'avevano battezzato gli scopritori olandesi in onore dei sovrani della Casa di Orange, ma le sue rive di sgargiante sabbia arancione gli avrebbero meritato comunque il nome. Le piume chiare degli uccelli acquatici che ne affollavano i banchi erano gemme preziose incastonate in oro rosso. « E' il proprietario del fiume? » domandò Shasa, perplesso. « Non ha alcun titolo giuridico, ma prova ad avvicinarti al fiume e scoprirai che a difenderlo c'è la sua collera gelosa. » « Ma davvero qui ci sono i diamanti? » Shasa esplorò con lo sguardo i banchi di sabbia, quasi si aspettasse di vederli risplendere al sole. « Il dottor Twentyman-Jones e io ne siamo convinti, e abbiamo identificato alcune aree molto interessanti. Trecento chilometri piú a monte c'è una cascata che i boscimani chiamano il Posto del Gran Rumore, Aughrabies. L'Orange strepita attraverso un orrido e cade in una gola profonda e inaccessibile. La gola dovrebbe essere piena zeppa di diamanti. E poi ci sono altri vecchi letti alluvionali dove il fiume ha cambiato il suo corso. » Il treno lasciò il fiume e la sua esigua striscia di verde e la locomotiva accelerò ancora mentre si inoltravano nel deserto. Centaine osservò con attenzione il viso di Shasa mentre continuava con le spiegazioni. Al primo segno di disattenzione avrebbe interrotto la conferenza. Mai avrebbe permesso alla noia di subentrare alla concontrazione. Non c'era motivo di affrettarsi. C'era tutto il tempo necessario per la sua educazione, ma l'importante era non stancarlo mai, non eccedere mai le sue forze ancora immature o la sua capacità di concentrazione ancora non ben sviluppata. L'entusiasmo doveva mantenersi intatto, non logorarsi mai, ed era compito di Centaine far sí che le cose andassero in questo modo. Stavolta il suo interesse persisté al di là del limite abituale, e Centaine capì che era tempo di procedere oltre.
« Nel salone si sarà un pò alzata la temperatura. Rientriamo. » Lo guidò alla sua scrivania. « Qui ci sono alcune cosucce che voglio mostrarti. » Aprì il sunto confidenziale dei rapporti finanziari annuali della Courteney Mining and Finance Company, la sua società. Ora veniva il difficile. Perfino per lei tutte quelle scartoffie erano mortalmente noiose, e vide che Shasa si scoraggiava immediatamente alla vista delle colonne piene di cifre. La matematica era l'unica materia in cui non riusciva bene. « Ti piacciono gli scacchi, vero? » « Si », ammise lui con circospezione. « Anche questo è un gioco », gli assicurò lei. « Ma è mille volte piú affascinante e il premio è molto piú desiderabile, una volta che afferri le regole. » Lui si riprese in modo percettibile. Giochi, premi: Shasa queste cose le comprendeva benissimo. « Insegnami le regole », le chiese. « Non tutte insieme. Un pò per volta, finché non ne saprai abbastanza da cominciare a giocare. » Era già sera quando le comparvero i segni della stanchezza agli angoli della bocca, ma il ragazzo continuava ad aggrottare la fronte, concentrato. « Può bastare per oggi. » Chiuse la cartella di cuoio spesso. « Allora, quali sono le regole auree? » « Vendere sempre piú caro del prezzo a cui si è comprato. » Lei annuì in segno di incoraggiamento. « Comprare quando tutti vendono e vendere quando tutti comprano. » « Bravo. » Si tirò su. « Prendiamo un pò d'aria prima di cambiarci per la cena. » Sul balconcino del vagone gli cinse le spalle con un braccio. Era già piú alto di lei. « Quando saremo alla miniera, voglio che tu lavori con il dottor Twentyman-Jones, la mattina. Avrai il pomeriggio libero, ma la mattina dovrai lavorare. Voglio che tu giunga a conoscere la miniera e tutti i suoi ingranaggi. Naturalmente, ti darò uno stipendio. » « Non è necessario, mamma. » « Un'altra regola aurea, mio caro: non rifiutare mai un'offerta equa. » Per tutta la notte e tutto il giorno successivo il treno procedette verso sud, attraverso i grandi spazi calcinati dal sole, con le catene montuose che spiccavano all'orizzonte perché di un azzurro piú scuro di quello del cielo. «A Windhoek dovremmo arrivare poco dopo il tramonto», spiegò Centaine. « Ma ho combinato di far stazionare il nostro vagone in un punto tranquillo, cosí potremo passare la notte qui e partire domattina. Il dottor Twentyman-Jones e Abraham Abrabams ceneranno con noi, dimodochè dovremo cambiarci d'abito. » Fu così che Shasa si ritrovò in maniche di camicia di fronte allo specchio del suo scompartimento, in lotta con la sua cravatta nera non era ancora del tutto padrone dell'arte di annodarla a farfalla -, quando sentì che il vagone rallentava e la locomotiva emetteva un lungo fischio misterioso.
Sentì un prurito di eccitazione e si voltò verso la finestra aperta. Stavano attraversando la cintura collinare sopra Windhoek, e i lampioni della città si accesero proprio mentre guardava. La città era grande piú o meno come uno dei sobborghi di Città del Capo e solo le vie del centro avevano l'illuminazione stradale. Il treno rallentò fino ad assumere un'andatura a passo d'uomo per entrare nella periferia della città. Shasa avvertì l'odore della legna bruciata. Poi notò che c'era una specie di accampamento fra i cespugli spinosi ai lati della ferrovia. Si sporse dalla finestra per vedere con piú chiarezza e fissò gli agglomerati di baracche sconnesse, circondate dal fumo azzurro dei fuochi da campo e oscurate dal crepuscolo. C'era un cartello scritto in modo approssimativo, proprio di fronte ai binari, e a fatica Shasa lo lesse: « Vaal Hartz? Per l'inferno, no! » La scritta non aveva il minimo senso. Aggrottò le sopracciglia nel vedere due figure che stavano in piedi accanto al cartello e guardavano il treno passare. La meno alta era una ragazzina, con i piedi nudi e un abito sottile e informe sul corpo fragile. Non aveva niente di interessante e l'attenzione di Shasa si spostò sulla figura piú alta e robusta al suo fianco. Subito si irrigidí per il colpo, e la sua indignazione crebbe. Anche in quella luce crepuscolare, la capigliatura bionda e le sopracciglia nere erano facili da riconoscere. Si fissarono senza espressione, il ragazzo con la camicia bianca e la cravatta nera nel finestrino illuminato e il ragazzo in polveroso kaki. Un attimo dopo il treno lì separò. « Caro... » Shasa si distolse dalla finestra per accogliere sua madre. Per la sera aveva indossato zaffiri e un abito azzurro, etereo come fumo di legna. « Ancora non sei pronto! Fra un minuto saremo in stazione... e che pasticcio hai combinato con la cravatta! Su, vieni qui, lascia che ti faccia il nodo io. » E mentre Centaine gli stava di fronte e gli annodava la cravatta con dita abili, Shasa lottò per contenere la rabbia e il senso di impotenza che erano sorti in lui alla semplice vista dell'altro ragazzo. Il macchinista lì guidò fuori del percorso principale fino a un binario morto, oltre le baracche del cantiere, e lì sganciò accanto a una rampa in cemento dove già era parcheggiata la Ford di Abraham Abrahams. E Abe fu svelto ad accorrere al balconcino del loro vagone non appena questo si fu arrestato del tutto. « Centaine, sei piú bella che mai. » Le baciò la mano, poi anche le guance. Era basso di statura, arrivava appena all'altezza di Centaine, con un'espressione vivace e occhi mobili e attenti. Le sue orecchie erano ritte, proprio come se ascoltasse suoni che a nessun altro era dato udire. Il fermacravatte di Abraham, di diamante e onice, era decisamente pacchiano, e la sua giacca da sera aveva un taglio stravagante, ma era fra le persone che piú andavano a genio a Centaine. Le era stato vicino quando le sue sostanze ammontavano a un pò meno di dieci sterline. Aveva presentato le domande di concessione per la miniera H'ani e da allora aveva gestito molte delle faccende legali di Centaine, e non poche tra le faccende di altro tipo. Era un vecchio e caro amico, ma soprattutto non commetteva errori nel suo la-
voro. In caso contrario, non sarebbe stato lí. « Caro Abe. » Gli prese le mani e le strinse. « Come sta Rachel? » « Superlativamente. » La parola « superlativo » ricorreva spesso nei discorsi di Abraham. « Si scusa molto, ma il bambino è piccolo e...» « Certo, certo. » Centaine annuí, comprensiva. Abraham conosceva la sua preferenza per la compagnia maschile, e portava la moglie con sè molto di rado, anche quando veniva espressamente invitata. Centaine si voltò verso l'altra figura alta, dalle spalle curve, che attendeva presso la ringhiera del balconcino. « Dottor Twentyman-Jones. » Gli porse la mano. « Signora Courteney », mormorò lui di rimando, con il tono di un impresario di pompe funebri. Centaine si esibí nel suo sorriso piú radioso. Era un gioco che le piaceva molto: cercare di estrarre da Twentyman-Jones anche il piú piccolo segno di contentezza. Ma ancora una volta perse. La mestizia di lui, già evidente, si aggravò sino a farlo somigliare a un segugio che avesse appena subito una grave perdita. La loro conoscenza era quasi altrettanto antica di quella con Abraham. Twentyman-Jones era stato consulente della De Beers, ma come ingegnere minerario aveva stimato la miniera H'ani e ne aveva avviato l'attività ancora nel 1919. C'erano voluti quasi cinque anni di corte assidua da parte di Centaine perché accettasse di diventare ingegnere capo alla miniera H'ani. Era il piú grande esperto di diamanti del Sudafrica, come dire il piú grande del mondo. Centaine guidò entrambi nel salone e allontanò il barista in giacca bianca per versare lei stessa da bere ai suoi ospiti. « Abraham, una coppa di champagne? Dottor Twentyman-Jones, un goccio di Madera? » « Non se lo scorda mai, signora Courteney », riconobbe lui come a malincuore mentre lei gli porgeva il bicchiere. Si rivolgevano ancora l'uno all'altra in modo del tutto formale, sebbene la loro amicizia avesse ormai superato ogni prova. « Alla vostra salute, signori » Centaine alzò il bicchiere in un brindisi, e dopo che ebbero bevuto gettò uno sguardo alla porta che si trovava all'estremità opposta del salone Era il segnale per Shasa. Centaine lo osservò criticamente mentre scambiava una stretta di mano con i due uomini. Si comportava con l'esatta dose di deferenza per due persone piú anziane di lui, né mostrò alcun disagio quando Abraham lo abbracciò con un pò troppa effusione; e rese a Twentyman-Jones il saluto con identica solennità. Lei annuí soddisfatta, ma con discrezione, e si accomodò dietro la scrivania. Questo significava che i convenevoli erano esauriti e si poteva passare agli affari. I due si sistemarono sulle eleganti - ma quanto scomode - sedie art dèco e si sporsero verso di lei con attenzione. « Alla fine, è successo quello che ci attendevamo. Ci hanno tagliato la quota », disse Centaine. I due sobbalzarono sulle sedie e si scambiarono un'occhiata rapida prima di voltarsi di nuovo verso
Centaine. « E' quasi un anno che ce lo aspettiamo », notò Abrabam. « Cosa che non rende la faccenda piú piacevole neppure di una virgola », gli disse Centaine, piccata. « Di quanto l'hanno tagliata? » domandò Twentyman-Jones. « Quaranta per cento », rispose Centaine, e lui parve in procinto di scoppiare in lacrime mentre considerava la faccenda. Ciascuno dei produttori indipendenti di diamanti riceveva dalla Centrai Selling Organization una quota. L'accordo era informale e con ogni probabilità illegale, ma era egualmente applicato in modo inflessibile. Nessuno degli indipendenti era mai stato tanto temerario da contestare la legalità del sistema o la quota di mercato a lui assegnata. « Quaranta per cento! » sbottò Abraham. « E' iniquo! » « Osservazione esatta, mio caro Abe, ma temo inutile, almeno per il momento», disse Centaine, e guardò verso TwentymanJones. « Nessun mutamento nelle categorie? » domandò. Le quote venivano distribuite per peso e tipo delle gemme, dalle scure pietre di qualità industriale ai diamanti di prima qualità, dai minuscoli cristalli da dieci punti o meno ancora alle grandi pietre, le piú pregiate. « Le percentuali sono le stesse », confermò Centaine, e il suo interlocutore si sprofondo nella sedia, pescò un notes dalla tasca interna della giacca e si lanciò in una serie di rapidi conti. Centaine gettò uno sguardo alle sue spalle, dove Shasa si appoggiava allo schienale a pannelli. « Ti è chiaro di che cosa stiamo parlando? » « La quota? Sí, credo di sí, mamma. » « Se c'è qualcosa che non capisci, domanda », ordino lei bruscamente, e tornò a Twentyman-Jones. « Potrebbe, signora Courteney, chiedere un aumento del dieci per cento sulle qualità migliori? » interrogò Twentyman-Jones. Lei scosse il capo. « L'ho già fatto, ma mi hanno detto di no. La De Beers, nella sua infinita compassione, mi ha spiegato che la caduta piú forte della domanda si è verificata appunto nel segmento di mercato piú alto, quello della gioielleria. » L'ingegnere capo tornò al suo notes, e tutti ascoltarono il rumore della matita che graffiava la carta sinché lui non alzò la testa. « Ce la facciamo ad arrivare in pari? » domandò Centaine quietamente, e Twentyman-Jones assunse l'aria di uno che piuttosto di rispondere si sarebbe fatto ammazzare. « Non sarà da ridere », sussurrò. « Dovremo licenziare, tagliare le spese e stare molto ma molto attenti, però dovremmo essere in grado di coprire i costi, e magari perfino di trarre un piccolo profitto: dipende dai prezzi minimi che la De Beers fisserà. Ma questa riduzione scremerà il meglio, ho paura, signora Courteney. » Centaine si sentí rilassare e tremò per il sollievo. Perché gli altri non se ne accorgessero, tolse le mani dalla scrivania e se le mise in grembo, fuori vista. Per qualche istante non parlò, poi si schiarí la voce in modo che le sue parole uscissero nette e sicure.
« La data in cui entra in vigore la nuova quota è il primo marzo », disse. « Ciò significa che abbiamo ancora un'altra partita intera da spedire. Lei sa bene che cosa occorre fare, dottor TwentymanJones. » « Riempiremo la partita di dolcezze, signora Courteney. » «Che cos'è una dolcezza, dottor Twentyman-Jones?» chiese Shasa. Era la prima volta che parlava, e l'ingegnere capo si voltò verso di lui con fare del tutto serio. « In certi periodi produciamo una quantità particolarmente alta di gemme della migliore qualità, e allora ne mettiamo da parte qualcuna per spedirla con una partita successiva, nella quale invece la qualità media dovesse essere inferiore. Abbiamo una scorta di queste pietre di alta qualità che adesso, finché ne abbiamo la possibilità, invieremo alla cso. » « Ho capito », annuí Shasa. « Grazie, dottor TwentymanJones. » « Lieto di essermi reso utile, signorino Shasa. » Centaine si alzò dalla sedia. « Possiamo sederci a tavola, ora », e il servitore in giacca bianca aprí la porta scorrevole sulla sala da pranzo, dove la lunga tavola luccicava d'argenti e cristalli, e le rose gialle si alzavano fiere dai vasi céladon. Lungo la stessa linea ferroviaria, a un chilometro e mezzo di distanza dal vagone di Centaine, due uomini sedevano a contatto di gomito intorno a un fumoso fuoco da campo. Guardavano una zuppa di granoturco che stava cuocendo in una gavetta e intanto parlavano dei cavalli. L'intero piano aveva come cardine i cavalli. Ce ne volevano almeno quindici, e dovevano essere animali robusti, abituati al deserto. « La persona a cui sto pensando è un caro amico », diceva Lothar. « Fosse pure il miglior amico del mondo, non ti presterà quindici buoni cavalli. Non ce la possiamo fare con meno di quindici, e cento sterline non bastano per comprarli. » Lothar succhiò il cannello della puzzolente pipa di terracotta e ne trasse un suono osceno. Sputò il liquido giallastro nel fuoco. « Darei cento sterline per un sigaro decente », brontolò piano. « Non le mie cento, questo no di sicuro », lo contraddisse Hendrick. « Lasciamo da parte i cavalli, per ora », suggerí Lothar. « Parliamo un pò degli uomini che ci servono per darci il cambio. » « Ma gli uomini sono un problema piú facile da risolvere! » sogghignò Hendrick. « Di questi tempi un uomo in gamba costa un pranzo, e in cambio del dolce ti puoi fare sua moglie. Ho già mandato a dire di radunarsi alla Fossa del Cavallo Brado. » Il discorso fu interrotto dall'arrivo di Manfred, e quando Lothar riuscí a distinguere l'espressione del figlio nell'oscurità ripose il notes in tasca e si alzò in fretta. « Papà, devi venire subito », implorò Manfred. « Che succede, Manie? » « La madre e le sorelle di Sarah. Stanno male, tutte. Gli ho detto
che saresti venuto tu, papà. » Lothar aveva una reputazione come guaritore, lo dicevano capace di curare tutto, dalle ferite d'arma da fuoco al morbillo, dal vermo cane al cimurro, qualunque cosa potesse toccare a uomo o animale. La famiglia di Sarah risiedeva verso il centro dell'accampamento, e la sua abitazione consisteva di uno straccio di tela cerata steso fra qualche palo. La donna giaceva sotto una coperta bisunta, e le due bambine stavano accanto a lei. Non doveva avere piú di trent'anni, ma le preoccupazioni, il lavoro pesante e la cattiva alimentazione l'avevano invecchiata precocemente. Aveva perso la maggior parte dei denti di sopra, cosí che la sua faccia pareva crollata. Sarah stava inginocchiata accanto a lei, e con uno straccio umido cercava di pulire la sua faccia arrossata. La donna continuava a scollare la testa e borbottava, in delirio. Lothar si inginocchiò dall'altra parte del giaciglio, guardando in faccia la ragazza. « Dove è il tuo papà, Sarah? Ci sarebbe bisogno di lui, ora. » « E' andato a cercare lavoro in miniera », sussurrò lei. « Quando? » « Oh, è un pezzo. » Poi aggiunse: « Però ci manderà a chiamare, e allora vivremo in una bella casa... » « Da quanto sta male tua madre? » « Dalla scorsa notte. » Sarah riprovò a mettere lo straccio sulla fronte di sua madre ma lei lo allontanò con un gesto privo di forza. « E le bambine? » Lothar studiò i visi gonfi. « Da stamattina. » Lothar alzò la coperta. La puzza di feci liquide era forte, prendeva alla bocca dello stomaco. « Ho provato a pulirle, ma non fanno che sporcarsi da capo. Non so piú che fare », mormorò Sarah in tono di scusa. Lothar sollevò i vestiti sozzi di una delle ragazzina. Il suo ventre tondeggiante era gonfio per la cattiva nutrizione, la sua pelle era bianca come gesso. Un esantema color cremisi lo attraversava da parte a parte come un simbolo araldico. Involontariamente, Lothar scosse le mani in aria, allontanandole. « Manfred », domandò con voce tagliente, « le hai toccate? » « Sí, papà. Ho cercato di aiutare Sarah a pulirle. » « Fila da Hendrick », ordinò Lothar. « Digli che partiamo subito. Dobbiamo andarcene da qui. » « Che cos'è, papà? » esitò Manfred. « Fa, come ti dico », disse Lothar con asprezza, e quando Manfred si fu allontanato nell'oscurità, tornò a rivolgersi alla ragazza. « Non bollivate l'acqua da bere? » le chiese, e lei scosse la testa. Sempre la stessa storia, pensò Lothar. Gente di campagna, gente semplice, che aveva sempre vissuto lontano da ogni altra abitazione, bevendo acqua di fonte e defecando senza pensieri dove capitava, tanto il veld è grande. Non riuscivano a comprendere i rischi che correvano vivendo a stretto contatto con molte altre persone. « Di che si tratta, Oom? » chiese Sarah a bassa voce. « Che cos'hanno? » « Febbre enterica. » Ma era chiaro che la ragazza non aveva mai
sentito la parola. Lothar riprovò: « Febbre tifoide ». « E' una malattia grave? » domandò lei in tono sconsolato, e lui non osò guardarla negli occhi. Esaminò ancora le piccole. La febbre le aveva spossate, e la diarrea disidratate. Era già troppo tardi. C'era forse qualche speranza per la madre, ma anche lei era molto indebolita. « Sí », disse Lothar. « E' grave. » Il tifo si sarebbe propagato nell'accampamento come il fuoco nel veld quando l'inverno lo rendeva secco. C'erano buone probabilità che Manfred fosse stato infettato, e a quel pensiero si alzò in fretta e si allontanò da quel materasso che puzzava in maniera cosí orribile. « Che debbo fare? » implorò Sarah. « Da, loro da bere, molto da bere, ma assicurati che l'acqua sia bollita. » Lothar si fece indietro. Aveva visto il tifo nei campi di concentramento degli inglesi, durante la guerra. Aveva fatto piú vittime dei combattimenti stessi. Doveva tirar fuori suo figlio di lí. « Hai una medicina per questa malattia, Oom? » chiese Sarah, standogli dietro. « Non voglio che mia madre muoia... non voglio che la mia sorellina... se mi potessi dare qualche medicina... » La ragazza stava sostenendo una dura lotta contro le lacrime. Sconvolta e impaurita, si rivolgeva a lui con patetica fiducia. Lothar aveva doveri solo verso il suo sangue, ma il coraggio della ragazza lo toccò. Avrebbe voluto dirle che non c'erano medicine per sua madre e le sue sorelle, che erano nelle mani di Dio. Sarah lo seguiva e alla fine gli prese la mano, tirandola disperatamente nel tentativo di riportarlo alla tenda dove la madre e le sorelle stavano morendo. « Aiutami, Oom. Aiutami a farle stare meglio. » La pelle di Lothar si contrasse al contatto. Gli pareva di sentire la schifosa infezione che si trasmetteva dalle dita morbide di lei al suo corpo. Doveva andarsene. « Resta qui », le disse, sforzandosi di celare la sua repulsione. « Da, loro da bere. Io vado a prendere una medicina. » « Quando tornerai? » Lei lo guardava con fiduciosa venerazione, e ci volle tutta la sua forza per pronunciare la bugia. « Tornerò appena possibile », promise, e con delicatezza sfuggí alla stretta della ragazza. « Dagli da bere », ripeté, e girò sui tacchi. « Grazie », gli gridò dietro lei. « Dio ti benedica, sei cosí buono, Oom! » Lothar non ce la fece a rispondere. Non riuscí neppure a voltarsi a guardare. Si affrettò invece ad attraversare il campo oscurato. E questa volta, poiché vi prestava attenzione, colse gli altri deboli suoni che venivano dalle capanne che superava: il pianto inquieto di un bambino febbricitante, l'ansito e il lamento di una donna con i terribili crampi addominali della febbre enterica, i sussurri preoccupati di quelli che lì curavano. Da una delle capanne di carta catramata una creatura scura e macilenta si sporse fuori e lo afferrò al braccio. Uomo o donna, Lothar non riuscí a capire finché non la sentí parlare in un falsetto istupidito.
« E' un dottore lei? Devo trovare un dottore! » Lothar si scrollò di dosso quella mano ad artiglio e si mise a correre. Swart Hendrick lo stava aspettando. Aveva già lo zaino in spalla e stava spargendo sabbia sulle braci del fuoco da campo, a calci. Manfred stava accoccolato da una parte, sotto l'arbusto spinoso. « Tifo. » Lothar pronunciò la parola cosí temuta « E' già diffuso nel campo » Hendrick si raggelò. Lothar lo aveva visto sostenere la carica di un elefante maschio ferito, eppure adesso aveva paura. Lo capiva dal modo in cui atteggiava la sua grande testa nera, gli pareva di sentirne l'odore, simile a quello di un cobra del deserto quando viene disturbato. « Forza, Manfred. Si parte. » « Dove andiamo, papà? » Manfred non si era alzato. « Via di qui. Via dalla città e dall'epidemia. » « E Sarah? » Manfred girò la testa verso la spalla, un gesto di ostinazione che Lothar conosceva bene. « Non è niente per noi. E non possiamo fare nulla. » « Morirà... come sua madre, e le piccole. » Manfred levò gli occhi su suo padre. « Morirà, non è vero? » « In piedi », ringhiò Lothar, ed era il senso di colpa a renderlo feroce. « Si parte. » Fece un gesto imperioso e Hendrick si chinò e issò in piedi Manfred. « Su, Manie, ascolta il tuo papà. » Seguí Lothar, trascinando il ragazzo per il braccio Attraversarono la massicciata della ferrovia e Manfred smise di fare resistenza. Hendrick lo lasciò, e il ragazzo seguí obbediente. Prima che fosse trascorsa un'ora avevano raggiunto la strada principale. Al chiaro di luna era un fiume di polvere d'argento, che scorreva giú dal passo attraverso le colline. Lothar fece sosta. « Andiamo a prendere i cavalli ora? » chiese Hendrick. « Si », confermò Lothar. « E' il passo successivo. » Ma la sua testa si girava da sola nella direzione da cui erano venuti, e nessuno parlava. Tutti e tre guardavano nella stessa parte. « Troppo rischio », spiegò Lothar. « Non potevo permettere a Manfred di stare vicino a loro. » Nessuno degli altri due rispose. « Dobbiamo andare avanti con i nostri preparativi. I cavalli, dobbiamo trovare i cavalli... » La sua voce si spense. Di scatto, Lothar tolse lo zaino dalla schiena di Hendrick e lo sbatté per terra. Vi frugò dentro, pieno d'ira, e tirò fuori il rotolo di tela nel quale teneva i ferri da chirurgo e la scorta di medicine. « Prendi Manie », ordinò a Hendrick. « Aspettatemi nella gola del fiume Gamas, nello stesso posto dove ci siamo accampati nella marcia da Usakos. Te lo ricordi? » Hendrick annuí. « Quanto ci metterai a raggiungerci? » « Lo stesso tempo che ci metteranno loro a morire », disse Lothar. Si alzò e guardò Manfred. « Fai quello che ti dirà Hendrick », comandò. « Non posso venire con te, papà? »
Lothar non si degnò di rispondere. Si girò e a grandi passi discese fra gli arbusti spinosi illuminati dalla luna, e loro rimasero a guardarlo finché non scomparve. Poi Hendrick si lasciò cadere ginocchioni e cominciò a rifare lo zaino. Sarah era accoccolata vicino al fuoco, con la gonna tirata sui fianchi ossuti, e aguzzava gli occhi nel fumo mentre aspettava che l'acqua nella gavetta annerita dall'uso bollisse. Alzò gli occhi e vide Lothar in piedi al limite del cerchio di luce proiettato dalla fiamma. Lo fissò, e dopo un pò i suoi lineamenti pallidi e delicati sembrarono incresparsi e le lacrime corsero giú per le sue guance, luccicando alla luce delle fiamme. « Pensavo che non saresti tornato », sussurrò. « Pensavo che fossi andato via. » Lothar scosse la testa di scatto, perché era ancora tanto in collera con se stesso per la sua debolezza che non si fidava di parlare. Allora si sedette dall'altra parte del fuoco e stese il rotolo di stoffa. Il contenuto era pietosamente inadeguato. Era in grado di estirpare un dente marcio, di incidere un ascesso o un morso di serpente, e perfino di rimettere in sesto delle ossa fratturate, ma per curare il tifo non c'era praticamente nulla. Prese un cucchiaino di una polvere nerastra denominata Celebre Rimedio Chamberlain contro la Diarrea, e la mischiò in un boccale di stagno con dell'acqua calda attinta dalla gavetta. « Dammi una mano », ordinò a Sarah, e insieme sollevarono la bambina piú piccola in posizione seduta. Non pesava nulla e si sentivano tutte le ossa del suo corpo minuscolo, simile a quello di un uccellino implume appena preso dal nido. Non c'era alcuna speranza per lei. « Morirà prima di domani », pensò, e le tenne il boccale perché bevesse. La fine venne ancor prima di quanto non si fosse figurato. Il momento preciso della morte non fu evidente, e Lothar non poté essere sicuro che fosse andata finché non ebbe cercato la pulsazione della bambina alla carotide, solo per avvertire la sensazione di gelo in quella carne ormai inutile. L'altra bambina tirò avanti fino a mezzogiorno e poi morí silenziosamente proprio come la sorella. Lothar le avviluppò entrambe nella medesima coperta grigia sudicia, e le portò fino alla tonda comune che avevano già provveduto a scavare ai limiti del campo. Fecero un involto piccolo e, solitario, lo deposero ai margini dei corpi piú grandi, sul suolo sabbioso dello scavo. La madre di Sarah combatté piú a lungo per la propria vita. Dio solo sapeva perché ci tenesse tanto a resistere, si disse Lothar: « La vita non può davvero offrirle gran che ». Ma lei continuava a lamentarsi, a dondolare la testa e a gridare, immersa nel delirio che le dava la febbre. Lothar cominciò a odiarla per quella lotta ostinata per sopravvivere, che lo costringeva accanto al materasso lurido a condividere la sua degradazione, a toccare la sua pelle devastata dalla febbre e a lasciar cadere dell'acqua, a goccia a goccia, nella sua bocca sdentata. Al crepuscolo pensò che la donna ce l'avesse fatta. La sua pelle
si era rinfrescata e stava piú quieta. Tese la mano per prendere quella di Sarah e cerco di parlare, fissandola in viso come se la riconoscesse davvero, e le parole gracchiavano nella sua gola mentre uno spesso muco giallastro formava bollicine agli angoli della bocca. Questo sforzo la sfinì. La donna chiuse gli occhi e parve addormentarsi. Sarah le pulí le labbra e si tenne stretta alla mano scarnita, con le vene azzurrognole che si gonfiavano sotto la pelle sottile. Un'ora dopo la donna si leva di colpo a sedere e disse chiaramente: « Sarah, bambina mia, dove sei? » Poi ricadde sul materasso e diede battaglia. Per conquistarsi un lungo respiro. Il respiro si ferma a metà strada. Il suo petto ossuto si afflosciò con gran lentezza, mentre la carne sembrò precipitare dalla sua faccia come cera sciolta. Stavolta Sarah camminò accanto a lui mentre Lothar portava il corpo alla tomba comune. Lui la depose alla fine della fila di cadaveri. Poi tornarono alla capanna. Sarah restò in piedi a guardare Lothar che arrotolava il piccolo telo dei ferri, e la sua faccina bianca era desolata. Tremava come un cagnolino respinto dal padrone, ma non si muoveva. « Va bene », sospirò lui rassegnato. « Vieni via con me. » Lei schizzò subito via dalla tenda. « Non darò nessun fastidio », farfugliò, quasi fremente per il sollievo. « Sarò d'aiuto. So cucinare, cucire e lavare. Non darò nessun fastidio » « Che ci facciamo, con quella? » domandò Hendrick. « Con noi non può stare. Non riusciremmo mai a fare ciò che dobbiamo fare con una bambina di quell'età. » « Là non potevo lasciarla », si difese Lothar. « Era come condannarla a morte. » « Sarebbe stato meglio cosí, per noi. » Hendrick alzò le spalle. « E ora che cosa facciamo? » Avevano lasciato il campo sul fondo della gola e si erano arrampicati fino alla cima della parete rocciosa. I ragazzi erano un bel pezzo piú giú, sul banco di sabbia nella riva dell'unica pozza di verde acqua stagnante che fosse rimasta nella gola. Erano accoccolati l'uno accanto all'altra, e Manfred aveva in mano una lenza. Lo videro tirarsi indietro di scatto e dare uno strattone. Poi tirò rapidamente su la lenza. Sarah balzo in piedi e i suoi strilli eccitati arrivarono fino a loro. Osservarono Manfred gettare sulla sabbia il pescegatto che si contorceva, luccicante. « Prenderò una decisione, riguardo a lei », gli assicurò Lothar. Ma Hendrick gli diede sulla voce. « Va bene, ma sulla svelta. Ogni giorno che passa le pozze d'acqua su a nord si seccano un altro pò, e ancora ci mancano i cavalli. » Lothar presso del tabacco trinciato nella pipa di terracotta e ci pensò su. Hendrick aveva ragione: la ragazza rendeva tutto piú complicato. Doveva liberarsi di lei, in un modo o nell'altro. D'improvviso alzò gli occhi dalla pipa e sorrise. « Mia cugina! » disse, e Hendrick lo guardo interdetto. « Mai saputo che tu avessi dei cugini. » « La maggior parte sono morti nei campi, ma Trudi è sopravvis-
suta. » « Dove stà questa tua amata cugina? » « Abita a nord, proprio sulla nostra strada. Non dovremo perdere neanche un pò di tempo per rifilarle la marmocchia. » « Non ci voglio andare », bisbiglio Sarah in tono infelice. « Non la conosco, tua zia. Voglio stare qui con te. » «Zitta», la mise in guardia Manfred. «O sveglierai papà e Henny. » Si schiacciò contro di lei e le toccò le labbra per farla tacere. Il fuoco si era spento, la luna era tramontante: la sola luce era quella delle stelle che scIendevaro sulla trapunta di velluto del cielo come candele. La voce di Sarah era cosí flebile, ora, che riusciva appena a distinguere le parole, sebbene avesse le orecchie a pochi centimetri dalle sue labbra. « Tu sei l'unico amico che abbia mai avuto », disse lei. « Chi mi insegnerà a leggere e a scrivere? » Le sue parole riempirono Manfred di un enorme senso di responsabilità. Fino a quel momento aveva provato per la ragazza un sentimento ambivalente. Come lei non aveva mai avuto amici della sua stessa età, non aveva mai frequentato una scuola, non era mai vissuto in una città. Il suo unico insegnante era stato suo padre. Tutta la sua vita era trascorsa in compagnia di adulti: suo padre, Hendrick, e gli uomini induriti dei campi e dei pescherecci. Non c'era stata mai nessuna donna che lo coccolasse o lo ingentilisse. Lei era stata la sua prima compagna di sesso femminile. Con tutto ciò, spesso gli pareva sciocca, debole. Quando si arrampicavano su per la collina bisognava stare ad aspettarla perché rimaneva indietro. Quando lui uccideva un pescegatto, indifferente alle sue convulsioni, lei si metteva a piangere. Per non dire di quando Manfred torceva il collo di un grasso francolino dal piumaggio bruno finito nei suoi lacci. D'altro canto, era capace di renderlo allegro e a Manfred piaceva la sua voce quando cantava: una voce sottile, ma dolce e melodiosa. E poi, benché l'adulazione di lei fosse a volte eccessiva, quando era con lei Manfred provava un senso di inenarrabile benessere. Sarah imparava in fretta, e nei due giorni che avevano trascorso insieme aveva già appreso tutto l'alfabeto e la tavola pitagorica. Se fosse stata un ragazzo, certo sarebbe stato meglio. Eppure no, c'era qualcosa di più. L'odore della sua pelle e la sua morbidezza lo stimolavano. I suoi capelli erano cosí fini, sembravano seta. A volte lui li toccava, come per caso, e lei pareva congelarsi e stava cosí ferma sotto le sue dita che lui si sentiva in imbarazzo e finiva col lasciar cadere la mano. Di tanto in tanto Sarah si strofinava contro di lui come un gattino affettuoso, e lo strano piacere che questo gli dava era del tutto sproporzionato a quel contatto fugace. E quando dormivano sotto la medesima coperta, a Manfred capitava di svegliarsi di notte e di ascoltare il respiro di lei, mentre i suoi capelli gli solleticavano il viso. La strada per Okahandja era lunga e dura e polverosa. La percorrevano ormai da cinque giorni. Si spostavano solo il mattino presto e la sera tardi. Durante il giorno gli uomini riposavano all'ombra, e i ragazzi potevano nascondersi a parlare, mettere trappole o dedicarsi
alla scuola. I loro giochi non erano mai recite come quelle di altri ragazzi della medesima età. La loro vita era troppo vicina alla realtà piú dura. E ora li sovrastava una nuova minaccia: quella della separazione, che cresceva a ogni chilometro che si lasciavano alle spalle. Non c'erano parole per consolare Sarah, o se c'erano Manfred non le conosceva. Anche lui, del resto, si doleva dell'imminente perdita, resa ancora piú grave dalle dichiarazioni di amicizia della ragazza. Sarah si stringeva a lui sotto la coperta e il calore che emanava dal suo corpo esile e minuto era sorprendente. Lui le mise un braccio sotto le spalle, con goffaggine, e sentí la morbidezza dei capelli di lei sulla sua guancia. « Tornerò a prenderti. » Non aveva avuto la minima intenzione di dirle qualcosa del genere. Anzi, era la prima volta che ci pensava. « Promettimelo. » La ragazza si mosse in modo da portare le labbra vicino alle sue orecchie. « Prometti che tornerai a prendermi. » « Te lo prometto. Verrò a prenderti », disse lui, terrorizzato da quello che stava dicendo con tanta solennità. Non aveva nessun controllo sul suo futuro, non aveva la minima certezza di essere in grado di onorare, un giorno, una promessa del genere. « Quando? » Lei si affrettò ad abbarbicarsi alla promessa. « Abbiamo un lavoro da fare. » Manfred non era al corrente dei dettagli dell'impresa che stavano progettando suo padre e Hendrick. Sapeva soltanto che era un lavoro difficile e anche, in qualche modo, pericoloso. « E' una cosa importante. No, non posso dirti di che si tratta. Ma quando sarà finita torneremo a prenderti. » Lei sembrò accontentarsi di questo. Sospirò e Manfred sentí la tensione allentarsi nelle sue membra minute. L'intero corpo di lei si distese per il sonno, e la sua voce peregrinò fino a divenire un mormorio. « Tu sei mio amico, vero, Manie? » « Sí, sono tuo amico. » « Il mio miglior amico? » « Sí, il tuo miglior amico. » Sarah sospirò di nuovo e si addormentò di colpo. Lui le carezzò i capelli, morbidi come ovatta sotto la sua mano, e lo prese la malinconia della perdita ormai prossima. Aveva voglia di piangere, ma questa era roba da femminucce e lui non ci sarebbe cascato. La sera seguente, mentre trascinavano i piedi affondati fino al calcagno nella polvere bianca e sottile di un ennesimo avvallamento, Lothar, dalla cresta, indicò avanti senza parole. L'ammasso di capanne dal tetto di lamiera che costituiva la piccola cittadina di frontiera di Okahandja splendeva al sole del tramonto come un grande specchio, da cui si protendeva verso l'alto un solo, isolato, pinnacolo di chiesa. E questo pinnacolo, a sua volta ricoperto di lamiera ondulata, era appena piú alto degli alberi che circondavano l'edificio. « Ci arriveremo quando farà buio. » Lothar passò lo zaino sull'altra spalla e squadrò la ragazza. I suoi capelli fini come seta erano imbiancati dalla polvere e il sudore li appiccicava alla fronte e alle guance; le sue trecce disordinate, sbiondite dal sole, sporgevano come corna da dietro le orecchie. Era cosí abbronzata che solo i capelli
biondi la rendevano distinguibile da una bambina nera della tribù dei nama. La sua veste non era meno semplice e i suoi piedi nudi erano bianchi di polvere farinosa. Lothar aveva preso in considerazione, e poi scartato, l'idea di comprarle un vestito nuovo e delle scarpe in uno degli empori che fiancheggiavano la strada. La spesa poteva essere giustificata: se sua cugina avesse respinto la bambina... Ma non aveva seguito questo pensiero fino in fondo. Si sarebbe limitato a lavarla al pozzo che forniva l'acqua alla città. « La signora con la quale starai è Mevrou Trudi Bierman. E' una signora molto gentile e religiosa. » Lothar aveva ben poco in comune con la cugina. Non si vedevano da tredici anni. « Ha sposato il pastore della Chiesa Olandese Riformata di Okahandja. Anche lui è un brav'uomo timorato di Dio. Hanno figli della tua stessa età. Starai benissimo con loro. » « Mi insegneranno a leggere e scrivere come fa Manie? » « Ma certo! » (Lothar, del resto, era disposto a rassicurarla in tutti i modi, pur di liberarsene.) « Insegna ai suoi figli, e tu farai parte della famiglia. » « Non può stare con me anche Manie? » « Manie deve venire con me. » « Per piacere, non potrei venire anch'io con voi? » « No. Non se ne parla nemmeno. Tu starai qui... e non intendo tornare su questo argomento. » Al serbatoio dell'acqua Sarah si tolse la polvere dalle gambe e dalle braccia e si bagnò i capelli prima di rimettersi in ordine le trecce. « Sono pronta », disse infine a Lothar, mentre lui la esaminava in modo critico. Era una monella sporca, e per loro era un fardello, ma in qualche modo anche lui aveva cominciato ad affezionarlesi. Non poteva fare a meno di ammirare il coraggio e lo spirito di quella ragazzina. E d'improvviso si scoperse a considerare se per caso non vi fosse qualche altro modo di risolvere il problema, oltre a quello di abbandonare la bambina, e ci volle uno sforzo per mettere da parte l'idea e corazzarsi per fare quello che bisognava. « Vieni, allora. » La prese per mano e si voltò verso Manfred. « Tu aspetti qui con Henny. » « Lasciami venire con te, papà », implorò Manfred. « Solo fino al cancello. Solo per dire arrivederci a Sarah. » Lothar tentennò e poi si piegò alla richiesta, ma con asprezza. « Va bene, ma tieni il becco chiuso e comportati educatamente. » Li guidò lungo il vicolo posteriore finché non arrivarono alla porta di dietro di una delle case allineate, piú grande delle altre, che stava vicino alla chiesa e, abbastanza chiaramente, formava tutt'uno con essa. Non c'era da sbagliarsi, era la canonica. C'era una luce accesa sulla porta posteriore, la fiera luce bianca di una lampada Petromax, e gli insetti continuavano a sbattere contro la grata metallica che proteggeva l'ingresso. Il suono delle voci impegnate in un canto religioso pieno di pathos li raggiunse non appena aprirono la porta e si avviarono in direzione della cucina. Quando arrivarono alla porta a vetri videro,
nella cucina illuminata, una famiglia seduta a tavola, che cantava in coro. Lothar bussò e l'inno si spense. Da capotavola si alzò un uomo e si fece vicino alla porta. Indossava un abito nero che era largo alle ginocchia e ai gomiti ma tirato sulle spalle larghe. I capelli erano folti e lunghi, pendevano sulle spalle come una criniera già un pò grigia e spolveravano di forfora la stoffa nera. « Chi è? » domandò, con voce abituata a tuonare dal pulpito. Spinse la porta a vetri e si sporse fuori nel buio. Aveva una fronte larga e intelligente, la cui ampiezza era sottolineata da un pò di stempiatura. Gli occhi erano profondi e fieri come quelli di un profeta del Vecchio Testamento. « Sei tu! » Aveva riconosciuto Lothar, ma non provò neanche a offrirgli un saluto migliore di quello. Si voltò invece verso la cucina e, da sopra la spalla, chiamò: « Mevrou, è quel senza-Dio di tuo cugino che sbuca fuori dal deserto come Caino! » La donna bionda si alzò da tavola, facendo segno ai bambini di starsene zitti al loro posto. Era alta quasi come il marito, andava per i cinquanta ed era bene in carne, con un colorito roseo e i capelli acconciati, alla tedesca, in uno chignon verticale. Incrociò le braccia robuste, color crema, sul petto grande e informe. «Che cosa cerchi qui da noi, Lothar De La Rey? » inquisì. « Questa è la casa di una famiglia di cristiani timorati di Dio. Non ne vogliamo sapere delle tue maniere licenziose e del tuo comportamento da selvaggio. » Si interruppe alla vista dei ragazzi e li osservò con interesse. « Ciao, Trudi. » Lothar spinse Sarah in vista. « Sono anni che non ci vediamo. Hai un bell'aspetto, e sembri anche felice. » « Sono felice della grazia di Dio », concordò Trudi. « Ma, come sai, solo di rado sono stata bene in vita mia. » Assunse un'espressione sofferente e Lothar andò avanti in fretta. « Sono venuto per darti la possibilità di mostrare la tua carità cristiana. » Spinse avanti Sarah. « Questa ragazza è orfana, non ha nessuno. Ha bisogno di un focolare. Tu potresti prenderla, Trudi, e Dio te ne renderà merito. » « E' un'altra delle tue... » Trudi gettò un'occhiata nella cucina, dove le sue due figlie cercavano di non perdere una parola, e poi abbassò la voce e sibilò: « E' un'altra dei tuoi bastardi? » « La sua famiglia è morta di tifo. » Un passo falso: la vide farsi indietro. « Parecchie settimane fa. Lei non ha niente. ». Trudi si distese un pò e Lothar proseguì svelto: « Non posso occuparmi di lei. Noi siamo in viaggio, e lei ha bisogno di una madre ». « Abbiamo già troppe bocche... » cominciò Trudi, ma suo marito la interruppe. « Vieni qui, ragazzina », rimbombò la sua voce, e Lothar spinse Sarah verso di lui. « Come ti chiami? » « Sarah Bester, Oom. » « Cosí appartieni al Volk », domandò il predicatore, servendosi della parola afrikaans che significa « popolo ». « Di sangue afri-
kaner? » Sarah annuì incerta. « E i tuoi genitori, prima di morire, appartenevano alla Chiesa Olandese Riformata? » Lei annuì ancora. « E tu credi nel Signore Iddio di Israele? » « Sì, Oom. Me l'ha insegnato mia madre », bisbigliò Sarah. « E allora non possiamo mandarla via », disse il predicatore a sua moglie. «Falla entrare, donna. Dio provvederà. Dio provvede sempre alle necessità del suo popolo eletto. » Trudi Bierman sospirò in modo teatrale e si protese verso Sarah, prendendole il braccio. « Magra come un chiodo e pidocchiosa come una scimmietta negra ». « E tu, Lothar De La Rey », il predicatore punto l'indice verso di lui. « Il Signore Iddio, nella sua pietà, non ti ha ancora mostrato il tuo errore, non ha ancora indirizzato i tuoi passi sul cammino della virtú? » « Per la verità no, caro cugino. » Lothar si tirò indietro verso la porta, senza curarsi di nascondere il suo sollievo. L'attenzione del predicatore si trasferì all'istante sul ragazzo che se ne stava nell'ombra, alle spalle di Lothar. « E questo chi è? » «Mio figlio Manfred. » Lothar mise un braccio intorno alle spalle del ragazzo, con un gesto di protezione, e il pastore si avvicinò e si chinò per studiare la sua faccia da presso. La sua fluente barba scura era ispida e i suoi occhi erano fieri e ardenti, ma Manfred vi piantò i propri e li vide cambiare. Divennero piú caldi e luminosi, mostrando buonumore e compassione. «Ti spavento, Jong? » La sua voce si ammorbidi, e Manfred scosse la testa. « No, Oomie... o comunque non molto. » Il pastore ridacchiò. « Chi ti insegna la Bibbia, Jong? » « Mio padre, Oom. » « Che Dio abbia pietà della tua anima, allora. » Eresse il busto e spinse la barba verso Lothar. « Avrei preferito che tu lasciassi il ragazzo anziché la bambina », gli disse, e Lothar strinse piú forte la spalla di Manfred. « E' un ragazzo che promette, e il Volk ha bisogno di uomini buoni per servire Dio. » « Non gli manca nulla. » Lothar non riusciva a nascondere la sua agitazione, ma il pastore lasciò di nuovo cadere il suo sguardo penetrante su Manfred. « Io credo, Jong, che tu e io siamo destinati dalla volontà dell'Onnipotente a incontrarci un'altra volta. Quando tuo padre annegherà o sarà divorato da un leone o verrà impiccato dagli inglesi, o punito in qualche altro modo dal Signore Iddio di Israele, torna da me. Mi ascolti, Jong? Io ho bisogno di te, il Volk ha bisogno di te, e anche Dio ha bisogno di te! Mi chiamo Tromp Bierman, sono la Tromba del Signore. Ritorna in questa casa! » Manfred annuí. « Tornerò a trovare Sarah. Gliel'ho promesso. » A questo punto il coraggio della ragazza andò in pezzi, e lei singhiozzò e cercò di svincolarsi dalla stretta di Trudi. « Finiscila, ragazzina », esclamò Trudi Bierman con fare irritato.
« Smettila di piagnucolare! » Sarah inghiotti e soffocò i singhiozzi. Lothar spinse Manfred lontano dalla porta. « La ragazza lavora sodo ed è ubbidiente, cugina. Non ti pentirai di questo atto di carità », lanciò da sopra la spalla mentre si allontanava. « Questo è da vedersi », borbottò Trudi in tono scettico, mentre Lothar s'avviava per la sua strada. « Ricorda la parola di Dio, Lothar De La Rey », gli gridò dietro la Tromba del Signore. « Io sono la Resurrezione e la Vita, e chi ha fede in me... » Manfred si contorse nella stretta di suo padre per guardarsi alle spalle. La figura alta e magra del pastore quasi riempiva la soglia della cucina, ma all'altezza della sua vita il faccino di Sarah si guardava intorno: nella luce della Petromax era bianco come porcellana e luccicante per le lacrime. C'erano quattro persone ad attenderli al punto d'incontro. Negli anni disperati della guerriglia tutti avevano dovuto imparare i punti di ritrovo. Quando le truppe dell'Unione li separavano, i guerriglieri non facevano altro che disperdersi nel veld e ritrovarsi qualche giorno dopo nei posti sicuri. Nei punti di ritrovo c'era sempre l'acqua, una piccola sorgente che scaturiva dalla roccia, un pozzo boscimano, oppure il letto secco di un fiume da cui il prezioso liquido poteva essere scavato fuori. La posizione dei punti di ritrovo era tale che nessun nemico avrebbe mai potuto prendere i guerriglieri di sorpresa, perché godevano immancabilmente di una vista panoramica. In piú c'era sempre pascolo per i cavalli, riparo per gli uomini, e una scorta nascosta di provviste. Il punto che Lothar aveva scelto per incontrare gli altri aveva anche un altro vantaggio. Era nelle colline pochi chilometri a nord del ranch di un prospero allevatore tedesco, un buon amico della famiglia di Lothar, un simpatizzante cui si poteva dare fiducia e che avrebbe tollerato la loro presenza sulle sue terre. Lothar penetrò nella zona collinare lungo il corso d'acqua disseccato che formava fra un colle e l'altro meandri simili alle spire di un puff adder* agonizzante. Camminava allo scoperto affinché coloro che lo attendevano potessero vederlo da lontano, e mancavano ancora tre chilometri al luogo dell'appuntamento quando una minuscola figura apparve sulla cresta rocciosa davanti a loro mulinando le braccia in segno di benvenuto. Ben presto lo raggiunsero altri tre uomini e tutti insieme scesero la collina per incontrare Lothar e i suoi compagni nel letto del torrente. Colui che li guidava era Vark Jan, il cui soprannome significava « Gianni il Porco », il vecchio guerriero khoisa con i suoi lineamenti giallastri e rugosi che tradivano il suo lignaggio misto, un pò nama e un pò bergdama, e perfino, a sentire le sue vanterie, un pò di genuino sangue boscimano. Lui diceva che sua nonna era una schiava boscimana catturata dai boeri in uno degli ultimi raid degli schiavisti, il secolo prima. Ma era un formidabile bugiardo e sulla questione della sua ascendenza le opinioni erano divise. Lo seguiva da vicino Klein Boy, il Ragazzino, il figlio bastardo che Swart Hendrick
aveva avuto da una donna herero. Il Ragazzino si diresse immediatamente verso il padre e lo salutò con il tradizionale battimano. Era altrettanto alto e poderoso, ma aveva i lineamenti piú fini e gli occhi a mandorla della madre. Come il miele selvatico, la sua pelle cambiava colore al variare della luce. Vark Jan e Klein Boy avevano lavorato insieme sui pescherecci a Walvis Bay, e Hendrick li aveva mandati avanti per trovare gli altri uomini che servivano e condurli al luogo dell'appuntamento. Lothar si voltò verso questi altri uomini. Non li vedeva da dodici anni. Li ricordava come combattenti fierissimi: i suoi cani da caccia, * Serpente velenoso dell'Africa meridionale che si gonfia quando viene disturbato {N.d.T.). li chiamava, con affetto e con la piú totale mancanza di fiducia. Proprio come cani selvaggi, si sarebbero rivoltati contro di lui e lo avrebbero sbranato al minimo segno di debolezza. Li salutò con i vecchi nomi di battaglia. « Legs », l'ovambo con gambe da cicogna, « Bufalo », che reclinava la testa al modo di quell'animale. Si afferrarono a vicenda le mani, quindi i polsi, poi ancora le mani, nel saluto rituale della banda, quello delle grandi occasioni: diciamo dopo una lunga separazione o una razzia coronata da successo. Lothar li studiò e vide fino a che punto dodici anni di vita facile li avevano cambiati. Erano ingrassati e inflacciditi. La mezza età. Ma d'altra parte, si consolo, il compito che dovevano svolgere non era troppo duro. « Ebbene! » ghignò, rivolto a loro. « Ce l'abbiamo fatta, allora, a svellervi dalle pance flosce delle vostre mogli, e perfino ad allontanarvi dai vostri boccali di birra! » La risposta fu un ruggito di risa. « Siamo corsi qui un minuto dopo che Klein Boy e Vark Jan anno fatto il tuo nome », gli assicurarono. « Oh, certo, siete venuti qui per tutto l'amore e la fedeltà che avete nei miei confronti... » (il sarcasmo di Lothar era pungente) « ... proprio come gli avvoltoi e gli sciacalli, che arrivano per amore, non perché c'è un festino pronto per loro! » Un nuovo ruggito. La sferza delle parole di Lothar era qualcosa di cui avevano sentito la mancanza. « Vark Jan, in effetti, ha detto qualcosa a proposito di un pò d'oro », ammise il Bufalo, in preda a un accesso di risate. « E Klein Boy ha aggiunto che magari ci sarà ancora da battersi. » « Triste, triste! Un uomo della mia età », lamento Legs, « piú di una volta o due al giorno non può far contente le sue mogli. Ma combattere e godersi la compagnia dei vecchi amici e saccheggiare, questo lo può fare notte e giorno, senza interruzione... e l'amore che ti portiamo è grande come il Kalahari! » Tutti si piegarono in due dalle risate, battendosi poderose pacche sulla schiena. Il gruppo lascio il letto del fiume, ancora scosso a tratti da accessi di risa, e si arrampicò fino al vecchio punto d'incontro. Era una roccia sporgente, abbastanza bassa, e la volta era annerita dal fumo di innumerevoli fuochi da campo, mentre la parete in fondo
era decorata dalle pitture color ocra dei boscimani che, nel corso del secoli, si erano serviti di quel rifugio prima di loro. Dall'ingresso del rifugio si godeva una vista panoramica sulla pianura sfaviltante. Sarebbe stato quasi impossibile avvicinarsi alla vetta della collina senza farsi scorgere. I primi quattro arrivati avevano già aperto il nascondiglio. Era celato in una fenditura della roccia un pò piú in basso, e questa era stata dissimulata con dei macigni e turata con argilla proveniente dalle rive del fiume. Il contenuto era in condizioni migliori di quanto Lothar non si fosse atteso. Il cibo in scatola e le munizioni, naturalmente, erano sigillati, e i fucili Mauser erano coperti di grasso giallo e avvolti in carta oleata. Erano in condizioni perfette. E anche la piú gran parte dei finimenti da cavallo e del vestiario era stata preservata dall'aria secca del deserto. Festeggiarono con carne in scatola e galletta tostata, tutta roba che un tempo avevano odiato per la sua monotonia ma che adesso pareva deliziosa. Quel cibo evocava innumerevoli altri pasti, consumati in anni disperati che il passare del tempo aveva reso a traenti. Dopo aver mangiato, raccolsero i finimenti, gli stivali e i vestiti, scartando tutto ciò che era stato danneggiato dagli insetti e dai roditori o che si era seccato come pergamena, ma recuperando, rammendando e ingrassando tutto il possibile, finché non ebbero un equipaggiamento sufficiente per tutti. Mentre stavano lavorando, Lothar riflettè che c'erano decine di questi nascondigli, sparsi nella regione, e che a nord della base costiera segreta da cui aveva rifornito i sottomarini tedeschi dovevano esserci ancora scorte per un valore di alcune migliaia di sterline. Fino a quel momento, l'idea di fare piazza pulita a proprio beneficio non l'aveva neppure sfiorato: era ancora come se queste fossero, in qualche modo, risorse a disposizione della patria. Sentí il prurito della tentazione: « E se affittassi una barca e navigassi lungo la costa... » Ma poi, con un subitaneo brivido, gli venne in mente che non avrebbe piú rivisto Walvis Bay, né quella terra. Da ciò che stavano per fare non c'era ritorno. Balzò in piedi e misurò a larghi passi il tratto fino all'ingresso del rifugio. Mentre scrutava la pianura riarsa, dalle monotone tonalità di grigio e marrone interrotte dagli arbusti spinosi, ebbe una premonizione di tremenda sofferenza e infelicità. « Potrei mai essere felice altrove? » si domandò. « Lontano da questa terra aspra e meravigliosa? » La sua risolutezza vacillò. Poi si girò e vide Manfred che lo guardava accigliato. « Ho il diritto di decidere io per mio figlio, su una cosa del genere? » Fissò a sua volta il ragazzo. « Ho il diritto di condannarlo a una vita da esiliato? » Con un certo sforzo, riuscì a scacciare i dubbi, scuotendoseli di dosso con un brivido, come un cavallo i tafani, e chiamò Manfred al suo fianco. Lo portò lontano dal rifugio, e quando non furono piú a portata di voce degli altri gli disse che cosa c'era in progetto, parlandogli da pari a pari. « Ci hanno portato via tutto quello per cui abbiamo lavorato, Manie. Ce l'hanno portato via in nome della legge, ma non in nome di Dio e della giustizia naturale. La Bibbia ci consente di rivalerci
nei confronti di chi ci inganna: occhio per occhio, dente per dente. Noi ci riprenderemo ciò che ci hanno rubato. E tuttavia, Manie, per la legge degli inglesi saremo dei criminali. Dovremo fuggire, nasconderci, e ci daranno la caccia come se fossimo animali bradi. Solo il nostro coraggio e la nostra abilità ci permetteranno di sopravvivere. » Manfred si agitò, come impaziente di entrare in azione, guardando il padre in viso con i suoi occhi chiari e risoluti. Le parole di Lothar avevano un suono appassionato ed eccitante, e Manfred era orgoglioso della fiducia che gli accordava il padre discutendo con lui quelle faccende da adulti. « Andremo a nord. C'è della buona terra agricola in Tanganika, in Nyasaland, nel Kenya. Molti del nostro Volk ci sono già andati. Certo dovremo cambiare nome, e non potremo mai ritornare qui, ma ci faremo una nuova vita in una nuova terra. » « Non potremo piú tornare? » L'espressione di Manfred cambiò. « E Sarah? » Lothar ignorò la domanda. «Forse ci compreremo una bella piantagione di caffè nel Nyasaland o alle prime falde del Kilimangiaro. Si trova ancora moltissima selvaggina nei pianori di Serengeti, andremo a caccia e coltiveremo la terra. » Manfred ascoltava, per dovere, ma la sua espressione si era oscurata. Come poteva dire a suo padre che non voleva andarsene in un altro Paese, che voleva stare lì? Rimase sveglio ancora a lungo mentre gli altri già stavano russando. Il fuoco da campo si era ridotto a un ammasso di braci rosse. E pensava a Sarah, al suo pallido viso da folletto macchiato di lacrime e al suo caldo corpo esile che gli teneva compagnia sotto la coperta: « E' la sola amica che abbia mai avuto ». Fu riportato di colpo alla realtà da un suono strano e pauroso. Veniva dalla pianura sottostante, ma pareva che la distanza non valesse a togliere il fondo di fierezza che vibrava in esso. Suo padre tossí piano e si rizzò a sedere, senza badare alla coperta che era scivolata fin sulla vita. E il suono spaventoso venne di nuovo, si alzò in un incredibile crescendo per poi smorzarsi in una serie di grugniti profondi, il rantolo d'agonia di un mostro. « Che cos'è, papà? » I capelli si erano rizzati sulla nuca di Manfred e pungevano come aghi. « Dicono che perfino i piú coraggiosi hanno paura la prima volta che lo sentono », gli disse piano Lothar. « E' il ruggito di un leone affamato del Kalahari. » La mattina seguente, mentre scendevano dalla collina verso la pianura alle prime luci dell'alba, Lothar si fermò di colpo in testa al gruppo e chiamò Manfred presso di sé. « Ieri hai sentito la sua voce, e adesso puoi vedere le sue impronte. » Si chinò e toccò il segno lasciato da una zampa, grande come un piatto, che era impresso nella morbida terra gialla. « Un vecchio maanhar, un maschio anziano e solitario. » Lothar percorse col dito il bordo dell'impronta. Manfred glielo avrebbe visto fare piú volte in seguito, come se col toccare le tracce il padre volesse spremerne fuori i segreti. « Guarda come sono lisce le sue
grinfie, e come appoggia il peso sulla parte posteriore, verso i calcagni. Non mette giú la zampa anteriore destra se non molto leggermente, il che significa che è azzoppato. Non dov'essere facile per lui farsi un pasto come si deve, e questo forse è il motivo per cui si tiene vicino al ranch. Il bestiame è una preda piú facile degli animali selvatici. » Lothar stese la mano e colse qualcosa da uno dei rami piú bassi dei rovi. « Tieni, Manie », disse mettendo un batuffolo di irsuti peli rosso oro in mano a suo figlio. « Ti ha lasciato un pò della sua fiera chioma. » Poi si alzò e superò l'impronta. Li condusse giú nell'ampia forra, irrigata da una fila di sorgenti artesiane, dove l'erba cresceva spessa e verde fino all'altezza delle ginocchia. E qui oltrepassarono la prima mandria, mucche con la gobba e una pappagorgia che quasi toccava terra, e mantelli che risplendevano al sole del mattino. La casa padronale sorgeva su un rialzo del terreno, al di là delle sorgenti, in mezzo a una piantagione di esotiche palme da datteri importate dall'Egitto. Era un vecchio fortino coloniale tedesco, lascito della rivolta herero del 1904, quando l'intero territorio era insorto contro gli eccessi del regime coloniale tedesco. Perfino i bondelswart e i nama si erano uniti agli herero nella guerra, e c'erano voluti 20.000 soldati bianchi e una spesa di 60 milioni di sterline per sedare la rivolta. Al conto bisognava poi aggiungere i 2500 ufficiali e soldati tedeschi caduti e i 70.000 herero, uomini donne e bambini, che erano stati uccisi a fucilate, bruciati o fatti morire di fame. Questa cifra rappresentava quasi esattamente il 70 per cento dell'intero popolo. La casa era dunque stata, in origine, un fortino di frontiera costruito per tenere a bada le schiere degli herero. Le pareti esterne erano intonacate a calce e merlate, e perfino la torre centrale aveva delle feritoie. Da un'asta di bandiera ancora sventolava, in segno di sfida, l'aquila imperiale germanica. Il conte li vide arrivare da lontano, mentre ancora scendevano lungo la strada polverosa oltre le sorgenti, e inviò un calessino a prenderli. Apparteneva alla generazione precedente quella di Lothar, ma era ancora alto e sottile e teneva la schiena dritta. Una bianca cicatrice da duellante si apriva all'angolo della sua bocca; le sue maniere erano formali e un pò antiquate. Spedí Swart Hendrick nelle stanze dei servi, dopodiché condusse Lothar e Manfred nel fresco salone centrale, immerso nella penombra, dove la contessa aveva già preparato per loro nere bottiglie di ottima birra tedesca e caraffe di bibita allo zenzero fatta in casa. I loro vestiti furono prelevati dai servi mentre loro si godevano un buon bagno. Li resero un'ora dopo, lavati e stirati, insieme agli stivali lucidati fino allo splendore. Per cena c'era un arrosto di tenero lombo di manzo, con un sugo delizioso, e uno stupendo vino del Reno per mandarlo giú. Questo piatto fu seguito, con gioia di Manfred, da una dozzina fra torte, creme e zuppa inglese, mentre per Lothar il maggior segno di ospitalità, e il piú gradito, fu la civile conversazione degli ospiti. Era un vero e profondo piacere discutere di libri e di musica, e ascoltare il tedesco preciso e rotondo dei pa-
droni di casa. Quando Manfred non ne poté piú di cibo, e cominciò a sbadigliare cosí forte da doversi coprire la bocca con entrambe le mani, una delle serve herero lo portò fino alla sua camera. Il conte versò dell'acquavite a Lothar e gli porse una scatola di sigari avana, mentre la moglie si affaccendava intorno alla caffettiera d'argento. Quando il sigaro fu del tutto acceso, il conte disse a Lothar: « Ho ricevuto la sua lettera da Windhoek, e mi ha addolorato sapere della sua disgrazia, caro amico. Sono tempi assai difficili per tutti ». Si pulí il monocolo sulla manica prima di risistemarlo sull'orbita e di mettere di nuovo a fuoco il suo interlocutore. « Sua madre, Dio l'abbia in gloria, era una vera signora. Non c'è nulla che non farei per suo figlio. » Fece una pausa per tirare una boccata dal suo avana, assaporando con un sorriso il suo aroma, e aggiunse: « Però... » L'umore di Lothar precipitò. Quella parola, lo sapeva bene, era foriera di delusione e di rifiuto. « Però, neanche due settimane prima che io ricevessi la sua lettera, un ufficiale dell'esercito addetto alle provvigioni è venuto al ranch e io gli ho venduto tutti gli animali di cui potevo privarmi. Tutti i cavalli rimasti mi servono. » Sebbene Lothar avesse visto almeno quaranta buoni cavalli che pascolavano intorno al ranch, si limitò ad annuire in segno di comprensione. « Ho un paio di muli, però, due bestie molto buone, che potrei lasciarle a un prezzo simbolico... diciamo cinquanta sterline. » « Cinquanta in tutto? » domandò Lothar rispettosamente. « Cinquanta l'uno », disse il conte in tono fermo. « Per ciò che riguarda l'altra cosa cui lei accennava nella sua lettera, è per me inderogabile regola non prestare mai denaro agli amici. Si evita così di perdere e il denaro e l'amico. » Lothar gli passò quest'ultima osservazione, e tornò invece alla precedente. « Quell'ufficiale dell'esercito... ha comprato cavalli da tutti i possedimenti del distretto? » « A quanto ne so, ne ha comprati quasi cento. » Il conte si mostrò sollevato per l'atteggiamento signorile di Lothar nel prendere atto del suo rifiuto. « Ottime bestie. Gli interessavano solo le migliori, cavalli abituati al deserto e immuni dalle malattie equine. » « E immagino che li abbia spediti a sud per ferrovia, vero? » « No, non ancora », disse il conte scuotendo la testa. « O perlomeno non l'aveva ancora fatto l'ultima volta che ho avuto sue notizie. Li tiene presso lo stagno formato dal fiume Swakop, dall'altra parte della città, in modo che si riposino e acquistino le forze necessarie per il viaggio in treno. Ho sentito dire che ha intenzione di avviarli a sud quando ne avrà messi insieme centocinquanta in tutto. » Lasciarono il forte la mattina seguente, dopo una colazione pantagruelica a base di uova, salsiccia e carni conservate, tutti e tre a cavallo del mulo grigio che era costato a Lothar, alla fin fine, la somma di venti sterline, con una cavezza in omaggio per addolcire l'affare. « Com'erano le stanze dei servi, al forte? » chiese Lothar. « Stanze da schiavi, non da servi », replicò Hendrick. « C'è stato
chi c'è morto di fame, oppure, a quanto mi hanno detto, chi se l'è vista brutta con la frusta del conte. » Hendrick sospirò. « Se non fosse stato per la generosità e il buon cuore della piú giovane delle serve... » Lothar gli diede un colpaccio nelle costole e accennò con lo sguardo in direzione di Manfred, sicché Hendrick cambiò discorso facendo finta di nulla. « E cosí ce ne andiamo sul dorso di un mulo di prima della guerra », osservò. « Oh, non ci prenderanno mai, su questa gazzella! » Diede una manata al grasso posteriore dell'animale e questo continuò imperturbabile a marciare alla medesima andatura, gli zoccoli che colpivano la polvere della via con un suono attutito. « Lo useremo per la caccia, il mulo », gli disse Lothar, e sogghignò al vedere che Hendrick aggrottava la fronte perplesso. Quando furono di ritorno al riparo di roccia, Lothar lavorò in fretta, mettendo insieme dodici some di munizioni, cibo ed equipaggiamento. Quando ebbe finito di impacchettarle, le depose all'ingresso del rifugio. « Bene bene bene », osservò Hendrick con un ghignetto. « I carichi ci sono. Mancano solo i cavalli. » « Dovremmo lasciare qui una sentinella », disse Lothar senza badargli. « Ma il fatto è che avremo bisogno di tutti gli uomini. » Affidò il denaro a Vark Jan, il meno inaffidabile della compagnia. « Cinque sterline sono abbastanza per una botte intera di Cape Smoke », gli fece notare, « e ne basta un bicchiere per stendere un elefante. Ma tieni a mente questo. Vark Jan... se sarai troppo sbronzo per stare in sella quando ci muoveremo, non ti lascerò indietro per farti interrogare dalla polizia. Ti ci lascerò con un proiettile in testa. Ti do la mia parola. » Vark Jan infilò la banconota nel cinturino del suo cappello a falde larghe. « Non una goccia, baas! » disse in un tono lamentoso che doveva ingraziargli Lothar. « Il baas sa che si può fidare di me per quel che riguarda il liquore, le donne e il denaro. » Okahandja era a quasi trenta chilometri e Gianni il Porco si avviò subito, per essere là con un buon anticipo su Lothar. Il resto della compagnia, con Manfred in groppa al mulo, scese dalla collina. Non c'era stato vento dal giorno prima, e così le impronte del leone erano ancora nitide, perfino in quel terreno tanto labile. I cacciatori, armati dei Mauser nuovi con le bandoliere di munizioni incrociate sul petto, si sventagliarono lungo la pista del leone e si allontanarono di corsa. Manfred aveva avuto l'avviso di tenersi bene indietro, e poiché si sentiva ancora risuonare il ruggito della sera prima nelle orecchie, non fu dispiaciuto di venirsene lemme lemme con il mulo. I cacciatori erano avanti, fuori vista, ma avevano segnato il loro cammino con rami spezzati e tacche sugli arbusti che egli non faticava a seguire. Prima che fosse trascorsa un'ora trovarono il posto dove il vecchio gattaccio aveva ucciso una delle vacche del conte. Era rimasto sulla carcassa finché non l'aveva divorata tutta, tranne la testa, gli zoccoli e le ossa piú grandi. Ma anche da queste parti aveva rosicchiato via la carne, come prova della sua fame e della sua ridotta
abilità venatoria. Lothar e Hendrick descrissero un rapido cerchio intorno alla zona battuta e non tardarono a trovare la pista del leone. « Sono poche ore che se n'è andato », giudico Lothar, e subito si corresse alla vista di uno stelo piegato che si raddrizzava da solo: «Anzi, è meno di mezz'ora. Può darsi che ci abbia sentiti arrivare ». « No. » Hendrick toccò le impronte con il lungo bastone scortecciato che aveva con sé. « Se ne è andato camminando senza alcuna preoccupazione. Non ci ha sentiti. E' gonfio di cibo e sta andando all'acqua piú vicina. » « Va a sud. » Lothar si fece solecchio per scrutare le tracce. « E' probabile che vada al fiume, e in questo modo si avvicina alla città, il che ci va benissimo. » Si rimise il Mauser a tracolla e fece segno ai suoi uomini di rimanere spiegati. Continuarono a salire lungo il debole pendio di una duna consolidata dal tempo, e prima che ne raggiungessero la cima il leone scattò fuori, abbandonando la copertura della macchia proprio di fronte a loro, e si allontanò dal gruppo allo scoperto con una serie di balzi felini. Ma a ogni balzo il suo ventre, stipato di carne, oscillava pesantemente come quello di una femmina gravida. Era un tiro lungo, ma i Mauser entrarono in azione su tutta la linea, sputando fiamme in direzione dell'animale in corsa. La polvere si alzò in piccole fontane tutt'intorno al leone. Gli uomini di Lothar, salvo Hendrick, come tiratori erano tutti da buttar via. Non era mai riuscito a persuaderli che la forza del proiettile non era proporzionale a quella con cui tiravano il grilletto, né li aveva mai convinti a perdere il brutto vizio di chiudere gli occhi quando espellevano il proiettile dalla canna con tutte le loro forze. Ma anche il suo colpo, si accorse Lothar, aveva soltanto sollevato polvere appena sotto il ventre del leone. Si era sbagliato sulla distanza, come succede spesso nel deserto, dove mancano punti di riferimento. Aggiustò il mirino del Mauser senza staccare il calcio dalla spalla e alzò la mira finché non inquadrò il cielo appena al di sopra della criniera rossa e svolazzante dell'animale. Il leone accusò il colpo successivo rallentando, rompendo la sua andatura e dondolando la testa per leccarsi il fianco, dove era stato colpito. Il suono della pallottola corazzata che urtava la sua carne arrivò chiaro alla fila dei cacciatori. A questo punto il leone si abbassò di nuovo e riprese la corsa, con le orecchie basse, mugolando di dolore e di rabbia, finché non svaní oltre il dosso. «Non andrà lontano! » Hendrick fece segno ai cacciatori di avanzare, sempre allineati. Il leone è uno scattista. Quando corre cosí veloce, dopo poco è costretto a tornare al trotto. Se lo si continua a inseguire, si volterà per attaccare. Lothar, Hendrick e Klein Boy, i piú robusti e in forma del gruppò si spinsero avanti. « C'è del sangue! » gridò Hendrick quando raggiunsero il posto dove il leone aveva incontrato la pallottola di Lothar. « E viene dai polmoni! » Le macchie color cremisi erano coperte da una spuma
che non dava adito a dubbi. Si precipitarono lungo quella pista insanguinata. «Pasop!»* urlò Lothar quando raggiunsero il dosso oltre il quale era sparita la belva. « E' lí che ci aspetta, di sicuro! » Proprio mentre diceva questo, il leone si lanciò su di loro. Si era acquattato in una macchia di sansevieria appena oltre la cresta, appiattendosi a terra e abbassando persino le orecchie. Ma appena Lothar ebbe superato la cresta con i suoi uomini, balzò su di lui da una distanza di soli quindici metri. Il leone si manteneva rasoterra, ancora con le orecchie piegate all'indietro, di modo che la sua fronte appariva piatta e ampia come quella di una vipera. I suoi occhi erano gialli e implacabili. La sua criniera rossa come zenzero era eretta, e lo rendeva enorme, mostruoso. Dalle fauci spalancate, che mettevano in mostra le zanne, usciva un ruggito così forte che Lothar si ritrasse e perse un attimo prima di puntare il fucile. Mentre il calcio del Mauser toccava la sua * « Attenzione! », in afrikaans (N.d T.). spalla, il leone si alzò dal terreno davanti a lui, occupando l'intero campo visivo, e il sangue che sprizzava dai suoi polmoni formò una nuvola rosa che bagnò la faccia di Lothar. L'istinto era di sparare il piú presto possibile sulla enorme mole irsuta del leone, che torreggiava sopra di lui sulle zampe posteriori, ma Lothar si costrinse a mirare bene. Un colpo al petto o al collo non avrebbe impedito alla belva di ucciderlo: il proiettile del Mauser era leggero, era stato progettato per gli uomini e non per la caccia grossa. Quel proiettile avrebbe reso insensibile il sistema nervoso del leone e ne avrebbe riempito il sangue di adrenalina. Solo un colpo al cervello poteva arrestare l'animale a quella distanza. Lothar gli sparò alla punta del muso, tra i fori rosa acceso delle narici, e la pallottola si aprì la strada in mezzo agli occhi del felino, attraversò il cervello color del burro, e uscì dall'altra parte del cranio: ma il leone continuò a muoversi per forza d'inerzia. L'enorme corpo muscoloso urtò contro il petto di Lothar, e il fucile gli mulinò via dalle mani mentre cadeva per terra all'indietro, per poi urtare il suolo con la spalla e la testa. Hendrick lo tirò su a sedere e gli pulí con la mano la bocca e le narici dalla sabbia, poi l'apprensione svanì dal suo viso e sorrise mentre Lothar allontanava debolmente le sue dita. « Invecchi, baas, e cominci a diventare lento », rise Hendrick. « Mettimi in piedi, prima che Manie mi veda! » replicò Lothar, perentorio, e Hendrick mise un braccio sotto di lui e lo issò. Barcollava. Si appoggiò con tutto il suo peso a Hendrick, tenendosi la testa nel punto in cui aveva battuto, ma già stava dando ordini. « Klein Boy! Legs! Tornate indietro e tenete il mulo prima che senta l'odore del leone e disarcioni Manie! » Si allontanò da Hendrick e si avvicinò alla carcassa del leone con passi vacillanti. Giaceva su un fianco e già le mosche si andavano raccogliendo sulla testa spappolata. « Ci serviranno tutti gli uomini
e parecchia fortuna per riuscire a caricarlo. » Il felino era vecchio e denutrito, pieno delle cicatrici accumulate in anni di caccia nello spinoso veld, e la sua pelle era logora e irsuta. Nondimeno, il suo ventre era pieno di cibo e l'animale doveva pesare come minimo centottanta chili. Lothar raccolse il fucile dalla sabbia e lo pulì con cura, poi lo appoggiò alla carcassa e tornò di corsa al di là del dosso, ancora zoppicante per la caduta, continuando a massaggiarsi il collo e le tempie. Il mulo, con Manfred appollaiato sopra, stava venendo verso di lui, e Lothar si mise a correre. « L'hai preso, papà? » gridò Manfred, eccitatissimo. Aveva sentito gli spari. « Sí. » Lothar lo tirò giú dal mulo. «E' appena al di là del dosso. » Lothar controllò la cavezza del mulo. Era nuova, e robusta, ma fece passare nell'anello di ferro un altro giro di corda e mise due uomini a ciascuna estremità. Poi, con molta attenzione, bendò il mulo con una striscia di tela. « Va bene. Adesso vediamo un pò come la prende. » Gli uomini che stavano alle corde tirarono la cavezza con tutto il loro peso, ma il mulo pianto gli zoccoli, in segno di protesta contro la benda, e rifiutò di muoversi. Lothar aggirò l'animale, stando bene attento a mantenersi fuori portata del suoi zoccoli, e torse la coda. Il mulo continuò a stare fermo come una roccia. Lothar si chinò e lo morsicò alla base della coda, conficcando i denti in profondità nella carne morbida e indifesa, e il mulo scalciò con le zampe posteriori all'altezza della testa di un uomo. Un altro morso, e il mulo capitolò. Si mise a trottare avanti verso la cresta... ma mentre stava per raggiungerla la brezza mutò direzione e l'afrore del leone riempi le narici del mulo. L'odore del leone ha un effetto del tutto particolare sugli altri animali, selvatici o addomesticati, perfino su quelli che vengono da ambienti dove né loro né i loro piú remoti antenati potrebbero mai avere incontrato un leone. Il padre di Lothar aveva sempre scelto i suoi cani da caccia facendogli annusare, da cuccioli, la pelle inumidita di un leone ucciso di recente. La maggior parte dei cagnolini si mettevano a ululare dal terrore e si ritiravano precipitosamente, con la coda fra le gambe. Pochissimi fra i cuccioli, non piú di uno su venti, quasi sempre femmine, si rizzavano sulle zampe e rimanevano lì, sia pure con tutti i peli eretti e il corpo scosso da piccole contrazioni dalla coda fino alle narici palpitanti. Questi erano i cani che il padre di Lothar teneva. Appena fiutato il leone, il mulo divenne furioso. Trascinò via tutti e quattro gli uomini che reggevano la cavezza, sgroppando e arretrando, e Lothar stesso fece appena in tempo a sottrarsi al mulinare dei suoi zoccoli. Poi l'animale si lanciò in un pesante galoppo tirandosi dietro i quattro uomini, che inciampavano, cadevano e ur1avano, e questa corsa si protrasse per ottocento metri, fra cespugli spinosi e profonde buche scavate dalle acque, prima di arrestarsi in
una nuvola di polvere. Il mulo sudava e tremava, con i fianchi palpitanti per il terrore. Lo riportarono di nuovo verso la collina, sempre bendato strettamente, ma bastò che sentisse di nuovo l'odore della carcassa preché si ripetesse la medesima routine, sebbene questa volta l'animale fosse costretto dalla spossatezza e dal peso dei quattro uomini a fermarsi dopo poche centinaia di metri. Due volte ancora lo portarono indietro verso il leone morto, e due volte scattò via, percorrendo una distanza sempre minore, ma la terza volta rimase fermo dov'era, tremando su tutte e quattro le zampe. Sudava dal terrore e dalla fatica mentre gli uomini sollevavano la carcassa per mettergliela in groppa. Ma quando cercarono di passargli le zampe del leone sotto il petto, di nuovo un copioso flusso di sudore nervoso inzuppò il corpo del mulo, che scalciò e si impennò e sgroppò finché la carcassa non scivolò a terra come un sacco di patate. Ci volle un'ora di lotta perché il mulo, logorato dalla stanchezza, rinunciasse a ogni opposizione. Tremava da far pietà e soffiava come il mantice di un fabbro, ma il leone morto era saldamente assicurato sopra il suo dorso. Quando Lothar prese la cavezza e tirò, il mulo si trascinò mite dietro di lui e lo seguí giú fino al meandro del fiume. Dalla cima di uno dei bassi kopjes rivestiti di arbusti Lothar scrutò i tetti e la guglia della chiesa. Il villaggio giaceva in basso, oltre il fiume Swakop. Il fiume descriveva un'ampia curva, e nell'ansa c'erano tre stagni verdi circondati da banchi di sabbia gialla. Il fiume aveva acqua solo per un breve periodo dopo le piogge. Stavano abbeverando i cavalli agli stagni. Li portavano giú a bere prima di spingerli di nuovo all'interno dei recinti per la notte. Il conte aveva ragione, l'ufficiale degli approvvigionamenti aveva scelto il meglio. Lothar li osservò con cupidigia al binocolo. Erano animali poderosi, creature del deserto, e il loro vigore era evidente nei giochi e nelle lotte che intrecciavano al bordo degli stagni, o nelle capriole che facevano nella sabbia, le zampe mulinanti per aria. Lothar trasferí la sua attenzione ai guardiani. Ne contò cinque, tutti soldati di colore, nelle loro uniformi kaki piuttosto trascurate, e cercò invano ufficiali bianchi. « Potrebbero essere al campo », mormorò fra se, e puntò il binocolo verso il gruppo di scure tende militari al di là dei recinti dei cavalli. Sentì alle sue spalle un fischio sommesso, e guardando vide Hendrick che faceva cenni ai piedi del kopje. Lothar si abbassò al di sotto della cresta e scese carponi giú per il pendio. Il mulo, con il suo carico intriso di sangue ancora in groppa, era legato nell'ombra. Si era quasi rassegnato, benché di tanto in tanto avesse un brivido involontario e si dondolasse nervosamente sugli zoccoli. Gli uomini se ne stavano distesi sotto gli sparsi arbusti spinosi e mangiavano carne in scatola. Gianni il Porco si alzò quando Lothar lo raggiunse. « Sei in ritardo », lo accusò Lothar, e lo prese per il bavero, tirandolo vicino per sentirgli l'alito. «Neanche una goccia, padrone», piagnucolò Vark Jan. «Lo
giuro sulla verginità di mia sorella. » « Il primo che l'ha conosciuta vergine è stato anche l'ultimo », ribatté Lothar, ma lo lasciò andare, e buttò uno sguardo sulla sacca che stava ai piedi di Vark Jan. « Dodici bottiglie. Tutto secondo gli ordini. » Lothar aprí la sacca e ne trasse fuori una bottiglia del famigerato Cape Smoke. Il collo era sigillato con la cera e il liquore aveva un colore scuro come veleno quando lui alzò la bottiglia verso il cielo per controllare. « Sentito dire qualcosa, nel villaggio? » Rimise la bottiglia nella sacca. « Ci sono sette guardiani al campo... » « Io ne ho contati cinque. » « Sono sette. » Il Porco parlava con voce sicura, e Lothar borbottò. « E gli ufficiali bianchi? » « Sono andati via ieri. A Otjiwaronga, per comprare altri cavalli. » «Tra un'ora sarà buio.» Lothar diede un'occhiata al sole. « Prendi la sacca e vai al campo. » « E che gli dico? » « Che vendi acquavite. Che costa poco. E dagli un sorso gratis. Insomma digli quel che ti pare, per dire bugie sei il numero uno. » « E se non bevono? » Lothar rise come se avesse sentito una barzelletta e non rispose nemmeno. « Io mi muoverò poco dopo il sorgere della luna, quando spunterà da dietro gli alberi. Tu e la tua acquavite avete quattro ore per ammorbidirli. » La sacca tintinnò quando Vark Jan la mise a tracolla. « Ricordati. Vark Jan: o sobrio o morto, e dico sul serio. » « Il capo crede forse che io sia una specie di bestia, che non sa neppure bere un sorso con educazione? » chiese il Porco risentito, e si tirò su con un'aria di dignità offesa per marciare verso l'accampamento. Dal suo posto di osservazione Lothar guardò Vark Jan attraversare i banchi di sabbia ormai aridi e inerpicarsi su per l'altra riva con la sua sacca. Al recinto la guardia gli intimò l'alt e Lothar osservò col binocolo le loro trattative, fino al momento in cui il soldato di colore mise da parte la carabina e spiò dentro la sacca che Vark Jan gli teneva aperta. Perfino a quella distanza, e nonostante la penombra che stava addensandosi, Lothar vide benissimo il balenare della dentatura della guardia, che si esibì in un sorriso deliziato per poi voltarsi a chiamare i commilitoni fuori delle tende. Due uscirono in mutande. Seguì una lunga e calorosa discussione, accompagnata da ampi gesti, pacche sulle spalle e gran scuotere di teste, finché Vark Jan ruppe il sigillo di cera di una delle bottiglie e la porse ai soldati. La bottiglia passò rapida dall'uno all'altro, e ciascuno la alzò verso le stelle come un trombettiere che suoni la carica, per poi gemere e ridacchiare fra le lacrime. Alla fine. Vark Jan fu condotto come un ospite d'onore dentro l'accampamento e, trascinando la sua sacca, scomparve
dalla vista di Lothar. Il sole tramontò, cadde la notte, e Lothar rimaneva sulla cima del kopje. Come un lupo di mare, era acutamente conscio della forza e della direzione della brezza notturna, in tutti i suoi mutamenti. Un'ora dopo che si era fatto buio il vento si ridusse a un soffio costante e tiepido che gli carezzava la nuca. « Bene, e che vada per il verso giusto », mormorò Lothar, e fischiò piano, imitando il richiamo di un gufo in amore. Hendrick lo raggiunse quasi all'istante e Lothar indicò il vento. « Attraversa il fiume un bel pò piú a monte e gira intorno all'accampamento. Non troppo vicino. Poi voltati e tieniti sottovento. » A questo punto si udì un debole grido che veniva dall'altra parte del fiume, e tutt'e due sollevarono gli occhi. Il fuoco da campo davanti alle tende era stato alimentato finché le fiamme non erano arrivate a lambire i rami piú bassi degli alberi di camel-thorn, e nella luce proiettata dal fuoco i soldati neri spiccavano come silhouette « Che diavolo staranno facendo? » si domandò Lothar ad alta voce. « Ballano o se le danno? » « A questo punto non lo sanno piú nemmeno loro », ridacchiò Hendrick. I soldati barcollavano intorno al fuoco, urtandosi e afferrandosi l'un l'altro, e poi si separavano, crollavano giú nella polvere e procedevano ginocchioni. Oppure si tiravano su con enorme sforzo, ma dopo essere rimasti in piedi un istante, cercando di mantenersi in equilibrio con le braccia spalancate, ricadevano a terra come sacchi. Uno di loro era completamente nudo, con il corpo luccicante di sudore, e fece qualche piroetta prima di finire dritto nel fuoco. A tirarlo fuori di lí pensarono due suoi colleghi, e tutti ridevano sguaiatamente. « Tocca a te, ora » comunicò Lothar a Hendrick, dandogli una pacca sulla spalla. « Portati dietro Manie e lascia che sia lui a tenere i cavalli. » Hendrick si avviò giú per il pendio ma si arrestò quando Lothar lo chiamò piano. « Manie è sotto la tua responsabilità ora. Ne rispondi con la tua vita. » Il nero non rispose, ma scomparve nella notte. Mezz'ora piú tardi Lothar li vide attraversare i pallidi banchi di sabbia del fiume, uno scuro movimento senza forma che si stagliava contro il suolo alla luce delle stelle e che si confuse poi con la macchia che cresceva sull'altra riva. L'orizzonte si schiarí e le stelle dell'est impallidirono, soverchiate dalla luce della luna nascente. Nell'accampamento al di là del fiume le evoluzioni alcoliche dei soldati avevano lasciato il posto a un'inerzia suina. Con il binocolo Lothar riusciva a distinguere i corpi, sparpagliati a casaccio come cadaveri sul campo di battaglia, e uno di loro assomigliava parecchio a Vark Jan, anche se era difficile esserne sicuri, visto che giaceva a faccia in giú nell'ombra dall'altra parte del fuoco « Se è davvero lui, è un uomo morto », giurò Lothar a se stesso, e si levò in piedi. Era arrivato il momento di muoversi, infine La luna difatti era interamente al di sopra dell'orizzonte, e per for-
ma e brillantezza ricordava un ferro di cavallo appena uscito dalla forgia. Lothar scese la china con somma cautela, mentre il mulo soffiava dalle narici, ancora infelicemente gravato del suo terrificante fardello. « E' quasi finita ora », gli disse Lothar carezzandogli la fronte. « Sei stato bravo, vecchio mio. » Sciolse la cavezza, si aggiustò la tracolla del Mauser sulla spalla, e guidò il mulo intorno alle pendici del kopje e giú verso il fiume. Impossibile avvicinarsi in modo furtivo, con quel grande animale chiaro e il suo traballante carico. Lothar imbracciò il fucile e mise il colpo in canna mentre solcavano la sabbia sul letto del fiume, guardando la fila degli alberi sulla riva opposta; ma non si attendeva alcun pericolo. Il fuoco da campo si era spento, e vi fu completo silenzio fino al momento in cui salirono sopra la riva e Lothar udí il calpestio degli zoccoli e il respiro inquieto di uno degli animali nel recinto davanti. La brezza era alle spalle di Lothar, ancora costante, e d'improvviso si levò un acuto nitrito di terrore. « Ecco! Riempitevi pure i polmoni », sussurrò Lothar, e guidò il mulo verso il recinto. La reazione dei cavalli fu quella di battere con gli zoccoli e di spingersi l'un l'altro. L'allarme trasmesso dall'odore ripugnante della carcassa insanguinata del leone si spargeva per l'intero branco come un contagio. Un cavallo nitrí terrorizzato; immediatamente, altri s'impennarono. E fu il panico. Lothar vedeva le teste sopra il recinto, con le criniere che sventolavano nella luce lunare, mentre gli zoccoli anteriori mulinavano selvaggiamente. Si fermò dietro il lato sopravvento del recinto e tenne il mulo, poi tagliò la corda che reggeva il leone sul dorso dell'animale. La carcassa scivolò di lato e urto il terreno. L'aria contenuta nei polmoni uscí per la gola con un rumore smorzato, a metà fra il ruggito e il rutto, e i cavalli dall'altra parte del recinto si sollevarono nitrendo e cominciarono a correre in circolo come un vivente gorgo di carne equina. Lothar si chinò e incise il ventre del leone, dalle gambe fino allo sterno, spingendo il coltello in profondità in modo che tagliasse la vescica e le interiora, e tutt'intorno si diffuse un tanfo pesante. Il branco di cavalli pareva impazzito. Li si sentiva urtare contro la parete opposta del recinto, nel disperato tentativo di sfuggire all'odore. Lothar sollevò il fucile, lo puntò un metro sopra le teste del cavalli, e vuotò il caricatore. I colpi rimbombarono in rapida successione, e il recinto fu rischiarato dai lampi degli spari. La mandria, in terrorizzato unisono, sfondò la parete del recinto e si rovesciò fuori come una scura fiumana, con le criniere che ribollivano come schiuma mentre galoppava via nella notte, dirigendosi sottovento... dove Hendrick la attendeva con i suoi uomini. Lothar impastoiò il mulo alla svelta, e corse verso le braci del fuoco da campo, ricaricando il fucile mentre si spingeva avanti. Uno dei soldati, che la fuga dei cavalli era riuscita a risvegliare perfino
dalla specie di coma in cui si trovava per la colossale bevuta, era in piedi, e si dirigeva barcollando, ma con decisione, verso il recinto. « I cavalli », gridava. « In piedi, brutti ubriaconi! Bisogna fermare i cavalli! » Poi vide Lothar. « Mi dia una mano! I cavalli... » Lothar appoggiò la canna del Mauser sotto il mento del soldato. I denti di questo si chiusero di scatto, l'uomo si mise a sedere e poi lentamente cadde di nuovo disteso. Lothar lo superò con un balzo e corse avanti. « Vark Jan! » chiamò con urgenza. « Dove ti sei cacciato? » Nessuna risposta. Lothar girò attorno al fuoco, verso la figura che aveva visto dal suo nascondiglio. La girò con il piede, e il Porco guardò in su verso il cielo con occhi spenti e un sorriso beato sulla rugosa faccia giallastra. « In piedi! » Lothar gli sferrò un calcio con tutte le sue forze Il sorriso di Vark Jan non subì il minimo mutamento. Il dolore non lo toccava per nulla. « E va bene, ti avevo pure avvisato! » Lothar armò il Mauser e sollevò la sicura. Appoggio la canna alla nuca di Vark Jan. Se la polizia l'avesse preso vivo. Vark Jan si sarebbe messo a cantare dopo soli due o tre colpi di sjambok, la frusta di pelle di Ippopotamo. Anche se non conosceva il piano in tutti i dettagli, ne sapeva abbastanza da mandare tutto all'aria, e da far mettere Lothar sulla lista dei ricercati per furto di cavalli e danneggiamento di beni dell'esercito. Premette il dito sul grilletto fino al punto in cui un'ulteriore pressione avrebbe fatto partire il colpo. « Troppo bello per lui », pensò con asprezza. « Bisognerebbe ucciderlo a sferzate. » Ma lasciò andare il dito, e si diede dello stupido mentre rimetteva la sicura e correva a prendere il mulo. Vark Jan era un ometto ossuto, ma il suo corpo era completamente rilassato e ci volle tutta la forza di Lothar per issarlo sul dorso del mulo. Rimase appeso là come un capo di biancheria steso ad asciugare con le braccia da una parte e le gambe dall'altra. Lothar saltò su dietro di lui, mise il mulo al passo piú veloce che riuscì a ottenere - una specie di trotto chiassoso e sofferto - e lo spinse direttamente sottovento. Un paio di chilometri piú in là Lothar si disse che aveva superato gli altri, e rallentò l'andatura proprio mentre Hendrick balzava fuori dall'ombra di fronte a lui. « Come è andata? Quanti ne avete presti » si informò Lothar, in ansia, e Hendrick si mise a ridere. « Ne abbiamo presi tanti che le cavezze non bastano. » Non appena uno degli uomini aveva catturato un cavallo fuggiasco, lui gli era balzato in groppa, senza sella, e aveva tagliato fuori gruppi di animali, fermandoli e tenendoli mentre Manfred accorreva e gli metteva la cavezza. « Ventisei! » esultò Lothar contando i capi delle redini, a ciascuno dei quali era legato un cavallo. « Possiamo persino permetterci il lusso di fare una scelta. » Cercò di tenere a freno il giubilo. « Bene, ce ne andiamo subito. L'esercito ci inseguirà non appena riuscirà a portare qui le truppe. » Sfilò la cavezza dalla testa del mulo e gli diede una pacca sul didietro. « Grazie, vecchio mio », gli disse. « Ora puoi tornartene a
casa. » Il mulo accettò l'offerta con entusiasmo e addirittura percorse i primi cento metri del suo cammino verso casa al galoppo. Ciascuno prese un animale e vi montò su senza sella, tenendo le redini di altri tre o quattro cavalli, e Lothar li condusse indietro verso il rifugio fra le rocce. All'alba si fermarono brevemente per consentire a Lothar di esaminare uno per uno i cavalli rubati. Due erano rimasti feriti nella mischia dentro il recinto, e furono lasciati liberi. Altri due erano cosí buoni che era impossibile scegliere l'uno piuttosto che l'altro, sebbene già ne avessero piú del necessario. Mentre stavano occupandosi dei cavalli Vark Jan si svegliò e si mise a sedere debolmente. Mormorò alcune preghiere rivolte agli antenati e agli dei ottentotti, impetrando la fine delle sue sofferenze, e subito dopo vomitò un flusso di liquore di infimo ordine. « Tu e io dobbiamo ancora sbrigare una certa faccenda insieme », promise Lothar senza sorridere, per poi voltarsi verso Hendrick: « Li prendiamo tutti, i cavalli. Qualcuno andrà certo perduto, nel deserto ». Quindi alzò il braccio destro nel comando della cavalleria: « In marcia! » Raggiunsero il riparo fra le rocce appena prima di mezzogiorno, ma sostarono solo per caricare i bagagli sui cavalli liberi, poi ciascuno si scelse un animale e lo sellò. Condussero i cavalli al fiume e li abbeverarono a sazietà. « Quanto vantaggio abbiamo? » chiese Hendrick. « I soldati di colore non possono fare un bel nulla senza gli ufficiali bianchi, e questi potrebbero metterci due o tre giorni a tornare indietro. Dovranno spedire un telegramma a Windhoek per chiedere ordini, e dopo dovranno mettere insieme una pattuglia. Direi che abbiamo tre giorni, come minimo, e piú probabilmente quattro o cinque. » « Possiamo fare un bel pò di strada in tre giorni », disse Hendrick in tono soddisfatto. «Nessuno potrebbe andare piú lontano», concordo Lothar. Non era una vanteria, ma un dato di fatto: il deserto era il suo regno. Pochi uomini bianchi lo conoscevano bene al pari di lui, e nessuno meglio. « Montiamo in sella? » domandò Hendrick. « C'è un'ultima cosa da sbrigare. » Lothar prese le redini di cuoio che aveva di scorta nella borsa della sella e le attorcigliò intorno al polso, lasciando cadere le fibbie fino a terra. Poi attraversò il letto del fiume, diretto al posto dove il Porco sedeva tetro, all'ombra dell'altra riva del fiume. Vark Jan si copriva la faccia con le mani, e non udí il passo leggero di Lothar sulla sabbia finché non fu proprio sopra di lui. « Ti avevo fatto una promessa », gli disse Lothar a bruciapelo, scuotendo la pesante frusta di cuoio. « Capo, non ci ho potuto far niente », strillò Vark Jan, e tentò di tirarsi su in piedi. Lothar proiettò la cinghia e le fibbie metalliche descrissero un luccicante arco nella luce solare. Il colpo prese Vark Jan intorno alla schiena e le fibbie girarono attorno alle sue costole aprendogli un
solco sanguinante sotto l'ascella. Il Porco ululò: « Mi hanno obbligato! Mi hanno fatto bere... » Il colpo successivo lo fece cadere. Continuava a urlare, sebbene le parole non avessero piú nessuna coerenza, e lo staffile si abbatteva sulla sua pelle gialla, incidendovi segni spessi e lucenti, striature porporine come acini d'uva. Le fibbie laceravano la camicia di Vark Jan come fossero artigli di leone, e la sabbia faceva del suo sangue minuscole palline rosse non appena sprizzava a terra. Alla fine smise di urlare, e Lothar si trasse indietro, ansimando per lo sforzo, e pulí la sferza dal sangue sulla coperta di una sella. Guardò le facce degli uomini: la fustigazione era stata inscenata a beneficio loro piú ancora che dell'uomo accartocciato ai suoi piedi. Erano cani selvatici e comprendevano solo la forza, rispettavano solo la crudeltà. Hendrick parlò per tutti: « Ha avuto quel che si meritava. Lo finisco? » « No! Lasciagli il cavallo », disse Lothar, e si girò. « Quando rinviene, può seguirci o andare all'inferno, che e il suo posto. » Si mise in sella, evitando gli occhi offesi del figlio, e alzò la voce: « Bene! Si parte! » Cavalcava con le staffe lunghe, al modo boero, adagiato scompostamente sulla sella per stare comodo, e Hendrick spinse il cavallo al suo fianco, mentre Manfred faceva lo stesso dall'altra parte. Lothar si sentiva euforico. Nel suo sangue scorreva ancora, pari a una droga, l'adrenalina liberatasi nell'accesso di violenza, e davanti a lui si stendeva il deserto aperto. Prendendosi i cavalli aveva oltrepassato i limiti stabiliti, e di nuovo era un fuorilegge, libero dai vincoli posti dalla società, e il suo spirito aleggiava alto come un falco in caccia. « Dio, quasi m'ero scordato cosa vuoi dire avere in mano un fucile e fra le gambe un buon cavallo. » « Siamo uomini, di nuovo », concordò Hendrick, e si sporse per abbracciare Manfred. « Anche tu. Tuo padre aveva la tua età quando siamo partiti in guerra la prima volta. E anche ora stiamo andando in guerra. Tu sei un uomo, come lo era lui. » E Manfred dimenticò la scena cui aveva appena assistito e impettì per l'orgoglio di essere annoverato in quella compagnia. Si sedette dritto in sella e alzò il mento. Lothar volse la testa in direzione nord-est, verso l'interno in cui si acquattava l'infinito Kalahari, e li condusse via. Quella notte, mentre erano accampati in una profonda gola che mescolava la luce del loro fuoco di bivacco, la sentinella diede l'allarme con un fischio basso. Uscirono dalle coperte, si impadronirono dei fucili e si dispersero nell'oscurità. I cavalli si agitarono e scalpitarono, e alla fine Vark Jan cavalcò fuori dall'oscurità e scese di sella in mezzo al campo. Si fermò accanto al fuoco, da miserabile, con la faccia gonfia e piena di lividi. Come un cane bastardo che aspetti solo di essere cacciato via. Gli altri tornarono indietro e, senza manifestare alcuna consapevolezza della sua presenza, si infilarono di nuovo nelle coperte. «Dormi dall'altra parte del fuoco», gli disse Lothar, aspro.
« Puzzi di acquavite. » E Vark Jan si contorse dal sollievo, grato di essere stato nuovamente accettato nella banda. All'alba montarono di nuovo in sella e cavalcarono oltre nella vasta solitudine rovente del deserto. La strada che portava alla miniera H'ani era probabilmente una delle piú accidentate dell'Africa Sudoccidentale, e ogni volta che la percorreva Centaine diceva che bisognava davvero fare qualcosa per rimetterla in sesto. Ciò metteva subito in movimento il dottor Twentyman-Jones e il suo regolo calcolatore, e il risultato era una stima del costo da sostenere per pavimentare centinaia di chilometri di pista nel deserto, costruire ponti attraverso i fiumi e consolidare i passi fra le colline. A questo punto il frugale buonsenso di Centaine aveva la meglio. « Alla fin fine si tratta solo di tre giorni di viaggio, e di rado mi capita di percorrerla piú di tre volte l'anno... e poi è una specie di avventura. » La linea telegrafica che collegava la miniera a Windhoek era stata già abbastanza costosa per conto suo. La stima iniziale era stata di cinquanta sterline per miglio, cioè trentaquattro per chilometro, ma ce n'erano volute cento, e ogni volta che lei guardava l'infinita successione di pali, fra i quali era teso un filo di rame luccicante, provava del risentimento. A parte il costo, la linea telegrafica rovinava il paesaggio, riducendo quel senso di selvaggio isolamento che le risultava cosí caro quando percorreva il Kalahari. Ricordò con un fremito di nostalgia come era stato agli inizi, quando dormivano per terra e si portavano dietro l'acqua. Ora ogni giorno di viaggio si concludeva in un punto preciso, dove sorgeva una stazione di posta; l'acqua veniva portata alla superficie da pozzi molto profondi grazie a rotori azionati dal vento. A ogni tappa c'erano dei servi che abitavano là in permanenza, e offrivano pasti regolari, bagni caldi e un caminetto acceso per le gelide e tonificanti notti dell'inverno del Kalahari. C'erano persino frigoriferi a cherosene, che provvedevano un pò di celestiale ghiaccio per il whisky serale nel feroce calore dell'estate. Sulla pista c'era un traffico notevole: il convoglio regolare di Gerhard Fourie, che portava combustibile e rifornimenti, aveva inciso grossi solchi nel suolo e aveva sconvolto i punti di passaggio negli uadi. E siccome gli assi dei grossi autocarri Ford erano molto piú lunghi di quelli della Daimler gialla, Centaine era costretta a guidare con una ruota in uno dei grandi solchi e l'altra che rimbalzava e scricchiolava al centro della pista. A questo si aggiungeva il calore insopportabile dell'estate inoltrata. La carrozzeria aveva raggiunto una temperatura tale da far venire vesciche sulla pelle, e a intervalli regolari l'acqua del radiatore bolliva, innalzando nell'aria una cantante fumarola di vapore, e bisognava fermarsi. Perfino il cielo pareva ardere di una fiamma azzurra, e gli infiniti orizzonti del deserto erano dilavati dai vitrei gorghi della fatamorgana. « Se potessero fare una macchina abbastanza piccola da raffreddare l'aria dentro la Daimler », si augurò Centaine, « come quella che abbiamo nel vagone! » Quindi scoppiò a ridere: « Tiens, si vede
proprio che mi sto rammollendo! » Ricordò quando aveva attraversato la terribile zona di dune del Namib, insieme ai due vecchi boscimani che l'avevano salvata: si erano dovuti coprire il corpo con un impiastro di sabbia e di urina - la loro stessa urina - per sopravvivere al mostruoso calore del mezzogiorno nel deserto. « Perché ridi, mamma? » chiese Shasa. « Mi è venuto in mente qualcosa che è successo molto tempo fa, prima che tu nascessi. » « Raccontamelo, dài, raccontamelo! » Shasa sembrava del tutto indifferente al calore, alla polvere, alle implacabili scosse e ai sussulti del telaio. Be', e perché poi avrebbe dovuto soffrirne? Gli sorrise. In quelle terre era nato; era anche lui una creatura del deserto. Shasa interpretò quel sorriso come un segno di acquiescenza. « Dài, mamma. Raccontami tutta la storia. » «Pourquoi pas? Perché no? » Cosí gliela raccontò assettando l'espressione stupefatta del suo viso. « Con la tua pipi? » Era attonito. « Ti sorprende? » Lo prese in giro. « E allora lascia che ti racconti quello che abbiamo fatto quando l'acqua delle nostre borracce di uova di struzzo è finita. Il vecchio O'wa, il cacciatore boscimano, ha ucciso un maschio di gemsbok con una freccia avvelenata, e noi abbiamo inciso il suo primo stomaco, il rumine, abbiamo spremuto il liquido contenuto nelle erbe indigerite e ce lo siamo bevuto. Il che ci ha tenuti vivi abbastanza a lungo da raggiungere i pozzi. » « Mamma! » « Proprio cosí, chéri: quando posso bevo champagne, ma se è necessario bevo qualsiasi cosa mi possa tenere in vita » Centaine si mantenne silenziosa mentre lui rifletteva su quanto gli era appena stato detto, poi gettò un'occhiata al suo viso e vide che il ribrezzo aveva lasciato il passo al rispetto. « Tu che avresti fatto, chéri, avresti bevuto o avresti preferito morire? » gli domandò, per accertarsi che la lezione fosse stata davvero assimilata. « Avrei bevuto », rispose Shasa senza la minima esitazione. E poi, con affettuoso orgoglio, aggiunse: « Sai, mamma, sei una vera fuoriclasse! » Era il suo complimento piú elevato « Guarda! » Indicò avanti, dove la pianura colore del manto di un leone, con i confini nascosti dal velo della fatamorgana, sembrava coperta da una diafana mussola danzante color cannella. Centaine fermò la Daimler fuori della pista e tutti e due si sporsero sulla predella per guardare meglio. « Springbok. I primi che vediamo, in questo viaggio. » Le stupende gazzelle si muovevano ad andatura regolare attraverso il piano, correndo tutte nella medesima direzione. « Devono essere decine di migliaia. » Gli springbok erano animali piccoli ed eleganti, con lunghe zampe delicate e corna a forma di cetra. « Stanno migrando verso nord », gli disse Centaine. « Devono esserci state buone piogge a nord, e loro vanno verso l'acqua » D'improvviso le gazzelle piú vicine ebbero paura dei due esseri sconosciuti che le guardavano, e inscenarono il particolare compor-
tamento di allarme che i boeri chiamano pronking. Arcuarono il dorso, piegarono il lungo collo fino a toccare gli zoccoli con il muso, e si misero a saltare a gambe rigide, balzando alte e leggere nell'aria calda e scintillante, mentre da una piega della pelle del dorso sventolava una bianca criniera. Il pronking è contagioso, e ben presto migliaia di gazzelle saltavano per la pianura come uccelli. Centaine balzò giú dalla predella e le imitò, tenendo due dita sopra la fronte, aperte a V, per simulare le corna, e le altre dita sulla schiena a fare da criniera. Lo fece con tanta abilità che Shasa fu scosso dalle fisa e batté le mani. « Sei forte, mamma! » Saltò giú e si uní a lei, e saltellarono in circolo come bimbetti finché non furono stanchi morti per la fatica e le risate. Allora si appoggiarono alla Daimler e si aggrapparono l'uno all'altra per ricevere sostegno. « Me l'ha insegnato il vecchio O'wa », ansimo Centaine. « Era in grado di imitare qualunque animale del veld. » Quando ripresero ad andare lasciò guidare Shasa, visto che l'attraversamento della pianura era uno dei tratti meno difficili e lui, d'altra parte, era un buon autista. Centaine si sdraiò verso l'angolo del sedile. Dopo un pò Shasa ruppe il silenzio. « Quando siamo da soli sei molto diversa. » Rovistò mentalmente nel suo vocabolario per trovare le parole appropriate. « Sei talmente simpatica e divertente! Vorrei che potessimo essere così sempre. » « Qualunque cosa si faccia troppo a lungo diventa noiosa », gli disse lei dolcemente. « Il segreto è fare un pò di tutto, non una cosa sola. Ora ci siamo divertiti, ma domani alla miniera avremo altre cose da fare, e dopo altre ancora. Proveremo tutto, e spremeremo da ogni istante tutto il suo succo. » Twentyman-Jones li aveva preceduti alla miniera, mentre Centaine era rimasta altri tre giorni a Windhoek per sistemare certe carte con Abraham Abrahams, e cosí tutti i servi delle stazioni lungo la pista erano avvertiti. Quando raggiunsero l'ultima tappa, quella sera, l'acqua del bagno era talmente calda che perfino Centaine, la quale amava prendere il bagno alla temperatura giusta per cuocere le aragoste, dovette aggiungere acqua fredda prima di potersi immergere. Lo champagne era quel meraviglioso Krug del 1928, limpido e freddo come piaceva a lei, quanto bastava per appannare la bottiglia di microscopici cristalli di ghiaccio. Centaine non tollerava la barbarie di tuffare lo champagne in un secchiello colmo di ghiaccio, sebbene questo non mancasse. « Piedi freddi, testa calda: una pessima combinazione, tanto per gli uomini quanto per le bottiglie », le aveva insegnato suo padre. Come sempre, bevve un'unica coppa, e poi si dedicò ai piatti freddi che Twentyman-Jones, cui erano noti i suoi gusti, aveva messo insieme per lei e fatto riporre nel frigorifero a cherosene. C'erano aragoste della verde corrente di Benguela, con la carne bianca arricciata nelle code porporine, e verdure in insalata che venivano dalle colline sopra Windhoek, lattuga croccante, pomodori rossi come papaveri e pungenti cipolle fresche. E infine, come ultimo tocco, tartufi selvati-
ci scovati nel deserto circostante dai boscimani «addomesticati» che si prendevano cura del gregge. Li mangiò crudi, e quel sapido gusto di funghi era il sapore del Kalahari. Ripartirono prima dell'alba, nell'oscurità piú completa, e allo spuntare del sole si fermarono e prepararono il caffè su un fuoco di rami di camel-thern: il legno rosso e screziato, che bruciava con una fiamma azzurrina e intensa, dava al caffè un aroma del tutto particolare e delizioso. Mangiarono la colazione al sacco che aveva dato loro il cuoco della stazione di posta e la mandarono giú con il caffè che sapeva di fumo, poi guardarono l'alba che imbrattava il cielo e il deserto di bronzo e lo dorava con lucente pulviscolo solare. Andarono avanti di pari passo con il sole, che estrasse dal paesaggio ogni colore e lo bagnò della sua luce candida e accecante. « Ferma! » ordinò all'improvviso Centaine, e quando si arrampicarono sul cofano della Daimler e guardarono la strada di fronte, Shasa restò sconcertato. « Che cosa c'è, mamma? » « Non vedi, chéri? Guarda laggiú, sopra l'orizzonte! » Galleggiava nel cielo, indistinta ed eterea. « Ma è in cielo! » esclamò Shasa, che aveva infine visto. « La montagna che galleggia in cielo », mormorò Centaine. Ogni volta che le era dato vederla in questo modo, la meraviglia si rinnovava, fresca e incantevole come la prima volta. « Il Posto di Tutta la Vita. » Era il nome boscimano. Man mano che procedevano la forma delle alture si ispessi, fino a trasformarsi in una parete di roccia a picco, ai piedi della quale si stendevano rade foreste di mopani. Qua e là il dirupo era spaccato da gole e da orridi. In altri punti era compatto e imponente, coperto di licheni dai chiari colori di zolfo, verde e arancio. La miniera H'ani era annidata sotto una di queste formidabili pareti a picco, e in un posto del genere gli edifici parevano insignificanti e incongrui. Le istruzioni di Centaine a Twentyman-Jones erano state di costruire nel modo piú discreto possibile, ovviamente purché non ne andasse di mezzo la produttività, ma c'era un limite alla possibilità di seguire istruzioni del genere. I recinti dei lavoratori neri e i terreni per la disgregazione dei fanghi diamantiferi coprivano estensioni molto vaste, e il traliccio d'acciaio con l'ascensore dell'impianto di lavaggio era alto come la torre di trivellazione di un campo petrolifero. Il predone piú insaziabile, in ogni modo, era stata la caldaia a vapore, che aveva trasformato buona parte della foresta ai piedi della montagna in semplice legna da ardere prima di divorarla come un Baal industriale. Dove prima c'erano tronchi alti, dalla corteccia grigia, ora cresceva una stentata macchia senza attrattive. Twentyman-Jones li aspettava davanti all'edificio dell'amministrazione, coperto da un tetto di paglia, e qui essi scesero dalla Daimler coperta di polvere. « Fatto buon viaggio, signora Courteney? » domando con lugubre piacere. « Vorrete rinfrescarvi e riposarvi, immagino. » « Non dirà sul serio, dottor Twentyman-Jones. Mettiamoci al la-
voro. » Centaine lo precedette nell'ampia veranda fino al suo ufficio. « Siediti accanto a me », ordinò a Shasa, prendendo posto dietro la scrivania di legno. Iniziarono con i rendiconti sui tassi di rendimento, poi passarono ai piani di costo; e mentre Shasa battagliava per tener testa al rapido mulinare delle cifre, si domandò come potesse sua madre cambiare da un momento all'altro in quel modo. Solo il giorno prima era stata una ragazzina che saltava qui e là a imitazione di uno springbok. « Shasa, quanto avevamo detto che era il costo per carato se facciamo una media di ventitré carati per carico? » Sparò la questione a bruciapelo, e quando lui fece fiasco aggrottò la fronte. « Non è il momento di perdersi in sogni a occhi aperti. » Dopo questa frase, gli voltò le spalle, per sottolineare il rimprovero. « Molto bene, dottor Twentyman-Jones, abbiamo eluso le cose piú spiacevoli a sufficienza. Vediamo ora quali economie dobbiamo fare per rispettare le riduzioni della quota, e continuare a far lavorare la miniera H'ani con profitto. » Era il crepuscolo quando Centaine si interruppe e si alzò in piedi. « Continueremo domani. » Si stirò come un gatto e poi li guidò fuori sull'ampia veranda. « Shasa lavorerà per lei come eravamo d'accordo. Penso si potrebbe cominciare dal pozzo. » « Stavo per suggerirlo. » « A che ora si inizia? » domandò Shasa. « Il turno inizia il lavoro alle cinque, ma immagino che il signorino Shasa vorrà attaccare piú tardi », disse Twentyman-Jones, sbirciando Centaine. Era una sfida e un test, e lei se ne rimase zitta, aspettando che Shasa decidesse per conto suo. Era in quell'età in cui il sonno è una droga e alzarsi la mattina costituisce una brutale penitenza. « Sarò all'imbocco del pozzo principale alle quattro e trenta, signore », disse, e Centaine si rilasso e lo prese per il braccio. « Meglio coricarsi presto, allora. » Condusse la Daimler nel viale dei capiturno bianchi, degli artigiani e delle loro famiglie, fiancheggiato da villette con il tetto di lamiera. Alla miniera H'ani le gerarchie sociali erano osservate in modo rigido. Era un microcosmo della giovane nazione. I lavoratori neri abitavano nelle zone cintate e sorvegliate, con costruzioni imbiancate che sembravano file di stalle. Per i soprastanti neri c'erano alloggi separati, piú elaborati, e le famiglie avevano il permesso di vivere con loro. Gli artigiani bianchi e i capiturno abitavano lungo i viali che si stendevano ai piedi delle colline, mentre i dirigenti abitavano sulle pendici, in case che diventavano sempre piú grandi e si circondavano di prati sempre piú vasti man mano che si saliva su per la collina e la scala gerarchica. Quando svoltarono, alla fine del viale, sui gradini dell'ultima casetta c'era una ragazza, che mostro la lingua a Shasa mentre la Daimler passava. Era trascorso quasi un anno dall'ultima volta che l'aveva vista, e la natura, in quel frattempo, aveva fatto miracoli. Aveva ancora i piedi nudi, e sporchi fino alla caviglia, e i suoi riccio-
li erano ancora scarmigliati e pieni di colpi di sole, ma il cotone sbiadito della sua blusa era ormai così teso che i suoi seni fiorenti erano come compressi dal tessuto. Il risultato era che venivano spinti in fuori nella scollatura e formavano un solco ben visibile. Shasa si contorse sul sedile quando si rese conto che i due segni a forma di moneta e di colore rossobruno, che sembravano stampati sulla camicetta, in realtà trasparivano attraverso il tessuto leggero. Le gambe della ragazza si erano allungate, e le ginocchia non erano piú ossute. Il colore della pelle variava dal caffè delle caviglie al panna dell'interno delle cosce. Sedeva al limite della veranda, con le ginocchia divaricate e la gonna tirata su e penzoloni fra le gambe. Quando lo sguardo di Shasa si poso su di lei, la ragazza aprì ancora un pò le ginocchia. Aveva il naso all'insù, cosparso di efelidi, e quando sorrise l'arriccio. Era un ghignetto sfrontato e furbesco, e fra i denti candidi s'intravedeva il rosa della lingua. Shasa distolse gli occhi, sentendosi un pò in colpa, e fisso davanti a se, nel parabrezza. Ricordava in modo assai vivo, fin nei minimi dettagli, ciascuno di quei momenti proibiti dietro il casotto della pompa, e le sue guance avvamparono. Non poté fare a meno di gettare un'occhiata a sua madre. Guardava la strada, non si era accorta di niente. Si sentì sollevato. Ma solo finché lei non disse: « E' una sgualdrinella qualunque, e fa gli occhi dolci a ogni paio di pantaloni che le capita a tiro. Suo padre è nella lista di quelli da licenziare. Ci libereremo di lei perché e una che va in giro a seminare grane per se stessa e per noi ». Shasa avrebbe dovuto immaginare che quel breve scambio non sarebbe passato inosservato. Sua madre vedeva tutto, pensò, e solo allora accusò il colpo. La mandavano via! Fu il primo a sorprendersi per il senso di privazione che sentiva. Era un dolore fisico alla base dello stomaco. « Che cosa gli succederà, mamma? » domandò piano. « Intendo alla gente che stiamo licenziando. » Aveva ascoltato sua madre e Twentyman-Jones discutere di licenziamenti, ma gli sembravano semplici cifre: ora che aveva visto la ragazza, in un attimo erano divenuti carne e sangue. Ricordò il ragazzo biondo con cui si era battuto, e la ragazzina che aveva visto dal finestrino del vagone, in piedi al limite del campo degli straccioni, e si figurò Annalisa Botha al posto di quella sconosciuta. « Non sò che ne sarà di loro », disse sua madre a labbra strette, « ma non credo che la cosa ci riguardi. Il mondo è duro, e ciascuno di noi deve far fronte alla realtà a suo modo. Penso invece a quelle che sarebbero le conseguenze se non li mandassimo via. » « Ci rimetteremmo dei soldi. » « Giusto, e se ci rimettiamo, alla fine dovremo chiudere la miniera, col che perderebbero il posto tutti gli altri, e non solo quei pochi che dobbiamo licenziare. E ci andremmo di mezzo tutti quanti. Se non agissimo in questo modo, finiremmo per perdere tutto e saremmo come gli altri. Preferisci così? » D'improvviso a Shasa venne in mente un'altra scena. Al posto del ragazzo biondo, nel campo degli hobo c'era lui, a piedi nudi, con indosso stracci color kaki. Quasi riuscì a sentire il freddo della
notte attraverso il tessuto leggero e il grido della fame nelle viscere. « No! » proruppe, e poi abbassò la voce. « Non mi piacerebbe. » Rabbrividì per le ostinate immagini che lei aveva evocato con le sue parole, e che rifiutavano di dissolversi. «Capiterà, mamma? Potrebbe toccare anche a noi di esser poveri? » «Potrebbe succedere, chéri. Basterebbe che abbassassimo la guardia un minuto. Un patrimonio è difficile da accumulare ma facilissimo da perdere. » « Ci capiterà? » insistette, pensando al Tocco di Mida, il suo yacht, ai cavalli da polo, ai suoi amici della scuola esclusiva, ai vigneti di Weltevreden... ed ebbe paura. « Non vi è nulla di sicuro. » Si fece avanti e gli toccò la mano. « Questo è il bello del gran gioco della vita, chèri. Se ci fossero certezze, non varrebbe la pena di giocare. » « Non mi piacerebbe affatto essere povero. » « Mai! » gridò ora lei, con la stessa veemenza con cui prima l'aveva fatto suo figlio. « Non succederà mai, se continueremo ad agire con furbizia e coraggio. » « Quello che hai detto riguardo al commercio mondiale che si ferma, con la gente che non può piú permettersi di comprare i nostri diamanti... » Prima erano state solo parole, ora incarnavano una spaventosa possibilità. « Un giorno le cose torneranno a muoversi. Succederà presto. Questo è quel che dobbiamo credere, e per questo dobbiamo seguire le regole auree. Te le ricordi? » Centaine spinse la Daimler attraverso i tornanti, sempre piú su intorno allo sperone di roccia delle colline, finché gli edifici della miniera scomparvero dietro la parete rocciosa. « Qual era la prima regola aurea, Shasa? » suggerì lei. « Vendi quando tutti gli altri comprano e compra quando tutti gli altri vendono », ripetè lui. « Giusto. E adesso che cosa sta succedendo? » « Tutti quanti stanno cercando di vendere. » Aveva capito, e il suo sogghigno era trionfante. « E' bellissimo, ha cervello e istinto », pensò lei, mentre aspettava che Shasa risalisse le spire del serpente. L'espressione di Shasa cambiò quando infine arrivò alla testa e si accorse delle zanne. La guardò deluso. « Però, mamma, come facciamo a comprare se non abbiamo denaro? » Lei deviò di lato e spense il motore. Poi si voltò verso di lui e gli prese entrambe le mani. « Voglio trattarti da uomo, ora », gli disse. « Quello che ti dico è il nostro segreto, il nostro affare privato, qualcosa che non dividiamo con nessuno. Non col nonno, né con Anna, e neppure con Abraham Abrabams o Twentyman-Jones. E' una cosa fra me e te. » Lui annuì e Centaine tirò un respiro profondo. « Ho una premonizione. Questa catastrofe che ha ingoiato il mondo è il nostro colpo di fortuna, un'occasione che viene offerta a pochissimi. Tutti questi ultimi anni li ho passati a prepararmi. E sai come, chéri? » Lui scosse la testa, affascinato, e la fissò.
« Ho trasformato tutto quanto in denaro liquido, tranne la miniera e Weltevreden. E anche su quelle ho fatto debiti, grossi debiti, per avere piú liquidi. » « Ecco perché hai chiesto indietro tutti i soldi che avevi prestato. Ecco perché siamo andati a Walvis per quella fabbrica di pesce e per i pescherecci... volevi i soldi. » « Già, proprio per questo, chéri », lo incoraggiò lei, stringendogli le mani senza accorgersene, desiderando che comprendesse. E il viso di lui si illuminò di nuovo. « Stai per comprare! » esdamò Shasa. « Ho già cominciato », disse Centaine. « Ho comprato terre e concessioni minerarie, concessioni di pesca, concessioni per lo sfruttamento del guano, immobili. Ho addirittura comprato il teatro di Alhambra a Città del Capo e il Coliseum a Johannesburg. Ma soprattutto ho comprato della terra, e opzioni per comprarne ancora, decine e centinaia di migliaia di acri, chéri, a due scellini per acro. La terra è l'unico vero bene-rifugio. » Shasa non era veramente in grado di afferrare la cosa, ma ne intuí l'enormità, e lei lesse questo nei suoi occhi. « Ora conosci il nostro segreto », rise Centaine. « Se ho indovinato, saremo due o tre o quattro volte piú ricchi. » « E se invece le cose non cambiano. E se », cercò la parola, « se la Depressione va avanti per sempre, allora che cosa succederà, mamma? » Lei fece una smorfia di disgusto e lasciò cadere le braccia. « In questo caso, chéri, farà ben poca differenza che cosa avremo o non avremo fatto. » Avviò la Daimler e la guidò su per l'ultimo tratto di strada fino al bungalow che se ne stava solitario in messo ai prati all'inglese, con le luci accese che filtravano dalle finestre e i servi allineati sulla veranda anteriore che attendevano rispettosamente di darle il benvenuto, compunti nelle loro livree candide. Lei parcheggiò l'auto davanti agli scalini, spense il motore e di nuovo si voltò verso di lui. « No, chéri, non diventeremo poveri. Saremo ricchi, piú ricchi di come siamo mai stati prima. E piú tardi, grazie a te, mio caro, avremo anche il potere che si addice alla nostra ricchezza. Un grande patrimonio e un enorme potere. E' tutto pianificato, e con la massima cura! » Le parole di sua madre colmarono la testa di Shasa di pensieri turbinosi, e così non riuscì a dormire. « Un grande patrimonio e un enorme potere. » Le parole lo eccitavano e lo disturbavano. Cerco di rappresentarsi il loro significato e vide se stesso nei panni di un forzuto da circo, vestito di pelle di leopardo e con i polsi coperti da bracciali di cuoio, con le mani sui fianchi e i bicipiti gonfi, su una piramide di sterline d'oro, mentre una folla in abiti bianchi si inginocchiava e gli rendeva omaggio. Fece scorrere le immagini nella sua mente piú volte, e a ogni passaggio modificava qualche dettaglio, e tutti gli davano piacere senza però raggiungere la perfezione, finché non conferì a una delle adoratrici vestite di bianco una corona di riccioli ribelli, imbionditi dal
sole e scompigliati dal vento. La mise in prima fila: lei sollevò la fronte da terra e tirò fuori la lingua. La sua erezione fu così rapida e decisa da farlo gemere, e prima ancora di rendersene conto Shasa aveva fatto scivolare la mano sotto le lenzuola e l'aveva tirato fuori dal pigiama. Jock Murphy l'aveva avvertito. « Si rovinerà la vista, signorino Shasa! Ho visto tanti di quegli uomini che avevano fra le gambe una mazza da baseball rovinati dal cinque-contro-uno! » Ma nella sua fantasia Annalisa si metteva a sedere, con le lunghe gambe divaricate, e lentamente alzava la sua veste bianca La pelle delle sue gambe era liscia come burro, e Shasa mugolò piano. Lei fissava il davanti del suo costume di leopardo, con la lingua che si muoveva appena fra le labbra dischiuse, e la gonna bianca saliva sempre piú in alto. La mano di Shasa cominciò a muoversi su e giú, senza che lui potesse farci niente. La gonna saliva e saliva, senza mai raggiungere il punto dove le gambe si congiungevano, quelle gambe che parevano lunghe come binari nel deserto, e come binari non si incontravano mai. Shasa ansimò, si mise a sedere sul materasso di piuma e agitò la mano piú forte, e quando venne fu doloroso come una baionetta che gli entrasse nelle viscere. Gridò e ricadde all'indietro sui cuscini. Il sorriso allusivo e le efelidi di Annalisa si dissolsero, e il davanti del suo pigiama cominciò a divenire gelido dove era bagnato, ma a Shasa mancava la volontà necessaria per toglierlo. Quando il servo lo svegliò portandogli un vassoio di caffè e di fette biscottate, Shasa si sentiva inebetito e privo di energia. Fuori era ancora buio e lui si girò dall'altra parte mettendosi i cuscini sopra la testa. « La sua signora madre dice che io devo aspettare qui finché il signorino non si alza », disse il servo, un ovambo, in tono cupo, e Shasa si trascinò fino alla stanza da bagno, sforzandosi di nascondere la macchia che aveva sul pigiama. Uno degli stallieri aveva sellato il suo pony e l'aveva condotto davanti ai gradini dell'ingresso. Shasa si concesse un momento per scherzare con lo stalliere e per salutare e carezzare il pony, strofinando la fronte contro la sua e soffiandogli delicatamente nelle narici. « Stai mettendo su peso, Prester John », disse Shasa in tono di rimprovero, mentre il pony lo fissava. « Dovremo tirare giú un pò di ciccia a colpi di bastone da polo. » Si arrampicò sulla sella e imboccò la scorciatoia, seguendo il tracciato delle tubazioni che valicavano la collina. L'acquedotto portava l'acqua dalla sorgente che si trovava oltre la collina fino alla miniera e all'impianto di lavaggio. Cavalcò oltre il casotto delle pompe e si sentí assalire dai morsi della colpa ricordando la depravazione della notte, ma poi l'alba illuminò la pianura sotto il dirupo e Shasa scordò tutto per il piacere di osservare il veld tornare alla vita e dare il benvenuto al sole. Su questo lato della collina, per ordine di Centaine, la foresta non era stata toccata, e il mopani cresceva alto e maestoso. Uno stormo di francolini salutava l'alba col suo cinguettio giú nella mac-
chia alle pendici della collina, e un daiker grigio, di ritorno dalla sorgente, attraversò il sentiero a balzi proprio sotto il naso del pony. Shasa rise vedendo il pony arrestarsi di botto in modo teatrale. « Finiscila, vecchio commediante! » Dietro l'angolo del dirupo il contrasto era deprimente. La foresta profanata, la cicatrice degli scavi che sfigurava il fianco della collina, gli edifici di ferro, quadrati e assolutamente privi di grazia, le severe incastellature scheletriche dell'impianto di lavaggio, tutto era brutto. Shasa toccò il pony con i calcagni e galopparono per l'ultimo miglio fino allo spiazzo dove veniva portato su il minerale, proprio nell'istante in cui la vecchia Ford di Twentyman-Jones sboccava, con i fari ancora accesi, dalla pista che saliva dal villaggio. Twentyman-Jones controllò l'orologio nello scendere dall'auto e sembrò triste quando vide che Shasa era in anticipo di tre minuti. « E' mai stato a veder caricare, signorino Shasa? » « No, signore. » Stava per aggiungere: « Mia madre non me l'ha mai permesso », ma il chiarimento sapeva di superfluo, e per la prima volta provò una fitta di rancore per la presenza cosí invadente della madre. Twentyman-Jones lo condusse all'imbocco del pozzo e lo presentò al capoturno. « Il signorino Shasa lavorerà con voi », spiegò. « Trattatelo bene, come fareste con qualche altro giovanotto destinato a diventare il vostro direttore generale. » Non si riusciva mai a capire dall'espressione di Twentyman-Jones quando stava scherzando, dimodoché nessuno rise. « Procurategli un elmetto », ordinò Twentyman-Jones, e mentre Shasa se lo aggiustava in testa lo condusse ai piedi della parete rocciosa. Il tunnel era stato scavato alla base del dirupo, un orifizio rotondo nel quale i binari d'acciaio sprofondavano a quarantacinque gradi prima di sparire nell'oscurità. Una fila di carrelli era ferma all'inizio dei binari, e Twentyman-Jones lo portò al primo e lo fece salire con lui. Gli operai del turno si accalcarono nei carrelli seguenti: una dozzina di capimastri bianchi e centocinquanta minatori neri nelle loro tute stracciate e polverose, con i caschi di metallo chiaro, che ridevano scambiandosi scherzi pesanti e chiassosi. La macchina a vapore che muoveva i carrelli, tra sbuffi e clangori, spinse l'intero convoglio giú per il tunnel, e i carrelli si inabissarono, sferragliando a ogni scambio. Shasa si agitò, a disagio, pugnalato da un'irragionevole paura per l'improvvisa oscurità che li aveva avvolti. E tuttavia nei carrelli dietro i minatori ovambo cantavano: le loro voci melodiose e profonde rimbombavano negli oscuri confini della galleria, un coro meraviglioso che si elevava a canto di lavoro africano. Shasa si rilassò e si chinò di piú dalla parte di Twentyman-Jones per seguire le sue spiegazioni. « La pendenza è di quarantacinque gradi e la capacità dell'impianto di trazione è di cento tonnellate, nel gergo della miniera sessanta carichi di minerale. Il nostro obiettivo è fare seicento carichi per turno. »
Shasa si sforzava di concentrarsi sulle cifre; sapeva che sua madre l'avrebbe interrogato in proposito, la sera, ma l'oscurità e i canti e il rumore dei carrelli lo distraevano. Davanti a lui c'era una monetina di luce chiara e brillante che crebbe rapidamente di dimensioni, finché di punto in bianco si ritrovarono dall'altra parte del tunnel e Shasa ansimò dallo stupore. Aveva studiato i diagrammi del pozzo, e naturalmente sulla scrivania di sua madre, a Weltevreden, c'erano le fotografie, ma tutto ciò non lo aveva preparato all'immensità dello spettacolo che vedeva ora. Era un buco quasi perfettamente rotondo al centro della montagna. Era aperto verso il cielo, e le pareti erano verticali e compatte, un muro circolare di roccia grigia, simile a un'arena. Ci erano entrati attraverso il tunnel che andava alle installazioni sul lato piú distante della collina, e l'angusta costola sulla quale procedevano continuava con la stessa inclinazione di quarantacinque gradi fino alla base del cratere, sessanta metri sotto. Il precipizio su entrambi i lati toglieva il fiato. Il grande buco dalle mura di roccia era largo un paio di chilometri, e le sue pareti a picco erano alte centoventi metri dalla base fino all'orlo. La conferenza di Twentyman-Jones non era ancora finita. « Questo era un cratere vulcanico. Di qui il magma liquefatto saliva alla superficie della terra, nella notte dei tempi. A quelle temperature e con quella pressione si formavano i diamanti, e venivano portati in superficie insieme alla lava rovente. » Shasa scrutava intorno a se, scuotendo la testa per abituarsi all'idea di uno scavo cosí gigantesco, mentre Twentyman-Jones proseguiva. « A un certo punto il magma ha trovato altri sbocchi, e quello contenuto qui si è raffreddato e solidificato. Lo strato superiore, esposto all'aria e al sole, si è ossidato e ha formato il classico "terreno giallo" delle formazioni diamantifere. Per undici anni abbiamo scavato attraverso di esso, e solo in questi ultimi tempi siamo arrivati alla "roccia blu". » Fece un cenno ampio che abbracciava la roccia azzurrina, simile nell'aspetto all'ardesia, che formava il pavimento del gigantesco pozzo. « Quello è il deposito piú profondo di magma solidificato, ed è pieno di diamanti quanto un panettone di uvetta. » Raggiunsero il pavimento dello scavo e scesero dal carrello. « Il funzionamento della miniera è semplice », continuò Twentyman-Jones. « Il nuovo turno attacca alle prime luci dell'alba e comincia il lavoro nel punto in cui la sera prima sono state fatte brillare le mine. Il minerale viene frantumato e caricato nei carrelli, poi lo mandiamo su attraverso il tunnel. Fatto questo, si prendono le misure sul terreno, si scavano le buche per le mine successive e si sistemano le cariche. Al tramonto i turnisti se ne vanno e il capoturno accende la miccia. Dopo l'esplosione lasciamo che passi la notte, in modo che i detriti si stabilizzino e i fumi si disperdano, e la mattina dopo tutto ricomincia da capo. Guardi là », disse puntando l'indice verso un'area di pietra blu e grigia ridotta in frantumi, « quella è la mina di ieri sera. E là noi cominceremo oggi. » Shasa non si era aspettato di essere così assorbito dal fascino di quello scavo poderoso, ma il suo interesse si fece sempre piú intenso
man mano che il giorno passava. Neppure il caldo e la polvere gli erano molesti. Il calore si accumulava nel pozzo a partire da mezzogiorno, quando il sole batteva a perpendicolo sulla base ineguale dello scavo. La polvere assomigliava a farina e si levava dal minerale che gli spaccapietre riducevano in pezzi piú maneggevoli con i loro martelli da cinque chili. Vicino ai carrelli la polvere formava come una nebbia, e i minatori che caricavano il minerale si riducevano a spettrali albini grigiastri man mano che questa si attaccava ai corpi. « Abbiamo un pò di silicosi », ammise Twentyman-Jones. « La polvere va nei polmoni e li si trasforma in pietra. Noi dovremmo innaffiare il minerale e mantenerlo bagnato per fissare la polvere, ma siamo a corto d'acqua. Non ne abbiamo abbastanza per gli impianti di lavaggio, figurarsi se possiamo andare a spruzzarla tutt'intorno! E così gli uomini muoiono o restano invalidi. Però noi gli diamo una buona pensione, o la diamo alle loro vedove, e l'ispettore non ci pianta grane, anche perché sappiamo mostrargli la nostra gratitudine. » A mezzogiorno Twentyman-Jones chiamò Shasa. « Sua madre ha detto che lei deve lavorare solo metà turno. - Io ora risalgo. Lei viene con me? » « Preferirei di no, signore », rispose Shasa con una punta di timidezza. « Mi piacerebbe vedere come caricano l'esplosivo nelle buche. » Twentyman-Jones scosse la testa, malinconico. « Tutto suo padre! » e si allontanò senza smettere di borbottare. Il capoturno permise a Shasa di dare fuoco alle micce, sotto là sua attenta sorveglianza. Shasa provò una sensazione di importanza e di potere nel toccare con la torcia i capi delle micce e nel vedere la fiamma correre giú per le corde bianche e attorcigliate, trasformandole in residui nerastri, con fumo e sfrigolio. Insieme al capoturno salì per la funicolare al grido di « Micce a fuoco! » e Shasa indugiò all'imbocco del tunnel finché le cariche non esplosero, facendo tremare il terreno sotto i suoi piedi. Poi sellò Prester John e, coperto di polvere, sudato e stanco morto, però felice come di rado si era sentito in vita sua, tornò indietro lungo il percorso dell'acquedotto. A lei non pensava neppure quando raggiunse la stazione di pompaggio, e tuttavia era là, appollaiata sopra l'acquedotto dipinto di vernice argentata. Lo shock fu tale che quando Prester John si arrestò di colpo per poco non lo sbalzò di sella, e ShAsa dovette aggrapparsi al pomello. Annalisa aveva intrecciato una ghirlanda di fiori selvatici fra i suoi capelli e si era sbottonata la camicetta sulla scollatura. In uno dei libri della biblioteca di Weltevreden c'era un'illustrazione che raffigurava satiri e ninfe che danzavano per la foresta. Il libro stava nella sezione proibita, quella di cui sua madre conservava gelosamente le chiavi, ignara che parte dell'argent de poche di Shasa era stato investito in duplicati di queste stesse chiavi. Le ninfe appena coperte da veli leggeri erano tra le immagini favorite di Shasa in tutto quel tesoro di letteratura erotica.
Annalisa era una di loro, una ninfa della selva, solo in parte umana, e lo sbirciava in modo allusivo mostrando in un sorriso i suoi denti candidi. « Ciao, Annalisa. » La voce lo tradí prima che avesse finito di pronunciare il saluto, e il cuore gli batteva cosí forte da fargli temere che potesse balzargli in gola e soffocarlo. Lei sorrideva ma si guardava bene dal rispondere. Invece si carezzò il braccio, una carezza lenta, che risaliva dal polso alla spalla nuda e indugiava sull'avambraccio, facendo rizzare la peluria color del rame. Shasa la osservava e il suo sesso s'inturgidiva. Lei si sporse in avanti e mise il dito sul labbro inferiore, sempre con quella piega allusiva sulle labbra, e la forma del suo seno cambiò, la sua camicetta si aprí e nella scollatura Shasa intravide una pelle cosí bianca e traslucida che lasciava trasparire le vene azzurrine. Shasa balzò fuori dalle staffe e alzò la gamba sopra la sella, esibendosi in una spettacolare discesa da cavallo da giocatore di polo, ma la ragazza era già balzata giú, aveva sollevato la gonna e in un balenare di fianchi color crema aveva superato l'acquedotto ed era svanita nella fitta boscaglia che ricopriva la collina. Shasa le corse dietro, e si ritrovò in lotta con un sottobosco folto e ostinato, che gli artigliava la faccia e imbrigliava le gambe. Sentí la sua risatina una volta, non troppo distante, ma una pietra gli mancò sotto i piedi e cadde come un sacco di patate. Nel tempo che gli occorse per tirarsi su e riprendere l'inseguimento, lei era sparita. Continuò ancora un pò ad aggirarsi per la boscaglia, mentre il suo ardore scemava rapidamente, e quando riuscí a farsi strada fino all'acquedotto bolliva ormai di rabbia verso se stesso e verso la ragazza. Prester John, nel frattempo, aveva tratto dalla diversione il massimo vantaggio e se l'era filata. Ritornare al bungalow a piedi fu lungo. Shasa non si era reso conto di quanto fosse stanco. Al suo arrivo era già buio. Il pony senza cavaliere aveva risvegliato l'apprensione di tutti, e la preoccupazione di Centaine si tramutò all'istante in un misto di furia e di sollievo non appena lo vide. Una settimana nel caldo e nella polvere del pozzo e la monotonia del lavoro cominciavano a risultare stucchevoli, e cosí TwentymanJones spedí Shasa a lavorare nella sala dell'argano della funicolare. L'operatore era un tipo malinconico e taciturno, molto geloso del suo incarico. Non dava mai a Shasa il permesso di toccare i comandi della macchina. « Il mio sindacato non lo permette. » Non si spostò di un millimetro da questa posizione e dopo due giorni Twentyman-Jones mandò Shasa al terreno di disgregazione. Qui il minerale veniva rovesciato e steso all'aperto da squadre di lavoranti ovambo, nudi sopra la cintola, che litaniavano in coro mentre percorrevano le diverse fasi del laborioso e ripetitivo processo di rovesciamento e di stendimento, incitati dal supervisore bianco e dai capotti negri. Su questo terreno giacevano le scorte della miniera H'ani, migliaia di tonnellate di minerale distese su una superficie grande come
quattro campi di polo. Appena tirato fuori dal pozzo il minerale bluastro era duro come cemento, solo la gelatina esplosiva e i martelli da cinque chili potevano spaccarlo. Ma dopo sei mesi di esposizione al sole cominciava a frantumarsi e sbriciolarsi fino a ridursi come gesso. A questo punto poteva essere caricato di nuovo sui carrelli e portato all'impianto di lavorazione e al lavaggio. Shasa fu inserito in una squadra di quaranta uomini, e ci mise poco a fare amicizia con il capetto ovambo. Come tutti i neri che provenivano da una tribú aveva due nomi, quello tribale che non rivelava ai suoi principali bianchi e quello valido sul lavoro. Il nome di lavoro era Moses. Aveva una quindicina d'anni meno degli altri capetti, ed era stato scelto per la sua intelligenza e il suo spirito di iniziativa. Parlava bene tanto l'inglese quanto l'afrikaans, e il rispetto che i neri riservavano ai capelli grigi lui se lo guadagnava a colpi di bastone, di stivale e di acido sarcasmo. « Se fossi un bianco », disse a Shasa, « un giorno avrei il posto di Doctela. » Doctela era Twentyman-Jones, per gli ovambo. E Moses proseguì: « E può anche darsi che finisca lo stesso per averlo, un giorno. O magari lo avrà mio figlio ». Shasa fu intrigato e scosso da quell'idea tanto oltraggiosa. Non aveva mai incontrato, prima di allora, un nero che non sapesse qual era il suo posto nella scala sociale. Quell'ovambo alto aveva una personalità inquietante, assomigliava ai ritratti di faraoni egiziani che si trovavano nella sezione proibita della biblioteca di Weltevreden, ma questo lo rendeva semmai ancora piú interessante agli occhi di Shasa. Passavano l'intervallo del pranzo, di solito, insieme, e Shasa aiutava Moses a perfezionare la sua capacità di leggere e scrivere. L'ovambo aveva un quadernetto sporco e lo considerava il suo bene piú prezioso. Per contraccambiare, insegnava a Shasa i rudimenti della sua lingua, specialmente le bestemmie e gli insulti e il significato di alcune delle canzoni di lavoro, la maggioranza delle quali era oscena. « Scopare è piacere o fatica? » era la domanda retorica con la quale si apriva il canto preferito di Shasa, e lui si univa al coro che forniva la risposta, fra la delizia della squadra che dirigeva: « Non può essere fatica, se no i bianchi lo farebbero fare solo a noi! » Shasa aveva appena compiuto i quattordici anni. Alcuni di coloro che dirigeva erano tre volte piú vecchi, ma nessuno di loro trovava strano prendere ordini da lui. Ai suoi sarcasmi e ai maldestri tentativi di parlare la loro lingua rispondevano bene. I suoi uomini si trovarono ben presto a spargere cinque carichi al posto dei quattro che facevano le altre squadre, e alla fine della seconda settimana erano la squadra migliore in assoluto. Shasa era troppo preso dal lavoro e dal suo nuovo amico per notare l'aspetto accigliato del supervisore bianco, e perfino quando questi fece un accenno pungente ai kafferboeties, cioè agli « amici dei negri », non pensò affatto che l'osservazione lo riguardasse personalmente. Il terzo sabato, dopo che gli uomini avevano ritirato la paga a mezzogiorno, cavalcò giú alle baracche dei capotti su invito di Moses e passò un'ora seduto al sole, sui gradini dell'ufficio, a bere yo-
gurt da una zucca che gli offriva la moglie di Moses, giovane, carina e timida, i intanto aiutava Moses a leggere ad alta voce la copia della Storia dell'Inghilterra di Macaulay che aveva contrabbandato dal bungalow nella tasca della sella. Il libro era uno dei suoi testi scolastici, sicche Shasa si considerava al riguardo una specie di autorità, e quando Moses infine chiuse il volume Shasa si stava godendo fino in fondo il suo insolito ruolo di insegnante e mentore. « E' un lavoro pesante, Buona Acqua », disse Moses, traducendo il nome di Shasa direttamente in lingua ovambo, « piú pesante che spargere il minerale d'estate. Ci lavorerò piú tardi », e poi entrò un attimo nella sua baracca di un solo locale, mise il libro sotto chiave e ritornò con un fascio di giornali. « Proviamo con questi. » Tese un giornale a Shasa, che lo aprì sul grembo. La carta era pessima, l'inchiostro si attaccava alle dita. La testata era Umlomo Wa Bantu, e Shasa la tradusse senza pena: « La bocca delle nazioni nere ». Gli articoli erano per la maggior parte in inglese, anche se non ne mancava qualcuno in lingua africana. Moses indicò l'editoriale, e insieme cominciarono a scorrerlo « Ma che cos'è l'African National Congress? » Shasa era perplesso. « E chi è questo Jabavu? » L'ovambo cominciò sollecito a spiegare, e l'interesse di Shasa si mutò in disagio man mano che andava avanti. « Jabavu è il padre dei bantu, di tutte le tribú, di tutta la gente nera. L'African National Congress è il mandriano che sorveglia il nostro bestiame. » « Non capisco. » Shasa scosse la testa. Non gli piaceva la piega che stava prendendo la conversazione, e cominciò ad agitarsi mentre Moses citava: Il vostro bestiame è andato via, gente mia, andate a riprenderlo! Andate. Lasciate da parte il caricatore, volgetevi alla penna! Prendete la carta, prendete l'inchiostro: saranno il vostro scudo. Calpestano i Vostri diritti; impugnate la penna, riempitela d'inchiostro: sarà la vostra arma per lottare. « Questa è politica », lo interruppe Shasa. « I neri non fanno politica, è roba da bianchi », proseguì, esprimendo il concetto centrale del modo di vita sudafricano. L'espressione di Moses si spense. L'ovambo riprese il giornale dal grembo di Shasa e si alzò in piedi. « Ti renderò il libro quando avrò finito di leggerlo. » Evitò lo sguardo di Shasa e rientrò nella baracca. Il lunedì Twentyman-Jones fermò Shasa all'ingresso principale del terreno di disgregazione. « Credo, signorino Shasa, che lei abbia imparato tutto quello che c'era da imparare su questo lavoro. E pro-
prio ora di passarla all'impianto principale e al lavaggio. » E mentre seguivano le rotaie fino all'impianto principale, camminando accanto a un carrello pieno del minerale disgregato, Twentyman-Jones osservò: « Meglio non dare troppa confidenza ai lavoranti neri, signorino Shasa, se no finiscono con l'approfittarne ». Shasa fu sconcertato per un momento, poi scoppiò a ridere. « Ho capito, lei parla di Moses. Ma non è un lavorante, è un capetto, ed è un tipo in gamba, signor Twentyman-Jones. » « Fin troppo in gamba, ed è un guaio prima di tutto per lui », concordò amaramente Twentyman-Jones. « Sono quelli in gamba che piantano le grane. A me piacciono di piú i negri normali, cioè stupidi. Il suo amico Moses sta cercando di organizzare un sindacato fra i neri. » Shasa sapeva da suo nonno e da sua madre che bolscevichi e sindacalisti erano feccia, mostri intenti ad annientare le basi della civiltà. Fu sconvolto di apprendere che Moses era uno di loro, ma Twentyman-Jones non aveva ancora finito: « Abbiamo anche il sospetto che sia al centro di una bella operazione di VCD ». E con questo Twentyman-Jones aveva citato l'altro mostro che minacciava la civiltà: VCD, vendita clandestina di diamanti. Shasa fu disgustato di venire a sapere che il suo amico poteva essere tanto un sindacalista quanto un trafficante di diamanti rubati. Pure, le parole successive di Twentyman-Jones lo rattristarono. « Mi spiace dire che il signor Moses è in cima alla lista di quelli che licenzieremo alla fine del mese. E' un uomo pericoloso. E dobbiamo sbarazzarcene, punto e basta. » « Lo mandano via soltanto perché siamo amici », pensò Shasa, e sapeva che al di là di qualunque pretesto era questo il vero motivo. « E' colpa mia. » E il rimorso lo percorse da cima a fondo, e sulle tracce di questa sensazione venne la rabbia. Le parole gli salivano rapide alla lingua. Voleva gridare: « Non è giusto! » Ma prima di parlare sogguardò Twentyman-Jones e capì al volo che qualunque difesa avesse fatto di Moses avrebbe solo peggiorato le cose. E cosí alzò le spalle. « Lei se ne intende, signore, e saprà bene come bisogna fare », concordò, e si accorse subito che il vecchio si rilassava dalla posizione delle sue spalle. « Parlerò con la mamma », pensò, e subito dopo, con un acuto senso di impotenza, si disse: « Se solo potessi fare da me, direi io quello che bisogna fare! » Poi si rese conto che questo era proprio quello che sua madre intendeva dire parlando del potere. La possibilità di indirizzare l'ordine del mondo circostante. « Potere », sussurrò fra sé. « Un giorno avrò potere, un enorme potere. » Il lavoro nell'impianto principale era piú impegnativo e piú interessante. Il minerale disgregato, ormai friabile, veniva caricato nei cassoni e convogliato sotto i rulli, che lo schiacciavano sino a fargli assumere la consistenza necessaria per il lavaggio. La macchina era poderosa e imponente. Con fracasso assordante il minerale che cadeva dai cassoni passava sotto i rulli che giravano a velocità costan-
te. Centocinquanta tonnellate all'ora: il minerale entrava da una parte in pezzi grossi come meloni maturi e usciva dall'altra come pietrisco e polvere. Il fratello di Annalisa, Stoffel, che durante la precedente visita di Shasa alla miniera H'ani aveva registrato le valvole alla sua vecchia Ford (e che era anche un provetto imitatore di versi di uccelli), adesso era apprendista lì all'impianto. Era stato incaricato di mostrare tutto quanto a Shasa, e svolgeva il suo compito con gusto. « Bisogna stare sempre attenti con le incrostazioni di fango sui rulli, se no ti riducono i diamanti a merda. » Stoffel sottolineava la sua virilità e autorità di recente acquisizione con un linguaggio scurrile e qualche bestemmia. « Vieni, Shasa, ti faccio vedere i punti di lubrificazione. Tutti questi punti devono essere ingrassati all'inizio di ogni turno. » Strisciò sotto i rulli, gridando per farsi sentire da Shasa nel rumore fortissimo. « Il mese scorso uno devi apprendisti si e fottuto il braccio. I rulli gliel'hanno strappato come un'ala pollo. Cazzo, dovevi vedere il sangue che c'era. » Indico le macabre chiazze che si vedevano sul pavimento e sulle mura galvanizzate. « Buttava sangue come una fontana. » Stoffel si arrampicò sulle incastellature di ferro, agile come una scimmia, e insieme guardarono giú verso i rulli. «Uno di quei chiappenere di ovambo è caduto proprio qui, in pieno dentro un cassone, e quando è uscito dall'altra parte non c'era un osso piú grande del tuo dito mignolo. Ja, te lo dico io, è un lavoro maledettamente pericoloso questo! » disse con orgoglio. «Devi stare in campana tutto il tempo! » Quando la sirena suonò l'ora del pranzo, Stoffel portò Shasa fuori dell'edificio, dalla parte dove c'era ombra, e si appollaiarono comodamente sul tetto della baracca della ventilazione. Poiché lavoravano insieme potevano anche non tenere le distanze, e Shasa si sentì adulto e importante, nella sua tuta da operaio, mentre apriva il cesto con il pranzo che lo chef aveva mandato per lui dal bungalow. « Sandwich di pollo e lingua e dolce », mormorò verificando il contenuto. « Ne vuoi un pò, Stoffel? » « No, amico. Ecco che arriva mia sorella con il mio pranzo. » E Shasa perse ogni interesse per il cibo. Annalisa pedalava lungo il viale su una bicicletta Rudge nera, con la sporta che dondolava appesa al manubrio. Era la prima volta che la vedeva dopo l'incontro al casotto delle pompe, sebbene l'avesse cercata ogni giorno dopo di allora. Aveva arrotolato la gonna intorno alle gambe per evitare che finisse nella catena, e pedalava vigorosamente, ritta sopra la canna. Il vento le spingeva l'abito contro il corpo, ed era un abito leggero. Il suo seno era sproporzionato rispetto al corpo snello. Shasa la osservava incantato. Annalisa si accorse infine di lui, seduto accanto a suo fratello, e tutto il suo atteggiamento mutò. Si mise a sedere sulla sella e assestò le spalle, levando una mano dal manubrio per cercare di rassettarsi un pò i capelli scompigliati dal vento. Poi frenò, scese dalla bicicletta e la appoggiò alla baracca.
« Che c'è per pranzo, Lisa? » domandò brusco Stoffel Botha. « Salsiccia con purè. » Tese la sporta al fratello. « Come al solito. » Le maniche del suo vestito erano arrotolate, e quando lei alzò le braccia per dare la sporta a Stoffel, Shasa vide i cespugli di peli delle sue ascelle, arruffati e umidi di sudore, e dovette affrettarsi a incrociare le gambe. « Merda, Lisa! » Stoffel espresse il suo disgusto, a futura memoria. « Sempre, sempre, sempre salsiccia e purè! » « La prossima volta chiederò alla mamma di preparare filetto con funghi. » Abbassò le braccia e Shasa si rese conto di guardarla in modo molto indiscreto, ma non ci poteva fare nulla. Lei allacciò il collo della camicetta e Shasa vide un pò di rossore alla base della gola, ma lei non l'aveva guardato direttamente. Stoffel voleva mandarla via. « Grazie, anche se non so di che cosa, poi », disse con tono di superiorità. « Posso dividere il mio pranzo », offrì Shasa. « Facciamo un cambio », propose generosamente Stoffel, e Shasa gettò uno sguardo dentro la sporta e vide le patate schiacciate e coperte di un sugo grasso e denso. « Non ho fame. » E per la prima volta si rivolse alla ragazza. « Posso offrirti un sandwich, Annalisa? » Lei si lisciò la gonna sui fianchi e infine lo guardò in faccia. I suoi occhi si socchiusero come quelli di un gatto selvatico, e un ghigno malizioso apparve sulle sue labbra. « Quando vorrò qualcosa da te, Shasa Courteney, ti farò un fischio. Cosí », disse atteggiando le labbra come per scoccare un baciò, e si mise a fischiare un'aria da incantatore di serpenti, mentre nello stesso tempo sollevava l'indice con molta lentezza in un gesto decisamente osceno. Stoffel fece una risata divertita e diede un pugno sulla spalla di Shasa. « Cazzo, le piaci proprio! » Mentre Shasa diventava di un rosso vivo e ammutoliva per la vergogna, Annalisa si voltò in modo studiato e riprese la bicicletta. Uscí dai cancelli pedalando in piedi e spingendo la Rudge ora da una parte ora dall'altra, in modo che a ogni colpo le sue natiche oscillassero insieme alla bicicletta. Quella sera, mentre guidava Prester John lungo il tracciato dell'acquedotto, Shasa sentí il suo cuore accelerare le pulsazioni dall'impazienza. Man mano che si avvicinava alla stazione di pompaggio si sforzava di rallentare il pony, temendo una delusione. Con tutto questo, non era minimamente preparato allo shock di vederla comparire, dietro l'angolo del casotto che aveva superato con tanta riluttanza. Lei era appoggiata languidamente a uno dei piloni dell'acquedotto, e mentre Shasa se ne stava senza parole, si tiro su e abbraccio la testa del pony, senza degnare di un'occhiata il cavaliere. Annalisa prese in mano il morso e si mise a sussurrare nelle orecchie del pony. « Bravo, bravo lui, bello. » Il pony soffio dalle narici. « Che bel nasino morbido. » Carezzo il suo muso con un tocco che indugiava.
« Ti piacerebbe un bel bacio? » Sporse le labbra, rosee e morbide, e lanciò un'occhiata a Shasa prima di chinarsi e di baciare con intenzione il muso dell'animale, cingendogli il collo con le braccia. Fu un bacio che durò a lungo, e poi Annalisa strofinò la sua guancia contro quella del pony. Cominciò a dondolarsi, mugolando una qualche melodia e scuotendo delicatamente i fianchi, e solo a questo punto alzò su Shasa i suoi occhi socchiusi e maliziosi. Lui lottava per trovare qualcosa da dire, confuso dall'accalcarsi delle sue emozioni, e lei si mosse con studiata lentezza verso la spalla del pony e ne carezzò il fianco. « Come sei forte. » La sua mano sfiorò appena la coscia di Shasa, quasi inavvertitamente, e poi tornò indietro in modo deliberato. Ora Annalisa non lo guardava piú. Non c'era riparo, Shasa non poteva nascondere la sua reazione violenta a quel tocco, e lei si fece indietro d'improvviso, con uno spudorato scoppio di risa. « Ti accampi nella macchia, Shasa Courteney? » inquisì, e lui la fisso stupefatto e vergognoso. Scosse stolidamente il capo. « E allora perché rizzi una tenda? » lo prese in giro, fissando senza vergogna il davanti dei suoi pantaloni. Shasa si chinò in modo maldestro sulla sella. Con un curioso sbalzo di umore, a questo punto Annalisa sembro avere compassione di lui, torno a impugnare il morso e condusse il pony lungo il sentiero, dando a Shasa la possibilità di ricomporsi un pò. « Che cosa ti ha raccontato di me mio fratello? » domando lei, senza girare la testa. « Niente », assicuro Shasa. « Non credere a quello che ti dice. » Non era convinta. « Dice sempre peste e corna di me. Ti ha parlato di Fourie, l'autista? » Alla miniera non c'era nessuno che ignorasse quella storia: la moglie di Gerhard Fourie li aveva pescati tutti e due nella cabina di guida del suo autocarro, dopo la festa di Natale. La moglie di Fourie aveva qualche anno di piú della madre di Annalisa, ma aveva fatto due occhi neri alla ragazza e ridotto a brandelli il suo unico vestito buono. « Non mi ha detto assolutamente nulla », ripeta Shasa con determinazione, e poi aggiunse, interessato: «Perché, che cosa è successo? » « Nulla », replico lei in fretta. « Tutte bugie. » Nuovo mutamento di umore: « Che ne diresti se ti mostrassi qualcosa? » «Si, grazie», rispose Shasa con sollecitudine. Aveva già una mezza idea di che cosa potesse essere. « Dammi una mano. » Si avvicinò alle staffe e lui si chino e la prese sotto l'ascella. La sollevo: era forte e leggera. Annalisa si mise a cavalcioni dietro di lui e circondo la vita di Shasa con le braccia. « Prendi il sentiero a sinistra. » Calvacarono in silenzio per una decina di minuti. « Quanti anni hai? » gli domandò alla fine. « Quasi quindici. » Aveva forzato un pò la realtà dei fatti, e subito lei disse: « Io ne faro sedici fra un paio di mesi ». Se mai c'erano stati dubbi su chi era che comandava, questa dichiarazione decise tutto. Shasa dentro di se si riconobbe inferiore e lei se ne accorse dal suo portamento. Allora premette il seno contro la sua schiena, come per sottolineare la propria supremazia, e le sue mammelle che erano
grandi e sode parevano bruciare attraverso il cotone leggero della camicia. « Dove stiamo andando? » chiese lui dopo un altro lungo silenzio. Avevano preso una via che aggirava il bungalow. « Chiudi il becco, te lo faro vedere quando ci arriveremo. » Il sentiero si era fatto piú angusto. Shasa dubitava che di lí fosse passato qualcuno negli ultimi mesi, a parte gli animaletti selvatici che ancora vivevano cosí vicino alla miniera. Alla fine il sentiero sparí del tutto alla base della parete rocciosa, e Annalisa si lasciò cadere da cavallo. « Lascia qui il pony. » Shasa lega le briglie e si guardo intorno con interesse. Non si era mai spinto cosí lontano lungo la base della parete rocciosa. Il bungalow doveva essere ad almeno cinque chilometri di distanza. Sotto di loro la sassaia scendeva ripida, con gole e forre che traboccavano di cespugli spinosi. « Su, non abbiamo molto tempo », ordinò Annalisa. « Presto sarà buio. » Si infilò sotto un ramo e comincio a scendere. « Ehi! » la avvisa Shasa. « Non puoi andare giú di lí, ti farai male » « Pauroso », lo prese in giro lei. « Chi, io? » Lo scherno nelle parole di Annalisa lo spinse sulla sassaia e insieme cominciarono la discesa. La ragazza si fermo una volta per cogliere un ciuffo di fiori gialli da un cespuglio spinoso, poi proseguirono, aiutandosi a vicenda nei punti difficili, chinandosi per passare sotto i rami, traballando sui massi e balzando sopra i crepacci come conigli di montagna, finché non giunsero ai piedi della frana e si concessero una pausa per tirare il fiato. Shasa si voltò e fissò la parete di roccia che torreggiava sopra di loro, simile alle mura di una fortezza, ma Annalisa gli tirò il bracciò, esigendo la sua attenzione. « E' un segreto. Devi giurare solennemente di non dirlo a nessuno, specialmente a mio fratello. » « D'accordo, lo giuro. » « No, devi giurare con tutte le regole. Alza la mano destra e metti la sinistra sul cuore. » Annalisa non lo perse d occhio mentre prestava il suo giuramento con tutte le regole e poi lo prese per mano e lo condusse a una piramide di massi coperti di licheni. « Inginocchiati! » Shasa obbedí, e lei scostò con molta cura un ramo pieno di foglie che copriva un pertugio fra i massi. Shasa gemette e si tirò indietro, alzandosi quasi. L'apertura che aveva di fronte aveva la forma di una cappelletto. Sul terreno davanti a lui c'era una fila di vasi di vetro, ma i fiori selvatici che vi erano contenuti erano ormai rinsecchiti. Dietro queste offerte floreali c'era una pila molto ordinata di ossa umane, e alla sommità di essa stava un teschio dalle occhiaie incavate e dai denti gialli. « Chi è? » sussurrò Shasa, con gli occhi dilatati per il timore riverenziale che gli incuteva il luogo. « La strega dei monti. » Annalisa lo prese per mano. « Ho trovato le sue ossa, e ho fatto questo santuario magico. »
« Come fai a sapere che è una strega? » Shasa aveva la pelle d'oca, e il suo sussurro era flebile e tremante. « Me l'ha detto lei. » Le immagini evocate da questa frase erano cosí spaventevoli che Shasa non osò fare altre domande: gli scheletri erano cose già abbastanza agghiaccianti per occuparsi anche di voci dall'oltretomba. I capelli gli si rizzavano sulla nuca. Restò a guardare la ragazza che sostituiva i fiori appassiti con un ramo fiorito di acacia, finché lei non gli si accoccolò di nuovo accanto e gli prese la mano. « La strega esaudirà un tuo desiderio », mormorò, e Shasa rifletté un momento. Lei gli strinse la mano. « Che cosa vuoi? » « Posso esprimere qualsiasi desiderio? » « Sí, qualunque cosa », annuí la ragazza, scrutando intenta la sua faccia. A forza di guardare il teschio sbiancato il timore di Shasa si era dissolto, e lui provava una nuova sensazione. Una sensazione che veniva da lontano ma lo pervadeva tutto, ed era qualcosa che aveva conosciuto solo nei primi mesi di vita, quando sua madre se lo accostava al seno. Il teschio era ancora coperto, qua e là, di frammenti di cuoio capelluto, simili a pergamena, e su questi stavano minuscole concrezioni di capelli crespi, che ricordarono a Shasa quelli del boscimano che sorvegliava le mucche lungo la strada per Windhock. « Qualunque cosa? » ripeté. «Davvero posso chiedere qualunque cosa? » « Tutto quel che vuoi. » Annalisa stava appoggiata al suo fianco, tiepida e morbida, e il suo corpo profumava di giovane e fresco sudore. Shasa si piegò in avanti e toccò il cranio della strega, e il senso di calore e di benessere si fece piú forte. Sentiva una presenza benigna, amorevole... sí, amorevole era la parola, non era troppo forte: era come se qualcuno che lo amava molto lo stesse tenendo d'occhio. «Desidero», disse piano, quasi trasognato, «un enorme potere. » Provò o credette di provare una sensazione di prurito sulla punta delle dita, là dove queste toccavano il teschio, qualcosa come elettricità statica, e scosse la mano per liberarsene. Nello stesso istante, Annalisa si staccò esasperata da lui e sbottò: « Che desiderio cretino! » Era irritata, e Shasa non riusciva a comprendere perché. « E anche tu sei un cretino, e vedrai che la strega non ti esaudirà! » Saltò in piedi e coprí di nuovo l'apertura della roccia con il ramo. « E' tardi, dobbiamo andare a casa. » Shasa indugiò ancora, perché non voleva lasciare quel luogo. Annalisa lo chiamò dalla pietraia. « Muoviti, fra un'ora sarà buio. » Quando anche lui raggiunse il sentiero da cui erano partiti, Annalisa sedeva contro la parete di roccia. « Mi sono fatta male », disse in tono di accusa. Entrambi respi-
ravano a fatica, rossi per lo sforzo. « Mi spiace », ansimò lui. « Come è successo? » Lei tirò su il bordo della gonna fino a mezza coscia. Una delle spine dalla punta scarlatta che chiamavano wait-a-bit l'aveva graffiata, lasciando un segno rosso sulla pelle liscia. La pelle era appena scalfita, ma sulla riga rossa affioravano alcune gocciolino di sangue luccicante, come una collana di rubini. Shasa la fissò ipnotizzato e lei si adagiò all'indietro, divaricando le gambe e tenendo la gonna appallottolata in alto, in mezzo alle cosce. « Mettici su un pò di saliva », ordinò la ragazza. Shasa si chinò obbediente e si sputò sulle dita. « Hai le dita sporche », ammoní lei. « Che cosa posso fare, allora? » chiese Shasa, contrito. « Usa la lingua, quella è pulita. » Lui si chinò ancora e toccò la ferita con la punta della lingua. Il sangue che leccò aveva uno strano sapore metallico e salato. La ragazza gli mise una mano sulla nuca e carezzò i suoi riccioli folti e scuri. « Sí, cosí, leccala », mormorò Annalisa, e intanto infilava le dita fra i capelli di Shasa, e si premeva la sua faccia contro le gambe. Poi, con decisione, diresse la testa di Shasa verso l'alto, sollevando la gonna con la mano libera a mano a mano che la bocca di lui saliva lungo le sue gambe. E sotto, fra una gamba e l'altra c'era un lembo bianco con un disegno di rose; con un lampo di imbarazzo Shasa si rese conto che nei pochi istanti in cui era rimasta sola sul sentiero, mentre lui saliva su per la pietraia, Annalisa si era tolta le mutandine e le aveva stese sulla roccia sedendoci sopra. La gonna, che si sollevava sempre di piú, era tutto ciò che indossava. Shasa si destò con un sobbalzo, e non sapeva dove si trovasse. Sentiva il terreno duro sotto la schiena, un sasso gli stava scavando un buco nella spalla, e c'era un peso che gli gravava sul petto impedendogli di respirare. Aveva freddo ed era già buio. Prester John scalpitava e sbuffava, e la sua silhouette si stagliava contro il cielo ormai stellato. Di colpo ricordò tutto. Le gambe di Annalisa erano intrecciate alle sue e la faccia di lei pesava sulla sua gola. La ragazza gli era distesa sopra. Shasa la respinse cosí d'improvviso che lei si svegliò con un grido. «E' buiol» esclamò Shasa stolidamente. «Ci staranno cercando! » Tentò di alzarsi, ma i suoi pantaloni erano calati a mezza gamba. Ricordò in modo vivido la maniera sapiente con cui lei li aveva sbottonati e abbassati. Li tirò su e armeggiò con la chiusura. « Dobbiamo tornare indietro. Mia madre...! » Annalisa era ormai in piedi accanto a lui, e saltellava su una gamba sola cercando di infilarsi le mutandine. Shasa osservò le stelle, e la presenza di Orione gli disse che erano le nove passate. « Dovevi stare sveglio », piagnucolò la ragazza, mentre appoggiava una mano sulla sua spalla per tenersi in equilibrio. « Mio pa-
dre mi frusterà. Ha detto che mi avrebbe ammazzata se ci riprovavo. » Shasa si sottrasse al contatto. Voleva fuggire da lei, ma sapeva che non era possibile. « Colpa tua, è stata colpa tua. » Annalisa si chinò e si tirò su le mutandine, poi sistemò la gonna. « Glielo dirò a mio padre, che è stata colpa tua. Mi frusterà con lo sjambok stavolta! Mi leverà la pelle! » Shasa liberò il cavallo. Le sue mani tremavano. Ancora non riusciva a pensare lucidamente, era mezzo addormentato e istupidito. « Non glielo lascerò fare. » La sua baldanza era incerta e poco convincente. « Non lascerò che ti faccia del male. » Lei si infuriò. « E che cosa puoi fare, tu? Sei solo un bambino! » La parola risvegliò una sgradevole associazione di idee. « E se mi hai fatto un bambino? Sarebbe un bastardo. Non ci pensavi, quando me lo infilavi dentro? » interrogò lei, petulante. Shasa fu punto nel vivo da un'accusa cosí disonesta. « Me l'hai fatto vedere tu come si faceva! » « Ci servirà assai, questo! » Stava piangendo, ora. « Oh, se potessi scappare via! » L'idea era decisamente piena di fascino, e solo a malincuore Shasa finí per scartarla. « Monta » le disse, e la issò sopra Prester John, per poi montare a sua volta. Videro le torce delle squadre inviate a cercarli, giú nella pianura, non appena girarono dietro il fianco della montagna. Anche la strada era piena di fari, e si muovevano piano, evidentemente per frugare ai margini, e si sentivano anche i richiami, attutiti dalla lontananza, di quelli che li stavano cercando nella foresta. « Mio padre mi ammazzerà, stavolta. Capirà subito che cosa abbiamo fatto », singhiozzò la ragazza, e Shasa fu irritato dal suo autocompatimento. Aveva smesso da un pezzo di cercare di consolarla. « E come farà a saperlo? Non era mica lì a vedere! » cercò di dirle. « Non crederai di essere stato il primo », disse lei, per schernirlo. « Ce ne sono stati tantissimi, e mio padre mi ha pescato due volte. Capirà benissimo. » Al pensiero che Annalisa avesse fatto con altri i suoi giochi strani e meravigliosi, Shasa provò un caldo fiotto di gelosia, che solo gradualmente si lasciò raffreddare dal ragionamento. « Be, », ritorse, « se è al corrente di tutti gli altri, non ti servirà a molto dare la colpa a me. » Si era cacciata in trappola da sola. Emise un altro accorato singhiozzo, e stava ancora piangendo in modo teatrale quando incrociarono il gruppo che li cercava a piedi lungo il tracciato dell'acquedotto. Shasa e Annalisa sedevano alle estremità opposte dello studio del bungalow, e si tenevano il piú lontano possibile l'uno dall'altra, per istinto. Quando sentirono la Daimler arrivare, annunciata dallo sfavillio dei fari e dal gemito della ghiaia, Annalisa ricominciò a pian-
gere e a tirare su col naso, e intanto si sfregava gli occhi per spremerne qualche lacrima di piú. Sentirono i passi svelti e leggeri di Centaine sulla veranda, seguiti da quelli piú decisi di Twentyman-Jones. Shasa si alzò, in atteggiamento da penitente, quando Centaine si arrestò sulla soglia. Indossava un completo da equitazione con una sciarpa gialla annodata sul collo. Era rossa di furore, e il suo sollievo non mitigava la sua ira da angelo vendicatore. Annalisa la vide in faccia ed emise un urlo d'angoscia: recitava solo a metà. « Tieni la bocca chiusa, ragazza », le disse Centaine quietamente. « Oppure ti darò qualche motivo serio per frignare. » Poi si rivolse a Shasa. « Vi siete fatti male? » « No, mamma », rispose il ragazzo a testa bassa. « E Prester John? » « Sta benissimo. » « Tutto a posto, dunque. » Non c'era bisogno di scendere in maggiori dettagli. «Dottor Twentyman-Jones, vuole per piacere portare la signorina da suo padre? Non dubito che saprà lui che cosa fare. » Centaine aveva parlato con il padre, piuttosto succintamente, non piú di un'ora avanti: un uomo grosso e grasso, senza capelli ma con vistosi tatuaggi sulle braccia muscolose, che le aveva spiegato, fra zaffate di acquavite di bassa lega e gesti eloquenti delle zampe pelose, quali fossero le sue intenzioni nei confronti della sua unica figlia. Twentyman-Jones prese la ragazza per il polso, la fece alzare e la trascinò piangente verso la porta. Quando fu vicino a Centaine, l'espressione della donna si addolci e lei gli toccò il braccio. « Come farei senza di lei, dottor Twentyman-Jones?» disse sommessamente. « Il mio sospetto è che se la caverebbe benissimo lo stesso, signora Courteney, ma sono lieto di esserle utile. » Spinse Annalisa fuori della stanza e poco dopo si sentì il motore della Daimler che si avviava. L'espressione di Centaine si indurì di nuovo mentre si voltava verso Shasa. Lui si mosse nervoso sotto il suo sguardo inquisitorio. « Hai disobbedito », gli disse. « Ti avevo avvisato di lasciar stare quell'ochetta. » « E' vero, mamma. » « E' stata con la metà dei minatori. Ti dovrò far visitare da un dottore quando saremo di ritorno a Windhoek. » Shasa ebbe un brivido e gettò un'occhiata al proprio corpo, come se potesse scorgervi gli invisibili microbi disgustosi che strisciavano nelle sue parti intime. « La disobbedienza è già grave, ma sai che cosa hai fatto di veramente imperdonabile? » Senza sforzarsi troppo, Shasa avrebbe potuto menzionare almeno una dozzina di cose. « Sei stato stupido», disse Centaine. « Ti sei fatto pescare. E questa è la cosa peggiore. Ti rideranno dietro, alla miniera. Come farai a dare ordini, se ti abbassi in questa maniera? »
« Non ci avevo pensato, mamma. Non sono stato troppo a riflettere. Quello che è successo è successo. » « Pensaci adesso, allora », gli disse. « Ora ti fai un bagno con mezzo litro di Lysol nella vasca, e ci pensi un pò sopra. Buonanotte. » « Buonanotte, mamma. » Si avvicinò a lei e dopo un momento di esitazione Centaine gli porse la guancia perché la baciasse. « Mi dispiace, mamma. Mi dispiace di averti fatto vergognare di me. » Centaine avrebbe voluto abbracciarlo e stringerlo forte; avrebbe voluto carezzarlo sulla testa e dirgli che non si sarebbe mai vergognata di lui; invece rimase ferma, e ripeta con freddezza: « Buonanotte, Shasa ». Non si mosse finché non ebbe udito i suoi passi strascicati lungo il corridoio, poi rilassò le spalle. « Bambino mio », sospirò. All'improvviso, per la prima volta da diversi anni, sentí il bisogno di tenersi su con qualcosa di forte. Prese una delle amatissime bottiglie di cognac dallo stipetto di legno di ocotea, si versò del liquore e ne bevve un grosso sorso, che le bruciò la lingua e le fece venire le lacrime agli occhi. Lo trangugiò in fretta e mise da parte il liquore. « Non servirà gran che », si disse, e andò alla scrivania. Si sedette sulla poltroncina di cuoio e si sentí piccola, fragile e vulnerabile. Un'emozione strana, in Centaine, che se ne spaventò. « E' successo », mormorò. « Sta diventando uomo. » E d'improvviso sentì di odiare la ragazza. « Quella puttanella. Non era ancora il momento. Era troppo presto per scatenare il demone, per far bollire il sangue dei de Thiry che è in lui. » Era un demone che lei conosceva benissimo, dato che aveva afflitto tutta la sua esistenza. Il sangue selvaggio e appassionato dei de Thiry. « Tesoro mio », invocò Centaine, rendendosi conto che avrebbe perduto una parte di lui... l'aveva già perduta, anzi. La solitudine che era stata in agguato per anni la assalì repentina. Solo due uomini avrebbero potuto dare sollievo a quella solitudine. Il padre di Shasa era morto nella sua fragile macchina volante di tela e di legno, e lei era rimasta impotente a guardarlo bruciare. L'altro uomo si era posto al di là di ogni possibile contatto con una sola azione brutale e insensata. Michael Courteney e Lothar De La Rey, l'uno e l'altro morti, per lei. » Da allora c'erano stati molti uomini, che la sua carne aveva reclamato come antidoti per placare il demone. Erano andati via com'erano venuti, senza che fosse loro permesso di raggiungere i recessi intimi della sua anima, quelli che la bestia selvaggia della solitudine stava ora devastando. « Se avessi qualcuno », gemette, un'invocazione che aveva lanciato soltanto un'altra volta, quando giaceva nel deserto e stava per partorire il bastardo biondo di Lothar De La Rey. « Se avessi qualcurio da amare, ed esserne amata. » ' Si chinò in avanti nella sedia di cuoio e prese la fotografia con la cornice d'argento, quella che portava sempre con sé nei suoi viaggi, e studiò il viso del giovane al centro del gruppo di aviatori. Per la prima volta si accorse che la fotografia era sbiadita e ingiallita, tanto da rendere quasi indistinguibili i lineamenti di Michael
Courteney, il padre di Shasa. Fissò quel viso giovane e attraente e cercò disperata di ridare alla fotografia la chiarezza e il nitore di un tempo, almeno nella memoria. Ma ottenne solo di renderla ancora piú indistinta e lontana da lei. « Michel », mormorò. « E' passato tanto tempo. Perdonami. Ti prego, perdonami. Ho tentato di essere forte e decisa, per amor tuo e per amore di tuo figlio, ma... » Rimise a posto la fotografia sullo scrittoio e andò alla finestra. Fissò il buio circostante. «Tra poco perderò il mio bambino», pensò. « E un giorno sarò vecchia e sola e brutta... mi fa paura. » Si ritrovò a tremare e a tenersi le braccia, ma a questo punto la sua reazione fu decisa. « Non c'è tempo per la debolezza e l'autocompatimento, sulla strada che ti sei scelta. » Si indurí, piccola ma eretta, sola nella casa oscura. « Bisogna andare avanti. Non si torna indietro, non si può esitare, devi andare avanti sino alla fine. » « Dov'è Stoffel Botha? » volle sapere Shasa dal supervisore dell'impianto, quando la sirena suonò l'intervallo per il pranzo. « Come mai non è qui? » « E chi lo sa? » Il supervisore alzò le spalle. « L'ufficio personale mi ha spedito una nota dicendo che non sarebbe venuto. Non hanno spiegato perché. Forse l'hanno licenziato. Non lo so e non me ne importa niente. Era solo uno sbruffoncello. » E per tutto il resto del turno Shasa cercò di reprimere i suoi sensi di colpa concentrandosi sulla corsa del minerale sotto i rulli tonanti. Quando suonò la sirena di fine lavoro, e da una squadra di neri all'altra rimbalzò il grido Shahile! - « Ha suonato! » - Shasa inforcò Prester John e lo avviò verso la strada in cui viveva la famiglia di Annalisa. Sapeva di sfidare in questo modo l'ira di sua madre, ma lo sorreggeva un sentimento cavalleresco. Doveva scoprire quanto danno e quanta infelicità aveva causato. Non ci riuscí. Ai cancelli dell'impianto, Moses, il capetto del terreno di disgregazione, si fece avanti e prese il morso di Prester John. « Ti vedo, Buona Acqua », saluto l'ovambo con la sua voce profonda e suadente. « Moses! » sorrise Shasa con autentico piacere, dimenticando per un momento i suoi guai. « Stavo venendo da te. » « Ti ho portato il libro. » Moses gli tese la voluminosa Storia dell'Inghilterra. « Ma non puoi averlo già letto », protestò Shasa. « A me ci sono voluti mesi. E' troppo presto. » « Non lo leggerò mai, Buona Acqua. Devo lasciare la miniera H'ani. Parto con i camion domattina per Windhoek. » « Oh no! » Shasa balzò di sella e gli afferrò il braccio. « Perché devi andartene, Moses? » Shasa fingeva di non saperlo, in preda al rimorso. « Non è questione di volere o non volere. » Moses alzò le spalle. « Sono in molti a partire domani con i camion. Doctela li ha designati, e la tua signora madre ha spiegato i motivi e ci ha dato un mese di paga. Uno come me non fa domande, Buona Acqua. » Sorrise di un
sorriso amaro. « Eccoti il libro. » « Tienilo. » Shasa respinse il volume. « E' il mio regalo di addio. » « Benissimo, Buona Acqua. Lo terrò come ricordo. Tua sia la pace. » E si girò. « Moses... » chiamò Shasa, e subito scoprí di non avere nulla da dire. Tese la mano, d'impulso, e l'ovambo si tirò indietro. Bianchi e neri non si stringevano la mano. « Va, in pace », insistette Shasa, e Moses si guardò intorno, in modo quasi furtivo, prima di accettare la stretta. La sua pelle era stranamente fresca. Shasa si domandò se tutti i neri avessero una pelle così. « Siamo amici », disse Shasa, prolungando il contatto. « Siamo amici, non è vero? » « Non lo so. » « Che cosa vuoi dire? » « Non so se per noi sia possibile essere amici. » Con delicatezza liberò la mano e si girò per andarsene. Non si voltò verso Shasa nel superare la cinta di sicurezza, e sempre senza voltarsi si avviò verso il villaggio dei minatori. Il convoglio di autocarri pesanti si srotolava nella pianura, con ampi intervalli fra un camion e l'altro per evitare la polvere alzata dal veicolo precedente. La polvere si sollevava, fine come cipria, alta nell'aria ancora calda come il fumo giallastro di un incendio nella boscaglia Gerhard Fourie, alla testa del convoglio, si aggrappava al volante. Il suo ventre prominente aveva slacciato i bottoni della camicia, mettendo in mostra quella specie di pozzo peloso che era il suo ombelico. Ogni pochi secondi sollevava gli occhi dalla strada per piantarli nello specchietto retrovisivo. Il cassone del camion era ingombro dei bagagli e della mobilia delle famiglie licenziate, bianche e nere. I relativi proprietari stavano accoccolati sopra il carico. Le donne avevano messo dei foulard per proteggersi dalla polvere; stringevano forte i bambini piú piccoli, che sarebbero potuti cadere per i sobbalzi e gli scossoni degli autocarri. I figli piú grandi si erano arrangiati scovandosi una nicchia in mezzo ai bagagli. Fourie sistemò lo specchietto in modo da inquadrare la ragazza che stava dietro. Era incuneata fra una vecchia dispensa e una logora valigia in similpelle. Aveva arrotolato una coperta per farne un cuscino e sonnecchiava, con la testa bionda e striata che ballonzolava per i movimenti del camion. Aveva un ginocchio sollevato, e nel sonno la gonna era scivolata un pò indietro, tanto da scoprire le mutande lunghe, con il disegno di rose. Fourie riuscí a scorgerle giusto prima che la ragazza si svegliasse, rimettesse a posto la gonna e si girasse sul fianco. Fourie sudava, e non solo per il caldo. Gocce perlacee luccicavano sulla sua barba lunga di due giorni. Prese il mozzicone che aveva in bocca e lo ispezionò. La carta era gialla di saliva e tabacco. Con dita tremanti Fourie lo buttò fuori del finestrino e prese un'altra sigaretta, guidando con una mano sola e scrutando nel retrovisore per
cogliere il prossimo movimento della ragazza. Aveva goduto di quella carne giovane e fresca, ne sapeva il tepore e la disponibilità; ora sentiva il bisogno di goderne ancora, e il bisogno lo faceva star male. Era pronto ad affrontare qualsiasi rischio per rinnovare la breve esperienza che aveva avuto con Annalisa. Davanti a lui il bosco di arbusti spinosi emerse dall'aria tremolante per il caldo. Aveva percorso quella strada talmente tante volte che aveva finito per riempirla di simboliche pietre miliari e di rituali. Controllò sull'orologio da tasca e grugnì. Venti minuti di ritardo. Ma si capiva, gli autocarri erano sovraccarichi di ex minatori con le loro patetiche proprietà. Lasciò la strada e fermò il camion vicino al bosco. Si arrampicò sul cassone e gridò: « Sosta! Chi vuole può fare i suoi bisogni, le donne a sinistra, gli uomini a destra. Se non la fate tutto in dieci minuti vi piantiamo qui! » Quanto a lui, la fece tutta in molto meno di dieci minuti, e fu il primo a tornare all'autocarro. Allora finse di darsi da fare con il motore. Aspettava la ragazza. Lei sbucò dagli alberi, lisciandosi la gonna. Aveva un aspetto accaldato, e addosso al suo vestito c'era una buona quantità di quella polvere simile a farina. Ma quando vide Fourie che la guardava, rizzò la testa e agitò i fianchi, ignorandolo in modo ostentato. « Annalisa », sussurrò lui nel momento in cui la ragazza alzò il piede per arrampicarsi sul cassone. « La puttana di tua nonna, Gerhard Fourie! » sibilò lei di rimando. « Lasciami stare o lo dico a mio padre! » In un momento diverso sarebbe stata forse piú cordiale, ma aveva i fianchi e le natiche ancora segnati dalle frustate che suo padre le aveva inflitto. Il suo interesse per il sesso opposto era temporaneamente ridotto a zero. « Voglio parlarti », insistette Fourie. « Parlare, ma davvero? Come se non sapessi che cosa vuoi! » « Vediamoci fuori del campo stanotte », implorò. « Strappatelo! » Annalisa saltò nel camion, e la vista di quelle gambe fece stringere lo stomaco di Gerhard. « Annalisa, ti darò dei soldi. » Era nella disperazione, il desiderio lo faceva star male. Annalisa si fermò e considerò l'uomo. La sua offerta era una specie di rivelazione, le apriva uno spiraglio su un mondo del tutto nuovo, pieno di possibilità affascinanti. Fino a quel momento non le era mai venuto in mente che potessero offrirle del denaro per fare qualcosa che a lei piaceva piú che mangiare o dormire. « Quanti soldi? » domandò interessata. « Una sterlina », offri lui. Era un bel pò di soldi, piú di quanti ne avesse mai avuti in mano tutti insieme, ma il suo istinto mercenario era stato ridestato, e Annalisa voleva saggiare i limiti delle sue nuove possibilità. Così girò testa di scatto e fece un gesto sprezzante, spiandolo con la coda dell'occhio. « Due sterline », sussurro Fourie in fretta, e il morale della ragazza si alzò subito. Due sterline! Si sentì piena di forza, bella e ba-
ciata dalla fortuna. I segni rossi sulla schiena e sulle gambe stavano già sbiadendo. Socchiuse gli occhi, assumendo quell'espressione maliziosa e scaltra che lo faceva impazzire, e si accorse che il mento dell'autista cominciava a gocciolare di sudore e che il suo labbro inferiore tremava. Si sentì ancora piú sicura, e con aria di sfida, dopo aver trattenuto per qualche secondo il fiato, buttò fuori: « Cinque sterline! » e subito si passò la punta della lingua sulle labbra, frastornata dal suo stesso coraggio nel nominare una cifra così enorme. Era poco meno della paga settimanale di suo padre. Fourie impallidì ed esitò. « Tre », sputò fuori, ma lei si era ormai resa conto che l'affare era quasi fatto e si tirò indietro con sdegno. « Sei un vecchiaccio puzzolente. » Fece in modo di riempire la sua voce di derisione e si voltò. « Va bene! Va bene! » capitolò Fourie. « Cinque sterline. » Lei gli sorrise vittoriosa. Un nuovo mondo colmo di ricchezze e piaceri senza fine le si era spalancato davanti, e lei vi era ormai entrata. Mise in bocca la punta di un dito. « E se vuoi anche questo, ci vorrà un'altra sterlina. » Non c'erano piú limiti alla sua audacia. La luna era quasi piena e inondava il deserto di platino fuso, tramutando le ombre lungo le pareti del crepaccio in scuri segnacci plumbei. I suoni dell'accampamento fluivano attutiti lungo la parete: qualcuno tagliava la legna, un paiolo tintinnava, le voci delle donne intente a fare cucina parevano cinguettii di uccelli in lontananza. Piú vicino una coppia di sciacalli in cerca di cibo guaiva, eccitata dagli odori che si sprigionavano dalle pentole, e il loro coro era un gemito selvaggio, che ricordava un'agonia. Fourie si accoccolò contro la parete del crepaccio e si accese una sigaretta, scrutando nella direzione da cui doveva venire la ragazza. Il fiammifero illuminò i lineamenti pesanti del viso mal rasato. Fourie era così assorto da non accorgersi degli occhi da predatore che lo osservavano dall'ombra. Era interamente concentrato sul prossimo arrivo della ragazza e già respirava in fretta, con piccoli gemiti che tradivano la sua impazienza. Annalisa arrivò come un'apparizione, etere argenteo in forma di ragazza, e lui si issò in piedi e pestò il mozzicone di sigaretta. « Annalisa! » chiamò, con voce bassa e vibrante di desiderio. Lei si fermò appena fuori portata, e quando lui si fece avanti per prenderla danzò via leggermente e rise, di un riso leggero eppure beffardo. «Cinque sterline, Meneer», gli ricordò, e si fece piú vicina quando lui pescò le banconote spiegazzate dalla tasca posteriore. Lei le prese e le alzò nella luce lunare per verificarne la filigrana. Poi, soddisfatta, le ripose nel vestito e andò baldanzosa verso di lui. Lui l'afferrò per i fianchi e coprí la bocca della ragazza con le sue labbra bagnate. Alla fine lei si staccò bruscamente, ridendo senza piú fiato, e lo tenne per la vita mentre lui le frugava sotto la gonna. « Vuoi anche la cosa da una sterlina? » « E' troppo », ansimò lui. « Non ce li ho, quei soldi. »
« Dieci scellini, allora», offerse lei, e toccò il davanti del suo corpo con una mano sottile e furba. « Mezza corona », rantolò Fourie. « Non ho altro. » Lei lo fissò, continuando a toccarlo, e comprese che non poteva ottenere niente di piú. « Intesi, dammi la mezza corona », concesse alla fine. Prima di inginocchiarsi di fronte a lui, come per riceverne la benedizione, ebbe cura di nascondere la moneta. Lui mise tutte e due le mani sulla sua testa ricciuta, fra i capelli schiariti dal sole, chinò la testa su quella di lei e chiuse gli occhi. Qualcosa di duro fu piantato fra le sue costole da dietro, con tanta forza da svuotargli i polmoni dell'aria, e una voce gli gracidò nell'orecchio: « Di, alla puttanella di alzare i tacchi ». La voce era bassa e minacciosa, e suonava spaventosamente familiare. La ragazza saltò in piedi, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Fissò per un istante al di sopra della spalla di Fourie, con occhi spalancati e pieni di timore, poi balzò via come un mulinello, danzando su per il crepaccio in direzione del campo con le sue gambe lunghe. Fourie armeggiò goffamente con i calzoni e si voltò verso l'uomo che stava alle sue spalle, con un fucile Mauser puntato verso il suo ventre. « De La Rey! » si lasciò sfuggire. « Aspettavi qualcun altro? » « No. No! » disse Fourie, scuotendo la testa in modo scomposto. « Solo che... è così presto. » Dall'ultima volta che si erano incontrati Fourie aveva avuto tutto il tempo di pentirsi del loro accordo. La codardia aveva vinto la lunga battaglia contro l'avidità, e Fourie, scambiando per realtà i suoi desideri, aveva finito per convincersi che il piano di Lothar De La Rey fosse come tanti altri che aveva escogitato lui stesso, uno di quei sogni futili che servivano a coloro che erano stati condannati a una vita di miseria e grigio lavoro per consolarsi un pò. Si era aspettato di non sentire piú parlare di Lothar De La Rey. Questo aveva sperato; ma ora l'aveva davanti, alto e minaccioso, con la testa che brillava come un faro nella luce lunare e riflessi di topazio negli occhi di leopardo. « Presto? » disse Lothar. « Presto? Sono passate molte settimane, mio caro amico. C'è voluto piú tempo di quanto pensassi per sistemare tutto. » Poi la voce di Lothar si indurì: « Hai già portato a Windhoek quella partita di diamanti? » « No, non ancora... » Fourie si interruppe, furioso contro se stesso. Sarebbe stata la sua salvezza! Non aveva che da dire: « Sí! L'ho portata io stesso la settimana scorsa ». Ma ormai era fatta, e cosí chinò la testa, mestamente, e si concentrò sull'ultimo bottone della patta. Le tre parole che aveva pronunciato senza riflettere potevano costargli l'ergastolo, e lui moriva di paura. « Quando partiranno i diamanti? » Lothar ficcò il mirino del Mauser sotto il mento di Fourie e gli alzò la faccia verso la luna, per guardarlo negli occhi. Non si fidava di lui. « Hanno rimandato la partenza. Non so di quanto. Ho sentito
dire che devono spedire una grossa partita. » « Per quale motivo? » « Dicevano solo che sarebbe stata una grossa partita. » « Te l'ho detto, vogliono chiudere la miniera. » Lothar sorvegliò con attenzione la faccia dell'autista. Intuiva la sua esitazione, e doveva incoraggiarlo. « Questo sarà l'ultimo invio, e il giorno dopo tu sarai in mezzo a una strada, proprio come quei poveri coglioni che stai trasportando. » Fourie annuì malinconicamente. «E' vero, li hanno sbattuti fuori. » « E il prossimo a essere licenziato, amico mio, sarai tu. E la tua famiglia? Mi hai detto che sei molto attaccato a tua moglie e ai tuoi figli, no? » «Ja.» « A quel punto, niente piú soldi per dar da mangiare ai tuoi figli, niente soldi per vestirli, e nemmeno quelle quattro sterline che ti servano per fartelo succhiare dalle ragazzine. » « Non parlare in questo modo. » «Fa, quello che ti ho chiesto e avrai tutte le ragazzine che vuoi. » « Non parlare in questo modo. E' una porcheria. » « Sai bene come ci siamo messi d'accordo. Sai quel che devi fare non appena ti diranno la data della partenza. » Fourie annuí, ma Lothar andò avanti. « Dimmelo. Ripetimi tutto quanto. » E rimase paziente ad ascoltare mentre l'autista recitava le sue istruzioni, correggendolo una volta su un dettaglio. Alla fine sorrise di soddisfazione. « Non deluderci, amico mio. Non mi piace essere lasciato a terra. » Si chinò e fissò Fourie negli occhi da vicino, poi, d'improvviso, si voltò di scatto e si immerse nell'ombra proiettata dalla luna. Fourie rabbrividí e risalí inciampando lungo il crepaccio, come ubriaco. Solo appena prima di arrivare si rese conto che la ragazza si era presa i soldi ma non aveva portato a termine la sua parte del contratto. Fantasticò di parlare con lei e di convincerla a concludere alla tappa successiva, ma comprese di avere poche speranze. Del resto, non era piú tanto urgente: il ghiaccio che Lothar De La Rey aveva iniettato nel suo sangue gli aveva gelato anche i lombi. Cavalcavano per la foresta che si stendeva sotto la parete rocciosa, e il loro umore era leggero e gioioso al pensiero dei giorni che li attendevano. Shasa montava Prester John, con il fucile di precisione Mannlicher da 7 mm nella guaina di cuoio sotto il suo ginocchio sinistro. Era un'arma stupenda, con il calcio e il guardamano in legno di noce di prima scelta, e l'acciaio azzurrino intarsiato e sbalzato in argento e oro puro: scene di caccia rese con arte e il nome « Shasa » inciso nel metallo prezioso. Il fucile era il regalo del nonno per il suo quattordicesimo compleanno. Centaine cavalcava il suo stallone grigio, un animale magnifico. Il suo manto aveva chiazze nere che formavano una sorta di merletto sulle spalle e sopra la coda. La criniera, il muso e le occhiaie era-
no anch'essi nero antracite, in marcato contrasto con la pelle intorno che era candida. Lei lo chiamava Nuage, nuvola, come lo stallone che suo padre le aveva regalato quando era bambina. Centaine indossava un cappello a falde larghe come quello dei mandriani dell'Australia e un gilet di Pelle di kudú sopra la camicerta. Un foulard di seta gialla era annodato lasco intorno alla gola, e gli occhi le brillavano. « Oh, Shasa, mi sembra di essere una scolaretta che marina la scuola! Due giorni tutti per noi! » « Vediamo chi arriva prima alla sorgente! » la sfidò lui, ma Prester John non era all'altezza di Nuage, e quando Shasa arrivò alla sorgente Centaine era già scesa da cavallo e stava tenendo la testa dello stallone per impedirgli di ingozzarsi d'acqua. Montarono di nuovo in sella e penetrarono piú in profondità nella zona stepposa del Kalahari. Piú lontano si spingevano dalla miniera e minore era l'intrusione degli esseri umani, e la fauna selvatica si faceva sempre piú abbondante e meno diffidente. Centaine era stata addestrata alla vita selvaggia dai migliori istruttori possibili, i boscimani San, e non aveva perduto nessuna delle sue capacità. Indicò a Shasa una coppia di eleganti volpacchiotti dalle orecchie aguzze che lui sicuramente non avrebbe visto. Le volpi andavano a caccia di cavallette nella rada erba argentea, abbassando le enormi orecchie in una pantomima di astuzia prima di saltare eroicamente addosso alla formidabile preda. Mentre i cavalli passavano, le volpi tennero le orecchie rivelatrici abbandonate sul collo soffice e si schiacciarono a terra. Disturbarono un gatto delle sabbie in una tana di formichiere, e il gattone giallo scappò con tanta foga da ficcarsi in pieno nella ragnatela appiccicosa di un ragno-granchio. I comici sforzi dell'animale per ripulirsi il muso dalla ragnatela appiccicosa usando entrambe le zampe, e nello stesso tempo continuare la fuga, li fecero sghignazzare sobbalzando sulla sella. Una volta, a metà pomeriggio, scorsero un branco di maestosi gemsbok che trottavano in fila indiana all'orizzonte. Tenevano la testa alta, con le corna dritte e sottili tramutate dalla distanza e dall'angolo visuale in quelle di un unicorno. La rifrazione dell'aria calda li trasformò in bizzarri mostri dalle gambe a telescopio prima di inghiottirli del tutto. Quando il sole calante stava già dipingendo il deserto di ombra e di colori freschi, Centaine avvistò un altro piccolo branco di springbok e indicò a Shasa un maschio giovane e grassottello. « Manca solo un chilometro al luogo dove dobbiamo accamparci. E' ora di pensare alla cena. » Shasa estrasse subito il Mannlicher dal fodero. « Una cosa pulita! » lo mise in guardia lei. La inquietava un pò vedere come suo figlio sembrava godersi la caccia. Si tenne indietro e lo guardò smontare da cavallo. Usando Prester John per nascondersi alla vista del branco, Shasa si spinse avanti. Prester John comprese qual era il suo ruolo e si mantenne fra Shasa e la selvaggina, e perfino si fermò a brucare quando gli springbok cominciarono a dare segni di nervosismo, per ricominciare ad avvici-
narsi dopo che si erano di nuovo calmati. A duecento passi Shasa si accoccolò con i gomiti sulle ginocchia, e Centaine provò un vero sollievo nel vedere lo springbok cadere all'istante non appena il colpo lo raggiunse. Aveva visto, una volta, gli intestini di una di quelle magnifiche gazzelle sparpagliati da una fucilata di Lothar De La Rey, e il ricordo la perseguitava ancora. Quando cavalcò verso l'animale, vide che Shasa aveva piazzato il colpo netto dietro la spalla, e la pallottola aveva trapassato il cuore. Lo esaminò in modo critico mentre lui sviscerava e scuoiava la selvaggina come gli aveva insegnato Sir Garry. « Non buttare via le interiora », gli disse. « l servi vanno matti per la trippa. » E lui obbediente le avviluppò con la pelle dello springbok e buttò la preda sul dorso di Prester John, legandola alla sella. Il campo era ai piedi della collina, proprio sotto una sorgente che forniva un esile filo d'acqua. Il giorno prima Centaine aveva spedito avanti tre servi con il bagaglio e l'accampamento era confortevole e sicuro. Cenarono con spiedini di fegato, rognoni e cuore, cosparsi del grasso preso dalla cavità addominale dello springbok. Poi restarono seduti fino a tardi intorno al fuoco, bevendo un caffè che sapeva di fumo di legna, conversando quietamente e guardando la luna che sorgeva. All'alba uscirono a cavallo, avviluppati in giacche di pelo per proteggersi dal freddo. Prima che avessero percorso un paio di chilometri Centaine fece alzare la testa a Nuage e si chinò verso terra dalla sella per esaminare il terreno. « Che c'è, mamma? » Shasa, sempre sensibile alle piú piccole variazioni dell'umore di lei, si rendeva conto dell'eccitazione della madre. « Vieni qui in fretta, chéri! » Gli indicò le impronte sul terreno morbido. « Che cosa mi sai dire di queste? » Shasa balzò a terra e si piegò sulla traccia. « Uomini? » Era intrigato. « Però piccoli. Bambini? » Alzò la testa per guardarla e la sua espressione raggiante lo mise sulla via giusta. « Boscimani! » esclamò. « Un gruppo di boscimani! » « Proprio », rise lei. « Una coppia di cacciatori. Inseguono una giraffa. Guarda! Le loro impronte si sovrappongono a quelle della loro preda. » «Possiamo seguirli, mamma? Possiamo? » Shasa era eccitato quanto lei, a questo punto. Centaine fu d'accordo. « La traccia è vecchia di un giorno soltanto. Possiamo raggiungerli, se facciamo in fretta. » Centaine cavalcò sulla pista, con Shasa che la seguiva da vicino, badando a non rovinare la traccia. Non l'aveva mai vista impegnata a quel modo, senza perdere di vista le impronte neppure nei punti piú difficili, dove Shasa, con i suoi occhi giovani e dalla vista acuta, non riusciva a scorgere proprio nulla. « Guarda, uno spazzolino da denti boscimano. » Indicò un rametto fresco, con l'estremità rosicchiata fino a farne una specie di spazzolino, che giaceva su un lato della pista.
« Ecco dove hanno avvistato per la prima volta la giraffa. » « Come fai a saperlo? » « Perché hanno teso gli archi. Ecco il segno della punta. » Per agganciare la corda, i cacciatori avevano appoggiato le estremità degli archi a terra. « Guarda, Shasa, qui hanno cominciato ad avvicinarsi alla giraffa in modo furtivo. » Per lui non c'era alcun cambiamento nelle tracce, e glielo disse. « I passi sono piú brevi e piú cauti. Il peso è spostato in avanti, verso le dita », spiegò lei, e poi, qualche centinaio di passi piú avanti: « Qui si sono gettati a terra, hanno strisciato per colpire. Qui si sono alzati in ginocchio per scagliare le frecce, e qui sono saltati in piedi per vedere dove arrivavano ». Venti passi oltre esdamò: « Guarda com'erano vicini alla preda. Qui la giraffa si è sentita pungere e ha cominciato a galoppare. E guarda come i cacciatori l'hanno seguita di corsa, aspettando che il veleno delle frecce facesse effetto ». Galopparono lungo la pista finché Centaine si alzò sulle staffe e indicò avanti. « Avvoltoi! » Sei o sette chilometri piú in là l'azzurro del firmamento era cosparso di una sottile nuvola di chiazze nere. La nuvola ruotava in un vortice lento, alta sopra la terra. « Piano, adesso, chéri », lo avverti Centaine. « Se li spaventiamo può diventare pericoloso. » Misero i cavalli al passo e salirono lentamente fino al posto dove era la giraffa. La carcassa era enorme. Giaceva su un fianco, solo in parte scuoiata e macellata. Sui cespugli spinosi che stavano intorno erano stati eretti rozzi ripari di paglia, e i cespugli erano adorni di strisce di carne e lunghi nastri di interiora, stesi al sole a seccare. I rami si piegavano sotto il peso. L'intera zona era pestata da decine di piccoli piedi. « Hanno portato le donne e i bambini per aiutare a tagliare e portar via», disse Centaine. « Che puzza! » disse Shasa storcendo il naso. « E loro dove sono, adesso? » « Sono nascosti », disse Centaine. « Ci avranno visti arrivare già da sette chilometri di distanza. » Si levò sulle staffe e tirò indietro il cappello per mostrare meglio il viso, e poi chiamò in uno strano linguaggio gutturale e pieno di schiocchi, girandosi lentamente e ripetendo il messaggio in tutte le direzioni. « Vengono i brividi », disse Shasa, e senza volerlo tremò nell'aria calda. Il deserto li circondava da ogni lato, silenzioso e mesto. « Sei certa che siano ancora qui? » « Ci stanno guardando. Non hanno nessuna fretta. » Poi un uomo si alzò dalla terra, cosí vicino che lo stallone si impennò e scosse la testa nervoso. L'uomo indossava soltanto un perizoma di pelle di animale. Era piccolo, ma molto ben formato, con arti eleganti e pieni di grazia, da corridore. Il petto era muscoloso, e sul ventre le fasce di muscoli disegnavano la medesima trama che la marea disegna su una spiaggia sabbiosa.
Teneva il capo fieramente ritto, e sebbene fosse del tutto rasato era evidente che era nel pieno della sua virilità. I suoi occhi avevano una piega mongolica agli angoli e la sua pelle luccicava di un meraviglioso colore ambrato, che nel sole appariva quasi traslucido. Alzò la destra in segno di saluto e di pace e disse, con voce alta e simile a quella di un uccello: « Ti vedo, Bimba Nam ». Era questo il nome boscimano di Centaine, che pianse di gioia. « Anch'io ti vedo, Kwi! » « Chi è il ragazzo? » domando il boscimano. « E' mio figlio, Buona Acqua. Come ti ho detto la prima volta che ci siamo incontrati, è nato nel luogo sacro della tua gente: O'wa era suo nonno adottivo, e H'ani sua nonna. » Kwi si voltò e chiamò forte nel deserto vuoto. « E' la verità, gente dei San. Questa donna è la Bimba Nam, la nostra amica, e il ragazzo è quello della leggenda. Salutateli! » E dalla terra in apparenza nuda che li aveva nascosti si alzò la piccola gente dorata dei San. Con Kwi erano in dodici: due uomini, Kwi e suo fratello Kwi Grasso, le loro mogli e i figli, completamente nudi. Si erano celati con l'abilità delle creature selvatiche, ma adesso si facevano avanti cinguettando e schioccando la lingua e ridendo, e Centaine saltò giú di sella per abbracciarli, salutando ciascuno col suo nome; e infine raccolse due lattanti e li tenne uno per braccio. «Come fai a conoscerli tanto bene, mamma?» volle sapere Shasa. « Kwi e suo fratello sono parenti di O'wa, il tuo nonno adottivo boscimano. La prima volta che li ho incontrati tu eri molto piccolo e stavamo ancora sviluppando la miniera H'ani. Questo è il loro territorio di caccia. » Passarono il resto della giornata con il clan, e al momento di partire Centaine diede a ciascuna delle donne una manciata di cartucce di ottone da 7 mm, e loro strillarono dalla gioia e danzarono in segno di gratitudine. Le cartucce erano destinate a trasformarsi in ornamenti, collane che avrebbero destato l'invidia di tutte le altre donne San in cui si fossero imbattute nei loro vagabondaggi. Shasa diede a Kwi il suo coltello da caccia dal manico d'avorio, e l'uomo ne provò il filo col pollice e grugní dallo stupore quando si accorse di essersi tagliato. Con fierezza mostrò il dito insanguinato a ciascuna delle donne. « Che arma è mai la mia! » Kwi Grasso ricevette la cintura di Centaine, e quando se ne andarono stava ancora studiando il riflesso della sua stessa faccia nella fibbia di ottone polito. « Se desideri farci visita ancora », gridò loro dietro Kwi, « saremo tra gli alberi di mongongo presso la fossa di O'chee finché non verrà la pioggia. » « Basta cosí poco a renderli felici », disse Shasa, voltandosi a guardare le minuscole figure danzanti. «Sono la gente piú felice del mondo», riconobbe Centaine. « Però mi chiedo per quanto tempo potranno andare avanti cosí » «Hai veramente vissuto a quel modo, mamma? » domandò
Shasa. « Da boscimana? Hai davvero mangiato radici e usato una pelle per vestirti? » « Non solo io, ma anche tu, Shasa. O meglio, tu non indossavi nemmeno una pelle, te ne stavi nudo come quei marmocchi luridi di poco fa. » Shasa aggrottò le sopracciglia per lo sforzo di ricordare. « In sogno mi capita di vedere un posto scuro, come una grotta, con acqua che fuma. » « Era la fonte termale nella quale ci bagnavamo, quella dove ho trovato il primo diamante della miniera H'ani. » « Mi piacerebbe visitarla ancora, mamma. » « Impossibile. » L'umore di lei cambiò. « La sorgente era al centro del vecchio cratere, e adesso lí c'è il pozzo principale della miniera. Scavando abbiamo distrutto la sorgente. » Continuarono a cavalcare in silenzio per un altro pò. « Era il luogo sacro dei San... e tuttavia, vedi come è strano, non sembrava che gli dispiacesse quando noi », esitò prima di pronunciare la parola, ma infine la buttò fuori senza tentennare, « lo profanammo. » « Già, che strano. Pensa se qualche straniero trasformasse l'abbazia di Westminster in una miniera di diamanti! » « Parecchio tempo fa ne ho discusso con Kwi. E lui mi ha detto che quel luogo segreto non apparteneva a loro ma agli spiriti, e che, se la cosa agli spiriti non fosse piaciuta, non avrebbero permesso che accadesse. Ha detto che gli spiriti avevano abitato là cosí a lungo che forse si erano annoiati e volevano trasferirsi in qualche altro posto, come fanno i San. » «Eppure non riesco a immaginare te che vivi come una San, mamma. Proprio tu! E' impensabile. » « Era dura » disse lei dolcemente. « Era talmente dura che è impossibile spiegarlo. E' persino impossibile immaginarselo. Però senza quel periodo, che mi ha indurita e temprata, non sarei ciò che sono. Vedi, Shasa, qui nel deserto, quando ero quasi arrivata al punto di rottura, ho pronunciato un giuramento. Ho giurato che io, e te mio figlio, non avremmo mai più sopportato simili privazioni. Ho giurato che non avremmo mai piú attraversato una situazione cosí estrema. » « Ma io non ero con te, allora. » « Sí, invece », disse Centaine, rafforzando l'affermazione con un cenno del capo. « Sí, tu c'eri. Ti portavo dentro di me sulla Costa degli Scheletri e nel calore delle dune, e di quel giuramento anche tu eri parte, mentre lo facevo. Siamo creature del deserto, sopravvivremo e prospereremo là dove altri cadranno e morranno. Ricordalo. Ricordalo bene, Shasa, mio tesoro. » Il giorno dopo lasciarono i servi il mattino presto e con rammarico indirizzarono i cavalli verso la miniera H'ani. A disfare il campo, caricare del bagaglio i cavalli e tornare con tutta la roba avrebbero pensato i servi. Loro si ritrovarono a mezzogiorno sotto un albero spinoso, e riposarono sdraiati con le selle per cuscino, osservando pigramente i monotoni uccelli tessitori che sopra le loro teste aggiungevano al loro nido collettivo una nuova ala. Il nido era già grande come un covone. Quando il sole fu meno caldo, tolsero le
pastoie ai cavalli, montarono in sella e cavalcarono lungo la base delle colline. D'improvviso Shasa si alzò in arcione e si fece schermo con la mano per scrutare su per la collina. « Che c'è, chéri? » Shasa aveva riconosciuto la gola rocciosa dove l'aveva portato Annalisa. « C'è qualcosa che ti preoccupa », insistè Centaine, e Shasa sentí un'improvvisa urgenza di condurre sua madre su per la gola, fino al santuario della strega dei monti. Stava per parlare quando ricordò il giuramento e si fermò, tentennando maldestramente sull'orlo del tradimento. « Non me lo vuoi dire? » Centaine scorgeva i segni della lotta interiore sul viso del figlio. « Mamma non conta. E' come se fosse me. Non è come andarlo a raccontare a un estraneo », si giustificò lui, e disse in fretta, prima che la sua coscienza potesse sopraffarlo: « C'è lo scheletro di un boscimano nella gola, mamma. Ti piacerebbe se te lo mostrassi? » Centaine impallidí sotto l'abbronzatura e lo guardò fisso. « Un boscimano? » bisbigliò. « E tu come fai a sapere che è un boscimano? » « Ci sono ancora dei capelli sul cranio, e sono capelli crespi, come quelli di Kwi e della sua gente. » « Come hai fatto a trovarlo? » « Anna... » rispose lui, arrossendo dalla vergogna. « Te l'ha mostrato lei? » lo aiutò Centaine. « Sì » Shasa annuí e subito chinò la testa. « Sei in grado di ritrovarlo? » Il colore era tornato sul viso di Centaine, e sembrava ansiosa ed eccitata nel chinarsi e nel tirargli la manica. « Sí, credo di sí, ho preso mentalmente nota di alcuni segni. » Indicò la parete rocciosa: « Quella tacca a "V" nella roccia e quella crepa a forma di occhio ». « Portami allo scheletro, Shasa », ordinò lei. « Dobbiamo lasciare i cavalli e salire un pò a piedi. » La salita fu faticosa. Il caldo era opprimente, e nella loro ascesa le spine li ferivano come uncini. « Dev'essere piú o meno qui. » Shasa si inerpicò su uno dei massi franati e si orizzontò. « Magari un pò piú a sinistra. Guarda se vedi una pila di pietre con sotto una mimosa. C'è un ramo che nasconde una nicchia. Esaminiamo un pò la zona. » Salirono lungo la gola con molta attenzione, un pò discosti per coprire una maggiore superficie, e per tenersi in contatto ricorsero ai fischi e ai richiami ogni volta che si ritrovarono separati dai cespugli e dalle rocce. Centaine, a un tratto, non rispose al fischio di Shasa, e lui si fermò e lo ripetè, tendendo l'orecchio nell'ansia di sentire la sua risposta e preoccupandosi del silenzio « Mamma, dove sei? » « Qui! » La sua voce era smorzata, incrinata dal dolore o da qualche altra profonda emozione, e Shasa balzò da una roccia all'al-
tra per arrivare in fretta da lei. Centaine stava in piedi nel sole, tenendo in mano il cappello all'altezza dei fianchi, piccola e abbandonata. Le guance le splendevano di goccioline di sudore, credette Shasa, e poi si rese conto che erano lacrime. Scorrevano come un morbido fiume lungo la sua faccia. « Mamma? » Si avvicino a lei da dietro e si accorse che aveva trovato il sacrario. Aveva scostato il ramo che faceva da sipario. I vasi di vetro erano ancora lì, con le offerte floreali ingiallite e appassite. « Annalisa diceva che lo scheletro era quello di una strega », esalò Shasa con timore superstizioso, e sopra la spalla di Centaine fissò la patetica pila di ossa e il piccolo cranio bianco che stava sopra a tutte. Centaine scrollò il capo, incapace di pronunciare parola. « Mi ha detto che la strega faceva la guardia alla montagna, e che avrebbe esaudito un mio desiderio. » « H'ani. » Centaine pronunciò il nome con voce strozzata. « La mia cara e vecchia madre. » « Mamma! » Shasa la prese per le spalle e la sorresse mentre lei vacillava. « Come sai che è lei? » Centaine si appoggiò al suo petto ma non rispose. «Potrebbero esserci centinaia di scheletri come questo nelle grotte e nelle gole », continuò lui in modo maldestro, ma Centaine scosse la testa con fastidio. « Come fai a essere sicura? » « E' lei. » La voce di Centaine era piena di dolore. « E' H'ani. Guardale i denti, ha un canino mozzo. Guarda il disegno di perline fatte con il guscio delle uova di struzzo sul perizoma. » Shasa non aveva fatto caso al pezzo di cuoio rinsecchito, decorato di perline, che stava sotto le ossa, mezzo sepolto dalla polvere. « E poi, vedi, io non ho bisogno di prove, io so che è lei. » « Siediti, mamma. » La fece sedere su uno dei massi coperti di licheni. « Sto bene adesso, è tutto a posto. E' solo che è stato un brutto colpo. L'ho cercata cosí spesso negli scorsi anni. Sapevo piú o meno dove doveva essere. » Si guardò intorno distrattamente. « Anche il corpo di O'wa dov'essere nelle vicinanze. » Guardò lungo la parete rocciosa, che incombeva sopra di loro come la volta di una cattedrale. « Erano lassú e cercavano di fuggire quando lui li ha abbattuti a fucilate. Devono essere caduti vicini. » « Chi li ha uccisi, mamma? » Lei trasse un respiro profondo, ma anche cosí la sua voce tremava quando pronunciò il nome: « Lothar. Lothar De La Rey! » Ancora per un'ora frugarono il fondo della gola e le pareti, alla ricerca di un secondo scheletro. « E' inutile », si arrese Centaine alla fine. « Non lo troveremo mai. Lasciamo che giaccia in pace, Shasa, come ha fatto in tutti questi anni. » Tornarono al piccolo sacrario di roccia, e nello scendere colsero i fiori selvatici che trovarono sulla loro strada.
« Il mio primo istinto è stato quello di raccogliere i resti e di dar loro cristiana sepoltura », mormorò Centaine nell'inginocchiarsi di fronte alla nicchia, « solo che H'ani non era cristiana! Queste colline erano sacre, per lei. Qui riposerà in pace. » Dispose con cura i fiori e poi si accasciò. « Farò in modo che tu non sia mai disturbata, mia cara nonna, e verrò ancora a trovarti. » Si alzò e prese la mano a Shasa. « Era la persona piú buona e delicata che io abbia mai conosciuto », disse piano, « e io l'amavo moltissimo. » Tenendosi sempre per mano, scesero fino al posto dove avevano legato i cavalli. Non parlarono piú durante la loro cavalcata fino a casa, e quando arrivarono al bungalow il sole era tramontato e i servitori erano già in apprensione. La mattina successiva, a colazione, Centaine fu vivace e frizzante, sebbene avesse le occhiaie e le sue palpebre fossero gonfie per il pianto. « E' l'ultima settimana qui prima di rientrare a Città del Capo. » « Vorrei che potessimo starcene qui per sempre. » « Per sempre! Devi tornare a scuola, e io ho i miei doveri. Ma ci verremo ancora, lo sai. » Lui annuí e Centaine andò avanti. « Ho fatto in modo che quest'ultima settimana tu la trascorra a lavorare al lavaggio e alla selezione. Ti piacerà, te lo posso garantire. » Aveva ragione, come al solito. L'impianto di lavaggio era un posto piacevole. L'acqua che scorreva sopra i piani di lavaggio rinfrescava l'aria, e dopo l'incessante fracasso dell'impianto di macinazione la quiete del lavaggio era una vera benedizione. L'atmosfera nella stanza dalle pareti di mattone, lunghissima, assomigliava a quella di una cattedrale; e in verità il culto di Mammona e di Adamante raggiungeva proprio qui il suo apice. Shasa osservò affascinato i frantumi provenienti dall'impianto di macinazione che venivano portati al lavaggio su un nastro trasportatore piuttosto lento. I pezzi piú grossi erano stati tolti e rispediti alla macinazione per un altro passaggio sotto i rulli. Restavano solo i frammenti piccoli. Dal nastro cadevano nei serbatoi di miscelazione, e di qui le pale rotanti li spingevano giú per i piani di lavaggio inclinati. Le sostanze piú leggere venivano lavate via e spedite ai depositi detriti. La ghiaia piú pesante, che conteneva i diamanti, proseguiva la corsa attraverso tutta una serie di marchingegni che separavano le pietre di natura diversa. Solo una quantità di ghiaia pari a un millesimo dell'originale arrivava fino in fondo. Questa ghiaia veniva versata sui cilindri ingrassati. I cilindri giravano lentamente, coperti di uno spesso grasso giallo. Il pietrisco bagnato scorre facilmente sui rulli, ma i diamanti sono asciutti. Una delle particolari caratteristiche dei diamanti è che non si bagnano. Metteteli a mollo, fateli bollire tutto il tempo che vi pare; rimarranno sempre asciutti. E una volta che la superficie asciutta delle pietre preziose toccava uno dei cilindri, ci rimaneva attaccata come un insetto alla carta moschicida. I rulli ingrassati erano sistemati dietro pesanti sbarre, e presso
ciascuno di essi sedeva un supervisore bianco per sorvegliarli. Shasa sbirciò fra le sbarre per la prima volta, e vide compiersi il miracolo a pochi centimetri dal suo naso: un diamante grezzo catturato e domato come una prodigiosa creatura del deserto. Fu testimone del suo scorrere giú dalla vasca superiore insieme a una poltiglia di ghiaia umida, lo vide toccare il rullo ingrassato e aderirvi, provocando una biforcazione a forma di « V » nel flusso dei sassolini, come una roccia quando c'è alta marea. Si mosse, quasi avesse perduto la presa, e Shasa provò il desiderio di stendere la mano e salvare il diamante prima che cadesse e fosse perduto per sempre, ma le sbarre di ferro erano troppo vicine l'una all'altra, la mano non ci passava. Poi il diamante aderí fermamente al rullo e tenne testa al flusso leggero della ghiaia, orgogliosamente fisso, asciutto e trasparente come una vescica sulla pelle gialla di un gigantesco rettile. Lo lasciò con un sentimento di stupore, lo stesso che Shasa aveva provato quando la sua cavalla Celeste aveva dato alla luce il primo puledro sotto i suoi occhi. Trascorse l'intera mattinata a passare dall'uno all'altro dei grandi cilindri gialli, guardando i diamanti che si infittivano sempre piú sulla loro superficie. A mezzogiorno il direttore della sala lavaggio venne giú con i suoi quattro assistenti bianchi, piú di quanti ne servissero, se non per sorvegliarsi a vicenda e impedire ogni eventuale furto. Con una spatola larga raschiarono il grasso dai cilindri e lo raccolsero in una caldaia, poi spalmarono meticolosamente ciascuno dei cilindri con uno strato fresco di grasso. Nella stanza di degrassaggio chiusa a chiave, che si trovava all'altro capo dell'edificio, il direttore mise la caldaia sulla stufa ad alcool e fece bollire il grasso finché non rimasero che i diamanti. E il dottor Twentyman-Jones pesò una per una le pietre e riportò le cifre relative nel libretto della produzione, un volume preziosamente rilegato in cuoio. « Lei certo avrà notato, signorino Shasa, che neppure una di queste pietre pesa meno di mezzo carato. » « Sì, signore. » Shasa non ci aveva pensato. « E quelli piú piccoli? » « I rulli ingrassati non sono infallibili. In effetti, ci vuole un certo peso minimo perché le pietre possano aderire ai rulli. Le altre, perfino un certo numero di pietre che non mancano di valore, passano attraverso il processo. » Portò Shasa di nuovo nella sala lavaggio e gli mostrò i rimasugli di scura ghiaia che avevano superato il passaggio attraverso i rulli. « Recuperiamo tutta l'acqua e la riutilizziamo. Qui l'acqua è un bene prezioso, come sa. Poi vagliamo a mano tutti i sassolini ». Mentre parlava due uomini apparvero alla porta in fondo alla stanza e presero un secchio di ghiaia dalla vasca. Shasa e Twentyman-Jones li seguirono oltre la soglia in un locale lungo e stretto, ben illuminato da un lucernario e alti finestroni. Un tavolo lunghissimo, ricoperto di lamiera lucida, percorreva tutto il locale. A entrambi i lati del tavolo sedevano file di donne. All'ingresso
degli uomini alzarono gli occhi e Shasa riconobbe mogli e figlie di molti lavoranti bianchi, e anche dei capelli neri. Le donne bianche sedevano raggruppate piú vicino all'ingresso, separate da una distanza appropriata e conveniente dalle negre in fondo al locale. I portatori vuotarono i secchi pieni di ghiaia umida a un capo del tavolo e le donne tornarono a posarvi lo sguardo. Ognuna aveva una pinzetta in una mano e una paletta di legno nell'altra. Si tirarono davanti un pò di ghiaia con la paletta, la sparsero e rapidamente cominciarono la cernita. « E' un lavoro in cui le donne eccellono », spiegò Twentyman-Jones sfilando accanto al tavolo e guardando sopra le spalle delle donne. « Hanno occhio fino, pazienza e destrezza piú degli uomini. » Shasa vide che sceglievano dei sassolini opachi, alcuni piccoli come granelli di zucchero, altri delle dimensioni di pisellini novelli, dal resto della ghiaia piú grossolana. « Sono il nostro pane e burro, quelle pietruzze li », disse Twentyman-Jones. « Si usano nell'industria. Le pietre da gioielleria, che hai visto sui rulli ingrassati, sono la marmellata di fragole e la panna. » Quando suonò la sirena, Shasa discese in auto con TwentymanJones dal lavaggio alle palazzine degli uffici. Portava sulle ginocchia lo scrigno d'acciaio contenente la produzione della giornata. Centaine li incontrò sulla veranda della palazzina dell'amministrazione e li accolse nel suo ufficio. « Allora, ti è sembrato interessante? » gli chiese, e poi sorrise alla risposta appassionata di Shasa. «Affascinante, mamma, e abbiamo trovato una vera meraviglia... Un diamante da trentasei carati, mostruosamente fenomenale! » Mise lo scrigno sulla scrivania della madre e, quando Twentyman-Jones l'aprì con le sue chiavi, le mostrò il diamante con tanto orgoglio che pareva l'avesse scavato dalla roccia con la fenditura nel mezzo. « E' grosso, si », ammise Centaine, « ma il colore dice che non è particolarmente pregiato. To', mettilo contro luce. E' del colore del whisky e soda, e anche a occhio nudo si vedono i difetti e le intrusioni, quei puntini neri dentro la pietra, e quella fenditura nel mezzo. » Shasa restò deluso da queste denigrazioni della sua pietra, e Centaine rise e si rivolse a Twentyman-Jones. «Facciamogli vedere qualche diamante veramente bello. Le dispiace aprire la cassaforte, dottor Twentyman-Jones? » Twentyman-Jones tirò fuori il mazzo di chiavi dalla tasca interna del gilè e condusse Shasa giú per il corridoio che portava a un cancello d'acciaio. L'aprì con una delle sue chiavi e lo richiuse dietro le loro spalle prima di proseguire. Scesero quindi le scale fino alla volta sotterranea. Mentre formava la combinazione, la celò col suo corpo perfino a Shasa, poi usò una seconda chiave prima che la pesantissima porta d'acciaio ruotasse pesantemente sui cardini consentendo loro di entrare nella stanza del tesoro. « Le pietre a uso industriale stanno in queste scatole di latta. » Le toccò passando. « Ma la roba di pregio la teniamo a parte. » Aprì la piú piccola porta d'acciaio in fondo alla stanza del tesoro e scelse quattro pacchettini numerati, di carta spessa, da un ripiano ingombro.
« Ecco le nostre pietre migliori. » Le porse a Shasa, in segno di fiducia, e poi tornarono indietro, aprendo e richiudendo a chiave le molteplici porte. Centaine li aspettava nel suo ufficio, e quando Shasa le piazzò davanti i pacchetti aprì il primo e sparse con garbo le pietre sul piano in pelle dello scrittoio. « Cribbio! » esclamò Shasa davanti alla sfilza di enormi pietre che emettevano un tenue bagliore saponoso. « Sono enormi! » « Facciamoci fare una bella dissertazione dal dottor TwentymanJones», suggerì Centaine e, nascondendo la soddisfazione dietro una compostezza così seria da rasentare la malinconia, il grande specialista prese una gemma tra indice e pollice. « Ebbene, signorino Shasa, ecco qua un diamante nella sua formazione cristallina naturale, l'ottaedro. Voglia contarle... Ed eccone un altro di forma cristallina piú complessa, il dodecaedro, mentre questi altri sono grossissimi ma non cristallizzati. Noti quanto sono tondeggianti e amorfi. I diamanti si creano in tutte le guise. » Li piazzò a uno a uno sul palmo di Shasa, e nemmeno il suo monotono dissertare riusciva ad attenuare il fascino del luccicante tesoro. « Il diamante ha uno sfaldamento perfetto che noi chiamiamo "grana", e può essere scisso nelle quattro direzioni parallelamente alle facce dell'ottaedro cristallino. » « Ed è cosí che i tagliatori lavorano sul grezzo », intervenne Centaine. « Durante le prossime vacanze ti porterò ad Amsterdam a vedere come fanno. » « Questa luminosità piuttosto opaca sparirà una volta che le pietre saranno tagliate e lucidate », interloquì Twentyman-Jones, un pò seccato che gli fosse stata tolta la parola. « Allora si rivelerà tutto il loro fuoco, perché hanno una rifrazione eccezionale che imprigiona la luce nell'interno e la scinde nei colori dello spettro. » « Quanto pesa questo qua? » « Quarantotto carati », disse Centaine consultando il registro. « Ma ricordati che una volta tagliato e lucidato perderà piú di metà del peso. » « E quanto varrà allora? » Centaine guardò Twentyman-Jones. « Una quantità di soldi, signorino Shasa », rispose evasivo l'esperto. Come tutti coloro che apprezzano davvero e amano le cose belle, siano gemme o quadri, statue o purosangue, non gradiva affibbiargli un valore monetario, cosí cambiò subito argomento. « La prego ora di confrontare il colore di queste pietre... » Fuori della finestra cadeva l'oscurità. Centaine accese la luce e restarono ancora un'ora a esaminare le pietre, tra domande, risposte e discorsi tranquilli e interessanti, finché Twentyman-Jones non rimise le pietre nel pacchetto e si alzò in piedi. « "Eri nell'Eden, il giardino di Dio" », citò inaspettatamente, « "d'ogni pietra preziosa ricoperto: rubino, topazio e... Eri sul sacro monte di Dio; in mezzo a pietre di fuoco te ne stavi." » Si interruppe, con aria pensosa. « Perdonatemi. Non so cosa mi ha preso. » «E' Ezechiele? » chiese Centaine, sorridendogli con gran simpatia.
«Ventotto, versetti tredici e quattordici», annuì cercando di non mostrare quant'era rimasto impressionato dalla conoscenza di Centaine. « Adesso andrò a metterli via. » « Dottor Twentyman-Jones », lo fermò Shasa. « Non ha risposto alla mia domanda. Quanto valgono queste pietre? » « Si riferisce all'intero pacchetto? » Pareva a disagio. « Compresi i diamanti industriali? » « Sí, quanto, signore? » « Be', se la De Beers li pagherà quanto ha pagato l'ultima spedizione, varranno molto piú di un milione di sterline », rispose con aria afflitta. « Un milione di sterline », ripeté Shasa, ma Centaine capì dalla sua espressione che una cifra simile gli riusciva incomprensibile, come qualche distanza astronomica espressa in anni luce. Imparerà, pensò, glielo insegnerò io. « Ricordati che non è tutto guadagno, Shasa. Da quella somma vanno detratte tutte le spese della miniera negli ultimi mesi, prima di poter calcolare il profitto. E poi bisognerà dare al fisco la sua oncia di carne viva. » Si alzò, levando la mano per impedire a Twentyman-Jones di andarsene poiché le era appena venuta un'idea. « Come lei sa, io e Shasa venerdí torniamo a Windhoek. Alla fine della settimana prossima Shasa dovrà andare a scuola. Porterò io i diamanti alla banca, con la Daimler... » « Signora Courteney! » Twentyman-Jones era inorridito. « Non posso permetterlo. Un valore d'un milione di sterline, buon Dio! Sarebbe una criminale irresponsabilità da parte mia consentire... » Si interruppe, perché vide l'espressione di lei alterarsi: la bocca assunse la consueta smorfia ostinata, e una luce battagliera le si accese nello sguardo. Ormai la conosceva come una figlia, e le voleva bene: si accorse di aver commesso il terribile errore di sfidarla proibendole qualcosa. Conosceva fin troppo bene la sua reazione automatica, e cercò di rimediare. « Pensavo soltanto al suo bene, signora Courteney. Un milione di sterline in diamanti farà gola a tutti i rapinatori e malviventi in un raggio di diecimila chilometri. » « Non ho nessuna intenzione di farlo sapere ai quattro venti », disse freddamente. « L'assicurazione », finalmente gli era venuta l'idea, « l'assicurazione non copre l'eventuale perdita della spedizione se manca la scorta armata. Può veramente permettersi di correre un rischio simile? La perdita di un milione di sterline, solo per guadagnare alcuni giorni? » Aveva azzeccato l'unico argomento che poteva trattenerla. Vide che ci pensava bene: la possibilità di rimetterci un milione di sterline, contro una minima perdita di faccia. Sospirò nascostamente di sollievo quando la vide alzar le spalle. « Ma sí, va bene, dottor Twentyman-Jones, facciamo come vuole lei. » Lothar aveva aperto con le sue mani, si può dire, la strada che
per il deserto conduceva alla miniera H'ani, bagnandola tutta quanta del sudore della sua fronte. Ma questo era avvenuto ben dodici anni prima, e ormai non la ricordava piú tanto bene. Tuttavia rammentava ancora una mezza dozzina di punti che potevano fare al caso suo. Dal campo dove avevano intercettato il convoglio di Gerhard Fourie si diressero a sud-ovest verso Windhoek, lungo la strada, viaggiando di notte per non essere scoperti da qualche veicolo imprevisto. La seconda mattina, proprio al levar del sole, Lothar raggiunse uno dei punti che ricordava e lo giudicò ideale. Qui la strada correva parallela al profondo letto roccioso di un fiume in secca, prima di discendere coi tornanti scavati da Lothar per traversarne il letto e risalire dall'altra parte con altrettanti tornanti. Smontò da cavallo e si affacciò al dirupo per studiare il luogo con attenzione. Si poteva intrappolare il camion dei diamanti fra una riva e l'altra bloccando la strada con dei grossi massi fatti precipitare dall'alto. Sotto il letto secco restava sicuramente qualche pozzo per abbeverare i cavalli nell'attesa del camion: bisognava mantenerli in forze per affrontare il lungo e durissimo viaggio che li attendeva poi. Il letto del fiume li avrebbe nascosti. Inoltre questo era, tra i luoghi adatti all'agguato, il piú fuori mano. Ci sarebbero voluti giorni per avvertire la polizia, che non poteva arrivare in forze se non dopo altre lunghe giornate. Questo gli avrebbe assicurato un bel vantaggio nel caso che prendessero la rischiosa decisione di seguirlo nell'inospitale deserto dove si sarebbe ritirato. « Lo faremo qui », disse a Swart Hendrick. Si accamparono sotto la riva nel punto in cui la linea telegrafica tirava dritto tagliando il tornante della spada. Il filo di rame superava il letto del fiume partendo da un palo invisibile dalla strada. Lothar si arrampico sul palo e applicò una derivazione alla linea telegrafica, inchiodando il filo al legno per rendere piú difficile un'eventuale scoperta, e poi portandolo fino al posto d'ascolto in una trincea che Swart Hendrick aveva provveduto a scavare sotto la riva. L'attesa era monotona, e Lothar maledì l'ingrato compito di stare attaccato alla cuffia, ma non poteva rischiare di perdere il cruciale messaggio in partenza dalla miniera che l'avrebbe avvertito dell'arrivo del camion. Così, per tutte le roventi ore del giorno, dovette sorbirsi il solito traffico di telegrammi relativo all'attività quotidiana della miniera. L'abilità del telegrafista era tale che durava fatica a interpretare la rapida raffica di punti e linee che gli rimbombava nelle orecchie. Le annotava sul taccuino e poi decifrava le lettere ricavando a malapena le parole. Meno male che si trattava di una linea privata, sicché non ci si curava di cifrare i messaggi, che erano in chiaro. Durante il giorno restò solo nella trincea. Swart Hendrick porto Manfred e i cavalli in pieno deserto, a suo dire « per cacciare », ma in realtà per preparare sia il ragazzo sia gli animali al durissimo viaggio che li aspettava, e renderli assolutamente invisibili dalla strada. Per Lothar quelle giornate lunghe e noiose passavano tra dubbi e
piani. C'erano tante cose che potevano andar storte, tanti dettagli da coordinare in maniera perfetta per avere successo. C'erano anelli deboli nella catena, e il piú debole era Gerhard Fourie. Tutto il piano dipendeva da lui, ma era un vigliacco, un uomo che era facile distogliere o scoraggiare. « Il momento dell'attesa è sempre il peggiore », pensò Lothar, ricordando i terrori che l'avevano assalito alla vigilia di altre battaglie o imprese disperate. « Se si potesse agire e farla finita subito, invece di dover aspettare tutti questi lunghi giorni. » Ed ecco che nella cuffia risuona un ronzio. In fretta prese matita e taccuino. L'operatore alla miniera H'ani cominciò a trasmettere e la matita di Lothar danzava sul foglio mentre rincorreva le raffiche di segnali. Alla fine del messaggio, dalla stazione di Windhoek il telegrafista rispose con due colpetti, per segnalare che aveva ricevuto, e Lothar lascio cadere la cuffia intorno al collo mettendosi a decifrare il telegramma. PER AZZECCAGARBUGLI PREPARARE VAGONE PRIVATO GIUNONE DA AGGANCIARE RAPIDO CITTA' DEL CAPO DOMENICA SERA STOP GIUNONE ARRIVA VOSTRA PARTE MEZZOGIORNO DOMENICA FINE VINGT Azzeccagarbugli era Abraham Abrahams. Centaine doveva avergli dato il nomignolo una volta che era irritata con lui, mentre Vingt, Venti, alludeva al cognome di Twentyman-Jones. La traduzione in francese nascondeva ancora una volta lo zampino di Centaine, ma Lothar si chiese chi aveva scelto lo pseudonimo di Giunone per Centaine, sogghignando perché lo trovava appropriato. Cosí Centaine stava per partire per Città del Capo in treno. In qualche modo sentí alleviarsi il senso di colpa: quando sarebbe successo, lei non sarebbe stata lí. Magari la distanza poteva attutirle lo shock. Per arrivare comodamente a mezzogiorno di domenica, Centaine, calcolò in fretta, doveva partire dalla miniera venerdí alla mattina presto. Sarebbe passata di lí sabato pomeriggio. Poi tolse qualche ora alla propria stima, ricordando che guidava la sua Daimler come una pazza. Restò seduto nella trincea caldissima e scomoda, e all'improvviso un desiderio irresistibile di rivederla, di poterle dare anche solo un'occhiata mentre passava, l'assalì. « Possiamo usarla come prova generale per l'agguato al camion », si giustificò con se stesso. La Daimler apparve dalle tremolanti lontananze come un turbine di quelli che il meriggio crea nel deserto. Lothar scorse la nuvola di polvere da oltre venti chilometri, e fece un segnale a Manfred e Swart Hendrick, perché prendessero posizione in cima alla cresta. Avevano scavato rozze trincee nei punti chiave, spargendo la terra smossa e facendola asciugare dal vento arido cosí che si confondesse con l'altra. Poi avevano mimetizzato le trincee con rami di rovo, finché Lothar non fu sicuro che, a meno di non essere a pochi passi di distanza, non si distinguevano piú. I massi con cui si proponevano di bloccare entrambe le uscite dal luogo dell'agguato erano stati laboriosamente raccolti dal letto del fiume e portati sul ciglio del costone. Lothar aveva badato con gran-
de attenzione di farli sembrar naturali: pure, un colpo solo di coltello a una corda li avrebbe fatti rotolare tutti sulla stretta pista in fondo al canyon. Questa era una prova, dunque nessuno era mascherato. Lothar diede un'ultima attenta occhiata alla scena e poi tornò a fissare la nuvola di polvere che si avvicinava in fretta. Era già abbastanza vicina alla sua posizione da consentirgli di distinguere la figuretta del veicolo alla base, e di udire il rombo lontano del motore. « Non dovrebbe andare cosí forte », pensò irritato. « Rischia di rompersi il collo. » Si scosse. « Che diavolo, mi comporto come un maritino apprensivo », si rese conto. « Che si rompa pure il collo, se è questo che vuole. » Tuttavia l'idea che morisse gli inferse una dolorosa fitta, e incrociò le dita per scacciare l'eventualità. Poi si accucciò nella sua trincea e continuò a guardarla attraverso i rami di rovo. Il bel veicolo sobbalzò attraversando i solchi della pista nell'affrontare una curva. Il rombo del motore aumentò quando Centaine inseri una marcia inferiore e poi accelerò in uscita dalla curva, usando la potenza del motore per controllare la sbandata incipiente, e sollevando nuvolette di polvere farinosa con le ruote anteriori. Bello slancio, dovette ammettere riguardo allo stile con cui aveva affrontato la curva, mentre Centaine cambiava ancora e puntava a gran velocità verso il ciglio del costone. « Buon Dio, non avrà mica intenzione di imboccare la discesa a tutto gas? » Ma all'ultimo momento Centaine frenò, scalò diverse marce e si fermò in una nuvola di polvere. Quando aprí la portiera e scese dal predellino dell'auto, con la polvere che turbinava ancora intorno a lei, era a una ventina di passi di distanza da lui, e Lothar sentí il cuore battergli all'impazzata. « Può ancora farmi questo? » stupí « Dovrei odiarla: mi ha ingannato e umiliato, ha disprezzato mio figlio negandogli l'amore di una madre, eppure, eppure... » Non lasciò che le parole si formassero, e cercò deliberatamente di indurirsi nei suoi confronti. « Non è bella », si disse guardandole il viso: ma era piú che bella. Era vitale e vibrante, e intorno a lei c'era un'aura speciale « Giunone », ricordò il suo nome in codice, « la dea Potente e pericolosa, capricciosa e imprevedibile, ma infinitamente affascinante e sempre desiderabile. » Per un attimo guardò dalla sua parte e Lothar sentí che ogni decisione l'abbandonava sotto lo sguardo di quegli occhi neri. Ma lei non lo vide e subito si girò. «Andremo giú a piedi, chéri», disse al ragazzo che era sceso dall'altra parte della Dalmler, « a vedere se il passaggio è sicuro. » Shasa sembrava cresciuto dall'ultima volta che Lothar l'aveva visto. Abbandonarono l'auto e scesero a fianco a fianco lungo la strada, sotto la postazione di Lothar. Manfred era nella propria trincea, in fondo alla discesa. Anche lui stava guardando i due che scendevano. La donna non gli diceva nulla. Era sua madre, ma lui non lo sapeva e non avvertiva nessuna emozione istintiva. Non l'aveva allattato, e mai nemmeno preso in braccio. Era un'estranea, ed egli la guardò senza alcuna sensazione
particolare, per poi rivolgere l'attenzione al ragazzo al suo fianco. La bellezza di Shasa l'offese. « E' bellino come una ragazza », pensò, disprezzandolo: ma poi vide la nuova ampiezza delle sue spalle e i muscoli delle braccia abbronzate sotto le maniche arrotolate della camicia. « Mi piacerebbe fare un'altra ripresa con te, amico. » Tornò a pungerlo il ricordo, quasi dimenticato, dell'umiliazione infertagli dal sinistro di Shasa, e si toccò il viso con la punta delle dita, bruciando a quel pensiero. « La prossima volta non ti lascerò fare il tuo balletto. » Si ricordò come gli era stato difficile raggiungere quel bel viso coi suoi colpi, come sfuggiva e schivava, sempre appena oltre il suo allungo, e provò di nuovo la frustrazione di allora. La coppia raggiunse la curva sotto cui era nascosto Manfred e rimase lì a parlare un momento, poi Shasa scese nell'ampio letto del fiume secco. La pista che traversava tutta quella sabbia era rinforzata per mezzo di rami d'acacia, ma le ruote dei camion pesanti li avevano scompigliati. Shasa li rimise a posto. Mentre il ragazzo lavorava, Centaine tornò alla macchina. Al perno della ruota di scorta era applicata una borraccia di tela, e lei l'aprì, la portò alla bocca e bevve un sorso. Si gargarizzò delicatamente e sputò per terra. Poi si tolse la lunga giacca bianca che la proteggeva dalla polvere del viaggio e si sbottonò la camicetta. Bagnò il fazzoletto giallo e se lo passò sulla gola e sul petto, fremendo di piacere a quella frescura. Lottar voleva distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì: restò invece a fissarla. Non portava niente sotto la camicetta azzurrina. La pelle del seno era intatta dal sole, pallida, liscia e perlacea come porcellana cinese. I seni erano piccoli, senza grinze e cedimenti, coi capezzoli appuntiti e ancora contornati di rosa, come quelli di una fanciulla e non di una madre di due figli. Mentre ci passava sopra la pezzuola bagnata ballonzolavano elastici e lei li guardava, togliendovi il lustro del sudore. Lothar mugolò per il bisogno di averla che era sorto improvviso e forte dal profondo del suo essere. « Tutto fatto, mamma », gridò Shasa imboccando la salita. Subito Centaine si riallacciò la camicetta. « Abbiamo già perso abbastanza tempo », dichiarò, tornando al volante della Daimler. Appena Shasa chiuse la portiera, avviò il potente motore approfittando della discesa, poi passò di slancio il letto sabbioso alzando polvere e schegge di rami d'acacia. Già stava salendo l'altra riva. Scollinò e scomparve seguita poco dopo dall'ultimo rombo del motore subito inghiottito dal silenzio del deserto. Lothar si accorse che tremava. Nessuno si mosse per parecchi minuti. Fu Swart Hendrick ad alzarsi in piedi per primo. Aprì la bocca per parlare, poi vide l'espressione di Lothar e resto in silenzio. Scese e si avviò verso l'accampamento. Lothar discese a sua volta verso il posto dove si era fermata la Daimler. Restò a guardare il punto umido dove Centaine aveva sputato quel sorso d'acqua. Le sue impronte erano nette e sottili nella polvere, e sentì una gran voglia di chinarsi e toccarle, ma a un tratto Manfred gli parlo vicino.
« E' un boxeur », disse, e Lothar non capì subito che parlava di Shasa. « Sembra un vero damerino, ma sa battersi. Non si riesce a beccarlo. » Alzò i pugni e si mise a tirare colpi nel vuoto, saltellando a imitazione di Shasa. «Torniamo all'accampamento, fuori vista», disse Lothar, e Manfred abbasso la guardia e mise le mani in tasca. Nessuno dei due parlo piú finché non arrivarono alla grotta scavata nel ciglione. « Tu sei capace di far la boxe, papà? » chiese Manfred. « Mi puoi insegnare? » Lothar sorrise e scosse la testa. « Ho sempre trovato molto piú comodo il calcio nelle balle », ghignò, « ma va bene anche la bottiglia in testa o la mazzata col calcio del fucile. » « Mi piacerebbe imparare a boxare », disse Manfred. « Un giorno imparerò. ». Forse l'idea stava formandoglisi dentro da un pezzo, ma all'improvviso eccola diventata una ferma risoluzione. Suo padre sorrise con indulgenza e gli diede una pacca sulla spalla. « Prendi il sacco della farina », gli disse, « che t'insegno a fare le focacce, invece. » « Oh, Abe, sai bene quanto detesti queste soirées », esclamò irritata Centaine. « Sale affollate e piene di fumo, banalità scambiate con perfetti estranei... » « Quest'uomo potrebbe essere molto utile, Centaine, e ti consiglio di farne la conoscenza. Potrebbe anzi rivelarsi l'amico piú prezioso che abbiamo in questa regione. » Centaine fece una smorfia, ma sapeva che Abe aveva ragione. L'amministratore era di fatto il governatore della provincia, con ampi poteri esecutivi. Era l'inviato del Governo dell'Unione Sudafricana, col mandato conferitogli in virtú del trattato di Versailles. « Sarà un altro noioso trombone come quello di prima. » « Non lo conosco ancora neanch'io », ammise Abe. « E' appena arrivato a Windhoek e giurerà il primo del mese prossimo, ma le nostre domande di concessione per la zona di Tsumeb sono già sulla sua scrivania e aspettano la sua firma. » Vide accendersi una lucina nel suo sguardo e continuò sull'argomento. « Oltre tremila chilometri quadrati di diritti di prospezione in esclusiva... varranno bene un paio d'ore di noia. » Ma ella non intendeva cedere così in fretta, e contrattaccò. « Dobbiamo partire per forza col rapido di stasera. Shasa dov'essere a scuola mercoledí mattina. » Centaine si alzò e si mise a camminare avanti e indietro nel salone del vagone, fermandosi a sistemare le rose nel vaso che aveva sulla scrivania per non guardarlo piú in faccia. « Il prossimo rapido parte martedi sera. Ho già preso accordi per farvi agganciare il vagone. Il signorino Shasa può partire stasera, gli ho riservato un vagone letto. Sir Garry e signora sono ancora a Weltevreden, possono andarlo a prendere alla stazione di Città del Capo. Basta un telegramma per sistemare tutto. » Abraham sorrise a Shasa. « Il giovanotto è sicuramente in grado di affrontare il viaggio senza che nessuno debba tenerlo per mano. » Abe era astuto, dovette ammettere Centaine, mentre Shasa rac-
coglieva immediatamente la sfida. « Ma certo che posso andare da solo, mamma. Tu resta pure qui. E' importante per te conoscere il nuovo amministratore. Io posso benissimo tornare a casa da solo. Mi aiuterà Anna a far le valigie per andare a scuola. » Centaine sbuffò, alzando le mani. « Se muoio di noia, Abe, mi avrai sulla coscienza finché campi. » In un primo tempo aveva pensato di indossare la parure completa di brillanti, ma poi aveva deciso di no. « Dopo tutto non è che un piccolo ricevimento di provincia, con le mogli grasse dei proprietari terrieri e gli impiegatucci. E poi non voglio mica abbacinarli, poveracci. » Decise quindi per un vestito da sera in seta gialla di Coco Chanel. L'aveva già indossato, ma a Città del Capo, sicché era difficile che qualcuno gliel'avesse già visto. « Con quello che mi è costato, posso anche metterlo due volte », si consolò. « E' fin troppo bello per loro. » Decise di indossare gli orecchini col solitario, per evitare l'ostentazione, ma al collo mise il grosso diamante color champagne montato su una catenina di platino. Attirava l'attenzione sui suoi piccoli seni appuntiti, e le piaceva l'effetto. Come sempre, i capelli erano una preoccupazione. Erano pieni di elettricità per la corsa nell'aria secca del deserto. Sentiva la mancanza di Anna, l'unica a saper piegare ai suoi voleri quella chioma superba e ribelle. Disperata, cercò di far virtù del disordine, cotonandoli a tutto spiano e tenendoli alti sulla fronte con una fascia di velluto. « Ora basta, mi sono stufata. » Non aveva nessunissima voglia di andare al ricevimento. Shasa era partito da solo come aveva suggerito Abe, e già sentiva moltissimo la sua mancanza. Inoltre aveva una gran voglia di tornare subito a Weltevreden anche lei, e le scocciava quel ritardo. Abe venne a prenderla un'ora dopo quella segnata sull'invito, adorno dello stemma dell'amministratore. Durante il tragitto in auto, Rachel, la moglie di Abe, fece loro un resoconto esauriente delle sue ultime vittorie e tragedie domestiche, completo di particolari sui moti intestinali dell'ultimo rampollo. La sede del governo era l'Ink Palace, già dell'amministrazione coloniale tedesca, un edificio massiccio in gotico imperiale. Bastò un'occhiata al salone per far capire a Centaine che la compagnia non era per niente migliore di quanto si aspettava. Erano quasi tutti piccoli funzionari, capi dipartimento e vicecapi con le mogli, gli ufficiali della guarnigione e della polizia, e tutti i notabili: affaristi emergenti e proprietari terrieri che vivevano abbastanza vicino a Windhoek da poter accettare l'invito. Tra gli invitati c'erano diversi dipendenti di Centaine, tutti i dirigenti di massimo e medio livello della Courteney Finance and Mining Company. Abe le aveva fornito l'elenco aggiornato, sicché quando ciascuno si fece timidamente avanti per presentare la moglie, Centaine fu in condizione di fare qualche grazioso commento personale che valse a illuminarli di felicità. Abe badava a che nessu-
no le imponesse troppo a lungo la sua presenza, e dopo il giusto intervallo le offriva la scusa per passare oltre. « Credo sia tempo di porgere i nostri rispetti al nuovo amministratore, signora Courteney. » Le porse il braccio e la guidò verso la linea di ricevimento. « Sono riuscito a raccogliere qualche informazione su di lui. E il tenente colonnello Blaine Malcomess, già comandante di un battaglione dei Fucilieri a Cavallo del Natal. Si è comportato bene in guerra ed è decorato con la Military Cross. Nella vita privata è avvocato e... » La banda della polizia si stava producendo con zelo in una gustosa versione di un valzer di Strauss, e la sala era già affollata di ballerini. Arrivati alla linea di ricevimento, Centaine notò con soddisfazione che sarebbe stata l'ultima a essere presentata all'autorità di governo. Centaine non prestava molta attenzione all'ospite in fondo alla linea, mentre procedeva al braccio di Abe, ascoltando Rachel che, all'altro braccio, le passava la ricetta della zuppa di pollo. Intendeva battersela quanto prima e si chiedeva appunto quale fosse l'ora piú indicata per farlo senza scandalo. A un tratto si accorse di essere arrivata in fondo alla linea. Erano proprio gli ultimi e il cerimoniere stava annunciando in quella il loro nome all'ospite. « Il signore e la signora Abraham e la signora Centaine de Thiry Courteney. » Ella alzò gli occhi sull'uomo che le stava davanti e involontariamente ficcò i polpastrelli nell'incavo del gomito di Abraham con tanta forza da farlo sobbalzare. Ma lei non se ne accorse nemmeno, intenta com'era a fissare il colonnello Blaine Malcomess. Era alto e asciutto, piú di uno e ottantacinque. Il suo portamento era rilassato, senz'ombra di rigidezza militare, tuttavia sembrava sempre pronto a scattare, tanto agilmente si bilanciava sulle punte dei piedi. « Signora Courteney », disse porgendole la mano, « sono molto lieto che sia potuta venire. Era l'unica persona che desideravo davvero conoscere. » Aveva una voce limpida da tenore, con un lontano accento forse gallese. Una voce da uomo istruito e ben educato, con modulazioni che le provocavano brividini elettrici di piacere sugli avambracci e sulla nuca. Gli prese la mano. La pelle era asciutta e tiepida, e si sentiva la forza contenuta delle dita che stringevano delicatamente quelle di lei. « Potrebbe maciullarmi la mano come un guscio d'uovo », pensò, e l'idea le produsse un delizioso fremito d'apprensione. Studiò il suo viso. I lineamenti erano ampi, le ossa dello zigomo, della mascella e della fronte sembravano dure e massicce come pietra. Il naso, grosso, pareva un pò un naso romano, le sopracciglia erano lievemente sporgenti e la bocca larga e molto espressiva. Le ricordò un Abramo Lincoln piú giovane e bello. Non ha ancora quarant'anni, giudicò, molto giovane per l'incarico e il titolo che ha. Poi si accorse con un soprassalto che stava ancora tenendogli la mano, e che non aveva risposto al suo saluto. Era chino su di lei, e
la stava studiando apertamente e attentamente come faceva lei. Abe e Rachel, divertiti, si guardavano sorridendo. Centaine dovette agitare leggermente la mano per liberarla dalla sua stretta, e con orrore si rese conto che un fiotto di sangue caldo le affluiva avvampando alla gola e alle guance. Ma sto arrossendo. Non le capitava da anni. « Ho già avuto la fortuna di avere rapporti con la sua famiglia », disse Blaine Malcomess. Anche i denti erano grandi e squadrati, e bianchissimi. La bocca era grande, e quando sorrideva lo diventava ancora di piú. Un pò scossa, Centaine gli restituí il sorriso. « Ma davvero? » Si rendeva conto che non era una risposta brillante, ma tutto lo spirito sembrava averla abbandonata. Se ne stava lì come una scolaretta, arrossendo goffa e timida davanti a lui. Aveva gli occhi di un verde stupefacente. Ecco che cosa la distraeva. « Ho combattuto in Francia agli ordini del generale Sean Courteney », le disse, sempre sorridendo. Gli avevano tagliato male i capellì, troppo corti sulle tempie. Le orecchie grandi spiccavano eccessivamente. Centaine se ne irritò: ma quei padiglioni un pò a sventola intenerivano e attraevano, anche. « Era un perfetto gentiluomo », continuò Blaine Malcomess. « Indubbiamente », gli rispose lei, sferzandosi mentalmente: di, qualcosa di intelligente o ti prenderà per un'oca! Era in alta uniforme, azzurro cupo e oro, con una doppia fila di medaglie e nastrini. Fin da quando era ragazza le uniformi l'avevano sempre affascinata. « Ho sentito che lei restò per alcune settimane presso il quartier generale di Sean Courteney ad Arras. Io allora ero ancora al reparto operativo, entrai a far parte dello Stato Maggiore solo alla fine dell'anno. » Centaine tirò un gran respiro per rinfrancarsi e alla fine riuscí a riprendere il dominio di sé. « Che giornate turbolente furono quelle, quando l'universo intero crollava rovinando intorno a noi », disse, con la voce bassa e rauca, sottolineando un pochino l'accento francese, e pensò: «Cos'è questo? Cosa ti sta succedendo, Centaine? Non è cosí che dovrebbe andare. Ricordati di Michel e Shasa. Fa, a quest'uomo un cenno amichevole e passa oltre ». « Sembra che per ora io abbia fatto il mio dovere », disse Blaine Malcomess cercando conferma con un'occhiata al cerimoniere, e tornando subito a rivolgersi a Centaine. « Posso avere l'onore di questo valzer, signora Courteney? » Le porse il braccio, e senza un attimo di esitazione ella posò le dita leggere nell'incavo del gomito di lui. Gli altri ballerini fecero largo, lasciandoli avanzare a braccetto nel salone. Poi ella si voltò di fronte a Blaine ed entrò nel cerchio do suo braccio. Non dovette neppure muoversi perché Centaine capisse che danzava benissimo. Di colpo ella si sentí leggera, delicata e agile: inarcò la schiena appoggiandosi al suo braccio mentre la parte inferiore dei loro corpi sembrava fondersi in un ritmo comune. La guidò in un rapinoso giro del salone, e quando la vide docile e pronta a seguirlo volteggiando leggera, iniziò una complicata serie
di figure e giravolte che lei eseguí senza apparente sforzo, come sfiorando il suolo, e tuttavia sempre sotto il suo controllo, rispondendo a ogni minima sollecitazione. Quando infine la musica terminò con un tonante accordo e i suonatori si accasciarono sudati e ansimanti sulle sedie, Centaine provò nei loro confronti un irragionevole risentimento. Non avevano suonato abbastanza a lungo, Blaine Malcomess la stava ancora tenendo tra le braccia in mezzo al salone e ridevano, tra compiaciuti e sbalorditi, di se stessi, mentre tutt'attorno le altre coppie di ballerini li applaudivano. « Purtroppo per ora, a quanto sembra, è tutto qui », disse, sempre senza lasciarla andare. Ma queste parole la scossero. Non c'era piú alcuna scusa per il contatto fisico e sia pur con riluttanza fece un passo indietro e ringraziò dell'applauso con un piccolo inchino. « Penso proprio che ci siamo guadagnati un bicchiere di champagne. » Blaine fece un segnale a uno dei camerieri in giacca bianca che stazionavano ai margini della pista e sorseggiarono il vino guardandosi avidamente negli occhi mentre chiacchieravano. Il movimento gli aveva fatto nascere un velo di sudore sull'ampia fronte, e lei ne avvertiva l'odore anche sul proprio corpo. Erano soli al centro della sala affollata. Con leggere inclinazioni della testa e delle spalle Centaine dissuase i due o tre piú arditi che si avvicinavano come per unirsi a loro, e dopo questi chiari segnali nessuno piú cercò di farsi avanti. La banda, ristorata e vogliosa di suonare, riprese posto sul podio e stavolta si lanciò in un fox-trot. Blaine Malcomess non dovette chiedere. Centaine posò il bicchiere di champagne quasi intatto sul vassoio d'argento che il cameriere protese e alza le braccia di fronte a Blaine. Il ritmo piú blando del fox-trot consentí loro di continuare a parlare, e c'erano tante cose da dire. Egli aveva conosciuto bene Sean Courteney, e nutriva affetto e ammirazione per la sua memoria. Quanto a Centaine, l'aveva amato quasi quanto suo padre. Parlarono delle tragiche circostanze in cui Sean Courteney e sua moglie erano stati assassinati, e il comune orrore e raccapriccio parve avvicinarli ancora di piú. Blaine conosceva le dilette province a settentrione di Arras nella Francia natia di Centaine, e il suo battaglione era stato schierato vicino a Mort Homme, il villaggio di lei. Ricordo le fumanti rovine del suo castello avito. «Lo usavamo come posto d'osservazione dell'artiglieria», le disse. « Ho passato molte ore appollaiato in cima all'ala nord. » Le sue parole indussero in lei una piacevole nostalgia, una fine tristezza che le aguzzò le emozioni. Egli amava i cavalli, come lei, ed era un giocatore di polo dassificato « twelve goal », ovvero da dodici punti. « Dodici punti! » esclamo. « Mio figlio ne sarà impressionato. E' appena stato riconosciuto giocatore da quattro. » « Quanti anni ha suo figlio? » « Quattordici. » « E' un'ottima classifica per un giovane di quell'età. Mi piacereb-
be vederlo giocare. » « Sarebbe divertente », concordò, e a un tratto le venne voglia di parlargli di Shasa, raccontargli tutto di lui, ma di nuovo la musica finì, e stavolta anche lui si accigliò. « Suonano pezzi brevissimi, non trova? » Poi lo sentì sobbalzare e toglierle le mani dalla vita. Benché lei mantenesse la propria sull'avambraccio del cavaliere, noto che lo strano incanto che li aveva afferrati entrambi si era infranto, e qualcosa di oscuro ed estraneo passava, come un'ombra, fra di loro. Non capiva bene di che si trattasse. « Ah », disse lui tristemente. « Ecco che torna. Stava proprio male stasera, ma il coraggio non le manca. » « Di chi sta parlando? » chiese Centaine. Il suo tono le dava come un brutto presentimento, e avrebbe dovuto capirlo da sola, ma quando lui rispose lo shock la fece sobbalzare. « Di mia moglie. » A Centaine venne un piccolo capogiro e fece fatica a stare in piedi quando lasciò cadere la mano dall'avambraccio di lui. « Vorrei fargliela conoscere », disse Malcomess. « Posso presentareliela? » Ella annuì, non fidandosi della sua voce, e quando le porse nuovamente il braccio esitò prima di prenderlo, e stavolta vi posò le dita con la massima leggerezza. Egli la condusse attraverso la sala verso il gruppo riunito ai piedi dello scalone, e mentre si avvicinavano Centaine scrutava i volti delle donne, cercando di indovinare quale poteva essere. Solo due erano giovani e nessuna bella, nessuna poteva competere con lei quanto ad aspetto, forme, portamento, talento e ricchezza. Provò un empito di fiducia e di impazienza che equilibrarono il breve momento di confusione e scoraggiamento che l'aveva fatta vacillare prima. Senza pensarci affatto, seppe che entrava in una lotta disperata, ed era piena di ardore combattivo ed esaltata dall'enormità della posta in gioco. Era impaziente di vedere e valutare la rivale e quando arrivarono presso il gruppo alzò il mento e raddrizzò le spalle. Le file di uomini e donne si aprirono rispettosamente, ed eccola là, che alzava lo sguardo su Centaine con dei begli occhi tragici. Era piú giovane di Centaine e dotata di una bellezza rara e squisita. Indossava la propria natura gentile e la propria bontà come un manto scintillante da mostrare a tutti, ma il sorriso che rivolse a Centaine quando Blaine Malcomess la presentò era triste. « Signora Courteney, posso presentarle mia moglie Isabella? » « Lei danza meravigliosamente, signora Courteney, l'ho guardata ballare con Blaine, poco fa, con grandissimo piacere», disse. « Egli ama tanto la danza! » « Grazie, signora Malcomess », sussurrò rauca Centaine, mentre interiormente bruciava di rabbia. « Brutta puttana, non è giusto. Non combatti lealmente. Come posso vincere, ora? Oh, Dio, come ti odio. » Isabella Malcomess era su una sedie a rotelle, con l'infermiera dietro. Le caviglie che spuntavano da sotto l'abito da sera erano quelle di due gambette paralizzate. I piedi nelle scarpe da ballo di
vernice apparivano scarni e ossuti. « Non ti lascerà mai », pensò Centaine quasi soffocando dal dolore. « Un uomo come lui non abbandona la moglie invalida! » Centaine si svegliò un'ora prima dell'alba e per un attimo si chiese la ragione dello strano sentimento di benessere che provava. Poi ricordò e si liberò delle coperte, ansiosa di cominciare la giornata. A piedi nudi sul pavimento, si fermò, e gli occhi le corsero istintivamente alla fotografia incorniciata di Michael Courteney che teneva sul comodino. « Michel, mi dispiace », gli sussurrò. « Io ti amo, ti amo ancora, ti amerà sempre, ma non posso evitare quest'altra cosa. Non la volevo; non l'ho cercata. Per favore perdonami, tesoro mio. E' passato tanto tempo, e tanta solitudine. Lo voglio, Michel. Voglio sposarlo e averlo per me. » Tirò su la fotografia e per un momento la strinse al seno. Poi aprì il cassetto, posò la foto a faccia in giú sopra la biancheria di pizzo e lo richiuse. Saltò in piedi e andò a mettere la vestaglia di seta cinese, giada, con l'uccello del paradiso ricamato dietro. Annodandosela attraversò la sala del vagone privato e sedette alla scrivania per comporre il telegramma per Sir Garry nel loro codice privato, perché il messaggio sarebbe stato trasmesso sulla rete pubblica. MANDA URGENTEMENTE OGNI INFORMAZIONE DISPONIBILE SU TENENTE COLONNELLO BLAINE MALCOMESS NUOVO GOVERNATORE AFRICA SUDOVEST STOP RISPONDI IN CODICE STOP CON AFFETTO GIUNONE Suonò al segretario e si mise ad attenderlo con impazienza. Arrivò con indosso una vestaglia di flanella, la barba lunga e gli occhi gonfi di sonno. « Lo mandi subito », disse porgendogli il messaggio. «Poi mi chiami al telefono Abraham Abrahams. » « Centaine, sono le sei del mattino », protestò Abe, « e siamo andati a letto alle tre. » « Tre ore di sonno bastano e avanzano al buon avvocato, Abe. Voglio che inviti il colonnello Malcomess e signora a cena da me, sul vagone privato, questa sera. » Ci fu un lungo silenzio, mentre le scariche elettrostatiche crepitavano sul filo. « Naturalmente siete invitati anche tu e Rachel », per riempire il vuoto. « Il preavviso non basta », osservò l'avvocato, cercando attentamente le parole. « Il governatore è un uomo occupatissimo. Non verrà. » « Manda l'invito a lui personalmente », proseguí Centaine ignorando l'obiezione. « Spedisci il fattorino all'ufficio e accertati che l'invito sia recapitato in mano sua. Insomma, non deve riceverlo la moglie. » « Non viene », ripeta ostinato Abe. « Almeno spero. » « Cosa diavolo dici? » replicò seccamente Centaine. « Stai scherzando col fuoco, Centaine. E non con un fiammifero, ma con l'incendio di una boscaglia. »
Centaine strinse le labbra. « Fatti gli affari tuoi ché i miei li facciò io... » cominciò, e lui la interruppe finendo per lei la filastrocca infantile: « ... e bacia il tuo tesoro, ché il mio lo bacio io. » Centaine ridacchiò. Era la prima volta che il legale la sentiva ridacchiare: ne fu sorpreso. « Veramente appropriato, caro Abe. » Ridacchiò ancora, e la voce di lui suonò davvero agitata quando le disse: « Ascolta, mi paghi un'ingente parcella per occuparmi degli affari tuoi. Centaine, già ieri sera hai messo in moto un migliaio di malelingue... Scommetto che stamattina non si parla d'altro in città. Sei una donna segnata, tutti ti tengono d'occhio. Non puoi assolutamente alimentare dei pettegolezzi. » « Abe, io e te sappiamo entrambi che posso fare tutto quello che voglio. Fammi un favore, manda quell'invito. » Quel pomeriggio riposò. Era andata a letto tardi e la sera voleva avere l'aspetto migliore. Il segretario la svegliò poco dopo le quattro. Abe aveva ricevuto risposta all'invito. Il governatore e signora erano lieti di cenare da lei quella sera. Fece un sorriso di trionfo e si voltò a decifrare il telegramma di Sir Garry che pure era arrivato mentre dormiva. « Per Giunone stop. Nome soggetto est Blaine Marsden Malcomess nato Johannesburg 28 luglio 1893. » « Allora non ha neanche quarant'anni. E' del leone, una fiera ruggente! » Tornò avidamente al cablo. « Secondo figlio di James Marsden Malcomess, avvocato e imprenditore minerario, presidente consiglio amministrazione Consolidated Goldfield e direttore diverse società affiliate, morto 1922. Soggetto frequentato St. John's College Johannesburg et Oriel College Oxford, meritando borse studio fino at laurea con lode. Vinto altresí importanti tornei cricket, atletica e polo. Accolto nell'ordine degli avvocati e procuratori nel 1913. Nominato sottotenente dei Fucilieri a cavallo del Natal nel 1914. Ha preso parte alla guerra nell'Africa Sudoccidentale. Due menzioni d'onore. Promosso capitano nel 1915. In Francia con le Forze di Spedizione Britanniche nello stesso anno. In agosto croce al valor militare. Promosso maggiore e quindi tenente colonnello nel 1917, nello Stato Maggiore del comandante la 6a divisione. Ha partecipato alle trattative di pace di Versailles nello Stato Maggiore del generale Smuts. Socio dello studio legale Stirling & Malcomess dal 1919. Membro del Parlamento per il collegio di Gardens dal 1924. Sottosegretario alla Giustizia nel 1926 e fino al '29. Nominato amministratore dell'Africa di Sudovest il maggio 1932. Sposato Isabella Tara nata Harrison nel 1918. Due figlie, Tara Isabella e Mathilda Janine. » Questo per Centaine fu un altro colpo. Non aveva pensato che poteva aver figli. « Almeno quella là non gli ha dato un figlio maschio. » Il pensiero era cosí cattivo che ne sviò il rimorso calcolando l'età delle figlie. « Saranno come la madre. Schifosissimi angeli da proteggere da mane a sera », decise amaramente, e lesse i pochi commenti con cui Sir Garry chiudeva il telegramma.
« Qualche domanda rivolta all'Ou Baas mi ha consentito di appurare che il soggetto, nell'ambiente legale come in quello politico, è considerato una stella nascente. E' molto probabile che diventi ministro quando il Partito per il Sudafrica tornerà al potere. » Centaine sorrise con simpatia e affetto alla menzione del generale Jan Christian Smuts (Ou Baus, il vecchio boss) e poi continuò a leggere: « Moglie caduta da cavallo nel 1927. Grave danno spinale. Prognosi sfavorevole. Padre James Marsden lascia patrimonio valutato 655.000 sterline in parti uguali ai due figli. Presenti condizioni finanziarie soggetto non accertate, ma si stima che sia molto ricco. Attualmente nel polo è classificato giocatore da 12 punti. E' stato capitano della squadra nazionale sudafricana contro l'Argentina nel 1929. Spero tua richiesta originata motivi di lavoro. Caso contrario esorto massima riservatezza e prudenza perché conseguenze altamente pregiudizievoli ogni parte. Shasa è a scuola. Anna manda tutto suo affetto e anch'io. Stop. Ovidio. » Era stata lei a scegliere il nome in codice di Garry, per affetto e stima del suo lavoro, ma adesso scagliò irritata il telegramma sulla scrivania. « Come mai tutti sanno cosí bene quel che fa per me, meno io? » si chiese ad alta voce. « E perché Anna non è qui per aiutarmi a sistemare un pò i capelli? Ho un aspetto da vero spaventapasseri. » Lanciò subito uno sguardo allo specchio per avere la conferma che non era assolutamente vero. Poi con le mani allontanò i capelli dal viso e si mise a studiarne la pelle in cerca di rughe o altri segnacci. Trovò soltanto un lievissimo accenno di zampe di gallina all'angolo degli occhi e si arrabbiò da matti. « E come mai gli uomini piú attraenti sono tutti già sposati? E perché, perché quella stupida e goffa santarellina non è rimasta in sella invece di cadere sul didietro? » Centaine aveva procurato di ricevere con grande magnificenza Isabella Malcomess. Quattro camerieri e il segretario andarono a prenderla sulla sedia a rotelle per metterla sul vagone. Ma Blaine Malcomess li scacciò tutti seccamente, per chinarsi di persona sulla moglie. Lei gli passò le mani intorno al collo e lui la sollevò come se non pesasse piú di una bambina. Coi volti che si sfioravano, le sorrise teneramente e poi salí i gradini come se non fosse gravato da nulla. Le gambe di Isabella pendevano pateticamente sotto la gonna. Erano guaste e senza vita e Centaine non poté fare a meno di avvertire un empito di simpatia, imprevisto e sgradito, nei suoi confronti. « Non intendo compatirla », pensò fieramente seguendoli nel vagone. Blaine la depositò, senza chiedere permesso, sulla sedia che dominava la sala, e costituiva naturalmente il fulcro dell'attenzione: una sedia sempre riservata esclusivamente a Centaine. Si inginocchiò davanti alla moglie e gentilmente le sistemò i piedi, composti e paralleli sul tappeto di seta. Poi le ravviò la gonna sulle ginocchia. Era ovvio che aveva compiuto quei gesti infinite volte. Isabella gli sfiorò leggermente la guancia coi polpastrelli, e gli
sorrise con tanta adorazione e tanta fiducia che Centaine si sentí del tutto superflua. La disperazione la travolse. Non poteva intromettersi tra questi due. Sir Garry e Abe avevano ogni ragione. Doveva abbandonarlo senza lottare, e si sentí pervadere da un sentimento di rettitudine e quasi di santità. Poi Isabella alzò gli occhi su Centaine, sopra la testa del marito inginocchiato. Contro i dettami della moda portava i capelli lunghi e lisci. Erano cosí serici e fini da formare un tessuto compatto, brillante come satin bagnato, che le pioveva morbidamente sulle spalle nude. La chioma era color delle caldarroste, in cui brillavano lumi fulvi che sembravano tante stelle di luce rossa ogni volta che muoveva la testa. Il suo volto era tondeggiante come quello di una madonna medievale, e illuminato di serenità. I suoi occhi erano bruni e stellati di pagliuzze d'oro che si aprivano a ventaglio dalle pupille nere luminose. Isabella guardò Centaine attraverso tutto il salone, e poi sorrise, un sorriso lento, compiaciuto, possessivo, accompagnato da un repentino mutamento della luce che animava le sue pupille. Fissò Centaine negli occhi color miele scuro e la sfidò. Ciò risultò a Centaine altrettanto chiaro che se le avesse sferzato la bocca col guanto lungo e ricamato di perle. « Stupidella... non avresti dovuto farlo! » Tutte le nobili risoluzioni di Centaine crollarono davanti a quello sguardo. « Ero pronta a lasciartelo, davvero: ma se vuoi combattere per lui... ti avviso che combatterò anch'io! » Non distolse gli occhi da quelli della rivale e in silenzio raccolse la sfida. La cena fu un sensazionale successo. Centaine aveva architettato accortamente il menu, ma non si era fidata del cuoco al punto da lasciargli fare il contorno dell'aragosta e della lombata di manzo. Ci aveva pensato personalmente. Con l'aragosta bevvero champagne, e col lombo un Richeburg meravigliosamente vellutato. Abe e Blaine furono sollevati e deliziati che Isabella e Centaine si trattassero col massimo riguardo e gareggiassero in fascino. Sembrava che dovessero in breve diventare intime amiche. Centaine le si rivolgeva quasi a ogni frase, e si occupava continuamente della sua comodità, giungendo a sistemarle dei cuscini dietro la schiena e sotto i piedi. Le storie che raccontava Centaine erano autoironiche e divertenti, e riguardavano la sua difficoltosa sopravvivenza attraverso le dune del deserto quale vedova incinta e accompagnata solo da due selvaggi boscimani. « Quale ardimento! » Isabella Malcomess sottolineò di aver capito il punto saliente della cosa. « Sono sicura che ben poche donne avrebbero mostrato uguali risorse e un'uguale energia. » « Colonnello Malcomess, mi consenta di affidarle l'incombenza di tagliare l'arrosto. A volte essere una donna sola ha i suoi svantaggi. Ci sono cose che solo un uomo sa far bene, non è d'accordo, signora Malcomess? » Rachel Abrahams sedeva in silenzio, preoccupata. Era l'unica che, oltre alle due rivali, capiva quel che stava succedendo; e la sua simpatia era tutta per Isabella Malcomess, perché temeva anche per
il suo nido e i suoi piccoli, se fossero stati minacciati da un simile volteggiante predatore. « Lei ha due figlie, vero, signora Malcomess? » chiese dolcemente Centaine. « Tara e Mathilda Janine, che nomi carini! » Stava facendo sapere alla rivale che aveva fatto ricerche approfondite. « Chissà come farà a badare a loro! Si sa che le ragazze sono un impiastro, molto piú dei maschi. » Rachel Abrabams, in fondo al tavolo, strizzò gli occhi. Con un solo rapido fendente Centaine aveva sottolineato sia l'invalidità di Isabella sia il suo fallimento nel fornire al marito un figlio ed erede. « Ho tantissimo tempo da dedicare ai doveri domestici », la rassicurò Isabella, « non essendo, come lei, impegnata nel commercio. E le bambine sono bravissime, dei veri tesori, che adorano la mamma e soprattutto il papà. » Isabella sapeva duellare. La parola commercio era tale da far ribollire, dietro il sorriso falso, il sangue aristocratico di Centaine, come era stato un colpo magistrale quello di accennare all'adorazione speciale che nutrivano per papà. Centaine aveva anche notato l'espressione amorosa balenata in viso a Blaine quando erano state nominate le figlie. Si rivolse a lui cambiando discorso, e parlò di politica. « Di recente il generale Smuts è stato ospite nella mia casa del Capò Weltevreden. E' molto preoccupato per la crescita delle società segrete nelle classi inferiori degli afrikaner. In particolare la cosiddetta Ossewa-Brandwag, e l'Afrikaner Broederbond, che tradotte significano a un dipresso «la guardia del treno notturno" e la "fratellanza afrikaner". Anche per me sono pericolosissime e contrarie ai piú alti interessi della nazione. Lei condivide queste preoccupazioni, colonnello Malcomess? » « Effettivamente, signora Courteney, ho condotto uno studio approfondito su questi fenomeni. Ma non penso che lei abbia ragione quando dice che queste società segrete riguardano solo le classi inferiori, anzi è vero il contrario. L'iscrizione è riservata a chi sia di puro sangue afrikaner e ricopra posizioni attualmente o potenzialmente influenti nel mondo politico, governativo, religioso e dell'istruzione. Tuttavia concordo con le sue conclusioni. Sono pericolosi, piú di quanto pensi la maggior parte della gente, perché il loro fine ultimo è quello di controllare tutte le sfaccettature della nostra vita, dalla mentalità dei giovani alla giustizia e al governo, imponendo i propri membri al di là di qualunque considerazione di merito o valore. Si può dire che per molti aspetti questo movimento corrisponda alla nascente ondata del Nazionalsocialismo di Hitler in Germania » Centaine si chinò verso di lui per godere di ogni sfumatura e inflessione della sua voce, incoraggiandolo con qualche domanda o qualche commento spiritoso e acuto. Con una voce come quella, pensava, saprebbe incantare milioni di elettori oltre a me. A un tratto si accorse che stavano comportandosi come se fossero soli e tornò subito a rivolgersi a Isabella. « Lei concorda in questo con suo marito, signora Malcomess? » Ma Blaine, sorridendo con indulgenza, rispose per lei. « Temo proprio che mia moglie consideri la politica una gran
barba. Non è cosí, mia cara? E temo anche che in fondo non abbia tutti i torti. » Consultò l'orologio d'oro che teneva in tasca. « E' mezzanotte passata. Mi sono divertito tanto che ho paura di aver approfittato della sua ospitalità. » « Hai ragione, caro. » Isabella era impaziente di mettere fine alla serata. « E poi Tara stasera aveva un pò di mal di pancia. » « Tara è una piccola strega che ha sempre il mal di pancia quando usciamo », rise lui, ma si alzò con tutti gli altri. « Non posso lasciarvi andar via senza il conforto di un brandy e un sigaro », temporeggiò Centaine. « Benché rifiuti recisamente la barbara usanza di lasciar solo agli uomini questi piaceri, mentre noi povere donne dovremmo restare a parlar di marmocchi. Quindi, passeremo di là tutti insieme. » Ma mentre guidava gli ospiti nell'altro scompartimento il segretario le fece un cenno nervoso. « Sì, che c'è? » disse, irritata, finché non vide il telegramma che sventolava come se fosse una sentenza di morte « E' del signor Twentyman-Jones ed è urgente. » Centaine prese il telegramma ma non lo aprí finché non si fu assicurata che a tutti gli ospiti fossero stati serviti caffè e cognac, e che Blaine e Abe avessero in mano il sigaro avana. Allora si scusò e s'infilò in camera sua. PER GIUNONE STOP COMITATO LOTTA CAPEGGIATO DA GERHARD FOURIE HABET INDETTO SCIOPERO STOP TUTTI DlPENDENTI BIANCHI SI ASTENGONO DAL LAVORO STOP MINIERA ET MACCHINARI PICCHETTATI STOP SPEDIZIONE MERCE EST ASSOLUTAMENTE IMPOSSIBILE STOP RIPETO SPEDIZIONE EST IMPOSSIBllE STOP SCIOPERANTI CHIEDONO RIASSUNZIONE PERSONALE BIANCO LICENZIATO ET GARANZIA POSTO PER TUTTI STOP CHIEDO ISTRUZIONI FINE VINGT Centaine si sedette sul letto. Il telegramma le tremava in mano. Non era mai stata così arrabbiata in vita sua. Era un tradimento, un grossolano e imperdonabile tradimento. La miniera era sua! E i diamanti anche. Era lei che pagava i salari, e aveva il diritto assoluto di assumere e licenziare. La spedizione a cui si riferiva Twentyman-Jones era il « pacchetto » di diamanti per la De Beers da cui dipendeva tutta la sua fortuna. Le richieste, se accolte, avrebbero reso non piú redditizia la miniera H'ani. Ma chi era questo Gerhard Fourie, si chiese: poi ricordo che era il capo degli autisti. Andò ad aprire la porta. Il segretario l'aspettava in corridoio. « Dica al signor Abrabams di venire da me. » Quando Abe si presentò, gli fece leggere il telegramma. « Non hanno il diritto di fare questo a me! » scalpitò aspettando che l'avvocato finisse. Abe alzò gli occhi dal foglio. « Disgraziatamente il diritto ce l'hanno, Centaine. Dopo la legge del '24, l'industrial Conciliation Act... » «Adesso non venirmi a parlare di leggi, Abe», l'interruppe. « La verità è che sono un branco di bolscevichi che mordono la mano che li sfama. »
« Centaine, ora non prendere decisioni affrettate, mi raccomando. Se dovessimo... » « Abe! Fa, scaricare immediatamente la Daimler dal vagone e manda un telegramma a Twentyman-Jones. Digli che sto arrivando e che non faccia concessioni né promesse. » « Hai intenzione di partire domattina? » « Macché, parto fra mezz'ora », berciò lei. « Appena gli ospiti se ne sono andati e la macchina è pronta. » « Ma è l'una di notte... » cominciò lui, poi vide la sua espressione e abbandonò questo genere di obiezione « Telegraferò alla prima stazione di posta di prepararsi al tuo arrivo. » « Farò solo il pieno di benzina, non mi tratterrò. Vado difilato alla miniera. » E andò alla porta. Si fermò per ricomporsi e dopo un attimo, già sorridendo a suo agio, tornò in sala. « Qualcosa non va, signora Courteney? » Il sorriso non aveva ingannato Blaine Malcomess, che si alzò in piedi. «Posso esserle d'aiuto in qualche modo? » « Oh, si tratta solo di una piccola noia. Fastidi alla miniera. Devo andarci subito. » « Certo non stanotte stessa... » « Sì, stanotte... » « Da sola? » Era preoccupato, e ne fu compiaciuta. « E' un viaggio lungo e duro. » « Preferisco viaggiare da sola », disse, aggiungendo con significativa intensità: « O scegliere molto bene i miei compagni di viaggio ». Fece una pausa e poi continuò. « Alcuni dipendenti sono scesi in sciopero. E' irragionevole e non hanno alcun fondato motivo di farlo. Sono sicura di riuscire in breve ad appianare tutto. Nondimeno, talvolta queste cose sfuggono di mano. Potrebbero esserci violenze o vandalismi. » Subito Blaine la rassicurò. « Le garantisco la piena collaborazione del governo. Un reparto di polizia sarà inviato a mantenere l'ordine, se lo desidera. » « Grazie, lo apprezzo molto. E' un gran sollievo e un gran conforto sapere di poter contare su di lei. » «Me ne occuperò domattina appena arrivo in sede», disse. « Ma, naturalmente, ci vorrà qualche giorno. » Ancora una volta stavano comportandosi come se fossero soli: parlavano a voce bassa, con un'intensità che andava oltre la lettera delle parole. « Caro, adesso sarà meglio lasciare la signora Courteney, che deve prepararsi al viaggio », interloquì Isabella dalla sua sedia, ed egli sobbalzò come se avesse dimenticato la presenza della moglie. « Sì, certo. Ce ne andiamo subito. » Centaine li accompagnò fino al punto in cui era parcheggiata la Chevrolet di Blaine, sotto l'unico lampione che c'era nei pressi. Camminava accanto alla sedia a rotelle di Isabella. « Sono molto lieta di averla rivista, signora Malcomess; mi piacerebbe conoscere anche le sue figlie. Perché non me le porta a Weltevreden la prossima volta che fa un salto a Città del Capo? » « Eh, chissà quando potremo tornare laggiú, purtroppo », declinò cortesemente Isabella. « Mio marito è sempre preso dai doveri
della sua nuova carica. » Raggiunsero il veicolo in attesa e mentre l'autista teneva aperta la portiera posteriore Blaine sollevò Isabella dalla sedia e la depositò sul sedile. Poi chiuse lo sportello e si rivolse a Centaine. Voltava le spalle alla moglie, e l'autista stava sistemando la sedia a rotelle nel bagagliaio. Per il momento erano soli. « E una donna meravigliosa. Coraggiosissima », disse stringendo la mano a Centaine. « Io l'amo e non la lascerò mai: però vorrei... » S'interruppe. La sua stretta sulle dita di Centaine era quasi dolorosa. «Si», rispose Centaine parlando altrettanto piano. «Anch'io vorrei... » e fremette dal dolore della stretta di mano. Che finì fin troppo presto. Blaine fece il giro della macchina mentre Centaine si chinava a parlare alla giovane invalida dal finestrino aperto. « La prego, non dimentichi il mio invito », cominciò, ma Isabella avvicinò il volto e la sua bella maschera serena crollò rivelando odio e terrore. « E' mio », disse. « Non l'avrai mai. » Poi tornò ad appoggiarsi alla spalliera mentre Blaine si sedeva accanto a lei, prendendole la mano. La Chevrolet partì, coi gagliardetti del governo al vento, e Centaine rimase in piedi sotto il lampione a guardarla andar via. Lothar De La Rey dormiva con la cuffia collegata al telegrafo accanto alla testa, sicché al primo bip si svegliò e se la mise, gridando a Swart Hendrick: « Accendi una candela: stanno trasmettendo. A quest'ora di notte sarà certo importante ». Tuttavia era ancora impreparato al tenore del messaggio. Lo decifrò dal taccuino trasecolando: « Comitato lotta capeggiato da Gerhard Fourie... sciopero... » Lesse e rilesse il telegramma di Twentyman-Jones. «Gerhard Fourie. Ma a che gioco sta giocando, miserabile bastardo!? » si chiese ad alta voce, poi saltò fuori dalla trincea scavata nel ciglione e prese a camminare nervosamente sulla sabbia, riflettendo. « Uno sciopero... perché mai ha indetto uno sciopero proprio adesso? Spedizione impossibile. Significa certo i diamanti: gli scioperanti bloccano l'invio delle pietre alla De Beers. » Si tirò un pugno sul palmo della mano. « Eh già! Ecco il motivo di tutto! Ha deciso lo sciopero per far saltare il nostro accordo. Non ha il coraggio di venirmelo a dire, perché sa che lo ucciderei, e allora ha escogitato il trucchetto. Non ci sta piú, la rapina è impossibile. » Si fermò nel buio letto asciutto del fiume, mentre una furia ancora piú nera lo sommergeva. « Tutti i rischi che ho corso, tutto il tempo, il lavoro, le privazioni, il furto dei cavalli... tutto per niente, tutto sprecato, per colpa di un vigliacco da due soldi... » Se Fourie fosse stato li presente, gli avrebbe sparato senza esitare. «Baas!» lo chiamò gridando Hendrick. «Corri, il telegrafo va! » Lottar schizzò alla trincea, afferrò la cuffia e si mise a trascrivere il messaggio, che stavolta - ormai riconosceva lo « stile » degli operatori - veniva da Windhoek.
PER VINGT STOP TORNO A TUTTA VELOCITA' STOP NON FACCIA CONCESSIONI NE' PROMESSE STOP SI ACCERTI CHE TUTTI DIPENDENTI LEALI SIANO ARMATI E PROTETTI CONTRO OGNI INTIMIDAZIONE STOP ASSICURI LORO MIA CONCRETA GRATITUDINE STOP CHIUDA IMMEDIATAMENTE SPACCIO AZIENDALE NON SI VENDA PIU' CIBO NE' ALTRO A SCIOPERANTI E FAMILIARI STOP TAGLIARE ACQUA E CORRENTE ELETTRICA ALLE CASE STOP INFORMARE COMITATO CHE REPARTO POLIZZIA IN ARRIVO FINE GIUNONE. A dispetto di se stesso e della sua rabbia contro Fourie, Lothar gettò indietro la testa e si fece una grassa risata, divertito e ammirato. « Fourie e i suoi scioperanti non sanno con chi hanno a che fare », sghignazzò. « Perdio, preferirei stuzzicare un mamba con un bastone troppo corto che tagliare la strada a Centaine Courteney in questo momento. » Cessò di ridere e si mise a riflettere un momento, poi parlò con calma a Hendrick e Manfred. « Ho la sensazione che quei diamanti partiranno per Windhoek, sciopero o non sciopero. Ma non credo che sarà Fourie a portarli. Ho idea che come autista sia finito. Quindi non avremo di fronte una scorta ragionevole e beneducata che ci porgerà il pacchetto dei diamanti come credevamo. Ma i diamanti passeranno di qua, e noi non ce ne andremo certo. » La Daimler gialla passò alle undici della sera seguente. Lothar ne contemplo i fari avvicinarsi, abbagliarlo, gettarsi nella discesa, attraversare il letto secco del fiume, risalire e scomparire dall'altra parte, nella pianura sconfinata; ne udì il motore urlare nelle marce basse inserite di scatto in discesa e in salita, e poi rombare al massimo e svanire pian piano a nord-est, in direzione della miniera H'ani. Lothar accese un fiammifero e guardò l'orologio. «Diciamo che è partita da Windhoek un'ora dopo il suo telegramma. Vuol dire che è arrivata qui guidando ininterrottamente per ventidue ore, su queste strade, col buio. » Fischiò sommessamente. « Se continua così, sarà alla miniera H'ani prima di domani a mezzogiorno. Sembra impossibile. » Le alture azzurre si alzarono dalla fata morgana davanti a Centaine, ma stavolta la loro magia era impotente a turbarla. Era ormai al volante da trentadue ore, con brevi intervalli di riposo quando faceva benzina alle stazioni di posta, salvo una volta che si era fermata a dormire due ore sul ciglio della pista. Era stanca. Rannicchiata sul sedile di pelle della Daimler, le facevano male le ossa, le bruciavano gli occhi come se glieli avessero scottati con dell'acido, e le si piegavano le spalle quasi fossero gravate da una cotta di maglia di ferro. Ma l'ira la sospingeva, e quando scorse i tetti di lamiera degli edifici della miniera che scintillavano al sole ogni stanchezza l'abbandonò. Arrestò la Daimler e scese sulla strada per sgranchirsi un pò, pompando a forza sangue fresco negli arti irrigiditi. Poi ruotò lo specchietto retrovisivo esterno e si esaminò il viso. Aveva gli occhi
iniettati di sangue e pieni di granuli di muco agli angoli. Era di un pallore mortale, esangue e sabbioso. La stanchezza quasi l'annichiliva. Intinse una pezzuola nell'acqua della borraccia di tela e si ripulí la pelle dalla sabbia. Poi prese il collirio azzurrino dalla borsa e se lo mise, rendendo nuovamente limpidi e luminosi gli occhi. Quindi picchiettò le guance inducendo il sangue a riaffluirvi. Sbatté il foulard che le ricopriva la chioma e tolse lo spolverino bianco che le arrivava fino alle caviglie. Eccola di bel nuovo elegante e del tutto immune dalla sabbia e dalla polvere del viaggio, piú che mai pronta ad attaccare briga con chicchessia. Agli angoli delle strade si raccoglievano gruppi di donne e bambini. La guardarono con aria accigliata e apprensiva mentre li superava diretta agli edifici della direzione. Sedeva tutta rigida al volante guardando dritto davanti a sé. Avvicinandosi agli uffici vide gli uomini del picchetto, che oziavano sotto gli alberi presso il cancello, ricomporsi in fretta e furia. Il picchetto era composto di almento venti persone, quasi tutti prestanti tecnici bianchi della miniera. Formarono catena attraverso la strada guardandola in faccia con espressione minacciosa. « Non si passa! Non si passa! » presero a scandire, mentre lei rallentava. Vide che quasi tutti erano armati di mazze e bastoni. Centaine schiaffeggiò col palmo il pulsante del clacson che si mise a urlare come un elefante ferito, e partí con l'acceleratore a tavoletta puntando in mezzo alla catena umana. Quelli del centro scorsero la sua faccia dietro il parabrezza e compresero che li avrebbe investiti di sicuro. All'ultimo momento si dispersero. Uno gridò: « Vogliamo il nostro lavoro! » e vibrò un colpo di mazza sul finestrino posteriore della Daimler, che si infranse sul sedile di pelle: ma Centaine era passata. Frenò davanti alla veranda dell'amministrazione mentre Twentyman-Jones ne usciva sistemandosi giacca e cravatta. « Non l'aspettavamo prima di domani! » « Ma gli amici sí che mi aspettavano », disse Centaine indicandogli il finestrino rotto. La voce di Twentyman-Jones si fece acuta per l'indignazione. « L'hanno aggredita? E' imperdonabile! » « Sono d'accordo », disse. « E non li perdonerò di sicuro. » Twentyman-Jones portava una grossa pistola militare alla fondina che gli batteva sull'anca sparuta. Dietro di lui apparve il signor Brantingham, un omino, che teneva i conti, con la testa pelata come un uovo di struzzo e grossissima in confronto alle spallucce tonde. Dietro il suo pince-nez cerchiato d'oro si vedeva che era sul punto di scoppiare a piangere, ma nelle manine mollicce aveva una doppietta carica. « Lei è un uomo coraggioso », gli disse Centaine « Non dimenticherò la sua fedeltà. » Condusse Twentyman-Jones nel suo ufficio e sedette a riflettere alla scrivania. « Quanti altri uomini abbiamo dalla nostra? » « Solo gli otto impiegati dell'amministrazione. Tecnici e minatori scioperano tutti, benché alcuni, a mio giudizio, non troppo volen-
tieri. » « Anche Rodgers e Maclear? » Erano i soprastanti piú anziani. « Sono là fuori anche loro? » « Temo di sí. Fanno parte entrambi del comitato di lotta. » « Con Fourie? » « Sono i tre caporioni. » « Farò in modo che non lavorino mai piú », disse amara la donna, mentre Twentyman-Jones abbassava gli occhi e precisava: « Bisognerà sforzarsi di tener presente che non violano la legge. Hanno diritto di astenersi dal lavoro, e di trattare collettivamente... » « Non quando sto sforzandomi di mandare avanti la miniera in crisi. Non quando sto cercando di garantire il lavoro anche in futuro almeno a qualcuno di loro. E non dopo che ho fatto per loro tutto quello che ho fatto. » « Purtroppo temo che abbiano il diritto di scioperare lo stesso », insistè lui. «Ma insomma, si puo sapere da che parte sta lei, dottor Twentyman-Jones!? » Egli parve mortificato. « Lei non dovrebbe farmi una domanda simile », disse. « Sono stato dei suoi fin dal primo momento. Lo sa bene. Stavo solo illustrandole la sua posizione legale. » Subito pentita, Centaine si alzò e gli posò la mano sul braccio per consolarlo. « Mi perdoni. Sono stanca e nervosa. » Si era alzata di colpo e adesso il sangue le defluiva dal capo. Impallidì paurosamente e barcollò. Twentyman-Jones la sorresse. « Quanto tempo è che non dorme? Ha guidato senza sosta da Windhoek! » La condusse al sofà di pelle e la costrinse delicatamente a sedervisi. « Adesso deve dormire per almeno otto ore. Le farò portare degli indumenti puliti dal suo bungalow. » « Devo parlare ai caporioni. » « No. » L'uomo scosse la testa tirando le tende. « Non finché non sarà tornata forte e riposata. Altrimente potrebbe commettere degli errori di valutazione. » Centaine si coricò, massaggiandosi gli occhi coi polpastrelli. « Lei ha ragione, come sempre, dottor Twentyman-Jones » gli disse. « La sveglierò stasera alle sei, informando il comitato di agitazione che li riceverà alle otto. Questo ci darà due ore per decidere la nostra strategia. » I tre membri del comitato di lotta entrarono nell'ufficio di Centaine, e lei li guardò per tre minuti buoni prima di parlare. Aveva deliberatamente fatto rimuovere tutte le sedie, tranne quelle dove sedeva lei e Twentyman-Jones. Gli scioperanti erano così costretti a stare in piedi davanti a lei come scolaretti. « Attualmente in questo paese ci sono piú di centomila disoccupati », esordì spassionatamente. « Ognuno di loro verrebbe a prendere il vostro posto in ginocchio. »
« Lasci perdere 'ste stronzate, con noi non attacca », disse Maclear. Era un tipo dall'aria alquanto anonima, di corporatura media ed età incerta. Centaine sapeva però che era intelligente, serio e pieno di risorse. Avrebbe preferito non trovarselo di fronte, ma schierato dalla sua. « Se intende usare questo linguaggio volgare di fronte a me, signor Maclear, può uscire anche subito. » « Non attacca nemmeno questo, signora Courteney », disse con un sorrisetto di apprezzamento per il suo spirito battagliero. « Lei conosce i nostri diritti, e li conosciamo anche noi. » Centaine guardò Rodgers. « Come sta sua moglie, signor Rodgers? » L'anno prima le aveva pagato il viaggio fino a Johannesburg, per farsi operare all'addome da un luminare della chirurgia. Rodgers l'aveva accompagnata, pagato e spesato di tutto. « Sta bene, signora Courteney », disse timidamente il minatore. « E che cosa ne dice di questa vostra pazzia? » L'uomo abbassò gli occhi. « E' una donna giudiziosa », continuò Centaine. « Secondo me si preoccupa, e giustamente, del futuro dei vostri tre bambini. » « Guardi che siamo perfettamente d'accordo tra noi », interloquì Fourie. « Siamo tutti solidali, e le donne stanno dalla nostra parte. Può darci un taglio a tutte queste ba... » « Prego, non m'interrompa quando sto parlando, signor Fourie. » « Sa, non le servirà a un bel niente fare la gran dama altezzosa con noi », disse Fourie. « Abbiamo in mano lei, la miniera e i diamanti. E' lei che deve starci ad ascoltare quando parliamo, e questo è quanto. » Rise, strafottente, guardando i compagni per ottenerne l'incoraggiamento. Ma il suo sorriso celava qualche preoccupazione. Da una parte c'era il pericolo di Lothar De La Rey. Se non riusciva a trovare la scusa buona per non far la sua parte nel colpo, sapeva che era un uomo morto. Doveva portare avanti lo sciopero finché non si presentava qualcun altro a trasportare i diamanti, togliendolo d'impaccio. « Lei non potrà spedire nemmeno una pietra da questa miniera finché non glielo diremo noi, signora. Li tratteniamo come ostaggi. Sappiamo benissimo che in cassaforte ci sono diamanti preziosissimi, e dovranno restarci finché non avrà il buon senso di ascoltare quello che abbiamo da dire. » Era un conoscitore di caratteri abbastanza buono da sapere come poteva reagire Centaine Courteney a una simile minaccia. Centaine studiò attentamente il suo volto. C'era qualcosa che suonava falso nei suoi modi, qualcosa di contorto e ipocrita. Stava provocandola in maniera fin troppo aggressiva e deliberata. « Va bene », cedette. « Vi ascolterò. Ditemi cosa volete. » Restò tranquillamente seduta mentre Fourie leggeva la lista delle richieste. Il volto di Centaine era impassibile: gli unici segni della sua ira, che Twentyman-Jones conosceva benissimo, erano l'irrorazione sanguigna che le arrossava lievemente la gola e il battito ritmico e regolare del piede sul pavimento. Fourie arrivò alla fine e ci fu un altro lungo silenzio. Poi le porse il documento. « Eccole una copia. »
« La metta sulla scrivania », ordinò lei, disdegnando di toccarla. « Le persone licenziate il mese scorso da questa miniera hanno avuto tre mesi di paga invece del preavviso », disse. « Tre volte di piú della liquidazione a cui avevano diritto. Hanno avuto anche buone referenze da parte nostra, lo sapete bene. » « Sono nostri compagni », disse ostinato Fourie. « Alcuni anche parenti. » « E va bene. » Annuì. « Avete messo in chiaro la vostra posizione. Adesso potete anche andarvene. » Si alzò e i tre si guardarono costernati. « Non ci dà risposta? » chiese Maclear. « Ve la darò », annuì lei. « E quando? » « Quando sarò pronta e non prima. » Si avviarono verso la porta, ma prima di arrivarci Maclear si girò e la guardò arditamente. « Hanno chiuso lo spaccio aziendale e tagliato acqua e luce alle nostre case », le disse in faccia. « Per mio ordine », annuì lei. « Lei non può farlo. » « Non vedo perché. Spaccio, generatore e pompa dell'acqua sono miei, come pure le vostre case. » « Abbiamo moglie e bambini da nutrire. » « Dovevate pensarci prima di scioperare. » «Sa, possiamo anche prenderci tutto se vogliamo. Diamanti compresi. Lei non ci può fermare. » « Fatemi contenta », li invitò. « Fatelo. Entrate con la forza nello spaccio e portate via tutto. Fate saltare la stanza del tesoro e prendetevi i diamanti. Aggredite chi mi è fedele. Niente mi piacerebbe di piú che vedervi tutti sulla forca o all'ergastolo. » Appena rimasero soli si rivolse a Twentyman-Jones. « Hanno ragione. La prima e unica preoccupazione sono i diamanti. Devo assolutamente farli arrivare sani e salvi nella cassaforte della banca a Windhoek. » « Possiamo mandarceli sotto scorta della polizia », concordò lui, ma Centaine scosse la testa. « Ci vorranno forse piú di cinque giorni perché la polizia arrivi. Conosco la burocrazia. No, voglio quei diamanti lontano di qui prima dell'alba di domani. Lei sa che l'assicurazione non copre i danni provocati da sommosse e agitazioni. Se succede qualcosa a quei diamanti sono rovinata, dottor Twentyman-Jones. Sono il mio sangue e la mia vita. Non posso rischiare che cadano in mano di questi bruti arroganti e ignoranti. » « Mi dica che cosa ha in mente. » « Voglio che lei porti la Daimler nel garage sul retro. La faccia controllare e rifornire di benzina. Caricheremo i diamanti dalla porta posteriore. » Indicò sulla parete dell'ufficio la porta nascosta che usava talvolta, quando voleva evitare di essere vista entrare o uscire. « A mezzanotte, quando il picchetto dorme della grossa, lei taglierà il filo spinato proprio di fronte alla porta del garage. » « Benissimo. » Aveva capito le sue intenzioni. « In tal modo arri-
veremo sul viottolo delle latrine. Il picchetto è dall'altra parte dell'edificio, al cancello principale. Sul retro non hanno messo nessuno. Sbucando all'improvviso dal viottolo non sarà difficile imboccare la strada per Windhoek. Ci sganceremo in pochi secondi. » « Non noi, dottor Twentyman-Jones », precisò Centaine, mentre lui si metteva a fissarla. « Non vorrà mica andare da sola? » « Sono appena arrivata da sola, rapidamente e senza la minima noia. Non vedo nessun problema anche a tornare. Lei mi serve qui. Sa benissimo che non si può lasciare la miniera in mano a Brantingham o a uno degli altri impiegati. Lei deve restare qui a fronteggiare gli scioperanti. Senza di lei, potrebbero far saltare la miniera o le macchine. Basterebbero due candelotti di dinamite. » L'uomo si spazzò la faccia col palmo della mano, dalla fronte al mento, nel tormento dell'indecisione, lacerato da due doveri contrastanti: la miniera che aveva costruito dal nulla e che era il suo orgoglio, e la donna che amava teneramente come una figlia o la moglie che non aveva mai avuto. Aveva ragione lei: bisognava fare così. « E allora prenda con se qualcun altro », la scongiurò. « Chi, Brantingham, che Dio lo benedica? » chiese alzando le sopracciglia. Anche Twentyman-Jones dovette ammettere che l'idea era ridicola. « Vado a mettere la Daimler nel garage », disse. « Poi spedirò un telegramma ad Abe a Windhoek, ché le mandi incontro una scorta a metà strada: se gli scioperanti non hanno ancora tagliato i fili del telegrafo. » « Non lo mandi finché non mi sarò sganciata », disse Centaine. « Gli scioperanti possono aver avuto il buon senso di piazzare una derivazione sulla linea, e forse è proprio per questo che non l'hanno ancora tagliata. » Twentyman-Jones annuì. « Molto bene. A che ora intende partire? » « Alle tre di stanotte », rispose senza esitare. Era l'ora in cui la vitalità umana è al minimo: probabilmente il picchetto sarebbe stato colto di sorpresa dalla contromossa improvvisa. « Benissimo, signora Courteney. Le farò preparare dal cuoco una cena leggera, e poi le consiglio di tornare a dormire un pò. Penseremo noi a preparare tutto e la sveglieremo alle due e mezzo. » Si destò non appena Twentyman-Jones le sfiorò la spalla, e si mise seduta. « Le due e mezzo », disse l'uomo. « La Daimler è pronta e i diamanti caricati. Il filo spinato è tagliato. Le ho preparato un mastello pieno d'acqua calda per fare il bagno in ufficio e degli indumenti puliti presi nel suo bungalow. » « Sarò pronta in un quarto d'ora », disse lei. Nel garage buio parlottarono accanto alla Dalmler. Le doppie porte erano aperte e una falce di luna illuminava debolmente il cortile. « Ho segnato il varco nel recinto. Vede quei nastrini bianchi sul filo spinato? »
Centaine li scorse senza difficoltà a una cinquantina di passi. « Le casse di diamanti industriali sono nel bagagliaio, ma le pietre migliori sono nella cassetta di sicurezza sul sedile accanto al suo. » Aveva le dimensioni di una valigetta ma era di acciaio laccato, con una serratura d'ottone. « Bene. » Centaine si abbottonò lo spolverino e s'infilò i guanti da guida di camoscio morbido. « La doppietta è caricata con pallini del dieci, per i passeri, sicché può sparare a chiunque cerchi di fermarla senza rischiare di commettere un omicidio. Gli darà semplicemente una bella sventola. Ma se è il caso di fare sul serio lí ci sono le cartucce a pallettoni », disse indicando lo scomparto dei guanti. Centaine scivolò al posto di guida e chiuse pian piano la portiera, per non essere udita nel silenzio della notte. Piazzò la doppietta sopra la cassetta dei diamanti, dopo aver tolto la sicura. « Nel bagagliaio c'è un cestino pieno di panini e un termos di caffè. » Lo guardò per il finestrino e, seria, gli disse: « «Sei la mia torre» ». « Non corra rischi inutili », le rispose lui. « I diamanti non contano, se ne possono estrarre tanti altri. Lei invece è unica, non ce n'è un'altra come lei. » D'impulso tirò fuori la rivoltella e l'infilò nella tasca dietro il sedile del guidatore. « E' l'unica assicurazione che le posso offrire. Si ricordi che ha già il colpo in canna », disse. « Speriamo non debba servirsene. » Fece un passo indietro e le rivolse un laconico saluto. « E ora fili via a tutta velocità. » Centaine mise in moto la Daimler e il potente motore da sette litri cominciò a brontolare piano. Tolse il freno a mano, accese i fari e fece scattare la Daimler fuori dalle porte doppie e per il cortile, innestando le marce una dopo l'altra con abilità da corridore. Mirò il varco segnalato dai nastrini bianchi e ci sfrecciò attraverso a settanta all'ora, incurante dei baffi di filo spinato che le graffiavano la carrozzeria. Poi calcò sul freno e girò il volante, piazzando le ruote anteriori sul viottolo di terra battuta. Come si accorse di averle inserite nei solchi, accelerò e la Daimler scattò in avanti rombando a tutta velocità. Sopra il rombo del motore si udirono delle grida soffocate. Centaine vide sagome scure e indistinte di scioperanti accorrere lungo il recinto del cancello principale per cercare di intercettarla allo sbocco del viottolo sulla strada. Prese in mano la doppietta e appoggiò la canna al finestrino. Adesso i fari illuminavano uomini in corsa, con le facce stravolte dalla rabbia e il nero della bocca aperta a gridarle insulti. Due piú svelti degli altri raggiunsero l'imbocco proprio mentre la Daimler ci arrivava. Il primo scagliò il manico di piccone di cui si era armato contro la macchina. Il bastone roteò in aria, illuminato dai fari, e rimbalzò clamorosamente sul cofano della Daimler. Centaine abbassò la doppietta, mirò alle gambe, e sparò con ambo le canne. Due forti boati, due lunghe lingue di fuoco: i pallini staffilarono gli scioperanti che urlando di dolore e stupore saltarono via, mentre Centaine li superava con un rombo e svoltava im-
boccando la discesa per il deserto. PER AZZECCAGARBUGLI STOP PRECEDENZA ASSOLUTA STOP GIUNONE PARTITA SOLA CON MERCE ORE TRE ANTIMERIDIANE PRECISE STOP MANDALE SUBITO INCONTRO SCORTA ARMATA FINE VINGT Lothar De La Rey fissò il messaggio che aveva appena decifrato sul taccuino a lume di candela. « Sola », sussurrò. « Giunone sola. Con merce. Signore onnipotente, sta venendo sola, coi diamanti. » Fece un rapido calcolo. « Ha lasciato la miniera alle tre. Passerà di qui verso mezzogiorno o l'una al massimo. » Uscí dal riparo e salì sul ciglione, dove sedette a fumarsi un sigaro. Guardò il cielo. Una falce di luna tramontava lentamente sul deserto. Quando l'alba tramutò l'orizzonte orientale in una coda di pavone dai mille colori, scese al campo e riattizzo il fuoco dalla brace della notte. Swart Hendrick uscì dalla trincea e andò a orinare rumorosamente nella sabbia. Si avvicinò al fuoco abbottonandosi le braghe, sbadigliando della grossa e odorando il caffè che già bolliva. « Si cambia piano », annunciò Lothar, e Hendrick si riscosse per ascoltare. « Perché? » « I diamanti li porta la donna, da sola. Non cederà tanto facilmente, ma non voglio farle alcun male. » « Non le sparerò. » « Ti conosco, quando ti ecciti spari sempre », tagliò corto Lothar. « Ma non è l'unica ragione. » Enumerò le altre aiutandosi con le dita. « Primo: per una donna sola basta un uomo solo. Abbiamo tutto il tempo di risistemare le funi in modo che io possa far cadere i massi sulla strada da dove mi apposterò. Secondo: quella donna ti conosce, meglio che non possa poi accusarti. Terzo », e qui si interruppe, perché la vera ragione era che voleva star solo un'altra volta con Centaine. Sarebbe stata sicuramente l'ultima, giacché dopo un colpo del genere gli sarebbe toccato cambiar aria. « Faremo così perché così ho deciso. Tu rimarrai qui con Manfred e i cavalli, pronto a filare non appena arriverò io. » Hendrick alzò le spalle. « Ti aiuto a risistemare le funi », borbottò. Centaine arrestò la Dalmler in cima al costone e lasciando il motore acceso salì sul predellino per dare un'occhiata al passaggio. Le tracce del suo arrivo erano ancora chiare, nette e intatte nella sabbia giallo limone. Sulla strada non era piú passato nessuno. Sganciò la borraccia di tela e bevve tre sorsi, poi la tappò di nuovo e la riappese al perno della ruota di scorta. Risalì in macchina, chiuse la portiera e tolse il freno a mano. Lasciò che la Daimler si avviasse da sola giú per la discesa scavata tra le rocce, prendendo sempre piú velocità, quando all'improvviso si udì un boato e si alzò una nuvola di polvere. Frenò. Una grossa frana le aveva appena sbarrato la strada.
«Merde! » imprecò. Chissà quanto tempo avrebbe perso a trovare un altro passaggio o liberare la strada. Con una specie di cazzotto inserì la retromarcia, girò la testa e si preparò a rinculare fino in cima alla salita. Fu in quella che contro le costole sentì frullare il primo fremito d'allarme. Il costone era franato anche dietro alla Daimler, intrappolandola. Sporse la testa dal finestrino e si guardò intorno angosciata, tossendo nel polverone che ancora aleggiava intorno al veicolo. Quando la polvere si abbassò, Centaine vide che la strada era bloccata sì, ma solo parzialmente. Restava un pertugio che, debitamente allargato con pala e piccone (in dotazione alla macchina) le avrebbe forse consentito il passaggio. La prospettiva di qualche ora di duro lavoro sotto il sole cocente non la rallegrava certo, ma non la scoraggiava nemmeno. Afferrò la maniglia della portiera e un'altra premonizione di pericolo l'attraversò. S'interruppe e diede un'occhiata dalla parte opposta, verso il costone che fiancheggiava la strada. C'era un uomo che la guardava. I suoi stivali, all'altezza degli occhi di lei, erano logori e impolverati. Sulla camicia azzurra si spandevano scure macchie di sudore. Era un uomo alto, dall'aria agile e vigorosa di cacciatore o di soldato. Ma quello che piú la spaventava era il fucile che le puntava in faccia, e la maschera che indossava. Non era che un sacchetto di farina, su cui si leggeva ancora la scritta: Molini Premier. Articolo familiare, che però i buchi per gli occhi che ci aveva ritagliato caricavano di minaccia. Maschera e fucile parlavano chiaro. Tutta una serie di pensieri le balenarono in mente come fuochi artificiali mentre sedeva immobile al volante, fissandolo. I diamanti non sono assicurati. Era il primo pensiero. La prossima stazione di posta è a sessanta chilometri, il secondo pensiero. La doppietta è scarica era il terzo penserio, perché non l'aveva piú ricaricata. L'uomo sopra di lei parlò con voce chiaramente contraffatta. « Spegni il motore! » Sottolineò l'ordine con un secco movimento del fucile. « Scendi dall'auto! » Ella scese e si guardò attorno disperata, non piú atterrita ormai, per l'urgenza di pensare e agire. Puntò gli occhi sul pertugio che si riproponeva di allargare. « Magari ci passo », pensò. Comunque ci provo. Saltò di scatto in auto. « Ferma! » gridò l'uomo che incombeva su di lei, ma già Centaine aveva inserito la prima. Le ruote posteriori alzarono due fontane gemelle di polvere giallastra. La Daimler partí scodinzolando e slittando, ma in breve prese velocità mentre Centaine mirava l'angusto varco tra la frana e la costa. Sentí l'uomo gridare ancora, e poi sparare un colpo d'avvertimento che passò alto sulla macchina. Lo ignorò per concentrarsi sul tentativo di condurre l'auto fuori della trappola. Piazzò le ruote sul costone inclinato e la Daimler rischiò di rove-
sciarsi sul fianco, ma la velocità aumentò ancora. Centaine, aggrappata al volante, riusciva a stento a restare sul sedile, mentre la grossa vettura si inclinava sempre di piú. Ma il varco restava troppo stretto. Le altre ruote andarono a sbattere contro la pila di sassi, anche piuttosto grossi, della frana e la vettura s'impennò come un grottesco cavallo meccanico che, incapace, cerchi di saltare un ostacolo. Centaine fu scagliata contro il parabrezza e riuscí a stento a ripararsi la faccia con la mano, mentre con l'altra si aggrappava al volante L'auto atterrò con un cozzo raccapricciante, facendo sbattere di nuovo contro il sedile Centaine. Sentí la dura roccia urtare contro il ventre della Daimler e straziarlo, come un peso massimo che riceva una inopinata gragnuola sotto la cintura, mentre le ruote posteriori slittavano inani sul terriccio smosso proiettando sassaglia su cui non riuscivano a far presa. Poi a un tratto ci riuscirono e la Daimler fu di nuovo proiettata avanti. Balzò oltre l'ostacolo, cadde dall'altra parte e picchiò forte. Centaine sentí rompersi qualcosa, era la barra dello sterzo, dopo di che il volante le rimase lasco e inutilizzabile in mano. La Daimler era riuscita a superare la barriera, ma era mortalmente ferita, ingovernabile e con l'acceleratore bloccato. Centaine urlò aggrappandosi al cruscotto di noce mentre l'auto si gettava rombando verso il letto asciutto del fiume in fondo alla discesa, sbattendo da una parte e dall'altra contro le pareti di roccia, mentre lei cercava di afferrare la chiave per spegnere il motore ma, sballottata sul sedile del passeggero, non ci riusciva. L'angolo d'acciaio della cassetta dei diamanti le trafisse le costole, poi fu ributtata dall'altra parte. La portiera di fianco a lei si aprí appena la Daimler sbucò dal varco intagliato nella roccia sul letto sabbioso del fiume, e Centaine fu scagliata fuori. Istintivamente si raggomitolò come chi cada da cavallo al galoppo, e caprioleggiò sulla morbida sabbia bianca, fermandosi alfine in ginocchio. La Daimler proseguiva impazzita sul letto del fiume, col motore che rombava ancora e una delle ruote davanti, danneggiate dalle pietre della barriera, che si staccava rotolando e saltando come un animale selvatico fino a sbattere contro la riva opposta. L'avantreno della Daimler collassò e l'auto finí col muso nella sabbia. Poiché il motore spingeva sempre forte, il grosso veicolo fece una capriola e si rovesciò nella sabbia: mentre le ruote giravano ancora vorticosamente, i cristalli si schiantarono sotto il peso del telaio e del motore. Getti di olio surriscaldato sfrigolavano schizzando sulla sabbia. Centaine si alzò in piedi e si mise a correre come il vento, ancora spinta dai rotoloni del volq, ma la sabbia le afferrò le caviglie come una morsa. Era come correre in una vasca di melassa: inoltre, il terrore le aveva aguzzato i sensi, sicché ogni minimo istante si dilatava fino a sembrarle eterno. Le pareva di essere caduta in uno di quei tremendi incubi in cui ci si muove al rallentatore nonostante ogni sforzo. Non osò guardarsi indietro. Sicuramente la minacciosa figura mascherata doveva esserle vicina. Si contrasse in attesa della mano che
fra breve l'avrebbe ghermita, o della pallottola che l'avrebbe colpita alla schiena, ma riuscí a raggiungere la Daimler e a inginocchiarsi accanto ai finestrini rotti. Al posto di guida era stata addirittura divelta la portiera, e ci striscio dentro. Prese la doppietta e aprí freneticamente lo scomparto dei guanti afferrando la scatoletta di cartone rosso con su scritto a lettere nere: ELEY KYNOCH CAL. 12 25 CARTUCCE A PALLETTONI Aprì la confezione con dita impazienti e le cartucce rosse si rovesciarono nella sabbia tra le sue ginocchia. Col pollice schiacciò il bottoncino che faceva ripiegare la doppietta. Le cartucce vuote vennero espulse dalle canne con lo scatto secco degli eiettori e... la doppietta le fu strappata di mano. L'uomo mascherato l'aveva raggiunta. Doveva essere una specie di leopardo per arrivare così silenziosamente e così in fretta. Scagliò lontano l'arma, che atterrò nella sabbia a una cinquantina di passi: ma l'impeto del lancio lo sbilanciò e Centaine si gettò su di lui, alzandosi in piedi di scatto e colpendolo con una spallata sul petto, sotto il braccio levato con cui aveva buttato lontano il fucile. Fu colto di sorpresa, mentre si bilanciava su un piede solo. Rotolarono avvinti sulla sabbia. Per un istante Centaine gli fu sopra, e poi schizzò via, di nuovo in piedi, lanciandosi vaso la Daimler. Il motore andava ancora, diffondendo fumo azzurrino perché aveva perso quasi tutto l'olio e stava per fondere. La pistola! Centaine afferrò la maniglia della portiera posteriore. Dal finestrino vedeva la fondina e il cinturone di Twentyman-Jones nella tasca del sedile: ma la portiera era bloccata e non c'era verso di aprirla. Tornò al posto di guida e cerco di arrivarci di lì, ma dita d'acciaio le ghermirono la spalla e fu trascinata di peso fuori dell'abitacolo. Istantaneamente si voltò, e la sua faccia si trovò vicinissima a quella mascherata del rapinatore. Il sacchetto di farina gli copriva tutta la testa, sicché sembrava un adepto del Ku-Klux-Klan. I buchi per gli occhi erano neri come orbite di un teschio, ma nel profondo dell'ombra si intuiva lo scintillio di occhi umani, che subito cercò di cavare con le unghie ad artiglio. Lui tirò indietro la testa di scatto, ma le unghie ghermirono la maschera e gliela strapparono fino al mento. Il rapinatore la prese per i polsi. Invece di cercare di divincolarsi, Centaine gli si accostò tirandogli una ginocchiata all'inguine. Con una schivata l'uomo riusci a riceverla sul muscolo della coscia. Lei si accorse che il colpo aveva fatto male, ma la morsa che la stringeva non diminuì per niente: era come se fosse finita in una tagliola d'acciaio. Abbassò la testa e gli azzannò il polso, come una faina, tirandogli contemporaneamente calci e ginocchiate sugli stinchi e sotto la cintura, sempre colpendo però il duro dell'osso o del muscolo e rimbalzando via. L'uomo grugniva, cercando di tenerla a bada. Ovviamente non
si era aspettato una resistenza così selvaggia, e il polso straziato gli faceva un gran male. Anche a lei dolevano le mascelle per la forza che esercitava. Sentiva la carne lacerarsi sotto i denti, e il sangue che le si riversava in bocca a fiotti, col suo sapore di rame salato. Con la mano libera l'uomo mascherato la prese per i capelli ricci e cercò di tirarle indietro la testa. Lei respirava col naso, ansimando come un bulldog e stringendo i denti a tutta forza, finché non raggiunse l'osso. Le stridette sotto gli incisivi, mentre l'uomo, emettendo gemiti e grugniti disperati, continuava a darle strattoni per i capelli. Lei chiuse gli occhi, aspettandosi da un momento all'altro una mazzata sulla tempia che la costringesse a mollare, morta o svenuta, ma le reazioni dell'uomo erano stranamente misurate e gentili: non cercava di farle male, ma solo di sottrarsi al morso. Avvertì una specie di esplosione in bocca. Era arrivata all'arteria del polso e l'aveva lacerata. Il sangue sprizzava a potentissimi fiotti caldi contro il palato, minacciando di affogarla. Lo fece scorrere fuori dell'angolo della bocca senza mollare la presa. Si rivasava dalle sue labbra lordando entrambi, mentre lui le strattonava la testa di qua e di là. Ormai emetteva gemiti rauchi di dolore insopportabile, tale da farlo decidere infine alla rappresaglia. Le conficcò pollice e indice nei cardini della mascella e strinse forte. Le sue dita sembravano picche d'acciaio. Un lampo di dolore le fulminò la bocca schiattando dietro gli occhi e dovette mollare. Ancora una volta lo prese alla sprovvista arretrando di scatto e tuffandosi nella Daimler. Stavolta riuscì a infilare la mano nella tasca dietro il sedile e a raggiungere il calcio della pistola. L'arma scivolò subito fuori della fondina ingrassata, e mentre con mano tremante cercava di impugnarla bene, l'uomo mascherato da dietro la prese per i capelli e la tirò via con uno strattone selvaggio. La pistola le sfuggì dalle dita e cadde sbattendo contro la lamiera del tetto dell'auto rovesciata. Ancora si rivoltò contro di lui, cercando di addentargli il viso con gli incisivi e i canini già lordi del suo sangue. La maschera strappata cadde sugli occhi dell'uomo, accecandolo per un attimo mentre si gettava a terra stringendola tra le braccia. Lei graffiava e scalciava e tirava pugni ma l'uomo riuscì a inchiodarla spalle a terra premendola con tutta la sua forza e il suo peso, con le braccia aperte come un crocefisso: e di colpo lei smise di lottare e lo fissò. Attraverso i brandelli della maschera aveva scorto i suoi occhi, quegli strani occhi chiari color topazio dalle lunghe ciglia scure. Le sfuggì un gemito. « Lothar! » Lui si irrigidí per lo shock di udire il suo nome, e lí giacquero incastrati come amanti, le gambe incrociate, i bacini incollati, ansimando come mantici e tutti insanguinati, guardandosi senza parlare. Ad un tratto lui la lasciò e si alzò in piedi. Si tirò via la maschera e i riccioli d'oro gli ricaddero liberi sopra le orecchie e sulla fronte, mentre usava il sacchetto di farina per fasciarsi il polso. Si rese conto che la ferita era grave. Si vedevano tendini e osso, e la carne era maciullata. Rosso sangue arterioso imbevve in un attimo la tela bianca e co-
minciò a gocciolare al suolo. Centaine si drizzò a sedere e lo guardò. Il motore della Daimler s'era infine spento e tutto era silenzio salvo i loro ansiti. « Perché fai questo? » gli chiese in un bisbiglio. « Lo sai benissimo. » Annodo la benda di fortuna coi denti. In quella Centaine si gettò ancora verso la Daimler, cercando ostinatamente di impadronirsi della pistola; riuscì a sfiorarla prima che lui la raggiungesse, la tirasse fuori e la mandasse di nuovo per terra con una manata. Prese lui la pistola. Poi si legò la cinghia della fondina intorno all'avambraccio riuscendo a rallentare in maniera decisiva l'emorragia. « Dove sono? » disse guardando negli occhi la donna stesa a terra. « Di che stai parlando? » Si chinò nella Daimler e tirò subito fuori la cassetta metallica dei diamanti. « Le chiavi », disse. Lei si limitò a guardarlo con aria di sfida. Allora lui con calma piantò la cassetta nella sabbia, fece un passo indietro e sparò con la pistola. Il colpo echeggiò nel silenzio del deserto, facendo fischiare le orecchie a Centaine. La pallottola aveva asportato di netto la serratura della cassetta. Lothar mise in tasca la pistola e aprí il coperchio. Apparvero tanti pacchettini ordinatamente disposti. Le pietre erano avvolte in carta bruna spessa sigillata con la ceralacca. Lothar ne prese uno a caso con la mano sana, e lesse a voce alta la scritta che ci aveva tracciato Twentvman-Jones in bella calligrafia. 156 pezzi: totale 382 carati Strappò l'involto coi denti e lo scosse facendo cadere le pietre sul palmo della mano ferita. Alla violenta luce del giorno presentavano il chiarore saponoso tipico dei diamanti grezzi. « Belli », commentò intascandoli. Rimise il cartoccio mezzo vuoto nella cassetta con gli altri e chiuse il coperchio. « Che fossi un assassino lo sapevo, oggi vedo che sei anche un ladro. » « Tu mi hai rubato le barche e la ditta. Non venire a parlarmi di ladri. » Mise sottobraccio la cassetta e si alzò in piedi. Girò attorno alla macchina e, benché capovolta, riuscí ad aprirne il bagagliaio. « Brava, vedo che hai avuto il buon senso di portarti dietro una buona scorta d'acqua. Venti galloni ti durerebbero una settimana, ma tanto ti verranno a prendere prima. Abrahams ti manda incontro la scorta. Ho intercettato le relative istruzioni telegrafiche di Twentyman-Jones. » « Porco », sibilò lei. « Prima di andar via taglierò il filo del telegrafo, così capiranno che è successo qualcosa. Vedrai che te la cavi. » « Dio, come ti odio! » « Sta, vicino alla macchina. E' la prima regola per sopravvivere nel deserto. Non metterti a girare qua e là. Tra due giorni verranno
a prenderti, un vantaggio che mi basta. » « Credevo di odiarti già, ma solo adesso comincio a conoscere il vero significato della parola. » « Ah si? Potevo insegnartelo io », ribatté lui tranquillo, raccogliendo la doppietta abbandonata in mezzo alla sabbia. « Sai, ho finito per conoscerlo molto bene in tutti questi anni, allevando tuo figlio, quando era piccolo e senza madre. E poi quando sei tornata nella mia vita solo per distruggere tutto quello per cui avevo tanto lavorato e sognato. » Vibrò un colpo contro un macigno maneggiando la doppietta come una scure. Continuò a picchiare finché non si sfasciò, dopo di che la buttò. Mise il Mauser a tracolla e la cassetta dei diamanti sotto il bracciò buono. L'altro l'infilò nella camicia. Era evidente che gli faceva un gran male: sotto l'abbronzatura era pallido, e aveva la voce un pò malferma. « Ho cercato di non farti male. Se tu non avessi lottato... » S'interruppe. « Non ci vedremo mai piú. Addio, Centaine. » « Ci rivedremo », lo contraddisse lei. « Tu mi conosci e sai che non avrò pace finché non te l'avrò fatta pagare. » Lothar annuì. « Ci proverai, lo so. » Poi le voltò le spalle. « Lothar! » lo chiamò Centaine imperiosamente, poi, quando lui si voltò, addolcí il tono. « Facciamo un cambio: io ti ridò i pescherecci e la ditta liberi da ogni debito, e tu mi ridai i diamanti. » « Cattivo affare », sorrise tristemente lui. « Ormai la mia roba non vale piú niente, mentre i tuoi diamanti... » « Piú cinquantamila sterline e la promessa di non denunciarti. » Cercò di nascondere la disperazione che le incrinava la voce. « L'altra volta ero io che ti imploravo, ricordi? No, Centaine, anche se volessi, ormai non posso piú tornare indietro. Ho tagliato i ponti. » Pensava ai cavalli rubati, ma non poteva dirglielo. « Niente scambi. Ora devo andare. » « Metà dei diamanti... lasciane metà, Lothar. » « E perché? » « Per l'amore che un tempo abbiamo condiviso. » L'uomo rise amaramente. « Ti converrà trovare una ragione migliore di questa. » « E va bene. Se li prendi mi rovini, Lothar. Non posso superare una perdita del genere. Sono già in difficoltà, non riuscirò piú a risollevarmi. » « Anch'io ero in quelle condizioni quando mi hai portato via le barche. » Le voltò le spalle e si avviò verso la riva, mentre lei si alzava in piedi. « Lothar De La Rey! » gli gridò dietro. « Hai rifiutato la mia offerta, allora ascolta il mio giuramento. Giuro su Dio e chiamo tutti i santi a testimoni che non avrò pace né riposo finché non ti vedrò pendere dalla forca! » Non si voltò, ma lo vide incassare lievemente la testa tra le spalle alla minaccia. Poco dopo, proteggendo il braccio offeso, curvo sotto il peso del fucile e della cassetta dei diamanti, lo vide scomparire oltre la sponda. Ricadde nella sabbia, travolta dalla sua stessa reazione. Si accor-
se che tremava pazzamente e irrefrenabilmente. Scorno, sgomento, umiliazione e anche disperazione l'assalivano a ondate, come cavalloni oceanici che battano una spiaggia nella tempesta, ritirandosi e poi tornando con forza ancora maggiore. Si accorse di piangere: lacrimoni oleosi che scioglievano la polvere e il sangue raggrumato che aveva in faccia. Le lacrime la disgustarono come il sapore del sangue che sentiva ancora in gola. Il disgusto le diede la risolutezza e l'energia di superare lo shock, alzarsi in piedi e andare alla Daimler. Per miracolo la borraccia era ancora al suo posto. Lavò via lacrime e sangue e si sciacquò la bocca, sputando liquido rosa sulla sabbia del deserto. Già pensava d'inseguire Lothar. Però lui le aveva preso la rivoltella e spaccato la doppietta. « Non ancora... » ringhiò. « Ma prestò. Te l'ho giurata, Lothar De La Rey. » Girò intorno alla Daimler rovesciata, e con qualche difficoltà riuscì anche lei ad aprire il bagagliaio. Tirò fuori i due bidoni d'acqua da dieci galloni e le cassette di diamanti industriali, li portò all'ombra della riva e li seppellí nella sabbia per nasconderli e mantenere l'acqua fresca. Poi tornò alla Daimler e verificò, impaziente, l'equipaggiamento di sopravvivenza che portava sempre con sé. A un tratto le era venuta la preoccupazione che proprio stavolta fosse stato dimenticato o trascurato il necessario per collegarsi al filo telegrafico. Ma c'era, nella cassetta degli attrezzi, vicino al cric e alle chiavi inglesi. Col rotolo di filo e la sacca del trasmettitore seguí le tracce di Lothar sulla riva e trovò il posto dove aveva lasciato il cavallo. « Ha detto che avrebbe tagliato il filo del telegrafo... » Facendosi visiera con la mano guardò il letto del fiume. « Doveva immaginare che mi porto dietro il trasmettitore, e togliermelo... Cosí, non avrà piú i suoi due giorni di vantaggio. » Scorse la fila di pali telegrafici che tiravano dritto mentre la strada girava, allontanandosene, per superare il fiume asciutto. Le tracce del cavallo di Lothar andavano lungo la riva: si mise a seguirle di buon passo. Da cento metri di distanza vide l'interruzione della linea. I fili tagliati pendevano con curve loffie che turbavano la regolarità dell'infinita catenaria telegrafica. Accelerò il passo. Quando raggiunse il posto dove la linea attraversava il fiume, guardò in basso e riconobbe immediatamente i resti del campo di Lothar. Sulle ceneri fumanti era stata frettolosamente sparsa della sabbia, ma erano ancora calde. Mise per terra il rotolo di filo e la scatoletta del trasmettitore e scese giú dalla riva. Scoprì la trincea e capí che piú d'un uomo vi era rimasto nascosto per un bel pò di giorni. C'erano tre pagliericci d'erba secca. « Tre », ragionò. E subito capí. « Ha con se il suo bastardo. » Ancora non riusciva a pensare a Manfred come a un figlio. « E l'altro sarà certo Swart Hendrick. Lui e Lothar sono sempre stati inseparabili. » Uscí dal buco e per un pò restò indecisa. Ci sarebbe voluto del
tempo per collegare l'apparecchio al filo reciso, ed era importantissimo scoprire da che parte era scappato Lothar se voleva organizzare l'inseguimento con qualche prospettiva di tempestività e successo. Prese una decisione. « Mi attacco alla linea quando so da che parte mandarli. » Era improbabile che si fosse diretto a est, verso il Kalahari. Laggiú non c'era niente di niente. « Andrà a Windhoek », immaginò, e fece la prima ricognizione in quella direzione. La zona intorno al campo era piena di impronte di uomini e cavalli. Erano rimasti li per circa due settimane, giudicò. Solo quello che aveva imparato coi boscimani le consentí di decifrare il senso di quel labirinto di tracce. « Non hanno preso quella strada », stabilí infine. « Allora sono diretti a sud verso Gobabis e il fiume Orange. » Esegui la seconda ricognizione oltre il perimetro meridionale del campo, e quando non trovò alcuna traccia piú fresca di quelle del giorno innanzi si fermò guardando a nord. « Ma non può essere. » Era confusa. « Da quella parte non c'è niente fino al fiume Okavango e il territorio portoghese. I cavalli non riuscirebbero mai a superare il territorio dei boscimani. » Tuttavia eseguì un giro di ispezione anche da quella parte e quasi subito incappò in un'impronta fresca, chiaramente impressa nel terriccio. « Tre cavalieri con un cavallo di scorta a testa, passati non piú di un'ora fa. Lothar va a nord: se non è pazzo, ha organizzato qualcosa. » Seguì le tracce fresche per un paio di chilometri, per accertarsi che non fossero un espediente per dirottarla. Ma la pista puntava direttamente verso il baluginante miraggio e le fate morgane delle torride desolazioni settentrionali, e rabbrividì al ricordo delle prove che aveva superato là. « E' matto », sussurrò. « Ma io so che invece non lo è! Punta al confine angolano, la sua vecchia base di quando faceva il cacciatore di elefanti. Se raggiunge il fiume non lo becchiamo piú. Ha un sacco di amici da quelle parti, i mercanti portoghesi che gli compravano l'avorio. Stavolta Lothar avrà in tasca diamanti per un milione di sterline e tutto il mondo a disposizione per scegliersi un rifugio. Devo prenderlo prima che arrivi al fiume. » Il suo spirito vacillò davanti all'enormità del compito e sentì che la disperazione l'assaliva ancora. « Ha studiato benissimo il piano... tutto lo favorisce. Non lo prenderemo mai. » Scacciò la brutta bestia dello sconforto con uno sforzo di volontà. « Si che lo becchiamo. Dobbiamo beccarlo. Devo essere piú furba e fregarlo, anche solo per campare. » Girò sui tacchi e corse indietro al campo abbandonato. I fili telegrafici recisi erano caduti a terra. Prese i capi e li collegò col cavo che aveva portato, tirandoli appena in modo che non toccassero piú terra. Inserì correttamente il trasmettitore avvitando i terminali alle batterie. Erano state cambiate quando era partita da Windhoek, dovevano essere supercariche. Per un terribile momento la memoria la tradí e non trovò traccia dentro di se dell'alfabeto Morse: poi le tornò in mente di colpo e prese ad azionare rapidamente il tasto d'ot-
tone. GIUNONE PER VINGT RISPONDERE PREGO Per lunghi istanti in cuffia si udí solo silenzio, poi l'improvviso big della risposta: VINGT PER GIUNONE TRASMETTERE PREGO Cercando di esprimersi con il minor numero di parole possibile, informò Twentyman-Jones della rapina e della sua posizione, poi prosegui cosí: NEGOZIARE TREGUA CON SCIOPERANTI PER COMUNE INTERESSE RECUPERO MERCE STOP MANDARE CAMION PUNTA NORD BACINO O'CHEE E LOCALIZZARE CAMPO BOSCIMANI IN FORESTA MONGONGO STOP CAPO CHIAMASI KWI STOP DIRE KWI « BIMBA NAM KALEYA » RIPETO « BIMBA NAM KALEYA » - e qui ringraziò il cielo che la parola non richiedesse né bizzarre intonazioni né consonanti impreviste dal Morse tipo gli schiocchi di lingua dei boscimani: Kaleya era la piú urgente invocazione d'aiuto, una richiesta che nessun membro del clan avrebbe potuto ignorare - E POI VENGA CON KWI. Quindi proseguì col resto delle istruzioni e, quando chiuse, Twentyman-Jones trasmise subito: E' INCOLUME INTERROGATIVO VINGT ricevendo la risposta: AFFERMATIVO PASSO E CHIUDO GIUNONE Si asciugò il sudore col foulard di seta giallo. Era seduta al sole, senza alcun riparo. Subito dopo si rimise al tasto e chiamò l'operatore di Windhoek negli uffici della Courteney Mining and Finance Co. INOLTRARE PRECEDENTE MESSAG010 GOVERNATORE BLAINE MALCOMESS INSIEME A SEGUENTE DUE PUNTI RICHIESTA lNTERVENTO FORZA PUBBLICA PER CATTURA RAPINATORI ET RECUPERO MERCE SOTTRATTA STOP RICHIESTA INFORMAZIONI SU FURTO AUT ACQUISTO CAVALLI ULTIMI TRE MESI DA PARTE NOTO LOTHAR DE LA REY RISPONDERE URGENTEMENTE PREGO GIUNONE Il lontano telegrafista trasmise il segnale di ricevuto e poi continuò cosí: AZZECCAGARBUGLI PER GIUNONE - Abe doveva essere accorso negli uffici della compagnia mineraria fin dal primo istante - PREOCCUPATISSIMI TUA SALVEZZA STOP RESTA DOVE SEI STOP Centaine si irritò, non volevano capire che conosceva il paese meglio di loro, ma continuò diligentemente ad annotare il testo. SCORTA ARMATA PARTITA DA WINDHOEK ORE CINQUE ANTIMERIDIANE PRECISE DOVREBBE RAGGIUNGERTI DOMATTINA PRESTO STOP RESTA IN ATTESA RISPOSTA MALCOMESS FINE AZZECCA Per fortuna il filo era abbastanza lungo da arrivare all'ombra
della riva, dove si sistemò approfittando della pausa per riflettere con la massima attenzione sui prossimi passi da fare. Alcune cose erano evidenti e la prima era che una normale pattuglia non sarebbe mai riuscita a mettere le mani su Lothar De La Rey su quel terreno. Lo conosceva come le sue tasche per averci fatto il cacciatore e il guerrigliero per metà della sua vita. Lo conosceva meglio di qualunque altro uomo bianco, lei compresa, ma non meglio del piccolo Kwi. « Bisognerà tagliargli la strada, e per questo ci vorranno i cavallì. Qua i camion non servono, Lothar lo sa e ci conta. Avrà scelto il percorso piú accidentato. » Chiuse gli occhi e si figurò una carta del territorio settentrionale, quella vasta e desolata estensione che le mappe chiamano Terra dei Boscimani. Per quanto ne sapeva vi era acqua in superficie in due soli punti, una pozza che lei chiamava Dell'Elefante e una sorgente ai piedi di una collinetta di argilla. Erano posti segreti dei boscimani che le aveva mostrato il nonnino adottivo O'wa quindici anni prima. Si chiese se fosse in grado di ritrovarli e ne dubitò, sicura invece che Lothar li conosceva bene ed era in grado di puntarvi direttamente. E magari ne conosceva anche degli altri. Il bip del telegrafo la distolse e si precipitò a prender nota MALCOMESS PER GIUNONE POLIZIA COMUNICA FURTO VENTISEI CAVALLI ESERCITO AT OKAANDJA GIORNO TRE U.S. STOP DUE SOLI ANIMALI RITROVATI STOP PRECISARE ULTERIORI RICHIESTE « Dunque avevo ragione! Lothar si è assicurato il ricambio dei cavalli per traversare il deserto fino all'Angola », esclamò, e tornò a visualizzare a occhi chiusi la carta del territorio settentrionale, stimando tempi e distanze. Alla fine riaprí gli occhi e si rimise a battere sul tasto del telegrafo. APPURATO BANDITI ON FUGA VERSO FIUME OKAVANGO STOP FORMARE DRAPPELLO SOLDATI PRATICI DESERTO CON CAVALLI RISERVA STOP APPUNTAMENTO MISSIONE KALKRAND AL PIU' PRESTO STOP PORTO GUIDE BOSCIMANE Twentyman-Jones arrivò prima della scorta da Windhoek. Il bacino di O'chee era sulla sua strada, a poca distanza dalla pista. Il camion della compagnia si presentò rombando sulla pianura e Centaine gli corse incontro sventolando le mani sopra la testa e ridendo dal sollievo. Si era infilata stivali e brache da cavallerizza recuperati dal bagaglio della Daimler. Twentyman-Jones saltò giú dal camion e le corse incontro con grazia da trampoliere. La strinse affettuosamente al petto. « Grazie a Dio », disse con fervore, « grazie a Dio è salva. » Era la prima volta che l'abbracciava e ne fu subito imbarazzatissimo. La lasciò andare e fece un passo indietro, cercando almeno di non arrossire. « Ha trovato Kwi? » gli chiese lei. « E' sul camiom » Centaine ci andò di corsa. Kwi e Kwi Grasso erano accucciati sul cassone, chiaramente terrorizzati dall'esperienza. Sembravano animaletti selvaggi in gabbia, con gli occhi sbarrati e roteanti.
« Bimba Nam! » squitti Kwi, ed entrambi le saltarono addosso per farsi confortare, cinguettando e lanciando schiocchi di gioia e sollievo. Lei li abbracciò come bambini impauriti, mormorando tenerezze. « Adesso starò io con voi, non dovete aver paura. Questi uomini sono bravi, e io starò sempre con voi. Pensate alle storie che potrete raccontare quando tornerete al clan. Diventerete i piú famosi San mai esistiti, si parlerà di voi per tutto il Kalahari. » I due si misero a ridere, contenti come bambini, dimenticando tutte le paure. « Io diventerò piú famoso di Kwi Grasso », disse Kwi, « perché sono piú vecchio, piú esperto e piú intelligente di lui. » Kwi Grasso fece una smorfia tra scettica e offesa. « Diventerete famosi tutti e due », disse in fretta Centaine per troncare la disputa. « Perché dobbiamo correre dietro a degli uomini cattivi che mi hanno fatto tanto male. Voi li rintraccerete e ci porterete da loro, e dopo io vi darò tanti di quei bellissimi regali che non ve li sognate nemmeno, e tutti diranno che non ci sono mai stati tra i San due cacciatori come i fratelli Kwi. Ma adesso bisogna sbrigarsi se no i cattivi scappano. » Corse ancora da Twentyman-Jones coi due piccoli San alle calcagna come cani fedeli. « De La Rey ha lasciato i diamanti industriali, li ho sotterrati sotto la riva. » S'interruppe sbalordita, riconoscendo i due con Twentyman-Jones. L'autista era Gerhard Fourie e l'altro Maclear, ossia due dei tre membri del comitato di lotta. Entrambi assunsero un'aria compunta e mansueta mentre Maclear parlava. « Lieti di vederla sana e salva, signora Courteney. Alla miniera eravamo tutti quanti preoccupati per lei. » « Grazie, signor Maclear. » « Siamo disposti a fare tutto il possibile. Questa faccenda ci riguarda, signora Courteney. » « E' vero, signor Maclear: niente diamanti, niente salari. Pensi a recuperare i diamanti industriali che i banditi hanno lasciato e poi ci dirigiamo subito verso Kalkrand. Ha abbastanza carburante per arrivarci, signor Fourie? » « Ci saremo domani mattina, signora Courteney », promise l'autista. Kalkrand era la stazione piú avanzata raggiungibile in autocarro. La pista finiva lí. La strada scelta da Fourie per arrivare a Kalkrand descriveva un ampio cerchio per evitare il territorio accidentato del Bushmanland centrale. Puntava a nord, poi a ovest e infine a est, giungendo alla missione di Kalkrand che si trovava 250 chilometri piú a settentrione e settanta piú a occidente del posto dove Lothar aveva teso l'agguato a Centaine. Sul fuggitivo avrebbero guadagnato appena un centinaio di chilometri, e anche meno se lui avesse scelto una via piú occidentale per il fiume Okavango. Naturalmente era anche possibile che Centaine si sbagliasse e Lothar stesse scappando in qualche altra direzione. Ma non voleva nemmeno pensare alla dannata ipotesi. «Altri camion sono passati di qui nelle ultime ore», disse a Twentyman-Jones sporgendosi a guardare dal finestrino dell'autocarro. « Due, mi sembra. Crede possa trattarsi delle forze di polizia
mandate dal colonnello Malcomess? » « Se è cosí, quell'uomo è un fulmine di guerra. Ha fatto prestissimo. » « Chiaramente avranno preso la statale di Okahandja per poi piegare in questa direzione. » Centaine desiderava ardentemente che cosí fosse, ma Twentyman-Jones scosse la testa, scettico. « E' piú facile che siano i rifornimenti per la missione. Scommetto che arriviamo prima noi, e dovremo ciondolare un pezzo aspettando la polizia. » Davanti a loro, nella foschia del mattino, apparvero a un tratto i tetti di lamiera della missione. Era un posto desolato ai piedi di un piccolo rilievo argilloso, scelto probabilmente per i pozzi d'acqua sottostanti. Due sparuti mulini a vento, che azionavano la pompa per attingere, si ergevano come sentinelle accanto ai pozzi. « Domenicani tedeschi », disse Twentyman-Jones a Centaine nei sussulti dell'ultimo chilometro. « Servono le tribú nomadi ovahimba della zona. » « Guardi! » l'interruppe impaziente Centaine. « Ecco là i camion, parcheggiati vicino alla chiesa, e dei cavalli che si abbeverano. E guardi li! Un soldato in uniforme! Sono proprio loro. Ci stanno aspettando. Il colonnello Malcomess ha mantenuto la parola. » Fourie fermò il camion accanto a quelli color sabbia della polizia, mentre Centaine saltava giú a chiedere al soldato dov'era il comandante. Però s'interruppe subito, perché vide apparire una figura imponente sulla veranda dell'edificio di pietra accanto alla chiesa. Indossava pantaloni da cavaliere in gabardine kaki e stivali bruni lucidi, e stava infilandosi la giubba da campagna sopra camicia e bretelle. Scese agilmente i gradini della veranda e le corse incontro. « Colonnello Malcomess... non mi aspettavo certo di trovarla qui di persona! » « Lei mi ha chiesto piena collaborazione, signora Courteney », disse porgendole la mano. Tra le punte delle dita scoccò una scintilla azzurrina. Erano carichi di elettricità. Centaine ritirò la mano ridendo, poi gliela ridiede. La sua stretta era asciutta e forte, rassicurante. « Non vorrà venire nel deserto con noi, con tutti i suoi impegni di governo? » « Se non ci vado io non ci va nemmeno lei », disse sorridendo. « Ho ricevuto ferree istruzioni sia dal Primo ministro, il generale Hertzog, sia dal capo dell'opposizione, il generale Smuts, di proteggerla sotto la mia responsabilità personale. Pare che lei abbia una reputazione di impulsività se non di avventatezza. I due vecchi signori sono preoccupatissimi. » « Io devo andarci per forza », l'interruppe. « Nessun altro potrebbe trattare con le guide boscimane. Senza di loro i rapinatori si sgancerebbero sicuramente. » Egli annuì. « Sono sicuro che l'intenzione dei due stimatissimi generali è che non vada nessuno dei due, ma scelgo di interpretare le loro istruzioni nel senso che ci andiamo insieme. » Di colpo si mise a sogghignare da monello. « Temo che lei sia destinata a restare appiccicata a me. »
Pensò alla spedizione nel deserto con lui, lontano da sua moglie. Per un momento dimenticò Lothar De La Rey e i diamanti, e a un tratto si rese conto che stavano ancora stringendosi la mano e che tutti li guardavano. Ritirò il braccio e gli chiese vivacemente: « Quando possiamo partire? » Per tutta risposta lui si girò e urlò: « In sella! In sella! Partiamo subito! » Mentre i soldati correvano ai cavalli, tornò a rivolgersi a lei in tono ufficiale e competente. « E ora, signora Courteney, vuoi essere così gentile da comunicarmi le sue intenzioni, e dove diavolo andiamo? » Lei scoppiò a ridere. « Ha una carta? » « Da questa parte. » La fece entrare nella missione e in breve la presentò ai due dominicani tedeschi che la dirigevano. Poi si chinò sulla sua enorme carta geografica già stesa sulla scrivania. « Mi faccia vedere cos'ha in mente », la invitò, e lei gli si mise accanto, senza toccarlo. « La rapina si è svolta qui », disse indicando il punto esatto col dito. « Ho seguito le tracce dei ladri in questa direzione. De La Rey punta verso l'Angola, ne sono assolutamente certa. Ma ci sono cinquecento chilometri da fare per arrivarci. » « Sicché ha pensato bene di aggirarlo e superarlo », annuì lui, « e adesso intende inoltrarsi a est, nel deserto, per tagliargli la strada a cavallo. Ma si tratta di una vastissima estensione. Non crede che sia come cercar l'ago nel pagliaio? » « Il segreto è l'acqua », gli rispose. « Avrà lasciato i cavalli di ricambio presso l'acqua. Io non ne dubito affatto. » « I cavalli rubati all'esercito? Sì, capisco, ma il guaio è che laggiú, di acqua, non ce n'è proprio. » « Invece c'e », gli disse. « Non è segnata sulla carta ma lui sa dove trovarla. Anche i miei boscimani lo sanno. Lo aspetteremo a un pozzo, o ne intercetteremo le tracce se è passato prima di noi. » Egli si raddrizzò e arrotolò la carta. « Lo ritiene possibile? » « Che ci abbia superato? » chiese Centaine. « Lei deve tener presente che si tratta di un uomo energico e ardito, che conosce questo deserto come le sue tasche. Non lo sottovaluti mai, colonnello, sarebbe un grave errore. » « Ho esaminato il suo dossier », disse infilando la carta geografica nella custodia e mettendosi in testa il casco di sughero con la pezza di tela a protezione della nuca. Il copricapo gli mascherava le orecchie a sventola e lo rendeva ancora piú alto e imponente. « E' un uomo pericoloso, una volta aveva una taglia di diecimila sterline sulla testa. No, non credo affatto che questa faccenda sia facile. » Un sergente di polizia si presentò alla porta. « Tutti pronti, signor colonnello. » « Ha fatto sellare il cavallo della signora Courteney? » « Signorsi! » Il sergente era magro, abbronzato e muscoloso, con folti baffi rivolti all'ingiù, e Centaine approvò in cuor suo la scelta di quell'uomo. Blaine Malcomess si accorse di quello scrutinio. « Il sergente Hansmeyer. Siamo vecchi commilitoni fin dai tempi della campagna di Smuts. »
« Lieto di conoscerla, signora Courteney. Naturalmente so già tutto di lei », la salutò il sergente. « Sono contenta che sia con noi, sergente. » In fretta strinsero la mano ai padri domenicani e uscirono dalla missione. Centaine andò verso il cavallo che Blaine le aveva assegnato, un grosso castrato baio dall'aria vigorosa, e aggiustò le staffe. « In sella! » ordinò Blaine Malcomess e, mentre il sergente e i suoi quattro soldati montavano, Centaine si rivolse a TwentymanJones per salutarlo. «Mi piacerebbe venire con lei, signora Courteney», le disse. « Vent'anni fa non mi avrebbe fermato nessuno. » Lei sorrise. « Mi raccomando, faccia il tifo per noi. Se non riusciamo a recuperare quei diamanti, le toccherà tornare a lavorare alla De Beers mentre io farò la sartina all'ospizio dei poveri. » « Possa marcire il porco che le ha fatto 'sto scherzo », disse l'ingegnere. « Riportatelo indietro in catene. » Centaine montò in sella al castrato e lo trovò solido e docile. Lo fece avanzare fino ad affiancarsi al cavallo di Blaine. « Può sguinzagliare i suoi segugi, signora Courteney », le disse sorridendo. « Portaci all'acqua, Kwi », gridò lei, e i due piccoli boscimani, arco e frecce avvelenate in spalla, si girarono verso oriente. Con le testine coperte di riccioletti scuri lanuginosi, le natiche tonde e dure sporgenti dal minuscolo perizoma, e i piedini mulinanti, partirono di corsa. Erano nati per correre, e i cavalli dovettero mettersi al trotto per non perderli di vista. Centaine e Blaine cavalcavano in testa, affiancati. Il sergente e i quattro soldati seguivano in fila indiana, ognuno tenendo per le redini due cavalli di riserva che portavano l'acqua, venti galloni, in grandi borracce rotonde ricoperte di feltro. Era una scorta sufficiente per tre giorni a uomini e animali, se usata con giudizio, e lo sarebbe stata perché erano tutti avvezzi alle privazioni del deserto. Centaine e Blaine cavalcavano in silenzio, benché di tanto in tanto lei gli lanciasse un'occhiata con la coda dell'occhio. Imponente in piedi, a cavallo Blaine era addirittura imperiale. Sembrava un centauro, una parte integrante del cavallo, e adesso capiva la ragione della sua fama internazionale quale giocatore di polo. Guardandolo, si scoprí a correggersi certi piccoli difetti d'impostazione in sella, cattive abitudini in cui era scivolata con gli anni, e dopo un pò riuscí ad apparire impeccabile come lui. Sentiva che avrebbe potuto cavalcare in eterno per questo deserto che amava con quest'uomo al suo fianco. Attraversarono il rilievo di argilla indurita e Blaine parlò per la prima volta. « Aveva ragione, non saremmo mai riusciti a passare di qui coi camion. Bisognava per forza ricorrere ai cavalli. » « Poi c'è calcare, e poi sabbia. Chissà quante volte ci saremmo insabbiati », concordò lei. I chilometri si accumulavano alle loro spalle. I boscimani continuavano a correre davanti a loro, senza mai vacillare o esitare, sempre sicuri e regolari come se vedessero la meta lontana. Ogni ora Blaine dava l'alt alla colonna e lasciava riposare un pò i cavalli,
mentre lui smontava e andava a parlare tranquillamente coi suoi uomini, imparando a conoscerli, controllando il carico e i finimenti dei cavalli di riserva, che non li scorticassero, prendendo insomma tutte le precauzioni per scongiurarne stanchezza prematura e ferite. Poi, allo scadere dei cinque minuti di sosta, ordinava di riprendere a trottare dietro i boscimani. Andarono avanti fino a buio prima dell'alt definitivo poi Blaine diresse la distribuzione dell'acqua e si assicurò che i cavalli fossero ben strigliati e impastoiati prima di andarsi a sedere davanti al fuoco con Centaine. Anche lei aveva sbrigato tutte le sue incombenze, ossia badare che i boscimani fossero nutriti e sistemati per la notte, e ora stava preparando da mangiare per Blaine e per se. Quando si sedette di fronte a lei, gli porse la gavetta piena. « Mi dispiace che fagiano e caviale non rientrino nel menu, signore: mi sento tuttavia di raccomandare vivamente lo stufato di manzo » « Strano come sembri buonissimo quando lo si mangia cosí. » Mangiava di buon appetito: alla fine pulí la gavetta con la sabbia e la restituí a Centaine. Accese un sigaro con un tizzone preso dal fuoco. « E come sia piú buono un sigaro acceso al fuoco di legna » Centaine rimise in ordine tutto per poter partire in fretta l'indomani mattina e poi tornò al fuoco, esitando a sedersi di nuovo di fronte a lui. Blaine allora le fece spazio sul suo telo e senza parlare lei andò ad accoccolarglisi accanto. « E' bellissimo », mormorò Centaine guardando il cielo notturno. « Le stelle sono cosí vicine che sembra di poterle prendere in mano e mettersele al collo come una ghirlanda di fiori di campo. » « Povere stelle », disse lui. « Come impallidirebbero! » Centaine abbassò lo sguardo e gli sorrise. Condivisero insieme per un pò in silenzio il piacere del complimento. Poi lei tornò a guardare il cielo. « Quella là è la mia stella personale », disse indicando Acrux, nella Croce del Sud. Gliel'aveva assegnata Michael. Michael... sentí una trafittura di colpa al suo ricordo, ma ormai non piú tanto acuta. « E qual è la tua stella? » gli chiese. « Dovrei averne una? » « Oh, sí », annuí lei. « E' assolutamente essenziale. » Si interruppe, poi continuò quasi timidamente: « Te ne lasceresti scegliere una da me? » « Sarei onorato. » Non la stava prendendo in giro, era altrettanto serio di lei. « Là », disse voltandosi verso nord, dove si stendeva la fascia dello Zodiaco. « Quella stella là, Regolo, nella costellazione del Leone, il tuo segno natale. Io la scelgo e te la do, Blaine. » Senza accorgersene, avevano cominciato a darsi del tu. « E io l'accetto con grande gratitudine. D'ora in poi ogni volta che la vedrò penserò a te, Centaine. » Era un pegno d'amore, dato e accettato: tutti e due lo capivano e tacevano in quel momento significativo. Dopo un pò lui le chiese: « Come fai a sapere che il mio segno zodiacale è il leone? » «Mi è parso giusto informarmi», gli rispose sfacciatamente.
« Sei nato il 28 luglio 1893. » « E tu », rispose lui, « sei nata il primo giorno del secolo. Per questo ti chiami Centaine. L'ho scoperto. Anche a me è sembrato importante sapere. » La mattina dopo partirono molto prima dell'alba, sempre dietro le guide boscimane. Il sole sorse e il suo calore cominciò a martellarli, asciugando il sudore sui fianchi dei cavalli in bianchi cristalli salati. I soldati cavalcavano curvi come sotto un greve fardello. Il sole raggiunse lo zenit e prese a calare verso occidente. Le ombre si allungarono per terra davanti a loro e i colori tornarono quelli del deserto: ocra, rosa carico e ambra bruciata. Davanti a loro, Kwi si fermò di colpo e si mise ad annusare l'aria secca e cruda, con le grandi narici piatte degli abitatori dei paesi caldi. Kwi Grasso lo imitò e la coppia parve simile a due cani da caccia che fiutino il fagiano. « Ma che fanno? » chiese Blaine arrestando il cavallo. Prima che Centaine potesse rispondergli, Kwi emanò un trillo acuto e si avviò di corsa subito seguito da Kwi Grasso. « Acqua », disse Centaine in piedi sulle staffe. « Hanno fiutato l'acqua. » « Dici davvero? » le chiese sbalordito Blaine. « Anch'io la prima volta non ci credevo », rise lei. « O'wa era capace di sentire l'odore dell'acqua da otto chilometri di distanza. Vieni, te lo dimostro. » Spinse il castrato al piccolo galoppo. Davanti a loro nella foschia polverosa apparve una bassa asperità del terreno. Era una collinetta di argilla rossa, priva di qualunque vegetazione eccetto un albero strano e antidiluviano proprio in cima, un kokerboom dalla corteccia squamosa come pelle di rettile. Centaine provò un empito di ricordi e nostalgia. Riconosceva il posto: ci era già stata, coi due vecchietti San che amava e Shasa in grembo. Prima di raggiungere la collinetta, Kwi e il fratello grasso smisero di correre e si fermarono a fianco a fianco a esaminare il terreno. Quando Centaine li raggiunse stavano parlando animatamente tra loro. Tradusse per Blaine, con la lingua che s'inceppava per l'eccitazione. « Abbiamo ritrovato le tracce. E' De La Rey, non c'è il minimo dubbio. Tre cavalieri provenienti da sud e diretti al pozzo. Hanno abbandonato i cavalli spompati e vanno a spron battuto, senza preoccuparsi di risparmiare le nuove bestie già molto provate anche loro. De La Rey ha organizzato tutto per bene. » Centaine riusciva a malapena a contenersi, tanto era contenta. Aveva indovinato, Lothar si dirigeva davvero verso il confine portoghese. Lui e i diamanti non erano piú tanto lontani. « Quando, Kwi? » gli domandò ansiosamente, chinandosi a esaminare lei stessa le tracce. « Questa mattina, Bimba Nam », le disse il piccolo boscimano, indicando in cielo l'altezza del sole al momento del loro passaggio. « All'alba dunque. Hanno circa otto ore di vantaggio », disse a
Blaine. « E' tanto », disse lui, serio. « D'ora in poi ogni minuto conta. Squadra, avanti! » ordinò. Quando furono a un chilometro dalla collina argillosa sormontata dal kokerboom, Centaine disse a Blaine: « Qui c'erano degli altri cavalli, tanti, a pascolare per diverse settimane. Si vedono i segni dappertutto. Avevo ragione, De La Rey teneva qua un uomo a governare le bestie di riserva. Vedrai che alla pozza troveremo segni ancora piú chiari ». Si interruppe e guardò avanti. Alla base della collina c'erano tre masse scure e amorfe. « Cosa sono? » Blaine era altrettanto perplesso di lei. Solo quando si avvicinarono un pò di piú riuscirono a capire di che cosa si trattava. « Cavalli morti! » esclamò Centaine. « De La Rey ha sparato ai cavalli scoppiati. » « No », la contraddisse Blaine, che era smontato a esaminare le carcasse. « Non ci sono fori di pallottole. » Centaine si guardò intorno. Vide il primitivo recinto in cui erano stati tenuti i cavalli freschi e la capanna di sterpi che aveva ospitato l'uomo. « Kwi », grido al boscimano. « Trova le tracce di quelli che sono andati via di qui. Kwi Grasso, perlustra il campo. Cerca qualunque cosa possa dirci di piú sugli uomini cattivi che inseguiamo. » Poi spronò il castrato verso la pozza. Era sotto la collina. L'acqua restava intrappolata tra strati di argilla impermeabile e li sgorgava. Nei millenni il suolo argilloso era stato modellato dagli zoccoli di infinite bestie e dai piedini di generazioni e generazioni di San. L'acqua affiorava in fondo a una specie di ripido imbuto. Verso monte uno strato di argilla formava come una cengia che riparava la sorgente dai raggi diretti del sole, rallentando l'evaporazione. Era una piccola pozza chiara, non piú grande di una vasca da bagno, alimentata costantemente dalle acque sotterranee. Centaine sapeva per esperienza che avrebbe avuto un cattivo sapore per via dei minerali disciolti, dell'urina e delle fatte che gli animali non si peritavano certo di lasciarci dopo aver bevuto. Guardò la pozza per meno di un secondo e si irrigidì in sella, portandosi la mano alla bocca con istintiva reazione di orrore. Sulla riva della pozza aveva scorto infatti un rosso manufatto. Un grosso ramo di camel-thorn era stato scortecciato e piantato in una piramide di sassi. In cima era stata infilata una latta da mezzo gallone. Sotto la latta, su un'asse inchiodata, c'era scritto a carbone: POZZO AVVELENATO La latta vuota era rossa e sopra, in nero, c'era il classico teschio con le tibie incrociate per chi non sapesse leggere l'etichetta che diceva: ARSENICO Blaine l'aveva raggiunta e rimasero entrambi in silenzio, talché sembrava di udire il crepitare dell'argilla che, come un forno, stava raffreddandosi pian piano. Infine Blaine parlò.
« Ecco spiegati i cavalli morti. E' un bel bastardo. » La sua voce vibrava di collera. Girò il cavallo e partí al galoppo incontro ai soldati. Centaine lo sentì gridare: « Sergente, controlli la riserva d'acqua. Il pozzo è avvelenato ». Il sergente emise un fischio sommesso. « Allora l'inseguimento è finito. Saremo fortunati se riusciremo a tornare a Kalkrand. » Centaine si accorse che tremava di rabbia e frustrazione. « Se la caverà! Ci ha fregati al primo trucco. » Il castrato fiutò l'acqua e cercò di scendervi. Centaine glielo impedì col gioco delle ginocchia e frustandolo sul collo con l'estremità lasca delle redini. Lo guidò dietro a tutti gli altri cavalli e lo blandí con una razione di avena e pastone. Blaine si avvicinò. « Mi dispiace, Centaine », disse calmo. « Dovremo tornare indietro. Proseguire senz'acqua sarebbe un suicidio. » « Lo so. » « E' un bruttissimo scherzo », disse scuotendo la testa. « Avvelenare un pozzo che alimenta tanta vita nel deserto! Sarà un vero sterminio qui attorno. Una volta in guerra ho visto le conseguenze di un'azione del genere. Venivamo da Walvis, nel 1915... » Si interruppe perché il piccolo Kwi si avvicinava parlando tutto eccitato « Cosa dice? » chiese Blaine. « Uno degli uomini che stiamo inseguendo è ferito », gli rispose in fretta Centaine. « Kwi ha trovato questo bendaggio. » Kwi teneva con due mani un involto di pezze tutte sporche e intrise di sangue. Lo porse a Centaine. « Metti giú, Kwi », gli ordinò seccamente. Il malloppo emanava un gran fetore di corruzione e pus. Ubbidiente, Kwi lo depose ai suoi piedi, e Blaine impugnò la baionetta per stendere la striscia di tela sulla sabbia. « E' la maschera! » esclamò Centaine, riconoscendo il sacchetto di farina che Lothar si era messo in testa. Era rigido di sangue seccato e pus giallo, come le altre bende ricavate da una camicia kaki. « Il ferito si è steso qui mentre gli altri cambiavano i cavalli, e finito di sellarli hanno dovuto rialzarlo e aiutarlo a montare. » Tutte queste cose, Kwi le aveva lette nelle tracce. « L'ho morsicato io », disse piano Centaine. « Mentre lottavamo, gli ho affondato i denti nel polso. Ho sentito l'osso. E' una ferita molto profonda quella che gli ho inferto. » « Un morso umano è quasi altrettanto pericoloso di un morso di serpente », annuì Blaine. « Se non è curato, provoca quasi sempre la setticemia. De La Rey è un uomo ammalato, e il suo braccio dev'essere in pessime condizioni, almeno a giudicare dalle bende. » Le sfiorò con la punta dello stivale. « L'avremmo preso. Nel suo stato l'avremmo quasi certamente raggiunto prima del fiume Okavango. Se avessimo acqua per proseguirei » Si girò dall'altra parte, perché non voleva assistere all'infelicità di lei, e parlò seccamente col sergente Hansmeyer. « Mezza razione d'acqua d'ora in poi, sergente. Al tramonto ripartiamo per la missione. Viaggeremo col fresco della notte. » Centaine non riusciva a star ferma. Agitatissima, tornò davanti alla pozza a contemplare il fatale manufatto.
« Come hai potuto farlo, Lothar? » sussurrò. « Sei un uomo duro e disperato, ma un'azione casi terribile... » Discese lentamente il ripido imbuto e si accuccio proprio in riva all'acqua. Ci mise l'indice. Era fredda, fredda come la morte, pensò, e si pulì accuratamente il dito contro la stoffa dei calzoni fissando l'acqua. Le venne in mente un'osservazione di Blaine: l'ho visto fare una volta in guerra. Venivamo da Walvis... nel 1915... E a un tratto dal profondo della mente, dove era rimasta sepolta per anni e anni, le si affacciò alla coscienza una remota conversazione. Ricordò il viso di Lothar De La Rey davanti al fuoco, con gli occhi attraversati dal rimorso, mentre si confidava con lei. « Dovevamo farlo, o almeno allora ne ero convinto. Le forze unioniste ci inseguivano da presso. Se avessi immaginato le conseguenze... » Si era interrotto fissando le fiamme. Allora l'amava... Era la sua donna. E, anche se non lo sapeva ancora, lei aveva già suo figlio in grembo, e gli aveva preso la mano per confortarlo. « Non importa », gli aveva sussurrato, ma Lothar l'aveva guardata con volto tragico. « Invece importa, Centaine », le aveva detto. « E' stata l'azione peggiore che abbia mai commesso. Sono tornato a quel pozzo un mese dopo, come un assassino. Si sentiva la puzza a due chilometri di distanza. C'erano animali morti dappertutto, zebre, gemsbok, sciacalli e volpi del deserto, uccelli, e perfino gli avvoltoi che si erano cibati delle carogne. Tanta, tanta morte... una cosa che ricorderò fin che campo, l'unica cosa della mia vita di cui mi vergogno proprio, e per la quale dovrò rispondere. » Centaine si raddrizzò pian piano. Sentì che rabbia e delusione lasciavano spazio a una marea montante di eccitazione. Toccò ancora l'acqua e guardò i cerchi concentrici che solcavano la limpida superficie. « Lo pensava proprio », disse forte. « Se ne vergognava davvero. Non l'avrebbe mai rifatto. » Tremo di paura nel prendere la decisione e, per farsi coraggio, disse forte, con la voce che le tremava un po': « E' un bluff. L'avviso è un bluff. Deve esserlo... » e poi s'interruppe, ricordando i tre cavalli morti. « Erano scoppiati e li ha finiti col veleno, ma in un secchio. Non può aver avvelenato un altro pozzo. » Lentamente si tolse il cappello e ne usò la tesa per scostare lo strato di polvere e di detriti galleggianti. Poi attinse una cappellata d'acqua chiara e fresca e la contemplò per un pò, cercando di raccogliere il coraggio di farlo. Emise un profondo sospiro e toccò l'acqua con le labbra. « Centaine! » urlò Blaine, sconvolto e furioso, scagliandosi giú per la discesa e facendole volare il cappello di mano. L'acqua le si rovescio sui pantaloni. La prese per le braccia e la scrollo selvaggiamente, con gli occhi fiammeggianti d'ira e la faccia gonfia e rossa. « Sei diventata matta, donna? » La stava scuotendo brutalmente, con le dita che affondavano nei bicipiti di lei. « Blaine, mi fai male. »
« Ti faccio male? Ma io ho voglia di strozzarti, pazza... » « Blaine, è un bluff, ne sono sicura. » Ora le faceva paura. La sua ira era terribile a vedersi. « Blaine, per piacere, per piacere! Ascoltami! » Vide il cambiamento nei suoi occhi, mentre riprendeva il controllo di sé. « Oh Dio », disse, « pensavo che... » « Mi fai male », ripeta lei stolidamente, e lui la lasciò andare. « Mi dispiace », disse ansimando come se fosse reduce da una maratona. « Non farmi un'altra volta uno scherzo del genere, donna, o non so cosa farò. » « Blaine! Stammi a sentire! E' un bluff. Non è vero che ha avvelenato l'acqua. Ci giocherei la pelle. » « A momenti lo facevi », le ringhio, ma ormai l'ascoltava. « Come sei arrivata a questa conclusione? » Si avvicino ancora di piú a lei, interessato e pronto a farsi persuadere. « Sai, un tempo io lo conoscevo. Lo conoscevo bene, e l'ho sentito fare un giuramento... Devi sapere che è stato lui ad avvelenare quel pozzo nel 1915. Lo ammetteva, dicendosi però assolutamente incapace di rifarlo. Mi ha raccontato lo sterminio di animali intorno al pozzo, e il giuramento che fece allora. » « I cavalli morti ai piedi della collina », domandò Blaine. « Come li spieghi? » « Ma sì, quelli li ha avvelenati. Tanto doveva ammazzarli lo stesso. Erano scoppiati: non poteva mica lasciarli vivi ai leoni. » Blaine si accosto all'acqua e ci guardo dentro. « E tu stavi per correre questo rischio... » S'interruppe rabbrividendo, poi volta le spalle alla pozza e urlo un ordine. « Sergente Hanemeyerl » « Signore », rispose accorrendo il sergente. « Porti qua la giumenta azzoppata. » Un attimo dopo il sergente era di ritorno con l'animale. Si era ferita al destro anteriore e avrebbe dovuto essere abbandonata ugualmente. « La faccia bere! » ordinò Blaine. « Signore? » Hansmeyer era un pò perplesso. « La sorgente è avvelenata! » « E' quello che vedremo », gli disse seccamente Blaine. « La faccia bere. » Avida, la giumenta nera discese la riva e curvò il lungo collo sull'acqua. Bevve a grandi sorsate. Si sentiva l'acqua gorgogliare nella pancia della cavalla che si gonfiava sotto i loro occhi. « Non ci avevo proprio pensato, a usare un cavallo », sussurrò Centaine. « Ah, sarebbe tremendo se mi sbagliassi. » Hansmeyer lasciò bere la cavalla finché volle, e poi Blaine ordinò di riportarla con gli altri. Guardò l'orologio. « Aspetteremo un'ora », decise, e prese Centaine per mano. La portò all'ombra della cengia e si sedettero insieme. « Hai detto che lo conoscevi? » le chiese infine. « Lo conoscevi bene? »
« Anni fa lavorava per me. E' stata la sua ditta a fare i primi lavori di sviluppo alla miniera. Sai, era ingegnere civile. » « Sì, lo so, c'è scritto nel suo incartamento. » Restò in silenzio per un pò. « Dovevi conoscerlo benissimo, se ti ha confidato una cosa del genere. Le colpe di un uomo sono faccende tra le piú intime. » Centaine non gli rispose. « Che posso dirgli? » pensava. « Che sono stata la sua amante? Che ho avuto un figlio da lui? » A un tratto Blaine si mise a ridacchiare. « Che brutta cosa la gelosia, eh? Ritiro la domanda. Era impertinente, scusami. » Lei gli mise la mano sul braccio e gli sorrise, grata. « Ma questo non vuoi dire che ti perdono lo spavento che mi hai fatto prendere », continuò lui con scherzosa severità. « Anzi, ho ancora una gran voglia di pigliarti a sculacciate. » Il pensiero diede a Centaine un fremito di perversa eccitazione. L'ira di lui l'aveva spaventata, ma anche eccitata. Da quando erano partiti non si era più rasato: sicché adesso aveva la barba folta e scura come la pelle di una foca, a parte un solo pelo candido che brillava come una stellina all'angolo della bocca. « Cosa stai guardando? » le chiese. « Mi chiedevo se la barba pungerebbe... se decidessi di darmi un bacio invece di una sculacciata. » Lo vide lottare come un uomo in procinto di affogare nella marea montante della tentazione. Immaginò i timori, i dubbi e l'angoscia del desiderio che ribolliva dietro quegli occhi verdi, e attese, con il viso alzato verso il suo, senza ritirarsi né avanzare, aspettando che egli accettasse l'inevitabilità della cosa. Quando raggiunse la sua bocca fu rude, avventato, quasi rabbioso di essere stato incapace di resistere, di essere trascinato da lei nei pericolosi gorghi dell'infedeltà. Succhiò dal corpo di Centaine tutta l'energia, sicché lei quasi venne meno tra le sue braccia: solo la stretta delle sue mani alla nuca gli rispondeva, e la bocca della donna, che era profonda, umida, morbida e aperta perché Blaine la cogliesse. Alla fine si separò da lei e si alzò in piedi. Si mise a guardarla. « Possa Dio avere pietà di noi », sussurrò, e risalì la riva, lasciandola sola con la sua gioia e inquietudine, con il senso di colpa e la fiamma divorante che le aveva acceso nel ventre. Il sergente Hansmeyer a un certo momento venne a chiamarla. Si fermò in alto, sul ciglio della discesa che portava alla pozza. « Il colonnello Malcomess ha chiesto di lei, signora. » Centaine lo seguì fino ai cavalli impastoiati, sentendosi stranamente staccata dalla realtà. Le sembrava di non toccar terra e tutto era come onirico e lontanissimo. Blaine era vicino alla giumenta zoppa, le teneva la testa e le carezzava il collo. La cavalla stronfiava pian piano e gli mordicchiava la camicia. Blaine guardò Centaine, che si era appena avvicinata, sopra la testa della giumenta. Si fissarono. « Non si torna indietro », disse piano, ed ella colse e accettò l'ambiguità delle sue parole: « Si va avanti, insieme ». « Sì, Blaine », concordò mitemente.
« E al diavolo le conseguenze », disse lui, rude. Ancora per un attimo si guardarono negli occhi, e poi Blaine alzò la voce. « Sergente, faccia bere tutti i cavalli e riempia le borracce. Abbiamo nove ore da recuperare. » Continuarono a procedere per tutta la notte. I piccoli boscimani non persero le tracce neppure alla luce delle stelle e di una minima falce di luna, e quando si levò il sole le illumino più chiaramente che mai, nette nella luce radente che le trasformava in pozze d'ombra. Adesso i fuggitivi erano quattro, perché vi si era unito quello che governava i cavalli. Ognuno aveva un cavallo di riserva. Un'ora dopo l'alba, scoprirono il punto dove i banditi si erano accampati per la notte. Lothar aveva abbandonato li due cavalli, che non avevano resistito al trattamento brutale. Sostavano presso le ceneri del fuoco che Lothar aveva coperto di sabbia. Kwi la spazzò via e s'inginocchiò a soffiare sulla brace. Una fiammella si levo sotto quel fiato e il boscimano si mise a ridere come un folletto. «Mentre dormivano abbiamo recuperato cinque o sei ore», mormorò Blaine, guardando Centaine. Ella si riscosse immediatamente dalla spossatezza, ma non riuscí a celarla. Aveva la testa ciondolante ed era molto pallida. « Sta comportandosi da prodigo coi cavalli », disse lei, ed entrambi rivolsero un'occhiata alle due bestie che Lothar aveva abbandonato. Se ne stavano a capo chino, labbreggiando il suolo: erano due giumente more, una con una stella bianca in fronte e l'altra con qualche spruzzata candida sui garretti. Entrambe si muovevano con dolore e difficoltà, e avevano la lingua nera e gonfia che pendeva da un lato della bocca. « Non ha sprecato acqua per loro », disse Blaine. « Poveracce. » « Bisognerà abbatterle », disse Centaine. «E' proprio per quello che le ha abbandonate, Centaine», le spiegò con dolcezza. « Non capisco. » « Aspetta di sentire gli spari. » « Oh, Blaine! Cosa facciamo? Non possiamo lasciarle... » « Prepara il caffè e la colazione. Siamo stanchissimi anche noi, uomini e bestie. Dobbiamo riposare qualche ora prima di proseguire. » Smontò e prese il rotolo delle coperte. « Nel frattempo mi occupo io delle giumente. » Scosse la pelle di pecora che gli serviva da pagliericcio avvicinandosi alla prima giumenta. Tirò fuori il pistolone d'ordinanza, ci avvolse intorno la pelle e fece fuoco. Si udí un colpo soffocato e la giumenta si abbatté scalciando. Centaine guardò dall'altra parte e si occupò del caffè mentre Blaine si avvicinava con passo grave alla seconda bestia. Udirono un lieve spostamento d'aria, non propriamente un rumore, quasi un frullo d'ali, ma sia Swart Hendrick sia Lothar De La Rey drizzarono le orecchie e fermarono i cavalli. Lothar alzò la mano per far tacere gli altri e aspettarono trattenendo il fiato. Si ripetè. Era un altro sputo lontano d'arma da fuoco soffocata, e Lothar e Hendrick si guardarono.
« Il trucco dell'arsenico non ha funzionato », borbottò il grosso Ovambo. « Dovevi avvelenarlo davvero, quel pozzo, e non per finta. » Lothar scosse la testa, avvilito. « Deve aver galoppato come una diavolessa. Sono a quattro ore da noi, anche meno se non risparmiano i cavalli. Non avrei mai creduto di trovarmela cosí presto alle costole. » « Non puoi essere sicuro che sia lei », gli disse Hendrick. « E' lei. » Lothar non ne aveva il minimo dubbio. « Me l'aveva promesso che mi veniva dietro. » Il suo tono era roco, le labbra secche impaccate. Gli occhi, iniettati di sangue, erano ingrommati e sottolineati da occhiaie viola. La barba era a chiazze bianche, dorate e color zenzero. Il braccio era bendato fino al gomito con pezze gialle di pus. Se l'era appeso al collo con un cinturone svuotato delle munizioni, e l'appoggiava anche alla cassetta dei diamanti assicurata alla sella. Si girò a scrutare la pianura spelacchiata dove crescevano solo rovi e cespi d'erba giallastra. Il movimento bastò a fargli girar la testà e dovette aggrapparsi con tutta la forza al pomello con la mano buona per non cadere da cavallo. «Pa'!» esclamò Manfred, accorrendo a sorreggerlo, col viso stravolto dalla preoccupazione. « Pa'! Va tutto bene? » Lothar chiuse gli occhi un attimo prima di rispondere. « Va tutto bene », gracchiò. Ma sentiva l'infezione galoppare corrompendo la carne della mano e dell'avambraccio. La pelle era sottile e tesa come un tamburo, sul punto di spaccarsi come la buccia di una prugna troppo matura, e il bruciore del veleno circolava col suo sangue. Lo sentiva pulsare dolorosamente nelle ghiandole sott'ascella, e di lí spargersi per tutto il corpo, spremendo sudore dalla pelle, bruciandogli gli occhi e martellandogli le tempie, baluginandogli nel cervello come un miraggio del deserto. « Avanti, avanti, forza », sussurrava. « Dobbiamo andare avanti. » Hendrick riprese le redini del cavallo di Lothar. «Aspettate! » berciò a un tratto questi. «Quant'è lontana la prossima acqua? » « Ci arriviamo domani prima di mezzogiorno. » Lothar cercava di concentrarsi ma la febbre gli riempiva la testa di vapore bollente. « I chiodi a quattro punte », disse. « E' ora di seminarli. » Hendrick annuì. Li avevano portati dal nascondiglio sulle colline. Pesavano trenta chili, un carico greve per i cavalli. Era tempo di scaricare un pò di quella zavorra. « Le prepareremo un'esca perché ci vada a sbattere con tutti gli altri », gracchiò Lothar Il breve riposo, il pasto affrettato e anche il caffè bollente, fortissimo e dolcissimo, sembravano aver soltanto aumentato la stanchezza di Centaine. « Non me ne farò accorgere », si disse fermamente. « Non cederò finché non cedono loro. » Ma si sentiva la pelle cosí secca da temere che si potesse rompere come carta da un momento all'altro, e la luce abbagliante le faceva male agli occhi, riempiendole il
cranio di dolore. Guardò di sottecchi Blaine. Sedeva eretto in sella, invincibile e infaticabile; ma voltò la testa e guardandola s'inteneri. «Fra dieci minuti ci fermiamo a bere qualcosa», le disse piano. « Sto benissimo », protestò lei. « Siamo tutti stanchi », replicò Blaine. « Non c'è niente di male ad ammetterlo. » S'interruppe e strinse gli occhi guardando avanti. « Che c'è? » gli domandò Centaine. « Non sono sicuro », disse prendendo il binocolo che aveva al collo e puntandolo sulla macchia scura, lontanissima, che aveva attirato la sua attenzione. « Non riesco ancora a capire che cos'è. » Le passò il binocolo. « Blaine! » esclamò. « Sono i diamanti! La cassetta dei diamanti! Se ne sono liberati. » Tutta la fatica le scivolò via di dosso come uno scialle diventato superfluo e, prima che egli potesse trattenerla, piantò i talloni nel ventre del castrato e lo spinse al galoppo, superando i boscimani. I due cavalli di riserva furono costretti a seguirla, attaccati alle redini, facendo sobbalzare pazzamente le borracce. « Centaine! » gridò Blaine, e spronò la cavalcatura per seguirla, cercando di raggiungerla. Il sergente Hansmeyer stava dormicchiando in sella, ma alla partenza al galoppo dei due in testa si riscosse immediatamente. « Squadra, avanti! » gridò, e l'intero drappello si mise al galoppo. All'improvviso il castrato di Centaine nitrì di dolore e quasi le mancò sotto. Fu sul punto di finire disarcionata, ma con mossa da abile cavallerizza riuscì a restare in sella, mentre anche i cavalli di riserva strillavano scalciando e impennandosi. « Alt! » gridò Blaine, cercando disperatamente di fermare la carica del sergente Hansmeyer e dei suoi soldati, con ampi segnali a due mani. « Squadra, alt! » Il sergente reagì con prontezza, fermandosi con un'impennata davanti agli altri cavalli che in qualche modo riuscirono a imitarlo senza danni, alzando un gran polverone. Centaine balzò giú di sella e controllò le zampe anteriori del castrato. Erano a posto. Alzò uno zoccolo posteriore e guardò incredula. Un pezzaccio di ferro arrugginito era incastrato nel fettone della bestia, e dalla ferita si riversava sangue rosso scuro che si mischiava, formando una melma pastosa, con la sabbia fine del deserto. Arditamente, Centaine afferrò l'ordigno e cercò di tirarlo via, ma era conficcato profondamente e il castrato fremeva di dolore. Dovette torcerlo e forzarlo, stando bene attenta a evitare le punte affilate, e alla fine quella cosa orribile le rimase in mano, tutta sporca di sangue equino. Si raddrizzò e la mostrò a Blaine. Anche lui ne aveva in mano due che aveva tolto alla propria cavalcatura. « Chiodi a quattro punte», le disse Blaine. « E' dal tempo di guerra che non vedo questi ferri disgustosi. » Erano forgiati alla meno peggio a forma delle ubique « spine del diavolo » disseminate nel veld africano, quattro punte incrociate in modo che una fosse sem-
pre rivolta verso l'alto. Sette centimetri di ferro aguzzo capace di azzoppare uomini e cavalli, o di sgonfiare le gomme di qualunque veicolo. Centaine si guardò intorno e vide che il terreno era tutto cosparso delle micidiali stelle. Erano state accuratamente seminascoste col terriccio, ma ciò non aveva affatto diminuito la loro efficacia. In fretta tornò a chinarsi per liberare tutte e tre le bestie dalle punte. Il castrato ne aveva prese due, a entrambi gli zoccoli posteriori, e i cavalli di riserva avevano uno tre e l'altro due zoccoli danneggiati. Estrasse gli infernali aggeggi dalle zampe dei cavalli e con attenzione li guidò fuori del tratto pericoloso. Il sergente Hansmeyer era smontato coi soldati e si era avvicinato per aiutarli, camminando con attenzione perché sapeva che quegli aggeggi erano in grado di trapassare facilmente anche la suola degli stivali. Bonificarono un corridoio attraverso il quale condurre via le bestie ma dovettero riconoscere che tutte e sei erano gravemente menomate. Procedevano lentamente e dolorosamente, riluttanti ad ad poggiare gli zoccoli. « Sei cavalli », sussurrò amaramente Blaine, « Quando gli metto le mani addosso, gliela faccio pagare a quel bastardo. » Tirò fuori il fucile dalla guaina assicurata alla sella e ordinò a Hansmeyer: « Metta le nostre selle su due dei vostri cavalli di riserva. Riempia tutte le borracce con l'acqua dei cavalli azzoppati e incarichi due soldati di trovare o segnare una via libera dai chiodi per superare la zona pericolosa. E si sbrighi, non possiamo perdere nemmeno un minuto ». Centaine li abbandonò e procedette, aggirando con attenzione la zona dei chiodi. Raggiunse la cassetta di sicurezza nera che l'aveva ingannata e la raccolse. Il coperchio si aprì subito, privo ormai di serratura com'era dopo la pistolettata di Lothar. La rovesciò. Era vuota. La lasciò cadere a terra e guardò indietro. Gli uomini di Blaine avevano lavorato in fretta. Già le selle erano state trasferite sui cavalli incolumi. Per lei avevano scelto un altro castrato, nero stavolta, e il sergente Hansmeyer glielo stava portando. Procedevano in fila indiana, scrutando il terreno per vedere che non ci fossero altre trappole. Centaine si rese conto che d'ora in poi non avrebbero potuto rilassarsi mai neppure un istante, perché sapeva che Lothar non aveva sicuramente seminato tutti i chiodi in suo possesso. Ne avrebbero incontrati degli altri. Hansmeyer le si avvicino. « Siamo pronti a ripartire, signora. » Le porse le redini del cavallo fresco e lei montò, poi tutti guardarono indietro. Blaine imbracciava il fucile Lee-Enfield tenendolo all'anca e voltando loro le spalle, fronteggiava i sei cavalli zoppi. Sembrava che pregasse, o forse stava soltanto raccogliendo il coraggio, ma aveva la testa china. Lentamente, alzò l'arma per mirare e in rapida successione, creando una specie di tuono rullante, sparò a tutti i cavalli che caddero scalciando uno sull'altro e in breve rimasero li stecchiti. Allora lui si girò e per un attimo, anche a quella distanza. Centaine colse la sua espressione.
Subito dopo si rese conto che, lei, stava piangendo: le lacrime le scorrevano giú per le guance e non riusciva a fermarsi. Blaine la raggiunse. Le diede un'occhiata e quando vide che piangeva distolse lo sguardo, lasciandola sola con la sua momentanea debolezza. « Abbiamo già perso un'ora », disse. « Squadra, avanti! » Prima di sera altre due volte i boscimani li fermarono in tempo e dovettero bonificare altri tratti disseminati di chiodi. Ogni volta costò loro minuti preziosi. « Stiamo perdendo terreno », giudicò Blaine. « Hanno sentito i colpi di fucile e stanno sul chi vive. Sanno di avere cavalli freschi piú avanti, nascosti chissà dove, e non risparmiano le bestie. Vanno in fretta, molto piú in fretta di quanto possiamo azzardarci a fare noi. » Il paesaggio cambiò con teatrale rapidità allorché uscirono dalle desolazioni della terra dei boscimani per entrare nel paese del Kavango, alberato e meno ostile. Tra gli avvallamenti delle antiche dune solidificate crescevano grandi piante, il combretum, grazioso giunco a cespuglio, l'albizia, col suo fogliame simile a finissime piume e, tra queste, colonie di giovani mopani. Le valli, poco profonde, erano coperte di odorose erbe del deserto dai fiori multicolori che si sfaldavano contro le staffe spargendo semi nella brezza. Qui l'acqua sotterranea non era a gran profondità e tutta la natura sembrava rispondere alla sua presenza. Per la prima volta dopo aver lasciato la missione di Kalkrand rividero le zebre e altri grossi animali come l'impala fulvo, e capirono che la pozza a cui stavano dirigendosi non poteva distare piú di qualche chilometro, dato che questi animali bevono tutti i giorni. Era ora, perché tutti i cavalli erano provati e indeboliti e si trascinavano appena sotto il peso dei cavalieri. Nelle borracce poi rimaneva ben poco, gorgogliavano semivuote a ogni piccolo sorso come irridendo alla loro gran sete. Lothar De La Rey non riusciva piú a stare in sella da solo. Swart Hendrick doveva sorreggerlo cavalcandogli a fianco, e dall'altra parte lo teneva su suo figlio bastardo Klein Boy, il Ragazzino. Quando improvvisi attacchi di delirio lo coglievano e si metteva a ridere e vaneggiare, se non ci fossero stati loro sarebbe caduto a terra. Manfred li seguiva, guardando suo padre con angoscia, però troppo stanco e assetato per assisterlo. Affrontarono un'altra salita nell'infinita successione di dune pietrificate. Swart Hendrick si alzò sulle staffe per vedere prima di là dal valico, sperando forte di aver azzeccato la strada in quel panorama sempre uguale. Tutto ciò di cui disponevano per orizzontarsi era il sole e il loro istinto di creature del deserto. Ma si rallegrò distinguendo nella valle seguente le quattro acacie giganti e gli alti mopani grigiastri che si alimentavano nell'acqua in cui affondavano le radici. Erano esattamente come li ricordava. Tra quei tronchi Hendrick vide balenare il riflesso dell'acqua stagnante. I cavalli scesero saltellando racconsolati verso la pozza oltre i tronchi, che era circondata da un tratto di creta nuda. L'acqua era color caffellatte, una pozza non piú larga di dieci
passi, non piú profonda di un ginocchio. Attorno c'erano le impronte di ogni sorta di animali dotati di zoccoli o artigli: dai piccoli segni a « V » della quaglia e del francolino ai grossi catini rotondi impressi nella creta dall'elefante. L'argilla nera era stata cotta dal sole fino a diventare dura come cemento. Hendrick e Klein Boy portarono le cavalcature fin nel centro della pozza e poi si gettarono a faccia in giú in quell'acqua tiepida e fangosa, ridendo di gioia selvaggia nell'aspirarne grandi sorsate. Manfred aiutò suo padre a scendere da cavallo in riva all'acqua, dove sedette, inginocchiato, sui talloni. Riempí il cappello e glielo porse. Lothar bevve avidamente, tossendo e sputacchiando quando l'acqua gli andava di traverso. Aveva la faccia gonfia e rossa, gli occhi lucidi di febbre e il sangue avvelenato che bruciava. Swart Hendrick lo raggiunse guadando la pozza, con l'acqua che gli sprizzava dagli stivali e gli imbeveva i calzoni, sempre sorridente finché a un tratto un pensiero lo colpí e si arrestò all'improvviso. Il sorriso era svanito dai labbroni neri mentre si guardava intorno attentamente. « Qui non c'è nessuno », grugní. « Buffalo e Legs... dove sono? » Si mise a correre, alzando spruzzi a ogni passo mentre andava verso la primitiva capanna costruita all'ombra della piú vicina acacia a ombrello Era vuota e abbandonata. Le ceneri del fuoco da campo erano sparse dappertutto: le tracce piú recenti risalivano a parecchi giorni prima, anzi settimane. Perlustrò irato un tratto di foresta e alla fine tornò da Lothar. Manfred e Klein Boy nel frattempo l'avevano trasportato all'ombra dell'acacia, appoggiandolo al tronco. « Ci hanno abbandonati », disse Lothar anticipando il rapporto di Hendrick. « Dovevo immaginarlo. Dieci cavalli, del valore di cinquanta sterline l'uno. Era una tentazione troppo grande. » Acqua e riposo parevano averlo ristorato ed era tornato lucido. « Devono essere scappati quasi subito », disse Hendrick lasciandosi cadere accanto a lui. « Hanno venduto i cavalli ai portoghesi di là dal fiume e sono tornati a casa dalle mogli. » « Promettimi che quando li rivedrai li ammazzerai lentamente, Hendrick, molto lentamente. » « So già come farò », sussurrò lui. « Gli taglierò l'uccello con un coltello mal affilato e glielo farò mangiare a pezzettini. » Rimasero entrambi zitti, fissando i quattro sparuti cavalli mezzo scoppiati che gli restavano. Avevano la pancia gonfia d'acqua e la testa pateticamente pendula, col naso che sfiorava la creta seccata dal sole. « Ci sono ancora almeno cento chilometri al fiume », ruppe il silenzio Lothar, cominciando a disfare gli stracci sporchi avvolti intorno all'avambraccio. Si era grottescamente gonfiato. La mano aveva forma e dimensioni di un melone maturo. Le dita spuntavano rigide da una palla di carne azzurrognola. Il gonfiore arrivava fino al gomito, triplicando la circonferenza dell'avambraccio: la pelle si era spaccata e dalle rotture stillava siero trasparente. Le incisioni del morso erano profonde, purulente e nere con gli orli giallastri slabbrati come petali di un fiore da cui si alzava, spesso e dolciastro, come oleoso, il fetore
dell'infezione, raggiungendo narici e gola di Lothar e disgustandolo. Sopra il gomito il gonfiore non era cosí accentuato, ma sottopelle correvano fino all'ascella le livide linee scarlatte che diffondevano l'infezione. Tastò delicatamente le ghiandole: erano gonfie e dure come pallettoni. « Cancrena », si disse, e ora capí che la soluzione acida con cui aveva cercato di pulire la ferita aveva aggravato la situazione. « Era troppo forte », mormorò. « Troppo concentrata. » Aveva distrutto i capillari intorno alle ferite, preparando il terreno alla successiva cancrena. « Perderò la mano. » Alla fine doveva guardare in faccia la realtà delle sue condizioni. Per un attimo pensò di procedere lui stesso all'amputazione: immaginò di immergere il coltello nell'incavo del gomito e tagliare... « Non ce la farei », riconobbe. « Non riesco nemmeno a pensarci. Debbo proseguire fin dove mi lascia arrivare la cancrena, per il bene di Manie. » Alzò gli occhi sul ragazzo. « Ho bisogno di bende. » Cercò di emettere una voce ferma e rassicurante, ma uscì come il gracchiare d'un corvo, e il ragazzo sussultò e distolse lo sguardo dall'arto massacrato. Lothar sparse sulle ferite suppurate dei cristalli di acido fenico - l'unica cosa che aveva - e bendò l'avambraccio con strisce ottenute da una coperta. Avevano già usato, per fare bendaggi, tutti gli indumenti di ricambio. « Che vantaggio avremo ancora su di lei, Henny? » chiese annodando il bendaggio. «Un pò di tempo l'avremo guadagnato di sicuro», azzardo Hendrick. « Adesso dovranno risparmiare i cavalli. Ma guarda un pò i nostri. » Uno si era accucciato in riva all'acqua, il segno della capitolazione. « Cinque o sei ore di vantaggio le avremo. » E mancavano ancora cento chilometri al fiume, che non offriva nessuna garanzia di reale interruzione della caccia. Quelli potevano benissimo ignorare il confine, e tutti ne erano ben consapevoli. « Manfred », sussurrò. « Porta qua i diamanti. » Il ragazzo mise il sacco di tela davanti a Lothar che l'aprì con cura. C'erano ventotto pacchettini sigillati con la ceralacca. Lothar fece quattro mucchietti di sette. « Parti uguali », disse. « Non possiamo sapere il valore di ogni pacchetto, così dividiamo a caso e lasciamo ai giovani la prima scelta. » Guardò Hendrick. « Sei d'accordo? » Swart Hendrick capì che la divisione del bottino costituiva un'ammissione implicita che non tutti avrebbero raggiunto il fiume. Abbassò gli occhi per non guardare Lothar. Lui e questo diavolo biondo dalla pelle bianca stavano insieme dai lontani tempi della gioventú. Non aveva mai pensato a cosa li teneva insieme: nei confronti di tutti i bianchi, tranne questo, non provava che sfiducia e incrollabile antagonismo. Insieme avevano osato tanto, visto tanto, diviso tanto. Non pensava a ciò come a un affetto o un'amicizia: tuttavia il pensiero della prossima separazione lo riempiva di una disperazione distruttiva, come se l'aspettasse una sorta di morte.
« D'accordo », disse con la sua voce profonda e sonora come il rintocco di un campanone, e guardò il ragazzo bianco. Uomo e ragazzo erano una cosa sola nella mente di Swart Hendrick. Ciò che provava per il padre si estendeva anche al figlio. « Scegli, Manie », ordinò. «Non saprei», disse Manfred nascondendo le mani dietro la schiena, per non toccare i mucchietti. « Forza, fallo », ordinò il padre. Obbediente, Manfred avanzò la mano e toccò la pila piú vicina. « Prendili », ordinò Lothar, e poi guardò il ragazzo negro. « Scegli, Klein Boy. » Erano rimaste due pile, e Lothar sogghignò dietro le labbra spaccate. « Qual è la tua età, Henny? » « Sono vecchio come la montagna bruciata, e giovane come il primo fiore di primavera », disse l'ovambo, e tutti e due risero. « Se avessi un diamante per tutte le volte che abbiamo riso insieme », pensò Hendrick, « sarei l'uomo piú ricco del mondo. » E gli ci volle uno sforzo per continuare a ridere. « Tu devi essere piú giovane di me », disse forte, « perché ho sempre dovuto farti da balia. Scegli! » Lothar spinse verso Manfred il mucchio che aveva scelto. « Mettilo nel tascapane », gli disse, e Manfred obbedi, mentre i due negri infilavano nelle tasche della camicia i loro pacchetti. « E adesso riempite le borracce. Mancano cento chilometri al fiume », disse Lothar. Quando furono pronti a partire Hendrick si chinò ad aiutare Lothar ad alzarsi, ma lui gli spinse via la mano, irritato, e si alzò da solo appoggiandosi al tronco dell'acacia. Uno dei cavalli non riuscì a risollevarsi e lo lasciarono li in riva all'acqua. Un altro scoppiò dopo il primo chilometro, ma gli altri due riuscirono a procedere seppure a stento. Nessuno era piú in grado di portare un uomo in groppa, ma uno portava l'acqua e all'altro si appoggiava Lothar come a una stampella. Barcollava aggrappato al suo collo con il braccio sano. Gli altri tre si incaricavano a turno di guidare i cavalli, e proseguirono ostinatamente verso nord. A volte Lothar si metteva a ridere senza ragione, o a cantare con voce forte e chiara, reggendo bellamente la canzone, sicché Manfred provò un empito di sollievo. Ma poi la voce si infrangeva, tornando gracchiante e smorendo. Declamava, litigava, implorava i fantasmi della febbre che l'assediavano affollandosi attorno a lui: Manfred correva a sorreggerlo e si calmava un pò. « Sei un bravo ragazzo, Manie », gli sussurrava. « Sei sempre stato un bravo ragazzo. D'ora in poi la nostra vita sarà bellissima. Andrai a una scuola di lusso e diventerai un perfetto gentiluomo. Andremo insieme a Berlino, all'opera... » « Oh, papà, non parlare. Risparmia le energie, papà! » E Lothar ricadeva in un silenzio opprimente, continuando a muovere i piedi uno davanti all'altro quasi solo per inerzia, senza rotolare a faccia in giú nella sabbia rovente del Kalahari solo perché il cavallo da una parte e suo figlio Manfred dall'altra lo sorreggevano.
Lontano, davanti a loro, apparve biancheggiando tra la foresta il primo kopje di granito. Era tondo come una perla e altrettanto liscio, ed emanava al sole una luce grigio argento. Centaine arresto il cavallo sulla cresta e guardò giú. Era una conca tondeggiante. Riconobbe gli alti alberi dalla cui cima, molti anni prima, aveva visto per la prima volta un elefante africano allo stato brado: un pò della meraviglia infantile di allora le era sempre rimasta dentro. Poi vide l'acqua, e tutto il resto fu dimenticato. Non era facile mantenere il controllo dei cavalli una volta che l'avevano fiutata. Aveva sentito parlare di persone morte traversando il deserto perché avevano lasciato andare i cavalli o il bestiame all'acqua, e gli animali l'avevano subito trasformata tutta in imbevibile fango. Ma Blaine e il suo sergente erano uomini esperti e li tenevano a freno. Appena i cavalli ebbero bevuto e furono impastoiati, Blaine si spogliò e con le sole brache si gettò nella pozza spruzzandosi l'acqua in testa. Centaine lo osservò di nascosto. Era la prima volta che lo vedeva a torso nudo. Era tutto peloso e luccicante di gocciolino. C'era un piccolo neo sotto il capezzolo destro, a parte questo il suo corpo era senza macchia: la pelle aveva la luminosità del marmo lucidato, come la statua michelangiolesca del David, e i suoi muscoli erano lisci e dall'aria dura. Il sole aveva abbronzato una netta « V » sotto la sua gola, e anche le braccia erano brune fino al bianco delle maniche corte della camicia: qui la pelle era di un color avorio pallido che trovò così attraente da dover subito distoglierne lo sguardo. Quando gli si avvicinò, lui si rimise in fretta la camicia, che l'acqua segnò subito di grosse macchie scure. Il suo pudore la fece sorridere. « De La Rey non ha trovato cavalli di ricambio qui », gli disse, e lui parve perplesso. « Sei sicura? » « Kwi dice che c'erano due uomini qui con molti cavalli, ma se ne sono andati parecchi giorni fa. Non sa contare oltre le dita di una mano, ed erano piú di cinque giorni. Sì, sono sicura che De La Rey non ha trovato cavalli freschi qui. » Blaine si lisciò i capelli umidi con le mani. « Allora qualcosa gli è andato storto. Non avrebbe mai spremuto i cavalli come ha fatto se non avesse pensato di cambiarli qui. » « Kwi dice che hanno proseguito a piedi. Evidentemente i cavalli non sono piú in grado di reggere un uomo » Si interruppe subito quando Kwi gridò dal limitare della foresta e lei e Blaine corsero a raggiungerlo. « Sono alla disperazione », disse Blaine vedendo la pila di materiale abbandonato dietro l'acacia. « Selle, cibo in scatola, coperte e perfino minuzioni », disse frugando col piede nella roba scartata, « e anche quei dannati chiodi a quattro punte. » Erano in una cassettina di legno ormai semivuota. « Si sono alleggeriti e stanno cercando di raggiungere il fiume con un ultimo scatto. » « Guarda qui, Blaine », gli gridò Centaine, ed egli la raggiunse e si chinò a esaminare le bende abbandonate. « La ferita sta peggiorando », mormorò Centaine, ma strana-
mente non c'era soddisfazione nella sua voce, né lampi di trionfo nei suoi occhi. « Credo che stia morendo, Blaine. » Si sentí incredibilmente spinto a commiserarla e consolarla. « Se riusciamo a portarlo da un dottore... » Ma si interruppe, sentendosi ridicolo. Stavano inseguendo un pericoloso criminale che, se avesse appena potuto, non avrebbe esitato a mandarlo all'altro mondo con una fucilata. « Sergente Hansmeyer », berciò. « Faccia mangiare gli uomini e abbeverare di nuovo i cavalli ché tra un'ora muoviamo. » Tornò a rivolgersi a Centaine e vide con sollievo che si era ripresa. « Un'ora è poca cosa. Vediamo di utilizzarne ogni minuto. » Sedettero insieme all'ombra. Nessuno mangiò molto: caldo e fatica toglievano l'appetito. Blaine prese un sigaro dalla custodia di cuoio e poi cambiò idea. Lo rimise a posto e ripose la custodia in tasca. « Quando ti ho conosciuta ho pensato che eri bella, splendente e dura come uno dei tuoi diamanti », le disse. « E adesso? » gli chiese. « Ti ho vista piangere per dei cavalli, e aver compassione di un uomo che ti ha recato crudele offesa », le rispose. « Quando abbiamo lasciato Kalkrand, ero innamorato di te. Penso di esserlo stato fin dal primo momento. Non potevo farne a meno, ma adesso mi piaci, anche, e ti rispetto. » « E' una cosa diversa dall'amore? » « E' una cosa molto diversa dall'essere innamorati », affermò lui, e rimasero in silenzio per un po' prima che lei cercasse di spiegarsi. « Blaine, io sono sempre stata sola, con un bambino piccolo da proteggere e indirizzare nel mondo. Quando sono arrivata qui da ragazza, ho subito proprio in questo deserto un durissimo e spietato apprendistato. Ho imparato che non potevo appoggiarmi a nessuno tranne me stessa, e che non si sopravvive se non grazie alla propria forza e risolutezza. Nulla è cambiato: ancor oggi non ho nessuno su cui contare oltre me stessa. Non è forse così, Blaine? » « Vorrei che non lo fosse. » Non cercò di evitare il suo sguardo ma glielo restituì con franchezza. « Vorrei... » S'interruppe e toccò a Centaine terminargli la frase. « Ma tu hai Isabella e le ragazze. » Lui annuì. « Sì, e non possono cavarsela da sole. » « Mentre io si... non è vero, Blaine? » « Non essere amara con me, per favore. Non sono andato a cercarmela io, e non ti ho mai fatto promesse. » « Scusami. » Era già pentita di quello che aveva detto. « Tu hai ragione, non mi hai mai promesso niente. » Guardò l'orologio. « L'ora è passata », disse, e si alzò con un movimento agile e leggero. « Basta che io continui a essere forte e dura », disse. « Ma non rinfacciarmelo piú, Blaine, per favore: mai piú. » Alla pozza dell'elefante erano stati costretti ad abbandonare cinque cavalli, e Blaine cercava di risparmiare i rimanenti alternando tratti a piedi. Dopo mezz'ora smontavano da cavallo e proseguivano a piedi per la mezz'ora successiva. Soltanto i boscimani non risentivano della sete, della fatica e del caldo, ma solo dell'irregolarità del-
l'andatura che li rendeva impazienti. « L'unica consolazione è che De La Rey va ancora piú piano di noi. » Si capiva dalle tracce: i fuggiaschi, che disponevano ormai di un cavallo solo, procedevano a rilento. « E ci sono ancora cinquanta chilometri prima del fiume. » Blaine consulto l'orologio. « E' ora di camminare, temo », disse smontando. Centaine lo imitò soffocando un gemito. Tutti i muscoli le dolevano, e si sentiva i tendini dei polpacci tutti attorcigliati. Ogni passo richiedeva uno sforzo consapevole. La lingua gonfia riempiva le gole, rendendo penoso il respiro. Tutti cercavano di tenere in bocca la saliva, sempre piú spessa, ma serviva solo ad aumentare la sete. Centaine aveva dimenticato cosa si prova a essere veramente assetati, e lo sciabordio dell'acqua nelle borracce trasportate dai cavalli era diventato per lei una vera tortura. Non riusciva a pensare a nient'altro che alla prossima bevuta. Continuava a guardare l'orologio, pensando che si fosse fermato, che si fosse dimenticata di caricarlo, e che certo tra un momento Blaine avrebbe dato l'alt per bere. Nessuno sprecava il fiato per parlare. Anche gli ordini erano monosillabici perché ogni parola costava uno sforzo. « Non sarò la prima ad arrendermi », decise Centaine con durezza. « Anzi, non deve arrendersi nessuno. Bisogna prenderli prima del fiume, e ormai è vicino. » Si accorse che si concentrava sul terreno che il piede stava per calpestare, senza piú nessun interesse per i dintorni, e sapeva che era il primo sintomo di cedimento, ancorché lieve. Dunque si costrinse a rialzare lo sguardo. Blaine procedeva davanti a lei. Era già rimasta un pò indietro! Fece uno sforzo e, tirando il cavallo per le briglie, tornò al suo fianco. Immediatamente si sentì rincuorata, aveva ottenuto un'altra vittoria sulla fragilità del suo corpo. Blaine le sorrise, ma si accorse che anche a lui questo era costato un certo sforzo. « Questi kopjes non sono segnati sulla carta », disse. Non li aveva neanche notati, ma adesso alzo lo sguardo e davanti a loro, a un paio di chilometri, distinse sopra la foresta le loro cime tonde e nude di granito. Non si era mai spinta così a nord: era una plaga sconosciuta per lei. « Non credo che siano mai venuti a fare rilevamenti in questa zona », gli sussurro, poi si schiarì la gola e parlo piú forte. « Hanno segnato solo il fiume. » « Berremo quando raggiungeremo la prossima collina », le promise. « Cos'è, la carota per l'asino? » Lui sogghigno. « Pensa al fiume, quello è tutt'un orto di carote. » Ricaddero nel silenzio. I boscimani li conducevano direttamente verso le colline. Alla base del cono di granito trovarono l'ultimo cavallo di Lothar De La Rey. Giaceva sul fianco, ma quando lo raggiunsero alzo la tesa. La giumenta di Blaine nitrì piano, e l'animale atterrato cerco di rispondette ma non ci riuscì. La testa gli ricadde piatta contro il suolo e gli ansiti dalle froge alzarono nuvolette di polvere. I boscimani girarono intorno all'animale morente e conferirono tutti eccitati. Kwi fece una corsetta verso la pendice grigia del kopje e guardò in alto.
Tutti lo imitarono e si misero a fissare la cima della collina tonda di granito. Era alta un centinaio di metri. Il costone non era liscio come sembrava da lontano. C'erano profonde spaccature, alcune trasversali, altre che correvano verticalmente dai piedi alla sommità, e il granito si sfaldava a foglia di cipolla per effetto della grande escursione termica con relative dilatazioni e contrazioni. Ciò creava ottimi appigli e qua e là quasi dei gradini per scalare la parete rocciosa, benché l'arrampicata fosse ripida e potenzialmente pericolosa perché esposta. In cima, una serie di massi grandi come case, quasi perfettamente sferici, facevano corona simmetricamente disposti: era una di quelle composizioni naturali cosí regolari che sembrano architettate dall'uomo. A Centaine ricordarono i dolmen che aveva visitato da bambina in Francia, o i vecchi templi maya delle giungle sudamericane di cui aveva visto qualche illustrazione. Blaine si era allontanato da lei. Guidando il cavallo per le redini si era fatto sotto la parete del rilievo. Ed ecco che qualcosa, in cima al kopje, attirò l'attenzione di Centaine: un fremito nell'ombra dietro uno dei massi a corona. Gridò subito un avvertimento a Blaine. «Attento! In cima...» Blaine si trovava davanti al cavallo, guardava in su con le redini appoggiate sulla spalla. Prima che potesse reagire all'avvertimento, si udí un tonfo come d'un sacco di farina che cada su un lastrico: Centaine non lo riconobbe per l'impatto d'un proiettile da guerra nella carne viva finché il cavallo di Blaine non vacillò e non cadde sulle zampe anteriori, travolgendo l'uomo. Centaine rimase sbalordita fin quando non sentí giungere lo sparo dalla cima del kopje: allora capí che il proiettile era arrivato prima della detonazione. Tutt'intorno a lei i soldati gridavano cercando di tenere a bada i cavalli spaventati. Centaine scattò volteggiando in sella al suo senza toccar le staffe, facendogli subito girare la testa. « Blaine, arrivo! » gli gridò. Era riuscito a rialzarsi accanto alla carcassa del suo cavallo, e lei partí al galoppo nella sua direzione. « Attaccati alla staffa! » urlò mentre i Mauser in cima alla collina riversavano piombo su di loro. Vide cadere fulminato il cavallo del sergente Hansmeyer, e lui proiettato in avanti, per terra. Blaine le corse incontro e afferrò al volo la staffa penzolante. Lei voltò il cavallo e lo spinse al gran galoppo, battendo le redini, verso il riparo dei radi mopani a un centinaio di metri di distanza. Blaine oscillava appeso alla correggia, i piedi che sfioravano il terreno con grandi balzi per star dietro a quel galoppo indiavolato. « Tutto bene? » gli gridò lei. « Vai, vai! » le ordinò con voce strozzata dallo sforzo. Lei si girò abbassandosi a guardarlo. La sparatoria continuava tutt'intorno a loro. Un soldato si era avvicinato al sergente per aiutarlo ma, come l'aveva raggiunto, una pallottola aveva colpito il suo cavallo in testa e anche lui era andato a gambe all'aria. « Mirano ai cavalli! » grido Centaine, accorgendosi che era rimasto illeso solo il suo. Tutti gli altri erano a terra, uccisi con un sol colpo alla testa. Erano tiratori superbi, perché gli uomini in cima al-
la collina sparavano in basso a una distanza di centocinquanta passi e piú. Davanti a lei Centaine vide una piccola forra che prima le era sfuggita. Sulla prima riva c'era un mucchio di rami caduti che formava una specie di palizzata naturale, e vi si diresse, spingendo il cavallo nel riparo e immediatamente saltando giú di sella e prendendogli la testa tra le mani per calmarlo. Blaine frattanto aveva lasciato andare la staffa e rotolava a sua volta giú per la forra sperando forte nell'assenza di serpenti velenosì. Si rialzò incolume e imprecò: « Sono caduto nell'imboscata come un novellino ». Ce l'aveva con se stesso. « Ero troppo stanco per pensare. » Tirò fuori il fucile dalla guaina della sella di Centaine e si affacciò al ciglio della forra. Davanti a lui i cavalli morti giacevano sotto le pendici ripide e lisce della collina di granito. Il sergente Hansmeyer e i soldati correvano a zig-zag verso il riparo della forra. Echeggiavano colpi di Mauser che alzavano polvere ai loro piedi, rimbombando e fischiando vicino alle orecchie. Quei piccoli gnomi bruni dei boscimani erano scomparsi al primo colpo come per magia. Centaine sapeva che non li avrebbero piú visti. Stavano già tornando indietro per riunirsi al clan che li aspettava al bacino del lago secco di O'chee. Blaine alzò la tacca posteriore del mirino regolandola sui duecento metri e puntò verso la cima del kopje, dove un filo di fumo azzurrino aveva tradito il tiratore nascosto. Sparò in rapida successione tutto un caricatore per coprire la ritirata dei suoi soldati, vedendo schizzare via schegge di granito dalla cima della collina. Poi infilò subito un altro caricatore nel fucile rovente, mise il colpo in canna e ricominciò a sparare a ritmo piú rapido che poteva sulla cresta del kopje. A uno a uno Hansmeyer e i soldati raggiunsero la forra e ci saltarono dentro a piedi pari, tutti sudati e ansimanti, qualche soddisfazione Blaine notò che nessuno aveva abbandonato il fucile, e tutti avevano la bandoliera a tracolla con 75 colpi a testa. « Hanno ammazzato i cavalli ma senza colpire nessuno di noi », disse Hansmeyer ansimando. « Non mi hanno mai sparato vicino », disse Centaine. Lothar doveva essersi assicurato di non metterla in pericolo. Si rese conto con un tremito di quanto sarebbe stato facile per i fuggiaschi spedirle una pallottola nella nuca mentre correva. Blaine stava ricaricando il Lee-Enfield, ma alzò la testa e sorrise senza alcuna allegria. « Il nostro amico non è un idiota. Non ci tiene ad aggiungere l'omicidio alla lista dei suoi reati. » Guardò Hansmeyer. « Quanti uomini ci sono in cima al kopje? » « Non lo so », rispose Hansmeyer, « ma sicuramente piú di uno. Il volume di fuoco era notevole, e ho sentito degli spari sovrapposti. » « E va bene, vediamo un pò in quanti sono. » Blaine convocò accanto a se Hansmeyer e Centaine e spiegò. Centaine prese il binocolo e al riparo della forra si spostò di lato, dietro un folto ciuffo d'erba che cresceva sul ciglio. Celata da que-
sto, alzò la testa fino a inquadrare la cima della collina. Mise a fuoco il binocolo e gridò: « Pronta! » Blaine mise l'elmetto in cima alla bacchetta per pulire il fucile e lo fece sporgere dal ciglio della forra. Intanto Hansmeyer sparava due colpi per attirare l'attenzione dei cecchini in cima al kopje. Quasi subito rispose una scarica di fucileria che sollevò polvere a destra e a sinistra dell'elmetto-esca. Alcuni spari risultarono sovrapposti. « Sono due o tre », gridò Hansmeyer. « Tre », confermò Centaine, abbassando il binocolo e tornando al riparo. « Ho visto tre teste. » « Bene », annuì Blaine. « Allora li abbiamo in mano. E' solo questione di tempo. » « Blaine », disse Centaine prendendo la borraccia fissata alla sella e agitandola: era piena per un quarto. « E' tutta l'acqua che abbiamo. » Tutti guardarono la borraccia, e involontariamente Blaine si forbí le labbra. « Appena vien buio potremo recuperare le altre », assicurò loro, e poi proseguí in tono deciso: « Sergente, prenda due soldati e vada dall'altra parte del kopje ad assicurarsi che nessuno se la squagli dalla porta di dietro ». Lothar De La Rey sedeva appoggiato a uno dei grandi macigni rotondi sulla cima della collina. Sedeva all'ombra, col Mauser sulle ginocchia. Era a capo scoperto e i lunghi capelli biondi gli ricadevano soffici sulla fronte. Guardava a sud, oltre la pianura e la rada foresta di mopani, nella direzione da cui sarebbero arrivati gli inseguitori. La scalata della ripida parete di granito l'aveva duramente provato e non si era ancora ripreso. « Lasciatemi una borraccia », ordinò, e Hendrick gliene piazzò una accanto. « L'ho riempita con quanto restava in queste », disse indicando quelle vuote gettate da parte. « Anche noi ne abbiamo una piena, che ci basta fino al fiume. » « Bene. » Lothar annuí e diede un'occhiata al resto del materiale depositato accanto a lui sul terreno granitico. C'erano quattro bombe a mano del vecchio tipo « schiacciapatate », col manico di legno, che erano rimaste nascoste per vent'anni nella grotta delle munizioni coi chiodi a quattro punte e l'altro equipaggiamento bellico. Chissà se c'era ancora da fidarsene. Klein Boy aveva lasciato il suo Mauser e la sua bandoliera di munizioni. Sicché Lothar aveva due fucili e centocinquanta colpi: piú che abbastanza, se le granate funzionavano ancora. Se no, nulla importava. « Va bene », disse tranquillo Lothar. « Ho tutto quello che mi serve. Potete andare. » Hendrick volse la testa a palla di cannone verso il sud. Erano su un vero e proprio belvedere, alti sopra il mondo, e dominavano una trentina di chilometri o piú: tuttavia non c'era traccia di inseguitori da nessuna parte.
Hendrick cominciò ad alzarsi e si fermò a metà del gesto. Strinse gli occhi nel riverbero distorto dalle vibrazioni di calore. « Polvere! » disse. Era una nuvoletta che sporcava il cielo sopra gli alberi, ancora a otto chilometri buoni di distanza. « Sí. » Lothar l'aveva già vista qualche minuto prima. « Potrebbe essere un branco di zebre, o un miraggio, ma non ci scommetterei la mia parte di bottino. Quindi andate via subito. » Hendrick non ubbidí immediatamente. Guardò negli occhi l'uomo bianco. Hendrick non aveva fatto discussioni o protestato quando Lothar aveva spiegato loro cosa dovevano fare. Era giusto, era logico. Avevano sempre abbandonato i feriti, a volte solo con una pistola a portata di mano, per quando il dolore, o le iene, li avessero stretti troppo da presso. Pure, stavolta Hendrick sentiva il bisogno di dire qualcosa, anche se evidentemente non c'erano parole adeguate all'enormità del momento. Sapeva che su quella roccia martellata dal sole stava lasciando un pezzo della propria vita. « Baderò io al ragazzo », disse semplicemente, e Lothar annuí. « Voglio parlare con Manie. » Si leccò le labbra screpolate e rabbrividí un istante per la febbre che il veleno della ferita gli diffondeva nel sangue. « Aspettatelo laggiú. Ci vorrà solo un minuto. » « Vieni », ordinò Hendrick, e Klein Boy si alzò con lui. Insieme mossero con l'agilità di pantere in caccia verso l'estremità opposta del colle, e Klein Boy scomparve subito sotto il ciglio. Hendrick si fermò e guardo indietro. Alzò la mano destra. « Sta, in pace », disse semplicemente. « E tu va, in pace, vecchio mio », mormorò Lothar. Non l'aveva mai chiamato amico prima d'ora, e Hendrick sussultò a questa parola. Poi voltò la testa per non mostrare gli occhi a Lothar e un attimo dopo era sparito. Lothar guardò nella sua direzione per parecchi secondi, poi si riscosse, scacciando l'autocommiserazione e i sentimenti malsani e le nebbie febbrili che minacciavano di chiudersi su di lui e prostrarlo del tutto. « Manfred », disse, e il ragazzo sobbalzò. Sedeva il piú vicino possibile a suo padre, guardandone il viso, pendendo dalle sue labbra e da ogni suo gesto. « Papà », gli sussurrò, « io non voglio andare. Voglio restare con te.» Lothar fece un gesto d'impazienza, indurendo l'espressione per nascondere la tenerezza. « Tu farai come dico io. » « Papà... » « Prima d'ora non mi hai mai deluso, Manie. Sono sempre stato orgoglioso di te. Non rovinare tutto proprio adesso. Non farmi pensare che mio figlio sia un vigliacco... » « Non sono un vigliacco! » « Allora fa, quello che devi fare », disse duramente e, prima che Manfred potesse protestare ancora, gli ordinò di portargli il tascapane. Lo mise tra i piedi e con la mano buona slegò la cinghia. Prese uno dei pacchetti e lo lacerò coi denti. Versò i diamanti sulla roccia
liscia al suo fianco e poi li sparse. Scelse dieci dei piú grossi e bianchi. « Togliti la giacca », ordinò, e quando Manfred gliela porse Lothar fece un buchino nella fodera con la punta del coltello. «Queste pietre varranno migliaia di sterline. Abbastanza per mantenerti fino alla laurea », disse, infilandoli a uno a uno con l'indice nella fodera della giacca. « Ma questi altri... sono troppi, troppo pesanti, troppo ingombranti da nascondere. Sono pericolosi per te da portar dietro, una condanna a morte. » Si alzò con uno sforzo. « Vieni! » Guidò Manfred tra i grandi massi, appoggiandosi a essi per non cadere mentre il ragazzo lo sorreggeva dall'altra parte. « Qui! » borbottò abbassandosi sulle ginocchia, mentre Manfred si accucciava vicino a lui. Ai loro piedi il cappuccio di granito del colle presentava una fessura che sembrava praticata a scalpello. In superficie era larga non piú di due spanne, ma era profonda, non se ne vedeva la fine benché lo sguardo potesse spingersi dentro per una decina di metri. La fenditura si stringeva sempre piú, e le sue profondità erano celate dal buio. Lothar prese in mano il tascapane e lo fece pendere sulla fenditura. « Ricordati bene questo posto », gli sussurrò. « Guarda indietro spesso mentre vai a nord, in modo da ricordarti sempre questa collina. Le pietre saranno qui ad aspettarti il giorno in cui ne avrai bisogno. » Lothar aprí le dita e il tascapane cadde nella fenditura. Sentirono la tela frusciare contro le pareti di granito mentre cadeva, e quasi subito incastrarsi giú giú. A fianco a fianco guardarono dentro e, a circa tre metri di profondità, distinsero un vago chiarore e una forma estranea alla roccia: ma avrebbe ingannato chiunque non sapesse esattamente dove cercare. « E' la mia eredità, Manie », sussurrò Lothar, strisciando via dall'apertura. « Bene, Hendrick ti sta aspettando. E' ora di andare. Va, via subito, adesso. » Voleva abbracciare il figlio per l'ultima volta, baciargli occhi e labbra per imprimerselo nel cuore, ma sapeva che questo avrebbe rovinato entrambi. Se si fossero abbracciati ora, non si sarebbero separati piú. « Vai! » gli ordinò, e Manfred, singhiozzando, si lanciò tra le sue braccia. « Voglio stare con te! » piangeva. Lothar gli prese il polso e lo tenne lontano. « Vuoi farmi vergognare di te? » sibilò. « E' così che vuoi che ti ricordi, piagnucolante come una ragazza? » « Papà, non mandarmi via, per piacere. Lasciami stare qui con te.» Lothar si tirò indietro, lasciò andare il polso del figlio e lo schiaffeggiò, prima col palmo della mano e poi con il dorso. Manfred finì per terra, con le guance pallide piene di lividi rossi e un rivolo di sangue che gli usciva da una narice scorrendogli sul labbro superiore. Guardava Lothar con occhi increduli e sconvolti.
« Vattene via di qui », gli sibilò Lothar, chiamando a raccolta tutto il proprio coraggio per rendere la voce sprezzante e l'espressione terribile. « Non mi serve una signorina piagnucolosa tra i piedi proprio adesso. Vattene via di qui prima che ti prenda a cinghiate! » Manfred si rimise in piedi e arretrò, sempre guardando il padre con orripilata incredulità. « Vattene! Vattene! » L'espressione di Lothar non vacillava, e il suo tono era sempre piú duro. « Vattene via di qui! » Manfred si girò e andò barcollando fino al ciglione. Poi si voltò ancora e tese le mani: « Papà! Per favore non... » « Va, via, maledizione! Via! » Il ragazzo cominciò la discesa, incerta e goffa, a giudicare dai rumori che arrivavano fin lì. Solo allora Lothar si lasciò andare. Gli cascarono le braccia, singhioiò forte una volta, e poi si ritrovo a piangere silenziosamente, scosso in tutto il corpo. « E' la febbre », si disse. « La febbre mi ha indebolito. » Ma l'immagine del viso di suo figlio, bello, dorato e stravolto dal dolore, continuava a riempirgli la mente e sentiva uno strazio in petto, un intollerabile dolore fisico. « Perdonami, figlio mio », sussurro tra le lacrime. «Non c'era altro modo di salvarti. Perdonami, te ne prego. » Lothar dovette piombare nell'incoscienza, perché si svegliò di soprassalto e non riuscì a ricordare dov'era e come ci era arrivato. Fu il fetore del braccio, malsano e disgustoso, a riportargli di colpo la memoria. Strisciò fino all'orlo della collina e guardò a sud. Allora vide gli inseguitori per la prima volta, e anche alla distanza di due, tre chilometri riconobbe le due figurette fatali che danzavano in testa alla colonna di cavalieri. « Boscimani », sussurrò. Adesso capiva come mai erano così vicini. « Mi ha sguinzagliato dietro i suoi boscimani addomesticati. » Si rese conto allora che non aveva mai avuto nessuna possibilità di seminarli: tutto il tempo speso in sotterfugi per confondere le tracce era stato sprecato. I boscimani non si erano lasciati ingannare per piú di un minuto. Poi guardò oltre le guide e contò il numero di armati da tenere a bada. « Sette », sussurrò. Stringendo gli occhi cercò di distinguere tra loro una figura femminile, piú minuta: ma in quella i cavalieri smontarono per proseguire a piedi e i rami dei mopani glielo impedirono. Si occupò allora dei propri preparativi. Adesso la sua unica preoccupazione era quella di ritardare l'inseguimento il piú possibile, e convincere gli inseguitori che tutta la banda era ancora in cima al kopje. Ogni ora che riusciva a guadagnare avrebbe dato a Hendrick e Manie qualche possibilità in piú di cavarsela. Lavorare con una mano sola era duro e complicato, ma Lothar fissò il fucile di Klein Boy in una nicchia di roccia, con la canna puntata sulla pianura sottostante. Legò al grilletto una cinghia presa da una delle borracce vuote e ne condusse un capo alla sua postazione, all'ombra di una svasatura sotto un masso di granito. Dovette fermarsi un momento per il dolore lancinante e le ginoc-
chia che gli cedevano. Sbirciò in basso e vide i cavalieri molto piú vicini, sul punto di sbucare dalla foresta di mopani in campo aperto. Adesso riconobbe Centaine, snella e simile a un ragazzo nelle braghe da cavallerizza, e riuscì perfino a distinguere il giallo vivo del fazzoletto di seta che portava intorno alla gola. Nonostante il fuoco della febbre e l'oscurità che gli avanzava in testa, nonostante la sua situazione disperata, trovò in se un pò di ammirazione dolceamara per lei. « Per Dio, non si arrende mai », borbottò. « Sarebbe capace di seguirmi all'inferno. » Strisciò fino alle borracce abbandonate e tirandosele dietro le dispose in tre pile separate lungo il ciglio della sommità, annodando insieme le cinghie di cuoio in modo di poterle muovere con un solo strattone del capo che teneva in mano. « Altro non posso fare », sussurrò, « se non tirar bene. » Ma la testa gli pulsava e la vista gli ballava nel miraggio ardente della febbre. La sete era un tormento per la gola, e il suo corpo era una fornace. Svitò il tappo della borraccia e bevve, controllandosi il piú possibile e tenendo a lungo l'acqua in bocca prima di mandarla giú. Immediatamente si sentí meglio e la vista migliorò. Chiuse la borraccia e la piazzò accanto a sè, con le munizioni di riserva. Poi piegò la giacca a mò di cuscino sull'orlo di granito davanti a se, e ci appoggiò il Mauser. « I cavalli », rammentò a se stesso. « Non possono seguire Manie senza cavalli... » Fece un respiro profondo, tenne il fiato, e sparò in testa alla giumenta mora di Blaine Malcomess. Mentre il colpo ancora echeggiava sulle pareti delle colline vicine, Lothar armò il Mauser e sparò di nuovo, tirando allo stesso tempo la cinghia collegata al grilletto dell'altro fucile. I due spari si sovrapposero. Ora anche un soldato esperto si sarebbe convinto che in cima alla collina c'era piú d'un uomo. Stranamente, in questo momento di impegno mortale, la febbre era diminuita. La vista di Lothar era limpida e chiara, il mirino del Mauser nettamente profilato contro ogni bersaglio e la mano ferma e precisa nel puntar l'arma morbidamente da un cavallo all'altro per farli cadere tutti stecchiti con un colpo alla testa. Adesso erano tutti spacciati meno uno, il cavallo di Centaine. Automaticamente la mano buona puntò il fucile. Ella stava galoppando verso il riparo dei mopani, curva sull'animale, premendo coi gomiti come un fantino esperto: appeso alla sua staffa c'era un uomo. Lothar tolse il dito dal grilletto. Fu un atto istintivo: non riusciva a costringersi a spedire una pallottola nelle vicinanze di Centaine. Spostò la canna verso gli uomini che, disarcionati, correvano goffi verso gli alberi. Le loro grida di panico giungevano fin lí, stridule e ridicole. Erano bersagli facilissimi, che avrebbe potuto abbattere con un proiettile a testa, ma si divertí invece a sfiorarli con colpi sempre piú vicini. Si piegavano, zigzagavano, saltellavano: era una scena comica. Ricaricando, Lothar rideva, e si accorse a un tratto che la sua risata era isterica e sembrava echeggiargli tra le pareti del cranio. Smise subito. « Non devo perdere la testa », pensò. « Devo
restare lucido fino in fondo. » L'ultimo fuggitivo guadagnò il riparo agognato e Lothar si ritrovò a tremare, tutto sudato, per la reazione. « Devo stare pronto », si incoraggiò. « Devo concentrarmi bene. Non posso ancora lasciarmi andare. » Ricaricò tutti e due i fucili poi tornò alla sua postazione all'ombra dei grandi massi a corona. « Adesso cercheranno di individuarmi », immaginò. « Attireranno il fuoco per vedere dove stò. » Vide l'elmetto invitante che gli veniva offerto oltre il ciglio della forra ai margini della foresta e sogghignò. Il trucco era vecchio. Dopo il primo anno della guerra boera non ci cascava piú nessuno. Era quasi offensivo che lo proponessero proprio a lui adesso. « E va bene! » ghignò. « Vediamo chi è che frega l'altro. » Sparò contemporaneamente con due fucili e un attimo dopo mosse le pile di borracce vuote. A quella distanza, stagliandosi contro il cielo, le tondeggianti borracce avrebbero dato l'impressione di teste di fucilieri nascosti. « Adesso manderanno qualcuno a circondare la collina », indovinò, e cercò del movimento tra gli alberi sui fianchi, col Mauser pronto, battendo le ciglia per schiarirsi la vista. « Mancano cinque ore al buio », si disse. « Hendrick e Manie raggiungeranno il fiume domani all'alba. Devo trattenerli almeno fino allora. » Vide un lampo di movimento sul fianco destro: uomini rannicchiati che correvano avanti a brevi scatti, costeggiando la collina. Mirò ai tronchi sopra le teste. Il Mauser abbaiò scorticando i mopani. Le schegge volavano lasciando ferite bianche sugli alberi. « Giú la testa, myne heeren! » Lothar rideva ancora, isterico, delirante. Si costrinse a smettere, e immediatamente gli apparve il volto di Manie, con gli occhi color topazio bagnati di lacrime e il rivolo di sangue sul labbro superiore. « Figlio mio », invocò. « Come farò a vivere senza di te! » Non accettava ancora l'idea che stava per morire, ma l'oscurità gli invase il cervello e la testa gli ricadde in avanti sul ripugnante bendaggio del braccio. La puzza della sua stessa carne in putrefazione entrò a far parte degli incubi che continuarono a tormentarlo anche in stato d'incoscienza. Tornò gradualmente alla realtà, e comprese che il sole stava tramontando perché non picchiava piú con la forza di prima. Un bel venticello rinfrescava la cima della collina e lui se lo bevve come un balsamo. Poi sentí i morsi della sete e con mano tremante afferrò la borraccia. A fatica riuscí a svitare il tappo e bere un sorso: poi la borraccia gli sfuggí di mano e rotolò bagnandogli la camicia e rovesciando almeno una pinta del prezioso liquido sulla roccia, dove immediatamente evaporò, prima che Lothar riuscisse a recuperarla in qualche modo. La perdita gli fece venir da piangere. Riavvitò accuratamente il tappo, poi alzò la testa e si mise ad ascoltare. Sulla collina c'era qualcuno. Sentì il colpo secco della punta ferrata di uno stivale che batteva contro la roccia. Prese una bomba a mano. Col Mauser in spalla si allontanò dal ciglione e appoggiando-
si al macigno si alzò in piedi. Ma non riusciva a reggersi, e dovette girare intorno al masso puntandoci la schiena. Si affacciò dall'altra parte. Sulla cima della collina non c'era nessuno. Dunque stavano ancora scalando la parete. Trattenne il respiro e tese l'orecchio. Risentì dei rumori, molto vicino. Un grattare, uno strusciar di stoffa sulla roccia, un ansimare involontario, un annaspare appena sotto il ciglione. « Salgono da dietro », si disse, come chi spieghi a un bambino ritardato. Ogni pensiero gli richiedeva un grande sforzo. « La bomba scoppia dopo sette secondi. Troppi. Sono già vicinissimi. » Guardò il goffo e antiquato ordigno che aveva in mano. L'alzò e cercò di togliere la sicura. Era arrugginita e inamovibile. Con uno sforzo immane, provò di nuovo. Ci riuscì. Senti lo scatto del timer che partiva e cominciò a contare. « Mille e uno, mille e due... » Al quinto secondo si chinò e la fece rotolare oltre il ciglione. Fuori vista, ma molto vicino, qualcuno urlo un avvertimento urgente. « Cristo! E' una bomba! » e Lothar scoppiò a ridere forte. « Mangiatevela, sciacalli degli inglesi! » Senti un grande trambusto di gente che scappava e si preparò all'esplosione, ma vi fu soltanto il rumore della bomba che rimbalzava come un barattolo giú dal pendio. « Ha fatto cilecca! » Smise di ridere. « Al diavolo! » Poi all'improvviso, ma in ritardo, la bomba esplose, ai piedi del colle. Dopo il botto si udirono le schegge fischiare e crepitare sulle rocce, e un uomo gridò. In ginocchio, Lothar si affacciò al ciglione. Guardò giú. Tre uomini in uniforme kaki scendevano a salti e scivolate giú dalla china. Appoggiò il Mauser al davanzale di roccia e fece rapidamente fuoco diverse volte. Le pallottole crearono strisce biancastre sul granito di fianco ai soldati atterriti. Saltarono giú dall'ultima balza e si misero a correre verso gli alberi. Uno era ferito dalle schegge: i compagni lo sorreggevano trascinandolo via. Per quasi un'ora Lothar giacque esausto per lo sforzo prima di riuscire a tornare alla sua postazione sul versante sud. Guardò in basso i cavalli morti che giacevano al sole. Già avevano il ventre gonfio, ma le borracce erano ancora attaccate alle selle. « La calamita è l'acqua », sussurrò. « A quest'ora avranno già una gran sete. La prossima mossa sarà cercare di recuperarla. » Dapprima credette che il buio fosse di nuovo calato solo nella sua mente, ma quando girò la testa a ovest e vide l'ultimo rosseggiare del tramonto capì che era giunta la sera. Davanti ai suoi occhi i bagliori arancione svanirono e repentina cadde la notte africana. Restò disteso tendendo l'orecchio per sentirli quando avessero tentato di recuperare l'acqua, e lo colse la consueta meraviglia ai mistici rumori della notte d'Africa: l'orchestra sommessa degli insetti e degli uccelli, le strida dei pipistrelli volanti attorno alla cattedrale di roccia, e, nella sconfinata pianura, il lamento dello sciacallo e l'occasionale verso della mellivora. Lothar doveva cercar di filtrare lo sfondo per badare solo a rumori umani provenienti dallo spiazzo alla base della collina.
Fu il clic del ferro di una staffa che lo mise in allarme. Si affacciò e butto giú la bomba con un volteggio del braccio sull'abisso. Lo spostamento d'aria della potente esplosione gli arrivò in faccia, e alla fiammata distinse due ombre scure vagolanti nei dintorni del cavallo morto. Siccome non poteva esser sicuro che non ce ne fossero degli altri, gettò anche la seconda bomba. Al breve lampo arancione li rivide: correvano così in fretta verso gli alberi che certo non li appesantiva nessun carico d'acqua. « Sudatevela tutta », li maledisse, ma ormai gli restava una bomba soltanto. La strinse al petto come un raro tesoro. « Devo essere pronto quando ritornano. Non posso lasciargli prendere l'acqua. » Parlava ad alta voce, e sapeva che era un segno di delirio. Ogni volta che sentiva avvicinarsi il capogiro alzava la testa e cercava di mettere a fuoco le stelle. « Devo resistere », si disse con grande serietà. « Devo trattenerli almeno fino a domani a mezzogiorno. » Cercò di calcolare tempi e distanze ma era ormai troppo per lui. « Devono essere otto ore che Hendrick e Manie se ne sono andati. Proseguiranno per tutta la notte. Non sono piú rallentati da me. Raggiungeranno il fiume prima dell'alba. Se solo riuscissi a tenerli qui altre otto ore, si sgancerebbero di sicuro.. » Ma debolezza e febbre lo sopraffecero e posò la fronte nell'incavo del gomito. « Lothar! » Era tutta immaginazione, lo sapeva, ma poi il suo nome fu ripetuto. « Lothar! » Alzò la testa e rabbrividí per il freddo della notte e i ricordi che quella voce gli portava. Apri la bocca e poi la richiuse. Non avrebbe risposto, doveva risparmiarsi il piú possibile. Ma aspettò avidamente che Centaine Courteney lo chiamasse ancora. « Lothar, abbiamo un ferito. » Giudicò che si trovasse al limite della foresta. Poteva immaginarsela, coraggiosa e risoluta, col mento deciso in su e gli occhi neri. « Perché devo amarti ancora? » si domandò sottovoce. « Ci serve l'acqua per lui. » Strano come la sua voce arrivava chiara. Si sentiva perfino il vago accento francese, e chissà perché lo trovò commovente. Gli vennero le lacrime agli occhi. « Lothar! Vengo fuori a prender l'acqua! » La sua voce era piú forte, piú vicina. Evidentemente era uscita dal riparo. « Sono sola, Lothar. » Doveva essere in mezzo allo spiazzo. « Torna indietro! » Aveva cercato di gridare, ma gli era uscito un farfuglio « Ti ho avvertito. Devo farlo. » Armeggiò con la bomba. « Non posso lasciarti prendere l'acqua... per il bene di Manfred. Debbo farlo. » Infilò il dito nell'anello della sicura. « Sono arrivata al primo cavallo », gli gridò. « Prendo la borraccia. Solo una borraccia, Lothar. » Era in suo potere. Si trovava ai piedi della collina. Non sarebbe occorso un lungo lancio: bastava far rotolare la bomba giú dal pendio e sarebbe atterrata ai suoi piedi. Immaginò il lampo dell'esplosione, quella carne dolce che aveva cullato la sua, e partorito suo figlio, lacerata e straziata dalle schegge. Pensò quanto l'odiava... e si rese conto che l'amava altrettanto.
Le lacrime l'accecarono. « Adesso torno indietro, Lothar. Ho la borraccia », gridò. Nella sua voce l'uomo avvertì la gratitudine e un'implicita ammissione che il legame che c'era fra loro non poteva essere troncato, né da azioni di sorta, né dal passar del tempo. Parlò ancora, a voce piú bassa, che lo raggiunse come un sussurro: « Possa Iddio perdonarti, Lothar De La Rey ». E poi piú nulla. Queste parole gentili lo ferirono profondamente, come tutte le altre che aveva udito da lei. Erano cosí conclusive da sembrargli intollerabili, e Lothar appoggiò la testa sul braccio per soffocare l'urlo di disperazione che gli si levava in gola. L'oscurità dilagò nella sua mente come un'ala nera di avvoltoio, e si sentì cadere, cadere, cadere... « Questo qua è morto », disse calmo Blaine Malcomess, in piedi accanto alla figura distesa. Nell'oscurità avevano scalato la collina da due parti; poi all'alba avevano dato l'assalto insieme alla sommità, trovandola indifesa. « Dove sono gli altri? » Il sergente Hansmeyer sbucò dal cumulo di massi in cima alla collina. « Quassú non c'è nessun altro, signore. Devono essere riusciti a scappare. » « Blaine! » urlò Centaine da sotto, dove l'avevano obbligata a restare in previsione dell'assalto. «Dove sei? Cosa sta succedendo? » Pochi istanti dopo sbucò a sua volta in vetta alla collina. « Siamo qui », berciò Blaine. E poi, mentre lei correva verso di loro: « Ti faccio osservare che hai disobbedito a un ordine ». Ignorò l'osservazione. «Dove sono?» Quando vide il corpo s'interruppe. « Oh Dio, è Lothar. » Si inginocchiò accanto a lui. « Così questo è De La Rey. Ebbene, temo che sia morto », le disse Blaine. « Dove sono gli altri? » Centaine lo guardò ansiosamente. Aveva sempre sia temuto sia sperato di incontrare il bastardo di Lothar: si sforzava ancora di evitare di fare il nome del ragazzo, persino tra sé. « Non ci sono piú », disse Blaine, scuotendo il capo. « Ci sono sfuggiti. De La Rey ci ha ingannati ed è riuscito a trattenerci restando in retroguardia. Gli altri si sono sganciati. A quest'ora avranno già passato il fiume. » Manfred. Centaine si arrese e lo pensò per nome. Manfred, mio figlio. La sua delusione e il suo senso di privazione furono così forti da scuoterla. Aveva tanto desiderato trovarlo qui, vederlo infine. Guardò suo padre accasciato, e altre emozioni, da gran tempo sepolte e represse, si levarono in lei. Lothar giaceva con la faccia appoggiata all'incavo del gomito. L'altro braccio, fasciato di strisce ricavate da una coperta, sporgeva in fuori. Gli toccò il collo dietro l'orecchio, cercando la carotide, e sentendo il calore febbrile della pelle esclamò immediatamente: « E' ancora vivo. » « Sei sicura? » Blaine si chinò accanto a lei. Insieme fecero girare Lothar supino, scorgendo la bomba che aveva sotto. « Avevi ragione tu », disse piano Blaine. « Aveva davvero un'altra bomba. Poteva ucciderti ieri sera. »
Centaine rabbrividì vedendo il viso di Lothar. Non era piú il bel biondo coraggioso di una volta. La febbre l'aveva divorato, i suoi lineamenti erano crollati come quelli di un cadavere ed era logoro e grigiastro. « E' molto disidratato », disse Centaine. « C'è ancora dell'acqua in quella borraccia? » Mentre Blaine gli versava acqua in bocca, Centaine gli sciolse la benda. « Cancrena e infezione del sangue. » Riconobbe le righe livide sottopelle e il fetore della carne in putrefazione. « Quel braccio dovrà essere amputato. » Benché la sua voce fosse ferma e impersonale, era sbigottita dal male che gli aveva fatto. Le sembrava impossibile che un sol morso avesse potuto produrgli un simile danno. I denti erano una delle sue bellezze e ne era fiera, li teneva sempre bianchi, puliti e curati. Ma quel braccio sembrava straziato da una bestia divoratrice di carogne, da una jena. « Sul fiume, a Cuangar, c'è una missione cattolica portoghese », disse Blaine. « Ma sarà ben fortunato se riusciremo a portarcelo vivo. Con tutti i cavalli morti meno uno, avremo bisogno di fortuna anche noi per arrivare al fiume. » Si alzò in piedi. « Sergente, mandi un uomo a prendere la cassetta del pronto soccorso e metta gli altri al lavoro: qui mancano ancora diamanti per un milione di sterline. » Hansmeyer corse via, berciando ordini alla truppa. Blaine si sedette accanto a Centaine. « Mentre aspettiamo la cassetta del pronto soccorso, sarà meglio perquisirlo. Sarà troppo sperare, ma forse ha tenuto con se una parte dei diamanti rubati. » « E' troppo sperare senz'altro », concordò Centaine con amara rassegnazione. « I diamanti li hanno quasi sicuramente suo figlio e quel grosso ruffiano nero del suo servo ovambo. E senza le guide boscimane... » Alzò le spalle. Blaine stese sulla roccia la giacca macchiata e impolverata di Lothar e cominciò a esaminare le cuciture, mentre Centaine lavava il braccio ferito e poi lo fasciava con le bende pulite della cassetta. «Niente, signore», venne a rapporto Hansmeyer. «Abbiamo ispezionato ogni centimetro di roccia. Qua i diamanti non ci sono. » « Molto bene, sergente. Ora bisogna portar giú questo straccione senza rompergli il collo. » « Se lo meriterebbe. » Blaine rise. « Chiaro, ma non vorremo mica rubare il mestiere al boia, no? » Nel giro di un'ora erano pronti a muoversi. Lothar De La Rey era stato caricato su una barella a traino costruita con rami di mopani e attaccata all'ultimo cavallo rimasto, su cui montava il soldato ferito, con le schegge di bomba ancora nella schiena e nella spalla. Centaine si attardò ai piedi del kopje mentre la colonna si avviava ancora una volta a nord, verso il fiume. Blaine tornò indietro e le si mise a fianco. Le prese la mano e lei sospiro appoggiandosi piano alla sua spalla. « Oh, Blaine, per me moltissime cose sono finite qui, in queste desolazioni dimenticate da Dio, su questo pezzo di roccia bruciato dal sole. » « Credo di poter capire cosa significhi la perdita di tutti quei dia-
manti. » « Dici? Io non credo, invece. Credo di non riuscirci ancora nemmeno io. Tutto è cambiato... anche il mio odio per Lothar... » « C'è ancora una possibilità di recuperare le pietre. » « No, Blaine. Tu e io sappiamo che non c'è nessuna possibilità. I diamanti sono perduti. » Non cercò di negarlo, offrendole false consolazioni. « Ho perso tutto, tutto quello per cui avevo lavorato tanto per me e per mio figlio. Non resterà niente. » « Non immaginavo che... » Si interruppe e la guardò con pena e preoccupazione profonde. « E' chiaro che è un brutto colpo, ma definitivo... siamo proprio a questo punto? » « Sí, Blaine », disse semplicemente. « Crollerà tutto. Non subito, non tutto in una volta, ma d'ora in poi l'edificio comincerà a sgretolarsi, e io mi affannerà invano a puntellarlo. Farò debiti, implorerò, cercherò di guadagnare tempo, ma le fondamenta mi sono crollate sotto i piedi. Un milione di sterline, Blaine, è una somma enorme. Riuscirò a rimandare l'inevitabile forse per qualche mese, magari un anno, ma il crollo accelererà sempre piú, come capita ai castelli di carte, e alla fine tutto mi cascherà addosso. » «Centaine, io non sono povero», cominciò. «Potrei aiutarti... » Lei si alzo in punta di piedi e gli mise l'indice sulle labbra. « Una cosa sola potrei chiederti », gli sussurro. « Non denaro, ma conforto. In futuro ne avrò molto bisogno. Non sempre, solo quando le cose si faranno proprio grigie. » « Ci sarò ogni volta che avrai bisogno di me, Centaine. Te lo prometto. Devi solo chiamare. » « Oh, Blaine. » Si volto a guardarlo in viso. « Se soltanto!... » « Sì, Centaine... se soltanto. » E la prese tra le braccia. Non c'era colpa né paura, e perfino la terribile minaccia della rovina e della distruzione che incombeva su di lei sembrava arretrare quando lei era tra le sue braccia. « Non m'importerebbe nemmeno di tornar povera, se ti avessi sempre accanto a me », gli mormorò, e lui non seppe cosa dirle. Disperato, si chinò e la fece tacere con un bacio. Tra i missionari portoghesi di Cuangar uno era dottore. Fu lui ad amputare il braccio di Lothar De La Rey cinque centimetri sotto il gomito. Operò alla luce forte e bianca della lanterna Petromax, con Centaine che l'aiutava sudando sotto la mascherina da chirurgo, rispondendo in francese alle richieste del dottore, cercando di impedirsi di svenire dall'orrore al momento di segar l'osso, in mezzo alla puzza di cancrena e cloroformio, nella baracca di fango e canne col tetto di lamiera che faceva le veci di sala operatoria. Quando il medico ebbe finito, Centaine sgattaiolò nella latrina e vomitò tutta la pena e il ribrezzo. Sola nella capanna della missione che le era stata riservata, sotto la grande zanzariera spettrale, risentiva quel tanfo orribile e disgustoso in fondo alla gola. Sembrava averle impregnato pelle e capelli. Pregò di non dover puzzare mai piú così, e non vivere un'altra ora così straziante come quella in cui aveva assistito all'am-
putazione di un arto, alla trasformazione in invalido dell'uomo che un tempo aveva amato. Vana preghiera, perché a mezzogiorno del giorno dopo il prete medico mormorò desolato: « J'ai manqué l'infection, il faut couper encore une fois ». L'infezione continuava a propagarsi e bisognava tagliare un altro pezzo di braccio. La seconda volta, sapendo ormai cosa aspettarsi, fu per Centaine se possibile anche peggiore della prima. Dovette conficcarsi le unghie nel palmo della mano per impedirsi di svenire quando il prete afferrò la scintillante sega d'argento e tagliò l'omero biancheggiante di Lothar appena sotto la spalla. Nei tre giorni successivi l'uomo rimase in coma, quasi avesse già superato il confine tra la vita e la morte. « Non posso dire niente », alzò le spalle il prete alle richieste di rassicurazione di Centaine. « E' nelle mani del Signore, ora. » La sera del terzo giorno, quando entrò nella capanna dove giaceva Lothar, gli occhi di zaffiro giallo mossero nella sua direzione dentro le occhiaie peste, e vide scoccarvi un lampo di riconoscimento prima che le palpebre tornassero a ricoprirli. Dovettero passare tuttavia altri due giorni prima che il prete permettesse a Blaine Malcomess di andare dal ferito a dichiararlo in arresto con la formula di rito. « Il mio sergente si occuperà di lei finché padre Paolo non la dichiarerà in grado di affrontare il viaggio. Allora sarà condotto in barca giú per il fiume fino al posto di confine di Runtu, sotto stretta sorveglianza, e di lì per la strada fino a Windhoek dove sarà processato. » Lothar lo ascoltava, pallido e scheletrito. Il moncherino, avvolto in un turbante di garza macchiata di tintura di iodio, sembrava un'ala di pinguino. Guardava Blaine senza espressione. « Ora, De La Rey, lei non ha certo bisogno che le spieghi io che nella sua situazione sarà fortunato se riuscirà a evitare la forca. Ma può assicurarsi una certa clemenza se ci dice dove ha nascosto i diamanti, o che cosa ne ha fatto. » Attese quasi un minuto, cercando di non irritarsi per il freddo sguardo giallo che Lothar gli rivolgeva. « Capisce cosa sto cercando di dirle, De La Rey? » continuò poi, per rompere il silenzio. Lothar si girò dall'altra parte e guardò fuori della finestra che dava sulla riva del fiume. « Credo che lei sappia che sono il governatore del territorio. Ho dunque il potere di rivedere il verdetto, e una mia raccomandazione di clemenza sarebbe quasi certamente seguita dal guardasigilli. Non faccia lo stupido, rinunci ai diamanti. Non le serviranno a niente là dove sta andando, e in cambio io le garantisco la vita. » Lothar chiuse gli occhi. « Molto bene, De La Rey. Allora ci siamo capiti. Non si aspetti nessuna pietà da me. » Chiamò il sergente Hansmeyer. « Sergente, il prigioniero non ha privilegi, nemmeno uno. Dev'essere tenuto sotto sorveglianza giorno e notte, ventiquattr'ore su ventiquattro, fino al giorno della consegna all'autorità preposta, a Windhoek. La considero direttamente responsabile, chiaro7 »
« Signorsì. » Hansmeyer era sull'attenti. « Non se lo faccia scappare, Hansmeyer. Ci tengo, a questo qua. Ci tengo parecchio. » Blaine uscì dalla capanna, e raggiunse Centaine fino al setengi coperto in riva al fiume dove sedeva. Si lasciò cadere su una sedia da campo accanto a quella di lei e si accese un sigaro. Inalò il fumo, lo tenne dentro un momento e poi lo soffiò fuori forte e con rabbia. « E' un tipo intransigente », disse. « Gli ho offerto la mia personale promessa di clemenza in cambio dei tuoi diamanti, ma non si è nemmeno degnato di rispondere. Non ho l'autorità di offrirgli un'amnistia totale ma, se potessi, credimi, non esiterei. Cosí come stanno le cose, però, non c'è nient'altro che io possa fare. » Aspirò ancora dal sigaro e alzò lo sguardo sul gran fiume verde. « Giuro che la pagherà per quello che t'ha fatto... pagherà fino in fondo. » « Blaine. » Gli posò la mano sull'avambraccio muscoloso. « Il rancore è un sentimento troppo meschino per un uomo della tua statura. » La sogguardò di sbieco e, nonostante la rabbia, ghignò. « Non mi attribuisca troppa nobiltà, madonna. Sono tante cose, ma non un santo. » Quando sogghignava così sembrava un ragazzo. Benché gli occhi verdi scherzassero meno, le orecchie a sventola intenerivano al massimo. « Messere, uno di questi giorni sarà divertente tentare altrimenti i limiti della sua santità... » Scoppiò a ridere, deliziato. « Proposta spudorata ma interessante! » Poi tornò serio. « Centaine, tu sai che non avrei potuto permettermi questa spedizione. I miei doveri giacciono trascurati da troppo tempo, e incorrerò nella giustificatissima ira dei miei superiori di Pretoria. Debbo quindi tornare in sede il piú presto possibile. Mi sono accordato con padre Paolo per qualche canoa e dei rematori che ci conducano a valle fino al posto di confine di Runtu. Laggiú spero di potermi procurare un camion della polizia. Hansmeyer e i soldati resteranno qui a fargli la guardia finché De La Rey non potrà affrontare il viaggio. » Centaine annuí. « Sì, anch'io devo tornare per cominciare a tappezzare qualche crepa. » « Potremmo partire domani all'alba. » « Blaine, prima di andare vorrei parlare a Lothar... voglio dire, a De La Rey. » Quando lo vide esitare, proseguì persuasiva: « Pochi minuti sola con lui, ti prego, Blaine, è importante per me ». Centaine si fermò sulla soglia della baracca per far abituare gli occhi alla penombra. Lothar era seduto sul letto, a petto nudo, con una coperta dozzinale sulle gambe. Il suo corpo era magro e pallido: l'infezione l'aveva divorato, e gli si potevano contare le costole. « Sergente Hansmeyer, può lasciarci soli un momento? » chiese Centaine, e si spostò per lasciarlo passare. Passando, Hansmeyer le assicurò che sarebbe rimasto a portata
di voce. Nel silenzio che seguí Centaine e Lothar si guardarono negli occhi, e fu lei che cedette e parlò per prima. « Se volevi rovinarmi ci sei riuscito », gli disse, e lui rispose agitando il moncherino, un gesto insieme patetico e osceno. « Chi è che ha rovinato l'altro, Centaine? » le chiese, e lei abbassò gli occhi. « Non vuoi ridarmi almeno parte di quello che mi hai rubato? » gli chiese lei. « In nome di quello che abbiamo condiviso tanto tempo fa? » Lui non rispose, ma alzò la mano a toccare la vecchia cicatrice che aveva sul torace. Centaine sussultò, perché gliel'aveva fatta lei sparandogli con una Luger al tempo della delusione e della ripulsa. « Ce li ha il ragazzo, i diamanti, vero? » gli chiese. « Il tuo... » stava per dire come al solito « il tuo bastardo », ma si fermò in tempo e disse: « Tuo figlio ». Lothar continuò a tacere e lei continuò d'impulso: « Manfred, nostro figlio ». « Non avrei mai pensato di sentirtelo dire », commentò lui, senza nascondere il piacere che gli faceva. « Ti ricorderai che è nostro figlio, concepito con amore, anche quando sarai tentata di distruggere lui pure? » « E come puoi pensare che farei una cosa simile? » « Perché ti conosco, Centaine » « No », scosse violentemente la testa. « Tu non mi conosci. » « Se ti attraverserà la strada lo distruggerai », disse Lothar tranquillamente « Lo credi davvero? » Lo fissava. « Mi credi davvero casi spietata, così vendicativa, da rivalermi sul mio stesso figlio? » « Non l'hai mai riconosciuto come tale. » « Adesso sì. Negli ultimi minuti me l'hai sentito fare piú di una volta. » « Mi stai promettendo che non gli farai del male? » « Io non devo prometterti niente, Lothar De La Rey. Lo sto solo dicendo: non farò del male a Manfred. » « E naturalmente ti aspetti in cambio qualche cosa da me », sospirò, tirandosi ancora un pò su. Respirava con una certa difficoltà, sudando nello sforzo di combattere la debolezza fisica. Il suo sudore, nella baracca piccola e buia, aveva un odore acre e rancido. « Mi offriresti qualche cosa in cambio? » gli chiese pacatamente Centaine. « No », rispose lui. « Niente! » E tornò ad appoggiarsi all'indietro, esausto ma ancora capace di sfida. « E adesso fammi sentire come ritiri la tua promessa. » « Non ho fatto nessuna promessa », disse lei con calma. « Ma, ti ripeto: Manfred, nostro figlio, non ha niente da temere da me. Non farò mai niente per nuocergli deliberatamente. Inutile precisare che questo non vale invece per te. » Si voltò e disse ad alta voce: « Grazie, sergente, abbiamo terminato ». « Centaine... » gridò debolmente Lothar quando lei fu sulla so-
glia. Voleva dirle: « I tuoi diamanti sono in una crepa in cima a quella collina », ma quando lei si voltò si morse la lingua e disse soltanto: « Addio. Centaine. E' finita, finalmente ». Il fiume Okavango è uno dei piú belli dell'Africa. Nasce sui rilievi dell'altopiano angolano, sopra i milletrecento metri, e scorre verso sud-est con tale impeto e tanta abbondanza di acque verdi che sembra destinato a raggiungere l'Oceano. Invece muore interrato. Dapprima forma le sue cosiddette paludi, una vasta zona di limpide lagune contornate di papiri e punteggiate da amene isolette su cui crescono palme fruttifere e fichi selvatici: e poi riemerge, ma è l'ombra di se stesso. Rivolo inebetito ed esausto, svapora sparendo per sempre non appena entra nelle sabbie eterne del desolato Kalahari. Il tratto di fiume che Centaine e Blaine dovevano discendere era l'ultimo prima delle paludi, ossia quello dove la magnificenza dell'Okavango è massima. La loro imbarcazione era di quelle chiamate makaro dagli indigeni: una canoa scavata in un tronco, lunga un pò piú di sei metri, dallo scafo tondeggiante ma non perfettamente dritto. « Il gufo e la pattina vanno in mare in una bella barca a forma di banana », citò Blaine e Centaine si mise a ridere un pò nervosa, finché non vide con i suoi occhi con quanta maestria i vogatori indigeni sapevano condurre la piroga sbilenca. Erano due simpatici giganti, neri come il carbone, della tribú rivierasca. Avevano l'agilità e l'equilibrio di due ginnasti, e il loro corpo era snello e saldo come quello di una statua greca per l'esercizio di una vita alla pagaia e alla lunga pertica da spinta. Stavano uno a prua e l'altro a poppa, intonando il loro melodioso canto di lavoro e governando la stretta e instabile imbarcazione con agio rilassato e ormai quasi istintivo. A mezza barca Blaine e Centaine dondolavano seduti su cuscini di pelle d'antilope imbottiti di fiocchi di papiro. La strettezza dell'imbarcazione li costringeva a sedere come in tandem, con Blaine davanti col fucile in mano per scoraggiare eventuali approcci da parte dei numerosi ippopotami che infestavano il fiume. « E' l'animale di gran lunga piú pericoloso dell'Africa », diceva a Centaine. « E i leoni, gli elefanti e i serpenti velenosi? » ritorse lei. « Il vecchio ippo ne ammazza due per ogni vittima di tutte le altre specie messe assieme. » Era il primo giro che Centaine faceva da quelle parti. Essendo una creatura del deserto, non avvezza ai fiumi e ai laghi, restava quasi incredula di fronte all'enorme, sterminata vita che alimentavano. Blaine, invece, conosceva benissimo questo fiume. Ci era già stato con il corpo di spedizione del generale Smuts nel 1915, e poi ci era tornato spesso, a caccia o per studiare la fauna della zona. Sembrava conoscere ogni animale, ogni uccello, ogni pianta, e sapeva centinaia di storie, sia vere sia leggendarie, con cui la intratteneva divertendola molto. L'umore del fiume cambiava continuamente: ora si stringeva tra alte rive rocciose e sospingeva la lunga canoa come una catapulta. I rematori la guidavano tra spaventosi denti di roccia emergenti dalla
corrente con pochi abili tocchi di pagaia, facendola atterrare (se così si può dire) nelle pozze turbinose sottostanti, in un trionfo di spruzzi e di schiuma. Ed ecco subito un'altra strettoia, dove il suo stesso impeto modellava l'acqua in onde che sembravano ferme e cristallizzate in vetro verde di Murano. Centaine sussultava come sull'ottovolante, tra atterrita ed esilarata. Infine sbucarono in un ampio slargo dove il fiume si distendeva fra isolette, sabbioni e coste basse che ospitavano sterminati branchi di bufali, bestie enormi e apparentemente molto pigre, nere come l'inferno e incrostate di fango secco. Le corna grandi e appuntite si curvavano malinconicamente sopra le orecchie a trombetta. I bufali, in acqua fino a mezza pancia, si voltavano a guardarli incuriositi alzando il muso nero con un'espressione addirittura comica. « Oh, Blaine! Che animali sono quelli là? E' la prima volta che li vedo. » « Lechwe. Piú a sud di cui non se ne trovano. » C'erano vaste mandrie anche di queste robuste antilopi d'acqua, dai mantelli rossi e arruffati, la testa che arriva al petto di un uomo e le lunghe corna armoniosamente ricurve. Le femmine, prive di corna, avevano sul capo una peluria morbida da animale di pezza. Erano mandrie così sterminate che quando si allontanarono dagli uomini fecero ribollire tanto le acque da produrre il rumore di una vaporiera che passi lontano. Su quasi tutti gli alberi piú alti in riva al fiume si notavano coppie di aquile pescatrici dalla testa bianca che splendeva al sole. Al silenzioso passaggio del mukoro questi uccelli stridevano in maniera davvero inquietante, gettando il capo all'indietro. Sui bianchi sabbioni risaltavano le sagome antidiluviane dei coccodrilli, quei sauri tanto brutti e cattivi. Si alzavano sulle zampacce goffe e a fatica si trascinavano in acqua, dove s'immergevano filando poi come siluri, lasciando emergere soltanto le scagliose arcate sopraccigliari . Nell'acqua bassa colpirono Centaine strani ammassi di macigni tondeggianti punteggiati di rosa. Non li individuò per quello che erano davvero finché Blaine non le disse: « Guarda! » e i rematori eseguirono una rapida diversione. C'era un bestione che aveva tirato fuori una testa grossa come un barilotto di birra con due occhi rossi e un'enorme bocca rosa picchiettata di eburnei dentoni gialli, accogliendoli con un mugghio simile alla risata sardonica di un dio pazzo. Blaine alzò leggermente il fucile. « Non farti ingannare dalla giovialità. Non è vero che si diverte », disse a Centaine mettendo il colpo in canna. Proprio in quella l'ippopotamo maschio partì alla carica nell'acqua bassa, sollevando spruzzi giganteschi e diramando ai quattro venti la sua rauca e minatoria risata. Apriva e chiudeva continuamente la bocca, manovrando a tagliola i lunghi e ricurvi denti d'avorio i cui margini affilatissimi potevano tranciare come niente fosse non solo le piú robuste canne di papiro, ma anche le fiancate dei mukoro, per non parlare di qualche incauto nuotatore: in men che non si dica lo avrebbero tagliato a metà.
Il mukoro partì di scatto sotto la possente spinta degli accorti barcaioli, ma l'ippopotamo nuotava sempre piú forte. Blaine balzò in piedi cercando di restare in equilibrio malgrado le fiondate dei rematori. Imbracciò il fucile e fece rapidamente fuoco diverse volte. Centaine fu investita dallo spostamento d'aria e si voltò aspettandosi di vedere il bestione tutto insanguinato e sforacchiato dalle pallottole. Ma Blaine aveva mirato sopra la testa. Le orecchie setolose vibravano sentendo frullare i proiettili poco piú in alto come ali di passero, e l'ippopotamo interruppe la carica, si acquattò a fior d'acqua e rimase a vedere sbattendo gli occhietti porcini. Il mukaro poté allontanarsi senza problemi, mentre l'ippopotamo maschio si immergeva in un gran turbine di acque verdi e scompariva come imbarazzato dal proprio fallimento. « Tutto bene, Centaine? » Blaine abbassò il fucile. « Sì, ma che fifa », disse lei, cercando di non mostrarla troppo almeno nel tono di voce. « Oh, non era cattivo come sembrava. Era piú scena che voglia di ammazzarci. » Le sorrise. « Sono contenta che tu non l'abbia ammazzato. » « Non c'era ragione di trasformare il vecchio in una carcassa putrefatta di quattro tonnellate, né di lasciare vedove le sue trenta mogli grasse. » « E' per quello che ci ha attaccato, per proteggere le mogli? » « Probabilmente, ma non si può mai essere sicuri di niente con gli animali selvaggi. Forse una delle sue compagne è incinta, oppure ha qualche brutto ricordo degli uomini, o forse oggi era solo di cattivo umore. » La sua calma nelle situazioni d'emergenza l'aveva impressionata quasi come la sua umanità nel risparmiare la pericolosa bestia. « Solo le scolarette adorano i loro eroi », si rammentò giudiziosamente mentre la canoa proseguiva, e si scoprì a osservare la larghezza delle spalle di Blaine e il suo modo di atteggiare la testa sopra quelle. I suoi capelli scuri erano tagliati corti sulla nuca, e il collo era forte ma non taurino, piacevolmente liscio e proporzionato: solo le orecchie erano troppo grandi e a sventola. Attraverso le punte rosa traspariva la luce. Provò una voglia quasi irresistibile di chinarsi a baciarlo sulla pelle morbida dietro l'orecchio, ma si controllò ridacchiando. Lui si voltò e le chiese con un sorriso: « Cosa c'è di tanto divertente? » «Una ragazza si sente sempre debole e ridanciana quando il Principe Azzurro l'ha appena salvata da un drago dal fiato di fuoco. » « Creature mitiche, i draghi. » « Non sfottere », ribatté lei. « Qui tutto è possibile, perfino principi e draghi. E' la terra del Mai, dove dietro ogni angolo ti aspettano le fate e babbo natale. » « Lo sai che sei un pò matta? » « Sí che lo so », ammise lei. « E ho il dovere di avvertirti che la mia malattia è infettiva e contagiosa. » « L'avvertimento mi giunge troppo tardi. » Scosse tristemente il
capo. « Credo di averla già beccata. » « Bene », disse lei, e cedendo alla voglia che aveva gli diede un bacino dietro l'orecchio. Lui rabbrividì teatralmente. « Guarda cosa mi hai fatto! » Si voltò a mostrarle la pelle d'oca che gli era venuta sugli avambracci. « Devi promettermi di non farlo mai piú. E' troppo pericoloso. » « Come te, non faccio mai promesse », disse Centaine, cogliendo il lampo di rimpianto e colpa nei suoi occhi e pentendosi subito di quella inopportuna allusione alla sua renitenza a prendere con lei un impegno di carattere globale: aveva rotto l'incanto. Stavano passando davanti a un'altra riva di creta rossa, ma di un rosso così chiaro da apparire quasi arancione, con miriadi di fori perfettamente tondi, e una nuvola viva e turbinante di uccelli dai meravigliosi colori, che andavano e venivano dai buchi dove avevano il nido. « Mangiavespe rossi », le disse Blaine, condividendo la meraviglia di lei davanti a quella profusione di colori accesi, rosa fiammeggiante e turchese, code e punte delle ali lunghissime e acuminate come stiletti. « Sembrano uccelli così ultraterreni che quasi quasi comincio a crederti: siamo passati attraverso lo specchio. » Dopo parlarono poco, ma misteriosamente anche il silenzio sembrava avvicinarli sempre piú. Si toccarono solo un'altra volta, quando Centaine gli diede una carezza sul collo, e per un attimo lui le coprì la mano con la sua, un fuggevole momento di tenerezza. Poi Blaine conferì brevemente con il capo dei rematori. « Cosa c'è, Blaine? » gli chiese lei. « Gli ho detto di scegliere un posto buono per accamparci stanotte. » « Non è ancora presto? » ribatté Centaine guardando il sole. « Si », ammise lui girandosi a guardarla con un'espressione un pò melensa. « Ma il fatto è che sto cercando di battere il record del percorso Cuangar-Runtu. » « Che record? » « Quello del viaggio piú lento. » Blaine scelse una delle isole piú grandi. Il sabbione si piegava su se stesso creando un'insenatura segreta, una laguna limpida e verde schermata da alti papiri flessuosi. Mentre i due rematori raccoglievano legna secca per il fuoco e tagliavano papiri per farsene un riparo per la notte, Blaine prese il fucile. « Dove vai? » gli domandò Centaine. « A vedere se trovo un'antilope per cena. » « Oh, Blaine, per piacere non farlo! Non ammazzare niente oggi, è una giornata speciale! » « Non sei stufa di carne in scatola? » « Per piacere », insistè lei, e Blaine posò l'arma. Poi, scuotendo la testa e sorridendo fra sè, andò a controllare che le capanne di frasche di papiro fossero pronte e i giacigli riparati dalla zanzariera. Soddisfatto, Blaine mandò via i rematori, che se ne andarono col mukoro. « Dove vanno? » gli domandò Centaine vedendoli filare giú per il fiume.
« Li ho mandati ad accamparsi sulla riva », rispose Blaine. Entrambi tacquero, senza piú guardarsi, improvvisamente intimiditi e acutamente consapevoli della loro solitudine dopo la partenza della canoa. Infine Centaine si riscosse e tornò al campo. S'inginocchiò vicino alle borse da sella che costituivano il suo unico bagaglio e senza guardare Blaine gli disse: « E' dall'altro giorno che non faccio il bagno. Andrò a farmi una nuotata nella laguna ». Aveva in mano la saponetta gialla. « Hai fatto testamento? » le chiese lui. « Cosa intendi dire? » « Questo è il fiume Okavango, Centaine. I coccodrilli si pappano le ragazzina come antipasto. » « Potresti far la guardia col fucile... » « Lietissimo di servirti... » « ... e gli occhi chiusi, naturalmente. » « Allora è inutile, non ti pare? » Blaine esplorò le rive della laguna e trovò sotto un roccione nero una pozza di acqua bassa, dove un eventuale coccodrillo in arrivo sarebbe spiccato nettamente contro il fondo di sabbia bianca. Salì cima al roccione e si accomodò con il Lee-Enfield senza sicura in grembo. « Adesso dammi la parola d'onore che non guardi... » gli gridò lei da sotto. Blaine si concentrò su un branco di oche che volavano contro il sole al tramonto, ma nemmeno il frullo delle loro ali pesanti riuscí a impedirgli di sentire distintamente il fruscio degli abiti di Centaine che cadevano. Senti lo sciabordio dell'acqua che l'accoglieva, il suo gemito di piacere e poi: « Bene, adesso puoi stare attento ai coccodrilli ». Era seduta sul fondo sabbioso, con la sola testa fuori dell'acqua. Gli voltava la schiena; si era avvolta i capelli a crocchia sulla nuca. « Ah, che fresco! E' veramente un paradiso. » Si girò a sorridergli, e lui vide il lampo della sua carne bianca sott'acqua e pensò di non riuscire a dominare il proprio desiderio. Sapeva che stava deliberatamente provocandolo, ma non riusciva né a resisterle né a ignorarla. Isabella Malcomess era caduta da cavallo cinque anni prima, e da allora non si erano piú conosciuti come un uomo e una donna. Una volta ci avevano provato, ma a entrambi riusciva intollerabile ripensare alla penosa umiliazione che avevano patito in quell'occasione. Lui era un uomo sano di corpo e dotato di una gran gioia di vivere. Gli ci era voluta una grande energia e risolutezza per adattarsi alla vita innaturale e monastica che conduceva. Ma alla fine ci era riuscito, sicché adesso era del tutto impreparato allo scatenamento selvaggio di tutti i suoi desideri e istinti repressi. « Chiudi ancora gli occhi! » gli gridò allegramente. « Adesso mi alzo e mi insapono un po'! » Non riuscí nemmeno a risponderle. Stentò perfino a trattenere il mugolio che gli era nato in gola, e rimase seduto fissando il fucile
che aveva in mano. Centaine emise un urlo di terrore. « Blaine! » Lui saltò in piedi. Centaine era ritta con l'acqua che, smeraldina, le lambiva le natiche. Il suo corpo scultoreo, che piú si affinava nella vita snella, risultava irrigidito in una plastica posa di terrore. Il coccodrillo stava arrivando dalle acque profonde spinto dalle morbide falcate della lunga coda scagliosa. Con il muso spaventoso e corazzato creava nell'acqua ferma un'onda a « V ». Il rettile era lungo quasi come il mukoro, cioè sei metri dalla punta del naso a quella della coda. « Scappa, Centaine, scappa! » ruggí Blaine, e lei si girò e si mise a correre nella sua direzione. Ma il rettile filava come un cavallo al galoppo, lasciando una scia turbinante, e Centaine si frapponeva impedendo a Blaine di far fuoco. Questi saltò giú dalla roccia ed entrò in acqua fino al ginocchio, correndole incontro col fucile alto sopra la testa per non bagnarlo. «Giú! » le gridò. «Buttati giú! » Centaine eseguí immediatamente, tuffandosi verso riva, mentre lui sparava senza por tempo in mezzo in quanto l'enorme sauro stava ormai per raggiungerla. Il proiettile schiattò sulle scaglie corazzate del cranio mostruoso. Il coccodrillo si inarcò, inondando e spruzzando Blaine e Centaine. Quindi si rizzò sulla gran coda, tirando zampate all'aria con le anteriori e mostrando il ventre giallastro coperto di scaglie a disegni simmetrici, il grugno lungo e spigoloso puntato verso il cielo. Poi con un verso tra il ringhio e il grugnito si arrovesciò in acqua. Blaine tirò in piedi Centaine e circondandole la vita con un braccio arretrò verso la spiaggia, sempre sorvegliando il bestione col fucile impugnato come una pistola. Col cranio e il cervello primitivo trapassato, il coccodrillo si dimenava in spaventose convulsioni. Rotolava girando in tondo senza piú controllo muscolare, addentando l'aria e l'acqua vaporizzata, e sbattendo i dentoni giallastri come un cancello di ferro mosso dal vento. Blaine cacciò indietro Centaine e imbracciò di nuovo il fucile. Le pallottole tempestarono ancora la corazza scagliosa, strappando brandelli di pelle e d'osso, mentre il rettile agitava sempre piú debolmente la coda. Si immerse, raggiunse l'acqua profonda e scomparve alla vista dopo un'ultima riemersione pigra, come di gavitello. Centaine tremava ancora di terrore, battendo i denti cosí forte che non riusciva a parlare. « Orribile, oh che terribile mostro! » Si strinse al petto di Blaine rendendo ancora piú indecifrabile il proprio balbettio. «Va tutto bene adesso. » Blaine cercava di calmarla. «Sta, tranquilla adesso, il pericolo è passato. Se n'è andato. » Appoggiò il fucile alla roccia e la strinse tra le braccia. La carezzava per tranquillizzarla, dapprima senza passione, come avrebbe fatto con una delle sue bambine svegliate da un incubo; ma ben presto divenne acutamente consapevole della serica morbidezza della sua pelle nuda e bagnata. Sentiva tutti i piani della sua schiena, le curve dolci del muscolo da una parte e dall'altra della spina dorsale, e non riuscí a fare a meno di sfiorare con la punta
dell'indice la successione delle vertebre. Sembrava una collana di perle sottopelle: la segui fin là dove scompariva nel solco tra le piccole natiche sode. Adesso si era tranquillizzata un pò, a parte gli ansiti che continuavano a scuoterla: alla carezza di Blaine inarcò la schiena come fanno i gatti, inclinando il bacino verso di lui, che l'afferrò per le natiche e l'attirò decisamente a se. Lei non resistette affatto, ma gli andò incontro con tutto il corpo. « Blaine. » Disse il suo nome e alzò il volto. Blaine la baciò selvaggiamente, con la rabbia di un uomo d'onore che si scopra incapace di rispettare un voto, e s'incollarono respirando ognuno il fiato dell'altro, attorcigliando le lingue, bevendosi e frugandosi così in profondità da dover stare attenti a non soffocarsi a vicenda col loro ardore. Centaine si ritrasse. « Ora », balbettò, « deve accadere ora. » Lui la prese tra le braccia come una bambina e corse come il vento sulla sabbia verso la capanna di papiri. Cadde in ginocchio vicino al giaciglio imbottito di foglie e la depose delicatamente sulla coperta che lo ricopriva. « Voglio guardarti », farfugliò Blaine, accennando a rialzarsi, ma lei, contorcendosi, riuscí ad afferrarlo. « Un'altra volta... non posso piú aspettare... per piacere, Blaine. Oh Dio, fallo subito! » Mentre esprimeva questa invocazione già stava sbottonandogli la camicia, resa goffa dalla fretta, disperata per la frenesia. Blaine si cavò la camicia e la gettò via, ed ecco che lei lo baciava ancora, tappandogli la bocca, mentre entrambi altercavano con la cintura dei pantaloni, impedendosi a vicenda, ridendo e ansimando, scontrandosi col naso, morsicandosi labbra e denti. « Oh Dio, sbrigati... sbrigati, Blaine... » Si strappò da lei e saltellando su una gamba sola cercò di liberarsi dei calzoni bagnati e aderenti. Rischiò di finire a gambe all'aria sulla sabbia bianca, e lei scoppiò a ridere forte. Era cosí buffo e bello e ridicolo, e lei lo desiderava così tanto che se ci avesse messo un attimo di piú qualcosa nel suo corpo certo sarebbe esploso, uccidendola - ne era convinta - sul colpo. « Oh dai, Blaine, vieni, fa, in fretta. » E finalmente fu nudo: mentre le saliva sopra lei afferrò la spalla con la mano e si inarcò, tirandoselo addosso, allargando le ginocchia e alzandole, mentre con l'altra mano lo cercava, lo trovava e lo guidava dentro di sé. « Oh Blaine, sei cosí., oh sí, sí, cosí, io non... voglio gridare... » « Grida! » l'incoraggiò lui, cavalcandola con frenesia. « Qui nessuno ti sente. Grida per tutti e due! » E lei aprí la bocca e diede fiato a tutta la sua solitudine, a tutto il suo desiderio, a tutta la sua gioia incredula in un crescendo sempre piú acuto cui lui alla fine si uní, urlando pazzamente insieme a lei nell'attimo piú completo e soverchiante dell'esistenza di Centaine. Dopo, lei pianse in silenzio contro il suo petto nudo, mentre Blaine la guardava perplesso, preoccupato e intenerito al tempo stesso.
« Sono stato troppo rude... perdonami! Non volevo farti male. » Ma lei scosse la testa e inghiotti le lacrime. « No, no, non mi hai fatto male, è stata la piú bella... » « E allora perché piangi? » « Perché tutto quel che c'è di buono nella vita sembra cosí fuggevole... piú è meraviglioso e prima passa, mentre i tempi grami sembrano non finire mai. » «Non pensarci, piccola mia. » « Non so come farò a vivere senza di te. Prima era terribile, ma adesso lo sarà mille volte di piú. » « Anch'io non so come farò a trovar la forza di separarmi da te », sussurrò annuendo. « Sarà la cosa piú difficile della mia vita. » « Quanto tempo ci resta? » « Un altro giorno. Poi saremo a Rundu. » « Quand'ero bambina mio padre mi regalò un pezzo d'ambra che racchiudeva un insetto. Vorrei poter conservare nello stesso modo questo momento, catturarlo per sempre nell'ambra preziosa del nostro amore. » La loro separazione fu un processo graduale, non un misericordioso colpo di ghigliottina. Nei giorni successivi dovettero subire la lenta intrusione delle cose e della gente estranea, una agonia penosa e senza scampo che patirono fino in fondo come bevendo da un calice amaro. Dalla mattina in cui raggiunsero il posto di confine a Rundu e sbarcarono a parlare col sergente di polizia che lo comandava, parve loro di dover trattare ininterrottamente con degli estranei, di dover stare attenti a ogni sguardo e a ogni sorriso che si scambiavano, a ogni parola e a ogni carezza rubata, il che non faceva altro che renderli ancora piú consapevoli della prossima separazione. Solo quando il polveroso camion della polizia si affacciò dall'altipiano e imboccò l'ultima discesa per Windhoek il penoso processo ebbe termine. Il mondo li aspettava: Isabella, patetica e tragica nella sua carrozzella, e le figlie vivaci, ridenti e sbarazzine come elfi, che si disputavano gli abbracci di Blaine; il capo della polizia e una miriade di piccoli funzionari, giornalisti e fotografi; Twentyman-Jones e Abe Abrahams, Sir Garry e Lady Courteney, che si erano precipitati a Windhoek appena avevano avuto notizia della rapina, e pile intere di telegrammi di solidarietà e di congratulazioni. Ce n'erano centinaia, tra cui spiccavano quelli del primo ministro e dell'Ou Baas, il Vecchio Boss, ovvero il generale Smuts, oltre a quelli degli amici, dei conoscenti e dei corrispondenti d'affari. Pure, Centaine si sentiva distaccata da tutto quel chiasso. Assisteva agli eventi come attraverso una cortina che confondeva le forme e ovattava i rumori, una cortina quasi onirica al di là della quale una parte di lei continuava a discendere un fiume smeraldino, a far l'amore nella notte tiepida e dolce con le zanzare ronzanti invano oltre la zanzariera, a passeggiare mano nella mano con l'uomo che amava, un uomo alto, forte e gentile dai teneri occhi verdi, con le mani di un pianista e delle buffe orecchie a sventola.
Dal vagone privato telefonò a Shasa e cercò di congratularsi passabilmente con lui del fatto che l'avessero nominato capitano della squadra di cricket, e della sufficienza che aveva finalmente raggiunto in matematica. « Non so quando potrò tornare a Weltevreden, chéri. Ho tantissime cose a cui badare. Non abbiamo recuperato i diamanti. Dovrò trattare con la banca e prender nuovi accordi. Ma no, certo che no, sciocchino! Non siamo affatto diventati poveri, non ancora, comunque un milione di sterline sono una somma piuttosto alta da perdere, e poi ci sarà il processo. Sì, è un vero mascalzone, Shasa, ma non so se l'impiccheranno. Buon Dio, no! Non ci lascerebbero assistere... » Due volte, in quel giorno di separazione, telefonò alla residenza nella speranza che rispondesse Blaine: ma era un'illusione. Due volte le rispose una donna, una segretaria o Isabella, e due volte riappese senza dire una parola. Si rividero nella sede del governo, ossia nel suo ufficio, il giorno seguente. Blaine aveva indetto una conferenza stampa e in anticamera si affollavano numerosissimi giornalisti e fotografi. Ancora una volta era presente Isabella nella sua sedia a rotelle, con Blaine premuroso, e intollerabilmente bello, alle sue spalle. Ci volle tutta la capacità filodrammatica di Centaine per riuscire a stringergli la mano in maniera amichevole, e poi mettersi a scherzare coi rappresentanti della stampa, posando anche insieme a Blaine per le fotografie, senza avere un istante per goderselo a suo agio. Ma in seguito, tornando in macchina verso gli uffici della Courteney Mining and Finance Company, dovette sterzare in una strada laterale e fermarsi per riprendersi un pò. Non aveva avuto la possibilità di scambiare nemmeno una parola in privato con Blaine. Abe la stava aspettando sulla porta d'ingresso della ditta e l'accompagnò di sopra. « Centaine, sei in ritardo. Ti aspettano da quasi un'ora nella sala del consiglio d'amministrazione, e non dimostrano neppure, a quel che mi risulta, soverchia pazienza. » « E lasciamoli aspettare! » gli disse con una sicurezza artificiale. « E' meglio che si abituino fin d'ora. » Erano i rappresentanti della banca, ovvero i principali creditori. « Questa rapina li fa sudar freddo, Centaine. » I consiglieri d'amministrazione della banca avevano chiesto di vederla dal primo istante che era ricomparsa a Windhoek. « Dov'è Twentyman-Jones? » « Stò insieme a loro: cerca di ammansirli. » Abe le aprì davanti un grosso registro. « Ecco le scadenze dei pagamenti degli interessi. » Centaine diede un'occhiata, ma le sapeva già a memoria. Poteva mettersi a spiattellare date, quote e tassi. Aveva già preparato nei dettagli la sua strategia, ma tutto era irreale e onirico, come un gioco di bambini. « C'è qualcos'altro da sapere prima di entrare nella fossa dei leoni? » gli chiese. « Un lungo cablo dei Lloyds di Londra. L'assicurazione non paga perché non c'era la scorta armata. » « Ce lo aspettavamo già », annuì Centaine. « Che ne dici, ci con-
viene fargli causa? » « Non è una risposta da avvocato, lo so, ma ho la sensazione che sarebbe solo una perdita di tempo e denaro. » « C'è altro? » « Da parte della De Beers », disse Abe. « Un messaggio di Sir Ernest Oppenbeimer in persona. » « Sta già fiutando il colpo, eh? » Sospirò, cercando di costringersi a interessarsene, ma invece pensava a Blaine. Lo vedeva chino sulla carrozzella della moglie. Scacciò a stento la sua immagine dalla mente e si concentrò su quanto le stava dicendo Abe. « Sir Ernest è in arrivo da Kimberley. Sarà a Windhoek giovedí. » « Guarda un pò che coincidenza », sorrise lei cinicamente. « Chiede un appuntamento al piú presto possibile. » « Ha fiuto da iena e occhi d'avvoltoio », disse Centaine. « Sente l'odore del sangue e distingue un animale morente da cento leghe. » «Vuole la miniera H'ani, Centaine. Sono tredici anni che ci muore sopra. » « Tutti quanti vogliono la miniera H'ani, Abe. La banca, Sir Ernest, e tutti gli altri rapaci. Ma dovranno vedersela con me. » Si alzarono e Abe chiese: « Sei pronta? » Centaine si guardò allo specchio, si aggiustò i capelli, si forbì le labbra con la punta della lingua, e di scatto tutto tornò nettamente a fuoco. Stava andando in battaglia, con la mente lucida, l'intelligenza acutizzata e una nuova sicurezza che si espresse in un gran sorriso fiducioso e protettivo rivolto a se stessa. Era nuovamente pronta. «Andiamo! » disse, ed entrò a testa alta, con un'espressione quanto mai sicura di sé, nella gran sala del consiglio d'amministrazione dal lungo tavolo di legno pregiato e i lirici panorami del deserto affrescati da Pierneef sulle pareti. « Vogliate scusarmi, signori », disse a voce alta e sonora, partendo immediatamente all'attacco e spiegando tutta la sua personalità e il suo sex-appeal. Vide gli interlocutori restarne colpiti e proseguì: « Ma vi assicuro che ora sono a vostra completa disposizione per tutto il tempo che vorrete ». Nel profondo c'era ancora in lei quel luogo vuoto e dolente che Blaine aveva riempito per pochi fuggevoli istanti, ma ora era fortificato e munito, era di nuovo inespugnabile, e nel sedersi a capotavola ripeteva tra se come un mantra: « La miniera H'ani è mia e nessuno me la prenderà ». Manfred De La Rey si muoveva nel buio con la stessa sicurezza degli altri due uomini che lo conducevano a nord. Il dolore e l'umiliazione di essere stato scacciato così da suo padre gli conferivano ora una risolutezza d'acciaio e un ardimento superiore. L'aveva chiamato « signorina », suo padre? « Ma ormai sono un uomo », si disse, accelerando il passo per non farsi distanziare da Swart Hendrick. « Non piangerò mai piú. Sono un uomo, e lo proverò ogni giorno che vivrò. Te lo proverò, papà. Se mi stai ancora guardando, non dovrai mai piú vergognarti di me. »
Pensò a suo padre solo e moribondo sulla cima della collina, e fu sopraffatto dal dolore. Nonostante la risolutezza nuova, le lacrime l'inondarono e gli ci volle tutta la sua forza di volontà per ricacciarle indietro. « Sono un uomo, adesso. » Si concentrò su questo, e in verità era alto come un uomo ormai, quasi alto come Hendrick, e le gambe lunghe lo portavano avanti instancabilmente. « Ti renderò orgoglioso di me, papà. Te lo giuro. Te lo giuro su Dio. » Per tutta quella lunghissima notte non rallentò il passo né emise un lamento. Quando raggiunsero il fiume, il sole aveva superato da poco la cima degli alberi. Appena ebbero bevuto, Hendrick li fece ripartire verso nord. Seguirono un percorso strano: di giorno si allontanavano dal fiume, nascondendosi nelle rade foreste di mopani, e di notte tornavano a dissetarsi e proseguivano lungo la riva. Dopo una dozzina di queste notti di marcia forzata Hendrick giudicò che non avessero piú a temere alcun inseguimento. « Quando traverseremo il fiume, Hennie? » gli chiese Manfred. « Non lo traverseremo », gli rispose Swart Hendrick. « Ma il piano di mio padre era passare in territorio portoghese, andare da Alves De Santos, il mercante d'avorio, e poi proseguire per Luanda. » « Già, quello era il piano di tuo padre », ammise Hendrick. « Ma tuo padre non è piú con noi. Lassú al nord non c'è posto per un negro un pò strano. I portoghesi sono ancora piú duri dei tedeschi, degli inglesi e dei boeri. Ci fregherebbero i diamanti, ci bastonerebbero come cani e ci manderebbero a lavorare come schiavi. No, Manie, si torna indietro alla terra degli ovambo e ai fratelli della mia tribú, dove son tutti amici e si può vivere da uomini e non da animali. » « La polizia ci prenderà », obiettò Manie. « Nessuno ci ha visti. Tuo padre c'è stato bene attento. » « Ma sanno che eri suo amico e verranno a cercarti. » Hendrick sogghignò. «Tra gli ovambo non mi chiamo Hendrick, e mille testimoni giureranno che sono sempre rimasto con le mie bestie e non conosco nessun rapinatore bianco. Per i bianchi della polizia i negri sono tutti uguali, e poi ho un fratello, un fratello molto in gamba, che saprà senz'altro dove e come vendere i diamanti per noi. Con queste pietre posso comprarmi duecento bellissime bestie e dieci mogli belle grasse. No, Manie, andiamo a casa. » « E che ne sarà di me, Hendrick? Io non posso mica venire con voi a vivere tra gli ovambo. » « Per te ci sono un posto e un piano speciali. » Hendrick mise il braccio intorno alle spalle del ragazzo bianco, con gesto paterno. « Tuo padre ti ha affidato a me, non devi aver paura di niente. Prima di lasciarti, ti metterò al sicuro. » « Quando te ne andrai, Hendrick, io rimarrò solo. Non avrò piú nessuno. » Il negro non seppe che cosa rispondergli. Tolse il braccio dalla spalla del ragazzo e parlò bruscamente: « E' ora di ripartire, adesso. Abbiamo ancora tantissima strada da fare ». Quella notte lasciarono il fiume e tornarono a dirigersi verso
sud-ovest, costeggiando le desertiche terre dei boscimani e mantenendosi in zone un pò piú fornite d'acqua e vegetazione, ma sempre evitando i villaggi e gli incontri finché, venti giorni dopo aver lasciato Lothar De La Rey sulla collina fatale, seguendo la cresta boscosa di una catena di colline, sul far del giorno contemplarono dall'alto uno sparso villaggio ovambo. Le capanne coniche dal tetto di paglia erano aggregate irregolarmente a gruppi di quattro o cinque, ognuno chiuso da un recinto di vimini. In mezzo al villaggio c'era il recinto centrale del bestiame, circondato da uno steccato di pali. L'odore di legna bruciata giungeva a loro sui fili di fumo azzurrino, mescolandosi alla puzza di letame e al profumo delle focacce di mais che cuocevano sulla brace. Alte risate di bambini e voci di donne erano melodiose come cinguettii d'uccelli. Distinsero gli sprazzi colorati dei vestiti delle donne che andavano a prendere l'acqua nel pozzo con gli orci di terracotta bilanciati in testa. Tuttavia non si avvicinarono al villaggio. Si tennero nascosti oltre la cresta, spiando la presenza di eventuali estranei o qualunque altro segno di attività anormale. Hendrick e Klein Boy discutevano sommessamente di quello che vedevano accadere, interpretando ogni rumore che saliva dal villaggio, finché Manfred perse la pazienza. « Che cosa stiamo aspettando, Hennie? » « Solo l'antilone giovane è cosí stupida da saltare sventatamente nella trappola », bofonchiò Hendrick. « Scenderemo quando saremo sicuri. » A metà del pomeriggio un pastorello guidò un gregge di capre su per la collina. Era tutto nudo se non per la fionda che portava attorno al collo. Hendrick fece un fischio sommesso. Il bambino sussultò e si mise a guardare impaurito verso il loro nascondiglio. Poi, quando Hendrick fischiò ancora, si avvicinò cautamente. A un tratto il suo volto si illuminò di un sorriso e corse incontro a Hendrick. Questi, ridendo, lo abbracciò sollevandolo da terra, mentre il bambino eccitatissimo non finiva di salutarlo con gran gioia. « E' mio figlio », disse Hendrick a Manie, e poi fece al bambino delle domande ascoltando le risposte con la massima attenzione. « Non ci sono estranei al villaggio », borbottò. « La polizia è stata qui a chiedere di me, ma adesso se ne sono andati. » Sempre col bambino in braccio li guidò giú per la discesa verso il piú grosso gruppo di capanne, ed entrò nel recinto. Il cortile era nudo e sgombro, e il cerchio di capanne aveva le entrate rivolte all'interno. C'erano quattro donne che lavoravano in gruppo, tutte vestite solo di una gonnella di cotonina colorata, di quelle portate in ogni angolo dell'Africa dai mercanti; erano accucciare sui talloni e cantavano sommessamente in coro, pestando i chicchi di mais nel mortaio di legno, coi seni nudi che sobbalzavano a ogni colpo dei lunghi paletti che usavano come pestelli al ritmo della loro canzone. Una delle donne emise un gridolino, quando vide Hendrick, e gli corse incontro. Era una vecchia, tutta piena di rughe e sdentata, con la testa coperta da quella che sembrava pura lana bianca. Cadde in
ginocchio e abbracciò le grandi e forti cosce di Hendrick, mugolando di gioia. « Mia madre », disse Hendrick, sollevandola. Poi furono circondati da un nugolo di donne tutte contente e ciarliere, che dopo qualche momento Hendrick fece tacere e congedò con un gesto. « Sei fortunato, Manie », grugní con un lampo di malizia negli occhi. « A te sarà concessa una moglie sola. » Sulla soglia della capanna piú lontana l'unico uomo di quel kraal sedeva su un basso sgabello. Si era tenuto in disparte da tutta quell'eccitazione, e ora Hendrick andò da lui. Era molto piú giovane di Hendrick, e aveva la pelle piú chiara, quasi color del miele. Tuttavia i suoi muscoli erano stati forgiati e temprati da un duro lavoro fisico, e intorno a lui si distingueva chiaramente l'aura dell'uomo sicuro di se, che ha lottato ed e riuscito. Aveva anche una certa grazia, e lineamenti fini e intelligenti che gli conferivano un'espressione da giovane faraone. In grembo aveva un librone consunto, la Storia d'Inghilterra del Macaulay. Salutò Hendrick con tranquilla riservatezza, ma il reciproco affetto era evidente al ragazzo bianco che li stava guardando. « Questo è mio fratello minore: stesso padre, madri diverse. E' intelligentissimo. Parla afrikaans e inglese molto meglio di me, e sa anche leggere. Il suo nome inglese è Moses. » « Ti vedo, Moses. » Manie si sentiva un pò a disagio sotto l'esame di quegli occhi penetranti. « Ti vedo, ragazzo bianco. » « Non chiamarmi ragazzo », disse Manie, accalorato. « Non sono un ragazzo. » I due uomini si scambiarono un'occhiata e sorrisero. « Moses è caposquadra alla miniera H'ani », spiegò Hendrick in tono di chi getti un pò d'acqua sul fuoco, ma l'alto ovambo scosse la testa e rispose nel suo dialetto. « Non piú, fratello maggiore. Sono stato licenziato oltre un mese fa. E così me ne sto qui seduto al sole a bere birra, leggere e riflettere, svolgendo cioè i compiti onerosi che costituiscono il dovere per un uomo. » Si misero a ridere, e Moses batté le mani e gridò imperiosamente alle mogli: « Portate la birra. Non vedete che sete che ha mio fratello? » A Hendrick fece piacere svestirsi degli abiti europei, rimettersi il tradizionale perizoma, e tornare a calarsi nella vita del villaggio. Era bello bere di nuovo la birra di sorgo, acida, effervescente, densa come una pappa d'orzo e fresca nelle ciotole di terracotta, parlando tranquillamente di selvaggina e bestiame, di conoscenti, amici e parenti, di morti e nascite e amori. Cosí passò un bel pò di tempo prima che si decidessero ad affrontare i pressanti argomenti che li interessavano. « Si », annuí Moses. « La polizia è stata qui. Due cani dei bianchi di Windhoek, che dovrebbero vergognarsi di avere tradito la loro tribú. Non erano in uniforme, ma avevano ancora addosso la puzza di polizia. Sono rimasti un bel pò di giorni, a far domande su un uomo chiamato Swart Hendrick: dapprima sorridendo amichevolmente, e poi sempre piú irritati e minacciosi. Hanno picchiato di-
verse donne, anche tua madre... » Vide Hendrick irrigidirsi e stringere i denti e prosegui in fretta, « ... che è vecchia ma dura. E' abituata alle botte: nostro padre era un uomo severo. Nonostante le percosse, dunque, non conosceva Swart Hendrick, nessuno conosceva Swart Hendrick, e alla fine i cani della polizia se ne sono andati. » « Torneranno », disse Hendrick, e il suo fratellastro annuì. « Sì. Gli uomini bianchi non dimenticano mai. Cinque anni, dieci anni. A Pretoria hanno impiccato uno che aveva ucciso un tale venticinque anni prima. Torneranno. » Bevvero a turno dalla scodella di birra, sorseggiandola con gusto e passandosi la ciotola nera. « E così parlavano di una grande rapina di diamanti sulla strada della miniera H'ani, e nominavano il diavolo bianco con cui hai sempre combattuto e cavalcato, e con cui sei andato a pescare sulla grande acqua verde. Dicevano che eri con lui anche a rubare i diamanti, e che quando ti troveranno ti impiccheranno. » Hendrick ridacchiò e contrattaccò. « Anch'io ho sentito strane storie di un tale che non mi è né sconosciuto né estraneo. Ho sentito dire che lui saprebbe vendere bene i diamanti rubati, perché dalle sue mani passano tutte le pietre che escono illegalmente dalla miniera H'ani. » « Chissà chi ti avrà raccontato queste vili panzane », ridacchiò imbarazzato Moses, e Hendrick fece un cenno a Klein Boy. Il ragazzo andò a prendere la borsa di pelle che aveva nascosto e la depositò davanti a suo padre. Hendrick l'aprì e a uno a uno tirò fuori i pacchettini disponendoli in fila sulla terra battuta del cortile. Erano quattordici. Suo fratello prese il primo pacchetto, sfoderò il coltello e tagliò il sigillo di ceralacca. « E' il marchio della miniera H'ani », osservò, tirando fuori con attenzione i diamanti. La sua espressione non cambiò minimamente nell'esaminare il contenuto. Mise da parte il pacchetto e passò al successivo. Non parlò finché non li ebbe aperti ed esaminati tutti per bene. Poi disse piano: «Morte. Qui c'è la morte. Cento, mille morti ». « Sei capace di venderceli? » chiese Hendrick, e Moses scosse la testa. « Non ho mai visto tante pietre così grosse e così belle tutte assieme. Provare a venderle in blocco ci porterebbe morte e rovina. Devo pensarci: ma intanto non è prudente tenere queste pietre fatali nel nostro kraal. » L'indomani all'alba i tre - Hendrick, Klein Boy e Moses - lasciarono il villaggio e salirono sulla cresta della catena di colline, dove trovarono l'albero di legno-ferro che Hendrick ricordava dai tempi in cui era un pastorello. C'era un incavo nel tronco, a dieci metri d'altezza, dove un tempo aveva nidificato una coppia di gufi. Mentre gli altri stavano all'erta, Klein Boy si arrampicò sull'albero con la borsa di pelle. Ci vollero tanti altri giorni prima che Moses esprimesse la sua meditata opinione.
« Fratello, questo luogo e questa esistenza non fanno piú per noi. Ho già visto rinascere in te l'irrequietezza; ti ho visto guardare l'orizzonte col crescente desiderio di andartene. Questa vita, in principio così dolce, sbiadisce in fretta. Il sapore della birra non soddisfa piú, e l'uomo pensa alle imprese compiute altrove, nel vasto mondo, e a quelle forse ancora piú gloriose che lo attendono. » Hendrick sorrise. « Sei un uomo dalle molte capacità, fratello: anche quella di leggere i pensieri piú segreti nella mente degli altri. » « Non possiamo piú rimanere qui. Le pietre della morte sono troppo pericolose da tenere e troppo pericolose da vendere. » Hendrick annuì. « Ti sto ascoltando », disse. « Vi sono cose che sento di dover fare. Cose che credo siano il mio destino, di cui non ho mai parlato neppure con te. » « Parlane ora. » « Mi riferisco all'arte che gli uomini bianchi chiamano politica, da cui noialtri neri siamo esclusi. » Hendrick fece un gesto di fastidio. « Hai letto troppi libri. Non c'è convenienza in quell'attività. Lasciala ai bianchi. » « Ti sbagli, fratello. In quell'arte giacciono tesori che fanno impallidire le tue pietruzze biancastre. Non disprezzarla e non schernirla. » Hendrick aprí la bocca per ribattere, ma ci ripensò e la richiuse pian piano. Non ci aveva mai badato, ma era un fatto: suo fratello aveva una grande personalità. La sua presenza e la sua intensità si imponevano irresistibilmente anche a chi non capiva appieno il significato delle sue parole. « Fratello, ho deciso. Ce ne andremo via. Questo posto è troppo piccolo per noi. » Hendrick annuì. Il pensiero non lo disturbava affatto. Era sempre stato un giramondo ed era pronto a ripartire anche subito. « Non dico solo questo Kraal, fratello, dico di abbandonare questa terra. » « Abbandonare questa terra! » Hendrick fece per alzarsi, poi ricadde sullo sgabello. « Dobbiamo farlo. Questa terra è troppo piccola per noi e per le pietre. » « Dove andremo? » Moses alzò una mano. « Ne parleremo presto, ma prima bisogna che ti liberi del ragazzo bianco che hai portato fra noi, i anche piú pericoloso delle pietre. Rischia di tirarci addosso la polizia bianca ancor prima. Quando l'avrai fatto, fratello, saremo pronti a continuare la nostra opera. » Swart Hendrick era uomo di grande vigore, sia fisico che mentale. Non temeva quasi niente, era pronto a fare tutto e a patire molto per ottenere quello che voleva, ma aveva sempre seguito qualcun altro. C'era sempre stato un altro uomo ancora piú intrepido e risoluto di lui a guidarlo. « Faremo come hai detto tu, fratello », accettò, sentendo istintivamente di aver trovato qualcuno capace di sostituire l'uomo che aveva lasciato a morire in cima a una collina nel deserto.
« Aspetterò qui fino all'alba di domani », disse al ragazzo bianco Swart Hendrick. « Se per allora non sarai tornato, saprò che sei al sicuro. » « Ti rivedrò mai, Hennie? » gli chiese Manfred, turbato. Hendrick esitò, sul ciglio di una promessa a vuoto. « Credo che d'ora in poi i nostri passi seguiranno sentieri diversi, Manie. » Si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. « Ma ti penserò spesso... e chissà, magari un giorno i nostri sentieri si incroceranno ancora. » Strinse la spalla del ragazzo e notò che era fasciata di muscoli, come quella di un adulto. « Va, in pace, e sii un uomo come tuo padre. » Spinse via leggermente Manfred, ma il ragazzo bianco esitava. « Hendrick », gli sussurrò. « Ci sono molte cose che vorrei dirti, ma non trovo le parole. » « Va, », disse Hendrick. « Lo sappiamo tutti e due: non c'è bisogno di dirlo. Va', Manie. » Manfred raccolse lo zaino e il rotolo della coperta e uscí dalla macchia imboccando la strada polverosa. Cominciò la discesa verso il villaggio, verso la cuspide della chiesa che in qualche modo considerava il simbolo della sua nuova esistenza, che a un tempo lo attraeva e lo respingeva. Alla prima curva si voltò. Non c'era piú traccia del grosso ovambo. Proseguì verso la chiesa, in fondo alla strada principale del paese. Senza farlo di proposito, svoltò dalla strada principale imboccando una laterale che conduceva alla canonica dal retro, costeggiando le latrine: era la stessa strada che aveva fatto con suo padre in occasione dell'ultima visita. La via, stretta, era fiancheggiata da carnose piante di moroto, e si sentiva la puzza dei buglioli dietro le porticine dei cessi in cortile, sul retro delle case. Al cancelletto della canonica si fermò, esitando, poi entrò e imboccò il lungo vialetto a passo di lumaca. A metà strada fu fermato da un urlo, e si guardò intorno con apprensione. Ecco un altro ruggito, e una voce potente alzarsi in tono di esortazione, o discussione acrimoniosa. Veniva da una baracca sgangherata in fondo al cortile, forse una grossa legnaia. Manfred deviò per la baracca e si affacciò cautamente alla porta. L'interno era buio ma appena gli occhi si abituarono Manfred vide che era un ripostiglio per gli attrezzi, o un laboratorio, con forgia e incudine in un angolo e ogni sorta di strumenti appesi alla parete. Il pavimento di terra battuta era sgombro e in mezzo c'era Tromp Bierman, la Tromba del Signore, inginocchiato. Indossava i calzoni scuri dell'abito, una camicia bianca e la cravatta nera. La giacca era appesa a un paio di tenaglie da fabbro sull'incudine. La barba cespugliosa di Tromp Bierman puntava verso il soffitto e lui aveva gli occhi chiusi e le braccia alzate in un gesto di supplice resa, ma il suo tono non era certo sottomesso. « Oh Signore Iddio di Israele, ti supplico ardentemente di dare risposta alle preghiere del tuo servo su questo argomento. Come posso fare la tua volontà se non so qual è? Io sono solo un umile strumento, non oso prendere questa decisione da solo. Abbassa lo
sguardo, Signore Iddio, abbi pietà della mia ignoranza e stupidità e rendimi note le tue intenzioni... » Tromp si interruppe di colpo e aprì gli occhi. La gran testa leonina si girò e gli occhi, ardenti come quelli di un profeta del Vecchio Testamento, cauterizzarono l'anima di Manfred. In fretta il ragazzo si levò il cappello informe e madido di sudore, tenendolo con due mani contro il petto. «Sono tornato, Oom», gli disse. «Come mi avevi detto di fare. » Tromp lo guardò con occhi feroci. Ciò che vedeva era un ragazzotto gagliardo, dalle spalle larghe e gli arti muscolosi, una testa di riccioli biondi e due sopracciglia, invece, nere come il carbone sopra strani occhi color topazio. Cercò di leggere sotto la pallida superficie di quegli occhi e awerti l'aura di decisione e lucida intelligenza che aleggiava intorno al giovanetto. « Vieni qui », ordinò, e Manfred poso il fagotto e andò da lui. Tromp gli afferrò la mano e lo fece inginocchiare. « Inginocchiati, Jong, e rendi grazie al tuo Fattore. Loda il Signore Iddio dei tuoi padri per aver esaudito le mie preghiere al tuo riguardo. » Diligentemente Manfred chiuse gli occhi e gli strinse la mano. « Oh Signore, perdona il tuo servo importuno che ha osato sottoporti altre quisquilie, mentre ti occupavi di affari ben piú gravi. Ti ringraziamo di aver affidato alle nostre cure questo giovane, che forgeremo e tempreremo in una spada. Una potente lama che si abbatterà su tutti i filistei, un'arma che opererà a tua gloria, per la giusta e santa causa del tuo popolo eletto, il popolo afrikaner. » Pungolò Manfred con l'indice. « Amen! » disse il giovane sobbalzando dal dolore. « Ti loderemo e ti glorificheremo tutti i giorni della nostra vita, o Signore, e ti imploro di riversare su questo eletto figlio del nostro popolo la forza e la risolutezza... » La preghiera, punteggiata dai fervidi « Amen! » di Manfred, durò finché il ragazzo non fu in preda ai morsi della fame, ai capogiri della stanchezza e a un terribile mal di ginocchia. Finalmente, all'improvviso, Tromp lo tirò in piedi e lo mise in marcia verso la porta della cucina. « Mevrou », risuonò la Tromba del Signore. « Dove sei, donna? » Trudi Bierman irruppe in cucina di corsa a quel richiamo e si fermò senza fiato davanti al ragazzo in abiti laceri e sporchissimi. « La mia cucina! » piagnucolò. « La mia bella cucina pulita! Ho appena dato la cera al pavimento! » «Il Signore Iddio ci ha mandato questo giovane», intonò Tromp. « Lo accoglieremo in casa. Mangerà alla nostra tavola e sarà per noi come un figlio. » « Ma è sporco come un negro! » « E allora lavalo, donna, lavalo. » Proprio in quella una ragazza scivolò timidamente nella stanza dietro la figura matronale di Trudi Bierman, e subito, vedendo Manfred, s'irrigidì come una cerbiatta impaurita.
Manfred stentò a riconoscere Sarah. Era ingrassata, e sopra i gomiti ora c'era della carne soda e rosea: non si vedevano piú spigoli ossuti sopra due braccia simili a stecchi. Le guance un tempo pallidissime erano bianche e rosse, gli occhi opachi e spenti erano vivi e brillanti, e i capelli biondi, spazzolati fino a splendere, formavano due trecce gemelle arrotolate a crocchia sulla testa, e indossava un vestito modesto ma immacolato e lungo fino alle caviglie. Mandò un grido e corse verso Manfred a braccia aperte, ma Trudi Bierman la afferrò da dietro e la scosse rudemente. « Ragazzaccia pigra, devi ancora finire gli esercizi di aritmetica. Torna immediatamente a farli! » La spinse rudemente fuori della stanza e tornò a rivolgersi a Manfred, con le braccia conserte e la bocca atteggiata a una smorfia di disgusto. « Fai schifo », gli comunicò. « Hai i capelli lunghi come una ragazza. E 'sti vestiti... » La sua espressione si indurí in modo ancor piú preoccupante. « In questa casa vivono dei cristiani! E non si apprezza nessuna abitudine di quel senza-Dio di tuo padre, mi sono spiegata? » « Ho fame, zia Trudi. » « Mangerai quando mangeremo tutti, e non prima di esserti lavato. » Guardò il marito. « Menheer, vuoi far vedere al ragazzo come si adopera lo scaldabagno a legna? » Si mise poi di guardia sulla porta del bagno e assistette spietatamente alle abluzioni, spazzando via ogni pretesa di pudore e ogni protesta per la temperatura dell'acqua; e quando lo vide esitare afferrò lei il pezzo di sapone azzurrino e si mise a strofinare senza complimenti il suo corpo fin nelle piú intime e riposte pieghe. Poi, avvolto in un asciugamano bagnato, lo tirò per un orecchio nel retrocortile, lo fece accomodare su una cassetta da frutta rovesciata e si mise a tosargli i capelli biondi con un paio di forbici da pastore. Quando si passò la mano sulla testa, il ragazzo sentí pungere; e aveva un pò freddo sul collo e dietro le orecchie. Trudi Bierman raccolse i vestiti con una pantomima di disgusto e aprí lo sportello della stufa del boiler. Manfred fece appena in tempo a salvare la giacca, e quando la donna vide la sua espressione, mentre si allontanava da lei tastando senza darlo a vedere i diamanti cuciti nella fodera, alzò le spalle. « Magari con una bella lavata e qualche pezza può ancora andare. Nel frattempo ti darò qualche vecchio vestito di Tromp. » Trudi Bierman prese la fame di Manfred per una sfida alla sua cucina e abilità culinaria. Continuava a riempirgli il piatto ancor prima che avesse finito, restandogli accanto con la pentola e il mestolo in mano. Quando alla fine il ragazzo ricadde all'indietro, sazio, la donna, con una luce di trionfo negli occhi, andò in dispensa a prendere la torta al latte. Quali estranei in seno alla famiglia, Manfred e Sarah furono collocati sulle sedie piú basse, al centro del tavolo, dominati da scranni piú alti delle due rosee e grassocce figlie dei Bierman. Sarah spilluzzicava il cibo con tanta sobrietà da attirarsi l'ira di Trudi Bierman. « Non sono stata lí a far da mangiare perché tu gio-
cherellassi col cibo, signorina cara. Starai al tuo posto finché non avrai finito il piatto, spinaci compresi, anche tutta la notte se sarà necessario. » E Sarah si mise a masticare meccanicamente, senza mai distogliere lo sguardo da Manfred. Fu la prima volta che a Manfred toccò guadagnarsi un pasto con due preghiere, prima e dopo, ciascuna delle quali gli sembrò interminabile. Era lí che annuiva ciondolando sulla sedia quando Tromp Bierman lo svegliò di soprassalto con un « Amen! » tonante come una salva di artiglieria. La casa era già strapiena, con Sarah e le giovani Bierman, sicché a Manfred toccò andare a dormire in un angolo del laboratorio in cortile. La zia Trudi infilò in una cassa i suoi pochi abiti scompagnati, preparò il letto su una vecchia rete e un bozzuto materasso di crine e appese un tendone scolorito a un filo per isolare la zona notte. « Non consumare la candela per niente », l'avvertí la zia Trudi dalla porta del ripostiglio degli attrezzi. « Te ne darò solo una al mese. Siamo gente frugate noi, lontanissima dalle stravaganze di tuo padre, grazie a Dio. » Manfred si tirò la coperta grigiastra fin sulla testa rapata per difendersi dal freddo della notte. Era la prima volta in vita sua che aveva un letto e una stanza tutta per sè, e si crogiolò in quella beata sensazione, addormentandosi nell'odor di grasso da ruote, petrolio e braci della forgia. Si svegliò sentendosi sfiorar la guancia e urlò: dalla tenebra confuse immagini gli si riversavano addosso atterrendolo. Aveva sognato la mano di suo padre, corrosa dalla cancrena, che si levava dalla tomba per ghermirlo: si contorse nelle coperte, atterrito. « Manie, Manie, sono io. » La voce di Sarah era altrettanto atterrita della sua. Si vedeva la sua silhouette profilarsi contro il chiar di luna che entrava dalla finestra; era sottile e rabbrividiva in camicia da notte. I capelli spazzolati le ricadevano sulle spalle come una nuvola d'argento. « Che cosa fai qui? » farfugliò. « Non ci devi venire. Devi andare via. Se ti sorprendono... » Si interruppe perché non aveva idea di quali potevano essere le conseguenze, ma sapeva per istinto che sarebbero state severe. Ne sarebbe stato infranto il suo nuovo e piacevole senso di sicurezza e normalità. « Sono stata tanto infelice. » Si capiva dal tono che stava piangendo. « Fin da quando te ne sei andato. Le ragazze sono così cattive... mi chiamano vuilgoed, spazzatura. Mi prendono in giro perché non so leggere e fare i conti come loro, e perché parlo in maniera strana. Ho pianto tutte le notti da quando sei andato via. » A Manfred si strinse il cuore. Nonostante la paura di esser scoperto, la prese per mano e la fece sedere sul letto. « Adesso sono qua io, Sarie », sussurrò. « Non lascerò che ti prendano in giro. » Lei gli singhiozzava sul collo, e lui le disse rudemente: « Non voglio che piangi, Sarie. Non sei piú una bambina. Devi essere coraggiosa ». « Piangevo perché sono felice », disse tirando su col naso. « Non piangere piú, neanche quando sei felice », le ordinò. « Hai
capito? » E lei si mise ad annuire furiosamente, cercando di ricacciare le lacrime. « Ho pensato a te ogni giorno », gli sussurrò. « Ho pregato Dio di farti tornare come avevi promesso. Posso venire nel letto con te, Manie? Ho freddo. » « No », disse lui duro. « Devi tornare, prima che ti becchino qua con me. » « Solo un momento », lo prego e, prima che potesse protestare, si era già infilata sotto la coperta vicino a lui. Lo abbracciò forte. La camicia da notte era leggera e lisa, e il suo corpo rabbrividiva dal freddo: non ebbe il coraggio di cacciarla via. « Cinque minuti », brontolò. « Poi dovrai andartene. » Presto il suo corpo si scaldò. I suoi capelli, che Manfred aveva contro il viso, sapevano di buono, come un cucciolo. Il ragazzo si sentiva piú grande e importante, e si mise ad accarezzarle la testa con fare paterno e possessivo. « Credi che Dio esaudisca le nostre preghiere? » gli chiese lei sottovoce. « Ho pregato piú che ho potuto, ed eccoti qui, come avevo chiesto » Tacque un momento. « Però c'è voluto un sacco di tempo e di preghiere. » « Non me ne intendo di preghiere », ammise lui. « Mio padre non pregava un gran che. Non mi ha mai insegnato come si fa. » « Be', adesso è meglio che ti abitui », l'avvertì. « In questa casa tutti pregano continuamente. » Quando infine scivolò fuori dal ripostiglio degli attrezzi e tornò a letto in casa, gli lasciò un posto caldo sul materasso e uno ancora piú caldo nel cuore. Era ancora buio quando Manfred fu svegliato da uno strepito della Tromba del Signore in persona. « Dieci secondi ancora a letto e ti becchi addosso un secchio d'acqua fredda, Jong. » E lo condusse, tremante e con la pelle d'oca, all'abbeveratoio di fianco alla stalla. « L'acqua fredda è la cura migliore per i peccati della carne giovane, Jong », gli disse con gusto lo zio Tromp. « Prima di colazione striglierai il cavallo e pulirai la stalla dal letame, capito? » La giornata si rivelò una girandola vertiginosa di lavoro e preghiera, coi mestieri di casa alternati a lunghe ore di studio e ancor piú lunghe sessioni di preghiera, trascorse in ginocchio, mentre zio Tromp o zia Trudi esortavano Dio a incrementare le loro prestazioni o rovesciar loro addosso ogni sorta di sanzioni. Tuttavia nel giro di una settimana, Manfred riuscì a cambiare in maniera inavvertita ma definitiva l'organizzazione sociale vigente tra i giovani della casa. Aveva troncato i primi tentativi, furtivi ma concertati, delle sorelle Bierman di sfotterlo con sguardi gelidi e implacabili dei suoi occhi gialli, e quelle si erano ritirate fra trilli di costernazione. Ma sui libri di scuola la faccenda era ben diversa. Le cugine erano diligenti, e beneficiavano dei risultati di una vita di studi forzati. Mentre Manfred sudava sulla grammatica tedesca e sul libro di matematica, loro avevano la possibilità di sfoderare sorrisi di superiorità alle sue incerte risposte alle interrogazioni di zia Trudi: e questo
era appunto l'incoraggiamento di cui Manfred aveva bisogno. « Gliela farò vedere io », si ripromise, e si dedicò con tanto impegno al compito di raggiungere e superare le cugine che ci mise dei giorni ad accorgersi di come perseguitavano la piccola Sarah. La crudeltà delle sorelle Bierman era raffinata e subdola: uno scherzetto, una smorfia, un nomignolo; una calcolata esclusione dai giochi e dalle risate; il sabotaggio dei mestieri di casa, una macchia sugli indumenti appena stirati da Sarah, il letto disfatto, del grasso spalmato sui piatti appena lavati da lei; e risate maligne quando Sarah era castigata per pigrizia e negligenza dalla zia Trudi, che era anche troppo contenta di ottemperare col dorso della spazzola ai suoi sacri doveri di educatrice. Manfred prese le ragazze Bierman a una a una. Le afferrò per i capelli e guardandole negli occhi da cinque centimeri di distanza fece loro un discorsetto con la voce fremente di passione a stento repressa, concludendo con un « e badate bene di non andare a dirlo alla mamma ». La loro deliberata crudeltà terminò di colpo e, sotto la protezione di Manfred, Sarah fu lasciata assolutamente in pace. Alla fine di quella prima settimana, dopo la quinta funzione in chiesa di una domenica lunga e noiosa, una delle cugine apparve sulla porta del ripostiglio degli attrezzi dove Manfred, coricato sul letto, studiava la grammatica tedesca. « Mio papà vuol vederti nel suo studio. » E la messaggera agitò la mano parodiando il disastro incombente. Manfred mise la testa sotto il rubinetto e cercò di pattinarsi la pelata davanti a un pezzo di specchio appeso sopra il suo letto. Immediatamente le ciocche si rizzarono di nuovo a spuntoni. Rinunciò al tentativo e corse alla convocazione. Non era mai stato ammesso finora alle stanze anteriori della canonica. Erano sacrosante, e di esse lo studio del pastore era il sancta sanctorum. Le cugine l'avevano già informato, con malcelata soddisfazione, che una convocazione lí non poteva avere altro significato che punizione e dolore. Sulla soglia, Manfred si fermò tremando, sicuro che le visite notturne di Sarah al ripostiglio degli attrezzi fossero state scoperte, e fece un bestiale sobbalzo quando, al suo timido bussare, rispose un tonante ruggito di Tromp. Aprí allora la porta e lentamente si affacciò dentro. Lo zio Tromp era dietro la scrivania, coi pugni chiusi appoggiati sul piano di cuoio. « Entra, Jong. Chiudi la porta. Non restartene li impalato! » tuonò, lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona. Manfred restò in piedi davanti a lui, cercando di trovare parole di pentimento e contrizione: ma prima che potesse azzardarle lo zio Tromp parlò di nuovo. « Ebbene, Jong, tua zia mi ha informato sul tuo conto. » Il suo tono contrastava con la sua espressione feroce. « Mi ha detto che la tua istruzione lascia purtroppo a desiderare, ma che hai buona volontà e ti applichi. » Manfred emise un sospiro di sollievo e fece fatica a seguire il resto del discorsetto, che era una specie di esortazione. « Noi siamo perseguitati, Jong. Siamo vittime dell'oppressione e del Milnerismo. » Manfred aveva sentito parlare di Lord Milner da suo padre: era il ben noto governatore inglese contrario agli afrikaner,
per decreto del quale tutti i bambini che a scuola parlavano quella lingua dovevano indossare un cappello con la scritta: SONO UN ASINO, PARLO OLANDESE. « C'è solo un modo per sopraffare i nostri nemici, Jong. Dobbiamo diventare piú intelligenti, piú forti e piú spietati di loro. » La Tromba del Signore si immerse così tanto nelle sue stesse parole da alzare lo sguardo ai complicati stucchi del soffitto con negli occhi una luce di fanatismo tra religioso e politico, consentendo a Manfred di guardarsi furtivamente intorno. La stanza ridondava di mobili. Tre pareti erano coperte di libri, di argomento religioso o comunque serio. Predominava Calvino, insieme agli autori presbiteriani favorevoli al governo ecclesiastico: c'erano anche opere di storia e filosofia, legge, biografie, dizionari, enciclopedie, raccolte di sermoni e di inni sacri in antico olandese, tedesco e inglese. La quarta parete, proprio dietro la scrivania dello zio Tromp, mostrava una galleria di fotografie. Antenati dall'aria fiera, con indosso il vestito della festa, occupavano la prima fila: sotto c'erano congregazioni di devoti, dotti membri del sinodo, tra i quali sempre si riconoscevano le inconfondibili fattezze di Tromp Bierman: una serie di Tromp sempre piú anziani e maturi, a partire dal giovanotto sbarbato e dallo sguardo acceso fino al barbuto e leonino esemplare adulto. Poi, alquanto incongruamente, e quasi sbalorditivamente, ecco una foto incorniciata e ormai quasi ingiallita, la piú grande e collocata nella miglior posizione, che riproduceva un giovane nudo fino alla cintola, con le braghe aderenti e una magnifica cintura scintillante di borchie e medaglioni. L'uomo in questione era Tromp Bierman a non piú di venticinque anni, ben rasato, coi capelli scriminati in mezzo e piatti e lustri di brillantina, il corpo poderoso costellato di muscoli, i pugni stretti disposti nella classica guardia pugilistica. Davanti aveva un tavolino tutto pieno di coppe scintillanti e trofei sportivi. Il giovane sorrideva: era molto bello e, agli occhi di Manfred, incredibilmente ardito e romantico. « Sei un pugile! » proruppe, incapace di contenere la propria meraviglia e ammirazione, interrompendo il silenzioso assolo della Tromba del Signore. Il testone irsuto si chinò, sbatté gli occhi ricondotto di colpo alla realtà, e poi seguí lo sguardo di Manfred. « Non soltanto un pugile », disse lo zio Tromp, « ma un campione. Sudafricano dei mediomassimi, per la precisione. » Tornò a guardare Manfred e vide la sua espressione ammirata. Allora diventò piú cordiale, e si lasciò andare all'onda di quei bei ricordi. « Hai vinto tutte quelle coppe... e quella cintura? » « Come no, Jong. Ho fatto correre i filistei. Gliene ho date un sacco e una sporta. » « Hai boxato solo col filistei, zio Tromp? » « Erano tutti filistei, Jong. Appena salivano sul ring e me li trovavo davanti diventavano filistei e mi gettavo su di loro senza pietà, come la spada e la mazza dell'Onnipotente » Tromp Bierman alzò i pugni serrati davanti a se e mulinò una rapida serie di colpi,
che si arrestavano fischiando a pochi centimetri dal naso di Manfred. « Mi ci guadagnavo da vivere, Jong. Sfidavo chiunque con in palio dieci sterline. Ho incontrato Mike Williams e l'ho messo giú alla sesta, il grande Mike Williams in persona » Grugniva, dondolandosi e boxando sulla sedia. « Ha! Ha! Sinistro! Destro! Sinistro! Ho messo al tappeto anche il negro Jephta, e ho conquistato il titolo battendo Jack Lalor nel 1916. Sento ancora negli orecchi gli applausi quando Lalor è andato KO. Ah, che belli gli applausi, Jong, che bello... » Si interruppe e rimise le mani in grembo riassumendo un'espressione dignitosa e severa. « Poi tua zia Trudi e il Signore Iddio di Israele mi hanno chiamato dal ring a un lavoro piú importante. » E lo scintillio di eccitazione scomparve malinconicamente dagli occhi dello zio Tromp. « Diventare un campione di boxe... Sarebbe un sogno per me », sospirò Manfred, e lo sguardo di Tromp si concentrò pensoso su di lui. Lo esaminò attentamente dalla testa rapata ai piedi grandi ma proporzionati infilati in un vecchio paio di quelle tradizionali calzature che gli afrikaners chiamano velstoen. « Vuoi imparare a tirare? » gli chiese a bassa voce, guardando la porta di sottecchi come un cospiratore. Manfred non riusciva nemmeno a rispondere, aveva la gola chiusa dall'eccitazione: ma annuì con vigore e lo zio Tromp proseguí nel suo solito tono strepitoso. « Tua zia Trudi non approva le scazzottate. E ha tutte le ragioni! E' roba da teppisti. Dimentica queste cose, Jong! Pensa su un piano piú elevato. » Scuoteva la testa così vigorosamente da scomporsi la barba. Tutto quel vigore serviva a reprimere la voglia di insegnargli che era venuta a lui, si capiva chiaramente. Si pettine la barba con le dita e continuò. « Per tornare a quello che ti stavo dicendo, tua zia e io pensiamo che sia meglio che tu cambi nome per il momento. Adotterai il cognome Bierman, finché non si parlerà piú del processo di tuo padre. I giornali, questi organi di Lucifero, non fanno che parlare di Lothar De La Rey... Tua zia ha ragione a non farli penetrare in questa casa. Il mese prossimo, quando comincerà il processo a tuo papà a Windhoek, si creerà una grande sensazione, che potrebbe attirare vergogna e disgrazia sul tuo capo e su questa famiglia. » « Il processo di mio padre? » Manfred guardava il pastore senza capire. « Ma mio padre è morto. » « Morto? E' questo che credevi? » Tromp si alzo e girò intorno alla scrivania. «Ti chiedo perdono, Jong », disse appoggiandogli entrambe le mani sulla spalla. « Ti ho procurato pene inutili non parlandotene prima. Tuo padre non è morto. E' stato catturato dalla polizia, e il 20 del mese prossimo sarà giudicato dalla Corte Suprema a Windhoek. Rischia la condanna a morte. » Sorresse Manfred, che aveva accolto la notizia come un fulmine a ciel sereno, e proseguì con un mormorio delicato: « Adesso capisci perché vogliamo farti cambiar nome, Jong». Sarah si era sbrigata a stirare e poi era scivolata fuori casa.
Adesso era in cima alla catasta di legna, seduta con le gambe penzoloni, a guardare Manfred al lavoro con l'ascia, cosa che le piaceva moltissimo. Era una lunga ascia da usare a due mani, con la testa verniciata di rosso vivo e la lama lucida che Manfred affilava sulla pietra da cote fino a quando tagliava i peluzzi sul dorso della mano. Si era tolto la camicia e l'aveva data da tenere a lei. Torso e schiena erano lucidi di sudore. Le piaceva l'odore del sudore di Manfred, simile a quello del pane fresco, o di un fico appena spiccato dall'albero in pieno sole. Manfred piazzò un altro ciocco sul ceppo e fece un passo indietro. Si sputò sulle mani, come sempre, e come sempre anche lei inghiotti per simpatia. Poi riprese in mano la lunga ascia e lei si tese tutta. « La tabellina del cinque », ordinò, e alzò l'ascia facendole descrivere un ampio giro. Nell'abbattersi sul ciocco la lama fischiava. Si piantò nel pezzo di legno con uno schianto che Manfred accompagnò con un netto ed esplosivo grugnito d'impegno. « Cinque per uno cinque », disse lei a tempo con l'ascia mulinante. « Cinque per due dieci. » Manfred borbottò, mentre una scheggia chiara volava sfiorandogli la testa. « Cinque per tre quindici. » L'ascia descriveva un cerchio rosso nella luce dorata del sole calante, e Sarah recitava le tabelline con voce acuta, mentre le schegge grandinavano tutt'intorno. Il ciocco si divise in due proprio mentre Sarah dichiarava che cinque per dieci fa cinquanta. Manie fece un passo indietro, si appoggiò all'ascia e le sorrise. « Molto bene, Sarah, neanche un errore. » Lei si crogiolò nel complimento ma, alzando gli occhi, si irrigidì vergognosa e compunta, saltò giú dalla catasta di legna e in un turbine di gonnelle risalì il vialetto e scomparve a casa. Manfred si voltò. Lo zio Tromp era apparso all'angolo della rimessa, e lo guardava. « Mi dispiace, zio Tromp », disse chinando il capo. « Lo so che non doveva star qui, ma non sono riuscito a dirle di andar via. » Lo zio Tromp si staccò dalla parete e si avvicinò a passi lenti a Manfred. Si muoveva come un grosso orso dalle lunghe braccia penzolanti, e girò piano piano intorno a Manfred, esaminandolo con un cipiglio vago, astratto. Manfred si contorceva, imbarazzato, e lo zio Tromp gli diede un doloroso colpetto nella pancia col pollicione. « Quanti anni hai, Jong? » Manfred glielo disse e lo zio Tromp annuì. « Mancano tre anni allo sviluppo completo. Diventerai un bel mediomassimo, direi, a meno che, finendo in volata, non diventi addirittura un peso massimo. » Manfred si sentì prudere la pelle a quei termini inconsueti eppure tremendamente eccitanti, e lo zio Tromp si allontanò diretto alla catasta di legna. Si tolse la giacca da predicatore e la piegò con cura. La mise sulla catasta, poi si tolse anche la cravatta e ce l'appoggiò sopra. Tornò verso Manfred tirandosi su le maniche della camicia.
« Allora vuoi diventare un pugile? » gli chiese, e Manfred annuì, incapace di parlare per l'emozione. « Metti via quell'ascia », ordinò lo zio. Manfred eseguì e tornò a fronteggiare Tromp. Lo zio gli presentò il palmo della mano destra. « Picchia! » gli disse. Manfred strinse il pugno e tirò un'incerta sventola alla manona dello zio. « Non stai facendo la calzetta, Jong, non stai lavorando la pasta. Cosa sei, un uomo o una sguattera? Picchia, signorina, picchia! Così va meglio, ma non farlo girare attorno alla testa, parti deciso! Piú forte! Piú forte! Eh, quasi così! Dài! Adesso prova col sinistro. Bene! Destro! Sinistro! Destro! » Lo zio Tromp ora gli presentava entrambe le mani, schivando e danzandogli davanti, mentre Manfred avidamente lo incalzava, tirando cazzotti alternati alle mani aperte del pastore. « Va bene », disse Tromp abbassando le mani. « Adesso tirami un pugno. Tirami un pugno in faccia. Dài, coraggio; più forte che puoi, proprio sul naso. Vediamo se mi mandi al tappeto. » Manfred abbassò i pugni e fece un passo indietro. « Non posso, zio Tromp, non ci riesco », protestò. « Cosa? Cosa non posso, Jong? » « Non ce la faccio a picchiarti. Non sarebbe giusto. Non sarebbe rispettoso. » « Adesso si parla di rispetto, non di boxe, eh? Si parla di cipria e guanti per signora! » Lo zio Tromp ruggì. « Credevo volessi tirare di boxe. Credevo volessi diventare un uomo, invece sei ancora un bambino piagnucoloso. » Atteggiò la voce a un falsetto rotto. « Non sarebbe giusto, zio Tromp, sarebbe una mancanza di rispetto! » sfotté. Di colpo la sua mano destra parti e schiaffeggiò Manfred sulla guancia, una bella sberla che gli lasciò i segni rossi delle dita in faccia. « Non è rispetto il tuo, Jong, è vigliaccheria. Ecco che cosa sei, un vigliacchetto piagnucoloso. Non sei un uomo! Non diventerai mai un pugile. » Partì l'altra manona, così in fretta e inaspettatamente che Manfred la vide appena. Il dolore dello schiaffone gli riempí gli occhi di lacrime. «Dovremo farti fare una gonna, signorina, una bella gonna gialla! » Lo zio Tromp lo stava guardando attentamente, negli occhi, pregando in silenzio che accadesse, mentre riversava disprezzo bruciante addosso al gagliardo giovanotto che si ritirava, sbigottito e incerto. Lo incalzò e colpi ancora, tagliandogli il labbro inferiore, spaccandogli la pelle molle contro i denti e facendolo sanguinare sul mento. « Forza, vieni! » lo esortava intanto silenziosamente, dietro il flusso degli insulti. « Forza, difenditi, per piacere! » Finché, con una grande esplosione di gioia che rischiò di fargli scoppiare il petto, lo vide accadere. Manfred affondò il mento nel petto e il suo sguardo cambiò. Di colpo si accese di una fredda luce gialla, implacabile come lo sguardo del leone che si prepara ad attaccare, e il giovanotto gli saltò addosso.
Benché vi fosse preparato, e avesse sperato proprio in una reazione del genere, la velocità e l'impeto selvaggio dell'attacco lo presero alla sprovvista. Solo il vecchio istinto del pugile salvo lo zio Tromp, che riuscí a schivare i terribili cazzotti di cui sentì la potenza quando gli sfiorarono la tempia e gli trapassarono la barba. Nei primissimi istanti non ci fu tempo per la riflessione: tutte le sue capacità e la sua attenzione gli servirono per restare in piedi e tenere a bada l'animale gelido e feroce che aveva risvegliato lui. Poi l'esperienza e la classe pugilistica, da lungo tempo dimenticate, tornarono a imporsi, e prese a danzare, saltellare e schivare, irraggiungibile, appena oltre l'allungo del ragazzo, parando botte da orbi e considerando l'altro con obiettività, quasi dalla sicurezza dell'angolo del secondo. In breve si accorse con gioia che Manfred, pur essendo un combattente rozzo e inesperto, usava con altrettanta forza e destrezza sia il sinistro che il destro. « Un ambidestro naturale! Non favorisce il destro, e piazza la spalla dietro ogni colpo senza che nessuno gliel'abbia insegnato », esultò. Poi tornò a guardarlo negli occhi e restò sbigottito dalla furia che lui stesso aveva scatenato. « E' un killer. » Aveva riconosciuto lo sguardo. « Ha l'istinto del leopardo che uccide per il gusto del sangue e nient'altro. Non mi vede piú: vede solo la preda davanti a sé. » Queste elucubrazioni riuscirono a distrarlo. Si prese un destro sul bicipite, e capì subito che gli sarebbe venuto un livido senza pari. Gli si allegarono i denti: il fiato cominciò a bruciargli, raspante, nella gola. Il cuore batteva all'impazzata come un merlo chiuso nella gabbia toracica. Erano ventidue anni che non metteva piede su un ring: ventidue anni di cucina marca Trudi, e di vita sedentaria sulla scrivania e sul pulpito. Mentre davanti a sé aveva una macchina che macinava cazzotti alternati a stantuffo, con gli occhi gialli puntati su di lui con risolutezza vagamente omicida. Lo zio Tromp cominciò ad averne abbastanza. Attese un destro un pò piú largo degli altri e lascio partire un sinistro d'incontro, il suo colpo migliore, quello che aveva mandato al tappeto, all'epoca, il negro Jephta alla terza ripresa: il colpo entrò nella guardia di Manfred e gli si stampò addosso col classico rumore di ossa sbattute. Manfred cadde in ginocchio, sbalordito, con lo sguardo giallastro ora meno omicida che perplesso e un pò suonato, come di chi si risvegli dalla trance. « Sì, giustissimo, Jong! » Il consueto strepito della Tromba del Signore era ridotto a un anfanante mugolio. « In ginocchio! A render grazie al Signore. » Lo zio Tromp si inginocchiò accanto a Manfred e gli passò un braccio intorno alla spalla. Alzò il volto e la voce ancora incerta al cielo. « Dio onnipotente, ti ringraziamo per il fisico vigoroso che hai fornito al tuo giovane servitore. Ti ringraziamo anche per il suo sinistro naturale, pur rendendoci conto che andrà sviluppato parecchio, e ti preghiamo umilmente di riguardare con favore i nostri sforzi di instillare in lui qualche rudimento, almeno, del gioco di gambe. Il suo destro è una benedizione che proviene di-
rettamente da te, di cui ti saremo eternamente grati, anche se bisognerà insegnargli a non telegrafarlo cinque giorni prima. » Manfred stava ancora scuotendo la testa e massaggiandosi la mascella, ma rispose al pollice che gli s'infilava nelle costole con il solito « Amen! » « Cominceremo immediatamente con qualche corsetta, o Signore, mentre tenderemo un pò di corde nella rimessa per fargli prendere confidenza col ring. Ti chiediamo altresi di benedire la nostra impresa e di cooperare allo scopo di tenerla segreta alla legittima consorte del tuo servitore. Trudi Bierman. » Quasi tutti i pomeriggi, col pretesto di visitare qualcuno dei suoi parrocchiani, lo zio Tromp attaccava il cavallo al biroccio e usciva dal cancello salutando con un ampio gesto del braccio la moglie sulla soglia di casa. Manfred aspettava poco distante, sulla strada di Windhoek, già a piedi nudi e in calzoncini, e all'apparire del birocciò si metteva a corrergli accanto mentre lo zio Tromp cercava di incoraggiare il suo grasso cavallo a un piccolo trotto. « Dieci chilometri oggi, Jong... arriviamo al ponte sul fiume e ritorno, cercando di metterci un pò meno di ieri. » I guanti che lo zio Tromp aveva recuperato di nascosto da un baule nella rimessa dove dormiva Manfred erano screpolati per l'età, ma li rappezzarono, e la prima volta che li allacciò ai pugni di Manfred, il ragazzo li annusò. « Odore di cuoio, sudore e sangue, Jong. Riempitici le nari. D'ora in poi ci vivrai assieme. » Manfred li sbatté uno contro l'altro, e per un attimo negli occhi gli brillò ancora la luce gialla e fredda che suo zio ben conosceva: poi sogghignò. « Fanno un bell'effetto », disse. « Non c'è nulla di meglio », concordò lo zio Tromp, accompagnandolo al pesante sacco di tela riempito di sabbia che pendeva in un angolo della rimessa. « Tanto per cominciare vorrei vederti lavorare un pò con quel sinistro. E' come un cavallo brado: bisogna domarlo e allenarlo, insegnargli a non sprecare forza. Deve imparare a fare quello che vogliamo noi, e smettere di schiaffeggiare l'aria. » Insieme costruirono il ring, un pò ridotto per mancanza di spazio, piantando i paletti nella terra battuta e cementandoceli. Poi stesero della tela sul pavimento. Tela e cemento venivano da qualche parrocchiano ricco che Tromp aveva chiamato a un piccolo sacrificiò « per la gloria di Dio e del Folk», un appello che non poteva essere facilmente ignorato. Sarah, obbligata al silenzio dal giuramento piú solenne e spaventoso che Manfred e zio Tromp erano riusciti a escogitare, ebbe il permesso di assistere agli allenamenti sul ring, anche se faceva sfacciatamente il tifo per il piú giovane. Dopo due di queste riunioni, che lo zio Tromp superò senza ammaccature ma ansimando come una vaporiera, il pastore si mise a scuotere la testa. « Inutile, Jong. Qui o bisogna trovare un altro sparring partner o bisogna che riprenda ad allenarmi. » Così il cavallo fu lasciato nella stalla e lo zio Tromp si mise a
correre anfanando a fianco di Manfred sulle lunghe distanze, mentre il sudore gli cadeva dalla barba come le prime pioggie d'estate. Tuttavia perse miracolosamente la pancia, e ben presto sotto gli strati di grasso molle che gli coprivano spalle e torace cominciarono a delinearsi muscoli duri. Gradualmente allungarono le riprese da due a quattro minuti, con Sarah al cronometro (ossia il cipollone d'argento di zio Tromp, che compensava con la grossezza la scarsa precisione). Ci volle quasi un mese perché lo zio Tromp potesse dire a se stesso (non certo a Manfred!) che il ragazzo cominciava a somigliare a un vero pugile. A lui disse invece: « Adesso voglio la velocità. Ti voglio rapido come il mamba, coraggioso come il ratel ». Il mamba è il piú temuto dei serpenti africani. Può diventare grosso come il polso di un uomo e lungo fino a sei metri. Il suo veleno uccide un uomo adulto in quattro minuti, una morte dolorosissima. Il mamba è così veloce da superare un cavallo al galoppo; il suo morso è fulmineo. Quanto al tasso africano, detto ratel, è un animaletto dotato di una pelliccia floscia ma resistentissima che può sfidare il morso del mastino e le zanne del leopardo. Il suo testone piatto fa rimbalzare, innocue, le piú grevi mazzate, e il suo coraggio è degno di un leone o di un gigante. Di solito mite e paziente, se provocato attacca qualunque animale, anche enorme. Dice la leggenda che il tasso africano, guidato da chissà quale istinto, punti subito ai genitali e li strappi con un morso a chiunque - uomo o bufalo, leone o elefante - osi minacciarlo. « Ho qualcosa da farti vedere, Jong.» Lo zio Tromp condusse Manfred alla grossa cassetta di legno appoggiata alla porta della rimessa e l'apri « E' per te. L'ho ordinato per posta a Città del Capo. E' arrivato col treno di ieri. » Piazzò il groviglio di cuoio e gomma in mano a Manfred. « Cos'è, zio Tromp? » « Vieni qua che ti faccio vedere. » In pochi minuti lo zio Tromp sistemò gli elastici e gli ancoraggi. « Ebbene, che cosa ne dici, Jong?» Fece due passi indietro contemplando l'opera. « E' il regalo piú bello che mi abbiano mai fatto, zio Tromp. Ma che cos'è? » « Ti credi un pugile e non riconosci un punching ball? » « Un punching balì! Chissà quanto dov'esserti costato! » « Effettivamente un sacco, Jong, ma non dirlo alla zia Trudi. » « A che cosa serve? » « A sviluppare la velocità! » gridò lo zio Tromp cominciando a tempestare di colpi l'attrezzo, ritmicamente, beccandolo al volo di destro e di sinistro, facendolo andare senza sosta fin quando l'instancabile pallone non l'ebbe vinta e vide il pastore fermarsi ansimando mentre lui continuava a oscillare indifferente. « La velocità, Jong! Rapido come il mamba! » Di fronte alla generosità e all'entusiasmo dello zio Tromp, Manfred dovette fare ricorso a tutto il suo coraggio per dire le parole che da qualche settimana aveva sulla punta della lingua.
Attese fino all'ultimo momento prima di sputarle fuori. « Devo andare via, zio Tromp », e assistette al tormento della delusione e dell'incredulità che si succedettero su quel viso barbuto che aveva cominciato spontaneamente ad amare. « Andare via? Vuoi lasciare la mia casa? » Lo zio Tromp si fermò di colpo nella polvere della strada di Windhoek e si pulí il sudore con l'asciugamano che portava intorno al collo. «Perché, Jong, perché? » « Mio padre sarà processato fra tre giorni. Devo andare, ma poi tornerò. Te lo assicuro, torno appena posso. » Lo zio Tromp ricominciò a correre, calcando la strada diritta che si perdeva in un punto lontano, alzando una nuvoletta di polvere a ogni passo. Manfred scatto a raggiungerlo. Nessuno di loro parlò piú finché non arrivarono al boschetto dove avevano lasciato cavallo e biroccio. Lo zio montò sul carro e prese in mano le redini. Guardò Manfred che era rimasto a terra. « Vorrei averlo anch'io, un figlio leale come te », disse pacatamente, facendo capire al cavallo che era ora di mettersi a trottare. La sera, dopo cena e dopo tutte le preghiere, Manfred si coricò nel suo letto leggendo Goethe alla luce di una candela schermata, si da non tradire la sua stravaganza presso la zia Trudi. Goethe, il poeta preferito di suo padre, non era affatto facile. Il suo tedesco era migliorato moltissimo: due giorni la settimana, la zia Trudi ne decretava l'uso obbligatorio in casa, avviando conversazioni erudite cui ogni membro della famiglia era incoraggiato, anzi praticamente costretto, a prender parte. Ma Goethe restava un'altra cosa, ovviamente, e Manfred stava cercando di raccapezzarsi tra verbi che non aveva mai sentito quando il libro gli fu levato di mano. « Ti rovinerai gli occhi leggendo a lume di candela, Jong.» Era lo zio Tromp. Manfred sì rizzò subito a sedere. Anche lo zio sedette sul letto e cominciò a sfogliare il libro. Poi parlò senza guardarlo in faccia. « Rautenbach domani va a Windhoek con la sua Ford T. Porta un centinaio di tacchini al mercato, ma di dietro c'è posto anche per te. Dovrai acconciarti a un pò di penne di tacchino e a qualche cacchina sui vestiti, ma il viaggio non ti costerà niente. » « Grazie, zio Tromp. » « In città c'è una vecchia vedova devota e rispettabile, che tra l'altro cucina benissimo. Ti ospiterà lei, le ho scritto. » Tirò fuori un foglio piegato e sigillato con la ceralacca: il magro stipendio di un pastore di provincia non consentiva il lusso di una busta. « Grazie, zio Tromp. » A Manfred non veniva in mente altro da dirgli. Voleva abbracciare quel testone da orso e baciarlo sulla guancia, ma si trattenne. « Potrebbero esserci altre spese da fare », continuò lo zio Tromp con qualche imbarazzo. « Non so quando potrai tornare: comunque... » Si frugò in tasca, prese il polso di Manfred e gli ficcò qualcosa in mano. Manfred guardò le due scintillanti monete da mezza corona che aveva in mano e scosse lentamente la testa.
« Zio Tromp... » « Non dire niente, Jong... specialmente a tua zia Trudi. » Lo zio Tromp si alzò, ma Manfred lo prese per la manica. « Zio Tromp... potrò ripagarti, per questa come per tutte le altre cose. » « Lo so, Jong. Un giorno mi ripagherai abbondantemente in gioie e soddisfazioni » « No, no, non un giorno: adesso. Posso ripagarti adesso. » Manfred saltò su dal letto e andò a frugare nella cassa da imballaggio rizzata e appoggiata su quattro mattoni che gli faceva da armadio. Ci frugò dentro e tirò fuori una borsa da tabacco gialla. Tornò dallo zio e slacciò l'apertura, tutto ansioso di piacere. « Ecco qua, zio Tromp, aprì la mano. » Sorridendo con indulgenza, lo zio Tromp aprì la zampone dal dorso ricoperto da fitti peli neri e le dita come salsicciotti caserecci dei contadini dei dintorni. « Che cos'hai li dentro, Jong? » domandò giovialmente, ma il sorriso gli si ghiacciò in volto quando Manfred gli riverso una cascatella di pietre luccicanti in mano. « Diamanti, zio Tromp », sussurrò Manfred. « Abbastanza da arricchirti e poter comprare quello che vuoi. » « Dove li hai presi, Jong? » La voce dello zio Tromp era calma e spassionata. « Come ti sono capitati in mano? » « Il papà... mio padre. Me li ha messi nella fodera della giacca. Ha detto che erano per me, per finanziare la mia istruzione e il mio mantenimento e tutte le cose che aveva intenzione di fare per me ma non poteva. » « Dunque è vero! » disse sottovoce lo zio Tromp. « E' tutto vero quello che dicono i giornali, non sono le solite frottole degli inglesi. Tuo papà è un rapinatore, un bandito. » La manona si chiuse sul tesoro di pietre luccicanti. « E tu eri con lui, Jong. C'eri sicuramente anche tu quando ha commesso le cose terribili di cui è accusato, e per cui certamente lo condanneranno. Eri con lui, Jong? Rispondimi! » La sua voce si stava alzando come vento di bufera, e adesso si mise praticamente a ruggire. « Hai commesso questo grandissimo peccato con lui, Jong? » L'altra mano scattò avanti e prese Manfred per il bavero della camicia da notte. Attirò la faccia del ragazzo a pochi centimetri dalla sua barba protuberanze. « Confessalo, Jong! Dimmi tutto, fino all'ultima goccia del male che hai commesso. Eri con tuo padre quando ha assalito quell'inglese per rapinarla? » « No! No! » disse Manfred, scuotendo la testa come un matto. « Non è vero! Mio papà non farebbe mai una cosa del genere. I diamanti erano nostri. Me l'ha spiegato benissimo: ci siamo solo ripresi quello che era nostro. » « Eri con lui quando ha fatto questa cosa, Manfred? Dimmi la verità! » Lo interruppe lo zio Tromp con un altro ruggito. « Dimmelo! Eri con lui? » « No, zio Tromp, è andato da solo. E quando è tornato era ferito. Aveva il polso... la mano... » « Grazie, o Signore! » Lo zio Tromp alzò gli occhi al cielo con sollievo. « Perdonalo perché non sapeva quello che faceva, o Signo-
re! E' stato trascinato nel peccato da un uomo cattivo. » « Mio papà non è cattivo », protestò Manfred. « Era stato imbrogliato e spogliato di tutto. » « Silenzio, Jong.» Lo zio Tromp si alzò in tutta la sua statura, splendido e terribile come un profeta biblico. « Le tue parole offendono il Signore. Le sconterai all'istante. » Trascinò Manfred per la rimessa e lo spinse davanti all'incudine di ferro nero. « Non rubare. Questa è la parola di Dio! » Piazzò uno dei diamanti nel centro dell'incudine. « Queste pietre sono il frutto male acquisito di un peccato terribile. » Tastò la rastrelliera e afferro un mazzapicchio da due chili. «Debbono essere distrutte. » Mise il martellone in mano a Manfred. « Invoca il divino perdono, Jong. Implora il Signore misericordioso e vibra la mazzata! » Manfred si ritrovò con la mazza in mano, stretta al petto, guardando il diamante sull'incudine. « Forza, Jong! Distruggi quella cosa maledetta o sii per sempre maledetto anche tu », ruggiva lo zio Tromp. « Colpisci, in nome di Dio! Liberati della colpa e della vergogna. » Lentamente Manfred alzò la mazza sopra la testa e poi si fermò. Si giro a guardare il fiero predicatore. « Colpisci forte », insisteva. « Subito! » E Manfred vibrò la mazzata, col bello stile rotondo che già dimostrava spaccando la legna con la scure. Quando la mazza da demolitore si abbatté sull'incudine, il giovane sbuffò per lo sforzo. Poi lentamente la rialzò. Il diamante era andato in polvere. Era una sostanza biancastra, piú fine dello zucchero, ma tuttora pregna dei resti del suo fuoco e della sua bellezza: i minuscoli granelli infatti splendevano ancora alla luce della candela. Quando lo zio Tromp la spazzò via dall'incudine con una manata, la polvere volò creando un arcobaleno luminoso sul pavimento di terra battuta. Lo zio Tromp mise un'altra inestimabile pietra sull'incudine. Rappresentava una fortuna, che pochissimi uomini riuscirebbero a guadagnare in dieci anni di duro lavoro. « Forza! » gridò, e il martello roteò sibilando per aria, e si abbatté sull'incudine come un gong. La preziosa polvere fu spazzata via e sostituita da un'altra pietra. « Forza! » ruggiva la Tromba del Signore, e Manfred lavorava di martello, grugnendo e singhiozzando in gola a ogni colpo, finché alla fine lo zio Tromp dichiarò: « Iddio sia lodato! E' fatta! » e cadde in ginocchio con Manfred davanti all'incudine, come se fosse un altare, nella polvere di diamanti, e si misero a pregare. « O Signore Gesú, contempla con favore questo atto di penitenza. Tu che hai dato la tua vita per la nostra redenzione, perdona il tuo giovane servitore corrotto da ignoranza e bambinaggine piú che da volontà di peccare. » Era mezzanotte passata e la candela si sciolse nella sua stessa cera. Lo zio Tromp si alzò e tirò su anche Manfred. « Vai a dormire ora, Jong. Per ora abbiamo fatto tutto il possi-
bile per salvarti l'anima. » Guardo Manfred scivolare sotto la coperta grigia. Poi gli chiese tranquillamente: « Se ti proibissi di andare a Windhoek domattina, mi ubbidiresti? » « Mio padre! » sussurrò Manfred. « Rispondimi, Dong, mi ubbidiresti? » «Non lo so, zio Tromp, ma non credo che ci riuscirei. Mio papà... » « Hai già tante cose di cui pentirti, e non voglio aggiungerci un atto di disobbedienza. Quindi non ti proibisco di andare. Farai quello che ti dettano la coscienza e la lealtà. Ma per il tuo bene e il mio, quando arrivi a Windhoek usa il cognome Bierman e non De La Rey! » « Il giudizio è oggi. Ho sempre seguito la regola di non azzardare mai previsioni sull'esito delle cause e dei processi », disse Abe Abrahams, seduto davanti alla scrivania di Centaine, « ma in questo caso faccio un'eccezione: predico che quell'uomo andrà sulla forca. Non c'è il minimo dubbio su ciò. » « Come fai a essere cosí sicuro, Abe? » gli chiese tranquillamente Centaine, e l'avvocato la guardò con intima ammirazione per un pò prima di risponderle. Indossava un semplice abitino con la vita bassa, che giustificava il prezzo solo per il taglio squisito del jersey di seta. Sottolineava il suo seno piccolo, che era di moda, e i fianchi stretti da ragazzo, davanti alla porta-finestra. La luce forte dell'Africa le formava un'aura radiosa intorno ai capelli: tutto ciò gli rendeva piuttosto difficile concentrarsi sulle ragioni giuridiche di quanto aveva appena affermato. Guardò allora il sigaro che stava fumando e cominciò a elencare i punti del suo discorso. « Per prima cosa c'è la faccenduola della colpevolezza. Nessuno, e meno che mai la difesa, ha cercato seriamente di mettere in dubbio che sia colpevole come un demonio. Dolo nell'intenzione e nell'esecuzione, dolo nella preparazione, dolo nel tentativo di fuga e in tutte le circostanze aggravanti, dal furto dei cavalli dell'esercito al ferimento di un poliziotto con un'arma da guerra come una bomba a mano. Praticamente la difesa ha bell'e ammesso che la sua unica speranza consiste nell'estrazione di qualche arcano coniglio giuridico dal cilindro dei cavilli per fare impressione su Sua Eccellenza il giudice, cosa che finora però non è ancora avvenuta. » Centaine sospirò. Per due giorni era stata interrogata come testimone: benché fosse sempre rimasta calma e imperturbabile sotto il fuoco di fila delle domande incrociate dell'accusa e della difesa, cominciava a sentirsi esausta, e in preda a un certo senso di colpa per aver spinto Lothar a quella disperata follia criminale e per guidare attualmente la muta di chi stava per scagliargli addosso tutti i fulmini della legge. « In secondo luogo », proseguí Abe agitando il sigaro, « ci sono i suoi precedenti. Durante la guerra è stato un traditore e un ribelle con una taglia sopra la testa, un disperato responsabile di un lungo elenco di atti di violenza. » « Ma è stato amnistiato per i crimini di guerra », osservo Centai-
ne. « Sul relativo decreto c'è la firma del primo ministro e del guardasigilli dell'epoca. » « Ma peserà lo stesso a suo sfavore. » Abe scuoteva la testa con gravità e consapevolezza. « Dopo un'amnistia del genere, commettere un altro crimine significa mordere la mano del perdono, calpestare la dignità della legge. Ti garantisco che il giudice non gradirà affatto. » Abe diede un'occhiata alla punta del sigaro. C'erano due centimetri di cenere grigia regolamentare, e ne fu soddisfatto al punto da annuire fra sé. « In terzo luogo », continuò, « l'uomo non mostra alcun segno di ravvedimento... nemmeno l'ombra: non ha detto a nessuno che fine ha fatto il bottino. » Si interruppe alla vista della faccia di Centaine a sentir nominare i diamanti perduti. Cambio discorso in fretta: « Quarto, gli aspetti emotivi del delitto, commesso contro una signora dell'alta società ». Rise sotto i baffi: « Una donna così indifesa da strappargli un bracciò con un morso... » Centaine si acciglio e smise di scherzare. « Il tuo coraggio e la tua dignitosa integrità sul banco dei testimoni peseranno moltissimo a suo sfavore. Hai ben letto i giornali: parlano di te come di un misto di Giovanna d'Arco e Florence Nightingale, insinuando che l'aggressione può aver avuto aspetti che ora il pudore non ti permette di denunciare. Il giudice ti offrirà la sua testa su un piatto. » Centaine guardò l'orologio. « La corte tornerà a riunirsi tra quaranta minuti. Meglio avviarci. » Abe si alzo subito. « Nulla mi piace di piú che vedere la giustizia all'opera, il suo passo dignitoso e misurato, con le trappole e i riti della procedura, il lento macinar le prove, lo sceverare il grano dal loglio... » « Non ora, Abe », lo interruppe sistemandosi il cappello davanti allo specchio. Calò la veletta nera sopra un occhio, inclinò le falde a un angolo elegante, poi si mise sottobraccio la borsetta di coccodrillo. « Andiamo a veder finire questa cosa orribile senza altre perle oratorie da parte tua. » Salirono sulla collina con la Ford di Abe. La stampa li aspettava davanti all'ingresso: i fotografi infilavano le macchine nei finestrini aperti e accecavano Centaine coi lampi di magnesio. Lei si riparava gli occhi con la borsetta, ma non appena scese dall'auto le furono addosso come un branco di lupi, tempestandola di domande. « Le farebbe piacere che l'impiccassero? » « Può sopportare la perdita dei diamanti, la sua compagnia, signora Courteney? » « Pensa che la corte userà clemenza se De La Rey consentirà il recupero del bottino? » « Che cosa prova attualmente? » Abe cercò di farle da scudo, aprendosi la strada a gomitate e tirandola per il polso nella tranquillità relativa dell'aula. « Aspettami qui, Abe », gli ordinò, e scivolò giú per il corridoio riservato ai testimoni, scostando la gente che si assiepava davanti all'ingresso del pubblico che era ancora chiuso. Le teste si voltarono a guardarla, ma le ignorò e s'infilo nella toilette delle signore. L'uffi-
ciò riservato alla difesa era proprio di fronte e Centaine, dopo aver controllato che nessuno piú la osservasse, bussò in fretta a quella porta e scivolo dentro. Si chiuse l'uscio dietro le spalle e, quando gli avvocati difensori alzarono lo sguardo su di lei, disse: « Scusate l'intrusione, gentili signori, ma debbo parlarvi ». Pochi minuti dopo Centaine raggiunse Abe che la stava aspettando. « C'è anche il colonnello Malcomess », le disse, e tutte le altre preoccupazioni per il momento furono dimenticate. « Dov'è? » gli chiese, impaziente di vederlo. Non l'aveva piú visto dal secondo giorno del processo, quando aveva prestato la sua testimonianza con la voce flautata e tenorile che le faceva sempre rizzare la peluria della nuca. La sua deposizione era risultata ancor piú schiacciante per l'imputato a causa della fredda obiettività del racconto. La difesa aveva cercato di confonderlo a proposito della sparatoria con vittime solo equine e soprattutto del lancio della bomba a mano: ma in breve si era resa conto che dalla sua testimonianza non c'era da aspettarsi alcun vantaggio e l'aveva congedato dopo un rapido interrogatorio. Da quel giorno Centaine l'aveva cercato sempre invano con gli occhi. « Allora, dov'è? » ripeté. « E' già entrato in aula », le rispose Abe, e Centaine si accorse che gli uscieri avevano aperto l'ingresso. « C'è Charlie a tenerci il posto, non è necessario immergerci in quella confusione. » Abe la prese sottobraccio e la condusse con calma tra gli ultimi a entrare. I commessi la riconobbero e le fecero largo fino ai posti di terza fila che Charlie aveva occupato. Centaine stava scrutando il pubblico alla ricerca dell'alta figura di Blaine. Sobbalzò quando la folla per un attimo creò uno spiraglio in fondo al quale lo scorse, dall'altra parte dell'aula. Anche lui la stava cercando e la vide un attimo dopo: sobbalzo a propria volta. Si guardarono per qualche istante come se i pochi metri che li separavano fossero un insormontabile abisso. Nessuno dei due sorrise, ma neppure distolse lo sguardo. Poi lo spiraglio si richiuse e si persero di vista. Centaine si sedette e fece finta di cercare qualcosa nella borsetta per recuperare la compostezza. « Eccolo! » esclamò Abe, e per un attimo lei penso che si riferisse a Blaine. Poi vide che i carcerieri stavano portando dentro Lothar De La Rey. Benché l'avesse visto tutti i giorni alla sbarra dall'inizio del processo, pure non era ancora abituata al cambiamento del suo aspetto. Oggi indossava una camicia azzurra sbiadita, da manovale, e braghe scure senza un colore preciso. Gli indumenti sembravano troppo larghi per lui, e una manica era appuntata con una spilla da balia appena sotto il moncherino. Strascicava i piedi come un vecchio, sorretto da uno dei carcerieri per fare gli scalini che conducevano alla sbarra. Adesso aveva tutti i capelli bianchi, e anche le folte sopracciglia erano spruzzate d'argento. Era incredibilmente magro e la sua carnagione aveva un aspetto terreo e senza vita: sotto il mento e sul collo la pelle formava delle pieghe flosce. L'abbronzatura era scolorita fino a diventare giallina come vecchio stucco.
Sedendo sul banco degli imputati, alzò la testa e diede un'occhiata al pubblico. Nella sua espressione si leggeva un'ansia patetica mentre faceva scorrere lo sguardo sulle panche. Poi Centaine vide il lampo di gioia nei suoi occhi e il sorriso represso appena trovo chi stava cercando. Aveva assistito a questa scenetta tutti i giorni, per cinque volte quindi, sicché ora si voltò subito a vedere la persona del pubblico che attirava così l'attenzione di Lothar. « Silenzio in aula », gridò l'usciere. Nello scalpiccio creato dai presenti che si alzavano in piedi entrò il giudice Hawthorne con i due giudici a latere. Hawthorne, il presidente di questo tribunale, era un ometto dai capelli d'argento e l'espressione arguta e benevola di un maestro di scuola: sembrava incredibile che fosse il cinico dispensatore di condanne a morte che diceva Abe. Né lui né i due giudici a latere indossavano le ridicole parrucche e le tenute variopinte dei giudici inglesi. La legge olandese era fondata sul diritto romano e molto piú austera nelle sue manifestazioni di funerea pompa. I tre giudici erano avvolti in semplici toghe nere, con cravatte bianche a sbuffo, e confabulavano sottovoce mentre tutti gli altri presenti in aula, tossicchiando e strascicando i piedi, tornavano ad accomodarsi. Poi il giudice Hawthorne alzò gli occhi e si preparò a sbrigare la formalità di rileggere i capi d'imputazione e dichiarare aperta la seduta. Un grande silenzio si accampò in aula. I giornalisti si chinarono sui taccuini, e perfino gli avvocati, in prima fila, si calmarono e tacquero un pò. Lothar, con espressione impenetrabile, mortalmente pallido, fissava il giudice come tutti. Il magistrato consultava i propri appunti, per aumentare la tensione. Con istinto da guitto la protrasse fino agli estremi limiti della tollerabilità. Poi alzò lo sguardo e senza ulteriori indugi, con voce sonora, si lanciò nella sua parte. Per prima cosa elencò le accuse, cominciando dalle piú gravi: tre tentati omicidi, due aggressioni aggravate, una rapina a mano armata. I capi d'imputazione erano ventisei in tutto e ci vollero quasi venti minuti per esaurirli. « La pubblica accusa ha presentato i capi d'imputazione in maniera ordinata e convincente. » Il suo rappresentante, dalla faccia tutta rossa, gongolò al complimento e Centaine si sentí irragionevolmente irritata da questa piccola manifestazione di vanità. « La corte è stata particolarmente colpita dalle prove fornite dai principali testimoni a carico. Soprattutto la testimonianza di Sua Eccellenza l'Amministratore ci è stata di grande aiuto. E' una vera fortuna poter giovarsi di un testimone di questo calibro per quanto riguarda il dettagliato resoconto dell'inseguimento e dell'arresto dell'imputato, fase in cui sono stati commessi i piú gravi reati che questa corte è chiamata a giudicare. » Il giudice alzò gli occhi dalle carte e guardò Blaine Malcomess. « Sia quindi messo a verbale che il colonnello Malcomess ha fatto una favorevolissima impressione a questa corte, e che la sua testimonianza è stata accolta senza riserve. » Dal posto di Centaine si vedeva solo la nuca di Blaine. Mentre il giudice lo guardava, le orecchie a sventola diventarono rosse, e Cen-
taine si sentí invasa da una grande tenerezza nel notarlo. Quell'imbarazzo le pareva addirittura commovente. Subito dopo, il giudice guardò lei. « L'altra testimone a carico che si è condotta impeccabilmente e la cui deposizione è cristallina è la signora Centaine Courteney. La corte è pienamente consapevole della durezza e della gravità della prova inflittale, e del coraggio da lei dimostrato non soltanto in quest'aula. Ancora una volta è stata una fortuna potersi giovare della sua testimonianza chiara e dirimente per raggiungere il convincimento sempre mai necessario a emanare una sentenza. » Mentre il giudice parlava, Lothar De La Rey voltò la testa e si mise a fissare Centaine. Quegli occhi chiari, che l'accusavano a loro volta su un piano piú elevato di quello del codice, la donna non riuscí a sostenerli. Abbassò lo sguardo sulla borsetta che teneva in grembo. « Invece la difesa è riuscita a produrre solo un testimone, l'accusato stesso. Dopo matura considerazione, siamo giunti al convincimento che le prove da lui addotte sono inaccettabili. Il suo atteggiamento è rimasto sempre ostile e non-collaborativo. Rigettiamo in particolare l'asserzione dell'imputato di aver fatto tutto da solo, quando le testimonianze del colonnello Malcomess e dei suoi uomini chiariscono incontrovertibilmente che ha avuto dei complici. » Lothar De La Rey voltò la testa lentamente in direzione del giudice e ricominciò a fissarlo con quell'espressione gelida e ostile che aveva tanto fatto inquietare Hawthorne nei primi cinque giorni del processo. Il giudice gli restituí lo sguardo e proseguí. « Abbiamo quindi preso in esame tutti i fatti e le prove che ci sono stati sottoposti raggiungendo un verdetto unanime. Abbiamo giudicato l'imputato Lothar De La Rey colpevole di tutti i ventisei reati di cui è accusato. » Lothar non batté ciglio, ma dall'aula si levò come un sospiro corale, immediatamente seguito dal brusio dei commenti. Tre giornalisti saltarono in piedi e si precipitarono fuori. Abe si voltò a guardare Centaine, annuendo. « Te l'avevo detto », le mormorò. « E' la forca. » I commessi cercavano di ristabilire l'ordine. Il giudice venne loro in aiuto. « Silenzio o non esiterò a fare sgombrare l'aula », avverti, e tutti zittirono « Prima di passare alla sentenza, ascolterà qualunque cosa voglia aggiungere la difesa a favore dell'imputato. » Il giudice Hawthorne si volto a guardare il giovane avvocato difensore di Lothar, che si alzo subito in piedi. Lothar De La Rey era in bolletta e non poteva permettersi un difensore di fiducia. L'avvocato Reginald Osmond era stato designato dalla corte a rappresentarlo d'ufficio. Nonostante la sua giovinezza e inesperienza - era il suo primo processo in cui c'era in ballo la pena capitale -, Osmond finora si era comportato in maniera passabile, data anche la situazione disperata del suo cliente. I suoi controinterrogatori, benché assolutamente inefficaci, erano stati almeno abili e vivaci, e non aveva consentito all'accusa di procurarsi vantaggi indebiti. « Se Vostro Onore me lo consente, avrei intenzione di produrre un testimone a discarico. »
« Andiamo, andiamo, avvocato Osmond, come può pensare di introdurre un altro testimone a questo stadio del processo? C'è forse qualche precedente di ciò? » Il giudice lo guardava accigliato: il giovincello pretendeva di sconvolgergli il copione. « Le faccio rispettosamente presente il processo Van der Spuy del 1923 e il processo Alexander del 1914. » Il presidente conferì per qualche istante coi due giudici a latere e poi alzo gli occhi con un'espressione vanamente esasperata. « D'accordo, avvocato, sentiamo pure questo testimone. » « Grazie, signore. » Osmond era cosí sconvolto da questo suo successo che balbettò, chiamando a testimoniare la signora Centaine De Thiry Courteney. In aula piombò un silenzio sbalordito. Perfino il giudice Hawthorne non credeva alle proprie orecchie. Mentre Centaine si alzava per andare a deporre, si levò una voce dal pubblico: « Mettigli il cappio al collo a quel bastardo, bellezza! » Il giudice Hawthorne recuperò in fretta la padronanza e si mise a dardeggiare sguardi di fuoco per identificare il disturbatore. « Non tollererò altre interruzioni del genere. Vi ricordo che il reato di oltraggio alla corte è punito con pene severe », bercio. Perfino i giornalisti si misero tranquilli e si chinarono sui loro taccuini. Il commesso accompagno Centaine al banco dei testimoni, la fece giurare e sedere, mentre tutti i presenti, compresi i giudici, la guardavano: la maggior parte con aperta ammirazione, qualcuno, tra cui Blaine e Abraham Abrahams, con turbamento e perplessità. L'avvocato Osmond si alzo in piedi per iniziare l'interrogatorio, la voce bassa e rispettosa incrinata da una nota di nervosismo. « Signora Courteney, vuol dire alla corte da quanto tempo conosce l'imputato... » e qui si corresse in fretta, perché Lothar De La Rey non era piú imputato, essendo già stato riconosciuto colpevole: « ... pardon, il detenuto » « Conosco Lothar De La Rey da quasi quattordici anni. » Centaine guardo in faccia la figura grigia e curva alla sbarra. « Vuoi essere tanto gentile da descriverci le circostanze del vostro primo incontro? » « Era il 1919, e io ero sperduta nel deserto. Dopo il naufragio del Protea Castle ero stata gettata sulla Costa degli Scheletri. Per un anno e mezzo ho vagato per il deserto del Kalahari con un piccolo gruppo di boscimani San. » Tutti sapevano la storia: all'epoca aveva fatto sensazione, ma ora il racconto della stessa Centaine, fatto col suo vago accento francese, la riporto all'attenzione di tutti. Rievocò la desolazione e la sete, le paurose traversie e la solitudine che aveva sofferto, nel silenzio perfetto dell'aula. Perfino il giudice Hawthorne era immobile, come inchiodato al suo scranno, col mento appoggiato sulle mani, intento ad ascoltarla con la massima attenzione. Erano tutti con lei, mentre lottava con le sabbie onnipresentì del Kalahari, vestita di pelli d'animale, col bambino appena nato in braccio, intenta a seguire le tracce di un cavallo ferrato, il primo segno di civiltà che vedeva in tutti quei mesi di disperazione. Patirono il freddo insieme a lei e condivisero la sua tragica solitudine nelle notti africane del deserto, quando ogni possibilità di sal-
vezza sembrava sfumata; la esortarono mentalmente a proseguire instancabile, in direzione di un lontano e ancora invisibile fuoco da campo: rabbrividirono di terrore insieme a lei davanti alla sagoma sinistra e fatale del leone che le si era parato davanti; sussultarono con lei, quasi sentissero anch'essi il ruggito di un leone vicino nelle tenebre notturne. Il pubblico sospiro e proruppe in esclamazioni di orrore quando racconto la sua lotta per la propria vita e quella del bambino; i giri del leone sempre piú vicino, che l'incalzava fin sull'albero di mopani, e poi cominciava ad arrampicarsi come un gatto che non intende rinunciare a un passero. Centaine descrisse l'ansito del suo fiato rovente nel buio; lo strazio al sentirsi ghermire la gamba dai suoi artigli lunghi e gialli e tirare, tirare irresistibilmente giú dall'albero. Non riuscí a continuare, e qui intervenne gentilmente l'avvocato Osmond: «Fu in questo momento che intervenne Lothar De La Rey? » Centaine si riscosse. « Scusate... tutto mi è ritornato in mente all'improvviso... » « La prego di non affaticarsi troppo, signora Courteney », le disse il giudice venendole in aiuto. « Aggiornerò la seduta, se vuole... » « No, grazie. Vostro Onore. Non è necessario. » Si raddrizzò e riprese a guardare l'aula. « Sì, fu proprio in quel momento che Lothar De La Rey intervenne. Era accampato li vicino, e i ruggiti l'avevano messo in allarme. Uccise il leone un attimo prima che mi sbranasse. » « Dunque le salvò la vita, signora Courteney. » « Sì, mi salvò da una morte terribile, e con me salvò anche il mio bambino. » Il signor Osmond chinò la testa in silenzio, lasciando gustare al pubblico e ai giudici tutta la drammaticità di quel momento: poi chiese, con gentilezza: « E che cosa successe dopo, signora? » « Ero rimasta priva di conoscenza per via della caduta; la ferita alla gamba si infettò. Rimasi fuori di me per parecchi giorni, completamente incapace di prendermi cura di me stessa e di mio figlio. » « E quale fu il comportamento dell'accusato, allora? » « Mi curò. Medicò le ferite e soddisfece tutte le esigenze mie e del bambino. » « Le salvò la vita una seconda volta? » « Si », annuí Centaine. « Mi salvò di nuovo. » « Ora, signora Courteney. Sono passati parecchi anni. Lei è diventata una donna ricca, ricchissima, vero? » Centaine restò in silenzio, e Osmond proseguí. « E un giorno, tre anni fa, il condannato è venuto a chiederle un aiuto finanziario per la sua impresa di pesca e inscatolamento del pesce. E' esatto? » « Si rivolse alla mia compagnia, la Courteney Mining and Finance, per ottenere un prestito », disse Centaine, e Osmond continuò a farle raccontare tutto sino alla fine, quando aveva mandato gli ufficiali giudiziari a requisire la fabbrica e i pescherecci. « Quindi, signora Courteney, si può dire che Lothar De La Rey abbia avuto ragione di ritenersi trattato ingiustamente, se non addirittura deliberatamente rovinato dalla sua azione? »
Centaine esitò. « Le mie azioni si sono sempre fondate su solidi principi economici, quelli che regolano il mondo degli affari. Tuttavia sono pronta ad ammettere che, dal punto di vista di Lothar De La Rey, le mie azioni potevano anche sembrare deliberatamente intese a rovinarlo. » « All'epoca egli l'accusò di questo? » Centaine si guardò le unghie rispondendo qualcosa-sottovoce. «Mi dispiace, signora, ma debbo chiederle di ripetere la risposta. » Lo guardò con gli occhi fiammeggianti e parlò con voce rotta. « Sì, dannazione. Disse che volevo distruggerlo. » «Signor Osmond! » Era il giudice Hawthorne, ritto sul suo scranno; che lo guardava con espressione severa. « Insisto perché tratti la testimone con maggiore considerazione! » Tornò a sedersi comodo, chiaramente turbato dal recital di Centaine, e poi tornò ad alzare la voce. « Sospendo la seduta per un quarto d'ora per dare modo alla signora Courteney di riprendersi. » Alla ripresa dell'udienza Centaine tornò al banco dei testimoni, dove sedette tranquillamente attendendo che le formalità fossero completate e il signor Osmond potesse riprendere l'interrogatorio. Dalla terza fila Blaine Malcomess le sorrise, per incoraggiarla, e lei si rese conto che se non distoglieva immediatamente lo sguardo da lui chiunque in quell'aula le avrebbe letto in viso i propri sentimenti. Si costrinse quindi a guardare da un'altra parte e lo sguardo le cadde sulla galleria del pubblico. Era uno sguardo ozioso. Aveva dimenticato il modo in cui Lothar De La Rey scrutava in essa ogni mattina, ma adesso la vedeva dal suo stesso punto di vista. E di colpo i suoi occhi volarono verso l'angolo piú lontano della galleria, irresistibilmente attirati da altri due occhi che, con l'intensità di un fascio luminoso, si erano puntati su di lei; e le toccò sussultare, perché aveva l'incredibile impressione di fissare un altro Lothar De La Rey. Un Lothar come quello che aveva conosciuto tanti anni addietro, dallo sguardo color topazio, fiero e intelligente, con due sopracciglia arcuate e regolari sopra: occhi giovani, indimenticabili e non dimenticati. Ma quegli occhi non erano piú nella faccia di Lothar: Lothar era sul banco degli imputati, non lontano da lei, curvo, grigio e spento. Questa faccia invece era giovane, forte e piena d'odio, e lei sapeva chi era, lo sapeva con l'istinto sicuro di una madre. Non aveva mai visto il figlio minore: per sua volontà era stato portato via appena nato, e lei aveva distolto lo sguardo per non incontrare il suo volto nemmeno per un istante. Ma ora lo riconosceva, e le sembrava che il nucleo stesso della sua esistenza, il grembo che l'aveva nutrito, le dolesse sotto il suo sguardo, e dovette coprirsi la bocca per evitare di prorompere in un grido di dolore. « Signora Courteney! Signora Courteney! » Il giudice la chiamava, in tono allarmato, e Centaine si costrinse a voltare la testa nella sua direzione. «Sta bene, signora Courteney? Si sente in grado di continuare? » « Grazie, signore, sto benissimo. » La sua voce sembrava venire
da una grande distanza, e le ci volle tutta la sua forza di volontà per non tornare a guardare il ragazzo tra il pubblico: Manfred, suo figlio. « Molto bene. Avvocato Osmond, può continuare. » Occorse un altro grande sforzo di volontà a Centaine per concentrarsi sulle domande dell'avvocato, che la riportava alla rapina e alla lotta sul letto di un fiume asciutto. « Se ben capisco allora, signora Courteney, egli non le ha torto un capello finché lei non ha tentato di prendere la doppietta? » « Proprio così. Fino a quel momento non mi toccò. » « Ci ha già raccontato che aveva in mano la doppietta e stava cercando di caricarla. » « Esatto. » « E l'avrebbe adoperata, se fosse riuscita a ricaricarla? » «sì.» « Ci può dire, signora Courteney, se avrebbe sparato per uccidere in tal caso? » « Mi oppongo! » saltò su il pubblico accusatore. « Si tratta di una domanda puramente ipotetica. » « Signora Courteney, può astenersi dal rispondere se vuole », le spiegò il giudice Hawthorne. « Risponderò », disse con voce sonora Centaine. « Sì, avrei cercato sicuramente di ammazzarlo. » « Pensa che il prigioniero lo sapesse? » « Eccellenza, mi oppongo! Come fa a saperlo, la testimone? » Prima che il giudice potesse intervenire, Centaine rispose. « Mi conosceva, mi conosceva bene. Sapeva che se solo avessi potuto l'avrei ucciso. » Le emozioni a lungo represse esplosero a questo punto in aula, e ci volle quasi un minuto per riportare la calma. Nella confusione Centaine tornò a guardare tra il pubblico: finora era riuscita a resistere e a non farlo. Il posto era vuoto. Manfred se n'era andato, e si sentì confusa per la sua diserzione. Osmond ricominciava a farle delle domande e perse la prima. « Mi scusi, può ripetere la domanda? » « Signora Courteney, le ho domandato se l'aggressione del mio cliente, allorché lei aveva la doppietta in mano, intenzionata a usarla per ucciderlo... » « Mi oppongo, signor giudice! La testimone aveva semplicemente intenzione di difendere se stessa e i suoi beni », tuonò il pubblico accusatore. « Dovrà riformulare la domanda, avvocato Osmond. » « Benissimo, signore. Signora Courteney, vuoi dirci se il mio cliente ha usato contro di lei un'energia superiore a quella necessaria per disarmarla? » « Mi dispiace. » Centaine non riusciva a concentrarsi. Aveva voglia di guardare ancora tra il pubblico. « Non capisco la domanda. » « Il prigioniero ha usato piú forza di quella necessaria a disarmarla e impedirle di sparargli? » « No, no, mi ha solo preso la doppietta e l'ha gettata via. »
« E poi, quando gli ha morsicato il polso... quando gli ha affondato i denti nella carne viva, infliggendogli una ferita destinata a causargli l'amputazione del braccio, l'ha colpita o le ha inflitto una benché minima rappresaglia? » « No. » « Chissà che male doveva fargli il polso... tuttavia egli non uso mai la forza contro di lei, vero? » « No. » Centaine scosse la testa. « Era... » cercò le parole. « Era stranamente delicato, quasi gentile. » « Capisco. E, prima di andarsene, il condannato si assicurò che avesse abbastanza acqua per sopravvivere? E le diede consigli utili per il suo benessere? » « Controllò che avessi abbastanza acqua di riserva, e mi consigliò di restare accanto al veicolo finché non fossero venuti a soccorrermi. » « E ora, signora Courteney... » Osmond esitò per delicatezza. « Sulla stampa si è insinuato che il prigioniero l'abbia sottoposta a violenze di carattere... indecente... » Centaine l'interruppe, furiosa. « L'insinuazione è oscena e completamente infondata. » « Grazie, signora. Ho solo un'altra domanda da farle: lei conoscova bene il mio cliente. E' stata con lui a caccia quando l'aveva appena salvata, e doveva procurare della carne per lei e per il bambino. Dunque l'ha visto sparare? » «Sí.» « Secondo lei, se il prigioniero avesse voluto uccidere lei o il colonnello Malcomess o qualunque altro poliziotto che l'inseguiva, sarebbe stato in grado di farlo? » « Lothar De La Rey è uno dei migliori tiratori che io conosca. Avrebbe potuto ammazzarci tutti piú di una volta. » « Non ho altre domande da rivolgere alla testimone. » Il giudice Hawthorne prese lungamente appunti sul suo taccuino prima di alzare gli occhi sul pubblico accusatore. « Vuol effettuare il controinterrogatorio della testimone? » Il rappresentante dell'accusa si alzò, un pò a disagio. « Non ho altre domande da porre alla signora Courteney. » Si rimise a sedere e alzò lo sguardo irritato verso il ventilatore che girava pigro sul soffitto. « Signora Courteney, la corte la ringrazia delle ulteriori prove che ci ha fornito. Può accomodarsi al suo posto. » Centaine era cosí intenta a scrutare la galleria del pubblico alla ricerca di suo figlio Manfred che inciampò in un gradino. Sia Abe sia Blaine balzarono in piedi per sorreggerla. Arrivò prima Abe, che poi l'accompagnò al suo posto. « Abe », gli sussurrò impaziente. « C'era un ragazzo nella galleria del pubblico mentre stavo deponendo. Biondo, sui tredici anni, anche se ne dimostra sedici o diciassette. Si chiama Manfred, Manfred De La Rey. Trovalo. Voglio parlargli. » « Subito? » Abe sembrava stupito. « Sì, immediatamente. » « Mi perderò l'istanza di riduzione della pena... »
« Vai! » berciò lei. « Trovamelo! » E Abe balzò in piedi, si inchinò ai tre giudici e corse fuori dell'aula proprio mentre l'avvocato Reginald Osmond si alzava nuovamente in piedi. Osmond parlò con sincerità e passione, servendosi a tutto vantaggio del suo cliente delle dichiarazioni di Centaine, riprendendone le precise parole: « Mi ha salvato da una morte tremenda, e con me ha salvato mio figlio ». Osmond effettuò una pausa significativa e poi continuò. « Il condannato riteneva di meritare la gratitudine e la generosità della signora Courteney. Si era posto in suo potere chiedendole del denaro in prestito, e credeva - sbagliando ma in buona fede - che la sua fiducia in lei fosse stata tradita. » La sua eloquente richiesta di attenuazione della pena andò avanti per una buona mezz'ora, ma Centaine pensava piú a Manfred che al destino di suo padre. Lo sguardo che il ragazzo le aveva rivolto dalla galleria del pubblico l'aveva profondamente turbata. C'era un odio addirittura palpabile, che aveva risvegliato in lei il senso di colpa, un senso di colpa che credeva di aver sepolto tantissimi anni prima. « Ora resterà solo, avrà bisogno di aiuto », pensò. « Devo trovarlo. Devo cercare di risolvere i suoi problemi in qualche modo. » Ora capì perché per tutti quegli anni avesse sempre respinto cosí decisamente il ragazzo, pensando a lui sempre e solo come al « bastardo di Lothar », e perché aveva sempre cercato di evitare ogni contatto con lui. Infatti era bastato vederlo in faccia una sola volta per far cadere tutte le difese che aveva costruito così accortamente, e per far rivivere i naturali sentimenti di madre che aveva seppellito così profondamente in sé. «Trovamelo, Abe», sussurrò, e si rese conto che Reginald Osmond aveva concluso quel supplemento di arringa con un appello finale: « Lothar De La Rey si sentiva perseguitato a torto. In seguito a ciò, ha commesso una serie di crimini gravi e inqualificabili. Tuttavia. Vostro Onore, molte delle sue azioni dimostrano che non è un uomo malvagio, anzi pronto alla compassione, ma preso in un ingranaggio di tempestose emozioni e avvenimenti troppo potenti perché vi potesse resistere. Merita una condanna severa, la società giustamente la esige: ma io faccio appello a voi, signori della corte, affinché mostriate un pò della stessa compassione di cui oggi, qui, ha dato prova la signora Courteney, e non infliggiate a quest'uomo finito, che ha già pagato la sua colpa con la perdita di un arto, la massima pena prevista dalla legge ». L'avvocato sedette in un silenzio che si protrasse per parecchi minuti, finché il giudice Hawthorne non parve risvegliarsi dalla sorta di reverie in cui era piombato. « Grazie, avvocato Osmond. Ora la corte si ritirerà in camera di consiglio. La sentenza sarà emessa questo pomeriggio alle due e mezzo. » Centaine corse fuori dell'aula, cercando Abe o suo figlio. Trovò Abe sulla scalinata del palazzo, in piena conversazione con uno dei poliziotti di guardia. Si interruppe subito e le andò incontro. « L'hai trovato? » gli chiese, tutta ansiosa. « Mi dispiace, Centaine. Non c'è traccia di un ragazzo come quello che mi hai descritto. » « Voglio che lo trovi e me lo porti assolutamente, Abe. Serviti di
tutti gli uomini che vuoi. Non m'importa quello che può costare. Setaccia la città. Fa, tutto il possibile per rintracciarlo, deve pur abitare da qualche parte. » « D'accordo, Centaine. Mi metterò subito all'opera. Dici che si chiama Manfred De La Rey... dunque è parente del rapinatore? » « E' suo figlio », gli disse. « Capisco », disse meditabondo Abe. « Posso chiederti perché lo vuoi cosí appassionatamente, Centaine? Che cosa gli farai quando l'avrai trovato? » « No che non me lo puoi chiedere. Limitati a scovarlo. » « Perché lo voglio trovare? » si chiese poi, con le stesse parole di Abe, Centaine, perplessa. « Perché lo voglio, dopo tutti questi anni? » La risposta era del tutto ovvia. « Perché è mio figlio. » « E che cosa farò quando l'avrò trovato? Ha il dente avvelenato nei miei confronti. Mi odia, gliel'ho letto negli occhi. Non sa chi sono in realtà: gli ho letto anche questo. E allora cosa farò quando me lo troverò di fronte? » Si dette una risposta altrettanto semplice: « Non lo so. Non lo so proprio ». « La massima pena prevista dal codice per i primi tre reati commessi dall'imputato è la morte per impiccagione », disse il giudice Hawthorne. « L'imputato è già stato riconosciuto colpevole sia di questi delitti sia degli altri elencati nell'imputazione. Normalmente questa corte non avrebbe esitazioni a infliggergli simile condanna. Tuttavia, la straordinaria deposizione di una altrettanto straordinaria signora ci induce ad alcune riflessioni. I fatti volontariamente esposti dalla signora Centaine De Thiry Courteney risultano ancora piú notevoli se si pensa che quella donna ha sofferto molto a cagione dell'imputato... fisicamente, emotivamente e materialmente... inoltre si prestano a essere fraintesi e ritorti contro di lei da persone invidiose e meschine. « In trentatré anni di servizio nella magistratura non mi era mai capitato di assistere a una deposizione cosí nobile e magnanima, e ritengo quindi che la nostra deliberazione debba essere temperata dall'esempio offertoci dalla stessa signora Courteney. » Il giudice Hawthorne si inchinò leggermente verso Centaine. Poi si tolse il pince-nez dal naso e guardò Lothar De La Rey. « L'imputato si alzi », disse. « Lothar De La Rey, lei è stato riconosciuto colpevole di tutti i reati ascritti, che ai fini della sentenza risulteranno conglobati in uno. La pena che questa corte le infligge è l'ergastolo. » Per la prima volta dall'inizio del processo Lothar De La Rey mostrò qualche emozione. Sembrava che le parole del giudice fossero sferzate a cui cercasse di sottrarsi. I lineamenti del volto cominciarono a contorcersi, una palpebra si mise a tremargli incontrollabilmente, e alzò l'unica mano che gli rimaneva verso il magistrato in toga sul suo scranno. « Piuttosto uccidetemi! » urlò. « Impiccatemi, ma non rinchiudetemi come un animale... » I carcerieri lo portarono via mentre crollava il capo e si agitava, distrutto dal verdetto: tutta l'aula taceva investita da un'ondata di
umana compassione. Perfino il giudice ne fu toccato: col viso turbato e mesto. Si alzò e lentamente uscí dall'aula coi suoi due colleghi. Centaine restò seduta, guardando i banchi vuoti e la gente che sfollava in silenzio come a un funerale. « Piuttosto uccidetemi! » Sapeva che non avrebbe mai dimenticato quell'implorazione. Chinò la testa e si coprí gli occhi con la mano. Col pensiero rivedeva Lothar com'era quando l'aveva conosciuto, duro e snello come un leone rosso del Kalahari, con gli occhi chiari che scrutavano lontananze perdute nella foschia azzurrina, creatura degli spazi sconfinati inondati di bianca luce solare. E pensò alla sorte che l'aspettava adesso: stare rinchiuso per sempre in un'angusta cella, privato a vita del sole e del vento del deserto. « Oh, Lothar », gridò dal profondo dell'anima sua, « com'è possibile che qualcosa di tanto grande e bello un tempo sia finito cosí? Ci siamo distrutti a vicenda distruggendo anche il bambino che concepimmo nella splendida stagione del nostro amore. » Riaprí gli occhi. L'aula si era svuotata e penso di essere rimasta sola, finché non avverti una presenza vicino a lei. Subito si volto e vide che c'era Blaine Malcomess. « Ora capisco quant'era giusto che ti amassi », le disse piano. Stava in piedi dietro di lei, con la testa china verso la sua, ed ella lo guardo sentendo il terribile fardello della pena e del rimpianto cominciare ad alleggerirsi. Blaine le prese la mano e la strinse tra le sue. « Ho lottato continuamente con me stesso da quando ci siamo separati, cercando di trovare la forza di non rivederti mai più. C'ero quasi riuscito. Ma quello che hai fatto oggi ha cambiato tutto. Ormai onore, dovere e tutto il resto non significano piú niente per me quando ti guardo. Fai parte di me, e io devo stare con te. » « Quando? » « Il piú presto possibile », disse lui. « Blaine, nella mia lunga vita ho fatto molto male agli altri, infliggendo dolore e infelicità. Adesso basta. Anch'io non posso vivere senza di te, ma non voglio sacrificare nessuno al nostro amore. Ti vorrei tutto intero, ma mi accontenterò di meno, per il bene della tua famiglia. » « Sarà molto difficile, forse impossibile », l'avverti sottovoce. « Ma accetto le tue condizioni. Non faremo male agli altri. Pure, io ti voglio cosí tanto che... » « Lo so », gli sussurrò alzandosi a guardarlo negli occhi. « Abbracciami, Blaine, solo un momento. » Abe Abrabams stava cercando Centaine nei corridoi del palazzo di giustizia. Raggiunse la porta dell'aula e scostò silenziosamente il battente. Centaine e Blaine Malcomess erano abbracciati nel corridoio, dimentichi del mondo circostante. Li guardò un attimo senza capire, poi richiuse la porta e si mise di guardia, agitato da mille timori e speranze di felicità per lei. «Ti meriti amore», sussurrò. «E quest'uomo può dartelo, a Dio piacendo. »
« Il Paradiso Terrestre doveva essere un pò cosí », pensava Centaine. « Ed Eva doveva sentirsi come mi sento io oggi. » Andava piano, piú piano di quanto fosse mai andata quand'era al volante. Benché il suo cuore ardesse d'impazienza, lo tenne a bada. « Sono rimasta senza vederlo per cinque lunghi mesi », si diceva. « Cinque minuti in piú di attesa non faranno che rendere ancora piú dolce il momento in cui potrò riabbracciarlo. » Nonostante le migliori intenzioni di Blaine e tutte le sue assicurazioni, le condizioni poste da Centaine prevalsero. Non erano piú stati insieme dopo gli attimi rubati in quell'aula giudiziaria. Per tutto quel tempo erano rimasti separati da centinaia di chilometri: Blaine monopolizzato dai suoi doveri a Windhoek, Centaine a Weltevreden, a lottare disperatamente giorno e notte per la sopravvivenza dell'impero finanziario ora scosso dagli spasimi dell'agonia, atterrato dalla perdita di tutti quei diamanti, nessuno dei quali era stato mai recuperato. Dentro di se, Centaine paragonava quel colpo a una delle freccette avvelenate di O'wa, il piccolo boscimano giallo: sembravano un giocattolo innocuo, ma erano capaci di ammazzare le piú grandi bestie dell'Africa. Indebolivano e lentamente paralizzavano la vittima, che dapprima barcollava incerta sulle zampe, poi cascava e giaceva ansimando, in attesa del plumbeo sudario della morte che si spandesse per vene e arterie, o del colpo di grazia del cacciatore. « E io sono in questo stato adesso, paralizzata e a terra, mentre i cacciatori si avvicinano. » In quei mesi aveva lottato con tutta la sua risolutezza ed energia, ma ormai era stanca... stanca fino all'ultima fibra della mente e della carne, fino all'osso. Si guardò nello specchietto retrovisivo e si riconobbe a stento. Aveva gli occhi spenti e le occhiaie infossate che il trucco non riusciva a celare. Era una maschera di stanchezza e disperazione. Gli zigomi sembravano trasparire sotto la pelle cerea, e agli angoli della bocca si distinguevano ruchette d'esaurimento. «Ma oggi metterò da parte la disperazione. Non ci penserò, neanche un momento. Penserò invece a Blaine e al magico scenario che la natura ci offre. » Aveva lasciato Weltevreden all'alba ed era ormai duecento chilometri a nord di Citta del Capo, sfrecciava nella vasta pianura spoglia del Namaqualand e puntava giú dove la verde corrente di Benguela carezzava le scogliere occidentali d'Africa, pur se l'oceano non si vedeva ancora. Le piogge erano arrivate tardi quell'anno, ritardando la fioritura primaverile, per cui, benché ormai mancassero poche settimane a Natale, il veld era ancora tutto vestito coi colori della festa. Per la maggior parte dell'anno queste pianure erano spoglie e spazzate dal vento, scarsamente abitate e ben poco invitanti. Ma adesso le lievissime ondulazioni erano tutte coperte di un mantello ininterrotto di vegetazione, dai colori così vividi da confondere lo sguardo. C'erano fiori di cinquanta varietà diverse, e ogni specie si raggruppava facendo macchia e trasformando il paesaggio in una specie di divino mosaico, cosí luminoso che pareva splendere di luce incandescente
riflessa dagli empirei celesti con un'intensità di colori che l'occhio trovava quasi dolorosa. La strada di terra battuta, ineguale e serpeggiante, era l'unico punto di riferimento in questo splendido caos, e anche quella si perdeva ben presto tra le erbe. I solchi erano separati da una fioritura selvaggia di fiori di campo che strisciavano sotto il ventre dell'automobile producendo un rumore come di torrente montano. In cima a un'ondulazione Centaine fermò la macchina. Davanti a lei si stendeva l'oceano, una distesa verde punteggiata di creste bianche che confinava con quest'altra distesa di boccioli multicolori. Dal finestrino aperto la brezza marina le scompigliò i capelli piegando miliardi di steli e facendoli cosí respirare all'unisono col mare. Sentí le preoccupazioni e le pene di quegli ultimi mesi dissiparsi alla presenza di tanta bellezza vibrante, e rise spontaneamente di gioia commossa, riparandosi gli occhi da quell'esplosione di fiori arancione, rossi e gialli, scrutando in basso alla ricerca della costa. « Non è che una capanna », le aveva detto Blaine nell'ultima lettera. « Due stanze senz'acqua corrente, un focolare all'aperto e nessuna comodità. Ma ci passo le vacanze da quando ero bambino, e adoro il posto. Non ci ho portato piú nessuno da quando è morto mio padre. Appena posso ci vado, sempre da solo. Sarai la prima. » E le accludeva una cartina disegnata per consentirle di arrivarci. La scorse subito, proprio in riva all'oceano, sul promontorio della baietta. Il tetto di paglia era annerito dagli anni, ma i muri spessi di argilla cruda erano imbiancati e dello stesso colore delle creste di spuma che incoronavano le onde verdi del mare. Un fil di fumo anneriva il cielo azzurro, dirigendosi proprio verso di lei. Oltre la casa scorse del movimento e distinse una figuretta umana sulla scogliera, e tutt'a un tratto fu divorata dalla fretta. Ma il motore non voleva piú partire. Azionò l'avviamento fino a scaricare la batteria. « Merde! E poi ancora merde! » Era una macchina vecchia, strapazzata da uno dei sovrintendenti della tenuta di Weltevreden finché lei non l'aveva adibita alla sostituzione della Daimler distrutta. Il fatto che si guastasse proprio adesso aveva l'effetto di ricordarle sgradevolmente tutte le sue difficoltà, che era appena riuscita a mettere temporaneamente da parte, e di farle rimpiangere l'epoca felice in cui poteva permettersi una Daimler gialla nuova ogni anno. Tolse il freno a mano e lasciò che l'auto si avviasse da sola giú per la discesa. Prese una rincorsa sufficiente, riuscí a far partire il motore tra sbuffi di fumo azzurrino: dopo di che si precipitò giú per la strada a tutta velocità e in breve si fermò dietro il bianco cottage. Corse agli scogli neri sopra l'oceano e le alghe danzanti al ritmo della risacca e si mise a gridare sventolando la mano, nel frastuono che quasi annullava i suoi strilli: ma lui la sentí e alzò la testa, la vide e le corse incontro saltando da una roccia scivolosa all'altra. Indossava solo un paio di calzoncini kaki, e aveva in mano una sfilza di aragoste ancora vive. Gli erano cresciuti i capelli dall'ultima volta che l'aveva visto. Erano bagnati e ricciuti per via del sale marino, e lui rideva, mostrando i dentoni candidi. Si era fatto crescere i
baffi. Non era sicura che le piacessero, ma questo pensiero affondò nel gorgo di ben altre emozioni e Centaine si lanciò ad abbracciare il suo nudo petto. « Oh, Blaine », singhiozzava. « Oh, Dio, quanto mi sei mancato! » Poi gli porse le labbra. Il suo viso era bagnato di spruzzi e la sua bocca era salata. I baffi le facevano il solletico. No, non le piacevano proprio... ma ecco che già l'aveva presa in braccio e correva verso il cottage, mentre lei gli si aggrappava forte al collo, sobbalzandogli addosso al ritmo della sua lunga falcata, ridendo come una matta per la gran voglia che aveva di lui. Blaine sedeva su uno sgabello a tre gambe davanti al fuoco all'aperto, dove la legna odorosa del milkwood spargeva per l'aria un fragrante profumo d'incenso. Centaine stava producendo della schiuma da barba nella ciotola per tagliargli i baffi, mentre Blaine si lamentava. « Ci sono voluti cinque mesi per farli crescere, e ne ero cosí fiero... » Si ritorse per l'ultima volta la punta del baffo. « Mi danno un'aria così ardita, non trovi? » « No », disse secca Centaine. « Preferirei farmi baciare da un porcospino. » Si chinò su di lui e gli spennellò della schiuma densa sul labbro superiore, poi fece un passo indietro e lo contemplò come un pittore potrebbe fare con un quadro. Appollaiato sullo sgabello, Blaine era ancora nudo come Adamo, perché venivano dal letto. A un tratto Centaine fece un sogghiano malizioso. Prima che potesse intuire le sue intenzioni e ripararsi, lei aveva fatto un passo avanti e gli aveva spennellato un baffo di schiuma sulla piú intima propaggine. Si guardò atterrito. « Anche lui? » le domandò. « Sarebbe come tagliarmi il naso per far dispetto alla mia faccia », ridacchiò lei. « O qualcosa del genere. » Poi inclinò la testa da una parte ed espresse un'opinione critica. « Devo dire che il diavoletto col baffo sta molto meglio di te. » « Piano coi diminutivi », l'ammoni lui, cercando l'asciugamano. «Tranquillo, vecchio mio, non ho nessuna intenzione di lasciarti mancare di rispetto », disse avvolgendosi la salvietta attorno alla vita. « Cosí va meglio. Adesso posso concentrarmi sul mio lavoro senza distrazioni. » Prese in mano il rasoio e cominciò ad affilarlo sulla striscia di cuoio con rapidi colpi esperti. « Dove hai imparato? Comincio a ingelosirmi. » « Mio padre », gli spiegò. « Gli regolavo sempre i baffi. Adesso tienti forte! » Gli prese tra indice e pollice la punta del naso e tiro su. Blaine attacco la preghiera del Ringraziamento con vocetta nasale. « Per quanto stiamo per ricevere... » Chiuse gli occhi e sussulto quando la lama d'acciaio calo sulla pelle scabrosa, falciando. Centaine fece un passo indietro e pulí il rasoio pieno di schiuma e di peli, lo posò e gli passò un polpastrello sul labbro superiore pulito. « Meglio da guardare, meglio da toccare », gli disse. « Ma c'è un'altra prova da fare. » E lo bacio.
« Mmhmml » fece poi, mugolando la sua completa approvazione. Senza nemmeno interrompere il bacio gli sedette in grembo. Si rivelo un bacio di lunghezza cinematografica, al termine del quale lei si alzo e guardò in basso. L'asciugamano era scivolato via. « Riecco il diavoletto baffuto, evidentemente in cerca di guai. » Si chino a ripulirlo delle ultime tracce di schiuma da barba. « Vedi, anche lui sta meglio raso. » Blaine si alza riprendendola in braccio. « Cara la mia donna, adesso ti faccio vedere io chi e che comanda qua. » E la porto al letto addossato alla parete piú lontana. Molto piú tardi ci sedevano sopra, fianco a fianco, con le gambe incrociate e una variopinta coperta basuto sulle spalle. Guardavano il fuoco guizzare, ascoltavano l'oceano e il vento che giocherellava nella paglia del tetto. Avevano in mano una scodella di zuppa di pesce. « E' una delle mie specialità », si era vantato Blaine, ed eccola lì, piena di grossi tocchi d'aragosta e del pesce chiamato galjoen, tutta roba pescata quel giorno stesso. « E' capace di far rivivere chi si trovi a un passo dalla morte per consunzione. » Blaine ricarico due volte le scodelle, perché entrambi avevano una fame da lupo. Poi Centaine ando al fuoco, con il corpo nudo splendente dei suoi bagliori aranciati. per portargli una brace e accendergli il sigaro. Ravvivato il fuoco, torno sotto la coperta raggomitolandosi accanto a lui. « Hai poi trovato quel ragazzo che cercavi? » le domandò oziosamente. « Abe Abrahams è venuto da me a chiedere collaborazione, sai. » Non sapeva certo quanto la domanda l'aveva sconvolta, perché Centaine era riuscita a mascherare il riflesso di irrigidimento del suo corpo e si era limitata a scuotere la testa. « No. Era sparito. » « Era il figlio di Lothar De La Rey. L'ho intuito. » «Sí», ammise Centaine. «Ero preoccupata per lui. Dopo la condanna del padre dov'essere rimasto solo e abbandonato. » « Continuerò a cercarlo », le promise Blaine. « E ti farò sapere se salta fuori qualcosa. » Le accarezzò i capelli. « Sei una persona gentile », le sussurrò. « Non c'era nessuna ragione al mondo che te ne preoccupassi tu. » Rimasero in silenzio ancora un pò, ma il riferimento al mondo esterno aveva rotto l'incanto e avviato una serie di pensieri che doveva essere per forza seguita fino in fondo. « Come sta Isabella? » chiese lei, e sentí i muscoli del torace dell'uomo gonfiarsi e indurirsi sotto la sua guancia. Prima di rispondere, Blaine tirò una boccata dal sigaro. « Le sue condizioni stanno peggiorando. Atrofia dei nervi della parte inferiore del corpo. Piaghe. E' ricoverata all'ospedale Groote Schuur da lunedí. Le ulcerazioni alla base della spina dorsale sembrano proprio inguaribili. » « Mi dispiace, Blaine. » « Ecco come ho fatto a procurarmi questi pochi giorni liberi. Ho mandato le bambine dalla nonna. » « Provo rimorso. »
« Se non potessi vederti, starei ancora peggio », le rispose lui. « Blaine, dobbiamo assolutamente attenerci alla nostra decisione. Non dobbiamo far del male né a lei né alle tue figlie » Lui rimase zitto, poi di colpo gettò il sigaro nel fuoco, dall'altra parte della stanza. « Pare che dovrà andare a farsi operare in Inghilterra. Al Guy's Hospital c'è un chirurgo che fa miracoli. » « Quando? » Si sentiva il cuore in petto come una palla di cannone, pesantissimo e soffocante. « Prima di Natale. Dipende dalle analisi che le stanno facendo adesso. » « E certo tu dovrai andare con lei. » « Significherebbe dimettermi dalla carica di amministratore e rovinare le mie possibilità di... » Si interruppe: non aveva mai parlato con lei delle sue ambizioni. « Le tue possibilità di diventare un giorno ministro e magari capo del governo », finì Centaine per lui. Si girò, le prese la faccia tra le mani e la guardò negli occhi. « Lo sapevi? » le chiese, e Centaine annuì. « Mi giudichi crudele? » le domando. « A lasciar andare Isabella da sola, per le mie ambizioni egoistiche? » « No », gli rispose seria. « So che cos'è l'ambizione. » « Mi sono offerto », le disse, mentre ombre scure gli trascorrevano negli occhi verdi. « Isabella non ha voluto. Ha insistito che restassi qui. » Riattirò la testa di lei sul suo petto, e le carezzò i capelli sulla tempia. « E' una persona straordinaria. Ha un grande coraggio. Il dolore non l'abbandona mai adesso, sai? Non riesce a dormire senza laudano. E ce ne vuole sempre di piú, perché il dolore cresce ogni giorno. » « Mi sento assai colpevole, Blaine, ma nonostante tutto sono contenta di questa possibilità di stare con te. In fondo non le sottraggo niente. » Ma non era vero, e lei lo sapeva bene. Restò sveglia a lungo dopo che lui si fu addormentato. Teneva l'orecchio appoggiato al suo petto e sentiva il suo cuore e il suo respiro. Quando si svegliò, lui indossava i calzoncini kaki e stava andando a pesca sulla scogliera con una lunga canna e il mulinello. « Tra venti minuti torno con la colazione », le promise lasciandola raggomitolata sul letto, ma tornò anche prima con un pesce color argento e grigio topo lungo come il suo braccio che rapidamente preparò e mise sulla griglia. Poi la raggiunse e le strappò la coperta di dosso. « Va, a nuotare! » le disse con un sogghigno sadico, mentre lei si metteva a urlare. « Tu sei matto. L'acqua è freddissima! Mi farai morire di polmonite! » Continuo a protestare strepitosamente mentre lui la trascinava giú per la scogliera fino a una pozza di acqua calma tra le rocce, dove la buttò. L'acqua era trasparente come aria, e così fredda che quando uscirono il loro corpo era tutto rosa intenso, e i capezzoli di lei sporgevano duri e scuri come olive mature. Ma tutto quel gelo aveva aguzzato l'appetito: spruzzarono di limone la carne bianca e succulenta del pesce (un galjoen) e se lo divorarono in un attimo con aggiunta di pane
e burro salato di fattoria. Finalmente sazi, si abbandonarono sulle sedie e Blaine la guardò. Indossava soltanto uno dei suoi golf blu da marinaio, che le arrivava alle ginocchia. Si era acconciata i capelli ribelli e intrisi di sale a crocchia e li teneva a posto con un nastro giallo. « Potremmo andare a fare una passeggiata », le propose, « Oppure... » Centaine ci penso qualche secondo e poi decise: « Oppure, oppure ». « I suoi desideri, madonna, sono ordini », le rispose in tono cortese, sfilandole immediatamente il golf di dosso. Verso metà mattina era sdraiato sulla schiena, mentre Centaine, coricata su un fianco, gli stuzzicava labbra e naso con una piuma uscita dalla cucitura del cuscino. « Blaine », gli disse sottovoce, « sto per vendere Weltevreden. » Lui aprì gli occhi, le catturo il polso e si rizzo subito a sedere. « Vendere? E perché? » « Perché devo », gli rispose semplicemente. « La tenuta, la casa e tutto quel che c'è dentro. » « Ma perché, tesoro mio? So quanto significhi per te. Perché venderla? » « E' vero, Weltevreden rappresenta moltissimo per me », ammise. « Ma la miniera H'ani rappresenta di piú. Se vendo casa e tenuta, c'è una possibilità, una piccolissima possibilità che possa salvare la miniera. » « Non lo sapevo », le disse con gentilezza. « Non avevo idea che le cose ti andassero così male. » « E come potevi saperlo, amore mio? » Gli carezzo la faccia. « Non lo sa nessun altro. » « Ma non capisco... la miniera H'ani... sicuramente renderà abbastanza da... » « No, Blaine. Oggi nessuno compra diamanti. Non si compra piú niente, in realtà. E' questa terribile crisi, questa depressione... La nostra quota è stata drasticamente ridotta. Il prezzo a cui ci pagano le pietre oggi è pari alla metà di quanto ce le pagavano cinque anni fa. La miniera H'ani non è piú nemmeno in pareggio. Perde qualcosina ogni mese. Ma se riesco a resistere fin quando l'economia mondiale riprende... » Si interruppe. « L'unica possibilità che ho di farcela consiste nel vendere Weltevreden. E' tutto quel che ho da vendere, ormai. In questo modo potrò forse resistere fino alla metà dell'anno prossimo, e sicuramente per allora questa terribile depressione sarà finita. » « Sicuramente sì! » concordò lui. E dopo una breve pausa: « Centaine, io ho un pò di denaro... » Gli posò il dito sulle labbra, sorrise malinconicamente e scosse la testa. Lui le allontanò la mano e insisté: « Se mi ami, devi lasciare che ti aiuti ». « Il nostro patto, Blaine », gli ricordò. « Non dobbiamo far del male a nessun altro. Quel denaro appartiene a Isabella e alle tue figlie. »
« Appartiene a me », disse lui. « E se io decido... » « Blaine! Blaine! » lo fermò. « Mi occorre un milione di sterline per salvarmi ora! Un milione di sterline! Ce l'hai, tu? Una cifra inferiore sarebbe sprecata, sparirebbe semplicemente nel pozzo senza fondo dei miei debiti. » Scosse piano la testa. « Così tanto? » Poi ammise sconsolato: « Non ce l'ho. Non ho nemmeno un terzo di quei soldi ». « Allora non parliamone piú », gli disse con fermezza. « Adesso fammi vedere come si fa a pescare qualche gambero per pranzo. Non voglio piú parlare di cose sgradevoli per il resto del tempo che passeremo insieme. Ce ne vorrà anche troppo per le grane in seguito. » L'ultimo pomeriggio salirono sulla collina dietro il cottage, tenendosi per mano tra i fiori. Il polline colorava loro le gambe di giallo-zafferano, e le api indisturbate si alzavano a nugoli, per tornare subito dopo a posarsi. « Guarda, Blaine, guarda come ogni fiore gira la testa per seguire il sole. Io sono come un fiore, e il mio sole sei tu, amore mio. » Vagarono per la collina. Blaine raccolse i fiori piú belli e ne fece una corona per lei. Gliela mise in testa. « Ti incorono Regina del mio cuore », salmodiò, e benché lo dicesse ridendo i suoi occhi erano seri. Fecero l'amore distesi sui fiori, schiacciando petali e steli che li racchiusero in una nuvola profumata. Dopo, Centaine, rannicchiata tra le sue braccia, gli disse: « Sai che cosa farò? » « Dimmelo », le suggerì, roco dal piacere. « Darò loro qualcosa di cui parlare », disse. « Fra un anno potranno magari dire: "Centaine Courteney ha mollato", ma dovranno aggiungere: "però l'ha fatto con stile". » « Cosa ti proponi di fare? » « Un grandissimo ricevimento per Natale. Aprire per una settimana la casa di Weltevreden, con champagne e balli tutte le sere! » « Servirà anche per ingannare un pò piú a lungo i creditori », disse lui, sogghignando. « Ma non credo che tu ci abbia neppure pensato, vero? Sei una volpe ingenua. » « Non è l'unica ragione. Ci darà la possibilità di vederci: perché tu ci verrai, vero? » « Dipende. » Parlava nuovamente sul serio, ed era evidente che la cosa dipendeva da Isabella. Ma non lo disse. « Dovrei trovare un'ottima scusa per venire: ma davvero ottima. » « Te la darò io », replicò Centaine, tutta eccitata. « Organizzerò un torneo di polo! Inviterò squadre da tutto il paese e tutti i migliori giocatori. Tu sei il capitano della nazionale, non ti potrai rifiutare, no? » « Non vedo come », ammise lui. « Che volpe, che volpe! » disse scuotendo la testa, ammirato. « Ti farò conoscere il mio Shasa. Te l'ho detto che non fa che torturarmi per esserti presentato, da quando sa che ti conosco. » « Ne sarò felicissimo. » « Dovrai rassegnarti a essere adorato come un eroe. » « Potresti invitare qualche squadra di giovani », le suggerì Blaine. « Organizzare un torneo anche per loro. Mi piacerebbe veder giocare tuo figlio. »
« Oh, Blaine! Che magnifica idea! » Batté le mani, eccitata. « Povero il mio ragazzo! Sarà probabilmente l'ultima volta che potrà montare un cavallo suo. Infatti mi toccherà venderli insieme alla tenuta», sospirò. Le ombre tornarono a incupirle gli occhi per un momento, ma si riprese subito e con lo sguardo di nuovo brillante ripeta: « Te l'ho detto: lascerò in grande stile ». La squadra di Shasa, la Weltevreden Invitation, composta di giocatori sotto i sedici anni, era riuscita ad arrivare in finale, soprattutto per via degli handicap. Shasa era l'unico giocatore con handicap positivo: degli altri tre membri, due erano «scratch handicaps », e l'altro « minus ». Come che fosse, ora si trovavano di fronte i Natal Juniors, quattro dei migliori giocatori della categoria, tutti classificati due o tre punti tranne il capitano, Max Theunissen. Questi rientrava nei limiti di età per pochi mesi. Era classificato giocatore da cinque punti, il miglior giocatore africano della sua categoria d'età: era dotato di statura, peso, occhio e potenza di polso. Sapeva giovarsi al meglio di tutte le sue doti, giocando pesante. Shasa era il secondo miglior giocatore del paese, con quattro punti, ma non aveva ancora il peso e la forza dell'altro. Max era poi aiutato dai compagni di squadra, forti pure loro, mentre Shasa aveva una squadra di brocchi, e non poteva fare tutto da solo. In cinque tempi Max aveva segnato nove punti nonostante la disperata difesa di Shasa, cancellando l'handicap della squadra: sicché le due compagini cambiarono cavalli per l'ultimo tempo trovandosi in perfetta parità. Shasa balzò giú di sella con la faccia tutta rossa per lo sforzo, la frustrazione e la rabbia. Sgridò il primo stalliere: « Abel, non hai tirato bene il sottopancia! » Lo stalliere nero scosse la testa nervosamente. « L'ha controllata lei, signorino Shasa. » « Non rispondere! » Ma non guardava neppure Abel. Stava scrutando dall'altra parte del campo, verso i cavalli della squadra del Natal, dove Max Theunissen era circondato da uno stuolo di ammiratori. « Per questo tempo monterò Tiger Shark », gridò ad Abel sempre senza guardarlo. « Ma aveva detto Plum Pudding! » protesto lo stalliere. « E adesso dico Tiger Shark. Cambia sella e controllagli le fasce agli anteriori. » Plum Pudding era un cavallo piccolo, e già un pò avanti negli anni, e anche un pò rotondetto: ma aveva un grande istinto per la palla e si piazzava sempre dove Shasa meglio poteva tirare. I due avevano sviluppato un magnifico rapporto. Tuttavia, conformemente all'età avanzata, Plum Pudding stava diventando un pò troppo timoroso. Non gli piacevano piú le galoppate rompicollo, e scartava nervoso quando doveva correre spalla a spalla con un altro cavallo. Shasa aveva notato che dall'altra parte del campo Max Theunissen aveva fatto preparare il suo stallone nero Nemesis. Negli ultimi quattro giorni, con questo animale aveva terrorizzato tutti i giocatori della categoria junior, sfiorando sempre cosí maliziosa-
mente il fallo da mettere a malpartito gli arbitri: in tal modo era sempre riuscito a far deviare gli altri cavalieri dalla loro linea di tiro, anche se avevano il diritto di precedenza, e ad affrontare i contrasti coi giocatori piú leggeri con un vigore talmente sadico da sfiorare due o tre volte, e una volta provocare, un incidente in seguito al quale il piccolo Tubby Vermeulen della squadra del Transvaal era caduto cosí malamente da rompersi il polso e slogarsi la spalla. « Forza, Abel, non startene lí impalato, sellami Tiger Shark » Tiger Shark era un giovane stallone reduce da un solo anno di addestramento: era un brutto animale, dalla testa a martello e spalle potentissime che lo facevano sembrare addirittura gobbo. Anche il suo temperamento non era affatto amabile. Scalciava e mordeva senza preavviso, a volte era quasi intrattabile, e aveva un lato aggressivo che si esprimeva nella tendenza a caricare: finora non aveva mai evitato alcun contatto, per quanto pesante. In qualunque altro caso Shasa si sarebbe affidato al vecchio Plum Pudding, ma Max aveva fatto sellare Nemesis e Shasa sapeva benissimo cosa significava. Nell'ultimo tempo l'asta della mazza gli si era incrinata. Se la slegò dal polso, la buttò per terra e gridando il proprio numero andò dagli arbitri a farsela sostituire. « Bunty, devi muoverti un pò di piú quando avanziamo, e tenerti pronto a ricevere il mio passaggio. Ti fai sempre lasciare indietro, brocco! » Shasa si interruppe, improvvisamente conscio del suo tono sgradevole, quando si accorse che il capitano della nazionale (e semidio personale di Shasa), Blaine Malcomess, li stava osservando. Si era avvicinato in silenzio e adesso si appoggiava alla ruota posteriore del carro, con le caviglie incrociate e le braccia conserte. Aveva in testa un panama a tesa larga inclinato alla sgherra e un enigmatico mezzo sorriso sulla bocca larga. Shasa era sicuro che li disapprovasse e cercò di mascherare lo scorno. « Salve, signore. Stiamo prendendo una bella scoppola, temo », lo salutò, cercando di sorridere senza grandi risultati. Nonostante quanto si sforzavano di insegnargli a scuola, non gli piaceva perdere, non gli piaceva affatto. Invece di criticare il cattivo umore di Shasa, Blaine ne era deliziato. La voglia di vincere era la cosa principale, e non solo sul campo di polo. Non era sicuro che Shasa Courteney l'avesse: per uno della sua età, la mascherava già molto bene. Offriva sempre ai piú anziani la maschera educata, all'antica, che sua madre e la scuola di lusso gli avevano inculcato: ma chissà che cosa c'era sotto. Comunque, Blaine l'aveva osservato attentamente negli ultimi quattro giorni. Aveva visto che Shasa era un ottimo cavaliere, dotato di una impostazione naturale, aveva un occhio acutissimo e una battuta fluida e potente. Era irruente e temerario, sicché spesso commetteva fallo tagliando la strada ed effettuando altre giocate pericolose. Ma Blaine sapeva che con l'esperienza avrebbe imparato a nascondere il gioco duro agli arbitri. Gli altri requisiti di un forte giocatore di classe mondiale erano la potenza fisica, che sarebbe venuta con l'età, la dedizione all'allenamento e l'esperienza. Quest'ultima era cosí importante che i giocatori di polo raggiungevano il vertice della capacità a quarant'anni o
giú di lí. Lo stesso Blaine vi era appena approdato, e poteva contare su altri dieci anni di eccellenza. Shasa Courteney era un giocatore promettente, e ora che Blaine gli aveva letto dentro la voglia di vincere e la rabbia alla prospettiva della sconfitta, gli sorrise. Ricordava che cosa aveva risposto lui stesso, all'età di Shasa, a suo padre che lo esortava a perdere con piú classe: « Non voglio abituarmici troppo! » Blaine represse il sorriso e gli disse sottovoce: « Shasa, permetti una parola? » « Naturalmente, signore. » Shasa accorse alla convocazione levandosi rispettosamente il cappello. « Ti stai lasciando mettere sotto da Max », gli disse tranquillamente Blaine. « Non stai dando il massimo. Nei primi quattro tempi avete preso quattro goal, ma nell'ultimo Max ne ha segnati cinque. » « Sí, signore. » Shasa si accigliò di nuovo, senza accorgersene. « Pensaci su, ragazzo. Che cosa è cambiato? » Shasa scosse la testa e poi sbatté gli occhi quando capí. « Mi ha attirato sempre sulla destra. » « Giusto », annuí Blaine. « Per riceverti sul suo lato forte. Nessuno l'ha mai attaccato dall'altra parte, non una volta in cinque giorni. Cambia posto con Bunty e vagli addosso da sinistra: entra forte e caricalo duro, una volta sola. Qualcosa mi dice che il giovane Max non gradirà la sua stessa medicina. Credo che basterà una dose. Nessuno ha ancora visto il vero colore del suo fegato: e io sospetto che ci sia qualche striatura verde di fifa! » « Intende dire... che devo commettere volontariamente fallo su di lui? » gli chiese Shasa, sbalordito. Per tutta la sua vita era stato istruito al gioco leale, tra giovani gentlemen. Nessuno gli aveva mai dato un consiglio simile. «Non pensarci neppure! » disse Blaine strizzandogli l'occhio. « Vogliamo soltanto imparare a perdere con classe, vero? » Da quando Centaine li aveva presentati, andavano molto d'accordo. Naturalmente la reputazione aveva reso tutto piú facile a Blaine: godeva già dell'ammirazione e del rispetto di Shasa fin da prima e, con la sua esperienza di ufficiale e politico capace di piegare gli altri alla propria volontà, gli era riuscito facilissimo conquistare un ragazzo inesperto e credulone. Inoltre Blaine era seriamente intenzionato ad andare d'accordo con lui. Non solo per la ragione che Shasa era figlio della donna che amava, ma anche perché era un ragazzo simpatico e in gamba, intelligente e ardito: e perché Blaine non aveva, e sapeva che non avrebbe mai avuto, un figlio suo. « Stagli sempre sotto, Shasa, e giocalo come ti ha giocato lui », finí il consiglio, e Shasa sorrise, con la faccia illuminata di piacere e determinazione. « Mille grazie, signore. » Si rimise il cappello e si allontanò, con la mazza in spalla, i calzoni bianchi macchiati di lucido da sella e la maglia gialla bagnata di sudore. «Bunty, ci scambiamo posizione», gridò, e quando Abel gli portò Tiger Shark gli diede un colpetto sulla spalla: « Avevi ragione, vecchio brontolone, avevo controllato io il sottopancia ». Fece mo-
stra di controllarlo di nuovo e Abel si mise a ridere quando Shasa alzò gli occhi dalla cinghia e gli disse: « Adesso non potrai piú dar la colpa a me! » Senza toccar le staffe saltò in groppa a Tiger Shark. Blaine si allontanò verso la tribuna, cercando con gli occhi il cappello giallo-vivo di Centaine. Era attorniata da uomini. Blaine riconobbe Sir Garry Courteney e il generale Smuts, assieme ad altre tre personaggi influenti, un banchiere, un ministro del governo Hertzog e il padre di Max Theunissen. « Sempre gentarella per la signora Courteney », scherzò tra se, incapace di reprimere una fitta di gelosia. L'invito di Centaine non era giunto solo ai migliori giocatori di polo del paese, ma ai personaggi principali di tutti gli ambienti: politici, professori universitari, grandi proprietari terrieri, magnati delle miniere, uomini d'affari, editori di giornali, e perfino alcuni artisti e scrittori. Il castello di Weltevreden non poteva alloggiarli tutti, sicché Centaine aveva dovuto affittare un intero albergo, il vicino Alphen Hotel, che pure un tempo faceva parte della dimora di famiglia dei Cloete. Oltre alla cerchia degli ospiti consueti, erano piú di duecento quelli che venivano da fuori: Centaine aveva noleggiato un treno intero per coloro che venivano dal nord, con cavalli e tutto, e ormai da cinque giorni il divertimento era continuo. La mattina si svolgevano gli incontri del torneo di polo giovanile, seguiti da un banchetto all'aperto: il pomeriggio le partite piú importanti, poi cena e danze per tutta la notte. Una mezza dozzina di orchestrine suonavano a turno, sicché non c'era mai un momento senza musica. Negli intervalli, sfilate di moda, numeri di varietà, aste di beneficenza di opere d'arte e vini d'annata, un'asta di purosangue, un concours d'élégance per veicoli a motore e belle guidatrici, una caccia al tesoro, un ballo in maschera, tornei di tennis, croquet e bridge, gare a cavallo di corsa a ostacoli, un motociclista che faceva il giro della morte, marionette per i piccini e una squadra di bambinaie professioniste per tenerli sempre occupati. « E io sono l'unico che sa di che cosa si tratta in realtà », disse tra se Blaine guardandola da lontano. « E' una follia, e in un certo senso anche immorale. Non è piú suo, il denaro che spende. Ma io l'amo per il suo coraggio nelle avversità. » Centaine avvertì il suo sguardo e girò la testa nella sua direzione. Per un momento si guardarono, con un'intensità non diminuita dalla distanza, poi lei tornò a rivolgersi al generale Smuts onorando di una bella risata la sua ultima battuta. Blaine bramava andar da lei, solo per starle vicino, aspirare il suo profumo e ascoltare la sua voce un pò roca e ingentilita dal vago accento francese: ma invece partí con decisione verso la sedia a rotelle di Isabella. Era il primo giorno che Isabella si sentiva abbastanza bene da venire a vedere il torneo, e Centaine aveva fatto costruire una rampa speciale per permetterle di accedere alla prima fila di posti in tribuna. La madre di Isabella, coi capelli d'argento, le sedeva accanto in-
sieme a quattro amiche e ai loro mariti; ma le due figlie scesero di corsa dalla tribuna quando videro avvicinarsi Blaine, e si misero a saltellargli attorno lanciando gridolini di gioia. Poi lo trascinarono letteralmente al suo posto, accanto a Isabella. Blaine baciò per dovere la guancia che Isabella gli porgeva, serica e pallida. La pelle era anche fredda: il suo alito sapeva di laudano. Le pupille dei suoi grandi occhi dilatate dalla droga, le conferivano un aspetto pateticamente vulnerabile. « Ho sentito la tua mancanza, tesoro », gli sussurrò, ed era la verità. Appena Blaine l'aveva lasciata, si era guardata disperatamente intorno per individuare Centaine Courteney, consolandosi un tantino solo al vederla circondata di ammiratori, un pò piú in alto, in tribuna. « Ho dovuto far due chiacchiere col ragazzo », si scuso Blaine. « Ti sentì meglio? » « Grazie, il laudano sta facendo effetto. » Gli sorrise cosí coraggiosa e tragica che egli tornò a chinarsi per baciarla. Poi, rialzandosi, guardò di sottecchi in direzione di Centaine, sperando che non avesse notato quello spontaneo gesto di tenerezza: ma lo stava proprio osservando, anche se distolse immediatamente gli occhi. « Papà, le squadre tornano in campo. » Tara lo spinse giú, per farlo sedere. « Forza, Weltevreden! » strillò, e Blaine poté concentrarsi sulla partita piuttosto che sul suo dilemma. Cambiando campo, Shasa passò con la squadra sotto la tribuna. Ritto sulle staffe, si aggiustava il sottogola guardando Blaine, che lo incoraggiò alzando il pollice. Il ragazzo gli sorrise. Poi si rimise seduto in sella e fece girare Tiger Shark per fronteggiare la squadra del Natal che sfilava in braghe e berretto bianco, stivali e camicia nera con le maniche corte. Aveva un'aria esperta e temibile. Max Theunissen si accigliò quando si accorse che Shasa aveva cambiato posizione. Spronò il cavallo e fece un segnale con la mano al suo numero due, dall'altra parte del campo, per tornare a posto proprio mentre l'arbitro trotterellava in mezzo e lasciava cadere la palla bianca in radica di bambú. L'ultimo tempo si aprí con una mischia confusa, tra colpi mancati e la palla che rotolava beffarda tra gli zoccoli dei cavalli. Poi uscí allo scoperto e Bunty, sporgendosi dalla sella, azzeccò il primo bel tiro della partita, un gran drive di diritto dietro il quale il suo cavallo partí d'istinto all'attacco, che gli piacesse o no. Poiché era stato l'ultimo a toccar palla aveva il diritto di precendenza, e il cavallo gli si era piazzato nel modo migliore: ma Max Theunissen fece girare Nemesis e lo stallone nero in due balzi partí al galoppo. Il padre di Max non aveva speso invano mille sterline per quel cavallo, e il nero e possente animale si precipitò addosso a Bunty come una valanga. Bunty si guardò indietro e Shasa lo vide impallidire. « Hai la precedenza, Bunty », gli gridò per incoraggiarlo. « Non deviare! » Ma proprio in quella vide Max piantare il calcagno nella pancia del suo cavallo, che deviò leggermente. Era un attacco pericoloso e scorretto, e se Bunty non avesse ceduto sarebbe stato certa-
mente fallo. Ma la tattica del terrore riuscì ancora: Bunty cedette il passo. Max si gettò trionfante all'inseguimento della palla, raccogliendosi e sporgendosi di sella a mazza alzata, tutto concentrato sulla sfera che saltellava sull'erba proprio davanti a lui, preparandosi a colpirla di rovescio. Non aveva visto Shasa che arrivava da sinistra, ed era impreparato alla gran velocità che Tiger Shark sviluppò quando Shasa gli affondb il tallone nella pancia. A un angolo perfettamente regolare si trovarono quindi in due a disputarsi la palla. Poiché nessuno di loro l'aveva toccata per ultimo, non c'erano precedenze: appena si affiancarono, entrambi al gran galoppo, Tiger Shark una testa dietro il grande stallone nero, Shasa gli diede un segnale col tallone e Tiger Shark rispose con gioia. Cambiò direzione di colpo e caricò con tutta la potenza delle sue spalle grosse e un pò deformi. La collisione fu cosí improvvisa e violenta che perfino Shasa, che pure se l'aspettava, fu quasi scaraventato giú di sella e finí sul collo di Tiger Shark. Blaine aveva ragione, il lato sinistro era il debole di Max Theunissen, quello che aveva assiduamente protetto fino ad allora; e Tiger Shark aveva scelto il tempo alla perfezione per sfruttare la debolezza. Nemesis scartò e inciampò, finendo con la testa tra le ginocchia anteriori. Max Theunissen volò in avanti, con le redini ancora in mano. Per un terribile momento Shasa credette di averlo ammazzato. Ma con l'agilità della paura, e le sue naturali capacità atletiche, il ragazzo riuscí a fare una capriola in aria e ad atterrare in piedi, benché goffamente. Per qualche istante non riuscí nemmeno a parlare, tanto era terrorizzato e sconvolto: intanto Shasa aveva arrestato il cavallo mentre i due arbitri, ai lati del campo, stavano fischiando a pieni polmoni. Max Theunissen cominciò a strillare istericamente. « E' stato un fallo, un fallo volontario. Mi ha tagliato la strada. Potevo ammazzarmi! » Max era bianco come un lenzuolo; tremava, sputacchiava saltando su e giú sempre nello stesso posto come un bambino che fa i capricci, pieno di rabbia, frustrazione e paura. Gli arbitri conferivano in mezzo al campo, e Shasa provò l'impulso di andare a cercar di influenzarli protestando la propria innocenza; ma il buon senso prevalse. Fece voltare Tiger Shark con tutta la dignità che riuscí a raccogliere e guardò dritto davanti a se, ignorando l'urlo della folla, in cui però gli parve di cogliere piú approvazione per il bullo messo a posto coi suoi stessi sistemi che protesta per la contravvenzione alla lealtà sportiva. Gli arbitri non riuscivano a mettersi d'accordo. Si girarono e spronarono verso il direttore di gara che stava in tribuna e che scese per conferire con loro. « Bel colpo, Shasa! » gli disse Bunty galoppandogli incontro. « Cosí il puzzone avrà qualcosa da scrivere a casa. » « Possono espellermi, Bunty », rispose Shasa. « Non gli hai tagliato la strada », si accaloro Bunty. « Io ho visto tutto! » Ma il fuoco nelle vene di Shasa stava raffreddandosi e all'im-
provviso pensò a che cosa avrebbe detto il nonno, o peggio ancora sua madre, se fosse stato espulso davanti a tutti gli ospiti, disonorando la famiglia. Guardò nervosamente in direzione della tribuna ma era troppo lontana per cogliere l'espressione di Blaine Malcomess. In cima alla tribuna scorse il cappello giallo della madre, che al suo sguardo emozionato parve sistemato secondo un angolo atto a esprimere disapprovazione: ma ecco che gli arbitri tornavano, al passo, e uno si dirigeva proprio verso di lui. Si fermò a fronteggiarlo con espressione severa. « Signor Courteney! » « Signore! » Shasa si raddrizzo in sella, aspettandosi il peggio. « Si consideri ammonito ufficialmente per gioco pericoloso, signore. » « Sí, signore. » Shasa mantenne un'espressione grave e intonata alla circostanza, ma dentro di sè esultava. L'aveva passata liscia! «Torni a giocare, signor Courteney», disse l'arbitro. Appena prima che si voltasse, ne colse l'occhiata divertita. C'erano ancora tre minuti da giocare dell'ultimo tempo e Max tirò la punizione ben addentro il loro campo: ma il numero tre di Shasa riuscí a deviare la palla rimbalzante nella sua direzione. « Bravo, Stuffs! » Shasa era consentissimo. Fin lí Stuffs Goodman non aveva fatto proprio niente per distinguersi. L'infaticabile attacco del Natal l'aveva demoralizzato, e piú di una volta era rimasto vittima del gioco pesante di Max Theunissen. Era la prima volta che Stuffs riusciva a effettuare un bel passaggio. Shasa galoppò incontro alla palla e la spinse in attacco. Ma Bunty era rimasto un'altra volta indietro, e senza collaborazione l'attacco di Shasa si spense in una selva di avversari e ne nacque una mischia disordinata, mentre i secondi volavano via. L'arbitro intervenne e assegnò la battuta alla squadra del Natal. «Che io sia dannato se non riusciamo a pareggiare»?, disse Bunty dopo aver consultato il cronometro, andando in difesa insieme a Shasa. « Macché pareggiare, io voglio vincere », rimbecco furioso Shasa. Era una spacconata, naturalmente. In cinque tempi non erano mai riusciti a minacciare seriamente la porta del Natal. Ma le limitate ambizioni di Bunty irritavano Shasa, anche perché Max Theunissen dopo la caduta si era come spento e due volte aveva evitato il contatto con Shasa che attaccava, lasciando il compito di fermarlo ai difensori. « Manca solo mezzo minuto! » Nonostante le spacconate di Shasa, Bunty era consentissimo di veder avvicinarsi il termine delle loro sofferenze, ma proprio in quella la palla gli arrivò tesa e dritta. La mancò e, prima che riuscisse a girarsi, l'attacco del Natal gli era addosso e solo Stuffs Goodman restava tra loro e la meta. Mentre Shasa spronava il cavallo per cercar di aiutare la difesa, il cuore gli mancò. Era tutto finito. Era troppo sperare che Stuffs intercettasse due palle di fila. Eppure, nonostante la sua poca fede, Stuffs entrò dritto nel cuore dell'attacco del Natal, pallido come un lenzuolo e atterrito ma deciso a battersi, e vibrò una mazzata che passò a mez-
zo metro dalla palla. Ma il suo cavallo non si dette per vinto. Vecchio del mestiere ed evidentemente stufo dell'imperizia del giocatore che aveva in groppa, scalciò lui la palla, colpendola di netto con lo zoccolo e spedendola in direzione di Bunty. Questi azzeccò un altro bel tiro in avanti e si mise a inseguire la palla mulinando la mazza: ma il difensore destro del Natal era là che accorreva a spron battuto, e i due iniziarono un altro confuso valzer, colpendo debolmente la palla a turno: un tipico episodio di gioco di lega giovanile, dove nessun cavaliere ha la forza e l'esperienza di azzeccare la mossa risolutiva e riprendere l'attacco. Lo stallo diede a entrambe le squadre agio di riorganizzarsi: i due capitani chiamavano a gran voce il passaggio. « Passa, Bunty! » Sulla fascia sinistra del campo Shasa aspettava in piedi sulle staffe, mentre Tiger Shark scartava impaziente guardando la palla con gli occhi roteanti fino a mostrare il bianco. « Qua, Digger, qua! » gridava Max, piuttosto arretrato ma pronto a scattare se la palla si fosse liberata verso di lui. Infine Bunty azzeccò il terzo e ultimo tiro della giornata, colpendo in pieno la palla col centro della mazza di legno duro. Non andò lontano perché rimpallo sullo zoccolo del cavallo di un difensore del Natal e schizzò proprio in direzione di Shasa, in campo aperto e sguarnito. Shasa, reagendo istantaneamente, spronò Tiger Shark e, deviata leggermente la palla con un abile colpetto di mazza, comincio una folle galoppata verso la porta avversaria. « Ha! » Shasa piantò i talloni nella pancia del cavallo e partí ventre a terra inseguendo la palla che schizzava saltellando in maniera imprevedibile poco piú avanti. Shasa si sporgeva, concentrando tutta la sua attenzione a sorvegliar la palla ingannevole. Riuscí a colpirla ancora una volta imprimendole l'effetto giusto per farla partire rasoterra verso la porta del Natal, a duecento metri di distanza. Tiger Shark collaborava a meraviglia, deviando dalla traiettoria della palla dell'angolo esatto perché Shasa potesse comodamente martellarla ancora. Plum Pudding non avrebbe fatto di meglio in questa occasione, e Shasa riuscí a prenderla in pieno. Col netto schiocco del legno che batte contro il legno la palla ripartí ubbidiente davanti a lui. Alzò lo sguardo e vide la porta del Natal, lontanissima in fondo al campo, e con un selvaggio impeto di gioia capí che forse era possibile, nonché il pareggio, la vittoria. « Ha! » gridava a Tiger Shark, « ha! ha! » E il grosso animale si tuffava in avanti sotto di lui. Nello stesso momento Max Theunissen su Nemesis girò il cavallo e gli venne incontro al gran galoppo. Era il piú pericoloso di tutti i possibili angoli d'intersezione. In groppa a due possenti e veloci animali stavano caricandosi frontalmente a tutta birra: il pubblico si azzittí di colpo, orripilato, e tutti si alzarono in piedi. Una volta, una volta sola, Shasa aveva assistito allo scontro frontale di due grossi animali lanciati al gran galoppo. Era accaduto alle selezioni della rappresentativa che doveva incontrare l'Argentina, l'anno prima. Era in cima alla tribuna, e anche di là aveva sentito
chiaramente lo schiocco delle ossa che si rompevano. Uno dei giocatori si era spappolato la milza ed era morto poco dopo all'ospedale; l'altro si era fratturato entrambe le gambe. I cavalli erano rimasti a terra in mezzo al campo e avevano dovuto ucciderli con la pistola. « Mia! » gridò a Max Theunissen, mentre si avvicinavano di gran carriera. « Va, all'inferno, Courteney! » lo sfidò Max. Aveva ripreso coraggio e fissava Shasa sopra la testa del cavallo: Shasa gli lesse negli occhi la decisione di provocare lo scontro ed ebbe un'esitazione. Tiger Shark l'avvertì e deviò leggermente. Stavano per dare strada... ed ecco che senza preavviso Shasa fu investito dalla furia cieca e mortale del guerriero. Blaine Malcomess se ne accorse fin dalla tribuna. Capí che la scossa che aveva sferzato Shasa non era comune coraggio, ma una specie di pazzia... la stessa pazzia che una volta l'aveva spinto da solo nella terra di nessuno, con una bomba in mano, in bocca alle mitragliatrici tedesche che sputavano fuoco. Vide Shasa controllare la deviazione di Tiger Shark e spingerlo dalla parte opposta, puntando direttamente contro lo stallone nero, attraversando la linea ideale della traiettoria della palla in segno di sfida deliberata. Shasa aveva l'impressione che il tempo fosse rallentato. All'improvviso la vista gli era diventata acutissima: scorgeva la membrana rosa delle mucose nasali dello stallone nero che gli si precipitava addosso: poteva contare le bollicine di schiuma che gli si formavano agli angoli della bocca, i peli del muso, i vasi sanguigni degli occhi iniettati di sangue dello stallone e il numero delle ciglia. Shasa alzò lo sguardo dal muso dello stallone alla faccia di Max. Era stravolta dall'ira. Distinse le gocce di sudore che aveva sul mento, lo spazio nero tra gli incisivi quadrati, che le labbra contorte da un ghigno deforme rivelavano in un rictus di risolutezza. Piantò gli occhi in quelli bruni di Max e ne sostenne lo sguardo. Era troppo tardi, giudicò Shasa: ormai non potevano piú evitare lo scontro. Proprio mentre lo pensava, vide il mutamento improvviso sul viso di Max, vide le labbra raggrinzirsi e le guance gelarsi dal terrore, e lo vide inarcarsi sulla sella e tirare su la testa di Nemesis, deviandolo a destra appena in tempo... Shasa sfreccio superandolo quasi con disdegno e, ancora animato dalla selvaggia passione di poco prima, si alzò in piedi sulle staffe e vibrò un colpo di mazza secco e preciso, inviando la palla proprio in mezzo ai pali. Blaine era ancora in piedi mentre le squadre confluivano sotto la tribuna. Shasa, trionfante, alzò gli occhi in cerca della sua approvazione: benché Blaine si limitasse a un saluto con la mano e a un sorriso amichevole, esultava quasi quanto Shasa. « Perdio, quel ragazzo ha grandi qualità », si disse. « Ma davvero. » E tornò a sedersi accanto a Isabella. Lei vide la sua espressione: lo conosceva benissimo. Sapeva che gran desiderio aveva avuto di un figlio, e la ragione del suo interessamento al ragazzo. Cosí si sentiva inadeguata, inutile, e si arrabbiava. «Quel ragazzo è imprudente e irresponsabile. » Non riuscì a
trattenersi, pur sapendo che la sua critica avrebbe fatto l'effetto opposto a Blaine. « Se ne infischia di tutti gli altri: ma del resto i Courteney sono sempre stati così. » « Alcuni lo chiamano fegato », mormorò Blaine. « Brutta parola per una brutta qualità. » Sapeva benissimo di essere bisbetica, e che la pazienza di Blaine aveva un limite, ma non riusciva a controllare quest'impulso autolesionistico di cercar di ferirlo. « E' come sua madre... » e vide la rabbia montare agli occhi di Blaine, che si alzò senza lasciarla finire. « Vado a prenderti qualcosa da mangiare, cara. » Se ne andò via, e lei voleva gridargli dietro: « Scusami... è solo perché ti amo tanto! » Isabella non mangiava carne rossa, che sembrava aggravare le sue condizioni, sicché Blaine stava contemplando la distesa di gamberi e scampi, frutti di mare e pesce che formava il centro del buffet. Era una piramide piú alta di lui, un vero capolavoro che sembrava un sacrilegio intaccare per primo. Non era solo in questa riluttanza: un crocchio di invitati stavano ammirando quel trionfo marino, fra esclamazioni ammirate e gioiose, e cosí Blaine non si accorse che Centaine si stava avvicinando finché non gli arrivò dietro le spalle. « Cos'ha detto a mio figlio per trasformarlo in un simile selvaggio scatenato, colonnello? » Blaine si voltò immediatamente, cercando di dominare il senso di colpa che la sua vicinanza gli provocava. « Sí, sí, l'ho vista parlargli insieme prima dell'ultimo tempo », continuò lei. « Discorsi da uomini, temo, assai inadatti a orecchie delicate. » Lei rise piano. « Qualunque cosa sia, ha funzionato Grazie. » « Non è il caso di ringraziare me: il ragazzo ha fatto il piú da solo. L'ultima azione è stata magnifica, ben rara a vedersi sui campi di gioco. Diventerà un campione. » « Sa che cosa ho pensato vedendolo giocare? » gli chiese piano. Lui scosse la testa, avvicinandosi un pò di piú. « Ho pensato a Berlino », gli disse, e lui rimase perplesso per un momento. Poi capí. Berlino 1936: i Giochi Olimpici. Rise. Scherzava: dalla lega giovanile a quella senior c'era una differenza come dal giorno alla notte. Poi vide la sua espressione e smise di ridere. « Allora, diceva sul serio! » esclamò, fissandola sbalordito. « Naturalmente non potrò piú permettermi di mantenergli i cavalli. Ma suo nonno si diverte moltissimo a guardarlo giocare, e darà una mano sicuramente: e con i consigli e l'incoraggiamento di un grande campione... » Alzò vezzosamente le spalle, e a Blaine occorse un attimo di tempo per riprendersi dallo sbalordimento e risponderle. « Lei non finisce di stupirmi. C'è qualcosa al mondo che non aspiri a raggiungere? » le chiese, usando il « lei » dato che erano in mezzo alla gente e qualcuno poteva cogliere brani della conversazione. Ma poi vide brillare una certa lascivia nel suo sguardo, e proseguí immediatamente: « Ritiro la domanda, signora... » Si guardarono con amore, dimentichi di chi li circondava. In quel momento erano piú scoperti che mai. Poi Centaine interruppe il contatto.
« Il generale Smuts ha chiesto di lei. » Cambio un'altra volta argomento con la sua tipica e sconcertante prontezza. « Siamo seduti sotto le querce, dietro la tribuna. Perché non si unisce a noi, insieme a sua moglie? » Gli voltò le spalle e la folla di invitati si aprí per lasciarla passare. Blaine spinse lentamente Isabella sul tappeto erboso verso il gruppo sistemato sotto le querce. Il tempo aveva sorriso al torneo di Centaine: il cielo era azzurro come un uovo di airone, con un ciuffo di nuvole argentee fisso sulla vetta del Muizenberg e un'altra coltre spessa sul massiccio della Table Mountain. Quella nuvola sempre presente era chiamata la « tovaglia » della Tavola. Naturalmente c'era vento. Dicembre era sempre ventoso, ma Weltevreden era in un angolo piuttosto riparato della valle di Constantia: passando alto, il vento di sud-est accarezzava la cima delle querce, sfiorando molto lievemente gli abiti delle signore, ma alleviando il caldo che altrimenti sarebbe stato davvero opprimente. Per il suo effetto ritemprante, quel vento era soprannominato « il dottore del Capo ». Quando vide arrivare Blaine, Centaine mandò via il cameriere in giacca bianca e versò personalmente lo champagne a Isabella. « Grazie, no », rifiutò dolcemente Isabella, e per un attimo Centaine rimase in imbarazzo, col bicchiere in mano davanti alla carrozzella. Venne in suo aiuto Blaine. « Lo berrò io. » Centaine gli rivolse un rapido sorriso grato, mentre gli altri facevano posto alla sedia a rotelle e il presidente della Standard Bank, che sedeva accanto a Centaine, riprendeva un suo monologo nel punto dove l'aveva interrotto. « Quel dannato Hoover con la sua mania di interventismo non ha rovinato solo l'economia degli Stati Uniti, ma anche tutti noialtri. Se avesse lasciato andare le cose a loro modo, a quest'ora la depressione sarebbe finita in tutto il mondo; invece che cosa è successo? In America quest'anno sono fallite piú di cinquemila banche; i disoccupati sono ben ventotto milioni; l'interscambio con l'Europa ha cessato di aumentare e tutte le monete del mondo sono state svalutate. Ha costretto tutti i paesi, uno dopo l'altro, ad abbandonare la parità aurea, perfino l'Inghilterra ha dovuto soccombere. Noi siamo una delle rare nazioni che hanno potuto mantenere finora la parità aurea, ma credetemi, la faccenda comincia a costar cara. Rende la sterlina sudafricana troppo costosa, ci boicotta le esportazioni, fa costar troppo l'estrazione del nostro oro e Dio solo sa fino a quando potremo resistere. » Diede un'occhiata circolare al gruppo e individuò il generale Smuts. « Lei che ne pensa, Ou Baas? Fin quando potremo stare aggrappati all'oro? » L'Ou Baas, il Vecchio Boss, ridacchiò agitando la barbetta caprina e facendo scintillare gli occhi azzurri. « Mio caro Alfred, perché lo chiedi a me? Io non sono un economista, sono un botanico. » La sua risata risultò contagiosa. Nessuno infatti ignorava che la sua mente eccelleva in ogni campo del sapere esplorato fino a quel momento del tumultuoso ventesimo secolo: che aveva esortato Hertzog a seguire l'esempio dell'Inghilterra e abbandonare la parità aurea;
che andava a cena con John Maynard Keynes, il massimo economista dell'epoca, tutte le volte che passava da Oxford; e che intratteneva con lui una regolare corrispondenza. « Allora dia un'occhiata alle mie rose, Ou Baas, anziché alla parità aurea... » gli suggerí Centaine. Aveva avvertito gli umori degli invitati e compreso che una discussione cosí seria non gli andava a genio. Tutti i giorni dovevano già convivere con la sgradevole realtà della crisi mondiale, e ne evadevano con sollievo. La conversazione si fece leggera e disimpegnata, con qualche lampo superficiale che ricordava l'effervescenza dello champagne nei flùte. Centaine guidava la brigata coi suoi motti di spirito e la sua spensieratezza, dietro la quale però s'intuiva un cupo senso di disastro imminente, la coscienza dolorosa che tutto ciò stava per finire, non era piú reale di un sogno ormai: l'ultimo sprazzo del passato prima di un futuro gravido di minaccia e di incertezza sul quale Centaine, come tanti altri, non avrebbe piú avuto alcun controllo. Blaine guardò indietro e si mise ad applaudire. Condiscendenti, gli altri invitati lo imitarono. Infatti era apparso Shasa. « Evviva il nostro eroe », rise qualcuno, e anche Centaine si voltò. Shasa era in piedi dietro la sua sedia, in pantaloni di flanella e giacca blu, i capelli umidi dalla doccia coi segni del pettine. Il suo sorriso presentava il giusto grado di modestia. « Oh, chéri, sono così orgogliosa di te... » Centaine saltò in piedi e impulsivamente lo baciò. Il ragazzo ora arrossí di vero imbarazzo. « Dico, mamma, non far la francese, adesso », protestò: era cosí bello che Centaine aveva voglia di abbracciarlo addirittura. Ma si trattenne e fece cenno al cameriere di portare a Shasa un bicchiere di champagne. Lui le rivolse uno sguardo perplesso; di solito piú che birra leggera non aveva il permesso di bere, e mai piú di una pinta. « E' una giornata speciale. » Gli strinse il braccio, e Blaine alzò il bicchiere. « Signori, bevo alla grande vittoria del Weltevreden juniors. » « Andiamo! » protestò Shasa. « Avevamo nove punti di vantaggio. » Ma tutti brindarono, e Sir Garry fece posto a Shasa accanto a sé. « Vieni a sederti qui, ragazzo mio, e dicci che cosa si prova a esser campioni. » « Ti prego di scusarmi, nonno, ma adesso devo andare coi miei compagni. Stiamo preparando una sorpresa per piú tardi. » « Una sorpresa? » Centaine rizzò le orecchie. Aveva già assistito a qualche sorpresa di Shasa. Lo spettacolo dilettantesco di fuochi artificiali allestito nel granaio in un'altra occasione era venuto bene, ma aveva purtroppo causato l'incendio di due ettari della piantagione. « Che sorpresa, chéri? » « Se te lo dico, non sarà piú una sorpresa, mamma. Ci vediamo alla premiazione. » Tracannò il resto dello champagne. « Ora devo scappare. » Centaine alzò la mano per trattenerlo, ma era già partito verso la tribuna dove gli altri membri della squadra vittoriosa della Weltevreden Invitation lo stavano aspettando con impazienza. Si infilarono tutti sulla vecchia Ford di Shasa e imboccarono rombando il lungo viale che portava al castello. Centaine li guardò con trepida-
zione finché non scomparvero fuori vista, e quando tornò a guardare gli ospiti si accorse che Blaine e il generale Smuts avevano lasciato la compagnia e stavano passeggiando tra le querce, confabulando tra loro come fanno i politici. Li spiò. Erano una coppia interessante e malassortita: lo statista piccolo, svelto e dalla barba caprina, e il combattente alto, bello e avvezzo anche alle battaglie forensi. La loro conversazione stava andando per le lunghe. Erano come dimentichi di tutti gli altri, e passeggiavano avanti e indietro appena fuori portata d'orecchio. « Quando hai intenzione di tornare a Windhoek, Blaine? » « Mia moglie prende la nave per Southampton tra due settimane. Tornerò laggiú subito dopo. » « Non potresti restare qui ancora un po'? Diciamo fino a Capodanno. Mi attendo importanti sviluppi », disse il generale Smuts. « Posso chiederti di che genere? » « Ti rivoglio in Parlamento », tagliò corto Smuts, evitando di rispondere per il momento. « So che è un sacrificio, Blaine. Stai facendo un ottimo lavoro a Windhoek, il tuo prestigio e il tuo potere crescono giorno dopo giorno. Ti chiedo però di rinunciarvi dimettendoti da amministratore e candidandoti nel collegio di Gardens per il Partito Sudafricano. » Blaine non rispose. Il sacrificio che l'Ou Baas gli stava chiedendo era pesante. Il collegio di Gardens era marginale. C'era il rischio quanto mai concreto di perdere il seggio a favore del partito di Hertzog, e anche con la vittoria avrebbe guadagnato solo un seggio all'opposizione, un prezzo alto da pagare in cambio della perdita di una posizione di governo, sia pure nell'ex colonia tedesca appena annessa. « Siamo all'opposizione, Ou Baas », si limitò a rispondere, e il generale Smuts vibrò un colpo al tappeto erboso con il bastone da passeggio meditando la risposta. « Blaine... promettimi che non lo dirai a nessuno... » « Naturalmente. » « Se ti fidi di me adesso, tra sei mesi sarai ministro. » Blaine lo guardò incredulo e Smuts si fermò di fronte a lui. « Vedo che dovrò dirti dell'altro. » Sospirò. « Una coalizione, Blaine. Io e Hertzog stiamo lavorando a preparare un governo di coalizione. Sembra certo che potremo annunciarlo nel marzo dell'anno prossimo, ossia di qui a tre mesi. Io avrò il ministero della Giustizia e pare che potrò designare quattro ministri. Tu sarai uno di loro. » « Capisco. » Blaine non riusciva ancora a crederci; era una magnifica notizia. Smuts gli stava offrendo proprio ciò che piú desiderava, un posto nel governo. « Non mi è chiara una cosa, però, Ou Baas: perché Hertzog dovrebbe trattare con noi in questo momento? » « Perché sa di aver perso la fiducia della nazione, e perché il suo partito sta diventando ingovernabile. Il suo governo è diventato troppo arrogante, se non addirittura senza legge. Non fanno che governare a discrezione. per decreto. » « Sì, sí, Ou Baas. Ma proprio per questo ci offre un'ottima occasione! Solo nel mese scorso abbiamo stravinto le elezioni provinciali
del Transvaal e quelle suppletive di Germiston: se riusciamo a far indire le elezioni generali adesso, vinciamo di sicuro. Non siamo obbligati a negoziare una coalizione coi nazionalisti. Possiamo vincere come Partito Sudafricano e imporre le nostre condizioni. » Il vecchio generale rimase in silenzio per qualche momento, con la barbetta affondata nel petto e l'espressione grave. « Può darsi che tu abbia ragione, Blaine. Ora potremmo vincere, ma non per merito nostro, per demerito del governo attuale. Voterebbero contro Hertzog e non per noi. Una vittoria elettorale adesso, una vittoria di tutto il partito, risulterebbe sterile e inutile. Il bene pubblico non consente né giustifica l'imposizione da parte nostra di una elezione generale. Sarebbe una strumentalizazzione di parte e non voglio farlo. » Blaine non seppe che rispondere. A un tratto si sentiva indegno della confidenza di un uomo simile. Un uomo così grande e nobile da voltar le spalle alla possibilità di giovarsi delle difficoltà in cui si dibatteva il paese. « Sono tempi disperati, Blaine. » Smuts parlava a bassissima voce. « Intorno a noi si addensano nubi di tempesta. Abbiamo bisogno di un popolo unito, di un forte governo di coalizione, e non di un parlamento diviso dalle beghe di partito. La nostra economia è sul ciglio dell'abisso, l'industria aurifera rischia la rovina. Ai costi attuali, molte delle miniere piú vecchie stanno già chiudendo. Altre le seguiranno, e quando ciò accadrà sarà la fine del Sudafrica che conosciamo e amiamo. E come se non bastasse sono crollati anche i prezzi della lana e dei diamanti, le altre nostre maggiori esportazioni. » Blaine si limitò ad annuire. Tutti questi fattori di crisi erano ben noti e costituivano il nucleo delle preoccupazioni nazionali. « Non occorre sottolineare la gravità dei risultati dell'inchiesta effettuata dalla Commissione Salari », proseguì Smuts. « Un quinto della popolazione bianca è stata rovinata dalla siccità e dai metodi antiquati dell'agricoltura, precipitando nella piú abietta povertà. Il venti per cento della nostra terra coltivabile è andato perduto per l'erosione naturale e gli errori umani, forse per sempre. » « I bianchi poveri », mormorò Blaine, « una gran massa di mendicanti e vagabondi e disoccupati senza arte né parte, senza speranza. » « E poi ci sono i nostri neri, divisi in venti tribú diverse e fra loro nemiche, che continuano ad affluire dai distretti rurali in cerca di una vita migliore, die lekkerlewe, e vanno a ingrossare le file dei disoccupati, trovando invece di una vita migliore l'alcool clandestino, la malavita e la prostituzione, nutrendo in se un'amara insoddisfazione e un crescente disprezzo per le nostre leggi e scoprendo per la prima volta le attrattive e le lusinghe del potere politico. » « Ecco un problema che non abbiamo ancora cominciato nemmeno a studiare », concordò Blaine. « Preghiamo Iddio che i nostri figli e i nostri nipoti non abbiano a maledirci per la nostra trascuratezza. » « Preghiamo davvero », fece eco Smuts. « E mentre lo facciamo, diamo un'occhiata oltre i nostri confini, al caos che dilaga nel resto
del mondo. » Pugnalò la terra col bastone da passeggio sottolineando ogni parola. « In America il sistema creditizio è crollato, e il commercio con l'Europa e col resto del mondo si è fermato. Eserciti di poveri e di impoveriti vagano senza meta per tutto il continente. » Piantò di nuovo la punta del bastone nell'erba. « In Germania la repubblica di Weimar sta per cadere dopo aver rovinato l'economia. Centocinquanta miliardi di marchi di Weimar per un vecchio marco aureo: così sono andati in fumo i risparmi di tutta una nazione. E da quelle ceneri si è levata una nuova dittatura, fondata sul sangue e sulla violenza, che reca impresso il marchio e il puzzo di un immenso male. » Tornò a colpire irosamente la terra col bastone. « In Russia un mostro scatenato sta sterminando milioni di connazionali; il Giappone si dibatte nelle spire dell'anarchia. I militari si sono ribellati abbattendo i governanti regolarmente eletti, conquistando la Manciuria e sterminandone i disgraziati abitanti a migliaia, rispondendo alle proteste della Società delle Nazioni con la minaccia di ritirarsene. » Ancora una volta sferzo l'aria con la canna da passeggio e l'abbatté sulla rigogliosa e curatissima erba kikuyu. « C'è stato l'assalto alla Banca d'Inghilterra, che ha costretto la Gran Bretagna ad abbandonare la parità aurea; mentre dalle sentine della storia rispunta l'antisemitismo e minaccia di diffondersi nei paesi piú civili. » Smuts s'interruppe e guardò in faccia Blaine. « Da tutte le parti c'è il disastro e il pericolo mortale. Non cercherò di approfittarne dividendo questo paese già malato. No, Blaine, è tempo di coalizione e collaborazione, non di conflitto. » « Come ha potuto andar tutto a catafascio così di colpo, Ou Baas? Sembra ieri che eravamo prosperi e felici. » « In Sudafrica un uomo può essere pieno di ottimismo all'alba e disperato a mezzogiorno. » Smuts tacque un momento e poi si erse in tutta la sua ancorché scarsa statura. « Ho bisogno di te, Blaine. Ci vuoi pensare un pò di tempo? » Blaine scosse la testa. « Niente affatto. Puoi contare su di me, Ou Baas. » « Ne ero sicuro. » Blaine guardò oltre lo statista, dove Centaine sedeva sotto le querce, cercando di dissimulare la gioia e vincere la relativa vergogna, originata dalla coscienza che, a differenza di quel santo ometto li davanti a lui, era destinato a trarre profitto dall'agonia del suo paese e del mondo civile. Si vergognava di raggiungere solo adesso, per via di disperazione e difficoltà gravissime, il posto di ministro a cui da tanto tempo mirava. La proposta di Smuts significava anche abbandonare la desolata Windhoek per tornare al Capo, la terra bella e lussureggiante dove tra l'altro abitava Centaine. Poi il suo sguardo si posò sulla pallida donna in sedia a rotelle. La sua bellezza stava svanendo sotto i colpi della sofferenza e delle droghe che prendeva per combatterla: a questo punto la vergogna e il senso di colpa arrivarono a equilibrare perfettamente la gioia che provava. Ma Smuts ricominciò a parlare. « Resterò ospite a Weltevreden per i prossimi quattro giorni, Blaine. Sir Garry mi ha praticamente costretto a consentirgli di scri-
vere la mia biografia, e debbo rivedere la prima stesura. Allo stesso tempo avrò una serie di incontri riservati con Barry Hertzog per negoziare gli ultimi particolari della coalizione. Weltevreden è un posto ideale per questi colloqui, e ti sarò grato se ti metterai a mia disposizione. Avrò bisogno anche del tuo aiuto. » « Ma naturalmente. » Con uno sforzo Blaine mise da parte le proprie emozioni private. « Resterò qui finché avrai bisogno di me. Vuoi che mi dimetta subito da Amministratore dell'Africa di Sudovest? » « Scrivi la lettera », esortò Smuts. « Spiegherò io le ragioni a Hertzog e potrai dargliela di persona. » Blaine diede un'occhiata all'orologio e il vecchio generale disse subito: « Sí, lo so, devi prepararti alla partita. Queste frivolezze in momenti del genere mi fanno l'effetto di una serenata mentre Roma brucia, ma bisogna pur sempre salvare le apparenze. Ho perfino accettato di consegnare i premi... Centaine Courteney è una signora che sa persuadere. Sicché ci vediamo dopo... quando ti darò la coppa ». Andò proprio cosí: la squadra capeggiata da Blaine vinse, sia pure di misura. Subito dopo le squadre si raccolsero ai piedi della tribuna dove le coppe d'argento erano disposte su un tavolo, ma sorse un contrattempo: non c'era traccia della squadra vincitrice del torneo giovanile. « Dov'è Shasa? » domandò Centaine a voce bassa ma irata a Cyril Slaine, che si occupava dell'organizzazione del torneo di polo. Agitò le braccia sconsolato. « Mi aveva promesso che sarebbe stato qui. » « Se la sua sorpresa è questa... » Con uno sforzo Centaine nascose la rabbia dietro un bel sorriso a beneficio degli ospiti che la osservavano interessati. « E va be', cominceremo senza di loro. » Prese posto accanto al generale Smuts e alzò le mani chiedendo un pò di attenzione. « Generale Smuts, signore e signori, onorevoli ospiti e cari amici. » Si interruppe e si guardò intorno incerta, con la voce sopraffatta da un rombo che cresceva nell'aria. Tutti alzarono lo sguardo al cielo, qualcuno perplesso, qualcuno un pò impaurito e qualcuno divertito. E a un tratto sopra le querce all'estremità piú lontana del campo di polo apparvero le ali di un apparecchio che volava bassissimo. Centaine lo riconobbe, era un Puss-Moth, un piccolo monomotore. Virò stretto verso la tribuna e puntò loro addosso attraverso il campo ad altezza d'uomo. Poi, quando già sembrava destinato ad abbattersi sulla tribuna affollata, cabrò con decisione mentre le donne strillavano e quasi tutti involontariamente si abbassavano riparandosi il capo. Nel momento in cui sfrecciava sopra di lei, Centaine scorse il volto sghignazzante di Shasa nel finestrino laterale della cabina di pilotaggio, e vide la sua mano che sventolava un saluto. Istintivamente fu trasportata indietro negli anni, attraverso il tempo e lo spazio. Il viso non era piú quello di Shasa, ma quello di Michael Courteney, suo padre. Per lei l'apparecchio non era piú blu e aerodinami-
co, ma giallo e goffo come i primi velivoli: un biplano con la cabina scoperta e i tiranti del vecchio ricognitore da guerra. L'aereo fece un largo giro, apparendo di nuovo sulla linea delle querce, mentre Centaine, rigida per lo shock e un'improvvisa divorante angoscia che le era nata nell'anima, rivedeva l'apparecchio giallo sfiorare i filari di faggi sotto il castello di Mort Homme, col motore malconcio e intermittente. « Michael! » gridò mentalmente il suo nome, e fu di nuovo un lampo accecante di tormento rivedere con gli occhi della mente l'apparecchio mortalmente ferito urtare la cima degli alberi e capovolgersi, schiantarsi a terra in un groviglio di strutture spezzate e tela. Ancora una volta vide le fiamme fiorire come bei fiori velenosi e avvolgere la macchina schiantata, il fumo scuro attraversare il prato venendo verso di lei, e il corpo dell'uomo nella cabina di pilotaggio scoperta contorcersi e ballare e carbonizzarsi mentre le fiamme color arancione, risucchiate verso l'alto, facevano vibrare l'atmosfera distorta come da un miraggio, tuonando ed emanando grasso fumo nero. « Michael! » Stringeva i denti fino a farsi del male, ma quello che adesso vedeva era l'aereo blu che si posava con perfetta manovra sull'erba del campo da polo, arrivava in fondo, girava e rullava, con le ali dondolanti, verso la tribuna, davanti alla quale si arrestò con un ultimo sbuffo di fumo azzurrino. Le porte ai lati della cabina si aprirono ed ecco saltar giú, ridenti, Shasa Courteney e i tre compagni di squadra. Era sbalorditivo come fossero riusciti a entrarci tutti. « Sorpresa, sorpresa! » urlavano. « Sorpresa! » E tutti quanti si misero a far chiasso, ridere e applaudire. Un aereo era ancora una meravigliosa novità, capace di destar l'attenzione anche di uno scelto e sofisticato pubblico come quello li raccolto. Probabilmente non una persona su cinque aveva mai volato, e questo arrivo inaspettato e rumoroso aveva creato un'atmosfera eccitata e ridanciana, sicché applausi e commenti a voce alta si levarono quando Shasa guidò i compagni al tavolo della presidenza per ritirare la coppa d'argento dalle mani del generale Smuts. Il pilota dell'aereo azzurro uscì dall'altro portello. Era un tipo calvo e tracagnotto, e Centaine gli rivolse uno sguardo inviperito. Non sapeva che Jock Murphy tra le sue disparate capacità coltivasse il pilotaggio, ma decise di scoraggiarlo nella maniera piú efficace possibile. Aveva sempre fatto tutto quello che poteva per tener lontano Shasa dagli aeroplani, ed era stato difficile. Shasa aveva una foto di suo padre in tenuta di volo sul comodino, e dal soffitto della sua camera pendeva un modellino del caccia SE5; nel corso degli ultimi cinque anni, le sue domande sul volo e sulle gesta aviatorie di suo padre si erano fatte sempre piú insistenti. Avrebbe naturalmente dovuto capire dove andavano a parare, ma era talmente preoccupata che non aveva mai nemmeno pensato alla possibilità che Shasa volasse senza chiedere prima il permesso a lei. Ripensando al passato, si accorse che aveva sempre deliberatamente scartato questa possibilità, evitando di pensarci, sicché adesso era tanto piú colpita dalla sgradita sorpresa.
Con la coppa d'argento in mano, Shasa terminò così il suo discorsetto: « Infine, signore e signori, potrete aver pensato che sia stato Jock Murphy a pilotare il Puss-Moth. Errore! Non ha nemmeno sfiorato i comandi. Vero? » chiese, rivolgendosi al calvo istruttore, che ubbidiente scosse la testa. « Ecco qua! » raggiò Shasa. « Vedete, ho deciso di diventare aviatore, come mio padre. » Centaine non si unì alle congratulazioni e agli applausi. All'improvviso come erano arrivati, trasformando la vita di Weltevreden, le centinaia di ospiti se ne andarono, lasciandosi dietro un campo da polo devastato, montagne di rifiuti e bottiglie di champagne vuote, pile di biancheria sporca in lavanderia. Centaine si sentiva triste e svuotata a sua volta. Esalato il canto del cigno, esploso l'ultimo mortaretto, il postale del sabato sbarcò a Città del Capo un invitato, sì, ma alquanto sgradito. « Quel maledetto mi sembra un becchino travestito da agente delle tasse », sbuffò Sir Garry, portando via il generale Smuts e rifugiandosi nella sala delle armi, che usava sempre come studio quando veniva in visita a Weltevreden. I due erano impegnati nei primi colloqui relativi alla biografia e non riapparvero fino all'ora di pranzo. L'ospite scese a far colazione proprio mentre Centaine e Shasa tornavano dalla galoppata mattutina, affamati e accaldati. Stava esaminando i marchi dell'argenteria quando entrarono a braccetto, ridendo a crepapelle per una delle solite battute di Shasa. Ma questo buon umore svaní subito alla vista dell'invitato, e Centaine si morse le labbra e si irrigidì. «Le presento mio figlio, Michael Shasa Courteney. Shasa, ti presento il signor Davenport, di Londra. » « Lieto di conoscerla, signore. Benvenuto a Weltevreden. » Davenport guardò Shasa con la stessa aria soddisfatta che aveva mostrato nei confronti dell'argenteria. « Significa "ben contento" », spiegò Shasa. « In olandese, sa: weltevreden. » « Il signor Davenport e della Sotheby's, Shasa», intervenne Centaine per riempire la pausa imbarazzante. « E' venuto a consigliarmi circa certi nostri quadri e mobili. » « Ah, benissimo », disse Shasa, entusiasta. « Ha visto questo, signore? » Shasa gli indicò il paesaggio a olio appeso alla parete laterale. « E' il preferito di mia madre. Rappresenta il suo luogo natio, la tenuta di Mort Homme, presso Arras. » Davenport si aggiustò gli occhiali cerchiati di metallo e appoggio il pancione al mobile per esaminare il quadro piú da vicino. Con questa mossa rivelò di avere il gilè macchiato di rosso d'uovo. « E' datato 1875, il suo periodo migliore », notò quasi malinconicamente. « E' di un certo Sisley », gli venne incontro Shasa. « Alfred Sisley. Artista piuttosto celebre, vero, mamma? » « Chéri, sono convinta che il signor Davenport sa benissimo chi è Sisley. » Ma Davenport non ascoltava. « Se ne possono ricavare un cinquecento sterline, direi », mormoro, prendendo nota su un suo calepino. Il movimento creò una
pioggerella di forfora che si depositò sulle spalle dell'abito scuro. « Cinquecento? » ripetè Centaine, a disagio. « L'avevo pagato molto di piú. » Si versò una tazza di caffè (non si era mai abituata alle ricche colazioni all'inglese) e se la portò a capotavola. « Al massimo, signora Courteney. Il mese scorso avevamo un Sisley anche migliore, L'Ecluse de Marly, che non ha nemmeno raggiunto il prezzo base. Con questa crisi il mercato favorisce i compratori, purtroppo. » « Oh, non si preoccupi, signore », disse Shasa, ammonticchiando uova nel piatto e incoronandole di croccanti fette di bacon. « Tanto non è in vendita. Mia madre non lo cederebbe mai, vero, mamma? » Davenport lo ignorò e andò a sedersi col piatto vicino a Centaine. « Invece il Van Gogh che c'è nel salone è un altro discorso », le disse lanciandosi con entusiasmo sul salmone affumicato. A bocca piena lesse dal calepino: « Campo di grano verde e violetto; i solchi guidano l'occhio agli aloni dorati del sole nascente, in alto nel quadro. » Chiuse il calepino. « Oggi Van Gogh è molto di moda in America, e nonostante la crisi ha un bel mercato. Non le so dire quanto durerà la pacchia (personalmente lo ritengo un pittore insopportabile), ma farò fotografare il quadro e lo proporrò ai nostri clienti americani piú importanti. Credo che ne ricaveremo dalle quattro alle cinquemila sterhne. » Shasa aveva posato la forchetta e fissava sbalordito sua madre e il signor Davenport. « Credo sia meglio parlarne in un altro momento, signor Davenport », intervenne in fretta Centaine. « Abbiamo tutta la giornata davanti: per adesso godiamoci la colazione. » Finirono di mangiare in silenzio. Quando Shasa respinse il piatto ancora mezzo pieno, Centaine si alzò con lui. « Dove vai, chéri? » « In scuderia. Il maniscalco deve ferrarmi due cavalli. » « Ti accompagno. » Imboccarono il sentiero che correva lungo il muro della vigna ugonotta, che produceva il miglior vino di Centaine, e intorno ai vecchi alloggi degli schiavi. Tacevano entrambi: Shasa aspettava una spiegazione, e Centaine cercava le parole adatte. Naturalmente però non c'era nessuna bella maniera di dirlo, e aveva troppo rimandato la rivelazione. Ciò la rendeva ancora piú penosa. All'ingresso delle scuderie gli prese il braccio e lo fece voltare in direzione della piantagione. « Quell'uomo », cominciò, e subito si interruppe. Ricominciò da capo. « Devi sapere che la Sotheby's è la principale casa d'aste del mondo. Sono specializzati nelle opere d'arte. » « Lo so », le sorrise il ragazzo, condiscendente. « Non sono un completo ignorante. » Lo attirò sulla panchina di quercia accanto alla sorgente. Un'acqua ottima ribolliva tra i sassi confluendo nella pozza ai loro piedi. La trota che ci avevano messo, ormai lunga e grossa come l'avambraccio di Shasa, affiorò speranzosa di qualche briciola.
« Shasa, tesoro mio, devi sapere che quell'uomo è venuto per aiutarci a vendere Weltevreden. » Lo disse forte e chiaro, e immediatamente l'enormità della cosa le si abbatté addosso come una quercia colpita dal fulmine. Restò seduta accanto al ragazzo, sbigottita e inebetita, preda alfine della disperazione tanto a lungo rimandata. « Intendi dire i quadri? » chiese Shasa, con cautela. « Non solo i quadri, il mobilio, l'argenteria e i tappeti », gli disse, dovendosi fermare a prender fiato e controllare il tremito delle labbra. « Ma il castello, la tenuta, i tuoi cavalli, tutto quanto. » Lui la fissava a bocca aperta, senza capire. Da quando aveva quattro anni stava a Weltevreden: non ricordava altre case. « Shasa, abbiamo perduto tutto. Dopo la rapina ho provato a salvare il salvabile, ma ora non posso piú evitare di vendere Weltevreden per pagare i debiti. Non abbiamo piú niente. » Le si rompeva di nuovo la voce, e dovette fermare il tremito delle labbra con la mano prima di poter proseguire. « Non siamo piú ricchi, Shasa. Non abbiamo piú niente. Siamo rovinati, completamente rovinati. » Lo guardò in attesa di vederlo crollare com'era sul punto di crollare lei: invece le si avvicino, e dopo un attimo la rigidità l'abbandonò e si abbracciarono confortandosi a vicenda. « Siamo poveri, Shasa... » e lo sentí sforzarsi di accogliere la notizia, cercando di trovar parole per esprimere i suoi confusi sentimenti. « Sai, mamma », disse infine il ragazzo. « Io conosco delle persone povere. Certi compagni di scuola... hanno genitori abbastanza squattrinati... e non ne sembrano troppo colpiti. Sono bravi ragazzi lo stesso. Una volta che ci si è abituati, non dov'essere poi cosí terribile. » « Io non mi ci abituerò mai », gli sussurrò fieramente. « Odierò sempre la miseria con tutte le mie forze. » « Anch'io! » dichiarò lui con altrettanta fierezza. « Ah, se avessi qualche anno di piú! Allora si che ti potrei aiutare... » Lasciò Shasa dal maniscalco e tornò indietro lentamente, fermandosi spesso a parlare con il personale di colore, le donne sulla porta della stalla coi bambini in braccio, gli uomini che si raddrizzavano dal lavoro per salutarla, sorridendo, e che ormai considerava parte della famiglia; separarsi da loro sarebbe stato ancor piú doloroso che dar l'addio alle ricchezze che aveva accumulato con tanta fatica. All'angolo della vigna salí sul muretto di pietra e vagò tra i filari ben curati, che già avevano messo i grappoli, verdi e duri come palle da schioppo: ne prese uno con le mani a coppa, un gesto d'addio, durante il quale si accorse che stava piangendo. Finché era rimasta con Shasa era riuscita a evitarlo, ma adesso era sola, sopraffatta dal dolore e dalla desolazione, e piangeva a dirotto nella sua amata vigna. La disperazione la svuotò e consumò la sua risolutezza. Aveva lavorato tanto, era rimasta sola cosí a lungo, e nell'ora del definitivo fallimento era stanca, cosí stanca che le facevano male le ossa, e sapeva di non aver piú la forza di ricominciare da capo. Sapeva di essere ormai sconfitta: d'ora in poi la sua vita sarebbe stata una triste e misera cosa, una lotta quotidiana per salvare l'orgoglio per essendo
ridotta a mendica. Infatti, per quanto potesse voler bene a Garry Courteney, d'ora in poi doveva affidarsi alla sua carità, e tutto il suo essere rifuggiva all'idea. Per la primissima volta in vita sua non riusciva a trovare in se né la voglia né il coraggio di andare avanti. Come sarebbe stato bello stendersi e chiudere gli occhi: le calò addosso un grandissimo desiderio di pace e di silenzio. « Vorrei che fosse già tutto finito, che non ci fosse piú da lottare, preoccuparsi e sperare. » Il desiderio di requie divenne irresistibile, le riempi l'anima, prese addirittura a ossessionarla, talché uscendo dalla vigna e imboccando il sentiero si sentí indotta ad accelerare il passo. « Sarà come dormire... dormire senza sognare. » Si vide distesa su cuscini di seta, a occhi chiusi, calma e serena. Poiché era ancora vestita da amazzone, poté mettersi a correre. Attraversò il prato all'inglese davanti al maniero, irruppe nel suo studio e ansimando aprì il primo cassetto della scrivania. Le pistole erano un regalo di Sir Garry. Erano in una custodia in pelle di cinghiale, con le sue iniziali incise su una placca d'ottone sul coperchio. Erano due Beretta gemelle, per signora, fatte a mano, con bellissime incisioni in oro e il calcio di madreperla tempestato di brillanti della sua miniera. Ne prese una e l'aprì. Il caricatore era pieno, lo chiuse e mise il colpo in canna. Aveva la mano ferma e non ansimava piú. Si sentiva molto calma e distaccata mentre alzava la pistola, se la puntava alla tempia e appoggiava il polpastrello dell'indice alla curva del grilletto. Le sembrava di aleggiare al di fuori di se stessa, guardando all'atto che stava per commettere senza emozioni se non un certo rimorso per la sua vita sprecata e una certa pietà per se stessa. « Povera Centaine », pensò. « Che brutta maniera di finire. » E guardò, dall'altra parte della stanza, lo specchio dalla cornice dorata. Ai suoi lati c'erano due vasi molto alti, pieni di rose gialle del giardino, appena colte. La sua immagine riflessa risultava quindi incorniciata di fiori, simile a una morta nella bara: e anche il suo volto era mortalmente pallido. « Sembro un cadavere. » Lo disse forte, e a quelle parole la sua brama d'oblio si tramutò immediatamente in un gran disgusto per se stessa. Abbassò la pistola e fissò la propria immagine riflessa, distinguendo le rosse ondate di collera che cominciavano a farle avvampare le guance. « No, merde! » strillò quasi, a se stessa. « Non ne uscirai così facilmente. » Apri la pistola, estrasse il caricatore e il colpo in canna e li scagliò sul tappeto, dove i proiettili dal bossolo d'ottone si sparsero rotolando qua e là: poi buttò la pistola sulla scrivania, e a grandi passi uscì da quella stanza. Le cameriere negre udirono lo scalpiccio degli stivali da amazzone sui gradini marmorei dello scalone e si allinearono davanti all'ingresso del suo appartamento, sorridendo felici e chinando la crestina. « Lily, pigrona, non mi hai ancora preparato il bagno? » domandò Centaine, e le due cameriere si guardarono negli occhi. Poi con
una pantomima di sollecitudine Lily si affrettò verso il bagno, mentre la seconda cameriera, una ragazza molto carina, seguiva Centaine raccogliendo gli abiti che la padrona gettava a terra. « Gladys, va' ad accertarti che Lily prepari la vasca con acqua abbondante e molto calda», ordinò; e di lí a poco eccola entrare nella stanza da bagno avvolta in una vestaglia di seta gialla mentre le due servette, ai bordi della vasca, aspettavano compunte l'ispezione. Centaine mise nell'acqua la punta del dito. « Lily, vuoi farmi fessa? » le domandò, e Lily rise tutta contenta. L'acqua era infatti alla precisa temperatura voluta da Centaine, la cui domanda costituiva un modo scherzoso, e abituale, di riconoscersi soddisfatta. Lily aveva in mano i salì da bagno e ne versò una parsimoniosa manciata nell'acqua fumante. « Da, qua! » le ordino Centaine, e versò mezzo barattolo nella vasca. « Basta con le mezze misure! » Centaine guardò le bollicine formarsi sull'orlo della vasca e scivolare giú dai bordi con perversa soddisfazione, mentre le due servette si sdilinquivano in risatine per questa follia e scappavano fuori della stanza mentre Centaine, liberatasi della vestaglia e boccheggiando per la squisita sensazione impartitale dall'acqua caldissima, affondava nella vasca fino al mento. Giacendo lí, rivide l'immagine della pistola dal calcio di madreperla, ma la scacciò. « Una cosa che non sei mai stata, Centaine Courteney, è una vigliacca », si disse; e poco dopo, scelto un abito dai gai colori estivi, scendeva radiosa lo scalone. Davenport e Cyril Slaine la stavano aspettando. « La cosa andrà certo per le lunghe, signori. Dunque cominciamo subito. » Ogni pezzo d'arredamento del grande palazzo doveva essere numerato e descritto, il suo valore stimato, e quelli piú importanti andavano fotografati per introdurli poi nel catalogo che il signor Davenport stava redigendo. Tutto questo doveva concludersi prima del ritorno in Inghilterra di Davenport, col postale che partiva di lí a dieci giorni. Dopo tre mesi sarebbe ritornato per organizzarle la vera e propria vendita all'incanto. Quando fu tempo che Davenport partisse, Centaine sbalordí tutti annunciando che aveva intenzione di accompagnarlo dall'altra parte della montagna a prendere la nave, incombenza che nell'ordine naturale delle cose doveva semmai toccare a Cyril. La partenza del postale costituiva uno degli eventi piú eccitanti del calendario mondano di Città del Capo, e il piroscafo pullulava di passeggeri e di decine di amici che andavano a salutarli e ad augurare una buona traversata. Sull'elenco dei passeggeri di prima classe Centaine non faticò a trovare i nomi che cercava. Malcomess, signora I., Cabina A 16. Malcomess, signorina T., Cabina A 17. Malcomess, signorina M., Cabina A 17. La famiglia di Blaine era davvero in partenza. Stando agli accor-
di presi con lui, non si erano piú visti dall'ultimo giorno del torneo di polo, e adesso lo cerco cautamente con lo sguardo nel salone e nelle sale da pranzo di prima classe del transatlantico. Non le riuscí di vederlo e capí che probabilmente era in cabina con Isabella. L'idea di quell'intima riunione le ripugnò tanto che le venne una gran voglia di recarsi sul ponte, alla cabina 16, in apparenza per salutare Isabella, ma in realtà per impedirle di trascorrere un altro minuto sola con Blaine. Si limitò invece a restare seduta al bar di prima classe a guardare il signor Davenport far fuori uno dopo l'altro una quantità di gin rosa, sorridendo e salutando instancabilmente i conoscenti che le passavano davanti in parata, decisi a vedere e a farsi vedere. Notò con mesta soddisfazione il calore, il rispetto e i complimenti che tutti le prodigavano. Era chiaro che la stravaganza lussuosa del torneo di polo le aveva fatto gioco, e nessuno sospettava le sue difficoltà finanziarie che erano invece molto gravi. Nessuna voce ancora girava, tale da rovinarle la reputazione e la posizione sociale. Ma tutto ciò sarebbe mutato ben presto, se ne rendeva conto molto bene, e questo non faceva che irritarla in anticipo. Snobbò deliberatamente una signora che aspirava a ricevere nel suo salotto la crème di Città del Capo, rifiutando in pubblico un suo invito ossequioso, e notando sardonicamente come quella piccola crudeltà aveva accresciuto il rispetto della donna nei suoi confronti. Ma intanto che giocava queste complicate partite mondane, Centaine scrutava fra la folla in cerca di Blaine. La sirena del piroscafo ululò per l'ultima volta, e gli ufficiali della nave, splendidi nella bianca divisa estiva, passarono tra gli ospiti avvertendo: « La nave salpa tra quindici minuti, chi non deve partire è pregato di scendere immediatamente ». Centaine strinse la mano al signor Davenport e si uní alla processione di quelli che scendevano. Qui attese insieme alla gioviale folla di accompagnatori e si mise a guardare il parapetto della nave per individuare Isabella e le due figlie. Nastri di carta a vivaci colori e stelle filanti furono gettati giú dai partenti e afferrati da mani affettuose, legando il piroscafo alla terra con migliaia di fragili cordoni ombelicali... e a un tratto Centaine individuò la figlia maggiore di Blaine. A questa distanza Tara sembrava una ragazza grande. Era carina col suo abito scuro e i capelli accuratamente acconciati. Al suo fianco la minore aveva infilato la testa tra i montanti del parapetto e stava sventolando freneticamente un fazzoletto rosa verso qualcuno sul molo. Centaine si riparò gli occhi dal sole e distinse dietro le due ragazze la figura in carrozzella. Isabella sedeva con il viso in ombra, e a Centaine parve d'un tratto un personaggio da tragedia, il nunzio finale, una forza nemica inviata a tormentarla e negarle la felicità. « Oh, Dio, come vorrei che fosse facile odiarla », sussurrò, mentre con gli occhi seguiva la direzione dello sguardo delle figlie e finalmente individuava Blaine. Si era arrampicato sulla struttura di una gigantesca gru da carico. Indossava un abito tropicale color crema, con la cravatta regimental verde e blu e un panama a tesa larga che adesso stava svento-
lando verso le familiari a bordo. Il vento di sud-est gli aveva fatto cascare il ciuffo sulla fronte: il bianco dei denti spiccava, splendido, sul suo viso abbronzato. Centaine si ritrasse in mezzo alla folla, da dove poteva osservarlo non vista. « E' l'unica cosa che non perderà », pensava, traendone consolazione. « Quando Weltevreden e la miniera H'ani mi saranno state portate via, lui ci sarà ancora. » E all'improvviso un maledetto dubbio l'assalì. « Sarà proprio cosí? » Cercò di scacciarlo dalla mente, ma non ci riusciva. «Ama me, oppure ama quello che sono? Mi amerebbe lo stesso se non fossi che una donna ordinaria, senza ricchezza, senza posizione sociale, senza nulla tranne un figlio altrui? » E il dubbio le colmò la mente di buio, e la fece star male fisicamente, sicché quando Blaine portò la mano alla bocca e mandò un bacio alla magra e pallida figura in carrozzella la gelosia tornò a investirla con la forza di una bufera, e si mise a fissare il volto di Blaine, torturandosi a leggervi l'espressione d'affetto e preoccupazione per la moglie, sentendosi totalmente esclusa e superflua. Lentamente il varco tra la nave e il molo si allargò. L'orchestrina di bordo, sul ponte di prima classe, attaccò Dio sia con te finché ci rivedremo; le stelle filanti si spezzarono a una a una e ricaddero avvitandosi come i suoi sogni votati a un avverso destino, e le sue speranze vane, smorendo nell'acqua sporca del porto. La sirena della nave emise un urlo d'addio, e i rimorchiatori a vapore se ne impadronirono per condurla fuori dello stretto imbocco. Subito dopo le macchine si mossero e maestosamente la nave svoltò a nord-ovest per superare Robben Island. Intorno a Centaine la gente sfollava. Nel giro di pochi minuti si trovò sola sul molo. Sopra di lei Blaine era ancora arrampicato sulla gru: riparandosi con la visiera del panama scrutava il mare per rubare un'ultima immagine della gran nave. Adesso non rideva né sorrideva piú il suo amato viso dalla bocca larga che le piaceva tanto. Portava un tale fardello di dolore che non poteva non condividerlo lei stessa; si mischiò ai suoi dubbi, diventando gravoso e intollerabile, talché le venne voglia di girare sui tacchi e scappar via. Ma ecco che all'improvviso Blaine abbassò il cappello e si girò verso di lei. Si sentí in colpa di averlo spiato cosí, in un momento del tutto privato e personale: e l'espressione di lui si indurí e si chiuse. Era risentimento o qualcosa di ancor peggio? Impossibile saperlo, perché durò un attimo solo. Saltò giú dalla struttura, atterrando con leggerezza e agilità insospettabile in un uomo cosí grande e grosso, e si diresse tranquillamente verso di lei, all'ombra della gru, piazzandosi il cappello in testa cosí che la tesa, adombrandogli lo sguardo, impedí a Centaine di leggergli l'umore negli occhi. Quando la raggiunse, lei aveva tanta paura quant'era possibile averne. « Quando possiamo trovarci un pò da soli? » le chiese tranquillamente. « Non vedo l'ora di stare insieme a te. » Tutti i dubbi e tutte le paure svanirono in un attimo, facendola tornare radiosa e vivace come quando era ragazza. Le venne quasi il capogiro per la felicità.
« Mi ama ancora », cantò il suo cuore. « Mi amerà sempre. » Il generale James Barry Munnik Hertzog venne a Weltevreden su una macchina chiusa e senza insegne del suo alto uffizio. Era un vecchio commilitone di Jan Christian Smuts. Insieme si erano battuti da prodi contro gli inglesi durante la guerra sudafricana, prendendo parte alle trattative di pace di Vereeniging che posero fine a quel conflitto. In seguito parteciparono entrambi alla convenzione nazionale che costitui l'Unione Sudafricana e al primo governo di Louis Botha. Poi le loro strade si erano divise. Hertzog aveva abbracciato l'angusto nazionalismo espresso dal motto « Prima il Sudafrica », mentre Jan Smuts era diventato quel grande statista che aveva progettato il Commonwealth britannico e aveva avuto grande parte nella fondazione della Società delle Nazioni. Hertzog era un afrikaner militante e aveva ottenuto alla sua lingua, l'afrikaans, il riconoscimento di stato quale lingua ufficiale al pari dell'inglese. La sua politica delle « due correnti » si opponeva all'assorbimento del suo Volk, ovvero popolo, in seno a un piú grande Sudafrica, e nel 1931 aveva costretto la Gran Bretagna a riconoscere nello Statuto di Westminster l'uguaglianza dei dominions dell'Impero, e il diritto di secessione dal Commonwealth. Alto e austero d'aspetto, era una figura formidabile quando entrò nella biblioteca di Weltevreden che Centaine aveva messo a sua completa e illimitata disposizione. Jan Smuts si alzò dal suo posto al gran tavolo coperto di panno verde e gli andò incontro. « A quanto pare », tuonò stringendogli la mano, « non avremo per queste trattative tutto il tempo che pensavamo di avere. » Il generale Smuts diede un'occhiata alla sua squadra di negoziatori, composta da Blaine Malcomess e Deneys Reitz, suoi uomini di fiducia e futuri membri del governo di coalizione; ma nessuno di loro, parlò mentre Hertzog e Nicolaas Havenga, il ministro delle Finanze nazionalista, li fronteggiavano dall'altra parte del tavolo. A diciassette anni di età Havenga cavalcava con Hertzog contro gli inglesi, facendogli da segretario, e da allora erano sempre stati inseparabili. Havenga deteneva l'attuale incarico di governo da quando i nazionalisti di Hertzog erano andati al potere nel 1924. « Stiamo tranquilli e sicuri qui? » chiese ora, guardando sospettoso le doppie porte di mogano borchiato d'ottone a un capo della biblioteca, per poi dare un'occhiata agli scaffali che giungevano fino al soffitto istoriato e contenevano i libri di Centaine, tutti rilegati in marocchino coi titoli impressi a caratteri d'oro. «Certo», lo rassicurò Smuts. «Possiamo parlare liberamente senza il minimo timore di essere uditi. Ti do la mia parola. » Havenga guardò il suo capo per averne l'approvazione e, ricevuto il cenno, cominciò a parlare con qualche riluttanza apparente. « Tielman Roos si è dimesso dalla Corte Suprema », annunciò. Poi si rimise a sedere: non era necessario dire altro a quei politici esperti. Tielman Roos era uno dei personaggi piú coloriti e celebri della nazione. Era soprannominato « il Leone del nord » e da sempre era uno dei piú leali sostenitori di Hertzog. Quando i nazionalisti erano andati al potere, era diventato ministro della Giustizia e vice-premier, e sembrava destinato a succedere a Hertzog alla testa del
governo; ma la salute cagionevole e il disaccordo sull'adesione sudafricana alla parità aurea l'avevano indotto a ritirarsi dalla politica attiva accettando una nomina alla Corte Suprema, sezione d'appello. Ora se n'era dimesso. « Ragioni di salute? » chiese Jan Smuts. « La parità aurea », precisò Havenga con gravità. « Intende opporsi alla nostra politica di rimanervi legati. » « La sua influenza è enorme », esclamò Blaine. « Non possiamo consentirgli di seminare dubbi sulla nostra politica », concordò Hertzog. « Una presa di posizione da parte di Roos adesso potrebbe risultare disastrosa. La prima cosa da fare è quindi elaborare una posizione comune sul problema monetario. Dobbiamo essere in condizione o di opporci validamente o di svuotare in anticipo la sua posizione. « E' d'importanza vitale poter offrire un fronte unito ai suoi attacchi. » Guardò negli occhi Smuts. « Sono d'accordo », rispose Smuts. « Non dobbiamo permettere che la nostra coalizione sia screditata prima ancora di nascere. » « Questa è una crisi bella e buona », interloquì Havenga. « Va quindi affrontata come tale. Lei che cosa ne pensa, Ou Baas? » « Lo sapete come la penso io », disse Smuts. « Ricorderete che vi ho subito suggerito di imitare la Gran Bretagna quando ha abbandonato la parità aurea. Non voglio rinfacciarvelo adesso, ma da allora non ho cambiato idea. » « La prego di esporre di nuovo le sue ragioni, Ou Baas. » « All'epoca predissi che ci sarebbe stata una fuga dalla sterlina d'oro sudafricana alla sterlina. La moneta cattiva scaccia sempre quella buona, e non m'ingannavo, le cose andarono cosí davvero », dichiarò semplicemente Smuts, mentre gli uomini dall'altra parte del tavolo apparivano sulle spine. « La relativa perdita di capitali ha azzoppato la nostra industria e mandato decine di migliaia di operai a infoltire i ranghi dei disoccupati. » « Ci sono milioni di disoccupati anche in Inghilterra », puntualizzò un pò irritato Havenga. « Il nostro rifiuto di abbandonare l'oro ha aggravato la disoccupazione. Ha messo in pericolo la nostra industria estrattiva. Ha fatto crollare i prezzi dei nostri diamanti e della nostra lana. Ha peggiorato la congiuntura economica fino a portarla ai livelli tragici in cui ci troviamo ora. » « Se abbandoniamo la parità aurea in questo stadio tardivo, quali saranno i benefici per il paese? » « Primo e importantissimo, daremo ossigeno all'industria estrattiva aurifera. Se la sterlina sudafricana si svaluta come quella britannica, cosa che succederebbe subito, significherà che le miniere riceveranno sette sterline per oncia d'oro al posto delle attuali quattro. E' quasi il doppio. Le miniere che hanno chiuso riapriranno. Le altre si espanderanno. Se ne apriranno anche di nuove, che daranno lavoro a decine di migliaia di minatori tra bianchi e neri. Il capitale tornerà ad affluire nel nostro paese. E sarà la svolta che ci farà imboccare di nuovo la via della prosperità. » I pro e i contro furono dibattuti a lungo, con Blaine e Reitz che davano man forte al vecchio generale, e pian piano i due politici ab-
bandonarono le loro posizioni finché poco dopo mezzogiorno Barry Hertzog disse all'improvviso: « Bisogna pianificare i tempi. In Borsa scoppierà il pandemonio. Ci sono ancora tre giorni lavorativi prima di Natale; bisogna dare l'annuncio allora, quando la Borsa è chiusa. » In biblioteca la tensione si tagliava col coltello. Da questa frase di Hertzog, Blaine capì che accedevano finalmente alle loro posizioni. Il Sudafrica avrebbe abbandonato la parità aurea prima della riapertura degli scambi dell'anno nuovo. Provò una magnifica sensazione di vittoria, di contentezza. Il primo atto della nuova coalizione doveva essere decisivo per porre termine all'ormai lunga agonia economica del paese, una promessa di ritornare alla prosperità e alla speranza. « Ho pur sempre abbastanza influenza su Tielman per indurlo a ritardare la sua presa di posizione fino alla chiusura degli scambi », proseguì Hertzog: ma ormai si discuteva sui dettagli. Blaine strinse la mano a tutti e andò alla sua Ford, parcheggiata tra le querce, con un senso di grande emozione per aver contribuito a una decisione storica. Era questo che l'aveva avvicinato alla politica, questa coscienza di poter contribuire a cambiare il mondo. Per Blaine era a questo che serviva il potere in ultima analisi, era una spada sempre vittoriosa da vibrare contro i demoni che attanagliavano la sua gente e il suo paese. « Sono entrato nella Storia », pensò, e la felicità interiore rimase con lui mentre al volante usciva, ultimo del breve corteo di macchine, dai meravigliosi cancelli di Weltevreden. Fece apposta a lasciarsi distanziare dalle altre automobili sulla strada che saliva serpeggiando sulla collina di Wynberg. Quando gli altri furono fuori vista, accostò al ciglio e fece una inversione di marcia. Prima di arrivare al cancello principale svoltò in una stradino che costeggiava i confini della tenuta, e nel giro di pochi minuti fu di nuovo sulla terra di Centaine, per un sentiero poco battuto, invisibile dal maniero per via di una pineta in cui parcheggiò la macchina. Proseguí a piedi e quando distinse i muri bianchi del cottage scintillare ai raggi del sole nascente si mise addirittura a correre. Era esattamente come gliel'aveva descritto. Si fermò sulla soglia. Centaine non l'aveva sentito. Era in ginocchio davanti al camino, intenta ad attizzare col mantice un focherello di aghi e pigne. Per un pò rimase a guardarla dalla soglia, felice di osservarla di nascosto. Si era tolta le scarpe e le piante dei piedi nudi erano morbide e rosee, le caviglie sottili, i polpacci forti e sodi per l'equitazione e le passeggiate, e le ginocchia, dietro, avevano una fossetta. Non l'aveva mai notata prima, e adesso si commosse. Provò una tenerezza che era abituato a sentir solo per le sue figlie, e tossicchiò con intenzione. Centaine si voltò e balzò in piedi alla sua vista. « Pensavo che tu non venissi. » Gli corse incontro, alzando il viso al suo, gli occhi scintillanti: e dopo un bel pò di tempo fu lei a interrompere il bacio e, sempre tra le sue braccia, si mise a scrutarlo. « Sei stanco », gli disse.
« E' stata una giornata lunga. » « Vieni. » Tenendolo per mano lo portò alla sedia accanto al focolare. Prima di sedersi gli sfilò la giacca e, alzandosi in punta di piedi, gli allentò la cravatta. « Ho sempre desiderato fartelo », gli sussurro, e appese la sua giacca in un piccolo armadio di legno biondo prima di versargli un whisky e soda. « Va bene? » gli domandò ansiosa, e lui bevve un sorso e annuì. « Perfetto. » Si guardò intorno nel cottage, notando i mazzi di fiori nei vasi, la cera appena data ai pavimenti e la mobilia semplice e solida. « Molto carino », disse. « Ho lavorato tutto il giorno a prepararlo per te. » Centaine alzò gli occhi dal sigaro che gli stava scegliendo nel mazzo. « Ci viveva Anna prima di sposare Sir Garry. Nessuno l'ha mai piú adoperato da allora, e nessuno ci viene. E' il nostro posto, ora, Blaine. » Gli portò il sigaro scelto, prese un tizzoncello nel fuoco e glielo fece accendere. Poi mise un cuscino di cuoio ai suoi piedi e ci si accomodò, posandogli sulle ginocchia le braccia ripiegate e guardandogli la faccia su cui si riflettevano le vampate del camino. « Quanto tempo puoi trattenerti? » «Be'... » fece lui, pensieroso. «Per quanto tempo mi vuoi? Un'ora? Due? Di piú? » Centaine si dimenò dal piacere e gli strinse ancora piú forte le ginocchia. « Tutta la notte », raggiò. « Tutta una splendida notte! » Si era portata un cestino di cibo dalla cucina di Weltevreden e cenarono con rcastbeef e tacchino freddo, bevendo il vino delle vigne di Centaine. Dopo, mangiarono insieme grossi grappoli di uva bianca Hanepoort inseguendosi con la bocca e scambiandosi un bacio a ogni acino. « Dolce, l'uva », sorrise lui, « ma preferisco i baci. » « Per fortuna, signore, non vi è penuria né dell'una né degli altri. » Centaine fece il caffè sul fuoco e lo bevvero insieme sdraiati sul tappeto davanti al caminetto, guardando le fiamme senza parlare: Blaine le accarezzava i capelli fini alla base della nuca coi polpastrellì, finché pian piano quell'umore tranquillo si tramutò in qualcos'altro, le fece correre le dita giú per la spina dorsale, e lei fremendo si alzò in piedi. « Dove vai? » le domandò. « Finisci il sigaro », gli disse. « Poi vieni a cercarmi. » Quando la seguì nella camerette, la trovò seduta nel centro del letto basso. Non l'aveva mai vista in camicia da notte prima di allora: era di satin giallo limone pallido, mentre il pizzo al collo e ai polsi scintillava a lume di candela come avorio antico. « Sei bella », le disse. « Sei tu che mi fai sentir bella », rispose lei gravemente, tendendogli le braccia. Quella notte il loro amore, a differenza delle altre volte, non fu frenetico ma lento e misurato, quasi immobile. Non si era ancora
accorta di quanto avesse già imparato del suo corpo e delle sue esigenze particolari. Con calma e abilità Blaine le impartì le dovute attenzioni, mentre lei gli si affidava completamente fiduciosa; con gentilezza Blaine spazzò via le sue ultime riserve e la condusse oltre ogni senso d'identità personale, penetrando profondamente in lei, abbracciandola fino al punto che il loro stesso sangue sembrava essere diventato uno, e i loro cuori battevano all'unisono. Era il respiro dell'uno a riempire i polmoni dell'altra, erano i pensieri dell'una a vagare nella mente dell'altro, e a un certo punto Centaine udì in bocca a Blaine le sue stesse parole: « Ti amo, tesoro mio! Oh Dio, quanto ti amo. » « Ti amo. Ti amo. » Empiti di gioia prorompenti sulle labbra dell'amato. E furono un essere solo. Si svegliò prima Blaine. Fuori, gli uccellini cinguettavano nei fiori arancione dei cespi di tacoma. Un raggio di sole aveva trovato la strada tra le tende e, tagliando l'aria come la spada di un aureo bandito, gli splendeva sopra la testa. Lentamente, molto lentamente per non disturbarla, voltò la testa e si mise a scrutarle il viso. Aveva scostato il cuscino e la guancia si posava sul lenzuolo: le labbra sfioravano la spalla di lui, un braccio gli traversava il petto. Aveva gli occhi chiusi, e c'era un delicato disegno di venuzze azzurre sulle palpebre abbassate, dalla pelle liscia e splendente. Il suo respiro era cosí lieve che per un attimo se ne allarmò, finché nel sonno lei non fremette accigliandosi e il timore lasciò spazio in lui alla pena di vederle nascere in viso i segni delle preoccupazioni degli ultimi mesi. « Povero tesoro. » Le sue labbra formarono le parole senza emetterle: piano piano il magnifico umore della sera prima svanì come sabbia sotto l'alta marea della dura realtà. « Povero tesoro mio coraggioso »; non conosceva un simile dolore da quand'era morto suo padre. « Se solo potessi fare qualcosa per aiutarti, adesso che ne hai bisogno. » E mentre così diceva gli venne in mente una cosa, e sobbalzò così forte che Centaine nel sonno se ne accorse e si staccò da lui. Torno ad accigliarsi, mentre le vibravano gli angoli delle palpebre, farfugliò qualcosa di indistinto e si fermò girata dall'altra parte. Blaine rimase coricato accanto a lei, rigido, con tutti i muscoli del corpo tesi. Stringeva i denti, sbigottito di sé, irritato e quasi atterrito d'aver potuto concepire una simile idea. Adesso aveva gli occhi spalancati. Guardava l'angolino chiaro che il sole illuminava sulla parete di fronte, ma senza nemmeno vederlo: perché si sentiva un uomo sulla ruota di tortura, la tortura di una tentazione tremenda. « L'onore... » La parola gli sprizzò nella mente. « L'onore e il dovere... » macinò in silenzio, mentre in un diverso angolo del cervello un'altra parola ardeva altrettanto potente: « amore ». La donna che giaceva accanto a lui non aveva mercanteggiato il suo amore. Non aveva posto condizioni, non aveva preteso rinunce, aveva solo dato senza nulla chiedere in cambio. Invece di pretendere
l'aveva lasciato libero: era stata lei a esigere che nessun'altra persona dovesse soffrire a causa della loro felicità. Liberamente aveva riversato su di lui le gioie del suo amore senza chiedere la piú piccola ricompensa, la minima promessa, la minima assicurazione: e lui non aveva offerto nulla. Fino a quel momento, non aveva potuto darle in cambio nulla. D'altra parte c'era il fatto che era stato scelto da un grande uomo, da un bravissimo uomo, che aveva riposto in lui una fiducia incondizionata. Onore e dovere da una parte, amore dall'altra. Stavolta la sua coscienza non aveva scampo. Chi avrebbe tradito, l'uomo che tanto ammirava o la donna che amava? Non riuscì piú a star fermo e dovette alzare piano piano il lenzuolo. Centaine sbatté le ciglia: emise un piccolo gorgoglio e tornò a dormire piú profondamente di prima. La sera gli aveva messo un rasoio e uno spazzolino da denti nuovo sul lavabo del bagno, e questo pensiero gentile lo turbò ancora di piú. Si rase e si vesti, dilaniato dai tormenti dell'indecisione. Tornò in camera da letto in punta di piedi e rimase un momento a guardarla. « Potrei scappar via », pensò. « Non scoprirebbe mai il mio tradimento. » E poi considerò la stranezza di aver scelto quella parola. Era tradimento salvare il proprio onore, compiere il proprio dovere? Scacciò il pensiero e prese la sua decisione. Si chinò e le sfiorò le palpebre. Apri subito gli occhi. Lo guardò con le pupille dilatate e vaghe, confusa. Poi si contrassero e lei sorrise, un bel sorriso assonnato e soddisfatto. « Tesoro », gli sussurrò, « che ora è? » « Centaine, sei sveglia? » Si drizzò subito a sedere, e fece un'esclamazione contrariata: « Oh Blaine, sei già vestito, così presto! » «Ascoltami, Centaine. E' molto importante. Mi stai ascoltando? » Lei annuì, spazzando con un battito di ciglia gli ultimi residui del sonno, e lo guardò solennemente. « Centaine, stiamo per abbandonare la parità aurea », disse con voce aspra e piena di rimorsi e disprezzo di sé. « L'hanno deciso ieri l'Ou Baas e Hertzog. Alla riapertura degli scambi dell'anno nuovo la nostra moneta non sarà piú convertibile. » Lo guardò a occhi sbarrati per cinque secondi buoni e poi all'improwiso capì, si vide un vero e proprio lampo nello sguardo, subito dopo si appannarono di nuovo. « Oh Dio, tesoro, quanto dov'esserti costato dirmelo! » esclamò con la voce vibrante di compassione, perché capiva il suo senso dell'onore e conosceva la profondità del suo senso del dovere. « Tu mi ami davvero, Blaine. Adesso si che ci credo al di là di ogni dubbio. » Lui la stava guardando ancora. Non gli aveva mai visto una simile espressione sul viso. Pareva quasi che ora l'odiasse per averglielo detto. Non riusciva a reggere quello sguardo, cosí si inginocchiò sopra il letto e gli tese le braccia. « Blaine, non me ne servirò. Non userò quel che mi hai detto... »
« lui ringhiò subito, con la faccia contorta per il senso di colpa: » « Allora mi hai fatto fare questo sacrificio per niente. » « Non odiarmi per questo, Blaine, ti prego! » l'implorò, e l'ira svaní dal volto di lui. « Odiarti? » le domandò tristemente. « No, Centaine, non potrei mai. » Si voltò e uscí dalla stanza. Aveva voglia di corrergli dietro, di cercare di consolarlo, ma sapeva che ciò andava oltre il potere dell'amore piú grande. Intui che, come un leone ferito, ora doveva star solo, e rimase ad ascoltare il suo passo pesante che si allontanava, fuori della finestra del cottage. Centaine sedeva alla propria scrivania, a Weltevreden. Era sola, e aveva davanti il telefono d'avorio e ottone. Aveva paura. Ciò che stava per fare l'avrebbe posta molto al di là delle leggi che regolano il consesso sociale: era all'inizio di un viaggio in un territorio sconosciuto, senza carta geografica, un viaggio lungo e pericoloso che poteva farla finire in disgrazia o in prigione. Il telefono suonò e Centaine sobbalzò, guardando lo strumento con vero timore. Suonò ancora, e lei fece un profondo sospiro e sollevò la cornetta. « La sua chiamata per Rabkin e Swales, signora Courteney », le disse il segretario. « C'è il signor Swales in linea. » « Grazie, Nigel. » Senti chiaramente il tono vacuo della sua stessa voce e si schiarì la gola. « Signora Courteney. » Riconobbe la voce di Swales. Era il socio anziano dell'agenzia di cambio di cui si era già servita piú volte. « Mi permetta di augurarle buone feste. » « Grazie, signor Swales. » La sua voce era sicura e professionale, ora. « Ho un ordine d'acquisto per l'agenzia, signor Swales. Gradirei che l'eseguiste oggi prima della chiusura. » « Naturalmente », le assicurò Swales. « Perfezioneremo l'operazione immediatamente. » « Allora compratemi al meglio cinquecentomila azioni della East Rand Proprietary Mines », gli disse. Dall'altro capo del filo vi fu un istante di silenzio. «Cinquecentomila, signora Courteney», ripeta infine Swales. « Le ERPM vengono ventidue e sei. Fa circa seicentomila sterline. » « Esatto », concordò Centaine. « Signora Courteney... » Swales si interruppe. « C'è qualche problema, signor Swales? » « No, naturalmente no. Nessunissimo problema. Mi ha preso un pò allo sprovvista, ecco tutto. Soprattutto per l'entità dell'ordine. Ma provvederò immediatamente. » « Vi spedirò l'assegno appena riceverò la nota del contratto d'acquisto. » Fece una pausa e proseguì gelidamente: « A meno che, naturalmente, non mi richiediate un pre-deposito ». Trattenne il respiro. Non sarebbe stata assolutamente in grado di effettuarlo, nemmeno nella misura in cui Swales poteva pretenderlo. « Oh mio Dio, signora Courteney! Spero non abbia pensato... debbo chiederle francamente scusa d'averla indotta a pensare che mettevo in dubbio la sua solvibilità. Non c'è assolutamente fretta.
Le invieremo la notula come al solito. Il suo credito presso la Rabkin e Swales resta ottimo. Spero di poterle confermare l'acquisto entro domattina al massimo. Come indubbiamente sa, domani è l'ultimo giorno di apertura prima delle festività natalizie... » Le mani le tremavano così forte che ebbe dei problemi a rimettere a posto la cornetta del telefono. « Cosa ho fatto? » sussurrò a se stessa, e sapeva benissimo la risposta: un reato, una frode, punibile con dieci anni di reclusione. Aveva appena contratto un debito che non aveva alcuna ragionevole possibilità di onorare. Era a un passo dal fallimento e lo sapeva: nonostante ciò, aveva fatto un altro debito da mezzo milione di sterline. Fu colta da una fitta di rimorso e avvicinò la mano al telefono per cancellare l'ordine, ma suonò prima che ci arrivasse. « Signora Courteney, c'è in linea il signor Anderson della Hawkes and Giles. » « Me lo passi, Nigel, per favore », ordinò, e si stupì lei stessa che la sua voce non tremasse mentre diceva con l'abituale disinvoltura: « Signor Anderson, ho un ordine d'acquisto per la sua agenzia ». A mezzogiorno aveva telefonato a sette diverse agenzie di cambio di Johannesburg piazzando ordini d'acquisto di azioni di miniere d'oro per un valore complessivo di cinque milioni e mezzo di sterline. Poi, alla fine, le mancò il coraggio. « Cancella le altre due chiamate, Nigel, per favore », gli disse con calma, e dovette correre con le mani sulla bocca fino al bagno privato in fondo al corridoio. Ci arrivò appena in tempo. Inginocchiata davanti al water, ci vomito dentro, un duro proietto aggrovigliato di colpa, vergogna e timore, scossa da conati che continuarono finché non ebbe lo stomaco vuoto, la gola dolente e i muscoli del petto serrati da un crampo. L'esofago le bruciava come se fosse stato scottato da qualche acido. Natale era sempre stato uno dei loro giorni speciali, fin da quando Shasa era piccolo: ma quella mattina si svegliò di cattivo umore. Ancora in camicia da notte e pigiama, lei e Shasa si scambiarono i regali nell'appartamento di Centaine. Shasa aveva dipinto a mano un cartoncino d'auguri speciale per lei, decorandolo con fiori di campo secchi e pressati. Il suo regalo era il nuovo romanzo di Mauriac, Noend de Vipères, ed egli aveva scritto sulla prima pagina: Accada ciò che accada, ci apparterremo sempre l'un l'altra SHASA Il regalo di lei al figlio era invece un casco di cuoio da pilota con tanto di occhialoni. Shasa la guardò sorpreso. Si era sempre strenuamente opposta a che volasse. « Sí, caro, ma se proprio vuoi imparare non te l'impedirò. » « Possiamo permettercelo, mamma? Voglio dire, sai che... » « Lascia che a queste cose ci pensi io. » « No, mamma », disse scuotendo violentemente la testa. « Non
sono piú un bambino. D'ora in poi ti aiuterò... non voglio crearti ulteriori difficoltà se solo mi è possibile. » Centaine corse da lui e l'abbraccio forte forte, schiacciando la guancia contro la sua per non fargli vedere che piangeva. « Siamo creature del deserto. Sopravvivremo, tesoro mio. » Ma il suo umore cambiò in fretta durante il resto della giornata, quando poté fare la grande dame, la castellana di Weltevreden, accogliendo i numerosi invitati, servendo cherry e biscotti e scambiando doni coi visitatori, ridendo ed esercitando tutto il suo fascino, e poi, col pretesto di dirigere la servitú, ritirandosi nel suo studio con le tende tirate per lottare contro gli accessi di cattivo umore, le premonizioni cattive e i dubbi. Shasa sembrava capirla, e la sostituiva quando se ne andava. Era diventato improvvisamente maturo e responsabile, e accorreva in suo aiuto pur non essendo mai stato richiesto di farlo prima d'allora. Appena prima di mezzogiorno un visitatore portò notizie che veramente consentirono a Centaine di dimenticare, almeno per qualche momento, i cattivi presagi. Era il canonico Birt, direttore della scuola di Bishops, che prese da parte Centaine e Shasa. « Signora Courteney, lei sa quale nome il giovane Shasa sia già stato capace di farsi a Bishops. Disgraziatamente l'anno prossimo è l'ultimo che passerà con noi, e sentiremo la sua mancanza. Tuttavia, sono sicuro che non sarà una sorpresa per lei apprendere che l'ho scelto quale capo degli alunni della scuola per l'anno entrante, e che il consiglio direttivo si è dichiarato d'accordo con la mia scelta. » « Non di fronte al direttore, mamma! » sussurrò imbarazzato Shasa, mentre Centaine l'abbracciava tutta contenta: ma lei non rinunciò a baciarlo sonoramente sulle guance nella maniera che lui definiva « francese » e affettava di disprezzare. « E non è tutto, signora Courteney », disse il canonico Birt, raggiante davanti a questo spettacolo di orgoglio materno. « Il consiglio mi ha incaricato di chiederle di farne parte. Lei sarà la prima donna... pardon, la prima lady, a dirigere la nostra scuola. » Centaine stava per accettare immediatamente quella carica onorifica, ma poi la possibilità di catastrofe finanziaria che aleggiava su di lei la indusse a prender tempo. « So che è una persona occupatissima... » cercò di incoraggiarla il canonico. « Sono onorata, signor direttore », gli disse. « Ma vi sono considerazioni personali... posso darle una risposta con l'anno nuovo? » « Purché non si tratti di una scusa per rifiutare... » « No, glielo garantisco. Se posso accetterò. » Quando l'ultimo visitatore prese commiato, Centaine poté guidare la famiglia, comprendente Sir Garry, Anna e gli amici piú intimi, al campo di polo, dove doveva svolgersi il prossimo atto nella tradizione di Natale a Weltevreden. Tutto il personale di colore era là riunito, coi bambini, i vecchi genitori e i pensionati dell'azienda, troppo anziani per lavorare ancora, nonché i numerosi altri che Centaine manteneva. Tutti indossavano i vestiti della domenica e costituivano un magnifico assortimento di stili, tagli e colori; le bambine coi nastrini nei capelli, i ragazzini,
per una volta, con le scarpe ai piedi. L'orchestrina della tenuta, composta di violini, banjo, chitarre e armoniche, diede il benvenuto a Centaine, e il canto, la vera e propria voce dell'Africa, era melodioso e bello. Centaine aveva un dono per ciascuno, che porgeva con una busta contenente la gratifica natalizia. Alcune delle donne piú anziane, imbaldanzite dall'occasione e dall'anzianità di servizio, la abbracciarono, e l'equilibrio di Centaine era cosí precario che tali spontanee espressioni d'affetto la fecero piangere ancora, cosa che scatenò l'imitazione di tutte le altre donne. La faccenda stava velocemente degenerando in un'orgia sentimentale, e Shasa fece frenetici segnali all'orchestrino di attaccare qualcosa di allegro. Scelsero Alabama, la vecchia canzone di Capo Malay che ricordava la traversata della nave da guerra confederata fino alle acque del Capo dove aveva catturato, il 5 agosto 1863, la Sea Bride sorpresa nella Table Bay. Poi Shasa ordinò l'apertura della prima botte di vino dell'azienda, e subito l'atmosfera divenne festosa e allegra. Tutte le lacrime seccarono sulle guance. Quando le pecore sugli spiedi e sulle griglie cominciarono a colare sulla carbonella tutto il loro grasso, fu aperta la seconda botte, e le danze si scatenarono in pieno. Le coppiette si eclissavano nelle vigne. Centaine riunì la compagnia padronale e tornò verso il castello. Passando accanto alla vigna ugonotta, udirono le risatine e i sospiri dietro il muro di pietra, e Sir Garry osservò compiaciuto: « Non ci sarà scarsità di mano d'opera a Weltevreden nel prossimo futuro. Sembra che si stia piantando una buona semenza ». « Sei uno svergognato come loro », rimbecco Anna, per poi mettersi a ridacchiare come le giovani braccianti nella vigna quando il marito le pizzicò il fianco opimo sussurrandole qualcosa all'orecchio. Quell'episodio inondò Centaine di solitudine. Pensò a Blaine e le venne voglia di piangere ancora. Ma Shasa parve avvertire la sua pena, le prese la mano e la fece ridere con una delle sue barzellette sceme. La cena familiare faceva pure parte della tradizione. Prima di mangiare Shasa lesse un brano del Nuovo Testamento, come aveva sempre fatto dall'età di sei anni. Poi, con Centaine, distribuì sotto l'albero i regali ai presenti, e il salone si riempí delle esclamazioni di gioia e di stupore, e del fruscio dei pacchetti scartati. Il menu comprendeva tacchini arrosto e manzo, seguiti dal ricco pudding nero di Natale. Fu Shasa a trovare nella sua porzione la sovrana d'oro bene augurante, come tutti gli anni, senza mai sospettare che era sua madre a piazzarvela di nascosto nel passargli il piatto. E quando alla fine tutti si alzarono per trascinarsi sazi e barcollanti verso le camere da letto, Centaine scivolò fuori della porta e corse attraverso la piantagione fino al cottage. Blaine la stava aspettando. Si gettò tra le sue braccia. « Dovremo stare insieme, a Natale e tutti gli altri giorni. » Le impedí di continuare baciandola, e lei si vergogno della propria debolezza. Quando si sciolse dal suo abbraccio sorrideva di nuovo.
« Non ho potuto impacchettare il tuo regalo di Natale. Ha una forma inadatta, e il nastro non sta a posto. Dovrai accettarlo au naturel. » « E dov'è? » « Seguimi, messere, e ti sarà debitamente consegnato. » « E' il piú bel regalo che mi abbiano mai fatto », dichiarò lui poco dopo, « e utilissimo anche! » Il giorno di Capodanno i giornali non c'erano, ma Centaine restò attaccata alla radio. Nei notiziari non si parlava però ancora della parità aurea, né di altri argomenti politici d'attualità. Blaine era via, occupato tutto il giorno in riunioni e discussioni sulla sua candidatura alle prossime elezioni per il rinnovo parziale del parlamento nel seggio di Gardens. Shasa era ospite di vicini. Era dunque sola coi suoi dubbi e i suoi timori. Lesse fin dopo mezzanotte e poi giacque nel buio, dormendo a tratti, scossa dagli incubi, svegliandosi di soprassalto e poi scivolando di nuovo in un sonno tormentoso. Molto prima dell'alba rinunciò al tentativo di trovare riposo e si vestí per andare a cavallo. Sello il suo stallone preferito e nel buio si recò alla stazione di Claremont, a otto chilometri di distanza, ad aspettare il primo treno da Città del Capo. Si trovava sul marciapiede quando dal vagone postale buttarono giú il pacco dei giornali. Gli strilloni neri vi sciamarono sopra e se lo divisero in un attimo. Centaine gettò a uno di loro uno scellino d'argento e sdegnando il resto aprì impaziente il giornale. Il titolo prendeva metà della prima pagina. Centaine sobbalzò. IL SUDAFRICA ABBANDONA LA PARITA' AUREA ALLE STELLE IL VALORE DELLE MINIERE D'ORO Scorse le sottostanti colonne di testo, quasi incapace di recepire altro: poi, sempre avvolta in una nebbia di stupore, tornò a cavallo a Weltevreden. Solo davanti ai cancelli della tenuta digerí appieno quanto aveva letto: Weltevreden le apparteneva ancora, sarebbe sempre stata sua: si alzò sulle staffe e prese a urlare di gioia, lanciò il cavallo al galoppo, gli fece saltare il muro di pietra e lo spronò tra i filari a tutta velocità. Lo lasciò nella stalla e corse al castello. Doveva parlarne con qualcuno... ah, se ci fosse stato Blaine! Ma in sala da pranzo trovò Sir Garry, sempre il primo a scendere per colazione. « Hai sentito la notizia, mia cara? » le gridò appena entrò. « L'ho sentita alla radio alle sei. Abbiamo abbandonato la parità aurea. Hertzog si è deciso, finalmente! Per Dio, chissà quanti patrimoni si fanno e si disfano in queste ore. Chiunque possieda azioni delle miniere d'oro triplicherà o quadruplicherà il suo denaro. Oh, mia cara, c'è qualcosa che non va? » Centaine si era abbandonata sulla sedia a capotavola. « No, no! » disse, scuotendo la testa vigorosamente. « Non c'è niente che non va! Non piú. Tutto va bene... magnificamente, meravigliosamente, stupendamente bene! »
Verso l'ora di pranzo Blaine le telefono a Weltevreden. Non l'aveva mai fatto in precedenza. La sua voce sembrava piatta e strana sulla linea disturbata: non disse altro che: «Alle cinque, al cottage ». « Sì, ci sarò », rispose lei, poi voleva aggiungere qualcosa ma Blaine riattaccò. Andò al cottage un'ora prima con dei fiori freschi, lenzuola pulite per il letto e una bottiglia di champagne Bollinger: quando Blaine entrò dalla porta, lei era seduta ad aspettarlo in soggiorno. « Non ci sono parole per esprimerti adeguatamente la mia gratitudine », gli disse. « E' proprio così che voglio, Centaine », le rispose serio. « Niente parole! Non ne parleremo piú. Io cercherò di convincermi che questo non sia mai successo: tu fammi il piacere di non accennarvi mai piú. Mai, per tutto il tempo che vivremo amandoci. » « Ti do la mia solenne parola d'onore » disse lei, e poi tutto il sollievo e la gioia le proruppero dentro e lo baciò, ridendo. « Ti spiace aprire lo champagne? » Alzò la coppa che gli porgeva e brindò: « Alla vita e al nostro amore, tesoro. » La Borsa di Johannesburg riapri il 2 gennaio e nel corso della prima ora ben pochi affari si poterono concludere, perché il salone era un campo di battaglia e gli agenti di cambio si davano sulla voce a vicenda disputandosi l'attenzione altrui. Ma alla chiusura il mercato si era assestato ai nuovi livelli. Swales, della Rabkin i Swales, fu il primo dei suoi agenti a chiamare Centaine. Come il mercato, era euforico ed effervescente. « Mia cara signora Courteney » (date le circostanze Centaine lasciò passare l'indebita familiarità) « mia carissima signora Courteney, la sua tempestività ha avuto del miracoloso! Come già sa, purtroppo non siamo stati in grado di effettuare per intero il suo ordine di acquisto: abbiamo potuto procurarci solo quattrocentoquarantamila azioni ERPM a un prezzo medio di venticinque scellini. L'entità stessa del suo ordine ha fatto salire il prezzo a ventisei. Tuttavia », e lo sentì chiaramente pavoneggiarsi nel far l'annuncio, « ho il piacere di poterle dire che stamane il valore delle ERPM ha raggiunto i cinquantacinque scellini e stanno ancora salendo! Entro la fine della settimana credo che varrano sessanta... » « Le venda », disse tranquilla Centaine, e lo sentì inghiottire all'altro capo del filo. « Se mi è permesso darle un consiglio... » « Le venda », ripeta lei. « Le venda tutte. » E riappese, guardando fuori della finestra e cercando di calcolare il guadagno: ma prima di ottenere un totale il telefono squillo di nuovo e uno dopo l'altro tutti gli agenti di cambio le telefonarono per farle rapporti trionfanti. Poi arrivò una chiamata da Windhoek. « Dottor Twentyman-Jones, che piacere sentire la sua voce! » L'aveva riconosciuto subito. « Ebbene, signora Courteney, bisogna dire che ci voleva proprio », dichiarò Twentyman-Jones col suo solito tono funereo. « La
miniera H'ani ora tornerà a fruttare, anche con la parsimoniosa quota impostaci dalla De Beers. » « Abbiamo girato l'angolo », disse entusiasta Centaine, sguazzando nei luoghi comuni senza la minima vergogna. « Siamo fuori delle canne. » « Non dir quattro se non l'hai nel sacco », ribatté TwentymanJones con altrettanta impudenza. « Meglio non vendere la pelle dell'orso prima di averlo... » « Dottor Twentyman-Jones, le voglio bene! » rise deliziata Centaine. Al di là di mille miglia di cavo le rispose un silenzio scandalizzato. « Verrò li appena posso liberarmi. Adesso ci saranno un sacco di cose da fare. » Riappese e andò a cercare Shasa. Lo trovo nelle scuderie a parlare con gli stallieri negri: era seduto al sole a dare il lucido alla sella e ai finimenti da polo. « Chéri, sto per andare a Città del Capo in macchina. Vuoi venire anche tu? » « Cosa ci vai a fare, mamma? » « E' una sorpresa. » Era l'unico modo di procurarsi la completa attenzione di Shasa, che passò ad Abel il lavoro che stava facendo e saltò in piedi. Il suo buon umore si rivelò contagioso. Stavano ridendo come matti quando, qualche tempo dopo, entrarono dal concessionario Porters Motors a Città del Capo, in Strand Street. Il venditore corse loro incontro. « Signora Courteney, è troppo tempo che non la vediamo! Mi consenta di augurarle buon anno! » « E' cominciato piuttosto bene, grazie », gli sorrise. « A proposito, signor Tims, quando può consegnarmi la mia nuova Daimler? » « Gialla, beninteso? » « Coi tubi dello scappamento neri, beninteso! » «E le solite finiture? Bar e beauty-case nel cruscotto in radica? » « Certo, tutto quanto, signor Tims. » « Telegraferò subito a Londra. Diciamo... quattro mesi, signora Courteney? » « Facciamo tre, signor Tims. » Shasa riusciva appena a controllarsi, ma quando furono fuori, sul marciapiede, sbottò: « Mamma, sei diventata matta? Siamo poveri! » « Ebbene, chéri, tanto vale esserlo con un pò di classe. » « E adesso dove andiamo? » « Alla posta. » Al banco dei telegrammi Centaine ne compilò uno per Sotheby's, in Bond Street. VENDITA ANNULLATA STOP PREGASI INTERROMPERE OGNI PREPARATIVO STOP Poi andarono a mangiare al Mount Nelson. Blaine aveva promesso di incontrarla appena gli fosse stato pos-
sibile liberarsi dalle riunioni politiche per la costituzione del nuovo governo. Fu di parola, e quando se lo vide davanti nella pineta del cottage, il suo viso si illuminò di gioia. « Che cos'hai, Blaine? » « Camminiamo un pò, Centaine. Sono stato rinchiuso tutto il giorno. » Salirono sulle pendici del monte Karbonkelberg, proprio dietro casa. Era poco piú di una collina: in cima sedettero su un ceppo a contemplare il tramonto, che era magnifico. « Questo è il piu bel Capo che scoprimmo nella nostra circumnavigazione del mondo... » citò in maniera approssimativa dalla relazione di Vasco De Gama, ma Blaine non la corresse come aveva sperato. « Dimmi tutto, Blaine », gli chiese, prendendogli il braccio e inducendolo a guardarla. « Isabella » disse malinconicamente lui. « Hai avuto sue notizie? » Il morale di Centaine era precipitato al solo sentirla nominare. « I dottori non possono far niente per lei. Tornerà col prossimo postale da Southampton. » Nel silenzio il sole calò nel mare d'argento, rubando la luce al mondo, e l'animo di Centaine era altrettanto tenebroso. « Che ironia », sussurrò. « Per tuo tramite ho tutto quel che si può desiderare al mondo, tranne ciò che desidero di piú: te, amore mio. » Le donne pestavano nei mortai di legno i grani di miglio fresco, trasformandolo in fine farina bianca, e ne riempirono una borsa di cuoio. Portandola, Swart Hendrick, seguito da suo fratello Moses, lasciò il kreal al calar della luna e si arrampicò silenziosamente sulle alture vicine. Mentre Hendrick faceva la guardia, Moses si arrampicò sull'albero e recuperò i pacchettini di carta contenenti i diamanti. Avanzarono sulla cresta delle colline finché furono al di là di ogni possibilità di osservazione dal villaggio, e anche allora celarono con gran cura il focherello che accesero tra i massi. Hendrick aprí i pacchetti e riversò le pietre in un piccolo contenitore ricavato da una zucca, mentre in un altro Moses preparava una potentina di miglio. Meticolosamente Hendrick bruciò tutta la carta dei pacchettini nel fuoco e ridusse le ceneri in polvere con uno stecco. Fatto ciò, fece un cenno al fratello piú giovane e Moses mise la potentina sul fuoco. Quando la farina non lievitata prese a formare delle bolle Hendrick ci versò dentro i diamanti. Moses borbottava in fretta mentre la polentina cuoceva indurendosi. Forse era un incantesimo. « Queste sono pietre di morte. Non ne trarremo alcuna gioia. Gli uomini bianchi le amano troppo: sono le pietre della morte e della follia. » Hendrick l'ignorò e continuò a modellare le focacce, stringendo gli occhi per via del fumo e sorridendo tra se. Quando tutte le polentine diventarono brune le voltò sull'altro lato, lasciandole cuocere fino a farle diventar dure come mattoni: poi spense il fuoco e le mise
a raffreddare. Infine le ripose nella borsa di cuoio e con calma tornarono al villaggio addormentato. La mattina dopo partirono prestissimo, e le donne li seguirono per il primo chilometro di strada, ululando in segno di pena e cantando canzoni d'addio. Quando rimasero indietro nessuno dei due si voltò. Proseguirono verso il basso orizzonte bruno, portando i carichi in equilibrio sulla testa. Non ci pensarono affatto, ma la stessa scena avveniva ogni giorno in mille e mille villaggi della parte meridionale dell'Africa. Qualche giorno dopo i due uomini, sempre a piedi, raggiunsero il centro di reclutamento. Si trattava di uno spaccio composto di un'unica stanza, situato a un remoto crocevia ai margini del deserto. Il mercante bianco incrementava i suoi magri affari comprando pelli dalle tribú nomadi circostanti e arruolando gente per « Wenela ». Era la sigla della Witwatersrand Native Labour Association, impresa che stendeva i suoi tentacoli ovunque nelle vaste plaghe africane. Dalle vette dei Monti del Drago nella terra dei basato alle paludi dello Zambesi e del Chobe, dalle terre assetate del Kalahari alle foreste pluviali dell'altipiano di Niassa, l'organizzazione raccoglieva rivoli di neri e li incanalava prima in un rio, e poi in un fiume maestoso che sfociava nelle favolose miniere d'oro delle Montagne dell'Acqua Bianca, ossia il Witwatersrand del Transwaal. Il mercante fece finta di dare un'occhiata alle due nuove reclute che ciondolavano con aria ebete davanti a lui. Era un atteggiamento assunto a bella posta; quegli sguardi vacui e spenti erano la miglior difesa del nero africano alla presenza dell'uomo bianco. « Nome? » domandò il mercante. « Henry Tabaka. » Hendrick aveva scelto un nuovo nome per nascondere la parentela con Moses ed evitare ogni possibile collegamento con Lothar De La Rey e la rapina. « Nome? » Il mercante si rivolse a Moses. « Moses Gama. » Lo pronunciò gutturalmente. « Hai già lavorato in miniera? Parli inglese? » « Sí, Basie. » Erano ossequiosi, e il mercante sogghignò. « Bene! Molto bene! Sarete ricchi quando tornerete da Goldi. Avrete un sacco di mogli e ci farete zum-zum dalla mattina alla sera, eh? » Con un altro ghigno lascivo diede a ognuno di loro una carta verde della Wenela e un biglietto per l'autobus. « L'autobus arriva presto. Aspettate fuori », ordinò, perdendo ogni interesse per loro. Gli avevano già fatto guadagnare la sua commissione di una ghinea a testa, soldi facili e abbondanti, e i suoi doveri verso di loro erano terminati. Aspettarono quarantotto ore sotto uno stento albero spinoso di fianco allo spaccio dal tetto di lamiera: poi dalle circostanti desolazioni spuntò il bus della compagnia ferroviaria. Si fermò cigolando e sputando fumo azzurrino al crocevia. Piazzarono il magro bagaglio in cima alla corriera, tra moltissimi altri, capre e polli in gabbia: poi salirono sul mezzo già zeppo, stringendosi su una panca di legno. La corriera ripartí col suo carico sobbalzante di negri pigiati. Due giorni dopo si fermò davanti ai cancelli di filo spinato del
centro di raccolta della Wenela alla periferia di Windhoek: qui gran parte dei passeggeri, tutti uomini giovani, scesero e si misero a guardarsi attorno sperduti finché un grosso soprastante negro, con tutti i crismi d'ottone dell'autorità sulla divisa e una lunga frusta di pelle d'ippopotamo in mano, il terribile sjambok, venne a metterli in fila e a farli entrare dal cancello. Il direttore bianco assisteva dalla veranda dell'ufficio, con una bottiglia di birra tedesca in mano e gli stivali sul parapetto, facendosi vento col cappello a tesa larga. Uno alla volta, sospinti dal soprastante negro, i nuovi arrivati gli sfilarono davanti. Ne scartò solo uno, un tipo tutto pelle e ossa che aveva appena la forza di reggersi in piedi. « Questo bastardo sta crepando di Tbc », disse il direttore sorseggiando la birra. « Rimandatelo al suo paese. » Quando toccò a Hendrick farsi avanti, il direttore posò la bottiglia di birra. « Come ti chiami, ragazzo? » gli chiese. « Tabaka. » « Ehi, capisci l'inglese! » Gli occhi del direttore si strinsero. Individuava a prima vista i piantagrane: era il suo mestiere. Lo capiva dagli occhi, dal minimo lampo di intelligenza e aggressività. Lo capiva da come camminavano e atteggiavano le spalle: questo grosso negro astioso e borioso era un piantagrane quant'altri mai. « Sei ricercato dalla polizia, ragazzo? » tornò a chiedere. « Hai rubato bestiame? Hai ammazzato tuo fratello... o fatto zum-zum con sua moglie? » Hendrick si limitò a guardarlo senza parlare. « Rispondi, ragazzo. » « No. » « Quando parli con me mi chiami Baas, chiaro? » « Sí, Baas », disse con prudenza Hendrick. Il direttore aprì il registro dei ricercati fornitogli dalla polizia e cominciò a scartabellarlo lentamente, inumidendosi il pollice con la saliva e alzando gli occhi all'improvviso per cogliere sul viso di Hendrick segni di colpevolezza o apprensione. Invano: questi si era rimesso la maschera africana, cupa, rassegnata e imperscrutabile. « Cristo, come puzzano », commentò rimettendo il registro sul tavolino. « Portali via », disse al soprastante negro. Prese bottiglia e bicchiere e rientrò in ufficio. « Sei stato imprudente, fratello mio », gli sussurrò Moses mentre venivano condotti in fila alle capanne dal tetto di lamiera. « Quando si incontra la iena bianca affamata, non gli si mette la mano in bocca. » Hendrick non rispose. Erano fortunati: il contingente era quasi completo, c'erano già trecento negri nelle baracche dietro il filo spinato. Alcuni erano lí da dieci giorni e cosí a Hendrick e Moses non toccò aspettare troppo. Quella notte stessa un treno di tre vagoni arrivò al binario morto che fiancheggiava il campo. I soprastanti negri vennero a svegliarli prima dell'alba. « Raccogliete la roba! Shayile! E' l'ora! La locomotiva è venuta a portarvi a Goldi, il posto dell'oro. »
Li rimisero in fila e fecero l'appello. Poi li condussero al treno che aspettava. Qui dirigeva le operazioni un altro uomo bianco. Era alto e abbronzato, con la camicia kaki arrotolata a mostrare bicipiti muscolosi e ciuffi di capelli biondi che spuntavano dal cappello nero e informe calato sulla fronte. I suoi lineamenti piatti erano slavi, aveva denti storti e macchiati dal fumo. Gli occhi erano di un azzurro torbido. Non faceva che ridere come uno scemo, succhiandosi una carie in un molare. Aveva uno sjambok assicurato al polso, e di tanto in tanto, senza nessuna ragione, sferzava con l'estremità appuntita della frusta di pelle le gambe nude degli uomini che gli passavano davanti. Era un atto casuale, figlio dell'indifferenza e del disprezzo piú che di una deliberata crudeltà, e benché i colpi fossero molto leggeri schioccavano e facevano un gran male. La vittima saltava e saliva sul treno con impareggiabile alacrità. Hendrick arrivo davanti a lui e il soprastante gli fece un sorriso anche più largo, mostrando i denti guasti. Il direttore del campo gli aveva già segnalato il grosso ovambo come un piantagrane. « Attento, quello è cattivo », gli aveva detto. « Sorveglialo. Non lasciare che ti sfugga di mano. » Con uno scatto del polso mandò la frusta a sferzare Hendrick sull'incavo del ginocchio. « Che-chal » ordinò il soprastante. « Prestol Presto! » La frusta si era però attorcigliata intorno al polpaccio di Hendrick. Non aveva ferito la gamba, il soprastante era un esperto, ma aveva prodotto un livido purpureo sulla pelle scura e vellutata. Hendrick si fermò di colpo, col piede sul primo scalino del treno, una mano attaccata alla maniglia e l'altra a reggere il carico in spalla. Si girò lentamente fino a guardare negli occhi il pallido soprastante. « Si! » l'incoraggiò a bassa voce questi, e per la prima volta nei suoi occhi azzurri scattò un lampo d'interesse. Cambiò appena posizione, bilanciandosi meglio sulle punte dei piedi. « Sí! » ripeté. Voleva mettere a posto il grosso bastardo negro proprio qui, davanti a tutti gli altri. Dovevano passare cinque giorni in quel vagone, cinque giorni torridi e assetati che avrebbero messo a dura prova la pazienza di tutti. Meglio chiarire le cose fin dal primo momento, dunque. Bisognava dar l'esempio, e questa che la sorte gli offriva era l'occasione buona. Cosí avrebbero capito subito cosa capitava a chi sgarra: dopo di che - glielo diceva l'esperienza - non avrebbero piú dato fastidio. « Vieni qua, sporco negro », gli disse a voce ancora piú bassa, rendendo l'insulto personale e maggiormente offensivo. Questo aspetto del suo lavoro gli piaceva, ed era anche molto bravo a farlo. Quel borioso bastardo non sarebbe stato in grado di partire, dopo essersela vista con lui: con cinque costole rotte, e magari anche la mascella, non sarebbe servito piú a nessuno. Ma Hendrick lo batté sul tempo. Saltò sul treno con un balzo, lasciando il soprastante sul marciapiede, già in posizione d'attacco: si capiva benissimo che, se gli fosse saltato addosso, gli avrebbe piantato in gola il manico della frusta. La mossa di Hendrick lo prese alla sprovvista. Cercò di frustargli un'altra volta le gambe ma arrivò con un attimo di ritardo e colse
l'aria. Seguendo il fratello, Moses notò lo sguardo omicida del soprastante. « Non è ancora finita », avvertí Hendrick mentre mettevano il fagotto sulla rete e si sedevano sulla dura panca di legno. « Tornerà a cercarti. » A metà mattinata i tre vagoni furono agganciati a un lungo treno di carrozze normali, e dopo qualche altra oretta di tira e molla, soste e false partenze, imboccarono la salita per l'altipiano e piegarono a sud. Nel tardo pomeriggio il treno si fermò mezz'ora in una sperduta stazione dove caricarono sul primo vagone due bidoni di roba da mangiare. Sotto gli occhi slavati del soprastante i due inservienti neri distribuirono a tutti un piatto di stagno con sopra una polentina di mais e un mestolo di fagioli in umido. Quando arrivarono a Swart Hendrick, il soprastante bianco levò di mezzo gli inservienti e servi personalmente il piatto. « Bisogna trattare bene questo sporco negro », disse ad alta voce. « Vogliamo che sia forte per lavorare a Goldi. » Mise nel piatto una razione di fagioli in piú e lo porse a Hendrick. « Ecco qua, sporco negro. » Ma quando Hendrick tese la mano per prenderlo, lasciò cadere apposta il piatto a terra. I fagioli fumanti schizzarono sui piedi di Hendrick e il soprastante entrò con gli stivali nel bolo fangoso di fagioli e polentina e lo spiaccicò. Poi fece un passo indietro e si mise a sogghignare con la mano sul manganello. « Ehi, rotto in culo, imbranato, hai diritto a una razione sola! Se vuoi leccare il pavimento bene, se no salti il pasto. » Si mise ad aspettare la reazione di Hendrick, e poi fece una smorfia di disappunto quando egli si chinò, raccolse la poltiglia nel piatto con le dita, e se ne ficcò un boccone in bocca mettendosi a masticare con volto inespressivo. « Voialtri negri schifosi siete capaci di mangiare tutto, anche la vostra merda », berciò e continuò per la sua strada. I finestrini del vagone avevano le inferriate, e le porte alle estremità erano chiuse a chiave e col catenaccio dall'esterno. Il soprastante portava tutte le chiavi in un mazzo che teneva alla cintura, e si chiudeva accuratamente alle spalle ogni porta. L'esperienza gli insegnava che buona parte delle reclute a questo punto cominciavano a pentirsi della loro decisione, e per nostalgia, paura dell'ignoto, scarsa familiarità con ciò che li circondava, tentavano di disertare, a volte perfino gettandosi dal treno in corsa. Il soprastante faceva i suoi giri di sorveglianza ogni poche ore, contando meticolosamente le teste, anche in piena notte: si fermava apposta davanti a Hendrick, puntandogli la lanterna in faccia per svegliarlo ogni volta che passava. Insomma, il soprastante non si stancava mai di provocare Hendrick. Era diventata una specie di sfida, una tacita gara tra loro. Se n'era accorto dagli occhi del negro, dove lampeggiavano sprazzi minatori e la risolutezza di un uomo forte e pronto a ricorrere alla violenza: intendeva provocarlo finché non si fosse ribellato apertamente, per poi stroncarlo.
« Abbi pazienza, fratello », sussurrava Moses a Hendrick. « Trattieni la tua ira. Coltivala con cura, perché cresca appieno, e poi mettila a profitto. » Hendrick cominciava a tener conto sempre piú dei consigli del fratello. Moses era intelligente e sapeva persuadere, aveva la lingua sciolta e sempre pronta a sceglier la parola giusta: possedeva inoltre quella dote speciale che induceva gli altri ad ascoltarlo quando parlava. Hendrick vide questi doni del fratello spiegarsi apertamente nei giorni che seguirono. Dapprima parlava soltanto con chi gli sedeva vicino, nel vagone torrido e sovraffollato: raccontava com'era il posto a cui erano diretti, come li avrebbero trattati gli uomini bianchi, che cosa si pretendeva da loro e quali erano le conseguenze se non si ubbidiva. Le facce nere intorno ascoltavano con attenzione, e ben presto i piú lontani presero a tendere l'orecchio a propria volta, incitandolo così: « Parla piú forte, Gama. Parla così che tutti possano sentire le tue parole ». Moses Gama alzò quindi la voce, una voce chiara e autorevole di baritono, e tutti l'ascoltarono con rispetto. « Troveremo tanti fratelli neri a Goldi, piú di quanti si creda possibile... Ci sono zulu, xhosa, ndebele, swari e niassa, cinquanta tribú diverse che parlano lingue mai sentite: tribú così differenti da noi quanto lo è l'uomo bianco. Alcune sono nemiche tradizionali, di sangue, della nostra: aspetteranno come iene di saltarci addosso e sbranarci alla prima occasione. Certe volte vi troverete sotto terra, giú dove è sempre notte, alla mercé di questa gente: per difendervi dovrete circondarvi di uomini di cui vi potete fidare; dovrete mettervi sotto la protezione di un capo forte, e in cambio assicurargli ubbidienza e fedeltà. » Ben presto tutti giunsero a riconoscere che questo capo forte era proprio Moses Gama. Nel giro di pochi giorni era il capo indiscusso di tutti gli uomini del terzo vagone, e mentre parlava con loro e rispondeva alle loro domande, dissipando i loro timori e dubbi, li valutava, li soppesava, li sceglieva o li scartava. Cominciò a risistemare i posti a sedere, chiamando accanto a se quelli che aveva scelto. Subito costoro acquistarono un certo prestigio: e formarono come una guardia pretoriano d'élite intorno al nuovo imperatore. Hendrick lo stava a guardare mentre manipolava gli uomini che lo attorniavano, sottomettendoli alla forza della sua volontà e della sua personalità: e si riempiva di ammirazione e di orgoglio nei confronti del fratello minore, abbandonando le ultime riserve e accordandogli di buon grado la sua piena lealtà, il suo affetto e la sua ubbidienza. Per la sua vicinanza a Moses anche Hendrick cominciò a essere rispettato e stimato dagli altri. Era il suo braccio destro e lo riconobbero per tale, e pian piano Hendrick cominciò a capire che in pochi giorni Moses Gama si era forgiato un impi, una banda di guerrieri su cui poteva sempre contare, e che l'aveva fatto quasi senza sforzo. Seduto nel vagone affollato - che già puzzava come una gabbia di animali del sudore rancido di un centinaio di corpi accaldati, e
del piscio che veniva dal gabinetto -, ipnotizzato dagli occhi e dalle parole messianiche del fratello, a Hendrick accadde di ripensare agli altri grandi capi negri emersi dalle nebbie della storia d'Africa, per guidare prima una piccola banda, poi una tribú e finalmente una vasta orda di guerrieri per tutto il continente, devastando e conquistando tutto. Pensava a uomini come Mantatisi, Chaka, Mzilikazi, Shangaan e Angoni, e con un lampo di chiaroveggenza li vedeva agli inizi, seduti come loro accanto a qualche remoto fuoco da campo, sperduto nella vastità africana: li vedeva affascinare il piccolo gruppo di uomini che li circondava, catturarne l'immaginazione e lo spirito con una serica rete di parole e idee, infiammarli di sogni. « Sto assistendo all'inizio di un'impresa che non capisco ancora », pensava. « Tutto quello che ho fatto finora era solo un'iniziazione; tutti i combattimenti, le uccisioni e le sofferenze altro non erano che un allenamento. Adesso sono pronto per l'impresa, qualunque sia, e Moses Gama mi ci porterà. Non ho alcun bisogno di conoscerla: basta che continui cosí e ci arriverò. » E ascoltava attentamente mentre Moses nominava persone di cui non aveva mai sentito parlare ed esponeva idee nuove e stranamente eccitanti. « Lenin », diceva Moses: « Non un uomo, ma un dio in terra ». E tutti ascoltarono sbalorditi la storia di questa divinità che, alla testa di tantissime tribu confederate lassú nel nord, era riuscito a riscattarle tutte abbattendo un potentissimo re malvagio. Ascoltarono incantati ed eccitati la storia di una guerra quale il mondo non aveva mai visto prima, e gli atavici istinti di guerrieri si ridestarono nel loro sangue e arsero rossi e incandescenti come l'ascia di guerra sotto i colpi del fabbro. « Rivoluzione », chiamava Moses questa guerra, e man mano che gliela spiegava tutti capivano che avevano la possibilità di prender parte anche loro alla gloriosa battaglia, che potevano diventare eversori di tiranni ed essere assunti a far parte, come Lenin e i suoi seguaci, della natura divina. La porta in capo al vagone si aprí di colpo e il soprastante bianco entrò fermandosi subito a guardarli spavaldo con le mani ai fianchi. Sogghignava senza allegria, e quasi tutti abbassarono la testa e guardarono il pavimento, nascondendo gli occhi. Ma quelli piú vicini a Moses, l'élite dei seguaci scelti, cominciavano a capire dove si sarebbe combattuta la guerra, e chi erano i re da abbattere. Il soprastante bianco avvertì il mutamento di atmosfera che si era prodotto nel vagone. L'aria era satura dell'odore dei corpi neri non lavati e della puzza di latrina: era elettrica come l'aria di novembre a mezzogiorno, nei giorni propizi ai suicidi che precedono le grandi piogge. Rapidamente puntò lo sguardo su Hendrick che sedeva verso il centro del vagone. « Basta una mela marcia », pensò amaramente, « a rovinare tutta la cesta. » Tastò il manganello che portava alla cintura. Aveva imparato a sue spese che lo sjambok era troppo lungo per poterlo usare efficacemente nei ristretti confini dei vagoni. Il manganello era quel che ci voleva. Trentacinque centimetri di legno duro con l'anima di piombo: perfettamente in grado di rompere le ossa. Se
colpiva in testa poteva uccidere all'istante, al bisogno, o limitarsi a stordire con una leggera alterazione della potenza del colpo. Era un vero artista del manganello, come dello sjambok, ma ogni strumento andava usato a tempo e luogo. Adesso toccava al manganello. Il soprastante si avviò giú per il vagone, facendo finta di ignorare Hendrick, guardando in faccia gli altri uomini uno per uno mentre passava e scorgendovi la nuova fierezza. Si adirò ancor di piú con chi gli rendeva difficile il lavoro «Avrei dovuto metterlo a posto subito», pensò amaramente. « Ancora un pò e sarebbe troppo tardi. Far questo a me, che amo la vita tranquilla e le cose che filano lisce... ma adesso dovrò proprio intervenire. » Passando, lanciò un'occhiata distratta a Hendrick, e con la coda dell'occhio notò che il grosso ovambo si rilassava leggermente vedendolo proseguire lungo il corridoio centrale. « Allora te l'aspetti, ragazzo. Sai che deve succedere, e io non ti deluderò. » All'altro capo del vagone si fermò, come soprappensiero, e tornò lentamente indietro con un sogghigno che sembrava riguardare lui soltanto. Si fermò proprio davanti a Hendrick a succhiarsi rumorosamente la carie nel dente. « Guardami, sporco negro », l'invitò allegramente, e Hendrick alzò il mento e lo fissò. « Dov'è il tuo m'phale? » gli domandò. Hendrick fu preso alla sprovvista. Era consapevolissimo del tesoro in diamanti che portava nella borsa di cuoio, e istintivamente alzò gli occhi alla reticella sopra la testa. « Molto bene », disse il soprastante, prendendo la borsa e sbattendola per terra davanti a Hendrick. « Aprila », gli ordinò sempre sogghignando, una mano sul fianco e l'altra sul manganello. « Forza, forza », l'incoraggiò con un sorrisetto sempre piú freddo e lupesco, mentre Hendrick restava immobile. « Aprilo, sporco negro, facci vedere che cosa nascondi. » Era una provocazione che non falliva mai. Anche il piú docile degli uomini reagiva per difendere le sue cose, per quanto insignificanti e prive di valore potessero essere Lentamente Hendrick si chinò a slegare il laccio della borsa. Poi si raddrizzò di nuovo e rimase passivamente seduto. Il soprastante bianco prese la borsa per il fondo e la tirò su. Scuotendola vigorosamente, rovesciò tutto quello che conteneva al suolo. Prima rotolò fuori la coperta, che il soprastante aprì con la punta degli stivali. C'era un giubbotto di pecora e qualche indumento di ricambio, nonché un coltello di venti centimetri nella sua custodia di cuoio «Arma pericolosa», disse il soprastante. «Lo sai che non si possono portare armi pericolose in treno. » Raccolse il coltello, infilò la lama nella fessura del finestrino e la spezzò: poi buttò via quanto ne restava lanciandolo fuori, sopra la testa di Hendrick. Questi non si mosse, benché il soprastante lo fissasse per quasi un minuto con aria di sfida. L'unico rumore, sul vagone, era il ritmico ticchettio delle ruote del treno sulle rotaie e il lontano ciuff-
ciaff della locomotiva. Nessuno osservava il piccolo dramma svolgersi, tutti guardavano dritto davanti a se con il viso pietrificato in una maschera inespressiva. « Cos'è questa schifezza? » disse il soprastante scostando con lo stivale una delle focacce di miglio brunastre di Hendrick. Benché il negro non muovesse muscolo, il soprastante colse nel suo sguardo il primo lampo d'ira. « Ci siamo », pensò. « Adesso si muoverà. » Raccolse una focaccina e l'annusò con fare pensieroso. « Pane da sporchi negri », mormorò. « Non è permesso. Le regole della compagnia non consentono di portare cibo in treno. » Scagliò la focaccia tra le sbarre, fuori del finestrino. Secca com'era, andò in frantumi sulla massicciata, mentre il soprastante, ridacchiando, ne prendeva un'altra. Nella testa di Hendrick si produsse un'esplosione. Si controllava ormai da troppo tempo, e la perdita dei diamanti lo fece imbestialire. Si scagliò sull'uomo bianco, ma il soprastante se l'aspettava. Tese il braccio destro e conficcò la punta del manganello in gola a Hendrick. Poi, mentre questi ricadeva sul sedile cercando invano di respirare, con le mani alla gola, gli diede una manganellata sulla testà non forte da ucciderlo ma solo da stordirlo. Hendrick ciondolò in avanti, svenuto. Ma il soprastante non lo lasciò cadere. Con la sinistra lo tenne a posto sul sedile, e con la destra si mise a lavorare di manganello. Faceva il rumore di un'ascia sul legno abbattendosi sul cranio di Hendrick. Apriva la pelle e faceva scorrere fontane di sangue rosso rubino. Il soprastante gli diede tre colpi, ben misurati e calcolati, poi gli ficco la punta del manganello nella bocca semiaperta, facendogli saltare di netto i due incisivi centrali superiori. « Sempre segnarli », era il suo motto. « Così non dimenticano. » Solo allora lasciò andare l'uomo svenuto che cadde faccia a terra in mezzo al corridoio. Immediatamente si volto e si bilanciò sulle punte come una vipera che assuma la temibile forma a « S » del serpente che si prepara a mordere. Col manganello pronto in mano passò in rivista i negri che lo circondavano con un'espressione sconvolta. Rapidamente tutti abbassarono lo sguardo e l'unico movimento tornò a essere quello del treno e dei corpi che sussultavano al tempo delle scosse. Una pozza di sangue stava formandosi sotto la testa di Hendrick, scorrendo poi a rivoli sul pavimento del vagone. Il soprastante sogghignò di nuovo, guardando l'uomo steso a terra con un'espressione quasi paterna. Lo spettacolo era venuto proprio bene, rapido e completo, esattamente come l'aveva architettato: e ne provava piacere. Quell'uomo ai suoi piedi era opera sua, ed era fiero della sua creazione. Raccolse le altre focacce di miglio dalla pozza di sangue e a una a una le buttò fuori del finestrino. Infine si chinò sull'uomo svenuto e pulí il manganello sporco di sangue sulla schiena della sua camicia. Poi si rialzò, se lo rimise alla cintola e si avviò lentamente giú per il corridoio. Adesso tutto andava bene. Gli umori erano mutati, l'atmosfera
era distesa. Non ci sarebbero state piú grane. Aveva fatto il suo mestiere, e l'aveva fatto bene. Uscí sul predellino del vagone e con un sorrisetto chiuse a chiave la porta e assicurò il catenaccio. Nello stesso momento, dentro il vagone, gli uomini tornarono alla vita. Moses diede ordini chiari e due persone rialzarono Hendrick, sistemandolo sul sedile; un altro andò a prendere dell'acqua dal serbatoio accanto al gabinetto, mentre Moses estraeva un contenitore di corno dal suo bagaglio. Mentre gli altri tenevano su la testa a Hendrick, Moses versò nelle ferite del cuoio capelluto una polvere bruna dal corno. Era un miscuglio di erbe e cenere, finemente macinato, e lo spinse con il polpastrello dell'indice nelle ferite aperte. L'emorragia si arrestò. Con una pezzuola bagnata pulí la bocca ferita al fratello. Poi gli prese la testa tra le braccia e aspettò. Moses aveva seguito il conflitto tra suo fratello e l'uomo bianco con un interesse quasi cinico, trattenendo deliberatamente e dirigendo la reazione di Hendrick fino a che il dramma aveva raggiunto la sua soluzione esplosiva. Il suo attaccamento al fratello era ancora molto scarso. Il loro padre era stato un uomo ricco e amante del piacere, che aveva fatto figli con ciascuna delle sue quindici mogli. Moses, quindi, aveva piú di trenta tra fratelli e sorelle. Ben pochi di loro suscitavano in lui un affetto speciale, al di là dei vaghi doveri di solidarietà tribale e familiare. Hendrick aveva parecchi anni piú di lui, e aveva lasciato il kraol quando Moses era ancora un bambino. Da allora, qualche racconto delle sue imprese l'aveva raggiunto, e la reputazione di Hendrick era cresciuta su queste narrazioni di gesta selvagge e disperate. Ma le storie sono solo storie finché non sono provate vere, e le reputazioni possono fondarsi anche sulle chiacchiere e non sui fatti. Ma si avvicinava la verifica. Moses ne avrebbe valutato i risultati e ci avrebbe impostato sopra i loro futuri rapporti. Aveva bisogno di un uomo duro, di un uomo d'acciaio come braccio destro. Lenin aveva scelto Iosif Stalin. Anche lui avrebbe scelto un uomo d'acciaio, un uomo simile a un'ascia, di cui servirsi per sbozzare i suoi progetti nel duro legno del futuro. Se Hendrick avesse fallito la prova, Moses l'avrebbe messo da parte con la stessa indifferenza con cui si scarta un'ascia la cui lama si è spezzata al primo colpo contro un tronco d'albero. Hendrick aprí gli occhi e guardò il fratello con le pupille dilatate. Gemeva per il dolore, e negli occhi gli fiammeggiava l'ira. Con uno sforzo riuscí a rimettersi seduto. « Dove sono i diamanti? » Sibilava come una delle piccole e mortali vipere cornute del deserto. « Perduti », disse senza scomporsi Moses. « Dobbiamo tornare indietro a recuperarli. » Ma Moses scosse la testa. « Sono sparsi come la semente dell'erba: non c'è modo di ritrovarli. No, fratello mio, siamo prigionieri su questo vagone, non possiamo tornare indietro. I diamanti sono perduti per sempre. » Adesso Hendrick era piú tranquillo. Stava seduto al suo posto,
esplorando con la lingua i nuovi spazi che si ritrovava in bocca, e meditando sulla fredda logica di suo fratello. Moses aspettava, pacifico. Stavolta non avrebbe dato nessun ordine, non avrebbe indicato alcuna direzione, nemmeno implicitamente. Hendrick doveva arrivarci da solo. « Hai ragione, fratello », disse infine Hendrick. « I diamanti sono perduti. Ma io ucciderò l'uomo che ci ha fatto questo. » Moses non mostrò alcuna emozione. Non diede alcun incoraggiaimento. Si limitò ad aspettare. « Lo farò con l'astuzia. Troverò il modo di ucciderlo, e nessuno lo saprà mai, tranne lui e noi. » Ancora Moses aspettava. Finora Hendrick aveva imboccato il sentiero che gli aveva preparato: tuttavia doveva ancora fare qualcos'altro. Continuò ad aspettare, e arrivò come aveva sperato. « Sei d'accordo che devo uccidere questo cane bianco, fratello mio? » Aveva chiesto l'autorizzazione a Moses Gama: aveva riconosciuto la sua dipendenza da lui, mettendosi in mano sua, e Moses sorrise e toccò il braccio del fratello come a conferirgli una sorta di ordinazione cavalleresca. « Fallo, fratello mio », gli ordinò. Se falliva, gli uomini bianchi l'avrebbero impiccato; se riusciva, si sarebbe dimostrato proprio l'ascia, l'uomo d'acciaio di cui aveva bisogno. Hendrick dormicchiò cupo sul sedile, senza piú parlare per almeno un'ora. Ogni tanto si massaggiava le tempie dove il dolore dei colpi di manganello lo mordeva ancora; dandogli l'impressione che la testa gli volesse scoppiare. Poi si alzò e mosse lentamente per il vagone, esaminando ciascuno dei finestrini sbarrati, scuotendo la testa e gemendo piano per il male. Tornò al suo posto e rimase seduto un altro pò, poi tornò ad alzarsi e si recò al gabinetto. Si chiuse dentro. C'era un buco in mezzo, per il quale si vedeva correr via la massicciata. Molti di coloro che avevano usato il gabinetto avevano mancato il buco, sicché il pavimento era scivoloso di urina giallastra e feci spiaccicate. Hendrick rivolse la sua attenzione al finestrino. Il vetro non c'era, ma neanche le sbarre: la loro funzione era svolta da un pezzo di rete metallica intelaiato e fissato al vagone per mezzo di quattro viti. Hendrick tornò a sedere accanto a Moses. « Il babbuino bianco mi ha preso il coltello, me ne serve un altro », gli sussurrò. Moses non fece domande. Ciò faceva parte della prova. Hendrick doveva fare tutto da solo e, se falliva, accettarne le conseguenze senza tirare in ballo Moses o chiederne l'aiuto. Parlò sottovoce con gli uomini che l'attorniavano e nel giro di pochi secondi un coltello finí in mano a Hendrick. Tornò al gabinetto e svitò le viti che tenevano a posto il telaio della rete sul finestrino. Fece molta attenzione a non scalfire la vernice del telaio o il taglio delle viti. Le tolse tutte, appoggiò il telaio in un angolo e, quando una curva interna nascose il finestrino del gabinetto alla vista degli altri vagoni, si sporse fuori e guardò su. Il tetto del treno aveva un bordo rialzato. Levo la mano e trovò un appiglio a tastoni. Si aggrappò anche con l'altra mano e si issò fuori del treno, coi soli piedi ancora dentro il finestrino del gabi-
netto. Diede un'occhiata al tetto e se lo studiò un attimo, poi tornò nel gabinetto. Rimise a posto il telaio di rete, avvitando le viti in modo da poterle poi mollare con la forza delle dita, e tornò a sedersi al suo posto. Verso sera il soprastante bianco e i suoi tirapiedi negri tornarono col rancio. Quando arrivò davanti a Hendrick gli sorrise senza rancore... « Come sei bello adesso, negraccio! Le ragazze faranno a gara per baciare quella bocca. » Si girò a parlare alla silenziosa fila di negri seduti. « Se c'è qualcun altro che vuoi diventare bello come lui, non ha che da dirmelo, glielo faccio gratis. » Poco prima che calasse la notte i due inservienti negri tornarono a ritirare i piatti. «Domani sera sarete a Goldi», disse uno di loro a Hendrick. « Là c'è un dottore bianco che ti curerà le ferite. » Nel suo viso nero impassibile c'era una traccia di simpatia. « Hai fatto male a far arrabbiare Tshayela, il Picchiatore. Hai imparato la lezione nella maniera peggiore, amico. Ricordatevene tutti. » Lasciando il vagone, chiuse a chiave la porta. Hendrick guardò il tramonto fuori del finestrino. In quattro giorni di viaggio il paesaggio era cambiato completamente: adesso si trovavano nello highveld, il culmine dell'altipiano. Qui l'erba era marroncina, avvizzita dalle gelate invernali: la terra rossa si apriva nei tipici dongas, specie di calanchi creati dall'erosione, e i campi geometrici erano circondati da recinti di filo spinato. Le fattorie isolate sembravano perdute nel velò sconfinato: come grottesche sentinelle, le vegliavano dall'alto i mulini a vento dalla struttura di ferro. Il bestiame era piuttosto magro, pezzato e dalle lunghe corna. Hendrick, che aveva passato la vita nei deserti, rimase negativamente colpito da tutti quei recinti. C'era troppa gente sempre tra i piedi! I paesani in cui passava il treno, poi, erano grandi e popolosi come la stessa Windhoek, che per lui era la massima metropoli che si potesse concepire. « E vedrai Goldi », gli disse Moses, mentre fuori cadeva l'oscurità e tutti si preparavano per la notte, tirandosi sulla testa le coperte per il freddo dell'altipiano che entrava dai finestrini aperti. Hendrick aspettò il primo giro d'ispezione del soprastante bianco. Quando gli puntò la lanterna in faccia, non fece nemmeno finta di dormire ma lo guardò con espressione indifferente, sbattendo gli occhi. Il soprastante lo superò, chiudendosi alle spalle la porta del vagone. Hendrick si alzo tranquillamente dal posto. Davanti a lui Moses si irrigidí nel buio, ma non parlò. Hendrick attraversò il vagone e andò a chiudersi nel gabinetto. Rapidamente svitò le viti che fermavano il telaio di rete metallica e lo tolse di mezzo. Si sporse dal finestrino. L'aria fredda della notte lo investí e chiuse gli occhi per difenderli dal pulviscolo e dalle faville proiettate dalla locomotiva, che gli si abbattevano roventi sulle guance e sulla fronte. In breve trovò i noti appigli sul tetto del treno. Si tirò su senza fatica, e poi con un'oscillazione a piedi uniti
montò sul tetto del treno. Trovò un appiglio nella presa d'aria, nel mezzo del vagone, e si sistemò coricato sul ventre. Per qualche momento rimase ad ansimare a occhi chiusi, cercando di vincere il mal di testa. Poi si alzò sulle ginocchia e cominciò ad avanzare pian piano verso la testa del vagone. Il cielo notturno era sereno. Il chiar di luna inargentava la terra disseminandola di ombre blu: il vento relativo gli sibilava sulla testa. Si alzò in piedi, mantenendo l'equilibrio nonostante i sussulti del vagone. Chino, a gambe larghe, si mise a procedere in avanti. Una premonizione misteriosa gli fece alzare lo sguardo: distinse appena in tempo due sagome nere avventarsi contro di lui nel buio. Erano torrette per il rifornimento d'acqua. Mentre si gettava carponi - ancora un istante e sarebbe stato decapitato dai bracci d'acciaio - vide sfrecciare via i grossi serbatoi in cima alle torrette. Rabbrividí dal freddo e dallo scampato pericolo di morte. Dopo un minuto si riprese e ricominciò a strisciare senza piú alzar la testa finché raggiunse l'estremità del vagone. Coricato sulla pancia, a gambe e braccia aperte, si affacciò cautamente dal tetto. Sotto di lui c'erano i balconcini delle due carrozze agganciate: il varco tra i rispettivi tetti era lungo circa come il suo braccio. Proprio sotto di lui le piattaforme si articolavano l'una sull'altra quando il treno affrontava una curva. Chi si spostasse da un vagone all'altro doveva passare proprio sotto Hendrick coricato sul tetto. Grugní soddisfatto e si voltò a guardar dietro. All'altezza dei piedi c'era un'altra presa d'aria. Si sfilò la cintura dai calzoni, fece un otto e l'infilò alla presa d'aria. Poi nell'altro cappio infilò il piede fino alla caviglia. Cosí assicurato tornò a mettersi nella posizione di prima, e si calò a testa in giú nel varco tra i vagoni. Arrivava a toccare la ringhiera del parapetto. Vide le lampadine protette da una rete metallica e sistemate sotto la sporgenza del tetto che illuminavano perfettamente la passerella. Si tirò su di nuovo e rimase affacciato alla sporgenza del tetto. Solo la fronte e gli occhi restavano visibili dal basso: ma la stessa illuminazione della passerella avrebbe abbagliato chi guardasse in su, impedendogli di scorgere Hendrick in agguato come un leopardo a una sorgente. Passò un'ora, poi un'altra, almeno a giudicare dada rotazione della volta celeste, come faceva appunto Hendrick. Era tutto intirizzito dal vento gelido che da un pezzo lo sferzava, ma sopportò da stoico, senza mai consentirsi di allentar la guardia o di perdere concentrazione. L'attesa faceva parte integrante della caccia, questo gioco di vita e di morte che lui aveva già giocato mille volte. A un tratto, sul fracasso del treno sferragliante, sentí un colpo di ferro su ferro e il giro della chiave nella serratura deva porta sottostante e si preparò ad agire. L'uomo avrebbe cercato di superare la passerella al piú presto, per non trattenersi piú del necessario in quella posizione esposta e vulnerabile: bisognava dunque essere piú veloci di lui. Sentí scorrere la porta nella sua sede, poi tornare a posto; sentí girare nuovamente la serratura. Un attimo dopo sotto di lui apparve
il berretto del soprastante bianco. Immediatamente Hendrick si gettò in avanti tuffandosi fino alla vita nel varco tra le carrozze, trattenuto solo dalla cintura alla caviglia. Lothar gli aveva insegnato la presa di lotta che ora applicò, passando un braccio intorno al collo del soprastante e infilando l'altra mano nell'incavo del gomito, immobilizzandolo in un attimo e tirandolo su. L'uomo bianco emise un verso strozzato sputando goccioline di saliva che brillavano alla luce delle lampadine. Hendrick, frattanto, lo tirava su come un impiccato alla forca. Il berretto del sorvegliante volò via come un pipistrello nella notte. Il bianco scalciava, contorcendosi violentemente e cercando di divincolarsi dalla ferrea stretta di quelle braccia muscolose, mentre i capelli biondi sbattevano al vento. Hendrick lo tirò su finché poté fissarlo negli occhi a pochi centimetri di distanza, e gli fece un bel sorriso, senza vergognarsi di mostrargli il buco nero, dove poco prima aveva gli incisivi, e gli altri denti ancora insanguinati. Alla luce delle lampadine esterne il bianco lo riconobbe: Hendrick ne colse il barbaglio disperato negli occhi celesti sbarrati. « Sí, amico mio », sussurrò. « Sono io, lo sporco negro. » Tirò su l'uomo di altri due centimetri e gli appoggiò la nuca all'orlo del tetto. Poi cominciò risolutamente a far pressione sull'osso del collo. L'uomo bianco si contorceva dibattendosi come un pesce fiocinato, ma Hendrick lo sorreggeva con facilità, guardandolo dritto negli occhi, e continuava a piegargli la testa all'indietro facendo leva con l'avambraccio sotto il mento. Hendrick sentí la spina dorsale dell'altro caricarsi in piena tensione. Non poteva piú piegarsi all'indietro ormai: e ancora per un secondo lo tenne al punto di rottura. Poi con uno strattone sollevò di altri tre centimetri il mento del soprastante e la spina dorsale si spezzò come un ramo secco. L'uomo bianco prese a danzare scalciando per aria, dimenandosi tutto, mentre Hendrick assisteva all'agonia degli occhi celesti che si spegnevano, diventando opachi e senza vita. Nonostante il fracasso, sentí chiaramente il rumore dello sfintere che si rilassava vuotando le budella. Hendrick fece oscillare il cadavere come un pendolo e quando superò il parapetto della passerella lo lasciò andare. Fu risucchiato via finendo tra le ruote d'acciaio come un pezzo di manzo nel tritacarne. Restò coricato qualche tempo a riprendere fiato. Sapeva che il corpo mutilato del soprastante sarebbe stato ritrovato a pezzi lungo un chilometro di binario. Recuperò la cintura e se la rimise nei calzoni. Poi tornò strisciando sul tetto fino al finestrino del cesso, ci infilò i piedi e con un volteggio tornò nel treno. Rimise a posto il telaio di rete metallica e strinse le viti col coltello. Uscí dal gabinetto e tornò al suo posto. Moses Gama lo stava guardando mentre si avvolgeva la coperta intorno alle spalle. Hendrick gli fece cenno d'intesa e si coprí la testa col lembo della coperta. Pochi minuti dopo dormiva. Lo svegliarono le grida degli scagnozzi negri e gli scossoni del vagone che veniva dirottato con gli altri su un binario morto. Vide il cartello col nome del paese sul marciapiede: VRYBURG, un nome che
non gli diceva proprio niente. Ben presto marciapiedi e vagoni furono invasi dalle uniformi azzurre della polizia ferroviaria, e tutti i negri furono fatti scendere. Sistemati in fila sul marciapiede, fu fatto l'appello, verificando che non mancava nessuno. Hendrick indicò al fratello, con uno scatto del mento, chiazze di sangue e brandelli di carne e pelle sui carrelli delle ruote. Per tutto il giorno seguente i vagoni rimasero sul binario morto mentre la polizia interrogava tutti i negri a uno a uno nell'ufficio del capostazione. A metà del pomeriggio diventò chiaro che si erano convinti che la morte del soprastante era dovuta a una disgrazia, perché gli interrogatori persero tutto il mordente. Del resto, con le porte di tutti i vagoni chiuse e i finestrini sbarrati, e date le testimonianze concordi dei due inservienti negri e di tutti i lavoratori, quella della disgrazia era l'unica ipotesi che stava in piedi. Nel tardo pomeriggio furono fatti risalire sul treno e ripartirono nella notte verso il Witwatersrand, le favolose Montagne dell'Acqua Bianca. Hendrick fu svegliato dalle esclamazioni eccitate degli altri. Quando a gomitate arrivò ad affacciarsi al finestrino, la prima cosa che vide fu un'alta montagna, cosí grande da occupare tutto il cielo settentrionale, una montagna strana e meravigliosa, che alla luce del primo mattino emanava un bagliore dorato. Era una montagna dalla cima perfettamente piatta e le pendici regolari e simmetriche. « Ma che razza di montagna è questa? » stupí Hendrick. « Una montagna presa dalle viscere della terra », gli disse Moses. « Sono i detriti della miniera, fratello mio; è una montagna costruita dagli uomini con le rocce che scavano sottoterra. » Dovunque si guardava si vedevano queste scintillanti montagne di detriti sparse per la prateria ondulata o incombenti proprio sopra al treno, e accanto a ciascuna stavano alte giraffe d'acciaio, dal collo lungo lungo e il corpo scheletrico: al posto della testa ruote gigantesche giravano in continuazione contro il pallido cielo dell'altipiano. « Torri di escavazione », spiegò Moses. « Sotto ciascuna c'è un buco che arriva fin nelle viscere della terra, nei budelli di roccia che contengono il giallo Goldi per cui gli uomini bianchi si affannano, sudano, mentono e non di rado uccidono. » Mentre il treno continuava a correre videro una meraviglia dopo l'altra: edifici piú alti di quanto ritenessero mai possibile, strade come fiumi d'acciaio percorsi da torrenti di veicoli rombanti, ciminiere che riempivano il cielo di nuvole nere di tempesta, e una moltitudine infinita di uomini piú numerosi delle gazzelle migranti del Kalahari; uomini neri con elmetti d'acciaio e stivaloni di gomma, a reggimenti interi, che marciavano verso le torri o tornavano tutti infangati dai pozzi, trascinandosi stanchi e ridotti a maschere giallastre. Per le strade giravano uomini bianchi, affollavano i marciapiedi delle stazioni, e c'erano anche tante donne coi loro vestiti colorati e un'espressione chiusa e sdegnosa in viso. Tanta gente era anche affacciata alle finestre delle case di mattoni rossi che fiancheggiavano la ferrovia. Era troppo, troppo in una volta da assimilare per loro: tra conti-
nue esclamazioni si affollavano a guardare dai finestrini. « E dove sono le donne? » chiese a un tratto Hendrick. Moses sorrise. « Quali donne, fratello? » « Le donne nere della nostra tribu! » « Qui non ci sono donne come quelle che dici tu. Ci sono solo le isifebi, che lo fanno per soldi. Qui tutti fanno tutto per i soldi, per l'oro. » Ancora una volta furono dirottati dalla linea principale e convogliati in una zona recintata dove lunghi edifici bianchi dall'aspetto di caserme si susseguivano in schiere infinite. Sopra i cancelli si leggeva questo cartello: WITWATERSRAND NATIVE LABOUR ASSOCLATION CENTRAL RAND INDUCTION CENTRE Era il centro di raccolta della manodopera della Wenela. Furono fatti scendere e accompagnati a un lungo capannone da un paio di capoccia negri ghignanti che li invitarono a spogliarsi completamente. Le file di negri nudi avanzavano pian piano sotto gli occhi paterni dei capoccia, che li trattavano con divertita cordialità. « Qualcuno di voi si è portato dietro il bestiame », scherzavano « In testa le capre, e nel pelo pubico mandrie di vacche. » Intingevano pennelli in secchi di unguento antiparassitario e spalmavano testa e inguine delle reclute in fila. « Fregate, fregate bene », ordinavano. « Non vogliamo pidocchi, pulci e piattole da queste parti! » E le reclute entravano nello spirito dell'occasione, sghignazzando e spalmandosi a vicenda l'unguento appiccicoso. In fondo al capannone fu dato a ognuno un pezzo di sapone da bucato. « Le vostre mammette penseranno magari che profumiate come mimose fiorite, ma perfino le capre si scostano quando passate sopravvento. » I capoccia negri li spingevano ridendo sotto le docce calde. Fatta la doccia, li aspettavano i dottori. Stavolta la visita medica fu piu accurata: vennero auscultati i polmoni, e tutti gli orifizi del corpo furono aperti e sottoposti ad attento scrutinio. « Cos'è successo alla tua faccia e alla tua testa? » domandò un dottore a Hendrick. « No, non dirmelo. Non voglio saperlo. » Aveva già visto ferite del genere. « Sono quegli animali del treno. Va bene, ti mandiamo dal dentista a farti tirar via le radici degli incisivi spezzati. Quanto alla testa è troppo tardi per darci dei punti... ti toccherà tenerti un paio di cicatrici. A parte questo, sei una vera bellezza. » Diede una pacca alla carne soda e muscolosa di Hendrick. « Ti metteremo al lavoro sottoterra, cosí prenderai anche l'indennità. » Furono loro distribuiti indumenti grigi da lavoro e stivali, poi fu servito un pasto abbondantissimo. Tutti si rimpinzarono a piú non posso. « Non è come pensavo », disse Hendrick ingollando cucchiaiate
di stufato. « Roba buona da mangiare, bianchi che sorridono, niente botte... non è come sul treno. » « Fratello, solo uno stupido picchia e affama i suoi buoi... e questi uomini bianchi non sono stupidi. » Un altro ovambo prese il piatto vuoto di Moses e lo fece riempire di nuovo in cucina. Non era piú necessario che desse esplicitamente ordini per questi piccoli servigi: ogni suo desiderio era soddisfatto quasi per diritto di nascita da chi lo circondava. Già la morte del soprastante bianco Tshayela, il Picchiatore, era stata raccontata mille e mille volte con ogni sorta di ricami e stava diventando leggenda, aumentando il prestigio di Moses Gama e del suo luogotenente: gli uomini passavano accanto a loro senza gridare né scherzare, e quando l'uno o l'altro gli rivolgeva la parola, ascoltavano a capo chino. All'alba del mattino dopo furono svegliati, lasciarono le brande e il dormitorio e, dopo un'abbondante colazione a base di torta di mais e mass, latte acido coagulato e molto denso, furono guidati all'aula scolastica, un lungo padiglione sotto una tettoia di lamierino. « Uomini di quaranta tribú diverse vengono da ogni angolo della terra a Goldi, e parlano quaranta lingue diverse, dallo zulu al chuana, dall'herero al basato, e solo uno su mille capisce qualche parola d'inglese o di afrikaans», spiegò sottovoce Moses a suo fratello mentre gli altri facevano loro rispettosamente posto su un banco dell'aula. « Adesso ci insegneranno la lingua speciale che si parla a Goldi, la lingua franca che ogni uomo, bianco o negro di qualsiasi tribú, adopera qui. » Un venerabile capoccia zulu, vecchio e con la testa coperta di lanugine candida, si occupò di insegnar loro la lingua franca delle miniere d'oro, il fanakalo. Il nome significava a un dipresso « cosí cosà »: erano infatti le parole che i novellini sentivano piú spesso sul lavoro, fai cosí, fai cosa: Sebenza fanakalo! L'istruttore zulu stava su un podio accanto a tutti gli strumenti di lavoro del minatore, ordinatamente disposti in modo da poter essere agevolmente indicati. Le reclute poi ripetevano i vari nomi in coro. Elmetti e lanterne, martelli e scalpelli, picconi e guantoni, moschettoni di sicurezza e funi: tutti li avrebbero conosciuti ben bene prima ancora di scendere per il primo turno. Ma adesso il vecchio zulu si toccò il petto e disse: « Mina! » Poi indicò la classe e disse: « Wenal » E Moses guidò il coro di risposta: « Io! Tu! » « Testa! » disse l'istruttore e « braccio! » « gamba! » Si toccò le relative parti del corpo e gli alunni lo imitarono entusiasti. Per tutta la mattina studiarono la lingua, e dopo pranzo furono divisi in squadre di venti. Il gruppo comprendente Moses e Hendrick fu condotto a un altro padiglione dal tetto in lamiera simile a quello del mattino. Differiva soltanto l'arredamento: qui, lunghi tavoli correvano da parete a parete, sorretti da cavalletti, e la persona che li accolse era un bianco baffuto dai capelli color zenzero e gli occhi verdi. Indossava un lungo camice come quelli dei dottori, e come loro era sorridente e amichevole. Li fece accostare ai tavoli e si mise a parlare in inglese, lingua che solo Moses e Hendrick capivano ba-
dando però a non dimostrarlo col fare bellamente i tonti. « Va bene, ragazzi, mi chiamo Marcus Archer e sono lo psicologo. Adesso vi faremo degli esami attitudinali per vedere qual è il lavoro piú adatto a ciascuno di voi. » Il bianco sorrise ancora e fece un cenno all'inserviente negro che così tradusse: « Voi fate quello che dice Bomvu, il Rosso. Così noi possiamo capire quanto siete coglioni. » Il primo test consisteva nel mettere a posto dei pezzi di legno di varia forma nelle sedi predisposte, una specie di puzzle insomma, che lo stesso dottor Archer aveva escogitato per misurare le capacità manuali e meccaniche. Il tempo consentito per completare il rompicapo era sei minuti. Il capoccia negro spiegò la faccenda e fece una dimostrazione; le reclute si accomodarono ai tavoli, il dottor Archer gridò: «Enza! Via! » e fece partire il cronometro. Moses finì in un minuto e sei secondi. Secondo le accurate registrazioni del dottore, fino ad allora erano stati 116.816 gli operai esaminati, e nessuno era riuscito a completare il giochetto in meno di due minuti e mezzo. Lo psicologo scese dal podio e andò da Moses per vedere come aveva sistemato i pezzi. La soluzione era quella giusta: annuì e studiò pensosamente i lineamenti impassibili di Moses. Naturalmente l'aveva individuato subito, si puo dire al suo ingresso nel locale. Non aveva mai visto un uomo così bello in vita sua, bianco o negro che fosse, e il dottor Archer nutriva una speciale predilezione per la pelle scura. Era una delle principali ragioni per cui cinque anni prima era venuto in Africa. Il dottor Marcus Archer, infatti, era un omosessuale. L'aveva ammesso di fronte a se stesso solo al terz'anno di università. L'uomo che, al Magdalene College, l'aveva iniziato a quelle delizie dolciamare aveva contemporaneamente stimolato la sua mente con le meravigliose dottrine di Carlo Marx dotate di istruzioni per l'uso da Vladimir Il'ic Lenin. Il suo amante l'aveva fatto iscrivere segretamente al Partito Comunista inglese, e quando aveva lasciato Cambridge gli aveva presentato i compagni di Bloomsbury. Tuttavia il giovane Marcus non si era mai sentito completamente a suo agio nella Londra intellettuale. Gli mancava la lingua tagliente, lo spirito crudele, la polemica pronta, e dopo una breve e assai deludente relazione amorosa con Lytton Strachey era stato bandito dal gruppo come tutti gli altri ex di questo capriccioso snob. Si era ritirato tra i selvaggi dell'università di Manchester dove aveva abbracciato la nuova scienza della psicologia industriale. A Manchester aveva avviato anche una storia d'amore lunga, lirica e felice con un suonatore di trombone giamaicano, lasciando cadere i rapporti col Partito. Doveva constatare però che il Partito non dimentica mai i suoi eletti figli: perché all'età di trentun anni, già abbastanza prestigiosamente avviato nella professione ma col cuore spezzato per la crudele rottura col trombonista, amareggiato e a due passi dal suicidio, il Partito si era rifatto vivo, aveva allungato uno dei suoi tentacoli e l'aveva dolcemente ricondotto all'ovile. Gli dissero che c'erano buone prospettive di lavoro nel suo campo coi minatori sudafricani, per conto della South African Chamber
of Mines, l'Associazione dei proprietari di miniere. Ormai la sua predilezione per la pelle nera era diventata una specie di droga; inoltre, il neonato Partito Comunista sudafricano doveva crescere, e poteva farlo anche per mezzo suo se accettava il posto. Gli fu assicurata ampia libertà di scelta, ma per modo di dire, giacché nessuno dubitava che di lì a un mese si sarebbe imbarcato per Città del Capo, come difatti fece. Nei cinque anni seguenti aveva svolto un'opera veramente pionieristica per l'Assominiere, ricavandone prestigio e soddisfazioni di tutti i tipi. I suoi contatti con il Partito restavano clandestini, ovviamente, e anche il lavoro che fece « sott'acqua » per quest'altra organizzazione risultò preziosissimo. Man mano che invecchiava apprezzava sempre piú le idee marxiste, e toccando con mano la disumanità delle discriminazioni di classe e di razza le serviva con sempre maggior dedizione. Quale abisso tra il proletariato nero, povero, espropriato e sfruttato, e i privilegi della ricchissima borghesia bianca! Non aveva tardato a scoprire che in questa terra così ricca e bella tutti i mali peggiori che affliggono l'umanità proliferavano come in una serra, tanto da diventare atroci caricature dei mali stessi. E ora Marcus Archer si trovava di fronte questo aristocratico giovane dal viso di divinità egizia e dalla pelle d'ambra, e spasimava di desiderio. « Tu parli inglese, vero? » gli chiese. Moses annuì. « Si che lo parlo », disse piano, e Marcus Archer dovette girare sui tacchi e tornar subito in cattedra, perché la sua passione era impossibile da celare. Con dita tremanti prese un pezzetto di gesso e si mise a scrivere alla lavagna, riservandosi una pausa per meglio dominare le sue emozioni. Gli esami psicometrici continuarono per tutto il pomeriggio, e i nuovi venuti furono selezionati e distribuiti ai vari livelli a seconda dei risultati. Alla fine solo uno restò in corsa: Moses Gama, che aveva eseguito tutti i test piú difficili con la stessa rapidità e noncuranza del primo. Il dottor Archer si rese conto di avere scoperto un prodigio. Alle cinque la seduta finì e tutti sciamarono contenti fuori del locale: l'ultima ora aveva messo in difficoltà anche i piú intelligenti. Solo Moses era rimasto imperturbabile, e quando passò davanti alla cattedra il dottor Archer disse: « Gama! » Si era segnato il nome sul registro. « C'è un altro compito per te. » Condusse Moses fino al suo studio in fondo alla veranda. « Sai leggere e scrivere, Gama? » « Sì, dottore. » « Secondo una mia teoria, dallo studio della calligrafia di una pesona si può risalire al suo carattere », gli spiegò, « e vorrei che mi scrivessi qualcosa. » Sedettero a fianco a fianco alla scrivania e il dottor Archer diede carta e penna a Moses, chiacchierando amabilmente. « Questo è il testo che uso di solito. » Sulla scheda che porse a Moses era stampata una filastrocca infantile.
Moses intinse la penna nell'inchiostro e Archer si chinò a guardare. La sua grafia era larga e fluida, le lettere presentavano picchi appuntiti ed erano nitide e inclinate. C'erano tutti gli indicatori di risolutezza mentale e spietata energia. Sempre guardando lo scritto, Archer posò come per caso la mano sulla coscia di Moses, intensamente consapevole dei muscoli duri sotto la pelle vellutata. Moses sobbalzò e gli cadde una macchia dal pennino. Poi si riprese e finì di scrivere. Posò con cura la penna e per la prima volta guardò Marcus Archer negli occhi verdi. « Gama. » La voce del dottore tremava, mentre la mano dava una stretta alla coscia dell'altro. « Sei troppo intelligente per perder tempo a spalare minerale. » Fece una pausa, risalendo lentamente con la mano lungo la coscia di Moses. Moses lo guardò dritto negli occhi senza cambiare minimamente espressione, ma allargando pian piano le gambe. A Marcus Archer batteva il cuore all'impazzata. «Ti voglio come assistente personale, Gama», gli sussurrò, e Moses prese nella debita considerazione questa interessante proposta. Avrebbe avuto accesso ai registri dov'erano elencati tutti i lavoratori della miniera d'oro: sarebbe stato protetto e privilegiato, libero di andare e venire dove ogni altro negro non poteva metter piede. I vantaggi erano così numerosi da non poterli cogliere tutti in un istante. Per l'uomo che gli faceva l'offerta egli non provava quasi niente, né ribrezzo né desiderio, ma non avrebbe avuto scrupoli a pagare il prezzo che gli chiedeva. Se l'uomo bianco voleva essere trattato come una donna, Moses era pronto a rendergli questo servizio. « Sì, dottore, mi piacerebbe lavorare per lei », disse. L'ultima notte che passò al dormitorio del centro di raccolta della manodopera della Wenela, Moses chiamò accanto a sè tutti i suoi luogotenenti scelti. Si affollarono intorno alla sua branda. « Ben presto lascerete questo posto e andrete a Goldi. Non rimarrete insieme, perché ci sono molte miniere in queste montagne. Alcuni di voi scenderanno sottoterra, altri lavoreranno in superficie, nelle fonderie e negli impianti di trasformazione del minerale aurifero. Saremo dunque separati per un pò di tempò ma non dimenticate che siamo fratelli. Io, quale vostro fratello maggiore, non vi dimenticherò. Ho del lavoro importante per voi. Vi verrò a cercare, dovunque siate, e quando sarete pronti vi chiamerò. » « Eh eh! » mugolarono in coro in segno di accordo e obbedienza. « Siamo i tuoi fratelli minori, ti daremo retta! » « Ricordatevi sempre che siete sotto la mia protezione, e che ogni torto che vi faranno sarà vendicato. Del resto avete visto che cosa succede a chi reca offesa alla nostra confraternita. » « Abbiamo visto », mormorarono. « Abbiamo visto... chi ci tocca muore! » « Chi ci tocca muore », confermò Moses. « E sarà punito con la morte anche il fratello che dovesse tradirci. Morte ai traditori. » « Morte a tutti i traditori. » Ondeggiavano insieme, ricadendo di bel nuovo sotto la suggestione ipnotica che Moses Gama sapeva tra-
smettere loro. « Ho scelto un totem per la nostra confraternita », prosegui Moses. « Ho scelto il bufalo come totem, perché è nero e potente e tutti gli uomini lo temono. Noi saremo i Bufali. » « Siamo i Bufali! » Già erano fieri della distinzione. « Siamo i Bufali neri e tutti impareranno a temerci! » « Ed ecco il segno segreto di riconoscimento fra noi. » Strinse la mano a ciascuno come usano gli uomini bianchi, ma con una leggera pressione dell'anulare tra la prima e la seconda stretta. « Così riconoscerete i fratelli quando verranno a cercarvi. » Nel dormitorio oscurato si salutarono a quel modo, a turno, e quella divenne l'iniziazione alla nuova fratellanza. « Avrete mie notizie molto presto. Ma finché non mi faccio vivo dovete fare quello che vuole da voi l'uomo bianco. Dovete lavorare sodo e imparare il piú possibile, così sarete pronti alla chiamata quando verrà. » Moses li rimandò alle brande e rimase seduto accanto a Hendrick, parlando sottovoce. « Hai perso le piccole pietre bianche », gli disse. « A quest'ora gli uccellini e le altre bestiole avranno mangiato la focaccia, spargendo i diamanti dappertutto. La polvere li ricoprirà e su di essi crescerà l'erba. Sono perduti, fratello mio. » « Sì, sono perduti », lamento Hendrick. « Con tutto il sangue, gli sforzi e le privazioni che ci sono costati, sono finiti ai quattro venti. » « Perché erano maledetti », lo consolò Moses. « Dal momento in cui li ho visti ho capito che avrebbero portato solo morte e disastri. Sono balocchi dell'uomo bianco. A che cosa ti serviva la ricchezza dell'uomo bianco? Se avessi cercato di spenderla per comprarci le cose dell'uomo bianco, saresti stato immediatamente individuato dalla sua polizia. Ti avrebbero arrestato e impiccato, o mandato in prigione per tutta la vita. » Hendrick rimase in silenzio, considerando l'indiscutibile verità di ciò che aveva appena detto suo fratello. Cosa poteva comprare con quelle pietre? Ai negri non era consentito possedere legalmente la loro terra. Se avesse avuto una mandria di piú d'un centinaio di bestie, avrebbe destato l'invidia del capo del villaggio. Aveva già tutte le mogli che voleva, e anche di piú: quanto alla macchina, non faceva per loro: i negri dovevano badare solo a non attirare l'attenzione su di se, se erano saggi. « No, fratello mio, no », gli disse sottovoce Moses. « Non ti erano destinati. Ringrazia gli spiriti degli antenati se ti son stati tolti e restituiti alla terra che li ha partoriti. » Hendrick emise un ringhioso sospiro. « Pure, sarebbe stato bello avere ancora quel tesoro, anche in segreto. » « Ci sono tesori piú importanti dei diamanti e dell'oro dell'uomo bianco, fratello. » « E quali sono questi tesori? » « Seguimi e ti ci porterò io. » « Ma dimmi quali sono », insistè Hendrick. « Lo scoprirai tu stesso, a suo tempo », sorrise Moses. « Ma ora, fratello, dobbiamo parlare di quello che viene prima: i tesori segui-
ranno. Ascolta. Bomvu, il Rosso, il mio piccolo dottore che ama esser trattato da donna, Bomvu ti ha destinato al Goldi che si chiama Centrai Rand Consolidated. E' uno dei Goldi piú ricchi, con un sacco di pozzi profondissimi. Andrai sottoterra, e sarà meglio se ti farai un nome laggiú. Ho indotto il dottore a mandare dieci dei migliori Bufali alla CRC con te. Saranno i tuoi impi, i tuoi gruppi di guerrieri scelti. Comincerai da loro, ma non fermarti lì, raccogli intorno a te gli intelligenti, i forti e i coraggiosi. « E cosa me ne devo fare di questi uomini? » « Tenerli pronti. Avrai mie notizie presto, molto presto. » « E gli altri Bufali? » « Per mio suggerimento Bomvu li ha destinati a dieci a dieci in tutte le altre miniere delle montagne. Ci saranno gruppetti dei nostri dappertutto. Cresceranno, e tra poco saremo una gran mandria di Bufali neri che nemmeno il leone piú feroce ardirà sfidare. » La prima discesa di Swart Hendrick nelle viscere della terra fu l'esperienza che piú lo terrorizzò in vita sua. Non riusciva piú a parlare né a pensare, era così atterrito che non ce la faceva né a urlare né a controllarsi. Il terrore cominciò quando si ritrovò in fila con gli altri minatori, tutti forniti di stivaloni di gomma nera e tuta grigia, con in testa gli elmetti d'acciaio non verniciato e la lampada. Hendrick fu spinto innanzi da quelli che lo seguivano, verso il cancello del montacarichi. Ci arrivò davanti e guardò in alto. Trenta metri sopra la sua testa vide stagliarsi contro il cielo le enormi ruote che muovevano l'ascensore. Nel pozzo gli spessi cavi d'acciaio ritorto sembravano pitoni dalle scaglie scintillanti. Hendrick si sentiva una bestia sospinta verso la porta del mattatoio, a spalla a spalla con tanti suoi simili che spingevano ciecamente verso la morte di tutti. Ed ecco che arrivò il montacarichi e le porte si aprirono di colpo, rumorosamente. Fu trascinato nell'ascensore. Le porte si chiusero e il pavimento gli precipitò sotto i piedi, per arrestarsi subito dopo. Senti uno scalpicciò sopra la testa, guardò in su e capì che l'ascensore era a due piani, e stava caricando altri settanta minatori pigiati come sardine al piano di sopra. Ancora una volta udì il fragore delle porte che si chiudevano e sobbalzò quando il campanello emise i quattro lunghi trilli che segnalavano la discesa. Il pavimento gli sprofondò sotto i piedi un'altra volta, ma stavolta accelerò così vertiginosamente che gli pareva di volare fluttuando nell'aria. Le viscere gli si schiacciarono contro le costole e non riuscì piú a dominarsi. Nel buio la cabina sprofondava sempre piú, strepitando come un treno lanciato a razzo in galleria, e il suo terrore aumentava di secondo in secondo, per un tempo che gli pareva eterno. Si sentiva soffocare, schiacciare da milioni di tonnellate di roccia che incombevano sopra di lui: le orecchie gli fischiavano e schioccavano per la pressione che aumentava sensibilmente a ogni chilometro che scendevano diritti sparati sotto terra. Poi il montacarichi si fermò così di colpo che gli si piegarono le ginocchia e si sentì strappare la carne dalle ossa della faccia, come se
fosse fatto di gomma. I cancelli si aprirono di schianto e fu trascinato fuori, nel raccordo principale: una caverna di roccia umida e lucida piena di uomini, centinaia di uomini pullulanti come topi in una fogna che defluivano perdendosi nelle mille e mille gallerie della miniera, vere e proprie viscere della montagna. C'era acqua dappertutto, che brillava alla luce delle torce elettriche, scorreva nei canaletti di scolo ai lati del camminamento e faceva cic-ciac sotto i piedi: acqua nascosta, che scrosciava invisibilmente nel buio o stillava inquietante dall'alto. Anche l'aria era tutta intrisa d'umidità, torrida da sembrare un brodo gelatinoso: ti riempiva le orecchie rendendoti quasi sordo, scorreva a rivoletti nei polmoni a ogni respiro come melassa. Il suo terrore durò per tutta la camminata fino alle diramazioni dove i minatori si dividevano e sparivano a gruppetti, inghiottiti dalle tenebre. Le diramazioni secondarie all'imbocco erano spaziosi cunicoli dove l'oro era già stato estratto: gallerie puntellate da rozze travi di legno, di cui da ogni parte si vedevano cataste pronte per l'uso. Gli uomini della sua squadra guidarono Hendrick al punto di raccolta. Qui, sotto una nuda lampadina accesa, aspettò il caposquadra bianco, un corpulento afrikaner fiancheggiato da due aiutanti neri. Questo punto di raccolta consisteva di una camera a tre lati scavata nella viva roccia, con una lunga panca e una latrina dai buglioli celati da rozze tende di juta. La squadra attese seduta sulla panca mentre un aiutante faceva l'appello. Poi il caposquadra bianco chiese in fanakalo dov'era il nuovo addetto al martello pneumatico. Hendrick si alzò in piedi. Cronje (cosi si chiamava il caposquadra) venne a piazzarglisi davanti. Si guardarono dritto negli occhi; erano alti uguali, e tutti e due grandi e grossi. Il naso del caposquadra era schiacciato, rotto in qualche rissa dimenticata: esaminò Hendrick attentamente da capo a piedi. Notò subito gli incisivi mancanti e le cicatrici sulla testa e concepì una sorta di ritroso rispetto per quel negro. Erano due duri e si riconobbero subito a vicenda. Lassú, dove splendeva il sole e spirava la brezza fresca, erano un negro e un bianco; qui sotto, nelle viscere della terra, solo due uomini « Conosci già il martello? » chiese Cronje in fanakalo. « Lo conosco », rispose Hendrick in afrikaans. Nei pozzi d'addestramento, in superficie, l'aveva maneggiato per due settimane. Cronje sbatté le ciglia e poi sorrise, compiaciuto del fatto che conoscesse la sua lingua. « Dirigo la miglior squadra di spaccapietre della CRC », dichiarò, sempre ghignando. « Imparerai a spaccare la roccia anche tu, amico mio, se no sarò io a spaccarti testa e culo. Hai capito? » « Ho capito », disse Hendrick sogghignando a sua volta. Cronje alzò la voce. « Qua gli addetti al martello! » Si alzarono in piedi. Erano cinque, tutti giganteschi come Hendrick. Per manovrare i martelli pneumatici, infatti, ci voleva una gran forza. Rappresentavano l'élite dei minatori, guadagnavano il doppio degli altri (venivano pagati a cottimo) ed erano circondati da grande prestigio. Tutti i minatori comuni li rispettavano.
Cronje scrisse i loro nomi sulla lavagna che stava sotto la lampadina: Henry Tabaka in fondo alla lista e Zama, il grosso zulu, al primo posto. Quando Zama si tolse la giubba e la gettò all'aiutante, i suoi grossi muscoli si gonfiarono emanando lampi neri alla luce. « Ah! » disse guardando Hendrick. « Dunque abbiamo qui uno sciacalletto ovambo appena arrivato uggiolando dal deserto. » Gli astanti risero ossequiosamente. Zama era il primo martello della squadra e tutti ridevano alle sue battute. « Il babbuino zulu si spulcia in cima alle montagne per farsi vedere da lontano », disse tranquillo Hendrick. Ci fu un attimo di gelo prima, e poi una salva di incredule risate. « Dai, chiacchieroni, che spacchiamo un pò di sassi », intervenne Cronje. Fece strada su per il cunicolo che conduceva al budello di roccia nuda dove la vena aurifera non era che una stretta striscia orizzontale sulla roccia scabrosa, grigia e dall'aspetto anodino, senza il minimo sprazzo di preziosi bagliori. L'oro era ermeticamente racchiuso lí dentro. Il cielo del budello era piuttosto basso, un uomo doveva piegarsi in due per affacciarsi alla vena; ma il budello stesso era largo e si perdeva nel buio per centinaia di metri sia a destra sia a sinistra. Si sentivano berciare le altre squadre al lavoro sul lunghissimo fronte della vena aurifera, e qualche debole riflesso delle loro lampade proiettava ombre arcane. « Tabaka! » chiamò Cronje. « Qua! » Aveva segnato con pennellate di bianco i punti da forare per introdurre le cariche esplosive, illustrando con segni convenzionali inclinazione e profondità di ciascun foro. Piazzare e far brillare le mine erano faccende da progettare e attuare meticolosamente. I fori piú esterni ricevevano le cariche dette formatrici, che modellavano pavimento e pareti della nuova galleria. Esplodevano un attimo prima di quelle interne, che servivano a sgretolare la roccia producendo i detriti da trattare. « Shaya! » gridò Cronje a Hendrick: « Comincia! » E si trattenne per vedere come il nuovo maneggiava il martello pneumatico. Hendrick si chinò a raccogliere il pesantissimo arnese. Era una specie di mitragliatrice enorme, dal cui calcio partivano lunghi tubi di gomma che la collegavano al compressore centrale nel tunnel di raccordo. Abilmente Hendrick infilò la punta d'acciaio di sei metri nel mandrino, poi con l'aiutante (riuscivano a stento a sollevarlo in due) puntarono il martello contro la parete di roccia per praticare il primo foro. Hendrick si mise in posizione dietro la perforatrice, reggendone tutto il peso sulla spalla destra. L'aiutante fece un passo indietro e Hendrick aprì la valvola. Il fracasso che produceva l'aria compressa per spedire la lunga punta d'acciaio a fracassare la roccia, era bestiale. Tutto il corpo di Hendrick sussultava per il rinculo dell'attrezzo sulla spalla, anche se ci si appoggiava con tutto il suo peso e la sua forza. La testa gli ballava tanto da confondergli la vista, ma lui strinse gli occhi e procurò di dirigere la punta con l'inclinazione prevista dal caposquadra. Nel cavo della punta scorreva l'acqua di raffreddamento, che poi usciva trasformata in una melma gialla-
stra, schizzando in faccia a Hendrick. Dalla pelle nera gli fustellava il sudore, rinchiudendolo in una specie di nube temporalesca, e si mischiava al fango viscido che gli scorreva giú per la schiena nuda frangendosi in tanti schizzetti per i sussulti della perforatrice. Nel giro di pochi minuti tutta la pelle cominciò a prudergli e bruciare. Era la tortura del martellista: la sua carne era frullata mille volte al minuto dal contraccolpo della percussione, e ogni attimo che passava rendeva piú insopportabile la faccenda. Cercò di chiuderla fuori della mente, ma lo stesso si sentiva tutto il corpo come percorso da guizzanti micce di polvere nera. La lunga punta d'acciaio penetrò lentamente nella roccia, fino a raggiungere la profondità segnata. Allora Hendrick chiuse la valvola, ma non sentì il silenzio. Il fracasso gli continuava nel cervello riecheggiando mille e mille volte tra le pareti del cranio. L'aiutante corse avanti, afferrò la punta, la ritirò dal buco e la spostò contro il secondo segno. Ancora una volta Hendrick aprì la valvola e subito ricominciarono il fracasso e la tortura. Tuttavia pian piano il bruciante prurito svaporò in una sorta di ottundimento dei sensi, e lui si sentì disincarnato come se gli avessero iniettato cocaina sottopelle. Rimase incollato alla roccia per tutto il turno, sei ore ininterrotte. Alla fine, quando si ritirarono dal fronte aurifero, coperti di melma gialla dalla testa ai piedi e stanchi oltre ogni immaginazione (molto al di là della soglia della sensibilità al dolore), perfino Zama, il gigantesco zulu, barcollava con sguardo spento. Al posto di raccolta Cronje scrisse accanto ai loro nomi, sulla lavagna, il numero dei fori praticati e risultò che Zama ne aveva fatti sedici, Hendrick dodici e il terzo dieci « Hau! » esclamò Zama tra se mentre risalivano in ascensore verso la superficie « Al primo tentativo lo sciacallo è secondo martellista! » Hendrick ebbe appena la forza di rispondergli: « E al secondo tentativo sarà il primo » Invece, non riuscì mai a battere il grosso zulu. Restò quello che spaccava piú pietra di tutti. Ma alla fine del mese, mentre Hendrick sedeva alla birreria della ditta con gli altri ovambo della confraternita dei Bufali, lo zulu venne al suo tavolo con due boccali da cinque litri della spumeggiante birra di miglio che la compagnia mineraria vendeva ai propri dipendenti. Era densa come una polentina, e altrettanto nutriente pur essendo ben poco alcolica Zama mise davanti a Hendrick uno degli enormi boccali e disse: « 'Sto mese ne abbiamo spaccati di sassi insieme, eh, sciacallo? » « E il prossimo ne spaccheremo anche di piú, eh, babbuino? » Scoppiarono in una grassa risata, alzarono i recipienti spumeggianti, brindarono e li scolarono fino all'ultima goccia. Zama fu il primo zulu a entrare nella confraternita dei Bufali, cosa meno naturale di quanto si potrebbe pensare, essendo le barriere tribali altrettanto difficili da superare di una catena di alte montagne. Passarono tre mesi prima che Hendrick rivedesse suo fratello,
ma a quel punto ormai aveva esteso la sua influenza a macchia d'olio fra i lavoratori neri della CRC. Zama era il suo luogotenente, e ora i Bufali comprendevano uomini di tutte le tribú, zulu, shangan e matabele. L'unico criterio di ammissione era che i nuovi iniziati dovevano risultare uomini duri e fidati, preferibilmente dotati di qualche influenza sui compagni (ottomila e rotti minatori negri) e promossi dalla compagnia a posizioni di autorità: capoccia, impiegati, sorveglianti. Alcuni degli uomini avvicinati respinsero gli approcci. Uno di loro, un vecchio capoccia zulu con trent'anni di anzianità e un malinteso senso del dovere nei confronti della sua tribú e della compagnia mineraria, il giorno dopo aver rifiutato l'iniziazione cadde nell'impianto di triturazione del minerale; il suo corpo fu ridotto a una fine poltialia, mentre l'incidente non ebbe testimoni. Anche uno degli induna della polizia interna, dopo aver rifiutato di entrare nella confraternita, fu trovato ucciso a pugnalate nella garitta della sentinella all'ingresso della miniera, mentre un altro ancora bruciò vivo nelle cucine. Tre Bufali assistettero a questo disgraziato incidente, causato da una colpevole disattenzione della stessa vittima, dopo di che non ci furono piú rifiuti. Quando alla fine arrivò il messaggero di Moses, facendosi riconoscere con la stretta di mano rituale, portava una convocazione a una riunione. Hendrick poté andarci allontanandosi impunemente dalla miniera. Bisogna sapere che, per decreto del governo, i minatori negri non dovevano uscire dal loro quartiere recintato. Era infatti opinione delle autorità di Johannesburg, come di quelle della compagnia, che non si potessero lasciare andare dove volevano decine di migliaia di scapoli negri senza provocare un disastro alle miniere d'oro. Prima c'era stata, infatti, la salutare lezione dei cinesi. Nel 1904 quasi cinquantamila coolies erano stati importati in Sudafrica per ovviare alla grande scarsità di manodopera non qualificata che si lamentava nelle miniere. Tuttavia i cinesi erano troppo intelligenti e attivi per restare confinati nei campi di lavoro a fare i manovali a vita. Si riunirono nelle società segrete dette tong e diedero luogo a un'ondata di delinquenza e terrore senza pari: furti ed estorsioni, rapine e gioco d'azzardo, scommesse e droga. Sicché nel 1908, con un'operazione dal costo altissimo, tutti i cinesi furono rimpatriati. Il governo era ben deciso a evitare una riedizione di quel terrore, e il sistema dei campi di lavoro chiusi entro confini invalicabili fu applicato con grande rigore. Tuttavia Hendrick passò dai cancelli della CRC come fosse invisibile. Al chiar di luna sgattaiolò in aperta campagna e trovò un sentiero ormai seminascosto dalla vegetazione. Qui, sotto una tettoia di lamiera arrugginita, stava una Ford nera. Hendrick si avvicinò con cautela, i fari si accesero abbagliandolo, e lui si irrigidì di colpo. Poi i fari si spensero e dal buio venne la voce di Moses. « Ti vedo, fratello. » Si abbracciarono con affetto e poi Hendrick si mise a ridere. « Ah! Così hai la macchina, come un uomo bianco! » « La macchina è di Bomvu. » Moses lo invitò a salirci e Hen-
drick si allungò sul sedile di cuoio morbido, sospirando. « E' senz'altro meglio che camminare. » « E ora dimmi. Hendrick, fratello mio. Cosa è avvenuto alla CRC? » Moses ascoltò senza commenti mentre Hendrick gli faceva un lungo rapporto. Poi annuì. « Hai capito quel che ci serviva. E' andata proprio come volevo io. La confraternita deve accogliere gente di tutte le tribú, e non solo gli ovambo. Bisogna raggiungere ogni tribú, ogni miniera, ogni angolo della zona dei giacimenti auriferi. » «Questo me l'hai già detto tante volte», contesto Hendrick, « ma non mi hai mai detto perché, fratello mio. Io mi fido di te, ma gli uomini che ho riunito, l'impi che mi hai detto di costituire, mi guardano e mi fanno tutti la stessa domanda. Mi chiedono: perché? qual è lo scopo, il vantaggio di tutto ciò? che cosa c'è da guadagnare per noi in questa confraternita? » « E tu che cosa gli rispondi, fratello? » « Che devono aver pazienza », fece Hendrick con una smorfia. « Non conosco la risposta, ma mi comporto come se la conoscessi. E se insistono e mi fanno disperare, come bambini, li picchio come bambini. » Moses si mise a ridere allegramente, ma Hendrick scosse la testa. « Non ridere, fratello. Non posso mica andare avanti così ancora per molto. » Moses gli diede una pacca sulla spalla. « E non ti toccherà farlo. Ma ora dimmi, Hendrick, che cosa ti è mancato di piú in questi mesi di lavoro alla CRC? » Hendrick rispose: « La sensazione di aver sotto una donna ». « L'avrai prima che stanotte sia passata. E che altro, fratello mio? » « Il fuoco di un buon liquore nella pancia, non la porcheria che passa la ditta. » « Fratello mio », gli disse Moses con grande serietà, « hai risposto tu stesso alla domanda che facevi prima. Queste sono le cose che i tuoi uomini otterranno dalla confraternita. Questi sono i bocconi che getteremo ai nostri cani da caccia: donne e liquori, e ovviamente denaro, ma per noi che siamo a capo dell'organizzazione dei Bufali ci sarà di piú, molto di piú. » Avviò il motore della Ford. I rilievi auriferi del Witwatersrand formano un arco lungo un centinaio di chilometri. Le miniere piú antiche, come la Daggafontein Orientale, si trovano nel settore di levante dell'arco, dove la vena aurifera un tempo affiorava a una certa quota. Le miniere nuove invece sono a occidente, dove la vena si trova a grande profondità, ma è ricchissima come a Blwooruitzicht. Tutte le miniere sono disposte su questo favoloso semicerchio attorno al quale la loro presenza ha generato, con la ricchezza, vere e proprie città. Moses si diresse a sud con la Ford, ossia si allontanò dalle miniere e dalle abitazioni degli uomini bianchi. La strada cominciò ben presto a peggiorare. Si fece piú stretta e cosparsa di buche e pozzanghere dell'ultimo temporale. Cominciò anche a serpeggiare, degenerando in un labirinto di stradine e sentieri. Le luci della città erano ormai lontane, ma qui c'era un'altra
specie di illuminazione: brillavano infatti centinaia di fuochi da campo arancione, parzialmente schermati dal loro stesso fumo. C'era uno di questi fuochi davanti a tutte le catapecchie di lamiera e cartone catramato che costituivano il sobborgo: sorgevano fitte fitte, divise da invisibili sentierini, e passandoci in mezzo si avvertiva la presenza di una moltitudine nascosta, come se un esercito si fosse accampato qui nel veld aperto. « Dove siamo? » chiese Hendrick. « In una città clandestina, che nessuno riconosce, abitata da un popolo che non esiste. » Hendrick ne scorgeva le sagome nere tra le baracche che la Ford costeggiava sobbalzando. I fari illuminavano continue scenette: un gruppo di bambini negri che tiravano sassi a un cane randagio; un corpo che giaceva accanto alla strada, morto oppure ubriaco; una donna accucciata a orinare all'angolo di una baracca; due uomini avvinghiati in una silenziosa lotta mortale; una famiglia seduta intorno al fuoco a mangiare carne in scatola dalla lattina, che alzo gli occhi sbalordita al passaggio della macchina; e altre ombre che si rifugiavano rapide nel buio. Centinaia di queste ombre si vedevano, migliaia s'intuivano. «E' Drake's Farm», gli disse Moses. « Una delle baraccopoli abusive che circondano i Goldi dell'uomo bianco. » Quell'amorfa aggregazione di umanità puzzava di legna bruciata e fogna aperta, corpi luridi e carne arrostita. Puzzava inoltre di spazzatura che marciva nelle pozzanghere e pidocchi succhiasangue che prosperavano nei giacigli mai lavati. « In quanti ci vivono? » « Cinquemila, diecimila. Nessuno lo sa e a nessuno frega niente. » Moses fermò la macchina e spense luci e motore. Il silenzio che seguí non era vero silenzio: era il mormorio di un mare lontano, e vi si riconoscevano vagiti infantili, latrati canini, canti femminili, imprecazioni maschili, sparse conversazioni, cene all'aperto, litigi, gemiti di moribondi, sospiri di gente intenta a defecare, a russare, a scopare, a giocare d'azzardo e a ubriacarsi. Moses scese dalla macchina e chiamò energicamente nel buio. Una mezza dozzina di sagome nere accorsero dalle baracche. Erano bambini, si rese conto Hendrick, benché non riuscisse a distinguerne il sesso o l'età. « Guardatemi la macchina », ordinò Moses, gettando una monetina che brillò alla luce dei fuochi finché uno dei ragazzini non la prese al volo. « Eh eh! Baba! » strillavano. Moses guidò suo fratello tra le baracche per una cinquantina di metri e le voci femminili che cantavano si fecero piú vicine. Era un suono commovente ed evocativo, e si sentiva il brusio di altre voci, molte, e l'odore di alcool e di carne arrostita. Raggiunsero una costruzione lunga e bassa, una baracca rizzata con materiale di fortuna come tutte le altre. Le pareti erano storte e la sagoma del tetto appariva irregolare e precaria alla luce del fuoco. Moses bussò alla porta e gli fu puntata una lanterna in faccia prima che gli venisse lasciato libero il passo.
« Dunque, fratello mio », disse Moses prendendo sottobraccio Hendrick e accompagnandolo dentro, « eccoci qua: questo è il luogo dove avrai la tua razione di donne e liquori. » La baracca era piena di esseri umani casi pigiati da non vedere la parete opposta. Il fumo era impenetrabile, e per farsi sentire a un metro di distanza bisognava gridare. Le facce nere erano lustre di sudore ed eccitazione. Gli uomini erano minatori che bevevano, ridevano, cantavano e palpavano le donne. Alcuni erano ubriachi fradici, giacevano per terra nel loro stesso vomito. Le donne erano di tutte le tribú, con la faccia truccata alla maniera delle donne bianche, vestite di colori vivaci e provocanti: cantavano, ballavano e ancheggiavano, agganciando quelli con i soldi e tirandoseli di là. Moses non dovette certo farsi strada a gomitate li in mezzo. Il muro umano si aprì quasi miracolosamente davanti a lui, e molte donne gli si rivolsero con rispetto. Hendrick lo seguì da vicino, stimandolo moltissimo per esser riuscito a farsi un nome in tre mesi nel Rand. Alla porta della parete opposta c'era uno di guardia, un brutto tipo dal ghigno di magnaccia, sfregiato: ma anche lui riconobbe Moses e batté le mani per salutarlo prima di aprirgli la tenda e farlo passare di là. La stanza di dietro era meno affollata, c'erano tavoli e panche per i clienti. Le ragazze qui erano ancora giovani, avevano gli occhi accesi e il viso fresco. Una negra enorme sedeva a un tavolo d'angolo, separato dagli altri. Aveva il viso olimpico di luna piena che contraddistingue gli aristocratici zulu, ma i lineamenti annegavano nel grasso. La sua pelle color dell'ambra scura era tiratissima in tanta abbondanza, la pancia le digradava in una serie di poggi carnosi fino al grembo. Il grasso formava grossi rotoli di ciccia nera anche sotto le braccia, e braccialettoni ai polsi. Davanti a lei, sul tavolo, stavano pile di monete d'argento e di rame, e mazzette di banconote multicolori. Le ragazze alimentavano queste pile ogni minuto. Quando vide Moses i suoi denti bianchissimi e perfetti scintillarono come preziosa porcellana. Si alzò goffamente in piedi, mostrando le cosce elefantine che la costringevano a camminare a gambe aperte. Venne incontro ai due e salutò Moses come un capotribù, toccandosi la fronte e battendo le mani con rispetto. «Ti presento Mama Nginga», disse Moses a Hendrick. «E' la principale tenutaria di casini e osterie di Drake's Farm. E presto sarà l'unica. » Solo allora Hendrick si accorse di conoscere quasi tutti gli uomini seduti ai tavoli. Erano Bufali arrivati insieme a loro col treno della Wenela, che erano stati iniziati con lui: lo salutarono con sincero piacere e lo presentarono a quelli che non conosceva. « Questo è Henry Tabaka, quello della leggenda... l'uomo che ha fatto fuori Tshayela, il soprastante bianco... » Hendrick colse l'immediato nascere del rispetto negli occhi degli altri. Questi nuovi Bufali erano minatori delle altre miniere, reclutati dai confratelli originari, e Hendrick si rese conto che nel complesso avevano scelto bene. « Sono tre mesi che mio fratello non ha toccato una donna né un
liquore degni di questo nome », dichiarò Moses sedendosi a capo del tavolo centrale. « Mama Nginga, non vogliamo il tuo skokiaan. Lo distilla lei », disse a Hendrick aprendo una parentesi, « e ci mette dentro carburo, alcool metilico, serpenti e aborti per dargli forza e sapore. » Mama Nginga scoppiò a ridere sgangheratamente. « Il mio skokiaan è famoso da Fordsburg a Bapsfontein. Anche i bianchi vengono a berlo... sí, anche qualche mabuni! » «Andrà bene per loro ma non per mio fratello», dichiarò Moses. Mama Nginga mando da loro una delle ragazze con una bottiglia di brandy del Capo. Moses prese con le mani la giovane attorno alla vita e se la mise sulle ginocchia. Poi aprì la camicetta all'europea che indossava e tirò fuori i suoi grossi seni tondi, che emanarono lampi di carbone bagnato alla luce. « Si comincia da qui, miei Bufali: una ragazza e una bottiglia », disse loro. «Ci sono cinquantamila uomini solo a Goldi, lontani dalle mogli e tutti affamati di bella carne giovane. Ci sono cinquantamila uomini assetati per il lavoro sotto terra, e gli uomini bianchi proibiscono loro di saziare la sete con questo », continuò, scuotendo la bottiglia di liquido ambrato. « Ci sono cinquantamila fratelli neri arrapati e assetati a Goldi, e tutti con in tasca un sacco di soldi. Noialtri Bufali gli daremo quello che vogliono. » Mise in grembo a Hendrick la ragazza che si chinò su di lui con finta libidine professionale, sbattendogli in faccia i seni neri e lucidi. Quando fu l'alba sopra la baracca di Drake's Farm, Moses e Hendrick sbucarono nei vicoli storti fuori del casino e ritrovarono la strada dove avevano lasciato la macchina. I ragazzini stavano ancora facendo la guardia alla Ford, come sciacalli intorno alla preda del leone. I fratelli avevano parlato quasi tutta la notte nel retro del casino di Mama Nginga e alla fine avevano concluso i piani preliminari. A tutti i luogotenenti erano state affidate zone e responsabilità. « Ma c'è ancora un sacco di lavoro da fare, fratello mio », disse Moses a Hendrick, avviando il motore. « Dobbiamo trovare il liquore e le donne. Dobbiamo portare nel nostro recinto tutte le osterie e i bordelli indipendenti, e c'è un solo modo di riuscirci. » « So bene qual è », disse Hendrick. « E abbiamo a disposizione un impi per attuarlo. » « Sí, e un induna, un capo, per comandare questo impi. » Moses lancio un'occhiata significativa a Hendrick. « E' ora che tu lasci la CRC, fratello mio. Dovrai dedicare tutto il tempo e tutta l'energia al nostro compito. Non perderai piú gran parte di entrambi nelle viscere della terra, a spaccar sassi per l'obolo del bianco. D'ora in poi spaccherai teste, per conquistare il potere e una grandissima ricchezza. » Fece un sorrisetto. « E non dovrai piú rimpiangere quelle tue pietruzze. Io ti darò di piú, molto di piú » Marcus Archer pensò a far annullare il contratto di Hendrick con la CRC e a fargli preparare i documenti di viaggio per uno dei treni speciali che portavano a casa i minatori, alla scadenza del contratto, nelle lontane riserve e nei villaggi piú sperduti. Ma Hendrick non prese mai quel treno: si limito a sparire dai registri degli uomini
bianchi per nascondersi nel sottomondo dei villaggi abusivi. Mama Nginga gli riservò una baracca dietro al casino e una ragazza sempre a sua disposizione per tenerla in ordine, preparargli pranzo e cena, lavargli la biancheria e scaldargli il letto. Dopo sei giorni dal suo arrivo a Drake's Farm l'impi dei Bufali comincio le operazioni. L'obiettivo era stato chiaramente illustrato e discusso con gli uomini da Hendrick, ed era semplice e ben comprensibile: fare di Drake's Farm la loro fortezza. La prima notte furono bruciati dodici locali rivali. I proprietari morirono tra le fiamme, come i clienti troppo ubriachi per riuscire a trascinarsi fuori. Drake's Farm era troppo lontana per essere servita in tempo utile dai pompieri organizzati dai bianchi, sicché non fu fatto alcun tentativo di spegnere gli incendi. Invece gli abitatori della baraccopoli si riunirono davanti alle baracche che bruciavano ad assistere allo spettacolo, quasi fosse stato inscenato per il loro divertimento. I bambini si misero a ballare e strillare davanti alle fiamme, sghignazzando ai botti delle bottiglie di liquore che esplodevano come fuochi d'artificio. Quasi tutte le ragazze si salvarono dall'incendio. Quelle che stavano lavorando scapparono fuori nude, stringendosi addosso pochi indumenti e già piangendo la perdita delle loro poche cose e dei risparmi, tutto ciò che possedevano al mondo. Ma trovarono subito uomini gentili che le consolarono e le portarono da Mama Nginga. Nel giro di quarantotto ore i locali erano stati tutti ricostruiti dalle ceneri, e le ragazze erano di nuovo al lavoro. La loro sorte era migliorata: erano ben nutrite e ben vestite e ognuna aveva un Bufalo a proteggerla dalle frodi o dalle violenze dei clienti. Naturalmente se facevano le ritrose o cercavano di rubacchiare, prendevano un sacco di botte: ma se l'aspettavano, le faceva sentir parte del totem e sostituiva il padre e i fratelli che avevano lasciato nelle riserve. Hendrick consentiva loro di trattenere una ben precisa percentuale della tariffa, e badava che i Bufali non gliela togliessero con qualche pretesto. « La generosità suscita la lealtà e la fermezza fa nascere l'affetto », spiegò ai suoi Bufali, ed estese questa politica ai clienti e a tutti gli abitanti di Drake's Farm. I minatori neri che venivano nella baraccopoli erano protetti altrettanto efficacemente delle ragazze. In brevissimo tempo borsaioli, rapinatori e truffatori furono scoraggiati dal pascolare lì. Anche la qualità del liquore migliorò. Da allora in poi fu tutto distillato sotto la supervisione personale di Mama Nginga. Il liquore era forte come un elefante maschio e mordeva come una iena idrofoba, ma non accecava piú nessuno né lo faceva impazzire per sempre: inoltre, essendo prodotto in grande quantità, veniva a costare meno. Con due scellini un uomo poteva ubriacarsi fino al coma, oppure scoparsi una bella ragazzina pulita. Gli uomini di Hendrick aspettavano alle fermate di tutti gli autobus e i treni che venivano dall'interno, raccogliendo le ragazze scappate di casa, villaggio e tribú per raggiungere i bagliori di Goldi. Dirottavano le piú belle ai bordelli di Drake's Farm. Quando questa fonte diventò troppo scarsa per l'accresciuta domanda, Hendrick
mandò i suoi uomini addirittura nei villaggi, a circuire le ragazze con ogni sorta di belle promesse. Autorità di Johannesburg e polizia sapevano benissimo di questi sobborghi senza nome cresciuti come funghi a sud dei giacimenti auriferi ma, di fronte alla prospettiva di raderli al suolo e trovare una sistemazione alternativa a migliaia di vagabondi e di spostati, preferivano chiudere gli occhi, mettendosi in pace la coscienza civica con sporadiche retate, arresti e multe appioppate all'ingrosso. Tuttavia, quando omicidi, rapine e altri gravi delitti del genere diminuirono misteriosamente a Drake's Farm, la loro tollerante indifferenza risultò incoraggiata. Le operazioni di polizia cessarono, e la prosperità della zona aumentò insieme alla sua reputazione - tra decine di migliaia di minatori - di posto dove ci si poteva divertire in pace. Quando avevano un permesso, gli operai accorrevano da tutte le miniere del Rand, trascurando luoghi piú vicini. Restavano tuttavia altre centinaia di migliaia di potenziali clienti i quali non potevano assolutamente raggiungere Drake's Farm, e l'attenzione di Moses Gama si concentrò su di loro. « Se non possono venire, andremo noi da loro », disse a Hendrick. Gli spiegò cosa occorreva fare e fu Hendrick a occuparsi di acquistare in blocco una partita di furgoni di seconda mano, e di assumere un meccanico negro per aggiustarli e tenerli in ordine. Tutte le sere un convoglio di questi veicoli, carichi di ragazze e di liquori, partiva da Drake's Farm e raggiungeva i dintorni di tutte le altre miniere, dove si fermava in un posto fuori mano (una macchia d'alberi, una valletta tra montagne di detriti, o un capannone abbandonato) ad aspettare i clienti. Che regolarmente arrivavano, perché le guardie ai cancelli dei complessi minerari, ormai tutti Bufali, li lasciavano passare. Adesso a ogni Bufalo spettava la sua parte della fortuna del clan. « Allora, fratello, rimpiangi ancora le tue pietruzze bianche? » chiese Moses a Hendrick dopo i primi due anni di attività a Drake's Farm. «Hai mantenuto la promessa», ridacchiò Hendrick. «Adesso abbiamo tutto quello che un uomo può desiderare. » « Ti accontenti di poco », lo sfotté Moses. « Che altro si può volere? » chiese Hendrick, sbalordito. « Abbiamo appena incominciato », ribadí Moses. « Cosa ci resta da fare, fratello? » « Hai mai sentito parlare del sindacato? » chiese Moses. « Sai cos'è? » Hendrick era perplesso. Aggrottò la fronte, pensandoci bene. « So che gli uomini bianchi che lavorano in miniera hanno un sindacato, e anche i ferrovieri bianchi; ne ho sentito parlare, ma ne so ben poco. Sono cose dei bianchi, che non ci riguardano. ». « Ti sbagli, fratello mio », disse tranquillamente Moses. « Il Sindacato dei Minatori Africani ci riguarda moltissimo. Anzi, è la ragione per cui io e te siamo venuti a Goldi. » « Credevo che fossero i soldi. » « Prova un pò a pensare a cinquantamila membri del sindacato che pagano uno scellino alla settimana a testa: non sono soldi, que-
sti? » chiese Moses, sorridendo tra se mentre guardava il fratello affrontare il laborioso calcolo. L'avidità gli torceva la bocca, sicché lo spazio nero degli incisivi sembrava un pozzo di miniera. « Effettivamente sono un sacco di soldi! » Moses aveva imparato la lezione alla miniera H'ani, dove aveva cercato invano di costruire un sindacato di lavoratori neri. Era gente semplice, senza la minima coscienza politica: erano divisi dalle rispettive lealtà tribali; non si consideravano affatto membri della stessa nazione. « Il tribalismo è il maggior ostacolo che ci troviamo di fronte », spiegò Moses a Hendrick. « Se fossimo un popolo solo, saremmo come un grande oceano nero, e la nostra potenza sarebbe infinita. » « Ma non siamo un popolo solo », osservò Hendrick. « Come i bianchi, del resto. Uno zulu è diverso da un ovambo come uno scozzese è diverso da un cosacco o un afrikaner da un inglese. » « Ehilà, vedo che ti sei letto qualcuno dei libri che ti ho dato! » sorrise compiaciuto Moses. « Sono sicuro che, quando siamo arrivati a Goldi, i cosacchi non li avevi mai sentiti nominare. » « Tu mi hai insegnato molto a proposito degli uomini e del mondo in cui viviamo », ammise Hendrick. « Adesso spiegami un pò come si fa a indurre uno zulu a chiamare fratello un ovambo. Spiegami come facciamo a prendere il potere che l'uomo bianco tiene cosí stretto tra le mani. » « Sono cose possibili: il popolo russo era diviso in tante nazioni come noi neri dell'Africa. Erano asiatici ed europei, tartari e slavi, ma sotto un grande capo sono diventati una nazione sola e hanno rovesciato una tirannide ancora piú infame di quella sotto cui soffriamo noi. Il popolo nero ha bisogno di un capo che sappia qual è il suo bene e lo costringa a farlo, anche se per questo diecimila persone o anche un milione dovessero lasciarci la pelle. » « Un capo come te, fratello? » chiese Hendrick. Moses fece un altro dei suoi enigmatici sorrisetti. « Per ora parliamo del sindacato dei minatori », disse. « Siamo come bambini che devono imparare a camminare, un passo per volta. La nostra gente deve essere obbligata a fare ciò che a lungo andare le conviene, anche se all'inizio può essere doloroso. » « Non sono mica sicuro... » Hendrick scosse il testone rasato su cui le cicatrici spiccavano fiere come gemme di onice nera lustra. « Cosa andiamo cercando, fratello mio? Ricchezza o potere? » « Siamo fortunati », gli rispose Moses. « Tu vuoi la ricchezza e io voglio il potere. Se si fa a modo mio otterremo entrambi quello che vogliamo. » Ma, nonostante l'impegno spietato dei Bufali di tutte le miniere, la costituzione del sindacato si rivelò lenta e difficile. Bisognava per forza fare tutto in segreto, perché la legge promulgata dal governo, l'industrial Conciliation Act, poneva limiti severi all'associazionismo sindacale dei negri e proibiva specificamente la contrattazione collettiva. Incontrarono anche l'opposizione degli stessi minatori, animati da qualche sospetto e antagonismo nei confronti dei sostenitori del sindacato: erano tutti Bufali, infatti, cooptati in quella società segreta e mai eletti da nessuno. I minatori comuni riluttavano a
pagare una parte dei loro salari, duramente guadagnati, per costituire una cosa che non capivano e di cui non si fidavano. Tuttavia gradualmente, grazie agli sforzi dei Bufali e ai consigli del dottor Marcus Archer, la causa della sindacalizzazione dei lavoratori neri si affermò in tutte le miniere. La riluttanza a separarsi dal famoso scellino fu vinta. Naturalmente si lamentarono perdite, e diversi minatori trovarono la morte, ma alla fine l'African Mine Workers Union contava piú di ventimila iscritti paganti. L'associazione padronale si trovò di fronte al fatto compiuto. Dapprima non vollero accettarlo, il loro istinto naturale era quello di distruggere immediatamene questo « cancro »: ma i proprietari delle miniere erano prima di tutto uomini d'affari, il cui principale interesse era tirar fuori il metallo giallo dalle viscere della terra coi minori problemi possibili per continuare a trarne lauti profitti. Capirono che una lotta sindacale avrebbe leso i loro interessi e si rassegnarono ai primi cauti colloqui ufficiosi coi rappresentanti del sindacato « inesistente ». Furono favorevolmente impressionati dal segretario generale che, per quanto autonominatosi, era una persona intelligente, e ragionevole. Nelle sue affermazioni non v'era la minima traccia di dialettica bolscevica. Piuttosto che radicale e aggressivo, si dimostrava rispettoso e pronto a collaborare. « Ecco un uomo con cui si può ragionare », si dissero i padroni. « Sembra dotato di seguito e influenza. Un portavoce dei minatori ci voleva, e questo sembra abbastanza trattabile. Potevamo cascare molto peggio. » Difatti i primi contatti ebbero risultati eccellenti, e riuscirono a risolvere un sacco di piccoli problemi esasperanti che si trascinavano da un pezzo, con soddisfazione dei lavoratori e profitto dei proprietari. Raggiunto il tacito riconoscimento della loro associazione, il sindacato di Moses Gama prese a risolvere rapidamente ogni sorta di problemi e controversie coi lavoratori. Bastava convocare il segretario e ci pensava lui. Ogni volta che questo succedeva, la posizione di Moses si rafforzava. E naturalmente non c'era mai pericolo di scioperi o atteggiamenti rivoluzionari da parte dei minatori. « Capite, fratelli? » spiegò Moses alla prima riunione del comitato centrale dell'African Mine Workers Union, che si tenne presso il locale di Mama Nginga. « Se ci saltano addosso con tutta la loro potenza mentre siamo ancora piccoli, saremo distrutti per sempre. Questo Smuts è un diavolo, è veramente la punta d'acciaio della zagaglia del governo. Non esitò a mandare i soldati con le mitragliatrici a falciare gli scioperanti bianchi nel 1922. Cosa non sarebbe pronto a fare contro gli scioperanti negri, fratelli? Innaffierebbe la terra col nostro sangue. No, dobbiamo blandirli. La pazienza è la grande virtú del nostro popolo: abbiamo un secolo di tempo, mentre l'uomo bianco vive alla giornata. Col tempo le formiche nere del veld divorano la carcassa dell'elefante. Il tempo è la nostra arma, e il nemico dell'uomo bianco. Abbiate pazienza, fratelli, e giorno verrà in cui l'uomo bianco scoprirà che non siamo buoi mansueti da poter aggiogare al suo carro, ma neri leoni che divoreranno ruggendo le sue pallide carni. »
« Come sono passati in fretta tutti questi anni. Mi sembra ieri che eravamo sul treno di Tshayela, diretti dai deserti occidentali a queste montagne piatte e scintillanti di Goldi. » Hendrick guardò i cumuli di detriti delle miniere mentre Moses guidava la vecchia Ford nel traffico rado della domenica mattina. Andava né troppo forte né troppo piano, rispettava i semafori (queste nuove meraviglie appena installate sulle strade principali) e osservava la massima prudenza. Del resto guidava sempre così. «Mai farsi notare inutilmente, fratello», consigliava a Hendrick. « Non bisogna dare al poliziotto bianco la scusa di fermarti. Già ti odia perché hai la macchina e lui non se la può permettere: vuoi metterti in suo potere per cosí poco? » La strada costeggiava il campo di golf del Johannesburg Country Club, un'oasi di verde nel vela arido e giallastro, dove l'erba era curata come un tappeto, innaffiata con costosa abbondanza per la gioia dei giocatori bianchi seguiti dai caddies negri scalzi. Tra gli alberi del parco già si intravedeva la sede del club: Moses rallentò e svoltò in fondo al campo di golf, attraversò il fiumicello asciutto chiamato Sand Spruit River e imboccò una stradina dove un cartello segnalava: RIVONIA FARM. Seguirono questa strada di terra battuta, alzando polvere nell'aria ancora secca dell'alto veld, che poi si depositava sull'erba arida e stenta per le gelate, incipriandola di rosso in maniera quasi teatrale. La strada serviva un agglomerato di casette circondate da un pò di terra, non piú di due-quattro ettari ciascuna: quella del dottor Archer era proprio in fondo. Egli non si curava affatto della terra: non aveva orto e pollaio come tutti gli altri piccoli proprietari. La sua casa era semplice e senza pretese, quadrata e tutta circondata dalla veranda: il tetto era di paglia sbrindellata. Dalla strada non si vedeva perché era nascosta da una fitta macchia di eucalipti australiani. Sotto gli alberi erano già parcheggiate altre quattro macchine. Moses si affiancò a quelle e spense il motore. « Sì, fratello mio. Gli anni sono volati », concordò. « Volano sempre, per gli uomini impegnati a fondo in un difficile compito. Intorno a noi il mondo sta cambiando. Si profilano grandi eventi. Sono passati diciannove anni dalla rivoluzione sovietica e Trockij è in esilio. Hitler si e ripreso la Renania e in Europa si parla di guerra. Da questa guerra la maledizione del capitalismo sarà distrutta per sempre e dalle sue ceneri emergerà vittoriosa la Rivoluzione. » Hendrick scoppiò a ridere, mostrando il buco nero che aveva ancora al posto degli incisivi. « Queste cose non ci riguardano affatto. » « Ancora una volta ti sbagli, fratello. Riguardano noi piú di tutti gli altri. » « Non riesco a capire. » « Ti aiuto io », disse Moses, mettendogli una mano sulla spalla. « Vieni, fratello, andiamo a fare un altro passo sulla via della comprensione del mondo. » Si diressero insieme verso la vecchia casa. « Fratello, oggi farai bene a tenere occhi e orecchie bene aperte ma la bocca chiusa », l'avvertì, raggiungendo i gradini della veranda « In questo modo imparerai di piú. »
Marcus Archer venne fuori ad accoglierli, col volto raggiante di gioia al rivedere Moses. Gli corse incontro e l'abbracciò con affetto, poi senza lasciarlo si rivolse a Hendrick. « Tu devi essere Henny. Abbiamo parlato spessissimo di te. » « Io la conosco già, dottor Archer. L'ho vista al centro della Wenela. » « Acqua passata da un pezzo! » disse Archer stringendogli la mano. « E dammi del tu... Fai parte della famiglia! » Lanciò un'occhiata a Moses con evidente adorazione. Ricordava a Hendrick una sposina tutta esaltata dalla virilità del marito. Hendrick sapeva che Moses abitava a Rivonia Farm con Marcus, e non nutriva alcuna repulsione per questo rapporto. Capiva quant'era importante per il loro successo il consiglio e l'appoggio di un uomo come Marcus Archer, e approvava in pieno il prezzo pagato da Moses. Lo stesso Hendrick del resto aveva provato a fare le stesse cose, però mai come rapporto amoroso, bensí come forma di tortura su un nemico catturato. A suo modo di vedere non esisteva umiliazione e degradazione piú grande che un uomo potesse infliggere a un altro: però nella posizione di suo fratello non avrebbe esitato ad adoperare questo strano ometto bianco e rosso come voleva essere adoperato. « Moses è stato proprio birichino a non invitarti prima da noi », disse Marcus, dando una gioconda pacca sulla spalla a Moses. « Qui c'è un mucchio di gente importante e interessante che avresti dovuto conoscere già da tempo. Comunque vieni che adesso te li presento. » Prese sottobraccio Hendrick e lo portò in cucina. Era una cucina tradizionale di campagna, col pavimento di pietra, una stufa a legna in un angolo e mazzi di cipolle, salsicce e prosciutti appesi alle travi del soffitto. Al lungo tavolo di legno biondo erano seduti undici uomini. Cinque erano bianchi, gli altri negri, e la loro età andava dall'impetuosa giovinezza alla prudente vecchiaia. Marcus passò lentamente dall'uno all'altro a presentare Hendrick, cominciando dall'uomo che sedeva a capotavola. « Ti presento il reverendo John Dube, che sicuramente hai già sentito nominare come Mafutuzela. » Hendrick fu inondato da una sensazione di rispettoso sbigottimento. « Hau, Baba! » salutò il vecchio zulu con grande rispetto. Sapeva che era il capo riconosciuto di quella nazione, oltre che fondatore ed editore del giornale Ilanga Lase Natal, « Il sole del Natal »; e soprattutto era il presidente del Congresso Nazionale Africano, l'unica organizzazione politica che cercasse di parlare per tutti i popoli di colore dell'Africa australe. « Ti conosco bene », disse Dube a Hendrick pacatamente. « Hai fatto un ottimo lavoro col nuovo sindacato. Sii il benvenuto, figliolo. » Dopo John Dube, gli altri presenti risultarono di minore interesse per Hendrick, benché ci fosse un giovane di non piú di vent'anni che, nonostante la giovane età, impressionò Hendrick con la sua presenza imponente e dignitosa. « Questo è il nostro giovane avvocato... » « Non ancora! Non ancora! » protestò il giovane.
« Lo sarà presto, comunque », si corresse Marcus Archer. « E' Nelson Mandela, figlio del capo Henry Mandela del Transkei. » Mentre si stringevano la mano alla maniera dei bianchi, che a Hendrick risultava ancora bizzarra, guardò negli occhi lo studente di giurisprudenza e pensò: « Ecco un leoncino ». Gli uomini bianchi seduti a quel tavolo non fecero una grande impressione a Hendrick. Erano avvocati, un giornalista e un uomo che scriveva libri e poesie che Hendrick non aveva mai sentito nominare, ma che gli altri trattavano con rispetto. L'unica cosa che Hendrick trovò notevole a proposito di questi bianchi fu la cortesia che gli mostrarono. In una società dove il bianco stentava perfino ad ammettere l'esistenza del nero, se non per dargli un ordine, di solito bruscamente, era insolito riscontrare una simile attenzione, una tale condiscendenza. Strinsero la mano a Hendrick senza imbarazzo, cosa in se stessa un pò strana, e gli fecero posto a tavola, gli versarono del vino dalla stessa bottiglia e lo invitarono a servirsi del cibo dallo stesso piatto di portata. Poi si rivolsero a lui come a un eguale, chiamandolo « compagno » e « fratello ». A quanto pareva Marcus Archer era un ottimo cuoco. Trafficò sul piano della stufa a legna producendo piatti così speziali, decorati e annegati negli intingoli, che Hendrick all'assaggio non riusciva a capire se si trattasse di pesce, carne o selvaggina. Ma gli altri applaudivano tutte le portate con grande entusiasmo. Moses aveva consigliato a Hendrick di riempirsi la bocca di cibo e tacere, parlando solo se interrogato e anche allora a monosillabi: tuttavia gli altri continuavano a guardarlo impressionati dalla sua figura imponente. Il suo testone pelato, grosso come una palla di cannone e solcato dalle gloriose cicatrici, conferiva un che di minaccioso alla sua presenza e al suo sguardo anche il piú innocente. I discorsi interessarono ben poco Hendrick, ma finse un'entusiastica attenzione mentre gli altri discutevano tutti eccitati la situazione in Spagna. Il Fronte Popolare, coalizione di trockijsti, socialisti, repubblicani di sinistra e comunisti, era minacciato da una rivolta dell'esercito capeggiata dal generale Francisco Franco, e tutti alla tavola di Marcus Archer si scagliavano contro questo tradimento fascista. Sembrava quanto mai probabile che la situazione sfociasse in una guerra civile e tutti sapevano che da essa sola poteva nascere la rivoluzione. Due dei bianchi della compagnia, il poeta e il giornalista, dichiararono la loro intenzione di partire quanto prima per la Spagna per arruolarsi coi rivoluzionari, e gli altri bianchi non celavano la loro invidia e ammirazione per loro. « Siete dei fortunelli, altro che! Verrei anch'io, come una palla di schioppo, sennonché il Partito vuole che rimanga qui. » Quella domenica pomeriggio il Partito fu nominato continuamente. A poco a poco la compagnia si concentrò su Hendrick: sembrava addirittura una cosa preparata. Hendrick provò sollievo che Moses l'avesse obbligato a leggere brani del Capitale di Marx e delle opere di Lenin, in particolare Che fare? e Stato e Rivoluzione. Vero che a Hendrick avevano fatto venire piú che altro il mal di testa, e
non era riuscito a trarne che una rozza infarinatura: ma aveva badato Moses a riassumergli e chiarirgli i concetti principali del pensiero di quei due grandi. Ora facevano a turno a rivolgersi a Hendrick, e ben presto si rese conto che lo sottoponevano a una specie di esame. Guardò Moses e, benché l'espressione del fratello non cambiasse affatto, intuì che era sua volontà indirizzarlo verso una certa linea d'azione. Cercava forse di esortarlo a tacere? Non ne era certo. Proprio in quella Marcus Archer disse chiaramente: « Naturalmente l'istituzione di un sindacato dei minatori neri è di per se stessa condizione sufficiente ad assicurare il trionfo finale della rivoluzione... » Ma il suo tono era piuttosto interrogativo. Guardava Hendrick di soppiatto, attendendolo come al varco, e Hendrick non seppe nemmeno lui da dove gli venne l'ispirazione. « Non sono d'accordo », grugnì, e tutti tacquero, aspettando il seguito. « La storia delle lotte operaie testimonia che i lavoratori, se non sono guidati da un partito rivoluzionario, si fermano a obiettivi di carattere sindacale, per combattere i padroni e il governo capitalista. Sono quindi indispensabili dei rivoluzionari di professione, legati da una completa fedeltà ai propri ideali e dotati di una disciplina di tipo militare, per portare le lotte dei lavoratori al vittorioso sbocco rivoluzionario. » Era una citazione quasi letterale dal Che fare? di Lenin. Hendrick aveva parlato in inglese. Anche Moses parve strabiliato da quella prodezza, mentre tutti gli altri si scambiavano sorrisi di contentezza e Hendrick, raggiante, rientrava nel suo silenzio monumentale. Bastò. Non dovette dir piú niente. A sera, mentre gli altri trepestavano nel buio salutandosi e ringraziandosi, Moses e Hendrick rimasero ospiti di Marcus Archer, avendo raggiunto l'obiettivo che stava a cuore a Moses Gama: Hendrick faceva ormai parte, come iscritto a pieno titolo, del Partito Comunista Sudafricano e del Congresso Nazionale Africano. Marcus Archer aveva preparato a Hendrick la stanza degli ospiti. Giacque nella brandina angusta, sentendo andare a letto insieme, di là, Marcus e Moses, in preda all'improvvisa sensazione che quel giorno fossero stati gettati i semi del suo vero destino. Sia i limiti estremi della sua fortuna, sia tempi e modi della sua futura morte erano stati sicuramente determinati nelle ultime poche ore. Addormentandosi, fu trascinato nell'oblio da un'onda di esultanza mista a timore. Moses lo svegliò che era ancora buio e Marcus andò con lui a prendere la Ford. Il veld era bianco di brina: crepitava sotto i piedi e appannava il parabrezza della macchina. Marcus strinse la mano a Hendrick. « Sempre avanti, compagno », gli disse. « Il futuro è nostro. » Lo lasciarono nel buio e nel gelo, che ancora li guardava. Moses non tornò direttamente in città. Parcheggiò invece la Ford dietro uno dei cumuli di detriti dalla cima piatta, e lui e Hendrick ci salirono sopra, una scalata di centocinquanta metri. Arrivarono in
cima che il sole spuntava all'orizzonte illuminando di oro pallido il vela invernale. «Adesso capisci? » chiese Moses, mentre stavano a fianco a fianco sull'orlo del ripido mucchio: e a un tratto, come il sole nascente stesso, Hendrick intuì tutta la portata del grandioso progetto di suo fratello. « Tu non ti accontenti di una parte di tutto questo », disse sottovoce, « nemmeno della parte del leone », ribadì abbracciando tutto il paesaggio sottostante con un ampio gesto. « Tu vuoi tutto. Tutta questa terra e tutto quello che contiene. » La sua voce era piena di meraviglia per l'enormità della visione. Moses sorrise. Suo fratello aveva infine capito. Scesero dal cumulo di detriti della miniera e andarono in silenzio a riprendere la macchina. In silenzio tornarono a Drake's Farm: non c'erano parole per descrivere quanto era successo, come non ve ne sono per descrivere adeguatamente la morte o la nascita. Solo quando stavano per uscire dalla città, e dovettero fermarsi a un passaggio a livello chiuso sulla linea che serviva le miniere, la banalità del mondo tornò a farsi viva. Un piccolo strillone vestito di stracci e saltellante per scaldarsi nel freddo mattino d'inverno dell'altipiano corse accanto al finestrino a offrire il giornale. Moses gli diede una moneta di rame e prese il quotidiano. Hendrick lo sfogliò, e tese la prima pagina per mostrarla al fratello. C'era un titolone: SELEZIONATA LA SQUADRA SUDAFRICANA PER LE OLIMPIADI DI BERLINO LA NAZIONE AUGURA BUONA FORTUNA AI SUOI CAMPIONI « Conosco questo ragazzo bianco », escamò Hendrick, ridendo a piena bocca davanti a una foto del giornale. « Anch'io », disse Moses: ma stavano guardando due facce bianche diverse nella lunga fila di piccole fotografie. Naturalmente, Manfred sapeva che lo zio Tromp aveva degli orari quanto mai sballati. Quando la vescica svegliava Manfred a notte alta, ed egli usciva dalla rimessa per andare al gabinetto in cortile vicino alla siepe di moroto, vedeva quasi sempre accesa la luce nello studio dello zio. Una volta che era piú sveglio del solito Manfred cambiò strada e, acquattato tra le verze della zia, spiò dentro. Lo zio Tromp sedeva alla scrivania come un orso arruffato, tormentandosi la barba con le dita, con gli occhiali sulla punta del nasone sformato dai cazzotti, farfugliando tra se mentre scribacchiava a gran velocità su fogli sparsi per tutta la scrivania come detriti lasciati in giro da un uragano. Manfred aveva pensato che stesse preparando qualche suo sermone, senza far caso alla stranezza di un lavoro che si ripeteva regolarmente ogni notte da ormai quasi due anni.
E una bella mattina il postino negro arrivò con la sua bici sulla strada polverosa carico di un gran pacco di carta marroncina, tempestato di bolli e sigilli di ceralacca. La zia Trudi mise il voluminoso plico sul tavolino dell'anticamera e tutti i ragazzi andarono a sbirciarlo a bocca aperta a ogni occasione. Il mistero doveva svelarsi alle cinque, quando lo zio Tromp arrivò col biroccino e le ragazze, guidate da Sarah, gli corsero incontro prima ancora che scendesse. « C'è un pacco per te, papà! » Si affollarono dietro di lui mentre lo zio Tromp faceva finta di esaminare meticolosamente il pacco e leggeva ad alta voce tutte le scritte. Poi prese il temperino di madreperla dal taschino del panciotto, saggiò la lama sul polpastrello del pollice, tagliò lo spago che legava il pacco e svolse con cura la carta marrone. « Sono libri! » sospirò Sarah, e le ragazze deluse se la filarono. Solo Manfred rimase a vedere. Erano sei copie dello stesso libro, un grosso volume rilegato in cartone rosso col titolo stampato a caratteri d'oro. Era fresco di stampa. Qualcosa nei modi dello zio Tromp, che sogguardava Manfred per coglierne le reazioni, gli segnalò la particolare importanza del libro per lo zio. Manfred lesse il titolo sulla prima copia: L'Afrikaner e il suo posto nella storia e nell'Africa. Era scritto in afritaans, la lingua bambina che aspettava ancora pieno riconoscimento. Manfred lo trovò insolito: tutte le opere dotte, anche quelle scritte dagli afrikaner, erano in olandese puro. Stava appunto per farlo notare quando colse il nome dell'autore, e sobbalzò. « Zio Tromp! L'hai scritto tu! » Il vecchio sorrise modestamente. Ma si vedeva che era tutto contento. « Hai scritto un libro! » « Ja, Jong, anche un vecchio cane può imparare nuovi trucchi. » Lo zio Tromp prese in mano la pila e si trasferí nello studio. Piazzò i libri nel centro della scrivania e, alzando gli occhi, si stupì di vedere che Manfred l'aveva seguito. « Oh, scusa, zio Tromp », disse Manfred accorgendosi dell'indelicatezza. Era stato in quella stanza solo un'altra volta in vita sua, e per convocazione speciale. « Non ti ho chiesto permesso. Posso entrare, per piacere, zio? » « Pare che tu sia già entrato », disse lo zio, assumendo un'aria apparentemente severa. « Resta pure, comunque. » Manfred si avvicinò alla scrivania con le mani dietro la schiena. In quella casa aveva imparato a concepire un gran rispetto per la parola scritta. Gli avevano insegnato che i libri erano il maggior tesoro dell'umanità, i ricettacoli del genio che Dio le aveva dato. « Posso toccarne uno? » chiese e, quando lo zio Tromp gli disse di sì, sfiorò con l'indice il nome dell'autore: Reverendo Tromp Bierman. Poi prese in mano la prima copia, temendo a ogni istante che il vecchio l'aggredisse urlando. Ma poiché questo non succedeva aprì il libro e si mise a fissare i caratteri piccoli stampati su carta porosa comune.
« Posso leggerlo, per piacere, zio? » si ritrovo a chiedergli, aspettandosi un rifiuto. Ma lo zio Tromp aveva l'aria divertita. « Vuoi leggerlo? » Sbatté le ciglia mimando indicibile sorpresa, poi ridacchiò. « E be', credo proprio di averlo scritto apposta... perché lo leggano, dico. » All'improvviso sogghignò da monello e levò di mano il libro a Manfred. Sedette alla scrivania, si mise gli occhiali sul naso, intinse il pennino e scrisse una dedica sulla prima pagina bianca. Poi rilesse quanto aveva scritto e porse il libro a Manfred con gesto teatrale. A Manfred De La Rey, giovane afrikaner che contribuirà a rinsaldare e assicurare per sempre il posto che spetta al nostro popolo nella storia e in questo continente. Il tuo affezionatissimo zio TROMP BIERMAN Stringendo il libro al petto, Manfred arretrò verso la porta, come temendo che gli venisse sottratto di nuovo. « E' proprio mio... è davvero per me? » balbettava. E quando il reverendo Tromp annuí, « Sí, Jong, è tuo » giro sui tacchi e scappò di corsa dalla stanza, dimenticando, per la fretta, di ringraziare lo zio. Manfred lesse il libro in tre notti, stando sveglio fino a tardissimo con la coperta sulle spalle, alla luce tremolante di una candela. Erano cinquecento pagine di caratteri fitti fitti, lardellati di citazioni dalle sacre scritture: ma lo stile era semplice e vigoroso, non appesantito da aggettivi o descrizioni eccessive, e parlava direttamente al cuore di Manfred. Lo finí avvampando d'orgoglio per il coraggio, la forza d'animo e la religiosità della sua gente, e d'ira per le crudeli persecuzioni e rapine cui era stata sottoposta dai suoi nemici. Restò seduto col libro in grembo, guardando ballare le ombre; vivendo in pieno il girovagare e il patire della giovane nazione; condividendo l'agonia delle barricate di carri, quando le orde esaltate dei negri si riversavano addosso ai pionieri con le pitture e le piume di guerra, lanciando zagaglie d'acciaio che si abbattevano come grandine sui ripari di cuoio; condividendo l'emozione dell'esplorazione dell'interno, questo mare d'erba intatto e disabitato da conquistare per sè; condividendo infine l'amaro tormento di vedersi sottratto il paese da arroganti stranieri inquadrati in un possente esercito, con l'oltraggio finale della schiavitú politica ed economica imposta a un popolo già libero sulla terra che si era conquistata a caro prezzo e in cui nasceva da generazioni e generazioni. Come se l'ira del giovanotto l'avesse raggiunto e richiamato, lo zio Tromp si avvicinò per il sentiero, annunciandosi con lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia. Si affacciò alla rimessa, sostando per abituare gli occhi al lume di candela, e poi si avvicinò al letto. La rete cigolò sotto il suo peso quando si sedette accanto al ragazzo. Rimasero in silenzio per qualche minuto, prima che lo zio Tromp chiedesse: « Allora, sei riuscito a finirlo? » Manfred dovette fare uno sforzo per riscuotersi e tornare al pre-
sente. « Credo che sia il libro piú importante che sia mai stato scritto », sussurrò. « Importante come la Bibbia. » « Non bestemmiare, Jong, » Lo zio Tromp cercava di fare il severo, ma si vedeva che era molto soddisfatto, e Manfred non si scusò. Continuò invece appassionatamente: « Per la prima volta in vita mia so chi sono e perché mi trovo qui ». «Allora i miei sforzi non sono stati vani», mormorò lo zio Tromp, e rimasero in silenzio ancora un pò, finché il vecchio non esalò un sospiro. « Scrivere un libro è un'impresa solitaria », disse. « Come gridare a squarciagola nella notte, senza nessuno che ti oda e ti risponda. » « Io però ti ho sentito, zio Tromp. » « Sí, sì, ragazzo, tu mi hai sentito... ma solo tu. » Lo zio Tromp si sbagliava. Fuori, nel buio, tanti altri l'ascoltavano. L'arrivo di un forestiero nel villaggio era un avvenimento: quello di tre forestieri in una volta una cosa senza precedenti, tale da destare inaudita sensazione e costituire per tutti gli abitanti argomento di chiacchiere e illazioni infinite. Gli sconosciuti erano arrivati da sud col treno postale settimanale. Taciturni e dal viso di pietra, vestiti di austeri cappotti scuri, portandosi la valigia da soli, attraversarono la strada di fronte alla stazione e si sistemarono dalla vedova Vorster che faceva pensione nella sua casa dal tetto di lamiera. Non si rividero che la domenica mattina, quando uscirono con la cravatta bianca e l'abito nero dei diaconi della Chiesa Olandese Riformata, e presero a dirigersi a fianco a fianco verso la casa di Dio, seri, chiusi e devoti, tenendo i libri di preghiera sotto il braccio destro come spade, pronti con tutta evidenza a dar filo da torcere a Satana e ai suoi malestri. Attraversarono la navata e si sedettero sulla prima panca come se ne avessero tutto il diritto: le famiglie a cui questo onore spettava da generazioni non protestarono ma cercarono tranquillamente posto in fondo. Le voci sulla presenza dei tre forestieri - già soprannominati i re magi - erano giunte fino agli angoli piú remoti della parrocchia. Gente che non andava in chiesa da decenni mise il vestito della festa, attaccò il biroccio e venne in paese per curiosità. Tutti i posti a sedere si esaurirono subito. La gente stava in piedi lungo le pareti. C'era piú afflusso di popolo che nelle sentite ricorrenze in cui si ringraziava Dio di qualche salutare vittoria sulle orde zulu, le feste piú importanti nel calendario liturgico della Chiesa Riformata. I canti risultarono possenti e meravigliosi. Manfred stava accanto a Sarah e fu cosí commosso dalla cristallina dolcezza della sua voce di contralto che si sentí irresistibilmente portato ad accompagnarla con la sua di tenore, non coltivata ma sonora. Perfino sotto la gran cappa del costume tradizionale da pioniera Sarah aveva l'aspetto di un angelo, biondissima e carina, dai lineamenti radiosi per l'estasi religiosa. A quattordici anni la sua femminilità stava appena sbocciando, cosí che Manfred provò uno strano turbamento quan-
do, guardandolo al di sopra del libro di preghiere, lei gli sorrise con infinita fiducia e infinita adorazione. L'inno sacro finí e la congregazione, strascicando i piedi e tossicchiando, piombò in un silenzio teso e impaziente. Le prediche dello zio Tromp erano famose in tutta l'Africa di Sudovest, e costituivano il maggior divertimento in quel vasto territorio dopo il cinema appena aperto a Windhoek, dove peraltro ben pochi tra i presenti si erano mai azzardati a entrare. Lo zio Tromp era in gran forma quel giorno: i tre signori in prima fila l'avevano provocato, si può dire, non degnandolo nemmeno di una visita di cortesia dopo l'arrivo. Abbrancò con le manone pelose l'orlo del pulpito e prese a incombere minaccioso sui fedeli come un campione dei pesi massimi in carica. Li fulminò con lo sguardo, poi si addolcí in un benevolo disprezzo pastorale e, mentre emettevano un tremulo sospiro di sollievo, cominciò proprio come si aspettavano. « Peccatori! » ruggí lo zio Tromp con una bordata che andò a schiantarsi echeggiando contro le tegole del tetto. I tre forestieri saltarono sulla panca come chi soltanto nel momento in cui spara si accorga di essersi seduto su un cannone. « La casa di Dio è piena di peccatori impenitenti... » Lo zio Tromp era partito in tromba. Li tempestò di accuse tremende, straziandoli coi ruggiti che Manfred in privato definiva « la voce », e poi illudendoli con passaggi temperati da vaghe promesse di salvezza, per tornare subito dopo a investirli con tonanti minacce di morte e dannazione, finché qualche donna non scoppiò a piangere apertamente e altri si misero a gridare esaltati « Amen! » « Sia lodato il Signore! » e « Alleluia! ». Alla fine tutti si inginocchiarono tremanti mentre Tromp si metteva a pregare per l'anima loro. Dopo, tutti i fedeli sciamarono fuori della chiesa con una sorta di nervoso sollievo, garruli e gai come se fossero appena scampati fortunosamente a qualche tragico fenomeno naturale tipo terremoto o tifone. I tre forestieri furono gli ultimi a uscire, e alla porta dove lo zio Tromp li aspettava per salutarli gli strinsero la mano a turno dicendogli ognuno qualche parola seria e riservata. Lo zio Tromp li ascoltò con pari gravità, poi si girò per consultarsi brevemente con la zia Trudi, quindi tornò a rivolgersi a loro. « Sarei onorato di avervi a casa mia, a condividerne il desco. » I quattro uomini si avviarono verso la canonica con passo solenne, seguiti a rispettosa distanza dalla zia Trudi e dalle ragazze. A queste ultime furono impartite precise istruzioni, e quando si trovarono fuori vista dei parrocchiani schizzarono correndo verso casa a preparare tutto. Aprirono le tende in sala da pranzo, rarissimamente usata, e apparecchiarono sulla grande tavola di rovere che la zia Trudi aveva ereditato dalla madre. I tre forestieri non lasciarono che le proprie chiacchiere erudite impedissero loro di godere la cucina della zia Trudi come meritava. A un capo del tavolo sedevano « i marmocchi », nel dovuto ma occhiutissimo silenzio. In seguito gli uomini bevvero il caffè e fumarono la pipa sulla veranda davanti, chiacchierando nel caldo soporifero del meriggio. Venne infine l'ora della seconda funzione.
Il testo-scelto dallo zio Tromp per la seconda predica era « Il Signore ti ha aperto un cammino sicuro nella terra desolata ». La svolse con la consueta potenza, formidabile retorica e voce tonante: ma stavolta citò brani del proprio libro, assicurando la congregazione che il Signore prediligeva il loro popolo, da considerarsi quindi eletto, e gli aveva destinato un luogo ben preciso al mondo. Restava dunque soltanto da reclamare il loro legittimo posto su questa terra che avevano ereditato. Piú d'una volta Manfred vide i tre forestieri scambiarsi occhiate compiaciute in prima fila, mentre lo zio Tromp ribadiva come un maglio questi argomenti. I forestieri lasciarono il paese col treno per il Sud del lunedí mattina e, nelle settimane che seguirono, la parrocchia visse in uno stato di attesa eccitata. Lo zio Tromp, rompendo le sue abitudini inveterate, si mise ad aspettare il postino sulla soglia tutte le mattine. Scorreva rapidamente le lettere e diventava ogni giorno piú contrariato. Passarono tre settimane prima che smettesse di aspettare il postino. Sicché, quando la lettera finalmente arrivò, lo sorprese nella rimessa con Manfred, intento a insegnargli la famosa schivata di Fitzsimmons e a domargli il sinistro ancora un pò brado. La trovo sul tavolino in anticamera andando a lavarsi per cena. Manfred, che gli stava alle calcagna, lo vide barcollare quando scorse il sigillo di ceralacca della massima autorità ecclesiastica del Paese. Afferrò la missiva e andò a chiudersi nello studio, sbattendo la porta in faccia a Manfred. Ci rimase venti minuti buoni, chiuso a chiave, tra l'offesa costernazione della zia Trudi e dei ragazzi affamati. Quando uscì, si lanciò in una preghiera di ringraziamento lunga il doppio del normale. Sarah roteava gli occhi rivolgendo comiche smorfie a Manfred, che la fulminò con un'occhiata. Finalmente lo zio Tromp tuonò un bell'a Amen ». Ma non afferrò ancora il cucchiaio: si rivolse raggiante alla zia Trudi che gli sedeva di fronte. « Cara moglie », le disse. « Per tutti questi anni, sei sempre stata paziente e non ti sei mai lamentata. » La zia Trudi diventò rossa come un peperone. « Non davanti a loro, Meneer», sussurrò, ma lo zio Tromp fece un sorriso ancora piú radioso. « Mi hanno dato Stellenbosch », le disse, nel piú perfetto silenzio degli astanti. Lo guardarono sbalorditi. Tutti capivano benissimo cosa significava. « Stellenbosch », ripete lo zio Tromp, beandosi della parola, gustandola sulla punta della lingua e inghiottendola come la prima sorsata di un vino nobile e raro. Stellenbosch era una cittadina di campagna a cinquanta chilometri da Città del Capo. Là tutti gli edifici erano di stile olandese, bianchi come la neve e col tetto di paglia. Le vie erano larghe e costellate di querce bellissime che il governatore Van Stel aveva fatto piantare nel Seicento. Intorno alla città, le vigne dei grandi chateaux facevano meraviglioso mosaico, sullo sfondo delle precipiti vette. Era un paesino anche quello, se vogliamo, grazioso e pittoresco: ma era anche il vero e proprio centro della cultura afrikaner, dove
fioriva un'antica e illustre università la cui sapienza aveva irradiato i figli piú colti della colonia di origine olandese. Qui la loro lingua era nata e ancora si stava sviluppando: qui i loro teologi almanaccavano e dibattevano metafisiche speculazioni dalle conseguenze molto concrete. Ci aveva studiato anche Tromp Bierman, che ricordava ancora quei giorni operosi all'ombra delle grandi querce. Tutti i piú grandi uomini avevano studiato li: Louis Botha, Hertzog, Jan Christian Smuts. Nessun laureato altrove aveva mai capeggiato il governo sudafricano. Anzi, pochissimi a cui questa distinzione mancava ne avevano mai addirittura fatto parte. Era l'Oxford e la Cambridge del Sudafrica: e di questa parrocchia avevano dato la responsabilità a Tromp Bierman! Era il massimo onore che potessero fargli. D'ora in poi tutte le porte gli sarebbero state aperte. Si sarebbe assiso al centro; avrebbe avuto un gran potere, e la prospettiva di aumentarlo ancor piú; sarebbe diventato un promotore, un innovatore. Tutto ora diventava possibile; il concilio sinodale, la stessa carica di Moderatore; niente piú gli era precluso, tutto era alla sua portata, non c'erano piú limiti né confini né vincoli. Tutto poteva succedere. « E' stato il libro », balbettò la zia Trudi. « Non avrei mai creduto... io non capivo... » « Sì, è stato il libro », ridacchiò lo zio Tromp. « E trent'anni di duro lavoro. Abiteremo nella grande residenza di Eikeboom Straat e avremo mille sterline all'anno. Avremo una camera ciascuno per le ragazze e Manfred, e faranno l'università a spese della Chiesa. Predicherò ai potenti della nazione e ai giovani piú intelligenti. Farò parte del consiglio dell'università. E tu, mia cara moglie, avrai a tavola professori e ministri del governo: le loro mogli saranno amiche tue... » si interruppe vergognoso. « ... Ma adesso preghiamo. Chiediamo a Dio la benedizione dell'umiltà: e che ci scampi dai peccati mortali dell'orgoglio e dell'avarizia. Tutti in ginocchio! » tuonò. « Tutti in ginocchio a pregare! » La minestra era fredda quando permise loro di mangiarla. Si trasferirono due mesi dopo, passate le consegne al successore, fresco di studi teologici, di Tromp. Ebbero l'impressione che tutti, nell'arco di cento miglia intorno al paese, fossero venuti alla stazione a salutarli e augurar loro buon viaggio. Fino a quel momento Manfred non si era reso conto di quanto affetto e stima godesse lo zio Tromp in seno alla comunità. Gli uomini indossavano tutti i vestiti della festa, e uno dopo l'altro gli strinsero la mano, ringraziandolo e augurandogli la benedizione di Dio. Alcune donne piangevano, e tutti portavano doni: ceste di prosciutti e conserve, torte al latte e koeisisters, borse di biltong di kudù... c'era da mangiare per un esercito. Quattro giorni dopo la famiglia cambiò treno alla stazione centrale di Città del Capo. Ci fu appena il tempo di fare una capatina in Adderley Street e dare un'occhiata al leggendario massiccio della Table Mountain, la tavola torreggiante sulla città, prima di correre a riprendere il treno per il tragitto ormai brevissimo che restava da fare per la loro destinazione, nella pianura del Capo e tra le colline vinicole ai piedi dei monti.
I diaconi e mezza congregazione li aspettavano alla stazione di Stellenbosch per dar loro il benvenuto. La famiglia scoprì tutt'a un tratto che il ritmo della sua esistenza era completamente mutato. Dal primo giorno, si può dire, Manfred si ritrovò immerso nella preparazione agli esami d'ammissione all'università. Studiò da mane a sera per due mesi e sostenne una faticosa settimana di esami, per aspettarne ancora piú penosamente l'esito la successiva. Risultò primo in tedesco, terzo in matematica e ottavo come media generale. Davano frutto gli anni di studio indefesso passati in casa Bierman. All'inizio dei corsi fu accolto presso la facoltà di Giurisprudenza. La zia Trudi si oppose strenuamente al suo ingresso in un collegio universitario. Come non mancò di far notare, ora aveva una bella camera tutta per se: e le ragazze avrebbero sentito dolorosamente la sua mancanza, disse, comprendendosi implicitamente nel novero delle povere sofferenti. Senza contare che si sarebbe risparmiata la retta, sempre salata nonostante il principesco stipendio odierno dello zio Tromp. Ma lo zio corse in suo aiuto. Discretamente prese accordi finanziari di cui la famiglia non seppe mai nulla per alloggiare Manfred in un pensionato studentesco. « Stare in una casa piena di donne a poco a poco lo farebbe diventar matto. Meglio che vada dove può stare in compagnia di altri giovani e vivere appieno la vita universitaria. » Così il 25 gennaio Manfred si presentò tutto contento a un bel palazzo di stile olandese trasformato in residenza per studenti, il Rust en Vrede. Tradotto, questo nome significa « Pace e riposo », cosa di cui non tardò a scorgere l'ironia quando - nel giro dei primi cinque minuti - fu individuato come matricola. Lo privarono del nome, sostituendolo con quello di « scorreggia » che condivideva con le altre diciannove matricole della casa. Gli intimarono di non dire mai piú « io » o « me », ma soltanto « la qui presente scorreggia »: e di chiedere permesso (non solo agli anziani, ma anche ai muri del collegio) prima di fare alcunché. Dovette quindi farfugliare continuamente stronzate tipo: « Onorevole porta. questa scorreggia vorrebbe passare», oppure: «Onorevole cesso, questa scorreggia vorrebbe sedersi ». All'interno del collegio lui e le altre matricole non potevano girare camminando normalmente, ma all'indietro anche per salire e scendere le scale. Erano loro vietati i rapporti coi familiari e gli amici, ma soprattutto le amiche; se venivano sorpresi anche solo a guardare nella vaga direzione di qualche bella ragazza, gli appendevano al collo un cartello che diceva: « Attenzione al maniaco sessuale ». Allo scoccare di ogni ora le loro camere erano invase e devastate dagli anziani. Materasso, lenzuola e coperte venivano tolte dal letto, sbattute per terra e innaffiate: poi ci piazzavano sopra, ben impilati, tutti i libri e i vestiti della matricola. Dopo due o tre di queste irruzioni le matricole decidevano in genere di dormire sulle nude piastrelle del corridoio, lasciando la camera nel caos. A questo punto arrivava l'ispezione, capeggiata da Roelf Stander, quanto mai signorile goliardo del quarto anno. « Siete la piú disgustosa masnada di scorregge che abbiano mai
afflitto questa università », diceva al termine dell'ispezione. « Avete un'ora per riordinare alla perfezione la vostra camera: dopo di che dovrete eseguire una marcia di punizione per il vostro intollerabile lassismo. » Era mezzanotte quando Roelf Stander si dichiarava finalmente soddisfatto e li incolonnava per la marcia. Ed ecco che nelle vie della placida cittadina addormentata sfilavano matricole collegate per la gola da una fune, con le mani legate dietro la schiena, un cuscino in equilibrio sulla testa e tutte in mutande. Uscivano dalla città e imboccavano un sentiero di montagna. Era scelto tra i piú duri e sassosi: quando uno cadeva, trascinava a terra la matricola che lo precedeva e quella che lo seguiva. Alle quattro del mattino venivano ricondotti in città coi piedi tutti sanguinanti e la gola scorticata dalla corda. In collegio scoprivano che la loro camera era stata devastata per l'ennesima volta, e venivano informati che l'ispezione successiva di Roelf Stander si sarebbe verificata alle cinque del mattino. All'università le lezioni cominciavano alle sette: non c'era nemmeno il tempo di fare colazione. Tutto questo era considerato un bello scherzetto. Le autorità accademiche chiudevano un occhio con la scusa che i ragazzi sono ragazzi, e il rituale dell'iniziazione era « una tradizione dell'università », che infondeva nei nuovi arrivati il senso di far parte di una comunità speciale. Tuttavia, in questo clima di indulgenza, sadici e bulli, che si celano in ogni ambiente, approfittavano largamente dell'impunità. Qualche matricola fu selvaggiamente percossa e una addirittura spalmata di catrame e di piume. Manfred sentí qualcuno ridere allegramente di una simile punizione: non immaginavano che il catrame bollente potesse far male sulla pelle, che peli e capelli incrostati dovessero poi essere strappati, e che una persona sottoposta a quello scherzetto finisse all'ospedale. La matricola in questione non tornò piú all'università, ma la faccenda fu messa a tacere. Altre matricole si ritirarono in quelle prime settimane, perché i sedicenti guardiani della tradizione universitaria e studentesca non avevano la minima considerazione per le costituzioni psicofisiche piú delicate. Una delle vittime, un asmatico, fu dichiarato dagli anziani colpevole di insubordinazione e condannato alla pena dell'annegatio. La sentenza fu eseguita nei gabinetti del collegio. Quattro vigorosi anziani afferrarono il poveraccio e lo calarono ripetutamente a testa in giú nella tazza del cesso. Erano presenti due studenti di medicina del quinto anno, per controllare il polso e il battito cardiaco della vittima durante il trattamento: ma non avevano tenuto conto dell'asma, e per un pelo l'annegamento non si verificò sul serio. Solo con l'iniezione endovenosa di un farmaco stimolante i due coglioni, che a questo punto si mettevano le mani nei capelli, riuscirono per puro accidente a far ricominciare a battere il cuore del ragazzo. Che il giorno dopo partí, come gli altri, per non tornare mai piú. Manfred, nonostante la sua stazza, i suoi muscoli e la sua avvenenza, che lo rendevano un bersaglio naturale, riuscì a dominare la rabbia e a tenere la lingua a freno. Si sottomise stoicamente anche alle provocazioni piú estreme, finché verso la fine della seconda setti-
mana di tormento un cartello comparve in bacheca della sala comune. TUTTE LE SCORREGGE SI TROVINO SABATO ALLE ORE 16 ALLA PALESTRA DELL'UNIVERSITA' PER LA SELEZIONE DELLA RAPPRESENTATIVA DI BOXE F.to Roelf Stander capitano della squadra di boxe Tutti i collegi universitari erano specializzati nell'uno o nell'altro sport: nell'uno andava forte la squadra di rugby, nell'altro quella di atletica. Lo sport del Rust en Vrede era la boxe. Per questa ragione (oltre che per averci studiato lui stesso) lo zio Tromp l'aveva iscritto lì. Era anche la ragione per cui la riunione in cui dovevano tirare le matricole del collegio risultò affollatissima. C'erano almeno trecento spettatori seduti tutt'intorno al ring quando arrivò Manfred insieme alle altre matricole « incatenate ». Furono guidati allo spogliatoio, si cambiarono e si rimisero in fila contro il muro, in ordine di altezza. Roelf Stander li passò in rivista, con l'elenco in mano, facendo gli accoppiamenti per gli incontri. Era evidente che li aveva già meditati nei giorni precedenti, valutando le matricole dal punto di vista pugilistico. Manfred, che era il piú alto e grosso di tutti i nuovi venuti, era a un'estremità della fila e Roelf Stander si fermò davanti a lui. « Non c'è scorreggia piú potente e fetente di questa », annuncio, poi tacque un attimo studiando Manfred. «Quanto pesi, scorreggia? » « Sono un mediomassimo, signore », e gli occhi di Roelf si strinsero leggermente. Aveva già individuato in Manfred il candidato migliore, e sentirlo parlare in gergo pugilistico lo rincuorò assai. « Hai già tirato di boxe, scorreggia mia? » domandò, per poi fare una smorfia disgustosa alla risposta: « Non ho mai sostenuto incontri ma ho fatto un pò di allenamento, signore. » « E va bene, allora! Io sono un peso massimo, ma poiché qua di mediomassimi non ce ne sono, oltre a te, farò io qualche ripresa con te, se prometti di non strapazzarmi troppo, scorreggia mia! » Roelf Stander era il capitano della selezione universitaria, campione provinciale dei dilettanti e speranza sudafricana per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Le sue parole erano quindi quanto mai ironiche e i presenti sghignazzarono a piú non posso. Anche Roelf non riuscì a reprimere un sorrisetto goliardicamente fuori luogo. « D'accordo, si comincia dai leggeri », continuò, guidandoli in palestra. Le matricole sedettero su una lunga panca in fondo, da cui il ring si vedeva male dietro le file privilegiate degli spettatori anziani. Roelf e i suoi assistenti, tutti membri della squadra di boxe, infilarono i guantoni ai primi due e li accompagnarono sul ring. Mentre avveniva tutto questo, Manfred si sentì osservato. Poiché gli anziani erano lontani scrutò liberamente tra il pubblico. Si era dimenticato di quanto fosse carina Sarah, o era sbocciata
nelle ultime settimane: i suoi occhi brillavano e aveva le guance rosse per l'eccitazione. Gridava il suo nome sventolando un fazzoletto di pizzo. Restò impassibile, strizzandole furtivamente l'occhio mentre lei gli mandava un bacio sulla punta delle dita e ricadeva seduta a fianco della massa montagnosa dello zio Tromp. « Sono venuti tutti e due! » si rallegrò Manfred. Fino a quel momento non si era accorto di sentire la loro mancanza. Lo zio Tromp girò la testa e gli sorrise, coi denti bianchissimi balenanti nel cespuglio nero della barba: poi tornò a guardare verso il ring. Cominciò il primo match. Due pesi piuma si avventarono, l'uno contro l'altro in un turbine di sventole, ma uno era di gran lunga superiore e presto il sangue arrossò il ring. Roelf Stander fermò l'incontro alla seconda ripresa e consolò lo sconfitto con una pacca sulla spalla. « Bravo, bravo. Non è vergogna perdere. » Seguirono gli altri incontri, tutti animatissimi, perché nessuno voleva fare brutta figura. Ma a parte un discreto peso medio erano tutti rozzi e alquanto incapaci. Alla fine restò seduto in panchina solo Manfred. « E va bene, scorreggia! » disse l'anziano mettendogli i guantoni. « Vediamo che cosa sai fare. » Manfred si levò dalle spalle l'asciugamano proprio mentre Roelf Stander usciva dallo spogliatoio e saliva sul quadrato. Indossava ora la maglietta bruna e i pantaloncini a ricami dorati che erano i colori dell'università, e ai piedi non aveva le scarpe da tennis come gli altri, ma veri scarponcini alti da boxe. Alzò i guantoni per far cessare fischi e schiamazzi. « Signore e signori, per l'ultimo candidato, che è un mediomassimo, non ci sono avversari della sua categoria. Sicché lo metterò alla prova io stesso. » Urla e schiamazzi ricominciarono subito: tra questi, però, si distinguevano incitazioni tipo « Vacci piano, Roelf! » e « Non ammazzare la povera scorreggia! ». Roelf chinò ripetutamente la testa a garantire in anticipo la sua clemenza, rivolto soprattutto alle panche occupate dalle ragazze dei pensionati femminili. Da esse si levarono strilli e squittii appassionati. Roelf infatti era alto e bello, aveva occhi scuri brillanti e la mascella ben marcata. Aveva i capelli folti e lustri di brillantina, i basettoni e i baffi curati da lord. Quando Manfred arrivò all'altezza delle prime file non riuscì a trattenersi dal guardare Sarah e lo zio Tromp. Sarah saltava sulla sedia, premendosi i pugni chiusi sulle guance arrossate. « Pestalo, Manie! » gridava. « Vat hom! » mentre lo zio Tromp annuiva vigorosamente. « Rapido come il mamba, Jong! Coraggioso come il ratel! » gli sussurrò in modo da farsi sentire solo da lui. Manfred alzò la testa scavalcando le corde, sentendosi piú agile e leggero di un momento prima. Un altro anziano si era assunto il compito di arbitrare. « In questo angolo, 84 chilogrammi al peso, il capitano della selezione universitaria e campione dei dilettanti della provincia del Capo di Buona Speranza... Roelf Stander! E in quest'altro angolo, 78 chilo-
grammi di peso », in segno di rispetto per il pubblico eterogeneo e femminile non aveva usato la qualifica di scorreggia, « ... Manfred De La Rey. » Suonò il gong e Roelf uscì dall'angolo a passo di danza, ondeggiando e muovendosi sul tronco, sorridendo appena sopra la guardia dei guantoni. Si girarono attorno studiandosi a vicenda, appena fuori portata. Un giro di danza da una parte, un giro di danza dall'altra. Il sorrisetto svaporò. Questa proprio non se l'aspettava. La guardia del suo avversario sembrava impenetrabile. La testa bionda incassata tra le spalle muscolose, si muoveva per il ring leggero come una nuvola. « Sa tirare! » Roelf si arrabbiò. « Mi ha raccontato una balla. Questo qua è un pugile. » Cercò ancora una volta di occupare il centro del ring, ma l'avversario lo allontanò subito spostandosi minaccioso sulla sua sinistra. Non si erano ancora scambiati neanche un pugno, ma gli schiamazzi del pubblico erano cessati. Avevano capito di assistere a qualcosa di straordinario: avevano colto il mutato atteggiamento di Roelf dalla condiscendenza disinvolta all'impegno piú serio: e chi lo conosceva bene aveva notato anche le rughine di preoccupazione che si erano formate agli angoli della bocca e degli occhi. Roelf tirò un sinistro d'assaggio che l'altro non si degnò nemmeno di schivare, ma parò senza scomporsi con una mossa del guantone. Quel fuggevole contatto bastò a dargli un'idea della potenza di Manfred. Lo guardò negli occhi: era un suo trucco per dominare gli avversari. Gli occhi di quell'uomo erano di uno strano colore, tipo topazio o zaffiro giallo: a Roelf ricordavano gli occhi di un leopardo divoratore di vitelli che suo padre aveva catturato una volta con una trappota nelle colline accanto alla sua fattoria. Erano uguali: ed ecco che si accesero di una luce dorata fredda, implacabile e disumana. Non era tanto paura quella che attanagliava il petto di Roelf Stander, quanto premonizione di un terribile pericolo. C'era una belva feroce sul ring con lui. Ne scorgeva la voracità e la ferocia negli occhi, e cercò istintivamente di martellarla. Usò il sinistro, che era il suo pugno migliore, mirando dritto a quegli occhi spietati. Il colpo non arrivò a destinazione. Frustò l'aria. Roelf cercò disperatamente di coprirsi ma offrì il fianco, forse per un centesimo di secondo, e in quell'attimo qualcosa esplose nel punto scoperto. Non vide nemmeno il pugno: non capí nemmeno cos'era, perché non aveva mai preso un cazzotto cosí forte. Sembrava scoppiargli dentro, fracassargli le costole, dilaniargli le viscere, straziargli i polmoni, fargli sputare tutto il fiato che aveva raschiandogli la gola. Fu proiettato indietro, devastato dal dolore. Le corde lo scottarono alla vita e alle scapole e lo fiondarono di nuovo avanti. Il tempo sembrava essere rallentato: la vista gli era divenuta piú chiara e acuta, come se nel sangue gli girasse qualche droga: sicché stavolta vide partire il pugno. Fantasticò che il guantone non contenesse una mano di carne e d'ossa ma un maglio d'acciaio, e gli si accapponò la pelle. Ma non riuscí a schivarlo, e stavolta il colpo fu ancora piú forte: incredibile, al di là di ogni piú scate-
nata immaginazione. Senti strapparsi qualcosa dentro e le gambe gli si sciolsero come cera fusa. Gli venne voglia di urlare dal dolore, ma riuscí a controllarsi. Voleva andare al tappeto, ma le corde lo tenevano su, anzi tornavano a fiondarlo in avanti. Mentre aveva l'impressione di sgretolarsi come un uomo di vetro arrivò il terzo colpo, ingrandendosi fulmineamente come un pallone davanti alla sua faccia. Non lo sentí nemmeno. Lo prese d'incontro e non capì piú niente, finí per terra a faccia avanti e giacque immobile. Manfred continuava ad agitarsi inferocito sull'avversario atterrato, in una frenesia selvaggia e irrefrenabile. Il suo volto era deformato da una smorfia disumana, e negli occhi gli brillava la luce gialla come un fuoco assassino. Tra la folla una donna gridò e immediatamente si diffuse una costernata agitazione. Tutti saltarono in piedi, increduli ed esaltati, e cominciarono ad accorrere sul ring, a dar manate sulle spalle a Manfred, mentre altri cercavano, invano per il momento, di rianimare il campione messo KO. Le donne erano livide. Alcune strillavano ancora, tra atterrite ed eccitate da un titillamento quasi sessuale. Volevano vedere! Ed ecco che Roelf Stander scendeva finalmente giú dal ring con la testa ciondoloni, ondeggiando come dieci ubriachi, sorretto dai suoi assistenti che cercavano di non sporcarsi i vestiti con gli schizzi della sua faccia insanguinata. A fatica riuscí a girarsi a guardare Manfred festeggiato e acclamato. I volti delle donne tradivano paura e orrore ma anche, in certi casi, desiderio carnale: una, mentre Manfred passava, avanzò la mano e gli toccò la spalla. Lo zio Tromp prese Sarah per il braccio per calmarla, perché stava saltabeccando e strillando come un derviscio in frenesia. La portò fuori, al sole. Era ancora del tutto incoerente par la grande eccitazione. « E' stato magnifico... così veloce, così bello. Oh, zio Tromp, non ho mai visto niente di simile in tutta la mia vita. Non è un ragazzo meraviglioso? » Lo zio Tromp borbottò ma non fece alcun commento, e stette a sentire le sue ciarle per tutta la strada fino a casa. Solo quando salirono i gradini dell'imponente ingresso si fermò e guardò indietro, come a rievocare un posto o una persona che stava abbandonando con grande rimpianto. « La sua vita è cambiata, e la nostra pure cambierà », si limito a mormorare. « Prego Iddio Onnipotente che nessuno di noi debba mai rimpiangere quanto è accaduto oggi, perche sono io il responsabile di tutto. » Il rituale goliardico duro altri tre giorni e a Manfred continuava a essere impedito ogni contatto che non fosse con altre matricole. Tuttavia per esse era diventato un dio, incarnava la loro stessa speranza di salvezza, e gli si stringevano attorno per vincere il senso di umiliazione e di degradazione che le attanagliava, traendo forza e risolutezza da lui. L'ultima sera fu la peggiore. Bendati e tenuti senza dormire, co-
stretti a sedere immobili su un'asse molto stretta, con in testa un secchio di latta su cui un anziano avrebbe suonato il tamburo senza preavviso, parve loro che la notte non finisse mai. Poi, all'alba, secchi e bende furono loro tolti e Roelf Stander si rivolse alle matricole. « Uomini! » comincio; ed essi sbatterono gli occhi per questa qualifica che fino allora era stata negata, rimbambiti par la mancanza di sonno e assordati dai colpi sul secchio. « Siamo orgogliosi di voi... siete il miglior gruppazzo di matricole che sia arrivato in collegio da quando giunsi matricola anch'io. Avete sopportato tutte le prove senza batter ciglio e senza lamentarvi mai. Benvenuti a Rust en Vrede: adesso questa è casa vostra, e noi siamo vostri fratelli. » Ed ecco gli anziani sommergerli tra risate, strette di mano e pacche sulle spalle. « Forza, uomini! Andiamo al bar che vi paghiamo da bere. » Così ruggì Roelf Stander, e cento studenti uscirono sottobraccio, cantando l'inno del collegio, diretti al vecchio hotel Drosdy. Si misero a dar gran colpi sulla porta ancora sbarrata finché il barman, nonostante non fosse ancora ora di vendere alcolici, dovette aprire. Con la testa vacua per il sonno saltato, e una pinta di birra chiara nella pancia, Manfred aveva un sorriso ebete sul volto e, senza darlo a vedere, per tenersi in piedi si appoggiava al banco del bar. A un tratto ebbe l'impressione che stesse per succedere qualcosa e si voltò. La folla di studenti aveva fatto largo intorno a lui, lasciando un corridoio per il quale stava venendo Roelf Stander, scuro in volto e minaccioso. A Manfred venne il batticuore ricordando che era la prima volta che si rivedevano a faccia a faccia dopo l'incontro di tre giorni prima. Non sarebbe stata certo una cosa divertente. Mise giú il bicchiere, scosse la testa per schiarirsela e si voltò verso l'altro, fronteggiandolo. Roelf si fermò davanti a lui, e gli altri, matricole e anziani che fossero, si strinsero intorno per non perdere nemmeno una parola. La suspense durò per parecchi secondi: nessuno osava fiatare. « Ti voglio fare due cose », ruggí Roelf Stander e, mentre Manfred si metteva in guardia, sorrise, un sorriso simpatico e cordiale, e gli porse la destra « Primo, voglio darti la mano; secondo, voglio pagarti una birra. Perdio, Manie, non avevo mai preso da nessuno cazzotti come i tuoi. » Tutti si misero a ridere allegramente e la giornata si dissolse in una nebbia di birra e cordialità. La faccenda avrebbe anche potuto finire lí, perché terminato il periodo di iniziazione, accolto Manfred nella fratellanza del Rust en Vrede, correva pur sempre una bella differenza sociale tra un prestigioso quart'anno, direttore goliardico e capitano della squadra di boxe, e una matricola. Tuttavia la sera dopo, un'ora prima di cena, bussarono alla porta di Manie: era Roelf, in toga e berretto goliardico. Si sedette a chiacchierare amabilmente con Manfred sulla boxe, sugli studi di legge e sulla geografia dell'Africa del Sudovest. Quando suonò il gong, si alzò. « Domattina alle cinque vengo a chiamarti e andiamo a correre insieme. Tra due settimane abbiamo un importante incontro con gli Ikeys. » All'espressione sbalordita di Manfred si mise a ridacchiare.
« Non te l'ho ancora detto? Sei in squadra. » Dopo di che tutte le sere Roelf venne a trovarlo prima di cena, spesso con una bottiglia di birra nera, nella tasca della toga accademica, che si dividevano fraternamente, diventando sempre piú rilassati e sicuri nella reciproca compagnia, insomma amici. La cosa non sfuggì agli altri studenti del collegio, sia anziani che matricole, e lo status di Manie ne fu elevato parecchio. Due settimane dopo, l'incontro con gli Ikeys era fissato in quattro categorie di peso, e Manie avrebbe difeso per la prima volta i colori dell'università. Ikeys era il soprannome degli studenti dell'università di Città del Capo, di lingua inglese, tradizionalmente rivale di quella di Stellenbosch dove si parlava afrikaans. Gli studenti di quest'ultima erano soprannominati Maties. La rivalità tra le due università era così sentita che i tifosi arrivavano a camionate intere, coi colori dell'università addosso, pieni di birra ed entusiasmo rumoroso. Riempirono metà della palestra, cantando i loro inni, mentre i tifosi dei Maties li fronteggiavano dall'altra parte. L'avversario di Manfred era Laurie King, un pugile esperto, dalle mani buone e la mascella di cemento: in quaranta incontri da dilettante non era mai andato al tappeto. Quasi nessuno aveva mai sentito parlare di Manfred De La Rey, e i pochi che conoscevano il suo esordio tendevano ormai a considerarlo un episodio casuale contro uno che lo aveva preso sottogamba. Laurie King, però, aveva sentito la storia e la prendeva sul serio. Così si tenne alla larga per una buona metà della prima ripresa, finché il pubblico non cominciò a mandarlo a quel paese. Ormai però si era fatto un'idea del pugile che aveva davanti e pensava che, per quanto si muovesse bene, non fosse pericoloso come dicevano e potesse essere raggiunto da qualche sinistro alla testa. Entrò a portata di tiro per sperimentare la propria teoria. L'ultima cosa che ricordò poi furono gli occhi gialli e feroci, ardenti come il sole del Kalahari. Si ritrovò al tappeto senza nemmeno sapere come c'era finito. Pur « salvato dal gong », Laurie King non riuscì a riprendersi in tempo per la seconda ripresa. Abbandonò il combattimento con la testa che ciondolava come quella di un ubriaco, sorretto dai secondi fino allo spogliatoio. In prima fila lo zio Tromp ruggiva come un bufalo ferito, mentre accanto a lui Sarah strillava a squarciagola piangendo di gioia ed esaltazione. Il giorno dopo sul giornale afrikaner Die Burger, il Cittadino, uscì un articolo in cui Manfred veniva soprannominato « il Leone del Kalahari ». Il giornalista sportivo aveva riconosciuto in lui una grande promessa. Informava inoltre che Manfred non solo era nipote del generale Jacobus Hercules De La Rey, eroe del Folk, ma anche imparentato con il reverendo Tromp Bierman, campione di boxe, autore di libri, e nuovo pastore di Stellenbosch. All'uscita dalla lezione di sociologia Manfred trovò ad aspettarlo Roelf Stander e tutta la squadra di boxe. « Ma perché non ce l'avevi detto? » lo aggredì furioso Roelf. « Tuo zio è Tromp Bierman! Dio buono, è stato campione sudafri-
cano per cinque anni! Ha messo giú Slater e Black Jephta! » « Ah, non ve l'avevo detto? » disse Manfred accigliandosi. « Si vede che mi era uscito di mente. » « Manie, tu devi presentarcelo! » implorò il vicecapitano della squadra. « Vogliamo conoscerlo tutti... per favore, per favore! » « Pensi che accetterebbe di allenarci lui, Manie? Prova a chiederglielo! Diavolo, se avessimo quale allenatore Tromp Bierman... » Roelf si interruppe, sbigottito dal solo pensiero. « Vi dico io come si può fare », suggerì Manfred. « Se riuscite a trascinare in chiesa la squadra domenica mattina, sono sicuro che zia Trudi inviterà tutti a pranzo dopo la funzione. E non sapete che cosa vi aspetta!... i koeksisters di mia zia sono un assaggio di paradiso. » Così, lindi e lustri e vestiti della festa, i pugili della rappresentativa studentesca si presentarono in chiesa in ordinato plotone, e le loro risposte e interpretazioni corali fecero sobbalzare le tegole del tetto. La zia Trudi considerò l'occasione una sfida alle sue capacità culinarie. Lei e le ragazze lavorarono una settimana per preparare quel pranzo. Gli invitati, tutti giovani in perfette condizioni fisiche, erano sottoposti da settimane al cibo del collegio, e si gettarono quasi increduli su quelle prelibatezze. Lo zio Tromp - a capotavola, in ottima forma e pronto a raccontare i suoi incontri piú memorabili all'inizio fu un tantino trascurato. Le ragazze turbinavano arrossendo e servendo ai giovanotti conserve, arrosti, budini e chi piú ne ha piú ne metta. Alla fine del pranzo Roelf Stander, torpido come un pitone intento a digerire una gazzella, si alzò a fare un discorso di ringraziamento a nome della squadra, ma a metà lo trasformò in un appassionato appello allo zio Tromp perché assumesse l'incarico di allenatore onorario. Lo zio Tromp scacciò il solo pensiero con un gesto della mano, ma tutta la squadra si mise a insistere schiamazzando, Manfred compreso. Tromp addusse allora tutta una serie di scuse, ognuna piú zoppicante della precedente. Alla fine, con un grande sospiro, capitolò. Poi, accettando le congratulazioni, i festeggiamenti e le strette di mano, lasciò libero corso alla sua gioia. « Ragazzi miei, non avete idea di che gatta da pelare vi siete presì. Ci sono parole che io proprio non capisco: "sono stanco" e "ne ho abbastanza", ad esempio! » li avvertì. Dopo la funzione serale Manfred e Roelf tornarono a Rust en Vrede camminando sotto le querce. Roelf stava stranamente zitto. Non parlò fino a quando arrivarono davanti al portone. Poi disse in tono pensoso: « Di, un pò, Manie, quanti anni ha tua cugina? » « Quale? » chiese Manfred distratto. « Quella grassa si chiama Gertrude, quella coi brufoli è Renata... » « No, no! Manie, non far l'asino! » l'interruppe Roelf. « Dico quella carina, con gli occhi azzurri e i capelli d'oro. Quella che sposerò. » Manfred si fermò di scatto e si voltò ad affrontarlo con la testa
incassata tra le spalle e la bocca contorta in una smorfia di furore. « Non dirlo mai piú! » Aveva la voce rotta dall'ira e prese Roelf per il bavero. « Non usare mai piú questo linguaggio sporco parlando di Sarah, se no ti ammazzo! » Aveva il viso a pochi centimetri da quello di Roelf. Quella terribile luce gialla, la luce assassina, brillava nei suoi occhi. « Ehi, Manfred, che ti prende? » balbettò Roelf. « Guarda che non ho detto proprio niente di sporco. Sei matto? Non insulterei mai Sarah. » La luce feroce svanì pian piano dagli occhi gialli di Manfred. Scosse la testa come a schiarirsela, e parlò con qualche stordimento: « E' solo una bimba, non dovresti parlarne così. E' una bambinetta e basta ». « Una bambina? » ridacchiava incerto Roelf, mettendosi a posto la giacca. « Ma tu sei cieco, Manie. Non è una bambina. E' la ragazza piú carina che... » Manfred si allontanò irritato ed entrò nel portone. « Ah! » sussurrò Roelf. « E' così dunque! » sospirò ficcandosi le mani in tasca. Ora gli tornava in mente qualche sguardo di Manfred a Sarah, qualche carezza affettuosa e furtiva sul collo quando si chinava a cambiargli il piatto, e sospirò di nuovo, in preda a un'improvvisa malinconia. « Ci sono miliardi di ragazze carine al mondo » si disse cercando di scacciar l'umor nero. « Tutte cotte di Roelf Stander... » Alzò le spalle, fece un mezzo sorriso e seguí Manfred nel pensionato. Manfred vinse i dodici incontri che seguirono tutti per KO entro le prime tre riprese. Ormai lo chiamavano « Leone del Kalahari » su tutti i giornali. « D'accordo, Jong, vinci pure finché ti riesce », l'ammoniva zio Tromp, « ma ricordati che non si è giovani per sempre, e alla lunga piú che i muscoli conta il cervello. Bada di non dimenticartelo mai. » Così Manfred si dedicava agli studi con altrettanto entusiasmo dell'allenamento. Ormai il tedesco gli veniva naturale come l'afrikaans, e lo parlava molto meglio dell'inglese, che adottava con riluttanza e con un forte accento. Rispetto alla giurisprudenza, trovava la legge olandese, basata sul diritto romano, del tutto soddisfacente quanto a logica e filosofia: leggeva il corpus giustinianeo come letteratura amena. L'interessavano molto anche la politica e la sociologia. Con Roelf ne parlavano continuamente, diventando sempre piú amici. L'abilità pugilistica l'aveva immediatamente trasformato in una stella studentesca. Certi professori lo trattavano perciò con speciale riguardo e indulgenza, mentre altri si proponevano di stangarlo. Davano per scontato che fosse una testa di rapa e restavano sbalorditi nel constatare che non lo era affatto. « Forse il nostro famoso boxeur vorrà darci il contributo del suo torreggiante intelletto gettando qualche luce sul concetto di bolscevismo nazionale. » Così aveva parlato il professore di scienze politiche e sociologiche, un intellettuale alto e segaligno dagli occhi penetranti di mistico. Nato in Olanda, i genitori l'avevano portato in Africa da
bambino: e ora il dottor Hendrik Frensch Verwoerd era uno dei principali intellettuali afrikaner e campione delle aspirazioni nazionalistiche del suo popolo. Teneva lezione alle matricole una volta al semestre, riservando il suo impegno ai migliori studenti anziani. Adesso stava sorridendo con aria di superiorità mentre Manfred, alzatosi in piedi, cercava di raccogliere le idee. Il dottor Verwoerd attese qualche secondo e stava per fargli cenno di sedersi - il ragazzo era evidentemente un minus habens -, quando Manfred cominciò a rispondere, parlando con grande esattezza e proprietà di linguaggio nell'accento piú corretto (quello di Stellenbosch che è per l'afrikaans quel che è l'accento di Oxford per l'inglese) «Contrariamente all'ideologia convenzionale del bolscevismo creato da Lenin, il concetto di nazional-bolscevismo fu usato originariamente in Germania per descrivere una politica di resistenza al Trattato di Versailles... » Il dottor Verwoerd sbatté gli occhi e smise di sorridere. Il giovanotto non ci era cascato, separando immediatamente i due concetti. « E sa dirci chi elaborò per primo questa dottrina politica? » domandò Verwoerd con una nota d'irritazione nel tono. « L'idea fu avanzata verso il 1919 da Karl Radek, se non mi sbaglio. Egli proponeva un'alleanza delle potenze sconfitte contro i comuni nemici occidentali, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. » Il professore si chinò in avanti come un falco che punta la preda. «A suo modo di vedere, una politica del genere potrebbe essere d'attualità anche in Sudafrica? » Si prestarono reciproca attenzione per tutto il resto della lezione, mentre i compagni di Manfred, sollevati da ogni necessità di pensare, ascoltavano in preda a vari gradi di noia o perplessità. La sera del sabato seguente, quando Manfred vinse il titolo universitario dei mediomassimi, il dottor Verwoerd era a vedere in prima fila. Non andava mai alle manifestazioni sportive, se non forse alle partite di rugby, che nessun sudafricano degno di questo nome potrebbe mancare. Pochi giorni dopo il professore mandò a chiamare Manfred, apparentemente per discutere un suo saggio sulla storia del liberalismo: ma i loro argomenti superarono di gran lunga questo pretesto. Alla fine, il dottor Verwoerd fermò Manfred sulla porta. « Eccole un libro che forse non ha ancora avuto occasione di leggere », disse porgendoglielo. « Lo tenga per tutto il tempo che vuole, e quando l'ha finito mi faccia sapere che cosa ne pensa. » Manfred aveva fretta di arrivare alla lezione successiva, così non lesse neanche il titolo. Quando poi rientrò nella sua stanza, lo gettò sulla scrivania. Roelf lo stava aspettando per andare a correre e non riuscí a dargli un'occhiata prima della sera tardi, quand'era già in pigiama. Lo prese dalla scrivania e si accorse di averne già sentito parlare. Era l'edizione originale tedesca. Non lo rimise giú fino a quando non spuntò l'alba e i piccioni selvatici cominciarono a tubare fuori della finestra. Allora chiuse il libro e rilesse il titolo: MeiN Kampf, di Adolf Hitler.
Passò il resto della giornata in una trance di tipo quasi religioso. Che rivelazione! All'ora di pranzo tornò in camera a leggere ancora. L'autore stava parlando direttamente a lui, rivolgendosi alle sue linee di sangue germaniche e ariane. Aveva la sensazione arcana che fosse stato scritto apposta. Perché, altrimenti, Herr Hitler avrebbe dovuto inserirci dei magnifici brani come questo: E' considerato naturale e onorevole che un giovane impari a tirare di scherma e cominci a battersi in duello a destra e a sinistra, ma se si dedica alla boxe è considerato volgare! E perché mai? Non c'è alcuno sport che come questo promuova lo spirito dell'attacco, richiedendo decisioni immediate, e alleni il corpo a una destrezza d'acciaio... ma soprattutto, il corpo giovane e forte deve imparare a prendere dei colpi... non è funzione dello stato Volkisch allevare una colonia di pacifici esteti e fisici degenerati. Se la nostra classe intellettuale superiore non fosse stata allevata cosí rigorosamente nell'etichetta aristocratica, se avesse imparato a tirare vigorosamente di boxe, non sarebbe mai stata possibile una rivoluzione tedesca di ruffiani, disertori e altra feccia del genere... Manfred rabbrividí quando vide formulare e spiegare così chiaramente i suoi stessi principi, duramente conquistati, di moralità personale. Gli nacque dentro una specie di premonizione. Insieme all'allenamento del corpo, deve cominciare una lotta senza quartiere contro l'avvelenamento dell'anima. Oggi la nostra vita pubblica è tutta un'incubatrice di idee e stimoli sessuali... Anche Manfred aveva sofferto questi tormenti, posti come insidiose trappole sulla strada dei giovani e puri. Era stato costretto a lottare contro le reazioni impure del suo corpo quando gli era capitato di guardare riviste e manifesti cinematografici... sempre scritti in inglese, quella lingua degenerata e corrotta che cominciava a odiare... recanti foto di donne seminude. « Hai ragione! » dichiarò, sfogliando furiosamente le pagine del libro. « Stai tracciando le grandi linee del futuro sviluppo dell'uomo nella verità. Dobbiamo essere forti e puri. » Poi il suo cuore ebbe un soprassalto quando vide scritte a chiare lettere altre verità che in precedenza aveva sentito solo adombrare in velate allusioni. Fu riportato indietro negli anni, al campo di disoccupati lungo la ferrovia a Windhoek, e rivide la vignetta di quel giornale che accusava Hoggenheimer di condurre il popolo alla schiavitú. La sua indignazione era tale che tremava d'ira mentre leggeva: Con satanica gioia in viso, il giovane ebreo dai neri capelli tende l'osceno agguato alla candida fanciulla, il cui sangue contaminerà col proprio, rubandola al suo popolo. Vide con gli occhi della mente il bianco e tenero corpo di Sarah giacere aperto sotto il corpaccione peloso di Hoggenheimer e gli venne voglia di uccidere. Poi l'autore incise una vena del suo sangue afrikaner cosí abilmente che Manfred sentí la propria anima straziarsi sulla pagina.
Furono e sono gli Ebrei a portare i negri in Renania, sempre col segreto pensiero e il chiaro obiettivo di rovinare l'odiata razza bianca mediante l'inevitabile imbastardimento... Rabbrividí. « Swartgevaur! Pericolo negro! » Quello era sempre stato il grido di raccolta del suo popolo nei secoli passati in Africa: a quel richiamo rispondeva ancora, per atavismo, il suo cuore. Terminò il libro scosso ed esausto come non l'aveva mai ridotto il ring. Benché fosse già tardi, andò a trovare l'uomo che gliel'aveva dato, e parlarono appassionatamente e seriamente fin dopo mezzanotte. Il giorno seguente il professore lasciò cadere una parola di approvazione in alto loco. « Ho conosciuto una persona che ritengo molto opportuno affiliare, perché ha mente acuta e ricettiva e ben presto avrà in seno al nostro popolo una posizione di grande rilievo e influenza. » Alla riunione successiva di una certa società segreta fu dunque deciso di arruolare Manfred De La Rey, già amico di uno dei capi della gioventú studentesca di Stellenbosch. Cinque giorni la Settimana Roelf e Manfred, per correre, imboccavano un sentierino tra le montagne molto ripido e duro. Dopo otto chilometri si fermavano a bere nella pozza sotto una cascata candida di schiuma. Roelf guardava Manfred inginocchiarsi sui massi scivolosi, immergere le mani nella pozza e bere a grandi sorsate l'acqua limpida e pura. « E' una buona scelta », pensava, concordando tra se con la decisione dei superiori. La maglietta leggera e i calzoncini che Manfred indossava mostravano il suo corpo possente e aggraziato: i capelli d'oro ramato e i lineamenti del viso erano di una bellezza irresistibile. Ma la chiave della sua personalità erano gli occhi di giallo topazio. Perfino Roelf si sentiva messo un pò in ombra dalla crescente fiducia e sicurezza di se del piú giovane amico. « Riuscirà un forte leader, del tipo di cui abbiamo tanto bisogno. » Manfred si rialzò elasticamente in piedi, asciugandosi la bocca col dorso della mano. « Dai, alza le chiappe, ronzino », rise. « L'ultimo che arriva è un bolscevico. » Ma Roelf lo fermò. « Oggi vorrei parlarti un pò », disse, e Manfred si accigliò. « Ehi, già non facciamo altro che parlare continuamente! E perché poi proprio qui? » « Qui nessuno ci può sentire. E ti sbagli, Manfred: alcuni di noi fanno qualcosa di piú che parlare. Stiamo preparandoci all'azione, alla lotta dura, il genere che preferisci anche tu. » Manfred si girò, immediatamente interessato, e venne ad accucciarsi accanto a lui. « Chi si muove? E quale azione? » domandò. Roelf inclinò leggermente la testa. « Un'élite segreta di afrikaners militanti, i dirigenti del nostro
popolo. Si tratta di uomini che ricoprono posizioni-chiave nel governo, nel mondo accademico e in quello economico della nazione. Ecco chi sono, Manfred. E non solo i capi di oggi, Manfred, ma anche i capi di domani, persone come me e come te. Ecco chi si muove, Manie. » « Una società segreta? » chiese Manfred, oscillando sulle punte dei piedi. « No, Manie, ben piú di questo, un esercito segreto pronto a lottare per il nostro popolo oppresso, pronto a morire per riportare la nostra nazione alla grandezza. » Manfred si sentì addosso la pelle d'oca, mentre l'emozione della notizia gli si diffondeva per le vene. La sua reazione fu immediata ed entusiastica. « Soldati, Manie, soldati scelti e arditi della nazione », continuò Roelf. « Tu sei uno di loro? » gli domandò Manfred. « Sì, Manie, sono uno di loro, e anche tu. Hai attirato l'attenzione del nostro consiglio supremo. Mi è stato chiesto di invitarti a unirti alla nostra marcia verso il destino, alla nostra lotta per compiere il destino manifesto del nostro popolo. » «Chi sono i nostri capi? Come si chiama l'esercito clandestino? » « Lo saprai. Ti diremo tutto quando avrai giurato obbedienza », gli promise Roelf. Poi gli afferrò il braccio con la mano, affondando le dita nel possente bicipite di Manfred, duro come gomma piena.« Accetti la chiamata del dovere? » gli chiese. « Ti unirai a noi, Manfred De La Rey? Indosserai la nostra uniforme e combatterai nelle nostre file? » Il sangue olandese di Manfred, sospettoso, introverso e portato all'intrigo, era proclive a cogliere questa offerta di clandestinità; mentre il retaggio germanico che pure aveva nel sangue aspirava all'ordine e all'autorità di una società di fieri guerrieri. Una sorta di moderni Cavalieri Teutonici, duri e infaticabili nella loro attività rivolta a Dio e alla Patria. E benché non ne fosse consapevole agì anche la propensione al bel gesto teatrale che aveva ereditato dalla madre francese: il gusto della pompa militare, dell'alta uniforme, delle aquile della legione che Roelf gli stava offrendo. Prese a sua volta il braccio di Roelf e lo guardò a lungo negli occhi in questa stretta cameratesca. « Con tutto il cuore », disse piano Manfred. « Mi unirò a voi con tutto il cuore. » La luna piena splendeva alta sulle montagne di Stellenbosch, inargentandone le ripide creste esposte e piombando abissi e crepacci in una tenebra ancora più nera. La Croce del Sud brillava alta sull'asse polare, ma il suo chiarore era cancellato da un'altra croce di fuoco accesa al limitare della radura in mezzo alla foresta. Era un anfiteatro naturale, schermato dalle dense conifere che lo circondavano da ogni parte: un luogo segreto, nascosto a occhi ostili o curiosì, perfetto ai loro fini. Sotto la croce di fuoco si allineavano gli « arditi assaltatori scelti ». Tutti luccicavano di borchie, fibbie e speroni d'ottone: ognuno
reggeva una torcia accesa. Non erano piú di trecento i soldati lí convenuti: essi costituivano un'élite, e la loro espressione era fiera e solenne mentre guardavano sbucare dalla vegetazione l'esiguo manipolo delle nuove reclute. Scesero un breve declivio e traversarono la radura, dove il generale le aspettava per arruolarle. Manfred De La Rey fu il primo a mettersi sull'attenti davanti ai capì. Indossava la camicia nera, le brache da equitazione e gli stivali lustri che costituivano l'uniforme di questa banda di cavalieri segreti, ma era a testa scoperta e la sua uniforme non si fregiava di tante decorazioni ma solo del pugnale alla cintura. Il comandante in capo fece un passo avanti e si fermò a mezzo metro di distanza da Manfred. Era una figura imponente, un uomo alto dal viso stagionato dal tempo e la mascella volitiva. Benché un pò grosso in vita - sotto la camicia nera si notava, piú che intuire, la pancetta bianca -, restava tuttavia un uomo nel rigoglio della virilità, un fiero leone nerocrinito sulle cui vaste spalle ben poteva posarsi l'aura del comando e dell'autorità. Manfred lo riconobbe immediatamente, perché la sua faccia era sempre sul giornale. Era un pezzo grosso del governo, amministratore di una delle province, e la sua influenza era grande e diffusa. « Manfred De La Rey », chiese il comandante in capo con voce possente, « sei tu pronto a stipulare il patto di sangue? » « Sono pronto! » rispose Manfred con voce alta e chiara, estraendo il pugnaletto argentato dal fodero. Dietro di lui, dai ranghi uscí Roelf Stander in uniforme completa, col berretto e l'insegna della croce uncinata sul braccio destro. Estrasse la pistola dalla fondina, mise il colpo in canna e la puntò al cuore di Manfred, che non batté ciglio. Roelf era il suo padrino: la pistola significava che sarebbe stato lui stesso a ucciderlo se Manfred avesse mai tradito il giuramento di sangue che stava per fare. Cerimoniosamente il comandante in capo porse a Manfred un foglio di rigida pergamena. Era intestato col simbolo dell'ordine, un corno da polvere da sparo stilizzato, di quelli che adoperavano i Voortrekkers, i pionieri del suo popolo. Sotto era stampato il giuramento. Manfred resse il cartiglio con la sinistra, mentre con la destra si puntava il pugnale al cuore a simboleggiare che era pronto a morire per gli ideali della confraternita. « Davanti a Dio Onnipotente e ai miei camerati », lesse a voce altissima, « mi assoggetto completamente al servizio del destino che Dio ha assegnato al mio popolo. Giuro di obbedire ai precetti della Ossewa Brandwag, la sentinella del treno afrikaner, e agli ordini dei superiori. Sulla mia vita giuro di tenere il segreto su tutto quello che riguarda la Ossewa Brandwag, e di attuarne con gioia i sacri propositi. Domando che la vendetta mi insegua fino alla tomba del traditore se dovessi tradire i miei camerati, il mio giuramento o il mio Volk. Conto sui camerati ché eseguano la mia supplica: Se avanzo, seguitemi. Se indietreggio, uccidetemi. Se cado, vendicatemi. Dio m'aiuti! » Manfred si passò la lama argentea sulla pelle del polso. Ne uscì un rivolo di sangue, rosso scuro alla luce delle fiaccole. Lo sparse sul cartiglio del giuramento.
Il comandante in capo fece un passo avanti e l'abbracciò, mentre dietro di lui le file emettevano urla di giubilo guerresco. Al suo fianco Roelf Stander rimise la pistola nella fondina. Tra le ciglia gli brillavano lacrimucce d'orgogliosa commozione. Quando il comandante tornò indietro, Roelf corse ad afferrare la destra di Manfred nella propria. « Fratello mio », disse in un sussurro soffocato. « Adesso siamo davvero fratelli. » A metà novembre Manfred sostenne gli esami di fine anno e li passò, terzo su 153 matricole. Tre giorni dopo l'affissione dei risultati, la rappresentativa di boxe di Stellenbosch, guidata dal suo allenatore, partì per prender parte al Campionato interuniversitario. Quest'anno si sarebbe svolto presso l'università di Witwatersrand a Johannesburg, dove in quel momento affluivano pugili universitari da ogni angolo del Sudafrica. La squadra di Stellenbosch ci andava in treno, salutata alla stazione dagli allegri cori studenteschi dei tifosi. Un viaggio di oltre millecinquecento chilometri l'aspettava. Lo zio Tromp disse addio con un bacio alle sue donne, cominciando dalla zia Trudi per finire con Sarah, la piú giovane. Manfred lo imitò. Indossava la tenuta della squadra ed era così alto e bello che Sarah non riuscí piú a resistere e scoppiò in pianto quando si chinò su di lei per baciarla. Gli gettò le braccia al collo e strinse con tutta la sua forza. « Andiamo, andiamo, non fare l'ochetta », la redarguì all'orecchio Manfred. Era un pò turbato dallo strano tumulto che il contatto con la sua guancia di seta gli aveva provocato nella gabbia toracica. « Oh, Manie, vai cosí lontano! » Cercò di celare le lacrime affondando il viso nel suo collo. « Non siamo mai stati cosí lontani l'uno dall'altra, noi due! » « Andiamo, scimmietta, la gente ti sta guardando », la rimproverò gentilmente. « Dammi un bacio, che quando torno ti porto un regalo. » « Non voglio un regalo, voglio te », disse lei tirando su col naso. Poi alzò il visino dolce e posò le labbra su quelle di Manfred. Aveva la bocca calda e umida che sembrava sul punto di sciogliersi per il proprio stesso tepore. Era dolce come una mela matura. Il contatto durò pochi secondi, ma Manfred ne fu cosí intensamente consapevole che gli parve di stringerla nuda tra le braccia. Il suo corpo reagì immediatamente, e lui fu colto da un senso di colpa e disgusto di sé. Una tempesta di bassa foia gli ribolliva nel sangue, esplodendogli nel cervello come un razzo inarrestabile. La staccò rudemente da sè, e lei ci restò male: ancora gli tendeva le braccia, mentre lui montava goffamente sul treno tra gli allegri schiamazzi dei compagni di squadra. Quando il convoglio uscí dalla stazione Sarah si mise un pò discosto dalle altre ragazze, e quando quelle si voltarono per andarsene si trattenne ancora un pò a guardare il treno che accelerava correndo verso i monti.
In breve una curva li separò. Manfred allora si affacciò nello scompartimento e vide che Roelf Stander lo guardava perplesso. Apri la bocca come per dir qualcosa, ma Manfred lo fulminò con lo sguardo. « Hou jou bek! Chiudi il becco! » Il Campionato interuniversitario era un torneo di dieci giorni con cinque partecipanti per ogni categoria, sicché ognuno doveva combattere un giorno sí e uno no. Nella sua categoria Manfred era il numero due, il che significava che probabilmente avrebbe incontrato l'attuale detentore del titolo verso la fine. Questi era un ingegnere appena laureatosi all'università del Witwatersrand. Ancora imbattuto, aveva annunciato l'intenzione di passare professionista subito dopo le Olimpiadi di Berlino, in cui sembrava destinato a ben figurare. « Il Leone del Kalahari affronta la piú difficile prova della sua carriera folgorante... Sarà capace di incassare, oltre che di picchiare? Ecco la domanda che tutti si pongono », scrisse il critico pugilistico del Rand Daily Mail. « Non sembrano esserci altri pugili capaci di impedire, battendo l'uno o l'altro, l'incontro di De La Rey e Rushmore sabato 20 dicembre 1935. Il destro alla dinamite di Rushmore si troverà di fronte i massacranti uno-due di De La Rey, e chi scrive non vorrebbe perdere l'incontro per tutto l'oro che si cela nel sottosuolo di Johannesburg. » Manfred vinse i primi due incontri con irrisoria facilità. Gli avversari, già demoralizzati dalla sua reputazione, finirono entrambi al tappeto alla seconda ripresa, sotto le terribili scariche di Manfred. Mercoledì era giorno di riposo per lui. Lasciò la camera del pensionato dell'università ospitante alla mattina presto, rinunciando alla colazione per poter prendere il primo treno che partiva dalla stazione centrale di Johannesburg. Era meno di un'ora di viaggio nella prateria. Mangiò qualcosa al bar della stazione di Pretoria e proseguí a piedi, con andatura meno decisa del solito. La Prigione Centrale di Pretoria era un brutto edificio quadrato, ancora piú schiacciante e deprimente dentro che fuori. Era lì che venivano eseguite tutte le condanne a morte, e scontati gli ergastoli. Manfred entrò dall'ingresso dei visitatori e conferì col capo dei secondini che, senza sorridere, gli diede un modulo da compilare. Alla domanda « parentela col detenuto » esitò un momento, poi con decisione scrisse: figlio. Quando restituì al carceriere il modulo compilato, l'uomo lo lesse lentamente e poi alzò lo sguardo su di lui, studiandolo con spassionata gravità. « In tutti questi anni non è venuto a trovarlo mai nessuno », gli disse. «Prima non potevo venire», cercò di giustificarsi Manfred. « C'erano delle ragioni. » «E' quello che dicono tutti.» Poi l'espressione del carceriere cambiò. « Lei è il pugile, vero? » « Proprio così », disse Manfred. Per un impulso improvviso fece all'interlocutore il segno di riconoscimento dell'Ossewa Brand-
wag e negli occhi del carceriere lampeggio la sorpresa. Poi tornò a guardare il modulo compilato. « Benissimo allora. Si sieda, verrò a chiamarla quando il prigioniero sarà pronto. » Di nascosto ricambiò il segnale: era dell'OB anche lui. « Sabato sera demolisci quel bastardo di un collo rosso » gli sussurrò prima di allontanarsi. Rooinek, collo rosso, era il nome spregiativo che gli afrikaners riservavano agli inglesi, e lo stigma dei nuovi arrivati in Africa. Manfred restò sbalordito, ma anche alquanto rinfrancato, della diffusione cosí ampia dell'OB. Dieci minuti dopo il carceriere accompagnò Manfred in una cella dipinta di verde dalle alte finestre sbarrate, con un tavolo e tre sedie. Su una di queste sedie era seduto un vecchietto sconosciuto. Manfred guardò oltre di lui cercando con gli occhi suo padre. Lo sconosciuto si alzò lentamente. Era curvo per gli anni di duro lavoro, aveva la pelle tutta intessuta di rughe, pieghe e macchie provocate dal sole. I capelli erano fini e bianchi come cotone greggio, e crescevano su un cuoio capelluto picchiettato come un uovo di piviere. Il collo scarno usciva dall'uniforme grezza della prigione come quello di una tartaruga dal guscio, e gli occhi erano scoloriti e cerchiati di rosso e di lacrime che imperlavano le ciglia come rugiada. « Papà...? » chiese incredulo Manfred, vedendo il braccio mancante. Il vecchio cominciò a piangere silenziosamente, scuotendo le spalle. « Papà! » disse Manfred, senza parole per l'orrore. « Cosa ti hanno fatto? » Corse ad abbracciare suo padre, cercando di nascondere il volto al carceriere, cercando di proteggerlo, di celare le proprie lacrime e la propria debolezza. « Papà! Papà! » ripeteva impotente, palpandogli la spalla scarnita sotto l'uniforme di telaccia. Poi voltò la testa e guardò il carceriere con un muto appello negli occhi. « Non posso lasciarvi soli. » L'uomo capiva, ma scuoteva la testa. « E' la regola, e vale piú di quanto valga il mio lavoro. » « Per favore », sussurrò Manfred. « Mi dai la tua parola di fratello che non l'aiuterai a fuggire? » « Ti do la mia parola di fratello! » « Dieci minuti », disse il carceriere. « Non posso concedervi di piú. » Se ne andò dopo aver chiuso a chiave la porta. « Papà! » Manfred condusse il vecchio tremante alla sedia, inginocchiandosi davanti a lui. Lothar De La Rey si pulí le guance bagnate di lacrime col palmo della mano e cercò di sorridere, ma gli venne da piangere ancora. « Ma guarda un pò, piango come una vecchia donna stupida. E' stato solo il colpo di rivederti dopo tanto tempo. Adesso va tutto bene, però. Fatti guardare, fatti soltanto guardare per un momento. » Guardò con intensità il viso di Manfred. « Che uomo sei diventato. Bello e forte, com'ero anch'io alla tua età. » Sfiorò con la punta delle dita i lineamenti di Manfred. Aveva la mano fredda e la
pelle scabrosa come quella dello squalo. « Ho letto di te, figlio mio. Ci permettono di leggere i giornali, qui. Ho ritagliato tutte le notizie che ti riguardano e le tengo sotto il materasso. Sono molto fiero di te. Tutti qui sono fieri di te, anche i secondini. » « Papà! Come ti trattano? » l'interruppe Manfred. « Mi trattano bene, Manie, proprio bene. » Abbassò gli occhi mentre le labbra gli tremavano per la disperazione. « Solo che... è brutto l'ergastolo, Manie, e certe volte penso al deserto, agli orizzonti sfumati e lontanissimi e al cielo alto e azzurro. » S'interruppe e cercò di sorridere. « E poi penso a te, tutti i giorni: non passa giorno che non rivolga a Dio la preghiera di badare a te e di proteggerti. » « No, papà... per piacere », l'implorò Manfred. « Non fare così, ché fai piangere anche me. » Si tirò su e mise una sedia accanto a quella di suo padre. « Anch'io ho pensato tante volte a te, papà, tutti i giorni. Volevo scriverti: ma lo zio Tromp diceva che era meglio... » Lothar gli prese la mano per farlo star zitto. « Ja, Manie, era meglio. Tromp Bierman è un uomo saggio. » Sorrise in modo un pò piú convincente. « Ma quanto sei diventato alto! Hai i capelli dello stesso colore dei miei da giovane. Tutto ti andrà bene, lo sento. Che hai deciso di fare della tua vita? Dimmelo in fretta... abbiamo poco tempo. » « Sto studiando legge a Stellenbosch. Sono terzo in graduatoria dopo gli esami del primo anno. » « Magnifico, figlio mio, e poi? » « Non so ancora bene, papà, ma credo di dover combattere per la causa del nostro popolo oppresso. » « Intendi darti alla politica? » chiese Lothar, e quando Manfred annuì, disse: « E' una strada dura, piena di giravolte e alti e bassi. Io ho sempre preferito la strada dritta, in sella a un cavallo e col fucile in mano ». Rise sardonicamente: « E guarda dove mi ha portato! » « Anch'io combatterò, papà. A suo tempo, e su un terreno di mia scelta. » « Ah, figlio mio, la storia è sempre crudele col nostro popolo. A volte penso con disperazione che siamo destinati a essere sempre gli ultimi, i paria calpestati da tutti. » «Ti sbagli! » proruppe Manfred con espressione dura e voce rotta. « Il nostro giorno verrà, sta già sorgendo. Non resteremo a lungo dei paria. » Voleva dir tutto a suo padre, ma gli venne in mente il patto di sangue e restò zitto. « Manie. » Suo padre si accosto, guardando di qua e di là come un cospiratore prima di prenderlo per la manica e parlargli all'orecchio. « I diamanti... Hai ancora i diamanti? » domandò, per leggere immediatamente la risposta sul viso del figlio. « Che fine hanno fatto? » La delusione di Lothar era tremenda, non si poteva guardarlo in faccia. « Erano la mia eredità per te, tutto quello che potevo lasciarti. Dove sono? » « Lo zio Tromp li ha trovati anni fa. Disse che erano la moneta
del diavolo e me li fece distruggere. » « Distruggere? » balbettò Lothar, sempre piú sconvolto. « Sull'incudine, col martello. Li ridussi tutti in polvere uno dopo l'altro. » Manfred vide risorgere sul viso di suo padre l'antico spirito battagliero. Lothar balzò in piedi e si mise ad agitarsi infuriato per la cella. «Tromp Bierman, se mi capiti sottomano! Sei sempre stato un maledetto bigotto testardo e ipocrita... » S'interruppe e tornò a sedersi accanto al figlio. « Manie, ci sono ancora gli altri. Ti ricordi il kopje, la collina nel deserto? Li ho lasciati là, per te. Devi tornare a prenderli. » Manfred distolse lo sguardo. In tutti quegli anni aveva cercato di dimenticare. Era un ricordo sgradevolissimo, di una cattiva azione, associata a vergogna, colpa e terrore. Aveva cercato di chiudere la mente a quel periodo della sua vita. Erano cose di tanti anni prima, ed era quasi riuscito a dimenticarle: ma adesso, alle parole di suo padre, gli tornò in mente la puzza della cancrena, e ricordò il volo della borsa dei diamanti nel crepaccio. « Ho dimenticato la strada per arrivarci, papà. Non lo ritroverei mai. » Lothar scuoteva il braccio del figlio. «Hendrick! » berciava. « Swart Hendrick la sa, ti ci può portare. » « Hendrick. » Manfred sbatté gli occhi. Un nome semidimenticato, che tornava dal passato: poi di colpo rivide con gli occhi della mente il testone calvo che pareva una palla di cannone. « Hendrick », ripeté, « Ma chissà che fine ha fatto. E' tornato nel deserto: impossibile rintracciarlo. » «No, no, Manie. Hendrick è qui vicino, nel Witwatersrand. Adesso è un grand'uomo, un capo della sua gente. » « Come lo sai, papà? » « Le voci corrono, qua dentro sappiamo sempre tutto. Quelli che arrivano portano notizie e messaggi da fuori. Hendrick si è fatto vivo, non mi ha dimenticato. Eravamo compagni, abbiamo cavalcato insieme per piú di diecimila miglia e combattuto cento battaglie. Mi ha fatto sapere dove trovarlo se mai riuscirò a scappare da questi dannati muri. » Lothar si chinò su suo figlio afferrandogli la testa con la mano e avvicinandogli l'orecchio alla bocca. « Devi andare a cercarlo. Ti riporterà alla collina di granito vicino al fiume Okavango... oh, Signore, come vorrei poterci venire anch'io, nel deserto, a cavallo con voi! » La chiave entrò nella porta della cella e Lothar scosse disperatamente il figlio. « Promettimi che ci andrai, Manie! » « Papà, quelle pietre portano disgrazia. » « Promettimelo, figlio mio, promettimelo! Dimmi che andrai a prenderli... se no avrò passato tutti questi anni in galera per niente! » « Te lo prometto, papà », sussurrò Manfred, mentre il carceriere rientrava in cella. « Il tempo è scaduto, mi dispiace. » « Posso tornare domani a trovare mio padre? »
Il carceriere scosse la testa. « Una visita al mese. » « Ti scriverò, papà. » Si voltò ad abbracciare Lothar. « D'ora in avanti ti scriverò tutte le settimane. » Ma Lothar annuí con indifferenza. Ormai il suo volto si era chiuso, lo sguardo spento. « Ja », annuí. « Scrivimi, ogni tanto », disse e uscí dal parlatorio. Manfred rimase incantato a guardare la porta di ferro verde fiché il carceriere non gli batté sulla spalla. « Vieni con me. » Manfred lo seguí fino all'ingresso dei visitatori in un groviglio di emozioni forti. Solo quando sbucò fuori dei cancelli, al sole, e alzò gli occhi al serenissimo ed eccelso cielo africano di cui suo padre gli aveva appena parlato con tanta disperata nostalgia, il groviglio di emozioni si dipanò e ne rimase una sola, la rabbia. Rabbia, rabbia cieca e impotente, che nei giorni seguenti aumentò sempre piú fino a raggiungere il culmine quando, indossando i colori della sua università, passò tra due ali di spettatori diretto al ring, coi guantoni rossi ai pugni e una gran voglia di uccidere nel cuore. Centaine si destò molto prima di Blaine, come sempre. Ogni momento che passava addormentata accanto a lui le sembrava sprecato. Fuori era ancora buio, perché la casetta era proprio sotto le ripide pareti dell'alta montagna dalla cima piatta che le nascondeva l'aurora. Ma gli uccellini, nel giardino cintato da un muro, stavano già cominciando a cinguettare. Aveva ordinato di piantare ai piedi dei muri i rampicanti che piú li attiravano, tacoma e caprifoglio, e di spargere briciole ogni giorno per instaurare buoni rapporti coi simpatici pennuti. Ci aveva messo sei mesi a trovare il cottage perfetto. Doveva essere in posizione discreta e riparata, dotato di un parcheggio coperto per celare la sua Daimler e la Bentley nuova di Blaine, due veicoli che attiravano l'attenzione. Doveva essere a dieci minuti di strada a piedi dal Parlamento e dall'ufficio di Blaine, nell'ala dell'imponente edificio di Herbert Baker riservata ai membri del governo. Doveva offrire una veduta della montagna, e sorgere in qualche stradino periferica e modesta, dove non si corresse il rischio di incontrare amici e conoscenti o peggio deputati, avversari politici, concorrenti o giornalisti. Ma, soprattutto, il cottage doveva darle quella sensazione specialissima... E quando alla fine ci entrò, non vide nemmeno la tappezzeria macchiata e stinta, i tappeti logori fino alla trama: si piazzò in mezzo alla stanza centrale, diede un'occhiata in giro e sorrise. « Qui è vissuta gente felice. Sí, questo va bene, lo prendo. » Aveva intestato l'immobile a una delle sue compagnie, ma non s'era fidata di nessun altro per arredarlo e ristrutturarlo. Ci aveva pensato lei, da cima a fondo. « Deve diventare il piú perfetto nido d'amore mai costruito al mondo. » Insomma, si pose il solito obiettivo irraggiungibile, e cominciò a conferire tutti i giorni con una squadra di muratori e artigiani, che buttarono giú i muri tra le quattro piccole camere da letto e le fecero diventare un solo boudoir dall'ampia porta che si apriva
sul giardino. Dietro l'alto muro che lo cintava, di arenaria gialla della Table Mountain, ecco incombere la grigia parete della stessa montagna. Si fece fare bagni separati per se e per Blaine (per lui in marmo italiano color crema con venature rosse e i rubinetti dorati a forma di delfino; per lei una specie di oasi beduina dietro tende di seta rosa). Quanto al letto, era un pezzo da museo: Rinascimento italiano, con intarsi d'avorio e foglia d'oro. « Quando non sappiamo che altro fare, possiamo organizzarci un bel torneo di polo », disse Blaine al vederlo. Davanti a questo lettone imperiale, Centaine appese il suo magnifico Turner, tutto luce solare e mare dorato. In soggiorno mise il Bonnard, illuminandolo con un lampadario di cristallo che sembrava un albero di Natale a testa in giú. Poi sparse sulla credenza la sua argenteria migliore. Assegnò al cottage quattro servitori fissi, tra cui un cameriere personale per Blaine e un giardiniere a tempo pieno. Lo chef era un malese che sapeva preparare i piatti piú fantastici a base di curry e riso pilaf, la cucina che Blaine preferiva. Una fioraia aveva un contratto per fornire rose gialle fresche a dozzine tutti i giorni, e pensò Centaine a rifornire la cantina con le piú squisite prelibatezze prelevate da Weltevreden. Fece installare anche una cella frigorifera per tenervi prosciutti, salmone affumicato, caviale, burro, formaggi, uova e altri generi analoghi di prima necessità, come le bottiglie di champagne. Tuttavia, nonostante tutte queste raffinatezze e attenzioni, erano fortunati se riuscivano a passarci insieme una notte al mese. Sí, c'erano altre ore rubate, splendenti come solitari, che Centaine teneva care come una povera mendicante: un pranzo insieme quando il Parlamento faceva pausa, un interludio di mezzanotte quando la seduta legislativa finiva a tarda ora: qualche pomeriggio - ah, cielo, che pomeriggi! - quando sua moglie Isabella credeva che fosse a giocare a polo o a qualche riunione di governo. E ora Centaine girò piano la testa sul cuscino di pizzo e lo guardò. La luce dell'aurora entrava argentea dagli scuri e incideva i suoi lineamenti come nell'avorio. Pensò che somigliava a un imperatore romano addormentato, con quel nasone imperioso e la bocca inappellabile. « Meno le orecchie », penso ridacchiando tra se. Dopo tre anni - strano! - la sua presenza bastava ancora a farla sentire una ragazzina. Si alzò pian piano, per non disturbarlo, prese la spazzola e scivolo in bagno. Si mise a spazzolarsi la chioma nera, cercando spruzzate erige che per fortuna non trovò. Si lavò i denti e poi gli occhi col collirio azzurro finché il bianco non diventò splendente e luminoso. Poi si mise la crema sulla faccia, togliendone ogni eccesso: a Blaine piaceva la sua pelle senza cosmetici. Usando il bidet sorrise ancora, ricordando il finto stupore di Blaine la prima volta che l'aveva visto: « Magnifico! » aveva gridato. « Un abbeveratoio per il cavallo in bagno, che grande utilità! » aveva ironizzato, giocando sull'ignoranza degli inglesi nei confronti di quell'attrezzo. A volte era cosí romantico da sembrar quasi francese. Centaine
rise per l'impazienza, prese una vestaglia di seta dall'armadio, se l'avvolse addosso e corse in cucina. I servitori erano tutti eccitati e in subbuglio perché il padrone era presente: adoravano Blaine. « Sei riuscito a trovarli, Hadji? » gli domandò Centaine, usando il titolo dovuto al musulmano che abbia fatto il pellegrinaggio alla Mecca. Il cuoco malese sogghignò come uno gnomo giallastro sotto il suo fez e mostro orgoglioso due grossi salmoni affumicati. « Arrivati ieri col postale », vantò. « Hadji, sei un mago », applaudí Centaine. Il salmone affumicato era il cibo preferito di Blaine a colazione. « Glielo farai come piace a lui, vero? » Gli piaceva affogato nel latte. Hadji parve addirittura addolorato dal dubbio di Centaine. Centaine si divertiva moltissimo a far la parte della moglie, fingendo che Blaine appartenesse per davvero solo a lei. Cosí controllò con occhio attento Miriam che macinava il caffè e Khalil che gli smacchiava il vestito. Poi scivolò di nuovo nella camera da letto ancora buia. Era senza fiato chinandosi su di lui e studiando i suoi lineamenti. Dopo tanto tempo, le faceva ancora quell'effetto. « Sono molto piú fedele di qualsiasi moglie », mormorò. « Piú ubbidiente, amorosa, affett... » Il braccio di Blaine scattò cosí all'improvviso che squittí di terrore. L'afferrò, la gettò sul letto e la coprì col lenzuolo. « Eri sveglio! » lamentò. « Ehi, furbastro, non ci si può mai fidare di te! » Ogni tanto riuscivano ancora a portarsi reciprocamente alla grande frenesia amorosa, dopo maratone sessuali che alla fine esplodevano in un gran lampo di luce e di colori come il Turner sulla parete davanti. Ma piú spesso, ormai, andava come stamattina: una fortezza d'amore, solida e inespugnabile. Ne uscirono con qualche riluttanza, separandosi lentamente, mentre il giorno riempiva la camera d'oro e in terrazza sentivano Hadji apparecchiare la tavola per colazione. Gli portò la vestaglia, in broccato di seta cinese, lunga fino ai piedi. Era azzurra, ricamata di perle alla cintura, con disegni cremisi e risvolti di velluto. L'aveva scelta perché era esotica e diversissima dal suo modo di vestire abituale, che era serio e quasi severo. « Non l'indosserei davanti a nessun altro al mondo », le aveva detto. Dopo il primo shock, però, aveva cominciato a piacergli. Mano nella mano uscirono in terrazza e Hadji e Miriam raggiarono di gioia. Inchinandosi, li fecero sedere a tavola. Era inondata di sole. Con rapida quanto ferrea supervisione Centaine si assicurò che tutto fosse perfetto, dalle rose nel vaso Lalique alla spremuta di pompelmo nella brocca d'argento e cristallo di Fabergé; poi si mise a leggergli il giornale. Lo faceva sempre nel medesimo ordine: prima i titoli e le notizie parlamentari - che Blaine commentava, discorrendone con lei -, poi le pagine finanziarie e la Borsa. Infine le pagine sportive, con particolare attenzione per le notizie relative al polo. « Ehi, vedo che ieri hai parlato: "Energica risposta da parte del
ministro senza portafoglio", dice qui. » Blaine sorrise accingendosi a mangiare un filetto di salmone. « Energica? Macché, "incazzata» è la parola giusta. » « Cos'è 'sta storia delle società segrete? » « Una brutta storia. A quanto pare queste vezzose organizzazioni di militanti si ispirano al signor Hitler e alle sue concezioni politiche alquanto barbariche. » « E' una faccenda seria? » chiese Centaine sorseggiando il caffè. Non si era mai abituata alle abbondanti colazioni inglesi. L'idea del salmone affumicato al mattino presto le sembrava ancora leggermente raccapricciante. « Sembra che tu non abbia dato importanza alla cosa. Hai liquidato l'interpellanza in maniera quasi sprezzante. » Lo guardò stringendo gli occhi. « Ma era tutta scena, no? Stavi nascondendo qualcosa. » Lo conosceva troppo bene. Lui le sorrise un pò vergognoso. « Non ti sfugge niente, eh? » « Non puoi dirmelo? » « Già, non dovrei proprio. » Si accigliò, ma lei non aveva mai tradito la sua fiducia. « Siamo molto preoccupati » ammise. « Effettivamente l'Ou Baas le considera il pericolo piú grande che si sia mai presentato dopo la ribellione di De Wet nel 1914, quando schierò le sue truppe dalla parte del Kaiser. Si tratta di una spinosissima questione politica, che può diventare esplosiva. » Fece una pausa. Centaine capí che c'era dell'altro, ma aspettò tranquillamente che fosse lui a decidersi a dirglielo. « E va bene », dichiarò. « L'Ou Baas mi ha incaricato di presiedere una commissione d'inchiesta - a livello di governo e segretissima - sulla Ossewa Brandwag, che è la piú estremista e la piú grossa di queste società segrete. E' ancora peggiore del Broederbond, che è tutto dire. » « E perché ha incaricato proprio te, Blaine? E' una faccenda piuttosto rognosa, no? » « Sí, rognosissima. Mi ha scelto perché non sono afrikaner e dovrei essere un giudice imparziale. » « Naturalmente ho già sentito parlare anch'io della Ossewa Brandwag. Se ne parla da anni, ma nessuno sembra saperne molto. » « Sono nazionalisti di estrema destra, antisemiti, antinegri: attribuiscono alla perfida Albione tutti i mali del mondo. Tengono riunioni segrete a notte fonda e stipulano patti di sangue: una specie di boy-scout neanderthaliani che si ispirano a Mein Kampf. » « Non l'ho ancora letto. Tutti ne parlano. C'è qualche traduzione in inglese o in francese? » « Io ho letto una traduzione speciale del ministero degli Esteri. E' un minestrone farneticante di oscenità, incubi, propositi aggressivi e stupidità pura. Ti darei la mia copia, ma si tratta di pessima letteratura e quelle idee ti farebbero vomitare. » « Non sarà un grande scrittore », concesse Centaine. « Ma, Blaine, qualunque altra cosa abbia fatto, Hitler ha saputo rimettere in piedi la Germania dopo la disastrosa repubblica di Weimar. La Germania è oggi l'unico paese al mondo dove non esiste disoccupazione e l'economia è in pieno boom. Le mie azioni Krupp e Farben hanno
quasi raddoppiato il loro valore in nove mesi. » Si interruppe vedendo la sua espressione. « C'è qualcosa che non va, Blaine? » Aveva lasciato le posate e la guardava fisso. « Hai delle azioni dell'industria tedesca degli armamenti? » le chiese con calma, e lei annuí. « E' il miglior investimento che abbia mai fatto dall'abbandono del gold standard... » Si interruppe: non bisognava mai parlarne. « Non ti ho mai chiesto di fare qualcosa per me, vero? » le chiese, e lei considerò la faccenda con serietà. « No, è vero, non me l'hai mai chiesto. » « Be', adesso te lo chiedo. Vendi le azioni dell'industria bellica tedesca. » Parve perplessa. « Perché, Blaine? » « Perché è come investire nella diffusione del cancro, oppure finanziare le campagne di Gengis Khan. » Lei non rispose, ma la sua espressione si fece lontana, quasi vacua. La prima volta che l'aveva vista cosí si era preoccupato: gli ci era voluto un pò di tempo per capire che, quando faceva quella faccia, stava eseguendo calcoli mentali. Dopo questa intuizione, fu affascinato dalla sua rapidità aritmetica. Tornò a mettere a fuoco gli occhi già leggermente strabici e sorrise. « Al prezzo di ieri, ci guadagno centoventiseimila sterline. Era anche ora di vendere. Appena apre l'ufficio telegrafico ordino al mio broker di Londra di venderle tutte. » « Grazie, amore mio », disse Blaine scuotendo malinconicamente la testa. « Ci terrei proprio che facessi i tuoi profitti da qualche altra parte. » « Potresti aver giudicato male la situazione, chéri », osservò lei con tatto. « Magari Hitler non è poi quell'orco che credi tu. » « Basta che sia quell'orco che dice di essere in Mein Kampf per qualificarsi per il museo degli orrori. » Blaine mangiò un boccone di salmone affumicato e chiuse gli occhi, in preda a una placida estasi. Lei lo guardava con piacere quasi pari al suo. Blaine inghiottí, aprì gli occhi, e dichiarò chiuso l'argomento con uno sventolio della forchetta. « Ma non parliamo piú di queste brutture in un mattino cosí sereno. » Le sorrise. « Leggimi la pagina sportiva, donna! » Centaine sfogliò rapidamente il giornale e si preparò a leggere a voce alta: ma a un tratto impallidí e vacillò sulla sedia. Blaine saltò in piedi a sorreggerla. « Che c'è, tesoro? » Era allarmatissimo e quasi altrettanto pallido di lei. Ma Centaine allontanò le sue mani soccorrevoli e rimase a guardare fissamente, tremando, il giornale che aveva in grembo. Blaine diede un'occhiata alla pagina. C'era un articolo sulla corsa di domenica a Kenilworth, dove lo stallone di Centaine, Bonheur, aveva perduto per un'incollatura. Ma una simile quisquilia non poteva turbare così la sua padrona. Poi si accorse che stava guardando in fondo alla pagina, seguì il suo sguardo e trovò la foto di un pugile. Era in posa, coi pugni nudi in guardia bassa e l'espressione corrucciata che non riusciva a imbruttire i bei lineamenti del viso. Centaine non aveva mai mostrato
il minimo interesse per la boxe, e Blaine rimase perplesso. La sua perplessità non fu risolta neppure dal titolo dell'articolo, che parlava del Campionato interuniversitario di boxe. Diede un'occhiata alla didascalia. « Il Leone del Kalahari, Manfred De La Rey, aspirante al titolo universitario nazionale dei mediomassimi, si prepara a un difficile incontro. » « Manfred De La Rey. » Blaine pronunciò pensosamente quel nome, cercando di ricordare dove l'avesse già sentito. Poi gli venne in mente. « E' il ragazzo che cercavi al processo di Windhoek! E' lui? » Centaine non lo guardò, si limitò ad annuire a scatti. « E chi è costui per te, Centaine? » Era in preda a una tempesta di emozioni e gli rispose senza pensarci. Forse, se avesse avuto tempo di riflettere, avrebbe usato altre parole: « E' mio figlio. Mio figlio bastardo. » Le mani di Blaine le caddero dalle spalle e lei udì il suo gemito soffocato. « Devo esser pazza! » pensò Centaine. « Mai avrei dovuto dirglielo! Blaine non può capire, mi disprezzerà. » Non ardì guardarlo. Sapeva che sul suo volto ora si stavano dipingendo sorpresa e indignazione. Chinò la testa e se la prese tra le mani. « L'ho perduto », pensava. « Blaine è troppo retto, troppo virtuoso per accettare una cosa del genere. » Poi le sue mani tornarono a toccarla, la fecero alzare in piedi, la costrinsero gentilmente a guardarlo. « Io ti amo », le disse semplicemente, e le lacrime le inondarono il viso. Lo abbracciò forte forte, nascondendosi nel suo ampio petto. « Oh, Blaine, sei così buono... » « Se vuoi parlarmene, sono qui per aiutarti. Se non intendi farlo, posso capire anche questo. Sappi soltanto che... qualunque cosa tu abbia fatto... i miei sentimenti per te non cambiano. » « Te lo voglio raccontare. » Cercò di ricacciare le lacrime di sollievo e lo guardò negli occhi. « Non volevo nasconderti niente. Era un pezzo che te lo volevo dire, anni ormai, ma non ho mai avuto il coraggio. » « Ti mancherà qualche altra cosa senza dubbio, amore mio, ma il coraggio proprio no », le disse Blaine facendola sedere accanto a se e prendendole la mano. « Adesso racconta », le ordinò. « E' una storia lunga, Blaine, e so che il governo si riunisce alle nove. » « Gli affari di Stato possono aspettare », dichiarò. « La tua felicità è piú importante. » Così gli raccontò tutto, da quando Lothar De La Rey l'aveva salvata, alla scoperta dei diamanti della miniera H'ani, alla nascita di Manfred nel deserto. Non gli nascose niente: né il suo amore per Lothar, l'amore di una ragazza sola e abbandonata per il suo salvatore, né il suo mutar-
si in odio alla scoperta che Lothar aveva ucciso la vecchia boscimana a cui doveva la vita; il modo in cui quest'odio si era concentrato sulla creatura che già aveva in grembo, inducendola a rifiutarla, a non volerla nemmeno vedere, affidandola al padre subito dopo il parto. «E' stata una grande crudeltà», sussurrò. «Ma ero confusa e impaurita, temevo la ripulsa della famiglia Courteney se avessi portato loro un bastardo. Oh, Blaine, me ne sono pentita mille volte, e ho odiato me stessa quanto odiavo Lothar De La Rey. » «Vuoi andare a trovarlo a Johannesburg? » le chiese Blaine. « Potremmo farci un salto in aereo a vedere il torneo di boxe. » L'idea sbalordí Centaine. « Andarci insieme? » gli chiese. « Noi due, Blaine? » « Non ti lascerei mai andarci da sola. E' una faccenda che ti turba troppo. » « Ma come puoi allontanarti da casa? Che dirà Isabella? » « In questo momento sei tu che hai piú bisogno di compagnia », si limitò a dirle. « Vuoi che ci andiamo, allora? » « Oh sí, Blaine, sí per piacere! » Scacciò l'ultima lacrima col tovagliolo di pizzo e lui vide il suo umore cambiare. L'affascinava il suo mutar umore come altre donne cambiavano cappellino. Adesso era vivace, contenta ed efficiente. « Oggi sul tardi Shasa torna dal sud-ovest, telefonerò ad Abe per sapere a che ora è decollato il suo apparecchio. Se tutto va bene, potremo partire per Johannesburg domattina, A che ora, Blaine? » « Piu presto che puoi », le disse. « Sbrigherò il lavoro questo pomeriggio e mi scuserò con l'Ou Baas. » « In questa stagione il tempo dovrebbe esser buono: al massimo incontreremo qualche temporale nell'highveld. » Gli prese il polso e lo girò per consultare l'ora sul Rolex. « Chéri, se ti sbrighi fai ancora in tempo ad arrivare alla riunione del governo per le nove. » Lo accompagnò al garage, lo salutò sempre giocando alla brava mogliettina e gli diede un bacio dal finestrino aperto della Bentley. « Appena arriva Shasa ti telefono in ufficio », gli disse all'orecchio. « Se sei ancora in riunione lascio il messaggio a Doris. » Era la segretaria di Blaine, una delle pochissime persone al mondo che sapessero di loro due. Partito che fu, Centaine tornò di corsa in casa a telefonare. La linea per Windhoek era disturbata, piena di fischi e crepitii: Abe Abrahams sembrava all'altro capo del mondo. « Sono partiti alle prime luci dell'alba, quasi cinque ore fa », le disse quasi inaudibilmente. « C'è anche David, certo. » « Com'è il vento, Abe? » « Dovrebbero averlo in poppa per tutto il tragitto: un vento da venti o trenta miglia all'ora. » « Grazie, andrò a prenderli all'aeroporto. » « Te lo sconsiglio », disse Abe, un pò imbarazzato. « Ieri a cena, dopo il ritorno dalla miniera, i ragazzi hanno fatto un sacco di misteri, e stamattina non hanno voluto che li accompagnassi al campo d'aviazione. Immagino quindi che siano in compagnia, se mi consenti l'eufemismo. »
Centaine si accigliò per riflesso, anche se non riusciva a trovare in se nessuna vera disapprovazione per le avventure amorose di Shasa. Lo scusava sempre cosi: « E' il sangue dei De Thiry. Non può farne a meno », diceva, con un certo orgoglio indulgente per il grande successo con le donne di Shasa. Decise di cambiare argomento. « Grazie, Abe. Ho firmato per le nuove concessioni nel Namaqualand, puoi già cominciare a stendere il contratto. » Parlarono d'affari per altri cinque minuti prima che Centaine riappendesse. Fece altre tre telefonate, tutte d'affari, poi telefonò al suo segretario a Weltevreden e gli dettò quattro lettere e il telegramma con l'ordine di vendere le azioni Krupp e Farben per il suo agente di Londra. Riappese, convocò Hadji e Miriam e diede loro istruzioni sul ménage del cottage durante la sua assenza. Poi fece un rapido calcolo. Il Dragon Rapide, il fantastico bimotore azzurro e argento, velocissimo, che Shasa l'aveva praticamente obbligata a comprargli, faceva di crociera centocinquanta nodi: col vento da venti miglia in coda sarebbe arrivato a Youngsfield prima di mezzogiorno. « Chissà se i gusti del signorino in fatto di donne sono un pò migliorati nel frattempo. » Uscí al volante della Daimler e si avviò lungo il fianco della montagna, sotto il District Six, ossia il pittoresco quartiere malese dalle viuzze echeggianti delle grida del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, degli squilli di corni dei pescivendoli che urlavano i prezzi, e degli strilli dei bambini, simili a un chiassoso cinguettio. Quindi passò davanti all'ospedale Groote Schuur e all'università che sorgeva nella magnifica residenza donata alla nazione da Cecil Rhodes. « E' forse la piú bella università del mondo », pensò. I grandi palazzi di pietra con portici e colonne sfilavano davanti a uno sfondo di pini scuri e la nuda, altissima parete della montagna. Ma sui prati subito dietro l'ateneo correvano liberi piccoli branchi di animali delle pianure, zebre, eland (una specie di grossa antilope) e wildebeest (certe gazzelle). L'università la indusse a ripensare a Shasa. Aveva appena finito il primo anno, con risultati apprezzabili anche se non di prim'ordine. « Ho sempre diffidato dei primi della classe », aveva commentato Blaine. « Sono troppo intelligenti per il bene loro e di chi gli sta vicino. Preferisco i comuni mortali, che per raggiungere l'eccellenza devono impegnarsi e sudare. » « Mi accusi di viziarlo », aveva sorriso lei, « ma poi sei tu che gli trovi sempre la scusa buona. » « Amore, sappi che esser figlio tuo non è affatto facile per un ragazzo. » « Pensi che non sia buona con lui? » disse, un pò irritata. « Anche troppo. E' che non gli lasci spazio. Hai tanto successo, tanta influenza: hai già fatto tutto tu. Cosa può fare per provare che vale? » « Blaine, guarda che non lo tiranneggio affatto. » « Non ho detto questo infatti, ma solo che hai una grande personalità. Per questo ti amo, se fossi una comune tiranna ti disprezzerei », ridacchiò Blaine cingendole le spalle col braccio. « Devi allentare le briglie con lui, Centaine, consentirgli di fare i suoi bravi erro-
ri e conquistare qualche successo per conto suo. Se gli piace la caccia grossa, anche se tu non approvi l'uccisione di animali che poi non si mangiano, devi considerare che i Courteney sono sempre stati, tutti quanti, appassionati di safari, e lasciarlo andare. Il vecchio generate Courteney ha fatto fuori elefanti a centinaia, e anche il padre di Shasa cacciava: lascia che il ragazzo segua le loro orme. Sai, quello e il polo sono le uniche cose che non hai fatto prima tu. » « Anche volare », precisò lei. « E' vero, anche volare. » « Va bene, lo lascerò andare a trucidare le bestie. Ma ora dimmi, Blaine, sarà selezionato per la squadra olimpica di polo? » « Francamente ti debbo rispondere di no, cara. » « Ma è bravo! L'hai detto tu stesso! » « Si », ammise Blaine. « E' abbastanza bravo, nel senso che occhio e braccio sono all'altezza, ma gli manca l'esperienza. Se venisse selezionato, sarebbe certamente il giocatore di polo piú giovane presente alle Olimpiadi. Ma non credo che lo sarà. Clive Ramsay si fa ancora preferire come numero due. » Lei lo guardò e lui sostenne impassibile il suo sguardo. Sapeva cosa stava pensando: che la selezione della squadra olimpionica dipendeva anche dal suo capitano, cioè Blaine stesso. « David ci andrà, a Berlino », proseguì Centaine. « Ma David Abrahams è una gazzella umana », osservo Blaine, ostentando pazienza. « Sui duecento metri, il suo tempo è il quarto del mondo; e sui quattrocento il terzo. Invece il giovane Shasa disputa il posto in squadra a una decina di cavalieri tra i piú bravi del mondo. » « Darei qualunque cosa perché Shasa andasse a Berlino. » « Lo so bene », ammise serio Blaine. Infatti, una volta deciso che Shasa avrebbe studiato lí invece che a Oxford, Centaine aveva donato alla facoltà di Ingegneria dell'università di Città del Capo un nuovo padiglione, che si chiamava ora padiglione Courteney. Sì, sapeva che nessun prezzo sarebbe stato considerato troppo alto da lei. « Ti assicuro, amore mio, che baderò bene... » si interruppe e lei tese l'orecchio attentissima, «... a uscire subito dalla stanza quando qualche selezionatore farà il nome di Shasa. » « E' sempre cosí virtuoso! » pensò, tormentando il volante della Daimler, in preda alla frustrazione che quel ricordo aveva ridestato. Ma un altro sopravvenne a equilibrare la faccenda, riguardante qualcosa che aveva avuto luogo sul letto rinascimentale intarsiato. « Be', magari virtuoso non è la parola giusta. O forse sí! » Scoppio a ridere da sola come una scema. Il campo d'aviazione era deserto. Parcheggiò la Daimler dietro l'hangar, dove Shasa dal cielo non l'avrebbe potuta vedere. Poi prese dal portabagagli la stuoia e si distese sotto un albero ai margini della pista erbosa. Era una di quelle bellissime giornate estive piene di luce, con qualche nuvola soltanto sopra la montagna e una bella brezza fresca che stormiva tra i pini e rompeva l'afa. Si mise comoda a leggere Il mondo nuovo di Aldous Huxley, che
cercava di finire da una settimana, interrompendosi di quando in quando per dare un'occhiata al cielo settentrionale. David Abrahams era appassionato di pilotaggio quasi quanto d'atletica. Questo era ciò che all'inizio l'aveva avvicinato a Shasa. Benché Abe Abrahams lavorasse per Centaine ormai da un pezzo e fosse diventato un vecchio amico, i due ragazzi si erano « scoperti » solo all'università. Da allora erano diventati inseparabili e avevano fondato il club aereo universitario, che Centaine aveva dotato di un Tiger Moth da addestramento. David studiava legge, ed era tacitamente inteso che alla laurea sarebbe entrato nello studio legale di suo padre a Windhoek, diventando lui pure, in pratica, un dipendente di Centaine. La quale, quindi, lo osservava da anni, non aveva riscontrato alcun vizio in lui, e approvava la sua amicizia con Shasa. David era piú alto di suo padre, aveva il fisico snello del corridore e un viso non bello ma simpatico, coi ricci neri e un gran naso a becco che aveva ereditato da Abe. Le sue bellezze erano gli occhi neri semitici e le mani lunghe e sensibili con cui ora stava manovrando l'aeroplano. Volava con dedizione quasi religiosa, sembrava un sacerdote intento ai riti di qualche culto arcano. Trattava il velivolo come una bella creatura viva, mentre Shasa pilotava da ingegnere, con piena padronanza e abilità, ma senza la mistica passione di David. Passione che David metteva anche nella corsa e in tante altre cose della sua vita. Era una delle ragioni per cui Shasa gli voleva bene. Aggiungeva qualche spezia alla vita di Shasa, aumentava il piacere delle cose che facevano insieme. Le ultime settimane sarebbero state insopportabili senza David. Con la benedizione di Centaine, negata strenuamente per quasi un anno e poi misteriosamente prodigata all'ultimo momento, i due avevano preso il Dragon Rapide e il giorno dopo gli ultimi esami erano partiti per la miniera H'ani. Qui il dottor Twentyman-Jones aveva fatto trovare loro due camion attrezzati di tutto punto con materiale da campeggio, servitori, battitori, scuoiatori e un cuoco. Uno dei geologi della ditta, uomo particolarmente versato per la vita all'aria aperta e la caccia agli animali piú pericolosi, era stato nominato capo della spedizione. La loro destinazione era la Striscia di Caprivi, quel remoto angolo di natura vergine tra l'Angola e il Bechuanaland. L'accesso alla zona era sottoposto a grandi restrizioni e la caccia era proibita tranne in circostanze eccezionali. I cacciatori invidiosi insinuavano che fosse la riserva privata dei membri del governo sudafricano. Blaine Malcomess era riuscito a ottenere un permesso anche per loro. Sotto la guida del vecchio geologo, e grazie alla sua mano ferma ed esperta, i due ragazzi erano in breve arrivati a comprendere e a rispettare la natura intatta e la vita che alimentava. Nel giro di poche settimane aveva insegnato loro il posto dell'uomo nel fragile equilibrio dell'ambiente e instillato ai due i principi della caccia etica. « La morte di un singolo animale è cosa triste ma inevitabile. Invece è una tragedia se muoiono la foresta, la palude o la savana che
nutrono intere specie », spiegò. « Se i re e gli aristocratici europei non fossero stati avidi cacciatori, oggi l'orso, il cervo e il cinghiale sarebbero estinti. Furono infatti i cacciatori a salvare i boschi dall'ascia e dall'aratro del contadino. » I due ragazzi ascoltavano attentamente davanti al fuoco da campo. « Chi caccia per amore delle creature che persegue proteggerà dai bracconieri le femmine incinte e gli animali immaturi, e salverà le foreste dalle capre e dal bestiame d'allevamento. No, miei giovani amici, Robin Hood era uno sporco bracconiere e lo sceriffo di Nottingham aveva ragione. » Cosí trascorsero giornate incantevoli nella macchia, allontanandosi dall'accampamento alle prime luci, se non prima, e tornando stremati dopo il tramonto del sole. Ognuno dei due riuscí ad ammazzare il proprio leone, e provò la tristezza e l'esaltazione del cacciatore: alla fine erano entrambi quanto mai decisi a preservare quel paese selvaggio e bello dalle scorrerie di uomini avidi e incoscienti. E Shasa, che la nascita destinava a gran ricchezza e posizione eminente, si rese conto di quanta parte di tale responsabilità gli sarebbe un giorno toccata. Le donne erano risultate quasi del tutto superflue, come aveva avvertito David: tuttavia Shasa aveva insistito per portarle lo stesso, una per sè e una per David. Quella scelta da Shasa aveva quasi trent'anni. « E' sul violino vecchio che si suonano le canzoni migliori », garantì a David. Era una divorziata. « Non mi alleno mai sui cavalli da polo che mi appartengono. » Aveva grandi occhi azzurri, labbra rosse e piene, e non era gravata da un'eccessiva intelligenza. David l'aveva soprannominata « Jumbo »: « Perché ha una testa cosí dura che potrebbero camminarci sopra due elefanti » Shasa le aveva detto di portare un'amica per David. E lei aveva scelto una signora alta e bruna, anche lei divorziata. Era incredibilmente carica di orpelli, collane, braccialetti, pendagli, spille e anche un lunghissimo bocchino. Aveva una presenza intensa e vistosa ma non parlava spesso, se non per chiedere un altro gin. David l'aveva soprannominata « la Cammella » per l'insaziabile sete che dimostrava. Tuttavia le due donne si erano rivelate ideali, perché pur fornendo quanto si chiedeva loro, all'occasione, con vigorosa esperienza, di giorno erano ben contente di starsene a oziare al campo, e la sera, davanti al fuoco del bivacco, non facevano il minimo tentativo di sabotare la conversazione partecipandovi. « E stata forse la vacanza piú divertente che avrò mai occasione di fare », disse Shasa stendendosi all'indietro e lasciando pilotare il Dragon Rapide a David. Aveva lo sguardo perduto nell'immensità. Subito si riscosse: « Ehi, ma non è finita! » disse consultando l'orologio. « Manca ancora un'ora all'atterraggio a Città del Capo! Tieni la rotta », disse a David, slacciando la cintura. « Dove vai? » gli domandò David. « Non ti metterò in imbarazzo rispondendo a questa domanda, ma non stupirti se tra poco la Cammella ti raggiunge. » « Sai, tu mi preoccupi molto », disse David, con aria serissima. « Se continui cosí, finirai per spaccare qualcosa. » « Non mi sono mai sentito così bene », gli assicurò Shasa levan-
dosi dal sedile. « Non pensavo a te, benedetto ragazzo, ma a quella poveretta », disse scuotendo la testa. Shasa ridacchiò, gli diede una pacca sulla spalla e si affacciò nell'altra cabina. La Cammella alzò gli occhi su di lui col suo sguardo cupo ed esaltato e così facendo si rovesciò il gin tonic sulla camicetta. Jumbo ridacchiò e, agitando il culetto, fece un pò di posto a Shasa sul sedile accanto a sé. Le sussurrò qualcosa all'orecchio e Jumbo parve un pò perplessa, espressione niente affatto insolita in lei. « Il Club dei 2000 metri di quota? Che roba è? » Shasa le sussurrò qualche altra cosa e lei guardò giú dal finestrino la sottostante terra. « Dio del cielo! Non mi ero accorta che eravamo tanto in alto! » « I membri hanno diritto a un distintivo speciale », le disse Shasa, « tutto d'oro e brillanti. » L'interesse di Jumbo andò alle stelle. « Oh, santo cielo! Che distintivo? » « Una passera volante, con ali d'oro e occhi di diamante. » « Una passera? E perché una passera... » S'interruppe, mentre l'aurora della comprensione sbocciava nei suoi fatati occhi blu. « Shasa Courteney, sei tremendo! » Abbassò gli occhi e sbatté le ciglia due o tre volte, mentre Shasa strizzava l'occhio alla Cammella dall'altra parte della fusoliera « Credo che David abbia qualcosa da dirti. » La Cammella si alzò ubbidiente, col bicchiere in mano e tutti i ciondoli sonanti, e cominciò a vacillare per la carlinga. Un'ora dopo Shasa si presentò sul cielo dell'aeroporto dalla parte della montagna e atterrò con la disinvoltura di chi spalmi del burro su una fetta ben calda di pane tostato. Prima che l'aereo esaurisse lo slancio, girò il muso verso gli hangar e rullò nella loro direzione. Facendo rombare il motore di destra, entrò nell'hangar e spense i propulsori. Proprio in quella notò la Daimler gialla ferma in fondo al capannone. « Per Allah, c'è la mamma! Fa, nascondere sotto il sedile quelle bellezze! » « Troppo tardi », grugní David. « Jumbo la sta già salutando dal finestrino. » Shasa si preparò all'ira materna mentre Jumbo scendeva ridacchiando dalla scaletta, sorreggendo una Cammella ormai tradita dalle proprie gambe. Centaine non disse niente, ma aveva già chiamato il tassì. Come facesse a sapere delle due donne, Shasa non l'avrebbe mai capito, né si sarebbe azzardato a domandarglielo: Centaine le chiamò con un gesto imperioso della mano, le fece salire sferzandole con lo sguardo e ordinò a Shasa di mettere i bagagli nel baule con voce limpida e cristallina. Terminate le operazioni, congedò il tassì intimando all'autista di condurle subito dovunque volessero andare. La Cammella sprofondò sul sedile con gli occhi incrociati, ma Jumbo si sporse dal finestrino e salutò Shasa sventolando il braccio finché non fu fuori vista. Shasa, a testa china, aspettava i gelidi sarcasmi di sua madre.
« Hai fatto buon viaggio, caro? » gli chiese con dolcezza Centaine, porgendogli la guancia da baciare, e le due ragazze non furono mai piú nominate. « Ottimo! » Il bacio di Shasa risultò pieno di gratitudine e sollievo, oltre che del piacere di rivederla, e cominciò subito a raccontarle tutto del safari, ma lei tagliò corto. « Dopo », disse. « Adesso voglio che tu pensi a far rifornire e controllare l'aereo perché domani si parte per Johannesburg. » A Johannesburg scesero al Carlton. Centaine possedeva il trenta per cento delle azioni di quella società, per cui quando arrivava le mettevano a disposizione la suite reale. L'albergo aveva urgente bisogno di restauri, ma aveva il vantaggio di sorgere in pieno centro di Johannesburg. Cambiandosi per cena, Centaine considerò la possibilità di far demolire il palazzo e cambiare destinazione all'area fabbricabile. Avrebbe fatto fare un progetto dai suoi architetti, decise, poi scacciò gli affari dalla mente e per il resto della serata dedicò tutte le proprie attenzioni a Blaine. Incuranti di alimentare le chiacchiere, ballarono fino alle due del mattino nel night dell'albergo che si trovava nell'attico. Il giorno dopo Blaine doveva vedere un mucchio di gente a Pretoria - la sua scusa per Isabella -, cosí Centaine poteva passare la giornata con Shasa. Al mattino c'era un'asta di purosangue, ma i prezzi erano ridicolmente alti e non comprarono nemmeno un cavallo. Pranzarono all'East African, dove Centaine gustò, piú del cibo, gli sguardi curiosi e invidiosi delle altre donne. Nel pomeriggio andarono allo zoo. Nutrendo le scimmie e andando in barchetta sul lago, discussero i progetti futuri di Shasa e Centaine fu molto lieta di apprendere che, appena laureato e specializzato, era deciso ad assumersi le proprie responsabilità nella Courteney Mining and Finance. Arrivarono al Carlton con un sacco di tempo per cambiarsi per il match di boxe. Blaine, già in smoking, aveva in mano un whisky e soda: sprofondato in poltrona, guardava Centaine completare la vestizione. A lei questo piaceva molto. Era un giocare agli sposi. Lo chiamò per farsi infilare gli orecchini e poi piroetto davanti a lui facendo volteggiare la gonna dell'abito da sera. « Non sono mai andata a vedere la boxe, Blaine. Non è che siamo vestiti troppo elegantemente? » « Ti assicuro che la cravatta nera è de rigueur. » « Mio Dio, sono nervosissima. Non so nemmeno cosa gli dirà, se poi ne avrò l'occasione... » Sospirò. « Ti sei procurato i biglietti, vero? » Glieli mostrò sorridendo. «Prima fila. Ho anche noleggiato un'auto con autista. » Shasa entrò già vestito da sera, con la sciarpa di seta bianca sulle spalle e il cravattino annodato con trascuratezza per far vedere che non era una delle moderne burinate con l'elastico. « Dio, com'è bello », pensò Centaine col batticuore. « Come salvarlo dalle arpie? »
Shasa la baciò prima di andare a versarle il solito bicchiere di champagne. « Le rifaccio il pieno di whisky, signore? » chiese a Blaine. « Grazie, ma non ne bevo mai piú di uno, Shasa », rifiutò Blaine. Shasa si versò un ginger e Centaine pensò con sollievo che l'alcool non sembrava destinato a costituire un problema per suo figlio. « Bene, mamma », disse Shasa alzando il bicchiere. « Brindo al tuo novello interesse per la nobile arte della boxe. Hai un'idea degli scopi generali che si propone? » « Penso si tratti di due giovanotti che cercano di ammazzarsi a vicenda in un cerchio di corde, non è cosi? » Blaine si mise a ridere. « Proprio cosí, solo che il cerchio è quadrato, Centaine. » Non usava mai nomignoli teneri alla presenza di Shasa, e spesso lei si chiedeva se il ragazzo immaginasse il carattere dei loro rapporti. Sicuramente qualcosa doveva sospettare, ma stasera aveva già troppi grattacapi per aprire anche quella porta buia. Bevve il suo champagne e poi, bellissima nell'abito di seta e nello sfavillio dei suoi brillanti, sottobraccio ai due uomini piú importanti della sua vita, uscí e salí sulla limousine in attesa. Le strade del quartiere universitario intorno alla palestra erano piene di macchine parcheggiate. Sui marciapiedi una gran folla eccitata di studenti e appassionati di boxe confluiva verso il luogo del match, sicché l'autista restò imbottigliato nel traffico e dovette farli scendere a trecento metri di distanza dall'ingresso. Si unirono quindi alla folla che sciamava a piedi. L'atmosfera in palestra era rumorosa e impaziente. Quando presero posto in prima fila, Centaine notò con sollievo che tutti, nei primi tre ordini di poltrone, erano vestiti da sera, e che c'erano quasi altrettante donne che uomini. Aveva temuto di esser l'unica. Cominciarono gli incontri e Centaine cercò di fingersi interessata alle spiegazioni che Blaine e Shasa le davano assiduamente: ma quei pugili cosí leggeri le facevano l'impressione di galli da combattimento denutriti, e la velocità dei colpi che si scambiavano ingannava l'occhio. Inoltre, non era certo per loro che era venuta fin lí. Terminò l'ennesimo incontro preliminare e Blaine, consultando il programma, l'avvertì che ora veniva il clou. Il pubblico emetteva continui boati assetati di sangue. « Ecco che viene », le disse Blaine toccandole il braccio. Centaine scoprì che non riusciva a girarsi. Si pentí di essere venuta, non voleva che « lui » la vedesse. Manfred De La Rey, mediomassimo sfidante, arrivò primo sul ring insieme all'allenatore e ai secondi. Gli studenti venuti da Stellenbosch emisero un ruggito di guerra sventolando le loro bandierine. Subito rispose il grido degli universitari del Witwatersrand, il cui campione giocava in casa e dunque aveva molti piú tifosi. Il pandemonio andava alle stelle. Manfred salí sul quadrato ed eseguí una specie di danza con le mani guantate alte sulla testa e la vestaglia di seta che svolazzava come una toga giudiziaria. Gli erano cresciuti i capelli e, contrariamente alla moda, non li portava incollati al cranio dalla brillantina, ma liberi di formare un'ondeggiante criniera gialla: non per niente era il Leone del Kala-
hari! Aveva la mascella forte, quasi troppo, e anche zigomi e bozze frontali erano sporgenti e ben delineati. Ma erano gli occhi a colpire: chiari, implacabili e felini come quelli del gran predatore a cui la stampa l'aveva paragonato. Le spalle erano molto larghe, i fianchi stretti, e su tutto il suo corpo non si vedeva un grammo di grasso o una piega floscia. Sotto la pelle gli si potevano contare i muscoli a uno a uno. Shasa si irrigidí sulla sedia, riconoscendolo. Strinse i denti ricordando la violenza dei cazzotti che quel tipo sapeva dare fin da ragazzino, e tornò a sentirsi scivolare in gola il famoso pesce morto che per poco non l'aveva spedito al Creatore. Era come se tutti quegli anni non fossero passati affatto. « Lo conosco, mamma », le disse a denti stretti. « E' quello con cui avevo litigato sul molo a Walvis Bay. » Centaine gli mise una mano sul braccio per farlo tacere, ma non parlò e non lo guardò. Invece rubò un'occhiata a Blaine, e ciò che vide la sconvolse. L'espressione di Blaine era tristissima, rabbia e dolore quasi palpabili. A mille miglia di distanza riusciva a essere comprensivo e magnanimo: ma con la prova vivente della scostumatezza di lei sotto gli occhi poteva solo pensare all'uomo con cui aveva fatto questo bastardo, e alla sua acquiescenza - anzi, la sua gioiosa partecipazione! - a quell'atto. Pensava al suo corpo, che avrebbe dovuto essere riservato a se, usato da un estraneo... per meglio dire da un nemico contro il quale aveva rischiato la vita in battaglia. « Mio Dio, perché sono venuta? » Si torturava. Poi sentí qualcosa sciogliersi dentro e conobbe la risposta: « Carne della mia carne », pensò. « Sangue del mio sangue. » Le tornò in mente il suo peso in grembo, ricordò gli spasimi vitali che aveva mosso dentro di lei, e tutti gli istinti materni sgorgarono e minacciarono di soffocarla. L'aspro grido della nascita risuonò ancora una volta in lei, assordandola. « Mio figlio! » rischiò di gridare forte. « E' mio figlio! » Lo stupendo gladiatore sul ring voltò la testa nella sua direzione e si accorse di lei. Abbassò i guantoni e la fissò con tanto veleno concentrato negli occhi gialli, tanto odio e tanta amarezza, da colpirla come una mazza ferrata in pieno viso. Poi Manfred De La Rey le voltò deliberatamente le spalle e andò al suo angolo. I tre, Blaine, Centaine e Shasa, sedevano rigidi e silenziosi in mezzo alla folla vociante e schiamazzante. Nessuno guardava gli altri, e solo Centaine si muoveva, torcendo in grembo la falda dello scialle e mordendosi il labbro inferiore perché non tremasse. Il campione in carica saltò sul quadrato. Ian Rushmore era due centimetri piú basso di Manfred, ma piú largo di spalle e piú massicciò di torace. Aveva lunghe braccia scimmiesche piene di muscoli e il collo cosí corto da parer mancante. Sulla testa come avvitata alle spalle crescevano folti ricci neri e nel complesso il neolaureato ingegnere dava l'idea di un cinghiale fortissimo e pericolosissimo. Squillò il gong e nel boato della folla i due pugili occuparono il centro del ring. Centaine gemé involontariamente al primo cozzo del pugno guantato su carne e ossa. In confronto ai frulli turbinanti dei pugili di categoria inferiore, questo incontro sembrava uno spetta-
colo gladiatorio. Non riusciva a definire alcuna superiorità tra i due che si giravano intorno scambiandosi cazzotti tremendi che rimbalzavano sulla solida guardia dell'avversario. Tra finte, controfinte, schivate e passi di danza si avventarono ancora, mentre la folla tuonava in frenesia impazzita. Di colpo com'era cominciata la mischia cessò, i pugili si separarono e tornarono al loro angolo tra i secondi biancovestiti, che si misero ad assisterli amorosamente, a spugnarli, asciugarli e massaggiarli sussurrando paroline. Manfred bevve un sorso dalla bottiglia che il suo allenatore, un tipo grande e grosso dalla barba nera, gli portava alla bocca. Si risciacquò i denti e poi guardò Centaine, individuandola in mezzo alla folla col suo sguardo giallino, e, senza abbassarlo, sputò l'acqua nel secchio ai propri piedi. Centaine capí che era un segno di disprezzo espressamente dedicato a lei; sputava tutta la sua rabbia: si raggrinzí dalla paura. Sentí Blaine dire qualcosa. « Per me la ripresa è finita in pareggio. De La Rey non ha concesso niente, e si vede che Rushmore lo teme. » Poi i pugili si rialzarono in piedi, al suono del gong, e ricominciarono a girarsi intorno tirandosi colpi. Sbuffavano come tori affaticati a ogni pugno dato e preso, i loro corpi erano lucidi di sudore e chiazzati di rosso dove erano arrivati i colpi dell'avversario. La faccenda continuò per un pezzo e Centaine sentí che le veniva la nausea per la violenza primitiva di quello spettacolo, per i rumori, gli odori e la furia scatenata della lotta. « Questa ripresa l'ha vinta Rushmore », disse tranquillo Blaine alla fine del round, e Centaine l'odiò, addirittura, per la sua calma. Sentiva di avere un velo di sudore appiccicoso in faccia e la nausea minacciò di sopraffarla mentre Blaine cosí proseguiva: « De La Rey dovrà metterlo al tappeto entro le prossime due riprese, se no Rushmore lo trita a poco a poco. Ogni momento diventa piú sicuro di se ». Le venne voglia di saltare in piedi e scappare via, ma la tradivano le gambe. Poi suonò il gong e i due tornarono sotto i riflettori. Centaine cercò di non guardarli ma non ci riuscí: continuò dunque a fissarli morbosamente affascinata e vide la cosa accadere, ne vide ogni vivido dettaglio sapendo che non l'avrebbe mai dimenticato. Vide il guantone di cuoio rosso balenare trovando un varco nella guardia avversaria, vide la testa dell'altro scattare indietro come l'impiccato preso nel cappio del boia subito dopo l'apertura del trabocchetto fatale. Distinse ogni gocciolino di sudore spruzzata via dalla forza del colpo come al cascar di una grossa pietra nel pozzo, e i lineamenti contorcersi grottescamente in una maschera d'agonia. Senti il botto, e il secco rumore di qualcosa che si rompeva, denti, ossa o cartilagine, e gridò, ma il suo urlo fu sommerso da quello della folla che prorompeva da migliaia di strozze. Si ficcò le dita in bocca mentre i colpi continuavano a piovere (cosí rapidi da dissolversi davanti agli occhi, cosí rapidi da fare un rumore di frullatore che sbatta una crema densa) e un volto diventava una maschera di
carne sanguinolenta. Continuò a urlare guardando l'ira omicida negli occhi gialli del figlio che aveva partorito, guardandolo trasformarsi in una belva feroce, mentre l'uomo che lo fronteggiava diventava un fantoccio barcollante su gambe di legno, poi crollava avvitandosi all'indietro e finiva al tappeto, gli occhi aperti puntati contro la luce dei riflettori sopra il ring senza vederla, respirando rumorosamente dal naso rotto e intasato dal sangue che gli colava in bocca. Manfred De La Rey, ancora in preda a esaltazione omicida, danzava sopra di lui cosí frenetico che Centaine si aspettava che da un momento all'altro si mettesse a urlare come un lupo mannaro, o si scagliasse sul pugile atterrato per scotennarlo e sventolarne lo scalpo in segno di osceno trionfo. « Portami via, Blaine », singhiozzò. « Portami via da questo posto. » Le mani di lui la sollevarono e la condussero fuori, nella notte. Dietro di loro il boato della folla si attutí. Centaine respirò una boccata di aria fina e frizzante dell'altipiano con l'avidità di una persona salvata appena in tempo dall'annegamento. « Il Leone del Kalahari si guadagna il biglietto per Berlino », diceva il titolone. Centaine rabbrividì al ricordo, gettò via il giornale e prese il telefono sul comodino. « Shasa, quando possiamo tornare a casa? » gli domandò appena udì la voce impastata di sonno del figlio. Blaine entrò in camera dal bagno, con le guance bianche di schiuma da barba. « Allora hai deciso? » le chiese. « E' inutile cercare di parlargli », gli rispose. « Hai visto anche tu come mi guardava. » « Forse un'altra volta... » cercò di consolarla lui. Ma vide la disperazione nei suoi occhi e andò ad abbracciarla forte. David Abrahams migliorò di quasi un secondo il suo record sui 200 metri piani il primo giorno delle prove di selezione per le Olimpiadi. Tuttavia, per reazione, fece meno bene del previsto il secondo giorno, quando riuscí a vincere nei 400 con solo mezzo metro di vantaggio. Il suo nome comunque fu fatto tra i primi al banchetto seguito da un ballo che concluse le prove di selezione della squadra di atletica leggera. Shasa, che gli sedeva accanto, fu il primo a stringergli la mano, congratularsi e dargli una pacca sulla spalla. David sarebbe andato a Berlino. Due settimane dopo cominciarono le selezioni della squadra olimpica di polo, all'Inanda Club di Johannesburg, e Shasa entrò a far parte della squadra B dei « possibili » contro la squadra A, guidata da Blaine, dei « probabili », nell'ultima partita del torneo preolimpico. Seduta in tribuna, Centaine assisté a una delle partite migliori di Shasa, ma con la disperazione nel cuore capí che non bastava. Non fallí un'intercettazione e non sbagliò un tiro nei primi cinque tempi e in un'occasione soffiò la palla sotto il naso del cavallo di Blaine con un'azione talmente audace e bella che tutti gli spettatori balza-
rono in piedi. Ma non era ancora abbastanza bravo, e lei lo sapeva. Clive Ramsay, il rivale di Shasa per il posto di numero due della squadra che sarebbe andata a Berlino, aveva giocato bene tutta la settimana. Era un uomo di quarantadue anni, con una carriera di grandi vittorie alle spalle: aveva giocato con Blaine Malcomess almeno trenta incontri internazionali. La sua carriera di giocatore di polo stava appunto culminando, e Centaine sapeva bene che i selezionatori non potevano permettersi di scartarlo in favore di un giocatore piú giovane, piú audace, probabilmente anche piú dotato, ma certo meno esperto e quindi meno affidabile. Quasi li vedeva scuotere saggiamente il capo, emettendo sbuffi di fumo dal sigaro, tutti d'accordo: « Il giovane Courteney verrà buono la prossima volta ». Già li odiava - compreso Blaine! - quando a un tratto la folla emise un boato e saltò in piedi anche lei. Grazie a Dio Shasa era uscito nettamente dalla mischia e galoppava lungo la linea laterale pronto a raccogliere il cross del suo numero uno, un'altra giovane promessa, che fronteggiava ora Clive Ramsay a centrocampo. Probabilmente il fallo non fu intenzionale, ma derivò dalla foga e dalla voglia di ben figurare: sta di fatto che il compagno di Shasa caricò fallosamente Clive Ramsay, il cui cavallo cadde sulle ginocchia e fece volare il giocatore sul durissimo terreno di gioco. Ai raggi x, quel pomeriggio, risultò una frattura multipla del femore che il chirurgo dovette operare. « Niente polo per almeno un anno », ordinò quando Clive Ramsay uscì dall'anestesia. Sicché quando i selezionatori si riunirono in conclave Centaine aspettò ansiosamente, consentendosi nuove speranze. Come le aveva detto, Blaine si allontanò dalla stanza quando emerse il nome di Shasa. Ma al rientro fu accolto da un grugnito del presidente. « Allora va bene, il giovane Courteney sostituisce Clive. » Suo malgrado, Blaine provò una grande sensazione di orgoglio e felicità. Shasa Courteney era colui che al mondo si avvicinava di piú al figlio che non aveva. Appena poté, Blaine telefonò la notizia a Centaine « Sarà annunciato solo venerdì, ma Shasa ha già in tasca il biglietto per Berlino. » Centaine non stava piú nella pelle dalla gioia « Oh, Blaine, tesoro, come farò a trattenermi fino a venerdí? » gridò. « Ah, che bello andare a Berlino tutti e tre assieme! Possiamo prendere la Daimler e attraversare l'Europa in macchina. Shasa non è mai stato a Mort Homme. Possiamo fermarci qualche giorno a Parigi, dove tu mi porterai a cena da Laserre! Ci sono tantissime cose da sistemare, ma possiamo parlarne sabato quando ci vediamo. » « Sabato? » Se n'era dimenticato, si capiva dal tono. « Il compleanno di Sir Garry, il picnic sulla montagna! » Sospirò, esasperata. « Oh Blaine, è uno dei pochissimi giorni all'anno in cui possiamo legittimamente stare un pò insieme! » « E' di nuovo il compleanno di Sir Garry? Cos'è successo, l'anno si è accorciato? » sfotté. « Uffa, Blaine, ti eri dimenticato! » l'accusò. « Non puoi tradir-
mi: quest'anno sarà una festa doppia, il compleanno e la selezione di Shasa per le Olimpiadi. Promettimi che ci sarai, Blaine! » Esitava ancora. Aveva già detto a Isabella che l'avrebbe portata a trovare la madre a Franschoek. « Te lo prometto, dolcezza, ci sarò. » Centaine non avrebbe mai saputo quant'era destinata a costargli questa promessa. Infatti Isabella gli avrebbe fatto pagare la promessa infranta con raffinata crudeltà. Era la morfina a guastarle il carattere, continuava a ripetersi Blaine. Altrimenti sarebbe stata ancora la persona dolce e gentile che aveva sposato. Era colpa del dolore incessante e della droga se era diventata insopportabile, si diceva cercando di salvare il rispetto e l'affetto che nutriva per lei. Cercò di ricordare la sua grazia di un tempo, così delicata ed eterea da parere un fiore appena sbocciato: ma quella grazia era scomparsa da un pezzo, i petali della rosa erano appassiti ed emanavano sentore di corruzione. L'odore dolciastro e morboso della droga le trasudava da ogni poro della pelle e anche le piaghe da decubito, che non guariscono mai, emanavano un leggero odore che ormai aborriva. Gli rendevano sempre piú difficile starle vicino. Quella vista, quel cattivo odore l'offendevano, ma nello stesso tempo lo riempivano di pietà impotente e di rimorsi corrosivi per la sua infedeltà. Era diventata scheletrica. Non c'era piú carne attorno alle ossa delle gambe che sembravano quelle di un trampoliere, perfettamente dritte e senza forma, interrotte dalle bozze dei ginocchi e concluse dai piedoni, grandi quanto inutili, alle estremità. Anche le braccia erano altrettanto magre. Non c'era piú carne nemmeno sul viso. Le labbra si erano ritirate sui denti ora sporgenti ed esposti: quando cercava di sorridere la poverina sembrava un teschio, e peggio ancora appariva quando - capitava sempre piú spesso - una smorfia di rabbia le scopriva i denti e le gengive quasi bianche. Anche la carnagione era diventata bianca come carta di riso, e altrettanto arida e senza vita, così sottile e trasparente che sulle mani e sulla fronte le vene disegnavano un reticolo azzurrino. Gli occhi erano l'unica cosa ancora viva del suo viso. Adesso vi balenavano lampi maligni, quasi che l'odiasse per il suo corpo ancora sano e vigoroso mentre quello di lei era devastato e inservibile. « Come puoi farmi questo, Blaine? » gli chiese col tono acuto e lamentoso di tantissime altre volte. « Me l'avevi promesso, Blaine. Sa Iddio che già non ti vedo mai. Pregustavo questo week-end da tempo... » non la finiva piú, e lui per quanto cercasse di non pensarci, continuava a vedere il suo corpo. Erano quasi sette anni che non la vedeva svestita quando, solo un mese prima, era entrato nello spogliatoio credendo che lei fosse nel gazebo dove passava quasi tutto il giorno. Invece era lì, nuda sul lettino, mentre l'infermiera la massaggiava. L'orrore doveva esserglisi dipinto chiaramente sul viso e le due donne l'avevano colto alzando lo sguardo sorpreso su di lui. Sullo scarno torace di Isabella si contavano le costole. I seni erano flaccide sacche di pelle pendenti dalle ascelle. Il cespuglio scuro dei peli pubici era incongruo e osceno in mezzo al bacino ossuto, da
cui le gambe si protendevano stecchite secondo un angolo disarticolato. Erano cosí scarnite che tra una coscia e l'altra c'era piú di una spanna. « Va, via! » gli aveva urlato, e lui subito aveva distolto gli occhi ed era quasi fuggito dalla stanza. « Non venire mai piú qui! » E ora la sua voce aveva lo stesso tono aspro e isterico. « Va, al tuo picnic allora, visto che proprio devi. So bene di essere un peso per te. So che non riesci a star con me piú di qualche minuto... » Non ce la fece piú. Alzò una mano per farla tacere. « Hai ragione, mia cara. Sono stato un egoista ad accennartelo. Non ne parliamo piú, verrò con te. » Colse il lampo di trionfo nei suoi occhi, e all'improvviso, per la primissima volta, la odiò. Prima di riuscire a impedirselo pensò: « Ma perché non muore? Sarebbe meglio per lei e per tutti se morisse ». Inorridito da se stesso, pieno di terribili rimorsi, corse subito da lei, si chinò sulla sedia a rotelle e, prendendole una scheletrica mano, le diede un bacio sulla bocca. « Perdonami, ti prego. » Ma, senza volerlo, gli apparve l'immagine di lei nella bara. Giaceva bella e serena come una volta, coi capelli ramati di nuovo folti e lucenti sparsi sul cuscino di raso bianco. Chiuse gli occhi cercando di scacciare il pensiero, ma non ci riuscí; quella visione gli restava in mente anche mentre le teneva la mano. Lei vi si aggrappò. « Sarà bellissimo star soli insieme per un pò. » Gli impedí di staccarsi. « Abbiamo cosí poche occasioni di parlare ormai... passi tutto il tempo in Parlamento, e se non sei in riunione col governo sei a giocare a polo. » « Ti vedo tutti i giorni, mattina e sera. » « Sí, lo so, ma non parliamo mai. Non abbiamo nemmeno parlato di Berlino, e ormai il tempo stringe. » « E di che dobbiamo parlare a quel proposito, mia cara? » le chiese con cautela, sottraendosi alla sua stretta e andando a sedersi sulla propria poltrona, dall'altra parte del gazebo. « Di tantissime cose, Blaine. » Gli sorrise, mostrando le gengive pallide dietro le labbra tirate. Le davano un'espressione astuta, quasi da furetto, che lui trovava quanto mai irritante. « Ci sono un sacco di accordi da prendere. Quand'è che parte la squadra? » «Non so se vado con la squadra», disse Blaine, sulle spine. « Forse parto qualche settimana prima e mi fermo a Londra e Parigi per colloqui politici con quei governi prima di proseguire per Berlino. » «Bisogna sistemare tutto perché possa venire anch'io», disse Isabella, e lui dovette controllarsi molto bene perché lo stava osservando attentamente. « Sí », disse, « bisognerà organizzare ogni cosa nella maniera migliore. » L'idea era addirittura intollerabile. Bramava stare un pò con Centaine, dar finalmente un calcio a tutte le finzioni e agli espedienti per non farsi scoprire. « Prima però bisognerà accertarsi, mia cara, che il viaggio non abbia a pregiudicare ulteriormente la tua salute. » « Tu non vuoi che venga anch'io, vero? » La voce di lei si alzò sempre piú acuta.
« Ma assolutamente... » « E' un'ottima occasione per liberarti finalmente di me, per lasciarmi qui sola... » « Isabella, per favore calmati. Non agitarti cosí... » « Non far finta di preoccuparti di me! Sono nove anni che per te non sono altro che un peso. Sono sicura che mi vorresti morta. » « Isabella... » Fu scosso dall'esattezza dell'accusa. « Non fare il santerello con me, Blaine Malcomess. Posso essere inchiodata a questa carrozzella, ma vedo e sento le cose ancora molto bene. » « Non ho nessunissima intenzione di continuare questo discorso. » Si alzò in piedi. « Ne riparleremo quando avrai ripreso il controllo di te stessa. » « Sta, seduto! » strillò lei. « Non correr dietro anche stavolta alla tua sgualdrina francese! » Blaine sussultò come se gli avesse tirato un pugno in faccia, e lei continuò ardendo di gioia: « Toh, finalmente l'ho detto! Meno male! Non hai idea di quante volte mi sono trattenuta, ma adesso sono contenta di averlo detto e lo ripeto: sgualdrina! prostituta! » « Guarda che se continui così me ne vado », l'avvertì. « Puttana! » disse sfogando tutto il suo risentimento, « Troia! Bagascia da due soldi! » Blaine girò sui tacchi e corse giú dai gradini del gazebo. « Blaine! » gli gridò dietro. « Torna subito qui! » Ma lui continuò a procedere verso la casa, allora la donna cambiò tono. « Blaine, mi dispiace, ti chiedo scusa, ma torna indietro per piacere! Per piacere, torna qui! » Non poté negarglielo. Con riluttanza si fermò, tornò da lei e si accorse che gli tremavano le mani per la rabbia e lo shock. Le mise in tasca e si fermo sulla soglia del gazebo. « E va bene », le disse piano. « E' vera, la storia di Centaine Courteney. L'amo. Ma è anche vero che abbiamo fatto tutto quello che potevamo per risparmiarti ogni dolore e ogni umiliazione. Quindi non parlare mai piú di lei in quel modo. Se avesse voluto, io ti avrei lasciato anni fa. Mi perdoni Iddio, ma ti sarei passato sopra! Solo lei mi ha trattenuto qui, e ancora mi ci trattiene. » A questo punto ella era scossa e abbattuta quanto lui, o così egli pensava finché non alzò gli occhi e capi che aveva simulato quel pentimento solo per riaverlo a portata di lingua. « So che non potrò andare a Berlino con te, Blaine. Ne ho già parlato con il dottor Joseph e mi ha detto che il viaggio mi ucciderebbe. Tuttavia, so anche cosa stai progettando con quella donna. So che hai usato la tua influenza per far entrare Shasa Courteney nella selezione olimpica solo per fornirle la scusa buona per far muovere anche lei. So che stai pianificando un magnifico interludio illecito, e non posso impedirti di andare... » Egli aprì le braccia in segno di irritata rassegnazione. Era inutile protestare. La voce della donna si alzò nuovamente, querula e penetrante. « Ebbene, te lo garantisco: non sarà quella luna di miele che pensate voi due. Ho già detto alle ragazze che verranno con te. Tara e
Mathilda Janine non stanno piú nella pelle per l'eccitazione. E ora decidi tu: o sei abbastanza senza cuore da deludere le tue stesse figlie, o a Berlino farai la baby-sitter e non il Romeo. » La sua voce si alzò ancora di piú. « E ti avverto! Se rifiuti di portarle, dirà loro il perché, Blaine Malcomess! Chiamo Dio a testimone che dirò loro che l'amato paparino e un bugiardo e un imbroglione, un libertino e un puttaniere! » Benché ormai tutti, dai piú noti critici sportivi ai piú grezzi tifosì, si aspettassero che Manfred De La Rey andasse alle Olimpiadi nella squadra di boxe, quando venne l'annuncio ufficiale e si seppe che non solo Manfred era il rappresentante sudafricano dei mediomassimi, ma Roelf Stander quello dei massimi e lo zio Tromp l'allenatore ufficiale della squadra, l'intera città di Stellenbosch - con le autorità accademiche al gran completo - esultò dando vita a spontanee manifestazioni di giubilo e di orgoglio. Vi furono un ricevimento municipale e una parata per le vie della città, mentre a una riunione plenaria della Ossewa Brandwag il generale comandante li additò a esempio di virilità afrikaner ed esaltò la loro dedizione e la loro abilità sul ring. « Sono giovani come questi che guideranno la nazione al suo legittimo posto in questa terra », disse loro, e mentre le masse in uniforme della OB facevano il saluto, col pugno destro sul cuore, Manfred e Roelf venivano promossi ufficiali. « Per Dio e il Volk », disse il generale comandante, e Manfred non aveva mai provato un simile orgoglio e una simile risolutezza a onorare la fiducia riposta in lui. Nelle settimane che seguirono, l'eccitazione continuo ad aumentare. Andarono dal sarto a farsi preparare l'uniforme ufficiale, pantaloni bianchi, giacca verde e oro e cappelloni tipo Panama: cosi vestiti avrebbero sfilato nello stadio olimpico. Vi furono infinite riunioni di squadra, in cui si trattarono gli argomenti piú disparati, dall'etichetta tedesca al buon comportamento sportivo al programma del viaggio e allo studio delle caratteristiche dei probabili avversari che si sarebbero trovati di fronte sulla strada della finale. Sia Manfred sia Roelf furono piú volte intervistati dai giornalisti. Articoli su di loro comparvero su tutti i quotidiani e tutte le riviste del paese: parlarono pure alla radio, che dedico loro il seguitissimo programma: « Questa è la vostra terra ». Solo una persona sembrava estranea a quella gran febbre: Sarah. « Le settimane che starai lontano mi sembreranno le piú lunghe della mia vita », disse a Manfred. « Non fare l'oca », la derise lui. « Finirà tutto in pochi giorni e tornerò con la medaglia d'oro. » « Non chiamarmi oca! Non dirmelo mai più! » Smise di ridere. « Hai ragione », le disse. « Meriti ben altro titolo. » Infatti Sarah si era assunta il compito di cronometrista. Nelle corse serali di Manfred e Roelf, su una strada che saliva tra i monti presso la città, faceva tutte le scorciatoie correndo a piedi nudi ad
aspettarli col cronometro nei punti prestabiliti. Si arrampicava tagliando i tornanti e li ristorava con una spugna bagnata e un bicchiere di spremuta d'arancia. Appena serviti gli atleti, ripartiva a razzo oltre la cresta o dall'altra parte della valle per aspettarli alla prossima fermata. Due settimane prima della partenza Roelf fu costretto a saltare un allenamento per un impegno importante e Manfred fece la corsa da solo. Imboccò la lunga e ripida salita della montagna di Hartenbosch a tutta velocità, a grandi falcate elastiche, guardando in cima. Sarah lo stava aspettando, contro il basso sole d'autunno che l'incoronava d'oro e rivelava la sua snella figura, nella trasparenza dell'abito leggero, quasi come se fosse nuda. Arrivò a tutta forza e si arresto con un batticuore dovuto solo in parte alla fatica. « Com'è bella. » Si stupiva di non essersene mai accorto.. La fissava confuso dalla sensazione improvvisa e dal gran desiderio che provava, un desiderio sempre combattuto e represso, che non aveva mai voluto ammettere e che ora rischiava di consumarlo. Gli venne incontro per gli ultimi pochi passi: a piedi nudi era molto piú piccola di lui, e questo parve soltanto aumentare la sua gran brama. Gli porse la spugna, ma quando lui non si mosse per prenderla, si avvicino e comincia a tergergli il sudore sulle spalle e sul collo. « L'altra notte ho sognato che eravamo tornati al campo dei disoccupati », gli sussurrò strofinandogli i bicipiti. « Ti ricordi il campo accanto alla ferrovia, Manfred? » Annuì. Aveva la gola bloccata, non riusciva a parlare. « Ho visto mia madre che giaceva nella tomba. Una cosa tremenda. Poi tutto è cambiato, Manie, non era piú mia madre, eri tu. Eri pallido e bellissimo, ma io sapevo di averti perduto... ed ero così addolorata che volevo morire anch'io per restare con te in eterno. » Manfred l'abbracciò e lei si mise a singhiozzare contro il suo petto. Il suo corpo era morbido, fresco, arrendevole: la sua voce tremava. «Oh, Manfred, io non voglio perderti. Per favore, torna a me... non potrei vivere senza di te. » « Ti amo, Sarie. » Aveva la voce roca. Lei sussultò tra le sue braccia. « Oh, Manie! » « Non l'avevo mai capito, ma adesso lo so. » « Oh, Manie! Io l'ho sempre saputo. Ti ho amato fin dal primo momento, fin dal primo giorno, e ti amerò fino all'ultimo », proruppe porgendogli le labbra. « Baciami, Manie, baciami o morirò! » Le sue labbra morbide accesero qualcosa dentro di lui, e quel fuoco, quella nebbia oscurarono ragione e realtà. Ed eccoli su un soffice letto di aghi di pino, fuori del sentiero, accarezzati dalla tiepida aria autunnale sulla pelle nuda: un'aria meno dolce, per Manfred, del morbido corpo di lei, e delle roride profondità in cui l'accolse e l'avvolse.
Non capí cosa stava succedendo finché lei non diede un grido di dolore e intensa gioia: ma allora era già troppo tardi. Si ritrovò a corrispondere a quel grido, incapace di ritrarsi. L'aveva travolto una possente ondata di marea, che lo depositò dove non era mai stato, in un piacere che nemmeno sognava. Realtà e coscienza tornarono pian piano, da lontanissimo, ed egli si staccò da lei. Si rivestí guardandola con orrore. « Cosa abbiamo fatto! E' un peccato imperdonabile. » « No! » Ella scuoteva la testa con violenza. Ancora nuda gli tese le braccia. « No, Manfred, non è peccato quando due si amano. Come può esserlo? E' un dono di Dio, una cosa bellissima e benedetta. » La notte prima di partire per l'Europa con lo zio Tromp e la squadra, Manfred la trascorse a casa. Quando tutti dormirono Sarah scivolò nella sua camera. Le aveva lasciato la porta aperta; non protesto nemmeno quando Sarah si liberò della camicia da notte ed entro nel suo letto. Ci rimase fino alle prime luci dell'alba, quando i colombi, fuori della finestra, cominciarono a tubare. Gli diede un ultimo bacio e gli sussurro: « Adesso apparteniamo l'una all'altro... per l'eternità. » Mancava soltanto mezz'ora a che la nave salpasse e la suite di Centaine era affollatissima: i camerieri dovevano passare i bicchieri di champagne sopra la testa degli ospiti. L'unico amico assente era Blaine Malcomess. Avevano deciso di non pubblicizzare il fatto che prendevano la stessa nave, e di incontrarsi solo in alto mare. Sia Abe Abrahams, raggiante d'orgoglio, sottobraccio a David, sia il dottor Twentyman-Jones, alto e lugubre come un marabù, attorniavano Centaine. Erano venuti a salutarla fin da Windhoek. Naturalmente c'erano anche Sir Garry e Anna, come l'Ou Baas, il generale Smuts, e la sua piccola moglie dai capelli arruffati che la facevano somigliare a un uccellino. In un angolo della sala stava Shasa attorniato da un gruppo di belle. Stava raccontando una storiella che provocava gemiti di stupore e strilli di divertimento: ma a un tratto perse il fiato e guardò fuori, sul ponte. Ciò che aveva attirato la sua attenzione era una ragazza che passava. Ne aveva visto soltanto per un attimo il profilo e la testa, una cascata di riccioli ramati: l'andatura l'aveva indotto a trascurare il suo elegante uditorio femminile. Saltò in piedi, rovesciando lo champagne, ma la ragazza era già passata e riuscì a vederne solo la schiena. Aveva la vita molto sottile, ma un bel culetto pieno che ancheggiava proiettando la gonna di qua e di là. Con un ultimo slancio delle natiche tonde girò l'angolo e lasciò Shasa piú che mai deciso a vederla in faccia. « Scusatemi, signore. » Il pubblico emise strida deluse. Shasa bucò agilmente la cerchia e cominciò a dirigersi tra la folla verso la porta della suite, ma prima che potesse raggiungerla suonò la sirena e si levò il tonante avvertimento: « Ultima chiamata, signore e signori: tutti quelli che non partono, a terra! » Seppe così di non aver
piú tempo. « Probabilmente era racchia... bella dietro, orrenda davanti. E poi chissà se parte o resta », si consolò. Dopo si trovò a stringere la mano al dottor Twentyman-Jones, che gli fece gli auguri per le Olimpiadi. Cercò di dimenticare quei boccoli ramati e di concentrarsi sui suoi doveri mondani. Ma non era facile. Al parapetto si mise a scrutare la folla sul molo e sul ponte in cerca della famosa chioma fulva, ma Centaine gli batté sul braccio. Il pezzo di mare che separava il bastimento dal molo si allargava sempre piú e ancora non aveva scorto la bella. « Vieni, chéri, andiamo a controllare i posti che ci hanno assegnato in sala da pranzo. » « Ma sei stata invitata al tavolo del comandante, mamma, non ricordi? » « Sì, ma tu e David no », osservò lei. « Vieni anche tu, David, andiamo a vedere dove vi hanno sistemato, così se il posto non va bene ce lo facciamo subito cambiare. » Aveva in mente qualcosa, capì Shasa. Normalmente non si occupava di simili quisquilie: il nome che portava era garanzia sufficiente di un trattamento sempre privilegiato. Se adesso insisteva doveva avere i suoi motivi, e difatti negli occhi le brillava il «lampo machiavellico » che aveva imparato a riconoscere. « D'accordo, andiamo pure », disse, indulgente. I tre scesero allora per la scala rivestita di noce che portava alla sala da pranzo di prima classe, sul ponte inferiore. Ai piedi della scala un gruppo di persone avvezze a viaggiare in nave parlottavano col capocameriere. Banconote da cinque sterline sparivano come per magia nelle tasche del compito signore, senza minimamente gonfiarle, mentre sulla lista dei posti certi nomi cambiavano posizione. In disparte dal gruppo, Shasa riconobbe immediatamente una figura alta e familiare. Qualcosa in essa faceva capire che aspettava qualcuno, e il sorriso smagliante che fece quando vide Centaine chiari a Shasa chi era. « Buon Dio, mamma! » esclamò Shasa. « Non sapevo che anche Blaine fosse su questa nave! Pensavo partisse piú tardi, insieme agli altri... » S'interruppe. Si era accorto che, alla vista di Blaine, sua madre gli aveva involontariamente stretto il braccio e aveva fatto un sospiro. « Erano d'accordo », capì con un moto di stupore. « Ecco perché era così eccitata. » La verità gli si affaccio alla mente. « E' una cosa che della propria madre non si pensa, ma sono amanti! In tutti questi anni, come ho fatto a non capirlo prima? » Gli tornarono in mente un mucchio di piccole cose che gli erano parse insignificanti allora, ma adesso acquistavano un significato ben preciso. « Blaine e la mamma! Certo! Come sono stato cieco! Chi l'avrebbe mai detto... » Lo assalirono emozioni contrastanti. « Di tutti gli uomini che ci sono al mondo, anch'io per mamma avrei scelto lui... » E in quella si rese conto di quanto Blaine Malcomess avesse preso per lui il posto di quel padre che non aveva mai conosciuto. Il pensiero fu immediatamente seguito da un attacco di gelosia e
indignazione morale. « Blaine Malcomess, colonna della società e del governo, e la mamma che non fa che accigliarsi e scuotere la testa per le mie storie... ah, che bricconi, sono anni che se la spassano all'insaputa di tutti! » Blaine venne loro incontro. « Centaine, ma che bella sorpresa! » Centaine rideva porgendogli la mano. «Santo cielo, Blaine Malcomess, non avevo idea che fosse a bordo! » Shasa pensò con sarcasmo: « Ma sentì che attori! Hanno preso tutti per il naso per degli anni. Clark Gable e Ingrid Bergman fanno ridere i polli al confronto ». E a un tratto nulla di tutto questo gl'importò piú. L'unica cosa importante fu che c'erano due ragazze accanto a Blaine, che veniva verso Centaine. « Centaine, sono sicuro che ti ricordi delle mie figlie. Questa è Tara, e questa Mathilda Janine... » « Tara. » Silenziosamente Shasa cantò il suo nome. « Tara, che bel nome! » Era la ragazza che aveva intravisto prima sul ponte: mille volte piú abbagliante di quel che aveva osato sperare. Tara. Era alta, pochi centimetri meno di lui che era uno e ottantacinque: le sue gambe erano rami di salice flessuoso, e la vita come una canna al vento. Tara. Aveva un viso da madonna, un ovale sereno, e la sua carnagione era un misto di crema e petali di rosa; quasi troppo perfetta, tuttavia redenta dall'insipida vacuità di quei suoi capelli fiammeggianti, castano fulvi, la bocca larga del padre e occhi tutti suoi, grigi e duri come l'acciaio, brillanti d'intelligenza e volontà. La ragazza salutò Centaine col dovuto rispetto e poi si girò a guardare negli occhi Shasa. « Shasa, anche tu ti ricordi Tara, vero? » gli disse Blaine. « E' venuta a Weltevreden quattro anni fa. » Era davvero la stessa bambina pestifera e chiassosa? Shasa la guardo a occhi spalancati... la bimba in gonnella dalle ginocchia sempre sbucciate, che l'aveva messo in imbarazzo con le sue birichinate infantili... Non riusciva a crederci. La voce gli tremava in gola. « Che piacere rivederti dopo tanto tempo, Tara. » « Ricordati, Tara Malcomess », si ripeteva mentalmente lei, « autocontrollo e signorilità. » Tremava quasi di vergogna ricordando come l'aveva perseguitato quattro anni prima, come una bambola ansiosa di essere vezzeggiata. « Ero una bestiola scatenata », pensò. Ma le era venuta una tal cotta a prima vista per quel ragazzo, che provava ancora un'eco di quel lontano dolore. Riuscí tuttavia a dimostrare la giusta sfumatura d'indifferenza mormorando: « Ah sí? Ci siamo già conosciuti? Debbo essermene scordata, scusami ». Gli porse la mano. « Be', lieta di rivederti allora. Shasa ti chiami, no? » « Mi chiamo Shasa », annuí lui, e le prese la mano come se fosse un talismano miracoloso. « Perché poi non ci siamo piú visti? » si domando, e immediatamente lo capì: se n'erano curati Blaine e la mamma, che non volevano complicazioni. Mancava solo che Tara chiacchierasse con sua madre... Ma Shasa era troppo felice per ar-
rabbiarsi ora. « Hai già prenotato il posto a tavola? » le chiese senza lasciarle la mano. « Papà siede al tavolo del comandante », disse Tara accennando amorosamente a suo padre. «Sicché noi dovremmo restare da sole. » «Ah, ma possiamo mangiare insieme noi quattro», suggerí prontamente Shasa. « Andiamo subito a parlare col maìtre. » Blaine e Centaine si scambiarono uno sguardo di sollievo: tutto andava esattamente come avevano pianificato, salvo una piccola piega imprevista. Mathilda Janine era arrossita dando la mano a David Abrahams. Delle due sorelle era la piú sfortunata, perché non aveva ereditato la bocca del padre ma il nasone e anche le orecchie a sventola. Inoltre i suoi capelli non erano fulvi ma color carota. « Ma tanto anche lui ha il nasone », penso arditamente esaminando David. Subito dopo i suoi pensieri partirono per la tangente. « Se Tara gli rivela che ho solo sedici anni mi getto in mare! » Il viaggio fu una tempesta di emozioni, pieno di delizie, frustrazioni e tormenti per tutti loro. Nei quattordici giorni di traversata per Southampton, Blaine e Centaine videro pochissimo i ragazzi, limitandosi a incontrarli all'ora dell'aperitivo sul bordo della piscina e dopo cena per i quattro salti di rigore. David e Shasa facevano ballare Centaine, Blaine faceva ballare le figlie. Poi i ragazzi si scambiavano un'occhiata e, adducendo complicate scuse, si allontanavano diretti alla classe turistica dove c'era il vero divertimento, lasciando Blaine e Centaine ai riti raffermi del ponte superiore. Tara nel suo costume da bagno a un pezzo verde limone costituiva la piú splendida apparizione che Shasa avesse mai adorato. I suoi seni, sotto la tela aderente, avevano la forma delle pere acerbe, e quando usciva dalla piscina grondando acqua dagli arti lunghi ed eleganti egli vedeva il buchino dell'ombelico e i sassolini dei capezzoli sotto il tessuto, e gli ci voleva tutto l'autocontrollo per evitare di gemere forte. Mathilda Janine e David scoprirono di avere in comune un umorismo acuto e irriverente; passavano quasi tutto il tempo a ridere come matti. Mathilda Janine si alzava ogni mattina alle quattro e mezzo per applaudire David che si allenava con cinquanta giri di nave. « Si muove come una pantera », si diceva. « Lungo, liscio e aggraziato. » Ogni mattina escogitava cinquanta battute di spirito per quando le sfrecciava davanti. Si rincorrevano nell'acqua della piscina e, una volta che erano riusciti ad afferrarsi, lottavano in estasi sott'acqua: ma, a parte qualche furtiva pomiciata sulla porta della cabina che Mathilda Janine divideva con Tara, nessuno volle andare oltre. Benché David avesse tratto profitto dal suo breve rapporto con la Cammella, non gli saltò in mente di lasciarsi andare alle stesse acrobazie con un tipo speciale come « Matty ». Shasa non aveva inibizioni del genere. Aveva molta piú esperienza, dal punto di vista sessuale, di David, e una volta superato lo sbigottimento iniziale per la grande bellezza di Tara, iniziò un pressante e insidioso assedio alla fortezza della sua verginità. Tuttavia i suoi
risultati furono anche meno spettacolosi di quelli di David. Gli ci volle quasi una settimana per arrivare con Tara all'intimità necessaria per spalmarle la crema solare sulla schiena e sulle spalle. Alle ore piccole, quando si smorzavano le luci e l'orchestrino attaccava l'ultima canzone - la sdolcinata Poinciana - ella posava la guancia vellutata contro quella di lui: ma quando Shasa avvicinava il bacino, gli permetteva quel contatto solo per pochi secondi e poi si ritraeva. Quando infine, lui cercava di baciarla sulla porta della cabina, lo teneva lontano con le mani sul petto, e gli dedicava la risatina sommessa che per lui era diventata la peggiore delle torture. «La stronzina è completamente frigida», dichiarò Shasa alla propria immagine riflessa nello specchio da barba. « Ha del ghiaccio secco negli slip. » Il pensiero di quei dintorni lo fece fremere di frustrazione. Decise di lasciarla perdere. Non c'erano a bordo altre cinque o sei femmine belle, anche se non giovanissime, che l'avevano guardato con aria inequivocabilmente invitante? « Potrei farmele tutte, invece di sbavare dietro miss mutandine di ghisa... » Ma, dopo mezz'ora, era là che partecipava con lei al torneo di birilli, o le spalmava l'olio solare sulla schiena morbida e impeccabile con dita tremanti di desiderio vano; oppure cercava di non sfigurare nel discutere con lei meriti e demeriti del programma governativo di ritogliere il voto ai negri della Provincia del Capo. Aveva scoperto con qualche sbigottimento che Tara Malcomess aveva una coscienza politica altamente sviluppata. Benché Shasa non ignorasse che in futuro - mamma non faceva che ripeterlo - l'aspettava un seggio in Parlamento, doveva ammettere che il suo interesse e la sua padronanza dei complessi problemi del paese non erano minimamente paragonabili a quelli di Tara. Le opinioni della ragazza, poi, lo sconvolgevano quasi come le sue curve. « Sono d'accordo con papà: invece di togliere il voto ai pochi negri che l'hanno bisognerebbe darlo a tutti », dichiarò. « Dare il voto a tutti i negri! » Shasa era incredulo e costernato. « Non dirai mica sul serio, spero! » « Certo che dico sul serio. Non tutti in una volta, ma gradualmente, a seconda della civilizzazione di ciascuno. Non si possono negare i diritti politici a chi si dimostra all'altezza di esercitarli. Bisognerebbe dare il voto a tutti coloro che hanno un'istruzione o delle responsabilità particolari: in tal modo nel giro di due generazioni ogni uomo e ogni donna, siano bianchi o negri, diventeranno cittadini a pieno titolo. » Shasa rabbrividí al pensiero. Le sue ambizioni parlamentari potevano essere le prime vittime di una simile riforma... eppure, era forse la meno radicale delle opinioni di Tara. « Come si può proibire alla gente di possedere la terra nel suo stesso paese, o di vendere il proprio lavoro alle migliori condizioni possibili, mediante la contrattazione collettiva? » I sindacati erano strumenti di Lenin e quindi del demonio. Era un fatto assodato, che Shasa aveva succhiato col latte della mamma. « Cristo, è una bolscevica, ma che bella bolscevica però! » pensava. Per interrompere la sgradevole lezione la faceva alzare in piedi. « Vieni, andiamo a fare una nuotata. »
« E' un fascista ignorante », pensava lei furiosa, ma quando vedeva come lo guardavano le altre dietro gli occhiali da sole le veniva voglia di cavar loro gli occhi. E di notte, quando a letto ripensava al tocco delle dita di Shasa sulla schiena, al contatto del suo corpo sulla pista da ballo, arrossiva nel buio delle proprie fantasie. « Se lo lascio cominciare, poi non riuscirei a fermarlo, e nemmeno vorrei », pensava, rafforzando la propria severità. « Controllata e distante », si ripeteva, come fosse un incantesimo contro le voglie traditrici del suo stesso corpo. Per qualche straordinaria «coincidenza» anche la Bentley di Blaine Malcomess era stata caricata nella stiva accanto alla Daimler di Centaine. « Potremmo andare a Berlino in convoglio! » esclamò Centaine come se l'idea le fosse balenata allora allora. I quattro ragazzi espressero clamorosamente la loro entusiastica adesione, e cominciarono subito a disputarsi i posti. Centaine e Blaine, protestando appena, consentirono a ridursi assieme sulla Bentley, mentre gli altri quattro li avrebbero seguiti sulla Daimler guidata da Shasa. Da Le Havre imboccarono le polverose strade della Francia nord-occidentale, attraversando città che evocavano in loro tragici ricordi, Amiens e Arras. L'erba ora verdeggiava sui campi di battaglia da dove Blaine era riuscito a tornare, ma c'erano sconfinate distese di croci bianche, che splendevano al sole come tante margherite. « Voglia Iddio che l'umanità non conosca mai piú un massacro simile », mormorò Blaine, e Centaine gli prese la mano. Nel paesino di Mort Homme si fermarono sulla strada principale, davanti all'unico albergo. Quando Centaine entrò a chiedere una stanza, la padrona la riconobbe immediatamente e si mise a strillare tutta eccitata. « Heari, viens vite! C'est Mademoiselle De Thiry da chàteau... » esclamò correndo a stampare due bacioni sulle guance di Centaine. Scacciato un commesso viaggiatore, le camere migliori furono messe a loro disposizione. Si rese necessaria qualche spiegazione quando Blaine e Centaine chiesero camere separate, ma la cena che gustarono insieme quella sera inondò Centaine di nostalgia. Erano tutte specialità del paese, terrine, tartufi e tartes, accompagnate dai vini del posto; Madame si era seduta accanto a Centaine e l'aggiornava sulle novità e i pettegolezzi... degli ultimi vent'anni. Al mattino presto Centaine e Shasa lasciarono gli altri ancora addormentati e guidarono fino al castello. Ormai non era piú che un ammasso di rovine annerite, coperte di vegetazione, e Centaine pianse per suo padre, che era bruciato con il castello piuttosto che abbandonarlo ai tedeschi avanzanti. Dopo la guerra, la tenuta era stata venduta per pagare i debiti accumulati dal vecchio in una vita di bagordi. Adesso era della Hennessy, la gran marca di cognac: al vecchio non sarebbe dispiaciuto, pensò Centaine sorridendo. Insieme salirono sul poggio dietro il castello in rovina e Centaine, dalla cima, mostrò a Shasa il punto dove sorgeva il vecchio campo d'aviazione da cui partiva suo padre per le missioni belliche.
« Lo stormo di tuo padre era là, in quel frutteto. Io aspettavo il loro decollo tutte le mattine, da qui. Mentre andavano in battaglia li salutavo. » « Il loro aereo era il famoso SE5, vero? » « Alla fine sí, ma all'inizio era quel baracchino del Sopwith. » Guardava il cielo. « La macchina di tuo padre era dipinta di giallo brillante. Io lo chiamavo le petit faune. Adesso mi sembra di vederlo, con in testa il casco di volo. Quando passava, si toglieva gli occhialoni perché potessi guardarlo negli occhi. Oh, Shasa, com'era giovane, allegro e ardito! Un aquilotto che si alza nel cielo » Discesero dal paggetto e tornarono piano verso il paese, attraversando i vigneti Centaine chiese a Shasa di fermarsi di fianco a un piccolo granaio di pietra, sul limitare della campagna settentrionale. Il giovane la guardò perplesso sostare oziosamente sotto il tetto di paglia del granaio, per tornare dopo qualche minuto con un sorrisetto e un lampo malizioso negli occhi. Colse la sua curiosità e gli disse: « Tuo padre e io ci davamo convegno qui ». Shasa, con un lampo di chiaroveggenza, intuí di essere stato concepito lí, in quel cadente granaio nel cuore di una terra straniera. L'intuizione, nel tornare verso l'albergo, gli trasmise una certa inquietudine. All'entrata del villaggio, davanti alla piccola chiesa dal tetto di rame verde, si fermarono ancora e visitarono il cimitero. La tomba di Michael Courteney era in fondo, dietro un tasso. Centaine aveva commissionato la tomba dall'Africa e non l'aveva mai vista. Un'aquila di marmo, appollaiata su uno stendardo guerresco sforacchiato dai colpi nemici, stava per involarsi ad ali spiegate. Shasa pensò che lo stile della tomba fosse un pò troppo magniloquente per un caduto in guerra. L'uno di fianco all'altra lessero la lapide. ALLA MEMORIA DEL CAPITANO MICHAEL COURTENEY RFC CADUTO IN BATTAGLLA IL 19 APRILE 1917 NESSUNO FU PIU' AMATO DI LUI Intorno alla lapide erano cresciute le erbacee. Si chinarono a estirparle. Poi sostarono davanti alla tomba a capo chino. Shasa si aspettava di rimanere profondamente commosso dalla vista della tomba di suo padre, ma non provò niente di straordinario. Quell'uomo era già polvere quando lui era nato. Si era sentito piú vicino a Michael Courteney a diecimila chilometri da lí, quando aveva dormito nel suo letto, indossato la sua vecchia giacca di tweed a prova di spine, usato il suo fucile Purdey e le sue canne da pesca, la sua stilografica dal pennino d'oro o i suoi gemelli d'onice e platino. Andarono a piedi fino alla chiesa e trovarono il parroco. Era giovane, non tanto piú anziano di Shasa, e Centaine ne fu delusa perché la sua età tagliava un altro tenue legame con Michael e il passato. Tuttavia staccò due grossi assegni, uno per riparare il tetto della chiesa che ne aveva bisogno, e l'altro per portare ogni domenica,
per sempre, fiori freschi alla tomba di Michael. Poi tornarono alla Daimler accompagnati dalle fervide benedizioni del prete. Il giorno seguente andarono a Parigi. Centaine aveva prenotato per tutti al Ritz. Blaine e Centaine avevano fittissimi impegni di lavoro. Dalla mattina alla sera dovevano incontrare esponenti del governo francese, partecipare a colazioni d'affari, presenziare a party e via dicendo, sicché i quattro ragazzi rimasero abbandonati a se stessi e ben presto scoprirono che Parigi era la città piú romantica ed eccitante del mondo. Salirono in ascensore fino al primo piano della Tour Eiffel, poi proseguirono sulla scaletta di ferro fin proprio in cima, da dove contemplarono la città che si stendeva ai loro piedi senza lesinare esclamazioni di stupore. Passeggiarono a braccetto sul Lungosenna e sopra e sotto i favolosi ponti. Tara fotografò gli altri sui gradini di Montmartre sullo sfondo del Sacra Coeur; bevvero cappuccini e mangiarono croissants seduti ai caffè dei boulevards, pranzarono al Café de la Paix, cenarono alla Coupole e andarono a vedere La traviata all'Opera. A mezzanotte le ragazze augurarono la buonanotte e si ritirarono da brave in camera loro: ma Shasa e David le fecero scappare dal balcone e andarono a ballare nelle boites della riva sinistra, ad ascoltare del buon jazz nelle cantine di Montparnasse, dove scoprirono un trombonista negro che faceva venire i brividi, e una piccola brasserie dove si potevano mangiare lumache e fragoline di bosco alle tre di notte. Di buon mattino, sgattaiolando per il corridoio dell'albergo per riportare le ragazze in camera, udirono voci conosciute nell'ascensore a gabbia che stava arrivando al piano. Si gettarono per le scale appena in tempo trovando rifugio sul pianerottolo superiore. Mentre le ragazze soffocavano le risate nei fazzolettini, videro Blaine e Centaine, splendidi in abito da sera, uscire dall'ascensore e avviarsi a braccetto per il corridoio verso la suite di Centaine. Pur avendo lasciato Parigi con rammarico, raggiunsero il confine tedesco in piena euforia. Presentarono i passaporti ai doganieri francesi e furono fatti proseguire con larghi gesti tipicamente gallici verso la dogana tedesca. Lasciarono le macchine alla barriera ed entrarono nell'ufficio, dove colsero immediatamente la ben diversa atmosfera che ci regnava. I due funzionari tedeschi erano impeccabilmente vestiti. L'uniforme era immacolata, il berretto posto alla giusta angolazione regolamentare sulla fronte. Le fasce con le svastiche, bianche rosse e nere, spiccavano sulla manica, per non parlare degli stivali che emanavano lampi abbacinanti. Sul muro dietro la loro scrivania troneggiava l'immagine torva e baffuta del Fuhrer. Blaine posò il mazzetto dei passaporti sul banco con un cordiale Guten Tag, mein Herr e prese a chiacchierare con Centaine mentre uno dei funzionari esaminava i passaporti uno alla volta, confrontando le persone con le fotografie e timbrandoli poi col visto a svastica e aquila nera. Il passaporto di David Abrabams era l'ultimo. Quando il funzio-
nario ci arrivò, si fermo a rileggere il nome, poi sfogliò tutte le pagine del libretto con pedantesca attenzione, alzando gli occhi a controllare le reazioni di David al meticoloso esame. Dopo qualche minuto di questa manfrina tutti tacevano e cominciavano a scambiarsi sguardi perplessi. « Credo ci sia qualcosa che non va, Blaine », disse calma Centaine, e Blaine tornò dalla guardia di frontiera. « Problem? » chiese. Il funzionario gli rispose in inglese pesantemente accentato ma corretto. « Abrahams è un nome ebreo, vero? » Blaine provò un moto d'irritazione, ma prima che potesse rispondere David fece un passo avanti e parlo. « E' un nome ebreo, si! » disse tranquillamente, e il funzionario annuì pensosamente, picchiettando il passaporto col dito. « Ammette di essere ebreo? » « Sono ebreo », rispose David con lo stesso tono tranquillo. « Sul passaporto non c'è scritto », osservo il doganiere. « Dovrebbe esserlo? » chiese David. Il funzionario alzò le spalle. Poi gli chiese: «E lei, essendo ebreo, desidera entrare in Germania? » « Desidero entrare in Germania per prendere parte alle Olimpiadi di Berlino, a cui sono stato invitato dal governo tedesco. » « Ah! Lei è un atleta olimpionico, un atleta olimpionico ebreo? » « No, sono un atleta olimpionico sudafricano. E' in regola il passaporto? » Il doganiere non rispose alla domanda. « Attenda qui, per favore. » Uscí da una porticina col passaporto di David in mano. Lo sentirono conferire con qualcuno nell'altra stanza: tutti guardarono Tara. Era l'unica che aveva studiato il tedesco per gli esami d'ammissione all'università. « Che sta dicendo? » le chiese Blaine. « Parlano in fretta... continuano a ripetere "ebrei" e "OIimpiadi" », rispose Tara. In quella la porticina si aprí e il funzionario tornò con un tipo grassoccio e roseo che era chiaramente un suo superiore, data l'uniforme piú vistosa e le arie che si dava. « Chi è Abrahams? » domandò. « Sono io. » « Lei è un ebreo? Ammette di esserlo? » « Sí, sono ebreo. L'ho già detto diverse volte. C'è qualcosa che non va nelle mie carte? » «Aspetti, prego. » Stavolta tutti e tre i doganieri si ritirarono nell'altra stanza, portandosi dietro ancora il passaporto di David. Si sentí squillare il telefono e la voce alta e ossequiosa dell'ufficiale. « Cosa dicono? » Tutti guardavano Tara. « Sta parlando con qualcuno a Berlino », disse la ragazza. « Sta spiegando la faccenda. » Il monologo nell'altra stanza terminò con un secco Jawohl, mein Kapitan ripetuto quattro volte, ognuna un pò piú forte, e un Heil Hitler addirittura gridato. Poi il telefono fece din. I tre funzionari tornarono. L'ufficiale dalla faccia rosea timbro il passaporto di David e glielo porse con uno svolazzo.
« Benvenuto nel Terzo Reich! » dichiarò. Quindi colse tutti alla sprovvista esibendosi nel saluto nazista: « Heil Hitler! » urlò proiettando il braccio verso di loro. Mathilda Janine si mise a ridacchiare nervosamente. « Che roba! » Blaine la prese per il braccio e la portò subito fuori. Cosí entrarono in Germania, in silenzio e mogi mogi. Alla prima locanda lungo la strada si fermarono e, contrariamente alle sue abitudini, Centaine accettò le camere senza prima ispezionare letti, bagni e cucine. Dopo cena risultò che nessuno aveva voglia di giocare a carte o esplorare il paese: andarono a letto prima delle dieci. Tuttavia l'indomani a colazione recuperarono un pò di allegria, e Mathilda Janine li fece ridere con una poesia che aveva composto per celebrare le future gesta del padre, di David e di Shasa alle Olimpiadi. Il loro buon umore aumentò attraversando la bella campagna tedesca, i villaggi e i castelli in cima alle colline che sembravano uscire dalle illustrazioni delle fiabe di Andersen, le foreste di pini scurissimi che contrastavano coi campi aperti e i fiumi scroscianti varcati da ponti di pietra. Per via scorgevano gruppi di giovani in costume, i ragazzi in lederkosen e cappello piumato di loden, le ragazze in Dirndls: al passaggio del breve corteo di macchine di lusso salutavano sventolando la mano. Pranzarono in un'osteria piena di gente, musica e risate, con un cosciotto di cinghiale con contorno di mele e patate arrosto, bevendo un vino della Mosella che nascondeva nelle sue profondità verdastre sapore di uva e di sole. « Sembrano tutti agiati e contenti », osservo Shasa dopo essersi guardato intorno. « E' l'unico paese al mondo senza disoccupazione e senza miseria », concordò Centaine, ma Blaine bevve un sorso di vino e non fece commenti. Quel pomeriggio entrarono nella pianura settentrionale che portava a Berlino. Shasa, in testa con la Daimler, a un certo punto si fermò al margine della strada cosí di botto che David dovette attaccarsi al cruscotto e le ragazze, dietro, squittirono allarmate. Shasa saltò giú lasciando il motore acceso, gridando: « David! David! Vieni a vedere! Che meraviglia! » Gli altri scesero e si misero a guardare in su, mentre Blaine fermava la Bentley dietro la Daimler e, con Centaine, si accingeva a fare altrettanto riparandosi dal sole con la mano. Di fianco alla strada c'era un aeroporto. Gli hangar erano dipinti di vernice argentea, e la manica a vento bianca tendeva il lungo braccio alla brezza leggera. Una formazione di tre caccia balenò controsole allineandosi alla pista per atterrare. Erano slanciati come squali, e avevano la pancia e il disotto delle ali verniciati d'azzurro cielo, mentre il sopra era dipinto a macchie mimetiche. Il perno dell'elica era giallo brillante. « Cosa sono? » chiese Blaine ai due giovani piloti, che gli risposero in coro: «109.»
« Messerschmitt. » La canna delle mitragliatrici spuntava dall'angolo avanzato delle ali, mentre la volata del cannoncino inserito nel perno giallo dell'elica guatava come un nero occhio maligno. « Cosa darei per pilotarne uno! » « Un braccio... » « Una gamba... » « Il Paradiso... » I tre caccia si misero in fila e scesero verso il campo d'aviazione. « Dicono che fanno i seicento all'ora... » « Dio, Dio, ma guardali volare... » L'eccitazione contagiò le ragazze, che si misero a ridere battendo le mani mentre gli apparecchi passavano bassissimi sopra la loro testa e atterravano poco piú in là. « Varrebbe la pena di far la guerra solo per pilotare quelle macchine lí », esultò Shasa. Blaine si arrabbiò moltissimo e per non darlo a vedere voltò le spalle al gruppo e tornò in macchina. Centaine scivolò sul sedile accanto a lui e proseguirono in silenzio per cinque minuti prima che lei dicesse: « A volte è così stupido... ma è ancora un ragazzo, Blaine, non sa quello che dice ». Lui sospirò. « Eravamo cosí anche noi. Credevamo la guerra un gioco, un gioco glorioso che ci avrebbe reso uomini ed eroi. Nessuno ci parlò delle pance sbudellate, del terrore e della puzza dei morti dopo cinque giorni al sole. » « Non accadrà piú », disse risoluta e fiera Centaine. « Dio, fa, che non accada piú! » Con gli occhi della mente rivide l'apparecchio in fiamme, e il corpo dell'uomo che amava che si carbonizzava contorcendosi e sfrigolando. Poi il viso non fu piú quello di Michael ma di suo figlio: pensò al bel volto di Shasa che scoppiava come una salsiccia tenuta troppo vicino al fuoco, e ai succhi vitali della sua dolce giovinezza che ne sprizzavano, sprecati. «Per favore fermati, Blaine», gli sussurrò. «Credo di star male. » Sarebbero potuti arrivare a Berlino la sera stessa, ma una delle cittadine che attraversavano era in festa e Centaine, informandosi, apprese che era la sagra del patrono locale. « Ah, fermiamoci qui, Blaine », suggerì, e si unirono alle celebrazioni. Quel pomeriggio ci fu la processione: un'effigie del santo fu portata a spasso per le stradino di ciottoli, seguita dalla banda e da biondissimi, angelici ragazzini e ragazzine in costume. «E' la Gioventú Hitleriana», spiegò Blaine. «Una roba tipo i vecchi boy-scout di Baden-Powell, ma con un ben piú forte accento sulle aspirazioni nazionali e il patriottismo tedesco. » Dopo la parata si ballò in piazza al lume delle fiaccole. Agli angoli stavano dei carri-cisterna che servivano smisurati boccali di birra e bicchieri di Sekt, l'equivalente tedesco dello champagne, mentre cameriere dai grembiuli di pizzo e le guance bianche e rosse come mele mature giravano servendo piatti traboccanti di cibo: zamponi, stinchi, piedini, pesci e formaggi affumicati.
Presero un tavolo in piazza, accolti dalle urla festose e dai brindisi dei vicini, e si misero a tracannare birra, ballare e sottolineare battendo i boccali sul tavolo l'umpappà della banda. Poi di colpo l'atmosfera cambiò. Le risa dei vicini diventarono false e forzate, e in tutti gli sguardi si leggeva una malcelata tensione. La banda prese a suonare fin troppo forte e quelli che ballavano si misero, se cosí si può dire, a recitare la parte di quelli che ballavano. In piazza erano comparsi quattro brutti ceffi in camicia bruna, con le bandoliere incrociate sul petto e la solita onnipresente svastica sul braccio. Giravano da un tavolo all'altro raccogliendo offerte in una cassettina. Tutti facevano l'offerta, ma infilavano la moneta nella fessura senza guardare in faccia lo sgherro che porgeva la cassetta. Quando i quattro passavano al tavolo successivo, gli occupanti del precedente si scambiavano uno sguardo di sollievo. « Chi sono quelli lí? » chiese Centaine, curiosa. « SA », rispose Blaine. « Squadre d'assalto, i "bravi" del partito nazionalsocialista. Guarda quello. » Il milite aveva una faccia ottusa da contadino scemo, massiccio e brutale. « Quando serve, un macellaio si trova sempre, non è questo il punto: speriamo solo che la faccia della nuova Germania non somigli alla sua. » Lo squadrista aveva notato il loro interessamento, che del resto non si erano preoccupati di celare, e i quattro si diressero dritti verso il loro tavolo, con aria risoluta e minacciosa. « Documenti », disse il nazista. « Vuoi vedere i documenti », tradusse Tara. Blaine gli porse il passaporto. « Ah! Turisti stranieri! » I modi degli squadristi cambiarono subito. L'orco fece un sorriso mellifluo e rese il passaporto a Blaine con qualche parola cortese. « Dice: "Benvenuti nel paradiso della Germania nazionalsocialista" », tradusse Tara, e Blaine annuí. « Dice che ora vedremo com'è felice e fiero il popolo germanico, e qualcos'altro che non ho capito. » « Digli che gli auguriamo di rimanere felici e fieri per sempre. » Lo squadrista raggiò di piacere, e salutò sbattendo i tacchi. « Heil Hitlert » sbraitò facendo il saluto nazista, e Mathilda Janine scoppiò a ridere irrefrenabilmente. « Non riesco a controllarmi», disse quando Blaine le rivolse uno sguardo severo, scuotendo la testa. « Mi fanno morire quando fanno così. » Gli squadristi lasciarono la piazza e si sparse un palpabile sollievo. La banda perse rigidità e i ballerini rallentarono. La gente ricominciò a guardarsi in faccia e a sorridere con naturalezza. Quella notte Centaine si coprí col piumino d'oca e si rannicchiò contro il fianco di Blaine. « Hai notato? » gli chiese. « Qui la gente sembra sempre sull'orlo del pianto o di una risata isterica. » Blaine tacque un momento e poi bofonchiò. « C'è nell'aria una puzza che mi preoccupa... un odore di pestilenza. » Rabbrividì e la strinse un pò piú forte.
Con la Daimler in testa sfrecciarono sulla bianca autostrada par i sobborghi della capitale tedesca. « Quanta acqua, quanti canali, quanti alberi. » « La città sorge su una rete di canali », spiegò Tara. « Per via dei fiumi intrappolati tra i colli morenici che corrono da est a ovest... » « Com'è che sai sempre tutto? » l'interruppe Shasa, scherzando ma non troppo perché in fondo era davvero esasperato. « A differenza di chi so io, ho una certa istruzione », ribatté lei. « O meglio, non sono proprio analfabeta. » « Ahi che male, anche a beccarla di striscio », disse David facendo lazzi da morituro. « Bene, signorina Sotutto », la sfidò Shasa. « Allora dimmi cosa vuoi dire quella scritta lì. » A fianco dell'autostrada c'era un cartellone bianco. La scritta era in nero, e Tara tradusse ad alta voce. « Dice: Ebreo, tira dritto per questa strada fino a Gerusalemme da dove sei venuto. » Rendendosi conto di quello che aveva appena detto, arrossí per l'imbarazzo e mise la mano sulla spalla a David che sedeva davanti. « Oh, David, mi dispiace, non avrei mai dovuto pronunciare una simile infamia. » David guardava dritto davanti a se. Dopo qualche istante fece un sorrisetto. « Benvenuti a Berlino », sussurrò. « Centro della civiltà ariana. » « Benvenuti a Berlino! Benvenuti a Berlino! » Il treno che aveva attraversato mezza Europa scivolava nella stazione tra gli sbuffi di vapore. Le grida di benvenuto erano quasi sommerse dalla banda che suonava una marcia militare. « Benvenuti a Berlino! » La folla in attesa si fece avanti allorché il convoglio si fermò, e Manfred De La Rey, appena sceso dal treno, si trovò circondato da facce sorridenti, benigne autorità, ragazze con ghirlande di fiori, applausi e pacche sulle spalle, domande di giornalisti e lampi di fotografi. Anche gli altri atleti, come lui vestiti in giacca di panno verde con filini d'oro, pantaloni, scarpe e panama bianchi, erano attorniati dal comitato di ricevimento. Dopo qualche minuto di confusione una voce si levò a stento sopra il fracasso generale. « Attenzione, prego! Attenzione, per favore. » La banda fece un rullo di tamburo mentre un uomo alto in uniforme scura e occhiali cerchiati in metallo faceva un passo avanti. « Prima di tutto consentitemi di porgervi il cordiale saluto del Fuhrer e del popolo tedesco. Siate i benvenuti a queste undicesime Olimpiadi dell'era moderna. Sappiamo che rappresentate il coraggio e lo spirito della nazione sudafricana, e auguriamo a voi tutti successo e tante, tantissime medaglie! » Tra gli applausi e le risate il portavoce alzò le braccia. « Vi sono delle vetture in attesa per portarvi al vostro alloggio al Villaggio Olimpico, dove tutto è pronto per rendere il vostro soggiorno tra noi gradito e memorabile. E ora ho l'onore
e il piacere di presentarvi colei che nelle prossime settimane vi farà da guida e interprete... » Chiamò qualcuno nella folla e una giovane donna gli si fece accanto, voltandosi a fronteggiare gli atleti da cui si levò immediatamente un brusio di ammirazione. « Vi presento Heidi Kramer. » Era alta e forte, ma inconfondibilmente femminile. Nonostante avesse fianchi e seno giunonici, era dotata di una grazia da ginnasta o danzatrice. Aveva i capelli color dell'alba del Kalahari, pensò Manfred, e quando sorrise mostrò denti perfetti, candidi e regolari, che sembravano di porcellana. Gli occhi poi erano al di là di qualunque descrizione, piú azzurri e piú intensi dell'alto cielo africano a mezzogiorno, e senza esitare Manfred la giudicò la donna piú stupenda che avesse mai visto. Poi rivolse un muto pensiero di scusa a Sarah: ma, a paragone di questa valchiria tedesca, Sarah sembrava una dolce gattina tigrata, mentre l'altra era una giovane pantera. « E ora Heidi penserà a far scaricare i bagagli e ad accompagnarvi alle vetture. D'ora in poi, se avete bisogno di qualcosa, chiedete a Heidi! Sarà la vostra matrigna e sorella maggiore. » Tutti scoppiarono a ridere e applaudire mentre Heidi, sorridente ma efficientissima, prendeva in pugno la situazione. Nel giro di pochi minuti una squadra di facchini in uniforme portava i bagagli della comitiva e Heidi li guidava per il marciapiede sotto la volta vetrata ai magnifici portali della stazione dove già li aspettava una fila di grosse Mercedes nere. Manfred, lo zio Tromp e Roelf Stander salirono su una macchina e l'autista stava per partire quando Heidi gli fece un segnale. Li raggiunse di corsa. Portava i tacchi alti e quindi doveva tendere i polpacci, che sottolineavano la linea delle gambe e la grazia delle caviglie sottili. Né Sarah né alcun'altra ragazza che Manfred conoscesse al suo paese portavano i tacchi alti. Heidi aprì la portiera davanti e infilò la testa in macchina. « Avete obiezioni se salgo con voi, signori? » chiese con un sorriso radioso. Tutti negarono protestando di non avere la benché minima obiezione da fare, perfino lo zio Tromp. « Salga, salga, salga! » Si sedette vicino all'autista, chiuse la portiera, e immediatamente si voltò a guardarli, appoggiando le mani sulla spalliera del sedile. « Sono così eccitata di conoscervi! » esclamò nel suo inglese dal forte accento tedesco. « Ho letto molto del vostro paese, degli animali africani e degli zulu, e un giorno verrò sicuramente a visitarlo. Dovete promettermi di raccontarmi tutto del vostro bel paese, e io vi racconterò tutto della mia bella Germania. » Tutti annuirono entusiasti, e lei guardò lo zio Tromp. « E ora lasciatemi indovinare... Lei è certo il reverendo Tromp Bierman, l'allenatore della squadra di boxe! » Lo zio Tromp si scioglieva dalla gioia. « Brava! Ha indovinato! » « Ho visto la sua fotografia », confessò lei. « Come potevo dimenticare una barba così fenomenale? » Lo zio Tromp si mise a ridere. « Ma ora deve presentarmi gli altri. » « Questo è Roelf Stander, il nostro peso massimo », disse lo zio
Tromp. « E questo è Manfred De La Rey, il mediomassimo della squadra. » Manfred colse una piccola reazione di lei al suo nome, uno stringere appena gli occhi, un sorriso appena accennato: poi rise ancora apertamente e disse: « Diventeremo buoni amici ». Manfred le rispose in tedesco. « Il mio popolo, gli afrikaners, sono sempre stati amici leali dei tedeschi. » « Ma lei parla benissimo la nostra lingua! » esclamò Heidi, deliziata. « Dove ha imparato? Ma lo sa che sembra proprio un tedesco? » Manfred sorrise. « Lo erano mia madre e mia nonna paterna. » « Allora avrà molti motivi d'interesse nel nostro paese », disse. Poi tornò all'inglese e cominciò a illustrare la città percorsa dal convoglio di Mercedes nere col gagliardetto olimpico sul cofano. « Questa è la famosa Unter den Linden, la via che noi berlinesi amiamo di piú. » Era ampia e magnifica, coi tigli che crescevano lungo la passeggiata che divideva le due grandi carreggiate. « E' lunga piú di un chilometro e mezzo. Quello dietro di noi è il Palazzo Reale, e laggiú in fondo c'è la Porta di Brandeburgo. » Le alte colonne del monumento erano tutte imbandierate, dalla quadriga con le figure in cima al selciato molto piú in basso. Le enormi svastiche bianche rosse e nere erano affiancate dalle bandiere coi cinque cerchi olimpici, e insieme garrivano al venticello primaverile. « Questo è il Teatro dell'Opera », disse Heidi indicando un palazzo dal finestrino. « Fu costruito nel 1741... » cominciò, informata ed esauriente. « Guardate come vi dà il benvenuto il popolo di Berlino! » gridò col garrulo entusiasmo che sembrava contraddistinguere tutti i cittadini della Germania nazionalsocialista. « Guardate! Guardate! » Berlino era una città di gagliardetti, striscioni e bandiere. Da tutti ali edifici pubblici, da tutti i negozi, da tutte le case private le bandiere sventolavano a decine di migliaia, fitte di svastiche e cerchi olimpici. Quando infine arrivarono alla residenza nel villaggio olimpico loro riservata, una guardia d'onore della Gioventú Hitleriana li aspettava con le fiaccole. E c'era un'altra banda, che li accolse con le note del loro inno nazionale, La voce del Sudafrica. Dentro, Heidi consegno a ciascuno un libretto multicolore in cui erano spiegati tutti i particolari dell'organizzazione e della sistemazione, con minuzia consolante e squisitamente tedesca. Ognuno ricevette tagliandini, distintivi e tutto quel che era necessario per accedere agli spogliatoi degli impianti ecc, ecc. I numeri degli autobus che vi conducevano erano sempre chiaramente elencati. « Qui potrete giovarvi di un cuoco e una sala da pranzo solo per voi. Lo chef vi preparerà i piatti che desiderate, anche se seguite diete particolari. A qualsiasi ora ci sono un dottore e un dentista a disposizione. Potete servirvi della lavanderia, della radio e dei telefoni, del massaggiatore, e c'è anche una segretaria dattilografa... » Era stata prevista ogni cosa, e rimasero sbalorditi di tanta efficienza
e organizzazione. « Cercate le vostre camere, il cui numero è segnato sul libretto, e ci troverete i bagagli. Disfate le valige e rilassatevi. Domattina vi porterò in pullman a visitare gli impianti sportivi del Reichssportfeld, il complesso olimpico. E' a una quindicina di chilometri da qui, sicché partiremo immediatamente dopo colazione, alle otto e trenta. Nel frattempo, se avete bisogno di qualsiasi cosa rivolgetevi a me. » « Lo so io cosa ti chiederei di fare », disse sottovoce un sollevatore di pesi roteando gli occhi, e Manfred strinse i pugni per l'impertinenza, anche se Heidi non aveva sentito. « A domani », concluse garrula, e andò in cucina a parlare col cuoco. « Quella sí che è una bella donna! » disse lo zio Tromp con un grugnito ammirato. « Ringrazio il cielo dell'abito che porto, della mia età e del fatto che, felicemente sposato come sono, mi trovo al di là di tutte le lusinghe e le tentazioni di Eva. » Si alzarono grida sfottenti di commiserazione per lo zio Tromp, che a questo punto era diventato zio di tutti. « E va bene! » ruggí di nuovo severo. « Tutti in scarpette, cagnacci neghittosi, ché prima di cena mi fate quindici chilometri di corsa. » Quando scesero a far colazione trovarono Heidi che li aspettava, fresca e sorridente. Rispose a tutte le domande, distribuí la posta arrivata da casa, risolse decine di piccoli problemi rapidamente e senza far confusione, e quando ebbero mangiato li accompagnò in comitiva alla stazione degli autobus. Gran parte degli atleti erano già arrivati al villaggio da tutti i paesi del mondo, e regnava una grande eccitazione. Uomini e donne in tuta correvano per le vie, rivolgendosi la parola in una babele di lingue: la loro superba condizione di forma gli si leggeva in faccia, e in tutti i movimenti che facevano. Quando la squadra sudafricana arrivò allo stadio, le dimensioni di questo sbalordirono tutti quanti. Uno sterminato complesso di sale, palestre e piscine coperte circondava l'ovale dello stadio di atletica leggera. Le file di posti sembravano arretrare all'infinito, e l'altare olimpico, all'altro capo dello stadio, col tripode spento (la fiaccola non era ancora arrivata), dava un senso di solennità religiosa a questo tempio dedicato al culto del corpo umano. Ci misero tutta la mattina a visitare gli impianti. Avevano mille e mille domande da fare, e Heidi a tutte rispose. Piú di una volta Manfred si trovò a camminarle vicino, e quando parlavano insieme in tedesco nasceva tra loro, anche in mezzo alla folla, un senso di intimità. Non era solo immaginazione, perché anche Roelf notò che Manfred era oggetto di attenzioni speciali. « Allora, ti piacciono le lezioni di tedesco? » gli chiese innocentemente a pranzo, ridendo a crepapelle ai ringhi di Manfred. Gli ospiti avevano fornito degli sparring partners reperiti presso una società pugilistica locale, e nelle giornate che seguirono lo zio Tromp schiacciò a fondo l'acceleratore degli allenamenti. Manfred demoliva quei poveri diavoli, tempestandoli di cazzotti sull'imbottitura che proteggeva loro il capo e il ventre. Anche con
quella corazza nessuno resisteva piú di una ripresa o due prima di chiedere quartiere. Manfred, andando al suo angolo, si guardava intorno e di solito non tardava a individuare Heidi Kramer che assisteva ai suoi allenamenti con uno strano rossore intorno al collo e uno sguardo un pò fisso su quegli incredibili occhioni azzurri: soleva inoltre tenere un pò socchiusa la bocca, da cui faceva capolino la punta della lingua rosa incorniciata da una chiostra di denti candidi e affilati. Tuttavia fu solo dopo quattro giorni di allenamento che si ritrovò solo con lei. Aveva finito una dura sessione in palestra e, dopo aver fatto la doccia e indossato la maglietta dell'università, era uscito dalla porta principale dello stadio. Era quasi arrivato alla fermata dell'autobus quando lei lo chiamò e lo raggiunse di corsa. «Anch'io sto tornando al villaggio, devo parlare col cuoco. Prendiamo lo stesso autobus? » Evidentemente lo stava aspettando. Si sentí lusingato e un pò nervoso. Aveva una bella andatura molleggiata, e i capelli le svolazzavano intorno al capo come un lenzuolo di seta d'oro. Camminando a fianco a fianco lo guardava spesso. « Sono andata a vedere i pugili degli altri paesi », gli disse, « specialmente i mediomassimi, e sono venuta a vedere anche te. » « Lo so, t'ho notata », disse, accigliato per nascondere l'imbarazzo. « Non hai nessuno da temere, salvo l'americano. » « Cyrus Lomax », annuí lui. « Sí, Ring Magazine lo considera il miglior mediomassimo dilettante del mondo. Anche lo zio Tromp è andato a vederlo. Dice che è davvero bravo. Agile e potente, ed essendo un negro si può star certi che è un buon incassatore. » « E' l'unico che dovrai battere per la medaglia d'oro », concordò lei. La medaglia d'oro... in bocca a quella ragazza tali parole acquistavano una musica irresistibile. « E io verrò a fare il tifo per te. » « Ti ringrazio, Heidi. » Salirono sull'autobus. Gli uomini guardavano Heidi con ammirazione, e Manfred era orgoglioso di averla accanto. « Mio zio è un grande appassionato di boxe. Come me, è sicuro che tu abbia buone probabilità di battere il negro americano. Gli piacerebbe moltissimo conoscerti. » « Molto gentile da parte di tuo zio. » « Stasera tiene un piccolo ricevimento. Mi ha chiesto di invitarti. » « Sai bene che non è possibile. Il mio programma di «allenamento... » « Mio zio è un uomo importante e influentissimo », insistè lei, chinando il capo da una parte e sorridendogli affabilmente. « Sarà cosa di pochi minuti: ti prometto che sarai a casa prima delle nove. » Lo vide esitare ancora e continuò: « Faresti contento mio zio... e anche me ». « Anch'io ho uno zio, lo zio Tromp... » « Se riesco a ottenere il suo permesso, verrai? » Alle sette, come d'accordo, Heidi era ad aspettarlo con la Mercedes davanti all'ingresso del villaggio olimpico. L'autista gli aprí la
portiera posteriore e Manfred sedette sul sedile di pelle accanto a lei. Heidi gli sorrise. « Ehi, sei bellissimo così elegante! » Ma anche lei non era messa male. Aveva pettinato i capelli che ora formavano due crocchie dorate e gonfie, come ali d'oro ai lati della testa: le spalle e buona parte del suo seno statuario erano scoperte, e di una nivea perfezione. L'abito da cocktail in taffetà azzurro sottolineava a meraviglia il colore dei suoi occhi stupendi. « Sei bella », disse in tono di meraviglia. Non aveva mai fatto, prima, un complimento a una donna: ma questa era piuttosto una constatazione. Ella abbassò gli occhi, gesto alquanto modesto per una donna che doveva essere abituata all'adulazione maschile. « Alla Rupertstrasse », ordinò all'autista. Percorsero lentamente la Kurflirstendamm, guardando i marciapiedi animati da gente che andava a divertirsi, e poi entrarono accelerando nelle vie molto piú tranquille di un quartiere elegante, la parte occidentale del distretto di Grunewald. Era il sobborgo dei miliardari, alla periferia occidentale della città tentacolare, e Manfred si rilassò appoggiandosi allo schienale e girandosi a guardare la bella donna che gli sedeva accanto. Gli parlava con serietà, ponendogli domande sulla sua vita, la sua famiglia e il suo paese. In breve capí che conosceva il Sudafrica molto meglio di quanto ci si potesse aspettare, e si chiese come facesse a sapere tante cose. Conosceva la storia di guerre, conflitti e ribellioni di quest'ultimo lembo dell'Africa australe, e la lotta del suo popolo contro le barbare tribú di negri: non ignorava la soggezione imposta dai britannici agli afrikaners, e le terribili minacce sua loro esistenza come popolo. « Gli inglesi », sospirò la ragazza con amarezza palese. « Sono dappertutto, e dappertutto portano guerre e sofferenze: in Africa, in India, nella stessa Germania. Anche noi siamo stati oppressi e perseguitati. Se non era per il nostro amato Fuhrer, saremmo ancora sotto il tallone degli ebrei e degli inglesi. » « E' proprio un grand'uomo, il vostro Fuhrer », ammise Manfred e poi citò: « Noi dobbiamo combattere per salvaguardare l'esistenza e la riproduzione della nostra razza e della nostra gente, il mantenimento dei nostri bambini e la purezza del nostro sangue, la libertà e l'indipendenza della patria, cosí che il nostro popolo possa maturare per il compimento della missione affidatagli dal Creatore dell'universo.» « Ma è Mein Kampf! » esclamò lei. « Sei in grado di citare le parole del nostro Fuhrer! » Manfred comprese che era stata raggiunta una pietra miliare del loro rapporto. « Con quelle parole ha espresso tutto quello che anch'io sento e credo », le disse. « E' un grand'uomo, che merita di guidare una nazione. » La casa in Rupertstrasse era separata dalla strada da un gran parco sulla riva di uno degli ameni laghi di Havel. Sul viale d'ingresso attendevano parecchie berline con autista, molte delle quali inalberavano gagliardetti con la svastica e conducenti in divisa. Tutte le finestre della grandissima residenza erano illuminate, e quando l'autista si fermò sotto il portico li raggiunse un'onda di musica, voci e
risate. Manfred porse il braccio a Heidi ed entrarono dalla porta principale spalancata, attraversarono un atrio dal pavimento di marmo Bianco e nero e le pareti irte di trofei di caccia, e si fermarono davanti al salone del ricevimento, già pieno di ospiti. Quasi tutti gli uomini erano in uniforme, alta naturalmente e scintillante di mostrine e decorazioni, mentre le donne erano tutte elegantissime, scollate e acconciate all'ultima moda. Risa e conversazioni cessarono mentre gli ospiti si giravano a guardare gli ultimi venuti, facendo commenti ammirati dato che Manfred e Heidi costituivano proprio una bella coppia. Poi la conversazione riprese. « Ecco là lo zio Sigmund », esclamò Heidi. Prese per mano Manfred e lo guidò per la sala in direzione di una persona molto alta, in uniforme nera, che appena si accorse della coppia andò loro incontro. « Mia cara Heidi », disse chinandosi a baciarle la mano. « Ogni volta che ti vedo diventi piú bella. » « Manfred, ti presento mio zio, il colonnello Sigmund Boldt. Zio Sigmund, permettimi di presentarti Herr Manfred De La Rey, il famoso pugile sudafricano. » Il colonnello Boldt strinse la mano a Manfred. Aveva capelli bianchissimi pettinati severamente all'indietro su una faccia sottile da accademico, di buona struttura ossea, con un piccolo naso dritto e aristocratico. « Heidi mi ha accennato che lei è di estrazione germanica », disse con aria interrogativa. Indossava un'uniforme nera con teschi d'argento sui risvolti. Gli ballava incontrollabilmente una palpebra, lacrimando di continuo, sicché doveva asciugarsi con un fazzoletto di pizzo che per questo teneva sempre in mano. « E' vero, colonnello. Sono forti i legami che mi uniscono al vostro paese », rispose Manfred. « Ah, ma lei parla un ottimo tedesco. » Il colonnello lo prese per il braccio. « Chissà quanti vorranno conoscerla stasera, ma prima mi dica, che ne pensa di quel pugile negro, l'americano Cyrus Lomax? Che tattica adotterà con lui? » Con sperimentata abilità, o Heidi o il colonnello venivano a sottrarlo a un gruppo di ospiti per presentarlo al successivo, e quando Manfred rifiutò lo champagne il cameriere gli portò un bicchiere d'acqua minerale. Tuttavia lo lasciarono un pò piú del solito con un ospite che Heidi gli aveva presentato come il generale Zoller, un alto ufficiale prussiano in uniforme da campo grigia che aveva al collo la croce di ferro: un uomo che, dietro un viso pallido e anodino, si dimostrava di intelligenza vivissima. Costui interrogò minutamente Manfred sulle questioni politiche e sociali sudafricane, e specialmente sui sentimenti dell'afrikaner medio nei confronti della Gran Bretagna e dell'Impero. Mentre discorrevano, il generale Zoller fumava una sigaretta dietro l'altra. Non erano però sigarette normali, avevano un forte odore d'erba, e si capì l'arcano quando lo si vide boccheggiare ri-
petutamente per l'asma. A Manfred riuscì simpatico: apprezzava la sua gente e aveva una padronanza addirittura enciclopedica degli affari africani. Il tempo con lui passò in fretta, poi Heidi, come sempre, venne a toccargli il braccio. « Mi scusi, generale Zoller, ma ho promesso all'allenatore della squadra di boxe di riportargli il suo campione per le nove. » « Lietissimo d'averla conosciuta, giovanotto », disse il generale stringendogli la mano. « I nostri paesi dovrebbero essere molto piú amici di quanto sono attualmente. » Manfred lo rassicurò: «Farò tutto quel che potrò perché un giorno lo siano ». « Buona fortuna ai Giochi, Herr De La Rey. » Di nuovo in macchina, Heidi osservò: « Sei piaciuto molto a mio zio, e anche ai suoi amici, soprattutto al generale Zoller ». « Anch'io mi sono divertito. » « Ti piace la musica, Manfred? » La domanda lo colse alla sprovvista. « Certa sì, ma non me ne intendo. » « Wagner ti piace? » « Sì, mi piace molto. » « Lo zio Sigmund mi ha dato due biglietti per il concerto della Filarmonica di Berlino di venerdí prossimo. Il giovane direttore Herbert von Karajan eseguirà musiche di Wagner. So che quel pomeriggio hai il primo incontro, ma poi potremmo festeggiare. » Esitò un attimo, poi proseguì rapidamente: « Ti sembrerò sfacciata, ma ti assicuro... » « No, no. Sarei molto onorato di accompagnarti, sia che vinca o perda. » « Vincerai », disse lei semplicemente. « So che vincerai. » Lo lasciò alla residenza della squadra, e aspettò che fosse entrato prima di ordinare all'autista di tornare in Rupertstrasse. Quando arrivò a casa del colonnello, gli ospiti se ne stavano andando. Aspettò tranquillamente che li avesse salutati tutti: poi, a un suo cenno del capo, lo seguì. Il suo modo di trattarla, adesso, era completamente cambiato: era diventato brusco e da superiore. Si recò a una porticina di rovere in fondo al salone ed entrò prima di lei. Heidi lo seguì e richiuse la porta, poi si mise sull'attenti, in attesa. Il colonnello Boldt la lasciò in piedi mentre versava due bicchieri di cognac e ne porgeva uno al generale Zoller, che sedeva in poltrona vicino al ciocco che bruciava nel camino. Aveva un dossier sulle ginocchia e stava ancora fumando le sue sigarette per asmatici. « Allora, Fraulein », disse il colonnello Boldt accomodandosi e facendole cenno di sedere sul divano. « Si sieda. Si rilassi un pò, tanto è a casa di suo «zio». » Lei sorrise educatamente, ma sedette rigida sull'orlo del divano. Il colonnello Boldt tornò a rivolgersi al generale. « Posso chiederle la sua opinione circa il soggetto? » Il generale Zoller alzò gli occhi dalla pratica. « Sembra ci sia una zona d'ombra intorno alla madre. Sarà davvero tedesca come dice lui? »
« Temo sia impossibile averne conferma. Non si può piú conoscere la nazionalità della madre, anche se a questo scopo ho sguinzagliato tutti i nostri residenti nell'Africa di Sudovest. E' opinione generale che sia morta di parto nel deserto. Tuttavia da parte paterna c'è la prova documentale che sua nonna era tedesca, e risulta anche che il padre abbia combattuto valorosamente per il Kaiser durante l'ultima guerra in Africa. » « Sì, ho visto », disse il generale senza scomporsi. « Che sentimenti ha manifestato con lei, Fraulein? » « E' molto fiero del suo sangue tedesco, e si considera un naturale alleato del popolo germanico. E' un grande ammiratore del Fuhrer ed è in grado di citare a memoria lunghi brani del Mein Kampf. » Il generale si mise a tossire e ansimare e si accese un'altra sigaretta. Poi tornò a dedicare tutta la propria attenzione alla cartelletta rossa con l'aquila e la svastica sulla copertina. Gli altri aspettarono tranquillamente per una decina di minuti, finché il generale tornò a rivolgere lo sguardo a Heidi. « Che rapporti ha instaurato col soggetto, Fraulein? » « Come mi aveva ordinato il colonnello Boldt, mi sono comportata in maniera simpatica e gradevole. In tanti modi sottili gli ho fatto capire che suscita il mio interesse di donna. Gli ho dimostrato passione e una certa competenza in fatto di boxe, e un grande interesse per il suo paese e i suoi problemi. » « Fraulein Kramer è una delle migliori agenti operative », spiegò il colonnello Boldt. « Il nostro dipartimento ha provveduto a fornirle una solida preparazione sulla storia del Sudafrica e lo sport della boxe. » Il generale annuì. « Continui, signorina », ordinò, e Heidi proseguì. « Gli ho manifestato simpatia per le aspirazioni politiche del suo popolo e gli ho fatto capire chiaramente che gli sono amica, con possibilità di ulteriori sviluppi. » « Vi è già stata qualche intimità sessuale tra voi? » « No, signor generale. Ritengo che il soggetto si adonterebbe se procedessi troppo rapidamente. Come sappiamo dal suo dossier, proviene da un ambiente di rigida osservanza calvinista. Inoltre il colonnello Boldt non mi ha ordinato di fargli avances sessuali. » « Bene », annuì il generale. « Questa faccenda è della massima importanza: lo stesso Fuhrer è a conoscenza dell'operazione. Egli ritiene, come me del resto, che la punta meridionale dell'Africa abbia un'enorme importanza tattica e strategica nei nostri piani di espansione mondiale. Controlla le rotte per l'India e l'Oriente, e nell'eventualità che il canale di Suez ci sia precluso quella del Capo di Buona Speranza resterebbe l'unica rotta. Inoltre il sottosuolo del Sudafrica è una vera e propria stanza del tesoro, che contiene materie prime vitali per la preparazione bellica: cromo, diamanti, minerali platiniferi; c'è tutto laggiú. Ponendo mente a questo, e dopo una prima valutazione personale del soggetto, mi sono convinto che occorre procedere. Quindi l'operazione sarà d'ora in poi classificata "rossa» e avrà il pieno appoggio del dipartimento. » « Molto bene, generale. » « Il nome in codice dell'operazione sarà "Spada Bianca", Das
Beasse Schwert. » « Jawohl, mein General. » « Signorina Kramer, d'ora in poi si occuperà soltanto di questo. Alla prima occasione intratterrà rapporti sessuali col soggetto in modo da non offenderlo né allarmarlo, ma piuttosto da rafforzare la sua dedizione. » « Molto bene, signor generale. » « A suo tempo si renderà forse necessario che lei sviluppi col soggetto rapporti di carattere matrimoniale. Vi è qualche ragione contraria da parte sua? » Heidi non esitò. « Nessuna, signor generale. Lei può contare interamente sulla mia lealtà e sul mio senso del dovere. Farò qualunque cosa mi si chieda di fare. » « Molto bene. » Il generale Zoller tossí e ansimò alla disperata ricerca di un pò di fiato, e proseguí con voce rauca. « Ora, colonnello, a noi converrebbe che costui vincesse la medaglia d'oro. Gli conferirebbe grande prestigio nel suo paese, a parte l'aspetto ideologico della vittoria di un ariano su una persona di razza inferiore. » « Capisco, signor generale. » «C'è qualche serio aspirante tedesco al titolo dei mediomassimi? » « No, generale. L'unico pugile bianco in grado di vincere è lui. Possiamo fare in modo che tutti i suoi incontri siano arbitrati da membri del Partito che si attengano alle nostre indicazioni. Certo, se va al tappeto c'è poco da fare... » « Naturalmente, Boldt. Faccia il possibile; e lei, signorina Kramer, tenga aggiornato il colonnello sui suoi progressi col soggetto. » Sia i Courteney sia i Malcomess avevano preferito il lussuoso Hotel Bristol al villaggio olimpico, dove si era rassegnato ad andare il solo David, piegandosi al diktat del suo allenatore. Quindi Shasa lo vide ben poco durante gli ultimi giorni di duro allenamento prima dell'inizio dei Giochi. Mathilda Janine obbligò Tara ad accompagnarla a tutti gli allenamenti di atletica, seguendola in cambio sul campo di polo. Sicché le due ragazze passarono gran parte del loro tempo a trasferirsi dal complesso olimpico al campo di polo, piuttosto decentrato, anche se Tara sapeva far andare molto forte la Bentley verde di suo padre. La breve interruzione dell'allenamento, combinata all'imminenza delle gare, parve giovare alla preparazione di David. In quei cinque giorni segnò tempi eccellenti, resistendo stoicamente agli inviti di Mathilda Janine a « scappare un'ora o due » dalle grinfie dell'allenatore. « Hai ottime possibilità, David », gli aveva detto questi, consultando il tempo dell'ultimo sprint prima della cerimonia ufficiale di apertura. « Metticela tutta e vedrai che porti a casa la patacca. » Sia Shasa sia Blaine furono molto soddisfatti dei cavalli messi a disposizione dagli ospiti tedeschi. Come tutto il resto al centro d'equitazione (stalle, stallieri e finimenti), rasentavano la perfezione. Sotto la guida di Blaine, che in campo aveva polso di ferro, la squadra cominciò subito ad allenarsi e ben presto ridiventò una compat-
ta falange di cavalieri. Tra un allenamento e l'altro andavano a vedere come se la cavavano le altre squadre, che di lí a poco avrebbero dovuto incontrare. Gli americani non avevano badato a spese e si erano portati i cavalli oltre l'Atlantico. Gli argentini però li avevano superati, perché avevano portato anche gli stallieri, vestiti come veri e propri gauchos. « Sono le due squadre da battere » li avvertì Blaine. « Ma anche i tedeschi sono particolarmente forti, e gli inglesi, come al solito, picchiano come fabbri. » « Possiamo stracciarli tutti », disse Shasa offrendo ai compagni il beneficio della sua « vasta » esperienza, « con un pò di fortuna. » Tara fu l'unica a prendere sul serio la fanfaronata. Lo guardava dalla tribuna che sfrecciava per il campo galoppando come un centauro, bello, ardito e agile, coi denti bianchi lampeggianti nel viso abbronzatissimo. « Perché dov'essere così coglione? » si chiedeva deplorando per l'ennesima volta la sua arroganza, la sua ignoranza e l'infondata sicurezza di sé. « Ah, se riuscissi a ignorarlo... se la vita non fosse casi piatta e banale quando lui non c'è... » Alle nove del mattino del 1° agosto 1936 il grande stadio olimpico, il piú capiente del mondo, ospitava piú di centomila persone. Il tappeto erboso centrale era una distesa di velluto color smeraldo solcato dalle linee candide e dai cerchi dei lanci. Intorno, la pista d'atletica in terra rossa. Alta sopra di essa, la tribuna d'onore, che dominava la tradizionale sfilata degli atleti. All'altro capo dello stadio l'altare olimpico con il tripode ancora senza fiaccola. Fuori dell'ingresso dello stadio si stendeva il Maifeld, uno spazio libero vastissimo in mezzo al quale si alzava l'alta torre campanaria con la scritta: Ich refe die Jugend der Welt, io chiamo la gioventú del mondo. Gli atleti sfilavano sul lungo viale del Kaiserdamm, ribattezzato per la solenne occasione Via Triumphalis. Nel cielo dello stadio si librava l'enorme dirigibile Hindenburg, tirandosi dietro lo striscione coi cerchi olimpici. Un brusio lontano si sparse nell'aria ancora fresca e immota del mattino. Lentamente si avvicinò, aumentando. Per la Via Triumphalis procedeva un corteo di Mercedes scoperte, dalle cromature lucide come specchi, tra due ali di camicie brune a ranghi compatti, piú di cinquantamila, che tenevano indietro la folla numerosissima da cui, al passaggio della prima Mercedes, si levavano acclamazioni e scattanti saluti nazisti. La processione si fermò davanti alla legione atletica. Dalla macchina di testa scese Adolf Hitler. Indossava la camicia bruna, i pantaloni e gli stivali delle comuni camicie brune. Ma non per questo passava inosservato, anzi: la modesta tenuta, priva di particolari decorazioni, lo distingueva nella massa di alte uniformi che lo circondavano, e che subito lo seguirono tra due ali di atleti fino alla « porta di Maratona » dello stadio. « Ecco il pazzoide », pensò Blaine Malcomess quando Hitler gli si parò davanti a meno di cinque passi di distanza. Era identico ai ritratti, il ciuffetto nero, i baffetti squadrati. Ma Blaine non era pre-
parato all'intensità dello sguardo messianico che si posò su di lui per una frazione di secondo e poi passò oltre. Esso gli infuse un brivido elettrico e gli fece venire la pelle d'oca, perché aveva appena guardato negli occhi un profeta del Vecchio Testamento... o un pazzo. Dietro di lui c'erano tutti i favoriti. Goebbels con un leggero vestito estivo, Goering nella splendida uniforme azzurra da Maresciallo della Luftwaffe (passando, salutò gli atleti con un cenno del bastone dorato). In quel preciso momento il campanone in cima alla torre del Maifeld si mise a convocare coi suoi gravissimi rintocchi la gioventú del mondo. Hitler e il suo entourage scomparvero nel tunnel sotto la tribuna, e pochi minuti dopo una grande fanfara di chiarine, amplificata cento volte e diffusa da onnipresenti altoparlanti, squillo sullo stadio introducendo il coro poderoso di Deutschland uber alles. I plotoni di atleti cominciarono a formarsi preparandosi all'ingresso in parata. Emergendo dal buio del tunnel nell'arena assolata, Shasa scambiò uno sguardo con David che marciava accanto a lui. Si sorrisero, eccitatissimi, mentre le potenti ondate sonore della banda e del coro che eseguivano ora l'inno olimpico si riversavano su di loro insieme al boato di centomila spettatori. Poi guardarono avanti, a testa alta, e presero a marciare alla grandiosa musica di Richard Strauss. Nella fila prima di quella di Shasa procedeva con altrettanta baldanza Manfred De La Rey, che però fissava un puntolino in camicia bruna al centro della tribuna d'onore, attorniato da principi e da re. Arrivandogli sotto voleva levar di scatto il braccio destro e gridare « Heil Hitler! », ma dovette trattenersi. Dopo lunghe discussioni era prevalsa l'opinione di Blaine Malcomess e degli altri anglofoni della squadra. Invece del saluto tedesco la rappresentativa olimpica sudafricana si limitò a girar la testa di scatto in un banale « attenti a destr' ». Gli spettatori tedeschi fischiarono. A Manfred bruciavano gli occhi per l'affronto che era stato costretto a fare al grand'uomo in tribuna d'onore. La rabbia gli rimase per tutto il resto delle splendide celebrazioni d'apertura: l'accensione della fiaccola olimpica, il discorso ufficiale del Fuhrer, l'involo di cinquantamila colombe bianche liberate tutte assieme, l'alzabandiera di tutte le nazioni sui pennoni dello stadio, lo spettacolo di ginnastica e danza, quello di riflettori e fuochi artificiali, la musica e la parata aerea degli squadroni del Maresciallo Goering che oscurarono il cielo facendolo rimbombare di tuoni. Quella sera Blaine e Centaine cenarono soli nella suite del Bristol. Entrambi pativano i contraccolpi dell'eccitazione della giornata. « Che spettacolo hanno saputo dare al mondo! » osservò Centaine. « Nessuno se l'aspettava. » « Invece bisognava aspettarselo », replicò Blaine. « I nazisti sono espertissimi in queste manifestazioni coreografiche di massa. Nemmeno gli antichi romani erano così raffinati nella ricerca degli effetti.» « A me è piaciuto tantissimo », disse Centaine. « Una festa pagana e idolatra, ma propaganda fenomenale: Herr
Hitler che vende al mondo la Germania nazista e la sua nuova razza di superuomini. Purtroppo devo convenire che è stato un bellissimo spettacolo, con quel tanto di sinistra minaccia che l'ha reso ancor piú impressionante. » « Sei un vecchio cinico. » « Hai citato la mia piú gran virtú », disse lui, e cambiò discorso. « Hanno fatto il sorteggio delle eliminatorie. Siamo fortunati, non ci toccano né gli argentini né gli yankees. » Gli erano capitati gli australiani, ma la loro speranza di una facile vittoria era svanita subito: dal fischio d'inizio quelli cominciarono a mazzolare come disperati, costringendo alla difesa Blaine e Shasa. Per i primi tre tempi, tiratissimi, continuarono ad andare all'attacco, senza mai consentire alla squadra di Blaine di riorganizzarsi. Shasa cercava di controllare il proprio istinto, che era quello di farsi sotto da solo, per mettersi invece al servizio della squadra. Rispondeva all'istante agli urli di Blaine che gli ordinava « taglia a sinistra » o « chiudi il buco » o « in difesa! » compensando con l'obbedienza la mancanza di esperienza. In questi momenti di affanno si rafforzò il legame di fiducia e comprensione tra loro, che aveva richiesto tanto tempo per formarsi: rischiò anche, per il vero, di spezzarsi, ma verso la metà del quarto tempo Blaine grugni soddisfatto passando accanto al giovane numero due. « Non hanno piú birra, Shasa. Adesso vediamo come se la cavano loro, in difesa. » Shasa prese al volo il successivo cross alto di Blaine, alzandosi sulle staffe e levando la mazza a incontrare in cielo la palla del suo capitano. Controllandola, la spinse avanti e costrinse gli australiani a una difesa confusa, galoppando a spron battuto lungo il fallo laterale. Giunto in fondo al campo spedì la palla indietro, a smorzarsi dopo molle parabola proprio davanti al muso del cavallo di Blaine, che segnò. Fu il punto di svolta della partita: e alla fine festeggiarono la vittoria con grandi pacche sulle spalle, in groppa a cavalcature tutte coperte di schiuma. Ma l'esultanza divenne cordoglio quando appresero che il secondo incontro era con gli argentini. David Abrahams cominciò male, arrivando quarto in batteria e venendo quindi eliminato nei 400 metri piani. Mathilda Janine andò a letto senza neppure cenare quella sera, ma due giorni dopo esultava: il suo scattista aveva vinto la batteria dei 200 e passava in semifinale. Il primo avversario di Manfred De La Rey era il francese Maurice Artois, illustre sconosciuto nella categoria. « Veloce come il mamba, coraggioso come il ratel », lo incitò lo zio Tromp allo scoccare del gong. Heidi Kramer sedeva in quarta fila col colonnello Boldt. Quando Manfred uscì dall'angolo e occupò il centro del ring, fremette d'inaspettata eccitazione. Si muoveva come un gatto. Fino a quel momento aveva fatto fatica a fingere interesse per
quello sport. Giudicava i rumori, gli odori e lo spettacolo abbastanza ripugnanti: puzza di sudore stantio, grugniti animaleschi, carne sbattuta, sangue, sputi volanti l'offendevano anzichenò. Ora, in compagnia di tanti spettatori sofisticati ed eleganti, lei stessa in abito di seta e pizzo, profumata e serena, trovava spaventoso ma anche solleticante il contrasto con la violenza selvaggia scatenata sul ring. Manfred De La Rey, quel giovane serio e volitivo, privo di spirito e tetro, un pò goffo quand'era vestito bene e in compagnia di gente elegante, lí si trasformava in una magnifica belva, e la primitiva ferocia che esprimeva, lo splendore giallo del suo sguardo sotto le nere sopracciglia mentre cambiava i connotati al francese e poi lo metteva in ginocchio al centro del ring, le trasmettevano un'eccitazione perversa. Si scoprí in calore, a cosce serrate, mentre il sesso le si fondeva sotto bagnando forse la costosa gonna in crepe-de-chine. L'eccitazione non scomparve mentre piú tardi sedeva in poltrona con Manfred, a sentire l'eroica musica teutonica di Wagner al Teatro dell'Opera. Si mosse leggermente fino a sfiorare col braccio nudo quello di Manfred. Lo sentí sobbalzare, cominciare a levarlo, poi cambiare idea e lasciarlo lí. Era un contatto leggerissimo, ma ne erano entrambi intensamente consapevoli. Ancora una volta il colonnello Brandt le aveva messo a disposizione la Mercedes per la serata. L'autista li stava aspettando. Quando Manfred si sedette accanto a lei, lo vide sussultare leggermente. « Cosa c'è? » « Niente. » Gli tastò la spalla con dita forti e salde. « Ti fa male qui? » « Un irrigidimento muscolare, domani starò benissimo. » «Hans, portaci a casa mia», ordinò all'autista, e Manfred la guardò turbato. « Mutti* mi ha rivelato uno dei suoi segreti... è una pomata a base di erbe, veramente miracolosa. » « Non è necessario... » protestò lui. « Il mio appartamentino è sulla strada. Non ci vorrà molto, e poi Hans ti riporterà al villaggio olimpico. » Aveva avuto molti dubbi sull'accorgimento da usare per restare sola con lui: ma ora aveva accettato la proposta senza ulteriori obiezioni. Restò zitto per il resto del tragitto e lei ne intuí la tensione, evitando di toccarlo ancora. Manfred stava pensando a Sarah. Cercava di formare la sua immagine nella mente, ma gli veniva sfocata, confusa: nient'altro che una macchia dolciastra. Voleva ordinare a Hans di riportarlo subito al villaggio olimpico, ma non ci riuscì. Pur sapendo che si trattava di una scorrettezza - restar solo con una donna giovane e attraente -, cercò di convincersi che era una cosa del tutto innocente: ma poi gli venne in mente il contatto del suo braccio nudo contro il proprio e s'irrigidì. « Fa ancora male? » disse lei fraintendendo la mossa. « Un pochino », rispose lui col tremito nella voce. Era sempre piú difficile, dopo i combattimenti. Per parecchie ore, dopo un incontro, restava teso e nervosissimo: e quelli erano i momenti che sceglieva il suo corpo per giocargli gli scherzetti di Sa-
tana. Si accorse che gli stava succedendo proprio adesso: senso di colpa e mortificazione lo fecero arrossire. Chissà cosa avrebbe pensato quella pura vergine germanica, se avesse notato l'osceno gonfiore. Apri bocca per dirle che preferiva non andare, ma già lei stava ordinando all'autista di fermare. « Grazie, Hans, ci lasci all'angolo e ci aspetti davanti al portone. » Era già sul marciapiede: non poté che seguirla. Nell'androne c'era quasi buio. « Mi spiace, Manfred, sto all'ultimo piano e non c'è ascensore. » La salita gli permise di riprendere il controllo di sè. Heidi lo fece entrare in un monolocale. « Ecco la mia reggia », disse in tono di scusa « Oggigiorno è difficilissimo trovar casa a Berlino. » Gli indicò il letto. « Siediti lì, Manfred. » * Mammina. (N.d T.) Si tolse la giacca che indossava sulla camicetta bianca e s'alzo in punta di piedi per appenderla nell'armadio. I seni oscillarono pesantemente quando tese la mano. Manfred distolse lo sguardo. Una parete era occupata dai libri: vide le opere di Goethe e ricordò che era il poeta preferito di suo padre. « Pensa a qualunque cosa », si disse, « a qualunque cosa, ma non a quei grossi seni appuntiti sotto la camicetta sottile. » Era andata nel bagno e sentí scorrere l'acqua e tintinnare del vetro. Tornò con in mano una bottiglietta verde e si fermò sorridendo davanti a lui. « Dovrai toglierti giacca e camicia », gli disse, e lui non riuscí a risponderle. Non ci aveva pensato. « Non sta bene, Heidi. » Lei rise piano, di gola, e ridendo disse: «Non esser timido, Manfred, pensa che io sia un'infermiera ». Dolcemente gli sfilò la giacca, aiutandolo a toglierla. I seni ballonzolarono ancora, finendogli quasi in faccia prima che lei arretrasse e appendesse la giacca alla spalliera della sedia. Poi, dopo pochi secondi, ci appoggiò sopra la camicia. Aveva fatto scaldare la bottiglietta e la lozione cominciò subito ad agire, benefica, sulla sua pelle, spalmata dalle sue dita forti e sapienti. « Rilassati », gli sussurrò. « E' qua, sai, si sente. Il muscolo è tutto contratto e annodato. Rilassati, lascia che il dolore scorra via. » Piano piano attirò avanti la testa del giovane. « Appoggiati contro di me, Manfred. Sí, cosí. » Era in piedi davanti a lui e protendeva i fianchi in modo che con la fronte le si appoggiasse al ventre. Aveva la pancia calda e morbida, e una voce ipnotica: il ragazzo sentiva ondate di piacere irradiarsi in lui dalla punta delle sue dita. « Come sei duro e forte, Manfred, come sei bianco e duro e bello... » Passò qualche momento prima che lui capisse cosa gli aveva detto: ma le sue dita erano carezzevoli, irresistibili, e ogni razionalità l'abbandonò. Restò cosciente solo delle mani e della voce di lei, altrettanto carezzevole e lusinghiera, e poi si accorse di un'altra co-
sa, un odore tiepido e muschioso che si sprigionava dall'inguine, sopra cui il suo viso premeva. Benché non lo riconoscesse per l'odore di una giovane donna sana, fisicamente eccitata e pronta per l'amore, la sua reazione fu tuttavia istintiva e appropriata. Non era piú possibile resistere. « Heidi », disse con voce che gli tremava. « Ti amo. Dio mio, perdonami, ma ti amo tantissimo. » « Sí, mein Schatz, lo so », gli sussurrò lei. « E anch'io ti amo. » Lo distese dolcemente sul letto e, stando in piedi sopra di lui, cominciò lentamente a sbottonare la camicetta. Quando si coricò sopra Manfred, i suoi grossi seni di seta, dalla punta rosso rubino, gli sembrarono quanto di piú bello avesse mai visto. « Ti amo », gridò ripetutamente quella notte, ogni volta con un diverso tono di meraviglia, sbigottimento ed estasi, perché le cose che ella fece con lui e per lui superavano ogni immaginazione. Il primo giorno delle finali di atletica leggera Shasa riuscì a procurare i biglietti alle ragazze, ma i posti erano in cima alla curva nord. Mathilda Janine aveva preso in prestito il binocolo di Shasa e stava perlustrando attentamente la grande arena sottostante. « Non riesco a vederlo », lamentò. « Non c'è ancora », la rassicurò Shasa. « Prima corrono i cento. » Ma era emozionato come lei. In semifinale David Abrahams aveva corso benissimo i duecento metri piani, arrivando secondo alle spalle del grande atleta americano Jesse Owens, « l'antilope di ebano », assicurandosi in tal modo la qualificazione in finale. « Sono così nervosa che mi sento fumare », disse Mathilda Janine senza abbassare il binocolo. All'altro fianco di Shasa, anche Tara era agitata, per ragioni diverse. « E' incredibile! » esclamò scandalizzata, in tono così veemente da far voltare sorpreso Shasa. « Cosa c'è? » « Come, non ascoltavi? » «Che vuoi, con David che deve correre da un momento all'altro... » Fu assordato dagli applausi. Tutti gli spettatori si alzarono in piedi mentre i finalisti dei cento schizzavano dai blocchi di partenza e divoravano le corsie. In dieci secondi tagliarono il traguardo e i circostanti rumori cambiarono di tono: alle ovazioni per il vincitore si mischiarono borbottii delusi. « Ecco qua! Ascoltali un po'! » disse Tara prendendo Shasa per il braccio. Vicino a loro, tra la folla, qualcuno gridò: « Ha vinto un altro negro americano ». E ancora piú vicino: « Gli americani dovrebbero vergognarsi di far correre per loro queste bestie nere ». «Razzisti disgustosi! » esclamò Tara guardandosi intorno nel tentativo di identificare gli autori dei commenti. Non ci riuscì e tornò a rivolgersi a Shasa. « I tedeschi minacciano di annullare tutte le medaglie vinte da quelle che chiamano razze inferiori, i negri e gli ebrei », disse ad alta voce. « Sono disgustosi. » « Calmati », le sussurrò Shasa.
« Non t'importa? » lo sfido Tara. « David è ebreo. » « Certo che m'importa », disse lui tranquillamente, guardandosi intorno imbarazzato. « Ma adesso taci, Tara, non è il momento. » « Io credo che... » disse Tara ancora piú forte, per tutta risposta all'invito di Shasa. Ma proprio in quella Mathilda Janine gridò fortissimo. « Eccolo là! C'è David! » Shasa saltò in piedi con sollievo. « Forza, David, forza! Corri come una gazzella! » I finalisti dei 200 metri piani si erano raccolti dall'altra parte dello stadio e stavano scaldandosi accanto ai blocchi di partenza. « Ah David, David, sei indescrivibile! » sospirò Mathilda Janine. « Il modo in cui lo dici lo descrive perfettamente », sfotté Shasa, e per tutta risposta si beccò un pugno nel braccio da Mathilda Janine. Gli atleti si misero ai blocchi e si fece avanti il giudice di gara con la pistola. Ancora una volta sul grande stadio scese il silenzio mentre i corridori si rannicchiavano, rigidi e come congelati dalla concentrazione. La pistola sparo, a stento udibile da quella distanza, e gli atleti sembrarono partire qualche attimo prima. Nel rombo crescente dello stadio accelerarono perfettamente in fila, mulinando le lunghe gambe e le braccia. Ben presto la fila divento imperfetta, si allungò al centro; un'agile pantera nera sfrecciò davanti a tutti mentre la folla scandiva ormai il suo nome. « Jes-se O-wens! » ripeteva tonante, mentre l'atleta negro tagliava il traguardo lasciandosi dietro tutti gli altri in gruppo. « Cos'è successo? » gridò Mathilda Janine. « Ha vinto Jesse Owens », gridò Shasa per farsi sentire nel boato incessante. « Ho visto, ma David che fine ha fatto? » « Non so, non ho visto, è successo tutto troppo in fretta. » Aspettarono in preda all'agitazione l'annuncio ufficiale. « Achtung! Achtung! » tuonarono gli altoparlanti prima di snocciolare la classifica con pesante accento tedesco. « Jesse Owens, Carter Brown... » e poi, incredibilmente, « ...David Abrahams. » Mathilda Janine strillò. « Prendetemi che svengo! David ha vinto il bronzo! » Stava ancora strillando e saltando su e giú quando David salì sul podio e fu insignito della medaglia di bronzo. I quattro festeggiarono la vittoria quella sera, nel salotto della suite di Centaine al Bristol. Blaine fece un discorsetto di congratolazioni mentre David, in mezzo alla sala, sorrideva tutto contento e orgoglioso che brindassero alla sua salute con lo champagne. Solo perché era per David, Shasa bevve tutto il bicchiere dello stupendo Bollinger del 1929 che Centaine si era procurata per l'occasione. Bevve poi un altro bicchiere di Sekt al Café am Ku-damm, sull'angolo della Kurfurstendamm a pochi passi dall'albergo: poi i quattro ragazzi si avviarono a braccetto per la via dei divertimenti di Berlino. Qui per il momento continuavano a trionfare tutti i segni di
decadenza che i nazisti avevano già bandito: le bottiglie di Coca-Cola sui tavolini dei caffè, il flusso del jazz delle orchestrina fuori della porta dei locali, i cartelloni di Clark Gable e Myrna Loy... nel periodo delle Olimpiadi avevano ricevuto una dispensa speciale dalle autorità. Si fermarono in un altro bar e stavolta Shasa ordinò uno schnapps. « Ehi, vacci piano », gli sussurrò David all'orecchio. Sapeva che Shasa non beveva quasi mai, e mai piú di un solo bicchiere di vino o di birra. « David, ragazzo mio, non capita tutti i giorni che un vecchio amico vinca una medaglia alle Olimpiadi », gli rispose Shasa. Sotto l'abbronzatura era tutto rosso e gli occhi avevano un bagliore febbrile. « Guarda che non ti porto a casa in spalla », l'avvertí David. Scesero la Ku-damm. Shasa a forza di battute cretine faceva sbellicare dalle risa le ragazze. « Ach so, meine lieblings, questo essere celebre kaffè Kranzlers, entrare a bere pikkolo bikkiere di schampo? » «Sembra italiano, non tedesco», osservò Tara. «E tu sembri già sbronzo. » « Sbronzo io? Macché! » disse Shasa tirandola dentro l'elegante locale. « Basta champagne, Shasa », protestò David, « Caro ragazzo, non vorrai mica che brindi alla tua salute con della birra!? » Schioccò le dita e la cameriera venne con la bottiglia nel secchiello del ghiaccio e versò quattro flûte di vino giallo frizzante. Stavano chiacchierando e ridendo sicché per qualche secondo non si accorsero dell'improvviso silenzio che era piombato sul caffè affollato. « Oh, mio Dio », disse Tara « Arrivano i nostri! » Erano entrate sei camicie brune. Evidentemente venivano da qualche cerimonia o celebrazione della milizia, perché due portavano bandiere arrotolate. Altrettanto evidente era il fatto che erano già mezzo ubriache: barcollavano, entrando con atteggiamento bellicoso nel locale. Alcuni clienti pagarono e andarono via subito. I sei andarono vacillando a sedersi al tavolo libero accanto al loro, e ordinarono boccali di birra. Il padrone del caffè, ansioso di evitare guai, andò al loro tavolo e li salutò ossequiosamente. Chiacchierarono per un pò, quindi il proprietario li salutò scattando nel solito « Heil Hitler! ». Subito quelli si alzarono e gli restituirono il saluto nella maniera piú tonante, facendo tremare il pavimento coi tacchi. Mathilda Janine, che aveva bevuto un bicchiere di champagne, si mise a ridacchiare. Le sei camicie brune la guardarono torvi « Smettila, Matty », l'implorò David, peggiorando la situazione. Mathilda Janine roteava gli occhi ed era diventata tutta rossa, ma non riusciva a smettere di ridere. Anzi di lí a poco esplose in una sghignazzata isterica. Le camicie brune si alzarono e si avvicinarono minacciose.
Il capo, un sergente di mezza età, disse qualcosa e Tara gli rispose in tedesco scolastico. « Ah », disse il sergente in inglese fortemente accentato. « Siete inglesi. » « Mia sorella è una ragazzina sciocca », disse Tara fulminando con lo sguardo Mathilda Janine, che continuava a mugolare dietro il fazzoletto. « Sono inglesi », disse il sergente, spiegando con questo ogni follia. Stavano per andarsene: ma lo squadrista piú giovane fissava David. « Lei non è lo scattista che ha vinto il bronzo sui duecento? » chiese in passabile inglese. « Ma sì, è David Abrahams. » David annuì modestamente. « David Abrahams, lo scattista ebreo. » Quello non mollava, e David impallidí. I due che parlavano inglese spiegarono la faccenda agli altri, ripetendo la parola Juden, dopo di che tutti si misero a fissare David con viso ostile e i pugni stretti. Il sergente chiese con voce tonante: « E non si vergognano gli inglesi e gli americani di farsi vincere le medaglie dai negri e dagli ebrei? » Prima che altri rispondessero si alzò Shasa, sorridendo educatamente. « Ragazzi, vi sbagliate di grosso. Lui non è mica ebreo, è uno zulu. » « Com'è possibile? » disse il sergente, perplesso. « Gli zulu sono negri. » « Altro errore, vecchio mio! Gli zulu nascono bianchi, diventano neri quando vanno al sole. Ma questo qua l'abbiamo tenuto sempre all'ombra. » « Sta scherzando », accusò il sergente. « Zerto ke sto skerzando! » disse Shasa imitando la sua pronuncia. « E chi non scherzerebbe vedendo quelli che vedo io? » « Shasa, per l'amor di Dio siediti », gli disse David. « Sta, zitto o sono guai. » Ma Shasa era ebbro di champagne, si crogiolava nel proprio spirito arguto e puntò l'indice contro il petto del sergente. « Se sta cercando degli ebrei, mio caro giovanotto, l'avverto che qua l'unico ebreo sono io. » « Siete ebrei tutti e due? » chiese il sergente, stringendo minacciosamente gli occhi. « Non faccia il tonto! Gliel'ho già spiegato, lui è uno zalu, l'ebreo sono io. » « E' una menzogna », disse il sergente. Ormai tutti i clienti del locale stavano ascoltando la conversazione. Quelli che sapevano l'inglese traducevano agli altri. Shasa si sentí incoraggiato dal pubblico. « Vedo che dovrò dimostrarvelo. E quindi, per convincervi che sono a parte dei millenari segreti del giudaismo, vi rivelerò il piú gelosamente nascosto: vi siete mai chiesti che fine fa quel pezzetto di pelle che il rabbino ci taglia via da piccoli? » « Sta, zitto, Shasa », disse David. « Di che sta parlando? » chiese Mathilda Janine con interesse. « Shasa Courteney, non essere disgustoso », disse Tara.
« Bitte? » chiese lo squadrista, un pò a disagio. Ma tutti gli altri clienti ghignavano: gli scherzi salaci erano roba di tutti i giorni sulla Ku-damm, e stavolta ne facevano le spese - incredibile! - quegli sgherri del diavolo. « Ebbene, ve lo dirò io », disse Shasa ignorando David e Tara. « Li mettiamo sotto sale, come le aringhe, e li mandiamo a Gerusalemme. Là, nel bosco sacro del Monte degli Olivi, il giorno di Pasqua, il rabbino capo li pianta in lunghi filari, fa un gesto magico e un miracolo accade: un miracolo! Cominciano a crescere, a crescere... » Le camicie brune guardavano la sua mano che si alzava con espressione perplessa. « E poi lo sapete cosa succede? » chiese Shasa mentre, senza volerlo, il sergente scuoteva la testa. « Quando diventano delle grandi teste di cazzo li mandiamo a Berlino ad arruolarsi nelle SA! » Lo guardarono increduli di aver sentito bene, e Shasa ne approfittò per finire lo spettacolo: « Dove imparano a dire "Heil..." Com'è che si chiama poi quel tale? » Il sergente emise un ruggito e gli tirò un cazzotto in faccia. Shasa riuscí a schivarlo, ma ubriaco com'era perse l'equilibrio e andò per terra rovesciando il tavolo. La bottiglia di champagne si mise a rotolare spargendo vino dappertutto, mentre due camicie brune saltavano addosso a Shasa e cominciavano a pestarlo. David corse in suo aiuto, ma una camicia bruna gli prese le braccia da dietro. David riuscí a liberare il destro, si girò e tirò un bel diretto sul naso del nazista. L'uomo ululò e lasciò andare David per afferrarsi l'organo offeso, ma subito altri due squadristi abbrancarono lo sprinter torcendogli le braccia dietro la schiena. « Lasciatelo andare! » urlò Mathilda Janine, saltando sulle spalle di un milite. Gli abbassò il berretto sugli occhi e si mise a tirargli i capelli sulla nuca con due mani. « Lascia andare David, porco! » Tirava con tutta la sua forza e quello girava in tondo cercando di liberarsi di lei. Le donne gridavano, le sedie e i tavoli si frantumavano. Il padrone, sulla porta della cucina, si torceva le mani facendo smorfie patetiche. « Shasa Courteney! » gridò Tara, furiosa. « Smettila subito! Stai comportandoti da teppista! » Shasa si trovava sotto una pila di camicie brune, intento a parare cazzotti, e la sua eventuale risposta non giunse all'orecchio di nessuno. Gli squadristi, passato il primo momento di stupefazione, guizzavano come pesci nel loro elemento. Picchiare la gente era il loro mestiere. Ben presto Mathilda fu divelta dalla nuca del nazista, di cui le restò qualche ciocca per ricordo, e scaraventata in un angolo. Tre militi tirarono in piedi Shasa, tenendogli le mani dietro la schiena, e lo spinsero verso la porta della cucina. David ricevette lo stesso trattamento da parte di altri due: quello col naso ammaccato li seguiva da presso, sanguinando sulla camicia bruna e bestemmiando. Il proprietario si fece da parte in fretta mentre gli squadristi spingevano David e Shasa a calci nel sedere per tutta la cucina, travolgendo cuochi e cameriere, e fuori nel vicolo posteriore, rovesciando bidoni di spazzatura. I due cercavano invano di ripararsi e difendersi.
Le camicie brune non si scambiavano una parola, un ordine. Non ce n'era bisogno per questi lavoretti di routine: erano professionisti intenti allo sport preferito. Rapidamente misero le due vittime con le spalle al muro e mentre due li tenevano l'altro li picchiava, tirando cazzotti prima in faccia e poi al corpo e poi ancora in faccia, bofonchiando e ansimando al ritmo delle botte. Mathilda Janine li aveva seguiti e di nuovo cercò di correre in aiuto di David, ma una manata distratta la mandò a rotolare tra i bidoni dell'immondizia, e il picchiatore continuò il suo lavoro. Tara, in cucina, stava urlando col padrone del caffè. « Chiami subito la polizia! Mi ha sentito? Chiami la polizia! Li fuori stanno «Ammazzando due persone innocenti! » Il proprietario fece una smorfia. « Non serve a niente, signorina. La polizia non viene. » Shasa si piegò in due e lo lasciarono cadere. Poi cominciarono a prenderlo a calci nella pancia, nella schiena e nei fianchi con gli stivali ferrati. Anche il milite che stava menando David si stancò. Era tutto sudato e ansimante. Fece un passo indietro, misurò accuratamente il colpo e tirò l'ultimo uppercut alla testa ciondolante di David. Lo prese proprio sulla bocca e la testa gli schizzò indietro, andando a sbattere contro il muro di mattoni. Poi lo lasciarono cadere per terra. David giaceva inerte, senza fare il minimo tentativo di evitare i calcioni, e i militi si stufarono. Non c'era alcun divertimento a pigliare a calci uno che non si contorceva urlando e invocando pietà. Rapidamente raccolsero berretti e bandiere e filarono via, passando sotto il naso di due agenti di polizia che stavano sull'angolo a fischiettare contemplando i tetti. Mathilda Janine cadde in ginocchio accanto a David e gli prese la testa in grembo. « Parla. David, parla! » piangeva. Tara uscì dalla cucina con uno strofinaccio bagnato e si chinò su Shasa, cercando di nascondere la sua preoccupazione. Ci vollero diversi minuti perché le vittime tornassero a dar segni di vita. Shasa si rizzò a sedere e mise la testa tra le ginocchia, stordito. David si appoggiò a un gomito e sputò un dente insanguinato. « Tutto bene, amico mio? » gli chiese Shasa con le labbra spaccate. « Non difendermi piú », gracchiò David. « Se no un'altra volta mi ammazzano. » Mathilda Janine li aiutò a rialzarsi, ma ora che Shasa era rinvenuto Tara intendeva fargliela pagare. « E' stata una scena disgustosa, Shasa Courteney. Hai detto una sfilza di oscenità e di fesserie e ti sei meritato tutte le botte che hai preso. » « Non esageriamo », esalò Shasa. Sostenendosi a vicenda, i due si trascinarono per il vicolo. Passando davanti al poliziotto si beccarono pure un'agghiacciante ramanzina crucca. « Cos'ha detto? » chiese Shasa a Tara. « Che la prossima volta vi arresta per rissa », tradusse gelida la ragazza.
Mentre risalivano trascinandosi penosamente la Kurfurstendamm che avevano disceso con gioiosa ebrezza, tra gli sguardi orripilati dei passanti, Tara si dissociò precedendoli di una dozzina di passi mentre Mathilda Janine li tallonava premurosa. Sull'ascensore del Bristol Mathilda chiese a Shasa cos'era quella storia del pezzetto di pelle, perché non l'aveva capita tanto bene. I due si piegarono ancora di piú, minacciati da uno straziante accesso di risate. « Per favore, Matty, non dire altro », l'implorò David. « Se rido, mi fa male da morire. » Tara fulminò la sorella con lo sguardo. « Aspetta che abbia raccontato a papà come ti sei comportata, signorinetta bella. Chissà come si arrabbia. » Infatti si arrabbiò, ma mai come Centaine Courteney. Risultò che Shasa aveva quattro costole rotte e l'osso del collo incrinato. In seguito prese l'abitudine di attribuire alla propria assenza in campo la sconfitta subita due giorni dopo dalla squadra contro gli argentini. A parte i due denti che gli erano saltati via, David non aveva che contusioni superficiali, escoriazioni e slogature. « Be', non è andata troppo male », concesse Centaine alla fine. « Almeno la stampa non ne ha parlato. Ci mancava solo che qualche scribacchino invidioso mettesse giú un articolo al fiele... » Aveva torto. Infatti tra i clienti del Kranzler il caso aveva voluto che ci fosse il corrispondente sudafricano della Reuter: il suo articolo fu pubblicato dal Jewish Times di Città del Capo. Raccontava come Shasa avesse difeso il suo amico ebreo, medaglia di bronzo alle Olimpiadi, e quando tornarono finalmente a casa Shasa scoprì di essere diventato una piccola celebrità. A lui e a David fu chiesto di tenere un discorso a un banchetto degli Amici di Sion. « E' la legge della conseguenza imprevista », disse Blaine a Centaine. « Quanti sono gli elettori ebrei? » gli chiese Centaine mettendosi subito a fare quattro calcoli mentali, mentre Blaine ridacchiava. « Sei proprio incorreggibile, mia cara. » Per la finale olimpica che avrebbe laureato il campione dei mediomassimi, il palazzo dello sport del Reichssportfeld era strapieno. Dagli spogliatoi al ring le camicie brune formavano una guardia d'onore per consentire ai pugili di accedere al quadrato. « Abbiamo ritenuto che fosse il caso di chiamare le SA », sussurrò il colonnello Boldt a Heidi Kramer. Erano seduti a bordo ring, e cosí dicendo il colonnello lanciò un'occhiata significativa ai quattro giudici di gara. Erano tutti tedeschi, e tutti membri del Partito, il che era costato al colonnello Boldt un certo impegno e qualche compromesso. Manfred De La Rey fu il primo a salire sul ring. Indossava calzoncini di seta verdi e una maglietta pure verde con il simbolo della gazzella. Aveva i capelli tagliati cortissimi che formavano una spazzola dorata. Rivolse una rapida occhiata agli spettatori in prima fila e subito alzò i guantoni sul capo rispondendo all'entusiastica acclamazione che l'aveva accolto. Era diventato un beniamino del pubblico tedesco: e quella sera era il campione della supremazia razziale
bianca. Scorse subito Heidi Kramer, perché sapeva dove cercarla, ma non le sorrise. Anche lei lo guardò seria, ma il giovane sentì lo stesso l'energia che gli infondeva la sua semplice presenza. Poi guardò da un'altra parte e di colpo fremette. All'amore si mischiò l'ira. Quella donna era là! Si trattava di Centaine, che lui chiamava sempre « quella donna ». Sedeva a tre poltrone di distanza dalla sua diletta Heidi. I suoi capelli folti e neri erano inconfondibili, e indossava un abito di seta giallo e tantissimi brillanti. Era elegante e sofisticata. La odiava tanto da sentirsi in bocca un allappante sapore di fiele. « Perché mi perseguita così? » si chiese. L'aveva già vista diverse volte negli altri incontri, sempre con quell'uomo alto e arrogante, dal nasone e le orecchie a sventola. Centaine lo stava guardando con quell'espressione sconcertante ed enigmatica degli occhi scuri che ormai conosceva bene. Le voltò deliberatamente le spalle, cercando di farle capire tutto il suo disprezzo e il suo astio, e guardò Cyrus Lomax salire sul ring. L'americano aveva un corpo molto muscoloso color caffellatte, ma la testa era tutta africana: assomigliava agli antichi bronzi dei principi Ashanti. Occhi incassati e spaziati, labbra spesse a forma di arco assito, naso largo e piatto. Indossava la maglietta a stelle e strisce bianca rossa e blu e aveva un'aria pericolosissima. « Questo è il peggiore di tutti », l'aveva avvertito lo zio Tromp. « Se riesci a batterlo, al mondo non avrai piú rivali. » L'arbitro li chiamò al centro del ring e li presentò al pubblico, che subito si mise a scandire il nome di Manfred. Questi tornò al suo angolo sentendosi forte e imbattibile. Lo zio Tromp gli spalmò della vaselina sulle guance e sulle sopracciglia e gli infilò in bocca il paradenti. Schiaffeggiò forte la spalla di Manfred, come chi desse una sferzata al toro, e gli sibilò all'orecchio: « Rapido come il mamba! Coraggioso come il ratel! » Manfred annuì, mettendo a posto il paradenti con la lingua. Al suono del gong saltò in piedi e andò sotto i riflettori, al centro del ring. L'americano gli venne incontro guatandolo come una pantera nera. Combattevano alla pari, perché si equivalevano. Si scambiarono duri colpi a distanza ravvicinata, parandoli, altri ne schivarono che avrebbero avuto la potenza di rovinare un uomo per sempre. Intuivano le reciproche intenzioni con concentrazione quasi soprannaturale. Muovendo la testa, arretrando impercettibilmente, chinandosi, dandosi lo slancio sulle corde, parando coi guantoni e gli avambracci, evitarono i colpi restando veloci, aggressivi e pericolosi entrambi. Il gong segnò la fine della prima ripresa. Le altre seguirono, fino alla quinta, alla sesta, alla settima. Manfred non era mai stato obbligato a combattere così a lungo. Aveva sempre vinto per KO nelle prime riprese, con quelle sue scariche improvvise e doppiate che mandavano infallibilmente al tappeto l'avversario. Tuttavia gli venne in aiuto l'allenamento intensivo a cui l'aveva sottoposto lo zio Tromp, grazie al quale ora non gli mancavano fiato e resistenza. Si sentiva tuttora forte e invulnerabile, e sapeva che ormai doveva succedere presto. Bastava aspettare. L'americano si stava stancan-
do. I suoi pugni non viaggiavano piú con la velocità di prima. L'errore era nell'aria e Manfred l'aspettava dominando l'impazienza di veder subito il sangue dell'americano. Arrivò a metà della settima ripresa. L'americano sparò uno dei suoi diretti sinistri velocissimi. Senza vederlo, ma avvertendolo per una sorta di istinto animale, Manfred arretrò affondando il mento nel petto. Il colpo gli escoriò la faccia ma risultò corto. Manfred si trovò in punta di piedi, col peso arretrato ma pronto a scattare in avanti, col braccio destro caricato e il pugno duro come la mazza di un fabbro ferraio. L'americano fu un pò troppo lento a riprendersi, di un'infinitesima frazione di secondo. Sette dure riprese l'avevano stancato e tardò un attimo, offrendo il fianco destro. Manfred non vide il varco, era troppo stretto, troppo effimero: lo intuì grazie all'istinto e all'esperienza. Dalla posizione delle spalle, l'angolo del braccio e della testa... il varco nella guardia avversaria c'era. Tutto ciò fu molto piú rapido di una decisione cosciente: prima ancora di pensarci il pugno era già partito, la decisione istintiva era già stata presa ed era quella di piazzare il colpo da KO per finire non con la solita scarica ma con un singolo fulmine risolutivo. Il pugno nacque nelle grandi masse muscolari dei polpacci e delle cosce, accelerando come pietra in una fionda per la linea del bacino, della spina dorsale e della spalla; poi s'incanalò tutto nel braccio destro come un fiume rapinoso intrappolato in un angusto canyon. Entrò nella guardia dell'americano e gli schiattò sulla tempia con una forza che fece sbattere i denti a Manfred. C'era tutta la potenza che aveva, in quel pugno; tutto l'allenamento, l'esperienza, la forza, il coraggio, il cuore e il vigore di ogni muscolo ben temprato del suo corpo di giovane pugile; e arrivò nettamente a segno. Manfred se ne accorse perché sentì rompersi le ossa della mano con uno schiocco come di legnetti secchi: il dolore fu un lampo incandescente che gli rimbalzò in testa e li scoppiò. Ma nel dolore c'era il trionfo e la gioia, perché sapeva che era finita. Aveva vinto. Le fiamme del dolore gli si dissiparono davanti agli occhi e cercò l'americano a terra, ma non ce lo trovò. Gli parve che il cuore gli si fermasse in petto. Cyrus Lomax era ancora in piedi. Aveva accusato il colpo e barcollava, non ci vedeva, aveva le gambe di cotone idrofilo e il cranio pieno di piombo fuso, era sul ciglio del KO ma era ancora in piedi. « Finiscilo! » gridava la folla. « Uccidilo! » Manfred sapeva che ci voleva poco, bastava un altro destro, perché l'americano era cotto... Un altro destro: ma non aveva piú il destro, aveva un sacchetto di nacchere nel guantone. L'americano vacillava come ubriaco, rimbalzando sulle corde, con le ginocchia che si piegavano: ma con un supremo sforzo di volontà riuscì a riprendersi. « Il sinistro. » Manfred chiamò a raccolta tutto quello che gli rimaneva. « Devo dargli di sinistro. » Gli tirò un diretto alla testa, che l'americano schivò tuffandosi goffamente in avanti e abbracciando-
lo in clinch, aggrappandosi a lui come uno che stia annegando. Manfred cercò di scrollarselo di dosso, mentre la folla tuonava impazzita e l'arbitro berciava: « Break! Break! » Ma l'americano riuscì a resistere giusto il tempo necessario. Quando l'arbitro li separò, Cyrus Lomax aveva ricominciato a vederci bene. Riuscì a sottrarsi arretrando ai disperati sinistri di Manfred, e fu salvato dal gong. « Cosa c'è, Manie? » gli chiese lo zio Tromp nell'angolo. « L'avevi in pugno... cosa ti è successo? » «La mano», farfugliò Manfred in preda al dolore. Lo zio Tromp toccò il polso sopra il guantone e Manfred urlò quasi. L'avambraccio si gonfiava a vista d'occhio. « Getto la spugna », disse lo zio Tromp. « Non puoi tirare, conciato così. » Manfred gli ringhiò: « No! » Guardava fieramente coi suoi occhi gialli l'americano che i secondi stavano cercando di rianimare nell' altro angolo. Gli davano i sali, gli facevano impacchi ghiacciati, lo schiaffeggiavano sulle guance, lo rincuoravano e incoraggiavano a parole. Suonò il gong, era l'inizio dell'ottava ripresa, e Manfred notò desolato che l'americano mostrava nuove energie e nuova coordinazione. Aveva ancora un pò di paura, arretrava, si aspettava l'attacco di Manfred, ma ogni momento che passava si rinfrancava. All'inizio rimase perplesso per la ritrosia di Manfred a usare il destro, ma poi con un lampo di gioia selvaggia negli occhi capì. « Sei frenato », ali ringhiò all'orecchio al dinch successivo. « Non hai più il destro, ragazzo bianco, e adesso io ti rovino. » I suoi pugni cominciarono a far male, e Manfred dovette arretrare. Gli si chiuse l'occhio sinistro e sentiva il sapore del sangue in bocca. L'americano sparò un diretto sinistro e istintivamente Manfred parò col destro, ricevendolo sul guantone: il dolore fu accecante, la terra gli tremò sotto i piedi. La volta dopo non cercò di parare e il pugno dell'americano gli entrò nella guardia e colpì l'occhio già malconcio. Manfred sentí che gli si gonfiava la faccia, gli sembrava di avere una mignatta assetata di sangue sulla palpebra. Da quella parte vedeva rosso. Suonò il gong segnando la fine dell'ottava ripresa. « Ce ne sono altre due », gli sussurrò lo zio Tromp facendogli un impacco gelato all'occhio sinistro. « Adesso ci vedi, Manie?» Manfred annuí e al gong si alzo per disputare la nona ripresa. L'americano gli venne incontro impaziente, troppo impaziente, perché abbassò il destro per il colpo risolutivo e Manfred mise a segno un sinistro secco che lo fece prillare sui talloni. Se avesse avuto ancora il destro, avrebbe potuto doppiarlo iniziando una delle sue scariche irresistibili, ma il destro era menomato e inservibile e Lomax sgusciò via, arretrando e scappando per tutto il ring, colpendolo di rimessa sull'occhio tumefatto nella speranza di riaprire la ferita. Ci riuscì con l'ultimo pugno della nona ripresa, colpendolo di striscio con l'interno del guantone. La legatura lacerò l'ematoma che esplose. Il sangue schizzò sulla faccia e sul petto di Manfred.
Prima che l'arbitro potesse esaminare la ferita, suonò il gong e Manfred andò barcollando all'angolo. Lo zio Tromp gli si precipitò incontro. « Getto la spugna », gli disse davanti alla terribile ferita. « Non puoi continuare, rischieresti di perdere l'occhio. » « Se getti la spugna, non ti perdonerò mai », disse Manfred. La voce era bassa, ma il fuoco che aveva negli occhi gialli fece capire a Tromp Bierman che parlava sul serio. Il vecchio bofonchiò. Pulì la ferita applicando la matita emostatica. L'arbitro venne a vedere l'occhio di Manfred, facendogli rivolgere la faccia alla luce. « E' in grado di continuare? » gli domandò con calma. « Per il Volk e il Fuhrer », gli rispose sottovoce Manfred, e l'arbitro annuì. « Lei e un uomo coraggioso », disse e segnalò che l'incontro continuava. L'ultimo round fu penoso. I colpi dell'americano tempestarono il corpo di Manfred come mazzate, facendo lividi su lividi e tagliandogli le gambe, cosa che gli impediva di proteggersi dai colpi successivi. Ogni respiro era un tormento diverso, gli bruciava i polmoni, gli strappava i muscoli e i legamenti martoriati del petto. Il dolore della mano destra fratturata si diffondeva su per il braccio mischiandosi a quello dei colpi sempre piú pesanti: l'unico occhio che gli restava aperto si appannò e cominciò a non veder piú partire i pugni. Le orecchie gli fischiavano come mille sirene, ma resisteva, sempre in piedi. Lomax lo stava demolendo, gli riduceva il viso a una maschera di carne sanguinolenta, e lui restava in piedi. Il pubblico era sbigottito, la sete di sangue si era trasformata in pietà e poi in orrore. Gridavano all'arbitro di interrompere l'incontro, ormai atrocemente impari, ma Manfred restava in piedi, facendo patetici tentativi di mettere a segno qualche sinistro, mentre i colpi dell'altro continuavano ad abbattersi sugli occhi che piú non vedevano e sul corpo devastato. Alla fine, ma troppo tardi, davvero troppo tardi, suonò il gong e Manfred era ancora in piedi. Stava al centro del ring, barcollando intronato di qua e di là, senza vedere, senza sentire, senza riuscire a trovare la strada dell'angolo. Lo zio Tromp gli corse accanto e l'abbracciò teneramente, piangendo. Le lacrime gli grondavano senza vergogna dalla barba mentre riportava Manfred all'angolo. « Mio povero ragazzo », sussurrava. « Non dovevo lasciarti. Dovevo gettare la spugna. » All'altro angolo Cyrus Lomax era circondato dai sostenitori che ridevano e gli davano pacche sulle spalle. In attesa del verdetto dei giudici, Lomax eseguí una breve ed esausta danza di vittoria, lanciando occhiate preoccupate all'uomo che aveva appena distrutto. All'annuncio della vittoria sarebbe andato a esprimergli tutta la sua ammirazione per il coraggio che aveva dimostrato. «AchiungI AcAtungl » disse l'arbitro al microfono, con in mano i cartellini dei giudici. La sua voce rimbombava dagli altoparlanti. « Signore e signori, il vincitore della medaglia d'oro olimpica per la categoria dei mediomassimi, ai punti, è... Manfred De La Rey,
del Sudafrica. » Si diffuse un silenzio incredulo che durò tre battiti del cuore di Manfred. Poi si alzarono una salva di fischi di protesta, grida di rabbia, ululati. Cyrus Lomax correva come un matto per il ring. scuotendo le corde, lanciando insulti ai giudici e mostrando loro il pugno. Centinaia di spettatori mossero all'assalto del ring per manifestare la loro disapprovazione per l'ingiusto verdetto. Il colonnello Boldt fece un cenno a qualcuno che si trovava in fondo al palazzotto squadre di camicie brune sciamarono giú per le corsie circondando il ring e sgombrandolo dalla folla irritata. Aprirono un varco per i pugili fino agli spogliatoi dove Manfred fu frettolosamente accompagnato. Al microfono, intanto, l'arbitro cercava di giustificare la decisione. « Il giudice di gara Krauser ha assegnato cinque round a De La Rey, uno pari e quattro a Lomax... » ma nessuno lo stava ad ascoltare, e le urla della folla sommergevano gli altoparlanti regolati al massimo. « Quella donna deve avere cinque o sei anni piú di te », disse badando a sceglier bene le parole lo zio Tromp Stavano passeggiando nei giardini di Tegel e nell'aria si sentiva frizzare un annuncio d'autunno. « Ha tre anni piú di me », rispose Manfred. « Ma questo non conta, zio Tromp. Quello che conta è che io l'amo e lei mi ama. » Aveva la mano destra ancora ingessata e il braccio al collo. « Manie, non hai ancora ventun anni, non puoi sposarti senza il permesso del tutore. » « Sei tu il tutore », disse Manfred guardandolo negli occhi con l'inquietante luce gialla delle pupille. Lo zio Tromp li abbassò subito. « E come manterrai tua moglie? » gli chiese. « Il ministero della Cultura del Reich mi ha dato una borsa di studio per finire gli studi di legge a Berlino. Heidi ha un buon lavoro al ministero dell'informazione e una casa, e io combatterò da professionista per guadagnarmi da vivere finché non comincerò a far l'avvocato. Allora torneremo in Sudafrica. » « Hai pianificato tutto, vedo », sospirò lo zio Tromp. Manfred annuì. Il sopracciglio era deturpato da una brutta crosta nera: la cicatrice gli sarebbe rimasta per tutta la vita. Se la sfiorò col dito e poi disse: « Tu non mi negherai il tuo permesso, vero, zio Tromp? Così ci sposeremo prima della tua partenza. Ci teniamo tuffi e due che ci sposi tu ». « Sono lusingato. » Lo zio Tromp sembrava invece piuttosto sconvolto. Conosceva bene il ragazzo, e sapeva che quando si metteva in testa una cosa era difficile che cambiasse idea. Continuare a discutere non avrebbe avuto altro risultato che farlo intestardire nella sua decisione. « Tu sei un padre per me », disse semplicemente Manfred. « E piú di un padre. La tua benedizione sarebbe un dono inestimabile. » « Manie! » esclamò lo zio Tromp. « Tu sei il figlio che non ho mai avuto! Io desidero solo il tuo bene. Che posso dire per convincerti ad aspettare un pò, a non gettarti a capofitto in questa cosa? »
« Niente potrebbe dissuadermi. » « Manie, pensa alla zia Trudi... » « So che desidera la mia felicità », tagliò corto Manfred. « Sì, certo. Ma pensa anche alla piccola Sarah... » « Che c'entra lei? » chiese Manfred accigliandosi tanto piú in quanto aveva la coda di paglia. « Sarah ti ama, Manfred. Ti ha sempre amato, perfino io me ne sono accorto. » « Sarah è mia sorella e anch'io l'amo, di un amore fraterno. Invece amo Heidi come un uomo ama una donna, e anche lei mi ama » « Credo che sbagli, Manie. Ho sempre pensato che un giorno tu e Sarah .. » « Basta, zio Tromp. Non voglio piú ascoltare. Sposerò Heidi .. col tuo permesso e la tua benedizione, spero. Ci farai questo regalo di nozze? Per favore, zio Tromp! » Il vecchio annuí gravemente. Era triste. « Ti do il permesso e la benedizione, figlio mio, e vi sposerò con letizia di cuore. » Heidi e Manfred si sposarono sulla riva del lago di Havel, nel giardino del colonnello Sigmund Boldt a Grunewald. Era un dorato pomeriggio settembrino, con le foglie gialle e rosse per l'arrivo dell'autunno. Per esserci, sia lo zio Tromp sia Roelf Stander avevano rimandato la partenza. Lo zio Tromp celebrò la semplice cerimonia e Roelf Stander fece da testimone. Heidi era orfana e Sigmund Boldt fece le veci del padre in quell'occasione. Vennero una dozzina di amici di Heidi - in gran parte colleghi e superiori al ministero dell'informazione e della Propaganda -, ma c'erano anche dei lontani cugini in uniforme nera delle ss, azzurra della Luftwaffe o grigia della Wehrmacht, e ragazze carine, alcune nel tradizionale costume tirolese, così caro al partito nazista: il Dirndl. Dopo la breve e semplice cerimonia calvinista celebrata dallo zio Tromp, ci fu un banchetto nuziale all'aperto offerto dal colonnello Boldt, sotto gli alberi del giardino, con un'orchestrino di quattro elementi in costume tirolese. Suonarono le canzoni popolari approvate dal partito e gli invitati danzarono su un assito provvisoriamente steso sul prato a questo scopo. Manfred era così assorto nel coronamento del suo sogno d'amore che non si accorse dell'eccitazione che improvvisamente si diffuse tra gli ospiti, né dell'emozione con cui il colonnello Boldt andò a ricevere la piccola compagnia che stava arrivando or ora dalla casa. Ed ecco l'orchestrino attaccare la marcia indiavolata del partito nazista, la canzone di Horst Wessel. Tutti gli invitati balzarono in piedi, scattando sull'attenti, e benché perplesso Manfred smise di ballare e si mise anche lui sull'attenti di fianco a Heidi. Quando i nuovi arrivati misero piede sulla lignea piattaforma, tutti gli ospiti scattarono nel saluto nazista e gridarono insieme « Heil Hitler! ». Solo allora Manfred capì cosa stava succedendo, e l'incredibile onore che veniva tributato a lui e Heidi. L'uomo che si stava avvicinando era vestito in giacca bianca, abbottonata fino alla gola, con una semplice Croce di Ferro al valore per tutta decorazione. Il suo viso era pallido, energico e quadrato: i
capelli neri ricadevano sulla fronte alta, e sotto il naso grande e ben marcato c'erano baffetti curati. Non era un viso eccezionale, ma gli occhi erano diversi da quant'altri Manfred avesse mai visto: penetravano nell'anima con un'intensità eccezionale, giungevano al cuore e assoggettavano per sempre. Fece il saluto nazista con la destra ingessata e Adolf Hitler sorrise, annuendo. « Ho sentito dire che lei è buon amico della Germania, Herr De La Rey. » « Sono di sangue tedesco, fedele amico del suo paese e suo ardentissimo ammiratore. Non trovo parole per esprimere adeguatamente il grande onore che provo, molto umilmente, per la sua presenza. » « Mi congratulo con lei per il coraggio con cui ha battuto il negro americano. » Adolf Hitler gli porse la mano. « E mi congratulo anche per il suo matrimonio con una delle belle figlie del Reich. » Manfred prese la mano del Fuhrer con la sinistra sana e si sentì pervaso di gioia quasi religiosa per il grande significato di quel momento. « Le auguro grande felicità », continuò Hitler. « Possa il vostro matrimonio forgiare ferrei legami tra lei e il popolo germanico. » La mano del Fuhrer era fresca e secca, la mano forte ed elegante di un artista, e l'emozione di Manfred traboccò sommergendolo. « Per sempre, mio Fuhrer, i legami tra noi dureranno per sempre! » Adolf Hitler annuí ancora una volta, strinse la mano a Heidi, sorrise alle sue lacrime di gioia, e se ne andò di botto com'era arrivato, con una parola e un sorriso per pochi tra i piú importanti invitati. « Non mi sarei mai sognata... » sussurrò Heidi, stringendosi al braccio di Manfred. « La mia felicità è completa. » « Quella è grandezza », disse Manfred guardando Hitler che se ne andava. « Quella è vera grandezza. E' difficile pensare che sia un comune mortale, e non un dio. » Sarah Bester pedalava per la via principale di Stellenbosch, sfrecciando per il traffico rado, sorridendo e salutando con la mano tutti quelli che riconosceva sul marciapiede. I libri di scuola erano legati al portapacchi della bici. La gonna da ginnastica le arrivava alle ginocchia, e doveva tener la mano sul cappello della divisa scolastica per non farlo volar via. Quella mattina aveva preso la pagella e non stava nella pelle dalla voglia di dire alla zia Trudi che era passata dal quinto al secondo posto tra i migliori allievi della classe. La direttrice aveva annotato sul suo diario: « Molto bene, Sarah, continua cosí ». Era l'ultimo anno: in ottobre avrebbe compiuto diciassette anni e si sarebbe iscritta all'università. Come sarebbe stato orgoglioso di lei Manfred! Erano il suo incoraggiamento e la sua ispirazione che l'avevano indotta a primeggiare. Cominciò a pensare a lui, sognando a occhi aperti mentre pedalava tra le querce. Era via da tanto tempo, ma presto sarebbe tornato a casa: allora gliel'avrebbe detto e tutto sarebbe andato bene. Non avrebbe avuto piú motivo di preoccuparsi e piangere la notte. Doveva tornar presto, Manfred così forte, gentile e innamorato; e
poi tutto sarebbe andato bene. Pensò di essere già sposata con lui e preparargli la colazione, lavargli le camicie, rammendargli le calze, andare in chiesa con lui la domenica, chiamarlo Meneer come faceva zia Trudi con Tromp, dormire insieme a lui tutte le notti, svegliarsi al suo fianco ogni mattina vedendo la sua bella testa bionda sul cuscino accanto a se. Non c'era altro che desiderasse al mondo. « Solo Manfred », sussurro. « Sempre e solo Manfred. E' tutto quello che abbia mai avuto e desiderato al mondo. » Vide il postino sulla porta e saltò giú dalla bici. « C'è qualcosa per noi, signor Grobler? » Il postino le sorrise e tirò fuori una busta dalla borsa di cuoio. « Un telegramma », le disse solennemente. « Un telegramma da oltremare... ma non è per te, è per tua zia. » « Firmerò io la ricevuta! » Sarah firmò sul blocco del postino, appoggiò la bici al muretto e salí di corsa i tre gradini dell'ingresso. « Zia Trudi! » gridò. « E' arrivato un telegramma! Dove sei? » C'era un buon odorino nell'aria e capí dove guardare. « Un telegramma! » disse irrompendo in cucina. La zia Trudi stava facendo la marmellata di fichi e pesche. « Perdiana, che fracasso! Devi imparare a comportarti da signorina, Sarie, non sei piú una bambina... » « Un telegramma! Guarda, un vero telegramma! E' il primo che riceviamo! » Perfino la zia Trudi rimase impressionata. « Ho le mani tutte sporche, Sarah, aprimelo tu. » Sarah aprí la busta. « Devo leggertelo? » domando. « Sí, sí, leggilo. Chi lo spedisce? » «Lo zio Tromp... è firmato: "II tuo devoto marito Tromp Bierman". » « Vecchio stupidone, ha pagato quattro parole superflue », brontolò la zia Trudi. « Dimmi cosa dice. » « Dice: "Devo informarti che Manfred si è..." » Sarah s'interruppe di colpo. Diventò pallida come una morta, fissando il foglietto che aveva in mano. « Forza, leggi, bimba, leggi », l'incoraggiò la zia Trudi. Sarah ricominciò quasi pigolando. « Debbo informarti che Manfred si è sposato oggi con una ragazza tedesca di nome Heidi Kramer. Terminerà gli studi a Berlino e quindi non tornerà con me. Non dubito che anche tu gli auguri ogni bene. Il tuo devoto marito Tromp Bierman. » Sarah alzò gli occhi dal telegramma e si guardarono. «Non riesco a crederci... » balbettò la zia Trudi. « Il nostro Manfred! Non può essere. Non può averci lasciato... » Poi notò il viso di Sarah. Era grigio come la cenere del caminetto. « Oh, povera Sarah! » I lineamenti grassocci della zia Trudi franarono travolti dalla compassione. Voleva abbracciare la ragazza. ma già era scappata di là, mentre il telegramma cadeva vorticando sul pavimento della cucina. Prese la bici e saltò in sella. Cominciò a pedalare in piedi, sempre piú forte, al ritmo del suo cuore. Le volò via il cappellino, re-
stando attaccato al collo per l'elastico. Aveva gli occhi sbarrati e asciutti, la faccia ancora terrea per lo shock. Usci dalla cittadina superando la vecchia tenuta dei Lanzerac e dirigendosi istintivamente verso i monti. Quando la salita divenne troppo ripida, abbandonò la bici e prosegui a piedi per la pineta, fino alla cresta della prima collina. Qui uscì dal sentiero e si gettò lunga distesa sugli aghi di pino, nel punto esatto dove aveva dato il suo amore, il suo corpo e la sua anima a Manfred. Ripreso fiato dopo la gran corsa in salita, giacque tranquilla, senza piangere né singhiozzare, semplicemente premendo il viso nell'incavo del gomito. Mentre il pomeriggio si consumava, il vento girò a nord-ovest e le nuvole si raccolsero intorno alle vette tra cui Sarah giaceva. Al tramonto cominciò a piovere e in breve fu tutta bagnata. Non alzò mai la testa, rimase distesa tremando dal freddo come un cucciolo smarrito, col cuore che urlava nel buio. « Manfred, Manfred, dove sei andato? Perché ho dovuto perderti? » Poco prima dell'alba una squadra di soccorso, che l'aveva cercata tutta notte, si imbatté nella ragazza e la riportò a valle in barella. « E' polmonite, signora Bierman », disse il dottore alla zia Trudi dopo la seconda visita la notte seguente. « Bisognerà lottare per salvarle la vita, che sembra non importarle piú. » La zia Trudi rifiutò di far ricoverare Sarah al nuovo ospedale cittadino. La curò lei stessa, trascorrendo il giorno e la notte nella sua piccola camera da letto, asciugandole il sudore dal viso quando la febbre saliva, tenendole la mano durante le crisi, e non allontanandosi nemmeno quand'erano finite e Sarah giaceva pallida e patita, con le occhiaie incavate e le ossa del viso sporgenti. Il sesto giorno, quando Sarah poté rizzarsi a sedere sul letto e prender la minestra senza l'aiuto della zia, il dottore le fece un'ultima accurata visita dietro la porta chiusa della sua camerette. Poi andò in cucina dalla zia Trudi e le parlò con calma e serietà. Quando se ne fu andato, zia Trudi la raggiunse in camera sua e si sedette accanto al letto sulla stessa sedia in cui aveva trascorso le lunghe veglie precedenti. « Sarah. » Prese la mano scarna della ragazza. Era leggera, fragile e fredda. « Quando ti sono venute le tue cose l'ultima volta? » le chiese. Sarah la guardò senza rispondere per lunghi attimi, e poi per la prima volta si mise a piangere. Grossi lacrimoni cominciarono lentamente a traboccare dai suoi occhi infossati, e le fragili spalle a scuotersi silenziosamente. « Oh, bambina mia», disse la zia Trudi abbracciandola e premendole il capo sul gran cuscino morbido del suo petto. « Povera bambina, devi dirmi chi è stato. » Sarah continuò a piangere in silenzio e la zia Trudi si mise a carezzarle i capelli. « Devi dirmelo... » A un tratto si fermò. Aveva capito! « Manie! E' stato Manie! » Non era una domanda, ma la conferma fu immediata: un dolo-
roso singhiozzo squassò il petto torturato di Sarah. « Oh, Sarie... oh, povera piccola Sarie! » Involontariamente la zia Trudi si girò a guardare la piccola foto incorniciata sul comodino della ragazza malata. Era una fotografia di Manfred De La Rey in pantaloncini da boxe, fatta in studio, che lo ritraeva nella classica posa pugilistica con la cintura d'argento da campione sudafricano dei dilettanti. La dedica diceva: « Alla piccola Sarie da suo fratello maggiore Manfred ». « Che cosa terribile! » sospirò la zia Trudi. « Che fare, adesso? » Il pomeriggio seguente, mentre la zia Trudi era in cucina a lardellare un cosciotto di daino che le avevano regalato dei parrocchiani, Sarah entrò a piedi nudi. « Non dovresti alzarti, Sarie », le disse severa la zia Trudi. Ma Sarah non la guardò nemmeno e lei tacque. La camicia da notte di cotonina le pendeva, ormai troppo larga, dalle spalle: dovette appoggiarsi a unta sedia perché era ancora molto debole. Poi si riprese e attraverso la stanza come una sonnambula. Andò alla stufa e col ferro alzò una piastra. Il fuoco lingueggiò dal buco. Solo allora la zia Trudi si accorse che la ragazza aveva in mano la fotografia di Manfred. L'aveva tolta dalla cornice e ora la guardò per qualche momento. Poi la lasciò cadere nel buco della stufa. Rapidamente il rettangolino di cartone si arricciò e bruciò. L'immagine di Manfred diventò di un grigio spettrale, poi fu oscurata dalle fiamme. Con la punta del ferro Sarah sparse le ceneri della folo, riducendole in polvere, e continuò anche dopo a pugnalare con l'asta tra le fiamme con forza non necessaria, finché non ne rimase piú nulla. Allora rimise a posto la piastra e posò il ferro. Vacillò rischiando di cadere contro la stufa accesa, ma la zia Trudi la sorresse e la fece sedere. Sarah rimase seduta in silenzio per lungo tempo. « Lo odio », disse a un tratto, piano. La zia Trudi chinò la testa sul cosciotto di daino per nascondere gli occhi. «Dobbiamo parlare, Sarie», le disse sottovoce. «Dobbiamo decidere cosa fare. » « Io so cosa fare », disse Sarah, e il suo tono gelò la zia Trudi. Non era piú la voce di una ragazzina intelligente, ma quella di una donna delusa dalla vita, indurita e amareggiata. Undici giorni dopo Roelf Stander tornò a Stellenbosch, e sei settimane dopo lui e Sarah si sposarono secondo il Rito Riformato olandese. Il figlio di Sarah nacque il 16 marzo 1937. Fu un parto difficile, perché il bambino era grosso e la madre stretta di bacino e ancora sofferente per i postumi della polmonite. Roelf andò da lei subito dopo il parto. Si chino sulla culla a guardare il viso grinzoso del neonato. « Lo odii, Roelf? » gli chiese dal letto. Aveva i capelli madidi di sudore ed era dolorante ed esausta. Roelf tacque per qualche istante, pensando alla domanda che gli aveva fatto. Infine scosse la testa. « E' una parte di te », le disse. « Non potrei mai odiarlo. » Gli tese la mano, e lui si avvicinò al letto e la prese.
« Sei una brava persona, Roelf, e io sarò per te una buona moglie. Te lo prometto. » « So benissimo cosa stai per dire, papà. » Mathilda Janine sedeva davanti a Blaine nel suo ufficio di parlamentare. «Davvero?» disse Blaine. «E allora sentiamo, cosa sto per dire? » «Per prima cosa», disse Mathilda Janine alzando l'indice, « stai per dire che David Abrahams è un bel giovane, un brillante studente di legge e uno sportivo di fama internazionale, che ha vinto una delle due sole medaglie sudafricane alle Olimpiadi di Berlino. Poi dirai che è gentile, serio ed educato, che ha un magnifico senso dell'umorismo e balla benissimo, che non manca di una sua bellezza e sarebbe un ottimo marito per qualsiasi ragazza. Poi dirai. "però..." e farai la faccia seria. » « Stavo per dire tutte queste cose? » Blaine scosse la testa sbalordito. « D'accordo: adesso dico "però" e faccio la faccia seria. Continua tu, Matty, per favore. » « Però, dici gravemente, è ebreo. Nota l'inflessione della voce, non solo grave, ma significativamente grave. » « Questo mette a dura prova i miei muscoli facciali... significativamente grave! Benissimo, continua. » « Il mio caro paparino non sarebbe certo così goffo da aggiungere: «Ora non fraintendermi, Matty, alcuni dei miei migliori amici sono ebrei". Non saresti mai così grossolano, vero, papà? » « Giammai. » Blaine cercò di non ridere. Anche se era davvero preoccupato, trovava irresistibile l'arguzia della figlia minore, bruttina ma simpaticissima. « Hai ragione, non lo direi mai. » « "Però", diresti, "i matrimoni misti sono sempre i piú difficili, Matty. Il matrimonio è già una faccenda complicata anche senza aggiungerci differenze di religione, di usanze e di mentalità». » « Quale saggezza da parte mia », annuì Blaine. « E tu cosa mi risponderesti? » « Ti rivelerei che è un anno che mi preparo dal rabbino Jacobs. Alla fine del mese diventerò ebrea » Blaine sussultò. « E' la prima volta che mi hai tenuto nascosto qualcosa. » « L'ho detto alla mamma. » « Capisco. » La ragazza si mise a ridere allegramente, cercando di buttarla sullo scherzo. «E poi diresti: "Ma, Matty, sei ancora una bambina». » « E tu risponderesti: «Sto per compiere diciott'anni». » « Con aria burbera mi chiederesti: «Si può sapere che prospettive ha David?» » « E tu risponderesti: "Comincia a lavorare alla fine dell'anno per la Courteney Mining and Finance Co., con uno stipendio di duemila sterline». » « Come fai a saperlo? » Matty era sbalordita. « David l'ha detto solo a me... » S'interruppe intuendo la fonte dell'informazione e cominciò ad agitarsi sulla sedia, a disagio. La relazione di suo padre
con Centaine Courteney la disturbava piú di quanto desiderasse ammettere. « Lo ami, Matty? » « Sì, papà, l'amo con tutto il cuore. » « E hai già avuto il permesso di tua madre... di questo si può star tranquilli. » In tutti quegli anni Tara e Mathilda Janine si erano specializzate ad approfittare della discordia familiare. Mathilda Janine annuì, sentendosi un pò in colpa, e Blaine scelse un sigaro dalla scatola sulla scrivania. Mentre lo preparava si accigliò. « Non sono cose in cui buttarsi alla leggera, Matty. » «Non mi ci butto alla leggera. Sono due anni che conosco David. » « Avevo sempre creduto che abbracciassi la carriera di... » « La mia carriera consisterà nel far felice David e dargli tantissimi bambini. » Blaine accese il sigaro e si schiarì la voce. « Be', allora farai bene a mandare il tuo David a fare un discorsetto con me. Debbo dirgli che fine farà se non ha cura della mia bambina! » Mathilda Janine girò di corsa attorno alla scrivania, saltò in braccio a suo padre e gli lanciò le braccia al collo. « Sei il piú meraviglioso papà che una ragazza abbia mai avuto! » «Quando te la do vinta», precisò lui, e Mathilda Janine l'abbracciò finché a lei cominciarono a dolere le braccia e a lui il collo. Shasa e David volarono a Windhoek col Rapide a prendere Abe Abrahams e signora per il matrimonio. Il resto dei parenti di David e la maggior parte degli amici, tra cui il dottor Twentyman-Jones, vennero in treno a Città del Capo. Con gli amici e i familiari di Mathilda Janine Malcomess, si raggiunse una moltitudine tale da riempire la grande sinagoga del sobborgo di Gardens. A David sarebbe piaciuto che Shasa gli facesse da testimone. Tuttavia, era già stato abbastanza difficile indurre il rabbino Jacobs a prendere per buona una conversione chiaramente dovuta a motivi di opportunità matrimoniale piú che religiosi: non si poteva contrabbandare anche un testimone gentile, e Shasa dovette accontentarsi della mansione di reggipalo a un angolo del baldacchino huppah, Tuttavia, Shasa riuscì a tenere un divertentissimo discorso al ricevimento dato da Blaine nella sua casa di Newland Avenue, trafiggendo l'amico con gli strali del suo spirito scatenato. Il ricevimento di nozze fornì a Shasa l'occasione di concludere una delle sue periodiche riconciliazioni con Tara Malcomess. Il loro rapporto, nei due anni successivi alle Olimpiadi di Berlino, era stato caratterizzato da bonacce e burrasche continue. Anch'essi a volte ignoravano a che punto stessero le cose tra loro in un dato momento. Su tutti gli argomenti possibili e immaginabili avevano opinioni opposte. La politica era il loro terreno di scontro preferito: ma anche la sorte dei poveri e degli oppressi, in un paese dove ce n'erano in abbondanza, costituiva un succulento argomento di discussione. Tara aveva molte critiche da fare nei confronti della classe diri-
gente bianca, ricca e insensibile, e dell'iniquità di un sistema che consentiva a un giovane, le cui uniche virtú erano una bella faccia e una madre ricca e indulgente, di baloccarsi con quindici cavalli da polo, una Jaguar SS verde come le macchine da corsa inglesi, con lo speciale motore da tre litri e mezzo, e un biplano De Havilland Tiger Moth, mentre i bambini negri, a migliaia, soffrivano di denutrizione e rachitismo. Ma questi argomenti non esaurivano certo la loro voglia di litigare, che assurgeva a livelli di genialità. Tara aveva opinioni ben precise anche sui cosiddetti « sportivi » che scorrazzavano per il velò armati di fucili potentissimi per stecchire gli uccelli tanto belli e innocenti; né approvava l'entusiasmo con cui qualche giovane scriteriato assisteva all'accumularsi di nuvole di guerra sul cielo internazionale, pregustando l'esaltazione del combattimento. Disprezzava, inoltre, quei ragazzi viziati che si accontentavano di laurearsi alla bell'e meglio, quando mezzi e intelligenza avrebbero loro consentito, impegnandosi un pò di piú, di laurearsi in ingegneria con la lode, cosa fuori della portata di tanti altri che pure lo desideravano. D'altra parte Shasa giudicava un sacrilegio che una ragazza dotata del viso e del corpo di una dea cercasse di nasconderlo nel tentativo di passare per una figlia del proletariato. Né approvava che la stessa giovane passasse gran parte del suo tempo a studiare, o nelle sordide baraccopoli che sorgevano come funghi nella pianura del Capo, a distribuire scodelle di minestra ai mocciosi negri; andando a raccogliere, per questo, oboli agli angoli delle strade. In particolar modo detestava gli studenti di medicina o dottorini neolaureati, tutti bolscevichi dal primo all'ultimo, con cui ella trascorreva gran parte del suo tempo in qualità di infermiera non pagata e neppure addestrata presso gli ospedali del volontariato, dove accudiva luridi pazienti di colore affetti da virulente malattie infettive, scabbia, tubercolosi, sifilide, dissenteria, delirium tremens e tutte le altre sgradevoli conseguenze di povertà e ignoranza. « San Francesco fu fortunato a non dover competere con te, avrebbe fatto la figura di un Attila. » Giudicava i suoi amici noiosi nella loro serietà, e considerava un'ostentazione i loro vestiti dimessi e le barbe rivoluzionarie. « Non hanno stile, non hanno classe, Tara. Ma come fai a farti vedere per strada con loro? » « Il loro stile è il futuro, la loro Casse è l'umanità. » « Adesso ti metti anche a parlare come loro, cribbio! » Tuttavia, queste beghe erano minime e prive di sostanza reale a paragone della loro discordia veramente monumentale intorno alla castità e vergimtà di Tara Malcomess. « Per Dio, Tara, la regina Vittoria è morta da trentasette anni. Siamo nel ventesimo secolo. » « Grazie per la lezione di storia, Shasa Courteney, ma se provi un'altra volta a mettermi la mano sotto la gonna ti spezzo il braccio in tre punti diversi. » « Sai, quello che hai lí sotto non è niente di speciale. Ce l'hanno tutte. » « Ti suggerisco quindi di lasciarmi in pace e rivolgerti a loro. »
« E' l'unica cosa sensata che hai detto in tutta la sera », berciò Shasa frustrato e infuriato, accendendo il rombante motore della Jaguar. Schizzò fuori dalla pineta agghiacciando le altre coppiette nelle auto parcheggiate presso il tempio pseudo-greco alla memoria di Cecil John Rhodes. Scesero per i tornanti della montagna a gran velocità, e Shasa frenò sbandando sul ghiaietto davanti al portone di mogano di casa Malcomess. « Non preoccuparti di aprirmi la portiera », disse gelida Tara, e la sbatté con tale violenza da farlo sussultare. Questo era successo due mesi prima, e ogni giorno Shasa aveva pensato a lei. Sudando in fondo all'imbuto della miniera H'ani, o su una bozza di contratto con Abe Abrahams nell'ufficio di Windhoek, o guardando le acque fangose del fiume Orange tramutate in una pioggia argentea dall'impianto d'irrigazione, l'immagine di Tara continuava a sbocciargli non invitata in mente. Cercò di cancellarla pilotando il Tiger Moth così basso da alzare sbuffi di polvere sul Kalahari, o impegnandosi in precise e intricate acrobazie, tipo il giro della morte con avvitamento o la virata per stallo, ma appena atterrava Tara gli tornava in mente. Cacciò il rossocrinito leone del Kalahari nelle desertiche plaghe oltre le mistiche alture della miniera H'ani, o s'immerse negli sfaccettatissimi affari delle società Courteney, studiando sotto sua madre, osservando i suoi metodi e assorbendo il suo pensiero, finché lei non si fidò abbastanza da affidargli la direzione di alcune piccole sussidiarie. Giocò a polo con dedizione pressoché irosa, spingendo al limite se stesso e il cavallo, e si dedicò con la stessa risoluta ostinazione a sedurre una quantità di donne - giovani e mature, belle e brutte, sposate e nubili, esperte e inesperte -, ma quando rivide Tara Malcomess ebbe la sensazione di essere stato vivo solo a metà in quei mesi di separazione. Per il matrimonio della sorella Tara aveva abbandonato gli abiti dimessi che costituivano l'uniforme dell'intellettuale di sinistra. Era una splendida damigella d'onore, in abito di seta grigia dai riflessi azzurri che non riuscivano a oscurare l'acciaio dei suoi occhi. Aveva cambiato pettinatura, ora aveva i capelli corti: i ricci folti le incoronavano il capo, lasciando scoperta la nuca e il lungo collo; questo sottolineava la sua statura e la lunghezza e perfezione dei suoi arti. Si guardarono per un attimo sotto il tendone del buffet affollato, e Shasa ebbe l'impressione che un lampo scoccasse tra loro: per un attimo seppe che anche lei aveva sentito la sua mancanza altrettanto penosamente di lui, e l'aveva pensato altrettanto spesso. Subito dopo lei gli rivolse un cenno educato e tornò a dedicare la propria attenzione all'uomo che le stava accanto. Shasa lo conosceva. Si chiamava Hubert Langley e faceva parte dello stuolo di cuori infranti al seguito di Tara. Indossava una lisa giacca di tweed con le pezze di pelle ai gomiti, mentre la maggior parte degli invitati erano in abito da mattina. Era due o tre centimetri piú basso di Tara, portava occhiali cerchiati di metallo e ave-
va i capelli biondi che stavano già diradandosi. La barba lo faceva somigliare a un pulcino bagnato: insegnava sociologia all'università. Una volta Tara si fidava di Shasa e gli aveva rivelato che Huey (cosi lo chiamava) era nientemeno che membro iscritto del Partito Comunista. « Notevole, vero? » gli aveva detto con voce piena di rispetto. « E' intelligentissimo e totalmente impegnato. » « La classica perla nel letamaio, si direbbe », aveva commentato Shasa, dando origine all'ennesimo litigio. Ora, guardandolo mettere la zampa lentigginosa sull'impeccabile avambraccio di Tara, e sfiorarle la guancia coi baffetti da pulcino nel sussurrarle qualche chicca «intelligentissima» all'orecchio di madreperla rosa, Shasa si rese conto che strozzarlo lentamente era ancora troppo bello per lui. Si fece largo tra la gente per intervenire e Tara l'accolse freddamente, celando benissimo l'emozione che l'attanagliava. Non si era resa conto di quanto gli fosse mancato finché non l'aveva visto e sentito tenere il discorso: Così educato e sicuro di sè, Così spiritoso, e soprattutto Così rabbiosamente bello. « Non risaliamo sulla vecchia giostra», si ammonì la ragazza, mentre lui afferrava una sedia e si sedeva all'altro suo fianco, sorridendole e prendendola amabilmente in giro mentre la guardava con aperta ammirazione, irresistibile come sempre. Avevano condiviso tantissime cose, amici, posti, divertimenti e risse, e lui sapeva bene come solleticare il suo senso dell'umorismo. La ragazza capì che, se si metteva a ridere, tutto era perduto, e cercò di resistere, ma lui smontò le sue difese con abilità e tempestività, abbattendole mentre lei le rizzava, finché alla fine si arrese e dovette scoppiare a ridere. Subito Shasa si unì alla risata, emarginando Huey. Dal balcone Mathilda Janine individuò la sorella maggiore e le gettò il bouquet. Tara non fece una mossa per prenderlo, ma Shasa lo ghermi di scatto e lo porse a Tara con un inchino, tra gli applausi degli invitati a conoscenza dei retrostanti altarini. Appena David e Matty partirono sulla vecchia Morris di David, tirandosi dietro un mazzo di scarpe vecchie e barattoli vuoti, Shasa convinse Tara a venir via con lui. Non commise l'errore di riportarla sulla montagna al monumento di Rhodes, teatro dell'ultima storica battaglia. Puntò verso la baia di Hout e fermò la Jaguar in cima alla scogliera. Mentre il sole tramontava esplodendo rosso e arancione come una bomba silenziosa nell'Atlantico algido e verde, si avvinghiarono con bramosia di riconciliazione. Il corpo di Tara era diviso in due zone da un invisibile ma sorvegliatissimo confine, all'altezza della vita. In occasioni di estrema buona volontà come l'attuale, la zona sopra la linea, dopo una resistenza proforma, era a disposizione di Shasa. Ma a sud della frontiera si stendevano zone inviolate, restrizione che caricava entrambi di grande tensione quando all'alba si separavano, come stavolta, con un ultimo bacio riluttante davanti al portone di Tara. Quest'ultima riconciliazione durò quattro mesi e fu un record per loro. Dopo aver steso una lista in cui i molti vantaggi dell'esser scapolo venivano travolti dall'unica pesante considerazione sul piat-
to opposto - « non posso vivere senza di lei » - Shasa chiese a Tara Malcomess di sposarlo e la sua risposta lo straziò. « Non fare lo sciocco, Shasa, a parte una specie di attrazione volgare e animalesca non abbiamo assolutamente niente in comune tu e io. » « Ma che dici?! » protestò Shasa. « Abbiamo le stesse origini, parliamo la stessa lingua, ridiamo delle stesse cose... » « No, Shasa, tu non ti curi degli altri. » « Sai bene che ho intenzione di entrare in Parlamento... » « Perché vuoi far carriera, ma te ne infischi dei poveri, dei bisognosi, degli indifesi. » « Anzi, m'importa assai dei poveri... » « T'importa di Shasa Courteney e basta. » La sua voce si fece pungente come uno stiletto. « Per te è povero chi non può permettersi piú di cinque cavalli da polo. » « L'ultima volta che li ho contati tuo papà ne aveva quindici all'addestramento. » « Lascia perdere mio papà! » gli sibilò. « Ha fatto piú lui per neri e meticci di questo paese... » Alzò le mani per farla tacere. « Andiamo, Tara: sai bene che sono il piú fervente ammiratore di tuo padre. Non volevo insultarlo, ma solo cercare di indurti a sposarmi. » « Inutile, Shasa. E' mia incrollabile convinzione che la grande ricchezza di questo paese debba essere ridistribuita, tolta ai Courteney e agli Oppenheimer e data... » « E' Hubert Langley che parla adesso, non Tara Malcomess. Il tuo amichetto comunista dovrebbe pensare a come generare nuova ricchezza invece di ridistribuire quella vecchia. Se prendete tutto quello che abbiamo noi Courteney e gli Oppenheimer e lo distribuite a tutti in parti uguali, ognuno avrà quanto basta per un sol pasto, dopo di che saremo di nuovo tutti affamati, compresi i Courteney e gli Oppenheimer. » « Lo vedi!? Lo vedi?! » Era trionfante. « Sei consentissimo che tutti gli altri siano affamati e solo tu satollo! » Shasa fremette per l'ingiustizia dell'affermazione e si preparò a partire lancia in resta al contrattacco, ma scorse nei suoi occhi grigioverdi il lampo polemico e cambiò tattica. « Se fossimo sposati », disse umilmente, « potresti influenzarmi, persuadermi al tuo modo di pensare... » Era già pronta a una delle solite divertenti urlate, e ci rimase un pò male. « Astuto quanto bieco, il piccolo capitalista! » disse. « Questo è un colpo sleale! » « Non voglio lottare con te, cara ragazza. Anzi voglio fare qualcosa di diametralmente opposto. » A suo dispetto dovette ridacchiare. « Ecco un'altra cosa che non mi va di te, ragioni con quello che hai nelle mutande. » « Non hai ancora risposto alla mia domanda: vuoi sposarmi si o no? » « Devo consegnare una ricerca domattina alle nove, e stasera alle sei monto di servizio all'ospedale. Per piacere, adesso portami a
casa, Shasa. » « Sí o no? » domandò. « Ni », rispose. « Forse un giorno, se vedrò un grande miglioramento della tua coscienza sociale, e certo non prima di laurearmi. » « Sarebbero altri due anni. » « Diciotto mesi », lo corresse lei. « Ma guarda che non è una promessa, è solo un bel forse grande come una casa. » « Non so se ce la faccio ad aspettare tanto. » « Allora addio, Shasa Courteney. » Non riuscirono a battere il record di quattro mesi, perché tre giorni dopo Shasa ricevette una telefonata. Si trovava con sua madre e l'enologo appena arrivato dalla Francia a Weltevreden. Stavano parlando delle etichette dell'ultimo Cabernet Sauvignon quando il segretario di Centaine entrò nell'ufficio. « C'è una telefonata per lei, signor Shasa. » « Adesso sono occupato, dica di richiamare. » Non alzò nemmeno gli occhi dalle varie etichette proposte. « E' la signorina Tara, e dice che è urgente. » Shasa lanciò un'occhiata melensa a Centaine. Lei diceva sempre che prima viene il lavoro, e che non bisogna mischiarlo a nessuna attività sociale o sportiva d'altro genere, ma stavolta annuí con un cenno del capo. « Solo un minuto. » Corse fuori e tornò quasi subito. « Che diavolo c'è? » disse Centaine balzando in piedi quando vide la sua faccia. « Tara », disse lui. « E' Tara. » « Sta bene? » « E' in prigione. » Nel dicembre del 1838, su un affluente del fiume Buffalo, il re zulu Dingaan mandò i suoi impi di guerrieri armati di zagaglie d'acciaio e scudi di cuoio contro il cerchio di carri dei Voortrekkers, gli antenati pionieri degli afrikaners. Le ruote dei carri erano legate assieme con catene, e gli spazi tra un carro e l'altro barricati con dei rovi. I Voortrekkers combattevano sulla barricata coi fucili ad avancarica: erano tutti veterani di una dozzina di battaglie simili, uomini coraggiosi e i migliori tiratori del mondo. Sterminarono le orde zulu, riempiendo il fiume di cadaveri da riva a riva e arrossando le acque, sicché il fiume poi si chiamò Blood River, Fiume di Sangue. Quel giorno fu abbattuta la potenza dell'impero zulu, e i capi dei Voortrekkers, in piedi a capo scoperto sul campo di battaglia, fecero voto a Dio di celebrare l'anniversario della vittoria con solenni funzioni di ringraziamento, in eterno. Nel calendario liturgico della chiesa calvinista afrikaner era diventato il rito piú importante dopo il Natale. Celebrava tutte le loro aspirazioni nazionali, commemorava le loro sofferenze e onorava i loro eroi e i loro antenati. Sicché il centenario di quella giornata acquistava un significato particolare per gli afrikaners, e durante le protratte celebrazioni il capo del Partito Nazionalista dichiarò: « Dobbiamo rendere il Su-
dafrica sicuro per l'uomo bianco. E' vergognoso che uomini bianchi siano costretti a vivere e lavorare a fianco di razze inferiori: il sangue negro è sangue cattivo, e dobbiamo difendercene. Abbiamo bisogno di un'altra grande vittoria per salvare la civiltà bianca ». Nei mesi che seguirono il dottor Malan e i suoi seguaci nazionalisti fecero molte proposte di legge razziste alla camera. Andavano dalla proibizione dei matrimoni misti alla segregazione fisica dei bianchi dagli uomini di colore, fossero asiatici o africani. Proposero inoltre di togliere il voto ai negri che l'avevano a suo tempo ottenuto, e di non darlo piú che ai bianchi. Fino a metà del 1939 Hertzog e Smuts erano però riusciti a far bocciare questi disegni di legge. L'anagrafe sudafricana distingue tra i vari gruppi razziali «i meticci del Capo e gli altri mezzosangue ». Essi non erano, come si potrebbe pensate, i discendenti-degli incroci tra i coloni bianchi e le tribù indigene, ma piuttosto gli ultimi resti delle tribù khoisan, gli ottentotti, i boscimani e i damara, insieme ai discendenti degli schiavi asiatici che la Compagnia delle Indie Orientali Olandese importava nel Capo di Buona Speranza. In generale si trattava di un popolo simpatico, membri utili e produttivi di una società complessa. Tendevano a essere gente minuta, di pelle chiara e dagli occhi vagamente a mandorla su visi orientali. Erano allegri, intelligenti e spiritosi, amanti delle feste e della musica, lavoratori abili e volonterosi, buoni cristiani o musulmani devoti. Per secoli avevano avuto un'educazione di tipo europeo, strettamente associati com'erano e in ottimi rapporti coi bianchi fin dai tempi della schiavitú. La loro roccaforte era il Capo, e la loro comunità si trovava in condizioni economiche migliori degli altri gruppi di colore. Avevano il voto, sia pure distinto da quello dei bianchi, e molti di loro, abili artigiani e piccoli commercianti, avevano raggiunto un tenore di vita superiore a quello di molti bianchi. Tuttavia nella gran maggioranza erano domestici o lavoratori urbani che guadagnavano appena quanto basta per vivere. Questa gente ora divenne la bestia nera del dottor Malan e dei tentativi nazionalisti di imporre la segregazione razziale nella provincia del Capo come in tutte le altre. Hertzog e Smuts sapevano perfettamente che molti dei loro elettori simpatizzavano coi nazionalisti, e quindi opporglisi rigidamente avrebbe messo a repentaglio la delicata coalizione del Partito Unito. Sia pur con riluttanza elaborarono una controproposta che prevedeva la segregazione residenziale, che avrebbe turbato il meno possibile l'equilibrio sociale e, sanzionando legalmente una situazione che di fatto già esisteva, avrebbe pacificato il partito spuntando le armi dell'opposizione nazionalista. «Noi miriamo a mantenere le reciproche posizioni attuali», spiegò il generale Jan Smuts. Una settimana dopo tale spiegazione, una gran folla ordinata di persone di colore, a cui si erano uniti i bianchi progressisti, si raccolse pacificamente in Greeomarket Square, nel centro di Città del Capo, per manifestare il proprio dissenso circa la progettata legislazione. Altre organizzazioni, come il Partito Comunista Sudafricano, il
Congresso Nazionale Africano, i trotzkisti della Lega di Liberazione Nazionale e l'Organizzazione dei Popoli Africani, fiutarono il sangue nell'aria e i loro militanti gonfiarono le fila dei manifestanti. Sotto il palco rizzato in fretta e furia per il comizio, capelli fulvi al vento e occhi grigioverdi brillanti di giusta indignazione, stava Tara Malcomess. Al suo fianco, ma un pò più basso, ecco Hubert Langley, spalleggiato da un gruppo di suoi allievi dell'università. Fissavano l'oratore ascoltandolo incantati. « Costui è bravissimo », sussurrò Hubert. « Mi chiedo come mai non ne abbia mai sentito parlare. » « E' del Transvaal », gli spiegò uno studente che l'aveva udito. « E' uno dei principali dirigenti del Congresso Nazionale Africano nel Witwatersrand. » Hubert annuí. « Sai come si chiama? » « Gama, Moses Gama. Mosè... il nome gli si addice: colui che conduce il suo popolo fuori della cattività. » Tara pensò di aver visto di rado un uomo piú bello, nero o bianco che fosse. Era alto e snello, col viso di un giovane faraone: intelligente, nobile e fiero. « Viviamo in un'epoca di dolore e di grande pericolo », diceva Moses Gama con un timbro di voce che a Tara metteva addosso i brividi. « Un'epoca prevista nel Libro dei Proverbi. » Fece una pausa e poi allargò le mani con gesto eloquente, citando: « C'è una generazione, i cui denti sono come spade che azzannano e sbranano i poveri e i bisognosi, come se volessero sterminarli o estirparli dalla terra ». « E' magnifico! » Tara tornò a rabbrividire. « Amici, siamo noi i poveri e i bisognosi. Se ciascuno di noi resta solo, siamo deboli, e quelli dai denti affilati come spade ci divorano subito. Ma insieme siamo forti. Se ci mettiamo insieme, possiamo resistere. » Tara si unì all'applauso, battendo le mani fino a intorpidirsele, mentre l'oratore aspettava con calma che il pubblico facesse silenzio. Poi continuò. « Il mondo è come un pentolone pieno d'olio che sta scaldandosi. Quando l'olio bollirà, traboccherà, alimentando il fuoco sottostante. Le fiamme saliranno al cielo, e poi niente sarà piú come prima. Il mondo che noi conosciamo cambierà per sempre. Solo una cosa è sicura, sicura come il sorgere del sole al mattino: il futuro è del popolo, e l'Africa è degli africani! » Tara si accorse di piangere istericamente, urlando e battendo le mani. Dopo Moses Gama, gli altri oratori le sembrarono piatti e noiosi, e si irrigidí per la loro inettitudine. Ma quando lo cercò tra la folla si accorse che Moses Gama era sparito. « Un uomo come lui non può trattenersi troppo nello stesso posto », le spiegò Hubert. « Deve continuare a spostarsi per ingannare la polizia. I generali non vanno al fronte: sono troppo preziosi per essere usati come carne da cannone. Lenin torno in Russia a guerra finita. Ma stà tranquilla che risentiremo parlare di Moses Gama. » Intorno a loro la folla veniva componendo un corteo dietro una banda di quindici elementi - ogni occasione è buona per far della musica per la gente di colore del Capo - e, a file di quattro o cinque
che si tenevano sottobraccio, i dimostranti uscirono dalla piazza. La banda suonava Alabama, diffondendo un umore festoso, e la folla cantava e rideva: sembrava piú una parata che una dimostrazione. « Ordinati e pacifici », ribadivano gli organizzatori passando parola: « Niente guai, non vogliamo fastidi con la polizia. Andiamo fino al Parlamento e consegniamo una petizione al primo ministro ». Il corteo era composto di due o tremila persone, piú del previsto. Tara marciava in quinta fila proprio dietro al dottor Goollam Gool, sua figlia Cissie e gli altri leader neri. Con la banda sempre in testa, svoltarono in Adderley Street, il viale principale della città. Marciando verso il Parlamento, i ranghi s'infoltirono di bighelloni e curiosi, sicché quando i capi cercarono di svoltare in Parliament Lane erano seguiti da cinquemila persone. La colonna era lunga piú di mezzo chilometro, e metà dei dimostranti erano lí a sentire la banda e far due risate in compagnia piú che per motivi politici. Ma all'ingresso di Parliament Lane li aspettava la polizia. La via era stata barricata dai poliziotti armati di manganelli e sjambok, le lunghe fruste nere in pelle d'ippopotamo, e altre truppe si trovavano di riserva piú avanti, davanti ai cancelli del Parlamento. Il corteo dovette fermarsi alla barriera della polizia. Il dottor Gool segnalò alla banda di smettere di suonare, poi si fece avanti a parlamentare con l'ispettore bianco che comandava lo schieramento di polizia, mentre fotografi e giornalisti si affollavano intorno per prender nota delle trattative. « A nome delle persone di colore della provincia del Capo desidero presentare una petizione al primo ministro », cominciò il dottor Gool. « Dottor Gool, lei è alla testa di una dimostrazione non autorizzata e devo chiederle di disperdervi », rispose l'ispettore di polizia. Nessuno dei suoi uomini portava armi da fuoco e l'atmosfera era quasi amichevole. Un trombettista della banda emise una sonora pernacchia amplificata dallo strumento, e il funzionario sorrise all'insulto agitando l'indice come un maestro di scuola: la folla scoppiò a ridere. Era il genere di trattamento paternalistico a cui tutti erano abituati. Il dottor Gool e l'ispettore si imbarcarono in un lungo tira e molla, discutendo con calma senza badare ai frizzi della folla, finché fu deciso di chiamare un commesso parlamentare. Il dottor Gool gli consegnò la petizione e tornò indietro a parlare ai dimostranti. A questo punto molti curiosi e bighelloni si erano annoiati ed erano andati via: restava solo il nucleo originario dei manifestanti. « Amici, la petizione è stata mandata al primo ministro », disse loro il dottor Gool. « Abbiamo ottenuto quello che volevamo e ora possiamo affidarci al generale Hertzog. Essendo una brava persona, e un amico del popolo, farà sicuramente quello che è giusto. Ho promesso alla polizia che adesso andremo tutti a casa, e che non ci saranno disordini. »
« Siamo stati insultati », gridò Hubert Langley. «Non si sono nemmeno degnati di parlare con noi. » « Facciamoci sentire », gridò un altro, e si alzarono voci di consenso e dissenso. Il corteo cominciò a perdere la sua forma ordinata, per gonfiarsi e ondeggiare. « Per piacere, amici... » La voce del dottor Gool era quasi soffocata dalle grida. L'ispettore di polizia berciò un ordine e le truppe di riserva avanzarono e si schierarono dietro la barricata, coi manganelli pronti in mano, fronteggiando la testa del corteo. Per alcuni secondi ci fu confusione, poi i dirigenti prevalsero e il corteo cominciò a sciogliersi e disperdersi, tranne un nucleo duro di tre o quattrocento persone. Erano tutti giovani, bianchi e neri, molti studenti, e Tara era una delle poche donne. La polizia mosse avanti e con fermezza li allontanò dalla barricata, ma spontaneamente riformarono una banda piú ridotta e piú compatta e cominciarono a sfilare per il District Six, una zona cittadina quasi esclusivamente abitata da gente di colore, che gravitava sulle vie commerciali del centro, ma che le leggi segregazionistiche intendevano trasferire a causa della confusione e incertezza dei confini. I dimostranti piú giovani e aggressivi marciavano formando una catena, scandendo canti e slogan, e la polizia li tallonava da presso, impedendogli di tornare in centro e spingendoli verso i loro quartieri. « Africa agli africani! » gridavano marciando. « Sotto la pelle siamo tutti dello stesso colore. » « Pane e libertà. » Poi gli studenti di Hubert Langley divennero piú lirici e intonarono la vecchia canzone degli oppressi che aveva insegnato loro: Quando Adamo zappava ed Eva filava dov'erano i nobili allora, chi erano i nobili allora? Dopo, la banda si mise a suonare una canzone di protesta piú moderna: « I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore » Dopo di che tutti si lanciarono nel canto di « Nkosi sikelela Africa», Dio salvi l'Africa. Entrando nei vicoli affollati del District Six, le bande di teppisti si misero a guardare con interesse, e poi si unirono al divertimento. Si mischiarono così alla folla veri e propri delinquenti, persone che avevano conti da regolare con la legge e criminali comuni. Un mattone volò sopra le file compatte del corteo e sfondò la vetrina di un emporio gestito da bianchi, noti per i prezzi esosi e l'abitudine di non fare credito. La folla ne fu galvanizzata: una donna urlò, gli uomini cominciarono a ululare come lupi in branco. Qualcuno saltò nella vetrina e cominciò a saccheggiare abiti da uomo. Piú avanti si sentí il rumore di un'altra vetrina che s'infrangeva. La polizia strinse le fila e mosse avanti. Tara cercava disperatamente di ristabilire l'ordine, implorando i
saccheggiatori che sghignazzavano carichi di bottino e se la toglievano dai piedi a spintoni, rischiando di farla calpestare dalla folla. « Va, a casa, faccetta bianca », le gridò in faccia un teppista. « Non ti vogliamo, qui. » Poi saltò nella vetrina e abbrancò una macchina da cucire Singer. « Fermati! Mettila giú! » gli disse Tara mentre usciva dalla porta del negozio. « Così rovini tutto! Non vedi che è proprio questo che vogliono? » Si scagliò a pugni chiusi contro il petto dell'uomo, che davanti alla sua furia arretrò. Ma il vicolo era pieno di gente, teppisti, malviventi, dimostranti e passanti qualsiasi, tutti confusi, irritati e impauriti. Dall'imbocco la polizia prese a caricare, mulinando i lunghi manganelli e non risparmiando sferzate. La folla cominciò a scappare. Tara corse fuori del negozio saccheggiato proprio mentre un grosso agente in divisa blu scura stava bastonando un piccolo sarto malese che era appena riuscito a recuperare dei vestiti che gli avevano rubato. L'agente gli diede una manganellata in testa, che gli spaccò il fez rosso e lo fece cadere svenuto sul selciato. Si preparava a dargli un'altra bastonata quando Tara, senza riflettere, gli si gettò addosso. Sembrava una leonessa che difenda i cuccioli. Il poliziotto era chinato in avanti, e le dava la schiena, sicché Tara riuscí a sbilanciarlo. Ande per terra, ma Tara gli aveva afferrato il manganello, e il cinturino si strappò. Cosí a un tratto si ritrovò armata e trionfante con i nemici del proletariato, quei lacchè della borghesia in divisa blu, davanti a sé. Infatti mentre era nel negozio la carica dei poliziotti l'aveva superata, e ora le davano la schiena. I tonfi dei manganelli sulla carne e le grida terrorizzate delle vittime la fecero infuriare. Là c'erano i poveri, i bisognosi e gli oppressi, e qua gli oppressori. Qua c'era anche, col manganello in mano, Tara Malcomess. Normalmente Shasa con la Jaguar ci avrebbe messo un pò piú di mezz'ora per arrivare da Weltevreden alla guardina di Victoria Street. Ma quel pomeriggio gli occorse quasi un'ora, e tutta la sua capacità di persuasione. Un cordone di polizia vietava l'ingresso a tutti da Via dell'Osservatorio all'estremità meridionale della Grand Parade, dove sorgeva il vecchio forte. Una nube minacciosa di fumo nero si stendeva sopra il District Six slabbrandosi sul Table Bay. La polizia, ai posti di blocco, era tesa e nervosissima. « Non si passa », disse un sergente facendo chiari segni alla Jaguar. « Qui non entra nessuno. Quei bastardi neri stanno tirando mattoni e bruciando tutto. » « Sergente, mi ha appena telefonato la mia fidanzata, è rimasta bloccata lí e ha bisogno di me. E' nei guai e devo assolutamente raggiungerla, mi lasci passare. » « Gli ordini sono ordini, signore, mi spiace. » Al blocco c'erano altri sei poliziotti, di cui quattro addetti al traffico, di colore. « Sergente, cosa farebbe lei se fosse sua moglie o sua madre ad avere bisogno d'aiuto laggiú? »
Il sergente si guardò intorno, dubbioso. « Le dirò io cosa fare, signore. I miei uomini adesso apriranno il blocco per un momento, si volteranno dall'altra parte e chi s'è visto s'è visto. » Le vie erano deserte ma piene di detriti, pietre, mattoni e schegge di vetro, che crocchiavano sotto le gomme della Jaguar. Shasa andava forte, sbigottito dalle distruzioni che vedeva, stringendo gli occhi arrossati dal fumo che ogni cento metri gli celava la strada. Una volta o due distinse sagome in agguato nei vicoli, o affacciate alle finestre degli edifici non danneggiati, ma nessuno cercò di fermarlo o aggredirlo. Ciò nondimeno fu un grande sollievo per lui arrivare alla stazione di polizia di Victoria Road ed entrare sotto la protezione dei reparti celeri antisommossa concentrati in fretta e furia nel distretto. « Tara Malcomess. » Il sergente al banco d'entrata riconobbe immediatamente il nome. « La conosciamo, la conosciamo! Abbiamo dovuto sbatterla dentro in quattro quella là. » « Quali sono le imputazioni, sergente? » « Mi lasci guardare... » Consultò il registro. « Finora solo queste: manifestazione non autorizzata, danneggiamento doloso, incitazione alla violenza, oltraggio e minacce a pubblico ufficiale, aggressione sempre a pubblico ufficiale, con e senza armi improprie, e lesioni dolose. » « Sono pronto a pagare la cauzione per lei. » « Direi che le costerà caro. » « Suo padre è il colonnello Malcomess, il ministro. » « Ma perché non l'ha detto prima? Voglia attendere un momento qui, signore. » Tara aveva un occhio nero e la giacca strappata: i capelli fulvi scarmigliatissimi lampeggiarono tra le sbarre della cella quando alzò gli occhi su Shesa. « Che fine ha fatto Huey? » « Per me può arrostire all'inferno per l'eternità. » « Allora, arrostirò con lui », dichiarò Tara con ferocia. « Senza di lui io non esco di qui. » Shasa riconobbe nei suoi lineamenti di madonna l'atteggiamento testardo e sospirò. La faccenda finí per costargli cento sterline, cinquanta per Tara e cinquanta per Huey. « Ma piuttosto di dargli un passaggio mi faccio dannare », dichiarò Shasa. « Cinquanta svanziche bastano e avanzano per quel bolscevichetto del cavolo. Può tornarci a piedi, al suo covo. » Tara salí sulla Jaguar e sedette a braccia conserte, in atteggiamento di sfida. Non parlarono mentre Shasa accendeva il motore e partiva lasciando mezzo battistrada sull'asfalto. Invece di puntare verso i sobborghi meridionali dei bianchi ricchi, imboccò i primi tornanti della strada del Picco del Diavolo e si fermò a una piazzola panoramica che dava sul devastato e fumante District six. « Cosa ti salta in mente? » gli domandò Tara quando lui spense il motore. « Non vuoi dare un'occhiata a quel che hai fatto? Ne sarai certo orgogliosa. »
Si dimenò a disagio sul sedile. « Non siamo stati noi », bofonchiò. « Sono stati i teppisti e i delinquenti. » « Mia dolcissima Tara, è cosí che funzionano le rivoluzioni. Gli elementi criminali vengono incoraggiati a distruggere il sistema esistente, infrangendo la legge e l'ordine, finché si fanno avanti i capi a ristabilirlo eliminando i rivoluzionari. Non avevi studiato Lenin? » « E' stata tutta colpa della polizia. » « Sí, è sempre colpa della polizia. Lenin insegna. » « Non è come dici tu... » « Ma stà zitta! » esplose lui. « Per una volta stà zitta e ascoltami. Finora ho tollerato il tuo comportamento da Giovanna d'Arco: era stupido e ingenuo, ma l'ho sopportato perché ti amo. Ma quando ti metti a dar fuoco alle case della gente e a tirare mattoni e bombe, la faccenda non mi sembra piú tanto divertente. » «Non permetterti di assumere questo tono paternalistico con me! » sbraitò lei. « Guarda, Tara, guarda quel fumo e quegli incendi. E' la gente che dici di voler difendere, la gente che dici di voler aiutare. Sono le loro case che avete messo a fuoco. » « Io non pensavo... » « Certo che no. Ma ora ti dirò una cosa che farai bene a ricordarti sempre: se cercherai di distruggere questa terra che amo, e di far soffrire il popolo, diventerai mia nemica e ti combatterò fino alla morte. » Ella tacque a lungo, distogliendo lo sguardo da lui, e alla fine disse piano: « Adesso portami a casa, per piacere ». Fece un lunghissimo giro per Kloof Nek e la costa atlantica per evitare, girando attorno alla Table Mountain, la zona della sommossa. Non parlarono piú finché non si fermarono davanti a casa Malcomess a Newland. « Forse hai ragione », disse Tara. « Forse siamo davvero nemici. » Scese dalla macchina scoperta e lo guardò per qualche attimo, immobile al volante. « Addio, Shasa », disse sottovoce, tristemente, ed entrò in casa. « Addio, Tara », sussurrò lui. « Addio, diletta nemica. » Tutti i Courteney erano riuniti nel salone di Weltevreden. Sir Garry e Anna sedevano sul lungo divano, ricoperto di tessuto damascato a strisce in stile Regency. Erano venuti dal Natal per il compleanno di Sir Garry, e la settimana prima avevano fatto la tradizionale escursione sulla Table Mountain per il picnic. Era stata una lieta occasione, ed era venuto anche il generale Smuts, l'Ou Baas, come faceva quasi tutti gli anni. Sir Garry e Lady Anna contavano di tornare a casa qualche giorno prima, ma la terribile notizia dell'invasione della Polonia da parte dei tedeschi li aveva indotti a trattenersi a Weltevreden ancora un pò. In quei giorni cupi, la famiglia sentiva il bisogno di restare unita. I due si tenevano per mano come sposini. Dall'ultimo compleanno, a Sir Garry la barbetta caprina s'era imbiancata. Era forse un'inconscia imitazione del suo vecchio amico, il generale Smuts.
Aumentava la sua aura professorale, e aggiungeva ai suoi pallidi e fini lineamenti un tocco di distinzione. Si chinò leggermente in avanti sul divano, verso sua moglie, tendendo però l'orecchio alla radio che Shasa Courteney stava manovrando alla ricerca della stazione. « La BBC è sulla banda dei quarantun metri », gli disse secca Centaine, dando un'occhiata all'orologio tempestato di brillanti. « Cerca di sbrigarti, chéri, se no perdiamo la trasmissione. » « Ah! » sorrise Shasa al cessare delle scariche e al risuonare netto del Big Ben. Quando questo smise di echeggiare, l'annunciatore parlò. « Al posto del giornale radio trasmettiamo una dichiarazione del primo ministro Neville Chamberlain... » « Alza, chéri », ordinò ansiosamente Centaine; e le fatali parole, gravi e misurate, rimbombarono nell'elegante sala. Tutti ascoltavano in silenzio. La barba di Sir Garry vibrava, e a un certo punto egli si tolse gli occhiali e cominciò a morderne una stanghetta. Accanto a lui Anna si agitava sul sofà, dimenando le coscione sotto il suo stesso peso. Il suo viso assumeva gradualmente tonalità piú intense di rosso mattone, e la sua stretta sulla mano del marito aumentava mentre fissava la radio di mogano. Centaine sedeva nella poltrona accanto al camino. Sembrava una ragazzina, con l'abito estivo bianco e la cintura di seta gialla alla vita sottile. Aveva trentanove anni, ma non un capello bianco: la sua carnagione era ancora perfetta, se non per qualche rughina agli angoli degli occhi che costosissime creme ammorbidivano al massimo. Teneva il gomito appoggiato al bracciolo, toccandosi la guancia con l'indice, e non distoglieva un attimo lo sguardo da suo figlio. Shasa andava su e giú per la stanza, dalla nicchia della radio alle tende, sul parquet cosparso di preziosi tappeti orientali. Arrivava al grande pianoforte a coda accanto alla libreria, dall'altra parte della stanza, poi si girava e a grandi falcate nervose tornava all'apparecchio, con le mani dietro la schiena e la testa china, assorto nelle sue meditazioni. Centaine pensava che somigliava moltissimo a suo padre. Benche Michael fosse stato piú vecchio e non cosí bello, aveva tuttavia la stessa grazia: ricordò come avesse creduto che Michael fosse immortale, un giovane dio, e risentí il terrore irromperle nell'anima lo stesso terrore irresistibile e straziante di allora - mentre ascoltava la radio snocciolare parole di guerra nella magnifica casa che si era costruita, come una fortezza contro il mondo. « Non si è mai al sicuro, non c'è rifugio », penso. « Scoppia di nuovo la guerra e non si può salvare chi si ama. Shasa e Blaine... partiranno entrambi e non potrò trattenerli. L'ultima volta, morirono Michael e papà: stavolta può toccare a Shasa e Blaine. Dio, Dio, quanto la odio! Odio la guerra e odio gli uomini malvagi che la fanno. Per favore, Dio, risparmiaci stavolta. Hai preso Michael e papà, per favore risparmia Shasa e Blaine. Sono tutto quello che ho: per favore, non portarmeli via! » La voce lenta e profonda echeggiava nella sala, e Shasa, al cen-
tro, gelava. Si voltò a guardar l'apparecchio mentre la voce diceva: « E' quindi con profondo dolore che debbo informarvi che Gran Bretagna e Germania si trovano ora in stato di guerra. » La trasmissione terminò e fu seguita da tristi brani di musica da camera. « Spegni, chéri », disse piano Centaine, e nella sala cadde il silenzio. Per parecchi secondi nessuno si mosse. Poi di colpo Centaine si alzo in piedi. Sorrise allegramente prendendo sottobraccio Shasa. « Gente, il pranzo è pronto », gridò gaia. « Con un tempo così bello mangeremo in terrazza. Shasa aprirà una bottiglia di champagne, e sappiate che son riuscita a procurarmi le prime ostriche della stagione. » Continuò su questo tono finché furono tutti seduti a tavola con le coppe in mano, e a un tratto l'allegria forzata le scivolò di dosso come un sudario. Si rivolse a Sir Garry con un'espressione tormentata in viso. « Noi non c'entriamo, vero, papà? Il generale Hertzog ha promesso di tenerci fuori. Ha detto che è una guerra inglese. Non dovremo mandarci i nostri uomini, stavolta no, vero, papà? » Sir Garry le prese la mano. « Tu e io sappiamo qual è stato il prezzo l'altra volta... » La voce gli si ruppe e non riuscí a nominare Michael. Dopo un momento si riprese. « Vorrei poterti dare conforto, mia cara. Vorrei poterti dire quello che vuoi sentire. » « Non è giusto », disse infelicemente Centaine. « Non è affatto giusto! » « Non è giusto, sono d'accordo con te. Però all'estero impazza una mostruosa tirannia, un gran male che inghiottirà anche noi e il nostro mondo, se non vi resistiamo. » Centaine saltò in piedi e corse in casa. Shasa fece per seguirla, ma Sir Garry lo trattenne per un braccio, e dieci minuti dopo Centaine tornò. Si era lavata il viso e rifatta il trucco e sorrideva, ma nei suoi occhi scoccavano lampi febbrili nel prender posto a capotavola. « Stiamo allegri », rise. « E' un ordine. Niente lagne, niente pensieri né parole lugubri... saremo tutti contenti... » s'interruppe e smise di sorridere, perché era stata proprio sul punto di dire: « poiché potrebbe essere l'ultima volta che ci capita di esserlo tutti insieme ». Il 14 settembre 1939, il giorno dopo la dichiarazione di guerra alla Germania nazista da parte di Gran Bretagna e Francia, il generale Barry Hertzog si alzò a parlare in Parlamento ai deputati dell'Unione Sudafricana. « Ho il triste e doloroso dovere di informarvi che il governo è diviso sulla posizione che il nostro paese debba prendere in relazione allo stato di guerra attualmente esistente tra Gran Bretagna e Francia da una parte e Germania dall'altra. » Fece una pausa e si tolse gli occhiali per scrutare i volti dei suoi vicini sul banco del governo, e poi prosegui gravemente. « E' mia ferma opinione che l'ultimatum rivolto alla Germania
dal governo britannico a proposito dell'occupazione della Polonia da parte della Wehrmacht non sia assolutamente vincolante per il nostro paese, e che l'occupazione tedesca della Polonia non costituisca una minaccia alla sicurezza dell'Unione Sudafricana... » Dai banchi dell'opposizione si levarono grida di approvazione e il dottor Daniel Malan, con la sua faccia di rana occhialuta, sorrise benevolmente mentre sui banchi del governo Smuts e i suoi sostenitori esprimevano altrettanto rumorosamente la loro protesta. « Si tratta di una vertenza locale tra Germania e Polonia », proseguì Hertzog, « che non dà a questo paese la minima ragione di unirsi alla dichiarazione di guerra della Gran Bretagna. Propongo quindi che il Sudafrica rimanga neutrale; che ceda alla Gran Bretagna la base navale di Simonstown, ma sotto ogni altro aspetto mantenga con tutti i belligeranti i rapporti consueti, come se non fosse in corso alcuna guerra. » Il primo ministro, per quanto cominciasse ad avere i suoi anni, era un oratore fluido e persuasivo, e mentre continuava a sostenere le ragioni della neutralità Blaine Malcomess, in prima fila sui banchi del governo, spiava le reazioni dei sostenitori di Smuts che gli sedevano accanto. Sapeva quali erano altrettanto decisi di lui e dell'Ou Baas a schierarsi con la Gran Bretagna, e quali erano incerti. Mentre Hertzog continuava a parlare, sentì crearsi in aula un'opinione a lui favorevole, e amaramente previde, tra incredulo e vergognoso, la decisione ignominiosa che il Parlamento stava per votare. L'ira tenne dietro alla vergogna montante. Il generale Hertzog stava ancora parlando, e Blaine ascoltandolo con un orecchio solo scribacchio un bigliettino e lo fece arrivare all'Ou Baas. Ma ecco che la sua attenzione si concentrò di nuovo tutta su quello che stava dicendo il primo ministro. « Infine, venendo agli aspetti morali dell'invasione tedesca della Polonia, bisogna dire che essa è giustificabile se si pon mente a considerazioni di sicurezza dello stato tedesco... » Blaine si sentì insorgere e palpò, piú che vedere, l'improvviso cambiamento degli umori in chi aveva già cominciato a pencolare verso la neutralità. « Ha esagerato », scrisse Blaine su un altro foglio del taccuino. « Sta difendendo l'aggressione hitleriana: abbiamo vinto. » Passò il bigliettino al generale Smuts, che lo lesse e annuì leggermente prima di alzarsi a illustrare la faccia opposta della questione. « La Gran Bretagna è una potenza amica, anzi la nostra piú vecchia e cara amica: dobbiamo schierarci con lei fino in fondo », disse con la sua vocetta acuta, arrotando le erre col suo tipico raglio. « Lungi dall'essere una vertenza locale, l'invasione della Polonia ha conseguenze che vanno ben oltre Danzica e il suo corridoio, e raggiungono l'anima e il cuore degli uomini liberi di tutto il mondo. » Quando alla fine la mozione, per la guerra o la neutralità, fu messa ai voti, i nazionalisti del dottor Malan votarono in massa per la neutralità, mentre un terzo del partito di Hertzog (compresi tre ministri in carica) segui la sua indicazione.
Tuttavia la giornata vide vittoriosi Smuts e i suoi - Reitz, Malcomess, Stuttford e gli altri -, col ristretto margine di ottanta voti contro sessantasette: il Sudafrica dichiarò guerra alla Germania nazista. Nel disperato tentativo di rovesciare la decisione il generale Hertzog invocò lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, ma il governatore generale Sir Patrick Duncan rifiutò accettando invece le dimissioni del primo ministro. Il generale Jan Christian Smuts fu invitato a formare il nuovo governo conducendo la nazione in guerra. « L'Ou Baas non mi lascerà andare », disse amaramente Blaine. Centaine gli corse incontro in punta di piedi e l'abbracciò nel loro rifugio d'amore. « Oh, meno male, meno male, Blaine! Grazie a Dio non andrai in guerra! Ho tanto pregato ed Egli mi ha esaudita. Non potrei sopportare di perdervi entrambi, tu e Shasa... non soprawivrei... » « Non sono affatto fiero di restare a casa mentre gli altri partono. » « Hai già combattuto una volta, coraggiosamente, senza risparmiarti », gli disse. « Sei mille volte piú utile qui che morto in qualche campo di battaglia in terra straniera. » « L'Ou Baas me ne ha convinto », sospirò lui. Circondandole la vita col braccio la portò in soggiorno, e lei capi che stanotte, per una volta, non avrebbero fatto l'amore. Era troppo turbato. Stanotte avrebbero solo parlato, ed era suo dovere ascoltarlo mentre lui le riversava addosso tutte le sue paure, i suoi dubbi e i suoi rimpianti. Lo sfogo uscí in un groviglio senza capo né coda, mentre ella gli sedeva vicino ascoltando tranquillamente e lui la stringeva ogni tanto con affetto. « La nostra posizione è quanto mai precaria. Come si può dichiarare una guerra con una maggioranza di soli tredici voti, davanti a un'opposizione che odia l'Ou Baas e quella che chiamano "la guerra inglese"? Ci boicotteranno a ogni passo, mentre anche il popolo è gravemente diviso. Abbiamo nemici interni pericolosi come i nazisti; l'Ossewa Brandwag, le Camicie Nere e le Camicie Grigie, il Deutsche Band nell'Africa di Sudovest: ci troviamo in una tenaglia di nemici. » Gli versò un altro whisky e soda e gli mise vicino la bottiglia di cristallo. Quella sera era il secondo bicchiere, e non gliel'aveva mai visto bere prima d'allora. « Pirow ci ha traditi. Adesso è passato dalla loro parte, ma per anni e anni ha ricoperto posizioni di fiducia con noi. » Oswald Pirow era stato ministro della Difesa del governo Hertzog. « Gli abbiamo dato cinquantasei milioni da spendere per costituire un esercito moderno, ma lui ce ne ha proditoriamente fornito uno di cartone. Abbiamo sempre creduto ai suoi rapporti e alle sue assicurazioni, ma adesso che non è piú ministro scopriamo che ci ha lasciato senza armi moderne, con un pugno di vecchi carri armati e degli aerei da museo, e un esercito di neanche centocinquantamila uomini. Pirow ha rifiutato di armare la nazione per una guerra che lui e
Hertzog erano ben decisi a non farci combattere. » La notte passava, ma nessuno dei due aveva la minima voglia di dormire. Quando Blaine rifiutò un terzo whisky, Centaine andò in cucina a fare il caffè e lui la seguì. Mentre aspettavano che l'acqua bollisse, l'abbracciò da dietro stringendola forte. « Il generale Smuts mi ha affidato il ministero degli Interni nel nuovo governo. Una delle ragioni per cui ha scelto me è che ho presieduto a suo tempo la commissione d'inchiesta sui'Ossewa Brandwag e le altre organizzazioni sovversive. Sarà mio compito impedir loro di boicottare i nostri preparativi bellici. L'Ou Baas si è tenuto il ministero della Difesa, e ha già promesso all'Inghilterra un'armata di cinquantamila volontari pronta a combattere dovunque in Africa. » Presero il caffè in soggiorno e mentre Centame lo versava il telefono squillò, facendoli sobbalzare: le tazze si rovesciarono. « Che ora è, Blaine? » « L'una meno dieci. » « Io non rispondo. Lasciamolo suonare », disse Centaine fissando l'insistente strumento, ma Blaine si alzò. « Solo Doris sa che sono qui », le disse. « Ho dovuto informarla, nel caso che... » Non dovette dire altro. Doris era la sua segretaria e ovviamente doveva sapere dove rintracciarlo. Centaine sollevò la cornetta. « Parla la signora Courteney», disse. Ascoltò un attimo. « Sì, Doris, è qui. » Passò il telefono a Blaine e si allontanò. Lui rimase in ascolto qualche minuto e poi disse con calma: « Grazie, Doris, sarò li tra venti minuti ». Riappese e guardò Centaine. « Mi spiace, Centaine. » « Ti do il soprabito. » L'aiutò a infilarselo e glielo abbottonò mentre lui le diceva: « Si tratta di Isabella ». Vide la sua sorpresa e continuò: « C'è il dottore da lei, e mi ha fatto chiamare. Doris non mi ha detto altro, ma dev'essere una cosa grave ». Quando Blaine fu uscito, Centaine portò caffettiera e tazze in cucina e si mise a lavarle. Di rado si era sentita così sola. Il cottage era freddo e silenzioso, e non riusciva a dormire: tornò in soggiorno e si mise ad ascoltare l'Aida di Verdi sul grammofono. Era sempre stata la sua opera preferita, e rimase a sentirne le mirabili arie cedendo ai ricordi del passato che destavano in lei, Michael, Mort Homme e l'altra guerra di tanto tempo prima. L'inondò la malinconia. Alla fine si addormentò in poltrona, raggomitolata nella vestaglia, e il telefono la destò di soprassalto. Rispose ancora mezzo addormentata. « Blaine! » Aveva riconosciuto subito la voce. « Che ore sono? » « Le quattro passate. » «C'è qualcosa che non va, Blaine? » Adesso era sveglia del tutto. « Isabella », le disse. « Ha chiesto di te. » « Di me? » Centaine era confusa.
« Vuole che tu venga qui. » « Ma non posso, Blaine, lo sai bene » « Sta morendo, Centaine. Dice il dottore che non dura fino a stasera. » « Oh, Dio, Blaine, come mi dispiace! » Scoprì meravigliandosi che le dispiaceva davvero. « Povera Isabella... » « Verrai? » « Tu vuoi che venga, Blaine? » « E' la sua ultima richiesta. Se glielo rifiutiamo, il fardello della nostra colpa sarà piú pesante da portare. » « Allora vengo subito », disse e riappese. In pochi minuti si lavò la faccia, si cambiò e si truccò leggermente. Percorse in macchina le strade semideserte e arrivò alla grande casa di Blaine in Newland Avenue, l'unica con le luci accese. Le venne incontro sulla porta e non l'abbracciò, ma disse solamente: « Grazie, Centaine ». Solo allora si accorse che dietro di lui, in piedi nell'atrio, stava Tara. « Ciao, Tara », la salutò. La ragazza aveva pianto. I suoi grandi occhi grigi erano gonfi e arrossati, e aveva la faccia cosí pallida che la chioma fulva sembrava bruciare come una boscaglia in fiamme. « Mi dispiace molto per tua madre. » « Non è affatto vero », ribatté Tara con un'espressione freddamente ostile, che subito crollò: tra i singhiozzi corse via, e si sentì una porta sbattere in fondo al corridoio. «E' molto sconvolta», le disse Blaine. «Ti chiedo scusa per lei. » « Capisco », disse Centaine. « So che in parte me lo merito. » Lui scosse la testa, negandolo, ma le disse soltanto: « Per favore, seguimi ». Salirono lo scalone semicircolare affiancati e Centaine gli chiese sottovoce: « Che cos'ha, Blaine? » « Degenerazione della colonna vertebrale e del sistema nervoso, un processo in corso da anni. Adesso le è venuta la polmonite e non ce la farà a resistere. » « Soffre? » chiese Centaine. « Si », le rispose. « Ha sempre sofferto moltissimo, piú di quanto una persona normale riuscirebbe a sopportare. » Percorsero il corridoio ampio e coperto di tappeti fino all'ultima porta, che Blaine aprì dopo avere bussato. « Avanti, prego. » La stanza era grande e tappezzata in tinte riposanti, verde e blu. Le tende erano tirate e una lampada da notte diffondeva una luce fioca dal comodino. L'uomo al capezzale era certo il dottore. Blaine guidò Centaine al gran letto matrimoniale e benché avesse cercato di prepararsi lei sussultò alla vista che le si presentava. La donna appoggiata sui cuscini sembrava già un cadavere. Ricordava la serena, dolce bellezza di Isabella Malcomess. Adesso era un teschio che la fissava dalle orbite infossate, col lampo giallastro dei denti scoperti dal rictus delle labbra: uno spettacolo quasi osceno. L'effetto era accresciuto dalla nuvola fulva dei capelli ancora magnifici.
« E' stata gentile a venire. » Centaine dovette avvicinarsi un altro pò al letto per udire quella fievolissima voce. « Sono venuta appena ho saputo che voleva vedermi. » Il dottore intervenne con gravità: « Può trattenersi solo pochi minuti, la signora Malcomess deve riposare ». Ma Isabella agitò la mano con impazienza, e Centaine vide una specie di zampa d'uccello coperta di pelle grinzosa e giallastra tutta percorsa da una rete di venuzze azzurre. « Voglio parlarle in privato », sussurrò. « La prego di uscire, dottore. » « Per piacere, non stancarti, cara », le disse Blaine. La sua gentilezza nei confronti della moribonda inferse a Centaine una fitta di gelosia che non riuscí a celare. Blaine e il dottore uscirono tranquillamente, e chiusero la porta facendo scattare la maniglia. Per la prima volta le due rivali si ritrovavano sole, a faccia a faccia. Ormai da tanti anni quella donna pesava sulla vita di Centaine, costringendola a provare i piú bassi sentimenti: invidia, gelosia, rabbia e astio. Ma ora che si trovava al suo letto di morte tutto questo non esisteva piú. Provava solo una gran de pietà. « Avvicinati, Centaine », le sussurrò Isabella, con un debole gesto della mano malridotta. « Faccio fatica a parlare. » D'impulso Centaine si inginocchiò accanto al letto, cosí che i loro occhi erano vicinissimi. Provò un gran bisogno di pentirsi di tutta l'infelicità che le aveva causato, e di chiederle perdono, ma fu Isabella a parlare. « Ho detto a Blaine che volevo far la pace con te, Centaine. Gli ho detto che capivo che non avete potuto fare a meno di innamorarvi, e mi rendevo conto che avete cercato di risparmiarmi il piú possibile. Gli ho detto che sapevo che tu non sei stata crudele, perché anche se potevi indurlo ad abbandonarmi, non hai mai voluto arrecarmi questa estrema umiliazione: anche se non ero piú una donna, mi hai consentito di mantenere le ultime vestigia della mia dignità. » Centaine si sentí inondare dalla compassione. Le vennero le lacrime agli occhi. Voleva prendere tra le braccia quella povera creatura moribonda, ma qualcosa che vide negli occhi di Isabella glielo impedí: una luce fiera e orgogliosa che ancora vi ardeva, davanti alla quale Centaine si limitò ad abbassare il capo in silenzio. « Ho detto a Blaine che gli hai dato la felicità che io non potevo dargli, ma nonostante questo, per generosità, mi hai lasciato una parte di lui. » « Oh, Isabella, non so come dirti... » La voce di Centaine tremava. Isabella la fece tacere con un gesto. Sembrò raccogliersi per qualche enorme sforzo. Un pò di colore le tornò sulle guance, e la fierezza le lampeggiò negli occhi. Il respiro le si fece piú rapido e quando tornò a parlare la sua voce era piú aspra e forte. « Gli ho detto tutte queste cose per indurlo a farti venire qui. Se avesse scoperto le mie vere intenzioni, non ti avrebbe certo chiamata. » Alzò la testa dal cuscino e la sua voce diventò un sibilo di serpente. « Adesso posso dirti quanto ti ho odiato, tutte le ore di tutti
questi lunghi, lunghi anni: posso spiegarti che è stato l'odio a tenermi in vita finora, per impedirti di averlo per marito, e ora che sto morendo quest'odio è aumentato cento volte... » S'interruppe ansimando per riprender fiato, e Centaine arretrò sotto il suo sguardo. Capì che Isabella era stata condotta alla follia dalla lunga e atroce agonia che aveva patito, dalla diuturna corrosione dell'odio e della gelosia. « Se la maledizione di una morente ha qualche efficacia », riprese Isabella, « allora io ti maledico, Centaine Courteney, col mio ultimo respiro. Che tu possa provare la stessa tortura che mi hai inflitto, e conoscere il dolore come l'ho conosciuto io. Il giorno che andrai all'altare con mio marito io ti raggiungerò dall'oltretomba... » « No! » proruppe Centaine, balzando in piedi, e arretrando in direzione della porta. « Fermati, ti prego! Taci! » Isabella scoppiò in una risata acutissima e isterica. « Che tu sia maledetta, e possa questa maledizione isterilire la vostra passione adulterina. Maledico ogni momento che passerete insieme quando io non ci sarò piú. Maledico il seme che ti pianterà nel ventre, maledico ogni bacio, ogni tocco... maledico te e maledico la tua proienie, maledico tutto quello che ti riguarda. Occhio per occhio, Centaine Courteney! Ricorda queste parole: occhio per occhio! » Centaine corse alla porta e la spalancò, irrompendo in corridoio. Blaine stava salendo le scale precipitosamente. Cercò di prenderla tra le braccia, ma lei si sottrasse con violenza e scappò fuori, dove aveva parcheggiato la Daimler. Guidò per ore e ore, con l'acceleratore a tavoletta, facendo rombare al massimo il grosso motore da 7000 cc di cilindrata, lasciandosi dietro un'alta colonna di polvere nel cielo dell'alba, prima di rendersi conto che stava tornando inconsapevolmente al deserto, alle colline mistiche che i piccoli boscimani chiamavano Il Posto di Tutta la Vita. Passarono due mesi prima che Centaine tornasse dal Kalahari. Per tutto quel tempo aveva reso vano ogni sforzo di Blaine di mettersi in contatto con lei, non rispondendo alle lettere né alle telefonate che le faceva presso Abe Abrahams o Twentyman-Jones. Lesse sul giornale la notizia della morte di Isabella Malcomess due settimane dopo la pubblicazione, alla miniera H'ani: anche i quotidiani accrescevano il suo senso d'isolamento e il timore dei disastri e delle tragedie che la maledizione di Isabella sul letto di morte aveva rovesciato su di lei. Alla fine tornò a Weltevreden solo per insistenza di Shasa. Quando arrivò, aveva la chioma infarinata di polvere del deserto ed era abbronzata, ma esausta e ancora abbattutissima. Shasa doveva aver ricevuto il suo telegramma e difatti l'aspettava. Ma non l'accolse sui gradini dell'ingresso, anche se doveva aver sentito il rombo della Daimler che si avvicinava. Capí il perché quando lo trovò, in studio, e si voltò dalla finestra da cui aveva assistito al suo arrivo andandole incontro. Era in divisa. Si fermò agghiacciata sulla soglia. Lo guardava venirle incontro,
e la memoria la riportava ad anni lontani, a un altro incontro con un giovane alto e bellissimo che indossava la stessa divisa kaki, con la cintura lustra e la bandoliera diagonale, il berretto di traverso e sul petto le ali dell'aviatore. « Grazie a Dio sei venuta, mamma », l'accolse Shasa. « Dovevo vederti prima di partire. » « Quando!? » esclamò lei, disperata. « Quando parti? » « Domani.» « Dove? Dove ti mandano? » « Prima a Roberts Heights », le disse - era il campo d'addestramento degli aviatori, nel Transvaal -, « per imparare a pilotare i caccia, e poi dovunque mi manderanno. Augurami buona fortuna, mamma. » Vide le mostrine arancione che distinguevano i volontari che si offrivano di combattere anche in terra straniera. « Sì, tesoro, ti auguro buona fortuna », disse, sapendo che a vederlo partire le si sarebbe spezzato il cuore. Il rombo del motore, un Rolle Royce Merlin, gli rintronava la testa benché avesse la cuffia della radio sul casco di cuoio da pilota. Il tetto dell'abitacolo dell'Hawker Hurricane, il suo caccia, era aperto, e quindi il vento relativo gli soffiava in testa, ma poteva godere di una vista ininterrotta dell'azzurro cielo africano che lo circondava. I tre caccia volavano in formazione a freccia. La vernice mimetica (color delle dune del deserto) non riusciva a confondere le linee della sagoma slanciata e mortale. Shasa guidava la formazione. La sua promozione era stata immediata. Gli veniva spontaneo comandare, aveva imparato bene la lezione da Centaine Courteney. Per diventare comandante di squadriglia gli erano bastati diciotto mesi. Pilotava in camiciola kaki, calzoncini e velskoen, ai piedi, perché d'estate in Abissinia faceva un caldo da morire. Alla cintura aveva una pistola d'ordinanza Webley, arma piuttosto arcaica per il pilota di un moderno caccia, ma avevano cominciato a portarle da quando lo spionaggio aveva fatto circolare quelle atroci fotografie. Un'unità di recupero motorizzata era incappata in un villaggio tra le montagne dove gli shulta, i banditi abissini, avevano abbattuto e catturato due piloti sudafricani. I piloti erano stati affidati alle donne del villaggio. Per prima cosa li avevano castrati, poi scuoiati con ferri roventi e sbudellati così abilmente che erano ancora vivi mentre gli strappavano le viscere. Infine gli avevano spezzato le mascelle con dei rami di rovo e nella bocca aperta avevano urinato le donne, affogandoli. Così adesso tutti i piloti portavano la pistola, per difendersi o comunque non farsi catturare vivi. Quel giorno l'aria era chiara e serena, il cielo impeccabilmente azzurro. La visibilità era sconfinata. Sotto di loro si stendeva l'altipiano abissino, corrugato di precipiti ambe, le montagne enormi dalla cima piatta solcate da profondissime gole buie: roccia e deserto arido e brunastro come il mantello di un vecchio leone malconcio. I tre caccia cabrarono, prendendo quota. Erano decollati pochi
minuti prima dal campo d'aviazione avanzato di Yirga Alem rispondendo a un debole ma disperato appello radiofonico della fanteria. Shasa aveva puntato verso nord individuando ben presto il sottile filo bianco della strada che serpeggiava tra le montagne molto sotto di loro. Immediatamente dopo la cabrata; riprese a scrutare il cielo da ogni parte come fanno i piloti dei caccia, senza fermarsi mai né consentirsi di guardar vicino, muovendo la testa da tutte le parti con ritmo rapido e regolare. Così, fu il primo a vederli. Erano macchioline nere perdute nell'azzurro così intenso da far male agli occhi. « Braccio di Ferro a Spinaci, Braccio di Ferro a Spinaci », gracchiò nel microfono della radio. « A ore undici apparecchi nemici, piú di dieci, sembrano Caproni. Buster! Buster! » Era l'ordine di dar tutto gas. « Li ho visti », rispose immediatamente David Abrahams. Era straordinario che fossero riusciti a restare insieme, dai giorni dell'addestramento a Roberts Heights, per tutte le traversie della campagna dell'Africa Orientale, fino ad ora che combattevano col South African Corps di Dan Pienaar respingendo gli italiani del duca d'Aosta tra le montagne verso Addis Abeba. Shasa gli diede un'occhiata. David gli si era affiancato a destra. Anche lui aveva l'abitacolo aperto, e si scambiarono un sorriso. Il gran naso a becco di David era tutto rosso e scorticato dal sole: i cinturini dell'elmetto di cuoio pendevano slegati sotto il mento. Era una bella sensazione averlo a fianco. Poi entrambi chiusero l'abitacolo preparandosi all'attacco e guardarono avanti. Shasa guidò la formazione in un'ampia virata, cabrando verso il sole, la classica tattica dei caccia. Le macchioline frattanto si erano trasformate nelle sagome familiari dei trimotori Caproni. Erano proprio bombardieri nemici. Shasa ne contò dodici, quattro cunei di tre. Stavano dirigendosi come al solito verso il bivio di Keren, dove l'avanzata sudafricana era imbottigliata al passo tra le alte pareti delle ambe. Proprio in quel momento Shasa vide le bombe cadere dai bombardieri di testa. Sempre a tutto gas, i motori Rolle Royce urlarono di protesta nell'affrontare la cabrata verso il sole che avrebbe dovuto proteggerli abbagliando i cannonieri italiani. Shasa picchiò lanciandosi all'attacco con una scivolata d'ala. Adesso vedeva gli scoppi delle bombe, fontanelle di polvere bigia che si aprivano tutt'intorno all'incrocio stradale, tra i veicoli incolonnati come formichine nella profonda gola. Quei poveri disgraziati laggiú stavano prendendo una bella grandinata. Mentre i caccia picchiavano, la seconda ondata di bombardieri cominciò a scaricare le bombe. Sembravano grosse uova grige con le pinne, e scendevano con apparente lentezza, mentre Shasa ispezionava per l'ultima volta tutto il cielo alla ricerca di eventuali caccia italiani in agguato. Ma l'azzurro era impeccabile ed egli tornò a concentrare lo sguardo sul mirino. Scelse il Caproni che guidava la terza ondata, sperando che il
suo attacco disturbasse il puntamento delle bombe. Manovrando delicatamente la cloche, fece fluttuare il muso azzurro e argentato del Caproni nel mirino, inquadrandolo. Era arrivato a trecento metri ma non sparò ancora. Ormai distingueva le insegne sulla fusoliera, i fasci di Roma imperiale. I due piloti del bombardiere guardavano in basso i bersagli. La mitragliatrice binata nella torretta girevole era puntata all'indietro. Duecentocinquanta metri. Adesso vedeva il mitragliere. Gli presentava l'elmetto e le spalle, guardando da tutt'altra parte. Non si erano ancora accorti delle macchine mortali che si scagliavano fragorosamente su di loro da ore una, ossia dall'alto e da destra. Duecentoventi metri. Ormai Shasa vedeva il fumo dello scappamento uscire dai motori dell'apparecchio nemico. Il mitragliere era sempre ignaro di quanto incombeva su di lui. Duecento metri. Vide aprirsi il portellone inferiore. Il bombardiere si apprestava a vomitare il suo carico di morte. Adesso Shasa distingueva addirittura i bulloni sulla fusoliera argentea e le grandi ali dipinte d'azzurro. Tenne ferma tra le ginocchia l'impugnatura del congegno di puntamento e tolse la sicura alle mitragliatrici Browning alari. Centosettanta metri. Cambiando impercettibilmente rotta con la pedaliera, fece scorrere il mirino sulla fusoliera del Caproni. Mirò, accigliandosi per la concentrazione, col labbro inferiore tra i denti. Ed ecco che un rosario di perline incandescenti gli sfilò davanti al muso dell'aereo. Il mitragliere del secondo Caproni si era infine accorto di lui e gli aveva spedito una raffica. Centocinquanta metri. Il mitragliere e i piloti del primo apparecchio, avvertiti, l'avevano individuato. La torretta con le due canne girava freneticamente cercando di prenderlo di mira. Nel mirino Shasa vedeva la faccia livida di terrore del mitragliere di coda. Cento metri. Sempre accigliato, Shasa schiacciò col pollice il pulsante di tiro. L'Hurricane cominciò a vibrare per il rinculo delle otto Browning, che frenarono il caccia proiettando Shasa contro le cinghie che lo assicuravano al sedile. Fiumi di pallottole traccianti, bianchi e vibranti di scintille, si abbatterono sul Caproni, mentre Shasa controllava il puntamento correggendo la mira con rapidi tocchi dei comandi. Il mitragliere italiano non riuscí a sparare. La cabina trasparente si disintegrò e il fuoco concentrato lo fece a pezzi. Mezza testa e un braccio volarono via come quelli di una bambola di pezza, perdendosi nella scia. Immediatamente Shasa puntò altrove le mitragliatrici, mirando ai cerchi d'argento delle eliche e all'attaccatura delle ali, punti deboli del Caproni. Il nitido profilo dell'ala si dissolse come cera di candela. Glicerina e carburante vaporizzato sprizzarono dal motore a fasci liquidi, e l'ala cominciò lentamente a svellersi dalla carlinga, arretrando, finché a un tratto si staccò e si mise a precipitare fluttuando come una foglia morta. Il bombardiere si rovesciò e andò giú in vite piatta, sbilanciato dall'ala mancante, diffondendo per il cielo tracce zigzaganti di fumo, fiamme e vapore. Shasa dedicò tutta la sua attenzione alla formazione successiva.
Virò a tutto gas e l'Hurricane urlò vuotandogli il cervello di gran parte del sangue e oscurandogli la vista. Tese i muscoli dell'addome e strinse i denti per resistere all'accelerazione e tornò in sè in linea col Caproni successivo, puntandogli dritto contro. I due apparecchi si caricavano a velocità terrificante. Il muso del Caproni si gonfiò istantaneamente riempiendo tutta la visuale di Shasa, che sparò a bruciapelo e cabrò rimbalzando come un sasso sull'acqua sulla bolla d'aria compressa che si era formata tra i due corpi. Tornò poi all'attacco con furore, rompendo le formazioni italiane e disperdendole per il cielo, virando e picchiando e sparando finché, con l'immediatezza caratteristica del combattimento aereo, a un tratto non vide piú apparecchi nemici intorno a sé. Era solo nell'immensità azzurra e vuota del cielo, e sudava per reazione all'adrenalina. Stringeva la leva dei comandi con tanta forza da farsi male alle nocche. Tolse gas e diede un'occhiata all'indicatore. Quei pochi istanti di combattimento gli avevano vuotato mezzo serbatoio. « Braccio di Ferro a Spinaci. Ricostituire la formazione. » Gli risposero subito. « Capo, parla il numero tre. » Era il giovane Le Roux del terzo caccia. « Ho appena la benzina per tornare. » « Va bene, torna alla base da solo, allora », ordinò Shasa. Poi tornò a chiamare. « David, David, mi senti? » Scrutava il cielo alla ricerca dell'apparecchio di David, in preda ai primi dubbi atroci. « Rispondi, rispondi », ripeté, e guardò in basso, cercando a terra la nuvola di fumo dell'apparecchio precipitato. Ma sentì in cuffia la risposta di David e gli batté il cuore « Capo, qua numero due, sono stato danneggiato. » « David, dove cavolo sei? » « Circa dieci miglia a est del bivio di Keren, a duemila metri di quota. » Shasa perlustrò il quadrante orientale e quasi subito distinse una specie di piuma fatta di fumo appena sopra l'orizzonte azzurro, in direzione sud. « Vedo del fumo, David. C'è un incendio? » « Sí, al motore. » « Resisti che arrivol » Shasa virò a tutto gas e in breve si trovò a volare sopra David. Ma non lo distingueva piú sullo sfondo della terra. « E' grave, David? » « Eh, abbastanza », disse David, laconico. Ed ecco che davanti a se Shasa individuò l'Hurricane in fiamme. Volava di traverso, in modo da allontanare le fiamme dall'abitacolo. Scendeva in fretta, cercando di raggiungere la velocità critica in cui il fuoco, per mancanza di ossigeno, si sarebbe estinto spontaneamente. Shasa scese alla sua quota e si mantenne sopra, a un centinaio di metri. Vedeva perfettamente i fori delle pallottole sul cofano e sull'ala. Uno dei mitraglieri italiani era riuscito a spedirgli una bella
raffica. La vernice era nera e raggrinzita dove le fiamme l'avevano divorata e il segno arrivava quasi all'abitacolo. David stava cercando freneticamente di aprirlo. « Se non ce la fa, brucia vivo », pensò Shasa, ma proprio in quella ci riuscì, e la copertura scivolò indietro facilmente. David guardò in tutte le direzioni. L'aria intorno alla sua testa era distorta dalle onde di calore dell'incendio interno che però non si vedeva: l'unica traccia era una macchia scura, come quelle che lascia il ferro da stiro, sulla camicia kaki. « Niente da fare, mi lancio », disse al microfono; Shasa, che lo guardava, decifrò le parole sulle sue labbra una frazione di secondo prima che la cuffia gliele versasse nelle orecchie. Senza dargli tempo di rispondere, David si tolse il casco, alzò la mano in un gesto di saluto, poi rovesciò l'Hurricane in fiamme e cadde fuori dell'abitacolo aperto. Andava giú a braccia e gambe spalancate, roteando come una girandola, finché a un tratto una cascata di seta gli fiorí sulla schiena, formò una nivea corolla sopra di lui e lo arrestò immediatamente, chilometri piú indietro. Shasa virò e lo vide dondolare candido a 1800 metri di quota sullo sfondo della terra corrugata color cacca. Il vento lo trascinava dolcemente verso sud. Shasa tolse gas in modo da abbassarsi gradualmente con lui e si mise a girare intorno a David mantenendo una distanza di sicurezza, sporgendosi dall'abitacolo aperto e cercando di stimare dove sarebbe atterrato, per poi subito controllare il livello di carburante nel serbatoio. La lancetta superava appena la linea rossa. L'apparecchio incendiato di David precipitò nella pianura polverosa ai piedi delle ambe ed esplose in una sola fiammata simile a uno sbuffo di drago. Shasa scrutò il terreno. Proprio sotto c'erano alture grigio ferro che terminavano con cime di roccia di colore piú scuro. Tra i rilievi erano cavità pietrose, scabrose come scaglie di coccodrillo, e poi, subito dopo l'ultima catena, una valle meno aspra; discendendo, distinse sulle pendici tracce di agricoltura primitiva. David sarebbe atterrato sull'ultimo rilievo o addirittura nella valle. Shasa strinse gli occhi. Abitazioni umane! C'era un gruppetto di capanne dal tetto di paglia a un'estremità della valle, e per un attimo si sentí felice. Poi ricordò le foto... quei corpi mutilati e torturati al di là di qualsiasi misura umana, e strinse i denti guardando David che continuava a scendere dondolando col paracadute. Virò un'altra volta, scendendo sulla vallata, e raddrizzò l'apparecchio a una trentina di metri di quota. Sorvolò aridi e spelacchiati campi di sorgo e vide, in fondo, delle figure umane. Un gruppo di uomini correva giú per la valle. Venivano dal villeggio: erano venti o piú individui in lunghe tuniche grigiastre le cui falde svolazzavano intorno ai polpacci neri. Le chiome erano cotonate fino a formare ispidi cespugli scuri, ed erano tutti armati, alcuni con moderne carabine probabilmente raccolte sui campi di battaglia, altri con vecchi fucili ad avancarica. Mentre l'Hurricane li sorvolava basso, tre o quattro di loro si fermarono e imbracciarono il fucile, prendendo di mira Shasa. Vide
le vampate uscire dalle canne al suo passaggio, ma non gli parve di essere stato colpito. Comunque non c'erano piú dubbi sulle loro intenzioni ostili. Gli armati stavano riversandosi nella vallata correndo al punto dove stimavano stesse per atterrare il paracadute. Shasa tornò ad abbassarsi, si allineo al gruppo in corsa e fece fuoco con le otto Browning. Le linee dei traccianti investirono gli africani in tunica alzando polvere e abbattendone quattro o cinque come birilli. Poi fu costretto a cabrare per superare le colline in fondo alla valle, e nel tornare indietro notò che gli shulta si erano raggruppati di nuovo e correvano ancora a intercettare David che ormai si trovava a un'altezza di circa trecento metri, perfettamente a tiro di un'arma da guerra. Era ormai chiaro che sarebbe atterrato sulle pendici della valle. Shasa si abbassò per tornare all'attacco, ma stavolta il gruppo di shufta si disperse prima di farsi mitragliare e i guerrieri, da ripari di roccia, accolsero il caccia con una fitta fucileria. Così le mitragliatrici Browning alzarono molta polvere ma non ammazzarono quasi nessuno. Tornò a cabrare e raddrizzò l'aereo in quota, sporgendosi a guardare dove toccava terra David. Il paracadute superò la cresta della collina di pochi metri e atterrò sull'altro versante, in discesa ripida. Vide David atterrare pesantemente e cominciare subito a rotolare caprioleggiando giú dal pendio roccioso. Ancorato dal paracadute, si fermò in piedi senza volere, in un groviglio di seta e di funi. Rapidamente se ne liberò. Poi guardò giú e vide avvicinarsi la banda di shufta urlanti. Shasa lo vide estrarre la pistola, poi ripararsi gli occhi e guardare l'Hurricane che gli roteava sopra. Shasa scese quasi al suo livello, e nel passare gli segnalò freneticamente di scendere. David lo guardò senza capire. Sembrava piccolissimo e abbandonato su quella collina desertica, e Shasa gli si avvicinò abbastanza da cogliere la rassegnazione sul suo volto mentre gli rivolgeva un gesto d'addio e si voltava a fronteggiare la banda di selvaggi che saliva a prenderlo. Nell'avvicinarsi, Shasa sparò altre raffiche agli shufta, che ancora una volta si sparsero al riparo. Erano a un chilometro di distanza da David: era riuscito a trattenerli per dei secondi preziosi. Virò strettissimamente, radendo i rovi con la punta dell'ala, e appena si raddrizzò tirò fuori il carrello. Con questo bene in vista sorvolò un'altra volta David e ripetè il segnale di prima, indicando il fondovalle. Stavolta vide David capire e illuminarsi di speranza. Infatti si volto e si mise subito a correre giú dalla discesa a grandi falcate, saltando da una roccia all'altra come una gazzella. Alla fine della valle Shasa virò e si allineò alla striscia arata ai piedi del pendio. Vide che David era già a metà della discesa, e che gli shufta tentavano di tagliargli la strada: subito dopo dovette dedicare tutta la sua attenzione all'atterraggio.
All'ultimo momento azionò gli alettoni e spense il motore, lasciando veleggiare l'aereo con la cloche tutta tirata. A un metro dal campo arato andò in stallo e toccò terra violentemente, rimbalzò due volte, infilò un solco con una ruota e si alzò di coda. Quasi picchiò il muso, poi proseguí sobbalzando e sballottando Shasa da tutte le parti. Era atterrato. Aveva corso il rischio di schiantarsi ma adesso era giù, e David aveva quasi raggiunto il fondovalle. Capì subito, però, che non ce l'avrebbe fatta. Quattro shuita che correvano piú forte degli altri avevano staccato il gruppo e sarebbero riusciti a tagliare la strada a David. Un altro si era fermato e si era messo a sparare, tiri lunghissimi di cui qualcuno però alzava fontanelle di polvere pericolosamente vicino ai piedi di David che correva. Shasa girò l'aereo, tenendolo su una ruota per facilitargli il superamento dei solchi. Quando il muso fu puntato dritto contro i quattro shuita di testa, diede gas per un attimo e l'Hurricane alzò la coda. Era nelle condizioni migliori per tirare a quei banditi un'altra scarica di mitragliatrici e lo fece. Una tempesta di pallottole falciò il campo di sorgo abbattendo le spighe inaridite e investendo il gruppo di uomini che correvano. Due caddero in un viluppo di stracci insanguinati, il terzo si mise a piroettare in una frenetica danse macabre velato da una nuvola di polvere. L'ultimo bandito si gettò a terra e l'Hurricane tornò ad appoggiare al suolo la rotella posteriore. Adesso le mitragliatrici non potevano piú sparare. David era ormai a un centinaio di metri di distanza, e filava come un razzo. Shasa allineò l'aereo verso il fondovalle: la lieve discesa gli avrebbe dato un'altra spinta utile per decollare e lasciar tutti con un palmo di naso. Si sporse dall'abitacolo. « Forza, David! » gridò. « Medaglia d'oro stavolta, bimbo! » Una pallottola arrivò sul cofano dell'apparecchio e rimbalzò via fischiando. Shasa si girò. Gli shulta erano arrivati al limitare del campo, correvano avanti a turno, si inginocchiavano e sparavano. Un'altra pallottola gli fischiò vicino alle orecchie, inducendolo a star giú con la testa. « Dai, dai David! » Ne sentiva ormai l'ansimare, piú forte del motore Rolls Royce al minimo. Una pallottola sforacchiò la tela dell'ala. « Forza, David! » Aveva la camicia tutta bagnata di sudore e la faccia lucida e sporca. Raggiunse l'Hurricane e saltò sull'ala con un volteggio. L'aereo s'inclinò per il peso. « Saltami in braccio », gli gridò Shasa. « Vieni dentro! » David gli saltò sopra ansimando. « Non vedo niente, prendi tu cloche e manetta che io manovro il timone a pedali. » Senti le mani di David afferrare gli strumenti e glieli lasciò. Immediatamente il motore ruggí e l'Hurricane si mosse avanti. « Un pò a sinistra », gridò David con voce rotta dalla fatica, e Shasa spinse quel pedale di due centimetri. In una tempesta di fragore e polvere il motore andò al massimo,
ed eccoli sobbalzare sul campo girando come un gallinaccio, perché Shasa correggeva la direzione alla cieca, seguendo le istruzioni di David. Shasa non vedeva proprio niente, David lo schiacciava nel sedile e gli toglieva tutta la visibilità. Girò la testa e guardò da una parte, cominciando a veder confondersi il terreno man mano che prendevano velocità, rispondendo all'istante alle richieste di correzione di David. Le spighe secche di sorgo frustavano le ali: il rumore che facevano era quasi altrettanto sgradevole del fischio delle pallottole accanto alle orecchie. Tutti gli shufta superstiti stavano ora sparandogli addosso, ma la distanza di tiro aumentava in fretta. L'Hurricane prese una gobba del terreno e si trovò per aria. Sobbalzi e scossoni terminarono di colpo: erano riusciti a decollare. « Ce l'abbiamo fatta! » urlò Shasa, stupito da quel successo. Mentre così gridava, ricevette un gran colpo in faccia. La pallottola era un pezzo di ferro battuto già appartenuto al manico di una pentola: grosso come un pollice, era stato sparato da un fucile ad avancarica Tower del 1779 con l'aiuto di una manciata di polvere nera. Prese un montante dell'abitacolo di fianco alla testa di Shasa e gli rimbalzò vorticosamente in faccia. Colpendolo di piatto, e di rimbalzo, non gli entrò nel cervello. Shasa non perse nemmeno conoscenza. Gli parve di essere stato colpito all'angolo dell'occhio sinistro da una martellata fortissima. La testa gli fu spinta dal lato opposto, dove andò a sbattere. Sentì rompersi l'arcata sopraccigliare. Sangue e lembi di carne e pelle l'accecarono pendendogli sulla faccia come un sipario. « David! » gridò. « Mi hanno beccato! Non ci vedo piú! » David si girò a guardarlo e mandò un grido d'orrore. Il sangue sprizzava e gorgogliava fuori della ferita: vaporizzato dal vento relativo finiva in faccia a David. « Non ci vedo piú », continuava a ripetere Shasa. La sua faccia era una maschera rossa di carne sanguinolenta. « Non ci vedo piú, oh David, non ci vedo piú! » David si tirò via la sciarpa di seta dal collo e la mise in mano a Shasa che brancolava. « Cerca di fermare l'emorragia», gli gridò sopra il rombo del motore. Shasa appallottolò la sciarpa e la premette nella ferita orribilmente lacerata, mentre David pensava solo a riportarlo a casa, volando basso e facendo la barba alle colline brune. In un quarto d'ora raggiunsero il campo d'aviazione di Yirga Alem dove si presentarono radendo gli alberi. David atterrò alla meno peggio e rullò fino all'ambulanza che aveva chiamato per radio. Tirarono fuori Shasa dall'abitacolo tutto spruzzato di sangue. Poi David e un infermiere, mezzo sorreggendolo e mezzo trascinandolo, lo portarono brancolante come un cieco all'ambulanza. Nel giro di un altro quarto d'ora Shasa era anestetizzato e steso sul tavolo operatorio dell'ospedale da campo, sotto un tendone, mentre un chirurgo dell'aviazione lo stava operando. Quando si svegliò dall'anestesia vedeva nero.
Alzò la mano e si toccò la faccia. Era tutta bendata. Fu colto dal panico. « David! » cercò di gridare, ma gli uscí un mugolio indistinto e ovattato dal cloroformio. « Sono qua Shasa, sono qua! » La voce era vicina e lo cercò a tentoni. « David! David! » « Va tutto bene Shasa, guarirai perfettamente. » Shasa trovò la sua mano e la ghermi. « Ma non ci vedo! Sono cieco! » « Sono solo le bende », gli assicurò David. « Il dottore dice che tutto andrà a posto. » « Non è che mi stai ingannando, eh David? » implorò Shasa. « Dimmi che non sono diventato cieco! » « Non sei diventato cieco », sussurrò David, e per fortuna Shasa non poteva vedere la propria faccia mentre lo diceva. La disperata stretta di Shasa si allentò pian piano, e dopo qualche istante gli antidolorifici fecero effetto e sprofondò di nuovo nel sonno. David sedette al suo capezzale per tutta la notte: l'interno della tenda era caldo come un forno. Pulì dal sudore il collo e il petto di Shasa, e gli prese la mano quando nel sonno lo sentí gemere e mormorare: « Mamma... sei qui, mamma? » Dopo mezzanotte il dottore ordinò a David di andarsene a dormire, ma egli rifiutò di riposarsi. « Devo esser qui quando si sveglia Devo dirglielo io, almeno questo » Fuori della tenda ululavano gli sciacalli. Era ormai l'alba. Quando la prima luce investi la tenda, Shasa si svegliò di nuovo e chiamò immediatamente: « David? » « Sono qui, Shasa. » « Mi fa male da morire, David, ma tu hai detto che tutto va bene, vero? Me lo ricordo. » «Sì.» « Allora torneremo presto a volare insieme. La ditta CourteneyAbrahams riapre i battenti... » Aspettava una risposta, ma poiché non arrivava il suo tono cambiò. « Non sono mica diventato cieco, eh? Torneremo a volare sui caccia? » «Non sei diventato cieco », disse sottovoce David. «Ma non tornerai sul caccia. Andrai a casa, Shasa. » « Dimmi la verità! » ordinò Shasa. « Non cercare di risparmiarmi, peggiora soltanto le cose! » « E va bene, ti diro tutto. La pallottola ti ha leso l'occhio sinistro: il dottore ha dovuto asportarlo. » Shasa sollevò la mano e si toccò incredulo la parte sinistra della faccia. « Ci vedrai ancora benissimo con l'occhio destro, ma non potrai piú pilotare gli Hurricane. Mi dispiace, Shasa. » « Gia », sussurrò Shasa. « Anche a me. » David tornò a trovarlo la sera. « Sai, dicono che ti daranno la medaglia. » « Grazie tante », disse Shasa. Stettero zitti per qualche istante e
poi David riprese: « Mi hai salvato la vita, Shasa ». « Macché, macché. Dai, piantala, David. » « Domani ti portano sulla costa col Dakota. Per Natale sei a Città del Capo. Da, un bacio per me a Matty e al bambino, fortunello! » «Farei cambio subito», dichiarò Shasa. « Be', vorrà dire che quando torni anche tu faremo festa insieme. » « Posso fare qualcosa per te? Qualsiasi cosa... » disse David alzandosi. « Sí. Guarda se riesci a procurarmi una bottiglia di whisky. » Il comandante del sommergibile si staccò dal periscopio e fece un cenno a Manfred De La Rey. « Venga a dare un'occhiata anche lei. » Manfred si chinò a guardare. Si trovavano a non piú di due miglia dalla costa. Stava cadendo la sera e il sole tramontava dietro la striscia di terra. « Riconosce il posto? » chiese in tedesco il comandante dell'Uboot. Manfred non gli rispose subito: era troppo emozionato. Erano passati cinque anni da quando aveva lasciato quelle amate sponde, e il suo cuore traboccava di gioia. Sapeva di non poter mai essere pienamente felice se non nella sua Africa. Tuttavia, gli anni trascorsi all'estero non erano stati brutti. C'era Heidi, e da un anno il piccolo Lothar, che rinnovava il nome di suo padre: costituivano il perno della sua esistenza. Poi c'erano lo studio e il lavoro. Due impegni paralleli, ognuno dei quali richiedeva grandi sforzi. Gli studi di giurisprudenza erano sfociati nella laurea in Diritto Romano Olandese e Diritto Internazionale presso l'università di Berlino. Il resto rientrava nel quadro dell'addestramento militare. A volte questi impegni l'avevano tenuto lontano dalla famiglia per mesi, ma ormai era diventato un bravo e preparatissimo agente operativo dell'Abwehr tedesco. Aveva acquisito abilità disparate e insolite. Era diventato radiotecnico ed esperto di esplosivi e armi individuali; aveva effettuato dieci lanci col paracadute, cinque dei quali di notte, e aveva imparato a pilotare gli aerei; era diventato crittografo, tiratore scelto con fucile e pistola, esperto di combattimento corpo a corpo. Insomma, un assassino impeccabile, col fisico e la mente spasmodicamente tesi allo scopo. Inoltre aveva imparato a tenere comizi persuasivi, studiando retorica e oratoria, e aveva approfondito la storia politico-militare del suo paese sicché ora la costituzione materiale del Sudafrica non aveva segreti per lui ed era in grado di sfruttarne tutti i punti deboli. Adesso dunque era pronto, sotto ogni prevedibile aspetto, a svolgere il compito che i suoi superiori gli avevano affidato. Sapeva che la possibilità di influenzare il corso della Storia e cambiare il mondo toccava a un individuo su un milione a dir poco: ora poteva attingere la grandezza, e si sentiva pari al compito. « Si », rispose in tedesco al comandante del sommergibile. « Ri-
conosco i punti di riferimento sulla costa. » Su questi lidi quasi spopolati della costa sudorientale dell'Africa, aveva passato un'estate felice e spensierata. Qui la famiglia di Roelf Stander possedeva cinquemila ettari di terra, e cinque miglia di litorale. Manfred e Roelf erano stati a pescare su quei due promontori rocciosi, prendendo grossi kabeljou argentei che recuperavano col mulinello dai verdi cavalloni oceanici. Avevano battuto tutte quelle collinette col fucile in spalla, a caccia del bushbuck maculato tra l'erica e infiniti altri fiori di campo. In quella baietta di scogli neri e sabbia gialla avevano nuotato nudi, poi si erano sdraiati sulla spiaggia a parlare del futuro e fantasticare sul ruolo che avrebbero avuto in esso. Là, sotto le colline, teatralmente accesa dagli ultimi raggi del sole, sorgeva la casetta dove avevano passato quelle meravigliose vacanze. « Si », ripeté. « Il posto è questo. » « Aspetteremo l'ora fissata », disse il comandante del sommergibile, e diede ordine di abbassare il periscopio. Immobile al largo, il sottomarino aspettava a macchine ferme, immerso a una profondità di venti metri nelle acque buie, mentre in superficie il sole tramontava dietro l'orizzonte, e sul continente africano calava la notte Manfred percorse l'angusto corridoio dell'U-boot fino al cubicolo che divideva con due ufficiali, e cominciò i preparativi dello sbarco. Durante le settimane di navigazione da Bremerhaven aveva imparato a odiare quel sinistro strumento di guerra. Odiava il fetido sovraffollamento, la promiscuità forzata, l'incessante vibrazione delle macchine. Non si era mai abituato a sentirsi chiuso in una scatola di ferro semiaffondata nelle gelide acque dell'oceano, e odiava la puzza di nafta e olio e degli altri uomini intrappolati con lui. Bramava risentire nei polmoni la fresca aria notturna, e sulla faccia battere il forte sole africano. Rapidamente si tolse il maglione bianco e i calzoni blu della marina e si infilò gli indumenti lisi e sformati di un contadino afrikaner, un bianco povero o bywoner. Era ancora abbronzatissimo dall'addestramento in montagna: si era lasciato crescere i capelli fuori del colletto e anche la barba che, ispida e incolta, lo faceva sembrare piú vecchio di parecchi anni. Si guardò nello specchietto della cabina. « Non mi riconoscerebbero nemmeno i miei », si disse a voce alta. Si era tinto di nero barba e capelli, lo stesso colore che le sopracciglia avevano naturalmente. Il naso era ancora schiacciato e storto: non era mai tornato a posto dopo la finale olimpica con l'americano Lomax, come del resto il sopracciglio, ispessito dal tessuto cicatriziale. Era tutto diverso dal giovane atleta biondo che cinque anni prima aveva lasciato il paese. Si calò il cappellaccio di panno sugli occhi, annuí soddisfatto alla sua immagine riflessa e poi si inginocchiò a prendere il resto dell'equipaggiamento sotto la brandina.
Era contenuto in sacchetti impermeabili di gomma sigillati con nastro adesivo. Spuntò i colli sulla lista consegnandoli a un marinaio che li ammucchiò ai piedi della scala della torretta. Manfred guardò l'orologio. Appena il tempo di mangiare qualcosa. Il nostromo lo chiamò: con la bocca piena di pane e salsiccia Manfred corse nella plancia di comando dell'U-boot. « Ci sono delle luci a terra », disse il capitano accennando a Manfred di venire al periscopio a vedere. Era notte. Attraverso le lenti Manfred vide chiaramente i tre falò accesi sulla baia, due sui promontori e uno in mezzo alla spiaggia centrale. « E' il segnale, capitano. » Si raddrizzò annuendo. « Adesso bisogna emergere e rispondere. » Tra i sibili e gorgogli dell'aria compressa che spingeva l'acqua fuori delle casse, l'U-boot emerse minaccioso come il Leviatano dalle acque nere. Mentre il sommergibile beccheggiava ancora per lo slancio dell'emersione, il capitano e Manfred salirono sulla torretta e uscirono sul ponte. L'aria notturna era balsamica e fresca, e Manfred ne aspirò avide boccate ispezionando la baia col binocolo. Il capitano fece un cenno al segnalatore che azionò il proprio strumento lampeggiando in Morse le lettere « W » e « S », iniziali di Weisse Schwert, o Spada Bianca, che era il nome in codice dell'operazione. Pochi istanti dopo un fuoco laterale si spense: poi si spense anche l'altro e restò acceso solo quello sulla spiaggia. « E' la risposta concordata », borbottò Manfred. « La prego di far portare sul ponte la mia roba, signor capitano. » Dopo una mezz'ora dall'oscurità, vicinissima, li raggiunse una voce. « Spada Bianca? » « Accostate », gridò Manfred in afrikaans. Un'esile barca a remi da pescatore scivolò avvicinandosi sulle acque buie. In fretta Manfred strinse la mano al comandante dell'U-boot e poi gli fece il saluto nazista: « Heil Hitler! » Quindi scese la scaletta. Come il bordo di legno della barca toccò la fiancata del sommergibile, saltò agilmente a bordo bilanciandosi sul sedile centrale. Il rematore di prua si alzò a salutarlo. « Manie, sei proprio tu? » « Ciao, Roelf », disse Manfred abbracciandolo in fretta. « Sono consentissimo di vederti. Ma adesso pensiamo a far caricare la roba. » I marinai del sommergibile lanciarono i sacchi di gomma che Manfred e Roelf presero al volo e stivarono a prua. Poi si misero ai remi, Manfred a fianco di Roelf. In un attimo si allontanarono dall'U-boot e rimasero a guardarlo a remi sollevati mentre si immergeva, veloce e spaventoso, in un turbine di spuma. Ricominciarono a vogare verso riva e Manfred chiese sottovoce a Roelf, con un cenno del mento: « Chi sono quelli? » indicando gli altri rematori. « Gente fidata. Fittavoli della zona, che conosco da una vita.
Sono tutti dei nostri », disse. Non parlarono piú finché non ebbero tirato la barca sulla spiaggia, nascondendola poi tra i cespugli salmastri. « Vado a prendere il camion », disse Roelf. Qualche minuto dopo ecco i fari gialli scendere per la stradina accidentata che portava alla spiaggia. Roelf fermò il camion - uno scassato arnese da quattro tonnellate - accanto alla barca in secca. I tre agricoltori li aiutarono a caricare la roba di Manfred sul pianale del camion, poi a coprirla con balle di erba medica secca e un telone sbrindellato. Quindi montarono in cima al carico mentre Manfred salí a fianco dell'autista. « Prima di tutto dammi notizie della mia famiglia », disse Manfred. « Avremo tempo in seguito di parlare di lavoro. » « Lo zio Tromp è sempre lo stesso. Fa certe prediche... Sarie e io andiamo a sentirlo tutte le domeniche. » « Come sta Sarah? » l'interruppe Manfred. « E il bambino? » «Sei rimasto un pò indietro», rise Roelf. «Adesso i bambini sono tre, due maschietti e una femminuccia di tre mesi. Presto vedrai tutti quanti. » Uno alla volta lasciarono gli altri lungo la strada con un grazie e una stretta di mano, finché rimasero soli. Dopo pochi chilometri la strada di campagna confluí sulla costiera nei pressi del villaggio di Riversdale. La seguirono fino alla svolta per Città del Capo, trecentocinquanta chilometri piú a occidente, e continuarono a viaggiare per tutta la notte, guidando a turno e fermandosi a far rifornimento di gasolio a Swellendam. Quattro ore dopo attraversarono le montagne e scesero dall'angusto valico all'ampio litorale. Si fermarono ancora pochi chilometri prima di Stellenbosch, a una cantina sociale. Benché fossero le tre del mattino, il direttore li stava aspettando. Li aiutò a scaricare i sacchi di gomma e a portarli in cantina. « Questo è Sakkie Van Vuuren », disse Roelf presentandogli il direttore della cooperativa vinicola. « E' un buon amico e ci ha procurato un nascondiglio sicuro per il tuo equipaggiamento. » Li accompagnò fino all'ultima fila di enormi botti. Ognuna conteneva mille galloni di vino rosso nuovo, ma una era vuota, come il direttore dimostrò bussandoci sopra. Sorrise. « Ho fatto io stesso il lavoro », disse aprendo la botte. « Nessuno scoprirà la tua roba qui dentro. » Ce l'infilarono e richiusero la botte. Era identica alle altre piene di vino. « Siamo pronti ad agire, a suo tempo. Ma quando sarà? » chiese a Manfred il vinattiere. « Presto, amico mio », gli promise Manfred. « Molto presto. » Poi lui e Roelf proseguirono col camion fino a Stellenbosch. « Fa piacere tornare a casa. » « Ci resterai solo stanotte, Manie », gli disse Roelf. « Anche cosí conciato, qui qualcuno ti riconoscerebbe di sicuro. » Parcheggiò il camion nel cortile di un commerciante di veicoli usati vicino alla ferrovia e lasciò la chiave sotto il tappetino. Percorsero l'ultimo tratto a piedi, quattro chilometri per le strade deserte
fino alla casetta di Roelf, che si trovava in una fila di cottage tutti uguali dal tetto di paglia. Entrarono dal retro in cucina, dove una figura familiare si alzò a salutarli dal tavolo a cui sedeva. « Zio Tromp! » gridò Manfred. Il vecchio gli tese le braccia e Manfred corse ad abbracciarlo. « Che faccia da delinquente che hai con quella barba nera! » rise lo zio Tromp. « A quanto vedo, l'americano ti ha fatto un lavoretto permanente al naso. » Manfred guardò oltre la spalla dello zio Tromp e scorse una donna sulla porta della cucina. Fu questo a ingannarlo: una donna, non una ragazza. Aveva il volto segnato da una specie di triste saggezza, e la sua espressione era contegnosa e senza gioia. « Sarah? » Manfred trascinò lo zio Tromp verso di lei. « Come stai, sorellina? » « Non sono mai stata la tua sorellina, Manfred », disse lei. « Comunque sto benissimo, grazie. » Non fece nemmeno il gesto di abbracciarlo e Manfred rimase male per la freddezza della sua accoglienza. « Sei felice, Sarah? » «Ho un bel marito e tre bei bambini», gli disse guardando Roelf. « Ma avrete fame », cambiò subito discorso Sarah. « Sedetevi che vi preparo la colazione. » I tre uomini sedettero al tavolo di cucina e si misero a discorrere. Ogni tanto Manfred dava un'occhiata a Sarah impegnata ai fornelli e si rannuvolava, pieno di ricordi e rimorsi. Poi si riprese e si concentrò su quanto andavano dicendogli. « Le notizie sono piuttosto buone, gli inglesi sono circondati a Dunkerque, e Francia e Paesi Bassi sono caduti. I sommergibili tedeschi stanno vincendo la battaglia dell'Atlantico e perfino gli italiani son vittoriosi nel Nordafrica... » « Non sapevo che anche tu fossi dei nostri, zio Tromp », interloquì Manfred. «Ma sì, figliolo. Sono un patriota anch'io. Adesso l'Ossewa Brandwag è forte di quarantamila militanti. Quarantamila uomini scelti in posizioni di potere e autorità, mentre Jannie Smuts ha mandato centosessantamila amici di Albione sotto le armi all'estero con le loro belle mostrine arancione. Si è messo nelle nostre mani. » « I nostri capi sanno del tuo arrivo, Manie», gli disse Roelf. « Sanno che sei latore di un messaggio del Fuhrer in persona, e sono impazienti di vederti. » « Pensa tu a organizzare un incontro il piú presto possibile, per favore », gli disse Manfred. « C'è molto da fare. Un lavoro glorioso. » Sarah Stander restava tranquilla ai fornelli, rompendo uova in padella e girando braciole. Non si voltava, non attirava l'attenzione su di se, ma pensava: « Sei venuto di nuovo a portare tristezza e sofferenza nella mia vita, Manfred De La Rey. Ogni tua parola, ogni tuo gesto riaprono ferite che credevo ormai sanate. Sei venuto a distruggere quel poco che la vita mi ha lasciato. Roelf ti seguirà ciecamente in queste follie. Sei venuto a mettere in pericolo mio marito e i miei bambini... »
Il suo odio per lui diventava piú forte e piú velenoso ancora, nutrito com'era dal cadavere dell'amore che lui aveva ucciso. Manfred viaggiava solo. Non c'erano blocchi stradali, controllo dei documenti, perquisizioni e domande della polizia. Il Sudafrica era così lontano dai teatri principali di guerra che poté evitare ogni razionamento, se non quello della benzina e della farina bianca, del resto molto blandi. Le « tessere » per acquistare generi di prima necessità erano sconosciute. Con una valigetta in mano, Manfred si limitò a fare un biglietto di seconda classe per Bloemfontein, capoluogo di provincia dello Stato Libero di Orange. Un viaggio di mille chilometri che fece in compagnia di altri cinque viaggiatori. Per ironia della sorte, il complotto per rovesciare il governo eletto dalla nazione ebbe luogo nel palazzo del governo provinciale, ai piedi di Artillery Hill. Quando Manfred entrò nell'imponente ufficiò del governatore, dovette ricordarsi quant'era diffusa l'influenza della loro organizzazione segreta. Il comandante dell'OB venne alla porta a salutarlo. Era cambiato poco da quando aveva ricevuto il giuramento di sangue di Manfred, nella cerimonia notturna al lume delle fiaccole. Sempre panciuto e dal volto spigoloso, oggi però era vestito in doppiopetto grigio. Salutò cordialmente Manfred, sorridendo e stringendogli a lungo la mano. « Ti aspettavo con impazienza, fratello, ma prima lascia che mi congratuli per i progressi che hai fatto dall'ultima volta che ci siamo visti, e per il magnifico lavoro che hai svolto fin qui. » Fece entrare Manfred nell'ampio ufficio e lo presentò ai cinque uomini seduti al gran tavolo. « Sono tutti fratelli legati dal giuramento di sangue. Puoi parlare liberamente », disse a Manfred, che capì di trovarsi alla presenza dei massimi dirigenti dell'organizzazione. Sedette all'altro capo del tavolo, di fronte al comandante, e raccolse le idee un attimo prima di cominciare. « Signori, vi porto il saluto personale del Fuhrer del popolo germanico, Adolf Hitler. Mi ha incaricato di assicurarvi che la stretta amicizia sempre esistita tra gli afrikaner e la nazione germanica resta immutata, e che è pronto ad appoggiare in tutti i modi la nostra lotta per recuperare quanto a buon diritto è nostro, e restituire agli afrikaners la terra che ci appartiene per diritto di nascita e di conquista. » Manfred parlava con tono fermo e deciso. Aveva preparato il discorso con l'aiuto degli esperti del ministero tedesco della Propaganda, e l'aveva provato fino a raggiungere la perfezione oratoria. Adesso ne riscontrava il successo dalle espressioni rapite degli ascoltatori. « Il Fuhrer sa perfettamente che il paese è sguarnito di quasi tutti gli uomini validi che simpatizzano per Smuts e per gli inglesi. Quasi centosessantamila uomini in armi sono stati mandati a nord, per combattere oltre confine. Questo ci facilita il compito. » «Però Smuts ha disarmato noi», interloquì un ascoltatore. « Ha requisito tutti i fucili, le doppiette, perfino i vecchi cannoni di
bronzo sulle piazze dei villaggi. E l'insurrezione è impossibile senza armi. » « Questo è il nocciolo del problema », ammise Manfred. « Per riuscire abbiamo bisogno di soldi e di armi. Be', ce li procureremo. » « Li manderanno i tedeschi? » « No », scosse la testa Manfred. « La cosa è stata considerata ed esclusa. Troppa è la distanza, i porti sono sorvegliati e non è possibile sbarcare grandi quantità di armi su una costa inospitale. Ma appena riusciremo a controllare i porti gli U-boot ci forniranno carichi di armi pesanti in cambio della possibilità di far rifornimento nei nostri scali. Vieteremo così la rotta del Capo alla Gran Bretagna. » « Sì, ma dove ci procureremo allora le armi per l'insurrezione? » « Da Jannie Smuts », disse Manfred, suscitando espressioni perplesse e sguardi dubbiosi. « Se siete d'accordo, ovviamente: recluterò e addestrerò una piccola forza d'assalto di stormjagters. Attaccheremo le armerie e le polveriere del governo e prenderemo tutto quello che ci serve. Lo stesso per i soldi: li prenderemo in banca. » Quest'idea ardita li sbalordì. Guardarono Manfred a occhi sbarrati mentre così continuava: « Agiremo rapidamente e con decisione, prenderemo le armi e le distribuiremo. Poi al momento convenuto insorgeremo - quarantamila patrioti! - impadronendoci subito di tutte le leve del potere, la polizia e l'esercito, i mezzi di comunicazione, le ferrovie, i porti. In tutti questi settori abbiamo già i nostri nelle posizioni-chiave: basterà organizzare la sollevazione in modo da renderla rapida, simultanea e irresistibile. » « E quale sarà il segnale? » domandò il comandante dell'OB. « Sarà qualcosa che sbigottirà l'intero paese. Una vera mazzata, ma è prematuro parlarne. Vi basti sapere che il segnale è già stato deciso, e anche chi lo darà. » Manfred guardò gli astanti con sguardo serio e franco. « Avrò io quell'onore. Sono stato addestrato apposta e agirò da solo, senza aiutanti. Dopo vi resterà solo da prendere le redini del potere, schierare il paese dalla parte del vittorioso esercito germanico e condurre il popolo a quella grandezza che i nemici gli hanno fin qui negato. » Poi tacque, studiando la loro espressione. Vide loro in viso il fervore patriottico, e nuova luce negli sguardi. « Signori, ho la vostra approvazione? Posso mettermi all'opera? » chiese. Il comandante guardò tutti i presenti ricevendo da ciascuno un cenno d'assenso. Tornò a rivolgersi a Manfred. « Hai la nostra approvazione e la nostra benedizione. Farò in modo che ogni membro della nostra associazione ti dia tutto l'aiuto e l'assistenza che ti serve. » « Grazie, signori », disse Manfred, tranquillo. « E ora, lasciatemi citare le parole che Adolf Hitler stesso scrisse in Mein Kampf, il suo grande libro. "Dio onnipotente, benedici il nostro braccio quando il tempo sarà venuto. Giusto come sempre, giudica Tu se meritiamo o no la libertà. Signore, benedici la nostra battaglia.»
« Così sia! » gridarono tutti, balzando in piedi e facendo il saluto dell'OB, col pugno chiuso sul petto. « Così sia! » La Jaguar verde era parcheggiata in aperta campagna, accanto alla strada, sulla cresta di una collina. Sembrava una macchina abbandonata che fosse rimasta li per settimane. Blaine Malcomess parcheggiò la Bentley dietro la Jaguar e raggiunse a piedi il ciglio del colle. Non c'era mai stato, ma Centaine gli aveva spiegato ben bene il sentiero. Guardò giú. La discesa era rigidissima ma non impossibile. Si vedeva il sentierino che zigzagando scendeva per centocinquanta metri fino alla baia di Smitswinkel; sulla riva del mare c'erano le tre o quattro baracche di cui gli aveva parlato Centaine. Si tolse la giacca e la buttò sul sedile della macchina. La discesa bastava e avanzava a riscaldarlo. Chiuse l'auto e imboccò il sentiero. Era venuto non solo perché gliel'aveva chiesto Centaine, ma perché lui stesso voleva molto bene a Shasa Courteney ed era orgoglioso di lui come di un figlio. Molte volte aveva pensato a lui come a un figlio adottivo, o un genero. Scendendo per il sentiero tornò a provare un profondo rimpianto - no, piú che rimpianto era dolore - che nessuno di quei desideri si fosse ancora avverato Lui e Centaine non si erano ancora sposati, e ormai Isabella era morta da quasi tre anni. Ricordava la fuga di Centaine dal letto di morte di Isabella, ricordava come per molti mesi, poi, l'avesse evitato, rendendo vani i suoi tentativi di vederla. Evidentemente quella notte al capezzale di Isabella era successo qualcosa di terribile. Anche dopo il ricongiungimento, Centaine non gliene aveva mai voluto parlare, non aveva fatto la benché minima allusione a ciò che era avvenuto tra lei e la moribonda. Blaine si odiava, ormai, per aver messo Centaine nelle mani di Isabella. Non doveva fidarsi. Il danno che aveva fatto non s'era piú risanato. A Blaine era occorso un anno di pazienza e tatto per rassicurare Centaine abbastanza da indurla a riprendere il ruolo di amante e protettrice che prima le piaceva tanto. Non voleva sentir parlare di matrimonio. Quando insisteva un pò, lei si rattristava e si agitava. Era quasi come se Isabella fosse ancora viva e, dalla tomba, in grado di esercitare qualche maligno potere su di loro. Nulla desiderava di piú, nella vita, che avere per legittima sposa Centaine Courteney, agli occhi di Dio e degli uomini: ma ormai dubitava che questo sogno potesse realizzarsi. « Per favore, Blaine, non chiedermelo ancora. Non riesco, non riesco a parlarne. No, non posso dirti perché. Siamo stati felicissimi in questo modo per tanti anni, non corriamo il rischio di rovinare tutto. » « Ma io ti chiedo di diventare mia moglie, ti chiedo di confermare e cementare il nostro amore, non di distruggerlo! » « Per piacere, Blaine, cambia discorso. Almeno per ora non parliamone piú. » « E quando, Centaine, dimmi quando potremo parlarne? » « Non lo so. Non lo so davvero, amore mio, so solo che ti amo
tantissimo. » E poi la storia di Shasa e Tara... Erano come due anime perse che si cercassero brancolando nelle tenebre. Si capiva che avevano disperatamente bisogno l'una dell'altro; l'aveva capito subito: piú volte erano stati a un passo dal prendersi. Ma non c'erano mai riusciti, qualcosa era sempre andato male all'ultimo momento e si erano allontanati, separandosi malinconicamente. Non vedeva la ragione di un comportamento simile: possibile che fossero orgogliosi e testardi fino all'autolesionismo? Senza l'altro, entrambi languivano, incapaci di realizzare le loro promettenti qualità e avvantaggiarsi in pieno delle rare benedizioni capitate loro per nascita. Ecco due giovani che, pieni di bellezza e di talento, di forza e di energia, li sprecavano scioccamente nella ricerca di qualcosa che non esisteva, nei sogni impossibili o nella disperazione e nell'impotenza. « Non posso rassegnarmi a tutto ciò », si diceva Blaine risolutamente. «Anche se per questo mi dovessero odiare, debbo impedirlo. » Arrivò in fondo al sentiero e si fermò a guardarsi intorno. Non aveva bisogno di riposare, perché anche se la discesa era stata ardua, a quasi cinquant'anni era energico e in forma come pochi trentacinquenni. La baia di Smitswinkel era orlata da una mezzaluna di alte colline: da un lato si apriva sull'estensione maggiore di False Bay. Dunque, protetta da ogni parte, aveva acque sempre calme come quelle di un lago, e così trasparenti che si vedevano fluttuare le alghe di kelp, o querce marine, sul fondo a dieci metri di profondità. Era un posticino segreto e delizioso, e Blaine si prese qualche momento per godersi il panorama. C'erano quattro casette di legno, piuttosto distanti l'una dall'altra, appollaiate sulla scogliera sopra la piccola spiaggia. Erano abbandonate, come si capiva dalle assi inchiodate sulle finestre. L'ultima era quella che cercava, e si avviò sulla spiaggia per raggiungerla. Avvicinandosi, notò che le finestre erano aperte, ma le tende, sbiadite e stinte dall'aria salmastra e dal sole, erano tirate. Sulla piccola veranda una rastrelliera sorreggeva reti e retini da pesca, remi e una canna. C'era un dinghy tirato in secca davanti alla casa. appena sopra il segno dell'alta marea. Blaine salì i pochi gradini ed entrò dalla porta aperta nell'unico locale. Contro la parete opposta c'era una stufetta spenta. Sopra, una padella sporca. Piatti e bicchieri pieni di avanzi si affollavano sul tavolo centrale, nereggiante di formiche. Il pavimento di assi era tutto sporco e pieno di sabbia. Accostate alla parete laterale, dall'altra parte della finestra, c'erano due brande a castello. Quella superiore era priva di materasso, sotto invece c'era un gran viluppo di coperte grigiastre. Su queste giaceva Shasa Courteney. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno e dormiva ancora. A portata di mano, sul pavimento, c'era una bottiglia di whisky quasi vuota e un bicchiere di ferro smaltato, verso il quale ancora si pro-
tendeva il braccio del giovane addormentato. Indossava un vecchio paio di calzoncini da rugby ed era abbronzato come un bagnino e lucido come un tavolo di mogano. I peli sulle braccia erano imbionditi dal sole, ma sul petto restavano scuri e ricci. Era chiaro che non si radeva da un pezzo e aveva i capelli lunghi e irsuti sparsi sul cuscino sporco. Tuttavia l'abbronzatura mascherava ogni pur evidente segno di deboscia. Dormiva tranquillo, col viso sereno che non dimostrava affatto l'intimo turbamento che l'aveva indotto a isolarsi lì, in quella squallida baracca, abbandonando la principesca residenza di Weltevreden. Era sempre un bellissimo giovane, a parte l'orrida ferita all'occhio che risultava ancor piú spaventosa per contrasto col resto. L'arcata sopraccigliare era schiacciata e sfuggente all'esterno, dove la pallottola l'aveva fracassata: la cicatrice frastagliata e biancastra tagliava la palpebra. L'orbita vuota era incavatissima e le ciglia separate lasciavano intravedere del tessuto mucoso rossastro al posto dell'occhio. Era impossibile guardare una simile ferita senza provare pietà, e Blaine dovette lasciar passare qualche momento per recuperare la propria risolutezza. « Shasa! » chiamò con voce dura. Shasa mugolò nel sonno sbattendo la palpebra sul buco nero dell'occhio. « Svegliati, carino, che dobbiamo far due chiacchiere », disse scrollandolo. « Vattene », farfugliò Shasa, ancora mezzo addormentato. « Vattene via e lasciami solo. » « E svegliati, per Dio! » L'occhio buono di Shasa si aprì a fissarlo confusamente. Dopo un pò, la sua espressione cambiò. « Cosa ci fai qui? » Girò la testa per nascondere la ferita e frugò nel groviglio di coperte alla ricerca della pezza nera. Con la faccia sempre girata, se la mise e poi tornò a fronteggiare Blaine. La benda nera gli dava un'aria piratesca, e in qualche modo sinistro sottolineava la sua bellezza. « Devo andare a spander acqua », farfugliò, uscendo. Mentre era fuori Blaine spolverò una sedia e la mise contro il muro. Ci si sedette sopra, appoggiato all'indietro, e accese uno dei suoi lunghi sigari neri. Shasa tornò nella baracca tirandosi su i calzoni, e si sedette sulla branda con la testa tra le mani. « Ho la bocca che mi sembra una fogna », dichiaro afferrando la bottiglia sul pavimento. Versò nel bicchiere le poche gocce che restavano, scolandola bene, e la fece rotolare per terra nella vaga direzione della pattumiera di fianco alla stufa. Prese il bicchiere. « Ne vuoi? » chiese, e Blaine scosse la testa. Shasa lo guardò sopra l'orlo di ferro smaltato. « Quella faccia che stai facendo può aver solo un significato », disse Shasa. « O hai appena annusato una loffa o non approvi il mio comportamento. » « Questo linguaggio volgare dov'essere una conquista recente, come il bere. Mi congratulo con te per entrambe le cose, si adattano
alla tua nuova immagine. » « Sí, va, a cagare, Blaine Malcomess! » ribatté in tono di sfida Shasa, alzando di nuovo il bicchiere. Sorseggiò il whisky risciacquandosi la bocca. Poi inghiottí rabbrividendo mentre il forte liquore scendeva, esalandone i fumi con un gemito di soddisfazione. « Ti ha mandato la mamma », disse in tono di chi faccia una constatazione. « Mi ha detto dove trovarti, ma non mi ha mandato lei. » « E' la stessa cosa », disse Shasa, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra e scolandolo fino all'ultima goccia. « Vuole che torni da lei, a scavare diamanti, vendemmiare, imballare il cotone e passar carte... per Dio, non capisce proprio niente. » « Capisce molto piú di quel che pensi tu. » « Lassú ci sono uomini che combattono... David e gli altri, volano in cielo, mentre io sono un invalido inchiodato alla lurida terra. » « Sei tu che hai scelto di voltolarti nell'immondizia », disse Blaine guardando la baracca lercia. « E poi ti lamenti? » « Va, fuori dalle palle, eccellenza », sibilò Shasa. « Sto perdendo la pazienza. » « E' un vero piacere, te lo garantisco », disse Blaine alzandosi. « Ti avevo giudicato male. Ero venuto a offrirti un lavoro, un importante incarico di guerra, ma è chiaro che non hai i coglioni per farlo. » Andò alla porta e si fermò. « Volevo anche invitarti a una festa per venerdí sera. La festa di fidanzamento di Tara, che sposerà il professor Hubert Langley. Pensavo ti saresti divertito, ma lasciamo perdere. » Uscì con la sua falcata decisa e dopo pochi secondi Shasa lo segui fino alla veranda. Ma Blaine aveva già imboccato il sentiero. Salì senza mai voltarsi indietro, e quando scomparve oltre la cresta Shasa si sentì improvvisamente abbandonato e triste. Fino allora non si era mai reso conto dell'importanza di Blaine Malcomess nella sua vita. Adesso capiva che si era sempre appoggiato ai consigli e all'esperienza di Blaine, anche fuori dei campi di polo. « Volevo diventare come lui », si disse ad alta voce. « Ma ormai è impossibile. » Si toccò la benda nera sull'occhio. « Perché proprio io? » proruppe nell'eterno grido degli sconfitti. « Perché io? » Si sedette sul primo gradino della veranda e si mise a guardare le verdi acque immote in fondo alla cala. Lentamente valutò appieno le parole di Blaine. Gli offriva un lavoro, un importante incarico di guerra. Poi pensò a Tara che sposava Hubert Langley. Tara... vide i suoi occhi grigi, la stupenda chioma fulva, e un'ondata di autocommiserazione lo sommerse. Rientrò nella baracca e aprì la credenza. C'era ancora una bottiglia di Haig. « E le altre? Che fine hanno fatto, le hanno scolate i topi? » Aprì la bottiglia e cercò un bicchiere. Erano tutti sporchi nel lavandino. Alzò la bottiglia alle labbra, e i fumi gli fecero bruciare l'occhio buono. Abbassò la bottiglia prima di bere e la contemplò. Gli venne un moto di nausea e si sentì aggredito da un impeto di re-
pulsione sia fisica che morale. Vuotò la bottiglia nel lavandino, guardando il liquido ambrato scolare gorgogliando dal buco. Quando non ne rimase piú gli tornò il bisogno di bere, intensissimo, e si disprezzò. Gli ardeva la gola e la mano gli tremava. In tutte le cellule del suo corpo ardeva una brama d'oblio, e l'occhio gli bruciava al punto che dovette sbatter le palpebre a lungo. Tirò la bottiglia a schiantarsi contro la parete e corse fuori, al sole, fino alla spiaggia. Si tolse la benda nera e i calzoncini da rugby e si tuffò nell'acqua verde e gelida del mare, mettendosi a nuotare con impegno. Quando raggiunse l'imboccatura della baia gli facevano male tutti i muscoli e l'aria gli bruciava nei polmoni. Si girò e senza rallentare il ritmo delle bracciate tornò alla spiaggia. Appena si accorse di toccare tornò al largo e continuò così per ore, finché non riuscì piú a tirare il braccio fuori dell'acqua e dovette tornare a riva nuotando alla marinara, esausto. Si gettò a faccia in giú sulla sabbia e giacque come un morto. Solo a metà del pomeriggio riacquistò l'energia per alzarsi e tornare alla baracca. Sulla soglia si fermò a contemplare il casino che aveva creato. Prese la scopa e si mise al lavoro. Al tramonto aveva finito. L'unica cosa che non poteva fare era ripulire il letto. Mise lenzuola e coperte sporche nel fagotto della biancheria da dare al garzone della lavanderia di Weltevreden. Poi prese una pentola d'acqua piovana dalla cisterna e la mise sulla stufa a scaldare. Si rase con cura, mise gli indumenti piú puliti che riuscì a scovare e si aggiustò la benda nera sull'occhio. Chiuse la baracca e nascose la chiave nel solito posto; poi, col fagotto della biancheria sporca, salì alla macchina. La Jaguar era tutta impolverata e bianca di sale marino. La batteria era scarica e dovette avviarla al volo spingendola giú per la discesa. Centaine era nel suo studio, seduta alla scrivania, davanti a una pila di carte. Saltò in piedi quando entrò Shasa e non gli corse incontro solo perché riuscì a controllarsi. « Ciao, chéri, hai un bellissimo aspetto. Ero preoccupata... sei stato via cinque settimane. » La pezza nera sull'occhio l'atterriva ancora. Ogni volta che le vedeva, le venivano in mente le ultime parole di Isabella Malcomess: «Occhio per occhio, Centaine Courteney, ricordatene. Occhio per occhio ». Riuscì a calmarsi e andò tranquillamente ad abbracciare suo figlio. « Sono contenta che tu sia tornato a casa, chéri », disse porgendogli la guancia. « Blaine Malcomess mi ha offerto un incarico di guerra. Penso che l'accetterò. » « Sono sicura che è una cosa importante », annuì Centaine. « Ne sono felice per te. Cercherò di cavarmela da sola mentre tu sei via. » Shasa fece un sorrisetto sarcastico. « Sono convinto che te la caverai benissimo, mamma, come hai fatto negli ultimi ventidue anni... »
La lunga fila di vagoni merci tirati da due vaporiere imboccò l'ultima salita prima del passo. Sulla ripida pendenza le locomotive spandevano grandi sbuffi di vapore argenteo, e le montagne sul fiume Hex restituivano l'eco di quegli ansiti insoliti. Con uno sforzo finale raggiunsero il passo e dilagarono sul tavoliere, il grande karoo: acquistando velocità di colpo, rombarono sulla piana tirandosi dietro la serpeggiante fila di vagoni. Una settantina di chilometri dopo il passo il treno rallentò e poi si fermò sferragliando sugli scambi della stazioncina da cui partiva la linea per il fiume Touws. Qui doveva avvenire il cambio dei ferrovieri. Il nuovo equipaggio accolse quello che smontava con allegri saluti nell'ufficio del capostazione, e poi andò al convoglio a prender posto. La locomotiva di testa fu staccata e messa su un binario di manovra. Non era piú necessaria, il resto della linea (milleseicento chilometri verso nord, fino alle miniere d'oro del Witwatersrand) era tutto sugli altipiani e non contemplava grandi saliscendi. La locomotiva sarebbe tornata ai piedi delle montagne ad aiutare a salire il prossimo merci. I ferrovieri che smontavano, col pastrano di servizio e le gamelle del mangiare, si diressero verso la fila di casette della compagnia, tutti contenti di tornare a casa in tempo per un bagno caldo e la cena in famiglia. Solo un macchinista restò sul marciapiede a guardare il merci che ripartiva diretto a nord. Mentre passavano contò i vagoni, controllando se erano ancora nell'ordine di prima. I carri numero dodici e tredici erano vagoni chiusi, verniciati d'argento per distinguerli e respingere il calore del sole. Sui lati c'erano delle croci rosse e la vistosa scritta ESPLOSIVE. Quei vagoni erano stati caricati presso la fabbrica di Somerset West delle African Explosive and Chemical Industries: contenevano venti tonnellate di gelatina da consegnare alle miniere d'oro dell'Anglo American Group. Mentre passava il carro della guardia di scorta, il macchinista entrò nell'ufficio del capostazione. Il capostazione era ancora in fondo alla banchina, col berretto in testa e la paletta rossa e verde sottobraccio. Il macchinista prese la cornetta del telefono a muro e girò la manovella. « Centralino », disse nel microfono in afrikaans. « Mi passi l'uno uno uno sei di Matjesfontein. » Aspettò che la centralinista gli desse la comunicazione. « E' in linea, parli pure. » Ma non parlò finché non sentí il clic della signorina che si toglieva dalla linea. « Parla Van Niekerk », disse. « Qui Spada Bianca. » La risposta, anche se se l'aspettava, gli fece rizzare i capelli sulla nuca. « Il treno ha ventitré minuti di ritardo. E' partito di qui due minuti fa. I vagoni sono il dodici e il tredici. » « Bene, bravo. » Manfred De La Rey rimise a posto la cornetta e guardò l'orologio prima di sorridere alle due donne che lo osservavano apprensive nella cucina della fattoria. « Grazie, Mevrou », disse alla piú anziana. « Le siamo grati del-
l'aiuto. Non avrà nessun problema, glielo garantisco. » « Tanto siamo abituate ai guai, Meneer », rispose la vecchia fieramente. « Nel '99 i rooinekke bruciarono la fattoria e uccisero mio marito. Manfred aveva la motocicletta davanti al granaio, ci salí sopra e parti. Percorse un chilometro o due fino alla strada principale. Girò a nord, e dopo altri pochi chilometri si trovò a filare a fianco della ferrovia. Alla base di una collina rocciosa la strada e la linea ferroviaria si separavano: i binari salivano sulla costa della collina e scomparivano al di là. Manfred fermò la moto e controllò che la strada fosse sgombra. Poi imboccò un altro viottolo di campagna e seguì i binari dietro la collina. Ancora una volta si fermò, mise la moto sul cavalletto e si guardò intorno. Erano abbastanza lontani dalla fattoria della vedova da non attirare sospetti sulla vecchia. La collina nascondeva questo tratto della ferrovia dallo stradone, che però era abbastanza vicino da consentire una rapida fuga in entrambe le direzioni. La pendenza avrebbe rallentato la locomotiva fin quasi a passo d'uomo: aveva controllato il passaggio di altri merci in questo tratto. Inforcò di nuovo la moto e seguí i solchi lasciati da altre ruote, che avevano schiacciato l'erba. I camion erano nascosti dietro la prima piega del terreno, al riparo di un folto roveto. Erano quattro: uno da tre tonnellate, due da quattro, e un grosso Bedford da dieci. Era stato difficile, con il gasolio razionato, riempire i serbatoi. Si trovavano a soli cento passi dalla linea ferroviaria. Gli uomini aspettavano tra i camion, distesi sull'erba: ma sentendo avvicinarsi la moto si alzarono e gli corsero incontro. Roelf Stander era alla loro testa. « Il treno passa alle nove e mezzo », gli disse Manfred. « I vagoni sono il dodicesimo e il tredicesimo. Dunque fate il calcolo. » Uno della banda era un ferroviere che calcolò la distanza tra la motrice e i vagoni dell'esplosivo. Roelf e Manfred si recarono soli ai binari a segnare i punti di riferimento in base alla composizione del treno. Manfred intendeva fermare il treno merci in modo che i vagoni dell'esplosivo si trovassero proprio davanti alla macchia di rovi che celava i camion. Contarono i passi da questo punto e Manfred piazzò le cariche sotto i coprigiunti delle rotaie. Poi lui e Roelf tornarono indietro e piazzarono sui binari, nel punto indicato dal ferroviere, i petardi che al passaggio del treno avrebbero sprigionato luci rosse di segnalazione. Quando finirono era buio, sicché poterono procedere al lavoro successivo. Fecero uscire ali uomini dal riparo e li disposero ai posti di combattimento. Erano tutti giovani, scelti per la mole e la forza fisica. Erano vestiti di panni campagnoli scuri, e armati con una bizzarra collezione di fucili sopravvissuti al bando di Smuts: doppiette e vecchi Mannlicher e Lee Enfield di guerre che furono. Solo Roelf e Manfred impugnavano moderne pistole Luger, arrivate dalla Germania nel sacco di gomma sul sottomarino. Manfred si pose alla testa del gruppo piú piccolo e Roelf a quel-
la degli scaricatori, e si misero ad aspettare nel buio. Fu Manfred a sentirlo per primo. Era un lontano sussurro nella notte, ancora quasi indistinguibile, e mise gli uomini all'erta con tre secchi colpi di fischietto. Poi collegò i fili delle cariche alla scatola della batteria. Il grande occhio di Ciclope della locomotiva che si avvicinava lampeggiò nella pianura sottostante. Gli uomini in agguato si calarono le maschere sul viso e si nascosero nel fossato erboso sotto la massicciata. L'ansito della locomotiva rallentò e si fece piú profondo all'inizio della salita. Si arrampicava a fatica, superando il primo gruppo di uomini in agguato. Subito dopo schiacciò il primo razzo di segnalazione, accendendolo. Il razzo partí illuminando il Veld per cento metri quadrati di luce rossa tremolante. Manfred sentì il cigolio metallico dei freni, e si rilasso leggermente. Il macchinista agiva per riflesso automatico: non sarebbe stato necessario far deragliare il treno. Si illuminò il secondo razzo, con un altro gran botto, sparando fiammate rosse tra le ruote della locomotiva: ma ormai il treno stava frenando con la «rapida», stridendo sui binari e sbuffando fiotti di vapore dalle valvole di sicurezza in un pandemonio di fischi. Mentre ancora si muoveva, Manfred saltò sul predellino e punto la Luger in faccia all'attonito macchinista e al fuochista. « Spegni il fanale e la caldaia e giú dal treno! » ordinò col volto celato dalla maschera. Coi freni tirati, i due ferrovieri saltarono giú a mani in alto. Subito furono perquisiti e legati. Manfred corse verso il centro del treno e raggiunse i vagoni dell'esplosivo quando gli uomini di Roelf avevano già cominciato a scaricare le casse, che si passavano di mano in mano fino al camion. « E la guardia di scorta sul retro del treno? » chiese Manfred. « Già legata come un salame », rispose Roelf. Manfred tornò di corsa alla locomotiva. Rapidamente disinnescò l'esplosivo che aveva piazzato sui binari, contento che non fosse stato necessario farlo brillare. Quando tornò il primo camion era già stato completamente caricato. « Portatelo via! » gridò Roelf. Uno dei suoi uomini montò sul camion, avviò il motore e se ne andò a luci spente. Il secondo camion si avvicinò a marcia indietro al vagone dell'esplosivo e cominciarono subito a caricarlo. Manfred guardò l'orologio. « Dodici minuti », ragionò. Erano in anticipo sulla tabella di marcia. Macchinista, fuochista e guardia erano legati e chiusi nel gabbiotto della scorta mentre lo scarico dell'esplosivo procedeva rapidamente e senza intoppi. « Finito », gridò Roelf. « Non ce ne sta piú. » « Quarantotto minuti », disse Manfred. « Bravissimi! E adesso via tutti! » « E tu cosa fai? » « Andate via! Badero io a me stesso. » Guardo il Bedford far manovra e allontanarsi nel buio finché raggiunse la stradina di campagna e accese i fari. Poi svaní anche il
rumore. Era rimasto solo. Se Roelf e gli altri avessero saputo cosa intendeva fare adesso, avrebbero magari esitato, o cercato di impedirglielo. Manfred salí sul carro degli esplosivi. Era ancora mezzo pieno di casse. Erano stati in grado di sottrarne soltanto una parte, mentre il secondo vagone, il tredicesimo, non era stato nemmeno toccato. Restavano almeno venticinque tonnellate di esplosivo sul treno. Puntò il congegno a orologeria su quindici minuti e lo piazzò tra le casse di legno e la parete metallica del vagone, spingendolo in un angolino in cui non si notava facilmente. Poi saltò giú e corse verso la locomotiva. Nessuno dei tre uomini imprigionati nella cabina della scorta faceva parte dell'Ossewa Brandwag. Lasciati in vita, avrebbero certamente reso pericolose testimonianze alla polizia. Provò ben poca pietà per loro: erano comuni vittime della guerra. Montò sulla cabina della locomotiva e allentò i freni. Poi gradualmente aumentò la pressione. Le ruote si misero a slittare, poi fecero presa e il treno si avviò di scatto su per la salita. Manfred fissò la leva a mezza forza. Poi saltò giú dal treno, e rimase a guardarlo mentre gli sfilava davanti agli occhi. Accelerava gradualmente. Quando fu passato tornò alla motocicletta. Seduto sul sedile si mise ad aspettare l'esplosione guardando nervosamente l'orologio. Alla fine lo scoppio fu poco piú di un lampo arancione all'orizzonte settentrionale, seguito dopo un bel pò di tempo dall'onda d'urto, una folatina in faccia, e un brontolio come di risacca. Manfred pigiò col piede la leva dell'avviamento e si diresse verso sud nelle tenebre della notte. Era un buon inizio, pensava, ma c'era ancora molto da fare. Blaine alzò gli occhi. Shasa era entrato nel suo ufficio e ora esitava, sulla soglia. Indossava l'uniforme dell'aviazione, con le decorazioni e le insegne del grado. « 'giorno, Shasa », disse Blaine con un cenno non compromettente. « Sono le dieci, posso offrirti un whisky? » Shasa sbatté le ciglia. « Sono venuto a scusarmi per il mio comportamento dell'altro giorno. Veramente imperdonabile, signore. » « Accomodati », disse Blaine indicandogli la poltrona di pelle davanti alla libreria. « A volte tutti ci comportiamo da idioti. Il trucco è accorgersene. Accetto le scuse. » Shasa si sedette, accavallò le gambe e poi le scavallò. « Aveva accennato a un incarico, signore? » Blaine annuí e si alzò in piedi. Andò alla finestra e si mise a guardare il giardino. Una vecchia signora nutriva i piccioni gettando briciole da un cartoccio. La guardò e considerò ancora una volta la faccenda. Stava forse lasciando che l'amore per Centaine Courteney e il figlioccio gli obnubilasse il retto senso del dovere? La cosa era di vitale importanza per la sicurezza dello Stato: Shasa era forse troppo giovane e inesperto per quel compito? si domandò. Ma erano tutte cose a cui aveva già dedicato ampie riflessioni, sicché tornò a girarsi verso a scrivania. Si sedette e prese in mano una cartellina nera. « E' un segreto di
Stato », disse soppesando la cartella in mano. « Un rapporto segretissimo e molto importante. » Lo passò a Shasa. « Non deve uscire da questo ufficio, quindi leggitelo qui. Adesso devo andare dal Maresciallo Smuts. » Guardò l'orologio. « Sarò di ritorno tra un'ora e ne parleremo. » Invece tardò alquanto e, quando tornò, Shasa stava leggendo ancora. Guardò Blaine dalla poltrona con la cartella aperta sulle ginocchia e l'espressione seria e grave. « Che te ne pare? » chiese Blaine. « Avevo già sentito parlare dell'OB », rispose Shasa, « come tutti del resto. Ma non avevo idea che fosse una cosa del genere. E' un vero e proprio esercito clandestino, signore, un esercito clandestino in mezzo a noi. Se dovesse essere mobilitato... » fece una pausa per cercare le parole. « Potrebbe scoppiare una rivoluzione, una guerra civile, con la maggior parte dei nostri uomini validi a combattere su nel nord. » «Hanno già cominciato a muoversi», disse sottovoce Blaine. « Fino a oggi hanno rimandato, nel tipico stile afrikaner, litigando fra loro, ma di recente è accaduto qualcosa che ha rinsaldato i loro propositi. » Si interruppe e si mise a riflettere un momento, poi continuò. « Ehi, Shasa, non c'è bisogno di dire che quanto qui ci diciamo non deve essere rivelato a nessuno, nemmeno al parente più stretto. » « Naturalmente, signore. » Shasa sembrava oppresso da un gran peso. « Hai letto dell'esplosione di un treno sulla linea ferroviaria del fiume Touws due settimane fa? » « Sissignore, un tragico incidente. Sono saltati in aria tre ferrovieri. » « Non crediamo sia stato un incidente. I tre cadaveri erano tutti nella cabina della guardia, e sembra fossero legati. Riteniamo che gran parte dell'esplosivo sia stato rubato dal treno, e che il resto sia stato fatto deflagrare per coprire il furto. » Shasa fischiò sommessamente. « Io credo che sia solo l'inizio. Credo che sia cominciata una nuova fase, e che d'ora in poi le cose siano destinate a peggiorare molto. Come ti ho già detto, dov'essere scappato qualcosa, una nuova sicurezza. Bisogna scoprire cos'è e colpire. » « Come posso rendermi utile, signore? » « Questa è una cosa grossa, di livello nazionale. Debbo tenermi a stretto contatto con i capi della polizia di tutte le province e col controspionaggio militare. L'intera operazione dov'essere attentamente organizzata e coordinata. Insomma, ho bisogno di un aiutante, addetto ai collegamenti, e questo è il posto che ti offro. » « Sono onorato, signore, ma non capisco perché abbia scelto me. Ci saranno senz'altro persone ben piú qualificate... » «Noi due ci conosciamo bene, Shasa», l'interruppe Blaine. « Abbiamo collaborato per anni. Formiamo una buona squadra. Mi fido di te. So che hai cervello e coraggio. Non mi serve un poliziotto: mi serve uno che capisca al volo il mio pensiero e segua anche le istruzioni implicite. » A un tratto Blaine si mise a ridere. « Ma do-
potutto... sei tu che cerchi lavoro, vero? » « Ha ragione, signore. La ringrazio. » « Attualmente sei in licenza di convalescenza, ma penserò io a farti aggregare dall'Aviazione al ministero degli Interni immediatamente. Manterrai grado e stipendio da comandante di squadriglia, ma d'ora in poi riferirai direttamente a me. » « Capisco, signore. » « Shasa, hai già riprovato a volare da quando hai perso l'occhio? » Ne parlò francamente, per nulla evasivo: nessuno, nemmeno sua madre, l'aveva ancora fatto. La stima di Shasa per lui aumentò. « No, signore », rispose. « Peccato, ti si potrà richiedere di spostarti velocemente da una zona all'altra del paese. » Osservò l'espressione di Shasa: ne colse la risolutezza nella mascella serrata. « Si tratterà solo di abituarsi a giudicare bene le distanze », bofonchiò Shasa. « Una questione di pratica. » Blaine si sentí racconsolato e felice. « Prova a giocare un pò a polo », gli suggerì. « Colpir la palla sarà un utile esercizio. Ma adesso parliamo di cose serie. Il funzionario di polizia incaricato delle indagini è l'ispettore capo Louis Nel, della polizia di Città del Capo. Te lo presenterò. E' una persona di prim'ordine che ti piacerà di certo. » Parlarono e fecero piani per un'altra ora prima che Blaine lo congedasse. « Per ora direi che il lavoro ti basta. Fatti vedere qui da me domattina alle otto e mezo. » Ma quando Shasa raggiunse la porta, lo fermò. « A proposito, Shasa... per venerdì sera l'invito è sempre valido. Alle venti. Abito da sera o uniforme. Cerca di non mancare, vuoi? » Sarah Stander giaceva sola nel letto d'ottone, al buio. I bambini piú grandi dormivano nell'altra stanza: la culla dell'ultima era accanto a lei. Dormiva come un angioletto. Il campanile batté le quattro. Aveva sentito scoccare ogni ora da mezzanotte in poi. Pensò di alzarsi per vedere se i bambini erano coperti - il piccolo Petrus continuava a scalciar via le coperte - ma proprio in quella sentí aprirsi pian piano la porta d'ingresso che dava in cucina. Si irrigidì e tenne il fiato, ascoltando. Sentí Roelf rientrare e svestirsi pian piano nel bagno, il duplice tonfo degli stivali, poi la porta della camera da letto cigolò e il materasso affondò sotto il suo peso. Fece finta di dormire. Era la prima volta che rientrava cosí tardi. Da quando Manfred era tornato era molto cambiato. Giacque insonne nel buio: « E' lui che mena gramo. Ci rovinerà tutti. Ti odio, Manfred De La Rey ». Accanto a lei, sapeva benissimo che anche Roelf non dormiva. Era teso come una corda di violino. Le ore passavano pian piano, e lei restava sempre immobile. Poi la bambina si mise a piagnucolare; la prese nel letto e le diede il seno. Il latte di Sarah era sempre stato abbondante e buono, e la piccola succhiò, fece il ruttino e si riad-
dormente subito. La rimise nella culla, e nell'attimo in cui rientrava a letto Roelf allungò le mani su di lei. Nessuno dei due parlò, e lei si fece forza per accoglierlo. Odiava tutto ciò. Non era mai stato come con Manfred, quelle poche volte che ricordava ancora cosí bene. Tuttavia, quella notte Roelf si comportò in un altro modo. La montò rapidamente, quasi con brutalità, e finí subito con un urlo selvaggio, poi si girò dall'altra parte e si mise a dormire profondamente. Lei giacque immobile a sentirlo russare. A colazione gli chiese tranquilla: « Dove sei stato ieri notte? » Lui si arrabbiò subito. « Chiudi il becco, donna», le gridò in faccia. « Non sei la mia balia. » « Ti sei immischiato in qualche pericolosa follia », continuò lei ignorando l'avvertimento. «Hai tre bambini piccoli, Roelf. Non puoi permetterti la stupidità... » « Basta, donna! » tuonò. « Sono cose da uomini. Stanne fuori. » Senza aggiunger altro uscí e andò all'università, dove era assistente presso la facoltà di legge. Sarah sapeva che tra dieci anni avrebbe avuto la cattedra, se prima non succedeva qualche guaio. Pulita la casa e rifatti i letti, mise i bambini nella gran carrozzina doppia e si diresse verso il centro. Si fermò una volta a parlare con la moglie di un collega di Roelf, e un'altra a comprare dei lecca-lecca per i bambini piú grandi. Mentre pagava notò i titoloni in prima pagina dei giornali. « Prendo anche il Burger. » Attraversò la strada e si sedette su una panchina a leggere la notizia dell'esplosione di un treno da qualche parte sul parco. Poi ripiegò il giornale e rimase lí seduta a riflettere. Il giorno prima Roelf era uscito dopo pranzo. L'esplosione era avvenuta alle dieci e mezzo circa. Calcolò tempi e distanze e, sbigottita, vide che concordavano. Le venne un crampo al ventre. Rimise i bambini sulla carrozzina e si recò alla posta. Lasciò la carrozzina di fianco alla cabina telefonica di vetro, dove poteva sorvegliarla. « Centralino, mi passi la centrale di polizia di Città del Capo. » « Rimanga in linea. » All'improvviso l'enormità di quello che stava per fare la colpí. Come poteva consegnare Manfred De La Rey alla polizia senza tradire, contemporaneamente, anche suo marito? Tuttavia era convinta che fosse suo dovere impedire a Roelf di continuare a fare quelle cose terribili che certo avrebbero causato la sua rovina. Era suo dovere proprio nei confronti del marito e dei bambini. « Stazione di polizia di Città del Capo. In che posso aiutarla? » « Si tratta... » cominciò Sarah, poi si morse la lingua. « Ma non è importante. Mi spiace d'averla disturbata», e riappese. Corse fuori della cabina telefonica e tornò in fretta a casa con la carrozzina. Sedette al tavolo di cucina e si mise a piangere piano, sbigottita, sola e incerta. Dopo un pò si asciugò gli occhi col grembiule e si fece una tazza di caffè. Shasa fermò la macchina davanti a casa Malcomess ma non scese subito. Restò seduto a riflettere sulle mosse da fare. « Probabilmente farò un'altra volta la figura dell'idiota », pen-
sò, spostando lo specchietto retrovisivo per darsi un'occhiata. Si pettinò rapidamente e aggiustò la benda nera sull'occhio. Poi scese dall'auto. La via era piena di macchine parcheggiate. Era una gran festa, con due o trecento invitati, ma Blaine Malcomess era un uomo importante e il fidanzamento di sua figlia un avvenimento. Shasa attraversò la strada. L'ingresso principale era spalancato, ma era ugualmente difficile entrare: anche l'anticamera era affollatissima, e il ricevimento era in pieno svolgimento. Un'orchestrina negra stava suonando The Lambeth Walk e Shasa, sbirciando all'interno, vide molte coppie danzare saltellando allegramente. Si fece strada fino al bar. Perfino Blaine Malcomess non poteva offrire del whisky: non si trovava piú. Oggi era considerato patriottico bere brandy del Capo, ma Shasa ordinò un ginger. « La mia vicenda di bevitore è durata poco », pensò fendendo la folla col bicchiere in mano, salutando vecchi amici, baciando sulla plancia le donne, molte delle quali aveva già baciato con altri intendimenti in diverse occasioni. « Lieto di rivederti, Shasa. » Facevano finta di non notare la benda nera: dopo pochi secondi Shasa proseguiva, cercando lei. Era in sala da pranzo col cuoco negro e le cameriere, a dirigere la preparazione del buffet. Alzò gli occhi, lo vide e si irrigidí. Indossava un abitino leggerissimo di seta rosa, e la chioma le arrivava fino alle spalle. Shasa aveva dimenticato i suoi occhi così brillanti di madreperla grigia. Mandò via con un gesto i servitori mentre lui le si avvicinava lentamente. « Ciao Tara, sono tornato », disse. « L'avevo saputo. Sei qui da piú di un mese. Potevi anche... » S'interruppe e gli scrutò la faccia. « Ho saputo che sei stato decorato », disse sfiorandogli i nastrini sul petto, « e che sei stato ferito. » Lo guardava con franchezza, senza evitare di soffermarsi sul suo occhio sinistro. Poi sorrise. « Ti dà un'aria impetuosa e ardita. » « Io non mi sento affatto impetuoso e ardito. » « Si capisce », annuì. « Sei cambiato. » « Credi? » « Sì, non sei piú... » scosse la testa, irritata di non trovare la parola giusta. « Non sei piú un bullo strafottente. » « Voglio parlarti », le disse. « Seriamente. » « Va bene », annuì lei. « Cosa c'è? » « Non qui », disse Shasa. « C'è troppa gente. » « Domani, allora? » « Domani è troppo tardi. Vieni via con me adesso. » « Shasa, sei matto? Questa è la mia festa... la mia festa di fidanzamento. » «Porto la Jaguar davanti all'ingresso di servizio. Mettiti su qualcosa, fuori fa freddo. » Portò la Jaguar vicino al muro. Era li che usavano fermarsi a tirare in lungo i saluti. Spense i fari. Pensava che non sarebbe venuta, tuttavia aspettò. La sua sorpresa fu genuina, e il suo sollievo intenso quando lei
aprì la portiera e s'infilò sul sedile del passeggero. Si era cambiata, adesso era in pantaloni e maglione. Evidentemente non intendeva tornare al ricevimento. « Parti! » gli disse. « Andiamo via di qui! » Rimasero in silenzio per un pò. Shasa la sbirciava passando sotIo ogni lampione: guardava avanti, con un leggero sorriso, e alla fine parlò. « Prima non avevi mai bisogno di niente e di nessuno. Era questo che non sopportavo. » Lui non rispose. « Adesso, al contrario, sono convinta che hai bisogno di me. Me ne sono accorta appena t'ho visto. Adesso finalmente hai davvero bisogno di me. » Shasa tacque, le parole erano superflue. Invece le prese la mano. « Adesso sono pronta per te, Shasa », gli disse. « Portami dove possiamo star soli, completamente soli io e te. » C'era abbastanza luna da illuminare il sentiero. Si attaccò a lui per non cadere e scesero ridendo come matti. A metà della discesa si fermarono a baciarsi. Entrarono nella casetta e lui accese la lampada a petrolio. Vide con sollievo che i servitori erano venuti da Weltevreden a rimettere in ordine secondo le sue istruzioni. La branda aveva lenzuola e coperte pulite, e il pavimento era stato spazzato e lavato. Tara si fermò in piedi in mezzo alla stanza, con le mani giunte quasi a proteggersi, gli occhi grandi e luminosi alla luce della lampada. Quando la prese tra le braccia cominciò a tremare. « Shasa, per favore, fa, piano. Ho tanta paura», gli sussurrò. Fu paziente e molto delicato, ma lei non poteva fare paragoni e rendersi conto della sua immensa sicurezza e abilità. Si accorse solo che sembrava cogliere ogni sfumatura dei suoi sentimenti, anticipando ogni reazione del suo corpo, sicché non provò nessuna vergogna di esser nuda, e tutte le altre sue paure svanirono coi dubbi sotto le sue tenere mani e le sue labbra morbide e innamorate. Si ritrovò perfino a precederlo, imparando subito a guidarlo con piccoli movimenti sottili e qualche gemito e urletto d'incoraggiamento. Sicché alla fine alzò lo sguardo su di lui con meraviglia, e sussurrò rauca: « Mai avrei creduto, mai avrei sognato che fosse così bello. Oh Shasa, sono così felice che tu sia tornato a me! » La filiale di Fordsburg della Standard Bank serviva tutte le miniere d'oro del complesso del Central Rand. Tutte le paghe settimanali di decine di migliaia di minatori uscivano da questa filiale il cui capocontabile faceva parte dell'OB. Si chiamava Willem De Kok, ed era un ometto dal volto mollicciò che portava grosse lenti da miope: ma il suo aspetto era ingannevole. Nel giro di pochi minuti Manfred De La Rey scoprí che aveva una mente acuta, una completa dedizione alla causa e fin troppo coraggio per il suo fisico meschino. « I soldi arrivano il giovedí pomeriggio tra le cinque e le sei. Usano un furgone blindato, scortato da agenti di polizia in motoci-
cletta. Non è quello il momento di agire, perché nascerebbe sicuramente una sparatoria. » « Capisco », disse Manfred. « Prima di continuare ci dica per favore quanto denaro viene trasferito mediamente. » « Tra le cinquantamila e le settantamila sterline, tranne l'ultimo giovedí del mese, quando arrivano anche gli stipendi degli impiegati. Allora la somma ammonta a circa centomila sterline. In piú abbiamo sempre in cassa per le operazioni ordinarie sulle venticinquemila sterline. » Erano riuniti in casa di uno dei dirigenti delle miniere d'oro Crown Deep. Era stato lui a reputare gli stormjagters locali per il colpo. Era un uomo grande e grosso dalla faccia rossa da bevitore. Manfred non era tranquillo su di lui, anche se non aveva concreti motivi di sfiducia: temeva che, sotto pressione, quell'uomo si potesse rivelare inaffidabile. « Grazie, Meneer De Kok. Prego, continui. » « Il direttore della filiale, il signor Cartwright, apre la porta posteriore dell'edificio e il denaro viene portato dentro. Naturalmente a quell'ora pomeridiana la banca è chiusa ai normali clienti. Io e il signor Cartwright, insieme ai due cassieri anziani, contiamo i soldi e rilasciamo la ricevuta. Poi il denaro è depositato nel sotterraneo della banca dove resta chiuso la notte. Io ho una chiave e so metà della combinazione: il signor Cartwright ha un'altra chiave e conosce l'altra metà della combinazione. » « Ecco il momento », disse Manfred. « Quando la polizia se n'è andata, e prima che i soldi vengano chiusi nel sotterraneo. » «E' una possibilità», ammise De Kok. «Tuttavia, a quell'ora c'è luce, e le vie sono piene di gente. Il signor Cartwright è un tipo da prendere con le molle. Troppe cose potrebbero andar storte. Posso dirvi come farei io? » « Certo, signor De Kok, e grazie dell'assistenza. » Mancavano dieci minuti a mezzanotte e il signor Peter Cartwright si alzò. La riunione massonica era terminata. Era a capo della loggia e sullo smoking indossava ancora il grembiule rituale. Aveva parcheggiato la macchina, come sempre, nel viottolo posteriore: ma stanotte, mentre la stava avviando, sentí qualcosa di duro premergli contro la nuca e una voce fredda avvertirlo: « E' una pistola, signor Cartwright. Se non fa quello che le dico, le sparo in testa. Vada alla banca. » Atterrito, il direttore della filiale fece quanto gli ordinarono i due uomini mascherati che sedevano dietro. Andò alla banca e lasciò la macchina accanto all'ingresso posteriore. Negli ultimi tempi c'era stata un'epidemia di rapine alle banche del Witwatersrand, in una delle quali era stata ammazzata una guardia. Cartwright non aveva dubbi sulla posizione pericolosa in cui si trovava e sulla spietatezza dei suoi rapitori. Appena scese dalla Morris, costoro gli si strinsero ai fianchi pungolandoli con la pistola e lo spinsero verso la porta della banca. Uno dei due bussò velocemente con la canna della pistola e, tra lo sbalordimento del direttore, la porta si aprì subito. Solo quando fu dentro capì come avevano fatto a entrare i rapinatori. Vide infatti il
capocontabile Willem De Kok in pigiama e vestaglia, con la testa scarmigliata e la faccia stravolta e cinerea per il terrore. Evidentemente l'avevano tirato giú dal letto. « Mi spiace, signor Cartwright », balbettò. « Mi hanno costretto. » « Animo, ragioniere », berciò Cartwright, reso brusco dalla sua stessa paura. Poi la sua espressione cambiò scorgendo le due donne: la piccola e grassoccia moglie di De Kok e la sua amata Mary in bigodini e vestaglia lunga con le rose artificiali sul davanti. « Peter », piagnucolò. « Oh, Peter, non lasciarli fare! » « Smettila, Mary. Non farti vedere cosí da loro » Cartwright diede un'occhiata ai rapitori. Erano in sei, compresi quelli che avevano prelevato lui, ma la sua abitudine a valutare gli uomini gli fece individuare immediatamente il capo: un uomo alto e grosso, con una folta barba nera che spuntava da sotto il fazzolettone con cui si nascondeva il viso. Sopra c'erano due occhi stranamente chiari, simili a quelli di un grosso felino. La sua paura si trasformò in terrore quando guardò in quegli occhi gialli, perché non ci vide nessuna compassione. « Aprite la porta blindata », ordinò l'uomo in inglese fortemente accentato. « Non ho la chiave », disse Cartwright. L'uomo dagli occhi gialli prese la signora Cartwright per il polso e la mise in ginocchio con un gesto. « Non si permetta! » sbottò Cartwright, mentre l'uomo le puntava la pistola alla tempia. « Mia moglie è incinta », aggiunse subito dopo. « Dunque le risparmi altre prove. » « Aprigli la cassaforte, Peter. Lasciagli prendere i soldi. Tanto non sono mica nostri », gridava Mary. « Sono della banca. Daglielì. » Cominciò involontariamente a orinare a piccoli spruzzi macchiandosi la vestaglia. Cartwright andò alla porta blindata, una Chatwood d'acciaio dipinto di verde, e tirò fuori la chiave assicurata alla catena dell'orologio che portava nel panciotto. In preda a rabbia e umiliazione formò la sua parte della combinazione e girò la chiave. Si fece da parte mentre De Kok si avvicinava per fare la stessa cosa. Poi, mentre tutti guardavano la porta blindata che si apriva lentamente, diede un'occhiata alla propria scrivania. Teneva la pistola nel primo cassetto a destra. Era una Webley d'ordinanza calibro 45, sempre carica. In quell'attimo la sua ira per il trattamento che avevano riservato a sua moglie superò il terrore. « Prendete i soldi! » ordinò ai tre rapinatori il capo dagli occhi chiari. Tre uomini si gettarono nel sotterraneo blindato coi sacchi in mano. « Mia moglie », disse Cartwright. « Devo aiutarla. » Nessuno gli impedì di sostenerla e accompagnarla verso la scrivania. Teneramente la fece accomodare sulla sedia, parlandole di continuo per nascondere il rumore del cassetto che si apriva. Prese la pistola e l'infilò nella tasca del grembiule massonico. Poi arretrò, lasciando la moglie alla scrivania. Aveva le mani al-
l'altezza delle spalle, in posizione di resa, e raggiunse De Kok contro il muro opposto. Entrambe le donne erano fuori della linea di tiro. Aspettò che i tre rapinatori uscissero dal sotterraneo, coi sacchi pieni di banconote. Ancora una volta l'attenzione di tutti si concentrò sui sacchi gonfi, e Cartwright mise la mano in tasca del grembiule di cuoio bianco, tirò fuori la pistola e sparò. Continuò a sparare anche mentre lo colpivano i proiettili della Luger, proiettandolo contro il muro. Sparò finché sotto il cane della Webley a tamburo non ricapitò un bossolo vuoto, ma l'ultima pallottola gli era finita tra i piedi sul pavimento di cemento. Scivolò contro il muro e si abbatté morto per terra in una pozza di sangue. SANGUINOSA RAPINA IN BANCA DUE MORTI NEL WITWATERSRAND C'è lo zampino dell'OB. Le lettere OB attirarono lo sguardo di Sarah Stander. Entrò nel negozio e, dopo aver comprato come sempre il lecca-lecca ai bambini, si fece dare anche il giornale. Andò al parco e, mentre i due piccoli correvano sul prato e la bambina stava buona nella carrozzella distrattamente cullata col piede, lesse avidamente l'articolo in prima pagina. « Il direttore di una banca di Pordsburg, Peter Cartwright, è stato ucciso a colpi di pistola ieri notte, mentre tentava di impedire la rapina al forziere sotterraneo della banca. Anche un rapinatore è rimasto ucciso, mentre un altro, gravemente ferito, è stato arrestato. « Secondo le prime stime, gli altri rapinatori sono scappati con piú di centomila sterline in contanti. « Un funzionario di polizia ha dichiarato stamattina che i primi interrogatori del rapinatore ferito hanno fatto emergere chiaramente la responsabilità della Ossewa Brandwag nel colpo. « Il ministro degli Interni, colonnello Blaine Malcomess, ha annunciato a Città del Capo di avere ordinato un'inchiesta sulle attività sovversive della OB. Tutti i cittadini che abbiano notizie da dare possono mettersi in contatto con la locale stazione di polizia o telefonare ai seguenti numeri: Johannesburg 78114; Città del Capo 42444. Il ministro garantisce la massima riservatezza agli informatori. » Rimase seduta per quasi un'ora, cercando di decidersi, lacerata tra la fedeltà alla famiglia e il dovere patriottico. Era confusa, terribilmente confusa. Era giusto rapinare delle banche, far saltare dei treni e uccidere delle persone innocenti in nome di libertà e giustizia? Sarebbe stata una traditrice a cercar di salvare marito e figli? E gli altri innocenti che avrebbero sicuramente perso la vita se si permetteva a Manfred De La Rey di continuare, non contavano? Era facile immaginare la tragedia di una guerra civile nel paese. Guardò ancora il giornale e imparò a memoria il numero di telefono. Si alzò in piedi, chiamò i bambini e spinse la carrozzina al di là della strada. Sul marciapiede, avviandosi all'ufficio postale, notò il vecchio signor Oberholster, che lo dirigeva, guardarla dalla finestra. Sapeva che era uno di loro: l'aveva visto in uniforme dell'OB una
volta che era venuto a prendere a casa Roelf prima di una delle loro riunioni. Si spaventò. Tutte le telefonate passavano dall'ufficio postale: Oberholster poteva inserirsi facilmente sulla linea, la centralinista poteva riconoscere la sua voce. Non si fermò e proseguí verso la macelleria. Comprò un chilo di braciole, uno dei cibi preferiti di Roelf, e tornò in fretta a casa, per riflettere liberamente sul da farsi, lontano dalla gente. Entrando in cucina udì voci maschili nella stanza che Roelf usava come studio. Era tornato presto dall'università quel giorno. Riconobbe, con il batticuore, la voce di Manfred. Si irritò che le facesse ancora effetto. Manfred non veniva a casa sua da piú di tre settimane, e si rese conto che sentiva la sua mancanza, che aveva pensato a lui quasi ogni giorno con sentimenti oscillanti dall'amarezza al risentimento all'odio al desiderio. Cominciò a preparar da mangiare per Roelf e i bambini, ma le voci maschili le arrivavano con troppa chiarezza. Ogni tanto si soffermava ad ascoltare, e una volta udì Manfred dire: « L'altro ieri a Johannesburg... » Così, era stato a Johannesburg. La rapina in banca risaliva a due giorni prima: dunque avevano avuto tutto il tempo di tornare in auto o in treno. Pensò ai due uomini che erano rimasti uccisi. Aveva letto sul giornale che il direttore della filiale aveva due bambini piccoli e la moglie incinta. Si chiese come poteva sentirsi ora quella povera donna, col marito morto e tre piccoli da allevare. Poi fu di nuovo distratta dalle voci maschili, e si interruppe per ascoltare. Ciò che udì la riempí di paura. « Quando finirà tutto questo? » gemette. «Oh, quanto vorrei che la smettessero! Quanto vorrei che Manfred se ne andasse e ci lasciasse in pace... » Ma questo pensiero la riempiva, anche, di disperazione. Shasa tornò dal Witwatersrand da solo, pilotando il Rapide, e atterrò a Youngsfield col buio. Dall'aeroporto andò in macchina direttamente a casa di Blaine in Newlands Avenue. Tara gli aprì, la porta, illuminandosi di gioia al vedere che era lui. «Oh, tesoro, quanto mi sei mancato! » Si baciarono appassionatamente finché la voce di Blaine li indusse a separarsi con un sobbalzo. « Senti un pò, Shasa, non mi va di interrompere le cose importanti, ma quando hai un momento libero gradirei sentire il tuo rapporto. » Tara era rossa come un peperone, e furiosa. « Papà! Ci stavi spiando! » « Non c'era bisogno di spiare, lo spettacolo era pubblico. Vieni, Shasa. » Lo guidò in studio e lo fece accomodare. « Bevi qualcosa? » « Sì, ginger, un ginger. » « Come siamo caduti in basso », scherzò Blaine versandosi un dito di whisky e porgendo la bibita a Shasa. « E ora dimmi, cos'è che non potevi spiegarmi al telefono? » « Penso che abbiamo avuto un colpo di fortuna, signore. » Per ordine di Blaine, Shasa era volato a Johannesburg appena la rapina
in banca era stata attribuita all'OB. Era stato a Marshall Square, al quartier generale del CID, mentre interrogavano il rapinatore catturato. « Come sa, quel tipo è un funzionario delle miniere Crown: si chiama Thys Lourens ed era noto come membro dell'Ossewa Brandwag. Non certo un pesce grosso, ma un tipo dall'aria formidabile, anche se per me trinca mica male. Ho detto all'ispettore di polizia che lei voleva delle risposte... » Quando parlavano di lavoro, Shasa trattava Blaine senza confidenza, col rispetto dovuto al ministro degli Interni. « Spero che non l'abbiate torturato », si accigliò Blaine. « No, signore, non è stato necessario. Questo Lourens non è il duro che sembra. Abbiamo solo dovuto ricordargli che la pena dell'omicidio per rapina è la forca, ma che ci si poteva mettere d'accordo, perché cominciasse a parlare. Le ho riferito gran parte della sua confessione stamattina, per telefono. » « Sì. Continua. » « Ha fatto i nomi di tre complici, che sono stati arrestati prima che io partissi da Johannesburg. Tuttavia il capo della banda era un tale che aveva conosciuto tre giorni prima. Non sapeva il suo nome, né dove rintracciarlo. » « L'ha descritto, almeno? » «Si. E' un tipo grande e grosso, capelli e barba nera, naso schiacciato, cicatrice sopra un occhio... Una descrizione abbastanza dettagliata. Ma ci ha detto un'altra cosa che può risultare importantissima... » « Di che si tratta? » « Un nome in codice. Il capo è conosciuto come Spada Bianca, e l'ordine di collaborare con lui è venuto dai massimi vertici dell'organizzazione. » « Spada Bianca... » ripeté Blaine. « Sembra un personaggio dei fumetti. » « Purtroppo è molto puerile », continuò Shasa. « Ho ordinato all'ispettore che ha fatto l'interrogatorio di tacere a tutti nome convenzionale e descrizione di quell'uomo fino a nuovo ordine. » «Molto bene», disse Blaine sorseggiando dal bicchiere. Era contento che la sua fiducia in Shasa Courteney si fosse subito dimostrata ben riposta. « Spada Bianca... mi domando se sia questo il grilletto che cercavamo, il catalizzatore che infine ha messo in azione l'OB. » « Potrebbe benissimo esserlo, signore. Tutti i terroristi arrestati lo temevano moltissimo. Era chiaramente il motore di tutta la faccenda, ed è svanito nel nulla. Non c'è traccia nemmeno dei soldi... Incidentalmente, risulta che si tratti di piú di centoventisettemila sterline. » «Bella somma», mormoro Blaine. «E dobbiamo presumere che sia entrata nelle casse di guerra dell'OB, insieme alla gelatina dell'assalto al treno. » « Per quanto riguarda il nome convenzionale, signore, suggerirei di tenerlo segreto alla stampa e a chiunque non sia direttamente impegnato nell'indagine. » « Sono d'accordo. Tuttavia vorrei sentire le tue ragioni, poi ti
dico le mie. » « Per prima cosa non dobbiamo mettere sul chi vive quel tipo. Non deve sapere che siamo sulle sue tracce. » Blaine annuì. « Sí, certo. » « La seconda ragione è che il nome segreto ci permette di controllare l'attendibilità degli informatori. » « Non ti seguo », si accigliò Blaine. « Dopo il suo appello sulla stampa, ci sono state infinite telefonate, purtroppo quasi tutte inattendibili. Se divulghiamo il nome in codice lo useranno tutti. » « Ho capito. L'uso del nome in codice chiarirà che l'informatore non è il solito mitomane. » « Proprio così, signore. » « Allora va bene, per adesso lo teniamo nascosto. C'è qualcos'altro? » « Per il momento no. » « Dunque lascia che ti racconti cos'è successo qui mentre tu eri via. Ho parlato col primo ministro e abbiamo deciso di dichiarare l'OB un'organizzazione politica. Di conseguenza tutti i funzionari statali, compresi poliziotti e militari, dovranno dimettersi immediatamente dall'organizzazione stessa. » « Questo non cambierà le loro idee », osservò Shasa. «Naturalmente no», concordò Blaine. «Avremo sempre un quaranta-cinquanta per cento del paese contrario a noi e simpatizzante della Germania nazista. » « Non si può andare avanti cosí, signore. Lei e l'Ou Baas dovete costringerli a venire allo scoperto. » « Sì, lo sappiamo. Appena terminate le indagini, quando avremo una lista abbastanza completa dei membri, li spazzeremo via. » « Intendete arrestarli? » Shasa era sbalordito. « Sì. Saranno internati come nemici dello Stato per tutta la durata della guerra. » Shasa emise un fischio sommesso. «Piuttosto drastico, come provvedimento, signore. Potrebbero nascerne dei guai seri. » « Ecco perché dobbiamo prenderli tutti insieme. Non possiamo permetterci di lasciarne in giro qualcuno. » Blaine si alzò. « Vedo che sei stanchissimo, Shasa, e sono sicuro che la signorina Tara ha qualcosa da dirti. Ti aspetto in ufficio domattina alle otto e mezzo. » Andarono alla porta dello studio e Blaine aggiunse: « A proposito, tuo nonno Garry è arrivato a Weltevreden ». « E' venuto per il suo compleanno », sorrise Shasa. « Non vedo l'ora di rivederlo. Spero che verrà anche lei, col Maresciallo Smuts, al solito picnic. » « Non mancherei per nessuna ragione al mondo! » Blaine aprì la porta dello studio, e sorprese Tara in attesa, che faceva finta di cercare un libro in biblioteca. Blaine sogghignò. « Tara, lascialo dormire un pò stanotte, hai capito? Non voglio aver a che fare con uno zombi domani. » La riunione nell'ufficio di Blaine, l'indomani mattina, durò piú di quanto si aspettassero entrambi. Dopo un pò si trasferirono nell'ufficio del primo ministro dove Smuts interrogò personalmente
Shasa. Le sue domande erano così stringenti che Shasa si sentì esausto per lo sforzo di seguire la mente velocissima dell'Ou Baas. Se ne andò con sollievo, con l'ammonizione di Smuts nelle orecchie: « Dobbiamo assolutamente prendere questo signore, questo «Spada Bianca», e prima che faccia altro danno. Pensa tu a far arrivare il messaggio a chi di dovere. » « Sí, signore. » « E poi voglio quelle liste sulla mia scrivania entro il prossimo week-end. Dobbiamo rinchiudere tutti questi fanatici per renderli innocui. » Era mattina inoltrata quando Shasa arrivò al quartier generale presso il ministero degli Interni e parcheggiò la Jaguar nel posto a lui riservato. La sala operativa era stata ricavata nello spazioso sotterraneo. Alla porta c'era un poliziotto di guardia e Shasa firmò il registro. Potevano entrare solo le persone elencate sulla sua lista. Poiché molti poliziotti facevano notoriamente parte dell'OB, o erano suoi simpatizzanti, l'ispettore Louis Nel aveva scelto accuratamente i collaboratori. Era un uomo taciturno e ormai quasi calvo, la cui età e qualifica gli avevano impedito di andare volontario oltremare, cosa che lo amareggiava parecchio. Tuttavia Shasa aveva ben presto scoperto che era un uomo simpatico e degno di rispetto, anche se non certo di facile contentatura. Lavoravano benissimo insieme. Nel era in maniche di camicia, e parlava al telefono con la sigaretta in bocca. Coprí la cornetta e chiamò Shasa con un gesto imperioso. « Dove diavolo sei stato? Stavo per mandarti a cercare », lo redarguí. « Siediti, ho qualcosa da dirti. » Shasa sedette sull'angolo della scrivania, mentre l'ispettore continuava la telefonata, e si mise a guardare, fuori del suo bugigattolo, la sala operativa affollata. L'ispettore Nel aveva a disposizione otto investigatori e uno stuolo di stenografe. Il locale era pieno di fumo e ticchettio di macchine per scrivere. Un altro telefono suonò sulla scrivania dell'ispettore, che con un'occhiata incaricò Shasa di rispondere. « Prendila tu... la dannata centralinista le passa tutte a me.» Shasa alzò il ricevitore. « Buongiorno, sala operativa antiterrorismo. In che posso aiutarla? » disse, e quando non ebbe risposta ripeté la frase in afrikaans. « Pronto, voglio parlare con qualcuno... » Era una donna che chiamava, una giovane molto agitata. Parlava in afrikaans con voce incerta e smozzicata. « Sul giornale c'è scritto che volete informazioni sull'Ossewa Brandwag. Voglio parlare con qualcuno. » « Mi chiamo Courteney », disse Shasa in afrikaans. « Comandante di squadriglia Courteney. Lieto che voglia collaborare con la polizia. Può dire a me. » Cercò di rendere il tono cordiale e rassicurante. Capiva bene che la donna era impaurita, forse sul punto di cambiare idea e riappendere. « Faccia con comodo, non c'è fretta. Io l'ascolto. » « Lei è della polizia? »
« Sì, signora. Vuol dirmi il suo nome par favore? » « Macché, scherza? Non glielo dico affatto. » Capì il proprio errore. « Certo, ha ragione. Non è necessario che mi dica come si chiama », le disse in fretta, e ci fu un lungo silenzio. La sentiva sospirare. « Faccia con comodo, non c'è nessuna fretta », ripeté. « Mi dica quello che vuole dirmi. » « Rubano fucili », disse quasi sussurrando la donna. «E' in grado di dirmi di quali fucili si tratta? » chiese cauto Shasa. « Sono quelli prodotti dall'officina metalmeccanica della ferrovia di Pretoria. » Shasa si irrigidì stringendo il telefono con due mani. Quasi tutte le armi e munizioni militari venivano prodotte a Pretoria, nelle officine metalmeccaniche ferroviarie. Era l'unica fabbrica dotata delle macchine necessarie, le grandi presse a vapore, le trafile e quant'altro serve a trasformare l'acciaio in canne per fucili e cannoni. Anche i bossoli e i proiettili venivano fabbricati a Pretoria, in un altro stabilimento, ma poi venivano caricati e confezionati lì. « Quello che dice è molto importante », continuò con cautela. « Sa come fanno a rubare le armi? » « Mettono rottami di ferro nelle casse e rubano i fucili », sussurrò la donna. « Chi è che lo fa? Sa chi è il responsabile? » « Non conosco quelli della fabbrica, ma so chi è che comanda. » « Bisognerebbe che sapessimo il suo nome », le disse Shasa ricorrendo a tutte le sue capacita di persuasione, ma la donna rimase zitta. Si capiva benissimo che era in preda a un conflitto interiore, e far pressione adesso non era consigliabile. « Vuole dirmi chi è? » le chiese. « Ci pensi pure, non c'è fretta. » « Si chiama... » la donna esitò, tacque ancora un momento, e poi parlò tutto d'un fiato. « Lo chiamano Spada Bianca. » Shasa si sentì prudere tutto, come se fosse infestato dai pidocchi. Gli venne il hatticuare « Scusi, come ha detto? » « Spada Bianca. Si chiama Spada Bianca », ripeta la donna e interruppe la comunicazione. « Pronto! Pronto! » gridò Shasa nel ricevitore. « E' ancora in linea? Non riappenda! » Ma gli rispondevano soltanto, motteggianti, le scariche elettrostatiche. Shasa era accanto alla scrivania di Blaine Malcomess quando il ministro degli Interni chiamò il capo della polizia di Johannesburg. « Appena avete in mano il mandato di perquisizione, chiudete la fabbrica. Nessuno dovrà piú entrare o uscire. Ho già parlato col comandante militare del Transvaal. Vi darà piena cooperazione, lui e il generale del commissariato. Voglio che cominciate la perquisizione al piú presto: aprite tutte le casse di armi nel magazzino e controllate sui registri di produzione. Io intanto vengo giú in aereo. Parto subito: mandate un'auto della polizia a ricevermi all'aeroporto di Roberts Heights alle... » guardò Shasa « ... cinque di stasera.
Nel frattempo faccia mantenere il piú assoluto segreto ai suoi uomini. Un'altra cosa, badi a selezionare solo personale che con la massima certezza non faccia parte di associazioni sovversive, in particolar modo dell'Ossewa Brandwag. » Shasa lo portò all'aeroporto, con la Jaguar. Quando arrivarono all'hangar di Youngsfield Blaine fu lieto di poter finalmente distendere le lunghe gambe. « E' finita la parte piú scomoda del viaggio », brontolò. Un ispettore di polizia li aspettava guardandoli atterrare dalla terrazza della torre di controllo dell'aeroporto di Roberts Heights. Andò loro incontro appena scesero dalla scaletta del Rapide. « Come vanno le indagini? » chiese Blaine subito dopo la stretta di mano. « Avete già trovato qualcosa? » « Niente, ministro », scosse la testa l'ispettore. « Abbiamo controllato piú di seicento casse di fucili. E' un lavoro che fa perdere un sacco di tempo. Finora sembra tutto in ordine. » « Quante casse ci sono in magazzino? » « Novecentoottanta. » «Quindi ne avete già controllate piú di metà», disse Blaine. « Be', facciamo lo stesso un salto a vedere. » Si mise a posto il cappello e abbottonò il cappotto fino al collo perché sulla pista tirava un vento gelido che gli ricordò le nevi del Drakensberg, e l'erba dell'alto veld era bianca di brina del tardo inverno. Lui e Shasa salirono sulla Packard nera della polizia e nessuno parlò piú nel breve tragitto per il centro di Pretoria. Ai cancelli della fabbrica c'era un doppio cordone di polizia e militari. Controllarono i documenti dei passeggeri della Packard, per nulla impressionati, almeno in apparenza, dalla carica di Blaine. L'ispettore-capo incaricato della perquisizione era nell'ufficio del direttore della fabbrica. Aveva poco da aggiungere a quanto già sapevano. Finora non erano riusciti a trovare la benché minima irregolarità nella produzione e nella confezione delle armi. « Fatemi fare un giro », ordinò mestamente Blaine, e tutta la compagnia - Blaine, Shasa, l'ispettore e il direttore della fabbrica si recarono al capannone principale. Era immenso. Concepito originariamente per la manutenzione e la riparazione del materiale rotabile della ferrovia statale, si era espanso e modernizzato fino a poter produrre una locomotiva dalla materia prima. Adesso la lunga catena di montaggio sfornava autoblindo per la guerra nei deserti nordafricani. Il lavoro in fabbrica non era stato interrotto. Negli immensi capannoni coperti di lamiera ondulata echeggiavano i colpi delle presse a vapore, e il frastuono dei torni e dei trapani. « Quanti operai ci sono? » Blaine doveva gridare per farsi sentire. « Quasi tremila. Attualmente facciamo tre turni. Produzione di guerra. » Il direttore li accompagnò nell'ultimo capannone della fabbrica. « E' qui che produciamo le armi leggere », urlò. « O piuttosto le parti metalliche. Le parti in legno sono prodotte da appaltatori esterni. »
« Ci faccia vedere finitura e confezionamento », ordinò Blaine. « E' lí che c'è il marcio, se c'è. » Dopo il montaggio e il controllo, i fucili completi, dei British Long Service n. 4 Mark 1, venivano ingrassati e avvolti in carta oleata, poi messi a dieci a dieci nelle lunghe casse verdi del ministero della Guerra. Infine le casse erano impilate su palette d'acciaio e smistate ai vari magazzini. Quando ci entrarono, c'erano una dozzina di agenti in uniforme che lavoravano con l'aiuto di almeno cinquanta operai in tuta. Stavano aprendo tutte le casse, contando i fucili e mettendole da parte. Le casse controllate erano all'estremità opposta del magazzino, e Shasa vide subito che ne mancavano soltanto una cinquantina da controllare. Il magazziniere capo si alzo subito dalla scrivania e corse indignato da Blaine. « Non so chi è lei, ma se è lo sciocco che ha ordinato questo, merita dei calci nel culo. Abbiamo perso un giorno di produzione. Qua fuori c'è un treno merci che aspetta, e nel porto di Durban c'è un convoglio di navi ferme che devono portare queste armi ai nostri ragazzi su al nord. » Shasa lasciò la compagnia e andò a vedere gli agenti al lavoro. « Poca fortuna? » chiese a uno di loro. « E' tutto tempo perso », borbottò l'uomo senza alzar la testa, e Shasa silenziosamente incolpò se stesso. La perdita di un giorno di produzione, in guerra, era una grossa responsabilità. La delusione aumentò mentre guardava aprire invano le ultime casse. Gli agenti di polizia si riunirono da una parte e gli operai in tuta uscirono dalle alte porte scorrevoli per riprendere il posto alla catena di montaggio. L'ispettore di polizia tornò dai suoi uomini, che lo accolsero scoraggiati. « Niente, signor ministro, mi dispiace. » « Bisognava farlo », disse Blaine guardando Shasa. « Non è colpa di nessuno. » « Ah sí? Ma certo che è colpa di qualcuno! » interloquì truculento il magazziniere capo. « Adesso che vi siete divertiti, posso caricare il resto delle armi sul treno? » Shasa lo guardò. In quell'uomo e nel suo comportamento c'era qualcosa che gli suonava male. Gli corse un brivido su per la spina dorsale. Era troppo brusco e sulla difensiva: aveva lo sguardo sfuggente. « E' chiaro », pensò. « Se davvero rubano i fucili, è qui che lo fanno, e lui c'è dentro fino al collo. » La sua mente cominciava a superare la delusione e la fatica inutile. « Va bene », concordò Blaine. « Siamo andati a caccia di farfalle. Potete riprendere il lavoro. » « Un momento, signore », intervenne tranquillo Shasa, tornando a rivolgersi al magazziniere capo. « Quanti carri ferroviari avete già caricato? » Ed eccoli ancora, lo sguardo sfuggente e la piccola esitazione. Quell'uomo stava per mentire. Poi, involontariamente, guardò il blocco di fogli appuntati che teneva sulla scrivania, presso la porta che dava sulla ribalta di carico.
Shasa andò in fretta a prenderlo. « Vedo che avete già caricato tre carri », lesse sul foglio. « Dove sono? » « Sono già stati rimorchiati via », brontolò il magazziniere capo. « E allora facciamoli ririmorchiare qui », intervenne allegramente Blaine. Blaine e Shasa si piazzarono a fianco a fianco sotto le lampade ad arco della piattaforma di carico in cemento. Il vagone arrivò e fu aperto. Era pieno di casse verdi di fucili. « Se ci sono, saranno in fondo », suggerì Shasa. « I responsabili cercheranno di liberarsi al piú presto delle prove che possono incastrarli. Si assicureranno che siano le primissime casse caricate. » « Vediamo le casse di sotto », ordinò seccamente Blaine. Sulla ribalta di carico si ammucchiarono le casse di fucili. « E ora tirate fuori quella cassa e apritela », ordinò Blaine indicandone una in fondo al carro merci. Schiodarono il coperchio e un agente lo lasciò cadere rumorosamente sul pavimento di cemento. « Signore! » esclamò. « Guardi un pò qui! » Blaine si avvicinò e guardò nella cassa aperta. Subito dopo alzò gli occhi. Il magazziniere capo stava già filando verso la porta lontana. «Arrestate quell'uomo!» gridò Blaine, concitato. Due agenti corsero a prenderlo. Lottò, fu sopraffatto e riportato sulla banchina di carico. Blaine si rivolse a Shasa, l'espressione mesta e gli occhi duri. « Bene, ragazzo mio, spero tu sia soddisfatto. Ecco che ci hai regalato una montagna di lavoro e un sacco di notti in bianco. » Quindici uomini sedevano intorno al gran tavolo lucido del governo e ascoltavano in silenzio il rapporto di Blaine Malcomess. « Non c'è modo di stabilire con sicurezza quanti fucili siano stati rubati. Dal primo del mese sono partiti altri due convogli e ancora nessuno è arrivato al Cairo. Sono ancora in alto mare, ma dobbiamo pensare che in entrambi i carichi manchino fucili. Stimo che siano stati sottratti duemila fucili e un milione e mezzo di caricatori. » Gli uomini intorno al tavolo si dimenarono a disagio, ma nessuno parlò. « Questo, ovviamente, è allarmante. Tuttavia l'aspetto piú preoccupante di tutta la faccenda è il furto di una trentina, o una cinquantina, di mitragliatrici Vickers, messo a segno nello stesso modo. » « E' incredibile », borbottò Denys Reitz. « Quanto basta per armare un'insurrezione nazionale. Può scoppiare un altro '14. Dobbiamo assicurarci che non trapeli neanche una parola di tutto ciò, provocherebbe il panico. » « Dobbiamo anche considerare », proseguì Blaine, « le tonnellate di esplosivo rubato sul treno. Sarà quasi certamente usato per interrompere le strade e impedire lo spiegamento del nostro già scarso potenziale militare interno. Se ci fosse una ribellione... » «Scusa, Blaine», l'interruppe il primo ministro. «Devo farti qualche domanda. Prima di tutto, abbiamo qualche indicazione cir-
ca la data in cui scenderanno in campo e tenteranno il coup d'état? » « No, signor primo ministro. Al massimo si può tentare una valutazione in base alla data della nostra presumibile scoperta del furto dei fucili. E' evidente che ce ne saremmo accorti all'arrivo delle navi al Cairo: dunque è presumibile che intendano muoversi prima. » « E quando arriveranno al Cairo i fucili? » « Tra due settimane circa. » « Allora è questione di giorni, non di settimane. » « Temo di sí, signor primo ministro. » « Un'altra domanda, Blaine. A che punto sono le indagini? Abbiamo già la lista completa dei caporioni e degli stormjagters dell'OB? » « Non è completa: finora abbiamo solo circa seicento nomi. Credo che comprendano quasi tutti i loro uomini-chiave, ma naturalmente non abbiamo modo di esserne certi. » « Grazie, Blaine. » Il primo ministro prese a mungersi meditabondo la barbetta caprina. La sua espressione era quasi serena, i suoi occhi azzurri calmi e privi di affanno. Tutti aspettavano che ricominciasse a parlare. « Ci sono nomi grossi nella lista? » chiese. « Il governatore dello Stato Libero di Orange. » « Si sapeva già. » « Dodici deputati, tra cui un ex ministro. » «Hanno l'immunità parlamentare», mormorò il Maresciallo Smuts. « Non possiamo toccarli. » « Poi ci sono alti prelati, almeno quattro generali, dei funzionari statali e un vicecapo della polizia. » Blaine lesse la lista e prima ancora che finisse il primo ministro aveva già preso la decisione. « Non possiamo piú aspettare, sarebbe un rischio », disse. « A eccezione dei parlamentari, voglio mandati di cattura e ordini di carcerazione per tutti i nomi della lista. Li firmerò appena pronti. Intanto voglio che sia organizzato l'arresto simultaneo di tutti costoro, e che si pensi a dove metterli. » « Ci sono i campi di concentramento preparati per i prigionieri di guerra italiani a Baviaanspoort e Pietermaritzburg», suggerì Blaine. « Benissimo », approvò il Maresciallo. « Li voglio dietro un filo spinato al piú presto. E voglio che siano ritrovati in fretta i fucili e l'esplosivo. Quanto prima! » « Non possiamo piú aspettare », disse guardingo Manfred De La Rey « Ogni ora che passa il pericolo aumenta. Ogni giorno che lasciamo passare a questo punto ci avvicina alla sconfitta. » « Non siamo ancora pronti. Abbiamo bisogno di tempo », intervenne uno degli altri uomini nello scompartimento di prima classe. Erano in otto, compreso Manfred. Avevano preso il rapido per il sud a diverse fermate lungo gli ultimi trecento chilometri. Il capotreno era un simpatizzante, e in corridoio, fuori dello scompartimento, c'erano degli stormjagiers che facevano la guardia e si assicuravano che nessuno venisse a portata d'orecchio. « Ci avevi promesso altri dieci giorni per completare i prepara-
tivi. » « Non li abbiamo, dieci giorni, caro mio. Non hai sentito quello che ho detto? » « Non si può fare », ripete ostinato l'uomo. « Si può fare! » alzò la voce Manfred. « Si deve fare! » Il governatore di Orange intervenne con decisione. « Basta, signori, riserviamo il nostro ardore al nemico. » Con evidente sforzo Manfred moderò i toni. « Mi scuso della mia foga, tuttavia ripeto che non abbiamo tempo da perdere. Il furto dei fucili è stato scoperto e dieci dei nostri sono stati arrestati. Il nostro informatore al ministero dice che sono stati spiccati piú di duecento mandati di cattura, attualmente alla firma e probabilmente da eseguire domenica prossima. Ciò vuoi dire che abbiamo quattro giorni. » « Lo sappiamo tutti », disse di nuovo il governatore. « Quello che dobbiamo fare adesso è decidere se possiamo permetterci di mettere in atto il piano o se dobbiamo abbandonarlo. Ascolterò le opinioni di tutti e poi voteremo. Rispetteremo la decisione della maggioranza. Sentiamo prima il generale Koopman. » Tutti guardarono il generale di brigata. Il pezzo grosso dell'esercito era in borghese, ma il suo portamento restava chiaramente militaresco. Spiegò una gran carta del paese sul tavolino pieghevole e se ne servì per illustrare il proprio rapporto, tenuto con voce spassionata e professionale. Prima indicò l'ordine di battaglia dell'esercito, la disposizione delle truppe, degli aerei e delle autoblinda che restavano nel paese; poi proseguí cosí: « Come vedete, i due principali concentramenti di truppe sono al centro addestramento reclute di Roberts Heights e a Durban ad aspettare l'imbarco per i teatri di guerra. Con quasi centosessantamila uomini all'estero, le forze armate a disposizione del governo non ammontano a piú di cinquemila uomini. Non ci sono aerei moderni a parte gli apparecchi da addestramento Harvard, che risultano cinquanta. Ciò permette di immobilizzare le truppe nelle posizioni attuali almeno per i primi giorni, decisivi, della presa del potere. Si può fare distruggendo le strade e i ponti ferroviari, specialmente quelli sul fiume Vaal, sull'O range e sull'Umzindusi ». Andò avanti su questo tono per circa dieci minuti, e poi concluse: « Abbiamo uomini nostri in tutte le posizioni di comando, fino allo Stato Maggiore, che sono in grado di impedire la rapida reazione dell'esercito. Poi potranno arrestare i fedeli di Smuts e portar l'esercito dalla nostra sostenendo il nuovo governo repubblicano ». Uno dopo l'altro i presenti espressero le loro valutazioni. Manfred fu l'ultimo a parlare. « Signori », cominciò. «Nelle ultime dodici ore sono stato in contatto radio con l'Abwehr tedesco attraverso il suo rappresentante nell'Angola portoghese. Ci ha trasmesso le assicurazioni dell'Alto Comando tedesco e del Fuhrer in persona. Il sommergibile da carico Altmark incrocia attualmente a meno di trecento miglia da Città del Capo, trasportando piú di cinquecento tonnellate di armi. Aspetta solo un segnale per correre in nostro aiuto. » Parlava con
tranquillità e persuasione, e sentì pendere dalla sua parte gli umori dell'assemblea. Alla fine ci fu un breve ma intenso silenzio e poi il governatore disse: « Adesso conosciamo tutti i fatti e dobbiamo prendere una decisione. E' questa: prima che il governo possa arrestare e imprigionare noi e gli altri legittimi capi del Volk, mandiamo a effetto il piano. Insorgiamo e deponiamo il governo attuale, prendiamo il potere in mano e riportiamo la nazione a libertà e giustizia. Interpellerò successivamente ciascuno di voi: potete dire sí o no ». « Ja », disse il primo. « Ek stem ja. Io dico sí. » « Ek stem ook ja. Io pure dico sí. » Alla fine il governatore dell'Orange tirò le somme. « La decisione è presa all'unanimità. Nessuno è contrario a passare all'attacco. » Si interruppe e guardò Manfred De La Rey. « Ci avevi parlato di un segnale d'insurrezione. Una cosa tale da mettere sottosopra il paese. Adesso puoi dirci qual è? » « Il segnale sarà l'uccisione del traditore Jan Christian Smuts », disse Manfred. Lo fissarono in silenzio. Era evidente che, benché si aspettassero qualcosa di grande momento, nessuno aveva pensato a questo. « Ogni particolare di questa esecuzione politica è stato attentamente pianificato », proseguí Manfred per rinfrancarli. « A Berlino sono stati studiati tre progetti diversi, per tre diverse date, secondo le circostanze contingenti. Il primo piano, per la data piú vicina, fa esattamente al caso nostro. Smuts sarà ammazzato sabato prossimo. Fra tre giorni, il giorno prima che i nostri capi siano arrestati per ordine suo. » Il silenzio si protrasse per un minuto ancora, poi il governatore chiese: « Dove? Come sarà eseguito l'attentato? » « Non è necessario che lo sappiate. Farò tutto io, solo e senza aiuto. Starà a voi, invece, agire subito ed energicamente appena si saprà la notizia. Dovrete subentrare nel vuoto che egli lascia e prendere le redini del potere. » « Cosí sia », disse tranquillo il governatore. « Saremo pronti al momento buono, e che Dio benedica la nostra lotta. » Degli otto uomini nello scompartimento, solo Manfred restò sul treno dopo la fermata di Blemfontein, proseguendo il lungo viaggio a sud per Città del Capo. « Ho il permesso di tenere un'arma da fuoco nella fattoria», disse Sakkie Van Vuuren, della cantina sociale. « L'adoperiamo per sparare ai babbuini che scendono dalle montagne a mangiar l'uva e gli ortaggi. » L'accompagnò giú in cantina. « Chiunque senta qualche sparo in montagna non ci farà caso. Ma se lo chiedono, di' che sei un dipendente della mia azienda agricola e mandali da me. » Aprí la botte truccata e fece un passo indietro mentre Manfred apriva uno dei sacchi di gomma. Prima tirò fuori la radio ricetrasmittente e ci mise dentro la batteria nuova procuratagli da Van Vuuren. La radio era in uno zainet-
to di tela che la rendeva facilmente trasportabile. Aprí il secondo sacco e tirò fuori la scatola del fucile. C'era un Mauser modello 98 da tiratore scelto, cioè dotato del superbo meccanismo di sparo che consentiva di far partire dalla camera di scoppio una pallottola da 173 grani alla velocità di 800 metri al secondo. Quanto alle munizioni, erano state caricate a mano da uno dei tecnici piú esperti della Deuische l'Aden und Munitionsfabrik, e il mirino telescopico era della Zeiss. Manfred lo montò sul fucile e caricò l'arma. Poi rimise il resto delle munizioni nella falsa botte. Van Vuuren lo portò in una valle tra le montagne delle Hottentots Holland col suo camioncino Ford, e quando la strada finí lo lasciò lí e tornò indietro da solo per il tratturo sassoso e serpeggiante. Manfred rimase a guardarlo sparire, poi mise lo zaino e il fucile a tracolla e cominciò a salire. Aveva tutto il tempo che voleva, non c'era alcun bisogno di affrettarsi, ma il duro esercizio fisico gli dava piacere e salí a lunghe falcate elastiche, godendo dei rivoli di sudore che gli colavano sulla faccia e sul corpo. Attraversò la prima catena di colline, scese nella valle boscosa e poi risalí un'alta montagna sul versante opposto. Quasi in vetta si fermò e tirò fuori la radio, fissò l'antenna tra due tronchi d'albero e la puntò con cura verso nord. Quindi si sedette appoggiato a un macigno e mangio i panini che gli aveva preparato la piccola Sarah. L'ora del contatto radio con l'agente dell'Abwehr a Luanda, la capitale dell'Angola portoghese, era alle 15, ora di Greenwich, sicché aveva da aspettare. Dopo mangiato si mise il Mauser in grembo e prese a maneggiarlo amorosamente, ritrovando la confidenza di un tempo coi meccanismi e il peso. Puntò il mirino telescopico a diversi bersagli ideali giú per la china. In Germania aveva fatto una gran pratica con quello stesso fucile, e sapeva che fino a trecento metri di distanza era in grado di scegliere in che occhio sparare a un uomo. Tuttavia era essenziale controllare la mira, dopo tutti gli sballottamenti che i delicati meccanismi potevano aver subito nel viaggio. Gli serviva un bersaglio il piú possibile vicino alla forma umana, ma da dove sedeva non vedeva niente del genere. Depose il fucile e dedicò tutta la propria attenzione alla radio. Montò il tasto delle trasmissioni in Morse e cercò sul proprio taccuino la pagina dove aveva già codificato il messaggio. Subito cominciò a trasmettere, premendo il pulsante d'ottone con movimenti fluidi e rapidi, consapevole che l'operatore, a Luanda, avrebbe riconosciuto il suo stile rendendo inutili altre prove della sua identità. « Base Aquila qui Spada Bianca. » Alla quarta chiamata risposero. Il segnale gli giungeva in cuffia forte e chiaro. « Ti ascolto, Spada Bianca. » « Confermo esecuzione piano numero uno. Ripeto, piano numero uno. Passo. » Non servivano tante parole, che avrebbero accresciuto le possibilità d'intercettazione e localizzazione nemica. Fin da prima che lasciasse Berlino tutto era stato organizzato con precisione teuto-
nica. « Ricevuto, attuazione piano uno. In bocca al lupo. Passo e chiudo. » « Passo e chiudo. » Tornò ad avvolgere l'antenna, ficcò la radio nello zaino e stava per rimettersela in spalla quando tra i costoni echeggiò una specie di sghignazzata. Manfred si gettò a terra dietro il masso e prese il Mauser. Il vento spirava a suo favore e si mise ad aspettare. Giacque immobile per quasi mezz'ora, attentissimo, ispezionando il fondovalle: poi colse un movimento tra le rocce coperte di muschio e i cespugli. I babbuini si muovevano nel solito ordine di pascolo, con mezza dozzina di giovani maschi all'avanguardia, le femmine coi piccoli in mezzo e tre grossi maschi grigi e patriarcali dietro. I neonati si aggrappavano a testa in giú ai peli del ventre della madre, e si guardavano in giro con le testine pelate rosa. Quelli piú grandicelli cavalcavano le madri come fantini. I tre maschioni di retroguardia seguivano il branco dimenandosi con l'andatura di un bullo quadrumane, guardandosi intorno con gli occhi vispi e ravvicinati sul grugno prognato. Manfred scelse lo scimmione piú grosso e l'inquadrò nel mirino. Lo lasciò avvicinarsi su per la salita finché fu a trecento metri da dove era sdraiato lui. A un tratto il babbuino balzò in cima a un masso grigio delle dimensioni di una casetta. Si sedette lí, coi gomiti sulle ginocchia, in una posa quasi umana, e spalancò la bocca in un cavernoso sbadiglio. Le zanne gialle erano appuntite e grosse come dita umane. Attentamente Manfred tirò il grilletto fino al punto limite oltre il quale il meccanismo di sparo, sensibilissimo, sarebbe scattato. Poi puntò il mirino telescopico sulla fronte del babbuino, trattenendovelo per un centesimo di secondo. Sfiorò appena il grilletto, ancora tutto concentrato sulla fronte cespugliosa del primate, e il calcio del fucile gli rinculò sulla spalla. Lo sparo echeggiò per tutta la vallata, allontanandosi come un brontolio di tuono. Il babbuino fu scagliato giú dal masso mentre gli altri scappavano urlando per la discesa. Manfred si alzò, mise lo zaino in spalla e discese la china. Trovò il babbuino ai piedi del masso, che ancora si contorceva negli ultimi sussulti d'agonia: aveva il cranio scoperchiato. Gli era stato tagliato via come da un colpo d'accetta al livello degli occhi. Il sangue traboccava dalla scatola cranica sulla roccia. Manfred voltò la carcassa col piede e annuì soddisfatto. La speciale pallottola con la punta concava avrebbe decapitato anche un uomo con la stessa efficacia, e il fucile aveva tirato giusto a trecento metri di distanza. « Piú pronto di così non sarò mai », mormorò Manfred, e scese dalla montagna. Shasa non era piú andato a casa, né aveva piú visto Tara da quando era tornato con Blaine dopo la scoperta del furto di fucili a Pretoria.
Per tutto quel tempo non aveva mai abbandonato la sala operativa. Mangiava alla mensa della polizia e rubava poche ore di sonno nel dormitorio improvvisato sopra la sala operativa stessa. Il resto del tempo era impegnato a preparare la grande retata simultanea voluta da Smuts. Solo nella provincia del Capo c'erano quasi centocinquanta individui sospetti da arrestare, e per ognuno ci volevano mandato di cattura, recapito, funzionari e agenti per eseguirlo. Era stata scelta una domenica perché quasi tutti gli individui erano calvinisti devoti, membri della Chiesa Olandese Riformata, e quella mattina sarebbero andati alla funzione. Si poteva quindi immaginare che fossero a casa, pensassero alla religione, e non facessero troppa resistenza all'arresto. Venerdì a mezzogiorno Shasa ricordo che il picnic di compleanno del nonno era il giorno dopo, e telefonò a Centaine, a Weltevreden, dalla sala operativa della polizia. « Oh, chéri, che brutta notizia, il nonno ci resterà male. Non fa che chiedere di te... del resto tutti abbiamo voglia di rivederti! » « Mi dispiace, mamma, ma proprio non posso. » « Non puoi raggiungerci neanche per un'ora? » «E' davvero impossibile. Credimi, mamma, spiace tantissimo anche a me. » « Puoi fare a meno della passeggiata in montagna, Shasa, ma vieni almeno a brindare a tuo nonno con un bicchiere di champagne prima di partire. Poi puoi tornare subito a fare le tue cose importantissime. Fallo per me, chéri, provaci! » Capì che esitava. «Ci saranno anche Blaine e il Maresciallo Smuts. Me l'hanno promesso tutti e due. Se arrivi alle otto, solo per dire "Cento di questi giorni" al nonno, ti prometto che alle otto e mezzo ti lasciamo andar via. » « E va bene, mamma », cedette, ghignando nella cornetta. « Ma non ti annoi a fare sempre come vuoi tu? » « E' un fardello che ho imparato a portare, chéri », scherzò lei di rimando. « A domani, allora. » « A domani », le assicurò. « Ti voglio bene, chéri. » « Anch'io, mamma. » Riappese, sentendosi in colpa per aver ceduto, e stava per telefonare a Tara per dirle che non poteva andare con lei al picnic quando uno dei sergenti lo chiamò dall'altra parte della stanza. « Comandante Courteney, una telefonata per lei. » « Chi è? » « Non l'ha detto. E' una donna », e Shasa sorrise attraversando la sala operativa. Tara l'aveva anticipato di un istante. « Ciao Tara, sei tu? » disse nella cornetta, e gli rispose un sospiro nervoso. Si irrigidì immediatamente e abbassò la voce, cercando di renderla amichevole e incoraggiante nel proseguire in afrikaans. « Parla il comandante di squadriglia Courteney. E' la signora con cui ho già parlato? » « Ja. Sono io. » Riconobbe la voce, giovane, incerta e preoccupata.
« Le sono molto grato, ciò che detto ha salvato la vita a molti innocenti. » « Ma non ho letto la notizia sui giornali », sussurrò la donna. « Non fa nulla, può andare orgogliosa di quello che ha fatto », le disse, e poi, quasi ispirato, aggiunse: «Sarebbero perite molte persone, anche donne e bambini, sa? » Sentir parlare di bambini la fece decidere. Sbottò: « C'è ancora pericolo. Stanno progettando qualcosa di terribile. Spada Bianca farà qualcosa presto, prestissimo. L'ho sentito dire che sarà il segnale, e metterà la nazione sottosopra... » « Può dirmi di che si tratta? » chiese Shasa cercando di non spaventarla, mantenendo la voce bassa e rassicurante. « Cos'è che sta progettando? » « Non lo so. So solo che accadrà prestissimo. » « Non può scoprire di che si tratta? » « Non so. Posso provare. » « Per il bene di tutti, per il bene di donne e bambini, cercherà di scoprire cosa intendono fare? » « Sí, ci proverò. » « Io sarò sempre a questo telefono... » poi di colpo ricordò la promessa fatta a Centaine « ... o a quest'altro numero... » e le diede il numero di Weltevreden. « Prima provi qui, e se non mi trova, all'altro numero. » « Capisco. » « Non può dirmi chi è Spada Bianca? » Era un rischio calcolato. « Conosce il suo vero nome? » Subito la linea s'interruppe. Aveva riappeso. Comprese che con l'ultima domanda l'aveva spaventata definitivamente, e il disappunto lo sommerse. « Qualcosa che metterà sottosopra la nazione. » Quelle parole continuavano a echeggiargli spaventosamente in testa, dandogli il senso di un disastro imminente. Manfred guidava lungo il viale De Waal, di fianco all'università. Andava piano. Era mezzanotte passata e le vie erano quasi deserte, tranne pochi ubriachi del venerdì che rincasavano barcollando. L'auto che guidava era un'anonima Morris e il fucile era nel bagagliaio, sotto un telo sbrindellato. Indossava una tuta blu da ferroviere su cui portava un maglione da pescatore e un cappotto pesante. Andava a prender posizione adesso per evitare di farsi vedere di giorno sulla montagna col fucile. Durante il week-end, infatti, le pendici della Table Mountain si riempivano di gitanti, scalatori, osservatori di uccelli, boy-scout e innamorati. Svoltò in Rhodes Avenue e imboccò la salita, superando l'Orto Botanico di Kirstenbosch. Adesso la massa della montagna occupava metà del cielo stellato. La strada serpeggiava sui primi tornanti, attraversando la foresta fitta. Prima del passo di Constantia Nek rallentò e si assicurò nel retrovisore che nessuno lo seguisse. Poi spense i fari e imboccò rapidamente una stradina secondaria. Proseguí a passo d'uomo, in prima, fino a un cancello. Era il posto di guardia dei forestali. Fermò la macchina col motore acceso e
provò la chiave che gli aveva dato Roelf. Aveva un amico nelle guardie forestali. Infatti la chiave era quella. Manfred aprì il cancello e proseguí con la macchina. Quindi richiuse il cancello, ma non a chiave, lo accostò soltanto. Poi proseguí salendo lungo la stradina di servizio, in una successione di stretti tornanti. Superò la Cornice, una strada a trecento metri d'altezza che girava intorno alla Table Mountain come una curva di livello. Proseguí per un altro paio di chilometri e, arrivato proprio sotto il bordo del tavoliere che dava nome alla montagna, girò l'auto e la nascose in una fratta, fuori vista da eventuali escursionisti. Dal baule prese il Mauser e lo avvolse accuratamente nel telo. Poi chiuse le portiere della macchina e scese alla Cornice a piedi, col fucile in spalla. Usava la pila il meno possibile, e anche allora per dare rapidi sguardi alla strada, schermando il raggio col corpo. Nel giro di venti minuti incrociò il sentiero che saliva direttamente alla Gola dello Scheletro e illuminò brevemente il cippo su cui era incisa la scritta «Via Smuts». Piú che un'indicazione alpinistica sembrava una lapide, e ne rise sotto i baffi. Il vecchio Maresciallo aveva fatto di questa salita la piú famosa di tutte le vie per la cima. Manfred salí rapidamente, senza riposarsi mai, la Gola dello Scheletro per 400 metri: superò la Breakfast Rock, sulla cresta, e sbucò sull'altipiano. Qui si fermò un momento a guardar sotto. Molto piú in basso la valle di Constantia luccicava nella notte. Le voltò le spalle, e cominciò gli ultimi preparativi. Era venuto a vedere il posto due giorni prima, e aveva già scelto la posizione di tiro, calcolando la distanza esatta da lí al punto dove un uomo, scollinando dopo l'ascensione, diventa visibile a chi l'aspettasse sul tavoliere. Ora prese posizione. Era un varco tra due macigni, mimetizzato da qualche cespuglio. Stese il telone sui rovi e ci si sdraiò sopra, schiacciandoli e rendendoli un giaciglio abbastanza comodo. Si mise in posizione di tiro, sistemò il calcio del Mauser contro la guancia e mirò verso lo sbocco del sentiero, a 250 metri di distanza. Col mirino telescopico vedeva tutti i ramoscelli dei cespugli che crescevano accanto al sentiero spiccare nitidamente contro il tenue bagliore che saliva dalla valle. Posò il fucile sul telone davanti a sè, pronto all'uso immediato. Poi si tirò il colletto del cappotto sulle orecchie e si raggomitolò. L'attesa al freddo sarebbe stata lunga, e per passare il tempo si diede a ripercorrere tutta la pianificazione che si era resa necessaria per arrivare fin lì, e le probabilità che l'indomani, un pò prima o un pò dopo le dieci e trenta, la sua vittima si presentasse in cima al sentiero che portava il suo nome e s'inquadrasse nella croce del mirino telescopico Zeiss. Il dossier su Jan Christian Smuts meticolosamente compilato dall'Abwehr a Berlino, che aveva studiato così avidamente, indicava che sempre, negli ultimi dieci anni, il Maresciallo aveva mantenuto l'abitudine di questa ascensione col suo vecchio amico. Adesso il destino di un'intera nazione dipendeva da un compleanno e un picnic. Shasa superò in macchina il cancello di Anreith e imboccò il lun-
go viale per il castello. C'erano molte macchine parcheggiate davanti a Weltevreden, tra cui la Bentley di Blaine. Lasciò li anche la sua Jaguar e guardò l'orologio. Erano le otto e dieci. Era in ritardo e la mamma si sarebbe irritata, era una fanatica della puntualità. Lo sorprese ancora saltando su dalla sedia e correndo ad abbracciarlo. Tutta la compagnia, una ventina di persone, stava facendo colazione in terrazza: era una delle famose colazioni di Weltevreden. Il buffet scricchiolava sotto il peso del cibo e dell'argenteria. I servitori, coi fez rossi e i lunghi kenzas bianchi, si illuminarono al veder comparire Shasa. Anche dagli ospiti si alzò un brusio di saluti affettuosi. C'erano tutti quelli che Shasa amava: il nonno Garry a capotavola, vispo come un folletto; Anna accanto a lui, con la faccia rossa e ridente, come un amichevole bulldog; Blaine; Tara, bella come quella mattinata di primavera; Matty, tutta lentiggini e capelli rosso carota; l'Ou Baas; e naturalmente la mamma. Solo David mancava. Shasa li salutò a uno a uno, ridendo e scambiando battute, abbracciandoli, baciandoli e stringendo mani. Quando toccò a Tara, rossa come un peperone, dalla tavolata si levarono fischi e schiamazzi. Diede a nonno Garry il regalo e gli rimase accanto mentre scartava il pacchetto. Era una prima edizione pregiata di Burchell's Travels, che lo indusse a lanciare grandi acclamazioni di gioia. Strinse poi rispettosamente la mano all'Ou Baas e raggiò dal piacere alle sue lodi: « Stai facendo un buon lavoro, Kerel ». Infine scambiò rapidamente due parole con Blaine, prima di riempirsi il piatto e portarlo tra Tara e la madre. Rifiutò lo champagne - « Oggi ho da lavorare » - e fece piedino a Tara mentre rideva e scherzava con tutti gli altri. Fin troppo presto tutti si alzarono e le donne andarono a prendere i soprabiti, mentre gli uomini si portavano alla macchina per controllare che fossero state caricate ceste e tovaglie da picnic. « Peccato che tu non possa venire con noi, Shasa. Volevo far due chiacchiere con te, ma Blaine mi ha spiegato che stai facendo un lavoro molto importante », gli disse Garry. « Cercherò di fare un salto domani sera, quando le acque dovrebbero essere piú tranquille. » « Non tornerò nel Natal prima di aver potuto passare qualche ora con te. Mio solo e unico nipote, sei quello che dovrà trasmettere il nome dei Courteney ai posteri! » Shasa provò un empito di profonda affezione per quel vecchio saggio e gentile: forse il fatto che entrambi avessero subito una mutilazione, Shasa all'occhio e Sir Garry alla gamba, aveva rafforzato i legami fra di loro. « Sono anni che non vengo a trovarvi a Theuniskraal », sbottò Shasa d'impulso. « Posso venire a passare un paio di settimane da voi? » « Niente ci farebbe piú piacere », disse Sir Garry abbracciandolo, e in quel momento arrivò il Maresciallo Smuts. « Stai ancora ciarlando, vecchio Garry, ma non la finisci mai? Vieni adesso, abbiamo una montagna da scalare, e l'ultimo che arriva in cima va all'ospizio. »
I due vecchi amici si sorrisero. Sembravano fratelli, entrambi snelli ma energici e azzimati, entrambi con la barbetta caprina canuta e vecchi cappellacci in testa. « Avanti! » Sir Garry brandiva il bastone da passeggio. Prese sottobraccio il Maresciallo e lo condusse al sedile di dietro della Daimler di Centaine. La Daimler partì in testa, seguita dalla Bentley di Blaine. Tara mando un bacio a Shasa passando. Lui restò sui gradini dell'ingresso e tutto gli parve smorto quando se ne furono andati. Tornò in casa e salì alla sua stanza, dove prese camicie e biancheria di ricambio. Tornando da basso, entrò nello studio di Centaine e telefonò. Gli rispose uno dei sergenti di servizio alla sala operativa. « Ci sono messaggi per me, sergente? » « Resti in linea, signore, vado a vedere. » Tornò pochi secondi dopo. «Si, uno, signore, una telefonata di dieci minuti fa. Una donna... non ha voluto dire come si chiama. » « Grazie, sergente. » Shasa riappese subito. Si accorse che gli tremava la mano e aveva il fiato corto. Una donna... non ha voluto dire come si chiama. Era sicuramente lei. Ma perché non aveva provato a chiamarlo li? Il numero ce l'aveva. Restò accanto al telefono, ordinandogli mentalmente di suonare. Ma non successe niente. Dopo cinque minuti si mise a incrociare per la stanza, tra la finestra e la scrivania Luigi XIV, sempre guardando il telefono. Era indeciso se tornare al quartier generale o aspettare li: e se avesse ritelefonato proprio adesso? Doveva dare istruzioni al sergente? Ma avrebbe bloccato la linea. « Forza! » implorò. « Forza, forza! » Guardò l'orologio. Aspettava indeciso da trentacinque minuti. « Bisogna andare. Non posso star qui tutto il giorno. » Andò alla scrivania e tese la mano verso il telefono, che proprio in quella suono. Non se l'aspettava e fece un balzo. Afferra la cornetta. «Comandante di squadriglia Courteney», disse in afrikaans. « E' lei, Mevrou? » « Avevo lasciato a casa l'altro numero, sono dovuta tornare a prenderlo », disse. Si sentiva che era senza fiato, sicuramente aveva corso. « Non ho potuto chiamare prima... c'era gente, mio marito... » S'interruppe. Aveva detto troppo. « Va tutto bene, non si preoccupi, va tutto bene. » « No », rispose lei. « Stanno per fare una cosa terribile... una cosa tremenda... » « Vuole dirmelo? » « Stanno per uccidere il Maresciallo... » « Il Maresciallo? » « L'Ou Baas... il Maresciallo Smuts. » Non riuscì a parlare per un momento, poi si riprese. « Sa quando hanno intenzione di farlo? » « Oggi. Gli spareranno oggi. » « Ma non è possibile... » Non voleva crederci. « L'Ou Baas oggi fa un'ascensione sulla Table Mountain. E andato a un picnic
con... » «Si, si!» La donna singhiozzava. «Sulla montagna. Spada Bianca l'aspetta sulla montagna. » « Oh, mio Dio! » sussurrò Shasa. Si sentiva come paralizzato. Aveva le gambe pesanti come il cemento e del piombo fuso nei polmoni. Per un attimo resto senza fiato. « E' una donna coraggiosa », le disse. « Grazie di quello che ha fatto. » Butto giú la cornetta e aprì il cassetto della scrivania di Centaine. Nella scatola istoriata c'erano le due pistole Beretta dal calcio intarsiato. Ne prese una dal suo nido di velluto verde e controllo se era carica. Il caricatore era nel calcio e ce n'era un altro di riserva. Lo prese, lo ficco in tasca, mise il colpo in canna e s'infilo la pistola nella cintura dei pantaloni. Poi prese la porta. Quella pistola era quasi inutile, dato il piccolo calibro, se non si sparava a distanza ravvicinata. Ma i fucili da caccia erano chiusi a chiave nell'armadio del ripostiglio, le munizioni sottochiave da un'altra parte, e le chiavi erano in macchina, sicché gli ci voleva troppo tempo per armarsi meglio. I gitanti erano partiti da quaranta minuti: a quest'ora potevano essere già a mezza costa. Tutte le persone che amava erano laggiú, e le aspettava un assassino. Corse giú dai gradini e salto dentro la Jaguar scoperta. L'avviò con un rombo, la fece girare con una sbandata sparando ghiaia nei vetri di casa e accelero giú per il viale a cento all'ora. Sfrecciò per il cancello e per gli stretti tornanti della strada che costeggiava la base della montagna. Gli ci volle lo stesso un quarto d'ora per arrivare ai cancelli dell'Orto Botanico di Kirstenbosch e lasciarla nel parcheggio del direttore. Le altre vetture erano già lì, allineate, la Daimler e la Bentley e la Packard di Denys Reitz: ma non c'era piú nessuno. Diede una rapida occhiata alla montagna torreggiante su di lui. Si vedeva il sentiero sbucare dalla foresta e salire zigzagando per la Gola dello Scheletro, superare quello che dal basso sembrava un foruncolo, ed era Breakfast Rock, e scollinare sul tavoliere. Ed ecco una fila di puntini uscire dalla foresta sulla linea del sentiero. Come sempre, il nonno e l'Ou Baas erano in testa, a far l'andatura e dimostrare agli altri quant'erano ancora in forma: schermandosi l'occhio con la mano distinse la mamma, vestita di giallo, Tara con la gonna turchese: due macchioline contro la parete grigioverde della montagna. Erano molto piú indietro dei due in testa. Si mise a correre. Imboccò la prima leggera salita al trotto, risparmiandosi un po': raggiunse la Cornice, col cippo che segnava la via, e si fermò a tirare un pò il fiato. Intanto guardava il sentiero in alto. Di lí in poi diventava molto ripido, zigzagava in mezzo agli alberi seguendo il corso di un torrente: si saliva da una roccia all'altra come su una gigantesca scala. L'affrontò di buon passo, ma aveva le scarpe da città con la suola sottile di cuoio e scivolava spesso. Quando sbucò dalla foresta ansimava come un mantice e aveva la camicia madida di sudore. Gli mancavano ancora trecento metri e piú per arrivare in cima, ma si accorse subito che aveva guadagnato
un bel pò di terreno rispetto alla compagnia del picnic. Erano ancora in ordine molto sparso sul sentiero. I due in testa erano il nonno e l'Ou Baas - a quella distanza era impossibile distinguerli - ma il terzo era sicuramente Blaine, che si faceva lasciare indietro apposta per non costringere i due piú anziani a un passo ormai insostenibile per loro. Il resto della compagnia li seguiva a una bella distanza, in ordine sparso, le donne ultime e molto staccate. Respirò profondamente e si mise a urlare. Le donne si fermarono e guardarono in giú. « Ferma! » gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. « Ferma! » Una delle donne sventolò il braccio - probabilmente Matty - e poi ricominciarono a salire. Evidentemente non l'avevano riconosciuto, non avevano capito quello che diceva. L'avevano preso per un escursionista. Stava perdendo del tempo prezioso: i due battistrada erano ormai quasi in vetta. Shasa ricominciò a salire con tutta la sua forza, saltando da un sasso all'altro come una capra, imponendosi di ignorare il male ai polmoni e ai muscoli delle gambe, continuando ad ascendere per mera forza di volontà. Tara si voltò quando era ormai a tre metri da lei. « Shasa! » gridò, felice e sorpresa di vederlo. « Cosa fai qui? » La superò senza fermarsi. « Non posso fermarmi », grugní, superando Anna e poi la mamma. « Cosa c'è, Shasa? » « Dopo! » Non aveva fiato da sprecare, tutta la sua vitalità era nelle gambe ormai malconce. Il sudore gli colava nell'occhio buono, confondendogli la vista. Vide i due in testa imboccare l'ultima breve traversata prima di metter piede in cima, e si fermò cercando di gridare ancora. Ma non gli uscí che un mugolio strozzato, proprio mentre il nonno e l'Ou Baas scollinavano con Blaine che li seguiva a trenta passi di distanza. Lo sparo echeggiò attutito dalla distanza, ma Shasa lo riconobbe. Era un Mauser. Da non si sa dove attinse nuova energia e balzando da un sasso all'altro continuò la salita. Quell'unico sparo sembrava riecheggiargli mille volte in testa. Sentí qualcuno gridare, o forse era solo l'ansito selvaggio del suo stesso fiato, o il rumore della circolazione sanguigna nelle orecchie. Manfred De La Rey restò nascosto là tutta la notte. Al sorgere del sole si alzò in piedi e fece un pò di ginnastica per riscaldare i muscoli e vincere il freddo che gli era arrivato alle ossa. Fece qualche passo allontanandosi dal sentiero, vuotò la vescica e si tolse cappotto e maglione. Erano stati acquistati da un venditore di indumenti di seconda mano sul Corso delle Parate, e non avevano etichette né altre caratteristiche in grado di portare a lui. Li appallottolò e li nascose sotto un masso. Poi tornò al nascondiglio e si sdraiò sul telone. Qualche filo d'erba alta lo disturbava, li tolse dalla linea di tiro e tornò a puntare il fucile allo sbocco del sentiero sul
pianoro. Era ormai giorno e niente gli impediva la visuale. Prese il caricatore, ne estrasse una pallottola, la controllò a vista e la mise in canna a mano. Poi applicò il caricatore al fucile e sganciò la cinghia, lasciandola fissata solo al calcio e libera dietro. Prese nuovamente la mira. Quindi schiacciò il bottoncino della sicura col pollice e appoggiò il fucile sul telone, davanti a sé. Si irrigidí nell'immobilità piú assoluta. Paziente come un leopardo in agguato su un albero sopra una sorgente, solo i suoi occhi gialli parevano vivi, e cosí lasciò passare le ore, senza mai rilassarsi nemmeno un istante. Quando successe, successe cosí all'improvviso da sorprendere qualunque altro osservatore. Non si sentirono rumori, né voci ne passi: la distanza era troppa. Di colpo una sagoma si stagliò in cima al sentiero contro l'azzurro del cielo. Manfred l'aspettava. Imbracciò il fucile con un sol gesto fluido portando l'occhio alla lente. Subito vide l'uomo ingrandito, perfettamente a fuoco. Era un vecchio, dalle spalle strette, con la camicia bianca aperta e un panama vecchissimo e ingiallito in testa. La barbetta bianca caprina brillava al sole di primavera. La croce del mirino telescopico puntava già al centro del petto smunto, appena sotto il colletto aperto. Manfred aveva deciso di non rischiare un tiro alla testa, ma di sparare al cuore. Sfiorò il grilletto e il Mauser gli rintronò le orecchie, rimbalzandogli sulla spalla. Vide la pallottola arrivare a segno. Fece sbattere la camicia bianca contro il magro torace. La vista di Manfred era così acuta per la concentrazione che la vide anche uscire: sprizzò fuori della schiena del vecchio con una scia di sangue e tessuto, simile a una piuma di struzzo. Allorché il corpo magro scomparve, cadendo nell'erba, la nuvola di sangue aleggiava ancora nell'aria trasparente del mattino: dopo un centesimo di secondo si dissipò anche quella. Manfred balzò in piedi e si mise a correre. Aveva preparato ogni metro della fuga fino alla Morris, e un'esaltazione selvaggia gli metteva le ali ai piedi. Qualcuno gli grido dietro, un urlo primitivo di dolore e sbigottimento, ma Manfred non si fermò a vedere o a controllare. Shasa arrivò in cima a tutta velocità. I due uomini erano chini sul corpo che giaceva sull'erba a lato del sentiero. Alzarono gli occhi a guardarsi sbigottiti. Shasa diede un'occhiata al corpo che giaceva prono. Per fare un foro d'uscita del genere ci voleva una pallottola dum dum. Sulla schiena c'era un buco in cui si potevano infilare due mani. Non c'erano speranze, era morto. Shasa s'irrigidi. Ci sarebbe stato tempo di soffrire dopo: adesso bisognava vendicarlo. « Avete visto chi ha sparato? » ansimò. « Si! » disse Blaine balzando in piedi. « L'ho intravisto. E' scappato intorno a Oudekraal Kop. Era vestito di blu. » Shasa conosceva benissimo quella parte della montagna: sapeva
tutti i sentieri, tutte le gole e tutte le gobbe tra Constantia Nek e la Sella. L'assassino aveva fatto il giro del kop, una cima secondaria, nient'altro che un colle che si alzava dal tavoliere. « Va al sentiero dei forestali », ansimò Shasa. « Cercherò di tagliargli la strada per il canalone della Nursery. » « Attento, Shasa! » gli gridò Blaine. « Ha il fucile, l'ho visto! » La strada dei forestali era l'unica con cui si potesse raggiungere il tavoliere in macchina, ragionò Shasa mentre correva; e l'attentato era stato progettato così accuratamente che il sicario doveva avere un veicolo pronto per la fuga. Non poteva averlo lasciato che sul tratturo di servizio delle guardie forestali. Il sentiero faceva un largo giro intorno a Oudekraal Kop, poi tornava sul ciglio del monte e lo costeggiava fin oltre lo sbocco del canalone della Nursery: un paio di chilometri piú avanti incrociava la strada dei forestali. Esisteva però un altro sentierino poco usato che costeggiava il kop dal lato dell'abisso. L'imbocco era difficile da trovare, e uno sbaglio avrebbe condotto in un vicolo cieco davanti al precipizio: ma se riusciva a trovarlo avrebbe guadagnato mezzo chilometro. Lo trovò e l'imboccò di corsa. In due punti era stato cancellato dalla vegetazione, e dovette farsi strada tra i rami: in un altro punto era franato a valle. Dovette prender la rincorsa e saltare sopra un baratro profondo trecento metri. Atterrò sulle ginocchia, si rialzò e continuò a correre. A un tratto sbucò sul sentiero principale e si scontrò letteralmente con il sicario in tuta blu che veniva di corsa dall'altra direzione. Intravide per un attimo le spalle larghe dell'avversario e rimase impressionato dalla sua mole. Subito dopo erano a terra che lottavano selvaggiamente, aggrappati l'uno all'altro, rotolando giú per il pendio. Lo scontro aveva fatto sfuggir di mano il fucile al sicario, ma Shasa si accorse immediatamente che per forza fisica costui lo superava di molto, era un fascio di muscoli d'acciaio, e tremò. Aveva incontrato la morte. Nonostante la sua disperata difesa, l'uomo lo mise spalle a terra e gli montò addosso. I loro visi erano a pochi centimetri. L'uomo aveva una folta barba nera tutta sudata, il naso schiacciato e le sopracciglia ispide e nere. Ma furono gli occhi a gelare Shasa. Erano gialli e oscuramente familiari. Comunque valsero a trasformare il suo terrore in sovrumana potenza. Riuscí a divincolare un braccio e a scostare il sicario abbastanza da impugnare la Beretta che portava alla cintola. Non aveva messo il colpo in canna, però si serví dell'arma come d'un pugno di ferro e tirò un gran colpo sulla tempia dell'avversario. La presa del sicario si allentò e l'uomo cadde all'indietro. Shasa si rialzò sulle ginocchia, cercando disperatamente di inserire il colpo in canna. Ci riuscí e alzò pistola e sguardo. Cosí si accorse che lottando erano finiti sull'orlo dell'abisso. Si trovava in ginocchio proprio sul ciglio. Mentre cercava di puntar la pistola sulla testa nera dell'assassino, costui si riscosse dal torpore e sferrò un calcio a piedi pari contro il petto di Shasa.
Shasa fu proiettato all'indietro. La pistola sparò senza colpire nessuno, e il giovane Courteney si trovò a precipitare giú dalla montagna. Aveva appena dato un'occhiata al baratro, centinaia di metri, ma dopo averne percorsi appena tre s'impigliò in un pino che aveva trovato modo di crescere fuori da un piccolo crepaccio. Si aggrappò al costone, con le gambe che pendevano nel vuoto, ancora attonito e confuso. Sul ciglio del tavoliere apparve la testa dell'assassino: gli strani occhi gialli lo guardarono per un attimo e poi scomparvero. Shasa sentí gli scarponi scalpicciare sul sentiero e capì che andava a recuperare il fucile. Infatti subito dopo sentì lo scatto inconfondibile della leva che spinge il proiettile in canna e arma il cane. « Viene a finirmi », pensò, e solo allora ricordò di avere ancora in mano la Beretta. Si aggrappò disperatamente allo spuntone di pino col gomito sinistro e puntò la Beretta in alto contro il ciglio del monte. Ancora una volta il busto dell'assassino si stagliò contro il cielo: puntava in basso la lunga canna del Mauser, ma era complicato mirare con quell'angolazione e Shasa poté sparare per primo. Sentí il leggero proiettile della pistola colpire la carne, e l'assassino, gemendo, scomparve dalla vista. Subito dopo si udirono delle grida in lontananza. Era la voce di Blaine. Ed ecco lo scalpiccio dell'assassino che si allontanava di corsa per il sentiero. Un attimo dopo, Blaine si affacciò dal ciglio e vide Shasa. « Resisti! » Blaine era tutto rosso per la corsa e aveva la voce rotta. Si sfilò la cinghia dei pantaloni, fece un cappio, si coricò sul ciglio a pancia in giú e la calò a Shasa, che ci infilò il braccio. Anche se Blaine era un uomo vigoroso, con uno sviluppo eccezionale del torace e del braccio destro perché giocava a polo, ci vollero parecchi secondi di sforzi erculei perché riuscisse a tirare Shasa sul bordo dell'abisso. Restarono coricati, a fianco a fianco per qualche momento: poi Shasa si rialzò barcollando e si lanciò per il sentiero, rincorrendo grottescamente il fuggitivo. Nel giro di dieci passi Blaine lo superò, correndo vigorosamente, e il suo esempio spronò Shasa. Si rinfrancò, e toccò a Blaine arrancare in seconda posizione. «Sangue!» esclamò il ministro degli Interni indicando delle macchie rosse su un sasso piatto in mezzo al sentiero. « L'hai beccato! » Sbucarono sulla strada dei forestali e si lanciarono giú per la discesa, a spalla a spalla, aiutati dalla pendenza. Non fecero a tempo a raggiungere il primo tornante che sentirono avviarsi un motore nella foresta sottostante. « Ha la macchina! » anfanò Blaine mentre il motore rombava sempre piú forte e quindi si allontanava in fretta. Si fermarono a sentirlo svanire. Le gambe non li reggevano piú. Shasa inciampò subito dopo esser ripartito di corsa e cadde in mezzo al sentiero. Alla stazione delle guardie forestali di Cecilia c'era un telefono. Shasa chiamò l'ispettore Nel alla sala operativa e gli diede la descrizione del sicario.
« Bisogna fare in fretta, quel tipo ha sicuramente preparato la fuga. » Il club alpinistico teneva una barella leggera presso la stazione dei forestali, dato che quella montagna faceva ogni anno molte vittime tra escursionisti e scalatori. La guardia forestale gli diede sei dipendenti negri per portare a valle la salma e li riaccompagnò in cima alla Gola dello Scheletro. Erano arrivate le donne: Anna e Centaine si abbracciavano piangendo. Il cadavere era stato coperto con una tovaglia da picnic. Shesa si inginocchiò accanto al corpo e alzò un lembo della tovaglia. Nella morte i lineamenti di Sir Garry Courteney avevano ceduto: il naso era curvo e appuntito, le palpebre chiuse affondavano, ma nel volto si scorgeva una dignità gentile che lo faceva assomigliare alla maschera mortuaria di qualche fragile imperatore romano. Shasa lo baciò sulla fronte liscia e fredda. Quando si rialzò, il Maresciallo Smuts gli mise la mano sulla spalla per consolarlo. « Mi spiace, ragazzo mio », gli disse il vecchio soldato. « Quella pallottola era destinata a me. » Manfred De La Rey uscí dalla strada, guidando con una mano sola. Non lasciò il volante, e mentre si sbottonava la tuta tenne il motore acceso. La pallottola era entrata appena sotto l'ascella, sul davanti. Aveva bucato la massa dei pettorali e aveva deviato in su. Non si vedevano fori d'uscita, dunque era ancora nel corpo. Palpandosi piano dietro la spalla trovò un gonfiore così molle che, toccandolo, per poco non lanciò un urlo. La pallottola era proprio sottopelle, e non sembrava che fosse penetrata nella cavità toracica. S'infilò un fazzoletto pulito sotto il braccio, sul foro d'entrata, e tornò ad abbottonarsi la tuta. Guardò l'orologio. Mancavano pochi minuti alle undici, e ne erano passati ventitré da quando aveva sparato il colpo che doveva donare la libertà al suo popolo. Il dolore della ferita fu sovrastato da un'ondata di appassionato trionfo. Tornò sulla strada e guidò con calma intorno alla montagna, per la strada principale che attraversava Woodstock. Ai cancelli dello scalo merci della ferrovia mostrò una tessera alla guardia ed entrò parcheggiando la Morris davanti ai quartieri dove riposavano macchinisti e fuochisti fuori servizio. Lasciò il fucile sotto il sedile della macchina. Fra poco ci avrebbe pensato qualcun altro, sia all'arma che al veicolo. Entrò nell'edificio dalla porta posteriore; in una saletta comune i camerati l'aspettavano. Roelf balzò in piedi preoccupato, vedendo subito le macchie di sangue sulla tuta blu. « Sei ferito? Com'è andata? » « Smuts è morto », disse Manfred, e la sua gioia selvaggia contagiò anche loro. Ma non diedero in grida di trionfo, non parlarono neanche: rimasero seduti e zitti, assaporando il momento in cui si
chiudeva una pagina di storia. Dopo alcuni secondi fu Roelf a rompere il silenzio. « Tu sei ferito. » Mentre uno stormjagter usciva a portar via la macchina, Roelf aiutò Manfred a togliersi la tuta sporca e macchiata. Non usciva piú tanto sangue, ma la carne intorno alla ferita era gonfia e pesta. Il foro d'entrata era un buchetto nero da cui usciva del siero rosa quasi trasparente. Roelf disinfettò la ferita e la bendò con la cassetta del pronto soccorso in dotazione ai ferrovieri. Siccome Manfred non riusciva quasi piú a muovere il braccio sinistro, pensò Roelf a tagliargli la barba. Senza, Manfred sembrava molto piú giovane: era bello e in ordine, ma pallido e debole per la perdita di sangue e la ferita aperta. Lo aiutarono a mettersi un'altra tuta pulita e un elmetto da fuochista. « Ci rivedremo presto », gli disse Roelf. « Sono fiero di essere tuo amico. D'ora in avanti la tua esistenza sarà illustre di gloria. » Si fece avanti il macchinista. « Bisogna andare », disse. Roelf e Manfred si strinsero la mano, poi Manfred girò sui tacchi e si avviò col macchinista fuori della sala comune, verso la locomotiva in attesa poco lontano. La polizia fermava tutti i treni merci diretti a nord alla stazione di Worcester. Aprivano e perquisivano tutti i vagoni: un agente saliva sulle locomotive. Controlla anche quella. « Cosa succede? » domandò il macchinista. « C'è stato un delitto. Hanno ammazzato un pezzo grosso sulla Table Mountain stamattina. Abbiamo la descrizione dell'assassino: ci sono posti di blocco su tutte le strade, e controlliamo tutti i treni, le navi e gli aerei. » « Chi è che hanno ammazzato? » chiese Manfred, e l'agente alzò le spalle. « Non lo so, amico mio, ma a giudicare dal casino che hanno messo in piedi doveva essere un alto papavero. » Scese dalla locomotiva. Pochi minuti dopo il segnale diventò verde e il treno uscì dalla stazione proseguendo verso nord. All'arrivo a Bloemfontein la spalla di Manfred si era gonfiata come un melone purpureo e il dolore si era fatto insopportabile. Sedeva in un angolo della cabina, gemendo piano e battendo i denti, sull'orlo del delirio e dell'incoscienza. Roelf aveva già telefonato, e c'erano degli amici a prenderlo e farlo uscire di nascosto dalla stazione. « Dove andiamo? » « Dal dottore », gli risposero. La realtà si frantumò in un caleidoscopio di tenebra e dolore. Avvertì la puzza sconvolgente del cloroformio, e quando si svegliò si trovava a letto in una camera solatia, arredata con rigore monastico. La spalla era bendata di fresco, e nonostante la nausea dell'anestetico si sentiva di nuovo in forma. C'era un tale seduto accanto alla finestra, e appena si accorse che Manfred si era svegliato si avvicinò. « Come si sente? » « Non malissimo. C'è stata l'insurrezione? Hanno preso il pote-
re i nostri? » L'uomo lo guardò in modo un pò strano. « Non lo sa? » gli chiese. « So solo che siamo riusciti a... » cominciò Manfred, ma già l'uomo gli mostrava un giornale. Lesse il titolone in prima pagina: BARBARO ATTENTATO SULLA TABLE MOUNTAIN UCCISO DAI TERRORISTI UN FAMOSO STORICO SMUTS METTE FUORILEGGE L'OSSEWA BRANDWAG E ORDINA SEICENTO ARRESTI Manfred rimase a guardarlo senza capire per un bel pò e l'uomo gli disse: « Ha ucciso la persona sbagliata. Ora Smuts ha la scusa che cercava: tutti i nostri capi sono stati arrestati e anche lei è ricercato. Stanno setacciando tutto il paese, non può restare qui, la polizia può arrivare da un momento all'altro ». Manfred fu mandato via e lasciò la città sul retro di un camion, sotto un carico di pelli conciate quanto mai puzzolenti. L'Ossewa Brandwag era stata decimata dagli arresti e i membri rimasti in libertà erano scossi e impauriti. Non pensavano che a salvarsi: nessuno voleva correre il rischio di ospitare il fuggiasco. Fu scaricato da tutti. Il piano non prevedeva che l'assassinio del capo del governo e un rapido colpo di stato favorito dall'insurrezione; dopo di che Manfred sarebbe emerso come un eroe nazionale e avrebbe preso posto tra i reggitori della nuova repubblica. Invece, adesso era un latitante braccato, debole e febbricitante, con una taglia di cinquemila sterline sulla testa. Nessuno voleva avere a che fare con lui: era troppo pericoloso, e tutti se ne liberavano appena trovavano modo di scaricarlo sul gobbo a qualcun altro. Nelle liste degli arrestati - internati dopo il colpo di mano del governo - di cui i giornali pubblicavano i nomi, trovò molte persone che conosceva. Con disappunto lesse il nome di Roelf e di suo zio, il reverendo Tromp Bierman. Si chiese come se la potessero cavare ora Sarah, la zia Trudi e le ragazze: ma non riusciva piú a pensare o a concentrarsi, perché la disperazione l'aveva paralizzato. Conobbe il terrore dell'animale ferito e braccato. Ci mise otto giorni ad arrivare a Johannesburg. Non aveva scelto consapevolmente di rifugiarsi nel Witwatersrand: erano state le circostanze, e la fretta di chi l'aiutava, a spingerlo da quella parte. In treno, in camion, e piú tardi - recuperate un pò le forze - a piedi per l'aperta campagna, riuscí alfine a raggiungere la città. Aveva un indirizzo, l'ultimo contatto con la confraternita, e ci andò in tram, guardando i numeri delle case al passaggio. Il suo numero era il 36. Faceva parte di un semicerchio di casette un pò distanti dalle altre. Si alzò dal posto preparandosi a scendere quando vide davanti alla porta l'uniforme blu di un poliziotto. Allora tornò a sedersi e andò avanti fino al capolinea. Qui scese dal tram e andò in un caffeuccio greco dall'altra parte della strada. Ordinò un caffè, pagandolo con le ultime monetine che gli restavano in tasca, e lo bevve lentamente, centellinandolo e
cercando di riflettere. Nell'ultima settimana aveva evitato una dozzina di posti di blocco e controlli della polizia, ma sentiva di aver esaurito la sua fortuna. Non c'erano piú nascondigli per lui: la prossima tappa era la forca. Guardò fuori della vetrina unta e sporca del caffè e la targa stradale sull'altro marciapiede lo colpí. Qualcosa si mosse nella sua memoria, ma dapprima lo eluse: poi di colpo sentí alzarsi il morale e balenare, fioca, un'altra speranza. Uscí dal locale e imboccò la via di cui aveva ricordato il nome. Il quartiere peggiorava a ogni passo, diventando una baraccopoli dove non si vedevano piú facce di bianchi. Dalle finestre delle stamberghe, o dai vicoli puzzolenti in terra battuta, lo guardavano impassibili facce nere al di là dell'abisso impenetrabile che in Africa separa le razze. Trovò quello che cercava. Si trattava di uno spaccio, tipo le botteghe di paese che vendono di tutto. Era affollato di negri rumorosi e allegri, le donne coi bambini imbracati sulla schiena: tutti mercanteggiavano appassionatamente zucchero e sapone, petrolio e sale. Ma il chiasso diminuí e divenne subito silenzio all'ingresso dell'uomo bianco. Tutti gli cedettero rispettosamente il passo senza guardarlo negli occhi. Il padrone era un vecchio zulu dalla barba bianca lanuginosa, che indossava un vestito liso di foggia occidentale. Smise di servire una cliente e andò incontro a Manfred, inclinando cerimoniosamente la testa per sentire le sue richieste. « Vieni con me, Nkosi», gli disse poi conducendolo nel retrobottega. «Dovrai aspettare», disse, «forse molto tempo», e lo lasciò lì. Manfred si sedette su una pila di sacchi di zucchero. Aveva fame, era stanchissimo e la spalla ricominciava a fargli male. Cadde addormentato e fu svegliato da una mano sulla spalla e una voce baritonale all'orecchio. « Come hai fatto a trovarmi? » Manfred cercò di rialzarsi in piedi. «Me l'ha detto mio padre», gli rispose. «Ciao, Swart Hendrick. » « Quanti anni sono passati, piccolo Manie. » Il grosso ovambo gli sorrise, rivelando il buco nero degli incisivi mancanti: la testa, solcata di cicatrici, era nera e lucida come una palla di cannone. « Tantissimi anni, ma non ho mai dubitato che ci saremmo rivisti. Mai una volta, in tutti questi anni. Gli dei del deserto ci hanno legati insieme, piccolo Manie. Sapevo che saresti venuto. » Ed ecco i due uomini seduti in una stanzetta sul retro della casa di Swart Hendrick. Erano soli. La casa era una delle poche in mattoni della borgata di Drake's Farm. Erano però mattoni crudi, e la costruzione non si elevava sopra le circostanti. Da tempo Swart Hendrick aveva imparato a non attirare l'attenzione della polizia bianca sulla propria ricchezza. Di là, le donne cucinavano e lavoravano, mentre i bambini giocavano e correvano gridando, sempre tra i piedi. In armonia con
la sua attuale posizione nella vita, Swart Hendrick aveva sei mogli cittadine che vivevano insieme in un rapporto amabilmente simbiotico. La gelosia possessiva delle donne monogame occidentali era loro completamente aliena. Le mogli piú anziane partecipavano attivamente alla scelta delle piú giovani, e traevano prestigio dal loro numero: né si irritavano degli alimenti spediti dallo sposo alle mogli di campagna e alla loro prole, né delle periodiche visite di Swart Hendrick al villaggio per incrementarne il numero. Si consideravano tutte parte della stessa famiglia. Quando i bambini cresciuti in campagna erano abbastanza grandi da esser mandati in città per migliorare istruzione e prospettive esistenziali, trovavano vicemadri in abbondanza e potevano aspettarsi lo stesso amore e la stessa disciplina che avevano ricevuto al villaggio. In casa comandavano i bambini piccoli. Eccone uno correre nudo in braccio a Swart Hendrick seduto sullo scranno intagliato dei capitribù. Sebbene immerso nella discussione con Manfred, l'accarezzò amorosamente, come una bambolina favorita. Quando la scodella di birra risultava vuota, batteva le mani, e una delle mogli piú giovani, la graziosa zulu dalla faccia di luna piena o la slanciata basuto dai seni tondi e duri come uova di struzzo, veniva a portargliene un'altra, porgendogliela inginocchiata davanti a lui. « Allora, piccolo Manie, abbiamo parlato di tutto, detto tutto quello che c'era da dire, e ci ritroviamo sempre di fronte allo stesso problema. » Swart Hendrick alzò la scodella di birra e inghiottí un sorso della spessa poltiglia bianca fermentata. Schioccò le labbra e si pulí coll'avambraccio la mezzaluna spumosa stampata sotto il naso, poi passò la scodella a Manfred. « E il problema è questo: a tutte le stazioni e su tutte le strade la polizia dei bianchi ti cerca. Hanno anche messo una taglia sulla tua testa, e che taglia, piccolo Manie: cinquemila sterline. Quante bestie e quante mogli può comprarsi un uomo con quel denaro? » Si interruppe, lasciando aleggiare la domanda retorica, e assunse un'espressione saggia e disincantata. « Mi chiedi di aiutarti a lasciare Johannesburg e ad attraversare il grande fiume a nord. Ma cosa mi farebbe la polizia dei bianchi, se mi prendesse? Mi impiccherebbe alla tua stessa forca, o mi manderebbe soltanto a spaccar pietre nella prigione dell'Ou Baas e di re Giorgino? » Swart Hendrick emise un sospiro teatrale. « E' una domanda molto grave, piccolo Manie. Puoi rispondermi tu? » « Sei stato come un padre per me, Hennie », disse con calma Manfred. « Un padre lascia forse il figlio alla iena e all'avvoltoio? » « Se sono tuo padre, piccolo Manie, dimmi, perché la tua faccia è bianca e la mia nera? » sorrise Hendrick. « Non ci sono debiti fra me e te, sono stati tutti pagati tanto tempo fa. » « Tu e mio padre eravate fratelli. » «Quante estati sono passate da allora», sottolineò Hendrick scuotendo il testone, nostalgico. « E adesso il mondo e chi ci vive sono cambiati parecchio. » « C'è una cosa che non cambia mai, e supera immutata gli anni, Hennie. » « E quale sarebbe, o bimbo dalla faccia bianca che rivendichi la mia paternità? »
« I diamanti, padre nero... i diamanti non cambiano mai. » Hendrick annuì. « Allora parliamo di diamanti. » « Tantissimi diamanti », specificò Manfred. « Una borsa di diamanti nascosti in capo al mondo, in un posto che solo tu e io conosciamo. » « Il rischio è grosso », disse Hendrick a suo fratello. « Il dubbio s'aggira nella mia mente come un leone mangiauomini nella boscaglia. Forse i diamanti sono davvero là dove dice il ragazzo bianco, ma il leone del dubbio resta in agguato dentro di me. Il padre era un uomo insidioso, duro e spietato: e ho l'impressione che il figlio sia diventato come lui. Parla d'amicizia, ma non sento piú calore in lui. » Moses Gama fissava il fuoco; i suoi occhi erano cupi e impenetrabili: « Ha tentato di uccidere Smuts », ragionò a voce alta. « E' uno di quei boeri duri di una volta, quelli che hanno sterminato il nostro popolo al Fiume di Sangue infrangendo il potere dei grandi capì. Stavolta sono sconfitti loro, come nel 1914, ma non sono distrutti. Si leveranno a lottare di nuovo, questi boeri duri, quando finirà la guerra dell'uomo bianco oltre il mare: allora scenderanno in campo contro Smuts e il suo partito un'altra volta. E' cosí che fa l'uomo bianco; ho studiato la sua storia: quando torna la pace, spesso respinge quelli che in guerra hanno combattuto di piú. Sento che nel prossimo conflitto i bianchi deporranno Smuts, e i boeri duri prevarranno: e questo ragazzo bianco è uno di loro. » « Hai ragione, fratello », annuì Hendrick. « Io non riuscivo a vedere così bene nel futuro: costui è un nemico della nostra gente. Se lui e quelli come lui prendono il potere, conosceremo la piú dura schiavitú. Ci conviene consegnarlo alla vendetta di chi lo cerca. » Moses Gama alzò la nobile testa e guardò negli occhi il fratello maggiore sopra il focolare. « Il guaio della massa è che l'orizzonte le sfugge: non vede piú lontano della pancia e del cazzo », dichiarò Moses. « Tu hai dimostrato la stessa debolezza. Perché, fratello, non cerchi di elevarti un pò sopra queste bassure? Perché non levi lo sguardo al futuro? » « Non capisco. » « Il pericolo piú grande, per il nostro popolo, è la sua stessa pazienza e passività. Siamo una gran mandria nelle mani di un astuto pastore. Ci tiene tranquilli sotto un dispotismo paternalistico, e la maggior parte di noi, che non conosce nulla di meglio, si culla in un accontentarsi che scambia per soddisfazione. Ma il pastore ci munge e ci divora a suo piacimento. E' lui il nostro nemico, perché la schiavitú in cui ci tiene è talmente insidiosa da rendere impossibile indurre la mandria a ribellarsi. » « Se il nostro nemico è questo pastore, che dire di coloro che hai chiamato "i boeri duri"? » Hendrick era perplesso. « Non sono un nemico anche peggiore? » « La libertà del nostro popolo in definitiva dipende da loro. Sono uomini senza sottigliezza, non conoscono l'artificio. Il sorriso e la parola gentile che mascherano l'atto brutale non sono da loro. Sono uomini pieni d'ira, di odio e di paura. Odiano gli indiani e gli
ebrei, odiano gli inglesi, ma piú di tutti odiano e temono le tribú negre, perché noi siamo tanti e loro sono pochi. Ci odiano e ci temono perché ci hanno rubato quello che a buon diritto è nostro, e non saranno capaci di mascherare con l'ipocrisia questo odio. Quando andranno al potere, insegneranno al nostro popolo cosa vuoi dire la schiavitú. Con la loro oppressione trasformeranno le tribú da mandrie compiacenti a bufali arrabbiati che tutto travolgeranno nella loro inarrestabile carica. Dobbiamo pregare che questo tuo ragazzo bianco vinca e le sue idee si impongano. Ne va del futuro del nostro popolo. » Hendrick rimase a lungo a fissare il fuoco, poi lentamente alzò il testone pelato e guardò attonito il fratello. « Qualche volta penso, o figlio di mio padre, che tu sia l'uomo piú saggio di tutta la nostra tribú. » Swart Hendrick mandò a chiamare un sangoma, o uomo della medicina, della sua tribú. Questi preparò un unguento caldo e puzzolentissimo, per la spalla di Manfred, che in dieci giorni gliela mise a posto. Così fu nuovamente in condizione di spostarsi. Lo stesso sangoma preparò una tintura vegetale per la pelle di Manfred, che gliel'anneri esattamente come quella di una certa tribú del nord. Gli occhi gialli non costituivano un problema: infatti presso i minatori che tornavano a casa pieni di soldi gli occhiali da sole costituivano uno dei piú apprezzati status-symbol, insieme agli elmetti della Wenela che potevano portarsi via alla scadenza del contratto, e che certi tenevano sempre in testa, dalle montagne della terra dei basati alle foreste equatoriali. I documenti di viaggio di Manfred furono rilasciati da uno dei Bufali di Hendrick, impiegato all'ufficio paghe della ERPM: erano dunque autentici. Quando salì sul treno della Wenela, indossava gli occhiali neri e aveva la pelle della stessa sfumatura di coloro che lo circondavano. Erano tutti Bufali di Hendrick, che badarono a tenerlo sempre in mezzo. Trovò strano, ma rassicurante, che i pochi funzionari bianchi incontrati nel lungo e lento viaggio di ritorno nell'Africa di Sudovest non lo guardassero quasi mai in faccia. Siccome era negro, il loro sguardo gli scivolava accanto senza toccarlo. Manfred e Hendrick scesero dal treno a Okabandja e insieme a un gruppetto di altri lavoratori salirono sull'autobus per l'ultimo torrido e polveroso tratto fino al villaggio di Hendrick. Due giorni dopo partirono ancora, questa volta a piedi, verso le desolazioni nordoccidentali. La stagione precedente aveva apportato buone piogge e trovarono acqua in parecchi stagni nell'Okavango meridionale. Dopo due settimane di cammino videro comparire all'orizzonte una sfilata di kopjes fluttuanti nella fatamorgana come una carovana di cammelli su un mare. Procedendo verso le alture, Manfred si rese conto di quanto fosse estraneo a quel deserto. Hendrick e suo padre ne avevano fatto parte, ma fin da bambino Manfred era sempre vissuto in paesi e città. Non sarebbe mai riuscito a ritrovare il posto senza la guida di
Hendrick; anzi, non sarebbe nemmeno riuscito a sopravvivere piú di qualche giorno in quella terra aspra e spietata senza il grosso ovambo. Il kopje a cui Hendrick condusse Manfred sembrava identico agli altri. Fu solo quando ne scalarono le ripide pendici di granito e arrivarono in cima che i ricordi tornarono in folla alla mente di Manfred. Forse erano stati deliberatamente rimossi, ma ora riemersero con tutti i particolari. Manfred riusciva quasi a rivedere i lineamenti del padre stravolti dalla febbre, a risentire il puzzo della cancrena che gli faceva marcire le carni. Ricordò anche, con nuovo dolore, le parole dure a cui suo padre aveva dovuto ricorrere per salvarlo: ma le scacciò subito dalla mente per non soffrire. Senza esitare ando al crepaccio sulla cima e ci si inginocchiò sopra. Gli venne un colpo quando, chinandosi a guardare dentro, non riuscì piú a distinguere la borsa di tela. Per contrasto alla gran luce che regnava fuori, riflettendosi spietatamente sulla roccia, dentro si vedeva tutto nero. « Dove sono andati a finire, allora, 'sti famosi diamanti? » ridacchio cinicamente Hendrick vedendo la delusione di Manfred. « Li hanno mangiati gli sciacalli? » Manfred lo ignorò e dallo zaino tirò fuori una robusta lenza. Applicò in fondo un grosso piombo, a questo un rispettabile ancorotto, e calò la lenza nel crepaccio. Lavorò con pazienza, spostandosi lungo la fenditura, mentre Hendrick, accoccolato nell'esigua ombra di un masso, lo guardava ben poco incoraggiante. L'ancorotto s'impigliò in qualcosa. Cautamente Manfred cominciò a tirare con forza crescente. A un tratto qualcosa cedette, e l'ancoretta saltò su. Manfred lo recuperò. A un dente, che si era un pò piegato, era impigliato un brandello di tela macerata. Ridiede forma all'amo che si era sformato e tornò a calare la lenza nella fessura. Scandagliò le profondità, spostandosi a palmo a palmo e su e giú. Dopo mezz'ora l'ancoretta ritrovò il bottino. Stavolta non lo perse. Manfred recuperò la lenza un centimetro per volta, senza forzare, sentendo la tela sfregare contro la roccia. Pian piano apparve un malloppo informe. Continuò a tirarlo su, trattenendo il fiato negli ultimi due metri. Appena fuori del crepacciò, la tela marcia del tascapane si lacerò riversando sul granito una lucente cascata di pietruzze bianche. Come d'accordo, divisero i diamanti in due mucchietti uguali e tirarono la paglia per decidere a chi toccava scegliere per primo. Vinse Hendrick e fece la sua scelta: Manfred versò il proprio mucchio nella borsa del tabacco che aveva comprato apposta. « Hai detto il vero, piccolo Manie », ammise Hendrick. « Sbagliavo a dubitare di te. » La sera dopo raggiunsero il fiume e dormirono a fianco a fianco accanto al fuoco. Al mattino arrotolarono la coperta e si guardarono negli occhi. «Addio, Hennie. Forse le nostre strade si incontreranno ancora. » « Ti ho già detto che gli spiriti del deserto ci hanno legati insieme. Ci rivedremo, io ne sono sicuro. »
« E io lo spero. » « Starà agli spiriti decidere se ci incontreremo ancora come padre e figlio, come fratelli, o come nemici mortali », disse Hendrick mettendosi il fagotto in spalla. Senza piú voltarsi si allontano diretto a sud, verso il deserto. Manfred restò a guardarlo finché non scomparve. Poi si girò e si avviò lungo la riva del fiume, a nord-ovest. Quella sera stessa raggiunse un villaggio di rivieraschi: due giovani lo traghettarono sulla sponda portoghese in canoa. Tre settimane dopo Manfred arrivò a Luanda, la capitale della colonia portoghese, e andò a suonare il campanello del consolato tedesco. Aspettò tre settimane a Luanda gli ordini dell'Abwehr di Berlino. A poco a poco capì che il ritardo era deliberato: aveva fallito nel compito affidatogli, e nella Germania nazista il fallimento era imperdonabile. Vendette uno dei diamanti piú piccoli del mucchio per una frazione del suo valore reale e restò in attesa della punizione. Ogni mattina andava al consolato tedesco dove l'attaché militare lo congedava subito con malcelato disprezzo: « Ancora niente ordini per lei, Herr De La Rey. Deve portar pazienza. » Manfred passava le giornate seduto ai caffè, e le notti nelle stanze delle pensioncine a ripensare a tutti i particolari del suo fallimento, allo zio Tromp e a Roelf in campo di concentramento, a Heidi e al bambino a Berlino. Alla fine gli ordini per lui arrivarono. Gli rilasciarono un passaporto diplomatico tedesco e prese la nave, un mercantile portoghese, fino alle Canarie. Di li volò a Lisbona su uno Junker dell'aviazione civile spagnola. Qui incontrò lo stesso deliberato disprezzo. Gli dissero di arrangiarsi a trovare una sistemazione e aspettare ordini che non arrivavano mai. Scrisse diverse lettere personali al colonnello Boldt e a Heidi. Benché l'attaché del consolato gli assicurasse che erano state inoltrate a Berlino con la valigia diplomatica, non ricevette risposta. Vendette un altro piccolo diamante e affittò un bell'appartamento grande in riva al Tago, passando lunghe giornate a leggere, scrivere e studiare. Prese a lavorare a due progetti letterari simultanei, una storia politica del Sudafrica e una autobiografia, entrambe per sua edificazione personale e non destinate alla pubblicazione. Imparò il portoghese, prendendo lezioni da un maestro elementare in pensione che abitava nello stesso palazzo. Continuò a tenersi in forma allenandosi come quando faceva il pugile professionista, e finì ben presto per conoscere tutte le librerie della città, dove comprava tutti i testi di giurisprudenza che riusciva a procurarsi in inglese, tedesco e portoghese, e li studiava. Ma continuava ad avere un sacco di tempo libero e fremeva per non poter prendere parte alla guerra che impazzava in tutto il mondo. Il conflitto piego a sfavore dell'Asse. Gli Stati Uniti entrarono in guerra e le Fortezze Volanti cominciarono a bombardare le città tedesche. Manfred lesse del terribile bombardamento di Colonia e scrisse per la centesima volta a Heidi.
Tre settimane dopo, in occasione di una delle sue regolari visite all'ambasciata tedesca, l'attaché militare gli porse una lettera. Con un soprassalto di gioia riconobbe la grafia di Heidi. Gli diceva che non aveva ricevuto nessuna delle sue lettere precedenti e che aveva creduto fosse morto. Esprimeva meraviglia e sollievo per la sua salvezza e accludeva una foto sua e del piccolo Lothar. Vide che era un pò ingrassata, ma la sua bellezza, un pò matronale, era perfino aumentata dall'ultima volta che l'aveva vista. In poco piú di tre anni suo figlio s'era trasformato in un gagliardo giovincello, che pareva destinato a diventare forte oltre che bello. La fotografia, in bianco e nero, non mostrava il colore degli occhi. Manfred ardeva dal desiderio di rivederli entrambi. Scrisse a Heidi una lunga lettera appassionata, in cui le spiegava la sua situazione e l'incoraggiava a fare il possibile per procurarsi un passaporto e venirlo a raggiungere con il bambino a Lisbona. Le fece capire, pur senza entrare in particolari, che era in grado di mantenerli, e che per il futuro aveva progetti che riguardavano anche loro. Heidi De La Rey giaceva sveglia ad ascoltare i bombardieri. Erano tre notti che venivano. Il centro della città era devastato, la stazione e il Teatro dell'Opera distrutti, e dalle informazioni a cui aveva accesso presso il ministero della Propaganda aveva appreso i successi alleati in Francia e Russia: sapeva che trecentomila soldati tedeschi erano stati catturati dai sovietici a Minsk. Al suo fianco dormiva, borbottando e rigirandosi senza sosta, il colonnello Sigmund Boldt che la disturbava ancor piú dei bombardieri americani. Aveva buone ragioni di preoccuparsi, pensò. Erano preoccupati tutti quanti dopo il fallito attentato al Fuhrer. Aveva visto il film dell'esecuzione dei traditori, tutti i particolari dell'orrenda agonia dei corpi appesi ai ganci da macellaio: uno di loro era il generale Zoller. Sigmund Boldt non aveva fatto parte della cospirazione, lei ne era sicura, ma essendo notoriamente amico di alcuni congiurati rischiava grosso. Heidi era la sua amante da quasi un anno ormai, ma aveva già cominciato a scorgere segni di stanchezza in lui. Sapeva che i giorni della sua influenza e del suo potere erano contati. Ben presto sarebbe rimasta di nuovo sola, senza razioni alimentari speciali per se e il piccolo Lothar. Ascoltò i bombardieri. L'incursione era finita, e il rombo dei motori si allontanò fino a diventare un ronzio di zanzara. Ma sarebbero tornati presto. Nel silenzio che seguì, pensò a Manfred e alle lettere che le aveva scritto e a cui non aveva mai risposto. Era a Lisbona, e in Portogallo non c'erano bombardieri. Il giorno dopo a colazione parlo a Sigmund. « Penso soprattutto al piccolo Lothar », gli spiego, e le parve di cogliere una sfumatura di sollievo nell'espressione del colonnello. Forse stava già pensando a come liberarsi di lei senza troppi fastidi. Quel pomeriggio scrisse a Manfred, presso il consolato tedesco a Lisbona, mandandogli una sua foto col bambino. Il colonnello Boldt agì in fretta. Al ministero aveva ancora abbastanza potere da procurarle i documenti necessari nel giro di una
settimana, e l'accompagno al Tempelhof con la Mercedes nera ufficiale. Ai piedi della scaletta dello Junker da trasporto le diede il baciò d'addio. Tre giorni dopo Sigmund Boldt fu arrestato nella sua casa di Griinewald. Una settimana dopo morì, protestandosi innocente, durante un interrogatorio della Gestapo. Il piccolo Lothar De La Rey diede la prima occhiata all'Africa dal parapetto della nave portoghese che entrava in Table Bay. Era tra la mamma e il papà, tenuto per mano, e accolse con strilli eccitati i colpi di sirena con cui le altre navi salutarono l'arrivo in porto della loro. La guerra era finita da due anni, ma Manfred aveva preso tutte le precauzioni prima di portare la famiglia in Africa. Prima aveva scritto allo zio Tromp, uscito dal campo di concentramento alla fine della guerra, apprendendo da lui tutte le novità familiari e politiche. La zia Trudi stava bene, e tutt'e due le ragazze si erano sposate. Anche Roelf era stato liberato insieme allo zio Tromp ed era tornato al suo lavoro all'università. Lui e Sarah stavano bene ed erano contenti: un altro bambino doveva nascere entro la fine dell'anno. Anche dal lato politico le cose sembravano promettenti. Benché l'Ossewa Brandwag e le altre organizzazioni paramilitari fossero screditate e disciolte, i loro membri erano confluiti nel National Party del dottor Daniel Malan, rafforzandolo e ringiovanendolo alquanto. L'unità della componente afrikaner non era mai stata cosí salda, e ne divenne simbolo il grande monumento al Voortrekker eretto su un kopje che domina Pretoria. Questa consacrazione del pioniere aveva galvanizzato il Volk, facendo pencolare dalla parte dei nazionalisti anche molti afrikaners che si erano arruolati nell'esercito di Smuts ed erano andati a combattere con gli Alleati in Italia e nel Nordafrica. Si stava profilando una reazione contro Smuts e il Partito Unito. Molti avevano l'impressione che il premier anteponesse gli interessi del Commonwealth britannico, alla cui fondazione aveva dato un contributo decisivo, agli interessi del Sudafrica. Inoltre Smuts commise un errore politico invitando la famiglia reale inglese a visitare il paese. L'augusta presenza era servita solo a polarizzare i risentimenti tra gli anglofoni estremisti e gli afrikaners. Anche molti sostenitori di Smuts si offesero per quella visita inopportuna. Il dottor Hendrick Frensch Verwoerd, che aveva lasciato la cattedra all'università di Stellenbosch per farsi editore del Die Vaderland, dedico alla visita reale una notiziola a una colonna nell'interno del giornale, dove si avvertivano i cittadini di Johannesburg che a una cert'ora la presenza di « visitatori stranieri » avrebbe potuto creare intralci al traffico. In occasione del discorso reale al parlamento sudafricano, il dottor Malan e tutti i suoi sostenitori nazionalisti disertarono l'aula in segno di protesta. Lo zio Tromp terminava così la sua lettera: « Sicché siamo usciti dalla tempesta rafforzati e purificati come popolo, e piú risoluti che
mai. Grandi giornate ci attendono, Manie. Torna a casa. Abbiamo bisogno di uomini come te ». Tuttavia Manfred non si era mosso subito. Prima aveva scritto un'altra lettera allo zio Tromp, chiedendogli notizie, con parole velate, di una « Spada Bianca » che si era lasciato dietro. Dopo qualche tempo ricevette assicurazioni che nessuno sapeva niente di quella sua spada. Discrete indagini attraverso amici nella polizia avevano stabilito che, benché la pratica sulla spada mancante fosse ancora aperta, nessuno piú girava a far domande in proposito, e quel che piú conta nessuno sapeva dov'era o di chi era. Bisognava pensare che fosse smarrita per sempre. Lasciando a Lisbona Heidi e il ragazzino, Manfred si reco in treno a Zurigo dove vendette il resto dei diamanti. I prezzi erano alti per l'euforia del dopoguerra, e fu in condizione di depositare duecentomila sterline presso un conto numerato del Credito Svizzero. La famiglia sbarcò a Città del Capo senza attirare l'attenzione, anche se, come medaglia d'oro olimpica, Manfred avrebbe potuto, volendo, trovarsi al centro di una bella pubblicità sulla stampa. Con calma si fece una sua strada a tastoni, visitando vecchi amici, ex membri dell'OB e alleati politici, accertandosi che non ci fossero brutte sorprese in serbo per lui prima di rilasciare la prima intervista al Burger. Raccontò al giornalista di aver passato il tempo di guerra in Portogallo, paese neutrale, essendosi rifiutato di combattere sia per l'una sia per l'altra parte. Adesso però era tornato in patria per dare il suo contributo, quale che fosse destinato a essere, al progresso politico verso la realizzazione del sogno di ogni afrikaner: la creazione di una repubblica sudafricana libera e indipendente da qualunque ingerenza straniera. Aveva detto tutte le cose giuste da dire, ed era un campione olimpionico in un paese dove l'eccellenza atletica è addirittura venerata. Era di bell'aspetto, intelligente e devoto; aveva una moglie attraente e un bel bambino. Conservava amici altolocati e se ne faceva di nuovi ogni giorno. Acquistò una partecipazione in un avviato studio legale di Stellenbosch. I soci anziani erano l'avvocato Van Schoor, molto attivo sul piano politico ed esponente di primo piano del partito nazionalista. Egli cooptò Manfred nel partito. Manfred si dedicò agli affari dello studio legale e a quelli del partito con la stessa intelligenza e determinazione. Mostrò grandi qualità organizzative e la capacità di raccogliere ingenti fondi, e alla fine del 1947 fu accolto nel Broederbond. Il Broederbond, o Fratellanza, era un'altra società segreta al afrikaners. Non era l'erede dell'Ossewa Brandwag, anzi era stata sua concorrente a volte aspra: il fatto è che aveva sempre badato al sodo, disprezzando parate, fiaccole e coreografie. Il Broederbond lavorava con discrezione, attraverso riunioni di piccoli gruppi nelle case e negli uffici di personalità potentissime. Ne facevano parte soltanto i migliori, i piú intelligenti. Considerava i propri membri l'élite afrikaner, e il suo obiettivo era la repubblica. Come la disciolta OB. Si ammantava di gran segretezza. A differenza della OB, però, chiedeva ai membri molto piú che la pura ascendenza afrikaner. Ogni membro doveva essere un capo, con un seguito
suo, almeno potenzialmente: sicché la cooptazione in questa confraternità era un passaporto verso le piu alte cariche della futura repubblica. Manfred trasse subito vantaggio dalla sua ammissione. Quando si aprí la campagna elettorale del 1948, Manfred De La Rey diventò il candidato ufficiale dei nazionalisti per il seggio, alquanto incerto, della Hottentots Holland. Due anni prima, in un'elezione parziale, il seggio era stato conquistato dal Partito Unito di Smuts, nella persona di un giovane eroe di guerra appartenente a una ricca famiglia anglofona del Capo. Era Shasa Courteney, che ora doveva farsi riconfermare alle elezioni generali per il Partito Unito. A Manfred De La Rey avevano offerto un seggio meno incerto, ma aveva scelto apposta quello di Hottentots Holland. Voleva ritrovarsi di fronte Shasa Courteney. Ricordava perfettamente il loro primo incontro sul molo del pesce a Walvis Bay. Da allora i loro destini sembravano inestricabilmente connessi in un nodo di complessità gordiana, e Manfred sentiva di dover affrontare il suo avversario a faccia a faccia per tagliare una buona volta quel nodo. Per prepararsi alla campagna elettorale, e conoscere meglio il suo avversario, Manfred intraprese un'indagine sulla famiglia Courteney, in particolare su Shasa e sua madre Centaine de Thiry Courteney. Quasi subito scoprí zone d'ombra nel passato, che si infittivano, invece di chiarirsi, man mano che approfondiva le indagini. Da ciò fu indotto ad assumere un investigatore privato di Parigi, per ricostruire nei minimi particolari le origini e la famiglia di Centaine. Visitando regolarmente suo padre, una volta al mese, alla prigione di Pretoria, fece il nome dei Courteney e pregò il fragile vecchio di dirgli tutto quello che sapeva di loro. All'apertura della campagna elettorale Manfred si sentiva sicuro. Aveva un asso nella manica, frutto delle investigazioni francesi. Si gettò quindi nell'agone con gusto e determinazione. Centaine de Thiry Courteney, in cima alla Table Mountain, si staccò dal resto della compagnia. Dal giorno dell'assassinio di Sir Garry la montagna la rattristava sempre, anche quando la vedeva dalle finestre del suo studio di Weltevreden. Era la prima volta che ci tornava da quel giorno tragico, e solo perché non aveva avuto animo di rifiutare l'invito di Blaine. Inoltre, si diceva con la solita sincerità verso se stessa, « sono pur sempre abbastanza snob da gradire l'idea di essere presentata ai Reali d'Inghilterra ». L'Ou Baas stava conversando con re Giorgio, indicandogli le varie particolarità del paesaggio con il bastone da passeggio. Indossava la solita tenuta delle escursioni, e Centaine provò una fitta di tristezza alla sua rassomiglianza con Sir Garry. Si voltò dall'altra parte. Blaine era nel gruppetto che attorniava le principesse. Stava raccontando una storia che faceva ridere Margaret Rose. « Com'è carina », pensò Centaine. « Che temperamento! è una vera rosa inglese. » La principessa si rivolse a un giovane del seguito. Centaine gli
era stata presentata poco prima: era un ufficiale d'aviazione, come Shasa, un bell'uomo dai lineamenti fini e delicati. Colse uno sguardo segreto che i due si scambiarono e capí che erano innamorati, provando la piccola consolazione che provava sempre quando vedeva due giovani che si amavano. Subito dopo le tornò addosso il cattivo umore. Pensando ai due giovani innamorati, guardò Blaine. Lui non se ne accorse. Era rilassato e affascinante, ma i suoi capelli erano spruzzati d'argento sopra le orecchie a sventola che l'intenerivano tanto. Sul viso abbronzato aveva ormai profonde rughe, intorno agli occhi, alla bocca e al gran naso aquilino. Era sempre il suo caro vecchio leone: corpo ancora muscoloso, niente pancia: ma ormai era sulle soglie della vecchiaia e si vedeva. « Oh, mio Dio », penso. « Anch'io fra pochi mesi compirò quarantott'anni. » Alzò la mano a toccarsi la testa. Anche li c'era dell'argento, ma così abilmente tinto che pareva soltanto un effetto del gran sole africano. Tuttavia in privato lo specchio le sbatteva in faccia altre sgradevoli verità che ella si affannava a cancellare subito con profusione di creme, ciprie e rossetti. « Quanto tempo ci resta, amore mio? » si chiese silenziosa e triste. « Soltanto ieri eravamo giovani e immortali, ma oggi vedo chiaramente che tutte le cose finiscono. » Proprio in quella Blaine la cercò con lo sguardo, vide la sua espressione e si incupì. Si scusò con gli altri e andò a raggiungerla. « Come mai tanto seria in una giornata così bella e festosa? » le chiese con un sorriso. « Stavo pensando che sei proprio uno svergognato, Blaine Malcomess », gli rispose, e il suo sorriso svanì. « Cosa c'è. Centaine? » « Hai un bel coraggio a sciorinare la tua amante davanti alle teste coronate dell'Impero », gli sussurrò. « Dev'essere un delitto gravissimo, per cui meriteresti che ti tagliassero la testa nella Torre di Londra. » Lui la guardò per un momento, poi tornò a sorridere con la gioia di un ragazzo. « Mia cara signora, ci sarà pure un modo di evitare quest'amara sorte. E se io mutassi il suo stato, da concubina scellerata a sobria coniuge? » Ridacchiò. Centaine lo faceva di rado, ma quando capitava Blaine la trovava adorabile. « Che posto e che momento straordinario per ricevere una proposta di matrimonio. E ancor piú straordinario mi sembra accettarla. » « Cosa credi che direbbero le loro Maestà se ti baciassi qui e ora? » Si chinò su di lei, che fece un passo indietro stranita. « Pazzo! Aspetta che siamo a casa », minacciò « e vedrai. » La prese sottobraccio e andarono dagli altri. « Weltevreden è una delle piú belle case del Capo », concordò Blaine, « ma non mi appartiene, e io voglio condurre mia moglie in casa mia. » « Non possiamo abitare a Newland », dichiarò Centaine mentre il fantasma di Isabella le passava davanti agli occhi.
« Che ne dici del cottage? » rise lui per dissipare il ricordo di Isabella. « C'è un bellissimo lettone, cos'altro ci serve? » « Lo terremo », concordò lei, « e di tanto in tanto ci ritorneremo. » « Week-end clandestini, mmhh! » « Ma lo sai che sei un pò volgare? » « E allora dove andremo a stare? » « Troveremo un posto, un posto nostro e speciale. » Ed eccolo trovato. Erano diversi ettari di montagna, spiaggia e costa scoscesa, con mille e mille piante di protea e un panorama fenomenale sulla baia di Hout e il verde e freddo Atlantico. La casa era una vasta dimora Vittoriana, costruita ai primi del secolo da uno dei magnati delle miniere del Witwatersrand: aveva un gran bisogno delle attenzioni, e dei restauri, che Centaine cominciò subito a dedicarvi. Tuttavia mantenne il nome della tenuta, Rhodes Hill. Per lei una delle sue caratteristiche piú attraenti era che si trovava a venti minuti di strada dai vigneti di Weltevreden. Shasa aveva assunto la presidenza della Courteney Mining and Finance Co, alla fine della guerra, anche se Centaine continuava a far parte del consiglio d'amministrazione e non mancava mai a una riunione. Ora Shasa e Tara si trasferirono nel gran castello di Weltevreden che Centaine aveva lasciato libero, ma Centaine andava a trovarli tutte le domeniche e anche piú spesso. Quando vide che Tara rivoluzionava l'arredamento e il giardino, provò una fitta di dolore, ma riuscí a frenare la lingua. Spesso, in quei giorni, ripensò alla vecchia coppia di boscimani che l'avevano salvata dal mare e dal deserto, e alla canzone che O'wa aveva cantato per Shasa neonato: Le sue frecce voleranno alle stelle e quando gli uomini faranno il suo nome sarà udito così lontano... E troverà buona acqua, ovunque andrà troverà buona acqua. Benché dopo tutti quegli anni gli schiocchi e i toni della lingua dei boscimani le risultassero un pò ostici, capí che la benedizione di O'wa aveva portato frutti. Insieme alla sua educazione rigorosa, era servita a far approdare Shasa alla « buona acqua » della vita. Gradualmente, con l'aiuto di David Abrahams a Windhoek, Shasa era riuscito a infondere alla Courteney Mining and Finance Co, un nuovo spirito giovanile di forza e di avventura. Benché i vecchi leoni Abe Abrahams e Twentyman-Jones brontolassero, e Centaine di tanto in tanto fosse costretta a schierarsi con loro e porre il veto ai progetti piú strampalati e rischiosi di Shasa, la società crebbe e acquistò vigore. Ogni volta che Centaine consultava i conti, o sedeva al tavolo del consiglio d'amministrazione presieduto dal figlio, c'era meno da brontolare e piú da congratularsi. Perfino il dottor Twentyman-Jones, quel pessimista da manuale, fu udito borbottare: «Il ragazzo ha la testa sulle spalle». Poi, atterrito da quanto aveva appena ammesso, aggiunse: « Però che fatica tener-
gliela lí! » Quando Shasa era diventato candidato del Partito Unito nel collegio di Hottentots Holland, e aveva vinto di misura l'elezione parziale sul suo concorrente nazionalista, Centaine aveva visto realizzarsi le ambizioni che aveva nutrito per lui. Sicuramente alle prossime elezioni generali gli sarebbe stato offerto qualcosa di piú importante, forse il posto di sottosegretario alle Miniere e all'Industria. In seguito magari un ministero, e poi chissà... il pensiero le mandava piacevoli brividini su per la spina dorsale, ma non ci si soffermò per scaramanzia. Tuttavia nessun obiettivo gli era precluso. Suo figlio era stato veramente favorito dalla sorte. Perfino la benda nera sull'occhio che aveva perduto in guerra accresceva la sua personalità: era anche un modo di accaparrarsi la simpatia della gente e farsi ascoltare senza difficoltà. Era ricco, ambizioso e intelligente, e lei e Tara lo spalleggiavano. Tutto, dunque, gli era possibile. Grazie a qualche ineffabile contorsione dialettica, Tara Malcomess Courteney aveva mantenuto intatta la sua coscienza sociale pur assumendo la direzione di Weltevreden col piglio e la sicurezza di una gran signora. Tipico il suo mantenere il nome da ragazza, e continuare a frequentare, da Weltevreden, gli ospedali e gli istituti di beneficenza per gli abitanti degli slum, a cui destinava somme di gran lunga superiori a quanto avrebbe gradito Shasa. Con analogo slancio si dedicò ai doveri materni. I primi tre tentativi furono tre maschietti, sanissimi e vivacissimi. In ordine di arrivo Sean, Garrick e Michael. Al quarto, un parto facile e liscio, produsse il suo capolavoro, una femminuccia che chiamò Isabella come la madre. Fin dalla prima volta che la prese in braccio, e lei gli rigurgitò un fiotto di latte cagliato sulla spalla, Shasa fu totalmente conquistato dalla piccina. Fino a quel momento era stato lo spirito di Tara, e la sua personalità ricca e complessa, a salvare Shasa dalla noia che altrimenti l'avrebbe forse indotto a cedere agli inviti piú o meno sottili delle femmine predaci che non cessavano di puntarlo. Centaine, ben consapevole del fatto che nelle vene di Shasa circolasse il sangue « caliente » dei de Thiry, restò di stucco quando Tara rispose a uno dei suoi velati avvertimenti con un divertito: « Ma, mamma, Shasa non è affatto cosí ». Centaine sapeva benissimo che invece era proprio cosí. « Mon Dieu, ha cominciato a quattordici anni. » Ma si rilassò quando nella sua vita entrò un'altra femmina, nella persona di Isabella de Thiry Malcomess Courteney. Prima poteva darsi che una scivolata fatale le rubasse la coppa di felicità che finalmente stava gustando appieno; con la nascita della piccola, Centaine si sentí piú sicura. Eccola seduta sotto le querce accanto al campo di polo di Weltevreden, soltanto ospite della casa e della tenuta che portavano ancora la sua forte impronta padronale, ma ospite onorata e ben contenta. Le bambinaie negre si occupavano dei piccoli: Michael aveva un anno, e Isabella era ancora al seno. Sean sfrecciava in mezzo al campo di polo. Era in sella con Shasa, e gridava di eccitazione e felicità mentre suo padre spingeva il
cavallo al gran galoppo tra i pali della porta in fondo, lo faceva arrestare e girare di botto, e ripartiva a spron battuto nella loro direzione. Al sicuro nel cerchio del braccio sinistro del padre, Sean gli gridava: « Piú forte, papà! Piú forte, papà! » In braccio a Centaine, Garrick saltabeccava impaziente. « Tocca a me! » strillava. « Adesso tocca a me! » Shasa arrivò col cavallo al galoppo e lo fermò con un'impennata. Mentre Sean si attaccava al pomello, protestando, lo depositò spietatamente a terra, prese in braccio l'altro figlio e riparti al galoppo con lui. Era un gioco di cui non si stancavano mai: sfiancarono due cavalli in questo modo prima di andare a pranzo. Si sentí un motore scendere dal castello e Centaine, col batticuore, riconobbe la Bentley di Blaine. Si ricompose subito e gli andò incontro con la dovuta compostezza, ma quando lo vide scendere dal veicolo la sua espressione l'indusse ad affrettare il passo. « Cosa c'è, Blaine? » gli domandò porgendogli la guancia da baciare. « Qualcosa non va? » « No, niente », la rassicurò lui. « I nazionalisti hanno annunciato la lista dei loro candidati per i seggi della provincia del Capo, tutto qui. » « Chi è il tuo avversario diretto? » Adesso era tutt'orecchi. « Di nuovo il vecchio Van Schoor? » « No, mia cara, sangue fresco. Uno che forse non hai mai sentito nominare, David Van Niekerk. » « E chi hanno nominato per il seggio di Hottentots Holland? » Vide che esitava e incalzò: « Chi è, Blaine? » La prese sottobraccio e la guidò lentamente verso il tavolo da tè dove si riuniva il resto della famiglia. « La vita è ben strana », disse. « Blaine Malcomess, ti ho chiesto una risposta precisa e non qualche perla di filosofia domestica. Chi è? » « Mi spiace, mia cara », mormorò compunto. « Hanno nominato candidato del partito Manfred De La Rey. » Centaine restò di sale. Tutto il sangue le defluí dal viso. Blaine la sorresse sentendola vacillare. Dall'inizio della guerra Centaine non aveva piú visto il figlio reietto, né avuto notizie di lui. Shasa iniziò la campagna elettorale con un comizio presso la seae dei boy-scout di Somerset West. Lui e Tara ci andarono in macchina. Era un bel paesino a cinquanta chilometri da Città del Capo, ai piedi del passo Lowry tra le aspre montagne dell'Hottentots Holland. Tara aveva insistito perché prendessero la sua vecchia Packard: non si sentiva a suo agio sulla Rolle nuova di Shasa. « Ma come fai a girare su una macchina che costa quanto basta per nutrire vestire e istruire cento bambini negri dalla culla alla tomba? » Una volta tanto Shasa riconobbe la saggezza pratica di non sbandierare la sua ricchezza in faccia all'elettorato. Tara era una consigliera ideale in queste cose, riflettè Shasa. Un politico ambizioso non poteva trovare di meglio: una madre di quattro bambini, che parlava sempre fuori dei denti, che aveva opinioni nette e una sorta di antenna per captare i pregiudizi e le reazioni del gregge. Era an-
che bellissima, con quella chioma di capelli fulvi ondulati e un sorriso capace di illuminare una riunione di politicanti dispeptici. Nonostante i quattro figli in poco piú di quattro anni, aveva ancora una figura meravigliosa: vita sottile, bei fianchi; solo il seno si era un pò ingrossato. « Le son venute due tettone da far scomparire Jane Russell », pensò ridacchiando forte: e lei lo guardò. « La riconosco, è la tua risata da porco. Non dirmi cosa stai pensando, fammi sentire piuttosto il tuo discorso. » Provò il comizio in macchina con lei, anche coi gesti, mentre lei gli faceva piccole osservazioni: « Qua farei un pò piú di pausa; qua devi assumere un'aria fiera e risoluta; taglierei quel riferimento all'Impero, è fuori moda ». Tara andava ancora fortissimo in macchina e ben presto arrivarono. All'ingresso della sala c'erano grossi manifesti col ritratto di Shasa. C'era un bel pienone. Tutti i posti a sedere erano occupati e c'erano una dozzina di giovani in piedi, in fondo alla sala. Sembravano studenti, e Shasa si chiese se avessero l'età per votare. Il responsabile locale del Partito Unito, col distintivo all'occhiello, presentò Shasa come un uomo che non aveva bisogno di presentazioni. Mise in rilievo quindi il buon lavoro fatto in parlamento nel breve tempo trascorso dall'elezione parziale. Poi si alzò a parlare Shasa, alto ed elegante in un abito blu non troppo nuovo e alla moda, ma con una bella camicia bianca - solo i cafoni portavano camicie colorate - e una cravatta da aviatore per ricordare le sue imprese di guerra. La benda nera sull'occhio sottolineava ciò che aveva sacrificato alla patria, e il suo sorriso era franco e fascinoso. « Amici miei », esordí, e non riuscí a continuare. Fu subissato da un pandemonio di fischi, grida e schiamazzi. Shasa cercò di prenderla sullo scherzo, e fece gesti da direttore d'orchestra, ma il sorriso gli diventò in breve forzato, e il fracasso, lungi dal diminuire, aumentò sempre piú. Alla fine cominciò lo stesso a tenere il discorso, urlandolo nel tentativo di farsi sentire. Gli oppositori erano circa trecento, e scandivano slogan nazionalisti agitando cartelli su cui alcuni inalberavano il ritratto di Manfred De La Rey. Dopo alcuni minuti i piú anziani, nelle prime file, sentendo profilarsi la violenza, fecero alzare le mogli e cominciarono a uscire dalle porte laterali, tra fischi e schiamazzi sempre piú alti. All'improvviso Tara Courteney balzò in piedi accanto a Shasa. Rossa d'ira, con gli occhi grigi duri e lampeggianti come baionette, gridò loro: « Ma che uomini siete? E' giusto questo? E vi chiamate cristiani? Dov'è la vostra carità? Dategli una possibilità! » La voce arrivava dappertutto, e la bellezza anche. Gli oppositori furono colti da qualche cavalleresco dubbio, e due o tre si sedettero sogghignando. Il chiasso cominciò a diminuire, ma un uomo grande e grosso dai capelli neri si alzo dalle file del pubblico e si rivolse ai disturbatori. « Kom kerels, forza ragazzi, rimandiamo il signorino in Inghilterra, che è il suo paese. »
Shasa riconobbe l'uomo. Era un esponente nazionalista locale che aveva conosciuto nella squadra olimpica a Berlino nel '36. Aveva passato gran parte della guerra internato. Era professore di diritto all'università di Stellenbosch e Shasa l'apostrofò in afrikaans: « Professor Stander, crede davvero nella funzione della legge e nella libertà di parola? » Non fece in tempo a finire che partí il primo missile. Arrivò a parabola dal fondo della sala e scoppiò sul tavolo accanto a Tara: era un pacchetto marroncino contenente sterco di cane. Immediatamente cominciò un bombardamento di frutta e verdura, rotoli di carta igienica, pesci e uova marce. Dalle prime file si alzarono i sostenitori del Partito Unito e si misero a gridare per riportare l'ordine, ma ci voleva ben altro. Roelf Stander chiamò i suoi con un gesto e cominciarono a volare botte da orbi. Le sedie si rovesciavano, le donne gridavano, gli uomini imprecavano e si tiravano cazzotti sul muso, rotolando avvinghiati sul pavimento. « Vienimi dietro! Attaccati alla giacca! » disse Shasa a Tara. Poi cercò di farsi strada verso la porta, prendendo a pugni tutti quelli che gli si paravano davanti. Uno di loro andò per terra dopo il gancio destro rifilatogli da Shasa, e protestò vivamente dal pavimento: « Ehi, onorevole, io sono dalla tua »; ma Shasa pensava solo a mettere in salvo Tara. Sbucarono fuori della sala e corsero alla Packard. Nessuno dei due parlò finché Tara non ebbe imboccato lo stradone, puntando a fari accesi verso la gran massa della Table Mountain. Solo allora gli chiese quanti ne aveva stesi. « Tre dei loro e uno dei nostri », e scoppiarono in una risata nervosa. « La campagna si annuncia piuttosto movimentata. » Le elezioni del 1948 si svolsero in tutto il paese in un clima particolarmente teso. Non si era mai vista una campagna elettorale così combattuta. Ben presto apparve chiaro che la nazione aveva raggiunto un bivio fatale. Gli uomini di Smuts erano come soverchiati dalla profondità dei sentimenti e dei risentimenti che i nazionalisti erano riusciti a suscitare negli afrikaners, e si dimostravano del tutto impreparati a fronteggiare la mobilitazione di carattere quasi militare di tutte le forze organizzate dal Partito Nazionalista. Gli elettori neri erano pochissimi e tra i bianchi gli afrikaners costituivano, sia pure di misura, la maggioranza. Smuts contava sulla loro componente moderata, che di solito si schierava con gli anglofoni. Ma il giorno delle elezioni si avvicinava e appariva sempre piú chiaro che stavolta l'ondata di isteria nazionalista era riuscita a fagocitarli quasi tutti. Sul Partito Unito, quanto mai demoralizzato, si addensavano le ombre della sconfitta. Tre giorni prima delle elezioni Centaine si trovava nel giardino della casa nuova, a dirigere i lavori di ristrutturazione e far piantare qualche altro cespo di rose gialle, quando il segretario la raggiunse di corsa.
« Signora, c'è il signor Duggan. » Andrew Duggan era l'editore del quotidiano piú letto di Città del Capo in lingua inglese, il Cape Argus. Era un buon amico di Centaine, regolarmente invitato in casa, ma una sua visita improvvisa non rientrava nelle consuetudini. Centaine aveva i capelli in disordine, sotto il foulard, ed era rossa, sudata e senza trucco. « Digli che non ci sono », gli ordinò. « Il signor Duggan si scusa, ma dice che è cosa della massima urgenza. Ha detto "E' questione di vita o di morte", signora. » « Bene, allora va, a dirgli che tra cinque minuti sono da lui. » Indossò un abito da mattina, si mise un pò di cipria e raggiunse la sala dove Andrew Duggan l'aspettava accanto alla portafinestra, guardando l'Atlantico. Il saluto di Centaine fu meno espansivo del solito: non gli porse la guancia da baciare, una piccola manifestazione del suo signorile disappunto. Andrew si scusò ancora. « Lo so, lo so, Centaine, è una sorpresa importuna, ma io ti dovevo assolutamente parlare e non potevo farlo per telefono. Dimmi che mi perdoni, per favore. » Centaine si ammorbidi e sorrise. « Ma certo, sei perdonato e per dimostrartelo ti offrirò una tazza di tè. » Gliela versò (orange pekoe in una tazza di sottilissima porcellana Royal Donlton) e si sedette accanto a lui sul divano. « Una questione di vita o di morte? » gli chiese. « Per l'esattezza di vita e di nascita. » « Mi incuriosisci. Continua, ti prego, Andy. » «Centaine, ho ricevuto dei documenti eccezionali, e che sembrano del tutto autentici, in base ai quali probabilmente dovrò pubblicare una notizia che ti riguarda. Son cose delicate per la tua famiglia, che avrebbero pessime ripercussioni per te e soprattutto per Shasa. Le affermazioni e le deduzioni che si possono trarre da questi documenti, se si dimostreranno autentici, sono gravissime... » La guardò come a chiederle il permesso di continuare. « Continua pure », disse Centaine con una calma che era ben lontana dal provare. « Insomma, per non farla tanto lunga, Centaine, sono venuti a dirci che quello con Blaine è stato il tuo primo e unico matrimonio... » Centaine si sentì investire da una mazzata « ... il che naturalmente significa che Shasa è illegittimo. » Alzò la mano per interromperlo. « Dimmi una cosa, per caso il tuo informatore è il candidato nazionalista al seggio di Hottentots Holland, o un suo uomo? Io sono convinta di sì, sbaglio? » L'editore chinò la testa in segno di assenso, ma rispose: « Noi non riveliamo le fonti. Non rientra nella prassi del giornale ». Restarono in silenzio per un bel pò mentre Andrew Duggan la guardava in faccia. Che donna straordinaria, indomabile anche davanti alla catastrofe. Lo rattristava l'idea di essere causa della sua rovina. Aveva indovinato le sue ambizioni e simpatizzava con esse: anche a suo parere Shasa Courteney aveva molto da dare alla nazione. « Tu hai già in mano quelle carte, naturalmente? » chiese Cen-
taine. L'altro scosse la testa. « Le ha trattenute l'informatore. Me le darà solo se m'impegno a pubblicarle prima delle elezioni. » « Lo farai? » « Se non sei in condizione di dimostrare l'infondatezza dell'accusa, dovrò farlo. Sono cose concrete e di pubblico interesse. » « Dammi tempo fino a domattina », gli chiese, e lui esitò. « Come favore personale... ti prego, Andy. » « Molto bene », accettò lui. « Non posso proprio negartelo. » Si alzò in piedi. « Mi dispiace, Centaine, ti ho già fatto perdere fin troppo tempo. » Immediatamente dopo il congedo di Andrew Duggan, Centaine andò di sopra a fare il bagno e cambiarsi. Mezz'ora dopo era al volante della Daimler e filava verso Stellenbosch. Erano le cinque passate quando si fermò davanti allo studio legale Van Schoor e De La Rey. La porta però si aprí subito perché uno dei soci era rimasto a lavorare fino a tardi. « L'avvocato De La Rey è già uscito. » « E' una cosa molto importante. Non può darmi il suo indirizzo di casa? » Era una casetta piacevole in riva al fiume, con un piccolo giardino adiacente al parco della tenuta dei Lanzerac. Il giardino era curatissimo e pieno di fiori anche se la prima neve imbiancava le montagne circostanti. Una donna venne ad aprire la porta a Centaine. Era una bionda alta, dalla testa bella e imponente e il petto grosso. Aprí la porta a metà e la guardò con un sorriso stento. « Vorrei parlare con Meneer De La Rey », le disse Centaine in afrikaans. « Gli dica che c'è la signora Malcomess. » « Mio marito sta lavorando e non mi piace disturbarlo. Ma entri, vedrò se vuole riceverla. » Lasciò Centaine nel salotto, arredato in greve stile teutonico, tappezzato in rosso scuro e con le tende in velluto pesante. Centaine era troppo nervosa per sedersi. Restò in piedi in mezzo alla stanza e guardò senza vederli i quadri appesi sopra il camino, finché si rese conto che qualcuno stava osservando lei. Si voltò subito e vide un bambino che la guardava con aperto interesse dalla soglia. Era un bel bambino, di sette od otto anni, coi riccioli biondissimi ma le sopracciglia brune e gli occhi scuri. Erano i suoi occhi, capí subito Centaine. Quello era il suo nipotino. Lo capì per istinto, e lo shock la fece tremare. Si guardarono. Poi lei si riprese e si avvicinò lentamente. Gli porse la mano sorridendo. « Ciao », gli disse. « Come ti chiami? » « Sono Lothar De La Rey », rispose compunto. « E ho quasi otto anni. » « Lothar! » pensò, e quel nome le riportò alla mente tutti i ricordi e le antiche emozioni. Riuscí però a non smettere di sorridere. « Che bel bambino grande... » cominciò, e stava per fargli una carezza sulla guancia quando la donna apparve sulla porta, dietro
di lui. « Cosa fai qui, Lothie? » lo sgridò. « Non hai finito la cena! Torna subito a tavola, fila! » Il bambino corse via e la donna sorrise a Centaine. « Mi spiace, a quell'età sono curiosissimi », si scusò. « Mio marito la riceve, Mevrou. Prego, mi segua. » Ancora scossa dal breve incontro con suo nipote, Centaine giunse impreparata allo shock ulteriore di trovarsi per la prima volta a faccia a faccia con suo figlio. L'accolse in piedi dietro una scrivania piena di carte, guardandola con quegli sconcertanti occhi gialli. « Non le dirò che è benvenuta in questa casa, signora Malcomess. » Le parlava in inglese. « Lei è nemica della mia famiglia e mia.» « Non è vero », rispose Centaine con un filo di voce, sforzandosi disperatamente di recuperare il pieno controllo di sé. Manfred fece un gesto annoiato. « Lei ha derubato e imbrogliato mio padre, l'ha reso invalido, gli ha fatto passare metà della sua vita in prigione. Se lo vedesse ora, un vecchio finito, chiuso in una cella, non verrebbe qui a chiedere favori a me. » « E' sicuro che sia venuta a chiedere un favore? » gli domandò, e lui fece una risatina amara. « Perché, se no? Lei mi ha sempre perseguitato, dal primo giorno che l'ho vista nell'aula del processo di mio padre. Mi sono accorto che mi fissava, mi seguiva, mi puntava come una leonessa affamata. So che lei spera di distruggermi come ha distrutto mio padre. » « No! » Scosse la testa con veemenza, ma lui continuò, implacabile. « E adesso osa venire qui a implorare il mio aiuto. So già quello che vuole. » Aprí un cassetto e tirò fuori una cartelletta. L'apri e sparse i fogli che conteneva sulla scrivania. Centaine vide che si trattava di certificati di nascita francesi e vecchi ritagli di giornale. « Devo leggerglieli o fa da sè? Cos'altro mi serve per dimostrare al mondo che lei è una sgualdrina e suo figlio un bastardo? » le chiese, e lei sussultò alle sue parole. « Che razza di documentazione », disse sottovoce Centaine. « Sí », concordò lui. « Completa e incontrovertibile, direi. Ho qui tutte le prove che... » « No », lo contraddisse. « Non tutte le prove. Lei sa solo di uno dei miei figli bastardi, ma ne ho un altro. Sono appunto venuta a parlargliene. » Per la prima volta Manfred parve incerto. La guardò, senza parole. Poi scosse la testa. « E' proprio scostumata », commentò. « Sbatte i suoi peccati in faccia al mondo. » « Non in faccia al mondo », disse Centaine. « Solo davanti alla persona piú interessata. Solo in faccia a lei, Manfred De La Rey. » « Non capisco davvero. » « Allora le spiegherò perché la seguivo dappertutto, perché, come ha detto lei, la guatavo come una leonessa. Non ero una leonessa a caccia di preda, ma una leonessa che sorveglia il cucciolo. Ve-
de, Manfred - ma a questo punto devo darti del tu! - vedi, Manfred, l'altro mio figlio sei tu. Ti ho partorito nel deserto e Lothar ti ha portato via prima che potessi guardarti in faccia. Sei mio figlio e Shasa è tuo fratellastro. Se lui è un bastardo, lo sei anche tu. Se lo distruggi servendoti di quest'arma, distruggi anche te stesso. » « Io non le credo! » disse arretrando da lei. « Bugie, sono tutte bugie! Mia madre era un'aristocratica tedesca. Ho la sua fotografia, eccola là! alla parete! » Centaine diede un'occhiata al ritratto. « Quella era la moglie di Lothar », ammise. « Ma morì due anni prima che tu nascessi. » « No. Non è vero. Non può essere vero. » «Chiedilo a tuo padre, Manfred», gli disse piano. «Va, a Windhoek a controllare la data di morte di quella donna. » Egli comprese che era vero. Ricadde sulla sedia e si prese il volto tra le mani. « Se lei è mia madre... come posso odiarla tanto? » Si avvicinò a lui. « Sempre meno di quanto mi sono odiata io per averti rifiutato e abbandonato. » Si chinò a dargli un bacio sul capo. « Sei soltanto... » sussurrò. « Ma ormai è troppo tardi, davvero troppo tardi. Come hai detto prima, siamo nemici, separati da un abisso grande come l'oceano. Nessuno di noi può piú attraversarlo, ma io non ti odio, Manfred, figlio mio. Non ti ho mai odiato. » Lo lasciò affranto sulla scrivania e uscì lentamente dalla stanza. Il giorno dopo, Andrew Duggan le telefonò verso mezzogiorno. « Il mio informatore ha ritrattato, Centaine. Mi ha detto che tutti i documenti sono stati bruciati. Credo che qualcuno abbia trovato una strada per convincerlo, ma non riesco assolutamente a capire come ha fatto. » Il 25 maggio 1948, vigilia delle elezioni, Manfred tenne un grande comizio nella Sala delle Riunioni della Chiesa Olandese Riformata a Stellenbosch, davanti a un pubblico di nazionalisti sfegatati. Nessun oppositore era riuscito a entrare nella sala, ci aveva pensato il servizio d'ordine diretto da Roelf Stander. Nondimeno, quando Manfred si alzò a parlare, non ci riuscì neanche lui. Per cinque minuti buoni l'ovazione della folla glielo impedì. Alla fine tutti tacquero e si disposero ad ascoltare con attenzione la visione del futuro che Manfred delineava. « Sotto Smuts, questa nostra terra si popolerebbe di una razza bastarda color caffè: gli unici bianchi rimarrebbero gli ebrei, quegli stessi ebrei che in questo momento in Palestina stanno uccidendo a ogni angolo di strada degli innocenti soldati britannici. Come ben sapete, Smuts si è affrettato a riconoscere il nuovo Stato di Israele. C'era da aspettarselo: i suoi padroni sono i proprietari ebrei delle miniere d'oro . » Il pubblico gridava: « Skande! Skande! » ossia: scandalo. L'oratore fece una pausa d'effetto prima di continuare. « L'alternativa che vi offriamo noi, invece, è un progetto, anzi ben piú di un progetto... una visione, un'ardita e nobile visione che garan-
tirà la sopravvivenza delle pure e intatte linee di sangue del nostro Volk. Una visione che allo stesso tempo salvaguarderà tutti gli altri popoli di questo paese, i mezzosangue del Capo, gli indiani, le tribú negre. Questa grandiosa concezione è stata elaborata da un gruppo di uomini di grande ingegno, dedizione e disinteresse: uomini come il dottor Theophilus Donges, il dottor Nicolas Diederichs e il dottor Hendrick Frensch Verwoerd, uomini brillanti e a voi tutti ben noti. » La folla fece un'altra ovazione. Manfred bevve un sorso d'acqua e consultò gli appunti prima di continuare. « E' una concezione idealistica, attentamente studiata e assolutamente infallibile, che consentirà alle diverse razze di vivere in pace, con dignità e prosperità, mantenendo ciascuna la propria identità e cultura. Per questa ragione abbiamo definito questa politica "separazione". E' la nostra visione, che porterà la nostra terra alla grandezza; una visione che sbalordirà il mondo, e sarà d'esempio a tutti gli uomini di buona volontà, in ogni dove. E' la politica che noi chiamiamo Apartheid. Questo è il manto glorioso che abbiamo preparato per il nostro paese, per il nostro diletto popolo. Apartheid, cari amici, questo è quanto vi offriamo, la luminosa visione dell'Apartheid. » Non riuscì piú a parlare per parecchi minuti, ma quando tornò il silenzio prosegui in tono piú concreto: « Naturalmente per prima cosa sarà necessario togliere il diritto di voto ai negri e ai mezzosangue che attualmente ce l'hanno... » Alla fine del comizio, un'ora dopo, lo portarono in trionfo. Tara era accanto a Shasa ad aspettare che i funzionari addetti finissero di contare i voti del collegio di Hottentots Holland. La sala era piena di gente eccitata. C'erano canti, risate e prese in giro: il candidato nazionalista era dall'altra parte della sala, accanto alla moglie alta e bionda, circondato da un manipolo di sostenitori eccitati ed esausti. Un funzionario del suo partito cominciò a fare grandi gesti a Shasa, che però era circondato da sostenitrici entusiaste e non se ne accorgeva. Andò Tara a vedere cosa voleva. Tornò poco dopo con un muso lungo un palmo, e quando Shasa la vide le andò incontro fendendo la folla. « Cosa c'è, tesoro? Hai visto un fantasma? » « Hanno appena telefonato dal Transvaal », gli disse all'orecchio. « L'Ou Baas è stato trombato a Standerton. Il candidato nazionalista l'ha battuto! » « Oh, mio Dio, no! » Shasa restò sconvolto. « L'Ou Baas teneva il seggio da venticinque anni. Non possono fregarlo proprio adesso! » « Gli inglesi hanno scaricato Winston Churchill », osservò Tara. « Nessuno vuol piú saperne degli eroi. » «E' un segno», mormorò Shasa. «Se cade Smuts, cadiamo tutti. » Dieci minuti dopo arrivo un'altra notizia. Anche il ministro degli Interni Blaine Malcomess era stato battuto per un migliaio di voti. « Mille voti... » calcolò Shasa. « Un calo di quasi il dieci per
cento. Cosa succederà adesso? » Il funzionario elettorale uscì dall'ufficio coi risultati in mano. Tutti si azzittirono all'istante, eccitatissimi. « Signore e signori, i risultati dell'elezione nel collegio di Hottentots Holland sono i seguenti », esordi. « Manfred De La Rey, del Partito Nazionalista: 3126 voti. Shasa Courteney, del Partito Unito: 2012. Claude Sampson, Indipendente: 196. » Tara prese per mano Shasa e lo portò alla macchina. Si sedettero dentro, ma Tara non avviò subito il motore. Erano entrambi confusi e scossi. « Non riesco a crederci », sussurrò Tara. « Mi sembra di essere su un treno impazzito e senza guida, che corre inarrestabilmente verso un baratro nero. Povero Sudafrica », sospirò Shasa. « Sa Dio casa ci riserverà il futuro. " Moses Gama era circondato di uomini. La stanzetta dalle pareti di lamiera ondulata era affollatissima. Erano i suoi pretoriani, comandati da Swart Hendrick. La stanza era illuminata solo da una fumosa lampada a petrolio, che gli rischiarava il volto. « E' un leone tra gli uomini », pensò Hendrick, paragonandolo una volta di piú ai vecchi re come Chaka e Mzilikazi, i grossi elefanti neri di un tempo. Così dovevano essere i loro consigli di guerra, così veniva deciso l'ordine di battaglia. « Ora i duri boeri stanno festeggiando la propria vittoria in tutto il paese », disse Moses Gama. « Ma io vi dico, figli miei, in verità vi dico che dietro le alte fiamme divoranti del loro orgoglio e della loro avidità già si intravedono le ceneri della loro distruzione. Non sarà facile e ci vorrà forse molto tempo. Occorrerà una lotta lunga, amara e sanguinosa, ma il domani appartiene a noi. » Il nuovo viceministro della Giustizia uscì dal suo ufficio e discese il lungo corridoio dell'Union Building, il complesso ministeriale progettato da Sir Herbert Baker e sede del governo sudafricano. Sembrava una fortezza e sorgeva su un kopje che dominava Pretoria. Fuori era già buio, ma quasi tutti gli uffici erano ancora illuminati. Si lavorava fino a tardi. Prendere in mano le redini del potere era un compito oneroso e impegnativo, ma Manfred De La Rey gioiva di ogni piu penoso dettaglio del lavoro. Era ben consapevole dell'onore che gli avevano fatto. Era giovane, alcuni dicevano troppò per il posto di viceministro; ma avrebbe dimostrato a tutti che la fiducia era stata ben riposta. Bussò alla porta del ministro e l'aprì quando fu invitato a entrare: « Kom binne! Avanti! » Charles Robberts « Blackie » Swart era quasi un gigante. Le manone sembravano occupare tutto il piano della scrivania. « Manfred. » Sorrise, con l'effetto di una crepa che appaia all'improvviso in una lastra di granito. « Eccoti il regalino che ti avevo promesso. » Prese una busta con il sigillo dell'Unione Sudafricana e gliela porse. « Non potrò mai esprimerle tutta la mia gratitudine, ministro »,
disse Manfred prendendo la busta. « Ci proverò nei prossimi anni, lavorando lealmente e senza risparmiarmi. » Di ritorno nel suo ufficio, Manfred aprì la busta e spiegò il documento che conteneva. Lentamente, assaporandone ogni parola, lesse il decreto d'amnistia per Lothar De La Rey, già condannato all'ergastolo per diversi reati. Manfred ripiegò il documento e lo rimise nella busta. L'indomani l'avrebbe consegnato di persona al direttore del carcere, avrebbe preso per mano suo padre e l'avrebbe accompagnato fuori, al sole. Si alzò in piedi e andò alla cassaforte, fece la combinazione e aprì il pesante sportello d'acciaio. Sul primo ripiano c'erano tre pratiche, le prese e le portò sulla scrivania. Una era un dossier del controspionaggio militare. L'altra della polizia. La terza del suo stesso ministero della Giustizia. C'era voluto un pò di tempo, e un'attenta riflessione, per procurarsele tutte e far cancellare dagli archivi ogni traccia della loro esistenza. Erano le uniche pratiche esistenti sulla famosa « Spada Bianca ». Le lesse con la massima attenzione, prendendosi tutto il tempo che ci voleva. Finì dopo mezzanotte. Adesso sapeva che in tutte quelle carte nessuno aveva mai collegato « Spada Bianca » a Manfred De La Rey, medaglia d'oro alle Olimpiadi e attuale viceministro della Giustizia. Prese i tre incartamenti e si recò nell'ufficio adiacente. Accese l'apposita macchina e trasformò ogni foglio in una fila di spaghetti neri e arricciolati. Li rimestò nel cestino e si mise a riflettere su quanto aveva appena appreso. « Dunque c'era una traditrice », mormorò. « Sono stato tradito. Una donna, una donna giovane, che parlava in afrikaans. Sapeva tutto, dai fucili a Pretoria all'attentato sulla montagna. C'è solo una donna che poteva sapere tutte queste cose. » Un giorno avrebbe pagato. Manfred non aveva fretta: c'erano infiniti conti da regolare, infiniti debiti da saldare. Uscì dal ministero e andò a prendere la vettura ufficiale, una berlina Ford nera a cui la sua carica gli dava diritto. Tornò alla sontuosa residenza ufficiale nel quartiere elegante di Waterkloof. Salì in camera da letto facendo attenzione a non svegliare Heidi. Era di nuovo incinta e il suo sonno era prezioso. Giacque nel buio senza riuscire ad addormentarsi. C'erano troppi pensieri, troppi progetti, troppe cose da fare. Sorrise tra se, soddisfatto: « Cosí, la spada del potere è finalmente in mano nostra. Adesso vedranno di chi è questo paese, chi sono i padroni e chi sono i servi. Gliela faremo pagare ». Questo volume è stato impresso nel mese di febbraio dell'anno 1987 presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa di Mondadori Cles (TN)