MICHAEL MOORCOCK IL DRAGO NELLA SPADA (The Dragon In The Sword, 1986) a Minerva, la più nobile delle romane Rosa di Rose...
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MICHAEL MOORCOCK IL DRAGO NELLA SPADA (The Dragon In The Sword, 1986) a Minerva, la più nobile delle romane Rosa di Rose tutte, di tutto il mondo Rosa! Or anche tu giungesti dove l'onda furiosa Batte i moli del pianto ed udisti la nota Della squilla che chiama; vaga dolce e remota. Stanca d'eternità, la Bellezza t'ha nata Da noi e dalla grigia marina onda salata. Le nostre navi allascano le lor vele pensose, E attendon l'ugual fato, ch'a loro Dio dispose; E quando le Sue guerre le avranno alfin sconfitte, E affonderanno sotto le bianche stelle invitte Non s'alzerà più il gemito fioco del nostro cuore Triste perché non vive, triste perché non muore. W. B. Yeats, La Rosa della Guerra PROLOGO Sono John Daker, vittima dei sogni di un mondo intero. E sono Erekosë, che nonostante fosse il Campione dell'Umanità distrusse l'intera razza umana. Ma sono anche Urlik Skarsol, il Signore del Castello di Ghiaccio che impugnò la Spada Nera. E Ilian di Garathorm, Elric l'Uccisore di Donne, Hawkmoon, Corum e mille altri: uomini, donne e androgini. Sono stato ciascuno di loro. Tutti guerrieri nell'eterna Guerra dell'Equilibrio Cosmico, guerrieri che cercano di far trionfare la giustizia in un universo incessantemente minacciato dalle incursioni del Caos, di imporre l'ordine del Tempo a un'esistenza che non possiede fine o principio; e tuttavia la mia vera condanna non è quella di essere stato ciascuno di loro. La mia vera condanna è ricordare, anche se in modo sfocato, ciascuna delle mie distinte incarnazioni, ogni momento di un'infinità di vite, di una molteplicità di epoche e di mondi, ciascuno coesistente con gli altri, ma
tutti in successione tra loro. Per me il Tempo è costituito di tre dolori nello stesso istante: il patimento del Presente, il lungo tormento del Passato e la terribile prospettiva di innumerevoli Futuri. Il Tempo è anche un complesso di realtà che si intersecano in modo sottile, di conseguenze imprevedibili e di cause inesplicabili, di tensioni e dipendenze profonde. Ancora adesso non so realmente perché sia stato scelto proprio io per questo destino, o come giunsi a chiudere un ciclo che, anche se non mi ha lasciato libero, almeno promette di mitigare la mia pena. So soltanto che il mio destino consiste nel lottare eternamente e nel non raggiungere la pace che per pochi istanti, perché sono il Campione Eterno, il difensore della giustizia e nello stesso tempo il suo distruttore. In me tutta l'umanità è in guerra. In me, maschio e femmina si combinano, in me combattono; in me infinite razze aspirano a realizzare i propri miti e i propri sogni... Eppure, io sono una creatura umana esattamente come ogni mio simile. Con la stessa facilità posso cadere preda dell'amore o della disperazione, dell'odio o della paura. Ero John Daker e lo sono ancora, e alla fine sono riuscito a raggiungere una certa pace, la parvenza di una conclusione. Questo è il mio tentativo di scrivere la mia ultima storia... Ho già parlato di re Rigenos e di come mi avesse chiamato per combattere contro gli Eldren, di come mi fossi innamorato e di come fossi giunto a commettere un peccato terribile. Ho già raccontato di quel che mi era successo quando (credo come punizione del mio crimine) fui chiamato a Rowenarc, come venissi spinto a impugnare contro la mia volontà la Spada Nera, come incontrai la Regina d'Argento e quel che abbiamo fatto insieme nelle pianure glaciali del Sud. Credo anche di avere narrato, in occasioni diverse da questa, altre mie avventure (o forse le ha riferite qualche altra persona a cui le ho raccontate); ho anche accennato a come finii per viaggiare su una nave nera, guidata da un comandante cieco. Non ricordo, però, se ho mai descritto come lasciai il mondo del Ghiacciaio Meridionale o la mia identità di Urlik Skarsol, perciò comincerò la mia storia con i miei ultimi ricordi del pianeta morente, le cui terre cadevano progressivamente preda del freddo e i cui torbidi mari erano così densi di sale da poter virtualmente sostenere il peso di un uomo adulto. Ed essendo riuscito su quel mondo a rimediare, almeno in una piccola misura,
ai miei antichi peccati, mi ero augurato di potermi nuovamente riunire con il mio unico e solo amore, la bellissima principessa degli Eldren, Ermizhad. Anche se ero un eroe per coloro che avevo aiutato, cominciavo a sentirmi sempre più solo. Inoltre, andavo sempre più soggetto ad accessi di melanconia quasi suicida. A volte venivo colto da una collera folle contro il mio destino, contro chiunque e qualunque cosa mi separassero dalla donna che con la sua immagine e il suo viso riempiva tutte le mie ore, tanto di sonno quanto di veglia. Ermizhad! Ermizhad! Chi mai aveva amato con altrettanta profondità? Con altrettanta costanza? Nel mio carro di bronzo e d'argento, tirato da grandi orsi bianchi, avevo percorso l'intero Ghiacciaio Meridionale, senza mai trovare tregua, con la mente piena di ricordi, e avevo continuato a pregare perché Ermizhad mi venisse restituita, avevo continuato a soffrire per lei. Dormivo pochissimo. Di tanto in tanto ritornavo al Fiordo Scarlatto, dove molte persone erano liete di ascoltare le mie parole e di darmi la loro amicizia, ma a quel punto le normali faccende della vita mi risultavano quasi irritanti. Per non sembrare scortese, evitavo quanto più possibile la compagnia e l'ospitalità di quelle persone. Mi chiudevo nelle mie stanze e laggiù, semiaddormentato, sempre esausto, cercavo di spingere la mia anima in un limbo, di staccarmi dal mio corpo, di frugare nel piano astrale (così lo chiamavo io) alla ricerca del mio perduto amore. Ma già sapevo che i piani dell'esistenza erano troppo numerosi, che c'era una sterminata varietà di possibili cronologie e geografie. Come avrei potuto esaminarli tutti fino a trovare la mia Ermizhad? Mi era stato detto che avrei potuto trovarla a Tanelorn. Ma dov'era Tanelorn? Dai miei ricordi di altre esistenze sapevo che quella città assumeva molte forme ed era eternamente elusiva, anche a una persona abituata a muoversi tra gli strati molteplici del Milione di Sfere. Che possibilità avevo io, legato a un unico corpo, a un unico piano terrestre, di trovare Tanelorn? Se fossero bastati il desiderio e la passione, avrei scoperto la città almeno una decina di volte. Poi, a poco a poco, la stanchezza prese il sopravvento. Alcuni di coloro che mi conoscevano pensavano che potesse condurmi alla morte, altri che la mia volontà sarebbe stata troppo forte per permetterlo. Accettai comunque le loro medicine, che infine mi diedero un sonno profondo. E in quel sonno, quasi con una sorta di gioia, cominciarono a comparirmi strani sogni.
Dapprima mi pareva di galleggiare alla deriva in un informe oceano di colori e di luci che turbinavano in tutte le direzioni. Poi gradualmente compresi che lo spettacolo cui assistevo era un'immagine del multiverso. Almeno in piccola parte, percepivo nello stesso tempo ogni singolo strato di realtà, ogni periodo. E di conseguenza i miei sensi non riuscivano a distinguere alcuno specifico dettaglio in quella visione stupefacente. Poi mi accorsi di cadere, molto lentamente, attraverso tutte quelle epoche e quei regni di realtà, attraverso mondi interi, città, gruppi di uomini e donne, foreste, montagne, oceani, finché non scorsi davanti a me una piccola isola coperta di verde e priva di rilievi, che presentava un rassicurante aspetto di solidità. Quando i miei piedi vi si posarono, colsi il profumo dell'erba fresca, vidi piccole zolle di terra, fiori di campo. Tutto quell'ambiente mi parve meravigliosamente semplice, nonostante fosse parte del ribollente caos di puro colore, delle maree di luce che costantemente cambiavano intensità. Su quel frammento di realtà scorsi un'alta figura. Indossava un'armatura che la ricopriva completamente, tutta ricoperta dello stesso motivo a scacchi gialli e neri; la visiera dell'elmo era calata sulla faccia, tanto che non potevo vedere chi vi fosse all'interno. Comunque, riconobbi la figura perché l'avevo già incontrata in precedenza. La conoscevo come Cavaliere in Nero e Giallo. Ora lo salutai, ma non mi restituì il saluto; per qualche istante mi domandai se non fosse morto congelato, all'interno dell'armatura. Tra noi sventolava una bandiera di colore chiaro, priva di insegne. Sarebbe potuta essere la bandiera della tregua, a parte il fatto che tra noi non c'era ostilità. Il Cavaliere era un uomo enorme, più alto di me che pure sono più alto della media. L'ultima volta che ci eravamo incontrati, ci trovavamo sulla cima di una collina e guardavamo le armate dell'umanità combattere in lungo e in largo per tutta la valle. Ora non c'era nulla da guardare. Avrei voluto che si togliesse l'elmo e mi rivelasse il volto. Ma lui non pareva intenzionato a farlo. Avrei voluto che mi parlasse. Ma non mi parlò. Avrei voluto che mi assicurasse di non essere morto. Ma lui non mi diede nessuna rassicurazione. Il sogno si ripeté molte volte. Notte dopo notte lo supplicai di rivelarsi, gli rivolsi le stesse domande che gli avevo sempre rivolto e non ebbi risposta. Poi una notte ci fu finalmente un cambiamento. Prima che potessi iniziare le rituali domande, il Cavaliere in Nero e Giallo si rivolse a me e mi parlò...
«Te l'ho già detto altre volte. Risponderò a ogni domanda che tu vorrai rivolgermi.» Parlò come se riprendesse una conversazione di cui m'ero scordato l'inizio. «Come posso raggiungere Ermizhad?» «Facendoti trasportare dalla Nave Nera.» «E dove la potrò trovare?» chiesi io. «Sarà la nave a raggiungerti.» «Quanto dovrò aspettare?» «Più di quanto vorresti. Ma devi frenare la tua impazienza.» «Non è una risposta sufficiente.» «Ti assicuro di non potertene dare altre.» «Come ti chiami?» gli domandai. «Al pari di te, anch'io ho molti nomi. Sono il Cavaliere in Nero e Giallo. Sono il Guerriero che Non Può Lottare. A volte sono chiamato lo Stendardo Nero.» «Fammi vedere la tua faccia.» «No» rispose. «Perché?» «Ah, ora, si tratta di una questione delicata. Penso che dipenda dal fatto che non è ancora giunto il momento. Se dovessi mostrarti più del necessario, finirei per toccare troppe altre cronologie. Il Caos, devi sapere, minaccia costantemente tutto quel che esiste in tutte le realtà del multiverso. L'Equilibrio Cosmico pende troppo marcatamente in suo favore. Occorre sostenere la Legge. Dobbiamo procedere con grande attenzione, se non vogliamo causare ulteriori danni. Presto saprai il mio nome. Lo so. Presto, intendo dire, nei termini del tuo corso temporale. Nei termini del mio potrebbero passare diecimila anni.» «Non puoi aiutarmi a raggiungere Ermizhad?» «Ti ho già spiegato che devi aspettare la nave.» «Quando potrò finalmente trovare la pace della mente?» chiesi. «Quando tutti i tuoi compiti saranno finiti» mi rispose. «O prima che ci siano compiti da svolgere.» «Sei davvero crudele, Cavaliere in Nero e Giallo, a rispondermi in modo tanto vago.» «Ti assicuro, John Daker, che non ho risposte più chiare. Non sei il solo ad accusarmi di crudeltà...» Sollevò il braccio, come per indicarmi qualcosa; e ora potei scorgere davanti a noi un'alta rupe. In cima, quasi sull'orlo, c'erano numerose figure,
in parte a piedi, in parte in sella (e non tutte le loro cavalcature erano normali cavalli, chiaramente): file su file di guerrieri, coperti di armature ammaccate dai colpi. Ero abbastanza vicino, scoprii, per osservare il loro volto. Avevano lo sguardo inespressivo di coloro che ormai si sono abituati a vedere troppe sofferenze. Non riuscivano a vederci, ma avevo l'impressione che invocassero il nostro nome... o almeno quello del Cavaliere in Nero e Giallo. Gridai verso di loro: «Chi siete?» Ed essi mi risposero, sollevando la testa per intonare una spaventosa litania: «Siamo i perduti. Siamo gli ultimi. Siamo i reietti. Siamo i Guerrieri della Fine del Tempo. Siamo gli sconfitti, siamo i disperati, siamo i traditi. Siamo i veterani di mille guerre combattute nella memoria.» Era come se avessi dato loro un segnale, l'occasione di esprimere i loro terrori, i loro desideri e il loro secolare dolore. Cantavano con una sola voce, fredda e malanconica. Capii che da tutta l'eternità erano fermi sull'orlo della rupe, e che avevano parlato solo quando avevo chiesto la loro identità. Invece di terminare, il loro canto divenne progressivamente più forte. «Siamo i Guerrieri della Fine del Tempo. Dove sono le nostre gioie? Dove i nostri dolori? Dov'è la nostra paura? Siamo i muti, i sordi, i ciechi. Siamo coloro che non possono morire. Fa tanto freddo alla Fine del Tempo. Dove sono le nostre madri e i nostri padri? Dove sono i nostri figli? Fa troppo freddo alla Fine del Mondo! Siamo i non nati, gli ignoti, i non morti. Fa troppo freddo alla Fine del Tempo! Siamo stanchi. Siamo esausti. Siamo stanchi e il Tempo è alla Fine...» Il loro dolore era talmente intenso da costringermi a coprirmi con le mani le orecchie. «No!» gridai. «No! Non dovete invocare me. Dovete andare via!» Poi scese il silenzio. Erano spariti. Mi voltai a parlare con il Cavaliere in Nero e Giallo, ma anch'egli era sparito. Che fosse uno di quei guerrieri? Il loro capo, forse? Oppure, mi domandai, che tutti quegli armati fossero solo gli aspetti di un unico individuo... di me stesso? Non solo mi era impossibile rispondere a queste domande, ma in realtà capii che preferivo non sapere la risposta. Non so se accadde allora, o in qualche altro momento, in qualche altro sogno. Ma mi trovai su una spiaggia rocciosa affacciata su un oceano coperto da una nebbia fittissima. A tutta prima non riuscii a vedere nulla, in mezzo alla nebbia che tutto
nascondeva, poi, gradualmente, percepii una sagoma nera e riconobbi una nave ormeggiata all'ancora, vicino alla riva. Capii che era la Nave Nera. A bordo della nave, come minuscoli puntini visibili qua e là, ardevano piccole luci arancioni. Un chiarore caldo, rassicurante. Inoltre mi pareva di udire alcune voci, che echeggiavano dal ponte all'alberatura e viceversa. Penso di avere chiamato le persone che erano a bordo, e che quelle mi avessero risposto, perché poco più tardi - forse dopo essere salito su una lancia - mi trovai sul ponte principale, davanti a un uomo altro e magro, vestito di un giaccone di pelle, da marinaio, che gli arrivava fino alle ginocchia. L'uomo mi posava la mano sulla spalla, come per salutarmi. Un altro ricordo è questo: ogni centimetro della nave era scolpito a disegni particolari, a volte geometrici, a volte raffiguranti creature bizzarre, intere vicende o episodi appartenenti a storie che non avrei saputo immaginare. «Viaggi di nuovo con noi» disse il capitano. «Di nuovo» confermai, anche se, in quel momento, non riuscivo a ricordare quando avessi navigato con lui in precedenza. Nel seguito del sogno lasciai varie volte la nave, in diversi travestimenti, e mi dedicai ad avventure di ogni sorta. Una mi tornò alla mente con maggiore nitidezza delle altre; ricordai persino il mio nome. Era Clen del Clen Gar. Ricordai una sorta di guerra tra il Cielo e l'Inferno. Ricordai inganni e tradimenti, e una vittoria di qualche genere. Poi mi trovai nuovamente a bordo della nave. «Ermizhad! Tanelorn! Facciamo rotta laggiù?» Il capitano sollevò la mano e, con la punta delle lunghe dita, mi asciugò le lacrime. «Non ancora» disse. «Allora, non intendo passare altro tempo a bordo di questa nave...» Sempre più incollerito, avvertii il capitano: non sarebbe riuscito a tenermi prigioniero. Non intendevo rimanere legato alla sua nave. Intendevo decidere a modo mio il mio destino. Lui non si oppose alla mia partenza, anche se pareva rattristato nel vedermi andare via. Un istante più tardi ero nuovamente sveglio, nel mio letto, nelle mie stanze del Fiordo Scarlatto, in preda alla febbre, credo. Ero circondato da servitori accorsi nell'udire le mie grida e tra loro vidi farsi strada la bella figura e i capelli rossi di Bladrak Morningspear, che una volta mi aveva
salvato la vita. Aveva l'espressione preoccupata. Ricordo che gli gridai di aiutarmi, di prendere il pugnale e di liberarmi dal mio corpo. «Uccidimi, Bladrak, se sei mio amico!» Ma lui non volle farlo. Altre notti giunsero e finirono, lunghissime. Nei sogni, a volte mi pareva di essere nuovamente sulla nave, a volte no. Altre volte mi pareva che qualcuno chiamasse il mio nome. Ermizhad? Era lei a invocarmi? Sentivo la presenza di una donna... Ma quando posai nuovamente gli occhi su un nuovo visitatore, il volto che scorsi era quello di un nano dalla faccia affilata. Danzava e caprioleggiava, canterellando tra sé, ed era evidente come non mi avesse visto. Mi pareva di conoscerlo, ma non ricordavo il suo nome. «Chi sei?» gli chiesi. «Sei stato mandato dal timoniere cieco? O vieni dal Cavaliere in Nero e Giallo?» Forse le mie parole lo colsero alla sprovvista. Il nano si voltò verso di me, per la prima volta; poi si sfilò dalla testa la cappa e mi rivolse un sorriso ironico. «Chi sono?» chiese «Non intendevo metterti a disagio. Un tempo eravamo amici, John Daker.» «Mi conosci con quel vecchio nome? Come Daker?» «Ti conosco con tutti i tuoi nomi. Ma soltanto due li porterai più di una volta. Non è un indovinello?» «Lo è. Devo cercare la risposta, adesso?» chiesi. «Se pensi di doverne avere una. Tu fai molte domande, John Daker.» «Preferirei che mi chiamassi Erekosë.» «Il tuo desiderio sarà soddisfatto. Ora, eccoti una risposta diretta, dopo tanto tempo! Non sono tanto cattivo, eh, come nano?» «Adesso ricordo! Sei Jermays lo Storpio. Sei una persona come me: l'incarnazione di uno dei molteplici aspetti della stessa creatura. Ci siamo incontrati nella caverna del cervo marino.» Mi rammentai anche della nostra conversazione. Era stato lui a parlarmi per primo della Spada Nera? «Eravamo vecchi anici, ser Campione, ma già allora non riuscivi a ricordarti di me, come non ci riesci ora. Forse hai troppe cose da ricordare, eh? Non mi sento offeso, comunque. A quanto vedo, devi avere perso la tua spada.» «Non intendo impugnarla, mai più. Era una lama terribile. Non ne avrò mai più bisogno. Né di quella, né di altre spade come lei. Ricordo che parlavi di due spade...»
«Ho detto che a volte ce ne sono due. Ma che forse si trattava di un'illusione e in realtà ce n'era una sola. Non ne sono certo. Tu impugnavi quella che chiamerai (o che hai chiamato) Stormbringer. Adesso, penso, cercherai Mournblade.» «Accennavi a qualche destino legato alle due spade. E suggerivi che il mio destino fosse collegato al loro...» «Ah, davvero? Be', la tua memoria è migliorata. Bene, bene. Ti sarà di buon aiuto, ne sono certo. O magari no. Sapevi già che ciascuna di quelle spade è un contenitore di qualcosa d'altro? Sono state forgiate, se ho capito bene, per essere riempite, per essere abitate, o, se preferisci metterla così, per possedere un'anima. La cosa ti confonde, lo vedo. Purtroppo, neanch'io ho le idee molto chiare. Ricevo qualche avvisaglia, naturalmente. Premonizioni dei nostri molteplici destini. E queste sono spesso mescolate tra loro. Se continuassi a parlarne riuscirei soltanto a confondere te, e probabilmente anche me! Già vedo che non stai bene. È solo un po' di malattia fisica o si estende anche al cervello?» «Puoi aiutarmi a trovare Ermizhad, Jermays? Puoi dirmi dove si trova Tanelorn? Non voglio sapere altro. Tutto il resto non mi interessa. Non voglio più sentir parlare di destini, di spade, di navi e di strani mondi. Dov'è Tanelorn?» «La nave fa rotta laggiù, vero? Mi pare di capire che Tanelorn è la sua destinazione finale. Ci sono tante città chiamate Tanelorn e la nave porta un carico di altrettante identità. Eppure, tutte sono la stessa, o qualche aspetto della stessa personalità. La cosa è un po' troppo complicata per me, ser Campione. Devi ritornare a bordo.» «Non voglio ritornare sulla Nave Nera.» «Sei sbarcato troppo presto.» «Non sapevo dove quella nave mi stesse portando» risposi. «Temevo di perdere la rotta e di non poter mai più trovare Ermizhad.» «Ecco perché te ne sei andato! Credevi di avere trovato la tua meta? Che ci fossero altri modi per trovarla?» «Sono sbarcato contro la volontà del capitano? Verrò punito per averlo fatto?» «Improbabile. Il capitano non è un grande punitore. Non è un arbitro. Piuttosto, è un trasferitore, direi. Ma sarai tu a scoprirlo di persona, una volta risalito a bordo» mi assicurò. «Non voglio ritornare su quella nave.» Mi passai la mano sugli occhi per togliere un velo di lacrime e di sudore
e fu come se avessi cancellato anche Jermays dalla mia vista, perché il nano era scomparso. Mi alzai e mi rivestii, gridando di portarmi la mia vecchia armatura. Ordinai di mettermela addosso, anche se riuscivo a malapena a stare in piedi. Poi ordinai una grande slitta da mare, con aggiogati i grandi aironi addestrati a trainarla su quelle pianure salate e ondeggianti, quegli oceani morenti. Ringhiai contro coloro che intendevano seguirmi. Ordinai loro di fare ritorno al Fiordo Scarlatto. Rifiutai la loro amicizia. Poi, con tutta la rapidità che mi era possibile, mi allontanai alla vista di tutto il genere umano, sparii nella notte greve di salsedine, sollevando la testa al cielo e ululando come un cane, piangendo per la mia Ermizhad. Non ottenni risposta. Né me l'ero aspettata. Perciò, al suo posto, chiamai il capitano della Nave Nera. Mi appellai a ogni dio e dea di cui sapessi il nome. E alla fine chiamai me stesso: John Daker, Erekosë, Urlik, Clen, Elric, Hawkmooh, Corum e tutti gli altri; per ultima mi rivolsi alla Spada Nera, ma le mie parole vennero accolte dal più terribile e spietato dei silenzi. Infine alzai lo sguardo verso la pallida luce dell'alba e mi parve di scorgere una grande rupe su cui si allineava una fila di guerrieri sparuti. Gli stessi che da un'eternità erano fermi laggiù, sul ciglio, ciascuno con la mia faccia. Poi mi accorsi di avere visto soltanto le nubi, fitte come l'oceano su cui viaggiavo. «Ermizhad! Dove sei? Chi, che cosa, mi potrà mai portare a te?» Udivo solo un vento tagliente, sgradevole, sussurrare vicino all'orizzonte. Udivo battere le ali dei miei aironi, il tonfo della mia slitta sulla superficie delle acque, e la mia stessa voce dire che c'era solo una cosa che potessi fare, dato che nessun potere sarebbe mai giunto in mio aiuto. Del resto, era la ragione che mi aveva spinto a recarmi laggiù da solo. Che mi aveva indotto a indossare la completa armatura da guerra di Urlik Skarsol, Signore del Castello di Ghiaccio. «Devi gettarti nel mare» mi dissi. «Devi lasciarti affogare. Devi affondare nei flutti. Con la morte troverai certamente una nuova incarnazione. Forse tornerai a essere Erekosë e ti ricongiungerai alla tua Ermizhad: dopotutto, sarà un atto di fede che neppure gli dèi possono ignorare. Forse è proprio quello che attendono. Vedere fino a che punto sei disposto ad arrivare. E vedere con che sincerità la ami.» Così dicendo lasciai le redini dei grandi uccelli e mi preparai a tuffarmi nelle acque viscose di quell'orrendo oceano. Ma ora, sulla piattaforma, accanto a me, c'era il Cavaliere in Nero e
Giallo, che mi teneva per la spalla con la sua mano d'acciaio. Nell'altra impugnava lo Stendardo Nero. E questa volta sollevò la visiera e finalmente potei vederlo in volto. Quel volto era il ricordo della passata grandezza. Comunicava un'enorme, antica saggezza. Quel volto aveva visto assai più di quanto desiderassi vedere in tutte le mie incarnazioni. La struttura ossea era fine e ascetica, occhi grandi, penetranti e autorevoli. Aveva la pelle color del giaietto lucidato, la voce profonda, con il pieno potere del tuono che s'avvicina. «Non sarebbe un atto di coraggio, Campione» mi avvertì. «Tutt'al più, sarebbe una follia. Credi di poter trovare qualcosa, ma il tuo atto sarebbe solo quello di una persona che cerca di porre fine a un tormento. Ci sono aspetti del Campione assai più sgradevoli di quello che conosci attualmente. E, inoltre, posso farti sapere che questa particolare prova non durerà ancora per molto. Ti avrei raggiunto prima, ma i miei compiti mi portavano altrove.» «Che compiti?» chiesi. «Compiti che riguardavano te, naturalmente. Ma è una storia che si sta svolgendo in un altro mondo e forse nel tuo futuro, perché il Milione di Sfere rotola attraverso lo spazio e il tempo a molte velocità diverse e il punto dello spazio e del tempo in cui si intersecano è spesso una sorpresa, anche per me. Ma ti assicuro che è un pessimo momento per liberarti della tua vita... o anche solo di questo corpo.» Scosse la testa. «Non intendo parlarti delle conseguenze, anche se ho l'impressione che non sarebbero gradevoli. Davanti a te si apre in questo momento una grande avventura dalle incredibili conseguenze. Se svolgerai il tuo dovere di Campione nel modo più efficace, potresti essere parzialmente liberato da questo destino. Potresti dar luogo a un inizio e a una conclusione di grandissima importanza. Lasciati chiamare. Li hai uditi, credo.» «Nelle voci che ho udito non sono riuscito a distinguere niente del genere. Non saranno per caso quei guerrieri che gridano...» «Gridano per essere liberati dalla loro particolare condanna» asserì il Cavaliere in Nero e Giallo. «No, coloro che ti chiamano sono altri, come sei già stato chiamato altre volte. Non hai sentito alcun nome? Un nome che non conosci?» «Non mi pare.» «Questo significa che devi ritornare sulla Nave Nera. Non riesco a pensare altro. Sono assai perplesso...»
«Se sei perplesso tu, ser Cavaliere, allora io sono al massimo della confusione! Non ho alcun desiderio di riconsegnarmi a quell'uomo e alla sua nave, mi danno un senso di impotenza. Inoltre, continuo a indossare il corpo di Urlik, e così conciato non posso certamente trovare Ermizhad. Devo tornare a essere Erekosë o John Daker.» «Forse la tua nuova identità non era ancora pronta. I vincoli e gli equilibri da rispettare sono estremamente delicati. Ma so che devi ritornare sulla nave.» «Non puoi dirmi altro?» protestai. «Non puoi darmi altre speranze, oltre all'affermazione che se salirò di nuovo a bordo della Nave Nera troverò la mia Ermizhad?» «Perdonami, ser Campione.» La mano del gigante nero rimase sulla mia spalla. «Non sono del tutto onnisciente. Come si può esserlo, quando l'intera struttura dello Spazio e del Tempo è fluttuante?» «Che cosa intendi dire?» «Che posso riferirti soltanto quello che percepisco io stesso. Fatti nuovamente prendere a bordo di quella nave, non posso dirti altro. Da essa, ti posso assicurare, sarai trasportato fino a coloro che hanno bisogno del tuo aiuto e che, a loro volta, hanno il potere di darti una parziale liberazione dal tuo attuale tormento. Inoltre sarete uniti in un modo che promette una maggiore, più salda unità. È quanto riesco a percepire.» «Ma dove posso cercare la nave?» «Se hai intenzione di salirvi, la nave ti troverà. Verrà da te, non temere.» Ciò detto, il Cavaliere in Nero e Giallo emise un lungo fischio; dalla foschia di colore arancione giunse al galoppo un grande stallone, i cui zoccoli colpivano l'acqua senza affondarvi e il Cavaliere vi montò sopra. Lo stallone aveva il mantello nero come la pelle del suo padrone; mi chiesi con meraviglia come potesse reggersi su quelle onde senza affondare neppure di un dito. Anzi, il suo arrivo mi sorprese a tal punto che mi scordai di rivolgere altre domande al suo cavaliere. Riuscii solo a guardarlo a bocca aperta mentre sollevava verso di me lo Stendardo Nero, a mo' di saluto, voltava il cavallo da battaglia verso le nubi e si allontanava al galoppo. Ero ancora perplesso, ma il Cavaliere in Nero e Giallo mi aveva portato una sorta di speranza e mi aveva impedito di compiere una follia. Adesso non avevo più intenzione di uccidermi, anche se non avevo alcuna voglia di salire nuovamente a bordo della Nave Nera. Per ora, mi dissi, mi sarei steso sulla mia slitta, e avrei lasciato che gli aironi mi portassero dove vo-
levano (forse mi avrebbero riportato al Fiordo Scarlatto, perché presto avrebbero raggiunto il limite della resistenza; o forse si sarebbero appollaiati sulla slitta con me, prima di proseguire il viaggio attraverso l'oceano; ma sapevo che presto o tardi sarebbero ritornati indietro). Mi ero dimenticato di chiedere al Cavaliere il suo nome. A volte un nome portava con sé il risveglio dei ricordi, il presagio del futuro che mi sarebbe toccato, il ricordo di episodi del mio passato. Così dormii, e mentre dormivo i sogni fecero ritorno. Sentii voci che giungevano da una grande distanza e capii che era il canto dei Guerrieri alla Fine del Tempo. «Chi siete?» li supplicai. Cominciavo a stancarmi di tutte quelle domande senza risposta. C'erano troppi misteri. Poi il canto dei guerrieri cambiò intonazione, e infine udii un singolo nome: «Sharadim! Sharadim!» Quella parola non aveva alcun significato per me. Non era il mio nome, lo sapevo. Non lo era mai stato e non era destinato a esserlo. Mi chiesi se non fossi vittima di uno spaventoso errore cosmico... «Sharadim! Sharadim! Il drago è nella spada! Sharadim! Sharadim! Vieni a noi, ti supplichiamo! Sharadim! Sharadim! Bisogna liberare il drago!» «Ma io non sono Sharadim» dissi a voce alta. «Non posso aiutarvi» «Principessa Sharadim, non rifiutare il nostro appello!» «Non sono una principessa e non sono la vostra Sharadim. Aspetto di essere chiamato, è vero. Ma la persona che volete è un'altra.» Che ci fosse un'altra povera anima condannata al pari di me? Che ce ne fossero molte? «Un drago liberato è una razza sciolta dalle sue catene! Non lasciarci più in esilio, Sharadim! Ascolta, la dragonessa del fuoco ruggisce dentro la spada. Anch'essa vuole riunirsi al suo re. Liberaci tutti, Sharadim! Liberaci! Solo una persona del tuo sangue può prendere la spada e fare quel che è necessario!» L'appello aveva qualcosa di familiare, ma sapevo nel fondo delle mie ossa di non essere Sharadim. Per dirla come l'avrebbe detta John Daker, ero un apparecchio radio che riceveva messaggi sulla lunghezza d'onda sbagliata. E la situazione aveva il suo lato beffardo, perché desideravo con tutte le forze di lasciare il mio corpo per entrare in un altro, preferibilmente in quello di Erekosë, vicino alla sua Ermizhad. Eppure non potevo rifiutare il loro appello. Il canto divenne più forte e mi parve addirittura di vedere figure d'ombra - figure femminili - disposte
in cerchio attorno a me. Ma ero ancora sulla slitta: sentivo sotto le mani, mentre dormivo, la sua superficie irregolare. Il cerchio continuò a girare lentamente attorno a me, prima in senso orario, poi nell'altro verso. Ma era solo il cerchio esterno. Quello interno era di fiamme bianche che quasi mi accecavano. «Non posso venire! Non sono colui che cercate! Dovete guardare altrove! C'è bisogno di me in un altro luogo...» «Libera la dragonessa del fuoco! Libera la dragonessa del fuoco! Sharadim! Sharadim! Liberala, Sharadim!» «No!» gridai. «Sono io colui che dovete liberare! Credetemi, vi prego, chiunque voi siate, non sono colui che cercate! Lasciatemi andare! Lasciatemi!» «Sharadim! Sharadim! Libera la dragonessa!» Le voci parevano quasi disperate come la mia. Ma per quanto le chiamassi, il loro canto era troppo forte e impediva loro di udirmi. Provai un senso di affinità con loro; volevo parlare e dare loro le poche informazioni di cui disponevo, ma non erano in grado di sentire la mia voce. In tutto ciò, comunque, mi parve di ricordare una precedente conversazione. Qualcuno che mi aveva parlato di un drago contenuto in una spada? Forse una conversazione con il Cavaliere in Nero e Giallo. O con Jermays lo Storpio. O era stato il capitano a riferirmi che ero stato scelto per cercare una simile spada, e a chiedermi se lasciavo la nave per quella ragione? Non ricordavo. Tutti quei sogni tendevano a mescolarsi insieme; e, allo stesso modo, gran parte delle mie precedenti incarnazioni finivano per essere indistinguibili l'una dall'altra, mi tornavano alla mente senza essere chiamate, come la polvere del fondo, che sale improvvisamente alla superficie di un lago e altrettanto misteriosamente torna a sprofondarvi. Ora una voce gridava: «Elric!» E un'altra: «Asquiol!» Diverse voci, in gruppo, chiamavano Corum. Altre ancora volevano Hawkmoon, Rashono, Malan'ni. Gridai loro di smettere. Nessuna chiamava Erekosë. Nessuno chiamava me! Eppure sapevo di essere tutte quelle persone. Quelle e molte, moltissime altre. Ma non ero Sharadim. Corsi via da quelle voci. Supplicai che mi lasciassero libero. La sola cosa che desiderassi era Ermizhad. I miei piedi affondarono un poco nella crosta di sale dell'oceano. Pensai che, dopotutto, sarei affogato lo stesso, perché non ero più sulla slitta. Camminavo nell'acqua alta fino alla mia coscia, e tenevo alta la spada, sopra la testa. Davanti a me, alta sullo sfondo
della nebbia, c'era una grande nave, con altissimi castelli di poppa e di prua, un robusto, massiccio albero maestro, su cui era legata una vela pesante; una nave dai parapetti di legno coperti di fini sculture e dalla prua curva, massiccia, e con grandi ruote del timone sui due castelli. Cominciai a gridare. «Capitano!» gridai. «Capitano! Sono io! Sono Erekosë, ritorno a voi! Sono qui per ultimare il mio compito. Farò quello che volete!» «Ah, ser Campione. Speravo di trovarvi qui. Salite a bordo, siate il benvenuto. Non ci sono altri passeggeri, per ora. Ma presto avrete molto da fare..." Il capitano si era rivolto a me: ora capii di avere lasciato il mondo di Rowenarc, il Ghiacciaio Meridionale e il Fiordo Scarlatto; me li ero lasciati alle spalle per sempre. I miei compagni avrebbero pensato che, inoltratomi nell'oceano, avessi incontrato un cervo marino o fossi affogato. Rimpiangevo una sola cosa: la maleducazione con cui mi ero accomiatato da Bladrak Morningspear, che era sempre stato un buon amico. «Il viaggio sarà lungo, capitano?» Salii la scala di corda che era stata abbassata per me, e mi accorsi di indossare soltanto un gonnellino di cuoio leggero, un paio di sandali e una larga striscia di stoffa, a bandoliera sul petto. Fissai negli occhi il capitano che mi sorrideva e che, tendendo la mano muscolosa, mi aiutava a scavalcare la murata. Indossava le stesse semplici vesti che gli avevo già visto, compresa la lunga giubba da marinaio, di pelle di puledro. «No, ser Campione. Penso che questa parte del vostro viaggio vi sembrerà abbastanza breve. C'è uno scontro fra la Legge, il Caos e le ambizioni dell'arciduca Balarizaaf, di qualunque scontro si tratti!» «Non conoscete la nostra destinazione?» chiesi, mentre lo seguivo fino alla sua piccola cabina sotto il castello di poppa, dove era imbandito un tavolo per noi due soli. Il profumo del cibo era eccellente. Mi indicò di sedere di fronte a lui. Poi rispose alla mia domanda. «Penso che si tratti del Maaschanheem» disse. «Conoscete quel Regno?» «No.» «Allora lo conoscerete presto. Ma forse non dovrei parlare. A volte posso essere ingannevole, come bussola. Comunque, la destinazione è l'ultimo dei nostri problemi. Mangiate, perché presto dovrete sbarcare. Questo cibo vi darà forza per il vostro compito.» Si unì a me al tavolo. Il cibo era nutriente e mi saziò, ma fu il vino a
farmi davvero bene. Un vino robusto, che mi diede scopo ed energia. «Forse potreste dirmi qualcosa del Maaschanheem, capitano» dissi. «È un mondo non molto lontano da quello che conoscevate come John Daker. Assai più vicino, in realtà, di ogni altro che abbiate visitato finora. La gente del mondo di Daker che capisce queste cose lo definisce un regno delle loro Terre di Mezzo, perché spesso le orbite dei due mondi si intersecano, anche se solo certi adepti possono passare da un regno all'altro. Comunque, la Terra di John Daker non fa veramente parte del sistema a cui appartiene Maaschanheem. In quel sistema ci sono sei regni e i loro abitanti li chiamano i Regni della Ruota.» «Sei pianeti?» chiesi io. «No, ser Campione. Sei Regni. Sei piani cosmici che ruotano intorno a un centro comune, che si muovono indipendentemente l'uno dall'altro e oscillano intorno a un asse, cosicché, nei diversi punti della loro traiettoria, ciascuno presenta all'altro una sfaccettatura diversa; però, nello stesso tempo, ciascuno di essi ruota attorno a un Sole come quello che vi è familiare, come quello che siete abituato a vedere nel vostro cielo. Il cielo di John Daker.» E proseguì: «Infatti il Milione di Sfere sono altrettanti aspetti dello stesso pianeta, quello che Daker chiamava Terra, esattamente come voi siete un singolo aspetto di un'infinità di eroi. Alcuni si rivolgono a questo insieme chiamandolo il multiverso, e voi lo sapete. Una sfera dentro l'altra, una superficie che scivola sull'altra, un regno sull'altro, a volte incontrandosi e formando passaggi tra l'uno e l'altro. Ma a volte non si incontrano per periodi lunghissimi. Poi, naturalmente, attraversare la barriera tra i vari piani è sempre difficile, a meno che non si navighi tra i regni in una nave come la nostra.» «Ser Capitano» osservai a questo punto «quello che avete fatto, è un ritratto assai cupo, per una persona come me, che cerca un ben determinato obiettivo in quella molteplicità di esistenze...» «Dovreste rallegrarvene, Campione. Se non esistesse tutta questa varietà, voi non potreste vivere. Se esistesse un solo aspetto della vostra Terra, un solo aspetto di voi stesso, uno solo per la Legge e il Caos, sarebbe svanito poco dopo essere stato creato. Il Milione di Sfere offre infinite varietà e possibilità.» «Che la Legge poi soffoca?» «Sì, o che il Caos lascerebbe sfrenarsi. Ecco perché voi lottate per l'Equilibrio Cosmico. Per mantenere un vero pareggio tra i due, in modo che
l'umanità possa fiorire ed esplorare tutto il suo potenziale. Vi tocca una grande responsabilità, ser Campione, qualunque aspetto voi prendiate.» «E l'aspetto che prenderò ora? Potrebbe essere quello di una donna? Di una certa principessa Sharadim?» Il capitano scosse la testa. «Non credo. Scoprirete presto il vostro nome. E se concluderete con successo questa avventura, dovete promettermi di ritornare da me quando verrò a cercarvi. Me lo promettete?» «Perché dovrei farlo?» chiesi io. «Perché è assai probabile che vi sia utile, credete a me.» «E se non dovessi ritornare?» «Non saprei che dire.» «Allora non posso promettere. Mi sono risolto a esigere risposte più specifiche alle mie domande, ser Capitano. Posso dirvi solo questo: è probabile che torni ancora una volta a cercare la vostra nave, ma non posso esserne sicuro.» «Cercare la nostra nave? Sarebbe più facile trovare Tanelorn senza ricevere aiuto.» Il capitano mi parve divertito della mia affermazione. «Non sono gli altri a trovarci. Siamo noi a cercarli.» Poi mi guardò con aria sinceramente preoccupata, scuotendo la testa. Cortesemente, ma bruscamente, mise fine alla conversazione. «Ormai è tardi. Dovete dormire e riposare ancora.» Mi accompagnò a una delle grandi cabine a poppa della nave. Il luogo avrebbe potuto accogliere molti passeggeri, ma il solo occupante ero io. Mi scelsi una cuccetta, mi lavai con l'acqua dell'apposito catino e mi distesi per prendere sonno. Ironicamente, riflettei che forse mi stavo addormentando all'interno di un sogno, posto dentro un altro sogno contenuto in un terzo sogno. Quanti strati di realtà percepivo in quel momento, oltre a quelli di cui mi aveva parlato il capitano? Anche ora, quando scivolai nel sonno, percepii lo stesso canto, le stesse donne, e anche ora cercai di dire loro che stavano evocando la persona sbagliata. Adesso lo sapevo con certezza. Mi era stato confermato dal capitano stesso. «Non sono la vostra principessa Sharadim!» «Sharadim! Libera il drago! Sharadim! Impugna la spada! Sharadim, il drago è imprigionato nell'acciaio forgiato dal Caos! Sharadim, vieni con noi all'Adunanza! Principessa Sharadim, solo tu puoi impugnare la spada. Vieni a noi, principessa Sharadim! Ti aspetteremo laggiù!» «Non sono Sharadim!»
Ma le voci stavano ormai svanendo; il loro canto lasciava il posto a un altro. «Siamo gli stanchi, siamo i tristi, siamo coloro che non vedono. Siamo i Guerrieri alla Fine del Tempo. Siamo stanchi, siamo esausti. Siamo stanchi di amare...» per pochi istanti tornai a vedere i guerrieri che attendevano ai Confini del Tempo. Cercai di parlare loro, ma erano già scomparsi. Gridai, scoprii di essere sveglio, e accanto alla mia cuccetta c'era il capitano. «John Daker, è giunto il tempo di lasciarci di nuovo.» All'esterno della nave era buio e coperto di nebbia come sempre. Sulla mia testa, la vela era gonfia come il ventre di un bambino sofferente di inedia. Poi, all'improvviso, si svuotò di tutto il vento e si abbatté contro l'albero. Ebbi l'impressione che la nave fosse di nuovo all'ancora. Il capitano indicò la balaustra e io seguii la direzione del suo sguardo. Osservai in basso, dove c'era un altro uomo, identico al capitano e che come lui non poteva vedere. Mi fece segno di scendere la scaletta e di unirmi a lui nella scialuppa. Mi accorsi di non avere né il kilt né la spada. Ero nudo. «Fatemi prendere qualche vestito. Un'arma» chiesi. Il capitano, accanto a me, scosse la testa. «Troverai ad aspettarti tutto quel che ti occorre, John Daker. Un corpo, un nome, un'arma... Ricorda però una cosa: sarà meglio per te, se ritornerai sulla nave quando verremo a cercarti.» «Preferirei conservare l'illusione, almeno per un momento, di avere un certo dominio del mio destino» gli dissi. E mentre scendevo la scaletta e montavo nella scialuppa mi parve di udire la gentile risata del capitano. Non mi derideva. Non ironizzava su di me. Eppure, era il suo commento sulla mia ultima affermazione. La scialuppa mi portò fuori della nebbia e in un'alba gelida. La luce grigia del cielo illuminava strisce di nubi altrettanto grigie. Grandi uccelli bianchi battevano rumorosamente le ali al di sopra di quella che pareva una vasta palude, scintillante di acqua grigia. Con grigi ciuffi di canne. E ferma a poca distanza, su una piccola propaggine di terra, scorsi anche una figura umana. Assomigliava a una statua, tanto era immobile e rigida. Eppure, nel mio cuore, sapevo che non era né di metallo né di pietra. La figura, sapevo, era di carne. Riuscivo anche a distinguere almeno in parte i suoi lineamenti... Potevo già vedere che era vestita di cuoio scuro, aderente, con una pesante cappa di cuoio sulle spalle, un tozzo elmo conico sulla testa. In mano
teneva una lunga picca e pareva appoggiarsi a essa; inoltre portava altre armi più difficili da distinguere nei dettagli. Mentre la nostra scialuppa si avvicinava a quella figura rigida, ne scorsi un'altra in lontananza. Si trattava di un uomo, vestito in un modo che non mi sembrava per nulla adatto al mondo in cui si muoveva. Portava quelli che mi parvero i resti di giacca e calzoni alla maniera del ventesimo secolo. Aveva il volto segnato dalle intemperie, occhi color azzurro pallido e volto marcato da qualcosa di più che dal vento e dal sole. Non dimostrava più di trentacinque anni. Era a capo scoperto, aveva capelli biondo cenere e mi parve alto e robusto, ma un po' troppo magro. Dal suo aspetto pareva pronto a crollare, quando salutò la statua e gridò qualcosa che non riuscii a distinguere. Con quella che era chiaramente pura forza di volontà, continuò a camminare incespicando sul gelido terreno spoglio fra le paludi. Il gemello del capitano mi fece segno di scendere a terra. Io ero assai riluttante. Quando posai sul terreno cedevole un piede nudo, l'uomo mi parlò ancora. «John Daker» mi disse «permettimi di augurarti qualcosa di diverso dalla semplice fortuna. Lascia che ti auguri questo: che, quando sarà necessario, nel momento di maggiore bisogno, tu sappia fare appello alle tue risorse di coraggio e di sanità mentale! Arrivederci! Mi auguro che tu voglia di nuovo fare vela con noi...» Queste parole non contribuirono certamente a sollevarmi lo spirito, ma solo a farmi allontanare ancor più alacremente dalla barca. «Da parte mia» mormorai tra me e me «mi auguro di non dovervi più rivedere, te e la tua nave...» Ma la scialuppa, il rematore e la figura immobile erano già svaniti. Con il collo irrigidito dal freddo, girai la testa per cercarli, e all'improvviso mi accorsi che non sentivo più il vento gelido. Compresi immediatamente perché la figura fosse scomparsa. Adesso ero al suo interno: ora io la abitavo e io la animavo. Però non conoscevo ancor il mio nome o il mio scopo in quel nuovo regno. L'uomo dai capelli biondi stava ancora avanzando verso di me, continuava a gridare per richiamare la mia attenzione. Sollevai la pesante picca in segno di saluto. E subito provai una dolorosa fitta di paura. Avevo il netto presentimento che in quella nuova incarnazione avrei rischiato di perdere tutto quel che avessi mai posseduto; tutto quel che avessi mai desiderato...
LIBRO PRIMO Dormiva sulla vetta di un'alta sacra pietra E il sogno a lui veniva e di tutto sognava, E quanto più sognava, più solo si pensava E più gli pareva d'essersi lasciato il futuro alle spalle; Ma quando si risvegliò irrigidito e discese nella valle Alla prima luce dell'alba, alla luce mesta, Guardarlo corrucciata gli parve la foresta E davanti a lui si dispiegò tutto il passato; E il suo drago, perduto da tempo, gli stava davanti in agguato, Non gli si poteva sfuggire né sperarlo assopito; In cuor suo sapeva di doversi ritenere finito, E che la morte era solo una parte della sua sorte tetra. Louis MacNeice, Il ponte bruciato UNO L'uomo si chiamava Ulrich von Bek ed era fuggito da un campo di concentramento tedesco chiamato Sachsenhausen. La sua colpa era di essere cristiano e di avere parlato contro il nazismo. Era stato liberato (grazie all'intervento di amici autorevoli) nel 1938. L'anno seguente, quando il suo tentativo di uccidere Adolf Hitler era fallito, era sfuggito alla Gestapo entrando nel regno in cui ci trovavamo entrambi. Io lo chiamavo Maaschanheem, ma lui lo chiamava semplicemente Terra di Mezzo. Accolse con sorpresa la notizia che conoscessi perfettamente il mondo da cui era giunto. «Mi sembri piuttosto un guerriero della saga dei Nibelunghi!» mi disse. «E parli lo strano tedesco arcaico che pare essere la lingua del luogo. Dici che la tua origine è inglese?» Non vedevo la necessità di dilungarmi sulla mia esistenza nei panni di John Daker, né di riferire che ero nato in un mondo in cui Hitler era stato sconfitto. Da tempo mi ero accorto che quel genere di rivelazioni finiva spesso per avere conseguenze disastrose. Ulrich von Bek era laggiù non
soltanto per sfuggire alla Gestapo, ma anche per trovare il modo di eliminare il mostro che s'era impadronito dell'anima del suo paese. Le mie parole avrebbero rischiato di allontanarlo dalla strada tracciata per lui dal suo destino. Per quel che ne sapevo io, poteva essere stato proprio von Bek a fare in modo che Hitler finisse sconfitto! Gli spiegai quel poco della mia situazione che mi pareva appropriato e anche questo fu sufficiente a lasciarlo a bocca aperta. «Resta il fatto» gli dissi «che nessuno di noi è in grado di affrontare nel modo migliore questo mondo. Ma almeno tu hai il vantaggio di conoscere il tuo nome!» «Non hai alcun ricordo del Maaschanheem?» «Nessuno. La sola cosa che ho è la solita capacità di parlare la lingua del luogo dove mi trovo. Dicevi di avere una mappa?» «Una vecchia eredità di famiglia che ho perso nella lotta di cui ti ho parlato, con quelle persone che volevano trascinarmi via. Ma non era molto precisa. Secondo me era stata disegnata in un indeterminato momento del secolo quindicesimo. Mi ha permesso di raggiungere questo luogo e speravo che mi permettesse di andarmene, una volta cessate le ragioni che mi tengono qui, ma ora temo di doverci rimanere per sempre, a meno di non trovare qualcuno che mi aiuti a lasciarlo.» «Il luogo è abitato, almeno» osservai. «Hai già incontrato qualcuno degli abitanti. Alcuni di loro potrebbero aiutarti.» Formavamo davvero una strana coppia. Io indossavo abiti che mi parevano adatti al terreno, con stivali alti fino al ginocchio, una sorta di gancio di bronzo (simile a un arpione per salmoni) dal lungo manico, un coltello curvo con una stretta lama e un tascapane contenente carne secca, qualche moneta, un blocco di inchiostro, un pennello per scrivere e vari fogli piuttosto granulosi -di carta di stracci. Non mi dava alcuna indicazione della mia identità, ma almeno non avevo la sfortuna di indossare un vestito stracciato di flanella grigia, un chiassoso pullover inglese e una camicia senza colletto. Gli offrii il mio mantello, ma per il momento lo rifiutò. Disse di essersi ormai abituato all'uggioso clima del luogo. Eravamo in uno strano genere di mondo. Le nubi grigie si aprivano di tanto in tanto e lasciavano filtrare il debole chiarore del sole, che illuminava una distesa di acqua stagnante in tutte le direzioni. Il mondo pareva costituito di lunghe strisce di terra prive di alture, divise da paludi e fiumiciattoli. Gli alberi erano rarissimi e solo qualche cespuglio offriva riparo agli uccelli acquatici dagli strani colori e ai bizzarri animaletti che scorge-
vamo di tanto in tanto. Poco più tardi sedevamo insieme su un monticello coperto d'erba, ci guardavamo attorno e masticavamo la carne secca che avevo trovato nel tascapane. Von Bek (il quale aggiunse con leggero imbarazzo di essere un conte, nel suo paese) era affamato ed era ovvio che faticava a non divorare il cibo senza prima masticarlo debitamente. Decidemmo che tanto valeva rimanere insieme, poiché la nostra situazione era pressoché la stessa. Lui mi fece notare di essere laggiù con lo scopo di trovare il modo per eliminare Hitler e che questo doveva sempre essere il suo primo pensiero. A mia volta gli ricordai che anch'io ero deciso a portare alla fine un compito particolare, ma che, se la cosa non interferiva con la mia missione, sarei stato più che lieto di considerarlo mio alleato. A questo punto von Bek socchiuse gli occhi e indicò qualcosa alle mie spalle. Quando mi voltai, vidi in lontananza quella che pareva la sagoma di un edificio non meglio identificabile. Ero certo di non averlo visto in precedenza, ma pensai che la nebbia me l'avesse nascosto. Comunque era troppo lontano perché si potessero distinguere i particolari. «In ogni caso» dissi al mio compagno «penso sia meglio dirigerci laggiù.» Il conte von Bek annuì vigorosamente. «Chi non risica non rosica» rispose. Lo guardai. Grazie al cibo e al riposo mi pareva assai migliorato, sia fisicamente, sia come umore e adesso era diventato una persona assai più allegra e poco incline a lamentarsi. Quello che quando ero a scuola, millenni fa, definivamo «il tedesco del tipo migliore». Il cammino attraverso la palude era lungo e faticoso. Dovevamo fermarci continuamente, saggiare il terreno con la mia picca o con l'arpione che adesso avevo affidato a von Bek, cercando il modo di passare da un fazzoletto di terraferma all'altro, aiutandoci per non sprofondare fino al petto in qualche ingannevole distesa d'acqua, per non cadere in mezzo alle taglienti foglie delle canne che in quella zona parevano costituire la principale vegetazione locale. A volte riuscivamo a scorgere l'edificio, davanti a noi, a volte spariva in lontananza. Ma nel complesso dava l'impressione di essere grosso come una piccola cittadina, o un grande castello. «Direi che ha un aspetto decisamente medievale» commentò von Bek. «Chissà per quale motivo, mi ricorda Norimberga.» «Be'» gli risposi «auguriamoci che i suoi occupanti non siano come quelli che la governano attualmente nel tuo mondo!» Anche ora mi parve leggermente sorpreso dalle mie approfondite cono-
scenze sulla Terra; tra me e me decisi di non lasciarmi sfuggire altri commenti sulla Germania nazista e sul ventesimo secolo da cui giungevamo entrambi. Mentre lo aiutavo ad attraversare un tratto di palude particolarmente insidioso, von Bek mi chiese: «È possibile che fossimo predestinati a incontraci qui? Che i nostri destini siano in qualche modo legati?» «Scusami se ti sembro troppo sbrigativo» gli risposi «ma ho già sentito troppi discorsi riguardanti i destini e i piani cosmici. Mi hanno stufato. Ormai desidero solo trovare la donna che amo e rimanere con lei in un luogo dove nessuno ci disturbi!» Mi parve d'accordo. «Ammetto che tutto questo parlare di destini e di apocalissi ha qualcosa di wagneriano. Mi ricorda sgradevolmente i nazisti e il modo in cui hanno svilito i miti e le leggende della nostra gente per giustificare i loro orrendi crimini.» «Ho sentito ogni sorta di giustificazioni dei peggiori atti di crudeltà e di barbarie» convenni con lui. «E quasi tutte facevano appello ai sentimenti e ai più elevati ideali, sia quando si trattava di frustare un'altra persona nelle opere di Sade, sia quando il leader di una nazione invitava il suo popolo a uccidere ed essere ucciso.» Mi pareva che l'aria si fosse fatta più fredda e che si avvicinasse la pioggia. Insistetti con von Bek perché prendesse il mio mantello; alla fine lo accettò. Appoggiai la picca su una piccola altura, vicino a un gruppo di canne particolarmente alte, ed egli posò l'arpione sul terreno, mentre si drappeggiava sulle spalle il mantello di pelle. «È una mia impressione, o il cielo è davvero più scuro?» si chiese, alzando la testa. «Non riesco a calcolare bene il trascorrere del tempo, in questo mondo. Sono qui da due notti, ma non ho ancora capito quanto siano lunghe le giornate.» Anch'io avevo l'impressione che si avvicinasse il crepuscolo, e stavo per suggerire di dare un'altra occhiata al mio tascapane, per vedere se avevamo qualche modo di accendere un fuoco, quando venni improvvisamente colpito da un forte urto alla spalla; la percossa mi fece cadere sul terreno, a faccia in giù. Ero con un ginocchio sul terreno e mi stavo girando per raggiungere la picca che, oltre al coltello, era la mia sola arma, quando una dozzina di guerrieri protetti da armature di foggia singolare uscì dal nascondiglio dietro le canne e avanzò in fretta verso di noi. Uno di loro aveva scagliato la clava che mi aveva fatto cadere a terra.
Von Bek gridò e si chinò a raccogliere l'arpione, ma una seconda clava lo colpì alla tempia. «Fermatevi!» gridai a quegli uomini. «Perché non parlamentare, prima di assalirci? Non siamo vostri nemici!» «Questa è una vostra illusione, amico mio» brontolò uno di loro, mentre gli altri ridevano minacciosamente a quella battuta. Von Bek era rotolato su un fianco e si teneva la faccia. Nel punto colpito dalla clava gli si stava già allargando un grosso livido. «Ci uccidete senza darci la possibilità di difenderci?» gridò ai nostri assalitori. «Vi uccidiamo come meglio ci pare» gli venne risposto. «I Vermi di Palude sono preda di tutti, e voi non potete dire di non saperlo.» Ora potei vedere meglio la loro armatura: era di cuoio e di lamelle metalliche, dipinte di verde chiaro e di grigio per meglio mimetizzarsi nel paesaggio. Anche le loro armi avevano lo stesso colore; inoltre, gli uomini si erano sparsi fango sulle parti esposte, allo scopo di passare inosservati. Come se quell'abbigliamento non fosse abbastanza barbarico, il loro aspetto peggiore era l'odore mefitico emanato dai loro corpi: una mescolanza di fetore umano, escrementi di animali e di marciume delle paludi. Senza usare la clava, sarebbe bastato quello a buttare a terra una delle loro vittime! Non sapevo a che cosa si riferissero parlando di «Vermi di Palude», ma di una cosa ero certo: non avevamo molte possibilità di sopravvivere all'attacco della dozzina di persone che, brandendo spade e bastoni, avanzavano ridendo verso di noi. Cercai di afferrare la picca, ma il colpo l'aveva fatta volare lontano da me. Provai ad avvicinarmi alla mia arma, attraverso l'erba bagnata e cedevole, pur sapendo che un'altra clava o una spada mi avrebbe raggiunto prima che riuscissi ad afferrarla. E von Bek era in una situazione peggiore della mia. La sola cosa che mi venne in mente fu quella di lanciargli un grido d'avvertimento. «Scappa!» gli gridai. «Scappa, von Bek! È inutile farsi ammazzare tutt'e due!» Di attimo in attimo, il cielo si faceva sempre più scuro. Il mio compagno aveva ancora una piccola possibilità di fuggire nella notte. Quanto a me, sollevai istintivamente le braccia mentre tutte quelle armi si preparavano a uccidermi.
DUE Il primo colpo mi prese sul braccio e per poco non me lo spezzò. Attesi stoicamente il secondo e il terzo. Prima o poi, uno mi avrebbe fatto perdere i sensi e questo era tutto ciò che potevo sperare: una morte rapida, senza dolore. Poi udii un rumore inatteso, che però riconobbi subito. Il secco rumore di uno sparo, seguito da altri due. Gli assalitori più vicini a me caddero a terra, morti stecchiti. Senza perdere tempo a riflettere sulla mia buona fortuna, afferrai prima una spada e poi l'altra. Erano armi pesanti, poco maneggevoli, più adatte ai pirati che agli schermidori, ma non mi occorreva altro. Adesso avevo la possibilità di sopravvivere! Indietreggiai verso il punto dove avevo visto cadere von Bek e con la coda dell'occhio lo vidi che si rialzava, dopo essere rimasto con un ginocchio a terra; teneva a due mani una pistola automatica dalla cui canna usciva ancora un filo di fumo. Era passato molto tempo dall'ultima volta che avevo visto quel genere di arma. Con una sorta di cupo divertimento, capii che von Bek non era del tutto disarmato, quando era passato dalla sua terra al Maaschanheem. Apprezzai la presenza di spirito che lo aveva indotto a portare con sé un oggetto utilissimo in un mondo come quello! «Dammi una spada!» gridò il mio compagno. «Mi restano solo due colpi e preferisco tenerli per qualche altra occasione.» Senza guardarlo, gli lanciai una delle mie spade; insieme avanzammo verso i nostri nemici, già demoralizzati dalle esplosioni inattese. Chiaramente non avevano mai visto armi da fuoco. Ringhiando di rabbia, il capo del gruppo scagliò contro di me un'altra clava, ma non ebbi difficoltà a scansarla. Gli altri si affrettarono a imitarlo, cercando di colpirci con una vera gragnola di quelle rozze armi, ma noi le evitammo o le parammo con la spada. Un attimo più tardi eravamo faccia a faccia con i nostri assalitori, che parevano avere perso gran parte della loro baldanza. Ne uccisi due prima di riuscire a riflettere su quanto stavo facendo. Da un'eternità ero abituato a quel genere di duelli, e sapevo che in quei frangenti occorreva colpire per uccidere, se non si voleva correre il rischio di perdere la vita. Ma, giunto al terzo avversario, recuperai la ragione quanto bastava per limitarmi a fargli volare via dalla mano la spada. Intanto von Bek, che chiaramente - come tanti della sua classe sociale - era un esperto
schermidore, si era sbarazzato di altri due assalitori, e ora ne rimaneva meno della metà. A quel punto il loro capo ci gridò di fermarci. «Ritiro quanto ho detto! Non siete Vermi di Palude, l'ho capito. È stato un errore assalirvi senza parlare con voi. Abbassate la spada, signori, e parlamenteremo. Chiamo a testimoni gli dèi, ma non mi sono mai rifiutato di ammettere un mio errore.» Circospetti, abbassammo la spada, ma ci tenemmo pronti a un eventuale tradimento da parte sua e dei suoi uomini. I nostri avversari, comunque, con grande ostentazione rinfoderarono la spada e aiutarono i compagni feriti. Quanto ai morti, tolsero loro le borse e le armi rimaste. Ma il capo gridò loro di fermarsi. «Li spoglieremo quando avremo trovato un accordo soddisfacente per tutti» disse. «Guardate, ormai siamo vicini a casa.» Guardai nella direzione da lui indicata e con grande stupore vidi che l'edificio - o il gruppo di edifici - verso cui ci eravamo diretti era ormai più vicino. Scorsi distintamente il fumo dei comignoli, le bandiere sulle torrette, le luci che tremolavano qua e là sugli spalti. «Allora, signori» ci disse il capo del gruppo. «Che cosa facciamo? Avete ucciso un buon numero di noi, perciò direi che possiamo giudicarci almeno alla pari, visto che siamo stati noi a iniziare ma che non avete ferite gravi. Inoltre avete due delle nostre spade, che sono oggetti di notevole valore. Siete disposti ad andarvene per la vostra strada e a lasciar perdere ogni discussione?» «Questo mondo è talmente privo di leggi che si può assalire a piacimento un'altra persona senza subire alcuna conseguenza?» chiese von Bek. «Allora non è affatto migliore di quello che ho appena lasciato!» Mi parve che continuare in quel tipo di discussione fosse solo una perdita di tempo. Ormai sapevo da tempo che gli uomini di quel genere, qualunque fosse il mondo dove vivevano, non avevano né la voglia né l'intelligenza occorrente per capire un sottile argomento morale. A quanto pareva, ci avevano scambiato per qualche genere di fuorilegge e ora, constatato che non lo eravamo affatto, ci mostravano maggiore rispetto, anche se a malincuore. Secondo me, conveniva farsi portare nella loro città, nonostante il possibile rischio, e vedere se potevamo offrire i nostri servigi ai loro padroni. Lo dissi a von Bek, in poche parole, ma il mio compagno pareva assai riluttante a lasciar cadere la questione morale. Era ovvio che si trattava di un
uomo dai saldi principi (del resto occorreva quel tipo di persone per non soccombere al terrore ispirato da Hitler) e io lo rispettavo per quello. Ma lo pregai di rimandare ogni giudizio al futuro, non appena li avessimo conosciuti meglio. «Mi sembrano assai primitivi» gli feci osservare. «Non abbiamo molto da temere da loro. Inoltre, potrebbe essere il solo modo per conoscere meglio questo mondo e, eventualmente, per uscirne.» Come un cane da guardia che, ringhiando, cerca solo di difendere i padroni (nel suo caso i suoi ideali), von Bek si arrese. «Ma è meglio tenere le spade» aggiunse. Ormai era buio. I nostri assalitori cominciavano a dare segni di nervosismo. «Se dobbiamo parlamentare ancora» disse all'improvviso il loro capo «forse potreste farlo come nostri ospiti. Per questa notte non vi toccheremo più, ve lo prometto. Vi do la mia Promessa di Bordo.» La cosa pareva avere una grande importanza per lui; quanto a me, ero pronto ad accettare la sua parola. Pensando che avessi esitazioni ad accettare, l'uomo si sfilò l'elmetto grigioverde e se lo portò dinanzi al cuore. «Dovete sapere, signori» ci disse «che il mio nome è Mopher Gorb, fustiere di Armiad naam Sliforg ig Vortan.» Anche il fatto di dare il proprio nome pareva un atto assai importante. «Chi è Armiad?» gli domandai; vidi che sulla sua faccia sgraziata compariva un'espressione di grande sorpresa. «Come?» fece. «È il baron-capitano della nostra nave-città, che prende il nome di Scudo Corrucciato e rende conto all'ancoraggio della Mano che Afferra. Avrete sentito parlare almeno di questa, se non di Armiad, successore del baron-capitano Nedau naam Sliforg ig Vortan...» Con un gemito, von Bek sollevò la mano. «Basta, basta! Tutti questi nomi mi fanno venire il mal di testa. Sono d'accordo, accettiamo la vostra ospitalità e vi ringraziamo.» Mopher Gorb, tuttavia, non accennò a muoversi. Evidentemente, aspettava qualcosa da noi, poi compresi che cosa dovessi fare. Mi sfilai l'elmetto a forma di cono e me lo appoggiai sul petto, davanti al cuore. «E io sono John Daker, chiamato anche Erekosë, già Campione di re Rigenos, giunto dal Castello di Ghiaccio e dal Fiordo Scarlatto, e il mio compagno è il mio fratello di spada, il conte Ulrich von Bek, proveniente dalla città di Bek, nel principato di Sassonia del regno dei Germani...» Proseguii ancora un poco nella stessa vena, finché non giudicai di avergli dato un numero soddisfacente di nomi e di titoli, anche se non dovevano significare molto, per lui. Ma, chiaramente, l'offerta del proprio nome e
del proprio titolo costituiva l'indicazione che si era intenzionati a mantenere la parola data. Quanto a von Bek, meno abituato a quel genere di incontri e meno adattabile di me, stava quasi per scoppiare a ridere ed evitava di guardare dalla mia parte. Mentre parlavamo, intanto, la nave-città aveva continuato a ingrandirsi. Ora capii che la sua enorme mole era in movimento. Non era una normale città o un normale castello, ma una nave di qualche genere, incredibilmente grande (anche se assai inferiore ai nostri transatlantici) e mossa da qualche tipo di motore che era il diretto responsabile del fumo da me visto in precedenza e confuso con normale fumo di domestici comignoli. Comunque, potevo essere scusato se l'avevo confuso con una fortezza medievale, quando l'avevo visto da lontano. I camini parevano collocati a caso, qui e là. Le torrette, le torri, le guglie e i merli sembravano di pietra, anche se più probabilmente si trattava di legno e di canne, e quelle che mi erano parse aste per bandiere erano in realtà alti alberi a cui erano assicurati pennoni, vele e una selva di cordame simile alla tela di un ragno impazzito, e una grande varietà di bandiere incredibilmente sudice. Il fumo dei camini era grigio con una sfumatura giallognola di qualche ritorno di fiamma dai cilindri roventi, che anche se non pareva minacciare i ponti sottostanti, indubbiamente doveva riempirli di fuliggine da cima a fondo. Mi chiesi come la sua popolazione riuscisse a vivere in una simile sporcizia. Mentre il vascello rumoroso e massiccio avanzava lentamente nell'acqua bassa della palude, scoprii che il puzzo dei nostri assalitori era caratteristico della loro nave. Anche da lontano venni colpito da mille odori repellenti, compreso quello del fumo ammorbante. Le fornaci che alimentavano quei camini dovevano bruciare ogni sorta di rifiuti, pensai. Von Bek mi guardò, come se intendesse rifiutare l'ospitalità di Mopher Gorb, ma sapevo che ormai era troppo tardi per quel genere di rinuncia. Desideravo conoscere meglio quel mondo, e non intendevo offendere i suoi abitanti, col rischio che poi si sentissero spinti dal proprio orgoglio a non darci tregua finché non ci avessero ucciso. Mi disse qualcosa, ma non riuscii a capire le sue parole, coperte dalle grida e dai rumori provenienti dalla nave, ormai giunta davanti a noi e gigantesca sullo sfondo grigio della sera. Scossi la testa. Von Bek si strinse nelle spalle e trasse di tasca un fazzoletto di seta, ben ripiegato. Poi se lo portò davanti alla bocca, con espres-
sione schizzinosa, e finse - a quanto capii - di avere il raffreddore. Tutt'intorno al gigantesco scafo, che era un mosaico di metallo e di legno e che portava le tracce di centinaia di riparazioni, le acque della baia ribollivano e schizzavano in tutte le direzioni, coprendoci di schiuma, di qualche pezzo di terra e di una buona dose di fango. Trassi un respiro di sollievo quando si abbassò una sorta di ponte levatoio, nella parte bassa dello scafo e nei pressi della grande poppa ricurva, e Mopher Gorb fece un passo avanti per parlare in tono rassicurante a qualche persona all'interno. «Non sono Vermi di Palude, ma ospiti onorati. Credo che vengano da un altro regno e che si rechino all'Adunanza. Ci siamo scambiati i nomi. Ci imbarchiamo in pace!» Una piccola parte del mio cervello si mise subito all'erta. Nelle parole c'era un termine a me familiare, anche se non avrei saputo dire con precisione perché lo fosse. Mopher aveva parlato di «Adunanza». Dove avevo già udito quella parole? In che sogno? In quale precedente incarnazione? Oppure, che si trattasse di una premonizione? Tra le tante sue sfaccettature, la condanna del Campione Eterno consisteva anche nel ricordare non solo il passato, ma anche il futuro. Tempo e Conseguenze non sono la stessa cosa, per quelli come me. Comunque, per quanto mi sforzassi, non sarei riuscito a trovare un chiarimento, e perciò preferii accantonare il problema, mentre seguivamo Mopher Gorb, fustiere dello Scudo Corrucciato (che, come ci era stato detto, era il nome dello scafo) nei cupi e puzzolentissimi budelli dalla nave che era anche la sua casa. Mentre salivamo lungo la passatoia, il fetore che mi assalì era così forte da farmi quasi venire i conati del vomito, ma riuscii a controllarmi. All'interno della nave erano accese molte lucerne: potei vedere che il pavimento su cui passavamo era costituito di tavole di legno: attraverso le aperture tra l'ima e l'altra riuscii a scorgere il ponte sottostante, dove molti uomini seminudi correvano avanti e indietro per la manutenzione dei rulli su cui si muoveva la grande nave. Dall'apertura vidi una serie di passatoie, alcune di metallo, altre di legno, altre costituite da semplici funi tese tra due passerelle. Sentii voci e grida che si levavano al di sopra del basso tambureggiare dei rulli e capii che erano uomini e donne intenti, evidentemente, a oliare e ripulire il macchinario in movimento. Poi salimmo lungo una scaletta di legno e ci trovammo in una grande cabina piena di armi e di corazze, accudite da un individuo
sudato, alto quasi due metri e talmente grasso da far pensare che riuscisse a muoversi soltanto grazie a un particolare miracolo. «Avete scambiato i nomi e siete i benvenuti a bordo dello Scudo Corrucciato, signori. Io sono Drejit Uphi, Maestro d'Arme del nostro scafo. Vedo che avete due delle nostre spade e vi sarei obbligato se voleste restituirle. Anche tu, Mopher. E gli altri. Tutte le spade sono state consegnate. E anche le corazze. Ma gli altri? Dobbiamo mandare gli apprendisti a spogliarli?» Mopher era arrossito. «Sì» rispose. «Abbiamo attaccato questi ospiti, pensando che fossero vermi di palude, ma loro stessi ci hanno convinto del contrario. Umfit, Ior, Wetch, Gobshot, Pnatt e Strote devono essere spogliati. Ormai sono legna da ardere.» L'accenno alla «legna da ardere» mi fece capire perché il fumo dei camini fosse particolarmente ripugnante e perché ogni cosa, a bordo, era coperta da una patina sottile, oleosa e densa. Drejit Uphi si strinse nelle spalle. «Congratulazioni, signori. Siete degli ottimi combattenti; quei guerrieri erano astuti, pieni di esperienza.» Lo disse con la maggior cortesia possibile, ma era chiaramente in collera, sia nei riguardi di Mopher sia in quelli nostri. A nessuno venne in mente di farsi dare la pistola di von Bek, e di conseguenza mi sentii un po' più sicuro, quando - dopo che Mopher si fu tolto la corazza per rivelare una giubba di cotone sudicio e un paio di calzoni larghi - seguimmo il Fustiere ai piani superiori della nave-città. Lo scafo era affollatissimo, proprio come una città del Medioevo, e c'erano persone in ogni passaggio, viuzza e corridoio, che portavano pesi, si chiamavano tra loro, discutevano o litigavano. Tutti erano sudici, molto pallidi e con un'aria malaticcia; inoltre, naturalmente, non c'era un centimetro quadro di pelle o di vestito che non fosse pieno di quella particolare cenere oleosa, che cadeva su tutto, bruciava in gola e copriva la nostra pelle. Quando ci trovammo di nuovo all'aperto, nella fresca aria della notte, e attraversammo un lungo ponte che, se fosse stato sulla terraferma, avrei etichettato come la piazza del mercato, tutt'e due starnutivamo e avevamo gli occhi e il naso che colavano. Mopher se ne accorse e rise. «Presto o tardi» ci assicurò «il nostro corpo si abitua. Guardate me! A vedermi non lo credereste, ma ormai ho nei polmoni una buona metà delle carogne di questa nave!» E scoppiò di nuovo a ridere. Mi afferrai alla balaustra per non cadere: il ponte tremava sotto la spinta
del vento e oscillava col moto della nave, che continuava a procedere senza soste. In alto, tra gli alberi, scorsi molte figure al lavoro, mentre altre scivolavano su e giù per le sartie, illuminate da improvvisi sprazzi di fiamme e di ceneri che venivano dai camini. I pezzi di cenere più grandi, vidi ora, finivano contro reti di fil di ferro che circondavano i camini, e si raccoglievano su di esse o ricadevano all'interno. Von Bek scosse la testa. «Per quanto sia squallida e abborracciata, questa nave è un vero miracolo di ingegneria folle! Suppongo che sia mossa dal vapore.» Mopher aveva udito le sue parole. «I Folfeg sono famosi per i loro meccanismi scientifici» ci assicurò. «Mio nonno era un Folfeg, dell'ancoraggio del Gambero Zoppo. Fu lui a costruire le caldaie dei grande Lucertolone Ardente, la nave che tentò di seguire Ilabard Kreyin oltre il Bordo del Mondo. Lo scafo ha fatto ritorno - come è ben noto in tutto il Maaschanheem - con un intero equipaggio di morti, ma il motore non si guastò. Quel motore riuscì a riportarla sino al Gambero Zoppo. All'epoca delle Guerre tra gli Scafi, conquistò quattordici ancoraggi nemici, tra cui la Bandiera Stracciata, il Ramo di Felce, l'Aragosta Liberata, il Pescecane da Caccia e il Luccio Spezzato, per non parlare dei loro scafi.» Anche se mi lasciò indifferente, il racconto incuriosì von Bek, che gli chiese: «Da che cosa derivano i nomi dei vostri ancoraggi? Suppongo che si tratti delle strisce di terraferma tra cui viaggiano i vostri scafi.» Anche ora il fustiere mi parve leggermente confuso. «Proprio così, signore. Gli ancoraggi prendono il nome dalla figura più simile a loro, sulla mappa. Dalla forma del terreno, signore.» «Certo» rispose von Bek, portandosi nuovamente il fazzoletto davanti alla faccia. La sua voce ci giunse attutita. «Scusate la mia ingenuità.» «Potete rivolgere tutte le domande che volete, qui sullo scafo» gli assicurò Mopher. Si sforzò di sorridere, ma il suo viso scuro rimase accigliato. «Infatti ci siamo scambiati i nomi e le sole cose che non possiamo comunicarvi sono quelle sacre.» Eravamo giunti alla fine del ponte; davanti a noi c'era una saracinesca, una spessa inferriata dietro cui si scorgeva una sala in penombra, dove ardevano alcune lanterne. A un grido di Mopher, l'inferriata si sollevò e noi entrammo nella sala. Le pareti erano decorate a disegni complessi e ora mi accorsi che la saracinesca era coperta di una finissima garza. In quella parte della nave, la fuliggine che penetrava era pochissima. Ora echeggiò un suono di tromba (uno strepito sgraziato) e da una galle-
ria scarsamente illuminata, sopra di noi, ci giunse una voce: «Salute ai nostri onorati ospiti. Che festeggino questa notte con il baroncapitano e che viaggino con noi fino all'Adunanza.» Non riuscivamo a vedere colui che aveva parlato, ma a quanto pareva si trattava semplicemente di un araldo. Un attimo più tardi, da una scala posta in fondo alla sala, giunse di fretta un individuo tozzo e massiccio, con la faccia da pugilatore e il comportamento di un uomo aggressivo e impaziente che si sforza di controllare la collera. Teneva all'altezza del cuore una semplice calotta, e indossava una giubba di broccato dai colori sgargianti, rosso, oro e blu; sulle gambe massicce portava un paio di calzoni larghi, appesantiti al fondo da grosse e multicolori palline di feltro. In testa aveva uno dei più assurdi copricapi che avessi mai visto in tutti i miei viaggi nel multiverso, e non mi stupii che non se lo fosse tolto per la rituale copertura del cuore. Il cappello era alto almeno un metro, assomigliava a un antico cappello a cilindro ma aveva una tesa assai più stretta. Penso che fosse irrigidito all'interno, ma tendeva a pencolare selvaggiamente in tutte le direzioni ed era di un chiassoso colore giallo, talmente chiaro che temetti di venirne accecato. Il proprietario di quel costume, chiaramente, non solo doveva giudicarlo perfettamente congruo, ma anche assai elegante. Quando giunse in fondo alla scala, si fermò, ci rivolse un breve cenno di saluto, poi si rivolse a Mopher Gorb. «Sei congedato, fustiere» disse al nostro accompagnatore. «E sono certo di non dirti niente di nuovo, se ti informo che non sei più il responsabile di riempire i fusti, per il presente viaggio. Hai dato prova di scarso discernimento, quando hai preso per vermi di palude i nostri ospiti onorati. E a causa del tuo errore hai perso ottimi uomini.» Mopher Gorb gli rivolse un profondo inchino. «Accetto quanto mi dite, baron-capitano.» La nave tremò all'improvviso e parve gemere e lamentarsi nel profondo del suo essere. Per qualche istante, finché il sussulto non terminò, tutti fummo costretti ad afferrarci al sostegno più vicino. Poi Mopher Gorb continuò: «Consegno i miei fusti a colui che prenderà il mio posto e gli auguro di catturare buoni vermi per le nostre caldaie.» Anche se non capivo del tutto le sue parole, di nuovo fui sul punto di vomitare. Mopher Gorb si affrettò a uscire dalla sala e la saracinesca venne subito calata dietro di lui. Il baron-capitano venne avanti tutto impettito, con il
grande cappello che gli dondolava sulla testa. «Sono Armiad naam Sliforg ig Vortan, baron-capitano di questo scafo, che rende conto alla Mano che Afferra. Sono profondamente onorato di dare il benvenuto a voi e al vostro amico.» Si rivolse direttamente a me e nella voce gli colsi un tono conciliante che in qualche modo mi mise a disagio. Notando la mia sorpresa, mi sorrise. «Sappiamo, signore» mi disse «che i nomi da voi dati al mio fustiere sono solo una parte dei vostri titoli, e ben capisco che non abbiate voluto sminuirvi offrendo il vostro vero nome e grado a una persona come lui. Tuttavia, come baron-capitano, mi è permesso, vero, di rivolgermi a voi col nome più noto, almeno nel nostro Maaschanheem?» «Voi conoscete il mio nome, baron-capitano?» «Oh, certamente, vostra altezza. Riconosco il vostro volto dalla nostra letteratura. Tutti conoscono le vostre prodezze contro i pirati Tynur. La vostra ricerca della Vecchia Cagna e di sua figlia. Il mistero da voi risolto che riguardava la Città Selvaggia. E tantissime altre. Siete un eroe per noi del Maaschanheem, vostra altezza, come nel vostro stesso Draachenheem. Non so dirvi quanto sia grande la mia felicità di potervi accogliere, senza alcun desiderio di pubblicità per questo scafo o per me stesso. Vorrei che fosse chiara una cosa: che siamo profondamente onorati di avervi a bordo.» Dovetti compiere un grande sforzo per non sorridere dei goffi e un po' penosi tentativi con cui lo sgradevole ometto cercava di dare prova delle sue buone maniere. Decisi di assumere un tono altezzoso, visto che se lo aspettava. «E dunque, signor mio, che nome mi dareste?» «Oh, altezza!» ridacchiò. «Ma il principe Flamadin, Signore Eletto del Valadek ed eroe di tutt'e sei i Regni della Ruota!» A quanto pareva, finalmente ero venuto a conoscenza del mio nome. E ancora una volta, temevo, ci si aspettava da me più di quanto non fossi disposto a dare. Von Bek commentò ironicamente: «Avete nascosto questo grande segreto anche a me, principe Flamadin.» Gli avevo già spiegato la mia situazione. Ora gli rivolsi un'occhiataccia. «E adesso, buoni signori, dovete essere miei ospiti al banchetto che ho fatto preparare in vostro onore» disse il baron-capitano Armiad, indicando con la calotta il lato opposto della sala, la cui parete si stava lentamente sollevando per rivelare una stanza vivacemente illuminata, con una tavola
imbandita e coperta di una grande varietà di cibi dall'aspetto poco invitante. Anche ora evitai lo sguardo di von Bek e mi augurai che fosse possibile - anche se ne dubitavo - trovare almeno un boccone che non offendesse il palato. «Se ho capito bene» disse Armiad, accompagnandoci al nostro posto «avete deciso di compiere sul nostro scafo il tragitto fino all'Adunanza.» Essendo assai curioso di sapere la natura di quella Adunanza, gli rivolsi un cenno affermativo. «Evidentemente avete iniziato una nuova avventura» disse Armiad. Quando si sedette accanto a me, il suo enorme cappello dondolò pericolosamente. Anche se meno forte, il suo odore non era granché diverso dal puzzo dei suoi subordinati. Avevo già capito che genere di persona fosse: un uomo che non solo, in generale, odiava le buone maniere, ma che non amava neppure la normale buona creanza tra persone dello stesso rango. Inoltre ero convinto che se non gli fosse convenuto accoglierci come ospiti, non avrebbe perso tempo a farci tagliare la gola e a ficcare i nostri cadaveri nei suoi fusti e nelle sue caldaie. Mi rallegrai del fatto che avesse riconosciuto in me il suo principe Flamadin (o che mi avesse confuso con lui!) e decisi di accettare dalla sua ospitalità il meno possibile. Mentre mangiavamo gli chiesi quanto mancava, secondo lui, al nostro arrivo all'Adunanza. «Altri due giorni, non di più. Ma perché, mio buon signore, siete ansioso di arrivare laggiù prima che tutti si siano riuniti? Se così è, possiamo aumentare la velocità. È una semplice questione di regolazioni meccaniche e di consumo di combustibile...» Mi affrettai a scuotere la testa. «Due giorni è eccellente. E a questa Adunanza ci saranno tutti?» «Come sapete, altezza, i rappresentanti di tutt'e sei i Regni. Naturalmente non posso parlare per qualche visitatore fuori del normale. Come sapete, l'abbiamo sempre tenuta nel Maaschanheem, indipendentemente dal fatto che i Regni si riunissero o no. Tutti gli anni a partire dall'armistizio, quando infine cessarono le Guerre tra gli Scafi. Verranno in molti, tutti sotto la bandiera della tregua; naturalmente, anche i Vermi di Palude, quegli orribili rinnegati senza scafo e senza ancoraggio, possono venire senza finire nei fusti. Sì, tutto considerato, vostra altezza, ci sarà una bella compagnia. E io mi assicurerò che abbiate una buona posizione tra gli scafi più privilegiati.
Nessuno oserebbe opporvi un rifiuto. Lo Scudo Corrucciato è a vostra disposizione!» «Vi sono molto obbligato, baron-capitano.» I servitori cominciarono ad andare e venire, e a mettere sotto il nostro naso piatti dall'aspetto disgustoso, ma, a quanto pareva, rifiutarli non costituiva un'offesa, perché nessuno se ne adontò. Notai che, al pari di me, von Bek si accontentava di un'insalata di piante delle paludi relativamente gustose. Von Bek prese la parola per la prima volta. «Vogliate perdonarmi, baron-capitano. Come sua altezza vi avrà certamente informato, i passati incidenti mi hanno reso un po' leggero di memoria. Quali sono gli altri regni a cui vi siete riferito, oltre al vostro, naturalmente?» Apprezzai la domanda diretta e quel modo di interrogare senza coinvolgermi in domande che potevano imbarazzarmi. «Come sua altezza sa» rispose Armiad, frenando a malapena il fastidio «i nostri regni sono sei: i Regni della Ruota. Sono Maaschanheem, che è questo Regno. Poi Draachenheem, dove regna il principe Flamadin quando non è in cerca di avventure altrove!» Rivolse un cenno nella mia direzione. «Il terzo è Gheestenheem, Regno delle Donne Fantasma, le donne cannibali. Gli altri tre regni sono Barganheem, proprietà dei misteriosi Principi Orsi; Fluugensheem, la cui popolazione è difesa dall'Isola Volante, e infine Rootsenheem, i cui guerrieri si verniciano la pelle con il colore del sangue. Naturalmente c'è poi il Regno del Centro, ma nessuno vi entra e nessuno ne esce. Noi lo chiamiamo Alptroomensheem, le Marche dell'Incubo. Vi è sufficiente a rinfrescare i ricordi, conte von Bek?» «Del tutto, baron-capitano. Vi ringrazio di esservi preso il fastidio di ricordarmeli. Ma temo di non avere mai avuto molta memoria per i nomi, neppure nei miei momenti migliori.» Con un certo sollievo, o almeno così mi parve, il baron-capitano tornò a rivolgere verso di me il suo sguardo bellicoso, ai limiti della maleducazione. «E la vostra promessa sposa ci raggiungerà all'Adunanza, altezza? O la principessa Sharadim è rimasta a custodire il Regno mentre voi partivate alla ricerca di nuove avventure?» «Ah, vero...» dissi io, preso alla sprovvista e incapace di nascondere la sorpresa. «La principessa Sharadim. Non posso ancora assicurarlo.» E in qualche punto della mia mente, anche allora, tornai a sentire il canto disperato. «Sharadim! Sharadim! La dragonessa del fuoco dev'essere liberata!»
A quel punto asserii di essere stato colto da un'improvvisa stanchezza e pregai il baron-capitano Armiad di permettermi di ritirarmi. Quando fui nella mia cabina, fui raggiunto da von Bek, le cui stanze erano vicino alle mie. «Non mi sembri del tutto a posto, Herr Daker» mi disse. «Temi che l'inganno sia scoperto e che il vero principe faccia la sua comparsa all'Adunanza di cui s'è parlato?» «Oh» gli risposi «sono pressoché certo di essere io il vero principe, amico mio. Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente è tutt'altra: dal momento in cui ho messo piede in questo mondo, il solo nome da me udito e che mi fosse in qualche modo familiare è quello della donna che, a quanto pare, è la mia fidanzata!» Von Bek commentò: «Be', almeno saprai cosa si aspetta da te, nel caso dovessi incontrarla.» «Può darsi» risposi, ma interiormente ero profondamente turbato, e non avrei saputo dirne la ragione. Quella notte dormii poco e male. Il sonno cominciava a farmi paura. TRE L'indomani non incontrai difficoltà a svegliarmi. La notte era stata piena di visioni e di allucinazioni, con le donne che salmodiavano, i guerrieri disperati, le voci che invocavano non soltanto Sharadim ma anche me... chiamandomi con mille nomi diversi. Quando von Bek mi raggiunse, ero intento a dare gli ultimi ritocchi alla toeletta. Anche ora mi disse che non avevo un bell'aspetto. «Quei tuoi sogni sono una condizione permanente della vita che mi hai descritto?» «Non permanente» gli risposi «ma frequente.» «Non ti invidio, Herr Daker.» A von Bek erano stati dati abiti puliti, ma il mio nuovo compagno di avventure era abbastanza impacciato nel muoversi con indosso la camicia e i calzoni di pelle leggera, la giubba di cuoio spesso e gli alti stivali del Maaschanheem. «Mi sembra di essere uno di quei briganti del teatro romantico» commentò. Pareva divertito del proprio aspetto; da parte mia confesso che ero lieto della sua compagnia. Allontanava i miei pensieri, almeno, dalle premonizioni e dai sogni cupi. «Almeno» disse «questi abiti sono abbastanza puliti! E vedo che ti han-
no dato dell'acqua calda. Penso che dobbiamo ritenerci fortunati. Eri così preoccupato, ieri sera, che mi sono dimenticato di ringraziarti dell'aiuto.» Mi tese la mano. «Sarei lieto di poterti offrire la mia amicizia, signore.» Gli strinsi la mano, con calore. «E puoi contare sulla mia» gli risposi. «Sono lieto di avere un compagno come te. Non mi aspettavo di trovarne uno simile.» «Ho letto di molte meraviglie delle Terre di Mezzo» osservò lui «ma niente di così strano come questa grande nave su rulli. Mi sono alzato presto per esaminare i suoi macchinari. Sono molto primitivi - macchine a vapore, naturalmente - ma funzionano e raggiungono il loro scopo. Non avevo mai visto tanti pistoni e bielle in così diversi stati di anzianità. La costruzione deve essere estremamente vecchia e non ci sono stati grandi ammodernamenti, almeno da un secolo in qua. Tutto è rabberciato e rattoppato, legato col fil di ferro, saldato alla meno peggio.» Sorrise. «I focolari e le caldaie» riprese «sono enormi. E stranamente efficienti. Muovono un tonnellaggio almeno pari a quello della vostra Queen Elizabeth, soltanto parzialmente sostenuto dall'acqua. Naturalmente le occorre più manodopera che in un transatlantico, e forse c'è un legame tra le due cose. Ma le mie conoscenze di meccanica, devo ammettere, si limitano a un anno presso un istituto tecnico dietro insistenza di mio padre. Era un progressista!» «Più del mio» commentai. «Io non so assolutamente nulla di meccanica, ma mi piacerebbe conoscerla. Non che abbia mai dovuto servirmi di quel tipo di conoscenze nei mondi che ho visitato. Nei mondi del multiverso, la magia è molto più all'ordine del giorno. Almeno, quello che noi del ventesimo secolo chiamavamo magia.» Mi rivolse uno dei suoi sorrisi ironici. «La mia famiglia» disse «ha anche una certa familiarità con la magia, tra le altre cose.» Il conte von Bek passò allora a raccontarmi la storia della sua famiglia, che risaliva al diciassettesimo secolo. A quanto pareva, i suoi antenati avevano sempre conosciuto il modo per passare in Regni di altri mondi dove valevano leggi naturali differenti. «Dovrebbero esserci anche le relative tradizioni» continuò «ma non ne abbiamo mai incontrate, a parte una che probabilmente è falsa, almeno in parte!» A causa di quella tradizione aveva cercato nella sua lotta contro Hitler l'aiuto di colui che chiamava «Satana». Questi - che gli era apparso come un individuo molto alto, di pelle nera - lo aveva aiutato a passare nelle Ter-
re di Mezzo, spiegandogli che laggiù forse avrebbe trovato il modo di sconfiggere il Cancelliere. E concluse: «Ma se si trattasse dello stesso Satana che è stato cacciato dal Cielo o se sia una divinità minore, un semidio imprigionato, non sono in grado di dirlo. Comunque, mi ha aiutato.» Quella confessione mi diede un notevole sollievo. Già temevo di non poter spiegare a von Bek certi fenomeni che ormai mi erano familiari. Il Regno del Maaschanheem, comunque, non pareva possedere granché, nel campo delle meraviglie sovrannaturali, a parte conoscere l'esistenza di altri piani della realtà. Sotto quell'aspetto mi toglieva la preoccupazione di dover spiegare ai suoi abitanti la mia presenza. Von Bek, che, come mi aveva detto, aveva già parzialmente esplorato la nave, mi condusse lungo i cigolanti corridoi di legno di quello che cominciavo a chiamare il palazzo del baron-capitano e in una piccola cabina con le pareti coperte di tessuti a quadri che mi parvero troppo fini per essere stati prodotti in quel mondo. Laggiù era stata preparata una tavola per me; assaggiai un pezzo di formaggio salato e farinoso, un morso di pane duro, un sorso di yogurt molto leggero e alla fine bevvi un bicchiere d'acqua tiepida, abbastanza pulita, e mangiai l'uovo sodo di qualche uccello a me sconosciuto. Dopo la piccola colazione seguii von Bek lungo un altro labirinto di corridoi stretti e cigolanti, poi per una esilissima passatoia tesa tra due alberi. Quest'ultima dondolava a tal punto che mi sentii girare la testa e dovetti tenermi alla ringhiera di corda. A parecchi metri sotto di me, la gente era al lavoro: vidi carri tirati da bestie simili a buoi, udii le donne chiamarsi da una finestra all'altra dei leggeri edifici. Vidi bambini che giocavano tra le sartie più basse mentre i cani abbaiavano ai loro piedi. Dappertutto gravava una fitta coltre di fumo che oscurava completamente molte scene; poi, di tanto in tanto, il vento portava via tutto ed era possibile respirare l'aria pulita dell'immensa, scintillante palude su cui lo Scudo Corrucciato si muoveva con una sorta di ponderosa dignità tutta sua. Anche se piatto e pressoché tutto dello stesso colore grigioverde, potei constatare che il Maaschanheem era un luogo magnifico, a proprio modo. Le nubi non si aprivano mai per molto tempo, ma la luce che vi filtrava era sempre diversa e ogni volta dava risalto a particolari differenti dei laghi, delle paludi e delle sottili strisce di terraferma, gli ancoraggi di quella popolazione nomade. Si scorgevano galleggiare sull'acqua stormi di uccelli strani e bellissimi, altri s'infilavano tra le canne, e a volte si alzavano in vo-
lo, come una sola, grande massa scura e si allontanavano verso l'invisibile orizzonte. Molti animali dall'aspetto bizzarro scivolavano tra l'erba o sollevavano la testa, con aria perplessa, dalla superficie dell'acqua. Quello che mi stupì maggiormente era un animale simile a una foca, ma grande più di un leone di mare. A quanto ci venne detto, gli avevano dato un nome non molto fantasioso: vaasarhund, che nella lingua locale - la stessa per tutt'e sei i Regni della Ruota -significava 'cane acquatico'. Naturalmente, fin dal mio arrivo su quel mondo parlavo perfettamente quella lingua: assai meglio di von Bek, anche se era legata al ceppo delle lingue germaniche. Era una mescolanza di alto tedesco, olandese, e anche di inglese e di norreno, e ricordai quanto mi aveva detto il capitano cieco, ossia che quel gruppo di mondi aveva stretti legami con la terra dove ero vissuto con il nome di John Daker. I cani acquatici amavano giocare come le nostre foche e seguivano la nave a distanza di sicurezza quando essa entrava in qualche tratto di palude più profondo (comunque, senza mai perdere il contatto tra i rulli e il fondo), latravano verso di noi e saltavano fuori dell'acqua per cogliere le briciole che venivano gettate loro dalla nave. Quella mattina scoprii molto presto che la nave stessa e le persone che vi vivevano non avevano nulla di intrinsecamente sinistro o minaccioso, anche se l'attuale signore e i suoi fustieri erano straordinariamente odiosi. Tutti si erano rassegnati a vivere tra la fuliggine dei fumaioli ed erano abituati al puzzo del luogo, ma parevano abbastanza allegri e amichevoli, una volta assicuratisi che non intendevamo fare loro del male e che non eravamo Vermi di Palude: un termine generico, scoprimmo, per indicare le persone che non avevano una loro nave-città, o erano stati esiliati per qualche crimine o avevano scelto di vivere a terra. Alcuni di quei fuorilegge si riunivano in bande e attaccavano le navi, se ne avevano l'occasione, o ne rapivano qualche abitante, ma neanch'essi, a parer mio, erano tutti malvagi o meritavano di essere uccisi. Venimmo a sapere che era stato il baron-capitano Armiad a stabilire che tutti gli abitanti della terraferma fossero uccisi e che i loro corpi finissero nel focolare della nave. «Col risultato» ci disse una donna intenta a ripulire la pelle di un animale «che nessun abitante della terraferma vuole più commerciare con lo Scudo Corrucciato, ormai. Siamo costretti a prendere quel che possiamo dall'ancoraggio e a dipendere da quel che i Fustieri recuperano dai Vermi
di Palude.» Si strinse nelle spalle. «Ma sono le nuove regole.» Scoprimmo che il modo più rapido per andare da una parte all'altra della città consisteva nell'usare le passatoie tra gli alberi. In questo modo si evitavano i corridoi e i passaggi tortuosi che attraversavano i vari ponti e tra cui era facile perdersi. Ogni albero aveva la sua scala fissa, circondata da una sorta di gabbia che permetteva di tenere meglio la presa e che impediva di precipitare sugli edifici sottostanti. In seguito incontrammo un gruppo di giovani, uomini e donne, evidentemente appartenenti a qualche sorta di nobiltà, anche se vestiti abbastanza male e non molto più puliti dei popolani. Vennero a trovarci quando ci videro passare su uno dei castelli, mentre andavamo a vedere la poppa della nave e i suoi mostruosi timoni, che erano usati per frenare e per cambiare rotta e che scavavano profondi solchi nel fango. Una giovane donna dallo sguardo intelligente, di una ventina di anni, che portava un vecchio abito di cuoio simile a quello di von Bek, fu la prima a prendere la parola. «Sono Bellanda naam Folfag ig Fornster» si presentò, togliendosi il cappello e portandoselo sul cuore. «Volevamo congratularci con voi per il vostro combattimento con Mopher Gorb e i suoi raccoglitori. Si sono un po' troppo abituati a dare la caccia a esiliati mezzo morti di fame. Speriamo che imparino la lezione da quel che è successo ieri, anche se non credo che quella gente sia capace di imparare qualcosa.» Ci presentò i suoi due fratelli e i loro amici. «Voi tutti avete l'aria di studenti» commentò von Bek. «C'è una scuola, qui a bordo?» «Sì, c'è» rispose la giovane «e quando è aperta noi la frequentiamo. Ma da quando il nostro nuovo baron-capitano ha preso il potere, lo studio non viene molto incoraggiato. Armiad disprezza cordialmente quelle che secondo lui sono attività decadenti. Negli scorsi tre anni ha cercato di scoraggiare in tutti i modi gli artisti e gli intellettuali, e il nostro scafo viene virtualmente messo al bando da tutti gli altri. Coloro che potevano lasciare lo Scudo Corrucciato, che avevano qualche capacità o qualche conoscenza da offrire alle altre navi, se ne sono già andati. Ma noi abbiamo solo la nostra gioventù e la nostra ansia di imparare. Abbiamo scarse speranze di cambiare scafo, almeno per qualche anno. Nella storia della nostra nave ci sono stati peggiori tiranni, peggiori guerrafondai, peggiori imbecilli, ma è sgradevole essere presi in giro da tutto il regno e sapere che nessuna persona di un'altra nave sarebbe disposta a sposarti, o anche solo a farsi vedere con te. Solo all'Adunanza riusciamo a stabilire una sorta di comunica-
zione, ma si tratta di occasioni ufficiali e di periodi troppo brevi.» «E se lasciaste del tutto la nave?...» cominciò von Bek. «Proprio così. Vermi di palude. Possiamo solo augurarci che l'attuale baron-capitano caschi in mezzo ai rulli o trovi presto la morte in qualche altro modo! Quell'uomo appartiene alla peggiore specie di arrivisti.» «Il titolo non è ereditario?» chiesi io. «Sì, in genere. Ma Armiad ha deposto il nostro vecchio signore. Armiad era l'intendente del baron-capitano Nedau e, come spesso avviene quando il comandante diventa vecchio senza avere figli, l'amministratore ha finito per assumere su di sé gran parte del comando. Noi eravamo pronti a eleggere un nuovo baron-capitano tra i famigliari di Nedau. Era parente di mia madre, per esempio, dalla parte dei Fornster. Oppure lo zio di Arbrek...» Ci indicò Arbrek, un giovane dai capelli rossi, talmente timido che ora la sua faccia aveva assunto il colore della capigliatura, e proseguì: «Un nobile dei Rendep che aveva un vecchio Legame di Rima con il capitano. Oppure il Doowreshi dei Santi Monicani, che era il suo parente più prossimo, anche se da qualche anno aveva fatto voto di castità, in clausura, e si era dedicato ai suoi studi. Tutti costoro erano legittimi candidati. Poi, a causa della sua leggerezza di testa (non poteva trattarsi d'altro) il nostro baroncapitano ha chiesto un Duello di Sangue.» Vedendo che non conoscevamo quell'uso, ci spiegò: «Si tratta di un rituale che non è più stato praticato dall'epoca della Guerra tra Scafi, tanti anni fa. Ma è ancora scritto sul Palo delle Leggi e occorre rispettarlo. Quanto poi al motivo che ha convinto Nedau a sfidare Armiad, non l'abbiamo mai scoperto, ma pensiamo che sia stato quest'ultimo a spingerlo, o con qualche insulto, o minacciando di rivelare qualche segreto.» Fece una smorfia di disgusto. «Quale che sia la causa, Armiad ha accettato il Duello di Sangue, naturalmente, e i due si sono affrontati sulla passerella volante, quella che collega i due alberi di mezzana. Abbiamo guardato dal basso, come vuole una tradizione che nessuna persona oggi vivente ricordava più, e anche se il fumo di un comignolo ha oscurato la conclusione della lotta, non c'è dubbio che Nedau fosse stato pugnalato al cuore prima di cadere nella piazza del mercato, precipitando da un'altezza di trenta e più braccia. E così, grazie a una vecchia legge che non è mai stata cambiata, il nostro nuovo baron-capitano è un tiranno volgare e ignorante.» Von Bek commentò: «Conosco anch'io quel genere di tiranni. Ma vi ritenete al sicuro, nel fare questi discorsi a voce alta e in pubblico?»
«Forse no» ammise la ragazza «ma so che è un vigliacco. Inoltre è preoccupato del fatto che gli altri baron-capitani non vogliono avere alcun rapporto con lui. Non lo invitano ad alcuna cerimonia, non vengono in visita sulla nostra nave. Non prendiamo più parte alle riunioni delle navi. La sola cosa che ci resta è l'Adunanza annuale, quando tutti devono radunarsi e non sono ammessi litigi. Ma anche allora le altre navi si limitano a quel minimo di contatti richiesto dalle buone maniere.» Proseguì: «Lo Scudo Corrucciato ha adesso la nomea di essere una nave di barbari, come ne esistevano solo nel più lontano passato, prima ancora della Guerra degli Scafi. Ecco il risultato ottenuto da Armiad facendo appello a quell'antica legge. O con l'assassinio del suo padrone, diciamo noi. Ma se dovesse commettere altri crimini contro la sua gente - per esempio, far tacere i parenti del vecchio baron-capitano, come noi - perderebbe la sua sola possibilità di farsi accettare nel gruppo degli altri capitani.» Gli altri annuirono; lei continuò: «I suoi sforzi di guadagnarsi la loro simpatia sono altrettanto ridicoli quanto sono volgari e disgustosi i suoi piani e le sue macchinazioni. Ogni volta che tenta di guadagnarli a sé, con doni, prove di coraggio, o con esempi della propria fermezza, come la sua particolare politica nei riguardi dei Vermi di Palude, riesce soltanto ad allontanarli maggiormente.» Bellanda sorrise. «È uno dei pochi divertimenti che ancora ci restino a bordo dello Scudo Corrucciato.» «E non c'è modo di deporlo?» chiesi. «No, principe Flamadin. Solo un baron-capitano può chiedere un Duello di Sangue.» «Gli altri baron-capitani non possono aiutarvi a eliminarlo?» volle sapere von Bek. «No, glielo proibisce la legge. Fa parte della Grande Tregua, quando è finalmente cessata la Guerra degli Scafi. È proibito interferire negli affari interni di un'altra nave-città» spiegò Arbrek, balbettando per l'emozione. «Noi tutti andiamo fieri di quella legge, ma questa volta non favorisce lo Scudo Corrucciato...» «Adesso capite» concluse Bellanda con un leggero sorriso «perché Armiad coltiva la vostra amicizia? Abbiamo sentito dire che vi ha fatto le feste come un cane, principe Flamadin.» «Ammetto che non è stata la più gradevole esperienza fra tutte quelle che ho conosciuto» ammisi. «Perché fa così, visto che non sente il dovere di comportarsi in modo civile con la sua gente?» «È convinto di essere il più forte. Però, voi siete più forte di lui, nel suo
modo di vedere le cose. Ma la vera ragione che lo spinge a volere la vostra amicizia, secondo me, è da cercare nel suo desiderio di impressionare gli altri baron-capitani in occasione dell'Adunanza. Se avrà al suo fianco il famoso principe Flamadin del Valadek quando arriva all'Isola delle Adunanze, pensa di poter essere accettato da tutti.» Von Bek era alquanto divertito. Scoppiò a ridere. «Ed è il solo motivo?» «Il principale, almeno» rispose la donna, ridendo a sua volta. «È una persona semplice, vero?» «Più sono semplici, più possono essere pericolosi» intervenni io. «Vorrei poter fare qualcosa per voi, Bellanda, liberandovi di questa tirannia.» «Possiamo solo augurarci che gli succeda presto qualche incidente» concluse lei. Parlava senza preoccupazioni. Chiaramente nessuno di quei giovani intendeva davvero contribuire ad aumentare il numero di omicidi commessi sulla loro nave. Ero lieto che Bellanda mi avesse riferito quei particolari illuminanti. Decisi di approfittare ulteriormente del suo aiuto. «Ieri sera» le dissi «ho saputo da Armiad che sono considerato come una sorta di eroe popolare, almeno da una parte della popolazione. Ha citato alcune avventure che non mi sono del tutto familiari. Sapete che cosa intendesse dire?» Lei tornò a ridere. «Voi dovete essere molto modesto, principe Flamadin. O fingete di esserlo, ma in modo assai abile e affascinante. Saprete certamente che nel Maaschanheem, e anche negli altri Regni, ne sono certa, le vostre avventure vengono raccontate da ogni cantastorie della piazza del mercato. In tutto il Maaschanheem circolano libri, non tutti stampati nelle nostre navi da stampa, che pretendono di descrivere come abbiate sconfitto quel certo orco o come abbiate salvato quell'altra fanciulla. Non mi direte di non averli mai visti!» «Ecco» disse uno dei più giovani, mostrandomi un fascicolo dalla copertina colorata che mi richiamò alla mente i romanzi popolari del primo Ottocento. «Vedete? Volevo chiedervi di firmarlo, signore.» Von Bek disse piano: «Mi avevi detto di essere un eroe nelle tue precedenti incarnazioni, Herr Daker, e adesso ne ho anche la prova!» Con mio grande imbarazzo prese il libro che il ragazzo gli porgeva e gli diede un'occhiata mentre me lo passava. Scorsi un'incisione che mi ritraeva in sella a una creatura simile a una lucertola: levando in alto la spada, mi lanciavo all'assalto di un animale che sembrava un incrocio tra un cane acquatico e un grosso babbuino. In sella, dietro di me, sedeva una giovane donna dall'aria atterrita e in alto, sul disegno stesso, come nei pulp
magazine a me familiari, c'era il titolo: «Il principe Flamadin, Campione dei Sei mondi». All'interno, in una prosa dalle forti tinte, c'era una storia -chiaramente di fantasia - in cui si descrivevano le mie coraggiose imprese, i miei nobilissimi sentimenti, la mia straordinaria bellezza e così via. Ero stupito e imbarazzato, ma mi scoprii a firmare Flamadin con uno svolazzo, prima di restituire il volumetto. L'avevo fatto meccanicamente. Forse, dopotutto, ero davvero io. La mia reazione era quella familiare, così come trovavo familiare scrivere e leggere nella lingua del luogo. Sospirai. Nonostante le mie esperienze, non avevo mai incontrato nulla di così comune e di così straordinario nello stesso tempo. In quel mondo ero una specie di eroe, ma un eroe le cui imprese erano state del tutto romanzate. Come era successo a Jesse James, Buffalo Bill o, in misura minore, alle celebrità sportive o musicali del ventesimo secolo! Von Bek parve leggermi nel pensiero. «Non sapevo di avere fatto amicizia con una persona della fama di Arsenio Lupin o di Sherlock Holmes» commentò. «È la verità?» chiese il ragazzo. «È difficile credere che abbiate compiuto tante imprese, signore, e che siate ancora abbastanza giovane!» «La verità la lascio decidere a te» gli risposi. «Oserei dire, comunque, che in quel libro c'è un grosso lavoro di abbellimento.» «Be'» intervenne Bellanda, con un largo sorriso. «Per me, sono pronta a credere ogni parola. Circolano chiacchiere in cui si dice che il vero potere lo ha vostra sorella, che voi non fate altro che prestare il vostro nome agli scrittori di storie sensazionali. Ma ora che vi ho conosciuto, principe Flamadin, posso dire che siete un eroe dalla cima dei capelli alle piante dei piedi!» «Siete molto gentile» le risposi con un inchino «ma sono certo che anche mia sorella meriti molta fiducia.» «La principessa Sharadim? Non ha mai voluto che il suo nome comparisse in quelle pagine, a quanto si sa.» «Sharadim?» Di nuovo quel nome! Eppure, il giorno prima, era stata descritta come la mia fidanzata. «Sì...» Bellanda mi guardò con stupore. «Ho detto qualcosa che non avrei dovuto dire, principe Flamadin, ridendo e scherzando?» «No, no. Il nome Sharadim è molto comune nella mia terra?» Solo dopo averla rivolta, mi accorsi di quanto fosse sciocca la domanda. La giovane era sempre più confusa.
«Non riesco a seguirvi, signore...» Ancora una volta venni salvato da von Bek. «Credevo che la principessa Sharadim fosse la promessa sposa del principe.» «È come dite, signore» confermò Bellanda. «Ed è anche sua sorella. Si tratta di una tradizione del vostro regno, vero?» Era ancor più confusa. «Se ho ripetuto uno stupido pettegolezzo o se ho dato eccessivamente retta a quei romanzi, vi chiedo scusa...» Mi ripresi quanto bastava per risponderle: «Oh, non c'è nulla di cui dobbiate scusarvi...» Mi avvicinai alla balaustra della torretta e mi appoggiai a essa. Il vento che soffiava dal basso cacciò via il fumo e mi rinfrescò i polmoni e la pelle, mi schiarì la mente. «Sono stanco. A volte dimentico le cose...» «Andiamo» mi disse von Bek, rivolgendo qualche parola di scusa ai giovani. «Ti riaccompagno nella cabina. Un'ora di riposo ti farà sentire meglio.» Mi lasciai condurre via, mentre gli studenti ci guardavano con aria assai perplessa. Al nostro ritorno alla cabina, trovammo un messaggero ad attenderci pazientemente davanti alla porta. «Miei signori» ci disse «il baron-capitano vi porge i suoi rispetti. Vi attende a pranzo, all'ora che farà comodo a voi.» «Significa che dobbiamo unirci a lui non appena possibile?» gli chiese von Bek. «Se non vi dà incomodo, signore.» Entrammo nella cabina e mi lasciai cadere pesantemente nella mia cuccetta. «Mi devi perdonare, von Bek. Quelle rivelazioni non dovrebbero colpirmi tanto. Se non fosse stato per quei sogni... per quelle donne che mi chiamavano Sharadim...» «Credo di capire» annuì lui. «Tuttavia dovresti cercare di resistere. Non dobbiamo inimicarci questa gente. Almeno, non così presto. Credo che gli intellettuali siano curiosi di sapere se sei davvero l'eroe descritto da quei libri. Probabilmente circola la voce che il principe Flamadin sia soltanto una marionetta in mano altrui. Non ti ha dato quell'impressione?» Annuii. «Forse è per quel motivo che chiamano Sharadim.» «Non sono certo d'avere capito.» «Fa pensare che sia lei a detenere il vero potere e che suo fratello - e suo promesso sposo - sia solo un impostore. Forse le conviene che il fratello sia una leggenda vivente, un eroe popolare. Situazioni del genere si sono viste anche nel nostro mondo.»
«Non avevo pensato a questo aspetto, ma è effettivamente possibile» annuì von Bek. «Significa che tu e Flamadin del Valadek non siete necessariamente la stessa persona?» «Il guscio cambia, von Bek. Quelli che rimangono inalterati sono lo spirito e il carattere. Non è la prima volta che mi incarno nel corpo di un eroe che poi risulta assai diverso dalle aspettative generali.» «Se fossi, per così dire, nei tuoi panni» aggiunse von Bek «mi chiederei un'altra cosa, ossia perché sei venuto a trovarti proprio in questo mondo. Pensi di scoprire presto la risposta?» «Amico mio» gli risposi «a questo punto non sono più sicuro di nulla.» Mi alzai e raddrizzai le spalle. «Prepariamoci alle brutte esperienze che dovremo sopportare al pranzo del baron-capitano.» Quando uscimmo dalla cabina, von Bek commentò: «Mi domando se la principessa Sharadim presenzierà all'Adunanza. Confesso che sono sempre più curioso di vederla. E tu?» Mi sforzai di sorridere. «È un incontro che mi spaventa moltissimo, amico mio. Ho il presentimento che ci porterà solo dolore e paura.» Von Bek mi guardò con grande serietà. «Sarei portato a non dare molto peso a questa affermazione» mormorò «se non ti leggessi sulla faccia un terrore così profondo.» QUATTRO Il baron-capitano Armiad voleva chiedermi un favore. Dopo la mia discussione con i giovani studenti, non provai alcuna particolare sorpresa quando alla fine giunse a dirmi quello che voleva: se gli avessi fatto l'onore di accompagnarlo su un'altra nave, poco prima dell'Adunanza. «Le navi non arrivano tutte insieme all'Isola delle Adunanze, ma spesso alcune viaggiano affiancate per parecchie miglia, prima di giungere all'isola stessa. Ormai le vedette più alte hanno avvistato tre altre navi. Dai segnali che inalberano, sono la Ragazza in Verde, la Lama Sicura e la Nuova Discussione, tutte provenienti dagli ancoraggi più lontani. Devono avere tenuto un'ottima media per essere così vicine all'Isola delle Adunanze. È consuetudine dei baron-capitani di farsi visite di cortesia, da una nave all'altra, in momenti come questi, le visite vengono rifiutate soltanto in caso di epidemie a bordo o di qualche altra grande crisi. Vorrei allinearmi alla Nuova Discussione e alzare le bandiere per dirle che vogliamo recarci in visita. A voi e al vostro amico non piacerebbe visitare un'altra nave?»
«Saremo lieti di venire» risposi. Non solo volevo confrontarle tra loro, ma volevo accertarmi di che considerazione godesse il baron-capitano da parte dei suoi colleghi. Da quel che aveva detto, non era possibile impedirgli di salire sull'altra nave. Ed era ovvio che volesse mostrare l'ospite ai suoi colleghi capitani, in modo che la voce si diffondesse prima dell'Adunanza. Con questo sperava di farsi accettare dagli altri o, almeno, di ottenere maggiore prestigio. Chiaramente, le mie parole gli avevano tolto una preoccupazione. I suoi lineamenti da suino si rilassarono. Mi parve quasi sul punto di sorridermi. «Bene. Farò alzare i segnali.» Poco più tardi mormorò qualche parola di scusa e ci lasciò da soli. Continuammo a esplorare la nave e di nuovo finimmo per incontrare Bellanda e i suoi amici, che erano senza dubbio le persone più interessanti da noi conosciute in quel mondo. Ci fecero salire in alto, su un albero della nave, e ci mostrarono il fumo degli altri scafi, in lento avvicinamento tra loro nel tragitto che li portava all'Isola delle Adunanze. Un ragazzo pallido chiamato Jurgin aveva un binocolo e conosceva le insegne di tutte le navi. Ne pronunciò il nome a mano a mano che le riconosceva: «C'è il Vecchio Contratto, che rende conto alla Testa Galleggiante. Ed ecco la Ragazza in Verde, che rende conto alla Brocca Spezzata...» Gli chiesi come facesse a dirlo ed egli mi passò il binocolo. «È semplice, altezza. Le bandiere rappresentano l'oggetto corrispondente alla sagoma dell'ancoraggio sulla mappa, e i nomi sono quelli dell'oggetto rappresentato. Un po' come si fa con le costellazioni. Nella maggior parte dei casi, i nomi degli scafi sono molto antichi e corrispondono a quelli delle navi a vela su cui viaggiavano i nostri lontani antenati. Poi, gradualmente le navi si sono ingrandite fino a diventare le città mobili dove abitiamo oggi.» Grazie al binocolo, dopo qualche istante riuscii a vedere la bandiera che sventolava dal più alto albero della nave accanto a noi. Era un simbolo rosso in campo nero. «Mi sembra una creatura demoniaca» dissi. «Un orco o qualcosa del genere.» Jurgin rise. «È la bandiera dell'ancoraggio dell'Uomo Brutto e perciò lo scafo è la Nuova Discussione, dell'estremo Nord. È quella che andrete a visitare questa sera, vero?» Rimasi colpito dalle sue conoscenze. «Come lo sai? Avete delle spie a corte?» Il giovane scosse la testa e continuò a ridere. «La cosa è molto più sem-
plice, altezza.» Indicò l'albero maestro, sopra di noi, dove un gran numero di bandiere si agitava al debole vento. «È quanto dicono i nostri segnali. E la Nuova Discussione ha risposto con la debita cortesia (e probabilmente con una certa riluttanza, trattandosi del nostro baron-capitano) che siete i benvenuti a bordo, un'ora prima del crepuscolo. La qual cosa» continuò con un sorriso «significa che avrete unicamente un'ora di visita, perché Armiad non ama attraversare la palude di notte. Probabilmente teme la vendetta di tutti i cosiddetti Vermi di Palude che ha gettato nei suoi focolari. Senza dubbio sono pienamente informati di questo suo limite anche sulla Nuova Discussione!» Qualche ora più tardi, io e von Bek accompagnavamo il baron-capitano Armiad naam Sliforg ig Vortan - tutto abbigliato nel suo complesso (e ridicolo) abito ufficiale - in una sorta di zatterone a ruote che veniva spinto da una dozzina di uomini forniti di pali (anch'essi con una livrea rutilante) e che a volte galleggiava, a volte rotolava, sui laghetti e sulle paludi, in direzione della Nuova Discussione, ora giunta assai vicino al nostro Scudo Corrucciato. Con il suo mantello a riquadri e i suoi calzoni rigonfi, l'enorme cappello pencolante, la giubba grottescamente imbottita, Armiad era a malapena in grado di muoversi. A quanto avevo capito, aveva visto il disegno in un vecchio volume illustrato e s'era convinto che fosse la giusta, tradizionale divisa di un baron-capitano. Aveva incontrato una certa difficoltà a scendere nella zattera e doveva tenere con tutt'e due le mani il cappello quando il vento minacciava di portarglielo via. Molto lentamente gli uomini ci spinsero verso l'altro scafo, mentre Armiad gridava loro di fare attenzione, di non fare schizzi nella nostra direzione, di non dare scrolloni alla barca. Vestiti normalmente e privi di armi, noi non avevamo quel genere di problema. La Nuova Discussione era altrettanto ammaccata e rappezzata quanto lo Scudo Corrucciato, e dava l'impressione di essere ancora più vecchia, ma era in condizioni assai migliori della nostra nave. Il fumo che usciva dalle ciminiere non era né giallognolo né oleoso e i fumaioli erano disposti in modo da far cadere sui ponti una minima quantità di cenere. Le bandiere erano molto più pulite (anche se era impossibile che non raccogliessero la fuliggine) e dappertutto la vernice era più fresca. Si notava una certa cura nella manutenzione dello scafo e avevo l'impressione che fosse stata tirata a lucido per l'imminente Adunanza. Mi parve strano che Armiad non preferisse mantenere più pulita la propria nave e non capisse che il suo disor-
dine suggeriva soltanto i limiti della sua intelligenza, il basso morale della sua gente e una decina di altre considerazioni negative. Arrivammo finalmente alla grande mole dell'altra nave, avanzando nell'acqua gelida finché non raggiungemmo la rampa abbassata per noi. Con qualche fatica, gli uomini spinsero la zattera sulla rampa e all'interno della Nuova Discussione io mi guardai attorno con curiosità. L'aspetto generale era quello che conoscevamo già, ma c'era un ordine, un rigore che faceva sembrare la nave di Armiad una vecchia bagnarola in disarmo rispetto a una nave militare. Inoltre, anche se avevano corazze simili a quelle che avevamo visto indossare dagli uomini dello Scudo Corrucciato, gli uomini che ci presentarono le armi erano di gran lunga più puliti e chiaramente avrebbero preferito non dover accogliere a bordo gente come noi. Infatti, anche se io e von Bek ci eravamo lavati da capo a piedi e avevamo chiesto abiti puliti, era bastato il tragitto dalle nostre cabine alla zattera per coprirci si sudiciume. Inoltre non dubitavo che avessimo addosso il puzzo del nostro scafo, anche se ormai c'eravamo assuefatti ad esso. In qualsiasi caso, una cosa era chiara: la gente della Nuova Discussione trovava estremamente ridicolo il vestito di Armiad, esattamente come lo trovavamo ridicolo noi! Capimmo anche un'altra cosa: non era solo lo snobismo a tenere lontano da Armiad gli altri baron-capitani. Del resto, anche se l'avessero fatto per quella ragione, le parole e l'atteggiamento di Armiad avrebbero confermato ogni loro pregiudizio. Anche se pareva non accorgersi dell'impressione che dava, il disagio di Armiad si vedeva perfettamente. Fece offensivi commenti sul gruppo venuto ad accoglierci, mentre ci veniva dato il saluto ufficiale e ci scambiavamo i nomi. Con la quintessenza della pomposità annunciò i nostri, dicendo che ci aveva portato sulla Nuova Discussione in veste di ospiti, e mi parve al settimo cielo quando i padroni di casa mostrarono sorpresa, o addirittura stupore, nel riconoscermi. «Proprio così» disse a tutti. «Il principe Flamadin e il suo compagno hanno scelto il nostro scafo, lo Scudo Corrucciato, per farsi portare fino all'Adunanza. E per tutta la durata dell'incontro la nostra nave sarà il loro quartier generale. E ora, amici miei, portateci dai vostri padroni. Il principe Flamadin non è abituato a perdere tempo con gli inferiori.» Assai imbarazzato da questa mancanza di educazione e desideroso di far capire ai nostri ospiti che non condividevo le osservazioni di Armiad, li
seguii lungo una serie di rampe che portavano ai ponti superiori. Anche lassù c'era una fiorente città, con stradine serpeggianti, scalette, taverne, negozi di cibarie, e perfino un teatro. Von Bek mormorò parole di approvazione, ma Armiad, che veniva tra me e lui, continuò a dire a bassa voce che vedeva segni di decadenza dappertutto. In Inghilterra avevo già incontrato persone che consideravano un segno di decadenza la pulizia personale e che avrebbero trovato una conferma di tale opinione nell'arte e nell'eleganza che parevano fiorire sulla Nuova Discussione. Io, in qualsiasi caso, tentai di conversare con il gruppo di accoglienza, composto di giovani dall'aria abbastanza cortese, ma vidi che avevano qualche esitazione a rispondermi, anche quando lodavo l'ordine e la bellezza della loro nave. Procedendo per una serie di passatoie giungemmo a quello che doveva essere un grosso edificio pubblico. Quest'ultimo non aveva le saracinesche e le altre fortificazioni del palazzo di Armiad; passando sotto un arco a sesto acuto entrammo in una sorta di cortile circondato da un elegante colonnato. Dalla nostra sinistra ora uscì un altro gruppo di uomini e donne, tutti abbastanza anziani. I nuovi venuti indossavano lunghe vesti di velluto scuro, cappelli flosci ornati di una penna d'uccello, ciascuna diversa dall'altra, e guanti di pelle dai colori vivaci. Il viso era nascosto da una maschera di garza: ora se la sfilarono e se la portarono sul cuore, in una variante del gesto che ci aveva rivolto Mopher Gorb quando avevamo ucciso i suoi fustieri. Rimasi molto colpito dalle loro espressioni di grande dignità e mi stupii nel constatare che tutti, meno un uomo e una donna, avessero la pelle scura. Invece, il gruppo che era venuto ad accoglierci all'arrivo era costituito di uomini di pelle bianca. Nonostante si comportassero con educazione impeccabile e ci salutassero con grande decoro, era chiaro che la nostra presenza non era gradita. E, altrettanto chiaramente non facevano molta differenza tra Armiad, me stesso e von Bek (cosa che non mancò di ferire il mio orgoglio, com'è naturale!) Nel complesso, anche se non fecero nulla di intrinsecamente scortese, mi diedero l'impressione di un gruppo di patrizi romani costretti a sopportare la visita di un gruppo di rozzi barbari. «Salute a voi, onorati ospiti dello Scudo Corrucciato. Noi, consiglieri del baron-capitano Denou Praz, Fratello in Rima dei Toirset Laren e nostro Difensore dall'Orso delle Nevi, vi diamo il benvenuto a nome suo e vi preghiamo di unirvi a noi per un piccolo rinfresco nella nostra sala delle accoglienze.»
«Ben lieti, ben lieti» rispose Armiad, con un gesto magniloquente... subito interrotto perché dovette raddrizzarsi il cappello. «Siamo più che onorati di essere vostri ospiti, il principe Flamadin e io.» Anche ora la loro reazione al mio nome fu tutt'altro che entusiasmante, ma la loro autodisciplina era troppo grande e non si permisero alcuna espressione di fastidio. Con un inchino ci condussero verso il colonnato, ci fecero attraversare porte con pannelli di vetri tipo cattedrale, fino a un'elegante sala illuminata da lampade di rame, interamente decorata, anche sul basso soffitto, di scene risalenti al lontano passato della nave e in gran parte legate a viaggi in mezzo a banchi di ghiaccio. Ricordai che la nave veniva dal Nord: evidentemente era abituata a viaggiare nei pressi del Polo (sempre che quella terra possedesse un Polo nel senso in cui lo intendevo io). In fondo al tavolo c'era una sedia tappezzata di broccato. Il suo occupante ora si alzò, si sfilò la mascherina e se la portò sul cuore. Era molto vecchio, aveva un aspetto fragile e parlava con una voce leggermente chioccia. «Baron-capitano Armiad, principe Flamadin, conte Ulrich von Bek» ci salutò «sono il baron-capitano Denou Praz; vi prego, venite avanti e sedete accanto a me.» «Ci siamo già visti un paio di volte, fratello Denou Praz» disse Armiad, in un tono di familiarità assai invadente. «Forse ve ne ricorderete. Alla Conferenza degli Scafi, a bordo dell'Occhio del Leopardo e l'anno scorso sulla Mia Zia Jeroldeen, per il funerale di nostro fratello Grallerif.» «Mi ricordo bene di voi, fratello Armiad. Il vostro scafo è contento?» «Eccezionalmente contento, grazie. E il vostro?» «Grazie, siamo in equilibrio, penso.» Da quelle poche battute era ovvio che Denou Praz intendeva mantenere la conversazione a un livello puramente ufficiale. Armiad, però, proseguì intemeratamente. «Non capita tutti i giorni di avere tra noi un Principe Eletto del Valadek» disse. «No davvero» rispose Denou Praz, senza molto entusiasmo. «Non che, naturalmente, il nostro nobile Flamadin sia ancora Principe Eletto della sua gente.» L'affermazione fu un vero shock per Armiad. Sapevo che Denou Praz l'aveva detto apposta, e che la frase era pericolosamente ai margini della buona educazione comunemente accettata, ma non capii che cosa intendes-
se dire. «Non è più l'Eletto?» chiese il piccolo capitano. «Il nostro buon gentiluomo non ve l'ha detto?» chiese Denou Praz, mentre i consiglieri sedevano a tavola. Tutti gli occhi erano puntati verso di me. Io scossi la testa. «Non comprendo. Forse, baron-capitano Denou Praz, vorrete spiegarvi?» «Se non lo giudicate un atto d'inospitalità...» Anche Denou Praz era stupito. Probabilmente non s'era aspettato che gli rispondessi così. Ma ero rimasto sorpreso dalle sue parole e avevo deciso di correre il rischio e di chiedere direttamente a lui la spiegazione. «La notizia circola da vario tempo. Abbiamo saputo del vostro esilio, ordinato da vostra sorella Sharadim perché vi rifiutavate di sposarla. E che avete lasciato tutte le vostre cariche. Scusatemi, buon signore, ma preferirei non proseguire per non rischiar di violare le leggi dell'ospitalità.» «No, baron-capitano, vi prego di proseguire» gli assicurai. «La vostra storia contribuirà a chiarire molte cose che costituiscono un mistero anche per me.» Mi parve leggermente esitante, come se si inoltrasse su un terreno dove non aveva la certezza delle proprie affermazioni. «La storia prosegue raccontando che la principessa Sharadim ha minacciato di denunciare un vostro crimine - o una serie di inganni - e che avete cercato di ucciderla. Ma anche allora, a quel che si dice, vi avrebbe perdonato se aveste accettato di prendere il posto che vi spettava al suo fianco, come Signori Congiunti del Draachenheem. Ma voi vi siete rifiutato e avete sostenuto che preferivate andare incontro a nuove avventure negli altri Regni.» «Ossia mi sono comportato come un idolo popolare, viziato e pieno di sé» commentai. «E dite che, frustrato nei miei desideri egoistici, ho cercato di uccidere mia sorella?» «È la storia che ci è giunta dal Draachenheem, buon signore. Una dichiarazione, anzi, firmata dalla stessa principessa Sharadim. In base a quel documento, voi non siete più un Principe Eletto, ma un fuorilegge.» «Un fuorilegge!» esclamò Armiad, alzandosi parzialmente dalla sedia. Se non si fosse ricordato del luogo dov'era, forse avrebbe battuto il pugno sul tavolo. «Un fuorilegge! Non mi avete detto nulla di questo, quando siete salito sul mio scafo. Non avete detto nulla del genere quando avete dato il vostro nome al mio Fustiere.» «Il nome che ho dato al vostro fustiere, baron-capitano Armiad, non era
quello di Flamadin. Siete stato voi a nominare Flamadin per primo.» «Ah! Un inganno, un raggiro.» Denou Praz inorridì a una così grave mancanza di cortesia. Sollevò la mano sottile. «Buoni signori!» Anche i consiglieri erano allibiti. Una delle donne che ci avevano accolto si affrettò a dire: «Vi porgiamo le nostre scuse, se abbiamo offeso i nostri ospiti...» «L'offeso» disse Armiad a voce alta, rosso in faccia e ancor più brutto del solito «sono io, ma non accuso voi, buoni consiglieri, e neppure voi, fratello Denou Praz. La mia buona volontà, la mia intelligenza, il mio intero scafo sono stati insultati da questi imbroglioni. Avrebbero dovuto spiegarmi perché si trovavano sul nostro ancoraggio!» «La notizia ha avuto ampia diffusione» osservò Denou Praz. «E non mi sembra che il buon signore Flamadin abbia tentato di ingannare qualcuno. Dopotutto, è stato egli stesso a chiedermi di riferire la sostanza di quei rapporti. Se li avesse conosciuti o se avesse voluto mantenere il segreto, perché comportarsi così?» «Vi chiedo scusa, signore» dissi allora, rivolto ad Armiad. «Io e il mio compagno non intendevamo recare biasimo al vostro scafo, né fingere di essere più di quel che abbiamo detto inizialmente.» «Io ero all'oscuro di tutto!» ruggì Armiad. «Ma i giornali...» disse tranquillamente una delle donne. «Su tutti, nessuno escluso, c'erano lunghi articoli.» «Non lascio che quell'immondizia entri nel mio scafo» rispose Armiad. «È deleteria per la morale.» Ora capii perché una storia conosciuta in tutto il Maaschanheem non avesse raggiunto l'orecchio di un filisteo come Armiad. «Siete un imbroglione!» mi gridò. I suoi occhi mandavano fiamme; si guardò attorno con aria truce, aggrottando le sopracciglia; poi, comprendendo che riusciva soltanto a guadagnarsi la disapprovazione dei presenti, si sforzò di tenere la bocca chiusa. «Questi buoni signori sono vostri ospiti, comunque» intervenne Denou Praz, ravviandosi con mano delicata il pizzetto bianco. «Almeno fino all'Adunanza, siete tenuto a estendere loro la vostra ospitalità.» Armiad espirò rumorosamente. Scattò nuovamente in piedi. «La legge non prevede deroghe? Non posso dire che mi hanno fornito nomi falsi?» «Siete stato voi a chiamare Flamadin questo buon gentiluomo?» chiese un vecchio che sedeva in fondo alla tavola.
«L'ho riconosciuto. Non è quel che avrebbe fatto chiunque?» «Non avete atteso che dichiarasse il suo nome, ma siete stato voi a darglielo. Ciò significa che non ha ottenuto asilo sul vostro scafo con un inganno deliberato. Pare che la colpa sia da attribuire a un autoinganno, perciò.» «Ossia sostenete che la colpa è mia.» Il consigliere tacque. Armiad sbuffò e divenne ancor più rosso in faccia. Mi fissò con ira. «Avreste dovuto dirmi che non siete più Principe Eletto, che siete un criminale, ricercato nel vostro stesso regno. Un Verme di Palude, insomma!» «Per favore, buoni signori!» Il baron-capitano sollevò la mano sottile, dalla pelle bruna. «Non è il giusto comportamento di un ospite...» Armiad, nel suo disperato desiderio di farsi accettare dai suoi pari, cercò di dominarsi. «Siete i benvenuti sulla mia nave» ci disse «finché l'Adunanza non sarà terminata.» Poi si volse a Denou Praz. «Perdonate questa infrazione dell'etichetta, fratello Denou Praz. Se avessi saputo che cosa portavo sulla vostra nave, credetemi, non mi sarei mai...» La donna di prima lo interruppe. «Queste scuse non sono richieste» disse «né rientrano nella nostra tradizionale etichetta. Ci siamo scambiati i nomi e abbiamo assicurato l'ospitalità, e questo è tutto, vi supplico di ricordarlo.» Il resto dell'incontro si svolse in un'atmosfera molto tesa, a dire poco. Io e von Bek ci guardammo senza riuscire a parlare, mentre Armiad continuava a sbuffare e a brontolare e rispondeva in tono scorbutico alle frasi cerimoniali che il baron-capitano e il suo Consiglio gli rivolgevano. Il piccolo capitano pareva indeciso. Non aveva alcuna voglia di rimanere in un luogo dove aveva subito quella che gli pareva una grave umiliazione, ma ancor minore era la sua voglia di portarci via con sé. Alla fine, però, quando vide che cominciava a farsi buio, ci fece segno di alzarci. Rivolse un inchino a Denou Praz e si sforzò di ringraziarlo per l'ospitalità, scusandosi per la tensione da lui portata. Von Bek e io mormorammo qualche breve frase di saluto, e il baroncapitano Denou Praz ci disse con cortesia: «Non sono abituato a giudicare le persone in base a quel che i giornali dicono di loro. La mia opinione è che non abbiate mai cercato la precedente fama che nell'immaginazione popolare vi ha fatto diventare un eroe e che ora, proprio perché avete impersonato la parte di quanto vi era di più coraggioso e di nobile, diate un'impressione più negativa del dovuto. Spero che perdoniate l'infrazione
della buona cortesia che mi ha indotto a dare un giudizio su di voi, mio buon signore, senza conoscervi e senza conoscere la vostra storia.» «Non c'è bisogno di scuse, baron-capitano. Vi ringrazio della gentilezza e dell'ospitalità. Se dovessi mai ritornare sulla vostra nave, mi auguro di poterlo fare dopo essermi dimostrato degno di posare i piedi sui ponti della Nuova Discussione.» «Belle chiacchiere» brontolò Armiad, mentre venivamo accompagnati lungo i ponti e le passatoie oscillanti fino al punto dove ci attendeva la zattera che doveva riportarci allo Scudo Corrucciato. «Da un uomo che ha tentato di uccidere la propria sorella! E per quale motivo? Perché intendeva rivelare a tutti la sua vera natura! Siete un imbroglione e un malfattore. Vi avverto, non sarete più il benvenuto a bordo della nostra nave una volta conclusasi l'Adunanza. A quel punto deciderete voi se rischiare la vita negli ancoraggi o se scegliere una nave cui rendere conto, entro le venti ore. Sempre che una nave vi accetti, cosa di cui dubito. Potete considerarvi già morti, tutt'e due.» La zattera scese lungo la rampa ed entrò nella palude. Era quasi notte e soffiava un vento gelido che faceva frusciare i canneti. Armiad rabbrividì. «Più in fretta, poltroni!» esclamò colpendo col pugno l'uomo più vicino a lui. «Voi due» tornò a rivolgersi a noi «non abuserete dell'ospitalità di alcuna altra nave. Prima di domani, quando comincerà l'Adunanza, tutti sapranno di voi. Potete giudicarvi fortunati che all'Adunanza non sia permesso alcun versamento di sangue, neppure quello di un insetto. Vi sfiderei io stesso, se vi giudicassi degni di una sfida...» «Un Duello di Sangue, mio signor barone?» chiese von Bek, incapace di resistere a quella frecciata. Pareva divertito dall'intera faccenda. «Intendete sfidare a duello il principe Flamadin? Mi pareva che fosse un diritto di un baron-capitano, vero?» A quelle parole, Armiad gli lanciò un'occhiata così feroce da poter dare fuoco alla palude. «Frenate la lingua, conte von Bek. Non so che crimini abbiate commesso, ma sono certo che verranno alla luce. Anche voi sarete punito dei vostri inganni!» Von Bek mormorò, rivolto verso di me: «È ben vero quanto si dice, ossia che niente fa infuriare un uomo quanto la scoperta di essersi ingannato da sé.» Armiad lo udì. «Vi sono limiti alla tradizionale ospitalità, conte von Bek» ci ammonì. «Se doveste infrangerli mi sarebbe permesso, in base alla legge, di mandarvi in esilio o di assegnarvi punizioni peggiori. Dipendesse
da me, vi impiccherei a un pennone. Ringraziate della loro intercessione quei vecchi deboli e decadenti della Nuova Discussione e gli altri come loro. Per vostra fortuna io rispetto la legge. Mentre voi, evidentemente, no.» Non badai al resto. Ero intento a riflettere, e cominciavo a capire perché il principe Flamadin si fosse ritrovato, tutto solo, nel bel mezzo del Maaschanheem. Ma perché si era rifiutato di sposare la sorella, dato che era quanto ci si aspettava da lui? E aveva davvero cercato di ucciderla? Ed era davvero un bugiardo e un traditore, e Sharadim aveva minacciato di denunciarlo? Se la cosa era vera, era comprensibile che tutti si fossero voltati contro di lui. La gente finiva per odiare i propri eroi, se scopriva in loro qualche normale debolezza umana! A malincuore, Armiad ci permise di ritornare con lui al suo palazzo. «Ma fate attenzione» ci avvisò. «La minima infrazione della legge da parte vostra, e avrò la scusa che mi occorre per cacciarvi via...» Ritornammo nelle nostre cabine. Quando fummo nelle mie stanze, von Bek si concesse finalmente una risata. «Il povero baron-capitano pensava di guadagnare prestigio dalla tua presenza e ha scoperto di avere fatto un'altra figuraccia con i suoi colleghi! Oh, come gli piacerebbe tagliarci la gola! Questa sera metterò la sbarra alla porta, prima di andare a dormire. Non vorrei prendere aria e morire di raffreddore!» Io non riuscivo a ridere, soprattutto perché mi rimanevano ancora da risolvere parecchi misteri. Mi ero giudicato fortunato a possedere autorità e prestigio in quel mondo, ma adesso mi erano stati tolti. E se la vera forza del Draachenheem era mia sorella Sharadim, perché ero stato evocato in quel corpo? Non avevo mai provato niente di simile. Chiunque fossero quelle donne, chiamavano Sharadim, la mia gemella forse perché sapevano che la vera forza era la sua e io ero solo un mentitore che aveva prestato il suo nome a una serie di pubblicazioni sensazionalistiche. La spiegazione era logica e credibile. Eppure il Cavaliere in Nero e Giallo e il capitano cieco sostenevano la necessità che il Campione Eterno si recasse in quel regno. Feci del mio meglio per allontanare dalla mente quelle domande e cercai di considerare i problemi più immediati. «I costumi locali» ricordai «ci permettono di rimanere qui per tutto il tempo dell'Adunanza. Poi saremo dei fuorilegge... preda designata dei fustieri di Armiad. Riassumendo, è questa la situazione?» «È come era parso anche a me» confermò von Bek. «Il baron-capitano
pareva convinto che nessuno ci avrebbe assunto. Non che sia molto desideroso di guadagnarmi il passaggio con il lavoro, su una di queste navi.» Mentre parlava, la cabina diede un forte scrollone e per poco non finimmo contro la parete. Lo Scudo Corrucciato era di nuovo in moto. «Che possibilità abbiamo» continuò von Bek «di passare in un altro Regno? Mi pareva che la cosa non fosse difficile, nelle Terre di Mezzo.» «La migliore soluzione» riflettei «consiste nel rimanere qui e aspettare che finisca l'Adunanza. Allora sapremo chi ancora si fida del principe Flamadin, chi non crede alle parole di sua sorella Sharadim e chi sinceramente mi odia.» «La mia impressione è che al momento non troverai molti amici. O tu come principe Flamadin - sei responsabile di quei crimini, oppure sei vittima di un'efficiente propaganda. So cosa si prova a diventare un bandito da un giorno all'altro. Hitler e Goebbels sono dei veri maestri, in quest'arte. D'altra parte, una volta presenti all'Adunanza potrebbe essere possibile dimostrare che non sei colpevole di quanto ti accusano.» «Da dove potrei cominciare?» «Non lo sapremo fino a domani. Intanto è consigliabile rimanere dove siamo. Hai notato che al mio arrivo ho suonato per chiamare un cameriere?» «E non ne è arrivato nessuno» conclusi io. «A quanto pare, riceveremo solo il minimo possibile di ospitalità, da parte di Armiad.» Nessuno di noi aveva fame. Ci ripulimmo come meglio possibile e ci ritirammo nelle nostre cuccette. Sapevo di dover riposare, ma gli incubi erano particolarmente forti. Le voci continuavano a chiamare il nome di Sharadim. Mi davano un vero tormento. E poi, a mano a mano che sprofondavo in quel particolare sogno, cominciai a distinguere meglio le donne che invocavano la mia sorella gemella. Erano alte e straordinariamente belle, sia nel viso sia nel corpo. Avevano le figure snelle, flessuose, che conoscevo bene, il mento appuntito, gli alti zigomi e i grandi occhi a mandorla, le orecchie delicate i capelli sottili delle donne eldren. I loro costumi erano diversi da quelli che conoscevo, ma questa era la sola differenza. Le donne che formavano un cerchio attorno al fuoco dalle fiamme bianchissime, e le cui voci riempivano l'oscurità, appartenevano senza dubbio agli Eldren. Erano della razza che a volte era chiamata Vadhagh, a volte Melnibonei. Una razza che era cugina prima del popolo di John Daker. Come Campione Eterno ero appartenuto a entrambe. Come Erekosë avevo amato una donna delle loro.
Poi, all'improvviso, quando le fiamme bianche si abbassarono e potei vedere meglio ciò che si trovava dietro di esse, mi sentii tremare di estasi e paura insieme . Gridai, tesi le braccia, ansioso di accarezzare il volto che avevo infine riconosciuto. «Ermizhad!» esclamai. «Oh, amore mio! Sono qui. Sono qui. Portami da te, al di là delle fiamme! Sono qui!» Ma la donna, che aveva le braccia infilate in quelle delle sorelle, non mi ascoltava, aveva gli occhi chiusi. Continuò a cantare e a ondeggiare, cantare e ondeggiare. E io cominciai a essere assalito dai dubbi. A chiedermi se fosse davvero lei. La mia sola speranza era che fossero gli Eldren a chiamarmi: a chiamare Sharadim confondendola con me. Il fuoco divampò e mi abbagliò e allora la rividi. Fui quasi certo che si trattasse del mio perduto amore. Poi il sogno mi trascinò via da quella visione e mi consegnò a un'altra. Questa volta non avevo idea di quale fosse il mio nome. Vidi un cielo rosso nel quale volavano i draghi, in cerchi lentissimi. Enormi bestie alate, simili a rettili, che parevano obbedire a un gruppo di persone ferme sulle rovine annerite di una città. Io non ero uno di loro, ma le guardavo da un punto posto nel mezzo del gruppo. Anch'esse assomigliavano agli Eldren, anche se i loro costumi erano assai più complessi, quasi ricercati. Anche se non capivo come potessi saperlo, sapevo che erano Eldren di un altro luogo, di un altro tempo. Sembravano preoccupati. Tra loro e le bestie che volavano sulla loro testa c'era un rapporto che trovavo difficile capire, anche se mi pareva di averne un ricordo (o una premonizione, che per uno come me era la stessa cosa). Cercai di parlare a uno dei miei compagni, ma essi non parevano in grado di vedermi. Poco più tardi sentii che mi allontanavo da loro e mi trovai su una pianura priva di orizzonte, coperta di uno strato traslucido che pareva cristallo. Il piano di cristallo cambiò colore, passando dal verde al viola e all'azzurro e di nuovo al verde, come se fosse stato creato da poco e avesse ancora bisogno di stabilizzarsi. Una creatura di sconvolgente bellezza, con la pelle dorata e gli occhi più benevoli che avessi mai avuto occasione di fissare, mi stava parlando. Ma per qualche motivo io ero von Bek. Le parole erano assolutamente prive di significato per me, perché anche questa volta erano rivolte all'individuo sbagliato. Cercai di dire a quella meravigliosa creatura la verità, ma le mie labbra non si mossero. Ero una statua, fatta della stessa sostanza vetrosa e cangiante che costituiva il piano. «Siamo i perduti, siamo gli ultimi, siamo i reietti. Siamo i Guerrieri alla
Fine del Tempo. Siamo i freddi, gli storpi, i sordi, i ciechi. I soldati congelati dal Fato; i veterani di mille guerre vissute nella mente...» Tornai a vedere i guerrieri schierati in formazione sull'orlo di un grande strapiombo, al di sopra di un abisso insondabile. Si rivolgevano a me o parlavano ogni volta che sentivano la presenza di qualcuno che li ascoltava? Vidi anche un uomo che indossava un'armatura nera e gialla, in sella a un grande cavallo da guerra dal pelo nero, sull'altra riva di un fiume dalle acque tumultuose. Lo chiamai, ma non mi udì o preferì ignorarmi. E tuttavia lasciò dietro di sé il proprio nome, sulle ali del vento. Il Cavaliere in Nero e Giallo si chiamava Sepiriz, scoprii ora... Poi, per un istante, tornai a vedere il viso di Ermizhad. Udii per pochi secondi il canto, che adesso echeggiava assai più forte. «Sharadim! Sharadim! Aiutaci, Sharadim! Libera la dragonessa! Libera il drago del fuoco, Sharadim! E libera il nostro popolo!» «Ermizhad!» gridai. Aprii gli occhi e mi accorsi di gridare il suo nome in faccia a un Ulrich von Bek preoccupato e stupito. «Sveglia, amico mio» mi disse. «Penso che siamo arrivati all'Isola delle Adunanze. Vieni a vedere.» Scossi la testa. In me era ancora troppo vivo il ricordo dei sogni. «Non ti senti bene?» mi chiese. «Vuoi che cerchi un dottore? Sempre che abbiano quel tipo di persona su questo disgustoso battello.» Trassi alcuni profondi respiri. «Scusami, non intendevo spaventarti. Ho fatto un sogno.» «Della donna che cerchi? La donna che ami?» «Sì.» «Gridavi il suo nome. Mi dispiace di averti disturbato. Ti lascio solo, in modo che tu possa riprenderti...» «No, von Bek. Ti prego, rimani. In questo momento, la cosa di cui ho maggiormente bisogno è la compagnia di un amico. Sei già stato sul ponte, vero?» «Non riuscivo a dormire a causa dei movimenti della nave. E della puzza. Forse sarò schizzinoso, ma mi ricorda eccessivamente il campo di concentramento dove mi avevano mandato.» Non potei che dargli ragione: ora capivo un po' meglio il suo odio per la nave di Armiad. In poco tempo mi vestii, dopo essermi ripulito come meglio potevo, e
seguii von Bek fino a una galleria che correva a fianco dei nostri appartamenti e che ci permetteva di vedere l'intero lato della nave. Attraverso il fumo, la selva di corde, le bandiere, i camini e le torrette, vidi che eravamo davvero fermi, con la prua verso l'interno, su un isolotto circolare di terraferma, nel cui punto centrale era rizzato un semplice monolito di pietra, simile ad alcuni da me visti in Cornovaglia quando ero John Daker. Le navi già arrivate erano una cinquantina e con le loro grandi masse giganteggiavano sulle piccole figure umane che si muovevano attorno a loro. Continuavano a soffiare vapore dai camini, ma in modo un po' saltuario. Di tanto in tanto uno degli scafi mandava un grande sbuffo e soffiava fumo verso il cielo, facendomi pensare a un gruppo di balene arenate sulla spiaggia, anche se la loro disposizione non era per nulla casuale. Infatti la precisione con cui si erano disposte, la scrupolosa distanza che mantenevano l'una dall'altra erano straordinarie. Gli scafi formavano un semicerchio attorno all'isola. Dall'altro lato c'era un gruppo di vascelli sottili ed eleganti che assomigliavano alle navi greche, con i remi sollevati e relativamente poche vele sugli alberi. Erano meravigliosamente decorati e riccamente ornati di bandiere. Sembravano le navi di rappresentanza di una nazione molto potente. Accanto ad essi c'erano sei scafi più piccoli che a modo loro erano impressionanti come i precedenti. Da poppa a prua erano completamente dipinti di bianco e ogni loro parte era dello stesso colore: alberi, vele, remi... anche la singola bandiera che sventolava in cima all'albero di maestra era bianca, a parte un piccolo simbolo nero ricamato nella parte sinistra: una semplice croce con le punte uncinate. Le successive erano tre navi assai più grandi e massicce, anch'esse a vapore, ma diversissime da ogni altra imbarcazione da me vista. Erano di legno, con alti casseri, boccaporti per i remi o i cannoni, un singolo fumaiolo lungo e piatto nella sezione poppiera e sette od otto piccole ruote a pale su ciascun lato. Dava quasi l'impressione che qualcuno avesse sentito parlare dei battelli fluviali e avesse cercato di realizzarne uno a fantasia, senza preoccuparsi della sua efficienza, ma non ero la persona più adatta a dare quel genere di giudizi: nonostante la loro mole, probabilmente funzionavano in modo perfetto. Fermi accanto ai battelli a pale c'erano numerosi vascelli a forma di disco, ciascuno dei quali pareva ricavato da un unico pezzo di legno (anche se l'albero da cui era stato preso doveva essere enorme) con scalmi su tutta la circonferenza in cui erano infilati lunghi remi di legno. Questi ultimi va-
scelli parevano adatti ad affrontare soltanto qualche piccolo specchio d'acqua interno: evidentemente i loro occupanti non avevano dovuto attraversare alcun oceano per raggiungere l'isola. Per ultimi, tra i navigli del Maaschanheem e le navi-disco, c'era un singolo vascello che pareva l'arca di Noè dei disegni infantili. Era di legno, con poppa e prua appuntite; sul ponte c'era un singolo casamento centrale, di forma semplicissima ma su quattro livelli, con porte e finestre collocate a regolari intervalli ma di disegno elementare, senza alcun tentativo di decorazioni. A incuriosirmi maggiormente, però, fu il fatto che le porte erano molto più grandi di quanto non fosse necessario per esseri umani di normale altezza. Non vi era alcuna bandiera e né io né von Bek capimmo a chi appartenesse. Alcune figure erano scese dalle imbarcazioni, ma erano troppo lontane perché si potessero distinguere i particolari. I passeggeri delle navi bianche erano completamente ricoperti di vesti candide, quelli delle decoratissime galee erano abbigliati con la stessa ricchezza delle loro navi, come c'era da aspettarsi. Coloro che erano scesi dai vascelli discoidali avevano innalzato grandi tende a forma di piramide e - a giudicare dal fumo che si levava da una di esse - erano intenti a cuocere il cibo. Non c'era traccia degli occupanti dell'Arca. Rimpiansi di non avere il binocolo di Jurgin, perché ero curioso di conoscere gli abitanti dei Sei Regni. Mentre ci scambiavamo ipotesi sull'identità delle navi, qualcuno gridò dall'alto: «Divertitevi finché potete, miei signori, perché dopo l'Adunanza il divertimento finirà. Vedremo se un ex principe del Valadek sa correre meglio dei Vermi di Palude!» Era Armiad, incollerito e rosso in faccia. Indossava una veste da mattino rossa e viola, e si sporgeva da un balcone posto sopra di noi, alla nostra destra; stringeva i pugni come se fosse ansioso di distruggerci. Noi gli rivolgemmo un inchino, gli augurammo la buona giornata e rientrammo: avevamo deciso di lasciare la cabina - con la precauzione di portare con noi tutte le nostre proprietà - e di andare a cercare i nostri giovani amici, nella speranza che non disdegnassero la nostra compagnia. Scoprimmo Bellanda e i suoi compagni seduti su un tratto di balaustra e intenti a giocare una sorta di partita a dama. Ci guardarono con sorpresa e, sia pure con riluttanza, si alzarono per salutarci. «Chiaramente, avete saputo le ultime notizie» dissi a Bellanda, nel cui viso, giovane e aggraziato, si scorgeva un leggero imbarazzo. «A quanto
pare, sono passato dal ruolo di eroe a quello di bandito. Ma siete disposta ad accettare la mia parola, almeno per il momento, che non so nulla dei crimini di cui mi accusano?» «Non mi sembrate una persona disposta ad abbandonare tanto facilmente le proprie responsabilità, né a tentare di uccidere una sorella» disse lentamente la giovane. Mi guardò in viso. «E non sareste diventato un eroe popolare se non riusciste a dare un'impressione di onestà. Da un bel viso è difficile distinguere un cuore, diciamo noi dello Scudo Corrucciato. È più facile capirlo da un viso sgraziato...» Si guardò attorno per un istante, poi tornò a fissarmi e continuò dicendo con sincerità: «Perciò, principe Flamadin - o devo dire ex principe? - penso di essere d'accordo con i miei compagni nell'offrirvi il beneficio del dubbio. Dobbiamo fidarci di noi. Meglio che credere alle fantasie dei romanzi popolari o agli editti del nostro buon baron-capitano Armiad!» Rise. «Ma perché vi dovrebbe importare della nostra opinione, eroe o malfattore che siate? Noi non siamo in grado di aiutarvi, e neppure di minacciarvi, qui sullo Scudo Corrucciato. Siamo in una condizione di completa impotenza.» «Credo che il principe Flamadin cerchi soprattutto la vostra amicizia» disse piano Ulrich von Bek. «Infatti, è almeno una conferma del valore di ciò in cui crediamo.» «Ci volete adulare, signor conte?» chiese lei, sorridendo al mio compagno. Ora fu lui a mostrarsi confuso. Guardando fra l'alberatura, scorsi il giovane Jurgin, intento a osservare con il binocolo le altre navi. Scambiai ancora qualche parola con gli altri, poi mi arrampicai sulle sartie fino a sedermi accanto a lui. «C'è qualcosa di particolarmente interessante?» gli chiesi. Il giovane scosse la testa. «Stavo solo osservando con invidia le altre navi. Siamo lo scafo più sporco, più povero e peggio in arnese di tutti. E pensare che un tempo andavamo orgogliosi del nostro aspetto! Però non capisco come faccia, Armiad, a non accorgersi di quel che è successo al nostro scafo dal giorno in cui ha ucciso il vecchio baron-capitano. Che pensava di ottenere, con quella impresa?» «Molte volte» gli risposi «i miserabili pensano che a dare la felicità sia il potere di per se stesso. Cercano di impadronirsi di quel potere, con ogni mezzo, e poi non capiscono perché si sentano altrettanto miserabili come quando hanno iniziato. Armiad ha ucciso per qualcosa che, secondo lui, gli avrebbe portato la felicità; ora forse la sua unica soddisfazione consiste nel
poter rendere infelici anche tutti gli altri e nel non essere il solo a soffrire!» «Mi pare una teoria un po' complessa, principe Flamadin. A proposito, continuiamo a chiamarvi così? Vi ho visto parlare con Bellanda e penso che gli altri abbiano deciso di rimanere vostri amici. Ma se avete rinunciato ai vostri titoli...» «Chiamami Flamadin, se preferisci. Sono venuto a chiederti in prestito il binocolo. Mi hanno particolarmente incuriosito la nave più grossa, quella senza decorazioni, e le persone vestite di bianco. Sai forse chi siano?» «La nave più grande è l'unico vascello di quel genere posseduto dai Principi Orsi. Senza dubbio rimarranno all'interno finché non sarà iniziata l'Adunanza vera e propria. Quanto alle donne vestite di bianco, si dice che siano cannibali. Non sono come gli altri esseri umani. Mettono al mondo soltanto femmine e questo significa che devono comprare o rapire uomini negli altri Regni, per ovvi motivi. Noi le chiamiamo le Donne Fantasma. Sono rivestite da capo a piedi delle loro armature d'avorio e raramente le vediamo in faccia. Fin da bambini ci insegnano a tenerci lontano da loro e dalle loro navi. A volte fanno incursioni negli altri Regni per rapire gli uomini e in tal caso preferiscono prendere i bambini e i più giovani. Naturalmente, durante il tempo dell'Adunanza, prendono solo quello che viene dato loro in scambio. La vostra gente commercia con loro e credo che lo farebbe anche Armiad, se non temesse di incorrere nel più completo ostracismo da parte degli altri baron-capitani. Sono passati molti secoli dall'ultima volta che i nostri scafi hanno fatto commercio di schiavi.» «Allora» commentai io «la mia gente, gli uomini del Draachenheem, fa commercio di esseri umani?» «Non lo sapevate, principe? Pensavamo che lo sapessero tutti. Oppure è un commercio che viene praticato soltanto durante le Adunanze?» «Devi regolarti come soffrissi di mancanze di memoria, Jurgin. Quando si tratta delle faccende interne del Draachenheem, le ignoro al pari di te.» «La cosa peggiore» mi disse Jurgin, porgendomi il binocolo «è che le Donne Fantasma hanno la fama di nutrirsi di carne umana. Sono come le femmine dei ragni: mangiano i maschi non appena il loro compito è terminato.» «Come ragni, hanno un aspetto molto elegante» commentai io, che avevo messo a fuoco un gruppo di quelle donne. Parlavano tra loro e parevano stare scomode nella loro armatura d'avorio che, ora che le vedevo meglio, non era semplicemente bianca, ma aveva tutte le gradazioni di colore possedute dall'avorio, quando viene usato per farci dei soprammobili: dal gial-
lo leggero al marrone chiaro. Le armature erano coperte di figure intagliate che facevano pensare alle sculture orientali. Notai un altro particolare: i vari pezzi erano uniti grazie a spille d'osso e a cinghie di cuoio e si articolavano meravigliosamente in modo da racchiudere l'intero corpo, cosicché quelle donne sembravano eleganti insetti dal carapace bizzarramente istoriato. Erano più alte della media e si muovevano con un'eleganza che le rendeva molto attraenti. Era difficile credere che gente di tale bellezza potesse essere schiavista e cannibale. Due delle donne ora si accostarono per parlare. Una scosse con irritazione la testa, cosicché l'altra fu costretta a ripetere quello che aveva detto; poi, con fastidio, la prima sollevò la visiera. Ora potei vedere in viso quella donna, almeno in parte. Era giovane e straordinariamente bella. Aveva la pelle chiara e gli occhi neri e grandi. Aveva il viso lungo, a forma di cuore, che caratterizzava gli Eldren e, quando si voltò nella mia direzione, per poco non lasciai sfuggire il binocolo. Avevo dinanzi a me il volto di una delle donne che assillavano i miei sogni, che avevano invocato mia sorella Sharadim, che avevano parlato disperatamente di un drago e di una spada... Ma a lasciarmi così scosso fu un'altra cosa: avevo riconosciuto il volto. Era la donna che avevo cercato per tutti gli eoni; la donna che giorno e notte sognavo di riavere con me... Era il volto della mia diletta Ermizhad! CINQUE Ebbi l'impressione di essere rimasto per un tempo infinito a rimirare il volto della mia amata. Non so come riuscissi a rimanere sull'albero senza cadere. Continuavo a ripetere senza sosta il suo nome. Poi, con ansia, cercai di seguirla quando si mosse. La vidi sorridere all'altra donna, scambiare con lei qualche ultima battuta, poi sollevare la mano per chiudere di nuovo la visiera. «No!» gridai; non volevo che nascondesse quel volto bellissimo. «Ermizhad! No! Sono io, Erekosë! Non senti la mia voce? Ti ho cercato per tanto tempo...» Mi parve che qualcuno cercasse di tenermi fermo. Cercai di divincolarmi, ma erano in troppi. Lentamente mi riportarono sul ponte, e qualcuno mi chiese se mi fosse successo qualcosa. Ma io riuscivo solo a ripetere il
nome della mia amata e a cercare di sciogliermi per correre a lei. «Ermizhad!» Sapevo in cuor mio che non si trattava della mia moglie Eldren, ma semplicemente di una donna che le assomigliava. Lo sapevo, ma cercavo di oppormi a quella realtà esattamente come cercavo di oppormi agli amici che mi trattenevano e che mi guardavano con stupore. «Daker! Herr Daker! Che cosa succede? È un'allucinazione?» Il conte von Bek mi teneva ferma la testa e mi guardava in viso. «Ti stai comportando come se fossi impazzito!» Trassi un profondo respiro. Ansimavo. Sudavo. Sentii di odiare tutti coloro che mi trattenevano, ma cercai di riacquistare la calma. «Ho visto una donna che pare la sorella gemella di Ermizhad» spiegai al mio amico. «La stessa donna che mi è apparsa nel sogno di questa notte. Ci deve essere un legame tra le due cose. In ogni caso, so che non può essere lei; non sono impazzito fino a tal punto di credere in una cosa talmente illogica. Ma la sua vista ha fatto risuonare tutte le corde del mio cuore, come se la donna che ho visto fosse veramente la mia Ermizhad. Devo raggiungerla, von Bek. Devo interrogarla.» «Non potete andare» disse Bellanda, dietro di me. «Lo vieta la legge. Gli unici incontri permessi sono quelli ufficiali. L'Adunanza vera e proprio non è ancora iniziata. Dovete aspettare.» «Non posso aspettare» le dissi con semplicità. «Ho già aspettato troppo.» Ma abbandonai ogni resistenza e sentii che non mi trattenevano più. «Nessun'altra creatura potrebbe capire da quante vite la cerco...» I miei compagni annuirono, e io chiusi gli occhi. Poi schiusi leggermente le palpebre. Vedevo dinanzi a me il tragitto che mi avrebbe permesso di raggiungere la riva. Un momento più tardi scattar, raggiunsi la balaustra e la scavalcai, mi afferrai a una delle corde e poi, scivolando e appoggiandomi alle paratie, raggiunsi il ponte inferiore. Mentre alcuni lavoratori mi gridavano di allontanarmi, mi feci strada in mezzo a gruppi di uomini che tiravano funi, ad altri che spingevano barili in direzione dei rulli, ad altri ancora che portavano grosse tavole di legno, del tipo usato per riparare il fasciame. Li ignorai tutti, corsi verso la murata e trovai le corde da cui si calavano coloro che ispezionavano la chiglia. Scivolando lungo una di esse, giunsi su una passerella oscillante, da essa raggiunsi una lunga scala di corda e scesi fino a terra. Poi comincia a correre sull'erba dell'isolotto, verso le navi delle cosiddette Donne Fantasma.
Ero a metà strada, e vedevo già il monolito innalzarsi sopra di me, quando i miei inseguitori (non mi ero accorto di essere inseguito) riuscirono a raggiungermi. All'improvviso fui bloccato da una rete robusta e vidi coloro che la tenevano ferma: von Bek, Bellanda, alcuni degli studenti e un gruppo di fustieri. «Principe Flamadin!» mi chiamò Bellanda. «Armiad cerca solo una scusa per uccidervi. Entrate in un altro accampamento prima dell'Adunanza e la pena potrebbe essere la morte!» «Non m'importa. Devo vedere Ermizhad» risposi. «L'ho vista... lei o qualcuno che può darmi sue notizie. Lasciatemi andare, vi supplico!» Si fece avanti von Bek. «Daker! Amico mio! Questi uomini hanno l'incarico di ucciderti, se necessario. Per fortuna sono disgustati dagli ordini di Armiad, ma saranno costretti a obbedirgli, se non ritornerai in te.» Annuii. Rischiavo di perdere del tutto la ragione. Inoltre facevo correre un rischio a coloro che mi avevano dato la loro amicizia. Mi costrinsi a ricordare le normali decenze umane. Quando mi risollevai avevo ripreso la padronanza di me. Chiesi scusa a tutti. Mi voltai e ritornai alla nostra nave. Visto da terra, quel raduno di vascelli era ancor più impressionante. Pareva che tutti i grandi transatlantici del mondo, compreso il Titanio, si fossero riuniti laggiù, ciascuno ormeggiato con precisione con la prua verso l'isola, ciascuno con un'intera e complessa città medievale sul ponte. La vista delle navi servì ad allontanare la mia attenzione da Ermizhad, per qualche minuto. Sapevo di essere in preda a una sorta di allucinazione continua, a un prolungamento del mio sogno della notte precedente. Eppure, non c'erano dubbi, la donna assomigliava a Ermizhad in ogni particolare, fino alla forma della bocca e alla sfumatura di colore degli occhi. Perciò le Donne Fantasma appartenevano agli Eldren. Eppure non appartenevano allo stesso tempo, e neppure al medesimo mondo da cui ero stato portato via contro la mia volontà. Mi imposi di entrare in contatto con quelle donne non appena mi fosse stato possibile. Forse avrebbero potuto indicarmi dove trovare Ermizhad. E spiegarmi perché invocavano Sharadim. Io e von Bek avevamo fatto bene a portare con noi tutte le nostre proprietà, nel lasciare le nostre cabine. Quando ci presentammo davanti alla saracinesca di Armiad e dicemmo alla guardia di aprirla, nessuno rispose. Dovemmo chiamare altre due volte prima che qualcuno ci rispondesse, e non riuscimmo a distinguere le parole.
«Parlate!» gli gridò von Bek. «Che succede?» Alla fine, dall'altra parte, una guardia ci rispose che la porta era bloccata e che sarebbero occorse parecchie ore per ripararla. Io e von Bek ci scambiammo un'occhiata e sorridemmo. Era la conferma dei nostri sospetti. Armiad non poteva cacciarci via dalla nave, ma faceva del suo meglio per renderci la vita impossibile. Per conto mio ero lieto di essermi liberato della sua compagnia; così facemmo ritorno alla zona dove si riunivano i nostri amici studenti. Alcuni di loro erano presenti, impegnati nel loro eterno gioco di dama. Invece Bellanda, a quanto ci dissero, era andata a lezione da un insegnante che recentemente era stato cacciato dalla loro scuola. Con l'aiuto di Jurgin, il quale pareva ancora ben disposto verso di noi, continuammo a osservare i preparativi dell'Adunanza. Si stavano erigendo, stalli, recinti, tende e altri edifici provvisori. Ciascun gruppo dei Sei Regni aveva portato alcuni beni che voleva scambiare, oltre ad animali domestici, pubblicazioni e attrezzi. La gente del Draachenheem pareva un po' sprezzante nei riguardi degli altri, mentre le Donne Fantasma si tenevano rigorosamente da parte. Uno dei gruppi pareva relativamente abituato a commerciare. Avevano l'aspetto di persone abituate a portare le loro merci in un gran numero di località. Questo pareva evidente dal modo in cui montavano gli stalli, osservavano i vicini, parlavano tra loro. La sola cosa che mi sorprendeva era l'aspetto inefficiente della loro nave, ma forse erano abituati e viaggiare per via di terra, nei loro commerci. Erano mercanti del Fluugensheem: il mondo che, a quanto ci avevano detto, era protetto da un'isola volante. Per gente chiamata in modo così esotico parevano persone fin troppo normali. Non si scorgeva ancora segno di coloro che erano venuti con la strana arca, né degli occupanti dei tre vascelli dalle ruote a pala. «Questa sera» mi spiegò Jurgin «ci sarà la prima cerimonia: quella in cui tutti annunciano la propria presenza e danno i propri nomi. Allora li vedrete tutti, compresi i Principi Orsi.» Non volle aggiungere altro. Quando gli chiesi da dove avessero preso quel nome, si limitò a sorridere. Dato che mi interessavano soltanto coloro che erano chiamate Donne Fantasma, non badai molto alla sua ironia. Non c'è bisogno di dire che né io né von Bek facevano parte di coloro che vennero invitati alla prima cerimonia, ma guardammo dall'alberatura dello Scudo Corrucciato la gente dei Sei Regni che si radunava attorno al monolito. Mi raccontarono che si chiamava la Pietra delle Adunanze e che
era stata innalzata parecchi secoli prima, allorché erano iniziate quelle strane riunioni. Prima di allora, mi spiegò Bellanda, i vari Regni si erano guardati tra loro con paura e superstizione e c'erano state occasionali scaramucce tra loro. Gradualmente, con il crescere della familiarità, avevano trovato quel sistema per commerciare e per scambiarsi informazioni. A quanto ci venne riferito, ogni tredici mesi e mezzo i Sei Regni si intersecavano in modo che da ciascuno di essi si poteva passare negli altri. Il periodo era breve - tre giorni circa - ma era sufficiente per condurre quei commerci, a patto che si seguissero criteri molto rigorosi. Non si poteva perdere tempo in attività estranee a quelle concordate. Ora i pratici mercanti del Fluugensheem presero il loro posto a fianco del monolito. Poi le Donne Fantasma del Gheestenheem si portarono dall'altra parte della Pietra, seguiti poi da sei baron-capitani del Maaschanheem, sei splendidi lord del Draachenheem e - scesi dagli strani battelli a vapore - sei abitanti del Rootsenheem, con guanti di metallo e la parte alta della testa coperta da maschere metalliche. Ma il gruppo che mi stupì maggiormente fu l'ultimo. Il nome di Principi Orsi descriveva esattamente la loro natura. Le cinque grandi, eleganti bestie che uscirono dall'arca e scesero la rampa non erano affatto umane. Erano orsi, più grossi di un grizzly, che indossavano sete fruscianti e plaid dai colori vivaci; ciascuno di loro aveva sulle spalle una sorta di sottile armatura su cui sventolava una bandiera, sospesa sopra la loro testa: senza dubbio l'insegna della famiglia. Von Bek aggrottò la fronte. «Sono stupefatto. Mi sembra di vedere i leggendari fondatori di Berlino! Conosci le nostre leggende... Nella mia famiglia si tramandano storie di bestie intelligenti e io avevo sempre creduto che si trattasse di lupi, ma senza dubbio si trattava di orsi. Hai mai visto qualcosa di simile ai Principi Orsi, Daker?» «Nulla di simile» confermai. Ero assai impressionato dalla loro bellezza. Presto anch'essi erano raggruppati davanti alla Pietra delle Adunanze e dal nostro posto di osservazione riuscimmo a cogliere alcune parole della cerimonia. Ogni persona diede il proprio nome, poi spiegò perché fosse venuta all'Adunanza. Terminato questo, uno dei baron-capitani dichiarò: «A domani!» «A domani!» risposero gli altri. Poi ciascun gruppo, separatamente dagli altri, fece ritorno alla propria nave. Quando le Donne Fantasma avevano annunciato il loro nome, avevo te-
so l'orecchio, ma non avevo udito nulla che assomigliasse, sia pur remotamente, a 'Ermizhad'. Quella notte fummo ospitati dagli studenti e dormimmo nella loro cabina, già affollata prima della nostra venuta, dove continuammo a respirare ceneri, subimmo un vero assedio da parte degli spifferi e rotolammo per tutta la notte a causa di improvvisi sussulti della nave che, anche se non viaggiava, continuava a fremere come una persona dal sonno disturbato. A volte mi pareva che lo Scudo Corrucciato fosse in sintonia con il mio stato di mente. Anche quella notte il mio sonno venne continuamente interrotto dagli incubi. Sentii le Donne Fantasma cantare di nuovo, ma non nei miei sogni: il canto veniva dal loro accampamento. Avrei voluto raggiungerle, ma quando mi alzai con l'intenzione di calarmi di nuovo a terra, von Bek e Jurgin mi afferrarono e mi costrinsero a fermarmi. «Devi avere pazienza» disse von Bek. «Ricorda la promessa che ci hai fatto.» «Ma continuano a chiamare Sharadim» risposi. «Devo sapere che cosa vogliono.» «Vogliono lei, senza dubbio. Non te» mi rispose von Bek, con preoccupazione. «Se te ne andassi ora, Armiad e i suoi uomini ti vedrebbero e si riterrebbero in diritto di ucciderti. Perché correre questo rischio, visto che domani le regole dell'Adunanza ti permetteranno di raggiungerle?» Ammisi che mi stavo comportando stupidamente. Mi costrinsi a tornare a letto e di lì continuai a guardare, attraverso le fessure del soffitto, gli occasionali schizzi di ceneri ardenti, il cielo grigio e umido e cercai di non pensare a Ermizhad e alle Donne Fantasma. Dormii un poco, ma il sonno servì solo a far echeggiare nella mia mente, con maggiore forza, le loro voci. «Non sono Sharadim!» gridai a un certo punto. Era l'alba. Attorno a me gli studenti si stavano svegliando. Bellanda si fece strada in mezzo ai corpi addormentati. «Che cosa succede, Flamadin?» «Non sono Sharadim» le spiegai. «Vogliono che io sia mia sorella. Perché? Non chiamano me. Ossia, chiamano me, ma si servono del nome di mia sorella. È possibile che Sharadim e Flamadin siano la stessa persona?» «Siete gemelli. Ma uno è maschio e l'altra è femmina. È impossibile prendervi per lei...» Bellanda non riusciva a parlare bene; era ancora mezzo addormentata. «Scusatemi. Ho l'impressione di avere detto delle sciocchezze.»
Le posai la mano sulla spalla, per scusarmi. «No, Bellanda, sono io a dovermi scusare. Ultimamente, dico sciocchezze per gran parte del tempo.» Lei sorrise. «Allora, se pensate questo, non potete essere del tutto pazzo. Dite che quelle donne hanno continuato a invocare per tutta la notte la principessa Sharadim? Io non sono riuscita a udirle chiaramente, mi pareva una sorta di incantesimo. Credono che Sharadim sia una creatura sovrannaturale?» «Non lo so. Finora avevo sempre riconosciuto il nome che udivo nel sogni. E rispondevo all'evocazione. Sono stato Urlik Skarsol, poi sono stato molti altri guerrieri, in altrettante incarnazioni, e infine di nuovo Skarsol e adesso Flamadin. Il fatto è, Bellanda, che, nel profondo delle mie ossa, sono sicuro di una cosa: la persona che dovrebbero chiamare sono io e non lei.» Ma, già mentre le dicevo queste parole, anche a me stesso parvero i deliri di un egocentrico, e forse lo erano davvero. Perciò, invece di proseguire, mi strinsi nelle spalle a tornai ad avvolgermi nella coperta. «Più tardi» conclusi «avrò la possibilità di rispondere loro direttamente.» Dormii ancora per un poco, sognando piacevolmente della mia vita con Ermizhad, quando eravamo insieme a capo degli Eldren. Quando mi risvegliai, tutti erano già in piedi. Mi stirai i muscoli e incespicai fino alle toilette pubbliche, dove cercai come meglio possibile di togliermi dalla pelle lo strato oleoso di sudiciume. Quando andai a guardare nuovamente l'Isola delle Adunanze, lo spettacolo mi riempì di stupore. In alcune parti c'erano gruppi di persone occupate in fitte conversazioni. Vidi due dei principi Orsi seduti in terra accanto a una delle Donne Fantasma che mostrava loro una grossa mappa, e tutt'e tre discutevano animatamente. Altrove le tende dei banchi da mercato davano l'illusione che si trattasse di una semplice fiera, cosa però smentita da un recinto contenente due brutti lucertoloni dall'aria collerica, ritti sulle zampe posteriori e grossi come dinosauri, che aprivano la bocca rossa per cercare di mordere due uomini del Maaschanheem; questi ultimi indicavano alcune parti dei finimenti e della sella e chiedevano informazioni al venditore, un uomo alto del Draachenheem. Senza dubbio erano le lucertole a dare a quel regno il suo nome, che significava 'paese dei draghi'. Nell'isola era in mostra ogni genere di animali straordinari, oltre a bestie a me più familiari. C'erano anche mercanzie di cui non riuscivo assoluta-
mente a capire la natura, ma che evidentemente dovevano essere assai richieste, se i proprietari si erano presi la briga di portarle all'isola. I suoni che si levavano da tutti questi traffici erano alti ma ragionevolmente amichevoli. C'erano molte persone che viaggiavano in piccoli gruppi senza vendere e senza comprare, ma semplicemente per godersi lo spettacolo. Nei pressi della grande arca -il vascello dei Principi Orsi - si scorgeva però un particolare assai meno gradevole. Laggiù, parecchi adolescenti, nudi e incatenati insieme, erano sottoposti all'ispezione delle Donne Fantasma. Non riuscivo a credere che un gruppo di Eldren potesse essersi corrotto fino al punto di tenere schiavi e di mangiare carne umana. «E quella sarebbe la razza tanto superiore ai normali esseri umani?» chiese von Bek. Lo disse in tono ironico, ma era chiaro che lo spettacolo lo disgustava. «Non credo di poter trovare molto aiuto per la mia missione, su quest'isola, se si tollerano simili cose.» Bellanda ci raggiunse. «I Principi Orsi vivono in un Regno dove gli uomini sono selvaggi e si uccidono e si divorano tra loro. Così i principi lo ritengono un normale costume degli esseri umani e non vedono perché non dovrebbero approfittarne. I ragazzi sono trattati bene... dagli orsi, intendo dire.» «E che cosa se ne fanno, quelle donne?» «Li comprano per riprodursi» rispose Bellanda. Si strinse nelle spalle. «Si limitano a invertire la situazione che troviamo spesso tra la nostra gente.» «A parte il fatto che non mettiamo in pentola e non mangiamo le nostre mogli» ribatté von Bek. Bellanda non fece commenti. «Nonostante tutto» dissi io «ho intenzione di scendere laggiù. Voglio andare dalle Donne Fantasma e rivolgere loro alcune domande. Penso che sia permesso farlo, vero?» «È permesso scambiare informazioni» mi rispose la giovane «ma non dovete interrompere una trattativa mentre si sta ancora svolgendo.» Scendemmo dalla nave in compagnia di molti altri suoi passeggeri che erano interessati allo spettacolo e che volevano dare un'occhiata alle merci. Accompagnato da von Bek, perciò, mi diressi subito all'area vicino alle navi bianche, dove le Donne Fantasma avevano rizzato le loro tende tessute in seta robusta. Non trovando nessuno all'esterno, entrai nella tenda principale. Non c'erano guardie all'ingresso. Entrai e subito dovetti fermarmi per lo stupore.
Dietro di me, von Bek esclamò: «Mio Dio! Un vero mercato delle vacche!» Il luogo puzzava di corpi umani. Era laggiù che gli schiavisti avevano portato i loro beni per sottoporli all'esame delle acquirenti. Uno in particolare, con la faccia segnata di cicatrici e gli occhi fiammeggianti, mi colpì. Alcuni erano visibilmente imbarazzati o si vergognavano della loro professione. Altri preferivano trattare i loro affari in modo più privato. Nella penombra della tenda scorsi almeno una decina di recinti: l'erba dell'isola era stata coperta di paglia e all'interno si scorgevano giovani di tutte le età, alcuni con i segni di ogni genere di ferocia, mentre altri si tenevano ritti, senza piegare la schiena, e fissavano con ira le maschere delle Donne Fantasma che li esaminavano. Altri erano semplicemente passivi, docili come animali. Quello che mi stupì maggiormente, però, fu la vista del baron-capitano Armiad, che stava evidentemente per concludere una transazione con una delle donne vestite d'avorio. Un suo tirapiedi, che chiaramente non apparteneva al normale personale della nave, custodiva un gruppo di sei ragazzi legati tra loro da una corda al collo: la corda era unica e passava dal collo dell'uno a quello dell'altro. Armiad illustrava alla donna i loro pregi, con battute che lei non capiva o fingeva di non capire. Senza dubbio il nostro buon capitano aveva scoperto un modo conveniente per liberarsi della popolazione in eccesso e, dato che gli altri uomini del Maaschanheem odiavano la tratta degli schiavi, si sentiva abbastanza al sicuro da occhi indiscreti. Nel bel mezzo di un sorriso lascivo, il baron-capitano alzò la testa, vide che io e von Bek lo guardavamo e gridò con rabbia: «Spie, oltre che fuorilegge! Ecco come volete vendicarvi di me per avere denunciato le vostre malefatte!» Io sollevai le mani per mostrargli che non intendevo interferire con i suoi affari. Ma Armiad era già in collera. Afferrò la corda e la strappò di mano al suo aiutante, poi la gettò in terra. Venne verso di me e continuò a gridare. «Tenete questi maledetti schiavi!» gridò alla Donna Fantasma, che lo guardava con sorpresa. «Mangiateli questa sera per cena, con i miei omaggi. Vieni, Rooper» si rivolse al suo accompagnatore «abbiamo cambiato idea.» Si fermò quando giunse davanti a me. Era rosso in faccia e ora sollevò la testa per guardarmi. «Flamadin, rinnegato. Perché mi avete seguito? Spe-
ravate di ricattarmi? Di umiliarmi ancor di più davanti agli altri baroncapitani? Be', la verità è che non volevo venderli. Cercavo di liberarli.» «Non mi interessano i vostri affari, Armiad» gli dissi in tono gelido. «E ancor meno mi interessano le vostre menzogne.» «Mi date del mentitore?» Mi strinsi nelle spalle. «Sono venuto a parlare con le Donne Fantasma. Vi prego di continuare con i vostri affari. Fate quello che vi pare. Non intendo avere a che fare con voi, baron-capitano.» «Avete un tono assai altezzoso, per una persona che ha cercato di assassinare una sorella e per un esiliato in disgrazia.» Cercò di colpirmi, e io feci un passo indietro. Dalla tunica che indossava - e che, diversamente dal solito, era priva di tutti gli ornamenti da lui amati - estrasse un lungo coltello. All'Adunanza erano vietate le armi, lo sapevo. Lo stesso von Bek aveva lasciato la pistola a Bellanda. Cercai di afferrare Armiad per il polso, ma lui indietreggiò. Continuò a guardarmi con ira, ansimando come un cane rabbioso. Poi si lanciò di nuovo contro di me, sollevando il pugnale. A quel punto tutti gridarono all'interno del tendone. In pochi istanti era stata violata una decina di leggi antichissime. Io mi limitai a tenere lontano Armiad, e gridai a von Bek di aiutarmi. Il mio amico, però, era stato a sua volta aggredito dall'aiutante di Armiad e doveva difendersi da un altro coltello. Indietreggiammo verso l'uscita della tenda, gridando aiuto e cercando di instillare un po' buon senso in Armiad e Rooper, che richiamavano l'attenzione generale e facevano una pessima figura. Poi giunse una decina di uomini che fermò Armiad e il suo aiutante e tolse loro di mano il coltello. «Mi difendevo da quel delinquente» disse Armiad. «I coltelli sono i loro, lo giuro.» Non pensavo che qualcuno potesse credere a una storia del genere, ma ora un massiccio draachenheemiano sputò in terra, ai miei piedi. «Credo che tu mi conosca, Flamadin» disse. «Sono uno di coloro che ti hanno scelto come nostro signore. Ma tu hai disprezzato la nostra offerta. E hai fatto anche di peggio. Buon per te, Flamadin, che sull'isola non si possa spargere sangue. Se non fosse per quello, io stesso leverei un pugnale contro di te. Traditore! Imbroglione!» Tornò a sputare. Ora, virtualmente tutti coloro che ci circondavano mi guardavano con odio.
Solo le donne, le cui emozioni erano illeggibili dietro la maschera d'avorio, mi guardavano in modo diverso. Ebbi l'impressione che adesso, dopo avermi riconosciuto, provassero un considerevole interesse per me. «Finita l'Adunanza faremo in fretta a trovarti, Flamadin!» mi minacciò ancora l'uomo del Draachenheem. Poi si allontanò in direzione della tenda dove erano contenuti gli schiavi. Quando si accorse che la gente era disposta a credere alla sua storia, Armiad rimase sorpreso al pari di me. Fece in fretta a riprendersi, però, e a rizzare di nuovo la schiena. Sbuffando di disprezzo, si schiarì la gola e chiese, rivolto alla folla in generale: «Chi altri oserebbe infrangere le nostre antiche leggi?» Come potemmo vedere, alcuni non gli credevano, ma erano in minoranza rispetto a quanti già mi odiavano e sarebbero stati disposti a credermi colpevole di altri cento delitti, oltre a quelli già noti! «Armiad» ripetei «vi assicuro che non avevo alcuna intenzione di interferire con le vostre faccende. Sono venuto a visitare le Donne Fantasma.» «E chi può venire a parlare con loro, tolto un mercante di schiavi?» chiese l'ometto, rivolto in generale alla folla. Un vecchio alto e robusto si fece strada fino a noi. Impugnava un bastone alto il doppio di lui e aveva il viso rosso. Aveva un portamento severo, come se fosse pienamente conscio della serietà del suo incarico. «Niente discussioni, né lotte, né duelli. Queste sono le nostre usanze. Andate per la vostra strada, buoni signori, e non portate ulteriori disgrazie sulle nostre teste.» Ormai le Donne Fantasma avevano occhi solo per me. Mi fissavano con grande attenzione. Sentii che parlavano tra loro e sentii pronunciare il mio nome. «Sono qui come amico della razza degli Eldren» dissi loro, con un inchino. Non ebbi risposta. Le donne rimasero impassibili come le loro maschere d'avorio. «Desidero parlare con voi» continuai. Anche ora non ebbi risposta. Due delle donne si allontanarono. Armiad continuava a inveire e ad accusarmi di avere iniziato io. Il vecchio, che si era definito come il Mediatore, non si lasciò influenzare. Chi avesse dato inizio alla lite non aveva importanza. Tutto era rimandato all'indomani dell'Adunanza. «Entrambi sarete confinati alle vostre navi, sotto pena di morte. È la legge.» «Ma io devo parlare alle Donne Fantasma» gli dissi. «Sono venuto ap-
posta. Non avevo alcuna intenzione di attaccare rissa con quel fanfarone.» «Basta insulti!» insistette il Mediatore. «O vi saranno altre punizioni. Ritornate allo Scudo Corrucciato, buoni signori. Rimarrete laggiù fino alla conclusione dell'Adunanza.» Von Bek mormorò: «Con tutte queste persone che guardano, non puoi fare nulla. Dovrai aspettare la notte.» Armiad mi sorrideva con aria maligna. Probabilmente stava già macchinando la mia morte. Non penso che molti l'avrebbero biasimato se fosse stato costretto a imprigionarmi e a condannarmi a morte non appena terminata la riunione. I suoi pensieri erano primitivi: non era difficile immaginarli. Con riluttanza, perciò, feci ritorno con Armiad alla nave. Eravamo accompagnati dal Mediatore e da un gruppo misto che evidentemente era stato scelto per far rispettare la legge. Non era facile capire come lasciare la nave e trovare le Donne Fantasma. Mi guardai alle spalle: le donne si erano riunite in gruppo e mi stavano guardando; parevano essersi scordate di ogni altro impegno. Chiaramente erano molto interessate a ricevere una mia visita. Ma non sapevo che cosa volessero e come pensassero di utilizzarmi. Giunti alla nave, Armiad lasciò che il Mediatore e i suoi accompagnatori ci portassero nelle nostre vecchie cabine. Continuava a sorridere. Le cose erano andate bene per lui, dopotutto. Non sapevo come intendesse accusare me e von Bek, né di cosa ci avrebbe accusati, ma sapevo che il baroncapitano aveva già in mente qualche piano. Le sue ultime parole, prima di raggiungere le sue stanze, furono un allegro: «E tra breve, buoni signori, rimpiangerete che le Donne Fantasma non vi abbiano preso e, ancora vivi, non vi strappino la carne di dosso per mangiarla davanti ai vostri occhi, mentre il resto di voi arrostisce lentamente.» Von Bek sollevò un sopracciglio. «Sempre più gradevole della vostra cucina, baron-capitano.» Armiad aggrottò la fronte perché non aveva capito la battuta. Poi, per questione di principio, ci rivolse un'occhiata torva e sparì. Pochi istanti più tardi sentimmo che la porta veniva sbarrata dall'esterno. Potevamo uscire nel balcone, ma per giungere ai ponti sottostanti avremmo dovuto affrontare una discesa lunga e ardua, e non eravamo sicuri che Armiad non ci avesse lasciato quella via di fuga per intrappolarci meglio. Dovevamo fare bene i nostri piani e cercare una via di fuga meno evidente.
Era probabile che avessimo a disposizione una notte intera, ma non c'era da farci affidamento. «Non credo che sia astuto come lo giudichi» disse von Bek. Stava già cercando qualcosa che ci potesse servire come corda. Da parte mia avevo bisogno di riflettere. Sedetti sul letto e meccanicamente lo aiutai ad annodare le coperte, mentre passavo in rassegna gli avvenimenti della mattinata. «Le Donne Fantasma mi hanno riconosciuto» dissi. Von Bek rise. «Sì, e anche il resto del campo. Ma ho l'impressione che non fossero in molti a darti ragione! Per tanti, qui, il tuo rifiuto di onorare la tradizione costituisce un crimine peggiore del tentativo di uccidere tua sorella! Conosco perfettamente questo modo di ragionare. Anche i miei connazionali ragionano così. Che possibilità credi di avere, anche se riuscissi a lasciare questa nave? La maggior parte degli altri, con la possibile esclusione dei Principi Orsi e delle Donne Fantasma, si metterebbe a darti allegramente la caccia. E dove ci rifugeremmo, amico mio?» «Ammetto di essermi posto la stessa domanda» gli risposi, sorridendo. «Speravo che tu potessi fornirmi la soluzione.» «Per prima cosa dobbiamo passare in rassegna le possibili vie di fuga» rispose. «Poi dobbiamo aspettare la notte. Prima di allora, non otterremo niente.» «Temo che tu non abbia avuto molta fortuna ad allearti con me» gli dissi, in tono di scusa. Von Bek rise. «Non credo di avere avuto molta scelta, amico mio. Non ti pare?» Il mio compagno aveva la capacità di strapparmi sempre un sorriso, e di questo gli ero grato. Una volta esaminate tutte le strade che potevano portarci alla libertà (non ce n'era nessuna che offrisse grandi garanzie di riuscita) mi stesi sul letto e cercai di capire perché le Donne Fantasma mi guardassero con tanto interesse. Che mi avessero assurdamente confuso con la mia sorella gemella Sharadim? Alla fine scese la notte. Noi avevamo deciso di attenerci al nostro originale piano di fuga: dal balcone all'albero più vicino, e di lì a terra, lungo le sartie. Non avevamo armi, dato che von Bek aveva affidato a Bellanda la sua pistola. La nostra unica speranza consisteva nel riuscire a sfuggire ai nostri inseguitori, nel caso ci vedessero. Così, poco più tardi, ci trovavamo sul balcone, alla gelida aria della notte, e in lontananza udivamo le voci di centinaia di persone appartenenti a
ogni razza e ogni cultura - alcune di esse non umane - che celebravano la loro strana riunione. Von Bek si era procurato una specie di grappino, utilizzando parti di mobilio. Il piano consisteva nel lanciarlo in mezzo alle corde, nella speranza che resistesse. Il conte mi sussurrò di prendere le nostre lenzuola annodate e di tenermi pronto a dargli corda, non appena mi avesse dato l'ordine, poi lanciò il grappino verso l'albero. Sentii che colpiva, che rimaneva in bilico per qualche istante e poi cadeva nel vuoto. Al quarto o quinto tentativo, però, l'attrezzo fece presa. Diedi corda finché von Bek non mi disse basta; vidi che ne legava il capo alla ringhiera del balcone. «Adesso dobbiamo affidarci alla nostra buona fortuna» mormorò. «Vado prima io?» Scossi la testa. Dato che tutto l'accaduto era frutto delle mie ossessioni, il minimo che potessi fare era correre il rischio maggiore. Scavalcai la ringhiera e mi calai dall'altra parte, mi afferrai alla corda e, sospeso all'appiglio, cominciai ad avviarmi a cambiamano verso l'albero. A quel punto, una voce sopra di noi esclamò trionfalmente: «I ladri tentano la fuga! Catturateli, in fretta!» L'intera nave parve improvvisamente riempirsi di uomini che puntavano le lanterne contro von Bek, il quale scavalcava in quel momento il balcone, e su di me che, penzolante dalla corda, non potevo andare né avanti né indietro. «Ci arrendiamo!» esclamò von Bek, facendo quello che giudicai buon viso a cattiva sorte. «Ritorniamo nella nostra prigione.» La risposta di Armiad era piena di una gioia malvagia. «Oh, no, non ritornerete, buoni signori. Cadrete sul ponte e vi spaccherete un certo numero di ossa, prima che noi si riesca a catturarvi...» «Sei un bastardo capace di uccidere a sangue freddo, oltre che un maleducato e un nuovo ricco» ribatté von Bek. Mentre parlava, aveva sciolto il nodo della corda; che intendesse farmi precipitare per darmi una sorta di colpo di grazia? Poi, si lasciò cadere, afferrò la corda sotto di me e gridò: «Tieni duro, Herr Daker!» La corda scivolò via dalla balaustra e noi volammo sempre più velocemente verso l'albero, colpendo corde catramate che ci graffiarono le mani e la faccia, ma facendo anche cadere a terra i nemici che ci attendevano sull'alberatura. Cominciammo a scendere lungo le sartie. Ma la nave era piena di uomini in arme, e non appena raggiungemmo il ponte, due o tre ci videro e si lanciarono contro di noi.
Noi corremmo verso la balaustra più vicina e guardammo in basso. Non c'era modo di saltare, non c'era alcun appiglio a cui afferrarsi. Poi, dall'alto, sentii giungere uno strano ticchettio, come di ossa battute insieme, e con grande stupore vidi scendere lungo una corda una donna in armatura bianca. Aveva una spada appesa a un polso, una scure da guerra appesa all'altro. Atterrò accanto a noi e si mosse con grande efficienza in avanti, colpendo e affettando quella che sembrava solo aria. Non riuscii bene a vedere che cosa facesse agli uomini di Armiad, che rotolarono a terra, fatti a pezzi. Ci fece segno di seguirla e noi fummo ben lieti di farlo. Ora riuscimmo a vedere, qua e là sulla nave, almeno una dozzina di Donne Fantasma... e dovunque fossero non c'erano uomini del Maaschanheem a bloccarci la strada! Sentii che Armiad scoppiava a ridere. «Addio, cani. Vi lascio al destino che vi meritate! Sono certo che rimpiangerete quello che vi avrei riservato io!» Ora le Donne Fantasma formarono una sorta di barriera mobile attorno a noi e si mossero rapidamente lungo la nave, abbattendo tutti coloro che cercavano di fermarle. In pochi attimi io e von Bek eravamo scesi sulla spiaggia e le donne ci portavano attraverso l'isola, in direzione del loro accampamento. Avevano infranto tutte le leggi dell'Adunanza. Che cosa poteva essere talmente importante da spingerle a correre un rischio così forte? Senza le Adunanze non avrebbero più trovato maschi per i loro scopi. La loro razza sarebbe certamente finita! Von Bek mi disse, con voce tremante: «Temo che siamo loro prigionieri, amico mio, più che loro ospiti. Che diavolo possono volere da noi?» Una delle donne ci disse con severità: «Fate silenzio. Sono in gioco il nostro futuro e la nostra stessa esistenza. Siamo venute a cercarvi, non a combattere contro quegli altri. Ora dobbiamo andarcene immediatamente.» «Andarvene?» sentivo un nodo allo stomaco. «Dove ci portate?» «Nel Gheestenheem, naturalmente.» Von Bek scoppiò in una delle sue caratteristiche risate. «Oh, questo è troppo, per me. Sono sfuggito alle torture di Hitler solo per finire in tavola come l'oca natalizia. Mi auguro che mi troviate di vostro gusto, gentili signore, benché in questo momento tema di essere più magro di quanto non preferiremmo entrambi.» Eravamo giunti a una delle sottili navi bianche. Ci spinsero al di là della murata come due fagotti, mentre sentivo mettere in acqua i remi.
«Allora, von Bek» dissi al mio compagno. «Stiamo per scoprire di persona il mistero del Gheestenheem, non ci pensi?» Mi rizzai a sedere; nessuno mi fermò quando, facendo leva sul sedile, mi alzai in piedi e mi sporsi a guardare il mare; vidi solo le acque nere. Dietro di noi si scorgevano i fuochi e le grandi ombre dell'Isola delle Adunanze. Ero sicuro che non l'avrei più rivista. Mi rivolsi alla donna che aveva guidato l'assalto alla nave del Maaschanheem. «Perché avete rischiato tutto quello che ha valore per voi? Non potrete mai più prendere parte a un'Adunanza, lo avete pensato? Comunque, da parte mia, tuttora non so se debba ringraziarvi oppure no!» La donna si stava togliendo l'armatura; ora slacciava le fibbie della visiera. «Lo giudicherete da voi» disse «quando saremo nel Gheestenheem.» Si tolse la lastra di avorio che le copriva il viso. Era la donna che avevo già visto. Nel fissare i suoi bellissimi lineamenti, ricordai un sogno fatto molto tempo prima. Parlavo a Ermizhad e lei mi diceva che non si sarebbe reincarnata eternamente, come succedeva a me, ma che se il suo spirito fosse mai andato ad abitare un'altra forma, l'aspetto sarebbe stato lo stesso. E che mi avrebbe amato anche in quella forma. Non lessi nel suo viso alcuna traccia di riconoscimento, ma nel guardarla sentii spuntare le lacrime. Le chiesi: «Sei tu, Ermizhad?» La donna mi guardò con sorpresa. «Mi chiamo Alisaard» rispose. «Perché piangete?» LIBRO SECONDO Viviamo non immemori - nel nostro esilio dalle sideree rotte Dell'ora interminabile nel tempo, rubata ad una lunga d'eterni giorni notte, Quando gaie e severe danzavano le stelle, rifugiatesi sui monti delle fate Il lilla respirava in mezzo all'ombra di luci verdi, citrine od azzurrate, Ma ancora l'avvolgente notte pareva l'orlo fantasma delle cose serrare. In quell'ora i nostri cuori adoranti erano ritornati a casa dal loro lungo errare: Perché la bellezza era corsa dalla bellezza e vi s'affollavano del mago a volontà Le ore perdute d'amore che tuttora bruciano in Chi Sempre Vivrà E i dolci eterni visi che avevano messo in fuga l'ombre terrene dense.
Poi, debole e fragile come una falena, la tua mano bianca palpitando si spense. Oh, chi sono io, che torreggia accanto a questa dea dell'aria che tramonta? 'A.E.' (George Russell), Afrodite UNO Mi rammento ben pochi altri particolari di quel viaggio: il mio successivo ricordo risale all'alba del giorno seguente. Rammento però che il sole si levava rosso, grande e incorporeo, tremolando nell'aria carica di vapore, e che la sua luce dava una sorta di sfumatura rosa e scarlatta alle onde. Il vento era teso, gonfiava la bianca vela, e il sole ci illuminava, cosicché, mentre facevamo rotta in direzione del sole, tutti eravamo dello stesso colore dell'oceano di sangue. Poi, gradualmente, scorsi qualcosa di diverso, davanti a noi. Pareva che dal mare si alzassero alcune gigantesche colonne d'acqua. Ma, come mi accorsi poco più tardi, non si trattava di acqua, bensì di luce. Grandi cilindri di luce che scendevano dal cielo e illuminavano una vasta area di mare. Dietro di esse c'erano solo nebbia, schiuma e nubi, ma entro l'area chiusa tra le colonne la superficie del mare era assolutamente calma. Von Bek era a prua e con una mano si teneva a una cima, con l'altra si proteggeva gli occhi dal riverbero del sole. Era emozionatissimo. Aveva la faccia bagnata di schiuma. Pareva avere ritrovato il gusto della vita. Anch'io ero lieto degli spruzzi di acqua salata che mi avevano tolto di dosso il sudiciume dello Scudo Corrucciato. «Che meraviglia della natura!» esclamò von Bek. «Come pensi che si sia formata, Daker?» Scossi la testa. «In questi casi, penso sempre che si tratti di magia.» Poi scoppiai a ridere, accorgendomi dell'assurdità delle mie parole. Scuotendo la testa dai capelli rosso scuro, Alisaard ci raggiunse dai ponti inferiori. «Ah» commentò con grande serietà «avete visto l'Entrata.» «Entrata?» chiese von Bek. «Che entrata?» «L'Entrata al Gheestenheem, naturalmente.» Pareva giudicare affascinante la sua ingenuità e io sentii un'imprevista fitta di gelosia. Perché non doveva provare simpatia per chi le aggradava di più? Anche se assomiglia-
va alla mia Ermizhad, non si trattava di lei. Ma era difficile ricordarselo, tanto era forte la somiglianza. Poi la donna si voltò verso di me: «Avete dormito? O avete pianto tutta la notte, principe Flamadin?» Lo disse in tono per metà incuriosito e per metà di comprensione. Trovavo sempre più difficile credere che quelle donne fossero crudeli schiaviste e cannibali. Anche se sapevo per esperienza che spesso le culture più urbane e civili hanno qualche aspetto che, per quanto normale ai loro occhi, può sembrare orribile agli altri. Tuttavia quelle donne avevano la grazia caratteristica degli Eldren con cui ero vissuto. «Siete state voi a soprannominarvi 'Donne Fantasma'?» le chiesi, soprattutto per richiamare la sua attenzione. «No» mi rispose «ma abbiamo scoperto da tempo che la nostra migliore arma di difesa sta nello sfruttare a nostro vantaggio la superstizione umana. L'armatura ha molte funzioni utili, soprattutto quando siamo in prossimità di quelle ciminiere fumose, ma serve anche a mantenere una sorta di mistero e spaventa chi fosse intenzionato a offenderci o aggredirci.» «Come vi chiamate, allora?» le chiesi. Ero ansioso di conoscere la sua risposta. «Siamo le donne della razza degli Eldren» mi spiegò. «E la vostra gente abita del Gheestenheem?» Il mio cuore batteva a precipizio. «Solo le donne abitano nel Gheestenheem» rispose. «Solo voi? Non esistono uomini?» «Esistono, ma sono rimasti isolati. C'è stato un esodo. Gli Eldren sono stati cacciati via dal loro Regno d'origine, ad opera di un gruppo di barbari umani chiamati i Mabden. Noi abbiamo cercato rifugio altrove, ma nel corso del viaggio ci siamo separati. Perciò, da parecchi secoli, per riprodurci dobbiamo servirci dei maschi umani. Da una simile unione, però, vengono al mondo soltanto femmine; il sangue rimane puro, ma per noi è un processo sgradevole.» «Che cosa succede ai maschi, quando hanno svolto la loro funzione?» Alisaard rise, sollevando la testa dalla linea elegante, e il sole trasformò i suoi capelli in un'aureola di fuoco. «Pensate che vogliamo ingrassarvi per un banchetto, principe Flamadin? Conoscerete la risposta quando saremo nel Gheestenheem!» «Perché avete corso un così grave rischio» chiesi «allo scopo di salvarci?»
«Non siamo venute per salvarvi» mi spiegò. «Non sapevamo che foste in pericolo. Intendevamo parlare con voi. Poi, quando abbiamo visto quel che stava succedendo, abbiamo deciso di aiutarvi.» «Allora siete venute per catturarmi?» «Per parlare con voi. Preferite essere riportato su quella nave puzzolente?» Mi affrettati a dirle che non avevo alcuna intenzione di rimettere piede sullo Scudo Corrucciato. «E quando intendete darmi una spiegazione?» chiesi ancora. «Quando saremo nel Gheestenheem» rispose lei. «Osservate!» Ormai le colonne di luce erano alte sopra di noi, anche se la nave non le aveva ancora raggiunte. Adesso la nave bianca era incandescente di luce riflessa; all'inizio avevo pensato che le colonne fossero completamente bianche come il marmo, ma ora mi accorsi che avevano tutti i colori dell'arcobaleno. A poppa, alcune donne spingevano con forza i remi che facevano da timone, manovrando con attenzione la nave in mezzo alle colonne. «È pericoloso toccarle» ci spiegò Alisaard. «In pochi istanti potrebbero ridurre in cenere una nave come la nostra.» La luce abbagliante mi aveva già semiaccecato. Mi parve di scorgere grandi ondate che ribollivano attorno alla base delle colonne, mi parve che la nave venisse spinta verso l'alto, venisse spinta ora verso l'uno, ora verso l'altro dei pilastri di luce. Ma il nostro equipaggio era esperto: all'improvviso ci trovammo al di là delle turbolenze, con la nave che rollava piano su un mare perfettamente immobile, in un silenzio totale. Mi pareva di essere in una gigantesca galleria che si stendeva all'infinito. Non riuscivo a scorgerne la fine. Al suo interno, però, regnava un'atmosfera di grande serenità che allontanava ogni paura provata al nostro ingresso. Von Bek era stupitissimo. «È magnifico! È davvero magia?» «Siete superstizioso come quegli altri, conte von Bek?» commentò Alisaard. «Avrei creduto altrimenti.» «È un fenomeno che va al di là della scienza che mi è stata insegnata» le rispose lui, sorridendo. «Che cosa può essere, se non magia?» «Noi lo giudichiamo un fenomeno del tutto naturale. Si verifica ogni volta che le dimensioni del nostro mondo intersecano quelle di un altro. In tal caso si forma una sorta di vortice. Da quello, se ci sono sufficienti motivi, o curiosità, o coraggio, è possibile raggiungere i Regni della Ruota.
Abbiamo carte che ci informano del luogo e del momento in cui le Entrate si formano, dove è più probabile che conducano e così via. Dato che si tratta di un fenomeno regolare e prevedibile, noi non lo consideriamo magico. La definizione vi pare sensata?» «Sensatissima, mia signora» rispose von Bek, inarcando le sopracciglia. «Anche se dubito di poter convincere qualcuno dell'esistenza di un simile tunnel, si trattasse pure di Albert Einstein.» Anche se non era in grado di capire il riferimento, la donna sorrise a sua volta. Non c'era alcun dubbio: Alisaard lo trovava simpatico. Con me era molto più circospetta e non riuscivo realmente a comprenderne la ragione, a meno che non credesse anche lei alla storia del mio tradimento. A un tratto capii! Quelle donne volevano Sharadim, la mia sorella gemella! Che intendessero consegnarmi a lei - come criminale ricercato - in cambio del suo aiuto? Dopotutto erano abituate a fare commercio di uomini. Che io fossi ridotto a oggetto di scambio? Ma tutti questi pensieri mi si allontanarono dalla mente non appena la nave cominciò a girare su se stessa. Non appena prese a roteare, noi fummo proiettati contro il legno delle murate, anche se la rotazione non fu mai così rapida da scagliarci fuori bordo. Poi, gradualmente, la nave si sollevò nell'aria, come se la galleria ci aspirasse in un'altra dimensione! La nave si rovesciò su se stessa, e io pensai che saremmo caduti nell'acqua, ma in qualche modo la direzione della gravità rimase quella giusta. Qualche istante più tardi ci trovammo a fare rotta lungo la galleria, come se fossimo trasportati dalla rapida corrente di un fiume. Mi aspettavo di vedere gli argini, al nostro fianco, ma riuscii solo a scorgere lo scintillante arcobaleno di colori. Anche ora mi scoprii sul punto di piangere, ma ora mi commuovevo per la bellezza e la meraviglia di quel che vedevo. «È come se i raggi di più di un sole venissero concentrati insieme da una lente» disse von Bek fermandosi accanto a me. «Sono curioso di conoscere meglio questi Sei Regni.» «A quanto so io, nel multiverso ci sono decine di gruppi diversi» gli spiegai «esattamente come ci sono vari generi di stelle e di pianeti, e ciascuno obbedisce alle proprie leggi fisiche. Per la maggior parte degli abitanti della nostra terra si tratta di Regni che non riusciamo percepire, tutto qui. La ragione non la so; a volte ho l'impressione che il nostro mondo sia una sorta di colonia per una razza sottosviluppata, dato che tante delle altre danno per scontata l'esistenza del multiverso.» «Io sarei lieto di vivere in un mondo dove si goda di questi spettacoli»
commentò von Bek. La nave continuava a percorrere rapidamente la galleria. Notai però che le donne al timone rimanevano all'erta. Mi chiesi se non ci fosse qualche nuovo pericolo. Poi la nave prese nuovamente a girare su se stessa e cambiò assetto, e per qualche istante ci parve di essere piombati in un pozzo di tenebre. I membri dell'equipaggio presero a gridarsi ordini, come se si stessero preparando a qualche nuovo prodigio. Alisaard ci disse di tenerci forte alla murata. «E pregate che la nave arrivi nel Gheestenheem» terminò. «Queste gallerie sono famose per cambiare direzione e lasciare alla deriva i viaggiatori fino alla successiva rivoluzione!» L'oscurità era completa; non riuscivo a scorgere i miei compagni. Poi ebbi la sensazione viscerale che si prova in un ascensore che scende rapidamente, sentii cigolare il fasciame della nave e infine, con grande lentezza, la luce fece ritorno. Eravamo tornati a beccheggiare su acque normali, ed eravamo ancora circondati dalle colonne di luce, anche se assai meno luminose di prima. «Passiamo in fretta! Passiamo in fretta!» gridò Alisaard. Con un grande sobbalzo, la nave si lanciò in avanti e si diresse verso le colonne; le donne al timone spinsero con tutte le loro forze contro la barra. Superammo ancora un'onda e ci trovammo al di là delle strane colonne di luce, sulla cresta, e finalmente scorsi la nostra meta: una lontana linea costiera che mi fece venire alla mente, per qualche vaga ragione, le bianche scogliere di Dover. Sulla cima si scorgeva una distesa di colline ondulate, coperta da una vegetazione lussureggiante. Intorno a noi, la luce dorata del sole splendeva su un mare profondamente azzurro. Nel cielo turchino si scorgevano piccole nubi bianche. Mi ero quasi dimenticato l'aspetto di un normale paesaggio estivo. Erano passate intere eternità da quando avevo visto panorami simili. In effetti non li vedevo da quando ero stato strappato a Ermizhad. «Mio Dio!» esclamò von Bek. «Non sembra l'Inghilterra? O forse l'Irlanda?» Quelle parole non avevano alcun significato per Alisaard. La donna scosse la testa. «Voi siete un intero dizionario di nomi stranieri, conte von Bek. Dovete avere viaggiato molto, vero?» A quel punto il mio compagno fu costretto a ridere. «Ora siete voi, mia buona signora, a dare prova di ingenuità involontaria» disse. «Vi assicuro
che i miei viaggi sono assai tranquilli e domestici, rispetto a quelli che voi date per scontati.» «Suppongo che quel che non ci è familiare ci sembri assai più esotico di quanto non sia realmente.» La donna godeva della brezza che le ravviava i capelli e s'era tolta i bracciali dell'armatura -come avevano fatto anche le sue compagne - per sentire sulla pelle il calore del sole. «Un mondo piuttosto deprimente, il Maaschanheem» continuò. «Colpa di tutte quelle paludi e di quel grigio, suppongo.» Guardava davanti a sé, dove le scogliere si aprivano per dare accesso a una grande baia. Entro la curva di quel golfo naturale si scorgeva un piccolo porto, e dietro i moli una città che saliva lungo il fianco dei monti, su tre lati della baia. «Ecco Barobanay!» disse Alisaard, con sollievo. «Possiamo tornare a essere noi stesse. Odio queste finzioni.» Batté le nocche sulla corazza d'avorio. Lungo i moli di Barobanay erano ormeggiate molte altre navi, di tutti i generi, ma non ce n'era nessuna come le nostre. Evidentemente le navi bianche facevano parte del travestimento che le Donne Fantasma adottavano per tenere a distanza le altre razze. La nave accostò al molo, i remi vennero ritirati a bordo e dal ponte furono lanciate le cime d'ormeggio, che vennero afferrate da giovani donne e uomini fermi sul molo, i quali poi li avvolsero attorno agli argani. Le donne appartenevano chiaramente agli Eldren mentre gli uomini erano altrettanto ovviamente di razza umana. Né gli uni né le altre avevano l'aspetto di schiavi. Ne accennai ad Alisaard. «A parte il fatto di non godere di certi diritti» mi spiegò «gli uomini sono abbastanza soddisfatti.» «Eppure» osservò von Bek, in tono ragionevole «qualcuno cercherà sempre di scappare, per quanto sia soddisfacente la loro vita.» «Prima dovrebbero imparare a usare le nostre Gallerie d'Entrata» rispose Alisaard, mentre la nave urtava conto il molo. Aspettammo che venisse poggiata una passerella tra la murata e il molo, poi Alisaard ci precedette sulla terraferma e ci guidò in una piccola piazza pavimentata di cubetti di porfido e lungo una stradina ripida e serpeggiante, fino a un edificio alto, in uno stile che richiamava alla mente il gotico, a una certa distanza dalla riva. La costruzione aveva l'aspetto di un edificio pubblico. Il sole era caldo sulla nostra pelle, quando arrivammo dinanzi all'edificio.
«Il nostro Palazzo del Consiglio» spiegò Alisaard. «Un edificio abbastanza modesto, ma è il perno del nostro sistema di governo.» «Ha l'aria pratica e senza fronzoli degli edifici municipali delle nostre antiche città tedesche» commentò von Bek, in tono di approvazione. «Inoltre» aggiunse «è assai più elegante di qualsiasi ambiente che abbia visto negli ultimi tempi. Pensa solo, Daker, a come potrebbero ridurlo i fustieri di Armiad!» Non potevo che essere d'accordo. All'interno, le stanze erano fresche e bene arredate, piene di piante e fiori profumati. Il pavimento era di marmo, ma era quasi del tutto ricoperto di bei tappeti, e l'ossidiana verde delle colonne e dei caminetti non aveva nulla di gelido. Alle pareti erano appesi arazzi, in gran parte a disegni astratti, e i soffitti erano decorati con squisiti e complessi arabeschi. L'intero edificio aveva un'aria dignitosa, antica, e mi pareva difficile credere che quelle donne degli Eldren intendessero usarmi come merce di scambio. Una donna più anziana, con i capelli argentei acconciati in alto sulla testa e il viso che, com'era tipico della sua razza, non mostrava i tratti meno attraenti dell'età che invece colpiscono noi umani, ci raggiunse da una porticina alla nostra destra. «Allora vi siete lasciato convincere a raggiungerci, principe Flamadin» disse con calore la nuova venuta. «Vi sono molto riconoscente.» Alisaard le presentò Ulrich von Bek e spiegò a grandi linee che cosa fosse accaduto. La donna - che indossava un'ampia veste di colore rosso e oro - ci diede il benvenuto e si presentò come l'Annunciatrice Eletta, Phalizaarn. «Ma, naturalmente, nessuno vi ha spiegato perché vi abbiamo cercato, principe Flamadin.» «Avevo l'impressione, lady Phalizaarn, che voleste l'aiuto di mia sorella Sharadim.» La donna mi guardò con stupore. Ci fece segno di precederla in un'altra stanza: una serra piena di fiori meravigliosi. «Come lo sapete?» mi chiese. «Mia signora» risposi «in queste cose ho una sorta di sesto senso. È vero?» Si fermò accanto a un rododendro viola. Mi parve imbarazzata dalle mie parole. «È vero, principe Flamadin, che alcune di noi hanno provato - con mezzi non convenzionali - a evocare vostra sorella, o almeno a chiederle aiuto. Non gli è stato vietato di farlo, ma in generale sono state disapprovate da tutti, compreso il Consiglio. Ci è parso un sistema improbabile e barbarico per raggiungere la principessa Sharadim.»
«Quelle donne, dunque, non rappresentano tutti gli Eldren?» «Solo una parte.» L'annunciatrice Eletta rivolse un'occhiata ad Alisaard, con espressione interrogativa, e la giovane abbassò lo sguardo. Chiaramente la nostra salvatrice era una di quelle donne che avevano cercato mia sorella con mezzi barbarici. Comunque, mi chiesi, perché mi avevano salvato da Armiad? Perché erano venute a cercarmi? Prima di rivolgere quelle domande, però, mi sentii in dovere di prendere le difese di Alisaard. «Devo dirvi, signora, che sono abituato a rispondere a quel tipo di incantesimi.» Sorrisi ad Alisaard, che mi aveva guardato con sorpresa. «Non è la prima volta che sono stato chiamato al di là della barriera tra i mondi. Ma non capisco perché sia giunto a me il richiamo per Sharadim.» «Perché Sharadim non è la persona che cerchiamo» rispose Alisaard, semplicemente. «Devo ammettere che fino a ieri ero pronta a dire che l'oracolo ci aveva male indirizzato. Ero convinta che nessun essere umano di sesso maschile poteva avere il rapporto con gli Eldren necessario per aiutarci. Naturalmente vi conoscevamo entrambi. Sapevamo che eravate gemelli. Abbiamo pensato che l'oracolo, parlando di Flamadin, intendesse parlare di sua sorella Sharadim.» «Ci sono stati molti dibattiti su questo» disse gentilmente lady Phalizaarn. «In questo stesso edificio.» «Due notti or sono» spiegò Alisaard «abbiamo tentato ancora una volta di chiamare Sharadim. Pensavamo che il luogo migliore per farlo fosse l'Isola delle Adunanze. Quella volta abbiamo sentito perfettamente il potere che scorreva dentro di noi. Era più forte del solito. Abbiamo acceso il fuoco, abbiamo unito le braccia e ci siamo concentrate. E per la prima volta ci è giunta una visione della persona da noi cercata. Penso che abbiate capito di chi fosse la faccia.» «Avete visto il principe Flamadin» commentò la lady Phalizaarn, cercando di nascondere la soddisfazione. «E poi l'avete visto in carne e ossa...» «Ricordando che avevate dato alla capitana Danifel l'incarico di avvicinare il principe Flamadin se l'avesse visto all'Adunanza, ci siamo recate da lei e abbiamo ammesso il nostro errore. Insieme siamo poi andate a fare visita al principe Flamadin. Siamo state costrette a raggiungerlo in segreto a causa della natura dell'Adunanza e al carattere del bruto che comanda sulla particolare nave che ospitava il principe Flamadin e il suo amico. Con nostro grande stupore abbiamo scoperto il principe e il conte von Bek
mentre tentavano la fuga. Così li abbiamo aiutati.» «Alisaard» disse gentilmente lady Phalizaarn «ti sei preoccupata di invitare il principe Flamadin nel Gheestenheem? Hai lasciato a lui la decisione?» «Nell'eccitazione del momento me ne sono scordata, lady Annunciatrice Eletta. Chiedo scusa a tutti. Temevamo di essere inseguiti.» «Inseguiti?» «Sì, c'era il rischio che ci inseguissero i nemici assetati di sangue da cui ci ha salvati Alisaard» si affrettò a spiegare von Bek. «Ci avete salvato la vita, signora. E, naturalmente, avremmo immediatamente accettato il vostro invito, se ci fosse stato comunicato a voce.» La lady Phalizaarn sorrise. Anche lei, evidentemente, era affascinata dalle buone maniere, stile vecchia Germania, del mio compagno. «Siete un cortigiano nato, conte von Bek. O forse è meglio dire un diplomatico nato.» «Preferisco quest'ultimo, mia signora. Noi von Bek non siamo mai stati molto amici dei monarchi. Un membro della famiglia è stato perfino eletto all'Assemblea nazionale francese!» Anche questa battuta andò persa per le nostre interlocutrici. Io ero in grado di capirla, ma per le due donne era come una lingua sconosciuta. Un giorno anche von Bek avrebbe imparato - come l'avevo imparato io - a intrattenere una conversazione senza citare particolari della terra o del secolo in cui era nato. «Non ho ancora idea di quel che vogliate da me» dissi con educazione. «Vi assicuro, mia signora, che sono qui di mia piena volontà, visto che tutti sono contro di me, ma sarò franco con voi. Non ho alcun vero ricordo di essere il principe Flamadin. Da pochi giorni abito questo corpo; se Flamadin possiede qualche conoscenza che vi occorre, temo che risulterò una delusione per voi.» Lady Phalizaarn mi sorrise. «Provo un forte sollievo nell'udirlo, principe Flamadin. L'accuratezza del nostro 'oracolo', come Alisaard si ostina a chiamarlo, riceve un'ulteriore conferma. Ma saprete tutto quando si riunirà il Consiglio. Non posso parlare finché non mi verranno date istruzioni.» «Quando si riunirà il Consiglio?» volli sapere. «Questo pomeriggio. Siete liberi di visitare la nostra città, se lo desiderate. Abbiamo riservato per voi alcune camere in questo edificio. Qualunque cosa vi occorra, abiti, cibo, non esitate a chiederla. Non so dire la mia gioia di avervi con noi, principe Flamadin. Temevo che ormai fosse troppo tar-
di!» Su quella nota misteriosa ci congedammo da lei. Alisaard ci mostrò le stanze che erano state preparate per accogliermi. «Non vi aspettavamo, conte von Bek, e perciò occorrerà qualche ora per preparare il vostro appartamento. Intanto ci sono due camere comunicanti, con un divano abbastanza grande anche per un uomo alto come voi.» Aprii la porta e dissi con gioia: «Ecco ciò che cercavo!» Era un'enorme vasca da bagno che ricordava quelle dell'epoca vittoriana, anche se non si scorgevano tubature. «Esiste un sistema per ottenere acqua calda?» La donna mi indicò una corda appesa a fianco della vasca: io l'avevo presa per un campanello. «Due strattoni per la calda» ci spiegò. «Uno per la fredda.» «E da dove esce» chiesi «l'acqua che arriva nella vasca?» «Passa per i tubi» rispose. Mi indicò una sporgenza all'interno della vasca, che io avevo scambiato per un elemento decorativo. «Ed esce di lì.» Me lo disse col tono che avrebbe usato per indicare a un barbaro i primi rudimenti della civiltà. «Grazie» le risposi. «Credo di poterne presto imparare il funzionamento.» Il sapone che mi porse era una sorta di polvere abrasiva, ma si sciolse senza problemi nell'acqua. Il primo getto di acqua calda per poco non mi uccise, tanto era bollente. Scoprii che la donna si era dimenticata di dirmi che per avere acqua tiepida occorrevano tre strattoni. Mentre io ero nella vasca, von Bek si era soffermato a chiacchierare con Alisaard, che tuttavia, quando io uscii dal bagno, si era già allontanata. Il mio compagno poté approfittare della mia scoperta dell'acqua tiepida e, mentre si insaponava, continuò allegramente a parlarmi. «Ho chiesto ad Alisaarise la sua razza può avere figli da quella umana» mi informò. «Mi ha risposto di non saperlo, ma che non è un'esperta dell'argomento. A quanto pare, il metodo da loro usato è tutt'altro che semplice. Ha detto che occorre 'molta alchimia'. Presumibilmente occorre qualche prodotto chimico, tra le varie cose. Che si tratti di una forma di inseminazione artificiale?» «Purtroppo» risposi «non ne so nulla. Comunque, gli Eldren hanno sempre avuto una forte predisposizione naturale per la medicina. Quel che mi incuriosisce, però, è come le donne abbiano finito per separarsi dagli uomini. Inoltre mi chiedo se questi Eldren siano i discendenti di quelli che conoscevo, o se magari siano i loro antenati.»
«Qui trovo difficile seguirti» confessò von Bek. Cominciò a fischiettare un motivetto jazz che era assai popolare alla sua epoca (ossia qualche anno prima della mia vita nei panni di John Daker). Le stanze erano arredate nello stile che avevamo visto nel resto del palazzo, con grandi mobili di legno scolpito, arazzi e tappeti. Sul mio letto c'era una coperta la cui fattura, a giudicare dal ricamo, doveva avere richiesto cinquant'anni di lavoro. Il luogo era pieno di fiori e dalle finestre si scorgeva un cortile con un sentiero coperto di ghiaia, un prato verde e, in centro, una fontana. Tutto dava un'impressione di grande tranquillità e pensai che sarei stato felice di potermi stabilire in quel regno. Ma sapevo di non poterlo fare. Anche ora sentii una fitta di dolore quasi fisico e provai un'immensa nostalgia della mia Ermizhad! «Be'» disse poi von Bek, mentre si asciugava «se non avessi impegni urgenti con il mio amico Adolfo - il nostro amato Cancelliere tedesco - direi che Barobanay sarebbe un eccellente luogo per passarci le vacanze.» «Oh, certo» risposi io, distratto. «Comunque, von Bek, ho l'impressione che tra poco saremo sin troppo indaffarati per poter pensare al riposo. A quanto mi pare di capire, queste donne avevano urgente bisogno di noi. Non ho ancora capito, però, perché chiamassero Sharadim e non me. Alisaard ti ha fornito qualche nuova spiegazione?» «Credo che fosse una questione di principio» mi rispose. «Stentava a credere che un maschio della razza umana potesse risultare di qualche utilità! Credo si basasse sulla sua esperienza. Poi, naturalmente, c'era la storia dell'omicidio, vero o probabile che fosse.» «Come? Il tentativo di uccidere Sharadim, quello di cui mi accusavano? O pensano che sia riuscito a ucciderla?» «No, naturalmente no.» Von Bek si grattò la fronte, perplesso. «O forse non c'eri, quando Alisaard ne ha parlato. A quanto pare, il principe Flamadin è morto. La storia che è stata diffusa delle autorità del Draachenheem è esattamente il contrario di quella vera. A quanto si sa, Flamadin è stato ucciso per ordine della sorella!» Von Bek parve trovare divertente la cosa. Mi diede una pacca sulla spalla. «Come gira, il mondo, eh?» «Oh, certo» mormorai, mentre il mio cuore accelerava i battiti. «Gira davvero in fretta...» DUE «Per prima cosa» disse lady Phalizaarn, alzandosi dal suo posto, in mez-
zo alle altre donne sedute in terra «vi devo avvertire del grave pericolo che corriamo. Per molti anni abbiamo cercato la nostra gente, gli Eldren, nel desiderio di raggiungerla. Il sistema da noi adottato per preservare la razza ci risulta molto sgradevole, come forse avrete saputo. In verità gli uomini che acquistiamo vengono trattati bene e godono di quasi tutti i privilegi della comunità, ma resta una situazione innaturale. Preferiremmo procreare con individui che avessero una possibilità di scelta.» Fece una breve pausa, poi proseguì: «Ultimamente ci siamo imbarcate in una serie di esperimenti, nel tentativo di rintracciare la nostra gente, nella convinzione di poterci riunire con essa, una volta che l'avessimo trovata. Tuttavia abbiamo scoperto molti aspetti che ignoravamo. Inoltre, siamo state costrette al compromesso e, alla fine, alcune di noi hanno preso una via sbagliata. Adesso, per esempio, le conoscenze di vostra sorella Sharadim sono assai superiori a quelle che le avremmo dato, se avessimo conosciuto meglio il suo carattere.» «Quanto a questo» risposi io «dovete illuminarmi voi.» Io e von Bek eravamo seduti a gambe incrociate davanti alle donne, che in gran parte parevano avere la stessa età di Phalizaarn, anche se un piccolo numero erano più giovani e un paio erano più anziane. Alisaard non era presente, né scorsi altre donne del gruppo che ci aveva salvato dalla nave di Armiad. «Così faremo» promise l'Annunciatrice Eletta. Ma prima ci espose brevemente la storia della sua gente: di come una manciata di superstiti fosse stata costretta a nascondersi a causa delle soverchianti forze dei barbari umani. Alla fine avevano deciso di fuggire in un altro regno dove i Mabden non potessero seguirli. Laggiù contavano di iniziare una nuova vita. Avevano già esplorato vari altri mondi ma ne avevano cercato uno in cui non si fossero insediati gli uomini, e individuato un sistema per scoprirli. Al loro ritorno, i primi esploratori del nuovo mondo avevano portato con sé due grandi bestie che li avevano seguiti per curiosità. Già era noto che quelle bestie sapevano come ritornare al loro mondo creando una nuova porta tra i due reami. Gli Eldren avevano pensato di lasciare libere le bestie e di seguirle. Le creature non avevano alcuna ostilità verso gli Eldren, anzi, tra loro c'era una sorta di rispetto reciproco difficile da definire. Gli Eldren non avrebbero incontrato difficoltà a vivere nello stesso mondo delle bestie. Così, mentre un gruppo seguiva la bestia di sesso maschile nella galleria da essa creata, il secondo gruppo, composto di sole donne, doveva partire poco più tardi, una volta che gli uomini si fossero assicurati che non c'erano pericoli.
Così le donne Eldren avevano atteso per qualche tempo, e poi, ormai certe che non v'erano pericoli, avevano inviato la bestia di sesso femminile. Tuttavia, mentre la seguivano all'interno della galleria, la bestia era sparita. C'era stata una sorta di lotta, l'impressione che la bestia tentasse di avvertirli, e alla fine il gruppo di donne Eldren si era ritrovato su quel mondo, Gheestenheem. La bestia che doveva assicurare loro la salvezza aveva perso la strada o era stata rapita. «In qualche modo la galleria si era spostata» continuò Phalizaarn. «La struttura del multiverso è come quella degli ingranaggi di un orologio. Basta un'oscillazione del pendolo e vi trovate in un altro mondo, che può essere lontanissimo, nel tempo e nello spazio, da quello da voi cercato. È quanto è successo a noi. Fino a poco tempo non sapevamo che cosa fosse successo alla bestia che avrebbe dovuto guidarci.» Continuò: «Per poter sopravvivere, siamo state costrette a servirci delle nostre conoscenze di alchimia, per poter avere figli dai maschi che erano giunti qui dai reami degli uomini. Alla fine scoprimmo di poter comprare quei maschi da vari commercianti dei Sei Regni. Solo in occasione dell'Adunanza si intersecano tutti i Regni, ma a volte non è difficile raggiungerne qualcun altro, se ne abbiamo bisogno. Nello stesso tempo ci siamo dedicate a uno studio della natura del multiverso, delle modalità secondo cui le orbite di alcuni mondi intersecano quelle di altri. «Per mezzo delle nostre medium, le stesse che si sono messe in contatto con voi pensando di mettersi in contatto con Sharadim, siamo riuscite a comunicare occasionalmente con i nostri uomini. È divenuto chiaro che l'unico modo per raggiungerli consisteva nel trovare la bestia che inizialmente aveva cercato di guidarci. Poi, alcuni anni fa, è sorto un altro grave problema. Abbiamo scoperto che le erbe impiegate dalla nostra alchimia diventavano sempre più rare. Non sappiamo perché. Forse un semplice cambiamento climatico. «Nelle nostre serre speciali possiamo coltivare piante molto simili a esse, ma non hanno le stesse proprietà. Così, ci restano pochissime fonti di quelle sostanze. Abbiamo pochissime figlie. Presto non ne nasceranno più e la nostra razza morirà. Ecco perché la nostra richiesta di aiuto era così urgente. A quel punto si è presentato a noi un individuo che ha detto di sapere come rintracciare la nostra bestia, ma che in tutto il multiverso c'era una sola creatura capace di trovarla, non solo, ma destinata a farlo. Chiamò questa creatura il Campione Eterno.» Un'altra donna parlò, senza alzarsi dal punto in cui sedeva sul pavimen-
to. «Non sapevamo se fosse maschio o femmina, umano o Eldren. La sola cosa che avessimo era l'Actorios. La gemma.» «Ci ha detto che vi avremmo trovato grazie a quella gemma» riprese Phalizaarn. Da un sacchetto che portava alla vita estrasse una pietra e me la mostrò, tenendola sul palmo della mano. «La riconoscete?» Qualcosa, dentro di me, riconobbe la pietra, ma nessun ricordo affiorò alla mia mente. Scossi la testa. Phalizaarn sorrise. «Be', sembra che la gemma riconosca voi.» La gemma, che pareva piena di nebbia o di fumo multicolore, parve quasi muoversi nella sua mano. Io sentii un grande bisogno di possederla. Avrei allungato la mano per prenderla, ma riuscii a trattenermi. «È tua» disse qualcuno, dietro di me. Io e von Bek ci voltammo. «È tua. Prendila» ripeté il nuovo venuto. Non più vestito della sua corazza nera e gialla, ma con un'ampia veste color porpora, il gigante nero Sepiriz mi guardò con divertimento e compassione. «Sarà sempre tua, dovunque tu la veda» proseguì. «Prendila. Ti servirà. Qui ha terminato il suo ciclo.» La gemma era tiepida. Mi parve di toccare carne viva. Quando la strinsi nella mano, rabbrividii. Mi parve che irradiasse dentro di me un'ondata di energia. «Grazie.» Mi inchinai all'Annunciatrice Eletta e a Sepiriz, poi infilai la pietra nella mia borsa. «Sei tu l'oracolo di cui parlavano, Sepiriz? Le confondi a forza di misteri come fai con me?» Lo dissi con grande affetto. «Un giorno quell'Actorius ornerà l'Anello dei Re» m'informò il gigante «e tu lo avrai al dito. Ma adesso hai un compito assai più immediato. Un compito, John Daker, che potrebbe procurarti almeno una parte di quel che desideri.» «Promessa un po' vaga, ser cavaliere» osservai. Sepiriz non si scompose. «Oso esprimermi con precisione solo su certi argomenti. L'equilibrio è particolarmente delicato, in questo momento... preferirei non romperlo. Almeno per ora. La lady Phalizaarn ti ha descritto la bestia da loro perduta?» «Ricordo bene le parole dell'incantesimo» gli dissi. «È un drago del fuoco. Una dragonessa. Ed è prigioniera, ho capito. Chiedevano che io - o meglio Sharadim - liberasse la creatura. È intrappolata in un mondo che posso visitare soltanto io?» «Non esattamente. È intrappolata in un oggetto che soltanto tu puoi impugnare...»
«Quella maledetta spada!» Feci un passo indietro e scossi violentemente la testa. «No! No, Sepiriz, non sono disposto a riprenderla! La Spada Nera è malvagia. Non mi piace il suo influsso su di me...» «Non si tratta della stessa spada» mi rispose lui, con calma. «Almeno, non nell'aspetto a cui mi riferisco. Alcuni dicono che le spade gemelle sono una sola. Altri che hanno mille forme. Ma io ne dubito. La lama è stata forgiata in modo da accogliere un'anima - o quella che noi definiremmo tale: uno spirito, un demone, quello che vuoi tu - e fu solo per una deprecabile coincidenza che la dragonessa venne intrappolata dentro di essa, in modo da riempire il vuoto interno, per così dire, della spada.» «Quei draghi sono certamente enormi. E la spada...» «Le banali questioni di spazio e tempo non hanno importanza per le forze di cui parlo e che tu dovresti ormai conoscere» mi rispose Sepiriz, sollevando la mano. «La spada era stata forgiata da poco. Coloro che l'avevano fabbricata non avevano ancora terminato il loro lavoro. La lama, per così dire, si stava raffreddando. Poi, all'improvviso, ci fu un grande sommovimento che si diffuse per tutto il multiverso. «Già allora il Caos e la Legge lottavano per impadronirsi della lama e della sua gemella. Le dimensioni vennero ripiegate su se stesse, interi cicli storici cambiarono in pochi istanti, le leggi medesime della natura cambiarono. E proprio allora il drago - il secondo drago - tentò di attraversare le barriere tra i Regni per fare ritorno al proprio mondo. Fu una coincidenza imprevedibile. A causa del grande sommovimento, rimase intrappolata all'interno della spada. Nessun incantesimo fu più in grado di liberarla. «La lama era stata creata in modo da poter ospitare un'anima. Una volta che l'avesse avuta, poteva lasciarla libera soltanto in conseguenza di un caso portentoso. E tu sei il solo che possa liberare il drago. La spada è un oggetto potentissimo, anche senza di te. Nelle mani sbagliate potrebbe recare danni a tutto ciò che amiamo, forse distruggerlo per sempre. Sharadim stessa crede nella spada. Ha udito le voci che la chiamavano, ha fatto alcune domande, ha ricevuto certe risposte. Adesso vuole impadronirsi di quell'oggetto di potere. Intende dominare i Sei Regni, e con la Spada del Drago potrebbe raggiungere facilmente quello scopo.» «Come sai che la principessa Sharadim è malvagia?» chiesi, rivolto a Sepiriz. «Fra la popolazione dei Sei Regni - almeno fra la maggioranza della popolazione - è considerata come la somma di tutte le virtù.» Fu lady Phalizaarn a rispondermi. «Semplicissimo. L'abbiamo scoperto recentemente, dopo una spedizione commerciale nel Draachenheem. Ab-
biamo comprato una partita di uomini, tutti facenti parte, fino a poco prima, della corte. Molti erano nobili e Sharadim li aveva venduti a noi per farli tacere. Succede spesso che noi diventiamo un comodo sistema per eliminare gli indesiderati, da quando abbiamo diffuso la voce che mangiamo gli uomini da noi acquistati. Alcuni di quegli uomini avevano visto Sharadim avvelenare il vino che vi ha offerto al ritorno dalla vostra ultima impresa. La principessa s'è comprata la fedeltà di alcuni cortigiani, poi ha arrestato gli altri con l'accusa di essere cospiratori e sostenitori di Flamadin e li ha venduti a noi.» «Perché ha cercato di avvelenarmi?» chiesi. «Vi siete rifiutato di sposarla. Eravate disgustato delle sue macchinazioni e della sua crudeltà. Per anni vi ha incoraggiato a recarvi all'estero in cerca di avventure. La cosa era in accordo con il vostro temperamento e lei vi garantiva che il regno era al sicuro nelle sue mani. Gradualmente, però, siete riuscito a scoprire quello che stava facendo, come continuasse a corrompere tutto ciò che giudicavate onorevole e preparasse la guerra tra il Draachenheem e gli altri Regni. L'avete minacciata di informare tutti in occasione della prossima Adunanza. Intanto lei aveva capito qualcosa di ciò che le comunicavano le donne eldren e aveva capito che in realtà cercavano voi. Aveva parecchi motivi per uccidervi.» «Allora, se sono morto, come posso essere qui?» chiesi io. «È un mistero, davvero. Vari uomini oggi presenti nel nostro mondo vi hanno visto morire. Hanno detto che il vostro corpo era pallido e rigido.» «E che cosa è successo al mio corpo?» «Alcuni pensano che sia nascosto nelle stanze segrete di Sharadim. La quale vi pratica i riti più disgustosi...» «Questo porta come corollario la domanda: 'Chi sono io?'» osservai. «Visto che non sono il principe Flamadin.» «Tu sei il principe» intervenne Sepiriz. «Nessuno ne dubita. Ma non riescono a capire come sei riuscito a fuggire.» «Allora volete che cerchi quella spada? E poi?» «Bisogna portarla all'Isola delle Adunanze. Le donne eldren sapranno che cosa farne.» «E sai dove posso trovare la spada?» chiesi. «Abbiamo solo qualche voce. Ha cambiato possessore più volte. E, come risultato, molti di coloro che volevano usarla per i propri scopi hanno incontrato una morte terribile.» «Allora, perché non lasciare che la trovi Sharadim?» osservai. «Morta
lei, posso prendere la spada e portarla alle Eldren...» «L'umorismo non è mai stato il tuo forte, Campione» rispose Sepiriz, scuotendo tristemente la testa. «Sharadim avrà certo trovato qualche sistema per controllare la spada. Può avere trovato il sistema di rendersi invulnerabile alla specifica maledizione di quell'arma. Non è stupida, e neppure ignorante. Sa come usare la spada, una volta che l'abbia trovata. In questo momento ha già mandato i suoi emissari a raccogliere informazioni.» «Allora ne sa più di te, lord Sepiriz?» «Sa qualcosa. Ma è più che sufficiente.» «Devo cercare di arrivare alla spada prima di lei? O devo trovare qualche mezzo per fermarla? Non mi è chiaro quel che vuoi da me, mio signore.» A quel punto, Sepiriz doveva avere notato la mia scarsa voglia di obbedire. Non avevo alcuna intenzione di rivedere un'altra spada come la Spada Nera, tanto meno di impugnarla. «Mi aspetto che adempia il tuo destino, Campione.» «E se mi rifiutassi?» «Non conosceresti neppure un istante di libertà, per un'eternità dopo l'altra. Soffrirai in modo ancor più terribile di coloro che il tuo egoismo ha consegnato a un orrore infinito. Il Caos gioca una parte in tutto questo. Hai mai sentito parlare dell'arciduca Balarizaaf? È uno dei più ambiziosi Signori del Caos. Sharadim sta trattando con lui, gli ha offerto un'alleanza. Se il Caos dovesse impadronirsi dei Sei Regni, i popoli conquistati conoscerebbero soltanto un'orrenda distruzione, uno spaventoso tormento, Eldren o umani che fossero. Sharadim cerca solo il potere, che le permetterà di soddisfare i suoi capricci perversi. È un ottimo strumento in mano all'arciduca Balarizaaf. E Balarizaaf conosce assai meglio di lei il valore della spada.» «Allora, è una contesa tra Legge e Caos?» chiesi io. E aggiunsi: «Ma questa volta devo combattere per la Legge.» «È la volontà dell'Equilibrio» rispose Sepiriz, e mi parve di cogliere uno strano tocco di pietà nella sua voce profonda. «Non mi fido di te, né di chiunque altro della tua risma» gli dissi. «Ma non posso fare altro. Tuttavia non intendo fare nulla se non mi assicurerai che, con le mie azioni, sarò d'aiuto a queste donne eldren, perché la mia fedeltà va agli Eldren, e non a qualche grande forza cosmica. Se riuscirò nella mia missione, potranno riunirsi ai loro uomini?» «Questa è una cosa che posso prometterti» mi rispose Sepiriz. Pareva
colpito dalle mie parole, più che offeso dal tono. «Allora farò del mio meglio per trovare la Spada del Drago e per liberare la sua prigioniera» gli assicurai. «Dunque, ho la tua promessa» disse Sepiriz, chiaramente lieto della mia decisione. Dall'espressione del suo viso, mi parve che si prendesse un appunto mentale. Inoltre, era chiaro che gli avevo tolto una grave preoccupazione. Von Bek fece un passo avanti. «Perdonate l'interruzione, signori, ma vi sarei assai obbligato se poteste darmi una risposta: anch'io ho un corso d'azione predeterminato o dovrò limitarmi a fare del mio meglio per tornarmene a casa?» Sepiriz posò la mano sul braccio del conte sassone. «Mio giovane amico, le cose sono assai più semplici per ciò che riguarda te e posso spiegarmi più chiaramente. Se continuerai questa impresa e aiuterai il Campione ad adempiere il suo destino, ti prometto che raggiungerai lo scopo da te desiderato.» «La sconfitta di Hitler e del suo nazismo?» «Lo giuro.» Mi era difficile rimanere zitto, perché sapevo benissimo che i nazisti erano destinati alla sconfitta. Poi, all'improvviso, ebbi il sospetto che potessero vincere, ma che forse saremmo stati io e von Bek a mettere in moto il processo che li avrebbe portati alla distruzione. Capivo adesso perché Sepiriz era costretto a parlare per enigmi. Il Cavaliere conosceva più di un futuro. Forse conosceva un milione di futuri alternativi, un milione di mondi diversi, un milione di epoche storiche differenti... «Benissimo» rispondeva intanto von Bek. «Allora continuerò questa impresa. Almeno per ora.» «Anche Alisaard verrà con voi» intervenne lady Phalizaarn. «Si è offerta volontaria, dato che è una delle responsabili di avere fatto eccessive rivelazioni a Sharadim. E, naturalmente, porterete con voi gli uomini.» «Gli uomini?» feci io. «Che uomini?» Mi guardai attorno, stupidamente. «I cortigiani esiliati di Sharadim» mi spiegò lei. «E perché dovrei prenderli?» «Come testimoni» rispose Sepiriz «dato che il tuo primo compito consisterà nell'andare subito nel Draachenheem ad affrontare tua sorella accusandola e portando le prove di quello che ha fatto. Se le venisse tolto il potere, il tuo compito sarebbe assai più facile.» «Pensi che si possa riuscire? Noi tre e un pugno di uomini?»
«Non hai scelta» rispose Sepiriz, con gravità. «È il primo compito che dovrai svolgere, se vuoi trovare la Spada del Drago. Non c'è inizio migliore. Affrontando la tua malvagia gemella, Sharadim, stabilirai la configurazione che sarà presa da tutto il resto della tua ricerca. Ricorda, Campione, che tempo e materia sono forgiati dalle nostre azioni. È una delle poche costanti del multiverso. Siamo noi a imporgli la logica, per la nostra sopravvivenza. Crea una buona configurazione di partenza e ti avvicinerai di un passo a compiere il destino da te desiderato...» «Il destino!» Gli sorrisi senza alcuno umorismo. Per un istante provai la tentazione di ribellarmi. Stavo quasi per girarmi e per uscire dalla sala, per dire a Sepiriz che non volevo più avere a che fare con tutte quelle cose. Ero stufo di misteri e di destini. Ma l'occhio mi cadde sul viso di quelle donne eldren e vidi, nascoste sotto la grazia e la dignità, anche l'ansia e la disperazione profonda. Mi fermai. Era il popolo che avevo scelto di servire a dispetto della mia stessa razza. Non potevo tradirlo in quel momento. Ma solo per amore di Ermizhad - non certo per Sepiriz e la sua oratoria avrei preso la strada del Draachenheem e laggiù sarei andato a sfidare il male. «Partiremo domattina all'alba» promisi. TRE Eravamo in dodici nella piccola nave che, dopo essere entrata fra le colonne di luce, ora percorreva la galleria che collega i mondi. Alisaard, che indossava nuovamente la sua armatura d'avorio, era al timone, mentre gli altri si tenevano alle murate e guardavano a occhi sgranati la scena. Gli altri nove erano nobili del Draachenheem. Due di loro erano Principi Ereditari, capi di intere nazioni, rapiti la notte in cui era stato assassinato Flamadin. Quattro altri erano Sceriffi Eletti di grandi città e gli ultimi tre erano i Cavalieri di Corte che avevano visto somministrare il veleno. «Molti altri sono morti» mi disse il principe ereditario Ottro, un uomo anziano con la faccia segnata di lunghe cicatrici. «Ma non poteva uccidere tutti, e perciò ci ha venduto alle donne del Gheestenheem. Pensate, saremo i primi a ritornare da quel Regno.» «Ma votati al silenzio» gli ricordò il giovane Federit Shaus. «Dobbiamo a quelle donne degli Eldren più della nostra vita.» Tutt'e nove annuirono. Avevano giurato di non parlare della vera natura
del Gheestenheem. La nave continuò a correre nella luce di tutti i colori dell'arcobaleno, sobbalzando e virando di tanto in tanto, come se incontrasse resistenza, ma senza rallentare. Poi, all'improvviso, eravamo di nuovo a beccheggiare sull'acqua azzurra del mare, tra due colonne e, un istante più tardi, il vento gonfiò la nostra vela: ci trovammo in un normale oceano, con il cielo sereno sopra di noi e una buona brezza a poppa. Due uomini del Draachenheem consultarono la mappa di Alisaard e le diedero una buona idea della nostra posizione. Facevamo rotta verso il Valadek, la terra cui appartenevano Sharadim e Flamadin. Alcuni uomini del Draachenheem avrebbero voluto fare ritorno alle loro terre, per raccogliere un esercito e marciare contro Sharadim, ma Sepiriz aveva insistito perché ci recassimo direttamente nel Valadek. Presto avvistammo la costa. Scorgemmo grandi rupi nere sullo sfondo del cielo azzurro pallido. Mi ricordarono le rupi che vedevo in sogno, quelle dei Guerrieri alla Fine del Tempo. C'erano schiuma e scogli e pochi posti dove attraccare. «È la grande forza del Valadek» commentò Madvad di Drane, un individuo dai capelli neri e dalle sopracciglia straordinariamente folte. «Come isola è virtualmente invulnerabile agli attacchi dal mare. I suoi pochi porti sono ben custoditi.» «Prendiamo terra in uno di quelli?» chiese von Bek. Madvad scosse la testa. «Conosciamo una piccola cala dove è possibile sbarcare con la marea. Stiamo cercando quella.» Era quasi notte quando riuscimmo a sbarcare sulla gelida pietra di una stretta spiaggia circondata da alti scogli di basalto in cima ai quali sorgevano le rovine di un antico castello. La nave venne trainata fino a una caverna e uno dei cavalieri, Ruberd di Hanzo, ci accompagnò per una serie di aperture segrete e lungo un'antica scalinata finché non ci trovammo fra le rovine. «Una volta erano abitate da una delle nostre più nobili famiglie» disse Ruberd. «I vostri antenati, principe Flamadin.» S'interruppe, leggermente imbarazzato. «O dovrei parlare semplicemente degli 'antenati del principe Flamadin'? Ci avete detto che non siete più voi, mio signore, ma giurerei che siete il nostro Principe Eletto.» Mi era parso inutile ingannare quelle persone oneste, perciò avevo loro detto una parte della verità, nei limiti di quello che sarebbero riusciti a comprendere.
«Nelle vicinanze c'è un villaggio, vero?» chiese il vecchio Ottro. «Cerchiamo di raggiungerlo in fretta. Sento la mancanza di qualcosa da mangiare e di una pinta di birra. Ci fermiamo laggiù per la notte, vero, e proseguiamo a cavallo domani?» «Domattina all'alba.» Gli ricordai il nostro piano: «Dobbiamo raggiungere Rhetalik prima di mezzogiorno, allorché Sharadim si farà incoronare imperatrice.» Rhetalik era la capitale del Regno. «Certo, giovane quasi principe» mi assicurò. «Conosco perfettamente l'urgenza. Ma si pensa e si agisce meglio, dopo un buon pasto e qualche ora di riposo.» Io e Alisaard ci avvolgemmo nel mantello per non suscitare eccessive curiosità da parte degli abitanti del villaggio, poi trovammo una taverna abbastanza grande per accogliere l'intero gruppo. Anzi, il proprietario era deliziato di avere tanti ospiti. Avevamo un mucchio di monete locali e le spendemmo generosamente. Cenammo bene e dormimmo comodamente, e l'indomani mattina scegliemmo i cavalli migliori. Poi ci avviammo verso Rhetalik. Dovevamo costituire uno strano spettacolo agli occhi degli abitanti del luogo: io vestito di cuoio come un cacciatore di palude, von Bek con giacca, camicia e calzoni simili a quelli che indossava al suo arrivo (e fabbricati per lui dalle Eldren, che gli avevano dato anche guanti, stivali e un largo cappello), due signori del Draachenheem con le sete policrome e le stoffe dei loro clan, quattro in armature d'avorio prestate loro e tre con un assortimento di abiti presi tra quelli di cui disponevano i magazzini del Gheestenheem. Io cavalcavo in testa a quello strano gruppo, con von Bek da una parte e Alisaard dall'altra. Quest'ultima, per abitudine, s'era infilata l'elmo. Le Eldren non mostravano mai la faccia alla gente degli altri Regni. Avevano cucito un bandiera per me, che la portavo legata alla lancia, ma al momento era arrotolata e coperta. Inoltre, ogni volta che vedevamo qualcuno sulla strada, mi affrettavo a sollevare il cappuccio del mantello. Non intendevo farmi riconoscere così presto. Gradualmente la strada di terra battuta si allargò. Poi giungemmo in un tratto pavimentato con grandi lastre di pietra e incontrammo altre persone che si muovevano nella stessa direzione. Avevano un aspetto festoso e provenivano da tutte le classi sociali. C'erano uomini e donne dall'aspetto chiaramente monastico e altri di gusti chiaramente secolari. Uomini, donne e bambini, tutti indossavano i loro abiti migliori, in una confusione di colori vivaci.
Quegli abitanti del Draachenheem amavano le stoffe colorate e i disegni a riquadri multicolori e non avevano nulla in contrario a indossare una decina di colori diversi. I loro gusti mi parvero assai attraenti e cominciai a sentirmi piuttosto sciatto nella mia monotona tenuta di cuoio. Presto di fianco alla strada cominciammo a scorgere grandi statue dorate, raffiguranti uomini o donne, gruppi, animali di ogni sorta, pur se col predominio di quelle grandi lucertole che avevo visto all'Adunanza. Tuttavia i lucertoloni non parevano di impiego comune: per la maggior parte della gente, il cavallo, il bue e l'asino erano le consuete bestie da soma, anche se ogni tanto scorgevamo una grossa creatura, vagamente imparentata con il cinghiale, che, grazie a una robusta sella di legno, serviva come animale da sella e da carico. «Guardate!» mi disse il principe Ottro, affiancandosi a me. «È il momento migliore per arrivare a Rhetalik senza farci notare, come avevo detto.» La città era circondata da alte mura di calda arenaria rossa, e in alto si scorgevano grandi punte di pietra, simili ai merli di un castello medievale, ma di forma completamente diversa. Ciascuna di quelle punte aveva un foro in centro, in modo che un soldato vi si potesse riparare e scagliare frecce senza correre il rischio di essere colpito. La città era stata costruita per resistere a un assedio, anche se Ottro mi assicurò che da molti anni tutto il Draachenheem era in pace. All'interno delle mura c'erano case fortificate allo stesso modo, ricchi palazzi, mercati coperti, canali, edifici religiosi, magazzini e tutti i tipi di edificio che si possono trovare in una complessa città commerciale. Rhetalik pareva costruita su un terreno in discesa: tutte le sue strette vie portavano verso il lago situato al suo centro. Laggiù, su un isolotto artificiale costruito in tempi antichi, c'era un grande palazzo di marmo, quarzo, terracotta e pietra calcarea: un palazzo che scintillava alla luce del sole e che rifletteva la miriade di colori degli alti obelischi eretti tutt'intorno al perimetro dell'isola. Sulle torri del palazzo sventolavano cento diverse bandiere, ciascuna delle quali era un'opera d'arte. Un ponte sottile, elegantemente arcuato, portava a un elegante posto di guardia, in pietra scolpita, cui facevano da piantone sentinelle con l'armatura di gala, elaboratissima e assolutamente priva di valore pratico, dall'aspetto più fantasioso che si possa immaginare. L'effetto barocco di quella armatura era ulteriormente accresciuto dagli animali bardati e sellati in modo altrettanto fantastico, che, accovacciati
accanto alle sentinelle, erano immobili quanto i loro padroni. Erano le grandi lucertole da corsa che avevo già visto in precedenza: i draghi che davano nome a quel mondo. Ottro mi aveva spiegato come, nei tempi antichi, quelle creature fossero numerosissime e gli uomini avessero dovuto combatterle per impadronirsi del territorio. Fermammo i cavalli accanto a un muretto da cui si vedevano il lago e il castello. Tutt'intorno a noi le strade erano tutte impavesate, piene di bandiere che scintillavano di minuscoli specchi, piene di scudi e corazze tirati a lucido, cosicché l'intero luogo splendeva di riflessi argentei. Gli abitanti del Valadek festeggiavano l'incoronazione della loro Imperatrice. C'era musica dappertutto, folle di uomini e donne in giubilo, che facevano festa nei vicoli e nelle strade. «Abbastanza condivisa, questa allegria» commentò von Bek, sporgendosi in avanti perché aveva la schiena indolenzita. Erano passati vari anni dall'ultima volta che era montato in sella. «Difficile credere che festeggino la nomina di una persona che dovrebbe essere la personificazione del male!» «Il male cresce meglio dietro una maschera» disse Ottro, con aria cupa. I suoi compagni annuirono con altrettanta gravità. «E la maschera migliore è semplice» continuò il giovane Federit Shaus. «Onesto patriottismo. Gioioso idealismo...» «Siete un po' cinico, mio giovane amico» gli fece von Bek, con un sorriso. «Ma purtroppo la mia esperienza non può che darvi ragione. Fatemi vedere qualcuno che grida: 'Per la mia patria, nel bene o nel male!' e io vi farò vedere una persona disposta a sterminare senza battere ciglio metà dei suoi compatrioti nel nome del patriottismo.» «Qualcuno una volta ha detto che 'nazione' è solo un eufemismo per 'crimine'» intervenne Ottro. «In questo caso posso dirmi d'accordo. Sharadim ha abusato dell'affetto e della fiducia del proprio popolo. L'hanno eletta Imperatrice di questo grande regno perché sono convinti che rappresenti quanto c'è di meglio nell'umana natura. Inoltre gode della loro comprensione. Il fratello non ha cercato di ucciderla? Non è stato dimostrato che Sharadim ha sofferto per anni, desiderosa di mantenere la reputazione di suo fratello, facendo credere a tutti che fosse nobile e buono mentre invece era l'essenza stessa dell'egoismo e della codardia?» Scosse la testa, profondamente amareggiato. «Be'» intervenni io «visto che suo fratello dovrebbe essere morto dopo avervi ucciso...» la storia messa in circolazione da Sharadim era appunto
questa «...pensate quanto sarà felice di scoprire di avere avuto ragione, quando si fidava di lui!» «Ci ucciderà non appena ci riconoscerà. Lo ripeto ancora una volta.» Von Bek non credeva che il nostro piano potesse funzionare. «Non penso che Sepiriz, nonostante le sue astuzie e le sue macchinazioni, ci manderebbe a morte sicura» rispose Alisaard. «Dobbiamo fidarci del suo giudizio; del resto, conosce assai più cose di noi.» «Non amo l'idea di essere un semplice pedone della sua cosmica partita a scacchi» osservò von Bek. «Neanch'io.» Mi strinsi nelle spalle. «Anche se posso dare l'impressione di esserci ormai abituato. Continuo a credere che la volontà individuale possa ottenere gli stessi risultati delle alleanze tra uomini e dèi di cui parla Sepiriz. Più di una volta ho avuto l'impressione che gli dèi si siano lasciati prendere la mano a tal punto, dal loro gioco, dalle loro politiche cosmiche, da avere ormai perso di vista il loro scopo originale.» «Allora non avete molto rispetto per gli dèi e i semidei» fece Alisaard, portandosi rapidamente la mano davanti alla bocca, scordandosi di avere la visiera abbassata. «Confesso che anche noi del Gheestenheem non nutriamo molta ammirazione per quelle entità. Spesso quel che trapela fino a noi richiama alla mente i giochi dei bambini!» «Purtroppo» rispose von Bek «sono bambini che amano il potere assai più di noi uomini, e quando lo raggiungono sono in grado di distruggere quanti non desiderano prendere parte al gioco.» Alverid di Prucca si sfilò il mantello. Era più taciturno degli altri uomini del Draachenheem. Il suo principato era lontano dal Valadek, verso ovest, e laggiù la gente aveva la fama di parlare poco e riflettere molto. «Sia come sia» disse «dovremmo passare alla realizzazione del nostro piano. Presto sarà mezzogiorno. Ricordate tutti quello che dobbiamo fare?» «Non è un piano complesso» rispose von Bek. Tirò le redini. «Procediamo, allora.» Muovendoci lentamente in mezzo alla folla festante, giungemmo finalmente al ponte. Anche dal nostro lato era custodito da Cavalieri del Drago, fermi sull'attenti accanto ai loro lucertoloni. Al nostro arrivo ci rivolsero il saluto. «Siamo la delegazione invitata dai Sei Regni» disse Alisaard. «Venuta a porgere i suoi rispetti alla vostra nuova Imperatrice.» Una delle guardie aggrottò la fronte. «Invitata, signora?» «Invitata. Dalla vostra principessa imperatrice Sharadim. Dobbiamo a-
spettare qui con i venditori di cianfrusaglie e dobbiamo passare dall'ingresso della servitù? Mi aspettavo un'accoglienza più calorosa, da parte di una donna come me...» Le guardie si scambiarono un'occhiata e con aria un po' sottomessa ci lasciarono passare. E, visto che le prime guardie non ci avevano fermato, le altre ci fecero entrare senza altre domande. «Adesso, seguite me» disse Ottro, portandosi in testa al nostro gruppo. Era la persona che conosceva meglio il palazzo e il protocollo. Spinse in avanti il cavallo, fino a un grande arco di granito, largo almeno quattro metri e spesso tre. Di qui passammo in un elegante cortile ammantato di prati e con sentieri di ghiaia. Lo attraversammo, anche ora senza essere fermati da alcuna guardia, e io mi guardai intorno. Le alte mura del palazzo ci circondavano da tutti i lati, sormontate da guglie elegantissime, quasi eteree nella loro snellezza. Eppure avevo l'impressione di entrare in una trappola da cui sarebbe stato impossibile fuggire. Passammo sotto un secondo arco, e poi sotto un terzo, e infine scorgemmo un gruppo di giovani in livrea verde e marrone. Ottro li riconobbe. «Scudieri» gridò loro. «Prendete i nostri cavalli o arriveremo tardi alla cerimonia!» Gli scudieri corsero verso di noi per obbedire. Smontammo e Ottro si diresse senza esitazione verso la porta centrale; di lì entrò in quello che era senza dubbio un appartamento privato, ma che al momento era vuoto. «Conoscevo la dama che abita qui» ci disse, a mo' di spiegazione. «Facciamo in fretta, amici. Finora siamo stati fortunati.» Aprì la porta e ci mostrò un fresco corridoio dagli alti soffitti e dai tendoni sgargianti dei colori che quella gente amava. Incontrammo alcuni giovani che indossavano la livrea verde e marrone, una giovane donna con una veste bianca e rossa, un vecchio con un'ampia sciarpa di stoffa posta a bandoliera attraverso il petto e bordata di pelliccia: ci guardarono incuriositi mentre seguivamo Ottro, svoltavamo altre due volte, salivamo lungo alcune rampe di scale marmoree e infine arrivavamo a una pesante porta di legno. Il principe la aprì con cautela, poi ci fece segno di seguirlo. Ci trovammo in una camera buia, priva di occupanti. Tutte le finestre erano chiuse con gli scuri. Nel centro, in un grosso vaso, ardeva un incenso dal profumo pesante. Grandi piante dalle larghe foglie crescevano a profusione in tutta la stanza e davano all'ambiente l'aspetto di una serra. C'era una forte umidità che faceva pensare ai tropici. «Cos'è questo posto?» chiese von Bek, con un brivido. «Vi si respira
un'atmosfera assai diversa da tutto il resto.» «È la stanza dov'è morto il principe Flamadin, signore» gli rispose uno dei cavalieri di corte. «Su quel divano.» Ce lo mostrò. «Quello che avete sentito, signore, è l'odore del male.» «Perché la tengono al buio?» chiesi io. «Perché dicono che Sharadim comunica ancora con l'anima del fratello morto...» Fui io, questa volta, a rabbrividire. Si riferivano all'anima del corpo da me abitato in quel momento? «Ho sentito dire che conserva il cadavere in una di queste stanze» disse un altro. «Nel ghiaccio. Incorrotto. Esattamente nelle condizioni in cui era all'istante della morte.» «Semplici voci» ribattei con fastidio. «Certo, altezza» si affrettò a dire il giovane. Poi aggrottò la fronte. Riuscivo perfettamente a capirlo. Non era il solo a sentirsi confuso. A quanto si sapeva, ero stato assassinato in quella stanza... o, almeno, era stato assassinato un individuo pressoché identico a me. Mi portai la mano alla fronte. Mi girava la testa. Von Bek mi tenne per il braccio. «Appoggiati a me. Dio solo sa cosa stai provando in questo momento. È già abbastanza brutto per me...» Con il suo aiuto riuscii a riprendere la padronanza di me stesso. Seguimmo Ottro lungo una serie di altre camere, tutte buie e malsane come l'ultima, finché non fummo dinanzi a una porta doppia. Ottro si fermò. Dall'altra parte della porta ci giungevano forti rumori. Musica. Voci sonore. Applausi. Capivo il nostro piano, ma trovavo difficile credere che fossimo già arrivati a tanto. Il mio cuore accelerò i battiti. Rivolsi a Ottro un cenno d'assenso. Con un brusco movimento, il vecchio sfilò la sbarra e spinse violentemente la porta, facendola sbattere rumorosamente contro il muro. Scorgemmo davanti a noi un mare di colori, di metallo e di seta, di facce che si voltavano dalla nostra parte, sorprese dallo schianto. Eravamo giunti alla grande sala delle cerimonie del Valadek, che sotto il suo alto soffitto a volta ospitava una profusione di lance e bandiere, di armature e di ogni tipo di vesti lussuose, in una predominanza di rosso e di bianco, di oro e di nero. Dalle grandi vetrate poste dirimpetto a noi entrava l'accecante luce del sole. I mosaici, i tendaggi, i vetri istoriati facevano un magnifico contrasto
con la pietra chiara della sala e parevano far convergere lo sguardo verso il centro, dove, su un trono di ossidiana verde e azzurra, si stava alzando in quel momento una donna straordinariamente bella. Il suo sguardo incrociò il mio quando giunsi al primo degli ampi scalini che scendevano al palco su cui posava il trono. Accanto a lei c'erano uomini e donne che indossavano lunghe vesti: le massime autorità religiose del Valadek, anch'esse costituite di fratelli e sorelle sposati tra loro, come era nostro costume da duemila anni. Sharadim portava l'antica Veste della Vittoria, che da secoli non era più stata indossata da alcun Valadek. Né ci auguravamo di doverla indossare, perché era una veste di guerra e significava conquista con la forza delle armi. Sharadim l'aveva offerta a me e io l'avevo rifiutata. Teneva in mano la Mezza Spada, un'antica arma dei nostri barbari antenati, che a quanto si diceva, anche se si era spezzata nel corso della battaglia, era stata ancora in grado di uccidere l'ultimo superstite della precedente dinastia Anishad, una bambina di sei anni, dando così il regno alla nostra famiglia. Questa l'aveva poi tenuto fino alla riforma della monarchia con cui veniva dato al popolo il potere di eleggere principi e principesse. Flamadin e Sharadim erano stati eletti perché erano gemelli, cosa che costituiva il migliore augurio di prosperità. Sarebbe stato nostro dovere sposarci per benedire la nazione, e il popolo sapeva che una simile unione avrebbe portato fortuna. La popolazione però non sapeva che Sharadim voleva l'unione per un solo fine: perché sarebbe servita ad aumentare il suo potere. Ricordavo la nostra discussione, il suo disgusto per quella che lei giudicava una mia debolezza. Le avevo ricordato come fossimo stati eletti, come il nostro potere fosse un dono del popolo, come dovessimo rispondere al Parlamento e al Consiglio. Ma lei s'era limitata a riderne. «Da tre secoli e mezzo» mi aveva risposto «il nostro sangue attende di essere vendicato. Da tre secoli e mezzo la nostra famiglia morde il freno in attesa del momento opportuno, consapevole che quel momento sarebbe giunto, consapevole che quegli idioti se ne sarebbero scordati, perché se i Valadek avessero voluto eliminare i loro giusti sovrani, noi Bharalleen di Sardatria, avrebbero dovuto fare come noi con gli Anishad e uccidere l'intera famiglia, fino ai cugini più lontani. Noi apparteniamo pienamente a quel sangue, Flamadin. La nostra gente ci grida di realizzare il nostro destino...» «No!» gridai ora, dall'alto degli scalini.
Sharadim sgranò gli occhi mentre scendevo lentamente verso di lei. «No, Sharadim» continuai. «Non otterrai tanto facilmente il potere. Voglio almeno che il mondo conosca gli orrendi mezzi con cui lo hai raggiunto. Devono sapere che porterai disordine, orrore, sangue e sofferenza a questo regno. Devono sapere che intendi allearti con i più tenebrosi poteri del Caos, che intendi conquistare prima questo regno, poi farti Imperatrice dei Sei Regni della Ruota. Devono sapere che sei pronta ad abbattere le barriere che trattengono le forze delle Marche dell'Incubo. Coloro che fanno parte di questa grande assemblea devono sapere, Sharadim, sorella mia, che provi solo disprezzo per loro; infatti ritenevano che il nostro sangue si fosse annacquato, mentre in realtà tu ritieni che la lunga attesa lo abbia fatto diventare ancora più forte. Devono sapere, Sharadim, tu che prima hai cercato di sedurmi e poi di uccidermi, come giudichi il loro semplice entusiasmo e la loro buona volontà. Devono sapere che aspiri a diventare immortale, a entrare a far parte del pantheon del Caos!» Già sapevo l'effetto che le mie parole avrebbero avuto in quella grande sala. La mia voce echeggiò sulle pareti. Le mie parole furono come coltelli, ciascuna colpì in pieno centro il bersaglio. Eppure, fino a quel momento, non sapevo quello che avrei detto. Poi le parole mi erano giunte tutt'a un tratto alla mente. Per qualche minuto, a quanto capivo, l'anima di Flamadin era entrata in me, e io avevo posseduto i ricordi dell'ultimo incontro con la sorella. Avevo pensato di fare qualche rivelazione dinanzi ai nobili di una decina di nazioni, riuniti per l'incoronazione, ma non avevo pensato, neppure per un istante, che si sarebbe trattato di accuse così specifiche e accurate! All'inizio ero io a possedere il corpo del principe Flamadin. Ora la mente di Flamadin aveva preso possesso della mia. «Confida loro tutti i tuoi pensieri, sorellina!» proseguii, mentre continuavo a scendere. Ora passavo tra mucchi di rose rosse e rose rosa, e il loro profumo dolciastro mi entrava nelle narici come una droga. «Di' loro la verità!» Sharadim gettò a terra la Mezza Spada che, fino a un attimo prima, aveva continuato ad accarezzare come si accarezza un amante. Aveva il viso pieno d'odio, ma anche, nello stesso tempo, di una sorta di gioia e di esaltazione, come se all'improvviso avesse riscoperto in sé un'ammirazione per il fratello, da tempo dimenticata. Alcuni petali di rosa si sollevarono pigramente nei grandi raggi di luce che scendevano dalle invetriate. Mi fermai di nuovo, con le mani sui fian-
chi, l'intero corpo che la sfidava. «Dillo, Sharadim, sorella mia!» Nella sua voce, quando parlò, non c'era nessuna traccia di dubbio. Anzi, conteneva una gelida, orribile autorità. E un tono sprezzante. «Il principe Flamadin è morto, messere. E voi non siete altro che un volgare impostore!» QUATTRO Fino a quel momento non mi ero ancora sfilato il cappuccio. Ora me lo sfilai e da ogni parte della sala giunse un mormorio di riconoscimento. Sharadim fece un passo indietro, impaurita, come se avesse visto uno spettro; altri si sporsero in avanti per vedermi meglio. E da dietro il trono, a un cenno di Sharadim, giunse una cinquantina di armati che impugnavano le lance da cerimonia e che la circondarono. Indicai dietro di me. «Se sono un impostore, chi sono queste persone? Signori, non riconoscete i vostri pari?» Ottro, principe ereditario di Waldana, si mise al mio fianco. Poi si fecero avanti Madvad, duca di Drane, Halmad principe ereditario del Ruradani e gli altri nobili venuti dal Gheestenheem. «Gli uomini che hai venduto come schiavi, Sharadim» continuai. «Scommetto che ora rimpiangi di non averli uccisi come tanti altri!» «Magia nera!» esclamò mia sorella. «Fantasmi evocati dal Caos! Ma i miei soldati li distruggeranno, non abbiate timore.» Intanto, però, molti altri nobili si facevano avanti. Un vecchio di alta statura, con una corona di conchiglie colorate, sollevò la mano. «In questa sala non si deve versare sangue. Conosco Ottro di Waldana come se fosse mio fratello. Hanno detto che eri partito in esplorazione, Ottro, alla ricerca di nuove porte verso gli altri Regni. È così?» «Sono stato arrestato, principe Albret, mentre salivo sulla nave che doveva riportarmi nelle mie terre. L'arresto era stato ordinato dalla principessa Sharadim. Una settimana più tardi, io e coloro che vedete con me sono stati venduti alle Donne Fantasma, come schiavi.» Altro mormorio tra la folla. «Noi abbiamo acquistato questi uomini in completa buona fede» disse Alisaard, senza aprire la visiera. «Ma quando abbiamo saputo la loro origine abbiamo deciso di ridare loro la libertà.» «Questa è una miserabile bugia» esclamò Sharadim, tornando a sedere sul trono. «Quando mai le Donne Fantasma si sono preoccupate di infor-
marsi dell'origine dei loro schiavi? È una congiura, nata tra nobili ribelli e nemici stranieri e avente lo scopo di screditarmi per indebolire il Draachenheem...» «Ribelli?» chiese il principe Ottro, scendendo alcuni scalini, fino a portarsi davanti a me. «E scusate, signora, contro chi ci ribelleremmo? La vostra autorità è puramente cerimoniale, no? E, se non lo fosse, perché non rivelate questo particolare?» «Parlavo di traditori comuni» ribatté lei. «Contro il nostro Regno e tutte le sue nazioni. Non sono scomparsi a causa di un arresto, ma perché cercavano alleanza con le donne del Gheestenheem. Sono loro a voler corrompere le nostre tradizioni. Sono loro a cercare il potere per dominare tutti gli altri.» La faccia di Sharadim era il ritratto della virtù offesa. La sua pelle chiara pareva brillare di onestà e i suoi grandi occhi azzurri non erano mai parsi più innocenti. «Sono stata scelta come Imperatrice del Regno» proseguì «dietro suggerimento di vari baroni e principi ereditari. Se la cosa deve portare dissensi anziché dare nuova unità al Draachenheem, sarò io la prima a rifiutare l'onore...» Tra i presenti, ci furono numerose grida di approvazione; altri gridarono a Sharadim di lasciarci perdere. «Questa donna ha ingannato l'intero Regno» proseguì Ottro. «Porterà la rovina e la più nera disperazione a tutti noi, lo so. È una maestra d'inganni. Vedete questo ragazzo?» Si girò verso il giovane Federit Shaus e gli disse di avvicinarsi. «Molti di voi l'avranno riconosciuto. Un cavaliere alle dipendenze del principe Flamadin. Ha visto la principessa Sharadim avvelenare il vino con cui intendeva assassinare il fratello. Ha visto cadere il principe...» «Io avrei assassinato mio fratello?» chiese Sharadim, fissando con stupore i nobili raccolti attorno a lei. «Assassinato? Non capisco. Non dicevate che quest'uomo è il principe Flamadin?» «Sono io.» «E siete stato assassinato, signor mio?» Molti risero, nella sala. «Il tentativo è fallito, signora.» «Non ho ucciso il principe Flamadin. Il principe è stato esiliato perché ha cercato di uccidermi. Tutto il mondo lo sa. Tutt'e Sei i Reami lo sanno. Molti pensano che avrei dovuto farlo giustiziare. Molti mi giudicano trop-
po indulgente. Se questo è il principe Flamadin ritornato dall'esilio, allora ha infranto la legge e deve essere arrestato.» «Principessa Sharadim» dissi io. «Avete fatto un po' troppo in fretta a darmi dell'impostore. Sarebbe stato più normale pensare che fossi Flamadin ritornato al palazzo.» «Mio fratello aveva le sue debolezze, signore, ma non è mai stato uno sciocco!» Altre approvazioni e altre risate da parte della folla. Ma una parte dei presenti cominciava ad avere qualche dubbio. «Non è così che si deve fare» esclamò il vecchio con la coroncina di conchiglie. «Come Maestro ereditario delle Cerimonie, devo usare la mia autorità in questa disputa. Tutto dovrà essere risolto in accordo alla legge. Ciascuno deve avere la possibilità di parlare. Basterà un giorno, ne sono certo, per ascoltarvi tutti. E allora, se tutto sarà in ordine, l'incoronazione potrà avere luogo. Che ne dite, vostra maestà? E voi, signori e signore? Se vogliamo che tutti siano soddisfatti, convoco un'udienza. In questa sala, all'ora di metà pomeriggio.» Sharadim non poteva rifiutarsi; quanto a noi, era meglio di quanto non avessimo sperato. Accettammo subito. «Sharadim!» esclamai. «Mi concedi un'udienza privata? Tu e tre compagni di tua scelta. Io e tre dei miei?» Lei ebbe qualche istante di esitazione, guardò da un lato della sala come per cercare consiglio. Poi annuì. «Nell'anticamera, tra mezz'ora» rispose. «Ma non riuscirete a convincermi, signore di essere il fratello esiliato. Non penserete che sia disposta ad accettarvi come sangue del mio sangue?» «Allora, che cosa sono, signora, un fantasma?» Senza muovermi dal mio posto, aspettai che lei e le sue guardie lasciassero la sala, in un turbinare di sete colorate e di metallo lucido, mentre il Maestro delle Cerimonie ci fece segno di seguirlo in direzione di un'altra porta, fino a una camera tranquilla, illuminata da un'unica finestra tonda, posta all'altezza del soffitto. Chiuse la porta, poi trasse un sospiro di sollievo. «Principe Ottro» disse «temevo che vi avessero assassinato. E anche voi, principe Flamadin. Di tanto in tanto abbiamo udito sgradevoli voci. Quanto a me, le vostre parole di oggi non fanno che confermare i miei precedenti sospetti. Non uno dei nobili che hanno votato per eleggerla Imperatrice appartiene al tipo di persone che inviterei volontariamente a casa mia. Tut-
ta gente ambiziosa, interessata e vana, che si crede di meritare un potere superiore a quello di cui dispone. Ed è quello che Sharadim deve avergli offerto. «Naturalmente ci sono altre persone, più disinteressate, che la seguono per normale - benché malinteso - idealismo. La vedono come una sorta di divinità in terra, come una personificazione delle loro speranze e dei loro sogni. Ho l'impressione che la bellezza abbia molto a che fare con il suo successo. Tuttavia non occorrevano le vostre drammatiche dichiarazioni di oggi per convincermi che siamo a un passo dalla completa tirannia. Già Sharadim comincia a parlare, anche se in modo suadente, di come i Regni vicini siano invidiosi della nostra ricchezza, della necessità di adottare maggiori difese e così via.» «Gli uomini tendono sempre a sottovalutare le donne» disse Alisaard, con un tono di soddisfazione nella voce «e questo, a volte, permette loro di raccogliere assai più potere di quanto non si immaginino i maschi. L'ho notato nei mie studi di storia, e nei miei viaggi tra i Regni.» «Credetemi, signora, io non la sottovaluto affatto» commentò il Maestro delle Cerimonie, facendoci segno di sedere al lungo tavolo di noce. «Ricorderete, principe Flamadin, che vi avevo avvertito di adottare maggiore cautela. Ma non eravate disposto a credere ai progetti di vostra sorella, alla sua perfidia. Lei vi trattava come un figlio viziato, un po' scapestrato, e non come un fratello. E questo vi permetteva di correre qua e là in cerca di avventure, mentre lei gradualmente si procurava altri alleati. Anche a quel punto, però, non avreste immaginato il livello della sua malvagità se non avesse perso la pazienza e non vi avesse ordinato di sposarla per consolidare la sua posizione. Ha pensato di potervi controllare, o almeno di potervi mantenere a una buona distanza dalla corte. Invece, voi vi siete opposto. Vi siete opposto alle sue ambizioni, ai suoi metodi, alla sua stessa filosofia. Lei ha cercato di convincervi, lo so. Poi che cosa è successo?» «Ha cercato di uccidermi» risposi. «E ha messo in giro la voce che eravate stato voi a cercare di assassinarla. Che vi opponevate alle nostre idee e alle nostre tradizioni. È come se in lei si fosse reincarnata Sheralian, regina del Valadek, che di tanto in tanto riempiva il lago col sangue di coloro che considerava ostili. Avevo già indovinato gran parte di quanto avete detto oggi, ma non avevo capito la sua intenzione di rimettere la vostra dinastia sul trono del Draachenheem. E avete detto che cerca aiuto dal Caos? Il Caos non è più entrato nei Sei Regni dall'epoca della Guerra degli Stregoni, più di mille anni fa. È chiuso
nel mezzo, nel Regno dell'Incubo. Abbiamo giurato di non lasciarlo più uscire.» «Ho saputo che è già in comunicazione con l'arciduca Balarizaaf del Caos. Ha cercato il suo aiuto per realizzare le proprie ambizioni.» «E quale potrà essere il prezzo dell'arciduca, mi chiedo?» Il Maestro delle Cerimonie era ancor più preoccupato. «Un prezzo altissimo» disse il principe Ottro, incrociando le braccia sul petto. «Esistono davvero, creature come i 'Signori del Caos'?» volle sapere von Bek. «O è solo un'immagine del discorso?» «Esistono» rispose il Maestro delle Cerimonie, in tono grave. «Esistono in quantità incalcolabili. Cercano di dominare il multiverso e sono pronte a usare le follie e i vizi dell'umanità a quello scopo. Dall'altra parte ci sono i Signori della Legge, che cercano di usare contro il Caos l'idealismo dell'umanità, per portare avanti i loro progetti; intanto l'Equilibrio Cosmico cerca di mantenere la parità tra loro. Questo sanno coloro che conoscono l'esistenza del multiverso e che sono in grado di viaggiare, almeno in una piccola misura, tra un Regno e l'altro.» «Conoscete una leggenda che riguarda una spada?» chiese von Bek. «E una creatura che dorme al suo interno?» «Il Drago nella Spada. Certo, ho sentito parlare della Spada del Drago. È un'arma terribile, in tutte le leggende. Forgiata dal Caos per conquistare il Caos. I Signori del Caos darebbero molte cose per ottenerla.» «Che sia il prezzo dell'arciduca Balarizaaf?» azzardò von Bek. Era impressionante la rapidità con cui era giunto a capire la logica della realtà in cui ci trovavamo. «Davvero» disse il Maestro delle Cerimonie, sgranando gli occhi. «Potrebbe davvero essere così!» «Ecco perché Sharadim la cerca. Ed ecco perché era così lieta, quando gliene abbiamo parlato!» disse Alisaard, stringendo i pugni coperti d'avorio. «Oh, quanto siamo state stupide a dirle tutte quelle cose. Avremmo dovuto capire che la persona da noi cercata non era lei; la persona che cercavamo sapeva già tutto!» «Siete riuscite a comunicare così bene con lei?» chiesi io, sorpreso. «Le abbiamo detto tutto quel che sapevamo.» «E senza dubbio disponeva di informazioni sue da aggiungere alle vostre» commentò Ottro. «Ma non penso che cercaste anche voi la Spada del Drago per venire a patti col Caos vero?»
«La volevamo per poterci riunire alla nostra gente in un regno lontano. Gli Eldren non hanno rapporti col Caos.» «C'è altro che io debba sapere?» chiese il Maestro delle Cerimonie. «Dobbiamo convocare un'udienza e dobbiamo cercare di dimostrare la malvagità di Sharadim ma, se non potremo farlo, se il voto dovesse andare contro di noi, dobbiamo prendere in considerazione altri mezzi per fermare quella donna.» «Perché, le nostre prove non saranno sufficienti?» chiese Alisaard. Von Bek la guardò come se provasse invidia per tanta innocenza. «Sono recentemente giunto da un mondo» spiegò «dove coloro che comandano sono maestri nel trasformare in verità le bugie e viceversa. E la cosa non è difficile. Non possiamo aspettarci di essere creduti solo perché si tratta della verità.» «Il problema» aggiunse il Maestro delle Cerimonie «sta nel fatto che la maggioranza della popolazione è convinta che Sharadim possegga in sommo grado tutte le qualità più desiderabili. Spesso la gente lotta con un accanimento addirittura maggiore, quando si tratta di difendere le proprie illusioni. E cerca di eliminare chiunque le metta in dubbio.» Discutemmo ancora per qualche minuto, poi il Maestro delle Cerimonie ci annunciò che era giunto il momento dell'incontro con Sharadim. Io, Alisaard, von Bek e il principe Ottro lasciammo i nostri compagni e fummo scortati lungo la sala, adesso deserta ma ancora piena di petali di rosa, fino a una serie di stanze, alcune delle quali trasformate in grande voliera, e infine a una stanza circolare dalle cui finestre si scorgevano aiole coperte di fiori, siepi tagliate con precisione geometrica e prati: il cortile interno del palazzo. Laggiù trovammo a sedere Sharadim. Alla destra della principessa c'era un individuo dalla mascella sporgente, dai capelli biondi, fini e scarmigliati, che indossava sopravveste arancio, giacca e calzoni gialli. Alla sinistra, piegato verso di lei, c'era un individuo grasso e massiccio, con gli occhietti vigili e la mascella in movimento come una capra che rumina; indossava una sopravveste malva e un vestito azzurro. L'ultimo dei compagni di Sharadim era un giovane dall'aspetto così decadente da farmi dubitare dei miei occhi. Sembrava una caricatura del giovane debosciato: labbra grandi e umide, borse sotto gli occhi, pelle pallida e piena di macchie fegatose, muscoli e dita che sussultavano senza motivo, capelli rossi ricciuti. I tre si presentarono con fastidio, quasi con sfida. Il primo era Perichost di Risphert, duca di Orrawh nel lontano Occidente; poi
Neterpino Sloch, comandante dell'Armata di Beefel; e infine lord Pharl Asclett, principe ereditario di Skrenaw, meglio noto come Pharl dal Palmo Pesante. «Noi ci conosciamo già, signori» disse Ottro, senza sforzarsi di nascondere il disgusto, poi ci presentò: «Vi presento il principe Flamadin. Il suo amico conte Ulrich von Bek, e infine Alisaard, Comandante di Legione del Gheestenheem.» Sharadim aveva atteso con impazienza che finissero le presentazioni. Ora si alzò e senza badare ai suoi accompagnatori, si portò davanti a me e mi fissò negli occhi. «Sei un impostore e qui in privato puoi ammetterlo» disse. «Sai benissimo, come lo sanno coloro che ti accompagnano, che ho ucciso il principe Flamadin. Certo, il suo corpo incorrotto è conservato nelle mie cantine. Ma poco fa sono andata nel luogo dove lo tengo ed è ancora laggiù! Comunque, ti conosco: sei il Campione, ossia la persona chiamata da quelle stupide donne, quando mi hanno preso per te. E posso anche capire che cosa vuoi raggiungere con questa prova di recitazione...» «Sperano di arrivare alla spada prima di noi» la interruppe Pharl, grattandosi il palmo. «Per trattare loro con l'arciduca.» «Sta' zitto, principe Pharl» lo redarguì lei, con disprezzo. «L'immaginazione non è mai stata il tuo forte. Non tutti hanno le tue stesse ambizioni!» Il principe arrossì. Sharadim continuò: «O vuoi togliermi il trono e regnare al mio posto» disse «o vuoi solo bloccare i miei piani. Allora? Voi tutti servite la Legge? Siete stati ingaggiati per dare battaglia al Caos e ai suoi alleati? Conosco la tua leggenda, Campione. Non è quella la tua funzione?» «Fa' pure tutte le ipotesi che vuoi, signora, ma non puoi pretendere che io le confermi o le smentisca. Non sono qui per darti ulteriore potere.» «Sei qui per portarmi via quello che ho, vero?» «Se tu rinunciassi ai tuoi piani, se rifiutassi altri commerci con il Caos, se ci dicessi quello che sai della Spada del Drago, non ci sarebbero altri atti ostili da parte mia. Se invece, come temo, non accetterai le mie condizioni, allora sarò costretto a combatterti, principessa Sharadim. E la lotta finirà certamente con la tua morte...» «O con la tua» obiettò, con calma. «Io non posso morire.» «Mi hanno riferito il contrario» rise lei. «Questo travestimento, la carne che indossi, può essere distrutto abbastanza facilmente. Ciò che ami può
essere ucciso. Quel che ammiri può venire corrotto. Via, Campione, è indegno di noi giocare con le parole, visto che sappiano esattamente con chi parliamo!» «Ti ho offerto un buon accordo, signora.» «Me ne è stato offerto uno migliore.» «I Signori del Caos sono notoriamente dei traditori. I loro servitori hanno la tendenza a morire in circostanze orribili...» Mi strinsi nelle spalle. «'Servitori'? io non sono un servitore del Caos. Io sono un alleato di un determinato partito al suo interno.» «Balarizaaf» dissi io. «Ti ingannerà.» «O io ingannerò lui.» Il sorriso di Sharadim era pieno d'orgoglio. In passato ne avevo visti tanti, come lei. Certo, si credeva più astuta di quanto non fosse veramente, ma solo perché qualcuno aveva voluto nutrire in lei quella illusione. «Ti parlo con sincerità, principessa Sharadim!» le dissi, in tono preoccupato. Non avrei avuto tanta paura se fosse stata più intelligente. «Non sono tuo fratello, è vero. Ma una parte dell'anima di tuo fratello è dentro di me, mescolata con la mia. So che non hai la forza occorrente a vincere il Caos, quando si volgerà contro di te.» «Non si volgerà contro di me, ser Campione. Comunque, mio fratello non sapeva nulla dei miei accordi con il Caos. Devi avere raccolto l'informazione da un'altra fonte.» L'affermazione mi mise leggermente a disagio. Se non attingevo ai ricordi di suo fratello, allora ricevevo quelle conoscenze da altre fonti. Poi compresi di essere in una sorta di comunicazione telepatica con la principessa: grazie a quel contatto avevo scoperto i suoi piani. L'idea mi piaceva poco. Ma, dopotutto, Flamadin e Sharadim erano gemelli. Io abitavo un corpo che era esattamente uguale a quello di Flamadin. Di conseguenza era possibile che esistesse tra noi una sorta di rapporto telepatico. In tal caso, Sharadim conosceva i miei segreti esattamente come io conoscevo i suoi... Mi disturbava inoltre l'idea che un corpo uguale al mio fosse ancora chiuso nelle cantine di Sharadim. Non so perché l'idea mi paresse così disgustosa, ma mi fece rabbrividire. In quello stesso momento, però, fui colpito da un'immagine: una parete di cristallo di colore rosso pallido, e al suo interno una spada che brillava di luce verde e nera, e che di tanto in tanto pareva prendere fuoco. «Come conti di tagliare il cristallo, Sharadim?» chiesi. «Come toglierai
la spada dalla sua prigione?» Lei aggrottò la fronte. «Sai più di quel che credessi. Questa discussione è una sciocchezza. Dovremmo pensare a un'alleanza. Tutti penseranno che Flamadin sia stato riportato al suo rango. Dovremmo sposarci. La gente del Draachenheem ne sarà felicissima. Che festeggiamenti! Il nostro potere aumenterebbe subito. E ci divideremmo in parti uguali tutto quello che otterremo!» Io scossi la testa. «Sono le stesse proposte che hai fatto a tuo fratello. Quando ha detto di no, lo hai ucciso. Adesso che io le rifiuto, ucciderai anche me, Sharadim? Qui stesso? In questo momento?» Soffiò come una gatta rabbiosa; per un attimo pensai che volesse sputarmi in faccia. «Di momento in momento io guadagno forza. Sarai inghiottito dalla tempesta che scatenerò, Campione. Sarai dimenticato, e con te i tuoi compagni. Io dominerò i Sei Regni; io e i compagni che mi sono scelta soddisferemo ogni nostro capriccio. Ecco che cosa rifiuti: l'immortalità e un'eternità di piaceri! Invece hai scelto una lunga sofferenza che terminerà nella morte certa.» Era una sciocca e a causa di questa sciocchezza era straordinariamente pericolosa. Lo sapevo. Ero allarmato - e infatti lei aveva sperato di spaventarmi - ma non per le sue minacce. Se si fosse alleata con Balarizaaf, non c'era modo di prevedere i pericoli che avremmo incontrato nella nostra ricerca della spada. E se l'avessi fermata, pensavo, era il tipo di persona che avrebbe volontariamente fatto colare a picco con sé tutto quello che la circondava. Preferivo affrontare nemici meno inesperti. «Bene» disse von Bek, dietro di me. «Vedremo come finirà l'udienza. Forse sarà la gente a decidere l'esito di tutto questo.» Per un attimo comparve sul viso di Sharadim un'aria di malvagia soddisfazione. «Che cosa avete fatto, signora?» esclamò il principe Ottro. «Attento, principe Flamadin. Le leggo negli occhi il più bieco dei tradimenti!» In quel momento il principe Pharl dal Palmo Pesante si lasciò sfuggire un sogghigno. Un attimo dopo, sentimmo bussare alla porta. Qualcuno gridò dall'altra parte: «Mia signora! Imperatrice! Un messaggio della massima urgenza!» Sharadim mosse il capo in direzione di Perichost, duca di Orrawh, il quale fece un passo avanti e andò ad aprire la porta. Scorgemmo un servitore dall'aria atterrita, che si portava la mano alla faccia. «Oh, mia signora! È stato commesso un omicidio!»
«Omicidio?» Sharadim fece la faccia sorpresa e inorridita. «Un omicidio, dici?» «Sì, signora. Il Maestro delle Cerimonie, sua moglie e due giovani paggi. Tutti uccisi nell'Auditorio d'Argento!» Sharadim si voltò verso di me, nei suoi grandi occhi azzurri si leggeva un'espressione esultante. «Bene, signore, pare che dovunque vi rechiate, siate accompagnato dalla violenza e dal terrore. Ed essi piombano su noi soltanto quando voi - o la persona a cui assomigliate - siete presente!» «Li avete uccisi voi!» gridò Ottro. Si portò la mano al fianco prima di ricordarsi che lui - come gli altri del nostro gruppo - era privo d'armi. «Avete ucciso quel vecchio così buono e giusto!» «Allora?» chiese Sharadim, rivolta al paggio. «Avete qualche idea sull'autore dei crimini?» «Accusano Federit Shaus e due altri, dicono che hanno obbedito al principe Halmad di Ruradani.» «Come? Coloro che sono venuti con gli altri del gruppo?» «Così si dice, signora.» Io mi infuriai. «Hai preparato tutta questa messinscena. In meno di un'ora dal nostro arrivo hai versato nuovo sangue per sostenere le tue stupefacenti menzogne. Né Shaus né Halmad né alcuno dei nostri compagni era armato!» «Riferiscimi» disse Sharadim al paggio. «Come sono morti quel buon vecchio e sua moglie?» «Sono stati uccisi con le spade da cerimonia conservate nell'Auditorio» rispose il paggio, guardando con sgomento me e i miei amici. «Non avevamo alcuna ragione per uccidere il principe Albret» ruggì Ottro, perplesso e offeso. «Lo avete ucciso per farlo tacere. Lo avete ucciso per avere una scusa per distruggerci. Proceda l'udienza. Esponiamo le nostre prove!» Sharadim parlò a bassa voce, in tono di trionfo. «Non ci sarà alcuna udienza. Ormai è ovvio che siete venuti qui con una missione omicida, che non avevate altre ragioni.» In quell'istante von Bek balzò su Sharadim e la afferrò da dietro, premendole l'avambraccio contro il collo. «Che utilità può avere?» esclamò Alisaard, stupita da quell'azione così poco cavalleresca. «Usando la violenza facciamo ricorso ai suoi metodi. Se ci serviamo delle minacce dimostriamo la verità delle sue accuse.» Von Bek non allentò la stretta. «Vi assicuro, lady Alisaard, che non agi-
sco sconsideratamente.» Sharadim si divincolò, ma il conte la costrinse a stare ferma. «Conosco a sufficienza questo genere di macchinazioni per sapere che è già tutto previsto. Non sarà un processo equo. Saremo fortunati a lasciare vivi questa stanza. Quanto poi a lasciare il palazzo, ormai abbiamo ben poche speranze.» I tre luogotenenti di Sharadim avevano fatto qualche passo, non troppo deciso, verso von Bek. Io mi interposi tra loro e il mio compagno. Avevo la testa confusa. Vedevo una serie di immagini, provavo una serie di emozioni, che non erano mie. Senza dubbio venivano dalla principessa nostra prigioniera. Tornai a vedere la parete di cristallo, l'ingresso di una caverna. Sentii un nome che mi parve «Morandi Pag» poi frammenti di parole. Un'altra parola completa - «Armiad» - poi «Barganheem»... Prima Ottro, poi Alisaard vennero al mio fianco. I tre nostri nemici fecero qualche debole mossa nella nostra direzione, ma non osarono avvicinarsi. Notando che Neterpino Sloch s'infilava una mano sotto la veste, scattai in avanti e lo colpii duramente sulla mascella. Lui cadde a terra come un maiale; mi chinai sul suo corpo e spostai la sopravveste: tra due file di bottoni della sua giubba c'era un coltello lungo più di un palmo. Lo presi io. Poi perquisii gli altri due. Mi guardarono con ira e protestarono, ma non fecero resistenza. Trovai altri due coltelli. «Che spregevoli creature!» commentai; poi diedi un coltello a Ottro e un altro a von Bek e ripresi: «Ora, Sharadim, darai un ordine a quel povero paggio che continua a bussare: gli dirai di portare qui i nostri compagni ancora in vita. Di portarli e di lasciarli qui.» Anche se era semisoffocata, fece come le ordinavo. Von Bek le accostò il coltello al fianco e rilasciò la pressione alla gola. Qualche minuto più tardi le porte si aprirono ed entrarono Federit Shaus - che aveva l'espressione confusa e spaventata - seguito da tutti coloro che ci avevano accompagnato a Rhetalik. «Ora da' un ordine alle tue guardie perché perquisiscano l'ala orientale del palazzo» dissi. Rossa di collera, Sharadim diede l'ordine. Mi rivolsi ai miei compagni e continuai: «Ritornate in cortile e fate sellare subito i nostri cavalli. Dite che dovete cercare gli assassini in fuga. Poi aspettateci o, se pensate di avere migliori possibilità di fuga, dirigetevi dove vi pare di essere al sicuro. Cercate di convincere la vostra gente delle ambizioni malvagie di Sharadim. Per ordine suo, il principe Albret e sua moglie sono stati assassinati, in modo da poterci accusare del delitto. Occorre radunare in esercito per combattere questa donna. Alcuni di voi de-
vono riuscirci. Informate la vostra popolazione dei progetti di Sharadim. Opponetevi a lei. Allontanatevi subito dalla città, se preferite. Noi vi seguiremo tra poco.» «Andate» aggiunse il principe Ottro, confermando le mie parole. «Ha ragione. Non c'è altro modo. Io starò con loro e mi auguro che almeno una parte del nostro gruppo abbia successo.» Quando si furono allontanati, il principe Ottro mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Per quanto tempo potremo resistere contro l'intero esercito del Valadek?» Indicò la nostra prigioniera. «Secondo me, dobbiamo ucciderla subito.» Sharadim gemette di rabbia e cercò nuovamente di liberarsi, ma von Bek le accostò il coltello alle costole e lei scese a più miti consigli. «No» disse Alisaard. «Non possiamo fare ricorso ai suoi metodi. Non c'è giustificazione per l'assassinio a sangue freddo.» «Giusto» annuii. «Comportandoci come loro, diventiamo uguali a loro. E se siamo come loro, a che serve combatterli?» Ottro aggrottò la fronte. «Ottimo ragionamento, ma non credo che abbiamo il tempo per questo genere di cortesie. Saremo morti entro un'ora, se non agiremo in fretta.» «Non abbiamo molte strade» dissi io. «Dobbiamo servircene come ostaggio. È la nostra unica possibilità.» Sharadim si accostò a von Bek per allontanarsi dal pugnale. «È meglio che mi uccidiate subito» disse con ferocia. «Perché, se non lo farete, vi darò la caccia per i Sei Regni, e quando vi troverò, io...» Proseguì con una serie di minacce che mi raggelarono il sangue, fecero quasi svenire Alisaard e impallidire il principe Ottro, che divenne bianco come l'armatura delle Donne Fantasma. Solo von Bek non batté ciglio. Dopotutto aveva già visto tradurre in pratica gran parte di quelle minacce, quando era chiuso in un campo di concentramento nazista. Presi una decisione. Trassi un profondo respiro e dissi: «Benissimo, Sharadim, probabilmente finiremo per ucciderti. Forse è l'unico modo per impedire al Caos di conquistare i Sei Regni. E penso che potremo ucciderti con la stessa fantasia con cui minacciavi di uccidere noi...» Lei mi rivolse un'occhiata dura, chiedendosi se fosse la verità. Io le risi in faccia. «Oh, signora» le dissi «non hai neppure l'idea della quantità di sangue che ho già sulle mani. Non puoi neppure immaginare gli orrori che ho visto.» E le permisi di entrare nella mia mente. Le mostrai una parte dei miei ricordi, delle mie eterne battaglie, dei miei tormenti all'epoca in cui,
quando mi chiamavo Erekosë ed ero a capo degli Eldren, avevo sterminato l'intera razza umana. Sharadim lanciò un grido. E si afflosciò su se stessa. «È svenuta» commentò von Bek, stupito. «Adesso possiamo uscire» risposi. CINQUE La velocità e la disperazione erano i nostri soli alleati. Legammo e imbavagliammo i tre compagni di Sharadim e li nascondemmo in un grosso armadio, ma portammo con noi la principessa priva di sensi. La tenni tra le braccia come avrei tenuto una persona cara e, ogni volta che giungevamo a un posto di guardia, riferivamo che si era sentita male e che la portavamo all'infermeria del palazzo. Presto ci trovammo nel cortile, in corsa verso i nostri cavalli. Qualche attimo più tardi, Sharadim era avvolta in un mantello e legata sulla sella del principe Ottro. In pochi minuti oltrepassammo il ponte e ci lanciammo al galoppo lungo le vie della città. Dietro di noi non si scorgeva alcun inseguitore. Senza dubbio il palazzo era ancora sconvolto per la morte del Maestro delle Cerimonie e non si era accorto della scomparsa della principessa. Mentre attraversavamo la città, Sharadim riprese i sensi. Sentimmo le sue proteste, benché soffocate dal bavaglio, ma le ignorammo. Alla fine ci trovammo nuovamente sulla strada aperta, in direzione del luogo doveva avevamo nascosto la barca. Di tanto in tanto continuammo a guardarci alle spalle, ma non scorgemmo inseguitori. Von Bek sorrise. «Credevo che fossimo spacciati» disse. «Ma, evidentemente, anche l'esperienza ha il suo valore!» «E, come l'esperienza, anche la rapidità di decisione che permette di utilizzarla» sottolineai. Anch'io mi stupivo di essere riuscito a fuggire prima che si scatenasse la caccia ai rapitori. A parte l'assassinio del principe Albret, l'altro fattore a nostro favore era il fatto che il palazzo fosse pronto ad affrontare unicamente una pacifica incoronazione. Gran parte delle normali guardie era impegnata nel cerimoniale; dappertutto c'erano estranei che andavano e venivano. Comunque, ormai dovevano avere trovato Neterpino Sloch, il duca Perichost e il principe Pharl e dovevano chiedersi che cosa fosse successo alla principessa Sharadim. Quella gente non pareva disporre di sofisticati me-
todi di comunicazione a distanza. Se fossimo riusciti a raggiungere in tempo la nostra nave, avremmo potuto lasciare indenni il Valadek. «E della nostra prigioniera?» chiese il principe Ottro. «Che ne facciamo? La portiamo con noi?» «Ci rallenterebbe, oltre a essere una continua fonte di preoccupazioni» risposi. «Allora, penso che sia meglio ucciderla» proseguì Ottro «se non ci è più utile. E se vogliamo salvare questo mondo dal Caos.» Alisaard cominciò a fare obiezioni. Io non dissi niente. Sapevo che ormai Sharadim era sveglia e che udiva la nostra conversazione. Sapevo inoltre di averla spaventata a sufficienza - anche se solo momentaneamente - e speravo di poter approfittare della sua presenza. Due ore più tardi lasciavamo liberi i cavalli in un campo e scendevamo verso la nostra nave. Sharadim era in spalla a von Bek, come un sacco, e Ottro ci precedeva. Alla fine ci trovammo nuovamente sulla spiaggia. Il cielo era grigio e l'intera costa sembrava morta. Anche l'oceano pareva privo di vita. «Potremmo portare il corpo con noi e gettarlo in mare» disse Ottro. «Così, la faremmo finita. I nobili non tarderebbero a scoprire la verità.» «O a cercare di vendicare la mia morte, non credete?» Sharadim si era rimessa in piedi e scuoteva i suoi meravigliosi capelli dalle sfumature rosse. I suoi occhi azzurri erano duri e taglienti come selce. «Potreste scatenare una guerra civile, principe Ottro. È quello che volete? Io prometto l'unità.» Il principe le voltò le spalle; sciolse alcune corde dall'albero e le ammucchiò sulla tolda. «Perché non sei andata nel Barganheem e non hai cercato di prendere la spada?» le chiesi. Naturalmente, il mio era soltanto un bluff. Usavo le poche parole che le avevo letto nella mente. «Sai quanto me che sarebbe una follia» rispose lei. «Comunque, posso entrare nel Barganheem in qualsiasi momento, alla testa di un esercito, e prendermi quello che voglio.» «Morandi Pag non si opporrebbe?» «E anche se si opponesse?» fece lei, stringendosi nelle spalle. «E Armiad?» Sharadim increspò le sopracciglia perfette e mi rivolse un'altra occhiata incollerita. «Quel barbaro? Quel nuovo ricco?» disse in tono sprezzante. «Farà quel-
lo che gli ordino io. Se fosse venuto da noi qualche ora prima dell'Adunanza, avremmo sistemato questa cosa una volta per tutte, ma non sapevamo dov'eri.» «Mi avete cercato all'Adunanza?» «C'era il principe Pharl. Si è offerto di comprarvi tutt'e due da Armiad, vivi o morti. E lui avrebbe accettato, se le Donne Fantasma non fossero arrivate prima. Armiad è un ben miserabile alleato, ma è il solo che ho trovato nel Maaschanheem.» Da queste parole capii che i piani di Sharadim si erano già estesi ben al di là del suo mondo. Si procurava complici dovunque fosse possibile. E Armiad, naturalmente, nel suo odio verso di me, doveva avere immediatamente accettato le sue offerte. Inoltre, adesso sapevo che la Spada del Drago era probabilmente nel mondo dei Principi Orsi, il Barganheem, che qualcuno chiamato Morandi Pag ne conosceva la collocazione, o era il suo difensore, e che Sharadim lo giudicava così forte da doverlo affrontare con un esercito. Intanto, Federit Shaus, Alisaard e il principe Halmad avevano preparato l'imbarcazione e la spingevano nell'acqua. Il principe Ottro impugnò il lungo pugnale che avevo tolto a Neterpino Sloch. «Ci penso io?» chiese. «Dobbiamo prendere una decisione.» «Non possiamo assassinarla» risposi. «In una cosa ha ragione. Potrebbe scaturirne una guerra civile. Se invece la lasciamo libera, qualcuno comprenderà che non siamo degli assassini, diversamente da quel che ha detto lei.» «A questo punto» disse il principe Ottro, con convinzione «la guerra civile è inevitabile. Molte nazioni si rifiuteranno di accettarla come imperatrice.» «Ma altre la accetteranno. E io preferisco che le nostre azioni siano la testimonianza della nostra umanità e della nostra onestà.» Il principe Halmad e Alisaard erano d'accordo con me. «Facciamola giudicare secondo la legge» disse Alisaard. «Io sono la prima a non volermi abbassare ai suoi metodi. Flamadin ha ragione. In questo momento ci sono già numerose persone che sospettano di lei. Forse sarà il suo stesso popolo a insistere per un giudizio...» «Ne dubito» intervenne von Bek, con gravità. «Ossia, diciamo che coloro che insisteranno per un processo verranno messi a tacere molto presto. Nell'ascesa dei tiranni c'è uno schema alquanto monotono, che, a parer mio, corrisponde allo schema più generale dell'umana follia. Per quanto la
cosa sia deprimente, dobbiamo accettare il fatto.» «Be', almeno noi ci opporremo» disse Ottro, con soddisfazione. «Venite, dobbiamo partire subito per Waldana. Laggiù troverò gente disposta a credermi.» Sharadim continuò a ridere di noi, mentre spingevamo in acqua l'imbarcazione. Il vento le agitava i meravigliosi capelli e le falde del mantello, che lei, con la mano, si stringeva al collo. Io continuai a guardarla da poppa, a fissarla negli occhi, forse nella speranza di indurla a porre fine alle sue follie. Ma la sua risata divenne ancora più forte. La sentivo ancora echeggiare quando la nave uscì dalla cala e la figura della mia quasi sorella sparì alla vista. Penso che nei giorni seguenti avesse infine mandato qualche grosso brigantino a cercarci. Lo scorgemmo due giorni più tardi, ma per nostra fortuna non fummo avvistati. A quel punto, però, eravamo già in vista di Waldana. Il tramonto stava ormai cedendo il posto alla sera, quando lasciammo Ottro e gli altri in un piccolo porto di pescatori. Il principe ci salutò dicendo: «Vado a radunare il mio popolo, anche se dovessimo essere i soli, noi contiamo di combattere contro la principessa.» Ripartimmo subito. Non c'era nemmeno il tempo di riposare. «A nord» disse Alisaard. Aveva una sorta di bussola, legata a una striscia di cuoio che portava al collo. «Ma dobbiamo fare in fretta perché domattina la Porta non ci sarà più.» Facemmo vela a nord; l'oceano cominciava ad assumere lentamente il grigio che precede l'alba quando scorgemmo la porta. Pareva già sul punto di svanire. Alisaard mosse espertamente le vele per approfittare della brezza e la nave volò in quella direzione. La vista della porta parve ridare nuova vita a me e a von Bek. Con ansia fissammo le grandi colonne di luce che scendevano da una sorgente invisibile e salivano a un'altrettanto invisibile destinazione. «Devo rischiare un ingresso più rapido» esclamò Alisaard. «Mancano pochi istanti alla fine dell'eclisse.» Così dicendo pilotò la piccola nave verso lo spazio compreso tra due colonne, ormai così vicine da farmi temere per la sorte del nostro scafo. L'intero tempio di luce si stava restringendo, le colonne si avvicinavano a formare un unico raggio sempre più debole. Ma riuscimmo a passare; anche se la galleria era assai più stretta delle altre, sapevamo di essere al sicuro. Per qualche attimo godemmo di una relativa tranquillità su una distesa di acqua calma, poi la nave s'inclinò e pre-
se a muoversi lungo il corridoio a enorme velocità. «Impariamo a scuola dove e quando trovare le porte tra i Regni» ci spiegò Alisaard. «Abbiamo mappe e strumenti di calcolo. Possiamo prevedere quando una porta si apre e un'altra si chiude. Sappiamo esattamente dove ciascuna ci conduce oppure no. Non abbiate paura, presto saremo nel Barganheem. Ci arriveremo verso mezzogiorno.» Von Bek era esausto. Si appoggiò contro l'albero, con sulle labbra un sorriso stanco. «Mi fido del tuo giudizio, Herr Daker, ma confesso di non avere capito una cosa: dove hai saputo di dover cercare la spada nel Barganheem?» Gli spiegai come mi fosse giunta l'informazione e aggiunsi: «Rispetto a Sharadim, sono avvantaggiato dal fatto di poter leggere consapevolmente nei suoi pensieri. Lei, invece, può solo chiedersi da dove vengano certi pensieri estranei che le passano per la testa. Ammesso che abbia lo stesso potere ma non sappia usarlo. Comunque, per un momento sono riuscito a farle vedere tutta la mia mente...» «Ed è stato allora che ha perso i sensi? Ah! Sono lieto che tu non mi abbia concesso lo stesso privilegio, Herr Daker!» Sbadigliò. «Ma questo significa che quando conoscerà, il segreto, Sharadim riuscirà a leggere anche i tuoi pensieri. Avrà lo stesso vantaggio.» «Già in questo momento» gli dissi «forse cerca di capire di quali delle sue intuizioni si possa fidare. E probabilmente sceglierà quelle giuste.» La nave fremette sotto di noi; tutt'e due girammo di scatto la testa per guardare a prua. Scorgemmo dinanzi a noi una massa sferica, fortemente illuminata, che sembrava un sole verde e che lentamente passò all'azzurro e poi al grigio. All'improvviso il corridoio prese a restringersi bruscamente, e la nave tornò a sobbalzare. Si levò attorno a noi un suono che pareva quello delle campanelle, casuale ma musicale, e il fondo della nostra imbarcazione urtò contro un corpo solido, che evidentemente non era la superficie di un oceano. Sotto di noi si scorgeva soltanto un banco di nubi. Al di sopra, invece, il cielo era azzurro e il sole allo zenit. Le colonne di luce erano scomparse. Non ci trovavamo sull'acqua, ma sull'erba di un pascolo montano. A poca distanza da noi, in un altro pascolo, al di là di un muro a secco, tre mucche bianche e nere erano intente a brucare. Due di esse guardarono nella nostra direzione, leggermente incuriosite. Un'altra emise un basso brontolio, come per indicare che non aveva alcun interesse per noi. In tutte le direzioni si scorgevano soltanto pascoli scoscesi, muretti divi-
sori e cime montane. Era impossibile distinguere i particolari del territorio coperto dalle nubi. Su tutto il paesaggio regnava uno strano, gradevole silenzio. Von Bek si sedette sulla balaustra e sorrise ad Alisaard. «Tutto il Barganheem dà la stessa impressione di serenità, mia signora?» «In gran parte» confermò lei. «I principi mercanti rivieraschi tendono a essere più rumorosi, ma non salgono così in alto.» «E i contadini? Che diranno, quando scorgeranno una nave in mezzo ai loro pascoli?» chiese von Bek, con il suo solito leggero umorismo. Alisaard si era tolta il casco. Ancora una volta, quando scosse i lunghi capelli, fui colpito dalla sua straordinaria somiglianza con la mia Ermizhad, sia nell'aspetto sia nel modo di comportarsi. Di nuovo sentii una fitta di gelosia quando rivolse un sorriso a von Bek che nascondeva - ne ero certo - un sentimento più forte della semplice amicizia. Riuscii a controllarmi, naturalmente, perché non avevo nessun diritto su di lei. Io ero legato a Ermizhad; la amavo più della mia vita. E quella donna, dovetti ricordare alla creatura infantile che piangeva dentro di me, non era Ermizhad. Se Alisaard era sessualmente attratta da von Bek e lui provava gli stessi sentimenti, mi sarei dovuto rallegrare per loro. Eppure, rimaneva dentro di me una sorta di diavoletto che continuava a stuzzicarmi. Se fosse stato possibile, avrei voluto bruciarlo con una lama arroventata come un'escrescenza fastidiosa. «Avrete notato che i contadini non fanno pascolare gli animali in questa specifica zona?» rispondeva intanto Alisaard. «Anch'essi sanno che questo, per usare i loro termini, è territorio magico. Quando si materializzano le Colonne del Paradiso, a volte è sparita qualche bestia. E hanno visto comparire cose assai più strane delle semplici imbarcazioni. D'altra parte, non possiamo aspettarci molto aiuto da parte loro. Non hanno esperienza di viaggi tra i mondi. Lasciano quelle avventure ai mercanti che abitano lungo il corso dei fiumi, a una quota assai più bassa.» «Come facciamo a trovare Morandi Pag?» chiesi io, interrompendo bruscamente il suo discorso. «Dicevate di poter avere un'idea, basandovi sul nome, del luogo da cui iniziare la ricerca, lady Alisaard.» Lei mi guardò in modo strano, come se leggesse in me un'emozione che la riguardava. «Non state bene, principe Flamadin?» «Soltanto un po' d'ansia» le spiegai, conciso. «Non possiamo permettere a Sharadim di guadagnare un altro solo minuto...» «Non pensi che abbiamo guadagnato un po' di tempo?» chiese von Bek, infilando la mano nell'erba umida di rugiada e poi passandosela sulla fac-
cia, con un sospiro. «Ne abbiamo guadagnato e ne abbiamo perso» gli ricordai. «Sharadim pensa di entrare nel Barganheem con un esercito, oppure sta studiando una nuova strategia. Se è desiderosa di potere come credo, ormai è disposta a rischiare più di prima, pur di giungere alla spada prima di noi. Allora, lady Alisaard, dove vi pare più opportuno cercare Morandi Pag?» Senza parlare, la donna indicò il fianco scosceso del monte, in direzione delle nubi. «Purtroppo» disse «dobbiamo scendere fino al fiume. Quel nome non mi sembra umano. Ma debbo avvertirvi: finché non arriveremo al fondovalle, lasciate parlare me. Commerciano con le donne del Gheestenheem da parecchi secoli e noi siamo le sole che non li abbiano mai affrontati con la violenza. Nella misura in cui si fidano delle persone di altri mondi, si fideranno di me. Non si fideranno di voi, però, neppure per un momento.» «Una razza xenofoba, eh?» commentò allegramente von Bek, preparandosi al lungo tragitto in discesa. «Non senza motivo» disse Alisaard. «Voi Mabden siete la più assurda delle specie intelligenti. Molti di noi apprezzano le differenze tra le varie razze e le varie culture. Invece, la storia della vostra razza mi sembra un lungo racconto di persecuzione e distruzione di chiunque sia diverso. Secondo voi, perché è così?» «Se vi sapessi dare la risposta, signora mia» rispose von Bek, con una certa veemenza «non sarei qui a discuterne. La sola assicurazione che posso darvi è la seguente: alcuni di noi 'Mabden' se ne preoccupano al pari di voi. A volte penso che siamo figli di un incubo mostruoso, che viviamo eternamente con l'orrore della nostra origine infernale, e che cerchiamo di far tacere ogni voce che ricordi la funesta origine della nostra intelligenza!» La donna mi parve assai colpita da quelle appassionate parole. Io mi limitai a rimpiangere di non avere detto altrettanto, e di non essere così eloquente. Durante la rapida discesa verso la coltre di nuvole, mi costrinsi a tenere gli occhi sul terreno su cui passavamo. «Quando saremo scesi sotto le nubi» disse Alisaard «non saremo più nel terreno dei coltivatori. Guardate, laggiù c'è una delle loro case...» Si trattava di un edificio conico, piuttosto alto, con un camino di pietre e un tetto di paglia che scendeva fin quasi a terra. Nei pressi della casa c'erano due o tre figure, occupate nei soliti lavori agricoli. Tuttavia, mi colpì la stranezza di alcuni loro movimenti. La discesa ci portò sempre più vicino
alla fattoria, e la gente non ci guardò, anche se non potevano non essersi accorti di noi. Evidentemente, preferivano fingere che non esistessimo. Di conseguenza potevo guardarli senza fare la figura del maleducato. Infatti mi pareva che la loro schiena avesse una curva bizzarra, e dapprima attribuii questo particolare al tipo di lavoro, alla strana foggia dei loro abiti, ma presto mi divenne chiaro - non appena potei scorgere la loro faccia - che non erano umani. A tutta prima pensai a una sorta di babbuini, e adesso capii le parole di Alisaard, quando aveva parlato dei cattivi rapporti tra i Mabden e quei coltivatori. Un'altra occhiata e scorsi, al posto dei piedi, zoccoli compatti e con una fessura verticale. Nel mondo di John Daker, quei silenziosi e innocui coltivatori erano i diavoli della superstizione! «Ehi, von Bek!» esclamai, ridendo «Ho l'impressione di essere giunto nell'inferno!» Il mio amico mi rivolse un'occhiata ironica. «Ti assicuro, Herr Daker, che l'inferno è assai meno gradevole.» Alisaard si rivolse a quelle creature, salutandole con un tono di voce dolce e chiaro: nell'udirla mi parve che un delizioso uccello canoro avesse lanciato il suo richiamo. Alle sue parole, i contadini alzarono la testa e le loro strane facce rugose sorrisero nel riconoscerla. Ora ci salutarono e ci gridarono alcune parole nel loro strano dialetto che non riuscii a capire, tanto era stretto. Alisaard mi spiegò che ci auguravano buona fortuna «sotto il mare». «Pensano che quegli strati di nubi siano un oceano» continuò. «E, nell'immaginazione di queste creature, coloro che vivono nel fondovalle sono esseri quasi mitologici. Naturalmente non hanno mai visto un vero e proprio mare. Sotto le nubi ci sono alcuni grandi laghi, ma nessuno di loro si è mai allontanato dal proprio territorio. Perciò, questo è il loro mare.» In quel momento mi accorsi che eravamo entrati nel banco di nubi e che la visibilità diminuiva progressivamente. Mi guardai alle spalle. La fattoria si scorgeva a malapena. «Adesso» ci disse Alisaard «sarà meglio tenerci per mano. Io rimarrò in testa. Il sentiero è contrassegnato da cumuli di pietre, ma spesso gli animali li distruggono. Fate anche attenzione ai serpenti di fumo. Sono di colore grigio scuro e di solito non si riesce a scorgerli finché non gli si arriva sopra.» «Che cosa fanno, i serpenti di fumo?» volle sapere von Bek. Tese la mano ad Alisaard e con l'altra strinse la mia. «Si difendono se li calpestate» ci rispose semplicemente la donna. «E
poiché non abbiamo altre armi che i nostri coltelli, dobbiamo fare attenzione a evitarli. Io terrò d'occhio i cumuli di pietre, voi controllate il terreno. Ricordate che sono di un grigio più scuro.» In tutto quel bianco e grigio, con le rocce e resti dei muretti che uscivano all'improvviso dalla nebbia, mi chiesi come si potesse scorgere una simile creatura. Tuttavia feci scrupolosamente quanto mi era stato ordinato. Ero giunto a fidarmi di Alisaard sia come compagna d'avventure sia come guida. Questo non faceva che accrescere il mio dolore, specialmente quando mi pareva che rivolgesse a von Bek qualche sguardo eccessivamente ammirato. Scendevamo sempre più lentamente e continuavamo a scrutare attentamente il terreno, alla ricerca della sagoma scura di un serpente di fumo. Di tanto in tanto vedevo muoversi qualcosa: una forma curva, che si alzava pigramente come un serpente e poi si lasciava nuovamente cadere in terra, e che pareva possedere un grande numero di spire, come i disegni dei serpenti di mare nelle antiche carte nautiche. Mi parve anche di udire un debole suono, simile allo sciacquio delle onde sulla sabbia della spiaggia. «È il rumore dei serpenti di fumo?» chiesi ad Alisaard. Ero stupito dall'eco che facevano le mie prole nella nebbia. La mia voce mi suonava del tutto irreale alle orecchie. Davanti a me, tutta concentrata nella sua ricerca del successivo monticello di pietre, la donna annuì. L'aria si era raffreddata e i nostri abiti erano umidi e coperti di gocce d'acqua. Non riuscivo a credere che potesse fare più caldo, una volta usciti da quella nebbia, che era tanto fitta da non lasciar passare la luce del sole. Anche von Bek, a quanto vedevo, doveva sentire il freddo, perché mi parve che rabbrividisse. Guardai davanti a me, chiedendomi se l'armatura d'avorio proteggesse Alisaard dalla nebbia. Mentre lo facevo, vidi una grande forma grigia e ricurva alzarsi a meno di un passo dalla Donna Fantasma. Lanciai un grido d'avvertimento. Lei non rispose, ma si immobilizzò. Tutt'e tre guardammo la creatura che si contorceva lentamente nella nebbia. Non ero ancora riuscito a distinguere bene la sua forma. «Non sono pericolosi» mi spiegò Alisaard «quando assumono quella postura. Ci stanno semplicemente osservando. Se ci vedono non corriamo alcun periodo. Quelli che colpiscono sono i giovani, e in genere solo quando vengono disturbati nel sonno. Ma torno a ripetervi, non calpestate un serpente di fumo. Reagiscono con violenza quando sono sorpresi. Solo i più
vecchi hanno visto molti viaggiatori e non ne hanno paura. Chiaro?» Mi pareva leggermente infastidita, come se parlasse a un bambino un po' tonto. Mi scusai di essermi lasciato prendere dal panico, le promisi di ricordarmi delle sue parole e di limitarmi a guardare il terreno davanti a me. Von Bek capì che mi aveva leggermente redarguito. Mentre riprendevamo il cammino, si girò a darmi un'occhiata e strizzarmi l'occhio. E proprio in quel momento vidi che il suo piede si posava su una spira di colore grigio scuro. «Von Bek!» Mi guardò con orrore, comprendendo che cosa avevo visto. Poi i suoi occhi si dilatarono per il dolore. «Mio Dio!» disse piano. «Mi ha preso la caviglia...» Alisaard posò un ginocchio a terra, con il coltello pronto e tendendo la mano dinanzi a sé. Le spire di colore grigio scuro risalivano lentamente ma senza sosta lungo la gamba di von Bek. Non vedevo né testa né bocca né occhi, ma sapevo che la creatura si arrampicava sul suo corpo, alla ricerca delle parti più alte, la testa e la faccia. Allungai la mano per staccare la creatura e sentii un feroce sibilo metallico proveniente da un punto indeterminato del suo corpo. Un'altra spira parve staccarsi dal corpo principale e si attaccò al mio polso. Io lo colpii col coltello, con l'intenzione di tagliarlo in due parti, ma in qualche modo il coltello non riuscì a ferirlo. Anche von Bek aveva impugnato il coltello e lo aveva usato con altrettanta inutilità. Scorsi la figura indistinta di Alisaard in mezzo alla nebbia: era ancora inginocchiata in terra e imprecava tra sé per la frustrazione; pareva cercare qualcosa che aveva perso. Sentii l'armatura d'avorio tintinnare contro le pietre. Intanto, però, il serpente di fumo aveva continuato ad arrampicarsi sul mio braccio e sulla gamba di von Bek. Io ero quasi paralizzato dall'orrore, e la faccia di von Bek era ancor più pallida della nebbia che la circondava. Guardai la punta della spira di nebbia scura, che era giunta all'altezza della mia spalla. Ora mi parve di distinguere la forma della creatura, vagamente. Poi, come se si sentisse offeso dalla mia scoperta, il serpente scattò in direzione della mia faccia. Sentii una puntura alla guancia; qualche goccia di sangue mi scivolò lungo la gota. Nello stesso istante scorsi la bocca dell'animale, piccola e munita di denti lunghi e appuntiti, le nari vibranti, il suggerimento di una lingua. E, grazie al sangue che mi aveva succhiato, adesso la testa aveva assunto
una delicata, orribile sfumatura rosata. SEI In pochi istanti il serpente di fumo assunse un colore rosso ancora più intenso. La seconda testa arrivò all'altezza della faccia di von Bek e la colpì come aveva colpito - e continuava a colpire -anche la mia, staccando morsi minuscoli, quasi schizzinosi, della mia carne. Capii che avrebbe continuato a colpirmi in quel modo fino a ridurre la mia testa a un teschio scarnificato. Penso di avere gridato, ma non ricordo le parole. Era una prospettiva di morte che mi terrorizzava, soprattutto perché non sarebbe stata veloce. Agitai il coltello davanti alla testa, su cui si distinguevano due occhi brillanti, rossi come rubini, e cercai di distrarla, ma la creatura pareva possedere un suo strano tipo di pazienza. Attendeva che nella mia difesa si presentasse un varco, poi scattava a colpire. E sentivo nuovamente il bruciore di una ferita. Mi tornarono in mente le cicatrici che avevo visto sulla faccia di un mercante, all'Adunanza di pochi giorni prima, e mi rammentai di essermi chiesto che cosa avesse potuto procurargliele. Mi sfuggì un altro grido. Se non altro, pensai, era possibile liberarsi di quelle strane creature, ma quando? L'uomo da me visto si era salvato, ma aveva perso un occhio e metà della faccia... Anche von Bek lanciò un grido. Nell'attacco di quella creatura c'era una strana ineluttabilità. A mano a mano che le nostre braccia s'indebolivano, il serpente diventava sempre più visibile, grazie al nostro sangue, e si limitava ad attendere, serrandoci tra le sue spire ed emettendo di tanto in tanto il suo orribile verso metallico. Quel che rendeva ancor più strana l'intera esperienza era il fatto che la creatura non era più incollerita. Doveva essere un organismo abbastanza semplice. Reagiva quando si credeva attaccato. Avvolgeva le spire sulla cosa che la aveva disturbato e la assaggiava. Se era soddisfatta del gusto ne faceva la sua preda. Probabilmente non ricordava neppure perché avesse attaccato von Bek. Ormai non aveva ragione di affrettarsi, poteva consumare in tutta tranquillità il suo pasto. Cercai di colpire col coltello la bocca munita di zanne. Logicamente, avrei detto, una creatura capace di infliggere quel tipo di ferite doveva essere in grado di ricevere ferite dello stesso tipo. Ma non era così. Anche se colpii selvaggiamente di punta e di taglio, il mio coltello incontrò solo una
debolissima resistenza; per un momento scorsi attorno alla testa una sorta di alone rosso, che poi venne riassorbito. Tutto questo, naturalmente accadde in un tempo brevissimo: pochi secondi. Intanto, Alisaard continuava a imprecare. Non riuscivo a vederla; udivo solo il tintinnio della sua armatura, i suoi brontolii animaleschi e le esclamazioni incollerite. Guardai von Bek e mi parve di vedergli piangere lacrime di sangue: due rivoletti rossi già gli correvano sotto gli occhi, altro sangue colava da un morso sulla fronte e l'animale gli aveva staccato un pezzetto d'orecchio. Ansimava e negli occhi gli si leggeva non il timore della morte, ma l'orrore di quanto gli stava succedendo, la disperazione di non potersi difendere. Poi Alisaard lanciò un grido diverso. Quasi un ululato di trionfo. Non riuscivo ancora a scorgerla: vedevo solo la sua mano tendersi per afferrare il corpo del serpente di fumo. Lanciò un grido, poi colpì con il coltello e nello stesso tempo, con l'altra mano, toccò il punto colpito. Il serpente sollevò la testa. Questa volta ero certo che mi avrebbe colpito negli occhi. Sollevai la mano per proteggermi. Ora che non lo vedevo più, avrei potuto credere che la creatura esistesse solo nella mia immaginazione. Non aveva peso. Eppure mi teneva stretto nelle sue spire. Sentii von Bek gridare assai più forte. Pensai che la creatura avesse colpito un punto vitale e, senza guardare, mi gettai in avanti, anche se sapevo di non poter salvare il mio amico. Ma c'era più merito, pensai, morendo in un simile tentativo. Alcuni di noi trovano conforto in queste considerazioni, anche nel momento in cui stanno per morire in modo orribile, violento. Il mio successivo ricordo è di due braccia che mi sollevavano. Aprii gli occhi. Von Bek non era più avvolto nelle spire del serpente. Mi chiesi se non fossimo morti tutt'e due. Forse, il sonno che precede la morte ci aveva dato una qualche illusione di sicurezza, mentre il nostro sangue e la nostra vita riempivano lo stomaco del nostro nemico. «Herr Daker!» esclamò von Bek, con stupore. E poi: «Dev'essere svenuto, mia signora.» Ero disteso sul terreno. I miei compagni mi fissavano con ansia e con compassione. Li osservai. Ero lieto che si fossero salvati. E di nuovo provai quella umiliante fitta di gelosia quando vidi che le loro teste si accostavano sopra di me. «No» mormorai «tu devi essere Ermizhad. Di' che sei Ermizhad, anche per un solo istante, prima che io muoia...»
«È il nome che gli ho già sentito dire altre volte» osservò Alisaard. Mi parevano un po' troppo sereni, davanti a un amico che stava morendo. Che fossero già morti? «È il nome di una donna eldren che assomiglia a voi» spiegava intanto von Bek. «La ama e l'ha cercata in tutti gli eoni del tempo; l'ha cercata in un'infinità di mondi. Dice che siete uguali come due gemelle.» Lei sorrise. Si tolse il guanto e mi accarezzò il viso. Io chiesi ancora una volta: «Ermizhad, prima di morire...» I sensi mi stavano ritornando in fretta; per un attimo fui tentato di continuare a recitare la parte di colui che aveva perso la conoscenza, per godere ancora delle sue attenzioni e della sua comprensione, tanto simili a quelle mi dava Ermizhad e che io, almeno credo, le davo a mia volta. Ma, anche se la cosa mi costò molto, soffocai quella tentazione. «Perdonatemi, mia signora» le dissi. «Mi sono ripreso. Sono di nuovo me stesso. Forse vorreste essere così gentile da spiegarmi com'è che io e il conte von Bek siamo ancora nel novero dei viventi?» Von Bek mi aiutò a sedere. La nebbia mi pareva meno densa, ormai. Riuscivo a vedere già in fondo alla valle il riflesso del lago argenteo verso cui eravamo diretti. Alisaard si era seduta su un masso. Ai suoi piedi, su una lastra di selce, c'era una forma piccola e sgraziata. Anch'essa pareva composta di un'infinità di spire, ma erano minuscole e non parevano pericolose, a meno che non fossero avvelenate. Con la punta del coltello, la donna scostò la piccola forma nera, che pareva del tutto priva di vita. Quando la lama la toccò, si spezzò e andò in polvere. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Dissi: «E quelli sono i resti del serpente di fumo?» Lei girò la testa verso di me e mi rivolse un cenno affermativo. Von Bek guardò a sua volta i resti della creatura. «È stata eliminata dalla più comune delle sostanze, nelle mani della più straordinaria delle donne.» A quanto vidi, Alisaard pareva apprezzare il complimento. «Conosco solo un modo per uccidere un serpente di fumo. Occorre trovare il centro. Se ne tagliate le spire, dal pezzo tagliato si forma una nuova creatura. Bisogna farlo sanguinare e avvelenarlo prima che si divida: così il sangue trasporta il veleno che lo ucciderà. Per fortuna mi era stato insegnato; e per fortuna noi del Gheestenheem abbiamo sempre un astuccio con alcune piccole scorte.»
«Ma che veleno era, lady Alisaard?» volli sapere. «Come ci avete salvato la vita, visto che le nostre armi non hanno avuto alcun effetto?» Von Bek scoppiò a ridere. «Quando te lo dirà, scoprirai l'ironia della cosa. Per favore, Alisaard, non fatelo stare ulteriormente sulle spine. Il poveretto è esausto!» Alisaard aprì il palmo della sinistra. Vidi alcuni granellini bianchi, che ormai avevano formato una piccola crosta. «Sale» spiegò. «Abbiamo sempre con noi un po' di sale.» «Quella creatura è morta come una qualsiasi normale limaccia» disse von Bek, esultante. «Non appena ha trovato il centro -e ha avuto un grandissimo coraggio, mettendosi a cercarlo - Alisaard ha dovuto colpire con il coltello perché sanguinasse, e nello stesso istante ha dovuto mettere il sale nella ferita. Il centro si è immediatamente raggrinzito, e noi ci siamo salvati.» Si toccò le piccole ferite che gli aveva inferto il serpente. Si stavano già rimarginando e sarebbe rimasta solo una piccola cicatrice. Probabilmente, anch'io ero stato altrettanto fortunato. «Non si vedrà nulla» commentò ancora il mio amico «tranne qualche piccola traccia come quella dell'acne.» Mi aiutò ad alzarmi. Presentai i miei ringraziamenti ad Alisaard, che assomigliava sempre più alla mia Ermizhad. «Vi ringrazio di tutto cuore, lady Alisaard. Vi ringrazio di avermi salvato la vita.» «Avreste dato la vostra per salvare il conte von Bek» mi disse, mentre allontanava i resti del serpente. «Fortunatamente conosco un po' quelle creature.» Guardò con aria divertita, ma anche severa, il nostro compagno. «E speriamo che un certo gentiluomo guardi meglio dove posa i piedi, se dovesse rifare questa strada, anziché girarsi verso gli amici.» Così redarguito, von Bek divenne un perfetto nobile tedesco. Rizzò la schiena e si mise sull'attenti, poi batté i tacchi e chinò rigidamente la testa davanti a quella che giudicava una giusta condanna del suo errore. Io e Alisaard facemmo fatica a nascondere il divertimento, davanti a quel brusco passaggio ai modi ufficiali. «Andiamo» ci disse poi la nostra guida. «Dobbiamo affrettarci a raggiungere il fondovalle. Laggiù saremo fuori del territorio dei serpenti di fumo e potremo riposare senza essere attaccati. Ormai è troppo tardi per entrare in città, perché è loro abitudine rifiutare i visitatori dopo il tramonto. Ma domattina, quando saremo più riposati, ci recheremo laggiù; auguriamoci che ci aiutino a trovare Morandi Pag.»
Infine, quando fummo al disotto delle nubi e con l'aria che si rinfrescava ulteriormente al cadere della notte, tutt'e tre ci stendemmo sull'erba folta del pendio, mettendoci l'uno accanto all'altro per riscaldarci. Ricordo di avere osservato la valle e di avere visto che si allargava fino a formare una sorta di baia attorno al lago. In quella baia e lungo il corso del fiume si scorgeva la luce dei fuochi. Mi parve anche di udire voci, ma forse erano soltanto i richiami degli uccelli neri, simili a corvi, che tornavano al nido, in cima al monte. Osservai la città. Non vedevo alcun tipo di edificio, e neppure navi, anche se mi pareva di scorgere qualche molo ai margini del lago. Più avanti, lungo la riva, si scorgeva un bosco largo e folto, di alberi simili a querce. Anche da quel bosco vidi uscire varie luci, come se coloro che lavoravano nella foresta facessero ritorno a casa, ma cercai invano qualche edificio. Mentre scivolavo in un sonno profondo, mi chiesi ancora se, analogamente ai serpenti che avevamo incontrato, la città e i suoi abitanti non fossero invisibili all'occhio umano. Mi tornò in mente qualcosa che riguardava un altro popolo, chiamato «fantasmi» da qualcuno che si rifiutava di capirli, e cercai di richiamare più chiaramente alla memoria quel particolare. Ma, come spesso accadeva al mio cervello sovraffollato, non riuscii ad afferrare bene quel ricordo. Aveva a che fare con Ermizhad, mi parve. Girai la testa, all'ultima luce del giorno, e osservai il viso di Alisaard che dormiva. E nella riservatezza della notte credo d'avere pianto per Ermizhad prima che il sonno mi proiettasse in un altro tormento. Infatti sognai cento donne: tutte tradite da guerrieri e dalla loro follia eroica, dai loro profondi sentimenti d'amore, dal loro idealismo romantico. Sognai cento donne, e le riconobbi tutte per nome. Le avevo amate tutte. E tutte erano Ermizhad. E le avevo perdute tutte. All'alba mi svegliai e vidi che all'orizzonte le nubi si erano aperte e che filtrava la luce rossastra del sole, colorando l'acqua su cui si rifletteva. Altrove l'esplosione di luce faceva un grande contrasto con il nero e il grigio delle montagne e delle acque circostanti, dando loro un aspetto ancora più drammatico. Quasi mi aspettavo di sentire musica, di vedere la gente della valle uscire correndo verso il mattino, per salutare quell'alba così magnifica. Ma gli unici rumori provenienti dalla città sotto di noi erano l'acciottolio di qualche recipiente domestico, il verso di un animale, una voce sottile. Non riuscivo ancora a vedere dove si trovasse effettivamente la città.
Pensai che gli abitanti vivessero all'interno di caverne e che ne mimetizzassero l'ingresso: un uso abbastanza comune nei mondi del multiverso a me noti. Eppure, mi stupiva l'idea che commercianti capaci di correre i rischi legati al viaggio tra i mondi non abitassero in edifici più civili. Quando espressi ad alta voce questi miei dubbi, Alisaard sorrise. Si girò verso di me e mi prese per il braccio. Era più giovane di Ermizhad e aveva gli occhi leggermente diversi, e così i capelli, ma, nonostante queste piccole differenze, mi era doloroso starle così vicino. «Quando saremo ad Adelstane» mi promise «tutti questi misteri avranno risposta.» Poi prese per mano von Bek e, come una scolaretta al picnic, ci guidò verso la città. Per un momento persi il senso del luogo e della mia identità. Mi parve di cogliere odore di sigaro, il rumore di un autobus a due piani provenire dalla strada vicina. Mi costrinsi a guardare il sole che spuntava, le nubi che si aprivano sull'altro lato del lago. Alla fine la testa mi si schiarì. Mi tornò in mente il nome di Flamadin. Mi rammentai di Sharadim. Sentii un brivido e, almeno per le mie necessità del momento, tornai a essere me stesso. Raggiunsi i miei amici quando erano quasi in fondo alla collina e, prima di oltrepassare un basso muretto con un cancello, si guardavano alle spalle e si accorgevano per la prima volta che non ero con loro. Percorremmo ancora un sentiero che portava al punto dove l'acqua del fiume era bassa e formava un guado. Ora potevo vedere che il passaggio era artificiale e che era stato costruito per evitare un ponte visibile dall'alto. Mentre attraversavamo l'acqua fredda e cristallina mi chiesi le ragioni di quella precauzione; poi, quando fummo sull'altra riva, notai una serie di aperture nella roccia della montagna, ciascuna fortificata in modo assai astuto e poi camuffata da roccia naturale. Ora cominciavo ad avere il sospetto che quella gente non fosse affatto priva di capacità architettoniche ed edilizie. Alisaard si era infilata di nuovo l'elmo. Ora si portò le mani accanto alla bocca e chiamò: «Siamo amici e ci affidiamo alla misericordia dalla città di Adelstane e dei suoi grandi signori!» Scese il silenzio. Scomparve anche l'acciottolio delle stoviglie. «Portiamo informazioni di interesse comune» continuò Alisaard. «Non abbiamo armi e non siamo al servizio dei vostri nemici.» Sembrava una dichiarazione di rito, una precisazione indispensabile se volevamo parlare con gli abitanti delle grotte.
All'improvviso il silenzio venne rotto da un rumore metallico. Poi da un altro, più forte, seguito dall'eco di un gong che proveniva dalle caverne più alte. Alisaard abbassò le braccia e annuì con aria soddisfatta. Io non dissi nulla. Von Bek fece per parlare, ma lei gli indicò di tacere. Il suono di gong si era appena spento che sentimmo un forte rumore di pietra su pietra. L'ingresso della caverna più vicina ruotò su se stesso, rivelando una lunga apertura stretta e irregolare, che sembrava una spaccatura naturale della roccia. Alisaard ci precedette e, con un movimento elegante, s'infilò nella fessura. Io e von Bek la seguimmo con meno eleganza e con qualche brontolio. Quando ci girammo verso l'interno, rimanemmo senza parole nel vedere la città nascosta all'interno della montagna. Era la più graziosa città di guglie e di edifici alti e sottili che si possa immaginare. Era tutta bianca e luccicante come se la illuminasse la luce della luna, e pareva ancor più luminosa sullo sfondo buio della grande caverna. Dall'alto ci giunsero nuovamente i suoni che avevamo udito poco prima, e compresi che era stata l'eco a crearli, nella grande caverna, larga almeno un paio di chilometri e così alta che non se ne scorgeva il soffitto. La città era così delicata, con le sue volute di marmo e di quarzo, le sue decorazioni di granito, da darmi l'impressione di crollare al primo soffio di vento. Aveva la fragilità di una meravigliosa illusione. Sentii che se avessi battuto le palpebre non l'avrei più rivista, una volta riaperti gli occhi. Avevo avuto ragione a pensare che non si trattasse di primitivi, ma mi ero sbagliato nel pensare che i mercanti del fiume fossero barbari. «È una città di merletto» disse von Bek, in un sussurro. «Mille volte più bella della stessa Dresda!» «Venite» disse Alisaard, incamminandosi lungo la fila di gradini ben lucidati che scendevano verso la porta di Adelstane. «Dobbiamo procedere senza esitazioni. I signori della città fanno in fretta a scoprire spie ed esploratori del nemico.» Alle nostre spalle scorsi minuscole luci in mezzo alla roccia; osservai meglio e laggiù, dietro semplici ripari, scorsi alcuni volti. Ebbi l'impressione che brontolassero tra sé e poi ritornassero gradualmente al loro lavoro. Trovai difficile associare quei selvaggi agli abitanti e ai costruttori della città. Chiesi ad Alisaard chi fossero gli abitanti della montagna e lei si scusò per non avermelo detto prima. «Sono Mabden, naturalmente. Hanno paura
della città. E di quasi tutto il resto. Non avendo armi con cui assalire quello che temono, sono ridotti alle condizioni che vedete. A quanto pare, i Mabden sono soltanto capaci di uccidere o di fuggire. Come se non avessero mai imparato a usare il cervello.» Von Bek non mi parve convinto. «Mi sembrano le unità economiche inutili di qualche sistema politico troppo rigido, espulse dal ciclo della produzione per non essere di peso alle altre.» Alisaard aggrottò la fronte. «Non vi seguo» disse. Von Bek sorrideva tra sé. «Avete grande esperienza di meraviglie magiche e scientifiche, lady Alisaard, ma ho l'impressione che nell'insieme del multiverso non ci siamo molte civiltà economicamente complesse!» A questo punto, Alisaard sorrise come se avesse capito. «Ah, certo! Sì, avete ragione. Non è il giusto settore per quel tipo di società.» Guardai con divertimento la faccia di von Bek, che capiva di essersi reso colpevole di arroganza intellettuale, non solo, ma di essere stato messo al suo posto da una persona intellettualmente superiore a lui. Von Bek mi fissò e vide che avevo seguito il loro discorso. «Curioso come si tenda facilmente a cadere negli assunti e nelle follie delle nostre culture, quando scopriamo qualcosa di sconosciuto e di incomprensibile. Se riuscirò a uscire da questa avventura; se la Germania si libererà della guerra e della sua attuale follia, ho intenzione di scrivere un libro o due sulle reazioni dell'umanità al nuovo e all'improbabile.» Io gli battei una manata sulla spalla. «Così eviterai un trabocchetto ma finirai in un altro, amico mio. Non temere, quando giungerà il momento, ti scorderai dell'intenzione di scrivere quei libri e deciderai di limitarti a viverla, la vita. Sono l'esempio e lo sforzo a migliorare la nostra sorte, non i volumi eruditi.» Accettò le mie parole, ma non del tutto. Commentò: «In cuor tuo sei davvero un semplice guerriero, penso.» «Probabilmente sono una delle persone meno complicate che esistano, una persona comune. Non capisco perché sia diventato quello che sono.» «Forse, solo una persona fondamentalmente equilibrata e sana di mente può sopportare la quantità di esperienze e di informazioni da te accumulate» rispose von Bek, quasi in tono di compassione. Poi si schiarì la gola. «Ma anche l'eccessivo sentimentalismo è un pericolo, come l'eccessivo intellettualismo.» Eravamo arrivati alla porta circolare della città, che era costituita da un anello di metallo tendente al colore rosso. Mi parve un anello di fuoco, che
bruciava senza fiamme e senza irradiare calore. Era così luminoso da abbagliarci; quando giungemmo dinanzi a esso, non riuscivamo a vedere la città che si stendeva al di là. Senza fermarsi, Alisaard si diresse verso il cerchio luminoso e lo attraversò, passando sul punto dove toccava la superficie della roccia. A noi non restava che seguire il suo esempio. Chiusi gli occhi, passai attraverso il cerchio di fuoco e mi trovai dall'altra parte, senza subire danni. Von Bek venne dopo di me. L'intera esperienza, mi disse, era «notevole». Alisaard ci spiegò: «Il fuoco è freddo solo per coloro che vengono in amicizia. I signori di Adelstane ci danno il benvenuto, possiamo andarne orgogliosi.» Ora, davanti a noi, sulla strada di marmo bianco, scorgemmo cinque figure illuminate dalla luce dell'anello di fuoco. Indossavano ampie vesti di seta, con ricami di una complessità e di un'eleganza che facevano impallidire quelle dell'architettura cittadina. Ciascuna figura reggeva un'asta con una bandiera di lino, tenuta ferma da un telaio di fil di ferro per rimanere tesa in quella caverna priva di vento. Su ciascuna bandiera c'era un ricco ricamo, con grandi quantità di figure stilizzate. Non riuscii a riconoscere i simboli ricamati sulle bandiere, ma la mia attenzione passò subito alla faccia dei nuovi venuti. Non erano facce umane. Non erano neppure quelle della razza cui apparteneva Alisaard. Fino a quel momento non mi era ritornato in mente che il Barganheem era il mondo dominato da quelle strane bestie, i Principi Orsi. Quelle creature assomigliavano davvero agli orsi, anche se le differenze erano immediatamente visibili, soprattutto le mani e i piedi. Non avevano nessuna difficoltà a mantenersi ritti. I loro occhi neri parevano di ebano non lucidato, ma non avevano un aspetto minaccioso. «Benvenuti ad Adelstane» ci dissero in coro. Avevano una voce profonda, vibrante, e, per qualche motivo, anche tranquillizzante. Mi chiesi come potessero avere nemici: mi davano l'impressione che avrebbero sempre mantenuto alla lettera le loro promesse. Feci un passo avanti, tendendo le braccia per salutarli. Gli orsi fecero un passo indietro, mentre le loro nari fremevano, poi ripresero il controllo di sé; chiaramente, sentivano di averci fatto una scortesia. «Colpa del nostro odore» mi disse Alisaard, a bassa voce. «Lo trovano ributtante.»
SETTE Mi ero aspettato che ci accompagnassero in qualche ampia sala delle cerimonie, un auditorio dove gli ospiti potessero parlare a tutti i Principi Orsi e alla loro corte, informandoli delle notizie che portavano. Una cerimonia del genere mi pareva adatta alla città. Invece, le cinque severe creature ci portarono lungo strade immacolate, piene di edifici straordinariamente delicati e pieni di grazia, fino a una sala dal soffitto a cupola, che nella sua semplicità mi ricordò le antiche chiese battiste. All'interno trovammo calore, comode poltrone, una grande libreria: i tesori che un professore universitario potrebbe raccogliere in una vita dedicata a procurarsi cose belle. «Qui passiamo la maggior parte del tempo» disse una delle creature simili a orsi. «Abbiamo anche quartieri domestici, naturalmente, ma è qui che conduciamo i nostri affari. Spero che ci perdonerete l'assenza di formalità. Volete vino? O altro da bere?» «Vi ringraziamo della vostra ospitalità» dissi io, a disagio. Stavo per dire che eravamo ansiosi di incontrare i grandi principi non appena avessero avuto un momento a disposizione, ma Alisaard, che senza dubbio aveva capito le mie intenzioni, mi precedette. «Vi ringraziamo, signori. E siamo onorati di trovarci alla presenza di coloro che in tutti i Sei Regni sono conosciuti come i Principi Orsi.» Le sue parole mi stupirono, e la ringraziai mentalmente dell'informazione. Mi pareva strano che gli abitanti di una simile città, così meravigliosamente decorata, non amassero le cerimonie della massima complessità. E avevo pensato che un'intera legione di nobili orsi venisse a esaminarci. Ora mi venne il sospetto che fossero gli unici. O almeno gli unici che dovevano ascoltarci. La sala era intensamente profumata. Dal caminetto posto nella parete alla mia sinistra si levavano grandi nubi di incenso. Il nostro odore doveva essere straordinariamente disgustoso per loro, se si prendevano simili fastidi per coprirlo. «Ah, quello» disse uno dei principi, sollevando il complesso vestito per sedersi su una poltrona e indicando con l'asta della sua bandiera il fuoco del caminetto. «È la nostra abitudine. Spero che ci perdonerete le nostre manie. Siamo tutti un po' vecchiotti e ormai non riusciamo a rinunciare alle nostre abitudini. Io sono Groaffer Rolm, principe del Fiume Settentrionale, successore dalla famiglia degli Autuvi che, purtroppo, non ha lasciato
discendenti.»Si passò la mano sul muso e sospirò. Più li guardavo, più notavo che assomigliavano solo superficialmente agli orsi. Ebbi l'impressione che la loro specie esistesse da assai prima che nascessero gli orsi della terra di John Daker. «E questa è Snothelifard Piare» proseguì «principessa del Grande Fiume Meridionale e del Piccolo Fiume Orientale, capo ereditario della Carovana d'Inverno.» Con uno sventolio di sete e di pizzi, indicò la creatura accanto a lui. «Successivamente c'è Whiclar Hald-Halg, principessa dell'Effluente del Grande Lago, ultima portatrice della Selce. E Glanat Khlin, principessa dei Canali Profondi, Oratrice delle Tende. Infine mia moglie Faladerj Oroh, principessa delle Rapide Urlanti e Reggente della Carovana Stagionale Occidentale.» Groaffer Rolm si lasciò sfuggire un piccolo, educato brontolio. «Temo di essere, ahimè, l'ultimo principe maschio.» «Il vostro popolo è stato così decimato dai nemici?» chiese von Bek, in tono di condoglianza, dopo che ci fummo presentati a nostra volta. «È per questo che avete dato prova di tanta cautela, lord principe, prima di ammetterci nella vostra città?» Il principe sollevò la mano. «Mi sono spiegato male, a quanto vedo. Fino a poco tempo fa, questo mondo è stato in pace per secoli e secoli. Eravamo abituati alle persecuzioni, certo, e abbiamo costruito le nostre città lontano dagli sguardi invidiosi dei Mabden e quant'altri. Ma ci siamo nascosti così bene ai nemici che adesso ci resta solo l'abitudine alla cautela!» Voltò la testa verso il fuoco e finse di controllarlo. In realtà gli vidi respirare a pieni polmoni l'incenso. Parlò sua moglie, la principessa Faladerj: «Gran parte di ciò che scaviamo è troppo prezioso, troppo bello per cederlo. Vedete davanti a voi cinque creature decadenti, mentre il tempo della loro razza si avvia al declino. Siamo vissuti senza stimoli per troppo tempo, ormai. Stiamo morendo.» «Anche se» disse un'altra principessa, che mi parve più giovane, Whiclar «abbiamo visto andare e venire quattro interi cicli del multiverso. Pochi altri sopravvivono a uno.» Lo disse con grande orgoglio. «Ce ne sono pochi che possano vantare una storia lunga come quella di coloro che chiamate Principi Orsi. Noi ci chiamiamo Oager Uv. Siamo sempre stati un popolo rivierasco.» Si sedette, sollevando i pizzi e le stoffe pesanti. Il principe Groaffer aveva atteso in silenzio che Whiclar terminasse di parlare. «Ecco che cosa siamo» riprese. «Rimangono alcune famiglie, ma quella è la descrizione della nostra razza. Ci aspettavamo di terminare in pace i nostri giorni. I Mabden non ci danno più preoccupazioni. A volte ci
danno uno dei loro giovani, in cambio delle cose che ritengono necessarie in quel momento. Noi lo passiamo alle donne del Gheestenheem, che, come sappiamo, li trattano nel miglior modo possibile. Ma adesso abbiamo saputo di questo esercito di liberatori, che, a quanto sappiamo, hanno giurato di liberare i Mabden qui prigionieri. È questo il pericolo di cui volete avvertirci?» Alisaard aggrottò la fronte. «Non so nulla di quell'esercito. Chi lo guida?» «Un Mabden. Non ricordo il suo nome. Ora sono sulla Riva Orientale, e pare che siano in grande numero. Naturalmente, sono passati molti anni da quando abitavamo laggiù. Se volessero solo quelle rive, noi gliele daremmo senza problemi. A noi basta solo questa città dove condurre una vita tranquilla. Ma, grazie a un Mabden con un senso dell'onore superiore a quello degli altri, abbiamo saputo in tempo dell'invasione. Così i nostri alleati arriveranno presto, per difenderci nei nostri ultimi anni di vita. Sembra una strana ironia. E, inoltre, un'ironia assai familiare. I resti di un'antica aristocrazia difesi da coloro che un tempo erano i loro peggiori nemici!» Nell'udire le parole del principe mi sorse uno sgradevole sospetto; guardai i miei amici e mi parve che anche Alisaard e von Bek avessero analoghi presentimenti. «Perdonate, principe Groaffer Rolm» chiese Alisaard «ma quando avete saputo di questa guerra contro di voi?» «Non più di trenta albe addietro.» «E ricordate il nome del Mabden onorevole che si è offerto di aiutarvi?» «Sì, non ho difficoltà a ricordarlo. La principessa Sharadim del Draachenheem. È divenuta una nostra buona amica e non chiede nulla in cambio. Comprende i nostri principi e i nostri costumi e conosce gran parte della nostra storia. È un'ottima creatura. Per nostra fortuna abbiamo abbandonato da tempo tutte le altre nostre città. La principessa Sharadim ne ha solo una da difendere. Aspettiamo i suoi soldati per la prossima congiunzione.» Alisaard era rossa per l'indignazione; al pari di me e di von Bek non sapeva come parlare ai Principi Orsi per dire loro che si sbagliavano. Alla fine, von Bek disse senza mezzi termini: «Allora, ha ingannato anche voi. Come ha ingannato tanti altri nel suo mondo. Vi vuole male, signori; su questo non ci sono dubbi.» A queste parole fecero seguito molti sbuffi, molti schiarimenti di gola e diversi scricchiolii delle articolazioni.
Alisaard aggiunse, con passione: «È proprio così, miei principi. Quella donna intende allearsi con il Caos e distruggere le barriere tra i Regni, trasformando i mondi della Ruota in un unico sistema, vasto e senza legge, su cui lei i suoi alleati del Caos stabiliranno un'eterna tirannia!» «Il Caos?» La principessa Glanat raggiunse il focolare, ondeggiando sulle zampe, e inalò profondamente l'incenso. «Nessun Mabden può sperare di allearsi col Caos e sopravvivere... non nella sua forma originale, comunque. O quella donna spera di diventare lei stessa un Signore del Caos? A volte è l'ambizione di simili creature...» «Ricorderei a mia sorella la principessa» disse Snothelifard «che da questo terzetto abbiamo udito soltanto accuse, ma non ci è stata offerta alcuna prova. Da parte mia provo una fiducia istintiva per la Mabden Sharadim, e in genere sono sempre stata in grado di capire istintivamente la sua gente. Questi emissari potrebbero provenire da coloro che marciano contro Adelstane.» «Sulla mia parola d'onore» esclamò Alisaard «non siamo vostri nemici. Noi non serviamo né Sharadim né la guerra santa di cui parlate. Ci siamo rivolti a voi per essere aiutati nella nostra ricerca. Cerchiamo di fermare la diffusione del male, di fermare il Caos nelle sue mire sui nostri mondi. Siamo venuti da voi perché speravamo di trovare Morandi Pag.» «Ecco!» Snothelifard sollevò il muso e prese a battersi le unghie contro i denti. «Ecco!» Alisaard passò lo sguardo dall'uno all'altro dei Principi Orsi. «Che cosa intendete dire?» Groaffer inalò un'enorme boccata di fumo. Quando parlò, il fumo gli uscì dalle nari e si mescolò a quello che già gravava nella stanza. «Morandi Pag è impazzito» ci spiegò. «Era uno di noi. Un Principe Orso, direste voi. Era principe delle Cateratte del Sud-est e degli Stagni Gelati. Un grande commerciante. Sempre al timone della sua nave. Un amico. Oh!» Così dicendo, Groaffer alzò il muso in direzione del soffitto riccamente affrescato e si lasciò sfuggire un gemito di dolore. «Sono amici d'infanzia» spiegò Faladerj, accarezzando la testa al marito. «Il suo grande socio.» Le sfuggì un gemito. «Sì, Morandi Pag è con coloro che ci muovono guerra, ci hanno informato. L'abbiamo mandato a chiamare. Un messaggio urgente. Gli abbiamo detto che dovevamo vederlo ad Adelstane, perché ci spiegasse che non è al servizio dei Mabden. Ma non è venuto. Non ci ha risposto, e tra la nostra gente questa è un'affermazione
che le accuse sono vere.» «Morandi Pag ha una strana mente» intervenne Glanat. «L'ha sempre avuta. Agiva, diceva lui. Agiva sempre, in base a una sua logica complessa e illeggibile. Come commerciante era l'ultimo dei veri Principi del Fiume. Come veggente aveva imparato a guardare in mille mondi e in mille luoghi. Come scienziato, le sue teorie erano di una mirabile complicazione.» Annuì tra sé. «Oh, Morandi Pag era come i nostri antenati. Una mente diversa dalle altre, che riusciva a prevedere possibilità inimmaginabili. Così, alla fine è andato a ritirarsi sulla sua roccia. Ma non sapevamo che disapprovasse il nostro modo di trattare i Mabden. Avrebbe semplicemente dovuto dirlo. Noi ci limitiamo a fare quel che ci dicono i Mabden. Abbiamo offerto loro una delle nostre migliori città, ma loro hanno rifiutato; se siamo colpevoli di ragionare in modo ottuso, dovrebbe dircelo, noi Cambieremmo idea. Se i Mabden vogliono ritornare in un mondo del Mabden, possiamo portarli. Ma non sono disposti a prendere in considerazione i nostri suggerimenti. Adesso è arrivato questo esercito. Noi non abbiamo commesso niente di male, mi pare.» «Forse l'abbiamo commesso» riprese Snothelifard. «In tal caso, però, Morandi Pag avrebbe dovuto dircelo. Comunque, sono cose del passato. Abbiamo un esercito di barbari che marcia contro di noi. Significa uccidere. Non possiamo difenderci bene senza impiegare la morte. Quegli altri Mabden conoscono la morte e come darla. Noi non abbiamo neppure gli strumenti per farlo.» «Sì» convenne Groaffer Rolm, che si era ripreso. «Non abbiamo armi, mentre Sharadim ha i mezzi per procurarcele. Difende la bellezza, ci ha detto. E quella, secondo noi, merita di essere difesa. Ma noi non potremmo uccidere facilmente. I Mabden uccidono facilmente, penso che tutti i presenti saranno d'accordo. Ah! Morandi Pag non ci manda neppure un messaggio. No. Noi non vogliamo i Mabden. Sono come delle pulci. Ah!» Così dicendo, si voltò verso il focolare; la moglie, confusa, ci guardò con l'aria di voler scusare le parole del marito, che aveva definito «pulci» la nostra razza. «Sono peggio delle pulci, principessa Faladerj» mi affrettai a dire. «O appartengono alla peggiore specie di pulci. Dove mordono lasciano una scia di malattia e di distruzione. Ma sospetto che tutt'e due gli eserciti facciano capo a Sharadim. Ne usa uno per spaventarvi e uno per rassicurarvi. Sappiamo che pensa di portare un esercito nel vostro mondo. Ma pensavamo che marciasse contro Morandi Pag. Se è così, come può essere in le-
ga con lui?» «Qualcuno dovrebbe recarsi al suo scoglio, dicevo» osservò Groaffer Rolm, soffiando di nuovo il fumo dal naso. «Se fosse molto malato, molte cose si spiegherebbero. E io sono d'accordo con questi Mabden, amici principi. Non possiamo più fidarci di Sharadim. Ho l'impressione che abbiamo aspettato così tanto tempo di trovare un Mabden degno di fiducia che quando ne abbiamo trovato uno abbiamo voluto credergli a costo di ingannare noi stessi.» «La principessa Sharadim è una creatura onorevole» affermò la principessa Snothelifard. «Me lo sento nelle ossa.» «Perché non avete mandato qualcuno allo scoglio di cui dite?» chiesi io. «Se temevate che Morandi Pag fosse malato...» Groaffer tirò su col naso; aveva gli occhi umidi. Tossì e infilò la testa nel focolare, tanto da farla scomparire al suo interno. «Siamo troppo vecchi» disse poi. «Non c'è nessuno in grado di compiere il viaggio.» «Lo scoglio è così lontano?» chiese von Bek, in tono pressante. «Non molto» rispose Groaffer Rolm, tirando fuori dall'incenso la testa. «Cinque miglia, abbiamo calcolato.» «E nessuno di voi è in grado di percorrere cinque miglia?» chiese von Bek, con una sfumatura di disprezzo nella voce. «È dall'altra parte del lago» si difese Glanat. «Lui stesso ha esplorato il lago, alla ricerca del mitico Passaggio Centrale che, a quanto si dice, collega in modo permanente tutti i mondi. Tutto quello che ha trovato, però, è stato il suo scoglio. Ma in quel punto c'è spesso un vortice. E forti venti. Non abbiamo navi per raggiungerlo. Nulla di pronto, e ormai non siamo più in grado di costruirne una.» «Voi, i grandi Principi del Fiume, non avete navi? Ho visto la vostra arca all'Adunanza.» Non riuscivo a credere che mentisse. «Ne avete.» «Qualcuna. L'arca è solo un trucco per impedire ai Mabden di guardare con troppa cupidigia i nostri prodotti. Le donne del Gheestenheem hanno la stessa strategia ed è per questo che siamo sempre stati alleati. Ci restano alcune barche, vero. Ma noi siamo troppo vecchi.» «Allora, prestatene una a noi» disse Alisaard. Con esitazione appoggiò la mano. «Prestateci una barca e noi attraverseremo il lago per cercare Morandi Pag. Forse scopriremo che non è contro di voi. Forse la Mabden ha mentito anche in questo, oltre che in ogni altra cosa.» «La principessa Sharadim ha doti di chiaroveggenza» brontolò Snotheli-
fard. «Sa che Morandi Pag prepara la nostra morte.» «Lasciali provare» disse Groaffer, alzandosi dalla poltrona con un grande fruscio di stoffa. «Lasciali provare, principessa. Che male può farci?» Snothelifard si chinò verso il focolare, con una lentezza esasperante, e inalò lungamente il fumo. «Prendete la barca, ma fate attenzione» disse Faladerj Oroh, col tono di una madre che parla ai figli. «Lo scoglio si trova sotto il sole. Laggiù l'acqua è rovente e si comporta in modo strano. Morandi Pag si recava laggiù per stare in solitudine e compiere i suoi studi. Ma l'ultima volta non è più ritornato. Soltanto lui conosceva il modo esatto in cui si muove il mare. «Era una delle sue forze auree. Noi lo osservavamo sempre, quando eravamo giovani femmine e lui annusava le correnti che si trovano nell'acqua più profonda. Poi prendeva la barca e le attraversava. Metà delle nostre carte è stata disegnata prima della nascita di Morandi Pag. L'altra metà l'ha disegnata lui. Ma neanche una razza longeva come la nostra può durare per quattro interi cicli dell'universo. Morandi Pag è stato il nostro ultimo grande orgoglio. Se fosse stato un capo politico, saremmo riusciti a sopravviverne ancora un quinto.» La guardai, ma non mi pareva molto preoccupata dalla prospettiva dell'estinzione della sua razza. «Morandi Pag» riprese la principessa Faladerj «ha tratto le sue conoscenze dell'intero multiverso. Paragonati a lui, noi tutti siamo ignoranti e limitati. Abbiamo le barche, al livello inferiore. Possiamo portarle fino al vecchio molo. Ci aspetterete laggiù? Vi daremo le carte. Vi daremo provviste. E messaggi di amicizia e preoccupazione per Morandi Pag. E allora, se è ancora vivo, ci risponderà.» Meno di un'ora più tardi eravamo all'esterno delle massicce pareti di roccia, nella luce grigia della giornata, sull'antico molo di pietra, e dalle profondità della montagna giunse fino a noi una barca a vela di colore oro chiaro, con l'albero già rizzato e la vela arrotolata, con i remi e con piccole scatole a tenuta d'acqua, piene di cereali tostati e di paste dolci. Si fermò dondolando accanto al molo di pietra squadrata, pronta ad accoglierci. «Ho già visto una volta queste loro barche» disse Alisaard, salendo con sicurezza a bordo e regolando il sedile alla sua altezza. «Non possono riempirsi d'acqua. C'è un sistema di bocchette e di valvole, ma così astutamente nascoste che le può scoprire soltanto chi le ha costruite.» La barca era più grande di quella con cui eravamo giunti in quel mondo. Chiaramente era stata costruita per accogliere il peso e la massa degli orsi.
Ma rispondeva con grande agilità al timone e al vento. I Principi Orsi non si fecero più vedere da noi; salimmo a bordo e partimmo in direzione dello squarcio tra le nuvole, da cui usciva una luce forte, quasi violenta, che illuminava un tratto dove l'acqua schiumava furiosamente, e da cui si innalzavano occasionali geyser di vapore. «Acqua bollente» disse von Bek in tono stanco. Mi pareva pronto ad accettare la sconfitta. «Ecco la difesa dello scoglio di Morandi Pag. Osserva le carte, Herr Daker. Guarda se c'è qualche altro passaggio.» Ma non ce n'erano. Presto, in centro a quel grande cono di luce solare, riuscimmo a scorgere fra la schiuma e il vapore un'alta guglia di roccia, che si alzava di una trentina di metri al di sopra delle acque turbolente. Su quella guglia, pressoché invisibile dalla nostra posizione, c'era un edificio che ricordava la città che ci eravamo lasciati alle spalle. Poteva addirittura essere una formazione naturale, creata dalle forze degli elementi nel corso di migliaia di anni, ma sapevo che non lo era. Poteva essere solo la casa di Morandi Pag. Rallentammo la velocità della nostra barca, facendo forza sui remi prima di venire presi dalle correnti. Il vapore era così caldo che in poco tempo ci trovammo totalmente coperti di sudore. Attorno allo scoglio di Morandi Pag ce n'erano altri, c'erano varie minacciose punte di roccia, ma nessuna era altrettanto alta. Ci rizzammo in piedi e agitammo le braccia, nella speranza che ci vedesse e che ci indicasse la rotta, ma non scorgemmo alcun movimento nel palazzo di trine in cima alla formazione rocciosa. Alisaard esaminò nuovamente le mappe. «Possiamo passare di qui» disse infine, posando il dito su un punto della carta. «È una galleria nelle rocce, scavata dalle onde. Ci offre la miglior protezione dai soffi di vapore surriscaldato dei geyser. Quando saremo dall'altra parte dovremo fare attenzione agli scogli, ma l'acqua, a quanto leggo sulla mappa, laggiù è più fredda. «Ai piedi dello scoglio di Morandi Pag c'è una piccola baia, vedo qui. Dobbiamo raggiungerla prima di finire contro la parete di roccia. A quanto pare, è la sola scelta che ci rimane. Oppure possiamo fare ritorno ad Adelstane e riferire ai Principi Orsi di non essere riusciti a passare. A quel punto, non ci resterà che aspettare l'arrivo di Sharadim col suo esercito. Ma che cosa faremo, allora?» La risposta era già contenuta nella domanda. Potevamo soltanto proseguire. Senza attendere la nostra conferma, afferrò con una mano la corda del boma, con l'altra la barra del timone e fece rotta per le acque ribollenti
e coperte di vapore. Non saprei ripetere quello che accadde nei pochi minuti in cui Alisaard prese il comando della barca. Vidi onde minacciose e imprevedibili che spingevano il nostro scafo da una parte e dall'altra, altre che ci spingevano bruscamente a poppa o a prua, rocce taglienti che passavano a poche dita dalla chiglia, soffi improvvisi di vento che facevano sbattere la vela, e Alisaard che intonava una strana canzone, simile all'ululato di un lupo, mentre guidava la barca verso gli scogli. Si aprì dinanzi a noi il varco scavato dal mare, e fummo immediatamente inghiottiti. Il mare ruggiva e urlava contro di noi. La barca strisciò prima contro la parete di sinistra e poi quella di destra. Alisaard continuò a cantare. Era una canzone bellissima. Un canto di sfida, contro l'intero multiverso. Poi, all'improvviso, ci trovammo su una corrente di acqua più fresca, che usciva dal passaggio e si muoveva in direzione dell'alta guglia di roccia dove sorgeva il palazzo di Morandi Pag. Alzai lo sguardo in quella direzione. La forte luce del sole pareva concentrarsi lassù, ad opera di qualche invisibile lente cosmica, per illuminare il palazzo di pietra bianca, e ora notai che alcune sue parti erano completamente in rovina. Quella vista mi fece incollerire. Battei il pugno sul fianco della barca. «Abbiamo rischiato inutilmente» esclamai. «Morandi Pag è morto. Quel castello è disabitato da anni!» Ma Alisaard non mi rispose. Con la stessa precisione e la stessa delicatezza di prima, pilotò la barca, che ancora danzava sulle onde, verso lo scoglio più alto. E laggiù, all'improvviso, scorgemmo una laguna di acqua tranquilla, circondata da alte pareti di roccia, con un unico, stretto passaggio. La barca virò in quella direzione e poco più tardi ci trovammo all'interno di quella piccola zona di serenità. Rollando gentilmente, la barca raggiunse il molo. Al di là della parete di roccia sentivamo ruggire l'acqua, soffiare i geyser, ma il suono era attutito, pareva ormai lontanissimo. Alisaard interruppe il suo canto, si rizzò in piedi e lanciò un grido di esultanza. Anch'io e von Bek ci unimmo a lei. Nessuno aveva mai gridato con tanta soddisfazione. Eravamo ancora eccitati per la tensione vissuta fino a pochi istanti prima. La stessa Alisaard non dava segno di stanchezza. Salì rapidamente in cima alla parete di roccia e guardò noi, che lasciavamo la barca con grande cautela e salivamo lentamente gli scalini.
«Da quella parte» ci disse, indicando una rampa che portava a un'apertura nella parete di roccia. «Deve essere l'ingresso del castello di Morandi Pag.» Ulrich von Bek si voltò in quella direzione e osservò la zona dove l'acqua continuava a ribollire. Disse a bassa voce: «Mi auguro che questo Morandi Pag abbia qualche sistema migliore per lasciare la sua rocca. Comincio già a tremare al pensiero del viaggio di ritorno!» Alisaard si avviò verso l'entrata del castello, togliendosi le gocce d'acqua dall'armatura d'avorio. Cominciò a chiamare a gran voce Morandi Pag. Von Bek scoppiò a ridere. «Dovremmo dire che veniamo dall'agenzia delle pompe funebri. Quel vecchio orso deve essere morto da anni; guarda com'è ridotto questo posto.» Alisaard passò a una versione leggermente diversa dell'annuncio con cui si era presentata davanti alla città di Adelstane. «Siamo viaggiatori pacifici» disse «nemici dei vostri nemici. Ora entreremo nella vostra casa, consapevoli del fatto che non ci avete espressamente rifiutato questo privilegio.» S'interruppe e attese, ma non ci fu risposta. Tutt'e tre oltrepassammo la soglia, che era scheggiata e coperta di incrostazioni, e da cui, con nostra sorpresa, si passava a una rampa di scale che portava all'interno delle rocce. La scala era molto lunga. Dall'esterno ci giungeva il brontolio delle onde. L'intero luogo aveva odore di muffa; mi parve di udire qualcuno che sbuffava: lo stesso tipo di suono che avevo udito da Groaffer Rolm. Giungeva dal basso. Poi, all'improvviso, scorsi qualcosa che mi fece sorridere. E con me sorrisero i miei compagni. Dall'oscurità sotto di noi si levava un ricciolo di fumo denso e verdastro, così intensamente profumato da darci quasi il voltastomaco. «Ho l'impressione che un Principe Orso si prepari a darci il benvenuto» commentò von Bek. Alisaard rise, divertita dalla battuta. Un po' troppo divertita, a parer mio. Ora ci facemmo strada in mezzo a quella pesante nube e infine raggiungemmo una porta ad arco. Al di là di essa si scorgevano tavolini, mobili, libri, sgabelli, strumenti di tutti i generi, planetari e lampade che proiettavano luci dallo strano colore. E una forma massiccia che veniva verso di noi, dondolando ma con un passo ancora pieno di energia: lo stesso Morandi Pag. Diversamente dai suoi compagni, indossava una veste molto
semplice, con un minimo di ricami e di pizzi, e il suo pelo era quasi del tutto bianco. Un tempo, quel pelo doveva essere nero, ma ora gli rimaneva solo qualche macchia grigia sulla testa e nel centro della schiena, fra le spalle. Nel suo sguardo mi parve di leggere una curiosità, mista ad attenzione e forse a una punta di ironia, che non avevo visto negli altri Principi Orsi. Eppure i suoi occhi grandi e scuri avevano anche una luce strana, una tendenza a distogliersi dall'oggetto che fissavano, a fissarsi su qualcosa che noi non potevamo vedere. Aveva un timbro di voce profondo, amichevole, ma parlava in modo ancor più vago e più ricco degli altri principi. Insomma, Morandi Pag dava l'impressione di non essere del tutto in sé, anche se avevo il sospetto che fosse un atteggiamento voluto, come se avesse paura dei risultati a cui lo avrebbe portato il ragionamento. Una creatura di enorme intelligenza, ma che doveva avere conosciuto delusioni altrettanto grandi. Avevo già visto quell'espressione sul volto di coloro che erano sopravvissuti a qualche terribile minaccia. Anche von Bek la riconobbe e mi lanciò un'occhiata. Morandi Pag pareva ben disposto verso di noi. «Un altro gruppo di esploratori Mabden, se non vado errando. Bene, Mabden, siate i benvenuti. Siete venuti a cartografare queste acque, come facevo io?» «Non siamo mercanti alla ventura, mio signore» rispose tranquillamente Alisaard. «Siamo qui per salvare dal Caos i Sei Regni della Ruota.» Per un attimo lessi negli occhi di Morandi Pag un guizzo di comprensione. Poi quell'espressione svanì. Il principe incominciò a canticchiare un motivetto e si avviò verso i suoi libri e i suoi strumenti alchemici. «Sono vecchio» disse, senza guardarci. «Troppo vecchio. Probabilmente le troppe conoscenze mi hanno fatto perdere il senno. Non posso più essere utile a nessuno.» Poi si voltò di scatto e mi fissò, esclamando: «Voi! Arriverà anche a voi. Prima o poi vi arriverà. Miei poveri piccoli Mabden.» Si appoggiò contro un bancone dove ardeva una dozzina di bruciaprofumi. Era di lì che si levava il fumo greve e profumato. «La conoscenza» continuò «termina di essere saggezza quando non si ha più il modo per capire o per usare quel che si impara. Vero? Ma, probabilmente, era una conclusione inevitabile. No?» «Principe Morandi Pag» gli disse Alisaard, in tono pressante. «La nostra missione è quella che vi ho detto. Contro il Caos e tutto ciò che porterebbe. Non penso che vorreste nasconderci qualcosa, vero? Qualcosa di importante per la nostra missione!»
«Per proteggervi» asserì l'orso, alzando e abbassando il muso per confermare le proprie parole. «Solo a quello scopo non lo nasconderei.» «Sapete dove si trova la Spada del Drago?» gli chiese von Bek. «Ah, quella. Certo che lo so. Potete vederla, se volete, qui sotto.» Trasse un profondo sospiro. «Nient'altro? La vecchia spada infernale, eh? Certo, certo.» Intanto, però, il suo sguardo era già corso a un recipiente di vetro azzurrino, posato sul tavolo. All'interno danzava una sorta di lucciola. Morandi Pag sorrise e mormorò qualcosa tra sé, compiaciuto. Dopo un attimo girò nuovamente la testa verso di noi. Parve riflettere per qualche istante, poi disse piano, con la voce che tremava per l'età: «Sono spaventatissimo da quanto sta succedendo. Come fate, voi tre, a non spaventarvi?» «Forse perché, principe, dobbiamo ancora incontrare il nemico» disse von Bek. Lo disse in tono molto gentile, come se dovesse calmare un cavallo. «Ah!» fece l'orso, come se trovasse soddisfacente quella spiegazione. «Ah, non potete immaginare, non potete immaginare...» Poi la sua attenzione passò a qualcosa d'altro. Cominciò a mormorare versi, pezzi di equazioni, nomi, parole di lingue a noi sconosciute. «La, la, la, posso offrirvi qualcosa di quel che ho? Il cibo non è un problema, come forse sapete. Ma...» Si grattò un orecchio e ci rivolse un'occhiata interrogativa. «La Spada del Drago, principe Morandi Pag» gli ricordò Alisaard. «Sì. Volevate vederla, sì. È qui sotto.» «Ci fate l'onore di accompagnarci? O dobbiamo andare da soli?» chiese lentamente la donna. «Come dobbiamo comportarci, principe?» «Fate quel che volete.» S'era già scordato della nostra conversazione. Cominciò a spostare bottiglie e alambicchi. «La, la, la, la.» Von Bek si avviò verso una porta in fondo alla stanza. «Dobbiamo vedere cosa c'è qui dentro. Mi dispiace della scortesia, ma abbiamo poco tempo.» Passò tra pergamene e volumi, strumenti abbandonati e pile di contenitori, ciascuno con qualche strana sostanza, e accostò la mano alla maniglia. Poi si voltò verso Morandi Pag e lo guardò con aria interrogativa. Dopo qualche istante, il vecchio orso gli rispose. Anche ora la sua voce era calma e piena di saggezza. «Potete entrare e cercare laggiù, se volete.» In quei pochi istanti avevamo raggiunto von Bek. La porta non era di legno ma di una roccia multicolore che aveva la consistenza della pomice.
Era riccamente intagliata, con disegni simili a quelli che avevo visto sulle bandiere dei Principi Orsi, ad Adelstane. Anche ora non capii che cosa rappresentassero. Senza un solo cigolio di protesta, la porta ruotò sui cardini. Al di là c'era una stanza piccola e circolare, poco più grande di un ripostiglio. Alle pareti erano appese alcune lampade, sui ripiani si scorgevano pacchetti, rotoli di pergamena, scatole, recipienti di coccio, fiaschi impagliati e altri oggetti di cui non avrei saputo dire la funzione. Tuttavia, ad attirare la mia attenzione fu l'oggetto che pendeva dal soffitto. Appesa a un grosso gancio di bronzo c'era un'elegante gabbia di metallo, che un tempo, a giudicare dalle macchie sulle sbarre e sul fondo, doveva contenere un grosso uccello. Ma adesso non conteneva un pennuto. Il prigioniero che ci fissava da dietro le sbarre era un uomo di bassa statura, vestito di un abito multicolore, simile a quello dei buffoni medievali. Il poveretto pareva oltremodo lieto di vederci. Non c'era modo di capire da quanto tempo fosse chiuso in gabbia. Dietro di noi si levò la voce di Morandi Pag. Il tono era di nuovo quello di chi pensa ad altro. «Ah, vero» disse l'orso. «Adesso ricordo dove avevo nascosto il mio piccolo Mabden.» OTTO L'uomo chiuso in gabbia era Jermays lo Storpio. Mi riconobbe immediatamente e scoppiò a ridere. «Che piacevole sorpresa, ser Campione! Lieto di vederti.» Morandi Pag ci raggiunse e cominciò ad aprire il complicato lucchetto. «L'ho messo qui allorché ho visto la vostra barca. In questo modo un possibile nemico l'avrebbe giudicato uno schiavo o un animaletto da compagnia e non l'avrebbe ucciso.» «Mi ha messo qui, potrei aggiungere, nonostante le mie proteste» precisò Jermays, ma senza collera. «È la quinta volta che mi ficcate in quell'orribile gabbia, principe Pag. Non lo rammentate?» «Ti ho già messo qui altre volte?» «Ogni volta che avete visto una barca.» Jermays balzò a terra, con la sua abituale agilità, e alzò la testa verso di me. «Congratulazioni, ser Campione. La vostra è la prima imbarcazione che riesce ad arrivare indenne. Do-
vete essere un provetto timoniere.» «Tutto il merito va a lady Alisaard. È lei l'esperta di navigazione a vela.» Jermays rivolse un inchino alla donna del Gheestenheem. Il giovane nano, nonostante le gambette storte e la barbetta spelacchiata, riusciva a comportarsi con una grande dignità. Alisaard lo guardò affascinata. Poi il nano si presentò a Ulrich von Bek, che a sua volta gli diede il proprio nome. «Conoscevate già il mio piccolo Mabden?» chiese Morandi Pag, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Sarà meraviglioso per lui poter godere della compagnia di altri della sua razza. Voi siete il Campione, l'avevo capito. Sì, sapevo che eravate il Campione, perché...» All'improvviso, il suo sguardo divenne vacuo. Rimase a bocca aperta, gli occhi fissi nel vuoto. Jermays corse verso di lui e lo prese per il braccio, poi lo accompagnò alla sua poltrona. «Ha troppe cose nella testa. A volte succede» ci spiegò. «Lo conoscete bene?» chiese Alisaard, leggermente sorpresa. «Oh, certo. Da quasi settant'anni sono il suo solo compagno. Non che avessi molta scelta. Nella mia attuale posizione non sono più in grado di muovermi a piacimento tra i regni, come un tempo facevo. Ma devo ammettere che ogni giornata di quei settant'anni è stata molto stimolante. Ora, non cercavate qualcosa?» Mentre parlava, aiutò Morandi Pag a sedere. «Sarei lieto di aiutarvi.» «Morandi Pag ci prometteva di mostrarci la Spada del Drago» gli disse von Bek. «Ah, vi ha già detto del Cristallo Scarlatto? Certo, so dove si trova. Posso portarvi laggiù senza difficoltà, ma dobbiamo portare con noi il principe. Io sono del tutto inutile, quando si tratta di incantesimi. Lasciatelo riposare un poco.» «Siamo disperatamente a corto di tempo!» mormorò Alisaard. «Andiamo subito!» Morandi Pag di alzò si scatto, pieno di energia. «Adesso! È urgente, dite? Benissimo, andiamo, vi mostro la Spada del Drago.» In fondo allo stanzino dove avevamo trovato Jermays c'era una porta stretta. Morandi Pag la aprì, scese qualche scalino di una scala a chiocciola. Sotto di noi sentivamo il rumore del mare. Era così violento da farci temere che abbattesse le pareti di roccia e inondasse quelle caverne. Jermays lo Storpio accese una torcia e, al suo chiarore, si chinò ad aprire una botola. Dal disotto ora ci giunse una luce lattiginosa. Il nano scompar-
ve nella botola, dopo averci fatto segno di seguirlo. Morandi Pag disse: «Scendete per primi. A me occorrerà più tempo, a causa della mole e dell'età.» Vidi che von Bek esitava a scendere. Sospettava un inganno. Ma Alisaard lo invitò a obbedire. Io scesi dopo di lei, lungo una scaletta umida e scivolosa. Ci trovammo in una caverna che doveva essere stata scavata in una guglia di roccia. Da una lunga cornice di pietra si poteva osservare un laghetto, pieno di mulinelli, in cui si riversava l'acqua che filtrava da alcune feritoie poste sopra di noi. L'acqua poi usciva da qualche foro che non si poteva vedere dalla nostra posizione. Era una meravigliosa grotta naturale e per qualche istante la osservammo in silenzio, chiedendoci dove mai potesse portare. Poi sentii sulla spalla la mano dell'orso. Mi voltai verso di lui e vidi che aveva lo sguardo pieno di malinconia. «È colpa del troppo sapere» disse. «Succederà anche a voi, a meno che non passiate all'azione. La nostra mente non ha una capacità infinita di accogliere informazioni. Non vi pare?» «Lo penso anch'io, principe Morandi Pag. La spada potrà farmi dei danni?» «Non ancora. Il danno che vi ha fatto e quello che vi farà non sono parte del vostro destino attuale, penso. Ma le azioni possono cambiare il corso del destino, naturalmente, e di conseguenza...» Si schiarì la gola. «Ma volete vedere la spada, vero. Allora dovete guardare nell'acqua.» «Non possono vederla, principe Pag» intervenne Jermays, parlando ad alta voce per farsi udire in mezzo al rumore dell'oceano. «Occorre il vostro incantesimo.» «Ah, vero» rispose l'orso, con un leggero turbamento. Si grattò il petto, poi mi posò la mano sul braccio. «Non temete. È una particolare formulazione logica. Un'equazione mentale che devo costruire nella mente. Ma c'è una canzone che mi può essere d'aiuto. Mi scusate, vero?» Sollevò il muso e si produsse in una bizzarra serie di grugniti e di gemiti, un ululato musicale e una serie di latrati secchi. «È di nuovo impazzito?» mi sussurrò von Bek. Jermays lo spinse avanti. «Andate sul bordo. Guardate nell'acqua. Non pensate a niente. In fretta, sta facendo l'incantesimo!» Ora tutt'e quattro eravamo sul bordo della cornice di roccia e guardavamo l'acqua grigiastra che si muoveva senza sosta nel laghetto. Il movimen-
to dell'acqua aveva un effetto ipnotico: catturò immediatamente la nostra attenzione e non la lasciò più libera. Mi parve di perdere l'equilibrio, sentii che il piccolo Jermays mi prendeva per il braccio e mi teneva fermo. «Non abbiate paura di cadere» mi disse. «Concentratevi sulla superficie dell'acqua.» Con qualche timore feci come mi diceva. Sentivo la voce di Morandi Pag fondersi con il rumore delle onde per formare un'immagine, qualcosa che prendeva progressivamente forma. Gradualmente le acque cominciarono a brillare di una luce rosata. All'esterno della guglia, il vento ululava e il mare continuava a colpire le rocce. Ma all'interno l'acqua si stava addensando, si trasformava in minuscoli frammenti di luce fissi nello spazio, e il laghetto era divenuto un blocco di cristallo. All'improvviso non sentii più la voce di Morandi Pag. Non sentii più il rumore delle onde, al di là della parete di roccia. Era sceso su di noi un grande silenzio. Ora guardammo attraverso il cristallo e scorgemmo una forma nera e verde che pareva incastonata nella pietra, come una mosca nell'ambra. «È la Spada del Drago» mormorò Alisaard. «Esattamente come ci è apparsa nella visione!» Lama nera, impugnatura verde, la Spada del Drago pareva quasi fremere nella sua prigione di cristallo. E mi parve di scorgere anche una minuscola fiamma gialla che si agitava all'interno della spada, come se qualcosa vi fosse imprigionato, esattamente come la spada stessa era imprigionata nel cristallo. «Potete farmela prendere, Morandi Pag?» chiese Alisaard, in un sospiro. «Conosco l'incantesimo che libera il drago. Devo portare la spada nel Gheestenheem...» Il Principe Orso era soggiogato come tutti noi. Pensai che non avesse udito le parole della donna. «È un oggetto di grande bellezza. Ma tanto pericoloso...» disse. «Lasciate che la prendiamo noi, Morandi Pag» lo supplicò von Bek. «Possiamo usarla a fin di bene. Si dice che la spada sia malvagia soltanto quanto la mano che la impugna...» «Sì, ma dimenticate il resto» lo interruppe l'orso. «Si dice che instilli il male in chiunque la impugna. Inoltre non sta a me dire se dovete averla o no. La Spada del Drago non è mia.» «Ma è nella vostra caverna. Perché dite che non è vostra?» «Posso evocarla in questa caverna, grazie alla nostra posizione. Voglio dire che posso chiamarne l'ombra...»
Tutt'a un tratto Morandi Pag scivolò a sedere sulla pietra e parve addormentarsi pacificamente. «Non sta bene?»chiese Alisaard, allarmata. «È stanco» disse Jermays, curvandosi sul suo amico. Posò una mano sulla testa dell'orso, l'altra sul suo cuore. «Semplicemente stanco. Ultimamente aveva l'abitudine di dormire per buona metà del giorno, oltre che tutta la notte. Come abitudini è notturno.» Von Bek esclamò: «La spada! La spada sta svanendo! La parete di cristallo sparisce!» «Avevate detto di volerla vedere» rispose Jermays, rizzandosi come meglio poteva. «E adesso l'avete vista. Che altro?» «Dobbiamo liberare il drago contenuto nella spada» gli spiegò Alisaard. «Prima che la lama sia costretta a servire il Caos. Il drago cerca solo la sua terra natale. Tenetela ferma qui, Jermays. Dateci il tempo di liberarla dalla sua prigione! Vi prego!» «Ma io non posso farlo. E neppure il principe Pag.» Jermays pareva sinceramente stupito. «Quella che avete visto è solo un'illusione, o meglio una visione della Spada del Drago. La parete di cristallo non è qui nella caverna, e nemmeno la spada.» Il riflesso rosso era sparito. L'acqua era ritornata a formare la piccola laguna che avevamo visto al nostro ingresso. All'esterno, le onde continuavano a colpire le rocce. Jermays ci chiese di aiutarlo a portare via Morandi Pag. Il vecchio orso si ridestò quando eravamo giunti alla scaletta. «Ma avevamo capito che la spada fosse qui» protestò von Bek. «Morandi Pag ci ha detto che c'era.» Alisaard scosse la testa. Per un attimo gli rivolse un sorriso ironico. «Ha detto che potevamo vederla» ricordò a von Bek. «Niente di più. Comunque, è meglio di niente. Ora, forse, quando si riprenderà, ci dirà dove andarla a cercare.» Morandi Pag brontolò qualcosa quando Jermays mise la spalla sotto di lui e cercò di spingerlo su per la scaletta. Mi affrettai a salire anch'io e poi mi sporsi dal di sopra, in modo da afferrare per le braccia il vecchio principe e sollevarlo. Alla fine riuscimmo a fargli oltrepassare la botola, e a quel punto il principe riprese i sensi. Afferrò la torcia e ci precedette lungo la scala. «Avanti!» gridò. «Seguitemi! Si va da questa parte!» Quando fummo tutti con lui nella sala principale, Morandi Pag aveva già raggiunto la poltrona, vi si era lasciato cadere e si era addormentato, come
se non si fosse mai mosso di lì. Jermays lo guardò con affetto. «A questo punto dormirà per tutto il giorno, penso.» «Dovremo aspettare tanto, prima di poter proseguire la nostra missione?» chiesi io. «Dipende da cosa cercate» rispose Jermays in tono ragionevole. «Ci hai detto che abbiamo avuto una visione della spada. Ma dov'è la parete di cristallo cremisi? Come possiamo raggiungerla?» volle sapere Alisaard. «Pensavamo che sapeste dove si trova la spada» disse Jermays «ma che aveste deciso di non cercarla.» «Non abbiamo il minimo indizio» ammise Alisaard. «Non sappiamo neppure in che regno si trova.» «Ah» disse Jermays, nell'apprenderlo. «Questo spiega molte cose. E se vi dicessi che la Spada del Drago si trova nelle Marche dell'Incubo, che è laggiù da quando voi Donne Fantasma siete giunte nel Gheestenheem? Queste informazioni vi farebbero cambiare idea?» Alisaard si portò le mani davanti alla faccia. L'informazione l'aveva confusa, non solo, ma le aveva tolto ogni forza di volontà. «Che possibilità abbiamo, noi mortali, di trovare un oggetto laggiù? E di sopravvivere?» chiesi con aria atterrita. «Ben poche» convenne Jermays, in tono pratico. «A meno che, naturalmente, non abbiate un Actorios. Ma anche in tal caso sarebbe estremamente pericoloso. Potreste rimanere qui con noi, sareste i benvenuti. Da parte mia sarei lieto di avere qualche compagno. I giochi di carte che si possono fare in due sono molto limitati. E Morandi Pag tende un po' troppo alla distrazione, in questi giorni, persino quando giochiamo a rubamazzo.» «Perché il possesso di un Actorios dovrebbe esserci d'aiuto nelle Marche dell'Incubo?» gli chiesi, infilandola mano nella borsa che portavo alla vita e toccando la gemma per sentirne il calore. Mi era stata data dall'Annunciatrice Eletta, Phalizaarn, nel Gheestenheem, e a detta di Sepiriz il suo destino era intimamente legato al mio. «Ha qualcosa in comune con un bordone magico» mi disse Jermays. «Può agire sull'ambiente circostante. Parzialmente, voglio dire, rispetto ad altri manufatti magici più potenti. Riesce a stabilizzare ciò che è stato toccato dal Caos. Inoltre ha una certa affinità con quelle spade. Vi può guidare alla spada che cercate...» Si strinse nelle spalle curve. «Ma che importanza possono avere le mie
parole? Nessuna, ritengo. Dato che occorreranno ancora molte oscillazioni del pendolo cosmico, prima che tu venga in possesso di un Actorios, Campione, la nostra discussione è un po' futile...» Presi dalla borsa la pietra viva e pulsante e gliela mostrai, tenendola sul palmo della mano. Lui la fissò per qualche istante, senza parlare. Mi parve molto più umile di prima, quasi spaventato. «Ah» disse dopo qualche istante «allora avete una pietra di quel tipo.» «Questo cambia le nostra possibilità di sopravvivere nelle Marche dell'Incubo, mastro Jermays?» gli chiese von Bek. Jermays lo Storpio mi lanciò un'occhiata che era stranamente piena di compassione. Poi si girò dall'altra parte e finse di osservare la collezione di vetri alchemici radunata da Morandi Pag. «Avrei voglia di mangiare una pera» disse. «Mi è venuta fame. Se proprio non ci fosse, anche una mela potrebbe andare bene. Qui non c'è molto cibo fresco. A meno che non vi piaccia il pesce. Ho l'impressione che presto troverò qualcosa. L'Equilibrio si sposta, gli dèi si svegliano. E quando incominciano ad agire, io vengo sbattuto un po' da una parte e un po' dall'altra. Ma che ne sarà di Morandi Pag?» «È già in marcia un esercito» spiegò Alisaard. «Intende strappargli con la tortura le informazioni, oppure ucciderlo, non ne siamo del tutto certi. La principessa Sharadim è capo dell'esercito.» «Sharadim?» Anche ora Jermays fissò me. Si era voltato in un lampo. «Tua sorella, Campione?» «In un certo senso» risposi. «Jermays, come si entra nelle Marche dell'Incubo?» Il nano agitò le braccia, lunghe in modo innaturale, e si avvicinò al Principe Orso, ancora addormentato. «Nessuno vi fermerà» ci disse. «Di solito non si tratta del fatto che le Marche dell'incubo rifiutino i visitatori. Piuttosto, la maggior parte dei visitatori non vi si reca, per usare un eufemismo, volontariamente. Il luogo è dominato dal Caos. È il luogo dove il Caos è stato esiliato all'epoca delle antiche battaglie della Ruota, in un passato così lontano da essere ormai pressoché dimenticato da tutti. Potrebbe essere successo all'inizio del ciclo.» Scosse la testa. «Non ricordo. Le Marche dell'Incubo si trovano al centro della Ruota e sono mantenute laggiù dalle stesse forze che mantengono nelle loro rispettive posizioni i Sei Regni, come se fossero soggette a una particolare forza di gravità; ora, non è Sharadim a voler sciogliere quelle
forze? A voler liberare il signore delle Marche dell'Incubo, l'arciduca Balarizaaf? Che bisogno avete di andare da lui? Presto sarà lui a venire da voi» concluse Jermays, rabbrividendo. «Conoscete i movimenti di Sharadim?» chiese Alisaard, ansiosa. «Potete prevedere quello che farà?» «Le mie predizioni non sono mai accurate» disse Jermays. «Sono inutili a chiunque. Io salto da un posto all'altro. Vedo un po' di questo e un po' di quello. Ma non ho la testa, né il carattere, per mettere insieme i vari pezzi. Forse è per questo che gli dèi mi permettono di viaggiare così. Sono una creatura di ombre, signora, per la maggior parte del tempo. Voi attualmente mi vedete in uno dei miei ruoli più materiali. Ma non può durare a lungo. Sharadim ha grandi ambizioni, malvagie. Lo so, ma nulla di ciò che sono in grado di dirvi potrebbe fermarla. Lo schema delle cose potrebbe già essere stato stabilito. La principessa cerca la Spada del Drago, eh? E con l'aiuto della spada darà a quel Signore del Caos i suoi pieni poteri, forse. Già...» In quell'istante Morandi Pag brontolò nel sonno, scosse la grossa testa, mosse i baffi e infine spalancò gli occhi grandi e intelligenti. «La principessa Sharadim guida un esercito contro i miei fratelli. È quello che volevate dirmi, eh? E minaccia Adelstane? E gli altri mondi? E si allea con il Caos? La sento, da dove si trova. Dice: 'Flamadin, mio falso fratello, non riuscirai a sconfiggermi. Il mio potere aumenta di momento in momento, per gravità naturale, mentre il tuo diminuisce'.» L'orso ci guardò con aria interrogativa. «Mi crede ancora ad Adelstane?» chiese. «Pare di sì. Assalirà le nostre porte. Ma riuscirà a entrare? Chi lo può dire? Ci sono le mie sorelle! Mio fratello! Il mio vecchio amico Groaffer Rolm! Vi hanno mandato a cercarmi?» «Ci hanno affidato un messaggio per voi, principe Morandi Pag. Sono preoccupati per voi. E sono in pericolo e hanno bisogno del vostro aiuto. Un esercito di Mabden intende attaccarli. Più numeroso di quel che pensiate.» «Non voi?» «Nel bene o nel male, principe, noi siamo vostri alleati contro un nemico comune» gli dissi. «Allora devo riflettere sul da farsi.» Ciò detto, chiuse gli occhi e riprese a dormire. Von Bek si rivolse a Jermays. «Voi sapete come raggiungere le Marche dell'Incubo? E siete disposto a rivelarcelo?»
Jermays lo Storpio gli rivolse un cenno affermativo, distrattamente, e cominciò a frugare sul tavolo di Morandi Pag. Poi s'infilò sotto il tavolo ed esaminò altri rotoli, per infine scartarli. Non avendo trovato ciò che cercava, andò ad aprire una cassa, contenente decine di pergamene arrotolate, ciascuna col suo numero, a quanto mi parve. Le osservò e sorrise. Molto delicatamente, ne prelevò una, cercando di non spostare le altre. «Sono le carte di Morandi Pag» ci spiegò. «Carte di moltissimi mondi. Di configurazioni e complessi, di congiunzioni ed eclissi.» Passò il dito lungo la carta. «Sì, pare che una porta stia per aprirsi nel Nord-ovest. Nei pressi del Monte Goradyn. Potreste prendere di lì. Vi porterà nel Maaschanheem. Di lì raggiungerete l'ancoraggio del Gambero Zoppo e aspetterete la porta che vi condurrà nel Rootsenheem, il regno dei Lacrimatori Rossi.» Tornò a controllare la mappa. «Bene. Laggiù, nel vulcano chiamato Tortacanuzoo, troverete un passaggio diretto per le Marche dell'Incubo. Almeno, così mi pare di capire. Però, se preferiste aspettare cinque giorni, sette ore e dodici minuti, potreste partire dai pressi di Adelstane, entrare nel Draachenheem, passare nel Fluugensheem, e trovarvi al Gambero Zoppo pressappoco al momento in cui vi arrivereste da Goradyn. Oppure potreste salire di nuovo sui monti, attendere l'eclisse nella città di Sedulous, che è un fenomeno abbastanza raro e vale la pena di conoscerlo, e di lì giungere subito nel Rootsenheem.» Alisaard riuscì finalmente a farlo stare zitto. «E per un passaggio diretto dal Maaschanheem?» chiese. Il nano tornò a studiare la carta: in tutto e per tutto mi pareva un uomo del ventesimo secolo che esaminava l'orario ferroviario. «Diretto dal Maaschanheem? Tra dodici anni...» «Allora, non abbiamo altra scelta che raggiungere l'ancoraggio del Gambero Zoppo, vero?» chiese lei. «Effettivamente, pare proprio di no. Anche se passando per la Camicia Stracciata...» «A quanto pare» disse von Bek, in tono asciutto «diventa sempre più difficile entrare all'inferno, nel vostro mondo come nel mio.» Alisaard non gli badò. Cercava di mandare a memoria le parole di Jermays. «Gambero Zoppo, poi nel Rootsenheem, a Tortacanuzoo. È la strada più breve, eh?» «A quanto pare. Però, mi sembra che dovreste passare per il Fluugensheem, anche se solo per poco. Forse lo scavalcate. Dice qui che c'è un
passaggio trasversale, l'avete mai scoperto?» Alisaard scosse la testa. «Nella nostra navigazione ci atteniamo alla rotta più semplice. Non rischiamo quel genere di scorciatoie. Almeno, da quando abbiamo perso i nostri uomini. E ora, mastro Jermays, potete dirci dove cercare, una volta giunti nelle Marche dell'Incubo, la Spada del Drago?» «Nel centro esatto, e dove altrimenti?» Lo disse Morandi Pag, alzandosi. «In un luogo chiamato Inizio del Mondo. È il cuore delle Marche dell'Incubo. Ed è la spada a mantenerle stabili. Ma la può impugnare soltanto una persona del giusto sangue, Campione. Del vostro sangue.» «Sharadim non è del mio sangue» osservai. «Lo è quanto basta per gli scopi di Balarizaaf. Sarà sufficiente che viva quanto basta per estrarre la spada dalla sua prigione di cristallo.» «Intendete dire che nessuno può toglierla dal cristallo?» «Voi potete farlo, Campione, e così lei. Inoltre ho l'impressione che conosca i rischi che corre. Che sono più della semplice morte. Ma potrebbe riuscire. E se riuscisse, salirà all'immortalità come Signore dell'Inferno. Sarà potente come la regina Xiombarg o Malebode il Senza Volto o il Vecchio Slortar medesimo. Ecco perché rischia tanto. La posta è la più alta che si possa immaginare.» Si portò le mani alla testa. «Ma ora tutte le epoche si solidificano in un'unica massa dolorosa» esclamò. «Il mio povero cervello. Mi capite, Campione. O mi capirete. Venite, dobbiamo lasciare questo luogo, alla fine. Dobbiamo ritornare alla terraferma. Ad Adelstane. Ho il mio dovere da compiere. E, naturalmente, voi avete il vostro.» «Possiamo servirci della barca» suggerì Alisaard. «Credo di poter trovare la rotta che ci farà uscire dagli scogli.» A quelle parole il principe Morandi Pag rise con sincero divertimento. «Mi permetterete di prendere il timone, mi auguro. Mi farà bene tornare a fiutare le correnti e portare la barca fino ad Adelstane.» NOVE «Alcuni sostengono che ci sono soltanto quarantasei profili fondamentali nella configurazione delle onde» disse Morandi Pag, mentre si sedeva pesantemente nella barca. «Ma si tratta di un'affermazione fatta da coloro che, come gli isolani feudali dell'Est, onorano la semplicità e una sorta di esecrabile ordine, invece della complessità e del disordine apparente.» Sorrise. «Invece, io dico che ci sono tanti profili quante sono le onde.
Una volta era questione d'orgoglio, per me, riuscire a fiutarli tutti. Le onde e il multiverso sono, sostengo io, una cosa sola. Tuttavia il segreto di seguire una rotta, indipendentemente dalla destinazione, consiste nel trattare ogni aspetto come nuovo di zecca e assolutamente sconosciuto. Metterli in una formula, secondo me, equivale a morire. I profili sono infiniti. Hanno una loro personalità.» Le sue nari fremettero. «Non sentite le correnti fresche? E tutte le realtà che si intersecano, le migliaia di mondi del multiverso? Che grande meraviglia! Eppure, avevo ragione di temere.» Con queste parole indicò ad Alisaard di sciogliere l'ormeggio, spostò leggermente la vela, mosse di qualche grado la barra del timone e ci trovammo a cavalcare nuovamente le onde che ruggivano contro gli scogli, e ci dirigemmo verso la cavità che avevamo utilizzato per entrare. Non ci sentimmo in pericolo neppure per un istante. La barca danzò con leggerezza sulle grandi onde coperte di schiuma. Volò con la grazia di un uccello nell'aria, a volte sulla cresta dell'onda, altre nel ventre tra due ondate, altre ancora scivolando parallelamente ai flutti. Vento e schiuma ci colpirono in faccia, quando imboccammo l'apertura e ci trovammo nella penombra. Morandi Pag rideva a crepapelle, quasi fino a coprire il suono delle onde, mentre ci portava attraverso il canale e fino alla relativa calma dell'esterno. Jermays lo Storpio si teneva alla prua e saltava come un bambino; gridava felice ad ogni piccolo cambiamento di rotta. Morandi Pag aveva sul muso una particolare espressione, come per manifestare soddisfazione per la propria abilità. Tuttavia, disse: «È passato troppo tempo. Non ho più l'età per questo genere di cose. Adesso andiamo ad Adelstane.» Attraversammo in fretta il lago, in direzione delle montagne nere che s'innalzavano attorno a noi. Raggiungemmo il piccolo porto e legammo la barca agli ormeggi. Poi, in pochi minuti, arrivammo all'apertura da cui eravamo entrati la prima volta. Meno di un quarto d'ora più tardi eravamo di nuovo nella comoda biblioteca, satura d'incenso come la volta precedente, mentre i Principi Orsi salutavano il compagno da tempo perduto. Fu una vista commovente. Vidi che anche gli altri si asciugavano le lacrime. Quelle creature avevano un modo di comportarsi meravigliosamente dolce, in famiglia. Alla fine Groaffer Rolm, ancora assai commosso, cessò di ringraziarci per avergli riportato il fratello assente da tanto tempo e passò all'argomento della guerra.
«Abbiamo avuto notizie della principessa Sharadim» disse. «Il suo esercito aspetta solo l'apertura del passaggio. Poi entrerà nel nostro mondo, a meno di un miglio da Adelstane stessa. L'altro esercito, a quanto sappiamo, è in marcia lungo la riva dei nostri vecchi canali e sarà qui in giornata.» Guardò Morandi Pag e gli chiese: «A quanto mi pare d'avere capito, tu concordi con quanto ci hanno riferito questi Mabden. Che Sharadim è nostra nemica.» «Questi Mabden hanno detto il vero» rispose l'interpellato. «Ma adesso devono partire per la loro missione. Devono raggiungere il Maaschanheem. Di lì, passando per il Rootsenheem e il Fluugensheem, raggiungeranno le Marche dell'Incubo.» «Le Marche dell'Incubo!» esclamò Faladerj, sinceramente inorridita. «Chi può desiderare di entrarvi?» «Bisogna farlo, per salvare i Sei Regni da Sharadim e dai suoi alleati» spiegò von Bek. «Non abbiamo scelta.» «Allora siete davvero eroi» disse Whiclar. Rise tra sé aggiungendo «Eroi Mabden! Questa è davvero buffa.» «Vi porterò io stesso alla porta» ci disse Morandi Pag. «Ma come farete per Sharadim e il suo esercito? Come farete a difendervi?» Groaffer Rolm si strinse nelle spalle. «Adesso siamo tutti insieme. E abbiamo l'anello di fuoco. Troveranno difficile superarlo. E anche se dovessero infrangere le difese di Adelstane, poi dovranno trovarci. Abbiamo molte maniere per rallentarli.» Jermays lo Storpio si servì da una brocca di vino. «Ma quella donna infetta tutti i Regni» disse. «Può cambiare la sua personalità in modo da fare appello a ogni cultura che incontra. Quel che succede in questo mondo sta succedendo, anche se in forma diversa, anche negli altri. Come opporsi?» «Non è compito nostro e non abbiamo le armi per combattere le guerre degli altri mondi» rispose Groaffer Rolm. «Possiamo solo cercare di tenerli al di fuori di Adelstane. Ma se il Caos riesce a uscire e si allea con lei, allora siamo condannati, penso.» Prendemmo congedo dai Principi Orsi e Morandi Pag ci portò lungo la riva degli antichi canali che correvano accanto al grande e lento fiume, e salimmo lentamente fra le profonde ombre proiettate sulla valle dagli alti monti. Laggiù alla fine si fermò; quando stava per parlarci parve che l'intera montagna rabbrividisse e l'oscurità lasciò il posto a un chiarore che, come vedemmo quando si rafforzò, conteneva tutti i colori dell'arcobaleno.
Gradualmente, nella radura accanto al fiume, si formò un gruppo di sei colonne che costituivano un cerchio perfetto e che avevano l'aspetto di un tempio. «È un miracolo» disse von Bek. «Mi stupisco ancora ogni volta.» Morandi Pag si passò sulla fronte la mano bianca. «Dovete fare in fretta» disse. «Sento che l'esercito dei Mabden è vicino ad Adelstane. Tu vai con loro, Jermays?» «Permettetemi di rimanere qui» rispose Jermays. «Devo vedere se mi è ritornata la vecchia capacità di viaggiare. Se è ritornata vi sarò utile. Arrivederci, Campione. Arrivederci, bellissima signora. Conte von Bek, arrivederci.» Entrammo nello spazio tra le colonne e immediatamente sollevammo lo sguardo; un istante più tardi ci sentimmo trasportare in avanti. La sensazione di movimento era ancor più strana del solito, senza una barca sotto di noi. Tuttavia non avevamo la sensazione di essere privi di peso. Piuttosto, ci sembrava di essere trasportati da una corrente d'acqua, all'interno di un fiume dove non c'era pericolo di affogare. Davanti a noi scorgevo una luce grigia e lattiginosa. La testa cominciò a girarmi e per alcuni secondi mi parve che il mio corpo fosse stato sollevato da una mano gigantesca ma gentile. Qualche attimo più tardi eravamo sul terreno fermo, benché fossimo ancora circondati dalle colonne di luce. Alisaard era accanto a me e, a poca distanza, scorsi von Bek, ancora a bocca aperta e stupefatto dall'esperienza. Il conte tedesco tornò a scuotere la testa. «Perché non ci sono porte simili tra il mio mondo e le Terre di Mezzo?» chiese. «Nei diversi mondi le porte prendono aspetti diversi» gli spiegò Alisaard. «Questa forma è originaria dei Mondi della Ruota.» Uscimmo dal cerchio di luce e ci trovammo nel paesaggio a noi familiare, coperto di nuvole, del Maaschanheem. Dappertutto si scorgevano erba alta, canneti, laghetti e paludi scintillanti. Uccelli acquatici di colore chiaro volavano su di noi, dovunque giungesse il nostro sguardo si scorgevano solo terreno piatto e acque basse. Alisaard frugò nella sua sacca e ne trasse un libretto fatto di carte ripiegate. Si inginocchiò per consultarne una, allargandola sul terreno relativamente asciutto. «Dobbiamo cercare l'ancoraggio del Gambero Zoppo» disse. «Qui siamo sul Luccio che Ride. Abbiamo una sola scelta, arrivarci a piedi. Secondo la mappa ci sono dei sentieri che attraversano la palude.» «A che distanza si trova il Gambero Zoppo?» chiese von Bek.
«Settantacinque miglia» rispose lei. Con aria alquanto depressa, ci avviammo in direzione nord. Non avevamo percorso più di una quindicina di miglia quando scorgemmo dinanzi a noi, all'orizzonte, la sagoma scura di una grande nave a vapore. Pareva mandare più fumo del solito. Ma pareva ferma e pensammo che potesse essere in difficoltà. Io volevo evitare la nave, ma Alisaard sperava di poter trovare aiuto laggiù. «In genere, la gente tende a fidarsi di noi del Gheestenheem» spiegò. «Vi siete dimenticata di quel che è accaduto sullo Scudo Corrucciato?» le ricordai. «Aiutando me e von Bek avete infranto le sacre leggi dell'Adunanza. La mia opinione è che voi Donne Fantasma non siete più le benvenute, qui. Il danno diplomatico da voi fatto sarà stato indubbiamente sfruttato da Sharadim, disposta a fare qualsiasi cosa per guadagnarsi alleati e avvelenare le coscienze contro di voi. Quanto a noi, siamo probabilmente la preda designata di qualsiasi gruppo di fustieri che ci scorge. Preferirei non avvicinarmi a quella nave.» Von Bek scrutava in direzione della nave, aggrottando la fronte. «Ho l'impressione che non rappresentino alcun pericolo per noi» disse. «Guardate, il fumo non viene dai camini. La nave brucia! È stata attaccata e distrutta.» Alisaard era più sconvolta di von Bek e di me. «Combattono tra loro! Non succedeva da secoli. Che cosa può significare?» Ci mettemmo a correre sul terreno cedevole e irregolare, dirigendoci verso la nave in fiamme. Già da una certa distanza riuscimmo a scoprire che cosa fosse accaduto. Il fuoco aveva colpito l'intera nave e corpi anneriti, in ogni posizione di agonia, giacevano sui ponti e sulle balaustre. Pendevano come bambole spezzate sulle tavole rotte del fasciame. Da ogni parte veniva l'odore della morte, gli uccelli che si nutrono di carogne camminavano a gambe larghe in mezzo a quell'abbondanza di carne, grassi come uccelli domestici. Uomini e donne, bambini e neonati: tutti erano morti, la nave giaceva sul fianco, arenata e saccheggiata. A una cinquantina di metri dai resti della nave scorgemmo alcune figure uscire dai canneti e allontanarsi da noi; molte erano cieche e dovevano essere aiutate, e la loro fuga era pateticamente lenta. Io le chiamai. «Siamo amici» gridai. «Che nave è la vostra?» I superstiti si voltarono verso di noi; scorgemmo i loro volti pallidi e spaventati. Erano vestiti di stracci, indossavano quel che erano stati capaci
di recuperare dal relitto. Parevano affamati. In gran parte erano donne anziane, ma c'erano anche alcuni giovani, sia donne che uomini. Alisaard aveva abbassato la visiera, com'era sua abitudine. Ora la sollevò e disse piano: «Siamo vostri amici, buona gente. Vi offriamo i nostri nomi.» Una donna alta si fece avanti e disse, con sorprendente fermezza: «Noi vi conosciamo. Tutt'e tre. Siete Flamadin, von Bek e la Donna Fantasma rinnegata. Tutt'e tre fuorilegge. Nemici dei nostri nemici, forse, ma non abbiamo motivo di credervi amici. Non ora che il mondo tradisce ogni cosa a cui davamo valore. La principessa Sharadim vi cerca, no? E anche quell'arrampicatore sociale dalle mani insanguinate, Armiad, che è il suo più feroce alleato...» Von Bek era impaziente di proseguire. Fece un passo avanti. «Chi siete? Che cosa è successo?» La vecchia sollevò la mano. «Non siete i benvenuti, qui. Avete portato il male in questo mondo. Il male che credevamo di avere esiliato per sempre. Adesso c'è guerra tra le navi.» «Ci siamo conosciuti» dissi io, all'improvviso. «Ma dove?» Lei si strinse nelle spalle. «Io ero Praz Oniad, consorte del Difensore dell'Orso Polare. Co-capitano e Sorella in Rima dei Toirset Laren, e quanto vedete è tutto ciò che resta della nostra nave-città, la Nuova Discussione, e tutto ciò che resta delle nostre famiglie. C'è una nuova Guerra tra le Navi, condotta da Armiad. E anche se non siete stati voi a iniziare la guerra, voi siete serviti da scusa per scatenarla. Infrangendo le regole dell'Adunanza avete aperto la porta all'instabilità.» «Ma non possiamo essere responsabili delle ambizioni di Armiad!» esclamò Alisaard. «Esistevano già prima che noi facessimo quello che abbiamo fatto.» «Ho parlato di 'scusa'» replicò Praz Oniad. «Armiad ha affermato che altre navi hanno aiutato le Donne Fantasma, quando hanno fatto quella incursione sulla sua nave. Poi ha sostenuto di doversi difendere. Così ha fatto arrivare alleati dal Draachenheem. Combattenti induriti che sapevano come uccidere, come condurre una guerra. Presto ha anche trovato alleati, naturalmente, fra coloro che temevano la sua forza e che non volevano essere distrutti come noi e tanti altri.» Scosse la testa e concluse: «Adesso Armiad comanda trenta navi e ha profanato l'Isola delle Adunanze, l'ha trasformata in un accampamento fortificato, la fortezza dove risiede con i suoi alleati del Draachenheem. Le al-
tre navi devono versare un tributo e riconoscerlo come re-ammiraglio Armiad, titolo che avevamo abolito da secoli.» «Come possono essere successe tante cose in così breve tempo?» mormorò von Bek. «Ti dimentichi» gli dissi «che nei vari Regni il tempo trascorre con velocità diversa. Sembra che siano passati parecchi mesi da quando abbiamo lasciato l'Adunanza.» «Noi cerchiamo di bloccare la principessa Sharadim e i suoi alleati» informai l'anziana donna. «I suoi piani e quelli di Armiad risalgono a molto tempo fa, assai prima che ne venissimo a conoscenza. Hanno intenzione di ucciderci perché sappiamo come sconfiggerli.» La donna ci guardò con scetticismo. «Noi della Nuova Discussione non cerchiamo la vendetta» disse. «Saremmo lieti di morire, pur di mettere fine a questa terribile guerra.» «La guerra minaccia tutt'e sei i Regni.» Alisaard si fermò accanto a lei e le prese delicatamente la mano. «Buona signora, questa è opera di Sharadim. Quando il fratello si è rifiutato di ascoltarla, ha sporcato il suo nome e lo ha esiliato.» L'anziana donna mi guardò con sospetto. «Dicono che non è il principe Flamadin, ma un doppelgänger. Dicono che è in realtà l'arciduca Balarizaaf del Caos in forma umana. Dicono che presto il Caos dilagherà in tutti i Regni della Ruota.» «Parte di ciò che avete saputo è vero» intervenni io. «Ma vi assicuro che non sono amico del Caos. Noi cerchiamo di sconfiggerlo. E speriamo, con la nostra vittoria, di riportare la pace nei Sei Regni. A questo scopo ci stiamo recando nel Regno dell'Incubo...» Praz Oniad rise seccamente, con amarezza. «Nessun umano si è mai recato volontariamente in quel mondo. Che cos'è, un'altra menzogna? Non potreste sopravvivere. La vostra mente si scioglierebbe. Quando vengono posti dinanzi alle illusioni di quel mondo, i mortali impazziscono.» «È la sola speranza di sconfiggere Sharadim e i suoi alleati» rispose Alisaard. «E tra questi alleati, è vero, è compreso l'arciduca Balarizaaf del Regno del Caos.» La vecchia sospirò. «Che speranze ci possono essere?» chiese. «È solo un atto folle, suggerito dalla disperazione.» «Noi ci dirigiamo al Gambero Zoppo per trovare una porta» disse von Bek. «Che ancoraggio è questo, buona signora?» «È la Fontana che Versa» rispose lei. «L'ancoraggio del Pesce Immagi-
nario, anch'esso distrutto dai lanciatori di fuoco di Armiad. Quelli che Sharadim gli ha dato. Noi non abbiamo armi. Lui adesso ne ha molte. Il Gambero Zoppo dista molte miglia da noi. Come viaggiate?» «A piedi» rispose Alisaard. «Non abbiamo altra scelta, buona signora.» La vecchia aggrottò la fronte, come per fare alcuni calcoli tra sé. Poi disse: «Noi abbiamo una zattera. Se avete detto il vero, e io penso che l'abbiate detto, allora siete la nostra unica speranza. Una piccola speranza è meglio di nessuna. Prendete la zattera. Vi sarà possibile passare per le paludi e arrivare al Gambero Zoppo prima di domani.» Ci aiutarono a estrarre dalla carcassa della nave la piccola imbarcazione dalla chiglia piatta. Puzzava di incendio e di distruzione, ma non aveva subito danni e galleggiava senza difficoltà sull'acqua della palude. Ci vennero dati alcuni pali dalla punta rinforzata con una fasciatura di metallo e ci venne insegnato come usarli. Lasciammo sulla riva il piccolo e dolente gruppo e cominciammo a spingere la zattera in direzione del Gambero Zoppo. «Fate attenzione» esclamò lady Praz Oniad «perché gli uomini di Armiad sono dappertutto, ormai. Hanno navi, giunte loro dal Draachenheem, che riescono facilmente a raggiungere una delle nostre.» Proseguimmo con attenzione il viaggio, facendo a turno per riposarci, e spingemmo la zattera per tutta la notte. Infine Alisaard consultò le sue carte e indicò dinanzi a noi. Al chiarore grigio dell'alba si scorgeva uno sfarfallio di luce bianca. La porta tra i mondi era già aperta. Ma tra noi e le colonne di luce sorgeva l'enorme mole di una nave. E questa era tutt'altro che un relitto. Sul ponte sventolavano tutte le sue bandiere. «Quella nave è pronta a dare battaglia» disse von Bek. «Che Armiad o Sharadim abbiano saputo del nostro viaggio e l'abbiano mandata a intercettarci?» chiesi ad Alisaard. Lei scosse la testa, incapace di rispondere. Non lo sapeva. Eravamo esausti, dopo avere spinto la zattera per l'intera notte e non avevamo armi per combattere contro una nave così grande. Potevamo unicamente spingere a riva la nostra imbarcazione e correre verso le pulsanti colonne di luce. E così facemmo, inciampando e agitando le braccia per mantenere l'equilibrio, incespicando nell'acquitrino fino al ginocchio, e cadendo quando i nostri piedi finivano in qualche nodo di alghe.
Lentamente, la porta divenne sempre più vicina, ma nel frattempo eravamo stati avvistati. Dalla nave, qualcuno lanciò un grido d'avvertimento. Vidi alcune figure scendere sul tratto di terreno più vicino alla porta. Avevano l'armatura di colore giallo e verde scuro, erano armati di spada e lancia. Noi, privi di armi, non avevamo possibilità di salvarci. Continuammo a correre nella palude in direzione della porta, con il cuore in tumulto, augurandoci un colpo di fortuna che ci permettesse di raggiungere le colonne di luce prima dei guerrieri armati, i quali avevano cominciato a darsi ordini tra loro, per allargare lo schieramento mentre si avvicinavano a noi. Pochi istanti più tardi eravamo circondati. Mi preparai a combattere a mani nude. Nel Maaschanheem non avevo mai visto armature come la loro; mi ricordavano piuttosto quelle in uso nel Draachenheem. Quando il capo del gruppo si fece avanti - muovendosi goffamente a causa del metallo e del cuoio di cui era carico - e si tolse l'elmo, la mia supposizione venne confermata. La testa sudata che scorsi, la pelle chiazzata di macchie mi erano abbastanza familiari. Mi ero aspettato Armiad o uno dei suoi fustieri. Invece mi trovavo dinanzi a lord Pharl Asclett, che avevo lasciato nell'armadio di Sharadim, legato e imbavagliato, quando eravamo fuggiti dal palazzo. Ora storceva le labbra in una sorta di sorriso feroce. «Sono davvero felice di rivedervi» disse. «Ho per voi un invito dell'imperatrice Sharadim. Sarà lieta di avervi suoi ospiti in occasione del suo imminente matrimonio.» «Così, adesso è l'imperatrice, eh?» Alisaard si guardò attorno, alla ricerca di un punto debole nello schieramento. «Pensavate che non riuscisse a farsi eleggere?» chiese il principe Pharl, con aria ironica e superiore. «E chi sposa, la nobile dama?» chiese von Bek. Anch'egli cercava di guadagnare tempo. «Siete voi il fortunato marito, principe Pharl dal Palmo Pesante? Sentivo che non avete una grande simpatia per il gentil sesso. E neppure per l'altro, se è solo per quello.» Il Principe di Skrenaw lo guardò con ira. «Sarei onorato di servire la mia imperatrice in qualsiasi ruolo. Persino in quello. Nossignore, sposa il principe Flamadin. Non l'avete saputo? Nel Fluugensheem ci sono grandi celebrazioni. Hanno scelto la principessa e il suo consorte come loro signori, ora che il re della Città Volante si è schiantato a terra con tutto il suo veli-
volo perché era ubriaco. Ci fate l'onore di venire con noi nella nostra nave? Vi aspettavamo da cinque giorni...» «Come sapevate dove trovarci?» domandai io. «L'imperatrice ha fortissimi alleati sovrannaturali e lei stessa è una grande veggente. Inoltre, ha fatto presidiare dai suoi capitani varie porte del Maaschanheem e del Draachenheem. Questa era considerata una delle più probabili, anche se, devo confessarlo, non mi aspettavo che giungeste dalla porta.» S'interruppe perché aveva udito un suono simile a un tuono lontano; quando voltò la testa sgraziata, vide qualcosa che lo fece rimanere a bocca aperta. Anche noi allungammo il collo per guardare. La grande nave cercava di muoversi, ma pareva coperta da una grande rete. Vidi una palla di fuoco scoppiettante alzarsi da un ponte e venire respinta indietro quando batteva contro la rete. Ora notai, tutt'intorno alla nave-città, anche un grande numero di veloci navi a vela, simili a quelle che avevo visto nel Gheestenheem. Erano state le navi più piccole ad attaccare il grande naviglio. Il forte rumore veniva dalle cariche usate per lanciare le reti sull'intera nave. Prima che il principe Pharl facesse in tempo a dare anche un solo ordine, un'ondata di guerrieri spuntò improvvisamente dal terreno e attaccò coloro che ci avevano catturato. Erano guidati da una minuscola figura che portava soltanto un elmo del Maaschanheem e una corazza, che aveva in mano una lancia lunga il doppio della sua altezza e che correva ai margini della scaramuccia, agitando l'arma e incitando i suoi uomini, che indossavano l'armatura verde e grigia da me vista per la prima volta nel Maaschanheem. La figura mi sorrise. Era Jermays lo Storpio. «Anche noi abbiamo previsto le mosse degli avversari!» mi gridò. Rise quando vide che i suoi uomini avevano circondato quelli del principe Pharl e in pochi minuti avevano finito per sopraffarli. Venne catturato anche Pharl, che ci guardò con furia. Quando i guerrieri sollevarono i visori e si poté vedere che i loro ranghi erano costituiti di Donne Fantasma e di uomini del Maaschanheem, stava quasi per piangere. Arrivò Jermays, che ansimava come un cane felice. «Ora c'è gente dei diversi Regni che si riunisce per lottare contro Sharadim e i suoi. Ma siamo spaventosamente inferiori di numero. Dovete fare in fretta, adesso. Presto la porta risulterà inutilizzabile. Sharadim regna su tutto il Draachenheem. Ottro è morto in battaglia. Il principe Halmad combatte ancora contro l'imperatrice. Neterpino Sloch non è riuscito a vincere la battaglia di
Fancil Sepaht e ha pagato il prezzo della sconfitta. Ora è senza gambe. «Sharadim ha mandato Mabden di questo mondo nel Gheestenheem e adesso le donne eldren dovranno combattere. Intanto cerca di consolidare le proprie conquiste nel Fluugensheem e l'intero Rootsenheem, per quel che vale, è suo. Le sue creature assediano Adelstane, dato che i Principi Orsi non si sono lasciati ingannare. Tutto dipende da voi. Il suo potere ormai è quasi sufficiente per evocare il Caos, per fondere con il Mondo dell'Incubo quelli che lei ha conquistato! In fretta, in fretta, attraversate la porta!» «Ma ci porta nel Rootsenheem!» esclamai. «Se Sharadim domina laggiù, come possiamo salvarci?» «Date un nome falso!» fu il suggerimento di Jermays: suggerimento che non mi parve di grandissima utilità. Ci rimettemmo a correre finché non raggiungemmo lo spazio tra due colonne di luce e non ci lasciammo attirare in un'altra galleria. La attraversammo in volo, e sentimmo la libertà che conoscono gli uccelli quando si lasciano trasportare dalle correnti d'aria, e alla fine scorgemmo dinanzi a noi una luce gialla, intensa e accecante. Pochi secondi più tardi ci trovavamo su un banco di sabbia arroventata dal sole. Davanti a noi s'innalzava un massiccio ziggurat di pietre intagliate che pareva più vecchio del multiverso stesso. Alisaard ci spiegò: «Siamo effettivamente nel mondo dei Lacrimatori Rossi. Voi siete Farkos e venite dal Fluugensheem. Voi, conte von Bek, siete Mederic del Draachenheem. Io sono Amelar degli Eldren. Ma adesso non parliamo più. Stanno arrivando.» E indicò nella direzione dello ziggurat. Ai piedi della costruzione si stava già aprendo una porta. Ne uscì un gruppo di uomini vestiti in modo molto strano, simile a quello che avevo originariamente osservato all'Adunanza. Avevano lunghe barbe e indossavano abiti particolari: di una sorta di seta fine - tesa su ampi telai in modo che la loro pelle non fosse sfiorata dal tessuto - grandi guanti, casco di legno leggero, sostenuto da una sorta di giogo appoggiato sulle spalle; si fermarono a pochi metri da noi e alzarono le braccia in segno di saluto. Mi aspettavo un altro attacco, ma gli uomini si limitarono a chiederci con gravità: «Siete nel Regno dei Lacrimatori Rossi. Avete attraversato la soglia per caso o intenzionalmente? Siamo i Guardiani Ereditari della Soglia e dobbiamo chiedervelo, prima di lasciarvi proseguire.»
Alisaard fece un passo avanti. Ci presentò con i nostri nomi falsi, poi proseguì: «Siamo giunti intenzionalmente, nobili maestri. Ma non siamo commercianti. Umilmente vi chiediamo il permesso di attraversare il vostro Regno per raggiungere la nuova porta.» Ora potevo vedere più chiaramente la faccia degli uomini. Avevano gli occhi grandi e fissi, con la cornea completamente rossa. La faccia era coperta dal casco, ma sotto ogni occhio vedevo un piccolo lacrimatoio, fissato a un telaio di filo di ferro. Con una smorfia di nausea notai che gli occhi trasudavano una sorta di muco rossiccio e che quegli uomini erano ciechi. «Dunque, che affari avete qui tra noi, nobile signora?» le chiese uno dei guardiani. «Cerchiamo la conoscenza.» «E a che scopo userete tale conoscenza?» «Stiamo cartografando le porte tra i mondi. La nostra conoscenza sarà utile per tutt'e sei i Regni, lo giuro.» «E non ci recherete danno? Da questo Regno non prenderete nulla che non vi sia volontariamente offerto?» «Lo giuriamo.» Indicò anche a noi di giurarlo. «Il battito del vostro cuore indica la paura» disse un altro dei Lacrimatori. «Che timori avete?» «Siamo sfuggiti da poco ai pirati del Maaschanheem» spiegò Alisaard. «Oggigiorno ci sono grandi pericoli in tutti i Regni.» «Quali sono i pericoli?» «La guerra civile e la conquista dei nostri Regni da parte delle forze del Caos» riferì la donna. «Ah, ecco» intervenne un altro. «Allora dovete occuparvi in fretta del vostro compito... qui nel Rootsenheem non abbiamo questo genere di timori, perché la nostra dea ci protegge, che benedica anche voi.» «Che benedica anche voi» ripeterono tutti, in coro e con voce compunta. Dinanzi a tanto compiacimento mi si affacciò alla mente un sospetto. «Perdonate, nobili maestri, ma come si chiama la vostra dea?» domandai. «Ha nome Sharadim la Saggia.» Ora capii perché la guerra non avesse toccato il Rootsenheem. Sharadim non aveva bisogno di combattere per impadronirsi di quel mondo: l'aveva già conquistato e doveva essere suo da diversi anni. Era facile immaginare come avesse ingannato facilmente quella popolazione antica e un po' demente. Quando avesse consegnato al Caos il Regno dei Lacrimatori Rossi, pochi avrebbero protestato: non avrebbero neppure capito quanto stava ac-
cadendo. L'informazione, comunque, ci imponeva di affrettarci ancor di più. Alisaard disse: «Cerchiamo il posto da voi chiamato Tortacanuzoo. Dove possiamo trovarlo, nobili maestri?» «Dovete attraversare il deserto, dirigendovi a ovest. Ma avrete bisogno di un animale. Ve ne faremo portare uno. Quando non vi servirà più, ritornerà a noi spontaneamente.» Così, poco più tardi, ci trovavamo su un'ampia piattaforma di legno assicurata sul dorso di un animale che aveva pressappoco la taglia e la dimensione di un rinoceronte e ci inoltravamo nel grande deserto. «Presto Sharadim controllerà tutti i Regni tranne il Gheestenheem» commentò Alisaard, con espressione cupa. «Ma anche il Gheestenheem rischia di cadere, se la sua potenza è aumentata così; ormai comanda milioni di guerrieri. E pare che abbia rianimato il cadavere del fratello che ha assassinato, in modo da impressionare la gente del Fluugensheem.» «Ecco una cosa che non capisco» dissi io, rabbrividendo. «Riuscite a capire che cosa abbia in mente?» «Penso di sì. Nelle leggende e nei miti del Fluugensheem compare ripetutamente il tema della dualità. Si rifanno a un'Età dell'Oro in cui erano governati da un re e da una regina e tutte le loro città volavano. Ora soltanto una ha quella capacità e diventa sempre più vecchia, perché hanno perso la conoscenza occorrente per costruire nuove città volanti; anche quella popolazione, a quanto pare, è giunta originariamente da un altro Regno.» Scosse la testa. «Se Sharadim» riprese «è riuscita a dare un'imitazione di vita al corpo di Flamadin, questo significa che i poteri presi a prestito dal Caos sono più grandi di un tempo. Senza dubbio, grazie alla sua capacità nella politica, ha convinto gli abitanti del Fluugensheem che le storie sull'esilio di Flamadin erano false. È abilissima nel venire incontro ai desideri delle persone che cerca di manipolare. Si presenta in ciascuno dei Sei Regni con una faccia diversa: mostra loro le cose più auspicate dal loro idealismo e dal loro desiderio di ordine e pace.» «In altre parole è un classico demagogo» disse von Bek, afferrandosi all'orlo della piattaforma perché l'animale aveva fatto un passo falso, subito corretto con un forte sbuffo di aria puzzolente. «Anche Hitler aveva l'abilità di sembrare una cosa a un gruppo e una cosa totalmente diversa a un altro gruppo. È per questo che salgono così rapidamente al potere. Sono creature davvero bizzarre, riescono facilmente a cambiare forma e colore. Sono amorfe ma nello stesso tempo hanno un instancabile desiderio di
dominare gli altri che è la loro unica caratteristica coerente, la loro sola realtà.» Alisaard mi parve assai colpita da quelle parole. «Avete studiato la storia del vostro mondo?» chiese. «Conoscete bene i tiranni?» «Sono vittima di uno» rispose von Bek. «E sarò la vittima di un altro, a quanto pare, se la nostra missione non avrà successo!» Lei gli prese la mano. «Non dovete perdervi di coraggio, conte von Bek. Il vostro coraggio è notevole e vi ha già aiutato molte volte. Conosco poche persone coraggiose come voi.» Sotto i miei occhi, lui le strinse la mano. E di nuovo provai la terribile, ingiustificata e indesiderata fitta di gelosia che avevo già conosciuto in precedenza, come se fosse stata la mia Ermizhad a mostrare affetto per un rivale. Come se von Bek corteggiasse la sola donna da me realmente amata! Notarono il mio turbamento e si preoccuparono per me. Ma io lasciai cadere la cosa. Risposi che mi dava fastidio il calore del sole, antico e rosso, che ardeva sulla nostra testa. Finsi di essere stanco e, portandomi le mani davanti alla faccia, cercai di dormire, di cancellare i pensieri e le emozioni che sentivo ribollire in me. Verso sera sentii gridare von Bek. Aprii gli occhi e vidi che ora aveva il braccio sulle spalle di Alisaard. Con l'altra mano indicava l'orizzonte lontano, dove il sole era ormai al tramonto e pareva affondare nelle sabbie del deserto, sembrava venire assorbito come sangue. Sullo sfondo di quel globo scarlatto si scorgeva il profilo nero di una montagna isolata. «Può essere solamente Tortacanuzoo» osservò Alisaard. Aveva la voce leggermente incrinata; non so se per la presenza di von Bek o per il timore di quel che potevamo incontrare. Persi nelle nostre riflessioni private, tutt'e tre fissammo in silenzio la montagna che ci avrebbe aperto le porte del mondo in cui regnava l'arciduca Balarizaaf. Dovevamo entrare in uno dei Mondi del Caos, ma solo allora capivamo pienamente l'enormità di quanto ci eravamo proposti, e quanto fosse piccola la probabilità di uscirne vivi. L'animale continuò a procedere verso il vulcano, finché, come se volesse salutarlo, dal monte giunse un ruggito quasi umano. L'animale si fermò e sollevò la testa per rispondere a quella sorta di richiamo e il verso da lui emesso fu virtualmente identico al rombo che veniva dal monte. L'effetto ci fece accapponare la pelle. All'improvviso, dalla cima si alzò un guizzo di fiamma; un pennacchio
di fumo grigio salì pigramente al cielo, sullo sfondo del sole che tramontava. Provai un'orribile sensazione di terrore alla bocca dello stomaco e rimpiansi acerbamente di non essere stato catturato dal principe Pharl quando mi ero presentato alla porta che dava nel Rootsenheem, o, prima ancora, ucciso dal serpente di fumo quando ci eravamo recati dai Principi Orsi. Guardai i miei compagni e vidi che erano più tranquilli; la cosa non mi sorprese, dato che nessuno di loro aveva un'esperienza diretta del Caos. Neanch'io, a dire il vero, mi ero mai trovato a faccia a faccia con il Caos nel modo in cui intendevamo affrontarlo ora, ma i miei compagni, rispetto a me, erano del tutto sprovveduti. Io avevo almeno una piccola conoscenza della capacità di distorcere e di modificare dei Signori del Disordine, le entità sovrannaturali che nella terra di John Daker avrebbero preso il nome di 'arcidiavoli', i Principi dell'Inferno. Sapevo che sovvertivano le virtù a noi più care e le nostre emozioni più preziose, che erano capaci di qualsiasi illusione. E che a impedire loro di uscire dalle loro roccaforti per inghiottire gli altri mondi del multiverso c'erano solo la loro cautela, la loro impreparazione o la loro riluttanza a muovere guerra contro i loro rivali, i poteri della legge. Ma se noi umani li avessimo invitati nei nostri mondi, sarebbero venuti. Sarebbero venuti non appena avuta prova della fedeltà dei loro alleati umani. La prova che Sharadim stava dando con le sue vittorie. Il mio occhio si posò di nuovo sull'antico vulcano che brontolava e fumava. Non era difficile pensare a quel monte come alla porta che dava sulle profondità dell'inferno. Poi mi costrinsi all'azione. Scesi dalla piattaforma e mi avviai verso Tortacanuzoo, sprofondando fino alle caviglie nella sabbia. Mi voltai verso i due innamorati e vidi che esitavano a scendere. «Venite, amici» li esortai. «Abbiamo un appuntamento con l'arciduca Balarizaaf! Non vorrete farlo aspettare, vero?» Fu von Bek a rispondermi, e mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Herr Daker! Herr Daker! Non li hai visti? Guarda chi c'è laggiù: l'imperatrice Sharadim in persona!» DIECI Era davvero Sharadim. Era a cavallo, circondata da numerosi cortigiani riccamente abbigliati, e
l'intero gruppo, se non avessimo saputo il motivo che li portava al vulcano, pareva una lieta compagnia di aristocratici uscita per una colazione all'aperto o per una battuta di caccia. In mezzo al ruggito del vulcano arrivava fino a noi l'eco di qualche risata o un frammento di conversazione. «Non ci hanno visto!» disse Alisaard, a bassa voce, facendomi cenno di ritornare verso l'animale. Lei e von Bek erano scesi e si nascondevano dietro una delle sue massicce gambe. Convinto della necessità di una simile cautela, anch'io mi nascosi come loro. «Il loro potere li rende euforici: non pensano di correre alcun rischio in un mondo dove Sharadim è venerata come una dea» commentò Alisaard. «Una volta giunti dietro quelle rocce li perderemo nuovamente di vista; dobbiamo raggiungere i gradini che salgono sulla montagna.» Il cielo si stava oscurando; Alisaard aveva ragione, mi affrettai ad annuire. Qualche minuto più tardi, il corteo di Sharadim svoltò dietro una costola di roccia e sparì. Preceduti da Alisaard, corremmo verso gli scalini e raggiungemmo la protezione della montagna molto prima che Sharadim emergesse dall'altra parte. Con cautela cominciammo a salire gli scalini che giravano attorno al monte e seguimmo i nostri nemici. Quando fummo giunti a un'altezza sufficiente, scorsi ai piedi del monte alcune ricche tende e un servitore intento a nutrire alcuni animali da soma. Era quasi un villaggio: l'accampamento di Sharadim. Mi chiesi perché fosse venuta laggiù: non potevo credere che intendesse entrare personalmente nell'inferno! Nonostante il suo orgoglio e le recenti conquiste, non poteva credersi così invulnerabile! I cavalli rallentarono il passo nelle vicinanze della cima, mentre noi, che avevamo lasciato il sentiero e potevamo salire per una via diretta, riuscimmo a precederli, pur mantenendoci a portata di voce. Ora ci giungevano anche i loro discorsi. Riconobbi la voce del baroncapitano Armiad del Maaschanheem, del duca Perichost del Draachenheem e quella di altri due cortigiani. Del gruppo facevano parte anche vari Mabden dalla faccia di lupo e dall'aspetto di predoni barbari, che indossavano abiti scuri di foggia bizzarra. Parevano essere presenti rappresentanti di tutte le culture dei Sei Regni, a parte gli Eldren e i Principi Orsi. Cominciavo ad avere un'idea delle intenzioni di Sharadim. Voleva dare una dimostrazione del suo potere. Per assicurarsi la fedeltà degli alleati a cui, fino a quel momento, aveva dato soltanto minacce e promesse. Accanto a lei cavalcava una figura che non riuscii a riconoscere e che era ricoperta, pressoché totalmente, da un mantello con cappuccio. Doveva
essere un sacerdote di qualche tipo, pensai. L'imperatrice sembrava molto gioviale, rideva e scherzava con tutti coloro che le stavano vicino. Ancora una volta rimasi colpito dalla sua bellezza, davvero straordinaria. Non era difficile capire come fosse riuscita a convincere tanta gente della sua disposizione angelica. Anzi, aveva addirittura convinto i Lacrimatori di essere una dea, e quelli non l'avevano mai vista in faccia. Ora ci trovammo in un ampio anfiteatro in cima al vulcano. Nel centro del cratere c'era ancora una piccola area ardente, colore della brace, che di tanto in tanto emetteva uno sbuffo di fumo accompagnato da fiamme. Ma il vulcano pareva essere in fase di raffreddamento, piuttosto che minacciare qualche eruzione, e perciò non provai alcun timore. Piuttosto, osservai affascinato la costruzione eretta su un lato del cratere: una sorta di molo, fatto di blocchi di lava squadrata, che in cima formavano un lungo sedile. Vi si giungeva da un sentiero soprelevato, anch'esso di blocchi di pietra. Come passeggeri in procinto di salire su una nave, Sharadim e i suoi compagni vi si avviarono in fila indiana. Con un cenno, Sharadim ordinò ai cortigiani di smontare e di prendere posto. Lei, però, rimase in arcione e, sporgendosi sulla sella indicò al suo accompagnatore incappucciato di mettersi accanto al suo fianco. Tra i brontolii del vulcano si levò ora la voce dell'imperatrice. «Alcuni di voi hanno espresso dubbi sull'aiuto che il Caos potrà darci negli ultimi stadi della nostra conquista» esordì. «Avete chiesto la prova che il vostro premio sia davvero qualcosa di quasi illimitato. Bene, adesso evocherò uno dei potenti signori del Caos, nientemeno che l'arciduca Balarizaaf! Ascolterete dalle sue labbra quel che vi rifiutate di credere dalle mie. Coloro che oggi sono fedeli al Caos, coloro che non si ritraggono da azioni che le creature inferiori giudicano vili e crudeli, verranno innalzati al di sopra di tutti gli altri, esclusa me sola. Conoscerete la soddisfazione di ogni capriccio, di ogni sogno segreto, ogni desiderio nero.» S'interruppe per un istante, poi riprese: «Conoscerete una completa soddisfazione che i deboli non riescono neppure a immaginare. Presto poserete lo sguardo sul volto di Balarizaaf, Arciduca del Caos, e saprete cosa voglia dire essere forti. E intendo una forza capace di modellare la realtà secondo il nostro volere. Una forza capace di distruggere interi universi, se così vogliamo. Una forza che porta con sé l'immortalità. E con l'immortalità la realizzazione di qualsiasi capriccio, anche del più peregrino. Saremo come dèi! Il Caos ci promette infinite possibilità libere dai meschini legami della Legge!»
Ora si voltò verso il centro del vulcano e sollevò le braccia. La sua voce si levò come un canto, dolce e perfetta nell'aria immobile della sera: «Lord Balarizaaf, Arciduca del Caos, Padrone dell'Inferno, i tuoi servitori ti chiamano! Noi ti portiamo i nostri mondi in dono. Ti offriamo il nostro tributo. Ti portiamo milioni di anime! Ti portiamo sangue e orrore! Ti portiamo il sacrificio di tutte le debolezze! Ti portiamo la nostra forza! Aiutaci, lord Balarizaaf! Porta qui il Caos e che la Legge sia sconfitta in eterno!» Come risposta alle sue parole parve levarsi dal centro del vulcano un guizzo di luce scarlatta. Sharadim continuò con la sua cantilena e in breve anche i suoi accompagnatori si unirono al canto. L'intera notte era infettata dalle loro voci mentre il sole scompariva e la sola luce veniva dal vulcano stesso. «Aiutaci, lord Balarizaaf!» Poi, come se fossero aperti improvvisamente dei varchi in un soffitto invisibile, giunsero prima un raggio di luce e poi un altro. Questi non erano bianchi come le colonne luminose che avevamo visto in precedenza, ma parevano riflettere il colore scarlatto della fiamma. Brillavano, parevano colonne di carne viva e insanguinata. A una a una le colonne aumentarono di dimensione e di luminosità e infine ne potemmo contare tredici, fisse tra il cielo e il vulcano; anche questa volta non era possibile vederne né l'inizio né la fine. Con la faccia e le mani di colore scarlatto alla luce delle colonne, Sharadim continuò a supplicare e a cantare. Poi cominciò a urlare oscenità e a implorare e a promettere. Offerse al suo dio qualunque cosa da lui desiderata. «Balarizaaf, lord Balarizaaf! Ti invitiamo nel nostro Regno!» Ora il vulcano cominciò a tremare. Sentii la terra scuotersi sotto i miei piedi. Io, Alisaard e von Bek ci guardammo con aria interrogativa. La porta tra i mondi era aperta e, senza dubbio, portava al Caos. Ma cosa ci sarebbe successo, se avessimo cercato di entrare in quel momento? «Balarizaaf! Signore di tutto! Vieni a noi!» Tutt'intorno a noi si levò il vento. Ai margini del cratere vidi crepitare i fulmini. La montagna tremò di nuovo, questa volta ancor più forte, e fummo quasi gettati giù dalle rocce dietro cui ci eravamo nascosti. Le colonne di luce scarlatta pulsavano come se fossero stati organi viventi. Lontano cominciò a echeggiare un orribile gemito che veniva
dall'interno del tempio di luce. «Balarizaaf! Aiutaci!» Il grido divenne un urlo, che presto si trasformò in una risata spaventosa; poi, avvolta in un fuoco arancio e nero, con i lineamenti instabili che si contorcevano e cambiavano forma da un istante all'altro, scorgemmo una creatura alta come un uomo, ma che parlò con voce assordante. «Sei tu, piccola Sharadim, che allontanasti Balarizaaf dai suoi piaceri? L'ora è giunta? Ti devo portare alla spada?» «L'ora è quasi giunta, mio signore Balarizaaf. Presto avremo conquistato tutt'e sei i Reami. E allora l'intera Ruota sarà un solo mondo. Un Regno del Caos. Il mio premio sarà la spada e la spada mi darà...» «Il potere infinito. Il diritto di essere uno dei Signori della Spada. Un Signore del Caos! Infatti solo tu e colui che è chiamato il Campione potete impugnare quella spada senza morire! Che altro ti devo ripetere, piccola Sharadim?» «Nient'altro, signore.» «Bene, perché mi è doloroso fermarmi in questo Regno prima che sia completamente mio. E a renderlo mio sarà la spada. Vieni presto a me, piccola Sharadim!» Personalmente, mi pareva che l'arciduca Balarizaaf non avesse dato molte garanzie. Ma quella gente era così accecata dalla prospettiva di raggiungere un potere illimitato da essere pronta a credere a qualunque cosa. All'improvviso, Balarizaaf sparì. Sotto di noi, i cortigiani di Sharadim mormoravano tra loro, con grande eccitazione. Ormai non potevano esserci dubbi sulla loro assoluta fedeltà. Uno o due si erano addirittura inginocchiati. Sharadim si rivolse al suo compagno incappucciato, che le era rimasto accanto per tutto il tempo, senza muoversi, e gli abbassò il cappuccio. Comparve una faccia che mi era fin troppo nota! Una faccia grigia e senza vita, con occhi color del piombo che fissavano davanti a sé. Era la mia faccia. Davanti a me, avevo il mio doppelgänger. Mentre lo fissavo, i suoi occhi morti incontrarono i miei. Cominciarono lentamente a riempirsi di qualcosa di simile all'energia. Le labbra si mossero; parlò con una voce priva di inflessioni. «È qui, signora» disse. «Quel che mi avete promesso è qui. Datemelo. Datemi la sua anima. Datemi la sua vita...» Alisaard mi gridava di spostarmi. Von Bek mi tirava per il braccio. Volevano che scendessi dal nostro nascondiglio, che raggiungessi la stradina
rialzata. All'altra estremità, vicino dove si trovavano i sedili, le prime teste cominciavano a voltarsi verso di noi. Noi corremmo fino alla stradina, la oltrepassammo e scendemmo su una superficie di lava raffreddata, la crosta del cratere. E poi ci trovammo a correre verso le colonne di sangue. «Flamadin!» gridò la mia pseudo-sorella. Urlando come sciacalli, i suoi compagni si lanciarono al mio inseguimento. Tuttavia, mi parvero alquanto riluttanti ad avvicinarsi troppo alla porta, perché sapevano che portava direttamente all'inferno. Noi tre raggiungemmo le colonne di luce e, giunti laggiù, ci fermammo. Sharadim e i suoi cortigiani erano dietro di noi. Vidi i movimenti della sua creatura, simili a quelli di un burattino mosso dai fili. «La sua vita mi appartiene, signora!» gridò il mio doppio. Von Bek ansimava. «Mio Dio, Herr Daker. Non avevo mai visto qualcosa di tanto simile a uno zombie. Che cos'è?» «Il mio doppelgänger» dissi. «Sharadim ha rianimato il cadavere di suo fratello Flamadin con la promessa di un'anima nuova!» Un istante più tardi, von Bek mi trascinò all'interno delle colonne; ci trovammo a fissare il cuore ribollente del vulcano. Lentamente la crosta parve allargarsi, rivelando un cuore che pulsava violentemente, e ne uscì un odore che era nello stesso tempo dolce e repellente. Poi venimmo trascinati al suo interno, al di là delle porte dell'inferno, in un regno dove il signore assoluto era l'arciduca Balarizaaf, la creatura che avevamo visto poco prima. Penso che tutt'e tre urlammo, nell'attraversare la galleria di fiamma: nella nostra discesa agli inferi, con i fuochi gialli e rossi che ci passavano accanto in ogni direzione. Poi tornai a sentire sotto i piedi il terreno solido. Con profondo sollievo vidi che aveva un aspetto comunissimo. Erano normali zolle erbose. Non ondeggiavano. Non bruciavano. Non minacciavano di inghiottirmi. E avevano l'odore del terreno bagnato. Dall'altra parte delle colonne di luce, che ora avevano assunto un delicato colore rosa, distinsi il cielo azzurro, la massa verde di una foresta, udii cantare gli uccelli. Insieme con i miei amici, uscii lentamente dalle colonne di luce e mi ritrovai in una valle erbosa, con i fianchi coperti di margherite e ranuncoli. La foresta era costituita di querce dal tronco enorme, tutte con foglie verdissime, ed era attraversata da un fiume argenteo che aggiungeva il suono
delle sue acque cristalline a quello degli uccelli dai colori esotici che volavano nel cielo o si appollaiavano sui rami vicino a noi. Tutt'e tre ci guardammo attorno, sgranando gli occhi come bambini. Alisaard sorrideva, io mi accontentavo di inalare il dolce profumo dei fiori e dell'erba. Ci sedemmo accanto al piccolo corso d'acqua, sorridendoci l'un l'altro. Era un idillio uscito dai nostri sogni più innocenti. Von Bek fu il primo a parlare. «Ehi!» esclamò, deliziato. «Questo non è affatto l'Inferno, amici miei. Questo è in realtà il Paradiso più perfetto!» Ma io cominciavo ad avere i primi sospetti. Quando mi guardai alle spalle, le colonne color del sangue erano scomparse e al loro posto c'era una distesa erbosa simile a quella su cui ci trovavamo. Mi volsi e tornai indietro di alcuni passi, cercando la porta tra i mondi. Era scomparsa troppo presto: non era durata a sufficienza, secondo me. Sentii crescere ulteriormente i miei sospetti. C'era qualcosa di strano nell'atmosfera di quel luogo, qualcosa di innaturale. Istintivamente, tesi la mano... e sentii che urtava una parete liscia e dura. Una parete che rifletteva l'immagine di quel paradiso ma non la nostra! Chiamai i miei amici. Ridevano e parlavano tra loro, distratti dalle loro ossessioni personali. Provai un certo fastidio nei loro riguardi. Non era il momento di fare gli innamorati in maniera così svenevole, mi dissi. «Lady Alisaard! Von Bek! Siate cauti!» A quel punto si decisero a prestarmi orecchio. «Che succede?» mi chiese von Bek, seccato dalla mia interruzione. «Questo posto non è soltanto un'illusione» gli dissi. «Sospetto che sia una sorta di paravento destinato a coprire qualcosa di assai più sgradevole. Andiamo a vedere.» Con riluttanza, tenendosi per mano, corsero verso di me sul soffice prato di quella sorta di Arcadia. Ora che mi trovavo a poca distanza dalla parete-specchio, mi parve di poter scorgere la realtà al di là dell'illusione: mi parve di vedere forme indistinte, orribili facce tormentate o impaurite, mani deformi tese verso di noi. «Ecco i veri abitanti di questo mondo» dissi. Ma i miei compagni non videro nulla. «È la tua mente a giocarti uno scherzo» disse von Bek «mostrandoti quello che temi; è un'illusione come tutte le altre. Ammetterò che è un luogo assai improbabile e che senza dubbio è artificiale. Comunque, è molto piacevole. Allora il Caos non è tutto terrore e bruttezza?»
«Niente affatto» risposi «e questo spiega perché sia così attraente. Il Caos è capace di meravigliose bellezze di ogni genere, ma non c'è nulla nel Caos che sia esattamente quello che sembra. Il Caos è ambiguità. È illusione che nasconde illusione. Nel Caos non s'incontra la vera semplicità, solo l'apparenza della semplicità.» Estrassi dalla borsa l'Actorios e lo tenni sollevato, in modo che i suoi strani, scuri raggi colpissero in tutte le direzioni. «Vedete?» chiesi, dirigendo la gemma verso la parete riflettente. In un istante l'illusione sparì e comparve quel che era nascosto dietro la barriera. Von Bek e Alisaard fecero bruscamente un passo indietro, sgranando gli occhi e impallidendo. Creature né umane né bestiali scivolavano tra capanne sudice che parevano fatte di lava fusa. Alcune premevano contro la parete la faccia - una faccia dai lineamenti grotteschi - e avevano un'espressione di disperata malinconia. Le altre si limitavano ad aggirarsi nel villaggio, intente a vari lavoro. Tutte, nessuna eccettuata, zoppicavano o avevano qualche deformità. «Chi è questa gente?» chiese von Bek, inorridito. «Sembra uscita da un dipinto medievale! Chi sono, Herr Daker?» «Un tempo erano umani» disse Alisaard, a bassa voce. «Ma nel dare la loro fedeltà al Caos ne hanno accettato la logica. Il Caos non ammette la continuità. Cambia in continuazione. E quello che vedete è il cambiamento che il Caos ha prodotto all'umanità. Ecco ciò che Sharadim offre ai Sei Regni. Oh, certo, alcuni di loro, per qualche tempo, possono godere di grandi poteri. Ma alla fine diventano come coloro che vediamo.» «Poveri diavoli!» mormorò von Bek. «'Poveri diavoli' è una descrizione abbastanza esatta» gli dissi io. «Pensi che ci attaccherebbero, se la parete non li bloccasse?» «Solo se fossero sicuri che siamo più deboli» rispose lei. «Non sono le creature guerresche e bellicose comandate da Sharadim. Queste si sono semplicemente messe al servizio del Caos perché pensavano di poterne approfittare in qualche modo.» Alisaard distolse lo sguardo da loro. Trasse un profondo respiro e poi lo esalò bruscamente, come se si fosse accorta che l'aria era viziata. «È stata una follia» disse. «Una grande follia. Ci è stato detto di cercare il centro per trovare la spada. Ma noi siamo nel Caos. Poiché nulla è costante, non possiamo sapere in che direzione viaggiare...» Von Bek cercò di consolarla. Io li lasciai andare avanti, e anche ora dovetti sforzarmi di soffocare le emozioni. La gelosia era tornata ad affac-
ciarsi. «Dobbiamo ritenerci fortunati» dissi loro «che l'arciduca Balarizaaf ignori ancora la nostra presenza. Cerchiamo di fare in fretta. Allontaniamoci da questa porta e nascondiamoci tra gli alberi.» «Ma se qui regna Balarizaaf» osservò Alisaard «ci scoprirà non appena deciderà di guardare.» Scossi la testa. «Non necessariamente» dissi. «Qui è virtualmente onnipotente, ma non è onnisciente. Abbiamo una piccola possibilità di raggiungere la nostra meta senza essere visti.» «Questo è vero ottimismo!» Von Bek mi batté una manata sulla schiena e rise; cercò di non guardare il villaggio. Non appena ci allontanammo, la parete tornò a essere uno specchio. «A questo punto» disse von Bek «tenderei a non fidarmi dei boschi in cui ci troviamo. Ma suppongo che non abbiamo scelta. Gli alberi sono fitti, vero? Come in una delle antiche foreste della leggenda tedesca. Forse, se saremo fortunati, troveremo un taglialegna che ci insegnerà la strada e che forse ci accorderà tre desideri.» Alisaard sorrise, più sollevata. Lo prese sottobraccio. «Avete uno strano modo di parlare, conte von Bek. Ma nelle vostre assurdità c'è una sorta di musica che trovo gradevole.» Da parte mia trovavo le sue battute un po' troppo banali. La foresta di querce aveva un aspetto di solidità e permanenza, come se fosse lì da mille anni e più. Alle sue fresche e verdi ombre si scorgevano conigli e scoiattoli e vi regnava un'atmosfera serena che era un vero incanto. Ma anche senza fare ricorso al potere dell'Actorios sapevo che la sua vera natura era qualcosa di diverso da quel che appariva. Questa, dopotutto, era una delle poche regole nel Caos che venissero infallibilmente rispettate. Avevamo mosso soli pochi passi all'interno della foresta quando scorgemmo, ferma dietro un raggio di luce polverosa che filtrava tra le foglie, una figura alta, con indosso un'armatura. Era vestita completamente di metallo nero e giallo. A tutta prima trassi un sospiro di sollievo nel vedere Sepiriz. Poi mi venne in mente che anch'egli poteva essere un'illusione. Mi fermai e i miei compagni si fermarono vicino a me. «Sei davvero tu, Cavaliere in Nero e Giallo?» gli chiesi, stringendo nella mano l'Actorios. «Come sei venuto nel Caos? O sei passato anche tu al suo servizio, ora?»
L'uomo in armatura si fece avanti ed entrò nel raggio luminoso. La sua corazza pareva ardere di luce propria. Sollevò l'elmo; io scorsi gli impressionanti lineamenti color ebano che potevano appartenere soltanto a Sepiriz, il servitore dell'Equilibrio. Sorrise dei miei sospetti ma non li prese alla leggera. «Fai bene a dubitare di tutto ciò che incontri in questo Regno» mi disse. Sbadigliò e si stiracchiò senza togliersi l'armatura. «Scusatemi, ma mi ero addormentato, mentre aspettavo che arrivaste. Sono lieto che abbiate trovato l'entrata e che abbiate avuto il coraggio di venire. Ma adesso dovete fare appello a un coraggio ancora superiore. Qui nel Regno dell'Incubo potrete trovare orribili tormenti oppure la salvezza dei Sei Regni... o anche di più! Ma il Caos ha molte armi nel suo arsenale e non tutte sono ovvie. Già in questo momento Sharadim prepara la sua creatura ad accettare la tua anima, Campione. Capisci il significato di questo?» Dalla mia espressione comprese che non lo capivo. Perciò, dopo un attimo di esitazione, riprese: «Il cadavere da lei rianimato sarà in grado di impugnare la Spada del Drago... se riuscirà a impadronirsi della tua essenza vitale, John Daker. Sharadim comanda completamente quel Flamadin e intende servirsene come strumento. Così non rischia quello che rischierebbe a impugnare personalmente la spada.» «Allora» chiesi io «intende ingannare il suo alleato, l'arciduca Balarizaaf, che pensa di ricevere la spada da lei?» «L'arciduca» rispose Sepiriz «non bada all'identità di colui che impugnerà la spada... a patto che la usi per lui. Perciò preferirebbe averti come alleato, Campione, anziché come nemico. Ricordalo. E ricorda anche questo: la morte non è quel che si debba temere maggiormente, nel Regno dell'Incubo. La morte come tale non esiste quaggiù, ma essere immortale in questo mondo è il peggiore destino che si possa immaginare! Ricorda inoltre che quaggiù hai molti alleati. Una lepre ti porterà a una coppa. La coppa ti insegnerà come raggiungere un unicorno, e questo ti condurrà a una parete. Nella parete troverai la spada.» «Come possono esistere simili alleati in un mondo dominato dalla tirannia del Caos?» gli chiese Alisaard. Sepiriz le rivolse un sorriso gentile. «Anche nel Caos ci sono creature così pure e integre da non essere sfiorate da quanto le circonda. Ed è nella natura del Caos che chi sa meglio resistergli spesso scelga di abitare proprio nel suo cuore. È un paradosso amato dagli stessi Signori del Caos, un'ironia che fa sorridere perfino gli austeri Signori della Legge.»
«Ed è grazie a questa purezza» chiese von Bek «che voi potete muovervi a volontà nelle Marche dell'Incubo, lord Sepiriz?» «Fate bene a rivolgermi questa domanda, conte von Bek» rispose con serietà il Cavaliere in Nero e Giallo. «Per rispondervi, no, il mio tempo in questo Regno è molto limitato. Se non lo fosse, io stesso mi metterei a cercare la Spada del Drago!» Poi il gigantesco Cavaliere tornò a sorridere. «Come rappresentante dell'Equilibrio, mi è concessa una libertà di movimento superiore a quella di molte altre creature. Ma non si tratta di una libertà assoluta. È giunto il momento di allontanarmi. Non intendo richiamare su di noi l'attenzione di Balarizaaf. Almeno, non ora.» «Non sarà Sharadim» chiesi io «a trovare il modo di avvertire il Signore del Caos della nostra presenza nel suo regno?» «L'imperatrice non è in grado di comunicare a volontà con il suo alleato» mi informò Sepiriz. «Ma potrebbe decidere di entrare di persona nelle Marche dell'Incubo. E allora vi trovereste in un grande pericolo.» «Dunque» disse von Bek, conciso «qui non troveremo alleati.» «Solo i Guerrieri Perduti» rispose Sepiriz. «Coloro che attendono alla Fine del Tempo. E il loro aiuto può essere richiesto un'unica volta, e solo se non avete altre risorse. Quei guerrieri possono combattere una volta sola per ogni ciclo del multiverso. Quando sguainano la spada ci sono conseguenze inevitabili. Ma tu lo sai già, vero, Campione?» «Ho ascoltato la voce dei Guerrieri Perduti» gli risposi. «Mi hanno parlato in sogno, ma non ricordo molto altro.» «Come si possono evocare quei guerrieri?» chiese von Bek. «Riducendo in frammenti l'Actorios» spiegò il gigante nero. «Ma la pietra non può essere spezzata! È virtualmente indistruttibile» esclamò Alisaard, in tono offeso. «Vi fate beffe di noi, lord Sepiriz!» «La pietra si può spezzare. Con un colpo della Spada del Drago. Questo è quanto so.» Così dicendo, Sepiriz alzò la mano e chiuse l'elmo. Von Bek rise senza alcuna ironia e disse, in tono disperato: «Siamo davvero piombati nel Caos, in tutti i sensi. Ecco un vero paradosso! Potremo evocare i nostri alleati solo quando avremo la Spada del Drago! Ossia quando non ne avremo più bisogno!» «Lo deciderete quando sarà il momento» rispose Sepiriz. La sua voce era già sorda e lontana, come se si fosse già ritirato da noi, anche se la sua armatura sembrava solida come sempre.
«Ricordate: le vostre armi più forti sono il coraggio e l'intelligenza. Attraversate in fretta questa foresta, c'è un sentiero, l'Actorios ve lo mostrerà. Seguitelo. Come tutti i sentieri del Caos, finirà per condurvi nel luogo che viene chiamato l'Inizio del Mondo...» Ora l'armatura cominciò a sparire, a evaporare, a unirsi con le particelle di polvere sospese nel raggio di sole. «Fate in fretta» ci avvertì ancora. «Il Caos guadagna terreno ad ogni ora che passa, e non solo il terreno, ma anche un esercito di anime al suo servizio. Presto i vostri mondi saranno solo un ricordo, a meno che non troviate la Spada del Drago...» L'armatura svanì del tutto. Del Cavaliere in Nero e Giallo rimase solo un sussurro, poi sparì anche quello. Presi il mio Actorios e lo sollevai dinanzi a me, volgendolo da una parte e dall'altra. Poi, con un respiro di sollievo, mi fermai. Molto indistinta, ai nostri piedi, si stendeva per alcuni metri una sorta di pista battuta. Avevamo trovato la strada per la Spada del Drago. LIBRO TERZO Vieni dentro, sei invitato, Bevi conoscenze, o versale a gocce, Corri tra gli alberi come linfa primaverile, Piangendo, saluta la lucei Ma bada. In te stesso si può nascondere la trappola. Le loro carezze hanno uno scotto. Qui tu incontri la luce invocata Qui il segreto non è mai ammantato. Se dubiti come i figli del mostro Di quel che può escludere dalla sua vista. Se sei dei rigidi, dei secchi, Che maledicono ciò che non capiscono; Afferra con gli artigli del mostro; Governa con la sua mazza ferrata; Odia l'ombra del grano; Sei perso nel Grande Bosco d'Occidente: Precipita a terra un sole avvoltoio Che tramonta sulle carogne:
Piene di veleno, le coppe di vino urlano Brindisi all'Uno dagli occhi strappati: Dai fiori della sua terra barcollante Gocciolano giusquiamo ed elleboro La bellezza si è tagliata le trecce E grida come la pazza della natura, Un orrore con zoccoli e corna Incespica piagnucolando sul sentiero; Saggezza Stracciona, un tempo così statuaria, Si sbircia attorno, fantasticando, e perde l'equilibrio; L'allegoria batte sul tamburo il suo cero Che l'empietà sbocconcella. Il demonietto danza e salta Ed è una bambina che cresce demonio, Follia! Gira con i demoni del profondo Attorno a te, e con loro tu danzi Veloce dove la fontana versa la folla Scaturita da Colui che è senza occhi; Moltitudini delle moltitudini, Che sguazzano nella diavoleria: E ti chiedi dove sei, In quale puzzolente tana Piena delle ossa e dei figli dell'orco: Essi ti grideranno dove Entrare in questi boschi incantati Tu che osi. George Meredith, The Woods of Westermain UNO Avevamo percorso sei o sette chilometri quando tutti gli alberi accanto a noi presero a frusciare freneticamente, come se minacciati. A guidarci avevamo soltanto il vago sentiero che si distingueva in mezzo ai tronchi, ma che era poco più di un'ombra. Senza metterci a correre, nonostante la crescente agitazione che provavamo, continuammo a procedere in fila indiana.
«È come se la foresta sentisse la nostra presenza e ne fosse allarmata» sussurrò Alisaard, che era dietro di me. Poi, a una a una, le querce si trasformarono in pietra, la pietra divenne liquida e, in un istante, l'intero paesaggio si trasformò. Il sentiero era ancora visibile, ma eravamo circondati da enormi steli verdi e in cima a questi steli, assai al di sopra delle nostre teste, c'erano le campane gialle di gigantesche giunchiglie. «È questa la realtà dietro l'illusione?» chiese von Bek, intimorito. «Questa è tanto realtà quanto illusione» gli spiegai. «È il Caos che ha i suoi cambiamenti di idea e di opinione, nient'altro. Come ti ho detto, non può rimanere stabile. È nella sua natura di trasformarsi senza sosta.» «Mentre è nella natura della Legge» continuò Alisaard «di rimanere eternamente fissa. L'Equilibrio serve ad assicurarci che né la Legge né il Caos assumano mai il dominio assoluto, perché la prima porta alla sterilità, mentre l'altro offre solo sensazioni.» «E la lotta fra i due ha luogo in ciascun Regno del multiverso?» volle sapere von Bek. Guardò uno dei fiori che dondolavano dolcemente al vento. Il loro profumo era come una droga. «In ciascun piano» confermò lei «a un livello o all'altro, in un modo o nell'altro. È la guerra perpetua. E c'è un Campione, si dice, condannato a lottare in ciascun aspetto di quella guerra, per l'eternità...» «Vi prego, lady Alisaard» la interruppi io «preferirei che non mi venisse ricordato il destino del Campione Eterno!» Alisaard si scusò. Continuammo in silenzio lungo il sentiero per un altro miglio, poi il paesaggio tremò e cambiò per la seconda volta. Questa volta, al posto delle gigantesche giunchiglie c'erano forche. Da ciascuna dondolava una gabbia contenente una creatura umana, coperta di scabbia, che gridava aiuto. Dissi ai miei compagni di ignorare quei prigionieri e di non allontanarsi dal sentiero. «E questa è solo illusione?» gridò von Bek, dietro di me. Pareva sul punto di piangere. «Una finzione. Ti assicuro. Sparirà come sono scomparse le altre.» All'improvviso i prigionieri sparirono dalla gabbia. Al loro posto c'erano enormi fringuelli che gridavano per avere cibo. Poi le forche scomparvero. I fringuelli volarono via e fummo circondati da alti edifici di vetro, che si stendevano a perdita d'occhio: edifici che avevano mille forme diverse, ma tutte instabili. Ogni pochi secondi ne crollava uno, con un grande schianto di vetri infranti, e a volte trascinava nel crollo anche uno degli edifici vici-
ni. Per seguire il sentiero eravamo costretti a farci strada in mezzo a schegge di vetro che nel cadere facevano un chiasso infernale. Poi, dall'interno degli edifici si levarono alcune voci, ma quando guardammo dentro vedemmo che le case erano vuote. Risate, gemiti di dolore. Orribili singhiozzi. Gemiti di torturati. Il vetro cominciò gradualmente a sciogliersi e così facendo prese l'aspetto di facce tormentate. E quelle facce erano ancora grandi come grattacieli! «Oh, questo è certamente l'Inferno!» esclamò von Bek. «E queste sono le anime dei dannati!» Le facce salirono fino al cielo, trasformandosi in grandi lame di metallo che avevano la forma di foglie di felce. Noi continuammo lentamente a procedere lungo il sentiero-ombra. Mi costrinsi a pensare soltanto alla nostra meta, la Spada del Drago che poteva riportare le donne eldren nella loro patria, che non doveva finire nelle mani del Caos. Mi chiesi che cosa intendesse fare Sharadim per sconfiggerci. Per quanto tempo poteva mantenere una parvenza di vita in quel cadavere, il mio doppelgänger? Il vento ululava tra le foglie metalliche. Battevano e tintinnavano e il loro rumore mi faceva stringere i denti. Tuttavia, non ci presentavano alcuna minaccia diretta. Il Caos non era in se stesso malvagio. Ma le sue ambizioni erano contrarie ai desideri degli uomini e degli Eldren, oltre che di tutte le altre razze del multiverso. Una volta, in mezzo a quella giungla di ferro, mi parve di vedere alcune figure che si muovevano parallelamente a noi. Sollevai l'Actorios, anche se non pensavo che potesse aiutarmi. La pietra poteva facilmente scoprire creature di normale carne e sangue, ma i nostri inseguitori erano troppo lontani perché la pietra li trovasse. In pochi istanti le felci divennero serpenti pietrificati; poi i serpenti presero vita. Subito dopo, i serpenti cominciarono a divorarsi tra loro. Tutt'intorno a noi c'erano corpi che si muovevano, si contorcevano e sibilavano. Era come se a fianco del sentiero fossero sorte due siepi di serpenti annodati tra loro. Alisaard tremava; le strinsi forte la mano. «Ricordate» le dissi «che non ci attaccheranno senza un ordine diretto. Non sono del tutto reali.» Ma, anche se avevo cercato di rassicurarla, sapevo che le illusioni del Caos erano abbastanza concrete da causarci dei danni, nel breve tempo della loro esistenza.
Intanto i serpenti si erano trasformati in rovi e il nostro sentiero era una strada sabbiosa che portava al mare lontano. Anche se sapevo che si trattava di un ottimismo illusorio, cominciai a sentirmi un po' meno pessimista che all'inizio; ero addirittura giunto a fischiettare tra me, ma, giunti a un punto dove il sentiero girava, vidi che il passaggio era bloccato da un gruppo di uomini a cavallo. Alla testa del gruppo c'era una nostra vecchia conoscenza, il baron-capitano Armiad dello Scudo Corrucciato. Notai che da quando l'avevamo visto l'ultima volta, i suoi lineamenti erano divenuti ancor più bestiali. Le narici gli si erano dilatate, tanto che ora la sua faccia sembrava il grugno di un maiale. Dalla faccia e dal collo gli spuntavano ciuffi di pelo; quando parlò, la sua voce mi fece pensare al muggito di una mucca. Coloro che lo accompagnavano erano gli alleati di Sharadim. Gli stessi che ci eravamo lasciati alle spalle quando avevamo imboccato l'entrata che ci aveva portati nel Regno dell'Incubo. Evidentemente, quel gruppo non aveva perso tempo per raggiungerci. Noi eravamo tuttora privi di armi. Non potevamo combattere contro di loro. I rovi che crescevano ai fianchi del sentiero erano abbastanza robusti e non permettevano una fuga in quella direzione. Se avessimo voluto fuggire avremmo dovuto prendere la strada percorsa all'andata e saremmo stati facilmente raggiunti dai cavalli. «Dov'è la tua padrona, Baron Porcaio?» gli chiesi, senza indietreggiare. «Era troppo codarda per entrare di persona nel Caos?» Armiad aggottò gli occhietti porcini. Grugnì e tirò su col naso. A quanto pareva, aveva gli occhi e il naso permanentemente umidi. «L'imperatrice Sharadim ha da fare cose più importanti che dare la caccia ai vermi come voi, ora che deve occuparsi della preda più grande che esista.» La risposta di Armiad fu assai apprezzata dai suoi compagni, che assentirono con un grande coro di brontolii e di grugniti. Tutti avevano subito trasformazioni nella faccia e nel corpo, da quando avevano abbracciato la causa del Caos. Mi chiesi se fossero coscienti di quei cambiamenti o se anche il loro cervello era stato deformato come la loro apparenza fisica. Alcuni di loro erano a malapena riconoscibili. La faccia del duca Perichost, già sottile in partenza, ora assomigliava a quella di un roditore affamato. Mi chiesi da quanto tempo - nel tempo relativo - fossero laggiù. «E quale sarebbe la preda più grande che esista?» gli chiese von Bek. Anche questa volta parlava per guadagnare tempo, sperando che il paesag-
gio cambiasse a nostro vantaggio. «Sapete perfettamente qual è!» gridò Armiad. Il suo muso bestiale si torceva dalla rabbia e diventava sempre più rosso. «La cercate anche voi. Non potete negarlo!» «Ma voi, proprio voi, barone e duca Armiad, lo sapete cos'è?» gli chiese Alisaard. «L'imperatrice vi ha ammesso nelle sue confidenze? Mi sembra poco probabile, visto che l'ultima volta, parlando di voi, si è lamentata perché non eravate all'altezza delle sue ambizioni. Ha detto che intendeva sbarazzarsi di voi una volta finita la vostra utilità. Ormai è finita, ditemi, lord baron-capitano? O è stato esaudito il vostro più grande desiderio? Siete finalmente rispettato dai vostri pari? Acclamano il loro re-ammiraglio quando vedono sfilare la vostra nave? O rimangono zitti perché lo Scudo Corrucciato è sporco e disgustoso come sempre, pur essendo una delle poche navi-città ancora in grado di muoversi nel Maaschanheem?» La donna continuò a deriderlo e a punzecchiarlo; e per tutto il tempo lo mise alla prova. Compresi che cercava di scoprire che cosa avesse ordinato Sharadim. E, dal modo in cui Armiad si tratteneva, diventava sempre più chiaro che gli era stato ordinato di prenderci vivi. Nei suoi occhi porcini c'era un'ira omicida, ma le sue mani continuavano a contorcersi sul pomo della sella. Stava per dire qualcosa, quando von Bek lo precedette. «Siete un uomo vano, sciocco e avido, baron-capitano. Non capite che Sharadim vuole sbarazzarsi di alcuni alleati che non le servono più? Vi ha mandati nel Caos. Intanto, lei continua la sua conquista dei Sei Regni. Dove si trova, adesso? Combatte contro le donne eldren, oppure spazza via i Lacrimatori Rossi?» Questa volta Armiad sollevò il muso, con aria di trionfo, e scoppiò in una risata. «Non ha alcun bisogno di combattere contro le Eldren. Se ne sono andate. Sono scappate via dal Gheestenheem. Quando hanno visto le nostre navi, sono corse via con la coda tra le gambe. Il Gheestenheem è completamente nostro!» Alisaard gli credette. Era chiaro che non mentiva. Anche se era impallidita e se tremava, la donna riuscì a controllarsi. «Dove sono fuggite? A quanto ne so io, non avevano nessun posto dove andare.» «Sono andate a chiedere asilo presso i loro vecchi alleati. Sono fuggite ad Adelstane e si nascondono con i Principi Orsi, dietro le loro difese, mentre l'esercito della mia imperatrice li assedia. La loro sconfitta è inevitabile. Alcune di loro continuano a combattere nel mio mondo, insieme ai pirati, ma la maggior parte di loro si nasconde ad Adelstane in attesa di es-
sere sterminata.» «Hanno usato la porta fra la nostra città di Barobanay e la fortezza degli orsi» mormorò Alisaard. «È la loro unica possibile strategia contro le forze del genere di quella comandata da Sharadim.» Anche questa volta il baron-capitano Armiad sollevò il grugno in una sorta di risata. «La conquista è stata assai rapida in tutt'e sei i Regni. Per anni la mia signora ha fatto i suoi piani. E quando è giunto il momento di metterli in azione, ha saputo realizzare meravigliosamente le sue ambizioni.» «Solo perché le persone ragionevoli, nella loro stragrande maggioranza, non riescono a capire una simile sete di potere» disse von Bek, con convinzione. «Non c'è niente di più puerile che la mente di un tiranno.» «E niente di più spaventoso» aggiunsi io, sottovoce. Le siepi di rovi cominciarono ad avvolgersi su se stesse, e formarono spirali di tessuto sottile, dal mille colori. Senza dire una parola, io, Alisaard e von Bek lasciammo improvvisamente il sentiero e ci tuffammo in mezzo alla selva di tessuto frusciante, mentre alle nostre spalle arrivava il gruppo urlante e malcerto in sella, reso ancor più goffo dalle grottesche distorsioni del loro corpo. Eppure, essendo in sella, erano più veloci di noi. Avevamo perso il sentiero-ombra. Corremmo da un nascondiglio all'altro, mentre il barone Armiad e i suoi compagni ci venivano dietro alla cieca, tra grida e versi animaleschi. Ci pareva di essere inseguiti da un mucchio di animali da cortile. Non era affatto comica, però, la nostra paura. Avevamo capito che Sharadim ci voleva vivi, ma i nostri inseguitori, nella loro cieca stupidità, rischiavano di ucciderci in un incidente! Io cercavo disperatamente un altro sentiero, sollevando dinanzi a me l'Actorios. Le strisce di tela divennero grandi fontane che spruzzavano alti nel cielo i loro getti. Ora noi ci trovavamo a correre in mezzo a quelli. A quel punto il duca Perichost scorse Alisaard e con un grugnito di trionfo estrasse la spada e si lanciò contro di lei. Vidi che von Bek cercava di raggiungere la nostra compagna, ma io ero più vicino. Mi lanciai verso l'uomo del Draachenheem, gli afferrai il polso e gli strappai la spada dalla mano, che adesso assomigliava a una zampa animalesca. Alisaard si chinò a raccogliere la spada mentre io tiravo a me il duca, con tutta la mia forza, e lo facevo cadere di sella. «Von Bek!» gridai. «In sella!» Così dicendo, diedi l'Actorios ad Alisa-
ard, che lo guardò con sorpresa. Intanto altre creature del Caos ci avevano visti e venivano in massa contro di noi. Von Bek balzò in sella e tese la mano ad Alisaard per farla salire dietro di sé. Io corsi per qualche istante accanto al cavallo, invitando i miei amici a precedermi e a cercare un nuovo sentiero. Quanto a me, avrei fatto del mio meglio per raggiungerli. Poi mi voltai per affrontare l'attacco di un barbaro Mabden che puntava la lancia contro il mio basso ventre. Mi scansai per evitare la punta e afferrai l'asta dell'arma; la strattonai verso il basso e a destra, sperando che il Mabden fosse talmente sciocco da non lasciarla. L'uomo venne giù di sella senza la minima difficoltà, come se scivolasse sull'olio. E io adesso avevo la sua lancia. Mi bastarono pochi istanti per prendere il posto del barbaro in sella e per lanciarmi al galoppo dietro i miei compagni. Io e von Bek eravamo cavallerizzi assai migliori dei guerrieri che venivano dietro di noi. Cercando di evitare alla meglio gli spruzzi delle fontane, riuscimmo gradualmente a sfuggire al barone Armiad e ai suoi uomini, finché tra noi e loro non si alzò una nuova parete di cristallo speculare. Mi voltai e riuscii solo vagamente a distinguere le loro figure. Non c'era nessun motivo particolare che spingesse quella parete a formarsi proprio laggiù. La sua esistenza era dovuta a un capriccio del Caos. Ma fu una fortuna per noi, che, coperti di sudore, potemmo rallentare il passo. Vidi che von Bek si girava verso Alisaard e la baciava. E che lei rispondeva con calore. Gli gettò le braccia al collo, continuando a tenere l'Actorios nella sua bellissima mano. Ma colei che baciava il mio amico non era Alisaard: era la mia Ermizhad! Era Ermizhad e mi aveva tradito. L'unico tradimento che avrei creduto impossibile! Ormai, non avevo più dubbi: era davvero Ermizhad. Mi aveva ingannato fin dal primo momento. Avevo distrutto intere popolazioni, a causa del mio amore per lei. Avevo combattuto mille guerre. Ed era così che lei ricambiava la mia fedeltà? Inoltre von Bek, che credevo un fedele compagno, non aveva alcuno scrupolo a tradirmi così. Tutt'e due, anzi, se ne vantavano. I loro abbracci offendevano tutto quel che mi era caro. E io, stupido, che mi ero fidato di loro! Sapevo di non avere altra scelta: dovevo punirli per il dolore che mi avevano dato.
Feci procedere al passo il cavallo e sollevai la lancia che avevo preso al Mabden. La soppesai sul palmo. Conoscevo bene quel tipo di arma e sapevo che con un solo colpo avrei potuto ucciderli tutt'e due, unendoli nella morte. Il giusto premio del tradimento. «Ermizhad! Come hai potuto?» gridai. Piegai il braccio all'indietro, preparandomi a scagliare l'arma. Vidi gli occhi di von Bek sgranarsi per l'orrore e l'incredulità, codardamente. Vidi che Ermizhad si voltava per seguire la direzione del suo sguardo. Risi di loro. E la mia risata trovò un'eco. Mi parve che riempisse tutto quel mondo. Von Bek gridava. Ermizhad gridava. Certamente mi supplicavano di avere pietà, ma io non ne avevo alcuna. La risata divenne sempre più forte. E non era solo la mia. C'era un'altra voce. Ebbi un attimo di esitazione. Von Bek mi gridò, con voce stridula: «Herr Daker! Un demone si è impossessato di te? Che succede?» Non gli badai. Ormai sapevo che mi aveva ingannato, che aveva cercato la mia amicizia soltanto per potermi tradire meglio, per mantenere meglio la tresca con mia moglie. Ed Ermizhad, senza dubbio, l'aveva aiutato a organizzare il tradimento. Era logico. Perché non me n'ero mai accorto? Evidentemente, il mio cervello era offuscato da altri pensieri, meno importanti. Non avevo alcun bisogno della Spada del Drago. Non avevo nessun debito nei riguardi dei Sei Regni. Perché mi ero lasciato distrarre da quei problemi, mentre mia moglie mi disonorava davanti ai miei stessi occhi? A quel punto non ridevo più. Puntai la lancia verso il bersaglio. E in quel momento sentii che la risata continuava. E che non era la mia. Guardai nella direzione da cui la sentivo giungere e vi scorsi un uomo. Indossava una lunga veste, nera e blu scuro. La sua faccia aveva qualcosa di familiare, che però, in quel momento, non riuscii a riconoscere. Aveva l'aspetto di un saggio, equilibrato statista di mezza età, ma la sua folle risata smentiva questa impressione. E ora, finalmente, capii chi era. Il signore di quel mondo, l'arciduca Balarizaaf in persona. Senza bisogno di pensare, scagliai la lancia contro di lui, dritta al suo cuore. Balarizaaf continuò a ridere, anche quando posò gli occhi sulla lunga asta di legno che gli usciva dal petto. «Oh, questo è davvero un grande divertimento» disse infine. «Assai più
interessante, ser Campione, che conquistare mondi e ridurre nazioni in schiavitù, non ti pare?» E solo allora, finalmente, cominciai a capire che ero vittima delle allucinazioni di quel regno. Nella mia follia avevo rischiato di uccidere i miei amici. Un istante più tardi, l'arciduca Balarizaaf era sparito e Alisaard mi gridava di guardare. Con l'Actorios aveva trovato un altro sentiero-ombra, pressoché invisibile davanti a noi. Ma ancor più interessante era la grossa lepre dal pelo marrone che saltellava lungo di esso. «Dobbiamo seguirla» dissi, tremando al pensiero del rischio che avevo corso. «Ricordate quel che ha detto Sepiriz. Quella lepre è il nostro primo collegamento con la Spada del Drago.» Von Bek mi guardò con sospetto. «Sei ritornato in te?» mi chiese. «Spero di sì.» Ora cavalcavo davanti a tutti; seguivo la lepre che, con l'indifferenza tipica della sua specie, continuava a precederci lungo il sentiero. Presto il passaggio si restrinse e i cavalli faticarono a procedere in mezzo alle pietre. Smontai di sella e presi per la briglia il mio animale. Von Bek e Alisaard seguirono il mio esempio. Vidi che la lepre ci aveva atteso pazientemente e che poi riprendeva il cammino. Alla fine l'animale si fermò in un punto dove il sentiero pareva entrare nella roccia. Sotto di noi si scorgeva un'intera valle, un fiume largo come il Mississippi, una massiccia fortezza che pareva fatta d'argento. Ancora a piedi, seguimmo la lepre e ci avvicinammo alla parete. Io feci per prendere l'animale, ma quello saltellò via. Un attimo più tardi, senza che me lo aspettassi, mi accorsi di cadere nell'oscurità, nel vuoto malinconico dello spazio tra i mondi. Mentre precipitavo, mi parve di udire nuovamente la risata di Balarizaaf e mi domandai se, dopotutto, l'Arciduca del Caos non fosse riuscito a intrappolarci. Che ci avesse consegnati al Limbo per tutta l'eternità? DUE Mi parve di cadere per mesi, forse per anni, prima di accorgermi che la sensazione di movimento era cessata e io ero di nuovo coi piedi sulla terraferma, anche se nell'oscurità più assoluta.
Una voce mi chiamava: «John Daker, sei qui?» «Sono qui, von Bek, dovunque sia 'qui'. E Alisaard?» «È con me» mi rispose. Gradualmente, procedendo a tastoni, riuscimmo ad avvicinarci l'un l'altro e a prenderci per mano. «Che luogo è questo?» si chiese von Bek, a voce alta. «Una trappola dell'arciduca Balarizaaf?» «Può darsi» risposi io «anche se avevo l'impressione che fosse stata la lepre a portarci quaggiù.» Von Bek scoppiò a ridere. «Ah, allora siamo caduti in una tana di coniglio, proprio come Alice!» Io risi alla sua osservazione; Alisaard rimase in silenzio, chiaramente perplessa dinanzi alle sue parole. Poi gli diede una spiegazione. «Nei Regni del Caos» disse «ci sono molti punti dove il tessuto del multiverso si è assottigliato, altri dove i mondi si intersecano a caso. Non si possono inserire nelle mappe come facciamo noi con le nostre porte, ma a volte esistono per secoli nello stesso punto. Forse abbiamo incontrato una di queste soluzioni di continuità. Potremmo trovarci in un punto qualsiasi del multiverso.» «O in nessuno» commentò von Bek. «O in nessuno» convenne lei. Io, comunque, ero convinto che la lepre ci avesse portati laggiù intenzionalmente. «Ci è stato detto» feci notare «di cercare una coppa e che la coppa ci avrebbe guidato all'unicorno, il quale a sua volta ci avrebbe portato alla spada. Mi fido delle capacità di previsione di Sepiriz. Penso che qui troveremo la coppa.» «Anche se fosse qui» rispose von Bek «non saremmo in grado di vederla. Non vi pare?» Mi chinai a passare la mano sul terreno. Era umido. Tutto l'ambiente sapeva di muffa. Continuando a esplorare con la mano, si confermò la mia prima impressione: ci trovavamo su un pavimento di lastre di pietra, antiche e consumate. «Questo luogo è stato fabbricato dall'uomo» dissi. «Ho l'impressione che ci troviamo in una sorta di camera sotterranea. Questo significa che ci deve essere una parete. E nella parete forse troveremo una porta. Venite» terminai, avanzando lentamente e tendendo la mano dinanzi a me. Alla fine le mie dita incontrarono un blocco di pietra umido e scivoloso;
un materiale sgradevole a toccarsi, ma in breve tempo ebbi la conferma che si trattava davvero di una parete. Così la seguimmo, fino a incontrare un angolo, e poi un altro. Come potemmo a vedere, l'ambiente era largo sei o sette metri. Quando esplorammo a tastoni la terza parete, trovai una porta di legno, con i cardini di ferro e una grossa maniglia di fattura antica. Io la impugnai e provai ad aprire. Stranamente, la serratura si aprì senza sforzo, come se il meccanismo fosse perfettamente oliato. Schiusi piano il battente e scorsi una luce. Con grande attenzione aprii di qualche altro centimetro la porta e vidi che dava su un corridoio. Il nuovo ambiente aveva un soffitto basso, curvo, e pareva antico come la camera. Tuttavia, a intervalli di una decina di metri, scorsi quelle che mi parvero normalissime lampadine a incandescenza del ventesimo secolo, alimentate da semplice cavo elettrico - isolato in gomma e protetto da una guaina di filo intrecciato - e appese a chiodi con un isolante in ceramica, come per una sistemazione provvisoria. A sinistra il corridoio terminava bruscamente, in corrispondenza di una porta, ma a destra proseguiva per alcune decine di metri e poi faceva una svolta. Aggrottai la fronte; non capivo dove fossimo finiti. «A quanto pare» dissi a von Bek «ci troviamo nei sotterranei di un castello medievale, ma l'illuminazione è abbastanza moderna. Dagli un'occhiata tu.» Fece come gli dicevo; dopo un momento, tirò indietro la testa e chiuse la porta. Sentii che respirava affannosamente, ma non parlò. «Cos'è successo?» gli chiesi. «Niente. Un presentimento, se vogliamo metterla così. Potremmo trovarci in mille altri posti, ma ho l'impressione di conoscere quel corridoio. Cosa che, ne converrai, è assai improbabile. Un posto di quelli vale quanto un altro. Usciamo in esplorazione?» «Se te la senti» gli risposi. Lui rise seccamente. «Certo. Ero un po' scosso dagli ultimi avvenimenti.» Mettemmo piede nel corridoio e pensai che eravamo davvero un bizzarro spettacolo: Alisaard con la sua armatura d'avorio, io con gli abiti di cuoio dei cacciatori di palude, von Bek con il suo costume finto ventesimo secolo. Procedemmo con cautela finché non giungemmo a una svolta. Il luogo sembrava deserto, ma chiaramente doveva essere in uso, come testimoniavano le luci accese. Studiai la lampada più vicina. Il bulbo aveva una
forma un po' strana, ma era una consueta lampadina a filamento incandescente. Eravamo così presi dall'esame del luogo che fino all'ultimo momento non ci accorgemmo dell'aprirsi di una porta e dell'arrivo di un uomo. Non avremmo fatto in tempo a nasconderci, e di conseguenza rimanemmo dove eravamo, pronti a lottare contro di lui con tutti i mezzi disponibili. Anche se la sua figura era leggermente indistinta, ci parve sufficientemente reale. La vista dell'abito che indossava, però, mi lasciò a bocca aperta; quanto a von Bek, il mio compagno emise un suono strangolato. Eravamo faccia a faccia con un alto ufficiale delle SS naziste! L'uomo era intento a leggere un documento, ma, quando alzò la testa, ci scorse dinanzi a lui. Non fece parola, tornò a fissarci, rabbrividì e infine, mormorando qualcosa tra sé, girò sui tacchi. Nel tornare indietro, si stropicciò gli occhi. Alisaard rise. «La nostra situazione comporta qualche vantaggio» disse. «Perché non ha detto nulla?» volle sapere von Bek. «In questo mondo siamo ombre. Spesso ho sentito parlare di questo genere di cose, ma non le ho mai provate. Qui siamo solo parzialmente reali.» Tornò a ridere. «Ora tutt'e tre siamo quello che noi Eldren siamo sempre state per i Sei Regni, ossia dei fantasmi, amici miei! Quell'uomo ha creduto di avere un'allucinazione!» «E tutti penseranno la stessa cosa, in questo mondo?» chiese von Bek. Per essere un fantasma, era un po' troppo sudato. Conosceva per esperienza personale che cosa significasse cadere in mano a quei bruti. «Penso di sì» rispose la donna, ma confessò di non esserne certa. Concluse: «La comparsa di quell'uomo vi ha terrorizzato, conte von Bek! Ma dovrebbe essere lui ad avere paura di voi!» «Credo di cominciare a capire» dissi io. «Ho l'impressione che Sepiriz abbia trovato la maniera di mantenere la parola data a von Bek e nello stesso tempo di portare avanti i suoi progetti. Hai detto di conoscere questo posto, von Bek; ricordi quando l'hai visto?» Il nostro compagno abbassò la testa e si passò le mani sul viso. Poi si scusò e raddrizzò la schiena; ci rivolse un cenno d'assenso. «Sì, alcuni anni fa» ci raccontò. «Mi ha portato quaggiù un mio lontano cugino. Era un fervente nazista e voleva impressionarmi con quella che secondo lui era la resurrezione dell'antica cultura tedesca. Siamo nelle cosiddette segrete del castello di Norimberga, nel centro di quella che i nazisti considerano la loro fortezza spirituale. Naturalmente, oggi è difficile en-
trarci, per un estraneo, ma a quell'epoca i nazisti erano pochi, erano meno rispettati e avevano meno potere. «Si dice di queste segrete che risalgano all'epoca dei primi costruttori goti, i quali si insediarono qui prima dei romani. Si trovano al disotto dell'ala principale del castello e sono state liberate dei detriti in epoca relativamente recente. Quando sono arrivato qui, si parlava molto della scoperta delle 'fondamenta' della vera Germania. Ma io ormai ero abituato a quel genere di sciocchezze, e l'unica cosa che mi disturbasse, in questo luogo, era l'importanza che gli dava il mio parente nazista.» Si strinse nelle spalle, poi proseguì: «Poco dopo la mia visita, comunque, ho saputo che l'accesso a questi sotterranei era stato vietato a tutti, salvo le più alte gerarchie naziste, ma il vero motivo non lo conosco. Si sono udite le solite voci sui riti di magia nera praticati da Hitler e tutto il resto, ma io non ho mai prestato fede a quei racconti. Secondo me si stava costruendo qualche installazione segreta di tipo militare, in un'epoca in cui i nazisti fingevano ancora di rispettare i termini dell'armistizio.» «Ma Sepiriz ha detto che la lepre ci avrebbe condotti a una coppa» osservai io, leggermente perplesso. «Che tipo di coppa si può scoprire qui a Norimberga?» «Sono certa che lo scopriremo al momento giusto.» Alisaard cominciava a stancarsi di quei discorsi incomprensibili. «Proseguiamo. Ricordate che tutto dipende da noi. Abbiamo nelle nostre mani il destino dei Sei Regni.» Von Bek si guardò attorno. «Ricordo che c'era una cripta principale, una sorta di camera cerimoniale a cui mio cugino pareva attribuire un'importanza quasi mistica. La chiamava il 'perno dello spirito germanico' o qualche altra idiozia del genere. Confesso che il suo discorso mi annoiava, oltre a disgustarmi, e che per questo non gli ho dato retta. Ma forse è proprio la sala che cerchiamo.» «E ricordi dove si trovasse?» gli chiesi. Lui rifletté per alcuni istanti, poi mi indicò una direzione. «È il luogo dove stiamo andando. La porta in fondo al corridoio. Mi pare di ricordare che portasse alla sala principale.» Ora fu lui a precederci. Due altri nazisti passarono accanto a noi ma solo uno ci vide, con la coda dell'occhio, e anche questa volta era chiaro che non si fidava della propria vista. Se l'epoca era quella in cui era vissuto von Bek, era probabile che gran parte di quelle persone fosse in arretrato di parecchie ore di sonno e patisse di allucinazioni di un tipo o dell'altro. In effetti, mi dissi, se fossi stato anch'io nelle SS, probabilmente avrei visto
ogni genere di fantasmi. Von Bek si fermò davanti a una porta che, palesemente, doveva essere di fattura moderna, anche se aveva lo stile romanico di tutto il resto. «Dev'essere questa, la camera di cui parlavo» ci informò. Esitò per qualche istante. «La apro?» Prendendo il nostro silenzio come assenso, impugnò la robusta maniglia di ferro e cercò di girarla. Ma la maniglia si rifiutò di muoversi. Dopo qualche tentativo, von Bek appoggiò la spalla alla porta e spinse. Poi scosse la testa. «È chiusa a chiave. Sospetto che sia una moderna serratura di sicurezza. Non si muove di un millimetro.» «O forse, dato che la nostra sostanza è meno corporea in questo piano, non abbiamo la forza occorrente per aprirla?» chiesi ad Alisaard. La donna aveva solo qualche vaga conoscenza del fenomeno. Secondo lei, era meglio aspettare che qualcuno venisse ad aprire la porta, per vedere come faceva. «Può darsi che ci sia qualche trucco per aprirla» suggerì. Di conseguenza ci ritirammo in una nicchia e, nascosti nell'ombra, vedemmo passare di tanto in tanto qualche alto ufficiale nazista. Non scorgemmo soldati armati; questo ci portò a supporre che i nazisti si sentissero abbastanza al sicuro, laggiù. Aspettavamo da circa un'ora e cominciavamo a dubitare di quel piano, quando un uomo alto e dai capelli grigi, che indossava una veste nera e argento su quella che doveva essere la normale uniforme delle SS, giunse dal fondo del corridoio e venne verso di noi. Pareva una sorta di sacerdote, perché aveva in mano una piccola scatola. Si fermò davanti alla porta della cripta, apri la scatoletta e ne trasse una chiave, la infilò nella toppa e girò; dal nostro nascondiglio sentimmo muoversi pesanti chiavistelli. La porta si aprì; dall'interno giunse fino a noi un odore di muschio. Immediatamente seguimmo il nuovo venuto, senza fare rumore. Chiaramente era venuto a preparare la sala per qualche rito, come lo scaccino che prepara la chiesa per la funzione. Accostò un fiammifero a una candela lunga e sottile e con questa accese alcuni grossi ceri. Come vedemmo ora, le pietre della volta erano molto antiche. Il soffitto era retto da decine di travi e di conseguenza era impossibile capire le vere dimensioni dell'ambiente. Le fiamme proiettavano ombre che guizzavano su tutte le pareti. Non incontrammo alcuna difficoltà a nasconderci. Quando ebbe terminato il suo compito, l'uomo lasciò la stanza chiudendo a chiave la porta. A quel punto eravamo liberi. Esplorai l'ambiente in cui eravamo finiti e
vidi che il luogo era stato arredato abbastanza di recente, in modo da costituire una sorta di tempio. A una delle estremità c'era un altare. Sulla parete dietro di esso si scorgeva la croce uncinata nazista, nera, rossa e bianca, circondata da insegne barbariche e antichi simboli teutonici. Sull'altare stesso c'era un albero d'argento stilizzato e accanto a questo un toro rampante, anch'esso stilizzato, fuso in oro. «Questo è il materiale che i nazisti volevano mettere nelle nostre chiese» sussurrò von Bek. «Oggetti pagani di culto che, secondo loro, sono i simboli della vera religione germanica. Sono anche anti-cristiani, oltre a essere antisemiti. Odiano ogni sistema di pensiero che metta in dubbio il loro polpettone di pseudo-filosofia e di sciocchezze a sfondo mistico!» Fissò con disgusto l'altare. «Sono il peggior genere di nichilisti. Non si accorgono di essere capaci soltanto di distruggere e di non saper creare nulla. Le loro invenzioni sono vuote come tutte le invenzioni del Caos che abbiamo visto. Il nazismo non ha una vera storia, non ha una sostanza concreta, non ha profondità né qualità intellettuali. È solo una negazione, una brutale cancellazione di tutte le virtù tedesche.» Così dicendo, von Bek era quasi alle lacrime. Alisaard gli prese la mano. Anche se non aveva capito molto del suo discorso, era rimasta colpita dalla profondità dei suoi sentimenti. «Cercate di pensare allo scopo per cui ci troviamo qui» mormorò la donna. «Per il vostro stesso bene, mio caro.» Era la prima volta che le sentivo usare quelle parole e provai di nuovo una grande gelosia. Oh, quanto mi mancava la consolazione di una donna come lei, una persona così vicina alla mia Ermizhad da potermi far credere che si trattasse veramente di lei! Ma questa volta riuscii a controllarmi. Pensai alla follia che mi aveva colto poco prima. Correvo costantemente il rischio di cadere in simili illusioni. Von Bek si rallegrò dell'interesse di Alisaard e annuì nel sentirsi ricordare la nostra missione. «Una coppa, quella del Graal, rientra spesso nella paccottiglia di questa specie di culti» disse. «Ma non la vedo da nessuna parte.» «Il Graal?» gli chiesi. «Mi pare di ricordare che mi avessi parlato, quando ci siamo incontrati, del legame tra la tua famiglia e il Santo Graal.» «Una leggenda, niente di più» rispose von Bek. «Si dice che alcuni dei miei antenati lo abbiano visto e che altri ne siano stati i custodi. Ma si tratta di narrazioni un po' troppo fantasiose, secondo me. Una leggenda dice addirittura che non ci è stato affidato da Dio ma da Satana! Ho letto tutto
questo nella biblioteca di famiglia, quando cercavo di scoprire qualche antico passaggio che mi permettesse di uscire segretamente dalla città di Bek senza essere visto dai nazisti. È così che ho trovato i documenti e le mappe che mi hanno portato nei Mondi di Mezzo...» S'interruppe nell'udire un rumore che giungeva dal corridoio. Ci affrettammo a ritirarci nell'ombra di un'arcata. La porta si aprì di nuovo, proiettando nella penombra una striscia chiara di luce elettrica. Vedemmo entrare tre figure. Nessuna di esse era particolarmente alta, e la faccia era nascosta dagli alti colletti rigidi che incorniciavano la loro testa. Indossavano un mantello simile a quelli portati da alcuni ordini religioso-guerrieri come i Cavalieri Templari: notai inoltre che avevano guanti di ferro e impugnavano lunghe spade, e che sotto il braccio tenevano pesanti elmi di ferro che parevano risalire al Medioevo. Le tre figure davano un'impressione di forza barbarica, ma questa forza era unicamente dovuta al costume che s'erano scelto: quando si avviarono verso l'altare e chiusero a chiave la porta, vidi che uno era molto esile e zoppicava, l'altro era un pancione dal fiato corto, e il terzo camminava con movimenti rigidi e meccanici, le spalle tirate indietro come fanno gli uomini di bassa statura che vogliono sembrare più alti. Io presi per il braccio von Bek e mi accorsi che tremava; la cosa non mi sorprese. Non c'erano dubbi: eravamo davanti a tre dei più grandi criminali del ventesimo secolo. Quei tre erano Goebbels, Goering e Hitler, e tutto quel che avevo letto sulle loro bizzarre convinzioni esoteriche, sulla loro fede nei portenti e nel sovrannaturale, la loro disponibilità ad accettare le idee più strane e improbabili, trovava infine conferma. Credendosi inosservato, il terzetto iniziò a salmodiare in tedesco e presto riconobbi i versi di una poesia di Goethe. Sulle loro labbra, però, quelle parole mi parvero sudice e pervertite. Come avevano fatto con tante altre idee del Romanticismo, quei tre uomini avevano pervertito le idee del poeta tedesco ai loro miserabili scopi. Con lo stesso spirito avrebbero potuto cantare gli incantesimi della messa nera o dissacrare con il loro sudiciume una sinagoga: l'effetto era pressoché uguale. Alien Gewalten Zum Trutz sich erhalten, Nimmer sich beugen, Kräftig sich zeigen, Rufet die Arme
Der Götter hierbei. «Tutti i poteri sono dati alle anime impavide; quando avrai fiducia in te, sarai saldo e intemerato, gli dèi verranno in tuo aiuto!» Facevano cattivo uso di quelle parole come di tutte le altre, delle migliori idee e dei migliori sentimenti del popolo tedesco, trasformandole in strumenti con cui edificare la loro ideologia inadeguata e patetica. Non mi sarei sorpreso di scorgere accanto a me il fantasma di Goethe, pronto a vendicarsi di coloro che sovvertivano in quel modo la sua opera. Ora Goebbels fece un passo avanti e accese due grandi candele rosse, poste di fianco all'altare. Sentii che von Bek, accanto a me, faticava a trattenersi dallo scagliarsi contro quelle tre persone. Senza parlare, lo tenni per il braccio: dovevamo aspettare. Dovevamo attendere qualche rivelazione. Sepiriz aveva fatto in modo che ci trovassimo laggiù e aveva mandato la lepre perché ci guidasse a quella porta tra i mondi. Dovevamo lasciare che il rito continuasse. Mi stupii della banalità delle loro parole, quando passarono dai versi di Goethe a quelli inventati da loro. Frasi piene di promesse agli antichi dèi, a Wotan e agli spiriti della Quercia, del Ferro e del Fuoco. La luce delle candele illuminava le loro facce: Goebbels, con una smorfia avida sulla faccia da topo, sembrava un alunno ribelle che sorrideva della propria malignità; Goering, tondo e serio, sembrava del tutto convinto di quel che diceva e - o perché aveva bevuto o perché s'era drogato - pareva distaccato da tutto il resto del mondo; e Adolf Hitler, Cancelliere del Terzo Reich, aveva gli occhi che sembravano due specchi neri, la faccia pallida, di un biancore malaticcio, ed era mosso dal desiderio che tutte quelle parole divenissero realtà, così come dal desiderio che il mondo accettasse la sua disgustosa pazzia. Era una scena dotata di una sua forza malvagia: una scena che speravo di non dover rivedere mai più. Era carica di una perversione umana che aveva poco a che fare con quelle che ero abituato ad affrontare, e che era addirittura la più offensiva di quelle incontrate fra i seguaci del Caos. Era così vicina alla mia esperienza, alla mia epoca, che riuscivo a capire cosa provasse von Bek, il quale, nella sua lotta contro se stesso, mi faceva pensare a un cane alla catena desideroso solamente di uccidere. Il mio compagno aveva sperimentato di persona gli orrori portati da quel terzetto alla sua nazione, e quando aveva legato il suo destino al mio l'aveva fatto per distruggerli, per salvare il suo mondo dal male che rappresentavano.
Guardai Alisaard. Anche lei pareva percepire il malvagio potere di quelle creature. «Che i poteri dei nostri antichi dèi, gli dèi che hanno dato la forza ai conquistatori di Roma, vengano dati alla Germania in questa ora, l'ora del suo destino, l'ora decisiva.» A parlare così era Goebbels, che chiaramente non credeva alle parole da lui stesso pronunciate, ma che sapeva come Hitler e Goering non fossero altrettanto scettici. «Vengano a noi i mistici poteri dei grandi dèi del Vecchio Mondo, e che ci colmino dell'oscura energia naturale con cui sconfiggemmo i deboli seguaci di quei giudeo-cristiani che avrebbero voluto conquistare la nostra antica terra. Che il nostro sangue - il puro e inadulterato sangue dei nostri impavidi antenati - scorra nuovamente nelle nostre vene con lo stesso dolce ardore con cui vi scorreva nei giorni più antichi, prima che i nostri onesti, innocenti progenitori fossero corrotti da religioni straniere e orientali. Che la Germania ritorni alla sua pura, autentica identità!» Continuò con altre sciocchezze del genere, mentre von Bek diventava sempre più nervoso e io e Alisaard eravamo sempre più impazienti. «Ora evochiamo il Calice, la coppa della nostra essenza spirituale, il vaso della sapienza cercato da Parsifal, il Calderone delle leggende celtiche di cui i cristiani si sono impadroniti per poi inserirlo nelle loro mitologie col nome di Santo Graal!» Mentre salmodiava quelle parole, Goebbels spostava il peso da un piede all'altro, incapace di stare fermo; mi fece pensare a un nano deforme. «Ora evochiamo il nostro Calice perché si possa partecipare del suo contenuto e perché ci colmi della Saggezza da noi cercata!» A queste parole fecero eco Hitler e Goering. «In ginocchio, ora!» esclamò Goebbels, che chiaramente assaporava fino all'ultima goccia il proprio ascendente sugli altri due. Obbedienti, i due capi del nazismo si inginocchiarono. In piedi rimase solo Goebbels, che si rivolse all'altare, alzando le braccia. «Qui, nel più antico di tutti i luoghi sacri alla Germania, dove il Calice abita fin dagli inizi del tempo, chiediamo che ci sia data una visione. Chiediamo di bere da tale saggezza. Chiediamo di avere nuovamente il potere dei nostri antichi dèi, le conoscenze del nostro antico sangue, la certezza della nostra antica forza. Dobbiamo sapere che strada prendere. Dobbiamo sapere se concentrare le nostre forze sulla liberazione della potenza dell'atomo o se invece lottare contro la minaccia che giunge dall'Est. Dobbiamo
avere un segno, o grandi dèi. Dobbiamo avere un segno!» Non so se Goebbels si limitasse a recitare a beneficio dei suoi due compagni più creduloni o se davvero credesse a quelle idiozie. Non so se quanto accadde in seguito fosse dovuto ai suoi incantesimi o fosse da attribuire alla presenza di von Bek nella cripta. La famiglia del mio amico era legata al Graal, mi aveva detto, un po' come io, nelle mie varie incarnazioni, ero legato alla spada. E questo, forse, era il motivo che ci aveva fatto ritrovare insieme, dato che in quel momento combattevamo contro un nemico importante. Non so quale fosse il ruolo di Sepiriz, né quanto sapesse in realtà, ma era ovvio che aveva usato i suoi poteri di percezione e di previsione per farci capitare nel luogo giusto al momento giusto. Infatti ora il rituale prese un indirizzo che, come potei constatare, colse di sorpresa tutt'e tre, soprattutto Goebbels. Nella cripta si levò una musica dolcissima, accompagnata da un profumo di rose. La musica era quasi un coro e faceva uno strano contrasto con il buio pesante dell'ambiente e con le cianfrusaglie pagane della gerarchia nazista. Poi, all'improvviso, ci colpì una luce bianca accecante, ma così delicata che dopo un solo istante fummo in grado di fissarla senza danni. E al centro della luce c'era l'origine della musica e del profumo: un semplice calice, una coppa d'oro, che io non avevo mai visto, tranne una volta sola. Era quello che le leggende cristiane chiamavano Santo Graal e che i Celti chiamavano Calderone della Saggezza. Era sempre esistito, con nomi diversi, esattamente come la spada da noi cercata e come me, il Campione Eterno. Al di là del chiarore scorsi Goebbels, e Hitler, e Goering, tutt'e tre in ginocchio, che fissavano con grandissimo stupore quella visione inattesa. Sentii Hitler ripetere varie volte la stessa esclamazione di sorpresa. Goering aveva il singhiozzo e cercava di rizzare il suo corpo grasso. Goebbels era tornato a sorridere, anche ora come uno scolaretto discolo che ha scoperto qualcosa di inatteso. Stava quasi per ridere. «È vero, è vero!» gridò, rivolto a se stesso, ai suoi dubbi. «È vero! Gli dèi ci hanno mandato un segno! Che cosa dobbiamo fare? Eliminare la minaccia dell'Est prima di concentrare le nostre forze sulla costruzione di una bomba atomica oppure consolidare le nostre conquiste e mettere a disposizione degli scienziati le nostre energie? E quanto passerà prima che la Russia ci attacchi? O l'America e l'Inghilterra ci invadano? Che fare? Le nostre conquiste sono giunte così rapidamente che non abbiamo avuto il tempo di pensare. Ci occorre una guida. Sei davvero un segno degli antichi
dèi? Ci indicherai il giusto cammino per assicurare alla Germania il dominio del mondo?» «La coppa non può parlare, Herr Doktor!» esclamò Adolf Hitler in tono sprezzante, vedendo l'incertezza del suo ministro davanti a quel nuovo sviluppo. «Occorre tenerla fra le mani. E allora ci sarà rivelata la verità. Sono certo che è ciò che vuole.» «No, no!» Alla fine, Goering era riuscito ad alzarsi in piedi e ansimava pesantemente. Aveva gli occhi rossi, la goccia al naso e sottili strisce di bava agli angoli delle labbra. Trasse un profondo respiro, rabbrividendo. «Ci sarà certamente una donna. La custode del Graal. Una Figlia del Reno, eh? Lo so. Lo dice Wagner, eh?» E scoppiò a ridere. Non riuscivo a credere che quegli uomini fossero gli stessi che tanto avevano influito sul corso della storia del mio mondo. Ora mi pareva ovvio che tutti fossero in qualche modo dementi. Si comportavano come bambini sciocchi. Eppure, penso che le creature del loro genere abbiano una natura infantile, in definitiva. Infatti, solo i bambini possono credere di poter ottenere un grande potere senza pagarne il prezzo. E quel prezzo è spesso la sanità mentale di coloro che lo cercano. In un certo modo, quei tre uomini erano caricature grottesche di se stessi, ancor più di quelle deformi creature del Caos che ci avevano inseguito poche ore prima. Se ne rendevano conto? O la constatazione non faceva che incoraggiarli a ulteriori follie, a una sempre maggiore corruzione? «Sì» rispose Adolf Hitler, dandosi un'aria di importanza che era quasi ridicola. «Figlie del Reno. Valchirie. Lo stesso Wotan. L'apparizione di questo calice significa la loro presenza.» Quel ridicolo dibattito proseguì per alcuni minuti. Credo in realtà non avessero mai voluto quella visione. Il rito che eseguivano serviva solo a esorcizzare i loro dubbi. La cripta nelle profondità del castello, i paramenti, le formule magiche, servivano solo a dare una sferzata di vitalità alle loro energie infiacchite e dipendenti dalla droga, un modo per convincersi di agire per volontà del destino. Tuttavia, la coppa non era comparsa in risposta alle evocazioni del dottor Goebbels. Era comparsa perché eravamo presenti noi, e in particolare von Bek. Guardai il mio amico. Con un'espressione estatica sul viso fissava il Graal. Chiaramente non aveva mai pensato che la coppa d'oro avesse una particolare affinità per lui, nonostante le leggende della sua famiglia. Ora Hitler fece un passo avanti. La sua strana faccia affilata divenne im-
provvisamente seria, mentre tendeva verso il Graal la mano tremante. La luce irradiata dalla coppa sottolineava ancor di più l'orribile pallore del suo viso, il suo aspetto malsano. Non riuscivo a capire come il Graal permettesse di farsi guardare da un essere così corrotto, tanto meno lasciarsi toccare. Quelle dita avide, che già erano sporche del sangue di milioni di persone, si tesero verso la coppa che cantava. Il bagliore si riflesse negli occhi, che scintillavano come piccole pietre lucide; la labbra umide si mossero, la bocca si storse. «Avrete capito, amici, che questa è la fonte di energia da noi cercata, il potere che ci permetterà di sconfiggere qualsiasi nemico. Gli ebrei, come sempre, guardano nella direzione sbagliata, quando si tratta di creare una bomba atomica. Noi abbiamo la risposta qui, a Norimberga. L'abbiamo trovata proprio qui, nel centro della nostra fortezza spirituale! Qui c'è l'energia capace di distruggere il mondo intero... o di ricostruirlo secondo l'immagine da noi voluta!» Scuotendo la testa con disprezzo, continuò: «Quanto è misera la cosa che chiamano scienza! Noi abbiamo qualcosa di enormemente superiore! Noi abbiamo la fede, una forza assai più grande della ragione! Una saggezza che va al di là della semplice conoscenza. Abbiamo il Santo Graal stesso. Il Calice del potere infinito!» Come artigli neri, le sue mani si tesero verso la coppa, per afferrare quella pura luce; si tesero verso il Graal per insozzare una cosa talmente santa che la sola idea mi fece star male. Ma ora la coppa cantò in tono più forte, come se gridasse il suo allarme per le intenzioni di Hitler. La nota si trasformò in una di avvertimento, ma il dittatore si avvicinò ancora. Le sue dita giunsero in contatto con l'oro ardente. E l'urlo di Hitler fu più forte di quello della coppa. Venne ricacciato indietro. Singhiozzò. Si fissò le dita, con incredulità. I polpastrelli erano neri, come se la pelle fosse stata bruciata fino all'osso. Poi, come un bambino piccolo, si portò le dita alla bocca e scivolò a sedere sulle lastre di pietra dell'antica cripta. Il dottor Goebbels aggrottò la fronte. Allungò a sua volta la mano, ma con maggiore cautela. Anche ora il Graal lanciò il suo avvertimento. Quanto a Goering, l'ansimante gerarca si stava già ritirando, si copriva col braccio la faccia e gridava: «No, no! Non sono vostro nemico!» In tono ragionevole e conciliante, il dottor Joseph Goebbels gli venne in
aiuto: «Non era nostra intenzione profanare la coppa. Noi cercavamo soltanto la sua saggezza.» Ma era spaventato. Si guardò attorno come per cercare una via di fuga, come se fosse atterrito da quel che aveva accidentalmente portato laggiù. Intanto il suo padrone era seduto in terra e si succhiava le dita, fissava pensierosamente il Graal e di tanto in tanto mormorava qualche parola tra sé. Temendo che la coppa sparisse con la stessa velocità con cui era apparsa, mi avvicinai per prenderla. Quando giunsi alla sua luce, però, compresi all'improvviso che i tre capi nazisti potevano vedermi. Hitler in particolare aveva puntato lo sguardo su di me e si copriva gli occhi per distinguermi meglio. Poi mi venne un'altra idea. Mi voltai verso i miei compagni. «In fretta, von Bek. Sono certo che soltanto tu puoi toccare la coppa. Prendila. È la chiave che ci darà l'accesso alla Spada del Drago. Prendila!» I tre nazisti fecero qualche passo verso di noi; forse erano affascinati dalle figure d'ombra che vedevano; ancora non avevano la certezza che quanto vedevano fosse reale. Alisaard si portò tra loro e il Graal e alzò la mano. «Non avvicinatevi!» esclamò. «Questa coppa non è vostra. È per noi. Servirà a salvare dal Caos i Sei Regni della Ruota!» Non sapendo chi fosse quel terzetto, lo disse in tono ragionevole, per convincerli. Chiaramente, Hermann Goering ebbe l'impressione che gli fosse finalmente comparsa la sua Figlia del Reno. Hitler invece scuoteva la testa come per liberarsi di un'allucinazione, mentre Goebbels si limitò a esibire un sorriso sciocco, come se fosse affascinato dalla sua stessa follia. «Ascoltate!» esclamò Goering. «Non riconoscete la lingua? Ci ha parlato in Alto Tedesco! Abbiamo evocato l'intero pantheon!» Hitler si morse il labbro inferiore, cercando di giungere a una decisione. Guardò prima noi e poi le sue dita, poi di nuovo noi. «Che cosa devo fare?» chiese. Alisaard non capì. Indicò la porta. «Andate via! Questa coppa è nostra. È la coppa che dobbiamo prendere.» «È Alto Tedesco, ci giurerei» ripeté Goering, ma, chiaramente, non era riuscito a capire la frase della donna, esattamente come Alisaard non capiva le loro parole. «Sta cercando di indicarci la giusta decisione. Ce la sta indicando! Ci indica l'Est!» «Prendi la coppa» dissi di nuovo a von Bek. Non avevo idea di quel che sarebbe successo se fossimo rimasti a lungo in quella cripta. I nazisti non
erano del tutto sani di mente, potevano avere reazioni imprevedibili. Se fossero fuggiti dalla stanza e si fossero chiusi la porta alle spalle, saremmo rimasti intrappolati. Col rischio di morire in quella cripta prima che trovassero il coraggio di aprirla. Infine von Bek rispose ai miei incitamenti. Lentamente tese le mani verso quel bellissimo calice. E la coppa parve accomodarsi fra le sue palme come se fosse sempre stata di sua proprietà. Il canto divenne ancor più dolce, la luce più chiara, il profumo più intenso. La luce del calice illuminava i lineamenti di von Bek e gli dava un aspetto insieme eroico e puro, l'aspetto che dovevano avere i cavalieri di Re Artù quando si mettevano alla cerca del Graal. Spinsi lui e Alisaard davanti ai tre nazisti ancora incerti sul da farsi e ci avviammo verso la porta. Prendemmo con noi il calice. Non tentarono di fermarci, ma vedemmo che erano nel dubbio se rimanere o seguirci. Io parlai loro come avrei parlato a un cane. «State lì» dissi. «Rimanete dove siete.» Alisaard aprì il catenaccio. «Sì» mormorava Goering. «Abbiamo avuto il segno che cercavamo.» «Ma il Graal...» diceva Hitler. «Deve divenire la fonte del nostro potere...» «Lo ritroveremo» lo rassicurò Goebbels. L'esile dottore parlò in tono sognante. Avevo l'impressione che l'ultima cosa che desiderasse era quella di dover posare nuovamente gli occhi sul Graal o su uno di noi. Avevamo messo in predicato lo strano potere che riusciva a esercitare sugli altri nazisti e soprattutto sul suo capo, Hitler. Dei tre uomini nella cripta, solo Goebbels era veramente lieto di vederci andare via. Chiudemmo la porta dietro di noi. Se avessimo potuto, l'avremmo chiusa a chiave. «Ora» dissi «dobbiamo ritornare in fretta nella stanza che abbiamo visto per prima. Sospetto che laggiù ci sia la porta per ritornare nel mondo del Caos.» Come in trance, von Bek continuò a tenere nelle mani la coppa; ci seguì, ma la sua attenzione rimase fissa sul Graal. Alisaard lo guardava con occhi pieni d'amore e lo teneva gentilmente per il braccio. E ora, quando una SS si avvicinava a noi, era costretta a indietreggiare, accecata dalla luce intensa della coppa. Arrivammo senza difficoltà alla nostra destinazione: la stanza in cui eravamo giunti originariamente.
Aprii la porta e mi trovai nell'oscurità. Entrai con cautela; dietro di me venne Alisaard che teneva per il braccio von Bek, i cui occhi non lasciavano il Graal. Sul viso del conte, dai lineamenti aristocratici, c'era un'espressione dolce e rapita. Per qualche motivo che non avrei saputo dire, la cosa mi diede fastidio. Poi Alisaard chiuse la porta e la luce del Graal riempì la stanza. A quella luce così forte, noi eravamo quattro sagome nere. Quattro? Le contai di nuovo, ed erano davvero quattro! La più piccola ora si avvicinò a me. Sorrise e mi salutò. Jermays lo Storpio non portava più la sua armatura da palude. Era ritornato al suo abito da buffone. «Vedo che negli ultimi tempi avete sperimentato qualcosa che conosco bene» ci disse, rivolgendoci un inchino. «Ora conoscete sia il potere, sia le frustrazioni di essere uno spettro!» Gli strinsi la mano. «Come mai ti trovi qui, Jermays? Ci porti notizie del Maaschanheem?» «Attualmente sono al servizio della Legge. Vi porto un messaggio di Sepiriz.» Il suo viso si oscurò. Aggiunse lentamente: «Sì, e notizie dal Maaschanheem. Notizie di sconfitta.» «Adelstane?» chiese Alisaard. Venne avanti e si ravviò una ciocca di capelli che le era scivolata sul bel viso. «È caduta Adelstane?» «Non ancora» rispose gravemente il nano «ma il Maaschanheem è completamente sottomesso. Anche i suoi superstiti si sono raccolti nella fortezza dei Principi Orsi, insieme alle Donne Fantasma. Ma adesso Sharadim manda anche le grandi navi attraverso le Colonne del Paradiso per inseguirli! Nessun Regno è libero dagli invasori. Tutti i mondi sono stati violati. Nel Rootsenheem i Lacrimatori Rossi sono stati ridotti in schiavitù e se non giurano fedeltà al Caos sono passati per le armi. «La stessa cosa vale per il Fluugensheem e, naturalmente, per il Draachenheem. E oggi, nel Gheestenheem, ci sono solo le forze di Sharadim. Gli uomini sono stati sconfitti. Gli Eldren e i Principi Orsi continuano a resistere, ma non possono difendere ancora per molto tempo Adelstane. Sono appena arrivato da laggiù. Lady Phalizaarn, il principe Morandi Pag e il principe Groaffer Rolm vi mandano messaggi augurali e pregano per il vostro successo. Se Sharadim o la sua creatura dovessero arrivare alla Spada del Drago prima di voi, presto il Caos riuscirebbe a entrare e Adelstane verrà travolta. Inoltre, le donne eldren non si potranno mai più riunire al resto della loro razza.»
L'idea mi inorridiva. «Ma sai qualcosa di Sharadim e del suo fratello morto?» «Non ho saputo niente. So solo che sono ritornati nel mondo del Caos per terminare una cosa che stavano facendo.» «Allora dobbiamo ritornare nel Caos» dissi io. «Abbiamo la coppa di cui ci ha parlato Sepiriz. Ora dobbiamo cercare l'unicorno. Ma come possiamo ritornare nel Caos, Jermays? Tu lo sai?» «Ecco fatto» rispose Jermays lo Storpio, sorpreso dalla richiesta; aprì la porta; noi scorgemmo la luce del giorno e fummo colpiti da un profumo ricco ed esotico, e scorgemmo foglie scure e carnose, un sentiero che spariva in quella che sembrava una foresta tropicale. Non appena varcammo la soglia, Jermays sparì, e con lui la porta e ogni traccia dei sotterranei del castello di Norimberga. Solo ora von Bek abbassò il calice; sulla faccia gli comparve un'espressione di sgomento. «Ho fallito! Oh, perché mi avete lasciato uscire da quella cripta?» «Che cosa c'è?» chiese Alisaard, stupita. «Che cosa è successo, mio caro?» «Avevo l'occasione di ucciderli ma non l'ho fatto!» «Pensi che saresti riuscito a ucciderli in presenza di questa coppa?» gli chiesi, cercando di farlo ragionare. «A parte il fatto che non avevi armi.» Si calmò leggermente. «Ma era l'unica occasione per ucciderli. Per salvare milioni di persone. Non avrò mai più una simile possibilità!» «No, hai ottenuto il risultato che cercavi» gli dissi. «Però l'hai ottenuto in modo obliquo, in accordo con i metodi dell'Equilibrio Cosmico. Ti assicuro che d'ora in poi cominceranno a distruggersi con le loro mani, grazie a quanto è successo oggi in quella cripta. Credimi, von Bek, ormai puoi considerarli morti come una qualsiasi delle loro innumerevoli vittime.» «È vero?» Passò lo sguardo da me al calice. La coppa d'oro non brillava più, ma, anche se era in tutto e per tutto una normale coppa di metallo, trasmetteva ancora una sensazione di grandissimo potere. «È vero. Te lo giuro» risposi. «Non sapevo che avessi il dono della profezia, Herr Daker» commentò lui. «In questo caso ce l'ho. Dureranno ancora pochi anni, poi tutt'e tre morranno di propria mano e la loro tirannia crollerà.» «E la Germania e il mondo saranno liberi da simili mostri?» «Liberi da quei mostri in particolare, te lo prometto. Resterà solo il ri-
cordo della loro crudeltà e della loro barbarie.» Trasse un profondo respiro. «Ti credo. Allora, Sepiriz ha mantenuto la sua parola?» «L'ha mantenuta alla sua solita maniera» risposi. «Ossia facendo in modo che i suoi scopi coincidessero con i tuoi. Ottenendo un risultato utile ai suoi scopi misteriosi e nello stesso tempo utile a te. Tutte le nostre azioni sono collegate tra loro, tutti i nostri destini hanno elementi in comune. Un'azione intrapresa in un piano del multiverso può avere conseguenze in un altro, anche a millenni di distanza; e non parlo di distanze nello spazio perché la cosa viene a perdere qualsiasi significato. «Sepiriz gioca dalla parte dell'Equilibrio. Una serie di piccole frenate, di regolazioni, di mosse nuove, il tutto con lo scopo di mantenere la parità. Ma è solo uno dei servitori dell'Equilibrio. Ce ne sono altri come lui, che si muovono in qualche punto degli infiniti piani e cicli del multiverso. Nessuno di noi può conoscere l'intero schema o scoprire l'inizio e la fine. Ci sono cicli l'imo dentro l'altro, configurazioni l'una dentro l'altra. Forse il multiverso ha un confine, ma a noi mortali sembra infinito. E dubito che lo stesso Sepiriz riesca a vedere l'intero gioco. Fa soltanto il possibile per assicurarsi che né la Legge né il Caos riescano a ottenere un completo vantaggio.» «E i Signori dei Mondi Superiori?» chiese Alisaard, che conosceva almeno in parte quanto stavo spiegando. «Riescono a percepire l'intero schema?» «Non credo» risposi. «In un certo senso, la loro visione è ancor più limitata della nostra. Spesso il pedone riesce a conoscere più cose della regina o del re, forse perché rischia di meno.» Von Bek scosse la testa e mormorò: «Mi chiedo se giungerà il giorno in cui questi dèi e semidei la smetteranno di combattere. O forse cesseranno di esistere?» «Possono esserci stati simili periodi nelle storie cicliche dei Regni Infiniti» risposi. «Tutto questo potrebbe finire, quando i Signori dei Mondi Superiori e tutte le misteriose macchinazioni degli dèi del cosmo cesseranno di esistere. Forse è per questo che hanno tanta paura dei mortali. Penso che il segreto della loro distruzione risieda in noi uomini, anche se non abbiamo ancora compreso il nostro potere.» «E avete un'idea di che potere sia, Campione Eterno?» chiese Alisaard. Sorrisi. «Penso che sia semplicemente il potere di pensare a un multiverso che non ha bisogno del sovrannaturale; questo potrebbe distruggerli, se
così volessimo!» In quel momento la giungla ebbe un fremito e si trasformò un oceano di vetro fuso, che però, stranamente, non ci bruciava. Von Bek perse l'equilibrio e lanciò un grido, ma non si lasciò sfuggire di mano la coppa. Alisaard lo afferrò e cercò di aiutarlo a tenersi in piedi. Soffiava un forte vento. Io mi avvicinai ai miei compagni mentre von Bek si rimetteva in piedi. «Usate l'Actorios!» gridai ad Alisaard, che aveva ancora con sé la pietra. «Cercate di nuovo il sentiero-ombra!» Ma prima che facesse in tempo a frugare nella borsa ed estrarre la pietra, il Graal cominciò a cantare. Ma era un canto diverso da quello che avevamo sentito: era più dolce, più calmo. Ma aveva una stupefacente autorità; il movimento della superficie vetrosa lentamente si spense. Le lisce collinette, simili a ossidiana, cessarono di oscillare e vi apparve un sentiero che portava a una spiaggia sabbiosa. Tendendo il calice davanti a sé, von Bek ci condusse verso la spiaggia. Ecco una forza, pensai, assai superiore a quella dell'Actorios; una forza per l'ordine e l'equilibrio capace di esercitare un grande potere su quanto la circonda. Ora capivo meglio come agissero Sepiriz e quelli come lui. Von Bek aveva un'affinità per il Graal, simile a quella che io avevo per la Spada del Drago: la presenza del mio compagno era necessaria per procuraci la coppa. Adesso la portava in quel Regno, nel punto chiamato l'Inizio del Mondo; un'azione che doveva avere un grande significato, anche se per il momento quel significato mi era oscuro. Giungemmo alla spiaggia. Davanti a noi c'era una distesa di dune coperte d'erba che chiudeva l'orizzonte. Salimmo sulla duna più vicina e scorgemmo una pianura che si stendeva a perdita d'occhio. Un'infinità di collinette erbose, punteggiate di fiori selvatici, senza alberi o monti che ne interrompessero l'uniformità. L'aria era dolcemente profumata; quando ci voltammo, scorgemmo che l'oceano di vetro fuso era scomparso. Ora la pianura si stendeva anche in quella direzione. Vidi un uomo avvicinarsi a noi. Camminava senza fretta in mezzo all'erba alta e il leggero vento gli agitava la lunga veste color nero e argento. Per un momento temetti assurdamente che Hitler o uno dei suoi aiutanti ci avesse seguiti nel Regno dell'Incubo, ma presto riconobbi i capelli grigi, il volto da patriarca. Era l'arciduca Balarizaaf. Non appena lo notai, il Signore del Caos si fermò e alzò la mano in segno di saluto.
«Non mi avvicinerò di più, vogliate scusarmi, mortali» disse. «L'oggetto che avete con voi è ostile alla mia particolare costituzione!» Sorrise, come per ironizzare sulle sue debolezze. «E devo ammettere che non vedo di buon occhio la sua presenza nel mio Regno. Sono venuto ad accordarmi con voi, se avete voglia di sentirmi.» «Io non faccio accordi con il Caos» gli risposi. «Questo l'avrai capito, spero?» Balarizaaf rise. «Oh, Campione, come capisci male la tua natura. Ci sono state molte occasioni, e ce ne saranno ancora, in cui la tua fedeltà andrà solo al Caos...» Mi rifiutai di lasciarmi invischiare in quel tipo di discussione. Senza fargli concessioni dissi: «Be', arciduca Balarizaaf, ti assicuro che in questo momento non ho nessuna fedeltà del genere. Obbedisco solo a me stesso, come meglio posso.» «Per te è sempre stato così. Campione, indipendentemente dalla parte che servi. Ed è questa la ragione della tua sopravvivenza, penso. Credimi, non nutro altro che ammirazione nei...» Diede un colpo di tosse, come se gli fosse sfuggita una frase priva di tatto. «Rispetto quello che dici, ser Campione» riprese. «Ma ti offro la possibilità di cambiare il destino di almeno un ciclo del multiverso, di cambiare anche il tuo destino, di salvarti, forse, da tutti i tormenti che conosci già. Ti assicuro che la strada da te seguita in questo momento ti porterà soltanto nuovi dolori, nuovi rimorsi.» «Mi è stato promesso che mi darà un po' di pace e la possibilità di ritornare con Ermizhad» gli risposi con fermezza, rifiutando di dare ascolto alle sue ragioni, anche se parevano veritiere e assai sensate. «Una breve tregua, niente di più. Passa al mio servizio e avrai quasi tutto quel che desideri. Immediatamente.» «Ermizhad?» chiesi. «Una così simile a lei che non ti accorgerai della differenza. Una ancor più bella. E capace di adorarti come nessun uomo è mai stato adorato.» Gli risi in faccia e notai il suo stupore. «Parli davvero come un Signore del Caos, arciduca Balarizaaf» gli risposi. «Non hai una vera immaginazione. Credi che la sola cosa cercata da un mortale sia lo stesso potere che hai tu. Io amavo una donna in tutta la sua complessità. E ti confesso che sono giunto a capirlo ancor meglio, da quando ho incontrato le illusioni che questo luogo impone al cervello umano. Se non posso riavere la donna che amo, non accetto sostituzioni!»
Risi con amarezza. «Che mi importa del fatto che mi adori o no? Io la amo per quello che è. La mia immaginazione non si compiace al pensiero di darle ordini, ma solo al pensiero che esista. Non sono stato io a darle l'esistenza; mi limito a rallegrarmi del fatto che ci sia. E me ne rallegrerò per tutta l'eternità, anche se è da un'eternità che sono stato separato da lei. E se fossi riunito a lei, anche per poco tempo, troverebbero giustificazione tutti i tormenti che ho sofferto. Con le tue parole, lord arciduca, hai espresso meglio di me la natura del Caos, e i motivi per cui mi oppongo a te!» Balarizaaf si strinse nelle spalle e parve accettare le mie parole, senza troppe preoccupazioni. «Allora, c'è forse qualcos'altro che puoi desiderare da me? Ti chiedo solo di impugnare a mio nome la Spada del Drago. Le donne eldren sono virtualmente sconfitte. Sharadim e Flamadin dominano i Sei Regni della Ruota. Se mi servirai in questa piccola cosa, in modo da poter consolidare il mio dominio sul piccolo frammento di multiverso che controllo, farò tutto il possibile per riportarti dalla tua Ermizhad. Qui i giochi sono finiti, ser Campione. Abbiamo vinto. Che pensi di poter fare, a questo punto? Adesso hai la possibilità di fare un favore a te stesso. Non vorrai recitare per tutta l'eternità la parte dello sciocco nelle mani del Destino?» La tentazione era forte, ma non ebbi difficoltà a resistere non appena scorsi lo sguardo disperato di Alisaard. Era la mia fedeltà agli Eldren a farmi combattere, a farmi giocare quella partita. Negare quella mia fedeltà equivaleva a negare il mio diritto di riunirmi con la donna che amavo. Perciò scossi la testa, e invece di rispondere a Balarizaaf mi rivolsi al conte Ulrich von Bek. «Amico mio» gli dissi «vorresti essere così gentile da portare il calice più vicino all'arciduca, in modo da permettergli di esaminarlo meglio?» Con un urlo davvero infernale - un grido terribile, feroce e malevolo che smentiva tutta la ragionevolezza dei suoi discorsi di prima - l'arciduca Balarizaaf indietreggiò a precipizio e la sua stessa sostanza cominciò a cambiare, a mano a mano che von Bek si avvicinava a lui. La carne parve bollire e trasformarsi sulle sue ossa. In pochi istanti rivelò mille facce diverse, poche delle quali erano sia pur lontanamente umane. Poi sparì. Io caddi in ginocchio, rabbrividendo e piangendo. Solo ora capivo quanto fosse forte la tentazione a cui avevo resistito, quanto mi avessero attirato l'invito e le promesse. All'improvviso mi accorsi di avere perso tutte le forze.
I miei amici mi aiutarono a rialzarmi. Il vento soffiava dolcemente in mezzo all'erba; solo allora mi venne in mente che quanto ci circondava non era affatto un prodotto del Caos. Quella pace era dovuta, almeno per il momento, all'influenza del Graal. Anche ora mi stupii del grande potere della coppa, capace di portare ordine persino nel cuore del Caos! Alisaard si stava rivolgendo a me, a bassa voce. «È qui» disse. «L'unicorno è qui.» Trotterellando verso di noi nell'erba alta, con la testa sollevata e nitrendo in segno di saluto, veniva un cavallo snello e agile, con il mantello dai riflessi argento e oro. Sulla sua fronte spuntava un corno lungo e dritto, e anche l'animale, come il Graal che avevamo con noi, assomigliava a quello della mitologia terrestre. Alisaard sorrise deliziata quando la bestia si avvicinò a lei e le sfiorò con il muso la mano. Da dietro di noi si levò una voce nota, ma non quella dell'arciduca Balarizaaf. «Mi occupo io della coppa» disse. Mi volsi e scorsi Sepiriz. Nei suoi occhi c'era un'espressione leggermente addolorata. Tese la mano verso il conte tedesco. «La coppa, per favore.» Von Bek mi parve riluttante a consegnargliela. «È mia» disse. Per la prima volta da quando lo conoscevo, Sepiriz s'incollerì. «La coppa non appartiene a nessuno» mormorò. «La coppa appartiene soltanto a se stessa. È un oggetto particolarmente potente. Chi tenta di possederlo finisce per essere corrotto dalla propria follia e avidità. Non mi aspettavo che diceste una cosa del genere, conte von Bek!» Pentito, il mio compagno chinò la testa. «Scusatemi. Herr Daker dice che sono riuscito a spingere i nazisti lungo la strada dell'autodistruzione; è vero?» «È proprio come vi ha detto. Il crollo dei nazisti è ormai intessuto nella trama del loro destino, e questo grazie al coraggio con cui siete entrato nel mondo del Caos e a ciò che è successo quando avete cercato il Graal. Avete ottenuto molto per il vostro popolo, von Bek, ve lo assicuro.» Con un grande sospiro, von Bek consegnò a Sepiriz la coppa del Graal. «Vi ringrazio, signore. Allora, il compito che intendevo svolgere è finito.» «Sì. Se volete, potete ritornare nel vostro piano e nel vostro tempo; non avete obblighi nei miei riguardi.» Tuttavia von Bek guardò con tenerezza Alisaard e poi sorrise anche a me. «Penso che rimarrò fino alla fine» disse «si vinca o si perda. Sono cu-
rioso di vedere come finisce questa particolare fase del vostro gioco, lord Sepiriz.» Il gigante nero mi parve assai compiaciuto delle parole del mio compagno anche se nei suoi occhi continuavo a leggere una segreta paura. «Allora» ci disse «dovete seguire questo unicorno. Vi porterà alla Spada del Drago. Le forze del male sono ancora più forti di prima; tra poco i Regni della Ruota crolleranno del tutto e verranno trasformati in materia prima del Caos.» Vedendo che non capivamo, ci spiegò: «Infatti, nonostante le sue trasformazioni continue, il Regno dove ci troviamo è sufficientemente reale perché è stabilizzato dai sei Regni che lo circondano. Se verranno consumati, ne verrà fuori il Caos puro. Una massa di orrori e di oscenità di cui queste Marche dell'Incubo sono solo una pallida eco. Nulla vi potrà sopravvivere in una forma sia pur lontanamente simile a quella precedente. E voi vi sarete intrappolati per sempre. Sarete per sempre preda dei capricci di un Balarizaaf mille volte più potente dell'attuale!» S'interruppe per trarre un profondo respiro. «Decidete ancora di rimanere qui, conte von Bek?» «Naturalmente» rispose il mio amico, con il suo consueto e quasi comico distacco aristocratico. «Al mondo ci sono ancora alcuni tedeschi che capiscono la natura del bene e del male e che sanno quale sia il loro dovere!» «Va bene» disse Sepiriz. S'infilò il calice sotto la veste e sparì. Non sapendo che cosa avremmo dovuto affrontare una volta giunti alla nostra destinazione, seguimmo l'unicorno. L'influenza del Graal stava già svanendo. L'erba assunse prima una strana sfumatura di giallo, poi d'arancio e infine di rosso. L'unicorno ora attraversava un lago di sangue. Immersi fino al petto in quel liquido raccapricciante, e rabbrividendo per l'orrore, andammo avanti. E, mentre avanzavamo, avevamo l'impressione di nuotare nel sangue di tutti coloro che erano stati uccisi dalla bramosia di Sharadim per possedere un potere perverso e immortale. TRE L'orribile lago si stendeva in tutte le direzioni, fino all'orizzonte. A parte l'unicorno che ci faceva strada e noi tre, in tutto il Regno del Caos non c'e-
rano altri occupanti. Per qualche motivo non potevo togliermi dalla mente l'idea che in qualche modo stavamo nuotando nel sangue di innumerevoli vittime. Ma, con il passare del tempo, cominciai a pensare che forse non era il sangue sparso da Sharadim o dai Signori del Caos. Poteva essere altrettanto facilmente il sangue versato da me, nella mia identità di Campione Eterno. Avevo sterminato l'intera umanità di un pianeta. Ero stato responsabile della morte di un'infinità d'altre persone, nelle mie numerosissime identità. Sentivo che anche quel grande lago di sangue ne era solo una parte. Anche ora i miei due compagni si tenevano sottobraccio, come innamorati. Io ero davanti a loro, dietro l'unicorno, e cominciai a vedere la mia faccia riflessa nel liquido rosso. Mi vedevo come John Daker, come Erekosë, come Urlik Skarsol, come Clen del Clen Gar. E il vento gelido che soffiava su quel lago di sangue pareva portare con sé una voce. «Tu sei Elric» diceva la voce «che sarà chiamato l'Uccisore di Donne. Elric, che tradì la sua razza, esattamente come Erekosë tradì la propria. Sei Corum, ucciso da una donna Mabden che amavi. Ricordi Zarozina? Ricorda Medhbh. Ricorda tutti coloro che hai tradito e che a loro volta hanno tradito te. Ricorda tutte le battaglie che hai combattuto. Ricorda il conte Brass e Yisselda. Sei il Campione Eterno, condannato in eterno a combattere ogni guerra degli uomini e degli Eldren, giuste o ingiuste che siano. Quanto sono insignificanti le tue azioni! Quelle nobili diventano ignobili, quelle impure diventano pure. Tutto è malleabile, tutto cambia. Nulla rimane costante nelle manipolazioni degli uomini o degli dèi, eppure tu esisti nel corso degli eoni, in un piano d'esistenza dopo l'altro facendoti usare come pedina in un'inutile partita cosmica a scacchi...» «No» protestai «non è inutile. Nel mio rimorso devo espiare in senso attivo, devo purificarmi, e una volta purificato scoprirò la pace. E allora, finalmente, ritroverò la mia Ermizhad e conoscerò una piccola quantità di libertà...» «Tu sei Ghardas Valabasian, Conquistatore dei Soli Lontani, e non hai bisogno di nessuno...» mi disse la voce del vento. «Io sono il Campione Eterno» protestai «legato da catene cosmiche a un compito che non ho ancora terminato!» «Tu sei M'v Okom Sebpt O'Riley, Cannoniere degli Avventurieri del Qui Lors, sei Alivale e sei Artos. Sei Dorian, Jeremiah, Asquiol, Goldberg, Franile..» e l'elenco dei nomi proseguì all'infinito... Quei nomi mi suonavano nelle orecchie come campane. Mi battevano
nella testa come tamburi. Cozzavano come spade. Erano armi da guerra, che mi riempivano di sangue gli occhi. Un milione di facce mi assalirono. Un milione di creature assassinate. «Sei il Campione Eterno, condannato a combattere sempre, a non riposare mai. La battaglia non ha mai fine. La Legge e il Caos sono nemici eterni, non ci può mai essere un armistizio tra loro. L'Equilibrio Cosmico esige troppo da te, Campione. Ti sei indebolito al suo servizio...» «Non ho scelta» risposi. «È il corso di azioni che mi è stato destinato. E ciascuno di noi deve portare a compimento il proprio destino. Non ho scelta perché non ci può essere.» «Puoi scegliere per chi lottare» mi ricordò il vento. «Puoi ribellarti contro quel destino e puoi alterarlo.» «Ma non posso annullarlo. Sono il Campione Eterno e ho solo questo destino, solo questa vita, solo questa sofferenza. Oh, Ermizhad, la mia amata Ermizhad...» Il movimento delle mie gambe era uguale a quello delle parole nella mia testa. Ora mi accorsi di parlare a voce alta. «Sono il Campione Eterno e obbedisco a un destino cosmico. Sono il Campione Eterno e il mio destino è di guerra e di morte, il mio destino è di paura...» La voce che mi parlava era la mia. Ed era mia anche quella che rispondeva. Avevo le lacrime agli occhi, ma le asciugai con ira. Continuai il mio percorso. Continuai ad attraversare il terribile lago di sangue. Sentii una mano che si posava sulla mia spalla. La allontanai con fastidio. «Sono il Campione Eterno» ripetei meccanicamente. «Non ho altra vita che quella. Non ho modo di alterare quello che sono. Sono il Campione. Sono l'eroe di mille mondi, ma non ho un mio vero nome...» «Ti chiami Daker! John Daker, amico mio! Che cosa ti sta succedendo? Che cosa mormori?» Era von Bek; sentivo la sua voce lontana, il tono era agitato. «Sono perseguitato dal destino. Sono il giocattolo del Fato. In questo, il Signore del Caos ha detto il vero. Non intendo scendere a patti con me stesso. Non intendo servire la sua causa. Ma resto pur sempre il Campione Eterno. Il mio rimorso è totale, la colpa è enorme. Il mio destino è già segnato...» «Daker! Cerca di ritornare in te!» mi esortò von Bek. Ma io ero perso nel mio monomaniaco rimpianto. Riuscivo a pensare soltanto alla spaventosa ironia della mia condizione. Nei Sei Regni ero un
semidio, in tutto il multiverso ero un eroe leggendario, un grande mito per milioni di persone. Eppure conoscevo soltanto la tristezza e il terrore. «Mio Dio, Daker, stai impazzendo! Ascoltami! Senza di te, io e Alisaard siamo perduti, non sappiamo dove siamo, né ciò che dobbiamo fare. L'unicorno ci porta alla spada, ma solo tu puoi impugnarla, come solo io potevo prendere il Graal!» Nelle mie orecchie, però, continuavano a suonare i tamburi di guerra. La mia mente era piena del clangore dell'acciaio. Il mio cuore era consumato dalla malinconia per il mio orribile destino. Udii di nuovo la voce di von Bek. «Ricorda chi sei! Ricorda cosa stai facendo, Herr Daker!» Ma io vedevo solo sangue davanti a me, dietro di me, sangue in ogni direzione. «Herr Daker! John!» «Sono Erekosë, che ha sterminato l'intera razza umana. Sono Urlik Skarsol che ha combattuto contro Belphig. Sono Elric di Melniboné e sarò ancora un'infinità d'altri...» «No!» esclamò von Bek. «Ricorda chi sei. Pensa a un'epoca di cui mi hai parlato: l'epoca in cui non avevi alcun ricordo di essere il Campione Eterno. Non è stato il tuo modo di iniziare? Secondo te, perché dici tuttora di essere John Daker? Quella è la tua prima identità. Prima che il tuo destino ti chiamasse, prima che ti nominassero Campione.» «Ah» mi lamentai «quanti cicli del multiverso sono passati da allora!» «John, cerca di ritornare in te stesso. Per il nostro bene!» gridava von Bek. La sua voce, però, mi sembrava lontanissima. «Sei il Campione che impugna la Spada Nera» mi ripeteva la voce del vento. «Sei il Campione Eterno, l'eroe della Schiera di Mille Miglia...» Il sangue mi arrivava al petto. Senza accorgermene, stavo sprofondando in quel sangue. Rischiavo di affogare in tutto quel sangue che avevo versato. «Herr Daker! Torna a noi. Torna in te stesso!» Non potevo più essere certo di alcuna identità. Ne avevo troppe. Eppure, erano le stesse? Che vita miserabile, priva di soddisfazioni, era la mia: costretto a combattere eternamente. Non avevo mai cercato il combattimento. Non avevo impugnato quella spada finché re Rigeno non mi aveva chiamato a sé, come Difensore dell'Umanità. Il sangue mi arrivava al mento. Sorrisi. Che m'importava della vita? Affogare nel sangue era la morte adatta a me!
Qualcuno mi parlò con severità: «John Daker, questo sarà il tuo vero tradimento, se tradirai la tua identità più autentica. La tua vera natura.» Era von Bek, che tornava a parlarmi. Io me ne liberai con un'alzata di spalle. «Morirai» proseguì il conte tedesco «ma non per la tua debolezza umana. Morirai per la tua forza inumana. Dimentica di essere stato il Campione Eterno. Ricorda la tua vita di uomo mortale!» Il sangue mi arrivava alle labbra. Cominciai a ridere. «Guardate! Affogo in questo concreto ricordo della mia colpa!» «Allora sei uno sciocco, John Daker. Ci siamo sbagliati a fidarci della tua amicizia. E sono state sciocche anche le donne eldren. E i Principi Orsi. Anche Ermizhad è stata una sciocca a fidarsi del tuo amore. Lei amava John Daker, non Erekosë, quel mostruoso giocattolo nelle mani del destino.» Il sangue mi entrò nella bocca e io cominciai a sputarlo. Ansimando, mi alzai meccanicamente e solo allora mi accorsi che ero in ginocchio. La profondità del lago non era aumentata. Ero stato io ad abbassarmi. Mi sollevai in piedi, per un momento fissai il conte von Bek e Alisaard, senza capire che cosa mi stesse succedendo. I miei amici mi tenevano per le braccia, mi scuotevano. «Tu sei John Daker» mi ripeté. «Ermizhad amava Daker, non Erekosë! Non quello spietato spadaccino!» Tossii. Non riuscivo ancora a capirlo bene, ma gradualmente ripresi a comprendere il significato delle sue parole. E a mano a mano che lo comprendevo, pensai che forse diceva la verità. «Ma Ermizhad amava Erekosë» obiettai. «Può darsi che ti abbia chiamato così, perché era il nome che re Rigeno ti aveva dato quando sei comparso nel suo mondo. Ma colui che lei amava realmente era John Daker, l'onesto, comune mortale che era stato preso in una straordinaria rete di odio, preparata dal destino. Non puoi cambiare quello che ti è successo, ma puoi cambiare quello che sei divenuto, John Daker! Non lo capisci? Tu puoi cambiare quello che sei diventato!» In quel momento capii che le sue parole erano le più sagge che avessi udito da molti anni. Mi pulii dalla faccia il liquido rosso e mi accorsi che non era sangue. Mi scossi le gocce dagli occhi, dalle mani. Davanti a noi, l'unicorno attendeva pazientemente. Compresi che ancora una volta avevo perso il contatto con la realtà, ma ora capii che in ciascuna delle mie avventure cosmiche aveva perso un pezzo della mia reale identità. Come John Daker ero insoddisfatto. La vita mi era sembrata grigia. Ma
per alcuni versi era più ricca di tutti i mondi fantastici e selvaggi da me visitati. Allungai il braccio e strinsi la mano a von Bek. Gli sorrisi. «Grazie, amico mio. Sei il miglior compagno che abbia mai avuto.» Anch'egli mi sorrideva. In mezzo a quel lago di sangue, tutt'e tre ci abbracciammo e ci sorridemmo, mentre sopra di noi il cielo cominciava a ribollire e ad ardere e diventava di un colore rosso collerico come le acque che ci circondavano. Poi ci parve che l'oceano di sangue s'innalzasse fino a congiungersi con il cielo che scendeva a incontrarlo, e che formasse un'unica grande parete di scintillante cristallo rosso. Ci guardano attorno, alla ricerca dell'unicorno, ma l'animale era scomparso. Ora, davanti a noi, c'era soltanto un'immensa rupe di colore rosso cremisi. Mi tornò in mente la visione che ci era apparsa nella caverna di Morandi Pag. E, quando osservai la parete, vi scorsi, incastonata come un insetto nell'ambra, una lama verde e nera. Al suo interno guizzava un minuscolo frammento giallo. «Ecco la Spada del Drago!» esclamai. I miei amici non dissero nulla. Solo allora mi accorsi che il liquido si era completamente solidificato. Le nostre gambe erano chiuse come la spada in quella strana roccia cristallina. Eravamo in trappola. Sentii un acciottolio di zoccoli. All'avvicinarsi dei cavalli, la pietra in cui erano incastonate le mie gambe tremò sempre di più. Girando il torso e il collo riuscii a guardarmi alle spalle. Due figure venivano verso di noi, in sella a cavalli perfettamente identici. Cavalli neri, dal manto lucido. I nuovi venuti indossavano abiti ricchissimi, mantello e sopravveste dello stesso tessuto, spade e bandiere uguali. Dei due, uno era Sharadim, imperatrice dei Sei Regni; l'altro era il fratello da lei ucciso, Flamadin, che ora desiderava succhiare la mia anima per impadronirsene. Alla base della grande rupe rossa comparve l'arciduca Balarizaaf, anche questa volta con l'aspetto di un severo patrizio, che incrociò le braccia e attese, sorridendoci. Evitò di guardarmi, e invece si rivolse a Sharadim e Flamadin. «Salve, cari servitori. Ho mantenuto la mia promessa. Qui abbiamo tre bocconcini, bloccati come zanzare sulla carta moschicida. Fatene quello che volete.»
Flamadin sollevò la testa grigia e scarna ed emise una risata cavernosa. La sua voce era ancor più innaturale di quando l'avevo sentita l'ultima volta, nel cratere del vulcano del Rootsenheem. «Finalmente!» esclamò il mio sosia. «Finalmente tornerò intero. E sono diventato più saggio. Ho capito che è una follia servire qualsiasi padrone che non sia il Caos!» Cercai un segno di vera intelligenza in quella povera, morta faccia, ma non vidi nulla. Eppure avevo ancora l'impressione di vedermi allo specchio. Flamadin mi sembrava una caricatura per ricordarmi che cosa rischiavo di diventare, come Campione Eterno. Provavo un grande dispiacere per quella povera creatura. Ma nello stesso tempo ero profondamente impaurito. I due misero i cavalli al passo e vennero lentamente verso di noi. Sharadim guardò Alisaard e le rivolse un sorriso malvagio. «Hai sentito, cara?» chiese. «Le donne eldren sono state cacciate dal loro mondo. Si nascondono come topi nelle cantine del vecchio popolo degli orsi.» Alisaard la guardò senza battere ciglio. «Quella notizia ci è già stata riferita dal tuo lacchè Armiad. L'ultima volta che l'ho visto aveva finito per assomigliare il maiale che è sempre stato. Sbaglio o noto un analogo involgarimento dei tuoi connotati, mia signora? Quanto puoi ancora resistere, prima che il tuo legame col Caos cominci a vedersi?» Sharadim la guardò con ira e spinse avanti il cavallo. Von Bek sorrise alla donna eldren. Chiaramente, aveva segnato un punto a suo favore. Il conte, però, non disse nulla e si limitò a ignorare come meglio poteva i due cavalieri. Sharadim sbuffò e spinse il cavallo verso di me. «Salve, ser Campione» disse. «Che mondo d'inganni è mai questo! Ma credo tu lo sappia meglio di ogni altro, visto come recitavi la parte di mio fratello Flamadin. Sai che circola già una leggenda nei Sei Regni, tra i pochi che non sono morti o prigionieri? Pensano che Flamadin, il vecchio Flamadin delle storie, tornerà ad aiutarli contro di me.» Sorrise. «Ma Flamadin» continuò «adesso è tutt'uno con sua sorella. Ci siamo sposati. Te l'hanno detto? Adesso regniamo insieme, come uguali.» Sorrise. Era un sorriso che metteva i brividi per la sua malvagità. Al pari di von Bek, anch'io preferii ignorarla. Sharadim si portò fino alla parete di cristallo e scrutò all'interno della roccia, poi si leccò le labbra. «Presto la spada sarà nostra» disse. «Sei an-
sioso di tenerla con tutt'e due le mani, fratello?» «Tutt'e due le mani» le fece eco Flamadin. Scorsi i suoi occhi; erano vacui. Guardava dinanzi a sé senza fissare nulla. «Tutt'e due le mani.» «Flamadin è affamato» ci spiegò Sharadim, in finto tono di scusa. «È molto affamato, dovete capire. Sente la mancanza della propria anima.» E mi fissò negli occhi, sorridendo perfidamente. Mi parve che due punte di coltello mi entrassero nelle orbite. Mi costrinsi a incrociare lo sguardo con il suo e pensai: «Io sono John Daker. Sono nato a Londra nel 1941 durante un bombardamento aereo. Mia madre si chiamava Helen, mio padre si chiamava Paul. Non ho fratelli, né sorelle. Ho studiato a...» A questo punto non riuscii a ricordare il nome della mia scuola elementare. Cercai di riflettere, mi venne in mente una strada bianca, di periferia, e mi ricordai che la mia famiglia si era trasferita, dopo il bombardamento, nella parte sud di Londra. A Norwood, mi pareva. Ma la scuola? Com'era il nome della scuola? Sharadim mi guardava con perplessità. Forse capiva che la mia mente era altrove, forse temeva che avessi qualche potere segreto, qualche mezzo di fuga. Disse: «Mi pare inutile perdere altro tempo, lord Balarizaaf.» «La tua creatura» rispose l'arciduca «deve contenere la sua essenza, anche solo per il tempo necessario. Se non dovesse riuscirci, Sharadim, devi essere tu a mantenere la parola, e impugnare tu stessa la spada. Questa è la tua parte del patto.» «E la tua parte, mio signore, se avrò successo?» Per il momento, la donna aveva una sorta di potere su quel dio del Caos. «Certo, sarai innalzata al pantheon del Caos. Diverrai uno dei grandi Signori della Spada, al posto di uno che è stato esiliato.» Balarizaaf mi guardò come se fosse dispiaciuto del mio rifiuto di impugnare la spada. Ovviamente avrebbe preferito che la prendessi io. «Sei un forte nemico» mi disse, pensieroso «in qualsiasi veste. Ricordi, lord Corum, come hai combattuto contro i miei fratelli e le mie sorelle? Ricordi la tua grande guerra contro gli dèi?» Non ero Corum, ero John Daker. Avevo rifiutato tutte le altre mie identità. «Ti sei scordato il mio nome, signore» gli dissi. «Mi chiamo John Daker.» Lui si strinse nelle spalle. «Ha importanza il nome che scegli, ser Cam-
pione? Avresti potuto dominare un intero universo con uno qualsiasi dei tuoi molti, moltissimi nomi.» «Ne ho solo uno» risposi io. Queste parole lo indussero a tacere per qualche istante. Anche Sharadim era incuriosita. Grazie alle mie più recenti esperienze e all'aiuto dei miei amici potevo parlare senza farmi mettere in soggezione. Ero risolto a considerarmi un unico individuo e un semplice mortale. Avevo l'impressione che potesse essere la chiave della salvezza, per me e per coloro che amavo. Così sollevai gli occhi per fissare quelli di Balarizaaf e mi parve di scrutare dentro un abisso. Voltai lo sguardo da lui a Sharadim e le vidi in faccia lo stesso vuoto che avevo scorto nel Signore del Caos. Lo sguardo spento, miserabile di Flamadin non era nulla, rispetto a ciò che scorgevo nella faccia degli altri due. «Non negherai, spero, di essere il Campione Eterno» disse Sharadim, ironicamente. «Sappiamo chi sei.» «Sono soltanto John Daker» risposi. «È John Daker» confermò von Bek «ed è nato a Londra. Città dell'Inghilterra, anche se temo di non potervi dire in che punto del multiverso si trovi. Forse sapreste scoprirlo voi, lady Sharadim?» Lo disse per venirmi in aiuto e io lo ringraziai in cuor mio. «Sono inutili perdite di tempo» disse Sharadim, smontando di cavallo. «Flamadin si deve nutrire. Poi deve prendere la spada. E a quel punto potrà sferrare il colpo che scatenerà il Caos nei Sei Regni!» «Non è meglio che aspettiate, signora» disse von Bek in tono gelido «in modo che assistano anche i vostri alleati? Avete promesso qualcosa di spettacolare, se ben ricordo...» «Quelle bestie!» rispose lei, alzando le spalle. Sorridendo, si rivolse ad Alisaard. «Si sono rivelati inutili, quaggiù. Li ho mandati a combattere contro Adelstane. Laggiù sono contenti, si gettano all'assalto delle mura. Presto i sopravvissuti avranno in mano le tue sorelle e ne faranno quello che vogliono! Ora, Flamadin, mio caro fratello morto, devi smontare di sella. Ricordi cosa devi fare?» «Ricordo» rispose lo zombie. Lo osservai mentre smontava di cavallo e avanzava rigidamente verso di me. Vidi che Alisaard consegnava qualcosa a von Bek, che mi stava vicino. Sharadim non se ne accorse. Tutta la sua attenzione si concentrava sul cadavere rianimato del fratello da lei ucciso. Quando lo zombie si avvicinò a me, sentii il suo puzzo di carogna. E si aspettava che la mia anima andas-
se a occupare quel corpo? Sentii che von Bek mi sfiorava la mano. Aprii il palmo e presi quanto mi dava: sentii il calore e la pulsazione dell'Actorios. Era la nostra sola protezione dalla magia in quel mondo. Con le sue dita morte, Flamadin mi sfiorò la faccia. Io sollevai le braccia per difendermi; non riuscivo ancora a liberarmi le gambe dalla stretta del cristallo. Il principe aveva sulle labbra un sorriso particolare, privo di significato, più simile a un rictus di morte che a un'espressione compiaciuta. Il respiro che gli usciva dalle labbra era ammorbante. «Dammi la tua anima, Campione. Devo divorarla per essere di nuovo intero...» Senza chiedermi che cosa facessi, sollevai l'Actorios e me ne servii per colpire la fronte semi putrefatta. Fu come se l'avessi colpito con un ferro rovente. La carne sfrigolò e fumò, e nell'aria si levò un forte puzzo di bruciato. Flamadin rimase immobile ed emise un singhiozzo soffocato. Sulla fronte, dove l'avevo colpito con la pietra, c'era un foro fumante. «Che cosa succede? Che cosa succede?» gridò Balarizaaf, in un tono pieno di ira e di frustrazione. «Non abbiamo tempo da perdere. Non ora! Svelto, fa' quello che devi fare!» Flamadin tese di nuovo la mano verso di me. Io mi preparai a colpirlo una seconda volta, ma all'ultimo momento mi venne in mente qualcosa di più efficace. Con l'Actorios, che fremeva nella mia mano, tracciai un cerchio sul cristallo color del sangue. «No!» esclamò Sharadim. «Ah, l'Actorios! Ha un Actorios! Non lo sapevo!» Il cristallo che mi racchiudeva cominciò a ribollire e a sollevarsi e ne uscì un vapore rosa. Io mi liberai e salii sul cristallo compatto. Consegnai l'Actorios a von Bek, dicendogli di fare come me, e mi lanciai verso la parete cremisi. Dietro di me sentii i passi pesanti di Flamadin, mentre Sharadim gridava: «Lord Balarizaaf! Fermatelo! Raggiungerà la spada!» Balarizaaf disse in tono ragionevole: «Non m'importa chi la raggiunga, purché la usi per i miei scopi.» Queste parole mi fecero aggrottare la fronte. Che stessi inconsapevolmente cadendo in una trappola preparata del Signore del Caos? Mi voltai. I miei amici correvano verso di me, ma Flamadin mi aveva quasi raggiunto. Ancora una volta tese la mano verso la mia faccia. «Mi devo nutrire» disse. «Devo avere la tua anima. Nessun'altra mi può servire.» Questa volta non avevo l'Actorios. Diedi uno spintone al suo corpo geli-
do, nel tentativo di allontanarlo da me. Ma ad ogni contatto sentivo sfuggire una parte di me, come se il cadavere vivente me la prosciugasse. Cercai di indietreggiare, ma ormai ero contro la parete di cristallo. «Campione...» disse avidamente Flamadin. I suoi occhi cominciavano ad assumere una parvenza di vita. «Campione. Eroe. Sarò di nuovo un eroe... avrò ciò che mi spetta di diritto....» Ma più lottavo con lui, più mi sentivo privare di energia. Intanto, erano arrivati i miei amici. Cercarono di allontanare da me il cadavere vivente, ma mi stava appiccicato come una sanguisuga. Sentii Sharadim ridere. Poi Alisaard premette l'Actorios contro la gola di Flamadin; questi lanciò un grido strangolato e cercò di cacciare via la donna. Ma nello stesso momento sentii un fortissimo bruciore al collo. Rimasi inorridito nel constatare la profondità a cui era giunta la simbiosi tra noi. Con un singhiozzo cercai di liberarmi da lui. La carne marcia di Flamadin tornava a pulsare di vita - la mia vita - e per un momento riuscii a vedere me stesso con gli occhi di Flamadin. «Sono John Daker!» esclamai. «Sono John Daker!» Grazie a questa convinzione riuscii a riprendere una parte di me stesso. Ma il punto toccato dall'Actorios di Alisaard continuava a bruciare. Caddi a terra, completamente esausto. I miei compagni cercarono di allontanarmi dalla creatura del Caos, ma io li supplicai di fermare Flamadin. Il principe si era appiattito contro il cristallo, premeva il corpo nel punto dove si scorgeva la spada, e ora vedevo uno strano fenomeno: un centimetro dopo l'altro veniva progressivamente assorbito. Un attimo più tardi lo vidi all'interno della parete cremisi. Comunque, nello stesso tempo, anch'io ero entrato nel cristallo. Vidi la mia mano tendersi verso l'impugnatura della grande spada verde e nera, verso la lama coperta di rune e la strana fiamma che guizzava al suo interno. Intanto, con gli occhi di John Daker, vedevo che Balarizaaf sorrideva. Era pienamente soddisfatto di quanto stava succedendo e non faceva alcuna mossa per intervenire. Sharadim, invece, era nel dubbio. Non sapeva che proporzione della mia sostanza fosse stata risucchiata dal mio doppio. Il mio punto di vista passava da un corpo all'altro. Per qualche istante ero Flamadin, che cercava di afferrare la spada, negli istanti successivi ero John Daker, sorretto dagli amici che si guardavano attorno, alla ricerca di qualche mezzo di fuga o almeno di un'arma per difendersi. Avevamo solo l'Actorios, ma capii che
né Balarizaaf né Sharadim erano molto ansiosi di venire contro di noi finché avevamo la gemma. Centimetro dopo centimetro, Flamadin penetrava nelle profondità del cristallo. Io sentivo dolori lancinanti nel punto dove la gemma aveva toccato la carne del principe. Continuai a ripetermi che ero John Daker e soltanto John Daker; eppure, mentre me lo ripetevo, le mie dita scheletriche che si tendevano verso la spada mi facevano capire che ero anche Flamadin. Mi lasciai sfuggire un gemito. Soffocai un conato di vomito. Nella mia mente c'era una sorta di eco, venuta dalla mente di Flamadin che cercava di vivere: forse erano le parole con cui la sorella aveva cercato di convincerlo prima di ricorrere all'omicidio. «La spada può curare il male alle radici...» diceva la voce suadente di Sharadim. «La spada può portare l'armonia... La spada è un'arma onorevole... ma non lo è se cade nelle mani sbagliate... La spada agisce per il bene quando è usata per la difesa...» «Non è vero!» gridai io, rivolto ai pochi resti che ancora rimanevano del Flamadin originale. «È un inganno. La Spada del Drago è pur sempre una spada! La spada è un'arma! Tocca quell'arma, principe Flamadin del Valadek, e sarai condannato per sempre al Limbo...» Sentii che Sharadim lo incitava ad andare avanti; poi, con gli occhi di John Daker, vidi che la principessa faceva un altro passo verso la parete di cristallo. Le mani di Flamadin erano quasi giunte all'impugnatura della spada. Dall'interno di quell'orribile corpo cercai di bloccare la mano. Ma trovai una volontà disperata, che si opponeva alla mia. La creatura che un tempo era Flamadin era affamata di vita, ansiosa di ottenere il premio che le era stato promesso. Tutt'intorno a me il cristallo rosso brillava. Tutt'intorno a me c'erano schegge, frammenti, riflessioni. Mi parve di scorgere mille copie di me stesso. E ciascuna di esse mi portava via una parte della mia forza. Mi stavo indebolendo... «Sono John Daker» gemetti. «Sono soltanto John Daker...» Flamadin toccò la spada. La lama emise un leggero brontolio, come se l'avesse riconosciuto. Il principe afferrò l'impugnatura senza che la spada si opponesse; non sentì alcun dolore quando la toccò. Adesso ero quasi completamente Flamadin ed esultavo del mio potere, della strana versione di vita che avevo raggiunto.
Estrassi la spada e la sollevai per mostrarla a coloro che mi guardavano dall'esterno del cristallo, sorvegliando le mie mosse. E intanto, come John Daker, stavo lentamente morendo, mentre gli ultimi resti della mia anima cominciavano a fondersi con quella di Flamadin. Con uno sforzo mi strappai dalla mente del principe. Piangendo e gemendo tesi la mano verso l'Actorios, ancora in pugno ad Alisaard. «Sono John Daker» continuai a ripetermi. «Quella è la mia realtà.» E adesso la stessa mano che stringeva la Spada del Drago stringeva anche l'Actorios. Sentii un urlo. Ero io a urlare. Era Flamadin. Era John Daker. Io ero contemporaneamente tutt'e due. Mi sentivo lacerare in due pezzi. Ora che teneva in mano la gemma, John Daker poté fare un ultimo, grande sforzo per strappare la propria anima dal corpo di Flamadin. Richiamai alla mente la mia gioventù, il mio primo lavoro, le mie vacanze. Avevamo affittato un cottage dal tetto di paglia nel Somerset, a poca distanza dal mare. Che anno era? Flamadin cominciò a indebolirsi. La vista gli si velò, mentre quella di John Daker divenne più acuta. Facendo appello alla mia comune umanità, rifiutando il ruolo dell'eroe, avevo la possibilità di liberarmi dal peso caduto su di me. E forse, una volta libero, avrei potuto aiutare i miei compagni. Ero certo che John Daker avrebbe vinto la lotta, ma ora Sharadim venne in aiuto al fratello, seguita da Balarizaaf. Entrambi gridavano a Flamadin di servirsi della Spada del Drago, di fare quel che aveva promesso di compiere. Cercai di fermarlo, ma il suo braccio continuò a sollevarsi. Poi, per quanto mi sforzassi di bloccarlo, la Spada del Drago entrò nel cristallo della parete e ne tagliò una fetta. Flamadin stava scavando una galleria per il Caos! Ora, come John Daker, tornai a gemere. Dopo avere ripreso da Flamadin la mia anima, adesso volevo ritornare in lui, per mettere fine alle sue azioni. La Spada del Drago si alzò di nuovo, per colpire una seconda volta la parete di cristallo. Ci fu un lampo rosso. Raggi di luce sprizzarono in tutte le direzioni. E nello strappo effettuato dalla spada scorsi l'oscurità, contenente un altro mondo. Un mondo in cui si vedevano scintillare alti pinnacoli bianchi, mirabilmente scolpiti. Un mondo che conoscevo. Avevano progettato con esattezza ogni cosa! La porta aperta nel Caos li avrebbe portati nella grande caverna della città di Adelstane, dove l'esercito di Sharadim assediava gli ultimi difensori dei Sei Regni!
Lanciai un grido d'orrore e sentii levarsi la risata di Sharadim. Mi voltai - come John Daker - e lo sguardo mi cadde su Balarizaaf: sotto i miei occhi parve gonfiarsi fino a un'altezza doppia di quella precedente. Sul viso del Signore del Caos aleggiava un'espressione di giubilo sublime. «Si sta scavando una via verso Adelstane!» gridai ai miei compagni. «Dobbiamo fermarlo!» Adesso, però, la forza che animava Flamadin, di qualunque natura fosse, non era più quella della mia anima. Me l'ero ripresa tutta. Con il ritorno della mia forza tornai a vedere bene: vidi il cristallo rosso liquefarsi ed evaporare, trasformarsi di nuovo in liquido e riempire il cielo e la pianura. Ma il malefico chiarore rosso del mondo del Caos penetrava già nella gigantesca caverna. Senza pensare, corsi dietro Flamadin per cercare di fermarlo. Ma era già passato dall'altra parte, servendosi del varco da lui aperto, e si avviava a grandi passi verso il luogo dove erano accampati gli uomini di Sharadim, sul fondo della caverna. In quella area, che al mio arrivo ad Adelstane era soltanto un ampio spazio vuoto, si scorgevano ora capanne di pietra, tende e qua e là c'era anche qualcuna delle grandi navi del Maaschanheem, arruolata a forza per contribuire all'assedio di Adelstane. Alisaard e von Bek vennero dietro di me, scendendo lungo la parete di roccia. Flamadin gridava qualcosa ai guerrieri, molti dei quali erano già stati visibilmente toccati dal Caos e avevano i connotati deformi e bestiali che avevo già visto sul baron-capitano Armiad e i suoi compagni. «Per il Caos! Per il Caos!» gridava Flamadin. «Sono ritornato. Ora vi guiderò contro i nostri nemici. Ora conosceremo la vittoria piena!» Cominciai a capire che cosa animasse Flamadin. Probabilmente la forza gli veniva prestata dalla Spada del Drago stessa! I soldati erano stupiti e abbagliati dalla luce color del sangue che all'improvviso era filtrata nella caverna. Guardandomi alle spalle vidi che Sharadim e Balarizaaf non erano ancora usciti dal varco. Sapevo che presto la breccia aperta dalla Spada del Drago si sarebbe allargata e avrebbe fatto entrare l'intero Caos, per infettare, miglio dopo miglio, il tranquillo Regno dei Principi Orsi e infine tutt'e sei i Regni. E io non avevo modo di fermare quello sfondamento. «Siamo passati! Oh, siamo passati!» A gridare così era Sharadim, dietro di me. Era tornata in sella al suo cavallo nero. Stringeva in pugno la spada e veniva contro di noi. Flamadin, che incespicava e batteva le braccia come uno spaventapasse-
ri, si dirigeva verso la più vicina nave-città, che mandava fino a noi un fetore terribile. Il fumo che veniva dai suoi camini era il più puzzolente che avessi mai conosciuto. Il mio unico pensiero fu quello di raggiungere il principe prima di Sharadim, di togliergli la Spada del Drago e fare il possibile per salvare i superstiti di Adelstane. Sapevo che i miei amici condividevano queste intenzioni. Insieme cominciammo ad arrampicarci sullo scafo della nave, cercando di resistere alla nausea. Tutt'intorno a noi, intanto, i soldati del Caos cominciavano a muoversi, a gridare, a indicarci e a emettere versi bestiali. Poi, quando Sharadim uscì a cavallo dalla macchia di luce cremisi, si levò un forte applauso. Mi voltai in direzione della città di Adelstane e del suo anello di fiamma ancora acceso, delle sue delicate torri bianche di merletto, della sua grande bellezza, e mi dissi che non potevo lasciarla distruggere, finché avevo vita. Un attimo più tardi giungemmo sul ponte principale e scorgemmo il baroncapitano Armiad in persona, che alzava la spada in segno di saluto nei riguardi di Flamadin. O per caso o per una beffa del destino eravamo saliti proprio sullo Scudo Corrucciato! Erano così intenti a celebrare il loro trionfo che non ci videro salire a bordo. Inorridimmo nel constatare le condizioni che regnavano a bordo dell'imbarcazione. I pochi abitanti rimasti erano in condizioni disperate, erano stati ridotti in schiavitù per combattere contro i Principi Orsi. Uomini, donne e bambini erano coperti di stracci e sembravano ridotti alla fame. Nel complesso parevano rassegnati alla morte, ma su molte facce, quando ci riconobbero, vidi comparire una luce di speranza. Correndo, riuscimmo a raggiungere uno dei castelli; quasi immediatamente fummo raggiunti da una figura scheletrica che però, sotto gli stracci e il sudiciume, conservava ancora una traccia di gioventù e di bellezza. «Campione» mi disse «sei davvero tu? Allora, chi è l'altro?» Era Bellanda, la giovane e bellicosa studentessa che avevamo conosciuto allorché eravamo saliti sulla nave. Aveva la voce incrinata e pareva quasi in fin di vita. «Che cosa vi è successo?» le chiese Alisaard, sollecita. La giovane scosse la testa. «Niente di particolare, ma da quando Armiad ha dichiarato guerra ai suoi oppositori, siamo stati costretti a lavorare senza sosta. Molti sono morti. E noi dello Scudo Corrucciato siamo considerati fortunati. Non riesco ancora a spiegarmi la velocità con cui il nostro mondo è cambiato così totalmente, da un Regno governato dalla giustizia a
uno dominato dalla tirannide...» «Una volta che prende piede» disse con gravità von Bek «quella malattia si diffonde così rapidamente che è impossibile fermarla in tempo. L'ho visto succedere sul mio stesso mondo. A quanto vedo, non bisogna mai abbassare la guardia contro simili tiranni!» Mentre noi parlavamo con Bellanda, vidi che Armiad conduceva Flamadin sul ponte superiore. Il principe continuava a tenere sollevata sulla propria testa la Spada del Drago, per mostrarla a tutti. Abbassai gli occhi sul fondo della caverna e vidi Sharadim arrivare a cavallo. L'imperatrice gridava con tutto il fiato che aveva in gola il nome del fratello, ma questi la ignorava. Si godeva il suo strano trionfo: sui lineamenti del cadavere si scorgeva un'orrenda parodia di una risata. Dal ponte passò sulla, piattaforma dell'albero maestro, per essere visto da tutti coloro che erano radunati più in basso. Sapevo di avere pochissimo tempo per raggiungere Flamadin prima che arrivasse la sorella. Senza ulteriori considerazioni, cominciai ad arrampicarmi sulle sartie per sbrigarmi, come facevo quando ero a bordo della nave e volevo muovermi in fretta tra le sue varie parti. Appeso alla ragnatela di corde incatramate e fuligginose, mi diressi verso il ponte centrale e mi lasciai cadere sulle sue tavole. Flamadin era su una sorta di piattaforma che circondava l'albero e mostrava a tutti la Spada del Drago. Pareva che da un momento all'altro la sua povera carne sfatta dovesse staccarsi dalle ossa. Il gesto con cui brandiva la spada era quasi patetico. «Il vostro eroe è ritornato!» gridò con voce cavernosa, priva di inflessioni. Quanto a me, mentre scendevo verso di lui non potevo fare a meno di pensare che era una caricatura - sgradevolmente rivelatrice - di quel che io stesso ero diventato: un'immagine che non mi piaceva affatto. Così, anche mentre mi muovevo lungo un pennone che stava al di sopra dei guerrieri del Caos, continuai a ripetermi che ero John Daker. Un pittore di una certa fama, mi rammentai, con lo studio che dava sul Tamigi... Flamadin sentì la mia presenza ancor prima che mi lanciassi su di lui. Mi guardò con i suoi occhi spenti. Aveva l'aspetto di un bambino che teme di perdere il nuovo giocattolo. «Per favore» mi supplicò. «Lasciamela tenere ancora un po'. C'è anche Sharadim che vuole togliermela...» «Non c'è tempo» gli risposi.
Mi lasciai cadere dal pennone e toccai terra accanto a lui. Tenendo dinanzi a me l'Actorios, alzai l'altra mano per prendere la Spada del Drago. Lungo la lama, sotto le rune che vi erano incise, vedevo guizzare una fiammella gialla. «Ti prego...» ripeté Flamadin. «Nel nome di quel che eri un tempo, principe Flamadin, dammi quella spada» gli ordinai. Con una smorfia, cerò di allontanare la faccia dall'Actorios. Sotto di noi, qualcuno cominciò a gridare. Era Armiad. «Ce ne sono due!» esclamava. «Due identici! Qual è il nostro?» Afferrai per il polso il principe. Adesso era molto più debole di prima. La forza della Spada del Drago non lo animava più. Anzi, pareva che la lama, oltre a riprendersi l'energia con cui l'aveva rianimato, come soprammercato si fosse presa anche quella che gli avevano dato Sharadim e l'arciduca Balarizaaf con le loro magie. «La spada non è malvagia» ripeté. «Me l'ha detto Sharadim. Può essere usata per il bene...» «È una spada» gli dissi. «Un'arma. È stata fabbricata per uccidere.» Sui suoi lineamenti corrotti dalla morte comparve un sorriso torvo, miserabile. «Allora, come si può usarla per fare del bene?» «Quando sarà spezzata» gli risposi, torcendogli il polso. E la Spada del Drago cadde a terra. Armiad e i suoi uomini si stavano arrampicando sulle sartie per raggiungerci. Tutti erano armati: penso che finalmente avessero capito quel che stava succedendo. Io tornai a posare l'occhio sul fondo della caverna. Sharadim era quasi arrivata alla nave ed era seguita da un esercito. Mentre raccoglievo la Spada del Drago, mi accorsi che Flamadin mi guardava; dalla bocca gli uscì uno strano gemito. «Mi aveva promesso di ridarmi l'anima se avessi preso la spada per darla al Caos» piangeva. «Ma non era la mia anima, vero?» «No» gli risposi. «Era la mia. Ecco perché ti ha tenuto in vita. Perché tu potessi ingannare la Spada del Drago.» «E adesso» mi chiese «posso morire?» «Presto» gli assicurai. Gli girai le spalle. Gli uomini di Armiad avevano raggiunto la nostra piattaforma. Nelle mie mani la Spada del Drago gridava per il desiderio di colpire. Nonostante tutto quello che avevo passato, nonostante tutto quello che avevo deciso, scoprii che mi univo al suo grido, che ero pieno di una
gioia meravigliosa e selvaggia. Sollevai la spada; la lama tagliò nettamente il collo dei primi due assalitori. I loro corpi senza testa piombarono su coloro che li seguivano e tutti caddero sulle assi del ponte, in una confusine di schizzi di sangue e di braccia e gambe che si agitavano. Mi afferrai a una corda e cominciai a colpire gli altri assalitori. Scivolai sul ponte e finii dietro Armiad, che era uno degli ultimi a salire. «Credo che tu voglia chiudere un vecchio conto» gli dissi, scoppiando a ridere. Lui guardò inorridito prima la mia spada, poi la mia faccia. Mormorò qualche parola che non riuscii a capire e indietreggiò finché le sue spalle non incontrarono l'albero. Io mi portai fino a lui e appoggiai sulla tolda la punta dell'arma. «Sono qui, baron-capitano. E l'ora della resa dei conti, sei d'accordo con me, vero?» Con riluttanza, storcendo la faccia da maiale, scese sul ponte. Tutti i suoi uomini ci stavano guardando. Le loro facce bestiali erano fisse sulla scena. All'improvviso udii un mostruoso ruggito, alle mie spalle. Girai la testa in quella direzione. La luce cremisi era più forte di prima. Il varco si era allargato. Vidi alcune forme muoversi dietro di esso: figure grottesche ed enormi, montate su cavalli ancor più strani di loro. Poi dovetti ritornare a controllare i movimenti di Armiad. La spada nella mano, il baron-capitano veniva verso di me, anche se con riluttanza. Vidi che muoveva il grugno e mi parve di sentirgli uscire dalle labbra una sorta di piagnucolio. «Ti ucciderò in fretta» gli promisi «ma ucciderti devo, mio signor capitano.» In quel momento, un grande peso mi colpì alle spalle. Caddi a terra e la Spada del Drago mi sfuggì dalle mani. Mentre cercavo di rialzarmi, sentii che Armiad rideva divertito e stupito. Sentii sul collo due labbra fredde e colsi un respiro fetido. Alzai la testa e vidi Armiad e i suoi uomini chiudersi attorno a me. Cercai di afferrare la Spada del Drago, ma qualcuno, con un calcio, la allontanò da me. E Flamadin, ancora seduto a cavalcioni delle mie spalle, disse dalle labbra marce: «Adesso mi nutrirò di nuovo. E tu, John Daker, morrai. Sarò il solo eroe dei Sei Regni.» QUATTRO
A un ordine di Flamadin, Armiad e i suoi uomini mi afferrarono. Con i suoi strani, goffi movimenti, il mio doppelgänger si diresse vero la Spada del Drago e la impugnò di nuovo. «La spada berrà la tua anima» mi disse «e poi darà la sua forza a me. Io e la spada saremo una cosa sola. Immortale e invincibile, conoscerò di nuovo l'ammirazione dei Sei Regni!» Nell'afferrare la spada, mi parve che facesse una smorfia e che mi fissasse quasi con rimpianto. Mi era impossibile capire quali terribili, gelidi frammenti di anima lo muovessero ancora, quanto rimanesse dell'antico beniamino dei Mondi della Ruota. Con le magie del Caos, la sorella era riuscita a fermare il disfacimento del suo corpo, ma ora Flamadin si stava disintegrando davanti ai miei occhi. Eppure sperava ancora nella vita. Nella mia vita. Armiad grugnì di piacere. Ora, con le mani umidicce, mi teneva per il braccio. «Uccidetelo, principe Flamadin» disse. «Ho atteso per tanto tempo di assistere alla sua morte, fin dal primo momento in cui si è spacciato per voi e mi ha fatto deridere dagli altri capitani. Uccidetelo, mio signore!» Dall'altra parte c'era una creatura che riconobbi, anche se a fatica, come Mopher Gorb, il capo dei fustieri di Armiad. Ora gli si era allungato il naso e gli occhi si erano avvicinati tra loro, dando alla sua faccia l'aspetto di un muso di cane. Mi stringeva con forza il braccio. Aveva la schiuma alle labbra. Anch'egli attendeva con ansia la mia morte. Flamadin alzò il braccio fino a portare all'altezza del mio cuore la punta della Spada del Drago. Poi, con una sorta di singhiozzo, si preparò a colpire. L'intera caverna era un'unica, rumorosa, massa di guerrieri che si muovevano qui e là, tutti abbagliati dalla luce cremisi. Eppure, al di sopra di tutti i rumori, ne colsi uno solo. Un'esplosione secca, fortissima. Flamadin emise un suono strangolato e si bloccò immediatamente. In mezzo alla sua fronte si era improvvisamente aperto un foro rosso, da cui usciva una sostanza che un tempo era sangue o cervello. Abbassò la Spada del Drago. Si voltò a guardare dietro di sé. E laggiù c'era Ulrich von Bek, conte della Sassonia, con in mano una Walther PPK 38 ancora fumante. Flamadin cercò di raggiungere il nuovo assalitore, con la Spada del Drago sollevata a metà. Poi cadde sul ponte: gli ultimi residui di vita lo avevano lasciato.
Tuttavia, Armiad e i suoi uomini continuavano a tenermi. Mopher Gorb estrasse un lungo pugnale, con l'ovvia intenzione di tagliarmi la gola. Poi diede uno strano, breve grugnito, e lasciò cadere l'arma. Un'altra ferita rossa si aprì, questa volta sulla tempia del fustiere. Armiad staccò la mano dal mio braccio. Il resto di quell'orribile ciurma cominciò a indietreggiare. Intanto, però, era giunta Alisaard, che aveva afferrato la spada di Mopher Gorb; cominciò a sferrare colpi al capitano, che si difese bene, con ferocia, ma che non aveva né l'eleganza della Donna Fantasma né la sua abilità con la spada. In pochi istanti la nostra compagna trafisse il suo cuore di maiale, poi rivolse l'attenzione agli altri. Anch'io combattevo, con una spada presa a uno dei morti: c'erano troppi nemici fra me e il cadavere di Flamadin. Combattei come meglio potei, per raggiungere la Spada del Drago. E anche von Bek aveva un'arma. Finalmente, tutt'e tre riuscivamo a combattere insieme. «Bellanda t'ha tenuto da parte la pistola!» esclamai, rivolto a von Bek. Il mio compagno sorrise. «Ora non mi pento più d'avergliela affidata. Temevo di non rivederla! Purtroppo avevo solo due colpi.» «Usati bene!» gli risposi con gioia. All'improvviso mi accorsi che attorno a noi c'erano solo morti. L'intera, disgustosa ciurma di Armiad era stata sconfitta. Alcuni feriti cercavano di scappare. Von Bek lanciò un grido di vittoria, che venne interrotto dal grido d'allarme di Bellanda. Infatti, con un balzo impossibile del suo stallone nero, Sharadim era balzata sul ponte. Gli zoccoli dell'animale battevano come tamburi di guerra attorno al corpo del principe Flamadin, che teneva ancora nella mano la Spada del Drago. Mi lanciai di corsa, cercando di raggiungere l'arma prima che lei facesse in tempo a smontare. Ma con un grande sventolio del suo mantello nero, Sharadim lasciò la bestia che sbuffava, balzò a terra, e in un attimo strappò di mano al cadavere la Spada del Drago. Nel toccare la Spada, però, si lasciò sfuggire un grido di dolore. Non aveva il diritto di impugnarla. Per poterla sollevare dovette fare un grande sforzo di volontà. Eppure riuscì a farlo, e la sua mano non si staccò più dall'impugnatura. Anche allora non potei evitare lo stupore di fronte alla sua straordinaria bellezza. Mentre si avviava verso il suo cavallo e teneva in mano la spada, senza badare a coloro che la osservavano, mi parve che assomigliasse, più di qualsiasi donna da me conosciuta, alla dea che voleva diventare. Feci un passo avanti. «Principessa Sharadim! Quella spada non è fatta
per te!» la avvertii. Era accanto al cavallo, ormai. Si voltò lentamente verso di me, aggrottando la fronte con fastidio. «Come?» «È mia» le dissi. Lei abbassò il viso incantevole e mi fissò: «Come?» «Non puoi prendere la Spada del Drago. Ormai soltanto io posso impugnarla.» Sharadim infilò il piede nella staffa. Non mi venne in mente un'altra possibile azione, perciò mi limitai a prendere l'Actorios e a sollevarlo davanti a me. La sua luce pulsante illuminò di nero, rosso e violetto la mia mano. «Nel nome dell'Equilibrio Cosmico, rivendico la Spada del Drago!» esclamai. Sharadim aggrottò la fronte e mi guardò con ira. «Puoi già considerarti morto» disse lentamente, a denti stretti. «No» le risposi. «Consegnami la Spada del Drago.» «Mi sono guadagnata questa spada e tutto ciò che comporta» mi disse, pallida di collera. «È mia di diritto. Ho mantenuto ciò che ho promesso al Caos. Ho consegnato i Sei Regni a lord Balarizaaf perché ne faccia quello che vuole. Da un momento all'altro lui e i suoi arriveranno dal varco che ho creato io, con le mie azioni. E io avrò il mio premio. Sarò un Signore della Spada, con i miei mondi da dominare. Sarò immortale. E da immortale impugnerò questa spada come segno del mio potere.» «Morrai» le dissi semplicemente, scuotendo la testa. «Balarizaaf ti ucciderà. I Signori del Caos non mantengono mai le promesse. Sarebbe un atto contrario alla loro natura.» «È una menzogna, Campione» ribatté Sharadim. «Allontanati da me. Di te non so che farmene, ormai.» «Devi consegnarmi quella spada, Sharadim.» L'Actorios pulsava di una luce più intensa. Pareva quasi del tutto una cosa viva, nella mia mano. Adesso ero giunto accanto a Sharadim. Quando strinse a sé la spada, notai che dovunque toccava il suo corpo le dava un dolore intenso; ma lei ignorò il dolore, convinta che presto non avrebbe più sentito la sofferenza fisica. Sotto le rune incise nel metallo nero vedevo muoversi una fiammella gialla. L'Actorios cominciò a cantare. Cantò con una voce leggera, bellissima, e
diresse il suo canto verso la Spada del Drago. E la Spada del Drago rispose. Il mormorio divenne un forte, possente gemito, quasi un urlo. «No, no!» esclamò Sharadim. Anche la sua pelle rifletteva la strana luce pulsante della gemma. «Guarda, guarda, Campione! Il Caos sta arrivando!» Ridendo, mosse la spada e, con una piattonata, colpì l'Actorios, che mi sfuggì di mano. Io feci per recuperare la gemma, ma lei mi precedette. Sharadim sollevò la spada per colpire, e gridò per il dolore quando l'arma le bruciò le mani. Voleva distruggere l'Actorios. Il mio primo impulso fu quello di gettarmi sulla gemma per salvarla ad ogni costo. Poi mi tornarono in mente alcune parole di Sepiriz. Feci un passo indietro. Sharadim mi sorrise come un lupo. Il più incantevole lupo che esistesse al mondo. «Adesso hai capito che è impossibile sconfiggermi» commentò. Calò con incredibile ferocia la spada e colpì con precisione la gemma luminosa e ammiccante che giaceva a terra e che pulsava come un cuore vivo. Quando il metallo della spada toccò l'Actorios, Sharadim lanciò un grido di trionfo, che però, l'istante successivo, divenne un grido di stupore, di collera e di dolore. L'Actorios andò in frantumi. Esplose in una pioggia di schegge che volarono in tutte le direzioni. E ciascuna scheggia conteneva un'immagine di Sharadim! Ciascun frammento dell'Actorios portò via con sé una particella di Sharadim e la trascinò nel Limbo. Per tutta la sua vita, Sharadim aveva cercato di presentare a ciascuna persona una faccia diversa; adesso era come se ciascuna personalità si fosse staccata dalle altre e fosse imprigionata in una scheggia di quella strana gemma. Eppure, Sharadim era ancora dinanzi a me, bloccata in quell'ultimo atto di distruzione. Gradualmente la sua espressione di collera e di sofferenza divenne una smorfia di terrore. Cominciò a rabbrividire. La Spada del Drago gemette nelle sue mani. La pelle sembrò ribollire sulle sue ossa. E la sua stupefacente bellezza svanì. Quando alzai gli occhi vidi Von Bek, Bellanda e Alisaard venire verso di me; io indicai loro la città. «Il principale pericolo deve ancora arrivare» gridai loro. «Dovete andare
ad Adelstane. Riferite agli Eldren e ai Principi Orsi ciò che sta accadendo. Dite che devono aspettare senza intervenire.» «Il Caos sta arrivando!» disse Alisaard. «Guardate!» Le figure da me viste sullo sfondo della luce cremisi erano più grandi di prima. Nella loro forma di grotteschi cavalieri guidati dallo stesso Balarizaaf, i Signori dell'Inferno venivano a rivendicare il loro nuovo regno. «Andate ad Adelstane. In fretta!» ordinai ai miei amici. «Ma tu, Herr Daker» mi chiese von Bek, con aria preoccupata «che cosa farai?» «Il mio dovere» gli risposi. «Quello che fin dall'inizio sapevo di dover fare.» Ero certo che avrebbe capito le mie parole. Von Bek inclinò la testa. «Ti aspetteremo ad Adelstane, allora» disse, sforzandosi invano di sorridere. Era chiaro che si consideravano già morti. L'enorme breccia nel tessuto del cosmo continuava ad allargarsi. E i cavalieri neri attendevano pazientemente che fosse abbastanza grande per lasciarli passare. Mi chinai a raccogliere la Spada del Drago. Al mio tocco, l'arma emise una breve nota armoniosa, come se avesse riconosciuto un familiare. I frammenti dell'Actorios continuavano a turbinare attorno alla lama della spada, come pianeti attorno a un sole. E in quei frammenti, quando passavano davanti a me, riuscivo a scorgere una delle molteplici facce di Sharadim, con l'espressione di orrore che le avevo visto poco prima che il suo corpo crollasse, Abbassai lo sguardo sul cadavere della principessa. Era finito sopra quello del fratello. La prima aveva rappresentato tutto il male del mondo, il secondo tutto il bene. Eppure, tutt'e due erano stati distrutti dalle stesse cose: dall'orgoglio, dall'ambizione, dalla promessa di immortalità. Salutai von Bek, Alisaard e Bellanda che sparivano al di là della balaustra del ponte e guardai l'accampamento dei soldati di Sharadim: era piombato nella massima confusione. Tutti parevano aspettare un ordine del loro capo, prima di intraprendere qualsiasi azione, e i miei amici avevano ottime probabilità di raggiungere la città di Adelstane senza essere molestati. Dovevano rifugiarsi laggiù: non avevano alcuna possibilità di sopravvivere allo scontro ormai imminente. Ora sollevai la spada e richiamai alla mente le parole di Sepiriz. Il gigante nero mi aveva insegnato come fare, una volta spezzato l'Actorios, per chiamare a me nuovi alleati. Li sentivo ancora cantare nella mia mente. Sentivo le loro voci disperate, come le avevo sentite mille volte nei miei
sogni. «Siamo i perduti, siamo gli ultimi, siamo gli sgraditi. Siamo i Guerrieri alla Fine del Tempo. E siamo stanchi. Stanchissimi. Stanchi di amare...» Gridai, al loro indirizzo: «Vi libero! Guerrieri, vi libero tutti! Il vostro momento della lotta è giunto di nuovo! E vi evoco in nome del potere della spada, della distruzione dell'Actorios, della volontà dell'Equilibrio Cosmico, del bisogno dell'umanità. Il Caos dilaga e minaccia di conquistare i mondi. C'è bisogno di voi!» E adesso, dall'altra parte della caverna, al di sopra della bianca e meravigliosa città di Adelstane, comparve un'alta rupe a strapiombo. E sul suo ciglio erano schierati in numero incalcolabile i guerrieri, una fila dopo l'altra. Alcuni a cavallo. Altri a piedi. Tutti armati. E tutti portavano la corazza. Tutti mi fissavano come se fossero pietrificati. «Siamo le schegge delle tue illusioni...» cantavano i Guerrieri. «I rimasugli delle tue speranze. Siamo i Guerrieri alla Fine del Tempo...» «Guerrieri!» gridai loro. «La vostra ora è giunta. Potete combattere ancora una volta. Un'altra battaglia. Un altro ciclo cosmico! Venite! Le armate del Caos muovono contro di noi!» Corsi verso lo stallone di Sharadim, che ansimava e sbuffava accanto al cadavere della sua padrona. Non si oppose quando gli montai in groppa. Pareva lieto di avere un cavaliere. Lo voltai verso la rampa che scendeva dalla nave e lo feci galoppare verso il fondo roccioso della caverna, dove i soldati di Sharadim correvano verso di me per salutarmi, come un'onda di carne e di metallo. Per un momento rimasi stupito delle loro acclamazioni, poi compresi, con divertimento e soddisfazione, che quegli armati conoscevano solo Flamadin e Sharadim. Mi avevano scambiato per il fratello e consorte della loro imperatrice! Sicuramente pensavano che li avrei condotti contro Adelstane nel nome del Caos! Mi guardai alle spalle. La grande ferita rossa come il sangue era ancora più larga. Le forme nere e grottesche erano più grandi di prima. Guardai verso la rupe che torreggiava sopra Adelstane. «Guerrieri!» gridai. «Guerrieri, a me!» I Guerrieri alla Fine del Tempo si erano svegliati. Si riversarono dalla rupe come una cascata, corsero verso di me passando su sentieri invisibili. «Guerrieri! Guerrieri! Il Caos viene contro di noi!» Lo stallone s'impennò sotto di me, agitando gli zoccoli. Lanciò un grande nitrito di soddisfazione, come se anch'esso avesse atteso a lungo quel
momento, come se vivesse solo per lanciarsi al galoppo in battaglia. La Spada del Drago era viva nella mia mano destra. Cantava e brillava di quella sua luce nera che avevo già visto innumerevoli volte, sotto innumerevoli nomi. Eppure, mi pareva che la sua luce avesse una sfumatura leggermente diversa da quella che conoscevo. «Guerrieri, a me!» E i guerrieri giunsero, a migliaia. Con armature di ogni foggia. Con armi di tutti i tipi che si possano immaginare. Venivano verso di me, a piedi o a cavallo, e i loro volti erano ritornati alla vita, come se anch'essi, come il mio stallone, capissero solo la battaglia. Anch'io, comunque, non mi sentivo mai così vivo come quando impugnavo la spada e scendevo in battaglia. Ero il Campione Eterno, avevo guidato eserciti immensi, avevo sterminato intere razze. Ero il simbolo perfetto di tutti i conflitti più sanguinari. Avevo dato alte guerra la nobiltà, la poesia, la giustificazione, le avevo dato una dignità eroica... Eppure, dentro di me, una voce continuava a dire che doveva essere la mia ultima battaglia di quel genere, perché io ero John Daker. Non volevo uccidere nessuno, per nessun motivo. Volevo soltanto vivere, amare e conoscere la pace. I Guerrieri alla Fine del Tempo si schierarono attorno a me. Avevano sguainato le armi. Gridavano ed erano eccitati. Conoscevano la gioia. E io mi chiesi se ciascuno di loro era stato come me, un tempo. Ciascuno di loro era un aspetto diverso dello stesso guerriero? Che tutti fossero aspetti del Campione Eterno? Di sicuro le loro facce mi parevano familiari, a tal punto che non osavo guardarle troppo da vicino. Guardando sotto di me notai che i soldati della principessa Sharadim erano confusi. I Guerrieri alla Fine del Tempo li fissavano con occhi duri, di gente abituata a uccidere, ma non fecero nulla. Aspettavano i miei ordini. Ora, uno dei generali di Sharadim attraversò a cavallo le file, molto elegante nella sua armatura blu scuro, le piume, l'elmo con la punta sulla cima, la barba nera. «Mio imperatore!» esclamò. «Gli alleati che ci avete promesso. Ci sono tutti?» La sua faccia era illuminata dalla luce cremisi che proveniva dallo squarcio tra i mondi. «Il Caos viene ad aiutarci nella distruzione di Adelstane? È il segno che attendevamo?» Trassi un profondo respiro e poi sospirai, sollevando la spada. «Questo è il vostro segno» dissi, e con un colpo gli tagliai il collo. L'elmo e la testa caddero a terra con un rumore di ferraglia. Poi mi rivolsi all'esercito radu-
nato da Sharadim per conquistare i Sei Regni. «Ecco il vostro vero nemico!» dissi. «Combattendo contro il Caos avete qualche possibilità di salvezza. Invece, combattendo contro di noi, sarete certamente sconfitti!» Sentii giungere molte domande, ma non diedi risposta. Voltai lo stallone nero verso lo squarcio color cremisi e sollevai la spada perché chi intendeva seguirmi mi seguisse. Poi mi lanciai al galoppo contro i Signori del Caos. Dietro di me si levò un suono: un grido possente, lanciato all'unisono. Era il grido di battaglia dei Guerrieri alla Fine del Tempo. Un grido esultante. Erano ritornati in vita, alla sola vita che conoscessero. Ora dalla porta color cremisi avanzarono verso di noi le massicce figure nere. Vidi Balarizaaf, possente in un'armatura che gli fluiva sul corpo come argento vivo, Vidi una creatura con la testa di cervo, un'altra che assomigliava a una tigre, mentre molte non assomigliavano ad alcuna creatura da me vista nei mondi che avevo visitato. Da tutte, però, giungeva lo stesso forte odore, nello stesso tempo gradevole e orribile, caldo e freddo. Un odore che aveva qualcosa di animale, ma poteva anche essere di qualche vegetale. Era il puzzo del Caos allo stato puro, l'odore che, secondo le leggende, si leva sempre dall'inferno. Quando mi vide, Balarizaaf fermò la sua cavalcatura: un animale simile al cavallo, ma coperto di scaglie come i serpenti. Scosse la grande testa e la sua voce, quando parlò, riempì di echi tutta la caverna. «Piccolo mortale» mi disse «il gioco è finito e il Caos ha vinto. Non l'hai ancora capito? Cavalca con noi e io ti nutrirò, ti farò avere creature con cui giocare, ti farò rimanere in vita.» «Ritornate nel Caos» ribattei. «È il posto più adatto a voi e alla vostra genia. Qui non c'è niente che vi riguardi, arciduca Balarizaaf. E colei che ha fatto un patto con voi è morta.» «Morta?» chiese Balarizaaf, incredulo. «L'hai uccisa tu?» «Si è uccisa da sola quando ha spezzato l'Actorios. Ora tutte le personalità diverse che erano Sharadim, la quale ha ingannato così tante persone della sua razza, sono sparse in eterno nel Limbo. È un destino orrendo. Ma se lo merita. Non c'è nessuno che vi possa accogliere, arciduca Balarizaaf. Se entrerete adesso in questo Regno, disobbedirete alla Legge dell'Equilibrio Cosmico.» «Come puoi affermarlo?» «Sapete che è la verità. Dovete sempre essere chiamati da qualcuno, in-
dipendentemente dall'esistenza di una porta tra i mondi.» L'arciduca Balarizaaf sospirò profondamente. Si portò alla faccia una mano gigantesca. Si grattò il naso. «Ma se entrassi, chi potrebbe fermarmi? L'invito mi è stato rivolto. La porta è stata preparata da un mortale. Questi mondi sono miei.» «Io ho un esercito» gli feci osservare. «E ho in pugno la Spada del Drago.» «Hai parlato di Equilibrio Cosmico? È una buona osservazione, credo, ma non accetto la tua logica. E credo che non l'accetterà neppure l'Equilibrio Cosmico. Che mi importa che tu abbia un esercito? Guarda cosa metto in campo contro di te» Così dicendo sollevò il mostruoso braccio per mostrarmi non solo i suoi aiutanti più immediati, la piccola nobiltà del Caos, ma una marea ribollente che poteva essere composta di animali, uomini o qualcosa che non apparteneva né agli uni né agli altri, perché la loro forma non era affatto costante. «Ecco il Caos, piccolo mortale» me li presentò. «E ce ne sono molti altri» «Voi avete la proibizione di entrature in questo Regno» gli dissi con fermezza. «Ho chiamato i Guerrieri alla Fine del Tempo. E impugno la Spada del Drago.» «Vedo che insisti. Che cosa vuoi, che ti faccia i complimenti? Piccolo mortale, io sono un Arciduca del Caos e sono stato chiamato da alcuni mortali a governare il loro mondo. Questo è sufficiente.» «Allora, pare che dovremo combattere» risposi. Balarizaaf sorrise. «Se è così che vuoi.» Sollevai la Spada del Drago e la puntai davanti a me. Ancora una volta, da dietro le mie spalle, si levò il grande grido di guerra. Mi lanciai risolutamente tra le fauci del Caos. Non potevo fare diversamente. Poi ci fu solo la battaglia. Fu come tutte le battaglie da me combattute e riunite in una sola. Mi parve che durasse per un'eternità. Un'ondata dopo l'altra di creature puzzolenti che gridavano, latravano, gracchiavamo; alcune armate, altre con solo le zanne e gli artigli, alcune con gli occhi imploranti che parevano chiedere una misericordia che non erano disposte a dare. Eppure, tutt'intorno a me, come una parete insuperabile di carne indurita, di muscoli e ossa instancabili, vidi i miei alleati, i Guerrieri alla Fine del Tempo. Ciascuno di loro
combatteva con un'abilità pari alla mia. E quando uno di loro cadeva, sommerso dalle creature del Caos, ce n'era sempre un altro a prendere il suo posto. La marea del Caos continuò a lanciarsi su di noi, un'ondata dopo l'altra. E un'ondata dopo l'altra venne respinta. Inoltre, una parte degli umani combatteva al nostro fianco, lieta di non dover più servire Sharadim. Morirono, ma caddero sapendo di non avere tradito la loro razza. Per tutto il tempo, comunque, i Signori del Caos si tennero lontano dalla mischia, disdegnando di combattere contro semplici mortali. Eppure fu sempre più chiaro, con il passare del tempo, che le loro creature non erano in grado di sconfiggerci. Pareva che io e i miei guerrieri fossimo stati destinati da sempre a quell'unica grande battaglia e che proprio a quello scopo fossimo stati addestrati in ogni guerra che il multiverso poteva fornirci. Del resto sapevo che in un certo senso era la mia ultima battaglia, che se fossi riuscito a uscirne vincitore sarei riuscito a trovare la pace, anche solo provvisoriamente. Lentamente le fila del Caos si assottigliarono. La mia lama era coperta del loro fluido vitale (non mi sembrava corretto chiamarlo sangue) e il mio braccio era talmente stanco da farmi temere che mi cascasse dalla spalla. Il mio cavallo sanguinava da cento ferite diverse e anch'io avevo ricevuto parecchie ferite. Ma non badavo a esse. Noi eravamo i Guerrieri alla Fine del Tempo e combattevamo finché non cadevamo a terra uccisi. Non avevamo altro da fare. Poi l'arciduca Balarizaaf attraversò al galoppo il campo di battaglia e venne verso di me. Ora non era più sprezzante. Non rideva, ma aveva un aspetto fiero e un'aria cupa. Era in collera, ma non mi derideva più. «Campione!» mi gridò. «Perché combattere così duramente? Ordina una tregua e discuteremo i termini di un accordo.» Questa volta girai il cavallo verso di lui. Feci appello a tutta l'energia di cui disponevamo io e la mia spada, poi partii alla carica. Partii alla carica direttamente contro l'Arciduca del Caos. Volai - con gli zoccoli del cavallo che toccavano a malapena il terreno - contro la sua mole immensa, sovrannaturale. Piangevo. Gridavo. Volevo una cosa sola: distruggerlo. Eppure sapevo di non poterlo uccidere. Anzi, probabilmente sarebbe stato lui a uccidere me, ma la cosa non aveva importanza. Con un velo rosso di furia davanti agli occhi, causato dal pensiero di tutto il male che aveva portato nei Sei Regni, di tutto il dolore che vi aveva sparso, delle dispera-
zioni da lui create per venire incontro alla proprie ambizioni, puntai la spada contro la sua faccia, mirando contro la sua bocca menzognera. Dietro di me sentii di nuovo l'esultante grido di guerra dei Guerrieri alla Fine del Tempo. Avevano capito le mie intenzioni e mi incoraggiavano a lanciarmi, approvavano la mia azione e omaggiavano quel che mi spingeva a combattere contro l'arciduca. La punta della Spada del Drago toccò la sua bocca, che all'improvviso si spalancò. Per un attimo ebbi l'impressione di essere inghiottito da lui, di cadere nella sua rossa gola. Poi non sentii più il contatto con la sella. Volavo direttamente contro la testa dell'arciduca Balarizaaf. Un attimo più tardi la testa era sparita, e io sentii di nuovo la terra sotto i piedi. Lo squarcio color cremisi si stava chiudendo davanti a me. Mi guardai attorno e vidi le pile di corpi dei nostri nemici e dei nostri alleati. Vidi i cadaveri di diecimila guerrieri che erano morti in quella battaglia, il cui ricordo cominciava già a svanire dalla mia mente, tanto era stata terribile. Guardai dietro di me. I Guerrieri alla Fine del Tempo ringuainavano le armi, ripulivano dal sangue l'ascia, si esaminavano le ferite. Avevano sulla faccia un'espressione di rimpianto, come se fossero delusi, come se avessero voluto continuare la lotta. Li contai. Quattordici erano ancora vivi. Io e quattordici altri. La ferita rossa nel tessuto del cosmo si stava chiudendo rapidamente. Adesso permetteva a malapena il passaggio di un uomo. E dal varco uscì una figura umana che mi parve di riconoscere. La figura si fermò, si voltò a guardare il varco chiudersi del tutto e la luce cremisi svanire. All'improvviso, nella caverna dove sorgeva la città di Adelstane, sentii giungere un soffio gelido. I quattordici guerrieri mi salutarono militarmente, poi marciarono in direzione delle ombre e sparirono. «Riposano fino al prossimo ciclo» disse il nuovo venuto. «Possono combattere una volta sola. E coloro che muoiono sono i fortunati. Gli altri devono attendere il nuovo ciclo. È il destino dei Guerrieri alla Fine del Tempo.» «Ma qual è il loro crimine?» chiesi io. Sepiriz si sfilò l'elmo nero e giallo. Allargò le braccia. «Non si tratta esattamente di un crimine; qualcuno, tutt'al più, potrebbe definirlo un peccato. Vivevano solo per combattere. Non sapevano quando era il momento di fermarsi.» «Sono precedenti incarnazioni del Campione Eterno?» gli chiesi.
Lui mi guardò con aria pensosa, poi si succhiò il labbro. Infine si strinse nelle spalle. «Se vuoi pensarla così...» «Penso che tu mi debba una spiegazione un po' più concreta, mio signore» dissi. Mi appoggiò la mano sulla spalla, poi si girò verso Adelstane; entrambi ci incamminammo sul fondo di roccia, reso scivoloso dal sangue di tutte quelle migliaia di morti. Qua e là i feriti si aiutavano reciprocamente. Le capanne e le tende erano piene di morenti, adesso. «Non ti devo niente, Campione» mi rispose infine il gigante nero. «Nessuno ti deve niente. E tu non devi niente a nessuno.» «Io sono in grado di parlare per me stesso» osservai. «Ho un debito.» «Non ti sembra di averlo pagato, ormai?» mi chiese. Poi si fermò a guardarmi e rise della mia confusione. «Tutto pagato, ormai, Campione.» Chinai la testa, senza insistere. «Sono stanco» dissi. «Vieni.» Si avviò in mezzo ai morti e alla distruzione. «C'è ancora un lavoro da fare. Ma prima dobbiamo portare ad Adelstane la notizia della vittoria. Ti rendi conto di quel che hai ottenuto?» «Abbiamo respinto l'invasione del Caos. Abbiamo anche salvato i Sei Regni?» chiesi. «Oh, certo» rispose Sepiriz. «Naturalmente. Ma hai fatto molto di più. Non sai che cosa hai fatto?» «Non era abbastanza?» «Forse. Ma hai anche esiliato nel Limbo l'arciduca Balarizaaf. Non potrà più regnare. Ha sfidato l'Equilibrio Cosmico. Avrebbe potuto vincere anche allora, ma il tuo ultimo atto di coraggio è stato decisivo. Un'azione come la tua contiene tanta nobiltà, tanta forza, da influire sulla stessa natura del multiverso. Ora sei davvero un eroe, ser Campione.» «Non ho nessuna voglia di essere un eroe, lord Sepiriz» obiettai. «E proprio per questo sei così grande. Ti meriti un po' di riposo.» «Riposo? Niente di più?» «È più di quanto abbiano molti di noi» rispose il gigante nero, stupito della mia richiesta. «Io non ne ho mai avuto.» Colpito da quella affermazione, lasciai che mi portasse con sé fino all'anello di fuoco che proteggeva Adelstane. Laggiù potei di nuovo abbracciare i miei amici. «La lotta è finita» annunciò Sepiriz. «Su tutti i piani, su tutti i mondi. È finita. Ora la guarigione e il cambiamento possono iniziare.»
CINQUE «Adesso ci sarà una pace migliore» commentò Morandi Pag «per coloro che abitano nei Sei Regni. Occorrerà ricostruire, naturalmente, e riprendere le coltivazioni. Ma anziché nascondere le antiche conoscenze e rifugiarci nelle nostre caverne, noi Principi Orsi faremo del nostro meglio per aiutare tutti. E ognuna delle altre razze farà come noi, contribuendo con le proprie capacità al bene comune.» Nella bianca città di Adelstane era ritornata a regnare la tranquillità. I resti dell'esercito di Sharadim, che avevano combattuto con noi contro il Caos, erano ritornati nei propri mondi, decisi a fare in modo che per l'avvenire non ci potesse più essere un nuovo tiranno. Ammaestrati dalla loro esperienza, non si sarebbero più lasciati convincere da una persona come Sharadim a combattersi tra loro. Si stavano costituendo nuovi Consigli che vedevano la presenza di membri di tutte le razze, e il tempo della Grande Adunanza non sarebbe più stato semplicemente dedicato ai commerci. Solo lady Phalizaarn e le donne eldren non erano ritornate nel loro mondo, Gheestenheem, che, a quanto ci venne riferito, era stato completamente distrutto dai guerrieri di Sharadim. Ora però le donne si preparavano alla partenza. Bellanda era ritornata nel suo mondo a bordo dello Scudo Corrucciato e ci aveva assicurato che se fossimo ritornati nel Maaschanheem avremmo trovato un'accoglienza migliore. La salutammo con grande affetto: se non avesse tenuto da parte per tanti mesi la pistola di von Bek, io sarei stato ucciso. Alisaard, Phalizaarn, von Bek e io eravamo ospiti del comodo studiobiblioteca che i Principi Orsi usavano per le riunioni. Anche questa volta la stanza era piena di fumo di incenso e gli Orsi facevano del loro meglio per nascondere il fastidio causato dal nostro odore. Morandi Pag aveva già annunciato la sua intenzione di non fare ritorno al suo scoglio, ma di voler lavorare con i suoi compagni per migliorare le comunicazioni tra i sei mondi. «Avete fatto molto, per noi, voi tre» disse Groaffer Rolm, muovendo la manica di seta ricamata «e tu, Campione, verrai ricordato nelle leggende, senza dubbio. Forse nei panni del principe Flamadin. Infatti le leggende tendono a mescolarsi, a trasformarsi e a dare origine a leggende nuove.» Io gli rivolsi un cenno d'assenso e dissi educatamente: «Mi fate un grande onore, principe Groaffer Rolm, anche se da parte mia preferirei un
mondo privo di eroi e di leggende. Soprattutto di eroi come me.» «Non lo credo possibile» replicò il Principe Orso. «Possiamo soltanto augurarci che le leggende esaltino quel che c'è di nobile nello spirito. Ciò che c'è di onorevole nelle imprese e nelle ambizioni. Ci sono stati periodi in cui le leggende non celebravano quel che è nobile, e gli eroi erano creature egoiste che pensavano soltanto a migliorare le proprie condizioni a discapito degli altri. E in genere quelle culture erano le più vicine alla decadenza e alla morte. Perciò, meglio lodare l'idealismo, anziché farsene beffe.» «Ma anche l'idealismo può suggerire azioni incredibilmente malvagie» osservò von Bek. «Le cose più valide corrono sempre il rischio di essere svalutate» intervenne Morandi Pag. «Quel che è puro può sempre essere corrotto. È perciò nostro compito trovare un equilibrio...» Sorrise. «Infatti, non riecheggiamo, nelle nostre azioni quotidiane, la lotta che infuria tra Caos e Legge? La moderazione, in fin dei conti, è anche sopravvivenza.» Sorrise. «Ma questo» proseguì «è quanto impariamo con l'età, credo. A volte devono vincere coloro che propongono l'eccesso, altre volte i fautori della limitazione. Così vanno le cose, ed è questo a mantenere l'Equilibrio Cosmico.» «Non credo che m'importi molto dell'Equilibrio Cosmico» dissi «né delle macchinazioni della Legge e del Caos. E neppure degli dèi e dei demoni. Credo che noi soli dobbiamo costruirci il nostro destino.» «E così faremo» mi assicurò Morandi Pag. «E così faremo, amico mio. Nella grande storia del multiverso ci sono molti cicli che devono ancora venire. In alcuni di essi il sovrannaturale sarà bandito, come tu hai bandito da questo mondo l'arciduca Balarizaaf. Ma la nostra volontà e la nostra natura sono tali che in altri tempi, in forme diverse, quegli dèi ritorneranno. Il potere risiede sempre, in definitiva, in noi stessi. Dipende dalla quantità di responsabilità che siamo pronti ad assumerci...» «Ed è quanto Sepiriz voleva farmi capire, quando ha detto che avrò un po' di riposo?» «Pare di sì» rispose Morandi Pag, grattandosi il mento. «Il Cavaliere in Nero e Giallo viaggia in continuazione tra i piani. Alcuni pensano che abbia anche il potere di muoversi attraverso il megaflusso, ossia, se preferite, nel Tempo, tra un ciclo e l'altro. Pochi hanno un simile potere o una responsabilità così terribile. E solo di tanto in tanto, si dice, ha la possibilità di dormire.»
Annuì tra sé, poi riprese: «Ha anche dei fratelli, a quanto ho sentito, e tutti condividono con lui il compito di mantenere l'Equilibrio Cosmico. Io, però, nonostante i miei studi sull'argomento, ammetto di non conoscere bene la sua attività. Alcuni dicono che oggi sia occupato a spargere i semi che assicureranno al prossimo ciclo sia la salvezza sia la distruzione, ma può darsi che sia un concetto un po' troppo fantasioso.» «Mi chiedo se avrò occasione di rivederlo» riflettei io. «Ha detto che il suo compito è terminato, qui. E che il mio è quasi finito. Però mi chiedo anche un'altra cosa. Perché ci deve essere, mi chiedo, una simile affinità tra certe persone e certi oggetti? Perché solo von Bek può toccare il Graal e soltanto io la spada?» Morandi Pag brontolò tra sé. Accostò il muso al focolare dove bruciava l'incenso e aspirò profondamente i fumi; poi tornò sulla sua poltrona. «Se certi piani sono pronti a entrare in funzione in certi momenti» disse «se occorrono certe funzioni per assicurare la sopravvivenza del multiverso, in modo che né il Caos né la Legge possano impadronirsene completamente, allora forse occorre accoppiare determinate creature a determinati oggetti di potere.» Continuò: «Dopotutto, ogni razza possiede leggende che riguardano questi rapporti. Simili affinità fanno parte dello schema cosmico. E il mantenimento dello schema, dell'ordine, è questione di importanza vitale.» Si schiarì la gola. «Comunque, devo approfondire questo argomento. Sarà un modo interessante per trascorrere i miei ultimi anni di vita.» Lady Phalizaarn disse gentilmente: «È giunto il momento di lasciarvi, principe Morandi Pag. C'è ancora un'ultima grande azione da compiere, e anche questa particolare partita dell'eterno gioco di scacchi sarà finita. Dobbiamo ricongiungerci al resto della nostra gente.» Morandi Pag annuì. «Le navi che abbiamo nascosto per voi sono pronte. Vi aspettano nel nostro porto.» Io, Von Bek e Alisaard fummo gli ultimi a salire sulle snelle navi degli Eldren. Con riluttanza ci fermammo a salutare i Principi Orsi. Nessuno di noi parlò di incontrarci di nuovo: sapevamo che era un evento estremamente improbabile. Perciò ci separammo con particolare rimpianto. Tutt'e tre salimmo sul castello di poppa e guardammo i monti di Adelstane allontanarsi dietro di noi. «Addio!» gridai, salutando gli ultimi superstiti della grande razza dei Principi Orsi. «Addio, cari amici!» E Morandi Pag mi salutò: «Addio, John Daker. Che il tuo riposo sia co-
me tu lo desideri.» In breve tempo ci lasciammo alle spalle gli scogli dove Morandi Pag era vissuto per tanti anni; l'indomani giungemmo finalmente in un luogo dove grandi colonne di luce attraversavano le nubi e penetravano nell'acqua del grande lago: grandi cilindri di luce color arcobaleno, che formavano un cerchio perfetto, una sorta di tempio. Eravamo di nuovo giunti alle Colonne del Paradiso. Le vele triangolari delle navi degli Eldren, spinte dal vento, ci portarono senza difficoltà tra le colonne. A una a una le navi svanirono e sul pianeta dei Principi Orsi rimase solo la nostra. A quel punto Alisaard prese il timone. Sollevò la testa e cominciò a cantare, felice. Ancora una volta ebbi l'impressione che davanti a me ci fosse Ermizhad come mi era stata accanto nel corso dei nostri viaggi avventurosi, in un tempo incommensurabilmente lontano. Ma l'uomo amato da quella donna non era Erekosë, il Campione Eterno: era Ulrich von Bek, nobile della Sassonia, esule dalla tirannide nazista; ed era chiaro come anch'egli la amasse. Io, comunque, non conoscevo più la gelosia. Si era trattato di un'aberrazione portata dal Caos. Tuttavia conoscevo una profonda solitudine, una tristezza che non sarei mai riuscito a vincere, indipendentemente da quel che poteva succedermi. Oh, Ermizhad, come piansi per te in quel momento, quando passammo in mezzo alle colonne di luce e venimmo trascinati nella galleria tra i mondi, per infine emergere sullo splendido mare del Gheestenheem, pieno di luce. In coda al convoglio di navi bianche, ora facemmo vela verso Barobanay, l'antica capitale delle Donne Fantasma. Le donne che affollavano i ponti e manovravano le navi indossavano ancora la loro armatura d'avorio scolpito, ma non portavano più l'elmo che un tempo le nascondeva agli occhi indiscreti e instillava paura ai potenziali nemici. Quando infine entrammo nel porto messo a ferro e fuoco e posammo gli occhi sulle rovine annerite che un tempo erano una città così bella, sicura, civile e confortevole, molte di quelle donne piansero. Ma dal molo lady Phalizaarn si rivolse loro dicendo: «Questa città è ormai solo un ricordo. Un ricordo che dovremo sempre conservare. Ma non dobbiamo addolorarci della perdita, perché presto, se le nostre leggende hanno detto la verità, ci troveremo nella nostra vera patria, la terra dei nostri uomini. E gli Eldren torneranno a essere forti, in un mondo soltanto loro, dove nessun genere di barbari selvaggi verrà a minacciarli.»
Sorrise. «Inizierà la nuova storia della nostra razza: una storia piena di gloria. Presto, non appena saremo unite ai nostri uomini, anche la dragonessa si unirà al suo compagno. Due forti rami dello stesso tronco, altrettanto forti e altrettanto teneri, ugualmente capaci di costruire un mondo ancor più bello di quello che conoscevamo qui. John Daker, mostraci la Spada del Drago. La nostra speranza, il nostro risultato, la nostra decisione!» A queste parole io aprii il mio mantello. Al fianco, nella sua guaina, portavo la Spada del Drago; dal giorno della battaglia all'esterno di Adelstane non l'avevo più estratta. Mi sfilai la guaina dalla cintura e sollevai la spada perché tutti la vedessero, ma anche ora non la estrassi. Ne avevo discusso con lady Phalizaarn e avevamo deciso di estrarre la spada soltanto una volta. E poi, avevo giurato a me stesso, non l'avrei estratta mai più. Se avessi potuto, l'avrei data all'Annunciatrice Eletta e avrei lasciato fare a lei quello che occorreva. Ma il mio destino non me lo permetteva, perché ero la sola persona che potesse toccare il metallo velenoso di quella strana spada senza subire danni. Le Donne Fantasma erano sbarcate ed erano andate a frugare tra gli edifici distrutti, in mezzo alle ceneri e alle travi consumate dal fuoco della città di Barobanay. «Avanti!» esclamò lady Phalizaarn. «Portateci il talismano che abbiamo conservato per l'intera durata del lungo esilio. Portateci il Disco di Ferro.» Von Bek e Alisaard mi raggiunsero sul molo. Avevamo già discusso quale dovesse essere il nostro corso d'azione. Morandi Pag si era offerto di riportare von Bek nel suo mondo, ma il conte aveva preferito rimanere con Alisaard, esattamente come avevo fatto io quando ero l'unico essere umano che abitava con gli Eldren, con la mia Ermizhad. Mi presero sottobraccio per confortarmi e per darmi la forza di mantenere il patto con me stesso, con John Daker. Poco più tardi le Donne Fantasma, con l'armatura sporca di polvere scura, uscirono barcollando dalle rovine. Portavano con sé una grande cassa di quercia, trasportata mediante pali infilati in grandi anelli di bronzo fissati al legno. La cassa era antica, e faceva pensare a un'epoca molto diversa dalla nostra. Nel periodo trascorso fra gli Eldren non avevo mai visto nulla di simile. Davanti a me il sole continuava a trarre riflessi dorati dall'acqua dell'oceano; dall'altro lato una debole brezza scuoteva le ceneri della città rasa al suolo. Dal porto e dalle navi le donne eldren mi guardavano senza parlare,
mentre la cassa veniva aperta e ne veniva estratto l'oggetto chiamato Disco di Ferro. Era una sorta di incudine. Pareva quasi che avessero tagliato una sezione del tronco di un albero e l'avessero posata su un piedistallo, per poi trasformare il tutto in una massa pesante di ferro scuro. Sembrava un piccolo tavolino tondo; e potevo capire dalla superficie che varie generazioni di fabbri se ne erano serviti per lavorare il metallo. Sulla base dell'incudine erano incise rune non diverse da quelle che comparivano sulla lama della Spada del Drago. Le donne eldren prelevarono l'incudine e la posarono davanti a me. Ciascuna di quelle donne aveva un'aria speranzosa. Da infinite generazioni aspettavano quel momento, riproducendosi come meglio potevano, ricorrendo a un modo artificiale di inseminazione che trovavano disgustoso, senza dimenticare il sogno di poter correggere l'errore cosmico che le aveva separate dai loro uomini. E anch'io avevo lottato per giungere a quel momento: se avevo cercato la Spada del Drago, l'avevo fatto per amore della mia razza adottiva e della donna che aveva ricambiato il mio amore con tanta profondità. «Sguaina la spada, Campione» esclamò lady Phalizaarn. «Sguainala, in modo che tutti possiamo guardarla per l'ultima volta. Sguaina il potere che fu creato per essere distrutto, che fu forgiato dal Caos per servire la Legge, che fu costruito in modo da resistere all'Equilibrio Cosmico e di compiere il proprio destino. Sguaina la tua possente spada. Che questo sia l'ultimo atto dell'eroe chiamato il Campione Eterno. E che liberando noi anch'egli sia liberato. Sguaina la Spada del Drago!» Presi con la mano sinistra il fodero e con la destra l'impugnatura. E lentamente feci scorrere la guaina in modo che la luce nera della lama uscisse dal metallo coperto di rune che descrivevano la storia dell'arma. Sotto il cielo del Gheestenheem, davanti alle donne eldren, levai in alto la lama e lasciai cadere a terra la guaina. Poi afferrai a due mani la Spada del Drago. La sollevai in modo che tutti potessero guardarla, potessero vedere il metallo scuro e la piccola fiamma che abitava al suo interno. La Spada del Drago cominciò a cantare; un canto dolce e selvaggio. Un canto così antico che parlava di un'esistenza al di là del tempo, al di là di tutte le preoccupazioni degli uomini e degli dèi. Parlava di amore e di odio e di omicidio, di tradimento e desiderio, parlava del Caos e della Legge e della tranquillità di un perfetto equilibrio.- Parlava del futuro, del passato e del presente. E palava dell'infinità di mondi del multiverso, di tutti i mondi
che aveva conosciuto e di tutti quelli che doveva ancora conoscere. E poi, con mio grande stupore le donne eldren presero a cantare in perfetta armonia con il canto della spada. E scoprii che anch'io cantavo, anche se non conoscevo le parole da me pronunciate. Non avevo mai pensato di poter cantare così meravigliosamente. Il coro divenne sempre più forte. La Spada del Drago pulsava di un'estasi unicamente sua, un'estasi riflessa nella faccia di tutti coloro che assistevano. Sollevai la spada e gridai tutti i miei sogni, tutte le speranze e i timori un'intera razza. Tremavo di piacere, di soggezione; con un sentimento simile alla paura calai la spada sull'incudine di ferro. L'incudine che per tanto tempo aveva ricordato a quelle donne il loro destino parve accendersi della stessa luce scura emessa dalla Spada del Drago. I due metalli si toccarono con un fortissimo clangore. Un suono che faceva pensare alla rottura ogni pianeta, di ogni barriera cosmica, di ogni sole dell'intero universo. Un suono mostruoso e bellissimo. Il suono del destino che si compie. E ora la spada, che per tanto tempo era stata pesante nella mia mano, divenne leggera come una piuma. Vidi che la lama si era spezzata in due tronconi, uno dei quali era piantato nell'incudine, mentre l'altro era in mano mia. Rabbrividii all'incredibile sensazione di delizia che si era sparsa in tutto il mio corpo, ma continuai a cantare il canto degli Eldren, della Spada del Drago e del Disco. E ora, mentre cantavamo, dall'antica incudine scaturì una lingua di fiamma: qualcosa che era uscito dalla spada e che per un breve tempo era rimasto nel Disco di Ferro. Guizzava e si contorceva su se stessa e anch'essa cantava l'antico incantesimo. Il canto divenne un ruggito assordante, la fiamma s'ingrandì e prese forma e colore; io, che cantavo con le donne eldren, capii in quel momento di essere in presenza di una forza più grande di ogni altra da me conosciuta, perché era la forza del desiderio umano, della volontà e degli ideali dell'uomo. E mentre la fiamma cresceva sempre più, il troncone di spada mi scivolò di mano. Caddi in ginocchio, e alzai gli occhi mentre la presenza prendeva forma, ruggiva e si contorceva, fino a coprire lo stesso sole. Era un animale enorme. Un drago con le scaglie che luccicavano al sole e con la cresta che bruciava dei più ricchi colori dell'arcobaleno. Un drago
che dilatava le narici e che schiudeva i denti bianchi, che levava al cielo con infinita grazia le spire, che allargava le ali e saliva sempre più in alto, nel cielo chiaro e azzurro. Anche allora, però, tutti continuarono a cantare: io e le donne, il drago e l'incudine; solo la voce della spada si stava progressivamente spegnendo. La meravigliosa creatura salì sempre più in alto, poi si voltò e si tuffò in picchiata, sfiorando col petto la superficie del mare, infine salì di nuovo verso il cielo, felice della propria forza, della propria libertà ritrovata. Il drago ruggì. Il suo fiato ci scaldò il viso e ci diede nuova forza, nuova vita. Aprì la bocca e poi batté tra loro le fauci, assaporando la libertà. Danzò e cantò per noi. Ci mostrò il suo potere e noi entrammo in un completo rapporto mentale con il drago. Solo una volta avevo provato qualcosa di simile e fino a quel giorno me n'ero dimenticato. Per il piacere mi spuntarono le lacrime agli occhi. Poi il drago si voltò. Le sue ali, multicolori come quelle di una gigantesca farfalla, presero a battere in modo leggermente diverso. Voltò verso di noi la testa lunga, da rettile, e ci fissò con occhi saggi e amichevoli; ancora una volta soffiò su di noi e ci chiamò, ci invitò a seguirlo. Von Bek mi prese la mano. «Vieni con noi, Herr Daker. Attraversa con noi la Porta del Drago. Laggiù conosceremo la felicità.» Anche Alisaard mi prese per il braccio e mi disse: «Sarai onorato da tutti gli Eldren. Per sempre.» Ma io dissi tristemente che non potevo farlo. «So qual è il mio destino. Devo trovare di nuovo la Nave Nera e il suo capitano cieco. È il mio dovere e il mio destino.» «Dicevi di non voler più rivestire i panni dell'eroe» osservò von Bek, sorpreso dalla mia decisione. «È vero. E non sarei un eroe, nel mondo degli Eldren? La mia sola speranza di liberarmi di quel peso consiste nel rimanere qui. Lo so.» Tutte le donne erano salite sulle navi. Molte avevano già lasciato il porto e seguivano il drago. Nell'allontanarsi mi salutavano. E continuavano a intonare il loro canto. «Andate» dissi ai miei amici. «Andate e siate felici. Questo pensiero mi consolerà di ogni perdita. Ve lo prometto.» Fu così che ci separammo. Von Bek e Alisaard furono gli ultimi a salire sulle navi che lasciavano il porto. Vidi il vento gonfiare la vela triangolare, la snella prua tagliare le acque tranquille.
Il grande drago, finalmente liberato dalla sua prigione, descrisse un cerchio nel cielo; in un primo momento pensai che lo facesse per la pura gioia di volare. Ma dove il drago era passato, il cerchio rimase. Un disco azzurro e rosso che scese lentamente fino a sfiorare la superficie del mare. I colori del disco divennero più complessi. Migliaia di sfumature ricchissime che brillavano sull'acqua. E ora il drago attraversò il grande dico di luce e svanì immediatamente. Qualche istante più tardi vi entrò la prima nave degli Eldren: a una a una, tutte le bianche imbarcazioni vennero inghiottite. Tutte avevano raggiunto i compagni da cui erano state separate per tanto tempo. I due draghi si erano riuniti, le donne Eldren si erano ricongiunte ai loro uomini! Il disco di luce sbiadì. E scomparve. Io ero rimasto solo in un mondo disabitato. Ero solo. Abbassai gli occhi sui due tronconi di spada e sull'incudine. Tutt'e tre mi davano l'impressione di essere stati sottoposti a un'immensa forza. Mi pareva che si fossero fusi, ma nello stesso tempo avessero mantenuto la forma. Non capii da dove mi venisse quell'impressione. Con il piede sfiorai l'impugnatura della spada. Per un momento provai la tentazione di raccoglierla, ma mi strinsi nelle spalle e mi voltai dall'altra parte. Non volevo più avere a che fare con le spade, le magie, il destino. Volevo solo tornare a casa. Mi allontanai dal porto e mi avviai tra le misere rovine della città degli Eldren. Mi ricordavo di molte distruzioni simili. Ricordavo che, come Erekosë, Campione dell'Umanità, avevo condotto i miei eserciti contro una città come quella, contro un popolo chiamato Eldren. Ricordavo perfettamente quel crimine. E ne ricordavo un altro: quello di avere guidato gli Eldren contro la mia gente. In qualche modo, però, non provavo più il senso di colpa che mi aveva assillato da quel lontano giorno. Sentivo di essere stato perdonato. Avevo espiato quella colpa ed ero ritornato me stesso. Eppure sentivo ancora una perdita: quella di Ermizhad. Mi sarei mai riunito con lei? Più tardi, verso sera, mi trovai di nuovo sui moli del porto a guardar tramontare il sole. Tutto taceva. Su tutto regnava una grande calma. Eppure era una solitudine che non mi piaceva, perché era dovuta all'assenza di
vita. Alcuni uccelli marini volavano sopra di me e lanciavano i loro richiami. Le onde battevano contro le pietre del porto. Io sedetti sul Disco di Ferro e mi chiesi se non fosse stato un errore, quello di non seguire gli Eldren nel loro mondo. Poi, alle mie spalle, si levò un nitrito. Mi volsi e vidi un singolo cavaliere, ma con due animali. Un individuo di bassa statura, deforme, con il vestito multicolore di un buffone di corte. Mi salutò e mi sorrise. «Vieni a fare una galoppata con me, ser Campione? Sarei lieto della tua compagnia.» «Buona sera, Jermays. Spero che non mi porti altre notizie di destini e di apocalissi.» Montai in sella. «Non ho mai dato molta importanza a quelle cose» disse lui «e tu lo sai. Non è mio compito giocare una parte importante nella storia del multiverso. Questi ultimi tempi sono stati i più attivi che abbia mai visto. Non li rimpiango affatto, anche se mi sarebbe piaciuto vedere la sconfitta di Sharadim e l'esilio del Caos. Hai compiuto una grande opera, eh, ser Campione? Forse la più grande di tutta la tua carriera?» Scossi la testa. Non lo avrei saputo dire. Jermays avviò il cavallo lungo la spiaggia, sotto le bianche scogliere di quel mondo. Il sole, che fino a quel momento aveva dato al cielo un colore meravigliosamente profondo, scese a sfiorare il mare e la sua ultima luce diede a tutto quel paesaggio un aspetto deciso, immutabile. «I tuoi amici se ne sono andati, vero?» mi chiese, mentre ci allontanavamo. «Il drago è tornato al drago, gli Eldren agli Eldren. E von Bek che razza di dinastia fonderà, mi chiedo? E che sorta di storia nascerà da quanto è accaduto in questi mondi? Occorrerà aspettare un altro ciclo per conoscere il destino toccato a Melniboné.» Quel nome mi era familiare. Destava qualche ricordo, ma mi rifiutai di approfondirlo. Ero stanco di ricordi, vuoi del passato vuoi del futuro. Poco più tardi scese la notte. Il chiaro di luna era una pura distesa di argento sulle acque. Quando superammo una cresta di roccia, con le onde che lambivano gli zoccoli dei nostri cavalli, vidi una nave all'ancora in una piccola baia. La nave aveva due alti castelli, a poppa e a prua. E le sue parti di legno erano scolpite in ogni sorta di raffigurazioni barocche. La sua prua faceva un'ampia curva e aveva un solo albero con una sola vela ammainata. In cima a ciascuno dei castelli c'era una ruota del timone, cosicché la si pote-
va pilotare sia da prua sia da poppa. Pescava poco nell'acqua, come se aspettasse ancora il suo carico. Io e Jermays spingemmo i cavalli nell'acqua bassa. Gli sentii gridare: «Olà, voi della nave! C'è ancora posto per un passeggero?» Una figura si affacciò sulla balaustra e fissò le scogliere sopra di noi. Vidi immediatamente che era cieca. Nell'acqua, tutt'intorno alla nave, aveva cominciato ad alzarsi una nebbia rosa. Era molto rarefatta e pareva seguire non il movimento delle onde, ma il rollio della nave stessa. Io posai lo sguardo sulla superficie del mare, ma la luna era coperta da una nube e non riuscivo a scorgerne i riflessi sull'acqua. Mi parve che la nebbia si fosse addensata. «Sali a bordo» mi invitò il cieco. «Sei il benvenuto.» «Ora ci dobbiamo salutare» disse Jermays. «Penso che passerà parecchio tempo, prima che ci si incontri di nuovo. Magari occorrerà aspettare un nuovo ciclo. Addio, ser Campione!» Mi batté la mano sulla spalla, voltò il cavallo e si allontanò verso la riva. Sentii il rumore sordo degli zoccoli sulla sabbia e poi anche quello svanì. Il mio cavallo era nervoso. Smontai di sella e lo lasciai andare. L'animale si affrettò a seguire Jermays. Io attraversai l'acqua, a guado. Era calda contro la mia pelle. Mi arrivava già al petto, quando trovai davanti a me una scaletta di corda e vi salii. La nebbia rossa era diventata ancora più fitta. Ormai mi nascondeva la spiaggia. Il cieco fiutò l'aria. «Ora dobbiamo partire. Sono lieto che tu sia venuto. Non hai la spada, eh?» «Non ho più bisogno di spade» risposi. Lui brontolò qualche parola che non riuscii a comprendere, poi ordinò di tendere la vela. Vidi muoversi sulle sartie l'ombra di qualche marinaio, poi seguii il pilota cieco, che mi portò nella cabina dove ci attendeva suo fratello, il capitano. Sentii il cigolio dell'albero, quando la vela prese vento. Sentii il rumore metallico delle ancore che venivano salpate. La nave beccheggiò all'improvviso e capii che avevamo ripreso a navigare sulle acque che scorrono tra un mondo e l'altro. Con un sorriso gentile, il capitano indicò il pasto preparato per me. «Devi essere stanco, John Daker» mi disse. «Hai fatto molto, eh?» Mi tolsi la pesante giubba di cuoio e, con un sospiro di sollievo, mi servii un buon bicchiere di vino. «C'è qualcun altro, a bordo?» gli domandai.
«Del tuo genere? Solo tu.» «E dove siamo diretti?» Ero disposto a recarmi dovunque mi ordinasse di andare. «Oh, non in un posto importante. Non hai la spada, vedo.» «Me l'ha già fatto notare vostro fratello. L'ho lasciata nel porto di Barobanay, spezzata in due tronconi; adesso è inutile.» «Non proprio» disse il capitano, servendosi un bicchiere di vino. «Ma occorrerà forgiarla di nuovo. Forse farne due spade, invece di una sola.» «Una nuova spada da ciascuno dei tronconi» annuii. «C'è metallo a sufficienza per farlo?» «Penso di sì. Ma per qualche tempo non devi preoccupartene. Adesso hai voglia di dormire?» «Sono stanco» ammisi. Mi pareva di non riposare da secoli. Il capitano cieco mi accompagnò alla vecchia, familiare cuccetta. Io mi distesi e quasi immediatamente presi a sognare. Re Rigeno ed Ermizhad, Urlik Skarsol e gli altri eroi che avevo impersonato. Poi sognai i draghi. Centinaia di draghi, draghi che conoscevo per nome, draghi che mi amavano e che io amavo a mia volta. E sognai grandi flotte di navi. Guerre, tragedie e delizie impossibili, magie e avventure romanzesche. Sognai braccia bianche che mi stringevano, sognai di nuovo Ermizhad. E poi sognai che ci eravamo finalmente riuniti e finalmente mi svegliai con un sorriso sulle labbra, perché nel sogno avevo udito di nuovo il canto del drago intonato dalle donne eldren. Il timoniere cieco e il capitano erano fermi dinanzi a me; tutt'e due sorridevano. «È ora di sbarcarti, John Daker. È ora che tu abbia il premio che ti è stato assegnato.» Mi alzai. Indossavo solo i calzoni di cuoio e gli stivali. Ma non avevo freddo. Li seguii sul ponte, ancora avvolto nel buio. Qua e là si scorgeva una lanterna che mandava una luce giallastra. Attraverso la nebbia rossa mi parve di scorgere una costa, e prima una torre, poi una seconda. Parevano sorgere ai due lati di un porto. Nell'oscurità, mi sforzai di distinguere i particolari. Le due torri avevano qualcosa di familiare. Il timoniere mi chiamò dal basso. Vidi che era su una piccola barca e che intendeva portarmi a terra. Salutai il capitano e scesi fino alla barca, per poi sedermi davanti al timoniere cieco. L'uomo fece forza sui remi. La nebbia si diradò progressivamente; a
giudicare dal colore del cielo, mancava poco all'alba. Ora notai che tra le due torri c'era un ponte e che dappertutto si scorgeva lo scintillio di migliaia di luci, sentii quello che in un primo tempo mi parve il richiamo dolente di un animale marino, ma che poi riconobbi come la sirena di un'imbarcazione. L'uomo sollevò i remi dall'acqua. «Sei giunto alla tua destinazione, John Daker. Buona fortuna.» Con cautela posai il piede sulla riva, coperta di un sottile strato di fango. Dall'alto mi giunse uno strano ron-ron, come di un gatto che fa le fusa, e delle voci. Poi, quando il timoniere scomparve di nuovo nella nebbia rossa, capii che ero già stato in quel luogo. I rumori erano quelli di una grande città moderna, le torri quelle del Ponte di Londra. John Daker era ritornato a casa. EPILOGO Mi chiamo John Daker. Un tempo ero chiamato il Campione Eterno. Forse porterò ancora quel nome. Per ora, comunque, sono in pace. Evocando questa identità - la mia identità d'origine, se volete - sono riuscito a resistere ai poteri del Caos e infine a sconfiggerli. Come premio per quella impresa ho potuto riprendere la mia vita come John Daker. Quando re Rigeno mi aveva chiamato per essere il campione dell'umanità ero insoddisfatto della vita che conducevo. Mi era parsa vuota, senza emozioni. Ma adesso sono giunto a comprendere quanto sia ricca, in realtà, la vita che conduco, quanto sia complesso il mondo da me abitato. Una complessità degna di essere apprezzata. Capisco che la vita in una grande città del ventesimo secolo può essere altrettanto intensa e soddisfacente quanto ogni altra. In effetti essere un eroe, sempre in guerra, è in un certo modo come essere un bambino. La vera sfida consiste nel dare un senso alla propria vita, nel darle uno scopo basato sui principi che si condividono. Ricordo ancora quegli altri tempi, sogno ancora le grandi spade, i cavalli, le navi da guerra, le strane creature e le magiche città, le bandiere dai colori vivaci e la meraviglia dell'amore perfetto. Sogno di lanciarmi al galoppo contro il Caos, di levare le armi contro il Cielo in nome dell'Inferno, di essere la falce che ha tagliato l'intera umanità... Ma anche in questo mondo ho scoperto esperienze altrettanto profonde. Secondo me, basta im-
parare a riconoscerle e ad apprezzarle. È quanto ho imparato quando ho affrontato l'arciduca Balarizaaf, la principessa Sharadim e il principe Flamadin all'Inizio del Mondo, davanti al Cristallo Cremisi, quando abbiamo lottato per impadronirci della Spada del Drago. Suona quasi come una beffa, il fatto che sia riuscito a salvare me stesso e coloro che amavo richiamando a me, nel momento del massimo pericolo, la mia identità di comune mortale. Ma il ruolo dell'eroe è costellato di pericoli assai più sottili di quelli immediatamente visibili. Sono lieto di non doverli più affrontare. Così John Daker è infine ritornato a casa. Il ciclo si è chiuso, la saga ha trovato una sorta di soluzione. In qualche luogo, senza dubbio, il Campione Eterno continuerà a lottare per preservare l'Equilibrio Cosmico, e nei suoi sogni, se non altrove, John Daker ricorderà quelle battaglie e sarà come ricordare un grande spazio piene di statue, ciascuna delle quali porta il suo nome... Per il momento, comunque, non deve più prendere parte a battaglie, né chiedersi che cosa significhino quelle statue. Sento ancora la nostalgia della mia Ermizhad, naturalmente. Non amerò più nessuna come ho amato lei. Credo però che finirò per trovarla, non in qualche bizzarro Regno del multiverso, ma qui, forse in questa stessa città di Londra. Forse in questo stesso momento mi sta cercando come io cerco lei. Sono certo che non dovrà passare molto tempo prima di essere riuniti. E quando verrà quel momento, non ci sarà spada, né di questo mondo né di altri, capace di dividerci! Conosceremo la pace. Anche se la nostra vita durerà quanto quella dei normali esseri umani, quegli anni saranno tutti per noi. Saremo del tutto liberi dai disegni cosmici, dai destini e dalle grandiose condanne alla distruzione. Saremo liberi di amare come sempre abbiamo voluto, liberi di avere i nostri difetti e i nostri limiti, di essere le creature mortali che fin dall'inizio volevamo essere, e niente di più. E, almeno per quei pochi anni, il Campione Eterno sarà in pace con se stesso. FINE