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MICHAEL MOORCOCK IL FATO DEL LUPO BIANCO (The Weird Of The White Wolf, 1976) Alla memoria di Ted Cornell, direttore di New Worlds e di Science Fantasy, che pubblicò tutte le prime storie di Elric e dietro suggerimento del quale io cominciai a scrivere la serie. Un uomo cordiale e generoso, che mi diede grande incoraggiamento all'inizio della mia carriera e senza il quale queste storie non sarebbero mai state scritte. PROLOGO IL SOGNO DEL CONTE AUBEC In cui apprendiamo come spuntò l'epoca dei Regni Giovani, e la parte che vi ebbe la Dama Tenebrosa, Myshella, il cui fato si sarebbe intrecciato in futuro con quello di Elric di Melniboné... Dalla finestra della torre di pietra, priva di vetri, si poteva scorgere l'ampio fiume snodarsi tra le rive brune e irregolari e tra i fitti boschetti verdi che si fondevano gradualmente con la massa della foresta vera e propria. E dalla foresta s'innalzavano gli strapiombi di roccia, grigi e verdechiari, altissimi: e la pietra si faceva più scura, coperta di licheni, finché si fondeva con le pietre della base del castello, ancor più massicce. Il castello dominava la campagna in tre direzioni, facendo distogliere gli sguardi dal fiume, dalle rocce e dalla foresta. Le sue mura erano alte, di robusto granito e munite di torri: una folta schiera di torri, raggruppate in modo da farsi ombra a vicenda. Aubec di Malador, stupito, si chiese come avessero potuto erigerlo costruttori umani, a meno che avessero fatto ricorso alla magia. Cupo e misterioso, il castello sembrava avere un'aria di sfida, poiché sorgeva all'Orlo del Mondo. In quel momento il cielo coperto gettava una strana luce giallocupa sui lati occidentali delle torri, facendo spiccare più intense le ombre nere. Immani onde di cielo azzurro laceravano il grigiore turbinoso di lassù, e ammassi di nubi rosse avanzavano fondendosi e producendo colorazioni più sottili. Tuttavia, sebbene il cielo apparisse impressionante, non bastava a far distogliere lo sguardo dalla ponderosa serie di picchi artificiali che co-
stituiva Castel Kaneloon. Il conte Aubec di Malador non si staccò dalla finestra se non quando fuori fu completamente buio e le finestre e le rocce e il castello divennero toni d'ombra sullo sfondo di tenebra. Si passò sulla testa semicalva la pesante mano nocchiuta e si avviò pensoso verso il mucchio di paglia che sarebbe stato il suo giaciglio. La paglia era ammucchiata in una nicchia formata da un contrafforte e dal muro esterno, e la stanza era illuminata dalla lanterna di Malador. Ma l'aria era fredda, quando lui si distese sul giaciglio con la destra accostata al colossale spadone a due mani. Era la sua unica arma. Sembrava che fosse stato forgiato per un gigante (e Malador lo era, virtualmente): aveva la guardia grandissima, l'elsa pesante incrostata di gemme e la lama lunga un braccio e mezzo, levigata e larga. Accanto alla spada c'erano la vecchia e massiccia armatura di Malador e l'elmo: le piume nere un po' malconce ondeggiavano leggermente nella corrente d'aria che spirava dalla finestra. Malador si addormentò. I suoi sogni, come sempre, erano turbolenti: eserciti poderosi che dilagavano tra paesaggi sfolgoranti, un garrire di bandiere con gli stemmi di cento nazioni, foreste di lance, mari di elmi in movimento, arditi e frenetici squilli di corni da guerra, scalpitio di zoccoli, e canti e grida e urla di soldati. Erano sogni di tempi passati, della sua gioventù, quando, per la regina Eloarde di Klant, aveva conquistato tutte le nazioni meridionali... fin quasi all'Orlo del Mondo. Soltanto Kaneloon, che sorgeva proprio sull'Orlo, non l'aveva conquistato... perché nessun esercito era disposto a seguirlo fin là. Per un uomo dall'aspetto tanto marziale, quei sogni erano sorprendentemente sgraditi; e Malador si destò parecchie volte, quella notte, scuotendo il capo come se volesse liberarsene. Avrebbe preferito sognare Eloarde, sebbene fosse lei la causa della sua inquietudine, ma non la vide nel sonno: non vide la morbida chioma nera ondeggiante intorno al volto pallido, né gli occhi verdi e le labbra rosse, né il portamento fiero e sdegnoso. Eloarde gli aveva assegnato quella ricerca, e lui non era partito volentieri (benché non avesse scelta) perché oltre a essere la sua amante lei era anche la sua regina. Il Campione, secondo la tradizione, era anche l'amante della sovrana, e per il conte Aubec era impensabile una realtà diversa. Nella sua qualità di Campione di Klant era suo dovere ubbidire e lasciare il palazzo di Eloarde per cercare da solo Castel Kaneloon e conquistarlo e annetterlo all'impero, affinché si potesse dire
che il dominio della regina Eloarde si estendeva dal Mare del Drago all'Orlo del Mondo. Oltre l'Orlo del Mondo non c'era nulla: nulla tranne la turbinante sostanza del Caos informe, che si estendeva dalle Scogliere di Kaneloon fino all'eternità, ribollente e vorticante, multicolore, pieno di forme vaghe e mostruose... perché solo la Terra era sotto il dominio della Legge e fatta di materia ordinata, alla deriva nel mare del Caos come avveniva da molti eoni. Al mattino, il conte Aubec di Malador spense la lanterna che aveva lasciato ardere, indossò i gambali e l'usbergo, si pose in capo l'elmo dalle piume nere, si mise sulla spalla lo spadone e uscì dalla torre di pietra, l'unica cosa rimasta intatta in un antico edificio. I suoi piedi calzati di cuoio incespicavano su pietre che apparivano parzialmente sgretolate, come se un tempo il Caos fosse venuto a infrangersi lì anziché contro le torreggianti Scogliere di Kaneloon. Ma naturalmente ciò era impossibile, poiché si sapeva che i confini della Terra rimanevano costanti. Castel Kaneloon gli era parso più vicino, la notte precedente: e ora il conte Aubec si rendeva conto che quell'illusione era stata determinata dalle proporzioni immani. Seguì il fiume, affondando i piedi nel suolo soffice, mentre i grandi rami degli alberi lo riparavano dal sole sempre più caldo. Avanzava verso le scogliere, e adesso Kaneloon era invisibile, lassù sopra di lui. Spesso doveva usare la spada come un'ascia, per aprirsi un varco dove il fogliame era più fitto. Riposò parecchie volte, bevendo la fredda acqua del fiume e tergendosi la fronte e il volto. Non aveva fretta, non desiderava visitare Kaneloon, ed era risentito per l'interruzione della sua vita con Eloarde, che non riteneva di aver meritato. E provava anche lui un superstizioso timore di quel castello enigmatico, che si diceva abitato da un solo essere umano: la Dama Tenebrosa, un'incantatrice spietata che comandava una legione di demoni e di altre creature del Caos. Guardò con un misto di cautela e di sollievo gli strapiombi e il sentiero che portava verso l'alto. Aveva previsto di dover scalare quelle rocce. Tuttavia non era tipo da scegliere un percorso difficile quando se ne presentava uno agevole: perciò annodò una fune intorno alla spada e se l'appese sul dorso, poiché era troppo lunga e ingombrante per portarla al fianco. Poi, sempre di malumore, cominciò a salire il tortuoso sentiero. Le rocce coperte di licheni erano chiaramente antiche, malgrado le ipo-
tesi di certi filosofi i quali si chiedevano perché solo da poche generazioni si sentiva parlare di Kaneloon. Malador credeva alla spiegazione più diffusa: gli esploratori non si erano avventurati là se non in tempi piuttosto recenti. Si voltò a guardare giù per il sentiero e vide le cime degli alberi sotto di lui, col fogliame che si agitava lievemente nella brezza. La torre dove aveva trascorso la notte era appena visibile in lontananza: e più oltre, come sapeva bene, non c'era civiltà, non c'erano avamposti dell'uomo per molti giorni di viaggio verso nord, est e ovest. Il Caos poteva trovarsi a sud? Non era mai giunto tanto vicino all'Orlo del Mondo, e si chiedeva quale effetto avrebbe avuto sulla sua mente la vista della materia informe. Finalmente raggiunse la sommità dello strapiombo e si fermò, con le mani sui fianchi, a contemplare Castel Kaneloon che s'innalzava a un chilometro di distanza, con le torri più alte celate tra le nubi e le immense mura radicate alla roccia e limitate lateralmente solo dall'orlo del precipizio. E dall'altra parte della scogliera scorse la turbinosa sostanza del Caos: in quell'attimo era prevalentemente grigia, azzurra, bruna e gialla, sebbene i suoi colori cambiassero costantemente, ed era agitata come gli spruzzi del mare a pochi passi dal castello. Si sentì invadere da un'indescrivibile sensazione di profondità: rimase così a lungo, completamente sopraffatto dalla propria pochezza. Alla fine pensò che se davvero qualcuno dimorava nel Castel Kaneloon, doveva possedere una mente ben salda o essere pazzo. Poi sospirò e riprese a procedere verso la meta, notando che il terreno, di ossidiana verde, era assolutamente piatto e rifletteva in modo imperfetto la danza della sostanza del Caos, dalla quale lui cercava di distogliere gli occhi il più possibile. Kaneloon aveva molte entrate, tutte buie e minacciose; e se non avessero avuto forma e dimensioni regolari sarebbero apparse come imboccature di caverne. Malador si soffermò, prima di scegliere, e poi si avviò verso un'entrata, con passo deciso. S'inoltrò nella tenebra che sembrava estendersi per l'eternità. Faceva freddo; il luogo era vuoto, e lui era solo. Ben presto si smarrì. I suoi passi non creavano echi, e questo era inaspettato; poi la tenebra cominciò a lasciar posto a una serie di profili angolosi, come le pareti di un corridoio serpeggiante: pareti che non arrivavano all'invisibile soffitto ma terminavano parecchie braccia sopra la sua testa. Era un labirinto. Malador si arrestò, si voltò indietro e vide con orrore che il labirinto si snodava in molte direzioni, sebbene lui fosse certo di aver
seguito un percorso in linea retta dal momento in cui era entrato. Per un istante la sua mente si smarrì e la follia minacciò di travolgerlo: ma lui la dominò, e rabbrividendo si sfilò la spada dalla spalla. Da che parte? Continuò a procedere, senza più sapere se avanzava o tornava indietro. La follia in agguato nel profondo del suo cervello trapelò e diventò paura: e subito dopo la sensazione della paura vennero le forme. Forme che si muovevano rapidamente, sfrecciando da molte direzioni; forme balbettanti, diaboliche, orribili. Uno di quegli esseri continuava a seguirlo, e lui cercò di colpirlo con la spada. Quello fuggì, ma sembrava indenne. Ne venne un altro e poi un altro, e Malador dimenticò il panico mentre avventava colpi intorno a sé, scacciandoli, fino a quando tutti fuggirono. Si fermò e si appoggiò alla spada, ansimando. Poi, mentre si guardava intorno, la paura cominciò a riaffluire in lui e apparvero altri esseri: esseri dai grandi occhi sfolgoranti e dagli artigli minacciosi, esseri dal volto malevolo che lo irridevano, esseri dal volto quasi riconoscibile, taluni simili a vecchi amici e parenti e tuttavia distorti in orribili parodie. Urlò e si avventò su di loro, roteando l'enorme spada, vibrando fendenti, precipitandosi oltre un gruppo col solo risultato di superare una svolta del labirinto e incontrarne un altro. Una risata maligna echeggiava nei tortuosi corridoi, seguendolo e precedendolo nella sua corsa. Incespicò e cadde contro una parete. In un primo istante gli parve un muro di pietra compatta: e poi lentamente divenne molle e lui vi affondò, col corpo per metà in un corridoio e per metà in un altro. Si trascinò fuori, puntellandosi sulle mani e sulle ginocchia; alzò gli occhi e vide Eloarde: ma un'Eloarde il cui volto invecchiava sotto il suo sguardo. Sono pazzo, pensò. Questa è la realtà o una fantasia? Oppure una cosa e l'altra? Tese una mano. «Eloarde!» Lei svanì, ma al suo posto apparve un'orda di demoni. Matador si rialzò e sferrò colpi roteanti con la spada; ma i demoni guizzavano fuori dalla sua portata, e lui avanzò ruggendo. Per un poco, mentre s'impegnava, la paura l'abbandonò di nuovo e con la scomparsa della paura svanirono anche le visioni, finché lui comprese che la paura precedeva le manifestazioni e tentò di dominarla. Quasi vi riuscì, imponendosi di rilassarsi: ma poi la paura tornò a invaderlo, e gli esseri sgorgarono dalle pareti con le voci stridule cariche di gaiezza maligna.
Questa volta non li attaccò con la spada: restò dov'era, sforzandosi di conservare la calma e concentrandosi sulla propria condizione mentale. Gli esseri presero a dissolversi, e poi anche le pareti del labirinto svanirono. Ebbe l'impressione di trovarsi in una valle tranquilla, idilliaca. Eppure, al limitare della sua coscienza, gli pareva di scorgere vagamente le mura del labirinto, appena profilate, e forme ripugnanti che si muovevano qua e là lungo i numerosi corridoi. Comprese che la visione della valle era un'illusione, come il labirinto: e appena lo pensò, valle e labirinto svanirono e lui si trovò nell'enorme atrio di un castello che poteva essere soltanto Kaneloon. La sala era lussuosamente arredata, ma deserta; e Matador non riusciva a scorgere da dove provenisse la luce, viva e costante. Si avviò verso una tavola su cui stava un mucchio di rotoli, e finalmente i suoi passi suscitarono un'eco. C'erano molte grandi porte ornate di borchie metalliche, ma per il momento non andò a vedere dove conducevano: era intento a studiare i rotoli, per scoprire se potevano essergli di qualche utilità per svelare il mistero di Kaneloon. Appoggiò la spada alla tavola e prese il primo rotolo. Era splendido, di pergamena rossa, ma le lettere nere che vi figuravano non avevano per lui nessun significato: ne rimase sbalordito perché, sebbene i dialetti variassero da una località all'altra, su tutte le zone della Terra esisteva una sola lingua. Un altro rotolo recava simboli ancora diversi, e il terzo presentava una serie di immagini estremamente stilizzate che si ripetevano qua e là: immaginò che rappresentassero una specie di alfabeto. Irritato, lasciò ricadere il rotolo sul tavolo, riprese la spada, tirò un profondo respiro e gridò: «Chi dimora, qui? Sappiate che Aubec, conte di Malador, Campione di Klant e conquistatore del Sud, rivendica questo castello in nome della regina Eloarde, imperatrice di tutte le Terre Meridionali!» Mentre gridava quelle parole familiari si sentiva più a suo agio: ma non ottenne risposta. Sollevò leggermente l'elmo e si grattò il collo. Poi afferrò la spada, l'appese alla spalla e si diresse verso la porta più grande. La porta si spalancò prima ancora che lui la raggiungesse, e una cosa enorme, antropomorfa, dalle mani simili a grappini d'arrembaggio, gli rivolse un sogghigno. Malador arretrò di un passo e poi di un altro: ma quando vide che la cosa non avanzava, rimase immobile a osservarla. Era più alta di lui di oltre una spanna, e aveva occhi ovali, sfaccettati e
vacui. La faccia era angolosa e aveva una grigia lucentezza metallica. Quasi tutto il corpo era fatto di metallo brunito, snodato come un'armatura. Sulla testa calzava un cappuccio aderente, a borchie di bronzo. Pareva irradiare una potenza tremenda e insensata, sebbene non si muovesse. «Un golem!» esclamò Malador, poiché gli pareva di ricordare simili esseri costruiti dall'uomo, di cui parlavano le leggende. «Quale stregoneria ti ha creato?» Il golem non rispose; ma le sue mani, che in realtà erano formate ognuna da quattro spuntoni metallici, cominciarono a flettersi lentamente. E il golem continuava a sogghignare. Quella cosa, Malador lo comprendeva, non era amorfa come le sue visioni precedenti. Era concreta, era reale e fortissima; e neanche la sua forza, per quanto lui la concentrasse, sarebbe bastata a sconfiggerla. Eppure non poteva nemmeno fuggire. Con uno stridore di giunture metalliche, il golem entrò nell'atrio e protese verso il conte le mani brunite. Malador poteva attaccare o fuggire, e fuggire sarebbe stato assurdo. Attaccò. Stringendo con le due mani la grande spada, sferrò un affondo laterale verso il torace del golem, che sembrava il suo punto più debole. Il golem abbassò un braccio, e la lama vibrò contro il metallo con un clangore poderoso che fece tremare tutto il corpo di Malador. Lui indietreggiò, vacillando. Implacabile, il golem lo seguì. Malador si guardò alle spalle, scrutando freneticamente l'atrio nella speranza di trovare un'arma più potente della sua spada; ma vide soltanto scudi da parata, appesi al muro alla sua destra. Si voltò e corse da quella parte; strappò uno degli scudi dal sostegno e se l'infilò al braccio. Era rettangolare, molto leggero, formato da numerosi strati di legno a grana fitta. Era inadeguato, ma gli diede una certa sensazione di sicurezza mentre si voltava di scatto a fronteggiare il golem. Il golem avanzò e Malador ebbe la sensazione di notare in lui qualcosa di noto, come gli erano parsi familiari i demoni del labirinto: ma era un'impressione molto vaga. La strana magia di Castel Kaneloon, pensò, influiva sulla sua mente. L'essere levò gli spuntoni della mano destra e sferrò un colpo fulmineo verso la testa di Malador. Il conte lo evitò, alzando la spada per proteggersi. Gli artigli urtarono contro la lama, e subito il braccio sinistro si avventò mirando allo stomaco di Malador. Lo scudo bloccò il colpo, sebbene gli
spuntoni metallici vi si piantassero profondamente. Con uno strattone, Malador strappò via lo scudo dagli artigli e nello stesso istante sferrò un fendente alle giunture delle gambe del golem. Con gli occhi sempre fissi nel vuoto, come se si disinteressasse di Malador, il golem avanzò come un cieco, mentre il conte si voltava e spiccava un balzo salendo sulla tavola e disperdendo i rotoli. Poi vibrò la spada dall'alto in basso sul cranio del mostro: le bronzee borchie lanciarono scintille, e il cappuccio e la testa vennero intaccati. Il golem barcollò e si aggrappò alla tavola, sollevandola dal pavimento. Malador fu costretto a balzare a terra. Questa volta corse verso la porta, e tirò l'anello del catenaccio: ma i battenti non si aprirono. La sua spada era intaccata e smussata. Si appoggiò con le spalle alla porta, mentre il golem lo raggiungeva e calava la mano metallica sull'orlo superiore dello scudo. Il legno si schiantò, e un dolore tremendo saettò lungo il braccio di Malador. Il conte si scagliò contro il mostro: ma non era abituato a maneggiare in quel modo l'enorme spada, e il colpo fu maldestro. Malador si rese conto di essere spacciato. La forza e l'esperienza del combattimento non bastavano contro la potenza insensata del golem. Al colpo successivo si gettò da parte, ma un dito metallico gli lacerò l'armatura facendo scaturire il sangue, sebbene sul momento lui non avvertisse il dolore. Si rialzò, svincolandosi dalla stretta e lanciando intorno i lignei frammenti dello scudo, e strinse più saldamente la spada. Questo demone senz'anima non ha punti deboli, pensò. E poiché non possiede una vera intelligenza, è impossibile comunicare con lui. Cosa può temere, un golem? La risposta era semplice. Il golem poteva temere soltanto qualcosa che fosse forte quanto lui o ancora più forte. Doveva ricorrere all'astuzia. Corse verso la tavola rovesciata, col mostro che lo inseguiva; la scavalcò con un balzo e si girò di scatto, mentre il golem incespicava ma senza cadere come invece lui aveva sperato. Tuttavia l'urto lo fece rallentare, e Aubec ne approfittò per precipitarsi verso la porta da cui era entrato il suo avversario. La porta si aprì. Si trovò in un corridoio tortuoso, pieno di ombre cupe, non molto diverso dal labirinto che aveva trovato al suo entrare. La porta si chiuse, ma lui non trovò nulla per sbarrarla. Si avviò di corsa lungo il corridoio, mentre il golem spalancava l'uscio e lo inseguiva a passi pesanti.
Il corridoio si snodava in tutte le direzioni: e sebbene non riuscisse sempre a scorgere il golem, Aubec lo udiva e temeva che da un momento all'altro, svoltando un angolo, se lo sarebbe trovato davanti. Non fu così; ma si trovò davanti a una porta, e quando l'apri e passò vide che era ritornato nell'atrio di Castel Kaneloon. Quella scena già nota gli diede quasi un senso di sollievo, mentre udiva il golem che tra scricchiolii metallici continuava a inseguirlo. Aveva bisogno di un altro scudo, ma la parte dell'atrio in cui ora si trovava non aveva scudi appesi alla parete: solo un grande specchio rotondo di metallo lucido e levigato. Era troppo pesante per essere di grande utilità, ma lui l'afferrò per staccarlo dal gancio. Lo specchio cadde con un clangore e Aubec lo sollevò, trascinandolo via mentre si allontanava dal golem che in quel momento rientrava nell'atrio. Stringendo le catene che erano servite per tenerlo appeso, tese lo specchio davanti a sé; e mentre il mostro si precipitava verso di lui, alzò quello scudo improvvisato. Il golem urlò. Malador era sbalordito. Il mostro si arrestò di colpo e poi indietreggiò dallo specchio. Il conte lo spinse verso il golem: e quello, con un ululato metallico, si voltò e fuggì oltre la porta da cui era entrato. Sollevato e sconcertato, Malador si sedette sul pavimento ed esaminò lo specchio. Non aveva nulla di magico, sebbene fosse di buona qualità. Con un sogghigno, disse a voce alta: «Quell'essere ha veramente paura di qualcosa. Ha paura di se stesso!» Rovesciò la testa all'indietro e rise, sonoramente. Poi aggrottò la fronte. «Ora devo trovare gli stregoni che l'hanno creato, e vendicarmi!» Si rialzò in piedi, si attorse intorno al braccio le catene dello specchio e si avviò verso un'altra porta, temendo che il golem compisse il giro del labirinto e rientrasse. Quella porta non si aprì: levò la spada e colpi più volte la serratura, fino a quando cedette. Entrò in un corridoio illuminato: in fondo, oltre una porta aperta, si scorgeva una stanza. Un odore di muschio gli giunse alle narici mentre avanzava: un profumo che gli ricordava Eloarde e gli agi di Klant. Quando giunse nella stanza circolare, vide che era una camera da letto: la camera da letto di una donna, satura del profumo che aveva sentito nel corridoio. Frenò la direzione presa dalla sua mente, pensò alla fedeltà e a Klant, e si diresse verso un'altra porta, in fondo alla camera. La spalancò, e
vide una scala di pietra. La salì, passando davanti a finestre che parevano invetriate con smeraldi e rubini, oltre le quali guizzavano forme d'ombra; e comprese che si trovava nella parte del castello affacciata sul Caos. La scala sembrava salire all'interno di una torre; e quando lui raggiunse finalmente la porticina, in cima, era senza fiato e dovette fermarsi prima di varcarla. Poi la sospinse ed entrò. In una delle pareti si apriva una finestra immensa, una finestra di vetro trasparente, oltre la quale poteva scorgere la sostanza minacciosa e turbinante del Caos. Alla finestra stava una donna, come se l'attendesse. «In verità sei un campione, conte Aubec» disse, con un sorriso che forse era ironico. «Come fai a sapere il mio nome?» «Non è stata la magia a rivelarmelo, conte di Malador: l'hai gridato abbastanza forte, quando hai visto per la prima volta l'atrio nella sua vera forma.» «E quella non era stregoneria?» ribatté lui, rudemente. «Il labirinto, i demoni... perfino la valle? Il golem non era creato per stregoneria? Questo maledetto castello non è interamente magico?» La donna scrollò le spalle. «Di' pure così, se preferisci rifiutare la verità. La stregoneria, almeno per te, è qualcosa di rozzo, che si riferisce solo vagamente agli autentici poteri esistenti nell'universo.» Lui non replicò, spazientito da quelle affermazioni. Osservando i filosofi di Klant, aveva appreso che spesso le parole misteriose mascheravano cose e idee banali. La guardò invece cupamente, con estrema franchezza. Era bionda, con gli occhi verdazzurri e la carnagione chiara. La lunga veste aveva lo stesso colore dei suoi occhi. Aveva una bellezza enigmatica, e possedeva qualcosa di familiare come tutti gli abitanti di Kaneloon che lui aveva incontrato. «Hai riconosciuto Kaneloon?» gli chiese. Aubec non badò alla domanda. «Ora basta: conducimi dai signori di questo luogo.» «Ci sono solo io: Myshella, la Dama Tenebrosa; e sono la signora di questo luogo.» Aubec ne fu deluso. «Ed è stato solo per incontrare te, che ho superato tanti pericoli?» «Sì, e i pericoli erano assai più grandi di quanto tu creda. Quelli non erano altro che i mostri della tua immaginazione.» «Non farti beffe di me, signora.»
Lei rise. «Parlo in buona fede. Il castello crea le sue difese attingendo alla tua mente. Raramente un uomo può affrontare e sconfiggere la propria immaginazione. Nessuno ha mai saputo trovarmi, qui, per duecentocinquant'anni. Tutti sono periti per la paura... finora.» Gli sorrise. Era un sorriso pieno di calore. «E qual è il premio per un'impresa così grande?» chiese Aubec, burberamente. La donna rise ancora, e indicò la finestra affacciata sull'Orlo del Mondo e sul Caos. «Là fuori non esiste ancora nulla. Se ti avventuri là in mezzo ti troverai di fronte ad altre creature della tua fantasia più segreta, poiché non c'è altro da vedere.» Lo guardò con ammirazione, e il conte Aubec tossì, imbarazzato. «Di tanto in tanto» prosegui lei, «giunge a Kaneloon un uomo capace di superare la prova. Allora le frontiere del mondo si possono estendere, perché quando un uomo si oppone al Caos il Caos è costretto a indietreggiare; e prendono a esistere nuove terre.» «Dunque è questo il fato che hai in serbo per me, incantatrice?» La donna lo guardò, quasi con pudore. La sua bellezza parve accrescersi mentre il conte Aubec la guardava. Malador strinse convulsamente l'elsa della spada mentre lei si avvicinava con grazia e lo sfiorava, quasi per caso. «C'è una ricompensa, per il tuo coraggio.» Lo guardò negli occhi, e della ricompensa non parlò più poiché si comprendeva chiaramente cosa offriva. «E dopo... farai ciò che ti dirò e muoverai contro il Caos.» «Signora, non sai che il rituale impone al Campione di Klant di essere il fedele consorte della regina? Non posso tradire la mia parola e il mio impegno.» Aubec proruppe in una risata cavernosa. «Sono venuto qui per eliminare un pericolo per il regno della mia sovrana, non per diventare il tuo amante e il tuo servitore!» «Qui non esiste nessun pericolo.» «Sembra che questo sia vero...» La donna arretrò, come se volesse valutarlo di nuovo. Era un evento senza precedenti, per lei: mai era accaduto che la sua offerta venisse rifiutata. Le piaceva quell'uomo solido, che univa nel proprio carattere il coraggio e l'immaginazione. Era incredibile, pensò, che in pochi secoli potessero affermarsi simili tradizioni, capaci di vincolare un uomo a una donna che probabilmente lui non amava neppure. Lo guardò, mentre il conte Aubec se ne stava tutto irrigidito e nervoso. «Dimentica Klant» gli disse. «Pensa al potere che potresti avere: il pote-
re della vera creazione.» «Signora, io rivendico questo castello in nome di Klant. Sono venuto per questo, ed è quanto faccio in questo momento. Se uscirò vivo da qui, verrò giudicato vincitore e tu dovrai sottometterti.» La donna lo ascoltava appena. Esaminava mentalmente vari piani per convincerlo che la sua causa era più importante. Forse sarebbe riuscita ancora a sedurlo? O avrebbe potuto usare qualche droga per stregarlo? No, Aubec era troppo forte per l'una e per l'altra cosa, e quindi lei doveva escogitare uno stratagemma diverso. Mentre lo guardava, si accorse di ansimare involontariamente. Avrebbe preferito sedurlo. Era sempre stata una ricompensa per lei quanto per gli eroi che in tempi passati avevano superato i pericoli di Kaneloon. E poi pensò di aver trovato la soluzione. «Pensa, conte Aubec» sussurrò. «Pensa: nuove terre per l'impero della tua regina!» Il conte Aubec di Malador aggrottò la fronte. «Perché non estendere ancora più lontano i confini dell'impero?» continuò la donna. «Perché non creare nuovi territori?» Lo scrutò ansiosamente, mentre lui si toglieva l'elmo e si grattava la massiccia testa calva. «Finalmente hai detto qualcosa di persuasivo» bofonchiò lui, in tono di dubbio. «Pensa agli onori che riceveresti a Klant se riuscissi a conquistare non soltanto Kaneloon... ma anche ciò che sta oltre!» Aubec di Malador si passò la mano sul mento. «Sì» disse. «Sì...» Rughe profonde si incisero sulla sua fronte. «Nuove pianure, nuove montagne, nuovi mari... perfino nuovi popoli... Intere città piene di gente appena scaturita dal Caos e tuttavia con i ricordi di generazioni e generazioni di antenati! Tu puoi compiere tutto questo, conte di Malador... per la regina Eloarde e Lormyr!» Lui sorrise debolmente: la sua immaginazione si era accesa. «Sì. Se posso vincere i pericoli di qui... allora posso fare altrettanto là fuori! Sarà l'avventura più grande della storia. Il mio nome diventerà leggenda... Malador, Dominatore del Caos!» Lei gli rivolse uno sguardo tenero, sebbene l'avesse quasi raggirato. Il conte Aubec si issò sulla spalla la grande spada. «Tenterò, signora.» Si accostarono insieme alla finestra, contemplando la sostanza del Caos che mormorava e ondeggiava eternamente dinanzi a loro. Per lei non era mai stata del tutto familiare, poiché cangiava di continuo. Ora i colori pre-
dominanti erano rosso e nero. Volute color malva e arancione si sollevavano a spirale e si disperdevano serpeggiando. Forme bizzarre guizzavano in quella sostanza, e i contorni non erano mai nitidi, mai riconoscibili. Aubec di Malador disse alla donna: «I Signori del Caos regnano su questi territori. Cosa diranno?» «Non possono dire nulla o fare molto. Anche loro devono ubbidire alla Legge dell'Equilibrio Cosmico, la quale stabilisce che se l'uomo può affrontare il Caos sarà suo diritto portarvi l'ordine. E così la Terra cresce, lentamente.» «Come posso penetrarvi?» La donna gli afferrò il braccio muscoloso e indicò oltre la finestra. «Guarda, laggiù. Una strada sopraelevata porta da questa torre al precipizio.» Lo scrutò, con occhi acuti. «La vedi?» «Ah, sì... Prima non l'avevo vista, ma ora si. Sì, una strada sopraelevata.» Ritta dietro di lui, la donna sorrise lievemente tra sé. «Eliminerò la barriera» disse. Aubec di Malador si assestò l'elmo sulla testa. «Per Klant e per Eloarde, e per loro soltanto, io intraprendo questa avventura.» La donna si accostò al muro e alzò la finestra. Aubec non le rivolse neppure l'ultimo sguardo e si avviò per la strada sopraelevata addentrandosi nella nebbia multicolore. E mentre lo guardava scomparire, lei sorrise. Com'era stato facile ingannare il più forte degli uomini, fingendo di assecondarlo! Aubec poteva anche aggiungere nuove terre all'impero, ma forse avrebbe scoperto che le relative popolazioni non erano disposte ad accettare Eloarde come imperatrice. Anzi, se Aubec non operava nel modo esatto avrebbe creato per Klant un pericolo addirittura più grande di quanto fosse mai stato Kaneloon. E tuttavia lei l'ammirava e se ne sentiva attratta perché non era accessibile: un poco più attratta di quanto lo fosse stata dal precedente eroe che aveva strappato al Caos la terra di Aubec, meno di duecento anni prima. Oh, quello sì che era un uomo! Ma come molti altri che l'avevano preceduto, non aveva avuto bisogno di altro allettamento che della promessa del corpo di lei. La debolezza del conte Aubec stava nella sua forza, pensò la donna. Ormai era scomparso nelle nebbie turbinanti. Questa volta si sentiva un poco rattristata, perché il compimento della
missione assegnatale dai Signori della Legge non le aveva arrecato il consueto piacere. Eppure, pensò, forse provava un piacere più sottile nella fermezza di quell'uomo e nei mezzi cui lei aveva fatto ricorso per convincerlo. Da secoli i Signori della Legge le avevano affidato Kaneloon e i suoi segreti. Ma i progressi erano lenti, perché erano pochi gli eroi capaci di sopravvivere ai pericoli di Kaneloon: pochi coloro che sapevano sconfiggere i pericoli da loro stessi creati. Eppure, pensò con un lieve sorriso sulle labbra, la missione aveva portato anche ricompense. Andò in un'altra stanza, per preparare la transizione del castello al nuovo Orlo del Mondo. In tal modo vennero gettati i semi dell'epoca dei Regni Giovani, l'epoca degli uomini, che avrebbe causato la caduta di Melniboné. PARTE PRIMA LA CITTÀ SOGNANTE Che narra come Elric ritornò a Imrryr, ciò che vi fece, e infine come il suo fato gli piombò addosso... CAPITOLO PRIMO «Che ora è?» L'uomo dalla barba nera si tolse l'elmo dorato e lo scagliò lontano, senza badare a dove cadeva. Si sfilò i guanti di pelle e si avvicinò al fuoco ruggente, perché il calore gli penetrasse nelle ossa intirizzite. «Mezzanotte è trascorsa da parecchio» borbottò uno degli altri uomini in corazza raccolti intorno al falò. «Sei ancora sicuro che verrà?» «Si dice che mantenga sempre la parola data, se questo ti consola.» Colui che aveva parlato era un giovane alto, dal volto pallido. Le labbra sottili formavano le parole e le sputavano maliziosamente. Sogghignò come un lupo, e guardò negli occhi il nuovo venuto irridendolo. Il nuovo venuto gli voltò le spalle, scrollandole. «È così... nonostante la tua ironia, Yaris. Verrà.» Il suo tono era quello di chi desidera soprattutto tranquillizzare se stesso. Adesso c'erano sei uomini, intorno al fuoco. Il sesto era Smiorgan, il conte Smiorgan il Calvo delle Città Purpuree. Era un uomo tozzo, robusto, sulla cinquantina, col volto segnato da cicatrici e parzialmente celato da una folta barba nera. I suoi occhi ardevano foschi, e le nodose dita gioche-
rellavano nervosamente con la ricca elsa dello spadone. Aveva la testa calva, e sopra l'ornata armatura aurea era drappeggiato un ampio mantello di lana tinto di porpora. Disse, con voce impastata: «Non ama suo cugino. È infuriato. Yyrkoon siede sul Trono di Rubino al suo posto, e l'ha dichiarato bandito e traditore. Elric ha bisogno di noi, se vuole riconquistare il trono e la sposa. Possiamo fidarci, di lui.» «Questa notte trabocchi di fiducia, conte.» Yaris sorrise, a labbra strette. «È una cosa molto rara, in questi tempi turbolenti. Io dico...» S'interruppe e tirò un profondo respiro, guardando i suoi compagni come per valutarli. Il suo sguardo passò rapido dallo scarno Dharmit di Jharkor a Fadan di Lormyr, che sporgeva le labbra carnose e fissava il fuoco. «Parla apertamente, Yaris» intimò in tono petulante Naclon, il vilmiriano dai lineamenti aristocratici. «Sentiamo cos'hai da dire, ragazzo, se vale la pena di ascoltarlo.» Yaris guardò l'elegante Jiku, che sbadigliò sgarbatamente e si grattò il lungo naso. «Ebbene!» Smiorgan si spazienti. «Cos'hai da dire, Yaris?» «Dico che dovremmo muoverci subito, senza sprecare altro tempo ad aspettare i comodi di Elric! Starà ridendo di noi in qualche taverna a cento miglia da qui... oppure sta tramando con i principi-draghi per prenderci in trappola. Da anni abbiamo pianificato questa incursione. Abbiamo a disposizione poco tempo per sferrare il colpo: la nostra flotta è troppo grande, troppo cospicua. E anche se Elric non ci ha traditi, presto le spie si precipiteranno verso oriente per avvertire i draghi che una flotta si è radunata per muovere contro di loro. Possiamo conquistare una ricchezza fantastica, impadronirci della più grande città commerciale del mondo, rastrellare tesori smisurati... o trovare una morte atroce per mano dei principi-draghi, se attendiamo troppo a lungo. Non perdiamo altro tempo, e salpiamo prima che la nostra preda venga a conoscenza del nostro piano e si assicuri rinforzi!» «Sei sempre stato troppo avventato nel diffidare di un uomo, Yaris.» Re Naclon di Vilmir parlò lentamente, meticolosamente, scrutando con aria irritata il giovane dal volto teso. «Non potremmo arrivare a Imrryr senza Elric, il solo che conosca i canali del labirinto marino per giungere al porto. Se Elric non si unirà a noi, la nostra impresa sarà vana: disperata. Abbiamo bisogno di lui. Dobbiamo attenderlo... o rinunciare ai nostri piani e far ritorno alle nostre terre.»
«Io sono disposto a correre il rischio» esclamò Yaris, lanciando sguardi di collera dagli occhi obliqui. «State diventando vecchi tutti quanti. I tesori non si conquistano con la prudenza e la previdenza, ma con gli attacchi temerari e i massacri implacabili.» «Sciocco!» La voce di Dharmit tuonò nella sala illuminata dal fuoco. Rise, stancamente. «Anch'io parlavo così, in gioventù... e ho perso una splendida flotta. L'astuzia e la conoscenza di Elric ci permetteranno di conquistare Imrryr e la flotta più potente che mai abbia fatto vela sul Mare dei Sospiri da quando le bandiere di Melniboné garrivano su tutte le nazioni della Terra. Eccoci qui: siamo i più potenti signori del mare del mondo intero, e ognuno di noi dispone di più di cento vascelli veloci. I nostri nomi sono famosi e temuti, le nostre flotte devastano le coste di una ventina di nazioni minori. Siamo potenti!» Strinse il grosso pugno, agitandolo davanti agli occhi di Yaris. Cambiò tono e sorrise perversamente, fissando il giovane e scegliendo con cura le parole. «Ma tutto questo è inutile, insignificante, senza il potere di cui dispone Elric. Il potere della sapienza... della stregoneria, se devo usare questa parola maledetta. I suoi avi conoscevano il labirinto che protegge Imrryr da ogni attacco per via di mare, e gli hanno trasmesso il segreto. Imrryr, la Città Sognante, sogna in pace... e continuerà così a meno che noi abbiamo una guida per trovare la rotta negli infidi canali che conducono al suo porto. Abbiamo bisogno di Elric: noi lo sappiamo, e lo sa anche lui. Ecco la verità!» «Questa fiducia, signori, mi riscalda il cuore.» La voce pesante che veniva dall'ingresso della sala era carica d'ironia. I sei signori del mare girarono di scatto la testa in quella direzione. Yaris si sentì abbandonare da tutta la sua sicurezza, quando incontrò gli occhi di Elric di Melniboné. Erano occhi vecchissimi in un volto giovane, dai lineamenti ben modellati. Occhi cremisi che scrutavano l'eternità. Yaris rabbrividì e voltò le spalle a Elric: preferiva guardare il fulgido bagliore del fuoco. Elric sorrise con calore quando il conte Smiorgan gli posò la mano sulla spalla. C'era un sentimento d'amicizia, tra loro. Rivolse un cenno condiscendente agli altri quattro, e si avviò verso il fuoco con agile eleganza. Era alto, con le spalle ampie e i fianchi snelli. Portava i lunghi capelli fissati alla nuca, e per qualche ragione misteriosa ostentava l'abito di un barbaro del sud. Calzava alti stivali di morbida pelle di daino, e indossava una corazza d'argento stranamente lavorato, un giustacuore a scacchi di lino bianco e azzurro, brache di lana scarlatta e un mantello di frusciante vellu-
to verde. Al fianco aveva la spada incantata di ferro nero: la temutissima Tempestosa, forgiata da una stregoneria antica e aliena. L'abbigliamento bizzarro era chiassoso e di cattivo gusto, e mal s'intonava al volto sensibile e alle mani dalle dita lunghe, quasi delicate; tuttavia lui l'ostentava perché sottolineava il fatto che era fuori posto in qualunque compagnia: estraneo e reietto. Ma in realtà non avrebbe avuto bisogno di portare abiti tanto eccentrici, perché la sua carnagione e i suoi occhi bastavano a distinguerlo. Elric, l'ultimo sovrano di Melniboné, era un albino puro, che traeva la sua forza e il suo potere da una fonte segreta e terribile. Smiorgan sospirò. «Ebbene, Elric, quando compiremo l'incursione contro Imrryr?» Elric scrollò le spalle. «Quando vorrai: non m'importa. Lasciami un poco di tempo per fare certe cose.» «Domani? Salperemo domani?» chiese esitante Yaris, conscio dello strano potere latente nell'uomo che poco prima aveva accusato di tradimento. Elric sorrise, respingendo la richiesta del giovane. «Fra tre giorni» disse. «Tre... o più.» «Tre giorni! Ma Imrryr verrà informata della nostra presenza, nel frattempo!» esclamò il grasso e cauto Fadan. «Farò in modo che la vostra flotta non venga scoperta» promise Elric. «Prima devo andare a Imrryr... e ritornare.» «Non potrai compiere quel viaggio in tre giorni: neppure la nave più veloce ci riuscirebbe» protestò Smiorgan, sbalordito. «Giungerò nella Città Sognante in meno di un giorno» disse Elric, pacatamente ma in tono deciso. Smiorgan si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu, lo credo. Ma perché è necessario che ti rechi nella città prima della spedizione?» «Ho i miei scrupoli, conte Smiorgan. Ma non preoccuparti, non vi tradirò. Io stesso guiderò la spedizione, stanne certo.» Il bianchissimo volto era illuminato dal fuoco, e gli occhi rossi ardevano come braci. Una mano scarna strinse con fermezza l'elsa della spada. L'albino parve respirare più pesantemente. «Imrryr è caduta, in spirito, cinquecento anni orsono: e presto cadrà completamente, per sempre! Ho un debito da ripagare. E questa è la sola ragione per cui vi aiuto. Come sapete, ho stabilito poche condizioni: dovete radere al suolo la città, e non farete del male a un certo uomo e a una certa donna. Mi riferisco a mio cugino Yyrkoon e a sua sorella Cymo-
ril...» Yaris si sentì le labbra aride. I suoi modi impulsivi erano dovuti in parte alla morte prematura del padre. Il vecchio signore del mare era morto lasciando il giovane Yaris sovrano delle sue terre e delle sue flotte. Yaris non era del tutto certo di saper comandare su un regno tanto vasto, e cercava di apparire più sicuro di sé di quanto fosse in realtà. Ora chiese: «Come nasconderemo la flotta, principe Elric?» Il melniboneano si girò verso di lui. «La nasconderò io» promise. «Vi provvederò ora, ma prima accertatevi che tutti i vostri uomini abbiano lasciato le navi. Vuoi incaricartene tu, Smiorgan?» «Sì» tuonò il conte. Uscì dalla sala insieme a Elric, lasciando gli altri cinque: cinque uomini che sentivano aleggiare nella sala surriscaldata un'atmosfera gelida, foriera di sciagura. «Come può nascondere una flotta tanto grande se noi che conosciamo questo fiordo meglio di chiunque altro non abbiamo saputo trovare un rifugio sicuro?» chiese sbalordito Dharmit di Jharkor. Nessuno gli rispose. Aspettarono, tesi e innervositi, mentre il fuoco agonizzava e si spegneva senza che nessuno lo curasse. Poi Smiorgan ritornò, battendo rumorosamente i piedi sul pavimento ligneo. Sembrava irradiare un alone di paura: un'aura quasi tangibile. Rabbrividiva terribilmente. Fremiti convulsi, ondulanti, gli scuotevano il corpo, e il respiro gli usciva mozzo dalle labbra. «Ebbene? Elric ha nascosto la flotta così, da un istante all'altro? Cos'ha fatto?» Dharmit parlò spazientito, fingendo di non accorgersi delle condizioni di Smiorgan. «L'ha nascosta.» Smiorgan non disse altro, e la sua voce era fievole come quella di un malato indebolito dalla febbre. Yaris andò alla porta e cercò di scrutare oltre le pendici del fiordo, dove ardevano molti fuochi: cercò di distinguere i contorni degli alberi e delle sartie delle navi, ma non riuscì a scorgere nulla. «La nebbia notturna è troppo fitta» mormorò. «Non saprei dire se le nostre navi sono ancorate nel fiordo o no.» Poi soffocò un grido quando un volto bianchissimo emerse all'improvviso dalla nebbia. «Salve, principe Elric» balbettò, notando che i tesi lineamenti del melniboneano erano madidi di sudore. Elric gli passò accanto vacillando ed entrò nella sala. «Vino» mormorò. «Ho fatto ciò che era necessario, e mi è costato fatica.»
Dharmit afferrò una fiasca di forte vino cadsandriano e con mano tremante ne versò un poco in una coppa lignea. Senza una parola la porse a Elric, che la vuotò rapidamente. «Ora dormirò» disse l'albino, abbandonandosi su un seggiolone e avvolgendosi nel mantello verde. Chiuse gli sconcertanti occhi cremisi e piombò nel sonno dello sfinimento. Fadan accorse alla porta, la chiuse e abbassò la pesante sbarra di ferro. Nessuno dei sei dormì molto, quella notte: e al mattino dopo la porta non era più sbarrata, e Elric se n'era andato. Quando uscirono, la nebbia era così fitta che ben presto si persero di vista reciprocamente, sebbene non fossero lontani l'uno dall'altro più di due passi. Elric stava ritto, a gambe larghe, sui ciottoli della stretta spiaggia. Si voltò a guardare l'ingresso del fiordo e osservò soddisfatto che la nebbia continuava a infittirsi, sebbene avvolgesse soltanto il fiordo nascondendo la grande flotta. Altrove il cielo era limpido, e un pallido sole invernale brillava sulle rocce nere e sugli strapiombi tormentati che dominavano la costa. Davanti a lui il mare si sollevava e si abbassava con ritmo monotono, come il petto di un gigante equoreo addormentato, grigio e puro, scintillante nella fredda luce solare. Elric toccò i simboli in rilievo sull'elsa della nera spada, e un vento prese a spirare dal nord nelle pieghe voluminose del suo mantello scuro facendolo turbinare intorno alla sua figura alta e snella. L'albino si sentiva in condizioni migliori della notte precedente, quando aveva esaurito tutte le forze per evocare la nebbia. Conosceva bene le arti della magia naturale, ma non possedeva le riserve d'energia che avevano avuto gli imperatori stregoni di Melniboné quando dominavano il mondo. I suoi antenati gli avevano trasmesso la loro sapienza ma non la mistica vitalità; e molti degli incantesimi e dei segreti da lui conosciuti erano inservibili, poiché lui non possedeva la riserva di energia fisica e spirituale per renderli operanti. Nonostante questo, Elric conosceva un solo uomo che possedesse una scienza pari alla sua: suo cugino Yyrkoon. Strinse più forte l'elsa della spada, ricordando il cugino che per due volte aveva tradito la sua fiducia, e si sforzò di pensare solo al compito di quel momento: proferire gli incantesimi che l'avrebbero aiutato nel viaggio all'Isola del Drago, la cui unica città, Imrryr la Bella, era l'obbiettivo della spedizione dei signori del mare. Sulla spiaggia c'era una piccola barca a vela tirata in secco: era il vascello di Elric, robusto e molto più forte e antico di quanto apparisse. Il cupo mare gettava le onde intorno allo scafo, mentre la marea si ritirava, e Elric
comprese di avere a disposizione poco tempo per operare la necessaria magia. Si tese e svuotò la mente conscia, evocando i segreti dai tenebrosi abissi dell'anima. Vacillando, con gli occhi vacui che non vedevano nulla e le braccia protese e sussultanti per tracciare empi segni nell'aria, cominciò a parlare con voce monotona e sibilante. A poco a poco il tono si fece più acuto, simile all'urlo appena percettibile di una tempesta lontana; poi, all'improvviso, la voce si alzò ancora, ululando selvaggiamente ai cieli, e l'aria prese a fremere e a tremare. Forme d'ombra cominciarono ad apparire: non restavano mai immobili, e sfrecciavano intorno a Elric che a passi rigidi si avviava verso la barca. La voce divenuta inumana ululava insistente, evocando gli spiriti elementari del vento, i silfi della brezza, gli sharnah suscitatori di tempeste, gli h'Haarshann creatori delle trombe d'aria: informi e nebulosi, gli turbinavano intorno mentre lui chiedeva il loro aiuto con le aliene parole degli antenati che - intere epoche addietro - avevano concluso patti inimmaginabili con gli spiriti elementari per assicurarsi i loro servigi. Salito con movimenti rigidi nell'imbarcazione, Elric alzò la vela e la regolò, agendo come un automa. Allora una grande onda eruppe dal mare placido e divenne sempre più alta fino a torreggiare sul vascello. Con uno scroscio violento l'acqua piombò sulla barca, la sollevò e la trascinò verso il largo. Elric, seduto a poppa con gli occhi vacui, continuava a cantilenare il tremendo incantesimo, mentre gli spiriti dell'aria gonfiavano la vela e facevano volare la barca sul mare, più veloce di qualunque nave dei mortali. E l'urlo empio e assordante degli spiriti elementari scatenati riempiva l'aria intorno alla barca, mentre la spiaggia scompariva e restava visibile soltanto il mare. CAPITOLO SECONDO E così, avendo a compagni i demoni del vento, Elric, ultimo principe della stirpe reale di Melniboné, ritornò all'ultima città ancora dominata dalla sua razza: ultima città e ultima testimonianza dell'architettura melniboneana. Le dolci tinte rosate e gialle delle sue torri più vicine apparvero poche ore dopo che Elric aveva lasciato il fiordo: e a poca distanza dall'Isola dei Signori dei Draghi, gli spiriti elementari abbandonarono l'imbarcazione e tornarono in volo alle dimore segrete tra i picchi delle più alte montagne del mondo. Allora Elric si riscosse dalla trance e guardò con rinnovato
stupore la bellezza delle delicate torri della sua città, visibili anche a quella distanza, difese dalla formidabile muraglia con la grande entrata, il labirinto dalle cinque porte e i canali tortuosi, uno solo dei quali conduceva al porto interno di Imrryr. Elric sapeva che non poteva arrischiarsi a entrare nel porto attraverso il labirinto, benché conoscesse alla perfezione il percorso. Decise invece di portare la barca più oltre lungo la costa, in una piccola baia. Con mani sicure ed esperte guidò il piccolo vascello verso la caletta nascosta da folti arbusti carichi di bacche azzurre velenose per gli umani, poiché il loro succo dapprima toglieva la vista e poi il senno. Quella bacca, il nodoil, cresceva soltanto nei pressi di Imrryr, insieme ad altre piante rare e mortali. Nubi basse e chiare passavano lentamente nel cielo dipinto di sole, come ragnatele finissime afferrate da una brezza improvvisa. Tutto il mondo sembrava azzurro e oro e verde e bianco; e Elric, mentre trascinava la barca sulla spiaggia, aspirò l'aria pulita e frizzante dell'inverno e assaporò l'odore delle foglie e del sottobosco che imputridiva. Chissà dove, una volpe femmina lanciò un latrato di piacere al suo compagno, e Elric si rammaricò che la propria razza decadente non sapesse più apprezzare le bellezze della natura e preferisse restare nella città, trascorrendo gran parte dei giorni in un sonno drogato. Non era la città, a sognare, bensì i suoi abitanti troppo civili. Elric, mentre aspirava gli intensi e puri odori dell'inverno, si rallegrò di non regnare sulla città che gli apparteneva per diritto di nascita. Suo cugino Yyrkoon stava sul Trono di Rubino di Imrryr la Bella, e lo odiava perché sapeva che Elric, nonostante la ripugnanza per le corone e il dominio, era ancora il legittimo re dell'Isola del Drago, mentre lui era un usurpatore, non innalzato al trono dall'imperatore come esigeva la tradizione melniboneana. Ma Elric aveva ragioni più valide per odiare il cugino. E per quelle ragioni l'antica capitale sarebbe caduta in tutta la sua magnificenza, e l'ultimo frammento di un impero glorioso sarebbe stato cancellato nel crollo delle torri rosee, gialle, purpuree e bianche... se Elric realizzava ciò che voleva e se i signori del mare ottenevano la vittoria. Elric s'incamminò verso l'entroterra, in direzione di Imrryr; e mentre lui percorreva chilometri e chilometri di terreno soffice, il sole gettò un sudario d'ocra sull'isola e tramontò, lasciando il posto a una notte buia e illune, cupa e satura di portenti funesti. Giunse finalmente alla città. Spiccava come un profilo nero, fantastica nella sua magnificenza. Era la metropoli più antica del mondo, eretta da ar-
tisti e concepita come un'opera d'arte, non come un abitato funzionale: ma Elric sapeva che lo squallore si annidava in molte viuzze strette, e che i signori di Imrryr lasciavano vuote e disabitate molte torri pur di non permettere che vi s'installasse la popolazione imbastardita. Erano rimasti ben pochi signori dei draghi, ben pochi che potessero affermare di avere nelle vene il sangue puro di Melniboné. Costruita in modo da seguire la linea del terreno, la città aveva un aspetto organico, con viali tortuosi che salivano a spirale verso la cresta della collina, dove sorgeva il castello, alto e fiero con le sue numerose guglie, capolavoro supremo dell'antico artista dimenticato che l'aveva costruito. Ma da Imrryr la Bella non emanavano suoni di vita: solo un senso di desolazione soporifica. La città dormiva... e i signori dei draghi e le loro dame e i loro schiavi prediletti vivevano sogni di grandezza e d'incredibile orrore, ispirati dalle droghe, mentre tutti gli altri abitanti, vincolati dal coprifuoco, si agitavano sui materassi sgargianti e cercavano di non sognare niente. Elric, tenendo la destra sempre vicina all'elsa della spada, passò da una postierla incustodita che si apriva nelle mura della città e si avviò cautamente per le vie buie, salendo per i viali tortuosi verso il palazzo di Yyrkoon. Il vento sospirava nelle sale vuote delle Torri del Drago; e talora Elric era costretto a ritirarsi in angoli dove le ombre erano più fitte, quando udiva una cadenza di passi e transitava un gruppo di guardie incaricate di accertare che il coprifuoco venisse rispettato. Spesso udiva risa sfrenate uscire echeggiando da una delle torri, ancora accesa dalla luce delle torce che gettavano strane ombre inquietanti sui muri; e spesso udiva un urlo agghiacciante e un grido frenetico da idiota, mentre qualche schiavo sventurato moriva tra laide sofferenze per allietare il suo padrone. Elric non si sentiva sgomentato da quei suoni e da quelle visioni cupe. Li apprezzava. Era pur sempre un melniboneano, il sovrano legittimo qualora avesse deciso di riprendere i poteri regali; e sebbene provasse l'oscuro impulso di vagare e di assaporare i meno raffinati piaceri del mondo esterno, dietro di lui stavano diecimila anni di una cultura crudele e splendente e maligna, e la vivacità della sua discendenza gli faceva battere forte nelle vene il suo sangue indebolito. Elric bussò impaziente alla pesante porta di legno nero. Era giunto al palazzo e s'era fermato a un piccolo ingresso secondario, guardandosi intorno
prudentemente perché sapeva che Yyrkoon aveva dato alle guardie l'ordine di ucciderlo a vista se fosse entrato a Imrryr. Un catenaccio cigolò all'interno, e la porta si socchiuse senza far rumore. Un volto magro e segnato si affacciò. «È il re?» mormorò l'uomo, scrutando nella notte. Era alto, estremamente scarno, con gli arti lunghi e nodosi che si muovevano goffi mentre si avvicinava aguzzando gli occhi tondi per guardare Elric. «Sono il principe Elric» disse l'albino. «Ma tu dimentichi, amico mio Ossastorte, che sul trono di Rubino siede un nuovo re.» Ossastorte scosse il capo, e i radi capelli gli ricaddero sul volto. Li ributtò all'indietro con uno scatto della testa e si scostò per lasciar passare Elric. «L'Isola del Drago ha un solo re: e il suo nome è Elric, qualunque cosa dica l'usurpatore.» Elric non replicò, ma sorrise a labbra strette e attese che l'uomo avesse tirato di nuovo il catenaccio. «Lei dorme ancora, sire» mormorò Ossastorte mentre saliva una scala buia, seguito da Elric. «L'avevo immaginato» disse Elric. «Non sottovaluto i poteri magici del mio buon cugino.» I due uomini salirono in silenzio, e giunsero in un corridoio rischiarato dalla luce danzante delle fiaccole. Le pareti marmoree rispecchiavano le fiamme e mostravano a Elric, acquattato dietro una colonna insieme a Ossastorte, che la stanza che gli interessava era sorvegliata da un robusto arciere vigile e attento: un eunuco, a giudicare dall'aspetto. Era calvo e grasso, e la lucente armatura nerazzurra era indossata direttamente a contatto della pelle; le dita erano strette intorno alla corda del corto arco d'osso, con la freccia incoccata. Elric intuì che era uno dei più abili arcieri eunuchi della Guardia Silenziosa, la compagnia dei migliori guerrieri di Imrryr. Ossastorte, che aveva insegnato al giovane Elric le arti della scherma e del tiro con l'arco, sapeva della presenza della guardia e si era preparato. In precedenza aveva nascosto un arco dietro la colonna. Lo prese senza far rumore, e piegandolo contro il ginocchio lo tese. Incoccò una freccia, la puntò mirando all'occhio destro della guardia, e tirò, proprio nell'istante in cui l'eunuco si girava verso di lui. La freccia mancò il bersaglio: tintinnò contro la gorgera e cadde sulle stuoie di canne del pavimento. Elric agì fulmineo, balzando avanti con la spada magica sguainata che faceva affluire in lui una potenza aliena. La lama sibilò in un lampo bruciante di nero acciaio, e recise l'arco d'osso con cui l'eunuco aveva cercato
di deviarla. La guardia ansimò, e schiuse le labbra rosse e umide per gridare. Appena quello aprì la bocca, Elric vide ciò che si aspettava: non aveva lingua. Era muto. Sfoderò la corta spada e riuscì appena in tempo a parare il successivo affondo di Elric. Tra una pioggia di scintille, Tempestosa centrò l'affilata lama dell'eunuco, il quale barcollò e arretrò davanti alla spada stregata, apparentemente dotata di vita propria. Il clangore del metallo echeggiò nel breve corridoio, e Elric maledisse la sorte che aveva fatto voltare l'uomo al momento critico. Prontamente, rabbiosamente, superò la goffa guardia dell'eunuco. L'eunuco intravide appena il suo avversario, dietro la nera lama roteante che sembrava tanto leggera e che pure era due volte più lunga della sua. Si chiese, sconvolto, chi era il suo aggressore, e gli parve di riconoscerne i lineamenti. Poi un'esplosione scarlatta gli oscurò la vista: una sofferenza bruciante lo colpì alla faccia; e allora, filosoficamente (perché gli eunuchi sono necessariamente votati a un certo fatalismo), comprese che stava per morire. Elric rimase ritto sul corpo gonfio dell'eunuco: gli svelse la spada dal cranio e asciugò il sangue e la materia cerebrale sul mantello dell'avversario caduto. Ossastorte era prudentemente scomparso: Elric ne udì lo scalpiccio di piedi calzati di sandali che si precipitavano su per la scala. Spalancò la porta ed entrò nella stanza rischiarata da due piccole candele, piazzate alle estremità di un ampio e ricco letto a baldacchino. Si accostò, e guardò la fanciulla dai capelli corvini che vi giaceva addormentata. Torse le labbra, e lacrime luminose riempirono i suoi strani occhi rossi. Tremando, ritornò alla porta, rinfoderò la spada e tirò il catenaccio. Si avvicinò di nuovo al letto e s'inginocchiò accanto alla fanciulla dormiente. I suoi lineamenti erano delicati, simili a quelli di Elric: ma in più avevano una bellezza squisita. Respirava lievemente, in un sonno indotto non dalla stanchezza naturale ma dalla perversa stregoneria del fratello. Teneramente, Elric prese nella sua una mano affusolata, se la portò alle labbra e la baciò. «Cymoril» sussurrò, in un tormento di nostalgia. «Cymoril... svegliati.» La fanciulla non si mosse: il suo respiro rimase lieve, gli occhi restarono chiusi. Il bianco volto di Elric si contrasse e i rossi occhi sfolgorarono, mentre una furia terribile e appassionata lo squassava. Strinse forte la mano di lei, inerte e snervata come la mano di una morta: la strinse finché dovette trattenersi per timore di stritolare quelle dita delicate. Un soldato cominciò a percuotere la porta, urlando.
Elric posò di nuovo la mano della fanciulla e si raddrizzò. Guardò la porta, come se non comprendesse. Una voce più stridente e più fredda interruppe le grida del soldato. «Cosa succede? Qualcuno ha cercato di vedere la mia povera sorella addormentata?» «Yyrkoon, il nero figlio dell'inferno» si disse Elric. Tra il farfugliare confuso del soldato, la voce di Yyrkoon si levò più forte. «Chiunque tu sia, là dentro: morrai di mille morti, quando verrai preso. Non puoi fuggire. Se hai fatto del male alla mia buona sorella... allora non morirai mai. Te l'assicuro. Ma pregherai i tuoi dèi di poter morire!» «Yyrkoon, cialtrone! Non puoi minacciare chi è tuo pari nelle arti tenebrose. Sono io, Elric: il tuo legittimo signore. Torna nella tua tana prima che io evochi tutte le potenze maligne che stanno sopra e sotto la Terra, per annientarti!» Yyrkoon rise, esitante. «Dunque sei tornato ancora, per cercare di destare mia sorella. Un tentativo simile non soltanto la ucciderà, ma invierà la sua anima nell'inferno più profondo... dove forse tu la raggiungerai!» «Per i sei seni di Amara! Sarai tu a morire di mille morti, e presto!» «Basta!» Yyrkoon alzò la voce. «Soldati: vi comando di abbattere la porta e di prendere vivo il traditore. Elric, ci sono due cose che tu non potrai avere mai più: l'amore di mia sorella e il Trono di Rubino. Approfitta del poco tempo che ti rimane, perché tra breve ti prostrerai davanti a me invocando la liberazione dal tormento della tua anima!» Elric non diede ascolto alle minacce di Yyrkoon e guardò la stretta finestra della stanza. Un uomo poteva passarci appena. Si piegò a baciare le labbra di Cymoril, e poi andò alla porta e senza far rumore aprì il catenaccio. Ci fu un tonfo quando un soldato si avventò con tutto il suo peso contro l'uscio, che si spalancò facendolo inciampare e cadere. Elric sfoderò la spada, la levò alta e colpì il collo del guerriero. La testa rotolò dalle spalle, e l'albino gridò con voce profonda e tonante: «Arioch! Arioch! Io ti offro sangue e anime... ma tu aiutami, ora! Ti do quest'uomo, potente re dell'inferno: aiuta il tuo servitore Elric di Melniboné!» Tre soldati entrarono in gruppo nella stanza. Elric sferrò un colpo a uno di loro, tranciandogli metà faccia. L'uomo urlò, orribilmente. «Arioch, signore delle tenebre, io ti offro sangue e anime. Aiutami, Maligno!»
Nell'angolo più lontano della stanza buia, una nebbia ancora più nera cominciò lentamente a prendere forma. Ma i soldati continuavano ad avanzare, e Elric faticava a ricacciarli. Mentre veniva spinto indietro dai numerosi guerrieri continuò a urlare incessantemente, quasi inconsciamente, il nome di Arioch, signore dell'Inferno Superiore. Alle loro spalle, Yyrkoon gridava di rabbia e di frustrazione, esortando tuttavia i suoi uomini a prendere vivo Elric. Quella necessità dava a Elric un certo vantaggio... e Tempestosa brillava di una strana luminescenza nera, e il sottile urlio che se ne irradiava strideva negli orecchi di coloro che l'udivano. Ormai c'erano altri due cadaveri sul pavimento della stanza, e il loro sangue intrideva gli splendidi tappeti. «Sangue e anime per il mio signore Arioch!» La nebbia scura si sollevò e cominciò a prendere forma. Elric gettò uno sguardo nell'angolo, e rabbrividì sebbene fosse abituato agli orrori infernali. Adesso i guerrieri voltavano le spalle all'essere nell'angolo, e Elric era accanto alla finestra. La massa amorfa che era una delle manifestazioni meno piacevoli del capriccioso patrono di Elric si sollevò ancora, e l'albino ne distinse l'aspetto insopportabilmente alieno. La bile gli inondò la bocca, e lui lottò contro la follia mentre ricacciava i guerrieri verso la cosa che fluiva sinuosamente in avanti. All'improvviso i quattro soldati parvero intuire che c'era qualcosa alle loro spalle. Si voltarono e urlarono all'unisono, pazzamente, mentre l'orrore nero si avventava per sommergerli. Arioch si acquattò su di loro, succhiandone l'anima. Poi, a poco a poco, le ossa si spezzarono, e urlando ancora bestialmente gli uomini guizzarono sul pavimento come orrendi invertebrati: con la spina dorsale a pezzi, erano ancora vivi. Elric voltò le spalle a quella scena, rallegrandosi una volta tanto che Cymoril dormisse, e balzò sul davanzale della finestra. Guardò in basso, e si rese conto disperatamente che da lì non poteva fuggire. Dal suolo lo separavano decine e decine di metri. Si precipitò alla porta, dove Yyrkoon, con gli occhi sbarrati per il terrore, cercava di respingere Arioch. Arioch si stava già dileguando. Elric passò oltre il cugino, gettò un ultimo sguardo a Cymoril, poi ripercorse la via seguita all'andata, scivolando sul sangue. Ossastorte l'attendeva in cima alla buia scala. «Cos'è accaduto, re Elric? Cosa c'è, là dentro?» Elric afferrò Ossastorte per la scarna spalla e lo trascinò giù per i gradini. «Non c'è tempo» ansimò. «Ma dobbiamo affrettarci, finché Yyrkoon è
ancora alle prese col suo problema. Tra cinque giorni Imrryr conoscerà una nuova fase della sua storia, forse l'ultima. Voglio che tu metta al sicuro Cymoril. È chiaro?» «Sì, mio signore, ma...» Giunsero alla porta, e Ossastorte tirò i catenacci e l'apri. «Non ho tempo di dire altro. Devo fuggire finché posso. Ritornerò tra cinque giorni, con i miei compagni. Capirai ciò che voglio dire quando verrà il momento. Porta Cymoril alla Torre di D'a'rputna e attendimi là.» Poi Elric sparì, correndo nella notte, mentre le urla dei morenti echeggiavano ancora dietro di lui. CAPITOLO TERZO Elric stava ritto, in silenzio, sulla prua dell'ammiraglia del conte Smiorgan. Da quando era tornato al fiordo e la flotta aveva fatto vela verso il mare aperto, aveva pronunciato soltanto ordini laconici. I signori del mare mormoravano che un grande odio lo divorava, avvelenava la sua anima e lo rendeva pericoloso come alleato non meno che come nemico; e perfino il conte Smiorgan lo evitava. Le prue degli scorridori erano puntate verso oriente, e il mare nereggiava di navi che danzavano in tutte le direzioni sull'acqua luminosa: sembravano l'ombra di un immane uccello marino che volteggiasse sulle distese equoree. Quasi cinquecento navi da guerra chiazzavano l'oceano: tutte di forma simile, lunghe e snelle, costruite per la velocità più che per il combattimento, poiché servivano per commerciare e per compiere scorrerie sulle coste. Nel pallido sole, le vele brillavano dei vivaci colori dei teli nuovi: arancione, azzurro, nero, porpora, rosso, giallo, verde chiaro, bianco. E ogni nave aveva sedici o più rematori, e ogni rematore era un guerriero. Erano costoro, che avrebbero attaccato Imrryr: non si poteva sprecare l'energia degli uomini validi, poiché le nazioni del mare erano sottopopolate e perdevano ogni anno centinaia di combattenti nelle abituali incursioni. Al centro della grande flotta veleggiavano vascelli più grandi. Trasportavano sui ponti grosse catapulte, che sarebbero state usate per assalire la diga foranea di Imrryr. Il conte Smiorgan e gli altri signori guardavano con orgoglio le loro navi, ma Elric fissava nel vuoto senza dormire mai, muovendosi raramente, col bianco volto sferzato dalla spuma salmastra e dal vento e la bianca mano posata sull'elsa della spada.
Le navi avanzavano costantemente verso est, verso l'Isola del Drago e le sue ricchezze fantastiche... o verso gli orrori infernali. Inarrestabili, sospinte dal destino, avanzavano con i remi che s'immergevano all'unisono e le vele gonfiate dal vento propizio. Navigavano verso Imrryr la Bella, per violentare e saccheggiare la più antica città del mondo. Due giorni dopo la partenza della flotta, venne avvistata la costa dell'Isola del Drago e il clangore delle armi sostituì il suono cadenzato dei remi, mentre la possente flotta si fermava e si preparava a compiere ciò che i saggi credevano impossibile. Gli ordini vennero gridati da nave a nave, e la flotta cominciò a disporsi in formazione da combattimento; poi i remi scricchiolarono nelle cubie e la flotta prese ad avanzare pesantemente con le vele ammainate. Era una giornata limpida e fredda, e tra gli uomini (dai signori del mare ai mozzi) regnava un'intensa eccitazione, mentre pensavano all'immediato futuro e a ciò che poteva portare. Le prue a foggia di serpente piegarono verso la grande muraglia di pietra che bloccava l'accesso al porto. Era alta quasi trenta metri e coronata da torri, più funzionali delle guglie merlettate della città che luccicava in lontananza. Le navi di Imrryr erano le sole cui fosse permesso di varcare la grande porta al centro della muraglia, e la rotta attraverso il labirinto e perfino l'esatta entrata erano un segreto inaccessibile agli estranei. Sulla diga, che ormai torreggiava altissima sopra la flotta, le sbalordite sentinelle accorrevano freneticamente alle postazioni. Il pericolo di un attacco era impensabile, per loro: eppure una grande flotta, la più possente che mai si fosse vista, muoveva contro Imrryr la Bella. Corsero ai loro posti, in un fruscio di mantelli e gonnellini gialli e nel clangore delle bronzee armature; ma si muovevano con sbigottita riluttanza, come se rifiutassero di accettare quanto vedevano. E andavano alle loro postazioni con fatalismo disperato, sapendo che, anche se le navi non riuscivano a entrare nel labirinto, loro non sarebbero vissute tanto da assistere alla sconfitta degli scorridori. Dyvim Tarkan, comandante della Muraglia, era un uomo sensibile che amava la vita e i suoi piaceri. Era bello, con la fronte alta e i baffetti sottili e una barbetta rada. Faceva una splendida figura, nell'armatura bronzea con l'elmo dall'alto ciuffo di piume; e non voleva morire. Impartì ordini laconici ai suoi uomini, e quelli ubbidirono con disciplinata precisione. Dyvim Tarkan ascoltava preoccupato le lontane grida che salivano dalle
navi, e si chiedeva quale sarebbe stata la prima mossa degli aggressori. Non dovette attendere a lungo la risposta. Una catapulta, installata a bordo di uno dei vascelli più avanzati, lanciò il suo grido gutturale, e il braccio si levò di scatto scagliando una grande pietra che volò verso la muraglia, quasi con grazia disinvolta. Non la raggiunse e piombò nel mare, che spumeggiò contro i massi della diga. Deglutendo a fatica e sforzandosi di dominare il tremito della voce, Dyvim Tarkan ordinò di tirare con la catapulta. Con un tonfo tonante la fune venne tagliata, e una sfera di ferro saettò verso la flotta nemica. Le navi erano così vicine l'una all'altra che il colpo non poteva fallire: la sfera centrò in pieno il ponte dell'ammiraglia di Dharmit di Jharkor, e sfondò il fasciame. In pochi istanti, accompagnata dalle grida degli uomini menomati o di quelli che stavano annegando, la nave affondò trascinando con sé Dharmit. Alcuni dell'equipaggio furono presi a bordo di altri vascelli, ma i feriti vennero lasciati affogare. Un'altra catapulta tuonò, e questa volta venne centrata una torre piena d'arcieri. Il muro si sgretolò, le pietre piovvero verso l'esterno, e i guerrieri che erano ancora vivi caddero e morirono nel mare crestato di spuma che sferzava la muraglia. Questa volta, infuriati per la morte dei compagni, gli arcieri imrryriani scagliarono contro la flotta nemica un nugolo di sottili frecce. Molti aggressori urlarono mentre le aste piumate di rosso si piantavano assetate nelle loro carni. Ma dalle navi partirono raffiche di frecce altrettanto fitte, e ben presto soltanto un pugno d'uomini rimase sul muro mentre altre pietre lanciate dalle catapulte sfasciavano le torri e schiacciavano gli uomini, distruggendo l'unica macchina da guerra dei difensori e parte della diga. Dyvim Tarkan era ancora vivo, benché la sua gialla tunica fosse macchiata di sangue e l'asta di una freccia gli spuntasse dalla spalla sinistra. Era ancora vivo quando la prima nave-ariete avanzò irresistibile verso l'enorme porta lignea e l'investì, indebolendola. Una seconda nave avanzò a fianco della prima: insieme sfondarono la porta e superarono l'entrata. Erano le prime navi non imrryriane che avessero mai compiuto una simile impresa. Forse fu proprio l'orrore per l'oltraggio inferto alla tradizione, a far perdere l'equilibrio al povero Dyvim Tarkan sull'orlo della muraglia: precipitò urlando e si spezzò il collo sulla tolda dell'ammiraglia del conte Smiorgan, che in quel momento passava trionfante attraverso l'entrata. Le navi-ariete si scostarono davanti al vascello di Smiorgan, perché doveva essere Elric a guidare la flotta nel labirinto. Davanti a loro torreggia-
vano cinque entrate, nere e spalancate fauci simili in forma e dimensioni. Elric indicò la terza da sinistra, e con brevi colpi di remo i marinai spinsero la nave nella nera imboccatura. Per alcuni istanti procedettero nell'oscurità più fonda. «Le fiaccole!» gridò Elric. «Accendete le fiaccole!» Le torce erano già state preparate, e furono subito accese. Gli uomini videro che adesso si trovavano in un'enorme galleria scavata nella roccia naturale, che procedeva tortuosa in tutte le direzioni. «Tenetevi accostati alla parete!» ordinò Elric, e la sua voce era ingigantita mille volte dagli echi della caverna. Le torce sfolgoravano e il suo volto era una maschera di ombra e di fuggevole luce, mentre le lingue di fiamma salivano verso la volta scabra. Dietro di lui, gli uomini mormoravano sbalorditi; e via via che altre navi si addentravano nel labirinto e accendevano le fiaccole, Elric vide che alcune fiamme tremavano, perché chi le portava era scosso da un terrore superstizioso. Lui stesso si sentiva inquieto mentre scrutava nelle ombre guizzanti; e i suoi occhi, riflettendo la luce, brillavano febbrilmente. Con cupa monotonia i remi scendevano nell'acqua, mentre la galleria si allargava e apparivano altre imboccature. «L'entrata centrale» ordinò Elric. Il timoniere annuì, da poppa, e guidò la nave verso l'ingresso indicato dall'albino. Solo il sommesso mormorio di alcuni uomini e il ritmo cadenzato dei remi infrangevano il cupo e sinistro silenzio dell'immensa caverna. Elric abbassò lo sguardo verso l'acqua fredda, e rabbrividì. Finalmente uscirono di nuovo nella luce del sole, e gli uomini levarono lo sguardo meravigliandosi dell'altezza delle enormi muraglie. Lassù stavano acquattati altri arcieri dalla veste gialla e dalla corazza bronzea; e mentre il vascello del conte Smiorgan usciva dalle nere grotte, con le torce che ancora ardevano nella fredda aria invernale, le frecce cominciarono a piovere nello stretto passaggio, piantandosi nei colli e negli arti. «Più in fretta!» urlò Elric. «Remate più in fretta! Adesso la velocità è la nostra unica arma!» Con energia frenetica i rematori si chinarono sui remi, e le navi avanzarono più rapide sebbene le frecce imrryriane facessero molte vittime. Il canale, cinto dalle altissime pareti, procedeva ora in linea retta, e Elric avvistò davanti a sé i moli di Imrryr. «Più in fretta! Più in fretta! La nostra preda è in vista!» Poi all'improvviso la nave uscì dal canale nelle calme acque del porto, di fronte ai guerrieri schierati sui moli. L'ammiraglia si fermò per attendere
che i rinforzi la raggiungessero. Quando altre venti navi furono passate, Elric diede l'ordine di attaccare il molo: e Tempestosa uscì ululando dal fodero. La fiancata sinistra dell'ammiraglia urtò contro la banchina sotto una pioggia di frecce. I dardi sibilavano intorno a Elric: ma l'albino, miracolosamente illeso, guidò sulla terraferma una schiera di scorridori urlanti. I fanti di Imrryr, armati d'ascia, avanzarono per fronteggiare gli invasori, ma era chiaro che non erano troppo entusiasti di combattere: gli eventi li avevano sconcertati. La nera lama di Elric colpì con forza demoniaca la gola del primo fante e gli mozzò la testa. Ululando diabolicamente, ora che aveva assaporato il sangue, Tempestosa cominciò a fremere nella stretta di Elric, cercando altra carne da mordere. Mentre l'albino sferrava colpi all'impazzata contro i guerrieri, sulle sue labbra incolori c'era un sorriso duro e torvo e i suoi occhi erano socchiusi. Intendeva lasciare il compito di combattere a coloro che aveva condotto a Imrryr, perché aveva altre cose da fare... e in fretta. Dietro i soldati giallovestiti s'innalzavano le torri di Imrryr, bellissime nei dolci colori scintillanti: rosa-corallo e azzurro-polvere, oro e giallochiaro, bianco e verdetenue. Una di quelle torri era la meta di Elric: la Torre di D'a'rputna, dove aveva ordinato a Ossastorte di condurre Cymoril, sapendo che era possibile riuscirvi in quella confusione. Elric si aprì sanguinosamente la strada fra coloro che cercavano di arrestarlo, e gli uomini arretrarono lanciando urla orribili mentre la spada incantata beveva le loro anime. Elric passò oltre, lasciando i nemici alle lucide lame degli scorridori che si riversavano sulla banchina, e corse per le vie tortuose falciando chiunque tentasse di fermarlo. Sembrava un demone bianco, con le vesti strappate e insanguinate, la corazza scalfita e scheggiata: ma corse veloce sui ciottoli delle stradine contorte, finché giunse alla sottile torre di azzurro nebuloso e di oro tenero: la Torre di D'a'rputna. La porta era aperta, il che indicava che dentro c'era qualcuno: Elric la varcò ed entrò nella grande sala al pianterreno. Ma non c'era nessuno ad attenderlo. «Ossastorte!» gridò, e a lui stesso la sua voce parve un ruggito. «Ossastorte, sei qui?» Salì la scala a grandi balzi, chiamando il servitore. Al terzo piano si arrestò all'improvviso, udendo un gemito sommesso che proveniva da una delle stanze. «Ossastorte, sei tu?» Si avviò verso la stanza, e udì un ansimare soffocato. Spalancò la porta e si sentì torcere le viscere quando scorse il vecchio che giaceva sul nudo pavimento e si sforzava in-
vano di bloccare il fiotto di sangue che gli sgorgava dalla grande ferita al fianco. «Cos'è successo, Ossastorte? Dov'è Cymoril?» Il vecchio volto di Ossastorte si contrasse per la sofferenza e l'angoscia. «L'ho... l'ho portata qui, padrone, come tu avevi ordinato. Ma...» Tossì, e un rivolo di sangue scorse lungo il mento rugoso. «Ma... il principe Yyrkoon mi... mi ha sorpreso... Deve avermi seguito fin qui. Mi... mi ha colpito e ha riportato via Cymoril... Ha detto che... che sarebbe stata al sicuro nella Torre di B'aal'nezbett. Padrone... mi dispiace...» «Lo credo» ribatté furiosamente Elric. Poi il suo tono si addolcì. «Non preoccuparti, vecchio amico: vendicherò te e me. Posso ancora raggiungere Cymoril, ora che so dove l'ha portata Yyrkoon. Ti ringrazio per quanto hai fatto, Ossastorte: che il tuo lungo viaggio sull'ultimo fiume sia sereno.» Girò bruscamente sui tacchi e lasciò la stanza, precipitandosi giù per la scala e di nuovo in strada. La Torre di B'aal'nezbett era la più alta fra quelle del palazzo reale. Elric la conosceva bene, perché là i suoi antenati avevano studiato incantesimi tenebrosi e svolto terribili esperimenti. Rabbrividiva al pensiero di ciò che Yyrkoon avrebbe potuto fare alla sorella. Le strade erano silenziose e stranamente deserte, ma Elric non ebbe tempo di chiedersene la causa. Corse invece al palazzo: la porta principale era incustodita, l'ingresso deserto. Anche quel fatto era eccezionale: ma per Elric era un colpo di fortuna. Salì, per scale e stanze ben note, verso la torre più alta. Giunse infine a una porta di lucente cristallo nero, senza maniglia e senza catenaccio. Colpì freneticamente il cristallo con la spada stregata, ma la sostanza vitrea pareva fluire e ricomporsi. I suoi colpi erano vani. Elric si tormentò la mente, cercando di rammentare la parola aliena che avrebbe aperto la porta. Non osava porsi nella trance che col tempo gli avrebbe portato la parola alle labbra: invece doveva frugare nel subconscio e riportarla alla superficie. Era pericoloso, ma non poteva far altro. Tutto il suo essere tremò, il suo volto si contrasse, il cervello cominciò a fremere. La parola giunse mentre le corde vocali sussultavano e il petto si gonfiava. Sputò la parola, e tutta la mente e tutto il corpo gli dolsero per la forza. Poi gridò: «Io ti ordino: apriti!» Sapeva che appena la porta si fosse schiusa suo cugino si sarebbe accorto della sua presenza: ma era un rischio che doveva correre. Il cristallo si
espanse, pulsando e ribollendo, e poi cominciò a defluire. Defluiva nel nulla, passando oltre l'universo fisico, oltre il tempo. Elric esalò un sospiro di sollievo ed entrò nella Torre di B'aal'nezbett. Ma un fuoco bizzarro, agghiacciante e sconvolgente, lo lambiva mentre ascendeva gli scalini verso la camera centrale. Una strana musica lo circondava, una musica incantata che pulsava e singultava e martellava nella sua mente. Vide sopra di sé Yyrkoon che sogghignava, con una nera spada incantata nel pugno: la gemella di quella che stringeva lui stesso. «Figlio dell'inferno!» sibilò Elric, stancamente. «Vedo che hai recuperato Luttuosa: ebbene, mettine alla prova i poteri contro la sua gemella, se ne hai il coraggio. Sono venuto a ucciderti, cugino.» Tempestosa esalava uno strano suono gemente, il quale si levava come un sospiro tra la musica stridula e ultraterrena che accompagnava il lambente fuoco gelido. La spada incantata fremette nella mano di Elric, che stentò a dominarla. Chiamando a raccolta tutte le forze, l'albino salì di corsa gli ultimi gradini e avventò un colpo furioso contro Yyrkoon. Oltre il fuoco gorgogliava una lava verdegialla, che dilagava dovunque. I due uomini erano circondati dal fuoco nebuloso e dalla lava: erano al difuori della Terra, e si affrontavano nello scontro finale. La lava ribollì e incominciò a fluire verso l'interno, disperdendo le fiamme. Le due lame si toccarono, con un terribile ruggito urlante. Elric si sentì intorpidire il braccio, invaso da un formicolio nauseante. Si sentiva una marionetta: non era più padrone di sé, poiché era la lama a decidere le sue azioni. La spada, trascinando con sé Elric, passò ruggendo oltre la lama gemella, e inferse una profonda ferita nel braccio sinistro di Yyrkoon. L'usurpatore urlò, spalancando gli occhi per la sofferenza. Luttuosa rispose al colpo di Tempestosa, cogliendo Elric nello stesso punto in cui lui aveva ferito il cugino. Elric singultò per il dolore ma continuò ad avanzare, ferendo Yyrkoon al fianco destro con un colpo abbastanza forte da uccidere qualunque altro uomo. E allora Yyrkoon rise... rise come un demone scatenato uscito dalle più immonde profondità dell'inferno. La sua ragione aveva ceduto, e Elric si trovava in vantaggio. Ma l'incantesimo evocato dal cugino aveva ancora effetto, e Elric ebbe la sensazione che un gigante l'avesse afferrato e lo stritolasse mentre cercava di approfittare della sua superiorità, mentre il sangue di Yyrkoon scaturiva dalla ferita e spruzzava anche lui. La lava si andava lentamente ritirando, e Elric vide la porta della camera centrale. Dietro suo cugino si muoveva un'altra figura. Cymoril s'era destata, e con un'espressione di orrore gli stava gridando qualcosa.
La spada si avventò ancora in un arco nero, abbattendo la lama di Yyrkoon e spezzando la guardia dell'usurpatore. «Elric!» gridò disperata Cymoril. «Salvami! Salvami ora, o saremo dannati per l'eternità!» Le parole della giovane donna sconcertarono Elric, che non riuscì a comprenderne il significato. Furiosamente ricacciò Yyrkoon su, su, verso la camera. «Elric, riponi Tempestosa. Rinfodera la spada, o verremo separati di nuovo.» Ma anche se fosse riuscito a dominare la lama sibilante, Elric non l'avrebbe rinfoderata. L'odio lo pervadeva, e prima di riporla voleva piantarla nel malvagio cuore del cugino. Adesso Cymoril piangeva, supplicandolo. Ma Elric non poteva far nulla. L'essere idiota e bavoso che era stato Yyrkoon di Imrryr si voltò alle grida della sorella e la guardò malignamente. Sghignazzò e tese una mano tremante per afferrarle la spalla. Cymoril si svincolò per fuggire, ma Yyrkoon possedeva ancora intatta tutta la sua forza. Approfittando della distrazione dell'avversario Elric lo falciò, staccando quasi il busto dai fianchi. E tuttavia, incredibilmente, Yyrkoon rimase vivo, traendo la vitalità dalla spada che ancora cozzava contro la lama incantata di Elric. Con una spinta lanciò Cymoril davanti a sé, e lei morì urlando, trafitta dalla punta di Tempestosa. Poi Yyrkoon rise, con un ultimo strido sghignazzante, e la sua anima discese ululando all'inferno. La torre riacquistò le proporzioni autentiche; il fuoco e la lava erano scomparsi. Elric era stordito, incapace di riordinare i pensieri. Abbassò lo sguardo sui corpi di Yyrkoon e Cymoril. In un primo momento li vide soltanto come cadaveri, un uomo e una donna. Poi la tenebrosa verità s'impose alla sua mente, e lui gemette d'angoscia come un animale. Aveva ucciso la donna che amava. La spada incantata, macchiata del sangue di Cymoril, gli cadde dalla mano e rotolò giù per la scala. Singhiozzando, Elric si lasciò cadere accanto alla fanciulla morta e la strinse tra le braccia. «Cymoril» mormorò, tremando in tutto il corpo. «Cymoril, ti ho uccisa...» CAPITOLO QUARTO
Elric si voltò a guardare le rovine di Imrryr, ruggenti e sgretolate tra le fiamme, e incitò i sudati rematori a procedere più velocemente. La nave, con la vela ancora ammainata, s'impennò, colta da un vento contrario, e l'albino fu costretto ad aggrapparsi alla murata per non essere scagliato in mare. Guardò Imrryr e si sentì stringere la gola, pensando che ormai era veramente sradicato: un rinnegato e un uccisore di donne, sebbene avesse dato la morte a Cymoril involontariamente. Nella sua cieca bramosia di vendetta aveva perso l'unica donna che aveva amato. E adesso era tutto finito. Non poteva immaginare il futuro, perché il suo futuro era stato vincolato al suo passato e adesso quel passato divampava e andava in rovina alle sue spalle. Singhiozzi aridi gli gonfiarono il petto: si avvinghiò ancora più forte al parapetto della nave. La sua mente ritornò esitando a Cymoril. Aveva deposto il suo corpo su un giaciglio e aveva incendiato la torre. Poi era tornato indietro e aveva trovato gli scorridori trionfanti, che risalivano sulle navi carichi di bottino e di giovani schiave e incendiavano felici gli edifici alti e maestosi incontrati sul loro cammino. Aveva causato la distruzione dell'ultimo segno tangibile dell'esistenza del grandioso e magico Impero Fulgido. E sentiva che con quello era scomparsa anche gran parte di se stesso. Guardò Imrryr e all'improvviso una tristezza ancora più grande lo sopraffece mentre una torre, delicata e bellissima come un merletto, si squarciava e crollava tra le fiamme. Aveva infranto l'ultimo grande monumento dell'antica razza, la sua razza. Gli uomini avrebbero potuto imparare di nuovo, un giorno, a costruire torri agili e forti come quelle di Imrryr, ma ora quella scienza moriva nel tonante caos della caduta della Città Sognante, nella fine della razza di Melniboné. E i signori dei draghi? Né loro né le loro auree navi avevano affrontato gli aggressori: solo i loro fanti, avevano difeso la città. Avevano forse nascosto le navi in qualche canale segreto ed erano fuggiti nell'entroterra quando gli invasori avevano sopraffatto la città? Avevano opposto una resistenza troppo breve, per essere stati veramente sconfitti. E ora che le navi ripartivano, stavano forse progettando un'improvvisa rappresaglia? Elric intuì che forse quello era veramente il loro piano: un piano che comportava il ricorso ai draghi. Rabbrividì. Non aveva parlato agli altri delle bestie che i melniboneani dominavano da secoli. Forse in quel preciso momento qualcuno stava aprendo le porte delle Grotte dei Draghi. Distolse il pensie-
ro da quella prospettiva agghiacciante. Mentre la flotta si dirigeva verso il mare aperto, gli occhi di Elric erano ancora fissi su Imrryr: rendeva un silenzioso omaggio alla città dei suoi avi e della perduta Cymoril. Fu ripreso da una rovente amarezza ricordando com'era morta, trafitta dalla sua spada. Ricordò il suo ammonimento, quando l'aveva lasciata per avventurarsi nei Regni Giovani: ponendo Yyrkoon come reggente sul Trono di Rubino, e abbandonando il potere per un anno, aveva messo in pericolo entrambi. Si maledisse. Poi un brontolio, simile all'eco di un tuono lontano, si diffuse sulla flotta. Elric si voltò di scatto, per scoprire la causa dello sgomento generale. Trenta chiatte melniboneane da battaglia, con le vele dorate, erano apparse ai due lati del porto, uscendo da due imboccature del labirinto. Elric comprese che dovevano essersi nascoste negli altri canali, pronte ad attaccare gli invasori quando fossero ritornati sazi ed esausti. Erano grandi galee da guerra, le ultime navi di Melniboné: e il segreto della loro costruzione era andato perduto. Avevano un'aria di grande antichità e di latente potenza, e spinte ciascuna da quattro o cinque file di grandi remi avanzavano rapide per accerchiare le navi corvine. La flotta di Elric parve rimpicciolire davanti ai suoi occhi, fino ad apparire come un'accolta di trucioli galleggianti di fronte al torreggiante splendore delle lucenti chiatte da battaglia. I vascelli di Melniboné erano perfettamente equipaggiati e pronti al combattimento, mentre gli scorridori erano stanchi e sfiniti. Elric sapeva che c'era un solo modo per salvare almeno una piccola parte della flotta. Doveva evocare un vento incantato, così da far gonfiare le vele. Quasi tutte le ammiraglie gli stavano intorno: adesso lui era a bordo della nave di Yaris, perché il giovane si era ubriacato ed era morto accoltellato da una schiava melniboneana. Accanto alla nave di Elric c'era quella del conte Smiorgan: e il robusto signore del mare aggrottava la fronte, poiché sapeva che i suoi vascelli, nonostante la superiorità numerica, non potevano affrontare una battaglia navale. Ma l'evocazione di venti abbastanza potenti da sospingere molte navi era pericolosa, perché scatenava una forza colossale e perché gli spiriti elementari che dominavano i venti tendevano a ribellarsi all'incantatore se non era più che cauto. Ma era l'unica possibilità: altrimenti gli arieti che irradiavano increspature dalle prue dorate avrebbero sfasciato le navi degli scorridori. Facendosi forza, Elric cominciò a pronunciare gli antichi e terribili no-
mi, ricchi di vocali, degli esseri dell'aria. Anche questa volta non poteva andare in trance, perché doveva sorvegliare che gli spiriti elementari non si rivoltassero contro di lui. Li chiamò, in un linguaggio che talora era acuto come lo strido di una sula e talora tonante come il ruggito dei frangenti, e le forme indistinte delle Potenze del Vento cominciarono a svolazzare davanti al suo sguardo offuscato. Il cuore gli pulsava orribilmente contro le costole, le gambe gli mancavano. Chiamò a raccolta tutte le energie ed evocò un vento che stridette all'impazzata intorno a lui, caoticamente, squassando perfino le enormi navi di Melniboné. Poi Elric lo guidò, mandandolo nelle vele di una quarantina di navi predatrici. Molte non poteva salvarle, perché si trovavano al di fuori della sua portata. Ma quaranta vascelli si sottrassero agli arieti, e tra l'ululare del vento e lo schianto del fasciame balzarono sulle onde, con gli alberi che scricchiolavano sotto le vele gonfie. I remi vennero strappati dalle mani dei marinai, lasciando una scia di legni spezzati sulla bianca spuma salmastra che ribolliva dietro ognuna delle navi degli scorridori. All'improvviso si trovarono oltre il cerchio sempre più stretto delle galee melniboneane, galoppando pazzamente sul mare aperto, mentre tutti gli uomini percepivano la differenza nell'aria e intravedevano strane e morbide forme intorno a loro. Gli esseri che li aiutavano irradiavano un senso inquietante di male, una spaventosa alienità. Smiorgan agitò la mano in direzione di Elric e sorrise, riconoscente. «Siamo salvi grazie a te, Elric!» urlò, attraverso l'acqua. «Sapevo che ci avresti portato fortuna!» Elric non gli badò. I signori dei draghi, assetati di vendetta, li inseguirono. Le auree chiatte di Imrryr erano veloci quasi quanto la flotta degli invasori, sebbene questa avesse l'aiuto magico; e alcuni vascelli degli scorridori, con gli alberi spezzati per la violenza del vento, vennero raggiunti. Elric vide i grappini di metallo scuro che scattavano dai ponti delle galee imrryriane e si piantavano con uno stridore di legno spezzato sui ponti delle navi rimaste disalberate e impotenti. Il fuoco balzava dalle catapulte delle chiatte dei signori dei draghi e volava verso i vascelli fuggitivi. Fetide fiamme sibilavano sulle tolde come lava, divorando il legno così come il vetriolo divora la carta. Gli uomini urlavano, cercavano invano di spegnere il fuoco appiccato ai loro abiti, e alcuni si buttavano nell'acqua, che non soffocava le fiamme. Alcune navi affondavano, ed era possibile seguirne la discesa mentre uomini e vascelli, fiammeggiando anche sotto la superficie,
s'inabissavano come stanche falene ardenti. Le tolde degli invasori che non erano state toccate dal fuoco erano coperte di sangue: furibondi, i guerrieri imrryriani si calavano dalle funi d'abbordaggio e piombavano tra i nemici, brandendo spadoni e asce e scatenando il panico tra i corvi del mare. Le frecce e i giavellotti imrryriani saettavano dai ponti torreggianti delle galee dorate e trafiggevano gli atterriti marinai delle navi più piccole. Tutto questo Elric lo vide mentre i suoi vascelli cominciavano lentamente a distanziare la prima nave imrryriana, la galea dell'ammiraglio Magum Colim, comandante della flotta di Melniboné. Solo ora Elric rivolse la parola al conte Smiorgan. «Li abbiamo distanziati!» urlò nel vento sibilante, in direzione della nave più vicina, dove Smiorgan fissava il cielo a occhi sbarrati. «Ma continua a dirigere le tue navi verso occidente, se no siamo spacciati!» Smiorgan non fiatò. Continuava a guardare il cielo, e i suoi occhi erano colmi di orrore: gli occhi di un uomo che non aveva mai conosciuto l'agghiacciante morso della paura. Inquieto, Elric seguì con lo sguardo lo sguardo di Smiorgan. E li vide. Erano draghi, senza dubbio. I grandi rettili erano lontani ancora parecchi chilometri, ma Elric riconobbe le sagome delle enormi bestie volanti. Quei mostri ormai quasi estinti avevano un'apertura alare di una decina di metri. I corpi serpentini, che incominciavano con una testa dal muso sottile e terminavano in una terribile coda sferzante, erano lunghi una dozzina di metri; sebbene non alitassero fuoco e fumo come affermava la leggenda, Elric sapeva che il loro veleno era infiammabile e poteva incendiare il legno e la stoffa. Sul dorso dei draghi stavano i guerrieri imrryriani. Armati di lunghi pungoli simili a lance, soffiavano nei corni dalla strana forma, che cantavano note bizzarre sopra il mare turbolento e il calmo cielo azzurro. Avvicinandosi alla flotta aurea, che ormai distava mezzo chilometro, il primo dei draghi scese volteggiando verso la colossale ammiraglia, e le sue ali, battendo l'aria, crearono un suono simile al crepitare del fulmine. Il mostro dalle scaglie verdegrige restò librato sopra la nave d'oro che dondolava sulla spuma bianca. Profilato contro il cielo sereno, il drago era nettamente visibile. Il pungolo che il signore dei draghi agitava in direzione dell'ammiraglio Magum Colim era una lancia lunga e sottile, su cui sventolava l'orifiamma a linee ondulate nere e gialle, chiaramente distinguibile anche a quella distanza. L'albino riconobbe lo stemma dell'ori-
fiamma. Dyvim Tvar, l'amico di gioventù di Elric e signore delle Grotte dei Draghi, guidava le sue bestie per vendicare Imrryr la Bella. Elric urlò a Smiorgan attraverso l'acqua: «Questo è il pericolo maggiore, ormai! Fa' il possibile per tenerli lontani!» Ci fu un clangore di ferro mentre gli uomini, quasi senza speranza, si preparavano a respingere la nuova minaccia. Il vento incantato avrebbe assicurato un ben scarso vantaggio sui velocissimi draghi. Dyvim Tvar, adesso, aveva finito di conferire con Magum Colim, e il pungolo saettò verso la gola del drago. L'enorme rettile guizzò verso l'alto e cominciò a prendere quota. Altri undici draghi lo seguivano. Con apparente lentezza, le bestie volanti cominciarono a dirigersi implacabili verso la flotta degli scorridori, mentre gli uomini dell'equipaggio invocavano i loro dèi per chiedere un miracolo. Erano spacciati. Inutile farsi illusioni. Tutte le navi erano condannate, e l'incursione era stata inutile. Elric vide la disperazione sui volti degli uomini, mentre gli alberi continuavano a piegarsi per lo sforzo sotto l'urlante vento incantato. Ormai non potevano far altro che morire... Elric lottò per liberarsi la mente dall'incertezza turbinosa che l'invadeva. Sfoderò la spada e sentì la potenza maligna e pulsante annidata nella magica Tempestosa. Ma adesso odiava quella potenza, perché gli aveva fatto uccidere l'unico essere umano che gli era stato caro. Sapeva di dovere gran parte della propria forza alla neroferrea spada dei suoi padri, sapeva che senza Tempestosa sarebbe stato debole. Rabbiosamente, inutilmente, con la nebbia che nel suo cervello veniva sostituita da una rossa paura, maledisse la propria sete di vendetta, maledisse il giorno in cui aveva accettato di guidare l'incursione contro Imrryr, e soprattutto maledisse amaramente Yyrkoon e la sua invidia perversa che era stata la causa prima del corso degli eventi. Ma ormai era troppo tardi per le maledizioni. Il battito sonoro delle ali dei draghi saturò l'aria, e i mostri volteggiarono sopra la flotta fuggitiva. Doveva prendere una decisione: sebbene non amasse la vita, non voleva morire per mano della sua stessa gente. Sarebbe morto, promise a se stesso, soltanto di sua mano. Prese la decisione, e si detestò per questo. Congedò il vento stregato proprio mentre il veleno dei draghi pioveva sull'ultima nave del convoglio. Impegnò tutto il suo potere per lanciare un vento più forte nelle vele del
proprio vascello, e gli sbalorditi suoi compagni a bordo delle navi di colpo bloccate chiamarono attraverso l'acqua chiedendo disperatamente la ragione del suo gesto. Ora la nave di Elric procedeva velocissima, e avrebbe potuto sottrarsi ai draghi. Almeno, Elric lo sperava. Abbandonò l'uomo che aveva avuto fiducia in lui, il conte Smiorgan, e rimase a guardare mentre il veleno pioveva dal cielo e l'avvolgeva di fiamme verdi e scarlatte. Fuggì distogliendo la mente dai pensieri del futuro e singhiozzò violentemente, quell'orgoglioso principe delle rovine; e maledisse gli dèi malevoli per il giorno nefasto in cui oziosamente, per divertirsi, avevano creato gli uomini. Dietro di lui l'ultima nave degli scorridori divampò in uno spaventoso bagliore, e pur rallegrandosi di essere sfuggiti al fato dei loro compagni gli uomini dell'equipaggio guardarono Elric con aria accusatrice. Lui continuò a singhiozzare senza badare a loro, con l'anima straziata da angosce atroci. La notte successiva, al largo di un'isola chiamata Pan Tang, quando la nave era ormai al sicuro dalla tremenda rappresaglia dei signori dei draghi e delle loro bestie, Elric stava cupo a poppa mentre i suoi uomini lo sbirciavano con paura e odio e mormoravano di tradimento e di spietata viltà. Sembravano dimentichi dei loro terrori e della salvezza. Elric meditava, tenendo tra le mani la nera spada incantata. Tempestosa era ben più di una comune spada da battaglia, e lui lo sapeva da anni; ma ora capiva che era assai più senziente di quanto avesse immaginato. Quell'arma spaventosa si era servita di colui che l'impugnava e aveva fatto sì che Elric uccidesse Cymoril. Eppure, cosa orribile, lui dipendeva dalla spada: se ne rendeva conto con una lacerante certezza. Ma temeva e detestava il potere della lama: l'odiava rabbiosamente per il caos che aveva apportato nel suo cervello e nel suo spirito. Torturato dall'incertezza, teneva la spada tra le mani e si costringeva a valutare i fattori. Senza quell'arma sinistra avrebbe perso l'orgoglio e forse anche la vita ma avrebbe potuto conoscere la rasserenante tranquillità del puro riposo; con la spada avrebbe avuto potenza e forza... ma sarebbe stata Tempestosa a guidarlo in un futuro dominato dalla sventura. Avrebbe assaporato il potere, mai la pace. Fece un grande sospiro tremulo; poi, soggiogato da ciechi presagi di sventura, scagliò la spada nel mare inondato dalla luna. Incredibilmente, Tempestosa non affondò. E neppure galleggiò sull'acqua. Cadde di punta nel mare e vi si piantò, fremendo come se si fosse incastrata nel legno. Restò a pulsare nell'acqua, con mezza spanna della lama
immersa, e cominciò a emettere un bizzarro urlo demoniaco... un ululato orribile e malevolo. Soffocando una maledizione, Elric protese la sottile mano bianca cercando di recuperare la senziente spada infernale. Si sporse ancora di più dal parapetto. Non riuscì ad afferrarla: era ancora a qualche spanna da lui. Ansimando, sopraffatto da un senso sconvolgente di sconfitta, si tuffò nell'acqua gelida, nuotando a bracciate forzate e grottesche verso la spada. Era stato battuto: Tempestosa aveva vinto. La raggiunse e cinse l'elsa con le dita: subito quella si assestò nella sua mano, e lui si sentì la forza rifluire lentamente nel corpo indolenzito. Allora comprese che lui e la spada erano interdipendenti perché, sebbene lui avesse bisogno di Tempestosa, questa aveva bisogno di qualcuno che la usasse: senza un uomo che la impugnasse, anche la spada era priva di potere. «Quindi dobbiamo essere legati l'uno all'altra» mormorò disperato Elric. «Legati da catene forgiate nell'inferno e da circostanze imposte dal fato. Bene, così sia: e gli uomini dovranno tremare e fuggire, quando udranno i nomi di Elric di Melniboné e della sua spada Tempestosa. Noi due siamo simili: prodotti da un'epoca che ci ha abbandonati. Diamo a quest'epoca una ragione per odiarci!» Ridivenuto forte, Elric rinfoderò Tempestosa, e la spada si acquietò contro il suo fianco; e allora, a bracciate energiche, Elric cominciò a nuotare verso l'isola, mentre gli uomini che aveva lasciato a bordo della nave respiravano di sollievo e si chiedevano se sarebbe vissuto o perito nelle cupe acque di quel mare senza nome...
PARTE SECONDA MENTRE GLI DÈI RIDONO Io, mentre gli dèi ridono, sono il vortice del mondo; Turbine di passioni in quel mare celato Le cui onde eterne lambiscono le mie coste, E in una piccola bussola si affollano le acque buie. Mervyn Peake, Shapes and Sounds, 1941 CAPITOLO PRIMO
Una notte, mentre Elric beveva in una taverna tutto solo e di malumore, una donna aptera di Myyrrhn giunse lieve dal temporale e gli si appoggiò addosso con lo snello corpo. Il suo volto era esile, dall'ossatura fine, e bianco quasi quanto il volto albino di Elric; e indossava leggere vesti di un verde chiaro che formavano un contrasto elegante con la chioma rossocupa. La taverna era rischiarata dalle candele e animata da discussioni insistenti e da risate improvvise, ma le parole della donna di Myyrrhn erano chiare e limpide anche in quel baccano. «Ti sto cercando da venti giorni» disse a Elric che la guardava insolentemente con gli occhi cremisi socchiusi, abbandonato con fare ozioso sullo scanno dallo schienale alto, una coppa argentea nella destra e la sinistra sul pomo della spada incantata, Tempestosa. «Venti giorni» mormorò con voluta sgarberia il melniboneano, quasi parlando a se stesso. «Sono molti, per una bella donna sola che vaga per il mondo.» Aprì appena un pochino di più gli occhi e si rivolse a lei direttamente. «Io sono Elric di Melniboné, come sai. Non concedo favori e non ne chiedo. Tieni presente questo, e adesso dimmi perché mi cerchi da venti giorni.» La donna, per nulla intimidita dal tono altezzoso dell'albino, replicò: «Sei un uomo amareggiato, Elric: so anche questo, come so che sei angosciato per ragioni già entrate nella leggenda. Io non chiedo favori: ti porto me stessa e una proposta. Cosa desideri di più al mondo?» «La pace» rispose semplicemente Elric. Poi, con un sorriso ironico, aggiunse: «Sono un uomo malvagio, signora, e il mio destino è legato all'inferno: ma non sono né stolto né ingiusto. Permettimi di ricordarti la verità. Chiamala leggenda, se preferisci: a me non importa. «Un anno fa una donna è morta trafitta dalla mia fida spada.» Batté la mano sulla lama, e i suoi occhi divennero all'improvviso duri e beffardi. «Da allora non ho più corteggiato o desiderato una donna. Perché dovrei cambiare queste abitudini? Se vuoi saperlo, ammetto che potrei parlarti di poesia, e che tu possiedi una grazia e una bellezza tali da indurmi a ipotesi interessanti: ma non addosserei mai parte del mio tenebroso fardello a una creatura squisita come te. Qualunque rapporto meno che formale tra noi comporterebbe, contro la mia volontà, che ti addossassi parte di quel peso.» S'interruppe per un attimo e poi proseguì lentamente: «Devo ammettere che talvolta grido nel sonno, e che spesso sono torturato da un incomunicabile odio per me stesso. Vattene finché puoi, signora, e dimentica El-
ric, poiché alla tua anima può portare solo angoscia.» Con un rapido scatto distolse lo sguardo da lei e si portò alle labbra la coppa di vino; la vuotò e tornò a riempirla con una fiasca che gli stava accanto. «No» disse la donna aptera di Myyrrhn, con voce calma. «Non me ne andrò. Seguimi.» Si alzò e prese gentilmente la mano di Elric. Senza sapere perché, l'albino si lasciò guidare fuori dalla taverna, nella furiosa tempesta senza pioggia che ululava intorno alla città filkhariana di Raschil. Un cinico sorriso difensivo aleggiava sulle sue labbra, mentre la donna lo conduceva verso la banchina sferzata dal mare; e là lei gli rivelò il proprio nome. Shaarilla della Nebbia Danzante, figlia senz'ali di un negromante morto: una minorata, in quella strana terra, e una reietta. Elric si sentiva attratto in modo inquietante da quella donna dagli occhi sereni che non sprecava parole. Sentiva dentro di sé una grande ondata di emozione quale non aveva mai pensato di poter provare di nuovo, e avvertiva l'impulso di afferrarla per le spalle finemente modellate e di stringerla a sé. Ma represse l'impulso e scrutò quella delicatezza marmorea, quei capelli di fiamma che si agitavano nel vento. Il silenzio scese quietamente tra loro, mentre il vento caotico ululava lugubre sul mare. Lì Elric poteva ignorare il caldo fetore della città, e si sentiva quasi rasserenato. Infine, distogliendo gli occhi da lui per guardare il mare turbolento, mentre la veste verde le ondeggiava intorno, lei disse: «Naturalmente avrai sentito parlare del Libro degli Dei Morti.» Elric annuì. Era interessato, nonostante l'impulso di dissociarsi il più possibile dai suoi simili. Si credeva che quel mitico libro racchiudesse una sapienza capace di risolvere molti dei problemi che da secoli assillavano gli uomini: conteneva una saggezza sacra e possente che ogni incantatore desiderava acquisire. Ma si credeva anche che fosse stato distrutto, scagliato nel sole quando gli dèi antichi stavano morendo nei deserti cosmici oltre i confini del sistema solare. Un'altra leggenda, evidentemente di origine più tarda, parlava vagamente dei Tenebrosi che avevano interrotto il volo del Libro verso il sole e l'avevano rubato prima che venisse distrutto. Molti studiosi respingevano la leggenda sostenendo che ormai il Libro avrebbe dovuto ricomparire, se esisteva ancora. Elric replicò a Shaarilla in tono brusco, per mostrarsi disinteressato: «Perché menzioni il Libro?» «Io so che esiste» rispose Shaarilla, con voce intensa. «E so dove si tro-
va. Mio padre era venuto a saperlo poco prima di morire. E tu potrai avere me e il libro, se mi aiuterai a ottenerlo.» Era possibile, si chiese Elric, che nel Libro fosse racchiuso il segreto della pace? E se l'avesse trovato, avrebbe potuto fare a meno di Tempestosa? «Se lo desideri tanto da chiedere il mio aiuto» osservò dopo qualche istante, «perché non intendi tenerlo tu?» «Perché avrei paura di custodire per sempre una cosa simile... Non è un libro che una donna possa tenere: ma tu sei forse l'unico negromante potente rimasto al mondo, e è giusto che l'abbia tu. Inoltre potresti uccidermi per impadronirtene: non sarei mai al sicuro, con quel volume nelle mani. E io ho bisogno soltanto di una piccolissima parte della sua sapienza.» «Quale?» chiese Elric, scrutando quella bellezza aristocratica con un fremito nuovo. Lei strinse le labbra e socchiuse gli occhi. «Quando il Libro sarà nelle nostre mani... allora conoscerai la risposta. Non prima.» «Questa mi basta» replicò in fretta Elric, rendendosi conto che per il momento non sarebbe riuscito a farsi dire di più. «E mi piace.» Poi, quasi senza avvedersene, le strinse le spalle con le pallide mani snelle e premette le labbra incolori sulla bocca scarlatta di lei. Elric e Shaarilla cavalcavano verso occidente, verso la Terra Silenziosa, lungo le lussureggianti pianure di Shazaar, dove la loro nave aveva attraccato due giorni prima. Tra Shazaar e la Terra Silenziosa si estendeva una fascia desolata, priva perfino di abitazioni contadine: una terra di nessuno, sebbene fosse fertile e vi abbondassero le ricchezze naturali. Gli abitanti di Shazaar si erano astenuti di proposito dall'estendere i loro confini: sebbene gli abitanti della Terra Silenziosa si avventurassero raramente oltre le Paludi della Nebbia, che costituivano il confine naturale tra le due regioni, gli shazaariani avevano una paura quasi superstiziosa dei loro vicini. Il viaggio era stato rapido e agevole, ma carico di portenti; diverse persone che non avrebbero dovuto saper nulla delle loro intenzioni avevano messo in guardia i viaggiatori contro l'approssimarsi del pericolo. Elric era cupo: riconosceva i presagi di sventura, ma preferiva ignorarli senza confidarsi con Shaarilla; e questa, da parte sua, sembrava lieta del silenzio di lui. Parlavano poco durante il giorno, risparmiando il fiato per i frenetici amori notturni. Lo scalpitio degli zoccoli dei due cavalli sulle zolle morbide, e il som-
messo scricchiolio e tintinnio dell'armatura e della spada di Elric, erano i soli suoni che spezzavano il silenzio della limpida giornata invernale mentre i due cavalcavano verso le piste insidiose e infide delle Paludi della Nebbia. In una notte cupa giunsero al confine della Terra Silenziosa, segnato dalla palude. Si fermarono e si accamparono, piantando la serica tenda sopra un'altura affacciata sulle distese avvolte nella nebbia. Ammucchiate all'orizzonte come neri guanciali, le nubi erano minacciose. La luna si nascondeva dietro quel tenebrore e talora trapassava le nuvole, mandando un incerto raggio pallido sulla palude luccicante o sulle sue frontiere erbose. Una volta un riflesso d'argento illuminò la scura sagoma di Elric: ma la luna, come infastidita dalla vista di un essere vivente sulla squallida collina, tornò a nascondersi dietro lo schermo di nubi lasciando Elric immerso nei suoi pensieri, nell'oscurità da lui desiderata. Il tuono rombava sulle montagne distanti, e suonava come il riso di dèi remoti. Elric rabbrividì, si strinse addosso il mantello azzurro e continuò a scrutare il bassopiano avvolto nella nebbia. Poco dopo Shaarilla lo raggiunse e si fermò accanto a lui, avviluppata in una pesante cappa di lana che non bastava a proteggerla completamente dalla fredda umidità dell'aria. «La Terra Silenziosa» mormorò. «Sono vere le storie che si raccontano, Elric? Te ne hanno parlato, nella vecchia Melniboné?» Elric aggrottò la fronte, infastidito da quell'interruzione dei suoi pensieri. Si voltò bruscamente, la guardò un attimo con gli occhi dalle iridi cremisi, e poi disse: «Gli abitanti sono inumani e molto temuti. Questo lo so. In tutti i tempi, pochi uomini si sono avventurati in questo territorio. Che io sappia, nessuno ne è mai tornato. Perfino ai tempi in cui Melniboné era un impero potentissimo, questa era una nazione che i miei avi non hanno mai dominato... né mai desiderato dominare. Si dice che gli abitatori della Terra Silenziosa appartengano a una razza in estinzione, ancor più malvagia dei miei antenati, e che dominassero la Terra molto tempo prima che gli uomini acquisissero potere. Oggi si avventurano raramente oltre i confini del loro territorio, cinto da paludi e montagne.» Shaarilla rise, senza gaiezza. «Dunque sono inumani, Elric? E allora la mia gente, che è imparentata con loro? E io, Elric?» «Tu sei abbastanza umana, per me» rispose noncurante l'albino, guar-
dandola negli occhi. Shaarilla sorrise. «Non è un complimento» disse, «ma lo considererò tale... fino a quando ne troverai uno migliore.» Quella notte dormirono inquieti, e Elric, come aveva predetto, gridò disperatamente nel sonno turbolento e pieno di terrori e invocò un nome che colmò di dolore e di gelosia gli occhi di Shaarilla. Era il nome di Cymoril. Con gli occhi spalancati in quel sonno lugubre, Elric sembrava guardare colei che chiamava, pronunciando altre parole in un linguaggio sibilante... finché Shaarilla si turò gli orecchi, rabbrividendo. Il mattino dopo, mentre toglievano il campo e ripiegavano la tenda di seta, Shaarilla evitò di guardare in faccia Elric; ma più tardi, poiché lui non accennava a parlare, gli rivolse una domanda con voce che tremava un poco. Era una domanda che doveva fare, ma era difficile pronunciarla. «Elric, tu cosa vuoi dal Libro degli Dei Morti? Cosa pensi di potervi trovare?» Elric scrollò le spalle, eludendo la domanda; ma lei ripeté le stesse parole, meno lentamente e con maggiore insistenza. «Sta bene, allora» disse Elric alla fine. «Ma non è facile risponderti in poche frasi. Io desidero conoscere una cosa.» «E quale, Elric?» L'albino lasciò cadere sull'erba la tenda ripiegata e sospirò. Le sue dita giocherellarono nervosamente col pomo della spada incantata. «Può esistere un dio supremo... oppure no? Ecco ciò che devo sapere, Shaarilla, se la mia vita deve avere uno scopo. Ora i Signori della Legge e del Caos governano le nostre vite. Ma esiste un essere più grande di loro?» Shaarilla gli posò una mano sul braccio. «Perché devi saperlo?» chiese. «Talvolta, Shaarilla, cerco disperatamente il conforto di un dio benigno. Quando rimango sveglio, di notte, la mia mente si allontana, cercando nella nera desolazione qualcosa... qualunque cosa che mi chiami a sé, mi riscaldi, mi protegga, mi dica che c'è un ordine nel caotico groviglio dell'universo e che la precisione dei pianeti è coerente e non soltanto una fuggevole scintilla di ragione in un'eternità di maligna anarchia.» Elric sospirò: la sua voce sommessa era sfumata di disperazione. «Senza una conferma dell'ordine delle cose, il mio unico conforto sta nell'accettare l'anarchia. In tal modo posso compiacermi del caos e sapere, senza paura, che siamo tutti condannati fin dall'inizio, che la nostra breve esistenza è insensata e dannata. Allora posso accettare il fatto che siamo peggio che ab-
bandonati, perché non c'è mai stato nulla che abbia potuto abbandonarci. Ho valutato le prove, Shaarilla, e devo credere che l'anarchia prevale nonostante tutte le leggi che sembrano governare le nostre azioni, la nostra magia, la nostra logica. Io vedo solo caos, nel mondo. Se il Libro che cerchiamo mi dirà che la realtà è diversa, allora sarò lieto di crederlo. Fino a quel momento, riporrò la mia fiducia esclusivamente nella mia spada e in me stesso.» Shaarilla lo fissò stranamente. «Non è possibile che questa tua filosofia sia stata influenzata dagli eventi del recente passato? Temi le conseguenze del tuo delitto e del tuo tradimento? Non ti è più facile credere nei deserti, che raramente sono giusti?» Elric si voltò di scatto verso di lei con gli occhi sfavillanti di collera, ma mentre stava per parlare l'ira l'abbandonò; abbassò gli occhi a terra, per sottrarsi allo sguardo di lei. «Forse» disse incerto. «Non so. È la verità, Shaarilla. Non so.» Shaarilla annui, col volto illuminato da un'enigmatica comprensione; ma Elric non vide quello sguardo, perché aveva gli occhi colmi di lacrime cristalline che scorrevano sullo scarno volto bianco e gli toglievano momentaneamente la forza e la volontà. «Io sono un uomo posseduto da un demone» gemette. «E senza questa spada diabolica non sarei neppure un uomo.» CAPITOLO SECONDO Montarono sui veloci cavalli neri e li spronarono furiosamente giù per le pendici della collina, verso le Paludi, mentre i loro mantelli si agitavano nel vento. Cavalcavano col volto chiuso e deciso, rifiutandosi di riconoscere la dolorosa incertezza annidata dentro di loro. E i cavalli sprofondarono con gli zoccoli nell'acquitrino prima che loro potessero arrestarli. Imprecando, Elric tirò con forza le redini facendo indietreggiare il cavallo sul terreno solido. Anche Shaarilla trattenne lo stallone terrorizzato e lo guidò al sicuro. «Come si fa a passare?» le chiese impaziente Elric. «C'era una mappa...» cominciò Shaarilla, esitando. «Dov'è?» «È... è andata perduta. L'ho persa io. Ma mi ero sforzata d'impararla a memoria. Credo che riuscirò a guidarti nella traversata.»
«Come hai fatto a perderla, e perché non me l'hai mai detto?» chiese infuriato Elric. «Mi dispiace, Elric: ma per un'intera giornata, poco prima che ti trovassi in quella taverna, la mia memoria è svanita. Inspiegabilmente, ho vissuto un giorno senza saperlo... e quando mi sono svegliata, la mappa era scomparsa.» L'albino aggrottò la fronte. «C'è una forza che opera contro di noi, ne sono sicuro» mormorò. «Ma non so cosa sia.» Alzò la voce. «Auguriamoci che la tua memoria non abbia troppe lacune, ora. Le Paludi sono malfamate in tutto il mondo: ma ci attendono solo pericoli naturali.» Con una smorfia, strinse le dita intorno all'elsa di Tempestosa. «Precedimi, Shaarilla, ma restami vicino. Indicami la strada.» Lei annui, senza parole, e girò il cavallo verso il nord, lanciandolo al galoppo lungo la sponda finché giunse dove torreggiava una grande roccia affusolata. In quel punto un sentiero erboso, largo poco più di un metro, si addentrava nella palude nebbiosa. Potevano vedere soltanto per un breve tratto, fra i fitti vapori: ma sembrava che la pista fosse solida. Shaarilla spinse il cavallo al passo sul sentiero, poi al piccolo trotto, e Elric la seguì immediatamente. Nella pesante nebbia turbinante che splendeva bianca, i cavalli procedevano esitanti e i cavalieri dovevano trattenerli a briglia corta. I vapori avvolgevano di silenzio la palude, e le lucenti distese d'acqua esalavano un lezzo di putredine. Non c'erano animali, e neppure un uccello lanciava il suo strido. Dappertutto c'era un silenzio ossessivo, carico di paura, che rendeva inquieti cavalli e cavalieri. Con la gola stretta dal panico, Elric e Shaarilla procedettero addentrandosi nelle innaturali Paludi della Nebbia, con gli occhi attenti e le narici frementi per captare il sentore del pericolo nel fetido acquitrino. Alcune ore dopo, quando il sole aveva ormai superato da molto lo zenit, il cavallo di Shaarilla s'impennò, nitrendo disperatamente. La donna chiamò Elric, con lo squisito volto contratto dalla paura mentre guardava nella nebbia. L'albino spronò lo stallone e la raggiunse. Qualcosa si muoveva lentamente e minacciosamente in quel fitto biancore. Elric portò di scatto la destra al fianco sinistro e strinse l'elsa di Tempestosa. La lama uscì stridendo dal fodero: un fuoco nero lingueggiò per tutta la sua lunghezza, una forza aliena fluì nel corpo di Elric. Una luce empia e bizzarra gli si accese negli occhi cremisi e la bocca gli si torse in un sog-
ghigno atroce, mentre lui spingeva avanti il cavallo impaurito. «Arioch, Signore delle Sette Tenebre, aiutami!» gridò, scorgendo la forma mutevole che gli stava davanti. Era bianca come la nebbia, eppure era più scura. Si levava più in alto della sua testa: era alta due metri e mezzo e larga poco meno. Ma era soltanto un contorno, e sembrava che non avesse né faccia né arti ma solo movimento: un movimento rapido e malevolo. Ma Arioch, il suo dio patrono, non l'ascoltò. Elric sentiva il grande cuore del cavallo battere contro le sue gambe, mentre il destriero si avventava sospinto dal suo ferreo dominio. Shaarilla gli gridò qualcosa alle spalle, ma lui non riuscì a distinguere le parole. Sferrò affondi contro la forma bianca, ma la spada incontrava soltanto nebbia e ululava rabbiosamente. Impazzito per la paura, lo stallone rifiutò di procedere oltre e Elric fu costretto a smontare. «Tieni il cavallo» gridò a Shaarilla, e avanzò a passo leggero verso la forma mutevole che incombeva davanti a lui ostruendo il sentiero. A poco a poco riuscì a scorgerla meglio. Due occhi del colore di un vino giallo e annacquato erano inseriti in alto nel corpo della cosa, sebbene non avesse una testa. La bocca, una fenditura oscena irta di zanne, era immediatamente sotto quegli occhi. Non aveva naso né orecchi. Quattro appendici si tendevano dalla parte superiore del corpo, mentre la parte inferiore strisciava sul suolo e non aveva arti che la sostenessero. Elric si sentì dolere gli occhi, mentre la guardava. Era incredibilmente ripugnante, e quel corpo amorfo esalava un fetore di morte e di putredine. Dominando la paura, l'albino avanzò cautamente, tenendo levata la spada per parare le mosse aggressive che la cosa potesse compiere con le braccia. Elric l'aveva riconosciuta, da una descrizione trovata in uno dei suoi libri di magia. Era un Gigante di Nebbia: forse l'unico Gigante di Nebbia esistente, Campana di Morte. Neanche i maghi più sapienti sapevano con certezza quanti ce n'erano, se uno solo o molti. Era un demone delle terre paludose, e si nutriva delle anime e del sangue di uomini e bestie. Ma le Paludi della Nebbia erano molto più a oriente delle zone in cui si diceva che dimorasse Campana di Morte. Elric non si stupì più del fatto che pochissimi animali abitassero in quel tratto di palude. E il cielo, intanto, cominciava a imbrunire. Tempestosa vibrava nella stretta di Elric mentre lui invocava i nomi degli antichi dèi-demoni del suo popolo. Evidentemente il mostro li riconobbe. Per un istante arretrò ondeggiando. Elric mosse qualche passo, a forza. E vide che il demone non era bianco: ma non aveva un colore riconoscibi-
le. C'era una sfumatura arancione, screziata di un giallo-verdognolo nauseante; ma lui non vedeva quei colori con gli occhi: li percepiva soltanto. Poi si precipitò verso la cosa, urlando i nomi che ormai non avevano significato per la sua coscienza. «Balaan... Marthim! Aesma! Alastor! Saebos! Verdelet! Nizilfkm! Haborym! Haborym dei Fuochi che Annientano!» La sua mente era lacerata. Una parte di lui avrebbe voluto fuggire, nascondersi, ma Elric non sapeva dominare la forza che si era impadronita di lui e lo sospingeva incontro a quell'orrore. La spada sferrava affondi e fendenti contro la forma: era come tentare di tagliare un'acqua senziente e pulsante, ma Tempestosa non era inefficace. L'intera forma del demone fremeva, come in preda a una sofferenza spaventosa. Elric si senti sollevare in aria, e non vide più nulla. Non poteva scorgere nulla, né fare altro che colpire e colpire la cosa che adesso lo stringeva. Il sudore gli coprì il volto, mentre continuava a battersi alla cieca. Una sofferenza che non era fisica - una sofferenza orrenda, più profonda - riempiva il suo essere mentre lui urlava e sferrava colpi alla massa cedevole che l'aveva avviluppato e lo trascinava lentamente verso le fauci spalancate. Si dibatté e si contorse nell'osceno abbraccio della cosa. Lo teneva con braccia possenti, quasi lascivamente, attirandolo più vicino, come un rude amante può attirare una ragazza. Neppure l'immane potenza racchiusa nella spada incantata sembrava sufficiente per uccidere il mostro. Benché i suoi sforzi fossero un poco più fiacchi, Tempestosa continuava a trascinare Elric sempre più vicino alla bavosa fenditura della bocca. Elric gridò di nuovo i nomi, mentre Tempestosa danzava e cantava un inno maligno nella sua destra. Torturato, lui si contorceva, pregando, supplicando e promettendo, e tuttavia veniva attirato a poco a poco verso le fauci ghignanti. Lottò, selvaggiamente, cupamente, e ancora una volta chiamò Arioch. Una mente sfiorò la sua: sardonica, potente, malvagia. Elric comprese che Arioch rispondeva, finalmente! In modo quasi impercettibile, il Gigante di Nebbia s'indebolì. Elric approfittò del vantaggio, e la certezza che il mostro stava perdendo la forza gli diede nuova energia. Ciecamente, straziato dalla sofferenza in ogni nervo, colpì e colpì. E poi, all'improvviso, si sentì cadere. Gli parve di cadere per ore, lentamente, senza peso, fino a urtare una superficie cedevole. Cominciò a sprofondare. Lontano, oltre il tempo e lo spazio, udì una voce remota che lo chiamava. Non voleva ascoltarla: preferiva restare dov'era, mentre la sostanza
fredda e gradevole in cui giaceva lo trascinava a poco a poco in se stessa. Poi un sesto senso gli rivelò che era la voce di Shaarilla, e si sforzò di comprenderne le parole. «Elric... la palude! Sei nella palude. Non muoverti!» Sorrise tra sé. Perché doveva muoversi? Sprofondava lentamente, serenamente, nell'amica palude... C'era stato un altro momento come quello? Un'altra palude? Con un sussulto mentale, ritrovò la consapevolezza della situazione e spalancò gli occhi. Sopra di lui c'era la nebbia. Da un lato, una chiazza dai colori indescrivibili evaporava lentamente, esalando un lezzo immondo. Dalla parte opposta riusciva a distinguere a malapena una figura umana che gesticolava all'impazzata. E più indietro c'erano le forme quasi invisibili di due cavalli. Shaarilla era là. E sotto di lui... Sotto di lui c'era la palude. Il limo denso e fetido lo risucchiava mentre lui vi stava disteso, già semisommerso. Nella destra stringeva ancora Tempestosa: poteva scorgerla voltando la testa. Cautamente cercò di sollevare la metà superiore del corpo dalla fanghiglia che lo inghiottiva. Vi riuscì, ma le gambe sprofondarono di più. Cercando di tenersi diritto, gridò: «Shaarilla! Presto, una corda!» «Non abbiamo corde, Elric!» La giovane donna si strappò di dosso il mantello, lacerandolo freneticamente a strisce. Elric sprofondò ancora di più, e non sentì nulla di solido sotto i piedi. Shaarilla annodò frettolosamente le strisce di stoffa. Con un gesto inesperto lanciò verso l'albino la corda improvvisata, ma non abbastanza lontano. Ritentò convulsamente. Questa volta Elric riuscì ad afferrarsi, con la sinistra. La giovane donna cominciò a tirare. Elric si sentì sollevare un poco, e poi si fermò. «È inutile, Elric: non ce la faccio.» Imprecando, Elric gridò: «Il cavallo! Legala al cavallo!» Shaarilla corse verso uno dei cavalli e avvolse la corda intorno al pomo della sella. Poi tirò l'animale per le redini e cominciò a condurlo più lontano, al passo. Elric venne trainato rapidamente fuori dalla fanghiglia, sull'inadeguata sicurezza del sentiero di terra battuta. Stringeva ancora Tempestosa. Cercò di alzarsi, ansimando, ma le gambe lo reggevano a stento. Si raddrizzò, barcollò e cadde. Shaarilla s'inginocchiò accanto a lui. «Sei ferito?»
Nonostante la debolezza, Elric sorrise. «Non credo.» «È stato tremendo. Non vedevo bene cosa succedeva. È sembrato che tu scomparissi, e poi... e poi hai urlato quel... quel nome!» La giovane donna tremava, ed era pallida e tesa. «Quale nome?» Elric era sinceramente perplesso. «Quale nome ho urlato?» Lei scosse il capo. «Non ha importanza: qualunque cosa fosse, ti ha salvato la vita. Poco dopo sei riapparso, e sei caduto nella palude...» L'energia di Tempestosa continuava ancora ad affluire nell'albino. Si sentiva già più forte. Con uno sforzo, si alzò e si avviò a passo malfermo verso il cavallo. «Sono sicuro che il Gigante di Nebbia non dimora abitualmente in questa palude: è stato inviato qui. Da chi o da cosa, non lo so... Ma dobbiamo raggiungere un terreno più solido, finché è possibile.» Shaarilla chiese: «Dove andiamo, avanti o indietro?» Elric aggrottò la fronte. «Avanti, naturalmente. Perché lo domandi?» La giovane donna deglutì e scosse il capo. «Allora affrettiamoci» disse. Rimontarono sui cavalli e proseguirono senza troppa cautela, finché la palude e la sua coltre di nebbia furono alle loro spalle. Il viaggio, ormai, aveva acquisito un'urgenza nuova, perché Elric si era reso conto che una forza tentava di ostacolare il loro cammino. Riposavano pochissimo, e spronavano i robusti cavalli fin quasi a sfinirli. Il quinto giorno attraversarono una zona nuda e pietrosa, sotto una pioggerellina insistente. Il durissimo terreno era sdrucciolevole, e loro erano costretti a procedere più lentamente, ognuno rannicchiato sul fradicio collo del proprio cavallo e avviluppato in un mantello che non riparava a sufficienza dall'acquerugiola. Cavalcavano in silenzio da diverso tempo, quando udirono un orrendo latrato sghignazzante e uno scalpitare di zoccoli. Elric additò una grande roccia che torreggiava alla loro destra. «Rifugiamoci là» disse. «Qualcosa viene verso di noi: forse altri nemici. Se avremo fortuna, passeranno oltre.» Shaarilla ubbidì, muta, e insieme attesero mentre l'atroce clamore si faceva più vicino. «Un cavaliere... e parecchi altri animali» disse Elric, ascoltando attento. «E gli animali seguono o inseguono il cavaliere.» Poi li vide, lanciati a corsa sotto la pioggia. Un uomo che spronava freneticamente un cavallo non meno impaurito... e più indietro, a una distanza che si riduceva sempre di più, un branco di esseri che a prima vista sem-
bravano cani. Ma non lo erano: erano per metà cani e per metà uccelli, col corpo magro e irsuto e le zampe canine ma con artigli da rapace al posto delle zampe e un becco ferocemente adunco e scattante. «I cani da caccia dei Dharzi!» gemette Shaarilla. «Credevo che fossero estinti da molto tempo come i loro padroni.» «Lo credevo anch'io» disse Elric. «Perché sono in questi luoghi? Non ci sono mai stati contatti, tra i Dharzi e gli abitanti di questa terra.» «Li ha portati qui... qualcosa» mormorò Shaarilla. «E quei cani diabolici sentiranno sicuramente il nostro odore.» Elric impugnò la spada incantata. «Allora non abbiamo nulla da perdere, aiutando la loro preda» disse, spronando lo stallone. «Attendi qui, Shaarilla.» La muta infernale e l'uomo inseguito stavano ormai passando davanti alla roccia, per scendere a precipizio una stretta gola. Elric spronò il cavallo giù per il pendio. «Ehi, tu!» gridò al cavaliere terrorizzato. «Fermati e combatti, amico mio: sono qui per aiutarti!» Levando alta la spada sibilante piombò verso i cani diabolici, e gli zoccoli del suo cavallo ne colpirono uno con tale violenza da spezzargli la spina dorsale. Ne erano rimasti cinque o sei. Il cavaliere girò il cavallo e sguainò una lunga sciabola. Era un uomo piuttosto piccolo, dalla bocca larga e sgraziata. Sogghignò di sollievo. «Un colpo di fortuna, questo incontro!» Non ebbe tempo di aggiungere altro: due cani balzarono verso di lui, e fu costretto a impegnarsi per difendersi dai fulminei artigli e dai rostri scattanti. Gli altri tre cani circondarono Elric. Uno spiccò un salto per lacerargli la gola col becco. L'albino sentì sul volto quell'alito fetido, e prontamente ruotò Tempestosa in un arco tagliando in due l'animale. Un sangue immondo spruzzò Elric e il cavallo, e il fetore sembrò intensificare la furia degli altri cani. Ma quel sangue fece cantare d'estasi la nera spada stregata, e Elric la sentì fremere nella sua stretta e piombare verso un altro cane. La punta centrò l'animale immediatamente sotto lo sterno, mentre quello s'impennava per aggredirlo. Con un terribile urlo di sofferenza, il cane girò il becco per afferrare la lama. Quando il rostro toccò il nero metallo, alle narici dell'albino giunse un abominevole lezzo simile a quello della carne bruciata, e l'urlo della bestia si spezzò di colpo. Impegnato a combattere contro l'ultimo cane diabolico, Elric intravide
fuggevolmente la carogna carbonizzata. Il suo cavallo s'impennò, scalpitando per colpire con gli zoccoli il superstite. Il cane si sottrasse all'attacco e si avventò verso l'indifeso fianco sinistro di Elric. Giratosi sulla sella, l'albino vibrò la spada dall'alto in basso e fendette il cranio del mostro, facendo schizzare sangue e materia cerebrale sull'umido suolo. Ancora vivo, il cane sbatté l'adunco becco in direzione di Elric; ma il melniboneano non badò a quel vano attacco e si girò verso l'ometto, che dopo aver ucciso uno degli avversari si trovava in difficoltà col secondo. Il cane aveva afferrato la sciabola con il becco, stringendola vicino alla guardia. Gli artigli sfrecciarono fulminei verso la gola dell'uomo, che stava cercando di liberare la lama. Elric si lanciò alla carica, puntando la spada incantata verso il cane diabolico che dondolava a mezz'aria vibrando zampate e cercando di straziare il nemico. Tempestosa centrò la bestia all'addome inferiore e la squarciò dal basso in alto, dall'inguine alla gola. Il cane lasciò la presa e cadde a terra, contorcendosi. Il cavallo di Elric lo calpestò furiosamente sul suolo roccioso. Ansimando, l'albino rinfoderò Tempestosa e scrutò guardingo l'uomo che aveva salvato. Detestava ogni contatto che non fosse indispensabile, e non desiderava assistere alle manifestazioni di gratitudine da parte dell'ometto. Non fu deluso: la larga bocca sgraziata si aprì in un sogghigno allegro, e l'uomo s'inchinò sulla sella rinfoderando la sciabola. «Grazie, mio buon signore» disse in tono spensierato. «Senza il tuo aiuto, la battaglia sarebbe durata più a lungo. Mi hai privato di un divertimento, ma eri animato da buone intenzioni. Il mio nome è Maldiluna.» «Il mio è Elric di Melniboné» replicò l'albino, ma non notò nessuna reazione sul volto dell'ometto. Era strano, poiché ormai quel nome era malfamato in quasi tutto il mondo. La storia del suo tradimento e dell'uccisione di sua cugina Cymoril era stata narrata ed elaborata in tutte le taverne dei Regni Giovani. Sebbene gli ripugnasse, era abituato a essere riconosciuto da quanti incontrava, e il suo albinismo bastava a distinguerlo. Stupito dell'ignoranza di Maldiluna, e stranamente attratto da quel piccolo cavaliere baldanzoso, Elric lo scrutò cercando di capire da quale territorio provenisse. Maldiluna non portava armatura, e le sue vesti - lise e macchiate - erano di una sbiadita stoffa azzurra. La robusta cintura di pelle reggeva la sciabola, uno stiletto e una borsa di lana. Calzava stivaletti alla caviglia, di cuoio screpolato. I finimenti del cavallo erano logori ma di ottima qualità. L'uomo che stava appollaiato in sella superava di poco il metro e mezzo, e le gambe erano troppo lunghe in rapporto al corpo minuto. Il
naso era corto e rivolto all'insù, gli occhi verde-grìgi, grandi e ingenui. Una fulva criniera gli spioveva sulla fronte e sul collo. Se ne stava in sella tranquillamente, continuando a sorridere: ma ora guardava alle spalle di Elric, nella direzione da cui si avvicinava Shaarilla. Fece un inchino cerimonioso mentre la giovane donna arrestava lo stallone. Elric disse, freddamente: «Dama Shaarilla... Mastro Maldiluna di...?» «Di Elwher» disse Maldiluna. «La capitale commerciale dell'oriente, la più bella città del mondo.» Elric riconobbe quel nome. «Dunque tu vieni da Elwher, mastro Maldiluna. Ho sentito parlare, di quella città. È nuova, non è vero? Ha soltanto pochi secoli. Ti sei spinto molto lontano.» «In verità sì, signore. Se non avessi conosciuto la lingua parlata in questi territori, il viaggio sarebbe stato più difficile; ma per fortuna lo schiavo che mi ha ispirato con le storie della sua patria mi aveva insegnato perfettamente l'idioma.» «Ma perché sei venuto in questi luoghi? Non hai udito le leggende?» chiese Shaarilla, in tono incredulo. «Sono state appunto le leggende, a condurmi qui: e avevo cominciato a ritenerle menzognere, prima che quegli odiosi cuccioli mi dessero la caccia. Non so perché abbiano deciso di farlo, dato che non gli ho offerto nessun motivo di risentimento nei miei confronti. Questa è veramente una terra barbara.» Elric si sentiva a disagio. Le chiacchiere disinvolte che sembravano tanto gradite a Maldiluna erano indisponenti per la sua indole cupa. Ma nonostante ciò, trovava quell'uomo sempre più simpatico. Fu Maldiluna a proporre di proseguire insieme per un tratto. Shaarilla fece per obbiettare, lanciando un'occhiata di avvertimento a Elric, ma l'albino non mostrò di accorgersene. «Benissimo, amico Maldiluna: poiché tre sono più forti di due, saremo lieti della tua compagnia. Noi ci dirigiamo verso le montagne.» Adesso si sentiva di umore più sereno. «E cosa andate a cercare?» volle sapere Maldiluna. «Un segreto» rispose Elric; e il suo nuovo compagno ebbe la discrezione di non insistere. CAPITOLO TERZO
Proseguirono mentre la pioggia diventava più fitta e scrosciava e cantava tra le rocce, e il cielo sopra di loro sembrava d'acciaio opaco, e il vento mormorava una trenodia. Tre figure minuscole che cavalcavano svelte verso la barriera di monti neri, incombente sul mondo come un dio torvo. E forse era un dio che rideva, talvolta, mentre si avvicinavano alle colline pedemontane; o forse era il vento che sibilava nel cupo mistero dei canaloni e dei precipizi, tra i balzi di basalto e di granito levati verso i picchi solitari. Intorno alle vette si raccoglievano nubi temporalesche, e il fulmine si avventava giù come un dito mostruoso che frugasse nella terra in cerca di larve. Il tuono scrosciava sulla catena, e infine Shaarilla rivelò a Elric ciò che pensava: lo rivelò quando giunsero in vista delle montagne. «Elric... Torniamo indietro, ti supplico. Dimentica il Libro: troppe forze operano contro di noi. Tieni conto dei portenti, Elric, se no saremo spacciati!» Ma Elric taceva, cupo, perché da tempo si era accorto che la giovane donna andava perdendo l'entusiasmo per la ricerca da lei stessa iniziata. «Elric, ti prego. Non lo troveremo mai, il Libro. Elric, torniamo indietro.» Lo tirò per le vesti finché l'albino, spazientito, si liberò dalla stretta e disse: «Ormai sono troppo incuriosito per fermarmi. Continua a indicarmi la strada, oppure dimmi ciò che sai e rimani qui. Un tempo desideravi conoscere la sapienza del Libro... e adesso sono bastati pochi incidenti per spaventarti. Cosa volevi apprendere, Shaarilla?» Invece di rispondere, lei disse: «E tu cosa desideravi, Elric? La pace, mi hai detto. Ebbene, ti avverto: non troverai la pace, tra quelle montagne tetre... se mai le raggiungeremo.» «Non sei stata sincera, con me» replicò freddamente Elric continuando a fissare le nere vette. «Tu sai qualcosa delle forze che cercano di fermarci.» Shaarilla scrollò le spalle. «Non ha importanza. Io so ben poco. Mio padre ha pronunciato qualche vago avvertimento prima di morire, ecco tutto.» «Cos'ha detto?» «Ha detto che Colui che custodisce il Libro avrebbe usato tutto il suo potere per impedire all'umanità di servirsi della sapienza racchiusa nel Libro stesso.» «E cos'altro?» «Nient'altro. Ma è sufficiente, ora che mi rendo conto della fondatezza
degli avvertimenti di mio padre. È stato il custode, a ucciderlo... o uno dei servitori del custode. Non voglio subire la stessa sorte, nonostante ciò che il Libro potrebbe fare per me. Avevo creduto che tu fossi abbastanza potente per aiutarmi... ma ora ne dubito.» «Finora ti ho protetta» osservò pacatamente Elric. «Dimmi, tu cosa cerchi nel Libro?» «Mi vergogno troppo.» Elric non insistette, ma dopo un poco Shaarilla parlò a bassa voce, quasi sussurrando. «Cerco le mie ali» disse. «Le tue ali? Vuoi dire che il Libro potrebbe fornirti un incantesimo per farti spuntare le ali?» Elric sorrise ironicamente. «È per questo che cerchi il tesoro della più potente sapienza nel mondo intero?» «Se tu venissi considerato deforme, nella tua terra... per te sarebbe importante» esclamò lei in tono di sfida. Elric girò il volto: nei suoi occhi cremisi ardeva una strana emozione. Si toccò la candida pelle, e un sorriso contratto gli increspò le labbra. «Anch'io mi sono sentito come te» disse quietamente. Non aggiunse altro; e Shaarilla, intimidita, lasciò che la precedesse. Proseguirono in silenzio fino a quando Maldiluna, che per discrezione li aveva distanziati, girò la grossa testa e tirò all'improvviso le redini. Elric lo raggiunse. «Cosa c'è, Maldiluna?» «Sento dei cavalli che vengono da questa parte» disse l'ometto. «E voci che mi sembrano spiacevolmente note. Altri cani diabolici, Elric... e questa volta accompagnati da cavalieri!» Anche Elric udì quei suoni, e lanciò a Shaarilla un grido d'avvertimento. «Forse avevi ragione tu» esclamò. «Stanno arrivando altri guai.» «E adesso?» chiese Maldiluna, accigliandosi. «Dirigiamoci verso le montagne» rispose Elric. «Forse possiamo ancora distanziarli.» Spronarono i cavalli lanciandoli al galoppo verso le colline. Ma era una fuga senza speranza. Ben presto una muta nera apparve all'orizzonte, e il secco abbaiare dei cani diabolici si fece più vicino. Elric si voltò a guardare gli inseguitori. Stava per scendere la notte, e la visibilità si riduceva a ogni istante: ma riuscì a intravedere i cavalieri lanciati dietro la muta. Erano avvolti in manti scuri e stringevano lunghe lance. I volti erano invisibili, perduti nell'ombra del cappuccio che copriva ogni testa. «Fermiamoci qui» ordinò Elric, «e cerchiamo di respingerli. Allo scoperto potrebbero circondarci facilmente.»
Maldiluna annuì, accettando la sensata decisione di Elric. Fermarono i destrieri coperti di sudore e si prepararono a combattere con la muta ululante e con i cavalieri dal mantello scuro. Ben presto i primi cani diabolici salirono di corsa il pendio: la bava colava dai rostri, e gli artigli tintinnavano sulle pietre. Piazzati tra due rocce per bloccare il passaggio con i loro corpi, Elric e Maldiluna sostennero il primo attacco e uccisero rapidamente tre animali. Molti altri presero il posto dei morti, e il primo dei cavalieri apparve dietro di loro, mentre la notte scendeva. «Arioch!» imprecò Elric, riconoscendoli all'improvviso. «Sono i Signori dei Dharzi, morti da dieci secoli. Dobbiamo batterci con i morti, Maldiluna, e con gli spettri anche troppo concreti dei loro cani. Se non riesco a trovare un mezzo magico per sconfiggerli, siamo spacciati!» Per il momento, gli uomini-zombi non mostravano l'intenzione di partecipare all'attacco. Attendevano, con gli occhi morti stranamente luminosi, mentre i cani diabolici tentavano di irrompere oltre il mulinello d'acciaio con cui Elric e il suo compagno si difendevano. L'albino si tormentava il cervello, cercando di dissotterrare dalla memoria un incantesimo che scacciasse i morti viventi. Poi ricordò: e augurandosi che le forze invocate decidessero di aiutarlo, cominciò a cantilenare: «Le Leggi che governano la sorte nessuno impunemente ha mai violato: chi della terra i re abbia insultato è destinato ad una nuova morte». Non accadde nulla. «Ho fallito» mormorò disperato Elric, sventando l'attacco di un cane-demone e infilzandolo sulla spada. Ma poi il suolo sussultò e parve ribollire sotto le zampe dei cavalli che portavano in groppa i morti. Il tremito della terra durò pochi istanti prima di placarsi. «L'incantesimo non era abbastanza potente» sospirò Elric. Il suolo tremò di nuovo, e piccoli crateri si formarono sulle pendici del colle dove attendevano impassibili i morti Signori dei Dharzi. Le pietre si disgregarono, e i cavalli scalpitarono irrequieti. Poi la terra rombò. «Indietro!» gridò Elric. «Indietro, se no sprofonderemo con loro!» Arretrarono verso Shaarilla e i cavalli, mentre il terreno cedeva sotto i loro piedi. I destrieri dei Dharzi s'impennavano sbuffando, e gli ultimi cani rimasti
si voltarono, innervositi, a scrutare i padroni con occhi sconcertati e incerti. Un lamento sommesso usciva dalle labbra dei morti viventi. Poi un tratto del pendio circostante si screpolò, e si spalancarono crepacci. Elric e i suoi compagni balzarono in sella mentre i morti Signori, con uno spaventoso urlo a molte voci, venivano inghiottiti dalla terra ritornando negli abissi da cui erano emersi. Dal precipizio salì un'empia e cupa risata. Era il riso beffardo dei re della terra che recuperavano le loro prede. Uggiolando, i cani diabolici presero ad aggirarsi intorno all'abisso e a fiutare oltre l'orlo. Poi, all'unisono, la muta nera si lanciò nel crepaccio, seguendo i padroni. Maldiluna rabbrividì. «Tu conosci bene le genti più strane, amico Elric» disse tremando, e girò di nuovo il cavallo verso i monti. Il giorno seguente giunsero alle montagne nere, e Shaarilla li guidò nervosamente per la strada rocciosa che aveva imparato a memoria. Non implorava più Elric di tornare indietro: era rassegnata al destino che li attendeva. Elric si sentiva divorare dall'ossessione e dall'impazienza. Era certo che finalmente avrebbe trovato la verità suprema dell'esistenza nel Libro degli Dei Morti. Maldiluna era gaio e scettico, mentre Shaarilla era assillata da orribili presentimenti. Continuava a piovere, e il temporale brontolava e crepitava sopra le loro teste. E mentre l'acquazzone riprendeva con rinnovata insistenza, arrivarono finalmente alla nera imboccatura spalancata di un'enorme caverna. «Non posso più guidarvi» disse stancamente Shaarilla. «Il Libro si trova oltre l'ingresso di questa grotta, non so dove.» Elric e Maldiluna si scambiarono un'occhiata incerta: nessuno sapeva esattamente cosa si doveva fare. L'arrivo alla meta sembrava loro ben poco sensazionale e drammatico, poiché non c'era nulla che bloccasse l'ingresso della caverna e niente sembrava custodirla. «È inconcepibile» disse Elric, «che i pericoli in cui siamo incorsi non fossero causati da qualcosa: eppure eccoci qui, e nessuno cerca d'impedirci di entrare. Shaarilla, sei sicura che la grotta sia veramente questa?» La giovane donna alzò il braccio e additò la pietra sopra l'ingresso. Vi era scolpito un simbolo bizzarro, che Elric riconobbe immediatamente. «Il segno del Caos!» esclamò. «Forse avrei dovuto immaginarlo.» «Cosa significa, Elric?» chiese Maldiluna. «È il simbolo della disgregazione eterna e dell'anarchia» rispose Elric. «Ci troviamo in un territorio dominato dai Signori dell'Entropia, o da uno
dei loro servitori. Ecco dunque chi è il nostro nemico! E questo può significare una cosa soltanto: il Libro ha un'importanza estrema per l'ordine delle cose di questo livello, e forse delle miriadi di livelli dell'universo. Per questo, Arioch era riluttante ad aiutarmi: anche lui è un Signore del Caos!» Maldiluna lo guardava sconcertato. «Cosa vorresti dire, Elric?» «Non sai che due forze governano il mondo e combattono una battaglia eterna?» rispose Elric. «La Legge e il Caos. I sostenitori del Caos affermano che tutto è possibile, nel mondo da loro dominato. Gli avversari del Caos, gli alleati delle forze della Legge, affermano che senza la Legge non può esistere nulla di materiale. «Alcuni si tengono in disparte, nella convinzione che l'equilibrio tra le due forze sia la cosa migliore: ma noi non possiamo fare altrettanto. Siamo coinvolti nel dissidio. Il Libro è prezioso, evidentemente, per entrambe le fazioni; e immagino che i servitori dell'Entropia temano il potere che potremmo liberare se c'impadronissimo del Libro. È raro che la Legge e il Caos interferiscano direttamente nella vita degli uomini... ed è per questo che non ci siamo accorti con certezza assoluta della loro presenza. Ora, forse, scoprirò finalmente la risposta dell'unico quesito che m'interessi: esiste una forza suprema che regna al disopra delle opposte fazioni della Legge e del Caos?». Varcò l'entrata della grotta, scrutando nell'oscurità, mentre gli altri lo seguivano esitanti. «La caverna si addentra a grande profondità nelle viscere della montagna. Non possiamo far altro che proseguire finché ne raggiungeremo il fondo» disse Elric. «Speriamo che il fondo non sia troppo in basso» replicò ironicamente Maldiluna, facendo cenno all'albino di precederli. Avanzarono, a tentoni, mentre la caverna diventava sempre più buia. Le loro voci echeggiavano cupe e tonanti mentre il fondo scendeva con una forte inclinazione. «Questa non è una grotta» mormorò Elric. «È una galleria... ma non so immaginare dove conduca.» Per parecchie ore continuarono a camminare nella tenebra più fonda, aggrappandosi l'uno all'altro e brancolando, senza sapere dove posavano i piedi, sempre consapevoli di scendere un declivio. Persero il senso del tempo, e Elric cominciò ad avere la sensazione di vivere in un sogno. Gli eventi sembravano divenuti così imprevedibili e incontrollabili che lui non
riusciva più a considerarli in termini normali. La galleria era lunga e tenebrosa e vasta e fredda. Non c'era nulla, e il pavimento sembrava divenuto l'unica cosa reale: era ben saldo sotto i loro passi. Elric cominciò ad avere l'impressione che non fosse lui a muoversi: che fosse il pavimento stesso a muoversi, mentre lui restava stazionario. I suoi compagni gli stavano aggrappati, ma lui non se ne accorgeva. Era come smarrito, e aveva il cervello pervaso dal torpore. Talvolta barcollava e aveva la sensazione di trovarsi sul ciglio di un precipizio. Talvolta cadeva, e il suo corpo intormentito incontrava la pietra compatta, a smentita della vicinanza dell'abisso in cui quasi si aspettava di piombare. Muoveva i passi con uno sforzo di volontà, sebbene non fosse certo di avanzare. E il tempo non significava più nulla: era divenuto un concetto privo di significato, senza più il minimo rapporto con la realtà. Alla fine Elric percepì davanti a sé un fioco barlume azzurro, e capì che si era davvero mosso in avanti. Prese a correre giù per il declivio, ma si accorse che procedeva troppo in fretta e dovette ridurre la velocità. Nella fredda aria della galleria c'era un sentore di estraneità aliena, e la paura era una forza fluida che lo avvolgeva come qualcosa al difuori di lui. Evidentemente anche gli altri l'avvertivano: Elric lo sentiva, sebbene non gli dicessero nulla. Scendevano lentamente, come automi, attratti dal pallido barlume azzurro. Poi uscirono dalla galleria e guardarono sgomenti e intimoriti la visione ultraterrena che stava loro di fronte. L'aria sembrava avere lo stesso colore azzurro che li aveva attratti in un primo momento. Stavano su una sporgenza di roccia, e sebbene fosse ancora buio il bizzarro chiarore azzurro illuminava un tratto di scintillante spiaggia argentea sotto di loro. La riva era lambita da un inquieto mare scuro, che si muoveva incessantemente come un gigante liquido in un sonno turbato. Lungo l'argentea spiaggia giacevano le sagome indistinte di relitti: le ossature di imbarcazioni dalle forme bizzarre, ognuna diversa dall'altra. Il mare si perdeva nella tenebra, e non c'era orizzonte: soltanto l'oscurità. Dietro di loro c'era solo una parete rocciosa a strapiombo, che oltre un certo punto si perdeva ugualmente nella tenebra. E c'era freddo: un freddo tremendo, incredibilmente pungente. Sebbene il mare si agitasse sotto di loro, nell'aria non c'erano né umidità né odore di salmastro. Era uno spettacolo cupo e tremendo; e a parte il mare, erano loro le sole cose che si muovevano e che producevano suoni, perché il mare era orribilmente silenzioso nel suo movimento irrequieto. «E adesso, Elric?» mormorò Maldiluna, con un brivido.
Elric scosse il capo. Rimasero lì a lungo finché l'albino, con le mani e il volto bianchissimi che spiccavano nella luce aliena, disse: «Poiché è assurdo tornare indietro, ci avventureremo oltre il mare.» La sua voce era cavernosa: e parlava come se non si rendesse conto di ciò che diceva. Una scala intagliata nella pietra viva scendeva verso la spiaggia, e Elric vi si avviò. Gli altri lo seguirono, guardandosi intorno con occhi illuminati da un terribile senso di fascino. CAPITOLO QUARTO I loro passi profanavano il silenzio, facendo scricchiolare le pietre cristalline dell'argentea spiaggia. Elric fissò gli occhi cremisi su uno dei relitti sparsi sulla riva, e sorrise. Scosse furiosamente la testa come per schiarirsi la mente, e tremando indicò una delle imbarcazioni. I suoi compagni videro che era intatta, a differenza delle altre. Era gialla e rossa, colori vivaci che stonavano con l'ambiente; e avvicinandosi si accorsero che era fatta di legno, sebbene fosse diverso da ogni altro legno che avessero mai visto. Maldiluna la sfiorò con le tozze dita. «Dura come il ferro» mormorò. «Non mi sorprende che non sia imputridita come le altre.» Guardò all'interno e rabbrividì. «Il proprietario non protesterà, se la prenderemo» disse sarcasticamente. Elric e Shaarilla compresero il significato delle sue parole quando scorsero lo scheletro innaturalmente contorto che giaceva sul fondo dell'imbarcazione. Elric si chinò e lo estrasse, scagliandolo sulle pietre. Lo scheletro rotolò rumorosamente sulla lucida ghiaia, disgregandosi, e le ossa si sparpagliarono tutt'intorno. Il teschio si arrestò sul bordo della spiaggia, a guardare con le occhiaie vuote l'inquietante oceano. Mentre Elric e Maldiluna spingevano a fatica la barca verso il mare, Shaarilla li precedette e si accovacciò, tuffando la mano nell'acqua. Poi si alzò di scatto, scuotendo violentemente le dita. «Questa non è acqua» disse. Gli altri la udirono, ma non dissero nulla. «Abbiamo bisogno di una vela» mormorò Elric. La fredda brezza spirava dalla spiaggia verso il largo. «Un mantello dovrebbe andar bene.» Si tolse il manto e l'annodò all'albero dell'imbarcazione. «Due di noi dovranno reggerne i lembi» disse. «In questo modo riusciremo a regolare la direzione. Non possiamo far altro.» Si staccarono dalla riva, badando di non immergere i piedi nel mare.
Il vento gonfiò la vela improvvisata e spinse la barca sull'oceano, più velocemente di quanto Elric avesse calcolato in un primo istante. L'imbarcazione si era lanciata come se fosse animata da una volontà indipendente, e Elric e Maldiluna avevano i muscoli doloranti per lo sforzo di trattenere le estremità della vela. Ben presto la spiaggia argentea scomparve. Ormai potevano vedere ben poco: la pallida luce azzurra che aleggiava sopra di loro penetrava a malapena in quell'oscurità. Poi udirono un secco sbattere di ali sopra di loro, e alzarono lo sguardo. In silenzio stavano calando su di loro tre enormi esseri scimmieschi dalle grandi ali membranose. Shaarilla li riconobbe e soffocò un grido. «Clakar!» Maldiluna scrollò le spalle e si affrettò a sguainare la sciabola. «È soltanto un nome. Cosa sono?» Ma non ebbe risposta: il primo scimmione alato si tuffò rapido, muovendo la bocca e farfugliando, con le lunghe zanne bavose snudate. Maldiluna abbandonò il lembo della vela e sferrò un fendente contro il mostro: ma quello virò, battendo le ali enormi, e risalì. Elric sguainò Tempestosa... e rimase sbalordito. La lama rimase muta, senza lanciare il solito ululato di gioia. Tremava nella sua mano: e invece dell'ondata di energia che abitualmente gli scorreva lungo il braccio, Elric avvertì solo un lieve formicolio. Per un momento si sentì vincere dal panico: senza la spada, presto avrebbe perso ogni vitalità. Reprimendo rabbiosamente la paura, usò Tempestosa per difendersi dall'assalto impetuoso di uno degli scimmioni alati. Il mostro afferrò la lama, facendo rovesciare Elric; ma lanciò un urlo di dolore quando la spada gli tagliò una mano nodosa recidendo le dita che caddero sullo stretto ponte, sanguinanti e sussultanti. Con uno strido di sofferenza lo scimmione alato attaccò di nuovo, ma questa volta con maggior cautela. Elric chiamò a raccolta tutte le forze e brandì a due mani la pesante spada, tranciando una delle ali coriacee: la bestia, mutilata, piombò sulla tolda. Calcolando il punto in cui doveva trovarsi il cuore, Elric affondò la lama sotto lo sterno. I movimenti dello scimmione cessarono. Maldiluna sferrava fendenti all'impazzata contro i due mostri alati che lo stavano attaccando ai fianchi. Si era puntellato con un ginocchio sul ponte, e avventava colpi a casaccio. Aveva squarciato la testa a una delle bestie, che malgrado la sofferenza non desisteva. Elric scagliò Tempestosa attraverso la tenebra, e la punta penetrò nella gola dello scimmione ferito. Il mostro afferrò l'acciaio con le dita convulse e cadde fuoribordo: galleggiò
sul liquido, ma poi cominciò lentamente ad affondare. Elric afferrò l'elsa della spada, freneticamente, sporgendosi oltre la frisata. Sebbene apparisse incredibile, la spada stava affondando insieme alla carogna della bestia. Poiché conosceva le proprietà di Tempestosa, Elric ne fu sbalordito: una volta, quando aveva scagliato nell'oceano la spada incantata, non era andata a fondo. E adesso veniva trascinata sotto la superficie, come un'arma comune. Strinse l'elsa, e svelse la lama dalla carcassa dello scimmione alato. Le forze lo stavano abbandonando rapidamente. Era incredibile. Quali leggi aliene governavano quel mondo sotterraneo? Non riusciva a immaginarlo, e gli stava a cuore soltanto recuperare le energie che si dissipavano. Senza il potere di Tempestosa era impossibile! La sciabola di Maldiluna aveva sbudellato l'ultimo scimmione, e l'ometto ne stava rovesciando in mare la carcassa. Si girò verso Elric con un sogghigno trionfante. «Bel combattimento» disse. Elric scosse il capo. «Dobbiamo affrettarci ad attraversare il mare» rispose. «Se no saremo perduti, spacciati. Il mio potere è svanito.» «Come? Perché?» «Non so... A meno che le forze dell'Entropia, qui, siano più potenti. Affrettiamoci: non abbiamo tempo di discutere.» Gli occhi di Maldiluna avevano un'espressione turbata. Non poté far altro che agire come aveva detto Elric. Elric tremava per la debolezza, e tratteneva la vela rigonfia con le sue ultime energie. Shaarilla venne ad aiutarlo, sfiorandogli le mani con le mani sottili, gli occhi profondi pieni di premura. «Cos'erano quei mostri?» chiese ansimando Maldiluna; le labbra aggricciate lasciavano scoperti i bianchi denti, e il suo respiro era convulso. «Clakar» rispose Shaarilla. «Sono gli antenati primordiali della mia gente, e hanno un'origine più antica del tempo. Il mio popolo è considerato il più vecchio di questo pianeta.» «Chi sta cercando di fermarci in questa vostra impresa dovrebbe trovare qualche mezzo... originale.» Maldiluna sogghignò. «I vecchi metodi non servono a nulla.» Ma gli altri due non sorrisero, perché Elric era semisvenuto e la giovane donna era troppo preoccupata per lui. Maldiluna scrollò le spalle e guardò davanti a sé. Quando, diverso tempo dopo, parlò di nuovo, la sua voce era eccitata. «Terra in vista!»
Era la terra, e si stavano avvicinando rapidamente. Troppo rapidamente, anzi. Elric si raddrizzò, a fatica, e parlò con un certo sforzo. «Molla la vela!» Maldiluna eseguì. La barca continuò la sua corsa, piombò su un'altra distesa di spiaggia argentea, e salì con uno stridore, scavando con la prua una ferita scura tra i ciottoli lucenti. Poi si arrestò di colpo, inclinandosi su un fianco con tanta violenza che i tre vennero scagliati contro il parapetto. Shaarilla e Maldiluna si rialzarono, e trascinarono sulla riva l'albino inerte ed esausto. Sorreggendolo, risalirono la spiaggia finché i sassi cristallini lasciarono posto a un muschio fitto e soffice che attutiva il suono dei loro passi. Deposero Elric e lo guardarono preoccupati, senza sapere cosa fare. L'albino si sforzò di alzarsi, ma invano. «Datemi un po' di tempo» ansimò. «Non morirò... ma già mi si offusca la vista. Posso solo augurarmi che sulla terraferma il potere della spada ritorni.» Con uno sforzo disperato estrasse Tempestosa dal fodero, e sorrise di sollievo quando la spada stregata gemette sommessamente: poi, a poco a poco, il suo canto aumentò di potenza, e una fiamma nera lingueggiò lungo la lama. L'energia rifluiva già nel corpo di Elric, rendendogli la vitalità. Ma sebbene la forza gli tornasse, i suoi occhi cremisi ardevano di una terribile tristezza. «Senza questa spada» mormorò, «io non sono nulla, come vedete. Ma cosa mi sta facendo? Dovrò esserle legato per sempre?» Gli altri non risposero, in preda a un sentimento che non sapevano definire: un'emozione composta di paura, odio e pietà... frammista a qualcosa di diverso. Finalmente Elric si alzò tremando, e in silenzio guidò i compagni su per le muscose pendici della collina, verso una luce più naturale che filtrava dall'alto. Videro che proveniva da un ampio camino, il quale sembrava che portasse all'aperto. La luce mostrò loro, quasi subito, una forma scura e irregolare che torreggiava nell'ombra di quella breccia. Quando furono più vicini, videro che era un castello di pietra nera, un'ampia costruzione coperta di licheni verdescuri che avvolgevano quell'antica mole quasi a proteggerla. Le torri sorgevano qua e là, a casaccio, coprendo una vasta area. Non si scorgevano finestre, e l'unico orificio era un alto portale bloccato da robuste sbarre di un metallo che splendeva di un rossore cupo ma senza irradiare calore. Sopra la porta c'era il simbolo dei Signori dell'Entropia, in ambra sfolgorante: otto frecce che s'irradiavano in tutte le direzioni dal mozzo centrale. L'emblema sembrava aleggiare
nell'aria, senza toccare la pietra nera coperta di licheni. «Credo che la nostra ricerca finisca qui» disse torvo Elric. «O qui o in nessun altro luogo.» «Prima di andare oltre, Elric, vorrei sapere cosa cercate» mormorò Maldiluna. «Credo di averne guadagnato il diritto.» «Un libro» disse noncurante Elric. «Il Libro degli Dei Morti. Si trova fra le mura del castello, ne sono certo. Siamo giunti alla meta del nostro viaggio.» Maldiluna scrollò le spalle. «Tanto valeva che non lo chiedessi» osservò con un sorriso. «Per quello che significano le tue parole! Spero che mi verrà accordata una piccola parte del tesoro rappresentato da quel libro.» Elric sorrise, nonostante il freddo che gli attanagliava le viscere, ma non disse né sì né no. «Prima dobbiamo penetrare nel castello» osservò invece. Come se la porta l'avesse udito, le sbarre metalliche s'illuminarono di un intenso verdechiaro, che poi tornò rossocupo e svanì. Ora le sbarre non c'erano più, e l'ingresso sembrava sgombro. «Questo non mi piace» borbottò Maldiluna. «Troppo facile. Ci attende una trappola: dobbiamo farla scattare come desidera chi dimora nel castello, chiunque sia?» «Cos'altro possiamo fare?» ribatté pacatamente Elric. «Tornare indietro... o andare avanti. Evitare il castello, e non provocare Colui che custodisce il Libro!» Shaarilla si aggrappò al braccio destro dell'albino, col volto sfigurato dalla paura e gli occhi imploranti. «Dimentica il Libro, Elric!» «Adesso?» Elric rise amaramente. «Adesso, dopo questo viaggio? No, Shaarilla, non adesso che la verità è tanto vicina. Meglio morire piuttosto di non aver cercato d'impadronirmi della sapienza racchiusa nel Libro pur sapendo che è così vicino.» Le convulse dita di Shaarilla lo lasciarono; la donna si accasciò, disperata. «Non possiamo lottare con i servitori dell'Entropia...» «Forse non sarà necessario.» Elric non credeva alle proprie parole, ma le sue labbra erano contratte da una cupa emozione intensa e terribile. Maldiluna lanciò un'occhiata a Shaarilla. «Shaarilla ha ragione» disse in tono convinto. «Non troverai altro che l'amarezza e forse la morte, entro le mura del castello. Saliamo quella scala, invece, e cerchiamo di raggiungere la superficie.» Indicò una gradinata tortuosa che portava verso l'ampio squarcio nella volta della caverna.
Elric scosse il capo. «No. Andate voi, se volete.» Maldiluna fece una smorfia. «Sei ben ostinato, amico Elric. Ebbene, se si tratta di scegliere tra tutto o niente... allora sono con te. Ma personalmente ho sempre preferito il compromesso.» Elric s'incamminò lentamente verso la tenebrosa entrata del castello. In un vasto cortile buio li attendeva una figura altissima, cinta con te. Ma personalmente ho sempre preferito il compromesso. Elric s'incamminò lentamente verso la tenebrosa entrata del castello. Risa clamorose erompevano dalla bocca del gigante, e il fuoco scarlatto gli svolazzava intorno. Era nudo e inerme, ma la potenza che s'irradiava da lui costrinse quasi i tre a indietreggiare. Aveva la pelle scagliosa, color porpora cupo. Il massiccio corpo era vivo di muscoli guizzanti, e si reggeva sulla punta dei piedi. La testa era allungata, sfuggente, e gli occhi privi di pupilla parevano schegge di acciaio azzurro. Tutto il suo corpo era scosso da una gioia possente e maligna. «Ti saluto, principe Elric di Melniboné. Mi congratulo per la tua straordinaria tenacia!» «Chi sei?» ringhiò Elric, posando la destra sulla spada. «Mi chiamo Orunlu il Custode, e questa è una roccaforte dei Signori dell'Entropia.» Il gigante fece un sorriso cinico. «Non è necessario che tu stringa così nervosamente quella modesta spada, perché dovresti sapere che non posso farti del male. Ho acquisito il diritto di rimanere nel vostro reame solo pronunciando quel voto.» La voce di Elric tradiva una crescente eccitazione. «Non puoi fermarci?» «Non oso, poiché i miei tentativi indiretti non hanno avuto esito. Ma ammetto che il tuo sciocco tentativo mi sconcerta alquanto. Il Libro è importante per noi... ma che significato può avere per te? Io lo custodisco da trecento secoli e non ho mai provato la curiosità di scoprire perché i miei padroni gli attribuiscano tanto valore, o perché si siano preoccupati di recuperarlo mentre volava verso il sole e d'imprigionarlo in questa noiosa sfera di terra popolata dai folli e caduchi pagliacci chiamati uomini!» «Io cerco la verità» disse guardingo Elric. «Non c'è altra verità che la lotta eterna!» ribatté in tono convinto il gigante scarlatto. «Cos'è che regna al disopra delle forze della Legge e del Caos?» chiese Elric. «Cos'è che governa sia il tuo destino che il mio?» Il gigante aggrottò la fronte. «Non posso rispondere a questa domanda Non so. Esiste solo l'Equili-
brio.» «Allora, forse, il Libro ci dirà chi lo conserva» replicò deciso Elric. «Lasciami passare, e dimmi dove si trova.» Il gigante indietreggiò, sorridendo ironicamente. «Si trova in una piccola camera nella torre centrale. Ho giurato di non avventurarmi mai là dentro, altrimenti potrei addirittura farvi da guida. Andate pure, se volete: il mio compito è terminato.» Elric, Maldiluna e Shaarilla si avviarono verso l'entrata del castello: ma il gigante parlò, dietro di loro, in tono d'avvertimento. «Mi è stato detto che la sapienza racchiusa nel Libro potrebbe alterare l'equilibrio in favore delle forze della Legge. Questo mi turba, ma sembra che ci sia un'altra possibilità che mi turba ancora di più.» «Quale?» chiese Elric. «Potrebbe provocare un immane impatto sul multiverso, causando l'entropia totale. I miei padroni non lo vogliono, perché potrebbe comportare la distruzione di tutta la materia. Noi esistiamo solo per combattere: non per vincere, ma per alimentare la lotta eterna.» «Non m'importa» replicò Elric. «Ho ben poco da perdere, Custode Orunlu.» «E allora va'.» Il gigante attraversò il cortile e sparì nella tenebra. All'interno della torre, una pallida luce rischiarava una tortuosa scala ascendente. Elric prese a salire in silenzio, spinto dal suo scopo fatidico. Esitanti, Maldiluna e Shaarilla lo seguirono, col volto atteggiato a un'accettazione senza speranza. La scala saliva e saliva, avvolgendosi tortuosa verso la meta: e alla fine giunsero nella camera indicata da Orunlu, satura di un'accecante luce pulsante e policroma che non trapelava all'esterno ma rimaneva imprigionata tra le pareti. Sbattendo le palpebre, schermandosi gli occhi cremisi con il braccio, Elric avanzò e vide la sorgente di quella luce su un piccolo podio di pietra al centro della camera. Altrettanto turbati dalla fulgidissima luce, Shaarilla e Maldiluna lo seguirono, e poi si fermarono intimoriti e sgomenti. Era un libro enorme: il Libro degli Dei Morti. La rilegatura era incrostata di gemme aliene da cui scaturiva la luce. Splendeva, pulsava di luce e di colori brillanti. «Finalmente» mormorò Elric. «Finalmente... la Verità!» Avanzò barcollando, come stordito dal vino, tendendo le pallide mani
verso ciò che aveva cercato con rabbia frenetica. Le sue dita toccarono la pulsante copertina del Libro, e tremando l'aprirono. «Ora saprò» disse, trionfante. Con uno schianto la copertina cadde a terra, lanciando tutt'intorno le fulgide gemme che rimbalzarono e rotolarono. Sotto le mani frementi di Elric non era rimasto altro che un mucchio di polvere giallastra. «No!» Il suo grido era angosciato, incredulo. «No!» Le lacrime gli scorrevano sul volto contratto, mentre passava le mani tra la finissima polvere. Con un gemito che squassò tutto il suo essere, cadde prono sulla pergamena disintegrata. Il tempo aveva distrutto il Libro, non toccato - e forse dimenticato - da trecento secoli. Anche gli dèi saggi e possenti che l'avevano creato erano periti... e ora la sua sapienza li seguiva nell'oblio. Si arrestarono sulle pendici dell'alta montagna, guardando le verdi vallate sottostanti. Il sole splendeva, e il cielo era limpido e azzurro. Dietro di loro si apriva lo squarcio che conduceva alla roccaforte dei Signori dell'Entropia. Elric guardò tristemente il mondo, con la testa china sotto il peso della stanchezza e della nera disperazione. Non apriva più bocca da quando i suoi compagni l'avevano trascinato via dalla camera del Libro. Rialzò il pallido volto e parlò con voce venata di autoironia e resa tagliente dall'amarezza: una voce solitaria, come il richiamo di un uccello marino affamato che volteggia nei freddi cieli su spiagge desolate. «Ormai» disse, «vivrò la mia esistenza senza sapere perché la vivo, se ha uno scopo o no. Forse il Libro me l'avrebbe detto. Eppure, anche in tal caso, l'avrei creduto? Io sono l'eterno scettico... Non sono mai sicuro che le mie azioni siano veramente mie, non sono mai certo che a guidarmi non sia un'entità suprema. «Invidio coloro che sanno. Ormai non posso far altro che continuare la mia ricerca e sperare contro ogni speranza che prima della fine della mia vita mi venga rivelata la Verità». Shaarilla gli strinse le mani inerti: aveva gli occhi colmi di lacrime. «Elric... permettimi di confortarti.» L'albino ringhiò sdegnosamente. «Volesse il cielo che non ci fossimo mai incontrati, Shaarilla della Nebbia Danzante. Per qualche tempo mi hai dato la speranza: avevo creduto di essere finalmente in pace con me stesso. Ma per causa tua, ora sono più disperato di prima. Non c'è salvezza, in
questo mondo: solo un destino malevolo. Addio.» Sottrasse le mani alla stretta di lei e si avviò giù per il declivio della montagna. Maldiluna lanciò un'occhiata a Shaarilla e poi a Elric. Tolse qualcosa dalla borsa e lo mise nelle mani della giovane donna. «Buona fortuna» disse, e corse dietro a Elric. Senza arrestarsi, l'albino si voltò nell'udire Maldiluna che si avvicinava, e malgrado la cupa tristezza domandò: «Cosa c'è, amico Maldiluna? Perché mi segui?» «Ti ho seguito finora, principe Elric, e non vedo perché dovrei smettere» rispose sorridendo l'ometto. «Inoltre sono un materialista come te. Dobbiamo mangiare, sai.» Elric aggrottò la fronte: un senso di calore cresceva dentro di lui. «Cosa intendi dire, Maldiluna?» L'ometto ridacchiò. «Io approfitto sempre delle situazioni, quando posso» rispose. Si frugò nella borsa e mostrò, nel palmo della mano protesa, qualcosa che splendeva di un fulgore abbagliante. Era una delle gemme che avevano ornato la rilegatura del Libro. «Nella mia borsa ce ne sono altre» disse. «E ognuna vale un patrimonio.» Afferrò Elric per il braccio. «Andiamo, Elric. Quali nuove terre dobbiamo visitare, per poter scambiare quei gingilli con vino e piacevole compagnia?» Dietro di loro, immobile sulle pendici della montagna, Shaarilla li segui tristemente con lo sguardo fino a quando scomparvero. La gemma donata da Maldiluna le cadde dalle dita e rotolò e rimbalzò sul terreno, fino a perdersi tra l'erica. Poi Shaarilla si voltò... e davanti a lei si spalancava il tenebroso ingresso della caverna. PARTE TERZA LA CITTADELLA CHE CANTAVA Dove Elric ha i primi contatti con Pan Tang, Yishana di Jharkor e l'incantatore Theleb K'aarna, e apprende qualcosa di più a proposito dei Mondi Superiori... CAPITOLO PRIMO Il mare di turchese era tranquillo nell'aurea luce della prima sera, e i due uomini appoggiati al parapetto della nave tacevano guardando verso il
nebbioso orizzonte settentrionale. Uno era alto e snello, avvolto in un pesante mantello nero, e il cappuccio ributtato sulle spalle rivelava i lunghi capelli nivei; l'altro era basso e fulvo. «Era una donna splendida e ti amava» disse l'uomo fulvo, dopo un lungo silenzio. «Perché l'hai abbandonata così?» «Era una donna splendida» rispose l'albino, «ma avrebbe pagato a caro prezzo il suo amore. È meglio che cerchi la sua terra e vi rimanga. Io ho già ucciso una donna che amavo, Maldiluna. Non vorrei ucciderne un'altra.» Maldiluna scrollò le spalle. «Talvolta mi chiedo, Elric, se questo tuo destino atroce non è soltanto una finzione della tua mente ossessionata dalla colpa.» «Può darsi» replicò noncurante Elric. «Ma preferisco non mettere alla prova la teoria. Non parliamone più.» Il mare spumeggiava e turbinava mentre i remi fendevano la superficie spingendo velocemente la nave verso il porto di Dhakos, capitale di Jharkor, uno dei più potenti tra i Regni Giovani. Meno di due anni prima il re di Jharkor, Dharmit, era morto nella sfortunata incursione contro Imrryr; e Elric aveva saputo che gli uomini di quella terra l'accusavano della morte del giovane re, sebbene ciò non fosse vero. Non si curava che gli dessero o no la colpa di quella morte, perché continuava a provare disprezzo per l'umanità. «Tra un'ora verrà l'imbrunire, ed è improbabile che navighiamo di notte» disse Maldiluna. «Credo che andrò a letto.» Elric stava per replicare quando fu interrotto da un grido acuto proveniente dalla coffa. «Vela di poppa a sinistra!» L'uomo di vedetta doveva essersi addormentato, perché la nave che dirigeva verso di loro si distingueva già chiaramente anche dalla tolda. Elric si scostò mentre il capitano, un tarkeshita dal volto scuro, saliva di corsa sul ponte. «Cos'è quella nave, capitano?» chiese Maldiluna. «Una trireme di Pan Tang: una nave da guerra. È in rotta di collisione.» Il capitano corse via, gridando al timoniere l'ordine di virare. Elric e Maldiluna attraversarono la tolda per vedere meglio la trireme. Aveva le vele nere e lo scafo nero ornato di pesanti dorature, con tre uomini per remo. Era grande e tuttavia elegante, con l'alta poppa curvilinea e la prua bassa. Già si vedeva il grosso ariete fasciato di bronzo che fendeva le
acque. Aveva due vele latine, e il vento in favore. I rematori, in preda al panico, si sforzavano di far virare la nave secondo gli ordini del timoniere. I remi si alzavano e si abbassavano nella massima confusione, e Maldiluna si girò verso Elric con un mezzo sorriso. «Non ce la faranno mai. È meglio che tu tenga pronta la spada, amico.» Pan Tang era un'isola di stregoni interamente umani, che cercavano di emulare l'antica potenza di Melniboné. Le loro flotte erano tra le più efficienti dei Regni Giovani, e compivano scorrerie senza troppe discriminazioni. Il teocrate di Pan Tang, capo dell'aristocrazia sacerdotale, era Jagreen Lem; si diceva che avesse concluso un patto con le potenze del Caos e intendesse diventare padrone del mondo. Elric considerava gli uomini di Pan Tang zotici presuntuosi che non potevano sperare di rispecchiare la gloria dei suoi avi; tuttavia era costretto ad ammettere che quella nave era imponente e che avrebbe vinto facilmente lo scontro con la galea tarkeshita. La grande trireme puntava su di loro, e il capitano e il timoniere ammutolirono rendendosi conto che non avrebbero potuto sottrarsi all'ariete. Con un aspro suono di fasciame schiantato, l'ariete urtò la poppa squarciando la chiglia sotto la linea di galleggiamento. Elric stava immobile a guardare: i grappini d'abbordaggio della trireme volavano verso il ponte della galea. Quasi svogliatamente, consapevoli di non essere in grado di contrastare i ben armati e addestrati uomini di Pan Tang, i tarkeshiti corsero verso poppa preparandosi a resistere all'arrembaggio. Maldiluna mormorò, concitato: «Elric, dobbiamo aiutarli!» Elric annuì riluttante. Detestava il pensiero di sguainare la spada stregata: in quegli ultimi tempi sembrava che il suo potere si fosse accresciuto. I guerrieri dalla corazza scarlatta si stavano lanciando verso i tarkeshiti. La prima ondata, armata di spadoni e asce da combattimento, investì i marinai costringendoli a indietreggiare. La mano di Elric si posò sull'elsa di Tempestosa. Quando la strinse e la sguainò, la lama emise un bizzarro gemito inquietante, come di pregustazione, e una luminosità nera lingueggiò in tutta la sua lunghezza. Ora la spada pulsava nella mano di Elric come se fosse viva, mentre lui accorreva ad aiutare i marinai tarkeshiti. Già quasi metà dei difensori erano stati falciati, e gli altri si ritiravano. Elric avanzò, seguito da Maldiluna, e l'espressione dei guerrieri chiusi nelle armature scarlatte passò dal feroce trionfo allo sbalordimento quando la
sua grande spada nera si alzò e abbassò con uno strido fendendo un uomo dalla spalla alle costole inferiori sebbene fosse protetto dalla corazza. Evidentemente avevano riconosciuto lui e la spada, poiché erano entrambi leggendari. Sebbene Maldiluna fosse un esperto schermitore non gli badarono neppure, rendendosi conto che se volevano sopravvivere dovevano concentrare tutte le forze per abbattere Elric. L'antica e folle bramosia di uccidere dei suoi avi si impadronì di Elric, mentre Tempestosa mieteva anime. Lui e la spada divennero una cosa sola: ed era la spada, non Elric, a dominare. Tutt'intorno gli uomini cadevano, urlando più per l'orrore che per la sofferenza quando comprendevano di cosa li aveva depredati la nera lama. Quattro si avventarono contro di lui facendo sibilare le asce. Elric mozzò la testa di uno, aprì un profondo squarcio nel ventre di un altro, tranciò un braccio al terzo, e piantò la spada nel cuore dell'ultimo. I tarkeshiti lanciavano grida di acclamazione, adesso: seguirono Elric e Maldiluna e li aiutarono a sbarazzare dagli aggressori i ponti della galea condannata. Ululando come un lupo, Elric afferrò una cima della trireme nera e oro e si lanciò verso la tolda dei nemici. «Seguiamolo!» gridò Maldiluna. «È la nostra unica speranza: la nave è spacciata!» La trireme aveva ponti rialzati, a prua e a poppa. Sul ponte anteriore stava il capitano, splendido nelle vesti azzurre e scarlatte, con la faccia stravolta dal corso inatteso degli eventi. Aveva previsto di catturare la preda senza fatica, ma a quanto pareva la vittima era divenuto lui. Tempestosa cantava il suo canto lamentoso, mentre Elric si spingeva più avanti verso il ponte anteriore: un canto di trionfo e di estasi. I guerrieri superstiti non l'assalivano più e si concentravano su Maldiluna, che guidava i marinai tarkeshiti lasciando libero il passo a Elric. Il capitano, che faceva parte della teocrazia, sarebbe stato più difficile da battere dei suoi uomini. Mentre avanzava verso di lui, Elric notò che la sua corazza aveva un bizzarro splendore: era stata sottoposta a un trattamento magico. Il capitano era un tipico esemplare della sua razza: massiccio, barbuto, con i maligni occhi neri e il robusto naso adunco. Sulle labbra rosse e carnose aleggiava un lieve sorriso mentre lui, con l'ascia in mano e la spada nell'altra, si preparava ad affrontare Elric che stava salendo precipitosamente la scaletta. Elric strinse Tempestosa con entrambe le mani e sferrò un affondo allo
stomaco del capitano, ma quello si scostò e parò con la spada mentre avventava l'ascia contro la testa nuda dell'albino. Elric si gettò di lato e cadde, rotolando via nell'istante in cui lo spadone piombava contro le tavole del ponte sfiorandogli la spalla. Tempestosa parve levarsi da sola per bloccare un altro colpo dell'ascia, e poi guizzò verso l'alto per tranciarne l'impugnatura. Il capitano, con una bestemmia, gettò via il manico ormai inutile, strinse lo spadone con tutt'e due le mani e l'alzò. Ancora una volta Tempestosa reagì un attimo prima di Elric, scattando verso il cuore dell'uomo. La corazza magica l'arrestò per un momento: poi Tempestosa lanciò un grido stridulo e canoro, fremette come per invocare altra energia, e scivolò di nuovo sull'armatura. E poi la corazza magica si squarciò come un guscio di noce, lasciando l'avversario di Elric a torso nudo e con le braccia ancora levate per colpire. Il capitano spalancò gli occhi e indietreggiò, dimenticando la propria spada, con lo sguardo fisso sulla lama stregata, che lo centrò sotto lo sterno e vi penetrò. Il capitano contrasse il volto, gemette, e lasciò cadere lo spadone, stringendo invece la lama che gli stava succhiando l'anima. «Per Chardros, no... no... aaah!» Morì sapendo che neppure la sua anima poteva salvarsi dalla spada infernale impugnata da quell'albino dal volto di lupo. Elric svelse Tempestosa dal cadavere, e sentì la propria vitalità ingigantire mentre la spada gli trasmetteva l'energia rubata; e rifiutò di pensare che più si serviva di Tempestosa e più ne aveva bisogno. A bordo della trireme erano rimasti in vita solo gli schiavi rematori. Ma il ponte si stava inclinando, perché l'ariete e i grappini erano ancora incastrati nella nave tarkeshita, che stava per affondare. «Tagliate le cime d'abbordaggio e indietreggiate, presto!» urlò Elric. I marinai, accorgendosi di quanto accadeva, scattarono a eseguire i suoi ordini. Gli schiavi controremarono, e l'ariete si svelse con uno scricchiolio di legno schiantato. I cavi furono tagliati, e la galea condannata si allontanò alla deriva. Elric contò i superstiti. Erano meno della metà, e il capitano era stato ucciso al primo assalto. Si rivolse agli schiavi. «Se desiderate la libertà, remate verso Dhakos» gridò. Il sole stava tramontando: ma ora che spettava a lui comandare, decise di proseguire la navigazione durante la notte, orientandosi con le stelle. Maldiluna gridò incredulo: «Perché offri loro la libertà? Potremmo venderli a Dhakos e ripagarci delle fatiche di questa giornata!»
Elric scrollò le spalle. «Offro loro la libertà perché così mi piace, Maldiluna.» L'ometto fulvo sospirò, e andò a dirigere il lavoro di gettare in mare i morti e i feriti. Non avrebbe mai compreso l'albino, si disse. Probabilmente era meglio così. E fu così che Elric fece un ingresso maestoso nel porto di Dhakos, mentre aveva avuto intenzione d'infiltrarsi furtivamente nella città senza farsi riconoscere. Lasciato a Maldiluna il compito di trattare la vendita della trireme e di dividere il denaro con i marinai, Elric si coprì la testa col cappuccio e si fece largo tra la folla che si era radunata, dirigendosi a una locanda di cui aveva sentito parlare e situata presso la porta occidentale della città. CAPITOLO SECONDO Quella notte, sul tardi, quando Maldiluna se ne fu andato a letto, Elric rimase a bere nella sala della locanda. Anche i più entusiasti nottambuli erano usciti, quando l'avevano visto; e adesso Elric era solo. L'unica luce proveniva da una fioca torcia di canne fissata sopra la porta. E poi la porta si spalancò e un giovane riccamente vestito si fermò sulla soglia. «Cerco il Lupo Bianco» disse, inclinando la testa con aria interrogativa. Non poteva scorgere chiaramente Elric. «Vengo chiamato talvolta con quel nome, da queste parti» replicò calmo l'albino. «Cerchi Elric di Melniboné?» «Sì. Ho un messaggio.» Il giovane entrò, tenendosi avviluppato nel mantello perché la grande stanza era fredda sebbene Elric non se ne accorgesse. «Io sono il conte Yolan, vicecomandante della guardia della città» disse in tono arrogante, avvicinandosi al tavolo e scrutando con malgarbo Elric. «Sei molto coraggioso, a venire qui apertamente. Credi che la gente di Jharkor abbia la memoria corta e abbia dimenticato che meno di due anni orsono hai condotto in una trappola il suo re?» Elric sorseggiò il vino; poi disse, staccando appena le labbra dall'orlo della coppa: «Questa è retorica, conte Yolan. Qual è il messaggio?» I modi sicuri di Yolan cambiarono: fece un gesto fiacco. «Per te sarà retorica, forse... ma io sono ancora sconvolto. Non è forse vero che oggi re Dharmit sarebbe ancora qui, se tu non avessi abbandonato la battaglia che
ha annientato la potenza dei signori del mare e del tuo stesso popolo? Non sei ricorso alla stregoneria per favorire la tua fuga, invece di aiutare gli uomini che credevano di essere i tuoi compagni?» Elric sospirò. «So che non sei venuto qui per provocarmi. Dharmit è morto a bordo della sua ammiraglia durante il primo assalto contro il labirinto marino di Imrryr, non nella battaglia successiva.» «Ti fai beffe delle mie domande e poi trovi scuse inconsistenti per la tua vigliaccheria» disse in tono rabbioso Yolan. «Se potessi fare a modo mio, ti darei in pasto alla tua spada stregata: ho sentito dire ciò che è accaduto poco tempo fa.» Elric si alzò lentamente. «Le tue provocazioni mi stancano. Quando te la sentirai di riferire il messaggio, dillo al taverniere.» Girò intorno alla tavola e si avviò verso la scala, ma si fermò quando Yolan, voltandosi, l'afferrò per la manica. Il pallidissimo volto dell'albino si abbassò verso il giovane aristocratico. Gli occhi cremisi balenarono pericolosamente. «Non sono avvezzo a tanta familiarità, giovanotto.» Yolan lasciò ricadere la mano. «Perdonami. Non avrei dovuto permettere che i miei sentimenti vincessero la diplomazia. Sono venuto per compiere una missione delicata: un messaggio della regina Yishana. Chiede il tuo aiuto.» «Detesto aiutare gli altri, così come detesto spiegare le mie azioni» disse spazientito Elric. «In passato, non sempre il mio aiuto è tornato a vantaggio di coloro che l'avevano chiesto. Come ha scoperto Dharmit, il fratellastro della tua regina.» Yolan osservò cupamente: «Non fai che ripetere gii avvertimenti da me dati alla regina. Tuttavia lei desidera vederti in segreto, questa notte.» Distolse lo sguardo con una smorfia. «Tieni presente che posso farti arrestare, se rifiuti.» «Può darsi.» Elric riprese ad avviarsi verso la scala. «Riferisci a Yishana che passerò la notte qui e me ne andrò all'alba. Può venire a farmi visita, se la sua richiesta è tanto urgente.» Salì, lasciando lo sbalordito Yolan solo nel silenzio della taverna. Theleb K'aarna contrasse le labbra in una smorfia. Nonostante la sua abilità nelle arti nere, in amore era uno sciocco; e Yishana, distesa sul letto coperto da ricche pelli, lo sapeva. Le piaceva aver potere su un uomo che sarebbe stato in grado di annientarla con un semplice incantesimo, se non
fosse stato reso debole dall'amore. Sebbene Theleb K'aarna occupasse un posto molto elevato nella gerarchia di Pan Tang, Yishana sapeva bene di non aver nulla da temere da parte dello stregone. Anzi, l'intuito le diceva che quell'uomo, così ansioso di dominare gli altri, aveva anche bisogno di sentirsi dominato. A questo provvedeva lei... e con gioia. Theleb K'aarna continuò a guardarla cupamente. «Come può aiutarti quel decadente cantore d'incantesimi, se non posso aiutarti io?» borbottò, sedendosi sul letto e accarezzandole un piedino ingemmato. Yishana non era giovane e non era graziosa. Tuttavia un fascino ipnotico s'irradiava da quel corpo alto e pieno, dalla ricca chioma nera, dal volto sensuale. Pochissimi tra gli uomini che aveva scelto per il proprio piacere erano stati capaci di resisterle. Non era neppure di indole dolce, saggia, giusta o altruista. Gli storici non avrebbero aggiunto al suo nome un nobile appellativo. Tuttavia c'era in lei un che di autosufficiente, qualcosa che smentiva i criteri abituali per giudicare una persona: e così tutti coloro che la conoscevano l'ammiravano. Era amata da coloro che governava: amata come si ama un bambino volitivo, ma con incrollabile fedeltà. Fece una risata sommessa, beffandosi dello stregone suo amante. «È probabile che abbia ragione tu, Theleb K'aarna, ma Elric è una leggenda: l'uomo di cui più si parla al mondo, e il meno conosciuto. Questa è l'occasione che mi si offre per scoprire ciò che per gli altri è soltanto oggetto di ipotesi: il suo vero carattere.» Theleb K'aarna fece un gesto di dispetto. Si accarezzò la lunga barba nera e si alzò, accostandosi a un tavolo carico di frutta e di vini. Versò un po' di vino per entrambi. «Se stai cercando d'ingelosirmi di nuovo, naturalmente ci riesci. Ho poche speranze, per le tue aspirazioni. Gli antenati di Elric erano per metà demoni: la sua stirpe non è umana, e non può essere misurata col nostro metro. Noi apprendiamo la magia dopo anni di studi e di sacrifici; invece per la razza di Elric la magia è intuitiva, naturale. Forse non vìvrai abbastanza per imparare i suoi segreti. Cymoril, sua cugina, è morta trafitta dalla sua spada: ed era la sua promessa sposa!» «La tua premura è commovente.» Yishana prese con un gesto pigro la coppa che Theleb K'aarna le porgeva. «Ma realizzerò ugualmente il mio piano. Dopotutto non puoi affermare di aver avuto molto successo, nel tentativo di scoprire la natura della cittadella.» «Ci sono sottigliezze che finora non ho ancora sondato in modo adeguato.»
«Allora, forse, l'intuito di Elric troverà le soluzioni che ti sfuggono» fece sorridendo la regina. Poi si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra, guardando il cielo dove la luna piena aleggiava sulle guglie di Dhakos. «Yolan è in ritardo. Se tutto è andato bene, a quest'ora avrebbe già dovuto condurre qui Elric.» «È stato un errore, scegliere Yolan. Non dovevi inviare un amico intimo di Dharmit. A quanto ne sappiamo, può darsi che abbia sfidato Elric e l'abbia ucciso!» Ancora una volta, Yishana non seppe reprimere una risata. «Oh, i tuoi desideri sono troppo grandi: ti obnubilano la ragione. Ho inviato Yolan perché sapevo che sarebbe stato scortese con l'albino, e forse questo avrebbe scosso la sua abituale noncuranza e suscitato la sua curiosità. Ho usato Yolan come un'esca, per condurre Elric da noi.» «E allora può darsi che Elric l'abbia intuito?» «Io non sono troppo intelligente, amor mio... ma credo che raramente il mio istinto mi tradisca. Presto lo sapremo.» Un poco più tardi, qualcuno bussò discretamente alla porta ed entrò un'ancella. «Altezza, è tornato il conte Yolan.» «Solo il conte Yolan?» Sul volto di Theleb K'aarna c'era un sorriso. Ma poco dopo scomparve, quando Yishana lasciò la stanza, abbigliata per uscire. «Sei una sciocca!» ringhiò lo stregone, mentre la porta sbatteva. Posò con violenza la coppa. Già aveva fallito per quanto riguardava la cittadella, e se Elric lo spodestava avrebbe potuto perdere tutto. Cominciò a riflettere profondamente, meticolosamente. CAPITOLO TERZO Sebbene Elric affermasse di essere privo di coscienza, i suoi occhi tormentati smentivano quella vanteria, mentre se ne stava seduto alla finestra bevendo vino forte e pensando al passato. Dopo il sacco di Imrryr aveva vagato per il mondo in cerca di uno scopo per la sua esistenza, di un significato per la sua vita. Non aveva potuto trovare la risposta nel Libro degli Dei Morti. Non aveva potuto amare Shaarilla, la donna senz'ali di Myyrrhn; non era riuscito a dimenticare Cymoril, che assillava ancora i suoi incubi. E c'erano i ricordi di altri sogni... di un fato cui non osava pensare.
La pace, pensò: non cercava altro che la pace. Eppure gli era negata anche la pace della morte. Continuò a rimuginare cupamente finché le sue fantasticherie furono interrotte da un bussare sommesso alla porta. Di colpo la sua espressione s'induri. Gli occhi cremisi divennero guardinghi, le spalle si raddrizzarono: e quando si alzò, era tutto fredda arroganza. Posò la coppa sul tavolo e disse disinvolto: «Avanti!» Entrò una donna avviluppata in un mantello rossocupo, irriconoscibile nel buio della stanza. Richiuse la porta dietro di sé e rimase immobile, senza parlare. Quando infine parlò, la sua voce era quasi esitante, sebbene fosse sfumata anche d'ironia. «Te ne stai qui al buio, principe Elric. Pensavo di trovarti addormentato...» «Il sonno, signora, è l'occupazione che mi annoia più di ogni altra. Ma accenderò una torcia, se il buio ti è sgradito.» Elric si accostò al tavolo e tolse il coperchio al piccolo braciere. Prese un sottile stecco e ne inserì nel braciere un'estremità, soffiando delicatamente. Le braci si ravvivarono e lo stecco s'accese: l'albino l'accostò a una torcia di canna appesa al muro. La fiaccola avvampò, facendo danzare le ombre nella piccola stanza. La donna buttò all'indietro il cappuccio, e la luce ne fece risaltare il volto scuro e pesante e la massa di capelli neri che l'incorniciava. Formava un netto contrasto con l'albino snello e atletico che la guardava impassibile. Non era abituata agli sguardi impassibili, e quella novità le piacque. «Mi hai mandata a chiamare, principe Elric... e come vedi sono qui.» Accennò una beffarda riverenza. «Regina Yishana...» Elric rispose alla riverenza con un lieve inchino. Ora che se lo trovava davanti, lei ne percepiva il potere: un potere che forse esercitava un'attrazione ancora più forte della sua. Eppure Elric non mostrava minimamente di reagire. Yishana pensò che la situazione, prospettata come interessante, poteva divenire addirittura frustrante. E anche questo la divertiva. A sua volta, nonostante tutto, Elric era affascinato da quella donna. Le sue emozioni latenti facevano capire che Yishana avrebbe potuto ravvivarle: e questo lo eccitava e nel contempo lo turbava. Si rilassò un poco e scrollò le spalle. «Ho sentito parlare di te, regina Yishana, in terre lontane da Jharkor. Accomodati, se vuoi.» Indicò una panca, e si sedette sull'orlo del letto. «Sei più cortese di quanto lasciasse supporre il tuo invito» disse la regi-
na. Si sedette accavallando le gambe e incrociando le braccia. «Significa che sei disposto ad ascoltare la proposta che ho da farti?» Elric sorrise a sua volta. Era un sorriso raro, per lui: un po' cupo, ma privo della consueta amarezza. «Credo di sì. Sei una donna eccezionale, regina Yishana. Anzi, se non sapessi che le cose stanno altrimenti sospetterei che tu abbia sangue melniboneano nelle vene.» «Non tutti i "villani rifatti" dei Regni Giovani sono grossolani come tu pensi, mio signore.» «Può darsi.» «Ora che finalmente ti vedo, a faccia a faccia, mi sembra difficile credere a certi particolari della tua leggenda tenebrosa. Eppure» aggiunse Yishana, inclinando la testa e fissandolo con franchezza, «si direbbe che le leggende parlino di un uomo assai meno sottile di colui che mi vedo davanti.» «Avviene sempre così, con le leggende.» «Ah» sussurrò la regina. «Quale forza potremmo rappresentare insieme, io e te...» «Questo genere di ipotesi mi irrita, regina Yishana. Perché sei venuta qui?» «Bene: non pensavo neppure che fossi disposto ad ascoltarmi.» «Ascolterò... ma non aspettarti di più.» «Allora ascolta. Penso che perfino tu apprezzerai questa storia.» Elric ascoltò: e come Yishana aveva previsto, il suo racconto cominciò a destare l'interesse dell'albino... Parecchi mesi prima, disse Yishana a Elric, i contadini della provincia jharkoriana di Gharavian avevano cominciato a parlare di certi cavalieri misteriosi che rapivano dai villaggi giovani e fanciulle. Pensando che si trattasse di banditi, Yishana aveva inviato un distaccamento dei suoi Leopardi Bianchi, i migliori combattenti di Jharkor, per sconfiggerli. Nessuno dei Leopardi Bianchi aveva fatto ritorno. Una seconda spedizione non aveva trovato traccia di loro, ma in una valle nei pressi della città di Thokora aveva scoperto una strana cittadella. Le descrizioni erano confuse. Sospettando che i Leopardi Bianchi fossero stati assaliti e sconfitti, il comandante del secondo contingente aveva scelto la prudenza: lasciati alcuni uomini a sorvegliare la rocca, con l'ordine di riferire tutto ciò che avessero visto, era tornato subito a Dhakos. Una cosa era certa: fino a po-
chi mesi prima la cittadella non esisteva. Yishana e Theleb K'aarna avevano guidato nella valle un imponente esercito. Gli uomini lasciati di guardia erano scomparsi; ma appena vista la cittadella, Theleb K'aarna aveva raccomandato alla regina di non attaccare. «Era uno spettacolo meraviglioso, principe Elric» continuò Yishana. «La cittadella splendeva e scintillava dei colori dell'arcobaleno, che cangiavano continuamente. Sembrava irreale: talora spiccava nitida, talora appariva nebulosa come se fosse sul punto di scomparire. Theleb K'aarna ha detto che era stregata, e non abbiamo avuto difficoltà a credergli. Veniva dal Reame del Caos, ha detto: e la cosa sembrava verosimile.» Si alzò e allargò le braccia. «Da queste parti non siamo abituati a manifestazioni di magia su vasta scala. Theleb K'aarna conosce abbastanza bene la stregoneria: proviene dalla Città delle Statue Urlanti, a Pan Tang, e cose simili là si vedono spesso. Ma anche lui era sconcertato.» «E quindi vi siete ritirati» disse Elric, impaziente. «Stavamo per farlo... anzi io e Theleb K'aarna stavamo già tornando indietro, alla testa dell'esercito, quando si è udita la musica. Era dolce, bellissima, ultraterrena, dolorosa. Theleb K'aarna mi ha gridato di spronare il cavallo e di allontanarmi al più presto. Io indugiavo, affascinata dalla musica; ma lui ha frustato il mio cavallo e siamo fuggiti rapidi come draghi in volo. Anche coloro che ci stavano più vicini si sono salvati... ma abbiamo visto gli altri tornare verso la cittadella, attirati dalla musica. Quasi duecento uomini sono tornati indietro... e sono scomparsi.» «E allora cos'avete fatto?» chiese Elric, mentre Yishana andava a sedersi accanto a lui; poi si scostò per lasciarle spazio. «Theleb K'aarna ha cercato di scoprire la natura della cittadella: che funzione ha e chi la domina. Finora le sue divinazioni gli hanno detto ben poco più di quanto già sapesse: il Reame del Caos ha inviato la cittadella nel Reame della Terra e ne sta lentamente estendendo la portata. Altri giovani e altre fanciulle vengono rapiti continuamente dai servitori del Caos.» «E questi servitori?» Yishana gli era venuta un poco più vicina, e questa volta Elric non si scostò. «Nessuno, tra coloro che hanno cercato di fermarli, è riuscito nell'intento... e pochissimi sono sopravvissuti.» «E cosa vuoi, da me?» «Aiuto.» Yishana lo scrutò in volto e tese una mano per sfiorarlo. «Tu possiedi la conoscenza del Caos e della Legge: una conoscenza antica e istintiva, se Theleb K'aarna non s'inganna. I tuoi dèi sono i Signori del Ca-
os.» «È vero, Yishana: e poiché i nostri patroni sono gli Dei del Caos, non è mio interesse combattere uno di loro.» Elric si accostò alla regina, sorridendo e guardandola negli occhi. All'improvviso la prese tra le braccia. «Forse tu sarai abbastanza forte» le disse enigmaticamente, un attimo prima che le loro labbra s'incontrassero. «Quanto al resto... potremo discuterne più tardi.» Nelle verdi profondità di uno specchio buio Theleb K'aarna intravide la scena che si svolgeva nella stanza di Elric, e fremette di rabbia impotente. Si tirò la barba, mentre l'immagine svaniva per la decima volta in un minuto. I suoi mormorii non bastarono a reintegrarla. Si abbandonò sul seggio formato da crani di serpenti e meditò vendetta. Forse sarebbe occorso qualche tempo perché la vendetta maturasse, pensò; perché, se Elric poteva essere utile per risolvere il mistero della cittadella, non era il caso di annientarlo subito... CAPITOLO QUARTO Il pomeriggio seguente, tre cavalieri partirono per la città di Thokora. Elric e Yishana procedevano a fianco a fianco; ma il terzo cavaliere, Theleb K'aarna, si teneva a distanza, accigliato. Se anche Elric era imbarazzato da quel comportamento dell'uomo al quale era subentrato nell'amore di Yishana, non lo lasciava trasparire. Elric, che nonostante tutto trovava Yishana più che attraente, aveva finito con l'impegnarsi a ispezionare la cittadella e a dire cosa poteva essere e come la si poteva combattere. Prima di partire aveva scambiato qualche parola con Maldiluna. Cavalcavano sulle belle praterie di Jharkor, dorate sotto il sole caldo. C'erano due giorni di viaggio, per arrivare a Thokora, e Elric intendeva goderseli. Meno depresso e infelice del solito, galoppava a fianco di Yishana, ridendo insieme a lei. Eppure, sepolto più profondamente del solito, nel suo cuore c'era un presentimento funesto mentre si avvicinavano alla cittadella misteriosa; e aveva notato che talvolta Theleb K'aarna appariva soddisfatto, mentre invece avrebbe dovuto avere un'aria scontenta. Talvolta Elric gli gridava: «Ehi, vecchio incantatore, non ti rallegri nel ritrovarti libero dalla vita di corte, qui tra le bellezze della natura? Hai la
faccia lunga, Theleb K'aarna: respira quest'aria incontaminata, e ridi con noi!» E allora Theleb K'aarna si oscurava e borbottava, e Yishana ne rideva e lanciava a Elric occhiate luminose. E giunsero a Thokora, e la trovarono ridotta a un abisso fumante che puzzava come una concimaia dell'inferno. Elric fiutò l'aria. «È opera del Caos. In questo avevi ragione, Theleb K'aarna. L'incendio che ha distrutto una città così grande non poteva avere origine naturale. Chiunque ne sia responsabile sta chiaramente accrescendo il proprio potere. Come tu sai, stregone, di solito i Signori della Legge e del Caos sono in equilibrio perfetto, e né gli uni né gli altri intervengono direttamente nella nostra Terra. È evidente: qui l'equilibrio si è modificato un poco, come avviene talvolta, favorendo i Signori del Disordine e permettendo loro di accedere al nostro reame. Normalmente uno stregone terreno può ottenere per breve tempo l'aiuto del Caos o della Legge: ma è raro che una delle fazioni in lotta s'insedii saldamente, come sembra che abbia fatto il nostro amico della cittadella. E c'è qualcosa di più inquietante, almeno per voi dei Regni Giovani: una volta acquisito tale potere è possibile accrescerlo, e con l'andar del tempo i Signori del Caos potrebbero conquistare a poco a poco il Reame della Terra aumentando qui la loro forza.» «È una possibilità terribile» mormorò lo stregone, sinceramente impaurito. Sebbene lui potesse ottenere talvolta l'aiuto del Caos, nessun essere umano aspirava a esserne dominato. Elric rimontò in sella. «Sarà meglio che accorriamo nella valle» disse. «Sei sicuro che sia opportuno, dopo aver visto questo?» Theleb K'aarna era agitato. Elric rise. «Cosa? Eppure sei uno stregone di Pan Tang: l'isola che proclama di conoscere la magia come la conoscevano i miei avi, gli Imperatori Fulgidi! No, no; inoltre, oggi non mi sento votato alla prudenza!» «Neppure io» gridò Yishana, percuotendo i fianchi del suo cavallo. «Avanti, signori: alla Cittadella del Caos!» Nel tardo pomeriggio giunsero sulla cima della catena di colline che circondava la valle, e videro la cittadella misteriosa. Yishana l'aveva descritta bene... ma non perfettamente. Elric si sentiva dolere gli occhi mentre la guardava, perché sembrava estendersi oltre il Reame della Terra in un livello diverso, forse in parecchi altri livelli. Scintillava di tutti i colori della Terra, e di molti altri che Elric sapeva
appartenenti a livelli diversi. Perfino i suoi contorni erano indistinti. Per contrasto, la valle circostante era un mare di cenere scura che talvolta sembrava defluire ondeggiando e lanciando zampilli di polvere, come se gli elementi fondamentali della natura fossero stati turbati e distorti dalla presenza dell'edificio soprannaturale. «Ebbene?» Theleb K'aarna tentò di calmare il cavallo innervosito che scalpitava per allontanarsi. «Hai mai visto qualcosa di simile, prima d'ora?» Elric scosse il capo. «In questo mondo no, certamente: ma l'ho già visto. Durante l'iniziazione finale alle arti di Melniboné, mio padre mi ha condotto in forma astrale nel Reame del Caos, per ottenere udienza dal mio patrono, Arioch delle Sette Tenebre...» Theleb K'aarna rabbrividì. «Sei stato nel Caos? Nella cittadella di Arioch?» Elric rise sdegnosamente. «Quella? Oh, no, è un tugurio in confronto ai palazzi dei Signori del Caos.» Spazientita, Yishana disse: «E allora chi abita là?» «A quanto ricordo, chi dimorava nella cittadella quando ho attraversato il Reame del Caos nella mia giovinezza... non era un Signore del Caos, ma una specie di servitore dei Signori. Anzi» si corresse Elric, aggrottando la fronte, «non esattamente un servitore...» «Ah! Tu parli per enigmi.» Theleb K'aarna voltò il cavallo per scendere dalle colline, lontano dalla cittadella. «Vi conosco, voi melniboneani! Se anche foste sul punto di morire di fame, preferireste un paradosso al cibo!» Elric e Yishana lo seguirono a una certa distanza, poi l'albino si fermò indicando dietro di sé. «Chi dimora là è un essere paradossale. È una specie di giullare alla corte del Caos. I Signori del Caos lo rispettano e forse lo temono un poco, sebbene lui li diverta. Li delizia con indovinelli cosmici, con satire farsesche che pretendono di spiegare la natura della Mano Cosmica che tiene in equilibrio il Caos e la Legge; lancia in aria enigmi come se fossero palle colorate, ride di ciò che è caro al Caos, prende sul serio ciò che loro deridono...» S'interruppe e scrollò le spalle. «Così, almeno, ho sentito dire.» «Perché dovrebbe essere qui?» «Perché dovrebbe essere altrove? Potrei cercare d'intuire i movimenti del Caos o della Legge, e probabilmente non sbaglierei. Ma neppure i signori dei Mondi Superiori possono comprendere le motivazioni di Balo il Giullare. Si dice che sia l'unico cui è consentito muoversi a suo piacere tra
i Reami del Caos e della Legge, sebbene non mi risulti che prima d'ora sia venuto nel Reame della Terra. Ma del resto non gli ho mai sentito attribuire atti di distruzione come quello di cui siamo stati testimoni. Per me è un enigma: un enigma che senza dubbio lo allieterebbe, se lui ne fosse al corrente.» «Allora dovrebbe esserci il modo di scoprire lo scopo della sua visita» disse Theleb K'aarna con un debole sorriso. «Se qualcuno entrasse nella cittadella...» «Suvvia, stregone» ribatté sarcasticamente Elric. «Non amo molto la vita, certo, ma ci sono alcune cose che mi sono preziose: la mia anima, per esempio!» Theleb K'aarna cominciò a scendere il pendio; ma Elric, pensieroso, rimase dov'era, e Yishana gli restò al fianco. «Mi sembri più turbato di quanto dovresti essere» gli disse. «È una cosa inquietante, infatti. Qualcosa, qui, sembra indicare che se indaghiamo ancora sulla cittadella ci troveremo invischiati in una disputa tra Balo e i suoi padroni... forse addirittura i Signori della Legge. E lasciarci coinvolgere potrebbe comportare facilmente il nostro annientamento, poiché le forze in atto sono più pericolose e potenti di tutto ciò che conosciamo sulla Terra.» «Ma non possiamo semplicemente stare a guardare mentre Balo devasta le nostre città, porta via il fior fiore della nostra gente, e minaccia d'impadronirsi in poco tempo di Jharkor!» Elric sospirò ma non disse nulla. «Non conosci nessuna magia per rimandare Balo nel Caos e chiudere la breccia che ha aperto nel nostro Reame?» «Neppure i melniboneani possono uguagliare il potere dei signori dei Mondi Superiori, e i miei avi conoscevano la magia assai più di me. I miei migliori alleati non conoscono né il Caos né la Legge: sono gli spiriti elementari, i signori del fuoco, della terra, dell'aria e dell'acqua, entità affini agli animali e alle piante. Sono buoni alleati in una battaglia terrena... ma non sono molto utili contro qualcuno come Balo. Devo riflettere. Almeno, opponendomi a Balo non incorrerei inevitabilmente nell'ira degli dèi miei patroni. È già qualcosa, credo...» Le colline scendevano verdi e lussureggianti verso le praterie ai loro piedi, e il sole splendeva nel cielo limpido sull'erba che si estendeva fino all'orizzonte. Sopra di loro volteggiava un grande uccello rapace, e Theleb K'aarna era una figura minuscola che si girava sulla sella per chiamarli con
voce esile, senza che si afferrassero le parole. Yishana sembrava depressa. Con le spalle un po' curve, non guardò Elric mentre guidava lentamente il cavallo giù per la discesa, verso lo stregone di Pan Tang. Elric la seguì, consapevole della propria indecisione e tuttavia quasi noncurante. Cosa gli importava se... Incominciò la musica, dapprima debolmente e poi crescendo con una dolcezza gradevole e commovente che evocava ricordi nostalgici, offriva pace e dava vita a un intenso significato. Se la musica proveniva da strumenti, non potevano essere terreni. Suscitava in lui il desiderio di voltarsi per scoprirne la fonte: ma resistette. Yishana, invece, sembrava trovare più difficile resistere a quella musica. Si era voltata, radiosa, con le labbra tremanti e gli occhi lucidi di pianto. Nei suoi vagabondaggi nei reami ultraterreni, Elric aveva già udito musiche come quella, che riecheggiava molte delle bizzarre sinfonie dell'antica Melniboné: e non l'attirava come attraeva Yishana. Si accorse prontamente che la regina era in pericolo: e quando lei gli passò accanto spronando il cavallo, tese il braccio per afferrare la briglia. Yishana gli colpì la mano col frustino. Imprecando per il dolore inaspettato, l'albino lasciò le redini. La regina passò oltre, salendo al galoppo verso la cresta della collina e superandola in un istante. «Yishana!» le gridò disperatamente Elric, ma la sua voce non poteva vincere la musica pulsante. Si voltò indietro, sperando che Theleb K'aarna l'aiutasse, ma lo stregone si stava allontanando rapidamente. Appena aveva udito la musica, doveva aver deciso con molta prontezza di mettersi in salvo. Elric inseguì Yishana, urlandole di tornare indietro. Quando il suo cavallo giunse sulla cresta della collina, la vide china sul collo del destriero e intenta a sospingerlo verso la cittadella splendente. «Yishana! Vai incontro alla tua fine!» Ormai la regina aveva raggiunto il limite esterno della cittadella, e gli zoccoli del suo cavallo parevano sollevare scintillanti ondate di colore nel toccare il suolo perturbato dal Caos. Sebbene sapesse che era troppo tardi per fermarla, Elric continuò a inseguirla nella speranza di raggiungerla prima che penetrasse nella misteriosa costruzione. Ma quando entrò nel vortice iridato, gli parve di vedere una decina di Yishana che varcavano una decina di porte della cittadella. La luce bizzarramente rifratta creava quell'illusione e impediva di distinguere quale fosse la vera regina.
Appena Yishana scomparve, la musica s'interruppe e a Elric parve di udire una fioca risata sussurrante. Intanto il suo cavallo diventava sempre più inquieto e incontrollabile: non poteva fidarsene. Smontò, e si trovò con le gambe avvolte nella nebbia radiosa; lasciò andare lo stallone, che si allontanò al galoppo. Elric portò la mano sull'elsa della spada incantata, ma non la sguainò. Quando l'avesse estratta dal fodero, la lama avrebbe preteso delle anime prima di lasciarsi ringuainare. E tuttavia era la sua sola arma. Ritrasse la mano, e la spada parve fremere incollerita al suo fianco. «Non ancora, Tempestosa. Là dentro potrebbero esserci forze ancora più potenti di te!» Cominciò ad avanzare tra i vortici di luce, che sembravano opporre una leggera resistenza. Era semiaccecato dai colori scintillanti, che talora brillavano di azzurro cupo, di argento, di rosso, e talora di oro, di verde tenero, di ambra. Era nauseato dall'assenza di ogni possibile orientamento: distanza, profondità, ampiezza non avevano più senso. Riconobbe ciò di cui aveva fatto esperienza soltanto nella forma astrale: la strana qualità, senza tempo e senza spazio, che distingueva i Reami dei Mondi Superiori. Avanzò, spingendosi nella direzione in cui intuiva che si fosse avviata Yishana, perché ormai aveva perso di vista la porta e le relative immagini frutto di miraggio. Comprese che se non voleva andare alla deriva fino a quando fosse morto di fame doveva sguainare Tempestosa, perché la spada stregata poteva resistere all'influenza del Caos. Questa volta, quando impugnò l'elsa della spada, una scossa gli risalì lungo il braccio inondando di vitalità il suo corpo. La lama uscì dal fodero irradiando una luminosità nera che si scontrava con i mutevoli colori del Caos e li disperdeva. Elric lanciò un antichissimo e ululante grido di battaglia della sua gente ed entrò nella cittadella, vibrando colpi contro le immagini intangibili che turbinavano da ogni parte. Davanti a lui stava la porta: e lui la riconobbe, perché la spada gli aveva indicato quali erano i miraggi. Era aperta, quando Elric la raggiunse. Si fermò per un attimo, muovendo le labbra mentre rievocava un'invocazione di cui forse avrebbe avuto bisogno in seguito. Arioch, Signore del Caos, dio-demone patrono dei suoi avi, era una potenza negligente e capricciosa. Non poteva contare sull'aiuto di Arioch, a meno che... A lunghi passi eleganti, una bestia dorata dagli occhi di fuoco e di rubi-
no scendeva il corridoio che conduceva all'interno. Sebbene gli occhi splendessero sembravano ciechi, e l'enorme bocca canina era chiusa. Tuttavia il suo percorso poteva soltanto condurla a Elric; e quando fu più vicina, le fauci si schiusero all'improvviso mostrando zanne di corallo. Si fermò in silenzio, senza posare mai sull'albino gli occhi ciechi, e poi balzò. Elric arretrò barcollando, e levò la spada per difendersi. Venne scagliato al suolo dal peso della belva e se la sentì addosso. Era gelida, gelida, e non cercava di dilaniarlo: si limitava a restargli sopra, immobile, lasciando che il freddo permeasse il suo corpo. Rabbrividendo, Elric cercò di spingerla lontano. Tempestosa gemette e mormorò nella sua stretta, e poi trapassò il corpo dell'animale: una forza fredda e orribile cominciò a fluire nell'albino. Rinfrancato dall'energia vitale della belva, Elric cercò di sollevarsi. La belva continuò a gravargli addosso; ma ora emetteva un suono sottile, appena percettibile. Elric immaginò che la piccola ferita inferta da Tempestosa la facesse soffrire. Disperatamente, perché tremava e dolorava per il freddo, mosse la spada e colpì di nuovo. Di nuovo la belva emise quel suono sottile, e l'energia fredda affluì in lui: cercò ancora di sollevarsi. Questa volta la bestia, scagliata via, prese a trascinarsi verso il portale. Elric balzò in piedi, levò alta Tempestosa, e la vibrò sul cranio dell'essere aureo. Il cranio si frantumò come se fosse stato di ghiaccio. Elric si precipitò nel corridoio: e appena vi entrò, fu circondato da ruggiti e strida che echeggiavano e si moltiplicavano. Era come se la voce che prima era mancata alla belva urlasse ora nella sofferenza della morte. Il pavimento s'inclinò, e Elric si trovò a salire lungo una rampa a spirale. Abbassò lo sguardo e rabbrividì, vedendo un abisso infinito di colori sottili e minacciosi che turbinavano come se volessero impedirgli di distoglierne gli occhi. Sentì il proprio corpo che cominciava a lasciare la rampa e si avviava verso l'abisso: ma strinse più forte la spada e s'impose di continuare l'ascesa. E lassù, in alto, c'era la stessa cosa, lo stesso vortice abissale di colori. Solo la rampa aveva una certa concretezza, e cominciava ad assumere l'aspetto di una gemma intagliata finemente, attraverso la quale lui poteva scorgere l'abisso. Predominavano i verdi e gli azzurri e i gialli; ma c'erano anche tracce di rosso cupo, di nero, di arancione, e di molti altri colori inesistenti nella gamma umana. Elric sapeva di trovarsi in una provincia dei Mondi Superiori, e immagi-
nava che tra poco la rampa l'avrebbe portato incontro a pericoli nuovi. Ma sembrava che nessun pericolo l'attendesse, quando giunse finalmente in cima alla rampa, su un ponte di una sostanza assai simile che scavalcava l'abisso scintillante conducendo a un'arcata accesa di luce azzurra. Varcò cautamente il ponte, e con la stessa cautela superò l'arcata. Lì tutto era colorato d'azzurro, perfino lui: e mentre avanzava, l'azzurro diventava sempre più carico. Poi Tempestosa prese a mormorare: avvertito dalla spada o da un sesto senso, Elric si voltò di scatto verso destra. Era apparsa un'altra arcata, e da questa cominciava a filtrare una luce rossa, intensa quanto l'altra era azzurra. Dove s'incontravano, formavano un colore purpureo di straordinaria ricchezza; e Elric, fissandola, provò la stessa attrazione ipnotica che aveva conosciuto mentre saliva la rampa. Ancora una volta la sua mente fu più forte, e lui s'impose di varcare l'arcata rossa. Subito un altro arco apparve alla sua sinistra: irradiava un raggio di luce verde che si fondeva con quella rossa. Un altro arco emise una luce gialla; un altro ancora, più avanti, ne lanciò una color malva, finché a Elric parve di essere impigliato in quella rete di raggi. Li falciò con Tempestosa, e il fulgore nero li ridusse per un momento a nastri di luce che subito si riformarono. Elric continuò ad avanzare. E in quella confusione di colori apparve una figura, e Elric ebbe l'impressione che fosse un uomo. La forma era umana... ma non le proporzioni. Eppure, quando venne più vicino, lui vide che non era un gigante. Era meno alto di lui. Eppure dava l'impressione di dimensioni immense: come se fosse veramente un gigante e lui ne avesse raggiunto la statura. Mosse brancolando verso Elric e l'attraversò. L'uomo non era intangibile: era Elric, a sentirsi come uno spettro. La massa dell'essere era di una densità incredibile. Ora si stava voltando, con le enormi mani protese e il volto contratto da una smorfia irridente. Elric sferrò un colpo con Tempestosa, e rimase sbalordito quando la lama si arrestò senza intaccare la mole di quella creatura. Eppure, quando l'essere afferrò Elric, le sue mani l'attraversarono. L'albino arretrò, sogghignando di sollievo. Poi, sgomento, vide che la luce l'attraversava. Non si era ingannato: era lui, lo spettro. L'essere protese di nuovo le mani, l'afferrò di nuovo e non riuscì a stringerlo. Benché consapevole che il mostro non rappresentava un pericolo fisico,
Elric sapeva che la sua ragione stava per essere menomata per sempre. Si voltò e fuggì. All'improvviso si trovò in una sala, le cui pareti avevano gli stessi colori instabili e mutevoli del resto della cittadella. Ma su uno sgabello al centro della sala, tenendo tra le mani alcuni esseri minuscoli che sembravano corrergli sui palmi, c'era una piccola figura che alzò la testa e sogghignò allegramente. «Benvenuto, re di Melniboné. Come sta l'ultimo sovrano della mia razza terrena preferita?» La figura era vestita di colori screziati e cangianti. Sul capo portava un'alta corona, una parodia delle corone dei potenti. La faccia era angolosa, la bocca larga. «Salute a te, sire Balo.» Elric eseguì un inchino ironico. «Offri una ben strana ospitalità, a colui al quale dai il benvenuto.» «Ahà... dunque non ti ha divertito? È molto più difficile compiacere gli uomini che gli dèi, non ti sembra?» «Di rado i piaceri degli uomini sono così complicati. Dov'è la regina Yishana?» «Concedi anche a me i miei piaceri, mortale. È qui, credo.» Balo accennò a una delle minuscole creaturine che stavano nel palmo della sua mano. Elric si accostò e vide che Yishana era davvero lì, come c'erano molti dei soldati scomparsi. Balo alzò la testa e ammiccò. «Così piccoli, è più facile maneggiarli.» «Non ne dubito, e tuttavia mi domando se non siamo noi a essere più grandi anziché loro a essere rimpiccioliti...» «Sei astuto, mortale. Ma sai indovinare com'è avvenuto?» «La tua creatura là fuori. Gli abissi e i colori e le arcate. In un modo o nell'altro distorcono... cosa?» «La massa, re Elric. Ma non puoi comprendere questi concetti. Perfino i signori di Melniboné, i più intelligenti e divini tra i mortali, avevano imparato soltanto a manipolare gli elementi con i rituali e le invocazioni e gli incantesimi ma senza mai capire cosa manipolavano: e qui sta il vantaggio dei signori dei Mondi Superiori.» «Ma io sono sopravvissuto senza bisogno d'incantesimi. Sono sopravvissuto disciplinando la mia mente!» «Senza dubbio questo ti ha aiutato; ma hai dimenticato la tua arma più preziosa: quell'inquietante spada. Te ne servi per risolvere i tuoi piccoli problemi, e non comprendi che è come se ti servissi di una possente galea
da guerra per catturare un pesciolino. Quella spada rappresenta il potere in ogni Reame, re Elric!» «Sì, è possibile. Non m'interessa. Perché sei qui, sire Balo?» Balo rise: una risata ricca, musicale. «Oh, sono in disgrazia. Ho litigato con i miei padroni, indispettiti per una mia battuta scherzosa sul loro egoismo, il loro destino e il loro orgoglio. Per loro, è cattivo gusto qualunque accenno al loro oblio. Io ho pronunciato una battuta di cattivo gusto. Dai Regni Superiori sono fuggito sulla Terra, dove i Signori della Legge e del Caos, se non vengono invocati, possono intervenire raramente. Apprezzerai le mie intenzioni, Elric, come le apprezzerebbe qualunque melniboneano... Voglio stabilire il mio Reame sulla Terra: il Reame del Paradosso. Un po' di Legge, un po' di Caos... un Reame di contrari, di curiosità e di scherzi.» «Credo che abbiamo già un mondo quale tu lo descrivi, sire Balo, senza bisogno che sia tu a crearlo!» «Quanta serietà e quanta ironia, re Elric, da parte di un uomo di Melniboné!» «Ah, può darsi. Sono scortese, in simili occasioni. Lascerai andare Yishana e me?» «Ma io e te siamo giganti: ti ho dato la posizione e l'aspetto di un dio. Tu e io potremmo associarci, in questa mia iniziativa.» «Purtroppo, sire Balo, io non possiedo il tuo umorismo, e sono inadatto a un ruolo tanto elevato. Inoltre» aggiunse Elric, sogghignando, «credo che i signori dei Mondi Superiori non trascureranno facilmente la tua ambizione, poiché contrasta nettamente con la loro.» Balo rise, ma non disse nulla. Elric sorrise, nel tentativo di mascherare i propri pensieri turbinosi. «Cosa intendi fare, se io rifiuto?» «Ma Elric, non puoi rifiutare! Mi vengono in mente molti scherzi sottili che potrei giocarti...» «Davvero? E le Spade Nere?» «Ah, sì...» «Balo, nella tua gaiezza ossessiva non hai considerato tutto. Avresti dovuto impegnarti di più per sconfiggermi prima che io giungessi qui.» Gli occhi di Elric sfavillarono. Levò la spada, gridando: «Arioch! Padrone! Io t'invoco, Signore del Caos!» Balo sussultò. «Taci, re Elric!» «Arioch... ecco un'anima per te, prendila!»
«Taci, ho detto!» «Arioch! Ascoltami!» La voce di Elric era sonora, esasperata. Balo lasciò cadere i suoi ninnoli e si alzò in fretta, correndo verso Elric. «La tua invocazione è rimasta inascoltata!» Rise, tendendo le braccia verso l'albino. Ma Tempestosa gemette e tremò nella mano di Elric, e Balo si ritrasse. Diventò serio, cupo in volto. «Arioch delle Sette Tenebre... il tuo servitore ti chiama!» Le pareti di fiamma tremarono e cominciarono a dissolversi. Gli occhi di Balo si spalancarono, ruotando qua e là. «Oh, Signore Arioch... vieni a riprendere il tuo indisciplinato Balo!» «Non puoi!» Balo attraversò di corsa la sala verso un tratto dove la fiamma era scomparsa completamente rivelando l'oscurità. «Purtroppo per te, piccolo giullare, può e come!» La voce era sardonica e tuttavia bellissima. Dalla tenebra uscì un'alta figura: non era più la cosa informe e farfugliante che in precedenza era stata la manifestazione preferita di Arioch quando visitava il Reame della Terra. Eppure la bellezza del nuovo venuto, satura di una specie di pietà mista all'orgoglio, alla crudeltà e alla tristezza, rivelava subito che non poteva essere umano. Indossava un farsetto di scarlatto pulsante e gambali di colori mutevoli, e portava al fianco una lunga spada aurea. Gli occhi erano grandissimi e obliqui, i capelli lunghi e d'oro come la spada, le labbra piene, il mento appuntito come gli orecchi. «Arioch!» Balo indietreggiò barcollando, mentre il Signore del Caos avanzava. «Hai sbagliato, Balo» disse Elric, alle spalle del giullare. «Non sapevi che solo i re di Melniboné possono invocare Arioch e chiamarlo nel Reame della Terra? È loro privilegio da tempo immemorabile.» «E ne hanno abusato molto» aggiunse Arioch con un lieve sorriso, mentre Balo tremava. «Tuttavia il servigio che ora ci hai reso, Elric, ripaga gli abusi passati. Non mi ha rallegrato l'episodio del Gigante di Nebbia...» Perfino Elric era intimorito dalla presenza incredibilmente possente del Signore del Caos: e provava anche un grande sollievo, perché non aveva avuto la certezza che fosse possibile invocare Arioch in quel modo. Arioch abbassò un braccio verso Balo e l'afferrò per la collottola: il giullare si divincolò e si dibatté a mezz'aria, col volto contratto per la paura e la costernazione. Arioch afferrò la testa di Balo e la strinse. Sbalordito, Elric vide che la testa cominciava a rimpicciolire. Arioch prese le gambe del giullare e le
piegò, appallottolandolo tra le mani inumane fino a ridurlo a una piccola sfera compatta. Poi se la buttò in bocca e l'inghiottì. «Non l'ho divorato, Elric» disse con un lieve sorriso. «È solo il modo più semplice per riportarlo nei Reami da cui è venuto. Ha commesso una colpa e sarà punito. Sfortunatamente tutto questo» (indicò la cittadella con un gesto del braccio), «contraddice i piani che noi del Caos abbiamo fatto per la Terra: piani che riguardano anche te, nostro servitore, e che ti rendono potente.» Elric s'inchinò al suo signore. «È un onore, sire Arioch, anche se non chiedo favori.» L'argentina voce di Arioch perse un po' della sua bellezza e parve rannuvolarsi per un istante. «Tu sei impegnato a servire il Caos, come i tuoi avi. E servirai il Caos! Si avvicina il tempo in cui la Legge e il Caos combatteranno per il Reame della Terra... e il Caos vincerà! La Terra sarà incorporata nel nostro Reame, e tu entrerai a far parte della gerarchia del Caos diventando immortale come noi!» «L'immortalità ha poco da offrirmi, mio signore.» «Ah, Elric, gli uomini di Melniboné sono diventati forse simili agli scimmioni che ora dominano la Terra con le loro meschine "civiltà"? Non sei meglio di questi arrampicatori dei Regni Giovani? Pensa a ciò che ti offriamo!» «Ci penserò, mio signore, quando verrà il tempo di cui parli.» Elric teneva ancora la testa abbassata. «Ci penserai davvero.» Arioch alzò le braccia. «Ora trasporterò il giocattolo di Balo al suo Reame e porrò rimedio ai guai che ha causato, affinché i nostri avversari non ne sappiano nulla prima del tempo.» La voce di Arioch divenne il canto di un milione di campane bronzee, e Elric rinfoderò la spada e si tappò gli orecchi con le mani per arrestare il tormento. Poi gli parve che il suo corpo venisse dilaniato, si gonfiasse e si estendesse fino a diventare simile a fumo aleggiante nell'aria. Poi, più rapidamente, il fumo cominciò ad addensarsi, contraendosi. Tutt'intorno a lui c'erano ondate di colori, di lampi, e di suoni indescrivibili. Poi venne una tenebra immane, e lui chiuse gli occhi per difendersi dalle immagini che parevano riflettersi nell'oscurità. Quando riaprì le palpebre si trovava nella valle, e la cittadella che cantava era scomparsa. C'erano soltanto Yishana e alcuni soldati dall'aria sbalordita. Yishana corse verso di lui.
«Elric... sei stato tu a salvarci?» «Posso rivendicare solo una parte del merito» rispose l'albino. «Non tutti i miei soldati sono qui» disse la regina, guardando gli uomini. «Dove sono gli altri, e i contadini che erano stati rapiti?» «Se i gusti di Balo sono simili a quelli dei suoi padroni, temo che ora abbiano l'onore di far parte di un semidio. Ovviamente i Signori del Caos non sono carnivori, poiché appartengono ai Mondi Superiori: ma negli umani c'è qualcosa che li soddisfa...» Yishana si strinse le spalle tra le mani, come scossa da un freddo improvviso. «Era enorme... Non posso credere che la sua cittadella potesse contenerlo!» «La cittadella era più di una dimora. Cambiava forma e dimensioni... e altre cose che non so descrivere. Arioch del Caos l'ha trasportata, insieme a Balo, nel luogo che spetta loro.» «Arioch! Ma è uno dei Sei Supremi! Come mai è venuto sulla Terra?» «Un antico patto con i miei remoti antenati. Invocandolo, loro gli permettono di trascorrere qualche tempo nel nostro reame, e lui li ripaga con qualche favore. Anche questa volta è stato così.» «Vieni, Elric.» La regina gli prese il braccio. «Allontaniamoci da questa valle.» Elric era esausto, fiaccato dallo sforzo di evocare Arioch e dalle esperienze vissute prima e dopo quell'episodio. Riusciva appena a reggersi; e ben presto fu Yishana a sostenerlo mentre procedevano lentamente, seguiti dai guerrieri ancora sconvolti, verso il villaggio più vicino, per riposare e procurarsi i cavalli che li riportassero a Dhakos. CAPITOLO QUINTO Mentre passavano barcollando davanti alle rovine di Thokora, Yishana indicò all'improvviso il cielo. «Cos'è?» Una grande forma volava verso di loro. Aveva l'aspetto di una farfalla, ma le ali erano così immense da oscurare il sole. «Può essere una creatura di Balo rimasta in questo mondo?» mormorò la regina. «È improbabile» rispose Elric. «Si direbbe un mostro evocato da uno stregone umano.» «Theleb K'aarna!»
«Ha superato se stesso» disse sarcasticamente Elric. «Non lo credevo capace di tanto.» «È la sua vendetta contro di noi, Elric!» «Mi sembra logico. Ma io sono debole, Yishana, e Tempestosa ha bisogno di anime per rendermi le forze.» Elric voltò lo sguardo sui guerrieri, che fissavano sbalorditi l'avvicinarsi della farfalla. Ormai si vedeva che aveva corpo d'uomo, coperto da un pelame o piumaggio screziato come un pavone. Faceva sibilare l'aria mentre scendeva, e le ali ampie quindici metri facevano apparire minuscolo il corpo lungo due metri soltanto. Dalla testa spuntavano due corna ritorte, e le mani erano armate di lunghi artigli. «Siamo spacciati, Elric!» gridò Yishana. Vide che i guerrieri fuggivano e urlò per richiamarli. Elric se ne stava lì passivamente, sapendo che da solo non avrebbe potuto sconfiggere la farfalla mostruosa. «È meglio che tu vada con loro, Yishana» mormorò. «Penso che si accontenterà di me.» «No!» Elric, senza ascoltarla, avanzò verso l'essere mentre questo si posava e cominciava a scivolare sul terreno nella sua direzione. Sguainò Tempestosa, che taceva e gli pesava nella mano. Un poco di energia affluì in lui: ma non bastava. La sua sola speranza era di sferrare un colpo agli organi vitali della mostruosa farfalla, per assorbirne un po' della forza. La voce della creatura si levò stridula, e lo strano volto demente si contrasse al suo avvicinarsi. Elric comprese che non era un vero abitatore soprannaturale degli altri mondi, ma un essere già umano e deformato dalla stregoneria di Theleb K'aarna. Almeno era mortale, e lui doveva lottare esclusivamente contro la forza fisica. In condizioni migliori gli sarebbe stato facile, ma ora... Le ali batterono l'aria mentre le unghie cercavano di afferrarlo. Elric strinse Tempestosa con entrambe le mani e avventò la lama incantata verso il collo del mostro. Prontamente le ali si piegarono a proteggerlo, e la spada s'impigliò in quella carne strana e vischiosa. Un artiglio arrivò al braccio di Elric, dilaniandolo fino all'osso. Con un urlo di dolore, l'albino svincolò la spada con uno strattone. Cercò di bilanciarsi per sferrare un altro colpo, ma il mostro gli afferrò il braccio ferito e cominciò a trascinarlo verso la testa abbassata... e verso le corna ritorte. Elric si dibatté, sferrando fendenti contro le braccia dell'essere con la
forza che gli dava l'incombente minaccia di morte. Poi udì un grido dietro di sé, e con la coda dell'occhio intravide una figura che avanzava a grandi balzi stringendo in ciascuna mano una spada lucente. Le lame si avventarono contro gli artigli, e con uno strido il mostro si girò verso il soccorritore di Elric. Era Maldiluna. Elric cadde riverso, ansimando, e vide che l'ometto fulvo impegnava il mostro. Tuttavia Maldiluna non sarebbe sopravvissuto a lungo se non avesse trovato un aiuto. Elric si frugò nella mente, in cerca di un incantesimo che tornasse utile; ma anche se ne avesse rammentato uno, era troppo debole per trovare l'energia necessaria all'invocazione di esseri soprannaturali. E poi... Yishana! La regina non era esausta quanto lui. Ma cos'avrebbe potuto fare? Si voltò, mentre l'aria gemeva del battito delle immani ali di farfalla. Maldiluna si sforzava di tenerla a bada con le due spade, che balenavano fulminee parando ogni tentativo di afferrarlo. «Yishana!» gracchiò l'albino. La regina accorse e lo prese per mano. «Potremmo fuggire, Elric: nasconderci.» «No. Devo aiutare Maldiluna. Ascolta. Tu sai che la nostra situazione è disperata, no? Allora ricordalo, mentre reciterai insieme a me questo incantesimo. Forse, uniti, potremo riuscire. In questa zona ci sono molte specie di lucertole, non è vero?» «Sì, molte.» «Allora ecco ciò che devi dire, e ricorda che se non riusciremo il servitore di Theleb K'aarna ci ucciderà tutti.» Nei Mondi di Mezzo, dove dimoravano i prototipi di tutti gli esseri diversi dall'Uomo, un'entità si riscosse udendo il proprio nome. L'entità si chiamava Haaashaastaak; era fredda e scagliosa, e priva di autentica intelligenza quale la possiedono uomini e dèi: ma possedeva una consapevolezza che forse la serviva anche meglio. Su quel livello di esistenza Haaashaastaak era fratello di entità come Meerclar, Signore dei Gatti; Roofdrak, Signore dei Cani; Nuruah, Signore dei Bovini; e molti, molti altri. Questo era Haaashaastaak, Signore delle Lucertole. Non udiva realmente le parole, ma udiva ritmi che per lui significavano molto sebbene non sapesse perché. I ritmi venivano ripetuti più e più volte, ma sembravano troppo fievoli perché meritassero attenzione. Si riscosse e sbadigliò, ma non fece nulla...
«Haaashaastaak, Signore delle Lucertole, i tuoi figli furono padri di uomini; Haaashaastaak, Principe dei Rettili, vieni ora ad aiutare un pronipote! Haaashaastaak, Padre delle Scaglie, datore della vita a sangue freddo...». Era una scena bizzarra: Elric e Yishana cantilenavano disperatamente, mentre Maldiluna continuava a battersi perdendo le forze a poco a poco. Haaashaastaak fremette e s'incuriosì. I ritmi non erano più forti, e tuttavia parevano più insistenti. Poteva recarsi, decise, nel luogo dove dimoravano coloro su cui vegliava. Sapeva che se rispondeva ai ritmi avrebbe dovuto ubbidire alla loro fonte. Naturalmente non era conscio del fatto che quelle decisioni erano state instillate in lui in un'epoca remotissima: nel tempo precedente alla creazione della Terra, quando i Signori della Legge e del Caos, allora abitatori di un solo regno e conosciuti sotto un altro nome, avevano assistito alla formazione delle cose e avevano stabilito il modo e la logica secondo cui le cose dovevano comportarsi dopo il grande editto della voce dell'Equilibrio Cosmico, la voce che da allora non aveva più parlato. Pigramente, Haaashaastaaak si trasportò sulla Terra. Elric e Yishana continuavano a cantilenare con voce rauca, quando Haaashaastaak apparve all'improvviso. Aveva l'aspetto di un'enorme iguana, occhi simili a gemme multicolori e sfaccettate, scaglie che parevano d'oro e d'argento e d'altri metalli preziosi. Era circondato da un alone nebuloso, come se avesse portato con sé una parte del proprio ambiente. Yishana represse un grido e Elric fece un sospirone. Fin da bambino aveva appreso i linguaggi di tutti i signori degli animali, e ora doveva ricordare il semplice idioma di Haaashaastaak signore delle lucertole. La necessità gli infiammò la mente, e le parole gli vennero di colpo alle labbra. «Haaashaastaak» gridò, additando la farfalla, «mokik ankkuh!» Il signore delle lucertole girò verso l'essere gli occhi simili a gemme, e la grande lingua saettò avvolgendosi intorno al corpo mostruoso. La farfalla lanciò uno strido di terrore mentre veniva trascinata verso le enormi fauci
del re dei sauri. Le braccia e le gambe si agitarono all'impazzata... e la bocca si chiuse. Haaashaastaak deglutì più volte, inghiottendo la creazione di Theleb K'aarna. Poi girò la testa intorno, per qualche istante, e svanì. La sofferenza prese a pulsare nel braccio dilaniato di Elric, mentre Maldiluna gli andava incontro barcollando e sogghignando per il sollievo. «Vi ho seguiti da lontano, come avevi chiesto» disse, «poiché temevi un tradimento di Theleb K'aarna. Ma ho visto lo stregone venire da questa parte e l'ho seguito fino a una grotta tra quelle colline.» E le indicò. «Ma quando il mostro ora defunto» aggiunse con una risata tremula, «è uscito dalla grotta, ho deciso che sarebbe stato meglio seguire quello, perché avevo la sensazione che sarebbe venuto a cercarti.» «Mi compiaccio del tuo acume» osservò Elric. «In realtà è stato merito tuo» replicò Maldiluna. «Perché se tu non avessi previsto il tradimento di Theleb K'aarna, forse non sarei arrivato qui al momento giusto.» All'improvviso si lasciò cadere sull'erba, si distese, sogghignò e svenne. Anche Elric si sentiva stordito. «Non credo che per ora abbiamo altro da temere da parte del tuo stregone» disse. «Riposiamo qui e ristoriamoci. Forse quei vili dei tuoi soldati torneranno, e potremo mandarli al più vicino villaggio a prendere qualche cavallo.» Si sdraiarono sull'erba e si addormentarono, l'uno tra le braccia dell'altra. Elric si stupì quando si svegliò in un letto, un letto soffice. Aprì gli occhi e vide Yishana e Maldiluna che gli sorridevano. «Da quanto tempo sono qui?» «Da più di due giorni. Non ti sei svegliato, quando hanno portato i cavalli: allora ho ordinato ai guerrieri di costruire una barella per trasportarti a Dhakos. Sei nel mio palazzo.» Elric provò a muovere il braccio fasciato e irrigidito: gli doleva ancora. «La mia roba è ancora alla locanda?» «Forse, se non è stata rubata. Perché?» «C'è una borsa di erbe che guariranno rapidamente la ferita e mi daranno un po' di forza. Ne ho un gran bisogno.» «Vado a vedere se ci sono ancora» disse Maldiluna, e uscì. Yishana accarezzò i candidi capelli di Elric. «Ti devo ringraziare per molte cose, lupo» disse. «Hai salvato il mio regno... forse tutti i Regni Giovani. Ai miei occhi, ti sei riscattato dalla morte di mio fratello.» «Ti ringrazio, signora» disse Elric, in tono ironico.
La regina rise. «Sei sempre un melniboneano.» «Sì.» «E tuttavia sei uno strano miscuglio. Sensibile e crudele, sardonico e devoto al tuo piccolo amico Maldiluna. Vorrei conoscerti meglio, mio signore.» «Non sono certo che ne avrai la possibilità.» Yishana lo fissò duramente. «Perché?» «La tua descrizione del mio carattere è incompleta, regina Yishana. Avresti dovuto aggiungere: noncurante del mondo, eppure vendicativo. Voglio vendicarmi del tuo stregone prediletto.» «Ma adesso è sicuramente sfinito: l'hai detto tu stesso.» «Sono pur sempre un melniboneano, come mi hai ricordato. Il mio sangue arrogante chiede la vendetta contro lo zotico ambizioso.» «Dimentica Theleb K'aarna. Gli farò dare la caccia dai miei Leopardi Bianchi. Neppure la sua stregoneria potrà sconfiggere la loro ferocia.» «Dimenticarlo? Oh, no!» «Elric, Elric... Ti darò il mio regno, ti proclamerò sovrano di Jharkor, se mi permetterai di diventare tua consorte.» Elric tese la mano illesa e le accarezzò il braccio. «Non sei realista, regina. Una simile decisione scatenerebbe la ribellione nella tua terra. Per la tua gente, io sono ancora il Traditore di Imrryr.» «Ora non più: ora sei l'Eroe di Jharkor.» «E come? Non sanno del pericolo che hanno corso, e non proveranno gratitudine. Sarebbe meglio che saldassi il mio debito con lo stregone e me ne andassi per la mia strada. In città dev'essersi già sparsa la voce che hai accolto nel tuo letto l'assassino di tuo fratello. In questo momento non devi godere di molta popolarità, presso i tuoi sudditi.» «Non m'importa.» «T'importerà, se i nobili guideranno il popolo all'insurrezione e ti crocefiggeranno nuda sulla piazza della città.» «Conosci bene, le nostre usanze.» «Noi melniboneani siamo un popolo colto, regina.» «Ben versato in tutte le arti.» «Sì, tutte.» Elric si sentì scorrere all'impazzata il sangue nelle vene mentre Yishana si alzava e sbarrava la porta. In quel momento non avvertiva più il bisogno delle erbe che Maldiluna era andato a cercare. Quando, quella notte, uscì in punta di piedi dalla stanza, trovò Maldiluna
che l'attendeva paziente in anticamera. L'ometto gli porse la borsa, ammiccando. Ma Elric non era di buonumore. Tolse dalla borsa alcuni ciuffi d'erba e scelse quelli che gli occorrevano. Con una smorfia, Maldiluna guardò Elric masticare e inghiottire. Poi, insieme, uscirono furtivamente dal palazzo. Armatosi di Tempestosa e salito a cavallo, Elric procedette subito dietro Maldiluna, che saliva verso le colline alle spalle di Dhakos. «Se non conosco male gli stregoni di Pan Tang» mormorò l'albino, «Theleb K'aarna sarà più esausto di quanto lo ero io. Con un po' di fortuna lo sorprenderemo nel sonno.» «In tal caso attenderò davanti alla grotta» disse Maldiluna, che ormai aveva qualche esperienza delle vendette di Elric e preferiva non assistere alla lenta agonia di Theleb K'aarna. Galopparono fino alle colline, e Maldiluna indicò a Elric l'imboccatura della grotta. L'albino lasciò il cavallo ed entrò a passo felpato nella caverna, stringendo la spada incantata. Maldiluna attese nervosamente le prime grida di Theleb K'aarna, ma non le udì. Attese fino a quando l'alba cominciò a portare la prima luce fioca: e poi Elric uscì dalla grotta, col volto impietrito dal furore. Afferrò rabbiosamente le redini del cavallo e balzò in sella. «Sei soddisfatto?» chiese incerto Maldiluna. «Soddisfatto? No! Quel cane è scomparso.» «Scomparso? Ma...» «È stato più astuto di quanto pensavo. Ci sono parecchie grotte, e io l'ho cercato in tutte quante. Nella più lontana ho trovato tracce di simboli magici sulle pareti e sul pavimento. Si è trasportato altrove: dove, non ho potuto scoprirlo, sebbene abbia decifrato quasi tutti i simboli. Forse è andato a Pan Tang.» «Allora la nostra ricerca è stata vana. Ritorniamo a Dhakos a goderci ancora l'ospitalità di Yishana.» «No: andremo a Pan Tang.» «Ma Elric... Là gli stregoni colleghi di Theleb K'aarna sono numerosi; e Jagreen Lern, il teocrate, ha vietato l'ingresso ai forestieri.» «Non importa. Voglio saldare il conto con Theleb K'aarna.» «Non hai prove che sia là!» «Non importa!» E Elric spronò il cavallo, lanciandosi al galoppo come un indemoniato o
come un uomo che fugge da un pericolo spaventoso... e forse era veramente posseduto e in fuga. Maldiluna non lo seguì immediatamente, ma l'accompagnò con lo sguardo. Sebbene non fosse dedito per abitudine all'introspezione, si chiese se Yishana aveva colpito l'albino più di quanto lui avrebbe desiderato. Non credeva che il desiderio di vendicarsi di Theleb K'aarna fosse la ragione principale che l'induceva a non tornare a Dhakos. Poi fece una spallucciata e batté i talloni sui fianchi del cavallo, galoppando per raggiungere Elric mentre sorgeva l'alba fredda, e chiedendosi se avrebbero proseguito davvero verso Pan Tang quando Dhakos fosse stata abbastanza lontana. Ma nella mente di Elric non c'erano pensieri: solo le emozioni lo invadevano, emozioni che lui preferiva non analizzare. Cavalcava con i bianchi capelli che fluttuavano nel vento, il bel volto pallidissimo chiuso e contratto, le snelle mani strette sulle redini. E solo i suoi strani occhi cremisi rispecchiavano l'infelicità e il conflitto che lo tormentavano. A Dhakos, quel mattino, altri occhi erano colmi d'infelicità... ma non per molto tempo. Yishana era una regina dotata di spirito pratico. FINE