JOSÉ RODRIGUES DOS SANTOS IL CODICE 632 (O Codex 632, 2005)
A Florbela, Catarina e Inês, le mie tre donne. "Il tempo ri...
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JOSÉ RODRIGUES DOS SANTOS IL CODICE 632 (O Codex 632, 2005)
A Florbela, Catarina e Inês, le mie tre donne. "Il tempo rivela la verità." (Seneca, De ira) Avvertenza Tutti i libri, i manoscritti e i documenti menzionati in questo romanzo esistono realmente. Incluso il Codice 632. Prologo
Quattro. Il vecchio storico non sapeva, non poteva sapere, che gli restavano solo quattro minuti di vita. L'ascensore dell'hotel lo aspettava a porte aperte e l'uomo premette il dodicesimo pulsante. L'ascensore iniziò a salire e il suo ospite si guardò allo specchio. Pensò di essere finito: si vide calvo, i pochi capelli che aveva dietro le orecchie e sulla nuca erano radi, bianchi come la neve, bianchi come la barba che gli nascondeva appena il viso magro e sciupato, segnato da profonde rughe. Spalancò la bocca ed esaminò i denti storti, gialli, opachi. Soltanto quelli finti, che gli erano stati impiantati, mostravano ancora la nivea salute dell'avorio. Tre. Un dolce tin gli annunciò di essere arrivato a destinazione: l'occupante doveva gentilmente uscire e andare incontro alla sua morte. Del resto, l'ascensore aveva altri ospiti ad attenderlo. Il vecchio attraversò il corridoio, girò a sinistra, cercò con la mano destra la chiave nella tasca e la trovò. Era una scheda bianca di plastica, con il nome dell'hotel da una parte e dall'altra una striscia scura che conteneva il codice d'ingresso. Il vecchio inserì la scheda nella fessura della porta, una luce verde si accese sulla serratura, girò il pomello ed entrò nella camera. Due. Fu accolto dal soffio secco e gelato dell'aria condizionata. Per la piacevole sensazione di freddo gli si rizzarono i peli, e pensò a com'era bello adesso avvertire quella frescura, dopo una mattina intera passata al caldo rovente della strada. Si curvò sul basso frigorifero, aprì lo sportello, prese un bicchiere con del succo di mango e si avvicinò all'ampia finestra. Sospirando tranquillo osservò gli alti e antichi palazzi di Ipanema. Proprio di fronte si trovava un piccolo edificio bianco di cinque piani. Sotto il sole cocente del primo pomeriggio scintillava sulla terrazza una piscina d'acqua turchese, all'apparenza fresca e invitante. Di fianco si ergeva un palazzo scuro più alto, con larghi balconi pieni di seggiole e sedie a sdraio. Le colline, sullo sfondo, formavano una barriera naturale che cingeva quella foresta di cemento con i suoi contorni curvilinei verdi e cenere. Il Cristo Redentore, eburnea figura che abbracciava dall'alto la città, indicava di profilo, fragile e minuscola, il Corcovado. Dalla più alta collina la statua sembrava in equilibrio sull'abisso del fitto bosco sottostante, e si librava in cima al belvedere, al di sopra di un piccolo e biancastro cumulo di nubi incollatosi alla sommità del promontorio.
Uno. Il vecchio portò alla bocca il bicchiere e sentì il liquido arancione scendergli gradevolmente per la gola, dolce e fresco. Il succo di mango era la sua bevanda preferita, soprattutto perché lo zucchero faceva risaltare il retrogusto dolciastro del frutto tropicale. Inoltre, le sucariasP1 lo preparavano denso, puro, senz'acqua, con la frutta sbucciata al momento e i residui della polpa mischiati al liquido corposo e rigenerante. Il vecchio lo bevve tutto, a occhi chiusi, assaporandolo con lenta ingordigia. Quando l'ebbe finito, aprì gli occhi e osservò con piacere l'azzurro risplendente della piscina sulla terrazza del palazzo di fronte. Fu l'ultima immagine che registrò. Dolore. In quell'istante gli scoppiò in petto un dolore lancinante. Si contorse in una convulsione, si piegò su se stesso, si agitò in un incontrollabile spasmo. Il dolore si fece insopportabile e l'uomo cadde a terra, fulminato. Gli occhi ruotarono e rimasero vitrei, fissi al soffitto, immobili, il corpo steso a pancia in su, con le braccia aperte e le gambe distese, percorso dal fremito di un'ultima contrazione. Il suo mondo era arrivato alla fine. I «Cosa? Vuoi ancora toast al burro?». «Sì». «Ancora?». Tomás sospirò pesantemente. Infastidito, mantenne lo sguardo fisso sulla figlia, con aria di disapprovazione, come se le stesse intimando di cambiare idea. Ma la bimba annuì con la testa, ignorando stoicamente l'irritazione del padre. «Sì, anco'a». Constança guardò contrariata il marito. «Dai Tomás, lasciala mangiare quello che vuole». «Eh dai, è sempre la stessa storia, mi sono stufato!» protestò. «Sempre toast al burro, toast al burro, tutti i giorni». Sottolineò la parola tutti e fece una smorfia di repulsione. «Non sopporto più neanche l'odore, mi fa vomitare». «È fatta così, che ci vuoi fare?». «Lo so» borbottò Tomás. «Ma potrebbe almeno tentare di cambiare, no?». Alzò l'indice destro. «Per lo meno una volta nella vita. Una. Non
chiedo altro. Solo una». Ci fu silenzio. «Voglio toast co' bu'o» mormorò la figlia, irremovibile. Constança si allontanò dai fornelli, prese dalla busta due fette di pancarré senza bordi e le mise sulla griglia del tostapane. «Dai, Margarida, che la mamma ti dà i toast». Il marito si appoggiò alla sedia e sospirò avvilito. «Oltretutto, mangia peggio di un villano». Fece un gesto irritato con la testa. «Guardala, si sporca tutta, l'ingorda. Al solo guardare il tostapane le viene la bava alla bocca». «È fatta così». «Ma non è possibile!» asserì Tomás, scrollando la testa. «Ci manda falliti se mangia in questa maniera. Mica lavoriamo per questo». La madre scaldò il latte al microonde, versò dentro due cucchiaini di cioccolato in polvere e due di zucchero, mescolò e posò il bicchiere sul tavolo. Dopo qualche istante, il tostapane emise il suo tipico clic, annunciando che il pane tostato era pronto. Constança lo prese, ci spalmò un po' di burro e lo consegnò alla figlia, che lo mise immediatamente in bocca con la parte insaporita verso il basso, com'era sua abitudine. «Hmm, che me'aviglia!» esclamò Margarida, assaporando i toast caldi. Prese il bicchiere e bevve un po' di latte con il cioccolato. Quando lo posò, aveva due baffi scuri disegnati sopra le labbra. «Molta buono!». Padre e figlia uscirono dall'appartamento dieci minuti dopo. La mattina era iniziata fredda e con molto vento, la brezza soffiava da nord, fastidiosa, e muoveva i pioppi in un sussurrare inquieto, nervoso. Gocce d'acqua, cristalline e brillanti, rigavano l'automobile, e l'asfalto appariva coperto da un sottile strato bagnato. Sembrava che avesse piovuto, benché quelli fossero soltanto i resti del manto d'umidità caduta durante la notte, appannando vetri e depositandosi qua e là, in minuscoli laghi sparsi per tutta la città di Oeiras. Tomás portava la ventiquattrore in una mano e con l'altra stringeva le dita minute della bambina. Margarida indossava una gonna di jeans chiaro e una giacca blu, e portava con disinvoltura lo zaino sulle spalle. Il padre aprì la porta della piccola Peugeot bianca, fece salire la figlia sul sedile posteriore, ai piedi del quale sistemò la cartella e la valigetta, e si sedette al volante. Quindi accese il motore, fece marcia indietro e partì. Andava di fretta, Margarida era in ritardo a scuola e lui doveva superare gli ingorghi
mattutini per raggiungere la facoltà, in pieno centro di Lisbona, dove avrebbe tenuto lezione. Al primo semaforo sbirciò nello specchietto retrovisore. Margarida divorava il mondo con i suoi grandi occhi neri, vivi e affamati, osservando le persone che percorrevano i marciapiedi e si tuffavano nella nervosa confusione della vita. Tomás cercò di guardarla nel modo in cui l'avrebbe vista un estraneo: gli occhi grandi, i capelli fini e scuri, l'aria da asiatica paffutella. L'avrebbero definita "anormale"? Era sicuro di sì. Del resto, non era lui stesso a chiamarli in quel modo, quando li vedeva per strada o al supermercato? "Anormali". "Imbecilli". "Ritardati mentali". Che ironia la vita! Si ricordava, come fosse ieri, di quella mattina primaverile, nove anni prima, quando era arrivato nel reparto maternità, raggiante ed eccitato, sprizzando allegria ed entusiasmo, perché sapeva di essere diventato padre e perché voleva vedere la figlia nata all'alba. Era entrato nella stanza correndo con un ramo di caprifoglio in mano, aveva abbracciato la moglie e baciato la bimba in fasce. L'aveva baciata come fosse un tesoro, e si era commosso nel vederla così, avvolta nella culla, con le guancette rosee e l'aria paciosa. Sembrava un piccolo e sonnolento Buddha, tanto era saggia e tranquilla. Quel momento di felicità piena, celestiale, trascendente, durò meno di mezzora. Dopo venti minuti, la dottoressa entrò nella stanza e, con un cenno discreto, lo invitò a seguirla nel suo ufficio. Con aria taciturna, iniziò a chiedergli se avesse in famiglia degli antenati asiatici o con particolari caratteristiche agli occhi. A Tomás non piacque quella conversazione e, in modo secco e diretto, pregò la dottoressa di parlare chiaramente, qualunque cosa avesse da dirgli. Fu allora che la donna gli spiegò che in passato quel tipo di persona veniva definito mongoloide, termine caduto in disuso e sostituito dall'espressione "persona con sindrome di Down" o "con Trisomia 21". Si sentì come se gli avessero dato un pugno in pieno stomaco. Il pavimento gli si aprì sotto i piedi, il futuro s'inabissò in un'oscurità senza ritorno. La moglie reagì con un profondo mutismo, rifiutandosi per molto tempo di parlare dell'argomento, d'ammettere che i progetti per la figlia fossero crollati con quella terribile sentenza. Seguì un'altra settimana di tenue speranza, mentre l'Istituto Ricardo Jorge effettuava l'esame del cariotipo, test genetico che avrebbe sciolto ogni dubbio. Trascorsero quei giorni cercando di convincersi che c'era stato un equivoco. A Tomás sembrava addi-
rittura che la piccola somigliasse alla nonna paterna e Constança riconosceva in lei tratti caratteristici di una zia. Sicuramente i medici si erano sbagliati: non è possibile che questa bambina sia ritardata mentale; a dirla tutta, bisogna essere proprio degli idioti per pensare una cosa simile! Ma soltanto otto giorni dopo, la telefonata di un tecnico dell'Istituto, con le fatidiche parole "il test ha dato esito positivo", rese tutto definitivo. Lo shock si rivelò brutale per la coppia. Per mesi non avevano fatto che riporre speranze in quella figlia che avrebbe dovuto prolungare la loro esistenza, proiettandoli oltre la vita. Invece, il loro castello si era sgretolato in un attimo sotto il peso di quella mezza dozzina di secche parole. Restarono solo l'incredulità, il rifiuto, il rancore di chi subisce un'ingiustizia, il vortice inarrestabile della ribellione. Era tutta colpa del ginecologo che non aveva capito, degli ospedali che non erano preparati a simili situazioni, dei politici che se ne fregavano dei veri problemi della gente, in definitiva, di quella merda di Paese. Poi seguì la sensazione della perdita, un profondo dolore e un insormontabile senso di colpa. Perché io? Perché mia figlia? Tomás si era fatto mille volte quella domanda e tuttora si sorprendeva a ripetersela. Avevano passato intere notti in bianco a chiedersi cosa avessero mai fatto di male, a interrogarsi sulle proprie responsabilità, alla ricerca di colpe ed errori, di qualcuno da accusare, della ragione e del senso di tutto ciò. In una fase successiva, le loro preoccupazioni si erano spostate sulla figlia. Presero a immaginarsi il suo futuro. Cosa avrebbe fatto della sua vita? Che ne sarebbe stato di lei quando, più grande, non avesse avuto più i genitori ad aiutarla e proteggerla? Chi se ne sarebbe preso cura? Come avrebbe fatto a mantenersi? Avrebbe vissuto bene? Sarebbe stata autonoma? Sarebbe stata felice? Erano arrivati ad augurarle la morte. Un atto di carità divina, si erano giustificati. Un atto di misericordia. Sarebbe stato meglio per tutti, meglio per lei stessa, le sarebbe stata risparmiata tanta inutile sofferenza! Del resto non tutti i mali vengono per nuocere, no? Un sorriso di bambina, un semplice scambio di sguardi, una smorfietta innocente e all'improvviso tutto cambiò. Come per magia, smisero di vedere in Margarida un'anormale e iniziarono a riconoscere in lei la propria figlia. Da quel momento concentrarono tutte le loro energie sulla piccola, avrebbero fatto di tutto per aiutarla. Vissero persino nell'illusione di poterla "curare". Così, la sua vita divenne un viavai affannoso tra istituti, ospedali, cliniche e farmacie, con periodiche visite cardiologiche, oculistiche, dell'udito, della tiroide, dell'instabilità atlanto-assiale, un infinito numero
di esami e test che sfinirono tutti. Con quel ritmo di vita fu un vero miracolo che Tomás fosse riuscito a concludere il proprio dottorato in Storia. Si rivelò incredibilmente difficile studiare criptanalisi rinascimentale, con i complicati enigmi di Alberti, Porta e Vigenère, in mezzo a tante fatiche e all'andirivieni da medici e analisti. Mancavano i soldi. Lo stipendio della facoltà e quello che la moglie guadagnava insegnando Arti Visive alle superiori bastavano appena per le spese giornaliere. A conti fatti, tanto sforzo ebbe conseguenze inevitabili sulla vita della coppia. Tomás e Constança, immersi nei loro problemi, avevano quasi smesso di toccarsi. Non c'era più tempo per quello. «Dai papà, cante'elliamo?». Tomás sussultò, ritornando al presente. Riprese a guardare dal retrovisore e sorrise. «Pensavo ti fossi dimenticata. Cosa vuoi che canti?». «Quella di Ma'ga'ida olha po' mim2». Il padre si schiarì la voce: Eu sou uma Margarida, Flor do teu jardim, Sou tua, Meu pai. Eu sei que olhas por mim.3 «Bella! Bella!» esclamò lei, euforica, battendo le mani. «O'a O Zé ape'ta o laço4». Parcheggiò nel garage della facoltà, ancora semideserto alle nove e mezza del mattino. Prese l'ascensore fino al sesto piano, andò a controllare la corrispondenza in ufficio e a prendere le chiavi in segreteria, scese le scale fino al terzo, passando fra gli studenti che affollavano l'atrio e chiacchieravano rumorosamente tra loro. La sua presenza suscitava sussurri emozionati fra le ragazze, alle quali Tomás doveva sembrare davvero un bell'uomo, alto, appariscente, con i suoi trentacinque anni e quei luminosi occhi verdi, che erano l'eredità più marcata della bella nonna francese. Aperta la stanza T9, dovette premere una serie di interruttori per accendere tutte le luci. Quindi, posò la ventiquattrore sulla cattedra. Gli alunni entrarono in massa avvolti dal tipico brusio mattutino, sparpagliandosi a gruppi per la piccola stanza, più o meno tutti nei soliti posti e
vicino al compagno abituale. Il professore prese gli appunti dalla borsa e si sedette, in attesa che gli studenti si sistemassero e che gli ultimi ritardatari entrassero. Studiò quei volti che conosceva da poco più di due mesi, dall'inizio dell'anno accademico. Erano quasi tutte ragazze, alcune ancora insonnolite, altre ben vestite, la maggior parte un po' trasandate. Per lo più avevano uno stile intellettuale: gli occhi, invece di truccarli, preferivano tenerli fissi sui libri. Tomás aveva già tracciato di tutte loro un ritratto ideologico. Le trasandate erano tendenzialmente di sinistra, privilegiavano la sostanza e disprezzavano la forma. Le più curate, invece, erano generalmente di destra, cattoliche e discrete. Le amanti dei piaceri della vita, truccate e profumate, non volevano saperne né di politica né di religione, l'unico scopo della loro vita era incontrare un ragazzo facoltoso da sposare. Il brusio si prolungò, ma i ritardatari stavano diminuendo, si facevano sempre più rari. Alla fine, stabilito che si poteva ormai iniziare la lezione, Tomás si alzò dalla cattedra e si rivolse alla classe. «Dunque, buongiorno». «Buongiorno» risposero gli studenti in un mormorio disordinato. Il professore fece alcuni passi verso i primi banchi. «Nelle lezioni precedenti, come ben ricorderete, abbiamo parlato della comparsa della scrittura in Sumeria, in particolare a Ur e Uruk. Abbiamo studiato le iscrizioni cuneiformi di una placchetta di Uruk e abbiamo letto il più antico testo di finzione che si conosca, l'Epopea di Gilgamesh». Altri studenti entrarono nella stanza. «Abbiamo visto una stele del re Marduk e analizzato i simboli dell'Accadia, dell'Assiria e della Babilonia. Successivamente abbiamo trattato degli Egizi e dei geroglifici, leggendo brani del Libro dei Morti, iscrizioni del tempio di Karnak e una serie di papiri». Fece una pausa per sottolineare la fine del riepilogo degli argomenti già affrontati. «Oggi, per concludere la parte riguardante l'Egitto, conosceremo il modo in cui sono stati decifrati i geroglifici». Si fermò e si guardò intorno. «Qualcuno ne ha idea?». Gli studenti sorrisero, abituati al modo impacciato con cui il professore li invitava a partecipare alla lezione. «Fu grazie alla Stele di Rosetta» disse una studentessa, sforzandosi di rimanere seria. Che la Stele di Rosetta avesse a che fare con la decifrazione dei geroglifici era in effetti una conoscenza elementare. «Giusto» assentì Tomás, con aria però poco convinta, cosa che sorprese
gli studenti. «La Stele di Rosetta ha senza dubbio svolto un ruolo importante, ma non si può dire che sia stato l'unico fattore, o almeno non quello fondamentale». Nella stanza si moltiplicarono le espressioni confuse. La ragazza che era intervenuta rimase in silenzio, avvilita per non aver risposto completamente alla domanda. Ma gli altri presero ad agitarsi sulle sedie. «Che significa, professore?». Si fece avanti una studentessa seduta a sinistra, una cicciottella bassa e con gli occhiali, di solito una delle più attente e partecipi. Aveva un'aria educata, doveva essere cattolica. «Quindi non fu la Stele di Rosetta a svelare il significato dei geroglifici?». Tomás sorrise. Ridimensionare l'importanza della Stele di Rosetta aveva prodotto l'effetto desiderato: aveva risvegliato l'aula. «Sì, ha dato un piccolo aiuto. Ma la questione è più complessa». In quel preciso momento, una nuova ragazza entrò nell'aula e il professore la osservò distrattamente. «Come sapete, per secoli...». Esitò un poco, soffermando l'attenzione sull'ultima arrivata. «Ehm... per secoli... i geroglifici...». Non l'aveva mai vista prima. «I geroglifici rimasero... ehm... rimasero un grande mistero». La sconosciuta andò a sedersi nell'ultima fila, in disparte da tutti e, per questo, da tutti osservata. «I geroglifici... ehm... più antichi...». Aveva i capelli biondi e ricci, brillanti e vivi, e un corpo voluttuoso. «Dunque... i primi geroglifici risalgono a... ehm... tremila anni prima di Cristo». Tomás si sforzò di concentrarsi sull'argomento e s'impose di distogliere lo sguardo dalla ragazza, comprendendo che non era il caso di continuare a balbettare e di restare a guardarla, imbambolato. «I geroglifici... ehm... rimasero quasi inalterati per più di tremila anni, finché, alla fine del secolo IV d.C, smisero di essere utilizzati. Il loro uso e la loro lettura si persero immediatamente, nell'arco di circa una generazione. E sapete perché?». La classe restò in silenzio. Nessuno lo sapeva. «Gli Egizi furono colpiti da amnesia?» scherzò uno studente, uno dei pochi maschi della classe. Risatine nella stanza, le ragazze pensavano fosse spiritoso. «A causa della Chiesa cristiana» spiegò il professore con un sorriso forzato. «I cristiani proibirono agli Egizi di usare i geroglifici. Volevano rimuovere il loro passato pagano, volevano obbligarli a dimenticare Isi, Osiri, Anubi, Horus e tutta quell'immensa corte di dei. Il taglio fu così netto che la conoscenza dell'antica scrittura semplicemente scomparve». Il professore fece un gesto rapido. «Puff!» soffiò. «Da un momento all'altro,
nessuno fu più in grado di capire cosa volessero dire i geroglifici. L'antica scrittura egizia passò alla storia in un batter d'occhio». Visto che era trascorso almeno un minuto, Tomás si azzardò a guardare di sfuggita la nuova arrivata. «L'interesse per i geroglifici si spense per riaccendersi solo alla fine del XVI secolo quando, sotto l'influenza di un misterioso libro di Francesco Colonna, intitolato Hypnerotomachia Poliphili, papa Sisto V ordinò che fossero collocati obelischi egizi agli angoli delle nuove vie di Roma». A Tomás sembrava una dea, nonostante il genere fosse certamente diverso da quello di Iside. «Allora gli studiosi presero a cimentarsi di nuovo con quella scrittura ma senza arrivare a nulla. Pensavano di trovarsi di fronte a ideogrammi, cioè a caratteri che rappresentavano idee complete». Lei era più vicina al genere delle divinità nordiche. «Quando Napoleone invase l'Egitto, chiamò al proprio seguito un'equipe di storici e scienziati con il compito di cartografare, registrare e misurare tutto quello che avessero trovato». Una specie di cortigiana per animare i banchetti di Thor e Odino. «Questa equipe arrivò in Egitto nel 1798 e, l'anno seguente, fu chiamata dai soldati accampati presso Fort Julien, vicino al delta del Nilo, per analizzare una cosa che avevano trovato nella non lontana città di Rosetta». La bionda aveva occhi di un celeste cristallino, la pelle di un bianco latte e irradiava una bellezza lussuosa, di quelle particolarmente amate dagli uomini e disprezzate dalle donne. «I soldati, abbattendo una parete per aprire un passaggio verso il forte che occupavano, avevano scoperto una pietra con tre diversi tipi d'iscrizione». Tomás ipotizzò che fosse straniera, dal momento che era raro incontrare in Portogallo bionde così chiare. «Gli scienziati francesi studiarono la pietra, e vi identificarono caratteri greci, demotici e geroglifici. Arrivarono alla conclusione che si trattasse dello stesso testo scritto nelle tre lingue e subito si resero conto dell'importanza della scoperta». Era tedesca? «Il problema fu che le truppe britanniche avanzarono sull'Egitto e sconfissero quelle francesi, e la pietra, che si pensava fosse stata inviata a Parigi, finì per essere spedita al British Museum, a Londra». Poteva essere italiana o francese ma Tomás avrebbe scommesso su un Paese nordico. «La traduzione dal greco rivelò che la pietra conteneva un decreto dell'Assemblea dei sacerdoti egizi, attestante i benefici che il faraone Tolomeo aveva concesso al popolo d'Egitto e gli onori che, in cambio, i sacerdoti avevano reso al faraone». Forse era danese o magari inglese, ma Tomás sospettava che fosse originaria della Germania. Non era del genere tedesca-cavallona o tedesca-prosperosa, piuttosto una tedesca-modella, alta e risplendente, una bellezza da copertina.
«Pertanto, gli scienziati inglesi conclusero che, se le altre due iscrizioni contenevano lo stesso editto, allora non sarebbe stato difficile decifrare gli altri due testi in demotico e geroglifico». «Ah!» esclamò la paffutella con gli occhiali, la stessa alunna vivace che prima aveva interrogato il professore. «Quindi fu comunque la Stele di Rosetta a fornire la chiave per decifrare i geroglifici...». «Calma» disse Tomás, alzando la mano destra. «Calma». Fece una pausa drammatica. «La Stele di Rosetta presentava tre problemi». Alzò il pollice. «Primo, era danneggiata. Il testo greco era relativamente intatto ma mancavano parti importanti del demotico e soprattutto del geroglifico. Metà dei versi geroglifici era andata perduta e i restanti quattordici apparivano deteriorati». Alzò l'indice. «Secondo, gli altri testi da decifrare erano scritti in egizio, una lingua che si presumeva non fosse parlata da almeno otto secoli. Gli scienziati riuscirono a capire quali fossero i geroglifici corrispondenti a determinate parole greche, ma ne ignoravano il suono». Aggiunse il terzo dito. «Infine, fra gli eruditi era molto radicata l'idea che i geroglifici fossero ideogrammi, cioè simboli ai quali corrispondono idee complete, e non fonogrammi, nei quali un simbolo rappresenta un suono, come accade ad esempio nel nostro alfabeto fonetico». «Allora come hanno fatto a decifrare i geroglifici?». «La prima breccia nel mistero della scrittura egizia fu aperta da un prodigio inglese di nome Thomas Young, un uomo che, a soli quattordici anni, aveva già studiato greco, latino, italiano, ebraico, caldeo, siriano, persiano, arabo, etiope, turco e... dunque... fatemi vedere...». «Cinesiano?» arrischiò il simpaticone della classe. Risata generale. «Samaritano» si ricordò Tomás. «Allora, se sapeva il samaritano vuol dire che era un bravo ragazzo!» continuò il simpaticone, entusiasta del successo dei suoi interventi. «Un buon samaritano!». Nuove risate. «Forza, su» disse il professore, che iniziava a irritarsi per le battutine. Tomás sapeva che tutte le classi avevano un pagliaccio e quello, evidentemente, era il pagliaccio di turno di quella classe. «Bene, nel 1814 Young portò con sé, per le vacanze estive, una copia delle tre iscrizioni della Stele di Rosetta. Si mise a studiarle bene e una cosa richiamò la sua attenzione. Si trattava di un insieme di geroglifici circondati da un cartiglio, una specie di anello. Dedusse che era destinato a mettere in risalto qualcosa di
molto importante. Ora, dal testo greco sapeva che in quella parte della Stele si parlava del faraone Tolomeo. Fece due più due e concluse che il cartiglio indicava il nome di Tolomeo, era un modo per dare importanza al faraone. Fu allora che Young impresse una svolta rivoluzionaria. Invece di partire dal presupposto che quella fosse una scrittura esclusivamente ideografica, considerò l'ipotesi che la parola fosse scritta foneticamente e si mise a fare congetture sul suono di ogni geroglifico all'interno del cartiglio». Il professore si avvicinò alla lavagna e disegnò un quadrato . «Partendo dal principio che ci fosse scritto il nome di Tolomeo, suppose che questo simbolo, il primo della cartella, corrispondesse al primo suono del nome del faraone, la p». Disegnò di fianco un semicerchio con la base rivolta verso il basso . «Poi dedusse che questo simbolo, il secondo della cartella, fosse una t». Di seguito disegnò un leone sdraiato di profilo . «Young pensò che questo leoncino rappresentasse una l». Un nuovo simbolo scarabocchiato sulla lavagna bianca, questa volta due linee orizzontali parallele unite a sinistra . «Qui ritenne di aver incontrato una m». Ora due coltelli affiancati, in verticale
. «Questi coltelli dovevano essere una
i». Infine, un uncino in perpendicolare . «Questo simbolo doveva corrispondere a os». Si voltò e guardò la classe. «Vedete?». Indicò i simboli scarabocchiati sulla lavagna e li sillabò, seguendoli con l'indice. «P, t, l, m, i, os. Ptlmios. Tolomeo». Tornò a fissare gli alunni e sorrise per l'espressione affascinata che colse sui loro giovani volti. «Oggi sappiamo che Young, nella maggior parte dei casi, aveva indovinato quei suoni». Si allontanò dalla lavagna e si avvicinò alla prima fila. «E qui finisce, miei cari, il contributo della Stele di Rosetta». Si assicurò che questa idea si fissasse nelle loro teste. «Fu un primo passo molto importante, è vero, ma c'erano ancora molte cose da fare. Dopo aver completato la prima lettura di un geroglifico, Thomas Young andò alla ricerca di conferme. Scoprì un altro cartiglio nel tempio di Karnak, a Tebe, e dedusse che si trattava del nome di una regina tolemaica, Berenice. Anche in questa occasione riuscì a individuare i suoni. Il problema fu, tuttavia, che secondo Young queste trascrizioni fonetiche potevano applicarsi solo a nomi stranieri, come nel caso della dinastia tolemaica, discendente da un generale di Alessandro Magno, e quindi non portò questa linea di pensiero fino alle estreme conseguenze. Risultato, il codice finì per essere solo scalfito e non rotto5». «Non capisco» lo interruppe la paffutella con gli occhiali. «Per quale motivo non si spinse oltre? Cosa lo portò a concludere che solo i nomi
stranieri fossero trascritti foneticamente?». Il professore esitò, pensando per alcuni istanti al modo migliore per spiegare il concetto. «Guardate, è come il cinese» e poi domandò: «Qualcuno conosce il cinese?». La classe si mise a ridere per la domanda. «Molto bene, mi sembra di capire che nessuno conosca il cinese, chissà perché. Non importa. Il cinese, come tutti sanno, presenta una scrittura ideografica in cui ogni simbolo rappresenta un'idea, non un suono, e per questo è necessario inventare simboli ogni volta che appare una nuova parola. Mentre a noi, per riprodurre nuovi vocaboli, basta riutilizzare i simboli fonetici già esistenti, il popolo orientale deve inventarne di altri e ciò significa, in definitiva, ritrovarsi con migliaia e migliaia di simboli e con l'impossibilità di disegnarli tutti. Dinanzi a questo problema, cosa fecero?». «Presero pasticche per la memoria...» suggerì il simpaticone. «Fonetizzarono la propria scrittura» spiegò il professore, ignorando la spiritosaggine. «O, meglio, mantennero i vecchi simboli ideografici ma impiegarono foneticamente quelli già esistenti per riprodurre i nuovi termini. Questo per evitare di inventare ogni volta un simbolo diverso. Per esempio, la parola "Moçambique"6. In cinese cantonese, il numero tre si dice çam e si scrive con tre trattini orizzontali». Tomás andò alla lavagna e disegnò tre lineette sotto ai geroglifici già scarabocchiati. «Quando ebbero la necessità di scrivere la parola "Moçambique", presero il simbolo del tre, çam, e lo collocarono come seconda sillaba della parola "Moçambique". Avete capito?». Guardò intorno e intuì che il concetto era stato acquisito. «Young pensò che gli Egizi avessero fatto esattamente la stessa cosa. Come i cinesi, anch'essi avevano una scrittura di tipo ideografico ma, di fronte a nuove parole, ad esempio "Tolomeo", invece di inventare ulteriori simboli decisero di utilizzare foneticamente quelli già esistenti. Quanto alle altre parole, Young pensò che si trattasse realmente di ideogrammi, motivo per cui non tentò nemmeno di dedurne il suono». «E nessuno provò a farlo?» domandò la paffutella con gli occhiali. «Sì, è chiaro» assentì il professore. «A questo punto apparve il francese Jean-François Champollion. Si trattava di uno studioso di talento, anche lui conosceva molte lingue...». «Era un buon samaritano?». Il simpaticone tornava all'attacco.
«No. Ma oltre ai soliti imparò anche altri idiomi, inclusi il sanscrito, la lingua zenda, il copto e il pahlevi, con l'unico obiettivo di prepararsi a decifrare, un giorno, i geroglifici». Tomás tornò a guardare la bionda seduta in fondo alla stanza e si chiese cosa stesse facendo lì. Era un'allieva? Veniva davvero da un altro Paese? E, in tal caso, riusciva a capire ciò che stava dicendo? In verità la ragazza sembrava attenta e il professore si propose di tenere una lezione che lei non avrebbe dimenticato tanto facilmente. Quando uscirà da qui sarà in grado di leggere i geroglifici, così aveva deciso Tomás. «Il nostro amico Champollion applicò l'approccio di Young ad altri cartigli, rispettivamente di Tolomeo e Cleopatra, sempre con buoni risultati. Decifrò anche un riferimento ad Alessandro. Il problema è che questi erano tutti nomi di origine straniera, fatto che contribuì a rafforzare la convinzione che la lettura fonetica si applicasse soltanto a parole che non appartenevano al lessico tradizionale egizio. Ma tutto cambiò nel settembre del 1822». Tomás s'interruppe per valorizzare la sconvolgente rivelazione che stava per fare. «Fu allora che il linguista francese ebbe accesso ad alcuni rilievi del tempio di Abu Simbel che contenevano cartigli precedenti rispetto al periodo di dominio greco-romano. Ciò significava che nessun nome lì racchiuso potesse essere di origine straniera». Osservando gli studenti, pensò di dover esprimere le implicazioni di questa circostanza nel modo più chiaro possibile. «La sfida che si presentava a Champollion era molto chiara. Se fosse riuscito a decifrare alcuni di quei geroglifici anteriori all'influenza straniera, avrebbe provato che l'antica scrittura egizia non si basava su ideogrammi, come si era sempre pensato, ma su simboli fonetici. In tal caso, avrebbe svelato il segreto nascosto da quella misteriosa scrittura e finalmente il codice dei geroglifici sarebbe stato decifrato. La questione, tuttavia, restava inalterata: pur essendo simboli fonetici, cosa che stava per dimostrare nell'ambito delle parole più antiche, come avrebbe potuto leggerli se ne ignorava il suono?». Lasciò che la domanda fluttuasse nell'aria, per porre l'accento sulla grandezza del compito che Champollion stava per affrontare. «Il nostro amico era, tra l'altro, un uomo ingegnoso e si mise ad analizzare con attenzione il testo che si trovava nei rilievi. Dopo aver esaminato tutti i geroglifici, decise di concentrarsi su un cartiglio in particolare». Tomás si avvicinò alla lavagna e disegnò quattro simboli all'interno di una linea ovale. «I primi due disegni erano sconosciuti ma i rimanenti si trovavano in altri due cartigli già noti a Champollion, quelli di Ptlmios e di Alksentr, o Alessandro». Indicò l'ultimo geroglifico. «Nei suddetti cartigli,
questo simbolo corrispondeva a s. Pertanto, lo studioso francese partì dal presupposto di aver decifrato gli ultimi due suoni del cartiglio di Abu Simbel». Scrisse sulla lavagna i corrispondenti suoni dell'alfabeto latino, mettendo dei punti interrogativi al posto dei primi due geroglifici. La superficie bianca mostrava un enigmatico ?-?-s-s. Il professore si voltò verso la classe, indicando i segni di domanda. «Mancano i primi due. Quali potrebbero essere? Che suono potrebbero avere?». Additò il primo geroglifico del cartiglio. «Osservando attentamente questo simboletto rotondo, con un punto al centro, Champollion pensò che assomigliasse al sole. Partendo da questa ipotesi, iniziò a immaginare il rispettivo suono. Si ricordò che, in copto, sole si dice ra e collocò le due lettere al posto del primo punto interrogativo». Cancellò un punto interrogativo e scrisse ra. Ora alla lavagna appariva una nuova combinazione di lettere: ra-?-ss. «Dunque, come riempire l'ultimo spazio vuoto? Dopo aver riflettuto, Champollion arrivò a una conclusione molto semplice: qualunque fosse la parola da decifrare, il fatto di trovarsi all'interno di un cartiglio stava a indicare con molta probabilità che si trattava del nome di un faraone. Quale faraone aveva un nome che cominciava per ra e finiva per ss?». La domanda rimase sospesa nel silenzio dell'aula. «Fu in quel momento che gli balenò in testa un'altra audace idea, straordinaria e decisiva». Un'ultima pausa per alimentare la suspense. «Perché non una m?». Tomás si voltò nuovamente verso la lavagna e sostituì il punto interrogativo con una m. Gli studenti videro apparire la combinazione di lettere ra-m-ss. Il professore quindi si rivolse alla classe con un sorriso trionfale, con lo sguardo brillante e orgoglioso di chi infine aveva rotto il codice dei geroglifici. «Ramses». La sala esplose in un clamore di voci quando il professore annunciò che la lezione era terminata. Gli studenti strascinavano le sedie, sistemavano i quaderni, chiacchieravano o si precipitavano alla porta. Come al solito, alcuni si accalcarono intorno al docente per avere ulteriori chiarimenti. «Professore?» domandò una magrolina con la giacca marrone. «Dove si può leggere il Précis du système hiérogliphique?». Era il libro scritto da Champollion nel 1824, l'opera nella quale finalmente veniva svelato il mistero dei geroglifici. In questo testo lo studioso francese dichiarava che la lingua dei geroglifici era il copto, che l'antica scrittura egizia non era ideografica bensì fonetica e, soprattutto, decifrava il significato dei simboli.
«Ha due possibilità» spiegò Tomás mentre sistemava il suo materiale. «O lo ordina tramite internet o lo cerca alla Biblioteca Nazionale». «Non è in vendita qui in Portogallo?». «Che io sappia, no». L'allieva ringraziò e lasciò il posto a un'altra ragazza con l'aria frettolosa, vestita di tutto punto, in gonna e giacca grigie, come se fosse una vera e propria donna in carriera. «Professore, io sono una studentessa lavoratrice e non sono potuta venire alle precedenti lezioni. Ha già fissato la data d'esame?». «Sì, è quella dell'ultima lezione». «E sarebbe?». «Beh, a memoria non lo ricordo. Verifichi su un calendario». «E come sarà la prova?». Il professore la guardò senza capire. «In che senso?». «Ci saranno domande sulle scritture antiche?». «Ah, no. Sarà una verifica pratica». Tomás continuava a riporre i suoi appunti nella borsa. «Dovrete analizzare dei documenti e decifrare alcuni testi antichi». «Geroglifici?». «Anche, ma non ne sono ancora sicuro. Potreste confrontarvi con placchette cuneiformi sumeriche, con iscrizioni greche, con testi ebraici e aramaici o con cose molto più semplici, come manoscritti medievali e cinquecenteschi». La ragazza rimase a bocca aperta, allibita. «Ah!» esclamò con fare scandalizzato. «Dobbiamo decifrare tutto questo?». «No» rise Tomás. «Solo alcune cosette...». «Ma io non conosco queste lingue...» mormorò, turbata, con un tono lamentoso. Tomás la fissò. «È per questo che si trova in questo corso, no?» inarcò le sopracciglia per marcare le sue parole. «Per imparare». Il professore si accorse che nel frattempo la bionda si era unita al gruppo e aspettava il suo turno. Un fremito d'eccitazione gli attraversò il corpo per l'ansia di conoscerla. Tuttavia dovette ancora intrattenersi, suo malgrado, con la studentessa che lo aveva interpellato, che non solo non si era allontanata, ma gli aveva anche porto un foglio.
«Lo dovrebbe firmare» disse, come se lo stesse punendo per i compiti che le avrebbe dato. Tomás osservò quel foglio con aria perplessa. «Cos'è?». «È il documento che devo consegnare per giustificare il fatto che, per seguire la lezione, non sono andata a lavorare. Può firmarlo?». Il professore scarabocchiò il suo nome e quella se ne andò. Rimanevano due studentesse: una ragazza mora e riccia, e la bionda sexy. Optò per la prima in modo da avere più tempo a disposizione per l'altra. «Scusi, come facciamo a sapere quando gli scribi egizi ricorrevano al principio del rebus?». Il rebus è un sistema di parole intere scomposte nelle loro componenti fonetiche e trasformate in immagini con suoni simili alle parti scomposte. Per esempio, l'aggettivo "solenne" può essere diviso così: "sol-enne". Invece di scrivere la parola attraverso l'alfabeto fonetico, è possibile rappresentarla con un disegno del sole e con la lettera n. Ne deriva "Sole-n", ovvero "solenne". «Dipende dalla situazione» rispose Tomás. «Gli scribi sottostavano ad alcune regole flessibili. Ad esempio, certe volte usavano le vocali, altre volte le sopprimevano. In alcuni casi scambiavano l'ordine dei geroglifici per ragioni puramente estetiche. E, in altri ancora, ricorrevano ai rebus per restringere la parola o per ottenere un doppio significato». «Come nel caso di Ramses?». «Esatto» assentì. «Champollion incontrò subito un rebus nel primo geroglifico che decifrò ad Abu Simbel. Ra non indicava solo una lettera ma, in quel contesto, anche una parola. Utilizzandola in quel modo, lo scriba aveva paragonato Ramses al sole, cosa che ha un senso, visto che i faraoni venivano considerati quasi come divinità». «La ringrazio». «Alla prossima settimana». Fu il turno della bionda fatale. Tomás provò un piacere immenso nel poterla, finalmente, guardare in faccia, senza doverlo fare di nascosto. Si sentì annebbiato dalla sua lucentezza ma non si lasciò intimidire. Sorrise e lei ricambiò. «Salve» la salutò. «Buongiorno» esordì la ragazza, in un portoghese corretto ma con un accento esotico. «Sono una nuova studentessa». Il professore rise.
«Questo l'ho notato. Come si chiama?». «Lena Lindholm». «Lena?» chiese con un tono esageratamente sorpreso, come se solo allora si fosse reso conto che c'era qualcosa di diverso in lei. «In portoghese, è il diminutivo di Helena...». La ragazza si lasciò sfuggire una risata discreta. «Sì, ma sono svedese». «Aaaah!» esclamò Tomás, stupito. «Certo». Quindi esitò un poco, cercando parole nascoste nella memoria. «Aspetti un attimo... ehm... Hej, trevligt att träffas!». La studentessa spalancò gli occhi. «Come?» disse, piacevolmente meravigliata. «Talar du svenska?». Tomás scrollò la testa. «Jag talar inte svenska» rispose con un sorriso. «La mia conoscenza dello svedese finisce qua». Alzò le spalle come per chiedere scusa. «Förlat». Lo guardò con ammirazione. «Non fa niente. Dove ha imparato lo svedese?». «Quando ero uno studente ho viaggiato in inter-rail e ho passato quattro giorni a Malmö. Dato che sono molto curioso e sono portato per le lingue, ho imparato qualcosa. Ad esempio, so domandare var är toaletten?». Lei si mise a ridere. «Hur mycket kostar det?». Nuove risate. «Äppelkaka med vaniljsås». L'ultima frase le provocò un brivido. «Ah, professore, non mi ricordi l'appelkaka...». «Perché?». Lena si passò la lingua sulle labbra carnose e rosate, in un gesto che risultò per Tomás pericolosamente erotico. «È una delizia! Quanto mi manca...». Il professore sorrise cercando di nascondere la reazione che la ragazza suscitava in lui. «Scusi, ma non dica a nessuno che kaka è il nome di un dolce». «Si chiama kaka, è vero, ma guardi che ha un sapore di mela dolce». Chiuse gli occhi e tornò a leccarsi le labbra. «Hmm, utmärkt! Una meraviglia!». Tomás immaginò di stringerla a sé, di baciarla, di esplorare quelle labbra vellutate, di passarle delicatamente le mani lungo quel corpo caldo e palpitante. Ma si sforzò di cancellare dalla mente il desiderio che quella ragazza sapeva risvegliargli e, schiaritosi la gola, le chiese: «Mi dica... come la de-
vo chiamare?». «Lena». «Mi dica, Helena...». «Lena...». «Ah, Lena». Esitò, incerto sulla corretta pronuncia. Ma lei, questa volta, non lo riprese e quindi suppose di averla indovinata. «Mi dica, Lena. Dove ha imparato a parlare così bene il portoghese?». «In Angola». «Angola?». La svedese sorrise mostrando denti perfetti e luminosi. «Mio padre è stato ambasciatore in Angola e ho vissuto là per cinque anni». Tomás terminò di sistemare le sue cose nella borsa e si alzò. «Ah, molto bene. E le è piaciuto?». «Molto. Avevamo una casa nel Miramar e trascorrevamo i fine settimana nel Mussolo. Era una vita da sogno». «In che parte dell'Angola si trova?». Lei lo guardò sorpresa, perché era strano che quei nomi non fossero familiari per un portoghese. «Beh... a Luanda, chiaro. Miramar era il nostro quartiere. Da lì si vedevano il litorale, il forte e l'isola. E il Mussolo è un'isola paradisiaca a sud di Luanda. Non c'è mai stato?». «No, non conosco l'Angola». «È un peccato». Il professore si diresse verso la porta, facendo cenno alla ragazza di accompagnarlo. Quando gli fu vicina, Tomás si rese conto che la svedese era quasi della sua stessa altezza, doveva essere circa un metro e ottanta, appena tre centimetri in meno. Indossava un delicato pullover celeste che si abbinava perfettamente agli occhi azzurri e agli ondulati capelli biondi che le cadevano sulle spalle, alla Nicole Kidman. Quel maglione esaltava i seni audaci e generosi, ulteriormente accentuati dalla vita sottile. Tomás dovette farsi violenza per non fissare quel petto abbondante e tentatore, ma alla fine distolse lo sguardo. «Allora, mi spieghi cosa sta facendo qui e perché segue il mio corso» chiese il professore, fermandosi sulla porta per farla uscire per prima. «Sono venuta per il progetto Erasmus» rispose lei, passandogli davanti. Tomás, senza volere, osservò voglioso il fondoschiena della svedese; era pieno e rotondo, le natiche corpose riempivano perfettamente i jeans chia-
ri. Non riuscì a dominarsi, la immaginò senza pantaloni, immaginò quelle curve pallide e morbide stringersi dai generosi fianchi verso la vita. Con la fantasia le esplorò la schiena fino ad arrivare alle curve dei seni che si intravedevano da dietro. «Come?» esitò, deglutendo. «Sono qui per via del progetto Erasmus» ripeté Lena, girandosi per guardarlo in faccia. Entrarono nell'atrio centrale e iniziarono a salire le scale. «Ehm... il progetto Erasmus?». «Sì, l'Erasmus. Presumo che lo conosca, no?». Tomás scrollò la testa, cercando nuovamente di respingere i demoni della passione che, a quanto pare, lo avevano circondato, divenendo signori e padroni della sua volontà. Impose a se stesso di distogliere lo sguardo dalla diabolica tentazione di quel corpo sensuale, e di concentrarsi sulla conversazione. «Ah, chiaro. Il... il progetto Erasmus. Certo, chiaro... l'Erasmus» disse con fare incerto, riuscendo finalmente a mettere a fuoco la questione. «Ah! Allora è venuta per l'Erasmus». La svedese accennò un sorriso forzato, confusa dal balbettare del professore. «È quello che le sto dicendo. Sono qua per l'Erasmus». Dunque Tomás era riuscito a capire come mai quella studentessa si trovasse a Lisbona. L'Erasmus era un progetto europeo introdotto nel 1987 nell'ambito dell'insegnamento universitario, in base al quale le università dell'Unione Europea si scambiavano studenti per al massimo un anno accademico. Quattro anni prima, nel 1995, l'Erasmus era stato integrato con un più vasto programma formativo europeo, il Socrates. La maggior parte degli studenti stranieri che si rivolgeva al Dipartimento di Storia dell'Università Nova di Lisbona era spagnola, probabilmente per un fattore linguistico, ma Tomás ricordava di aver avuto anche uno studente tedesco dell'Università di Heidelberg. «Da che università viene?». «Da Stoccolma». «Si laurea in Storia?». «Sì». Salirono tre piani quasi senza accorgersene, finché non raggiunsero l'atrio principale del sesto. Poi, girarono a sinistra e si trovarono nella zona riservata agli uffici. Tomás percorse il corridoio del Dipartimento di Sto-
ria, con la svedese al suo fianco, e cercò nella tasca la chiave del proprio ufficio. «E perché ha scelto il Portogallo?». «Per due ragioni» rispose Lena. «Innanzitutto, per la lingua. Parlo e leggo fluentemente il portoghese, per cui non avrò difficoltà a seguire le lezioni. La scrittura è più complicata...». Il professore si fermò sulla porta dell'ufficio e accostò la chiave alla serratura. «Se ha difficoltà con il portoghese, può tranquillamente scrivere in inglese, non c'è problema». La chiave entrò nella fessura. «E il secondo motivo?». La svedese si fermò alle sue spalle. «Sto pensando di scrivere una tesi sulle scoperte derivate dalle grandi navigazioni. Mi piacerebbe stabilire dei parallelismi fra i viaggi dei vikings e le Scoperte portoghesi». La porta si aprì e, con un gesto cortese, Tomás la invitò a entrare. L'ufficio si presentava disordinato: montagne di verifiche da correggere, fotocopie sparse sui tavoli e persino per terra. Sedettero vicino alla finestra e ammirarono il sereno paesaggio offerto dal cortile dell'Ospedale Curry Cabral, attaccato alla facoltà. I padiglioni dell'infermeria, con i loro tetti rosso mattone, spiccavano in mezzo ai nudi alberi spogliati dall'inverno. Alcuni uomini in vestaglia, di certo i malati, giravano senza fretta, senza destinazione, altri, con il camice bianco, sicuramente medici, entravano e uscivano frettolosamente dai padiglioni. Uno di loro scendeva dall'automobile che aveva appena parcheggiato, un altro stava piantato sotto a una vigorosa quercia e guardava l'orologio. «Le Scoperte portoghesi sono un argomento molto vasto» commentò Tomás rivolgendo il viso a uno spiraglio di sole invernale che, filtrando fra le nuvole, sprizzava attraverso la finestra. «Ha idea del lavoro che dovrà affrontare?». «Ogni pesciolino spera di diventare una balena». «Come?». «È un proverbio svedese. Significa che la voglia di lavorare non mi manca». «Non ne dubito, ma è importante circoscrivere la sua area di ricerca. Esattamente, che periodo pensa di studiare?». «Vorrei analizzare tutto ciò che è accaduto fino al viaggio di Vasco da Gama».
«Quindi le interessa arrivare fino al 1498?». «Sì» replicò con entusiasmo. «Gil Eanes, Gonçalves Caldaia, Nuno Tristão, Diogo Cão, Nicolau Coelho, Gonçalves Zarco, Bartolomeu Dias...». «Caspita!» esclamò il professore con una smorfia. «Li conosce proprio tutti». «Certo. È già un anno che studio l'argomento e che mi preparo per venire qua». Spalancò gli occhi. «Professore, pensa che sarà possibile consultare gli originali dei cronisti che hanno registrato tutti gli eventi?». «Chi? Zurara e compagnia bella?». «Sì». «Sarà difficile». «Oh!» fece Lena con tono deluso. «Beh, i testi originali sono preziosissimi, fragili reliquie che le biblioteche conservano con attenzione e molto zelo». Assunse un'aria riflessiva. «Ma può comunque consultare riproduzioni e copie, è quasi la stessa cosa». «Ah, ma visionare gli originali sarebbe meglio». Lo guardò negli occhi verdi con espressione supplichevole. «Non è che potrebbe aiutarmi?». Mise il broncio. «Per favore...». Tomás si mosse sulla sedia. «Beh, suppongo si possa tentare...». «Tack!» esclamò lei, sciogliendosi in un riconoscente sorriso incantatore. «Tack!». Il professore intuì vagamente di essere stato manipolato ma si sentiva tanto estasiato che la cosa non gli importava, era un piacere soddisfare i desideri di quella divina creatura. «Ma lei è in grado di leggere il portoghese cinquecentesco?». «Il ladro trova il calice più velocemente del sagrestano». «Che?». «È un altro proverbio svedese. Significa che, quando ci interessa, riusciamo a fare tutto». «Non ne dubito, ma la domanda rimane» insistette lui. «Lei è in grado di leggere il portoghese e capire la complessa calligrafia con cui si scriveva in quel periodo?». «No». «Allora a cosa le serve avere accesso ai testi?». Lena sorrise maliziosamente, con l'aria malandrina e sicura di chi sa di
essere irresistibile. «Sono certa che lei mi darà un aiutino speciale». Il pomeriggio andò perso in una riunione del Consiglio del Dipartimento di Storia, piena delle solite chiacchiere, manovre di politica interna, un interminabile ordine del giorno e drammatici dubbi su oscure virgole degli atti della riunione precedente, cui si aggiunsero questioni d'ordinaria amministrazione come l'attribuzione di equipollenze e la costituzione delle commissioni per tre lauree magistrali e un dottorato. Quando arrivò a casa era già sera. Constança e Margarida stavano già cenando: hamburger fritti con pasta inondata di ketchup, il piatto preferito della bambina. Tomás sistemò la giacca, le baciò e si sedette a tavola. «Ancora hamburger e spaghetti?» domandò in tono di protesta. «Che ci vuoi fare? Adora questo piatto...». «Gli spaghetti sono davve'o buoni!» si rallegrò Margarida, succhiando rumorosamente i fili di pasta. «Slurp». Il padre si servì. «E va bene» disse rassegnato, mentre versava gli spaghetti nel piatto. Guardò la figlia e le passò la mano tra i capelli lisci e neri. «Allora, cosa hai imparato oggi?». «Pi, a, pa. Pi, e, pe». «Di nuovo? Ma dai, già ti sei dimenticata quello che hai imparato l'anno scorso?». «Pi, i, pi. Pi, o, po». «Hai visto?» domandò, rivolgendosi alla moglie. «Sta al secondo anno e ancora non sa leggere». «La colpa non è sua, Tomás. La scuola ancora non ha trovato un insegnante di sostegno, cosa vuoi che faccia?». «Dobbiamo andarci a parlare...». «Certo che dobbiamo» concordò lei. «Ho già chiesto un appuntamento con la direttrice per la prossima settimana». «Pi, u, pu». Uno dei disturbi dei bambini affetti da Trisomia 21 è la difficoltà a memorizzare le cose, motivo per cui vivono soprattutto secondo routine e abitudini. L'anno precedente Margarida era entrata in una scuola pubblica dove, oltre ai professori comuni a tutti gli alunni, poteva contare sull'aiuto di un insegnante di sostegno specializzato. Ma, in seguito ai recenti tagli di bilancio del Ministero dell'Istruzione, questo docente era stato tolto e ades-
so Margarida, così come tanti altri nella sua stessa condizione, si trovava senza alcun ausilio pedagogico adatto al suo caso, nonostante fosse previsto dalla legge. Di conseguenza era regredita, dimenticando molte delle cose che aveva imparato l'anno precedente, incluso leggere e scrivere parole semplici. Per tornare a far progressi, avrebbe avuto bisogno di un insegnante di sostegno che funzionasse come una specie di allenatore sempre pronto a spronarla, ma convincere la scuola, priva di fondi, ad assumerne uno sarebbe stato chiaramente difficile. Tomás morse un pezzo di hamburger e bevve un sorso di rosso alentejano. In quel momento Margarida finiva di mangiare il dolce, una mela sbucciata e tagliata a fettine. Si alzò in piedi e si mise a sistemare la tavola. «Dai Margarida, pulisci dopo, va bene?». «No» disse con fermezza, ammucchiando i piatti sporchi nel lavandino. «Bisogna puli'e, bisogna puli'e». «Pulisci dopo». «No. Spo'cizia, è tutto spo'co. Bisogna puli'e». «Questa bambina aprirà un'impresa di pulizie!» commentò il padre con una risata, aggrappandosi al proprio piatto per non farselo portare via. Pulire e mettere in ordine erano le più grandi manie di Margarida. Ovunque ci fosse una macchia, lei si metteva lì a combatterla, inflessibile e determinata. La bambina aveva già messo in imbarazzo la coppia a casa di amici: alla vista di una semplice ragnatela o di un po' di polvere su qualche mobile, iniziava a strillare e puntava il dito accusatore, dicendo che c'era sporcizia. Denunciava il sudiciume con tale nausea e sincera repulsione che gli imbarazzati anfitrioni si convincevano di vivere in un immondo porcile e, scottati dalla traumatizzante esperienza, s'immergevano in colossali operazioni di pulizia prima di tornare a invitare la famiglia Noronha. Dopo aver cenato, Margarida andò a dormire. Il padre le lavò i denti e le preparò le cose per il giorno dopo, la madre le mise il pigiama e le raccontò una favola: quella sera era la volta del gatto con gli stivali. Quando si fu addormentata, la coppia si sdraiò sul divano per riprendersi dalla stanchezza della giornata. «Sabato non arriva mai» commentò Constança con lo sguardo perso rivolto al soffitto. «Sono a pezzi». La sala era piccola ma arredata con gusto. Colorati quadri astratti, dipinti da Constança ai tempi dell'università, abbellivano le pareti. I divani, con rose disegnate su stoffa bianco sporco, s'intonavano alle tende e al tappeto.
Ma ciò che portava più allegria nella stanza era la moltitudine di vasi sparsi sui mobili di faggio chiaro, colmi di fiori rosso acceso che spiccavano tra grosse foglie verdi. «Che fiori sono questi?». «Camelie». Tomás si chinò sui petali lussureggianti tentando di captarne la fragranza; inspirò ma non sentì nulla. «Non profumano per niente» si lamentò incuriosito. «Certo che no, stupidino!» rise Constança. «Sono camelie, non hanno profumo». «Ah» fece lui. Si sedette di fianco alla moglie e le prese la mano. «Raccontami la storia delle camelie». Constança era un'appassionata di fiori. In qualche strana maniera, questa fu una delle cose che più li aveva avvicinati quando, da studenti, si erano conosciuti. Tomás adorava enigmi e sciarade, viveva per la decifrazione di codici e cifre, si interessava di simboli e messaggi nascosti. Passò la giovinezza a comprare il "Mundo de Aventuras" non per i fumetti, che comunque divorava, ma per i gialli polizieschi della rubrica Sete de Espadas. Dopo essersi conosciuti, Constança lo introdusse a una nuova complessa simbologia, quella dei fiori. La ragazza con le lentiggini gli rivelò che le donne degli harem turchi utilizzavano proprio i fiori per comunicare con il mondo esterno, ricorrendo a un affascinante codice di simboli. Questa pratica, usata per la prima volta in Occidente da Lady Montagu nel 1718, fu all'origine della nascita della florigrafia, un sistema simbolico che diventò molto popolare nel XIX secolo e che univa ai tradizionali significati d'origine turca elementi della mitologia antica e del folklore. I fiori assunsero così un significato occulto: esprimevano, dissimulandoli, emozioni e sentimenti che, in circostanze normali, l'etichetta sociale avrebbe represso. Per esempio, era impensabile che un uomo, subito al primo appuntamento, dichiarasse a una donna di essersi innamorato di lei, ma era invece tollerato che le donasse un ramo di gloxinia, simbolo palese dell'amore a prima vista. La florigrafia influenzò l'arte dei gioielli e il movimento preraffaellita, fino a diffondersi anche nella moda: il mantello indossato da Isabel II durante la sua cerimonia di incoronazione si presentava ricamato con foglie d'ulivo e spighe di grano, come auspicio di pace e abbondanza per il suo regno. Constança, appassionata di arti umane e naturali, era diventata una specialista in simbologia floreale, sempre pronta a cogliere oscuri messaggi nascosti quando c'erano di mezzo dei fiori.
«Le camelie arrivarono dalla Cina, dove erano molto apprezzate» spiegò Constança. «Entrarono nella nostra cultura grazie ad Alexandre Dumas, che scrisse La dame aux camélias, un romanzo basato sulla vera storia di una cortigiana parigina del XIX secolo, una certa Madeleine du Plessis. A quanto pare, la nostra mademoiselle du Plessis era allergica al profumo dei fiori e scelse giustamente le camelie perché non hanno fragranza» spiegò, osservando il marito con aria divertita. «Presumo tu sappia chi sia una cortigiana». «Ehi, bella, io sono un professore di Storia». «Bene, si dà il caso che mademoiselle du Plessis usasse tutti i giorni un bouquet di camelie: per venticinque giorni bianche, per segnalare agli uomini la sua disponibilità; rosse, durante il restante periodo, per indicare che non ce n'era per nessuno». «Oooh!» esclamò lui, simulando delusione. «Giuseppe Verdi s'ispirò al romanzo di Dumas e scrisse La Traviata, in cui però la storia della dama francese fu riadattata leggermente. Nell'opera di Verdi l'eroina è obbligata a vendere i propri gioielli e, per sostituirli, usa proprio le camelie». «Poverina» commentò Tomás con un sorriso di scherno. «Povera creatura». Contemplò i fiori che la moglie aveva messo in salotto. «Quindi devo dedurre che, se hai comprato camelie rosse, oggi non ce n'è per nessuno». «Hai dedotto bene» assentì Constança con un sospiro. «Oggi sono esausta». Tomás la osservò attentamente. La moglie aveva conservato l'espressione malinconica che lo aveva sedotto quando si erano conosciuti. A quel tempo lui frequentava Storia all'Università Nova di Lisbona e i loro destini s'incrociarono grazie a una conversazione fra ragazzi, quando Tomás sentì per la prima volta decantare la bellezza delle studentesse di Belle Arti. «Dei veri capolavori!» scherzò Augusto nel cortile della Nova, dopo pranzo, all'inizio di un assolato pomeriggio di primavera, soddisfatto del gioco di parole. «Lascia che te lo dica, i genitori sono stati dei veri artisti. Un giorno ti ci porto, vedrai, sono ragazze splendide». Neanche a dirlo, finirono per andare. Trascinato dai colleghi, Tomás andò a pranzo alla mensa di Belle Arti e poté verificare con i propri occhi la fondatezza della voce che girava alla Nova: non c'era facoltà a Lisbona dove la bellezza fosse tanto coltivata come in quella. Cercarono di attaccare discorso con le ragazze in fila, delle bionde vaporose e ben vestite, ma furono categoricamente ignorati. Dopo essere passati alla cassa, vagarono
per il refettorio con il vassoio in mano, quasi disorientati, alla ricerca del posto migliore per sedersi; scelsero un tavolo vicino alla finestra, in parte occupato da tre ragazze, una delle quali era una mora statuaria. «La natura è generosa» osservò Augusto strizzando l'occhio e indirizzando i colleghi verso quella bellezza. La mora fu colpita dagli occhi verdi di Tomás ma il ragazzo preferì rivolgere la sua attenzione a una delle sue amiche, una ragazza dalla pelle bianca come il latte, con il naso screziato di lentiggini e gli occhi castani, lo sguardo perso, forse malinconico, forse sognatore. Non fu la sensualità che lo colpì ma la dolcezza. Lei non era una caramella né una torta né un vasetto di miele; era cioccolato, una di quelle barrette cremose che fanno tremare gli occhi e seccare la bocca. I suoi gesti delicati, languidi, tradivano una natura che, a prima vista, sembrava mite, malinconica, tenera, anche se, come scoprì con il tempo, sotto quell'aria delicata si nascondeva un vulcano, dietro quella gatta mansueta si muoveva una leonessa implacabile. Non uscì da lì senza averle strappato il numero di telefono. Due settimane più tardi, e dopo averle offerto i suoi primi caprifogli, simbolo della promessa di un amore devoto e fedele, Tomás baciò Constança alla stazione di Oeiras. Poi, insieme passeggiarono, tenendosi per mano, per la vasta spiaggia di Carcavelos. La memoria del passato si trasformò nel volto immobile di Margarida, come se Tomás avesse viaggiato attraverso il tempo per poi atterrare nel presente. La fotografia della figlia gli sorrideva sul mobile, accanto a un mazzetto di camelie. «Senti, non è in questo periodo, all'inizio dell'anno, che la bambina deve rifare i controlli?». «Sì» confermò Constança. «La prossima settimana dobbiamo portarla dal dottor Oliveira. Domattina vado al Santa Marta a prendere tutti gli esami, è necessario che li veda». «Questi giri dai medici mi devastano» si sfogò Tomás. «E devastano lei» replicò la moglie. «Non ti dimenticare che un giorno la bambina dovrà essere operata...». «Non me ne parlare». «Tomás, che ti piaccia o no, mi devi aiutare». «Va bene, va bene». «Già ne ho abbastanza di portare quasi tutto il peso da sola. La piccola ha bisogno di appoggio e io non riesco a occuparmi di tutto. Mi devi aiutare di più, in fin dei conti sei il padre». Tomás si sentiva in trappola. I problemi di Margarida oberavano la mo-
glie e lui, per quanto si sforzasse, sembrava incapace di risolvere anche solo la metà delle difficoltà di cui Constança, con il suo senso pratico, si occupava in ogni momento. «Non preoccuparti, verrò con te dal dottor Oliveira». La donna sembrò calmarsi. Si appoggiò al sofà e sbadigliò. «Bene, io vado a dormire». «Di già?». «Sì, ho sonno» rispose alzandosi. «Rimani?». «Sì, resto ancora un po'. Leggo qualcosa e poi anch'io vengo a letto». La moglie si chinò su di lui, lo baciò teneramente e uscì dalla sala, lasciando nella stanza il caldo profumo del suo Chanel n°5. Tomás si mise a guardare lo scaffale dei libri, grattandosi la testa, indeciso sulla scelta. Alla fine scelse i Selected Tales di Edgar Allan Poe, voleva rileggere il racconto sullo scarabeo d'oro, The Gold-Bug. Quella storia, a diciassette anni, aveva stimolato in lui lo stesso interesse per la criptanalisi che gli aveva suscitato il "Mundo de Aventuras". Il cellulare squillò, interrompendo la lettura quando stava già alla terza pagina. «Pronto?». «Hi. Posso parlare con il professor Noronha?». L'accento era brasiliano ma pronunciato da uno straniero di lingua inglese; dal tono nasale, Tomás presunse che fosse americano. «Sono io. Chi parla?». «Il mio nome è Nelson Moliarti, sono un adviser dell'executive board dell'American History Foundation. Sto chiamando da New York.... ehm... Nova Iorque». «Come sta?». «Sto okay, grazie. Mi scusi se le telefono a quest'ora. La disturbo?». «No, assolutamente». «Oh, good!» esclamò. «Professore, non so se conosce la nostra fondazione...». La voce rimase in attesa di una conferma. «No, non la conosco». «Non importa. L'American History Foundation è un'organizzazione americana senza scopo di lucro che appoggia studi riguardanti la storia del continente americano. La nostra sede è a New York e abbiamo in corso, in questo momento, un importante progetto di ricerca. Solo che è sorto un
complesso problema che minaccia tutto il lavoro compiuto finora. L'executive board mi ha incaricato di trovare una soluzione, cosa di cui mi sono occupato in queste ultime due settimane. Mezzora fa ho presentato un briefing al board e ho proposto un'idea, che è stata accettata. È per questo che la sto chiamando». Fece una pausa. «Sì?». «Professor Noronha?». «Sì sì, ci sono». «Lei è la soluzione». «Come?». «Lei è la soluzione per il nostro problema. Non è che potrebbe fare un salto qui a New York?». II Una nube di vapore uscì dal suolo con inusuale fulgore, come se fosse stata espulsa da un vulcano nascosto sotto l'asfalto, e si dissolse rapidamente nell'aria fredda e secca della sera. Tomás sentì il nauseabondo afrore di fritto che aveva liberato la nube, riconobbe l'inconfondibile odore del chao min cinese, ma subito lo ignorò. In mente aveva altre priorità, la maggiore delle quali era conservare il calore del corpo, difendersi dal soffio polare che lo stava congelando. Sistemò un bottone che si era slacciato e si strinse ancora di più nel cappotto, affondando con fermezza le mani nelle tasche. New York è una città sgradevole quando, nella stagione fredda, il vento spazza le vie, ed è anche peggio quando il cappotto è leggero, di quelli adatti al mite clima mediterraneo di Lisbona ma non a parare il vento gelido dell'inverno sulla costa orientale americana. Quella brezza che soffia da Nord, e che annuncia l'arrivo della neve, si rivela eccessivamente rigida per una stoffa così sottile. Tomás era sbarcato ore prima al JFK. Una superba limousine nera, messa a sua disposizione dall'American History Foundation, lo aveva portato dall'aeroporto al Waldorf-Astoria, il magnifico e imponente hotel in art déco che occupava un intero isolato tra Lexington e Park Avenue. Troppo emozionato per riuscire ad apprezzare i ricercati dettagli dell'arredamento e dell'architettura di quel monumentale edificio, il nuovo ospite abbandonò frettolosamente i bagagli nella camera, si fece dare una cartina della città dal concierge e uscì in strada, dispensando i servizi della limousine. Fu un
errore. Voleva scrutare le vie, aveva sempre sentito dire che si conosce New York solo percorrendola a piedi, ma si erano dimenticati di avvisarlo che questo è vero solo quando non fa freddo. E il freddo newyorchese è qualcosa che non si dimentica: è così intenso che intorno tutto scompare, la vista si confonde, l'importante diventa irrilevante, l'interessante si trasforma in ordinario, l'unica cosa che conta è resistere all'aria gelida. La sera era già scesa su quella selva di cemento. All'inizio, con il calore ancora nel corpo, il clima non gli aveva dato fastidio; si sentiva estremamente a suo agio e, nell'imboccare la East 50th Street, apprezzò i giganteschi edifici che arrivavano al cielo, in particolare il vicino General Electric Building, in Lexington Avenue, altro monumento in art déco. Ma, quando attraversò la Avenue of the Americas e raggiunse la Settima Strada, il vento cominciò a tormentarlo seriamente. Il naso doleva, la vista si annebbiava e il corpo tremava in convulsioni incontrollabili, nonostante la sofferenza maggiore fosse quella alle orecchie: sembrava fossero lacerate da una lama, graffiate da una forza invisibile, tagliate da mani crudeli. La visione delle luci divampanti e caotiche di Times Square, a sinistra, gli scaldò momentaneamente l'anima e gli diede la forza per proseguire. Scese la Settima Strada e penetrò nel cuore del Theatre District. La sua luminosa vivacità gli si aprì nella confluenza della Settima con Broadway: uno spettacolo di luce gli invase i sensi, si sentì assalito da un susseguirsi di esplosioni cromatiche e inondato da quel disordinato e inebriante chiarore. Era come se facesse giorno, migliaia di soli cacciavano l'ombra della notte e coloravano la movimentata piazza. Il traffico era intenso, caotico; i passanti si accalcavano come formiche, alcuni camminavano verso una meta, altri semplicemente girovagavano, si riempivano gli occhi con quello spettacolo fantastico, irreale. Neon colorati brillavano su tutti i palazzi, parole scritte a caratteri cubitali scorrevano velocemente sui lunghi billboards, giganteschi schermi diffondevano annunci e persino trasmissioni televisive, in un tumultuoso e animato baccanale, interminabile panoplia d'immagini e colori. Il cellulare iniziò a vibrare nella tasca dei pantaloni e poi Tomás lo sentì squillare; lo prese e l'accostò all'orecchio. «Pronto?». «Professor Noronha?». «Sì?». «Sono Nelson Moliarti. Tutto a posto? Ha fatto buon viaggio?». «Ah, salve. Tutto bene, grazie».
«L'autista si è preso cura di lei?». «Sì, è stato impeccabile». «E l'hotel le piace?». «Una meraviglia». «Ovvio, il Waldorf-Astoria è una delle nostre attrazioni. Sapeva che tutti i presidenti americani sono ospitati lì quando vengono a New York?». «Ah, sì?» si meravigliò Tomás, ingenuamente impressionato. «Tutti?». «Chiaro. Dal 1931. Il Waldorf-Astoria ha molto prestigio. Statisti, grandi stelle del cinema, artisti famosi, persino la nobiltà passa di lì. Il duca e la duchessa di Windsor, per esempio, non si sono accontentati di dormirci solo alcune notti. Hanno vissuto nell'hotel». Sottolineò la parola "vissuto". «Se lo sarebbe immaginato?». «Certo che no. Se le cose stanno così, non posso che ringraziarvi per avermi ospitato all'Astoria». «Si figuri, non deve ringraziarci. Ci teniamo che riceva una buona accoglienza. Ha già cenato?». «No, ancora no». «Allora, se vuole, può andare a mangiare in uno dei ristoranti dell'hotel, le consiglio il Bull and Bear Steakhouse se le piace la carne, altrimenti l'Inagiku, nel caso preferisca cibo giapponese. Oppure può chiedere il roomservice, che è così rinomato al Waldorf-Astoria da essere apparso anche sulla rivista "Gourmet". Basta che firmi il conto e la fondazione coprirà tutte le spese, stia tranquillo». «Ah, grazie, ma non sarà necessario. Sgranocchierò qualcosa qui a Times Square». «Si trova a Times Square?». «Sì». «In questo momento?». «Sì, certo». «Ma è molto freddo. L'autista è con lei?». «No, per oggi ne ho fatto a meno». «E com'è arrivato fino a Times Square?». «A piedi». «Holly cow! Sono cinque gradi sotto zero. E alla televisione hanno detto che tra un po', con il wild-chill, scenderanno a meno quindici. Spero almeno si sia coperto bene...». «Ehm... più o meno». Moliarti fece uno schiocco di disapprovazione con la lingua.
«Deve fare più attenzione. Se ha bisogno, mi chiami e io le mando l'autista. Ha il mio telefono?». «Immagino sia rimasto memorizzato sul cellulare». «Good! Se ha bisogno, telefoni pure. Va bene?». «Oh, non sarà necessario. Prendo un taxi». «Faccia come crede. In ogni modo, ho chiamato semplicemente per darle il benvenuto a New York e per dirle che domattina ci sarà una riunione, alle nove, nel nostro office. L'autista l'aspetterà alle otto e mezza nella lobby di Park Avenue. L'office non è lontano dall'hotel ma, sa com'è, il traffico di mattina è un vero bell». «Stia tranquillo. Ci vediamo domani». «Certo. A domani». Quando mise in tasca il cellulare, si accorse che aveva perso la sensibilità delle dita: la mano si era congelata e già non obbediva più agli stimoli del cervello, sembrava addormentata, distante, come se non fosse sua. La infilò nella tasca dei calzoni, nella disperata ricerca di calore, ma non ottenne molto giovamento. Capì che non doveva più rimanere all'aperto. A sinistra vide la porta di un ristorante e l'aprì, precipitoso e nello stesso tempo afflitto. Entrò e sentì con sollievo il tepore del locale, come chi scopre la redenzione dopo la minaccia dell'inferno. Sfregò le mani con frenesia, tentando di generare energia e attivare la circolazione, finché sentì ritornare la sensibilità sulla punta delle dita. «Can I help you?» chiese il cameriere, un ragazzo giovane e sorridente. Tomás fece segno di essere da solo e si andò a sedere vicino alla finestra; il movimento di Times Square, congestionato e nervoso, era uno spettacolo ben visibile dal suo tavolo. Il cameriere gli portò il menù e il cliente capì di essere entrato in un ristorante messicano. Dopo aver pensato a cosa scegliere, ordinò enchiladas al formaggio e alla carne e una margarida on the rocks. Quando il ragazzo si fu allontanato, intinse croccanti nachos in una salsa al pomodoro e cipolla, sgranocchiò il piccante aperitivo e si lasciò andare sulla sedia, guardandosi intorno. Si rese conto di non aver portato i vestiti adatti a camminare, in quel modo, per la città; pertanto non gli restava altra scelta: dopo aver cenato, avrebbe preso un taxi e sarebbe tornato alle comodità dell'albergo. La differenza di cinque ore rispetto a Lisbona si fece sentire durante la notte. Erano le sei di mattina quando Tomás si svegliò, oltre la finestra regnava l'oscurità. Cercò di riaddormentarsi, girandosi e rigirandosi tra le
lenzuola, ma, dopo mezzora, capì che non sarebbe riuscito a prendere sonno e si mise a sedere sul bordo del letto. Guardò l'orologio e calcolò il fuso orario; a Lisbona erano le undici e mezza di mattina, non si stupì che il sonno si fosse già volatilizzato. Osservò la stanza e, per la prima volta, poté apprezzarla. Il tema cromatico era il bordeaux, ricamato d'oro e stampato ovunque, sulle tende, sulla coperta piegata ai piedi del letto, sul sofà, sui cuscini. Un soffice tappeto rosso scuro copriva il pavimento; accanto al letto, una bottiglia di Cabernet rosso aspettava solo di essere degustata; piante rigogliose rallegravano gli angoli della camera. Prese il telefono e compose il numero di Constança. «Ciao, lucertolina» disse, utilizzando il soprannome che le aveva dato ai tempi del fidanzamento. «Tutto bene?». «Tomás? Che si dice a New York?». «Si muore dal freddo». «Ma è bella?». «È una città strana ma sì, non è male». «Che mi porti?». «Tss, tss» sussurrò in tono di disapprovazione. «Sei sempre la solita egoista...». «Ma sentilo! Lui se ne va in America e io sarei l'egoista?». «Su, via. Ti porto l'Empire State, King Kong compreso». «Non pretendo tanto!» rise lei. «Mi basta il MoMA». «Che?». «Il MoMA. Il Museum of Modem Art». «Ah». «Portami la Notte stellata, di Van Gogh». «Qual è? Quello in cui le stelle sono tutte rotonde? Si trova qui?». «Sì, al MoMA. E voglio anche I gigli di Monet, Les demoiselles d'Avignon di Picasso, e il Divan japonais di Toulouse-Lautrec». «E King Kong?». «E dai, perché dovrei volere King Kong se ho già te?». «Cattivona!» rise Tomás. «Di quei quadri ti bastano le copie?». «No, voglio che rubi gli originali». Fece una breve pausa. «È ovvio che intendevo le riproduzioni, cafone, e che altro se no?». «E va bene. Come sta la piccola?». «Bene. Lei sta bene» fu la risposta. «Golosona, come sempre». «Pff, immagino».
«Ma ieri mi ha fatto un brutto discorso». «Sarebbe?». «A cena mi ha detto: "Mamma, i bambini a scuola mi dicono che sono mongola". E io le ho risposto: "No, hai sentito male, hanno detto che sei Margarida". "No, mamma" ha ribattuto. "Si parlano all'orecchio, mi indicano e dicono: Quella è mongola"». Tomás sospirò. «Sai come sono fatti i bambini...». «Lo so, sono crudeli. Il problema è che lei capisce tutto e ci sta male. Quando è andata a letto, prima che le raccontassi la storia, mi ha chiesto cosa fosse "una mongola"». «È sgradevole, ma che ci possiamo fare?». «Al più presto vado a scuola a parlare con la maestra». «Non credo possa fare molto...». «Potrebbe spiegare qualcosina ai bambini, no?». «Suppongo di sì». «E tu dovresti venire con me». «Non cominciare. Non vedi che sono all'estero?». «Questa volta hai una scusa» si rassegnò lei. Cambiò argomento. «Gli americani già ti hanno spiegato cosa vogliono da te?». «No, ho una riunione con loro fra poco. Si vedrà». «Scommetto che hanno bisogno di una perizia su un manoscritto». «È probabile». Tomás sentì un trillo, dall'altro capo della linea. «È la campanella d'inizio» disse lei. «Devo attaccare perché ho lezione. E poi questa telefonata starà costando una fortuna. Baci e comportati bene, capito?». «Baci, lucertolina». «Fa' attenzione alle americane, caro mio. Ho sentito dire che sono intraprendenti». «Va bene». «E portami dei fiori». Tomás posò la cornetta e, non sapendo che fare, accese la televisione; saltò da un canale all'altro, NBC, CBS, ABC, CNN, CNN Headline News, MSNBC, Nick'at'Nite, HBO, TNT, ESPN, e una cacofonia di suoni invase la stanza fino a farlo sbadigliare dalla noia. Guardò verso l'ingresso e notò un giornale sul tappeto, probabilmente un addetto glielo aveva spinto da sotto la porta durante la notte. Si alzò e andò a prenderlo; era il "New York
Times", con il presidente Bill Clinton in primo piano e il mayor Rudolph Giuliani in un angolino. Sfogliò le pagine distrattamente, leggendo qua e là, con calma. Terminata la lettura, si lavò, si fece la barba e si vestì. Scelse un completo gessato blu e una cravatta rossa con cornucopie dorate. Uscì dalla camera e scese all'Oscar's American Brasserie, l'ampio salone dove veniva servita la colazione. Generalmente, al mattino Tomás non mangiava molto, per non sentirsi appesantito; ma ogni volta che andava all'estero, cosa rara, il suo appetito diventava insaziabile, divorava ogni cosa con ingordigia, forse per l'insicurezza di trovarsi fuori casa, di non sapere quando avrebbe mangiato di nuovo. Sta di fatto che attaccò con gusto le crêpe con syrup e l'eggs benedict, un piatto con due uova in camicia, una fetta di english muffin e bacon canadese con salsa holandaise, una dieta al colesterolo puro, capace di scatenare una crisi nervosa al suo medico di famiglia. Si rimpinzò di salsicce e baked beans conditi con succo d'arancia naturale e, goloso, divorò un delizioso chocolate-hazelnut waffle, dopodiché, ormai sazio, si arrese e si dichiarò soddisfatto. Terminò di fare colazione quasi alle otto e mezza. Senza perdere altro tempo, si diresse verso la lobby dell'hotel, all'entrata di Park Avenue, seguendo le indicazioni di Moliarti. Durante l'attesa, osservò l'enorme atrio in marmo color crema, con colonne e controsoffitto lavorato. Un vistoso lampadario pendeva dall'alto, illuminando i motivi del mosaico incastonato nel pavimento marmoreo. Le pareti risaltavano grazie alle numerose pitture a olio che riproducevano temi allegorici. «Good morning, sir» disse una voce, salutando con cortesia. «How are you today?». Tomás si voltò e vide l'autista, un uomo di colore dall'aria gioviale, con una divisa celeste. «Good morning». «Sball we go?» gli domandò invitandolo a seguirlo con la mano protetta dai guanti. Faceva freddo quella mattina, ma un sole splendente illuminava la città. Peccato non arrivi fin quaggiù, pensò Tomás, ammirando la sommità dei grattacieli. Gli edifici di New York erano così alti che la luce del sole non riusciva mai a baciare la terra. Di conseguenza, le vie e i marciapiedi della città restavano sprofondati in un'ombra senza fine. Il visitatore si accomodò sulla Cadillac, all'apparenza la stessa lunga limousine nera che era venuta a prenderlo all'aeroporto, mentre l'autista prendeva posto al volante. Il
vetro di divisione si abbassò con un leggero ronzio, l'uomo di colore si voltò mostrando un piccolo televisore e un vassoio accanto al passeggero su cui rilucevano una bottiglia di Glenlivet e un'altra di Moët et Chandon in un secchiello gelato. «Enjoy the ride!» esclamò con un sorriso. L'automobile partì e Tomás rimase a contemplare la città; New York gli scivolava davanti, trepidante e indaffarata. Salirono Lexington Avenue e girarono a sinistra, passando per Racquet Club, la cui facciata in stile palazzo7 rinascimentale sorprese il visitatore, era l'ultima linea architettonica che si sarebbe aspettato di trovare lì. Raggiunsero Madison; la Cadillac percorse l'ampia strada per diversi isolati, facendosi largo in mezzo al traffico congestionato, finché, dopo essere arrivati al palazzo della Sony, riconoscibile dalla sua sommità chippendale, si fermò al successivo angolo. «The office is here» annunciò l'autista, indicando l'ingresso di un grattacielo. «Mister Moliarti is expecting you». Tomás scese dall'auto e osservò il palazzo. Era un'impressionante torre di granito lavato grigio verde, con più di quaranta piani e una linea moderna, quasi aerodinamica. Un vento gelido attraversò il marciapiede e un uomo ben coperto uscì dall'edificio con passo veloce e gli si avvicinò. «Professor Noronha?». Tomás riconobbe il portoghese con accento brasiliano americanizzato del suo interlocutore telefonico. «Buongiorno». «Buongiorno, professore. Io sono Nelson Moliarti, dell'American History Foundation. È un piacere conoscerla». «Il piacere è tutto mio». Si strinsero la mano. Moliarti era un uomo basso e magro, con ricci capelli brizzolati; sembrava un rapace, con quei piccoli occhi e quel sottile naso aquilino. «Benvenuto» disse l'anfitrione. «Grazie» ricambiò Tomás. Si guardò intorno. «Fa un freddo micidiale, vero?». «Come dice?». «Fa freddo». «Sì, molto freddo». Con un cenno lo invitò. «Venga, andiamo dentro». Fecero alcuni passi e si rifugiarono nell'accogliente calore del sofisticato edificio. Tomás osservò l'atrio di marmo, ornato da una sorprendente scultura, un blocco di granito che sembrava sospeso all'interno di una vasca
d'acciaio; dal basso scorreva un filo d'acqua. Moliarti la guardò e sorrise. «Curiosa, non trova? È di uno scultore americano». «Interessante». «Venga, il nostro office è al ventitreesimo piano». Presero l'ascensore e salirono con sorprendente velocità. Dopo pochi secondi, le porte si aprirono ed entrambi scesero al piano occupato dalla fondazione. La porta principale era di vetro opaco incorniciata da acciaio lucido e su di essa era stampato il logo dell'istituzione. Un'aquila reale teneva stretto in una zampa un ramo di ulivo, nell'altra una fascia con un'iscrizione in latino: "Hos successus alit: possunt, quia posse videntur". In basso, la sigla AHF era realizzata in elegante scrittura cancelleresca. Tomás lesse la frase a bassa voce e la fissò nella memoria. «Virgilio». «Come?». «Questa frase» disse il portoghese, indicando la fascia afferrata dall'aquila «è una citazione dall'Eneide di Virgilio». Rilesse la frase e la tradusse: «Il successo li incoraggia: essi possono perché pensano di potere». «Ah, sì. È il nostro motto» sorrise Moliarti. «Il successo porta successo, nessun ostacolo è tanto grande da fermarci». Guardò Tomás con rispetto. «È pratico con il latino?». «Naturalmente!» esclamò subito. «Latino, greco, copto, nonostante non mi eserciti abbastanza». Sospirò. «Ora mi piacerebbe cimentarmi anche con l'ebraico e l'aramaico, mi aprirebbero nuovi orizzonti». L'americano emise un fischio, impressionato, ma non aggiunse altri commenti. Varcata la porta e superata la reception, Moliarti lo condusse per il corridoio, finché non giunsero in un moderno ufficio occupato da una sessantenne dall'aria antipatica. «Questo è il nostro ospite». La signora si alzò e lo salutò con un cenno della testa. «Hi». «Questa è la signora Theresa Racca, la segretaria del presidente della fondazione». «Hello» salutò il portoghese, dandole la mano. «C'è John?» chiese Moliarti. «Yes». Moliarti bussò alla porta e, quasi senza aspettare, l'aprì. Al di là di una pesante scrivania di lucido mogano stava seduto un uomo con il doppio mento, quasi calvo, con pochi capelli brizzolati tirati indietro.
«Nel, come in». Moliarti entrò e introdusse l'ospite. «Questo è il professor Noronha, da Lisbona» disse in inglese, presentandoli. «Professore, questo è John Savigliano, presidente dell'executive board dell'American History Foundation». Savigliano abbandonò la scrivania e stese le braccia verso il portoghese, con un ampio e accogliente sorriso stampato in volto. «Welcome, Welcome! Benvenuto a New York, professore». «Grazie». Si scambiarono una stretta di mano con entusiasmo. «Il viaggio è andato bene?». «Sì, benissimo». «Splendido, splendido!». Fece un gesto con la mano sinistra, indicando alcuni divani di cuoio in un angolo dell'ufficio. «Prego, si accomodi». Tomás si sedette su un sofà, analizzando in un batter d'occhio l'ambiente. L'arredamento era in stile classico, legno di quercia intarsiato alle pareti e sul soffitto, e ovunque mobili europei del XVIII secolo, probabilmente francesi o italiani. Un'enorme finestra mostrava la selva di palazzi che affollavano Manhattan. L'ospite dedusse che la visuale doveva aprirsi verso sud perché, fra i tanti grattacieli della città, si potevano riconoscere, sulla sinistra, lo spettacolare Chrysler Building, con i suoi archi radianti in acciaio e, sulla destra, l'Empire State Building, con la lunga guglia e la struttura scandita da rientranze simmetriche. In fondo, come gigantesche miniature, le larghe facciate di vetro delle Torri Gemelle del World Trade Center. Il pavimento dell'ufficio del presidente era in noce verniciato. Rigogliose piante collocate agli angoli e un bel quadro astratto, con forme rosso vivo su uno sfondo curvilineo verde oliva, completavano l'arredamento della stanza. «È un Franz Marc» spiegò Savigliano, notando l'interesse del suo ospite per quell'opera. «Lo conosce?». «No» disse Tomás scuotendo la testa. «Era un amico di Kandinsky, insieme formarono il gruppo "Der Blaue Reiter" nel 1911. Ho comprato questo dipinto quattro anni fa a un'asta a Monaco». Fischiò. «Una fortuna, mi creda. Una fortuna». «John è un amante dei bei quadri» spiegò Moliarti. «A casa ha un Pollock e un Mondrian, si immagini». Savigliano sorrise e abbassò lo sguardo.
«Oh, è una mia passione». Guardò Tomás. «Vuole qualcosa da bere?». «No, non mi va niente». «Non faccia complimenti. Caffè? Abbiamo un cappuccino8 che è una meraviglia...». «Ehm... va bene, vada per un cappuccino». Il presidente della fondazione si voltò verso la porta. «Theresa!» chiamò. «Sì, signor presidente?». «Ci porti tre cappuccinos e dei cookies». «Right away, signor presidente». Savigliano si sfregò le mani e sorrise. «Professor Tomás Noronha» disse «la posso chiamare Tom?». «Tom?» chiese Tomás sorridendo. «Come Tom Hanks? Non c'è problema». «Spero non le dia fastidio. Sa, noi americani siamo molto informali». Indicò se stesso. «Per favore, mi chiami John». «E io sono Nel» disse Moliarti. «Allora, siamo d'accordo» sentenziò Savigliano. Osservò i grattacieli che si estendevano oltre la finestra. «È la prima volta che viene a New York?». «Sì, non sono mai uscito dall'Europa». «E le piace?». «Beh, per quel poco che ho visto mi sembra di sì». Tomás esitò. «Sa, non faccio altro che guardarmi intorno e pensare che New York sembra lo scenario di un film di Woody Allen». I due americani scoppiarono a ridere. «Questa è bella!» esclamò Savigliano. «Un film di Woody Allen!». «Solo un europeo poteva dire una cosa del genere» commentò Moliarti, scuotendo il capo con aria divertita. Tomás rimase impalato, sorridendo ma senza capire la battuta. «Non siete d'accordo?». «Beh, è una questione di prospettiva» ribatté Savigliano. «È possibile che la pensi così chi conosce la città solo attraverso il cinema. Ma si ricordi, non è New York che sembra un film, sono i film che sembrano New York». Fece l'occhiolino. «Capisce?»9. La signora Racca entrò nell'ufficio con un vassoio e quindi sistemò le tazze sul tavolinetto davanti al sofà, dopodiché le riempì di caffè fumante, lasciò alcune bustine di zucchero e un po' di biscotti al cioccolato e infine
uscì. Mentre sorseggiavano i cappuccini, Savignon si appoggiò al divano e si schiarì la voce. «Tom, parliamo del motivo per cui lei è qui». Guardò Moliarti di sfuggita. «Presumo che il mio collega le abbia spiegato che cosa sia la nostra istituzione...». «Sì, mi ha accennato qualcosa». «Molto bene. L'American History Foundation è un'organizzazione senza scopo di lucro finanziata con fondi privati. L'AHF è nata qui a New York nel 1958, con l'obiettivo di incoraggiare gli studi sulla storia del continente americano. Abbiamo creato una scholarship per gli studenti americani e di tutto il mondo che premia le ricerche più innovative, studi che rivelino nuovi aspetti del nostro passato». «È la Columbus Scholarship» precisò Moliarti. «Esattamente. Inoltre, abbiamo finanziato ricerche di archeologi e storici professionisti. Molti di questi lavori sono stati pubblicati e si trovano nella sezione "Americana" di qualsiasi buona libreria della città». «Che tipo di lavori?» volle sapere Tomás. «Tutto ciò che riguarda la storia del nostro continente» spiegò il presidente della fondazione. «Dai dinosauri che popolavano queste terre ai native-americans, dalle occupazioni coloniali europee ai movimenti migratori». «Native-americans?». «Esatto» sorrise Savigliano. «È un'espressione politicamente corretta che utilizziamo in America per riferirci alle popolazioni che vivevano qui prima dell'arrivo degli europei». «Ah». Savigliano sospirò. «Bene, veniamo ora al nostro problema». Fece una pausa, valutando da dove cominciare. «Come saprà, nel 1992 sono stati celebrati i cinquecento anni della scoperta dell'America. Le cerimonie sono state magnifiche e, mi riempie d'orgoglio dirlo, l'American History Foundation ha svolto un ruolo rilevante per il successo di queste celebrazioni. Terminate le commemorazioni e calmatosi il polverone, ci siamo riuniti per decidere quale sarebbe stato il prossimo progetto. Guardando il calendario c'è saltata all'occhio una data». Fissò Tomás con intensità. «Sa qual è?». «No». «Il 22 aprile 2000. Fra tre mesi». Tomás fece i suoi conti.
«La scoperta del Brasile». «Bingo!» esclamò Savigliano. «I cinquecento anni dalla scoperta del Brasile». Sorseggiò ancora un po' di caffè. «Bene, quello che abbiamo fatto è stato convocare una riunione con i nostri consiglieri e chiedere loro qualche idea. La sfida era capire cosa avremmo potuto fare per dare degno risalto alla data. Uno dei consiglieri presenti era proprio Nel, il quale in passato aveva insegnato Storia presso un'università brasiliana e conosceva molto bene il Paese. Lui ci ha fatto una proposta che noi abbiamo ritenuto interessante». Si rivolse a Moliarti. «Nel, è meglio che sia tu a spiegare la tua idea». «Certamente, John» assentì Moliarti. «In buona sostanza, l'idea che ho presentato si basa su una polemica che a lungo ha alimentato la storiografia: Pedro Álvares Cabral scoprì il Brasile per caso o di proposito? Come saprà, gli storici suppongono che i portoghesi già sapessero dell'esistenza del Brasile e che Cabral abbia semplicemente formalizzato un evento già accaduto. Dunque, ho proposto all'executive board di finanziare uno studio che desse una risposta definitiva alla questione». «Il board ha approvato e la macchina si è messa in moto» aggiunse Savigliano. «Abbiamo deciso di contattare i migliori esperti in materia ma volevamo persone che, oltre a essere rigorose, fossero anche audaci, avessero il coraggio di andare contro idee ormai radicate, non si limitassero alla semplice consultazione delle fonti e avessero l'elasticità mentale per capire ciò che non era esplicitamente detto nei documenti ma restava sottinteso». «Come lei sicuramente saprà» spiegò Moliarti «molte delle cose allora scoperte furono tenute nascoste, c'erano informazioni considerate segreto di stato». «Il Portogallo era il campione del segreto» esordì Tomás. «Si trattava della cosiddetta "politica del sigillo"». «Precisamente» concordò Moliarti. «Ora, dato che le scoperte furono condotte in segreto e tenute nascoste, non ci stupisce il fatto che gli storici non abbiano avuto né la capacità né la possibilità di andare oltre i documenti ufficiali. Se questi ultimi dovevano celare la verità, e non rivelarla, non si poteva riporre in essi troppa fiducia. Per tale motivo volevamo dei ricercatori audaci». Dalla smorfia che fece, trasparì in Tomás un certo scetticismo. «Fin qui il discorso fila abbastanza bene, ma non ci si può aspettare che uno storico serio decida di ignorare le fonti documentali così, senza motivo, andando all'avventura. Lo storico deve basare la sua ricerca su docu-
menti esistenti, non su ragionamenti astratti. Non si può pretendere che dia libero sfogo all'immaginazione. In caso contrario, non parliamo più di storia ma di finzione storica, giusto?». «Certamente». «È evidente che la documentazione debba essere soggetta a critica» insistette Tomás. «È necessario comprendere la finalità dei manoscritti, capirne l'intenzione e valutarne la veridicità. La critica delle fonti, del resto, consiste in questo. Ma è fondamentale che la ricerca storica si basi sui documenti, su questo non ho dubbi». «Neanche noi» si affrettò a chiarire Moliarti. «Neanche noi. Non a caso volevamo degli storici validi. Ma abbiamo pensato che dovessero essere anche persone in grado di svincolarsi da quei documenti concepiti apposta per nascondere, così come voleva la politica del sigillo vigente in Portogallo nel XV secolo. Ciò implicava che dovessero essere non solo dei bravi storici ma anche degli arditi investigatori». Prese un biscotto al cioccolato e lo addentò. «Il board mi ha incaricato di trovare degli studiosi con questo profilo e sono stato mesi a ricercare, a visionare curricula, a fare domande, a leggere lavori, a consultare amici. Finché ho trovato un uomo che corrispondeva alla descrizione che mi era stata fatta». Moliarti fece una pausa, tanto lunga che Tomás si sentì obbligato a domandare: «Chi?». «Il professor Martinho Vasconcelos Toscano, della facoltà di Lettere dell'Università Classica di Lisbona». Tomás sgranò gli occhi. «Il professor Toscano? Ma lui è...». «Sì, caro mio» tagliò corto Moliarti, con un tono serioso. «È morto due settimane fa». «È quello che mi hanno detto. Anche i giornali ne hanno dato notizia». Moliarti sospirò pesantemente. «Il professor Toscano ha attirato la mia attenzione per i suoi studi innovativi su Duarte Pacheco Pereira, e in particolare sulla sua opera più conosciuta, l'enigmatico Esmeraldo de Situ Orbis. Ho letto i suoi lavori e sono rimasto positivamente colpito dalla sua viva intelligenza, dalla sua capacità nel superare le apparenze, nello sfidare le verità acquisite. Inoltre, la sua attività era molto apprezzata nel Dipartimento di Storia della PUC». «PUC?». «L'Università Cattolica di Rio de Janeiro, dove ho insegnato» spiegò Moliarti. «Pertanto, andai a Lisbona per parlargli e lo convinsi a prendere
le redini del progetto». Sorrise. «Immagino che i nostri buoni onorari abbiamo almeno un poco contribuito a convincerlo». «L'American History Foundation è orgogliosa di essere l'istituzione che paga i compensi più alti ai propri collaboratori» si vantò Savigliano. «Vogliamo il meglio e perciò paghiamo bene». «Il professor Toscano sembrava corrispondere esattamente al profilo di cui avevamo bisogno» riprese Moliarti. «Certo, non si può dire che scrivesse bene ma questo non costituiva un ostacolo insormontabile. Allo stile ci avrebbero pensato poi i nostri specialisti, degli Hemingway capaci di far sembrare il professor Toscano John Grisham». I due americani risero. «E perché non Joyce?» chiese Tomás. «Dicono che sia il miglior scrittore di lingua inglese...». «Joyce?» esclamò Savigliano. «Jesus Christ! Scrive perfino peggio di Toscano!». Nuove risate. «Bene, finiamola di scherzare» disse alla fine Moliarti. «Dov'ero rimasto?». «Al fatto che il professor Toscano aveva il profilo giusto ma che scriveva male» rispose Tomás. «Ah, sì». Respirò a fondo. «Beh, non direi che avesse il profilo giusto. Più che altro corrispondeva alla descrizione della persona che ci seguiva». «Non è la stessa cosa?». Moliarti fece una smorfia. «Non è esattamente la stessa cosa. Sa, il professor Toscano presentava alcune problematiche, come ho avuto poi modo di scoprire». Bevve un sorso di caffè. «In primo luogo, non era capace di limitarsi alla sua area di ricerca. Era un uomo indisciplinato, seguiva piste che, sebbene interessanti, si dimostravano irrilevanti per gli studi di cui si stava occupando, e questo lo portava a perdere molto tempo in cose superflue. Inoltre, non amava rendere conto del lavoro che svolgeva. Io volevo seguire l'evoluzione della ricerca e gli chiesi dei resoconti periodici, ma lui non mi diceva nulla, borbottava solo fandonie senza senso. Mi ha perfino annunciato di essere entrato in possesso di un dato importantissimo, che avrebbe stravolto tutto ciò che sappiamo sulle Scoperte, una vera rivoluzione. Quando gli domandai di che cosa si trattasse non rispose, ma disse che avrei dovuto aspettare per vedere». A questo punto si interruppe.
«E avete aspettato?». «Aspettare, abbiamo aspettato. Del resto non avevamo scelta». «E dopo?». «Dopo è morto» intervenne Savigliano con tono cupo. «Hmm...» mormorò Tomás, riflessivo. «Senza spiegare quale scoperta avesse fatto». «Esatto». «Capisco» disse, appoggiandosi al sofà. «È questo il vostro problema». Moliarti si schiarì la voce. «Questo è uno dei tanti». Alzò l'indice. «Non è l'unico, e forse neanche il più grande». «Ah, no?» si meravigliò il portoghese. «No» ribatté Moliarti. «Il problema più grande è che il termine per consegnare la ricerca scade fra tre mesi e noi non abbiamo ancora nulla da presentare». «Come?». «Proprio così. Fra soli tre mesi si celebrano i cinquecento anni dalla scoperta del Brasile e il lavoro dell'American History Foundation non sarà disponibile. Come le ho spiegato, il professor Toscano aveva la mania dei segreti e non ci ha passato alcun materiale, dunque ci troviamo con un pugno di mosche in mano. Non abbiamo nulla». Allora Moliarti unì l'indice al pollice a formare uno 0. «Zero». «Sarà la prima volta che la fondazione non darà alcun contributo a un'importante effemeride della storia del nostro continente» aggiunse Savigliano. «Una vergogna» commentò Moliarti, scuotendo la testa. Entrambi guardarono il portoghese, restando in attesa. «È per questa ragione che l'abbiamo contattata» spiegò Savigliano. «Abbiamo bisogno che riprenda il lavoro di Toscano». «Io?». «Sì, lei» confermò, puntandolo con il dito. «C'è molto da fare e bisogna farlo rapidamente. È necessario che il manoscritto sia pronto, al massimo, fra due mesi. La nostra casa editrice può far uscire il libro in un mese, ma non fa miracoli. È fondamentale che le cose siano pronte per la metà di marzo». Tomás lo guardava esterrefatto. «Scusi scusi, deve esserci un equivoco». Si sporse in avanti e appoggiò il palmo della mano al petto. «Io non sono un esperto delle Scoperte. La
mia specializzazione è un'altra. Io sono un paleografo e un criptanalista, il mio lavoro è decifrare messaggi nascosti, interpretare testi e determinare la veridicità dei documenti. In questo sono bravo, il migliore nel mio campo. Se avete bisogno di uno specialista del periodo delle Scoperte, benissimo, posso indicarvi dei nomi. Nel mio dipartimento, all'Università Nova di Lisbona, ci sono professori più titolati di me che potrebbero aiutarvi nella ricerca. Tra l'altro, se volete, avrei già in mente una o due persone adatte a questo lavoro. Ma io, miei cari, io no». Fissò i suoi interlocutori. «Sono stato chiaro?». I due americani si guardarono l'un l'altro. «Tom, è stato molto chiaro» disse Savigliano. «Ma è lei che vogliamo ingaggiare». Tomás restò fermo a osservarlo per due lunghi secondi. «Credo di non essermi spiegato bene» considerò alla fine. «Lei è stato fin troppo chiaro, Tom. Crystal clear. Penso che siamo stati noi a non spiegarci bene». «In che senso?». «Ascolti, noi non abbiamo bisogno di un esperto delle Scoperte» spiegò Savigliano. «Per questo c'è già Nel». Indicò Moliarti con il pollice. «Ciò di cui abbiamo realmente bisogno è qualcuno che ci aiuti a riorganizzare tutto quello che il professor Toscano ha trovato sulla scoperta del Brasile». «Ma è questo che vi sto dicendo!» insistette Tomás. «Ho capito che voi non volete uno storico per continuare la ricerca, ma qualcuno che prenda il materiale raccolto e lo riorganizzi per la pubblicazione. Molto bene. Ma chi meglio di un vero specialista della materia potrebbe svolgere questo lavoro? Io non sono la persona giusta. Ve lo ripeto: io sono un esperto in paleografia e criptanalisi, non posso aiutarvi, riuscite a capirmi?». «No, è lei che non ha ancora capito» ribatté Savigliano. Guardò il suo collaboratore. «Spiegagli tutto, Nel, altrimenti non ne usciamo più». «Va bene, il problema è questo» cominciò Moliarti. «Come le ho già detto, il professor Toscano amava molto tenere segrete le cose. Non ci presentava relazioni periodiche, non ci diceva nulla, ci teneva sempre all'oscuro di tutto. Quando gli facevo delle domande era evasivo, evitava accuratamente di discutere della questione. Siamo persino arrivati a litigare per questo». Respirò a fondo. «Ma con questa sua mania dei segreti aveva superato davvero ogni limite. Voleva che nessuno venisse a conoscenza di ciò che aveva scoperto e, siccome viveva nella fobia che qualcuno potesse sottrargli i dati che aveva raccolto, decise di nasconderli tutti».
«Cioè?». «Come le ho anticipato» disse Moliarti «ha nascosto tutto. Tutto. Ha lasciato enigmi cifrati con chiave per le scoperte da lui compiute, e la verità è che noi non sappiamo come risolverli». Si chinò su Tomás. «Tom, lei è portoghese, ha conoscenze di base sulle Scoperte ed è un esperto di criptanalisi. Lei è la soluzione». Tomás tornò ad appoggiarsi al sofà, sorpreso. «Bene... ehm... questo è realmente...». «Com'è naturale, potrà contare sul mio aiuto» aggiunse Moliarti. «Io stesso verrò a Lisbona per effettuare ricerche su alcune immagini e sarò sempre a sua disposizione per qualsiasi cosa». Esitò. «Ovviamente, le chiederò delle relazioni periodiche sullo sviluppo del suo lavoro». «Calma» tagliò corto Tomás. «Non so se ho tempo per questo. Ho le lezioni in facoltà e, oltretutto, ho problemi a causa di mia...». «Siamo disposti a pagare tutto il necessario» anticipò Savigliano, tirando fuori l'asso dalla manica. «Duemila dollari a settimana, più le eventuali spese. E se rispetterà il termine da noi stabilito, avrà un ulteriore premio di mezzo milione di dollari». Quasi sillabò la cifra. «Ha capito? Mezzo milione di dollari». Gli porse la mano. «Take it or leave it». A Tomás non occorsero molti calcoli per decidere. Duemila dollari corrispondevano grosso modo a quattrocento contos a settimana. Milleseicento contos al mese. Mezzo milione di dollari equivaleva, centesimo più, centesimo meno, a centomila contos. Aveva davanti a sé la soluzione per tutti i suoi problemi. Le numerose visite di Margarida, l'insegnante di sostegno, una casa più grande, un futuro più sicuro, persino quelle sciocchezze di cui sentiva la mancanza, cose semplici come andare a cena al ristorante, fare una passeggiata a Óbidos senza preoccuparsi di sprecare la benzina, magari trascorrere un week-end a Parigi per portare Constança al Louvre e la piccola a Eurodisney. Del resto, si chiese, perché pensarci? Non poteva rifiutare un'offerta simile. Si piegò in avanti e guardò negli occhi il suo interlocutore. «Dove devo firmare?» domandò. Si strinsero la mano con entusiasmo, l'affare era fatto. «Tom, welcome aboard!» esclamò Savigliano con un sorriso smagliante. «Faremo grandi cose insieme. Grandi cose!». «Spero di sì» assentì il portoghese, mentre l'euforico americano gli stritolava la mano. «Quando devo iniziare?». «Immediatamente».
«E da dove?». «Il professor Toscano è morto due settimane fa in un hotel di Rio de Janeiro» disse Moiiarti. «Ha avuto una sincope cardiaca mentre beveva del succo di mango, pensi un po'. Sappiamo che aveva consultato alcuni documenti presso la Biblioteca Nazionale e la Biblioteca Portoghese di Rio. Potrebbero trovarsi là le piste da seguire». Il volto di John Savigliano assunse ironicamente un'espressione pensierosa. «Tom, è mio doloroso dovere annunciarle che domani prenderà un aereo che la porterà a Rio de Janeiro». III Le grate dei cancelli metallici offrivano una visione frammentata del palazzo di São Clemente, un'elegante dimora bianca di tre piani, chiaramente ispirata ai palazzetti europei del XVIII secolo. L'edificio si ergeva, slanciato e superbo, all'interno di un giardino ben curato, dominato da esili banani, palme e cocchi, oltre che da manghi e flamboyants. Tutt'intorno, una lussureggiante vegetazione circondava il palazzo e cingeva il fitto bosco di Botafogo. Alle sue spalle, come un gigante silenzioso, s'innalzava la pendice nuda e scura del Colle di Santa Marta. Faceva caldo e Tomás dovette asciugarsi la fronte, una volta sceso dal taxi. Quindi si diresse verso il cancello e, una volta arrivato all'inferriata, sbirciò in direzione del gabbiotto di guardia, sulla sinistra. «Scusi!» chiamò. L'uomo in divisa sobbalzò sulla sedia su cui stava dormicchiando e, dopo essersi alzato, mezzo insonnolito si avvicinò. «Mi dica». «Devo incontrare il console». «Ha un appuntamento?». «Sì». «Come si chiama?». «Tomás Noronha, dell'Università Nova di Lisbona». «Attenda un attimo, per favore». La guardia, tornata al gabbiotto, parlò attraverso l'interfono e attese alcuni istanti. Avuta la risposta, andò infine ad aprire il cancello. «Prego» disse, indicando l'entrata principale del palazzo. «Deve andare verso quella porta là».
Tomás percorse il lastricato alla portoghese che portava all'edificio consolare, prestando particolare attenzione a non calpestare il prato, e si diresse nella direzione indicata, salendo una rampa leggermente inclinata. Fatte le scale e oltrepassata la porta d'ingresso, in scuro legno intagliato, si trovò in una piccola hall decorata con azulejos10 del XVIII secolo, con motivi floreali e figure umane in abiti settecenteschi. Due porte spalancate, incise con foglie d'oro, introdussero il visitatore in un vasto atrio al centro del quale risaltava un raffinato tavolo Don José con sopra un pezzo in porcellana e, in corrispondenza, un appariscente lampadario appeso al soffitto. Un giovane uomo, capelli scuri tirati indietro e abito blu, gli si avvicinò, diffondendo tutt'intorno l'eco dei propri passi sul pavimento di marmo. «Professor Noronha?». «Sì?». «Lourenço de Mello» disse l'uomo, porgendogli la mano. «Sono l'addetto culturale del consolato». «Piacere». «Il signor console sarà qui a momenti». Indicò una sala sul lato sinistro. «Prego, lo aspetteremo nel salone delle feste». Era un ambiente alto e profondo, anche se non molto largo. Le pareti color salmone e il soffitto crema erano decorati con cornici di foglie dorate, mentre alti portali, a sinistra, davano sul giardino di fronte ed erano abbelliti da tende rosse intessute d'oro. Lo smalto del pavimento, in composé di legno brasiliano, brillava riflettendo l'immagine delle poltrone e dei sofà sparsi per la sala, che a Tomás sembrò chiaramente arredata in stile Luigi XVI. Un enorme quadro di Don João VI, il re venuto a Rio per sfuggire alle invasioni napoleoniche, ornava la parete vicino all'angolo dove si erano seduti. In fondo al salone riposava un pianoforte a coda, nero e lucente, forse un Erardon. «Gradisce qualcosa?» chiese l'addetto culturale. «No, grazie» rispose Tomás mentre si accomodava su una poltrona. «Quando è arrivato?». «Ieri, nel tardo pomeriggio». «Ha viaggiato con la TAP?». «Delta Airlines». Lourenço assunse un'aria meravigliata. «La Delta? Vola fin qui da Lisbona?». «No» rise Tomás. «Ho volato da New York ad Atlanta e da Atlanta fin qui».
«È andato negli Stati Uniti per venire in Brasile?». «Ehm... sì, in effetti». Si agitò sulla poltrona. «In realtà avevo una riunione a New York con alcuni esponenti dell'American History Foundation, non so se ha presente...». «Vagamente». «... ed è stato deciso che sarei dovuto venire qui immediatamente». L'addetto culturale si morse il labbro inferiore. «Hmm, capisco». Sospirò. «Che cosa spiacevole». «Quale?». «La morte del professor Toscano. Non immagina il...». Un uomo di mezza età, energico ed elegante, capelli brizzolati sulle tempie, irruppe nel salone. «Buongiorno». Lourenço si alzò in piedi e Tomás fece lo stesso. «Signor ambasciatore, questo è il professor Noronha» annunciò l'addetto, facendo le presentazioni. «Professore, l'ambasciatore Alvaro Sampayo». «Piacere». «Prego, si metta a suo agio» disse il console. Sedettero tutti. «Mio caro Lourenço, hai già offerto un caffè al nostro ospite?». «Sì, signor ambasciatore. Ma il professore ha rifiutato». «Rifiutato?» si meravigliò il diplomatico, guardando Tomás in segno di disapprovazione. «È caffè del Brasile, amico mio. Il migliore, insieme a quello dell'Angola». «Mi piacerebbe molto assaggiare il suo caffè, signor ambasciatore, ma a stomaco vuoto...». Il console batté il palmo della mano sul ginocchio e si alzò in un momento, con vigore. «Ha perfettamente ragione!». Fissò l'addetto. «Lourenço, va' a dire al personale di servire il pranzo, è ora». «Sì, signor ambasciatore» gli rispose, uscendo per riferire gli ordini. «Venga» disse il console a Tomás, spingendolo per il gomito. «Spostiamoci nella sala da pranzo». Entrarono in un enorme salone dominato da un lungo tavolo in legno di jacarandá, con le gambe lavorate e venti sedie per lato, tutte foderate con tessuto bordeaux. Due lampadari di cristallo pendevano alle estremità del tavolo, belli e imponenti. Il soffitto si presentava riccamente decorato, con lucernari circolari e un enorme scudo portoghese al centro. Il pavimento
era in marmo alpenina11 in parte coperto da tappeti di beiriz. Un enorme arazzo, che rappresentava una scena settecentesca ambientata in un giardino inglese, si stendeva sulla parete in fondo. Sul lato destro, la sala era percorsa da un corridoio protetto da quattro alte colonne anch'esse di marmo. Il corridoio conduceva in un cortile interno dove zampillava una fontana decorata con azulejos. Sul lato sinistro, invece, si aprivano dei portali che, a due a due, davano su un rigoglioso giardino tropicale. Tre piatti di porcellana, con rispettive posate d'argento e bicchieri di cristallo, erano disposti sulla tavola, all'estremità opposta, di fronte al gigantesco arazzo. «Prego» disse il console a capotavola, indicando il posto alla sua destra. Tomás sedette e l'addetto culturale, che nel frattempo era tornato, li raggiunse. «Il pranzo è quasi pronto» annunciò Lourenço. «Eccellente!» esclamò il console mentre si sistemava il tovagliolo sul grembo. Posò gli occhi sull'invitato. «È andato bene il viaggio?». «Ehm... più o meno. Abbiamo incontrato un po' di turbolenze». Il diplomatico sorrise. «Certo, le turbolenze sono snervanti». Alzò il sopracciglio con malizia. «Non mi dica che lei ha paura di volare...». «Ehm... beh...» balbettò Tomás. «Non direi proprio paura. Ho solo un po' di timore». Risero. «Sa, è una questione d'abitudine» spiegò Sampayo. «Più viaggiamo, meno paura abbiamo di volare. Non è abituato a viaggiare spesso, vero?». «No, viaggio poco. Ogni tanto sono invitato a qualche conferenza in Spagna, in Italia o in Grecia, vado qua e là a fare una perizia o una ricerca ma in genere rimango a Lisbona. Ho una vita troppo complicata per potermi permettere di girare il mondo». Un uomo in divisa bianca e bottoni dorati apparve con un vassoio e servì della minestra. Tomás osservò i legumi nel piatto: era una "zuppa giuliana". «È la sua prima volta a Rio?» volle sapere il console. «Sì, non c'ero mai stato». Iniziarono a mangiare. «Come le sembra?». «È ancora presto per giudicare». Assaporò una cucchiaiata. «Sono arrivato solo ieri, a fine giornata. Ma, per quel poco che ho visto, mi sta pia-
cendo. È come trovarsi in una sorta di Portogallo tropicale». «Questa è una bella definizione. Un Portogallo tropicale...». Tomás sospese il cucchiaio della zuppa a mezz'aria per un istante. «Signor ambasciatore, mi perdoni la domanda. Dato che lei è ambasciatore, per quale motivo è anche console? Non dovrebbe occupare semplicemente il ruolo di ambasciatore?». «Sì, in condizioni normali dovrebbe essere così. Ma sa, Rio de Janeiro è un luogo davvero speciale». Abbassò il tono di voce, come in un a parte. «Il consolato di Rio è migliore dell'ambasciata a Brasilia, capisce?». L'invitato aprì la bocca e riprese a mangiare. «Ah, capisco». Ma conservò la stessa aria incuriosita. «Perché?». «Beh, perché Rio de Janeiro è un posto molto più piacevole di Brasilia, che invece si trova su un altopiano perso in mezzo al bosco». «Ah!» esclamò, dopo aver finalmente compreso. «Ma lei è già stato in varie ambasciate...». «Certo. A Bagdad, a Luanda, a Beirut. Ovunque ci fosse pericolo, poteva trovare il suo umile e devoto amico impegnato a servire la nazione». Finirono la minestra e il cameriere tolse i piatti. Tornò qualche istante dopo con un vassoio fumante. Era filetto di maiale arrosto, accompagnato da riso al pomodoro e piselli, insieme a patate al forno. Di seguito riempì i bicchieri con acqua e vino rosso alentejano. «Signor ambasciatore, mi permetta di ringraziarla per avermi invitato». «Si figuri, per l'amor di Dio, non deve ringraziarmi. Sono io che ho il grande piacere di aiutarla nella sua missione». Iniziarono a mangiare la carne. «Inoltre, dopo che lei ha chiamato da New York, ho ricevuto precise istruzioni dal Ministero, a Lisbona, affinché io le garantisca tutto l'appoggio di cui ha bisogno. Sa, le ricerche legate ai cinquecento anni della scoperta del Brasile sono considerate d'interesse strategico per lo sviluppo delle relazioni tra i due Paesi, pertanto, mi creda, non le sto facendo nessun favore, mi limito semplicemente a svolgere il mio dovere». «Comunque sia, la ringrazio». Esitò. «È riuscito a ottenere le informazioni di cui le avevo parlato al telefono?». «Hmm-hmm» assentì l'ambasciatore mentre ingoiava un pezzo di carne. «La morte del professor Toscano è stata solo l'inizio dei problemi qui al consolato. Lei non immagina le seccature che abbiamo avuto per riportare il corpo in Portogallo». Sospirò. «È stato un rompicapo, non ne ha idea. Guardi! C'erano fogli e formulari ovunque, più l'inchiesta della polizia, i problemi all'obitorio e una lista infinita di autorizzazioni, timbri e adem-
pimenti burocratici. Per non parlare delle difficoltà sollevate dalla compagnia aerea... Un film dell'orrore, ma reale». Guardò l'addetto. «Lo sa lui quello che ha passato, vero Lourenço?». «Ah, signor ambasciatore, non me ne parli!». «Riguardo all'informazione che mi ha chiesto, siamo andati a vedere gli appunti del professor Toscano e abbiamo verificato che svolgeva quasi tutte le ricerche presso la Biblioteca Nazionale, ma in parte anche presso il Real Gabinete Português de Leitura». «Dove si trova?». «Al centro della città». Bevve un sorso di vino. «Questo rosso è veramente divino!» esclamò, osservando il bicchiere contro luce e studiando il nettare scuro. Guardò Tomás. «Ma lei non avrà molto da scoprire, sa? Il professor Toscano è stato qui solo tre settimane prima di avere il benservito... ehm, scusi, prima di morire». «Certo, non deve aver visto molte cose». «Ha avuto poco tempo, lo sfortunato». Tomás si schiarì la voce. «Lei ha detto di essere andato a vedere il materiale raccolto dal professor Toscano...». «Hmm-hmm». «Ha già inviato tutto a Lisbona, presumo». «Chiaro». L'addetto culturale tossì, intromettendosi nella conversazione. «Non è proprio così» replicò Lourenço de Mello. «Che significa "non è proprio così"?» si meravigliò il console. «C'è stato un problema con la valigia diplomatica e le carte del professor Toscano sono ancora qui. Saranno spedite domani». «Ah sì?» esclamò l'ambasciatore Alvaro Sampayo. Guardò verso Tomás. «Visto? Alla fine il materiale si trova qui». «Posso visionarlo?». «Il materiale? Certamente». Fissò l'addetto. «Lourenço, va' a prenderlo, per favore». Lourenço si alzò e sparì oltre la porta. «Allora, questo filetto arrosto?» domandò il console, indicando il piatto dell'ospite. «Una meraviglia» elogiò Tomás. «E l'idea di aggiungere queste patate dolci alle altre è formidabile». «Vero?».
Il collaboratore tornò portando con sé una ventiquattrore. Si mise seduto e l'aprì sul tavolo, tirando fuori numerosi fogli. «Sono soprattutto fotocopie e appunti» spiegò. Tomás prese i documenti e li esaminò. Si trattava di fotocopie di libri antichi, dal tipo di stampa e di testo dovevano essere cinquecenteschi. C'erano testi in italiano, altri in portoghese antico e alcune cose in latino. Le pagine erano cariche di ornées lavorate e belle miniature, tratteggiate a penna e con il pennello. Gli appunti del professore, invece, sembravano solo scarabocchi, quasi incomprensibili e scritti di fretta. Qua e là tuttavia Tomás riconobbe alcune parole: "Cantino", "Pinzón", "Cabral", abbastanza per intuire che si trattava di annotazioni riguardanti la scoperta del Brasile. In mezzo a tutte quelle carte, Tomás si accorse di un foglio isolato, due righe ben distinte, tre parole redatte con particolare attenzione. I caratteri in maiuscolo sembravano graffiare la carta, la calligrafia rivelava contorni oscuri, insinuanti, come se nascondesse una formula magica arcaica, creata da antichi druidi e dimenticata nelle tenebre dei secoli. Quasi impulsivamente, senza sapere perché, come se obbedisse al vecchio istinto di storico, quel sesto senso da topo di biblioteca abituato alla muffa polverosa degli antichi manoscritti, si piegò sul foglio e l'annusò. Sentì emanare un odore arcano, un aroma segreto, una fragranza trasportata da un messaggero del tempo. Come un incantesimo esoterico, che nulla rivela ma tutto suggerisce, quelle parole indecifrabili emanavano l'enigmatico profumo del mistero: MOLOC NINUNDIA OMASTOOS «Strano, non trova?» commentò Lourenço, incuriosito. «È stato trovato piegato nel portafoglio del professor Toscano. Non si capisce cosa sia. Che diamine vorrà dire?». Tomás rimase in silenzio ad analizzare il foglio che aveva in mano. «Hmm» si limitò a mormorare, pensieroso. «Mio Dio!» esclamò l'ambasciatore. «Sembra fiammingo». «O forse una di quelle lingue antiche...» suggerì Lourenço. L'invitato rimase concentrato su quelle strane parole. «Forse...» disse alla fine, senza distogliere lo sguardo dal testo. «Ma mi sembra più un messaggio in codice». Il console si avvicinò per esaminare il foglio.
«Cioè? Non capisco». «A New York ho saputo che il professor Toscano ha cifrato o codificato tutte le sue scoperte più importanti» spiegò Tomás. «A quanto pare, era fissato con la sicurezza e aveva la mania delle sciarade». Sospirò. «Evidentemente è la verità». «Che confusione infernale!» affermò con enfasi il console. «Lei, mio caro amico, riesce a capirci qualcosa?». «Sì, qualche idea ce l'ho» bisbigliò Tomás. «Per cominciare, questo moloc. È la prima parola del messaggio ed è l'unica il cui senso mi sembri chiaro, sebbene enigmatico». «E cosa significa?». «Moloc era una divinità antica». Si grattò il mento. «La prima volta che ho incontrato questo termine ero bambino, e leggevo il fumetto di uno dei miei eroi preferiti, Bernard Prince. La raccolta si intitolava Le souffle de Moloch e, se non sbaglio, era una storia ambientata su un'isola minacciata da un vulcano in eruzione, conosciuto con il nome di Moloch. Da piccolo ho letto anche le storie di Alix. Le sue avventure si sviluppavano nell'antichità e coinvolgevano il dio Moloch. E poi ricordo pure di aver visto un libro di Henry Miller dal titolo Moloch». «Ma qui non c'è scritto Moloch, ma Moloc». «Beh, si può dire Moloc, Moloch o Melech, è la stessa cosa. La parola originale è Melech, significava "re" nelle lingue semitiche. I giudei la distorsero intenzionalmente nell'ebraico Molech, in modo da associare melech, "re", a bosheth, "vergogna". Fu così che nacque Moloch, nonostante la grafia più comune sia Moloc». «Che tipo di re era?». «Divino e crudele». Si morse il labbro inferiore. «Sa, nonostante Moloc significhi "re", in realtà si trattava di un dio adorato dai popoli di Moab, Canaan, Tiro e Cartagine, in nome del quale si compivano terribili sacrifici, in particolare la cremazione dei primogeniti». Si guardò intorno, come se stesse cercando qualcuno. «Avete una Bibbia?». «Una Bibbia?» si meravigliò il console. «Sì, ce l'ho». «Posso vederla?». «La vado a prendere» si offrì volontario Lourenço, alzandosi nuovamente da tavola e uscendo dalla stanza. «Perché cerca la Bibbia?» volle sapere il console. «Credo che ci sia un riferimento a Moloc nell'Antico Testamento» chiarì Tomás. «Per molto tempo il culto di Moloc fu collegato al mito del Mino-
tauro, un mostro che ogni anno divorava sette ragazzi e sette ragazze vergini in un labirinto vicino al palazzo del re Minosse, a Creta. Esistevano anche dei parallelismi con il mito di Cronos, che ingoiava i propri figli, sebbene Moloc sia identificato soprattutto con Melkarth, a Tiro, e con Milcom, dagli Ammoniti. Ma queste sono chiacchiere. Per me, l'importante adesso è capire in che contesto Moloc sia citato nella Bibbia». «Ci credo!» esclamò il console. «Mi pare di capire che questo signor Moloc fosse un personaggio orribile». Tornò a rileggere il misterioso messaggio. «Cosa avrà voluto suggerire il professor Toscano menzionando un così sgradevole gentiluomo?». «È quello che vorrei sapere». Lourenço ritornò con un librone in mano e lo posò sul tavolo. Tomás sfogliò la Bibbia, esaminando il testo con attenzione; a tratti passava interi gruppi di pagine velocemente, altre volte, invece, si fermava a leggere accuratamente un passo. Dopo alcuni minuti, alzò la mano. «Eccolo!». I due diplomatici si piegarono sul libro. «Cosa?». «Il riferimento a Moloc». Indicò un paragrafo. «È un passo in cui Dio, per voce di Mosè, proibisce di offrire bambini a Moloc». Fece una pausa. «Ascoltate». Iniziò a leggere. «"Il popolo del paese lo lapiderà...12 Eliminerò dal suo popolo lui con quanti si danno all'idolatria come lui, abbassandosi a venerare Moloc13"». Sollevò il capo. «Visto?». «Ah!» esclamò il console, senza capire nulla. «E che significa?». «Mah... non so» ammise Tomás. «Il Codice Mosaico proibì di sacrificare bambini a Moloc, stabilendo la pena di morte per chiunque ordinasse o autorizzasse l'offerta di un figlio per immolarlo, nonostante il Vecchio Testamento registri molte violazioni di questo divieto». «Ma qual è la relazione con lo strano messaggio lasciato dal professor Toscano?». «Dovrei analizzare attentamente la questione. Le informazioni che le sto dando sono soltanto elementi che possono aiutarci a decifrarlo. Quando si ha a che fare con un messaggio cifrato, o codificato, dobbiamo aggrapparci alle piccole cose che capiamo e muovere da esse, per poter rompere la cifra, o il codice, a seconda del caso». «Sono la stessa cosa?». «A che si riferisce?». «Alla cifra e al codice».
Tomás scrollò la testa. «Non del tutto. Un codice si basa sulla sostituzione di parole, mentre la cifra implica la sostituzione di lettere. Possiamo dire, se vuole, che fanno parte della stessa famiglia ma il codice ne rappresenta l'aristocrazia, trattandosi di una forma complessa di cifra di sostituzione». «E questo?» chiese il console, mostrando il foglio scritto dal professor Toscano. «È un codice o una cifra?». «Hmm, non so» replicò Tomás con una smorfia. «La parola moloc rimanda inequivocabilmente a un codice, ma il resto...». Lasciò la frase in sospeso, con aria insinuante. Dopo un'attenta riflessione, si decise. «No, anche il resto dev'essere un codice». Indicò le altre due parole. «Vedete il modo in cui le vocali si legano alle consonanti, formando sillabe e suoni precisi? Ninundia. Omastoos. Queste, signor ambasciatore, sono parole. Una cifra ha un aspetto differente, di rado vi compaiono sillabe, tutto sembra più caotico, disordinato, impenetrabile. Per esempio, sequenze del tipo HSDB JHWG. Qui no, qui abbiamo sillabe che danno luogo a parole, che articolano suoni». Mantenne lo sguardo fisso sulla misteriosa frase per alcuni secondi, caparbio, nella speranza che gli saltasse agli occhi qualcosa che fin lì non aveva notato, che fosse rimasto nascosto dietro quelle oscure parole, ma finì per scuotere la testa, arrendendosi. «Il problema è che non le capisco». Chiuse gli occhi e se li sfregò, prevedendo molto lavoro davanti a sé. «Devo studiarle con grande attenzione». «Queste parole non le dicono nulla?». «Beh... ninundia e omastoos, francamente... ehm... non riesco a trovare alcun significato» ammise. La sua attenzione si concentrò sulla prima parola; la pronunciò a voce bassa e gli venne in mente un'idea. «Hmm» mormorò. «Questo ninundia sembra il nome di una terra, non trova?». Sorrise, leggermente sollevato per aver scoperto quella che, secondo lui, poteva essere una potenziale pista. «La sillaba finale, dia, sembrerebbe rimandare alla designazione di un luogo». «Un luogo?». «Sì. Per esempio, Normandia, Groenlandia, Finlandia...». «E allora?». «E allora noi abbiamo Ninundia». «E chi sarebbero gli abitanti?» scherzò il console. «I ninundi?». «Guardi, questa è solo una supposizione, niente di più». «Che Dio mi aiuti! Qual è il significato di tutto ciò?». «Devo studiare l'argomento. Utilizzando la parola ninundia, il professor
Toscano potrebbe aver suggerito che la chiave della cifra coinvolge una località». Aprì i palmi delle mani, in un gesto d'impotenza. «Chi lo sa? Il fatto è che qui viene menzionata una antica e potente divinità, il terribile Moloc di Canaan, e apparentemente si fa riferimento a una terra sconosciuta, una certa Ninundia. Cosa volesse dire il professor Toscano, collocando un dio e una terra ignota all'interno dello stesso messaggio, è un dato che devo ancora determinare». Guardò il console, mostrando il foglio. «Posso tenerlo?». «No» disse il diplomatico. «Mi dispiace tanto, ma dev'essere consegnato tutto alla vedova». Tomás, avvilito, fece uno schiocco con la lingua. «Ah, cavolo» si sfogò. «Che peccato...». «Ma si può fotocopiare» propose l'ambasciatore Sampayo. «Il foglio?». «Sì, e qualsiasi altra cosa le serva, fuorché i dati che riguardano la vita privata del professore». «Ah, meno male!» esclamò Tomás, sollevato. «Dove posso farlo?». «Penserà a tutto Lourenço» rispose il console, facendo cenno all'addetto. «Cosa vuole fotocopiare?» domandò Lourenço, rivolgendosi a Tomás. «Tutto. Avrò bisogno di tutto quanto il materiale». Tornò ad agitare il foglio che conteneva l'enigmatico messaggio. «Ma questo è il più importante». «Stia tranquillo» assicurò l'addetto culturale. «Torno subito». Prese tutti i fogli e uscì dalla stanza. «La ringrazio per il suo aiuto» disse Tomás rivolgendosi al console. «È molto importante». «Oh, non è niente. Ha bisogno di qualche altra cosa?». «Veramente sì». «Mi dica». «Dovrei contattare i responsabili delle biblioteche consultate dal professor Toscano». «La Biblioteca Nazionale e il Real Gabinete Português de Leitura?». «Sì». «Non si preoccupi». Il caldo era soffocante, il sole colpiva la città con implacabile violenza e c'era ancora tutto il pomeriggio davanti, libero e promettente. Ecco i tre principali ingredienti che condussero Tomás in spiaggia. La fondazione lo
aveva ospitato presso lo stesso hotel nel quale aveva alloggiato il professor Toscano, e il richiamo del mare, una volta tornato in stanza, si era fatto irresistibile. Tomás indossò il costume, prese l'ascensore fino al seminterrato, chiese un asciugamano e uscì. Percorse Via Maria Quitéria fino ad arrivare allo splendido Viale Vieira Souto; aspettò che il semaforo fosse verde, attraversò l'ampia strada che costeggiava la costa, superò il largo marciapiede e raggiunse la spiaggia. La sabbia, fina e dorata, gli scottava sotto i piedi, così arrivò saltellando fino allo stabilimento dell'hotel, dove chiese una sdraio e un ombrellone. Due addetti, entrambi neri e di costituzione robusta, con camicia azzurra e berretto, gli portarono la sedia il più vicino possibile all'acqua e conficcarono nella sabbia un ombrellone azzurro e bianco con sopra il logo dell'albergo. Quando ebbero finito, Tomás diede loro un real di mancia. Migliaia e migliaia di persone si accalcavano sulla spiaggia d'Ipanema, non c'era più di un metro quadrato di sabbia libera. «Gelati Italia! Che buoni!» gridò una voce di passaggio. Tomás si appoggiò al bordo della sdraio, prese la crema solare e, dopo essersela spalmata su tutto il corpo, si mise a riposare. Iniziò a guardarsi intorno. Un gruppo di ragazzi italiani era disteso proprio alla sua destra; di fronte, stava seduta una sessantenne, con cappello e occhiali scuri, mentre alla sua sinistra tre mulatte brasiliane esibivano enormi e audaci seni; Tomás li osservò con attenzione, pensava fossero perfetti, troppo perfetti: doveva esserci dietro la mano di un chirurgo. «Mate14 al limone! Matia! Limonata di Matia!» intonò un'altra voce mentre gli passava di fianco. Sentì la pelle bruciare per l'effetto dei violenti raggi solari, così che decise di spostarsi ancor più verso l'ombra. «Dai su, figlia mia, rilassati, capito? Rilassati, tesoro mio...» diceva qualcuno alle sue spalle. Si girò e notò un uomo calvo, oltre i cinquanta, sdraiato al sole, con il cellulare all'orecchio. «Senti, tesoro, i tuoi figli vanno in vacanza... giusto?» diceva l'uomo. Era impossibile non ascoltare. «Sì... certo... vanno in vacanza... quindi, tesoro, potrai fare l'amore con tuo marito. Vedi? C'è sempre una soluzione per tutto». Imbarazzato, Tomás si voltò e fece uno sforzo per ignorare la conversazione intima tra quel padre brasiliano e la figlia, in mezzo alla spiaggia sovraffollata. Cercò di concentrarsi su quanto accadeva intorno a lui, cosa, questa, per niente difficile. Una schiera di venditori aveva preso d'assalto la spiaggia; non passavano cinque secondi senza che uno di questi gli sfilasse davanti con i versi più disparati. «Ecco il mate! Ecco il mate al limone!». Un gradevole profumo gli accarezzò le narici, mentre l'uomo dietro
di lui continuava a dare consigli alla figlia su come soddisfare al meglio il marito. «Formaggio alla brace! È così gustoso. È formaggio fresco!». Quel buon odore era l'aroma del formaggio scaldato per un cliente, alla sua sinistra. «Arance e caroteee! Arance e caroteee!». L'individuo dietro suggeriva alla figlia di dedicarsi al sesso orale con il marito, «agli uomini piace, tesoro», e fu proprio in quel delicato momento che il cellulare di Tomás, come un provvidenziale gong, iniziò a squillare. «Acqua minerale e Coca Light! Mate!». Stese il braccio e rispose. «Gelati! Gelati! Gelati freschiii!». «Pronto?». «Professor Noronha?». «Sì?». «Sono Lourenço de Mello, dal consolato». «Ah, salve. È lei...». «Sì. Beh, le ho già preso quegli appuntamenti per domani. Può prendere nota?». «Un momento». Tomás si piegò sulla sua borsa, da cui prese penna e bloc-notes. Avvicinò il telefono all'orecchio. «Sì, mi dica». «Alle dieci del mattino l'aspettano al Real Gabinete Português de Leitura». «Sì...». «E alle tre del pomeriggio il presidente della Biblioteca Nazionale la riceverà personalmente per aiutarla in ciò che le sarà necessario. È già stato informato sui dettagli della sua missione e si è messo a disposizione per darle una mano. Si chiama Paulo Ferreira da Lagoa». «Hmm-hmm...». «Ha scritto? Paulo Ferreira da Lagoa». «... daaa La-go-a. Ecco fatto. Alle tre del pomeriggio». «Esatto». «Qual è l'indirizzo delle biblioteche?». «Il Real Gabinete è in Via Luís de Camões, è facile da ricordare. È accanto a Piazza Tiradentes, in centro. La Biblioteca Nazionale si trova lì vicino, nella piazza dove inizia Viale Rio Branco. Qualsiasi taxi potrà portarla fin là, non c'è problema». «Benissimo». «Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a chiamarmi di nuovo». «Perfetto. Molte grazie». Anche l'uomo alle sue spalle aveva finito con il cellulare e i rumori della spiaggia tornarono a rimbombargli nelle orecchie. «Açaííí15! Acaí! Açaííí!
Açaí concentrato e granola!». Mezzo mondo era sdraiato su sedie e sdraio, alcuni sulla sabbia, la maggior parte sotto gli ombrelloni, quasi uno sopra l'altro, Ipanema era una Caparica16 ancor più densamente affollata. «Ecco l'empadaaa17! Ehi, empadaaa!». C'erano gruppi disposti in circolo che giocavano a palla vicino all'acqua, spiccando salti rocamboleschi, mentre il pallone faceva qua e là. «Ehi carioca, ehi turista! È arrivato il sucolé di Claudinho18, il miglior sucolé di Rio!». Alcune coppie giocavano a racchettoni sul bagnasciuga, colpendo la piccola palla con sorprendente forza, mentre grandi masse di persone affrontavano le onde. «Patate fritteee!». Sulla destra, in fondo alla spiaggia, in cima al Leblon, si ergevano i picchi gemelli del Monte dos Dois Irmãos, lungo il cui pendio, sul mare, risaltava il confuso biancore della favela del Vidigal. «Acqua! Mate!». Le isolette Cagarras riempivano di verde l'orizzonte azzurro di fronte alla spiaggia. «Panini genuini del bassoccio pazzerello!». Sulla sinistra, proprio al di là della Pedra do Arpoador, due navi da carico convergevano lentamente verso la stretta gola della baia di Guanabara. «Ecco l'empadaaa! Aragostegamberi-palmito19-carnesecca-banane-pollo-gallina-galletto-formaggiobaccalà!». I venditori erano uno spettacolo a parte, mentre si muovevano con pesanti carichi, sudati, scuri, con berretto e camicie colorate. «Abbronzante! Costa poco! Ecco l'abbronzante!». Quelli che vendevano cibo e bibite camminavano urlando mentre gli altri erano più discreti, la maggior parte vagava in silenzio, alcuni si limitavano semplicemente a mormorare le proprie offerte. «Tatuaggio?». Zigzagavano per la spiaggia esibendo creme solari, orecchini, braccialetti, ciabatte a infradito, esempi di tatuaggi, berretti, cappelli, camicie, borse e borsoni, costumi, oggetti d'artigianato, occhiali, salvagenti e secchielli, palloni, veggenti e cartomanti. «Ecco il picolé20 dell'Italia21! Gustosi picolé! Sono dell'Italiaaa!». Tomás voleva riflettere sull'enigma del messaggio lasciato da Toscano, ma il caldo intenso e la confusione della spiaggia gli impedivano di concentrarsi sul problema. Si alzò e, facendosi strada fra i villeggianti, si avvicinò alla riva. L'acqua gli baciò i piedi e la sentì fresca, forse fin troppo rispetto alla fama delle spiagge tropicali. Onde di due metri si abbattevano con fragore sui bagnanti poco distanti da lui e alcuni ne approfittavano per fare del corpo una tavola da surf, utilizzando a proprio vantaggio la forza dell'acqua e lasciandosi trasportare dalla corrente. Il sole batteva forte, in particolar modo sulle spalle, ma la piacevole temperatura del mare cacciò il calore e Tomás ritornò al problema che lo tormentava. La prima cosa da risolvere era, naturalmente, il significato del nome mo-
loc, soprattutto considerando il fatto che quella parola era isolata dalle altre. Per quale motivo Toscano era ricorso al crudele dio di Canaan, la divinità dei sacrifici, per iniziare l'enigma? Voleva suggerire che la risoluzione della chiave avrebbe implicato un sacrificio? D'altro canto, bisognava anche tener presente la possibilità che Toscano avesse mischiato sistemi di cifra e codice nello stesso messaggio. In pratica, moloc poteva essere realmente un codice, o il simbolo di qualcosa, ma Tomás pensò anche che le altre parole potessero rimandare a un qualsiasi tipo di cifra. Tuttavia, se non fossero state cifrate, allora non avrebbero potuto essere che un codice come, del resto, sarebbe stato più logico e verosimile, visto che quei gruppi di lettere sembravano comunque parole. In questo caso, però, bisognava risolvere il problema di ninundia. Valutò i due percorsi e decise di abbandonare l'ipotesi che si trattasse di una cifra. Stabilì invece di partire dal principio che si trovasse dinanzi a un codice. Ora, se quel messaggio era un codice, che diamine significava ninundia? Si trattava veramente di una terra sconosciuta? Ma qual era il legame di Ninundia con il dio Moloc? Se fosse riuscito a capire meglio la relazione tra le due parti, considerò, probabilmente sarebbe stato capace di decifrare anche l'altra parola codificata, omastoos, allo stesso modo in cui Champollion, a partire da due semplici s e un ra, era arrivato, più di duecento anni prima, a sciogliere il mistero dei geroglifici. Stanco di starsene dritto immobile sulla battigia a pensare al problema, tornò infine alla sdraio, su cui, essendosi bagnato fino alla vita, si distese in attesa che il sole lo asciugasse. «Aaaah!» gridò a squarciagola qualcuno vicino a lui. Tomás saltò sulla sedia, con il cuore che gli batteva all'impazzata, e vide un uomo che agitava un coltello in direzione della sessantenne che aveva di fronte. Una rapina, pensò terrorizzato. Guardò meglio e si accorse che sulla punta del coltello era infilzato qualcosa di giallo, mentre l'uomo si presentava in un modo alquanto insolito: era basso, scuro, guanti neri e un'enorme cesta di vimini in equilibrio sulla testa, un aspetto bizzarro che nessuno si sarebbe aspettato da un rapinatore. «Abacaxi22?» domandò l'uomo con il coltello. Era un venditore. «Oh, che paura!» si lamentò la sessantenne. L'uomo si aprì in un sorriso contagioso. «Paura di che? Io sono un uomo e la mia voce è questa». La signora rise e rifiutò il pezzo d'abacaxi che il venditore le stava por-
gendo. Al che l'uomo salutò, sorridente, e proseguì il suo cammino, sempre con la cesta in equilibrio sulla testa, come fosse un largo cappello messicano, e un pezzo di frutto sulla punta della lama. Fece qualche passo e, passando vicino a una ragazza distratta, le gridò alle orecchie: «Aaaah! Abacaxi?». La ragazza sobbalzò, lo fissò con la mano sul petto, sulla difensiva, ed esclamò: «Che spavento!». Non ci volle molto perché Tomás scoprisse le delizie d'Ipanema. Provò i succhi di mango e i caldos de cana23 nelle sucarias agli angoli del quartiere, insieme al soffice pão de queijo24, comprato ancora caldo e morbido. Al calar della notte, seguendo il consiglio di un garzone dell'hotel, percorse la Visconde de Pirajà fino ad arrivare a Via Farme de Amoedo. Quindi girò a sinistra, diretto al Sindicato do Chopp, un ristorante molto frequentato, aperto sulla via, senza finestre di vetro. Picanha25 con riso e fagioli neri, caldo verde26 e farofa27 furono i piatti che il professore ordinò, accompagnando il pasto con una caipirinha molto fresca. Di fianco, una moltitudine di uomini affollava il Bar Bofetada. Tomás li osservò con attenzione e capì che erano omosessuali. Mentre assaporava la tenera carne, tornò al problema della sciarada di Toscano. Si concentrò sulla parola ninundia. Se questo è il nome di una terra sconosciuta, rifletté, per forza l'altra parola della stessa riga, omastoos, deve essere collegata a questa terra, ma in che modo, santo Dio?! Si ricordò allora che uno fra i testi letterari più antichi si chiamava Ninurta e le pietre, un'opera sumera conservata in lingua accadica. Ninundia era forse un riferimento a Ninurta? Ma, se ben ricordava, Ninurta era di Nippur, città dell'attuale Iraq, e quindi non poteva avere nessun legame con il Brasile. No, concluse. Nonostante la somiglianza tra le due parole, Ninundia non poteva rimandare a Ninurta. Sentendosi in un vicolo cieco, Tomás tentò a quel punto di scomporre la seconda riga, ma i successivi tentativi, immortalati sulla tovaglia di carta del Sindicato do Chopp, fallirono tutti. Frustrato, iniziò a interrogarsi sulla relazione fra il messaggio trovato e la questione di fondo, su quale fosse, cioè, il rapporto tra Moloc e la scoperta del Brasile. Ninundia era forse il Brasile? Ma ancora più importante era capire se il messaggio fosse in qualche modo collegato alla grande scoperta che, a sentire Moliarti, Toscano aveva rivelato di aver fatto, così grande da rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sull'età delle Scoperte. E inoltre: cosa aveva a che fare Moloc con le esplorazioni? Toscano aveva
forse dimostrato che già gli antichi erano arrivati in Brasile? Sarebbe stato interessante saperlo, senza dubbio, ma una scoperta del genere non avrebbe certo potuto rivoluzionare tutte le conoscenze relative al periodo in cui il Portogallo si era messo in mare alla scoperta del mondo. No, decise, c'è qualcos'altro, qualcosa di più attinente alla ricerca. Sapere che gli uomini di Canaan avevano avuto contatti con il Brasile, per quanto importante, non avrebbe cambiato quanto già si sapeva sulle Scoperte. O sì? Tomás si tormentava con l'enigma, cercava soluzioni, faceva tentativi, provava a mettersi nei panni di Toscano e a immaginare i suoi ragionamenti, ma non riusciva ad avanzare nella risoluzione del misterioso messaggio lasciato dallo storico scomparso, era come se continuasse a sbattere contro una solida barriera, impenetrabile e opaca. Il cellulare squillò. «Pronto?». «Hej! Kang jag få tala med Tomás?». «Come?». Gli rispose una risatina femminile. «Jag heter Lena». «Come? Chi parla?». «Professore, sono io. Lena». «Lena?». «Sì. Stavo testando il suo svedese». Un'altra risatina. «Ha bisogno di qualche lezione». «Ah, Lena!» Tomás la riconobbe. «Come ha avuto il mio numero?». «Me l'ha dato la segretaria del dipartimento». Esitò. «Perché? Non voleva che la chiamassi?». «No, no» si affrettò ad aggiungere, temendo di aver dato un'impressione sbagliata. «Non si preoccupi. Sono sorpreso, ecco tutto. È che non mi aspettavo minimamente una sua telefonata». «Sicuro che non la disturbo?». «No, stia tranquilla. Allora, che succede?». «Prima di tutto, buonasera». «Salve, Lena. Come va? Mi dica». «Tutto bene, grazie». Cambiò leggermente il tono. «Professore, ho telefonato perché ho bisogno del suo aiuto». «Qual è il problema?». «Come lei sa, ho iniziato le lezioni solo alcuni giorni fa, perché si sono verificati alcuni ritardi con la mia pratica e quindi la mia iscrizione a Li-
sbona è avvenuta in ritardo». «Sì». «Quindi, professore, dovrei recuperare le nozioni che mi mancano». «Certo. Probabilmente il modo migliore è chiedere gli appunti alle sue colleghe». «Ci avevo già pensato. Il fatto è che alcuni argomenti non s'imparano semplicemente leggendo gli appunti, non crede? Per esempio, la scrittura cuneiforme che lei ha spiegato in una delle prime lezioni. Ho visto che i Sumeri avevano l'abitudine di combinare i simboli di due parole per formare un simbolo composto, il cui significato derivava da entrambi gli elementi. La seccatura è che questi segni non sempre sono combinati nella stessa sequenza». «Sì, è il caso di, che so... ehm... ad esempio geme e ku. Geme significa "schiava" e si scrive collocando il simbolo di sal, "donna", vicino a quello di kur, "Paese straniero". Ma nella parola ku, che significa "mangiare", il simbolo di nindia, "pane", è posto non al fianco ma all'interno di ka, "bocca"». «Che confusione! Quando i simboli si collocano di fianco e quando uno dentro l'altro?». «Beh, questo dipende da...». «Professore!» lo interruppe Lena. «Non avrà intenzione di fare una lezione per telefono, vero?». Tomás esitò. «Ehm... sì... no...». «Non è che potremmo vederci? Non so, domattina, se vuole, o anche oggi, se è disponibile». «Oggi? Non è possibile...». «Allora domani». «Aspetti. Né oggi né domani. Mi trovo in Brasile». «In Brasile? Lei è in Brasile?». «Sì. A Rio de Janeiro». «Wow, che fortuna! È già andato in spiaggia?». «Si dà il caso che ci sia stato proprio oggi». «Ah, che invidia! Fa caldo?». «Trenta gradi». «E la sua sfortunata studentessa svedese è qui immersa nel freddo, poverina» disse, simulando un lamento affettuoso. «Brrr. Non le faccio pena?». «Beh, sì» rise Tomás.
«Allora deve aiutarmi!» esclamò la ragazza, in modo gioviale. «Certo. Che le serve?». «Mi servono alcune lezioncine». «Molto bene. Non so con precisione quando ritornerò a Lisbona, questo dipende dai progressi delle mie ricerche qui a Rio de Janeiro, ma certamente sarò di ritorno lunedì, perché devo fare lezione. Mi chiami allora, va bene?». «Sì. Molte grazie, professore». «Di nulla». «Sa» concluse la svedese con un tono carico di malizia «sono certa che sarà un piacere imparare con lei». Accentuò la parola piacere. La via si agitava nella frettolosa confusione mattutina e Tomás spiò dal finestrino del taxi le facciate degli edifici e i negozi che, a porte aperte, ricevevano i clienti. I palazzi erano pittoreschi, avevano un aspetto antico e, insieme, un non so che di degradato; esibivano balconcini lavorati e alte finestre, mentre le facciate erano dipinte con i colori più disparati: giallo, rosa, verde, azzurro o crema. Tomás riconosceva in quello stile i tratti inconfondibili dell'architettura lusitana. I marciapiedi erano pavimentati con un lastricato alla portoghese e decorati con figure geometriche in bianco e nero. Ovunque si vedevano negozi con i nomi più svariati, il Pince-Nez de Ouro, il Palácio da Ferramenta, la Casa Oliveira. «Che via è questa?». «Come dice, signore?» domandò il tassista, guardando dal retrovisore. «Come si chiama questa via?». «Via da Carioca, signore. Una delle più antiche di Rio, risale al XIX secolo». Indicò verso sinistra. «Vede quel locale lì?». Tomás osservò il luogo segnalato; all'interno c'erano tavoli con piatti e posate, bicchieri e bottiglie. «Quel ristorante?». «Sì. È il Bar do Luís». Il tassista si fermò davanti al locale, bloccato dall'intenso traffico della mattina, ed entrambi rimasero a osservare. «È il più antico di Rio, signore. Aprì nel 1887 e ha una storia curiosa. Anticamente si chiamava Bar Adolf e vi si trovava la migliore cucina tedesca di tutta la città, facevano dei wurstel squisiti. Tutti gli intellettuali dell'epoca ci venivano per mangiare e bere un goccio di birra alla spina». Il traffico tornò a fluire e il taxi riprese la sua corsa. «Dopo scoppiò la Seconda
Guerra Mondiale e sa cosa fecero?». «Lo demolirono?». Il tassista sorrise. «Cambiarono nome». Incrociarono Viale República do Paraguay; l'uomo indicò nuovamente verso sinistra, in direzione di un edificio dalla struttura metallica. «Quello è il cinema Iris» disse, quasi trasformandosi in guida turistica. «Era il più elegante di Rio». Via Carioca sboccò su una larga piazza. Tutto lo spazio centrale era occupato da un giardino protetto da un'inferriata; c'erano alberi lungo il perimetro e in mezzo si ergeva una grande statua di bronzo con un cavaliere che esibiva nella mano destra quello che doveva essere un documento; sul piedistallo si riconoscevano altre figure, fra cui indios armati di lance e seduti su coccodrilli. «Questa cos'è?». «È Piazza Tiradentes, signore». «Quello è Tiradentes?» chiese Tomás, indicando la figura equestre del monumento che dominava la piazza. Il tassista rise. «No, signore. Quello è l'imperatore Don Pedro I». «E allora perché si chiama Piazza Tiradentes?». «È una lunga storia. Inizialmente si chiamava Campo dos Ciganos. Poi ci costruirono una gogna per punire gli schiavi e allora prese il nome di Terreiro da Polé. Successivamente, quando ci fu la rivolta del Tiradentes, che portò all'indipendenza, innalzarono qui il patibolo per ucciderlo». «Uccidere chi?». «Ma il Tiradentes, no?». «Ah!» esclamò Tomás, mordendosi le labbra. Rimase a osservare la figura equestre. «Che cosa ha in mano Don Pedro I?». «La dichiarazione d'indipendenza del Brasile». Il tassista tirò su col naso. «Questa statua fu fatta realizzare da suo figlio, l'imperatore Don Pedro II. Raccontano che il giorno dell'inaugurazione, l'imperatore, guardando la statua, s'irritò molto». Sorrise. «L'uomo a cavallo non somigliava per niente a papà». Il tassista fece il giro della piazza e imboccò una viuzza stretta; poi girò a destra e si fermò un po' più avanti, vicino a una libreria antiquaria. Indicò una traversa a sinistra. «Quella è Via Luís de Camões, signore. Il Real Gabinete è proprio lì».
Tomás pagò e scese dalla macchina. Percorse la strada stretta e selciata, a senso unico, e giunse in una tranquilla piazzetta, Largo de São Francisco. Un bel monumento bianco in stile neomanuelino conferiva al piazzale una maggiore dignità, assomigliava vagamente a una Torre de Belém ancor più raffinata. Quattro statue a grandezza naturale, incastonate nella facciata, sembravano vigilare sull'edificio. Il visitatore indietreggiò di alcuni passi, entrando nel piazzale, e ammirò la splendida architettura bianca. L'unico colore visibile era il rosso delle due croci portoghesi dell'Ordine Militare di Cristo, simili a quelle delle navi e delle caravelle cinquecentesche; sopra, scritto in caratteri maiuscoli, si leggeva "Real Gabinete Portuguez de Leitura". Sempre ammirando la vistosa facciata, Tomás oltrepassò l'imponente porta ad arco ed entrò nella seconda biblioteca più grande di Rio de Janeiro, una bella costruzione del XIX secolo offerta dal Portogallo al Brasile, nella quale si concentrava il più pregiato patrimonio di opere di autori portoghesi all'estero. Il visitatore attraversò il piccolo atrio con tre lunghe falcate e quasi trattenne il respiro quando, davanti a sé, si aprì lo spazio del salone centrale. Gli occhi gli si riempirono della magnifica visione della vasta sala di lettura, dove lo stile neo-manuelino raggiungeva il suo apogeo. Le pareti erano colme di libri, sistemati su grandiose librerie in legno lavorato che, come armoniose edere, s'arrampicavano fino al soffitto. Le splendide colonne, che sorreggevano i primi due piani di scaffali, curvavano fino a formare eleganti archi e culminavano in bellissime balaustre. Il brillante pavimento era coperto da granito levigato color grigio chiaro, venato da linee geometriche nere, parallele e perpendicolari. Uno splendido lucernario a vetrate azzurre e rosse si apriva su tutta la larghezza del soffitto, lasciando che la luce naturale si spandesse armoniosamente per la sala. In alto, in ognuno dei quattro angoli, era raffigurato un eroe portoghese, Tomás riconobbe i volti di Camões e Pedro Álvares Cabral. Dal centro pendeva un enorme e pesante lampadario di ferro, rotondo come una sfera armillare, decorato con lo scudo del Portogallo. Stordito dalla monumentalità di quella biblioteca, Tomás attraversò rispettosamente il salone e si diresse verso una signora seduta da una parte, curva su un computer. Solo quando il nuovo arrivato le fu davanti, la donna alzò la testa dallo schermo. «Prego?» domandò. «Buongiorno. Lei lavora qui?». «Sì, io sono la bibliotecaria. Posso esserle d'aiuto?». «Mi chiamo Tomás Noronha, sono un professore dell'Università Nova di
Lisbona». «Ah, sì!» esclamò la bibliotecaria, riconoscendolo. «Il dottor Rebelo mi ha parlato di lei. Lei gode del sostegno del console, vero?». «Credo di sì». «Mi hanno chiesto di trattarla molto bene» sorrise. «In cosa posso esserle utile?». «Ho bisogno di sapere quali sono le opere consultate dal professor Vasconcelos Toscano, che è stato qui circa tre settimane fa». La donna digitò il nome sul computer. «Vasconcelos Toscano, giusto? Vediamo... solo un momento». Lo schermo mostrò il responso in pochi secondi e la bibliotecaria, guardando quei dati, si sforzò di ricordare. «Questo professor Toscano era per caso un vecchietto con la barba bianca?». «Sì». «Ah, certo. Mi ricordo di lui». Sorrise. «Era un po' testardo e brontolone, a volte parlava ad alta voce da solo». Guardò Tomás e, temendo di aver davanti un amico o un parente, si affrettò ad aggiungere: «Ma era un amore di persona, davvero. Non ho di che lamentarmi». «Senza dubbio». «Ehi!» disse. «Non è più venuto. È forse arrabbiato con noi?». «No. È morto due settimane e mezzo fa». La donna fece una smorfia inorridita. «Ah!» esclamò, sconvolta. «Davvero? Com'è strana la vita, che tristezza! Guarda un po'! L'altro giorno era qui, e adesso...». Si fece il segno della croce. «Vergine Maria Santissima!». Tomás sospirò, simulando compassione, ma ardeva per l'impazienza di sapere quale fosse la risposta del computer. «È la vita!». «Mamma mia! Lei è un familiare?». «No, no. Sono un... amico. Ho il compito di ricostruire le ultime ricerche del professor Toscano. È per una pubblicazione». Con un cenno della testa indicò lo schermo del computer. «Ha già dato il risultato?». La bibliotecaria sussultò e rivolse l'attenzione allo schermo. «Sì» rispose. «Beh, sa, quel vecchietto... ehm... il professor Toscano, è venuto qua solo tre volte, e sempre per leggere la stessa opera». Fissò gli occhi sul titolo visualizzato dal computer. «Voleva solo la História da
Colonização Portuguesa do Brasil, pubblicata nel 1921 a Porto. È l'unica cosa che ha consultato». «Ah sì?» si meravigliò Tomás. «E quest'opera si trova qui?». «Certo. Che volume desidera?». «Quali sono i volumi consultati dal professore?». La donna verificò sullo schermo. «Solo il primo». «Allora mi dia quello» fece Tomás. La bibliotecaria si alzò per andare alla ricerca dell'opera. Mentre aspettava, Tomás si sedette comodamente su una sedia di legno accostata a un tavolo per la consultazione e rimase ad ammirare il bel salone. Respirò con piacere l'odore caldo e dolciastro della carta vecchia, un profumo al quale si era ormai da tempo abituato nelle biblioteche, e del quale non riusciva a fare a meno; era il suo ossigeno. Quell'aria che veniva dal passato, come un viaggiatore invisibile e misterioso che porta notizie di un tempo che non esiste più, rappresentava l'origine della sua ispirazione e il destino della sua vita. Ognuno ha il proprio vizio, e quello era il suo. C'erano quelli che non potevano vivere senza la brezza salata del mare, altri che per nulla al mondo avrebbero rinunciato agli spazi freschi e limpidi della montagna e, infine, quelli che si abbandonavano al fascino del verde e dei profumi purificanti che aleggiano nei boschi e nelle foreste. Ma era di fronte ai manoscritti antichi, ingialliti e ammuffiti, rovinati e persi in qualche angolo dimenticato di chissà quale polverosa biblioteca, che Tomás trovava la sua fonte d'incanto e l'energia che lo alimentava. Quella, lo sapeva, era la sua casa; ovunque ci fossero vecchi libri, lì si trovavano le sue radici più profonde. «Eccolo qua!» annunciò la bibliotecaria, appoggiando sul tavolo un largo volume. Tomás studiò l'opera e vide che la História da Colonização Portuguesa do Brasil era stata diretta e coordinata da Malheiro Dias e stampata dalla Litografia Nacional, a Porto, nel 1921. Iniziò a leggere il testo, dapprima con attenzione. Dopo un'ora, tuttavia, avendo verificato che si limitava a sistematizzare un insieme d'informazioni che egli già possedeva, passò a una lettura più trasversale, sfogliandolo velocemente. Quando ebbe finito, frustrato per non aver trovato nulla di rilevante che potesse aiutarlo nelle sue ricerche, andò dalla bibliotecaria e le riconsegnò il volume. «Ho finito» disse. «Il professor Toscano non ha consultato nient'altro?». «Dal computer risulta solo quest'opera».
Tomás rimase pensieroso. «Hmm» mormorò. «È proprio sicura che abbia visto solo questo libro?». La brasiliana rifletté. «Beh, ha consultato soltanto questo, non c'è dubbio. Ma mi ricordo che era interessato anche alle nostre reliquie, gli ha anche dato un'occhiata». «Reliquie?». «Sì. Abbiamo un esemplare della prima edizione de I Lusiadi, del 1572, e le Ordenações de D. Manuel, del 1521. Inoltre, sono conservati qui i Capitolos e Leys que sobre alguns delles fizeram, del 1539, e la Verdadeira informaçam das terras do Preste Joam, segundo vio e escreveo ho padre Francisco Alvarez, del 1540». «Ha consultato tutto questo?». «No» replicò lei, scrollando vigorosamente la testa. «Gli ha solo dato un rapido sguardo». «Ah, ho capito» assentì Tomás. «Semplice curiosità di storico». «Già» sorrise la donna. «Sa, qui abbiamo trecentocinquantamila libri, ma la cosa più importante è la nostra collezione di opere rare, una preziosa raccolta che comprende i manoscritti autografi di Amore di Perdizione, di Camilo Castelo Branco. Questo chiaramente attrae molte persone». Inarcò le sopracciglia, come chi fa un invito. «Vuole vederli?». Il portoghese guardò l'orologio e sospirò. «Magari un altro giorno» disse. «È già l'una e sono affamato. Sa se ci sono ristoranti vicino alla Biblioteca Nazionale?». «Certo. Proprio di fronte, sull'altro lato della piazza». «Meno male. Quanto ci si mette a piedi?». «A piedi fino alla Biblioteca Nazionale? Beh! Non è il caso. È una bella camminata, ci si mette un'ora. Se ha fretta, le conviene prendere un taxi». Pranzò con una tenera fettina di carne nel cortile di un ristorante della Cinelândia, nome con il quale era conosciuta Piazza Floriano, all'inizio del vasto Viale Rio Branco. Mentre mangiava, continuava a rimuginare sul mistero della sciarada da decifrare. La mente era assalita da mille dubbi, radicati nella perplessità che si era impadronita di lui dinanzi alla relazione stabilita da Toscano tra Moloc, Ninundia e la scoperta del Brasile. Per quanto tentasse di sviscerare il problema, non c'era verso di scorgerne la soluzione. Così, non riuscendo a fare passi avanti, decise di riprendere l'idea che aveva scartato vedendo l'enigma per la prima volta, nel palazzo di São Clemente, vale a dire che il messaggio fosse in realtà una cifra. Certamente quest'ipotesi non lo convinceva, perché nulla in quelle strane strut-
ture verbali faceva pensare all'aspetto caotico che hanno solitamente le cifre. Nel suo caso, infatti, le vocali si legavano alle consonanti, formavano sillabe, articolavano suoni, suggerivano parole. Di fatto, sembrava un codice. Ma se invece si fosse trattato veramente di una cifra? In mancanza d'idee migliori, Tomás si decise a prendere in considerazione quell'ipotesi, a titolo puramente esplorativo, affidandosi anzitutto a un'analisi di frequenze. Il primo problema era determinare in quale lingua fosse scritto il messaggio cifrato, sempre che fosse cifrato. Dato che Toscano era portoghese, gli sembrò naturale che il messaggio occulto fosse scritto in portoghese. Prese la fotocopia della sciarada, piegata all'interno del bloc-notes, e la studiò con attenzione. Contò le lettere delle due parole della seconda riga e notò che due in particolare, la o e la n, apparivano tre volte, mentre la a, la s e la i erano ripetute due volte e la d, la t la u e la m soltanto una. Come criptanalista, Tomás sapeva che le lettere più comuni nelle lingue europee sono la e e la a, pertanto le collocò rispettivamente al posto della n e della o, le più frequenti dell'enigma. Scrisse la frase sulla tovaglia di carta del ristorante e procedette alla sostituzione delle lettere. Quando terminò, si soffermò a valutare il risultato: N I N U N D I A E R E ? E ? R S
O M A S T O O S A ? S I ? A A I
Quale poteva essere la prima parola, ere?e?rs, a cui mancavano solo due lettere? Provò a inserire negli spazi da riempire le lettere meno usate, facendo diversi tentativi: prima, con la c, "erececrs"; poi, con la m, "erememrs"; alla fine con la d, "erededrs". Scrollò la testa. Niente aveva senso. Passò all'altra parola, a?si?aai, ma anche questa risultava impenetrabile. "Acsicaai"? "Amsimaai"? "Adsidaai"? Insoddisfatto, pensò alla possibilità di essersi focalizzato sulla sequenza errata e, per verificare questo nuovo dubbio, invertì le a e le e tra loro e osservò l'esito di quel cambiamento: ARA?A?RS E?SI?EEI Di male in peggio. Ara?a?rs corrispondeva a "Aramarars" ? "Aratatrs"? Non aveva alcun significato. Disperato, prese la seconda parola, e?si?ee, ma anche questa non chiariva alcunché. "Emsimee"? "Etsitee"? No. Concludendo che l'errore potesse stare nelle altre due lettere, cosa molto pro-
babile, decise di cambiare l'ordine delle s, delle r e delle i. Dopo aver finito, esaminò la nuova sequenza ma, ancora una volta, non riuscì a strapparle alcun significato intellegibile. Scrollò la testa e desistette, definitivamente convinto che non si trattasse di una cifra. Quello era di certo un codice. Ma quale? Al Gabinete Português non aveva trovato nulla che gli sembrasse rilevante e tutte le sue speranze erano ormai riposte nella Biblioteca Nazionale dove risultava che Toscano avesse trascorso la maggior parte del proprio tempo. Era dunque lì che lo storico doveva probabilmente aver compiuto l'importante scoperta poi accennata a Moliarti. Sospirò pesantemente. Guardò dalla finestra del ristorante e, oltre gli alberi che coloravano la piazza, ammirò la facciata di quella che Tomás sapeva essere una delle biblioteche più importanti. Contava, infatti, più di dieci milioni di volumi, tanto da essere, per grandezza, l'ottava del mondo e, in assoluto, la maggiore di lingua portoghese. Tuttavia, non era questo che la rendeva così speciale. In realtà, la sua importanza per la ricerca affidata a Tomás non derivava dalla quantità di opere in essa contenute, ma dalla qualità, dovuta alle lontane e tribolate origini dell'istituzione. Infatti, la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro era l'eredità dell'antica Livraria Real portoghese, distrutta da un incendio provocato dal violento terremoto del 1755 a Lisbona. In seguito all'episodio, fu ricostruita per ordine di Don José e prese il nome di Real Bibliotheca. Quando le truppe napoleoniche invasero il Portogallo, all'inizio del XIX secolo, la Corona portoghese fuggì in Brasile, stabilendo la capitale dell'impero a Rio de Janeiro e ordinando che il materiale della biblioteca fosse trasferito. Sessantamila libri, manoscritti, stampe e mappe, inclusi più di duecento preziosi incunaboli, attraversarono l'Atlantico all'interno di casse e furono deposti sulle rive della baia di Guanabara per poi essere conservati, nelle rispettive catacombe, dentro l'Ospedale del Convento dell'Ordem Terceira do Carmo. In questo posto rimasero custoditi dei veri tesori della bibliografia mondiale, tra cui due esemplari della Bibbia di Magonza, del 1462, la prima stampata dopo la Bibbia di Gutemberg, la prima edizione de I Lusiadi, di Camões, datata 1572, e il Registrorum huius operis libri cronicarum cu(m) figuris et ymagibus ab inicio mu(n)di, conosciuto anche come Cronaca di Norimberga, la celebre opera nella quale Hartmann Schedel redige una cronaca generale del mondo conosciuto nel 1493, data della sua pubblicazione, e che comprende tre stampe di Albrecht Dùrer. Quando il Brasile dichiarò l'indipendenza, il Portogallo pretese la restituzione di questo tesoro culturale. I bra-
siliani, dal canto loro, si rifiutarono di farlo e, alla fine, entrambe le parti concordarono che Lisbona, per quella perdita, avrebbe ricevuto un'indennità di ottocento contos di reis. Fu così che, quando mancavano ancora cinque minuti alle tre del pomeriggio, Tomás lasciò speranzoso il ristorante, attraversando la piazza e il Viale Rio Branco in direzione della Biblioteca Nazionale. Salì le ampie scale di pietra e all'ingresso venne fermato da una guardia che gli indicò un bancone sulla sinistra, dietro al quale quattro ragazze dall'aria annoiata attendevano i visitatori. «Buonasera» salutò Tomás. Consultò il bloc-notes, alla ricerca del nome che l'assistente del console gli aveva dato. «Vorrei parlare con Paulo Ferreira da Lagoa». «Ha un appuntamento?» domandò una delle ragazze dalla pelle scura e cristallini occhi verdi. «Sì, mi sta aspettando». «Il suo nome?». Il nuovo arrivato si presentò e la receptionist prese il telefono. Dopo un attimo di attesa, la ragazza consegnò un lasciapassare a Tomás e gli disse di salire al quarto piano. Gli spiegò dove fossero gli ascensori e il visitatore seguì il percorso indicatogli. Venne nuovamente fermato, questa volta da una donna robusta che sorvegliava l'accesso agli ascensori. La guardia gli controllò il lasciapassare, ma aggrottò le sopracciglia quando vide il bloc-notes che lui aveva in mano. «In sala lettura può usare solo matite» lo informò la donna. «Ma io ho solo una penna...». «Non importa. Ne chieda in prestito una, oppure, se non ce ne fossero, vada a comprarla in caffetteria: lì le vendono». Attese alcuni istanti davanti all'entrata dell'ascensore, dopodiché le porte si aprirono e poté finalmente entrare nella cabina gremita di persone che venivano dal piano inferiore. Salì all'ultimo, il quarto. Mentre si incamminava verso l'atrio, dominato dalle scale di marmo, con il parapetto che si prolungava lungo il corridoio, si avvicinò all'inferriata di bronzo che lo proteggeva. Passandoci sopra la mano, verificò che era ricoperta da una patina nera e da un fregio. Quindi, accarezzò la ringhiera in lucido ottone dorato e osservò l'interno dell'edificio. Guardandosi attorno, si accorse che la prima porta a destra riportava la dicitura "Presidenza". Allora vi si diresse e, nell'aprirla, la prima sensazione che lo invase fu quella prodotta dal
getto moderato dell'aria fresca e secca dei condizionatori; la seconda fu di sorpresa. Si trovò, infatti, davanti a qualcosa di più simile a un ampio salone che a un ufficio. Questo, in realtà, era costituito da una larga veranda che circondava il salone centrale e per la quale erano sparsi armadi, scrivanie e persone intente al lavoro. Un vasto lucernario, riccamente decorato con vetrate colorate, copriva tutto il soffitto lasciandosi penetrare dalla luce del giorno. «Prego?» domandò un ragazzo seduto al tavolo vicino alla porta. «Posso aiutarla?». «Dovrei parlare con il presidente». L'impiegato lo accompagnò dall'assistente del responsabile della Biblioteca Nazionale, una ragazza mora, occhi neri e mento aguzzo, che stava seduta a una vecchia scrivania di legno, incollata al telefono. Terminata la telefonata, posò la cornetta e osservò il nuovo ospite. «Lei è il professor Noronha?». «Sì, sono io». «Vado a chiamare il dottor Paulo, che desidera conoscerla». La ragazza percorse la veranda. L'uomo verso cui era diretta aveva capelli castano chiaro, un po' radi, e dimostrava sui quarantacinque anni. Insieme ad altre persone, sedeva a un lungo tavolo: chiaramente era in corso una riunione. Il tipo si alzò (era piuttosto alto, aveva solo piccole maniglie dell'amore ai fianchi, ma niente di grave), seguì la giovane donna e andò a salutare Tomás. «Professor Noronha, molto piacere» disse, porgendogli la destra. «Sono Paulo Ferreira da Lagoa». «Piacere». Si strinsero la mano. «Il console mi ha telefonato e mi ha spiegato la sua missione. Quindi ho fatto i compiti a casa e ho già chiesto un elenco di tutte le richieste fatte dal professor Toscano». Fece segno alla sua assistente. «Célia, ha lei il dossier?». «Sì, dottore» assentì la ragazza, porgendogli una ventiquattrore beige. Il presidente della biblioteca l'aprì, sfogliò i documenti e la consegnò al visitatore. «Ecco qua, professore». Tomás prese la borsa e ne esaminò il contenuto. Erano copie delle richieste fatte settimane prima da Toscano. La qualità della lista fu la cosa che subito richiamò la sua attenzione. La prima opera era la Cosmogra-
phiae introductio cum quibusdam geometriae ac astronomiae principiis ad eam rem necessariis, Insuper quator Americi Vespucii navigationes di Martin Waldseemüller, datata 1507; poi veniva la Narratio regionum indicarum per hispanos quosdam devastatarum verissima, il testo del 1598 di Bartolomé de Las Casas; a seguire, Epistola de Insulis nuper inventis, pubblicata da Cristoforo Colombo nel 1493; la successiva richiesta s'intitolava De orbe novo decades di Pietro d'Anghiera, del 1516; la penultima opera era il Psalterium di Bernardo Giustiniani, sempre del 1516; infine, il Paesi nuovamente retrovati et novo mondo da A. Vesputio di Francanzano Montalboddo, datato 1507. «È questo che cercava?». «Sì» affermò Tomás, con aria pensierosa. Il presidente della Biblioteca Nazionale brasiliana si accorse dell'esitazione del portoghese. «Tutto bene?». «Ehm... sì... più o meno, penso ci sia qualcosa di strano». «Davvero?». Tomás gli porse le copie delle richieste. «Mi dica, dottor Lagoa, quali di queste opere hanno qualche relazione con la scoperta del Brasile da parte di Pedro Alvares Cabral?». Il brasiliano analizzò i titoli che risultavano dai fogli. «Bene...» iniziò a dire. «La Cosmographiae di Waldseemüller mostra una delle prime mappe nelle quali è compreso il Brasile». Consultò un'altra richiesta. «E il Paesi di Moltalboddo è il primo libro in cui fu pubblicata la relazione della scoperta del Brasile. Fino al 1507 soltanto i portoghesi erano a conoscenza dei dettagli del viaggio di Cabral che, prima d'allora, non era mai stato fatto oggetto di un'esposizione dettagliata. Il Paesi fu la prima opera a occuparsene». «Hmm...» mormorò Tomás, valutando ciò che gli era stato riferito. «Gli altri libri, invece? Non hanno legami con il Brasile?». «No, che io sappia no». «È strano...». Ci fu silenzio. «Desidera consultare qualcuna di queste opere?». «Sì» decise Tomás. «Il Paesi». «Vado a chiedere che l'accompagnino nell'area dei microfilm». «Il professor Toscano ha consultato il Paesi in microfilm?». Lagoa controllò la richiesta.
«No, ha letto l'originale». «Allora, se non le dispiace, è meglio che anche io veda l'originale. Voglio consultare esattamente gli stessi esemplari utilizzati da Toscano. Potrebbero esserci importanti annotazioni a margine, oppure il tipo di carta usata potrebbe rivelarsi un indizio decisivo. Ho bisogno di vedere esattamente ciò che lui ha visto, solo così avrò la certezza che nulla possa sfuggirmi». Il brasiliano fece cenno all'assistente. «Célia, mandi a prendere l'originale del Paesi». Guardò nuovamente la richiesta. «Collocazione 1,3. Poi accompagni il signore alla sezione delle opere rare e proceda alla consultazione secondo il protocollo». Si rivolse a Tomás e gli strinse la mano. «Professore, è stato un piacere. Per qualsiasi cosa, Célia potrà aiutarla». Lagoa tornò alla sua riunione e l'assistente, dopo una breve telefonata, invitò il visitatore a seguirla. Uscirono dall'atrio e scesero al piano inferiore attraverso la scalinata di marmo. La ragazza condusse Tomás attraverso una porta proprio sotto l'ufficio della presidenza; un'insegna indicava "Opere Rare". Entrarono e il visitatore capì di essere tornato nello stesso ampio salone di prima, sebbene ora non si trovasse più nella grande veranda al piano superiore, ma nella stanza sottostante. Sulla sinistra campeggiava un alto armadio di legno, con piccoli cassetti e maniglie metalliche, accanto alle quali c'era un foglio che indicava le lettere di riferimento, per autore e per titolo. Attraversato il salone, Tomás giunse in prossimità di un tavolo posto proprio di fronte alle scrivanie del personale di sala. Il tavolo era coperto da un tessuto di velluto bordeaux, sul quale erano stati poggiati un piccolo libro marrone con i bordi dorati e un paio di guanti bianchi e sottili. Célia gli presentò la bibliotecaria, una signora bassa e rotondetta. «È questo il libro?» domandò Tomás, indicando l'antico esemplare posto sul velluto del tavolo. «Sì» confermò la bibliotecaria. «È il Paesi di Montalboddo». «Hmm». Si avvicinò, e si chinò sull'opera. «Posso vederlo?». «Certamente» autorizzò la signora. «Ma la prego d'indossare i guanti. È un libro antico e abbiamo paura delle ditate e di...». «So come funziona» l'interruppe Tomás con un sorriso. «Non si preoccupi, sono abituato». «E può usare solo la matita». «Purtroppo non ne ho» ammise il portoghese tastandosi nelle tasche. «Può usare questa!» esclamò la donna, posando sul tavolo una matita
appuntita. Tomás infilò i guanti bianchi, si sedette e prese il piccolo libro marrone, passando con leggerezza la mano sulla rilegatura in cuoio. Le prime pagine riportavano il titolo e l'autore, la città, Vicenza, e la data di pubblicazione, 1507. Un'annotazione a matita riferiva, in portoghese moderno, che in quelle pagine si trovava la prima narrazione del viaggio in Brasile di Pedro Alvares Cabral e che l'opera era, per antichità, la seconda fra le raccolte di viaggi. Sfogliò il libro: le pagine erano ingiallite e macchiate, ed esalavano un profumo caldo e dolciastro. Gli sarebbe piaciuto anche sentire la consistenza del foglio, ma i guanti glielo impedivano, era come se fosse anestetizzato. Il testo gli sembrava scritto in toscano stampato a ventinove righe, con ornées che aprivano ogni capitolo. Impiegò due ore a leggere l'opera, annotando a matita alcuni appunti sul bloc-notes. Quando ebbe finito, posò il libro, s'alzò dalla sedia e, dopo essersi sgranchito, andò dalla bibliotecaria, impegnata con alcune richieste. «Scusi» disse, attirando la sua attenzione. «Ho finito». «Ah, sì!» esclamò lei. «Vuole consultare qualche altra opera?». Tomás guardò l'orologio. Erano le cinque del pomeriggio. «A che ora chiude?». «Alle otto, signore». Il portoghese sospirò. «No, penso che me ne andrò, sono stanco. Torno domani per vedere il Waldseemüller». Fece un cenno con la testa. «Molte grazie e a domani». Allora, Célia scese di nuovo nella sala delle opere rare per accompagnarlo durante il tragitto in ascensore. Arrivati al piano dell'entrata principale, proseguirono verso l'atrio, girando intorno alla scalinata di marmo. Mentre si avvicinava al bancone della reception, affinché il visitatore restituisse il proprio lasciapassare, l'assistente del presidente della biblioteca all'improvviso si fermò e, spalancando gli occhi, si mise le mani in testa. «Ah, professore, proprio ora mi sono ricordata di una cosa!» disse dispiaciuta. Tomás la guardò, stupito. «Mi dica». «Il professor Toscano era solito utilizzare gli armadietti per i lettori e, ora che è morto, la sua cassetta è chiusa e non possiamo utilizzarla». Assunse un'aria supplichevole. «Le dispiacerebbe consegnare in consolato le cose che il professore ha lasciato qui?». Il portoghese alzò le spalle e aprì le mani, in un gesto d'indifferenza.
«Certamente. L'importante è che non mi porti via troppo tempo». «È già tutto qui» lo tranquillizzò Célia. La ragazza accelerò il passo in direzione di una guardia che si trovava a sinistra dell'atrio, proprio dietro la reception, e Tomás la seguì. Passarono attraverso un metal detector, simile a quello degli aeroporti, e infine si trovarono davanti a due mobili neri, solidi e compatti. Célia controllò i numeri di ogni cassetta finché si fermò al sessantasette. A quel punto, tirò fuori dalla tasca un passe-partout e l'introdusse nella serratura. Lo sportellino si aprì, mostrando una piccola scatola contenente vari documenti. La ragazza li prese e quindi li consegnò a Tomás, che seguiva l'operazione con crescente curiosità. «Che cos'è?» domandò il portoghese, guardando i fogli che teneva in mano. «È il materiale lasciato dal professor Toscano. Non le dispiace portarlo via, vero?». Tomás prese a sfogliare le pagine. C'erano fotocopie di documenti microfilmati e alcuni appunti. Tentò di leggerli e notò qualcosa di strano: un foglio riportava due frasi, ognuna composta da tre parole scritte in maiuscolo, e alcune lettere dell'alfabeto disposte in sequenze incrociate. ANA ASSA ARARA SONOS MATAM OTTO A D—E H—I M I I I I I I B—C F—G J—L Tomás chiuse gli occhi nel tentativo di cogliere il significato di quelle insolite sequenze. Rimase un momento a riflettere, considerando varie possibilità, dopodiché un sorriso gli illuminò il volto. Allora, stese il foglio a Cèlia, orgoglioso e trionfante. «Che ne pensa?». La brasiliana osservò le parole, aggrottò le sopracciglia e alzò gli occhi.
«Beh... non so, sono stravaganti, non trova?». Abbassò la testa sul foglio, leggendo ciò che era scritto nei primi blocchi. «"Ana assa arara e sonos matam Otto"». Anche Tomás corrugò le sopracciglia. «Non nota niente di strano?». La ragazza tornò di nuovo a guardare le bizzarre sequenze di lettere; dopo un istante d'inutile ricerca, fece una smorfia con la bocca. «Beh, sono frasi un po' senza senso, vero?». «E non nota nient'altro?». Lei osservò ancora con attenzione. «No» disse alla fine. «Perché?». Il portoghese indicò le due frasi. «Vede, queste parole sono palindrome». «Palindrome? In che senso?». «Leggendo da sinistra a destra o viceversa, sono sempre uguali». Fissò lo sguardo sulle lettere. «Ora guardi. La prima parola è Ana, che si legge allo stesso modo da un verso o dall'altro. La stessa cosa vale per Assa e Arara, e così via». «Oh, interessante!» esclamò Célia, meravigliata. «Ma pensi un po'! Semplice!». «Curioso, no?». «E perché lo avrebbe fatto?». «Beh, il professore amava le sciarade, a quanto sembra era solito fare giochi di...». Tomás s'interruppe. Spalancò gli occhi, gli si appannò la vista, e le labbra disegnarono una O. «Vuoi vedere che il furbacchione... il furbacchione...» balbettò tra sé, aprendo e chiudendo la bocca come fosse stato un pesce. Infilò di scatto le mani nelle tasche ma, non trovando ciò che voleva, consultò con impazienza i fogli piegati all'interno del blocnotes, finché non scovò quello che stava cercando. «Ah! Eccolo». Célia osservò il foglio, ma non capì nulla. MOLOC NINUNDIA OMASTOOS Tomás puntò gli occhi su quelle parole, bisbigliandole in un impercettibile mormorio. Poi scarabocchiò freneticamente alcuni segni incomprensibili. All'improvviso, il viso gli s'illuminò e alzò trionfalmente le braccia al cielo.
«Ho trovato!» gridò, mentre la voce riecheggiava attraverso l'atrio e attirava sguardi. Célia l'osservò con stupore. «Professore, che succede?». «Ho decifrato la sciarada!» esclamò Tomás, con gli occhi sbarrati, emozionato e allegro. «È di una semplicità disarmante». Si picchiettò le tempie con l'indice. «Mi sono scervellato come un pazzo e invece, alla fine, bastava leggere la prima riga da destra a sinistra». Guardò nuovamente il foglio. «Vuol vedere?». Prese una penna e scribacchiò la soluzione sotto alla cifra. Nella riga in alto scrisse: COLOM E sotto, prendendo come esempio la struttura alfabetica annotata da Toscano, fece uno strano ragionamento: NINUNDIA OMASTOOS N I—N U—N D—I A I I I I I I I I O—M A—S T—O O—S NOMINASUNTODIOSA Analizzò meglio la frase, collocò gli spazi nei punti appropriati e la riscrisse: NOMINA SUNT ODIOSA «Che cos'è?» chiese Célia. «Hmm» mormorò Tomás, sforzandosi di ricordare. Corrugò la fronte e riconobbe la citazione. «Cicerone». «Chi?». «Cicerone» ripeté. «È il messaggio che ci ha lasciato il professor Toscano». «Cicerone? Ma che significa?».
«Significa, mia cara, che devo tornare di sopra e consultare tutto da capo!» disse, dirigendosi frettolosamente verso gli ascensori. Agitò il foglio. «Qui c'è la pista per la grande scoperta!». IV Le alte nubi minacciavano di coprire il sole, spuntando lentamente come un manto lontano e spandendosi dalla linea dell'orizzonte a Ponente. Erano cumulostrati alti, leggermente grigiastri e rigonfi, piatti e scuri alla base, frastagliati e brillanti in cima. Il sole d'inverno illuminava la lucente distesa del Tago e il basso caseggiato di Lisbona, con il suo limpido chiarore, freddo e trasparente, metteva in risalto i toni vivi delle facciate colorate e i tetti color mattone che salivano e scendevano, come onde, secondo l'andamento curvilineo, quasi femminile, della collina di Lapa. Tomás girò e rigirò, a destra e a sinistra, per le viuzze semideserte del quartiere, indeciso sul percorso da seguire in quello stretto labirinto cittadino, finché non si trovò, quasi per caso, nella discreta Via do Pau da Bandeira. A metà discesa, gli apparve finalmente il bell'edificio color salmone. Con la piccola Peugeot attraversò il grande portone che si apriva sulla sinistra, fermandosi davanti a due lucenti Mercedes nere, nel cortile di fronte alla porta d'entrata dell'elegante palazzina. Un portinaio in perfetta livrea, con il suo cappello grigio chiaro, il soprabito, il gilet grigio scuro e la cravatta cangiante, si avvicinò all'auto, al che il visitatore abbassò il finestrino. «È questo l'Hotel da Lapa?». «Sì». «Posso parcheggiare qui? Sulla via...». «Non si preoccupi. Mi lasci pure la chiave, penso io alla macchina». Tomás entrò nell'accogliente lobby dell'hotel con in mano la ventiquattrore. Il pavimento di marmo color crema avorio gli sembrava uno specchio. La superficie liscia e brillante era interrotta solo da un disegno geometrico incastonato al centro. Sopra al disegno era collocato un grazioso tavolo circolare su cui poggiava un bel vaso colmo di dritte malvarose, splendenti e radiose, aperte a ventaglio come la coda di un pavone. Tomás conosceva bene quei fiori, che a volte erano stati rinvenuti perfino nelle sepolture degli uomini di Neanderthal e nelle tombe dei faraoni. Constança avrebbe saputo interpretarne il significato, pensò. I mobili che decoravano l'atrio erano in stile Luigi XV, o comunque lo imitavano bene, con sofà co-
lor crema e sedie foderate in pelle bianca. Notò sulla sinistra un viso familiare, un uomo dagli occhi piccoli e il naso aquilino, che, lasciata cadere la rivista rosa che stava sfogliando, si alzò dal divano per venirgli incontro. «Tomás, lei è un tipo proprio puntuale!» esclamò Nelson Moliarti con un sorriso e il suo caratteristico accento brasiliano americanizzato. Si strinsero la mano. «Salve, Nelson. Tutto bene?». «Benissimo». Spalancò le braccia e respirò. «Ah, com'è bello essere qui a Lisbona». «Quando è arrivato?». «Tre giorni fa. Ho fatto un po' di giri». «Ah sì? E dov'è andato?». «Oh, qua e là, sa com'è». Gli fece segno di seguirlo nella sala che una targhetta battezzava "Rio Tejo Bar". «Venga, andiamo a prendere qualcosa. Ha fame?». «No, grazie, ho già pranzato». «Ma, Tom, sono quasi le cinque del pomeriggio. Tea time». Un piano a coda, un Kawai nero rilucente, sorvegliava l'ingresso del bar come una sentinella solitaria e silenziosa, aspettando pazientemente che agili dita tornassero ad animare i suoi tasti color avorio. A destra si trovava un bancone in noce verniciato, dietro al quale un cameriere stava pulendo dei bicchieri con un panno. Di fronte c'erano tavoli e sedie, foderate con un tessuto a temi elaborati, tutti in stile Luigi XV. Cinque grandi finestre, abbellite da tendaggi rosso scuro, si aprivano sul giardino e la soave melodia di un balletto di Tchaikovsky fluttuava nell'aria, lievemente, creando nel bar un'atmosfera tranquilla, gradevole e raffinata. Moliarti scelse un tavolo accanto a una delle finestre e con un gesto invitò Tomás a sedersi. «Che prende?». «Oh, un tè». «Waiter» chiamò l'americano, facendo cenno al cameriere. Il ragazzo abbandonò il bancone e andò dai clienti. «Un tè per il mio amico». Il carniere prese il bloc-notes. «Quale tè desidera?». «Avete del tè verde?» chiese Tomás. «Naturalmente. Che tipo di tè verde?». «Ehm... non so... tè verde» balbettò, grattandosi la testa. «C'è più di una varietà?».
«Abbiamo diversi tipi di tè verde». «Ehm... bene... quale mi consiglia?». «Dipende dai gusti. Ma, se il signore mi permette, suggerirei il gabalong giapponese. È delicato, nobile, leggermente fruttato, fresco, fiorito». «Va bene, mi ha convinto» sorrise Tomás. «Mi porti quello». «E da mangiare?». «Guardi, qualche pasticcino. Ne avete al cioccolato?». «Abbiamo dei cookies molto apprezzati da tutti i clienti». «Allora me ne porti un po'». «Molto bene» assentì il cameriere, prendendo nota dell'ordinazione. Alzò la testa e guardò Moliarti. «Per lei?». «Mi porti quello snack che ho mangiato ieri». «Foi gras d'anatra aromatizzato all'Armagnac, più salsa di pomodoro verde e toast di pan brioche con noci e fichi?». «That's right» disse Moliarti con un'aria contenta. «E champagne». «Per caso un Louis Roederer, di Reims?». «Proprio quello. Ben fresco». Il ragazzo si allontanò e Moliarti diede a Tomás una pacca amichevole sulla spalla. «Allora, Tom? Com'è Rio?». «Città meravigliosa» sorrise il portoghese, intonando il celebre ritornello. «Piena di mille incanti». «I agree» concordò Moliarti. «Quando è tornato?». «Ieri mattina. Ho passato tutta la notte in aereo». «Oh, shit. È tremendo, vero?». «Orribile. Non ho dormito per niente». «Ne so qualcosa» disse, facendo una smorfia. «Si è ingrassato?». «Ehm... no. Sa, è stata una sorpresa per me quando al rientro mi sono pesato e ho visto che avevo mantenuto lo stesso peso. Com'è possibile dopo tutto il ben di Dio che ho divorato?». «Ha mangiato molta frutta?». «Tonnellate. Succhi di mango, di maracujá, d'abacaxi, molta papaia a colazione...». «Allora è per questo. Come pretendeva di ingrassare mangiando tutta quella frutta?». «Eh già». Il cameriere s'avvicinò con i cookies e la bottiglia di champagne, che stappò con un discreto pop. Versato un poco del liquido dorato ed efferve-
scente nel bicchiere di Moliarti, si allontanò di nuovo per occuparsi del resto dell'ordinazione. «Allora, mi racconti» disse l'americano, assumendo un tono serio. Appoggiò i gomiti sul tavolo e unì le mani davanti al naso, intrecciando le dita. «Cos'ha scoperto?». Tomás aprì la ventiquattrore, che aveva sistemato vicino ai piedi, prendendo fuori il bloc-notes e vari documenti che posò sul tavolo. «Ho scoperto alcune cose» rivelò, mentre si chinava per chiudere la valigetta rimasta vuota. Rimessosi comodo, guardò il suo interlocutore. «Ho letto tutte le opere consultate dal professor Toscano nella Biblioteca Nazionale di Rio e nel Real Gabinete Português de Leitura, come ho avuto accesso alle sue fotocopie e agli appunti, sia a quelle ritrovate nell'hotel di Ipanema e consegnate dal consolato alla vedova, sia a quelle che aveva lasciato negli armadietti della Biblioteca Nazionale. E questa mattina sono stato alla Biblioteca Nazionale portoghese, qui a Lisbona, per verificare alcune cosette. In definitiva, pur essendo ancora lontani dal poter dare risposte definitive, direi che almeno qualche passo avanti l'abbiamo fatto». Consultò il bloc-notes. «Comincerei, se non le dispiace, dalle ricerche condotte dal professor Toscano sulla scoperta del Brasile, in fin dei conti l'oggetto di studio che gli era stato affidato dalla fondazione». «Okay». «Come mi aveva informato, il briefing dato al professor Toscano consisteva in una ricerca che avrebbe dovuto risolvere in via definitiva i vecchi sospetti degli storici, molti dei quali ritengono che Pedro Alvares Cabral si sia limitato a ufficializzare quello che, in segreto, altri navigatori avevano già scoperto prima di lui». «That's right». «Ma procediamo per gradi. La prima questione fondamentale è determinare se esistesse o meno una politica del sigillo in Portogallo all'epoca delle Scoperte. Questo è un elemento chiave, poiché in sua assenza cadrebbe anche la tesi che Cabral abbia solo formalizzato una scoperta altrui. In effetti, com'è ovvio, non avrebbe avuto alcun senso nascondere la scoperta del Brasile, se una politica del genere non fosse stata in vigore». «È evidente». «La questione non è da poco, dal momento che ci sono storici convinti che la politica del sigillo sia soltanto un'invenzione. Un mito storiografico». «E lo è?».
Tomás fece una smorfia con la bocca. «Non credo. La politica del sigillo è esistita realmente. È ciò che penso io, ma è anche quel che sosteneva lo stesso professor Toscano, così come molti altri studiosi. Certamente alcuni storici ne hanno abusato come strumento per colmare le lacune della documentazione disponibile, ma la verità è che molte delle imprese marittime portoghesi sono state tenute segrete, anche quelle più importanti. Ad esempio, le cronache ufficiali portoghesi dell'epoca tacquero sul fatto che Bartolomeu Dias avesse attraversato il Capo di Buona Speranza e scoperto il passaggio fra l'Atlantico e l'Oceano Indiano. Fu Cristoforo Colombo, che per caso si trovava a Lisbona quando tornò Dias, a rivelare al mondo un così straordinario evento. Se non fosse stato per l'accidentale presenza di Colombo in Portogallo, magari Dias si sarebbe perso nelle nebbie della storia, il suo memorabile viaggio sarebbe stato per sempre taciuto in forza della politica del sigillo e noi, ancora oggi, avremmo considerato Vasco da Gama il primo ad aver doppiato il Capo». «Capisco» assentì Moliarti con un cenno della testa. «In fondo, ciò che lei sta dicendo è che l'espansione marittima portoghese è piena di tanti come Bartolomeu Dias rimasti nell'anonimato, perché non ebbero la fortuna di avere dalla loro un Colombo che mandasse a monte la politica del sigillo». «Esatto. D'altronde, a pensarci bene, una politica simile aveva perfettamente senso. I portoghesi, essendo un popolo piccolo e di limitate risorse, non sarebbero mai stati in grado di competere alla pari con le grandi potenze europee, se ogni notizia fosse stata messa a disposizione di tutti. Essi intuirono che l'informazione è potere e, scrupolosi, la protessero avidamente, monopolizzando in tal modo la conoscenza di una materia così strategica per il loro futuro. Certamente non tutto veniva passato sotto silenzio, perché a essere nascosti erano soltanto determinati fatti di particolare rilievo. Tenga presente che c'erano situazioni in cui, al contrario, poteva risultare perfino conveniente pubblicizzare le scoperte, dal momento che esplorare per primi un territorio significava poi avere anche il diritto di rivendicarne la sovranità». Il cameriere ritornò con un vassoio tenuto in equilibrio sulla punta delle dita. Appoggiò sul tavolo una teiera fumante, una tazza e una zuccheriera, Tomás notò che si trattava di porcellana Vista Alegre con decorazione famille verte, disegni di farfalle e di foglie di mora su sfondo bianco, che imitava la porcellana cinese del periodo K'ang Hsi. Il ragazzo versò il tè
nella tazza e accennò un inchino con la testa. «Tè gabalong giapponese» disse, allontanandosi subito. Tomás analizzò il liquido che ondeggiava nella tazza. Il tè era chiaro, limpido ed emanava un gradevole vapore aromatizzato. Aggiunse due cucchiaini di zucchero, mescolò con attenzione, facendo tintinnare il cucchiaino sulla porcellana, e infine l'assaggiò: era veramente leggero e fruttato. «Hmm, è una delizia» mormorò, posando la tazza calda. «Dov'ero rimasto?». «Alla politica del sigillo». «Ah, sì. Bene, intendevo solo dire che questa politica fu effettivamente adottata, per quanto in modo selettivo, ed ebbe come conseguenza pratica, per quel che c'interessa, il fatto che molte delle più importanti navigazioni dei portoghesi non furono rivelate a causa degli interessi superiori dello Stato. Di conseguenza, questi avvenimenti finirono per essere dimenticati dalla storia. Sono accaduti ma, poiché non lo sappiamo, in effetti è come se non fossero accaduti». «E questo ci porta alla scoperta del Brasile». «Precisamente. Secondo i testi ufficiali, la scoperta del Brasile risale al 22 aprile del 1500, quando la flotta di Pedro Álvares Cabral, costretta a deviare per via di una tempesta mentre seguiva la rotta per l'India, s'imbatté in un massiccio alto e arrotondato, che i portoghesi battezzarono Monte Pascoal. Era la costa brasiliana. Gli uomini dell'equipaggio rimasero sul posto per dieci giorni, durante i quali esplorarono il nuovo territorio, che fu chiamato Terra de Santa Cruz, fecero scorte e stabilirono un contatto con le popolazioni locali. Il 2 maggio, la flotta partì in direzione dell'India, ma una delle navi, una piccola nave d'appoggio, ritornò a Lisbona sotto il comando di Gaspar de Lemos, con a bordo circa una ventina di lettere che descrivevano la scoperta al re Don Manuel, compreso un importante testo dello scrivano Pêro Vaz de Caminha». Tomás si sfregò il mento. «I primi indizi che dimostrano che la scoperta non è stata accidentale stanno proprio nel tono di questa relazione, in cui Caminha non manifesta alcuna sorpresa per aver incontrato terra in quei paraggi». «Ma questo è soggettivo» contestò Moliarti. «Potrebbero essersi meravigliati ma non aver manifestato questo stupore nella cronaca. O potrebbero aver ritenuto naturale che, non conoscendo quella parte del mondo, ci fosse una terra lì». «È vero. L'assenza di sorpresa nella cronaca di Pêro Vaz de Caminha, da sola, non avrebbe alcun significato particolare, se non fosse associata ad
altri indizi, il secondo dei quali è proprio la presenza della nave d'appoggio nella flotta di Cabral. Questa imbarcazione era troppo fragile per il viaggio tra Lisbona e l'India. Chiunque s'intenda di navigazione sa che una nave del genere non aveva le caratteristiche necessarie per compiere tutto il viaggio, soprattutto considerando le acque sempre agitate del Capo di Buona Speranza, che i navigatori, in modo del tutto appropriato, chiamavano anche Capo delle Tempeste. A quell'epoca i portoghesi erano i migliori marinai al mondo, quindi non potevano certo ignorare questo particolare. Per quale motivo, allora, aggiunsero un'imbarcazione così piccola a quella flotta di grandi navi?». Tomás lasciò fluttuare in aria la domanda. «C'è solo una spiegazione possibile. Sapevano anticipatamente che la nave d'appoggio non avrebbe fatto tutto il viaggio. Non solo, erano già consapevoli del fatto che avrebbe compiuto solo un terzo del viaggio d'andata, dopodiché avrebbe fatto ritorno a Lisbona per portare la notizia della nuova scoperta. Per dirla più chiaramente, i portoghesi già sapevano che esisteva terra da quelle parti e la navetta fu integrata alla flotta appositamente per tornare con la notizia ufficiale». «È curioso e plausibile, ma non decisivo». «Concordo. Nonostante ci sia ancora un dettaglio da evidenziare. Quando la nave d'appoggio arrivò a Lisbona, i marinai non parlarono di quanto era successo e la notizia della scoperta del Brasile fu tenuta segreta dalla Corte per essere rivelata solo dopo il ritorno di Pedro Alvares Cabral. Questo comportamento è perlomeno insolito e fa pensare che tutta l'operazione fosse già stata pianificata in precedenza». «Hmm... Tutto ciò è molto interessante. Ma continua a non essere decisivo». «Sì. È per questo che entra in scena il terzo indizio, o meglio i terzi indizi. Mi riferisco a due mappe. La prima, e la più importante, è un planisfero di un anonimo cartografo portoghese, eseguito su commissione di Alberto Cantino per Ercole d'Este, duca di Ferrara, in un manoscritto illuminato su pergamena alta un metro e larga due. Poiché il nome dell'autore portoghese è ignoto, questa enorme cartina geografica è conosciuta come Planisfero di Cantino e oggi è conservata in una biblioteca di Modena, in Italia. In una lettera datata 19 novembre 1502, Cantino rivelò che la cartina era stata copiata da originali ufficiali portoghesi, sicuramente in modo clandestino, a causa dell'allora vigente politica del sigillo. La cosa importante di questa mappa è che contiene un disegno dettagliato di buona parte della costa brasiliana. Ora, facciamo due conti». Tomás prese la penna e aprì il suo bloc-
notes. «La mappa giunse in possesso di Cantino, al massimo, nel novembre 1502, il che significa che passarono poco più di due anni tra la scoperta di Cabral e l'arrivo del planisfero in Italia». Tracciò sul foglio una riga orizzontale, a sinistra scrisse le parole "Cabral, aprile 1500", e all'estremità opposta "Cantino, novembre 1502". «Il problema è che Cabral non disegnò alcuna mappa dettagliata della costa del Brasile, per cui le informazioni contenute nel planisfero potevano derivare, nella migliore delle ipotesi, soltanto da viaggi posteriori». Alzò due dita. «Bene, apparentemente il secondo viaggio ufficiale dei portoghesi in Brasile fu compiuto da João da Nova nell'aprile del 1501, quasi un anno prima che il Planisfero di Cantino arrivasse nelle mani del duca di Ferrara. Ma, attenzione, João da Nova non fece il viaggio al fine d'esplorare la costa brasiliana. Così come Cabral doveva invece percorrere la rotta per l'India, quindi non avrebbe avuto il tempo sufficiente per cartografare la linea della costa. Oltretutto ritornò a Lisbona solo a metà del 1502». Aggiunse un terzo dito. «Pertanto, viene spontaneo pensare che le informazioni riportate dal Planisfero di Cantino siano frutto di un ulteriore viaggio. In effetti ci fu una flotta che salpò da Lisbona proprio con la missione di esplorare la costa del Brasile. Si trattava della spedizione di Gonçalo Coelho, che partì da Lisbona nel maggio del 1501 e che fra gli uomini d'equipaggio annoverava anche il fiorentino Americo Vespucci, lo stesso che, senza saperlo, avrebbe dato il nome al continente americano. La flotta, arrivata in Brasile a metà agosto, esplorò per più di un anno una parte consistente della costa. Si spinse tanto a sud da scoprire una grande baia che chiamò Rio de Janeiro, quindi continuò fino a Cananeia per poi alla fine allontanarsi dalla costa e tornare in Portogallo. Le tre caravelle di questa spedizione entrarono nel porto di Lisbona il 22 luglio 1502». Scrisse "Gonçalo Coelho, luglio 1502" nell'ultimo quarto della linea orizzontale, vicino al riferimento "Cantino, novembre 1502", precedentemente annotato. «Qui sta il nocciolo della questione» disse, indicando le due date scarabocchiate sul bloc-notes. «È possibile che in soli quattro mesi, cioè quelli che intercorrono tra luglio e novembre, i cartografi ufficiali di Lisbona abbiamo potuto realizzare mappe dettagliate sulla base dei dati raccolti da Gonçalo Coelho; che il cartografo portoghese, l'anonimo traditore contattato da Cantino, sia riuscito a copiare queste mappe, e che, infine, il planisfero clandestino abbia potuto fare tutto il viaggio fino in Italia?». Tomás marcò con la penna la breve distanza, osservabile sulla linea orizzontale del tempo, tra "Gonçalo Coelho" e "Cantino". Fece una smorfia e scrollò la testa. «Non credo. Non si può far tutto ciò in ap-
pena quattro mesi, il che ci pone di fronte a una domanda cruciale. Come diavolo fu possibile che Alberto Cantino acquistasse un planisfero portoghese contenente informazioni che, in base alla cronologia delle relazioni ufficiali, non c'era abbastanza tempo per riportare in modo dettagliato sulle mappe? Da dove venivano quei particolari?». Girò verso l'alto il palmo della mano sinistra, come per esporre un fatto evidente. «Questo mistero ha una sola possibile soluzione. Il Planisfero di Cantino non venne disegnato sulla base dei dati raccolti durante i viaggi ufficiali in Brasile, ma a partire da quelli ottenuti prima di Cabral, nel corso di esplorazioni intraprese segretamente e taciute dalla storia ufficiale per via della politica del sigillo». «Hmm» considerò Moliarti, pensieroso. «Interessante. Ma lei ritiene che questa sia una tesi conclusiva?». Tomás scrollò la testa. «Ritengo sia difficile che in soli quattro mesi siano state fatte mappe ufficiali dettagliate della costa brasiliana, che queste siano state copiate clandestinamente e che una riproduzione sia arrivata in Italia. È improbabile che tutto questo sia accaduto in così poco tempo». Lo storico portoghese alzò le sopracciglia. «Attenzione. Improbabile ma non impossibile». L'americano si mostrò un po' deluso. «Certo» mormorò. «Lei stesso ha parlato di una seconda mappa geografica...». «Non è proprio una mappa. È più che altro un riferimento a una mappa». «Che intende dire?». «Una delle lettere che la nave d'appoggio di Gaspar de Lemos portò a Lisbona in occasione della scoperta ufficiale del Brasile fu redatta da mestre João per il re Don Manuel, e porta la data del 1 maggio del 1500. Questa lettera riporta la localizzazione della Terra de Santa Cruz, cioè il Brasile, in una mappa andata perduta: l'antico mappamondo del portoghese Pêro Vaz Bizagudo». Consultò il bloc-notes. «Scrive il mestre João: "Quanto, Signore, al sito di questa terra, Vostra Altezza ordini che gli sia dato un mappamondo che ha Pêro Vaz Bizagudo e da quello Vostra Altezza potrà vedere il sito di questa terra; ma quel mappamondo non dimostra se questa terra sia abitata o no. È un mappamondo antico"». Tomás guardò Moliarti e agitò il bloc-notes. «Come è possibile che Bizagudo localizzasse nella sua antica mappa una terra che ancora non era stata scoperta?». Il cameriere ritornò con il succulento snack ordinato dall'americano. Tomás ne approfitto per bere ancora un sorso del suo tè verde.
«Questi sono indizi essenziali» concordò Moliarti, dando un morso alla fetta tostata di pan brioche. «Ma ancora ci manca... ehm... come si dice... smoking gun?». «Ci manca una prova decisiva». «Sì». «Calma, ci sono anche altre cose». Tornò al bloc-notes. «Il francese Jean de Léry rimase in Brasile dal 1556 al 1558 e i coloni più anziani lo informarono sulla "quarta parte del mondo, già conosciuta dai portoghesi da quando, circa ottant'anni prima, era stata scoperta"». Scarabocchiò alcuni conti. «Quindi, se da 1558 togliamo 80 restano... otto meno zero otto, cinque meno otto ne prendo uno sette, quattro... fa 1478». Guardò Moliarti. «Anche ammettendo che l'espressione "circa ottanta" possa significare settantasei o settantacinque anni, stiamo parlando di una data di molto precedente al 1500». «Hmm». «E c'è anche una lettera scritta dal portoghese Estêvão Fróis, che fu arrestato dagli spagnoli, si presume nella zona del Venezuela, con l'accusa di essersi stabilito in territorio di Castiglia». Tomás continuò a seguire i propri appunti. «La lettera è datata 1514 e indirizzata a Don Manuel. In essa, Fróis afferma di essersi limitato a occupare "la terra di Vostra Altezza, già scoperta da João Coelho, quello di Porta da Luz, vicino a Lisbona, ventuno anni fa"». Altri conti. «Pertanto, 1514 meno ventuno fa... tre, nove, e prendo uno, quattro... fa 1493». Sorrise all'americano. «Ancora una volta, ci ritroviamo con una data di molto anteriore al 1500». «Queste lettere sono ancora esistenti?». «Certo». «Ma non crede che queste fonti siano un po' dubbie? Voglio dire, un francese che nessuno conosce e un galeotto portoghese... alla fine...». «Mio caro Nel, ci sono altri quattro grandi navigatori che confermano la tesi che il Brasile fosse già conosciuto prima di Cabral». «Ah sì? Quali?». «Il primo che voglio citare è lo spagnolo Alonso de Hojeda il quale, accompagnato dal nostro amico Americo Vespucci, avvistò la costa sudamericana nel giugno 1499, probabilmente all'altezza delle Guinee. Successivamente, nel gennaio del 1500, un altro spagnolo, Vincente Pinzón, raggiunse la costa brasiliana, quindi tre mesi prima di Cabral». «Cioè, gli spagnoli anticiparono i portoghesi». «Non necessariamente. Il terzo nome è Duarte Pacheco Pereira, uno dei
maggiori navigatori dell'epoca delle Scoperte, benché sia anche uno dei meno noti al grande pubblico». «Si riferisce al Pacheco Pereira che il professor Toscano scelse come tema della sua tesi di dottorato?». «Esattamente, proprio quello. Non era solo un navigatore, ma anche un importante militare e scienziato. Oltre ad aver ottenuto la misura più esatta del grado terrestre, a quei tempi era colui che sapeva calcolare meglio la longitudine senza gli appositi strumenti che furono creati solo più tardi, con lo sviluppo degli orologi. Tutto questo per dire che Duarte Pacheco Pereira fu l'autore di uno dei più enigmatici testi dell'epoca, un'opera intitolata Esmeraldo de Situ Orbis». Tomás ritornò alle sue annotazioni. «A un certo punto, Pacheco Pereira nell'Esmeraldo scrive che Don Manuel gli ordinò di "scoprire la parte occidentale", cosa che accadde "nell'anno del Signore millequattrocentonovantotto, nel quale è trovata e navigata una così vasta terra ferma, con molte isole adiacenti a quella"». Tomás rimase fisso su Moliarti. «Vale a dire, nel 1498 un navigatore portoghese scoprì la terra a Occidente rispetto all'Europa». «Ah!» esclamò l'americano. «Due anni prima di Cabral!». «Sì». Moliarti mangiò un altro pezzo di pan brioche tostato e l'accompagnò con un sorso di champagne. «E qual è il quarto navigatore?». «Colombo». L'americano smise di masticare e fissò il suo interlocutore con sorpresa. «Colombo? Quale Colombo?». «Quel Colombo». «Cristoforo Colombo?». «Proprio lui». «Come Cristoforo Colombo?». «Quando Colombo ritornò dal suo primo viaggio, subito dopo la scoperta dell'America, si fermò a Lisbona dove fu ricevuto da Don João II. In quell'occasione, il re portoghese gli rivelò che esistevano altre terre a sud dei luoghi in cui egli era stato. Se controllassimo sulla cartina geografica, vedremmo che a meridione dei Caraibi si trova l'America del Sud. Questo incontro tra Colombo e Don João si verificò nel 1493, dal che si deduce che i portoghesi già sapessero della presenza di terre in quella zona». «Ma dov'è riportata questa conversazione?». «Nell'opera di uno storico spagnolo che, secondo alcuni, avrebbe cono-
sciuto Colombo personalmente». Tomás rivolse l'attenzione al bloc-notes. «Si tratta di Bartolomé de Las Casas il quale, a proposito del terzo viaggio di Colombo nel Nuovo Mondo, scrive: "L'Ammiraglio torna a dire che vuole andare verso Sud perché vuole vedere l'intento del Re Don João di Portogallo che, per certo, all'interno dei suoi confini doveva trovare cose e terre famose"». Moliarti, terminato il suo snack, si appoggiò al sofà assaporando lo champagne e godendosi la vista. Oltre le ampie vetrate del bar si agitavano le frondose piante di fico del giardino, grandi e protettrici figure che proiettavano accoglienti ombre sul tappeto erboso curato. «Sa, Tom, c'è una cosa che non capisco!» esclamò alla fine. «Per quale motivo i portoghesi, se già sapevano dell'esistenza dell'America del Sud, aspettarono tanto tempo per formalizzarne la scoperta? Cosa li portò a fare l'annuncio solo nel 1500?». «Dissimulazione» spiegò Tomás. «Non si dimentichi che credevano nelle virtù della politica del sigillo, nei vantaggi di mantenere segrete tutte le informazioni più strategiche. Essi conoscevano del mondo assai più di quanto lasciarono intendere ai loro contemporanei e alle generazioni future. La Corona era consapevole che, appena avesse rivelato l'esistenza di altre terre, quest'annuncio avrebbe attratto attenzioni indesiderate, avrebbe risvegliato brame inopportune e interessi pericolosi. I portoghesi sapevano bene che non si può desiderare ciò che non si conosce. Così gli altri europei, se non avessero saputo dell'esistenza di quei territori, non si sarebbero neanche messi a competere per impossessarsene. Gli scopritori portoghesi ebbero quindi campo libero per effettuare indisturbati le proprie esplorazioni, senza doversi preoccupare della concorrenza». «Questo è chiaro, Tom» disse Moliarti. «Ma allora, se i portoghesi traevano tanti vantaggi dal mantenere il sigillo della segretezza, cosa li indusse a cambiare atteggiamento e a formalizzare la scoperta del Brasile nel 1500?». «Penso siano stati i castigliani. La politica del sigillo aveva un senso in quanto strategia per non attrarre scomode attenzioni sulle scoperte portoghesi. Ma dal momento che Hojeda, nel 1499, e Pinzón, nel gennaio del 1500, avevano iniziato a ficcare il naso nella costa dell'America del Sud, la Corona portoghese comprese che attenersi a quella politica non rappresentava più una scelta oculata. C'era in effetti il rischio che i castigliani rivendicassero le terre che i portoghesi avevano già individuato. Pertanto, la formalizzazione della scoperta del Brasile s'impose come necessità».
«Capisco». «E questo ci porta all'ultimo importante indizio». «Quale?». «Il Trattato di Tordesillas». «Ah, sì!» esclamò Moliarti, ricordando il celebre documento che divise il mondo in due parti, una per il Portogallo e l'altra per la Spagna. «Lei sta parlando del certificato di nascita della globalizzazione». «Proprio quello». Tomás sorrise. Gli americani avevano sempre un modo magniloquente di descrivere le cose e di stabilire suggestivi confronti con la modernità. «Il Trattato di Tordesillas fu un accordo sancito dal Vaticano, che consegnò metà del mondo ai portoghesi e l'altra metà agli spagnoli». «Suprema arroganza». «Senza dubbio. Ma la verità è che all'epoca erano queste le nazioni più potenti, pertanto sembrò naturale dividere tra loro il pianeta». Tomás finì il suo tè. «Quando a questo proposito fu negoziato un primo accordo, ognuno dei due Paesi aveva ben chiare le proprie posizioni di vantaggio sulla scacchiera politica. Il vantaggio dei portoghesi consisteva nell'essere più avanzati in fatto di tecnologie belliche e di navigazione e in fatto di esplorazione marittima. Gli spagnoli, dal canto loro, erano in ritardo in questi tre ambiti, ma avevano un imbattibile asso nella manica: il papa di allora era spagnolo. È un po' come se nel calcio noi avessimo i migliori giocatori, il miglior allenatore, la migliore squadra, ma la partita venisse arbitrata da un giudice corrotto dall'avversario e disposto ad annullare ogni nostro goal e a inventare irregolarità contro di noi. È proprio questo che, in un certo senso, accadde. I navigatori portoghesi scorrazzavano a loro piacimento per la costa africana e l'Atlantico, mentre gli spagnoli controllavano solo le Canarie. Questa situazione era stata fissata nel 1479 con il Trattato di Alcáçovas, nel quale la Castiglia riconosceva l'autorità portoghese sulla costa africana e sulle isole atlantiche in cambio dell'accettazione del proprio dominio sulle Canarie. Il trattato, convalidato l'anno seguente a Toledo, non prendeva in considerazione l'Atlantico occidentale, che entrò nell'ordine del giorno in seguito alla vicenda del primo viaggio di Cristoforo Colombo. Dato che nessuna clausola del documento regolava in modo diretto la nuova situazione, si arrivò subito alla conclusione che fosse necessario un nuovo trattato». «Il Trattato di Tordesillas». «Precisamente. La prima proposta di Lisbona fu quella di dividere la
Terra attraverso il parallelo che passava per le Canarie. In questo modo, ai castigliani sarebbe spettata l'esplorazione di tutto ciò che si trovava a nord di questo parallelo e ai portoghesi il resto. Ma il papa Alessandro VI, che era spagnolo, emanò due bolle nel 1493 per istituire una linea divisoria che seguiva un meridiano localizzato cento leghe a ovest delle Azzorre e di Capo Verde. Come ben si capisce, il papa era d'accordo con la Castiglia. I portoghesi non presero parte alla discussione e, accettando l'esistenza di questa linea, pretesero solo che fosse spostata a trecentosettanta leghe a ovest di Capo Verde. Il papa e i castigliani, non vedendo motivi contrari, accettarono. Questa trattativa, però, ha qualcosa di strano». Tomás disegnò un planisfero sul bloc-notes. Dai tratti grossolani, si riconoscevano i contorni dell'Africa, dell'Europa e di tutto il continente americano. Il ricercatore tracciò una linea verticale sull'Atlantico, a metà tra l'Africa e l'America del Sud, e in basso scrisse "100". «Questo è ciò che il papa e i castigliani proponevano, una linea cento leghe a ovest di Capo Verde». Di seguito scarabocchiò un'altra riga verticale più a sinistra, in modo che prendesse una parte dell'America del Sud, e sotto annotò il numero "370". «Questa è la linea voluta dai portoghesi, situata a trecentosettanta leghe a ovest di Capo Verde». Guardò Moliarti. «Mi dica, Nel. Qual è la principale differenza fra queste due linee?». L'americano si curvò sul bloc-notes ed esaminò i tratti. «Beh, una attraversa solo il mare, l'altra prende un pezzo di terra». «E qual è questa terra?». «È il Brasile». Tomás fece cenno di sì con la testa e sorrise. «Il Brasile. Allora mi dica, per quale ragione i portoghesi insistettero tanto per questa seconda linea?». «Per tenersi il Brasile?». «Questo mi porta alla terza domanda. Come diavolo facevano i portoghesi a sapere che questa seconda linea comprendeva il Brasile, se il Brasile, nel 1494, non era stato ancora scoperto?». Tomás si sporse verso il suo interlocutore. «Oppure era già stato scoperto?». Moliarti si adagiò sul divano e respirò profondamente. «I see your point». Prese la bottiglia di Louis Roeder, si versò un altro po' di champagne per placare la sete. Dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, infine si alzò, fissando gli occhi in quelli di Tomás. «Abbiamo abbastanza materiale su cui riflettere» affermò lentamente. «Ma mi dica, Tom, quanto di ciò che mi ha detto rappresenta veramente una novità?».
Tomás sostenne lo sguardo di Moliarti, quasi lo stesse sfidando. «Niente» rispose. «Niente di niente?». «Niente di niente. Queste che le ho dato sono tutte le informazioni raccolte dal professor Toscano sul mistero della scoperta del Brasile». «E non c'è nessuna novità?». «Neanche una. Il professor Toscano si è limitato a fare un resoconto di quanto scoperto o concluso da altri storici». L'americano lo guardava incredulo, come se non volesse accettare quelle parole. «Ne è sicuro?». «Assolutamente». Moliarti, allora, sembrò arrendersi. Con il corpo si chiuse a guscio, demoralizzato; distolse lo sguardo dal suo interlocutore e lo fissò in un punto indefinito. Di colpo l'agitazione s'impossessò di lui, le guance diventarono rosse e il viso si abbuiò per la rabbia a malapena trattenuta, sul punto d'esplodere. «Motherfucker, son of a bitch!» borbottò fra sé, sbuffando furiosamente. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulla mano sinistra, mentre il gomito sul tavolo sorreggeva il braccio. Quella postura comunicava un senso di profondo avvilimento. «Damn it! I knew it. Shit!». Il portoghese rimase in silenzio, aspettando che si placasse quell'attacco di rabbia repressa. Moliarti mormorò altre parole incomprensibili, pronunciate con fervore di rivolta. Alla fine sospirò, aprì gli occhi e lo guardò in faccia. «Tom» disse con voce cavernosa. «Il professor Toscano ci ha ingannati». «In che senso?». L'uomo si stropicciò gli occhi. «Come John e io le abbiamo riferito a New York, la nostra idea era di contribuire alla celebrazione dei cinquecento anni della Scoperta del Brasile con un'indagine conclusiva sulle eventuali esplorazioni precedenti a quelle di Pedro Alvares Cabral. Fu per questo che, sette anni fa, abbiamo contattato il professor Toscano. In tutto questo tempo ha sprecato il nostro denaro, finché un giorno ci ha annunciato di aver fatto una scoperta rivoluzionaria. Ma poi è morto, e ora lei mi dice che l'unica cosa che il professor Toscano ha fatto durante questi sette anni è stata raccogliere il lavoro di altri storici, senza aggiungere nulla di nuovo. Lei capisce bene, noi non...».
«Io non ho detto esattamente questo» lo interruppe Tomás. Moliarti arrestò il suo ragionamento e lo guardò senza comprendere. «Come?». «Io non ho detto che il professor Toscano non abbia apportato nulla di nuovo e che si sia limitato a raccogliere il lavoro altrui». «Ma, mi scusi, le sue parole facevano intendere questo». «Se si riferisce a quanto da me appurato in merito alle ricerche del professor Toscano, ha capito bene. Ma, come le ho già detto all'inizio della nostra conversazione, attualmente non ho ancora risposte definitive e ho bisogno di seguire le altre piste lasciate dal professore». «Ah, bene!» esclamò Moliarti, facendosi più attento. «Quindi, c'è dell'altro». «Certo che sì» affermò Tomás con cautela. «Solo che non sono sicuro che abbia a che vedere proprio con la Scoperta del Brasile». «Che intende dire con questo?». Il portoghese abbassò gli occhi e scrollò la testa. «Ancora non lo so». Si morse il labbro inferiore. «Farò nuove ricerche e poi, quando avrò qualcosa di più concreto, ne riparleremo». «Per favore, Tom, non mi lasci così senza risposte. Concretamente, a cosa si riferisce?». «A una pista cifrata». Moliarti sorrise in uno strano modo, come se stesse ricevendo la conferma di qualcosa che già da tempo sospettava. «Ah! Sapevo che c'era qualcos'altro. Lo sapevo. Mi dica Tom, qual è la pista?». «Nelson, ha mai sentito parlare di Cicerone?». «Sì» replicò l'americano con cautela, cercando di trovare un legame tra quel nome e le indagini del professor Toscano. «Se non sbaglio, Cicerone era romano». «Cicerone era un filosofo e un avvocato romano vissuto un secolo prima di Cristo. Era un importante statista e fu uno dei grandi oratori della Roma Antica, famoso per essere insorto contro Marco Antonio dopo la morte di Cesare. Durante un suo intervento in tribunale, nell'orazione Pro Roscio, Cicerone formulò una determinata frase». Fece una breve pausa per prendere un cookie. «Che frase?». «Nomina sunt odiosa». «Come?».
«Nomina sunt odiosa». «Cosa significa?». «Fare nomi è inopportuno». Moliarti rimase a guardarlo senza capire. Aprì le braccia, assumendo un'aria interrogativa. «So what? Che importanza ha questa cosa per il nostro discorso?». «Nomina sunt odiosa è l'indizio che ci ha lasciato il professor Toscano per risalire alla sua grande scoperta». «Ah sì?» esclamò l'americano con ansia sofferta. «Un indizio, eh? E dove ci porta?». «Non so» replicò Tomás in modo distaccato, mangiando tranquillamente il cookie. «Ma sto indagando e quando avrò delle risposte, Nelson, ne riparleremo». V La piccola sala d'attesa della clinica aveva un aspetto pulito, quasi asettico. Dipinta di bianco, solo i sofà gialli e le mattonelle marroni del pavimento stonavano con quella macchia nivea. Aleggiava nell'aria la fragranza chimica di un disinfettante. Non si può dire che fosse sgradevole, nonostante avesse qualcosa di vagamente angoscioso. Ricordava l'inquietante odore degli ospedali. Le ampie finestre del quinto piano si affacciavano sulla Feira Popular28. Oltre le vetrate si riconoscevano i vagoni delle montagne russe, deserti, desolati a quell'ora del pomeriggio, una fragile struttura azzurra in balia del vento sotto un triste cielo grigio, che si librava al di sopra delle irrequiete fronde degli alberi e degli ondulanti tendoni colorati, disseminati, uno accanto all'altro, per tutto il parco dei divertimenti. Dal divano su cui era seduto, Tomás si sporse in avanti per afferrare, fra quelle ammucchiate sul tavolinetto, una rivista, che poi prese a sfogliare distrattamente. Enormi fotografie di persone ben vestite riempivano le pagine con sorrisi tutti uguali, quasi stereotipati, annunciando al mondo la rosea felicità dei loro matrimoni, oppure mostrando la frivola animazione delle feste di Lisbona. Erano riviste di costume, piene di gente in atteggiamenti impostati, costruiti, tipi dall'aspetto florido, con appariscenti camicie di marca sbottonate sul petto, che posavano accanto a bionde ossigenate, con la pelle rovinata dal sole e i visi pesantemente truccati. Era evidente che quei personaggi avevano dichiarato guerra al tempo, nello sforzo vano, perfino grottesco, di trattenere la bellezza che l'età inesorabilmente
rubava loro a ogni istante, quella giovinezza che andava persa a ogni respiro, al ritmo della sabbia che scivola in una clessidra, portata via dal soffio del tempo. Infastidito da quel nauseante spettacolo mondano, ripose la rivista al suo posto e si adagiò nuovamente sul sofà. Margarida era inchiodata alla finestra, il naso incollato al vetro disegnava macchie di vapore, mentre la bambina osservava con sguardo sognante i tendoni deserti della Feira Popular e i loopings solitari delle montagne russe, vagheggiando succulente ciambelle, zucchero filato e forti emozioni sul treno fantasma. Intanto, Constança sedeva accanto al marito, inquieta, ansiosa, osservando la figlia con segreta preoccupazione. «Chissà se questa volta la fa operare» sussurrò Tomás, a bassa voce affinché Margarida non lo sentisse. Constança sospirò. «Non lo so. Non dico più nulla». Si stropicciò gli occhi. «Da un lato, vorrei che fosse operata, perché così potrebbe star meglio. Ma, dall'altro, ho una paura terribile; questa cosa che le andranno a toccare il cuore non mi fa stare per niente tranquilla». Margarida soffriva di problemi cardiaci, che derivavano dalla sua condizione. Quando la bambina era nata e le era stata diagnosticata la sindrome di Down, diagnosi confermata dall'Istituto Ricardo Jorge, il pediatra aveva convocato la coppia per un incontro. Lo scopo non era visitare la figlia, ma spiegare alcune cose ai suoi terrorizzati genitori. Secondo quanto detto dal medico, cosa che successivamente ebbero modo di approfondire consultando diverse pubblicazioni scientifiche, il problema della figlia era dovuto a un errore nei cromosomi che si trovano in ogni cellula e che determinano le caratteristiche dell'individuo, inclusi il colore degli occhi e la forma del cuore. Ogni cellula possiede quarantasei cromosomi, disposti a coppie; una di queste coppie è identificata con il numero 21. Proprio qui si era verificato l'errore: invece di possedere due cromosomi 21 in ogni cellula, come la maggior parte delle persone, Margarida ne aveva tre, donde il nome di Trisomia 21, ovvero sindrome di Down. Il pediatra lo definì un "incidente genetico" del quale nessuno poteva realmente essere incolpato ma, nel loro intimo, i due genitori non credettero a quella spiegazione, che suonava loro come un discorso di comodo fatto solo per mettersi a posto con la coscienza. Si convinsero, forse per superstizione, senza alcun fondamento razionale per poterlo affermare, che in quel processo non c'erano innocenti, che di certo avevano fatto qualcosa
per meritarsi un castigo simile, che delle responsabilità dovevano pur averle se quella disgrazia aveva bussato proprio alla loro porta. Da allora avevano sviluppato nei confronti della figlia un senso di colpa che a stento riuscivano a mascherare. Si sentivano in qualche modo responsabili per la sua situazione. Del resto, quella bambina era una loro creatura, e per questo si imbarcarono in un'impresa impossibile, provandole tutte per azzerare ogni cosa, per conquistare il diritto di ristabilire quella giustizia che la natura aveva loro negato, e infine redimersi dal peccato per il quale erano stati puniti. Questo senso di colpa latente era aggravato dai tipici problemi di cui questi bambini soffrono. Come qualsiasi altra persona affetta da Trisomia 21, Margarida era piuttosto soggetta a malattie e infezioni respiratorie, a otiti, agli effetti del riflusso gastro-esofageo, a problemi ortopedici legati alla sublussazione atlanto-assiale e, cosa peggiore di tutte, a difficoltà cardiache. Sin dal primo esame dopo la nascita, alla dottoressa che aveva seguito il parto i battiti del cuore erano sembrati strani e aveva affidato la neonata al cardiologo di turno. Dopo ulteriori analisi, le fu diagnosticata una piccola apertura del setto che divide il sangue arterioso da quello venoso, anomalia congenita che avrebbe dovuto essere corretta. Una rivista specialistica che si erano affrettati a consultare quello stesso giorno, ancora intontiti dal terribile responso, usava il linguaggio indecifrabile della medicina, con riferimenti al difetto del setto auricolo-ventricolare incompleto associato a una comunicazione interatriale del tipo sinus venosus, tutto ciò per descrivere quel che, in fin dei conti, il medico aveva spiegato in maniera ben più comprensibile. Nelle visite successive, ancora sotto shock per la serie impressionante di cattive notizie, Constança e Tomás furono informati che Margarida avrebbe dovuto essere operata al cuore entro i primi tre mesi di vita, in modo da chiudere il setto, e che qualsiasi intervento oltre quel termine avrebbe costituito un rischio. Fu un periodo davvero difficile della loro vita. Giorno dopo giorno, tutto si stava trasformando in un incubo di smisurate proporzioni, ogni novità riusciva a essere peggiore della precedente. Margarida fu ricoverata all'Ospedale di Santa Marta tre settimane dopo la decisione di operare ma, all'ultimo momento, il cardiologo, consultato il chirurgo, ebbe un ripensamento. Entrambi studiarono di nuovo l'immagine della risonanza magnetica al cuore, arrivando alla conclusione che l'apertura del setto era molto piccola e che c'era una buona probabilità che, con la crescita della bambina, l'anomalia si sarebbe richiusa da sola. Fu la prima notizia positi-
va dalla nascita della piccola. Il cardiologo firmò una lettera di dimissione e Margarida tornò a casa con i genitori, finalmente sollevati. Il problema era che, nove anni dopo, contro ogni aspettativa, il setto non si era ancora chiuso, risvegliando il fantasma di un'operazione al cuore. «Margarida Noronha» annunciò una ragazza paffuta in camice bianco, sbirciando dalla porta della sala d'attesa. «Siamo noi» rispose Constança, alzandosi dalla sedia. «Potete entrare». I tre seguirono la ragazza lungo il corridoio. Arrivati in fondo, l'infermiera si fermò a lato di una porta e li lasciò passare. Entrarono nell'ufficio, dove sentirono immediatamente l'odore del disinfettante diventare più intenso. Sulla destra c'era un lettino con un lenzuolo bianco leggermente sgualcito, come se qualcuno ne fosse appena sceso. Di fianco si trovava una tendina scorrevole, di tessuto giallo, dietro alla quale i pazienti venivano fatti spogliare. In fondo, davanti a una piccola finestra che dava sul palazzo di fronte, un medico curvo sulla scrivania era impegnato a scribacchiare qualcosa. Avvertendo che il proprio studio era stato di nuovo invaso da qualcuno, sollevò la testa e sorrise. «Salve» salutò. «Buonasera, dottor Oliveira». Si strinsero la mano e il medico, un cardiologo di mezza età, accarezzò la testa di Margarida. «Allora, Margarida? Come va?». «Molto bene, dotto'e». «Ti sei comportata bene?». La bambina guardò i genitori, che le stavano accanto, alla ricerca di approvazione. «Così così». «Così così? Perché?». «La mamma dice che non posso semp'e anda'e a o'dina'e tutto». «A che?». «A o'dina'e tutto». «A ordinare tutto» tradusse Constança. «Ha la mania di pulire e ordinare continuamente le cose». «Ah!» esclamò il dottore, senza distogliere lo sguardo da Margarida. «Allora, diciamo, è una cameriera cronica». «Non mi piace la spo'cizia. Spo'cizia no». «Fai molto bene. Via la sporcizia!». Il medico rise e, guardando i genito-
ri, indicò loro due sedie disposte davanti alla scrivania. «Sedetevi, prego». Si accomodarono, Margarida si sistemò sul ginocchio sinistro del padre. Il cardiologo prese il bloc-notes, mentre Constança frugava nella borsa e Tomás osservava il cuore di plastica, smontabile e in miniatura, poggiato sul tavolo. «Ho qui il risultato degli esami, dottore» disse Constança, allungando al medico due grandi buste marroni. Il cardiologo le prese e analizzò il logo stampato sulla sinistra. «Vedo che siete andati a fare l'ecocardiogramma e la radiografia al reparto Cardiologia Pediatrica del Santa Marta». «Sì, dottore». «C'era la dottoressa Conceição?». «Sì. Ci ha seguiti lei». «E vi ha trattato bene?». «Molto bene». «Bene, perché altrimenti mi avrebbe sentito! La dottoressa, a volte, ha un po' la testa fra le nuvole». «Stia tranquillo, non abbiamo motivo di lamentarci». Il medico, chinatosi sulle buste, tirò fuori per primo il foglio plastificato grigio e bianco della radiografia e studiò l'immagine del torace di Margarida. «Hmm-hmm» mormorò, senza dar segno né di soddisfazione né di preoccupazione. La coppia lo scrutava attentamente, cercando di captare nel suo sguardo espressioni che suggerissero buone oppure cattive notizie, ma quel bmmbmm si rivelò di un'ambiguità opaca e impenetrabile. Inquieti e ansiosi, i genitori di Margarida presero ad agitarsi nervosamente sulle sedie. «Allora, dottore?» arrischiò Tomás. «Mi lasci prima controllare questa». Il medico si alzò e collocò la radiografia su uno schermo di vetro appeso alla parete. Spinse un interruttore e l'apparecchio si accese, prendendo vita e illuminando la radiografia come fosse uno slide. Il cardiologo si avvicinò al foglio plastificato e, infilati gli occhiali, lo studiò meglio. Poi, quando si ritenne soddisfatto, spense la luce dello schermo, tolse la radiografia e tornò al proprio posto. Prese la seconda busta ed estrasse l'ecocardiogramma, risultato dell'esame a ultrasuoni fatto per analizzare il comportamento del cuore della bambina. «Va tutto bene, dottore?».
Questa volta fu Constança, quasi soffocata dall'ansia, che interpellò il medico. Oliveira si soffermò alcuni secondi ancora ad analizzare gli esami che aveva in mano. «Voglio vedere un elettrocardiogramma» disse alla fine, cercando gli occhiali nella tasca del camice. Si allontanò dalla scrivania e si diresse verso la porta per chiamare il tecnico dell'ambulatorio. «Cristina!». Subito si materializzò una giovane magra, dai capelli corti e neri. Anche lei indossava un camice bianco. «Sì, dottore?». «Faccia un elettrocardiogramma a Margarida, per favore». Il tecnico accompagnò la bambina al lettino. Margarida si spogliò e si sdraiò. Era molto tesa. Cristina distribuì il gel sul tronco nudo della piccola, poi posizionò le ventose sul suo petto e le strinse le fasce intorno alle braccia e alle gambe, collegate attraverso dei fili a una macchina installata all'estremità del lettino. «Adesso stai tranquilla, va bene?» disse Cristina. «Fai finta di dormire». «E di sogna'e?». «Sì». «Sogni d'o'o?». «Proprio così». Fu subito spazientita. «Su, dormi». Margarida chiuse gli occhi e il tecnico accese la macchina; l'apparecchiatura, allora, tremò leggermente ed emise un ronzio elettrico. Seduto alla scrivania e distante dal lettino dove si stava svolgendo l'esame, Oliveira decise di approfittare del fatto che Margarida fosse lontana per fare delle domande ai genitori. «Si è mai lamentata di sentirsi mancare l'aria, di stancarsi facilmente, di avere i piedi gonfi?». «No, dottore». Fu Constança a prendere le redini della conversazione. «Né palpitazioni e svenimenti?». «No». «Febbre?». «Febbre sì, un po'». Il cardiologo alzò le sopracciglia. «Quanta?». «Sui trentotto gradi, non di più». «Per quanto tempo?». «Come?».
«Quanto tempo è durata?». «Ah, una settimana». «Solo una settimana?». «Sì, solo una». «E quando è stato?». «Circa un mese fa». «È stato subito dopo Natale» specificò Tomás, che fino a quel momento era rimasto zitto. «E avete notato qualche differenza nel comportamento?». «No» rispose Constança. «Forse è più mogia». «Mogia?». «Sì, gioca di meno, sembra più calma...». Il medico rimase perplesso. «Hmm» mormorò. «Va bene». Nel frattempo, l'elettrocardiogramma era stato ultimato. Mentre Margarida si vestiva, Cristina portò al cardiologo il lungo foglio uscito dalla macchina. Oliveira indossò nuovamente gli occhiali, esaminò la registrazione grafica delle oscillazioni cardiache e, alla fine, ritenendo di disporre ormai di tutti i dati di cui aveva bisogno, affrontò i genitori. «Beh, gli esami sono simili ai precedenti» disse. «Non c'è stato un peggioramento nella situazione del setto, ma la verità è che il difetto permane». Constança non si mostrò pienamente soddisfatta del responso. «Questo che significa, dottore? Dovrà essere operata o no?». Il medico si tolse gli occhiali, assicurandosi che le lenti fossero pulite, e li ripose per l'ultima volta nella tasca del camice. Si sporse in avanti, appoggiandosi sui gomiti, e fissò la madre ansiosa. «Penso di sì» sospirò. «Ma non c'è fretta». La lezione era terminata da dieci minuti e Tomás, dopo l'abituale scambio di opinioni con gli studenti che lo interpellavano alla fine della spiegazione, salì al suo ufficio al sesto piano. Aveva osservato discretamente Lena durante tutta quell'ora e mezza. La svedese si era seduta allo stesso posto che aveva scelto una settimana prima, sempre attenta, i limpidi occhi azzurri che lo scrutavano con intensità, la bocca socchiusa, come se pendesse dalle sue labbra. Indossava un aderente pullover rosso porpora che le accentuava le formose curve e che contrastava con l'ampia gonna color crema. Una tentazione, pensò il professore, considerandola ancora più at-
traente dell'immagine conservata nella sua memoria. Al termine della lezione, Tomás si sorprese turbato dal fatto che lei non lo avesse cercato immediatamente, ma subito rimproverò se stesso per quei pensieri. Lena era una studentessa e lui era il professore, lei era giovane e single, lui aveva trentacinque anni e una moglie; doveva usare il cervello e stare al proprio posto. Scrollò la testa con un movimento rapido, come per scacciarla via dalla mente, e prese il registro dal cassetto. Tre colpi sulla porta richiamarono la sua attenzione verso l'entrata. La porta si aprì e spuntò la bella testa bionda, sorridente. «Posso, professore?». «Ah, entri entri» disse, forse un po' troppo ansioso. «Come mai qui?». La svedese attraversò l'ufficio con passo sinuoso, muovendo il corpo come una gatta in amore. Sembrava una donna sicura di sé, consapevole dell'effetto che provocava negli uomini. Prese una sedia e si avvicinò alla scrivania di Tomás. «Ho trovato molto interessante la lezione di oggi» sussurrò Lena. «Ah sì? Meno male». «Solo che non ho capito bene com'è avvenuto il passaggio dalla scrittura ideografica a quella alfabetica...». Si riferiva all'argomento della lezione di quella mattina, la nascita dell'alfabeto. «Bene, io direi che è stato un passo naturale, necessario per semplificare le cose» spiegò Tomás, soddisfatto di poter far mostra delle sue conoscenze e ansioso di impressionarla. «Badi bene, tanto la scrittura cuneiforme quanto i geroglifici e i caratteri cinesi richiedono la memorizzazione di un vasto numero di segni. Stiamo parlando di varie centinaia di immagini da imparare a memoria. Ora, com'è evidente, ciò ne rende particolarmente complicato l'apprendimento. L'alfabeto risolve il problema, dato che, invece di essere obbligati a memorizzare migliaia di caratteri, come nel caso del cinese, o seicento geroglifici, come accadeva agli Egizi, è sufficiente ricordare, al massimo, trenta simboli». Alzò le sopracciglia. «Vede? È per questo che dico che l'alfabeto ha democratizzato la scrittura». «E tutto ha avuto inizio con i Fenici...». «Non è esattamente così, si sospetta che il primo alfabeto sia apparso in Siria». «Ma, professore, a lezione lei ha menzionato solo i Fenici!». «Sì, perché l'alfabeto fenicio è il più antico fra quelli di cui abbiamo la certezza che siano alfabeti. Si pensa sia un'evoluzione di alcuni segni cu-
neiformi, oppure della scrittura demotica dell'antico Egitto. Il fatto è che questo alfabeto, composto esclusivamente da consonanti, si diffuse nel Mediterraneo orientale grazie alle navigazioni dei Fenici, che erano validi commercianti e viaggiavano ovunque. Fu così che l'alfabeto fenicio arrivò in Grecia e, in questo modo, raggiunse anche noi. Ma fu davvero il primo alfabeto?». Il professore assunse un'aria interrogativa. «È stata scoperta in Siria, in un posto chiamato Ugarit, una scrittura cuneiforme del XIV secolo a.C, dunque più antica di quella fenicia, che utilizzava solo ventidue segni. E qui sta la questione. Una scrittura con così pochi segni difficilmente può essere ideografica. Credo che sia stata questa la prima scrittura alfabetica, ma il problema è che ad averla inventata non fu un popolo di viaggiatori. Di conseguenza, quell'innovazione non poté diffondersi, al contrario di ciò che accadde con l'alfabeto fenicio, che viaggiò insieme con i suoi ideatori». «Capisco» disse Lena. «E la Bibbia è stata scritta in fenicio?». Tomás scoppiò in una sonora risata, che subito bloccò per paura di offendere la ragazza. «No, la Bibbia è stata scritta in ebraico e in aramaico». Aggrottò le sopracciglia. «Ma la sua domanda non è, a ben vedere, del tutto assurda, dato che esiste, di fatto, un legame tra quelle lingue e il fenicio. Deve sapere che in Siria, allora conosciuta come terra di Aram, è stato scoperto un alfabeto aramaico simile a quello utilizzato dai Fenici, cosa che lascia supporre che le due scritture stiano in qualche relazione fra loro. Molti storici credono che ci sia proprio il fenicio all'origine della scrittura ebraica, aramaica e araba, nonostante rimanga oscuro il modo in cui ciò sia potuto accadere». «E il nostro alfabeto? Anche il nostro deriva da quello fenicio?». «Indirettamente, sì. I Greci hanno preso alcune cose dai Fenici e inventato le vocali a partire da alcune consonanti dell'aramaico e dell'ebraico. Per esempio, le prime quattro lettere dell'alfabeto ebraico sono alef, bet, ghimel, dalet alle quali corrispondono, in greco, alfa, beta, gamma e delta. Com'è chiaro, questa somiglianza tra i due alfabeti non è una coincidenza, sono collegati. D'altro canto consideri che, unendo le prime due lettere, l'alfa e la beta, i Greci hanno coniato la parola "alfabeto". Successivamente, l'alfabeto greco ha originato quello latino. L'alfa si è trasformata in a, la beta in b, la gamma in c e la delta in d. E noi stiamo parlando portoghese che, come sa, è una lingua romanza». «Ma lo svedese non lo è».
«È vero, lo svedese è una lingua scandinava, della famiglia delle lingue germaniche. Ma in realtà anche questa utilizza l'alfabeto latino, no?». «E il russo?». «Il russo usa il cirillico, che deriva ugualmente dal greco». «Ma lei non l'ha spiegato nella lezione di oggi». «Calma» sorrise Tomás, alzando il palmo della mano sinistra, come chi ordina di fermare il traffico. «L'anno accademico non è ancora finito. Il greco sarà il tema della prossima lezione. Diciamo che le sto anticipando un po' l'argomento...». Lena sospirò. «Ah, professore!» esclamò. «Più che di anticipazioni sulle prossime, avrei bisogno di recuperare le lezioni che ho perso». «Allora mi dica. Cosa vuol sapere?». «Come le ho già spiegato al telefono, a causa del ritardo nelle mie pratiche Erasmus sono mancata alle prime lezioni. Ho dato uno sguardo agli appunti di alcuni miei colleghi sulla scrittura cuneiforme della Sumeria, e confesso di non averci capito nulla. Mi occorre un suo aiutino». «Molto bene, quali sono esattamente i suoi dubbi?». La svedese si chinò sulla scrivania, avvicinandosi alla testa di Tomás. Il professore percepì la sua fragranza profumata e immaginò il seno florido, pieno e sodo, al punto quasi di prorompere dal pullover. Si sforzò di dominare quei pensieri, ripetendo a se stesso che lei era una studentessa e lui il professore, lei giovane, lui un uomo di trentacinque anni, lei single, lui sposato. «Ha mai assaggiato del cibo svedese?» chiese Lena, addolcendo il tono di voce. «Cibo svedese? Ehm... sì, penso di averlo mangiato a Malmö, quando sono stato là per via dell'inter-rail». «E le è piaciuto?». «Molto. Mi ricordo che era ben cucinato ma molto caro. Perché?». Lei sorrise. «Sa, professore, credo che non riuscirà a spiegarmi tutto in appena mezzora. Le andrebbe di pranzare a casa mia e aiutarmi a vedere le cose con più calma, senza fretta?». «Pranzare a casa sua?». La proposta era giunta inaspettata e Tomás rimase disorientato. Non sapeva proprio come prendere quell'invito. Già sapeva che avrebbe provocato un mucchio di problemi, prevedeva mille complicazioni, ma non c'era
dubbio che Lena fosse una ragazza gradevole. Lui si sentiva bene in sua presenza e la tentazione era forte. «Sì, le preparerò un piatto svedese che le farà venire l'acquolina in bocca, vedrà». Tomás esitò. Pensò che non poteva accettare. Andare a pranzo a casa di una studentessa, e soprattutto di quella studentessa, era una mossa pericolosa, non era fatto per simili avventure. Ma, d'altro canto, si chiese pure quali sarebbero state le reali conseguenze nel caso avesse accettato l'invito. Non stava esagerando un po'? In fin dei conti, si trattava solo di un pranzo e di una ripetizione, niente di più. Che male c'era? Che problema ci poteva essere nello stare una o due ore in casa della ragazza a parlarle di scrittura cuneiforme? Che lui ne sapesse, nulla proibiva di dare lezioni a una studentessa sugli argomenti della propria disciplina. La differenza era che, invece di stare in aula o in ufficio, sarebbe stato fuori della facoltà. E poi? Qual era il problema? In definitiva, avrebbe solo aiutato una studentessa, il suo sarebbe stato un puro esercizio didattico: non è questa, in fin dei conti, la missione di ogni professore? D'altra parte, e pensandoci bene, sarebbe stato anche piacevole. Che male c'era a passare un po' di tempo in compagnia di una ragazza così carina? Non aveva forse diritto a rilassarsi un poco? Inoltre, pensò, sarebbe stata un'eccellente occasione per provare una nuova cucina, la gastronomia scandinava aveva realmente un suo fascino. Perché no? «Va bene» assentì. «Pranziamo insieme». Lena si abbandonò a un sorriso ammaliatore. «Allora siamo d'accordo!» esclamò lei. «Le preparerò un piatto così buono che implorerà per averne ancora. Facciamo domani?». Tomás si ricordò che il giorno seguente doveva recarsi insieme a Constança a scuola di Margarida. Aveva chiesto un incontro con la direttrice per cercare di risolvere il problema del sostegno per la figlia: mancare era impensabile. «Non è possibile» scrollò la testa. «Devo andare a... ehm... ho un appuntamento domani, non posso venire». «E dopodomani?». «Dopodomani? Venerdì? Hmm... sì, può andare». «All'una?». «All'una. Dov'è casa sua?». Lena gli diede l'indirizzo e se ne andò, stampandogli sul viso due umidi baci. Quando lei uscì, lasciando la deliziosa fragranza del suo profumo a
fluttuare nell'ufficio come una presenza fantasmagorica, Tomás guardò in basso e si accorse, sorpreso ed eccitato, che i suoi fluidi avevano già reagito, la chimica era in movimento, il corpo desiderava ciò che la mente reprimeva. Sentì dal basso montare l'eccitazione. Attraversarono il portone della scuola di São Julião da Barra in tarda mattinata. Andarono a spiare Margarida in aula e, sbirciando dallo spiraglio della porta socchiusa, la trovarono, seduta al suo banco, vicino alla finestra, in un atteggiamento molto educato. I genitori sapevano che aveva fama di essere buona con i propri compagni: difendeva sempre i più deboli, aiutava quelli che si facevano male durante la ricreazione, non le importava perdere ai giochi che si disputavano a scuola e si offriva volontaria per uscire dalla squadra quando c'erano giocatori in più. Arrivava persino a far finta di niente ogni volta che qualche compagno scherzava sulla sua condizione, e subito dimenticava l'affronto. Tomás e Constança la guardarono a lungo dallo spiraglio, con ammirazione, quasi fosse una santa. Ma era già l'ora della riunione e si videro costretti ad abbandonare la porta. Accelerarono il passo, presentandosi all'ufficio della direttrice. Non dovettero aspettare molto prima di essere invitati a entrare. La responsabile della scuola era una donna sui quarant'anni, alta e magra, con i capelli tinti di biondo e un paio d'occhiali con la montatura arrotondata. Li accolse con modi cortesi, ma era evidente che aveva fretta. «Ho un pranzo all'una» spiegò. «E una riunione di coordinamento pedagogico alle tre». Tomás controllò l'orologio, che segnava mezzogiorno e dieci, avevano dunque a disposizione cinquanta minuti; non vedeva proprio il motivo di tanta ansia. «Meno male che ha questa riunione di coordinamento» tagliò corto Constança. «Perché quello che ci porta qui, ovviamente, ha a che vedere proprio con questioni pedagogiche». «Lo so molto bene» aggiunse la direttrice, per la quale l'argomento che stavano per affrontare era diventato un vero incubo già dal precedente incontro, all'inizio dell'anno scolastico. «Presumo si tratti dell'insegnante di sostegno». «Naturalmente sì». «Chiaro, questo è un guaio». «Per lei non dubito che sia un guaio» esordì Constança. «Ma può credermi, per noi, e soprattutto per nostra figlia, è una tragedia». Puntò l'indi-
ce contro la direttrice. «Lei ha idea del male che la mancanza di un insegnante di sostegno sta facendo a Margarida?». «Signora mia, stiamo facendo il possibile...». «State facendo poco». «Non è vero». «Invece sì» insistette. «Lei sa che è così». «Perché non avete assunto un'altra volta il professor Correia?» chiese Tomás, entrando nel discorso, anche per evitare che si trasformasse subito in un incontro di pugilato verbale tra le due donne. «Stava facendo un ottimo lavoro». Il tono rigido del colloquio precedente, quando, all'inizio delle lezioni, erano stati informati che per quell'anno scolastico non ci sarebbe stato il professor Correia ad aiutare Margarida, li aveva messi in guardia. Ma la verità era che più la soluzione a quel problema tardava a venire e la regressione scolastica della bambina diventava evidente, più il confronto si sarebbe fatto duro. «Avrei molto piacere di chiamare il professor Correia» disse la direttrice. «Il problema è che, come già vi ho spiegato nell'ultima riunione, il Ministero ci ha tagliato i fondi, così non abbiamo soldi per assumere collaboratori». «Fandonie!» esclamò Constança. «Ci sono i soldi per tante cose e non ci sono per un insegnante di sostegno?». «No, non li abbiamo. Il nostro bilancio è stato ridotto». «È a conoscenza del fatto che Margarida l'anno scorso sapeva leggere e ora non ci riesce più?» domandò Tomás. «Ehm, questo non lo sapevo». «L'anno passato c'era il professor Correia a farle da sostegno e quest'anno niente, solo l'insegnante di ruolo normale». Indicò la porta, come se la figlia li aspettasse dall'altra parte. «Il risultato è evidente». «L'insegnante di ruolo, ovviamente, non ne sa nulla di insegnamento a bambini con necessità particolari» aggiunse Constança. La direttrice aprì i palmi delle mani, volgendoli verso la coppia, come se chiedesse loro di calmarsi. «Voi non mi state ascoltando» affermò. «Se fosse per me, avrei già assunto il professor Correia. Il problema è che non ho il denaro. Il Ministero ha tagliato le nostre risorse». Constança si piegò sulla scrivania. «Signora direttrice» disse, cercando di restare calma «la presenza di in-
segnanti di sostegno per seguire questi studenti speciali nelle scuole pubbliche è prevista dalla legge. Non è un nostro capriccio, non è un'esigenza irragionevole, non è un favore che ci fa. È previsto dalla legge. L'unica cosa che chiediamo, io e mio marito, è che questa scuola rispetti la legge. Né più né meno. Che rispetti la legge». La direttrice sospirò e scrollò il capo. «So cosa dice la legge. In questo Paese si approvano leggi molto belle, ma non ci sono le condizioni per poterle applicare. A che serve una legge che mi obbliga ad avere un insegnante di sostegno, se non dispongo del denaro per assumerlo? Per quanto mi riguarda, i signori deputati possono anche decidere... ehm... che ne so, che si viva in eterno. Ma non è che, se esistesse una legge del genere, le persone potrebbero rispettarla. Sarebbe solo un'assurdità. Lo stesso succede nel nostro caso. È stata creata una legge molto bella, molto giusta, molto umana, tuttavia, quando si tratta di tirar fuori i soldi, non ce n'è per nessuno. Praticamente, la legge esiste solo per dire che esiste, perché qualcuno si vanti di averla approvata. Niente di più». «Allora lei cosa suggerisce?» chiese Tomás. «Che le cose restino così come sono? Che la nostra Margarida sia abbandonata in classe e non abbia l'aiuto di un insegnante di sostegno? È così?». «Sì» concordò Constança. «Cosa intende fare?». La direttrice si tolse gli occhiali, inumidì le lenti con un soffio caldo espirato dai polmoni e le strofinò con un piccolo panno arancione. «Ho una proposta da farvi». «Ci dica». «Come vi ho già detto, non abbiamo risorse per assumere il professor Correia. Dato questo ostacolo, la mia idea è di mettere la professoressa Adelaide a disposizione di Margarida». «La professoressa Adelaide?» si meravigliò Constança. «Sì». «Ma non ha nessuna competenza riguardo all'insegnamento di sostegno». «Signora mia, si fa quel che si può». «Le pongo la domanda. La professoressa Adelaide ne sa qualcosa dell'insegnamento a bambini con necessità particolari?». La direttrice si alzò dalla scrivania. «Credo sia meglio chiamarla» ribatté, dirigendosi verso la porta ed evitando di rispondere direttamente alla domanda che le era stata rivolta, det-
taglio che non passò inosservato. Aprì e sbirciò fuori. «Marília, mi chiami la professoressa Adelaide, per piacere». Tornò a sedersi, concluse la pulizia delle lenti e indossò gli occhiali. Tomás e Constança si guardarono l'un l'altra, preoccupati. Si sentivano entrambi determinati a lottare fino alla fine per il diritto della figlia ad avere un sostegno pedagogico da parte di un insegnante specializzato, che capisse i suoi limiti e il modo migliore per superarli. Erano convinti che Margarida fosse in grado di fare progressi come tutti gli altri bambini. Tuttavia, essendo molto più lenta nell'apprendimento, le occorreva un aiuto in più, soltanto questo. «Posso entrare?». Era la professoressa Adelaide, una donna forte, ben piazzata, con un'aria materna e bonaria. Sembrava una di quelle mamme di campagna, rosee, paffute, protettive, sempre con una nidiata di figli intorno. Si salutarono e l'ultima arrivata si sedette vicino alla coppia. «Adelaide» iniziò a dire la direttrice, «Come sa, quest'anno siamo a corto di finanze per assumere il professor Correia, che aiutava Margarida. L'altro giorno ho parlato con lei del problema e mi ricordo che si è offerta volontaria per occuparsi del sostegno». Adelaide assentì con la testa. «Sì. Come le ho spiegato, anch'io sono preoccupata per la situazione in cui si trovano Margarida e Hugo». Hugo era un altro bambino affetto da Trisomia 21 che ugualmente frequentava quella scuola. «Visto che il professor Correia non può venire, sono a completa disposizione per aiutare questi alunni». «Ma, professoressa Adelaide» la interruppe Constança «lei ha qualche competenza nel campo dell'insegnamento di sostegno?». «No». «Ha mai seguito bambini affetti da sindrome di Down?». «No. Senta, io mi sto solo offrendo per trovare una soluzione». «Pensa che, con lei, Margarida potrà migliorare in modo significativo?». «Penso di sì. Farò del mio meglio». Tomás si agitò sulla sedia. «Con il dovuto rispetto per la sua buona volontà, mi permetta di dirle una cosa. Margarida non ha bisogno di lezioni che, senza aiutarla davvero a migliorare, servano soltanto a dire che è seguita. Le lezioni non sono fini a se stesse, sono un mezzo per arrivare a uno scopo, e lo scopo non è che la bambina abbia un insegnante, ma che apprenda. Che se ne fa delle sue
lezioni se, alla fine, continua a non sapere nulla?». «Beh, io spero che impari qualche cosa». «Tuttavia, basandomi su quello che le ho sentito dire adesso, lei non ha la minima idea di ciò che è necessario sapere per insegnare a una bambina come questa. Non ha conseguito nessuna specializzazione in materia e non ha mai fatto lezione a soggetti affetti da Trisomia 21. Non so se ne è al corrente, ma un insegnante di sostegno non è proprio un professore nell'accezione generale del termine. È più una via di mezzo tra un allenatore e un fisioterapista, è qualcuno che pretende dal bambino, che lo prepara, che lo porta al limite. Con tutta la buona volontà, le dico francamente che non vedo in lei le caratteristiche di una professoressa pronta a questo compito». «Riconosco che forse non ho la competenza necessaria per...». «Vedremo» tagliò corto la direttrice, alla quale non piaceva il verso che stava prendendo la conversazione. «Le cose sono quelle che sono. Non possiamo avere il professor Correia. La professoressa Adelaide è disponibile. Siamo tutti d'accordo che lei non sia una specialista dell'insegnamento di sostegno. Ma, che lo vogliamo o no, è l'unica cosa che abbiamo. Non è la soluzione perfetta, ma è una soluzione possibile». Tomás e Constança incrociarono gli sguardi, irritati. «Signora direttrice» borbottò lui «quella che lei ci sta presentando non è una soluzione per Margarida, è una soluzione per il suo personale problema». Sottolineò la parola suo. «Vuole sbrigare la questione, non risolverla veramente. Ma vedremo. A nostra figlia occorre un insegnante di sostegno. Ripeto, un insegnante di sostegno». Quasi sillabò quelle parole. «Nostra figlia non ha bisogno di lezioni, ha bisogno di imparare. La professoressa Adelaide non è la soluzione». «È quella che abbiamo». «È la soluzione per il suo problema, non per quello di Margarida». «Non c'è altra soluzione» concluse la direttrice con un gesto perentorio, definitivo. «L'insegnante di sostegno sarà la professoressa Adelaide». «Non può essere». «Sarà così». «Scusi, ma non lo accettiamo». «Come non lo accettate?». «Non lo accettiamo. Pretendiamo un insegnante specializzato nell'insegnamento di sostegno, com'è previsto dalla legge». «Dimentichi la legge. Non ci sono i soldi per assumerne uno». «Li trovi».
«Ascolti bene quello che le dico: non ci sono i soldi. Se ne occuperà la professoressa Adelaide». «Già gliel'ho detto. Non siamo d'accordo». La direttrice strizzò gli occhi fissando la coppia davanti a sé. Fece una pausa e sospirò pesantemente, come se stesse prendendo la decisione finale. «Allora dovrete dichiarare per iscritto che non accettate le lezioni di sostegno». «Non credo proprio». «Cosa sta dicendo?». «Che non dichiariamo nulla». «E perché?». «Perché non è la verità. Noi vogliamo l'insegnante di sostegno, chiaro che lo vogliamo. Ma dev'essere una persona adeguatamente preparata. Ciò che non accettiamo, e questo siamo anche disposti a metterlo per iscritto, è una professoressa che, per quanto si sforzi, non è comunque all'altezza di dare appoggio a bambini con necessità particolari». La riunione terminò senza una soluzione. La direttrice si congedò in modo secco, frustrata dalla situazione difficile e senza via d'uscita, mentre la coppia abbandonò la scuola con l'impressione che lì non avrebbero risolto nulla. Fu chiaro a Tomás e a Constança che non potevano contare sulla scuola pubblica. Dovevano assumere personalmente un insegnante di sostegno ma il problema, come per tante cose nella vita, era che non avevano abbastanza soldi. Tomás guardò il palazzo di cui si era annotato il nome sul bloc-notes. Quell'antico edificio, in cima a Via Latino Coelho, aveva chiaramente bisogno di un restauro urgente. Arrivato all'entrata, notò che la porta era socchiusa. Tomás la spinse e si trovò in una hall decorata con azulejos azzurri rovinati, alcuni spaccati, altri sbiaditi dal tempo. La luce della via era l'unica illuminazione. Essa sprizzava dalla porta e invadeva il piccolo atrio con fulgore, disegnando sul pavimento geometrie luminose oltre le quali regnava la penombra. Tomás fece tre passi e, tuffandosi nell'oscurità, salì le scale di legno. Ogni scalino scricchiolava sotto il peso del suo corpo, come se protestasse contro l'intrusione che veniva a interrompere un indolente riposo. L'edificio emanava l'odore caratteristico dei materiali vecchi, quell'odore di muffa e umidità trattenuta dal pavimento di legno e dalle pareti, che era diventato il marchio fetido dei palazzi antichi di Lisbona.
Raggiunse il secondo piano e controllò il numero della porta; stava cercando l'interno due e quella si rivelò la porta giusta. Premette il pulsante nero sulla parete e un din-don tranquillo risuonò all'interno dell'appartamento. Sentì dei passi, il rumore metallico della spranga che scivolava e la porta si aprì. «Hej!» salutò Lena, dandogli il benvenuto. «Välkommen». Tomás rimase per un lungo secondo imbambolato nella penombra, inchiodato sulla porta ad ammirare la padrona di casa. La svedese gli si presentò con una camicia di seta celeste, estiva, molto aderente. La scollatura era infinitamente profonda, rivelando quasi del tutto i seni, immensi e voluttuosi, separati da un profondo solco. Solo i capezzoli restavano coperti, e tuttavia era possibile immaginarli attraverso la sagoma che scolpivano nella seta, come bottoni nascosti. Una minigonna bianca, con un nodo giallo laterale che serviva da cintura, metteva in mostra le sue gambe lunghe e ben fatte, mentre i sandali neri a tacco alto che aveva ai piedi accentuavano le sensuali curve del suo corpo. «Salve» disse alla fine. «Oggi è... molto carina». «Lo pensa davvero?» sorrise la ragazza. «Grazie, è troppo gentile». Gli fece cenno di entrare. «Sa, in confronto alla Svezia, l'inverno in Portogallo sembra estate. Siccome soffro il caldo, mi sono messa più leggera. Spero non le dispiaccia». Tomás oltrepassò la porta ed entrò nell'appartamento. «No. Assolutamente» disse, cercando di mascherare il rossore che gli aveva colorato le guance. «Ha fatto bene. Molto bene». L'appartamento era riscaldato, in stridente contrasto con la temperatura dell'esterno. Il pavimento era di legno antico, con grandi tavole verniciate inchiodate a terra. Alle pareti erano appesi vecchi quadri, austeri e dipinti male. Là dentro non c'era odore di muffa; al contrario, nell'aria aleggiava un gradevole profumo di cibo sui fornelli. «Vuole darmi il cappotto?» gli domandò lei, stendendo il braccio verso Tomás. Il professore si tolse il cappotto e glielo consegnò. Lena lo appese a un attaccapanni vicino all'ingresso e accompagnò il suo invitato attraverso il lungo corridoio dell'appartamento. Si vedevano due porte chiuse sulla sinistra e in fondo la cucina. Accanto ad essa, si apriva un'altra porta, l'entrata del salone, dove la tavola era apparecchiata per due persone. «Come ha trovato questo appartamento?» volle sapere, sbirciando dalla porta.
Mobili antichi, di quercia e noce, decoravano la stanza in modo semplice. C'erano due divani, consunti e austeri, un televisore su un tavolinetto e un mobile a muro su cui erano esposti vecchi pezzi di porcellana. La luce del giorno, fredda e diffusa, irrompeva da due alte finestre, entrambe rivolte verso un cortile interno su cui si affacciavano vari appartamenti. «L'ho affittato». «Sì, ma come ha saputo della sua esistenza?». «Sono stata all'UIRE». «UIRE? E che cos'è?». «È l'Ufficio Informazioni e Relazioni Esterne della facoltà. È dove ci danno un appoggio logistico. Quando sono arrivata, sono andata a vedere se c'era qualcosa da affittare e ho trovato questo appartamento. È pittoresco, vero?». «Sì, veramente pittoresco» commentò Tomás. «Chi è il padrone?». «È una signora anziana che vive al primo piano. Questa casa era di un suo fratello, che è morto lo scorso anno. Ha deciso di affittarla a stranieri, secondo lei sono gli unici clienti a dare la certezza di andarsene definitivamente dopo un po' di tempo». «È furba la vecchia». Lena entrò in cucina, sbirciò nella pentola sul fuoco, girò il cibo con una mestola, annusò il vapore che usciva e sorrise al professore. «È venuto bene». Uscì dalla cucina e condusse Tomás in sala. «Si metta comodo» disse, indicando il sofà. «Il pranzo sarà pronto a momenti». Tomás s'accomodò sul sofà e la ragazza sedette al suo fianco, mettendosi comodamente a gambe incrociate. Cercando di mantenersi occupato, e di non far calare un imbarazzante silenzio, il professore aprì la ventiquattrore e tirò fuori alcuni documenti. «Ho portato alcuni appunti sulla scrittura cuneiforme sumera e accadica» spiegò Tomás. «Troverà particolarmente interessante l'uso dei determinativi». «Determinativi?». «Sì» disse «sono conosciuti anche come indicatori semantici». Indicò alcuni disegni cuneiformi scarabocchiati sugli appunti. «Vede? Questo è un esempio di parola che può essere usata come indicatore semantico. Nel caso specifico, è il termine gis, cioè legno, che è utilizzato con i nomi di alberi e di oggetti in legno. La funzione degli indicatori semantici è quella di ridurre l'ambiguità dei simboli. Qui il determinativo gis, quando si trova davanti a...».
«Oh, professore!» lo interruppe Lena, assumendo un'aria di supplica. «Non possiamo parlarne dopo pranzo?». «Ehm... sì, certo» si meravigliò Tomás. «Pensavo ne volesse approfittare per avvantaggiarsi con la spiegazione». «Non a stomaco vuoto» sorrise la svedese. «Nutri bene il tuo servo e la tua mucca darà più latte». «Come?». «È un proverbio svedese. In questo contesto significa che la mia testa renderà di più a stomaco pieno». «Ah» comprese il professore. «Mi sembra di capire che le piacciono molto i proverbi». «Li adoro. Racchiudono lezioni di profonda saggezza, non trova?». «Sì, forse». «Ah, per me sì!» esclamò con tono perentorio. «In Svezia diciamo che i proverbi rivelano i pensieri della gente». Inarcò le sopracciglia. «I portoghesi ne hanno tanti?». «Alcuni». «Me li insegna?». Tomás scoppiò a ridere. «Ma, insomma, cosa vuole che le insegni?» domandò. «La scrittura cuneiforme o i proverbi portoghesi?». «Perchè non entrambi?». «Ma ci vorrebbe molto tempo...». «Non importa. Abbiamo tutto il pomeriggio, giusto?». «A quanto pare ha sempre la risposta pronta». «La spada delle donne è nella loro bocca» disse Lena. «È un altro proverbio svedese». Gli lanciò un'occhiata maliziosa. «E guardi che, nel mio caso, ha un doppio senso». Tomás, imbarazzato e senza sapere cosa dire, alzò le mani. «Mi arrendo». «Fa bene» replicò la ragazza, appoggiandosi di nuovo al sofà. «Mi dica, professore, lei è di Lisbona?». «No, sono nato a Castelo Branco». «E quando si è trasferito?». «Da giovane. Sono venuto a studiare Storia in facoltà». «Quale facoltà?». «La nostra». «Ah» disse Lena. Lo fissò con i suoi occhi azzurri, scrutandolo attenta-
mente. «Si è mai sposato?». Per alcuni istanti Tomás non seppe cosa rispondere. Esitò per una frazione di tempo un po' troppo lunga, diviso tra la bugia, che sarebbe stata facilmente smascherata, e la verità, che avrebbe irrimediabilmente allontanato la ragazza. Finì per abbassare lo sguardo e per sentire se stesso ammettere: «Sì, sono sposato». Ebbe paura della reazione della svedese. Ma Lena, con grande sorpresa di Tomás, non sembrò infastidita. «Non mi meraviglia!» esclamò lei «Un uomo così bello...». Tomás arrossì. «Beh... uhm...». «Le piace?». «Chi?». «Sua moglie, ovvio. Le piace?». Ora aveva l'opportunità di rifarsi. «Quando ci siamo sposati mi piaceva, senza dubbio. Ma sa, con il tempo ci siamo allontanati. Oggi siamo amici, questo è poco ma sicuro, ma in realtà non si può dire che ci sia amore». La scrutò, cercando di capire la sua reazione; a Tomás sembrò che fosse soddisfatta della risposta e si sentì sollevato. «In Svezia diciamo che una vita senza amore è come un anno senza estate» commentò la ragazza. «Non è d'accordo?». «Sì, certo». Inaspettatamente Lena sbarrò gli occhi e si portò la mano alla bocca. Si alzò di scatto, con l'aria allarmata e un'espressione apprensiva in volto. «Ah!» gridò. «Mi sono dimenticata! La pentola sul fuoco!». Scappò come il vento in cucina. Da lontano, Tomás sentì il rumore del cibo sui fornelli, mentre Lena mescolava il contenuto della pentola, lasciandosi sfuggire esclamazioni smorzate. «Tutto bene?» domandò, allungando il collo verso la porta. «Sì» fu la risposta gridata dalla svedese. «È pronto. Può accomodarsi a tavola». Tomás non le diede retta. Al contrario, andò a spiare sulla porta della cucina. Vide Lena prendere una pentola calda con un panno, versare della zuppa in una larga terrina di porcellana antica, come quella dei piatti messi a tavola. «Serve aiuto?».
«No, va tutto bene. Vada pure a sedersi». Il professore la guardò, esitante, indeciso se dovesse assecondarla o fosse meglio insistere. Ma l'espressione risoluta della svedese lo convinse a obbedire. Tornò in sala e prese posto a tavola. Un istante dopo, Lena entrò portando la zuppiera fumante. L'appoggiò pesantemente e sospirò per la fatica. «Puff! Ecco qua!» esclamò lei, sollevata. «Si mangia». Tirò via il coperchio dalla terrina e servì Tomás con un cucchiaio da tavola. Poi fu il suo turno. Il professore osservò attentamente il piatto con aria diffidente. Era una zuppa bianca, con in mezzo alcuni pezzi solidi, e un buon aroma, succulento. «Che cos'è?». «Zuppa di pesce». «Zuppa di pesce?». «L'assaggi. È buona». «È diversa dalle nostre. È una ricetta svedese?». «Combinazione, no. È norvegese». Tomás ne prese un po'. La zuppa era lattea e cremosa, con un intenso e aspro sapore di mare. «Hmm, è buona» concordò lui, gustando il nettare marino. Fece un leggero inchino con la testa verso la padrona di casa. «Complimenti, lei è una brava cuoca». «Grazie». «Che pesce ci ha messo?». «Beh, diversi. Ma non so il loro nome in portoghese». «Anche il piatto principale sarà di pesce?». «È questo il piatto principale». «Come? Questa è una zuppa...». «La zuppa di pesce norvegese è un piatto molto sostanzioso. Vedrà, quando avrà finito di mangiare si sentirà sazio». Tomás mangiò un pezzo di pesce, gli sembrò una abrótea29, insaporito dal liquido latteo della zuppa. «Perché è bianca?» si meravigliò lui. «Non si prepara con l'acqua?». «Ci si mette sia acqua che latte». «Latte?». «Sì» disse la ragazza. Smise di mangiare e lo fissò con un'espressione insinuante. «Sa qual è la mia più grande fantasia di cuoca?». «Eh?».
«Se fossi sposata e avessi un figlio, mi piacerebbe preparare una zuppa di pesce con il latte delle mie mammelle». Per poco Tomás non si strozzò con la zuppa. «Come?». «Voglio fare una zuppa di pesce con il latte delle mie mammelle» ripeté lei, come se stesse dicendo la cosa più naturale del mondo. Si posò la mano sul seno sinistro e lo strinse finché il capezzolo non spuntò dal bordo della scollatura. «Le piacerebbe provare?». Tomás sentì crescere dentro l'eccitazione. Incapace di dire una parola e con la gola secca, fece cenno di sì con la testa. Al che Lena tirò fuori il seno dalla camicia di seta azzurra. Era latteo come la zuppa, il capezzolo, grande, rosa chiaro, aveva la punta dritta e dura come una tettarella. La svedese si alzò e si avvicinò al professore; in piedi al suo fianco, gli accostò il seno alla bocca. Tomás non resistette. L'afferrò per la vita e iniziò a succhiarle il capezzolo sporgente. Il seno era caldo e turgido, così grande che vi affondò la faccia. Se ne riempì le mani e lo palpò come fosse un cuscino. Desiderava sentirne il gusto e la morbidezza, rapito dall'impulso della lussuria. Lena gli slacciò la cintura, gli sbottonò i pantaloni e, dopo aver aperto la cerniera, glieli abbassò con un rapido movimento. Privato dei seni, fu subito ricompensato: la ragazza s'inginocchiò ai piedi della sedia, s'inchinò sul grembo di lui e si riempì la bocca. Tomás gemette e perse quel po' d'autocontrollo che ancora gli era rimasto. VI La Porta Sud del Monastero dei Geronimiti, in realtà composta da due pesanti porte di legno, era chiusa ai visitatori. L'ingresso del portico, con la sua spettacolare merlettatura di pietra calcarea bianca, in stile gotico impreziosito da elementi platereschi e rinascimentali, rappresentava una delle parti più belle della sfarzosa facciata del grande monastero cinquecentesco. Scene religiose e secolari, scolpite nella pietra con particolare ricchezza di dettagli, decoravano i due archi che sormontavano le porte. Queste erano dominate da una statua dell'infante Don Henrique in prossimità del pilastro centrale, e ornate da numerose ed esili colonne, ricche di statue e rilievi intrecciati, che s'innalzavano verso il grigio cielo mattutino Tomás fiancheggiò l'intera facciata sud dell'edificio, di pietra bianca ap-
pena venata, qua e là, da macchie di sporco marroni e grigiastre; sulla torre campanaria spiccava una cupola mitrata d'influenza bizantina. Girò l'angolo e deviò per la porta assiale, a ovest; era quella l'entrata principale ma, per la sua posizione, incassata in una stretta galilea e all'ombra di una bassa volta che oscurava la sua ricca merlatura in stile rinascimentale, non le veniva attribuita la giusta importanza. Attraversò il passaggio ed entrò nell'immensa Chiesa di Santa Maria. I suoi occhi furono immediatamente attratti dal firmamento del santuario: una monumentale volta sorretta da esili pilastri ottagonali, di pietra riccamente lavorata, che in alto si aprivano simili a gigantesche palme, le cui foglie sostenevano la cupola e s'intrecciavano in una geometrica rete di nervature. Nelson Moliarti, preso ad ammirare le vetrate, si accorse del nuovo arrivato e lo raggiunse nel deambulatorio, mentre i passi riecheggiavano per il santuario quasi deserto. «Salve, Tom» lo salutò. «Come va?». Tomás gli strinse la mano. «Salve, Nelson». «Questo è un monumento incredibile, non trova?» chiese, accompagnando la domanda con un ampio gesto della mano, come a mostrare ciò che aveva intorno. «Ogni volta che vengo a Lisbona faccio un salto qui. Non c'è opera più bella per commemorare le Scoperte e l'inizio della globalizzazione». Lo invitò ad avvicinarsi a uno dei pilastri ottagonali e indicò alcuni rilievi in pietra. «Vede li? È una corda da marinaio. I suoi antenati hanno scolpito una corda da marinaio in una chiesa!». Poi richiamò l'attenzione su un altro punto. «E lì ci sono pesci, carciofi, piante tropicali, e persino foglie di tè». Tomás sorrise dell'entusiasmo dell'americano. «Nelson, conosco bene il Monastero dei Geronimiti. I temi marini scolpiti nella pietra rendono questo stile, chiamato manuelino, una cosa unica nell'architettura mondiale». «Ha ragione» concordò Moliarti. «Una cosa unica». «Sa come venne finanziato l'edificio? Con una tassa sulle spezie, sulle pietre preziose e sull'oro che le caravelle portarono da tutto il mondo». «Ah sì?». «La chiamavano il "denaro del pepe"». «Ma pensa un po'» commentò l'americano, guardandosi intorno. «E chi fece costruire il monastero? Henrique il Navigatore?». «No, il monastero è successivo. Corrisponde all'apoteosi delle Scoper-
te». «Ma non fu raggiunta con Henrique?». «Certo che no, Nelson. In effetti, Henrique fu colui che progettò tutto, nel XV secolo. Ma le Scoperte raggiunsero il loro apice a cavallo fra il XV e il XVI secolo, sotto i regni di Don João II e Don Manuel. Il Monastero dei Geronimiti fu fatto costruire da Don Manuel alla fine del XV secolo». Con un ampio movimento del braccio, descrisse l'ambiente intorno a sé. «Sa, il luogo dove ci troviamo era anticamente una chiesetta retta dai cavalieri dell'Ordine Militare di Cristo, e fu qui che Vasco da Gama venne a pregare prima di partire per l'India, nel 1497. Don Manuel nutriva allora il sogno di essere il re di tutta la Penisola Iberica. Stabilì la capitale a Lisbona, e fece di tutto per diventare l'erede della Corona di Castiglia e Aragona. Per raggiungere quest'obiettivo, aveva un piano che consisteva nell'ingraziarsi i Re Cattolici. Sposò due figlie dei sovrani di Castiglia e Aragona. Per compiacerli, espulse gli ebrei dal Portogallo e commissionò questo monastero, consegnandolo non all'Ordine di Cristo, come sarebbe stato naturale, ma all'Ordine dei Geronimiti, i monaci confessori di Isabella la Cattolica. L'ambizione di Don Manuel stava quasi per essere premiata, quando nel 1498 fu consacrato erede dei Re Cattolici, ma il progetto, com'è evidente, non portò a nulla». Passeggiarono e si fermarono ad ammirare la tomba di Vasco da Gama, alla sinistra del portale d'ingresso. Una statua di marmo rosa a grandezza naturale, distesa con le mani rivolte verso l'alto, in segno di preghiera, fra motivi di corda, sfere armillari, caravelle, una croce dell'Ordine di Cristo e simboli marini, indicava il sarcofago del grande navigatore. Sul lato opposto si trovava il sepolcro di Luís de Camões. Il celebre poeta epico delle Scoperte era ugualmente rappresentato da una statua sdraiata sul sarcofago, con le mani giunte in preghiera e una corona d'alloro sul capo adagiato sopra un cuscino di pietra. «Sono sepolti proprio qui?» domandò Moliarti, con lo sguardo rapito dal sarcofago scolpito di Vasco da Gama. «Chi?». «Vasco da Gama e Camões». Tomás si mise a ridere. «È quello che diciamo ai turisti». «Ma è vero o no?». «Mettiamola così» disse il portoghese, posando la mano sulla tomba del grande navigatore «le spoglie contenute in questo sarcofago quasi sicura-
mente sono di Vasco da Gama». Poi indicò l'altro lato. «I resti deposti in quel sarcofago, quasi sicuramente non sono di Camões. Ma le guide vanno raccontando lo stesso ai turisti che il poeta è sepolto proprio lì. Sembra che a loro piaccia e molti ne approfittano per comprare subito I Lusiadi». Moliarti scrollò la testa. «Ma questo non è onesto». «Oh, Nelson, non siamo ingenui. Come si fa ad avere la certezza che le spoglie di una persona morta cinquecento anni fa appartengano proprio a quella determinata persona? Che io sappia, ancora non esisteva l'esame del DNA, pertanto non c'è modo di avere garanzie». «Proprio così...». «È mai stato a Siviglia a vedere la tomba di Colombo?». «Sì». «Ed è certo che lì ci sia proprio Colombo?». «Beh, è quello che dicono, no?». «Ma se io le dicessi che è una cavolata, e che le spoglie che si trovano a Siviglia, forse, non sono quelle di Colombo?». L'americano lo guardò con aria interrogativa. «Davvero?». Tomás sostenne lo sguardo e scrollò la testa. «C'è chi sostiene di no». Moliarti alzò le spalle. «Who cares?». «Appunto. Qual è il problema? Ciò che importa è il valore simbolico. Magari Colombo non è sepolto lì, ma quel corpo rappresenta comunque Colombo. È un po' come la tomba del Milite Ignoto, che potrebbe essere di chiunque, persino di un disertore o di un traditore, ma rappresenta pur sempre il simbolo di tutti i soldati». Una crescente moltitudine iniziò ad affluire dalla porta principale, in un mormorio nervoso ed eccitato: erano turisti spagnoli appena scesi da un autobus che si sparpagliavano per il santuario come formiche affamate, con al collo macchina fotografica e in mano pastéis de nata30. L'invasione spagnola, con il suo schiamazzo disordinato e caotico, sebbene rispettoso, turbò i due storici, interessati a trovare un angolo più tranquillo per parlare. «Venga» suggerì Moliarti, facendogli cenno con la mano «andiamo a discutere là dentro». Uscirono dalla chiesa passando dalla porta assiale, in fuga dai turisti. Girarono a destra, comprarono due biglietti e, attraversati i corti corridoi in-
terni, videro finalmente il Chiostro Reale aprirsi davanti ai loro occhi. Un piccolo giardino paesaggistico alla francese disegnava il fulcro dell'intera struttura; era semplice, senza fiori, con appena un manto erboso tagliato a figure geometriche intorno a un piccolo lago circolare. Tutto il patio centrale, costituito dal pratino e dal lago, era circondato dagli archi e dalle balaustre che limitavano i due piani a volta dei corridoi del monastero. Per ogni lato si vedevano quattro trabeazioni con le estremità tagliate obliquamente. I visitatori girarono a sinistra nella galleria inferiore, camminando nell'ombra. Osservarono la merlettatura incisa nella pietra delle pareti dei corridoi, restando ammirati dalla ricchezza dei dettagli scolpiti in rilievo. Ovunque si notavano simboli religiosi, croci dell'Ordine Militare di Cristo, sfere armillari, scudi ed emblemi, corde scolpite, forme intrecciate, piante, spighe di grano, uccelli, animali fantastici, lucertole, draghi marini. Tra la fauna e la flora esotica apparivano medaglioni con busti di foggia romana, qua si riconosceva il profilo di Vasco da Gama, là quello di Pedro Alvares Cabral. «Questo chiostro è straordinario» commentò Moliarti. «Sfarzoso» concordò Tomás. «Fra i più belli al mondo». Girovagarono senza una meta per il pian terreno, ammirando gli archi. Questi erano divisi in due da colonnine squamate e a tortiglione. I pilastri esterni esibivano un'ornamentazione piatta e delicata, mentre l'arco interno si distingueva per la decorazione manuelina, complessa e merlettata. Camminarono distrattamente lungo la galleria, finché l'americano si dimostrò attratto dai simboli scolpiti nella pietra. Poi guardò Tomás. «Allora, Tom? Ha delle risposte per me?». Il portoghese scrollò le spalle. «Non so se ho risposte o piuttosto domande». Moliarti fece uno schiocco con la lingua, dispiaciuto. «Tom, le ore scorrono e non abbiamo tempo da perdere. Sono passate già due settimane da quando lei è stato a New York, e una da quando è tornato a Lisbona. Abbiamo bisogno di risposte a breve». Tomás s'avvicinò alla fontana del chiostro, sormontata da un leone scolpito, seduto con le zampe anteriori alzate. Dalla bocca dell'animale, simbolo araldico di San Jerónimo, sgorgava un flusso d'acqua, in un gorgogliare liquido, continuo, riposante. Passò la mano nell'acqua fresca e cristallina, ma non prestò attenzione alla statua: aveva cose più importanti cui pensare. «Guardi, Nelson, non so se quello di cui dispongo le piacerà, ma è quan-
to si deduce dall'enigma che ci ha lasciato il professor Toscano». «Ha già decifrato quel messaggio?» chiese Moliarti. Tomás sedette su una delle panchine in pietra della galleria, in prossimità degli archi, con le spalle rivolte verso il cortile, davanti al massiccio blocco di marmo che indicava la tomba di Fernando Pessoa. Aprì la ventiquattrore. «Sì» rispose. Iniziò a tirar fuori i documenti, cercando un foglio in particolare. Lo trovò e lo mostrò all'americano, che si sedette al suo fianco. «Vede questo?». Indicò alcune parole scritte a mano in maiuscolo. Moliarti lesse la prima riga. «Moloc». Poi la seconda. «Ninundia omastoos». «Questa è una copia della sciarada lasciata da Toscano» spiegò Tomás. «Sono stato giorni a scervellarmi, a chiedermi se fosse un codice o, eventualmente, una cifra di sostituzione, nonostante quest'ultima mi sembrasse l'ipotesi meno probabile. Invece si tratta proprio di una cifra di trasposizione». Guardò Moliarti. «Un anagramma. Sa cos'è un anagramma?». L'americano accennò una smorfia con la bocca. «No». «L'anagramma è una parola o una frase formata a partire da una diversa disposizione delle lettere della parola o della frase. Per esempio, santos è l'anagramma di tansos31. Entrambi i termini utilizzano le stesse lettere ma in un ordine differente. Capisce?». «Ah» assentì Moliarti. «Vale la stessa cosa per l'inglese?». «Certo, per tutte le lingue con scrittura alfabetica» spiegò Tomás. «Il principio è sempre lo stesso». «Non conosco neanche un caso». «Certo che ne conosce. Ci sono anagrammi famosi in inglese. Pensi a Elvis, anagramma di lives, o a funeral, anagramma di real fun». «Divertente» commentò Moliarti senza sorridere. «Ma questo che c'entra con le ricerche del professor Toscano?». «Il professore ci ha lasciato come indizio proprio un anagramma, uno piuttosto semplice nella prima riga, di quelli in cui la prima lettera diventa l'ultima, la seconda lettera corrisponde alla penultima e così via, come in uno specchio». Tornò a mostrare la fotocopia del messaggio cifrato. «Vede? Moloc deve leggersi Colom. Al contrario, Ninundia omastoos è un anagramma più complesso, la cui decifrazione implica una linea di lettura incrociata. Mettendo nel giusto ordine la sequenza, si ottiene nomina sunt
odiosa». «La frase del Romano». «Cicerone». «Che significa?». «Come le ho già spiegato, nomina sunt odiosa significa fare nomi è inopportuno». «E Colom?». «È un nome». «Inopportuno?». «Sì». «E chi sarebbe?». «Cristoforo Colombo». Moliarti fissò Tomás per un lungo istante. «Mi spieghi, vediamo se riesco a capirci qualcosa» disse l'americano, grattandosi il mento. «Che voleva dire il professor Toscano con questo messaggio cifrato?». «Che il nome di Colom era inopportuno». «Sì, ma che senso ha la frase?». «Questa è stata la parte più difficile da capire, vista la sua ambiguità» ammise Tomás. Tirò fuori un altro foglio dalla ventiquattrore: la fotocopia di un testo scritto in latino. «Ho consultato il testo originale della Pro Roscio nella speranza di riuscire a comprendere il senso di questa citazione. Apparentemente, Cicerone voleva dire che non si devono citare con leggerezza nomi di persona quando ci sono in causa fatti vergognosi o molto gravi». Moliarti prese il foglio e lo studiò. «Il nome di Colombo era collegato a fatti vergognosi o molto gravi?». «Quello di Colombo, no. Ma quello di Colom, sì». «Gee, man!» esclamò l'americano, scuotendo la testa. «Non ci sto capendo niente. Ma non mi ha detto che Colom è Colombo?». «Sì, ma per qualche motivo il professor Toscano ha voluto richiamare l'attenzione su Colom. Se il nome fosse stato irrilevante, avrebbe semplicemente scritto Colombo. Ma no, ha scritto Colom. E questo solo perché deve avere un significato». «E quale?». «Che è Colom il nome inopportuno». «Ma, Tom, in che modo è inopportuno? Non capisco». «Questa, giustamente, è la domanda che mi sono posto anch'io. Cos'ha
di tanto speciale il nome Colom da indurre il professore a richiamare l'attenzione su di esso, considerandolo inopportuno?». Rimasero a guardarsi l'un l'altro, la domanda sospesa tra i due, come una nuvola in attesa di sciogliersi in pioggia. «Spero abbia trovato una risposta» mormorò alla fine Moliarti. «Ho trovato una risposta e tante nuove domande». Sfogliò i suoi appunti. «Come sa, lo scopritore dell'America visse circa dieci anni in Portogallo, dove apprese tutto ciò che sapeva sulla navigazione nell'Oceano Atlantico. Si stabilì a Madeira e sposò Filipa Moniz Perestrelo, figlia del navigatore Bartolomeu Perestrelo, il primo capitano donatario dell'isola di Porto Santo. All'epoca, il Portogallo era la nazione più sviluppata del mondo, con gli strumenti di navigazione più precisi, le navi migliori, le armi più sofisticate, era il centro di tutti saperi. Il progetto della Corona, pianificato a partire da Henrique il Navigatore, era quello di trovare una rotta per l'India, in modo da forzare il monopolio di Venezia sul commercio delle spezie che provenivano dall'Oriente. Poiché i veneziani avevano un contratto di esclusiva con l'Impero Ottomano, le altre città-stato italiane danneggiate da questo accordo, nello specifico Genova e Firenze, appoggiarono lo sforzo portoghese. Fu in quel contesto che, nel 1483, il genovese Colombo, in base al presupposto che la Terra fosse sferica, propose a Don João II di raggiungere l'India navigando verso Occidente, invece di andare verso sud e circumnavigare l'Africa. Il monarca portoghese sapeva benissimo che la Terra era sferica, ma sapeva anche che era molto più grande di quanto pensasse Colombo e che, pertanto, la via verso Occidente sarebbe stata troppo lunga. Oggi sappiamo che Don João II aveva ragione e Colombo no. Fu allora che il genovese, al quale nel frattempo era morta la moglie portoghese, andò in Spagna per offrire i suoi servigi ai Re Cattolici». «Tom» tagliò corto Moliarti «ma perché mi sta raccontando tutto questo? Conosco molto bene la storia di Colombo...». «Calma» suggerì Tomás. «Mi lasci contestualizzare ciò che le devo rivelare. È importante fare una sintesi della storia di Colombo perché c'è uno strano elemento legato al suo nome, qualcosa di pertinente al suo contesto biografico e alla sciarada che il professor Toscano ci ha lasciato». «All right, go on». «Molto bene» disse Tomás. Fece una pausa per cercare di riprendere la narrazione dal punto in cui l'aveva interrotta. «Come stavo dicendo, Colombo se ne andò in Spagna. È necessario premettere che il Paese era allo-
ra governato dai cosiddetti Re Cattolici, la regina Isabella di Castiglia e il re Fernando di Aragona, che si erano sposati unendo le due corone e i rispettivi regni. La Spagna era in quel periodo impegnata in una campagna militare per cacciare gli arabi dal Sud della Penisola Iberica, ma la regina mostrò ugualmente interesse verso l'idea di Colombo. Il navigatore sottopose il suo progetto a una commissione di saggi del Collegio Domenicano. Il problema è che gli spagnoli erano molto più arretrati dei portoghesi in quanto a conoscenze. Pertanto, dopo aver studiato per quattro anni la questione, i saggi conclusero che l'idea di navigare verso Occidente per raggiungere l'India era irrealizzabile, dal momento che, secondo loro, la Terra era piatta. Nel 1488, Colombo fece ritorno in Portogallo e fu ricevuto dal ben più avanzato Don João II, al quale rinnovò le sue proposte. Accadde tuttavia che, proprio mentre si trovava a Lisbona, Colombo assistette all'arrivo di Bartolomeu Dias, con la notizia della circumnavigazione dell'Africa e della scoperta di un passaggio tra l'Atlantico e l'Oceano Indiano, che apriva così una via diretta per l'India. Com'è ovvio, il progetto di Colombo fu accantonato. Per quale motivo il re portoghese avrebbe dovuto investire in una lunga e incerta rotta verso Occidente, se già aveva scoperto una scorciatoia a sud? Demoralizzato, Colombo ritornò in Spagna, dove nel frattempo si era sposato con Beatrice di Harana. Finalmente, nel 1492, gli arabi si arresero a Granada e i cristiani ebbero il controllo dell'intera penisola. Nell'euforia della vittoria, la regina di Castiglia diede via libera a Colombo e il navigatore intraprese il viaggio che avrebbe portato alla scoperta dell'America». «Mi dia delle notizie nuove, Tom» insistette l'americano. «Le sto raccontando tutto questo per stabilire in modo chiaro il rapporto di Cristoforo Colombo con i regni iberici, non solo con quello di Castiglia ma anche con il Portogallo. Non fu solo un contatto superficiale, come può ben vedere, bensì un legame profondo». «Ho capito». Tomás smise di consultare gli appunti e i documenti che aveva portato con sé e fissò Moliarti. «Allora, se ha capito, mi spieghi solo un dettaglio» chiese il professore. «Perché i portoghesi e i castigliani, se avevano legami così stretti con il grande navigatore, non lo chiamarono mai Colombo?». «Come, scusi?». «Durante il XV secolo, nel periodo in cui egli abitò in Portogallo e in Castiglia, nessuno lo chiamò mai Colombo».
«Mai? In che senso?». «Non esiste un solo documento, portoghese o castigliano, in cui Colombo sia chiamato Colombo. Il primo testo portoghese nel quale appare un riferimento a "Colonbo", con la n, è la Crónica de D. João II, di Ruy de Pina, scritta all'inizio del XVI secolo. Fino ad allora, nessun portoghese lo aveva mai chiamato Colombo». «E allora come lo chiamavano?». «Colom o Colon». Moliarti rimase in silenzio per un lungo istante. «Che significa?». «Ora ci arrivo» disse Tomás, riprendendo a sfogliare i suoi appunti. «Sono andato a vedere i documenti dell'epoca e ho scoperto che Colombo è nominato come Christovam Colom, o Colon, e che il nome proprio veniva a volte abbreviato in Xpovam. Quando il navigatore andò in Spagna, gli spagnoli iniziarono a chiamarlo Colomo, che presto trasformarono in Christóbal Colon, abbreviando Christóbal in Xpoval. Però mai Colombo. Mai, mai». Cercò qualcosa in mezzo alla risma di documenti. «Ora guardi». Tirò fuori il foglio che stava cercando. «Questa è la fotocopia di una lettera del duca di Medinaceli indirizzata al cardinale di Mendoza, datata 19 marzo 1493 e conservata con il numero di catalogazione 14 dell'Archivio Generale di Simancas. Ora si soffermi su quanto c'è scritto». Indicò una frase del foglio. «"Per molto tempo ho avuto a casa mia Cristóbal Colomo, che veniva dal Portogallo e voleva andarsene dal Re di Francia"». Poi attirò la sua attenzione su un secondo brano. «Ecco qui. Cristóbal Guerra». Guardò nuovamente Moliarti con un'espressione interrogativa. «Guerra? Allora era Colombo, Colom, Colon, Colomo o Guerra?». «Questo Guerra non potrebbe essere un qualsiasi altro uomo di nome Cristóbal?». «No, la lettera del duca è molto chiara, questo Guerra è il nostro Colombo. Ora guardi». Sistemò la fotocopia affinché potesse leggerla meglio. «Scrive il duca: "In quel tempo, Cristóbal Guerra e Pedro Alonso Niño andarono alla scoperta, e questo testimone afferma proprio così, con la flotta di Hojeda e Juan De La Cosa"». Fissò Moliarti. «Ora, il Cristóbal che andò a fare scoperte con Niño, Hojeda e De La Cosa fu, come lei sa, Colombo». «Può essere un'incongruenza, un errore». «Certamente è un'incongruenza, ma non un inganno. E sa perché?». Cercò di nuovo fra i fogli e individuò due fotocopie. Mostrò la prima all'americano. «Questo è un passo della prima edizione della Legatio Ba-
bylonica, di Pietro Martire d'Anghiera, pubblicata nel 1515. Nel testo, l'autore identifica Colombo in questo modo: "Colonus vero Guiarra". Dato che vero significa in verità, d'Anghiera sta dicendo che Colombo, alias Colom, alias Colomo, alias Colon, alias Colonus, alias Guerra, si chiamava in realtà Guiarra». Passò all'altra fotocopia. «Questo è un estratto della seconda edizione della Legatio Babylonica, di d'Anghiera, ora intitolata Psalterium e datata 1530. Qui l'identificazione subisce un leggero cambiamento. Appare "Colonus vero Guerra"». Cercò freneticamente un terzo foglio. «Questo è il documento 36 dell'Archivio di Simancas, datato 28 giugno 1500. È un ordine rivolto a un tale Afonso Álvares, al quale "sua Altezza comanda di andare con Xproval Guerra nella terra nuovamente scoperta"». Fissò ancora una volta Moliarti. «Ancora il cognome Guerra». «Sono tre i documenti nei quali compare con il nome Guerra» osservò l'americano. «Quattro» lo corresse Tomás, tornando a concentrarsi sugli appunti. «Dopo la morte di Colombo, il figlio portoghese, Diogo Colom, avviò un processo contro la corona di Castiglia, noto come Pleyto con la Corona, nel tentativo di assicurarsi i privilegi che erano stati riconosciuti al padre. Le udienze iniziarono nel 1512 sull'isola di Santo Domingo, nei Caraibi, e si conclusero nel 1515 a Siviglia. Tutti i marinai e i capitani che avevano partecipato alla scoperta dell'America furono ascoltati durante il processo, e le loro deposizioni avvenivano dietro solenne giuramento». Prese un altro foglio. «Questa è una copia della deposizione del capo-pilota Nicolás Pérez. Egli afferma in tribunale, con tanto di mano poggiata sulla Bibbia, che "il vero cognome di Colón era Guerra"». «Quindi, mi sta dicendo che, ai suoi tempi, Colombo non era conosciuto come tale, bensì come Guerra». «No, non voglio dire necessariamente questo. Intendo piuttosto dire che, per qualche motivo, aveva molti nomi, e che, fra questi, non c'era Colombo». Disegnò nell'aria un gesto vago. «Sa, praticamente non esistono documenti sul passaggio di Colombo in Portogallo, fatto abbastanza misterioso, ma, a quanto pare, in questo Paese era conosciuto come Colom o Colon. Poi si trasferì in Spagna e qui passò a essere chiamato Colomo. Solo otto anni dopo i castigliani cominciarono a chiamarlo Colon». «Otto anni dopo?». «Sì. Il primo documento spagnolo in cui appare scritto il nome Colon, senza accento sulla o, è la Provisión, del 30 aprile 1492. E solo dopo la
morte del navigatore, nel 1506, aggiunsero l'accento sulla seconda vocale di Colon, ottenendo Colón». «Cristóbal Colón». «Sì. Ma attenzione, anche il nome stesso di Colombo racchiude una storia. I portoghesi lo chiamavano generalmente Cristofom o Cristovam, mentre gli italiani preferivano Cristoforo. Ma è curioso che Pietro d'Anghiera, nelle ventidue lettere che scrisse su Colombo, utilizzi sempre Cristophom Colonus, e mai Cristoforo. Il papa Alessandro VI, in occasione del Trattato di Tordesillas, emise due bolle con la stesso titolo, Inter caetera, nelle quali operò una castiglianizzazione del nome. Nella prima bolla, datata 3 maggio 1493, chiamò il navigatore Crhistofom Colon e nella seconda, del 28 giugno, Crhistoforu Colon. Quest'evoluzione è interessante, perché Crhistofom è, evidentemente, il Cristofom o Cristovam portoghese. Crhistoforu, invece, è il nome latino dal quale derivano gli antroponimi Cristovam, portoghese, e Cristóbal, castigliano». «E allora Guerra?». «Intendiamoci. Colombo era conosciuto ovunque come Cristofom o Cristovam. Il cognome era Colom o Colon, anche nella variante Collon, con due l. Passato in Spagna, diventò Colomo. A partire dal 1492, gli spagnoli iniziarono a chiamarlo principalmente Cristóbal Colon, nonostante, qua e là, spuntasse qualche volta Colom». Prese una fotocopia. «Ad esempio, in questa edizione in latino della pubblicazione di una delle lettere della scoperta del Nuovo Mondo, datata 1493, riappare Colom. Ci sono altri esempi come questo, ma vale la pena vederne ancora uno». Gli mostrò un'altra fotocopia. «È un passo della pubblicazione di una petizione fatta dall'Ammiraglio a Santo Domingo e presentata nel 1498. Anche qui troviamo Colom». Sistemò le due fotocopie. «Ed esistono, come già le ho detto, quattro documenti che affermano, in modo implicito o esplicito, che Colom non era il vero nome del navigatore. Il nome corretto sarebbe Guerra. Pertanto, abbiamo Guiarra, Guerra, Colonus, Colom, Colomo, Colon e Colón». «Ma perché tanti nomi?». Tomás sfogliò il bloc-notes. «Sembra ci sia qualche segreto» osservò. «Il figlio castigliano, Hernando, fece a proposito del nome di suo padre alcuni riferimenti molto strani». Si fissò sugli appunti. «In un passo del suo libro, Hernando afferma: "el sobrenome de Colón, que él volvió a renovar". Da un'altra parte scrive questa frase enigmatica, che provo a tradurre: "Molti nomi potremmo addurre in esempio, che non senza occulta causa furono posti per indizio
dell'effetto che aveva a provenire come quello che spetta a colui a cui fu pronosticato"». Fissò l'americano. «Vede? In primo luogo, questo "volvió a renovar'" suggerisce che Colombo abbia cambiato diverse volte il cognome. Se avesse scritto semplicemente "renovar", avrebbe significato una volta sola. Ma "volvió a renovar" implica che lo cambiò di nuovo, ossia rimanda a più di un cambiamento. E, in secondo luogo, che dire della frase "potremmo portare molti nomi che, non senza un motivo occulto"? Molti nomi? Motivo occulto? Ma che razza di mistero è questo? Quali nomi e quale motivo occulto? E che storia è quella dei molti nomi che sono stati posti "come indizio dell'obiettivo che si dovrebbe realizzare come quello che spetta a colui che fu predestinato"? Voleva forse insinuare che il padre avesse di seguito adottato nomi falsi per metterli in relazione con qualche profezia? Qual è, alla fine, il suo vero nome?». «Hmm» mormorò Moliarti. «Allora da dove esce il nome Colombo?». Tomás si rituffò nei suoi appunti. «Il primo riferimento scritto al cognome Colombo risale al 1494. Tutto ebbe inizio con la lettera che il navigatore aveva scritto da Lisbona, l'anno prima, per annunciare la scoperta dell'America, lettera poi pubblicata in vari testi. Nell'ultima pagina dell'edizione di Basileia, uscita nel 1494, un vescovo italiano aggiunse un epigramma in cui si legge "merito referenda Columbo Gratia", latinizzando così il nome Coloni. Questa nuova versione sarà ripresa dal veneziano Marcantonio Coccio, conosciuto volgarmente come Sabellico, nelle Sebellici Enneades, del 1498, il quale lo identificò come "Christophorus cognomento Columbus". Ma Sabellico non lo conosceva personalmente, pertanto dev'essersi ispirato a quel famoso epigramma. C'è poi una lettera inviata dal veneziano Angelo Trevisan a Domenico Malipero, datata agosto 1501, nella quale, citando la prima edizione delle Decades di Pietro d'Anghiera, del 1500, afferma che quest'ultimo fosse molto amico "del navigatore, che chiamava Christoforo Colomo zenoveze". Il problema è che, in altre fonti, d'Anghiera dà l'impressione di non conoscere personalmente Colombo, identificandolo come "un tal Cristovam Colon". Da ciò deriva la convinzione che Trevisan abbia modificato il testo di d'Anghiera per riadattarlo al gusto dei lettori italiani, italianizzandone il nome. Esiste, inoltre, un riferimento a un libro di Trevisan, intitolato Libretto di tutte le Navigationi di Re de Spagna, pubblicato nel 1504, che si basa su copie di lettere del vicario-cappellano reale. Non è sopravvissuto alcun esemplare di quest'opera, ma il suo contemporaneo Francesco da Montalboddo conferma che Trevisan presentò Colom come Cristo-
foro Colombo Zenoveze. Il problema è che il testo di Trevisan non ci è pervenuto in edizione originale. La più antica cronaca in nostro possesso con il nome di Colombo associato allo scopritore dell'America è il Paesi nuovamente retrovati, pubblicato nel 1507 da Montalboddo, che ho consultato presso la Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro. All'epoca era un libro molto popolare, tanto da diventare quello che oggi noi definiremmo un best-seller. Tuttavia il testo, nel quale era inclusa perfino la prima descrizione della scoperta del Brasile da parte di Pedro Alvares Cabral, ha contribuito a diffondere una seconda falsità, quella secondo cui lo scopritore del Nuovo Mondo fosse Amerigo Vespucci». «Una seconda falsità? E allora qual è la prima?». Tomás guardò meravigliato Moliarti. «Non le sembra ovvio? La prima falsità è che Colom si chiamasse Colombo». «Su che basi lo afferma?». «Ricorrendo semplicemente al buon senso. Vediamo, quest'uomo è stato chiamato per tutta la vita con molti nomi diversi, ma soprattutto Colom e Colon. Solo più tardi alcuni italiani che non lo conoscevano personalmente, fra cui ce n'è uno che cita addirittura oscure copie di lettere del vicariocappellano e una sospetta traduzione della già scomparsa prima edizione delle Decades di d'Anghiera, dichiarano che il suo nome non fosse Colom ma Colombo. Perché, dunque, noi non dovremmo chiamarlo Colom o Colon se egli stesso, in tutti i documenti da lui sottoscritti, si firma proprio così?». «Cosa?». «Non lo sapeva? Lo scopritore dell'America non si è mai riferito a se stesso, in nessun documento conosciuto, come Colombo né ha mai menzionato la sua versione latina, Columbus. Mai. Né esiste una sola testimonianza riguardante la storia marittima di Genova che menzioni l'esistenza di un marinaio con questo nome. Neanche una. Il primo documento conosciuto in cui Colombo presenta se stesso è la lettera che inviò nel 1493, al ritorno dalla scoperta dell'America, a un certo Rafael Sánchez affinché fosse poi consegnata ai Re Cattolici. In questa lettera s'identifica come "Christofori Colom". Colom, con la m finale. E più tardi, nel suo testamento, spiega di appartenere alla famiglia dei Colom, che definisce "mi linage verdadero". Noti bene, egli dice che il suo vero lignaggio era quello dei Colom, non dei Colombo». Sorrise. «Non è chiaro come l'acqua che il nome Colombo sia caduto dal cielo?».
«Se è così, perché oggi lo chiamiamo Colombo?». «Per lo stesso motivo per cui chiamiamo America la terra che non fu Amerigo Vespucci in realtà a scoprire, vale a dire per la banale ripetizione di un errore originario. Vediamo. Colom si identifica in tutti i documenti come Colom o Colon. I suoi contemporanei, comprese le persone che lo conoscono personalmente, fanno la stessa cosa o al limite gli attribuiscono altri nomi, come Colomo, Guiarra e Guerra. A un certo punto, però, un vescovo italiano pensa che Colom in latino diventi Columbo. Poi viene un tale Sabellico che in nessun modo conosce Colombo, che non lo ha mai visto né ci ha mai parlato, e che a partire da quella traduzione errata adotta il nome Colombo. Poco dopo, un altro veneziano, Trevisan, fa lo stesso. Infine, ancora un italiano, Montalboddo, che ugualmente non conosce Colom di persona, attinge dal testo di Trevisan e gli dà grande visibilità nel Paesi nuovamente retrovati, pubblicato nel 1507, un anno dopo la morte del navigatore. Il Paesi è un successo editoriale, tutti leggono Montalboddo e, all'improvviso, Colom passa a essere conosciuto come Colombo. La cosa attecchisce a tal punto che anche il cronista Ruy de Pina, nella Crónica do Rei D. João II, lo ribattezza con questo nuovo nome». «Come fa a sapere che il vescovo italiano non stesse dicendo la verità?». «Perché nella stessa pagina dell'edizione di Basileia, nella quale egli scrive Columbo, c'è anche riportato il nome Colom. Ora, Colom in catalano corrisponde a pomba». Fece un segno con gli occhi, interpellando Moliarti. «Ora mi dica come si dice pomba in italiano...» «Colombo». «E in latino?» «Columbus». «Vede? Il vescovo, che conosceva il catalano, pensò che Colom si traducesse con colombo. Volendo latinizzare il nome, scrisse Columbo». «Giustamente» concluse l'americano. «Se Colom significa pomba, il nome corretto in italiano è Colombo. Colom è la traduzione di Colombo». «Lo sarebbe, se non fosse che il nome Colom non significa colombo». «Ah no? Allora che vuol dire?». Tomás sfogliò il suo bloc-notes. «Ancora una volta è lo stesso figlio di Colombo, Hernando Colón, che ci illumina. Egli scrive "Por conseguiente, le vino a propósito el sobrenome de Colón", spiegando da dove deriva questo cognome: "Porque en griego quiere decir miembro"». «Non capisco».
«Nelson, come si dice miembro in greco?». «Non saprei...». «Kõlon». «Colon?». «Kõlon, con la k. Pertanto, Colom non rimanda a Colombo, l'animale, ma a kõlon, cioè membro». Guardò gli appunti. «Oltretutto, lo stesso Hernando Colón, quando rivela che il cognome Colón viene dalla parola greca kõlon, membro, spiega che "si queremos reducir su nombre a la pronunciación latina, que es Christophorus Colonus"». Sorrise a Moliarti. «Vede? Hernando afferma che la latinizzazione di Colón non è né Columbo né Columbus, come sarebbe normale se derivasse da Colombo e significasse pomba, ma Colonus. In definitiva, qualunque fosse il suo vero nome, non era certamente Colombo». «Era Colonus, vero?». Lo storico portoghese piegò la testa e fece una smorfia scettica. «Forse. Ma Colonus può anche essere soltanto uno pseudonimo. Consideri che Hernando scrive che "potremmo portare molti nomi, per esempio, che, non senza un motivo occulto, furono posti come indizio dell'obiettivo che si dovrebbe realizzare come quello che spetta a colui che fu predestinato". Vale a dire, il navigatore scelse dei nomi che profetizzassero qualcosa». «E quale profezia implicherebbe il cognome Colonus?». «È proprio Hernando a rispondere a questa domanda: "Chiedendo l'aiuto di Cristo, affinché lo appoggiasse nel suo viaggio pieno di pericoli, s'impegnarono lui e i suoi collaboratori per fare delle genti indie coloni e abitanti della Chiesa trionfante dei cieli; pertanto è da credere che molte anime siano state fatte coloni del cielo e abitanti della gloria eterna del paradiso". Vale a dire, il cognome Colonus è stato scelto perché profetizzava la colonizzazione dell'India attraverso la fede cristiana». «Hmm» mormorò Moliarti, con l'aria contrariata. «Secondo lei, è questo che il professor Toscano avrebbe scoperto?». «Non ho dubbi nell'affermare che con il messaggio Coloni, nomina sunt odiosa, Toscano voleva dirci che a essere inopportuno era il nome Colom o, quanto meno, il riferimento ad esso». «Questo è tutto?». «Penso che ci sia altro da scoprire. Come già le ho spiegato, dal contesto in cui Cicerone ha inserito la frase nomina sunt odiosa, si capisce che, secondo l'autore, non si devono citare con leggerezza nomi di persona quan-
do ci sono di mezzo cose vergognose o molto gravi. Mi sembra evidente che il professor Toscano stia suggerendo una relazione tra Colom e un fatto di rilevante importanza». «La scoperta dell'America». «Questo già lo sappiamo, Nelson. Ciò che presumo è che Toscano si stesse riferendo a un altro fatto, che non è ancora di dominio pubblico». «A cosa?». «Se lo sapessi, mio caro, glielo avrei già detto, no?». L'americano si agitò sulla panchina di pietra; sembrava a disagio e piuttosto inquieto. «Sa, Tom» iniziò a dire «nulla di tutto ciò ha a che vedere con la scoperta del Brasile». «Evidentemente no». «Allora per quale ragione Toscano ha sprecato tempo con Colombo?». «Colom». «Whatever. Perché ha sperperato il nostro denaro in questa ricerca?». «Non lo so». Tomás portò la mano sinistra al petto. «Ma una cosa per me è chiara. Non c'è neanche il barlume di un qualche legame fra le ricerche del professor Toscano e la scoperta del Brasile. Questo ci mette davanti a un problema pratico. Vale la pena continuare con questa indagine? Qualunque cosa abbia scoperto Toscano, tutto ci suggerisce che non potrà essere pubblicata per il 22 aprile, non avendo niente a che vedere con i cinquecento anni del viaggio di Pedro Álvares Cabral». Fissò Moliarti negli occhi. «Vuole che prosegua la ricerca?». L'americano non esitò un secondo. «Certo che sì» affermò. «La fondazione vorrà sapere in cosa Toscano ha sprecato i suoi soldi per tutto questo tempo». «E questo ci porta al secondo problema. Non ho più niente su cui investigare». «Come? Allora i documenti e gli appunti del professor Toscano?». «Quali documenti e appunti? Ho già consultato tutto ciò che conservava in Brasile». «Ma il professore ha fatto molte delle sue ricerche anche in Europa». «Allora questo è un altro discorso. Dov'è stato?». «Ha visitato la Biblioteca Nazionale e la Torre do Tombo32, qui a Lisbona. È stato anche in Spagna e in Italia». «Alla ricerca di cosa?». «Non ce l'ha mai detto».
Tomás si fermò a pensare, con lo sguardo perso fra gli archi merlati del chiostro. «Hmm» mormorò. «E dove stanno i suoi appunti?». «Presumo li abbia la moglie, a casa sua». «E siete già stati a chiederle questi documenti? Sono cruciali per l'indagine». Moliarti scrollò il capo, a testa bassa. «No». «No?» si meravigliò Tomás. «Perché?». L'americano contrasse i muscoli del viso in una smorfia nervosa. «Sa, le divagazioni del professor Toscano hanno provocato forti tensioni fra di noi. Abbiamo discusso molto, perché gli chiedevamo delle relazioni periodiche sul suo lavoro e lui si rifiutava di farle. Naturalmente questa tensione si è estesa anche alla moglie, con la quale il rapporto è diventato altrettanto difficile». Tomás rise. «Cioè non vi può proprio vedere!». Moliarti sospirò, irritato. «È così». «Allora che facciamo?». «Ci vada lei». «Io?». «Sì, certo. Quella donna non la conosce. Non sa che lavora per la fondazione». «Scusi Nelson, ma non mi sembra il caso. Dovrei andare a casa del defunto e ingannare la vedova?». «Ha un'altra soluzione?». «Non lo so. Parlate con lei, chiarite le cose, cercate di capirvi». «Non è così facile, le cose tra di noi sono arrivate a un punto di non ritorno. Se ne accorgerà lei stesso quando la incontrerà». «Oh, Nelson, mi rifiuto. Non ingannerò l'anziana...». Moliarti lo guardò con un'espressione dura; gli occhi, ora implacabili, non erano più gli stessi. Non era più il simpatico e rilassato americano dai modi affabili e calorosi, ma uno spietato uomo d'affari. «Tom, la stiamo pagando duemila dollari alla settimana e le offriamo un premio di mezzo milione nel caso riesca a recuperare la scoperta segreta del professor Toscano. Li vuole o no questi soldi?». Tomás esitò, turbato dal tono freddo delle parole del suo interlocutore.
«Ehm... certo che li voglio». «Allora vada in quella fucking casa di quel fucking Toscano e strappi a quella fucking vedova tutto ciò che tiene là!» borbottò Moliarti, con un tono aggressivo, fulminante. «Ha capito?». Tomás, superato il primo istante di sorpresa per il repentino cambiamento d'umore dell'americano, sentì ribollire dentro un fervore di rivolta che gli montava nello stomaco, inarrestabile. Aveva voglia di alzarsi e andarsene, non ammetteva che gli parlassero in quel modo. Un forte rossore gli divampò sul viso, era il calore della furia a malapena trattenuta. Si alzò dalla panchina di pietra, contrariato, senza sapere da che parte andare. Vide il blocco di marmo della tomba di Fernando Pessoa ergersi davanti a sé e, cercando una distrazione, una via di fuga, qualsiasi cosa, s'avvicinò al monumento. Inciso sulla pietra era un poema di Ricardo Reis: "Per essere grande, sii intero: non eccedere o non escludere niente di te. Sii tutto in ogni cosa. Poni quanto sei nel minimo che fai. Così in ogni lago la luna intera brilla, perché alta vive." In quell'attimo, Tomás avrebbe desiderato essere grande come Fernando Pessoa, mostrarsi anche lui intero di fronte a Moliarti, senza escludere nulla, mettendo tutto ciò che era e sentiva nelle parole che gli si strozzavano in gola. Ma dopo alcuni istanti, passata l'esplosione iniziale, più calmo e razionale, riconsiderò la situazione. Essere grande, essere tanto grande, era un lusso che lui non si poteva permettere: sua figlia aveva bisogno di un'operazione al cuore e dell'aiuto di un insegnante che la scuola non poteva pagare; vedeva il suo matrimonio sgretolarsi in un mare di preoccupazioni per il futuro incerto della figlia, e per giunta adesso era anche minacciato dalle irresistibili avance di una scandinava sfacciata. Duemila dollari alla settimana erano una bella cifra; e poi c'era il premio di mezzo milione se fosse riuscito a far luce sulla scoperta di Toscano. E Tomás sapeva che ce l'avrebbe fatta. Si controllò. Si voltò e, vinto, rimettendosi alla volontà dell'americano, lo guardò in faccia. «Va bene».
VII Piccole goccioline d'acqua scivolavano sulla superficie verde e liscia delle foglie e si raccoglievano all'estremità, fino a formare una grande goccia. Questa si faceva sempre più grossa, si gonfiava fino a diventare tanto paffuta da far inclinare la punta della foglia e, dopo una breve indecisione, quasi sospesa in aria, cadeva pesantemente sulla terra umida e fertile. Di seguito ne cadeva un'altra, poi un'altra ancora e così via, ovunque. L'acqua scendeva a gocce dalle foglie lobulate e brillanti del fico: sembrava che piangesse sotto il cielo coperto e minaccioso del rigido inverno. Seduto al tavolo della colazione e sbirciando dalla finestra, Tomás fissava quella pianta lacrimosa. La guardava ma non la vedeva, assorto nei suoi problemi, immerso nei dilemmi della sua vita. Constança era uscita da dieci minuti, oggi toccava a lei portare Margarida a scuola. Tomás pensava a loro e pensava a Lena, s'interrogava, con una certa serietà, sul cammino che stava percorrendo, sul destino al quale conduceva quel misterioso sentiero. Per la prima volta, dacché si era sposato, era infedele e ora provava sentimenti contraddittori verso il proprio comportamento. Da un lato, nutriva un profondo senso di colpa, di vergogna: sua figlia aveva bisogno d'aiuto, mentre lui si divertiva con una studentessa più giovane di quasi quindici anni. Ma dall'altro lato bisognava anche tener presente che quella non era una studentessa qualsiasi. Era una donna bella, disponibile, che lo aveva sedotto senza che lui fosse stato minimamente capace di resisterle. Che avrebbe potuto fare?, si chiese. Era un uomo, e come fa un uomo a dire di no a una donna come quella? Sbuffò. Sì, dichiarò a se stesso, assumendosi timidamente la responsabilità, era un uomo, certo. Ma questo non significava che dovesse rinunciare alla propria volontà, che dovesse essere una semplice marionetta nelle mani di una donna, per quanto questa fosse bella e tentatrice. Non avrebbe comunque dovuto comportarsi in quel modo, cedendo agli istinti più bassi, a un capriccio in fin dei conti futile, a quel sogno frivolo, e persino irresponsabile. Chiuse gli occhi e si passò la mano fra i capelli, come se con quel piccolo gesto potesse cancellare il sordido che sentiva contaminargli la mente e corrompergli l'anima. Le sue motivazioni lo turbavano, è vero, ma c'era dell'altro, c'era molto di più. La coscienza lo martirizzava, implacabile, senza pietà, martellandolo con domande, con dubbi, con dilemmi, tormentandolo con le decisioni da prendere e la realtà da affrontare, torturandolo con l'immagine delle sue azioni, della relazione adulterina nella quale si
era lasciato coinvolgere, del tradimento che commetteva contro i suoi e, in ultimo, contro se stesso. Cos'è che realmente lo legava a Lena? Era la tentazione del frutto proibito? Era la ricerca di quella gioventù che fuggiva a ogni istante? O era solo sesso, niente di più? Scrollò la testa, parlando fra sé, analizzando i suoi impulsi più profondi, più reconditi, più inconfessabili. No. Non lo era. Non era solo sesso, non poteva esserlo. Avrebbe voluto che fosse così, ma non lo era. Sarebbe stato sesso se si fosse accontentato di quella prima volta, quando era stato a pranzo da lei ed erano finiti aggrappati uno all'altra, divorandosi, abbandonandosi interamente alla lascivia che li consumava e godendo della dolce carne dei loro corpi. Se per entrambi fossero state soltanto sporadiche scappatelle, focose ma brevi, sarebbe stato sesso; solo sesso, se si fosse sentito vuoto dopo averla posseduta, dopo aver scaricato quel desiderio incontrollabile che lei faceva risvegliare e ribollire. La verità, invece, era che Tomás era diventato un assiduo visitatore della svedese, dopo pranzo si era abituato a passare dal suo appartamento, l'adulterio si era trasformato in routine, un'abitudine, una piacevole regola in un giorno di lavoro. C'era qualcosa in lei capace di risvegliargli i desideri più osceni. Aveva sempre sentito dire che le donne con il seno grande non sono particolarmente brave a letto; ma, se questo era vero, Lena era certamente l'eccezione che confermava la regola. La svedese si era rivelata una donna disinibita, affamata, creativa, interessata a dargli piacere e sensazionale quando godeva del suo corpo. Inoltre, si mostrava poco esigente nella vita di tutti i giorni. Gli faceva innumerevoli domande sulla ricerca che stava portando avanti in merito al lavoro del professor Toscano, ma non sulla sua vita familiare, si accontentava del semplice fatto di averlo vicino quasi tutti i pomeriggi. La verità era che, in modo quasi impercettibile, mantenendo una rassicurante indipendenza, Lena era diventata parte integrante della sua vita, gli forniva una valvola di sfogo, una via di fuga dai problemi quotidiani, una divertente distrazione. Sorseggiò il bicchiere di latte tiepido e ripeté fra sé l'espressione che aveva appena trovato. Una divertente distrazione. Sì, era proprio questo: Lena era come un giocattolo. Era il giocattolo che lo faceva volare, la bambola che, anche solo per un'ora o due, gli liberava la mente dagli eterni problemi di salute di Margarida e dai suoi obblighi verso Constança. Le preoccupazioni giornaliere di Tomás erano l'acqua e Lena la spugna che le
assorbiva. L'amante era diventata un piacevole diversivo nella sua vita, aveva bisogno di lei per distrarsi, per prosciugare le fonti di ansia che si accumulavano quotidianamente. Era con lei che Tomás riorganizzava le sue esperienze e riusciva a guardarle da un'altra prospettiva. Lena lo aiutava a esplorare i suoi sentimenti, a sperimentare comportamenti differenti, a sfuggire alle difficoltà della sua esistenza, in un certo senso a minimizzare le avversità e, allontanandole, a comprenderle meglio. Attraverso l'amante, Tomás sentiva farsi più leggere le preoccupazioni che l'opprimevano; quella relazione era una specie di valvola di sicurezza che lo proteggeva dalla costante pressione dei problemi quotidiani. In un modo strano, misterioso, scoprì che, da quando si era legato a Lena, era diventato più premuroso con la figlia e più affettuoso con la moglie; era come se una relazione aiutasse l'altra. Capiva che era un complicato paradosso, difficile da comprendere e impossibile da spiegare, e tuttavia molto reale, percepibile, concreto. Il legame con l'amante si era trasformato in un'arena dove, attraverso una sospensione temporanea, trovava spazio per risolvere le sue personali difficoltà. La mente si rilassava e i processi conoscitivi si attivavano in maniera differente, alterando la sua visione dei problemi, obbligandolo ad affrontarli in un modo nuovo, più aperto, più obiettivo. La verità, la strana verità era che, grazie a Lena, sentiva che il legame con la sua famiglia si era rafforzato, che la presenza di Constança e Margarida era diventata più preziosa. In un sorso solo bevve tutto il latte rimasto nel bicchiere. Guardò l'orologio, erano le nove e mezza del mattino, doveva sbrigarsi. Si alzò da tavola e indossò la giacca. Aveva una visita da fare a Lisbona. La stretta via alla quale lo aveva portato l'indirizzo scarabocchiato sul bloc-notes aveva un'aria tranquilla, una quiete quasi provinciale, perfino un po' rustica, nonostante si trovasse in pieno centro, proprio dietro al Marquês de Pombal, perpendicolare alla strada che saliva fino alle Amoreiras. L'antico palazzo si apriva fra edifici più moderni. Era uno di quelli con il cortile interno, che si vedono solo nell'entroterra portoghese. Aveva un aspetto rude, rurale, con un orto pieno di foglie d'insalata, cavoli, patate, galline che schiamazzavano, un porcile accanto al pollaio. Un melo, piantato vicino al muro come una torre, sentinella silenziosa e rigogliosa, doveva dispensare il dessert per i pasti che senza dubbio forniva l'orto. Tomás controllò il numero civico. Era esatto. Guardò intorno, esitante, quasi non credendo che quella fosse la casa del professor Toscano. Ma
l'annotazione che aveva scarabocchiato non lasciava margine di dubbio, quello era proprio l'indirizzo che gli avevano dato all'Università Classica. Non ancora convinto, spinse la porta del recinto e percorse il sentiero vicino all'orto. Si fermò, prestando attenzione ai rumori. Si aspettava che da un momento all'altro un cane gli si avventasse contro, quello era il tipico posto presidiato da molossi inferociti, ma udì soltanto il distratto schiamazzo delle galline, tranquillo e familiare. Fattosi coraggio, fece qualche altro passo e acquistò fiducia, non c'era alcuna traccia di terribili rottweiler né di attenti pastori tedeschi. La porta d'ingresso era socchiusa. Entrò nell'edificio, piombando nell'oscurità. Cercò a tastoni l'interruttore e alla fine lo trovò; lo spinse, ma la luce non si accese; lo spinse un'altra volta ma rimase al buio. «Cavolo!» mormorò, frustrato. Lasciò che gli occhi si abituassero alla relativa oscurità del locale. La luce del giorno penetrava dalla porta, diffusa e delicata; ma, poiché la mattina era grigia, la luminosità era debole, dispersa, e l'ombra quasi opaca. Anche così, iniziò gradualmente a distinguere le forme. Sulla parete di destra si apriva una scalinata di vecchio legno fradicio. Lì accanto, un involucro di rete metallica, simile a una gabbia per uccelli, circondava un vecchio ascensore tutto arrugginito; dall'aspetto, doveva essere fuori uso da tempo. Un'aria fetida riempiva la lobby dell'edificio; era un odore putrefatto, sapeva di vecchio, di cose abbandonate. Immediatamente Tomás paragonò il palazzo a quello in cui viveva Lena che, sebbene datato, era comunque abitabile. Quello in cui stava ora, invece, era ormai un rudere, un mucchio di macerie sul punto di crollare, un moribondo prossimo a diventare un fantasma. Cercò altri dettagli sul bloc-notes ma l'ombra aveva allungato un mantello impenetrabile sul foglio. Non riuscendo a leggere quei suoi scarabocchi, fece un passo per ritornare all'entrata, dove c'era abbastanza luce per permettergli di consultare ciò che si era annotato. A quel punto, però, si ricordò che gli era stato detto che la casa del professor Toscano si trovava a pianterreno. Guardò lungo il corridoio e scorse due porte. Tastò la parete per cercare il campanello senza tuttavia trovarlo. Allora accostò l'orecchio al legno freddo della prima porta e restò in ascolto. Non udì nulla. Oltre la seconda porta riuscì invece a percepire dei movimenti. Bussò. Sentì qualcosa che si trascinava, qualcuno si stava avvicinando. La porta si aprì leggermente, mostrando una catena metallica tesa, fissata alla serratura. Una donna anziana, dai capelli bianchi spettinati, in vestaglia azzurra e pigiama
beige, sbirciò dalla fessura con un'espressione interrogativa. «Prego?». Aveva una voce fragile, tremante, timorosa. «Buongiorno. È la signora Toscano?». «Sì, sono io. Cosa desidera?». «Io vengo... ehm... vengo per conto dell'università, dell'Università Nova di Lisbona...». Fece una pausa, sperando che fossero credenziali sufficienti. Ma gli occhi neri della donna rimasero fissi, immobili, evidentemente Tomás non aveva pronunciato nessun "apriti sesamo". «Sì?». «È per le ricerche di suo marito». «Mio marito è morto». «Lo so, signora. Le mie condoglianze». Esitò, imbarazzato. «Io... ehm... sono venuto per concludere l'indagine di suo marito». La moglie strizzò gli occhi, diffidente. «Lei chi è?». «Sono il professor Tomás Noronha, del Dipartimento di Storia dell'Università Nova di Lisbona. Sono stato incaricato di portare a termine il lavoro del professor Toscano. È stata l'Università Classica a darmi il suo indirizzo». «Perché deve concludere l'indagine?». «Perché è molto importante. È l'ultima opera di suo marito». Sentì di aver trovato un argomento potente e diventò più fiducioso, più assertivo. «Vede, il lavoro fa parte della vita di una persona. Suo marito è morto, ma spetta a noi far vivere la sua ultima ricerca. Sarebbe un peccato se restasse nell'ombra, non trova?». La donna aggrottò le sopracciglia, come se stesse riflettendo. «Come pensa di far vivere la sua opera?». «Pubblicandola, ovviamente. Sarebbe un più che meritato omaggio. Ma, ovviamente, questo è possibile solo se riesco a ricostruire la ricerca di suo marito». La donna continuava a essere dubbiosa. «Lei fa parte della fondazione, vero?». «Quale fondazione?» balbettò. «Quella degli americani». «Io faccio parte dell'Università Nova di Lisbona, signora» disse, aggirando la domanda. «Sono portoghese, come lei».
La donna sembrò soddisfatta della risposta. Sganciò la catenella e aprì la porta, invitandolo a entrare. «Vuole un tè?». «No, grazie, ho fatto colazione poco fa». La sala aveva un aspetto decadente, antiquato. Una carta da parati con motivi floreali e fregi xilografati decorava il locale. Quadri mal dipinti, raffiguranti uomini dall'aspetto austero, scene bucoliche e navi antiche, erano appesi alle pareti, mentre alcuni divani, bucati e sporchi, circondavano un piccolo televisore. Dall'altro lato della stanza, su una credenza in pino con ripiani in bronzo erano esposte delle fotografie in bianco e nero di una coppia e di alcuni bambini sorridenti. C'era odore di muffa in casa. Una miriade di particelle brillanti, illuminate dal chiarore del giorno, fluttuava in corrispondenza delle finestre; sembrava quasi che ci fossero minuscole lucciole, puntini di luce che danzavano lentamente, eterei e fluorescenti: invece, era soltanto la polvere che galleggiava nell'aria stagnante della stanza. Tomás si accomodò sul sofà e la padrona di casa gli fece compagnia. «Non faccia caso al disordine, per piacere». «Ma le pare». Si guardò intorno. In effetti, tutto aveva un aspetto trascurato. La pulizia lasciava a desiderare, le tende e i sofà erano macchiati, e un sottile strato di polvere copriva i mobili. «Va tutto bene, benissimo. Non si preoccupi». «Ah, da quando Martinho è morto non ho le forze per le pulizie. Mi sento molto sola». Tomás si ricordò del nome del professore. Martinho Vasconcelos Toscano. «La vita è così, signora. Che dobbiamo fare?». «Eh già» concordò l'anziana donna con fare rassegnato. Aveva l'aria di una persona educata, sebbene molto abbattuta. «Ma è difficile. Ah, se è difficile!». «La vita dura un attimo. Quando ce ne rendiamo conto... puff!». «Può dirlo forte. Dura proprio un attimo». Con un ampio gesto, abbracciò l'intera sala. «Pensi, questo palazzo fu costruito dal nonno di mio marito a inizio secolo». «Ah sì?». «Era fra i palazzi più belli di Lisbona. A quel tempo non c'era nessuno di quegli orribili edifici che hanno costruito qui. No, all'epoca era tutto così ordinato, così perfetto. La Rotunda aveva delle belle case, era molto bel-
la». «Immagino». «Ma il tempo non perdona. Guardi qua. È tutto vecchio, rovinato, fradicio. Ancora qualche anno e demoliranno il palazzo, non manca molto». «Sì, prima o poi sarà inevitabile». La donna sospirò. Si sistemò la vestaglia e si tirò indietro una ciocca di capelli. «Allora, mi dica. Di cosa ha bisogno?». «Beh, dovrei consultare i documenti e tutti gli appunti presi da suo marito negli ultimi sei, sette anni». «Si riferisce alla ricerca che stava conducendo per conto degli americani?». «Questo... ehm... non lo so. Vorrei vedere il materiale che stava raccogliendo». «Allora sì, si riferisce alla ricerca degli americani». Tossì. «Sa, Martinho era stato contattato da una certa fondazione, là in America. Lo pagavano una fortuna. Iniziò a leggere manoscritti nelle biblioteche e nella Torre do Tombo. Lesse così tanti libri da farsi venire la nausea, consultava talmente tanta carta vecchia da arrivare a casa con le mani nere di polvere, faceva impressione. Quello sporco andava via solo lavandolo. Poi un giorno fece una scoperta che lo entusiasmò. Quando arrivò a casa, sembrava un bambino. Stavo leggendo e lui mi disse solo: "Madalena, ho scoperto una cosa straordinaria, straordinaria"». «Che cosa?» domandò Tomás, ansioso, piegandosi sul sofà per avvicinarsi alla padrona di casa. «Non me l'ha mai detto. Vede, Martinho era una persona particolare, adorava i codici e le sciarade, passava giorni a fare le parole crociate dei giornali. Non mi raccontava mai niente. Mi disse soltanto: "Madalena, questo ora è un segreto, ma quando leggerai quello che ho qui resterai a bocca aperta, vedrai". Io lo lasciavo fare, perché quando si occupava delle sue cose era felice. Intraprese vari viaggi, in Italia e in Spagna, un po' qua, un po' là, girando e rigirando per la sua ricerca». Tossì di nuovo. «A un certo punto gli americani iniziarono a tormentarlo, volevano sapere cosa stava facendo, cosa aveva scoperto, e via dicendo. Solo che Martinho non si scuciva più di tanto, diceva loro quello che diceva a me: "Abbiate calma; quando avrò tutto pronto, ve lo mostrerò". Ma loro non si rassegnarono e la storia prese una brutta piega. Un giorno gli americani vennero qui e scoppiò un'accesa discussione, volevano per forza che Martinho mostrasse
loro ciò che aveva scoperto». La donna si coprì il viso con le mani. «Guardi, la lite fu così furibonda che pensammo che ci avrebbero tagliato il pagamento. Ma non lo fecero». «Non trova sia strano?». «Cosa?». «Se hanno fatto così tanta confusione per sapere tutto e, nonostante questo, il professore ha continuato a non raccontargli nulla, non trova strano che non gli abbiano tagliato il pagamento?». «Sì, è strano. Ma Martinho mi disse che erano molto spaventati». «Ah sì?». «Sì, impauriti». «Impauriti per cosa?». «Questo non me l'ha spiegato. Erano cose fra loro, io non m'impicciavo. Ma penso che temessero che Martinho si tenesse per sé la scoperta senza renderla pubblica». Sorrise. «Si vede che non conoscevano affatto mio marito. Per quale ragione, una volta conclusa la ricerca, avrebbe dovuto lasciarla nel cassetto? Non penso proprio!». «Ma allora perché, dopo la morte di suo marito, non ha consegnato agli americani tutto il materiale? In fin dei conti, era un modo per vederlo pubblicato». «Non l'ho fatto perché Martinho aveva discusso con loro». La vedova rise e cambiò tono, come se stesse aprendo una parentesi. «Sa, lui era un professore universitario ma, a volte, quando si esaltava, usava delle espressioni più audaci». Affinò la voce. «Una volta mio marito mi disse: "Madalena, loro non devono vedere nulla prima che sia tutto pronto. Neanche un pezzettino. E, se anche si dovessero presentare qui facendo tutti i carini, tu corrigli dietro con la scopa. Con la scopa!". Conosco molto bene Martinho; per dirmi questo, si vede che c'era di mezzo qualche fregatura. Così io ho rispettato il suo volere. Gli americani hanno paura anche solo di mettere piede qua dentro. Una volta è venuto uno che parlava portoghese, anche se doveva essere mezzo brasiliano, e mi si è piantato sulla porta, come un avvoltoio. Diceva che non se ne sarebbe andato finché non lo avessi fatto entrare. Questo accadde in occasione del viaggio di Martinho in Brasile. L'uomo è rimasto là fuori per ore, sembrava avesse messo le radici. Così ho dovuto chiamare la polizia, non ho fatto bene? Sono venuti e l'hanno fatto andare via». Tomás rise, immaginando la scena di Moliarti trascinato fuori dal palazzo da qualche panciuto poliziotto della PSP.
«Ed è ritornato?». «Quando Martino è morto, si è messo a fare la ronda qua intorno, sembrava un cane da caccia. Ma poi è scomparso e non l'ho più visto». Tomás si passò la mano fra i capelli, cercando un modo per portare il discorso sulla questione che lo aveva condotto fin lì. «Questa ricerca di suo marito mi sta incuriosendo molto» iniziò a dire. «Sa dove è conservato il materiale che ha raccolto?». «Ah, dev'essere nel suo studio. Lo vuole vedere?». «Sì sì». La donna, allora, lo accompagnò lungo il corridoio, mentre la vestaglia le strusciava sul parquet: alcune tavole erano staccate, altre erano segnate da profonde spaccature. Percorsero tutto il corridoio, immerso in una fetida penombra, ed entrarono nello studio. C'erano libri accatastati ovunque e nella stanza regnava il più totale disordine. C'erano volumi sugli scaffali e sul pavimento, così numerosi che era difficile persino camminare. «Non faccia caso al disordine» disse la padrona di casa, destreggiandosi fra le opere sparse per la stanza. «Ancora non ho avuto né il tempo né la voglia di mettere a posto lo studio di mio marito». Madalena Toscano aprì il primo cassetto e rovistò velocemente; poi passò a un altro cassetto e, dopo un'analisi sommaria, lo richiuse. Cercò dentro a un armadio e alla fine si lasciò sfuggire un'esclamazione soddisfatta: aveva trovato quel che stava cercando. Tirò fuori una scatola di cartone marrone chiaro che sui lati riportava il nome di un produttore giapponese di elettrodomestici. Al suo interno era contenuta una gran quantità di documenti, sopra ai quali si trovava una cartellina verde che riportava scarabocchiata la parola Colom. «Eccola!» annunciò la donna, trascinando la scatola fuori dall'armadio. «Mio marito conservava qui tutte le cose che stava raccogliendo». Tomás prese la scatola come fosse un tesoro. Era pesante. La trasportò nell'angolo più sgombro dello studio e la posò. Quindi, si mise a sedere sul pavimento, a gambe incrociate, curvo sui documenti. «Può accendere la luce?» chiese. Madalena schiacciò l'interruttore e una luce giallastra, fioca e logora, illuminò leggermente la stanza, proiettando ombre fantasmagoriche sul pavimento e sugli armadi. Tomás si immerse nei documenti, perdendo la nozione del tempo e dello spazio, dimenticando dove si trovava, sordo ai commenti della signora, trasportato in una realtà lontana, perso in un mondo tutto suo; suo e di Toscano. Le fotocopie e gli appunti volarono sotto i
suoi occhi, raccolti a destra quando li considerava rilevanti, a sinistra quando non li riteneva pertinenti alla ricerca. Riconobbe riproduzioni della História de los reys Católicos di Bernáldez, della História General y Natural de las índias di Oviedo, del Psalterium di Giustiniani, della História del Almirante di fra Hernando Cólon. C'erano inoltre le riproduzioni dei documenti di Muratori, della Minuta de Mayorazgo, della Raccolta, delle Anotaciones e del Documento Assereto. E poi ancora fotocopie di una lettera di Toscanelli e di varie missive firmate dallo stesso Colom. Per completare quella lista, mancava solo il Paesi nuovamente retrovati di Francesco da Montalboddo, ma Tomás già sapeva che Toscano lo aveva consultato a Rio de Janeiro. Il mantello scuro della sera era sceso sulla città, quando il professore ritornò al presente. Si accorse di essersi dimenticato di pranzare e di trovarsi solo nello studio di Toscano, seduto sul pavimento, circondato dai documenti. Sistemò di nuovo le cose nella scatola e si alzò. I muscoli della schiena e delle gambe ci misero un po' a reagire; intorpiditi e indolenziti, non assecondavano bene i movimenti. Percorse il corridoio quasi zoppicando. Madalena era distesa sul sofà, a dormicchiare, con un libro sull'arte rinascimentale abbandonato sul petto. Tomás tossì, cercando di svegliarla. «Signora» mormorò. «Signora». La donna aprì gli occhi e si mise seduta, scrollando la testa per svegliarsi. «Scusi» balbettò, insonnolita. «Stavo facendo un pisolino». «Fa bene». «Ha trovato ciò che le interessava?». «Sì». «Poverino, dev'essere stanco. Sono venuta là a domandarle se voleva mangiare, ma non mi ha sentito, sembrava ipnotizzato in mezzo a tutta quella confusione». «Chiedo scusa, ma non mi sono accorto della sua presenza. Sa, quando sono assorto in qualche cosa non noto ciò che mi succede intorno. Il mondo potrebbe anche finire e io con esso, e neanche me ne renderei conto». «Mio marito era uguale, non si preoccupi. Quando era concentrato, sembrava allontanarsi del tutto dalla realtà». Fece un gesto in direzione della cucina. «Guardi, le ho preparato una bistecca che è una meraviglia». «Ah, grazie. Non si doveva disturbare». «Non mi disturba affatto. Vuol mangiare? La bistecca è ancora lì...».
«No, no, grazie. Vorrei chiederle solo una cosa». «Dica pure». «Posso portar via la scatola per fotocopiare i documenti? Le assicuro che glieli riporto domani». «Portar via la scatola?» domandò la donna, riluttante. «Ah, questo non lo so». «Non si preoccupi, le restituisco tutto domattina. Proprio tutto». «Non so...». Tomás mise la mano in tasca e tirò fuori il portafoglio. Lo aprì e mostrò due documenti di riconoscimento, che stese a Madalena. «Guardi, le lascio la mia carta d'identità e la carta di credito, come garanzia che domani tornerò con le sue cose». La donna prese i documenti e li esaminò con attenzione. Lo fissò negli occhi e si decise. «Va bene» disse alla fine, riponendo i documenti nella tasca della vestaglia. «Ma mi porti tutto domani». «Stia tranquilla» concluse Tomás, girandosi per ritornare nello studio. Quando fu a metà corridoio, sentì dietro di sé la voce di Madalena, che proveniva dalla sala, debole ma sufficientemente udibile. «Vuole anche il materiale che sta in cassaforte?». Si fermò e guardò dietro. «Come?». «Vuole anche il materiale che sta in cassaforte?». Tomás tornò in sala e si fermò, impalato, sotto lo stipite della porta. «Scusi?». «Martinho conservava alcuni documenti anche in cassaforte. Vuole vederli?». «Sono documenti riguardanti l'indagine?». «Sì». «Certo che voglio vederli!» assentì Tomás, con aria incuriosita. «Che documenti sono?». Madalena attraversò la sala e lo condusse in camera. Il letto era disfatto, per terra c'era un vaso da notte, alcuni vestiti erano sparsi su una poltrona di vimini e nell'aria si sentiva un odore acido e sgradevole. «Non so» disse lei. «Ma Martinho mi disse che erano la prova definitiva». «La prova definitiva? La prova di che?». «Questo non lo so. Suppongo che sia la prova di ciò su cui stava inda-
gando». Con crescente ansia, Tomás la vide aprire l'anta dell'armadio e poi mostrare una massiccia lastra metallica: era una cassaforte. «Suo marito ha conservato dei documenti in cassaforte?». «Solo i più importanti. Una volta mi disse: "Madalena, qui c'è la prova della mia scoperta. Quando la vedranno, resteranno a bocca aperta". Martinho pensava che la cosa fosse tanto importante che cambiò perfino la combinazione». Tomás si avvicinò e osservò attentamente la cassaforte. Era incassata nella parete e aveva dieci numeri per la combinazione. «Qual è il codice?» domandò, trattenendo a malapena l'emozione. Madalena prese un foglio dal comodino e glielo consegnò. «È questo qui». Tomás aprì il foglio. Era un A4 bianco con dieci gruppi di lettere e numeri disposti su due colonne: Q I D U T
U A O A N
C E C C E
E F O U D
L T P E N
E A 5 4 5
«Questa è la combinazione?» si meravigliò Tomás. «Ma vedo quasi tutte lettere e la cassaforte ha solo numeri...». «Sì» dichiarò Madalena. «Ma a ogni lettera corrisponde un numero. Per esempio, la a è uno, la b è due, la c è tre, e così via. Capito?». «Sì sì, ho capito». Indicò i numeri in basso, nella colonna di destra. «E questi? Si trasformano in lettere, vero?». La donna analizzò meglio il foglio. «Questo non lo so» ammise. «Mio marito non me l'ha spiegato». Tomás copiò il codice della cassaforte, scarabocchiandolo sul suo blocnotes. Poi, per tentativi, trasformò le lettere in numeri, facendo attenzione a conservare i tre numeri costanti del codice. Terminò i calcoli e osservò il risultato: 17 21 15 12 1 5 4 15 3
5 12 5 6 20 1 15 16 5
21 1 20 14
3 5
21 5 4 4 14 5
Digitò i numeri sulla cassaforte, procedimento che si rivelò piuttosto laborioso. Quando ebbe finito, aspettò un istante. La cassaforte rimase chiusa. Non ne fu sorpreso: il codice doveva essere qualcosa di più di una semplice operazione di trasposizione di lettere in numeri. Guardò Madalena e scrollò le spalle. «È più difficile di quanto sembri» concluse. «Porto i documenti a casa, per fotocopiarli, e domani le riconsegno ogni cosa, va bene?». Indicò il foglio A4. «Poi ritornerò quando sarò riuscito a decifrare questa sciarada e, se non le dispiace, in quell'occasione vedremo cosa contiene la cassaforte. Che ne pensa?». Andò direttamente nella copisteria dell'Apolo 70, vicino alla facoltà, dove lasciò la scatola di cartone con i documenti del professor Toscano. Gli dissero che poteva stare tranquillo e che il giorno successivo, in tarda mattinata, sarebbe stato tutto pronto. Quella sera, Tomás si dimostrò particolarmente premuroso con la moglie e la figlia. Le ricoprì di baci, di carezze, di frasi amorevoli e gesti protettivi, mostrò loro tanto affetto che rimasero sorprese. Lui stesso se ne stupì, non si aspettava di essere così tenero. Pensò che fosse il senso di colpa a manifestarsi, il desiderio di risarcirle per il tradimento che commetteva con Lena. Ebbe un'ulteriore conferma del fatto che la relazione con l'amante lo rendeva un marito e un padre migliore. Constança aveva cambiato i fiori nei vasi. Questa volta aveva scelto dei giacinti, che dipingevano il piccolo appartamento con una profusione di bianco angelico, puro. I petali eburnei spuntavano dal vaso di vetro, curvi, contorti, fitti. Dopo cena, mentre la moglie metteva a letto Margarida, Tomás andò in sala a studiare gli appunti che aveva preso a casa del professor Toscano. Constança tornò poco dopo e si mise a sedere accanto al marito. L'uomo alzò lo sguardo, le accarezzò il viso lentigginoso e sorrise. «Già dorme?». «Come un angioletto». «Com'è andata la giornata?». «Come al solito. Ho fatto lezione, sono andata a prendere Margarida e siamo andate a fare una passeggiata». «Dove?».
«Al Parco dei Poeti, vicino al centro commerciale. Ho provato a insegnarle ad andare in bicicletta». «E allora?». «Allora è stata una catastrofe. Pedalava un po' e subito dopo cadeva, non c'era proprio verso. A un certo punto si è arrabbiata e mi ha detto: "Uffa uffa questa po'che'ia!" e si è seduta sul triciclo di una bambina di quattro anni». «Davvero l'ha fatto?». «Davvero». «E non si è vergognata di salire sul giocattolo di una bambina così piccola?». «Oh, sai com'è tua figlia! Non si vergogna di niente!». Tomás scrollò la testa, divertito. Effettivamente, se c'era una cosa che caratterizzava Margarida era l'assoluta mancanza di imbarazzo. Potevano pure prenderla in giro, commentare il suo aspetto e cercare di sminuirla, tanto si girava e fingeva che non ce l'avessero con lei. In piscina ancora insisteva a usare i braccioli, cosa che avrebbe fatto vergognare qualsiasi altra bambina della sua età ma non lei. Era, in questo senso, una persona del tutto priva di inibizioni. Tomás s'alzò e si sgranchì, sbadigliando. «Bene, devo mettermi al lavoro». Tornò sul sofà e, preoccupato per l'enigma che lo stava facendo arrovellare, buttò lo sguardo sulla nuova sciarada che aveva lasciato il professor Toscano. «Che cos'è?» domandò la moglie, trovando strane quelle colonne di lettere apparentemente senza alcun senso. «Credo sia un messaggio cifrato» replicò Tomás senza alzare la testa. «Mi sta facendo scervellare». «È il lavoro per gli americani?». «Sì». Per un po' Tomás si estraniò dalla realtà, immerso nei misteri del messaggio che nascondeva la combinazione della cassaforte. Considerò le varie possibilità per sciogliere la cifra ma sapeva che, per riuscirci, doveva prima capire che tipo di cifra fosse. E quella non era, in base ai dati di cui disponeva al momento, una questione facile da risolvere. Si mise a valutare diverse opzioni ma il filo del ragionamento fu interrotto da una mano che gli tirò via il bloc-notes da sotto gli occhi. «Tomás» chiamò una voce. «Tomás».
Era Constança. «Eh?» domandò, ritornando alla realtà, con aria smarrita. «Che c'è?». «Scusa se ti ho interrotto, so come sei quando t'immergi in quel mondo tutto tuo. Ma vorrei raccontarti una cosa». «Cosa? Che succede?». «Niente di speciale. Oggi, quando sono andata a prendere Margarida a scuola, ci è successa una cosa triste». «Che è successo?». «Come ti ho detto, quando ho finito le lezioni, sono andata a prenderla e siamo andate a fare una passeggiata. L'ho portata al Parco dei Poeti per insegnarle ad andare in bicicletta. Sai, sta sempre al chiuso, le fa bene prendere un po' d'aria». «Sì». «Bene, dopo aver gironzolato con la bicicletta e il triciclo, l'ho lasciata giocare vicino ad alcune bambine e sono andata a sedermi su una panchina. Poi sai cos'è successo?». «Cosa?». «Sono venute le madri della bambine e, tutte affannate, le hanno portate via da lì, non volevano che giocassero con la nostra Margarida». Tomás fissò la moglie, scioccato. Constança aveva gli occhi lucidi e si sforzava di trattenere le lacrime. Tomás aprì le braccia e la strinse a sé. «Su. Non preoccuparti, non dargli peso». «La trattano come se avesse una malattia contagiosa...». «Le persone sono ignoranti, solo questo. Non dargli peso, non dargli peso». Si baciarono, le accarezzò il viso umido, bagnato dalle lacrime che le scivolavano sulla pelle bianca, lattea, gocce calde che serpeggiavano lungo i lineamenti fino a fermarsi sul mento tremante. L'aiutò ad alzarsi dal sofà e la portò a letto. Le sistemò la coperta e le promise che sarebbe tornato subito. Andò nella stanza accanto e nella penombra baciò le soffici guance della figlia, sfiorando i capelli lisci sparpagliati sul cuscino. Tornò in camera sua, si spogliò e indossò il pigiama, spense la luce e si sdraiò assecondando, con il proprio corpo, la posizione fetale che Constança era solita assumere prima di addormentarsi. Passò la mattina alla Biblioteca Nazionale, consultando i testi a suo avviso utili, alla luce di quanto aveva visto la sera prima a casa del professor Toscano. Negli intervalli fra un libro e l'altro, sforzandosi di far lavorare la
mente, faceva continui tentativi per decifrare il messaggio che nascondeva la combinazione della cassaforte. Verso mezzogiorno fece un salto alla copisteria dell'Apolo 70 e ritirò il materiale che aveva ordinato il giorno prima. Prese la scatola con gli originali e la mise in macchina. Arrivò fino a casa di Madalena Toscano, le restituì la scatola e rientrò in possesso della carta d'identità e della carta di credito che aveva lasciato come deposito. Si congedò dalla vedova assicurandole che sarebbe ritornato appena avesse decifrato la sciarada della cassaforte. Quando uscì in strada, era già l'una. Prese il cellulare e telefonò a Lena, che per pranzo gli aveva promesso di cucinargli del salmone. Continuò fino alla Latino Coelho e salì le scale del palazzo in una corsa che terminò direttamente fra le braccia della svedese. Iniziarono a spogliarsi a vicenda, finché la porta d'ingresso non si chiuse. Fremevano, tremavano, il desiderio a fior di pelle. Si strapparono i vestiti per l'impazienza, nella foga di sentire i propri corpi caldi e ansimanti lanciarsi l'uno contro l'altro, umidi e avidi di fluidi, infuocati, ardenti di desiderio, trepidanti e vogliosi. Si avvinghiarono, rotolandosi sul pavimento della sala, ora lei su di lui, ora lui su di lei, sospirando e gemendo. Tomás, affamato e lascivo, le strinse il petto voluminoso. Le mani piene e irrequiete affondavano nei seni abbondanti e voluttuosi, strizzavano i capezzoli come se li volessero mungere. Si fusero l'uno nell'altra ed esplosero, alla fine, in un grido liberatorio di carni in fiamme, fra urla non più contenute e gemiti affannosi. Pranzarono in vestaglia, i corpi languidi, rilassati, la carne saziata e lo stomaco da soddisfare. A Tomás non piaceva il salmone, ma la svedese lo aveva cucinato in un modo diverso, addolcendolo con un condimento scandinavo che mascherava bene il gusto forte del pesce. «Come si chiama questo piatto?» volle sapere lui, assaggiando. «Gravad lax» fu la risposta. «Come mai è così dolciastro?». «Beh, è una vecchia ricetta svedese» sorrise lei. «Ho lasciato marinare il salmone per due giorni con zucchero, sale e... ehm... e un'altra cosa che non so come si dice in portoghese». «E i legumi?». «Esatto, si chiamano gubbröra». «Gu... che?». «Gubbröra. È un piatto da smörgåsbord, formato da acciughe, barbabietole, cipolla, capperi e tuorlo d'uovo. La salsa del gravad lax, invece, è fat-
ta con senape agrodolce e prezzemolo. Ti piace?». «Sì» la rassicurò lui, scuotendo la testa in segno di apprezzamento. «È buono». Rimasero in silenzio e si dedicarono al banchetto. Il salmone era davvero gustoso, non aveva mai assaggiato un pesce così ben condito. A tavola si sentiva solo il rumore delle posate e delle mascelle che masticavano il cibo. Il silenzio si fece pesante, imbarazzante, come se il sesso avesse esaurito tutto il combustibile che li muoveva l'uno verso l'altra, come se non ci fosse più niente da dire e il pasto fosse un comodo pretesto per giustificare il silenzio. «Mi ami?» gli chiese, alla fine, la svedese, osservandolo fra le brillanti ciocche di capelli biondi che le ricadevano sul viso. «Certo, mia piccola vichinga. Ti amo tanto». Tomás non sapeva se stava dicendo la verità o una bugia. Lei gli faceva domande e lui semplicemente rispondeva ciò che l'amante si aspettava di sentirsi dire. Sapendo che è importante la convinzione con cui si pronunciano le parole, si era persuaso di amarla veramente. Credendoci, dava ancora più plausibilità a quelle parole. Nel suo intimo, però, non ne era affatto sicuro. Sapeva di amare Constança, e abbandonare la moglie era del tutto fuori questione. Di certo, a volte, nei momenti di maggiore trasporto con Lena, aveva considerato anche l'ipotesi di lasciare la moglie e di sostituirla con l'amante. Tuttavia, non appena tornava in sé, questa possibilità svaniva, diventava una mera fantasia, un capriccio della passione, della fugace e intensa esaltazione erotica. Forse, più che amare Lena, la desiderava. Non desiderava soltanto il suo corpo, sebbene quello fosse un fattore importante dell'equazione, ma desiderava anche la sua compagnia, la via di fuga che lei gli offriva, l'energia che paradossalmente gli trasmetteva per rinvigorire il proprio matrimonio. Amava Constança e forse amava anche Lena, ma in modo differente, probabilmente finto. Forse confondeva l'amore con il desiderio di averla con sé, di riempirsi le mani con il suo corpo opulento, di lasciarsi trasportare in una dimensione alternativa, una realtà dove non esistevano né la Trisomia 21 né i problemi cardiaci, e nemmeno quella attenzione che la moglie gli negava per dedicarla alla loro fragile creatura. «Allora, come va la tua ricerca?» domandò la svedese, agitando la forchetta con infilato un pezzo di salmone. «Hai fatto progressi?». L'interesse della ragazza per l'indagine era genuino, come Tomás aveva già avuto modo di notare. All'inizio ne era rimasto sorpreso, non immaginava che qualcosa di tanto profondo potesse incuriosirla. Tuttavia, l'atten-
zione che lei dimostrava verso il suo lavoro lo lusingava e, cosa ancora più importante, manteneva vive le loro conversazioni, un tema d'interesse comune che rafforzava il loro legame. «Pensa che ieri sono stato a casa del professor Toscano e la vedova mi ha lasciato fotocopiare tutti i documenti e gli appunti che lui aveva raccolto negli ultimi anni». «Bra!» esclamò lei, soddisfatta. «È materiale utile?». «Eccellente». Da seduto, si piegò per prendere la ventiquattrore. L'aprì e prese il bloc-notes, che iniziò a sfogliare velocemente. «Ma, a quanto pare, il meglio è conservato in cassaforte». Trovò il messaggio cifrato e lo mostrò all'amante. «Il problema è che per aprire la cassaforte devo decifrare questo groviglio di dati». Lena si sporse verso il foglio e analizzò la cifra. «Non ci capisco niente. Sei in grado di scioglierlo?». «Devo riuscirci per forza» disse Tomás, curvandosi di nuovo sulla ventiquattrore. «Ma conosco solo un modo». Prese un libro azzurro dalla borsa. «Usando una tabella di frequenze». Appoggiò il libro sul tavolo. Era scritto in inglese ed era intitolato Cryptanalysis. «Questo testo è una tabella di frequenze?» volle sapere Lena, guardando la copertina, sulla quale spiccavano alcuni quadrati che le sembravano più che altro parole crociate. «Questo è un libro che contiene varie tabelle di frequenze». Aprì il volume e cercò una pagina in particolare. Quando l'ebbe trovata, la mostrò all'amante. «Vedi? Ci sono tabelle di frequenze in inglese, tedesco, francese, italiano, spagnolo e portoghese». «E con queste puoi decifrare qualsiasi messaggio?». Tomás rise. «No, mia cara. Solo le cifre di sostituzione». «Cioè?». «Ci sono tre tipi di cifre. Quelle di occultazione, quelle di trasposizione e quelle di sostituzione. Una cifra di occultazione è quella in cui il messaggio segreto è nascosto affinché non si sappia neanche che esiste. Il più vecchio sistema di occultazione che conosciamo era utilizzato in età antica, quando il messaggio veniva scritto sulla testa rasata di un messaggero, solitamente uno schiavo. Gli autori del messaggio lasciavano che i capelli del messaggero crescessero e solo allora lo mandavano dal destinatario. Così, il messaggero passava inosservato in mezzo al nemico, che non si accor-
geva del messaggio scritto sotto i capelli. Poi, bastava che il destinatario radesse a zero i capelli del messaggero e leggesse il messaggio». «Non fa per me» sorrise Lena, passando la mano sulla folta chioma bionda, lunga e ondulata. «Gli altri sistemi?». «La cifra di trasposizione consiste nell'alterare l'ordine delle lettere. Si tratta, fondamentalmente, di un anagramma, come quello che ho decifrato a Rio de Janeiro. Moloc è Colom letto da destra verso sinistra. Un anagramma semplice. È evidente che, per messaggi molto corti, in particolare quelli formati da una sola parola, questo tipo di cifra è poco sicura, poiché esiste un numero molto limitato di possibilità di riordinare le lettere. Ma se aumentassi il numero delle lettere, allora anche il numero di combinazioni possibili crescerebbe esponenzialmente. Ad esempio, una frase con sole trentasei lettere può essere combinata in trilioni e trilioni di modi differenti». Scarabocchiò sul bloc-notes un lungo 50 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000. «Vedi? Questo è il numero di combinazioni possibili con appena trentasei lettere». La lasciò digerire quel cinque seguito da trentuno zeri. «Questo comporta che debba esserci un qualche sistema per ordinare le lettere, altrimenti il messaggio risulterebbe indecifrabile anche per il suo stesso destinatario. È il caso dell'anagramma che ho decifrato, Moloc, ninundia omastoos. La frase ha ventuno lettere, il che significa che può avere milioni di combinazioni possibili. Alla fine ho capito che questo messaggio cifrato conteneva, nella prima riga, quella di Moloc, un sistema di ordinazione basato sulla simmetria semplice, per cui la prima lettera è l'ultima, la seconda è la penultima, e così via, fino a ottenere Colom. Nella seconda riga mi sono imbattuto in un incrocio simmetrico, nel quale era necessario collocare le due parole in colonna e incrociarle alfabeticamente secondo un criterio prestabilito». «Sei un genio!» commentò Lena, facendogli una carezza sul viso. Indicò la sciarada annotata da Tomás a casa di Toscano. «E questa? È una cifra di trasposizione?». «Ne dubito. Suppongo sia piuttosto una cifra di sostituzione». «Cosa te lo fa credere?». «L'aspetto generale del messaggio. Guarda la prima colonna. È formata da un insieme di tre lettere che sembrano accostate casualmente. Vedi?». Indicò la prima colonna. «Quo, lae, doc. È come se le lettere reali fossero state sostituite da altre». Lena si morse il labbro inferiore. «Ma in cosa consiste, esattamente, una sostituzione?».
«Si tratta di un sistema in cui le lettere reali sono sostituite da altre secondo un ordine incomprensibile per chi non conosce l'alfabeto di cifra utilizzato. Ad esempio, pensa alla parola pai33. Se stabilissimo che la p diventa una t, che la a si trasforma in x e la i in r, pai diventerebbe, nel messaggio cifrato, txr. Il problema è capire che la t corrisponde alla p, che la x è una a e che la r è in realtà una i. Una volta scoperto qual è l'alfabeto di cifra, il resto è facile, chiunque riuscirebbe a decifrare il messaggio». «Quindi, se ho ben capito, il problema è capire qual è l'alfabeto di cifra». «Esattamente». Finirono il salmone e Lena andò in cucina a prendere il dolce. Ritornò qualche istante dopo con una specie di purè di mele, solo più secco, farinoso. «Siccome l'altro giorno hai parlato di appelkaka, ho deciso di preparartene una» annunciò la ragazza, appoggiando il dolce alle mele sul tavolo. Distribuì le porzioni in due ciotole, e una la passò a Tomás. «Prendi». Il portoghese ne assaggiò un cucchiaino. «Hmm» mormorò. «Questa appel non ha niente a che vedere con kaka». «Simpaticone» sorrise lei. Indicò il libro. «Tornando al nostro discorso, questo sistema di cifra di sostituzione è comune?». «Molto. La prima cifra di sostituzione che si conosca è quella descritta da Giulio Cesare nel De bello gallico. L'idea di questa prima cifra si basava su un alfabeto che, per esempio, avanzava di tre posti rispetto all'alfabeto normale. Pertanto, la a dell'alfabeto tradizionale si trasformava nella lettera di tre posizioni più avanti, la d, mentre la b diventava una e, e così via. Questo sistema è conosciuto come cifra di Cesare. Anche l'erudito brahmano Vatsyayana, nel IV a.C, raccomandò nel Kamasutra che le donne imparassero l'arte della scrittura segreta, in modo da poter comunicare in sicurezza con gli amanti. Una delle tecniche di scrittura che lui suggeriva era, giustamente, la cifra di sostituzione. Oggi questo metodo si è molto evoluto e i messaggi, nei casi di maggiore complessità, possono essere decifrati solo ricorrendo a computer capaci di provare milioni di combinazioni al secondo». Tomás mangiò dell'altra appelkaka. «Hmm» tornò a ripetere, deliziato. «È proprio buono». Lena nemmeno s'accorse dell'elogio, assorta com'era a osservare la sciarada di Toscano. «Se credi che sia scritto ricorrendo a una cifra di sostituzione, come pensi di decifrare questo messaggio? Hai il corrispondente alfabeto di cifra?».
«No». «Allora come farai?». Tomás accennò al libro che aveva tirato fuori dalla ventiquattrore. «Con le tabelle di frequenze». L'amante lo fissò negli occhi, senza capire. «Le tabelle di frequenze contengono l'alfabeto di cifra?». «No» disse scuotendo la testa. «Ma offrono una scorciatoia». Mandò giù il resto del dolce. «Le tabelle sono un'idea nata dagli eruditi arabi che studiavano le rivelazioni di Maometto nel Corano. I teologi musulmani, nello sforzo di stabilire la cronologia delle rivelazioni del profeta, si misero a valutare la frequenza con cui ricorrevano ogni parola e ogni lettera. Scoprirono, allora, che determinate lettere erano più comuni di altre. Ad esempio, si accorsero che la a e la l, che apparivano nell'articolo determinativo al, erano le lettere più usate dell'alfabeto arabo, dieci volte più frequenti della lettera j. In sostanza, gli arabi hanno creato la prima tabella di frequenze, nella quale veniva individuata la frequenza con cui ogni lettera ricorreva nella loro lingua. Basandosi su questa scoperta, il grande scienziato arabo del XIX secolo Abu al-Kindi scrisse un trattato di criptografia, nel quale sosteneva che il modo migliore per decifrare un messaggio cifrato è conoscere la lettera più comune nella lingua del messaggio e vedere qual è la lettera che si ripete più frequentemente nel messaggio stesso: con molta probabilità, le due corrisponderanno». «Non capisco». «Fai finta che il messaggio cifrato sia scritto in arabo. Se sappiamo che la a e la l sono le lettere più comuni nell'arabo, ci basta identificare le due lettere che ritornano più frequentemente nel messaggio cifrato. Supponiamo che siano la t e la d. Allora, con molta probabilità, se mettessimo la a e la l al posto della t e la d, cominceremmo a decifrare il messaggio. In questo consiste la decifrazione con la tabella di frequenze. Conoscendo la percentuale di frequenza di ogni lettera in una determinata lingua, e analizzando la frequenza di ogni lettera all'interno del messaggio cifrato, possiamo, con un certo margine di sicurezza, stabilire quali sono le lettere del messaggio originale». «Ah, ho capito. Sembra facile». «Non necessariamente. Questo sistema non è infallibile. La tabella di frequenze offre una lista-tipo della media con cui ogni lettera appare in una certa lingua. Naturalmente i testi cifrati possono contenere lettere che, per qualche ragione, non appaiono con la stessa frequenza registrata dalla ta-
bella. Questo è vero soprattutto nel caso di testi molto corti. Per esempio, supponiamo che il messaggio originale sia o rato roeu a rolha da garrafa do rei da Russia34. Com'è evidente, in un messaggio di questo tipo la r appare molte più volte di quanto sarebbe normale, provocando un'alterazione nella frequenza-tipo della lettera. Ora, questa è effettivamente l'eventualità che si potrebbe presentare quando ricorriamo alla tabella di frequenze per analizzare testi con meno di un centinaio di lettere. I testi più lunghi già tendono a rispettare di più la frequenza-tipo. Sfortunatamente, non è il caso della sciarada che ho in mano». «Quante lettere contiene?». «La sciarada?». Consultò i suoi appunti. «Le ho contate ieri sera. Sono soltanto trenta. O meglio, ventisette lettere e tre numeri. È poco». La svedese s'alzò da tavola e iniziò a sparecchiare. «Vuoi il caffè?». «Va bene». Tomás l'aiutò a portare i piatti sporchi in cucina, passandoli sotto l'acqua e mettendoli nella lavastoviglie. Poi andò a togliere la tovaglia, lasciando Lena a preparare il caffè. La svedese accese la caffettiera, una vecchia Melior di vetro che apparteneva all'arredamento originale della casa, e, mentre aspettava che la bevanda fosse pronta, tornò da lui. Si andarono a sedere in sala, i fogli della ricerca erano sparsi per il sofà. «E allora?» domandò lei. «Che farai?». «Devo cercare una nuova strategia». «Ma non applichi il metodo della tabella di frequenze?». «Questo l'ho già fatto ieri sera e questa mattina, mentre stavo alla Biblioteca Nazionale» sospirò lui. «E allora?». Tomás arricciò il naso. «Non ho ottenuto niente di eclatante». «Ah, no? Fammi vedere». Lo studioso aprì il libro di criptanalisi ed esaminò le tabelle di frequenze. «Vedi?». Mostrò le pagine all'amante. «Qui ci sono varie tabelle». Prese anche il bloc-notes e trovò la pagina nella quale aveva scarabocchiato la sciarada, lasciando il quaderno aperto sulle gambe. «Il primo problema è determinare in che lingua è scritto il messaggio». «Non è portoghese?». «È possibile che lo sia» concordò. «Ma non possiamo dimenticarci del
fatto che la prima sciarada era in latino. Era una citazione di Cicerone. Niente ci garantisce che il professor Toscano non abbia scelto proprio il latino, o qualsiasi altra lingua, per questo messaggio». «Non hai una tabella di frequenze in latino?». «No, qui no. Ma, nell'eventualità, si potrebbe rimediare». Spostò l'attenzione sul volume con le tabelle. «Comunque, ho già studiato la tabella in portoghese». «E allora?». «La prima cosa che posso dire è che il portoghese ha alcune caratteristiche specifiche. Per esempio, mentre nell'inglese, nel francese, nel tedesco, nello spagnolo e nell'italiano la lettera più frequente è la e, nel portoghese il primato va alla a». «Ah sì?». Indicò i valori registrati nelle tabelle. «La a rappresenta il tredici virgola cinquanta per cento delle lettere usate in media in un testo in portoghese, e la e il tredici per cento. In verità, nelle restanti lingue latine esiste un equilibrio tra le due vocali, ma sempre con un leggero vantaggio della e, diversamente dalle lingue germaniche, dove la supremazia della e è molto evidente. In inglese, la e rappresenta il tredici per cento di tutte le lettere, mentre la a figura solo al sette virgola otto, superata dalla t, che arriva al nove per cento. In tedesco, poi, la differenza è ancora più significativa. La e raggiunge il diciotto virgola cinquanta per cento di frequenza e la a appena il cinque per cento, superata dalla n, dalla i, dalla r e dalla s». «Pertanto è impossibile trovare testi senza la vocale e, giusto?». «Altamente improbabile. Ma non impossibile. Nel 1969 lo scrittore francese Georges Perec scrisse un romanzo di duecento pagine, La disparition, dove riuscì a compiere l'impresa di utilizzare solo parole che non contenessero la e». «Caspita!». «Ma ancora più incredibile è che quest'opera è stata tradotta in inglese, con il titolo A Void, e il traduttore ha trovato il sistema per eliminare la e anche dal testo inglese». Il timer suonò e Lena andò in cucina a prendere il caffè. Tornò un minuto dopo, portando un vassoio con la caffettiera e due tazzine di porcellana bianca, vecchie e rovinate. Lo posò sul tavolinetto accanto al sofà, prese la caffettiera e riempì le due tazzine. Dopo aver aggiunto lo zucchero, entrambi girarono il caffè, facendo tintinnare il metallo del cucchiaino sulla
porcellana. Tomás lo sorseggiò; la bevanda era corposa, densa, cremosa, sprigionava un vapore caldo, fortemente aromatico, e mostrava un color noce leggermente rossastro. «È buono?» domandò lei. «Una meraviglia. Ma me lo puoi correggere?». «Come?». «Lo preferisco corretto. Non sai che significa?». «No». «Hai dell'acquavite?». Lena si alzò e andò alla credenza. Aprì l'anta e prese una bottiglia di liquore; era di vetro incolore, l'etichetta bianca mostrava una strada di campagna fiancheggiata da alberi spogli e il nome, Skane Akvavit, in basso. Con la bottiglia in mano, tornò vicino a Tomás. «Questa va bene?». «E cos'è?». «Acquavite svedese» spiegò lei, esibendo la bottiglia. «Di solito si usa la grappa35, l'acquavite italiana, oppure quella portoghese, ma suppongo che anche quella svedese vada bene». «Metti l'acquavite nel caffè?». «Soltanto un pochino». Versò alcune gocce nella tazzina. «Gli italiani lo chiamano caffè corretto36. Dai, assaggialo». Lena ne bevve un po' e sentì il vapore ardente dell'alcool mischiato al liquido aromatico e cremoso. Fece una smorfia con la bocca, come se approvasse. «Non è male». «Ti preparo solo cose buone» sorrise lui. La svedese indicò il blocco di appunti, riportando la conversazione sul problema del messaggio cifrato. «Quando hai intenzione di applicare la tabella alla sciarada?». Tomás posò la sua tazzina calda e assunse un'aria rassegnata. «Già l'ho applicata». «E quindi?». «Beh, ho analizzato le lettere della sciarada e ho scoperto che la più frequente è la e, che appare cinque volte. Seguono la a, la o e la u, che ricorrono ognuna tre volte. Quindi, per prima cosa ho sostituito la e con la a. Poi ho fatto dei tentativi per le altre vocali, sostituendole alternativamente con la e, con la o, con la r e con la s, le lettere più frequenti nei testi portoghesi, dopo la a».
«Non hai ottenuto alcun risultato?». «Nessuno». Lena consultò la tabella. «Ma allora, se non hai ottenuto niente e la lettera più frequente è la e, perché non dedurre che il testo è scritto in un'altra lingua che non sia il portoghese?». «Beh, perché questo significherebbe che non si tratta di cifra di sostituzione, ma...». S'interruppe a metà, sorpreso per quello che aveva appena finito di dire. «Ma cosa?» tagliò corto Lena, chiedendogli di completare il ragionamento. Tomás alla fine la guardò. «Hmm, forse è così». «Così come?». L'uomo spostò l'attenzione sulla sciarada annotata sul quaderno. «Forse non è una cifra di sostituzione». «Ah, no? Allora cos'è?». Tomás si mise a contare le lettere della sciarada. «Uno-due-tre-quattro-cinque-sei-sette...» mormorò a voce bassa, saltando con il dito da una lettera all'altra, quasi casualmente. «Quattordici» disse alla fine. Scrisse quattordici sul blocco e si mise a contare di nuovo. «Uno-due-tre-quattro-cinque...». La cantilena continuò fino ad arrivare a tredici. «Tredici» concluse. Annotò il numero sul blocco, sotto a quattordici. Poi prese il libro e consultò la tabella di frequenze. «Trovato!» esclamò, chiudendo il pugno in segno di vittoria. «Trovato cosa?» ripeté Lena, senza capire nulla. Tomás le indicò un valore registrato nella tabella. «Vedi questo?». Il valore che il dito mostrava era quarantotto per cento. «Sì» confermò Lena. «Quarantotto per cento. E allora?». Tomás sorrise. «È la percentuale delle vocali nei testi portoghesi». «Cosa?». «In media, il quarantotto per cento di lettere di un testo portoghese è rappresentato dalle vocali» spiegò lui, emozionato. Indicò gli altri valori. «Vedi? Solo gli italiani usano tante vocali come i portoghesi. Gli spagnoli hanno il quarantasette per cento, i francesi il quarantacinque, mentre gli inglesi e i tedeschi utilizzano le vocali solo per il quaranta per cento».
«Quindi?». «Sai quante vocali ha la sciarada del professor Toscano?». «Quante?». «Quattordici. E le consonanti sono tredici. Il che significa che più della metà delle ventisette lettere che formano la sciarada sono vocali». La fissò negli occhi. «Sai cosa vuol dire?». «Che il messaggio è scritto in portoghese?». «Forse» ammise Tomás. «Ma il vero significato è un altro. Una così elevata percentuale di vocali, quando sia applicata a un messaggio cifrato la cui lingua originale si presume essere europea, in questo caso il portoghese, può solo portarci alla conclusione che si tratta non di una cifra di sostituzione, ma di trasposizione». «Di trasposizione?». «Sì. In pratica siamo di fronte a un nuovo anagramma». «Scusa ma non ti seguo». «È semplice. Se la cifra fosse di sostituzione, le lettere più comuni del testo, le vocali, si trasformerebbero in consonanti. Per esempio, fai conto che la e sia stata sostituita dalla x. Quello che scopriremmo, dopo un'analisi delle frequenze, sarebbe una percentuale stranamente elevata di x nel testo. Ma non è questo che succede, giusto? In questa sciarada, le vocali mantengono una percentuale molto elevata. Se ne trae la conclusione che le vocali rimangono frequenti perché non sono state sostituite, bensì trasposte, cioè hanno cambiato semplicemente posto. Siamo di fronte a un anagramma». «Come quello di Moloc?». «Precisamente. Solo che, questa volta, con più lettere e molto più complicato». Osservò la sciarada. «E usando un metodo che crea l'impressione visiva di trovarsi di fronte a una cifra di sostituzione». Sorseggiarono il caffè. «La tabella di frequenze può aiutarti a decifrare il messaggio?». «No, la tabella di frequenze è utile solo nel caso di cifre di sostituzione. Per quanto riguarda questo tipo di anagrammi, serve solo per capire che si tratta di una cifra di trasposizione, non per decifrarla». «Allora come farai?». «Devo provare alcuni accostamenti fra vocali e consonanti per verificare se qualche combinazione ha un senso. Se riesco a cogliere qualcosa, potrei poi dedurre la linea di lettura utilizzata dal professor Toscano. Ad esempio, nel caso di Moloc aveva utilizzato un sistema simmetrico, a specchio,
in base al quale bisognava leggere da destra verso sinistra». Mostrò la sciarada. «Ma questa non mi sembra seguire lo stesso criterio. Guarda». Lesse la prima riga della prima colonna da destra a sinistra. «Ouq». Scrollò le spalle. «Non ha alcun senso». Lesse la prima riga dell'altra colonna. «Ele». Esitò. «Beh, ele già vuol dire qualcosa. Ma, se passiamo alla riga successiva e utilizziamo lo stesso sistema, otteniamo atf, che non significa nulla». «Non potresti provare dal basso verso l'alto?». «La linea da seguire può essere una qualsiasi. Da sinistra a destra, dal basso verso l'alto o viceversa, in diagonale, casuale, a zigzag e...». «Qldut» mormorò Lena, leggendo le prime lettere della prima colonna dall'alto verso il basso. Poi provò nel senso opposto. «Tudlq». Tomás studiò l'enigma e, dopo un'attenta analisi, prese una matita. «Proviamo a unire le due colonne». Riprodusse la sciarada nella pagina accanto. Ora non appariva a gruppi di tre per ogni linea orizzontale, ma di sei. Il risultato, però, continuava a essere confuso: Q L D U T
U A O A N
O E C C E
E F O U D
L T P E N
E A 5 4 5
«Quoele» continuò la svedese, sussurrando. Aveva preso nuovamente in considerazione tutta la lunghezza orizzontale, in particolare la prima riga. Dato che il suono non le sembrava familiare, lesse la stessa riga, ma da destra a sinistra. «Eleouq». «Non ha senso» mormorò Tomás, scuotendo la testa. «Laefta» continuò lei, passando alla seconda riga. «Afteal». Mentre Lena proseguiva con la lettura delle linee seguendo varie direzioni, Tomás si concentrò sull'ordine dei digrammi e dei trigrammi. In portoghese, i digrammi più comuni sono es, os, de, as e ro. Cercò nella sciarada i punti in cui le lettere si univano formando tali coppie, ma fu inutile. L'unico gruppo che individuò fu un de presente nella forma invertita di ed, a metà dell'ultima riga orizzontale. Letta da destra verso sinistra, quest'ultima linea si pronunciava 5ndent, e non sembrava avere alcun significato. Sfiduciato, passò ai trigrammi. Nei testi portoghesi, i gruppi più frequenti composti da tre lettere sono que, ent, nte, des e est. Provò a individuarli
nella sciarada ma riuscì a riconoscere solo il trigramma ent, collocato anch'esso nell'ultima riga, leggendo ancora una volta da destra a sinistra. 5ndent. «Olé» mormorò, con un tono quasi impercettibile. «Di nuovo l'ultima riga». Questa coincidenza richiamò la sua attenzione. Uno dei digrammi più usati nella lingua portoghese, de, si trovava sulla stessa linea di uno dei trigrammi più comuni, ent. Tomás si mise a immaginare parole portoghesi che impiegassero la sequenza dent. Ce n'erano molte. Independente. Correspondente. Intendente.37 «Dut» insisteva Lena, al suo fianco, concentrandosi ora sulle ultime tre lettere delle righe verticali. «Tud». Chiaramente c'era da capire come il numero cinque e la n fossero uniti a dent. 5ndent. Lì il cinque proprio non aveva senso, ma la n sì. Al posto di dent, ndent, una sequenza comune in varie lingue europee. Non c'era dubbio: quel ndent, derivato dall'associazione di un digramma e un trigramma molto usati in portoghese, difficilmente poteva essere una coincidenza. Il problema era che le linee immediatamente sopra, se lette nello stesso ordine, sembravano non avere alcun significato. La penultima riga orizzontale, da destra verso sinistra, dava eucau e la penultima si leggeva pocod. Nulla di fatto. La mano di Lena, accarezzandolo fra le gambe, lo distrasse dal suo ragionamento. «Questa parte mi sta eccitando» gli disse, con la voce languida. «Quale?». «Questa». Indicò le ultime tre lettere della penultima linea verticale letta dall'alto verso il basso. «Pen». Fece un sorriso sensuale. «Sarà l'inizio di pénis?». Tomás rise. «Birichina». Si curvò sulla sciarada, alla ricerca di un eventuale is al quale poter associare pen. Lesse dall'alto verso il basso e poi girò a sinistra. Il sorriso sparì e la bocca gli si spalancò per lo stupore. Pendent. Unendo pen al ndent precedentemente individuato, otteneva quasi una parola. Cercò una e che potesse legarsi alla t finale e la trovò all'estremità della prima riga. Scarabocchiò nuovamente tutta la sciarada, sottolineando la parola che aveva appena decifrato:
Q L D U I
U A O A N
O E C C E
E F O U D
L T P E N
E A 5 4 5
«Trovato!» esclamò, quasi gridando. «Eccola qui!». «Cosa? Cosa?». «La sciarada. Ho aperto una breccia nella cifra». Le mostrò le lettere sottolineate. «Vedi? Pendente. C'è scritto pendente». Lena iniziò a leggere seguendo le lettere sottolineate. «Già, è vero. Forte! Effettivamente si legge pendente». Aggrottò le sopracciglia, notando il bizzarro formato della sequenza. «Ma la e è separata dal resto della parola...». «È a causa del criterio di lettura» tagliò corto Tomás, emozionato. «La linea di lettura è verticale dall'alto verso il basso, e allo stesso tempo orizzontale, da destra verso sinistra, allargandosi man mano che si va verso destra». Prese la matita e analizzò la sciarada. «Fammi vedere. Dopo pendente, seguendo l'ultima colonna dall'alto verso il basso, c'è a54S. Se non mi sbaglio, potrebbe essere pendente a 545». Passò alle righe precedenti. «E qui si ottiene efoucault». Rifletté. «Hmm». Si grattò il naso. «Forse, si deve leggere e foucault pendente a 545». Tornò alla prima riga e seguì tutto il filo delle lettere dall'inizio, percorrendole secondo il criterio che aveva individuato. Verso il basso e verso sinistra, verso il basso e verso sinistra, come se stesse srotolando un gomitolo. Scribacchiò per esteso il testo decifrato: QUALOECODEFOUCAULTPENDENTEA545 Analizzò le lettere e le riscrisse, cercando di inserire degli spazi logici tra le parole. Quando ebbe finito, contemplò il risultato e guardò l'amante, con un sorriso compiaciuto stampato sulle labbra. «Voilà!» esclamò, come fosse un illusionista che aveva appena portato a termine un gioco di prestigio. Lena guardò la frase scarabocchiata e considerò con meraviglia il modo in cui quell'amalgama insignificante, illeggibile e complicato, si era trasformato, chissà se proprio per magia, in una frase comprensibile, semplice e chiara.
QUAL O ECO DE FOUCAULT PENDENTE A 545?38 VIII I gabbiani volavano bassi, il loro schiamazzo angoscioso si sovrapponeva al continuo mareggiare delle onde che lambivano la vasta spiaggia in un viavai costante, ciclico, ritmato, lasciando sottili strisce di schiuma sul litorale castigato dal mare. La spiaggia di Carcavelos aveva un aspetto malinconico sotto il cielo grigiastro d'inverno: quasi deserta, intorpidita, fredda e ventosa, era abbandonata a qualche surfista, a due o tre coppie d'innamorati e a un anziano signore che passeggiava sulla riva insieme al suo cane. L'aria triste e monocromatica della spiaggia, ora così solitaria e silenziosa, contrastava con la variopinta allegria che mostrava in estate, piena di vita e di energia. Il cameriere s'allontanò, lasciando un caffè fumante sul tavolinetto all'aperto al quale si era seduto il cliente dieci minuti prima. Tomás ne bevve un sorso e guardò l'orologio: erano le tre e quaranta del pomeriggio. Il suo interlocutore era in ritardo. L'appuntamento era alle tre e mezza. Sospirò, rassegnato. In fin dei conti, era lui quello interessato all'incontro. Il giorno prima aveva telefonato a un suo collega del Dipartimento di Filosofia, il professor Alberto Saraiva, e gli aveva chiesto di potergli parlare con urgenza. Saraiva viveva a Carcavelos, a due passi da Oeiras, e la spiaggia era stata scelta come scontato luogo d'incontro; scontato ma, nonostante il rigido inverno, decisamente più piacevole dei piccoli uffici dell'università. «Mon cher, scusi il ritardo» disse una voce alle sue spalle. Tomás si alzò e strinse la mano al nuovo arrivato. Saraiva era un uomo sui cinquant'anni, con pochi capelli brizzolati, labbra sottili e sguardo strabico, alla Jean-Paul Sartre. Aveva un'aria stravagante, un po' scapestrata, si sarebbe detto da genio pazzo, un negligé charmant che lui, naturalmente, coltivava. Del resto, quell'aspetto allucinato sembrava del tutto appropriato alla sua specializzazione sui decostruzionisti francesi, che tanto aveva studiato durante il dottorato alla Sorbona. «Salve, professore» lo salutò Tomás. «Prego». Con la mano fece un gesto per indicare la sedia al suo fianco. «Prende qualcosa?». Saraiva s'accomodò, guardando la tazzina che era già sul tavolo. «Mah, un caffettino anche per me». Tomás fece cenno al cameriere che si stava avvicinando.
«Un altro caffè, per favore». L'ultimo arrivato respirò a fondo, riempiendo i polmoni con il profumo di mare che fluttuava nell'aria, e si guardò intorno, ruotando la testa per abbracciare la distesa d'acqua da un'estremità all'altra. «Adoro venire qui in inverno» commentò. Si esprimeva con pomposità, scandendo molto bene le sillabe, con tono affettato. Parlava come se stesse recitando una poesia, come se le parole fossero essenziali per esprimere il senso di pace che albergava in quel luogo. «Questa tranquillità ineffabile mi ispira, mi infonde energia, allarga gli orizzonti, mi riempie l'anima». «Viene qui spesso?». «Solo in autunno e in inverno, quando non ci sono i villeggianti». Accennò una smorfia annoiata, come se fosse appena passato uno di quei deplorevoli esemplari della specie umana. Tremò, quasi volesse allontanare un così orribile pensiero. Ma forse considerò alquanto improbabile una simile eventualità, perché subito dopo i muscoli del viso tornarono a rilassarsi e Saraiva riacquistò, alla fine, quell'aria placida, un po' blasée, che lo distingueva. «Adoro questa serenità, il rude contrasto tra la dolcezza della terra e la furia del mare, l'eterno duello tra i docili gabbiani e le onde furiose, la perenne lotta che oppone il timido sole alle invidiose nuvole». Chiuse gli occhi e di nuovo respirò profondamente. «Questo, mon cher, mi stimola». Il cameriere posò la seconda tazzina di caffè sul tavolo. Il tintinnio del vetro interruppe la digressione di Saraiva, che, riaperti gli occhi, vide il caffè davanti a sé. «Vi porto qualcos'altro?». «No, grazie» disse Tomás. «Questo è il posto in cui riesco a immergermi meglio nel pensiero di Jacques Lacan, di Jacques Derrida, di Jean Baudrillard, di Gilles Deleuze, di Jean-François Lyotard, di Maurice Merleau-Ponty, di Michel Foucault, di Paul...». Tomás tossì forzatamente, ora doveva dire la sua battuta. «Infatti» lo interruppe, esitante «era precisamente di Foucault che le volevo parlare». Il professor Saraiva lo guardò aggrottando le sopracciglia, come se Tomás avesse bestemmiato, nominando invano il nome di Dio e, insieme, quello di Cristo. «Michel Foucault?». Saraiva sottolineò il nome proprio, Michel, come a voler sottilmente
puntualizzare che, ogni volta che ci si riferisce a Foucault, il nome è imprescindibile, noblesse oblige. «Sì, Michel Foucault» si corresse Tomás, diplomatico, accettando tacitamente l'imposizione. «Sa, sto conducendo una ricerca storica e mi sono imbattuto, non mi chieda come, in Michel Foucault. Nemmeno io so bene cosa stia cercando, ma di sicuro so che in questo filosofo c'è qualcosa d'importante per la mia indagine. Che può dirmi su di lui?». Il professore di Filosofia fece un gesto vago con la mano, come se volesse spiegare che c'erano talmente tante cose da raccontare che non sapeva da dove iniziare. «Oh, Michel Foucault!». Contemplò il mare con un sguardo nostalgico. Guardava il vasto oceano ma in realtà vedeva la lontana Sorbona della sua gioventù. Respirò profondamente. «Michel Foucault è stato il più grande filosofo dopo Immanuel Kant. Ha mai letto la Critica della Ragion Pura?». «Ehm... no». Saraiva sospirò pesantemente, quasi stesse parlando con un ignorante. «È il più grande testo di filosofia, mon cher!» proclamò, tenendo gli occhi fissi su Tomás. «Nella Critica della Ragion Fura, Immanuel Kant sostiene che l'uomo non ha accesso al reale, ovvero alla realtà ontologica delle cose, ma soltanto a rappresentazioni del reale. Noi non conosciamo la vera natura degli oggetti, ma solo il modo in cui li percepiamo, modo che è del tutto particolare. Ad esempio, l'uomo ha una percezione del mondo diversa da quella dei pipistrelli. Gli uomini captano le immagini, i pipistrelli registrano gli ultrasuoni, i serpenti sentono il calore. Gli uomini vedono a colori, i cani in bianco e nero. Nessuna di queste forme è più vera dell'altra, sono semplicemente diverse. Nessuno percepisce il reale così com'è, ma tutti apprendono differenti rappresentazioni del reale. Se volessimo riprendere la celebre allegoria di Platone, quello che Immanuel Kant ci sta dicendo è che ci troviamo tutti in una caverna incatenati ai limiti della nostra percezione. Vediamo solo le ombre del reale, mai il reale vero e proprio». Si girò verso Tomás. «Capisce?». Tomás osservava pensieroso la schiuma lasciata da un'onda sulla sabbia bianca della spiaggia. Senza distogliere lo sguardo da quella spuma crepitante, fece cenno di sì con la testa. «Certo». Saraiva si guardò per alcuni istanti le unghie delle mani e riprese il suo discorso.
«Basandosi su questo, i decostruzionisti francesi affermano che non esiste nulla all'infuori del testo. Se a causa dei limiti della nostra percezione il reale è inattingibile, questo significa che siamo noi a costruire l'immagine del reale. Questa immagine non proviene solo dal reale in sé, ma anche dai nostri specifici meccanismi cognitivi». «È questo che sostiene Foucault?». «Sì, Michel Foucault è stato fortemente influenzato da questa teoria» confermò, tornando a sottolineare il nome proprio, Michel, insistendo sottilmente sulla necessità di menzionare sempre il nome completo, quando si cita un filosofo del suo calibro. «Ha compreso che non esiste una sola verità, ma differenti verità». Tomás fece una smorfia. «Non pensa sia un ragionamento un po' troppo artefatto? Come si può dire che non ci sia un'unica verità?». «Mon cher, questa è la conseguenza logica dell'intuizione di Kant. F chiaro, se non possiamo accedere al reale, perché esso non può essere attinto dai sensi, essendo ricostruito soltanto attraverso i nostri limitati processi cognitivi, allora non possiamo accedere neanche alla verità. Lo capisce? Il reale è la verità. Se non siamo in grado di attingere al reale, non siamo in grado di attingere alla verità». Fece un gesto con la mano. «Logico». «Quindi non c'è verità assoluta, giusto?». Batté sulla sedia di faggio. «Se affermassi che questa sedia è di legno, non starei dicendo la verità?». Guardò l'oceano. «Se affermassi che il mare è azzurro, non starei dicendo la verità?». Saraiva sorrise, la conversazione si era spostata sul suo campo. «Questo è un problema che la scuola fenomenologica, sulla scia della Critica della Ragion Pura, ha dovuto risolvere. Si è infatti avvertito il bisogno di ridefinire la parola verità. Edmund Husserl, uno dei padri della fenomenologia, ha rivolto la sua attenzione alla questione e ha concluso che i giudizi non racchiudono alcun significato oggettivo, ma soltanto una verità soggettiva, stabilendo una distinzione tra la connessione delle cose, o noumeni, e la connessione delle verità, o fenomeni. Vale a dire, la verità non è la cosa in sé, sebbene sia ad essa collegata, ma è la rappresentazione soggettiva della cosa. Martin Heidegger ha ripreso quest'idea, deducendo che la verità è l'assomigliarsi della cosa alla conoscenza, ma anche l'assomigliarsi della conoscenza alla cosa, dato che l'essenza della verità è la verità dell'essenza».
«Hmm, non so» esitò Tomás. «Mi lasci dire che questo sembra soltanto un gioco di parole». «Non lo è» lo contraddisse Saraiva con energia. «Guardi il suo campo, la storia. I testi parlano della resistenza del portoghese Viriato alle invasioni romane. Ora, come faccio a essere certo che Viriato sia esistito veramente? Solo facendo ricorso ai testi che parlano di lui, ovvio. E se questi testi fossero favole? Come sa meglio di me, in un testo storico non abbiamo a che fare con il reale ma soltanto con chi riporta il reale, e i racconti possono non essere corretti, o possono essere addirittura inventati. Pertanto, nel discorso storico non c'è verità oggettiva, ma solo soggettiva. Secondo Karl Popper non esistono cose che siano definitivamente vere, ma solo cose definitivamente false e altre provvisoriamente vere». «Questo discorso vale per tutto» affermò Tomás. «Ammetto che sia valido anche per la storia. Basta leggere Marrou, Ricoeur, Veyne, Collingwood o Gallie, per capire che non esistono verità storiche assolute, per comprendere che la storia è la relazione di eventi passati, sulla base di quanto affermano le testimonianze e i documenti, tutti fallibili, e del lavoro degli storici, ugualmente fallibile. Ma, se lo lasci dire, questo non risponde alla mia domanda». Tornò a indicare l'orizzonte. «Guardo il mare e vedo che è azzurro. Come si può affermare che questa sia una verità soggettiva?». Accennò una smorfia con la bocca. «Che io sappia, il fatto che il mare sia azzurro è una verità oggettiva». «E invece non lo è!» ribatté Saraiva, scuotendo la testa. «Se si mettesse a studiare il fenomeno dei colori, constaterebbe che questi sono, in un certo senso, un'illusione. Il mare e il cielo ci appaiono azzurri a causa del modo in cui la luce solare colpisce la Terra. Quando la luce del Sole proviene da un punto vicino all'orizzonte, il cielo può diventare rosso in seguito a un'alterazione nella distribuzione della banda di colori dei raggi solari. Il cielo è sempre lo stesso, è la banda di colori dello spettro di luce che cambia a causa della diversa posizione del Sole. Questo dimostra che il mare non è azzurro, sono i nostri occhi che, per le specifiche caratteristiche percettive e in base alla distribuzione della luce, lo vedono così. In fondo è questo il problema della verità. Considerando che i sensi possono ingannarmi, che il mio ragionamento può condurmi a conclusioni errate, che la memoria può giocare brutti scherzi, non posso avere accesso al reale e non sarò mai padrone della verità oggettiva, della verità assoluta, definitiva. Lei guarda il mare e lo vede azzurro, un cane guarda il mare e lo vede grigio, perché è daltonico. Nessuno dei due ha accesso al reale vero e proprio,
ma solo a una visione del reale. Nessuno dei due possiede la verità oggettiva, ma qualcosa di assai meno categorico». Aprì i palmi delle mani, come se vi custodisse una cosa preziosa che solo ora aveva deciso di rivelare. «La verità soggettiva». Tomás si sfregò gli occhi con la mano destra. «Capisco» disse. «È qui che entra in gioco Foucault?». «Michel Foucault porta avanti esattamente questa linea teorica» assentì Saraiva, sottolineando nuovamente il nome proprio che Tomás era tornato a ignorare. «Ciò che egli ha fatto è stato dimostrare che le verità dipendono dal contesto dell'epoca in cui esse sono state enunciate. Lavorando come uno storico, è giunto alla conclusione che sapere e potere sono così intrinsecamente legati che si trasformano in sapere/potere, quasi come due facce della stessa medaglia. Fondamentalmente è stato intorno a questo principio che si è sviluppato tutto il suo lavoro». Fece un gesto in direzione di Tomás. «Ha mai letto Michel Foucault?». «Beh...» esitò Tomás, temendo d'offendere il suo interlocutore. «No». Saraiva scrollò la testa, in un gesto di paterna disapprovazione. «Deve leggerlo assolutamente». «Me ne parli». «Che vuole che le dica, mon cher? Michel Foucault nacque nel 1926 ed era omosessuale. Dopo aver scoperto Martin Heidegger, si imbatté nell'opera di Friedrich Nietzsche e nella sua concezione del ruolo centrale che il potere riveste in ogni attività umana. Questa fu una rivelazione che lo segnò profondamente. Michel Foucault, stabilito che il potere sta dietro ogni cosa, si dedicò allo studio delle forme in cui il potere si esercita attraverso la conoscenza, utilizzando il sapere come strumento di controllo sociale. Il cosiddetto connubio sapere/potere». «Dove si trovano queste teorie?». «Oh, in vari testi. Ne Les mots el les choses, per esempio, analizza le condizioni e i preconcetti che incidono sul pensiero in una determinata epoca». Pronunciò il titolo del libro in un francese molto parisien, con un tocco chic nell'accento. Tomás prendeva appunti. «Aspetti» disse, mentre scarabocchiava frettolosamente. «Sì. Si tratta forse dell'opera più kantiana di Michel Foucault, quella in cui le parole sono la manifestazione del reale e le cose sono il reale vero e proprio. In un certo senso, questo libro ha contribuito alla demolizione del
concetto di verità assoluta. In effetti, se il nostro modo di pensare è sempre determinato dal contesto e dai pregiudizi della nostra epoca, allora non è possibile arrivare alla verità oggettiva. La verità diventa relativa, in quanto essa dipende dalla maniera in cui sono percepite le cose». «Questo è quanto affermava Kant». «Certo. È per tale ragione che molti considerano Michel Foucault un nuovo Immanuel Kant». «Non è piuttosto un suo seguace? In fin dei conti, ha semplicemente ripreso le idee di Kant...». «Michel Foucault ha collocato queste idee in un nuovo contesto» ribatté Saraiva, preoccupato che il suo filosofo preferito non fosse visto come un plagiatore. «Le racconto una storia, mon cher. Quando fu invitato a insegnare al Collège de France, gli chiesero quale fosse la sua materia. Sa cosa rispose?». «No». «Professore di Storia dei Sistemi di Pensiero». Saraiva scoppiò in una risata. «Devono essere rimasti di stucco». La risata si trasformò in un sorriso cordiale. «In fondo era proprio questo, no? Uno storico dei sistemi di pensiero. Del resto è in questa veste che appare nel libro successivo, L'archéologie du savoir, nel quale Michel Foucault definisce la verità come una costruzione, un prodotto della conoscenza di ciascuna epoca, e allarga questa visione anche ad altri concetti. Ad esempio, a quello di autore di un'opera letteraria. Per il filosofo un autore non è soltanto colui che scrive un libro. Egli, piuttosto, rappresenta una costruzione basata su un insieme di fattori, inclusi il linguaggio, le correnti letterarie del momento e vari altri elementi sociali e storici. Quindi, l'autore è semplicemente il prodotto del suo stesso materiale e delle circostanze». Tomás fece una smorfia, non molto convinto. «Questo è evidente, non trova?» domandò. «Tutti noi siamo il prodotto di ciò che facciamo e delle circostanze in cui lo facciamo. Qual è la novità?». «Ancora una volta il contesto, mon cher. Analizzando così minuziosamente il concetto, lo sta disintegrando». «Ah!» esclamò Tomás, come se finalmente avesse capito. In verità non ci vedeva nulla di straordinario o di innovativo, ma non voleva contrariare Saraiva né freddare il suo entusiasmo. «E che altro?». Con un occhio su Tomás e l'altro verso l'orizzonte, il professore di Filosofia fece un lunga sintesi dell'opera di Foucault, descrivendo dettagliata-
mente il contenuto della Histoire de la folie a l'âge classique, della Naissance de la clinique, di Surveiller et punir e dei tre volumi della Histoire de la sexualité. La sua fu un'esposizione appassionata che lo storico seguì con un misto di attenzione e cautela, attenzione per cercare di cogliere elementi che fossero rilevanti ai fini del suo enigma, cautela perché riteneva che i decostruzionisti francesi tendessero a sopravvalutare l'importanza di Foucault. «E questo è tutto» concluse Saraiva alla fine della lunga dissertazione. «Due settimane dopo aver consegnato il manoscritto del terzo volume della Histoire de la sexualité, Michel Foucault ebbe un collasso e fu ricoverato all'ospedale. Aveva l'AIDS. Morì nell'estate del 1984». Tomás consultò i suoi appunti, sfogliandoli avanti e indietro. «Hmm» mormorò pensieroso, gli occhi fissi sulle annotazioni. «Non vedo nessuna pista». «Pista per cosa?». «Per una sciarada sulla quale sto lavorando». «Una sciarada su Michel Foucault?». Tomás si passò la mano sul viso, strofinandosi distrattamente. «Sì» disse. Rivolse lo sguardo verso l'oceano che si stendeva davanti ai suoi occhi. L'acqua risplendeva di una lucentezza dorata, scintillante, brillando come se un lucido tappeto di diamanti, irrequieto, fluttuasse in superficie seguendo la danza della marea. Era già pomeriggio inoltrato e una sfera giallo rossastra scendeva sulla destra, oltre lo strato di nubi. Il sole stava liberandosi della tunica grigia che copriva il cielo, per tuffarsi nella distante linea dell'orizzonte, proiettando sul mare quel luminoso e fiammante scintillio. «Di che si tratta?». Tomás guardò Saraiva, esitante. Valeva la pena mostrargli l'enigma? Effettivamente, cosa aveva da perdere? Poteva anche succedere che un professore di Filosofia avesse un'idea. Sfogliò di nuovo il bloc-notes e trovò la frase, alzò il blocco e gliela mostrò. «Vede?». Saraiva si protese verso la pagina e fissò la riga con l'occhio destro, mentre quello sinistro, per effetto dello strabismo, sembrava perdersi da qualche parte nel mare. Gli si presentò davanti una strana domanda: QUAL O ECO DE FOUCAULT PENDENTE A 545?
«Ma che significa?» si chiese Saraiva. «Qual è l'eco di Foucault?». Guardò Tomás. «Ma di che eco si tratta?». «Non so. Me lo dica lei». Il professor Saraiva tornò a osservare la frase scritta sul bloc-notes. «Mon cher, non ne ho la minima idea. Potrebbe riferirsi a qualcuno che riecheggia Michel Foucault?». «Ecco un'idea interessante» replicò Tomás, pensieroso. Fissò Saraiva con un briciolo di ansia. «Conosce qualche filosofo che abbia ripreso Foucault?». «Ci sarebbe Immanuel Kant. Anche se, in realtà, dovremmo dire che è stato Michel Foucault a riprendere le teorie di Immanuel Kant, non viceversa». «Ma nessuno ha mai seguito le idee di Foucault?». «Michel Foucault ha avuto molti seguaci, mon cher». «E qualcuno di questi pende a 545?». «Non so risponderle perché non capisco cosa voglia dire quest'espressione. Cos'è questa storia di pendere a 545? A cosa si riferisce questo 545?». Tomás tenne lo sguardo fisso sul suo interlocutore. «Non c'è niente che le suoni familiare?». Saraiva si morse il labbro inferiore. «Niente, mon cher» disse, scrollando la testa. «Niente di niente». Tomás chiuse il bloc-notes con grande solennità e sospirò. «Cavolo!» esclamò, battendo la mano sul tavolo, frustrato. «Speravo di scoprire qualcosa». Si guardò intorno e alzò il braccio in direzione del cameriere. «Scusi. Il conto, per piacere». Saraiva prese nota della frase enigmatica e infilò il foglio nella tasca del cappotto. «Consulterò i libri con attenzione» promise. «Può essere che scopra qualcosa». «La ringrazio». Il cameriere si avvicinò, indicando la cifra da pagare. Tomás pagò e i due clienti si alzarono, era ora di andar via. «Che farà adesso?» volle sapere Saraiva. «Andrò a casa». «No. Mi riferisco alla sua sciarada». «Ah, sì. Passerò in una libreria e comprerò dei libri di Foucault, per ve-
dere se trovo una pista. La chiave per decifrare l'enigma, probabilmente, deve trovarsi in qualche dettaglio». Uscirono insieme dal ristorante e nel parcheggio si salutarono. «Michel Foucault era un personaggio curioso» commentò Saraiva prima di allontanarsi. «In che senso?». «Era un grande filosofo e un apprezzabile storico. Proclamò che la verità oggettiva è inattingibile, che abbiamo accesso soltanto alla verità soggettiva, che la verità è relativa e dipende dal modo in cui vediamo le cose. Eppure sa cosa disse una volta riferendosi a tutto il suo lavoro di ricerca della verità?». «Cosa?». «Che per tutta la vita non aveva fatto che scrivere fantasie». IX Il fremito lascivo del trepidante segreto lentamente andò perdendo passione, come un divieto che, a furia di essere violato, si trasforma in un'abitudine discreta, in un vizio certamente riprovevole, ma pur sempre tollerabile. Dopo quasi due mesi, la relazione di Tomás e Lena si era adagiata sui binari della routine. La tempesta del desiderio, che li aveva sferzati con incontrollabili venti di lussuria e piacere, che li aveva trascinati all'apice di un'estasi irrefrenabile, quell'energia che in poco tempo li aveva consumati altrettanto velocemente si era esaurita. Il vento aveva smesso di soffiare forte, si era calmato con sorprendente rapidità, per diventare una semplice brezza, calda e dolce, che spirava sull'apatica pianura della quotidianità. Fu senza il tremante ardore dell'attesa, che lo aveva agitato in occasione dei loro primi incontri, che Tomás salì le scale del palazzo di Via Latino Coelho e si presentò alla porta dell'amante. Lena lo accolse con calore, ma senza l'eccitazione della novità. In fin dei conti le visite del professore erano ormai diventate un'istituzione, una piacevole abitudine nei suoi pomeriggi lisbonesi. Le prime volte, quando s'incontravano, una forza li spingeva prontamente a fondersi con i propri corpi. Entrambi ardevano di un tale desiderio, e trepidavano per liberare quella fragorosa energia imprigionata nella carne, che a malapena riuscivano a trattenersi quando si toccavano. Subito consumavano il fuoco della passione in una inebriante esplosione di sensi. Dopo l'amore, tuttavia, Tomás iniziava a sentirsi invaso da una sgradevole impressione, da un senso di vuoto, come privato di quel desiderio
che solo pochi minuti prima lo accecava. Il corpo terribilmente eccitante della svedese gli diventava inaspettatamente indifferente, al punto da non capire come alcuni istanti prima potesse essere stato tanto insaziabile, e tra di loro nasceva un certo imbarazzo. Per questo, in breve tempo, scendendo a patti con la routine, presero a controllare quella irrequieta ansia iniziale. Invece di soddisfare subito l'istinto animale che sentivano intrappolato in corpo, come una belva inquieta, assetata di sangue ma rinchiusa in una gabbia troppo piccola, decisero di farlo durare più a lungo, di mantenere viva la tensione sessuale, ampliandola, dilatandola, portando l'inevitabile fino al limite, fino al punto in cui il desiderio non poteva essere più trattenuto. Questa volta Lena si presentò con un vestito di seta bianca, leggermente trasparente sul petto, dal quale si riuscivano a immaginare, come sempre, i grandi capezzoli rosa, dritti, e le curve sensuali dei seni, così prosperosi che davano l'impressione di essere sul punto di traboccare latte. In una reazione quasi animale, Tomás sentì il desiderio prendere istantaneamente il sopravvento e le palpò l'abbondante petto come chi spreme un frutto maturo nel tentativo di farne uscire il succo, ma Lena lo allontanò con un sorriso piccante. «Adesso no, ingordo» lo rimproverò. «Se ti comporti bene, dopo la mamma ti dà la pappa». Gli appoggiò l'indice sulla punta del naso, come chi dà un avvertimento. «Ma solo se ti comporti bene...». «Dai, lasciami assaggiare, solo un pochino...». «No». Percorse il corridoio, dondolando il corpo per provocarlo. Si voltò, maliziosa, e sorrise. «Non puoi avere tutto subito. Come siamo soliti dire noi in Svezia, ci ricordiamo del bacio promesso, ci dimentichiamo di quelli ricevuti». Si accomodarono sul divano, vicino alla stufa. Su un vassoio, Lena aveva preparato un infuso di tiglio, che fumava nella teiera, e in un piattino c'erano dei biscotti svedesi tradizionali allo zenzero. Tomás sorseggiò l'infuso e provò uno di quei biscotti marroni. «Sono buoni» commentò con aria d'approvazione, gustandone il sapore dolce e piccante. Lena sbirciò nella busta di plastica. «Ancora Foucault?». Il professore si curvò e tirò fuori un libro. «Sì» confermò. «Ma questa volta non è Les mots et les choses». Mostrò la copertina del nuovo libro, intitolato Sorvegliare e punire. «È la tradu-
zione uscita in Brasile di Surveiller et punir. Pensa un po', in Portogallo ancora non hanno fatto nessuna edizione di questo testo». «Ma è la stessa cosa, no?». «Certo». «E l'altro? Già l'hai finito?». «Sì». «E allora?». Tomás scrollò le spalle, rassegnato. «Non c'era nulla». Appoggiò il nuovo libro sulle gambe e lo aprì alla prima pagina, continuando a masticare il biscotto. «Vediamo questo cosa ci dice». Forse era proprio quello il loro punto in comune, si rese conto Tomás. Oltre al sesso, ovviamente. Potevano non fare attenzione alle stesse cose ma, per quanto riguardava la ricerca del professor Toscano, condividevano lo stesso interesse e la svedese si rivelava di grande utilità: faceva domande, partecipava al lavoro, lo aiutava nelle ricerche, consultava le amiche che seguivano Filosofia, si sforzava di trovare delle piste che servissero a risolvere l'enigma. Era perfino arrivata a procurarsi saggi su Michel Foucault nella speranza di scovare qualche indizio che magari fosse stato trascurato. Fu così che, tra l'altro, gli capitò fra le mani The Cambridge Companion to Foucault di Gutting, il Foucault Reader di Rabinow, e il The Lives of Michel Foucault di Macey. La dedizione di Lena era tale che lei stessa aveva deciso di leggere addirittura la Storia della follia nell'età classica, traduzione portoghese della Histoire de la folie à l'age classique, sempre alla ricerca dei numeri 545 o di parole che le ricordassero la sciarada che tormentava il suo amante. «Tutti i pazzi sono fratelli» commentò aprendo il libro, accanto a Tomás. «Cosa?» le domandò, alzando gli occhi da Sorvegliare e punire. «È un altro proverbio svedese» spiegò Lena. Mostrò il volume della Storia della follia e ripeté il motto. «Tutti i pazzi sono fratelli». Giocando con la matita appuntita, Tomás rivolse la sua attenzione al libro e si isolò dal mondo intorno a sé. Ma la concentrazione non durò molto. Le pagine iniziali lo fecero impallidire, lo angosciarono a tal punto da indurlo a interrompere la lettura per il senso di nausea. Non aveva mai letto nulla di così violento, di così brutalmente gratuito. «Che succede?» chiese Lena, preoccupata per quella reazione. «È una cosa orribile» disse lui, facendo roteare gli occhi.
«Che?». «Questa storia all'inizio del libro». «Quale storia?». Lena si alzò e guardò l'opera. «Raccontamela». Tomás rise e scrollò la testa. «Non so se hai voglia di sentire...». «Certo che ne ho voglia!» insistette la svedese, perentoria. «Forza!». «Guarda che non ti piacerà». «Dai, smettila di parlare e racconta». Riaprì il libro senza distogliere lo sguardo dall'amante. «Io ti ho avvisato, poi non ti lamentare». Abbassò gli occhi sulle prime parole del testo. «Questo è un documento che descrive l'esecuzione pubblica, a Parigi, di Robert Damiens, un fanatico che tentò di uccidere Luigi XV a Versailles nel 1757. L'esecuzione fu condotta da un gruppo di boia capeggiati da un tale Samson e prevedeva che il condannato fosse sottoposto al supplizio delle tenaglie su capezzoli, braccia, cosce e polpacci. La mano destra, quella che aveva impugnato il coltello del crimine, sarebbe stata bruciata con il fuoco di zolfo, mentre nelle parti tanagliate sarebbe stato applicato piombo fuso, olio bollente, pece infuocata, cera e zolfo sciolti insieme. Alla fine, il corpo sarebbe stato squartato da quattro cavalli. Questo era il piano. L'esecuzione è stata descritta dettagliatamente dal commissario della polizia Bouton, che assistette a tutto». Tornò a guardarla. «Sei proprio sicura di voler ascoltare?». «No» rispose Lena, togliendogli il libro dalle mani. «E dai! Devo leggerlo...». «Leggilo dopo». La ragazza s'avvicinò allo stereo e inserì un CD. La voce di Bono inondò l'appartamento con le melodiche sonorità di Joshua Tree, creando un'atmosfera sensuale. Iniziarono a scambiarsi sorrisi complici, sempre più provocanti, fino a trasformarsi in sguardi lascivi, golosi e passionali. Dopo aver finito il tè e i biscotti, Lena mise a posto il vassoio e, sbottonandogli il colletto, gli annunciò che era l'ora del dolce. Si tolse il vestito di seta bianca e si curvò, nuda, su Tomás. La pelle bianca palpitava nell'attesa, calda di desiderio, avida di carne. Il professore afferrò la ragazza e si possedettero lì, sul sofà, vicino alla stufa, mentre Michel Foucault, buttato sul pavimento, stava forse rivelando il segreto che il professor Toscano si era sforzato di nascondere. Il sesso fu agitato, com'era loro abitudine, senza parole, solo sensazioni, urla e gemiti fino alla liberatoria esplosione di fluidi. E, quando la tempesta si esaurì nella vorace vertigine dei loro corpi famelici,
entrambi rimasero distesi, sfiniti, svuotati, abbandonati nel rantolo dei sensi saziati, deliziati, inebriati dal dolce torpore del piacere. Lena allungò lentamente le braccia, s'appoggiò sul gomito e si piegò su Tomás, mentre i suoi seni rosei pendevano sul petto ansimante dell'uomo. «Tu non fai l'amore con tua moglie, vero?». Riemergendo dall'inerzia nella quale le impetuose onde della passione lo avevano sospinto, Tomás la guardò con perplessità. «No» ribatté, scrollando la testa. Non si sarebbe mai aspettato quella domanda. «Certo che no». La ragazza sospirò, rassegnata, e si lasciò cadere sul sofà, sdraiata con i capelli biondi sparsi sul cuscino, e gli occhi azzurri fissi al soffitto. «Non posso far altro che crederti». Grossi fiori traboccavano dai vasi d'argilla, sporgendosi fra le foglie come fossero in punta di piedi, per cercare un po' d'aria fresca. I petali erano sottili, leggeri come piume, risplendevano in differenti tonalità di rosa e si piegavano al centro come conchiglie rotte. Erano bei fiori, sensuali e passionali. «Sono rose?» domandò Tomás, con il bicchiere di whisky in mano. «Sembrano rose» rispose Constança «ma sono peonie». Avevano finito di mangiare e si stavano rilassando in sala, approfittando della pausa, mentre Margarida s'infilava il pigiama nella sua cameretta. «Non ne ho mai sentito parlare» mormorò lui. «Che tipo di fiori sono?». «In Grecia Peonio era il medico degli dei. Il mito narra che abbia curato Plutone con i semi di alcuni fiori speciali che, in suo onore, furono chiamati peonie. Plinio il Vecchio sosteneva che le peonie fornissero la cura per venti malattie, ma questo non è mai stato dimostrato. Tuttavia, le radici di questi fiori venivano utilizzate nel XVIII secolo per prevenire nei bambini l'epilessia e gli incubi, cosa che contribuì ad associare le peonie all'infanzia». Tomás continuò a fissare i fiori. «Avrei giurato che fossero rose». «In un certo senso lo sono. Ma senza spine. Sai, il fatto di avere un gambo così liscio portò i cristiani a paragonare la peonia alla Vergine Maria. Dicevano che entrambe erano rose senza spine». «Cosa rappresentano?». «La timidezza. I poeti cinesi ricorrevano sempre alle peonie per descrivere l'imbarazzo delle ragazze, associando questo fiore a una certa virginea
innocenza». La voce di Margarida irruppe nella stanza, lanciata a distanza, dalla cameretta, come una supplica. «Mamma, vieni a 'acconta'e una sto'ia». Constança fissò il marito con aria stanca. «Questa volta tocca a te. Per oggi ho dato abbastanza». Tomás andò nella cameretta della figlia e la trovò che si stava guardando allo specchio. La mise a letto, sistemandole la coperta. Curvo su di lei, le baciò le guance rosee e le carezzò i sottili capelli. «Che favola vuoi oggi?». «Cene'entola». «Sempre la stessa? Non vuoi che te ne racconti una nuova?». «Voglio Cene'entola». Spense la luce, lasciando acceso solo l'abat-jour. Quel lume soffuso e giallastro infondeva torpore, era perfetto per calmare la bambina. Si accomodò sul bordo del letto, prese la mano della figlia e, in un sussurro ipnotico, iniziò a raccontare la favola di Cenerentola, che aveva perso prima la madre, poi il padre, e alla fine era andata ad abitare con la perfida matrigna e le sue due figlie viziate. Margarida tenne gli occhi aperti fino alla scena del ballo, quando Cenerentola conosce il principe. Al che, tranquillizzata dal fatidico incontro, sentì gli occhi farsi pesanti e smise di resistere. Si lasciò andare al ritmo cadenzato delle parole sussurrate dal padre, abbandonandosi al dolce sonno che le invase il corpo. Gli occhi si chiusero e il respiro si fece regolare, profondo. Tomás baciò di nuovo la figlia e spense l'abat-jour. In punta di piedi, quasi trattenendo il respiro, uscì dalla stanza, accostò la porta con attenzione e finalmente tornò in sala. Constança dormiva sul sofà, con la testa inclinata su una spalla, la televisione era rimasta accesa su un programma che non stavano seguendo. Sollevò la moglie e la portò in braccio fino in camera; con una mano le tolse la giacca e la sdraiò sulle lenzuola, tirandole la coperta fino al mento. Lei mormorò qualcosa d'incomprensibile e si voltò, abbracciata al cuscino, mentre le guance lentigginose si coloravano di rosa per il calore della coperta sulla pelle chiara: sembrava una bambina. Tomás spense la luce e fece per ritornare in sala. Ma esitò. Si fermò sulla porta e si girò, fissando la moglie che dormiva profondamente. Si avvicinò piano piano, per non fare rumore, la guardò per un istante e si mise a sedere sul bordo del letto; rimase a osservarla in silenzio, seguendo il movimento della coperta che sa-
liva e scendeva, dolcemente, al ritmo del respiro. La domanda di Lena gli rimbombava in testa più forte che mai. Tu non fai l'amore con tua moglie, vero?, gli aveva chiesto con un pizzico di ansia. In verità, era un po' di tempo che non faceva l'amore con Constança; non l'aveva più fatto da quando era iniziata la relazione extraconiugale. Ma come poteva garantirle che un giorno non sarebbe potuto accadere di nuovo? Come poteva prometterle una cosa simile? Quella domanda, formulata dopo l'intensa lotta amorosa, lo aveva strappato dal sogno irreale nel quale fluttuava e, risvegliandolo con violenza, come se gli avessero immerso la testa in acqua gelata, lo riportò al duro confronto con la realtà. Fu come se, dentro il proprio corpo, un interruttore si fosse acceso, o spento, chi lo sa. Cosa lo aspettava? Avrebbe fatto l'amore con entrambe, ingannando non una ma due donne contemporaneamente? In fin dei conti, che futuro voleva per sé, per sua moglie, per sua figlia, per la sua amante? Che destino li attendeva? Stava giocando con il fuoco? Era padrone della sua vita oppure erano le circostanze che ora controllavano lui? Voleva vivere nella verità? Ma quale verità? Non era stato Saraiva a dirgli che la verità oggettiva è inaccessibile? Forse. Tuttavia come essere umano aveva sempre l'alternativa di attingere a un'altra verità, quella soggettiva. La verità morale. L'onestà. Il fatto era che lui non viveva nella verità morale, ma nell'illusione, nella doppiezza, nella menzogna. Mentiva alla moglie e, a breve, avrebbe mentito anche all'amante. Era questo il futuro che desiderava per sé e per le tre donne alle quali era legato? La domanda di Lena, apparentemente così innocua e casuale, aveva messo in moto una complessa catena di pensieri, aveva innescato un tumulto nella mente di Tomás, obbligandolo a un faccia a faccia con se stesso. Per la prima volta si stava guardando dentro. Stordito dalla vertigine di quell'abisso che era lo specchio, poteva vedere com'era realmente, interrogarsi su ciò che sarebbe stato, e riflettere sul cammino incerto che lo stava logorando. A pensarci bene, che strana storia gli stava svelando l'avventura nella quale si era messo? Forse la storia di quella parte di sé immersa nell'ombra, nascosta in un angolo remoto della mente, sulla quale sentiva le maggiori incertezze e nutriva i timori più grandi. In sostanza, cosa rappresentava Lena per lui? Una semplice impresa sessuale? La ricerca di qualcosa d'indefinibile? Una fantasia irresponsabile? Un gioco rischioso in cui il pericolo non era altro che un afrodisiaco? Forse, considerò, lei rappresentava qualcos'altro. Un diversivo, un sotterfugio, una richiesta.
Una fuga. Dondolò la testa affermativamente, come se avesse trovato la parola giusta, quella che meglio definiva la lotta che lo stava dilaniando. Una fuga. Magari Lena, più che la chimica del sesso, gli offriva una via di fuga da sé, dalla stanchezza della moglie, dalle difficoltà di Margarida, dai problemi per la mancanza di soldi, la fuga dalla delusione nei confronti della vita. Lena era una scappatoia, un'uscita, un'evasione. Una fantasia. Ma una fantasia che giorno dopo giorno stava perdendo mistero, una chimera alla quale già cominciava a mancare la lucentezza, un capriccio che aveva quasi consumato tutto il suo splendore. Cosa gli restava, dunque? Aveva ceduto agli incantesimi della svedese per sfuggire alla complessa rete delle sue innumerevoli difficoltà. L'illusione aveva funzionato; almeno per un certo periodo di tempo. Ma ora si rendeva conto che i problemi non erano mai scomparsi veramente, semplicemente erano stati camuffati dal fulgore intenso dell'inebriante relazione con Lena. Si sentiva come un coniglio immobilizzato dai fari di un'automobile; restava fermo in mezzo alla strada, affascinato da quel sorprendente bagliore, stupito dagli scintillanti raggi di luce che spuntavano dal manto grigiastro della notte, dimenticandosi che da quella bella fiammata luminosa, emergendo di nascosto dalle scure tenebre, sarebbe spuntato un minaccioso, tremendo volto invisibile, enorme e furtivo che, saltato dall'ombra come un felino, lo avrebbe schiacciato sull'asfalto. Alla fine era questa la terribile scelta che aveva davanti a sé. Voleva essere annientato da quel volto? Sarebbe stato capace di guardare oltre l'offuscante bagliore dei fari? Sarebbe riuscito a spezzare il pericoloso incantesimo che lo stava ipnotizzando in mezzo alla strada? Guardò Constança. La donna dormiva aggrappata al cuscino, con l'aria innocente, l'espressione fragile, i capelli che disegnavano anelli sul cuscino e sulle lenzuola. Sospirò. Forse, pensò, l'adulterio aveva a che fare più con se stesso che con Lena; era piuttosto qualcosa che riguardava il suo modo di essere, le paure che lo dominavano, le speranze che nutriva, il modo in cui gestiva i conflitti e affrontava i problemi della vita. Constança era fonte di preoccupazione, il volto delle difficoltà dalle quali aveva bisogno di fuggire; Lena rappresentava il guscio protettivo, il tanto sospirato biglietto che prometteva di strapparlo da quel tempestoso mare di ostacoli e di condurlo nelle vaste distese della libertà. Ma, ora se ne rendeva conto, quel biglietto non lo avrebbe condotto da nessuna parte, non lo avrebbe trasportato verso quella che pensava essere la sua destinazione, perché la verità era che quella destinazione non esisteva, almeno per lui. Se si fosse imbarcato
per quel viaggio, si sarebbe ritrovato a un'altra fermata, magari più complicata, con i vecchi problemi di sempre e con nuove avversità. Passò le dita fra gli anelli che i capelli di Constança disegnavano sul cuscino, giocandoci distrattamente. Sentì il suo delicato respiro e ammirò lo spirito con cui la moglie affrontava le stesse difficoltà innanzi alle quali lui vacillava. Accarezzò i contorni di quel viso dalla pelle calda e morbida, immaginò di avere a disposizione due biglietti, uno per restare, l'altro per partire, e di dover prendere una decisione. Si guardò intorno, come per trattenere nella memoria le ombre della stanza, il soffio leggero e armonioso del respiro della donna, la lieve fragranza di Chanel n°5 che fluttuava nell'aria. Respirò profondamente e proprio lì, in quell'istante, mentre carezzava teneramente il placido volto di Constança, il flusso dei suoi pensieri si arrestò. Prese una decisione. Il pullulare irrequieto della folla frettolosa era ciò che più lo infastidiva ogni volta che doveva andare allo Chiado. Dopo aver girato per Via do Alecrim in cerca di parcheggio, lasciò la macchina in Piazza Luís de Camões e la percorse fino all'entrata di Via Garret, schivando i passanti che andavano e venivano. Alcuni salivano in direzione del Bairro Alto, altri scendevano verso la Baixa, tutti con lo sguardo perso verso un punto indefinito: pensavano ai soldi, sospiravano per la fidanzata, odiavano il datore di lavoro, si preoccupavano della propria vita. Attraversò il selciato e, alla fine, camminò lungo l'ampio marciapiede di Via Garret. Lo spazio era sicuramente vasto, ma dava l'impressione di restringersi per tutte quelle sedie e quei tavolinetti occupati da clienti oziosi, il più famoso dei quali era Fernando Pessoa, la carne fatta di bronzo, così come il cappello, gli occhiali dalla montatura rotonda e le gambe accavallate. Tomás si guardò intorno, cercando i capelli biondi di Lena, ma lei non c'era. Girò a sinistra, verso la grande porta ad arco del caffè, l'insegna "A Brasileira" in alto, luogo prediletto dell'antica Lisbona bohémienne e letteraria. Oltrepassare la porta del caffè fu come fare un salto nel tempo che lo riportò alla decade 1920. La Brasileira era un bar stretto e lungo, riccamente ornato in art nouveau, la parte alta delle pareti e il soffitto erano rivestiti in legno lavorato, decorato da cornucopie, linee arrotondate e quadri d'epoca. Il pavimento era a scacchi bianchi e neri, mentre dal centro dei disegni scolpiti sul soffitto scendevano lampadari dall'aspetto antico, simili a ragni con le zampe arcuate verso il basso e verso l'alto, che all'estremità sostene-
vano piccole candele. Sul lato sinistro la parete sembrava aprirsi, dando una sensazione di ampiezza: era l'illusione creata dagli eleganti specchi dorati che arrivavano sino alla fine del locale, dando l'impressione che il bar avesse il doppio della sua reale larghezza. I tavolinetti erano accostati alla parete occupata dall'enorme specchio, mentre sul lato destro c'era un lungo bancone decorato in ferro battuto; una batteria di bottiglie di vino, grappa, acquavite, whisky, brandy e liquore, decorava la parete al di là del bancone. In fondo, risaltava un antico orologio con numerazione romana che segnava le undici. Tomás trovò posto in un tavolino in parte occupato e si sedette, appoggiando la spalla destra allo specchio, con lo sguardo rivolto verso l'entrata. Chiese una pasta e un tè al gelsomino. Nell'attesa, si mise a sbirciare il giornale che l'uomo seduto al suo fianco stava leggendo. Era "A Bola" e su due pagine riportava un'intervista al perfido presidente del Benfica, piena di accuse contro il sistema e di notizie di contratti immaginari, che non aveva in programma di pagare, per la "spina dorsale" della squadra. Osservò di sfuggita il suo compagno, era un uomo quasi calvo, aveva solo ciuffi di capelli brizzolati dietro alle orecchie, forse era un pensionato, senza dubbio un tifoso del Benfica. Il cameriere ritornò con i suoi gesti nevrotici e l'aria indaffarata, come se avesse molte cose da fare e due mani non gli bastassero; in equilibrio sulla punta delle dita portava un vassoio dal quale prese una teiera metallica, una tazza, un piattino con il dolce, due bustine di zucchero, una di cannella e il conto, lasciando tutto sul tavolo con professionale destrezza. Tomás pagò e l'uomo, dopo un rapido gesto, si volatilizzò. Mentre aspettava, prese il cellulare dalla tasca e digitò il numero di Nelson Moliarti. L'americano rispose con la voce insonnolita, evidentemente svegliato da quella telefonata. Dopo le consuete frasi di rito, Tomás gli disse che avrebbe avuto bisogno di fare alcuni viaggi per la sua indagine, poiché le ricerche stavano andando verso una direzione che richiedeva un accurato lavoro di verifica. Moliarti volle sapere quale fosse la pista individuata, ma Tomás si dispensò dall'aggiungere dettagli, precisando che avrebbe voluto dargli delle certezze, e in quel momento aveva solo molti dubbi. Sebbene inizialmente fosse reticente, l'americano finì per dargli il suo consenso e per mettere a sua disposizione i fondi necessari alla missione. In fin dei conti quello era uno studio sul quale la fondazione puntava molto. Subito dopo, ottenuta l'autorizzazione, Tomás telefonò all'agenzia di viaggi e prenotò i voli e gli hotel.
Si accorse che Lena era appena entrata nel caffè quando avvertì che le teste di tutti i clienti si erano voltate nello stesso momento verso la porta, quasi fossero soldati che avevano eseguito un silenzioso ordine. Lena indossava un vestito di lycra nero molto aderente, sopra al ginocchio, con un appariscente nodo giallo stretto in vita; le lunghe gambe erano velate da collant di nylon grigio scuro, molto leggeri, le curve del corpo statuario slanciate da alti tacchi di un nero lucido. Era carica di buste di boutique, che appoggiò ai piedi della sedia quando si curvò sul tavolo per baciare Tomás. «Hej!» salutò. «Scusa il ritardo, ho fatto spese». «Non fa niente». Tomás sapeva che lo Chiado era una tentazione per molte donne, con boutique alla moda e negozi di marca sparsi per tutto il quartiere, che attiravano clienti e conferivano allegria alle vie inclinate e lastricate di quell'antica parte della città. «Puff!» esclamò lei, tirando indietro i lunghi capelli. «Sono esausta e la giornata è appena cominciata». «Hai comprato molte cose?». Si piegò e prese una busta appoggiata alla sedia. «Alcune» confermò. Aprì la busta e tirò fuori parte di un indumento rosso merlettato. «Ti piace?». «Che cos'è?». «È un reggiseno, stupido!» spiegò, muovendo le sopracciglia con fare malizioso. «Per farti impazzire». Il pensionato sbirciò dal giornale, studiando incessantemente la svedese. Lena sostenne lo sguardo, quasi intimandogli di pensare ai fatti propri, e l'uomo ritirò il collo e si nascose dietro le pagine che stava leggendo. «Quindi hai fatto shopping tutta la mattina?». «Sì. E sono stata anche su quell'antico ascensore panoramico in Via do Ouro». «Quello di Santa Justa?». «Proprio quello. Ci sei mai salito?». «No, mai». «Non avevo dubbi» sorrise lei. «Lo sguardo dello straniero vede più lontano dello sguardo degli abitanti del Paese». «Eh?». «È un proverbio svedese. Significa che gli stranieri visitano più posti ri-
spetto alle persone che vivono in una certa località». «Hai pienamente ragione» assentì Tomás. Il cameriere in divisa bianca s'avvicinò, sempre con la sua aria indaffarata, e guardò interrogativo i due clienti. «Prendi qualcosa?» domandò Tomás. «No, ho già mangiato». Il professore fece un cenno per indicare che non avevano bisogno di nulla, e subito il cameriere sparì lungo il corridoio pieno di gente; c'era parecchia calca e non aveva tempo da perdere. Tomás prese la tazza e bevve un sorso. «Questo tè è una meraviglia». Lena si allungò sul tavolo e cercò il suo sguardo. «Che succede?» chiese, con uno sguardo intrigante. «Sono due giorni che non ti vedo e hai un atteggiamento misterioso, sembri avere la testa fra le nuvole. Cos'hai?». «Niente». «È quella maledetta sciarada che ti turba, vero?». «No». «E allora?». Tomás si passò la mano fra i capelli, senza cerimonie. Girò la testa con un movimento nervoso, osservando di sfuggita tutto il locale, e finì per posare lo sguardo sull'amante. «Sai, credo di non essere stato onesto con te». Lena inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Ah, no? Perché?». «L'altro giorno mi hai chiesto se facevo l'amore con mia moglie...». «E lo fai?». «No, non l'ho più fatto da quando io e te ci siamo conosciuti. Ma la questione, a essere sincero, è che non posso garantirti che questo non accadrà in futuro». Lei strizzò gli occhi, fissandolo con un'espressione improvvisamente severa. «Ah». «Capisci? Viviamo nella stessa casa, siamo sposati, prima o poi succederà qualcosa». «E allora?». «Beh, significa che ingannerò entrambe, no?». La svedese osservò il caffè, sembrò presa da alcuni quadri ma, dopo aver
osservato vagamente il bar per qualche istante, fissò nuovamente Tomás. «A me non interessa». «Non ti importa?». «No, non mi importa. Puoi andare con tutte e due contemporaneamente, per me non è un problema». «Ma...» esitò lui, confuso «non ti dà fastidio che io faccia l'amore con te e allo stesso tempo con mia moglie?». «No» ripeté lei, scuotendo la testa per enfatizzare la propria posizione. «Non ho alcun problema». Tomás s'appoggiò alla sedia sorpreso, sbalordito. Non sapeva davvero cosa dire. Era tutto troppo inaspettato e poco convenzionale, non avrebbe mai immaginato di sentire una donna, e per di più una donna di quel genere, affermare che non si faceva problemi a far parte di quello che, a tutti gli effetti, era un harem. «Beh, uh... non so se a mia moglie starà bene...». «A tua moglie?» «Sì, a mia moglie». La svedese scrollò le spalle. «È evidente che lei non lo tollererà mai». «È chiaro». «Certo, non devi dirle niente, capito?». Il professore si passò di nuovo la mano fra i capelli, nervoso. «Certo... uh... ma è comunque un problema. Non riesco a vivere così...». «Non riesci a vivere così, come? Ma se per due mesi hai vissuto con due donne e non te ne sei mai preoccupato! Ora che ti prende?». «Giusto. Ma ho dei dubbi su quello che stiamo facendo». Ora toccava a Lena aprire la bocca dallo stupore. «Dubbi? Ma quali dubbi? Sei pazzo o cosa? Hai una famiglia che non sa niente. Hai una fidanzata che, modestia a parte, qualsiasi uomo vorrebbe avere, che non ti dà alcun fastidio e alla quale, peraltro, non interessa che tu mantenga questa tua bella vita. Qual è, allora, il tuo problema? Dov'è che sta il dubbio?». «Il problema, Lena, è che non so se voglio questo tipo di vita». Lena spalancò gli occhi e allargò ancora di più la bocca. «Non sai se...» corrugò la fronte, tentando di capirlo. «Tomás, che succede veramente?». «Succede che non voglio continuare così». «Allora cosa vuoi?».
«Voglio troncare». Lena lasciò cadere le spalle, appoggiandosi alla sedia, fulminata. A bocca aperta e con un'espressione incredula negli occhi, osservava Tomás con l'aria di chi pensava di trovarsi di fronte a un folle. «Vuoi troncare?» domandò alla fine, quasi sillabando le parole. «Sì. Scusami». «Ma sei scemo? Ti sto dicendo che non mi importa se vai con tua moglie, che non avrai alcun problema, e tu vuoi troncare? Perché?». «Perché non sto bene in questa situazione». «Ma perché?». «Perché vivo nella menzogna e voglio la verità». «Ma dai!» esclamò lei. «Il cappotto della verità molte volte ha buchi di bugie». «Smettila con questi proverbi». Lena si curvò sul tavolo e gli prese la mano con forza. «Dimmi cosa posso fare per farti sentire meglio. Vuoi più spazio? Vuoi più sesso? Cosa vuoi?». Tomás si meravigliò per il modo in cui la svedese s'aggrappava alla loro relazione. Si aspettava che lei, sentendosi rifiutata, avrebbe abbandonato furiosamente il caffè e non si sarebbe parlato più dell'argomento. Ma evidentemente non era questo che stava accadendo. «Sai, Lena, non riesco a stare con due donne contemporaneamente. Non ci riesco, punto. Mi sento disonesto. Mi piacciono situazioni chiare, trasparenti, inequivocabili, e ciò che stiamo vivendo è tutto tranne questo. Mi piaci, e tanto, sei una ragazza formidabile, ma amo molto anche la mia famiglia, mia moglie e mia figlia sono importantissime per me. Quando mi hai chiesto, alcuni giorni fa, se facevo l'amore con mia moglie, qualcosa dentro di me si è rotto, inspiegabilmente. Un attimo prima ero folgorato da te, mentre un attimo dopo, con la tua domanda, sono tornato in me e ho iniziato a riflettere sulla nostra relazione. È stato come se improvvisamente tu avessi spinto un interruttore, la luce si fosse accesa e io avessi cominciato a vedere chiaramente laddove prima andavo alla cieca. Questa luce mi ha riportato alla realtà, ha innescato una serie di domande su me stesso. Fondamentalmente ho cominciato a interrogare la mia coscienza sulle questioni che per me sono veramente importanti». «Quali questioni?». «Non so». Si guardò intorno, come se da qualche parte nel locale potesse trovare la risposta. «Per esempio mi sono chiesto cosa mi ha portato a met-
tere in pericolo la mia vita familiare. In nome di cosa? Perché lo faccio? Ne vale proprio la pena? In fin dei conti, nella mia vita ci sono dei problemi che vanno affrontati, non posso fuggire. È per questo che credo sia meglio innanzitutto risolvere i miei problemi, la mia vita. Devo dare al mio matrimonio una seconda possibilità, lo devo a mia moglie e a mia figlia. Se le cose funzionano, bene. Altrimenti, dovrò ricominciare in qualche altro modo. Ora, ciò che non è giusto, ciò che non è onesto, è che io menta a entrambe. Questo no». «Praticamente, mi stai lasciando. Giusto?». «Non vale la pena drammatizzare. Sono un uomo sposato e devo occuparmi della mia famiglia. Tu sei una ragazza giovane, single e molto bella. Come hai detto tu stessa, ti basta alzare un dito per avere tutti gli uomini che vuoi. Quindi non complichiamo le cose. Ognuno di noi vada per la sua strada e restiamo amici». La ragazza scosse la testa, demoralizzata. «Non credo alle mie orecchie». Tomás la guardò e pensò che da quel momento in poi avrebbe solo potuto ripetersi. Ormai aveva preso la sua decisione e aveva detto quello che doveva dire. Dopo un istante s'alzò dal tavolo e porse la mano a Lena. La svedese rimase a fissare la mano, ancora attonita e sconvolta, e non ricambiò il saluto. Allora Tomás goffamente la ritirò e si voltò verso l'uscita. «Ci vediamo in facoltà» disse, come fosse un addio. Lena lo seguì con gli occhi. «Il gallo che canta di mattina» disse a denti stretti «sarà nel becco del falco sul calar della sera». Ma Tomás aveva già lasciato la Brasileira e saliva Via Garret, con passo veloce, in direzione di Largo Luís de Camões. X Le acque tranquille del Mediterraneo brillavano, cristalline, sotto il riflesso abbagliante del sole mattutino. Il vecchio faro del Porto Antico si ergeva tra lo specchio celeste dell'insenatura e i velieri bianchi ancorati nel molo; la Lanterna restava immobile all'entrata della baia, guardiana del tempo con la missione di vigilare su quel delizioso angolo di mare della Liguria. Le scoscese pendici degli Appennini delimitavano la costa, proteggendo il tranquillo e basso caseggiato ai piedi dei monti. Il taxi girò a destra e si immerse nel cuore labirintico della città antica,
zigzagando tra l'intreccio degli stretti e movimentati vicoli di Genova. «Piazza Acquaverde» annunciò il tassista, un gran chiacchierone, quando entrarono nella piazza. Con un ampio gesto indicò un'enorme statua, situata al centro, raffigurante una figura umana. «Questo è Cristoforo Colombo». Il traffico obbligò l'auto a fermarsi per alcuni istanti. Tomás sbirciò dal finestrino e vide Colombo là in alto, i capelli lunghi e mossi dal vento, vestito con un corto tabarro spagnolo e un lungo mantello aperto; la mano sinistra era appoggiata su un'ancora, mentre la destra accarezzava le spalle di un'indigena in ginocchio. In basso, agli angoli, altre quattro figure erano sedute su piccoli piedistalli, fra i quali c'erano riquadri con bassorilievi raffiguranti quelle che sembravano scene di vita del navigatore. Alla base del monumento, fra molteplici corone di fiori appoggiate alla pietra, la dedica "A Cristoforo Colombo, La Patria". Il traffico riprese a circolare e il taxi seguì il flusso, trasportato dalla rumorosa corrente di automobili. Il conducente, un uomo allegro che diceva di chiamarsi Matteo qualchecosa-ini e di venire dalla Calabria, si mise a raccontare i dettagli della sua difficile vita in un italiano caotico e impasticciato. In mezzo a quella serrata raffica di parole, sparate ininterrottamente fra abbondanti sputacchi e vistosi gesti con le mani, Tomás riuscì a capire che l'autista era "divorziato", aveva "due bambini" e cercava compagnia per "il letto matrimoniale", perché amava "avere la colazione in camera". Da lì passò a quello che gli piaceva di più per "la cena". Le sue preferenze, a quanto pare, ricadevano sulla "zuppa di lenticchie" e soprattutto sugli "spaghetti alla puttanesca", piatto il cui nome portò il cliente ad aggrottare le sopracciglia e a chiedersi se ci fosse qualche infido doppio senso. «Palazzo Ducale» annunciò Matteo qualche minuto dopo, in mezzo a una frase sulle qualità terapeutiche del "vino rosso", mentre indicava un bell'edificio antico in Piazza Matteotti, dalla facciata ricca di colonne ioniche e di alte finestre. «Le piace?». «Sì» assentì Tomás, con sguardo indifferente, concordando semplicemente per non essere scortese. Il tassista passò, quasi senza pausa, alle miracolose proprietà del "vino bianco secco" e ai vantaggi del "menù fisso" di una trattoria di suo gradimento, nei pressi di Piazza Campetto, lì vicino, e nello stesso tempo prendeva in giro quelli che mangiavano solo "piatti vegetariani". L'automobile prese per Salita Poliamoli e girò a sinistra in Vico Tre Magi, e in quel
momento Matteo confessò, piuttosto costernato, "sono allergico alle noci". Mentre la piccola Fiat percorreva Via Ravecca, l'autista discorreva con grande dovizia di particolari sugli effetti allergici che le noci gli provocavano sulla pelle, incluse le macchie "rosse" che, a quanto pare, curava con "carta igienica" imbevuta con "acqua calda" finché, con grande sollievo di Tomás, arrivarono finalmente in Piazza Dante. «Eccoci qua!» proclamò Matteo con magniloquenza, fermandosi col semaforo verde. Pressato dal coro di clacson delle automobili che volevano avanzare, Tomás pagò frettolosamente e il tassista, ignorando le proteste dietro di sé, lo salutò con un "a più tardi" che provocò in lui un brivido lungo il corpo, suonando più come una minaccia che come una promessa. Il piano originale del tragitto prevedeva semplicemente il passaggio per Piazza Dante al fine di dare un'occhiata a quel luogo storico, ma l'incontinente emorragia verbale dell'italiano aveva indotto il portoghese a cambiare repentinamente i piani e a trasformare il passaggio in fermata, un buon pretesto per liberarsi da quel taxi infernale. Aveva sempre ammirato la simpatica espansività degli italiani, ma quella dell'autista superava ogni limite. Due torri semicircolari, in stile gotico e unite da un ponte, sovrastavano la piazza. Era Porta Soprana, l'entrata orientale della parte vecchia della città. Dalla sommità delle torri medievali, e fra le feritoie, sventolavano due bandiere bianche segnate dalla croce rossa di San Giorgio, lo stendardo della città. La insignia cruxata comunis era una testimonianza dei tempi gloriosi, quando Genova governava sul Mediterraneo e la sua sola presenza bastava a far indietreggiare il nemico, tanto che si diceva che gli inglesi avessero adottato la bandiera della città per poter navigare sotto la sua protezione. Nel Medioevo, l'imponente Porta Soprana faceva parte delle mura difensive di Genova. Durante la Rivoluzione Francese vi era stata posta una ghigliottina e uno dei boia viveva in cima a una delle due torri, adibita a prigione; il suo più famoso prigioniero fu Marco Polo, condotto in quel carcere dopo la battaglia di Korcula. Alla base, sotto il ponte che univa le due torri, la grande porta ogivale immetteva in un giardino la cui principale attrazione erano i ruderi dei chiostri dell'antico convento di Sant'Andrea, ma l'attenzione del visitatore non fu richiamata da queste rovine quanto piuttosto da un altro luogo lì accanto. Vicino a Porta Soprana, fra arbusti rigogliosi, si trovavano alcuni poveri resti, di pietra e coperti di edera; sembravano le rovine di una casa rustica oltremontana, semplice e pulita, con una larga porta al pian terreno e due
strette finestre al primo piano. Tomás s'avvicinò e sbirciò il rudere. Un cartello indicava che le rovine erano chiuse al pubblico; una targa annunciava: "Nessuna casa ha nome più degno di questa. Qui, nell'abitazione paterna, Cristoforo Colombo trascorse l'infanzia e la prima giovinezza." Quello era il numero trentasette dell'antico Vico Diritto di Ponticello, luogo nel quale, secondo un vecchio libro di fatture e un altro documento archiviato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, tra il 1455 e il 1470 visse Domenicus Columbus insieme alla sua famiglia, inclusi i figli Bartolomeo, Jacobus e Cristofforus. Vale a dire, la casa dove Cristoforo Colombo trascorse la sua gioventù. Un autobus si fermò vicino al marciapiede e riversò in strada una folla di turisti giapponesi. I visitatori si riunirono presso le rovine con macchine fotografiche e telecamere, brulicando davanti alla porta. Un altro giapponese, probabilmente la guida, gridava istruzioni e informazioni. «Non mi piace questo» commentò un italiano rivolgendosi a Tomás, con aria complice, mentre osservava la folla di frenetici turisti che si litigavano un po' di spazio per la fotografia. «Mi perdoni» si scusò Tomás «non parlo italiano. Lei parla inglese?». «Ah, scusi» disse l'italiano in inglese «è americano?». «No, portoghese». L'italiano si lasciò sfuggire un'espressione di sorpresa. «Portoghese?». «Sì. Diceva?». «Uh... niente, niente». «Dica pure». L'uomo esitò. «È che... uh... mi dispiace molto che i turisti siano ingannati in questo modo». «In che senso, ingannati?». L'italiano si guardò intorno, abbassò la voce e adottò un tono cospirativo. «Sa, questa casa è molto interessante, molto bella. Ma probabilmente Colombo non è vissuto qui». «Ah sì?». «È un'attrazione turistica, niente di più» gli confidò. «La casa è dell'epo-
ca di Colombo, senza dubbio, ma nulla ci garantisce che sia proprio questo l'edificio citato nei documenti. Si sa che Domenico Colombo, padre di Cristoforo, affittò ai monaci una casa molto vicina a Porta Soprana. A quei tempi qui c'erano molte case e non c'è modo di sapere quale sia quella giusta. Perciò hanno scelto questa, ma avrebbero potuto sceglierne un'altra qualsiasi nella zona». «Praticamente sono soltanto frottole». L'uomo disegnò un gesto vago nell'aria e arricciò le labbra. «Diciamo che abbiamo reso le cose più facili, capisce? Tutto per via del turismo e per consolidare la tesi dell'origine genovese di Colombo». Alzò l'indice e assunse un'espressione seria, come se stesse dando un avvertimento. «Cosa che, del resto, corrisponde a verità. Cristoforo Colombo era genovese, questo è provato scientificamente e senza alcun dubbio». Tomás sorrise. Del resto si sarebbe molto sorpreso di sentire un genovese affermare il contrario. «Si» disse accondiscendente. «Ma la casa?». L'italiano piegò la testa, come se facesse una concessione. «In verità, è improbabile che questa sia stata l'effettiva residenza di Colombo...». Il traffico era intenso e Tomás pensò di prendere un altro taxi, ma non ne trovò nessuno disponibile. Decise di andare a piedi e si diresse verso Piazza Matteotti, nella speranza di trovare da qualche parte un passaggio per gli archivi che intendeva visitare. Si avviò lungo Via di Porta Soprana. A metà strada iniziò ad aver fame e, senza cercare molto, decise di pranzare in un ristorante dal nome appropriato, La Cantina di Colombo. Poiché era la fondazione americana a pagare, non si fece problemi. Aprì con delle pappardelle al ragù di coniglio alla ligure, un tipo di pasta piatta con sugo di carne; ordinò poi un filetto all'aceto balsamico di Modena, preparato con fettine di carne di vitella ai ferri con salsa di verdure e aceto balsamico e finì con un dessert da sogno, degustazioni di cioccolatini Domori e bicchiere di Rum. Tutto il pasto fu accompagnato da vino rosso ligure, un fruttato Rossese di Dolceacqua 1999 Giuncheo, e da un misto di formaggi con confetture, deliziosa selezione di formaggi serviti con marmellata. Trascorse il pomeriggio chiuso nella stanza di lettura della Sala Colombiana dell'Archivio di Stato, posto all'interno di un magnifico edificio bianco, il palazzetto rinascimentale di Sant'Ignazio, al centro di Piazza Santa Maria in Via Lata. Era lì che si trovavano l'Archivio del Banco di San Giorgio e l'Archivio Notarile, che Tomás consultò con molta pazienza.
Passò ore a studiare microfilm e a sfogliare parte dei centottantotto documenti di Genova e Savona, datati dal 1429 al 1494, e alcuni successivi, prendendo continuamente appunti. Alle cinque e mezza, gli impiegati lo avvertirono che stavano per chiudere e il visitatore si vide costretto a interrompere il lavoro. Quel pomeriggio andò a passeggiare in Piazza delle Erbe, dove visitò una bella libreria con manoscritti antichi e bevve una birra al Berto Bar. Poi passeggiò per i negozietti dislocati vicino al Porto Vecchio, saltellando di locale in locale ad assaggiare sapori di tutto il mondo, compreso il profumato riso tailandese, ouzo greco e couscous marocchino. Di sera, dall'Hotel Bristol Palace in cui alloggiava, chiamò Constança. La moglie continuava a essere preoccupata per la questione dell'insegnante di sostegno per la figlia, ma la coppia non trovava il modo per risolvere quel problema. Poi Margarida s'attaccò al telefono e strappò al padre la promessa che per regalo le avrebbe portato "una bambola che piange davve'o". Il mattino seguente Tomás prese nuovamente posto nella Sala Colombiana dell'Archivio di Stato di Genova. Questa volta concentrò la sua attenzione su due colossali volumi, entrambi intitolati Colombo e pubblicati nel 1932. Nei libri, uno in italiano e l'altro con lo stesso testo in inglese e tedesco, erano riprodotti in fac-simile documenti considerati l'ultima parola della Scuola Genovese, il documento dei documenti, il compendio del lavoro avviato nel 1614 da Gerolamo Bordoni e concluso nel 1904 con la divulgazione del Documento Assereto. Tomás prese molti appunti e riuscì a fotocopiare i testi più importanti. Diede poi un'occhiata alla Nuova Raccolta Colombiana, finché, intorno alle quattro del pomeriggio, si ritenne soddisfatto e restituì i due grossi volumi. Aveva concluso ciò che doveva fare e ora lo attendevano un nuovo viaggio, una nuova destinazione e altri archivi. L'enorme torre moresca, arrampicata come una rupe che graffiava il cielo azzurro profondo, proiettava la sua ombra rassicurante sui carri trainati da cavalli parcheggiati lungo il marciapiede dell'ampia Piazza Virgen de los Reyes. Tomás si avvicinò a un albero di arance di Via Mateos Gago, osservando una piccola figura di bronzo collocata in cima alla torre della Giralda, che si ergeva al di sopra della cattedrale e di Santa Cruz, l'antico quartiere giudeo accanto a El Arenal, sulla sponda sinistra del Guadalquivir. Quella era una zona pittoresca della città, ricca di bianche viuzze e patii colorati, di finestre protette da grate e allegri giardini, vibranti di cascate
e canali, gelsomini e buganville. Inoltre, imponenti monumenti testimoniavano la grandezza dei tempi passati, quando lì convergevano le incommensurabili ricchezze delle Americhe. Il visitatore era appena arrivato a Siviglia ed era affamato. Prese il bagaglio a mano ed entrò in un ristorante proprio lì vicino, il Bar Giralda. Ebbe l'impressione di essere finito in qualche souq; il locale era decorato con archi ad arabesco e con volte in stile moresco. Sedette a un tavolo e chiese il menù. «Anticamente qui c'erano unos baños moreschi, señor» gli spiegò il cameriere, un uomo magro e dalla pelle grassa, con dei folti baffi neri e barba incolta, sforzandosi di parlare portuñol39. Con gli occhi indicò il menù e ritornò al proprio castigliano. «Que quiere comer usted?». Tomás posò l'elenco delle pietanze. Non era di suo gradimento. «Cosa mi consiglia?». «Le gustan tapas?». «Non è una cattiva idea. Me ne porti un po'». «Bueno. Con xerez?». «Sherry? Non sarà meglio del vino rosso?». «Xerez es mejor con las tapas, señor». «Allora vada per lo sherry». Nel giro di dieci minuti il tavolo venne riempito con alcuni piattini e con un bicchiere di xerez amontillado, un fino bianco secco d'aspetto fresco e dal riflesso dorato. Il cameriere gli disse che era proprio la relazione tra quei piattini e il bicchiere all'origine del piatto andaluso. A quanto pare tutto era iniziato con l'antica abitudine di collocare un piccolo piatto su un bicchiere di sherry, per "tapparlo". Con il tempo, iniziarono a mettere nel piatto olive o formaggio, pratica che si estese poi anche ad altri manicaretti. Quando gli andalusi ne presero coscienza, le tapas formavano ormai un'ampia gamma di colori e gusti, così come era visibile ora sulla tavola del visitatore portoghese. Tomás passò mezzora a mangiucchiare, ripulendo i piatti uno a uno. Non c'era alcun dubbio, pensò mentre guardava le delizie sparse sul tavolo e piluccava qua e là: viaggiare era una delle cose migliori che ci fossero, soprattutto se lo si faceva a spese altrui. Gli permetteva di spezzare la routine, di passeggiare, di vedere cose nuove, di saziarsi con i migliori sapori della vita: cosa poteva esserci di più piacevole? Comodamente seduto al Bar Giralda, si deliziò soprattutto con i mejillones a la marinera, cozze tuffate in salsa di cipolla e aglio soffritto, con vino bianco, olio, succo di
limone e prezzemolo; ma il salpicón de mariscos, con il suo misto di aragosta, gamberi e calamari, in salsa vinaigrette di cipolle e peperoni verdi, non era da meno, così come il connubio di pesce, legumi marinati, uova sode, calamari e olive delle banderillas; il resto era costituito da jamón serrano, albondigas, batatas bravas, ensaiada de pimientos rojos y fritura de pescado, che divorò insieme al pane e al famoso queso manchego. Concluse il pasto con alcuni churros coperti di zucchero e, considerando che doveva ancora lavorare, un caffè colombiano abbastanza forte. Dopo pranzo uscì dal locale e camminò per l'imponente Piazza Virgen de los Reyes, in modo da facilitare la digestione. Sembrava che la vita si fosse fermata e le persone fossero imperturbabili, non c'era né fretta né viavai. Passò davanti al Convento de la Encarnación e, contemplando dall'altro lato il Palazzo Arzobispal, girò intorno alla cattedrale, svoltando in Piazza del Triunfo, dove una colonna barocca con la statua della Vergine Maria celebrava il fatto che Siviglia avesse resistito al terremoto che invece aveva distrutto Lisbona nel 1755. Arrivò all'angolo del compatto edificio dell'Archivio Generale delle Indie, fatto con quei mattoni marrone rossastro molto apprezzati dagli spagnoli ma che Tomás detestava; quel tipo di materiale lo faceva rabbrividire, forse perché gli ricordava le fabbriche, o persino i mattatoi e le arene dei tori. Attraversò la strada e si addentrò nella grande cattedrale gotica, la maggiore d'Europa, attraverso la porta sud, una magnifica entrata in pietra intagliata. Nel percorrere quel monumentale santuario, la prima sensazione di Tomás fu quella di colui che entra in un luogo importante ma buio, persino lugubre, quasi fosse stato trascinato nelle viscere di un'immensa caverna tenebrosa. Oltrepassando il punto in cui il transetto intersecava la navata, vicino alla Porta di San Cristobal, fu attratto da una scena che trovò maestosa e al tempo stesso sinistra. Su un piedistallo, in mezzo al patio, quattro statue di bronzo policromatico, il volto in alabastro, le vesti cinquecentesche solenni e sontuose, sorreggevano sulle spalle un sarcofago. La piccola cassa, anch'essa in bronzo e ornata con placche di metallo smaltato, era coperta da un sudario e portava disegnato sul fianco destro uno scudo che Tomás riconobbe. Erano le arme di Colombo. Osservò la parte bassa del sarcofago e vide i simboli araldici della Spagna inchiodati alla base e circondati da parole scritte in gotico. Girò la testa, sempre guardando dal basso verso l'alto, e lesse l'incisione:
"Aqui jacen los restos de Cristobal Colon desde 1796 Los guardo la Habana y este sepulcro por R. D.to De 26 de febrero de 1891." La tomba di Colombo. O meglio, il luogo in cui si supponeva fossero custodite le ossa del famoso navigatore. Ma Tomás sapeva che, anche nella morte, lo scopritore dell'America si era rivelato un maestro nelle arti del mistero, un supremo illusionista. Tutto era cominciato quando Cristoforo Colombo si era trasferito a Siviglia dopo i suoi quattro viaggi nel Nuovo Mondo. Con la morte della sua protettrice, la regina Isabella, nel 1504, cadde in disgrazia presso la corte. Fu per recuperare l'appoggio del re Fernando che l'anno seguente, ormai vecchio e malato, l'Ammiraglio del Mare Oceano si stabilì a Valladolid. L'impresa si rivelò un fallimento e Colombo morì in quella città il 20 maggio 1506. Dopo essere rimasto per circa un anno nel convento di San Francesco a Valladolid, il corpo fu trasferito nel Monastero della Cartuja di Las Cuevas a Siviglia, compiendo il primo di una complicata serie di viaggi. Trent'anni dopo fu deciso che le spoglie di Cristoforo e del figlio portoghese, Diogo, che nel frattempo era morto, sarebbero state sepolte nella Hispaniola, pertanto entrambi i corpi furono traslati nella Cattedrale di Santo Domingo. Dopo oltre duecento anni, nel 1795, il Trattato di Basilea stabilì che la parte spagnola dell'isola fosse consegnata alla Francia; di conseguenza le ossa dello scopritore dell'America furono trasferite presso la Cattedrale dell'Havana con grandi onori. Ma in seguito all'indipendenza di Cuba, nel 1898, fu necessaria un'ulteriore traslazione e la salma tornò al punto di partenza, Siviglia. È presumibile che fra tanti spostamenti si sia commesso un errore, da qualche parte, probabilmente a Santo Domingo, e che le spoglie che si trovano tanto maestosamente e solennemente conservate nella Cattedrale di Siviglia non appartengano a Cristoforo Colombo, ma al figlio primogenito, il portoghese Diogo Colom, o addirittura ad altri discendenti. Tomás rimase per lunghi istanti vicino al tumulo, ignorando quel dubbio storico: il suo personale messaggio non sarebbe comunque andato perso. Anche se lì non fosse stato sepolto il grande navigatore, quello era comunque il luogo in cui giaceva suo figlio Diogo, un compatriota, e questo gli bastava. Alla fine, voltò le spalle alla tomba e si allontanò verso la navata del santuario. Camminò lentamente per la cattedrale, ammirando la volta e la Cappella Mayor, protetta da enormi grate, e arrivò alla porta ovest,
chiamata Porta de la Asunción. A metà percorso si imbatté in una nuova tomba, più modesta: era la semplice pietra sepolcrale di Hernando Colón, il figlio spagnolo di Cristoforo, autore di una delle più importanti opere sulla vita dello scopritore dell'America. Le girò intorno e si diresse verso l'ala sinistra della navata, sulla quale si apriva un'altra porta. La oltrepassò e sentì la debole luce del sole d'inverno, a cielo aperto. Quello era il Patio de los Naranjos, un cortile rettangolare e coperto di aranci disposti geometricamente. Al centro spiccava una piccola fontana circolare, tutt'intorno lunghe gallerie; la struttura ricordava un chiostro chiuso. Insieme alla torre della Giralda, in realtà un minareto in rovina, il patio era quanto restava dell'antica moschea dei saraceni, demolita per costruire la cattedrale gotica. Il vero obiettivo di Tomás si trovava, tuttavia, al di sopra delle gallerie. Il professore salì le gradinate dell'edificio e si diresse alla Biblioteca Colombina. Dopo essere stato identificato e registrato gli fu concesso di accedere ai locali. La Biblioteca Colombina fu iniziata nel secolo XVI proprio da Hernando Colón. Il figlio spagnolo dello scopritore dell'America aveva riunito un totale di dodicimila volumi, inclusi libri e documenti appartenuti al padre. Alla sua morte, Hernando affidò il prezioso materiale ai domenicani del Monastero di San Pablo, a Siviglia, e i manoscritti furono collocati nell'edificio che circonda il Patio de los Naranjos, nel lato sinistro della cattedrale. Le opere della Biblioteca Colombina erano distribuite su scaffali a vetri, sparsi in diverse sale. In quelli centrali erano esposti i gioielli della corona, i libri e i documenti appartenuti allo stesso Cristoforo Colombo. Munito di una speciale autorizzazione, concessa per la natura della ricerca e grazie alle credenziali dell'Università Nova di Lisbona e dell'American History Foundation, che lo studioso mostrò prontamente, gli fu possibile farsi aprire le vetrinette e consultare le opere conservate al loro interno. Lo storico trascorse il pomeriggio ad analizzare gli esemplari posseduti e letti cinquecento anni prima dall'Ammiraglio, iniziando dal Libro dei Profeti, il documento che Colombo cita spesso nel suo diario e nelle lettere. A quanto pare, lo scopritore dell'America ammirava soprattutto il profeta Isaia, il più citato fra tutti. Tomás percorse con gli occhi l'Imago Mundi del cardinale Petrus d'Ailly, un testo sul mondo con note a margine redatte per mano di Colombo; e la Historia Naturalis di Plinio, anch'essa piena di appunti importanti. Che coincidenza, pensò il ricercatore, quello probabilmente era lo stesso Plinio citato da Constança a proposito delle peonie. Tomás studiò attentamente le annotazioni, la maggior parte delle quali sca-
rabocchiate in castigliano e portoghese e appena una in quello che sembrava italiano. Si concentrò poi sulle strane note trovate nella Historia rerum ubique gestarum di Pio II, prima di tornare alle restanti opere. Esaminò l'esemplare del De consuetudinibus et conditionibus orientalium regionum di Marco Polo, e ancora un testo di Plutarco, vari libri di Seneca e un volume dell'ebreo portoghese Abramo Zacuto, l'influente consigliere di Don João II. Uscì dalla Biblioteca Colombina sul far della sera, dopo aver concluso la ricerca e con alcune fotocopie nella ventiquattrore. Girò a sinistra, prese Viale de la Constitución fino a Porta de Jerez, in prossimità della quale si diresse verso il fiume. Sempre a piedi, attraversò il Ponte di San Telmo, sul Guadalquivir, giunse in Piazza di Cuba e s'avviò lungo Via del Betis, la pittoresca litoranea su cui si trovava il suo hotel, El Puerto. Lasciò le sue cose in camera e, dopo essersi fermato alcuni istanti alla finestra per ammirare il quartiere storico dal quale era appena tornato, con la Torre del Oro sulla destra, Piazza de Toros de la Maestranza sulla sinistra, bianca e gialla, e l'esile Giralda in fondo, si mise a sedere sul bordo del letto e prese il cellulare. Chiamò Constança, ma il telefono della moglie era spento. Lasciò un messaggio in segreteria e scese in strada. Percorse tranquillamente l'allegra Via del Betis, per poi sedersi in uno spiazzo lungo il fiume con una cerveza in mano, lo sguardo perso a contemplare il placido movimento delle barche sullo scuro specchio del Guadalquivir. Dall'altra parte del fiume, verso il Viale de Cristobal Colón, era visibile il brulichio della città che pullulava di vita. Seguendo l'usanza andalusa, trascorse la maggior parte della notte in quella colorita via a tapear, passando da una taverna all'altra per assaporare le differenti tapas, accompagnandole con manzanilla, ovviamente sempre a spese della fondazione. Si trattenne poi in un altro piazzale a leggere ancora un capitolo di Sorvegliare e punire, alla ricerca di piste per quella sciarada così impenetrabile, ma subito lo scintillio delle luci riflesse nel fiume, che danzavano al ritmo della corrente, e il brusio irrequieto della città lo convinsero a mettere da parte il lavoro e a tuffarsi nell'allegra vita notturna di Siviglia. Sotto il cielo stellato, la capitale andalusa palpitava alla cadenza vibrante del flamenco e delle sevillanas. Quella era la città di Cármen e Don Juan, della danza e della corrida, dei bohémien e dei burloni, e lo era soprattutto nella Triana, il quartiere dove imperavano le tapas e i tablaos, i balli sensuali e le notti infuocate. Lasciò il lungofiume e andò a passeggiare per Via de la Pureza, affascinato dalle sue ricche e variopinte facciate. In un
negozio di souvenir comprò una piccola bambola con un vestito rosso, ricco di lustrini, il regalo per Margarida; per la moglie acquistò un vistoso album di riproduzioni dei quadri di El Greco. Con i regali incartati e nascosti in una busta di plastica, insieme al libro di Foucault, percorse la Triana finché non fu attratto da un piccolo locale molto animato. Era un rumoroso tablao pieno di fumo. L'aria era satura dei duri accordi della chitarra, della voce del cantante e dei colpi rapidi e profondi delle scarpe e delle nacchere esibite dalle bailaosas. Queste si muovevano vertiginosamente sul palco, le braccia tese, i gesti aggraziati e l'atteggiamento orgoglioso, danzando al ritmo frenetico del flamenco, delle mani che tenevano il tempo, e dei superbi olés! lanciati alla folla. Ritornò a El Puerto esausto e s'addormentò qualche secondo dopo essersi buttato sul letto, ancora semivestito, la busta di plastica abbandonata sul pavimento insieme ai regali e al libro di Foucault. Il mattino seguente tornò nel quartiere di Santa Cruz e andò direttamente all'Archivio Generale delle Indie. L'edificio color rosso mattone, ornato nella terrazza da una balaustra, aveva quasi mezzo millennio e in origine era stato una lonja, il luogo in cui i mercanti conducevano i propri affari. Fu proprio in questo luogo che dal XVIII secolo iniziarono a passare quasi tutti i documenti collegati con il Nuovo Mondo. Qui si concentravano più di ottanta milioni di pagine manoscritte e ottomila fra mappe e disegni, oltre alla corrispondenza di Cortés, Cervantes, Filippo II e altri. E fra questi "altri" ce n'era uno che interessava particolarmente Tomás. Il ricercatore portoghese passò tutta la mattina a consultare le lettere di Cristoforo Colombo che vi erano conservate. Alcune erano inaccessibili poiché si trovavano all'interno di teche girevoli, installate per minimizzare i danni dell'esposizione alla luce. Tomás cercò di convincere i responsabili a lasciargli consultare direttamente gli originali, ma essi non acconsentirono, neanche di fronte alle credenziali dell'Università Nova di Lisbona e dell'American History Foundation. Gli spiegarono che al momento non potevano toglierli dall'espositore e che avrebbe dovuto inoltrare una richiesta formale e attendere per qualche giorno la risposta. Lo storico pertanto dovette accontentarsi dei microfilm e dei fac-simile, che fotocopiò. La sua attenzione non si concentrò soltanto sulla corrispondenza di Colombo ma fu rivolta anche alla copia notarile della minuta della Institución de Mayrazgo, un importante documento testamentario. Terminò la ricerca all'Archivio Generale delle Indie con una certa fretta, quasi in corsa contro il tempo; aveva un aereo alle tre del pomeriggio e vo-
leva mangiare qualcosa. Trangugiò frettolosamente una deliziosa zuppa cachorrenas, con molto pesce, vongole e bucce di arancia amara, e un po' di fideos a la malaguena, annaffiati da Montilla, in una taverna di Via Romero Murube, prima di prendere un taxi, raggiungere l'hotel, raccogliere le sue cose, pagare il conto e dirigersi finalmente all'aeroporto. Seduto sul sedile posteriore dell'auto e sollevato per aver completato la sua maratona mattutina, provò a richiamare Constança al cellulare, ma rispose di nuovo la segreteria telefonica. Erano le dieci di sera quando Tomás infilò la chiave nella serratura. Era stanco e voleva farsi un bagno, cenare e andare a letto. Girò la chiave verso sinistra, la serratura scattò, la porta si aprì ed entrò in casa, appoggiando pesantemente la valigia vicino alla credenza. «Bambine, sono arrivato!» annunciò, con la bambola dal vestito rosso luccicante in una mano e il libro di El Greco nell'altra, regali pronti per la consegna. L'appartamento continuava a restare buio, cosa che gli sembrò piuttosto strana. Accese la luce e vide che era tutto pulito e in ordine, ma non c'era anima viva. «Bambine!» chiamò di nuovo, incuriosito. «Dove siete?». Guardò l'orologio e pensò che probabilmente erano già andate a dormire; era ancora presto ma, a volte, il lavoro era pesante, la stanchezza vinceva sulla resistenza e il sonno si faceva sentire. In pochi passi percorse il piccolo appartamento, evitando di fare rumore, sbirciò nelle camere, ma si rese conto che sia la sua che quella della figlia erano deserte. Posò la valigia sul letto matrimoniale e si guardò intorno, disorientato. Dove diavolo potevano essere? Si grattò la testa, perplesso. C'era stato qualche problema? Per un lungo momento valutò le eventuali possibilità. Avrebbe potuto chiamare nuovamente al cellulare, ma erano passati appena tre quarti d'ora da quando, subito dopo essere arrivato in aeroporto, aveva telefonato a Constança e, ancora una volta, gli aveva risposto la segreteria. Come doveva comportarsi? Uscì dalla stanza e andò in cucina; era affamato, non sopportava il cibo di plastica che distribuivano in aereo. Considerò che a stomaco pieno sarebbe stato in condizioni migliori per valutare il da farsi. Probabilmente, pensò, la cosa migliore era proprio aspettare, prima o poi sarebbero arrivate. Ripassando dall'ingresso, per andare in cucina, notò un vaso sulla credenza, pieno di fiori a grappoli, gialli e color salmone, che spiccavano da
fitti rami lunghi e curvi, mischiati ad altri fiori gialli che sembravano chiaramente delle rose, con petali colorati che spuntavano da un verde intreccio di foglie. Per un momento li osservò, pensieroso; s'avvicinò e ne respirò il profumo, dovevano essere freschi. Esitò un istante, si grattò il mento, valutando un'ipotesi che gli era venuta in mente. Più ci pensava, più riteneva di doverla verificare. Decise di cambiare direzione; invece che in cucina, andò in sala. Anche qui i vasi che decoravano i mobili contenevano gli stessi fiori. Sul tavolo vide un foglio. Lo prese e lo esaminò; era la fattura del fioraio per l'acquisto di rose e digitali. Per un lungo istante continuò a riflettere. Poi, con la fattura in mano, tornò alla libreria, scorse i titoli e alla fine prese un libro riposto nello scaffale più alto. Si trattava del Linguaggio dei fiori, l'opera preferita di Constança. Aprì il volume alle ultime pagine e consultò il glossario, alla ricerca delle digitali, alla lettera d. Trovò la definizione. Il libro spiegava che le digitali rappresentavano la falsità e l'egoismo. Sollevò la testa, spaventato. Era un messaggio? Con un movimento frenetico, veloce e incontrollato, già in preda al panico, sfogliò ancora le pagine e andò alla r. Impaziente, con il dito cercò il riferimento alla rose gialle. Trovò le rose e arrivò, quasi immediatamente, alle rose gialle. Il dito si fermò sul loro significato. Infedeltà. XI Il telefono squillò, vibrando, quasi fosse impaziente. Tomás tirò su la testa dal cuscino, mezzo stordito, e sentì la luce del giorno entrare dalla finestra e sbattergli sugli occhi, accecandolo. Alzò il polso e guardò l'orologio; erano le nove e mezza del mattino. Il cellulare gli trillava nelle orecchie. Ancora insonnolito, distese il braccio e, a tastoni sul comodino, lo trovò, lo sentì vibrare in mano mentre suonava, guardò il display e riconobbe il numero. «Constança, dove siete finite?» fu la prima domanda che istintivamente pronunciò dopo aver premuto il tasto verde. «Siamo a casa dei miei genitori» gli rispose la moglie, in modo freddo e distaccato, come se non fosse obbligata a rendere conto dei propri spostamenti. «Va tutto bene?». «Splendidamente».
«Ma che ci fai lì?». «Secondo te?» ribatté lei, in tono di sfida. «Penso alla mia vita, ovviamente». «In che senso, pensi alla tua vita?» insistette Tomás, fingendo di non capire, come se fosse lei a essere in errore. Alimentava la segreta speranza che, se avesse fatto finta di niente, ignorando quei fiori e il loro apparente significato, il problema sarebbe svanito. «Che io sappia, la tua vita è qui». «Ah sì? E la tua dov'è?». «La mia?» domandò lui, simulando stupore. «Anche la mia vita è qui, ovvio, dove vuoi che sia?». «Ah, è lì? Per caso hai visto i fiori che ho lasciato?». «Quali fiori?». La donna fece una pausa, esitante. Tomás pensò di aver guadagnato un punto e si sentì più fiducioso. «Non fare il finto tonto!» esclamò Constança dopo alcuni istanti. Sapeva che il marito stava facendo la parte dello stupido per non affrontare la situazione; lo conosceva troppo bene per cascarci. «Tu hai visto le digitali e le rose gialle e sai perfettamente cosa significano». In quel momento, Tomás capì che la sua tattica evasiva non avrebbe funzionato ma, per una questione di coerenza, mantenne la sua versione. «No, non ci ho fatto caso» ripeté. «Che significano?». «Il nome Lena ti dice niente?». La frase fu pronunciata con calma glaciale e Tomás sentì un brivido percorrergli il corpo. Era evidente, se ancora avesse avuto qualche dubbio, che Constança era al corrente di tutto. «È una mia allieva». «Una cara allieva!» esclamò Constança con ironia. «E si può sapere che materia le stavi insegnando?». Questa volta fu Tomás a fare una pausa. Come diamine faceva a sapere tutte quelle cose? Tentò di riordinare le idee e immediatamente arrivò alla conclusione che le scuse non avrebbero portato da nessuna parte, doveva assumersi le proprie responsabilità e cercare di tamponare i danni. Se ancora era possibile. «In effetti si era venuta a creare una certa situazione tra noi...» ammise con un'intonazione debole, sottomessa. «È durata poco ed è già finita, quindi...». «Una situazione?» domandò Constança, alzando il tono della voce, piena di indignata consapevolezza. «Una situazione? Andare a letto con un'a-
lunna me la chiami "situazione"?». Stavano per partire dure parole, Tomás lo presentì, e allontanò l'orecchio dalla cornetta in un gesto istintivo. «Beh... ehm...». «Io corro come una schiava per aiutare nostra figlia, lotto per l'insegnante di sostegno, vado continuamente al Ministero dell'Istruzione per presentare richieste e reclami, le insegno a leggere e a scrivere, la porto a fare esami medici che non finiscono mai, arrivando esausta a fine giornata, e lui passa i pomeriggi in un appartamento di Lisbona a dare valenti lezioni a una puttana svedese? Come ti permetti, tu, dopo essere stato con quella schifosa, di tornare a casa tutto sdolcinato, eh? Come ti sei permesso di farmi questo dopo che mi faccio in quattro, che faccio il possibile e anche l'impossibile per mandare avanti la baracca? Come ti permetti...». Le grida di rivolta, lanciate in un tumultuoso sfogo, annegarono in un vortice di singhiozzi. Ora Constança stava piangendo. «È finita, amore mio. È finita». «Figlio di puttana» mormorò lei in un gemito di dolore. «Grande farabutto!». «Scusa scusa. Mi pento mille volte». «Come hai potuto farmi questo...». «Constança, ascolta. Ho fatto una cosa di cui mi sono già pentito e alla quale ho posto fine. Non posso cambiare quello che è successo, ma posso prometterti che non lo farò più e che ti amo tanto». Il pianto s'interruppe e lei sembrò recuperare il contegno. «Vai al diavolo! Hai capito? Vai al diavolo, farabutto!». Tomás si sentì sfiduciato; i toni della conversazione si stavano facendo sempre più pesanti, la situazione stava precipitando e minacciava di sfuggire al controllo. «Amore mio. Lo so che mi sono comportato male, non me lo perdonerò mai». «Né tu, né io, figlio di puttana!». «Dai, calmati». «Io sono calma, hai sentito?» gridò lei, di nuovo alterata. «Sono molto calma!». «Su, dai...». «Ti ho chiamato semplicemente per dirti che puoi venire a casa dei miei sabato prossimo, alle tre del pomeriggio, per passare a prendere Margarida. E lei deve tornare domenica entro le cinque. Hai capito? Ci penserà mia
madre perché io non voglio nemmeno vederti. Capito, schifoso che non sei altro?». Tomás si agitava sul letto, sfregandosi la testa con la mano libera, era molto allarmato per il verso che avevano preso le cose. «Ma, amore mio...». Tre segnali acustici annunciarono la fine della conversazione; la donna aveva agganciato. Sconcertato, Tomás rimase a guardare il telefono seduto sul letto, con la mente pervasa da un turbinio di idee, di paure, di affanni. E in quel caos che ancora gli pesava sull'anima, in quella bufera che minacciava di sconvolgere la sua vita, tornò a interrogarsi su un dubbio che non poteva dimenticare. Come diamine aveva fatto Constança a scoprire tutto? Nei giorni seguenti cercò di parlare nuovamente con la moglie, ma la suocera gli fece capire chiaramente che lei non ne voleva sapere. Quando il sabato arrivò, andò a São João do Estoril e alle tre meno dieci si presentò a casa dei suoceri. La signora Teresa, madre di Constança, lo accolse freddamente; lo lasciò piantato sul portone, sotto la pioggerella di fine mattinata, in attesa che Margarida fosse pronta. La figlia si mostrò raggiante quando lo vide, ma ancor di più quando vide la bambola con i lustrini. Andarono a mangiare in una pizzeria del Cascaishopping e decisero di trascorrere il pomeriggio vedendo un film. Margarida scelse Toy Story 2 e Tomás non poté far altro che sopportare stoicamente due ore di Woody e Buzz Lightyear. Solo a sera, distesi sul sofà della sala e con un libro di Anita40 in mano, riuscì a strappare alla figlia qualche novità. «La mamma è p'op'io a'abbiata con te, papà» gli confermò Margarida. «Non fa alt'o che piange'e, dice che sei un mascalzone». Aggrottò le sopracciglia. «Papà, che cos'è un mascalzone?». «È qualcuno che si comporta male». «E tu ti sei compo'tato male?». Tomás sospirò, demoralizzato. «Sì, papà è stato cattivo». «Cos'hai fatto?». «Eh, non ho mangiato tutta la pappa». «Ah!» esclamò la piccola, meditando sulla gravità di un simile crimine. «Sei in castigo?». «Proprio così. Sono in castigo». «Pove'ino. Devi mangia're tutto».
«Hai ragione. E cos'altro dice la mamma?». «Che sei un fa'abucco». «Un farabucco?». «Sì, un fa'abucco». «Ah, un farabutto». «Certo, un g'andesissimo fa'abucco. E la nonna le ha detto di anda'e a pa'la'e con un avvocato suo amico». Tomás fece un salto sul sofà, s'alzò e guardò la figlia, allarmato. «Un avvocato?». «Sì, la nonna dice che è molto b'avo, te le da'à di santa 'agione». «Ah sì?». «Sì. Che cos'è santa 'agione?». «Non è nulla. E che dice la mamma?». «Che ci pense'à». Non riuscì a strappare altre informazioni a Margarida. La riportò alla madre il pomeriggio seguente, lasciandola sul portone di casa a São João do Estoril; le diede un bacio su una guancia, ma quando stava per darle il secondo, lei si ritrasse, e la vide sparire dietro la porta dei suoceri. Per vari giorni, e nonostante nutrisse qualche speranza, non ebbe notizie dalla moglie. In compenso incontrò di nuovo Lena a lezione. L'argomento di quella mattina si concentrava sulle questioni legate all'arte dei pergamenisti e al lavoro dei copisti negli scriptoria, con una vasta analisi di alcune grafie dominanti, in particolare di quella onciale e della carolingia, oltre a differenti tipi di quella gotica, iniziando dalla primitiva e passando per la fraktur, la textura, la rotunda, per il cursivo e infine per la bâtarde. La svedese si sedette, com'era sua abitudine, in fondo alla classe, più provocante del solito. Il vestito, molto aderente e di un rosso acceso, si apriva in un'ampia scollatura nella quale i seni sembravano costretti, l'uno contro l'altro, disegnando una profonda linea. Era difficile guardarla senza che gli occhi cadessero su quel petto prosperoso. Non si rivolsero parola ma, a un certo punto, Tomás si sentì tentato di riprendere la conversazione da dove l'avevano interrotta. In fin dei conti le circostanze erano molto cambiate dall'ultima volta che si erano visti, nello Chiado; ora lui viveva da solo e la giovane svedese, appetitosa come sempre, continuava a essere disponibile. Il professore tuttavia controllò l'istinto, dominò la tentazione che lo assaliva in quel momento di debolezza e lasciò perdere. Tomás passò le notti solitarie a leggere Michel Foucault, sempre impe-
gnato nel deprimente compito di trovare una pista per la snervante sciarada di Toscano. Ma la mente abbandonava subito i temi di Sorvegliare e punire e vagava nei meandri di quella confusione in cui si era trasformata la sua vita da quando Constança se n'era andata con la figlia. Tutte le ore d'isolamento in casa, trascorse quasi fosse un eremita ritiratosi dal mondo, lo indussero a riflettere profondamente sul suo rapporto con la moglie e su cosa lo avesse portato alla scappatella con l'amante. Più che un'avventura sessuale, considerò, l'adulterio era stato forse un sintomo del modo in cui si era isolato da Constança, un allontanamento dovuto forse alla delusione provocata dal crollo delle grandi aspettative che aveva riposto nel loro futuro insieme. Come frutto di quella disillusione che, pur razionalizzata, non era mai riuscito a superare emotivamente, portava nel petto un indescrivibile rancore, una rivolta silenziosa, forse proprio la disperazione di chi si vede trascinato in un vicolo cieco. Sdraiato sul letto o disteso sul divano, sempre in attesa di quella telefonata che la moglie si ostinava a non fare, Tomás tornò innumerevoli volte sullo stesso pensiero. Tentò faticosamente di leggersi dentro, di ricostruire i passi che, progressivi e inesorabili, lo avevano condotto a quello sfacelo. Ora gli sembrava che il sogno di Lena, in fin dei conti, non fosse altro che un messaggio occulto, un testo scritto in un codice invisibile, sulla quieta ribellione che portava nell'anima. Viaggiando alla scoperta di se stesso, perlustrò gli angoli più nascosti della propria esistenza, quelli che ancora dovevano essere esplorati, tentando di ascoltare le mute voci che gridavano dalle viscere più remote, da qualche parte nelle profondità del suo inconscio. Percepì l'unico suono che riuscivano a emettere, quello dell'adulterio, ed era questo suono che ora cercava di capire, ascoltandolo quasi fosse il più importante racconto emozionale scritto sulla sua persona. E cosa gli diceva quel grido che gli rimbombava nella mente e martellava la sua coscienza? Faccia a faccia con quella domanda, si alzò infinite volte e passeggiò per il piccolo appartamento, in pigiama e con la barba incolta, parlando con se stesso a voce alta. Come interpretare il tradimento? La risposta, si disse, trovava le sue radici nella profonda disillusione a seguito della nascita di Margarida. Aveva proiettato sulla figlia tutti i sogni e le aspirazioni che non era riuscito a realizzare, e quando gli avevano detto che la bambina aveva dei problemi era stato un colpo troppo duro, un dolore che, nonostante le apparenze, non era mai riuscito a superare. Constança aveva reagito alla delusione con coraggio, affrontando la questione a viso aperto.
Ma lui si era comportato diversamente. Dopo aver resistito per nove anni, era fuggito. Lena era stata la sua fuga, la sua valvola di sfogo, in lei s'era nascosto, sottraendosi alla realtà e vivendo in una sorta di paradiso illusorio. Senza rendersene conto aveva creduto che in quel modo le difficoltà sarebbero semplicemente scomparse, ma ora sapeva che non era così, che erano rimaste più vive che mai, tangibili, inevitabili. In fondo, concluse, la scappatella con la studentessa non aveva niente a che vedere con lei, con il suo formidabile corpo, con il sesso inebriante, ma con se stesso, con i problemi che lo devastavano, con le aspettative che la vita aveva infranto, con le paure che non riusciva ad affrontare. In cerca di conforto, aveva camminato per la strada dell'illusione solo, come un ubriaco, perso nella rete anestetizzante dell'adulterio. Ora sapeva che era stata la paura a impedirgli di affrontare i problemi della sua vita. Non paura di qualcuno, ma di ascoltare ciò che aveva dentro, la paura della sofferenza e dell'ansia provocate dall'esposizione ai propri sentimenti. Paura del dolore di dover crescere, paura della disapprovazione, paura di fare scelte e assumersi responsabilità, paura di affrontare le conseguenze, paura di essere soffocato dalle difficoltà e dalle preoccupazioni del suo matrimonio. Lena, a pensarci bene, aveva rappresentato una svolta nella strada della quotidianità, la scorciatoia che lui aveva creduto di prendere per aggirare tutto ciò che lo tormentava. Era stata la droga per liberarsi dall'ansia che lo opprimeva, come se i suoi movimenti fossero trattenuti da un'invisibile camicia di forza e avesse avuto bisogno di una pozione magica che gli desse l'energia per rompere le corde che lo trattenevano. L'adulterio non era stato altro che un guscio nel quale si era rifugiato, nell'illusione che così si sarebbe protetto dal mondo, come se la vita fosse il mare e Lena una conchiglia. Tomás si ritrovò a parlare da solo davanti allo specchio del bagno, cercando un'immagine che potesse rappresentare sé e il suo matrimonio. Si paragonava a un iceberg, e Constança era il Titanic che rischiava di affondare. Così come l'iceberg della famosa tragedia dell'Atlantico, quell'amalgama tenebroso e sconosciuto che era il suo inconscio restava per lo più nascosto sott'acqua, nascosto agli sguardi, ignoto. Sebbene non ne fosse consapevole, quella parte di sé gestiva le sue emozioni e i suoi comportamenti, cercava soluzioni per problemi dei quali ignorava perfino l'esistenza. Era stato per evitare il mondo sotterraneo dell'inconscio, delle frustrazioni represse e delle speranze fallite, che aveva cercato rifugio in un'altra alcova, lasciando che questo gigante nascosto sotto il manto gelato dell'ac-
qua distruggesse il ponte del suo matrimonio. Ora la nave stava affondando, ferita a morte da questo mostro invisibile, e lui, come il capitano della tragica storia, si lasciava affondare, trascinato verso il fondo del mare dall'incontrollabile corrente del destino. Secondo Freud l'amore è una riscoperta e noi, attraverso l'amore, tentiamo di recuperare quell'innocenza che, bambini, provavamo vivendo in pace con il mondo. L'amore, a guardar bene, ha a che fare con la volontà indefinita, eterea e impercettibile, di ritornare all'infanzia e all'affetto materno, e si alimenta della vana speranza di ritrovare quella felicità scomparsa nei primordi dell'esistenza. Tomás arrivò alla conclusione che aveva letto proprio questo nel viso bianco e lentigginoso di Constança quando l'aveva conosciuta alle Belle Arti e aveva passeggiato con lei lungo la spiaggia di Carcavelos. Il matrimonio non era stato altro che il desiderio di ritrovare un paradiso che, in fin dei conti, esisteva soltanto in un angolo beato della sua memoria. Non era Constança che lui aveva visto davanti a sé, era stata prima di tutto una idealizzazione, un sogno, una figura immaginata dalla nostalgia dell'infanzia, un miraggio costruito dal ricordo inconscio dei tempi felici. Era stata quest'illusione che Margarida, con tutti i limiti dovuti alla sua condizione, aveva inavvertitamente distrutto. In silenzio, senza mai formulare un'idea in modo chiaro, senza mai prendere piena coscienza del dramma che lo stava logorando, Tomás si era consumato per la disillusione, incapace di riprendersi dal trauma che l'annientamento del sogno aveva rappresentato. Distrutta un'illusione, aveva cercato conforto in un'altra. Ogni giorno Tomás si conosceva sempre di più, impegnato a sondare il suo essere più profondo per trovare le risposte che stava cercando. Di fronte alle conseguenze delle proprie azioni, e con la solitudine che lo circondava, capiva in quel momento, in modo più chiaro, ciò che non aveva funzionato. Aveva proiettato nella realtà qualcosa che realtà non era; si rendeva conto di aver vissuto non con Constança e con Margarida, ma con un'immagine di loro che aveva precedentemente costruito, con una fantasia che non era possibile realizzare. Il frantumarsi di questa immagine, provocata dalle circostanze della vita, era stato un colpo troppo duro per il suo universo di speranze. Invece di accettarle così com'erano, era fuggito e aveva cercato rifugio in un'altra illusione, liberandosi in tal modo dalla tensione accumulata nel tumultuoso silenzio dell'inconscio. In questa fase, il problema non era tanto capire ciò che non aveva funzionato, ma determinare ciò che poteva ancora fare per correggersi. E gli fu necessario fare un
ulteriore passo nel percorso di analisi che aveva intrapreso. La risposta stava, almeno così credeva, nell'intimità che si era instaurata tra lui e Constança. Quando si erano sposati, trasportati dai forti venti della speranza e splendenti sotto la luce celestiale emanata dai loro sogni, avevano condiviso tutto. La loro relazione, così come si era sviluppata durante i primi anni, faceva venire in mente a Tomás il mito di Aristofane raccontato da Platone nel suo Symposium, secondo cui originariamente l'uomo aveva quattro braccia e quattro gambe. Le cose iniziarono ad andar male quando questa creatura decise di sfidare gli dei. Zeus, per punirla, la tagliò in due, dividendo l'uomo in una parte maschile e in una femminile, entrambe condannate a vivere nell'illusione che un giorno avrebbero ristabilito l'unione primordiale persa. Era questo, in fondo, lo stato d'animo in cui si trovavano quando si erano sposati. Loro due volevano essere un'unica cosa in eterno, cercavano di fondersi in una sola persona, ed era in questo vano desiderio che si inscriveva la loro intimità. Fu Margarida, con la sua interminabile sequela di problemi, a far svanire il sogno di fusione e a renderli estranei. La figlia nacque e la dura realtà sostituì la dolce illusione. C'era una nuova priorità nelle loro vite: farla vivere nel modo più sereno possibile. Non si trattava di renderla quella persona straordinaria che avevano immaginato, ma semplicemente di aiutarla a essere una persona normale. Ora avrebbero dovuto accontentarsi di molto meno rispetto a ciò cui aspiravano. Lo shock li aveva scossi e, nella dolorosa convalescenza della brutale caduta nella realtà, abbandonati tra i frammenti del sogno distrutto, non restò loro spazio per provare a ricostituire l'essere primordiale diviso da Zeus. Assunsero il compito di sostenere la figlia con ostinata rassegnazione, evitando di parlare tra loro della disillusione che li stava corrodendo, come se il semplice atto di esprimere a parole ciò che sentivano avesse il potere di aggravare la situazione. Repressero, per questo, la muta rivolta che ribolliva nelle loro viscere, diventarono attori di un'opera di dissimulazione: all'esterno sorridevano ma dentro sanguinavano. Lui, ancor più di lei, aveva visto il mondo sgretolarsi, era come se i loro sogni fossero un castello di sabbia e la realtà un'onda più audace. Durante il cammino, l'intimità si andò perdendo, sommersa dalla marea delle difficoltà quotidiane, soffocata dal repentino taglio delle linee di comunicazione, strangolata dal colpo che la frustrazione delle attese aveva inflitto loro quando avevano capito che la figlia non sarebbe mai stata come gli altri bambini. Chiuso in casa, faccia a faccia con i ricordi del suo matrimonio andato in
frantumi, Tomás si mostrava ora fermamente convinto di dover recuperare quell'intimità e di dover accettare quella realtà se voleva avere qualche chance, anche remota, di ricostruire la vita con Constança. Quando il cellulare squillò, Tomás schiacciò prontamente il tasto verde, sempre nella speranza che fosse la chiamata tanto attesa. Era una settimana che sperava in una telefonata, fosse soltanto una, ma ebbe una nuova delusione. «Hi Tom!» lo salutò Moliarti. «Salve, Nelson» rispose Tomás pesantemente, riuscendo a malapena a nascondere la disillusione. «È un po' di tempo che non ci dà notizie, caro mio. Che succede?». Il portoghese emise uno schiocco rassegnato. «Non è una questione facile» si discolpò. «Il professor Toscano ha lasciato una sciarada che non sono ancora riuscito a sciogliere». «Ma la fondazione le ha pagato il viaggio a Genova e a Siviglia sicura che avrebbe fatto dei progressi, no?». «Sì, certo» riconobbe. L'americano aveva ragione a protestare per la mancanza di novità nella ricerca e Tomás si maledisse per aver messo il lavoro in secondo piano, se non addirittura quasi abbandonato. «Ho consultato documenti preziosi e ho fatto fotocopie di tutti quelli che mi sembravano interessanti. Ma il mio problema, in questo momento, è riuscire a entrare nella cassaforte del professor Toscano. Per questo ho bisogno di risolvere la complicata sciarada che ci ha lasciato e che probabilmente mi darà la combinazione». «Non potrebbe... come si dice? Ehm... break in?». «Forzare la cassaforte?» rise Tomás, divertito dal senso pratico degli americani. «Non penso, la vedova non lo permetterebbe». «Fuck her!» esclamò Moliarti. «Perché non lo fa di nascosto?». «Ehi, Nelson, lei è pazzo. Io sono un professore universitario, non un ladro. Se vuole scassinarla senza l'autorizzazione della vedova, vada a Cais do Sodré e ingaggi qualcuno esperto per fare questo lavoro. Io proprio no». Moliarti sospirò dall'altra parte della linea. «Okay, okay. Dimentichi quello che ho detto. Ma io ho bisogno di un briefing con lei». «Certamente» assentì Tomás. Guardò di sfuggita la sua documentazione, sparsa sul tavolinetto della sala. «Ci vediamo domattina?». «Perfetto».
«Dove? Vengo lì in hotel?». «No, in hotel no. Stavo pensando di andare a mangiare al ristorante Casa da Águia. Sa dov'è?». «La Casa da Águia? Non è proprio nel Castello di São Jorge?». «Esattamente. Ci vediamo là all'una, sharp. Okay?». Con tutti i problemi che si erano accumulati ultimamente nella sua vita, distraendolo dal lavoro, Tomás aveva trascurato la lettura di Michel Foucault. La chiamata di Moliarti aveva avuto il vantaggio di far ritornare al primo posto la risoluzione della sciarada di Toscano, pertanto rivolse le proprie attenzioni alla lettura di Sorvegliare e punire. Era già arrivato alle ultime pagine, per cui riuscì a terminarlo quella sera stessa. Chiuse il volume e rimase a osservarlo. Si sentiva sconfortato, ancora una volta, e nonostante l'enorme sforzo per concentrarsi sui dettagli, per non essere riuscito a scovare qualche pista che lo conducesse alla risposta dell'enigmatica domanda formulata dallo storico scomparso. Sapendo di non poter desistere e considerato il lauto premio previsto alla fine del cammino, nel caso avesse portato a buon fine la ricerca, indossò un cappotto e uscì di casa; c'erano altri testi da consultare e aveva avanti a sé ancora molto lavoro. Fece un salto al centro commerciale e si recò in una libreria, alla ricerca di nuovi titoli di Michel Foucault. Trovò un esemplare de Les mots et les choses e lo prese, in cerca di una soluzione per l'enigma. Prima di dirigersi alla cassa, approfittò del fatto di trovarsi lì per fare un giro, era sempre un modo per rilassare il corpo e distendere la mente, fuggire, anche se solo per pochi momenti, alla tensione accumulata nell'ultima settimana. Consultò la sezione di storia e rimase a lungo incantato davanti al classico di Samuel Noah Kramer, La storia inizia in Sumeria; già lo aveva letto in facoltà, ma gli sarebbe piaciuto vederlo esposto sullo scaffale della sala, accanto all'edizione della Gulbenkian de Il libro, di Douglas McMurtrie, e dei vari volumi della Storia della Vita Privata, anch'essi suoi favoriti. Poi passò alla sezione di letteratura, non proprio una sua passione, eccetto per il romanzo storico, l'unico genere narrativo che considerasse interessante, non fosse altro che per la sua professione. Trovò due opere di Amin Maalouf che sfogliò con attenzione: una era Col fucile del Console d'Inghilterra, l'altra Samarcanda. Aveva conosciuto Amin Maalouf quando lesse I Giardini di Luce, una valida ricostruzione fittizia della vita di Mani, l'uomo della Mesopotamia che aveva fondato il manicheismo. Fu quasi tentato di acquistare i due romanzi dell'autore libanese, ma si fermò: ora la sua vita era troppo complicata per perdere tempo con la lettura. Tuttavia
rimase in quella sezione, perso nel consultare titoli. Sfiorò con le dita libri tanto differenti come Nazione creola, di José Eduardo Agualusa, e Pantaleon e le visitatrici, di Mário Vargas Llosa. Dallo scrittore peruviano passò a Isabel Allende, e così proseguì sfogliando La figlia della fortuna dell'autrice cilena. Nello scaffale successivo il suo sguardo fu attirato da un titolo enigmatico su una bella copertina, Il Dio delle piccole cose di Arundhati Roy, ma tornò a sorridere solo quando vide Il nome della rosa di Umberto Eco. Grande libro, pensò; difficile ma interessante. In fin dei conti, nessuno era mai era riuscito ad addentrarsi in quel modo nella mentalità medievale. Accanto al classico si trovava un'altra opera dello stesso autore. Il Pendolo di Foucault. Tomás fece una smorfia con la bocca; ecco un altro disgraziato alle prese con Foucault. Beato Eco, pensò, lasciandosi sfuggire un sorriso complice; non aveva dovuto sopportare il filosofo Michel Foucault, ma il fisico Léon Foucault, sicuramente più accessibile. Se ben ricordava, si trattava dell'uomo che, nel XIX secolo, aveva dimostrato la rotazione della Terra attraverso un pendolo che ora era esposto presso il Conservatorio Nazionale di Arti e Mestieri a Parigi. A un tratto gli saltarono agli occhi tre parole. Eco, pendolo, Foucault. Inebetito, restò paralizzato per un interminabile momento, fissando intensamente quanto stampato sulla copertina. Eco, pendolo, Foucault. Mise la mano nella tasca interna del cappotto, prese il portafoglio con un gesto precipitoso, febbrile, eccitato, e afferrò, fra banconote da cinquecento e mille scudi, il foglietto nel quale aveva scarabocchiato la sciarada di Toscano. La domanda dello storico era lì, e lo stava interrogando con tutto lo splendore di quell'enigma che aveva temuto di non saper risolvere: QUAL O ECO DE FOUCAULT PENDENTE A 545? Gli occhi balzarono dalla copertina del libro alla domanda scritta su quel foglio di carta. Eco, Foucault, pendente. Eco, pendolo, Foucault. Il libro si chiamava Il Pendolo di Foucault ed era stato scritto da Umberto Eco. Il professor Toscano gli domandava "quale l'Eco di Foucault pendente a 545?". Come se fosse stato raggiunto da un raggio divino, Tomás si sentì illuminare. Fiat lux! Non era nei libri di Michel Foucault che si trovava la chiave per la scia-
rada, ma in quel romanzo di Umberto Eco sul pendolo di un altro Foucault, Léon. Come aveva potuto essere tanto stupido? Si maledisse. La risposta all'enigma era sempre stata sotto il suo naso, tanto semplice ed evidente, tanto facile, tanto logica, ed era stata la sua assurda mania per Michel Foucault a distrarlo dalla risposta corretta. Qualsiasi altra persona avrebbe capito subito che quello era un riferimento esplicito al pendolo di Foucault, ma non lui, l'uomo di lettere, l'emerito professore, l'amante della filosofia. L'idiota. Tornò a osservare il libro e il foglio, saltando con gli occhi dall'uno all'altro, finché la sua attenzione fu catturata dall'ultimo elemento della domanda, i tre numeri prima del punto interrogativo. 545. Con un movimento febbrile, eseguito come se stesse morendo di fame e gli avessero offerto un banchetto degno di un re, sfogliò velocemente il libro, nell'affannosa ansia di scoprire finalmente la soluzione, e si fermò soltanto quando trovò pagina 545. XII Il quartiere dell'Alfama risplendeva in tutta la sua pittoresca gloria. Le facciate rovinate delle vecchie case erano quasi completamente coperte da sciami di vasi, traboccanti di fiori, e dai vestiti stesi ad asciugare fuori dalle grandi finestre: camicie, mutandine e calze penzolavano dai fili alle ringhiere di ferro dei balconi. Incurante di quello spettacolo pulsante di vita, Tomás camminava a testa bassa e con gli occhi fissi sulle pietre del selciato, sbuffando mentre saliva le viuzze ripide e strette e le numerose scale che portavano al castello, la ventiquattrore con i documenti sempre nella mano destra, come un peso da trascinare in cima a una montagna. Non faceva caso neanche agli allegri bar all'aperto e alle animate taverne, né agli alimentari che spuntavano dai vicoletti, né ai tranquilli antiquari o ai colorati negozi di artigianato assiepati in quella ragnatela di strette vie. Fu con sollievo che percorse Via do Chão da Feira e attraversò Porta de São Jorge, entrando, finalmente, nel vasto perimetro del Castello de São Jorge. Estenuato e quasi senza respiro, si fermò all'ombra dei pini di Piazza de Armas, vicino alla minacciosa statua di Don Afonso Henriques, posò la borsa per qualche momento e si guardò intorno, apprezzando le mura medievali che difendevano quell'ampia piazza con enormi cannoni seicenteschi. Era proprio in quel luogo che erano vissuti tutti i re portoghesi dopo
che Don Afonso Henriques aveva strappato Lisbona ai mori, nel 1147. Persino Don João II e Don Manuel I, i grandi sovrani delle Scoperte, avevano risieduto in quel castello, eretto sulla collina che dominava il centro della città. Oltrepassò la piazza alberata e si appoggiò al muro di pietra, ammirando Lisbona che si stendeva ai suoi piedi e le case dai tetti rossi che arrivavano sino all'orizzonte. Il placido specchio del Tago brillava, dominato soltanto da un'enorme struttura di ferro rossastra che lo attraversava, sullo sfondo il Ponte 25 Aprile. Costeggiò le mura, sempre contemplando Lisbona, fino ad arrivare in un locale all'aperto, allestito nel cortile dell'antica residenza reale, all'ombra della colossale Torre do Paço. Piccoli leoni in pietra stavano di guardia all'ingresso del patio, sorvegliando i tavoli circolari disposti vicino al muro, con la città che da lì si allargava a macchia d'olio. Nelson Moliarti gli fece cenno da un tavolino, posto tra un vecchio ulivo dall'imponente tronco e un gigantesco cannone del Seicento, e Tomás lo raggiunse. Decisero di sedersi fuori, sebbene per lo storico quel tempo fresco e grigiastro non fosse dei più invitanti per pranzare all'aperto; al contrario, l'americano non sembrava minimamente infastidito dal freddo dell'inverno, anzi, quello spiazzo gli sembrava persino delizioso. Si scambiarono i saluti e le classiche parole di circostanza; ordinarono, poi, superate le formalità che quel tipo di incontro esigeva, Tomás iniziò a esporre quanto aveva scoperto sul lavoro effettuato da Toscano. «Basandomi sulle fotocopie che ho trovato a casa della vedova e sui registri delle richieste delle biblioteche di Lisbona, Rio de Janeiro, Genova e Siviglia, posso stabilire, senza ombra di dubbio, che il professor Toscano dedicò la maggior parte della sua ricerca ad appurare le origini di Cristoforo Colombo» annunciò Tomás. «Sembrava interessato soprattutto ad analizzare tutti i documenti che legano lo scopritore dell'America a Genova; in particolare ne voleva attestare la veridicità. Quello che sto per farle, pertanto, è il resoconto dei dati riuniti dal professor Toscano e delle conclusioni alle quali credo sia arrivato». «Mi faccia capire» lo interruppe Moliarti. «Lei è in grado di garantirmi che il professor Toscano ha trascorso solo una minima parte del suo tempo a studiare le vicende della scoperta del Brasile?». «Sono certo che nella fase iniziale si sia dedicato al tema per cui era stato contattato. Ma nel corso della ricerca deve essersi imbattuto casualmente in qualche documento che lo ha distolto dal percorso originario». «Che documento?».
«Ah, questo non lo so». Moliarti scrollò la testa. «Son of a bitch!» imprecò a bassa voce. «Ci ha ingannato per tutto questo tempo!». Fece una pausa. Tomás rimase tranquillo, aspettando che il suo interlocutore si calmasse. Il cameriere arrivò al momento giusto, portando gli antipasti, un foi gras sauté al naturale con pera al vino e foglie di cicoria per l'americano e una terrina di formaggio di capra ornato da un pomodoro cherry, mela caramellata, miele e origano per il suo ospite. L'aspetto raffinato dell'hors d'oeuvre contribuì a rasserenare Moliarti. «Posso andare avanti?» domandò Tomás appena il cameriere si fu allontanato. «Sì. Go on». Prese la forchetta e immerse la sua pera nel foi gras. «Buon appetito». «Grazie» disse il portoghese, assaggiando la mela caramellata insieme al formaggio di capra. «Vediamo allora i documenti che legano Colombo a Genova». Si chinò e prese la ventiquattrore che aveva appoggiato ai piedi del tavolo; tirò fuori un foglio. «Questa è una fotocopia della lettera centotrenta, inviata dal priore dell'Arcivescovato di Granada, il milanese Pietro d'Anghiera, al conte Giovanni Borromeo il 14 Maggio 1493». Consegnò il foglio all'americano. «Legga». Moliarti prese il foglio, lo studiò di sfuggita e glielo riconsegnò. «Tom, mi dispiace, ma non capisco il latino». «Ah, mi scusi». Il portoghese riprese la fotocopia e indicò una frase. «Qui si afferma che "redita ab Antipodibus ocidinis Christophorus Colonus, quidam vir ligur"». «Cosa significa?». «Significa che un certo Christophorus Colonus, uomo ligure, arrivò dagli antipodi occidentali». Prese un altro foglio dalla ventiquattrore. «E, in un'altra missiva indirizzata al cardinale italiano Ascanio, la lettera centoquarantadue, si riferisce a Colombo come "Colonus ille novi orbis repertor", vale a dire Colonus, quello scopritore del Nuovo Mondo». Alzò il dito. «Attenzione, Anghiera lo chiama Colonus, e non Colombo». «Dove si trovano queste lettere?». «Furono pubblicate nel 1511 dal tedesco Jacob Corumberger con il titolo Legatio Babilonica e ripubblicate poi nel 1516 dal milanese Arnaldi Guillelmi nell'opera De orbe novo decades, una relazione piena di errori sulla storia della Castiglia».
«Ma lei ha consultato gli originali?». «No, credo siano andati persi». «Allora c'è l'eventualità che chi le ha trascritte possa essersi sbagliato nei riferimenti al nome Colombo». Tomás rispose di sì dondolando la testa mentre gustava il resto della terrina di formaggio. «È evidente che, non avendo i testi originali, questo è un problema serio. Del resto, è ricorrente nei documenti sulle origini di Colombo. Non sapremo mai fino a che punto i copisti siano stati rigorosi e se abbiano messo in atto tentativi di appropriazione della nazionalità del navigatore: in alcuni casi potrebbero aver inventato i documenti, in altri, forse nella maggioranza, potrebbero aver cambiato solo alcuni punti-chiave dei rispettivi contenuti. Come sa, alle volte basta spostare una semplice virgola per modificare totalmente il senso di un testo. Non avendo visto le lettere originali di Anghiera, ma solo le riproduzioni del 1511 e del 1516, è possibile che ci sia stata qualche alterazione del nome. Del resto, deve sapere che quanto è valido per il nome è ugualmente valido per ciò che riguarda l'origine di Colombo. Anghiera suggerisce che veniva dalla Liguria, ma siamo sicuri che sia stata trascritta correttamente l'origine dello scopritore dell'America?». «Questo Anghiera conosceva personalmente Colombo?». «Alcuni storici sostengono di sì, ma in realtà nella lettera centotrenta egli parla del navigatore definendolo come un tal Christophorus Colonus. Ora, se una persona, nel citarne un'altra, dice "un tal" è implicito, almeno in questo contesto, che non la conosca personalmente, giusto?». «Certo» assentì Moliarti, mentre finiva il foi gras. «Ammettiamo pure che ci siano problemi di veridicità nel testo di questo certo Anghiera. Ma esistono anche altri testi che legano Colombo a Genova, o no?». «Eccome se ce ne sono» sorrise Tomás. «Un altro italiano, il veneziano Angelo Trevisan, nel 1501 inviò a un suo conterraneo una traduzione italiana di una prima versione del De orbe novo decades di Anghiera, nella quale menziona l'amicizia che l'autore aveva con "Christophoro Colombo zenoveze", stabilendo così, e per la prima volta in modo chiaro, il legame del navigatore con Genova». «Visto?». «Il problema è che il professor Toscano dubitava dell'attendibilità di alcuni elementi di questa edizione citando a tal proposito, nei suoi appunti, i sospetti dello studioso Bayerri Bertomeu. Sono andato a leggere Bertomeu
e ho appurato che effettivamente questo ricercatore mette in dubbio l'autenticità del testo di Anghiera perché gli sembra che tutto sia aggiustato in base al gusto del pubblico letterato italiano. È un po' come se il De orbe novo decades fosse un testo sensazionalista, del genere di quelli che in quell'epoca Americo Vespucci pubblicò sul Nuovo Mondo. Non diceva necessariamente la verità, ma ciò che i lettori volevano sentire. E ciò che gli italiani volevano sentire è che era stato un italiano a fare la grande scoperta41 dell'America». «Hmm» mormorò Moliarti, grattandosi il mento. «Mi sembra una speculazione». «È una speculazione» concordò Tomás. «Ma del resto, cosa non è speculativo quando si parla di Colombo?». Sorrise. «E vabbè. Mi lasci solo dire che nel 1504 Trevisan pubblicò il Libretto di tutte le navigationi di Re di Spagna, nel quale si riferisce di nuovo al "Christophoro Colombo Zenovese"». Moliarti indicò la borsa appoggiata sulle ginocchia dello storico. «Ha delle fotocopie di questo testo?». «No» rispose Tomás scrollando la testa. «Non è sopravvissuto nessun esemplare del Libretto». «E allora come fa a sapere cosa c'è scritto?». «È citato da Francesco da Montalboddo nel Paesi nuovamente retrovati, pubblicato nel 1507». «Questo è sufficiente, no?». «Sì, se accettassimo il principio delle fonti secondarie. Il fatto è che, ancora una volta, non abbiamo accesso al testo originale ma solo a una copia di seconda mano, con tutto quello che ne può derivare. D'altro canto, è importante sottolineare che Trevisan non conobbe personalmente Colombo e si limitò, anche lui, a citare una fonte secondaria, in questo caso Anghiera. O meglio, Montalboddo cita Trevisan, che cita Anghiera». Cercò alcuni appunti nel suo bloc-notes. «Inoltre, lo stesso Montalboddo afferma che "dopo i romani, soli gli italici scoprirono terre", una dichiarazione straordinaria che, per quanto assurda, tradisce l'intenzione dell'autore di provare che tutti gli scopritori erano italiani, anche se non lo erano». Fissò il suo interlocutore. «Come ben capisce, la veridicità delle informazioni trasmesse in queste condizioni e con queste motivazioni viene messa piuttosto in discussione». «Allora eliminiamo Trevisan. Che ci resta?». «Molto materiale, molto materiale». Tirò fuori dalla ventiquattrore un
piccolo gruppo di fotocopie. «Nel 1516, dieci anni dopo la morte di Colombo, un frate genovese che fu vescovo di Nebbio, Agostino Giustiniani, pubblicò un testo in varie lingue, intitolato Psalterium hebraeum, graecum, arabicum et chaldeum, etc, che si rivelò una manna di informazioni fino ad allora sconosciute. Giustiniani svelò al mondo che lo scopritore dell'America, un certo Christophorus Columbus di "patria Genuensis", era "Vilibus ortus parentibus", cioè di umili origini, essendo il padre un "carminatore", un cardatore di lana, che non viene nominato. Sempre secondo Giustiniani, anche Colombo fu cardatore, e ricevette un'istruzione rudimentale. Prima di morire, avrebbe lasciato un decimo delle sue rendite presso l'Ufficio di San Giorgio, la banca di Genova. Queste informazioni furono riprese da Giustiniani in una seconda opera, il Castigatissimi Annali, pubblicata postuma nel 1537, nella quale corresse solo la professione di Christophorus. Non era più un cardatore di lana ma un tessitore di seta». «Questo sicuramente contrasta con quello che oggi sappiamo di Colombo». «Senza dubbio» riconobbe Tomás. «Tuttavia, negli appunti che ha lasciato il professor Toscano elenca alcuni problemi che ha riscontrato nelle informazioni fornite da Giustiniano nel Psalterium e nel Castigatissimi Annali. In primo luogo, Colombo non può aver lasciato un decimo dei suoi averi presso la banca di Genova perché morì in miseria. Ora, il decimo di niente equivale a zero». Sorrise. «Ma questo è solo un dettaglio caricato. Interessante è l'informazione sulla professione di Colombo, tessitore di seta senza nessuna istruzione, in quanto solleva grandi perplessità. Allora, se tesseva ed era un cafone ignorante, dove diavolo trovò le avanzate nozioni di cosmografia e di nautica che gli permisero di navigare in mari sconosciuti? Com'è possibile che, in quelle condizioni, gli abbiano affidato non una nave, ma un'intera flotta? Come può aver ottenuto il titolo di Ammiraglio? È ammissibile che questo plebeo abbia sposato Dona Filipa Moiz Perestrelo, una portoghese di origine nobile, discendente di Egas Moniz e parente del conestabile Don Nuno Alvares Pereira, in un'epoca di grandi pregiudizi di classe, in cui le unioni tra uomini del popolo e donne della nobiltà non esistevano? In che modo un individuo così ignorante riuscì a ottenere l'accesso alla corte del grande Don João II, all'epoca il più potente e colto monarca del mondo?». Sventolò le copie degli appunti di Toscano. «Mi sembra chiaro che, per il professor Toscano, niente di tutto ciò aveva senso. Inoltre, Giustiniani non ha mai conosciuto personalmente il navigatore, limitandosi peraltro a citare fonti altrui. Lo stesso figlio spagnolo di Co-
lombo, Hernando Colón, accusò Giustiniani di essere uno storico falso e gli attribuì diversi reali errori facilmente verificabili, insinuando velatamente che anche l'autore genovese aveva dato false informazioni su "en este caso que es oculto", enigmatica espressione del libro di Hernando che si presume abbia a che fare con le origini del padre». «I see» mormorò Moliarti, taciturno. «E che altro?». «Per quanto riguarda le rivendicazioni italiane fatte nel XVI secolo, è tutto qui». Il cameriere interruppe la conversazione portando il pranzo. Ritirò i piatti vuoti dell'antipasto e posò dei filetti di rana pescatrice con limone davanti a Moliarti, un piatto di gamberetti e scampi al forno con salsa di pomodoro, limone e capperi e della farinata di mais bianco e vongole per Tomás; su richiesta dell'americano, versò nei bicchieri un Casal Garcia bianco ben freddo. «Ciò che più mi piace in Portogallo è il pesce» commentò l'uomo della fondazione, mentre spremeva il limone sul filetto. «Pesce grigliato e del fresco vinho verde». «Non è male, no» concordò Tomás con un gamberetto infilato nella forchetta. «Hmm, delizioso!» esclamò Moliarti mentre divorava il pesce. Fece un gesto con la posata in direzione del suo invitato. «Nient'altro?». «Nient'altro cosa?». «Mah... cronisti del Cinquecento con riferimenti a Colombo». «Ci sono gli autori iberici». Bevve un sorso di vino. «Iniziamo da quelli portoghesi. Ruy de Pina, all'inizio del XVI secolo, parla di "Cristovam Colonbo, italiano". Lo stesso fanno Garcia de Resende nel 1533 e António Galvão nel 1550. Al contrario, Damião de Góis, nel 1536, e João de Barros e Gaspar Frutuoso, nel 1552, specificano l'origine genovese del navigatore, che quasi tutti chiamavano Colom». «Ci sono molte persone che sostengono la stessa cosa...». «Infatti» ammise Tomás. «Ma solo Ruy de Pina merita uno speciale interesse perché era contemporaneo agli avvenimenti e, probabilmente, conobbe Colombo di persona. Gli altri cronisti portoghesi si limitarono a scopiazzare, da lui e dagli altri autori italiani che ho già menzionato. Alcuni scrissero che Colombo era italiano perché lo aveva affermato Ruy de Pina, altri gli attribuivano origini genovesi perché era questa l'informazione messa in circolo da Trevisan, Montalboddo e Giustiniani». «Considera autentica l'affermazione di Pina?».
«Assolutamente». «Ah!» sorrise Moliarti, sfregandosi la mani soddisfatto. «Molto bene». «Ma devo dirle che, consultando gli appunti di Toscano, ho scoperto, con sorpresa, che aveva qualche dubbio al riguardo». «Qualche dubbio?». «Sì» confermò Tomás, facendo una smorfia. «Tuttavia, non ha giustificato le sue perplessità. Ha semplicemente annotato a matita, a margine della copia microfilmata della Crónica do Rei D. João II, conservata nella Torre do Tombo, una curiosa osservazione». Consultò il documento in causa. «"Questa sì che è buona" scrisse, aggiungendo "furbacchioni"». Moliarti contrasse i muscoli del viso, aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia di curiosità. «Che diavolo significa?». «Non ne ho la minima idea, Nelson. Ci devo riflettere». L'americano scrollò la testa, condiscendente. «Bene, e gli altri autori iberici?». «Già ho menzionato quelli portoghesi, ora mancano gli spagnoli. Iniziamo dal vicario Andrés Bernáldez, che nel 1518 pubblicò la Historia de los Reyes Católicos. Il nostro amico Bernáldez dice che Colombo nacque contemporaneamente in due città, Milano e Genova». «Come in due città? O in una o nell'altra». «No, se si crede a Bernáldez. L'edizione del 1556, edita a Granada, colloca il luogo di nascita di Colombo a Milano, quella del 1570, di Madrid, sposta la sua culla a Genova». «Ma lei non ha detto che pubblicò il libro nel 1518?». «Infatti, ma non è sopravvissuto alcun esemplare delle prime edizioni. Le più antiche sono quelle di Granada e Madrid, che divergono in questa informazione cruciale». L'americano roteò gli occhi, impaziente. «Next». «Il prossimo cliente è un altro spagnolo». Mostrò un piccolo gruppo di fotocopie. «Si chiama Gonzalo Fernández de Oviedo e iniziò a pubblicare la sua Historia General y Natural de las Indias nel 1535. Oviedo cita gli italiani che si contendono la provenienza di Colombo. Secondo questo autore, alcuni affermano che il navigatore era di Savona, altri di Nervi e altri ancora di Cugureo. Oviedo non conobbe personalmente Colombo e tutte le informazioni di cui disponeva erano per "sentito dire" da alcuni italiani». Ripose le fotocopie nella ventiquattrore. «Pertanto, Oviedo non è nient'al-
tro che una fonte di seconda mano». L'americano sospirò irritato. «What else?». «Ci restano i documenti pubblicati dopo il XVI secolo e tre testi molto importanti, considerando l'identità degli autori». Fece una pausa drammatica, che risvegliò la curiosità di Moliarti. «A chi si riferisce?». «Allo storico spagnolo fra Bartolomé de Las Casas, al figlio spagnolo di Colombo, Hernando Colón, e allo stesso Cristoforo Colombo». «Molto bene». «Iniziamo da Bartolomé de Las Casas che, oltre a Hernando Colón, fu lo storico contemporaneo di Colombo che maggiormente scrisse sullo scopritore dell'America. Las Casas redasse la sua Historia de las Indias tra il 1525 e il 1559. Afferma di aver conosciuto Colombo dopo essere arrivato in Spagna e aver avuto accesso ai documenti depositati nel Convento de Las Cuevas, a Siviglia. Questo storico gli attribuisce origine genovese». «Ah!» esclamò Moliarti, inclinandosi sul tavolo, facendo sfiorare il tovagliolo sui resti della rana pescatrice. «Ecco una fonte sicura». «Senza dubbio» affermò Tomás, mordendo uno scampo. «Sfortunatamente ci sono alcuni problemi. In primo luogo, la Historia de las Indias è stata pubblicata solo nel 1876, tre secoli dopo essere stata redatta. Chissà per quante mani è passata nel frattempo! Il professor Toscano ha scoperto degli interventi e delle aggiunte rispetto al manoscritto originale. La seconda questione riguarda la veridicità del testo di Las Casas. Il ricercatore spagnolo Menéndez Pindal gli attribuì esagerazioni e inesattezze, così come emerge nel punto in cui Las Casas dichiara di aver conosciuto Colombo quando arrivò in Spagna». «Non lo ha conosciuto?». «Cerchiamo di riorganizzare le cose» disse Tomás, prendendo una penna. «Cristoforo Colombo entra in Spagna nel 1484, proveniente dal Portogallo». Scarabocchiò 1484 sul retro di una fotocopia. «Las Casas nasce nel 1474». Scrisse 1474 sotto la precedente data e tracciò il segno di sottrazione. «Questo significa che Las Casas dovrebbe aver incontrato l'ammiraglio quando aveva appena dieci anni e quando Colombo era ancora sconosciuto». Annotò 1484-1474=10. «Pensa sia possibile che un bambino di dieci anni registri nella memoria un incontro con un uomo cui, all'epoca, otto anni prima della scoperta dell'America, nessuno dava la minima importanza? Pensa sia normale?».
Moliarti tornò a sospirare e abbassò lo sguardo. «In effetti...». «Passiamo ora alla testimonianza più importante, a parte quella di Colombo stesso». Ripose la penna nel taschino interno della giacca e prese un libro dalla ventiquattrore. «Hernando Colón, il secondo figlio dell'Ammiraglio, nato dalla sua relazione con la spagnola Beatrice di Harana e autore della Historia del Almirante». Mostrò il libro, con il titolo in castigliano, che aveva comprato a Siviglia. «Ecco quello che dovrebbe essere, senza ombra di dubbio, una vera miniera di informazioni. Hernando Colón era figlio dell'Ammiraglio e nessuno osa mettere in discussione il fatto che conoscesse il padre. Aveva, per questo, accesso a dettagli privilegiati. Il nostro Hernandino rese immediatamente chiaro di aver scritto quella biografia perché altri avevano tentato di farlo senza conoscere i veri fatti. Fra i falsificatori nominò specificatamente Agostino Giustiniani, quel frate genovese che aveva annunciato al mondo che Colombo era originariamente un tessitore di seta a Genova». «Ma Hernando ha confermato mai che il padre era di Genova?». «È questo il problema. Il figlio di Colombo non lo dice mai in modo inequivocabile. Al contrario. Hernando rivela di essere stato tre volte in Italia, nel 1516, nel 1529 e infine nel 1530, per verificare se le informazioni che circolavano allora avessero dei fondamenti. Andò alla ricerca di parenti, contattò varie persone con il cognome Colombo e fece ricerche negli archivi notarili. Niente. Nelle tre occasioni in cui passò nella zona di Genova, non trovò alcuna traccia di qualche familiare. Tuttavia localizzò le origini del padre in Italia, più precisamente a Piacenza, nel cui cimitero, secondo lui, esistevano tombe con arme ed epitaffi di Colombo. Hernando rivelò che i suoi antenati erano di sangue illustre, sebbene i nonni fossero caduti in una situazione di grande povertà, e negò che il padre fosse una persona senza cultura, richiamando l'attenzione sul fatto che solo qualcuno con un alto livello d'istruzione avrebbe potuto disegnare mappe o compiere grandi imprese. La Historia del Almirante fornisce inoltre dettagli sui motivi per cui il padre andò in Portogallo e si dedicò al mare. Sarebbe stato a causa di "un uomo segnalato del suo nome e famiglia, chiamato Colombo", che Hernando ha poi identificato con Colombo il Giovane. Durante un combattimento in mare, tra Lisbona e il Capo di São Vicente, nell'Algarve, Cristoforo sarebbe caduto in acqua e avrebbe nuotato per due leghe, aggrappato a un remo. Avrebbe poi proseguito per Lisbona dove, secondo Hernando, "si trovavano molti della sua nazione genovese"».
«Ecco qua!» esclamò Moliarti, con un sorriso trionfale. «La prova, fornita dallo stesso figlio di Colombo». «Sarei d'accordo con lei» tagliò corto Tomás «se potessimo avere la certezza che fu proprio Hernando Colón a scriverlo». L'americano tirò indietro la testa, meravigliato. «Eh? Non l'ha scritto lui?». Lo storico consultò le fotocopie degli appunti di Toscano. «A quanto pare, il professor Toscano aveva dei dubbi». «Che dubbi?». «Sulla veridicità del testo e su strane contraddizioni e inesattezze che emergono» spiegò Tomás. «Iniziamo dal manoscritto. Hernando Colón terminò la sua opera ma non la pubblicò. Morì senza lasciare discendenti e quindi il manoscritto passò al nipote, Luís de Colón, il figlio maggiore del fratello portoghese, Diogo Colom. Luís fu contattato nel 1569 da un genovese chiamato Baliano Fornari, che gli propose di pubblicare la Historia del Almirante in tre lingue: latino, castigliano e italiano. Il nipote di Hernando fu d'accordo e consegnò il manoscritto al genovese. Fornari portò l'opera a Genova, la tradusse e nel 1576 pubblicò a Venezia la versione italiana, affermando di farlo affinché "possa essere conosciuta universalmente questa storia la cui gloria prima dovrebbe andare allo stato di Genova, patria del grande navigatore". Dimenticò le altre due versioni, compresa quella originale in castigliano, facendo poi scomparire il manoscritto». Mostrò nuovamente l'esemplare in spagnolo del libro di Hernando Colón. «Per essere precisi, questo non è il testo originale in castigliano, è una traduzione dall'italiano che, a sua volta, è una traduzione dal castigliano commissionata da un genovese che si dichiarava interessato a celebrare Genova». Posò il volume sul tavolo. «Insomma, in un certo senso si tratta di un'altra fonte di seconda mano». Moliarti si strofinò gli occhi, irritato per la confusione. «E per quanto riguarda le inesattezze?». «In primo luogo, il riferimento alle tombe con arme ed epitaffi dei Colombo a Piacenza. Visitando il cimitero della città, si può notare che di fatto queste sepolture esistono, ma non con il nome di Colombo, bensì con quello di Colonna». Sorrise. «A guardare gli appunti del professor Toscano, si direbbe che qui ci sia stata la manina del traduttore genovese, che avrebbe alterato Colonna in Colombo. Del resto, in un altro punto, il traduttore latinizza Colón in Colonus, non Colombo, contraddicendo così la versione secondo la quale le tombe erano dei Colombo».
«Ma Hernando non dice che il padre si dedicò al mare a causa di un certo Colombo Ragazzo, che era della sua famiglia?». Tomás sorrise. «Colombo il Giovane, Nelson. Il Giovane». Sfogliò l'esemplare della Historia del Almirante. «Effettivamente, il libro racconta questo. Ma, faccia attenzione, è solo un'ulteriore contraddizione. Colombo il Giovane era un corsaro che non si chiamava nemmeno Colombo. Si tratta di Jorge Bissipat, che gli italiani soprannominarono Colombo il Giovane, in opposizione a Colombo il Vecchio: così era conosciuto il normanno Guillame de Caseneuve Coullon, chiamato Colombo per analogia con l'espressione francese couplong, colpo lungo, adattata a Coullon». «Che confusione!». «Può crederci. Ma la domanda è la seguente: come fa Colombo, il Giovane, a corrispondere al nome e alla famiglia del padre di Hernando se, nel caso del Giovane, Colombo non era il nome ma il soprannome? L'unica ipotesi è che ci sia stato l'intervento del traduttore che si è intromesso in ciò che non sapeva, stabilendo motu proprio una relazione familiare tra Cristoforo e Colombo il Giovane, che evidentemente non esisteva». Moliarti si riappoggiò alla sedia, sconfortato. Aveva finito il pesce e allontanò il piatto. «Bene, che sia Colonna o Colombo, che sia a Genova o a Piacenza, il fatto è che Hernando colloca l'origine del padre in Italia». «Il professor Toscano sembrava aver dei dubbi al riguardo» replicò Tomás, sempre immerso negli appunti. «Nelle sue annotazioni, e accanto ai punti in cui nella Historia del Almirante ci si riferisce a Piacenza come vera patria di Colombo, ha scarabocchiato a matita l'indicazione che la persona originaria di questa città italiana non era il navigatore, ma Dona Filipa Perestrelo, la moglie portoghese di Colombo e madre di Diogo Colom, la quale, a quanto pare, aveva alcuni antenati di Piacenza. Toscano sembrava credere che Hernando, nel testo originale, avesse menzionato Piacenza come lontana origine di Dona Filipa e che fosse stato il traduttore italiano a ritoccare questo dettaglio, trasformando Dona Filipa in Colombo. Del resto, proprio qui Toscano ha annotato il detto italiano "traduttori traditori" che giustamente significa che i traduttori sono dei traditori». «Questa è una speculazione». «È vero. Ma le ricordo nuovamente che la maggior parte delle cose riguardanti Colombo sono speculative, del resto tanti sono i misteri e le incongruenze intorno allo scopritore dell'America». Tornò a guardare la
Historia del Almirante. «Lasci che le mostri le altre inesattezze notate dal professor Toscano che rafforzano l'ipotesi che non sia stato Hernando Colón l'autore di tutte le affermazioni qui contenute. Per esempio, quando dice che il padre, dopo aver nuotato fino alla terraferma, andò a Lisbona, dove "si ritrovavano molti della sua nazione genovese"». «Ma questo è un indizio inequivoco!». «Ma, Nelson, faccia attenzione. Non è stato Hernando, pagine prima, ad ammettere di essersi recato a Genova e di non avervi trovato nessun parente? Non è lo stesso Hernando a indicare che la patria del padre si trovava probabilmente a Piacenza? Allora come mai dopo aver scritto questo ci fa intendere che il padre era di nazione genovese? Un istante prima non è di Genova e solo un istante dopo lo è? Ma che razza di confusione è questa?». Riguardò le fotocopie. «Ancora una volta il professore Toscano sembrava sospettare del traduttore genovese, annotando di nuovo l'espressione "traduttori traditori"». Prese altre fotocopie. «Del resto, ci sono altre contraddizioni nella Historia del Almirante, tante che anche Padre Alejandro della Torre y Velez, canonico della Cattedrale di Salamanca e studioso dell'opera di Hernando, ugualmente arrivò alla conclusione che questa "fu modificata e viziata da mano estranea"». «Mi sta dicendo che è tutto falso?». «No. La Historia del Almirante è stata scritta, senza ombra di dubbio, da Hernando Colón, questo nessuno lo nega. Ma esistono nel testo pubblicato certe contraddizioni e incongruenze che si possono spiegare solo in due modi. O Hernando era un vero e proprio stolto, cosa che non sembra probabile, o qualcuno ha modificato dettagli essenziali del suo manoscritto, adattandolo ai gusti del pubblico d'Italia, dove l'opera fu pubblicata per la prima volta». «Chi?». «Beh, la risposta mi pare evidente. Può essere stato solo Baliano Fornari, il genovese che ricevette il manoscritto dalla mani di Luís de Colón e che pubblicò solamente la traduzione italiana, confessando apertamente che la "gloria prima" della scoperta dell'America dovesse essere "per lo stato di Genova, patria del grande navigatore"». Moliarti fece un gesto d'impazienza. «Vada avanti». «Molto bene» disse Tomás. «Passiamo allora all'ultimo testimone, di certo il più importante di tutti». «Colombo».
«Esatto. La testimonianza dello stesso Cristoforo Colombo, El Almirant». Il cameriere tornò con il suo vassoio, ritirò i piatti vuoti e posò la cotognata e il tagliere di formaggi portoghesi sul tavolo. I due uomini si servirono con il formaggio di montagna, molto molle e dall'odore forte, lo immersero nella marmellata e subito lo divorarono golosamente. «Cosa afferma Colombo?» domandò Moliarti, leccandosi le dita. Lo storico respirò a fondo, mentre riordinava le fotocopie conservate nella ventiquattrore. «Oggi sappiamo che Colombo ha passato la vita intera a nascondere il suo passato. Lo chiamiamo Colombo, ma non esiste un solo documento in cui si riferisca a se stesso con questo nome. Si presentò sempre, nei manoscritti giunti fino a noi, come Colom o Colon. Questo è un punto che nessuno mette in discussione e che sta all'origine del grande imbarazzo di coloro che difendono la tesi genovese. Se lo scopritore dell'America e il tessitore di seta di Genova sono la stessa persona, come spiegare il fatto che il navigatore non ha mai usato il nome del tessitore? I genovisti stessi, che accusano gli anti-genovisti di aver molto speculato nella formulazione delle proprie tesi, ricorrono a ipotesi piuttosto capziose per giustificare questa profonda anomalia. Non solo l'uomo che oggi chiamiamo Cristoforo Colombo, per quel che ne sappiamo, non usò mai questo nome, ma stese deliberatamente un velo di mistero sulle proprie origini». «Significa che non disse mai dove era nato?». «Mettiamola così. Colombo si è sempre preoccupato di nascondere la sua origine, eccetto in un'unica occasione». Mostrò alcune fotocopie che aveva disposto al suo fianco. «Il Mayorazgo». «Il Mayor-che?». «Il Mayorazgo o Maggiorasco. Si tratta di un testamento datato 22 febbraio 1498, che stabiliva i diritti del figlio portoghese Diogo Colom, scritto alla vigilia della partenza dell'Ammiraglio per il terzo viaggio verso il Nuovo Mondo». Tomás passò gli occhi sul testo. «In questo documento Colombo ricorda alla Corona i suoi servigi alla nazione e si appella ai Re Cattolici e al loro figlio primogenito, il principe Juan, affinché proteggano i suoi diritti e "mis ofícios de Almirante del Mar Océano, que es de la parte del Ponienye de una raya que mandó asentar imaginaria, su Alteza sobre a cien leguas sobre las islas de lad Açores, y otros tanto sobre las de Cabo Verde". Con il testamento, Colombo conferì tali diritti al suo primogenito, indicando che sarebbe stato lui a ereditare il nome del padre e dei
suoi predecessori, "llamados de los de Colón". Se Diogo fosse morto senza lasciare figli maschi, i diritti sarebbero passati al fratellastro Hernando, poi al fratello di Colombo, Bartolomeu, poi a un altro fratello, e così all'infinito finché ci fossero stati eredi maschi». Tomás alzò la testa e fissò Moliarti. «Faccia attenzione a questo dettaglio importante. Colombo non dice "llamados de los de Colombo" quando si riferisce ai suoi predecessori. Dice "llamados de los de Colón"». «Capisco» brontolò l'americano, dall'aria adombrata. «E che mi dice della sua origine?». «Vediamo...» disse lo storico al suo interlocutore, facendo cenno con la mano di aver pazienza. «Il Mayorazgo stabilisce anche che una parte della rendita alla quale ha diritto l'Ammiraglio debba andare all'Ufficio di San Giorgio e dà istruzioni rigorose sul modo in cui i suoi eredi dovranno firmare tutti i documenti. Colombo voleva che non usassero il proprio cognome ma solo il titolo di El Almirant, disposto sotto una strana piramide di lettere e punti». Tomás esibì un altro foglio. «E qui viene la parte che le interessa, Nelson. A lei e a Toscano. In un certo passo del testamento, Colombo fa una cosa senza precedenti. L'Ammiraglio ricorda ai sovrani di averli serviti, "stendo yo nacido en Genova"». «Ah ah!» esclamò Moliarti, quasi saltando sulla sedia. «Ecco la prova!». «Calma! Calma!» gli chiese Tomás, ridendo dell'entusiasmo dell'americano. «In un'altra parte del Mayorazgo, Colombo dispone che i suoi eredi mantengano sempre a Genova una persona del loro lignaggio, "pues que della sali y en ella naci"». «Vede? Perché dubitare, perché?». «Certo, è tutto molto chiaro» concordò. «A patto che sia vero». Una nube scura offuscò l'entusiasmo di Moliarti. Il sorriso si dissolse, ma la bocca rimase aperta e gli occhi sbarrati, increduli, finché si chiusero in un'espressione di rivolta. «Come? Come?» si agitò. «Fuck you! Non mi dirà che è tutto falso? Non me lo dica. Non tollero un simile affronto, no!». «Calma, Nelson, calma!» lo rassicurò Tomás, sorpreso per quella inaspettata esplosione e alzando le mani in segno di resa. «Vediamo se riusciamo a capirci. Io non le sto dicendo che questo è vero e quello è falso. Mi sono limitato a studiare i documenti e le testimonianze, a consultare gli appunti del professor Toscano e a ricostruire il suo ragionamento. In fin dei conti, è per questo che mi ha ingaggiato, no? Ciò che ho verificato è che il professor Toscano aveva seri dubbi circa determinati aspetti dati per
certi della vita di Cristoforo Colombo. Seguendo questa pista, le sto presentando i problemi sollevati dai documenti e dalle testimonianze in merito alla loro veridicità. Se prendiamo per buono tutto il materiale esistente, la storia dell'Ammiraglio non ha senso. Sarebbe nato contemporaneamente in vari posti, avrebbe contemporaneamente età differenti, si chiamerebbe contemporaneamente in modi diversi. Questo non può essere. A conti fatti, lei dovrà decidere quali siano i documenti veri e quali quelli falsi. A tale scopo dovrà analizzare e valutare le contraddizioni e le inesattezze di ognuno. Quando avrà in mano i dati, allora potrà scegliere un'opzione. Se vuole che Colombo sia genovese, basterà ignorare le contraddizioni e le incongruenze dei documenti e delle testimonianze che supportano questa tesi, spiegandole come pura speculazione. Del resto vale anche il contrario. Ma tenga presente che io non sono qui per distruggere la tesi genovese. In verità, l'origine di Cristoforo Colombo per me è irrilevante». Fece una pausa per enfatizzare la sua posizione. «Quello che sto facendo, badi bene, è ricostruire la ricerca del professor Toscano, sono stato ingaggiato per questo, e analizzare i problemi che sussistono in ogni documento. Niente di più». «Lei ha ragione» ammise Moliarti, ora più calmo. «Mi scusi, ho esagerato e a sproposito. Vada avanti, per favore». «Bene» riprese Tomás. «Come già le ho detto, nel Mayorazgo Colombo si riferisce in modo diretto ed esplicito a Genova come sua città natale. Ma non si limita a questo. Più avanti c'è un terzo riferimento, nel quale afferma: "Genova è una città nobile e potente non solo per il mare" e, alcune pagine dopo, aggiunge un ulteriore dettaglio, appellandosi ai suoi eredi affinché cerchino di "preservare e adoperarsi sempre per l'onore, per il bene e per lo sviluppo della città di Genova, impegnando tutte le loro forze e risorse nella difesa e nella crescita del bene e dell'onore della sua repubblica"». «Quindi Colombo inserisce quattro riferimenti a Genova e in due di questi dice apertamente di essere nato lì». «Esatto» assentì Tomás. «Ciò significa che tutto ora dipende dall'accertamento della veridicità di questo documento. Esiste una convalida reale del Mayorazgo, datata 1501 e scoperta solo nel 1925, attualmente conservata all'Archivio Generale di Simancas. Ho qui con me alcune riproduzioni della copia notarile della minuta del Mayorazgo, che si trova all'Archivio Generale delle Indie». Sventolò una delle fotocopie che aveva fatto a Siviglia. «Mi hanno detto che l'originale della minuta è scomparso nel XVI se-
colo, ma non so se è la verità. L'unica cosa che posso garantirle è che l'Archivio Generale delle Indie conserva solo la copia. Presumo sia quella che fu oggetto del Pleyto Sucessorio, l'importantissimo processo giuridico intrapreso nel 1578 per decidere quale fosse il legittimo successore dell'Ammiraglio dopo la morte di Don Diego, nipote di Diogo Colom e bisnipote di Cristoforo Colombo. Vale la pena ricordare che il Mayorazgo stabiliva che ci sarebbero potuti essere solo eredi maschi con il nome di Colón. Ora, andando radicalmente e direttamente contro le disposizioni che si suppone siano state stabilite dall'Ammiraglio, il tribunale decise di accettare anche il nome Colombo, informazione che si diffuse per l'Italia. Siccome Cristoforo Colombo aveva diritto a una parte di tutte le ricchezze delle Indie, in conformità con quanto accordato con i Re Cattolici nel 1492, la notizia che qualsiasi Colombo avrebbe potuto candidarsi per i diritti successori risvegliò un enorme interesse fra tutti gli italiani con questo cognome. Il problema è che si scoprì che il nome Cristoforo Colombo era relativamente comune in Italia, e quindi il tribunale pretese che i candidati avessero nella propria linea ancestrale un fratello di nome Bartolomeo, un altro di nome Jacobo e un padre che si chiamasse Domenico. Tre candidati rispondevano a questi requisiti. Dei tre italiani, ne rimase solo uno. Si trattava di Baldassare Colombo, di Cuccaro Monferrato, un piccolo paese del Piemonte. Baldassare dovette affrontare gli altri discendenti spagnoli di Colombo, e fu nel corso di questo processo legale che un avvocato spagnolo, di nome Verástegui, esibì la copia della minuta, mostrando che era stata convalidata dal principe Juan il 22 febbraio 1498, data in cui il testamento fu steso». «Chi è questo principe Juan?». «Era il figlio dei Re Cattolici». «Quindi lei ha la copia della minuta convalidata dal principe ereditario e ha ancora dubbi sull'attendibilità del testamento?». «Nelson» disse Tomás a voce bassa «il principe Juan morì il 4 ottobre 1497». «E allora?». «Faccia due conti. Se morì nel 1497, come può aver convalidato la copia di una minuta nel 1498?». Strizzò l'occhio. «Eh?». Moliarti rimase fermo per un lungo istante, gli occhi fissi sul suo interlocutore, riflettendo sull'incongruenza. «Beh... ehm...» balbettò alla fine. «Questo, mio caro Nelson, è un problema tecnico molto delicato. Mi-
naccia totalmente la credibilità della copia del Mayorazgo. E quel che è peggio è che non è l'unica incongruenza del documento». «Ce ne sono altre?». «Certo. Guardi per esempio questa frase di Colombo». Prese una fotocopia del testo. «"Lo suplico al Rey e ala Reina, Nuestros señores, y al Principe Don Juan, su primogénito, Nuestro Señor"». Alzò il capo e fissò Moliarti. «Presenta lo stesso problema. Colombo fa una supplica al principe Juan come se fosse ancora vivo, sebbene fosse già morto l'anno precedente, a soli diciannove anni. All'epoca si parlò tanto dell'avvenimento, la corte si vestì a lutto rigoroso, le istituzioni pubbliche e private rimasero chiuse per quaranta giorni e furono posti segni di lutto sui muri e sui portoni delle città spagnole. In queste condizioni, ed essendo una persona vicina alla corte, in particolare alla regina, come è possibile che l'Ammiraglio non fosse a conoscenza della morte del principe Don Juan?». Sorrise e scrollò la testa. «Adesso guardi questa». Riprese a scorrere le fotocopie. «"Habrá el dicho Don Diego"» s'interruppe e spiegò: «Diego in castigliano sta per Diogo» poi continuò a leggere: «"O cualquier outro que heredare este Mayorazgo mis oficios de Almirante del Mar Océano, que es de la parte del Poniente de una raya que mandó asentar imaginaria, su Alteza sobre a cien leguas sobre las islas de las Açores, y outros tanto sobre las de Cabo Verde''». Fissò di nuovo Moliarti. «Questa corta frase condene un incredibile numero di incongruenze. In primo luogo, come è possibile che il grande Cristoforo Colombo abbia affermato che il meridiano che passa per Capo Verde è uguale a quello che attraversa le Canarie? Non sapeva quello che tutti gli uomini di mare già conoscevano in quell'epoca, cioè che le Azzorre fossero situate più a ovest rispetto a Capo Verde? È verosimile credere che lo scopritore dell'America, che tra l'altro aveva anche visitato i due arcipelaghi portoghesi, abbia potuto affermare una simile sciocchezza? In secondo luogo, bisogna notare che il discorso delle cento leghe è estrapolato dalla bolla papale Inter caetera, datata 1493, che si riferisce al Trattato di Alcáçovas/Toledo. Il guaio è che nel 1498, quando il Mayorazgo fu firmato, era già in vigore il Trattato di Tordesillas, dettaglio più che conosciuto da Colombo, considerato che era stato proprio lui la causa scatenante di questa divisione del mondo tra Spagna e Portogallo. Come è possibile, allora, che l'Ammiraglio abbia usato delle espressioni papali riguardanti un trattato che non era più valido? Era forse impazzito? In terzo luogo, affermando che quella era "de una raya que mandó asentar imaginaria, su Alteza", anticipava la morte della regina Isabel, che morì
nel 1504, sei anni più tardi. Come mai Colombo si rivolge al singolare ai due Re Cattolici? Di norma, come appare in qualsiasi documento dell'epoca, avrebbe dovuto rivolgersi a "Suas Altezas". "Suas", al plurale. Era intenzione di Colombo oltraggiare uno dei due sovrani, comportandosi come se non esistesse? Oppure questo documento è stato scritto dopo il 1504, quando ormai c'era un solo monarca, da un falsario che ha trascurato un dettaglio e che ha falsificato la data del 1498?». «I see» commentò Moliarti, a testa bassa. «È tutto?». «No, Nelson. C'è dell'altro. Il fatto che Cristoforo Colombo si riferisca quattro volte a Genova mi sembra un dettaglio importante su cui soffermarci». Con le dita mostrò il numero quattro. «Quattro». Ne tolse due. «E in due di queste dice esplicitamente che quella era la sua città natale». Si appoggiò di nuovo alla sedia e riordinò le fotocopie. «Stia attento. Cristoforo Colombo passò tutta la vita a nascondere la sua origine. La sua preoccupazione fu talmente ossessiva che il criminologo Cesare Lombroso, uno dei maggiori detective del XIX secolo, lo definì paranoico. Sappiamo, dal figlio Hernando, che l'Ammiraglio, dopo la scoperta dell'America, nel 1492, diventò ancor più enigmatico. Osservi questa frase del figlio nella Historia del Almirante». Aprì il libro e cercò un pezzo sottolineato. «"Quando fué su persona a propósito y adornaba de todo aquello, que convenia para tan grand hecho, tanto menos conocido y cierto quiso que fuese su origen y pátria"». Fissò il suo interlocutore. «Vale a dire, quanto più Colombo diventava famoso, tanto meno voleva che si conoscesse la sua origine e la sua patria. Allora quest'uomo passa tanto tempo a mantenere segreta la città natale, a darsi da fare per coprire il fatto sotto uno spesso manto di silenzio e, all'improvviso, gli viene la brillante idea, così, senza motivo, di abbandonarsi a un effluvio di riferimenti a Genova nel suo testamento, mandando in fumo in una sola volta tutti i suoi precedenti sforzi? Che senso ha?». Moliarti sospirò. «Mi spieghi, Tom. Questo significa che il testamento è falso, eh?». «Questa è la conclusione a cui arrivò il tribunale spagnolo, Nelson, e l'eredità finì per essere assegnata a Don Nuno di Portogallo, altro nipote di Diogo Colom». «E allora il documento regio del 1501, conservato nell'Archivio Generale di Simancas? Anche quello è falso?». «Sì». «Ehi, io non capisco. Come può esistere una convalida con sigillo reale
ma falsa?». «Il documento che si trova nell'Archivio Generale di Simancas è un libro dei registri del Selo Real della Corte inerente al mese di settembre del 1501. Ma la convalida è anacronistica dato che, anche questa, fa riferimento al principe Don Juan come se fosse vivo». Si picchiettò le tempie con l'indice. «Se lo metta bene in testa. Una corte non avrebbe mai registrato un documento rivolto a un principe primogenito non più in vita. Sarebbe stato inaccettabile». Fece una pausa. «Ora, Nelson, presti attenzione a quanto le sto per dire. Esisteva un vero testamento, ma è scomparso. Alcuni storici, come lo spagnolo Salvador de Madariaga, credono probabile l'ipotesi della falsificazione, nonostante considerino che molti elementi del testamento inventato siano basati sul documento originale andato perso». Consultò i suoi appunti. «Scrive Madariaga: "La maggior parte delle clausole esecutive sono probabilmente, ma solo probabilmente, esatte". Fra queste, la strana firma con le iniziali disposte a piramide. Della stessa opinione è anche lo storico Luís Ulloa, il quale ha scoperto che la copia falsificata del Mayorazgo, presentata dall'avvocato Verástegui, era passata per le mani di Luisa de Carvajal, che era stata sposata con un certo Luís Buzon, uomo conosciuto per la sua abitudine di mutilare e alterare i documenti». «E il professor Toscano? Che ne pensava?». «Il professor Toscano era chiaramente d'accordo con il tribunale e con Madariaga e Ulloa, e credeva all'ipotesi della falsificazione a partire da un vero testamento, quello che è andato perso. Del resto, solo la contraffazione spiega queste gravi incongruenze nel testo. Come le ho già spiegato, tutti avevano interesse a essere gli eredi di Colombo ed è del tutto naturale che, in tali circostanze, essendoci molto denaro in gioco, apparissero dei falsificatori. Riflettendoci un po', è credibile la possibilità che un abile falsario, presumibilmente questo Luís Buzon, abbia contraffatto il testamento, con un'elevata qualità dal punto di vista tecnico, e ne abbia copiato correttamente le parti più innocue, includendo le essenziali clausole esecutive. È probabile però che, per mancanza di conoscenze specifiche, non si sia accorto di determinati anacronismi nel testo da lui fabbricato, in particolare le suppliche di Colombo a un principe già morto, gli assurdi riferimenti geografici evidentemente dovuti alla consultazione della ormai superata bolla papale, il ricorso al Trattato di Alcáçovas/ Toledo e l'inaccettabile eliminazione di uno dei due sovrani nel riferimento a "Sua Alteza" al singolare, dettaglio che, scritto all'epoca dei Re Cattolici, sarebbe stato ingiurio-
so, ma che non avrebbe costituito un problema dopo la morte di almeno uno di loro». Fece un gesto con la mano, come se volesse aggiungere qualcos'altro. «Tuttavia, conveniamo che sia strano che Colombo sia morto nel 1506 e che il testamento non sia saltato fuori tempestivamente. Una persona stila un testamento affinché questo sia conosciuto e rispettato immediatamente dopo la sua morte, giusto? Ma, a quanto pare, questo Mayorazgo non apparve nel momento in cui sarebbe stato normale che apparisse un simile documento, cioè subito dopo il decesso del suo autore, ma molto più tardi. Colombo morì nel 1506 e il testamento si materializzò solo nel 1578, più di settant'anni dopo. E spuntò fuori in un periodo in cui faceva comodo, a una delle parti, che comparisse, nonostante la gravità degli anacronismi e delle scorrettezze. Con questi presupposti, quanto possiamo fidarci di ciò che è scritto qui?». Si lasciò andare a una smorfia di fastidio. «Per niente». L'americano scrollò le spalle, rassegnato. «Allora dimentichiamoci del Mayorazgo. Altro materiale?». «Certo. Questi sono documenti divulgati all'epoca, soprattutto nel XVI secolo». «E fra questi, la cronaca del portoghese Pina è l'unica che non presenta alcun problema di attendibilità?». «Che io abbia visto, sì. Tuttavia devo ricordarle che le annotazioni a margine del professor Toscano suggeriscono che potrebbe aver trovato qualcosa». Il cameriere tornò con il caffè, che posò davanti ai due uomini. «In termini di documenti, c'è dell'altro?» domandò Moliarti, girando il caffè per far sciogliere lo zucchero. «Ci sono altre testimonianze che probabilmente risalgono allo stesso periodo ma che furono conosciute solo successivamente, in particolare nel XIX secolo». «E cosa riguardano?». «Beh, cercherò di riassumerne il contenuto». Sistemò alcune fotocopie e ne prese altre dalla ventiquattrore. «Nel 1773, un frate di Modena, Ludovico Antonio Muratori, pubblicò un volume intitolato Rerum Italicarum Scriptores, che conteneva due inediti. Uno era il De Navigatione Columbi... redatto presumibilmente nel 1499 dal cancelliere dell'Ufficio di San Giorgio, Antonio Gallo, e l'altro era un lavoro di Bartolomeo Senarega apparentemente ispirato a quello di Gallo, nel quale si affermava che Cristoforo era uno "scarzadore", espressione considerata poco gradevole. Il testo
di Gallo è di certo il più importante. L'antico cancelliere dell'Ufficio scriveva che Cristoforo era il più grande di tre fratelli, essendo Bartolomeo il secondo e Jacobo il terzo. Gallo dice che, quando arrivò alla giovinezza, "et pubere deinde facti", Bartolomeo partì per Lisbona e Colombo successivamente seguì il suo esempio. Più tardi, nel 1799, furono pubblicati gli Annali della Repubblica di Genova, del genovese Filippo Casoni, che includeva una genealogia della famiglia di Cristoforo Colombo, tessitore di seta. Tuttavia, dato che restava il fatto, ancora non risolto, che lo scopritore dell'America si chiamasse Colom o Colón, ma non Colombo, Casoni decise di aggirare il problema e saltò alla conclusione che Colombo fosse una specie di declinazione di Colom. Secondo l'autore, Colombo voleva dire, in realtà, "della famiglia dei Colom". Questa fu una mossa arrischiata e aprì le cateratte di una vera diga documentale, scatenando l'apparizione di una marea infinita di testi ufficiali. Iniziarono a emergere fogli da tutta la Liguria, in particolare da Savona, da Cogoleto, da Nervi e da chissà dove. Da ogni parte spuntavano prove relative alla famiglia Colombo, compresi gli affari. Molti di questi documenti furono riuniti nel 1823 nel Codice Colombo-Americano, mentre altri, in particolare atti notarili, furono inseriti nella Raccolta di documenti et studi... pubblicata nel 1892, in occasione del quarto centenario del viaggio del 1492. La grande scoperta fu annunciata nel 1904 dall'accademico "Giornale Storico e Letterario della Liguria": il colonnello genovese Ugo Assereto aveva trovato un atto notarile, datato 25 agosto 1470, che registrava la partenza di Christophorus Columbus "die crestino demane pro Ulisbonna", cioè il giorno seguente per Lisbona. Il Documento Assereto, così come è conosciuto oggi, rivela inoltre che Columbus dichiarò di aver "etatis annorum viginti septem vel circa", vale a dire intorno ai ventisette anni. Pertanto, possiamo fissare la sua data di nascita nel 1451». «Ora non mi dirà che anche tutto questo è falso?» chiese Moliarti, quasi con esitazione. «Nelson» sorrise Tomás «realmente crede che le avrei potuto fare una simile cattiveria? Davvero?». «Davvero». «Si sbaglia, Nelson. Non lo farei mai». Il viso dell'uomo della fondazione si aprì in una prudente espressione di sollievo. «Good». «Ma...».
«Please...». «... è sempre necessario valutare l'attendibilità di qualsiasi documento, guardarlo con occhio critico, cercare di capirne gli scopi e garantire che non ci siano incongruenze». «Non mi dica che esistono anomalie anche in questo documento...». «Sfortunatamente è così». L'americano lasciò cadere la testa all'indietro, scoraggiato. «Fuck!». «Innanzitutto bisogna considerare che questi documenti non sono apparsi nel momento in cui sarebbero dovuti apparire, ma molto più tardi. Indicativo è il fatto che il professor Toscano abbia registrato fra i suoi appunti il proverbio francese "le temps qui passe c'est l'évidence qui s'efface". Cioè, più passa il tempo, più prove scompaiono. Qui, a quanto pare, si verifica il contrario, più passa il tempo e più prove emergono. Questo è il primo problema del testo di Antonio Gallo. Se è stato scritto realmente nel 1499, perché è stato pubblicato solo nel XVIII secolo? Toscano sembrava sospettare una falsificazione, considerato che i dati di Gallo sono simili a quelli di Giustiniani, che Hernando Colón aveva additato come bugiardo, come qualcuno che, secondo il figlio di Colombo, non era a conoscenza della vera storia dello scopritore dell'America». «Questa è pura speculazione». «Certo. Ma è una realtà che la storia di Gallo sia uguale a quella di Giustiniani e che Hernando abbia detto che la versione di Giustiniani è falsa. Pertanto, vedo solo due ipotesi. O Hernando stava mentendo, e allora il testo di Giustiniani è vero e di conseguenza lo è anche quello di Gallo, o Hernando, il figlio dello scopritore dell'America, sapeva più cose sul padre rispetto agli italiani, e questo implica che i dati riportati da Giustiniani e Gallo siano falsi. Ognuna delle due ipotesi è plausibile, ma solo una può essere vera. In base a quanto detto finora, ne risulta che non possiamo avere un'assoluta fiducia nel testo di Gallo». «E gli atti notarili? Quelli sono documenti ufficiali...». «Di fatto lo sono. Ma provano soltanto che a Genova esistette un Cristoforo Colombo, tessitore di seta, che aveva un fratello di nome Bartolomeo e un altro che si chiamava Jacobo, e che era figlio del cardatore di lana Domenico Colombo. Questo è probabilmente vero, nessuno lo nega. Al contrario, ciò che gli atti non testimoniano è che questo tessitore di seta vissuto a Genova sia lo scopritore dell'America. C'è solo un documento che sancisce tale legame in modo inequivocabile». Esibì alcune fotocopie.
«Si tratta del Documento Assereto. Ci sono alcuni precedenti testi di Savona, pubblicati nel 1602 da Salinerio nelle sue Adnotationes... ad Cornelium Tacitum, che suggerivano questa relazione, ma non erano molto chiari e avevano alcune incongruenze. È il Documento Assereto che stabilisce, inequivocabilmente, il rapporto tra il Colombo genovese e il Colom iberico, registrando il giorno della partenza del tessitore di seta per il Portogallo». «Mi lasci indovinare» commentò Moliarti con una punta di sarcasmo. «In questo testo ci sono problemi di attendibilità». «Esatto!» ribatté Tomás, ignorando il tono ironico. «Dobbiamo sforzarci di ricostruire la trama completa della questione. Per questo è necessario considerare che i documenti della presenza di Colombo a Genova comparvero copiosi solo nel XIX secolo. Anche in questo caso erano solo delle testimonianze, più o meno vaghe, e con precise anomalie. La verità è che nessuno lì sembrava conoscere Colombo. Gli ambasciatori genovesi che si trovavano a Barcellona nel 1493, proprio quando il navigatore tornò dal primo viaggio verso il Nuovo Mondo, riferirono il fatto e si dimenticarono di un piccolissimo dettaglio, una cosa evidentemente di nessun interesse: l'Ammiraglio era un loro conterraneo. Oltretutto, a Genova nessuno richiamò l'attenzione su questo fatto. Che senso ha? Ma c'è dell'altro. Come già abbiamo visto, il figlio spagnolo di Colombo, Hernando, vi si recò tre volte alla ricerca di conferme delle vaghe rivendicazioni in base alle quali il padre era di quelle zone, ma non fu capace di trovare un solo parente. Neanche uno. D'altro canto, gli atti notarili rivelano che nel 1492, all'epoca della scoperta dell'America, il padre del tessitore Cristoforo Colombo era ancora vivo. Tuttavia non risulta che lui o qualsiasi altro familiare, vicino, amico o conoscente abbia celebrato o almeno annotato il grande avvenimento di quel ragazzo della loro stessa terra. Inoltre, i documenti ufficiali di Genova mostrano che Domenico morì povero nel 1499, con tutti i beni ipotecati. Incredibilmente, lo scopritore dell'America avrebbe ignorato il padre, nonostante fosse povero, fino alla morte. Né, d'altra parte, i molti creditori di Domenico hanno pensato di esigere dal figlio famoso il pagamento dei debiti del defunto. Ancora più sensazionale è il fatto che cronisti e storici genovesi dei secoli XVI e XVII sorvolarono completamente sul fatto che lo scopritore dell'America fosse un loro concittadino. L'opera Di Uberto Foglietta, della Repubblica di Genova, dello stesso Foglietta, stila un registro dei cittadini famosi di Genova. Tanto la prima edizione, pubblicata a Roma nel 1559, quanto la seconda, edita in Milano nel 1575, non
riportano il nome di Cristoforo Colombo, né di Cristóvam Colom, né di Cristóbal Colón, nella lista delle celebrità del capoluogo ligure, tuttavia menzionano altri marinai genovesi molto meno importanti, come Biagio d'Assereto, Lazaro Doria, Simone Vignoso e Ludovico di Riparolo. Anche lo storico genovese Federico Federici, che visse nel XVII secolo, ignorò in assoluto lo scopritore dell'America, così come Gianbattista Richeri, altro storico genovese del secolo successivo. Richeri pubblicò nel 1724 il Foliatum Notariorum Genuensium, il cui originale è conservato nella Biblioteca Comunale Berio di Genova. Quest'opera registra diciotto Colombo nella città, tra il 1299 e il 1502, e nessuno di questi si chiamava Domenico o Cristoforo. Certamente sono vissuti entrambi, come testimoniato dagli atti notarili della Raccolta, ma erano, evidentemente, considerati poco importanti dagli storici di Genova. Così poco importanti che, nella lista degli alunni delle scuole di Genova di quel tempo, tuttora esistenti, non figura il nome di Cristoforo, nonostante il famoso navigatore conoscesse il latino e la cosmografia, e fosse in grado di leggere autori classici e dominare la matematica. Se non è andato a scuola a Genova, allora in quale scuola ha studiato? Infine, in seguito al celebre Pleyto Sucessorio, il processo giuridico intrapreso nel 1578 per determinare il legittimo successore dell'Ammiraglio dopo la morte del suo bisnipote, appaiono in Spagna innumerevoli candidati provenienti da tutta la Liguria, affermando di essere parenti di Colombo». Fissò lo sguardo su Moliarti. «Sa quanti di questi candidati erano originari di Genova?». L'americano scrollò la testa. «No». Tomás unì il pollice all'indice. «Zero, Nelson». Lasciò fluttuare la risposta nell'aria, come il brutale riverbero dell'eco di un gong. «Neanche uno. Nessuno di questi era di Genova». Fece un'altra pausa per accentuare l'aspetto drammatico di questa rivelazione. «Finché, nel XIX secolo, i documenti iniziarono a spuntare da ogni parte. Bisogna tuttavia comprendere che, in quel periodo, la ricerca storica si mischiava pericolosamente agli interessi politici. Gli italiani si trovavano nel pieno del processo di unificazione e affermazione nazionale innescato dal genovese Giuseppe Garibaldi. All'epoca scaturirono le prime tesi secondo cui Colombo, a conti fatti, poteva non essere italiano, e questo era inaccettabile per il nuovo Stato. Il fatto che Colombo fosse genovese rappresentava un simbolo di unione interna e di orgoglio per quei milioni di italiani che si riunivano nel Paese appena costituito, nonché per quelli
che allora cominciavano a emigrare negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina. In tal modo il dibattito finì per assumere accenti fortemente nazionalistici. Ed è in questo contesto politico e sociale che la tesi genovese si trovò, all'improvviso, al centro di un grande marasma. Da un lato, si riuscirono a raccogliere molti documenti che provavano l'effettiva esistenza in città di un Cristoforo, un Domenico, un Bartolomeo e uno Jacobo, ma dall'altro non si ebbe modo di dimostrare, in maniera inequivocabile, che ci fosse una relazione tra queste persone e lo scopritore dell'America. Inoltre tale relazione sembrava assurda, considerando che il Colombo genovese era un tessitore incolto e il Colom iberico era un ammiraglio pratico di cosmografia, nautica e lettere. Calcolando la posta in gioco, in particolare sul piano politico e nel clima di affermazione nazionale italiana, questo era inammissibile. Ora, è il Documento Assereto che viene a fornire, provvidenzialmente, la prova mancante. Che questo testo sia apparso quando era più necessario risultò, senza dubbio, un fatto sospetto. Ed è tanto più sospetto se si pensa che il colonnello Assereto, dopo aver esibito la tanto sospirata prova, fu decorato dallo Stato Italiano per gli alti servigi prestati alla nazione e promosso a generale». «Tom, tutto questo può essere vero, ma, mi scusi, ancora una volta mi sembra una speculazione. Ci sono elementi all'interno dell'atto notarile scoperto da Assereto che possano essere considerati sospetti?». «Sì, ce ne sono». I due uomini si guardarono per un lungo istante. «Ad esempio?» domandò Moliarti, alla fine, quasi ingoiando a secco. «La data di nascita di Colombo». «Cosa c'è di strano?». «Ha due anomalie. La prima è, tanto per cambiare, relazionata al timing della scoperta del Documento Assereto. Nel 1900 si riunì il Congresso degli Americanisti, durante il quale fu stabilito che Colombo era nato nel 1451. Era una semplice supposizione, fondata unicamente su un atto notarile del 1470, nel quale risulta scritto...» consultò la copia dell'atto, raccolta a Genova «"Cristoforo Colombo, figlio di Domenico, maggiori di diciannove anni"». Scarabocchiò alcuni conti sul bloc-notes. «Se a 1470 si tolgono diciannove resta 1451. Pertanto, i congressisti, basandosi unicamente su questo atto notarile e senza avere la prova che Cristoforo Colombo corrispondesse a Cristóvão Colom, decisero che questo fosse l'anno di nascita dello scopritore dell'America. Vediamo ora quanto afferma lo storico portoghese Armando Cortesão a proposito del Documento Assereto». Prese
dalla ventiquattrore un libro voluminoso intitolato Cartografia e Cartógrafos Portugueses dos Séculos XV e XVI, trovò la pagina che stava cercando e lesse alcune righe precedentemente sottolineate a matita. «"È straordinario che un documento tanto importante, che concorda così bene con il testamento di Colombo e altri documenti conosciuti e che conferma con assoluta precisione l'età, stabilita, in maniera ipotetica, al Congresso degli Americanisti, nel 1900, fosse conservato nei ricercatissimi archivi di Genova, esplorati da centinaia di avidi ricercatori interessati al periodo colombiano, sempre più numerosi intorno ai fogli notarili, senza che nessuno se ne sia accorto e abbia fatto caso a una così importante dichiarazione. Disastrosa coincidenza! Nel 1900 il Congresso degli Americanisti fissa il 1451 come data di nascita di Colombo e subito nel 1904 appare un documento del 1479, nel quale lo stesso navigatore afferma di avere ventisette anni e per di più tutto coincide con gli altri dati a lungo considerati come poco attendibili, come la permanenza in Portogallo nel 1478". La coincidenza fu tanto strana che inoltre indusse il famoso storico portoghese a osservare, sempre a proposito del Documento Assereto, che "l'industria di falsificazione dei documenti 'antichi' ha raggiunto una tale perfezione che in questo capitolo nulla ci sorprende"». Tomás fissò il suo interlocutore. "Quanto al timing, caro Nelson, già ne abbiamo discusso». Ripose il volume di Armando Cortesão nella ventiquattrore. «Passiamo ora alla data in sé. Il Documento Assereto conferma, con impressionante velocità e sollecitudine, la data quasi arbitrariamente stabilita quattro anni prima dal Congresso. Ma l'affermazione in base alla quale il 1451 è l'anno in cui nacque Cristoforo Colombo è contraddetta da una testimonianza di un certo calibro». Rimase un istante a guardare Moliarti, con aria di sfida. «Non immagina chi sia stato a mettere in discussione la data fornita dal Documento Assereto?». «Non ne ho la minima idea». «Lo stesso Cristoforo Colombo. Oggi sappiamo che lo scopritore dell'America, come in molte altre cose, fece molta attenzione a tenere nascosta la sua data di nascita. Il figlio Hernando rivela solo che il padre cominciò la vita da marinaio a quattordici anni. Al contrario, lo stesso navigatore mantiene il silenzio circa la propria età, ma cade due volte in errore». Consultò i suoi appunti. «Nel diario di bordo del suo primo viaggio registra, in data 21 dicembre 1492, che "yo he andado veinte y três anos en la mar, sin salir della tiempo que se haya de contar". Basandoci su questa affermazione, è sufficiente fare due conti». Prese la penna e scarabocchiò
alcuni numeri su un foglio pulito del bloc-notes. «Se aggiungiamo i ventitré anni in mare agli otto in Castiglia, quelli del "tiempo que se haya de contar" in cui rimase ad attendere l'autorizzazione per navigare, e i quattordici d'infanzia alla fine dei quali iniziò la vita di marinaio, otteniamo quarantacinque anni». Scrisse 23+8+14=45. «Quindi, Colombo aveva quarantacinque anni quando, nel 1492, scoprì l'America. Ora, se togliamo quarantacinque a 1492, rimane 1447». Sul foglio, la sottrazione indicava 1492-45=1447. «L'anno di nascita del navigatore». Tornò ai suoi appunti. «Più tardi, in una lettera datata 1501 e trascritta dal figlio Hernando, Colombo comunica ai Re Cattolici che "ya pasan de quarenta anos que yo voy en este uso" riferendosi alla navigazione». Riprese il foglio nel quale aveva fatto i precedenti calcoli. «Se aggiungiamo quaranta anni ai quattordici dell'infanzia, il risultato è cinquantaquattro». Scribacchiò 40+14=54. «Pertanto, scrive quella lettera del 1501 all'età di cinquantaquattro anni. Togliendo cinquantaquattro a 1501 resta 1447». Adesso l'operazione mostrava 1501-54=1447. «In definitiva, Colombo dà a intendere, in questi due riferimenti, di essere nato nel 1447, quattro anni prima del 1451, anno che il Documento Assereto gli attribuisce come data di nascita». Picchiettò con l'indice sui calcoli che aveva appena finito di effettuare. «Questa, mio caro Nelson, è un'inammissibile incongruenza del Documento Assereto e minaccia irrimediabilmente la sua stessa attendibilità. Oltretutto, quest'atto notarile, per essere precisi, non è altro che una minuta a fogli senza firma del dichiarante e del notaio, che non menziona la paternità di Cristoforo, cosa strana se si considerano altri documenti simili dell'epoca». Moliarti sospirò pesantemente. Si appoggiò alla sedia e rimase a osservare le mura di fronte allo spiazzo e la città, con Piazza da Figueira e la sua statua equestre ben visibile in basso e la zona verde di Montesanto che graffiava l'orizzonte sul caseggiato. Il cameriere si avvicinò e lasciò un piattino con il conto sul tavolo e, quando si fu allontanato, una coppia di usignoli venne a beccare le briciole di pane trasportate dal vento lungo il percorso parallelo al muro; poi gli uccellini svolazzarono sui rami quasi spogli di un vecchio ulivo e si fermarono là, trillando in duetto, improvvisando una nervosa melodia dal sapore di brezza. «Mi dica una cosa, Tom» mormorò l'americano, rompendo il silenzio che per un momento era sceso tra i due. «Secondo lei, Colombo non era genovese?». Lo storico prese uno stuzzicadenti e iniziò a giocarci, passandoselo fra le dita, da una parte all'altra, girandolo e girandolo, simile a un minuscolo a-
crobata. «Mi sembra chiaro che, secondo il professor Toscano, Colombo di fatto non era genovese». «Questo già l'avevo capito» disse Moliarti. Puntò l'indice verso Tomás. «Ma a me piacerebbe sapere qual è la sua opinione». Il portoghese sorrise. «Vuole sapere la mia opinione?». Rise a voce bassa. «Beh, io credo che non sia possibile affermare, in tutta sicurezza, che Colombo non fosse genovese. Esistono troppe testimonianze che portano verso questa direzione. Anghiera, Trevisan, Gallo, Giustiniani, Oviedo, Las Casas, Ruy de Pina, Hernando Colón e lo stesso Cristoforo Colombo. È certo che alcuni di questi nomi si limitino a citarsi a vicenda, e una bugia, ripetuta mille volte, non diventa realtà. È altrettanto certo che i documenti nei quali tutte queste fonti sono citate non offrono una completa attendibilità, a causa dei motivi che le ho ampiamente illustrato. Sta di fatto che tutti ci portano allo stesso punto, per cui dobbiamo muoverci con cautela. Direi che l'origine genovese di Colombo rimane comunque un riferimento, ma bisogna considerare che esistono innumerevoli e forti indizi che contraddicono quest'ipotesi. In tutta verità, come le ho appena detto, è impossibile comprendere la vita di Cristoforo Colombo se accettiamo per buoni tutti i documenti e le relazioni a noi pervenuti, dato che sono contraddittori. Se alcuni sono veri, altri sono necessariamente falsi. Non è possibile che siano tutti veri». Alzò due dita. «E qui dobbiamo scegliere fra due strade. O consideriamo veritieri i documenti e le relazioni genovesi, nonostante tutte le incongruenze, e quindi Colombo era genovese. Oppure confermiamo la validità delle numerose obiezioni che smentiscono questa tesi, e allora il navigatore non era genovese». Aggiunse un dito. «E c'è una terza ipotesi, forse la più plausibile, quella che permette un compromesso fra le prime due versioni, ma che comporta un salto nel nostro ragionamento. Questa terza possibilità, in generale, accetta come veri gli indizi e le prove delle ipotesi precedenti, nonostante ci siano in entrambe alcune falsità e imprecisioni». «Questa mi piace». «Le piace, mio caro, perché ancora non ha capito le conseguenze derivanti da una simile ipotesi» rise Tomás. «Essa implica che ci troviamo davanti a due Colombo». Fece una pausa per lasciare che si fissasse bene in mente l'idea. «Due». Piegò il primo dito. «Un Cristoforo Colombo genovese, senza istruzione e tessitore di seta, forse nato nel 1451». Ritirò il secondo dito. «E l'altro, Cristovão Colom o Cristóbal Colón, di nazionalità
incerta, esperto in cosmografia e scienze nautiche, pratico di latino, ammiraglio e scopritore dell'America, nato nel 1447». Moliarti guardò Tomás, sembrava scioccato. «Non può essere». «Eppure, caro Nelson, è un'ipotesi da considerare. Tenga presente che anche questa terza supposizione ha le sue incongruenze, in particolare il fatto che ci siano persone che conobbero lo scopritore dell'America e che, secondo documenti comunque non affidabili al cento per cento, lo consideravano originario di Genova. Tuttavia, affinché questa tesi sia vera, è necessario accettare che quelle informazioni siano false. In mezzo a tutta questa confusione dovrà pur esserci qualcosa di falso, no? Non può essere tutto vero considerato che, come le ho detto proprio poco fa, le informazioni si contraddicono a vicenda». «Lo crede possibile?». «La possibilità che esistano due Colombo, o un Colom e un Colombo, è da tener presente, senza dubbio. Consideri che, oltretutto, la maggiore fragilità delle argomentazioni anti-genovesi è l'incapacità di presentare documenti che permettano d'identificare l'origine del Cristoforo Colombo che scoprì l'America. Al contrario, la tesi genovese, nonostante tutte le contraddizioni e imperfezioni, e probabilmente falsificazioni, non incorre in questo ostacolo, e pertanto resta un riferimento. Finché non salta fuori un documento attendibile che attribuisca un'altra identità a Colombo, la versione del tessitore di seta, anche se in apparenza assurda, è l'unica che abbiamo e con questa dobbiamo fare i conti». «Sono certo che sia vera» commentò Moliarti. «Lei è un uomo di fede» osservò Tomás con un sorriso. «Se dopo tutto ciò che le ho detto ancora pensa che la tesi genovese non mostri debolezze, allora, mio caro, il suo caso non appartiene alla sfera della ragione, ma a quella della pura fede». «Può essere» ammise l'americano. «Tuttavia, c'è qualcosa che mi incuriosisce. Non trova strano che il professor Toscano, senza disporre di ulteriori dati, credesse che l'ipotesi genovese fosse falsa?». «Sì, è strano». «In fin dei conti, e come ha detto lei poco fa, se ha quasi abbandonato la ricerca sulla scoperta del Brasile e ha intrapreso questa pista, è perché deve aver trovato qualcosa». «Sì, è possibile». L'uomo della fondazione sbarrò gli occhi, studiando il portoghese come
se volesse esaminare la sincerità della risposta alla sua successiva domanda. «Lei è sicuro di aver sviscerato tutta la ricerca effettuata da Toscano?». Tomás evitò di incrociare lo sguardo del suo interlocutore. «Uhm... in effetti, Nelson» disse esitante «io... io ancora non sono riuscito a decifrare la sciarada del professore». Moliarti sorrise. «Mi sembrava. Cosa le manca?». «Devo ancora rispondere a questa domanda». Prese un piccolo foglio spiegazzato dal portafoglio e glielo mostrò. QUAL O ECO DE FOUCAULT PENDENTE A 545? Moliarti si mise gli occhiali e si curvò sul foglio. «"Quale l'Eco di Foucault pendente a 545?". Mamma mia! È incomprensibile». Guardò Tomás. «Che significa?». Lo storico prese il romanzo dalla ventiquattrore, il titolo Il Pendolo di Foucault era ben visibile sulla copertina. «A quanto pare, il professor Toscano si stava riferendo a questo libro di Umberto Eco». Moliarti afferrò il volume, lo analizzò e poi tornò a guardare il foglio dov'era scritta la strana domanda. «Ehi!» esclamò. «La soluzione è semplice, chiara. Deve soltanto controllare a pagina 545». Tomás scoppiò a ridere. «Non pensa che l'abbia già fatto?». «Ah, sì? E allora?». Il portoghese si riappropriò del romanzo, aprì a pagina 545 e la mostrò all'americano. «È una scena che si svolge in un cimitero. Descrive un funerale di partigiani durante l'occupazione tedesca, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. L'ho letta e riletta decine di volte alla ricerca di qualche pista che rispondesse alla domanda dell'enigma. Non ho trovato nulla». «Mi lasci guardare» chiese Moliarti, stendendo la mano. Afferrò il libro, inforcò nuovamente gli occhiali e lesse quella pagina con attenzione, lentamente. Impiegò più di due minuti; nel frattempo Tomás ne approfittò per ammirare il tranquillo scenario che li circondava all'interno delle mura del castello. «Tutto ciò effettivamente... ehm... è irrilevante» disse alla fine
l'uomo della fondazione. «Mi sono già scervellato su questa pagina e non so che pensare». «Eh, già» sussurrò Moliarti, analizzando ora la copertina. Girò le prime pagine e osservò il diagramma con l'Albero della Vita, distinguendo le dieci sephirot ebraiche, prima dell'inizio del testo. Lesse la prima epigrafe ed esitò. Posò la mano sul braccio di Tomás. «Tom, ha già visto questa citazione?». «Quale?». «Questa qui. Guardi». Si mise a leggere ad alta voce. «"Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera. Scrutate il libro, raccoglietevi in quella intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla vostra saggezza". È una citazione di Heinrich von Nettesheim». Fissò il portoghese. «Crede che possa essere una pista?». «Effettivamente». Dopo aver preso in mano il libro, studiò l'epigrafe. «"Ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro"? Questa frase sembra realmente contenere un'allusione. Me la lasci studiare meglio». Sfogliò con attenzione il romanzo. Dopo l'epigrafe veniva una pagina in bianco, che riportava solo il numero 1 e la parola Keter. «Keter». «Che significa?». «È la prima sephirah». «Che cos'è una sephirah?». «Si dice sephirah al singolare, e sephirot al plurale. Sono gli elementi strutturali della Cabala giudaica». Voltò il foglio e osservò la prima pagina di testo. Mostrava un'altra epigrafe, questa volta scritta in ebraico, con un nuovo numero 1, più piccolo, stampato a sinistra. Lesse la prima frase del romanzo a voce bassa. «"Fu allora che vidi il Pendolo"». Continuò a sfogliare il volume e, sei pagine dopo, c'era un secondo paragrafo con una nuova epigrafe, questa volta una citazione di Francis Bacon, e un 2, in piccolo, a sinistra. Otto pagine più avanti, un nuovo foglio bianco, semplicemente con il numero 2 e la parola Hokmak, che riconobbe come seconda sephirah. Saltò poi alla fine del volume e cercò l'indice. Lì erano elencate le dieci sephirot, ognuna comprendente vari paragrafi, una manciata in alcuni capitoli, numerosi in altri. Le sephirot con più paragrafi erano la 5, Geburah, e la 6, Tiferet. Dette un'occhiata ai paragrafi del quinto capitolo. Andavano dal 34 al 63. La sua attenzione si allontanò per un attimo dal li-
bro e si spostò sul foglietto sgualcito con l'inquietante domanda: QUAL O ECO DE FOUCAULT PENDENTE A 545? Riprese a esaminare i paragrafi del Geburah, la sephirah 5, spostando lo sguardo tra quella lista di numeri e il foglio con la sciarada. All'improvviso, ciò che prima non era altro che un semplice puntino di luce circondato dalle tenebre dell'ignoranza, si trasformò in una luminosità accecante, come un sole che tutto illumina. «Mio Dio!» esclamò, quasi saltando dalla sedia. «Cosa? Cosa?». «Mio Dio, mio Dio!». «Ehi, Tom! Che succede?». Tomás mostrò l'indice del libro a Moliarti. «Vede questo?». «Questo cosa?». Il dito indicava il numero 5, seguito da Geburah. «Questo». «Sì, è un cinque. E allora?». «Qual è il primo numero nella domanda di Toscano?». «Si riferisce alla cifra 545?». «Sì. Qual è il primo numero?». «Beh, il cinque, ovvio. E quindi?». «E quali sono gli altri due numeri della domanda di Toscano?». «Sempre nel 545?». «Certo!» iniziò a spazientirsi. «Quali sono le altre due cifre?». «Il quattro e il cinque». «Quattro e cinque, giusto? Esiste nel capitolo 5 un paragrafo 45?». Moliarti guardò l'indice. «Sì, c'è». «Pertanto, come vede, il capitolo 5, intitolato Geburah, comprende un paragrafo 45. Giusto?». «Esatto». «Allora ciò che Toscano intendeva dire non è 545, ma 5:45. Capitolo 5, paragrafo 45. Capisce?». Moliarti spalancò la bocca. «Perfettamente». «Adesso guardi» chiese ancora Tomás, stendendogli di nuovo l'indice.
«Qual è il titolo del paragrafo 45?». L'americano individuò la rispettiva linea e lesse. «"Da ciò scaturisce una straordinaria domanda"». «Visto?» rise Tomás. «"Da ciò scaturisce una straordinaria domanda". E quale potrebbe essere?». Tornò a esibire il fogliettino stropicciato. «"Quale l'Eco di Foucault pendente a 545?"». Inarcò il sopracciglio destro. «Ecco la domanda straordinaria». «Ma guarda un po'!» esclamò Moliarti. «Abbiamo trovato la soluzione!». Si chinò nuovamente sull'indice. «A che pagina è questo paragrafo?». Consultarono l'elenco a fine romanzo e individuarono la pagina del paragrafo. «A pagina 236». L'americano rise, emozionato. «L'epigrafe! Si ricorda cosa diceva?» commentò. «"Ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro"». Strizzò gli occhi, in un tic nervoso. «Vale a dire che ciò che è stato nascosto a pagina 545 è palesato nella 236». Tomás sfogliò il libro, agitato e esaltato, e, freneticamente, andò alla ricerca della pagina 236. In pochi istanti la trovò e s'immobilizzò, analizzando il testo con attenzione. In alto, sulla sinistra, lesse il numero 45 scritto a caratteri piccoli, e a destra un'epigrafe di Peter Kolosimo, tratta dalla Terra senza tempo. «"Da ciò scaturisce una straordinaria domanda"» lesse Tomás. «"Gli Egizi conoscevano l'elettricità?"». «Che significa?». «Non lo so». Tomás percorse la pagina con uno sguardo impaziente. Sembrava un testo mistico, con abbondanti riferimenti ai mitici continenti perduti di Atlantide e di Mu, alla leggendaria isola di Avalon e al complesso maia di Chichen Itza, luoghi popolati dai Celti, dai Nibelunghi e dalle civiltà scomparse del Caucaso e dell'Indo. Ma fu leggendo l'ultimo paragrafo che Tomás sentì un tuffo al cuore spalancò gli occhi. «Mio Dio!» mormorò, portandosi la mano alla bocca. «Che c'è? Che c'è?». Porse il libro a Moliarti e gli indicò il punto esatto della pagina. «Guardi cosa ha scritto qui Umberto Eco» gli suggerì Tomás. L'americano sistemò gli occhiali e lesse le frasi che il portoghese gli a-
veva mostrato: "Solo un testo curioso su Cristoforo Colombo: analizza la sua firma e vi trova addirittura un riferimento alle piramidi. Il suo intento era di ricostruire il Tempio di Gerusalemme, dato che era gran maestro dei Templari in esilio. Siccome era notoriamente un ebreo portoghese e quindi esperto cabalista, è con evocazioni talismaniche che ha calmato le tempeste e domato lo scorbuto". «Fuck!» imprecò Moliarti. XIII Il rumore dei colpi sulla porta era inusuale. Madalena Toscano si era abituata a riconoscere le persone in base al loro abitudinario modo di bussare. Distingueva quello impaziente del figlio maggiore, un ragazzo di quarant'anni che aveva conseguito un dottorato in Psicologia; il tamburellare nervoso delle dita del più giovane, un amante delle arti che si guadagnava da vivere facendo critica cinematografica per un settimanale; e il modo cadenzato del signor Ferreira, l'uomo del negozio di alimentari che regolarmente le riforniva il piccolo e vecchio frigorifero. Ma quel colpo alla porta le sembrava differente; era stato rapido e forte. Sebbene lo sconosciuto avesse bussato solo una volta, come se cercasse di mostrare tranquillità, lei intuì che, in verità, quel gesto tradiva una fretta a malapena contenuta. «Chi è?» domandò l'anziana signora con la sua tremula voce, avvolta nella vestaglia, con l'orecchio teso verso la porta. «Chi è?». «Sono io» rispose un uomo dall'altra parte. «Il professor Tomás Noronha». «Chi?» insistette lei, diffidente. «Quale professore?». «Quello che sta ricostruendo la ricerca di suo marito, signora. Sono passato l'altro giorno, non si ricorda?». Madalena aprì leggermente la porta, lasciando inserita la catenella di sicurezza, e sbirciò dalla fessura, come era sua abitudine. Lisbona non era più il paesino di una volta, era solita dire, era piena di ladri e gente violenta, disonesti della peggior specie, bastava sentire le notizie alla televisione. Paralizzata dalla paura di quanto proveniva dall'esterno, ogni accortezza non le sembrava mai sufficiente. Tuttavia, al di là della porta, non percepì nessuna minaccia: riconobbe subito quel viso sorridente, quell'uomo dai capelli castano scuro e verdi occhi cristallini che la stava guardando dal corridoio.
«Ah, è lei!» esclamò bonariamente. Tolse rumorosamente la catenella di sicurezza e aprì la porta. «Venga, venga». Tomás entrò nel vecchio appartamento. Lo accolse la solita aria stagnante, che odorava di muffa, e la solita debole luce, con i raggi del sole che penetravano con difficoltà dalla tende pesanti, incapaci di sconfiggere la scura penombra degli angoli. Porse il pacchetto bianco, avvolto e chiuso con un cordoncino, alla padrona di casa. «Per lei». Madalena Toscano guardò il piccolo involucro. «Che cos'è?». «Ho preso dei dolcetti in pasticceria. Sono per lei». «Oh! Dio mio. Non si doveva scomodare...». «Le pare. È un piacere». La signora lo accompagnò in sala e aprì l'involucro. All'interno della piccola scatola di cartone spiccavano un rim con crema al cioccolato, un duchaise caramellato con crema Chantilly e fios de ovos e un palmière. «Che meraviglia!» esclamò Madalena. Prese un piattino dalla credenza in sala e vi pose i tre dolci. «Quale vuole?». «Sono per lei». «Ah, sono troppi, non riesco a mangiarli tutti. E poi il medico mi ucciderebbe se sapesse che mi sono riempita di queste prelibatezze piene di colesterolo». Gli porse il piatto. «Ne prenda uno, su». Tomás rubò il duchaise, gli sembrava realmente appetitoso ed era tanto tempo che non affondava i denti in uno di quei dolcetti soffici e squisiti. Madalena optò per il croccante palmière. «Non per vantarmi, ma ho fatto un'ottima scelta, non trova?» le domandò, quasi leccandosi le dita. «Sì sì. È una meraviglia. Le andrebbe un tè?». «No, grazie». «È già pronto» insistette lei. «Beh, se è già pronto...». La signora andò in cucina e qualche istante dopo tornò con un vassoio, portando un bricco verde, due tazze di porcellana antica e una zuccheriera metallica. Posò il vassoio sul tavolo e si servirono. Era tè nero, che Tomás non amava, preferiva le tisane più delicate, ma bevve e fece cenno di trovarlo molto buono. «Proprio l'altro giorno pensavo a lei» commentò Madalena quando ebbe finito il palmière.
«Ah, sì?». «È la verità. Stavo parlando con mio figlio, il maggiore, e gli ho detto: "Manel, mi piacerebbe vedere il lavoro di tuo padre pubblicato in un libro". Gli ho raccontato che un ragazzotto della facoltà era passato qui alla ricerca di documenti e che non mi aveva dato più notizie». «Però ora eccomi qua». «Eh già. Ha trovato ciò che stava cercando?». «Quasi tutto. Mi manca solo di vedere cosa c'è dentro la sua cassaforte». «Ah sì, la cassaforte. Ma già le ho detto che non conosco la combinazione». «È un codice numerico, vero?». «Sì». «E mi ha detto, l'ultima volta che sono stato qui, che scoprendo le parole-chiave bastava trasformare ogni lettera in cifra, in base all'ordine alfabetico». «Sì, è quanto faceva sempre mio marito». «L'uno corrisponde alla a, il due alla b, il tre alla c e così via». «Esattamente». «E l'alfabeto è quello portoghese?». «Alfabeto portoghese?». «Sì, l'alfabeto senza k, y o w». «Ah, certo. Il mio Martinho usava solo il nostro alfabeto, non ricorreva a quelle lettere straniere, come si usa oggi sui giornali». Tomás sorrise. «Allora già so quali sono le parole-chiave». «Davvero?» si meravigliò Madalena. «Come fa a conoscerle?». «Si ricorda del codice cifrato che mi ha dato?». «Quel groviglio di lettere?». «Sì». «Certo che me lo ricordo. Ce l'ho ancora». «L'ho decifrato e ho la soluzione». «Ah sì?». «Possiamo controllare se è quella giusta?». Madalena Toscano condusse l'ospite fino alla camera. Così come la volta precedente, tutto era in disordine. Il letto era disfatto, si vedevano vestiti sparsi per il pavimento e sulla sedia, e si sentiva nell'aria lo stesso odore acido, forse un po' meno intenso ma ugualmente sgradevole. S'accovacciarono davanti alla cassaforte e Tomás prese il bloc-notes dalla ventiquattro-
re; lo sfogliò fino ad arrivare agli appunti che stava cercando. Le parolechiave erano scarabocchiate sul foglio, e a ogni lettera corrispondeva, in basso, il rispettivo numero: J U D E U 10 20 4 5 20
P O R T U G U Ê S 15 14 17 19 20 7 20 5 18
Il professore si chinò sulla cassaforte e digitò il codice. Non successe nulla. Il visitatore e la padrona di casa si scambiarono un breve sguardo scoraggiato, ma Tomás non si arrese. Compose soltanto la seconda sequenza di numeri, corrispondente alla parola português, ma lo sportello della cassaforte non si mosse. «È sicuro che questa sia la chiave del codice?». «La certezza non si ha mai, giusto? Ma sì, ero sicuro che fosse questa». «Com'è arrivato a questa chiave?». «Ho scoperto che la cifra corrispondeva a una domanda». «Ah sì? Una domanda? Di che genere?». «La domanda contenuta nella cifra era: "Quale l'Eco di Foucault pendente a 545?". Dopo aver fatto molte ricerche, ho pensato che la risposta potesse essere judeu português». Scrollò le spalle, reprimendo un'irritazione frustrata. «Ma evidentemente non lo era». «Non esiste nessun sinonimo? A volte Martinho giocava con i sinonimi...». «Davvero?» si meravigliò Tomás. Si accarezzò il mento, pensieroso. «Beh, a partire dal XVI secolo gli ebrei cristianizzati iniziarono a essere chiamati cristãos-novos...». Tirò fuori la penna dalla tasca del cappotto, prese il bloc-notes e scrisse le due parole. Poi, contando con le dita, scrisse sotto ogni lettera il numero corrispondente: C R I S T Ã O 3 17 9 18 19 1 14
N O V O 13 14 21 14
Digitò le due sequenze nella tastiera della cassaforte e attese un momento. Non accadde nulla, la porticina restava bloccata. Sospirò e si passò la mano fra i capelli, scoraggiato e senza altre idee. «No!» esclamò, scuotendo la testa. «Non è neanche questa».
Il palazzo si ergeva al di sopra della nebbia, come fosse sospeso sulle nuvole, librandosi malinconicamente sull'ombroso versante dei monti della Serra di Sintra. La facciata in vecchia pietra chiara, ricca di sfingi, figure alate e strani animali inquietanti, tutti all'interno di nodi manuelini o avvolti da foglie di acanto, ricordava un monumento cinquecentesco nello splendore del gotico portoghese, ma con in più il tocco tenebroso, persino sinistro, di fortezza maledetta, un mostro imponente che spuntava tra i fumi grigiastri della nebbiolina. Quasi sospeso sulla montagna, avvolta dalla foschia, il palazzetto risplendeva sotto l'argento della luce riflessa di quel pomeriggio nebbioso, sembrava un castello stregato, una dimora infestata dai fantasmi, un luogo irreale e perso nel tempo, con un intreccio di cuspidi, pinnacoli, merloni, torri e torrioni che lo rendevano incredibilmente misterioso. Con gli occhi fissi sul palazzetto, Tomás non sapeva cosa pensare di quel posto enigmatico. A volte la Tenuta della Regaleira gli sembrava bella, trascendentale, sublime; ma sotto il fitto manto della nebbia, la bellezza irradiata da quello spazio mistico si trasformava in qualcosa di spaventoso, lugubre, un rifugio di ombre e un labirinto di tenebre. Sentì un brivido lungo il corpo e guardò l'orologio. Erano le tre e cinque del pomeriggio, Moliarti era in ritardo. La tenuta era deserta, del resto in un giorno feriale di metà marzo non ci si poteva certo aspettare di vedere dei visitatori a passeggio. Desiderò ardentemente che l'americano si sbrigasse, non gli andava di restare a lungo solo in quel luogo che in alcuni momenti gli era sembrato piacevole ma che ora gli si presentava così tremendo. Seduto su una panchina davanti al giardino, vicino alla loggia42 centrale che collegava la tenuta alla strada, distolse lo sguardo dall'inquietante palazzo e per alcuni istanti osservò la statua che aveva di fronte. Raffigurava Ermes, il messaggero dell'Olimpo, il dio dell'eloquenza e dell'arte del parlar bene, ma anche la divinità ingannevole e senza scrupoli che conduceva all'inferno le anime dei morti, simbolo del regno dell'inaccessibile. Tomás si guardò intorno e pensò che quello era, senza dubbio, uno degli dei più adatti a vigilare sulla Tenuta della Regaleira, il luogo dove anche le pietre custodivano segreti, dove persino l'aria si fondeva agli enigmi. «Hi Tom!» lo salutò Moliarti, mentre la testa emergeva gradualmente dalla scalinata del giardino. «Scusi il ritardo. Ho avuto difficoltà a trovare questo posto». Tomás si alzò e ricambiò i saluti, sollevato perché, finalmente, aveva
compagnia. «Non si preoccupi. Ne ho approfittato per ammirare il paesaggio e respirare l'aria pura della montagna». L'americano osservò il panorama intorno a sé. «Che posto è questo? Mi fa venire i... creeps. Come si dice in portoghese?». «Brividi». «Esatto. Mi fa venire i brividi». «La Tenuta della Regaleira è, forse, il sito più esoterico del Portogallo». «Really?» commentò Moliarti meravigliato, osservando il palazzetto deserto. «Perché?». «Tra il XIX e il XX secolo, quando ancora c'era la monarchia, questa proprietà era stata acquistata da un uomo di nome Carvalho Monteiro. Era conosciuto come Monteiro dos Milhões43 perché, con i suoi affari in Brasile, era fra le persone più ricche del Paese. Carvalho Monteiro era anche fra gli uomini più colti del suo tempo e decise di trasformare la tenuta in un centro esoterico, alchimistico, nel quale avrebbe potuto fondare l'ambizioso progetto di far rinascere la grandezza del Portogallo, basandosi sulla tradizione mistica nazionalistica e sulle imprese delle Scoperte, andando alle radici del Quinto Impero». Indicò il palazzetto, sulla destra, che spuntava dalla nebbia, silenzioso, superbo, quasi minaccioso. «Osservi quest'architettura. Cosa le ricorda?». Moliarti studiò la struttura argentea e merlettata della dimora. «Hmm» mormorò. «Forse la Torre di Belém...». «Precisamente. Stile neomanuelino. Sa, la tenuta fu costruita in un'epoca di recupero dei valori antichi. Allora imperava in Europa lo stile neogotico. Quindi, poiché il gotico portoghese corrispondeva allo stile manuelino, il neogotico avrebbe potuto essere soltanto il neomanuelino. Ma questo luogo andò oltre e cercò di recuperare anche le fondamenta delle Scoperte. Per questo ritroviamo numerosi riferimenti all'Ordine Militare di Cristo, che in Portogallo successe all'Ordine dei Templari, importantissimo per l'espansione marittima. I simboli magici qui usati, secondo una formula alchimistica, risalgono al cristianesimo templare e alla tradizione classica rinascimentale, con profonde radici a Roma, Grecia ed Egitto». Fece un ampio gesto verso sinistra. «Vede quelle statue?». L'americano osservò la fila di silenziose figure scolpite nella vecchia pietra, disposte su alcune strutture che delimitavano un giardino geometrico alla francese, pieno di rette e di angoli.
«Sì». «Le presento Ermes, il dio da cui deriva la parola ermetismo» disse, indicando la statua più vicina. Poi progressivamente allontanò sempre più il dito verso sinistra, mentre nominava ogni figura. «Questo è Vulcano, il figlio deforme di Giove e Giunone, quello è Dioniso, l'altro è Pan, un satiro di norma rappresentato con piedi e corna caprine, come fosse un diavolo, che fortunatamente qui è reso più umano. Poi ci sono Demetra, Persefone, Venere, Afrodite, Orfeo e là in fondo, all'ultimo posto, la dea Fortuna. Tutti loro sono guardiani dei segreti esoterici di questo luogo, sentinelle attente che proteggono i misteri qui racchiusi». Fece un cenno. «Andiamo?». I due iniziarono a percorrere il tragitto dinanzi alle statue, in direzione della loggia in fondo al giardino. «Allora, mi dica. Che c'era dentro la cassaforte della vecchia?». Tomás scrollò la testa. «Non sono riuscito ad aprirla». «Non era quella la chiave?». «Evidentemente no». «Strano». «Ma sono sicuro che siamo vicini. La domanda del professor Toscano ci rimanda, senza ombra di dubbio, a quel brano de Il Pendolo di Foucault». «Ne è certo?». «Assolutamente. Faccia attenzione: il professor Toscano ha effettuato ricerche sulle origini di Cristoforo Colombo, sollevando dubbi sulla sua origine genovese, e la citazione in questione afferma appunto che Colombo era un ebreo portoghese. Basta fare due più due, non le pare?». Si passò le mani fra i capelli. «Ciò che penso, tuttavia, è che abbiamo commesso qualche errore nella formulazione della parola-chiave». Superarono Orfeo e Fortuna e, proprio vicino alla pensilina merlata della loggia, girarono a destra e iniziarono a salire il pendio. Il giardino geometrico diventava un giardino romantico, nel quale le pietre, il manto erboso, gli arbusti e gli alberi s'intrecciavano in una continua e armoniosa fusione. C'erano magnolie, camelie, felci arboree, palme, sequoie, piante esotiche provenienti da tutto il mondo. Fra la rigogliosa vegetazione emergeva uno strano lago, la cui superficie era ricoperta da un denso manto di muschio verde smeraldo che due anatre, impegnate in malinconici schiamazzi, fendevano scivolando sulla superficie e aprendo cupi solchi che subito si chiudevano dietro di loro, sigillati da quella spessa copertura. «Il Lago della Saudade» annunciò Tomás. Indicò al di sotto del terreno
alcuni enormi archi scuri ad esso contigui, sembravano le tetre cavità di un teschio, con i fili d'edera e le felci che pendevano dall'alto. «La Grotta dei Catari, all'interno della quale penetrano le acque». «Inquietante». Continuarono lungo il percorso che costeggiava il lago, circondato da pietre ricoperte di muschio. Attraversarono un piccolo ponte, ostruito da una gigantesca magnolia, e incontrarono una casetta coperta di quarzo e altre piccole pietre incastonate nella parete. Al centro, un'enorme conchiglia raccoglieva acqua limpida. «Questa è la Fonte Egizia» spiegò Tomás, indicando la conchiglia concava, simile a una bacinella. «Vede questi disegni?» chiese il portoghese, riferendosi all'immagine di due uccelli che le pietre incastonate tratteggiavano sulla parete. «Sono ibis. Nella mitologia egizia, l'ibis personifica Thot, il dio della parola creatrice e del sapere occulto, colui che ha dato origine ai geroglifici. Sa qual è il nome di Thot nell'Olimpo greco?». Moliarti scosse la testa. «Non ne ho idea». «Ermes. Dall'associazione tra Thot ed Ermes nacquero i misteriosi trattati esoterici e alchimistici di Ermes Trismegisto». Indicò il becco dell'ibis sulla sinistra, che sembrava trattenere un grosso lombrico. «Quest'ibis trattiene nel becco un serpente, simbolo della gnosis, la conoscenza». Fece un ampio gesto. «Le sto mostrando tutto ciò per dimostrarle che qui nulla è stato messo a caso. Ogni cosa racchiude un significato, un concetto, un messaggio nascosto, un enigma che risale ai primordi della civiltà». «Ma l'ibis non ha nulla a che fare con le Scoperte». «Tutto qui, mio caro Nelson, ha a che fare con le Scoperte. L'ibis, come le ho detto, corrisponde al sapere occulto. Nel Libro di Giobbe, in cui quest'uccello rappresenta il potere della previsione, si chiede: "Chi ha dato all'ibis la saggezza?". Ora, cos'era in definitiva il mondo del XV e XVI secolo se non un luogo occulto, un mistero da svelare, un oracolo che stava per essere interpretato?». Guardò le pareti del palazzetto, che fluttuava nella nebbia, là in fondo. «Le Scoperte sono collegate ai Templari che trovarono rifugio in Portogallo dopo le persecuzioni decretate in Francia e approvate dal Papa. In verità, i Templari portarono in Portogallo il sapere necessario per la grande avventura marittima del XV e del XVI secolo. È per questo che esiste una cultura mistica riguardo le Scoperte, con radici che si fondano nell'età classica e nell'idea della rinascita dell'uomo». Aprì la mano mostrando quattro dita. «Ci sono quattro testi fondamentali per leggere
l'architettura di questo luogo di mistero. L'Eneide di Virgilio. Il suo equivalente portoghese, I Lusiadi, di Luís de Camões. La Divina Commedia, di Dante Alighieri. E un testo esoterico del Rinascimento, altrettanto pieno di enigmi e allegorie, intitolato Hypnerotomachia Poliphili, di Francesco Colonna. Ognuno di essi, in un modo o nell'altro, è stato reso eterno dalle pietre della Tenuta della Regaleira». «I see». Il professore portoghese indicò una panchina vicino al lago, accanto alla Fonte Egizia. «Ci sediamo?». «Va bene». Si diressero verso il sedile scolpito nel marmo di grana fina, con due levrieri collocati alle estremità in posizione di guardia, e una figura femminile al centro, con in mano una fiaccola. «Questa è la panchina del 515» spiegò Tomás, rimanendo in piedi davanti alla struttura. «Sa cos'è il 515?». «No». «È un codice della Divina Commedia di Dante. Il 515 è il numero che corrisponde al messaggero di Dio che verrà a vendicare la fine dei Templari e ad annunciare la terza epoca della cristianità, l'Era dello Spirito Santo, che porterà la pace universale sulla Terra». Recitò a memoria. «"Nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque"». Sorrise. «È un passo del Purgatorio, la seconda cantica della Divina Commedia». Abbozzò un gesto in direzione della panchina di pietra. «Come vede, così come il resto della Tenuta della Regaleira, anche questa panchina è un'allegoria». Si sedettero sulla fredda superficie di marmo, mentre l'americano studiava il levriero seduto al suo fianco e la donna con la torcia, al centro. «Chi rappresenta questa statua?». «Beatrice, il personaggio che conduce Dante fino al cielo». «È incredibile! Ogni cosa qui nasconde una storia». Tomás aprì la sua inseparabile ventiquattrore e prese il bloc-notes. «È quello che stavo dicendo» mormorò. «Ma qui con me ho un'altra storia da raccontarle». «Ah, sì?». Sfogliò il blocco e si sedette nuovamente. «Il riferimento di Umberto Eco a Colombo, al quale si attribuisce origine portoghese, mi ha spinto a riconsiderare la direzione della mia indagine.
Sono andato alla ricerca di elementi, consultando soprattutto le numerose fotocopie dei documenti redatti di suo stesso pugno, e ho scoperto alcune cose sull'Ammiraglio che certamente troverà interessanti». Controllò le annotazioni. «Per prima cosa si può dire che il dibattito sulla cittadinanza di Colombo non può essere condotto sulla base di modelli attuali, dato che all'epoca in cui è vissuto il navigatore non esistevano Paesi nella concezione moderna del termine. Ad esempio, per Spagna s'intendeva tutta la Penisola Iberica. I portoghesi si consideravano spagnoli e protestarono quando i castigliani si appropriarono indebitamente di questo nome. Quindi non c'erano, nel senso che noi oggi attribuiamo a queste parole, navigatori portoghesi, ma navigatori al servizio del re di Portogallo o della regina di Castiglia. Fernão de Magalhães, ad esempio, era un esperto navigatore portoghese che girò il mondo su una flotta castigliana. Durante questo incarico era castigliano». «Un po' come Von Braun». «Scusi?». «Von Braun era tedesco ma progettò il viaggio sulla Luna come americano». «Esatto» concordò Tomás. «La seconda cosa che bisogna tener presente è che l'acceso dibattito sulla vera cittadinanza di Colombo prende via nel 1892, non solo in occasione del quarto centenario della scoperta dell'America, ma anche in un clima di nazionalismo estremo. Gli storici spagnoli iniziarono a individuare incongruenze nell'argomentazione genovese e avanzarono due ipotesi, in base alle quali Colombo sarebbe stato gallego o catalano. Gli italiani, in pieno periodo di fervore nazionalista e di affermazione politica e culturale del Paese appena costituito, si opposero accanitamente a tale possibilità. È in questo momento che appaiono, da entrambe le parti, i documenti inventati». «Non è proprio così. Agli italiani interessava soltanto la verità». «Ne è certo?». Tomás prese dalla borsa un piccolo libro intitolato Sails of Hope, e cercò la parte sottolineata. «Questo è uno studio condotto dal famoso "cacciatore di nazisti" ebreo Simon Wiesenthal sulla vera identità di Colombo. Wiesenthal racconta di aver discusso sulla ricerca che stava portando a termine con uno storico italiano, il quale esordì nel seguente modo...». Tradusse direttamente dal libro: «"Poco importa quello che scoprirò. L'essenziale è che Cristoforo Colombo non diventi spagnolo"». Fissò Moliarti. «O meglio, per questo storico italiano non era in causa la scoperta della verità, ma la necessità nazionalista di preservare l'identità italiana
di Colombo, a tutti i costi». «Su, via!» rise l'americano. «Non è questo che anche lei sta facendo, solo in direzione contraria?». «Si sbaglia, Nelson. Come le ho già spiegato, io sto solo cercando di ricostruire la ricerca del professor Toscano, che è il motivo per cui mi avete contattato. Ma se vuole che io mi fermi, me lo dica, senza esitazioni». «Hmm» borbottò Moliarti. «Non vale la pena drammatizzare». Si passò la mano sulla testa, come se cercasse di riordinare i propri pensieri. «Mi dica, Tom, lei crede sia possibile che Colombo fosse di origine spagnola?». «No, non lo penso. È certo che papa Alessandro VI, in una lettera ai Re Cattolici, descrive Colombo come "filho dilecto da Hispânia", ma la verità è che, in quell'epoca, per Hispânia non s'intendeva solo Castiglia e Aragona ma, come già le ho detto, tutta la Penisola Iberica, compreso il Portogallo. D'altro canto, quest'espressione non indica necessariamente che fosse nato là, sebbene questo sia in un certo modo implicito. Si potrebbe supporre che si stia riferendo a una specie di figlio adottivo della Hispânia». «Allo stesso modo in cui Von Braun è figlio adottivo dell'America». «E lo è?». «Beh, ehm... in un certo senso... sì». «Con un po' di buona volontà, il riferimento potrebbe avere questo significato. Ma solo con un po' di buona volontà...». Strizzò l'occhio, provocatorio. «Lasciamo perdere. Per il nostro caso, ci interessa solo la presenza di forti indizi sul fatto che Colombo non sia nato né in Castiglia né in Aragona. Il primo documento che certifica la presenza di Colombo in Spagna porta la data del 5 maggio 1487 e si riferisce a un pagamento che fu fatto a "Cristóbal Colomo, extrangero". Del resto, la provenienza straniera del navigatore è stata addirittura provata da un tribunale spagnolo quando il figlio portoghese, Diogo Colom, pretese che la Corona rispettasse le clausole del contratto che i Re Cattolici avevano stipulato con il padre nel 1492. Durante il processo, diversi testimoni dichiararono, sotto giuramento, che Colombo parlava castigliano con accento straniero. Il tribunale finì per rigettare la querela basandosi sulla disposizione in base alla quale i monarchi potevano concedere tali favori a cittadini spagnoli, ma non avrebbero potuto farlo con uno straniero che non risiedesse da almeno diciott'anni nel Paese». Consultò i suoi appunti. «La sentenza del processo è conservata nel codice V.II.17, che si trova nella Biblioteca de l'Escoriai, e sancisce che "el dicho don Cristóbal era extrangero, no natural ni vecino
del Reino, ni morador en él". Pertanto, Colombo era uno straniero». «Genovese» precisò l'americano. «Lei proprio non vuole arrendersi!» rise Tomás. «Forse era proprio genovese, chi lo sa? Ma c'è da valutare ancora l'ipotesi portoghese, evidentemente difesa dal professor Toscano e accolta da Umberto Eco». Fece una pausa, cercando le annotazioni nella pagina successiva del bloc-notes. «Il primo importante indizio è stato fornito da uno dei più illustri cosmografi e geografi del XV secolo, Paolo Toscanelli, di Firenze. Questo grande scienziato ebbe uno scambio epistolare con il canonico portoghese Fernam Martins e con Colombo. Particolarmente curiosa è una carta inviata a Lisbona in latino e datata 1474. Nella missiva indirizzata al navigatore, Toscanelli inizia dicendo "ho ricevuto le tue lettere", dando così a intendere che Colombo gli aveva scritto più di una volta, a quanto pare a proposito della rotta occidentale per le Indie. La lettera di Toscanelli affronta dettagliatamente l'ipotesi di questo viaggio, ma è la conclusione che mi sembra rilevante per la nostro piccolo dibattito. Toscanelli afferma quanto segue». Affinò la voce. «"Per le quali cose, e molte altre che si potrebbero dire, non mi meraviglio che tu, che sei di gran cuore, e tutta la nazione Portoghese, la quale ha avuto sempre uomini segnalati in tutte le imprese, sii col cuore acceso e in gran desiderio di eseguir detto viaggio"». «E allora?» chiese Moliarti con arroganza. «E allora?» ribatté Tomás ridendo. «E allora questa lettera ci svela parecchie cose! Guardi, perlomeno quattro elementi curiosi. Innanzitutto dimostra che Colombo intratteneva una corrispondenza con uno dei più illustri uomini di scienza del suo tempo». «Non vedo cosa possa esserci di tanto curioso...». «Oh, Nelson, non è la tesi genovese a sostenere che Colombo non era altro che un tessitore di seta senza istruzione? Com'è possibile che un simile personaggio potesse avere dei contatti con Toscanelli?». Interruppe il discorso per un momento, quasi volesse dare più forza alla sua domanda. «Eh?». Rivolse nuovamente l'attenzione al bloc-notes. «Il secondo problema è che Toscanelli implicitamente ci porta a pensare che il suo interlocutore fosse portoghese, dato che scrive "tu, che sei di gran cuore, e tutta la nazione Portoghese". L'italiano Toscanelli non sapeva dunque che anche Colombo fosse italiano?». Piegò la testa. «O forse non lo era?». Sorrise. «Il terzo punto è che la lettera, inviata a Lisbona, è datata 1474». «E quindi?». «E quindi non capisce il serissimo problema che solleva?». Agitò la co-
pia che aveva in mano. «Mio caro Nelson, si ricordi che la documentazione notarile afferma che il tessitore di seta Cristoforo Colombo arrivò in Portogallo solo nel 1476. Com'è possibile che Toscanelli abbia mantenuto una corrispondenza con Colombo a Lisbona, ricevendo e spedendo lettere, visto che lui sarebbe sbarcato nella città solo due anni dopo?». «Non potrebbe esserci un errore?». «Non c'è nessun errore. La presenza di Colombo a Lisbona nel 1474 è confermata anche da un'altra fonte. Lo storico Bartolomé de Las Casas, descrivendo un incontro tra Colombo e il re Fernando a Segovia nel maggio del 1501, dice che l'ammiraglio aveva passato quattordici anni cercando di convincere la Corona portoghese ad appoggiare il suo progetto. Se consideriamo che Colombo abbandonò il Portogallo nel 1484, e se a 1484 togliamo quattordici, resta...» scarabocchiò i conti sul bloc-notes «... resta 1470». Guardò l'americano. «Pertanto, se Las Casas è stato corretto nei dettagli, Colombo doveva essere necessariamente a Lisbona nel 1470. Quattro anni dopo, nel 1474, ricevette nella capitale portoghese la lettera del Toscanelli. Ma questo come può essere possibile se, secondo i documenti notarili genovesi, in quel periodo lui ancora non era arrivato in Portogallo?». «Ehm... beh... è un dettaglio...». «Nelson, questo, al contrario di quanto può sembrare, non è un dettaglio banale, una cosa senza importanza, ma un problema molto, molto grande. Cosi grande che gli storici trascorsero tutto il XIX secolo a discutere su queste bizzarre discrepanze, incapaci di mettersi d'accordo su una questione apparentemente tanto semplice come determinare la data dell'arrivo di Cristoforo Colombo in Portogallo. E questo perché per alcuni anni ci furono contemporaneamente due Colombo. Un Colombo a Genova a tessere la seta, e un altro Colom a Lisbona impegnato a cercare di convincere il re portoghese a raggiungere l'India navigando verso Occidente e a scriversi con Toscanelli, che lo considerava portoghese». Moliarti si lasciò andare sulla panchina, sfiduciato. «Certo... ehm... vada avanti. Qual è il quarto problema?». «La lettera di Toscanelli è scritta in latino». «Ah sì? E allora?». «Nelson» esordì Tomás, come se stesse spiegando una cosa a un bambino «Toscanelli era italiano e si suppone che anche Colombo lo fosse. Essendo entrambi conterranei, sarebbe stato naturale scriversi in toscano, la lingua parlata tra italiani di città diverse, e non in una lingua morta, no?».
«Effettivamente. Ma che due italiani si scrivessero in latino a quel tempo non era poi così impossibile: entrambi venivano da città differenti ed, essendo eruditi, il latino era anche un modo di esibire la propria cultura». «Colombo era erudito?». Scoppiò a ridere. «E io che credevo non fosse altro che un tessitore di seta senza istruzione...». «Ehm... beh...» balbettò Moliarti. «Sicuramente avrà studiato da qualche parte». «È possibile, Nelson, è possibile. Ma si ricordi che, all'epoca, le classi più basse non avevano facile accesso all'istruzione. Se persino oggi questo è difficile, immagini nel XV secolo...». «Potrebbe aver trovato un protettore». «Un protettore?». «Sì, qualcuno che gli pagasse gli studi». «Ma com'è possibile se il nome di Cristoforo Colombo non appare nella lista degli alunni delle scuole di Genova di quel periodo?». «Ehm... forse... è andato in qualche altra scuola... ehm... o lo ha seguito un tutore...». «Altre scuole? Un tutore?». Tomás continuò a ridere. «E chi lo sa? Tuttavia, mi permetta di ricordarle che non fu solo con Toscanelli che Colombo, presumibilmente italiano, non utilizzò una lingua viva. La verità è che Colombo non scrisse quasi mai in italiano». «Che intende dire con questo?». «Intendo dire che Colombo, a quanto pare, era un italiano che non scriveva nella propria lingua. La sua corrispondenza è tutta in castigliano o in latino». «Beh... ehm... credo sia naturale. Di certo i suoi interlocutori spagnoli, come i Re Cattolici, non capivano l'italiano...». «Nelson» lo interruppe Tomás con un tono tranquillo, ma deciso «l'italiano Cristoforo Colombo non utilizzò neanche una volta l'italiano nella corrispondenza con italiani. Neanche una». L'americano accennò un'espressione interrogativa. «Non ci credo». «Invece può crederci». Il professore prese le fotocopie delle lettere manoscritte. «Vede?» mostrò un foglio. «Questa è la copia di una lettera di Colombo a Nicolò Oderigo, ambasciatore di Genova in Spagna, datata 21 marzo 1502. È archiviata nel Palazzo Municipale di Genova. È la lettera di un presunto genovese a un conterraneo. Ma, guardi bene, è scritta in ca-stiglia-no». Pronunciò la parola sillaba dopo sillaba, per enfatizzarla. Prese
un'altra fotocopia. «In quest'altra lettera, ugualmente indirizzata a Oderigo, sempre in castigliano, Colombo arriva a chiedere al suo interlocutore genovese di tradurre una missiva per un altro genovese, un certo Giovanni Luigi». Fissò Moliarti, visibilmente sconcertato. «Conveniamo che questo sia strano, no? Non solo Colombo scrive in castigliano a un genovese ma, cosciente del fatto che un secondo destinatario non conosce il castigliano, invece di redigere la lettera in italiano o in dialetto genovese affinché egli possa comprenderla, chiede a Oderigo che la traduca per lui. È incredibile, non trova? Soprattutto se supponiamo che Colombo fosse genovese». Gli mostrò un altro foglio. «Questa lettera era indirizzata a un altro destinatario genovese, un'istituzione bancaria, l'Ufficio di San Giorgio. La missiva è nuovamente scritta in castigliano». Sorrise. «Il che significa che abbiamo un genovese che visse a Genova fino all'età di ventiquattro anni, ma che non scrisse nemmeno una riga in italiano o nel suo dialetto nelle lettere dirette ai suoi interlocutori genovesi». Un'ultima fotocopia. «E questa è una lettera rivolta a un altro italiano, padre Gaspar Gorricio. Ancora una volta, sorpresa sorpresa, in castigliano. E, non si dimentichi, c'è anche la lettera che doveva aver scritto a Toscanelli. Quest'ultima è scomparsa ma, dalla risposta di Toscanelli, si capisce che Colombo gli si rivolse in portoghese o in latino. Tirando le somme, il risultato finale è una corrispondenza con cinque interlocutori italiani, due dei quali genovesi, sempre in lingue diverse dall'italiano e dal genovese. Uno spreco di tempo, no?». «Non capisco, Tom. In fin dei conti, lei stesso mi ha detto di pensare che Colombo non fosse spagnolo...». «Non lo pensavo, né lo penso». «E, tuttavia, mi sta dicendo che Colombo scriveva soltanto in castigliano o in latino». «Sì, ed è la verità». «Allora, se parlava castigliano e non era spagnolo, dove vuole arrivare? Che io sappia, in Portogallo non si parlava castigliano...». «Certo che no». «E allora come la mettiamo?». «Il punto è che ancora non le ho raccontato tutto». «Ah, bene». «Mi lasci fare una precisazione» disse Tomás. «I documenti personali di Cristoforo Colombo con il tempo sono andati perduti. Quando il figlio portoghese, Diogo Colom, morì, la corrispondenza dell'Ammiraglio passò nelle mani della moglie di Diogo, Maria, e di suo figlio, Luís, che portarono
tutto nelle Antille. Dopo la loro morte, la corrispondenza tornò in Spagna e fu consegnata ai monaci di Las Cuevas. Successivamente, una contesa giuridica li divise fra Muño Colón e la famiglia del duca di Alba. Parte dei documenti passò poi al duca di Verágua, discendente dell'Ammiraglio. A quel punto già restavano solo alcune lettere di Colombo indirizzate a Diogo». Alzò la mano sinistra. «Faccia attenzione a ciò che sto per dirle, Nelson, perché è importante. Durante questi passaggi, sono scomparsi quasi tutti i documenti. Persino il diario di Colombo non è stato conservato, ci resta solo una copia manoscritta, scoperta nel XIX secolo, che si suppone essere opera di Bartolomé de Las Casas». Sottolineò la parola suppone. «Ovviamente, in mezzo a tanta confusione, sono saltate fuori molte falsificazioni. In alcuni casi, i contraffattori si limitarono ad alterare piccoli dettagli del testo, allo scopo di rafforzare le proprie tesi, e probabilmente distrussero gli originali che le smentivano. In altri, modificarono totalmente i documenti. In certe situazioni, questo accadde per appropriarsi della nazionalità di Colombo. In altre fu semplicemente per soldi. Ho parlato con esperti di manoscritti autografi, abituati ad acquistare lettere preziose durante le aste, i quali mi hanno rivelato che, se venisse alla luce una lettera manoscritta di Colombo, di cui fosse certa l'autenticità, questa varrebbe circa mezzo milione di dollari. Solo una lettera firmata da Gesù Cristo sarebbe più cara, così mi hanno detto gli esperti, un po' per scherzo, un po' sul serio. Come ben immaginerà, questi valori astronomici hanno incoraggiato, e parecchio, le falsificazioni». «Mi sta dicendo che tutti i documenti sono stati alterati?». «Le sto dicendo che, probabilmente, molte delle lettere attribuite a Colombo sono false, in parte o completamente». «Incluse le lettere ai genovesi?». «Sì». Moliarti sorrise. «Allora questo spiega il problema che mi ha illustrato poco fa, non trova? Se le lettere sono state contraffatte, la circostanza che siano scritte in castigliano non prova nulla. Sono false...». «Queste lettere provano molte cose, Nelson. Dimostrano che neanche i falsificatori hanno avuto il coraggio di scrivere in italiano le lettere di Colombo indirizzate a genovesi, questo le avrebbe screditate. Dimostrano che gli originali sui quali si sono basati, nel caso in cui questi esistessero realmente, erano anch'essi scritti in castigliano. E infine dimostrano che di fatto c'è stata una cospirazione per attribuire allo scopritore dell'America la
cittadinanza genovese». «Sciocchezze». «Non sono sciocchezze, Nelson. Ci sono numerosi documenti falsificati nei quali è stato inserito di proposito il nome di Genova». «Vuol dire che i documenti notarili trovati negli archivi di Genova e di Savona sono stati falsificati?». «No, quelli probabilmente sono veri. Il tessitore di seta Cristoforo Colombo è esistito veramente, su questo non ci sono dubbi. Le falsificazioni riguardano solo alcuni documenti del navigatore Cristóbal Colón e tutti quelli che cercano di collegare Colombo a Colón, come il Documento Assereto e le lettere dell'Ammiraglio inviate ai genovesi. Non si dimentichi, Nelson, che tutto ciò che sappiamo su Colombo è stato scritto da italiani e spagnoli, in alcuni casi senza malizia, in altri casi per scopi differenti». «Bene, vada avanti!» esclamò Moliarti impaziente, facendo un gesto in direzione del bloc-notes del suo interlocutore. «Non c'è nulla che, con sicurezza, sia stato scritto per mano di Colombo?». «Ci sono solo due cose di cui si ha l'assoluta certezza. Innanzitutto, le lettere di suo figlio Diogo, dato che sono state conservate da persone o istituzioni debitamente identificate nel corso del tempo e hanno seguito un percorso che è possibile ricostruire con precisione». «Il percorso di cui parlava poco fa?». «Sì, esatto. E poi ci sono le annotazioni fatte ai margini dei libri appartenuti a Cristoforo Colombo che, donati dal figlio spagnolo, Hernando, sono conservate presso la Biblioteca Colombina, a Siviglia. Tuttavia, in quest'ultimo caso, è possibile che qualche annotazione sia stata aggiunta dal fratello di Cristoforo, Bartolomeu. In ogni modo, ce ne sono alcune di cui siamo certi che siano state redatte proprio dall'Ammiraglio». «E in che lingua sono scritte queste lettere e queste annotazioni?». «Principalmente in castigliano. Alcune in latino e due in italiano, ma solo una di queste è sicuramente di Cristoforo Colombo». «Visto? A conti fatti, ha scritto principalmente in italiano e in latino. A quanto pare, non c'è nulla in portoghese, giusto? Ora, siccome Colombo non era spagnolo e non scriveva in portoghese, poteva essere solo italiano». Tomás mantenne lo sguardo fisso su Moliarti, mentre le labbra mostravano un accennato sorriso. «Nelson». L'americano irrigidì i muscoli del viso, in un tic nervoso. Capì immedia-
tamente, dal tono di voce di Tomás e dall'espressione del suo volto, che c'era un dettaglio traditore nascosto nell'ombra, pronto a portare scompiglio nel suo ragionamento. «Non è così?». «Nelson». «Mi dica...». «Tutti i testi scritti di pugno da Colombo, siano essi in castigliano, latino o italiano, sono pieni di portoghesismi». «Scusi?». «I testi scritti da Colombo sono intrisi di portoghesismi. In pratica, Colombo non scriveva in spagnolo ma in portuñol, scriveva come i portoghesi quando vogliono esprimersi in castigliano. Ha capito?». Moliarti si appoggiò alla panchina, gli occhi persi nel verde tappeto che ricopriva il Lago della Saudade. «Non può essere!» esclamò, pronunciando lentamente le parole. Interrogò Tomás con lo sguardo. «Che intende dire quando parla di portoghesismi?». «I portoghesismi sono parole o espressioni tipiche della lingua portoghese, ma inserite in un'altra lingua. Se io andassi a Madrid e dicessi, pur imitando l'accento spagnolo, «olha, hombre, quiero apanar un carro para ir a el palácio»44, qualsiasi madrileno mi guarderebbe e capirebbe subito che sono portoghese, dal momento che in castigliano non si dice né "olha" né "carro". Si tratta di portoghesismi. Gli spagnoli utilizzano "mira" e "coche"». «Ah!» esclamò. «E quali sono quelli utilizzati da Colombo?». Tomás rise di cuore. «Credo che lei abbia formulato male la domanda, Nelson. Non avrebbe dovuto chiedermi quali portoghesismi ha utilizzato Colombo, ma quali non ha utilizzato». Gli fece l'occhiolino, con aria scherzosa. «Praticamente, le parole corrette sono le più rare, capisce?». Moliarti non sorrise. «Sì, ma mi faccia degli esempi concreti». Il professore sfogliò i suoi appunti. «Iniziamo dall'unica incursione nell'italiano che si ritiene con certezza opera dell'Ammiraglio. Si tratta di una nota ai margini del Libro delle Profezie, all'inizio del salmo 2.2. Sono in tutto ventisei parole, sei delle quali sono scritte in portoghese del Quattrocento o in spagnolo. Per esempio, scrive el invece di il, delli al posto di in, simigliança e como invece di so-
miglianza e come. Nella Storia Naturale di Plinio ci sono ventitré annotazioni a margine. Venti sono in castigliano, due in latino e una in italiano. Non si è sicuri se quest'ultima appartenga a Colombo o a un'altra persona, forse il fratello Bartolomeu, ma è rilevante notare che si tratta di un nuovo, ridicolo tentativo di scrivere in italiano, visto che l'autore ha riempito il testo di parole castigliane o portoghesi del XV secolo, come cierto, tierra, pieça, como el, parda e negra». «E le altre annotazioni?». «Essenzialmente sono in castigliano portoghesizzato». Riprese gli appunti. «A tal proposito il ricercatore spagnolo Altoguirre y Duval afferma che "il dialettismo colombino è sicuramente portoghese". Anche un altro spagnolo, il famoso storico e filologo Menéndez Pidal, nonostante si rifiuti di accettare che Colombo fosse portoghese, arriva alla stessa conclusione, riconoscendo che "il suo vocalismo tende verso il portoghese" e che "questo lusismo iniziale l'Ammiraglio lo conserva sino alla fine della sua vita"». «Mi faccia degli esempi». «Innanzitutto è possibile notare in Colombo un fenomeno tipicamente portoghese, cioè la tendenza a collocare il dittongo ie in parole spagnole. Non so se ne è a conoscenza, ma molte parole portoghesi e castigliane sono quasi uguali, con la differenza che nello spagnolo si scrivono con ie mentre in portoghese solo con e. Ora, con Colombo accadono due cose che soltanto i portoghesi fanno quando cercano di parlare in castigliano. La prima è non mettere lo ie. Ad esempio, l'Ammiraglio scrive se intende al posto di se intiende, e quero invece di quiero. La seconda è inserire lo ie quando il castigliano non lo prevede. È il caso della parola spagnola depende, che Colombo scrive depiende. Tutti gli spagnoli sanno che solo i portoghesi, nel loro precipitoso tentativo di parlare in castigliano, a volte aggiungono ie là dove non ce n'è bisogno». «E il vocabolario in generale?». «Vale la stessa cosa. Per esempio, Colombo scrive algun, mentre in castigliano è alguno e in italiano si dice alcuno. Dice ameaçaban, quando gli spagnoli dicono amenazahan e gli italiani minacciavano. Un'altra parola è arriscada, che si scrive in castigliano arriesgada e in italiano rischiosa. E ancora boa e bon, dove gli spagnoli dicono buena e bueno e gli italiani buona e buono. Colombo usava anche il portoghese crime, che in castigliano è crimen e in italiano crimine. Utilizzava la parola despois, per quello che gli spagnoli è después e per gli italiani dopo o poi. Colombo
adoperava dizer, mentre lo spagnolo usa decir e l'italiano dire. L'Ammiraglio scriveva falar, che in castigliano è hablar e in italiano parlare. C'è il perigo, che in castigliano si dice peligro e in italiano pericolo. Ricorreva al termine portoghese aberto, che gli spagnoli dicono abierto e gli...». «Ok, ok. Enough. Basta. Ho capito». «La lista dei portoghesismi è interminabile, Nelson. Interminabile». «Questo non prova nulla». «Non prova nulla?». «Possono esserci innumerevoli ragioni per cui ha deciso di non scrivere in italiano. Ad esempio, per il fatto che il volgare45 fiorentino, da cui deriva il toscano era, in quel tempo, la nuova lingua neolatina italiana, utilizzata solo dai dotti46, le persone di cultura. Colombo non era istruito». «Ah no? Allora come mai conosceva il latino e la cosmografia?». «Ehm... Deve aver imparato in un secondo momento». Tomás rise. «Forse ha seguito un corso per corrispondenza. Oppure si è messo a navigare in internet...». «Non importa» tagliò corto Moliarti. «... dove, invece di scoprire l'America, ha scoperto un sito in latino e si è messo a ripetere le declinazioni». «Basta!» ripeté l'americano, stanco di quel sarcasmo. «Basta». Respirò a fondo. «Torniamo alla questione della lingua, che mi sembra importante». Affinò la voce. «Deve esserci una spiegazione logica per queste anomalie, per il fatto che lui scriva in questo... in questo castigliano... ehm... un po' portoghesizzato». «Una spiegazione logica? Quale spiegazione?». Si piegò sul tavolo. «Sa cosa mi hanno detto all'Archivio di Stato di Genova?». «Eh...». «Mi hanno detto che, a quei tempi, gli italiani che vivevano all'estero usavano tra di loro, come lingua franca, soprattutto il toscano». «È vero» confermò Moliarti. «Allora per quale ragione non scrisse in toscano le lettere per gli altri italiani?». «Forse non lo conosceva...». «Ma lei stesso, come pure l'Archivio di Stato di Genova, ha appena ammesso che il toscano era la lingua franca usata a quell'epoca dagli italiani che vivevano all'estero...». «Certo, ma forse Colombo era un'eccezione, che ne so. Può essere che
parlasse solo il volgare genovese. Siccome questo dialetto era soltanto orale, non lo poteva usare per comunicare con gli altri genovesi, no?». «Se proprio vuole saperlo, penso che questa spiegazione sia molto fantasiosa e artificiosa. Innanzitutto, non è vero che il genovese fosse solo parlato. Ho consultato un professore di lingue genovesi e mi ha garantito che il volgare di Genova aveva una forma scritta già dal Medioevo. Ci sono tracce di volgare genovese nei poeti provenzali, ad esempio, e in molti poemi dell'epoca, incluse rime e versi ispirati alla Divina Commedia di Dante». Mostrò l'indice e il dito medio. «Ci vengono spontanee due domande. Colombo non sapeva il toscano perché non era istruito, ma sapeva il latino, che solo i colti conoscevano? E perché Colombo non scriveva in volgare genovese, parlato da tutti i genovesi e scritto dai più colti, ma si sforzava di produrre testi in un castigliano portoghesizzato?». Storse il naso. «Hmm... sento puzza di bruciato, mio caro». «Ma c'è qualcosa che lei ancora non ha considerato» gli fece notare Moliarti. «Cosa?». «Le somiglianze tra il dialetto genovese e il portoghese. Molte delle parole scritte da Colombo che lei ha identificato come portoghesi, probabilmente, sono genovesi». «Trova?». «Ne sono quasi certo». «Allora è sfortunato» sorrise con malizia. «Già avevo sentito parlare di quest'ipotesi da un sostenitore della tesi genovese e ho fatto una verifica insieme al professore cui mi sono rivolto. Gli ho chiesto di illustrarmi la corrispondenza tra le parole che le ho citato, e che sono state usate da Colombo, e la rispettiva traduzione in genovese». Riprese gli appunti. «Ora faccia attenzione. Qualcuno si dice quarche, rischiosa è reiszegösa, buona e buono si dicono bönna e bön, crimine si traduce con corpa, dopo con doppö, e dire si dice dì. Come vede, fatta eccezione per bön, che è simile in entrambi i casi, nessuna delle altre espressioni usate da Colombo rimanda al genovese, ma esclusivamente al portoghese». Alzò l'indice. «Questo ci conduce alla questione principale. Sa, la mia esperienza come criptanalista mi dice che, tra due spiegazioni dello stesso enigma, quella vera è la più semplice. Allora perché non dedurre che, se Colombo non scriveva in una delle lingue italiane, neppure in genovese, che a quell'epoca aveva già una tradizione scritta, era per un motivo logico, cioè per il fatto che non ne conosceva nessuna? E, se non sapeva nessuna lingua italiana, non verrebbe
spontaneo concludere che, probabilmente, non era italiano?». «Colombo era italiano, su questo non c'è dubbio. Era genovese. Deve esserci una spiegazione per giustificare il fatto che non ha mai scritto in una lingua italiana. Forse non sapeva neanche il toscano...». «Lei è proprio testardo, eh? Mi sembra si stia arrampicando un po' sugli specchi, considerando che, oltretutto, il toscano era la lingua franca degli italiani all'estero...». «Okay, lo ammetto, forse sapeva il toscano. Ma, dato che Colombo se n'era andato da Genova molto giovane, magari se l'era dimenticato». «Si era scordato il toscano?». Il portoghese scoppiò in una risata. «Su, Nelson, francamente! Questa storia non sta in piedi!». Scrollò la testa, con espressione divertita. «Poco fa le ho detto che lo storico e filologo spagnolo Menéndez Pidal ha affermato che "questo lusismo iniziale l'Ammiraglio lo conserva sino alla fine della sua vita". Ricorda?». «Sì». «Bene, allora dobbiamo fare i conti con un'insolita situazione. Colombo vive ventiquattro anni in Italia e, in un batter d'occhi, puff!, si dimentica del toscano e della sua lingua natale, il genovese. Lo stesso Colombo vive solo due anni in Portogallo e, zac!, non si dimentica più del portoghese fino alla morte. È sensazionale, non trova?». Si rivolse all'americano. «Lei vuole proprio convincermi che Colombo non aveva una buona memoria per le lingue italiane, che probabilmente erano quelle natali, ma aveva una particolare propensione per il portoghese, che si suppone fosse per lui una lingua straniera? Eh?». «Ehm... beh... sì». «Nelson, parlando seriamente, quello che sta dicendo non ha alcun senso!» esclamò Tomás, scrollando di nuovo la testa, questa volta con un pizzico d'impazienza. «Tutto questo discorso non ha nulla di logico, è una disperata fantasia, lei non sa più a cosa aggrapparsi. Vediamo se riusciamo a capirci. Colombo, in base agli atti notarili genovesi, lasciò Genova solo all'età di ventiquattro anni. Ventiquattro. Per sua informazione, all'epoca, un uomo di quell'età non era affatto giovane. Oggi corrisponderebbero a circa trentacinque anni. Ora, che io sappia, nessuno si dimentica della propria lingua a ventiquattro anni. Nessuno. Inoltre viveva con il fratello Bartolomeu, probabilmente anche lui genovese, e pertanto aveva molte occasioni di utilizzare il suo idioma originario. Dall'altro lato, e come lei stesso ha finito per ammettere, con molta probabilità sapeva il toscano, poiché era la lingua franca parlata dagli italiani all'estero. Ma l'unico tenta-
tivo di scrivere in italiano a lui sicuramente attribuibile è di un'assurdità penosa. Il punto è che, quando il navigatore scriveva in castigliano e non sapeva una parola, per sostituirla non ricorreva a italianismi, come sarebbe stato perfettamente naturale e ci si sarebbe aspettati da un italiano, ma a portoghesismi. Inoltre gli unici testi di Colombo senza portoghesismi sono quelli copiati perché, in questo caso, i copisti hanno sostituito le espressioni portoghesi con quelle in castigliano». «Ma, Tom, non c'erano anche italianismi nei suoi testi in castigliano?». «No, non ce n'erano. Quando gli mancava un'espressione in castigliano, a quanto pare, gli venivano in mente solo parole in portoghese». «Hmm...». «E c'è dell'altro, Nelson. C'è dell'altro». «Mi dica». «Non ho avuto modo di leggere tutto ciò che è stato detto sull'Ammiraglio da coloro che lo hanno conosciuto, soprattutto durante il processo giudiziario del Pleyto con la Corona e del Pleyto de la Prioridad, quando si stabilì che il navigatore era straniero. Tuttavia, ho consultato le opere di due ricercatori, l'ebreo Simon Wiesenthal e lo spagnolo Salvador de Madariaga, i quali hanno individuato delle testimonianze incredibili». Controllò ancora una volta i suoi appunti. «Wiesenthal scrive: "Testimoni dicono che Cristoforo Colombo parlava castigliano con accento portoghese". E anche Madariaga osserva che Colombo "parlava sempre in castigliano con accento portoghese"». Fissò Moliarti e sorrise, trionfante, con gli occhi verdi che brillavano, simile a un giocatore di scacchi che aveva appena fatto scacco matto e studiava l'espressione sbalordita dell'avversario sconfitto. «Capisce?». L'americano rimase in silenzio per un lungo momento, lo sguardo perso, l'atteggiamento assente. «Holy shit!» esclamò alla fine, sussurrando, come se parlasse tra sé. «Ne è sicuro?». «È quanto hanno scritto». Si alzò dalla panchina e si stirò per sgranchire i muscoli. «Ci sono molte cose riguardanti Colombo che non hanno senso, Nelson. Faccia attenzione, quando l'Ammiraglio arrivò in Spagna, presumibilmente nel 1484, sa quale fu la prima persona che contattò?». Anche Moliarti si alzò e fece alcuni movimenti con il busto, tentando di sgranchire il corpo, già indolenzito per essere rimasto troppo tempo seduto su una sedia di pietra; la panchina del 515 era bella ma scomoda. «Non ne ho idea, Tom».
«Un frate di nome Marchena. Sa qual era la sua nazionalità?». «Portoghese?». «Certo». Sorrise. «Ha fatto mai caso che quando andiamo all'estero tendiamo a cercare persone del nostro stesso Paese? Colombo avrebbe potuto cercare genovesi o altri italiani, ce n'erano a Siviglia, addirittura nello stesso monastero in cui alloggiava Marchena. Ma no, preferì un portoghese». «Che c'entra! Questo non prova nulla». «Ovviamente no, ma non lo trova curioso?». Iniziò a camminare attraverso un percorso sterrato, vagando fra gli alberi insieme a Moliarti. «Ci sono tante domande che esigono una risposta. Per esempio per quale ragione Colombo, se era genovese, teneva nascosta la sua origine? In fin dei conti, a quell'epoca i castigliani avevano buoni rapporti con Genova, e non c'era motivo perché dubitassero di un genovese. Anzi, avere a che fare con un genovese conferiva persino un certo prestigio, gli stessi inglesi navigavano nel Mediterraneo sotto la protezione della bandiera di San Giorgio, lo stendardo bianco con croce rossa che successivamente adottarono come loro bandiera. Ora, prendendo in considerazione la rivalità tra portoghesi e spagnoli, la presenza di un portoghese a capo di equipaggi spagnoli avrebbe potuto costituire un problema, e la stessa cosa si sarebbe verificata nel caso inverso. Del resto, basta vedere cosa è successo al portoghese Fernão de Magalhães quando comandò la flotta castigliana che fece il primo giro del mondo. Se fosse stato genovese, Colombo non avrebbe avuto nessuna ragione per nascondere la propria origine. Ma essendo portoghese...». «Questa è pura speculazione». «Certo. Tuttavia, non si capisce molto bene perché Colombo fece mistero della sua origine, giusto? E mi creda, ci sono tanti altri interrogativi da chiarire. Per esempio, come mai non utilizzava l'italiano, il toscano o il volgare quando scriveva a italiani, in particolare a Toscanelli? Perché parlava castigliano con accento portoghese? Se era un tessitore di seta senza istruzione, dove aveva imparato il latino e la cosmografia? E che dire delle bizzarre discrepanze nelle date? Come spiegare che nel 1474, in base alla lettera di Toscanelli, Colombo si trovava a Lisbona mentre secondo alcuni atti notarili genovesi il navigatore era, in quello stesso periodo, molto lontano dal Portogallo? Del resto, ci sono tante domande, talmente tante che ci vorrebbe l'intero pomeriggio per formularle tutte, e rispondere a ognuna di esse richiede un grande sforzo d'immaginazione e un continuo ricorso alla speculazione». Moliarti non rispose; camminava con lo sguardo fisso per terra, quasi a
testa bassa, le spalle curve e l'aspetto severo. Salirono la rampa di terra battuta con aria assorta, immersi nei misteri che Toscano aveva scoperto in vecchi manoscritti, segreti nascosti dal tempo sotto una spessa coltre di polvere e di strani silenzi, contraddizioni e lacune. Magnolie rosse e gialle coloravano il percorso immerso nel verde, fra i tronchi di faggi, palme, pini e querce. Si respirava un'aria fresca, leggera, profumata dalle romantiche aiuole di rose e tulipani, la cui grazia femminile contrastava con la bellezza carnale delle orchidee, sensuali e passionali. Il pomeriggio proseguiva apatico, al ritmo lento del maestoso valzer della natura. Il bosco si animava e pulsava di vita, le fronde degli alberi frusciavano lievemente sotto la nebbiolina che leggera scendeva sui monti, come sospinta dal basso strato di nubi grigiastre. Dai rami lussureggianti provenivano le note acute e allegre dei cardellini, che trillavano con vivacità, impegnati in un intenso duello in risposta al basso tubare dei colibrì e al melodioso gorgheggiare degli usignoli. Lo stretto cammino fra la vegetazione s'aprì, all'improvviso, in quella che sembrava una specie di terrazza ricavata da un ballatoio; dalla parete laterale sgorgava una sorgente, mentre di fronte si vedeva un semiarco di pietra scolpita. «La Fonte dell'Abbondanza» annunciò Tomás. «Ma in realtà, nonostante il nome, rappresenta qualcosa di molto più drammatico. Vediamo se riesce a indovinare...». L'americano analizzò la struttura ricavata all'interno della foresta. A ogni estremità del semiarco si trovava un vaso, ognuno dei quali era decorato con le teste di un satiro e di un ariete scolpite sui lati. «Sono dei demoni?». «No. Il satiro, la creatura che invade l'isola degli Amori, rappresenta il caos. L'ariete è il simbolo dell'equinozio di primavera, impersona l'ordine. Con un satiro e un ariete fianco a fianco, ogni vaso simboleggia l'ordo ab chao, l'ordine dal caos». Al centro del semiarco era posta un'enorme poltrona in pietra, di fronte alla quale si trovava un grande tavolo. Dall'altro lato, la fontana si presentava come una conchiglia incastonata nella parete, decorata con il disegno di una bilancia in stile rocaille. «Non ho idea di cosa sia questa struttura». «Questo, Nelson, è un tribunale». «Un tribunale?». «Quello è il trono del giudice». Indicò la grande poltrona scavata nella
pietra. «Quella è la bilancia della giustizia». Mostrò il disegno che ornava la fonte. «Nella simbologia templare e massonica è durante l'equinozio di primavera che la luce e l'oscurità sono uguali, rappresentando la giustizia e l'uguaglianza, e proprio in questo giorno entra in carica il nuovo Gran Maestro, che assume il comando nel momento in cui si siede sul trono». Fece un gesto verso la parete della fonte, sulla quale erano ben visibili altri disegni in stile rocaille. «Questo muro riproduce decorazioni del Tempio di Salomone, a Gerusalemme. Non ha mai sentito parlare della giustizia salomonica?». Alzò gli occhi in direzione dei due obelischi piramidali in cima alla parete. «Gli obelischi legano la terra al cielo, come fossero le due colonne all'entrata del Tempio di Salomone, veri pilastri della giustizia». S'incamminarono per un nuovo sentiero aperto fra gli alberi e raggiunsero un altro spazio, ancora più ampio di quello della Fonte dell'Abbondanza. Era il Portale dei Guardiani, protetto da due tritoni. Tomás condusse il suo ospite attraverso un percorso che circondava questa struttura zigzagando per il bosco che saliva lungo il versante della montagna. Scalarono il pendio fino a imbattersi in quello che sembrava essere un dolmen, un complesso megalitico costituito da grossi massi coperti da muschio. Il professore guidò l'americano fino al monumento, passando sotto alcuni archi formati dalle rocce appoggiate una sull'altra, simili a quelle di Stonehenge, e spinse una grande pietra. Con sorpresa di Moliarti, questa girò su se stessa, ruotando lungo l'asse, e mostrò una struttura interna. Attraversarono il passaggio segreto e si trovarono di fronte a un pozzo. Si sporsero dalla balaustra e guardarono verso il basso: lungo una scala a chiocciola, con la ringhiera ricavata dalla pietra, si aprivano degli archi sorretti da colonne con zone d'ombra scavate nelle pareti; dall'alto filtrava luce naturale. «Che cos'è?» volle sapere Moliarti. «Un pozzo iniziatico» spiegò Tomás, mentre la sua voce rimbombava tra le pareti cilindriche. «Ci troviamo all'interno di un dolmen, di una riproduzione di un monumento funerario megalitico. Questo luogo rappresenta la morte della condizione primaria dell'uomo. Dobbiamo addentrarci nel pozzo alla ricerca della spiritualità, della nascita dell'uomo nuovo, dell'uomo illuminato. Si scende nel pozzo come si scendesse all'interno di noi stessi, per trovare la nostra anima più profonda». Fece un gesto con la testa, invitando l'americano a seguirlo. «Su, venga». Percorrevano la stretta scalinata, seguendo le pareti lungo la spirale, girando in senso orario, sempre più in profondità. Il pavimento era bagnato e i passi riecheggiavano sugli scalini di pietra, come se emettessero un suono
metallico, graffiato e tintinnante, che si andava unendo al cinguettino degli uccelli che invadeva l'abisso dall'apertura celeste e risuonava lungo quel tunnel scuro e attorcigliato. Le pareti e le balaustre apparivano coperte di muschio e umidità. Si sporsero dalla ringhiera e sbirciarono verso il fondo, il pozzo ora sembrava una torre al contrario e Tomás pensò che somigliava a una Torre di Pisa scavata nella terra. «Quanti livelli ha questo pozzo?». «Nove» disse il professore. «E non è un caso. Il nove è un numero simbolico, in molte lingue europee è simile alla parola nuovo. In portoghese, nove e novo. In spagnolo, nueve e nuevo. In francese, neuf e neuve. In inglese, nine e new. In italiano, nove e nuovo. Per questo, il nove simboleggia il passaggio dal vecchio al nuovo. Nove furono i primi Templari, i cavalieri che fondarono l'Ordine del Tempio e che sono all'origine dell'Ordine di Cristo portoghese. Nove sono i maestri che Salomone inviò alla ricerca di Hiram Abif, l'architetto del Tempio. Demetrio attraversò il mondo in nove giorni alla ricerca della figlia Persefone. Le nove muse nacquero da Zeus in seguito a nove notti d'amore. Sono necessari nove mesi affinché nasca l'essere umano. Poiché è l'ultimo dei numeri a una cifra, il nove annuncia contemporaneamente, e in quest'ordine, la fine e il principio, la morte e la rinascita, il culmine di un ciclo e l'inizio di un altro, il numero che chiude il cerchio». «Curioso...». Raggiunsero finalmente la base e osservarono il disegno che occupava il centro del pozzo iniziatico. Era composto da un cerchio decorato con marmi bianchi, gialli e rossi coperti da piccole pozze di fango. All'interno della figura geometrica spiccava una stella ottagonale che a sua volta conteneva una croce patente: era la croce dei Templari, l'ordine che introdusse la pianta ottagonale nei templi cristiani dell'Occidente. Una delle punte gialle della stella indicava una scura cavità scavata nel fondo del pozzo. «Questa stella è anche una rosa dei venti» spiegò Tomás. «La sua estremità indica l'Oriente. È a Oriente che sorge il Sole, ed è verso Oriente che si costruiscono le chiese. Il profeta Ezechiele disse: "La gloria del Signore viene da Oriente". Pertanto, dobbiamo proseguire per questa grotta». Il professore si tuffò nell'oscurità che si apriva nella parete di pietra e Moliarti, dopo un attimo di esitazione, lo seguì. Camminarono con cautela, tastando le pareti, muovendosi come ciechi nelle viscere buie di quel tunnel irregolare. Una fila di piccole fiaccole gialle spuntò dal pavimento, sulla sinistra, dopo la curva, rendendo più facile i loro passi. Ora avanzavano
con più sicurezza, serpeggiando attraverso quella lunga galleria ricavata nel granito. Si trovarono sulla destra un'altra scura zona d'ombra, un nuovo cunicolo all'interno della grotta, indice del fatto che non si trattava di un semplice passaggio sotterraneo ma piuttosto di un labirinto. Conoscendo il percorso, Tomás ignorò quell'alternativa e proseguì, mantenendosi sul cammino principale, finché un barlume di luce gli annunciò che il mondo esterno era vicino. Continuarono a muoversi verso quel chiarore e videro un arco di pietra che si affacciava su un lago cristallino. Un filo d'acqua sgorgava a cascata sulla superficie liquida, producendo un suono gorgogliante, allegro. Si fermarono sotto l'arco in prossimità del lago: il percorso si diramava e dovevano fare una scelta. «Destra o sinistra?» chiese Tomás, per sapere da lui quale fosse la giusta direzione. «Sinistra?» arrischiò Moliarti, poco sicuro di sé. «Destra» ribatté il portoghese, indicando il percorso corretto. «Sa, Nelson, la fine del tunnel è una ricostruzione di un episodio dell'Eneide di Virgilio. Rappresenta la scena in cui Enea scende agli inferi alla ricerca del padre e, davanti a un bivio, è costretto a scegliere quale percorso intraprendere. Coloro che girano a sinistra sono i condannati, quelli destinati alle fiamme eterne. Solo la via a destra porta alla salvezza. Enea optò per quello di destra e attraversò il fiume Lete, che gli permise di raggiungere i Campi Elisi, dove si trovava Anchise. Per questo dobbiamo ripercorrere i suoi passi». Proseguirono a destra e il tunnel diventò più scuro, stretto e basso. A un certo punto l'oscurità scese su entrambi, completa e totale, e si videro obbligati ad avanzare lentamente, appoggiandosi alle pareti umide, insicuri ed esitanti. Finalmente la galleria si aprì verso l'esterno, inondandosi di luce, mostrando un cammino di pietre sul lago, simili a scalini che spuntavano dall'acqua. Saltellarono sulle pietre fino a raggiungere la sponda opposta e si ritrovarono di nuovo nel bosco, circondati di colori, respirando l'aria profumata del pomeriggio e ascoltando il dolce cinguettio dei pettirossi che svolazzavano di ramo in ramo. «Questo posto è proprio strano» commentò Moliarti, che in quel momento si sentiva come in un mondo irreale. «Però è interessante». «Sa, Nelson, questa tenuta è un testo». «Un testo? Che intende dire?». Discendevano ora attraverso i sentieri aperti fra gli alberi. Si ritrovarono nuovamente al Portale dei Guardiani e Tomás condusse il suo invitato per
una scala a chiocciola all'interno di una stretta torre medievale coronata da merli. «Anticamente, al tempo dell'Inquisizione e dell'oscurantismo, quando la società era dominata da una Chiesa intollerante, alcune opere furono proibite. Gli artisti venivano perseguitati, le nuove teorie mantenute segrete, i libri bruciati, i quadri distrutti. Così nacque l'idea di scolpire i libri sulla pietra. La Tenuta della Regaleira, in fin dei conti, non è altro che questo, un libro scolpito sulla pietra. È facile bruciare un libro di carta o rovinare un dipinto su tela, ma è molto più difficile demolire un'intera proprietà. In questa tenuta è possibile imbattersi in costruzioni simboliche che riflettono pensieri esoterici, ispirate al labirinto di idee suggerito da Francesco Colonna nel suo ermetico Hypnerotomachia Poliphili, basate sui principi portanti del progetto di espansione marittima portoghese e sulle grandi leggende classiche. Se vogliamo, in qualche modo grazie ai miti veicolati dall'Eneide, dalla Divina Commedia e da I Lusiadi, questo è un importante monumento alle Scoperte portoghesi e al ruolo che in esse ebbero i Templari, ribattezzati in Portogallo cavalieri dell'Ordine Militare di Cristo». Arrivarono in cima alla torre e intrapresero un percorso più largo, passando attraverso la Grotta di Leda, e si diressero verso la cappella. Ora procedevano in silenzio, attenti al suono dei propri passi e al fruscio delicato del bosco. «E allora?» domandò Moliarti. «Andiamo a visitare la cappella». «No, non è a questo che mi stavo riferendo. Quello che voglio sapere è cosa manca per concludere la ricerca». «Ah!» esclamò Tomás. «Devo studiare con attenzione quel brano di Umberto Eco, nella speranza trovare la chiave che mi permetterà di aprire la cassaforte del professor Toscano. Inoltre ho bisogno di chiarire alcune cose sull'origine di Colombo. E per farlo dovrò compiere un ultimo viaggio». «Va bene. Come lei sa, i fondi non ci mancano». Tomás si fermò davanti a un grande albero, ad alcuni passi dalla cappella. Aprì la ventiquattrore e tirò fuori un foglio di carta. «Questo è un altro mistero su Colombo» disse, mostrando quel foglio. «Di che si tratta?». «È la riproduzione di una lettera che fu ritrovata nell'Archivio di Verágua». L'americano stese la mano e prese la fotocopia.
«Che tipo di lettera?». Analizzò il testo e scrollò la testa, restituendo il foglio a Tomás. «Non ci capisco nulla, è portoghese antico». «Gliela leggo io» si offrì Tomás. «Questa lettera è stata scoperta fra i documenti di Cristoforo Colombo dopo la sua morte. Pensi che è firmata dal grande re Don João II, soprannominato il Principe Perfetto, il re del Trattato di Tordesillas, l'uomo che rivelò a Colombo che la rotta per l'India era più breve circumnavigando l'Africa piuttosto che facendo rotta verso Occidente, il sovrano che...». «So molto bene chi è Don João II!» tagliò corto Moliarti, impaziente. «È lui che ha scritto a Colombo?». «Sì». Focalizzò la sua attenzione sul retro del foglio e indicò alcune linee orizzontali e verticali. «Vede queste? Sono le pieghe della lettera. Se la richiudiamo seguendo queste righe, forma una busta sulla quale si legge il nome del destinatario». Lo esibì debitamente piegato. «La lettera è indirizzata "a xpovam collon nostro speciale amico in Siviglia"». Dispiegò nuovamente il foglio per leggere il testo, sul verso. «Il contenuto è il seguente: "Xpovam Colon. Noi Don João II per grazia di Dio Re di Portogallo e dell'Algarve, da questa e dall'altra parte del mare, in Africa, Signore della Guinea vi mandiamo molti saluti. Abbiamo visto la lettera che ci avete scritto e la buona volontà e la dedizione che in essa avete mostrato di avere per servirci. Vi ringraziamo molto. E quanto alla vostra venuta qui, sicura, sia per ciò che affermate sia per altri aspetti riguardanti le vostre doti e il buon ingegno a noi necessario, noi la desideriamo e avremo molto piacere che veniate perché, per ciò che vi riguarda, si farà in modo che possiate essere soddisfatto. E perché forse avete qualche timore dei nostri rappresentanti della giustizia a causa di qualche cosa che vi è stato imposto, noi con questa lettera vi garantiamo l'arrivo, la permanenza e il ritorno, che non sarete catturato, trattenuto, accusato, citato, né interpellato per nessuna cosa, né civile né criminale, di qualsiasi natura si tratti. E con la stessa ordiniamo a tutti i nostri rappresentanti della giustizia che rispettino tutto ciò. E pertanto vi preghiamo e vi raccomandiamo che la vostra venuta sia immediata e per questo non dovete avere alcun dubbio e ve ne ringrazieremo e considereremo ciò come grande servizio. Scritta in Avis il venti Marzo 1488. Il Re"». «Strana lettera, eh?» commentò Moliarti, incuriosito. «Meno male che questa volta è d'accordo con me!». «Quindi nel 1488 il re portoghese invitò Colombo a ritornare in Portogallo?».
«Non c'è scritto proprio questo». «Ah no?». «Qui si dice che Colombo inviò una lettera al re Don João II offrendogli di nuovo i suoi servigi. Dal testo sembrerebbe che Colombo avesse manifestato dei timori circa l'eventualità di dover affrontare la giustizia del re portoghese». «Ma perché?». «Potrebbe aver combinato qualcosa in Portogallo. Non si dimentichi che Colombo lasciò il Paese, in modo precipitoso, intorno al 1484, quattro anni prima di questo scambio di corrispondenza. Accadde qualcosa che lo obbligò a fuggire in Spagna insieme al figlio Diogo, ma non sappiamo cosa. Uno dei misteri che avvolgono l'Ammiraglio è, in effetti, la mancanza di documenti sulla sua permanenza in Portogallo. Là si sono verificati episodi molto importanti e, tuttavia, non è rimasto nulla che ci permetta di far chiarezza; è come se gli eventi di quel periodo fossero stati inghiottiti da un buco nero. Ma da questa lettera si evince che di fatto successe qualcosa che lo costrinse a scappare». «Questa lettera che Cristoforo avrebbe scritto a Don João II dove si trova?». «Negli archivi portoghesi non è mai stata trovata». «Che peccato». «E c'è anche un altro dettaglio curioso». «Quale?». «Il tono quasi confidenziale con cui il re si rivolge a Colombo nonostante il navigatore ancora non fosse diventato famoso: "E perché forse avete qualche timore dei nostri rappresentanti della giustizia a causa di qualche cosa che vi è stato imposto, noi con questa lettera vi garantiamo l'arrivo, la permanenza e il ritorno, che non sarete catturato, trattenuto, accusato, citato, né interpellato per nessuna cosa, né civile né criminale, di qualsiasi natura si tratti". Non è una lettera formale tra un sovrano potente e un tessitore di seta straniero senza istruzione, è una lettera tra due persone che si conoscono bene». Moliarti inarcò il sopracciglio destro. «A me sembra che questa lettera non abbia alcuna rilevanza per il problema dell'origine di Colombo». Tomás sorrise. «Forse no» ammise. «O forse sì. E in tal caso dimostrerebbe almeno che i due si conoscevano meglio di quanto pensiamo, e che Colombo aveva
frequentato la corte portoghese. Questo ci fa supporre che si trattasse di un nobile, ipotesi che collima con altri due dettagli. Il primo è, come abbiamo già visto, il suo matrimonio con la nobile Dona Filipa Moniz, unione che in quel tempo era impensabile per un plebeo. Ma, se anche lui fosse stato nobile, avrebbe avuto un senso». «È sicuro che un plebeo non potesse sposare una nobildonna?». «Assolutamente» confermò Tomás con un cenno categorico della testa. «Ho parlato con un collega della mia facoltà, esperto in Storia delle Scoperte, il quale mi ha confermato che non si conosce nessun caso, neanche uno, di matrimonio tra un plebeo e una nobile nel XV secolo. Ci sono due esempi, nel XVI secolo, di unione fra ricchi borghesi e nobili, ma non nel XV. In quell'epoca era impossibile». «Hmm» borbottò l'americano. «E qual è l'altro elemento che convalida l'ipotesi per cui Colombo era nobile?». «Questo documento, del quale ancora non le ho parlato. Si tratta dell'ordinanza, datata 20 maggio 1493, con la quale Isabella la Cattolica concede lo stemma araldico a Colón, e che afferma quanto segue» indicò alcune righe sul foglio che teneva in mano. «"Y en outro cuadro bajo a la mano izquierda las armas vuestras que sabiades tener»». Guardò Moliarti con espressione interrogativa. «"Las armas vuestras que sabiades tener"? Allora Colombo già aveva uno stemma gentilizio? E io che pensavo che non fosse altro che un semplice tessitore di seta, umile e senza istruzione. Come faceva un tessitore di seta ad avere un blasone?». Prese un altro foglio dalla ventiquattrore e lo mostrò all'americano, facendogli notare un'immagine araldica sul lato sinistro. «Guardi, questo è lo stemma di Colombo. Come vede, composto da quattro disegni. In alto, un castello e un leone che rappresentano i regni di Castiglia e León; in basso a sinistra alcune isole in mezzo al mare che simboleggiano le terre scoperte da Colón». Posò il dito sull'ultimo quarto dello scudo. «E questa è l'immagine alla quale si riferisce Isabella la Cattolica dicendo "las armas vuestras que sabiades tener". E cosa raffigura?». Fece una pausa prima di rispondere alla sua stessa domanda. «Cinque piccole ancore d'oro disposte a croce in campo azzurro. Ora osservi questo». Gli mostrò un'immagine dello scudo portoghese, sulla destra.
«Come vede, il disegno delle cinque ancore d'oro dell'ultimo quarto dello stemma di Colombo, qui a sinistra, è incredibilmente simile alle arme reali di Portogallo, nelle quali i cinque piccoli scudi contengono cinque bisanti disposti a loro volta a croce, così come è tuttora visibile nella bandiera portoghese». «Holy cow!». «Per essere precisi, è il blasone di Colombo che rimanda direttamente ai simboli di León, Castiglia e Portogallo». «Incredibile...». «Questo fatto concorda pienamente con la dichiarazione di Joan Lorosano». «E chi è?». «Joan Lorosano era un giureconsulto spagnolo contemporaneo di Colombo». Controllò i propri appunti. «Loresano si riferisce all'ammiraglio identificandolo come "un tale che affermano essere lusitano"». «Hmm...» mormorò Moliarti, pensieroso. «Affermano, dice lui! Ma questo Loresano non ha la certezza...». «Ehi, Nelson, non faccia finta di non capire! Risulta ovvio da questa affermazione che l'origine portoghese di Colombo era fonte di polemiche». «Ma c'è qualcuno in quell'epoca che affermi testualmente che Colombo era portoghese?». Tomás sorrise. «Guarda caso, sì. Durante il Pleyto de la Prioridad, due testimoni, Hernán Camacho e Alonso Belas, parlando di Colombo lo definiscono "l'infante di Portogallo"». «Ah!» sospirò l'americano, come se gli avessero conficcato un coltello nel petto. «E c'è dell'altro» aggiunse Tomás, consultando di nuovo il bloc-notes. «Nel momento più acceso del dibattito tra storici spagnoli e italiani sulla vera origine di Colombo, uno spagnolo, il presidente della Real Sociedad de Geografia, Ricardo Beltrán y Rózpide, scrisse un testo che concluse con
una frase enigmatica. Affermò: "el descobridor de America no nació en Génova y fué oriundo de algún lugar de la tierra hispana situado en la banda occidental de la Península entre los cabos Ortegal y San Vicente". Fissò Moliarti negli occhi. "Questa è un'osservazione straordinaria, considerando che è stata fatta da un prestigioso accademico spagnolo in un periodo di acceso dibattito nazionalista spagnolo sull'Ammiraglio». «Scusi» disse l'americano «ma non vedo cosa ci sia di tanto straordinario...». «Nelson, Capo Ortegal si trova in Galizia...». «Precisamente. È naturale che, in quel periodo, uno spagnolo difendesse l'origine spagnola». «... e Capo São Vicente si trova all'estremità sud del Portogallo». Moliarti spalancò gli occhi. «Ah...». «Come lei stesso ha affermato, è perfettamente naturale che, in un momento di fervente dibattito nazionalista, uno storico spagnolo sostenesse che Colombo venisse dalla Galizia. Ma dichiarare esplicitamente che l'Ammiraglio fosse nato in qualche località situata lungo la costa portoghese in quel contesto non mi sembra del tutto normale». Alzò l'indice. «A meno che sapesse qualcosa che non voleva rivelare». «Ed è così?». Tomás sorrise, dondolando la testa affermativamente. «A quanto pare, sì. Rózpide aveva un amico portoghese, Afonso de Dornelas, a sua volta amico del celebre storico Armando Cortesão. Sul letto di morte, lo storico spagnolo rivelò al suo amico portoghese che tra le carte di João da Nova, conservate in un preciso archivio portoghese, c'erano uno o più documenti che avrebbero chiarito una volta per tutte l'origine di Cristoforo Colombo. Dornelas gli domandò più volte quale fosse questo particolare archivio. Rózpide gli rispose che, poiché la questione colombina era discussa in modo così acceso in Spagna, avrebbe potuto sollevare un polverone se gli avesse svelato l'ubicazione del materiale. Poco dopo lo storico spagnolo morì, portando con sé per sempre il suo segreto». Il portoghese si girò e ricominciò a camminare, dirigendosi verso quella cattedrale in miniatura che era la cappella, un altro luogo di mistero che la Tenuta della Regaleira custodiva fra le sue mura, un nuovo capitolo di quello straordinario libro scavato nella pietra. Fu con il cuore pieno di speranza che Tomás si presentò il sabato se-
guente al portone della casa di São João do Estoril. Portava in braccio un appariscente bouquet di zinnie, alcune bianche, altre scarlatte, con i larghi petali aperti verso la luce come se abbracciassero il mondo rivelando piccoli stami biancastri al centro. Aveva letto nel libro di Constança che le zinnie significavano pensare a chi non c'era, ed esprimevano messaggi melodrammatici, come "sono in lutto per la tua assenza", o semplicemente "ho nostalgia di te", sentimenti questi che lui trovò perfetti per l'occasione. Ma la suocera, che lo attendeva al portone, guardò i fiori con disprezzo e fece cenno di no con la testa quando le chiese di poter parlare con la moglie. «Constança non è in casa» lo informò seccamente. «Ah» ribatté Tomás, deluso. «Proprio non le posso parlare?». «Le ho detto che non è in casa» ripeté la suocera in tono brusco, quasi sillabando le parole, come se stesse parlando a un bambino. «E Margarida?». «È dentro. Vado a chiamarla». Prima che la signora Teresa si voltasse per andare a prendere la nipote, Tomás le stese il bouquet. «Può almeno consegnarle questi fiori?». La suocera esitò, lo scrutò dall'alto in basso, come se volesse dirgli che già se ne stava approfittando, e di nuovo scrollò la testa, intimamente soddisfatta di negargli ancora qualcosa. «Grazie, lei è troppo gentile». Margarida aveva già pranzato, quindi si diressero subito verso la meta prescelta dalla bimba. Il Giardino Zoologico. Trascorsero il pomeriggio passeggiando per il parco e mangiando popcorn e zucchero filato. Alla vista dei cobra e di altri rettili Margarida si aggrappò al padre, e la stessa cosa fece davanti alle gabbie degli animali feroci. Fu invece differente la reazione allo spettacolo dei delfini, e la bimba non smise un attimo di saltare e applaudire ai loro giochi nell'acqua. Tomás rifletté su quanto fosse diverso lo zoo rispetto alla Tenuta della Regaleira, l'uno brulicava di eccitata allegria, l'altra si raccoglieva sotto un'aura tenebrosa e taciturna. Tanto contrastanti eppure così simili, entrambi parchi a tema, creati dallo stesso uomo, Carvalho Monteiro, il milionario che, all'inizio del XX secolo, aveva riunito animali selvatici a Lisbona e misteri esoterici a Sintra. Il cielo assunse una tonalità rossa e dorata, mentre il sole scendeva a baciare l'orizzonte. Poiché il freddo del crepuscolo iniziava a invadere la crescente ombra e a penetrare nei vestiti, lasciarono il Giardino Zoologico e si
rifugiarono al caldo, nell'auto. Durante il tragitto verso casa si fermarono al centro commerciale di Oeiras e fecero la spesa per rifornire il frigorifero. Margarida prese una videocassetta di cartoni animati e riempì il carrello di cioccolatini. «Sono pe' i miei amici» spiegò. Tomás aveva già rinunciato a opporsi a quegli attacchi di generosità: la figlia amava comprare regali per tutti e arrivava persino a dare quello che era suo se qualcuno lo desiderava. Uscirono dall'ipermercato e andarono in un fast-food; ordinarono due menù con hamburger e patate fritte, bibita compresa. «Come ti chiami?» domandò Margarida, sbirciando dal bancone il ragazzo impegnato a confezionare il cibo. «Eh?» si meravigliò il giovane, sollevando la testa per guardare quella bambina dall'aria strana che, vicino alla cassa, gli aveva rivolto la parola. «Come ti chiami?». «Pedro» rispose, impegnato a svolgere il suo compito. «Sei sposato?». Il ragazzo scoppiò in una risata, divertito dall'inattesa indiscrezione della piccola. «Io? No». «Ce l'hai la 'agazza?». «Ehm... sì». «È ca'ina?». «Margarida!» la interruppe Tomás, che già vedeva l'interrogatorio andare oltre e il giovane impiegato arrossire. «Lascia stare il signore, sta lavorando». «La baci sulla bocca?». «Margarida!». Portarono a casa i menù impacchettati. Cenarono in sala guardando la televisione, con le dita sporche di ketchup e del grasso degli hamburger. Alle undici andarono a letto, e Tomás si vide costretto a leggerle, per l'ennesima volta, la favola di "Cene'entola", un rituale di cui lei non sapeva fare a meno. «Allora, cosa hai fatto in questa settimana?» le chiese il padre quando chiuse il libro e Cenerentola già viveva felice a palazzo insieme al suo principe. «Sono andata a scuola e dal dotto' Olivei'a». «Ah sì? E cosa ti ha detto?».
«Che devo fa'e più analisi». «A cosa?». «Al sangue?». «Al sangue? Questa è nuova. Perché?». «Pe'ché sono molto pallida». Tomás la guardò. In effetti, aveva la pelle molto bianca, troppo chiara, e non aveva un aspetto sano. «Hmm...» mormorò mentre l'osservava. «E che altro ti ha detto?». «Che devo fa'e una dieta». «Ma tu non sei grassa». Margarida scrollò le spalle. «L'ha detto lui». Tomás si voltò verso il comodino e spense l'abat-jour. Abbracciò la figlia e la coprì meglio. «E la mamma?» domandò nell'oscurità. «Come sta?». «Sta bene». «Piange ancora?». «No». «Non piange?». «No». Il padre rimase in silenzio per alcuni momenti, spiazzato. «Pensi che lei non vuole più bene a papà?» chiese, per testare la situazione. «No». «Non gli vuole più bene?». «No». «Perché, piccola, dici questo?». «Pe'ché lei o'a ha un nuovo amico». Tomás si tirò su dal letto, preso alla sprovvista. «Come?». «La mamma ha un nuovo amico». «Un amico? Che amico?». «Si chiama Ca'los e la nonna dice che lui è un tipo. È un buon pa'tito, miglio'e di te». XIV Soavi.
Con la stessa armonia dei passi di una ballerina che danza leggiadramente su un palco, la stessa dolcezza del dondolare di un bambino cullato e tranquillo vicino al seno morbido e accogliente della madre, le foglie, soavi, iniziarono a muoversi sollevandosi da terra, svolazzando fino a volteggiare, girando e rigirando intorno a un asse invisibile, spinte da un caldo venticello che a poco a poco diventò furioso. Quella brezza si trasformò, in modo graduale, quasi impercettibile, in un mulinello d'aria che trascinava le foglie gialle e marroncine lungo il selciato, ruotando in una strana danza piena di vita, in una direzione così incerta che in breve il vortice di vento lasciò il marciapiede e invase la movimentata via che costeggiava le mura della Città Vecchia. Tomás evitò quella massa d'aria che vorticava sull'asfalto e affrettò il passo, attraversando il Sultan Suleyman in prossimità di Kikar Shaar Shkhem e tuffandosi nella folla. Pietre antiche, millenarie, spuntavano da ogni angolo, conservando memorie che, in quella città, erano fatte di sangue e di dolore, di speranza, di fede e di sofferenza. Pietre forti come l'acciaio e delicate come l'avorio. Soavi. Il giorno era cominciato fresco e secco, nonostante il sole fosse inclemente e insopportabile per chi non avesse alcuna protezione in testa. Masse di persone spuntavano da ogni parte e scendevano l'ampia scalinata, per convergere poi verso la grande porta in una crescente calca, come formiche golose che affluivano su una goccia di miele, sempre più numerose, concentrate davanti allo sguardo attento e vigile degli uomini in divisa verde oliva ed elmetto. Erano i soldati di Tsahal, che fermavano un passante qua e ne interpellavano un altro là, chiedendo continuamente i documenti e perquisendo le borse con le M-16 che dondolavano a tracolla. Le armi sembravano innocue, ma i viandanti sapevano che quello era solo un atteggiamento. Il movimento intorno alla monumentale Porta di Damasco era nervoso e compatto, schiere di persone brulicavano in direzione dell'imponente entrata, aggirando le bancarelle di frutta e verdura e pane dolce, mormorando parole incomprensibili, imprecando, urtandosi le une con le altre. Tomás camminava nella folla, accanto agli arabi che lo circondavano con gli odori emanati da chi era venuto da lontano per fare spesa al souq o per pregare Allah nella grande Moschea di Al Aqsa. Stretto nella morsa umana che lo trascinava verso l'entrata nord della Città Vecchia di Gerusalemme, alzò la testa e vide, in lontananza, due soldati israeliani fermi sulla sommità della Porta di Damasco, che dalle feritoie spiavano la moltitudine, scrutando ogni figura, una a una, in cerca di segnali di
allerta. La corrente umana lo condusse attraverso la grande porta, ma il cammino tornò di nuovo a restringersi, per poi tuffarsi fra le basse case del Quartiere Musulmano. Tomás si sentiva come in balia dell'acqua, incapace di resistere alla sua tremenda forza, abbandonato al flusso della marea, e si lasciava trasportare per quella via stretta e brulicante. Vide un negozio d'artigianato e accanto banchi di frutta sui quali riconobbe arance, banane, datteri e, ancora, barattoli di mandorle e olive nere. La folla si divise nelle tre strade che gli si aprirono dinnanzi, così che il flusso di gente che trasbordava ininterrottamente dalla Porta di Damasco si fece meno denso. Con lo sguardo cercò il nome delle vie: quella di destra era la Souk Khan El-Zeit, nella quale scorgeva piccole panetterie, pasticcerie e alimentari; a sinistra, una piccola insegna indicava l'Indian Hospice e Porta dei Fiori. Controllò la cartina e prese una decisione: doveva prendere la via centrale, pertanto proseguì dritto, verso sud. Passò sotto un edificio che formava un arco sulla via e, lungo una leggera discesa, si trovò di fronte un nuovo bivio. All'angolo si ergeva il complesso dell'Austrian Hospice e il nome della piccola strada che da sinistra confluiva in quel punto, riportato su una parete in ebraico, arabo e latino, lo fece bloccare. Via Dolorosa. Tomás non era un uomo religioso, ma non poté fare a meno d'immaginare, in quell'istante, la figura di Gesù che si trascinava per quella stretta via, piegato sotto il peso di una croce, di quel condannato scortato da soldati romani con il volto rigato da fili di sangue che sgocciolava sulla pietra. L'immagine era, in quel luogo, un riflesso condizionato, quasi un cliché. Aveva visto così tante volte le riproduzioni di quel fatidico percorso che ora, giunto a quella tappa, trovandosi faccia a faccia con il nome di Via Dolorosa inchiodato alla parete, i suoi occhi furono inondati dalle immagini degli avvenimenti accaduti lì duemila anni prima. La cartina gli indicava che avrebbe dovuto attraversare tutta la Città Vecchia percorrendo la lunga viuzza che aveva davanti a sé. Prese la ElWad, passò per Yeshivat Torat Chaim e continuò dritto, lasciandosi alle spalle la via che il Nazareno percorse durante le sue ultime ore di vita. Al primo bivio sulla sinistra, i soldati del Tsahal, l'esercito israeliano, avevano installato un posto di blocco e controllavano l'accesso al Bar Kuk, la stretta via che conduceva al complesso sacro di Haram El-Sharif e della Moschea di Al Aqsa, impedendo il passaggio a chi non era musulmano: sembrava
che si stesse celebrando una cerimonia islamica che nessuno voleva disturbare. Stretta fra gli edifici che la circondavano, con i suoi continui intrecci di gallerie e di archi, la El-Wad era protetta dai raggi del sole. Una fresca brezza la percorreva per tutta la sua lunghezza, facendo rabbrividire Tomás dal freddo mentre attraversava quella penombra con passo rapido, ignorando i numerosi negozi di ogni specie, nonostante lanciasse fugaci e curiosi sguardi alle stoviglie di rame e di bronzo ammassate all'entrata di alcuni di essi. Dopo aver percorso Hammam El-Ain, prese la Rechov Hashalshetlet in direzione del Quartiere Armeno, a ovest, ma all'angolo dell'edificio Tashtamuriyya girò a sinistra, entrando nel Quartiere Ebraico. Il brusio delle viuzze arabe svanì, cedendo il posto a qualcosa di differente. Gli spazi erano più aperti e tranquilli, quasi bucolici, e non si vedeva anima viva, si sentiva soltanto l'allegro cinguettio dei passerotti e il placido rumore delle fronde degli alberi dondolate dal vento. Il visitatore riconobbe Via Shonei Halaklot e cercò il numero civico che gli interessava. Vicino al campanello luccicava una targa dorata, scritta in ebraico, che in basso riportava la dicitura in inglese, a caratteri più piccoli. "The Jewish Quarter Kabbalah Center". Spinse il bottone scuro e sentì un elettrico tzzzzzz vibrare all'interno. Avvertì dei passi che si avvicinavano e la porta si aprì; un giovane, con gli occhiali rotondi e la barba rada e molto sottile, lo fissò interrogativo. «Boker tov» salutò il ragazzo, augurando il buongiorno in ebraico e chiedendo in cosa poteva essere utile. «Ma uchal laasot lemaancha?». «Shalom» ricambiò Tomás. Consultò il bloc-notes, in cerca di una frase che aveva scarabocchiato in hotel per dire che non sapeva parlare ebraico. «Ehm... einemi yode'a ivrit». Guardò il giovane ebreo, tentando di capire se aveva compreso le sue parole. «Do you speak english?». «Ani lo mevin anglit» rispose l'altro, scuotendo la testa. Era evidente che non conosceva l'inglese. Il portoghese lo osservò intensamente, studiando il modo di poter risolvere il problema. «Ehm... Solomon... ehm...» balbettò, provando a chiedere del rabbino con cui aveva fissato l'appuntamento. «Rabi Solomon Ben-Porat?». «Ah, ken» assentì l'israeliano, aprendo la porta e invitandolo a entrare. «Be'vakasha!». Il giovane anfitrione lo accompagnò in una piccola sala, decorata con sobrietà, pronunciò un breve «slach li», facendogli cenno di aspettare, fece un piccolo inchino e sparì lungo il corridoio. Tomás si mise a sedere su un divano scuro ed esaminò l'ambiente: i mobili erano di legno scuro e le pa-
reti erano coperte da dipinti raffiguranti caratteri ebraici, sicuramente passi del Vecchio Testamento. Nell'aria fluttuava un certo profumo di canfora e di carta vecchia, mischiato all'odore acido della cera e della vernice. Una finestrella dava sulla strada, ma le tende lasciavano passare solo una luce diffusa, sufficiente a far brillare i granelli di polvere che ondeggiavano per la stanza. Dopo alcuni minuti sentì avvicinarsi delle voci e un uomo corpulento, robusto nonostante avesse circa settant'anni, apparve sulla porta della saletta. Aveva un tallit di cotone chiaro, attraversato da righe rosse, con delle frange bianche e celesti che pendevano agli angoli, abbigliamento che, a quanto pare, indossava dalla shacharit mattutina. Mostrava una folta barba brizzolata, talmudica, simile a quella di Babbo Natale o di un re assiro, e uno zucchetto di velluto nero sulla testa calva. «Shalom aleichem» salutò l'ultimo arrivato, porgendogli la mano con benevolenza. «Sono il rabbino Solomon Ben-Porat» disse in un inglese stentato, con un forte accento ebraico. «Con chi ho il piacere di parlare?». «Sono il professor Tomás Noronha, da Lisbona». «Ah, professor Norohna!» esclamò con effusione. Si strinsero la mano con forza. Tomás notò che la mano del rabbino era forte, sebbene pasciuta, e che quasi stritolava la sua. «Na'im le'hakir othca!». «Come?». «È un piacere conoscerla» ripeté, questa volta in inglese. «Ha fatto un buon viaggio?». «Sì, è andato bene». Il rabbino gli fece cenno di accompagnarlo e lo guidò lungo il corridoio in direzione di un'altra stanza, discorrendo su quanto meravigliosi fossero gli aerei, fantastiche invenzioni che permettevano di viaggiare più veloci della colomba di Noè. Camminava con un po' di difficoltà, dondolando l'imponente corpo da una parte all'altra, e l'incedere era così lento che il percorso diede l'impressione di essere più lungo di quanto non fosse. Giunti in fondo al corridoio, entrarono in quella che sembrava essere una biblioteca, con un grande tavolo di quercia al centro. Il rabbino invitò Tomás ad accomodarsi su una delle sedie accostate al tavolo e a sua volta si sedette sul lato opposto. «Questa è la nostra sala riunioni» spiegò, con la voce roca e tonante, con un suono gutturale; marcando le r del suo inglese ebraizzato, l'espressione
risuonò meeting rrroom. «Prende qualcosa?». «No, grazie». «Neanche dell'acqua?». «Beh... dell'acqua sì, grazie». Il rabbino guardò verso l'entrata della sala. «Chaim» chiamò. «Ma'im». In pochi istanti comparve sulla porta un altro uomo con una caraffa d'acqua e due bicchieri su un piccolo vassoio. Doveva avere circa trent'anni. Era magro e aveva una lunga barba e ricci capelli scuri, sulla testa portava uno zucchetto lavorato a maglia. Entrò nella stanza e posò la caraffa e i bicchieri sul tavolo. «Questo è Chaim Nasi» disse il rabbino, presentando l'uomo. Sorrise. «Il principe degli ebrei». Tomás e Chaim si scambiarono shaloms e una stretta di mano. «Lei è il professore di Lisbona?» domandò Chaim in inglese. «Sì». «Ah!» esclamò. Si capiva che avrebbe voluto aggiungere qualche altra cosa, ma si trattenne. «Molto bene». «Anche Chaim è d'origine portoghese» spiegò il rabbino. «Vero, Chaim?». «Sì» rispose, abbassando la testa con modestia. «Ah sì?» si meravigliò Tomás. «Ebreo portoghese?». «Sì» confermò Chaim.«La mia famiglia è sefardita». «Sa cos'è un sefardita?» domandò il rabbino. «No». «È un ebreo della Penisola Iberica». «Ah, uno shefardita». «Sì. Sefarditi o shefarditi è la stessa cosa». Alzò le spalle. «Furono espulsi dalla Penisola Iberica intorno al 5250». «5250?» si chiese Tomás, senza capire. «Certo, anno più, anno meno». Fece una pausa, poi spalancò gli occhi con l'espressione di chi aveva capito, come se si fosse illuminato in quell'istante: aveva compreso lo stupore del portoghese. «Del calendario ebraico, ovviamente!». «Ah, bene. Che corrisponderebbe, nel calendario cristiano, alla fine del XV secolo». «Probabilmente, ma noi facciamo sempre i conti con il nostro calendario». Bevve un goccio d'acqua. «Se non mi sbaglio, i sefarditi espulsi am-
montavano, in tutto, a circa duecentocinquantamila. Abbandonarono la Penisola Iberica e si dispersero in Nord Africa, nell'Impero Ottomano, nell'America del Sud, in Italia e in Olanda». «Pensi» lo interruppe Tomás «Espinosa era un ebreo portoghese, e la sua famiglia fuggì in Olanda». «Già» assentì il rabbino. «I sefarditi erano molto colti, forse erano i giudei che avevano più competenze. Furono i primi ad andare a vivere negli Stati Uniti e ancora oggi sono considerati il lignaggio più prestigioso dell'ebraismo». Lo storico portoghese si sistemò appoggiandosi sul gomito sinistro. «Sa, l'espulsione degli ebrei fu una grande sciocchezza, probabilmente una delle maggiori stupidaggini mai commesse in Portogallo!» esclamò con sguardo malinconico. «E non solo dal punto di vista umano. La loro diaspora è direttamente collegata al declino del Paese». Solomon Ben-Porat si mostrò interessato. «Ah, sì? In che senso?». Tomás lo guardò con attenzione. «Mi dica una cosa. Secondo lei, cos'è che rende ricca una persona o una nazione?». «Ehm... i soldi, suppongo. Chi ha denaro è ricco». «Mi sembra logico» assentì il portoghese. «Ma alcuni anni fa, in Portogallo è stato pubblicato il libro di un professore di Harvard, La Ricchezza e la Povertà delle Nazioni, che definiva la ricchezza in modo differente. Ad esempio, possiamo considerare l'Arabia Saudita un Paese ricco? Se ci basassimo sulla sua definizione sì, poiché ha molto denaro. Ma quando i sauditi hanno bisogno di costruire un ponte, che fanno? Chiamano ingegneri tedeschi. Quando vogliono acquistare un'automobile, a chi si rivolgono? A Detroit, negli Stati Uniti. Quando desiderano un cellulare, vanno a comprarlo in Finlandia. E così via». Fece un cenno in direzione del rabbino, chiedendo il suo intervento. «Ora, mi dica, cosa succederà il giorno in cui finirà il petrolio?». «Quando finirà il petrolio?». «Sì. Cosa accadrà all'Arabia Saudita quando finirà il petrolio?». «Chi lo sa!» si mise a ridere il rabbino. «Tornerà a essere un Paese povero». Tomás gli puntò contro l'indice con un rapido gesto. «Esatto. Sarà nuovamente una nazione povera». Aprì le mani, come per sottolineare l'evidenza di quanto stava per esporre. «Dunque, ciò che costi-
tuisce la ricchezza di un Paese non è il denaro, ma la conoscenza. È la conoscenza che genera denaro. Non posso avere il petrolio ma, se so costruire ponti e fare automobili e inventare cellulari, sono in grado di creare una ricchezza duratura. È questo che rende ricco un individuo o un territorio». «Capisco». «Ora, cosa accadde in Portogallo all'epoca delle Scoperte? Il Paese si aprì alla conoscenza. L'infante Don Henrique riunì le grandi menti del suo tempo, portoghesi e straniere. Queste si dedicarono alla progettazione di nuovi strumenti di navigazione, alla creazione di nuovi tipi d'imbarcazione, allo sviluppo di armi più sofisticate e fecero anche progressi nel campo della cartografia. Fu anche un periodo di grande ricchezza intellettuale. Fra i portoghesi e gli stranieri molti erano cristiani, ma non tutti». «Alcuni erano ebrei...». «Precisamente. C'erano degli ebrei fra i cervelli che concepirono le Scoperte, e alcuni svolsero un ruolo molto importante. Introdussero nel Paese nuove conoscenze, aprirono porte, instaurarono contatti, trovarono finanziamenti, indicarono le direzioni da seguire. Mentre i castigliani perseguitavano gli ebrei, i portoghesi li accoglievano. Ma, alla fine del XV secolo, le cose iniziarono a cambiare. Nel 1492 i Re Cattolici espulsero gli ebrei dalla Spagna e molti cercarono rifugio in Portogallo, sotto la protezione del re Don João II. Accadde però che il suo successore, Don Manuel I, a un certo punto iniziò ad alimentare il sogno di diventare re di tutta la Penisola Iberica e di stabilirne la capitale a Lisbona, e cercò a questo scopo di ingraziarsi i Re Cattolici. Uno dei passi fondamentali del piano era il suo matrimonio con una figlia dei reali di Spagna, in modo da facilitare un'eventuale unione dinastica, ma la sposa stessa, cattolica intransigente, pose una condizione all'attuazione del matrimonio». «Voleva l'espulsione degli ebrei» indovinò il rabbino. «Proprio così. Non voleva ebrei in Portogallo. In circostanze normali, Don Manuel avrebbe dato il benservito alla sposa e ai Re Cattolici. Ma quella non era una situazione normale. Il monarca portoghese voleva essere re dell'intera Penisola Iberica. Di fronte alla clausola imposta dalla futura sposa, e pressato anche dalla Chiesa portoghese, quello stupido non si oppose. Tuttavia, tentò un escamotage. Invece di espellere gli ebrei, pensò di convertirli con la forza. In una gigantesca operazione intrapresa nel 1497, il re li battezzò contro la loro volontà. Furono così cristianizzati settantamila ebrei portoghesi, da allora chiamati cristãos-novos. Ma la maggior parte di essi continuò a professare la religione ebraica in segreto. Co-
me conseguenza, nel 1506 si assisté alla prima strage di ebrei a Lisbona, un pogrom condotto dalla plebaglia che fece duemila morti. Queste azioni erano frequenti in Spagna, in cui da molto tempo l'intolleranza si era generalizzata, ma non in Portogallo. Il risultato fu catastrofico. Gli ebrei iniziarono a fuggire dal Paese, portando con sé un prezioso tesoro: le proprie competenze, la propria curiosità, lo spirito d'inventiva. Questo primo passo fu seguito, nella decade del 1540, dall'introduzione dell'Inquisizione in Portogallo, e il disastro fu totale quando, quarant'anni dopo, l'unione dinastica tanto sognata da Don Manuel finalmente si concretizzò, ma sotto il dominio spagnolo. La Spagna portò con sé metodi oscurantisti ancora più radicali. Il Portogallo si chiuse alle influenze straniere e alla conoscenza. I testi scientifici furono proibiti, l'istruzione passò sotto l'esclusivo controllo della Chiesa, il Paese sprofondò nella completa ignoranza. Con la messa al bando dell'ebraismo, il Portogallo entrò in un periodo di declino che solo con grandi sforzi riuscì a invertire». «Questa sì che è una maniera interessante di conoscere la storia di un Paese» commentò il rabbino con un sorriso. «Attraverso le cattive decisioni». «Piccole cause producono grandi effetti» osservò Tomás. Il rabbino mise una mano sulla spalla di Chaim, in segno di affetto, ma mantenne lo sguardo fisso sul portoghese. «Il principe degli ebrei discende da una delle più importanti famiglie sefardite del Portogallo». Si voltò verso il suo protetto. «Vero, Chaim?». Chaim fece cenno di sì con la testa, in un gesto di umiltà. «Sì, signore». «Come si chiamavano i suoi antenati?» gli chiese Tomás. «Vuole sapere il nome in portoghese o in ebraico?». «Ehm... entrambi, direi». «La mia famiglia adottò il nome Mendes, ma in origine era Nasi. Alcuni anni dopo l'inizio delle persecuzioni a Lisbona, i miei predecessori fuggirono in Olanda e poi in Turchia. La matriarca della famiglia, Gracia Nasi, ricorse alla sua influenza sul sultano turco e ai suoi numerosi contatti commerciali per aiutare i cristãos-novos a fuggire dal Portogallo. Arrivò persino al punto di tentare un boicottaggio commerciale contro i Paesi che perseguitavano i giudei». «La signora Gracia Nasi diventò famosa presso il nostro popolo» aggiunse il rabbino. «Il poeta Samuel Usque le dedicò un libro in portoghese, Consolaçam às Tribulações de Ysrael, e la consacrò come "cuore dei giu-
dei"». «Anche il nipote di Gracia, José Nasi, fuggì da Lisbona a Istanbul» specificò Chaim, riprendendo il racconto. «José divenne un banchiere e uno statista famoso, entrò in amicizia con molti sovrani europei e fu scelto come consigliere dal sultano, che lo nominò duca. Furono José e Gracia ad assumere il controllo di Tiberiade, qui in Israele, incentivando gli altri giudei a stabilirsi in questo territorio». Tomás sorrise. «Lei sta insinuando che furono due giudei portoghesi, suoi predecessori, che iniziarono il conflitto in Medio Oriente?». Anche i due israeliti si lasciarono sfuggire un sorriso. «Dipende dal punto di vista» considerò Chaim, lisciandosi la barba riccioluta. «A me piace pensare che furono gli strumenti con cui Dio ha voluto restituirci la Terra Promessa». «E lei non conosce la parte migliore» aggiunse il rabbino. «José Nasi diventò così ricco, ma così ricco che ancora oggi è noto come il principe degli ebrei». Alzò un dito. «Era principe anche perché la parola nasi in ebraico significa principe». Accarezzò Chaim sulla testa. «È per questo motivo, per il fatto di essere discendente della famiglia di José e di portare il nome Nasi, che io chiamo Chaim "principe degli ebrei"». «Questa è stata una perdita per il mio Paese» osservò Tomás. «Immaginate cosa avremmo fatto se la famiglia di Chaim fosse rimasta in Portogallo?». Solomon guardò il grande orologio da parete appeso in biblioteca. «Questa e molte altre famiglie» commentò malinconicamente. Respirò a fondo. «Noi continuiamo a parlare e parlare e ancora non abbiamo toccato l'argomento del nostro incontro, giusto?». Ora spettava a Tomás prendere la sua vecchia ventiquattrore e tirare fuori un mazzo di fotocopie. «Molto bene!» esclamò. «Come le ho spiegato al telefono, ho bisogno del suo aiuto per analizzare questi documenti». Appoggiò i fogli sul tavolo e li spinse verso il rabbino, attirando l'attenzione su uno di essi in particolare. «Fra tutti questo è il più intrigante». Solomon indossò dei piccoli occhiali e si curvò sulla fotocopia, studiando le lettere e i segni lì riprodotti.
«Che cos'è?» domandò il rabbino, senza distogliere lo sguardo dal foglio. «La firma di Cristoforo Colombo». L'anziano ebreo accarezzò la sua folta barba bianca, pensieroso; si tolse gli occhiali e fissò Tomás. «Ci sarebbe molto da dire su questa firma» commentò. Il portoghese scrollò la testa in senso affermativo. «È quello che penso anch'io» convenne. «Crede abbia a che fare con la Cabala?». Solomon inforcò di nuovo gli occhiali e studiò il foglio. «È possibile, è possibile» assentì dopo alcuni istanti. Posò la fotocopia sul tavolo, si inumidì le sottili labbra con le dita, ragionando in silenzio sui possibili significati racchiusi da quel sistema di lettere e segni, e sospirò. «Ho bisogno di qualche ora per consultare dei libri, parlare con alcuni amici e analizzare meglio questa firma». Guardò l'orologio sulla parete. «Sono le undici... ehm... mi lasci pensare... vada a fare una passeggiata e ritorni verso le... ehm... le cinque del pomeriggio, può andar bene?». «Certamente». Tomás s'alzò e il rabbino fece un cenno a Chaim. «Chaim verrà con lei. È una buona guida e l'accompagnerà attraverso la Città Vecchia». Lo salutò con un cenno della mano. «Lehitra'ot». Dimenticandosi immediatamente dei due uomini che stavano uscendo dalla sala, come se non fossero altro che fantasmi che si volatilizzavano nell'aria, l'anziano cabalista si immerse nello studio del foglio e si concentrò sui misteri della firma di Cristoforo Colombo. Lungo la via l'aria era fresca e secca, nonostante il forte sole che batteva sulle case e le piazzette del Quartiere Ebraico. Uscendo dall'edificio, Tomás si allacciò il cappotto e seguì Chaim.
«Cosa le piacerebbe visitare?» chiese l'israelita. «Le tappe d'obbligo in queste occasioni, credo. Il Santo Sepolcro e il Muro del Pianto». «Dove vuole andare prima?». «Qual è il più vicino?». «Il Muro Occidentale» rispose Chaim, indicando verso destra. «È a circa cinque minuti da qui». Decisero di partire dal muro sacro agli ebrei. Girarono verso sud, presero la Yeshivat Etz Chaim fino a Piazza Hurva. Questo era il primo spazio ampio che Tomás incontrava nella Città Vecchia. Caffè, bar all'aperto, negozi di souvenir e alcuni alberi riempivano la piazza dominata dalle quattro sinagoghe sefardite, costruite dagli ebrei spagnoli e portoghesi nel XVI secolo, dalle rovine della sinagoga di Hurva e dall'esile minareto della distrutta Moschea di Sidna Omar. I due uomini svoltarono verso est, passando sotto gli archi della movimentata Tiferet Yisrael, e zigzagarono in un labirinto di viuzze piene di botteghe. «Pensa che il rabbino riuscirà a decifrare la firma?» chiese Tomás, camminando al fianco di Chaim, guardandosi intorno. «Chi? Il maestro Solomon?». «Sì. Crede che riuscirà a scoprire il vero significato cabalistico di quel documento?». «Il maestro Solomon Ben-Porat è uno dei migliori cabalisti al mondo. Le persone vengono da ogni parte per chiedere il suo aiuto nel decifrare i segreti della Torah. Sa, non è mica un Chelmer chochem». «Un Chelmer che?». «Chelmer chochem». «Che significa?». «Chelmer chochem?. Vuol dire "uomo saggio di Chelm"». Tomás guardò il suo accompagnatore con espressione interrogativa. «Il rabbino Solomon non è un uomo saggio?». «Certo, lo è» disse Chiam. Rise. «Ma non è un saggio di Chelm». Il portoghese non capì la battuta. «Non è un saggio di Chelm? Che cosa intende?». «Scusi, è un nostro modo di dire» spiegò l'ebreo, divertito. «Chelm è una città della Polonia i cui abitanti sono oggetto di scherno tra gli ebrei. Gli inglesi non raccontano forse barzellette sugli irlandesi? I francesi non si divertono alle spalle dei belgi? Noi invece raccontiamo aneddoti sui saggi di Chelm. Diciamo che una persona è un saggio di Chelm quando ha idee
assurde». «Ah sì? Un esempio?». «Allora, una volta un rabbino di Chelm promise che avrebbe fatto finire la povertà nella città. "D'ora in avanti" disse "i poveri si riempiranno di carne e i ricchi dovranno accontentarsi del pane". "In che modo?" chiesero i fedeli, meravigliati dal progetto. "Il maestro come compirà un simile miracolo?". Il rabbino rispose: "Semplice, a partire da ora chiameremo carne il pane e pane la carne"». Entrambi scoppiarono a ridere. «In Portogallo usiamo l'espressione esperteza saloia47» commentò Tomás. «Altri esempi?». «Ah, le storie di Chelm sono infinite» osservò Chaim. «Una volta i saggi ebrei si riunirono per discutere quale fosse la stella più importante, tra Luna e Sole. Il rabbino di Chelm non ebbe dubbi. "La Luna" disse lui. "Ah sì?" si meravigliarono gli altri rabbini. "Per quale motivo?". Il rabbino di Chelm fu perentorio. "Chi ha bisogno del Sole durante il giorno? Abbiamo bisogno della luce della Luna di notte, quando è tutto buio"». Nuove risate. «Voi raccontate molte barzellette?». «Sì, molte». «Sui saggi di Chelm?». «Ehm... sì, anche se, a pensarci bene, le raccontiamo soprattutto su noi stessi. Adoriamo scherzare su noi stessi, sulle nostre caratteristiche, sulla nostra mentalità». Alzò la mano, come se dovesse fare un avviso. «Ma, attenzione, non ci piace se lo fanno gli altri». «Succede anche con i portoghesi» rise Tomás. «Un portoghese che parla male di un altro va bene. Ma se lo fa uno straniero allora dà fastidio». «Ah, non dubiti, lo avete ereditato da noi» commentò Chaim. «Sa, ci piace scherzare soprattutto su una cosa. Sullo chutspah dei giudei». «Che cos'è?». «Lo chutspah? È... ehm... non saprei, è una specie di sfrontatezza, un'insolenza di cui solo gli ebrei sono capaci. Ad esempio, un ebreo fu processato in tribunale per aver ucciso i genitori. Da buon ebreo, e quindi dotato di molto chutspah, arrivò al punto d'implorare la clemenza del giudice, adducendo di essere orfano di padre e di madre». Ancora risate. Passarono attraverso la sinagoga Yeshivah e una vasta piazza si aprì davanti a loro. In fondo ad essa si ergeva un alto muro, con enormi blocchi di
pietra calcarea, alla cui base file di ebrei con il kipah sulla testa si dondolavano avanti e indietro, vicino alla gigantesca parete dall'aspetto vecchio e rude. L'area delle preghiere era protetta da un recinto ornamentale, formato da grandi massi con una menorah in ferro battuto in alto, e delle transenne metalliche collegate le une alle altre con una catena nera. Questa barriera separava lo spazio riservato alla preghiera dal resto della piazza. «Il Kotel Hamaaravi» annunciò Chiam. «Il Muro Occidentale». Tomás rimase un istante a contemplare la scena, l'aveva vista tante volte in televisione o sui giornali. «Perché questo è il luogo più sacro per l'ebraismo?» domandò il portoghese. Chaim indicò una cupola dorata che brillava sul monte al di là del muro. «Tutto è cominciato lassù, sotto quella cupola d'oro. Essa protegge la pietra su cui il patriarca Abramo, obbedendo a un ordine di Dio, stava per immolare il figlio Isacco. All'ultimo momento, però, un angelo gli fermò il braccio. Questa roccia si chiama even hashetiah ed è la pietra cardine del mondo, la pietra primordiale, quella su cui successivamente poggiò l'Arca dell'Alleanza. Quest'altura, sulla quale si trova la roccia a cui Abramo legò il figlio, è il Monte Moriah, il monte del Tempio, così chiamato perché fu qui che il re Salomone eresse il primo Tempio. Ma, quando Salomone morì, vari conflitti portarono alla divisione della nazione giudaica che, dopo essere stata sconfitta dagli Assiri, fu schiavizzata dai Babilonesi, i quali distrussero il sacro edificio. I Babilonesi furono poi battuti dai Persiani e ai Giudei fu concesso di ritornare nelle proprie terre. Allora fu costruito un secondo Tempio. Il passaggio di Alessandro Magno in questi luoghi pose le basi per il periodo di dominazione greca in Medio Oriente, più tardi sostituita da quella romana. Seppure controllando la situazione, i Romani permisero ai Giudei di essere governati dai loro re. Fu così che, poco prima della nascita di Gesù, il Nazareno, il re Erode ampliò il Tempio e costruì una grande muraglia esterna, della quale fa parte il Muro Occidentale, l'unico sopravvissuto. Ma, nell'anno 66 del calendario cristiano, gli Ebrei si ribellarono contro la presenza romana, dando inizio alle cosiddette guerre giudaiche. Come risposta, i Romani conquistarono Gerusalemme e nel 68 demolirono il Tempio, episodio questo che si rivelò profondamente traumatico per la nostra nazione». Fece un gesto in direzione dell'imponente muraglia. «È per questo che il Muro Occidentale è anche conosciuto come Muro del Pianto. Gli ebrei vengono qui per piangere la distruzione del Tempio».
Entrarono nella grande piazza e camminarono in direzione del muro. Tomás osservò la sua superficie ruvida, dalla quale spuntavano, qua e là, ciuffi verdi di giusquiano e, in cima, tra le crepe della roccia, tracce di bocca di leone. Le pietre alla base erano enormi, chiaramente appartenenti alla muraglia originale, mentre quelle in alto, molto più piccole, rivelavano successivi interventi. Nelle fessure intravide anche due nidi, probabilmente delle rondini o dei passerotti che volavano sulla piazza, rallegrandola con un delizioso duello di celestiali cinguettii e gorgheggi. «Ma perché il Tempio è così importante per voi?» domandò il visitatore, fermandosi al centro della piazza per osservare il muro. «Il Tempio è sacro». «Ma perché?». «Il Tempio era il centro dell'universo spirituale, il luogo attraverso il quale la bontà penetrava nel mondo. In questo posto c'era rispetto per Dio e per la sua Torah. Fu qui che Abramo quasi sacrificò Isacco e che Giacobbe sognò una scala che raggiungeva il cielo. Quando i Romani rasero al suolo il Tempio, gli angeli scesero sulla Terra, coprirono con le loro ali questa parte di muro e la protessero, dicendo che non sarebbe mai stata distrutta. È per questo che i profeti affermano che la presenza divina non abbandonerà mai le ultime vestigia del Tempio, il Muro Occidentale. Mai. Secondo loro, il muro non verrà mai abbattuto e sarà sacro in eterno». Indicò le enormi pietre della parte basse del muro. «Vede quelle? La maggiore pesa quattrocento tonnellate. Quattrocento. È la pietra più grande che sia mai stata trasportata dall'uomo. Non esistono pietre di simile grandezza nei monumenti antichi della Grecia o nelle piramidi dell'Egitto, e neanche nei moderni edifici di New York o Chicago. Non c'è nessuna delle moderne gru che abbia la forza di sollevare questo masso, basta guardarlo». Respirò profondamente. «Il Talmud insegna che, quando il Tempio fu distrutto, Dio chiuse tutte le porte del Cielo. Tutte, tranne una. La Porta delle Lacrime. Il Muro Occidentale è il luogo dove gli ebrei vengono a piangere, è qui la Porta delle Lacrime, il luogo dei lamenti. Tutte le preghiere fatte dagli ebrei di tutto il mondo convergono sul Muro Occidentale ed è in questo punto che, attraverso la Porta delle Lacrime, ascendono al cielo e arrivano a Dio. Il midrash afferma che Dio non si allontana mai da questo muro. Il Cantico dei Cantici canta la Sua presenza, intonando: "Eccolo, Egli sta dietro il nostro muro"48». «Ma se il Tempio è tanto importante, per quale ragione non lo ricostruiscono?».
«La ricostruzione inizierà con l'arrivo del Messia. Il Terzo Tempio sarà edificato esattamente nel luogo in cui eressero il primo e il secondo. Il midrash dice che questo Terzo Tempio è già stato eretto in cielo e sta solo aspettando di scendere sulla Terra. Tutto indica che questo momento si sta avvicinando. Un segno molto forte è il ritorno del popolo ebraico nella Terra Promessa. Il Messia costruirà il Tempio sul monte Moriah, il monte del Tempio». «E come riconoscerete il Messia da un impostore?». «Proprio dalla ricostruzione del Tempio. Una prova che il Messia è il vero Messia è il suo impegno per far rivivere il Tempio». «Ma lì ci sono la Moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia!» obiettò, puntando il dito verso le volte islamiche al di là della muraglia. «Affinché voi possiate costruire il terzo Tempio, dovranno distruggere le moschee, che sono fra le più sacre dell'Islam, e tutto ciò che si trova lì intorno. Ora, l'Haram El-Sharif è un'area venerata dai musulmani. Come pensa che reagiranno?». «Il problema sarà risolto da Dio e dal suo intermediario, il Messia». Il portoghese fece una smorfia carica di scetticismo. «Staremo a vedere» commentò. Guardò il Monte Moriah e accennò un movimento nella stessa direzione. «Chaim, mi spiega perché, con tutte le montagne che ci sono qui, gli ebrei e i musulmani hanno scelto esattamente lo stesso monte come luogo di culto?». «La risposta va ricercata nella storia, chiaramente. I Romani espulsero gli Ebrei da Gerusalemme e perseguitarono intensamente anche i Cristiani. Finché, nel IV secolo della vostra era, l'imperatore romano Costantino si convertì al cristianesimo. La madre di Costantino, Elena, venne a Gerusalemme e fece costruire le prime chiese cristiane nelle zone legate alla vita del Nazareno. Gerusalemme riconquistò la sua importanza. Nel 614, l'esercito persiano invase questa regione e, con l'appoggio degli Ebrei, massacrò i Cristiani. I Bizantini occuparono di nuovo la Palestina nel 628, lo stesso anno in cui un esercito guidato dal profeta Maometto prese La Mecca e diede vita a una nuova forza religiosa, l'Islam. Dieci anni dopo, Maometto era già morto, il suo successore, il califfo Omar, sconfisse i Bizantini e conquistò la Palestina. Siccome l'Islam riconosce Abramo e il Vecchio Testamento, i suoi seguaci considerarono Gerusalemme come luogo sacro. Per giunta, i Musulmani credevano che Maometto, anni prima, fosse salito al cielo dalla even hashetiah, la pietra sulla quale Abramo aveva quasi sacrificato il figlio e su cui gli ebrei avevano costruito i loro templi. Le ma-
cerie lasciate dai Romani sul monte Moriah furono tolte e i Musulmani eressero in quel punto i loro santuari, la Cupola della Roccia, nel 691, e la Moschea di Al Aqsa, nel 705, integrati nel perimetro sacro di Haram ElSharif». Con un ampio movimento del braccio, mostrò tutta la spianata oltre il Muro del Pianto, inclusa la Cupola dorata che brillava al sole, sulla sinistra, come fosse la corona reale della Città Vecchia. «A Cristiani ed Ebrei fu proibito di oltrepassare questo perimetro costruito sul Monte Moriah, ma continuarono a vivere a Gerusalemme. Seguì un periodo di convivenza relativamente tollerante, finché nell'XI secolo i Musulmani cambiarono politica e proibirono l'accesso dei Cristiani e dei Giudei a Gerusalemme. Fu l'inizio di tutti i problemi. L'Europa cristiana reagì male e subito bandì le crociate. I Cristiani riconquistarono Gerusalemme e costituirono persino un ordine religioso con il nome del Tempio». «L'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio del Re Salomone». «Esatto. I cavalieri dell'Ordine del Tempio, conosciuti anche come Templari. Rimasero installati qui nell'Haram El-Sharif e si misero a fare delle ricerche. Si sa che trovarono importanti reliquie, ma si ignora quali siano. C'è chi parla della scoperta dell'Arca dell'Alleanza e del santo calice usato dal Nazareno durante l'ultima cena, nel quale fu raccolto il Suo sangue mentre stava morendo sulla croce». «Il Santo Graal». «Precisamente. E c'è chi afferma che sia stato ritrovato persino il Santo Sudario, il lenzuolo che si suppone essere stato usato per coprire il corpo del Nazareno dopo la crocifissione. Sono misteri che devono ancora essere svelati e che contribuirono a trasformare il Monte Moriah in un luogo importante anche per i cristiani». I due uomini s'avvicinarono alla zona delle preghiere. Restarono a osservare i fedeli che si lavavano le mani in una bacinella, concentrati nelle abluzioni per rimuovere le impurità prima di andare a pregare vicino al muro, e la mechitzah, che separava l'area maschile, quella sinistra, dalla zona femminile. Davanti alla muraglia, gli uomini da una parte e le donne dall'altra muovevano la testa e il busto in una preghiera ritmata, avanti e dietro, in alcuni casi tenendo un piccolo libro tra le mani. Poi fecero mezzo giro e svoltarono all'angolo nord della piazza, prendendo la Hashalshet in prossimità della Biblioteca Khalidi, nella quale è sepolto il brutale emiro tartaro Barka Khan, e proseguirono fino a Via David. Avevano fame, erano già passate le due del pomeriggio. Chaim portò
il suo invitato in un ristorante del tranquillo Quartiere Giudeo. Iniziarono con un piatto di houmous, preparato con carne tritata su pasta di grano, olio, aglio e limone, e di tabuleh, un impasto di frumento con piccoli pezzi di menta, prezzemolo, cipolla, pomodoro, cetrioli sottolio e limone. Come portata principale chiesero due kebab nella pita, conditi con salsa piccante harif che l'israelita bagnò con del vino rosso locale, un kibbntz Tsora un po' pesante, mentre Tomás decise di provare la birra ebrea più consumata da quel popolo, la Maccabee. Chaim spiegò che, a differenza dei musulmani, gli ebrei erano incoraggiati a bere vino. Nella festa di Prim, per esempio, erano esortati a bere alcool fino a ubriacarsi, cioè quando non riuscivano più a capire chi era l'eroe e chi il bandito della storia di Esther. Come dessert, il portoghese provò una baklava, delicati dolcetti ripieni di noci e pistacchi tuffati nel miele, mentre Chaim optò per una halvah, un dolce fatto con granelli di sesamo. Il pasto fu completato con un katzar, un caffè forte servito in bricchi di rame. Aiutarono la digestione percorrendo tranquillamente Via David, che separa il Quartiere Armeno da quello Cristiano, ammirando quell'atmosfera da allegro bazar, pieno di negozi di abbigliamento, tappeti, cianfrusaglie e statuette religiose scolpite su legno d'ulivo, che attirava così bene l'interesse dei turisti e la devozione dei pellegrini. Poco prima della movimentata Porta di Jaffa e della Cittadella girarono a destra in Via Muristan, animata da negozi di pellami, e finalmente entrarono nel Quartiere Cristiano. Passarono attraverso la struttura neoromanica della Chiesa del Redentore e si ritrovarono nel Souk El-Dabbagha, dove girarono a sinistra fino ad avere di fronte l'edificio scuro e inquietante della Chiesa del Santo Sepolcro. Un arabo si offrì di far loro da guida ma Tomás, presentendo qualche inganno, rifiutò. Salirono gli scalini dell'entrata e, dopo aver superato le porte ad arco, sorrette da pilastri di marmo, voltarono a destra e si diressero al Calvario, il grande rilievo roccioso su cui i romani crocifissero Cristo. La pietra del monte era nascosta dalla struttura di due cappelle. La cappella latina, sulla destra, corrispondeva alla decima e all'undicesima stazione, il luogo in cui gli esecutori inchiodarono Gesù alla croce; di fianco, un arco segnava la Stabat Mater, dove Maria pianse ai piedi del figlio morente. La cappella ortodossa, dall'altro lato, indicava il punto in cui venne innalzata la croce; due pannelli di vetro, collocati a lato dell'altare, lasciavano vedere la superficie irregolare che emergeva dal pavimento. «Impressionante!» commentò Tomás a voce bassa, piegandosi per os-
servare meglio la pietra su cui avvenne la crocifissione. «Questo è il luogo esatto dove morì Gesù». «Non è necessariamente il punto esatto» ribatté Chaim, per nulla impressionato da quel luogo di culto cristiano. «No?». «Si ricorda che abbiamo parlato di Costantino, l'imperatore dell'Impero Romano d'Oriente che si era convertito al cristianesimo?». «Sì». «Nel 325 Costantino convocò un concilio ecumenico per discutere della natura della Santa Trinità. In quell'occasione era presente il patriarca di Gerusalemme, il vescovo Macario, che convinse la madre di Costantino, Elena, a venire in Terra Santa per localizzare i luoghi in cui era passato il Nazareno, da tempo trascurati. Elena raggiunse il figlio e individuò, approssimativamente, la grotta in cui nacque Gesù, a Betlemme, e la grotta del Monte degli Ulivi, nella quale profetizzò la distruzione di Gerusalemme. La donna arrivò alla conclusione che il Golgota, la grande roccia su cui egli era stato crocifisso, si trovava sotto i templi pagani costruiti dall'imperatore Adriano, duecento anni prima, a nordovest della Città Vecchia». «Golgota?». «È il nome ebraico di pietra, significa il luogo del teschio. In latino si dice Calvario». Esitò. «Dov'ero rimasto?». «Al punto in cui Elena scoprì che il Calvario si trovava sotto ai templi romani». «Ah, giusto. La madre di Costantino fece radere al suolo i templi, ordinò che parte della pietra sottostante fosse distrutta e che in quel luogo venisse edificata una basilica. Elena stabilì, in modo del tutto arbitrario, quali erano i punti esatti dove Gesù era stato preparato all'esecuzione, dove fu inchiodato alla croce e dove questa fu eretta. Ad essi corrispondono la decima, l'undicesima e la dodicesima stazione. Tuttavia agì per supposizione, e la verità è che non abbiamo l'assoluta certezza che questa pietra, che si trova sotto alla basilica, sia proprio il Golgota, sebbene tutto ci porti in questa direzione. Dai racconti degli Evangelisti sappiamo che Gesù fu crocifisso su una pietra situata fuori dalle antiche mura della città, ai piedi di un piccolo monte con grotte usate come catacombe, e tutto ciò che si può dire è che le ricerche archeologiche dimostrano che questo luogo corrisponde esattamente alla descrizione». Ebbero ancora il tempo di mettersi in fila per entrare nel Santo Sepolcro,
la zona della catacomba in cui si suppone fu deposto il corpo di Cristo dopo la morte e che ora è nascosta all'interno di un santuario eretto al centro della Rotonda. Questo maestoso salone circolare è costruito, in stile romano, proprio in prossimità della bianca cupola dorata della basilica, e alcune gallerie, nel patio e al primo piano, circondano la piccola struttura funebre. Chaim, da buon ebreo, si rifiutò di entrare e preferì rimanere ad apprezzare il Catholicon, la vicina cupola che copre la navata centrale della chiesa dei crociati e che è considerata il centro del mondo dalla Chiesa Ortodossa. Quando fu il suo turno, Tomás abbassò la testa, attraversò il piccolo passaggio e osservò la stanza calda e umida del Santo Sepolcro. Guardò con inatteso rispetto la lastra di marmo che copre il punto in cui si ritiene sia stato adagiato il corpo di Gesù, contemplando i bassorilievi che decorano la claustrofobica cripta funebre e che riproducono una scena della Resurrezione. Rimase lì solo alcuni secondi, tanto forte era la pressione esercitata dalle altre persone che attendevano in fila per poter prendere il suo posto. All'uscita, l'israelita lo aspettava con il polso in bella vista, a mostrare l'orologio, e indicò l'ora. «Sono le quattro e mezza» disse. «Dobbiamo tornare». Solomon Ben-Porat, con la sua massiccia presenza, stava con le spalle rivolte alla porta, lo zucchetto ben visibile sulla testa calva, e parlava con un uomo magro e scarno, dagli occhi piccoli, la barba nera lunga e a punta, vestito con un bekeshe, uno scuro abito chassidico. Il rabbino, seduto su una sedia, avvertendo la presenza degli ultimi arrivati si voltò, e la sua folta barba grigiastra lasciò intravedere un sorriso di soddisfazione. «Ah!» esclamò. «Ma shlomcha?». «Tov» rispose Chaim. «Entrate, entrate» li esortò Solomon in inglese, facendo cenno con le dita della mano sinistra. «Professor Noronha» disse, caricando molto le erre, come sempre, tanto che l'invito risuonò come Prrrofessorrr Noronha. Si rivolse all'uomo seduto al suo fianco. «Mi permetta di presentarle un mio amico, il rabbino Abraham Hurewitz». L'uomo magro si alzò e accolse Tomás e Chaim. «Na'im Me'od» salutò. «Il rabbino Hurewitz è venuto a darmi una mano» spiegò Solomon, mentre si accarezzava distrattamente la barba. «Sa, ho studiato i documenti che mi ha dato e ho telefonato ad alcuni amici. Ho scoperto che il rabbino Hurewitz aveva studiato, una volta, i testi di Cristoforo Colombo, in parti-
colare il Libro delle Profezie e il suo diario, e si è dimostrato disponibile a darle tutte i chiarimenti necessari». «Ah, molto bene» affermò Tomás, esprimendo tutto il suo apprezzamento, senza distogliere lo sguardo da Hurewitz. «Ma, per prima cosa, credo sia importante fare una nota introduttiva». Solomon Ben-Porat scrutò Tomás con curiosità. «Professor Noronha, scusi la domanda, ma cosa sa della Cabala?». «Ehm... molto poco, credo» tentennò nella risposta, mentre preparava il suo vecchio bloc-notes per trascrivere tutto ciò che stava per essere detto. «Ho alcune nozioni generali, ma niente di approfondito, questa è la prima volta che in una ricerca ho a che fare con la Cabala». «Right!» assentì Solomon, pronunciando rrright con il suo abituale suono gutturale. «Deve sapere, professor Noronha, che la Cabala racchiude la codificazione simbolica dei misteri dell'universo che hanno al centro Dio. Il termine Cabala deriva dal verbo lecabel, cioè ricevere. Si tratta di un sistema di trasmissione e ricezione, un metodo d'interpretazione, uno strumento per decifrare il mondo, la chiave che permette di accedere ai disegni di Colui che non ha nome». Solomon parlava con grande eloquenza, lentamente e con voce e profonda, come se fosse Mosè e stesse enunciando i Dieci Comandamenti. «C'è chi afferma che la Cabala risale al primo uomo, Adamo. Altri fanno risalire la sua origine al patriarca Abramo, nonostante molti sostengano che il primo cabalista sia stato Mosè, il presunto autore del Torat Mosheh, il Pentateuco. Ma, per quanto ne sappiamo, questa forma di conoscenza mistica iniziò a essere ordinata solo più tardi». Abbassò il tono di voce e assunse un atteggiamento più confidenziale, come se non volesse far sentire a Dio la frase successiva. «Per renderle più facile la comprensione, professore, farò tutti i riferimenti cronologici utilizzando il vostro calendario cristiano». Si alzò. «Le prime tracce sistematizzate di Cabala risalgono al I secolo a.C, e questo sistema, nei secoli, passò attraverso sette fasi. La prima fu la più lunga e si protrasse fino al X secolo. Questa tappa iniziale fu dominata dalla meditazione come mezzo per raggiungere l'estasi spirituale che permette di accedere ai misteri di Dio, e le opere cabalistiche ad essa riconducibili descrivono i piani superiori dell'esistenza. La seconda fase si manifestò tra il 1150 e il 1250 in Germania, con la pratica dell'ascetismo assoluto, in cui il saggio rinunciava alle cose mondane e praticava un altruismo estremo. La fase successiva arrivò sino al XIV secolo e segnò la nascita della Cabala profetica, grazie soprattutto al lavoro di Abraham Abulafia. Fu in questo momento che si svilupparono
i metodi di lettura e interpretazione della natura mistica dei testi sacri, con l'introduzione della combinazione delle lettere ebraiche e dei nomi di Dio. La quarta fase occupò tutto il Trecento e fu all'origine della più importante opera mistica del cabalismo, il Sefer HaZohar, o Libro dello Splendore. Questo ricchissimo testo apparve nella Penisola Iberica alla fine del XIII secolo ed è attribuito a Mosé de León». «Di che parla?». «Il Sefer HaZohar? È un'imponente opera sulla Creazione e sulla comprensione occulta dei misteri dell'universo e di Dio». Affinò la voce, accingendosi a riprendere la narrazione. «Anche la quinta fase ebbe inizio nella Penisola Iberica, con il divieto dell'ebraismo in Spagna, nel 1492, e in Portogallo, nel 1496. Il suo maggior esponente fu Isaac Luria, il quale, nello sforzo di trovare una spiegazione mistica alle persecuzioni, elaborò la teoria dell'esilio, accostando la Cabala al messianesimo, nella speranza di una redenzione collettiva. Pertanto, la sesta tappa, tra il XVII e il XVIII secolo, fu caratterizzata dallo pseudomessianesimo, che diede origine a molti errori e aprì la strada alla settima e ultima fase, quella dell'hassidismo, proveniente dall'Europa Orientale, che si sviluppò come reazione al messianesimo. Il movimento hassidico, guidato da Israel Baal Shem-Tov, riuscì a rendere popolare la Cabala, rendendola meno ermetica ed elitaria, e permise che i suoi concetti fossero più accessibili alla comprensione comune». «E per quanto riguarda il conteggio delle lettere e l'Albero della Vita?» domandò Tomás, mentre prendeva velocemente appunti sul suo blocnotes. «Dove si collocano?». «Professor Noronha, sta parlando di due cose differenti» spiegò Solomon. «Quello che lei chiama conteggio delle lettere è, presumo, la gematria. Questa tecnica consiste nell'ottenere un valore numerico dopo aver associato un numero a ogni lettera dell'alfabeto ebraico. Nella gematria, le prime nove lettere si associano alle nove unità, le nove lettere successive corrispondono alle decine e le quattro restanti rappresentano le prime quattro centinaia». Aprì le mani in un ampio movimento, come ad abbracciare tutta la Creazione. «Dio creò l'universo con i numeri e ogni numero racchiude un mistero e una rivelazione. Tutto ciò che esiste nell'universo è legato a un sistema di cause ed effetti e forma un'unità che si moltiplica all'infinito. I matematici, oggigiorno, usano la teoria del caos per spiegare il complesso funzionamento delle cose, mentre i fisici optano per il principio dell'incertezza per giustificare lo strano comportamento delle micro-
particelle nello stato quantico. Noi cabalisti preferiamo la gematria. Più di duemila anni fa, tra il II e il VI secolo dell'era cristiana, spuntò un'opera enigmatica e metafisica intitolata Sefer Yetzirah, o Libro della Creazione, nella quale era descritto il modo in cui Dio dette vita al mondo usando numeri e parole. Così come i matematici e i fisici di oggi, il Sefer Yetzirah sosteneva che era possibile penetrare nel divino potere creatore attraverso la comprensione dei numeri. In fondo, la gematria consiste in questo. Tale sistema attribuì un potere creatore alla parola e ai numeri, partendo dal principio che l'ebraico era stata la lingua utilizzata da Dio nell'atto della Creazione. I numeri e l'ebraico hanno una natura divina. Attraverso la gematria è possibile trasformare le lettere in numeri e fare scoperte molto interessanti». Le parole suonarono come verrry interrresting discoverrries, e conferirono un tono misterioso alla frase. «Ad esempio, la parola ebraica shanah, anno, è uguale a 335, che coincide esattamente con il numero dei giorni dell'anno lunare. E berayon, gravidanza, corrisponde a 271, cioè l'equivalente, in termini di giorni, di nove mesi, il periodo di durata della gravidanza». «Come se fosse un anagramma». «Precisamente, un anagramma divino di numeri e parole. Vediamo altri esempi. Nella gematria, av, padre, equivale a 3, ed em, madre, dà 41. Ora, 3 più 41 fa 44, che corrisponde al numero che si ottiene con la parola ieled, figlio. Dall'unione del padre e della madre nasce il figlio. Uno dei nomi di Dio, Elohim, vale 86 così come la parola natura, hateva. Pertanto, Dio è natura». «Curioso». «Ma ancora più curioso, professor Noronha, è quanto risulta dall'applicazione della gematria alle Sacre Scritture. Fra i vari nomi di Dio, c'è quello di Ihvh Elohei Israel, che equivale a 613. Anche Mosheh Rabeinu, il nostro maestro Mosè, vale 613. Ora, 613 è il numero dei comandamenti della Torah. Questo significa che Dio consegnò a Mosè le 613 leggi della Torah». Accennò un movimento circolare con le mani. «Le Sacre Scritture hanno una complessità olografica, all'interno del testo si moltiplicano vari significati. Facciamo un altro esempio. La Genesi racconta che Abramo guidò 318 servi in battaglia. Ma i cabalisti, studiando il valore numerico del nome del suo servo Eliezer, scoprirono che questo era di 318. Pertanto, si può presumere che Abramo, in verità, portò con sé il suo unico servo». «Sta dicendo che la Bibbia contiene messaggi subliminali?». «Se vuole chiamarli così» sorrise Solomon. «Sa qual è la prima parola
delle Sacre Scritture?». «No». «Bereshith. Vale a dire, in principio. Se dividiamo bereshith in due parole, otteniamo bere, creò, e shith, sei. La Creazione durò sei giorni e Dio si riposò nel settimo. Tutto il messaggio della Creazione è così racchiuso in un'unica parola, esattamente la prima delle Sacre Scritture. Bereshith. In principio. Bere e shith. Il sei corrisponde all'esagramma, al doppio triangolo del simbolo di Salomone, quello che oggi chiamiamo stella di David e vediamo nella nostra bandiera». Indicò la stoffa bianca con il disegno azzurro della bandiera di Israele, collocata in un angolo dell'ufficio. «Ma nelle Sacre Scritture si trovano anche degli anagrammi. Ad esempio, Dio affermò nell'Esodo: "Ti invierò il mio angelo". L'espressione il mio angelo si dice, in ebraico, melakhi, che corrisponde all'anagramma di Mikhael, l'angelo protettore degli ebrei. Ovvero, l'angelo Michele inviato da Dio». «E questo sistema d'interpretazione si applica anche all'Albero della Vita?». «L'Albero della Vita è un'altra cosa» lo corresse il cabalista. «Per molto tempo, due domande hanno caratterizzato il rapporto dell'uomo con Dio. Se Dio fece il mondo, cos'è il mondo se non Dio? L'altra domanda, che deriva dalla prima, è per quale motivo il mondo è tanto imperfetto se il mondo è Dio? In parte, fu per dare una risposta a queste due domande che apparve il Sefer Yetzirah, che ho menzionato poco fa, il testo mistico che descrive come Dio creò il mondo attraverso numeri e parole. Quest'opera era stata originariamente attribuita ad Abramo, nonostante sia stata probabilmente scritta dal rabbino Akiva. Il Sefer Yetzirah rivela la natura divina dei numeri e li mette in relazione con le trentadue vie della saggezza percorse da Dio per creare l'universo. Le trentadue vie corrispondono alla somma dei dieci numeri primordiali, le sephirot, e delle ventidue lettere dell'alfabeto ebraico. A ogni lettera e a ogni sephirah è collegato un significato. Ad esempio, la prima sephirah simboleggia lo spirito di Dio vivo, che si esprime attraverso la voce, il vento e la parola. La seconda rappresenta l'aria emanata dallo spirito; la terza sephirah indica l'acqua emanata dall'aria, e così via. Le dieci sephirot sono delle emanazioni manifestate da Dio durante l'atto della Creazione e si strutturano nell'Albero della Vita, che è l'unità elementare della Creazione, la più piccola particella indivisibile che contiene gli elementi del tutto. Naturalmente questo concetto si evolse e il Sefer HaZohar, il grande libro cabalistico comparso nella Penisola Iberica alla fine del XIII secolo, definì le sephirot come i dieci attributi divini. La
prima sephirah è keter, la corona; la seconda è khokhmáh, la sapienza; poi viene binah, l'intelligenza. La quarta sephirah è khésed, la misericordia; la quinta è gevuráh, la forza; la sesta è tiféret, la bellezza; la settima è netzach, l'eternità; l'ottava è hod, la gloria; la nona è yesod, il fondamento. E infine malkut, il regno». «Vada più lentamente» implorò il portoghese, mentre prendeva appunti frettolosamente, nello sforzo di registrare sul bloc-notes tutte quelle informazioni. «Più lentamente». In quel momento, tuttavia, Tomás aveva già perso il filo del discorso, intrappolato nelle maglie di quella raffica di parola ebraiche, ma Solomon rimase imperturbabile nell'esposizione dei principi basilari della Cabala. Fece una breve pausa per permettere allo storico di disegnare l'Albero della Vita, e riprese la sua spiegazione. «Il Sefer HaZohar stabilì numerose possibilità d'interpretazione dell'Albero della Vita, con la lettura delle sephirot in senso orizzontale, verticale, discendente e ascendente. Ad esempio, la lettura discendente costituisce il percorso dell'atto della Creazione, in cui la luce riempie la prima sephirah, keter, e sgorga verso il basso, fino ad arrivare all'ultima, malkut. Invece, il senso ascendente rappresenta l'atto evolutivo che conduce la creatura al Creatore, partendo dalla materia per arrivare alla spiritualità. Ogni sephirah simboleggia uno dei nomi di Dio. Keter, per esempio, è Ehieh, e malchut è Adonai. Ogni sephirah è governata da un arcangelo. Quello di keter è l'arcangelo Metatron. Questa lettura si può applicare a tutto l'Albero della Vita. Alle stelle, alle sensazioni, al corpo umano». Appena Solomon abbandonò le espressioni ermetiche ebraiche, Tomás sembrò riprendersi dal discorso del cabalista. «Il corpo umano?». «Sì, la Cabala considera l'essere umano un microcosmo, una riproduzione in miniatura dell'universo, e stabilisce un parallelismo con l'Albero della Vita. Keter è la testa; Khokhmáh, khésed e netzach sono la parte destra del corpo; binah, gevuráh e hod sono la parte sinistra, tiferet è il cuore, yesod rappresenta gli organi genitali e malchut simboleggia i piedi». Respirò a fondo e alzò le mani, in un ampio gesto. «Molto, molto di più si potrebbe dire sulla Cabala. Pensi che il suo studio impiegherebbe una vita intera e non è possibile, in questa breve rassegna, esprimere tutti i misteri che essa racchiude, tutti gli enigmi mistici che nasconde. Penso, quindi, che per ora sia meglio fermarci qui, già le ho dato le informazioni sufficienti per comprendere la nostra interpretazione dei documenti e del criptogramma che ci
ha consegnato questa mattina». Tomás smise momentaneamente di prendere appunti e s'inclinò sul tavolo, la conversazione era arrivata al punto cruciale. «Sì, passiamo all'interpretazione della firma di Cristoforo Colombo. Secondo lei, ha a che fare con la Cabala?». Solomon sorrise. «Non abbia fretta» disse. «La pazienza è una virtù dei saggi, professor Noronha. Prima di immergerci nella questione specifica della firma, credo che ci siano alcune cose che lei deve sapere su Cristoforo Colombo». «Guardi che qualcosa già la conosco!» rise Tomás. «Forse» ammise l'anziano cabalista. «Ma penso che le piacerà sentire quello che ha da dirle il rabbino Abraham Hurewitz». Ben-Porat si voltò verso destra, facendo cenno a Hurewitz di parlare. Il magro cabalista aspettò un istante, scrutando con i suoi occhietti neri i tre uomini che lo stavano osservando, e fece un bel respiro prima di prendere la parola. «Professor Noronha» esordì Hurewitz con una voce sussurrata, sommessa, in assoluto contrasto con quella tonante e gutturale di Solomon «le ho sentito dire che già conosce alcune cose sul signor Cristoforo Colombo. Sarebbe così cortese da delucidarmi sulla data di partenza del signor Colombo per il primo viaggio in America?». «Ehm... il primo viaggio? Quello che lo portò alla scoperta del Nuovo Mondo?». «Sì, professore. In che giorno partì il signor Colombo?». «Beh... credo che salpò dal porto di Palos, a Cadice, il 3 agosto 1492». Tomás sorrise, come se avesse risposto brillantemente a un esaminatore. Ma il cabalista mantenne un'aria impassibile, aveva l'atteggiamento di chi si aspettava quella risposta. «E ora, signor Noronha, mi saprebbe dire la data limite stabilita dal decreto dei Re Cattolici affinché gli ebrei abbandonassero la Spagna?». «Ehm...» il portoghese si sentì imbarazzato «questo... questo non lo so. Intorno al 1492». «Sì, professore, ma qual è il giorno esatto?». «Non lo so». Il rabbino fece una pausa teatrale. Mantenne gli occhi fissi su Tomás, valutando come avrebbe reagito alle sue successive parole. «E se io le dicessi che secondo i decreti reali gli ebrei sefarditi dovevano abbandonare la Spagna entro il 3 agosto del 1492?».
Il portoghese sgranò gli occhi. «Come? Il 3 agosto? Cioè... cioè il giorno in cui Colombo partì per il suo primo viaggio?». «Lo stesso giorno». Tomás scrollò la testa, sorpreso. «Non ne avevo idea!» esclamò. «È... è una curiosa coincidenza». Le labbra sottili del rabbino Hurewitz si curvarono in un sorriso senza umorismo. «Trova?» domandò, quasi sdegnando la parola scelta da Tomás per definire la simultaneità delle date. «Il rabbino Shimon Bar Iochay ha scritto che tutti i tesori del Re Supremo sono protetti da un'unica chiave. Questo significa, professore, che non esistono coincidenze. Le coincidenze sono forme sottili scelte da Dio per comunicare il Suo messaggio. È una coincidenza che il nome di Dio e quello di Mosè abbiano lo stesso numero delle leggi della Torah? È una coincidenza che Cristoforo Colombo sia partito dalla Spagna esattamente lo stesso giorno in cui gli ebrei furono espulsi dal Paese? Allora, se pensa che sia una coincidenza, mi spieghi, professore, anche questa strana cosa». Consultò un libricino appoggiato sul tavolo con il volto di Colombo in copertina e il titolo in ebraico. «Questi sono i diari sulla scoperta dell'America, scritti dallo stesso Colombo. Ora ascolti quanto viene da lui detto in apertura». Hurewitz lesse a voce bassa il testo in ebraico e lo tradusse in inglese. «"Cosicché, dopo aver cacciato fuori dai vostri regni e possessi tutti i giudei, nel medesimo mese di gennaio, le Vostre Altezze mi ordinarono che con un'armata sufficiente mi portassi alle dette parti d'India"». Sollevò lo sguardo e tornò a fissare Tomás. «Che pensa di questo brano del diario del signor Colombo?». Il portoghese, che aveva iniziato di nuovo a prendere appunti, si morse il labbro inferiore. «Ho già letto il diario, ma confesso di non aver prestato attenzione a questa frase». «È scritta quasi all'inizio del diario» spiegò il rabbino. «Professore, effettivamente questa frase ci dice molte cose. Innanzitutto, ci suggerisce che la decisione di mandare il signor Colombo nelle Indie fu presa nel gennaio del 1492; in secondo luogo che la decisione di espellere gli ebrei, confermata nel decreto del 30 marzo che obbligò i sefarditi ad abbandonare la Spagna entro il 3 agosto, fu presa proprio nel gennaio del 1492». Inclinò la testa. «Crede sia una coincidenza, professore?». «Non so» rispose, scuotendo la testa senza distrarsi dal bloc-notes su cui
stava scrivendo. «Sinceramente, non avevo mai notato che questi fatti fossero avvenuti nello stesso periodo». «Nulla di tutto ciò è una coincidenza» affermò il cabalista con aria convinta. «La frase che le ho letto ci fornisce anche un'altra informazione, vale a dire quale fosse l'intenzione di Colombo. Come ha scritto il rabbino Shimon Bar Iochay, non è l'azione che genera la ricompensa per gli uomini, ma l'intenzione che l'ha determinata. Qual era lo scopo di Colombo nel citare l'espulsione degli ebrei all'inizio del suo diario? È stato un mero capriccio? Un'insignificante e impulsiva scelta? Un semplice riferimento mondano a un tema di attualità?». Inarcò le sopracciglia, come se volesse dimostrare il suo dissenso per quell'interpretazione. «E se invece l'avesse fatto di proposito?». Avvicinò gli indici delle mani. «Non è evidente che cercò di mettere in relazione i due avvenimenti?». «Crede che siano collegati?». «Senza alcun dubbio. Lei sapeva che, alla vigilia della partenza per il primo viaggio, Colombo pretese che tutto l'equipaggio fosse a bordo della navi entro le ore ventitré?». «E allora?». «All'epoca non era molto comune, andava contro le abitudini dei marinai. Ma per Colombo era fondamentale che tutti si raccogliessero sulle navi entro le ventitré. E sa cosa successe un'ora dopo?». «No». «Entrò in vigore l'editto che imponeva agli ebrei di lasciare il Paese». Sorrise. «Il che significa che i due avvenimenti sono strettamente correlati. C'erano degli ebrei nella flotta». «Si riferisce a Colombo stesso». «Esatto». Il cabalista sfogliò di nuovo il diario. «Faccia attenzione a quello che Colombo, all'inizio del giorno 23 settembre, scrive a proposito della comparsa di venti che posero fine a una pericolosa bonaccia». Iniziò a tradurre. «"Così molto necessario mi fu il mare grosso, che non apparve se non nel tempo dei giudei, quando partirono dall'Egitto con Mosè, che li traeva dalla schiavitù"». Guardò Tomás. «Non trova strano che un cattolico citi in questo modo il Pentateuco, ricorrendo persino alla descrizione dell'Esodo, un evento di poco interesse per i cristiani ma di suprema importanza per gli ebrei? Oltretutto, professore, quest'abitudine di descrivere una situazione di vita con un riferimento biblico rimanda a un'evidente consuetudine ebraica. Questa è una cosa che noi ebrei facciamo ogni giorno e che, a quanto pare, faceva anche Colombo». Consultò un grande qua-
derno pieno di appunti in ebraico. «Durante la ricerca che ho condotto alcuni anni fa su Colombo, sono venuto a conoscenza di alcuni dettagli curiosi. Il primo è relativo al fatto che, all'antivigilia della partenza per il primo viaggio, ha ricevuto da Lisbona le Tavole di Declinazione del Sole, uno strumento di navigazione scritto da Samuel Zacuto, inviato dal re di Portogallo». «Don João II». «Sì. Questo strumento, conosciuto anche come Almanacco Perpetuo, è attualmente esposto al Museo Ebraico di New York. Pertanto ho fatto un salto a New York e ho visitato il museo. Sa cosa ho scoperto?». «Non ne ho idea». «Ho scoperto che le Tavole di Declinazione del Sole sono scritte in ebraico». Sorrise. «Capisce? In ebraico». Aspettò che la rivelazione fosse recepita. «La domanda sorge spontanea. Dove aveva imparato Colombo a leggere l'ebraico?». «Bella domanda!» commentò Tomás. Abbassò il tono di voce e non resistette ad aggiungere a parte «Soprattutto se consideriamo che era un umile tessitore di seta». «Prego?». «Non ci faccia caso, stavo parlando da solo» tagliò corto il portoghese, mentre annotava sul suo taccuino tutto ciò che gli veniva spiegato. «Ma c'è un'altra domanda che questa storia ci porta a formulare. Com'è possibile che uno strumento di proprietà di Don João II sia stato inviato a Colombo all'antivigilia della partenza per un viaggio che, in teoria, andava contro gli interessi del Portogallo?». «Questo non glielo so dire, professore» disse il cabalista, imbarazzato. «Non è necessario, signor rabbino. Non è necessario. Si tratta solo di un ulteriore mistero che indica una stretta relazione tra l'Ammiraglio e il re portoghese». Il rabbino Hurewitz tornò a esaminare il suo quaderno. «Ci sono anche altri particolari che hanno attirato la mia attenzione» riprese, passando in rassegna gli appunti scarabocchiati in ebraico. «Esiste una lettera abbastanza curiosa inviata alla regina Isabella la Cattolica dal suo confessore, Hernando de Talavera. Nella missiva, datata 1492, Talavera discute sull'autorizzazione data dai Re Cattolici alla spedizione di Colombo. In un passo di questo documento, Talavera chiede: "Come potrà il criminoso viaggio di Colón dare la Terra Santa agli ebrei?"». Alzò la testa e il suo volto assunse un'espressione intrigante. «"Dare la Terra Santa agli
ebrei"? Per quale ragione il confessore della regina collega Colombo direttamente agli ebrei?». Lasciò la domanda sospesa nell'aria per alcuni istanti. «Ma c'è di più. Nel suo Libro delle Profezie, Colombo si basa quasi esclusivamente sui profeti del Pentateuco, con particolare riferimento a Isaia, Ezechiele, Geremia e molti altri, comportamento, questo, caratteristico degli ebrei. E suo figlio Hernando Colón, quando scrive la biografia del padre, arriva ad affermare che la famiglia di Colombo era "del regal sangue di Gerusalemme"». Rise in modo discreto, quasi nascondendo la bocca. «Difficilmente si potrebbe essere più diretti». Il rabbino Hurewitz chiuse il quaderno, indicando in questo modo la fine della sua esposizione. Solomon Ben-Porat prese alcuni dei fogli che Tomás gli aveva consegnato quella mattina, affinò la voce e proseguì il discorso. «Professor Noronha» esordì con il suo altisonante inglese gutturale che rimbombò nella stanza, in forte contrasto con le mansuete parole di Hurewitz «ho letto con molta attenzione le fotocopie che mi ha dato e ho notato dei dettagli molto interessanti». Afferrò un foglio e lo mostrò a Tomás. «Che cos'è questo?». Il portoghese smise di scrivere, si curvò sul tavolo e studiò la fotocopia. «Questa... questa è una pagina della Historia rerum ubique gestarum, di papa Pio II, uno dei libri che appartennero a Cristoforo Colombo e che attualmente è conservato nella Biblioteca Colombina di Siviglia». Solomon indicò una nota scarabocchiata a margine. «E questa chi l'ha scritta?». «Colombo stesso». «Molto bene!» esclamò il rabbino. «Aveva già fatto caso che convertì la data cristiana 1481 nell'anno giudaico 5241?». Fece un movimento con la testa. «Mi dica, professor Noronha, è abitudine dei cristiani mettersi a cambiare le date cristiane in quelle giudaiche?». «No». «E questo ci porta a una seconda domanda. Quanti cattolici sono in grado di fare una conversione simile?». Tomás rise. «Che io sappia, nessuno. E tanto meno i tessitori di seta». «Come?». «Niente» disse mentre scriveva velocemente sul bloc-notes. «Lasci perdere». Solomon gli mostrò un'altra annotazione a margine nella Historia rerum
ubique gestarum. «Ora osservi questo dettaglio. Riferendosi alla caduta del secondo Tempio di Salomone, Colombo parla della "destrucción de la segunda Casa" e, attraverso un'allusione implicita, stabilisce che l'avvenimento si verificò nel 68 dopo Cristo». Il rabbino guardò Tomás negli occhi e questi, senza capire dove volesse arrivare il suo interlocutore, scrollò le spalle. «E allora?». «Quest'annotazione è emblematica» sentenziò Solomon. «Innanzitutto, c'è solo un popolo che si riferisce al Tempio di Salomone come a una Casa. E sa qual è questo popolo?». «Quello ebraico?». «Esatto. In secondo luogo, in quel tempo i cristiani si riferivano sempre alla distruzione di Gerusalemme, mai a quella del Tempio e tanto meno a quella della Casa, cosa che solo gli ebrei facevano. Esiste, inoltre, una discrepanza storica circa l'anno della distruzione del Tempio. Gli ebrei sostengono che si verificò nel 68, ma i cristiani la fanno risalire al 70, in apparenza con più precisione». Inarcò le sopracciglia. «Adesso mi dica, professore: che identità dimostra di avere Colombo riferendosi al Tempio come Casa, parlando della distruzione della Casa invece che della distruzione di Gerusalemme e scegliendo il 68 come anno in cui avvenne l'episodio?». Tomás sorrise. «In effetti...». L'anziano prese dal gruppo un secondo foglio. «E anche in quest'altra fotocopia c'è una strana nota a margine». Il portoghese osservò il foglio. «Anche questa è stata scritta da Colombo di suo pugno» confermò Tomás. «Che significa?». «Gog Magog». «Eh?». «Gog Magog. O, più correttamente, Gog uMagog». «Non capisco». Solomon guardò di sfuggita gli altri due ebrei. Chaim e Hurewitz osservavano il foglio con ammirazione, come se quella fosse stata una reliquia, una cosa che suscitava meraviglia. «Principe degli ebrei» disse il rabbino, rivolgendosi a Chaim «tu che sei un sefardita di origine portoghese, spiega al nostro amico di Lisbona che significa Gog uMagog».
«Gog uMagog è un riferimento alla profezia di Ezechiele su Gog, nella terra di Magog» specificò Chaim, rompendo un silenzio che durava dall'inizio delle riunione. «Secondo il profeta, nel periodo antecedente alla venuta del Messia, ci sarà una grande guerra di Gog e Magog contro Israele, che provocherà una grande distruzione». Fissò Tomás. «Il fatto curioso è che, durante l'espulsione degli ebrei dalla Penisola Iberica, i sefarditi videro in quell'atto il segno che la profezia stava per compiersi. I due Re Cattolici assunsero il ruolo di Gog e Magog e gli ebrei quello di Israele». Solomon sventolò la fotocopia. «La mia domanda, professor Noronha, è come diavolo è venuto in mente a un cattolico come Colombo di invocare in questa nota a margine, e per di più nel periodo di persecuzione degli ebrei, i nomi di Gog uMagog?». Tomás scribacchiava con grande velocità sul suo bloc-notes, cosa che indusse Solomon a fare una pausa. Mentre aspettava, si mise a cercare un'altra fotocopia. Finalmente il portoghese smise di annotare i suoi appunti e guardò verso il rabbino. «E che altro?». «Ho studiato le lettere che Cristoforo Colombo inviò al figlio Diogo e ho scoperto un dettaglio molto interessante». Mostrò il foglio, indicando quanto era scritto in cima alla pagina.
«Muy caro fijo?» rise Tomás. «Questo è un portoghesismo. Gli spagnoli dicono hijo e i portoghesi filho. Colombo scriveva in castigliano ma inseriva spesso portoghesismi di questo tipo. Invece di utilizzare hijo, scrive fijo». Scrollò le spalle. «È quello che viene chiamato portuñol». «Professor Noronha!» borbottò Solomon. «Per me, l'importante non è tanto l'espressione Muy caro fijo, che non mi dice nulla. Il dato sorprendente è il segno che sta in alto». «Segno?» si stupì Tomás. «Quale segno?». «Questo qui» indicò, puntando il dito sullo scarabocchio sopra quelle parole. «Che cos'è?». «È un monogramma ebraico».
«Un monogramma ebraico?». «Sì, nonostante sia disegnato in un modo strano, questo è un segno che unisce due lettere ebraiche, la hei e la beth. Siccome l'ebraico si legge da destra verso sinistra, si deve pronunciare beth hei. Ora, il beth hei è un riferimento tradizionale ebraico, corrispondente al saluto Baruch haschem, che significa Sia lodato il Signore, ed è collocato sulla prima parola del testo, com'era abitudine tra gli ebrei ortodossi. Nel caso dei sefarditi convertiti con la forza al cristianesimo, costituiva un appello segreto, nel senso di un invito a non dimenticare le proprie origini. Ed è interessante che io abbia trovato questo monogramma solo nelle fotocopie delle lettere di Cristoforo Colombo a Diogo. In nessun'altra lettera Colombo ha inserito il beth hei. Solo in quelle indirizzate al figlio. Vale a dire che Colombo, ricorrendo al monogramma ebraico, stava chiedendo a Diogo di non dimenticare le proprie origini». Piegò la testa. «Non è difficile immaginare quali siano queste origini, vero?». Tomás scriveva sul bloc-notes con intensità. «E che altro?» chiese, dopo aver finito di annotare i suoi appunti. «Arriviamo finalmente al dettaglio che ha suscitato la sua curiosità» annunciò. «La firma di Colombo». «Ah, sì!» esclamò il professore. «Finalmente. Che può dirmi su questa firma?». «Per prima cosa sì, è cabalistica». Il viso di Tomás mostrò un sorriso soddisfatto. «Lo sapevo». «Ma è importante, professor Noronha, che lei si renda conto che la Cabala è un sistema aperto all'interpretazione. Le cifre e i codici tradizionali, quando vengono decifrati, svelano un testo preciso. La Cabala, al contrario, non segue lo stesso principio; rimanda piuttosto a doppi sensi, a significati subliminali e sottilmente nascosti». Prese la fotocopia con la firma di Cristoforo Colombo e la mise sul tavolo, davanti agli occhi di tutti.
Tomás indicò le lettere. «Che ruolo hanno queste iniziali?». «Come un perfetto messaggio cabalistico, questa firma presenta diverse letture» spiegò Solomon. «In particolare, Colombo sembra aver riunito nello stesso spazio testi differenti, fondendo la tradizione ebraica alle innovazioni introdotte dai Templari cristiani». Il portoghese lo guardò con stupore. «I Templari?». «Sì. Pochi lo sanno, ma numerosi sono i mistici, i maghi e i filosofi cristiani che si sono dedicati allo studio della Cabala. Fra questi troviamo l'Ordine del Tempio, che sviluppò qui a Gerusalemme alcune teorie cabalistiche successivamente inglobate nelle correnti tradizionali ebraiche. Colombo aveva, a quanto pare, familiarità con queste innovazioni». Indicò le s della parte superiore. «La lettura cristiana, o templare, deve esser fatta in latino. Queste s, disposte a triangolo, rappresentano il Trisagio, cioè il tre volte santo. Sanctus, Sanctus, Sanctus. La A sta per Altissimus e rende possibile la lettura ascendente a partire dalla terza riga, quella che inizia dalla materia, per arrivare poi allo spirito. Allo stesso modo, la x, la m e la y devono essere lette andando verso l'alto. La x si unisce alla s, la m si lega alla a e alla s in posizione superiore, la y alla s di destra. Quindi, XS sta per Xhristus, MAS è Messias e YS sta per Yesus. Partendo da queste considerazioni, l'interpretazione templare, in latino, è Sanctus, Sanctus, Altissimus Sanctus. Xhristus Messias Yesus. È inequivocabilmente una firma cristiana, su questo non c'è dubbio». «Cristiana?» si meravigliò il portoghese. «Ma Colombo non era ebreo?». «Ora ci arriviamo» spiegò Solomon, facendo cenno a Tomás di aver pazienza. «Se ricorda, poco fa le ho detto che la Cabala considera le Sacre Scritture come un complesso insieme olografico, nel quale s'intrecciano si-
gnificati diversi. È esattamente questo che accade con la firma di Colombo. La questione è che, sotto la firma templare, in latino, si nasconde un subliminale messaggio cabalistico giudaico, concepito in ebraico. Uno dei più importanti cabalisti di sempre, il rabbino Elazar, una volta ha osservato che esistono due mondi, uno occulto e l'altro rivelato, ma che entrambi ne formano, in realtà, uno solo». Picchiettò l'indice sulla fotocopia. «È il caso di questa firma, che ha un significato rivelato, quello cristiano, e uno occulto, quello ebraico. L'interpretazione cabalistica parte proprio dalla constatazione che le iniziali della firma hanno una corrispondenza con parole ebraiche. Se consideriamo che la lettera a corrisponde all'alef ebraico di Adonai, uno dei nomi di Dio, e la s è lo shin di Shaday, altro nome di Dio, o Signore, otteniamo Shaday. Shaday Adonay Shaday. Che si traduce con: Signore. Signore Dio Signore. Cosa succede se prendo l'ultima riga, XMY, e la leggo da destra verso sinistra, come è giusto che sia in ebraico? Avrei YMX. La Y di Yehovah, m di maleh e x di xessed. Yehovah maleh xessed. Ossia, Dio pieno di misericordia. Questo significa che, dietro a una preghiera cristiana in latino, si cela una preghiera giudaica in ebraico. I due mondi, l'occulto e il rivelato, ne formano uno solo». «Ingegnoso». «Non immagina quanto, professor Noronha» osservò Solomon. «Non immagina quanto. Infatti tutto si complica se leggo XMY da sinistra a destra, tenendo presente che la y corrisponde alla lettera ebraica ain. Così si ottiene shema, cioè ascolta, la prima parola del versetto quattro del sesto capitolo del Deuteronomio, che recita: "Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo". Fra gli ebrei questa preghiera è conosciuta come shema e viene recitata ogni mattina e ogni pomeriggio durante le preghiere dello shacharit e dell'arvit, prima di dormire e in punto di morte. Lo shema è l'orazione che celebra il monoteismo, l'esistenza di un unico dio, e si suppone che il verso citato fosse scritto sullo stendardo di battaglia delle dieci tribù disperse. Nel ripeterla, ogni ebreo riconosce la supremazia del Regno dei Cieli e dei Comandamenti. Ed è proprio questa la parola ebraica collocata da Colombo nella sua firma». Alzò un dito. «Ma faccia ancora attenzione a quest'altro doppio senso. Se la y corrisponde allo yod ebraico, allora XMY si legge xmi, o shmi, che significa "il mio nome". Presumibilmente il nome dell'autore della firma, Colombo». L'anziano cabalista si piegò sul foglio, come se stesse per fargli una grande rivelazione. «Stia attento, professor Noronha, perché quello che sto per dirle è molto importante. Ora leggiamo XMY da destra a sinistra, alla maniera ebraica.
Come già abbiamo visto, si ottiene YMX. Partendo sempre dal presupposto che y corrisponde a yod, ne deriva una nuova parola. Ymx. Ymach. Combinandola con la lettura da sinistra a destra, il risultato è ymach shmo. Sa cosa significa?». «Lo ignoro». «Significa "che il mio nome sia cancellato"». Tomás rimase a bocca aperta per lo stupore. «Come?». «Che il mio nome sia cancellato». «O mio Dio!» esclamò, con lo sguardo fisso, mentre nella mente si ricomponeva tutto il puzzle. «Colom, nomina sunt odiosa». «Scusi?». «Nomina sunt odiosa. Fare nomi è inopportuno. È una citazione di Cicerone. Adattata a questa situazione, significa che il nome dello scopritore dell'America è inopportuno. Ora, basandomi su quanto lei mi sta dicendo sull'interpretazione cabalistica di questa firma, mi sembra chiaro che non sono stati solo i contemporanei dell'Ammiraglio a voler generare confusione sulla sua identità, ma anche lo stesso Colombo, per qualche motivo, ha voluto cancellare il proprio nome originale». Si grattò il mento, pensieroso. «Ora capisco. Colom non era il suo vero nome, ma solo un finto cognome, un... ehm... un travestimento. Quello originale è stato cancellato da lui stesso». «Perché?». «Non lo so. Ma, evidentemente, l'ha fatto. Nomina sunt odiosa. Fare nomi è inopportuno». «Ymach shmi. Che il mio nome sia cancellato. Ha un senso». «Il suo vero nome era inopportuno e quindi è stato costretto a cancellarlo» ricapitolò Tomás, sintetizzando l'espressione latina e quella ebraica. «Ma quale potrebbe essere il vero cognome?». «Questo non so dirglielo» disse il rabbino. «Ma posso fornirle un'altra pista. Colombo ha cancellato il suo cognome, ma non si è limitato a questo. Ha rinnegato anche il proprio nome». «Quale dei due? Cristovão o Cristoforo?». «Entrambi». «In che senso?». Solomon Ben-Porat prese la fotocopia con la firma di Colombo e indicò il triangolo formato dalle tre s. «Vede questi puntini fra le lettere?».
«Sì». «Non sono stati messi qui per caso» spiegò il cabalista. «In ebraico, i punti vicino alle lettere possono significare diverse cose. Possono indicare che quella lettera è un'iniziale, come la sbin di Shaday e la alefe di Adonai, oppure che quella lettera vuole una vocale. Ma nelle lingue antiche i puntini servono anche a mostrare la direzione e, ancora più importante, possono suggerire la lettura dall'alto verso il basso. La Cabala stabilisce che ogni cosa nell'universo è unita da un laccio magico e che le cose più piccole portano il sigillo di quelle più grandi. Il rabbino Shimon Bar lochay, grande cabalista, afferma che il mondo inferiore è stato fatto a immagine del mondo superiore, che il primo non è altro che il riflesso del secondo. Il rabbino Yossef, altro grande cabalista, ha scritto: "Affinché si producano le azioni in alto, è necessario cominciare da un movimento qui in basso". Il Libro dei Misteri Cabalistici stabilisce che il mondo in cui abitiamo è invertito rispetto al mondo verso cui aspira l'anima. E la massima incisa sulla tavola di smeraldo di Ermes recita: "Ciò che è in alto è uguale a ciò che è in basso". Di fatto, le parole riflesso, invertito, in alto e in basso ci rimandano alla nozione di specchio, molto cara alla Cabala. Siccome i puntini indicano che si deve leggere dall'alto in basso, ho provato a invertire le lettere della firma, vedendole come se fossero riflesse a uno specchio». Prese un foglio scritto a mano e lo mostrò a Tomás. «Il risultato è stato sorprendente».
Il portoghese guardò i segni che si trovavano nella parte inferiore, quella riflessa. «Che cos'è?» domandò. «L'Albero della Vita senza Testa». «Questo rappresenta l'Albero della Vita?».
«Sì. Guardi». Aprì un libro e mostrò una figura composta da cerchi. «Ecco l'Albero della Vita».
«Ci sono dieci cerchi» notò Tomás. «Sì, sono le dieci sephirot. La rappresentazione tradizionale dell'Albero della Vita, come può vedere, è formata da dieci sephirot. Questo è il principale Albero della Vita. Ma il secondo, in ordine di importanza, è quello delle sette sephirot. In questo caso, eliminando la parte superiore della firma, otteniamo un Albero della Vita senza Testa, conosciuto anche come l'Uomo Seduto». Eliminò le tre sephirot in alto, keter, hokmáh e bináh, e mostrò l'Albero della Vita senza Testa, accostandolo alla parte riflessa della firma di Colombo.
«Oh!» esclamò il portoghese, confrontando le due strutture, imbambolato. «Sono... sono simili!». «Sì» confermò il cabalista. «La firma cabalistica di Cristoforo Colombo riproduce l'Albero della Vita senza Testa. Ogni lettera della firma è una sephirah. Pertanto, le sette lettere corrispondono a sette sephirot». «Ma il fatto che ci sia una riduzione da dieci a sette sephirot non significa che l'Albero della Vita è incompleto?». «No. Esistono persino Alberi della Vita con cinque e quattro sephirot. Ma quello con sette è particolarmente significativo, tanto da essere il più importante dopo l'Albero della Vita a dieci sephirot. Il sette è un numero cabalistico molto importante, rappresenta la natura al suo stato originale e inviolato. Dio impiegò sei giorni a creare l'universo e il settimo si riposò». Indicò il riflesso della firma del navigatore. «Guardando l'immagine allo specchio, ci si rende conto che questo è il modo scelto da Colombo per rivelare la sua vera identità. La linea in alto, come vede, è occupata da XWλ. Ora, la X rimanda alla chet di Hésed, la sephirah che significa braccio destro e simboleggia la bontà. La λ si riferisce alla guímel, la prima lettera della sephirah Gevuráh, o braccio sinistro, e rappresenta la forza. Al centro si trova la W, che l'alfabeto ebraico identifica con tete, la prima lettera della sephirah tiféret, la bellezza, che rappresenta la sintesi di bontà e forza. Colombo ha tolto la testa dell'Albero della Vita e lo ha strutturato a partire dagli arti superiori e inferiori. L'intenzione cabalistica è inequivocabile». Solomon indicò di nuovo la prima riga della firma, XWλ. «Ora guardi bene questo, professor Noronha. Leggendo da destra a sinistra, come è corretto fare in ebraico, esce fuori λWX. Si legge Yeshu». Fissò Tomás e spalancò gli occhi. «Ah, questa è una cosa terribile!». «Terribile?» chiese il portoghese. «In che senso? Che significa?». «Per poterle tradurre la parola Yeshu, prima devo farle una domanda, se
non le dispiace». «Prego». «Cosa sa sul modo in cui gli ebrei vedono Gesù, il Nazareno?». «Beh... ehm... non molto, credo». Sorrise. «In verità non ne so nulla». «Allora mi permetta di darle delucidazioni in merito» disse Solomon. «Gli ebrei hanno una visione di Gesù molto differente rispetto ai cristiani». Fece un gesto con le mani, come se volesse enfatizzare il concetto. «Molto. Le leggende ebraiche lo rappresentano come un mamzer, un bambino nato dalla relazione adultera tra un'ebrea e un legionario romano. Il Nazareno fu scomunicato da un rabbino in seguito a un malinteso e decise di dedicarsi al culto degli idoli, allontanandosi dalla vera fede. Studiò magia in Egitto, ma finì per essere sconfitto dai rabbini. Fu condannato a morte come stregone e appeso a un carrubo. La sua deificazione da parte dei cristiani è considerata idolatria dagli ebrei». «È questo il modo in cui gli ebrei raccontano la vita di Gesù?». «Sì, questo è quanto narra la tradizione ebraica». «Caspita!» esclamò il portoghese. «Le ho raccontato questa storia per farle capire quanto negativamente gli ebrei considerino il Nazareno» spiegò il cabalista. «E questo ci riporta alla lettura della riga λWX, che si ottiene dal riflesso della firma di Colombo. In ebraico, il nome Gesù si pronuncia Yeshua. Ma siccome agli ebrei questo nome non piaceva, decisero di eliminare l'alefe finale, in modo che restasse Yeshu. Ed è questa la corretta pronuncia delle lettere λWX. Yeshu. Ma Yeshu non è un nome innocuo. Si tratta di una forma dispregiativa e offensiva per nominare Yeshua, Gesù. Yeshu è un'abbreviazione molto utilizzata dagli ebrei. Significa ymach shmo vezichro. Cioè: che sia cancellato il suo nome e la sua memoria». «Accidenti!» commentò Tomás «Questa sì che è buona!». «Professor Noronha» disse Solomon «quello che sto cercando di dirle è che il cristiano e cattolico Cristoforo Colombo ha inserito nella sua firma cabalistica il nome ebraico Yeshu, manifestando così la volontà di cancellare il nome e la memoria di Gesù». Il portoghese rimase in silenzio per un istante, attonito. «Ma... perché?» balbettò alla fine. «Com'è possibile che Colombo abbia fatto questo?». «Non si dimentichi che è vissuto nella Penisola Iberica alla fine del XV secolo. Se era ebreo, come tutto sembra far credere, la vita in quel tempo e in quella zona d'Europa non deve essere stata facile. Qualsiasi ebreo sefar-
dita aveva molte ragioni per odiare i cristiani, in generale, e Gesù, in particolare. E lui non faceva eccezione. Cosa che ci riporta al nome proprio di Colombo». Prese il foglio con la firma dell'Ammiraglio. «Alla base della firma cabalistica c'è il suo nome, Xpoferens. Mi sa dire il significato di questo nome?». «Xpoferens? Xpo in greco significa Cristo, mentre ferens è una voce del verbo latino fero, che significa portare. Xpoferens corrisponde a Cristoferens. Colui che porta Cristo. Cristo sta alla radice del nome Cristovão e Cristoforo». «Un nome che nessun ebreo userebbe mai» tagliò corto il rabbino. «Cristo. Nessuno in Israele chiamerebbe il proprio figlio Cristo. Com'è possibile che Colombo, essendo ebreo, abbia usato il nome cristiano di Cristoforo e si firmasse Cristoferens?». Alzò l'indice destro. «Solo una tipologia di ebreo sarebbe stata capace di farlo». «Quale?». «Un ebreo disperato perché costretto a fingere di essere cristiano. Un uomo che volesse mostrare di essere un cristiano, ma che continuasse a professare la fede ebraica in segreto. Una persona simile avrebbe potuto assumere il nome di Cristo ma, per sentirsi in pace con Dio, avrebbe dovuto includere nella sua firma cabalistica un inequivocabile rifiuto del nome di Gesù, cancellandolo insieme alla sua memoria. Yeshu. Con questo, professor Noronha, voglio dire che l'espressione ymach shmi, o che il mio nome sia cancellato, traduce tanto un rifiuto del cognome Colombo quanto del nome Cristoforo. Lo scopritore dell'America si è presentato al mondo come Cristoforo Colombo» indicò Chaim, dal lato opposto del tavolo «tuttavia, così come la famiglia sefardita di Chaim non si chiamava Mendes, ma Nasi, allo stesso modo quella di Cristoforo non si chiamava Colombo, aveva avuto in passato un altro cognome, che ha taciuto e non ha rivelato». Sbatté con la mano sulla fotocopia della firma. «Sulla base di quanto abbiamo visto qui, posso dirle che l'uomo che oggi conosciamo come Colombo era, con molta probabilità, un ebreo sefardita e possedeva originariamente un nome che è rimasto nascosto. Ha occultato la sua vera religione sotto una maschera cristiana, ma non è diventato un cristão-novo. Era un marrano». Solomon Ben-Porat, considerato il maggior cabalista di Gerusalemme, appoggiò i gomiti sul tavolo di quercia e smise di parlare. Aveva terminato la sua esposizione. Un silenzio pesante scese nella stanza, appena interrotto dal rumore della penna di Tomás che disegnava frenetici scarabocchi sul
bloc-notes, annotando lo straordinario discorso dell'anziano rabbino. Il professore prendeva appunti con tratti veloci, frettolosi, apparentemente incomprensibili, finché concluse con l'ultima parola pronunciata da Solomon. Marrano. Stava per chiudere il bloc-notes, ma qualcosa lo fermò. Quel marrano attirava il suo sguardo, come un'irresistibile calamita. Uno scoglio scomodo, fastidioso, un'inquietante macchia di vernice che si era fatta largo nel fluire della scrittura. Restò a guardare quella parola, pensieroso. Infine, sollevò la testa e guardò il cabalista. «Che intende dire con marrano?» chiese. «Marrano?» si meravigliò Solomon. «Dovrebbe saperlo. Che significa questa parola in portoghese?». «Credo sia una forma arcaica per dire maiale». «Esatto. E marrano è anche il nome dato in Portogallo e in Spagna ai cristãos-novos che continuavano a essere ebrei in segreto. Li chiamavano marrani perché, come tutti i bravi ebrei, si rifiutavano di mangiare carne di maiale in quanto lo consideravano un animale impuro, non kasher, il cui consumo era proibito dalle leggi alimentari». «Hmm...» mormorò Tomás, immerso nei suoi pensieri «marrano era un ebreo che fingeva di essere cristiano?». «Sì». «E Colombo era un marrano?». «Senza alcun dubbio». «È possibile che fosse un marrano genovese?». Il rabbino sorrise. «L'espressione marrano si riferisce a un ebreo della Penisola Iberica» spiegò. «Essendo ebreo, in alcun modo Colombo poteva essere genovese...». «No? E perché?». «Perché dall'inizio del XII secolo agli ebrei era proibito restare a Genova per più di tre giorni. Nel XV secolo, al tempo di Colombo, questo divieto era ancora in vigore. Pertanto, se fosse stato genovese, non avrebbe potuto essere ebreo. Se fosse stato ebreo, non avrebbe potuto essere genovese». «Capisco». «Inoltre c'è una cosa molto interessante che lei deve sapere. Esiste una curiosa tradizione ebraica secondo la quale, nei secoli XV e XVI, la parola genovese era un eufemismo per ebreo».
«Lei sta scherzando...». «No, assolutamente. Sa, era comune a quel tempo, quando qualcuno intendeva dire quell'uomo è ebreo, utilizzare l'espressione quell'uomo è di origini straniere. Origini ebraiche, sia ben chiaro. Ma, a quanto pare, in quell'epoca di persecuzioni antisemite molti ebrei, se interrogati da cristiani, dicevano anche di essere genovesi. È per questo che a volte si affermava che una certa persona era di origini genovesi per indicare in modo discreto e ironico che quella era una persona ebrea. Capisce?». «Ma ha delle prove?». «Questa è una nozione che proviene dalla tradizione orale ebraica, non ci sono documenti che la attestino. Ma esiste una conferma implicita in una lettera inviata nel 1512 da padre António de Aspa, dell'Ordine dei Geronimiti, al grande inquisitore di Castiglia. In questa lettera, Aspra scrive che, nel primo viaggio verso il Nuovo Mondo, Colombo portò a bordo "quaranta genovesi". Ora, oggi sappiamo che quasi tutto l'equipaggio della prima spedizione era castigliano, nonostante ci fosse una decina di uomini che dovevano essere di origine ebraica, probabilmente marrani. In altri termini, António de Aspa stava di fatto informando l'Inquisizione che a bordo c'erano quaranta ebrei. Ma, conformemente a quanto facevano in molti all'epoca, non li chiamò ebrei. Per ironizzare, o per reticenza, li chiamò genovesi». «Hmm» mormorò di nuovo lo storico, perso in un mondo tutto suo, ripensando a quella domanda mille volte formulata alla quale non aveva mai risposto. «Quale l'Eco di Foucault pendente a 545?». «Come?». Tomás s'agitò, diventando subito rosso. «È una domanda che mi hanno fatto. "Quale l'Eco di Foucault pendente a 545?"». Incapace di mantenere la calma, si alzò dal tavolo, profondamente agitato. «Basandomi su un'affermazione di Umberto Eco, pensavo che la soluzione del quesito potesse essere judeu português o cristão-novo. Ma, evidentemente, mi sbagliavo. La risposta corretta è un'altra. E sa quale?». Il rabbino scrollò la testa. «Non ne ho la minima idea». Tomás sorrise. «Marrano». XV
Le dita afferrarono la manovella della cassaforte e la fecero muovere lentamente; la scatola metallica rispondeva con un tic-tic tranquillo man mano che i numeri della combinazione ruotavano e la serratura girava con precisione meccanica in senso orario, come se fosse una macchina ben congegnata. Madalena Toscano sbirciava dalle spalle di Tomás, seguendo l'operazione con gli occhi spalancati e impazienti. «Ascolti» sussurrò. «È sicuro che questa sia la combinazione?». Il professore consultò il foglio sul quale aveva annotato la soluzione. M A R R A N O 12 1 17 17 1 13 14 «Ora lo scopriremo» mormorò. I numeri vennero inseriti nella cassaforte, uno a uno. Il dodici, l'uno, il diciassette, di nuovo il diciassette. Tic-tic-tic-tic. Soltanto il respiro del professore e della vedova, che nel silenzio si faceva sentire affannato e profondo, rispondevano al freddo suono metallico, così preciso e sereno, tanto minuscolo eppure snervante. Sembrava il suono di una gelosa scatola metallica, ansiosa di custodire il proprio segreto con attento zelo; era il rumore meditabondo di una macchina sospettosa, possessiva, messa di fronte a una sfida che la obbligava a considerare l'ipotesi più temuta, quella di schiudersi come un fiore e liberare, contrariata, il profumo del suo mistero. Temevano che la cassaforte preferisse tener nascosto il suo tesoro, chiuso nel silenzio, e quel muto duello tra l'uomo e il forziere, tra la combinazione e il segreto, tra la luce e le tenebre, alimentava la tensione nella penombra di quella stanza maleodorante. Tomás arrivò alla parte conclusiva della sequenza, aspettò un momento, desideroso di capire se era riuscito a indovinare la chiave, respirò a fondo e selezionò gli ultimi numeri. Uno, tredici, quattordici. Tic-tic-tic. Chi avrebbe ceduto? L'uomo o la cassaforte? Un clic finale fu la risposta. Come se si trovasse all'ingresso della caverna dei quaranta ladroni e avesse pronunciato il miracoloso "apriti sesamo", la cassaforte si aprì grazie alla sequenza magica. «Oh!» esclamò Tomás, chiudendo il pugno in segno di vittoria. «Ci siamo riusciti!». «Grazie a Dio!». Si curvarono sulla cassaforte finalmente sconfitta e tentarono di scorger-
ne il contenuto. All'inizio, tuttavia, intravidero soltanto un'ombra opaca, un'oscurità spessa e impenetrabile; era come se la scatola di metallo ancora resistesse, riluttante, e continuasse a proteggere l'enigma fino all'ultimo respiro, celandolo sotto un manto di fitta nebbia. Era simile a un moribondo ostinatamente aggrappato alla vita, sperando contro ogni speranza, occultando nell'angolo oscuro delle proprie viscere l'arcano tesoro che così a lungo aveva difeso dal mondo, perso nel tempo, esiliato dalla memoria. Ma gli occhi degli intrusi si abituarono presto a quel buio denso; l'oscurità si fece sempre più tenue finché entrambi riuscirono a scorgere all'interno alcuni fogli. Il professore immerse la mano nella bocca spalancata della cassaforte e timidamente, quasi intimorito, come un esploratore davanti a una foresta sconosciuta, toccò la superficie liscia e fresca dei documenti lì conservati. Prese con delicatezza quei fogli che era certo nascondessero un antico mistero e li tirò fuori lentamente, quasi fossero una reliquia dimenticata, petali delicati, fragile conchiglia sbattuta dalla furia del tempo, e li riportò di nuovo alla luce. In tutto tre fogli. I primi due erano delle fotocopie, che esaminò con attenzione. A prima vista gli sembrarono copie di pagine di qualche documento del Cinquecento. Iniziò a scorrerle, come chi tenti di captare solo l'immagine globale di qualcosa che non comprende. Poi le rilesse più scrupolosamente, ricorrendo alla sua vasta esperienza di paleografo, a partire dall'ornée collocata nella parte inferiore della prima fotocopia, e cercò di decifrare quello che sembrava un testo incomprensibile.
«"Nell'anno seguente, m..."» per un attimo esitò, non riuscendo a capire la data, poi riprese la lettura «"e tre trovandosi il Re nella località Vall de parayso che si trova oltre il monastero di Santa Maria delle Virtù, a causa della grande peste che era ne' principali luoghi di quella regione, il 6 di Marzo attraccò a Restelo, a Lisbona, Xpova Colo nbo y taliano, che ritornava dalla scoperta delle isole di Cipango e d'Antilia che per ordine de' Re di Castiglia havea realizzato..."». «Che cos'è?» domandò Madalena. Il professore fissava i due fogli con espressione incuriosita. «Questa... ehm...» balbettò «questa mi sembra la Crónica de D. João II di Ruy de Pina». Per un attimo rimase in silenzio; ma velocemente si convinse che la sua valutazione era corretta e si sentì sempre più fiducioso. «A quanto pare, questo è un brano in cui il cronista portoghese inizia a raccontare l'incontro di Cristoforo Colombo con il re Don João II, in occasione del ritorno dell'Ammiraglio dal primo viaggio, quello in cui scoprì l'America». «Ed è importante?». «Beh... ehm... è importante, senza dubbio. Ma inaspettato». Guardò la vedova con un'espressione sconcertata. «Da un lato, questo testo non svela alcun segreto, visto che l'opera è conosciuta già da molto tempo. Dall'altro, però, il documento contraddice la tesi difesa da suo marito». Indicò la terza e la quarta riga della seconda pagina. «Vede qui? Dice "Xpova colo nbo y taliano". Invece suo marito sosteneva esattamente il contrario, cioè che Colombo non fosse italiano». «Ma Martinho mi disse che conservava qui in cassaforte la grande prova...». «La grande prova? La grande prova di che? Del fatto che Colombo fosse italiano?». Scrollò la testa, in un gesto di perplessità. «Non capisco, non ha senso». Madalena Toscano prese i due fogli e li studiò con attenzione. «E questa, cos'è?» domandò, segnalando un'annotazione a matita sul retro del primo foglio. Il professore la lesse.
«Strano» mormorò. «Che cos'è?».
Tomás alzò le spalle, non sapendo cosa pensare. «Non lo so, non ne ho idea». Accennò una smorfia con la bocca. «Codex 632?». Si grattò il mento. «Deve essere la segnatura del documento». «La segnatura?». «È il numero di riferimento di un documento in una biblioteca. Gli archivisti identificano i vari testi conservati nelle biblioteche con una segnatura. Attraverso la segnatura è più facile individuarli negli...». «So perfettamente cos'è una segnatura» lo interruppe Madalena. Tomás la guardò, imbarazzato. L'aspetto trascurato e stanco di Madalena Toscano la faceva sembrare una donna umile, ma in realtà quel viso invecchiato e quel corpo rugoso nascondevano una signora colta, in passato frequentatrice degli ambienti accademici e abituata a vivere fra i libri. Tomás pensò che quella casa aveva un'aria sporca e disordinata non solo a causa della morte del marito, ma per il fatto che lei, in realtà, non era una donna abituata a dedicarsi ai lavori domestici. «Scusi» mormorò l'ospite. «Sa, penso che suo marito abbia preso nota di questa segnatura per eventuali ricerche bibliografiche». Madalena Toscano riprese ad analizzare la segnatura. «Ma non si dice codice?». «Sì» sorrise Tomás. «Codex o codice, è la stessa cosa. Praticamente non è altro che un manoscritto composto da fogli di papiro, pergamena o carta, rilegati dallo stesso lato, come se fosse un libro». «Crede che questo sia di carta?». «Forse» valutò il professore. «Tuttavia, essendo un manoscritto del XVI secolo, direi che probabilmente è di pergamena. Ma può essere anche di carta, è possibile». Madalena prese il terzo foglio custodito all'interno della cassaforte. «Ha già visto questo?». Era un foglio A4 bianco, con un nome e un numero scarabocchiati in basso. Tomás inarcò le sopracciglia quando vide quel nome. «Conte João Nuno Vilarigues» lesse lo storico. «Lo conosce?». «Non ne ho mai sentito parlare». Tomás diede un'occhiata veloce ai numeri che si trovavano sotto a quel nome. «Sembrerebbe un numero di telefono». La vedova si piegò sul foglio. «Mi faccia vedere» disse. Rifletté per un istante. «È strano, mi pare di riconoscere questo prefisso. Negli ultimi tempi Martinho lo utilizzava mol-
to». «E il numero di telefono?». «Non lo so, forse. Ma il prefisso era questo». «E a che città corrisponde?». Madalena si alzò senza dire nulla, uscì dalla stanza e ritornò poco dopo con un voluminoso libro sotto il braccio. Tomás riconobbe l'elenco telefonico. La vedova consultò le prime pagine, cercando i prefissi nazionali. Il dito scivolò lungo la lista dei numeri finché non si fermò su uno in particolare. «Eccolo!» esclamò. L'indice percorse la riga fino ad arrivare alla località che aveva quel prefisso. «Tomar». Il continuo tubare dei colombi riempiva Piazza della Repubblica di un gorgoglio musicale; paffuti e ben nutriti, beccavano sul selciato e svolazzavano saltellando da un lato all'altro, affollando i tetti, posandosi sulle piccole sporgenze delle facciate o sulla statua di Don Gualdim Pais, l'enorme figura di bronzo innalzata nel punto centrale della piazza. Alcuni di quegli uccelli passavano vicino ai piedi di Tomás, indifferenti a quell'uomo seduto sulla panchina di legno, preoccupati solamente di cercare altre saporite briciole sul lastricato nero e bianco della pavimentazione, più simili a grigie pedine a passeggio in una gigantesca scacchiera. Il visitatore si guardò intorno, apprezzando l'elegante edificio del Palazzo Municipale di Tomar e tutto lo spiazzo centrale fino a soffermarsi sull'originale chiesa gotica sulla destra. Era la Chiesa di San Giovanni Battista. La bianca facciata di calce rovinata ostentava un elegante portale manuelino, molto lavorato, rifinito da una cuspide ottagonale. Sulla chiesa dominava la vicina torre campanaria giallo ocra, un imponente campanile marrone scuro che esibiva con orgoglio un trio simbolico, sotto alle campane: si riconoscevano lo stemma reale, la sfera armillare e la croce dell'Ordine di Cristo. Si avvicinò un uomo vestito di grigio scuro, con gilè e cravatta cangiante, fissando il forestiero con sguardo interrogativo. «Professor Noronha?» domandò, esitante. Tomás sorrise. «Sono io» assentì. «Lei è il signor conte, presumo». «João Nuno Vilarigues» si presentò l'uomo, irrigidendosi e sbattendo i talloni uno contro l'altro, come fosse un militare. Inclinò la testa, in un saluto cerimonioso. «Al suo servizio».
Il conte era magro e di statura media, aveva un aspetto enigmatico. I capelli brizzolati erano tirati indietro. Ma ciò che più risaltava in lui erano i baffi fini, il pizzetto appuntito e, soprattutto, gli occhi neri e penetranti, quasi ipnotici. Sembrava un viaggiatore che aveva percorso le strade del tempo, un uomo del Rinascimento italiano, un Francesco Colonna che avesse abbandonato la grande Firenze dei Medici volando direttamente verso il crepuscolo del XX secolo. «La ringrazio per aver accettato di incontrarmi» disse Tomás «sebbene, devo confessarglielo, io non sappia di cosa parleremo». «Da quanto ho appreso dalla nostra breve conversazione telefonica, lei è risalito al mio numero attraverso gli appunti lasciati dal defunto professor Toscano». «Esatto». «E il numero si trovava fra i documenti inerenti a Cristóvam Coloni». «Proprio così». Il conte sospirò e rimase un istante a guardare lo storico, come angosciato da un conflitto interiore, valutando i pro e i contro e cercando di decidere cosa svelare. «Lei è a conoscenza della ricerca in cui era impegnato il professor Toscano?» domandò, con l'evidente scopo di tastare il terreno e di mettere alla prova Tomás. «Senza dubbio» confermò. Il conte rimase in silenzio, come se si aspettasse dei dettagli in più, e Tomás capì che doveva dimostrargli che effettivamente era informato sulla situazione. «Il professor Toscano credeva che Colombo non fosse genovese, ma piuttosto un marrano, un ebreo portoghese». «E per quale motivo lei vuole ricostruire questa ricerca?». Non erano domande innocenti, presentì Tomás. Era un test. Doveva procedere con cautela se voleva ottenere informazioni da quell'enigmatico personaggio; una qualsiasi risposta sbagliata avrebbe significato che quella porta si sarebbe chiusa. «Sono professore di Storia all'Università Nova di Lisbona e sono stato a casa della vedova Toscano a vedere i documenti lasciati dal professore. Credo che potrebbero rappresentare un testo di ricerca eccezionale, capace di rivoluzionare tutte le conoscenze attuali sulle Scoperte». Il conte lasciò che la pausa si prolungasse, taciturno; con gli occhi fissi su Tomás, quasi volesse scrutarne l'anima, formulò la domanda successiva. «Ha mai sentito parlare della fondazione degli americani?».
Il modo in cui la domanda era stata posta mise in allerta Tomás. Quella era, per una ragione che non riusciva a comprendere, la domanda più importante, quella che avrebbe determinato la cooperazione del conte o lo avrebbe fatto rimanere in silenzio, senza possibilità di appello. Memore della reazione della vedova al nome della fondazione che finanziava la ricerca, lo storico ritenne più opportuno che il suo legame con Moliarti restasse nell'ombra. Almeno per il momento. «Quale fondazione?» domandò. Il conte continuò a fissarlo; Tomás sostenne lo sguardo, cercando di sembrare sincero. «Non importa» finì per dire il suo interlocutore, apparentemente soddisfatto della risposta. Fece una panoramica della piazza, alzò gli occhi verso il monte e sorrise, rilassandosi. «Ha mai visitato il castello e il convento di Tornar?». Tomás lo seguì con lo sguardo e osservò le mura che si stagliavano sulla vegetazione, in cima a quell'altura che dominava la città. «Il castello e ... ehm... il convento? Sì, certo che ci sono stato, ma molto tempo fa». «Allora venga» lo invitò il conte, indicandogli di seguirlo. Attraversarono la piazza e imboccarono le pittoresche viuzze laterali coperte dal selciato, decorate con i colorati vasi fissati ai balconi. Raggiunsero una lunga Mercedes nera, parcheggiata accanto al muro bianco che proseguiva sino alla vecchia sinagoga. Il conte Vilarigues si mise al volante e, con Tomás seduto al suo fianco, partì scivolando attraverso le tranquille vie di Tornar. «Lei ha già sentito parlare dell'Ordo Militaris Christi?» domandò il conte, voltandosi di sfuggita verso il suo passeggero. «L'Ordine Militare di Cristo?». «No, l'Ordo Militaris Christi». «No, non ne ho mai sentito parlare». «Io sono il Gran Maestro dell'Ordo Militaris Christi, l'istituzione erede dell'Ordine Militare di Cristo». Tomás inarcò le sopracciglia, perplesso. «Erede dell'Ordine Militare di Cristo? Ma l'Ordine di Cristo non esiste più...». «È proprio per questo che l'Ordo Militaris Christi ne è l'erede. In verità, quando l'Ordine Militare di Cristo si sciolse, alcuni cavalieri, contrari alla decisione, stabilirono di portarlo avanti in segreto e formarono l'Ordo Mili-
taris Christi, un'organizzazione segreta, con proprie regole, la cui esistenza è conosciuta solo da pochi. Un gruppo di nobili, discendenti dagli antichi cavalieri dell'Ordine Militare di Cristo, si riunisce tutte le primavere qui a Tornar, sotto la mia guida, per rinnovare le antiche consuetudini e tenere viva la tradizione orale dei segreti mai svelati. Sa, noi siamo i guardiani degli ultimi misteri dell'Ordine di Cristo». «Ah, non sapevo...». «Che sa dell'Ordine di Cristo?». «Qualcosa, non molto. Sono un storico ma la mia area di specializzazione comprende la criptanalisi e le lingue antiche, non il Medioevo, né le Scoperte. Diciamo che sono giunto a questa ricerca... ehm... per caso... ehm... perché conoscevo il professor Toscano, non perché questo sia il mio naturale campo d'interesse». L'auto arrivò a una piccola biforcazione, abbellita al centro da una statua dell'infante Don Henrique, girò a destra e abbandonò l'arteria principale della città, tuffandosi nel verde in salita del Bosco dos Setes Montes, la strada che si snodava lungo la costa, all'ombra dei rigogliosi pioppi, in direzione delle antiche mura. «Allora mi permetta di raccontarle la storia sin dall'inizio» propose il conte Vilarigues. «Quando i Musulmani vietarono ai Cristiani l'accesso alla città santa di Gerusalemme, risuonò un grido di rivolta in tutta l'Europa e furono bandite le crociate. Gerusalemme fu conquistata nel 1099 e la cristianità s'impose in Terra Santa. Il problema fu che, con il ritorno di molto crociati in Europa, a Gerusalemme gli spostamenti dei cristiani diventarono molto pericolosi poiché non c'era nessuno che li difendesse. Fu in questo scenario che si formarono due nuovi ordini: l'Ordine degli Ospedalieri, votato ad aiutare i malati e i feriti, e una milizia costituita da appena nove cavalieri che si mise a pattugliare le vie percorse dai pellegrini. Nonostante fossero solo nove, questi uomini riuscirono, di fatto, a rendere il loro cammino più sicuro. Per ricompensarli fu donata loro, come quartier generale, la Moschea di Al Aqsa, situata sul Monte Moriah, a Gerusalemme, proprio nel luogo in cui un tempo sorgeva il leggendario Tempio di Salomone. Nacque così l'Ordine dei Cavalieri del Tempio di Salomone». Fece una pausa. «I Templari». «Una storia universalmente conosciuta». «Senza dubbio. È una storia così straordinaria che rapì l'immaginazione di tutta l'Europa. Si dice che, perlustrando i ruderi abbandonati del Tempio di Salomone, i Templari avessero scoperto reliquie preziose, segreti eterni,
oggetti divini. Il Santo Graal. In seguito a questi misteri, o semplicemente per il loro ingegno e perseveranza, i Templari crebbero e si diffusero in Europa». «E arrivarono in Portogallo». «Sì. L'Ordine fu formalmente istituito nel 1119 e, pochi anni dopo, giunse qui. La città di Tomar, conquistata ai mori nel 1147, fu donata nel 1159 dal primo re di Portogallo, Don Afonso Henrique, ai Templari, i quali l'anno successivo, guidati da Don Gualdim Pais, costruirono il castello». La Mercedes affrontò l'ultima curva e si trovò in un piccolo parcheggio; lo spazio era protetto da alberi e dominato dal massiccio Mastio, che spiccava oltre la maestosa fortezza dei Templari, enormi pareti di pietra il cui profilo merlato si stagliava nel cielo azzurro. Lasciarono l'automobile all'ombra di alti pini e proseguirono lungo il selciato che circondava le mura della torre, l'Alcáçova, in direzione dell'imponente Porta del Sole; per un momento, ebbero l'impressione di essere tornati nel Medioevo, in un tempo semplice, perso nei secoli, e del quale restavano solo quelle orgogliose rovine. Sulla sinistra si estendeva una rude parete contornata di solidi merli, che costeggiava il percorso e delimitava la fitta foresta. Le foglie degli alberi si agitavano al vento lungo il pendio del monte, i rami sembravano danzare al ritmo della dolce melodia della natura, forse cullati dal vivace cinguettio delle rondini appena arrivate e dal continuo trillo degli allegri usignoli, ai quali rispondevano le cicale con acuto frinire e le api con il loro laborioso ronzio, golose intorno ai fiori colorati che spuntavano dal prato. Il lato destro del percorso cadeva in un profondo e vuoto silenzio, da quella parte si alzava solo un'arida altura di pietra, sulla sommità della quale dominava il castello, come un signore feudale, altezzoso e arrogante. «Allora è questa la fortezza dei Templari» commentò Tomás, osservando le antica mura. «Proprio così. Per i servigi prestati in battaglia, compresi quelli per la conquista di Santarém e Lisbona, ai Templari furono donate molte terre, ma in nessun altro luogo la loro presenza è rimasta così marcata come qui, nel castello di Tornar, la loro sede. Tuttavia l'Ordine subì un improvviso declino a causa delle persecuzioni in Francia, scatenate nel 1307, e in seguito alla bolla papale Vox in excelso, che lo soppresse nel 1312. Il papa impose ai sovrani europei di arrestare tutti i Templari, ma in Portogallo il re Don Dinis si rifiutò di obbedire. Il papa proclamò l'Ordine degli Ospedalieri erede dei beni dei Templari, ma anche in questo caso Don Dinis disobbedì. Il re portoghese ricorse a un'ingegnosa interpretazione giuridica
della questione, sostenendo che i Templari erano semplici usufruttuari delle proprietà della Corona. Se avessero smesso di esistere, allora la Corona portoghese avrebbe ripreso possesso delle proprie terre. Questo comportamento attirò l'attenzione dei Templari francesi, che nella propria patria stavano subendo una crudele persecuzione. Molti si spostarono in Portogallo, in cerca di protezione. Don Dinis lasciò correre le cose finché propose la creazione di un nuovo ordine militare, con sede nell'Algarve, che difendesse il Portogallo dal pericolo musulmano. Il Vaticano acconsentì e nel 1319 ufficializzò la nascita dell'Ordine Militare di Cristo. Don Dinis consegnò a questa nuova organizzazione tutti i beni dell'Ordine del Tempio, incluse dieci città. Ma la cosa più importante è che ne facevano parte i Templari. In altre parole, l'Ordine di Cristo non era altro che l'Ordine del Tempio con un altro nome. La rinascita dei Templari in Portogallo divenne completa nel 1357, quando l'Ordine di Cristo trasferì la sua sede qui nella fortezza di Tornar, l'antico santuario dell'Ordine del Tempio che si supponeva estinto». Attraversarono la magnifica Porta del Sole e si ritrovarono in Piazza de Armas, un vasto spazio con un bel giardino geometrico sulla sinistra, che dominava a valle. C'erano siepi tagliate a forma di semicerchio, arbusti da potare, cipressi alti ed esili, platani e aiuole di fiori. «Ma perché mi sta raccontando tutto questo?» chiese Tomás. Il conte di Vilarigues sorrise e indicò le mura, sulla destra, e il complesso degli edifici medievali che avevano di fronte. Dominate dalla scalinata e dall'enorme blocco cilindrico della magnifica Charola, avevano l'aspetto di una fortezza romanica: la facciata caratterizzata da potenti contrafforti che raggiungevano i tetti, le pareti coronate di merli cinquecenteschi e la torre campanaria, che vegliava su tutta la struttura. Dal lato opposto, spiccavano le spesse pareti esterne del Grande Chiostro e, al di là di un gigantesco platano che proiettava sul convento la sua ombra protettiva, i resti della Sala do Capítulo. «Mio caro signore, per farle capire meglio il meraviglioso luogo in cui ci troviamo. In fin dei conti a Tornar, su queste misteriose mura medievali, vive ancora il puro spirito del Santo Graal, l'enigmatica anima esoterica che caratterizzò lo sviluppo del Portogallo e guidò le imprese delle Scoperte». Strizzò l'occhio. «Inoltre, le sto fornendo fin da adesso tutti i particolari pertinenti alla straordinaria storia che le devo raccontare». «Ah sì? E quale sarebbe questa storia?». «Ma, mio caro, è possibile che ancora non abbia capito? Ciò che le devo
svelare è la vera storia di Cristóvam Colom, il navigatore che consegnò l'America ai castigliani». «La... la vera storia di Colombo? Lei la conosce?». Si avviarono verso il giardino geometrico, passando sotto un arbusto che si innalzava a mo' di ponte, e si andarono a sedere su una panchina di azulejos azzurri e arancioni ricavata nella parete. «È una storia il cui prologo risale ai Templari e all'Ordine Militare di Cristo». Il conte osservò le mura là in basso, riconosceva a sinistra la Torre di Dona Catarina e al centro la Porta del Sangue. «Mi dica, mio caro, ha mai fatto caso alle croci sulle vele delle caravelle portoghesi impiegate nelle Scoperte?». «Le croci delle caravelle? Erano rosse, se ben ricordo». «Croci rosse su vele bianche. Questo le dice nulla?». «Ehm... no». «Le croci dei crociati erano rosse su sfondo bianco. Quelle dei Templari portoghesi erano croci patenti, rosse su sfondo bianco. Le croci dell'Ordine di Cristo erano rosse su sfondo bianco. Ora, anche le caravelle portoghesi mostravano croci rosse su vele bianche. Erano le croci dell'Ordine di Cristo, dei Templari, lanciate in mare alla ricerca del Santo Graal». Si curvò verso il professore, fissandolo negli occhi come se volesse penetrargli nell'anima. «Mio caro, per caso la Signoria Vostra sa cos'era il Santo Graal?». «Ehm... il Santo Graal? Era il... calice di Cristo. Si dice che fu in questa coppa che Gesù bevve durante l'ultima cena e in essa Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue del figlio di Dio mentre era agonizzante sulla croce». «Favole, mio caro! Il Santo Graal è un calice solo in senso figurato, se vogliamo metaforico». Puntò in direzione della città di Tornar, le cui case s'intravedevano oltre gli alberi e le mura, ai piedi del monte. «Se visitasse la cappella battesimale della Chiesa di San Giovanni Battista, a Tornar, vedrebbe un trittico raffigurante un'immagine del santo che tiene in mano il calice sacro. All'interno del calice c'è un drago alato, animale mitologico menzionato nella leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Secondo la leggenda, Merlino raccontò di una battaglia in un lago sotterraneo fra due draghi, uno alato e l'altro no, uno simbolo delle forze del bene e l'altro personificazione delle forze del male; uno la luce, l'altro le tenebre. Tale scontro è raffigurato anche nel capitello della Chiesa di San Giovanni Battista di Tornar, fatto che conferisce un inestimabile valore iniziatico a questo santuario».
«Si riferisce alla chiesa che si erge in Piazza della Repubblica, dove eravamo poco fa?». «Proprio quella». «Hmm» mormorò Tomás, ripensando alla chiara facciata della chiesa con la sua imponente torre campanaria di pietra bruciata. «Ma perché mi racconta tutto ciò?». «Mio caro, questa è la risposta alla domanda a cui qualche momento fa la Signoria Vostra non ha saputo rispondere. Il drago è il simbolo templare della saggezza, è il Thot egizio e l'Ermes greco. Lo stesso Ermes che ha dato origine all'ermetismo. Pertanto, il drago all'interno del calice sacro, come quello raffigurato nella chiesa di Tomar, rappresenta la saggezza ermetica. Il Santo Graal». Fece una pausa. «Che cos'è quindi il Santo Graal? È la conoscenza. Che cos'è la conoscenza se non il potere? Questo è un concetto che i Templari acquisirono rapidamente. Quando vennero in Portogallo, per fuggire alle persecuzioni scatenate nei loro confronti in Europa, i Templari portarono il calice e il drago, il Santo Graal, una saggezza, in parte scientifica e in parte esoterica, accumulata in due secoli di viaggi in Terra Santa. Possedevano nozioni di navigazione, spirito di ricerca, erudizione ermetica. Il Portogallo fu la loro destinazione, ma anche il punto di partenza per il nuovo desiderio di conoscenza, per la scoperta del mondo. È il motivo per cui questo Paese si chiama Portogallo. Il nome deriva da Portucalem e, in tal senso, può essere collegato al calice sacro. Portogallo. Porto Graal. Il porto del Graal. Fu da questo immenso porto che si partì alla ricerca del nuovo Graal. Il Santo Graal della saggezza. Il calice della conoscenza. La scoperta del mondo». «Sta insinuando che le Scoperte furono condotte dai Templari per concretizzare la ricerca del Santo Graal?». «In parte, sì. I Templari e gli ebrei, con i loro segreti esoterici e le misteriose pratiche cabalistiche, gli uni apertamente alla ricerca del Santo Graal e gli altri alla discreta ricerca della Terra Promessa, entrambi accomunati dalla nostalgia di Gerusalemme e del Sacro Tempio di Salomone, formarono con i portoghesi una miscela esplosiva, un cocktail realizzato all'inizio del XV secolo da uno dei più grandi statisti della storia del Portogallo e uno dei maggiori sognatori dell'umanità, l'infante Don Henrique, la mente che sta dietro al movimento planetario che oggi chiamiamo globalizzazione. Terzo figlio del re Don João I, Henrique diventò nel 1420 governatore dell'Ordine Militare di Cristo e passò a essere conosciuto successivamente come il Navigatore. L'infante riunì uomini di scienza, fra cui portoghesi,
Templari, ebrei e altri, delineando un ambizioso piano per attuare la ricerca del Graal». Alzò la mano e iniziò a recitare a memoria. «"Che il Portogallo prenda coscienza di sé" scrisse il poeta Fernando Pessoa. "Che si consegni alla propria anima. In essa troverà la tradizione dei romanzi di cavalleria, attraverso cui passa, vicina o lontana, la Tradizione Segreta del Cristianesimo, la Successione Super-Apostolica, la Ricerca del Santo Graal"». Dopo aver finito di decantare il testo poetico con tono solenne, la sua voce tornò naturale. «Il grandioso progetto di Don Henrique il Navigatore prevedeva la conquista dei mari sconosciuti e la scoperta del mondo e fu portato avanti dai portoghesi durante i decenni seguenti. I cavalieri diventarono navigatori e le Scoperte assunsero il ruolo di nuove crociate». «Il Portogallo fu dunque il porto da cui si partì alla ricerca del Graal». «Non solo. Il Portogallo divenne un Paese di navigatori e scopritori, cavalieri del mare alla nuova ricerca del Santo Graal. Gil Eanes, Gonçalves Baldaia, Nuno Tristão, Antão Gonçalves, Dinis Dias, Álvaro Fernandes, Diogo Gomes, Pedro de Sintra, Diogo Cão, Pacheco Pereira, Bartolomeu Dias, Vasco da Gama, Fernão de Magalhães, Pedro Álvares Cabral, la lista di questi uomini è infinita, il Paese era pieno di nuovi crociati. Molti li conosciamo. Ma altri si dedicarono a navigazioni segrete, facendo scoperte mai rivelate e lasciando che il proprio nome rimanesse nascosto nell'ombra della storia». «E secondo lei Colombo era fra questi?». «Procediamo per gradi. Mettiamo da parte i grandi e mistici progetti delle Scoperte e concentriamoci innanzitutto sui comuni eventi quotidiani del regno di Portogallo alla fine del XV secolo. Quando Henrique il Navigatore e poi il re Afonso V morirono, un altro uomo assunse il controllo del processo di espansione marittima: il nuovo re Don João II, figlio di Afonso, chiamato il Principe Perfetto. Poco dopo l'ascesa al trono di questo sovrano, si verificò un avvenimento che avrebbe segnato il destino di Cristóvam Colom». «La scoperta del Capo di Buona Speranza per opera di Bartolomeu Dias». Il conte sorrise. «No mio caro, questo avvenne successivamente». Abbandonarono la panchina di azulejos e attraversarono Piazza de Armas, passando fra piccoli alberi d'arance. Vilarigues si avvicinò alle rovine dei Palazzi Mestrais, le antiche dimore reali del castello, ora prive di copertura, e posò la mano sulla parete nuda e ruvida, come se la stesse accarezzando. «Non so se ne è
al corrente, ma fra queste mura visse l'infante Don Henrique, l'uomo che progettò tutto prima del Principe Perfetto. E qui visse anche un altro statista, colui la cui vita sarebbe cambiata in seguito all'avvenimento che segnò l'esistenza di Colom. Si tratta del re Don Manuel I il Fortunato, che succedette a Don João II». «A cosa si sta riferendo?». Il conte piegò la testa e guardò Tomás in modo strano. «Alla cospirazione per assassinare il re Don João II». Lo storico aggrottò le sopracciglia. «Come ha detto?». «La macchinazione contro Don João II. Non ne ha mai sentito parlare?». «Mah... vagamente». «La Signoria Vostra presti attenzione a questa storia» suggerì il conte Vilarigues, alzando le mani, come se gli chiedesse di avere pazienza. «Nel 1482, il consiglio regio, presieduto da Don João II, da poco diventato re, stabilì che i funzionari potessero entrare nelle terre dei donatari, affinché verificassero in che modo in quei luoghi era applicata la legge e confermassero privilegi e donazioni. Questa decisione rappresentò un attacco diretto al potere dei nobili, fino a quel momento padroni e signori dei propri domini. Il più potente era Don Fernando II, duca di Bragança, cugino alla lontana del re. Tuttavia il duca si ricordò di presentare davanti alla giustizia gli atti di donazione e privilegi che erano stati concessi a lui e ai suoi predecessori. Incaricò il suo responsabile delle finanze, il baccelliere João Afonso, di recarsi presso un determinato archivio e cercare tali scritture. Ma invece di andare di persona João Afonso mandò il figlio, giovane e inesperto. Mentre questi frugava nella cassa fra i documenti, giunse uno scrivano, Lopo de Figueiredo che, essendosi subito offerto di aiutarlo, scoprì una strana corrispondenza che il duca di Bragança aveva scambiato con i Re Cattolici di Castiglia e Aragona. Incuriosito da così insoliti documenti, li nascose e, una volta fuori, ottenne un'udienza segreta con il re, al quale mostrò le lettere. Don João II esaminò quei testi manoscritti, alcuni dei quali riportavano delle note scritte di pugno dal duca, e capì immediatamente che rivelavano una cospirazione contro la Corona. Il duca di Bragança era un alleato segreto dei Re Cattolici in Portogallo e s'impegnava ad aiutare i castigliani a invadere il Paese». Abbassò la voce, come se stesse per pronunciare una parola scomoda. «Un traditore». Riassunse un tono normale. «Le lettere dimostravano che anche il duca di Viseu, fratello della regina, era coinvolto nella cospirazione, così come la madre della re-
gina. Don João II ordinò che quei documenti fossero copiati e disse a Lopo de Figueiredo di riporli nell'archivio da cui li aveva sottratti. Il sovrano impiegò più di un anno, fra questioni di stato e decisioni relative alle Scoperte, per raccogliere dati allo scopo di valutare l'ampiezza della macchinazione e per prepararsi a smascherarla. Svelò persino i dettagli relativi al modo in cui i cospiratori avevano intenzione di attuarla. Finché un giorno, nel maggio 1483, ordinò che il duca di Bragança fosse arrestato e sottoposto a giudizio. Accusato di tradimento, Don Fernando II fu decapitato alcuni giorni dopo a Évora. La congiura tuttavia proseguì, ora guidata dal duca di Viseu. Nel 1484, però, Don João II decise di dare un taglio netto al problema. Fece chiamare il duca, fratello della regina, e, dopo aver scambiato con lui qualche parola, lo stesso re lo pugnalò a morte. Altri nobili coinvolti nel complotto furono decapitati, avvelenati o fuggirono in Castiglia. Frattanto, si verificò uno strano episodio. Don João II invitò a corte il fratello del duca di Viseu, Don Manuel. Questi si presentò temendo per la propria vita, in fin dei conti suo fratello era stato ucciso dal re in quello stesso luogo dopo una convocazione simile. Ma l'accoglienza fu molto differente. Don João II donò a Don Manuel tutti i beni del fratello che aveva giustiziato e, fatto notevole, gli comunicò che, se suo figlio Don Afonso fosse morto senza discendenti, sarebbe stato Don Manuel a ereditare la corona. Cosa che effettivamente accadde». «Strana storia davvero» commentò Tomás, impressionato dai dettagli dell'intrigo di palazzo in piena fase delle Scoperte. «Ma non capisco per quale motivo me la sta raccontando». Il conte Vilarigues intrecciò le braccia al petto, in posizione di dominio, e inarcò le sopracciglia. «Mio caro!» esclamò in modo condiscendente. «Dunque, la Signoria Vostra sta conducendo una ricerca su Cristóvam Colom e la data in cui culminò questa ampia operazione di pulizia reale non le dice nulla?». «Quando ha detto che avvenne?». «Nel 1484». Tomás si grattò il mento, pensieroso. «È l'anno in cui Colombo lasciò il Portogallo e si trasferì in Castiglia». «Bingo!» sorrise il conte, e gli brillavano gli occhi. Lo storico rimase immobile per un lungo istante, riflettendo sull'argomento, considerando le implicazioni, mettendo insieme i tasselli del puzzle. Si avvicinò al conte e lo fissò con sguardo inquisitorio. «Lei non starà per caso insinuando che Colombo fece parte della mac-
chinazione contro Don João II?». «Touché!». Tomás rimase a bocca aperta, esterrefatto. «Ehm...» balbettò, incapace di ordinare il turbinio di idee che gli affiorò alla mente. «Ehm...». Vedendolo senza parole, il conte cercò di venirgli incontro. «Mi dica una cosa, mio caro. La Signoria Vostra si è già resa conto che esistono tonnellate di documenti sulla presenza di Cristóvam Colom in Spagna ma che, per quanto riguarda la sua permanenza in Portogallo, abbiamo solo un enorme vuoto? Niente di niente! Neanche un documento che lo dimostri! Il poco che sappiamo si riduce ai brevi riferimenti lasciati da Las Casas, da Hernando Colón e dallo stesso Cristóvam Colom. Nient'altro». Scrollò le spalle, esprimendo la sua perplessità. «Quindi quest'uomo vagò incessantemente per il Paese, navigò sulle nostre caravelle, sposò una donna portoghese, frequentò la corte, ebbe vari incontri con il re e non ci sono né tracce né testimoni? Eh? Come mai?». «Ehm... fu cancellato tutto?». «È possibile, mio caro. Ma forse la verità è molto più semplice. Colom aveva un altro nome. Noi cerchiamo documenti con il nome di Colom quando, in fin dei conti, i testi esistono ma relativamente a una persona conosciuta con un altro nome». «Che... che nome?». «Nomina sunt odiosa». Tomás sgranò gli occhi. «Come?». «Nomina sunt odiosa». «Fare nomi è inopportuno» tradusse Tomás, quasi meccanicamente. «Cicerone». Il conte assunse la stessa espressione, sorpreso. «Caspita!» esclamò. «Che prontezza!». «Il professor Toscano mi ha lasciato questa citazione della Pro Roscio come primo indizio per arrivare al mistero di Colombo». «Ah!» comprese il suo interlocutore. «Sono stato io a parlargli di questo, lo sa? Suppongo che il professore ne abbia preso nota». Alzò le spalle. «Non importa. In ogni modo, resta oscuro il vero nome di Colom. Nomina sunt odiosa. Quello che a noi interessa è il fatto che Colom, in realtà, ne avesse un altro. Il nome di un nobile». «Come fa a saperlo?».
«Anche Colom apparteneva all'Ordine Militare di Cristo. La sua vera storia fa parte della nostra tradizione orale, in quanto Templari, ed è confermata da molteplici indizi. Sapeva che sposò Donna Filipa Moniz Perestrelo, figlia del capitano donatario di Porto Santo, discendente di Egas Moniz e parente di Don Nuno Alvares Pereira, colui che sconfisse i castigliani nella Battaglia di Aljubarrota? Una donna di simile estrazione sociale, imparentata con la stessa famiglia reale, in quell'epoca non avrebbe mai sposato un plebeo, e per giunta di un Paese straniero. Mai! Piuttosto si sarebbe rinchiusa in un convento! Una donna di tale rango, mio caro, avrebbe sposato soltanto un nobile». «A questo avevo già pensato» ribatté Tomás. «È realmente impensabile che Dona Filipa Moniz Perestrelo diventasse la moglie di un umile tessitore di seta. Impensabile». «E la Signoria Vostra ha mai letto la lettera che Don João II inviò a Colombo nel 1488?». «Certo». «E cosa mi dice del passo in cui il re menziona i problemi di Colom con la giustizia?». Tomás aprì il suo bloc-notes, cercando gli appunti su quella lettera. «Aspetti, eccolo qui» disse, trovando il brano. «Il re scrive: "E perché forse avete alcun timore dei nostri rappresentanti della giustizia a causa di qualche cosa che vi è stato imposto. Noi con questa lettera vi garantiamo per l'arrivo, la permanenza, e il ritorno, che non sarete catturato, trattenuto, accusato, citato, né interpellato per nessuna cosa sia civile sia criminale, di qualsiasi natura si tratti"». Rivolse lo sguardo al conte. «È tutto». «Allora? Quali sarebbero i crimini che nel 1484 indussero Colom a fuggire precipitosamente in Castiglia insieme al figlio?». «La cospirazione». «Ovviamente. La cospirazione smantellata nel 1484. Come le ho detto, in quell'anno molti nobili si rifugiarono in Castiglia con le proprie famiglie. Ad esempio Don Álvaro de Ataíde, oppure Don Fernando da Sylveira. O ancora il caso di Don Lapo de Albuquerque e dell'influente ebreo Isaac Abravanel. La fuga interessò tutti coloro che avevano a che fare con gli intrighi dei duchi di Bragança e di Viseu. Colom era uno fra tanti». Lo storico spalancò gli occhi, gli era appena venuta in mente una cosa. Afferrò la sua inseparabile ventiquattrore, frugò all'interno e tirò fuori un libro scritto in spagnolo, la Historia del Almirante, e lo sfogliò velocemente.
«Aspetti, aspetti» disse, come se avesse paura che quell'idea si volatilizzasse. «Se ben ricordo, il figlio spagnolo di Colombo, Hernando Colón, scrisse la stessa cosa descrivendo brevemente l'ingresso del padre in Castiglia. Mi lasci vedere... mi lasci vedere... ah, eccolo!». Localizzò il brano preciso. «Ora ascolti: "Alla fine dell'anno 1484 con suo figlio Diogo lasciò segretamente il Portogallo, per paura d'essere trattenuto dal re"». «Colom partì segretamente dal Portogallo?» si chiese il conte, con ironia. «Temeva che il re lo trattenesse?». Sorrise e aprì le mani, come se la verità fosse stata nascosta nei suoi pugni e con quel gesto l'avesse appena liberata. «È difficile essere più chiaro di così, non trova?». «Ma pensa sia naturale che il re abbia perdonato Colombo nonostante fosse stato coinvolto nel complotto?». «Dipende dalle circostanze ma, considerando quanto sappiamo, questo sembra perfettamente verosimile. Tenga presente che Colom non era un capo ma una semplice pedina nella congiura, una figura di secondo piano. D'altro canto, il perdono fu concesso quattro anni dopo, in un momento in cui nessuno poteva più rappresentare una minaccia per il re. Non fu del resto Don João II che nominò proprio il fratello di un cospiratore come erede della corona? Con molta più facilità avrebbe perdonato un elemento di minore importanza all'interno della congiura, un personaggio secondario, una persona come Colom, nel caso potesse essergli utile». Indicò il blocco che Tomás teneva in mano, insieme al libro che aveva preso dalla ventiquattrore. «E ha notato il modo in cui il re si rivolge a Colom nella lettera che gli scrive nel 1488?». Lo storico lesse i suoi appunti. «"A xpovam collon, nostro speciale amico in Siviglia"». «Speciale amico? Mio Dio, non trova insolita quest'intimità fra il grande re di Portogallo e un insignificante tessitore di seta straniero, all'epoca ancora sconosciuto?». Il conte scrollò la testa, soddisfatto. «No, mio caro. Questa è la lettera di un sovrano a un nobile che conosceva bene, un nobile che frequentò la sua corte. E, cosa ancora più importante, questa è una lettera di riconciliazione». «Allora chi era realmente Colombo?». Il conte riprese a camminare, dirigendosi verso le scale del castello, in fondo a Piazza de Armas. «Già gliel'ho detto, mio caro!» disse con enfasi. «Cristóvam Colom era un nobile portoghese, forse di origine ebraica, legato alla famiglia del duca di Viseu, che svolse un ruolo minore nel complotto contro il re Don João
II. Smascherata la macchinazione, i cospiratori fuggirono in Spagna. I principali artefici della congiura se ne andarono per primi, gli altri complici scapparono in un secondo momento. Colom fu uno di questi. Abbandonò il suo vecchio nome e si rifece una vita a Siviglia, dove mise in pratica le conoscenze marittime che aveva acquisito in Portogallo. Passò a chiamarsi Cristóbal Colon e decise di occultare il suo passato, soprattutto considerando il clima antigiudaico diffuso in Castiglia. Dopo la scoperta dell'America, autori italiani insinuarono che fosse genovese. Era un'insinuazione conveniente e che lo stesso Colom alimentò, senza mai confermarla né smentirla, poiché gli dava modo di allontanare i sospetti sulla sua vera origine, celandola dietro a qualcosa di molto meno offensivo». Piegò la testa. «La Signoria Vostra ha notato che neanche il figlio castigliano conosceva l'origine del padre?». «Hernando?». «Sì. Hernando Colón andò persino in Italia per verificare se era vero quello che dicevano, cioè che il padre veniva da Genova». Accennò un'espressione interrogativa. «Ci aveva mai fatto caso? Colom non aveva rivelato la sua origine neanche al proprio figlio! Immagini fino a che punto fosse arrivato l'Ammiraglio pur di difendere il grande segreto, portando il figlio a perdersi in infinite congetture su una questione tanto semplice come quella di determinare il luogo di nascita del padre. È evidente che Hernando non trovò nulla a Genova, così come egli stesso afferma nel suo libro, tanto che arrivò a ipotizzare che il padre fosse nato a Piacenza, confondendo così le sue origini con quelle di alcuni antenati paterni della moglie portoghese dell'Ammiraglio, Donna Filipa Moniz Perestrelo, che effettivamente venivano da questa città italiana». «Neanche i Re Cattolici sapevano chi fosse Colombo?». «No, loro lo sapevano». Assentì con la testa. «Colom era un elemento integrante della cospirazione dei duchi di Bragança e di Viseu contro la Corona portoghese, che si basava su un'alleanza dei congiurati con la Corona di Castiglia. Fra i documenti trovati nell'archivio del duca di Bragança si contavano anche lettere dei Re Cattolici. Poiché Colom faceva parte della trama, per forza i sovrani lo conoscevano, anche fosse solo superficialmente. Del resto, solo così si spiegherebbe il fatto che gli abbiano dato credito». Stese il braccio verso la Historia del Almirante, di Hernando Colón, che Tomás aveva appoggiato sulle ginocchia. «Mi faccia vedere questo libro». Il conte prese il volume e lo sfogliò, cercando un brano in particolare. «Qui c'è... mi lasci controllare... qui c'è un riferimento rivelato-
re, un passo di una lettera di Colom al principe Juan, inserita nel libro da Hernando. Sta... sta qui, ora ascolti: "Yo no soy el primer Almirante de mi família""». Fissò Tomás, piegando la testa da una parte con un'espressione di scherno. «Colom dice di non essere il primo ammiraglio della sua famiglia? Ma non si suppone che fosse un tessitore genovese senza istruzione?». Rise. «Pertanto, è lo stesso Ammiraglio a rivelare indirettamente la propria origine nobile, cosa che del resto la Corona castigliana già sapeva, come comprovato dal fatto che nell'aprile del 1492, ancor prima del grande viaggio verso l'America, avesse riconosciuto in un documento il rango aristocratico del navigatore. Del resto, se Colom fosse stato realmente un umile tessitore, come afferma la ridicola tesi ufficiale genovese, i Re Cattolici avrebbero riso della sua richiesta di udienza. Poiché la sua origine era ben altra, le cose erano diverse. Tuttavia, a causa della rivalità tra Portogallo e Castiglia, sarebbe stato poco conveniente rendere pubblico che l'ammiraglio della flotta castigliana era un portoghese, e oltretutto con possibili origini ebraiche. Questo sarebbe stato inaccettabile. Così la vera identità di Colom rimase segreta. Tenga presente che gli sforzi per mantenere nascosta la provenienza dell'Ammiraglio furono così grandi che lo stesso atto di naturalizzazione spagnola del fratello più giovane, Diego Colom, omette la sua nazionalità d'origine. Era norma del diritto pubblico castigliano che questi documenti riferissero sempre la nazionalità di origine del cittadino, dato che si trova in tutti gli atti di cittadinanza conservati nel Registro de Sello dell'Archivio Generale di Simancas che appartengono a quel periodo. Solo quello di Diego Colom fa eccezione. Ciò mostra fino a che punto si spinse la Corona affinché non venisse rivelata l'origine dell'Ammiraglio. Se fosse stato realmente genovese, non ci sarebbe stato motivo di occultare la nazionalità di provenienza. Ma essendo portoghese, e forse ebreo, la questione cambiava. E le successive voci sull'origine genovese finirono per rivelarsi provvidenziali, poiché contribuirono a confondere le cose. Agli stessi Re Cattolici conveniva lasciar circolare quella voce sull'identità italiana, che avrebbe rappresentato un maggior prestigio sia per l'equipaggio che per la popolazione. Dunque, attraverso questa cospirazione di silenzi e sottintesi, alimentata dal navigatore e dai suoi protettori, l'origine di Colom rimase confusa, avvolta da una fitta nebbia di mistero». Passarono tra un gigantesco platano e un desolato albero di noce, vere sentinelle immobili e testimoni silenziosi di secoli di vita in quello strano convento, e iniziarono a salire l'ampia scalata di pietra del complesso templare.
«Ma se Colombo aveva partecipato alla cospirazione, perché Don João II lo chiamò a Lisbona nel 1488?». Il conte Vilarigues si accarezzò la barba appuntita. «Per ragioni di Stato, mio caro. Per ragioni di Stato. Cristóvam Colom promuoveva il viaggio per le Indie navigando verso Occidente, ma i Re Cattolici non ne erano convinti. Don João II sapeva che questo viaggio sarebbe stato difficilmente possibile per due motivi: primo, il mondo era considerevolmente più grande rispetto a quanto supponeva Colom; secondo, era già nota al re portoghese la presenza di terre lungo la rotta». Stavano percorrendo il sagrato antistante il convento e si dirigevano verso la Porta Sud del monastero, passando accanto alla struttura cilindrica della Charola templare, quando Tomás si fermò, fissando il suo interlocutore. «Ah! Allora Don João II sapeva già dell'esistenza dell'America...». Il conte sorrise. «Mio caro, certo che lo sapeva. In effetti, questa non era una novità. Che io sappia, l'America fu scoperta migliaia di anni fa dagli asiatici, che colonizzarono il continente da un'estremità all'altra. I vichinghi, e in particolare Erik il Rosso, furono i primi europei ad arrivare là. Questo fatto fu tramandato dai Templari nordici, alcuni dei quali vennero in Portogallo. E i portoghesi, senza dubbio, esplorarono quelle zone durante il XV secolo, sempre in segreto. L'ammiraglio Gago Coutinho, il primo uomo a sorvolare in aereo l'Atlantico Meridionale, arrivò alla conclusione che i navigatori del Quattrocento avevano raggiunto la costa americana prima del 1472 e sospettava che fosse stato il portoghese Corte-Real il primo europeo a raggiungere quei territori dopo i vichinghi. Altri storici famosi pensavano la stessa cosa, compreso Joaquim Bensaúde. D'altronde, durante il processo del Pleyto de la Prioridad, intrapreso nel 1532 dai figli del capitano Pinzón, che servì agli ordini di Colom, con la curiosa tesi in base alla quale l'Ammiraglio aveva scoperto una terra la cui esistenza era già conosciuta, furono ascoltati in tribunale diversi testimoni che ebbero contatti con il grande navigatore. Uno di loro, un certo Alonso Gallego, si riferì a Colom come "persona che era stata al servizio del Re di Portogallo e aveva notizia delle dette Indie". Fatto confermato dal biografo contemporaneo di Colom, Bartolomé de Las Casas, il quale affermò che l'Ammiraglio aveva saputo, da un marinaio portoghese, che esisteva terra a ovest delle Azzorre. Lo stesso Las Casas viaggiò in quel tempo nelle Antille e riferì che gli indigeni di Cuba gli avevano rivelato che, prima dell'arrivo dei castigliani, già al-
tri navigatori, bianchi e barbuti, erano stati lì». Fece un ampio gesto con la mano. «E Vostra Signoria ha già visto il Planisfero di Cantino?». «Certamente». «E ha notato che riporta la costa della Florida?». «Sì». «Piuttosto singolare, considerando che il Planisfero di Cantino era stato disegnato da un cartografo portoghese al massimo nel 1502, ma la Florida sarebbe stata scoperta solo nel 1513. Curioso, non trova?». «È evidente che i portoghesi sapessero più di quanto ammettevano...». «Ovvio che sapevano! E cosa ne pensa dello strano fatto per cui, nel suo primo viaggio, Colom portò monete portoghesi nel Nuovo Mondo, eh? Perché monete portoghesi e non castigliane? Questa decisione ha senso solo nel caso in cui l'Ammiraglio fosse convinto che le popolazioni locali già conoscessero i soldi del Portogallo, non trova?». La Porta Sud, riccamente decorata in stile manuelino e rifinita da una sottile piattabanda, era chiusa. Allora girarono intorno alla Charola, passando dalla parte destra, sempre nel sagrato e, in prossimità di uno stretto angolo, subito dopo la torre campanaria, oltrepassarono la piccola porta della sagrestia e si addentrarono nella penombra del santuario. Pagarono due biglietti, entrarono dal Chiostro del Cimitero, con i suoi piccoli alberi di arance che abbellivano il patio in stile gotico fiammeggiante, attraversarono gli scuri corridoi finché penetrarono nel cuore del convento. La Charola templare. La vecchia Rotonda emanava quell'odore di muffa tipico delle cose antiche, una specie di soffio secco, che Tomás associava ai musei. La struttura era formata da un tamburo a sedici lati con al centro una costruzione ottagonale, che accoglieva l'altare maggiore. Le pareti erano ricche di affreschi e le colonne, abbellite da statue dorate, si chiudevano fino a formare un deambulatorio circolare sormontato da una cupola bizantina. Era quello l'oratorio dei Templari di Tomar, eretto su modello della Rotonda della Chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme. La Charola rappresentava il gioiello del convento, con la sua architettura solenne, imponente, che ricordava i grandi santuari della Terra Santa. La Porta Sud, vista dall'interno, appariva racchiusa tra due colonne tortili, come quelle che, secondo le Scritture, proteggevano il Tempio di Salomone, ma i due uomini erano così presi dalla loro discussione che, dopo uno sguardo rapido al deambulatorio della Charola, non fecero più caso a quanto li circondava. «Scusi, ma ci sono dei dettagli che non riesco a comprendere» disse
Tomás vicino all'ottagono centrale, scrollando la testa. «Se i portoghesi già sapevano dell'esistenza dell'America, perché non andarono a esplorarla?». «Per la semplice ragione che non c'era nulla da esplorare» ribatté il conte, con l'atteggiamento di chi sta affermando un dato di fatto. «Mio caro, i portoghesi volevano arrivare in Oriente. Sul piano esoterico, credevano che il Santo Graal si trovasse nella terra del mitico regno cristiano del Prete Giovanni, in base a quanto sosteneva la più importante opera graalica tedesca, il Parzival, di Wolfram von Eschenbach, che arrivò fin qui probabilmente grazie ai Templari germanici. Sul piano economico, miravano a raggiungere l'India, allo scopo di aggirare il monopolio esclusivo di Venezia e dell'Impero Ottomano, andando a prendere le spezie direttamente nel luogo d'origine, a un prezzo molto più accessibile. Consideri che la ricerca del Santo Graal della conoscenza era stata la motivazione di Henrique il Navigatore e della sua schiera di Templari, e che gli interessi commerciali si andarono progressivamente sovrapponendo a quelli mistici. Invece, in America c'erano solo selvaggi e alberi, come s'accorsero i portoghesi appena misero piede in quelle terre». Alzò l'indice sinistro per enfatizzare l'importanza di ciò che stava per dire. «Da qui l'interesse che Don João II iniziò a mostrare per i piani di Colom». «Interesse?» si meravigliò Tomás, con espressione confusa. «Non capisco. Lei stesso ha appena detto che là c'erano solo selvaggi e alberi...». «Mio caro!» sospirò il conte Vilarigues. «Ma devo proprio spiegarle tutto?». «Temo proprio di sì». Il conte si mise a sedere su una panchina di legno vicino al grande arco all'ingresso della Charola, rivolto verso il pulpito scolpito nel marmo e fissato all'imbotte dell'arcata. Tomás s'accomodò al suo fianco. «Dunque» esordì Vilarigues, intimamente soddisfatto di poter riprendere il suo discorso «cerchi di seguire il mio ragionamento. Cristóvam Colom sapeva che esistevano terre a ovest delle Azzorre. Era portoghese e l'informazione già circolava alla corte di Lisbona, che lui frequentava, e fra gli equipaggi delle caravelle, con i quali aveva contatti. Colom pensava, secondo me, che quelle zone corrispondessero all'Asia, di cui aveva parlato Marco Polo durante i suoi viaggi, e non immaginava che si trattasse invece di un'altra terra. Tentò di convincere il re portoghese a condurre esplorazioni verso Occidente ma Don João II già sapeva che quella non era l'Asia, situata al contrario molto più lontano, pertanto rifiutò il progetto del giovane nobile. Nel 1484, in seguito allo smantellamento della cospirazione
contro il re, Colom fuggì in Castiglia e andò a proporre la sua teoria ai Re Cattolici, considerevolmente più oscurantisti e ignoranti. Talmente ignoranti da pensare ancora che la Terra fosse piatta, si figuri! Ma è importante notare che il modo in cui gli eventi si erano susseguiti andò a vantaggio di Don João II. Il re portoghese aveva un piano strategico che si basava sul buon senso e immediatamente capì che, prima o poi, la Castiglia avrebbe costituito un pericoloso ostacolo ai piani espansionistici del Portogallo. I castigliani potevano essere ignoranti, ma certamente non erano stupidi. Appena si fossero accorti che i portoghesi guadagnavano milioni con gli affari nelle Indie, avrebbero preteso la propria parte e ne sarebbe derivata una guerra. Don João II comprese che la Castiglia era una potenziale minaccia per i suoi piani. Bisognava manovrare la Corona, persuaderla a guardare verso altre direzioni, distrarla con qualcosa di apparentemente molto prezioso ma che in realtà non valesse nulla». «L'America» osservò Tomás. «Esatto! Mi pare che la Signoria Vostra cominci a capire». Strizzò l'occhio. «L'America corrispondeva a questi requisiti, era l'esca perfetta. Convinti che la primitiva America fosse la ricca Asia, i castigliani si sarebbero dedicati alla ricerca di questo nuovo continente e avrebbe lasciato in pace i portoghesi, dediti al fruttuoso commercio con la vera Asia. Per questo gli sforzi di Colom per convincere la corte castigliana furono vantaggiosi per Lisbona. Il problema è che, a causa della loro eccessiva ignoranza, e poiché erano impegnati nella lotta contro i mori, che ancora occupavano il Sud della Penisola Iberica, i castigliani rifiutarono le proposte del nobile portoghese. Scoraggiato e preso dalla nostalgia, Colom voleva ritornare in patria, ma doveva affrontare l'antica questione del suo coinvolgimento nella congiura contro il re. Allora scrisse a Don João II, correva l'anno 1488, dichiarando la sua innocenza e chiedendo perdono per qualsiasi eventuale offesa. Il re sfruttò l'opportunità e rispose, inviandogli la lettera di riconciliazione che lei ha letto poco fa, includendo la garanzia che non sarebbe stato catturato per i crimini commessi. Del resto, il sovrano aveva tutto l'interesse a parlare con la pecorella smarrita. Con il salvacondotto in mano, Colom andò in Portogallo per riproporre il suo progetto. Con sua sorpresa, tuttavia, si rese conto che Don João II non aveva intenzione di organizzare nessuna spedizione per l'Occidente ma, al contrario, desiderava che il nobile insistesse nei suoi sforzi per convincere i Re Cattolici ad accettare quel viaggio. Il re portoghese stesso promise che avrebbe aiutato Colom, in segreto, per quanto fosse necessario, affinché la sua iniziativa avesse
successo. Mentre era a Lisbona, Colom assistette al ritorno di Bartolomeu Dias con la notizia della scoperta di un passaggio per l'Oceano Indiano, e capì che Don João II aveva realmente dei buoni motivi per non seguire i suoi consigli. Rassegnato, accettò l'offerta di aiuto segreto e ritornò in Castiglia, con la rinnovata speranza di convincere i Re Cattolici». «Il ritorno di Bartolomeu Dias è un evento importante» sottolineò Tomás. «Si è sempre ipotizzato che Don João II avesse rinunciato a raggiungere l'India viaggiando verso Occidente perché, mentre era a Lisbona, intento a negoziare con Colombo questa spedizione, l'arrivo di Dias con la notizia della scoperta del Capo di Buona Speranza lo illuminò sulla vera rotta da seguire». «Sciocchezze!» esclamò il conte con un gesto di fastidio. «Don João II lo aveva intuito molto tempo prima! Consideri che già sapeva dell'esistenza di terre a ovest delle Azzorre. E sapeva, soprattutto, che non si trattava dell'Asia». Toccò Tomás sul petto. «Mio caro, ci pensi bene. Se Don João II stava davvero considerando l'ipotesi di navigare verso Occidente, crede che avrebbe chiamato da Siviglia un navigatore genovese, come sostiene la tesi ufficiale? Non aveva forse al suo seguito uomini con più esperienza, navigatori di prim'ordine, come Vasco da Gama, Bartolomeu Dias, Pacheco Pereira, Diogo Cão e molti altri, che gli avrebbero garantito, con maggiore sicurezza, il successo di una simile missione? Perché il re avrebbe dovuto rivolgersi a Colom per questa spedizione, eh? Chi pensa che Don João II lasciò che Colom si recasse a Lisbona per valutare insieme a lui il viaggio verso Occidente sta solo scherzando!». Picchiettò ripetutamente l'indice sulla tempia, emettendo un sordo toctoc-toc. «A questo scopo aveva un numero adeguato di navigatori, di sua fiducia e ben più qualificati». Scrollò la testa. «No, mio caro, Don João II non voleva parlare con Colom per discutere del viaggio in India. E la ragione principale è che già era al corrente della presenza di un altro continente in quella parte del mondo. Si convinca di questo: l'interesse del re portoghese per l'America stava essenzialmente nel fatto che vedeva in quei territori il potenziale diversivo per allontanare i castigliani dalla vera rotta per l'Oriente». Vilarigues si passò la mano fra i capelli lisci e brizzolati. «Rifletta su questo dato, mio caro. La Signoria Vostra non trova strano che Bartolomeu Dias avesse scoperto il passaggio per l'Oceano Indiano nel 1488 e che il Portogallo inviò Vasco da Gama a esplorare quel passaggio solo quasi dieci anni dopo?». Assunse uno sguardo fulminante. «Dieci anni dopo? Perché aspettare così tanto?».
«Beh, immagino per preparare il viaggio...». «Dieci anni per preparare il viaggio? Su, via! Se i portoghesi fossero stati dei novellini nel campo della navigazione, beh, al limite poteva essere una scusa plausibile. Ma loro navigavano con regolarità, faceva parte della routine, era il loro pane quotidiano, per cui questo lasso di tempo è inverosimile». Si protese verso lo storico. «Stia a sentire, mio caro. Dopo una sistematica e prolungata ricerca della rotta navale per l'India, finalmente si scopre il tanto desiderato passaggio che aprirebbe le porte per quelle terre, e all'improvviso si stabilisce di attendere dieci anni. Sono dieci inspiegabili anni quelli che separano i viaggi di Dias e di da Gama». Alzò le spalle, con un'espressione interrogativa. «Perché? Perché questa pausa di dieci anni? Cosa li ha indotti a ritardare il tanto sospirato viaggio verso l'India? Questo, mio caro, è stato uno dei più grandi misteri delle Scoperte, oggetto di immense speculazioni fra gli storici». Indicò Tomás. «E, in un certo senso, la Signoria Vostra ha colto nel segno con la sua spiegazione. I portoghesi si stavano effettivamente preparando. Ma non allestendo le navi per la spedizione di Vasco da Gama. Stavano preparando i castigliani». «Preparando i castigliani?». «La Corona portoghese sapeva che avrebbe potuto concretizzare l'avventura dell'India solo una volta risolto il problema castigliano. Se il Portogallo avesse scoperto la rotta per l'India lasciando la Castiglia a mani vuote, la guerra sarebbe diventata, prima o poi, inevitabile. Il Trattato di Toledo, ratificato nel 1480 con la Castiglia come conseguenza del Trattato di Alcáçovas, attribuiva al Portogallo l'esplorazione della costa africana, "inclusi persino gli indios", ma Don João II sospettava che, al momento opportuno, i castigliani avrebbero ritrattato. Del resto, nello stesso momento in cui firmavano il Trattato di Alcáçovas/Toledo, i Re Cattolici non stavano forse cospirando con i nobili portoghesi per uccidere il sovrano di Portogallo? In quelle condizioni, come avrebbe potuto Don João II fidarsi di loro? D'altra parte, la sua diffidenza si dimostrò fondata, dato che i Re Cattolici tentarono di raggiungere l'India, per ottenere così ciò che il trattato aveva negato loro. Il re portoghese aveva giustamente previsto che, all'occasione, i Re Cattolici avrebbero ignorato un trattato che dava tanto al piccolo Portogallo e tanto poco al vasto regno di Castiglia e Aragona. Pertanto, come prima cosa, bisognava risolvere la questione castigliana. E Cristóvam Colom si rivelò l'asso nella manica. Era necessario che persuadesse i castigliani a lanciare una spedizione verso Occidente ed era importante che loro si convincessero che l'America era di fatto l'Asia. Fu per questo
che i portoghesi aspettarono dieci anni. Rimasero in attesa del viaggio di Colom e dei successivi riassestamenti geopolitici». «Viaggio che si compì nel 1492». «Sì. E con l'aiuto di Don João II». «Come?». «In primo luogo, attraverso un finanziamento segreto» spiegò, mostrando il pollice. «Isabella la Cattolica mise a disposizione un milione di maravedì per pagare la spedizione. Ma questa cifra non bastava e a Colom serviva ancora un quarto di milione. Mi dica, dove andò a cercare il povero nobile tanto denaro? I sostenitori della tesi genovese affermano che gli fu consegnato da alcuni banchieri italiani ma, se fosse vero, sarebbero poi ricomparsi per ritirare la propria parte, nessun privato avrebbe dato tanti soldi per niente, non trova? E, tuttavia, chiunque avesse anticipato il denaro non si presentò a reclamare la sua fetta nello sfruttamento dei commerci delle Indie occidentali. E sa perché? Perché doveva restare nell'ombra, dal momento che da questo investimento non avrebbe guadagnato denaro, ma vantaggi d'ordine strategico. In breve, nessuno pretese il denaro perché il finanziatore segreto era il re di Portogallo». Unì l'indice al pollice. «In secondo luogo, Don João II contribuì fornendo strumenti di navigazione. Alcuni giorni prima della partenza, Colom ricevette da Lisbona le Tavole di Declinazione del Sole, scritte in ebraico e indispensabili per correggere le imprecisioni nell'uso dell'astrolabio. Chi gliele inviò?». Sorrise. «La Corona portoghese, è evidente. Don João II s'impegnò affinché quel viaggio avesse successo». Simulò il gesto di chi culla un bambino. «Portò in braccio i castigliani fino in America». «Tutto questo è vero ma deve considerare che il viaggio di Colombo risale al 1492 e Vasco da Gama arrivò in India solo nel 1498. Perché aspettare ancora sei anni?». «Perché era necessario rendere più chiaro il contesto geopolitico che nel frattempo si era venuto a creare, inducendo i castigliani a un nuovo trattato, firmato con il consenso del Vaticano e che riconoscesse a Lisbona la posizione più conveniente. Questo accadde nel 1494, quando Portogallo e Castiglia sottoscrissero il Trattato di Tordesillas, che divideva il mondo in due parti, una ciascuno per i due regni iberici. I castigliani credettero di aver ottenuto la parte migliore, in quanto la loro fetta di pianeta comprendeva ciò che pensavano essere l'India, cioè, le terre da poco scoperte da Colom». Alzò la mano. «Ora presti attenzione, mio caro. La Signoria Vostra pensa davvero che Don João II avrebbe firmato questo trattato sapendo
che l'India sarebbe andata ai castigliani? Se il re portoghese avesse creduto che Colom aveva davvero scoperto quella terra, non ritiene che si sarebbe appellato al Trattato di Alcáçovas/Toledo, che gli aveva conferito il diritto esclusivo su "gli indios"? Per quale ragione concesse così di buon grado la zona in cui si supponeva si trovasse l'India di Colom? L'unica risposta plausibile è che Don João II accettò questa divisione del mondo perché già sapeva che la parte castigliana non includeva la regione orientale. I portoghesi non fecero altro che consegnare l'"India" americana ai loro rivali e conservare per sé quella vera. Si presentarono pertanto quelle che Don João II considerava condizioni ideali, dato che i castigliani avevano la loro "India" cui dedicarsi per molti anni. Il rischio di una guerra imminente era stato scongiurato e i portoghesi iniziarono, finalmente, a pianificare il grande viaggio di Vasco da Gama». «Ma passarono comunque altri tre anni tra la firma del trattato e la partenza di Vasco da Gama...». «Sì» confermò il conte. «La morte del Principe Perfetto, nel 1495, ritardò il progetto, e la flotta finì per salpare solo nel 1497, già sotto il regno di Don Manuel». «Ma come è possibile asserire con tanta certezza che Colombo fu solo una pedina intenzionalmente manovrata da Don João II per distogliere i castigliani dalla vera India?». «Basta osservare i risultati pratici della spedizione del 1492. Colom convinse i Re Cattolici di essere arrivato in Asia, inducendoli a firmare un trattato che, in pratica, avrebbe fatto sprecare ai castigliani molto tempo nel continente sbagliato, consegnando ai portoghesi la vera Asia». «Non c'è dubbio che questo sia stato il risultato pratico del viaggio del 1492, nessuno lo mette in discussione. Tuttavia, mi sembra speculativo dire che Colombo fosse d'accordo con Don João II per raggiungere il suo scopo». «No, mio caro, non c'è nulla di speculativo in questo» negò il conte Vilarigues. «L'informazione sul patto fra Colom e Don João II fa parte dell'eredità segreta dell'Ordo Militaris Christi ed è comprovata da molteplici indizi e da alcune prove». «Quali prove?». Il conte sorrise. «Ora ci arriviamo» disse. «Cominciamo dagli indizi. La Signoria Vostra conosce i documenti su cui si basa la tesi dell'origine genovese di Colom?».
«Sì, certo». «Non penserà forse che siano attendibili?». «No, mostrano delle debolezze. Sono pieni di contraddizioni e incongruenze». «Crede allora che Colom era portoghese?». «Ci sono tanti indizi che portano in questa direzione, sì. Ma, me lo lasci dire, manca una prova decisiva». «Di che prova sta parlando?». Assunse un tono ironico. «Vuole una videocassetta con immagini di Colom che guarda in video mentre canta l'inno nazionale, eh?». «No, ma voglio delle prove decisive. Nonostante tutte le sue incongruenze e assurdità, la tesi genovese è l'unica che attribuisce un'identità a Colombo. Gli conferisce una famiglia, individua una casa, mostra documenti. Ci sono delle lacune, è vero, ma perlomeno abbiamo questi dati. La tesi portoghese presenta il problema contrario: per quanto abbia un senso e risolva i misteri sull'Ammiraglio, non dispone di un documento che possa provare con chiarezza l'identità del navigatore». «Molte bene, parleremo poi delle prove» ribatté il conte, facendo un gesto con la mano per chiedere al suo interlocutore di avere pazienza. «Per ora, pensiamo agli indizi. Basandosi su questi, la storia che le ho raccontato ha un senso?». «Ehm... direi di sì, le cose sembrano combaciare». «Allora, adesso analizziamo gli altri indizi». «Altri indizi?». «Sì». Il conte sorrise nuovamente. «Concentriamoci sugli ambigui eventi che si verificano durante il primo cruciale viaggio, quello del 1492. Come sa, Colom sbarcò nelle Antille ed entrò in contatto con gli indigeni, che chiamò indios in quanto pensava di trovarsi in India. Arrivò persino a costringere il suo equipaggio a giurare che quella terra fosse l'India, tanto determinato era il suo intento di convincere i Re Cattolici. Ma è al momento di ritornare che vengono prese le decisioni più bizzarre del viaggio. Invece di ripercorrere lo stesso cammino per il quale erano giunti, navigando verso est in direzione delle Canarie, come fece il capitano della Pinta, l'Ammiraglio impostò la rotta della Niña verso nord, in direzione dell'Artico. Per essere precisi, oggi sappiamo che quello era il miglior cammino, la rotta più efficace, considerando che in quel periodo dell'anno soffiavano nella zona i venti alisei, più favorevoli. Ma se nessuno aveva mai navigato in quelle acque, come afferma la tesi ufficiale, come faceva Colom a saperlo?
È evidente che era stato informato, o da marinai portoghesi, che avevano attraversato quelle zone in segreto o, più probabilmente, dal suo "speciale amico" Don João II, che possedeva le relazioni di quei viaggi tenuti nascosti. Colom navigò due settimane verso nord e nord-est, finché virò a est, nella zona dei venti favorevoli, dirigendosi verso le Azzorre. Las Casas afferma che l'Ammiraglio non corresse la rotta perché ancora non era giunto all'arcipelago portoghese, a dimostrazione del fatto che quella era la sua meta. Affrontò una tempesta e veleggiò sino all'isola di Santa Maria, dove gettò l'ancora. Si verificò allora uno strano episodio. La caravella castigliana fu ben accolta dai portoghesi, che inviarono addirittura un'imbarcazione con delle provviste. L'incaricato del governo sull'isola, un certo João Castanheira, affermò di conoscere bene Colom. L'Ammiraglio inviò a terra parte dell'equipaggio, per pregare in una cappella, ma gli uomini tardarono a tornare, ed egli capì che erano stati catturati dai portoghesi. Gli uomini di Santa Maria mandarono una barca incontro a Colom, esigendo che si arrendesse, poiché avevano l'ordine del re di imprigionarlo. L'Ammiraglio non cedette e tentò di raggiungere l'isola di São Miguel ma, con pochi marinai e con l'approssimarsi di un'altra tempesta, il viaggio si rivelò impossibile, così rinunciò all'impresa e decise di ritornare a Santa Maria. Il giorno seguente, i portoghesi liberarono l'equipaggio. Una volta sulla Nina, i marinai raccontarono di aver sentito Castanheira affermare che voleva prendere solo Colom, così come stabilito dagli ordini del re, e che i castigliani non gli interessavano affatto. Non avendo potuto catturarlo, aveva concesso all'equipaggio di tornare a bordo». Il conte fece una smorfia scettica. «Tutto ciò, come è facile capire, sembra molto misterioso. Dunque, Colom se ne andò a spasso per le Azzorre invece di dirigersi direttamente verso la Castiglia? Cos'è questa storia che João Castanheira conosceva molto bene Colom? E che dire della decisione dell'Ammiraglio quando fu informato dell'ordine di farlo catturare? Invece di prendere il mare e fuggire dal nemico, come avrebbe fatto qualsiasi persona con un minimo di buon senso, optò - difficile crederlo! - per l'isola di São Miguel dove, presumibilmente, quell'ordine sarebbe stato eseguito con la stessa efficacia. Non è curioso questo comportamento?». «In effetti» riconobbe Tomás. «Qual è la spiegazione?». «Non c'era, in quel momento, nessun ordine reale di arresto. Castanheira sapeva solo che il nobile, che conosceva perlomeno di fama, era passato dalla parte dei castigliani e, ignorando i dettagli della strategia geopolitica di Don João II, presuppose che ancora vigesse il precedente ordine del re
di catturare il traditore. Non bisogna dimenticare che Colom era stato coinvolto in una cospirazione contro Don João II e che, quando la congiura fu scoperta, iniziò a essere ricercato dalla giustizia. Per essere più precisi, Castanheira conosceva quest'antico ordine e, vivendo su un'isola remota, non poteva sapere che nel frattempo era stato revocato. D'altra parte, l'Ammiraglio probabilmente non aveva portato con sé il salvacondotto che il sovrano gli aveva consegnato nel 1488, mettendo una pietra sopra agli avvenimenti del 1484. La successiva scelta di Colom, del resto, avalla questa spiegazione. Invece di fuggire verso la Castiglia, come sarebbe stato naturale per un uomo perseguitato così accanitamente dal re portoghese, decise di far rotta verso São Miguel. Per quale motivo l'avrebbe fatto, se c'era una taglia sulla sua testa? La risposta è semplice. Colom aveva ragioni segrete per credere che quell'informazione era falsa e sapeva che a São Miguel c'erano persone che conoscevano la verità». Fece un gesto brusco con la mano, come se volesse chiudere quell'argomento. «Bene, andiamo avanti. Concluso il bizzarro periplo azzorriano, cosa sarebbe stato normale che facesse Colom?». «Ritornare in Castiglia?». «Certo! Per me sarebbe stato logico che Colom tornasse finalmente in Castiglia, ansioso di buttarsi fra le braccia dei Re Cattolici e ricevere la dolce gloria della grande scoperta». Scrollò la testa, la voce carica di ironia. «Nuovo inganno». Si tappò gli occhi con il dorso della mano destra, simulando sofferenza e dolore. «Oh, crudele destino! Venne trascinato da un'altra tempesta, pensi un po', esattamente a Lisbona!». Si portò le mani alla testa, sempre in un esagerato atteggiamento teatrale. «Guarda caso! I venti sembravano aver cospirato per lanciarlo nella bocca del lupo, nel covo del nemico!». Strizzò l'occhio, divertito, e rise. «Per essere precisi, il nostro amico approdò nel Restelo il 4 marzo del 1493, vicino a una grossa imbarcazione che, casualmente, apparteneva proprio al re! Il capitano della nave reale salì sulla Niña per chiedere a Colom cosa stesse facendo a Lisbona. L'Ammiraglio rispose che avrebbe parlato solo con il suo "speciale amico", il re di Portogallo. Il giorno 9, Colom fu accompagnato al palazzo reale ad Azambuja, dove incontrò Don João II. In una stanza gli baciò la mano e si scambiarono alcune parole in privato. Poi il re lo condusse in una sala dov'erano riunite diverse figure illustri della sua corte. Le relazioni dei cronisti differiscono rispetto a quanto accadde in quell'occasione. Hernando Colón, narrando l'episodio, dice che il sovrano portoghese ascoltò con atteggiamento allegro il resoconto del viaggio, facendo appena nota-
re che, secondo il Trattato di Alcáçovas/Toledo, quelle terre scoperte gli appartenevano. Al contrario, Ruy de Pina, che probabilmente assistette all'incontro, afferma che il re seguì rattristato la relazione delle prodezze del suo vecchio suddito e che Colom si rivolse a lui in modo esagerato, accusandolo di negligenza per non avergli dato credito quando avrebbe dovuto. I termini usati sarebbero stati talmente offensivi che Pina racconta come i nobili presenti avessero deciso di uccidere Colom, anche perché, con la sua morte, la Castiglia sarebbe stata privata di quella straordinaria scoperta. Tuttavia, in base a quanto raccontato da Pina, non solo il re Don João II impedì l'assassinio ma, cosa ancor più sensazionale, trattò l'aggressivo e incauto visitatore con molti onori e cerimonie. Non solo, il re si preoccupò anche che fosse fornito alla caravella castigliana tutto ciò di cui avesse bisogno. Il giorno seguente, il 10, Colom e Don João II conversarono nuovamente. Il re gli promise il suo aiuto per ogni necessità e gli permise addirittura di sedersi in sua presenza, sempre molto cerimonioso e coprendolo di ossequi. Si accomiatarono il giorno 11 e i nobili portoghesi lo accompagnarono, lamentandosi di essere costretti a rendergli omaggio». Il conte guardò lo storico. «Allora, cosa ne pensa?». «Beh... ehm... alla luce di quanto mi ha raccontato, mi sembra una storia sorprendente...». «Abbastanza, vero? A cominciare dalle tempeste. Appena entrava in acque territoriali portoghesi, scoppiavano temporali uno dietro all'altro, un susseguirsi di tempeste fino a non poterne più! Ce ne fu una all'ingresso nell'arcipelago, un'altra tra le isole di Santa Maria e São Miguel e una terza vicino Lisbona». Piegò la testa, assumendo un'espressione maliziosa. «Tempeste convenienti, non trova?». «Cosa sta insinuando?». «Che la terza tempesta non fu che un acquazzone un po' più violento, sufficientemente forte perché Colom avesse un pretesto per fermarsi a Lisbona. Del resto, nel celebre Pleyto con la Corona, in cui testimoniarono tutti coloro che presero parte a quel viaggio, i marinai castigliani si ricordavano vivamente della tempesta azzorriana ma nessuno parlò del temporale nei pressi di Lisbona. D'altro canto, vale la pena sottolineare che quasi tutto il viaggio di ritorno dall'America fu compiuto in acque portoghesi, dettaglio a mio avviso alquanto strano. In altre parole, Colom andò a Lisbona non perché costretto dalla tempesta, ma perché era ciò che lui voleva. Conformemente a quanto aveva detto al capitano della nave reale ancorata nel Tago, desiderava parlare con il re». Inarcò le sopracciglia. «Capi-
sce? Colom era stato informato a Santa Maria che il re aveva ordinato la sua cattura e la prima cosa che fece dopo aver abbandonato le Azzorre fu proprio dirigersi a Lisbona e richiedere un incontro con Don João II! Trova sia normale? Non le sembra che, saputo dell'intenzione del re di catturarlo, sarebbe stato più ragionevole evitare Lisbona a tutti i costi? Anche se la nave fosse stata danneggiata dalla tempesta, non sarebbe stato più logico, in quelle circostanze, tentare con tutti i mezzi di dirigersi direttamente in Castiglia? In fin dei conti, se era riuscito a navigare dal luogo della presunta tempesta fino a Lisbona, certamente sarebbe riuscito ad arrivare un po' più lontano. Per quale motivo allora si diresse con tanta tranquillità verso la tana del lupo?». «Effettivamente...» ammise Tomás. «Non pensa sia strano che, una volta a Lisbona, abbia dovuto attendere quattro giorni prima di essere ricevuto dal re?». «Lo sarebbe, se non fosse che, in quel periodo, a Lisbona imperversava la peste. Il re si era rifugiato ad Azambuja per sfuggire all'epidemia e fu necessario discutere sui dettagli per lo spostamento dell'Ammiraglio. In ogni modo, s'incontrarono là il giorno 9. Ebbero un primo scambio di parole in privato. Nessuno conosce il tono di questa conversazione, ma mi pare ovvio che si siano messi d'accordo per fare una sceneggiata». «Una sceneggiata?». «Las Casas descrive Colom come un uomo cortese, sobrio, incapace di espressioni sgarbate. A quanto pare, la sua manifestazione più violenta era: "Vada con Dio!". Ora, come mai un uomo così cortese si mise a offendere il potente re del Portogallo davanti ai propri sudditi? Com'è possibile che parlasse al monarca in un linguaggio così duro da spingere i nobili a volerlo uccidere? E che dire della reazione del grande e implacabile Don João II? Eppure era il re che aveva fatto decapitare e avvelenare i più importanti nobili di Portogallo, alcuni dei quali legati a lui per vincoli di parentela. Colui che, con le proprie mani, aveva pugnalato a morte persino il fratello della regina, il duca di Viseu. Quello stesso re ora si vedeva offeso da un tessitore di seta straniero in casa propria davanti ai suoi sudditi, quello che aveva distrutto il suo sogno di arrivare per primo in India, consegnando l'impresa alla Castiglia. Con le offese che gli erano state rivolte, Don João II avrebbe avuto il pretesto adeguato per uccidere Colom, vendicando gli insulti e, cosa più importante, chiudere le porte dell'India ai castigliani. Invece come si comportò quel re crudele e calcolatore, il primo monarca assolutista del Portogallo?». Lasciò in sospeso la domanda per un momento.
«Impedì ai nobili di uccidere Colom e coprì l'Ammiraglio di cerimonie. Arrivò al punto di permettergli di sedersi in sua presenza, prestigio che all'epoca era riservato solo alle persone di elevatissima estrazione sociale. Non solo, lo aiutò ad allestire la Niña per il viaggio di ritorno in Castiglia, raccomandando al navigatore di portare i suoi saluti ai Re Cattolici, e impose addirittura ai nobili della sua corte, gli stessi che prima avrebbero voluto uccidere Colom, di prendere commiato dal navigatore con grandi onori!». Alzò il dito, come se stesse tenendo un discorso davanti a una platea. «Questo, mio caro, non è l'atteggiamento di uno straniero costretto a entrare in casa del suo peggior nemico. E, soprattutto, non è la condotta di un re che è offeso da colui che, per giunta, ha appena mandato in frantumi la sua grande ambizione. Questo, mio caro, è prima di tutto il modo di fare di due uomini in combutta tra loro, che hanno recitato una scena affinché i castigliani la vedessero. La verità, la pura verità, è che la scoperta dell'America da parte dei castigliani faceva comodo al re di Portogallo. Con loro impegnati in America, Don João II avrebbe avuto campo libero per preparare, finalmente, l'importante viaggio di Vasco da Gama in India, il vero evento fondamentale delle Scoperte». Tomás sospirò. «Ha un senso». «Certo che ne ha!» esclamò il conte Vilarigues. «Soprattutto considerando la successiva mossa di Colom. Sa cosa fece dopo aver preso commiato da Don João II?». «Beh... si diresse verso la Castiglia». «No, mio caro. Non ci andò affatto». «No?». «No. Andò a fare un giro per il Portogallo». «Davvero?». «Sì, proprio come le ho detto. L'uomo salutò il re ad Azambuja e, invece di tornare alla sua caravella, presumibilmente ansioso di arrivare in Castiglia decise di fare un salto a Vila Franca de Xira». «A Vila Franca de Xira? Che diavolo ci andò a fare?». «A conversare con la regina, che si trovava in un monastero. Las Casas narra che Colom le baciò le mani e che la regina era accompagnata dal duca e dal marchese. Non lo trova strano?». «Certo! Di cosa parlarono?». «Argomenti di famiglia, presumo». «Argomenti di famiglia?».
«Su, mio caro, la prego di ricostruire insieme a me il percorso di Colom. Un nobile portoghese è obbligato a fuggire verso la Castiglia con il figlio a causa del ruolo assunto nella cospirazione contro il re. Chi c'era dietro questa cospirazione? La madre e il fratello della regina, il duca di Viseu, pugnalato a morte dallo stesso re. In altre parole, Colom aveva legami con la regina stessa. Con molta probabilità, legami di sangue. La Signoria Vostra può immaginare che fosse un nipote, o un cugino, o qualcosa del genere, non so dirle esattamente il grado di parentela, ma posso garantirle che fosse prossimo alla regina». Alzò il dito, come era solito fare quando voleva enfatizzare un punto importante. «Faccia bene attenzione, mio caro. Quest'incontro tra Colom e la regina, che si protrasse fino a sera, si spiega solo nel caso in cui tra i due ci fosse una profonda conoscenza, forse anche complicità. Altrimenti, come interpretare una simile riunione? Se Colom fosse stato un umile tessitore di seta straniero, come giustificare quest'incontro? E, più importante ancora, come spiegare che lei, la regina, l'avesse voluto ricevere? Come valutare il fatto che avessero conversato fino a sera, e che alla conversazione avesse partecipato anche il nuovo duca di Viseu, fratello della regina, che altri non era se non il futuro re Don Manuel?». Fece un gesto di rassegnazione. «L'unica spiegazione, mio caro, è che quello fu un incontro di parenti che non si vedevano da anni». Fissò gli occhi su Tomás, con sguardo perentorio. «Per caso la Signoria Vostra ha un'altra spiegazione?». Il professore lo ascoltava a bocca aperta. Scrollò la testa lentamente. «No» ammise. «Nessuna spiegazione avrebbe tanto senso quanto questa». «Nella notte del giorno 11 Colom andò a dormire ad Alhandra» disse il conte, riprendendo il racconto. «La mattina seguente giunse uno scudiero del re e si offrì, nel caso Colom lo avesse voluto, di condurlo in Castiglia via terra, procurandogli alloggi e animali per il viaggio». Strizzò l'occhio. «Simpatico, il re, eh? Voleva aiutare Colom a svelare al regno di Castiglia il segreto del viaggio verso l'India. E impegnarsi nella sua stessa sconfitta». Scrollò la testa, manifestando il suo scetticismo. «Comunque sia, Colom preferì tornare alla Nina, e levò l'ancora da Lisbona il 13 marzo». Guardò nuovamente Tomás. «Sa dirmi quale fu la successiva destinazione?». «Beh, si diresse finalmente in Castiglia, no?». Il conte rise. «Questa sì che sarebbe stata una buona idea!» esclamò.
Tomás sgranò gli occhi. «Non mi dica che fece tappa in qualche altra città del Portogallo...». «Invece è proprio così. L'Ammiraglio se ne andò a Faro!». Entrambi scoppiarono a ridere. La storia del viaggio di ritorno di Colombo stava diventando una barzelletta. «A Faro?» domandò Tomás, quando le risate furono finite. «E a quale scopo?». «Chi lo sa!» rispose il conte, alzando le spalle. «Che io sappia, all'epoca ancora non esisteva il lungomare di Vilamoura né la Tenuta do Lago! Non c'erano bar né discoteche!». Le loro risate risuonarono nella Charola templare. «Colom arrivò a Faro il 14 e vi rimase quasi un giorno intero; partì solo la sera. Nessuno sa perché vi si sia recato. D'altra parte, poiché era un nobile, è probabile che sia andato a far visita a qualcuno di sua conoscenza. Questa è l'unica spiegazione per giustificare un'ulteriore tappa in Portogallo». Alzò le mani verso il cielo, come a dire Alleluja. «Finché, finalmente, il 15 marzo arrivò in Castiglia». Si accarezzò i baffi. «Ora stia attento. L'equipaggio dell'Ammiraglio non vedeva l'ora di tornare a casa. Colom stesso era ansioso di presentarsi davanti ai Re Cattolici con la relazione della grande scoperta dell'India. E, tuttavia, quel diavolo di uomo si era messo a viaggiare per l'intero Portogallo, dalle Azzorre all'Algarve, da Lisbona a Vila Franca de Xira, da Azambuja ad Alhandra in tutta tranquillità, conversando con il re e con la regina, andando a trovare amici e parenti, passeggiando di qua e di là, come stesse in vacanza. Le sembra un atteggiamento plausibile se si fosse trattato di un tessitore di seta genovese? Le sembra poi che questo modo di fare si addica all'Ammiraglio al servizio della Castiglia in territorio nemico?». Il conte accennò un'espressione dubbiosa. «Non credo. Colom non agì come uno straniero in terra ostile, ma come un portoghese a casa sua, mostrandosi persino riluttante a ripartire. Cristóvam Colom, mio caro, era un nobile portoghese che prestò un grande servigio al suo Paese allontanando la Castiglia dalla rotta per l'India». Lo storico si passò la mano sul viso, massaggiandosi il volto. «E sia» si arrese. «Ma mi dica una cosa. I marinai castigliani non trovarono tutto molto insolito?». «Certamente». Indicò la ventiquattrore di Tomás. «Ascolti, lei ha delle copie delle lettere di Colom?». «Copie delle... ehm...» esitò, cercando nella valigetta. «Sì, sì, credo di sì». «Ha quella che scrisse nel 1500, durante la prigionia, a Dona Juana de la
Torre?». Tomás sfogliò velocemente le fotocopie e individuò il documento richiesto, porgendolo a Vilarigues. «Eccola». Il conte passò lo sguardo sul fac-simile della lettera. «Ora presti attenzione a questa frase» disse. «"Yo creo que se acordará vuestra merced, cuando la tormenta sin velas me echó en Lisbona, que fui acusado falsamente que avia yo ido allá al Rey para darle las Indias"». Fissò il suo interlocutore. «In altre parole, anche l'equipaggio trovò questo comportamento molto strano, guardando con diffidenza soprattutto i colloqui fra Colom e Don João II. Evidentemente, i marinai castigliani pensarono che l'Ammiraglio fosse andato a offrire la scoperta al re portoghese, ma la verità, e noi lo sappiamo, era ancora più sbalorditiva. Colom era diventato, dal 1488, un agente del Principe Perfetto. L'incontro a Lisbona, nel 1493, non avvenne per donare l'America a Don João II, ma innanzitutto perché entrambi facessero il punto della situazione e pianificassero la successiva strategia, quella che avrebbe portato al Trattato di Tordesillas». «Ammettiamo che sia così» concluse Tomás. «Indipendentemente dal fatto che ci siano dettagli più o meno certi, la verità è che questa teoria si incastra perfettamente con gli eventi storici. Così i misteri di Colombo sono risolti. Gli indizi sono forti e vanno in questa direzione. Ma, diamine, dov'è la prova decisiva? C'è un documento che attesta ogni cosa?». «Non starà mica sperando che esista un documento che confermi che Colom era un agente segreto portoghese? Come ben può immaginare, quest'informazione era confidenziale e, di conseguenza, non c'erano carte su cui fosse registrata». «È naturale che, essendo un agente segreto, l'informazione fosse nascosta, e pertanto non troveremo mai delle prove. Ciò che voglio è la prova del fatto che Colombo fosse portoghese». Vilarigues accarezzò la barba che si assottigliava sul mento. «Bene!» esclamò. «Sa, l'antico presidente della Real Sociedad de Geografia spagnola, Beltrán y Rózpide, rivelò l'esistenza di una prova conservata in un archivio privato portoghese...». «Sì» lo interruppe lo storico «già lo so, è quanto racconta Armando Cortesão. Ma il fatto è che questo documento non è mai stato trovato, poiché Rózpide morì senza indicare quale fosse l'archivio privato. Il che significa che questa tesi ancora manca della prova decisiva». Il conte Vilarigues respirò a fondo. Si guardò intorno, come volesse e-
saminare i grandi archi della Charola, l'enorme tavolo di pietra bianca al centro dell'altare principale, il tamburo centrale ottagonale e l'altezza delle volte. Alzò gli occhi e osservò i grandi baldacchini gotici con intagli dorati che puntavano verso il vertice della cupola, decorata con i simbolici araldici di Don Manuel e dell'Ordine Militare di Cristo: lo splendore dell'architettura templare raggiungeva lì la sua massima espressione. Alla fine spostò lo sguardo su Tomás. «Ha mai sentito parlare del Codice 632?». Lo storico sgranò gli occhi, sorpreso. «Ehm... il Codice 632?». «Sì. Ne ha mai sentito parlare?». Tomás si passò la mano sul volto. «È curioso che me ne parli» disse. «Ho trovato un riferimento a questo Codex nella cassaforte del professor Toscano, sul retro di una delle fotocopie proprio vicino al foglio con il suo numero di telefono». «Ah sì? E che fine hanno fatto queste fotocopie?». Il professore si chinò sulla sua inseparabile ventiquattrore marrone. Cercò qualcosa al suo interno e alla fine tirò fuori due fogli. «Eccole» dichiarò, mostrandole al conte. Vilarigues prese le fotocopie, le studiò di sfuggita e riprese a guardare Tomás. «Sa cos'è questa?». «È la Crónica de D. João II di Ruy de Pina. È il brano in cui l'autore inizia a raccontare il famoso incontro di Colombo con il re». Il conte sospirò di nuovo. «È evidente che questa è la relazione di Ruy de Pina. Ma è anche molto di più. Lo sa cos'è?». Tomás lo guardò, senza capire dove voleva arrivare il suo interlocutore. «Beh... ehm... no». «Questo, mio caro, è un passo del Codice 632». Lo storico fissò i due fogli in mano al conte. «Davvero? La Crónica de D. João II è il Codice 632}». «No, mio caro. La Crónica de D. João II non è il Codice 632; è il Codice 632 a essere una Crónica de D. João II». Tomás scrollò la testa, confuso. «Non capisco». «È semplice, mio caro» disse Vilarigues. «Intorno all'inizio del XVI secolo, il re Don Manuel ordinò a Ruy de Pina di scrivere la Crónica de D.
João II. Pina era amico personale del defunto re e conosceva molti dettagli della sua vita. Il cronista prese la penna e scrisse una biografia del Principe Perfetto. Il manoscritto passò ai copisti, che la riportarono su pergamena o carta. Il manoscritto originale è andato perso, ma esistono tre riproduzioni principali, tutte del XVI secolo. La più bella è conservata nella cassaforte della Torre do Tombo, dove si concentra il grande tesoro bibliografico del Portogallo. Si tratta del Pergaminho 9, redatto in lettere gotiche e ricco di miniature a colori. Le altre due copie si trovano alla Biblioteca Nazionale: una è il Codice Alcobacense, così chiamato perchè fu rinvenuto presso il Monastero di Alcobaça, l'altra è il Codex 632. Tutte e tre le copie narrano gli stessi eventi, sebbene con calligrafie differenti. Ma c'è un dettaglio, un piccolissimo dettaglio, diverso rispetto alle altre versioni». Prese le fotocopie e le mostrò a Tomás. «Si trova nel Codex 632, nell'estratto in cui Pina descrive l'incontro di Colom con Don João II». Avvicinò le fotocopie agli occhi dello storico. «Non nota niente di anomalo in questo testo?». Tomás prese i fogli e analizzò la parte finale della prima fotocopia e le righe all'inizio della seconda.
«No, non mi pare» disse alla fine. «Questa è la descrizione dell'arrivo di Colombo a Lisbona, dopo il viaggio in America. Mi sembra normale». Il conte inarcò leggermente il sopracciglio sinistro, come se lui fosse un professore e Tomás un alunno che aveva dato la risposta sbagliata. «Trova?».
«Beh... sì, non vedo niente di insolito». «Guardi bene gli spazi fra le parole. Hanno tutti una misura uniforme. Ma c'è un punto in cui il copista altera lo schema. Vede?». Tomás si piegò nuovamente sui due fogli, fissando il testo. Prima focalizzò l'insieme, e poi i dettagli. «In effetti, ora che me lo dice, qui c'è una cosa curiosa...». «Allora?». «C'è uno spazio bianco dopo la parola "Capítulo", in fondo alla prima pagina...». «Il che significa che il copista non scrisse il numero del capitolo, in attesa di notizie dall'alto. E che altro?». «E... e c'è uno spazio insolitamente grande davanti e dopo la parola "y taliano". È minimo ma molto visibile se paragonato agli spazi fra le altre parole». «Certo che lo è, mio caro. E cosa significa questo?». Tomás guardò il suo interlocutore con aria perplessa. «Beh... ehm... è bizzarro...». «Che è bizzarro già lo so. Ma mi dica cosa ne pensa. Su, non abbia paura, si butti!». «Così a prima vista... dà l'impressione... ehm... dà l'impressione che il copista abbia lasciato uno spazio bianco dove si riferisce all'origine di Colombo. Ha scritto tutto di getto ma ha lasciato vuota questa parte. È... è un po' come se stesse aspettando indicazioni dall'alto su come riempire quegli spazi...». «Bingo!» esclamò il conte. «Finché non avesse ricevuto istruzioni». «Esatto. Istruzioni affinché scrivesse "y taliano"». «Come tutti i cronisti, Ruy de Pina scriveva solo ciò che gli dicevano o gli permettevano di scrivere. Molte cose rimanevano nascoste. Ad esempio, Pina non parlò mai del più importante evento di navigazione accaduto sotto il regno di Don João II, vale a dire la scoperta del passaggio per l'Oceano Indiano da parte di Bartolemeu Dias. Questo grande fatto, che rese possibile il successivo viaggio di Vasco da Gama, fu semplicemente ignorato dal cronista». «Sì» concordò Tomás. «Non c'è dubbio che i cronisti registrassero solo ciò che era d'interesse per la Corona». Il conte Vilarigues indicò una terza e una quarta riga della seconda pagina. «Aveva già notato che, in questo passo, il nome "colo nbo" è diviso a
metà? Nella terza riga c'è "colo" e nella quarta "nbo". Sembra che lo spazio lasciato in bianco fosse stato ancora più grande, e che il copista abbia ricevuto successive istruzioni di scrivere, all'inizio della quarta riga, "nbo y taliano" invece di qualcos'altro». Alzò il dito e spalancò gli scuri occhi. «Invece della verità». Abbassò il tono di voce, quasi sussurrando. «Invece del segreto». Tomás si accarezzava il mento mentre esaminava quella strana riga. «Diamine!» osservò, con lo sguardo catturato dal punto in questione. «Di fatto, dà proprio la sensazione che il copista abbia aggiunto "nbo y taliano" a posteriori». Il conte si rimise seduto sulla dura superficie del sedile, sconfortato, si era stancato di rimanere così a lungo in quella posizione. «Ma devo dirle una cosa» specificò. «Quando parlai con il professor Toscano del Codex 632, poco tempo prima che andasse in Brasile e morisse, lui avanzò un'altra ipotesi. Avevo sempre pensato che questi insoliti spazi bianchi intorno a "y taliano" indicassero che, al momento della prima redazione, si fosse lasciato di proposito uno spazio vuoto per poi aggiungere quello che fosse più conveniente. Il professor Toscano però aveva un'altra teoria. Riteneva che questi spazi fossero indizio di cancellature. In altre parole, credeva che il copista avesse ripreso dal manoscritto originale di Pina, già scomparso, l'informazione sulla vera identità di Colom. Ma siccome c'era tutto l'interesse a mantenere segreto questo dettaglio, l'informazione originale fu eliminata e sostituita con "nbo y taliano". Mi aveva promesso che avrebbe fatto delle verifiche, ma non mi disse più niente». Scrollò le spalle. «Suppongo che si fosse rivelata una congettura infondata». «Forse» ammise Tomás. Sventolò i due fogli. «Sa se queste fotocopie sono state fatte dal documento originale?». «In che senso?». «Il professor Toscano ha fatto la copia del documento originale o di un fac-simile?». «Ah, no. Questa è la copia tratta dal microfilm messo a disposizione dalla Biblioteca Nazionale. Come sa, non abbiamo accesso agli originali. Il manoscritto del Codex 632 è un'opera rara ed è conservato in cassaforte, non si può certo consultarlo liberamente». Tomás si alzò e si sgranchì, indolenzito dopo essere stato troppo tempo fermo. «È quanto volevo sapere» disse.
Anche il conte s'alzò. «Ora cos'ha intenzione di fare la Signoria Vostra?». «Una cosa molto semplice, signor conte» rispose, sistemandosi i vestiti. «Farò quello che avrei già dovuto fare da tempo». «Cioè?». Tomás si diresse verso una piccola porta aperta davanti al sedile su cui si erano accomodati. Si stava già preparando a lasciare la Charola e a scendere nel Grande Chiostro quando si fermò, girò la testa e guardò il conte, i lineamenti del cui viso erano nascosti nella penombra. «Andrò alla Biblioteca Nazionale a vedere l'originale del Codex 632». XVI La porta dell'ascensore si aprì con un leggero fruscio e Tomás si ritrovò nell'atrio del terzo piano della Biblioteca Nazionale di Lisbona. Era un ambiente buio, taciturno, vuoto; la penombra si insinuava negli angoli, emergendo dai corridoi deserti, aggrappandosi lungo le pareti nude, cacciata solo dalla luminosità che penetrava attraverso le finestre che si affacciavano sul terrazzo e dalle fronde degli alberi che ondulavano lontane. Mentre i passi rimbombavano nell'atrio, risuonando sul marmo levigato del pavimento, lo storico attraversò quello spazio spoglio e spinse le porte di vetro e alluminio, entrando nella sala di lettura. L'area dei fondi speciali era limitata a una stanza stretta e corta, considerevolmente più piccola rispetto alla sala di lettura del pianterreno. Enormi finestre occupavano l'intera parete che dava sull'esterno, riempiendo la sala di luce e abbellendola con lo spettacolo della vegetazione intorno all'edificio. Le pareti erano coperte da scaffali colmi di cataloghi e volumi vari, antichi tesori sistemati uno accanto all'altro dalla parte del dorso. Piegati sui tavoli, disposti come in un'aula di scuola, alcuni lettori consultavano vecchi manoscritti. Qua una pergamena rovinata, lì un elegante libro di miniature, ovunque antichi tesori bibliografici ai quali solo gli accademici avevano facile accesso. L'ultimo arrivato riconobbe alcuni visi conosciuti. In fondo alla stanza era seduto un anziano cattedratico dell'Università Classica, un uomo magro e irritabile, con una barba bianca e a punta, curvo su un codice medievale; in un angolo c'era un giovane e ambizioso assistente dell'Università di Coimbra, con baffi vistosi e viso paffuto, alle prese con un noioso Libro delle Ore. Nella prima fila una ragazza magra e nervosa, con i capelli spettinati e vestiti trascurati, sicuramente una sec-
chiona, sfogliava un blocco molto rovinato, un vecchio catalogo consumato dall'uso e dal tempo. «Buongiorno, professore» lo salutò l'impiegata al punto di accoglienza, una signora di mezza età con gli occhiali di tartaruga, un volto familiare per i frequentatori abituali di quegli archivi. «Salve, Odete» ricambiò Tomás. «Tutto bene?». «Sì». L'impiegata s'alzò. «Le vado a prendere l'opera che le serve». Tomás aveva richiesto un'autorizzazione il giorno prima, seguendo una regola imprescindibile per la consultazione diretta dei manoscritti rari e di valore. Si mise a sedere in un posto libero vicino alla finestra e rimase ad aspettare, dubbioso su quello che avrebbe trovato. Aprì il bloc-notes e lesse le informazioni raccolte sull'autore del documento che era venuto a cercare. Aveva accertato che Ruy de Pina era un alto funzionario della corte che godeva della piena fiducia di Don João II. Aveva seguito come diplomatico le grandi dispute con Castiglia ed era stato inviato dalla Corona portoghese a Barcellona, nel 1493, per discutere con i Re Cattolici sulla situazione venutasi a creare con il viaggio di Cristoforo Colombo in "Asia". Aveva partecipato ai preparativi per le negoziazioni che portarono, l'anno dopo, al Trattato di Tordesillas, il celebre documento che divise il mondo tra Portogallo e Castiglia. Dopo la morte del Principe Perfetto, del quale fu esecutore testamentario, diventò cronista di corte, scrivendo la Crónica de D. João II, al massimo all'inizio del XVI secolo, sotto il regno di Don Manuel. Il suono dei passi che si avvicinavano distolse Tomás dai suoi ragionamenti, strappandolo ai suoi appunti come il rumore che invade un sogno e lo dissolve, riportando alla realtà. Era Odete che tornava con il volume; l'impiegata della biblioteca appoggiò pesantemente il manoscritto sul tavolo e accennò una smorfia di sollievo. «Ecco qua!» esclamò, quasi affannosamente. «Lo tratti bene». «Stia tranquilla» sorrise Tomás, senza distogliere lo sguardo dall'opera. Il massiccio volume mostrava una copertina di pelle marrone e sul dorso riportava il riferimento della segnatura. Codex 632. Aprì il manoscritto e sentì sprigionarsi l'odore dolciastro della carta vecchia, un profumo intrappolato dal tempo e finalmente libero dalla lunga prigionia. Sfogliò il documento con attenzione quasi rispettosa, girando ogni pagina con delicatezza, voltandola con la punta delle dita, con cura, come se accarezzasse una reliquia. I fogli erano ingialliti, macchiati, le iniziali erano ornate a inchiostro, il colore giallo scuro contrastava con i tratti neri delle fotocopie
conservate da Toscano nella sua cassaforte. Sulla prima pagina era riportato il titolo. Chronica de El Rey D. Joam II. Tomás sfogliò il codice lentamente, scorrendo ogni pagina, leggendo parola per parola, a volte saltando paragrafi, righe intere, sempre alla ricerca dell'enigmatico passo fotocopiato. Poiché i capitoli non erano numerati, né venivano riportate le pagine, si vide costretto a proseguire con lentezza nella sua ricerca, districandosi attraverso la complicata ortografia del portoghese cinquecentesco. Si fermò al foglio settantasei. Spiccava la n ornata, con cui iniziava l'espressione "Nell'anno seguente del m... e tre trovandosi il Re nella località Vall de parayso...". Girò il foglio e ne studiò la parte alta, continuando a cercare la frase che conteneva gli spazi bianchi vicino al riferimento a Cristoforo Colombo. La trovò. Immediatamente sentì un tuffo al cuore; spalancò la bocca, tenendo gli occhi fissi su quel passo e rifiutandosi di credere ai suoi occhi. All'inizio della quarta riga, a sinistra, una macchia biancastra sotto le parole "nbo y taliano" tradiva una correzione. Era una cancellatura. La cancellatura. Tomás si allargò il colletto, sembrava gli mancasse l'aria, e si guardò intorno, come se stesse affogando e fosse in cerca d'aiuto. Avrebbe voluto gridare quella scoperta, era ansioso di rendere pubblica quella frode finalmente smascherata, ma la sala sembrava estranea a quella rivelazione, immersa com'era nel grigio torpore pomeridiano, abbandonata alla monotonia di un pigro studio. Si concentrò di nuovo sul foglio del manoscritto, temendo che fosse scomparso quanto aveva visto. Ma no, la cancellatura era ancora lì, sottile ma impossibile da nascondere, sembrava ridergli in faccia. Lo storico scrollò la testa, ripetendo mentalmente la conclusione a cui inevitabilmente si doveva arrivare. Qualcuno aveva corretto la Crónica de D. João II. Il passo che rivelava la nazionalità di Colombo era stato manomesso; una mano sconosciuta aveva cancellato il frammento originale e l'aveva sostituito con "nbo y taliano", in modo che risultasse "Xpova colo nbo y taliano". Chi poteva averlo fatto? E perché l'aveva fatto? Ma, più importante ancora, cosa diceva il testo originale? Sì, che diceva il testo originale? Quest'ultima domanda iniziò a martellargli la testa, insistente, ostinata, insidiosa. Qual è il segreto che la correzione aveva occultato? Chi era, infine, Colombo? Sollevò il Codex verso la finestra, mettendo il foglio controluce per tentare di scorgere qualcosa sotto la correzione. Ma la cancellatura non tradì il segreto; rimase fitta e opaca.
Impenetrabile. Dopo aver speso più di dieci minuti cercando di vedere l'invisibile, Tomás decise di cambiare tattica. Sarebbe andato a parlare con un esperto in strumenti di immagine elettronica avanzata per valutare la possibilità di recuperare eventuali indizi del testo cancellato. Prese il volume e si alzò dal suo tavolo; si avvicinò al punto d'accoglienza e appoggiò l'opera sul bancone di legno. «Già finito?» si meravigliò l'impiegata, alzando gli occhi da un romanzo economico che leggeva piegata sulla scrivania. «Sì, Odete. Sto andando via». La donna prese il codice per riconsegnarlo al deposito. «Questo codice è molto ricercato» commentò, mentre riprendeva il volume. Tomás era già sulla porta quando sentì quell'osservazione. «Come?». «Il Codex 632 è molto ricercato» ripeté Odete. «Ricercato? E da chi?». «Beh, il professor Toscano ha richiesto il volume circa tre mesi fa». «Ah» comprese Tomás. «Sì, il professor Toscano probabilmente stava cercando questo codice, proprio questo...». «Povero professore. Morire così, in Brasile, tanto lontano dalla famiglia». Tomás sospirò con un'aria rassegnata, appropriata alla circostanza. «È la vita, purtroppo». «Già» confermò Odete. «E la risposta alla sua richiesta è rimasta a me. Non so ancora cosa ne devo fare». «Quale richiesta?». L'impiegata agitò il manoscritto, mostrandoglielo. «Riguarda il codice» disse. «Il professor aveva chiesto un'immagine ai raggi X ai nostri laboratori. L'esito mi è arrivato più o meno due settimane fa, e non so che farne». Tomás ritornò verso il bancone, un'espressione di curiosità fissa negli occhi. «Mi lasci capire. Il professor Toscano aveva voluto che il manoscritto fosse sottoposto ai raggi X?». Odete rise. «No, professore. Aveva richiesto l'esame ai raggi X soltanto per un foglio del manoscritto». Alzò l'indice. «Di uno solo».
Con tutta probabilità si riferiva proprio alla pagina cancellata. «Dov'è l'esito?». «Lì» rispose, indicando un armadietto sotto al bancone accostato alla parete. «Nel mio cassetto». Lo storico si curvò sul bancone e osservò il cassetto con il cuore in gola. «Odete, mi faccia un favore. Me lo mostri». L'impiegata posò di nuovo il volume sul bancone e si piegò sulla sua scrivania. Aprì il cassetto, frugò all'interno e tirò fuori un'enorme busta. «Eccolo» disse, porgendogli la grande busta bianca con il logo della Biblioteca Nazionale di Lisbona nell'angolo riservato al mittente. «Tenga...». Tomás strappò la busta da un'estremità ed estrasse quella che sembrava un'immagine ai raggi X, simile alle lastre che si fanno alle ossa. Ma, invece di mostrare una parte dello scheletro umano, la fotografia raffigurava la pagina di un testo. Da uno sguardo superficiale, lo storico capì subito che si trattava effettivamente della pagina cancellata del Codex 632. Come da una calamita, i suoi occhi furono attratti dal lato sinistro della quarta riga, il passo in cui era stata apportata la correzione. Si riconoscevano ancora i tratti del "nbo y italiano" aggiunti sulla cancellatura. Ma, oltre a questi, emergevano altri segni nello stesso punto: confusi, in parte cancellati, e con due scritture sovrapposte. Tomás pose lo sguardo su quella parte di testo e si concentrò sul formato delle lettere e sul modo in cui quelle si combinavano per formare parole. Tentò di individuare le linee originali, distinguendole da quelle aggiunte in un secondo momento. Con i movimenti della testa accompagnò i tratti misteriosi, seguendoli nelle loro curve, cercando di decifrare il significato che assumevano le lettere eliminate. All'improvviso, come per incanto, come se fosse stato toccato da un genio o illuminato da un'ispirazione divina, il testo originale gli fu chiaro. Tomás finalmente capì cosa Ruy de Pina aveva di fatto scritto nella prima versione: la verità emerse dal testo e gli riempì l'anima. Il mistero era svelato. La struttura di pietra bianca s'innalzava sullo specchio risplendente e verdastro dell'acqua, con una fredda forza che contrastava la calda energia del sole di mezzogiorno. Era come se un castello medievale fosse stato costruito in mezzo al fiume, superbo e orgoglioso, un monumento gotico in memoria dei tempi grandiosi. Si elevava simile a una di nave di pietra, immobile fra l'ondeggiare della superficie liquida, vera sentinella a vigilare sulla foce del Tago e a difendere Lisbona dallo scuro mantello dello sconosciuto, da quel vago Adamastor che restava nascosto oltre la linea d'o-
rizzonte, un fantasma immerso nell'infinita immensità dell'oceano. Tomás percorse il pontile passando sopra alle acque tranquille della riva del fiume, tenendo lo sguardo fisso sulla preziosa opera di pietra verso cui si stava dirigendo. Con imponente raffinatezza, la Torre di Belém cresceva davanti ai suoi occhi. L'alto torrione arretrato s'affacciava sulla vasta piattaforma, come se la torre fosse il ponte e il bastione la prua di una robusta caravella cinquecentesca, entrambi uniti da una grossa gomena di pietra rifinita da graziosi nodi. Le garitte erano coronate da cupole a spicchi, come quelle della moschea almohade. Le logge erano decorate con bifore in stile arabo e i parapetti erano merlati. Da ogni parte si scorgevano le orgogliose sfere armillari, scolpite nella pietra ed esibite con fierezza, e la croce dell'Ordine Militare di Cristo, simbolo templare portoghese, visibile soprattutto nei merloni dei parapetti. Lo storico penetrò nella fortezza e si diresse al luogo dell'appuntamento, intimamente divertito dall'ossessione che il suo interlocutore aveva per i documenti più emblematici delle Scoperte. Nelson Moliarti lo stava aspettando accanto alle feritoie del bastione, presso una delle garitte anteriori, masticando un chewing gum. «Ho buone notizie!» esordì Tomás, con un'euforia a malapena trattenuta, mentre porgeva la mano all'americano per salutarlo. «Ah sì?». «Sì». Sollevò la ventiquattrore marrone, mostrandola all'uomo della fondazione. «Ho concluso la ricerca». Moliarti sorrise. «Davvero?». «Può crederci». «Meno male, meno male. Allora, mi dica!». Appoggiato alle feritoie che contornavano il monumento, Tomás riportò i dati che aveva raccolto durante le sue trasferte a Gerusalemme e a Tornar. Parlò con così forte intensità che non fece più caso a nulla. I gabbiani svolazzavano rumorosamente tutt'intorno, gracchiando con malinconia, sfiorando talvolta la cupola bulbosa delle garitte durante i loro voli radenti. La brezza del mare profumava l'aria di salmastro. Era il profondo alito dell'oceano che risaliva dall'acqua e riempiva il vento con il suo soffio fresco e rinvigorente. Le onde si rifrangevano dolcemente sulla base della Torre di Belém, accarezzando la pietra, abbracciandola, come a baciarle i piedi. Tomás rimase però indifferente a quei colori, quei suoni e quelle fragranze, concentrato soltanto a spiegare il mistero che lo aveva persegui-
tato negli ultimi tre mesi. Moliarti lo ascoltò con espressione impassibile, impenetrabile, quasi senza accenno di sorpresa. Cambiò espressione solo nella parte finale, quando lo storico rivelò ciò che era accaduto il giorno prima alla Biblioteca Nazionale. «Dove sono questi raggi X?» volle sapere l'americano, all'improvviso ansioso. «Sono qui» svelò Tomás, indicando la borsa con un gesto. «Me li mostri». Il portoghese si rannicchiò vicino alla base delle feritoie, aprì la ventiquattrore marrone e tirò fuori una grossa busta con il logo della Biblioteca Nazionale. Si alzò e aprì l'involucro, estraendo un foglio plastificato, che stese a Moliarti. «Tenga». L'americano passò gli occhi sull'immagine con un'ansia a stento mascherata e immediatamente guardò Tomás, mostrando un'espressione interrogativa. «Ehi! Non capisco. Dov'è la rivelazione?». Lo storico lanciò un'occhiata al foglio e indicò la parte sinistra della quarta riga. «Vede questo?». Moliarti si sforzò di distinguere ciò che stava osservando. «Sì...» disse, titubante, incerto su quanto stava leggendo. «Riesce a comprendere cosa c'è scritto?». «Beh... ehm... non proprio». «È naturale» sorrise Tomás. «C'è un intreccio di testi, quello cancellato e quello soprascritto. Tenga presente che quest'ultimo è più scuro. Dice "nbo y taliano". Ma è sulle parti grigiastre, quelle più chiare, che si deve concentrare. Ora guardi». Moliarti avvicinò gli occhi alla quarta riga, come se fosse miope. «È vero» constatò. «C'è qualcosa qui». «Riesce a capire?». «È... ehm... c'è una n e... una a...». «Esatto. E di seguito?». «Sembra... una l?». «È una d. E che altro?». «Una o». «Giusto. Allora, cosa si ottiene?». «Nado».
«Molto bene. E le parole successive?». «Beh... ehm... sembrerebbe una e e una n, no?». «Precisamente». «Da cui en». «E cosa legge sotto alla parte finale di ytaliano? Faccia attenzione, questa è difficile...». «Bene» si espose Moliarti. «C'è una c e dopo... dopo è una m?». «Una u». «Ah, sì. Una c e una u. Ea seguire... a seguire una b. È una b, vero?». «Sì». «E una a». «Molto bene. Ora legga tutta la frase, per favore». «Nado en cuba». Tomás osservò l'americano con un sorriso malizioso. «Capisce?». Moliarti rilesse la frase, insicuro. «No». «Allora andiamo all'ultima parola della terza riga» disse Tomás, indicando il punto esatto. «Qui c'è scritto colo che, insieme al testo successivo, permette di leggere "colo nbo y taliano"». «Sì...». «La parola colo non è stata modificata, così come si può constatare dai raggi X. Ma ci sono due lettere, originariamente unite a questa parola, che furono cancellate ma che la scansione mostra. Ora, quali sono?». L'americano si concentrò sul quell'estratto. «Sono... sono una n e una a». «Che insieme danno?». «Na?». «Sì. Ma come deve essere letta la sillaba unita a colo?». «Colona?». Lo storico tacque per un istante, in attesa che la mente di Moliarti s'illuminasse. «Allora mi dica. Qual è la frase originale?». «Ehm... non capisco». «Mi legga la frase così come l'aveva scritta originariamente Ruy de Pina. Legga». «Beh... sarebbe "colona nado en cuba"». «Capisce?».
«Non del tutto». Tomás si passò la mano fra i capelli, leggermente spazientito. «Nelson, stia attento a quanto sto per dirle. Ruy de Pina, all'inizio del XVI secolo, scrisse la Crónica de D. João II. Quando arrivò il momento di narrare il famoso incontro tra Colombo e il re di Portogallo al ritorno dal viaggio in America, il cronista pensò che l'informazione confidenziale già fosse diventata obsoleta e rivelò l'identità segreta del navigatore. Questo primo testo fu consegnato a un copista, che iniziò a elaborarlo nel manoscritto che oggi conosciamo come Codex 632. Quando il copista ebbe terminato il lavoro, qualcuno lo lesse, probabilmente lo stesso re Don Manuel, fu scandalizzato da quella rivelazione e fece alterare il testo. Alla fine della terza riga, dove era scritto colona, fu cancellata l'ultima sillaba, na, e restò colo. Nella quarta riga, al posto di nado en cuba, venne scritto nbo ytaliano. Siccome quest'ultima frase era di poco più piccola rispetto a quella originale, il copista si vide obbligato a dividere la parola ytaliano, scrivendo y taliano. E tuttavia avanzò dello spazio. Il manoscritto originale di Pina finì per essere distrutto e le restanti copie, designate come Pergaminho 9 e Códice Alcobacense, furono redatte a partire dal Codex 632. È in questo modo che, dove prima si leggeva "a Ribou a Restelo, em lixboa Xpova colona nado en cuba", si è passati a leggere "a Ribou a Restelo, em lixboa Xpova colo nbo y taliano"». Fece una pausa. «Ora comprende?». «Sì» ribatté Moliarti, ancora esitante. «Ma mi dica. Che significa "colona nado en cuba"? Non capisco». «Iniziamo da "nado en cuba". "Nado en" significa nato a. "Cuba" è il luogo di nascita. "Nado en cuba". Nato a Cuba». «Nato a Cuba? Ma come è possibile? Che io sappia, quando Colombo nacque Cuba ancora non era stata scoperta...». Tomás rise. «Nelson, non nacque nell'isola di Cuba». «Ah! E allora dove?». «Nacque nella città di Cuba». «Nella città di Cuba? Quale città di Cuba?». «Nel sud del Portogallo esiste una città con questo nome. Ora ha capito?». Moliarti rimase a bocca aperta, imbambolato. Finalmente aveva compreso. «Aaaahhh!» esclamò. «Colombo nacque in una città chiamata Cuba...».
«Esatto» confermò Tomás. «È ciò che Ruy de Pina realmente scrisse nel manoscritto originale. Il navigatore nacque a Cuba. Quest'informazione, inoltre, è in linea con le relazioni familiari di Colombo. Si ricorda che le ho parlato della sua fuga in Castiglia nel 1484 per scappare dal re?». «Sì». «Per quale motivo stava fuggendo dal re?». «Perché era coinvolto nella cospirazione per uccidere Don João II». «E nel 1484 chi guidava questa cospirazione?». «Il duca di Viseu». «Esatto. Fratello della regina e colui che Don João II trafisse a morte nello stesso anno. Ora le do un'informazione in più. Il duca di Viseu era anche duca di Beja. Capisce?». «Ehm... no». «Beja è un'importante città del Portogallo meridionale. Si trova vicino a Cuba. Il duca di Viseu e Beja, come era naturale che fosse, aveva parenti e amici nelle regioni di Viseu e Beja. Colombo, nato a Cuba, vicino a Beja, era uno di loro». L'americano spalancò gli occhi, come se avesse appena avuto un'idea. «Crede che... crede che ci sia una relazione fra Cuba, l'isola, e... e...». «Mi sembrava strano che non collegasse ancora le due cose!» tagliò corto Tomás, impaziente. «È chiaro che esiste una relazione tra il nome dell'isola dei Caraibi e quello della città portoghese dove è nato Colombo». Fissò il suo interlocutore. «Ascolti, quando l'Ammiraglio arrivò in quell'isola la battezzò Juana. Tuttavia, poco tempo dopo, decise di cambiarle il nome e la chiamò Cuba. Per anni si pensò che il cambiamento fosse dovuto al modo in cui alcuni indigeni si riferivano alla propria terra: Colba. Ma questa spiegazione, Nelson, non regge. Ad esempio, anche gli indigeni della grande isola vicina avevano un nome per identificare la propria terra e, tuttavia, Colombo lasciò la denominazione che le aveva attribuito originariamente, Hispaniola. La stessa cosa accadde con molte altre isole, alle quali, nonostante avessero già nomi indigeni, l'Ammiraglio decise di lasciare quello che gli aveva dato al momento della scoperta. L'unica eccezione fu quella di Juana». Assunse un'espressione interrogativa. «Perché? Perché cambiò solo il nome di quell'isola? Cosa aveva di speciale? Perché non adottò lo stesso criterio per le altre? C'è solo una spiegazione. Sentendo la parola Colba sulla bocca dei nativi, Colombo notò una certa somiglianza con il nome della sua terra natale in Portogallo e decise di ribattezzare l'isola. Ma, invece di chiamarla Colba, optò per Cuba. Cuba, la terra dove
era nato veramente». Strizzò l'occhio. «Fu, diciamo così, un omaggio personale alle proprie radici». «Ho capito» mormorò Moliarti. «E che significa colona?». «Era, a quanto pare, il vero nome cristiano di Cristoforo Colombo. Colona». «No, shit». «Ho verificato le carte genealogiche di quell'epoca. Esisteva realmente in quel tempo una famiglia portoghese di nome Colona, che a volte appariva scritto con una n, altre con due. Si trattava degli Sciarra Colona, o Colonna. Sciarra rimanda a Guiarra. O Guerra. E Colonna si collega a Colon. E con questo si chiude il cerchio del mistero. Si ricorda della confusione che si era generata intorno al nome dell'ammiraglio, che appariva ovunque, e alternativamente, come Colon, Colom, Colomo, Colonus, Guiarra e Guerra? La comune origine non era, pertanto, Colombo, nome che il navigatore non usò mai, ma Sciarra Colonna. E si ricorda che Hernando Colón rivelò di essere stato a Piacenza e di aver trovato la tomba dei suoi avi? I Colonna erano, giustamente, oriundi di Piacenza, così come gli antenati paterni della prima moglie di Colombo, i Perestrello, nome che fu poi portoghesizzato in Perestrelo». «Lei mi sta dicendo che Colombo era un portoghese di origine italiana?». «Cristóvam Colonna era un nobile portoghese di origine italiana e portoghese, probabilmente ebreo. Gli Sciarra Colonna, giunti da Piacenza, si unirono alla nobiltà portoghese, cosa molto frequente in quell'epoca. Non fu, dunque, per caso, che Hernando Colón affermò che il vero nome del padre derivava dal latino Christophorus Colonus. Colonus da Colonna, e non da Colombo, perché altrimenti sarebbe stato Columbus. E, poiché si chiamava anche Sciarra, si comprende il motivo per cui fonti diverse, compreso Anghiera e alcuni testimoni che deposero durante il Pleyto de la Prioridad, affermassero che il vero nome dello scopritore dell'America era Guiarra o Guerra. Cristóvam Sciarra Colonna. Cristóvam Guiarra Colon. Cristóvam Guerra Colom». «E come mai era di origine ebrea?». «In quel periodo vivevano in Portogallo molti ebrei. Erano protetti dai nobili che, tra l'altro, frequentavano. È naturale che ci fossero incroci di sangue. Del resto, quasi tutti i portoghesi hanno sangue ebreo nelle vene, solo che non lo sanno». Nelson Moliarti guardò verso la liscia superficie dell'acqua. Sentì alzarsi
la brezza e respirò a fondo, riempiendo i polmoni con l'aria rinvigorente del grande estuario, assaporando l'aroma sprigionato dall'incontro del fiume con l'oceano. «Complimenti, Tom» disse alla fine, con un tono piatto e senza allontanare lo sguardo dal Tago. «Ha svelato il mistero». «Credo di sì». «Merita il premio». Distolse l'attenzione da quello specchio liquido e lucente che circondava la torre e iniziò a fissare Tomás. «Mezzo milione di dollari». Strizzò l'occhio e accennò un sorriso apatico, enigmatico. «Sono parecchi soldi, eh?». «Beh... sì» ammise il portoghese. Tomás provava imbarazzo a parlare del premio promesso dalla fondazione ma, contemporaneamente, era quella, ora, la sua preoccupazione principale. Mezzo milione di dollari era davvero una grossa cifra. Forse non sarebbe servita a riconquistare Constança ma senza dubbio sarebbe stata utile per aiutare Margarida. Erano tanti, tanti soldi. «Okay, Tom!» esclamò Moliarti, mettendogli una mano sulla spalla, con un gesto quasi paterno. «Parlerò con New York e presenterò il mio report. Poi la chiamerò per organizzarci e metterci d'accordo sul pagamento. Va bene?». «Sì, certo». L'americano sistemò il foglio plastificato dei raggi X nella grossa busta e la sventolò, per indicarla. «Questa è l'unica copia, right?». «Sì». «Non ce ne sono altre?». «No». «La tengo io» disse. Si girò e attraversò il baluardo del monumento con l'aria di chi andava di fretta, scomparendo nella scura bocca della piccola porta di accesso alla torre in prossimità dell'elegante loggia divisa dagli archi e dalle colonne, che rendeva così bella la facciata sud della Torre di Belém. Passarono quattro giorni senza che Nelson Moliarti facesse avere sue notizie. Finché, la sera del quinto, chiamò Tomás per fissare un appuntamento per la mattina successiva. Dopo la telefonata, lo storico rimase in sala, la televisione accesa su un programma a premi, finché si sentì terribilmente annientato. Stanco di quell'insensata noia, Tomás decise che non poteva continuare a stare in casa, la solitudine lo opprimeva, addirittura lo soffo-
cava. Si alzò di scatto, impaziente e, come se avesse fretta, indossò una giacca e uscì. Viaggiava lungo la litoranea con i finestrini dell'auto aperti, sfiorato dalle fredde carezze della brezza marina, perso in qualche punto nel labirinto della sua complicata vita. Cercava una via, una qualunque uscita, un rifugio dove trovare conforto. Si sentiva insopportabilmente solo. Trascorreva le notti in angosciosa solitudine e provava a combatterla concentrandosi pateticamente sul lavoro. Preparava lezioni, correggeva esami, leggeva ed esaminava gli ultimi studi di paleografia che gli erano capitati sotto mano. Constança sembrava aver tagliato tutti i ponti con lui, limitandosi solo ad affidargli Margarida ogni quindici giorni, come a un padre separato. Ma ultimamente anche questi incontri avevano iniziato a saltare a causa degli accessi febbrili della figlia, che la obbligavano a passare i fine settimana a letto. In un momento di disperazione, di crisi e solitudine, era arrivato a cercare Lena, ma la svedese non era più andata alle sue lezioni e il suo numero di cellulare risultava inesistente; forse, concluse, aveva rinunciato al corso e aveva abbandonato il Paese. Girò alla rotatoria davanti alla spiaggia di Carcavelos, percorse la via delle villette che costeggiava la Tenuta degli Inglesi e parcheggiò davanti alla stazione ferroviaria. Attraversò il passaggio pedonale e si diresse al centro commerciale di Carcavelos. Quel luogo era pieno di ricordi, tappa fissa dei tempi in cui era uno studente. Era lì che andava con Constança quando ancora non esistevano i grandi shoppings, un posto alla moda, il porto delle matinés fredde e delle passionali conquiste, dei dolci romanzi e dell'allegro ozio. Un profondo senso di nostalgia si abbatté su di lui, inondandogli i sensi, addormentandogli la volontà. Ovunque l'aria era intrisa della fragranza di Constança, delle fasi del suo corteggiamento, del profumo della giovinezza passata. Ogni angolo, ogni ombra, ogni negozio lo riportava ai tempi spensierati, felici, quando entrambi passeggiavano stretti l'uno all'altra, abbracciandosi, pensando al futuro, ingenui e sognatori, condividendo fantasie e progetti, vivendo la vita soddisfatti di quanto questa dava loro, come bambini in uno stato di beata incoscienza. Quell'aroma dimenticato aleggiava ancora sul centro commerciale, percettibile solo per chi lo conoscesse, una vaga nebbia che esalava l'indefinibile reminiscenza delle emozioni prosciugate dal passare degli anni. Era come se in quel posto fosse presente l'ombra della sua gioventù, come se lui e Constança fossero altre persone, una coppia rimasta nel passato. Gli sembrava di vedere quelle due figure passeggiare sotto la luce del lampadario, fantasmi di
vent'anni che si erano impadroniti di quel luogo familiare, rapiti dalla passione pura di chi incomincia la vita, estranei a quell'osservatore che li spiava, da qualche parte nel futuro. Scrutandoli, spettri intrappolati nel tempo, un'immensa nostalgia si riversò su Tomás, i sensi martirizzati dalla marea degli anni, soffrendo per la dolorosa e ineffabile consapevolezza di aver perso per sempre la felicità. Entrò in un caffè e chiese un toast. Si guardò intorno e notò i cambiamenti che il tempo aveva portato con sé. Anche se i tavoli erano differenti, il posto era rimasto lo stesso: lì c'era la finestra vicino alla quale si erano seduti durante uno dei primi pomeriggi trascorsi insieme, e dalla quale era visibile la stazione sul lato opposto della strada. Tomás si ricordava quel giorno, quelle sensazioni, quella conversazione di reciproca scoperta, quell'esplorazione di sublime incanto. Era un fine settimana soleggiato e avevano parlato della famiglia, del fratello di Constança, pazzo per le moto, e dei sogni che nutrivano. Voleva diventare una famosa pittrice ed esporre un giorno i propri quadri alla Tate Gallery, progetti di fantasia che vagamente credeva si sarebbero realizzati. Tomás finì il toast e si rese conto che aveva l'urgente necessità di distrarsi. Uscì dal caffè, passò dal negozio di cioccolatini e scese al piano inferiore, in direzione del cinema. Le locandine annunciavano due film, Fight Club, con Edward Norton e Brad Pitt, e Gioco a due, nel remake con Pierce Brosnan e Rene Russo. In condizioni normali avrebbe scelto quest'ultimo, ma, sentendosi solo e triste, optò per quello più violento, pensando che fosse il modo migliore per rompere quel torpore nostalgico in cui era sprofondato. Acquistò un biglietto e, poiché la proiezione sarebbe iniziata solo dopo quindici minuti, andò a comprare qualche ghiottoneria. Il bar era una novità del cinema di Carcavelos. Quando era uno studente non esisteva, era stato creato come risposta della vecchia sala all'offerta "gastronomica" dei nuovi centri commerciali. Quel luogo era lo stesso, eppure era diverso, triste segnale del fatto che i tempi erano effettivamente cambiati. Mentre aspettava al bancone sentì nostalgia di come quel cinema era in passato, sempre pieno, con un lungo intervallo a metà film, quando seguiva tutta la pellicola tenendo per mano la fidanzata. Arrivò il suo turno, chiese dei popcorn dolci e pagò; la barista gli consegnò una piccola busta di carta riciclata e Tomás si girò per andare verso la sala. Fu alla porta del bar che la vide. Constança stava entrando nel locale: aveva un aspetto fresco, pulito, ordinato. Era bella come allora, nonostante non avesse più vent'anni. Indossava un vestito bianco a fiori rossi e gialli,
stretto in vita, che si apriva in un'allegra gonna, in stile anni Cinquanta. Tomás avvertì un colpo al cuore e si fermò, lo sguardo fisso sulla donna. Constança lo vide ed esitò; entrambi restarono bloccati all'ingresso del bar, come due bambini colti sul fatto. «Ciao» disse lui, alla fine, con aria imbambolata. «Ciao Tomás» rispose Constança, riprendendosi dalla sorpresa iniziale. Si girò di fianco e toccò il braccio di un uomo. «Ti presento il mio amico Carlos». In quel momento Tomás si rese conto che il limite tra sogno e incubo è sottile quanto un filo di seta, che il passaggio tra speranza e disperazione è delicato come un petalo in balia del vento. Gli sembrava di vivere quell'incontro imbarazzante al rallentatore. I suoi occhi andavano dal bel viso disorientato di Constança a quello di un uomo magro, dalla barba rada, in giacca e cravatta, che le si era fermato accanto. L'uomo guardò Tomás con un'espressione interrogativa, che subito si fece fredda, e gli porse la mano. «Molto piacere» si presentò, ovviamente non del tutto sincero. «Carlos Rosa». Come un automa, quasi sentendo il corpo separato dalla mente, Tomás lo salutò. «Allora?». Era la voce di Constança. «Va tutto bene?». Tomás la guardò, perplesso. All'improvviso scoprì di essere anestetizzato nello spirito, stordito, il cuore reprimeva la furia cieca che nasceva nella parte più intima della sua anima. «Ehm... sì, va tutto bene. E tu?». «Una meraviglia. Sei venuto al cinema?». «Sì». «Che vai a vedere?». «Fight Club». «Ah». Ci fu una pausa scomoda, sconfortante. La conversazione era tesa, vuota, assurda, come tutte le conversazioni in circostanze imbarazzanti; esitavano a parlare, confusi da quell'incontro inopportuno. Tomás sentì il forte desiderio di sparire, di fuggire da lì, di smettere di esistere. «E tu?». Constança guardò il compagno. «Noi siamo venuti a vedere Gioco a due». Quel "noi siamo venuti a vedere" fu per Tomás un brutale pugno allo
stomaco, una coltellata a ciò che restava delle sue ultime illusioni. Constança non diceva più io. Diceva noi. Noi. Non erano lei e Tomás. Noi. Non era lei da sola. Io. Erano lei e l'altro. Noi. Lei e il suo rivale, l'uomo che l'aveva sostituito, colui che gliel'aveva rubata. Noi. «Beh... ehm... io vado» tentennò Tomás, facendo un goffo cenno di saluto con la mano. «Buona visione» disse lei, con gli occhi spalancati, era impossibile capire se fosse triste o felice, a disagio o indifferente. Tomás fuggì dal bar, ma non entrò nella sala del cinema. Continuò dritto e abbandonò il centro commerciale, quasi disperato, ansimante. Uscì in strada per respirare un po' d'aria pura e affrontare la dura risacca di quell'amore che ora sapeva di aver perso per sempre. Il vasto spazio del Rossio formicolava di gente affannata in un movimento disordinato, quasi caotico. Le persone che s'incrociavano avevano diverse espressioni; c'era chi andava di fretta e a testa bassa, chi girovagava con lo sguardo perso chissà dove, e chi osservava la massa umana che sfilava davanti ai propri occhi in quel nervoso e impaziente viavai. Fra questi c'era anche Tomás, seduto in un tavolo all'aperto del Bar Nicola, a gambe accavallate, ad assaporare con lo sguardo assente un caffè fumante. Da quella folla sparsa spuntò, come materializzatosi dal nulla, Nelson Moliarti. Indossava giacca e cravatta, ed era in ritardo di quaranta minuti. «Sorry» si scusò l'americano. Prese una sedia e s'accomodò. «Stavo parlando con John Savigliano, a New York, e ho fatto tardi». «Non importa» commentò Tomás, sforzandosi di sorridere. «Per cambiare, questo volta ho aspettato io. Mi pare giusto». «Sì, ma non mi piace arrivare in ritardo». «Che prende?». «Ehm... un tè al gelsomino e un pastel de nata, se c'è». Tomás chiamò il cameriere e ordinò. L'uomo prese nota, fece mezzo giro e sparì dentro il caffè. «Come sta Savigliano?». «Oh, bene» rispose Moliarti, mentre dirigeva lo sguardo oltre Tomás, come se non volesse guardarlo in faccia. «John sta bene». «Mi sembra preoccupato...». «No, no» negò l'americano. «È solo che... dobbiamo concludere le cose,
no?». «Sì, certo». Moliarti appoggiò i gomiti sul tavolo e per la prima volta fissò Tomás negli occhi. «Tom, mi hanno dato istruzioni perché io le paghi i duemila dollari a settimana di stipendio e il mezzo milione di dollari di premio, come abbiamo stabilito a New York». Si schiarì la voce. «Quando vuole i soldi?». «Beh... ehm... mi farebbero comodo ora...». L'uomo della fondazione tirò fuori un libretto degli assegni dalla tasca interna e preparò la penna, ma tenne lo sguardo inchiodato sullo storico. «Le do l'assegno ora, Tom, ma c'è una condizione aggiuntiva». «Sì?». «Ha a che vedere con la discrezione». «Discrezione?» si meravigliò Tomás. «Non capisco...». «Tutto il lavoro svolto per noi è confidenziale. Capisce?». «Il mio lavoro è confidenziale?». «Sì. Neanche una parola sulla scoperta». Tomás si grattò il mento, confuso. «È una strategia commerciale?». «È una nostra strategia». «Sì, ma qual è il piano? Ce ne stiamo zitti adesso per poi fare un grande chiasso al momento della pubblicazione, è così?». Moliarti si guardò intorno, come se temesse di essere ascoltato, e poi rivolse nuovamente l'attenzione al portoghese. «Tom» disse «non ci sarà nessuna pubblicazione». Lo storico spalancò gli occhi, incredulo. «Come?». «I dati da lei raccolti non verranno pubblicati. Né ora, né mai». Tomás rimase un lungo istante a bocca aperta, incapace di nascondere lo stupore provocato da quell'affermazione. «Ma... ehm...» balbettò. «Questo... ehm... non ha senso». «È una decisione presa a New York». «Ma perché? Non hanno fiducia nel materiale?». «Non è questo». «Le prove sono solide, Nelson. Il tema è controverso, è vero. Ci sarà una reazione negativa da parte dell'establishment, alcuni storici diventeranno matti per contestare la versione ufficiale, diranno che è pura fantasia, una sciocchezza, un imbroglio...».
«Tom». «... già li vedo, isterici e fuori di sé, a lanciare insulti, inveendo contro il cielo. Ma, a conti fatti, le prove che abbiamo sono sicure. Sicure, ha sentito? Me ne assumo io la responsabilità». «Tom, non è per questo. Già gliel'ho detto». «Allora cos'è?». «Non pubblicheremo la ricerca. Punto e basta». Tomás si piegò sul tavolo, avvicinandosi il più possibile all'americano. «Nelson, noi abbiamo fatto una scoperta straordinaria. Abbiamo portato alla luce un segreto di cinquecento anni. Sciolto un enigma che da secoli incuriosisce gli storici. Fatto luce su un lato oscuro della conoscenza. Con questi nuovi dati cambieremo totalmente l'approccio alla scoperta dell'America e riveleremo cose importanti sulle Scoperte. Cosa vuol dire che non pubblicheremo niente, eh? A quale scopo?». Moliarti sospirò. «Tom, anche a me non piace. Ma la fondazione vuole così. Gli ordini di John sono stati molto chiari. Le scoperte che lei ha fatto non possono essere divulgate». «Ma perché?» «Perché lo hanno deciso i responsabili della fondazione». «Mi scusi, Nelson, ma questa non è una risposta. Per quale ragione sostengono che queste scoperte non possono essere rivelate?». Per un istante Moliarti rimase in silenzio, pensando a cosa avrebbe potuto dire. Quasi istintivamente, tornò a osservare di sfuggita le persone che lo circondavano e, respirando a fondo, si allungò ancora una volta verso il suo interlocutore. «Tom» mormorò «cosa sa dell'American History Foundation?». «Beh... ehm... è un'istituzione per incentivare gli... gli studi americani» balbettò. «Lei fa parte della fondazione, dovrebbe saperlo». «Io sono un semplice impiegato dell'American History Foundation» disse Moliarti, mettendosi la mano sul petto. «Non sono il capo. Il capo è John Savigliano, è lui il presidente dell'executive board. Conosce gli altri esponenti del board?». «No». «Jack Mordenti è il vicepresidente. Poi ci sono Paul Morelli e Mario Ghirotto. Questi nomi non le dicono niente?». «No». «Faccia attenzione, Tom». Elencò i vari cognomi contandoli sulle dita.
«Savigliano, Mordenti, Morelli, Ghirotto. E anche la segretaria di John, la signora Racca, quella signora burbera che ha conosciuto a New York. Non le dicono niente, eh?». «Cosa dovrebbero dirmi? Mi scusi, ma non capisco la domanda...». «Qual è la loro etnia d'origine?». «Ehm... italiana?». «Sì, ma di dove?». Tomás assunse un'espressione incuriosita. «Ehm... di dove? Dell'Italia, suppongo...». «Di Genova, Tom. Italiani di Genova. L'American History Foundation è un'istituzione finanziata da capitali genovesi o americani di origine genovese. Savigliano è nato con il nome Giovanni, che ha cambiato in John quando se n'è andato da Genova a dodici anni ed è venuto a vivere in America. Mordenti è originario di Brooklyn ma, nonostante sia stato battezzato come Joseph e a scuola lo chiamassero Jack, è da sempre conosciuto come Giuseppe fra i suoi familiari. Il padre di Paul Morelli era Paolo Morelli, oriundo di Nervi, un piccolo centro vicino Genova. E Mario Ghirotto ancora oggi vive a Genova, ha un bell'appartamento in Piazza Campetto». Strinse i denti. «Questi, amico mio, sono individui molto orgogliosi di essere concittadini dello scopritore dell'America, l'uomo più famoso della storia dopo Gesù Cristo. Lei pensa davvero che accetterebbero di pubblicare uno studio che prova che Colombo, in realtà, non era genovese ma un ebreo portoghese?». Picchiettò l'indice sulla tempia. «Mai e poi mai! Neanche a pensarlo!». Tomás era paralizzato, gli occhi spalancati, impietrito da quella rivelazione, non voleva credere a quello che aveva sentito. «Voi... siete genovesi?». «Loro sono genovesi» disse, sottolineando loro. Fece un sorriso sforzato. «Io no. Io sono nato a Boston e la mia famiglia è di Brindisi, nell'Italia meridionale». «Comunque sia, Nelson, che rilevanza ha la nazionalità? Che io sappia, gli italiani sono onesti. Non è Umberto Eco che afferma che Colombo era un ebreo portoghese?». «Umberto Eco non è genovese» gli ricordò Moliarti. «Ma è italiano». L'americano sospirò. «Non siamo ingenui, Tom» affermò, con tono paziente. «Sia chiaro, se la fondazione fosse in mano ad americani originari di Piacenza, le scoperte
verrebbero pubblicate immediatamente. Anche altri italiani o italoamericani, sebbene forse controvoglia, avrebbero accettato di divulgare queste scoperte. Ma lei deve capire che è troppo chiedere una cosa simile a dei genovesi, in fin dei conti sono orgogliosi del loro Cristoforo Colombo e non si può aspettare che accolgano la ricerca con entusiasmo, non trova?». «Ma la verità è la verità». «Mi dispiace molto, Tom, ma il suo lavoro non potrà essere pubblicato». «Questa sì che è buona!». «Tom» disse Moliarti, alzando la mano per chiedergli di ascoltarlo «il premio le verrà consegnato solo se accetterà l'accordo di segretezza». «Come?». Moliarti mise sul tavolo alcuni fogli con un testo legale già predisposto. «Lei riceverà il mezzo milione di dollari solo se firmerà questo contratto». «Voi non potete farlo». «Gli ordini di John sono stati molto espliciti. Lei firma e riceve il mezzo milione di dollari». «E se non firmo?». «Non riceve nulla». «Ma questo non è quanto pattuito a New York, Nelson. Mi è stato promesso un premio nel caso in cui fossi risalito ai risultati della ricerca del professor Toscano. Io ho fatto la mia parte; ora, se non vi dispiace, tocca a voi fare la vostra». «La faremo, Tom. Ma, prima, lei si deve impegnare a mantenere il riserbo su tutte le scoperte». «Mi volete comprare per mezzo milione di dollari?». «Non dica così...». «Lei crede che io sia in vendita? Eh? Pensa davvero che sia possibile mettermi a tacere con il denaro, per quanto esso sia?». «Tom, la fondazione non accetterà che i risultati della sua ricerca vengano pubblicati. Tutto il suo lavoro è stato svolto per la fondazione. Le scoperte ottenute appartengono alla fondazione ed è questa che deciderà cosa fare delle rivelazioni». «La ricerca, caro Nelson, appartiene al professor Toscano. Io mi sono limitato a seguire le piste da lui lasciate». «Il professor Toscano lavorava per la fondazione». «Lavorava per la fondazione relativamente agli studi sul Brasile, non a quelli riguardanti Colombo».
«Noi gli avevamo spiegato, a suo tempo, che tutto il suo lavoro sarebbe stato per la fondazione. Ha utilizzato i nostri finanziamenti per indagare sulle origini di Colombo, per questo il suo lavoro ci appartiene». «Ah, ora capisco perché la vedova di Toscano è così arrabbiata con voi...». «Questo non ha importanza. Ciò che conta è che il suo lavoro e quello di Toscano sono proprietà della fondazione». «Sono proprietà dell'umanità». «Non è stata l'umanità a pagare tutte le spese, Tom. È stata l'American History Foundation. Lo avevamo spiegato anche al professor Toscano». «E lui?». Moliarti per un po' rimase impacciato. «Ehm... aveva un altro punto di vista». «In pratica vi ha mandato a quel paese. E ha fatto molto bene. Se non fosse morto, a quest'ora avrebbe già pubblicato tutto, può starne certo». L'americano si guardò di nuovo intorno, esitando. Accertandosi che nessuno li stesse ascoltando, si inclinò ancora una volta sul tavolo e sussurrò, pronunciando le parole quasi con un soffio impercettibile. «Tom, chi le dice che il professor Toscano sia morto per cause naturali?». Tomás raggelò. «Come?». «Chi le dice che il professor Toscano sia morto per cause naturali?». «Cosa sta insinuando? Che sia stato assassinato?». Moliarti scrollò le spalle. «Non lo so» mormorò. «Giuro che non lo so, e nemmeno voglio saperlo. Ma, me lo lasci dire, ho sempre trovato strano il timing della morte del professore. È morto due settimane dopo aver avuto un'accesa discussione con John e in un periodo in cui la fondazione si trovava in un momento delicato. L'executive board, dopo quella discussione, aveva capito che il professore avrebbe pubblicato tutto, a ogni costo. E due settimane dopo, pam!, l'uomo è morto a Rio de Janeiro bevendo un succo di mango. Molto conveniente, non crede?». «Lei mi sta dicendo che questa gente sarebbe capace di uccidere pur di mantenere un simile segreto?». «Le sto dicendo che bisogna stare attenti. Le sto dicendo che vale di più uno storico vivo con mezzo milione di dollari in tasca di uno storico morto che lascia la famiglia in disgrazia. In realtà non so se la morte del professor
Toscano sia stata naturale o no. So solo che, fosse anche naturale, è stata una felice casualità per la fondazione». «Ma allora perché mi avete ingaggiato? Con la morte del professor Toscano il segreto sarebbe rimasto al sicuro...». «C'era il problema della prova». «Quale prova?». «Noi sapevamo che il professor Toscano aveva individuato la prova che Colombo non era genovese, ma ignoravamo di cosa si trattasse e se fosse facilmente rintracciabile. Dovevamo trovarla, la fondazione non poteva permettersi il lusso di lasciarla alla portata di tutti, rischiando che altri potessero portarla alla luce. Lei è stato lo strumento che ci ha permesso di arrivare a quella prova». «Si riferisce al Codex 632?». «Sì». Tomás si grattò la testa, perplesso. «Scusi, Nelson, ma non capisco. Grazie a voi sono arrivato al Codex 632, un documento che dimostra proprio quello che la fondazione non voleva si dimostrasse. Anche se io accettassi di starmene zitto, ricevendo così il mezzo milione di dollari con cui volete corrompermi, chi garantisce alla fondazione che io non sveli il segreto a un collega e lo mandi a consultare il Codex 632, eh?». Moliarti sorrise. «Non le servirebbe a nulla». «Ah, no? E quando si accorgerà della cancellatura nella terza e quarta riga, dopo "colo" e in corrispondenza di "nbo y taliano"? E quando chiederà che venga eseguito l'esame ai raggi X del foglio? Eh? Cosa succederà?». L'americano si riappoggiò alla sedia, estremamente fiducioso. «Lei ha fatto caso, Tom, che sono arrivato tardi all'appuntamento?». Tomás mostrò un'espressione di sorpresa, non capiva cosa avesse a che fare quella domanda con il contesto della conversazione. «Sì. E allora?». «Sa perché sono arrivato in ritardo?». «Si è trattenuto a parlare con Savigliano, me lo ha già spiegato». «Questo è ciò che io le ho detto. In verità sono rimasto incollato alla radio e alla televisione». Fece l'occhiolino. «Ha già saputo la notizia, Tom?». «Quali notizie?». «Quelle del furto, mio caro. Il furto della notte scorsa alla Biblioteca Nazionale».
Un operaio era in piedi su una sedia, cercando di mantenere l'equilibrio mentre metteva un largo vetro alla finestra, quando Tomás entrò con impeto nella sala di lettura dell'area delle opere riservate. Una donna delle pulizie stava raccogliendo alcuni frammenti luccicanti sparsi per il pavimento, erano pezzi di vetro, e si sentivano delle martellate dall'altra parte, senza dubbio erano in corso lavori di carpenteria. «Siamo chiusi, signor professore» annunciò una voce. Era Odete che, rossa in viso, al di là del bancone, intrecciava nervosamente le dita. «Cos'è accaduto?» chiese Tomás. «C'è stato un furto». «Questo già lo so. Ma com'è successo?». «Questa mattina, quando sono arrivata, ho trovato quel vetro rotto, e la porta di accesso alla sala dei manoscritti forzata». Odete agitò la mano davanti al viso, come se fosse un ventaglio. «Ah, mio Dio, ancora non mi sono ripresa...». Sospirò. «Mi scusi, professore. Sono sconvolta». «Cos'hanno rubato?». «Mi hanno rubato la tranquillità. Mi hanno rubato la tranquillità». Si mise la mano sul petto. «Ahi, Vergine Santissima, che paura mi sono presa! Che paura!». «Ma cosa hanno portato via?». «Ancora non siamo riusciti a capirlo, professore. Stiamo inventariando i manoscritti per vedere se ne manca qualcuno». Soffiò forte, come per espellere il vapore trattenuto in corpo. «Mah, guardi, poco fa dicevo alla polizia che, secondo me, è opera di qualche drogato. Sa, girano certi ragazzotti dall'aspetto inguardabile, barbuti e pieni di pidocchi. Non sono universitari, nossignore, perché quelli io li conosco bene. Questa è opera di gentaglia rozza, riesce a immaginare?». Si portò due dita alla bocca, facendo finta di tenere una sigaretta. «Gente da spinello, hashish e solo Dio sa che altro. Vanno alla ricerca di computer per rivenderli a una sciocchezza. In modo da...». «Mi faccia vedere il Codex 632!» la interruppe Tomás, impaziente e allarmato. «Come?». «Mi vada a prendere il Codex 632, per favore. Ho bisogno di controllare una cosa». «Ma, professore, siamo chiusi. Dovrà...».
«Mi porti il Codex 632!». Spalancò gli occhi, con l'espressione di chi non ammette discussioni. «Ora!». Odete esitò, stupita da quell'atteggiamento aggressivo, ma decise di non contestare la richiesta e scomparve in direzione della stanza dov'erano conservati i manoscritti antichi. Tomás si sedette su una sedia della prima fila e rimase a tamburellare con le dita sul tavolo, preparandosi al peggio. Poco più tardi, Odete ritornò nella sala di lettura. «Allora?». «Eccolo» disse lei. Aveva con sé un volume con la copertina di pelle marrone. Vedendo quell'opera, al sicuro, Tomás tirò un sospiro di sollievo e si sentì libero dalla tensione che gli opprimeva il petto. Moliarti mi ha fatto prendere una bella paura, pensò. «Farabutto, mi aveva spaventato!» si sfogò a voce bassa. Odete gli consegnò il manoscritto e lo storico controllò il peso. Poi analizzò la copertina e la quarta di copertina. Tutto impeccabile. La segnatura Codex 632 era incollata al dorso, aprì il volume e studiò il titolo in portoghese del Cinquecento. Chronica de El Rey D. Joam II. Sfogliò le pagine ingiallite, macchiate dal tempo, fino ad arrivare al foglio settantasette. "Nbo y taliano". C'erano gli spazi sospetti fra le parole. Poi passò la punta del dito sulla riga, per sentire la cancellatura, ma la superficie era liscia. Corrugò le sopracciglia, sbigottito. Passò di nuovo il dito. Tutto liscio. Avvicinò gli occhi, incredulo. Non si vedevano tracce di quella cancellatura. Niente di niente. Era come se non fosse mai esistita. Portò la mano alla bocca, sorpreso, si sentì sprofondare. Non sapeva che pensare. Guardò tutto il foglio, cercando segni di taglio, indizi di scanalatura, di colla, differenze nella carta, qualche piccola imperfezione, qualsiasi cosa, per quanto minuscola fosse. Ma niente. Appariva impeccabile, immacolato, autentico. Era scomparsa solo la cancellatura. Lavoro da professionisti, pensò, quasi con la voglia di piangere. Scrollò la testa, profondamente avvilito, la conclusione era inconfutabile, decisiva. Falsificatori professionisti. Avevano tolto il foglio originale e l'avevano sostituito con un altro, senza lasciare tracce, coprendo segni, nascondendo piste. Professionisti. «Figli di puttana». XVII
Il cellulare suonò mentre Tomás si stava preparando per uscire di casa. Lo storico aveva intenzione di andare alla Torre do Tombo a cercare documenti che gli permettessero di individuare riferimenti ai Colona. Il Codex 632 era stato falsificato ma, pensò, ora che conosceva il vero nome di Colombo certamente sarebbe stato più facile rinvenire delle tracce. L'assoluta inesistenza di documenti sulla sua vita in Portogallo era un enigma definitivamente risolto. Il navigatore, infatti, era vissuto nel Paese sotto un altro nome, quello vero, e perciò, compresa e superata finalmente questa difficoltà, Tomás credeva che avrebbe avuto più possibilità di trovare informazioni, fra vecchi manoscritti, ricevute, fatture, certificati, missive e tutto quanto fosse conservato sotto la polvere del maggior archivio portoghese di documenti del Cinquecento. «Pronto? Tomás?». Era Constança al telefono. «Ah, ciao» salutò Tomás con un tono controllato. Era sorpreso e allo stesso tempo felice per quella telefonata, ma dentro continuava a sentirsi ferito e non voleva lasciar trasparire il sollievo per aver ricevuto, dopo tanto, una chiamata della moglie. «Tutto bene?». «Non so» esitò Constança. «Il dottor Oliveira vuole parlare con noi questa mattina». «Questa mattina? Non posso, devo andare alla Torre do Tombo...». «Dice che è urgente. Dobbiamo essere all'Ospedale di Santa Marta alle undici». Tomás guardò automaticamente l'orologio. Erano le nove e mezza. «Ma perché tutta questa fretta?». «Non lo so. Ieri ho portato Margarida all'ospedale per fare le analisi e non mi ha detto nulla». «E qual è il risultato delle analisi?». «Ce lo deve comunicare oggi». «Hmm» mormorò Tomás, sfregandosi gli occhi, all'improvviso stanco. «Pensi che le analisi abbiamo rilevato qualcosa di brutto?» domandò Constança con apprensione a malapena mascherata. «Non lo so. Vedremo». S'incontrarono alla rampa che portava agli ambulatori un'ora e mezza dopo. Constança indossava un tailleur grigio che ne metteva in risalto le curve del corpo e le conferiva un certo aspetto da donna in carriera. Percorsero la rampa ed entrarono in una porta sulla sinistra, ritrovandosi nel
chiostro di un antico convento, trasformato in ospedale per la cura di patologie cardiache. Ignorarono gli antichi e begli azulejos azzurri che lo decoravano, sopraffatti dalla preoccupazione, e attraversarono il lungo corridoio che li condusse al blocco successivo. Durante il percorso, Constança spiegò a Tomás che il giorno prima aveva portato la figlia in ospedale per un controllo di routine che il medico le aveva richiesto già da qualche tempo. Il dottore aveva trovato strano il pallore e la stanchezza che Margarida manifestava da quando aveva avuto la febbre, a Natale, e voleva assicurarsi che fosse tutto a posto. Siccome la pelle della piccola non presentava una colorazione bluastra, sintomo di un peggioramento della situazione cardiaca, il medico non aveva manifestato una particolare urgenza, nonostante avesse insistito sulla necessità di sottoporre la bambina alle analisi del sangue e delle urine, cosa che era stata fatta il giorno prima. Presero l'ascensore e salirono al terzo piano, dove si trovava il reparto di Cardiologia Pediatrica. Trovarono il dottore vicino alla terapia intensiva. Oliveira fece segno di seguirlo nel suo ufficio, nella mansarda, uno spazio soleggiato e arieggiato. «Ho qui le analisi di Margarida» disse Oliveira, andando direttamente al nocciolo della questione che lo aveva indotto a convocare i genitori della bambina. «Allora?». Il medico si sistemò sulla sedia, come se fosse scomodo, e agitò un foglio bianco. «Le notizie non sono buone» li avvisò con aria adombrata. «I risultati sono evidentemente alterati e... ehm... il quadro suggerisce un caso di... ehm... di leucemia». Nell'ufficio calò un silenzio carico di preoccupazione, Tomás e Constança cercavano di elaborare la notizia. «Leucemia?» si sorprese Tomás. Oliveira rispose affermativamente con un movimento della testa. «Sì». «Ma questo non ha nulla a che vedere con il problema del setto?». «No, assolutamente. Non è un problema del foro cardiaco. È un problema ematologico». «Un problema di cosa?». «Ematologia. Ha a che fare con il sangue». Esibì il foglio dei dati forniti dal laboratorio che aveva effettuato le analisi. «Vedete questi risultati? Le
analisi mostrano più di duecentocinquantamila globuli bianchi per millimetro cubo». «E allora?». «Normalmente non devono superare i diecimila. I globuli bianchi di Margarida sono in forte eccesso». Poi indicò un'altra cifra. «E questa è l'emoglobina. Ne ha sette grammi, quando la norma sarebbe dodici. Questo è indice di anemia». «La leucemia è il cancro del sangue» osservò Constança con voce tremula, reprimendo i singhiozzi con difficoltà. «È... è grave, vero?». «Molto grave. Precisamente questo tipo di leucemia è conosciuta come leucemia acuta, la cui incidenza è maggiore nei bambini affetti dalla sindrome di Down rispetto ai bambini normali». «Ma esiste una cura?» chiese Tomás, sentendo il panico prendere il sopravvento su di sé. «Sì, certo». «Allora che dobbiamo fare?». «Purtroppo questo problema non rientra nella mia area di specializzazione. La leucemia acuta può essere curata solo presso l'IPO49, ma state tranquilli, conosco validi professionisti che potranno trovare una soluzione. Dopo aver visto questi risultati, mi sono preso la libertà di consultare una mia collega dell'Istituto e abbiamo valutato come procedere». Fissò lo sguardo su Constança. «Ora dov'è Margarida?». «Margarida? È a scuola, ovviamente». «Molto bene. Andate a prenderla e portatela all'IPO per farla ricoverare immediatamente». Tomás e Constança si guardarono, sconvolti. «Dobbiamo andare a prenderla adesso?». «Adesso» ribadì il medico, sbarrando gli occhi per sottolineare l'urgenza. «Subito». Scrisse un nome sul bloc-notes. «Quando arrivate all'IPO, chiedete della dottoressa Tulipa, con la quale ho già parlato. Lei penserà a tutto e si occuperà del caso». «Ma Margarida guarirà, vero?». «Come vi ho detto questo non è il mio campo, ma sono certo che verrà data una risposta efficace al problema» rispose il cardiologo, cercando di trovare parole di conforto. Consegnò ai genitori il foglio con il nome della dottoressa. «In ogni modo, sarà la dottoressa Tulipa a fare la diagnosi, a spiegarvi la patologia e a proporre le soluzioni più adeguate».
Fu come se il mondo crollasse di nuovo. Constança pianse durante tutto il viaggio fino alla scuola, soffiandosi il naso con un fazzoletto merlettato. Al suo fianco, attaccato saldamente al volante, Tomás guidava in silenzio, dominato dalla sfiducia, afflitto dallo sconforto. Entrambi sapevano che quello era solo l'inizio di un percorso che già conoscevano, una terribile esperienza che erano costretti a rivivere, una giostra di devastanti emozioni, e non sapevano se sarebbero stati in grado di sopravvivere. Dopo l'incubo in cui si era trasformato il tumultuoso periodo successivo alla nascita della figlia, credevano di essere pronti a tutto, ma ora si rendevano conto di non esserlo affatto. Alla fine erano solo due persone disorientate, perse in un labirinto di difficoltà senza fine, genitori disperati per la sfida che il destino lanciava loro nuovamente. Dilaniati nel profondo, si chiedevano cosa avessero fatto per meritarsi una simile sorte. Arrivati a scuola, Tomás fece promettere a Constança che non avrebbe versato una lacrima davanti alla figlia e fu con il cuore soffocato dall'ansia che, sorridendo con un nodo in gola, le spiegarono che doveva andare in ospedale. «È pe' colpa del cuo'e, eh?» chiese la figlia. Il suo sguardo supplichevole esprimeva paura, immaginava le nuove torture nelle mani dei medici. «Sono malata un'alt'a volta?». Il tragitto verso l'Istituto di Oncologia fu terribile. Margarida strillava di non volere andare, ma si stancò in fretta, e la parte finale del viaggio fu percorsa in un silenzio rotto soltanto dal gemito sporadico della piccola e dalle parole affettuose sussurrate dalla madre. Constança, accanto alla figlia, la circondava con un abbraccio protettivo, stringendola come a chiuderla in un guscio di coccole. La bambina fu affidata alle cure della dottoressa Tulipa, una donna di mezza età, con gli occhiali spessi e i capelli brizzolati, magra ed energica. La donna impartì le sue istruzioni e portò la piccola verso quella che sembrava una piccola sala operatoria, cosa che spaventò i genitori. «Tranquilli, non la operiamo subito» disse loro la Tulipa. «Ho esaminato il risultato delle analisi che mi ha mandato il dottor Oliveira e sono dell'idea di farle un mielogramma». «In che consiste?». «Le aspireremo alcune cellule del midollo osseo, in questo caso del bacino, per confermare la diagnosi e determinare con esattezza il problema». L'esame fu eseguito sotto anestesia locale e in presenza dei genitori, che non smisero mai di consolare e incoraggiare la bambina. Alla fine, le cellu-
le prelevate furono poste sui vetrini e portate in laboratorio. La dottoressa chiese a Tomás e a Constança quali fossero stati i sintomi manifestati dalla figlia nell'ultimo mese, inclusi il pallore, il senso di fatica, la febbre e le emorragie dal naso, ma evitò di dare spiegazioni dettagliate su quanto stava succedendo, ritenendo che solo il mielogramma avrebbe potuto fornire delle certezze. Qualche ora dopo, la Tulipa chiamò i genitori nel suo austero studio. «Sono appena arrivati i risultati del mielogramma» annunciò. «Margarida ha una leucemia mieloblastica acuta». «Che significa, dottoressa?». «È un gruppo di neoplasie maligne del midollo osseo che riguardano i precursori mieloidi dei leucociti». Tomás e Constança mantennero lo sguardo fisso sulla donna, ansiosi e angosciati. «Scusi» tagliò corto Constança, al limite della pazienza «faccia a meno di utilizzare questo linguaggio artificioso con noi. Ci spieghi cosa sta succedendo in parole povere, per favore». La dottoressa sospirò. «Sicuramente sapete cos'è la leucemia...». «È il cancro del sangue». «È un modo di definirla». S'alzò dalla sedia e mostrò un'immagine del corpo umano affissa alla parete. «Al centro del problema c'è il midollo osseo, che si trova nella cavità delle ossa e ha la funzione di formare le cellule del sangue. Nel caso della bambina, alcune cellule blastiche anormali hanno invaso il midollo, che ha smesso di produrre cellule sane. L'attacco delle cellule cancerogene ai globuli rossi ha provocato l'anemia ed è responsabile del pallore di Margarida. A sua volta, l'attacco ai globuli bianchi ha causato le infezioni di cui soffre, poiché il corpo ha perso le proprie difese, mentre l'attacco alle piastrine ha provocato le emorragie dal naso, dato che sono le piastrine che coagulano il sangue e senza piastrine non c'è coagulazione. Poiché sono i globuli rossi che trasportano ossigeno alle cellule e prendono il biossido di carbonio dai tessuti per portarlo ai polmoni attraverso i quali è eliminato, la loro carenza implica che le cellule non ricevono ossigeno a sufficienza e che trattengono l'anidride carbonica per troppo tempo, il che è molto pericoloso». «Lei dice che Margarida ha una leucemia acuta» intervenne Tomás. «Una leucemia mieloblastica acuta» precisò. «Sa, esistono vari tipi di leucemia. Ci sono quelle croniche, che si espandono nel tempo in seguito a
parziale differenziazione delle cellule, e quelle acute, che sono repentine e molto pericolose poiché le cellule restano indifferenziate. Vostra figlia ha una leucemia acuta». Alzò due dita. «Quella acuta si manifesta in due forme principali, la linfoide e la mieloide. Fra i bambini, la più comune è la leucemia linfoide, mentre gli adulti sono più soggetti alla leucemia mieloide. Quest'ultima, che è quella che ci preoccupa, include vari sottotipi. C'è la promielocitica, la mielomonocitica, la monocitica, l'eritrocitica, la megacariocitica, e la mieloblastica. Margarida è affetta da quella mieloblastica, che è relativamente comune fra i bambini affetti da Trisomia 21 e che comporta la crescita incontrollata dei mieloblasti, cellule immature precursori dei globuli bianchi». Consultò il foglio dei risultati del mielogramma. «Tenete presente che Margarida possiede duecentocinquantamila mieloblasti per millimetro cubo, quando dovrebbe averne al massimo diecimila». «Lei dice che questa leucemia è molto pericolosa. Quanto pericolosa?». «Può provocare la morte». «In quanto tempo?». «In pochi giorni». Entrambi i genitori fissarono intensamente la dottoressa, avevano sentito ma si rifiutavano di crederci. «Pochi giorni?». «Sì». Constança si portò la mano alla bocca, gli occhi le stavano diventando lucidi. «Ma non c'è niente che possiamo fare?» chiese Tomás, terrorizzato. «Certo. Cominciamo immediatamente la chemioterapia per tentare di stabilizzare la situazione». Tomás e Constança furono percorsi da un brivido di speranza. «E... e questo la farà guarire?». «Con un po' di fortuna...». «Che intende dire?». «È mio dovere mettervi al corrente dell'effettiva condizione di vostra figlia. Non posso nascondervi che esiste un'elevata mortalità in questi casi». I genitori si guardarono; l'incubo era ben peggiore di quanto avessero immaginato. Entrambi avevano piena coscienza che la figlia, con i problemi cardiaci di cui soffriva dalla nascita, viveva sull'orlo di un precipizio, ma non erano, in alcun modo, preparati alla possibilità di perderla così repentinamente, e oltretutto per una malattia che non aveva alcuna relazio-
ne con le difficoltà a cui erano abituati. Ora sembrava loro tutto arbitrario e ingiusto, la vita della figlia consegnata a un crudele e capriccioso destino, una partita a dadi, prepotente e rischiosa. La possibilità che Margarida morisse era diventata incredibilmente reale, tangibile, minacciosa. «Quanto è alto il tasso di mortalità?» mormorò Tomás, inorridito da quella domanda e preoccupato per la risposta, temendola come mai aveva temuto le parole di qualcuno. «La percentuale generale di sopravvivenza a una leucemia mieloblastica acuta va, purtroppo, dal trentacinque al sessanta per cento». Sospirò di nuovo, triste per le cattive notizie che si vedeva obbligata a dare. «Dovete essere forti e preparati al peggio. È necessario che sappiate che solo una persona su due sopravvive a una leucemia di questo tipo». Quella comunicazione aveva turbato profondamente Constança e Tomás, la situazione era molto più grave di quanto avessero pensato. Tuttavia, di fronte alla figlia, mantennero un atteggiamento positivo, cercando d'incoraggiarla ad affrontare il violento trattamento alla quale fu subito sottoposta. I medici sottoposero Margarida a un'aggressiva polichemioterapia, associando vari trattamenti a un'azione di controllo delle complicazioni infettive ed emorragiche. Le venne fatta una puntura lombare per l'aspirazione di liquido destinato all'esame citologico e un'iniezione di farmaci direttamente nel midollo spinale. L'obiettivo era distruggere completamente le cellule cancerogene, nel tentativo di indurre il midollo osseo a produrre nuovamente cellule normali. Le fu inoltre impiantato un catetere venoso centrale in una vena profonda, in modo da evitare il ricorso a ulteriori punture lombari per la somministrazione di farmaci, e le vennero effettuate diverse trasfusioni di sangue. Dopo qualche tempo, Margarida perse tutti i capelli e dimagrì. Tuttavia, la polichemioterapia iniziò a dare risultati. Man mano che venivano eseguiti gli esami di controllo, il numero dei mieloblasti subiva una drastica riduzione. Quando divenne chiaro che la situazione si sarebbe stabilizzata in breve, la dottoressa Tulipa si riunì con Constança e Tomás. «Prevedo che lo stato di Margarida si stabilizzi entro la prossima settimana» annunciò. I genitori la guardarono, sfiduciati, temendo che quella nuova parola fosse l'inizio di un'altra catastrofe. «Dottoressa, che intende dire?».
«Che il numero dei mieloblasti ritornerà normale» spiegò. «Ma, in base alla mia diagnosi, la situazione resterà instabile e la remissione sarà temporanea. Per questo, vedo solo un modo per salvare vostra figlia». «Quale?». «Un trapianto di midollo osseo». «È possibile farlo?». «Sì». «In Portogallo?». «Sì». Constança e Tomás si scambiarono una rapida occhiata, come se stessero cercando un reciproco consenso, e ripresero a fissare la dottoressa. «Allora cosa stiamo aspettando? Facciamolo». La Tulipa si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi con la punta delle dita. Si sentiva stanca. «C'è un problema». Scese il silenzio. «Quale?» chiese Tomás alla fine, sussurrando. «Le nostre unità di trapianto non riescono a smaltire tutto il lavoro. Sarà possibile operare Margarida solo fra un mese». «Quindi?». «Non so se resisterà un mese. I miei colleghi pensano di sì, ma io ho dei dubbi». «Lei crede che Margarida non possa aspettare un mese, vero?». «Potrebbe. Ma è rischioso». Indossò gli occhiali e guardò Tomás. «Volete che vostra figlia rischi di nuovo la vita?». «No. In nessun modo». «Allora c'è un'unica opzione. Margarida deve essere operata all'estero». «Va bene, dottoressa». «Ma è un'operazione cara». «Ho sempre sentito dire che è lo Stato a pagare in questi casi». «Sì, è la verità. Ma non questa volta. Poiché è possibile fare l'intervento in Portogallo e non è provata l'urgenza, lo Stato non è obbligato a pagare l'operazione all'estero». «L'operazione non è urgente?». «Per me lo è. Ma non secondo l'opinione dei miei colleghi. Sfortunatamente, è il parere che prevale quello che conta per lo Stato, pertanto non pagherà nulla». «Parlerò io con loro».
«Può parlare quanto vuole, ma perderà del tempo prezioso. Tra ricorsi e istanze il tempo passa ed è un lusso che in questo momento sua figlia non può permettersi». «Allora pagheremo noi». «L'intervento è molto caro». «Quanto?». «Ho fatto una ricerca e ho trovato un ospedale pediatrico a Londra che è pronto a operare Margarida la prossima settimana. Ho inviato i referti genetici del cromosoma 6 di Margarida e hanno effettuato esami di istocompatibilità che hanno permesso di individuare un donatore compatibile. Appena la bambina entrerà in remissione, cosa che prevedo avverrà entro la prossima settimana, sarà in condizione di essere trasferita a Londra ed essere operata immediatamente». «Ma tutto questo quanto ci verrà a costare?» insistette Tomás. «Il costo del trapianto, più la degenza in ospedale, il viaggio e l'hotel per i genitori, dovrebbe aggirarsi intorno ai cinquantamila dollari». «Quanto?». «Duemila contos». Tomás abbassò la testa, abbattuto, impotente. «Non abbiamo tutti quei soldi». La dottoressa si sedette alla sedia e sembrò rassegnarsi. «Allora non ci resta che pregare» concluse. «Pregare che i miei colleghi abbiamo ragione e Margarida resista per un mese». L'acqua turchese della piscina brillava sotto un sole sereno e invitante, che riscaldava la vegetazione e circondava lo spazio del Pavilhão, il ristorante all'aperto dell'Hotel da Lapa. Il cielo sprizzava di luce, splendente e ospitale, con quell'indaco profondo caratteristico della primavera. Il giorno era sorto così radioso che Nelson Moliarti aveva scelto un posto all'aperto per l'incontro urgente sollecitato da Tomás. Lo storico attraversò il giardino e trovò l'americano seduto a un tavolo, sotto un ombrellone, mentre assaporava una spremuta d'arancia. Indossava un paio di pantaloni color crema impeccabilmente stirati e una polo gialla, la pelle abbronzata dal sole. «Non ha un bell'aspetto, no» commentò Moliarti, notando il pallore del viso e le occhiaie che marcavano gli occhi dello storico. «Sta male?». «È per mia figlia» spiegò Tomás. Si mise a sedere accanto all'americano e fissò l'infinito. «Ha un problema molto serio».
«Oh!» esclamò Moliarti, abbassando gli occhi. «Mi dispiace molto. È qualcosa di grave?». «Sì, è grave». Un cameriere s'avvicinò al tavolo con in mano un bloc-notes. «Il signore desidera qualcosa?». «Ha del tè verde?». «Certo. Quale preferisce?». «Non saprei. Uno qualsiasi». «Le porterei un Ding Gu Da Fang cinese. È un tè chiaro e vaporizzato». «Va bene». Il cameriere s'allontanò e i due uomini rimasero da soli, sotto l'ombrellone. Nessuno di loro voleva riprendere la conversazione, pertanto rimasero un lungo istante a osservare una ragazza magra, con i capelli neri e la pelle scura, lunghe gambe e grandi occhiali da sole che coprivano il viso sottile, mentre passava con un bikini rosso a bordo piscina. La videro sistemare su una sdraio l'asciugamano che portava sulla spalla, togliersi gli occhiali e sdraiarsi languidamente, rivolta verso il sole, a pancia in su, lasciandosi andare all'ozioso piacere di chi vive senza preoccupazioni. «Ho bisogno di denaro» disse alla fine Tomás, rompendo il silenzio. Moliarti bevve un sorso di spremuta. «Quanto?». «Molto». «Quando?». «Subito. Mia figlia ha un problema molto, molto grave. Deve essere operata d'urgenza all'estero. Ho bisogno di soldi». Moliarti sospirò. «Come sa, dobbiamo darle mezzo milione di dollari. Ma a una condizione». «Lo so». «È disposto a firmare l'accordo di segretezza?». Tomás mantenne lo sguardo fisso su Moliarti, furioso e rassegnato. «Che alternative ho? Eh? Che alternative?». L'americano scrollò le spalle. «Questo è un suo problema». «Allora mi mostri questo maledetto contratto e facciamola finita con questa pagliacciata». Moliarti si piegò accanto alla sedia e prese un piccola borsa appoggiata per terra. La mise sul tavolo e l'aprì: conteneva un documento legale.
«Quando mi ha telefonato, ho immaginato che avrebbe voluto firmare» osservò l'americano. «Questo è il contratto». «Me lo legga». Il testo era scritto in inglese e Moliarti lo lesse dall'inizio alla fine a voce alta. Era un accordo fra Tomás Noronha e l'American History Foundation, con il quale la fondazione s'impegnava a pagare cinquecentomila dollari allo storico in cambio della promessa di mantenere il segreto sulle ricerche che aveva portato a termine per conto dell'istituzione. Gli era proibito diffondere le sue scoperte tramite articoli, saggi, interviste e persino in conferenze stampa, e non avrebbe mai dovuto rivelare i nomi delle persone coinvolte nella ricerca. Il contratto prevedeva anche una penale per cui, in caso di violazione degli accordi, lo storico avrebbe dovuto versare il doppio di quanto pagato dalla fondazione come garanzia di segretezza. In pratica, la fondazione consegnava mezzo milione di dollari a Tomás come premio per i suoi servigi. Se, tuttavia, avesse rivelato le conclusioni dell'indagine attraverso i mezzi proibiti dal contratto, avrebbe dovuto restituire la cifra e pagare lo stesso valore come penale. Vale a dire un milione di dollari. Era un documento blindato. «Dove devo firmare?». «Qui» disse Moliarti, indicando gli spazi in bianco. L'americano gli prestò una penna e Tomás firmò due copie, una per la fondazione e una per sé. Riconsegnò la penna e ripose la sua copia nella ventiquattrore. «Manca l'assegno». Moliarti prese un libretto degli assegni dal portafoglio e iniziò a compilarlo. «Mezzo milione di dollari, eh? Diventerà ricco» sorrise. «Potrà curare sua figlia e riconquistare sua moglie...». «Mia moglie?». «Sì, la potrà riconquistare, no? Con tutti questi soldi...». «Come fa a sapere che mi sono separato da mia moglie?». Moliarti smise di scrivere, sospese la penna e lo guardò, impacciato. «Ehm... me l'ha detto lei». «No, non gliel'ho raccontato io». La voce di Tomás assunse un tono più aggressivo. «Come fa a saperlo?». «Ehm... devono avermelo raccontato...». «Chi? Chi gliel'ha raccontato?». «No... non mi ricordo. Su, via, non c'è bisogno di arrabbiarsi...».
«Non dica stronzate, Nelson. Come è venuto a sapere che mi sono separato da mia moglie?». «Mah... l'ho sentito da qualche parte». «Lei sta mentendo. Ma io non me ne vado da qui finché non mi avrà spiegato tutto per filo e per segno. Come mai sa che mi sono separato da mia moglie?». «Ah, non lo so. Ma che importa, no?». «Nelson. Mi avete spiato?». «Accidenti! Spiare è una parola grossa, diamine! Diciamo che ci siamo tenuti informati». «In che modo?». «Non importa». «In che modo?» chiese Tomás quasi gridando. Le persone intorno si girarono, l'aggressività della discussione aveva attirato la loro attenzione. Moliarti se ne accorse e fece cenno a Tomás di calmarsi. «Tom, non si scaldi». «Non mi scaldo, cavolo! Ma non esco da qui senza saperlo». L'americano sospirò. Tomás stava già perdendo il controllo e non riusciva a farlo calmare. C'era solo una via d'uscita. «Okay, okay. Le racconto tutto, ma mi deve promettere una cosa, va bene?». «Cosa?». «Che non si arrabbierà quando saprà come stanno realmente i fatti. Okay?». «Dipende». «Nessun dipende. Le racconto tutto solo per non farla andare in collera. Se lei si scalda, io non le dico più nulla. Capito?». «Molto bene». «Non si arrabbierà?». «No». «Né andrà in giro a urlare ai quattro venti e a dire a tutto il mondo che sono stato io a raccontarle tutto?». «No». «Me lo promette?». «Sì. Parli pure». Moliarti respirò di nuovo profondamente. Bevve ancora un po' di spremuta d'arancia, proprio nel momento in cui il cameriere riapparve con il tè
verde. Posò sul tavolo il bricco e una tazza di porcellana, versando il liquido chiaro e fumante. «Il tè Ding Gu Da Fang» annunciò, prima di andarsene. Tomás assaggiò la bevanda, calda e dal sapore leggermente piccante e fruttato, molto gradevole. «Quest'operazione era fondamentale per noi» iniziò a spiegare Moliarti. «Durante la sua ricerca, inizialmente incentrata sulla teoria secondo cui i portoghesi sapevano già dell'esistenza del Brasile prima dell'arrivo di Cabral, il professor Toscano s'imbatté per caso in un documento sconosciuto». «Quale documento?». «Presumo quello che ha trovato lei». «Il Codex 632?». «Esatto». «Quello che, l'altro giorno, avete alterato, dopo essere entrati alla Biblioteca Nazionale?». «Non so di cosa stia parlando». «Certo che lo sa. Non faccia l'angioletto con me». «Vuole ascoltare la storia o no?». «Vada avanti». «Ma non si arrabbi, capito?». «Già lo sono a sufficienza». «Beh, ehm... Allora, dopo questa scoperta che si è rifiutato di rivelare, il professore si è messo a studiare proprio quello su cui la fondazione non avrebbe mai voluto che investigasse. La vera origine di Cristoforo Colombo. Abbiamo provato a dissuaderlo, indirizzandolo verso la ricerca sul Brasile, ma era ostinato e ha iniziato a fare tutto di nascosto. Alla fondazione è scoppiato il panico. L'uomo era fuori controllo. Abbiamo persino considerato la possibilità di togliergli l'incarico, ma questo non gli avrebbe impedito di continuare la ricerca, quella rivelazione era troppo scottante. E oltretutto restava il problema del documento, perché non sapevamo né quale fosse né dove fosse conservato. Quando il professore è morto, in circostanze per noi stranamente provvidenziali, abbiamo tentato di capire dove si nascondesse la prova che aveva rinvenuto. Abbiamo rovistato fra il materiale che aveva, ma abbiamo trovato solo alcune cifre incomprensibili. Fu così che abbiamo pensato di ingaggiarla. Avevamo bisogno di qualcuno che fosse contemporaneamente portoghese, storico e criptanalista, in modo che potesse calarsi più facilmente nella mente del professore e svelare il
segreto, e lei era l'unico che presentava queste tre caratteristiche. Ma, come le ho detto, era una faccenda molto delicata per noi. Ricostruendo tutta l'indagine, era evidente che anche lei avrebbe concluso che Colombo non era genovese, e non potevamo correre il rischio che si ripetesse quello che era accaduto con il professor Toscano. Allora John ha avuto un'idea. Si è rivolto ad amici di alcune compagnie petrolifere che operano in Angola e ha chiesto loro se conoscevano qualche prostituta di lusso che parlasse bene portoghese. Gli hanno presentato una ragazza mozzafiato e John l'ha assunta all'istante». Tomás rimase a bocca aperta, sbalordito. «Lena». «Il suo vero nome è Emma». «Figli di puttana!». «Ha promesso di non arrabbiarsi». Fece una pausa, guardando il suo indignato interlocutore. «Vuole che interrompa qui il racconto?». «No, continui». «Lei deve comprendere che per la fondazione era necessario che le cose non prendessero di nuovo una brutta piega. Per questo era essenziale che avessimo delle inside information. Capisce? Lei mi consegnava periodici resoconti ma chi ci garantiva che ci stesse dicendo tutto?». Fece una pausa lasciando in sospeso la domanda. «Emma era la nostra garanzia. Aveva vissuto diversi anni in Angola, dove intratteneva i big shots stranieri dell'industria petrolifera, persone molto facoltose che trascorrevano la vita a Luanda e a Cabinda. Era una hooker di lusso, raffinata, rifiutava un cliente quando non era di suo gradimento, indipendentemente da chi fosse. Emma aveva scelto Rebecca come nome d'arte e fingeva di essere americana, ma in realtà è nata in Svezia. Era una ninfomane e, per questo, faceva la hooker per piacere, non per necessità. Le abbiamo mostrato una sua foto, le è piaciuto e ha accettato l'incarico. Per una settimana ha studiato l'argomento per trasformarsi in una studentessa credibile e si è recata a Lisbona ancora prima che noi le telefonassimo, Tom. Poi è entrata in contatto con lei e ha cominciato a seguire la ricerca, facendomi dei resoconti settimanali del suo lavoro». «Ma poi io ho troncato con lei». «Sì, questo è stato un grosso problema» osservò Moliarti, assentendo con un movimento della testa. «Che diamine! Bisogna avere delle big balls per dare il benservito a un simile schianto di ragazza! Mi sono meravigliato di lei, sa? Ci sono milioni di uomini che sbaverebbero per quella bam-
bola, una vera bombshell, e lei se n'è liberato senza pensarci due volte». Appoggiò due dita sulle tempie. «Ce ne vuole!». Fece un ampio gesto con le mani. «E ci ha fatto venire un mal di testa grande così, perché avevamo perso la nostra fonte di informazioni più affidabile. A questo punto John ha pensato che Emma avrebbe potuto andare da sua moglie. Forse, se fosse rimasto solo, lei avrebbe richiamato la sua amante. L'idea non le è piaciuta e si è rifiutata, ma sa come vanno certe cose, no? John le ha spiegato alcune questioni e lei ha finalmente accettato. Come previsto, sua moglie ha preso sul serio il racconto della ragazza e ha tagliato la corda. Noi siamo rimasti ad aspettare che lei vedesse di nuovo Emma. Abbiamo dato alla sua amante l'ordine di ripresentarsi alle lezioni ma lei, Tom, non ci ha ripensato». «Ora dove sta?». «L'abbiamo mandata via, non so dove sia in questo momento. Né ha importanza». Tomás tirò un profondo sospiro, arrabbiato e nauseato da tutta quella storia. «Una vera carognata... Un comportamento meschino...» Moliarti abbassò la testa e riprese a compilare l'assegno. «Lo so» ammise. «Non c'è da vantarsene, no. Ma che vuol farci? È la vita». Finì di riempire l'assegno e lo consegnò a Tomás. Scritti con inchiostro blu, si vedevano otto numeri, un cinque e sette zeri. Mezzo milione di dollari. Il prezzo del silenzio. XVIII Davanti ai loro occhi passò, sulla sinistra, la facciata neoclassica del British Museum, imponente, maestosa, come fosse il più autorevole di tutti i musei. Lo spazioso taxi nero percorse la stretta e accogliente Great Russel Street e girò l'angolo in Montague, avvicinandosi alla destinazione. Margarida teneva il viso incollato al finestrino e il naso schiacciato sul vetro, facendolo appannare col suo respiro. Rimaneva indifferente al grosso cappello azzurro che le copriva la testa e nascondeva gli effetti della chemio, era come se avesse scelto di ignorare ciò che le stava accadendo e preferisse piuttosto il grandioso spettacolo del mondo. Guardava con interesse le strette vie che stava percorrendo, che le sembravano fredde, grigie
com'erano, ma sentiva che c'era qualcosa di ospitale in quella città, con i suoi spazi ordinati, l'elegante disposizione degli edifici, gli alberi ben potati con tappeti di foglie al suolo, le persone dall'aspetto fiero che attraversavano i marciapiedi coperte da impermeabili e protette da scuri ombrelli. Dal cielo stava scendendo una pioggerellina fine quando Tomás aprì lo sportello del taxi e osservò l'enorme edificio davanti a sé. Il Russel Square NHS Hospital for Children era un vasto complesso vecchio di più di cento anni, pieno di infermiere indaffarate. Margarida scese da sola e Constança le diede la mano, mentre Tomás pagava la corsa e scaricava le valigie. Oltrepassarono la porta d'ingresso e si diressero al punto informazioni, dove l'impiegata verificò al computer la prenotazione effettuata da Lisbona. Mentre Constança riempiva il foglio di registrazione della figlia, Tomás sottoscrisse il modello denominato Undertaking to Pay e passò un assegno come deposito del valore di quarantacinquemila dollari, che corrispondeva al teorico ammontare dei costi dell'intervento. «Se le spese saranno superiori dovrà pagare la differenza» lo mise al corrente l'impiegata con un aspetto molto professionale, come se lavorasse in un'agenzia di assicurazioni e quella non fosse altro che una semplice transazione commerciale. «Va bene?». «Sì». «Tre giorni dopo l'intervento riceverà il conto finale che dovrà saldare entro ventotto giorni». Assumendo un atteggiamento da receptionist d'hotel, la donna indicò loro dove dovevano andare, spiegando il percorso per raggiungere l'infermeria e la stanza che era stata assegnata a Margarida. Presero l'ascensore e salirono al secondo piano; si ritrovarono in un piccolo atrio e videro un cartello che riportava tre indicazioni; seguirono quella che segnalava il Grail Ward, dove la figlia sarebbe stata ricoverata. Tomás non poté fare a meno di sorridere davanti al nome dell'infermeria, che ricordava il Graal, il calice in cui era stato raccolto il sangue di Cristo e il cui contenuto avrebbe reso eterno chiunque lo avesse bevuto. Un nome adatto all'unità di malattie del sangue che cerca di ridare una speranza di vita, pensò. Il Grail Ward era un tranquillo corridoio dell'area di Ematologia, con le porte che si aprivano da entrambi i lati su stanze singole. Andarono dall'infermiera di turno e questa li condusse a destinazione. La camera di Margarida aveva due letti, uno per la paziente e l'altro per la madre, separati da un comodino con sopra un abat-jour e un vaso di fiori dai molti petali viola. «Come si chiamano, mamma?» chiese Margarida, puntando verso i fiori.
«Sono violette». «Mi 'acconti la lo'o sto'ia?» domandò la piccola, accomodandosi sul letto con aria curiosa. Tomás posò i bagagli e Constança si mise a sedere accanto alla figlia. «C'era una volta una bella fanciulla di nome Io. Era così bella che il grande dio dei Greci, Zeus, s'innamorò di lei. Ma questo alla moglie di Zeus, Era, non piacque e, piena di gelosia, chiese a Zeus perché stesse dando tanta attenzione a quella ragazza. Zeus disse che erano tutte bugie e, per nascondere le cose, trasformò la bella Io in una giovenca e le diede un campo di violette color porpora su cui pascolare. Ma Era continuava a non fidarsi e mandò un animale a darle fastidio. Disperata, Io si gettò in mare, e oggi quelle acque sono conosciute come Mar Ionio, in suo onore. Era convinse Io a non vedere mai più Zeus e, in cambio, la fece tornare nuovamente una fanciulla». «Ah» mormorò Margarida. «E i fio'i cosa vogliono di'e?». «La parola violetta viene da Io. Le violette rappresentano l'amore innocente». «Pe'ché?». «Perché Io era innocente. Non era colpa sua se Zeus si era innamorato di lei, no?». «Hmm-hmm» confermò la piccola, scuotendo la testa affermativamente. L'infermiera, che era uscita alla ricerca di un modulo, ritornò nella stanza per compilare il questionario preliminare. Era una signora di mezza età, con i capelli tirati indietro, indossava un camice bianco e celeste. Si chiamava Margaret ma chiese di essere chiamata Maggy. Si appoggiò alla spalliera del letto e iniziò a fare delle domande sulle abitudini quotidiane di Margarida, sui suoi cibi preferiti e sulla sua storia clinica. Disse alla piccola di salire su una bilancia e ne registrò il peso; poi le prese l'altezza vicino alla parete. Le misurò la temperatura, il polso e il ritmo respiratorio e le controllò la pressione. Successivamente la condusse in bagno e non si allontanò finché non ebbe preso dei campioni di urina e feci; provvide anche a fare dei prelievi di muco nasale e di saliva e consegnò tutto immediatamente in laboratorio perché fosse analizzato. La coppia rimase a sistemare le cose. Margarida aveva portato pochi vestiti; solo tre camicie, un paio di calzoni, un maglione, una gonna e due pigiami, più gli indumenti intimi. Gli oggetti per l'igiene personale furono collocati in bagno e il suo giocattolo preferito, una bambola dai capelli rossi che piangeva se veniva sdraiata, rimase appoggiato sul letto. Anche i
vestiti di Constança furono ordinati nei cassetti, del resto la madre avrebbe dormito due notti nel letto accanto, fino al giorno dell'operazione. Un uomo con il camice bianco, calvo e con la pancia che tradiva un debole per la birra, entrò nella stanza. «Hello!» salutò, stendendo la mano. «Sono il dottor Stephen Penrose e sarò io a operare vostra figlia». Si salutarono e il medico immediatamente sottopose Margarida a un nuovo esame. Fece ancora domande sulla sua storia clinica e chiamò l'infermiera, chiedendole di fare un mielogramma alla bambina; voleva essere certo dei dati che gli erano stati spediti da Lisbona. Maggy prese Margarida per mano e Constança si accinse ad accompagnarla, ma il dottore le fece cenno di rimanere nella stanza. «Penso che questo sia il momento giusto per chiarire tutti i vostri eventuali dubbi» spiegò. «Presumo che conosciate i dettagli dell'operazione...». «Non molto bene» ammise Tomás. Il medico si mise a sedere sul letto di Margarida. «Ciò che faremo è sostituire il midollo osseo malato, eliminando tutte le cellule che esso contiene e iniettandone altre, in modo che se ne formi uno nuovo. Si tratta di un trapianto allogenico, in quanto le cellule normali provengono da un donatore la cui compatibilità è stata verificata». «Chi è?». «È un tizio qualsiasi che guadagnerà un po' di soldi per farsi aspirare il dieci per cento del proprio midollo». Sorrise. «Non ci saranno implicazioni per la sua salute e si ritroverà in tasca qualche sterlina in più da spendere al pub». «Ed è questo dieci per cento di midollo che salverà la nostra Margarida?». «Sì. Il midollo osseo di vostra figlia sarà totalmente distrutto e lei ne riceverà uno nuovo come se facesse una semplice trasfusione di sangue. Sarà ricco delle cellule che noi chiamiamo progenitrici, le quali, una volta entrate nel circolo sanguigno, andranno a insediarsi nelle ossa e svilupperanno un nuovo midollo». «È così semplice?». «Il procedimento è semplice, ma tutto il processo è estremamente complicato e comporta rischi elevati. Infatti, il processo di formazione del nuovo midollo osseo dura come minimo un paio di settimane, è questo il periodo critico». Cambiò il tono di voce, per sottolineare l'importanza di quanto stava per annunciare. «Durante queste due settimane, il midollo di
Margarida non produrrà in quantità adeguata né globuli bianchi, né globuli rossi, né piastrine. Questo significa che sarà alquanto soggetta a emorragie e infezioni. Se i batteri l'attaccassero, il suo corpo non produrrebbe abbastanza globuli bianchi per neutralizzare l'attacco». Inarcò le sopracciglia, soffermandosi su questo punto. «Capite? Sarà molto vulnerabile». Tomás si sfregò la testa, comprendendo il problema. «Ma come si può impedire che i batteri entrino nel suo corpo?». «Tenendo la bambina in isolamento in una stanza sterilizzata. È l'unica cosa che possiamo fare». «E se anche così lei prendesse un'infezione?». «Non avrà difese». «Che significa?». «Significa che potrebbe non sopravvivere». Tomás e Constança si sentirono improvvisamente appesantiti. Erano stati avvisati a Lisbona circa i rischi dell'operazione, sebbene avessero la consapevolezza che non fare il trapianto sarebbe stata un'opzione ancora più azzardata. Ma questo non era di consolazione. Per quanto la ragione dicesse loro che quella era la strada giusta, il cuore dubitava, avrebbero preferito rimandare tutto, avrebbero voluto dimenticare il problema, fingere che non esisteva, spingerlo in un angolo nascosto delle loro esistenze. «Ma c'è una buona notizia» aggiunse il medico, comprendendo che doveva dare un segno positivo, di speranza. «La buona notizia è che, superate le due settimane critiche, il nuovo midollo inizierà a produrre cellule normali e in grande quantità, e Margarida probabilmente guarirà dalla leucemia. È chiaro che poi sarà necessaria un'attività di assistenza e di controllo, ma di questo ci occuperemo in un secondo momento». La prospettiva della guarigione rianimò i genitori, storditi da una continua altalena di emozioni che li portava ora in basso, ora in alto: prima la speranza, poi la disperazione e poi di nuovo la speranza, in un infernale alternarsi di sensazioni contrastanti, che essi si trovavano costretti a vivere quasi nel medesimo istante. Speranza e disperazione. Alle sette e mezza del mattino del terzo giorno, Maggy entrò nella stanza di Margarida e le somministrò un tranquillante. Constança e Tomás non avevano chiuso occhio per tutta la notte ed erano rimasti seduti sul letto accanto a guardare la figlia dormire beatamente. Chi dormiva così non poteva morire, pensarono, sperando contro ogni speranza.
L'arrivo dell'infermiera li riportò alla realtà. Constança guardò Maggy e le venne in mente, quasi senza volere, per associazione di idee, l'immagine di un condannato a morte che le guardie venivano a prendere per condurlo alla fucilazione. Dovette darsi un pizzicotto per convincere se stessa che l'infermiera non cercava la figlia per ucciderla, ma piuttosto per salvarla. È per salvarla, continuava a ripetersi Constança, cercando conforto in questo pensiero liberatorio. È per salvarla. Fecero sdraiare Margarida su una barella e la portarono, attraverso i corridoi del Grail Ward, fino alla sala operatoria. La piccola era cosciente, ma insonnolita. «Sogne'ò, mammina?» mormorò, intorpidita. «Sì, tesoro. Sogni d'oro». «Sogni d'o'o» ripeté, come se quella fosse una filastrocca. Trovarono il dottor Penrose sulla porta della sala operatoria. Ebbero difficoltà a riconoscerlo perché indossava una mascherina e aveva la testa coperta. «Non preoccupatevi» disse con la voce soffocata dalla mascherina. «Andrà tutto bene». Le porte s'aprirono e la barella sparì all'interno della sala, spinta da Maggy e con Penrose accanto. Le porte si chiusero e la coppia rimase un lungo istante a guardarle, come se Margarida fosse stata rubata loro. Poi Tomás e Constança ritornarono nella stanza della figlia e si misero a preparare le valigie, la bimba non sarebbe ritornata lì dopo l'operazione. Si sforzarono di fare con calma, in modo da prolungare quel tentativo di distrazione, ma il tempo era più lento di loro e presto si videro seduti sul letto, con i bagagli pronti, senza saper cosa fare, ansiosi e angosciati. La mente andava alla sala operatoria, immaginando l'intervento che stava avvenendo in quel momento. La tortura terminò due ore dopo. Penrose andò da loro senza mascherina, mostrando un sorriso fiducioso che immediatamente li risollevò. «È andato tutto bene» annunciò. «Il trapianto è stato eseguito e tutto si è svolto come previsto, non ci sono state complicazioni». Si ritrovarono di nuovo in balia di quelle altalenanti emozioni: dove un minuto prima regnava l'angoscia ora trionfava l'allegria. «Dov'è mia figlia?» volle sapere Constança, dopo aver represso l'irrefrenabile desiderio di baciare il dottore.
«È stata trasferita in una stanza in isolamento dall'altro lato dell'ala». «Possiamo vederla?». Penrose fece un gesto con le mani, per chiedere loro un po' di calma. «Per adesso no. Sta dormendo ed è meglio lasciarla tranquilla». «Non potremo vederla per tutta la settimana?». Il medico sorrise. «Potrete vederla questo pomeriggio, state tranquilli. Se io fossi in voi andrei a fare un giro, pranzerei e ritornerei qui verso le tre. A quell'ora si sarà già svegliata e potrete andare a farle visita». Uscirono dall'ospedale pervasi da una gradevole sensazione di speranza, come se fossero sospesi in aria, trasportati da una delicata brezza primaverile. "È andato tutto bene" aveva detto il medico. È andato tutto bene. Che parole meravigliose, così dolci, così rincuoranti. Non avrebbero mai immaginato che una semplice frase avesse tanto potere, era come se quelle quattro parole fossero state magiche, capaci da sole di cambiare la realtà e di dare un finale felice alla storia. È andato tutto bene. Passeggiarono per le vie quasi saltellando, ridendo senza motivo, i colori apparivano più brillanti, l'aria sembrava loro più pura. Percorsero la Southampton Row fino a Holborn e girarono a destra, prendendo la New Oxford Street. Attraversarono il grande incrocio tra Tottenham Court Road e Charing Cross e si tuffarono nella confusione agitata di Oxford Street, distraendosi guardando le vetrine e osservando l'incessante flusso della folla che riempiva il marciapiede. Nei paraggi di Wardour Street iniziarono ad avvertire la fame, girarono per Soho, e andarono a mangiare un teriyaki in un ristorante coreano che esibiva prezzi accessibili. Dopo pranzo percorsero Soho fino a Leicester Square, dove svoltarono in direzione di Covent Garden fino a prendere più avanti la Kingsway e tornare verso Southampton e Russell Square, quasi alle tre del pomeriggio. L'infermiera Maggy disse loro che li avrebbe accompagnati alla stanza in cui si trovava Margarida. Tomás era preoccupato dalla possibilità di trasportare microbi nell'ambiente, ma l'inglese sorrise. Chiese alla coppia di lavarsi le mani e il viso e consegnò a entrambi camice, guanti e mascherina, che indossarono prima della visita. «Dovete mantenere una certa distanza dalla bambina» consigliò Maggy mentre procedeva avanti, indicando il percorso. «Ma quando la porta si apre non c'è il rischio che entrino batteri?» do-
mandò Constança, ansiosa perché temeva che la visita rappresentasse un pericolo per la figlia. «Non c'è problema. L'aria della stanza è sterilizzata ed è mantenuta a una pressione atmosferica superiore al normale: in tal modo, quando le porte si aprono, l'aria esterna non riesce a penetrare». «E come fa a mangiare?». «Con la bocca, chiaramente». «Ma... non c'è pericolo di infezioni nel cibo?». «Anche i pasti sono sterilizzati». Arrivarono nell'area di isolamento postoperatorio dell'unità di Ematologia e Maggy aprì la porta di una stanza. «È qui» annunciò. L'aria era fresca e aveva un odore asettico. Sdraiata sul letto, appoggiata a un cuscino, Margarida chiacchierava con la sua bambola dai capelli rossi. Guardò verso l'entrata e sorrise quando vide i genitori. «Salve gente!» salutò. L'infermiera fece cenno di mantenere la distanza e la coppia rimase ai piedi del letto. «Allora, piccola, stai bene?» domandò Constança. «No». «Che succede? Ti fa male qualcosa?». «No». «Allora che succede?». «Mi b'ontola la pancia». Constança e Tomás si misero a ridere. «Ti brontola la pancia? Ancora non hai mangiato?». «Ho mangiato». «E hai ancora fame?». «Sì. Mi hanno dato pollo e spaghetti». «Erano buoni?». «Una po'che'ia». «Non hai mangiato tutto?». «Ho pappato tutto. Ma ne voglio anco'a, ho fame». «Papà va a parlare con il dottore per farti portare qualcos'altro» intervenne Tomás. «Tu però sei una golosona, lo sai? Se ti portassimo un camion pieno di cibo, scommetto che puliresti tutto e ne chiederesti ancora». La piccola sistemò la bambola sul comodino e stese le braccia verso i genitori.
«Datemi un bel bacio, miei maland'ini». «Mi piacerebbe, ma il dottore dice che non posso» spiegò la madre. «Pe'ché?». «Perché dentro di me ci sono dei vermiciattoli e, se ti do un bacino, possono attaccarsi a te». «Ah sì?» si meravigliò Margarida. «Ci sono dei ve'miciattoli dent'o di te?». «Sì». «Uff!» esclamò la figlia, accennando una smorfia di dispiacere. «Po'che'ia!». Restarono nella stanza a parlare con Margarida. Ma Maggy tornò un'ora dopo e chiese loro di uscire. Stabilirono un orario per le visite quotidiane e salutarono la figlia con molti cenni e baci soffiati dalla punta delle dita. Tomás sentiva il battito del cuore accelerare ogni volta che si avvicinava il momento di vederla. Arrivava in ospedale con mezzora d'anticipo e restava seduto nervosamente sul divano della sala d'attesa, gli occhi attenti a qualsiasi movimento, trattenendo con difficoltà l'ansia che lo soffocava. Questa continua inquietudine, attenuata da una leggera e dolce sensazione che non riusciva a definire, si allentava soltanto quando Constança attraversava la porta, di solito dieci minuti prima della visita. Allora lasciava spazio a una tensione latente, fastidiosa ma stranamente desiderata: quello era diventato l'apice della giornata, il momento per cui viveva. Accompagnò così la convalescenza della figlia, sempre espansiva e di buon umore, anche quando fu soggetta a ripetuti accessi febbrili, che Penrose spiegò essere normali. Ma non poteva negare a se stesso che non era solo a causa di Margarida che quello era diventato il più bel momento del giorno. C'era Constança. Le conversazioni tra i due nella sala d'attesa erano, tuttavia, tese, zoppicanti, piene di imbarazzanti silenzi e sottintesi attimi di disagio, allusioni sottili, gesti ambigui. Il terzo giorno, Tomás decise di pianificare anticipatamente i temi di cui parlare. Mentre si lavava, o faceva colazione, stabiliva una specie di copione, prendendo nota mentalmente degli argomenti da trattare durante l'attesa per andare a vedere la figlia. Quando Constança appariva nella sala per la visita quotidiana, srotolava quella lista di temi come un alunno che ripeteva la lezione durante un'interrogazione; esaurito un argomento, saltava subito a quello successivo, e così via. Parlavano di film, di libri che avevano visto in Charing Cross, della mostra di pittura al-
la Tate, dei fiori in vendita a Covent Garden, dello stato dell'istruzione in Portogallo, del percorso che stava facendo il Paese, di poesie e di amici, di episodi del loro comune passato. Non ci furono più silenzi. Il sesto giorno si fece coraggio e decise di affrontare il problema che più lo tormentava. «Allora, il tuo amico?» domandò lui, sforzandosi di assumere il tono più disinteressato possibile. Constança alzò gli occhi e accennò un sorriso discreto. Era da molto tempo che si aspettava che la conversazione andasse a finire su quell'argomento ed era importante che esaminasse il volto del marito quando quella questione fosse stata sollevata. Sarebbe stato nervoso? L'argomento lo avrebbe turbato? Sarebbe stato geloso? Osservò con discrezione l'espressione apparentemente impassibile di Tomás, analizzando lo sguardo e la postura del corpo, rivide il modo in cui aveva formulato la domanda e sentì un'agitazione formicolarle nel petto. È arrabbiato, pensò, soddisfatta. Cerca di nasconderlo, ma si vede lontano un miglio. Gli rode il fegato. «Chi? Carlos?». «Sì, quel tipo» disse Tomás, mentre guardava qua e là nella stanza. «Va tutto bene con lui?». Muore dalla gelosia, confermò lei, mascherando a malapena un sorriso. «Sta andando. A mia madre piace molto. Dice che è fatto per me». «Ah, molto bene» borbottò Tomás, reprimendo a stento l'irritazione. «Molto bene». «Perché? Che t'importa?». «Niente, niente. Era tanto per sapere». Quel giorno scese il silenzio nella piccola sala d'aspetto, un silenzio pesante, assordante. Rimasero a lungo senza parlare, fissando le pareti, giocando un gioco di nervosismo, di pazienza, di amor proprio ferito. Nessuno voleva fare il primo passo, essere considerato il più debole, nessuno voleva mettere da parte l'orgoglio, cicatrizzare le ferite aperte, raccogliere i pezzi e ricomporre quello che ancora poteva essere recuperato. Arrivò l'ora della visita e finsero di non aver notato nulla, rimanendo seduti sul divano in attesa che l'altro cedesse. Finché uno di loro prese coscienza che qualcuno avrebbe pur dovuto arrendersi e lanciare il primo segno, in fin dei conti Margarida li stava aspettando dall'altro lato del corridoio. «L'opinione di mia madre non è necessariamente la mia» mormorò alla fine Constança, prima di alzarsi per andare a vedere la figlia.
La mattina del giorno seguente fu dedicata alle compere. Tomás uscì con un sentimento di crescente fiducia, era evidente che le cose si andavano sistemando poco a poco. Nonostante le febbri intermittenti, Margarida resisteva agli effetti del trapianto, e Constança, pur mantenendosi orgogliosamente distante, gli sembrava disponibile a un riavvicinamento. Sapeva che doveva agire con tatto, era ovvio, ma ora era convinto che, se avesse scelto bene le sue carte, avrebbero potuto riconciliarsi. La guarigione della figlia era diventata la sua unica preoccupazione. Per distrarsi decise di attraversare la pittoresca Charing Cross, sbirciando fra le sezioni storiche delle diverse librerie. Entrò nella Foyle's, nella Waterstones e persino nelle bouquiniste, alla ricerca di testi antichi sul Medio Oriente, alimentando così il vecchio progetto di studiare l'ebraico e l'aramaico per aprire il suo campo di ricerca a nuovi orizzonti. Pranzò con un curry di gamberi in un ristorante indiano in fondo alla strada, in direzione di Leicester Square, e ritornò percorrendo Covent Garden. Passò anche per il mercato e comprò al banco dei fiori un ramo verde di flomide; Constança gli aveva detto che il nome di quel fiore derivava dal latino salvare50 e significava augurio di salute e lunga vita, un augurio decisamente appropriato per Margarida. Poi si fermò a osservare un pagliaccio che effettuava acrobazie in mezzo a una folla oziosa ma, impaziente di vedere la figlia e la moglie, s'incamminò per Neal Street e poi per Coptic Street, verso l'ospedale. Si ritrovò davanti al British Museum e, poiché mancava ancora un'ora e mezza alla visita, decise di dare uno sguardo all'interno dell'edificio. Oltrepassò l'entrata principale, in Great Russel Street, e salì la scala esterna. Erano in corso dei lavori nell'area dell'antica biblioteca, demolita per far posto a un'ala centrale dalle linee moderne e audaci, ma Tomás, dopo aver chiesto informazioni, girò subito a sinistra. Attraversò il salone delle sculture assire ed entrò nella sezione dedicata all'arte egizia, una delle perle del museo. Le mummie si trovavano al primo piano, risvegliando un dolce fascino nei visitatori, ma Tomás cercava un altro tesoro. Camminando fra gli obelischi e le strane statue di Iside e Amon, si fermò solo quando si trovò davanti a quella pietra scura e brillante, che mostrava tre serie di misteriosi simboli scolpiti sulla superficie liscia: erano messaggi lasciati da civiltà scomparse ormai da tanto tempo e che avevano viaggiato nel tempo per arrivare fin lì, portando a Tomás, in quel luogo e in quell'istante, notizie di un mondo che non esisteva più. La Stele di Rosetta.
Uscì dal museo quando mancavano venti minuti al momento della visita e poco dopo si presentò con il ramoscello di flomide davanti all'infermiera di turno nell'area di isolamento di Ematologia e chiese di vedere Margarida. L'inglese sembrava giovane, aveva bei capelli biondi ma una pelle molto grassa, e il badge che portava al petto la presentava come Candace Tempie. L'infermiera consultò il computer e, dopo una certa esitazione, s'alzò dal suo posto e andò alla porta. «Mi segua, per favore» disse, incamminandosi lungo il corridoio. «Il dottor Penrose vuole parlare con lei». Tomás si diresse, accompagnato dall'infermiera, verso l'ufficio del medico. Candace era piccola e camminava con passo corto e rapido, poco elegante. La ragazza si fermò in prossimità della porta dello studio, bussò e aprì. «Doctor, mister Thomas Norona is here». Tomás sorrise sentendosi chiamare in quel modo. «Come in» disse una voce dall'interno della stanza. Candace s'allontanò e Tomás entrò nello studio, divertito, pensando ancora al "Thomas Norona" pronunciato dall'infermiera. Vide Penrose alzarsi dalla scrivania, un volto serio, triste, un'espressione cupa e lo sguardo adombrato. «Voleva parlarmi, dottore?». Il medico con un gesto indicò verso il sofà e si mise seduto vicino a Tomás. Mantenne il busto inclinato in avanti, come se volesse alzarsi da un momento all'altro, e respirò a fondo. «Temo di avere brutte notizie per lei». Quell'aria accigliata nel volto del medico sembrava dire tutto. Tomás rimase a bocca aperta, terrorizzato, le gambe gli tremavano, i battiti del cuore erano irregolari. «Mia figlia...» balbettò. «Mi dispiace dirglielo, ma si è verificata l'ipotesi peggiore, quella che più temevamo» annunciò Penrose. «Ha preso un'infezione e in questo momento si trova in uno stato molto critico». Incollata al vetro che si affacciava sulla stanza di Margarida, Constança aveva gli occhi umidi, il naso rosso, una mano sulla bocca, e singhiozzava a bassa voce. Tomás l'abbracciò e rimasero entrambi a osservare la figlia distesa sul letto dall'altra parte della vetrata, la testa lucida, calva, che dormiva un sonno agitato, lottando fra la vita e la morte. Le infermiere an-
davano avanti e indietro e Penrose arrivò poco dopo per organizzare il lavoro. Dopo aver visitato Margarida e dato nuove istruzioni, andò dalla coppia terrorizzata. «Si salverà, dottore?» chiese immediatamente Constança, presa dall'ansia. «Stiamo facendo il possibile» rispose il medico, evidentemente preoccupato. «Ma si salverà?». Penrose sospirò. «Stiamo facendo il possibile» ripeté. «Ma la situazione è molto grave, il nuovo midollo ancora non si è formato e non ha mezzi di difesa. Dovete prepararvi al peggio». I genitori della bambina non riuscirono ad abbandonare la vetrata che permetteva loro di vedere cosa accadeva nella stanza. Se Margarida doveva morire, decisero, non sarebbe morta da sola, le sarebbero stati vicini il più possibile. Rimasero il pomeriggio e l'intera notte incollati al vetro; un'infermiera portò due sedie e si misero seduti, attaccati alla vetrata, tenendo gli occhi sulla figlia in agonia. Alle quattro di mattina notarono un improvviso nervosismo nella stanza e s'alzarono dalla sedia, preoccupati. La bambina, che per molto tempo si era agitata in un sonno febbrile, ora era immobile, con il viso sereno, e un'infermiera si precipitò a chiamare il medico di turno. Dall'altro lato del vetro tutto accadeva in silenzio era come se Tomás e Constança stessero guardando un film muto, un horror tanto pauroso che entrambi tremavano, sentendo che era arrivato il momento più terribile della loro vita. Il medico si presentò qualche istante più tardi, insonnolito, come se si fosse appena svegliato. Era un uomo grasso, con una grande pappagorgia sotto il mento. Sul badge che aveva sul petto era scritto il suo cognome, Hackett. Il dottore si piegò sulla paziente, le sentì la temperatura, le prese il polso, le sollevò una palpebra per osservare l'occhio, consultò il registro di un macchinario e parlò per qualche momento con le infermiere. Quando stava per uscire, una di loro gli indicò con un gesto la vetrata oltre la quale c'erano i genitori, come se volesse dirgli che avrebbe dovuto comunicare la notizia, e il medico, dopo una breve esitazione, andò da loro. «Buonasera, sono il dottor Hackett» si presentò, imbarazzato. Tomás strinse la moglie con più energia, preparandosi mentalmente al peggio. «Mi dispiace molto...».
Tomás aprì la bocca e poi la richiuse, senza emettere suono, neanche uno. Agghiacciato, paralizzato, incapace di dire una parola, era così stordito da non sentire ancora la sofferenza che già gli stava offuscando lo sguardo. Le gambe deboli, il cuore che batteva irregolarmente, captò in quell'attimo l'espressione di compassione che velava gli occhi del dottore e comprese, alla fine, che quell'espressione racchiudeva una tragica notizia, che l'incubo che più temeva era diventato reale. Capì che la vita non è altro che un fragile sospiro, un fugace istante di luce nell'eterna ombra del tempo, che il suo piccolo mondo era rimasto insopportabilmente povero. Si rese conto che era andata persa per sempre quell'aria pura e onesta che tanto lo incantava nel viso ingenuo di Margarida. E in quel momento di perplessità, in quell'estrema frazione di agonia tra lo shock della notizia e l'esplosione del dolore, si meravigliò di non sentirsi scoppiare dentro il rancore per quel crudele scherzo del destino, ma di avvertire solo una tremenda tristezza, una profonda nostalgia per la figlia che aveva perso. Il sentimento doloroso e intenso di un padre consapevole che non c'era figlia bella come la sua, talmente bella che mai cardo era stato più simile al più bel fiore del prato. «Sogni d'oro, piccola mia». XIX Non c'è dolore più grande di quello che prova chi perde un figlio. Tomás e Constança passarono mesi sconvolti dalla morte di Margarida, disinteressati del mondo, alienati dalla vita, abbandonati a un'amara indifferenza. Si chiusero in loro stessi e cercarono conforto l'uno nell'altra, ripensando a ricordi comuni e condividendo affetti recuperati dall'oblio, e in questo processo di consolazione reciproca, durante il quale si erano stretti in un bozzolo tutto loro, finirono per riavvicinarsi. Senza neanche accorgersene, come se l'infedeltà di Tomás fosse diventata un'irrilevante assurdità, un lontano avvenimento del quale restava appena un vago e insignificante ricordo, ripresero a vivere insieme. Furono difficili i momenti trascorsi soli nel piccolo appartamento. Ogni angolo racchiudeva una memoria, ogni spazio raccontava una storia, ogni oggetto rievocava un istante. Per settimane girarono intorno alla stanza della figlia senza mai avere il coraggio di entrare; andava oltre le loro forze, si limitavano a guardare quella porta e temevano ciò che si trovava al di là. Era quasi una barriera insormontabile, un passaggio per un mondo per-
duto; avevano paura di sciogliere l'incantesimo di quel luogo magico sospeso nel tempo. La verità è che non volevano affrontare la realtà di quella camera deserta, simbolo della figlia scomparsa. Quando, finalmente, riuscirono a varcare la porta e trovarono le bambole appoggiate sul letto, i libri allineati sulle mensole e i vestitini sistemati nei cassetti, come se tutto fosse stato messo appena in ordine, si sentirono come viaggiatori nel tempo, di nuovo in balia dell'altalena di emozioni. Nell'aria aleggiava persino qualcosa d'indefinito, un profumo, un movimento, un'atmosfera, qualcosa d'inviolato che dolorosamente rievocava l'essenza fanciullesca di Margarida. Vinti dall'emozione, distrutti dalla sofferenza, abbandonarono immediatamente la stanza e di nuovo preferirono rimanerne lontani. Com'era terribile vivere così, in quell'atmosfera carica di nostalgia e velata dal doloroso ricordo della bambina! Soffrivano quando erano in casa, soffrivano quando se ne allontanavano. Dopo alcuni mesi arrivarono alla conclusione che non potevano continuare in quel modo. I giorni si susseguivano monotoni, l'esistenza si rivelava vuota, la vita sembrava non avere senso. Gradualmente presero coscienza del fatto che fosse necessario fare qualcosa, bisognava dare un'altra direzione alle cose, fermare quella caduta verso l'abisso. Un giorno, seduti sul divano, in silenzio, al limite della pazzia, messi di fronte a quel vicolo senza uscita nel quale le circostanze li avevano trascinati, presero una decisione. Avrebbero rotto con il passato. Ma per farlo serviva un progetto, una direzione, una luce che li orientasse, e subito capirono che c'era un solo cammino, un percorso per la salvezza che passava attraverso due tappe. Un nuovo figlio e una nuova casa. Con il denaro della fondazione comprarono una piccola tenuta a Santo Amaro de Oeiras, vicino al mare, e attesero che un bambino riempisse di gioia quella casa. Stranamente, scoprirono che entrambi desideravano un figlio uguale a Margarida, con gli stessi difetti, anche quelli genetici, purché avesse le stesse qualità, l'allegria e la generosità con cui quella bambina li aveva conquistati. Volevano un bimbo, come chi vuole cancellare un brutto sogno, e come se attraverso di lui la figlia persa potesse, finalmente, ritornare accanto ai propri cari. La morte di Margarida aveva indotto Tomás a riflettere anche sul senso della sua integrità professionale. Aveva venduto l'onore in cambio di denaro per salvare la figlia, ma gli eventi successivi suonarono come una punizione per aver ceduto vergognosamente ad un ricatto al quale aveva dovuto sottostare, come se ogni cosa non fosse altro che una severa lezione divina,
un test sulla sua serietà, una semplice prova morale che egli aveva disastrosamente fallito. Quella conclusione lo aveva riportato alla ricerca che aveva svolto per la fondazione. Inquieto, turbato dall'idea di non essere stato all'altezza dei suoi doveri, pensò a lungo all'argomento. Si ritrovò infinite volte a leggere il contratto da cima a fondo, studiando scrupolosamente ogni clausola, pesando le parole, vagliando le opzioni, valutando cavilli cui aggrapparsi, cercando delle debolezze. Andò persino a parlare con Daniel, un cugino di Constança che si era laureato in Diritto, per valutare il documento con maggiore precisione. Tomás non riusciva a sopportare la decisione che si era visto costretto a prendere quando aveva firmato l'accordo di segretezza in cambio del mezzo milione di dollari che supponeva avrebbe salvato Margarida. Invece non l'aveva salvata e nessuno gli toglieva dalla testa l'idea che la morte della figlia fosse stata una punizione per il vile affare in cui si era lasciato coinvolgere. Il problema diventò, a poco a poco, un'ossessione. Le scoperte erano state censurate, è vero, ma le sentiva vive, non rassegnate, rivoltose, pronte a esplodergli in petto, a squarciargli il corpo, a lacerargli la carne e irrompere nel mondo come un'incandescente eruzione. Tuttavia, per quanto cercasse un modo per rivelare la verità che aveva dovuto tacere, per dare sfogo al suo grido represso, l'ultima clausola del contratto gli legava le mani. Se avesse rotto il sigillo gli sarebbe costato un milione di dollari e lui non disponeva di quella cifra. Erano due le verità su cui doveva tacere. Una era la verità oggettiva, ontologica, la verità storica, la verità al di fuori della quale tutto era falso: l'uomo che aveva scoperto l'America si chiamava Colonna ed era un nobile portoghese con sangue metà ebreo e metà italiano che aveva svolto una missione segreta al servizio di Don João II. Questa verità era rimasta nell'ombra per circa cinque secoli ed era destinata a restarci ancora. L'altra era la verità morale, quella soggettiva, la verità di chi si sente a posto con se stesso, quella verità al di fuori della quale tutto è una bugia. Si entrava nel campo dell'etica e dei suoi principi-guida, dei valori che danno corpo all'onestà, all'integrità e all'idea che la verità debba trionfare, a qualsiasi costo, e che essa si trovi alla base di tutte le virtù. Ciò che più gli faceva male era soffocare la propria morale. Viveva quella bugia come una coltellata inferta a tutto ciò in cui aveva creduto, come il crollo dell'etica sulla quale aveva basato la sua vita. Ciò che più lo tormentava era, senza dubbio, l'aver tradito la propria coscienza, era quello il mostro che lo martirizzava durante gli incubi più oscuri, la spada che portava conficcata nel pet-
to, il cancro che gli intossicava l'anima, l'acido che gli corrodeva lo spirito e che opprimeva la sua volontà di tornare a credere di nuovo in se stesso. Si sentiva un perdente. Miserabile, sporco, indegno. Per la prima volta prese coscienza del fatto che la verità aveva un prezzo, e lui l'aveva sacrificata in nome di un altro valore. In un certo modo, si identificò con Don João II e con il dilemma da lui vissuto cinquecento anni prima. Immaginò per qualche istante il Principe Perfetto seduto fra le mura del Castello di São Jorge, vicino agli ulivi piantati davanti al palazzo reale, con Lisbona ai suoi piedi, a riflettere sul proprio problema. C'erano terre a Occidente e l'Asia a Oriente. Avrebbe voluto entrambe, ma sapeva che avrebbe potuto possederne solo una. Quale scegliere? Quale sacrificare? Anche lui si era trovato a scegliere tra due alternative ed era stato costretto a prendere una decisione. E l'aveva presa. Regalò ai castigliani la scoperta del Nuovo Mondo per poter tenere l'Asia. Colombo fu il suo accordo di segretezza, l'Asia la sua Margarida. Don João II doveva scegliere e scelse; in bene o in male, scelse. Era questo, in fin dei conti, ciò che lui stesso, Tomás, aveva fatto. Aveva scelto. Ma non si rassegnava. Don João II aveva sacrificato la verità solo perché la bugia era necessaria per mantenere il controllo sull'Asia. Il suo uomo di maggior fiducia, Ruy de Pina, si era poi fatto carico di mettere in ordine i fatti quando considerò che ormai la verità non avrebbe compromesso il successo della strategia portoghese; e, se non fosse stato per l'intervento di Don Manuel, o chi per lui, la Crónica de D. João Il avrebbe raccontato un'altra storia. Ma Tomás non aveva nessun Ruy de Pina che potesse aiutarlo, non aveva nessuno che scrivesse per lui un Codex 632 in cui s'insinuasse la verità sotto le correzioni dell'imbroglio. Si sentiva legato, intrappolato dalle catene dell'inganno, schiacciato dal peso del compromesso che aveva accettato, rassegnato al destino cui la sua scelta irrimediabilmente lo aveva condotto. A conti fatti, la menzogna aveva vinto, la verità era stata sconfitta. Fu in quell'attimo, senza un perché, proprio in quell'attimo che si ricordò della prima concessione che aveva dovuto sottoscrivere, del primo compromesso al quale Moliarti lo aveva obbligato, della prima bassezza che aveva accettato. Seduto su una panchina del Chiostro Reale del Monastero dei Geronimiti, l'americano lo aveva costretto, contro la sua volontà, ad andare a casa di Toscano e mentire alla vedova per ottenere l'informazione di cui aveva bisogno per far avanzare la ricerca. Era una piccola bugia, insignificante, proprio minuscola, ma comunque il primo passo nella dire-
zione che egli aveva inesorabilmente preso, la prima pendenza su un terreno che presto si sarebbe aperto in un precipizio, in un abisso scuro e profondo dove avrebbe sotterrato quanto ancora gli era rimasto della propria coscienza. Aveva abdicato alla verità una volta, dicendo a se stesso che sarebbe stata un'eccezione, che non aveva tanta importanza, in fin dei conti che sarà mai, la vita va in questo modo, cos'è mai una bugia paragonata a un gran bel finale? Ma l'eccezione si era trasformata subito in regola; e lui stava lì, umiliato, irrimediabilmente intrappolato nella tela traditrice della falsità. Si ricordò anche di una fiamma che fugacemente lo aveva illuminato nel Chiostro Reale, un grido che per alcuni momenti era risuonato nella sua coscienza, violento, audace, impetuoso; ma allo stesso tempo fuggevole, effimero. Era stato un istante di lucidità subito annebbiato dalla voce dell'ambizione, un lampo di luce che la sinistra ombra aveva subito spento. Era una poesia. Una poesia di Fernando Pessoa. Era scritta sulla tomba del grande poeta, nel Monastero, incisa sulla pietra per durare in eterno. Fece uno sforzo di memoria e le lettere, una a una, formarono parole e le parole iniziarono a esprimere idee, presero forma e acquistarono splendore: "Per essere grande, sii intero: non eccedere o non escludere niente di te. Sii tutto in ogni cosa. Poni quanto sei nel minimo che fai. Così in ogni lago la luna intera brilla, perché alta vive. " Recitò la poesia tante volte, a voce bassa; sentì quella fiamma spenta riaccendersi, prima tenue, fragile, tremula, ma subito la luce aumentò, illuminandogli il cuore, alimentandosi man mano che la voce cresceva, espandendosi, incendiandogli l'anima. Ora era un fuoco che ardeva nel tumulto della sua coscienza, un incendio infernale che forgiava il ferro della determinazione. Gridò. Sii intero. Lo sarò. Sii tutto in ogni cosa. Lo sarò. Poni quanto sei nel minimo che fai. Lo farò. Non eccedere e non escludere niente di te. Non escluderò nulla. La luna intera brilla perché alta vive. Brillerà. Aveva preso una decisione.
Tomás si sedette davanti al computer e guardò lo schermo vuoto. Ho bisogno di un altro nome, fu il primo pensiero che gli venne in mente. Forse uno pseudonimo. No, uno pseudonimo non è una buona idea. Come prima cosa ho bisogno di qualcuno che sia al di sopra di tutto, qualcuno che gli altri ascoltano. Qualcuno che accetti di essere il mio Ruy de Pina. Hmm... ma chi? Uno storico famoso, inevitabilmente. No, pensandoci bene, uno storico no, sarebbe troppo rischioso, il mio legame con lui finirebbe per essere facilmente scoperto. Allora mi servirebbe qualcuno differente, fuori dal sistema, qualcuno che accetti di dare il nome alla verità che voglio rivelare. Sì, farò in questo modo. Ma chi? Hmm... Beh, valuterò in un secondo momento. Ora la mia priorità è stabilire che genere adotterò. Il contratto mi proibisce di scrivere saggi, articoli, di concedere interviste, e di fare conferenze stampa. E se io raccontassi tutto sotto forma di romanzo, eh? Non sarebbe una cattiva idea, no? A pensarci bene, il contratto non me lo vieta. È finzione, ho sempre questa scusa. È finzione. Inoltre, non sarò io a espormi in prima persona, no? Lo farà qualcun altro. Il mio Ruy de Pina. È buona questa, un romanziere. O, piuttosto, perché non un giornalista? Un giornalista non sarebbe male, questi tipi hanno a che fare quotidianamente con la fabbrica del reale. Hmm... L'ideale sarebbe un romanziere giornalista, ce ne sono alcuni, può essere che riesca a convincerne uno. Beh, poi ci penserò, c'è tempo. Per ora devo concentrarmi su quanto devo narrare, sulla realtà che trasformerò in romanzo, sulla finzione che userò per ristabilire la verità. Attraverso la storia riscriverò la Storia. Cambierò i nomi dei personaggi, è evidente, e narrerò solo quello che ho visto, vissuto e scoperto. Solo questo. Beh... forse a eccezione di un capitolo introduttivo, in fin dei conti tutto questo è iniziato con la morte del professor Toscano e io non ho assistito alla scena, no? Userò l'immaginazione, non posso fare altrimenti! Dovrò immaginare come sono avvenuti i fatti. Dunque, so che il professore è morto dopo aver bevuto un succo di mango e che si trovava nella sua stanza d'hotel a Rio de Janeiro. Questo è ciò che è accaduto. Il resto, il modo in cui sono successe le cose, è una questione d'immaginazione. Ho solo bisogno di un punto da cui partire. Lasciatemi riflettere. Perché non aprire il romanzo con lui che beve il succo e muore, eh? Hmm... no, troppo diretto. Devo iniziare l'azione prima che lui muoia, circa tre o quattro minuti prima, così da preparare il lettore. Potrei persino rivelare subito che morirà, una specie di... di premonizione, di presagio. Esatto. Forse sarebbe meglio partire da un presagio. Hmm... e
poi continuerei con un conto alla rovescia, per creare una certa tensione. Bene, è un'idea magnifica, adotterò questo schema. Tomás pensò a tutto questo nei lunghi istanti in cui rimase inchiodato alla sedia osservando lo schermo del computer, come se fosse in trance, inebriato dalla dolce prospettiva di liberare quella furia che gli stringeva l'anima. Poi iniziò a muovere le dita e, guidato da un rigenerante impulso di verità, come un maestro che, davanti a un'orchestra, guida i violini e i tromboni in una grandiosa sinfonia, si lanciò sulla tastiera lasciando comparire sullo schermo la melodia della storia. "Quattro. Il vecchio storico non sapeva, non poteva sapere, che gli restavano solo quattro minuti di vita". Nota finale L'origine di Cristoforo Colombo è avvolta da oscuri veli di mistero, stretti da intrigati nodi che lasciano trasparire soltanto i contorni sfocati di un personaggio molto complesso. La fitta tela di segreti sembra esser stata ordita dallo stesso grande navigatore il quale, intenzionalmente e in modo pianificato, ha tenuto nascoste molte informazioni sul proprio passato, avvolgendolo in un manto di silenzi e sciarade sussurrate, lasciando dietro si sé innumerevoli tracce di piste contraddittorie e frasi ambigue. I motivi per cui l'abbia fatto non sono ancora chiari e costituiscono una fonte di intensa speculazione da parte di storici e incompetenti. A rendere ancor più vaghi i tratti nebulosi di quest'uomo, il cui volto nessuno conosce, hanno contribuito molti documenti che avrebbero potuto dare delle risposte esaustive ma che sono andati persi nei labirinti del tempo. Il quadro della situazione si aggrava se consideriamo che la maggior parte dei testi che sono sopravvissuti non sono originali, ma copie che potrebbero essere state alterate. Come se ciò non bastasse, alcuni documenti si sono rivelati perfette falsificazioni e, d'altro canto, rimangono dubbi riguardo l'autenticità di altri. Pertanto, i numerosi dettagli della vita di Colombo danno poche certezze, sollevano molteplici contraddizioni e diversi enigmi, terreno fertile per le frequenti speculazioni sulla vera identità dello scopritore dell'America. Affinché non ci siano dubbi, è importante sottolineare che, sebbene ispirato a fatti reali e basato su documenti autentici, conservati in varie biblio-
teche, questa è un'opera di finzione. Molte sono state le fonti per i differenti temi trattati dal romanzo, a cominciare da quelle bibliografiche. Le opere consultate sono state così numerose e differenti per genere che non le esporrò qui, per non correre il rischio di abusare inutilmente della pazienza dei lettori. Soltanto un riferimento agli autori che si sono dimostrati indispensabili per risalire agli elementi relativi agli aspetti più controversi e polemici dell'origine e della vita di Colombo, un elenco che include Patrocínio Ribeiro, Pestana Júnior, Santos Ferreira, Ferreira de Serpa, Arthur d'Avila, Alexandre Gaspar da Naia, Mascarenhas Barreto, Armando Cortesão, Jorge Gomes Fernandes, Vasco Graça Moura, Alfredo Pinheiro Marques, Luís de Albuquerque, Luiz de Lancastre e Távora, Simon Wiesenthal, Maurizio Tagliattini, Moses Bensabat Amzalak, Jane Frances Almer, Sarah Leibovici, Salvador de Madariaga, Ramón Menéndez Pidal, Luciano Rey Sánchez, Gabriel Verd Martorell e Enrique Bayerri y Bertomeu. Molti amici hanno contribuito, direttamente o indirettamente, al romanzo sebbene, com'è naturale che sia, rimangano estranei alla trama della storia. Ringrazio calorosamente il prezioso contributo di João Paulo Oliveira e Costa, professore di Storia delle Scoperte presso l'Università Nova di Lisbona; Diogo Pires Aurélio, direttore della Biblioteca Nazionale di Lisbona; Paola Caroli, direttrice dell'Archivio di Stato di Genova; Pedro Corrêa do Lago, presidente della Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro e uno dei più importanti collezionisti mondiali di manoscritti autografi; António Gomes da Costa, presidente del Real Gabinete Português de Leitura di Rio de Janeiro; l'ambasciatore Antonio Tanger, che mi ha aperto le porte al palazzo di São Clemente, a Rio de Janeiro; António da Graça, padre e figlio, e Paulino Bastos, che mi hanno accompagnato per le vie di Rio de Janeiro; Helena Cordeiro, che mi ha permesso di sbirciare da una finestra aperta su Gerusalemme; il rabbino Boaz Pash, l'ultimo cabalista di Lisbona; Roberto Bachmann, presidente dell'Associazione Portoghese di Studi Ebraici; Alberto Sismondini, professore di Italiano presso l'Università di Coimbra, conoscitore delle lingue della Liguria e valido aiuto per il dialetto genovese; Doris Fabris-Bucheli, preziosa guida all'interno dell'Hotel da Lapa, a Lisbona; João Cruz Alves e António Silvestre, i guardiani dei portoni che nascondono i misteri della Tenuta della Regaleira, a Sintra; Mário Oliveira e Conceição Trigo, medici cardiologi dell'Ospedale di Santa Marta, a Lisbona; Miguel Palha, medico e fondatore dell'Associazione Portoghese dei Portatori di Trisomia 21, e la sua Teresa; e ancora Dina, Francisco e Rosa
Gomes, che hanno condiviso con me le proprie esperienze. Ma è stata Florbela, come sempre, la prima lettrice e la più importante critica, il faro che mi ha guidato attraverso l'inestricabile labirinto di questa storia. Note al testo 1
Le sucarias sono tipici chioschi brasiliani dove si vendono succhi di frutta e spremute. 2 Margarida olha por mim, "Margarida mi guarda". 3 "Sono una Margherita, / fiore del tuo giardino. / Sono tua, papà mio. / Io so che mi guardi". 4 O Zé aperta o laço è il titolo di un'opera teatrale. 5 In criptanalisi "rompere un codice" significa "decifrare" un codice, risalendo alla chiave segreta sulla quale si basa il processo di codificazione. 6 Nella parola portoghese "Moçambique" l'elemento /cam/ si pronuncia, grosso modo, /sam/. 7 In italiano nell'originale. 8 In italiano nell'originale. 9 In italiano nell'originale. 10 Gli azulejos (dall'arabo alzuleja: "piccola piastrella") sono piastrelle di maiolica, tradizionalmente di colore blu su fondo bianco, utilizzate nella decorazione architettonica portoghese. 11 È una varietà di marmo che si estrae da cave portoghesi. 12 Levitico, 20, 2. 13 Levitico, 20, 5. 14 Il mate è un arbusto dell'America del Sud, le cui foglie contengono caffeina e servono per preparare lo chá-mate (un tipo di infuso). 13 L'açaí è il frutto di colore rosso scuro prodotto dall'omonima pianta. 16 La Costa da Caparica (o semplicemente Caparica) è situata sulla sponda sud del fiume Tago, a Lisbona; le sue spiagge si estendono per circa 30 km. 17 L'empada è una specie di pasticcio cotto al forno, di piccole dimensioni, ripieno di carne, pesce, frutti di mare ecc. 18 Claudinho è un personaggio reale, uno dei più conosciuti della spiaggia di Ipanema. È un ambulante che vende sucolés, succhi di frutta congelati, all'interno di sacchetti di plastica. 19 Il palmito è il germoglio tenero e commestibile delle palme.
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Il picolé è il gelato con lo stecco di legno, simile ai nostri ghiaccioli. Marca di gelati. 22 L'abacaxi è una varietà brasiliana di ananas. 23 Il caldo de cana è il succo ricavato dalla canna da zucchero. 24 Il pão de queijo è un panino al formaggio che contiene anche polvilho, un amido ricavato dalla manioca. 25 La picanha è un piatto preparato con la carne della zona lombare dell'animale. 26 Il caldo verde è una zuppa di verdure. 27 La farofa è una ricetta preparata con farina di manioca fritta, a volte mischiata a uova, carne e altri ingredienti. 28 La Feira Popular è il grande luna park di Lisbona. 29 Pesce locale pescato soprattutto nelle acque delle Azzorre. 30 Dolce tipico portoghese di pasta sfoglia, crema e cannella. 31 Santos significa santi; tansos significa scemi. 32 Archivio portoghese. 33 Pai è papà. 34 "Il topo ha rosicchiato il tappo della bottiglia del re di Russia". 35 In corsivo nell'originale. 36 In corsivo nell'originale. 37 Indipendente. Corrispondente. Amministratore. 38 "QUALE L'ECO DI FOUCAULT PENDENTE A 545?". 39 Termine che indica la mescolanza linguistica di parole portoghesi e spagnole. 40 Si tratta della protagonista di O mundo de Anita, una serie di fumetti per bambine molto popolare in Portogallo. 41 In italiano nell'originale. 42 In italiano nell'originale. 43 "Monteiro dai milioni". 44 "Senta, scusi, voglio prendere una macchina per raggiungere il palazzo". 45 In italiano nell'originale. 46 In italiano nell'originale. 47 Furfanteria. 48 Cantico dei Cantici, 2,9. 49 Istituto Portoghese di Oncologia. 50 In Portogallo la flomide è comunemente detta salva-brava. 21
FINE