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STEPHEN WOODWORTH I TUOI OCCHI VIOLA (Through Violet Eyes, 2004) Questo libro è dedicato a Celia Louise Hamilton Woodworth e a Harry Hollis Woodworth che mi hanno dato un amore, un incoraggiamento e un sostegno che vanno ben al di là del loro ruolo di genitori. Vi voglio bene, mamma e papà. 1 L'Uomo Senza Volto Acquattato dietro la rimessa sul retro, lungo la staccionata, l'uomo osservava la bambina dai capelli ramati che giocava nel cortile. La traspirazione chiazzava l'anonimo tessuto del velo nero che gli oscurava il volto, e il sudore stillava da sotto i suoi guanti di lattice mentre fletteva le dita. A Los Angeles non pioveva da quasi sei mesi, e la foschia creata dall'accumulo di smog gettava una coltre ambrata sul villino rosa e sul minuscolo giardino retrostante. L'ondata di caldo di quel tardo settembre aveva asciugato i ciuffi d'erba, trasformandoli in fragili aghi gialli, e chiazze di terriccio nudo punteggiavano il prato come tante piaghe. Una piscina gonfiabile per bambini, su cui campeggiavano i personaggi della serie di Winnie-thePooh, giaceva afflosciata al centro del cortile. Accoccolata in quell'acqua bassa, la ragazzina indossava un costume intero sulla cui parte anteriore c'era il disegno di Tigro il Tigrotto. I capelli radi le pendevano disordinatamente sul viso lentigginoso mentre faceva nuotare la sua Barbie nuda, facendosela girare intorno con ampi cerchi. Il respiro dell'uomo si fece più rapido, poiché l'aria era calda e soffocante sotto la sua maschera di carta crespa. La madre della bambina era al lavoro e la baby-sitter era entrata in casa da più di venti minuti. Era la prima volta negli ultimi tre giorni che quell'uomo vedeva la ragazzina sola, senza che ci fosse nessuno a occuparsi di lei. Tuttavia, esitò. Poi la vide cadere preda dei primi spasmi. La piccola lasciò la presa sulla bambola, che cadde nell'acqua, e si portò
le mani sulle orecchie. «Qualcuno sta bussando! Qualcuno sta bussando!» L'uomo si irrigidì e mugugnò qualcosa a bassa voce. Immaginò di sentire i muti sussurri che in quel momento attraversavano la testa della bambina. Loro l'avevano trovata. Lei uscì dalla piscina, inciampando, senza smettere di premersi le mani sulle tempie, scuotendo la testa come in preda a un attacco di convulsioni. «Qualcuno sta bussando! Qualcuno sta bussando!» L'uomo lanciò un'occhiata carica di preoccupazione verso l'ingresso posteriore della casa e si lanciò contro di lei. Vedendolo, la ragazzina strillò e iniziò una corsa a zigzag in direzione della casa. Lui la bloccò, ma lei riuscì a divincolarsi dalla sua presa e, con uno scatto, cambiò direzione, lanciandosi verso il cancello del cortile sul retro. Quando le tagliò la strada, lei sgambettò in direzione della rete in fil di ferro che divideva il cortile da quello dei vicini, strinse le dita sulle maglie di ferro e le scosse, mettendosi a gridare. Mentre lui la afferrava per le spalle, però, una spossatezza improvvisa parve impossessarsi della bambina, che si afflosciò contro la recinzione. Il volto serrato in uno sforzo di concentrazione, sussurrò le lettere dell'alfabeto come se stesse recitando un rosario. «A-B-C-D-E-F-G... H-I-J-K-LM-N-O-P... Q-R-S-T-U-V...» La sua voce si spense. Il profilo del viso subì una trasformazione impercettibile e la sua espressione si offuscò. La sua piccola figura ebbe un nuovo, violento sussulto; si divincolò e, ringhiando, ghermì il tessuto della maschera, cercando di sfilargliela dalla faccia. Prevedendo che lo avrebbe fatto, l'uomo le afferrò le braccia e le abbassò con forza. «Chi sei?» La voce della ragazzina aveva un'autorità da adulti. «Perché ci stai facendo una cosa simile?» I suoi luccicanti occhi viola lo fissarono, pieni di risentimento. I lineamenti lisci e poco profondi del viso mascherato non tradivano alcuna emozione, ma quell'uomo tremava visibilmente. Tenendo a debita distanza la bambina che continuava a dimenarsi, le strinse la testa con le mani rivestite di gomma in quella che fu quasi una tenera carezza. E poi, con un colpo secco, le spezzò il collo. 2
La convocazione di un testimone Quella mattina la Hollywood Freeway era congestionata dal traffico, e Dan perse l'inizio del processo per l'omicidio Muñoz. Quando giunse alla Corte di giustizia criminale, il pubblico ministero si stava già preparando a chiamare la vittima a testimoniare. Dato che era in ritardo, decise di posteggiare in uno dei parcheggi privati del centro invece di andare alla ricerca del garage riservato agli esponenti della legge. Che fosse l'FBI ad accollarsi i quattordici dollari di tassa. Tuttavia, rimpianse quella scelta prima ancora di aver fatto mezzo isolato a piedi, quando sentì il sudore inumidirgli la camicia sotto la giacca. A dispetto di quel caldo opprimente, spettatori ed equipe di notiziari televisivi si accalcavano all'ingresso del tribunale. La folla veniva tenuta a freno da un cordone di agenti in divisa mandati dall'ufficio dello sceriffo. Quel giorno, un agente del corpo speciale dei Viola1 sarebbe salito sul banco dei testimoni, un evento così raro da fare notizia. In genere, la semplice minaccia rappresentata dal fatto che un Viola potesse testimoniare era sufficiente a far chiedere un patteggiamento della pena, tuttavia Hector Muñoz aveva insistito a dichiararsi non colpevole e aveva preteso di apparire in tribunale. Dan si fece largo tra la folla fino alla zona circoscritta dal cordone, nei pressi dell'ingresso, ed esibì il proprio documento di riconoscimento all'agente in divisa che lo presidiava e che gli indicò la porta. Sollevato dal fatto di essere nel fresco atrio dell'edificio, Dan mostrò nuovamente il distintivo del Bureau al posto di controllo della sicurezza interna. «Okay, agente... Atwater.» La guardia in maniche bianche, un corpulento ispanico, controllò il distintivo e glielo restituì. «Se vuole, posso tenerle la pistola mentre passa attraverso il metal detector...» Dan gli rivolse un sorriso freddo. «Non ce n'è bisogno. Non sono armato.» Svuotò il contenuto delle tasche in una cassetta di legno e attraversò il gabbiotto a forma di porta senza far scattare l'allarme. La guardia sorrise. «In tal caso, le auguro una splendida giornata!» Un cartello posto accanto agli ascensori lo avvertì che 'Ogni persona verrà perquisita al 9° piano' e che neppure il suo distintivo del Bureau gli avrebbe risparmiato un ulteriore ritardo. Ma a Dan non importava. I Viola gli facevano venire i brividi, e comunque nei prossimi giorni avrebbe trascorso con quella donna fin troppo tempo. Non c'era nessun bisogno di affrettarsi.
Il condizionatore della Corte superiore 9-101 sprigionò un getto d'aria fredda nel momento in cui Dan aprì delicatamente una delle doppie porte e vi mise piede. La sala era gremita, ma lui individuò una sedia sul retro della galleria proprio mentre il giudice terminava di rivolgere i suoi classici avvertimenti alla giuria. «Quando prenderete la vostra decisione in merito al verdetto, dovrete considerare la dichiarazione della vittima con la stessa attenzione e con lo stesso scetticismo che usereste con quella di qualunque altro testimone.» Il giudice, un'imponente donna di colore dal viso rugoso e austero, sbirciò i giurati dalla sommità dei suoi occhiali. «Dovrete soppesare la testimonianza del defunto rispetto alle altre prove presentate dalla pubblica accusa e dalla difesa, al fine di determinare la verità in piena autonomia. Comprendete le vostre responsabilità per come ve le ho descritte?» I giurati manifestarono il loro assenso con un mormorio, benché ve ne fosse più d'uno che sembrava preoccupato. Tamburellando nervosamente le dita sul tavolo della difesa, Hector Muñoz si mosse sulla sedia e si sporse per sussurrare qualcosa al suo avvocato. Lei scosse la testa in maniera impercettibile, mostrando un'espressione tesa. «Molto bene.» Il giudice fece un cenno al viceprocuratore distrettuale, un uomo alto, meticoloso, dalla impeccabile capigliatura nera. «Signor Jacobs, le dispiacerebbe far entrare la signorina Lindstrom?» Un uomo ben piantato, in divisa, aprì una porta sulla sinistra dello scranno del giudice e fece entrare una donna giovane, macilenta e pallida, dalla testa rasata. Dan allungò il collo per riuscire a vedere meglio la Viola con cui avrebbe vissuto nelle settimane successive. Indossava una camicia con le maniche lunghe e un paio di pantaloni sportivi. Gli indumenti erano troppo grandi per lei e le conferivano un aspetto fragile nella luce fluorescente fornita dall'illuminazione asettica di quell'aula di tribunale. Tuttavia, quando l'usciere la sottopose al giuramento, parlò con tono deciso, controllato. Sul banco dei testimoni era stata posta una poltrona dall'alto schienale reclinabile su cui lei avrebbe fornito la propria testimonianza. Dalla spalliera e dalle gambe della poltrona pendevano delle pesanti cinghie di nylon. «Ci vuole dire il suo nome, in modo da poterlo registrare?» chiese Jacobs alla donna, una volta che si fu seduta. «Natalie Lindstrom.» «E lei è un membro a tutti gli effetti del Dipartimento Americano per le
Comunicazioni con l'Aldilà?» «Esatto.» «E oggi è sua intenzione servire la corte con quanta più onestà ed efficienza le sarà possibile?» «Sì.» Jacobs si rivolse a un uomo corpulento e occhialuto che era in piedi sulla destra del banco dei testimoni. «Signor Burton, le dispiace preparare il transfert all'interrogatorio?» Estraendo una sottile torcia elettrica da un taschino della giacca, Burton puntò la luce in direzione di entrambi gli occhi della Lindstrom, per accertarsi che non portasse delle lenti a contatto colorate. Nonostante esistessero sistemi ben più sofisticati per verificare l'affidabilità di un transfert, questo era diventato il metodo standard perché, come implicava il loro nomignolo, tutti i Viola avevano le iridi di colore viola fin dalla nascita. Burton spinse un carrello su cui era sistemato un apparecchio di Scansione dell'Anima fino al banco dei testimoni e collegò la Lindstrom allo strumento, attaccandole una serie di elettrodi alla testa calva con del nastro bianco da ospedale. Come quasi tutti i Viola, si era fatta tatuare i venti punti di contatto sul capo, che ora pareva una costellazione di minuscoli segni bluastri. Jacobs spiegò alla giuria come quel sofisticato elettroencefalografo fosse in grado di individuare la presenza elettromagnetica dell'anima della vittima, nel momento in cui questa pervadeva il cervello del Viola. «Vi accorgerete voi stessi dell'esatto istante in cui l'anima si stabilirà nel transfert» disse, indicando un ampio monitor verde installato sulla parete, al di sopra della poltrona su cui sedeva la Lindstrom. Dan notò che Jacobs si era dimenticato di menzionare il funzionamento di un grande pulsante rosso posto sulla console della Scansione dell'Anima. Noto come 'pulsante antipanico', avrebbe inviato una potente scarica elettrica nei cavi collegati alla testa della Viola e avrebbe espulso l'anima se fosse divenuta violenta o si fosse rifiutata di abbandonare il corpo del transfert. Attraverso una rigida disciplina mentale, alcuni Viola bene addestrati riuscivano nella maggior parte dei casi a liberarsi di un'anima riottosa in qualsiasi momento, ma il pulsante antipanico esisteva come estrema salvaguardia in caso di pericolo di morte. Burton fece un passo indietro, allontanandosi dal banco dei testimoni e lasciando la Lindstrom in mezzo alla giungla di cavi che le spuntavano dalla fronte. I fili elettrici erano attorcigliati come una corda fino a un foro
collocato sull'apparecchio di Scansione dell'Anima. Burton azionò l'interruttore della macchina e una serie di linee verdi apparve sul monitor. Le sottili serpentine rappresentate dalle tre linee superiori erano le onde alfa del pensiero cosciente della Lindstrom. Le tre linee inferiori erano piatte, in attesa dell'entità che si sarebbe stabilita dentro di lei. «È pronta, signorina Lindstrom?» chiese Jacobs. «Sì.» Lei si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, mentre Burton le stringeva le cinghie di nylon intorno alle gambe e al torso e le legava i polsi tra loro con una striscia di plastica fornita di un sistema di chiusura. È per la sua stessa sicurezza, rammentò a se stesso Dan, ma quel pensiero non bastò a rassicurarlo. Considerato quant'erano dolorosi quei lacci, presto la Lindstrom avrebbe sofferto terribilmente. Jacobs tolse il sigillo da una delle borse in plastica trasparente contenenti le prove della pubblica accusa e ne estrasse un bavaglino da bambino su cui erano stampati degli orsacchiotti. Lo fece vedere alla giuria e poi lo mise nelle mani della Lindstrom. Dan fece una smorfia e scosse la testa. Quel viceprocuratore non usava mezzi termini. Come elemento di contatto, avrebbe potuto selezionare praticamente qualunque oggetto toccato o indossato dalla vittima. Una spazzola per capelli, una chiave di casa, una patente di guida - tutti avrebbero mantenuto un tenue legame quantico con la donna morta e avrebbero attratto la sua essenza elettromagnetica all'interno del transfert, come fossero un parafulmine. Invece, Jacobs aveva scelto di utilizzare un indumento della sua bambina per sfruttare l'impatto emotivo che avrebbe avuto sulla giuria. Perché mai Muñoz desiderasse sottoporsi alla tortura rappresentata dalla testimonianza offerta da una Viola, Dan proprio non riusciva a capirlo. Guardare dentro quegli occhi e vedere la vita che hai tolto mentre ti restituisce lo sguardo... Le labbra della Lindstrom sagomarono delle parole mute, e le onde alfa che scorrevano sulla parte superiore del monitor si fecero più cadenzate e regolari. Ben presto si sarebbe ritirata nel suo subconscio e avrebbe perso il controllo del proprio corpo. Jacobs diede un'occhiata alla folla seduta in tribuna, dietro di sé. «Silenzio, per favore» li ammonì. Ma il suo consiglio era superfluo. Fu come se, con quel silenzio, chiunque fosse presente in sala avesse smesso di respirare. La Lindstrom rimase seduta, perfettamente immobile, per diversi minuti,
continuando a stringere il bavaglino tra le mani. La tensione nella sala del tribunale si allentò man mano che la gente cominciava a stancarsi di quell'attesa piena di ansia. Iniziò a sentirsi un movimento irrequieto di piedi, accompagnato da uno scricchiolio di seggiole. Qualcuno tossì. Solo Muñoz rimase seduto al suo posto, impassibile, gli occhi fissi sulla donna al banco dei testimoni. Il sudore di Dan gli si asciugò addosso nell'aria condizionata dell'aula, lavando via il calore della sua pelle. Quando sulla parte inferiore dello schermo apparvero i primi movimenti, aveva già i brividi. I capelli gli si drizzarono e immaginò che il fruscio elettrostatico delle anime morte saturasse l'intera aula. Il corpo della Lindstrom si irrigidì e la sua schiena si arcuò mentre con la pancia lottava contro le cinghie che la tenevano legata alla poltrona. Le sue mani ossute strinsero il bavaglino e lei si contorse e scalciò con furore epilettico. Brutta faccenda, pensò Dan. Se l'oggetto di contatto chiamava a raccolta più di un'anima, il transfert doveva lottare per respingere le entità in eccesso, in modo che solo l'individuo desiderato potesse stabilirsi al suo interno. C'erano stati dei casi di Viola non addestrati che si erano staccati la lingua a morsi, durante una crisi del genere. Mentre dimenava la testa da una parte all'altra, la Lindstrom lanciò un grido selvaggio, stridente, e Dan si accorse che molti dei giurati erano impalliditi. Senza alcun dubbio, molti di loro avevano assistito a una scena del genere solo nei film o in qualche poliziesco televisivo. La realtà era un'esperienza completamente diversa. Dan aveva visto all'opera un Viola una cinquantina di volte o forse più, nel corso della sua carriera, e ogni volta era stata peggiore della precedente. Soprattutto negli ultimi due anni. Gli occhi della Lindstrom si spalancarono di scatto e presero a scrutare tutta l'aula, come un coniglio nella tana del lupo. Senza manifestare alcun cambiamento fisiologico, i suoi muscoli facciali si erano riconfigurati in maniera tale da assumere una nuova espressione, corrugando la fronte, tenendo il mento alto, gonfiando le guance. Si mise a piagnucolare e cercò di liberarsi dai lacci che la tenevano legata alla sedia. Poi il suo sguardo si bloccò su Hector Muñoz e si fece nuovamente silenziosa, mentre lo guardava fisso. Muñoz si strinse le tempie con mani tremanti, incapace di distogliere lo sguardo. «Rosa...» Jacobs fece un passo avanti per rivolgersi alla donna sul banco dei testi-
moni. «Si ricorda di me?» le chiese. Lei lo guardò e annuì. Era fuori dubbio che il pubblico ministero avesse convocato la vittima in precedenza per farle delle domande. «La prego di dirci come si chiama» le ordinò Jacobs. «Rosa Muñoz.» Pronunciò quel nome con un accento spagnolo. La sua delicata voce da soprano si era abbassata fino ad assumere la sfumatura di un rauco contralto. «Sia riportato agli atti che la testimone ha identificato se stessa come la vittima.» Jacobs cercò di ristabilire un contatto visivo. «Sa dove si trova?» Lei tenne gli occhi fissi su Hector Muñoz e scosse la testa. «Riconosce qualcun altro in quest'aula?» La donna che stava nel corpo di Natalie Lindstrom non rispose, perché in quel momento il suo sguardo era posato, in basso, sul bavaglino che teneva tra le mani. «Dio del cielo... Pedrito!» «Pedrito... era suo figlio, giusto?» la incalzò Jacobs. «Ci parli di Pedrito.» «L'ha ucciso lui. Quel cerdo2 di mio marito.» Agitò le mani legate, spingendole in avanti per indicare Muñoz. «Ha ucciso il mio bambino!» Muñoz stramazzò sul tavolo della difesa, come se qualcuno gli avesse sparato. Il suo avvocato gli diede un colpo sulla spalla, senza però offrirgli nemmeno una parola di sostegno. Jacobs si rivolse alla giuria. «Sia riportato agli atti che la testimone ha identificato l'imputato...» «Tu e la tua stramaledetta anfetaminz!» Tremando tutta, la donna sul banco dei testimoni rivolse a Muñoz uno sguardo gelido attraverso gli occhi viola e insondabili di Natalie Lindstrom. Il suo volto raggrinzito era una maschera di disprezzo. «Sempre quella stramaledetta anfetamina. E Pedrito che continuava a piangere e ti dava sui nervi. 'Chiudi la bocca! Chiudi la bocca!'» Mimò un movimento tremante con le mani. «Ebbene... ci sei riuscito a fargli chiudere la bocca. Non ti pare, Hector?» Muñoz non sollevò lo sguardo. «E poi cosa accadde?» chiese Jacobs. «E poi io mi misi a gridare. Chiamai Hector per quello che era, cioè un asesino. L'ultima cosa che ricordo era lui che mi afferrava per la gola e che mi urlava: 'Zitta, troia, o ti sentiranno!'» Si schiacciò il bavaglino sul viso e si coprì gli occhi, rabbrividendo. «Mi segue dappertutto. Sono l'unica persona che conosca in quel posto, e così non mi lascia mai. Lo sai come ci si sente, Hector? Solo noi due che singhiozziamo nell'oscurità.»
Hector Muñoz alzò la testa. Il suo volto era rigato dalle lacrime. «Dio, Rosa, lo siento, lo siento!» Prima che il suo avvocato riuscisse a fermarlo, si arrampicò sul tavolo della difesa e si gettò verso il banco dei testimoni, le mani protese in una supplica alla moglie morta. Due agenti si precipitarono verso di lui e lo afferrarono prima che ci arrivasse. «Perdóneme! Perdóneme!» singhiozzò Muñoz mentre lo bloccavano a forza sul pavimento. Quell'uomo aveva saputo fin dal principio che non avrebbe potuto vincere, rifletté Dan. Aveva voluto un processo solo perché era la sua unica possibilità per implorare perdono alla moglie che aveva strangolato. La donna si protese in avanti e Dan udì i lacci di nylon che si tendevano fin quasi a rompersi. «Mai!» gridò con voce così stridula e lacerante che l'aria vibrò della forza del suo odio. «Mi senti, Hector? Mai!» Sul monitor dello Scanner dell'Anima, le onde lisce e cadenzate della coscienza quiescente della Lindstrom si fecero spigolose e frenetiche. I tratti del suo viso si contorsero. Con un'espressione accigliata, Burton allungò una mano verso il pulsante antipanico. Le estremità della bocca della Viola si tesero al massimo, mettendo in luce i suoi denti serrati in un ghigno, come se indossasse una maschera che le stava stretta. Poi la sua carne tremula assunse una calma malinconica e la Lindstrom raddrizzò la propria postura sulla poltrona, mettendosi a respirare profondamente. Burton ritirò la mano tesa. Jacobs gli fece un cenno e l'assistente iniziò a togliere i lacci e i cavi dal corpo della Lindstrom. Le guardie ammanettarono e incatenarono Hector Muñoz, che si lamentò inconsolabile mentre veniva condotto fuori dall'aula. Sembrava che la sua avvocatessa, un esperto difensore d'ufficio nominato dallo stato, si fosse aspettata un risultato simile fin dal principio, perché chiese con calma un aggiornamento che le consentisse di rivedere la linea difensiva del suo cliente, alla luce degli ultimi sviluppi. Nonostante l'obiezione alla proroga espressa dalla pubblica accusa, il giudice la concesse. L'usciere aiutò la Lindstrom, ormai esausta, a trascinarsi stancamente fuori dall'aula. Mentre la gente che gli stava intorno defluiva in modo ordinato dall'aula passando dalle doppie porte, Dan scoprì che, a forza di restare fissi sulla scena, i suoi occhi si erano asciugati e si erano fatti cisposi. Era come se una garza gli avesse avviluppato la lingua e così si mise in bocca una pastiglia Altoid3, per cercare di recuperare un po' di saliva. Nella sua testa riecheggiava ancora l'ultima parola di Rosa Muñoz.
Mai... Indugiò nell'aula del tribunale per diversi minuti, prima di sentirsi pronto a incontrare Natalie Lindstrom. A patto che non mi tocchi... Aggiustandosi la cravatta, Dan si diresse verso l'ingresso laterale del tribunale e mostrò il suo distintivo all'agente che montava di guardia. Attraversò la porta ed entrò in una sala d'attesa riservata, dove trovò la donna distesa su un sofà, con un braccio che le copriva gli occhi. Aveva i polsi arrossati nei punti in cui i lacci di plastica le avevano sfregato la pelle. La tensione impressa sulle sue guance e sulla sua fronte mostrava un'immagine residua dell'espressione di Rosa Muñoz, una sorta di doppia esposizione fotografica. «Signorina Lindstrom?» Sorpresa, si mise a sedere e lo osservò con aria sospettosa. «Mi dispiace importunarla.» Per poco non le diede la mano, ma poi la ritrasse, infilandosela in tasca. «Agente speciale Dan Atwater, FBI. Unità di supporto investigativo. Davvero un'ottima... interpretazione.» La Lindstrom si lasciò sprofondare nuovamente sul sofà. «Se lo dice lei.» Dan si piegò sulle ginocchia fino a trovarsi quasi alla sua altezza. «So che deve sentirsi stanca, ma abbiamo davvero bisogno del suo aiuto in uno dei casi su cui stiamo lavorando. Penso che accetterà, non appena saprà i dettagli...» «I dettagli li conosco.» I suoi occhi si mossero e incontrarono quelli di Dan. «Me l'hanno detto loro.» 3 I Viola morti Dan avvertì un prurito alla nuca. «'Loro'?» Lei socchiuse gli occhi. «Sa bene a chi mi riferisco.» Dan si morse il labbro inferiore. «Con quanti di 'loro' ha parlato?» «Quattro. Perché? Quanti ne sono spariti?» «Sette, fino a ieri.» Dan si alzò in piedi e si mise a misurare la stanza a piccoli passi, creandosi una scusa per evitare il suo sguardo viola. «Se non agiamo subito, potrebbe trovarsi a chiacchierare con parecchi altri di loro.» «Mmm. E se mi rifiuto di cooperare?»
Dan finse di soffermarsi a osservare le lucide Florsheim4 che indossava. «Allora sarò costretto a metterla sotto custodia cautelativa. Dopotutto, lei rappresenta un obiettivo a rischio.» La Viola emise un sospiro. «Sapevo di non avere scelta, ma preferisco sempre accertarmene di persona.» Fece scendere i piedi dal sofà con un dondolio, e si mise a sedere. «Le dispiace se mi cambio?» «Dipende dalla persona nei cui panni deciderà di calarsi.» Dan sorrise, ma la Lindstrom gli rivolse un'occhiata gelida. Lui si schiarì la voce. «D'accordo, faccia pure quello che deve fare.» Aprì la lampo di una ventiquattrore che stava accanto a quella che sembrava una cappelliera, su un tavolo vicino. Mentre ne estraeva un abito piegato con cura, rivolse un'occhiata a Dan, che era dietro di lei. «Le dispiacerebbe lasciarmi sola per qualche minuto?» «Temo non sia possibile. Il Bureau vuole che lei sia sotto costante osservazione, ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana.» «Sarebbe a dire che hanno paura che me la squagli?» Dan scrollò le spalle. «Ehi, l'assassino potrebbe essere in agguato proprio oltre quella porta.» «O magari se ne sta qui, davanti a me...» Dan rise sommessamente. «Touché. Anche se, come probabilmente 'loro' le avranno detto, l'assassino non permette mai alle sue vittime di vederlo in faccia.» «Infatti. Ma se mi ammazzano, sarò io stessa a fare rapporto su di lei al Bureau. Le dispiace girarsi dall'altra parte?» «Uhm, certo.» Si mise a fissare il muro, a braccia conserte. «Ho letto parecchie cose su di lei» le disse, con il tono forzatamente spiritoso di uno che si stia rivolgendo a un malato di mente. «Ne ero certa.» Alle spalle di Dan, il tessuto sussurrava contro la pelle. Scovò qualche altra parola per trattenersi dall'immaginaria con addosso nient'altro che la lingerie. «Bel lavoro, nel caso dell'assassino dell'acquedotto.» «Il mio lavoro non è mai 'bello'. E il suo?» Dan fu felice che lei non potesse vedere la sua smorfia. «Ha i suoi alti e bassi.» «Ora si può voltare.» Assunse l'espressione più affabile che gli fosse possibile e si girò. La Lindstrom indossava una blusa senza maniche e un paio di jeans che ne evidenziavano la sagoma sottile ma ben modellata. La donna si rimise gli
stivali neri della Doc Marten's e se li allacciò, dopodiché raccolse la camicia a maniche lunghe e i pantaloni sportivi che si era tolta e li infilò nella sua borsa. Frugò al suo interno e ne estrasse uno specchietto portatile da trucco e un astuccio contenente delle lenti a contatto. «Da quanto tempo lavora per i federali?» gli chiese, mentre si metteva le lenti colorate. «Da cinque anni. Prima facevo il detective qui a Los Angeles.» «Deve proprio essere assetato di castighi.» Tirando fuori un rotolo di nastro biadesivo dalla ventiquattrore, ne strappò alcune strisce e se le applicò ad arco sullo scalpo e, più in basso, fino alle tempie. Poi aprì la cappelliera e ne estrasse una lunga parrucca di capelli lisci e ramati che si sistemò in testa con cura. «Bene, e adesso dove si va?» «Si va alla sede centrale del LAPD5, dove la attende una riunione. Per evitare la stampa, possiamo prendere la mia macchina.» «No. Andiamoci a piedi.» Studiando la sua immagine riflessa nello specchietto, la Lindstrom si aggiustò la parrucca, schiacciandosela in testa, e ne lisciò i grovigli con le dita. «Non mi riconosceranno.» Aggiunse un po' di colorito al pallore del suo volto grazie a un rossetto che teneva nella borsetta. La sua trasformazione era stata straordinaria. I capelli lunghi nascondevano la scheletrica nudità del suo scalpo tatuato e ammorbidivano i lineamenti delle guance e del mento, mentre le lenti a contatto ne esaltavano gli occhi di sfumature che andavano dal cremisi scuro all'azzurro cristallo. Di Rosa Muñoz non restava neanche una traccia. «Le hanno mai detto che i capelli rossi le donano?» le chiese, abbozzando un sorriso. Non si trattava solo di una sciocca frase volta a rompere il ghiaccio. Lo pensava veramente. Se non fosse stata una Viola, forse... Il viso della Lindstrom si era trasformato, ma l'espressione restava risentita, rassegnata e un po' triste. «Ecco. Si renda utile.» Gli allungò la valigetta e il contenitore della parrucca. «Usciamo dal retro.» Dan continuò a essere pacatamente cortese, ma fece estrema attenzione a evitare di sfiorare le sue dita quando lei gli consegnò i bagagli. Sapeva bene che i Viola sono in grado di usare le persone come contatti con l'Aldilà e, a differenza di Hector Muñoz, lui non aveva alcun desiderio di parlare con i fantasmi del suo passato. È solo per qualche giorno... una settimana o due, al massimo, rammentò a se stesso. A patto che non mi tocchi... Lasciarono il tribunale dall'area ad accesso riservato dell'edificio, ovvero
il dedalo di stradine a uso esclusivo di giudici, agenti di polizia, e prigionieri. Se avessero utilizzato l'ascensore, sarebbero arrivati al pianterreno in meno di cinque minuti, ma la Lindstrom insisté perché prendessero le scale. Dan inarcò un sopracciglio. «Claustrofobica?» «Fa bene alla salute» fu tutto ciò che disse mentre si affacciavano sulla tromba delle scale di emergenza, al nono piano. «Facile dirlo. Non è lei che porta la valigia.» Giornalisti e paparazzi erano ancora fermi davanti al tribunale, senza dubbio animati dalla speranza di strappare qualche scatto della Viola e immortalare la stravaganza della sua testa rasata e dai suoi occhi color porpora. Ma nessuno degnò la Lindstrom di una sola occhiata quando lei e Dan spuntarono dall'edificio e si incamminarono lungo Tempie Street, in direzione di Los Angeles Street. Un posto di blocco piazzato per motivi di sicurezza nei pressi dell'incrocio consentiva l'ingresso solo ai veicoli autorizzati, ma la strada era aperta al passaggio pedonale; così procedettero fino a metà dell'isolato, alla volta di un enorme blocco di cemento tenuto in piedi da una serie di colonne cilindriche - l'ingresso monolitico del Parker Center, la sede amministrativa del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Dopo aver camminato all'aria aperta in quella calura da altoforno, Dan si godette il fresco tonificante che regnava nelle sale condizionate del quartier generale della polizia. Fece salire la Lindstrom al secondo piano e bussò alla porta di una piccola sala riunioni. Un uomo dall'espressione imbronciata, che aveva una carnagione color caffelatte e delle treccine nere, li fece entrare. Il nodo della cravatta pendeva lasco dal colletto sbottonato di una camicia bianca che era stata stirata con precisione militare. «Era ora! Stavo iniziando a domandarmi se dovevo aggiungere anche voi due alla lista delle vittime.» «Mi permetta di presentarle il mio capo, Earl Clark» disse Dan alla Lindstrom, mentre quello si faceva da parte per lasciarli entrare. «È l'agente speciale a capo delle indagini su questo caso. Earl-Natalie Lindstrom.» Clark, il suo SAC6, protese la mano, che lei strinse senza entusiasmo. Dan fece una smorfia. In quel breve istante di contatto, si chiese, era riuscita a captare una traccia delle persone defunte nel passato di Clark? E questi era infastidito all'idea? Posando la ventiquattrore e il contenitore della parrucca della Lindstrom accanto alla porta, Dan indicò una donna dai capelli scuri che indossava un abito beige e sedeva a un lungo tavolo coperto di cartelline aperte, fotogra-
fie e diversi articoli che rappresentavano altrettanti elementi di prova. «E lei è Yolena Garcia, detective della Divisione di East Los Angeles del LAPD.» Il detective Garcia si alzò in piedi e tese la mano alla Lindstrom. «Piacere.» Proprio come la Viola, Garcia sembrava non sorridere mai e si comportava con la professionalità e lo zelo eccessivo di una persona che abbia dovuto lottare per guadagnarsi il rispetto dei colleghi. «Il detective Garcia si occupa delle indagini locali» spiegò Dan. «Natalie è stata in contatto con alcune delle vittime.» Clark e la donna si scambiarono uno sguardo. «Interessante.» Clark prese dal tavolo una istantanea tre-per-quattro pollici e la consegnò alla Lindstrom. «Ha notizie di lei?» Per la prima volta da quando si era svolto il processo, l'espressione impassibile della Lindstrom vacillò. I suoi occhi brillarono e la bocca le tremò. Osservandola di soppiatto, da tergo, Dan vide che la foto ritraeva una ragazzina dai capelli ramati e gli occhi viola. Il suo ampio sorriso da coniglio mostrava l'assenza di due denti nell'arcata superiore, a sinistra. In braccio aveva un soriano marrone chiaro che era grande quasi quanto lei. Dan riconobbe l'istantanea dell'incontro con il detective Garcia che aveva avuto quella mattina. La Lindstrom restituì la foto a Clark. «No, non si è fatta sentire. Per caso è...?» «Speravamo che fosse lei a dircelo. È sparita ieri. Il corpo non lo abbiamo ancora trovato, sempre che significhi qualcosa. Ovviamente, non abbiamo trovato nemmeno gli altri.» Clark gettò la foto accanto alle cartelline aperte. «Lui sposta i corpi solo quando sono senza vita, in maniera che neppure le vittime possano dirci dove sono.» «Lei chi era?» chiese la Lindstrom. L'uso del passato fece trasalire Dan. «Laurie Gannon» replicò il detective Garcia. «La baby-sitter che avrebbe dovuto vegliare su di lei stava dormendo all'interno della casa quando ha sentito le urla di Laurie dal cortile sul retro. Ma quando è uscita, la bambina non c'era più. La baby-sitter ha visto qualcuno con un abito scuro che scavalcava la recinzione e si allontanava. Dalla taglia e dall'andatura di quella figura, è quasi sicura che si trattasse di un uomo.» Il detective trasalì. «Teneva in spalla una borsa di plastica per la spazzatura che pareva rigonfia.» «Avete trovato niente sulla scena del crimine?» chiese Dan. «Niente impronte o fibre - i ragazzi hanno lavorato bene, ma non hanno
trovato nulla. Quello che abbiamo è più o meno tutto qui.» Il detective sollevò il calco in gesso di una suola di scarpa. «Reebok, numero 45. Nuove di zecca, a giudicare dall'aspetto. L'impronta l'abbiamo trovata su alcune delle chiazze di terra del prato sul retro.» «Fantastico. Questo restringe il campo a pochi milioni di sospetti. E la macchina dell'assassino?» Il detective Garcia mise da parte il calco della scarpa e scosse il capo. «Pensiamo che abbia parcheggiato qui, nel vicolo, dietro la recinzione posteriore della residenza dei Gannon.» Picchiò con un dito su un diagramma schematico della scena del crimine e dei dintorni. «Abbiamo passato al setaccio il circondario, ma non c'è nessuno che si ricordi di aver visto una macchina entrare o uscire da quel vicolo - molta della gente residente in quell'area è via per lavoro durante il giorno. L'unica buona notizia, sostanzialmente, è il fatto che non abbiamo trovato tracce di sangue della ragazzina, per quel che può valere.» «Perché non era andata a scuola?» La domanda della Lindstrom colse Dan e gli altri di sorpresa. «È buffo che lei lo chieda» disse Clark. «Sua madre l'aveva ritirata dalla scuola la settimana precedente, prima ancora che potessimo considerare i bambini come obiettivi potenziali del killer. Ora la signora Gannon è convinta che siamo stati noi a portare via sua figlia.» «E siete stati voi?» La Lindstrom aveva ristabilito la sua calma gelida e Dan immaginò di cogliere un bagliore delle iridi viola attraverso i gusci azzurri delle sue lenti a contatto. Clark le rivolse un'occhiataccia. «Con questa faccenda noi non c'entriamo.» «Senza dubbio, il Dipartimento avrà messo tutti gli altri ragazzini sotto protezione.» «Per la loro sicurezza» rispose Clark in tono malizioso. Dan intervenne per spezzare la tensione che si era creata tra di loro. «Perché non ci dice quali di questi l'hanno contattata?» Indicò le cartelline aperte e il detective Garcia le spinse in avanti, in modo che la Lindstrom potesse darci un'occhiata. All'interno di ogni cartellina era stata graffata una fotografia di ciascun Viola scomparso, insieme a un dossier contenente dati personali, informazioni sulla famiglia e un numero di matricola del Dipartimento Americano per le Comunicazioni con l'Aldilà. Quelle foto inespressive, istituzionali, ricordavano le segnaletiche dei criminali. Ciascuna presentava un uomo o una donna dalla testa calva e
dagli occhi viola. Senza darsi peso di guardare il nome stampato sul dossier, la Lindstrom indicò la foto di un uomo di colore dalle guance scavate e incartapecorite. «Jem è stato ucciso.» Il suo dito si spostò sulla foto di una donna grassoccia di mezza età, con un neo all'angolo della bocca. «Come pure Gig.» Poi un uomo tutto pelle e ossa che sembrava uno scoiattolo, con i suoi occhiali dalle lenti spesse e tonde e un sorriso sghembo. «Russell.» Quindi, una portoricana dalla pelle ramata. «Sylvia.» La Viola si fermò bruscamente. I suoi polpastrelli indugiarono sul viso con la barba non fatta di un giovane dalle spesse sopracciglia nere. «Evan...» «E di lui ha notizie?» chiese Dan. «No. E dovrei averne.» Alzò gli occhi e gli rivolse uno sguardo traboccante sospetto e risentimento. «Come fate a sapere che è morto?» «Russell Travers lo ha evocato. Abbiamo registrato la deposizione su video, se le va di vederla.» Con i palmi aperti sul tavolo, si puntellò per restare dritta, e Dan le offrì una sedia. Lei vi si abbandonò sopra. «Spiacente che abbia dovuto scoprirlo in questo modo» le disse. «Eravate amici?» «Penso lo si possa dire.» Rimase a fissare la foto di Evan. «Erano tutti miei amici. Tutti all'infuori di... Come si chiamava? Laurie?» «Sì. È stata la sua conoscenza delle altre vittime che ci ha spinti a sceglierla per questa indagine, signora Lindstrom» disse Clark. «Quella e le sue... competenze nella gestione dei crimini violenti.» Spinse avanti un'altra cartellina. «Anche questa era sua amica?» «Non esattamente.» Le pieghe severe intorno alla bocca della Lindstrom si fecero più profonde mentre esaminava la fotografia di una giovane donna dalla carnagione chiara e dalla testa grande e a pera. La donna era leggermente girata e i suoi occhi erano rivolti verso il basso, come se il fotografo l'avesse colta di sorpresa. «Conoscevo Sondra, ma nemmeno lei mi ha dato sue notizie. L'ultima volta che l'ho sentita, lei ed Evan stavano insieme.» Dan colse l'acido retrogusto della gelosia nella sua voce. La Lindstrom ed Evan Markham un tempo erano stati una coppia? L'anno prima, Dan aveva lavorato con Evan al caso dello Squartatore di Filadelfia e lo aveva trovato scontroso e spocchioso. Sarebbero una coppia perfetta, pensò. Tuttavia, stranamente, l'idea che
la Lindstrom avesse scelto un misantropo simile come fidanzato faceva nascere in lui un senso di fastidio. «Quand'è che Whitman e gli altri hanno iniziato a 'bussare alla sua porta,' come ha detto lei?» le chiese Clark. «Alla fine di agosto. Jem è stato il primo. Ha cercato di mettere sul chi vive il maggior numero possibile di noi.» Rivolse uno sguardo freddo a Clark. «Sapeva che il Dipartimento non lo avrebbe fatto.» Clark fece una smorfia ma non la contraddisse. Lo sguardo allarmato di Dan balenò dall'una all'altro. Aveva sentito delle cose orribili a proposito del DACA ma nulla di paragonabile a questo. «Il Dipartimento non ha allertato i suoi membri?» «Certo che no» disse la Lindstrom. «Non volevano che ci lasciassimo prendere dal panico e che fuggissimo. Non è vero, signor Clark?» Earl Clark rispose evitando lo sguardo interrogativo di Dan. «La Sicurezza Interna voleva avere la possibilità di contenere il problema prima che le sfuggisse di mano.» «Ma il problema le è sfuggito di mano, giusto?» lo incalzò la Lindstrom. «Quando Jem l'ha avvertita, Sylvia ha cercato di nascondersi, ma il Dipartimento l'ha riportata indietro a forza...» Voltandole le spalle, Clark alzò la voce e indicò una mappa degli Stati Uniti che era stata fissata con delle puntine a una lavagnetta appesa alla parete. «Whitman è sparito a Washington il ventotto di agosto, e Gig Marshall due giorni dopo a Baltimora. Siccome era già successo che dei transfert si prendessero delle vacanze non programmate, abbiamo pensato che prima o poi sarebbero ricomparsi.» «Una volta che la Sicurezza Interna li avesse rintracciati» aggiunse la Lindstrom. Earl Clark si impose di calmarsi prima di riprendere. «Sondra Avebury ed Evan Markham stavano lavorando per noi a Quantico ed entrambi ci hanno comunicato che Whitman e Marshall erano andati da loro e gli avevano detto che erano stati ammazzati da un uomo che indossava una maschera nera. Nel giro di una settimana, Avebury è sparito e la stessa cosa è successa a Markham il giorno successivo. È stato in quel momento che abbiamo capito che il nostro assassino aveva una predilezione per i Viola. «Il DACA ha messo il caso nelle nostre mani e noi abbiamo chiesto a Russell Travers di convocare tutte le precedenti vittime perché fornissero la loro testimonianza. Considerata la vicinanza geografica delle vittime, abbiamo pensato che l'assassino potesse essere un cittadino del Maryland o
della Virginia» spiegò Clark. «Il Dipartimento ha preso delle misure per proteggere i membri che risiedevano nelle immediate vicinanze. Ma poi l'assassino ha ammazzato Travers a New York il dieci settembre e Sylvia Perez a Miami il dodici. Entrambe le vittime sono state sorprese nel sonno e così non sono state in grado di dirci nulla a proposito dell'assassino. Ora si è trasferito sulla costa occidentale per mettere le mani su Laurie Gannon, e non abbiamo nessuna idea di chi sarà il prossimo.» Fece una pausa per creare tensione, piegandosi verso la Lindstrom. «Forse lei.» Dan notò i palpiti sul collo della Viola. «È stato davvero bravo a tenere la stampa alla larga» commentò. Clark sbuffò. «Già. Per ora. Ma è solo questione di tempo perché qualcuno colga un collegamento tra le sparizioni o perché salti fuori un cadavere. È per questo che dobbiamo mettere subito le mani su quel pazzo.» «Bene. Allora, cosa volete da me?» «Come può vedere, non riusciamo neppure a trovare un cadavere da esaminare.» Earl Clark indicò la valanga di dati sparpagliati sul tavolo. «In passato, assassini che avevano indossato delle maschere o che avevano camuffato il proprio aspetto ci hanno sempre lasciato qualcosa su cui lavorare - tracce che rappresentano prove scientifiche, un motivo sepolto nelle memorie delle vittime, persino il linguaggio corporeo mostrato dal killer mentre commetteva il crimine. In questo caso, l'assassino non ha lasciato neanche un capello sulla scena del crimine e nessuna delle vittime ha la minima idea di chi sia o del perché uccida.» «Cosa le fa pensare che riuscirò a scoprire qualcosa di più sul suo conto rispetto a qualsiasi altro Viola?» «Dobbiamo parlare con quella ragazzina» suggerì Dan. «Laurie. Non mi pare che rientri nello standard delle altre vittime. Era solo una bimba, non un membro del Dipartimento a tutti gli effetti. Forse ci potrà dire qualcosa sul motivo per cui l'assassino sceglie solo alcuni viola.» La Lindstrom sospirò. «Mi servirà un elemento di contatto.» Garcia individuò un sacchetto contenente alcune prove tra gli oggetti disseminati sul tavolo e lo sollevò. Una Barbie svestita con i capelli di nylon scarmigliati sorrideva sotto il cellophane. «Ecco qui. Questa dovrebbe bastare.» La Lindstrom non fece il minimo gesto di voler prendere la bambola. «Abbiamo fatto preparare una stanza apposta per lei.» Clark fece scattare la testa in direzione dell'uscita. «Detective, le spiace...?» «Certo.» Portando con sé il sacchetto contenente la Barbie, il detective
Garcia attraversò la stanza e aprì la porta. «Signora Lindstrom?» La Viola raccolse il proprio bagaglio e uscì impettita, con Garcia al suo fianco. Dan stava per unirsi a loro quando Clark gli posò una mano sulla spalla. «Aspetta.» Sembrava un padre il cui figlio non avesse passato l'esame di fine anno. «Dov'è la tua pistola?» Dan si infilò le mani in tasca. «Ce l'ho io. È nel bauletto della mia macchina.» «Risposta errata, agente Atwater.» L'espressione di Clark si addolcì. «Stammi a sentire. So tutto quello che hai dovuto passare, però non puoi permetterti che sia d'intralcio al tuo lavoro. Ricordati: non sei solo il partner di quella donna - sei la sua ultima barriera difensiva.» Dan scosse il capo. «E io che pensavo che questo sarebbe stato un lavoro d'ufficio» brontolò in tono scherzoso, lasciando la stanza. 4 Laurie Dan giunse nella stanza degli interrogatori proprio mentre il detective Garcia finiva di assicurare la Lindstrom alla sedia con alcune cinghie. Tuttavia, quando la donna iniziò a districare i cavi muniti di elettrodi da uno Scanner dell'Anima che stava lì vicino, la Viola si oppose. «Non sarà necessario» disse bruscamente. Il detective Garcia guardò Dan in cerca di indicazioni. «Ne è sicura?» chiese lui alla Lindstrom. Lei si passò una mano tra le ciocche della parrucca. «Mi sono appena pettinata.» «Non disponiamo di un pulsante antipanico.» «Posso farcela ugualmente. E le scariche elettriche non le sopporto proprio.» «Come vuole.» Fece un cenno a Garcia, che riavvolse i cavi con cura. Dall'angolo più vicino della stanza, prelevò una videocamera portatile e la posizionò su un treppiede davanti alla Lindstrom, ma Dan le disse di rimetterla al suo posto. Il detective Garcia non cambiò idea. «In base al regolamento, ogni deposizione di un transfert deve essere filmata.» Dan attese per vedere se anche la Lindstrom avesse qualcosa da obietta-
re; siccome non lo fece, si avvicinò lentamente a Garcia e abbassò la voce. «Detective, stiamo per strappare quella ragazzina alle tenebre della morte e chiederle dei dettagli intimi sul modo in cui è stata assassinata. Avrà già abbastanza paura senza che la lente di una telecamera le venga puntata in faccia. Non le pare?» Il detective cedette e ritirò la videocamera. La Lindstrom rivolse un lieve cenno a Dan. Lui mise due sedie pieghevoli davanti alla Viola mentre Yolena Garcia le consegnava la busta contenente la Barbie di Laurie Gannon. La Lindstrom fece scorrere i polpastrelli sul volto della bambola, ma parve riluttante a estrarla dal sacchetto. «Vuole che gliela tiriamo fuori noi?» propose Garcia. «No. Posso farlo io.» Con un sospiro breve, ripetuto, la Lindstrom strappò la plastica. Con uno spasmo improvviso, la sua mano si strinse intorno alla vita della bambola e il suo avambraccio si trasformò in un bassorilievo di tendini e vene. Un caleidoscopio di ombre le balenò sul volto, mentre la muscolatura delle guance e della fronte si increspava e si rimodellava. Dan pensò alla ragazzina dai capelli ramati a cui mancavano alcuni denti da latte e avvertì un fastidioso senso di timore montargli dentro dalle viscere. Si aggrappò allo schienale di una sedia e si rese conto di essere rimasto in apnea per quasi un minuto. Garcia gli rivolse uno sguardo solidale. «La prima volta?» «Sì e no.» Dan si umettò le labbra secche. «Sembra sempre la prima volta. Torno subito.» Sgattaiolò fuori dalla stanza e si allentò il nodo della cravatta, allontanandoselo dal pomo d'Adamo. La porta insonorizzata si chiuse dietro di lui, spegnendo il lamento querulo di una bambina che gemeva attraverso la voce della Lindstrom. Dan sospirò e percorse lentamente il corridoio fino a un'apertura sulla parete sinistra, dove alcuni distributori automatici dispensavano bibite in bottiglia e confezioni di snack. D'un tratto, il colorito tornò a farsi vedere sul suo viso. Si stava comportando proprio come una recluta. Si stropicciò gli occhi con il dorso delle mani, poi pescò un dollaro dal portafogli e lo lasciò cadere in una delle macchinette, che sputò fuori un Kit Kat e qualche moneta di resto. Afferrò gli spiccioli e la cioccolata e se ne tornò nella stanza degli interrogatori, facendo una pausa davanti alla porta, per assumere un'espressione adeguata.
«Va tutto bene, va tutto bene,» ripeté il detective Garcia in tono materno, mentre Dan faceva il suo ingresso nella stanza. «Non le faremo del male...» La Lindstrom era raggomitolata sulla sedia. Le lunghe ciocche della parrucca le pendevano sul viso, quasi stesse cercando di nascondersi dietro le tende di quella chioma ramata. Si masticava il pollice della mano sinistra mentre, con la destra, teneva la Barbie stretta al petto. Senza perderla di vista per un istante, Garcia fece le presentazioni. «Laurie, io sono Yolena e lui è il mio amico Dan. Speravamo che tu potessi aiutarci.» La Lindstrom alzò gli occhi grandi, luminosi, e li rivolse verso Dan. Tutto ciò gli fece venire in mente la timidezza con cui la sua nipotina guardava gli estranei. Che situazione difficile per un bambino, pensò, ma sorrise in maniera rassicurante mentre prendeva posto sulla sedia accanto a quella di Garcia. «Salve, Laurie. È un piacere incontrarti, finalmente. Guarda qua. Ti ho portato qualcosa...» Le fece vedere il Kit Kat. «Ti piace il cioccolato?» Lei annuì. Dan scartò la barretta e spezzò uno dei bastoncini di biscotto rivestiti di cioccolato. «Ne vuoi un po'?» Lei guardò il dolcetto che le veniva offerto ma non fece il gesto di prenderlo. Perlustrò la stanza con lo sguardo. «La mamma è qui?» Dan deglutì per alleviare il groppo alla gola. «No, tesoro. Ma ci ha chiesto di dirti che ti vuole bene e che ti pensa sempre.» «Oh.» Che delusione. Dato che sua madre non era lì ad abbracciarla, si tolse il pollice di bocca e indicò la barretta di cioccolato. «Posso averla?» «Certo.» Prese la barretta, se la infilò in bocca e iniziò a leccare il rivestimento del wafer molliccio. La saliva le colò sulle dita e il cioccolato sciolto le impiastricciò la bocca mischiandosi al rossetto. La bambola continuò a tenersela stretta al cuore. «Laurie?» Il detective Garcia si sporse in avanti. «Ci puoi raccontare l'ultima cosa che ti ricordi? L'ultima cosa che hai visto... prima di...» «Prima di morire?» Fissò il detective con gli occhi duri, torvi, e Dan ricordò che a quella ragazzina era stata negata la rassicurante inconsapevolezza della morte di cui godevano quasi tutti i bambini. Era stata in contatto con la morte tutti i giorni della sua breve vita.
«Sì, Laurie,» disse Dan. «Ci puoi raccontare come sei morta?» «Più o meno.» Staccò con un morso un pezzetto del wafer e lo masticò. «Dentro di me c'era qualcuno.» «Dentro di te c'era qualcuno? Qualcuno morto?» Il detective Garcia estrasse una penna a sfera e un taccuino dalla tasca della giacca. «E chi era?» «Jem. Era uno dei miei insegnanti.» Finì la sua parte di cioccolato e si leccò le dita. «Quello che mi aveva parlato del pulsante antipanico.» Indicò timidamente il resto della barretta che Dan aveva in mano. Lui ne staccò un altro pezzo e glielo diede. «Tu hai visto l'Uomo Senza Volto?» Lei annuì e si strinse i gomiti ai fianchi, come per proteggersi da una corrente d'aria fredda. «È venuto, proprio come aveva detto Jem.» «Cosa intendi quando dici che era senza volto?» «Era solo una specie di massa scura senza forma. Niente occhi, niente naso, niente bocca. Niente.» «Una maschera» commentò Garcia. «Lo stesso modus operandi degli altri casi.» «Quand'è che hai incontrato l'Uomo Senza Volto per la prima volta?» «Quando mi è saltato addosso. Ho avuto paura e ho cercato di scappare.» «E poi cos'è successo?» «È entrato in gioco Jem. Voleva aiutarmi, ma è arrivato troppo tardi.» «Non ti ricordi altro?» «Nient'altro. Ah, già, ricordo che sono morta.» I suoi occhi erano offuscati e la barretta di cioccolato si afflosciò nella sua mano, dimenticata. Dan le toccò l'avambraccio. «Laurie? Laurie? Perché tua madre ti ha ritirato dalla Scuola?» «Perché era lì che Jem aveva detto che sarebbe venuto...» Aveva una voce lontana, sottile e triste. «...L'Uomo Senza Volto.» «Jem ti parlava di lui mentre tu eri ancora alla Scuola? Hai mai visto quell'uomo mentre eri là?» Lei ponderò la domanda e aprì la bocca. Poi scosse la testa. Il detective Garcia scarabocchiò qualcosa sul suo taccuino. «Ci puoi dire qualcos'altro sull'Uomo Senza Volto? Sai perché voleva farti del male?» «No.» «E che mi dici di Jem?» le chiese Dan. «Lui conosceva il motivo per cui quell'uomo stava per venire a prenderti?» «È convinto che lui ci odi.»
«Odi chi?» «Noi. Quelli speciali. Quelli che parlano con i morti. Ecco perché cercava di metterci in guardia. Mi ha detto che sarebbe venuto a trovarmi appena possibile per accertarsi che stessi bene.» «Ti è venuta a trovare qualcun altro, oltre a Jem, alla Scuola?» «No. Ma qualcun altro è andato a trovare i miei amici.» «E dicevano le stesse cose a proposito dell'Uomo Senza Volto?» Annuì. «Cosa hanno fatto gli insegnanti della Scuola quando gli hai raccontato quello che ti aveva detto Jem?» «Hanno detto che stava solo cercando di farci paura e che tutto sarebbe andato per il meglio.» Tipico del Dipartimento, pensò Dan. Ovviamente volevano prendere tempo per 'contenere il problema' prima che i genitori iniziassero a tenere a casa i propri figli. «È stato allora che hai chiesto alla tua mamma di riportarti a casa?» «Già.» «Capisco.» Dentro di sé, Dan provava una gran pena per la signora Gannon. Salvando sua figlia dal governo, l'aveva consegnata all'assassino. «Grazie dell'aiuto che ci hai dato, Laurie.» Guardò il detective Garcia. «C'è altro?» La donna passò in rassegna i propri appunti. «Per il momento no.» «Signore?» Dan si voltò e vide che la Lindstrom aveva gli occhi fissi su di lui. «Sì, Laurie?» «Per favore, non lasci che lui faccia del male ai miei amici.» Dan impiegò qualche istante per trovare la voce con cui risponderle. «Non glielo permetteremo» disse infine, augurandosi di poter rispettare quella promessa. Ultimate le domande, un silenzio impacciato scese sulla stanza degli interrogatori. Dan cercò di non fissare la donna adulta che gli stava davanti mentre teneva la bambola stretta a sé e mangiava la barretta di cioccolato. La Lindstrom si rendeva conto che avevano finito? Dan sapeva che i Viola esperti erano in grado di monitorare i pensieri delle anime che vivevano dentro di loro. Di quanto tempo avrebbe avuto bisogno per ritornare in possesso delle sue facoltà? Forse, se quello spirito non avesse opposto resistenza e l'avesse abbandonata... Dan si sporse in avanti per guardarla nuovamente negli occhi. «Laurie?
Ora dobbiamo parlare con Natalie...» Lei assunse un'aria di sfida. «Non voglio andare via.» Dan sentì il panico sotto forma di tanti aghi che danzavano sul suo cuoio capelluto, ma mantenne una voce piatta e calma mentre la rimproverava. «Laurie, non puoi restare qui.» «Mi manca la mia mamma. Mi mancano gli amici. Mi manca il mio gattino. Mi mancano tutti così tanto!» Si mise a piangere, con la saliva che le colava dal labbro inferiore a ogni singhiozzo. Il detective Garcia diede una rapida occhiata allo Scanner dell'Anima inutilizzato e rivolse a Dan uno sguardo interrogativo, ma lui le fece cenno di attendere. Si alzò dalla sedia e si inginocchiò di fronte alla Lindstrom. «Come si chiama il tuo gatto, Laurie?» Lei tirò su col naso e deglutì. «Tigro.» «Stammi bene a sentire: ora vado a portare una bella scatoletta di tonno al tuo Tigro e gli dico che sei tu a mandargliela.» I suoi respiri affannosi iniziarono a placarsi. «E la mia mammina?» «Le dirò che le vuoi bene e che ti manca un sacco.» Lei iniziò a mordersi il pollice e si strinse la faccia della Barbie contro una guancia. «Posso avere il resto del mio dolce prima di andarmene?» «Certo, tesoro.» Dan le diede quel che restava del Kit Kat e lei emise dei tenui lamenti mentre lo finiva. Mentre si leccava i residui di cioccolato dalle dita, sulle orbite calarono delle ombre che invecchiarono la sua espressione, facendola sembrare quella di un adulto stanco. La Lindstrom si asciugò una lacrima dal viso ma finì per sbavare quella viscosità marrone sulla sua guancia. Il suo dolore si macchiò di imbarazzo e lei si fissò la mano sporca di cioccolato, con impotente fastidio. «Qualcuno può andare a prendermi un tovagliolo?» «Ecco qua.» Dan estrasse un fazzoletto piegato dalla sua tasca posteriore e con un piccolo movimento glielo aprì. «Prima di passare alla riflessione, ti lasceremo il tempo di darti una ripulita in bagno.» Fece un cenno a Garcia, che sciolse le cinghie della Lindstrom. Lei consegnò la Barbie a Dan, e Garcia la condusse fino alla toilette delle donne, in fondo al corridoio. Quando fecero ritorno nella stanza degli interrogatori, la Lindstrom aveva riacquistato la padronanza di sé, anche se Dan si accorse che si era seduta sulla sedia che prima aveva occupato lui, lasciandogli quella da cui pendevano le cinghie di nylon. Scelse di restare in piedi.
Garcia tenne pronta la penna su un foglio bianco del suo blocchetto per gli appunti. «Che cosa ci può dire?» «Non molto» rispose la Lindstrom. «Tutto fa pensare che l'assassino sia un uomo. Slanciato ma robusto, di peso compreso tra i settantacinque e gli ottantacinque chili. L'altezza è un po' più difficile da indovinare; la prospettiva di Laurie è decisamente più bassa della mia e lui era chino su di me quando l'ho visto. Avrebbe potuto essere di una statura qualsiasi compresa tra uno e sessanta e uno e novanta. Indossava un velo nero, degli abiti scuri e dei guanti di lattice.» «Ha detto qualcosa?» «No, non a Laurie. Però, i suoi ricordi sensoriali sono terminati nel momento in cui Jem ha preso il sopravvento.» «Per lo meno, Whitman le ha risparmiato il dolore fisico. E che mi dice della Scuola?» Garcia fece scorrere indietro alcune pagine. «Quando ho chiesto a Laurie se vi aveva visto l'Uomo Senza Volto, mi è parsa poco sicura di sé.» «C'era qualcosa - il ricordo di un uomo accovacciato davanti a un grosso serbatoio di metallo.» «Ha riconosciuto il posto?» chiese Dan. «No.» La Lindstrom chiuse gli occhi, come per cercare di rivivere quell'immagine. «Quell'uomo aveva addosso una specie di divisa, una tuta, e portava con sé una cassetta degli attrezzi. Però non aveva una maschera.» «Davvero? E che aspetto aveva?» «Mi dia quel blocco e glielo farò vedere.» Indicò il tavolo accanto alla porta, dove un album da disegno e dei lapis erano stati messi a disposizione dai ritrattisti della polizia. Dan le diede il materiale da disegno e la osservò, affascinato, mentre rappresentava con perizia un ritratto dell'estraneo che Laurie aveva visto alla Scuola: un uomo caucasico, dai riccioli biondi, le guance e le labbra piene e i baffi e le sopracciglia folte: Occhi azzurri, scarabocchiò la Lindstrom sul margine superiore del suo disegno in bianco e nero. «Questo è il massimo che io sappia fare.» Strappò lo schizzo ultimato dal blocco e lo consegnò a Garcia. «Laurie non è riuscita a vederlo bene in faccia; non appena lui si è accorto della sua presenza, si è alzato in piedi ed è filato via.» Il detective, di fronte a quel ritratto, ebbe un sussulto. «E allora perché mai pensava che questo tizio fosse l'Uomo Senza Volto?» «Ovviamente non lo pensava» disse Dan. «Ecco perché non lo ha men-
zionato.» «Però ci ha trovato una somiglianza.» Garcia guardò la Lindstrom. «Cosa intende dire?» «Qualcosa nel linguaggio del corpo.» Le sue mani brancolarono nell'aria, come se si stesse sforzando di dare una forma a quell'impressione. «In entrambi i casi, Laurie ha avvertito una certa... esitazione nell'uomo. Direi di più: una certa riluttanza - addirittura paura.» «Non mi sembra il classico psicopatico.» Il detective orientò il disegno in direzione di Dan. «Pensi che lo debba far circolare?» «Per il momento temporeggia - la semplice sensazione di una ragazzina non basta a collegare questo tizio all'assassino.» Si rivolse alla Lindstrom. «Che ne direbbe di far visita alla sua vecchia alma mater?» «Non posso farmi una visita dal dentista, invece?» «Benissimo! Partiremo domattina presto.» «E stanotte dove staremo?» «Nella mia stanza d'albergo.» Sollevò le mani per tranquillizzarla. «È provvista di due letti separati.» «Che gioia. Posso almeno passare dal mio appartamento a prendere alcune cose?» «Naturalmente.» «Bene.» La Lindstrom raccolse la borsetta e lanciò la ventiquattrore e il contenitore della parrucca a Dan. «La cena la paga lei.» «Direi che è ragionevole.» Accettò i bagagli senza protestare, dopodiché estrasse un biglietto da visita dal suo portafogli e lo diede a Garcia. «Grazie per l'aiuto, detective. Mi chiami al cellulare se dovessero esserci delle novità.» «Non mancherò.» Si infilò il biglietto da visita e il taccuino nella tasca del giubbotto. «E adesso dove andate?» «A dare delle brutte notizie alla signora Gannon.» 5 Il gatto scomparso In altre circostanze, Dan avrebbe consumato il pranzo in macchina dirigendosi alla residenza dei Gannon ma, per mera cortesia, concesse alla Lindstrom una pausa di una ventina di minuti nella piazza che si apriva dietro il tribunale. Mentre lui divorava un panino col prosciutto, lei si ac-
contentò di una banana, una mela e una bottiglia d'acqua. Quando raggiunsero la Ford Taurus che lui aveva preso in prestito dall'ufficio FBI di Los Angeles, la Lindstrom ispezionò il veicolo come una pignola commerciante di autovetture. «Ce li ha i freni antibloccaggio, questa macchina?» Dan passò in rassegna le chiavi del suo mazzo. «Può scommetterci.» «E l'airbag per il passeggero?» «Credo di sì...» «E gli airbag contro gli impatti laterali?» Le rivolse un'occhiataccia dall'altra parte del tettuccio. «Non lo so. Perché quest'interrogatorio stile ricerca di mercato?» Lei incrociò le braccia. «Sono una persona scrupolosa, ecco tutto.» «Be', posso garantirle che sarà più al sicuro che se se ne andasse in giro a piedi per la città.» Con un rumore sordo, fece scattare la chiusura automatica. «Monti su.» «Com'è il suo curriculum alla guida?» «Non ho ucciso nessuno, se è questo che intende dire.» Per lo meno, non in macchina, aggiunse una voce dentro di lui. «Ha mai parlato con la vittima di uno scontro frontale?» «No, però sono certo che sia una prospettiva allettante. Salga!» Finalmente, lei aprì la porta e scivolò dentro la macchina dal lato del passeggero. Dan si mise immediatamente al volante, si passò la borsa della Lindstrom sopra la testa e la lasciò cadere sul sedile posteriore. Nell'attimo in cui chiuse la portiera, però, gli vennero in mente gli ordini di Clark. «Dannazione!» La Lindstrom si allacciò la cintura di sicurezza. «Che c'è?» «Mi dia solo un sec...» Dan scese e aprì il portabagagli. Ripiegando il telone al suo interno, portò alla luce una fondina ascellare in cuoio e una cassetta di sicurezza al cui vertice stava una combinazione composta da cinque bottoni numerati. Dopo aver perlustrato il parcheggio con lo sguardo, per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando, digitò la combinazione e aprì la cassetta. Al suo interno, sistemata su un fondo di gommapiuma, stava una Smith & Wesson Modello 10, un revolver calibro 38 a sei colpi. Nello scomparto al suo fianco era alloggiata una scatola di proiettili. Nonostante si fosse portato dietro la pistola, nel rispetto del regolamento, Dan non aveva mai sparato. In effetti non l'aveva mai neppure estratta
dalla cassetta dal giorno in cui il Bureau gliel'aveva assegnata, diciotto mesi prima. Ma conosceva fin troppo bene la sensazione che quella pistola gli avrebbe trasmesso - sapeva esattamente il peso che avrebbe avuto nella mano, la tensione necessaria a tirare il grilletto, il tremito che il rinculo avrebbe trasmesso al suo braccio. Un tempo, aveva avuto una pistola come quella. Un vicolo oscurato dalla notte. Sopra una porta, una lampada ingabbiata da una spessa rete metallica. Stagliata nel flebile bagliore della luce, la sagoma di un uomo che scuote il pomello della porta. Loro tre - lui, Ross e Phillips - puntano le pistole alla schiena di quella figura e Phillips intima a gran voce all'uomo di non muoversi. L'uomo si volta, ha qualcosa in mano e qualcuno apre il fuoco... Era stato l'istinto a guidare i suoi pensieri. Proprio come quando il dottore ti picchia sul ginocchio con un martelletto - nient'altro che un riflesso. Quella faccia scura lo guarda. I suoi occhi sono grandi e bianchi e increduli. Non è la faccia che si era aspettato di vedere. «Per l'amor di Dio, chiamate un'ambulanza!» grida Dan all'indirizzo di Ross e Phillips, che sono fermi dietro di lui, esterrefatti. Disperato, Dan schiaccia la sua giacca a vento sul petto ferito di quell'uomo e avverte il caldo liquido che ristagna sotto la plastica... Chiuse la cassetta con un colpo secco. Quella dannata pistola non l'aveva neppure mai pulita od oliata. Per quel che ne sapeva, la prima volta che avesse fatto fuoco, avrebbe potuto perdere una mano. Stava per chiudere il baule quando scorse il profilo della Lindstrom dal vetro posteriore della Ford: il suo sguardo era perso fuori dal finestrino. Lei è la sua ultima barriera difensiva. Dan lasciò che il portellone del baule si spalancasse di nuovo. Gli occhi fissi sulla cassetta di sicurezza, si tolse il giubbotto con una scrollata di spalle e si infilò la fondina di cuoio. Qualche minuto più tardi rientrò in macchina, coprendosi le spalle per bene con la giacca. Sotto, la fondina con la calibro 38 gli sfregava contro il fianco sinistro. La Lindstrom gli rivolse un'occhiata perplessa. «Ha fatto quello che doveva fare?» «Spero di sì.» Dan si asciugò il sudore dalla fronte con il fazzoletto macchiato di cioccolata e mise in moto. Mentre si dirigevano a sud, lungo la 101, e si immettevano sulla Santa Ana Freeway, Dan avvertì con forza la presenza distaccata della Lindstrom
nello spazio limitato della Taurus. Per distrarsi si mise a giocherellare con il condizionatore, abbassandolo perché gli sembrava che facesse troppo caldo e alzandolo pochi minuti dopo, quando la temperatura si rinfrescava eccessivamente. «Non è sposato» gli disse la Lindstrom, come se stesse facendo un commento sulle condizioni climatiche. Non era una domanda, era un'affermazione. Dan tamburellò sul volante con le dita sprovviste di anelli e fece una risatina fredda. «Brillante deduzione, Holmes.» Poi la guardò con la coda dell'occhio. «Neanche lei.» «Mmm.» Continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. «Lo è stato?» Dan effettuò un cambio di corsia. «Non perde certo tempo in convenevoli.» Con un movimento della mano, lei respinse il suo sarcasmo. «D'accordo. Non fa niente.» Per un po', il soffio del condizionatore fu l'unico rumore all'interno della macchina. «Sì» disse lui, infine. La Lindstrom inclinò la testa. «Sì cosa?» «La risposta alla sua domanda. Le dispiace cercarmi la Thomas Guide sul pavimento? È sotto il suo sedile.» Lei si sfilò il ponderoso volume di mappe da sotto i piedi méntre lui usciva dalla 5, immettendosi su Ditman Avenue. Dopo essere entrato nel parcheggio di un negozio di generi alimentari messicani, lungo l'Olympic Boulevard, Dan le prese la guida dalle mani e consultò la pagina relativa al quartiere residenziale dove si trovavano. La Lindstrom lo guardò mentre socchiudeva gli occhi per riuscire a leggere i nomi delle strade. «Le spiace se le domando cos'è successo?» «Sì.» Posò il libro aperto sul sedile accanto a sé e tolse la chiave dal blocco dell'accensione. «Venga dentro insieme a me. Devo prendere una cosa.» «Non posso aspettarla qui?» «Spiacente, signora. Non posso perderla di vista un solo istante.» Lei strabuzzò gli occhi. «E sia! Però non mi chiami signora.» Con la Lindstrom che lo tallonava, Dan entrò di buon passo nel negozio e si diresse verso gli scaffali della carne in scatola, dove agguantò quattro lattine di tonno. «Non mi dica che questa è la sua cena» brontolò la Lindstrom.
«No. Sto solo mantenendo una promessa.» Indicò gli scaffali ricolmi di prodotti alimentari che li circondavano. «Le serve qualcosa?» «Una nuova identità.» Procedette con fatica verso la cassa. Con la borsa di plastica contenente il tonno in scatola sul sedile in mezzo a loro, attraversarono il quartiere circostante. Dan rallentò a ogni incrocio, per leggere i nomi delle strade. «Non mi ricordo più: sulla Crescent, andiamo a destra o a sinistra?» «Per il caseggiato duecento? A destra.» Lei ruotò la mappa di 180°, in senso inverso, e la analizzò ancor più da vicino. «No, a sinistra.» Dan svoltò in una strada poco trafficata, sui cui fianchi si affacciava una serie di villini colorati, con tanto di veranda. Intorno ai praticelli assetati d'acqua c'erano delle recinzioni di rete metallica e buona parte delle finestre erano assicurate da sbarre di ferro battuto. Il sole era basso e gonfio e le sfumature d'arancio e le ombre di nero-fuliggine che gettava davano l'impressione che quell'intera zona fosse stata devastata da un incendio. Continuando a passare in rassegna i numeri civici, Dan parcheggiò la macchina di fronte a una casa danneggiata dagli agenti atmosferici, il cui rivestimento in stucco rosa faceva venire in mente una pelle accapponata. «Duecentoquarantasette. Eccoci arrivati.» La Lindstrom lasciò allacciata la cintura di sicurezza, mentre si sporgeva a guardare la casa dal finestrino del guidatore. «Cosa dovrei fare, adesso?» «Non lo so. Lo scopriremo quando lo farà.» Afferrò il sacchetto con dentro il tonno e scese dalla macchina. Lei si accigliò e spinse il pulsante che sganciava la cintura di sicurezza. Porzioni di vernice scrostata si erano accumulate agli angoli dell'ingresso del numero 247. Giunti sulla soglia, Dan si sfilò di tasca il distintivo del Bureau e premette il campanello, in attesa dell'istante in cui la persona che occupava quella casa avrebbe offuscato il puntino luminoso dello spioncino. «Signora Gannon? Agente speciale FBI Atwater.» Con un movimento veloce, aprì il suo tesserino di riconoscimento e lo mise davanti allo spioncino. «Possiamo parlarle un momento?» Si udì lo sferragliare sordo di un chiavistello e di una catena e la porta si aprì di qualche centimetro, con uno scatto. Una donna macilenta con capelli neri simili a spaghi li squadrò dall'altro capo di una catena di sicurezza. «Laurie è con voi?» «No, signora. Ma la mia collega, la signorina Lindstrom, e io le abbiamo parlato. Possiamo entrare?»
«Come no. Tornate quando avrete anche lei.» Fece per sbattere la porta, ma la voce di Dan la bloccò. «Laurie è morta, signora Gannon. Mi dispiace.» La donna si sporse ancora una volta in avanti. «Perché dovrei crederle? Per quel che ne so, siete voi i bastardi che l'hanno presa.» Dan si fece da parte. «Signorina Lindstrom, le dispiace farle vedere le sue credenziali?» La Lindstrom studiò l'espressione di Dan e quella della signora Gannon, e piegò il capo. Tenendosi aperta una palpebra con due dita, si tolse la lente a contatto dall'occhio destro e, poggiando la lente sul polpastrello dell'indice, osservò la Gannon attraverso due iridi di colori diversi. «È vero.» La madre di Laurie fissò l'impassibile occhio viola della Lindstrom e iniziò a tremare. «No... no, lei mente. Lei mente! LEI MENTE!» Sprofondò contro lo stipite della porta e scivolò a terra, gridando. Bloccato sulla soglia, Dan rimase immobile, in un impotente imbarazzo, mentre Amelia Gannon piangeva a dirotto. Anche il minimo sussulto del collo o delle mani lo faceva sentire come una comparsa che desse le spalle all'eroina in una tragedia, e lui non sapeva se fosse un peccato più grave osservare la disperazione di quella donna oppure distogliere lo sguardo. A quanto pareva, la Lindstrom aveva avvertito lo stesso senso di paralisi: si sentiva troppo a disagio per risistemarsi la lente che attendeva ancora sul polpastrello. «Mi dispiace. Abbiamo pensato che lei dovesse saperlo.» Dan non era nemmeno certo che la Gannon lo sentisse. «Possiamo tornare un'altra volta...» «No! Aspettate.» Senza alzarsi, si strofinò gli occhi, se li schiarì, e, con una spinta, chiuse la porta. Mentre liberava la catena di sicurezza, si udì uno stridio di metallo contro metallo. La Lindstrom si risistemò la lente a contatto ed entrò nel salotto buio, mentre Dan chiudeva la porta di ingresso. La luce arancio che penetrava obliquamente da una fessura nelle tende tirate non faceva altro che mettere in maggior risalto il logoro tappeto lanuginoso e il consunto mobilio di seconda mano contenuti in quella stanza. Il fondo di un portacenere, sopra un tavolino ricoperto di graffi, era un caotico mosaico di mozziconi di sigaretta, e l'aria stantia di quella casa puzzava di nicotina. La Lindstrom tossì e Dan respirò affannosamente in quel miasma d'ossido di carbonio. Lo scroscio dell'acqua di un rubinetto sussultò nei vecchi tubi della casa per alcuni minuti, prima che Amelia Gannon ricomparisse, con un'espres-
sione traumatizzata in viso. Si era fatta una coda di cavallo alla bell'e meglio. La maglietta color lavanda che indossava era troppo grande per lei, accentuando la magrezza livida delle sue braccia, e il buco sulla gamba destra dei jeans sembrava una ferita aperta intorno alla rotula ossuta che metteva a nudo. «Posso offrivi qualcosa?» chiese con voce inespressiva. Era chiaro che parlava senza pensare. «Magari un caffè...» «No, no, siamo a posto così. Possiamo?» Dan indicò un sofà dall'aspetto lugubre. «Certo.» Dan e la Lindstrom si accomodarono sul divano, mentre la signora Gannon si sistemò sull'orlo di una poltrona vicina ed estrasse una sigaretta da una confezione anonima sul tavolino. «Vi chiedo scusa per il modo in cui vi ho trattato; dato che siete del governo, pensavo che forse lavoraste per il Dipartimento.» Si accese la sigaretta ed esalò una boccata di fumo. «Avete detto che avete parlato con Laurie. Stava... bene?» La Lindstrom si schiarì la voce. «Non ha sofferto.» «Lei le manca molto» aggiunse Dan prima che la Viola seguitasse. «Già.» La signora Gannon fece un altro tiro e le rughe intorno alla bocca e sulla fronte si fecero più profonde. «Posso parlarle?» La Lindstrom si mosse, palesando il suo imbarazzo. «Non credo che sarebbe una buona idea, al momento.» La Gannon tirò su col naso e annuì. «Probabilmente lei ha ragione. Volevo solo... dirle che mi dispiace.» Si premette una mano serrata a pugno contro la bocca, soffocando un singhiozzo. «Se non avessi dovuto lavorare, non l'avrei mai lasciata con quella stupida baby-sitter.» «Ha idea di chi possa aver voluto fare del male a sua figlia?» le chiese Dan. La punta della sigaretta della signora Gannon si accese di arancio quando lei inalò un'altra boccata di fumo. «Solo quei bastardi del DACA. Mi hanno detto che se avessi fatto una sola mossa sbagliata, i Servizi Sociali per la tutela dei minori avrebbero potuto portarmela via.» «Vedo che i loro sistemi non sono cambiati!» disse la Lindstrom, con fare sarcastico. «Ma il Dipartimento non la ucciderebbe mai. È troppo importante per loro.» «Credevo di fare la cosa migliore per lei» seguitò la Gannon, come se stesse parlando tra sé. «Le crisi che aveva di continuo... io non ero in grado di gestirle. E alla Scuola sembravano tutti così carini...»
Dan cercò di riportare la sua attenzione al presente. «Cosa può dirci del padre di Laurie?» «Jeff?» Aggrottò la fronte, incredula, e proruppe in un riso amaro. «Non le ha mai mandato gli auguri di compleanno da quando è venuta al mondo. È uscito di casa nel preciso istante in cui l'ha vista nascere.» Sbuffò un altro alito di fumo e la Lindstrom tossì nuovamente. «Mi scusi. Ora la spengo.» La signora Gannon sfregò il mozzicone bruciacchiato sul bordo del portacenere. «Quando sono rimasta incinta, avevo smesso di fumare, sa? Una vera crisi di astinenza. Sei anni senza nemmeno fare un tiro, fino a ieri. Ma ora non ha più nessuna importanza, giusto?» Osservò per un attimo la sigaretta spenta, poi la ripose nel pacchetto per fumarsela più tardi. La Lindstrom si schiarì di nuovo la voce. «Laurie ha avuto dei problemi alla Scuola...» «All'inizio sembrava che le piacesse» replicò la Gannon. «Fu la sua prima occasione per farsi degli amici... uguali a lei. Poi, circa un mese fa, ha avuto un brutto spavento. Ogni volta che le telefonavo - ogni volta che loro mi permettevano di telefonarle - mi implorava di lasciarla venire a casa.» Digrignò i denti. «Loro mi hanno detto che era soltanto una fase transitoria, che nel giro di un anno si sarebbe ambientata a dovere. 'Fanculo!' gli ho risposto. 'Restituitemi la mia bambina!' Ero costretta a programmare con un mese d'anticipo i fine settimana che desideravo trascorrere con lei.» Il suo volto si indurì. «Era arrivata a casa solo da pochi giorni.» «Laurie ha mai menzionato un uomo di cui avesse paura - un Uomo Senza Volto?» le chiese subito Dan, prima che lei scoppiasse a piangere un'altra volta. «Sì.» La Gannon si morse il pollice e Dan si accorse che aveva tutte le unghie mangiucchiate e che lo smalto nero che le rivestiva era staccato in molti punti. «Pensavo che fosse solo una di quelle cose da ragazzini, sa? Come il babau. Se solo avessi saputo...» «E che mi dice di un uomo con i riccioli biondi e i baffi folti?» chiese la Lindstrom. «Qualcuno che l'ha vista alla Scuola. Gliene ha mai parlato?» La Gannon corrugò la fronte e scosse il capo. «Pensate che sia stato lui?» «Non abbiamo nulla di certo, per il momento, ma stiamo seguendo ogni pista. Non appena scopriamo qualcosa, glielo facciamo sapere.» Dan si guardò intorno. «Laurie ci ha detto che lei ha un gatto...»
La Gannon apparve perplessa. «Tigro? Che c'entra?» Dan si mise il sacchetto di plastica sulle gambe. «Non saprei proprio come farle questa domanda, ma... ha un apriscatole?» Quando le spiegò quello che voleva fare, la Gannon sorrise, gli occhi velati, e portò il sacchetto di plastica in cucina. Si alzò il ronzio di un apriscatole elettrico. La donna fece ritorno portando una piccola scodella di tonno scolato dell'olio e un foglio di giornale, e condusse Dan e la Viola lungo il corridoio che portava a una piccola camera da letto. «Probabilmente è lì dentro. Dormiva sempre insieme a Laurie.» Schiacciò l'interruttore e la stanza si illuminò di una luce rosa, la stessa tinta dei pony rosa pastello della tappezzeria. Una casa delle Barbie dentro alla quale non c'era nessuna bambola, languiva sul comodino, e un vasto assortimento di animali di peluche erano ammonticchiati ai piedi del letto, come bestie fedeli. Raggomitolato sul letto c'era un gatto marroncino. La bestia sollevò la testa con circospezione mentre Dan stendeva il giornale sul pavimento e ci piazzava sopra la scodella di tonno. «Eccoti servito, Tigro. Con i saluti di Laurie.» Il gatto saltò giù dal letto e zampettò con passo felpato sul foglio di carta. Iniziò a mandare giù dei piccoli bocconi di tonno, triturandolo, mentre Dan gli accarezzava la schiena vellutata. «Non c'è più...» Dan posò gli occhi sulla Gannon, che stava fissando il letto con perplessità. «Che cosa?» «Tigro, il gatto di peluche di Laurie.» Puntò il dito. «L'avevo lasciato sul cuscino per il giorno... per il giorno in cui lei fosse tornata.» L'agente non si mosse e studiò il letto. Sul cuscino non c'era nulla. Infilandosi una mano nella tasca destra del giubbotto, ne estrasse un paio di guanti chirurgici. «Quand'è che ce lo ha messo?» «Ieri sera.» Dan si infilò i guanti. Il lattice schioccò mentre se li faceva aderire alle mani e sollevava cautamente una grinza del piumino orlato di pizzo, per poter controllare sotto il letto. «È possibile che il gatto lo abbia trascinato da qualche parte?» «Immagino di sì, ma io non me ne sono accorta.» Lasciò che il copriletto ritornasse al suo posto. «Le spiacerebbe dare un'occhiata in giro per vedere se lo trova?» «Mmm... d'accordo» rispose la donna, e uscì dalla stanza.
Lasciando il suo punto di osservazione sulla soglia, la Lindstrom entrò e prese il posto della Gannon. «Che succede?» Dan, con un cenno, le intimò di stare indietro. Facendo il minor numero possibile di passi, compì un ampio cerchio intorno all'estremità del letto, rasentando la parete finché non si trovò accanto all'unica finestra della camera. Fiancheggiando la parete opposta, si sporse a esaminare il pannello della finestra. Sul telaio metallico scorrevole, intorno alla nottola, brillavano delle abrasioni lucide. Una striatura di gomma nera deturpava la vernice bianca su tutto il davanzale. «Deve essere tornato in cerca di un trofeo» rifletté Dan, ricomponendosi. La Gannon entrò di nuovo nella stanza. La sua perplessità aveva lasciato il posto all'inquietudine. «Non lo trovo da nessuna parte.» «Non credo che lo possa trovare. Ha passato l'aspirapolvere in questa stanza, oggi?» «No.» «Bene. Non lo faccia. Forse riusciremo a trovare delle impronte di scarpe o dei campioni di fibre. Ha fatto entrare qualcun altro in casa, ieri, dopo che la polizia se n'è andata?» Lei scosse la testa con decisione. «Capisco. Senta, dovrò far venire qui dentro un'altra squadra specializzata nella raccolta delle prove.» Si staccò il cellulare dalla cintola e richiamò il numero del detective Garcia. «Vuole un luogo dove per farle passare la notte?» La bocca della signora Gannon restò aperta. «Non lo so.» Si coprì il volto con le mani. La Lindstrom le cinse le spalle e la indirizzò delicatamente verso la stanza matrimoniale. «Perché non si mette a letto per un po'? Ci occupiamo noi di questa faccenda.» Dan parlò con Garcia e venti minuti dopo un paio di agenti di pattuglia del LAPD vennero a sigillare la scena del crimine, in attesa dell'arrivo della squadra specializzata nella raccolta delle prove. La signora Gannon si rifugiò nella camera matrimoniale, e dietro sua richiesta la Lindstrom le andò a prendere l'accendino e le sigarette che erano ancora sul tavolino. La Viola rimase in silenzio, pensierosa mentre Dan ragguagliava i poliziotti. «Dunque, è convinto che abbia portato via il gatto di peluche come souvenir?» gli chiese un collega, una volta che furono usciti dalla casa ed ebbero raggiunto la sua macchina. «Sembra di sì.»
«Ma allora perché non prenderlo nel giorno del delitto? Oppure perché non prendere un altro giocattolo? Perché tornare, correndo dei rischi?» Dan guardò fuori dal finestrino, posando lo sguardo sulla triste facciata del numero 247 di Crescent Street. «Difficile dirlo. A volte rivisitare la scena del delitto trasmette all'assassino un'emozione sadica. Appropriarsi di uno degli oggetti personali della vittima lo aiuta a rivivere il delitto.» «Se lo dice lei.» Sorridendo in maniera forzata, Dan mise in moto e partì. «Bene, signorina Lindstrom, credo proprio che ci siamo guadagnati la cena. Dove vuole mangiare? Non si dimentichi che siamo ospiti del Bureau, quindi i soldi non sono un problema.» «Mi sorprenda.» «Che ne dice di un ristorante italiano?» «Splendido. Ci possiamo prima fermare a prendere la mia roba?» «Ci può scommettere.» Lei lo studiò un momento, come se si fosse accorta di un tratto del viso che non aveva notato prima. «Un gesto davvero carino da parte sua.» Il complimento colse Dan alla sprovvista. «Chiedo scusa?» «Mi riferisco al gatto. E, prima ancora, alla tavoletta di cioccolato.» Dan scrollò le spalle. «Non lo so. Credo davvero di non aver fatto granché.» «Ha fatto più di quanto pensa. A ogni buon conto, chiamami Natalie.» Sid Preston spostò leggermente la logora tenda di pizzo per mettere a fuoco la sua Nikon sul poliziotto e sulla rossa. Zumò sulle facce dell'uomo dal completo blu e sulla rossa mentre uscivano dalla casa dei Gannon e salivano a bordo della loro Ford Taunus bianca. La macchina fotografica fece una serie di clic e di ronzii. Clickwhirr, click-whirr, click-whirr. Preston aveva già appuntato alcune brevi descrizioni di quella coppia sul blocchetto ufficiale che teneva in grembo e ora, mentre i due si allontanavano dal marciapiedi, puntò la lente della Nikon sulla targa, di cui annotò il numero. Quando la macchina scomparve, Preston sprofondò nuovamente nella sedia e scarabocchiò qualcosa sul suo taccuino, biascicando un chewing gum con la stessa convinzione con cui un toro rumina il proprio cibo rimasticato. Il numero di targa che aveva trascritto iniziava con la lettera E circoscritta da un ottagono, che lui indicò con una serie di frecce per poi aggiungere, più in basso, la didascalia 'governativa'.
Bene, bene, bene: il suo investimento aveva finalmente dato frutti. Era vero che la casa in cui lui stava non sarebbe mai finita sulla copertina di Good Housekeeping7 - la moquette puzzava delle scoregge che ci aveva lasciato il cocker spaniel del locatario e i davanzali delle finestre anteriori erano punteggiati di mosche morte. Ma la deliziosa coppia di bianchi poveri8 che ci abitava era stata più che felice di lasciargli utilizzare la loro casa nelle ore diurne, per la modesta somma di cinquanta dollari al giorno, senza fargli una sola domanda. Inoltre, da quella casa si godeva una splendida vista sulla porta d'ingresso di Amelia Gannon, sull'altro lato della strada. Con la sua penna, Preston ricalcò stancamente le parole chiave che aveva annotato. Il poliziotto era fin troppo facile da identificare - era chiaro che si trattava di un membro dell'FBI. Ma chi sarà mai la tua avvenente compagna, signor agente federale? Forse i suoi informatori presso il Distretto di polizia di Los Angeles avrebbero potuto passare al setaccio quel numero di targa e dirgli qualcosa a proposito degli ospiti della signora Gannon. Allungando il chewing gum con la lingua, Preston fece una bolla rosa e continuò a soffiarci dentro fino a farla scoppiare. 6 Una notte in città «Come fai a vivere a Los Angeles senza disporre di un'automobile?» chiese Dan, stupito, mentre superavano il cancello di sicurezza del complesso condominiale di Toluca Lake9. «Quando hanno bisogno di me, mandano qualcuno a prendermi. Altrimenti, non esco quasi mai.» Natalie indicò un paio di finestre illuminate al piano terra di uno degli edifici modulari, simili a costruzioni in Lego, che componevano quel complesso. «È il mio appartamento. Puoi parcheggiare in quel garage là in fondo. Ti apro io.» Dan non poté fare a meno di coprirsi gli occhi quando dall'oscurità serale passarono alla luce abbagliante del salotto di Natalie: contò almeno otto lampade accese e diversi altri punti luce in quel minuscolo appartamento. Ha paura del buio, pensò. Forse perché le ricordava l'altra oscurità - l'oscurità che non aveva mai termine? «Adesso ho capito perché c'è la crisi energetica» scherzò per mascherare
il suo stesso disagio. «Sono tutte fluorescenti» replicò subito Natalie, senza voltarsi dalla sua parte. «E poi, rallegrano l'ambiente.» Afferrò un paio di tascabili sgualciti da uno degli scaffali che fiancheggiavano il sofà. «Non ci vorrà molto. Sono abituata a fare le valigie di corsa.» Entrò subito nella camera da letto e sparì alla vista di Dan, che restò in mezzo agli scaffali, a consultarne il contenuto. Mancavano un paio di volumi dal gruppo dei romanzi di Jane Austen, che condividevano lo spazio con Camera con Vista di E.M. Foster e Jane Eyre di Charlotte Brontë. Altri scaffali vantavano un'ampia collezione di DVD - soprattutto stupide commediole e musical della MGM degli anni Trenta e Quaranta. La parete opposta era abbellita da alcuni poster in cornice dei film Gigi e Ballando sotto la pioggia, e un'enorme fotografia di Ginger Rogers e Fred Astaire in abiti da sera era appesa sopra il modesto mobile del televisore, di fronte al divano. Se il mondo fosse tutto così facile, pensò tristemente Dan. Sul tavolino davanti al sofà c'era un vaso di gigli avvizziti, intorno al quale erano sparsi diversi disegni a pastello di quegli stessi fiori, realizzati in uno stile che ricordava quello di Georgia O'Keeffe10. Dan oscillò la testa a destra e a sinistra per guardare ciascuna di quelle immagini nel verso giusto, finché non scorse il quaderno da disegno aperto che poggiava contro una catasta di colori a cera. Dopo aver dato un'occhiata furtiva alla porta della camera da letto, prese in mano il blocco da disegno e ne fece scorrere le pagine. Oltre ad altre nature morte, trovò una serie di schizzi a pastello, a matita e a carboncino soprattutto caricature di personaggi famosi oppure di sconosciuti incontrati per strada. Nonostante a Dan sembrassero tutti ben fatti, almeno la metà di quei disegni era stata sbarrata con delle nervose 'X' nere. «Mi piace il tuo modo di fare arte» gridò in direzione della camera da letto. «Hai davvero molto occhio.» «Oh!» Il tono di voce di lei si appiattì per l'imbarazzo. «Be', so fare anche dell'altro, oltre che disegnare solo degli assassini armati di accetta.» «Perché non ti fanno lavorare con van Gogh, Rembrandt o qualcun altro? «Perché il Dipartimento ha bisogno di risolvere omicidi più di quanto abbia bisogno di realizzare dei vecchi capolavori.» Dall'amarezza della sua voce, sembrava che l'avesse punta uno scorpione. «Alla divisione Arti visive c'era solo una mezza dozzina di posti, e io non ce l'ho fatta. Dopo aver
finito gli studi, mi hanno messa alla sezione Archeologia per qualche mese, poi mi hanno trasferita alla sezione Crimini della Costa Occidentale, ed è qui che sono ancora.» «Mi spiace. Hai molto talento.» Lui voltò un'altra pagina dell'album da disegno, tornando a uno dei primi schizzi. Evan Markham lo guardava fisso dalla pagina, con gli occhi malinconici e le labbra carnose e imbronciate da poeta. Natalie doveva averlo disegnato a memoria e a quanto pareva Evan lo ricordava assai bene, perché la somiglianza era perfetta. Che spreco, pensò Dan, senza specificare a se stesso se si riferisse al talento artistico inutilizzato oppure al pessimo gusto in fatto di uomini. Uno scalpiccio proveniente dalla porta aperta lo fece trasalire. Rimise subito il segno nel punto del quadernone in cui lo aveva trovato e lo ripose sul tavolino, dopodiché si avviò lentamente verso la camera da letto. «Hai bisogno d'aiuto?» «No, ho quasi finito.» Natalie era in piedi davanti a un tavolo da trucco da teatro che aveva uno specchio circondato da una serie di lampadine accese e nude. Dalla sommità del tavolo spuntavano sei teste di manichino identiche tra loro, tre su ciascun lato dello specchio. Tutte, tranne una, erano calve. Per qualche strano motivo, dei minuscoli segni tatuati punteggiavano i loro scalpi bianchi e lisci e sui loro occhi inespressivi erano state verniciate delle iridi viola. Natalie sfilò la parrucca bionda dall'ultima testa e infilò la capigliatura posticcia in una delle sei scatole di cui era piena la valigia aperta sul letto. Poi si voltò nuovamente dalla parte del tavolo da trucco. «Dimenticato niente?» chiese Dan. Lo sguardo di lei si posò su una collana che pendeva da una delle ghiere delle lampadine poste sullo specchio e, per un istante, il muro di ghiaccio che rappresentava la sua espressione minacciò di crollare, trasformandosi in una valanga. Prese in mano la catena e fissò il ciondolo che vi era appeso. All'interno del suo anello d'argento stavano due serpenti intrecciati nella figura di un otto disegnato in orizzontale. Dan ne aveva già visto uno identico, ovviamente. Russell Travers lo aveva utilizzato come contatto per convocare Evan Markham. Natalie impallidì e lasciò oscillare la catena come il pendolo rallentato di un orologio. «No. Ho tutto.» È una dura, pensò Dan, imbarazzato per la propria reazione risentita di fronte al ritratto di Evan.
Natalie chiuse la cerniera della valigia contenente le parrucche e la consegnò a Dan, insieme a un'altra borsa e alla sua ventiquattrore. «Se non sbaglio,» disse «hai promesso di portarmi a cena...» Quella sera il Verdi era stracolmo di gente e dovettero attendere quasi un'ora prima che un'hostess li accompagnasse a un separé nel retro del ristorante. Mentre si accomodavano ai loro posti, la Lindstrom scrutò con aria dubbiosa il trompe l'oeil di un canale di Venezia e l'uva di plastica e le lampadine colorate che penzolavano da un graticcio nel soffitto, sopra le loro teste. «Carino questo posto. Chi è che si occupa delle decorazioni? La Disney?» Dan fece per togliersi la giacca, poi si ricordò della fondina che teneva legata sotto il braccio. «Ehi, sorridi. Questa roba piace quasi a tutti.» Indicò con un cenno un grande rinfresco al centro della sala. Un gruppo di camerieri e cameriere in gilè nero e cravattino si era riunito intorno a un tavolo per cantare una versione operistica di Tanti auguri a una vecchia coppia imbarazzata che rideva tra i propri figli e nipoti. Quella scena parve rattristare la Lindstrom - o meglio, Natalie, si corresse Dan. «Già, capisco cosa intendi dire.» Sospirò e si massaggiò il viso. «Non curarti di me. Sono solo stanca e lunatica.» Non degnò quasi di un'occhiata il cameriere che si presentò al loro tavolo - un attore che non riusciva a sfondare, pensò Dan, a giudicare dall'avvenenza in stile GQ e dalla chioma perfettamente impomatata di quel tipo. Lui ordinò le famose melanzane alla parmigiana del Verdi e una mezza caraffa di cabernet sauvignon, mentre Natalie si limitò a chiedere delle conchiglie alla marinara e dell'acqua ghiacciata come bevanda. «Dal punto di vista tecnico, non sei in servizio?» gli chiese mentre il cameriere portava il vino. «Chiamalo riposo e convalescenza.» Dan si versò un bicchiere. «Ne vuoi? Hai la faccia di una a cui non farebbe male...» «No, grazie. Ogni goccia d'alcol ammazza delle cellule cerebrali, lo sai.» «Non fa niente, a patto che uccida le cellule cerebrali giuste.» Lei non accennò neppure un sorriso. «Dai, era una battuta.» «Davvero?» I suoi occhi blu artificiali lo trafissero. Dan fece roteare il vino nel bicchiere. «Santo cielo, ho proprio voglia di berlo!» Mandò giù il primo sorso così velocemente che non gli restò che un lie-
ve pizzicore sulla lingua. E, a ogni buon conto, perché tutta quell'ossessione a proposito di salute e sicurezza? L'ascensore, gli airbag dell'automobile, la dieta vegetariana... Perché sa che l'attende un'oscurità senza fine, rispose una voce dentro di lui. Le mette addosso una paura pazzesca, e lei è determinata a ritardare l'inevitabile il più a lungo possibile. E la stessa oscurità attende anche te. Vero, Dan? Già, era proprio così, e se l'avesse saputo tanto quanto lo sapeva lei, probabilmente si sarebbe accucciato sotto le coperte del letto e non avrebbe mai più messo piede fuori dal suo appartamento. È proprio una dura, pensò, trangugiando ciò che restava nel bicchiere e riempiendosene un altro. Uno scoppio di applausi e di acclamazioni attirò di nuovo l'attenzione di Natalie sulla famiglia che stava celebrando l'anniversario a tavola. «Hai dei figli?» «No. È un errore che non ho commesso.» Dan era grato che lei avesse ripreso la conversazione, a dispetto di quanto fosse sgradevole. «Altre forme di famiglia?» «Sembra che la mia storia personale ti interessi terribilmente...» «Sto solo cercando di saperne di più. Non dispongo di un dossier su di te.» Dan fece un sorriso tirato. «D'accordo. I miei genitori sono in pensione e vivono nella California del nord, vicino alla famiglia di mio fratello. La mia nipotina compierà sei anni a ottobre. Speravo di poterci essere per il suo compleanno, ma...» Scrollò le spalle e mandò giù un altro sorso di vino. «E la tua ex-moglie?» Intervenne il cameriere. «Insalata di spinaci con vinaigrette di lamponi per la signora e insalata di Cesare per il signore.» Mise i piatti sul tavolo. «E anche un po' di pane caldo e di olio d'oliva. Posso portarvi altro, gente?» Dan ridacchiò. «Salvato dagli antipasti! No, per ora siamo a posto.» Mentre il cameriere si allontanava, staccò un pezzo di pane e lo intinse nella tazza poco profonda colma di olio d'oliva, fingendo di essersi dimenticato dell'ultima domanda di Natalie. «E tu cosa mi dici? I tuoi li vedi spesso?» Lei attaccò l'insalata con la forchetta. «Vado a trovare mamma una volta ogni tanto, ma... lo sai...» Dan smise per un momento di masticare il pane, rendendosi conto di a-
ver fatto un passo falso. Fu allora che gli venne in mente di aver letto che Nora Lindstrom aveva trascorso gli ultimi vent'anni in una clinica psichiatrica privata a Ventura. «Sì... mi dispiace. Dev'essere dura per te.» La sua comprensione le scivolò addosso come onde che si infrangono sugli scogli. «Mio padre e la mia matrigna vivono nel New Hampshire» aggiunse con noncuranza. «A volte ci vado per Natale, ma non siamo mai stati molto intimi. Non dal giorno in cui papà mi ha mandata alla Scuola.» Dal gruppo che festeggiava l'anniversario si levò uno scroscio di risa. Il patriarca della famiglia, un omone con la chierica e un paio di occhiali dalla montatura in ferro, aveva appena scartato un regalo, rivelando un paio di mutandoni su cui erano stampati dei cuori e dei cherubini. I nipotini accolsero con fischi di approvazione la vista dei pantaloncini, che lui agitava davanti a sé con un sorriso ebete. Quel rumore parve accentuare l'ansia di Natalie. Si agitò sulla sua sedia come se si fosse dimenticata il forno acceso in casa. «Qualcosa non va?» le chiese Dan. «Devo andare in un posto, stasera» disse. «Hai qualcosa da metterti che non dica a tutti che sei un federale?» C'erano solo 183 Viola ancora in vita in tutta l'America del Nord, a quanto era dato di sapere, ma a giudicare dai negozi sulla Hollywood e Vine, si sarebbe potuto dire che vivessero tutti a Los Angeles. Praticamente chiunque avesse avuto abbastanza soldi per comprarsi un paio di lenti a contatto viola si sarebbe potuto spacciare per un portavoce ufficiale dei defunti. Il governo aveva cercato di sopprimere quella frode dichiarando illegale che i transfert operassero sprovvisti della licenza del DACA, ma migliaia di sedicenti 'intermediari spirituali' continuavano a svolgere la propria attività tra le persone affrante e ingenue di tutto il paese. Molti di questi ciarlatani avevano aperto bottega tra i cartomanti e i centri tatuaggi di West Hollywood, e fu in uno di quei negozi che Natalie condusse Dan, quella sera. Con i pollici infilati nelle tasche della felpa che ora indossava, Dan studiò la facciata buia del negozio e si domandò se dentro ci fosse anche il proprietario. Avrebbe preferito fargli una telefonata preventiva, ma Natalie lo informò che il suo eccentrico amico non possedeva un telefono. A differenza dei vicini, con le loro insegne al neon, la vetrina del suo negozio mostrava solo le parole Consulenze Spirituali e il disegno di un paio di occhi color porpora. Quegli occhi erano una pubblicità tanto sfac-
ciata quanto le tre sfere d'oro sull'insegna di un banco dei pegni. Un rivestimento interno in carta d'alluminio faceva di quella vetrina uno specchio oscuro della strada. «Bel posto» sottolineò Dan. «Tu sei una cliente o una dipendente?» Natalie lo zittì con un'occhiata di disapprovazione. Aprirono la porta a vetri schermata dal foglio di alluminio ed entrarono in un piccolo ingresso illuminato da due lampade Coleman che sibilavano, appese al muro tramite dei ganci. Fogli di alluminio rivestivano ogni centimetro quadrato di muro e soffitto, fino alle pedane di gomma che ricoprivano il pavimento. Non deve essere il massimo per la ricezione del segnale televisivo, pensò Dan. Avvicinandosi alla porta sulla loro sinistra, lui e Natalie sbirciarono da una finestra rettangolare che faceva da intelaiatura a una rete metallica. All'interno della stanza, dall'altra parte della finestra, due persone erano sedute a un tavolo rotondo. Ciascun angolo della camera era contraddistinto dalla presenza di un candelabro, che illuminava gli occupanti con le fiamme tremolanti di ceri bianchi. Nonostante Dan riuscisse a vedere solo la schiena della prima figura, pensò dovesse trattarsi di una donna, a giudicare dalla sua corporatura esile e dai capelli ricci che le scendevano fino al collo. L'attenzione della donna era rivolta all'uomo che le sedeva di fronte e che poteva avere una sessantina d'anni, con la chioma argentea mossa e la pelle del viso che gli cascava un po' sotto il mento. Indossava una camicia bianca di cotone Oxford dal colletto sbottonato, che evidenziava ancor più il rossore screziato della sua carnagione. L'adipe sul suo viso si increspò mentre enfatizzava a dismisura il tormento che la convocazione di un'anima nel corpo di un Viola poteva comportare, caricando la scena di un'emozione perfino eccessiva, come un attore di un film muto. Una lampada a petrolio sul tavolo acuiva l'effetto drammatico, proiettando ombre inquietanti sul suo volto. «Il tuo amico è un vero uomo di spettacolo,» disse Dan. «Si esibisce anche nei bar mitzvah11?» Natalie gli rivolse un'occhiataccia e si portò il dito indice alle labbra. Nella stanza attigua, l'uomo pronunciò un'ultima frase lamentosa, incomprensibile, poi stramazzò sulla sedia respirando affannosamente per la fatica. La donna scattò dalla sedia e si acquattò davanti a lui, stringendogli una delle mani flaccide. Lui le rivolse un sorriso esausto e le carezzò la testa con fare paterno.
Dan e Natalie arretrarono dalla finestra quando il 'consulente spirituale' e la sua cliente fecero per lasciare la stanza. Un campanello tintinnò mentre la porta oscillava verso l'interno. Le parole del consulente divennero udibili. «...Almeno ora sa che lui è felice.» Con le mani strette intorno alle spalle della donna, la condusse verso l'uscita del negozio, oltre un breve corridoio. Il suo sorriso beato si scompose leggermente nel momento in cui scorse Dan. La donna poteva essere tra i quaranta e i cinquant'anni, e aveva il nasino a punta e la bocca raggrinzita dall'ansia. Si sistemò gli occhiali tondi con montatura a giorno sulla fronte e si asciugò gli occhi con un fazzoletto di carta ovattata. «Grazie mille, Yuri.» Estrasse una busta chiusa dal portafogli che teneva in mano e gliela consegnò. «Vorrei solo che Harold potesse venire qui. Non è mai più stato lo stesso... da quando è successo.» 'Yuri' annuì. «Alcuni non sono preparati a incontrare l'Altra Parte. Gli dia tempo - sono certo che anche lui verrà.» Piegò la busta in due e se la fece scivolare nella tasca della camicia. «E comunque, non esiti a tornare da me, se dovesse averne bisogno.» Lei tirò su col naso e gli restituì il sorriso. Dopo avergli stretto nuovamente la mano, se ne andò. «Yuri» lo chiamò Natalie. «Boo, che piacere vederti!» «Arthur.» La sua voce stillava più calore di quanto Dan ne avesse sentito fino ad allora. Natalie strinse le braccia intorno alla massa possente di quell'uomo. Dunque ora si chiama 'Arthur', a quanto pare. Dan esaminò con maggiore attenzione la faccia del consulente. I suoi occhi erano di un tono di porpora un po' troppo scuro - più blu-viola che viola - il che indicava la presenza di lenti a contatto, proprio quello che Dan si sarebbe aspettato. Ma c'era qualcosa di fastidiosamente familiare nei puntini di cui erano disseminate le sue guance, cicatrici lasciate da un raccapricciante caso di acne. Il ciarlatano era lo specchio della diffidenza di Dan. «Chi è il tuo amico?» chiese a Natalie. Lei si staccò dal suo abbraccio. «Un conoscente. Dan Atwater, agente FBI.» La faccia del padrone di casa fu percorsa da un lampo di incertezza. «Che succede, Boo?»
«Non quello che pensi tu. Possiamo entrare?» Arthur, ovvero 'Yuri', li scrutò per un attimo prima di aprire la porta della stanza dei colloqui. Un modesto campanello d'ottone posto sulla porta tintinnò per annunciare il loro ingresso. Le pareti erano rivestite di striscioni di tela tinta e annodata, su cui campeggiavano i segni dello zodiaco. Comunque, Dan notò che un foglio di alluminio luccicava lungo i battiscopa della stanza, dove gli orli degli striscioni non erano sufficientemente lunghi per raggiungere il rivestimento in gomma del pavimento. Quel posto profumava di incenso e dopobarba entrambi di pessima qualità. Intorno al tavolo rotondo erano disposte quattro sedie, ma il padrone di casa non fece loro cenno di accomodarsi. Al contrario, si avviò verso uno dei candelabri e si mise a spegnerne le fiammelle. «Stavo per chiudere.» Soffiò sulla prima candela, estinguendola. «Cosa posso fare per te, Boo?» «Jim è morto.» L'uomo si fermò, chino sul candelabro. «Era pronto.» Spense un altro cero. «E anche Gig, Sylvia e Russell. E persino Sondra ed Evan, mi è stato detto.» L'uomo la guardò. «Li hanno uccisi. Assassinati.» Si voltò verso Dan, come per chiedergli una spiegazione. «Temo sia vero, signore.» Ancora una volta, Dan cercò di confrontare i lineamenti del vecchio con le foto segnaletiche che conservava nella sua mente. Arthur... Arthur... Arthur. Ancora scosso, il vecchio ciarlatano si accomodò sulla sedia più vicina e reclinò il capo. «Non posso aiutarvi.» «Siamo venuti ad avvertirti.» Natalie si inginocchiò accanto a lui e gli toccò una mano. «L'assassino è a Los Angeles. Ieri ha ucciso un'altra Viola - una bambina. La prossima volta potrebbe toccare a uno di noi. Ho pensato che gli altri non sarebbero stati in grado di dirtelo, per questo sono venuta qui.» Dan scrutò ancor più attentamente la fronte di quell'uomo e vide un punto bluastro tatuato, annidato tra le radici argentee dell'attaccatura dei capelli. Gli indizi andavano a posto come le rotelle di una slot machine. «Le lenti a contatto sono un tocco di eleganza» sbottò Dan. «Aggiungono un'aria da autentica impostura alla sua commediola da finto sensitivo.» L'uomo lo fulminò con i suoi occhi dal colore porpora troppo accentua-
to. «Si chiama nascondersi mettendosi in mostra, agente Atwater. Si potrebbe dire che è il mio modo di assicurarmi la pensione.» «Ti prego di perdonare Dan» si intromise Natalie. «Come buona parte dei federali, non sa nemmeno cosa sia il tatto.» Dan cercò di placare l'ex transfert. «Sono un suo grande ammiratore, signor McCord. Il suo lavoro sul caso Bundy e su quello dello Strangolatore della Collina... ha salvato molte vite.» «Inoltre Arthur è stato il maestro dei migliori Viola degli ultimi trent'anni.» L'orgoglio con cui Natalie sollevò il mento fece capire a Dan che anche lei era una delle allieve di McCord. «Giusto! Ha insegnato alla Scuola, non è vero signor McCord? Prima di sparire...» «Prima di andare in pensione. L'unico modo in cui un Viola possa ritirarsi e conservare un minimo di salute e di sanità mentale. E intendo continuare su questa strada.» «Questo è un paese libero. Nessuno può costringerla a fare quello che non vuole.» McCord proruppe in un riso amaro. «Ovviamente, nessuno l'ha mai considerata una risorsa in via di estinzione, signor Atwater. Come diciamo noi, 'La necessità è la madre dell'oppressione'. Alla società servono i nostri servigi, e di gente come noi ne nasce solo una manciata per ogni generazione. Il che dà al nostro benevolo governo più di un motivo per assicurarsi il nostro impiego continuo, non trova?» «Forse. Ma lei il Dipartimento lo ha lasciato per questo?» Con un ampio gesto della mano, Dan indicò la stanza, con le sue candele gocciolanti e l'arredamento gitano. Natalie si frappose fra loro. «Dacci un taglio, Dan.» «No, Boo.» McCord la spostò delicatamente. «Vuole sapere il vero motivo per cui sono uscito dal Dipartimento?» Un bagliore quasi folle illuminò i suoi occhi. «Perché non ne posso più di ascoltare i morti. Non voglio più sentirli, finché anch'io non sarò uno di loro.» Si alzò dalla sedia e si avviò verso la parete più vicina. «Sa che cos'è la gabbia di Faraday, signor Atwater?» Dan aveva un vago ricordo di quel termine che gli veniva dalle ore di fisica alla scuola superiore. «Qualcosa che ha a che fare con l'elettricità, giusto?» Indicò la parete. «La lamina...?» McCord annuì e tirò una piega dello striscione che gli stava accanto, mettendo in mostra uno strato di alluminio sottostante. «Queste stanze so-
no completamente isolate e rivestite da diversi strati di metallo. Persino i pavimenti. Il metallo conduce qualsiasi energia elettromagnetica in ingresso che si trovi nel circondario, prima ancora che abbia la possibilità di entrare nel negozio. Dico ai miei clienti che impedisce alle onde radio di disturbare gli spiriti.» Ridacchiò. «In realtà, impedisce agli spiriti di disturbare me.» «Intende dire che le anime non possono entrare qui dentro? È per questo che non le piacciono le luci elettriche?» «I telefoni, i frigoriferi e i televisori.» Lasciò che lo striscione tornasse al suo posto. «Qualunque cosa possa condurre l'energia delle anime in casa mia.» Indicò un ingresso, nell'angolo posteriore della stanza, che era coperto da una tenda di perline. «Finalmente non devo sentirle picchiare alle porte della mia testa giorno e notte, come un'orda di unni inferociti. Altrimenti, avrei fatto la fine della povera Nora.» «Non serve che tu la metta in mezzo» gli disse Natalie con delicatezza. McCord piegò il capo. «Scusami, Boo. Tua madre si merita di meglio.» «E allora, tutto quello...?» Dan puntò il pollice nella direzione da cui era uscita la cliente di McCord. «Già. Un imbroglio.» «E non si sente a disagio?» «Niente affatto.» Indicò il punto in cui la donna si era seduta, in lacrime. «Pensa che Barbara voglia davvero sentirsi dire che suo figlio era strafatto e ha avuto un incidente in motocicletta perché lei è un'arpia iperprotettiva e suo marito un tiranno prepotente? Ne dubito.» «Lo sa per certo?» «Posso indovinarlo da quello che lei mi ha raccontato. A fare i chiromanti si diventa bravi, in questo genere di cose. Io dico loro quello che vogliono sentirsi dire. E comunque, a loro piace più della verità.» «Dunque, da quanto tempo lei non ha contatti... con i morti?» «Devono essere almeno sei anni.» «E non aveva idea del fatto che Jeremy Whitman e gli altri fossero stati assassinati?» McCord scosse la testa. Natalie gli si avvicinò. «Arthur, ti viene in mente qualcuno che possa volerci morti?» Lui fece una smorfia. «Troppi. Ma molti di loro dovrebbero essere in gabbia. Ha controllato scarcerazioni sulla parola ed evasioni?» chiese a Dan.
«È stato uno dei nostri primi pensieri. Non abbiamo ancora trovato niente, ma non abbiamo smesso di cercare.» «Forse non è qualcuno che abbiamo catturato noi» suggerì Natalie. «Forse è qualcuno che non vuole essere catturato. Tutti i Viola che sono stati ammazzati fino a oggi hanno frequentato la Scuola. Forse sappiamo qualcosa che l'assassino non vuole che noi raccontiamo.» «Be', quell'Istituto ha fatto Dio solo sa quanti giochetti sporchi» brontolò McCord. «Come convincere con l'inganno e con le lusinghe la gente a vendere i propri bambini facendone degli schiavi... Sono sorpreso che i genitori non lo abbiamo smontato, mattone dopo mattone. Che aspetto ha il vostro individuo sospetto?» «Non siamo in grado di dirlo» ammise Dan. «Quando ammazza, indossa una maschera e non dice una parola.» «Però potrebbe avere capelli biondi mossi e baffi folti,» aggiunse Natalie. «E occhi azzurri. L'ultima vittima lo ha visto presso la Scuola. Altezza più o meno un metro e settanta, peso ottanta chili. Sulla trentina.» «Può assomigliare a qualcuno che conosce?» McCord scosse di nuovo il capo. «No. Però sono sette anni che non passo dalla Scuola e quasi dieci che non lavoro a un caso. Questo tizio potrebbe non sapere nemmeno che esisto.» «Sono certo che ti conosce, se è davvero ossessionato dai Viola.» Natalie gli sfiorò un avambraccio. «Guardati le spalle, Arthur.» Lui sorrise e la strinse in un forte abbraccio. «Anche tu, piccola BooBerry12.» Guardò Dan. «Abbia cura di lei e la protegga. È la mia pupilla.» «Lo farò senz'altro, signore. Ma non posso lasciarla da solo in questo modo. Le farò assegnare un servizio di protezione della polizia.» Spezzando delicatamente l'abbraccio con Natalie, McCord si lasciò andare a una risatina sardonica. «Signor Atwater, se c'è qualcosa che mi fa più paura della morte è proprio un servizio di 'protezione' della polizia.» Dan si strinse nelle spalle. «Se preferisce così...» «Sì. Lo preferisco.» Dan inspirò bruscamente e annuì. «D'accordo.» «Grazie.» McCord gli tese la mano. L'agente restò a bocca aperta a fissare quelle dita pingui come se fossero coperte di pustole del vaiolo. Più esitava, più lo sguardo di Natalie gli faceva bruciare il volto di vergogna. Spero che la gabbia di Faraday funzioni davvero, pensò, mentre stringeva delicatamente la mano di McCord. Il suo braccio sussultò, come se
un fornello che aveva toccato si fosse rivelato freddo invece che caldo. Non accadde nulla. «È stato un onore incontrarla.» Dan nascose il suo sollievo mentre McCord faceva un cenno con il capo e lasciava la stretta. Natalie abbracciò nuovamente il suo vecchio insegnante e con gli occhi indugiò su di lui, mentre si avviava con Dan verso la porta. McCord sorrise e li salutò con un cenno della mano. «Fatti vedere ogni tanto, Boo.» Dan studiò l'espressione di Natalie con la coda dell'occhio, mentre attraversavano l'ingresso rivestito di metallo che immetteva su Vine Street. Con uno scatto della testa, indicò il negozio da cui erano appena usciti. «Pensi che le cose stiano davvero così?» Lei gli si fermò accanto. «Così come?» «Mi riferisco alla faccenda delle anime.» Dan si incurvò nella sua felpa, che in quel momento sembrava troppo sottile per fermare la fresca brezza della sera. «Al fatto che vi parlino costantemente.» «Sostanzialmente sì.» Quella domanda non l'aveva affatto scomposta. «Che cosa vogliono?» Lei lo fissò con aria sorpresa. «Vogliono tornare qui, è ovvio. Tu non lo vorresti?» I suoi muscoli addominali si tesero come una pelle di tamburo. «Chi sono quelli che vogliono tornare qui?» «Tutti.» Natalie agitò la mano nell'aria vischiosa della sera. Proseguì sulla strada, in direzione dell'automobile, voltandosi a guardarlo quando lui restò indietro. «Vieni o no?» Dan fece un respiro profondo e si mise a correre a piccole falcate per rimettersi al passo con lei. 7 La coppia felice Dan guidò fino all'Embassy Suites13 nei pressi del Lax14, dove aveva prenotato telefonicamente una camera a nome «di Kent e Josie Mitchell.» Natalie strabuzzò gli occhi quando le espose la loro copertura, sotto la tettoia per le auto dell'albergo. «Perfetto. Sei sicuro di aver prenotato una camera con letti separati, caro?» «Certo, cara. So bene quanto ti arrabbi quando mi arraffo tutte le coper-
te. Ecco.» Dan estrasse dalla sua sacca da viaggio una scatoletta rivestita in velluto. «Indossali.» Lei aprì la scatola e finse di ammirare l'anello di fidanzamento e la fede che conteneva. «Oh, Kent! Come sei romantico. Non so proprio cosa dire sta succedendo tutto così in fretta.» «Basta così! Non dimenticarti che lo faccio per te.» Si fece scivolare sul dito una fede d'oro identica a quella di lei. La ben nota strozzatura intorno alla giuntura del dito lo fece trasalire; era più di un anno che non si trovava a constatarne l'esistenza. «Andiamo a registrarci.» «Ti aspetto qui.» Si infilò l'anello e si guardò le mani, con affettata nonchalance. Dan si limitò a fissarla finché lei non incontrò il suo sguardo. «Non scappo» lo rassicurò. Lui strabuzzò gli occhi. «Andiamo, Natalie. Non sarà così penoso come pensi.» «Se lo dici tu.» Si slacciò la cintura di sicurezza. «E comunque il mio nome è Josie.» Dan ridacchiò, scuotendo la testa, e la seguì nella hall dell'albergo. Si avvicinarono al bancone e stava per chiedere all'impiegato la chiave della stanza quando si sentì sfiorare da lei. E non si trattò di un semplice tocco leggero del gomito. Natalie gli gettò un braccio intorno alle spalle e gli si strinse contro, strofinando il naso contro la sua guancia. Lui vacillò, facendo un passo indietro, agitando le mani come per allontanarla da sé. «Non farlo!» «Rilassati, dolcezza.» Lo afferrò per le anche e lo strinse a sé, arricciando il naso con la vivacità di una ragazza ponpon. «Dopotutto siamo in vacanza.» Con il cuore che gli funzionava a singhiozzo, Dan studiò l'espressione di Natalie, in cerca di segnali che tradissero l'intrusione di un'anima. Non ne scorse neanche uno. Non stava facendo altro che impersonare 'Josie' per gioco. Ma quanto tempo sarebbe passato prima che l'uomo che lui aveva ammazzato nel vicolo quella notte iniziasse a 'bussare'? L'impiegato al bancone della reception osservò il loro battibecco con un'espressione pacata. Se quello scambio di vedute gli era parso strano, certo non lo diede a vedere. Dan si ricompose e cercò di ignorare Natalie, mentre lei gli arruffava i capelli. «Una prenotazione a nome Mitchell.» «Certamente, signore.» L'impiegato picchiò sui tasti del terminale, do-
podiché consegnò a Dan una chiave elettronica e stampò una ricevuta della Visa da fargli firmare. «Ecco qua, signor Mitchell.» «Dottor Mitchell» disse allegramente Natalie all'impiegato, massaggiando il bicipite sinistro di Dan. «Il mio Kenny è l'oratore principale del convegno di ginecologia. Ci siamo conosciuti nel suo studio, che ci creda o meno. Ma forse a lei questo non interessava saperlo.» Si portò le dita alla bocca e scoppiò a ridere, appoggiandosi a Dan con tutto il suo peso. «Dio, sono così ubriaca!» L'impiegato non riuscì a nascondere un sorrisino. «Stanza numero ottozero-cinque. Gli ascensori si trovano alla vostra destra.» Dan si rese conto di arrossire, mentre firmava la ricevuta e gliela restituiva. «Possiamo avere una sveglia telefonica alle cinque del mattino?» «Certo.» «Grazie. Andiamo, dolcezza.» Fece girare Natalie in direzione dell'ingresso della hall. «Vi auguro di trascorrere una buona notte!» gridò l'impiegato, mentre si allontanavano con andatura malferma, cingendosi i fianchi a vicenda. Natalie gli restituì il saluto con la mano. «Ciao!» Non appena si trovarono sotto la tettoia per le auto, lei si staccò da Dan e riassunse l'espressione seria di sempre. «Hai ragione. Non è stato penoso come temevo.» Dan sbatté la portiera della macchina quando lei cercò di aprirla. «Questa risparmiamela! La tua vita è in pericolo e io sto cercando di proteggerti. Per essere una che ha tanta paura di morire, potresti apprezzarlo un po' di più.» Gli occhi di Natalie si dilatarono e lei, allibita, iniziò a tremare di rabbia. Per un istante, Dan pensò che potesse dileguarsi nella notte senza di lui. Ah ah, Atwater. L'hai combinata grossa. Avrebbe voluto - e non era la prima volta - che la sua bocca fosse provvista del tasto 'Canc'. Ma Natalie abbassò la testa. «Lo so.» Lui parlò a bassa voce. «Con il tuo comportamento al banco della reception hai rischiato di far saltare la nostra copertura. Che non succeda più, per favore.» Lei annuì senza guardarlo in faccia. D'un tratto, Dan sentì la mancanza di 'Josie'. «Dai, va tutto bene.» Sorrise. «Ho sempre desiderato fare il ginecologo.» Gli angoli della bocca di Natalie si sollevarono di scatto, e lei si lasciò andare a un risolino.
Dopo aver parcheggiato la macchina, Dan scaricò le valigie di Natalie e il proprio bagaglio e trasportò tutto dentro, come un fattorino sottoposto a un carico eccessivo di lavoro. Si fermò vicino all'ascensore e rivolse a Natalie uno sguardo di supplica. «Otto piani. Non potremmo...» Lei studiò le porte metalliche e fece una smorfia. «Preferirei di no» disse, in tono diffidente. La maschera glaciale del viso tradiva comunque la sua paura. L'idea di infilarsi in quella scatola di acciaio la terrorizzava, però era troppo orgogliosa per ammetterlo. Chissà se in passato le era capitato di convocare la vittima di un incidente nel quale un ascensore era precipitato al suolo? si chiese Dan. Aveva udito la sferzata del cavo che si spezzava, aveva avvertito l'istante di sgradevole assenza di gravità, mentre la vettura precipitava, il crepitio simile a quello degli spaghetti che si spezzano prodotto dalla carne disintegrata nel momento dell'impatto? Era la scena che lei immaginava ogni volta che si avvicinava a un paio di porte di sicurezza scorrevoli? Se quella era la risposta, chi avrebbe potuto biasimarla per aver scelto le scale? «A pensarci bene, meglio lasciar perdere.» Dan si agganciò le cinghie delle valigie un po' più in alto, sulle spalle, e le rivolse un sorriso gioioso. «Come hai detto tu, è un esercizio che fa bene alla salute.» Natalie parve sorpresa e persino un po' imbarazzata. «Senti... queste le posso prendere io.» Lo alleggerì del suo bagaglio e, insieme, si misero alla ricerca delle scale di emergenza. Quando finalmente raggiunsero la loro stanza, Dan diede due giri di chiave e lasciò cadere le borse sul letto più vicino. «Non che ci siano molte possibilità che qualcuno entri dalla finestra, a questa altezza» disse, cercando di riprendere fiato. «Io dormirò qui, per presidiare l'ingresso.» «Come preferisci. Il bagno l'ho visto prima io!» Fece per andarci con la ventiquattrore in mano. «Aspetta.» Controllò il bagno per accertarsi che fosse vuoto. «Abbi pazienza. Procedura standard.» Lei gli passò accanto, scuotendo le testa, e sbatté la porta. Dan si tolse la felpa e si sfilò la 38 da sotto la cinta dei pantaloni: il calcio della pistola non aveva fatto altro che sfregargli continuamente l'ombelico. Ficcò il revolver sotto il cuscino, poi si liberò degli altri indumenti che aveva addosso e si mise una maglietta bianca e un paio di pantaloncini di flanella grigia.
La porta del bagno si aprì appena e lui sentì Natalie gridargli dalla fessura, «Sei presentabile?» «Sono più che presentabile, sono fantastico!» Rispose, ridendo poi di fronte al mormorio di disgusto con cui lei aveva commentato. «Rilassati. Ho coperto la mia mascolinità.» Quando lei ricomparve, Dan si accorse di quanto si fosse abituato ai suoi capelli rossi e ai suoi occhi blu. In quel momento, sembrava un'aliena che avesse invaso la terra. Le macchie dei tatuaggi parevano perforarle la testa rasata come tanti spinotti da microfono, e gli straordinari orizzonti delle sue iridi color porpora inghiottivano la luce che le penetrava. Si era messa addosso una maglietta di una taglia troppo grande e un paio di pantaloncini larghi da palestra, e Dan si sorprese a sbirciare la perfezione armoniosa dei suoi polpacci nudi e di ciò che si vedeva delle sue cosce, con la loro pelle liscia color crema pallido. «Hai bisogno di qualcosa?» Lei posò la ventiquattrore ai piedi del letto e lo fissò con aria sospettosa. Era chiaro che lo aveva sorpreso a osservarla. Dan batté le palpebre e si schiarì la voce. «Hai finito col bagno? Ci impiegherò solo un minuto.» Afferrò la sua sacca da viaggio e sparì dietro la porta. Tornò in camera, dopo essersi lavato i denti, ma Natalie era già scivolata sotto le coperte del suo letto. Giaceva immobile sul materasso con il lenzuolo tirato fin sopra il petto e le braccia nude stese sui fianchi, come un cadavere in attesa di un inserviente dell'obitorio. Solo l'incessante movimento di un piede irrequieto faceva fluttuare la coperta. Dan salì sul suo letto e si allungò per spegnere la lampada che stava in mezzo a loro. La voce di Natalie lo fermò. «Non farlo.» Lui la guardò, senza togliere le dita dall'interruttore. «Che succede?» Il volto di Natalie si irrigidì. «Per favore, lasciala accesa.» A Dan venne in mente lo sforzo disperato di mettere al bando l'oscurità nell'appartamento di lei. «Come preferisci.» Lasciò perdere la lampada e poggiò la testa sul cuscino. «Il sonno è un momento estremamente... vulnerabile per me» disse Natalie, come se Dan le avesse chiesto una spiegazione. «Se mi devo svegliare nel pieno della notte, mi piace vedere ciò che mi sta intorno. Mi aiuta a mantenere il senso della realtà. Va bene per te?» «Certo, certo, nessun problema.» Lui si sistemò sotto le lenzuola, chiuse
gli occhi e cercò di ignorare la forte luce di un colore prossimo all'arancio che filtrava dalle sue palpebre. «Grazie, Dan» disse Natalie prima di assopirsi. Era addormentato da un po' - da quanto tempo con esattezza non avrebbe saputo dirlo - quando i suoi sensi lo destarono con un sussulto. Mentre apriva gli occhi, restò immobile e attese che la sua mente cosciente elaborasse ciò che l'istinto gli aveva suggerito. C'era qualcuno che parlava a bassa voce nella stanza. Quelle parole incomplete si avvicinavano e si allontanavano dalle sue orecchie, come un vento autunnale. Dan afferrò la 38 sotto il cuscino. Cercò di indovinare da dove venisse quel suono e scattò a sedere sul letto, puntando la pistola in direzione del bisbiglio. Nella stanza non c'era nessun estraneo. Era dalle labbra di Natalie che si alzava quel sibilo. Si rivoltava da una parte all'altra, con le palpebre che cercavano disperatamente di aprirsi e le mani abbarbicate alle lenzuola, come per impedire al suo corpo di sparire progressivamente. Dan abbassò la pistola. Il respiro le si bloccò in gola, e Natalie parve sul punto di soffocare. Poi assunse una strana espressione di calma e si mise a parlare ad alta voce. «C'è una lunga lista di agnelli, piccola. Fai attenzione al lupo dalla giacca di lana.» La voce era quella di Natalie, anche se il tono era decisamente più grave - un brontolio roco che le veniva dalle profondità del petto. «Lui ci conosce, piccola. Lui ci conosce.» Inarcò la schiena e riprese a sussurrare in maniera inarticolata e ossessiva. Dimenticando la pistola che teneva in mano, Dan la osservò dimenarsi e fu quasi sul punto di svegliarla. Ma sarebbe tornata a essere la Natalie di sempre, se lo avesse fatto? Alla fine, decise che, qualunque cosa le stesse succedendo, solo lei avrebbe potuto gestirla. Dopo aver riposto la 38 sotto il cuscino, si appallottolò sotto le coperte e si tirò le lenzuola sopra la testa. Per tornare a dormire, gli ci volle un bel po' di tempo. 8 Un ascensore senza cavi
Dan riprese le sue piene facoltà ancor prima della sveglia telefonica mattutina, destato da un rantolo ritmico oltre la porta. Domandandosi se Natalie fosse ancora nella morsa dei suoi spettri, rivolse un'occhiata al letto accanto al suo, ma si accorse che era vuoto. Si liberò delle coperte e si mise a sedere. Natalie era accucciata sul pavimento, tra i piedi del letto e l'armadio. Aveva allargato le gambe a tal punto che era a un passo dal fare la spaccata. Con le mani giunte dietro la testa, oscillava sul tronco a sinistra e a destra, piegandosi in avanti a ogni movimento, come per cercare di toccarsi gli alluci coi gomiti. Al posto di maglietta e pantaloncini di taglia abbondante indossava una tutina da ginnastica consistente in due pezzi attillati, che rendevano ben visibile il sudore che le imperlava la pelle nuda sul filo della schiena. Dan, che non usciva con una donna dal giorno in cui Susan lo aveva lasciato, osservò i movimenti dei muscoli dei fianchi e della schiena di Natalie e si accorse che gli stava venendo un'imbarazzante erezione. Fantastico, pensò ironicamente. Se mai ci capiterà di fare sesso con lui, tutti i nostri parenti defunti potranno farci compagnia nel letto. Natalie doveva essersi accorta che lui era sveglio, perché chiuse le gambe e si voltò dalla sua parte. Dan tirò la coperta fin sopra la protuberanza che gli spuntava dai pantaloncini. «Scusami. Spero di non averti svegliato.» Boccheggiò fra una parola e l'altra. «No. Non preoccuparti. Anche a me sarebbe piaciuto andare in palestra.» Notò le sue occhiaie. «Hai... dormito bene?» «Sì... certo.» Se la domanda aveva suscitato una reazione in lei, certo non lo aveva dato a vedere. «Ti sta bene se faccio la doccia per prima?» «Fai come se fossi a casa tua!» Dan si sdraiò nuovamente sul letto e cercò di non fissare il suo corpo flessuoso mentre lei afferrava alcuni abiti dalla valigia ed entrava in bagno. Quando ebbe chiuso la porta, lui si sollevò la coperta all'altezza della cintola e diede una sbirciatina sotto. «Puoi rilassarti» disse ad alta voce. «Se n'è andata.» Mentre aspettava che venisse il suo turno per la doccia, Dan fece delle serie di piegamenti e scelse un abito da indossare per il viaggio in New Hampshire. Si lavò, si sbarbò e si vestì nella stanza da bagno e, quando tornò, trovò Natalie ferma davanti allo specchio della credenza, intenta a togliersi i peli ispidi e corti dallo scalpo con un Lady Remington15. «Si va a visitare la Scuola.» Spense il rasoio e si passò una mano sulla
sommità del cranio. «Okay.» «Ci andiamo in aereo.» «D'accordo.» Dan si infilò la fondina ascellare e vi risistemò la 38. «È un problema?» «Un aereo non è altro che un ascensore senza cavi.» Dopo essersi appiccicata del nastro biadesivo sul cranio, Natalie aprì una delle scatole contenute nell'altra valigia, ne estrasse la parrucca bionda e se la sistemò con attenzione sulla testa. Le sue ciocche bionde come il grano erano più corte e più mosse di quelle della parrucca rossa e le ingrandivano il viso. I capelli avevano la riga a destra e non più nel mezzo, e così un ciuffo indolente le cadeva sulla fronte. Si sistemò le lenti a contatto blu e si applicò uno strato di rossetto metallico. «Va bene. Facciamola finita con questa storia.» «Giusto.» Dan chiuse la cerniera della sua sacca da viaggio e la guardò con la coda dell'occhio. «Comunque... ti ha mai detto nessuno che stai bene con i capelli biondi?» Una ventina di minuti più tardi, una navetta dell'albergo li depositò al LAX. Le operazioni di check-in e i controlli aeroportuali di sicurezza si rivelarono una seccatura peggiore del solito a causa della mole di documenti che Dan dovette compilare per poter imbarcare la sua pistola sull'aereo. Aveva avuto la tentazione di lasciare quella dannata arma nel baule dell'automobile, ma se Clark lo fosse venuto a sapere... Natalie si fece sempre più imbronciata e silenziosa, man mano che si avvicinavano all'uscita per l'imbarco. I suoi occhi si nascondevano dietro un paio di occhiali da sole dalla montatura di tartaruga. Dan andò a prendere qualcosa da mangiare per entrambi - una brioche al formaggio e del caffè per lui, un semplice bagel e del succo d'arancia per lei - raccolse una copia del Wall Street Journal abbandonata sulla sedia accanto a lui e passò in rassegna i titoli, mentre attendevano che venisse annunciato l'imbarco del loro volo. Quando mise da parte il giornale, vide che Natalie aveva lo sguardo perso sul bagel e sulla tazza di succo d'arancia che teneva in mano, come se fossero due pesci morti. «Stai bene?» Fu come se lei non lo avesse sentito. Preoccupato, allungò una mano verso di lei ma poi la ritrasse. Per l'amor di Dio, fatti forza! pensò, e costrinse se stesso a sfiorarle l'a-
vambraccio nudo. «Natalie?» Natalie si sentì percorrere la pelle dal fremito della tensione repressa e sobbalzò con tanta forza da rovesciare il succo addosso a entrambi. «Accidenti! Scusa.» Lui prese un tovagliolo e asciugò le macchie di succo sui loro abiti. «Mio Dio, stai tremando come una foglia!» Lei tornò ad assumere la solita espressione gelida. «Te l'avevo detto: non mi piace volare.» «Perché no? E io che pensavo che l'aereo fosse il mezzo di trasporto più sicuro.» Dietro le lenti scure dei suoi occhiali da sole balenò un lieve movimento. «Forse hai ragione. Ma ho lavorato insieme alla FAA16 in un paio di indagini su incidenti aerei. Si convocano i piloti, capisci, per scoprire cos'è successo...» «Alt! Fermati lì. Ho afferrato l'idea.» «Sei tu che me l'hai chiesto.» Gli offrì il succo e il bagel. «Ti vanno?» «No, grazie.» Quel poco di appetito che gli restava era svanito. Natalie si avvicinò con un certo impaccio a un bidone e gettò via la sua colazione. «Sei sicura di potercela fare?» le chiese Dan, una volta che si fu riaccomodata al suo posto. Lei scrollò le spalle. «L'aereo è il mezzo più rapido per andare e tornare. Più tempo ci impieghiamo, più alte saranno le probabilità che altri miei amici muoiano.» Dan increspò le labbra e annuì. L'imbarco del loro volo fu annunciato una decina di minuti più tardi. Mentre si univano alla coda dei passeggeri che stavano per salire sulla passerella di servizio, un uomo che indossava una giacca a vento nera e un cappellino dei New York Yankees puntò il teleobiettivo della sua Nikon su di loro. Non appena ebbe messo a fuoco la coppia, Sid Preston vide la bionda sporgersi verso Atwater e sussurrargli qualcosa all'orecchio. Per un attimo, l'agente dell'FBI parve agitarsi. Poi, con un sorriso incerto, le offrì la mano che lei strinse con forza mentre facevano il loro ingresso nell'aereo. Click-whirr, click-whirr, click. Preston abbassò la macchina fotografica e sorrise. A quanto pareva, l'agente Atwater ci sapeva fare con le donne. La sua fonte al LAPD era riuscita a fargli avere le informazioni sul volo di Atwater, ma le prenotazioni dei biglietti erano state fatte sotto nomi falsi
- dunque non bastavano a dirgli chi fosse la splendida compagna di viaggio del poliziotto. Questo, Sid lo avrebbe dovuto scoprire da solo. Una volta che la coppia fu scomparsa del tutto, Sid estrasse un chewing gum di marca Bazooka dalla tasca dei pantaloni e lo scartò. Si mise quel blocchetto di gomma rosa in bocca e con i denti lo ridusse una palla appiccicaticcia, mentre leggeva il fumetto stampato sulla confezione. Rise per la propria buona sorte: quel fumetto gli mancava. Tirato fuori il portafogli, Preston infilò la sottile striscia di carta cerata in mezzo agli altri fumetti di Bazooka Joe che lo ingombravano, insieme a vari biglietti da visita e coupon di fast-food. Dopodiché afferrò lo zaino dalla sedia accanto alla sua, estrasse la carta d'imbarco dalla tasca posteriore e si mise lentamente in coda, dietro agli altri passeggeri dell'aereo di Atwater. 9 Il ritorno dell'alunna I muri di granito neri e i cancelli di ferro battuto intrecciato non erano cambiati dall'ultima volta in cui Natalie li aveva visti, sette anni prima. Non erano cambiati neppure nei cento anni che li avevano preceduti. Insozzate e opacizzate dall'età, le lettere dorate che formavano un arco sull'ingresso principale recitavano: ACCADEMIA DI FORMAZIONE DEI TRANSFERT DI IRIS SEMPLE. Gli studenti condannati a trascorrervi la propria infanzia, tuttavia, la conoscevano semplicemente come 'la Scuola'. Natalie aveva rivisto quella cancellata nella sua mente tante di quelle volte che vedersela materializzare davanti al parabrezza della macchina presa a noleggio le parve un déjà vu. Mentre Dan parcheggiava nel viottolo e spegneva il motore, lei non fece altro che fissare l'insegna della Scuola. «Sei pronta?» le chiese. Gli lanciò un'occhiata riconoscente, felice che lui le avesse fornito una distrazione. «Non può certo essere peggio del volo in aereo.» Dan le rivolse un sorriso annoiato e insieme scesero dalla macchina. La lunga ombra della Scuola sfiorò Natalie con il gelo di una caverna. Dan tolse il lucchetto e la catena dai cancelli e digitò un codice su una tastiera alfanumerica posta su un sostegno alla sua sinistra. Per l'ennesima volta, da quando si erano mossi dall'aeroporto di Manchester, Natalie stu-
diò il suo volto con aria furtiva. Nonostante lo avesse preso inizialmente per l'ennesimo idiota governativo, era stata costretta ad ammettere di apprezzare l'agente Atwater e le sue piccole attenzioni. Quando si erano imbattuti in una zona di turbolenza, nel cielo del Midwest, le aveva concesso di tenergli la mano per quasi un'ora, mentre gli scossoni continui del 737 inondavano il suo corpo di spasmi di terrore. Inoltre aveva il sospetto che, nonostante la sua disperata allegria, Dan sapesse cosa significava vivere insieme alle anime tanto quanto lo sapeva lei. Stava scritto lì, nelle rughe fuori posto incise sulla sua faccia da ragazzino e nelle isolate ciocche di grigio che punteggiavano i suoi capelli castani mossi. Lo percepiva anche dal suo tocco: ogni volta che lui entrava in contatto con la sua pelle, qualcuno bussava alla sua porta. Un parente morto, forse? Non faceva nessuna differenza. Natalie allontanava quell'anima recitando il suo mantra protettivo e traeva conforto dalla calda pressione esercitata dalla mano di Dan. I cancelli si spalancarono con un ronzio elettrico. Dall'altra parte si ergeva l'imponente facciata vittoriana della Scuola, la cui entrata era fiancheggiata da una serie di colonne ioniche in granito cesellato. Attraversarono un prato ben tenuto, seguendo un sentiero lastricato che li condusse fino ai gradini a emiciclo dell'ingresso principale. Mentre affrontava la scalinata, Natalie ebbe la sensazione di tornare ai suoi cinque anni, l'età che aveva quando era giunta alla Scuola. Quella sensazione le trasmise l'impressione stridente che tutto fosse troppo piccolo, dalle colonne alle porte, fino alle grandi arcate del piano terra, come avesse divorato una razione troppo grande della torta 'Mangiami' di Alice. Dan scelse un'altra chiave munita di targhetta dal suo portachiavi e aprì la pesante porta a due battenti in rovere. «Ma quanto è grande questo posto?» «Non tanto. Non ci sono mai stati più di venti di noi, in qualsiasi momento.» Natalie fu percorsa da un brivido sotto la felpa; dopo la calura opprimente di L.A., non era preparata al freddo pungente dell'autunno del New Hampshire. Entrò nella sala di ritrovo, che era vuota, e le suole delle sue Doc Martens stridettero sul parquet laccato. Di norma, gli studenti si ritrovavano lì nel tempo libero, quelli più giovani a giocare sul pavimento con i propri giocattoli e quelli più grandi a leggere o a studiare. «E i bambini dove li hanno portati?» «Non ne ho idea. Il DACA dà alle persone solo le informazioni stretta-
mente necessarie.» «Mmm. Ovvio.» Con il sole già basso nel cielo, dalle finestre che si affacciavano sul cortile entrava una fioca luce. Una semioscurità blu velava ogni cosa - l'enorme tappeto persiano, le logore poltrone di velluto, la mensola di legno sul camino con i suoi ornamenti a volute coperti da una patina di sporcizia facendo sembrare quella stanza sfiorita, logora e sozza rispetto al ricordo che Natalie si era creata di quel posto. Quel pensiero la rattristò... trasmettendole il senso di pietà che un bambino può provare per un genitore severo, persino crudele, che si sta spegnendo in un reparto oncologico. «Posso andare a farmi un giretto?» chiese con voce distante. «Da sola?» Dan le rivolse un'occhiata attenta. «D'accordo. Mi manterrò a pochi passi da te. Se trovi qualcosa, chiamami.» «Sì.» Si allontanò lungo il corridoio alla sua destra, in direzione delle aule in cui aveva imparato per la prima volta chi fosse davvero. Quando avevano chiuso la Scuola dovevano aver spento il riscaldamento, perché lì dentro l'aria era ancor più fredda che all'esterno. Con la strana, astratta sensazione di essere l'osservatore di un sogno in terza persona, entrò nella prima delle stanze vuote e immaginò di vedere se stessa a cinque anni, con le braccia strette intorno alle gambe piegate e il mento appoggiato sulle ginocchia, acquattata tra i suoi cinque compagni di classe dagli occhi viola. Erano tutti seduti sul pavimento rivestito di gommapiuma e fissavano Arthur McCord, una specie di Budda che vigilava su di loro, mantenendosi con le gambe nella posizione del loto. Nei suoi ricordi, Arthur era più giovane e più magro, con lo scalpo rasato simile a cera, sotto le luci fosforescenti dell'aula. «La morte è come uno stanzone nero» aveva raccontato ai bambini che gli stavano davanti, il più vecchio dei quali aveva nove anni. «Cercate la strada a tentoni nel buio e non siete sicuri di dove andare. Le cose che avete toccato quando eravate vivi, i posti in cui siete stati, le persone che avete conosciuto: tutte queste cose sono come delle porte chiuse che conducono fuori da quella stanza. Quando un Viola ne tocca una, spalanca una di quelle porte e la sua anima corre verso la luce...» Natalie si sentì formicolare il cranio proprio come le era successo quel giorno. Allora aveva ancora i capelli - boccoli lunghi, del colore naturale della sabbia bionda, tirati indietro sulle tempie da forcine azzurro pallido. Anni dopo aveva appreso la spiegazione scientifica di tutto ciò che Arthur
aveva detto loro in quel primo giorno di scuola, sulla composizione quantica dell'anima e sul teorema di Bell, e su come le subparticelle atomiche che entrano in contatto con l'energia di un'anima mantengano un rapporto con tale anima anche dopo che questa ha abbandonato il proprio corpo. Ma persino ora, ogni volta che Natalie pensava alla morte, le tornava in mente lo stanzone nero pieno di anime cieche che brancolavano alla ricerca di un'uscita. Arthur aveva preso un fazzoletto orlato di pizzo dalla tasca della camicia e lo aveva agitato davanti ai suoi alunni, come se stesse per prodursi in un giochetto di magia. Sull'angolo del fazzoletto erano ricamate le iniziali RM. «Apparteneva a mia madre,» aveva detto «e ora la sento spingere alle porte della mia mente, nel tentativo di uscire da quello stanzone nero. Vedo lampi dei suoi ricordi; credo che siano dei minuscoli frammenti dei suoi pensieri. Ma preferisco usare i miei pensieri per tenerla fuori dalla mia testa.» Aveva chiesto a Kevin, il ragazzino di nove anni, di andarsi a sedere di fianco a lui. Kevin, un timido ragazzino di colore con un lieve prognatismo superiore, aveva strisciato in avanti e si era sistemato accanto a lui. «Fammi vedere le mani.» Un luccichio di diffidenza aveva attraversato gli occhi porpora del ragazzino, ma aveva fatto come gli era stato detto. «Chiudi gli occhi.» Ancora una volta, Kevin aveva obbedito, la bocca contorta in una smorfia d'ansia. Arthur aveva agitato il fazzoletto sui palmi del ragazzo, che erano rivolti verso l'alto. «Ora, Kevin, voglio che tu reciti l'ABC. Continua a ripetere le lettere dell'alfabeto, indipendentemente da ciò che succederà. Non pensare a nient'altro e non smettere finché non te lo dirò.» Un fremito di concentrazione, o forse paura, aveva percorso le palpebre del bambino. «A-B-CD-E-F-G-H-I-J-K-L-M-N-O-P...» Arthur aveva atteso che Kevin avesse recitato diverse volte l'alfabeto, in velocità, praticamente in apnea. Poi aveva abbassato il fazzoletto, appoggiandoglielo sulle mani. La lettera K era rimasta intrappolata nella gola di Kevin, le sue dita strette intorno al fazzoletto e la testa improvvisamente dritta. «Forza, Kevin, dov'è quella lettera?» lo aveva pressato Arthur. «Cosa viene dopo la K?»
La mascella del ragazzino stava lottando contro la paralisi che gli bloccava le labbra. «Mmm... mmm...» «Forzai È esatto! Dillo, Kevin!» «Mmm... mmm... EMME!» «Sì! E dopo quella?» «Nnn... nnn... ENNE!» «Bravo! Continua.» «...O... ppp-P! ccc-Q!» Per ogni lettera che aveva pronunciato, il suo balbettio si era ridotto, e ben presto Kevin si era trovato a ripetere l'alfabeto in modo cantilenante, con la stessa rapidità di prima. Sul suo volto era apparso un ampio sorriso. Arthur aveva tolto il fazzoletto dalle mani di Kevin. «E questo, bambini, è il modo in cui potete impedire ai morti di guidare la vostra vita.» Natalie e gli altri bambini si erano guardati a vicenda, pieni di soggezione e di eccitazione. Tutti avevano ceduto minuti, ore, persino giorni delle loro giovani esistenze alle anime che li avevano invasi. Ora quell'insegnante era venuto a promettere loro la salvezza, un modo per riappropriarsi della propria coscienza... Ma Arthur mentiva, pensò Natalie studiando il pavimento nudo e i tappetini polverosi di gomma ammonticchiati all'angolo opposto della stanza. Non si potevano allontanare tutte le anime con la stessa facilità con cui era stata respinta quella della madre di Arthur. E, in un modo o nell'altro, la vita di un Viola sarebbe stata sempre guidata dai morti. Uscì dalla stanza e proseguì per il corridoio, dando una sbirciata dal vetro di ogni porta, man mano che passava. Quell'edificio era essenzialmente un enorme quadrato. Il lato su cui si trovava era destinato agli studenti più giovani, e ogni aula riportava in vita un nuovo ricordo: intense sessioni di addestramento al mattino, seguite da lezioni di matematica, lettura, scienza e storia il pomeriggio. Nei primi due anni, era passata dal mantra dell'alfabeto a discipline mentali più sofisticate che le avevano consentito di rimanere un'osservatrice consapevole mentre condivideva il suo corpo con un'altra anima. Si trattava di tecniche antiche, tramandate di Viola in Viola nei secoli. All'angolo lontano dell'edificio, là dove il corridoio svoltava a sinistra, Natalie giunse all'infermeria. Aprì con una spinta una delle porte a doppi battenti, ma non entrò. Dal punto in cui si trovava, vide il tavolo delle visite a cui facevano da contorno degli scaffali colmi di materiale per il pronto
soccorso. Era lì che il dottore e gli infermieri della Scuola fasciavano le ginocchia sbucciate, effettuavano le vaccinazioni e, di quando in quando, sistemavano un arto rotto. Mentre Natalie infilava la testa nel vano di ingresso, le comparvero davanti due poltrone da barbiere identiche che stavano dall'altra parte della stanza. Una rastrelliera accanto alla prima poltrona conteneva un vasto assortimento di pettini, forbici e rasoi elettrici. Accanto alla seconda poltrona stava un carrellino su cui poggiavano una console di Scansione dell'Anima e una serie di scintillanti aghi di acciaio inossidabile per tatuaggi. Quel giorno ne erano stati programmati cinque: tre ragazze e due ragazzi. Presto, si sarebbero trasferiti tutti e cinque sull'altro lato della Scuola, dove vivevano gli studenti di grado più avanzato. Ma prima sarebbero dovuti passare dall'infermeria. Passeggiando senza meta all'esterno, si prendevano in giro a vicenda per alleviare la tensione. «Basta doppie punte» aveva detto Sylvia, con un sorriso incerto. «Già.» Natalie aveva cercato di restituirle il sorriso. «E poi così si risparmia un sacco di soldi in balsamo.» Si era messa a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli biondi, che ora la cadevano ben oltre le spalle. Era la più giovane di quei cinque ragazzini - aveva solo dodici anni, mentre gli altri ne avevano già tredici. Non le sembrava giusto. Le porte dell'infermeria si erano aperte con un rumore sordo e Sandra si era avviata lungo il corridoio. «Che ne dite, ragazzi?» Sondra aveva preso ad ancheggiare vistosamente e si era messa in posa a loro beneficio, con un colpetto tracotante alla sua testa rasata. «Non sono fantastica?» I ragazzi, Evan e Forrest, avevano fischiato e battuto le mani. «Sexy!» aveva gridato il primo. Sondra si era stretta le mani dietro alla testa e poi intorno alle anche. Una spavalda brunetta solo un'ora prima, ora trasudava la sicurezza naturale di una ragazza precoce, con i seni in pieno sviluppo che si facevano notare in maniera inequivocabile sotto l'attillata canotta scollata a V. Natalie, che indossava magliette troppo larghe e informi per nascondere il fatto che non ci fosse nulla da nascondere, era rimasta indietro e aveva messo il broncio. Sondra si comportava come se tutta quella faccenda fosse una grande festa; addirittura, si era offerta volontaria per aprire le danze. Natalie aveva strabuzzato gli occhi di fronte alle macchioline di sangue sullo scalpo di Sondra, che ora si stavano asciugando, formando
piccole crosticine. Com'era possibile che davvero non le importasse nulla? «Natalie?» Un'infermiera aveva aperto una delle porte. «Ti stiamo aspettando.» Lei si era messa in bocca una delle ciocche di capelli con cui stava giocherellando e si era avviata, trascinando i piedi. Evan le aveva sorriso, con gli occhi luminosi che gli spuntavano da sotto le folte sopracciglia nere. «Ce la puoi fare, Boo.» Natalie aveva abbozzato una risatina mentre lui coinvolgeva gli altri in un coro di incoraggiamento. «Boo! Boo! Boo!» Quell'incitamento l'aveva accompagnata fin dentro l'infermeria, dove la chiusura della porta a vento lo aveva spento del tutto. L'infermiera, una simpatica donna dagli occhi color nocciola che si chiamava Terry, l'aveva guidata fino alla prima poltrona da barbiere. «Siediti.» Natalie si era lasciata sprofondare nella poltrona e aveva cercato di rilassarsi con delle tecniche per il controllo della respirazione che aveva appreso al corso di yoga. Ma non aveva potuto fare a meno di osservare Rob, l'altro infermiere, mentre raccoglieva con una scopa e una paletta quel che restava dei riccioli castani di Sondra. La Scuola aveva promesso a tutti una parrucca realizzata con i loro stessi capelli. Rob aveva messo da parte la scopa e la paletta, si era sistemato il camice bianco sulla pancia e le aveva infilato un telo di nylon sotto il mento. «Allora, dimmi come li vuoi...» Molto divertente, pensò Natalie. Quante volte l'hai fatta questa battuta negli ultimi cent'anni? «Un centimetro sopra le spalle» gli aveva risposto con voce seria. Lui si era messo a ridere e aveva preso le forbici dalla rastrelliera. Non ci era voluto tanto: aveva raccolto gran parte delle sue ciocche in trecce approssimative e le aveva tagliate, dopodiché aveva posato quelle spesse matasse di capelli sul bancone, accanto a sé. Un guizzo e un ronzio, e nella testa di Natalie era echeggiato il brusio delle forbici che stavano facendo piazza pulita degli ultimi ciuffi restanti. Mentre Rob toglieva la peluria usando crema da barba e rasoio, Natalie era rimasta a osservare l'altra poltrona da barbiere, presso la quale la Dottoressa Krell stava preparando un nuovo ago da tatuaggio, sterilizzato. Come il resto del personale medico, la Dottoressa Krell non era una Viola. In realtà era una normalissima donna di mezz'età. Aveva occhi verdi, zigomi pronunciati e mento prominente. Tuttavia, per dimostrare solida-
rietà verso i suoi pazienti, anche lei si rasava i capelli, e quel gesto, insieme ai suoi modi affabili, avevano fatto di lei una beniamina dei bambini della scuola. «Ehi, Boo! Come va con la tua spalla?» aveva chiesto a Natalie, non appena lei si era accomodata sulla seconda poltrona da barbiere. «Ah... bene.» Come per riflesso, si era massaggiata la spalla destra, che si era lussata giocando a calcio all'età di nove anni. «Be', al confronto questa sarà una passeggiata. Adesso ti colleghiamo al monitor.» La dottoressa aveva pulito lo scalpo di Natalie con dell'alcol da frizione, poi aveva preso un braccialetto fatto di capelli dal carrellino che le stava accanto. Quelle ciocche marroni intrecciate sembravano secche e friabili. «Non c'è bisogno che tu ti preoccupi. Ginny è un'anima delicata. Quando sei pronta...» Natalie aveva mugugnato uno dei mantra di livello avanzato che Arthur le aveva insegnato quell'anno. Un istante dopo, aveva alzato una mano. Una serie di immagini tremolanti si erano fatte strada nella sua mente nel preciso istante in cui quel bracciale improvvisato le aveva sfiorato il palmo. Una casa colonica circondata da campi di granoturco. Era impegnata a sgusciare piselli sul portico, davanti alla casa, mentre faceva dondolare una culla con il piede. Un ragazzino in pantaloncini grigi alla zuava correva dietro alle galline nell'aia. I miei bambini, i miei bambini! Era l'implorazione di Ginny, che si era insinuata a singhiozzo nel cervello di Natalie. Dove sono? Che ne è stato di loro? Natalie immaginò che forse quei bambini erano ormai dei bisnonni - ammesso che fossero ancora vivi. «Bene.» La Dottoressa Krell aveva posizionato il freddo cerchio metallico di un elettrodo contro la pelle dello scalpo di Natalie e ne aveva osservato il tracciato registrato sul monitor della console di Scansione dell'Anima. «Bene, e adesso vediamo se riusciamo a localizzare i tuoi nodi recettori...» Aveva spostato l'elettrodo a sinistra e a destra, in alto e in basso, come se stesse maneggiando uno stetoscopio per auscultarle il cuore. Finalmente soddisfatta dall'andamento delle onde comparse sul monitor, aveva sollevato l'elettrodo e aveva marcato il punto scelto con una matita chirurgica. Aveva ripetuto il procedimento finché non aveva individuato ciascuno dei venti nodi di Scansione dell'Anima di Natalie, poi aveva rimesso a posto il bracciale di capelli. La personalità di Ginny si era dissipata, la-
sciando ancora un senso di stordimento in Natalie. La Dottoressa Krell le aveva rivolto un sorriso di incoraggiamento. «La parte difficile l'hai superata. Ora resta seduta immobile.» La dottoressa aveva tenuto ferma la testa di Natalie con una mano mentre con l'altra cominciava a operare con l'ago. Uno stridio molto acuto aveva prodotto un formicolio nelle orecchie di Natalie e la prima scossa di dolore le aveva perforato il cranio... La porta sbatté, chiudendosi sulle due poltrone gemelle da barbiere. Natalie si allontanò dall'infermeria, massaggiandosi le tempie nel tentativo di respingere un incipiente mal di testa e mugugnando con un filo di voce il Salmo 23, uno dei mantra difensivi più potenti. Per la prima volta da quando aveva visto le istantanee dei fascicoli sui casi FBI di Dan, la realtà fece presa su di lei: Evan era morto. La sua presenza pervadeva quel luogo, e forse lui avrebbe bussato alla sua porta da un momento all'altro. Non era sicura di poterlo sopportare. E poi c'era Sondra. Anche lei era morta e, nella morte, poteva avere Evan tutto per sé, per sempre. Sarebbe tornata dalla tomba solo per vantarsene? In preda a una crescente sensazione di disagio, Natalie seguitò a camminare lungo il corridoio, passando accanto al refettorio e alla palestra, agli uffici dell'amministrazione e alla biblioteca, e raggiungendo infine l'altro lato della Scuola, quello destinato agli studenti più grandi. Lì, come novizi di un monastero, adolescenti dalle teste rasate apprendevano dai loro maestri calvi le regole che secondo la società avrebbero dovuto applicare. Era improbabile che Laurie Gannon fosse stata lì quando aveva visto l'uomo in tuta, e Natalie non vide porte o stanze corrispondenti a quelle impresse nella memoria di Laurie. Dan si muoveva in quella stanza mantenendosi diversi metri dietro di lei, le mani in tasca. Incurante della sua evidente impazienza, Natalie uscì dalla porta e mise piede in cortile. L'aria all'interno dell'edificio era troppo fredda e troppo stantia, disse tra sé. Una camminata all'esterno le avrebbe schiarito le idee. Ma non era quello il vero motivo per uscire. Il cortile era attraversato da sentieri in cemento che si incrociavano ad angolo retto e che lo dividevano in quattro quarti. Sull'appezzamento di verde che occupava ciascun quarto crescevano degli aceri, i cui rami ricoperti di foglie a tre punte formavano un pergolato ombroso sui passaggi pedonali. Al centro del cortile era posizionata una fontanella, ma in quel
momento il laghetto era immoto, visto che dai flauti di pan suonati dai fauni in pietra non sgorgava più acqua. Natalie si massaggiò le braccia, rabbrividendo per effetto di un gelo ben più profondo dell'aria frizzante che alitava all'esterno. La temperatura quel giorno doveva essere stata ben al di sotto dello zero, ma era proprio per anello che erano usciti - per starsene soli. La fontana, svuotata per la stagione, si era riempita di neve, e gli aceri scheletrici stillavano la loro dolce resina nei secchi di legno appesi ai rubinetti piantati nelle loro cortecce. I bambini più piccoli in seguito avrebbero preso quello sciroppo per farne dei confetti di zucchero, sagomandolo nelle forme di stelle e cuori in una tinta color miele. Era stato li che Evan l'aveva portata per dirle addio. «Non tornerò dopo Natale.» Si era abbassato il berretto di lana sulla fronte al punto che gli copriva quasi del tutto le sopracciglia, nel vano tentativo di tenere calda la testa. «A Quantico c'è carenza di Viola, e vogliono che io inizi subito l'addestramento.» Benché avesse il naso intorpidito e il freddo le si insinuasse sotto la cuffia pungendole la testa come tanti aghi, Natalie aveva sorriso e gli aveva accarezzato una guancia con la mano rivestita da un guanto, non senza incontrare qualche ostacolo nella barbetta che aveva cominciato a farsi spazio intorno al mento. «Non preoccuparti. Il prossimo ottobre compirò diciott'anni - in meno di un anno potrei raggiungerti là...» «No.» Con delicatezza, le tolse la mano dal viso e se la strinse tra i palmi. «Non venire, Boo, anche se dovessero assegnarti. Quel posto fagocita le persone.» «È tutto a posto. So come cavarmela.» «No, non è vero. Nessuno è in grado di farlo.» Benché fosse sempre accigliato, stavolta era sembrato ancor più depresso del solito. «Come tua mamma...» Con uno scatto, Natalie aveva liberato la mano dalla sua presa. «Non sono mia madre! Vorrei tanto che la gente avesse smesso di parlare di lei!» «Non ti arrabbiare.» Evan aveva fatto il gesto di abbracciarla, ma lei lo aveva respinto. Dal naso e dalla bocca di Natalie si erano levate delle volute bianche di vapore caldo. «E se davvero è così pericoloso, perché tu ci vai?» Incrociò le braccia, facendogli il verso. «Una vera fortuna che abbiano assegnato la stessa destinazione anche a Sondra...»
Lui aveva bofonchiato qualcosa e aveva alzato le mani. «Cristo! Per l'ultima volta: tra Sondra e me non c'è niente!» «Davvero? E allora perché a lei non dici di starsene alla larga da Quantico?» «Senti, tu la conosci Sondra! Pensi che servirebbe a qualcosa?» «Ovviamente no. È la sua grande chance.» Lui le aveva preso la testa fra le mani, costringendola a fissarlo dritto in quei suoi occhi malinconici. «Boo, te lo giuro, sto solo cercando di proteggerti. Augurati che ti chiamino alla Divisione Artistica. Sei brava - non possono non prenderti. Ma non lasciare che ti sbattano a lavorare per la strada. Scappa, se devi farlo.» «Davvero? E che mi dici di questa?» Dopo essersi tolta un guanto, Natalie si era infilata la mano destra sotto i vari strati di abiti che aveva all'altezza del collo e ne aveva estratto una catena. Ancora caldo per la il contatto con la pelle, il ciondolo aveva impiegato pochissimo a raffreddarsi, una volta esposto all'aria: due serpenti intrecciati nella forma del simbolo dell'infinito. «Pensavo che questo volesse dire 'per sempre'. Il tuo ce l'hai ancora oppure te ne sei sbarazzato, Evan?» Lui si era portato una mano al petto e aveva annuito. Lei lo aveva fissato in silenzio, le labbra serrate, senza alcun desiderio di perdonarlo per averla abbandonata. L'affetto e il rammarico che si leggevano negli occhi di Evan, tuttavia, avevano sciolto la sua risolutezza e lei lo aveva abbracciato, stringendoglisi con quanta più forza i loro piumini concedessero. «Non dire che non ti rivedrò mai più, ti prego» gli aveva sussurrato in un orecchio. Non le aveva risposto. Lei lo aveva trattenuto lì, accanto alla fontana ghiacciata, ancora per diversi minuti, con il freddo che rendeva la luce dei loro occhi tagliente come vetro... «Natalie.» Il cortile tornò improvvisamente a fuoco. Le foglie sugli alberi avevano da poco iniziato ad assumere una tinta rossastra e l'acqua della fontana era stagnante, corrotta dalle alghe e di un colore simile a quello di una limetta marcia. Natalie si voltò verso la voce che l'aveva riportata al presente e trovò Dan fermo sulla soglia dietro di lei. «Non intendo disturbarti, ma non abbiamo molto tempo. Hai trovato il punto in cui Laurie ha visto quell'uomo?»
Lei scosse la testa, per un momento incapace di parlare. Il quadro drammatico di quel pomeriggio di inverno continuava ad avvilupparla. Evan era lì? Perché non aveva bussato alla sua porta? Le venne in mente la terribile possibilità che forse lui non volesse bussare alla sua porta - che lui e Sondra fossero felici nella loro non-vita insieme, che le loro anime fossero intrecciate come i serpenti del ciondolo... Respinse quell'idea sforzandosi di prestare attenzione a ciò che Dan le stava dicendo. «Possibile che Laurie lo abbia visto al piano di sopra, da qualche parte?» suggerì. «Ne dubito. Qui sopra non ci sono altro che dormitori.» Entrò nell'ingresso insieme a lui, ma lo spettro di Evan continuò a offuscare i suoi pensieri. «È questo che non capisco. Era una parte della Scuola che non avevo mai visto prima.» Dan si grattò il mento, misurando l'androne in lungo e in largo con lo sguardo. «Hai detto che quel tizio indossava un'uniforme, come una specie di tuttofare. Dove si trova l'Ufficio Manutenzione?» «Non lo so. Forse nel seminterrato. Ma è impossibile che Laurie sia andata fin là sotto. Il personale tiene quelle porte chiuse a chiave per motivi di sicurezza.» «Già. Ma forse quel tizio non era veramente un membro del personale.» Dan si incamminò con aria solenne lungo il corridoio e Natalie si tenne al passo con lui. «Laurie si doveva trovare quaggiù, insieme agli studenti più giovani. Giusto?» le chiese, attraversando la sala di ritrovo e tornando verso l'ala orientale. Dan oltrepassò le aule e giunse nei pressi di una porta sprovvista di finestra sulla quale campeggiava la scritta 'Accesso riservato al personale', stampata con una vernice nera. Provò a girare il pomello, ma la porta era chiusa, così estrasse il portachiavi dalla tasca. Dopo aver passato in rassegna gli scarabocchi illeggibili fatti con una penna a sfera blu su ciascuna delle etichette, scelse una chiave e la infilò nella serratura. Il pomello ruotò e la porta si aprì su una tromba delle scale priva di luce. Dan localizzò l'interruttore sulla parete alla loro destra e un paio di neon rettangolari fluorescenti inondarono i gradini di cemento di una illuminazione grigiastra. Il puzzo di cemento bagnato fece venire la pelle d'oca a Natalie, mentre scendevano le scale. «È questo» sussurrò lei. Nel punto in cui la tromba delle scale si apriva su un corridoio dal pavi-
mento in calcestruzzo, fu Natalie a prendere l'iniziativa. Le porte color arancio, le pareti beige, le luci fluorescenti - erano tutte cose che aveva già visto. Affrettando il passo, avanzò verso la terza porta sulla sinistra e fece per toccare la maniglia. «Aspetta!» Dan, affiancandola, tirò fuori un paio di guanti di lattice. Aprì la porta con una mano guantata e diede un colpetto all'interruttore della luce che stava dall'altra parte. Un'unica lampadina nuda appesa al soffitto si accese sul metallo verde di un grande forno dalla cui sommità usciva una conduttura quadrata da cui partivano diverse deviazioni più piccole, puntando al soffitto della stanza per poi sfogare all'esterno. Un tubo orizzontale metteva in connessione il forno e un enorme serbatoio di olio da riscaldamento. «Dov'è che hai visto il nostro uomo misterioso?» chiese Dan. «Là in fondo.» Attraversò la stanza e si accovacciò accanto al gigantesco cilindro nero rappresentato dal serbatoio della nafta, che poggiava orizzontalmente su un'intelaiatura d'acciaio che lo teneva sospeso sul pavimento di una trentina di centimetri. «Era accucciato qui e teneva le mani davanti a sé, in questo modo.» Giunse le mani e chinò il capo. Dan si inginocchiò accanto a lei ed estrasse una sottile torcia elettrica dalla tasca interna del giubbotto. «Che cosa ci facevi qui, signor Misterioso?» Indirizzò il raggio di luce della torcia sulla superficie sudicia del serbatoio, ma non trovò nulla di insolito. Sdraiandosi sul fianco, proiettò la luce verso la pancia del serbatoio. «Dio!» Natalie si abbassò su mani e ginocchia finché riuscì a scorgere il punto in cui cadeva quella luce ovale. Qualcuno aveva attaccato un pacchetto sul fondo del serbatoio, utilizzando del nastro da idraulico. Dall'involto spuntavano due tubi zincati alla cui estremità erano stati fissati dei cavi isolati, ciascuno collegato a un interruttore nero attaccato sul fondo dell'involto. Un display a cristalli liquidi posto sopra l'interruttore segnalava a intermittenza le cifre '90:00'. Natalie guardò Dan. «È una...» «...una bomba» confermò lui. 10 Nuovi problemi
Dan fu impegnato in una conversazione al cellulare che lo occupò per quasi venti minuti, lasciando Natalie praticamente senza niente da fare, se non tremare e fissare l'edificio malmesso che aveva ospitato la Scuola. Nonostante Dan non pensasse che la bomba fosse stata attivata, nessuno dei due intendeva rischiare di restare lì dentro, così si fermarono all'esterno, nella luce sempre più debole del crepuscolo. Alla fine Dan si risistemò il telefono alla cinta dei pantaloni e la avvicinò per metterla al corrente della situazione. «La squadra degli artificieri sta arrivando. Quel pacchetto non è certo opera di professionisti, a giudicare dall'aspetto, ma chiunque lo abbia confezionato sapeva quello che stava facendo. Far esplodere il serbatoio di nafta avrebbe fatto crollare l'intero palazzo. Inutile dire che a Clark è quasi preso un accidente. Questo colpo fa riesplodere l'intero caso.» «Neanche il Presidente in persona ti perdonerebbe una battutaccia del genere.» Natalie passò al setaccio la facciata della Scuola, quasi cercasse di leggerne l'espressione. «Hanno qualche idea?» «È proprio qui il problema. In questo momento, di idee ne abbiamo fin troppe. Potrebbe trattarsi di vendetta, di un attacco della mafia o di un atto terroristico. Potremmo avere a che fare con un pazzo isolato oppure con una squadra di assassini professionisti. Dando per scontato, naturalmente, che questa bomba abbia qualcosa a che fare con gli omicidi.» «Ce l'ha. Ne sono certa.» Pensò ai ricordi di Laurie - all'esitazione che aveva percepito nell'Uomo Senza Volto subito prima che la uccidesse. «Perché non ha attivato il timer?» Dan inarcò un sopracciglio. «Il vero dilemma è proprio questo, non trovi? Questo, e il perché abbia fatto tremila miglia per assassinare una ragazzina che avrebbe potuto uccidere proprio qui.» Si accigliò, indicando la Scuola. «A ogni buon conto, dei poliziotti locali stanno venendo a mettere sotto protezione l'area fino all'arrivo della squadra degli artificieri. Clark ci vuole immediatamente a Los Angeles per un summit, così ho prenotato un volo per le otto di sera.» Natalie sospirò. «Fantastico.» Dan si strinse nella giacca. «Non so tu, ma io qui fuori sto congelando. Torniamo in macchina.» Si avviarono lungo il passaggio pedonale in cemento, in direzione dell'ingresso principale, ma Dan rimase subito indietro di qualche passo. «Cosa diavolo...?» Natalie si voltò e lo vide sollevare il piede destro.
Un trefolo appiccicoso di gomma da masticare rosa si allungava dal pavimento alla suola della sua scarpa. 11 La stanza nera Era l'ultima seduta della sera, e Arthur McCord non vedeva l'ora che giungesse al termine. Il cliente era una anziana donna, una certa Beatrice Rose, che lui non aveva mai visto prima. Sulla sessantina, si trovava sulla cuspide che divide la mezza età dalla vecchiaia, quando la carne inizia a inflaccidirsi, ma prima che il fuoco dell'anima si riduca in brace. Benché avesse la schiena già ingobbita dalla stanchezza e da un'incipiente osteoporosi, si mantenne appollaiata sull'orlo della sedia, con espressione attenta. Aveva gli occhi vivaci e una permanente da ragazzina le arricciava i capelli argentei. Aveva fatto capolino il giorno prima per fissare un appuntamento, e Arthur non aveva avuto molto tempo per prepararsi. Di norma Arthur avrebbe pagato Bonner, il ragazzino dell'università, perché conducesse una ricerca per lui - controllando i registri della contea, la pagina degli annunci mortuari sui quotidiani locali, persino la storia finanziaria del soggetto e del marito defunto - qualunque cosa potesse fornirgli dei fatti convincenti da distribuire qua e là nel corso della seduta. In questo caso, invece, aveva dovuto effettuare la convocazione senza preparazione, facendo delle supposizioni sulla base dell'esperienza e spingendo la signora Rose a dargli le informazioni che gli servivano. 'Strappandole le piume' come si diceva nel mestiere di falso Viola. «So perché sei venuta, Bea.» Le sorrise e le sfiorò una guancia. «So quello che vuoi chiedermi.» «Oh, Davey!» Accarezzò e baciò la sua mano. «Ma come...?» «Sono sempre stato con te. So quanto sia stato difficile - quanto tu abbia dovuto lavorare da quando me ne sono andato.» In realtà, erano tutte sciocchezze. Chiuso in quella stanza nera, il defunto sarebbe riuscito a vedere i vivi solo attraverso una finestra rappresentata da un Viola. Ma Arthur sapeva che la signora Rose era in ristrettezze economiche dal modo in cui aveva contrattato il prezzo della sua consulenza. I calli che sentì sui suoi palmi doveva esserseli procurati nelle lunghe ore trascorse a passare uno strofinaccio oppure un aspirapolvere, e il fatto che fosse venuta da lui
alle dieci di sera gli diceva che probabilmente aveva fatto delle ore di straordinario. «Già. È stata dura.» Le lacrime filtrarono tra le sue dita. «Mi sei mancato tanto.» «Ma qualcosa sta per cambiare, non è vero?» Lei si voltò dall'altra parte, improvvisamente a disagio, tirando su col naso. Fu facile per Arthur intuire il suo dilemma. «C'è qualcun altro, vero? Un altro uomo.» Lei non disse nulla, ma abbassò la testa e si mise a giocherellare con la fede e con l'anello di fidanzamento che portava alla mano sinistra. «Bea, ti ricordi cosa ti dissi durante la nostra luna di miele?» «Alle Hawaii?» La signora Rose corrugò la fronte. «Quando?» «Ti ricordi. Sulla spiaggia.» «Che tu... tu mi amavi?» «Che ti avrei sempre amata» la corresse Arthur. «Sempre. A dispetto di ogni cosa. Dopo tutto, resti sempre la mia 'Beatitudine'.» Il nomignolo fu un azzardo. Se la sua supposizione fosse stata sbagliata, lei l'avrebbe probabilmente ignorata; se invece avesse indovinato, si sarebbe convinta che quello era proprio suo marito. L'azzardo ebbe successo. La donna si portò le mani al viso, tremando. «Davey! Dio del cielo, mi dispiace...» «Non devi dispiacerti. Voglio che tu sia felice, anche se questo significasse che devi sposare qualcun altro.» Arthur si chiese se il vero David Rose sarebbe stato altrettanto comprensivo. Si augurò di sì. Lei scattò dalla sedia e si lasciò cadere su di lui, in preda ai singhiozzi. «Non è che io abbia smesso di amarti! Non ho mai smesso di amarti!» «Lo so.» Dandole dei colpetti sulla schiena, mentre la cullava, Arthur decise che quello era il momento giusto per porre fine alla seduta. «Ora devo andare, mia Beatitudine. Ma ti sarò sempre accanto e veglierò su di te, cingendoti col mio amore.» Arthur la baciò sulla fronte, dopodiché si lasciò andare a peso morto sulla sedia, abbandonandosi a una sorta di iperventilazione, come se avesse appena finito di correre una maratona. I suoi occhi si chiusero, udì Beatrice Rose piangere, la sentì tremare contro di lui. Quando la signora Rose ebbe finito di piangere e si fu soffiata il naso, Arthur la accompagnò alla porta. Lei lo ringraziò con grande trasporto e insisté perché accettasse una banconota da dieci dollari in più, in segno di gratitudine. Lui declinò gentilmente e le augurò la buona notte.
Che razza di vita, rifletté amaramente, mentre chiudeva a chiave il portone e spegneva le lanterne Coleman17 dell'ingresso. Raccontare balle come un truffatore di uno spettacolino da quattro soldi di Las Vegas. Ovviamente, non sarebbe stato costretto a fare ricorso a un imbroglio del genere se si fosse limitato a convocare il defunto come aveva finto di fare. Ma Arthur custodiva gelosamente la solitudine della propria anima, conquistata a fatica, e si guardava bene dal privarsene anche per un solo istante. Si trascinò stancamente nella stanza delle sedute e iniziò a spegnere le candele. Forse avrebbe dovuto lasciare il paese dopo la sua 'scomparsa' anche se aveva sentito dire che alcune nazioni straniere erano persino più spietate con i loro Viola di quanto lo fosse il DACA. Se ti rifiutavi di collaborare negli Stati Uniti, il Dipartimento poteva inserirti nella lista nera, confiscarti la macchina, controllare i conti della tua famiglia; in Paraguay, il governo ti avrebbe fatto avere le dita di tua moglie per posta, spedendotele una alla volta finché non fossi tornato al lavoro. Inoltre Arthur non era riuscito a prendere la decisione di lasciare l'unica famiglia che avesse mai avuto: Jem e Gig, Evan e Boo, Lucy... persino Simon. Erano gli unici di cui si fosse fidato abbastanza da rivelare l'identità di 'Yuri', l'unico vero Viola di West Hollywood. Ora metà di quella famiglia era morta. L'illuminazione nella stanza si ridusse all'area del tavolo che si trovava al centro, dove la lampada a petrolio proiettava tuttora un anello tremolante di luce gialla ambrata. Arthur sollevò la lampada prendendola per il manico e, portandola con sé, attraversò la porta sul retro, coperta da un drappo di perline, entrando in quello che un tempo era stato l'ufficio nel retrobottega. Ne aveva ricavato uno spazio abitabile, installando una piccola doccia nel bagno - con tubi di plastica, come il resto dell'impianto idraulico - e piazzandoci una branda, una specchiera, diversi scaffali di libri (soprattutto di filosofia orientale) e una stufetta da campo alimentata a gas propano. Si era organizzato facendo a meno del frigorifero, consumando principalmente scatolame, frutta fresca, ortaggi da radice e cibi preparati che si faceva consegnare regolarmente. Come nel resto del negozio, sulle pareti brillava l'opaco riflesso del foglio sgualcito di alluminio. L'unica apparecchiatura elettrica nella stanza era una torcia posta sul pavimento accanto al letto e, come sua abitudine, Arthur la accese per assicurarsi che le batterie funzionassero ancora. Con la luce della strada schermata dal rivestimento di alluminio delle finestre, sul negozio calava lo
stesso buio che regna in una spelonca quando le torce sono spente. Detestava dover trovare la strada del bagno a tentoni nel cuore della notte. Accanto alla torcia elettrica, era appoggiato un revolver calibro 45 non registrato che aveva acquistato da uno spacciatore di crack operante sul Boulevard. Arthur sistemò la lampada a petrolio sulla credenza e si infilò il pigiama. Dopo essersi lavato i denti sul lavandino del bagno, si tolse le lenti a contatto dalla tinta porpora persino esagerata e le mise a mollo in una soluzione salina per il giorno successivo. Poi si andò a mettere comodo sulla branda, sollevò la copertura scanalata della lampada e spense la fiamma. Nel preciso istante in cui il largo stoppino di spago intrecciato si spegneva, facendo buio tutto intorno, dalla stanza delle sedute giunse un rumore tenue - un tintinnio metallico, smorzato, la cui eco lo impietrì. Avviluppato in un'oscurità palpabile, Arthur rimase seduto, perfettamente immobile, cercando di convincersi che fosse stata una semplice pressione dell'aria a far sbattere la porta della sala delle sedute contro il campanello che vi pendeva sopra. Ma ciò che non riusciva a spiegarsi era quell'improvviso silenzio, come se qualcuno avesse afferrato il campanello per smorzarne le vibrazioni. Muovendosi tastoni e a memoria, Arthur prese in mano il revolver e la torcia elettrica. Dopo aver armato il cane della pistola, accese la torcia, quasi aspettandosi di trovarsi di fronte l'assassino. Un rapido sventolio del fascio di luce lo rassicurò: non c'era nessun altro in quella stanza. Fu allora che Arthur puntò luce e pistola in direzione delle corde di perline color porpora che velavano la porta, a mo' di tenda. Una serie di rumori solo immaginati gli fecero fremere gli orecchi, ma non udì nulla. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasto lì, in ascolto, immobile, senza avere nemmeno il coraggio di battere ciglio. Forse più di un'ora. Gli venne in mente che avrebbe potuto mantenere quella immobilità da siesta messicana per tutta la notte. In fondo, era in posizione avvantaggiata perché l'intruso - se davvero ce n'era uno - non sarebbe potuto entrare in quella stanza senza finire nel mirino della sua pistola. Il giorno dopo sarebbero venuti alcuni dei clienti di Arthur e avrebbe potuto convincerli a chiamare la polizia, sparando in aria con la sua 45, sempre che l'intruso a quel punto non se la fosse ancora data a gambe. Iniziò ad avere i crampi alle braccia e si mise a rimproverare se stesso per la propria codardia. L'uomo che aveva assassinato Jem e gli altri forse era nascosto in quella stanza. Se Arthur gli avesse permesso di sgusciare
fuori di lì nello stesso modo in cui vi si era insinuato, Lucy, o magari Boo, sarebbe forse stata la prossima vittima. Per la prima volta negli ultimi sei anni, Arthur McCord desiderò di disporre di un telefono. Abbassò il raggio della torcia elettrica, puntandolo sul pavimento sotto la tenda di perline. Non si vedevano piedi. Piegando le dita sul grilletto della pistola pronta a sparare, Arthur si alzò e si diresse alla porta. Si tenne rasente la parete destra e scostò delicatamente alcune corde di perline con la canna della pistola, in modo da poter fare luce nella stanza delle sedute. Partendo dalla parete più vicina a lui, il raggio della torcia elettrica zigzagò per tutto il perimetro della stanza. Costellazioni e simboli zodiacali fluttuarono dentro e fuori da quel cono di luce, che si allargò, attenuandosi, man mano che raggiungeva la parete più lontana della stanza. Si sporse oltre lo stipite quanto bastava per riuscire a dirigere il fascio di luce in ogni angolo della stanza. Non trovò nessuno. Puntò la luce sulla porta in diagonale, di fronte a sé. Era accostata. L'estremità superiore poggiava contro la parte sporgente del campanello. L'intruso era ancora dietro la porta, nascosto nell'andito? Come aveva fatto a superare la porta di ingresso, che era chiusa a chiave? In preda alla stessa angoscia di poco prima, Arthur osservò il tavolo su cui poggiava una coperta a drappi, in mezzo alla stanza. Di spazio per nascondersi lì sotto non ne mancava certo. Ma come avrebbe potuto controllare sotto il tavolo o dietro la porta senza esporsi al rischio di subire un agguato da un altro punto? Avanzò con cautela in direzione del tavolo, come se avesse avuto a che fare con un leone in attesa. Continuando a inquadrare la porta nel fascio di luce della torcia, ribaltò il tavolo assestandogli un calcio repentino con il piede destro. Il tavolo finì in terra, picchiando con il bordo rotondo e rotolando, per poi fermarsi con la tovaglia avviluppata intorno alle gambe di legno. Il pavimento sottostante era sgombro. Arthur si leccò il sudore sul labbro superiore. Il fascio della torcia elettrica indugiò sulla porta - un occhio di bue in attesa di un attore. La fessura dietro il battente si era allargata dalla prima volta che l'aveva guardata? Oppure era stato lui stesso a lasciarla così quando aveva chiuso il negozio? Si portò con circospezione dal lato della porta su cui erano fissati i cardini e sbirciò attraverso la rete metallica che rivestiva la finestra. Nulla.
Però non era sicuro, a meno che... Reggendo la torcia elettrica con il pollice, infilò le dita della mano sinistra sotto la maniglia della porta. Con la destra rafforzò la presa sulla pistola e, tirando con forza, aprì la porta. Udì il fruscio di un telo che si increspava dietro di sé. Gli striscioni, si rese conto Arthur prima ancora di voltarsi. Era nascosto dietro uno degli striscioni. Una corda da pianoforte, sottile come una lama di rasoio, gli morse la gola, serrandogli la trachea. Arthur balzò all'indietro, la bocca spalancata ma incapace di prendere fiato. Con un riflesso condizionato, le dita che teneva intorno al grilletto ebbero uno spasmo e l'arma sparò un colpo che si conficcò nella parete. Lui riuscì a tenere in mano la pistola, ma la torcia elettrica gli sfuggì da sotto il pollice e rimbalzò a terra, creando una inutile pozza luminescente ai suoi piedi. Il cervello di Arthur piombò in un'apnea dolorosa mentre il flusso sanguigno languiva nelle arterie strozzate della carotide. Andò alla carica come un toro in preda al panico, sollevando il proprio assalitore dal suolo e caricandoselo sulla schiena possente. La morsa dell'assassino si strinse mentre Arthur lo scuoteva da una parte all'altra. Caracollando all'indietro, Arthur lo sbatté contro la parete più vicina e lo inchiodò lì. L'uomo gemette di dolore. Arthur ignorò la terribile pressione alla gola e puntò la pistola contro l'uomo che era bloccato dietro di lui. La presa intorno al suo collo si allentò e una mano, la cui superficie aveva la consistenza aderente e gelatinosa della gomma, gli afferrò il polso destro. L'assassino deviò con forza la canna della pistola verso il soffitto mentre partiva un altro colpo. Arthur udì un tenue fremito dietro di sé mentre un coltello gli penetrava nel collo. La pistola gli scivolò via dalle dita ormai prive di sensibilità. Un liquido caldo gli colò dal collo e, quando cercò di respirare, la sua trachea gorgogliò come un tubo di scarico stracolmo. Una serie di pensieri lucidi gli illuminarono per un attimo la mente come un'esplosione di lampadine che ne lasci solo una accesa: Boo... Zigzagando come ubriaco, Arthur chiamò a raccolta le energie rimaste nei suoi muscoli e conficcò il gomito destro nel plesso solare dell'assassino. Quando quello si piegò su di lui, Arthur lo afferrò per le anche con una possente presa da lottatore e sfruttò lo slancio della sua massa che sfiorava
i centocinquanta chili per atterrare il suo assalitore, colto alla sprovvista. Mentre atterrava sull'assassino, Arthur perse conoscenza per qualche istante ma si sforzò di aprire gli occhi quando si accorse che l'altro stava cercando di divincolarsi. La testa velata dell'omicida era finita nel cono di luce proiettato dalla torcia elettrica e il suo respiro affannoso pulsava sotto il tessuto crespato. Le sue dita avevano perso quasi del tutto la sensibilità, ma Arthur cercò di stringere il tessuto sulle tempie di quell'uomo e di sfilargli la maschera dal volto. Lascia che ti dia un'occhiata. Solo un'occhiata, per Boo... L'assassino avvertì la minaccia e dimenò la testa per scuotersi di dosso le mani di Arthur. La base della maschera sgusciò da sotto il colletto della camicia nera dell'uomo, mettendo in mostra il biancore del suo collo. Arthur gocciolò sangue e saliva rossa su quel tratto denudato di pelle. La maschera si sollevò leggermente ma trovò l'opposizione del mento dell'assassino. Arthur non smise di tirarla. Ancora un po'... Fu allora che la punta del coltello balenò verso la gelatina dei suoi occhi. Le ultime schegge di coscienza si infransero insieme al dolore incandescente delle sue cornee trafitte. Sentì il sangue colargli nel fluido vitreo delle coppe orbitali, ma quella sensazione fu come l'ultimo pezzetto di pellicola di una bobina; la parte finale di un'esperienza che gira a vuoto nella memoria, restando per sempre irrisolta. La morte giunse non sotto forma di torpore, bensì come un risveglio. A poco a poco, in Arthur crebbe la consapevolezza dell'assenza di dolore - in realtà, l'assenza di qualsiasi sensazione. Cercando di allungare una mano per toccare qualcosa, scoprì che i vincoli della carne non lo limitavano più. Arthur si espanse come vapore dentro un vuoto nuovo, strano, un'oscurità che non era nera perché vi regnava una totale assenza di colore. Questa sensazione di libertà gli trasmise un'euforia vertiginosa, e si chiese se non gli fosse possibile distendersi sino a toccare le stelle. Qualcosa lo bloccò: una barriera che sul piano fisico non lo sfiorò neppure, ma che esercitò sulla sua mente una repulsione magnetica, ingabbiando i suoi pensieri disincarnati. Cercò di imporre la sua stessa sostanza contro quella forza, tentando di individuare una fessura nelle pareti che gli si stringevano attorno, ma non fece che incontrare la stessa resistenza da tutte le parti. La gabbia di Faraday, si ricordò, e il panico crepitò nella sua anima. Sempre più sconvolto, agitò, sospinse e sbatté la sua essenza immateriale contro le pareti della gabbia, ma invano: concepita per tenere le altre
anime all'esterno, ora bloccava la sua all'interno. Intrappolato e solo, Arthur McCord brancolò alla vana ricerca di una via d'uscita dalla stanza nera che lui stesso aveva costruito. 12 Una porta aperta Giunsero al negozio di Miccord solo nel primo pomeriggio. A quell'ora, Dan aveva una fame da lupi e Natalie aveva un pessimo aspetto. Avevano preso un volo notturno di ritorno dal New Hampshire e non erano arrivati in albergo prima dell'una di notte. Dan era riuscito ad addormentarsi un paio di volte in aereo, pur sapendo che Natalie aveva tremato di paura ed era rimasta sveglia per tutto il viaggio. Clark, ovviamente, aveva insistito che si incontrassero al quartier generale del LAPD alle sette in punto, e così avevano trascorso l'intera mattinata ad analizzare il caso. La colazione mattutina aveva sostenuto Dan solo fino alle dieci, o giù di lì, e ora un mal di testa da fame gli martellava le tempie. «Sei sicura di non voler tornare più tardi?» chiese a Natalie, che se ne stava accoccolata sul sedile del passeggero come uno straccio appena strizzato. «Penso che qualcosa da mangiare e un po' di sonno, nell'ordine, potrebbero farti bene.» «No, devo far sapere ad Arthur quello che sta succedendo.» Afferrò la maniglia della portiera e si mise a sedere, composta. «Ci vorrà solo un minuto.» «Come preferisci.» Dan scese e girò intorno alla macchina per unirsi a lei all'ingresso del negozio. Trovarono la porta aperta, tuttavia l'androne era ancora al buio quando vi misero piede. «Stasera il signor McCord è in ritardo con l'accensione delle lanterne.» Dan attivò la sua sottile torcia elettrica mentre la porta di ingresso si chiudeva, lasciando fuori la luce del sole che illuminava la strada. «E se fosse fuori, da qualche parte?» Con una spinta, lei aprì la porta della stanza delle sedute, facendo tintinnare il campanello con un'allegria fuori luogo in quel buio pesto. Ancor prima di abbassare il fascio di luce sul pavimento, Dan avvertì qualcosa di appiccicoso sotto le scarpe, e sentì il puzzo di sudore fetido e di ruggine. Natalie fece un passo malfermo all'indietro e si aggrappò alla porta mentre il tenue fascio di luce si posava sulla sagoma di fronte a loro. Lo stomaco vuoto di Dan perse ogni appetito. «Dio. Dio...»
Il sangue si era diffuso su gran parte del pavimento gommato al centro della stanza. Arthur McCord giaceva nel mezzo di quella pozza rappresa, i piedi nudi orientati in direzione della porta. Sulla parte anteriore della sua giacca del pigiama si apriva uno strappo che i metteva in mostra dei graffiti rossi incisi sulla pelle chiara del torace: PORTA APERTA ENTRATE PURE Più in basso rispetto alla scritta, l'enorme ventre di McCord presentava uno squarcio che andava dallo sterno all'ombelico. Le sue mani erano state collocate su entrambi i lati della ferita, come per divaricarne i margini al fine di consentire l'accesso al suo intestino. L'assassino aveva attentamente dipanato l'intestino tenue del cadavere, lo aveva estratto dalla ferita e lo aveva sistemato intorno al corpo, realizzando un cerchio talismanico. La gola di McCord evidenziava ferite da filo d'acciaio e arma da taglio, e i suoi occhi viola erano stati estratti dalle orbite. «Natalie...» Dan fece per condurla fuori dalla stanza, ma si paralizzò quando il raggio della torcia si posò sul suo viso. Aveva gli occhi quasi completamente bianchi, le cornee rivoltate sotto le palpebre tremolanti. Lei tornò ad appoggiarsi alla porta, come se fosse ferma sul davanzale della finestra di un grattacielo. La sua testa ebbe un duplice sussulto e, con una rotazione, le sue iridi tornarono a farsi vedere. «Boo... grazie a Dio sei qui.» Dan si irrigidì, sentendo il registro basso, forte della voce. Quando lei fece per guadagnare rapidamente l'uscita, le bloccò la strada. «Il signor McCord, immagino.» Natalie si gettò contro di lui, ringhiando. «Lasciami uscire!» «Non ancora.» Dan attraversò la soglia e lei emise un brontolio frustrato: era chiaro che McCord non era abituato ad avere un corpo così leggero. L'agente afferrò il polso di Natalie. «Chi è stato?» «Non lo so!» «Che cos'ha visto?» McCord smise di lottare. «Non ho visto niente. Lui mi ha cavato gli occhi con un pugnale.» «E perché mai qualcuno avrebbe voluto ucciderla?» «Le ho detto che non lo so!» «Chi altri sapeva che lei era qui, oltre a Natalie?»
Per la prima volta, McCord fece una pausa per valutare la domanda. «Lucy Kamei... e Simon.» «Solo loro? Ne è certo?» «Sì, ne sono certo! Tutti gli altri sono morti.» McCord si agitò nuovamente, deformando i tratti del volto di Natalie. Dan si accorse di quanto fosse stretta la presa delle sue dita sul braccio della donna, di quanto rischiasse di farle male. Allentò la presa e si fece da parte. Fu McCord a sospingere Natalie, a farla passare davanti a Dan e a farle attraversare l'ingresso principale. Dan li seguì fuori, fin sul marciapiedi, e vide McCord piegare la faccia, la faccia di Natalie, in direzione di quel sole gradevole e sollevare le braccia di lei come un uccello che distenda le ali. Natalie indugiò per un momento e poi fece per accasciarsi. Dan la raccolse prima che cadesse e la adagiò sotto gli occhi viola dell'insegna del negozio. Mentre lei posava la guancia contro il muro, Dan richiamò il numero di Clark memorizzato sul suo cellulare. Addio pranzo, ormai, ma non importava: l'appetito lo aveva perso comunque. Congestionato persino nell'ora meno affollata, il traffico lungo Vine Street procedeva ora al passo rallentato di una processione funeraria, mentre degli agenti in uniforme del LAPD cercavano inutilmente di allontanare i curiosi dal negozio di McCord. Una squadra specializzata nella raccolta delle prove era entrata a fotografare la scena e a localizzare gli indizi, mentre all'esterno Clark metteva Dan sotto torchio. «Vuoi dirmi come mai non sapevamo nulla di questo tizio?» gli chiese il suo superiore, con una voce che ricordava da vicino quella del vicepreside del liceo di Dan. «Ho dato un'occhiata agli archivi sulla scomparsa di McCord, nel caso ci fosse un rapporto con gli omicidi» mentì Dan. «Con l'aiuto di Natalie, sono riuscito a individuare alcune nuove piste a proposito dei suoi spostamenti recenti, ma ho preferito non sviare l'indagine prima di avere in mano qualcosa di concreto. Sfortunatamente, l'assassino lo ha trovato per primo.» Quella storia non fece una grande impressione su Clark. «Attendo di poter leggere il tuo rapporto ufficiale, agente Atwater» mormorò per poi rivolgersi a un tecnico della scientifica che era appena uscito dal negozio. «Cos'avete trovato?»
«Dovremo aspettare il rapporto del medico legale, ma la lividezza della pelle e la pressoché totale assenza di decomposizione del corpo indicano che la morte si è verificata nell'arco delle ultime ventiquattro ore; forse meno di quindici ore fa.» Il tecnico, una donna in carne di nome Estelle Blair, abbassò la lavagnetta e si sollevò le lenti sulla fronte. «Sembra che l'assassino abbia cercato di strangolare McCord e poi lo abbia pugnalato al collo per finirlo. La dimensione della ferita da taglio indica un coltello da caccia o un'altra lama simile.» «Trovato delle armi?» «Solo un revolver calibro 45 che, a quanto sembra, apparteneva alla vittima. Sono stati sparati due colpi. Abbiamo trovato una pallottola nel muro, ma stiamo ancora cercando l'altra. Il foglio di alluminio che copre praticamente ogni cosa rende difficile l'individuazione dei fori. Non sappiamo se parte del sangue che c'è lì dentro sia dell'assassino, ma ne stiamo mandando molti campioni in laboratorio per le analisi del caso.» «Qualcos'altro?» «Alcune impronte di scarpe impresse nel sangue che sembrano corrispondere alle orme raccolte nel cortile sul retro della casa dei Gannon. Inoltre, la serratura dell'ingresso principale evidenzia segni di effrazione. Chiunque sia entrato, sapeva come forzarla.» Clark annuì e riportò l'attenzione su Dan. «La Lindstrom è pronta a parlare?» Dan lanciò uno sguardo in direzione di Natalie, che era ancora accasciata sul marciapiede come un mucchio di stracci, la testa sulle ginocchia. «Diamole tempo fino a domani.» «E se facessimo alle sette di stasera?» «Domani, Earl.» Clark guardò Natalie e fece una smorfia. «D'accordo. Domani mattina.» «Lui e Blair si fecero da parte per consultarsi. Dan si accovacciò accanto a Natalie e le diede un colpetto sulla pelle nuda del braccio, come un padre che svegli la propria figlia da un incubo. Lei alzò la testa e socchiuse gli occhi, troppo stanchi perfino per piangere. «Sei pronta ad andare via?» Lei acconsentì con un cenno praticamente impercettibile del capo e si lasciò aiutare ad alzarsi in piedi. 13
Un momento vulnerabile Natalie non parlò per tutto il viaggio di ritorno all'Embassy Suites, nemmeno quando Dan si fermò a comprare la cena in un Carl's Jr.18, di quelli in cui si viene serviti in macchina. Benché lei non avesse ordinato niente, Dan le prese un'insalata di pollo, pensando che fosse quanto di più vicino a un cibo da salutisti ci fosse sul menu. Una volta in albergo, lei insisté a voler fare a piedi gli otto piani di scalini che portavano alla loro stanza, poi scivolò dentro al letto senza neppure togliersi le scarpe. Seduto a gambe incrociate sul suo letto, Dan osservò, preoccupato, la sagoma stremata della donna, mentre mangiava il suo cheeseburger. Paura, angoscia, spossatezza - era stata spremuta per bene e aveva tutto il diritto di perdere conoscenza per qualche ora. Ma le stava succedendo qualcos'altro? Avrebbe fatto bene a portarla in ospedale? «La sai una cosa? Quella roba ti ammazzerà» mormorò lei con voce assonnata. Dan sorrise e sgranocchiò una patatina fritta. «Sempre meglio che morire di fame. La vuoi un po' dell'insalata che ti ho preso?» Lei sbadigliò. «No. Però, grazie del pensiero.» «La metto nel minibar. Magari potrai mangiarla a colazione.» Mise da parte il suo cheeseburger. «Come ti senti?» «In questo momento? Non tanto bene.» L'espressione di lei si fece tormentata, come se fosse in preda a un dolore improvviso. «Dan, raccontami qualcosa della tua vita. Qualcosa di carino - qualcosa che a te piaccia.» Quella richiesta lo sorprese. «Be'... di cose ce ne sono parecchie...» Ma lì per lì non gli venne in mente nulla. Senza dubbio, gli ultimi due anni non avevano offerto molto di cui rallegrarsi: il processo, il trasferimento a Quantico, il divorzio da Susan... e tutto il resto. Ripercorse a ritroso la sua memoria finché non giunse all'ultima cosa buona che potesse venirgli in mente. «La primavera scorsa ho attraversato una fase difficile, con il divorzio e tutto il resto.» Si schiarì la voce. Avrebbe preferito che la sua lingua non sapesse di cipolle. «In quel periodo mi ero sistemato in un appartamento in Virginia e non conoscevo davvero nessuno, a eccezione delle persone che incontravo sul lavoro. Mio fratello Sam sapeva che avrei passato la Pasqua da solo e così mi chiese di andare a trascorrere il fine settimana con la sua famiglia sulle sponde di Clear Lake, nella California settentrionale, dove abitava.
«Quando vi giunsi, scoprii che aveva invitato anche i miei genitori. Penso che volesse sorprendermi.» Dan si mise a ridere. «Poiché mamma e papà occupavano la stanza degli ospiti, io venni sistemato sul divano del soggiorno. Ma la cosa non mi dispiacque - mi ricordava i giorni in cui dormivo a casa dei miei nonni. «Comunque, arrivai da loro in ritardo - non ero riuscito a trovare altro che un volo del sabato pomeriggio e la casa di Sam è a un paio d'ore di macchina dall'aeroporto di Sacramento -, ma la mia nipotina Tina era rimasta sveglia ad aspettarmi e volle a tutti i costi che decorassimo le uova pasquali proprio quella sera.» Rise e si asciugò un occhio con il dorso della mano. «Ed eccoci lì - io e Tina, mamma e papà, Sam e sua moglie Liz - a tingere le uova sode, alle undici di sera, la vigilia di Pasqua. Credo che mi siano rimaste le dita color porpora per una settimana intera. «Il mattino seguente mi lasciarono dormire mentre loro andavano in chiesa. In seguito, Liz mi ha detto che Tina non era riuscita a trattenere le risa, passandomi accanto in punta di piedi mentre russavo sul divano. Quando rientrarono, io ero sveglio e uscimmo tutti insieme a fare un'abbondante colazione pasquale nella piccola caffetteria del paese. Dopodiché, dovetti seguire mia nipote con un cestino, mentre raccoglieva tutte le uova di plastica che Sam le aveva nascosto in cortile. «Nel pomeriggio, papà e io ci sedemmo a pescare sul pontile di Sam. Non dicemmo granché, e non prendemmo neanche un pesce, ma non fece nessuna differenza. Poi consumammo la cena pasquale e nessuno mi domandò del mio divorzio o di come stesse andando il mio nuovo lavoro.» Dan deglutì e si accorse che la sua bocca si era fatta secca e impastata. «E fu allora che capii che, indipendentemente da ciò che avrei fatto, indipendentemente dai miei fallimenti... questa gente mi avrebbe sempre accolto a braccia aperte.» Il suo sguardo si perse nel vuoto, mentre il suo cheeseburger mangiucchiato giaceva, dimenticato, sui sacchetti di carta aperti davanti a lui. «Dev'essere bello.» Le molle del letto di Natalie cigolarono mentre lei cambiava posizione. «Pasqua. Tu ci credi?» «Ehm... Cosa intendi dire?» «Lo sai. Rinascita. Rinnovamento. Qualunque cosa.» Dan sentì il rinculo della 38 nella sua mano, vide la giacca a vento imbottita sul petto sanguinante dell'uomo e la sua faccia disorientata che lo fissava. «Dio, spero di sì.» E, rivolgendole uno sguardo, vide lei distesa su un fianco, gli occhi chiusi. «Tu cosa pensi?»
Natalie non rispose per parecchio tempo e Dan pensò che si fosse addormentata. «Ho sentito delle storie» disse infine. «Storie su gente che non puoi richiamare indietro. Anime che i Viola non sono in grado di convocare, che vanno in luoghi fuori dalla nostra portata.» «Credi a quelle storie?» Dan si studiò i palmi delle mani, come per cercare di leggere il proprio futuro. «Voglio dire, da qualche parte devono pur esserci delle anime felici, giusto?» «Non lo so.» Quella domanda parve turbarla. «Non riesco mai a parlarci, con quelle felici.» Dan non sapeva bene come ribattere, così si limitò a infilare cheeseburger e patatine fritte nel sacchetto e a gettare il tutto nella spazzatura. Subito prima che andasse in bagno a lavarsi i denti, lei gli disse ad alta voce: «Grazie. Grazie per avermi fatta entrare nella tua Pasqua.» Lui fece una pausa sulla soglia per risponderle con un sorriso. «Grazie per avermela fatta venire in mente.» Quando Dan tornò, lei russava piano. Decise di lasciare la luce accesa comunque. Più tardi, Dan si contorse al ritmo di un incubo. Nel sogno, si trovava in un vicolo. La lampadina ingabbiata sopra la porta emetteva un bagliore innaturale, un biancore talmente intenso da accecare, e comunque freddo. Phillips e Ross non si vedevano; la strada era deserta, a eccezione di una figura a capo chino che dava la schiena a Dan. Abbassando lo sguardo, vide che quella figura era ferma in una pozza che emanava un riflesso color sangue. Lo straniero indossava un giubbotto e dei jeans sudici, proprio come quelli dell'uomo che aveva ucciso. Tuttavia, quando sollevò la testa, la luce illuminò soltanto la pelle bianca del suo scalpo rasato. Benché l'istinto suggerisse a Dan di scappare, l'ineluttabilità dell'incubo lo costrinse ad avvicinarsi a quella figura. L'eco del vicolo trasformò i suoi passi in parole d'accusa sussurrate. La figura si voltò: era Natalie. I suoi lineamenti recavano il marchio di un'altra faccia, e nei suoi occhi scintillava un gelido rancore. Dan si arrestò, mentre lei sollevava il braccio per puntare una pistola contro di lui. Era la stessa 38 di Dan. «Mi hai strappato la vita» disse con un tono di voce basso che lui non aveva mai sentito prima. Ma Dan sapeva chi era stato a parlare, ancor pri-
ma che lei gli scaricasse la pistola contro il petto... Si svegliò di soprassalto, dimenando le gambe come se il letto sotto di lui fosse sul punto di rovesciarsi. Sprofondando nuovamente nel cuscino, si premette una mano sul viso, in attesa che il battito del suo cuore si placasse. «Non riuscivi a dormire?» Fu come se quelle parole fossero venute fuori dal suo sogno. Dan scattò a sedere e gettò un'occhiata sul letto accanto al suo. Mancava ancora parecchio all'alba, e la luce schermata della lampada rivestiva la stanza di una pesante coltre gialla. Natalie era seduta sul bordo del letto e indossava solo la sua maglietta di taglia abbondante. Doveva essersi spogliata dopo che Dan si era addormentato, perché si era tolta anche la parrucca e le lenti a contatto e ora lo fissava con occhi che esprimevano un'insaziabile intensità. «Sembri teso.» Con le gambe nude divaricate, si fece scorrere i polpastrelli sulla parte interna delle cosce, in alto e in basso. «Forse posso aiutarti.» Con flessuosa nonchalance, si alzò e gli si avvicinò. Il ricordo del sogno balenava ancora nella sua mente. Dan trasalì mentre lei gli accarezzava una guancia. La notte è un momento estremamente vulnerabile per me, gli aveva detto. «Tu non sei Natalie. Chi sei?» L'angolo sinistro della sua bocca si contrasse in un sorriso sghembo. «Natalie sta dormendo. Lasciala riposare.» Gli tolse una ciocca di capelli dagli occhi. «Chiunque tu sia, te ne devi andare. Subito.» Non sapendo bene cos'altro fare, Dan bluffò. «Nella valigia ho una pistola a scariche elettriche. Sono pronto a usarla, in caso di bisogno.» «Aspetta! Nessuno vuol fare del male a Natalie. Tanto meno io.» La sua voce assunse un'affettata inflessione ritmica, un tono spossato e divertito allo stesso tempo. «Sono una vecchia conoscenza di sua madre.» Prima che Dan potesse alzarsi oppure spostarsi sull'altro lato del letto, lei gli cinse la vita con la gamba destra e gli si mise a cavalcioni. Facendo il possibile per ignorare il calore delle sue anche, Dan cercò di farsi venire in mente i nomi dai dossier sui Viola scomparsi. «Gig Marshall?» Di nuovo quel ghigno da fuori di testa. «Shh, shh.» Con un dito gli sfiorò le labbra, come per rimproverarlo, dopodiché, alzandosi sulle cosce di lui, con uno strattone sollevò le lenzuola che coprivano il suo corpo. Mentre riassumeva la posizione precedente, la lanugine dei suoi peli pubici gli
sfiorò la pelle. Il suo pene si indurì senza la minima autorizzazione, e un'ondata di eccitazione e di disgusto gli attraversò il corpo con un fremito. «Sylvia Perez?» Ignorando la domanda, lei allargò le mani sul suo torace e gli massaggiò i pettorali, abbassandosi a sufficienza perché Dan riuscisse a sentirne il fiato sulla guancia. Dan la afferrò per i polsi, tenendola ferma mentre confrontava la sua espressione con quelle delle foto dei dossier relativi alle vittime. Non sembrava corrispondere, a meno che... Rimase a bocca aperta. Quel sorrisino lo aveva già visto prima. «Russell Travers.» Lei sghignazzò come uno scolaro sorpreso a fare il verso al proprio insegnante. «È tutto a posto. Ora sono una ragazza.» Tornando a dimenarsi contro la spalliera, Dan cercò di sovrapporre gli spessi occhiali da vista e le guance incurvate del cinquantatreenne sul viso delicato di Natalie. Fu allora che gli venne in mente di aver letto che Travers era gay. «A lei non spiacerà» lo rassicurò Travers, parlando con la voce di Natalie. «Le piaci. Lo sai, vero? Gliel'ho letto nella mente.» Il respiro di Dan si fece così rapido da frastornarlo. Allentò la presa sui polsi di Natalie. Lei gli fece scivolare le braccia sul torace e se lo avvicinò ai seni. Non indossava un reggipetto e Dan scorse la sagoma dei suoi capezzoli duri attraverso il tessuto della maglietta. Quel sorriso sghembo scomparve. «Per favore» lo implorò Travers. «Dove sto io, non c'è nessuno da toccare. Ti prego, toccami.» Lo baciò sulla bocca, ma Dan serrò le labbra e la respinse. «Andiamo, Natalie. Svegliati!» «Per favore.» Dimenandosi contro di lui, gli infilò le mani sotto la maglietta. I suoi palmi erano ustionanti sulla pelle di Dan. «Ho avuto tanto freddo e sono stato tanto solo...» Dan le inclinò il mento delicatamente, per poterla guardare negli occhi. «Mi dispiace.» Poi le diede uno schiaffo. Una sberla a mano aperta, abbastanza forte da farle male. La sorpresa la fece trasalire e la scosse come un cane punto da un insetto. I muscoli del suo viso si contorsero e si dimenarono, e il desiderio negli occhi si attenuò, trasformandosi in sconcerto. Si ritrasse da lui,
asciugandosi le mani sulla maglietta come per purificarle, e il suo sguardo si spostò dal proprio corpo al suo, in preda al panico. «Mio Dio! Che è successo?» Lui le tese una mano. «Natalie...» Con le movenze di un crostaceo, Natalie sgambettò giù dal Ietto e si nascose il viso tra le mani. «Cosa hai fatto?» Dan non avrebbe saputo dire a chi avesse urlato quella domanda. «Va tutto bene! Non è successo nulla.» Dopo essersi staccata da lui, corse in bagno e sbatté la porta. Lui fece un sospiro e si lasciò andare nuovamente contro la spalliera. Un'altra brillante mossa di Atwater. Attese diversi minuti prima di attraversare la stanza e di bussare alla porta del bagno. «Natalie? Ti va di parlare?» Nessuna risposta. Dan rimase fermo vicino alla porta per un altro minuto, poi tornò a letto senza bussare ulteriormente. Lo sguardo fisso sul soffitto, osservò il giallo della stanza cedere il posto alla luce azzurrognola del sole che, appena prima dell'alba, filtrava dai vetri fumé dell'albergo. Alla fine, il telefono accanto a lui squillò, dandogli la sveglia. Non ce n'era bisogno. 14 Diapositive «Dicci che cosa si vede qui» ordinò Clark, seduto sull'altro lato del tavolo delle conferenze. I suoi occhiali riflettevano l'immagine proiettata del corpo sventrato di Arthur McCord. Dan sbatté gli occhi assonnati e puntò il laser sullo schermo dietro di lui. «È chiaro che l'assassino ha sistemato il corpo per umiliare e dominare la vittima. Il cadavere è stato disposto con i piedi rivolti verso la porta, in maniera da avere il massimo impatto emotivo su chiunque fosse entrato in quella stanza. Posizionando le mani di McCord all'interno dell'incisione addominale, l'assassino dimostra la sua autorità assoluta sulla vittima. Il cerchio...» Si schiarì la voce, «...il cerchio disegnato dall'intestino tenue indica che l'autore del delitto concepisce l'uccisione come una sorta di sacrificio rituale, forse per guadagnarsi un potere mistico di qualche tipo.» Strinse il telecomando nella mano sinistra e colse l'opportunità per rivolgere un'occhiata a Natalie, mentre cambiava diapositiva. Lei aveva scelto
di indossare una parrucca di capelli neri lisci che le scendevano fino alle spalle e un paio di lenti a contatto che conferivano ai suoi occhi una pastosa tinta marrone cioccolato. Non lo aveva nemmeno guardato per tutta la mattinata e, anche in quel momento, se ne stava seduta a occhi chiusi. Forse si era addormentata, o forse, semplicemente, non era in grado di tollerare gli orrori di quella presentazione. L'ultima foto era un ingrandimento delle parole incise sul petto di Arthur McCord. Il medico legale aveva piazzato un righello all'interno della fotografia per mostrare l'esatta dimensione delle lettere. «Con l'umorismo grottesco del gioco di parole sulla 'porta aperta', l'assassino svilisce ulteriormente la vittima. Inoltre, suggerisce che praticare questo sacrificio gli consentirebbe di stabilire un collegamento con il mondo dell'aldilà - un collegamento in precedenza appannaggio del Viola estinto.» Clark si appoggiò contro lo schienale della sedia e stese le dita. «E quale sarebbe secondo te il profilo del killer?» «Da ciò che Natalie ha visto dei ricordi della vittima, sembrerebbe che McCord abbia cercato di sfilargli la maschera. Benché non ci sia riuscito, ha visto abbastanza della sua gola per farci ritenere che si tratti di un maschio caucasico prossimo alla trentina e dal mento appena rasato. Giusto?» Lei sollevò la testa per il tempo appena necessario a fare un cenno di assenso. «Il fatto che sia stato in grado di sopraffare McCord, un uomo decisamente più grosso e più pesante, indica che l'assassino è in ottima forma fisica. Il medico legale non ha trovato segni di abuso sessuale sul corpo e, nella scelta delle vittime, il nostro uomo non ha evidenziato preferenze in relazione a razza, età o sesso. Pertanto, non sembra che la gratificazione sessuale sia il principale motivo del crimine. «Piuttosto, si direbbe che il killer sia un individuo che conosce intimamente i Viola e che nutre una rabbia intensa nei loro confronti, una rabbia forse dovuta a un'invidia irrazionale per la loro capacità di comunicare con i morti. Uccidendoli, intende dimostrare che gli è superiore. È possibile, inoltre, che sia convinto di appropriarsi del potere delle vittime. Ciò spiegherebbe come mai abbia cavato loro gli occhi.» Dan schiacciò nuovamente il telecomando e sullo schermo apparve un ingrandimento del volto di McCord: orbite vuote rosse e profonde, righe di sangue e di fluido vitreo a solcargli le guance. Le rughe sulla fronte turbata di Clark si fecero ancora più profonde. «Perché?» Con uno scatto della mano, indicò la faccia martoriata che era
comparsa sullo schermo. «Perché? Prima, questo tizio non ci faceva nemmeno trovare il cadavere. Adesso, invece, li sta decorando per impressionarci. Perché?» Dan posò il telecomando sul tavolo. «I serial killer tendono a mostrare un'escalation nella violenza dei loro delitti. La loro rabbia si autoalimenta e, a ogni omicidio, diventano sempre più audaci, più vogliosi di intensificare le proprie fantasie violente. È possibile che questo tizio abbia avuto bisogno di 'fare pratica' prima di avere il coraggio di ostentare la propria opera. «La bella notizia è che più l'assassino si fa sicuro di sé, più ci permette di conoscerlo. Si direbbe che le incisioni che ha utilizzato per formare le lettere sul petto di McCord siano state fatte da sinistra a destra, il che suggerisce che l'assassino sia destro.» Clark strabuzzò gli occhi. «Il che restringe il campo a poco più di metà della popolazione maschile bianca. Hai trovato qualcosa, Yolena?» Seduta di fronte a Natalie, il detective Garcia scosse il capo. «Non molto. Le orme sporche di sangue prelevate dal pavimento del negozio sono le stesse trovate nel cortile posteriore dei Gannon.» «Il che significa che abbiamo a che fare con una sola persona.» «Non necessariamente. Quelle impronte non corrispondono alle orme trovate sul tappeto della camera da letto di Laurie Gannon, dunque o l'esecutore si è cambiato le scarpe oppure siamo in presenza di una seconda persona.» «Meraviglioso. E cosa mi dite dei colpi esplosi dalla pistola di McCord?» «Abbiamo finalmente individuato entrambi i proiettili, ma nessuno dei due presentava tracce di sangue.» Estelle Blair, il tecnico della scientifica, consultò la sua tavoletta con i fogli degli appunti. «Tutti i campioni di sangue che abbiamo prelevato dal pavimento appartengono al gruppo sanguigno di McCord, ma li abbiamo comunque inviati al laboratorio perché vi venga effettuato il test del DNA. Non si sa mai... Sfortunatamente, sembra che McCord abbia mancato il colpo.» «Mmm... E cosa c'entra in tutto questo la bomba piazzata alla Scuola?» Dan accese le luci fluorescenti della sala riunioni. Lo schermo del proiettore si fece quasi completamente bianco, a eccezione delle cavità buie degli occhi di McCord. «Un altro atto di violenza ai danni dei Viola. L'assassino vuole mandarci un messaggio: tutte le vittime presentano dei legami di qualche tipo con la Scuola. Ritengo fortemente probabile che lui ci
abbia lavorato oppure che conoscesse uno degli studenti che la frequentavano. Forse siamo in presenza di un amico o di un familiare.» «Che pensiero allegro. Per quel che può valere, abbiamo già ottenuto i dossier sui dipendenti della Scuola negli ultimi vent'anni.» Clark gettò una pila di cartelline sul tavolo, verso di lui. «Reati di poco conto e illeciti minorili, ma nessuna fedina penale sporca. Seguono dei criteri molto rigorosi nella selezione del personale. E cosa mi dici degli amici di McCord che hai menzionato?» «McCord ha detto che erano in pochissimi a conoscere il luogo in cui si nascondeva dal Dipartimento. Gli unici che restino ancora in vita sono Lucinda Kamei, suo fratello minore Simon e... Natalie.» Lei non batté ciglio. Aveva gli occhi aperti, ora, ma era come se stesse fissando un punto dentro di sé, incurante di quello che stava avvenendo nella sala riunioni. «Mmm. Pensi che questa gente sappia qualcosa?» fu la domanda di Clark. «Forse conoscono altri che avrebbero potuto trovare Arthur McCord. E potrebbero essere il prossimo obiettivo del nostro assassino.» «Dove vivono?» «La Kamei è a San Francisco e Simon McCord è a Seattle. Entrambi sotto la protezione della polizia. Ho pensato che se potessero confrontare i propri appunti con quelli di Natalie, forse salterebbe fuori qualcosa.» «D'accordo, vai pure avanti per questa strada. Ma tieni il cellulare acceso, nel caso avessimo bisogno di te.» Clark, Garcia e Blair si alzarono insieme e fecero per andarsene, ma Natalie restò sprofondata nella sua poltrona. «Immagino che questo significhi che devo prendere un altro aereo. Giusto?» brontolò. Dan sorrise, confortato dal fatto che si stesse lamentando. Tuttavia, quando si ritrovarono da soli, calò di nuovo un silenzio carico di tensione. Dan raccolse il mucchio di cartelline di Clark e se lo mise sotto un braccio, e Natalie lo accompagnò verso l'uscita della sala riunioni senza dire una parola. Lui la bloccò sulla soglia. «Stammi a sentire, quello che è successo...» «Non è stata colpa tua.» Lei evitò il suo sguardo. «Non ero pronta per Russell. Mi dispiace. Non succederà più.» «Non ti preoccupare. Voglio solo che tu sappia che io non... cioè, che niente...»
«Lo so.» Stavolta, lei lo guardò negli occhi e gli sfiorò il braccio. «Vorrei solo che non mi avessi vista in quello stato.» Dentro di sé, Dan sentì Russell Travers stuzzicarlo attraverso la voce di Natalie. Le piaci, sai... Si strinse le cartelline al fianco. «Non so tu, però io sto morendo di fame. Che ne dici se ti offro il pranzo? Niente fast food, promesso.» La malinconia che le offuscava il volto si diradò appena. «In effetti, ora che ci penso, anch'io ho fame.» «Fantastico.» Le aprì la porta. «Insomma... te l'ha mai detto nessuno che stai benissimo coi capelli castani?» Sulla bocca di Natalie balenò un sorrisino. «No, non di recente.» Dan si finse inorridito. «Aspetta un attimo! Quello che vedo è proprio un sorriso? Non puoi essere Natalie. Allora chi sei?» Lei scoppiò a ridere. «Fai attenzione Dan, o rischierai di pentirti che a sorridere sua stata realmente io.» 15 Trasmissioni lontane L'uomo a bordo della Camaro grigio chiara attese fin oltre le tre del mattino, un'ora dopo che l'ultimo dei membri della gang se ne fu andato, prima di uscire dalla sua macchina. Nell'attesa, aveva abbassato il sedile del guidatore in modo che la sua sagoma restasse fuori dalla vista e aveva piegato lo specchietto retrovisore perché riflettesse l'ingresso del negozio abbandonato, sull'altro lato della strada, sul quale ora fluttuavano strisce di lacero nastro giallo della polizia, recanti la scritta CORDONE DI POLIZIA - LIMITE INVALICABILE. Indossando un paio di cuffie Panasonic, infilò la lunga capsula nera di un microfono direzionale nell'angolo del finestrino abbassato e lo rivolse a destra e a sinistra, captando di nascosto frammenti della vita notturna di Vine Street. Clement Everett Maddox era una persona scrupolosa e l'individuazione dell'ex-residenza di Arthur McCord rappresentava per lui una sfida particolare. Dopo l'omicidio, la polizia aveva messo un lucchetto alla porta e aveva sigillato il posto in quanto scena di un crimine. Clem avrebbe potuto tranquillamente superare quegli ostacoli da solo, ma temeva che la polizia avrebbe messo il negozio sotto sorveglianza, almeno per la prima settima-
na. Così aveva deciso che era meglio lasciare che fosse qualcun altro a svolgere il lavoro sporco e a far uscire allo scoperto gli eventuali poliziotti di servizio. La notte dopo che gli sbirri ebbero raccolto le prove e se ne furono andati, Clem aveva acquistato qualche cristallo di crack da uno degli spacciatori operanti sull'Hollywood Boulevard, un cerbero nerboruto di nome Pedro. Clem non aveva assunto quella droga - l'aveva gettata nel water non appena era rientrato al suo motel di infimo ordine - ma l'affare gli aveva fornito una buona scusa per fare due chiacchiere con lo spacciatore. «Hai sentito cos'è successo a quel tizio che parla con i morti a Vine Street? Pazzesco, vero?» «Già.» Certo un omicidio non rappresentava una gran notizia, vista l'attività di Pedro. Ignorò Clem e scrutò la strada, in attesa del prossimo cliente. «Probabile che l'assassino stesse cercando i suoi soldi.» «Già.» Pedro continuò a non rivolgergli lo sguardo. «E tu come fai a saperlo?» «Un tempo gli consegnavo la spesa.» Era una balla, ma bastò a incuriosire Pedro. «Quel pazzo bastardo non usciva mai dal suo negozio, e così mi pagava per andargli a prendere tutto quello che gli serviva. Sempre in contanti. E so per certo che in banca non ci andava mai. Se avessi avuto le palle, ci sarei andato io stesso a cercare il suo nascondiglio segreto.» Lo spacciatore si voltò dalla sua parte, lo sguardo impenetrabile sotto gli occhiali neri come la notte. «Cosa ti fa pensare che i soldi siano ancora lì?» «Il fatto che gli sbirri non siano riusciti a trovare un movente per l'omicidio. L'ho sentito sulla frequenza della polizia del mio CB. Se qualcuno avesse commesso anche un furto, lo avrebbero annotato come uno-ottantasette e un quattro-sessanta - omicidio più furto con scasso.» Era un'altra bugia, ma Pedro non lo sapeva. «E comunque, non fa nessuna differenza. Nel giro di un paio di giorni, gli sbirri metteranno il posto a soqquadro e consegneranno tutto quello che trovano allo Stato.» «Già. Una vera disdetta, hai ragione.» Pedro si allontanò senza degnarlo di uno sguardo. Clem non avrebbe saputo dire se Pedro si fosse bevuto quella storiella o meno, così preparò un piano per penetrare lui stesso nel negozio, nel caso lo spacciatore si fosse defilato per paura. Così, la sera dopo Maddox andò a sistemarsi sull'altro lato della strada rispetto al negozio di McCord, tanto per non rischiare. Contava sul fatto che gli spacciatori di crack tendessero
a essere a loro volta dei tossicomani e trovassero difficile sputare sulla prima opportunità di accumulare del contante in vista della prossima dose. Clem stava per perdere ogni speranza quando, intorno alle due del mattino, Pedro finalmente si fece vedere. Lui e due dei suoi compari si avviarono lentamente lungo la strada per poi fermarsi di fronte al negozio di McCord, dove si unirono a un paio di colleghi che provenivano dalla direzione opposta. Clem ammirò la loro condotta. Si scambiarono un 'cinque' con lo stesso entusiasmo di un gruppo di amici che si fosse incontrato per puro caso. Pedro e i due compari alti e corpulenti si accesero una sigaretta e si misero a conversare, impedendogli, senza accorgersene, la visuale sull'ingresso del negozio. I due amici più minuti, che indossavano giacche ampie troppo pesanti per la calura di quella notte, sparirono alle loro spalle. In cuffia, Clem udì uno scricchiolio attutito quando fecero saltare il vetro alla base della porta. I ragazzi dovevano avere incontrato delle difficoltà per superare i vari strati di rete metallica e di materiale isolante del negozio, perché i tizi che stavano aspettando di fronte all'ingresso fumarono un pacchetto intero di sigarette prima che loro ultimassero l'ispezione all'interno. Finalmente, i due uomini più piccoli apparvero dietro i compari più corpulenti. I loro volti non tradivano alcuna emozione. Clem puntò il microfono direzionale verso di loro. «L'avete trovato?» chiese Pedro a uno di loro. Nelle cuffie di Clem, la sua voce suonò distorta e metallica. «Non qui, amico. Ne parliamo più tardi.» Se era arrabbiato per non aver trovato il denaro, certo non lo dava a vedere. Chissà? rifletté Clem. Magari il vecchio Arthur teneva realmente nascosto qualche dollaro. Pedro e i suoi compari spensero ciò che restava delle loro sigarette, si scambiarono un'altra serie di 'cinque' e si salutarono con la stessa calma con cui erano giunti, lasciando un enorme buco oscuro nella parte inferiore della vetrina del negozio. Clem rimase in macchina a osservare la scena. Non giunse nessuno sbirro. Con il microfono tenne sotto controllo la strada nel miglior modo possibile, ma non si imbatté in nessuna conversazione che, a suo giudizio, potesse essere fatta da poliziotti. L'inserviente di un punto vendita della Winchell's Donut19 uscì sul marciapiede per fumarsi una sigaretta. Un cliente che reggeva in mano una frittella dolce e una tazza si unì a lui e insieme si misero a discutere della prossima stagione dei Lakers. Decisa-
mente, non erano agenti in borghese, decise Maddox. Con un piccolo movimento, si liberò l'orecchio destro dalla cuffia, alzò il volume del CB e provò la frequenza della polizia, la 406 per quella zona. Se qualcuno si era accorto dell'effrazione, non si erano dati peso di denunciarla. Non era sorpreso. In fondo, si trattava di West Hollywood. Quando ebbe la sensazione che procedere non avrebbe presentato alcun rischio, Clem mise da parte il microfono e smontò dalla Camaro. Benché a quell'ora avrebbe potuto tranquillamente attraversare la strada senza porsi troppi problemi, si incamminò verso l'incrocio più vicino e utilizzò le strisce pedonali. Con i capelli arruffati, la faccia non sbarbata e il lercio giubbotto fuori misura dell'esercito, lo si sarebbe facilmente potuto scambiare per un veterano senza fissa dimora. Se uno sbirro lo avesse sorpreso all'interno del negozio, avrebbe finto di essere semplicemente alla ricerca di un posto dove passare la notte. Gli amici di Pedro avevano fatto cadere buona parte del vetro sulla parte inferiore della porta di ingresso, poi avevano tagliato la rete metallica e lo strato di materiale isolante e lo avevano ripiegato su se stesso per proteggersi dai bordi dentellati del buco mentre vi strisciavano dentro. Non scorgendo alcuna minaccia immediata sulla strada, Clem penetrò nell'apertura e si immerse nell'oscurità totale del negozio. Una volta entrato, estrasse una torcia elettrica portatile da una tasca del giubbotto e la utilizzò per passare in rassegna le pareti rivestite di materiale isolante dell'ingresso. Si alzò in piedi, sogghignando. La gabbia di Faraday di McCord lo affascinava e Clem si gingillò con l'idea di produrne una uguale. Facendo il suo ingresso nella stanza delle sedute, Maddox ebbe un lieve sussulto quando la campana tintinnò sulla sua molla, quindi sorrise del proprio nervosismo. Non c'era più niente di cui preoccuparsi, ovviamente. Fece girare rapidamente il fascio di luce della torcia per tutta la stanza. I ragazzi di Pedro l'avevano proprio ridotta male: avevano strappato gli striscioni di tela dalle pareti e squarciato il materiale isolante che vi stava sotto. Con l'eccitazione che gli montava dentro, Clem si infilò la torcia fra i denti mentre sfilava una radiolina AM/FM da quattro soldi della Sony da un'altra tasca del giubbotto e si infilava le cuffie. Dopo averla accesa, la sintonizzò lentamente scrutando il quadrante. La gabbia di McCord funzionava a dovere: Clem non sentì nient'altro che rumore di fondo, come se stazionasse sotto un ponte metallico.
Ma non era musica quella che stava cercando. Quando giunse al termine del quadrante di sintonizzazione, si mise a girare la manopola nella direzione opposta, passando in rassegna lo spettro delle frequenze al contrario, alla ricerca di un sussurro di informazioni in tutto quell'ammasso informe di rumore bianco. E, ancora una volta, camminando per la stanza e facendo oscillare la radio da una parte all'altra, come una bacchetta da rabdomante o un contatore Geiger, non udì nulla. A quanto pareva, il genio era fuggito dalla lampada. Che peccato. Tuttavia, Clem non se ne sarebbe andato a mani vuote. Sapeva che stavolta, cercando qualche oggetto personale del defunto come sempre faceva, avrebbe ottenuto qualcosa di molto più efficace. Toltosi le cuffie, Maddox si inginocchiò sul pavimento e puntò la torcia su una chiazza di sangue rappreso che aveva impregnato il rivestimento in gomma al centro della stanza. La polizia ne aveva prelevato degli abbondanti campioni come prova, ma ne restava ancora parecchio. Il sangue sarebbe stato perfetto per ciò che serviva a Clem. Il sangue era risonante. Mise da parte il suo walkman, infilò una mano in un'altra tasca del giubbotto e ne estrasse un coltellino multiuso svizzero, una scheda da archivio da tre pollici per cinque e una busta trasparente. Sempre reggendo la torcia con la bocca, utilizzò una delle lame del coltellino per staccare dei frammenti sanguigni dal pavimento. Grattò un mucchietto di polvere rugginosa raccogliendola con la scheda e la vuotò nella busta, che sigillò con cura prima di rimettersela in tasca. Guidato da un'improvvisa ispirazione, Clem prese in mano il suo walkman e ne scoperchiò il retro con il cacciavite piatto del coltellino. Raccolta altra polvere color brandy sulla scheda da tre pollici per cinque, ne cosparse i circuiti scoperti della radio e rimise a posto il coperchio. «Presto, Amy» sussurrò. «Non manca più tanto...» Clem infilò la radio e le altre sue cose nelle tasche del giubbotto, tenendo in mano solo la torcia per ritrovare il varco nella porta di ingresso. Non vedeva l'ora di testare la ricezione della radio, non appena fosse uscito dalla gabbia di McCord e avesse messo piede su Vine Street, ma si impose di attendere finché non avesse fatto ritorno alla sicurezza della Camaro. Adagiandosi sul sedile del guidatore con le cuffie Sony in testa, tornò a sintonizzare la radio. Stavolta, a ogni stazione in cui si imbatteva, le sue orecchie traboccavano di scariche di musica e di frammenti di frasi pronunciate dal dj di turno. Tuttavia, non si fermò su una di quelle stazioni,
ma fece qualche pausa nei punti morti di interferenza che le separavano, mettendosi ad ascoltare il caos del rumore di fondo. Era quasi giunto al termine dello spettro di frequenze della radio quando un mormorio appena udibile si insinuò nel sibilo del rumore bianco, come una trasmissione mandata in onda da una stella lontana. Con un sorriso soddisfatto, come se stesse ascoltando una melodia amata, Clem allontanò il pollice dal sintonizzatore del walkman. 16 SBM Le strade del quartiere di San Francisco chiamato Pacific Heights facevano venire in mente gli scaffali stracolmi di una panetteria, con le loro abitazioni in stile vittoriano schiacciate, tetto contro tetto, lungo i marciapiedi, simili ad altrettante confezioni di pan di zenzero. La casa di Lucinda Kamei condivideva con quelle dei vicini lo stesso elegante disegno architettonico. Abbellita da una torretta rotonda sull'angolo sinistro della facciata e ornata di una glassa di vernice bordeaux e di un fregio simile a un merletto bianco come una torta nuziale, riusciva ad apparire pretenziosa e piacevole allo stesso tempo. I cordoli lungo la strada erano già strapieni di autovetture, così Dan e Natalie furono costretti a parcheggiare la Buick che avevano preso a nolo a diversi isolati di distanza. Anche se quel giorno era più riposata, Natalie sembrava ancora sconvolta, e per tutto il tragitto che fecero a piedi verso casa di Lucinda non alzò gli occhi da terra. Per quel che ne sapeva Dan, si era sforzata di non piangere alla notizia della morte di Arthur. E anche di Evan, a volerla dire tutta. Erano solo dei ragazzini a quel tempo... Non può certo averlo ancora in mente, pensò Dan, chiedendosi come mai, d'un tratto, la vita amorosa precedente di Natalie gli stesse così a cuore. Con la coda dell'occhio, cercò di interpretare l'assoluta inespressività del viso di lei. «Stai bene?» Natalie sospirò e raddrizzò le spalle. «Mi sono appena resa conto che... sono passati quasi sei anni dall'ultima volta che ho visto Lucy. Quando insegnava alla Scuola, per me era come una sorella maggiore. Non so... non riesco a credere che sia passato tanto tempo.» «Già. Il tempo vola persino quando non te la passi tanto bene.»
Un tizio dai capelli neri corti era seduto su una sedia a sdraio sotto il porticato della casa e, al loro avvicinarsi, si alzò e scese i gradini per accoglierli. «Salve!» disse, con un bel sorriso. «Cosa posso fare per voi, gente?» Dan notò la camicia hawaiana abbondante che l'uomo indossava sopra la maglietta. Era pronto a scommettere che sotto ci fosse un'automatica dentro un fodero. «Desideriamo parlare per qualche minuto con la signorina Kamei.» «Oggi è piuttosto occupata. Vi spiace se vi chiedo chi siete?» «Dan Atwater, FBI.» Consegnò all'uomo il suo tesserino di riconoscimento. «E lei è Natalie Lindstrom, del DACA.» L'uomo studiò il distintivo e glielo restituì. «Uhm, già. Sapevamo che sareste venuti.» Tese loro la mano e Dan e Natalie gliela strinsero in sequenza. «John Ruehl, della Sezione Sicurezza del Dipartimento. Concedetemi un minuto per controllare cosa sta facendo la signorina Kamei.» Piegò la testa da un lato, indirizzando la voce verso il colletto della camicia hawaiana, e si portò una mano all'orecchio destro. «Ehi, Steph, ho qui con me Atwater e la Lindstrom. Sta bene se li faccio entrare?» Sghignazzò per qualcosa che loro non udirono. «D'accordo, li avverto. A più tardi, piccola!» Fece cenno a Dan e Natalie di seguirlo su per i gradini del porticato. «La signorina Kamei in questo preciso istante sta lavorando, e nessuno può dire quando finirà. Dovrete assumervi la responsabilità di interromperla.» Con un sorrisino compiaciuto, aprì il portone e li fece entrare. La casa li accolse con il profumo di limone del lucido da parquet che regnava al suo interno. Tappeti persiani e cinesi di varie dimensioni disegnavano morbidi percorsi sul pavimento e intarsi di giada e avorio impreziosivano stipetti vittoriani e tavoli di ciliegio e di noce con piano di marmo. Un lampadario di cristallo brillava sulla sommità della scala coperta di tappeti, con le sue lacrime di vetro che rifrangevano minuscole iridi sulle pareti. Dan fece un fischio di apprezzamento, mentre Ruehl sbatteva la porta dietro di loro. «Certo che la tua amica Lucy ci sa fare con gli arredi...» «È uno dei vantaggi di chi lavora alla Divisione Artistica. Per ogni pezzo di musica che trascrive ha diritto a una parte delle royalty.» Dan percepì una traccia di invidia nella voce di Natalie. Le diede un colpetto col gomito e sorrise. «Ma non basta a comprare la felicità, giusto?» «Forse no, però rende l'infelicità molto più agevole.»
Avanzarono, osservando i pezzi di antiquariato degni di un museo da cui erano attorniati, ma una donna ben piantata che indossava dei jeans e una giacca nera corse loro incontro con una mano alzata. «Fermi!» Dan e Natalie si scambiarono uno sguardo perplesso. La donna indicò i loro piedi. «Toglietevi le scarpe.» Atwater, leggermente disorientato, si sfilò le sue Florsheim e le raccolse, rendendosi conto, mentre lo faceva, che anche quella donna era scalza. Lei indicò un tappetino di gomma posto sulla destra dell'ingresso, su cui stazionava già un paio di Reebok. «Laggiù.» Quando lui e Natalie ebbero lasciato le loro calzature nel punto designato, la donna si rilassò. «Spiacente. Non mi credereste se vi dicessi quanto sono vecchi alcuni di questi dannati tappeti.» Mentre parlava, strinse loro le mani. «Stephanie Corbett, Sicurezza del Dipartimento. La signorina Kamei si trova in salone.» Li condusse a una porta scorrevole laccata sulla loro sinistra. All'interno della stanza qualcuno suonava un pianoforte, ripetendo all'infinito lo stesso tema turbolento in una tonalità minore, con impercettibili cambi di tempo e fraseggio. «Se ve lo dovesse chiedere, è stata una vostra idea» sussurrò la Corbett, bussando delicatamente alla porta. La melodia si interruppe con un fragoroso accordo dissonante che echeggiò la rabbia della pianista. «Mein Gott!» Quella voce gutturale continuò a pronunciare delle imprecazioni in tedesco per più di un minuto, prima di zittirsi. La Corbett si affacciò alla porta. «Signorina Kamei?» Alzò nuovamente il pugno per bussare, ma la porta si aprì di qualche centimetro, mostrando la sagoma di una donna. La luce delineava la pallida superficie del suo scalpo nudo. «Non vi avevo forse detto di non importunarmi?» sbottò la donna in un inglese perfetto, mentre si strappava le Briglie dell'Anima dalla testa. Quei dispositivi elettronici ricordavano delle normali cuffiette da stereo, e avevano la stessa funzione cautelativa del pulsante antipanico di uno Scanner dell'Anima. «Il fatto che mi abbiate invaso la casa è di per sé una tragedia. E ora non posso nemmeno più lavorare in pace!» «Spiacente, signora, ma sono arrivati i tizi dell'FBI.» La Corbett fece un passo indietro, consentendo alla Kamei di scorgere i suoi ospiti. «Boo?»
«Ciao, Lucy.» Natalie alzò una mano in segno di saluto. «Quanto tempo...» «Dio, quanto mi dispiace! Entrate, entrate.» La Kamei fece scorrere la porta in modo da farli passare. Dan rivolse alla Corbett uno sguardo di gratitudine, mentre la donna tornava a occupare la sua postazione fuori dalla stanza. Lui e Natalie entrarono in una sala rettangolare rivestita di pannelli di quercia color oro. Le tende di pizzo ammorbidivano la luce del sole che si insinuava dalle finestre arcuate dove la base della torretta rotonda formava un angolo con la stanza. Lì la temperatura era notevolmente più fresca che nel resto della casa, e sul tavolo, in un angolo, poggiava un umidificatore che rilasciava un vapore freddo. La spiegazione di quella climatizzazione controllata era chiara: il salone ospitava almeno una mezza dozzina di strumenti musicali d'epoca. Quella stanza ricolma di oggetti conteneva un pianoforte primordiale dalla cassa a forma di scatola triangolare e persino un arpicordo ancora più antico, abbellito da una serie di intarsi in madreperla e avorio, placcato d'oro. In una vetrinetta facevano bella mostra di sé una viola e due violini che Dan immaginò dovessero essere degli Stradivari o qualcosa di altrettanto prezioso. A creare un contrasto elettrico con gli altri oggetti della stanza, una chitarra Stratocaster dal manico rotto dominava la parete più vicina alla porta, affiancata da stampe dai colori sgargianti di un ballerino di Keith Haring e del ritratto serigrafato di Marilyn Monroe realizzato da Andy Warhol. Le due Viola si abbracciarono come due gemelle che si fossero perse di vista per molto tempo. «Arthur me l'ha detto» disse la Kamei non appena Natalie aprì la bocca per parlare. Proprio come la sua casa, Lucinda Kamei era un'intrigante amalgama di apparenti contraddizioni. Avendo letto il suo dossier, Dan sapeva che aveva quarantasei anni, ma la testa calva e la pelle liscia e del colore del latte di soia non gli avrebbero consentito di indovinarne l'età. I suoi lineamenti giapponesi rendevano gli occhi viola ancor più straordinari, dato che in lei sarebbe stato più ovvio immaginarseli castani. Benché attorniata da un'eleganza di fine Ottocento, indossava una maglietta senza maniche dei Led Zeppelin e un paio di pantaloni neri di una ruta. «Ci perdoni l'intrusione, signorina Kamei» le disse Dan. «Sfortunatamente le nostre faccende non possono attendere.» «Capisco. E voi dovrete scusare Ludwig per il suo caratteraccio.» Pronunciò quel nome 'Loodvig'. «A volte può risultare davvero scontroso.»
Quella frase detta con noncuranza lo lasciò per un momento inebetito. Indicò il pianoforte, su cui erano appoggiati una vecchia penna stilografica, un calamaio e i fogli sparpagliati di una partitura incompiuta. «Vuol dire che...?» «Già. Ora che è di nuovo in grado di sentire la musica, ha voglia di continuare la sua opera. Quel piano gli apparteneva; io lo utilizzo come contatto quando collaboriamo. Lei deve essere l'agente Atwater.» L'espressione sorpresa di Dan l'aveva fatta sorridere. «Arthur mi ha detto che probabilmente sareste passati a farmi visita.» «Già.» Prima o poi, pensò Dan, mi abituerò all'idea che delle persone defunte mi parlino alle spalle. «Che cosa le ha raccontato il signor McCord della sua morte?» «Più o meno quello che vi aspettavate.» «A me ha detto che lei, Natalie e suo fratello eravate le uniche persone vive che sapevano dove trovarlo.» La Kamei trasalì. «E allora? Non penserà certo che noi...» «Credo che Dan intenda dire che l'assassino avrebbe potuto sapere di Arthur solo da uno di noi» si intromise Natalie. «Ti viene in mente qualcuno che possa averti spiata quando gli hai scritto o gli hai fatto visita?» La Kamei rifletté, ma poi sospirò e scosse la testa. «Forse il Dipartimento o la Scuola, ma non avrebbero mai assassinato Arthur. Lo vorrebbero vivo.» «Se fossero risaliti a lui, qualcuno del Dipartimento o della Scuola sarebbe potuto venirne a conoscenza?» chiese Dan. «Diciamo, per esempio, un impiegato.» «Forse.» Dan estrasse delle carte dal taschino interno della giacca e le aprì. Erano fotocopie di alcune delle foto degli impiegati della Scuola che Clark gli aveva dato. «Riconosce qualcuna di queste persone?» Lei passò in rassegna i fogli che lui le dava. «Alcune le ricordo, certo, ma è trascorso molto tempo. Non passo dalla Scuola dall'ultima lezione di musica che vi ho tenuto, un paio d'anni fa.» «Le viene in mente qualcuno che ha avuto degli strani comportamenti? Qualcuno che avrebbe potuto nutrire del rancore nei confronti del signor McCord oppure dei Viola in generale?» «No. Il Dipartimento ha sempre escluso gli sciroccati attraverso test psicologici di ingresso e controlli sul passato.» «E ha mai detto a qualcun altro dove si trovava il signor McCord?»
«Mai.» Natalie, perplessa, si morse le labbra. «E che mi dici di Simon?» La Kamei le rivolse un'occhiataccia risentita. «Arthur era suo fratello. Non ha niente a che fare con tutta questa faccenda.» Dan attese che una delle due continuasse il discorso, ma fu come se entrambe le donne fossero riluttanti ad affrontare quell'argomento. «Simon McCord aveva qualcosa contro Arthur?» La Kamei fece un respiro secco. «Arthur e Simon avevano idee diverse sulle rispettive carriere...» Natalie sbuffò. «Lo puoi dire tranquillamente. Simon è un invasato di religione.» La Kamei fece una smorfia, ma non la contraddisse. «Simon è convinto che noi Viola abbiamo ricevuto le loro competenze da Dio e che abbiamo il sacro dovere di utilizzare la nostra capacità per illuminare l'umanità. Quando Arthur ha abbandonato il Dipartimento si è incazzato non poco.» Dan guardò Natalie. «Pensa che Simon sarebbe stato capace di spifferare tutto al Dipartimento sul conto di Arthur?» «No. Semmai, Simon era invidioso di tutta l'attenzione di cui Arthur era fatto oggetto. Si considera una sorta di 'über-Viola', e ha sempre pensato di vivere della luce riflessa del fratello. Non avrebbe certo voluto che Arthur tornasse a lavorare per il Dipartimento.» Rivolse alla Kamei un'occhiata prudente. «Ma... forse sarebbe disposto a fare di Arthur un esempio, come monito per gli altri Viola che intendano andarsene.» Dan sospirò. «E questo confermerebbe un'idea di lui, siamo d'accordo. Ma che dire, allora, delle altre vittime?» «Be', la madre di Laurie Gannon ha ritirato la figlia dalla Scuola. E io so che Evan e Sondra detestavano il lavoro che svolgevano a Quantico e che è tristemente noto per fare andare i transfert fuori di testa. Quanto a Jem, Gig e gli altri... non saprei. L'insoddisfazione professionale è molto sentita fra di noi.» «E la bomba alla Scuola? Perché uccidere tutti quei ragazzini?» Natalie scrollò le spalle. «Simon un tempo insegnava alla Scuola, prima che il Dipartimento organizzasse il proprio corso di addestramento per transfert presso la sua comune nel New Mexico. Da allora, non ha fatto altro che insistere presso il Dipartimento perché gli venisse assegnata la direzione della formazione di tutti i Viola. Far saltare in aria la Scuola avrebbe eliminato la concorrenza.» La Kamei scrollò il capo. «Simon è uno strambo, però non posso credere
che sia capace di tanto.» «Forse ha ragione, ma sarà comunque meglio che andiamo a fare due chiacchiere con il signor McCord. Si rende conto, signorina Kamei, che finché l'assassino non è sotto chiave lei è in grave pericolo? È certa di essere al sicuro qui?» Il suo sorriso non riuscì a celare un certo sdegno. «Non preoccupatevi per me. Sono agli arresti domiciliari finché questa storia non sarà finita. Se solo starnutisco, Steph e John accorrono.» «Se lo dice lei. Però mi chiami, se decide di trasferirsi in un luogo più sicuro.» Dan le diede il suo biglietto da visita. «Grazie per l'aiuto che ci ha dato.» Lei annuì, mostrando d'un tratto i segni dell'età sul suo volto preoccupato. «Se c'è qualcos'altro che posso fare...» «Ci terremo in contatto.» Natalie salutò la Kamei con un abbraccio. «Lucy.» «Boo.» Le fece scorrere la mano sulla schiena, su e giù. «Non è necessario che tu attenda la morte di qualcuno per trovare la scusa per farmi visita, lo sai.» «Lo so.» Si separarono. Entrambe avevano gli occhi lucidi, ma - come sempre non avevano nessuna intenzione di piangere. Mentre lui e Natalie stavano per andarsene, Dan lasciò che il suo sguardo indugiasse sulla Stratocaster bruciacchiata appesa al muro. «Lavora anche con Jimi?» chiese alla Kamei. Lei gli rivolse un altro sorriso amaro. «No, Jimi non rientra nei canoni del Dipartimento: non è un SBM.» «Un cosa?» Natalie scoppiò a ridere. «Un 'Soggetto Bianco Morto'.» La Kamei si avvicinò alla chitarra e passò i polpastrelli sulla chiazza annerita su cui Hendrix aveva spruzzato del fluido da accendino, dando fuoco alla Strat. «Mi sono fatta un regalo, acquistandola a un'asta di Christie's. Ho dovuto fare un'offerta superiore a quella di Paul Alien e dell'Hard Rock Café. Ho cercato di usarla per convocare Jimi - per conto mio, senza che il Dipartimento ne sapesse nulla. Però lui non risponde mai.» Abbassò la mano. «Ma mi dà speranza.» Dan rivolse un'occhiata a Natalie, che rispose annuendo con lo sguardo: sì, era una delle storie che aveva sentito. «Grazie» disse Dan alla Kamei, con voce roca. Mentre lasciavano la ca-
sa e si incamminavano verso l'automobile, Dan strinse le mani a pugno perché Natalie non si accorgesse che stavano tremando. «Hai voglia di farti un viaggio in aereo fino a Seattle?» le chiese, cercando di alleggerire l'atmosfera. «Fa qualche differenza?» «No. Ma almeno potremmo prima andare a cena. Mi ricordo un ristorantino dove si mangiano degli ottimi frutti di mare...» Voltandosi dalla sua parte, Dan si avvide delle macchine parcheggiate sull'altro lato della strada. Una Toyota Camry, più o meno a metà dell'isolato, aveva il finestrino del conducente abbassato. Man mano che avanzavano, il bagliore accecante sul parabrezza si attenuò, consentendo a Dan di dare un'occhiata all'interno della macchina. L'uomo seduto dalla parte del conducente abbassò la macchina fotografica e gonfiò una enorme bolla rosa fino a farla scoppiare. Dan ripensò improvvisamente alla Scuola e alla gomma appena masticata che gli si era attaccata a una suola. Quando lui rallentò il passo, Natalie si fece guardinga. «Che succede?» «Non lo so.» Evitò di fissare la macchina per non allarmare il guidatore. «Perché non vai a tenere compagnia all'agente Ruehl per un minuto?» Le diede un colpetto di incoraggiamento sulla schiena, indicandole la casa. Lei aggrottò la fronte, ma fece come le aveva suggerito. Continuando a guardare la Camry con la coda dell'occhio, Dan attraversò la strada, guardando l'orologio per dare la sensazione di essere un uomo molto indaffarato, con una serie di appuntamenti da rispettare. Giunto sul marciapiede opposto, continuò a camminare con lo stesso passo risoluto spedito, ma non precipitoso. La macchina non si mosse. Lui affrettò il passo. Era a una distanza di circa cinque metri quando la Camry mise in moto. Dan, mettendosi a correre, estrasse il distintivo e lo sventolò davanti a sé. «FBI! Esci dalla macchina. Subito!» La macchina retrocedette di qualche centimetro, dopodiché sgusciò dal cordolo. Dan cercò di bloccarle la strada prima che potesse accelerare, ma il guidatore scartò, sfilandogli accanto. L'uomo al volante era un maschio privo di caratteri distintivi, che portava un cappellino da baseball. Dan estrasse la 38, con un gesto istintivo, ma si bloccò prima di premere il grilletto. Imprecò e corse dietro alla Camry mentre si allontanava sulla strada con uno stridio e fumo di pneumatici. La tenne sott'occhio abbastan-
za a lungo da leggere il numero della targa, che ripeté a se stesso mentre osservava la macchina scomparire. Dopo aver rinfoderato la pistola, annotò il numero sul taccuino e si avviò di nuovo verso la casa della Kamei per riprendere Natalie. La sua espressione doveva averle fatto intuire quanto fosse furibondo. «Cos'è successo?» «Credo di essermi appena lasciato sfuggire il nostro principale indiziato.» 17 A metà strada Natalie lo osservò dal sedile del passeggero della Buick. «E allora?» Dan richiuse il cellulare e se lo riattaccò alla cintura. «La Camry è stata presa a nolo da un'agenzia locale della Hertz. L'agenzia controllerà i documenti del cliente e vedrà se riesce a rintracciarlo in modo che la polizia possa sottoporlo a un interrogatorio.» «Pensi davvero che sia stato lui?» Dan tamburellò con le dita sul volante. «Spero di no...» Natalie gli mise una mano sulla spalla. «Non potevi certo sparare a un uomo solo perché masticava un chewing gum.» «Forse no. Però, avrei potuto aprirgli un foro in uno pneumatico se non avessi avuto tanta paura a premere il grilletto.» «Meglio sicuri che pentiti, giusto? Non si può richiamare un proiettile, una volta che il colpo è partito. Lo sai, vero?» «Oh sì, eccome se lo so...» Al momento, né l'uno né l'altra sprizzava gioia. Dan, ovviamente, aveva aggiunto l'ennesimo svarione alla sua incredibile serie negativa, mentre Natalie non aveva fatto altro che scivolare in uno stato depressivo ancora più profondo del solito. Forse il dolore che aveva provato per Arthur aveva finalmente fatto presa su di lei. Oppure, forse è per Evan, aggiunse una vocina sarcastica dentro di lui. Non dimentichiamoci del caro, compianto Evan. A ripensarci, si corresse Dan, sforziamoci di scordarci di Evan. «E ora che si fa?» chiese Natalie. Dal tono della sua voce si sarebbe detto che tutte le possibili alternative fossero ugualmente cupe. Dan conosceva un solo sistema sicuro per farla reagire: avrebbe dovuto
fare in modo che lei si arrabbiasse con lui, che si arrabbiasse davvero. Si stampò un sorriso allegro in faccia e si sfregò le mani. «Ho una notizia cattiva e una buona. La notizia cattiva è che Clark non vede perché mai non dovremmo andare a Seattle a fare due chiacchiere con Simon McCord. La notizia buona è che il nostro volo non parte che alle nove di stasera, il che significa che abbiamo dieci ore da far passare. Spassiamocela un po', ti va?» Lei lo guardò di traverso. «Pensi che sia una buona idea andarcene in giro per la città mentre c'è un assassino a piede libero?» «Un bersaglio mobile è più difficile da colpire.» Natalie si pizzicò il dorso del naso. «Dan, apprezzo il tuo tentativo di tirarmi su, ma non sono proprio dell'umore giusto.» «Lo so.» Quasi senza battere ciglio, le prese la mano. «È solo che non sopporto di vederti vivere chiusa in una scatola.» Lei si divincolò dalla sua presa. «E con questo, cosa vorresti dire?» «Che ho vissuto in una scatola per gli ultimi vent'anni e non ne è valsa la pena.» «Cosa c'entra la tua vita con la mia?» Dan si voltò dalla parte del finestrino. «Volevo solo dire che non dovresti avere paura...» «Che cosa? E io sarei una specie di sfigata perché faccio le scale invece di prendere l'ascensore e non mangio cibo-spazzatura? Non devo aver paura... senti da che pulpito viene la predica! Tu non hai qualcuno lì fuori che vuole aprirti la pancia e strapparti gli occhi.» «Hai ragione» replicò Dan delicatamente. «E nascondendoti forse riuscirai a sopravvivere più a lungo. Ma che senso ha vivere più a lungo se resti imprigionata in una stanza per tutta la tua vita?» Quelle parole parvero mandare in corto circuito la rabbia di lei. Natalie sprofondò sul sedile con l'aria di una persona sconfitta. «Già. Uno stanzone nero.» «Cosa?» «Non fa niente.» Era imbronciata come una bambina di otto anni in castigo. «A ogni buon conto, dov'è che volevi andare?» Dan mise in moto. «Nell'ultimo posto in cui all'assassino verrebbe in mente di cercarti.» Replicò alla sua frustrazione con un sorriso enigmatico. Lei restò immusonita, e così Dan accese la radio per colmare il silenzio dell'ora di viaggio che li avrebbe portati fino a Santa Clara.
«Non starai facendo sul serio, vero?» brontolò Natalie quando finalmente giunsero al Great America, il parco dei divertimenti della Paramount. Dan si immise nel gigantesco parcheggio. «Devi ammettere che qui il rischio di essere sbudellata si riduce notevolmente.» «Già. E così morirò di infarto. In tutta onestà, pensi davvero che rischiare la vita su delle montagne russe male in arnese corrisponda alla mia idea di svago?» «Rilassati. Non sei costretta a farti un giro. Possiamo limitarci a passeggiare e a ridere di tutta la gente che fa la coda.» Pagò il biglietto al custode nel gabbiotto di ingresso e parcheggiò la macchina il più vicino possibile al cancello principale. «Pronta?» chiese, togliendosi la cravatta e sbottonandosi il colletto della camicia. Natalie sospirò, ma scese insieme a lui. Acquistarono i biglietti di ingresso e Dan offrì a Natalie una cena al Pasta Connection, quanto di più distante da un fast food il Great America avesse da offrire. Dopo mangiato, passeggiarono lungo la via centrale del parco, assorbendo il paesaggio caleidoscopico di luci multicolori e il fragore nel quale si sovrapponevano rock'n'roll e musica circense, mentre si spostavano da un'attrazione all'altra. Natalie era attratta dalla grande varietà di montagne russe di cui il parco disponeva e che portavano nomi minacciosi come 'The Demon', 'Greased Lightnin' e 'Invertigo'. I tortuosi binari di legno e metallo e le grida sfondatimpani degli avventori esercitavano un fascino perverso su di lei. Studiò con attenzione la gente che si faceva un giro, come se appartenesse a una specie aliena. L'espressione affascinata sul suo volto era un misto di incredulità e di ammirazione fanciullesca, mentre li osservava agitare le braccia sopra le teste, come per accrescere la loro sensazione di impotenza. «Perché? Perché uno dovrebbe provarci?» Dan osservò i passeggeri dell'Invertigo, costretti a compiere una giravolta di 360 gradi. «A volte, avvicinarci alla morte ci fa sentire più vivi.» «Forse.» Natalie non sembrava convinta e tuttavia non allontanò lo sguardo dalle persone che, gridando a più non posso, stavano andando su e giù per gli avvallamenti e intorno alle curve delle montagne russe, stupita dalla loro distaccata indifferenza al pericolo. Mentre stavano calando le ombre della sera, fecero ritorno al cancello principale e al mastodontico Columbia Carousel, una giostra a due piani. Dan toccò un gomito di Natalie. «Ti andrebbe?» Lei sgranò gli occhi, restando a bocca aperta, fissando il corteo rotante
di cavalli e animali da circo in fibra di vetro, e scosse la testa. «Avevi detto che non sarei stata costretta a provarne nemmeno una!» «Lo so, lo so, ma questa non fa altro che girare in tondo. È provvista di cinture di sicurezza, e poi di fianco a te ci sarò io. Non succederà nulla. Inoltre... scommetto che non sali su una di quelle da quando eri bambina.» La bocca di Natalie si rimpicciolì notevolmente e lei fissò la giostra come se fosse un poster affisso alla vetrina di un'agenzia di viaggi. «Non ci sono mai salita.» Lui le prese delicatamente la mano. «Fidati di me.» Lo fissò profondamente negli occhi per un istante, poi gli consentì di accompagnarla tra quella folla di bambini, genitori e coppie di innamorati che stavano facendo la coda. La mano di Natalie si strinse sulla sua quando la giostra rallentò, per poi fermarsi, e gli avventori del giro appena concluso smontarono. L'inserviente sganciò la catena che teneva indietro la folla in attesa e fece loro cenno di avanzare. Salirono sulla piattaforma e Dan condusse Natalie a un destriero bianco dalla criniera e dalla coda fluenti, la bocca paralizzata in un nitrito infinito. «Infila il piede destro nell'anello metallico che vedi e fai ruotare l'altra gamba...» «So come si fa. Sono terrorizzata, non stupida.» Rifiutò il suo tentativo di darle una spinta e afferrò la maniglia per montare in sella. Dopo essersi allacciata la cintura di sicurezza di tela, strinse l'asta metallica di fronte a sé con tanta forza da farsi sbiancare le nocche. «Se muoio, farò in modo che Lucy mi faccia tornare, solo per il gusto di farti un dispetto.» Un'inserviente donna fece un giro della giostra e indicò a Dan la tigre bianca accanto allo stallone di Natalie. «Si segga, signore, si parte.» Dan diede una lieve pacca su un ginocchio di Natalie e montò sulla tigre. «Tieni duro. Andrà tutto bene.» La giostra si mise in movimento con uno scossone, e le loro cavalcature iniziarono ad andare su e giù. «Yippie!» gridò Dan, rivolgendo a Natalie un sorriso di incoraggiamento. Lei continuò a rivolgere lo sguardo verso l'esterno, in direzione del turbine sempre più frenetico di gente e luci che circondavano la giostra. Ma la curvatura della sua schiena e la pressione delle ginocchia sui fianchi del cavallo fecero capire a Dan che ogni muscolo del suo corpo era teso come una corda di violino. Si stringeva all'asta con la stessa forza che avrebbe usato se si fosse trattato dell'albero maestro di una nave che stava affon-
dando. Il senso di colpa gli spense il sorriso. Non avrei dovuto esagerare, pensò, mentre la giostra si arrestava. Saltò giù dalla tigre e andò da Natalie, che era paralizzata sul suo destriero in fibra di vetro. «Grazie per esserti dimostrata una persona di spirito. Salta giù, che andiamo a prendere un gelato.» Lei lo guardò dall'alto, gli occhi scintillanti. «Non possiamo fare un altro giro?» Quella sera Dan non riuscì a convincerla a provare una delle tante montagne russe, ma fecero altri cinque giri sulla giostra prima di andarsene. Uscendo dal parco, Dan comprò del gelato alle creme, che consumarono camminando lentamente verso l'automobile. Natalie scoppiò a ridere mentre lui scivolava sul sedile del guidatore, sgranocchiando quel che restava del suo cono. «Hai la faccia tutta sporca di cioccolato.» Inumidì l'angolo di un tovagliolo spiegazzato e gli pulì la guancia. Dan rise, ma la giocosità del suo tocco lo bloccò. Con la coda dell'occhio, osservò il suo viso mentre gli esaminava le labbra. «Così dovrebbe andare bene» concluse lei, sorprendendolo mentre la fissava. I loro sorrisi svanirono. Oh-oh, Dan pensò. Beccato. Natalie ritrasse le mani con aria colpevole. «Stasera mi sono divertita.» Giocherellò con il tovagliolo sporco che teneva sulle gambe. «Non ricordo nemmeno l'ultima volta che mi sono divertita tanto.» Evitarono di guardarsi in faccia. «Ne sono felice.» Dan sorrise e infilò la chiave nel meccanismo di accensione. «Mi auguro solo che possa compensare il volo di stanotte...» «Aspetta.» Gli afferrò la mano. «Qualcuno sta bussando.» Il polso di Dan si mise a battere forte mentre Natalie si portava i palmi alla fronte e mugugnava qualcosa tra sé. «Cosa posso fare? Vuoi che andiamo da qualche parte?» «No, non fa niente. Io so chi...» Il suo corpo ondeggiò come in preda a contrazioni da parto, la testa prese a picchiare contro il finestrino e Dan temette che potesse rompere il vetro. Ma le convulsioni passarono presto e lei si ricompose con calma sul sedile e piegò il capo dalla parte di Dan, gli occhi semichiusi, come dei pistacchi che facessero capolino dai loro gusci. «Natalie?» Quando lei non rispose, Dan si accigliò. «Con chi sto parlando?»
«Il mio nome è Jeremy, figliolo, ma i miei amici mi chiamano Jem.» Si espresse con una inflessione del sud, la voce roca, e piegando le mani, come se soffrisse di artrite. Prima o poi mi abituerò all'idea, fu il voto di Dan. «È un onore incontrarla, signor Whitman» disse ad alta voce. «Dan Atwater, FBI. A cosa devo questo piacere inatteso?» Whitman gli rivolse un sorriso indolente che fece venire in mente a Dan limonate e lunghi pomeriggi. «Faccio solo quello che posso per proteggere il gregge finché il lupo è in agguato.» Quella frase fece sussultare la memoria di Dan. «Lei ha già fatto visita a Natalie in passato, nella stanza dell'albergo. Aveva detto qualcosa a proposito di un lupo travestito da pecora.» Il sorrisino di Whitman si spense. «L'uomo che state cercando ci conosce, dentro e fuori. Potrebbe addirittura essere uno di noi.» «Simon McCord, per esempio?» Whitman rimuginò quell'idea, succhiando il labbro superiore di Natalie, come se le si fosse incastrato tra i denti un brandello di carne. «Sa, ho cercato di parlare al piccolo Simon, ma ogni volta che mi avvicino a lui mi respinge. Quel ragazzo ci sa davvero fare con i suoi mantra difensivi.» «Cosa pensa di lui?» «Non saprei. Simon è una strana figura, non c'è dubbio. È molto pieno di sé. Si tiene in perfetta forma, d'accordo, ma sarebbe stato in grado di spezzare il collo della ragazzina come se si fosse trattato di una gallina? Non lo so. Però, alcuni dei suoi studenti sarebbero in grado di farlo.» Dan inarcò un sopracciglio. «Laurie Gannon ha detto che lei era lì quando è morta...» Whitman annuì, il logoro fatalismo di un vecchio impresso sui lineamenti freschi di Natalie. «Ho cercato di aiutarla, ma sono giunto troppo tardi. Ci vuole più tempo a trovare un Viola quando nessuno ti ha convocato, e io me ne sono andato in giro come una palla da flipper per cercare di avvertire tutti. Alla fine, però, ci sono arrivato - almeno le ho risparmiato qualche sofferenza.» «Non è stato lei a raccontarle dell'Uomo Senza Volto?» «Già. A lei e ad altri ragazzini. Penso di aver spaventato Laurie a sufficienza perché implorasse sua madre di toglierla dalla Scuola. Non che sia servito a granché...» La tensione dei muscoli di Dan si allentò e per poco non gli passò di mente il fatto che quel vecchio ora occupava il corpo di una giovane don-
na. «Laurie ha visto un uomo alla Scuola - di aspetto giovanile, capelli e baffi biondi - un uomo che ha messo una bomba. Natalie dice che quell'uomo e l'uomo che ha ucciso Laurie hanno avuto un'apparente esitazione. Se n'è accorto anche lei?» Whitman fece una smorfia. «Non ci ha pensato su due volte quando mi ha strangolato. Ma Laurie? Già... qualche esitazione con lei l'ha avuta.» Per un po', restarono in silenzio a riflettere, come due persone che danno da mangiare ai piccioni su una panchina del parco. Dan aveva paura di porre la domanda che non smetteva di girare intorno al nastro di Möbius della sua mente. Alla fine, la fece comunque. «Come ci si sente?» Whitman lo studiò attraverso gli occhi semichiusi di Natalie, che in quel momento parevano immensamente antichi. «Vuole saperlo davvero?» Un groppo alla gola bloccò la risposta di Dan. Chinò il capo, sotto il peso dello sguardo intenso dell'altro. «Resti uguale a quello che eri da questa parte» disse pacatamente Whitman. «I tuoi pensieri, le tue emozioni, i tuoi ricordi - diventano il tuo mondo, laggiù. E puoi lasciare che la tua anima si incroci con quella di un altro, creando una condivisione perfetta.» «Tutto... tutto qui?» Dan arrossì, sentendosi d'un tratto stupido e superficiale. «Ho sentito dire che ci poteva essere qualcosa... d'altro.» «Certo che si può.» Whitman sorrise. «Vede, da questa parte molta gente è così occupata che non è in grado di rilassarsi, nemmeno quando se ne va. Quella gente resta bloccata a metà strada, timorosa di andare avanti, desiderando sempre di tornare indietro. È per questo che bisogna mettersi in pace con il mondo finché si è in tempo, per essere pronti ad andarsene quando giunge l'ora.» «Allora, è vero che qualcuno prosegue?» «Certo. Io stesso proseguirei se non dovessi vegliare sulla piccola Boo.» Abbassò lo sguardo sulle braccia pallide e sui seni sporgenti di Natalie, e rise. «La mia donna creperebbe dalle risate se mi vedesse nei panni di una ragazzina bianca!» Lo stesso Dan non poté fare a meno di ridere, a dispetto - o, forse, a causa - della macabra assurdità della situazione. «E, a ogni buon conto, come mai tutti la chiamano 'Boo'?» «Be'...» Jem sghignazzò come se gli fosse venuta in mente la battuta principale di una barzelletta particolarmente amata. «Quando Natalie si presentò alla Scuola per la prima volta, era un timido cucciolotto, timoroso
della sua stessa ombra. Arthur sosteneva sempre scherzando che gli bastava dire 'Boo!' per farla sobbalzare e trapassare il soffitto. E così fu lui ad appiccicarle quel nomignolo, e il resto di noi fece altrettanto.» La sua espressione si fece più seria. «Figliolo, vegli sempre su Boo. Non è ancora pronta ad accomiatarsi da questo mondo.» «Lo so.» Dan si sforzò di guardare dritto in quegli occhi senza fondo. «Lo farò, signor Whitman.» «Le ripeto, figliolo, che mi chiamo Jem.» Ammiccò. «Sarà meglio che prenda commiato da lei prima che le mie buone maniere vadano a farsi benedire. Dan, è stato un piacere.» Si protese all'indietro e chiuse gli occhi di Natalie. «Jem?» Whitman si riscosse e guardò Dan. «Spero di incontrarla di nuovo, presto.» «Senza offesa, figliolo,» replicò il vecchio tristemente «ma spero proprio che non succeda.» Appoggiò la schiena al sedile del passeggero e parve cadere preda di un sonno atteso a lungo. Il corpo di Natalie si rilassò e, un istante dopo, lei riprese conoscenza con un fremito. Dan le tenne la mano mentre tornava a orientarsi. «Bentornata.» «Hai fatto la conoscenza di Jem.» Si massaggiò le tempie. «Ti ha dato qualche idea nuova?» «Più o meno.» Dan mise in moto e sorrise. «Sei pronta per un altro trasferimento aereo, Boo?» «Non chiamarmi in quel modo!» Il sorriso di Dan si spense. Ottimo lavoro, Dan. Perché non le sventoli semplicemente una fotografia di Evan in faccia? «Scusa. Non intendevo offenderti.» «Non sono offesa.» Guardò fuori dal finestrino. Man mano che si allontanavano, il bagliore del luna park si attenuava. «È solo che non ne posso più di avere paura.» 18 Simon Su Seattle era scesa una pioggerellina grigia e deprimente quando, l'indomani mattina, giunsero al condominio dove abitava Simon McCord.
Quell'edificio di sei piani, una funzionale torre quadrata nel quartiere cittadino di Capitol Hill, era decisamente uno smacco per un uomo del calibro di McCord. Stando alle parole di Natalie, possedeva un ranch di una ventina di acri nel Nuovo Messico, dove addestrava i Viola accuratamente selezionati che chiamava i suoi 'discepoli'. Tuttavia, Simon e un paio dei suoi studenti si erano recati fino a Seattle per assistere la polizia locale in un'indagine sull'assassinio di diverse prostitute, e la municipalità aveva preso in affitto un intero piano di quella torre come rifugio sicuro per il suo gruppo. Entrando nel foyer del palazzo, Dan e Natalie si trovarono davanti la porta grigia e ammaccata di un vecchio ascensore. Dan si asciugò la faccia dalle gocce di condensa. «Ebbene?» Natalie studiò la porta decrepita per un istante. «Ho intenzione di limitare i rischi che prenderò ai soli giri in giostra» disse, e proseguì oltre. Sorridendo, Dan la seguì verso le scale di emergenza. Quando giunsero di fronte all'ingresso del sesto piano, un uomo di grande stazza con un ciuffo anni Cinquanta che non nascondeva l'incipiente calvizie ripiegò il quotidiano che stava leggendo e si alzò dalla sedia per intercettarli. La 45 che portava al fianco dichiarava chi fosse ancora prima che si presentasse. «Lo avete mancato di poco» disse, quando gli chiesero di vedere Simon McCord. L'agente Bender - questo era il suo nome - della Sicurezza del Dipartimento si espresse in un accento di Brooklyn, tenendo i pollici infilati nella cinta dei pantaloni sportivi di puro poliestere. «Lui e quei suoi studenti sono andati a visitare un cimitero.» Natalie si fece sospettosa. «Un cimitero?» «Già. Per fare pratica nel riportare in vita dei morti o qualcosa del genere. Insomma, sapete quanto sono strambi quelli...» Dan si avvide della tensione di Natalie, ma lei non disse di essere a sua volta una di quegli 'strambi'. «Il signor McCord sa che la sua vita è in pericolo, vero?» chiese Dan a Bender. «È esattamente quello che gli abbiamo detto noi! Ma è proprio ossessionato da quel cazzo di addestramento.» Natalie scoppiò a ridere. «Tipico di Simon.» «Ci può dire quale cimitero sono andati a visitare?» chiese Dan. «Merda! Qual era?» Bender si grattò la fronte come per farsi venire in
mente la risposta. «Il nome non me lo ricordo più, ma è il posto in cui è sepolto Bruce Lee.» «Grazie. Sono sicuro che lo troveremo.» Natalie lo guardò storto, ma non disse nulla finché non furono nuovamente nella tromba delle scale. «Vuoi davvero incontrare Simon in un cimitero? Perché non mi fai camminare su un campo minato, allora?» «Scegli tu: questo, oppure te ne resti qui ad aspettarlo insieme a Bender. E poi, qual è il problema?» Lei emise un sospiro mentre imboccavano il pianerottolo del quarto piano e riprendevano a scendere. «Te ne accorgerai...» Il cimitero di Lake View si trovava poco più a nord del Volunteer Park di Seattle e aveva fornito il luogo di riposo finale a Doc Maynard, Henry Yesler e molti dei padri fondatori della città. Lì, i torvi mausolei e le vistose lapidi del passato occupavano lo stesso suolo delle pietre tombali piatte, piantate nel terreno, del presente. Dan e Natalie si incamminarono lungo la strada asfaltata che si dipanava per tutto il parco commemorativo. L'aria intorno a loro era satura di rugiada e fragrante di erba bagnata. Il grigiore del giorno aveva attenuato il verde acceso dei prati ondulati e degli alberi secolari, facendo sì che il paesaggio apparisse piatto e monocromatico, come una Polaroid sottoesposta. Dan scrutò la necropoli, alla ricerca di Simon McCord. «Dove potrebbe essere?» Natalie indicò un gruppo eclettico di obelischi e di sarcofagi sulla loro destra. «Tra le tombe più vecchie; è meno probabile che le bare siano rivestite di metallo. Un Viola può sfruttare un corpo sepolto come elemento di contatto purché di mezzo non ci siano parti metalliche. L'anima salta dal cadavere al transfert proprio come una scintilla.» Dan si fermò ai margini del prato. «È per questo che...?» «Non mi succederà niente.» Fece un respiro profondo e assunse una postura più eretta, rapita in uno sforzo di concentrazione in stile yoga. Pronunciando una litania a beneficio di se stessa, attraversò il tappeto erboso, facendo il possibile per girare intorno alle eventuali tombe che si fosse trovata davanti. Forse fu solo il potere dell'autosuggestione, ma Dan avvertì la stessa riluttanza a calpestare i defunti. Quando attraversò inavvertitamente l'estremità di una tomba, balzò indietro come un bimbo terrorizzato all'idea di infilare un piede in una crepa del marciapiede.
Dopo aver girato attorno a un gruppo di pini, giunsero a un'ampia radura delimitata da file ordinate di pietre tombali. Tre figure bianche, di una luminosità spettrale in quel pomeriggio cupo, stavano passando in mezzo ai monumenti. Sembravano dei fantasmi da cartone animato, avvolti in lenzuoli. Man mano che si avvicinava a loro, Dan notò che quei lenzuoli in realtà erano delle vesti monacali. Una di quelle figure così abbigliate camminava impettita davanti alle altre, guidandole a rapidi passi attraverso una fila di tombe. «È lui» disse Natalie, per poi riprendere i suoi muti brontolii. McCord e i suoi due allievi si erano rasati la testa e tenevano le mani giunte di fronte a sé. Una serie di tic distorceva le loro espressioni, e le loro voci si alzavano e si abbassavano, in un bizzarro coro di esclamazioni apparentemente incoerenti, come apparecchi radiofonici sintonizzati su stazioni diverse. Dan si accorse che si trattava si altrettante anime. McCord e i suoi discepoli stavano entrando e uscendo da persone defunte con la stessa facilità che avrebbero mostrato se si fosse trattato di vecchi cappelli. Una donna che indossava un completo fece per impedire a Dan e a Natalie di raggiungere il gruppo di McCord. «Mi dispiace, signori, ma questa sezione del cimitero è temporaneamente chiusa. Siete venuti a far visita a una persona cara? Penso che andremo via in pochi...» Dietro di loro si udì un urlo. Uno degli studenti di McCord era inciampato ed era caduto sulle mani e sulle ginocchia dietro una lapide di granito cesellato. McCord rimase in attesa del suo protetto con la stessa insofferenza di un altezzoso maestro di scuola. Lo studente, un adulto dal volto da bambino, dalla carnagione rosea e pallida e dalle sopracciglia così bionde da risultare invisibili, si alzò in piedi a fatica, gridando con voce sottile e acuta. «Margery? Margery?» Si ghermì la testa, mentre gli occhi gli sporgevano dalle orbite, in preda a un terrore apoplettico. «Dio mio, dove sono? Margery!» Se la diede a gambe levate in quel giardino nel quale spuntavano lapidi ovunque, inciampando ripetutamente nell'orlo della veste. La litania di Natalie si intensificò e le parole iniziarono a farsi chiare: «'Il Signore è il mio pastore, non manco...'» McCord si rivolse all'altro allievo, un afroamericano androgino dalla faccia squadrata, astuta. «Vagli dietro» gli ordinò con voce che stillava sdegno. L'apprendista piegò il capo e si mise alle costole del discepolo bizzoso.
Distratta da quel siparietto drammatico, la donna dal completo tornò a rivolgersi a Dan e Natalie. «Sembra proprio che finiranno prima di quanto pensassi. Se non vi dispiace attendere qui...» «A dir la verità, volevamo scambiare quattro chiacchiere con il signor McCord.» Dan le mostrò il distintivo del Bureau. «Ah! Agente Atwater... eravamo stati avvisati che ci avrebbe fatto visita.» Diede un'occhiata sospettosa a Natalie, che era ancora impegnata a recitare il Salmo Ventitré, come una sorta di artistica panegirista. «Vedo se è disponibile.» La donna andò da McCord e scambiò qualche parola con lui. L'uomo rivolse un sorriso a Dan e a Natalie e fece loro un cenno, chiaramente felice dell'opportunità di accordare un'udienza imperiale. A Simon McCord le lenti a contatto colorate non servivano; lasciava che i suoi occhi viola brillassero in tutto il loro inquietante splendore. Benché Simon fosse più sottile e più giovane del compianto fratello, Dan notò immediatamente la somiglianza del naso grosso e della faccia ampia e piuttosto piatta. Con quei lobi penduti, le grandi orecchie di Simon spiccavano sulla sua testa calva come ali di farfalle mutanti. «Signor Atwater, che piacere incontrarla.» Giunse le mani davanti a Dan, con una manifestazione affettata di devozione. «E tu... tu devi essere la Lindstrom, giusto?» Le labbra di Natalie si mossero freneticamente, ma le sue parole erano sprofondate nuovamente nel silenzio. «Con quella parrucca tutt'altro che elegante, quasi non ti riconoscevo. Sei troppo impegnata con quel tuo mantra difensivo per salutare il tuo vecchio istruttore?» Senza battere ciglio, McCord salì sulla tomba che gli stava davanti e si posizionò esattamente all'altezza del cuore del corpo sepolto sotto di lui. «Forse ti serve un corso di aggiornamento...» Natalie serrò le labbra. Il suo volto si indurì, trasformandosi in una maschera di freddo risentimento. «Non sarà necessario, Professore.» Natalie salì sulla tomba più vicina e si mise le mani sulle anche, assumendo una postura di noncuranza beffarda. McCord scoppiò a ridere. «Forse non ti sei dimenticata tutto quello che ti ho insegnato. Immagino siate venuti qui per la morte di mio fratello.» «Vuol dire il suo assassinio» lo corresse Dan. «Dato che lei è una delle poche persone ancora in vita che sapevano dove si nascondesse Arthur, ci chiedevamo se ha qualche idea di chi possa averlo ucciso.» «Nessuna idea. Non mi sono mai preoccupato di conoscere gli sposta-
menti di Arthur e delle sue conoscenze.» «Sono forse io il custode di mio fratello?20» fu la cupa citazione di Natalie. McCord le rivolse un'occhiataccia. «Non è un segreto che Arthur e io non siamo mai stati... molto uniti. Ma era comunque mio fratello, e non tradirei mai il mio stesso sangue.» «Non sembra particolarmente affranto per il suo assassinio.» Tornò a sfoderare un sorriso di carità paterna. «Perché so che la morte non è altro che un preludio alla Vera Vita.» Natalie tremò tutta, inorridita, ma Dan la anticipò, prima che riuscisse a esprimere il suo sdegno. «Ci può dire dove si trovava venerdì sera?» chiese a McCord. «Certamente. Nelle ultime due settimane sono rimasto qui a Seattle, godendo, mio malgrado, della protezione della polizia in quello squallido condominio.» «E i suoi allievi?» Il sorriso di McCord vacillò. «Loro che c'entrano?» Dan fece un cenno nella direzione presa dai suoi studenti. «Sembrano molto devoti. Molto obbedienti.» «Devo proprio ricordarvi che insegno ai transfert come si fa a catturare gli assassini, e non come lo si diventa?» «Quanti studenti ha?» «Nove, al momento.» «Gli altri dove sono?» «Nel mio ranch in Nuovo Messico, per quel che ne so.» «Qualche maschio caucasico fra di loro?» «Qualcuno. Ditemi una cosa. State facendo dei progressi?» «Forse. Non sappiamo ancora se questi omicidi siano stati commessi da una persona sola oppure da un gruppo di persone.» McCord rigettò l'implicita accusa con un gesto della mano. «Pensate davvero che sarei disposto a trucidare gli eletti del Signore?» «Forse non pensava che fossero degni di servirlo» fu il commento di Natalie, i cui occhi scintillavano come frecce intinte nel veleno. «Forse non erano i suoi 'Eletti.'» Le narici di McCord si allargarono. «Non è compito mio mettere in discussione la saggezza del Signore nella selezione dei suoi servitori.» «Ma lei condannò la decisione di suo fratello di abbandonare il Dipartimento, vero?» chiese Dan.
McCord si portò un dito alle labbra mentre sceglieva le parole, proprio come un padre si preparerebbe a spiegare a un poppante come nascono i bambini. «Sapeva, signor Atwater, che gran parte degli studiosi moderni credono che la Strega di Endor fosse proprio un transfert? Oppure che Tiresia sembrasse cieco solo alle persone che avevano visto i suoi occhi viola?» «Molto interessante. Però, dove vuole andare a parare?» «Al fatto che, dagli albori della storia documentata, i transfert sono sempre stati venerati in quanto anello di congiunzione tra l'umanità e il mondo dell'Aldilà. In ogni cultura e in ogni epoca, disponiamo di leader spirituali e di profeti: i sacerdoti di Anubi nell'antico Egitto, i Dalai Lama in Tibet, gli hougan ad Haiti, gli sciamani in Siberia.» McCord si mise a sedere sulla lapide accanto, come monarca sul trono della morte. «È ovvio che oggi la scienza ci consideri un'anomalia genetica e che la società ci tratti come un bene di consumo - dei meri strumenti da sfruttare. Siamo i benvenuti solo quando c'è bisogno di noi; altrimenti, non possiamo neppure mostrarci in pubblico.» Rivolse un'occhiata maligna a Natalie, con indosso la parrucca e le lenti a contatto. «Ma questo non cambia il fatto che è Dio a darci la sua benedizione.» «La stessa cosa vale per suo fratello.» «Sì.» McCord si sporse in avanti. «E lui ha rigettato il dono di Dio. Addirittura, se n'è preso gioco, trasformandosi in un chiromante! Come se Gesù andasse a lavorare in un'azienda vinicola. Ha commesso un peccato.» «E lei lo ha punito per quel peccato?» lo schernì Natalie. Lui rise, giustamente soddisfatto. «Non ce n'è stato bisogno, mia cara. Si è punito da solo.» Dan rivolse alla Viola uno sguardo perentorio. «E cosa mi dice di sé, signor McCord? Non la scoccia mai dover fare la marionetta per il DACA?» Gli occhi di McCord si rattristarono, ma ebbero un guizzo in direzione della donna che indossava il completo e che era giusto a portata d'orecchio, il volto impassibile. «Sono sempre stato un membro leale del Dipartimento» disse con il tatto di un diplomatico impegnato in una trattativa con un paese nemico. Gli allievi che erano spariti fecero ritorno. Quello dalla carnagione chiara si reggeva in piedi a stento, appoggiandosi al compagno. «Eccovi! Lo hai trovato, Serena» disse McCord all'allievo dall'espressione scaltra che, a quanto pareva, era una donna. «E tu cosa pensi di dire a tua discolpa, Master Wilkes?»
Ancora malfermo sulle gambe, lo studente maschio faceva fatica a respirare. «Mi... mi spiace, Professore. Si è... si è trattato di un errore dovuto alla mia sbadataggine. Non si ripeterà.» «Staremo a vedere.» McCord si alzò dalla lapide. «Sembra proprio che resti ancora molto lavoro da fare; pertanto, se volete scusarmi...» Con un cenno, si accomiatò da Dan e Natalie e si diede da fare per riportare i suoi allievi in mezzo alle file di monumenti funebri. «Grazie» fu il grido di Dan, alle sue spalle. «Prima che mi dimentichi... Jem ci ha detto di salutarla.» McCord si fermò un istante, ma non si voltò. «Voleva parlare con lei, ma non lo ha fatto entrare. Perché mai, signor McCord?» Stavolta, si voltò dalla parte di Dan. «Sono in molti a cercare di parlare con me, signor Atwater. Sono io a scegliere quelli con cui voglio farlo.» «Capisco. E si rende conto del fatto che, se non è dietro a quegli omicidi, potrebbe essere lei la prossima vittima?» McCord scoppiò a ridere. «Il Signore protegge i suoi figli.» Salutò Natalie con un cenno. «Signorina Lindstrom... è sempre un piacere.» «Addio, Simon.» Gli voltò le spalle e si allontanò senza nemmeno attendere di vedere l'espressione di sdegno che gli si dipinse in faccia. Dan rivolse a McCord una scrollata di spalle e la seguì mentre sfilava in mezzo alle tombe senza il minimo spasmo sul volto impassibile. Solo quando ebbero girato intorno al gruppetto di pini e furono tornati sul vialetto asfaltato, là dove McCord non avrebbe potuto vederli, lei si accasciò sulle ginocchia, tremando come una subacquea in preda a embolia. Rosso in volto, McCord attese che la Lindstrom e l'agente FBI sparissero alla vista, prima di concentrarsi sui suoi studenti. Rivolse un'occhiata di sdegno a Wilkes che, ansimante, era seduto sull'erba, poi guardò Serena. «Seguila.» Lei chinò il capo e, facendo un timido sorriso, iniziò a sbottonarsi la tonaca. 19 Notizie Il telefono cellulare di Dan si mise a suonare prima che giungessero al
parcheggio del cimitero. Era Clark e non perse tempo. «Si sta scatenando un bel casino. Riportami la Lindstrom. Subito.» «Che è successo?» chiese Dan. «Abbiamo scoperto chi ha noleggiato la macchina a San Francisco.» Dan guardò Natalie, che risentiva ancora della passeggiata in mezzo alle tombe. «D'accordo, ti richiamo non appena rientriamo.» «Non chiamarmi. Vieni e basta. Saremo qui ad aspettarvi.» «Va bene... d'accordo.» Riattaccò e digitò immediatamente il numero della compagnia aerea. Natalie si massaggiava le mani, come per liberarsi di un colpo di freddo. «Lascia che indovini. Stiamo per prendere un altro aereo.» Dan si avvicinò l'auricolare all'orecchio. «Ehi, pensavo che a questo punto ti ci fossi abituata.» «È vero. Solo che, tanto per cambiare, mi piacerebbe trascorrere più di due notti nella stessa città.» «Penso che ne avrai la possibilità» replicò Dan, senza spiegarsi. Quando, quella sera, giunsero al quartier generale del LAPD, le squadre con le videocamere portatili si stavano già assembrando intorno alle barriere di cemento all'ingresso di Los Angeles Street. I furgoni dei canali televisivi specializzati nei notiziari trasmettevano aggiornamenti in tempo reale in tutto il mondo attraverso i loro ripetitori via satellite. «Santo cielo! Hanno sparato al Papa?» esclamò Dan mentre con Natalie si avvicinava al posto di sicurezza. Quando si accostò alla guardiola per mostrare il tesserino, uno sciame di fotografi assalì l'automobile. Lui e Natalie sbatterono le palpebre e si coprirono gli occhi mentre una dozzina di macchine fotografiche inondavano l'interno della Ford della luce dei loro flash. I finestrini chiusi limitarono la violenta dissonanza delle voci provenienti dall'esterno, riducendole a un fragore attutito, come una rivolta di piazza percepita dall'interno di un acquario, e poliziotti in divisa fecero arretrare i paparazzi quanto bastava perché Dan riuscisse a consegnare il distintivo alla guardia del checkpoint, che li lasciò proseguire nella relativa calma della strada isolata, dove parcheggiarono nell'area riservata ai dipendenti. All'interno del Parker Center, molti degli uffici amministrativi avevano già chiuso. Dan e Natalie salirono al piano di sopra, fino alla sala riunioni dove Clark li aspettava, come promesso. Seduto al tavolo insieme a lui c'era un uomo dai capelli grigi che indossava un paio di occhiali dalla au-
stera montatura metallica. Dan non lo aveva mai incontrato prima. Dietro di loro, stavano un uomo dalla corporatura da linebacker21 e una donna alta e asciutta. Entrambi indossavano una mimetica e avevano i capelli tagliati a spazzola, secondo la moda militare. Gli sconosciuti non fecero il gesto di presentarsi. «Dan. Signora Lindstrom.» Clark trasudava tutta l'agitazione di un uomo che stia per affrontare una revisione dell'Ufficio delle Imposte. «Sedetevi.» Dan e Natalie estrassero un paio di sedie dal lato opposto del tavolo. Rendendosi conto che non c'era tempo da perdere, Dan decise di esordire con la domanda più ovvia. Ma Natalie lo anticipò. «Chi è stato?» Clark fece un respiro profondo. «La macchina è stata noleggiata a un certo Sidney R. Preston, un reporter del New York Post.» Dan avvertì una spiacevole sensazione allo stomaco. «L'avete rintracciato tramite i registri della Hertz, vero?» «Non ce n'è stato bisogno.» Aprì la pagina del tabloid che giaceva sul tavolo e gliela sbatté davanti. CHI STA FACENDO FUORI I VIOLA? blaterava la prima pagina. Nonostante il titolo di testa fosse stato stampato in un carattere alto quasi tre centimetri, l'editore era comunque riuscito a trovare lo spazio per una bella fotografia di Dan e Natalie che uscivano dalla casa di Laurie Gannon, insieme a una foto formato tessera di una Natalie calva sul banco dei testimoni di un tribunale. Possibile che la sconosciuta vista insieme all'agente speciale dell'FBI Daniel Atwater (sulla sinistra) sia il transfert Natalie Lindstrom, la cui drammatica testimonianza ha rappresentato il momento culminante del processo per l'omicidio Muñoz? chiedeva la didascalia. «Sfoglialo» disse Clark. «Dentro si fa sempre più interessante.» Fortemente consapevole della presenza di quei tre invadenti sconosciuti che lo fissavano dall'altro lato del tavolo, Dan aprì il giornale sulla pagina che presentava l'articolo. Il pezzo di due pagine mostrava inquadrature della squadra degli artificieri al suo ingresso nella Scuola, di operatori sulla scena del crimine che caricavano il sacco contenente il cadavere di Arthur McCord sul furgone della polizia per trasferirlo nell'ufficio del medico legale della contea, e di Dan e Natalie che discutevano con l'agente Ruehl all'esterno della casa di Lucinda Kamei. Nonostante non fosse facile mettere le mani su fotografie di Viola, il giornale era riuscito a ottenere un'immagine vecchia di dieci anni di Russell Travers, il giorno che aveva testimoniato a un processo per omicidio nei primi anni Novanta, e un primo
piano della Kamei tratto dai suoi recenti CD di Mozart. Il nome dell'autore - Sid Preston - era riportato nella riga sopra il testo. Natalie avvicinò il giornale a sé. «Mio Dio...» Voltò pagina e scoprì gli ingrandimenti di se stessa, ritratta mentre indossava tutte le sue parrucche di tinte diverse, ingrandimenti accompagnati da una didascalia che invitava i lettori a confrontare le somiglianze dei suoi lineamenti con la foto scattata in tribunale con la testa calva. Trovò, inoltre, una colonna dedicata interamente a Dan. Agente investigativo non nuovo alla morte, proclamava il sottotitolo che commentava una fotografia di Dan, Ross e Phillips dietro al tavolo della difesa, al processo per omicidio che loro stessi avevano dovuto affrontare. Assolto dalla giuria, l'agente Atwater ha ancora il grilletto facile e per poco non ha aperto il fuoco sull'autore di questo reportage, scriveva Preston, certamente assaporando la sua vendetta. «Almeno è esauriente» mormorò Dan con voce roca. Natalie sollevò lo sguardo dal giornale, gli occhi spalancati in un'espressione di incredulità. «Quell'uomo era innocente?» Dan non riuscì a risponderle personalmente. Si guardò le mani, che ora pesavano come macigni. «Dan, ti presento Delbert Sinclair, direttore della Sicurezza per il DACA.» Clark indicò l'uomo dai capelli grigi. «Intendono accogliere la signorina Lindstrom sotto la loro protezione.» La rabbia scosse Dan, che smise così di autocommiserarsi. «Aspettate un momento! Cosa vi dà il diritto di...» «Considerato il suo passato, agente Atwater, mi domando cosa dia a lei il diritto di essere qui tra noi» disse Sinclair senza alzare la voce. «Se un intrigante giornalista da strapazzo è riuscito ad avvicinarsi tanto alla signorina Lindstrom, è ovvio che la sua sicurezza è stata compromessa.» Dan faticò a mantenere dei modi educati. «Le assicuro che la sua vita non è mai stata in pericolo. Sono stato con lei ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, dal momento in cui le sono stato assegnato.» Rivolse un'occhiata a Natalie, in cerca di una conferma, ma lei si era ritirata da quella conversazione. La luce dei suoi occhi si era spenta. «Non stiamo mettendo in discussione la sua dedizione. Ma abbiamo già perso alcuni dei nostri uomini migliori e non possiamo permettere che un membro del Dipartimento se ne vada a zonzo per tutto il paese mentre c'è un assassino a piede libero. Soprattutto quando l'uomo che si deve occupare della sua protezione è una mina vagante.»
Clark intervenne in difesa di Dan. «A essere precisi, l'agente Atwater è stato prosciolto da ogni illecito.» «A essere precisi, signor Clark, i membri della nostra organizzazione hanno fin troppi pensieri per doversi preoccupare anche di cadere vittime del fuoco amico.» «Signor Sinclair, capisco la sua preoccupazione per questo articolo,» gli concesse Dan «ma la collaborazione della signorina Lindstrom è cruciale per l'indagine.» «E lei continuerà a collaborare alle indagini, una volta che il Dipartimento ne avrà assunto il controllo.» Sconcertato, Dan guardò Clark. «Hanno conoscenze altolocate» disse il suo superiore. Sinclair si drizzò sulla sedia. «Bene, se non ci sono domande, gli agenti Brace e Lipinski possono accompagnare la signorina Lindstrom alla residenza protetta del Dipartimento.» «Forse sarebbe il caso che voi chiedeste alla signorina Lindstrom che cosa desidera realmente» sbottò Dan. L'attenzione di tutti si rivolse su Natalie. Sinclair allargò le braccia, come per chiedere, E allora? Dan la implorò in silenzio: Concedimi di spiegarti tutto. Natalie si schiarì la voce. «Forse è la cosa migliore da fare» disse pacatamente, con gli occhi che le brillavano. Dan sprofondò nella sedia, mentre la tensione dei suoi muscoli lo abbandonava insieme a ogni speranza. Era il sollievo della disfatta più totale. «Eccellente.» Sinclair girò intorno al tavolo e si portò nei pressi di Natalie, affiancata dai due picchiatori della Sicurezza del Dipartimento. «Agente Atwater, sia così gentile da prestare le chiavi della sua macchina all'agente Brace, in modo che possa andare a prendere i bagagli della signorina Lindstrom.» Dan si sfilò le chiavi di tasca e le lasciò cadere nella mano aperta del tizio col fisico da linebacker. «È la Taurus bianca.» Brace annuì e Dan iniziò a dubitare che lui e il suo socio avessero il dono della favella. Natalie si alzò dal tavolo. «Grazie, Dan. Grazie di tutto.» Lui non riuscì ad alzare la testa per risponderle. Natalie indugiò per un altro istante, dopodiché se ne andò insieme a Sinclair e agli altri. Clark li seguì all'esterno, fermandosi a dare una pacca di muta commiserazione sulla spalla di Atwater.
Una volta solo, si prese il viso tra le mani e attese che Brace gli riportasse le chiavi. Quel giorno, l'articolo di Sid Preston destò l'attenzione di molti lettori. Ma senza dubbio quello a cui piacque maggiormente fu Clem Maddox. Si sedette a gambe incrociate sul lercio letto della sua stanza all'E-ZSleep Inn, un alberghetto a ore che non era più stato riverniciato dagli anni Sessanta e la cui direzione non si preoccupava particolarmente che i suoi clienti si registrassero con il loro vero nome. Intorno a lui erano sparpagliate diverse copie dell'edizione del giorno del New York Post, aperte alle varie pagine della storia sui Viola, e Maddox si mise a lavorarci con le sue forbici arrugginite, ritagliando ogni riquadro e ogni colonna di quell'articolo. Quando quella mattina Clem era venuto a sapere dell'articolo, ascoltando un notiziario radiofonico mentre era in macchina, si era immediatamente recato da ogni giornalaio della zona per cercare il Post. Trovandosi sulla Costa Occidentale, non era facile reperire i giornali di New York, ma alla fine era riuscito a rintracciarne un fascio in una libreria Borders22 e ne aveva acquistato fino all'ultima copia disponibile. Maddox tagliuzzò il bordo intorno alla quarta fotografia di Natalie Lindstrom. Dio, com'era bella. Gli piaceva soprattutto con i capelli corti neri più o meno la stessa pettinatura di Amy. Lindstrom: era certo di averle già dedicato un paio di pagine in passato, con il processo Muñoz e tutto il resto. Mise da parte i ritagli di giornale e raccolse un enorme raccoglitore dal pavimento accanto al letto. Dopo esserselo sistemato davanti, face scorrere rapidamente una serie di fogli di cartone rigido coperti di plastica. Solitamente utilizzato come album di fotografie, era strapieno di articoli di rivista o di quotidiani, molti dei quali ingialliti dal tempo. Alcuni li aveva ritagliati dal National Geographic, altri li aveva spuntati dal Weekly World News, ma l'argomento era immancabilmente lo stesso: le imprese di Viola famosi. Alcune di quelle pagine presentavano dei necrologi. Maddox trovò le sue pagine su Natalie Lindstrom e vi infilò nel mezzo un foglio di cartone vuoto. Dopo aver staccato la plastica protettiva, attaccò le fotografie della Lindstrom sulla superficie provvista di colla, disponendole intorno a quella che la ritraeva con i capelli neri: la sua foto preferita.
Dopo aver risistemato la plastica, spianandola sul suo collage, Clem mise da parte il raccoglitore e riprese le cesoie arrugginite. Trascinò i piedi in mezzo ai giornali da cui era attorniato finché non trovò un foglio logoro su cui erano stati in precedenza attaccati altri ritagli di giornale. La foto della casa vittoriana di Lucinda Kamei, però, era intatta, e lui si mise a ritagliarne i bordi, sorridendo. Era un grande fan di Lucinda Kamei e possedeva già tutti i suoi CD. Si era sempre chiesto dove abitasse... 20 Una notte tranquilla John Ruehl, l'agente della sicurezza del Dipartimento Americano per le Comunicazioni con l'Aldilà, girò la costa già spiegazzata del suo tascabile di Tom Clancy e tornò a concentrarsi sulla pagina che stava leggendo. Dopo aver aperto il libro sul paragrafo in corrispondenza del quale lo aveva messo da parte, si ritrovò incapace di tenere gli occhi aperti. Non gli era certo d'aiuto il fatto che l'unica fonte di luce in tutta la stanza fosse un lampadario elettrico antico le cui lampadine glabre emettevano una luce tenue quanto quella delle candele che cercavano di imitare. Destandosi di soprassalto, Ruehl gettò il libro sul tavolo vicino e trangugiò l'ultimo sorso di caffè freddo che restava nella sua tazza di plastica da viaggio. Era stato arbitrariamente assegnato al turno di notte presso la casa della Kamei, dopo aver lavorato al mattino per settimane, e adeguare le sue ore di sonno gli era risultato davvero difficile. Per fortuna quelle sedie del diciottesimo secolo erano dannatamente scomode, altrimenti si sarebbe addormentato un'ora prima. Si alzò e si mise a camminare avanti e indietro sul pavimento di parquet per riattivare la circolazione. Gli sarebbe piaciuto scendere in cucina a farsi un altro caffè. L'orologio a pendolo all'angolo della stanza lo informò che erano passate le due del mattino. Mancavano ancora più di tre ore. Magari avrebbe chiamato Hawks, l'agente in servizio al piano di sotto, e gli avrebbe chiesto di ordinargli una pizza da Domino's e qualche Coca. Ruehl aveva messo una zeppa nella porta del salotto in modo da tenere d'occhio il vano d'accesso alla camera matrimoniale. La Kamei, evidentemente, dormiva come un neonato perché non aveva emesso un solo suono da quando era andata a letto.
«Deve essere comodo» brontolò. Facendo attenzione a muoversi con passo felpato sulle assi cigolanti dell'impiantito, si sgranchì le gambe nel corridoio, avanzando in direzione del pianerottolo del secondo piano. Sul lato opposto rispetto alla porta della camera da letto, Lucinda Kamei riposava nell'opulenza sfarzosa del suo letto a baldacchino a quattro piazze. Nonostante tutto quel lusso, non dormiva bene. Aveva il respiro affannoso e debole, e si raggomitolò nelle lenzuola di raso, rigirandosi nel letto in preda ai terrori della notte. Spalancò la bocca, ma l'urlo le rimase bloccato in gola come un frammento osseo. Lottò per farlo uscire, contraendo tutti i muscoli addominali. Poi una calma di piombo appiattì la trama sgualcita della sua carne. Con fredda determinazione, aprì gli occhi e sporse i piedi fuori dal letto, per poi posarli sul pavimento. Le lenzuola scivolarono giù dal suo corpo nudo mentre si metteva a sedere sull'orlo del materasso. Sorrise di fronte all'indecente nudità dei suoi seni nell'oscurità e toccò la concavità della pelle nel mezzo. Tuttavia, il suo sorriso svanì quasi subito, rimpiazzato da un cipiglio di fredda efficienza. Con furtività felina, strisciò dal letto alla porta che immetteva nel corridoio. Aprì la porta di un millimetro alla volta verso l'interno, fino a ricavarsi una fessura sufficiente a dare una sbirciata con un occhio solo. L'apertura le permise di vedere una sezione verticale di Ruehl intento a percorrere il salone avanti e indietro. Richiuse la porta e attese che i suoi occhi si riadeguassero all'oscurità. Attraverso le tende di pizzo che rivestivano le finestre d'angolo ad arco si insinuò una luce arancione al vapore di sodio prodotta da un lampione stradale. Lì, al centro di quella torre cilindrica, una rampa di scalini metallici si avvitava intorno a un pilastro di sostegno, salendo a spirale fino a una botola nel soffitto. Senza prendersi la briga di vestirsi, la Kamei attraversò la stanza e si arrampicò sulle scale, facendo una sosta sulla loro sommità, solo per sollevare la botola fino a quando i sostegni dei cardini non la tennero aperta. Una volta salita al piano superiore, abbassò nuovamente la botola. Ora si trovava nella stanza più alta della torre, una camera perfettamente circolare rivestita di pannelli di sequoia della California. Sopra di lei, a malapena visibile, una piramide di travi di legno sosteneva il tetto conico. Al centro della stanza vi erano una sedia, un leggio da spartiti, una chitarra acustica a dodici corde sul proprio sostegno, una custodia da flauto e un
sistema di registrazione a quattro piste che la Kamei utilizzava per produrre dei nastri dimostrativi delle canzoni che scriveva nel tempo libero. Le due finestre più vicine al lampione stradale fornivano alla stanza una illuminazione insufficiente, mentre le altre offrivano una vista di quel terso cielo notturno. Una sagoma nera macchiava una delle finestre che si affacciavano sul cielo. Come un ponte levatoio pronto a calare, la Kamei si precipitò verso la finestra, sganciò la nottola e sollevò il pannello vetrato. La sagoma scura che era rimasta acquattata all'esterno sul tetto a ghimberga si infilò nell'apertura con agilità scimmiesca. Una volta entrata, si raddrizzò in tutta la sua altezza di fronte alla donna, testa e corpo a formare una anonima forma bislunga di ebano. Lei sorrise e accolse quelle mani rivestite di lattice fra le sue, tirandole verso il basso mentre si sdraiava, nuda, sul pavimento di legno duro. Nel salotto, l'agente Ruehl si lasciò cadere nuovamente sulla scomoda sedia del diciottesimo secolo e riaprì il suo libro. Alle tre e mezza, Hawks salì al piano di sopra, con la loro pizza con salsiccia e olive nere e un paio di bibite, che i due consumarono lagnandosi, a voce molto bassa, del programma sanitario del Dipartimento. Stephanie Corbett diede il cambio all'assonnato Ruehl alle sei, andando a occuparne il posto nel salotto. Quando Lucinda Kamei non si fece vedere alle dieci di quella mattina, la Corbett decise di bussare alla sua porta, ma poi ci ripensò: tenuto conto di quanto la signorina Kamei detestasse le interruzioni, tutto avrebbe voluto fuorché svegliarla da un sogno gradevole. Inoltre, John le aveva comunicato che la nottata era stata tranquilla e monotona. La Corbett tornò in salotto, dove l'attendeva la sua copia della rivista Time. La lesse tutta. Giunse mezzogiorno. La Kamei non si era ancora fatta vedere. Dopo essersi avvicinata alla camera da letto, la Corbett esitò solo un momento prima di bussare. «Signorina Kamei? Va tutto bene?» Nessuna risposta. Bussò ancora, stavolta più forte. «Signorina Kamei? Sta bene?» Il silenzio si fece più pesante. «Non voglio spaventarla, signorina Kamei, ma ora entro.» La Corbett e-
strasse la 45 dalla fondina ascellare e aprì la porta. Nella camera da letto regnava ancora una semioscurità bigia, visto che le tende tirate attenuavano la luce del mezzogiorno. Il letto a baldacchino era lì, disfatto e vuoto. La Corbett andò con lo sguardo alla porta del bagno. Stava per aprirla quando udì un gocciolio. Pit... pit... pit... Goccioline scure cadevano in una pozza opaca sul pavimento accanto alla scala a chiocciola. Gli occhi della Corbett seguirono a ritroso quella catena stillante e fu così che vide la macchia scarlatta che si stava allargando sul soffitto. 21 Conseguenze Per negare il proprio io, qualcuno fa ricorso all'alcol o all'eroina. Dan Atwater utilizzava la TV via cavo. Sdraiato sul letto nella sua camera dell'Embassy Suites, lasciò che l'oppiaceo rappresentato da uno spettacolo di cabaret dell'HBO gli intorpidisse i neuroni indolenziti. Non rise e non prestò nemmeno attenzione a quello che i comici stavano dicendo. Bastavano le chiazze mutanti, sedative, dei colori del tubo catodico. Nei giorni che avevano fatto seguito alla sparatoria di due anni prima, quando era stato sospeso senza paga in attesa di affrontare il processo per omicidio e aveva trascorso ogni singolo istante cosciente a rivedere col pensiero il sangue che colava dalla giacca a vento e l'espressione perplessa di quell'uomo che chiedeva perchéperchéperché, Dan si era fatto i complimenti da solo per non aver cercato conforto nella bottiglia, a differenza di Ross, oppure per non essersi rifugiato in quella sorta di diniego ipocrita dietro cui si era acquattato Phillips. Scoprì che una dose sufficiente di stupidi spettacoli televisivi era un sonnifero per il suo cervello e gli impediva di torturarsi da sé. La TV lo avrebbe aiutato a superare quella fase. Ecco cosa aveva pensato in quei giorni. Avrebbe tutelato la sua salute, il suo matrimonio, la sua serenità mentale. Erano trentotto ore consecutive che guardava Cartoon Network quando Susan gli aveva annunciato che stava per lasciarlo. Lo spettacolo di cabaret terminò e comparvero le immagini di Donnie
Brasco, un film con Al Pacino. Lo aveva già visto. Avrebbe voluto cambiare canale, ma per farlo sarebbe stato costretto a protendersi sul comodino, dove il telecomando era stato avvitato al legno. Il trucco era stato tenersi alla larga dalla stampa. Avevano circondato il quartier generale del LAPD, pronti a tallonarlo ovunque andasse. Dato che avevano visto entrare lui e Natalie, sapevano che cosa indossava e che aspetto avesse la sua macchina, così fece richiesta a Clark di un'altra automobile e prese in prestito degli abiti civili, dei baffi posticci e degli occhiali finti dalla divisione degli agenti sotto copertura del LAPD. Finì per assumere l'aspetto di un insegnante di chimica delle scuole superiori. Adesso sai come si sente Natalie, pensò osservando il proprio travestimento nello specchio delle toilette, prima di uscire dalla stazione di polizia. In quel momento, il suo camuffamento era ammonticchiato sull'altro letto della sua stanza d'albergo. Dan si era spogliato ed era rimasto in pantaloncini nel momento stesso in cui aveva messo piede nella stanza, e pensare che era arrivato da poco: erano trascorse non più di dieci ore. In tutto quel tempo si era quasi completamente dimenticato dell'articolo del Post, dei paparazzi, di Delbert Sinclair e di tutto il resto. Ma non riusciva a dimenticarsi di Natalie. Era come se l'immagine residua delle sue numerose facce fosse sospesa davanti allo schermo del televisore: la Natalie dai capelli rossi, con il suo impassibile sarcasmo, la Natalie bionda, con il suo sguardo nostalgico, la Natalie bruna, con il suo sorriso riluttante. Con quegli occhi asciutti, appesantiti, che avevano un terribile bisogno di sonno e tuttavia si rifiutavano di chiudersi, Dan la vide consumare la cena insieme a lui al Verdi, praticare yoga nella loro camera d'albergo e cavalcare con aria trionfante il suo stallone sulla giostra. E, soprattutto, vide la sua faccia sul cavallo, che sorrideva al vento. Vide anche l'espressione d'orrore che lei gli aveva rivolto dopo aver letto di come avesse ucciso un innocente. Un'immagine che gli comparve ripetutamente davanti agli occhi, senza che lui lo volesse. Dan non aveva ancora mangiato o dormito quando il suo telefono cellulare squillò, alle due di quel pomeriggio. Ci vollero dodici squilli per convincerlo che la persona all'altro capo del telefono non avrebbe riattaccato. «Prepara le valigie» gli ordinò Clark con la voce che andava e veniva, quando Dan finalmente prese in mano il telefono. «Il caso è di nuovo tuo.» Dan, incredulo, tirò su col naso. «È stata una cosa veloce. Sinclair è morto?»
«No. È Lucinda Kamei che è morta.» Dan si mise a sedere. «Che cosa?» «La notte scorsa, e per giunta sotto il naso della Sicurezza del Dipartimento.» «Come?» «Nello stesso modo di McCord. Sembra proprio che tu abbia beccato il profilo giusto dell'assassino. Quanto tempo ti ci vuole per metterti in viaggio?» Tenendo il telefono tra la guancia e la spalla, Dan saltò giù dal letto, afferrò qualche indumento e si diresse in bagno. «Sono già fuori dalla porta...» Per poco non uscì dall'albergo senza mettersi i baffi posticci e gli occhiali ma, all'ultimo momento, cambiò idea: si rivelò una scelta saggia, perché quando vi giunse, alle sette di sera, una folla di giornalisti aveva circondato l'abitazione di Lucinda Kamei. Sventolando il distintivo dell'FBI, Dan si fece largo tra i rappresentanti della stampa finché non raggiunse le transenne della polizia. Una volta lì, tuttavia, il suo travestimento sortì l'effetto opposto, perché l'agente di servizio non credeva che lui fosse realmente Dan Atwater. «Mi vada a chiamare Earl Clark» disse al poliziotto, invece di mettersi a spiegare il motivo della sua presenza. Il poliziotto chiese a uno dei colleghi di sorvegliare la sua postazione mentre lui entrava in casa alla ricerca di Clark. Quando tornò con il detective al suo fianco, l'orda di reporter li subissò di domande. «Agente Clark! Come ha fatto l'assassino dei Viola ad assassinare la signorina Kamei?» «Avete dei sospetti?» «È vero che avete cercato di insabbiare i primi otto omicidi?» «Dov'è Natalie Lindstrom? È lei la prossima vittima nella lista del killer?» Rifiutandosi di stabilire il minimo contatto visivo, Clark si limitò a sollevare il palmo della mano destra, come per dire loro di non provare a insistere, mentre accompagnava Dan sui gradini d'ingresso, e di lì dentro l'abitazione. «Ancora un po' di questa merda e mi procurerò anch'io un paio di quei baffi» brontolò quando furono al sicuro dentro casa. «No, penso che staresti meglio col pizzetto.» Dan si tolse gli occhiali finti e si grattò l'attaccatura del naso. L'effetto del caffè che aveva bevuto
in aereo stava già svanendo. Clark gli rivolse un'occhiata accigliata mentre affrontavano la scalinata principale, eludendo un tecnico della scientifica con un grembiule bianco impegnato a scendere. «Hai dormito un po'?» «Oh, almeno dieci, venti minuti in aereo.» Raggiunsero il pianerottolo del secondo piano e Clark indicò una porta aperta sulla sinistra. «Lì.» Un imbronciato agente Ruehl era seduto in salotto, e l'agente Corbett era in piedi di fianco a lui, le braccia conserte. Sul loro volto era stampato il terrore pallido di due scolaretti in attesa di entrare nell'ufficio del preside. «Signora Corbett. Signor Ruehl. Avete un aspetto pessimo quanto il mio stato d'animo.» Ruehl diede una sbirciata alla faccia di Dan. «Agente Atwater? Che cosa significano quei...?» Puntò il dito verso il labbro superiore di Dan. «Non me lo chieda.» «Vuole cortesemente raccontare al signor Atwater quello che ha visto e sentito la notte scorsa?» chiese Clark. Ruehl sospirò, esasperato. «Niente, ecco cosa ho cercato di dirle! La signorina Kamei è entrata nella sua stanza alle undici e mezza. La doccia, nel bagno, ha funzionato per circa quindici minuti e poi... più niente.» «Ne è sicuro?» insisté Dan. «Era tardi. Potrebbe essersi addormentato...» «No! Nel modo più assoluto.» «Comprendiamo il motivo della sua riluttanza a dirci che si è addormentato, ma le assicuro che...» «No! Per l'ennesima volta, no! Per quanto lo desiderassi, non mi sono addormentato!» La Corbett si schiarì la voce. «Ho lavorato insieme a John in molte altre occasioni. Non permetterebbe mai che succedesse una cosa del genere.» Dan annuì, come se quella testimonianza gli avesse fugato ogni dubbio. Clark stavolta si rivolse alla Corbett. «E allora perché non ha controllato le condizioni della Kamei prima di mezzogiorno?» Lei fece una smorfia, ovviamente maledicendo la sua decisione di intervenire. «Come potrà confermarle il signor Atwater, signore, alla signorina Kamei non piace essere disturbata.» La sua bocca si contrasse. «O meglio, non le piaceva.» «Come avete fatto a trovare il corpo?» chiese Dan. «Be', dato che la signorina Kamei non mi ha risposto, sono entrata nella camera da letto e...» Esitò. «Be'... voglio dire. Per quanto mi è stato possi-
bile, ho cercato di non inquinare la scena, ma mi sono dovuta arrampicare sulle scale, nel caso fosse ancora viva.» Più Dan e Clark la fissavano, più la Corbett abbassava lo sguardo. «Una scommessa azzardata, lo ammetto, ma dovevo essere sicura.» «Comprendiamo, agente. Stiamo solo cercando di capire come sia successo. Vogliate scusarci...» I due si spostarono dal salotto al corridoio. Clark fece un cenno alla Corbett, e lei li fece entrare nella camera da letto. «Credi a quei due?» chiese Dan a Clark, quando furono soli. «In effetti sì. Ora ti spiego perché.» Clark lo guidò intorno al letto a baldacchino e indicò le macchie di sangue sul pavimento e sul soffitto. «Sono state quelle a spingere la Corbett a controllare la stanza sopra di noi. Per quanto ne sappiamo, l'assassino non è mai sceso quaggiù. A quanto pare, la Kamei si è svegliata da un sonno profondo, è scesa dal letto a chiappe nude ed è salita su questa scala di sua iniziativa. Abbiamo individuato alcune orme incomplete dei suoi piedi scalzi sui gradini.» «E se l'assassino fosse siate quaggiù?» suggerì Dan. «Forse l'ha costretta sotto la minaccia delle armi.» «Già, e per giunta senza fare un solo rumore, senza segni di lotta, senza lasciare nemmeno un graffio sul parquet di una casa all'interno della quale a nessuno è consentito di indossare le scarpe...» «Mmm... capisco cosa vuoi dire.» «Aspetta un attimo! La parte migliore deve ancora venire.» Fece cenno a Dan di seguirlo sulla scala a chiocciola. «La squadra della scientifica è già venuta e se n'è già andata. Il cadavere è all'obitorio. È quella la nostra prossima tappa.» «Fantastico!» «Siamo in attesa dei risultati ufficiali dell'autopsia, ma un esame iniziale non ha evidenziato lividi, abrasioni, graffi o segni di lacci.» Con un ultimo sforzo, misero piede nella stanza della torretta e Clark agitò la mano in direzione dell'enorme chiazza rossa rappresa nei pressi della botola. «Ha lasciato che lui le tagliasse le budella senza nemmeno tentare di opporsi.» Dan arricciò il naso, annusando il fetore di urina rancida. «Forse, a quel punto, era già priva di conoscenza. Drogata o narcotizzata col cloroformio.» «Ma questo continuerebbe a non spiegare come mai lo abbia fatto entrare in casa.» Clark concentrò l'attenzione sulla finestra più vicina, dove alcuni sfregi biancastri guastavano la laccatura del davanzale in legno di
sequoia. «È entrato da qui. Alcune delle tegole di legno del tetto, lì fuori, evidenziano delle crepe fresche; da queste parti, le case sono così ravvicinate che pensiamo che probabilmente sia venuto fin qui, senza che nessuno lo abbia visto, dal tetto dell'edificio accanto. «Non ha dovuto forzare la finestra. La Kamei gliel'ha aperta. Abbiamo trovato le sue impronte sulla nottola e sul telaio scorrevole.» Clark scosse il capo. «Perché mai avrebbe dovuto aiutare l'uomo venuto a ucciderla?» «Forse non è stata lei.» Sentendosi mancare il respiro, a Dan venne in mente il modo in cui Natalie si era accovacciata sul bordo del letto dell'albergo e si era messa a fissarlo con la lascivia di Russell Travers. La notte è un momento estremamente vulnerabile per me... Clark gli rivolse un buffo sguardo interrogativo. «Dobbiamo assolutamente parlare con Lucinda Kamei» fu tutto ciò che disse Dan. «Dovremmo dirlo alla Lindstrom?» Clark indicò la chiazza di sangue. Il sudore sopra la bocca aveva afflosciato i baffi di Dan e così lui se li risistemò, schiacciandoseli. «Qualcosa mi dice che lo sa già.» 22 La casa sicura Seduta a gambe incrociate su un'ampia poltrona, Natalie chiuse la sua copia logora di Ragione e Sentimento e la infilò tra il cuscino e il bracciolo. Nell'ultima settimana l'aveva già letto due volte, ma l'unico altro libro che si fosse portata appresso era L'Abbazia di Northanger, che aveva già letto quattro volte. Tuttavia, Jane Austen continuava a sembrare preferibile al polpettone di Jackie Collins che l'agente Lipinski si era offerta di prestarle. La 'casa sicura' del Dipartimento si era rivelata una minuscola e tetra abitazione mobile di due vani parcheggiata nelle lande desolate intorno a Victorville e, non avendo altro da fare, Natalie si era messa a leggere fino a farsi venire il mal di testa per la privazione sensoriale. Sospirò e guardò la Lipinski, dritta su una sedia dallo schienale alto in una postura quasi militare, sul lato opposto della camera da letto. Con la maglietta color cachi dell'esercito americano e la fondina alla cintola in cui era infilata l'automatica calibro 45, il suo incongruo passatempo consisteva nel farsi una sciarpa a maglia. Le sue mani sforbiciavano i lunghi ferri blu con rapidità e precisione robotiche.
«Sto pensando di andare a dormire» annunciò Natalie. «Come desidera.» Il ticchettio intermittente dei ferri della Lipinski non rallentò nemmeno. Natalie attese che lei afferrasse il concetto, ma l'agente non fece una piega né si diede la pena di aggiungere altro. Era chiaro che quella donna considerava la conversazione un'inutile distrazione. Si trovavano insieme da quasi ventiquattr'ore e non le aveva ancora detto come si chiamava. Natalie pensò al sorriso allegro e alle battutacce di Dan e avvertì una solitudine ancor più sconsolata di quella che aveva patito nella cella rappresentata dal suo appartamentino. «Può andare, ora» disse alla Lipinski, in tono più brusco di quanto avesse inteso. «No. Non stasera.» La paura si insinuò dentro Natalie, facendola irrigidire. «La notte scorsa, lei è rimasta fuori...» «Gli ordini sono cambiati.» «Perché?» Stavolta la Lipinski fece male la sua mossa. «Un rafforzamento delle misure di sicurezza. Tutto qui.» «Mmm.» Gettando l'occhio sul deserto senza luce da cui erano circondate, Natalie cercò di riempire quel vuoto con un'immagine della giostra luminosa e della carica dei suoi cavalli. Brontolò e districò le gambe per riattivare la circolazione, dato che avevano preso a formicolarle gli alluci. Ma quella sensazione non la abbandonò e, al contrario, si diffuse alle altre estremità del suo corpo - le dita, i lobi delle orecchie, la punta del naso. Anche le pulsazioni nella sua testa si intensificarono, facendole tremolare la vista, in una dolorosa cascata di stelline. La sua mente ondeggiò nel mezzo di immagini sconosciute, come un televisore che avesse perso il controllo verticale delle righe. Qualcuno era alla porta. Con la forza dell'abitudine, Natalie chiuse gli occhi e recitò in silenzio il proprio mantra protettivo. Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare: ad acque tranquille mi conduce. Ristora l'anima mia... La sensazione di narcosi degli arti si quietò e le si schiarì la mente. Ma dietro i suoi occhi perdurò la cortina di nebbia di una persona aliena che, in quel momento, ripeteva le parole di Natalie, per quanto lievemente fuori tempo, una specie di eco dentro la sua scatola cranica. Mentre si sincroniz-
zava con i suoi pensieri, Natalie avvertì il ritorno di quel formicolio ottenebrante nei polpastrelli. Ansimò. Conosceva il suo mantra e ora stava cercando di insinuarsi dentro di lei, per eludere le barriere della sua mente. «Sta bene?» le chiese la Lipinski da un milione di miglia di distanza. Ignorandola, Natalie migrò dal suo mantra protettivo al suo mantra 'da spettatore', che le consentiva di monitorare la coscienza dell'anima che la stava invadendo, permettendole al tempo stesso di riprendere il controllo sul proprio corpo, se necessario. Voga, voga, voga, dolcemente sospinta dalla corrente! Con gioia, con gioia, con gioia, con gioia! La vita è solo un sogno... Ancora una volta, la sua mente fu inondata di immagini, stavolta più nitide: mani delicate tinte di un giallo orientale che reggevano delle chiavi, una stanza circolare rivestita da pannelli di legno di sequoia, una chitarra Stratocaster bruciacchiata e spezzata. Boo, fammi entrare... Natalie aprì gli occhi. Le sue labbra dischiuse erano tutte un tremito. «Lucy.» «Che cosa?» La Lipinski aveva lasciato cadere in terra il lavoro a maglia e si era portata davanti a Natalie, scrutandola da sopra con lo stesso tipo di interesse professionale che mostrerebbe un meccanico di fronte a un motore che si sia messo a sferragliare. «Posso aiutarla?» Prima che l'agente della Sicurezza potesse fermarla, Natalie schizzò dalla camera da letto al bagno attiguo e vi si chiuse dentro. La vita è solo un sogno... Si sentiva le gambe intorpidite e flosce come la bambagia. I suoi muscoli fremettero per effetto di impulsi nervosi di segno opposto, mentre abbandonava il controllo delle proprie membra a Lucy. Le cedettero le ginocchia, cadde contro la porta della doccia e stramazzò sul linoleum come un ammasso di stracci, facendo tremare la cabina per l'impatto. Voga, voga, voga... Quel verso insulso riuscì a mantenere sotto controllo la personalità di Natalie attraverso i recessi del suo subconscio, consentendo all'anima di Lucy di filtrare, come una corrente d'aria umida, nel suo cervello. Sdraiata per terra con una guancia schiacciata contro il pavimento freddo, Natalie era ancora in grado di avere una percezione visiva, seppur obliqua, della base del water, ma fu come se lei non appartenesse a quella scena, come se la stesse osservando attraverso un sistema di telecamere di sicurezza a cir-
cuito chiuso. ...dolcemente sospinta dalla corrente! Una successioni di ricordi così reali da sembrare tangibili si dipanò nella mente che in quel momento divideva con Lucy: il sentore di dentifricio alla menta che Lucy aveva in bocca, mentre usciva dal bagno; il bagliore arancione del lampione oltre le tende, mentre si arrampicava sul letto a baldacchino; le lenzuola di raso che scivolavano sulla sua pelle imperlata di sudore, mentre lottava con l'anima che si era insinuata nei suoi sogni. Natalie udì la sua stessa voce rivolgersi a lei. «Mi hanno sorpresa di notte, nel sonno. Ho cercato di fermarli, ma non c'è stato nulla da fare.» Come hanno fatto, Lucy? fu la domanda di Natalie. Come hanno fatto a entrare? «Mi conoscevano. Conoscevano il mio mantra e lo hanno usato contro di me.» Chi è stato? Chi ha potuto fare una cosa simile? «Non lo so - mi hanno chiusa fuori. Non sono riuscita a monitorare i loro pensieri. Avevano i loro mantra e io non sono stata in grado di penetrarli. Non ho nemmeno mai visto... la fine.» Hai detto loro. Erano più di uno? «Sì... penso di sì. Un vivo e un morto. Ma quello vivo, quello che mi ha ucciso, non l'ho mai visto.» Con la stanchezza di Atlante, Lucy sollevò il corpo di Natalie dal pavimento e si resse su gambe di gelatina, aggrappandosi al lavandino. «Fai attenzione, Boo» fu il monito che rivolse all'immagine riflessa nello specchio dell'armadietto delle medicine. «Non abbassare mai la guardia, nemmeno per un secondo.» La sua anima svanì come una nebbia di ghiaccio secco e Natalie cadde in ginocchio accanto al lavello. Poco a poco, si rese conto dell'insistenza con cui qualcuno bussava alla porta e della voce aspra della Lipinski che la chiamava per nome. «Cos'è successo lì dentro?» chiese l'agente quando Natalie rimise piede in camera da letto. «Mi serve un passaggio fino a Los Angeles.» Afferrò i suoi abiti, con tanto di grucce, dall'armadio. «E un biglietto aereo per San Francisco.» «Cosa diamine...? Le ha dato di volta il cervello?» Natalie mise la prima valigia sul letto e aprì la cerniera lampo. «Preferisce che ci vada con l'autostop?» La Lipinski richiuse la valigia con violenza. «Non le è permesso lasciare
questa casa.» «E che cosa pensa di fare? Spararmi?» Natalie aprì nuovamente la valigia. «Si rende conto che se abbandona la Sicurezza del Dipartimento rischia la vita, vero?» Lei si rimise a sistemare gli abiti in valigia. «Per qualche motivo, agente Lipinski, la Sicurezza del Dipartimento non mi fa più sentire al sicuro come una volta.» 23 Il signore delle porte Lucinda Kamei non pareva seccata all'idea di starsene distesa su un tavolo di acciaio inossidabile per autopsie, nell'obitorio della Contea di San Francisco. In effetti, Dan immaginò di scorgere un leggero sorriso sulla sua faccia livida, anche se si sarebbe potuto trattare benissimo di un rictus indotto sui suoi muscoli facciali dal rigor mortis. Non c'era molto da ridere. Il vivace color mandorla della sua pelle si era stinto fino ad assumere un tono biancastro, a eccezione dei punti in cui il sangue si era raccolto dentro di lei, creando delle ecchimosi purpuree sbiadite lungo la sua schiena e la parte inferiore delle braccia e delle gambe. Il medico legale le aveva aperto il torace mediante una incisione che andava da entrambe le spalle alla punta inferiore dello sterno, e le aveva segato la gabbia toracica per poterne estrarre cuore e polmoni. L'assassino gli aveva risparmiato la fatica di praticare la parte inferiore della tradizionale incisione a Y perché, come era successo anche nel caso di Arthur McCord, le aveva squarciato l'addome dallo sterno all'ombelico e aveva divaricato la ferita per estrarne le interiora. L'intestino tenue che aveva disegnato il cerchio mistico intorno al cadavere della Kamei era ora avvolto, come un verme raggrinzito, nel piatto della bilancia della morgue. Il dottor Delaney, medico legale supplente, un uomo alto dal naso aquilino e dai modi distaccati, era impegnato a fare l'inventario di tutti gli organi interni e a pesarli. «Voglio essere sicuro che non abbia portato via nient'altro» spiegò. La maschera da chirurgo che indossava smorzò le sue parole. Senza volerlo davvero, Dan sbirciò le orbite rosse e vuote dentro alle quali si sarebbero dovuti trovare gli occhi della Kamei. Anche lui e Clark
indossavano delle maschere mentre esaminavano il corpo. Passò in rassegna alcune fotografie della polizia che gli aveva fatto avere Clark perché si rendesse conto del posizionamento del cadavere sulla scena del crimine. «Tracce di violenza sessuale?» «Non abbiamo trovato tracce di seme, se è a quelle che si riferisce» replicò Delaney. Dan sollevò una delle foto. «Ma era nuda quando l'hanno trovata...» «Il che di per sé non significa nulla» intervenne Clark. «Era noto che la Kamei dormisse in costume adamitico...» Il medico legale scosse la testa. «Non si può mai sapere cos'è che eccita questa gente. Questo, per esempio.» Le sue dita ricoperte da guanti di lattice tirarono giù un lembo di tessuto cutaneo che era stato rimesso a posto sulla clavicola della Kamei. Esso ricadde nella cavità toracica vuota, quasi in segno di resa, rivelando dei graffi rossi e grinzosi che formavano un grezzo numero 9. «Per quel che ne sappiamo, il nostro uomo si diverte così.» «Può essere.» Dan cercò di far combaciare il 9 con il messaggio della «porta aperta» lasciato sul petto di McCord. Kamei, McCord, Gannon, Travers, Markham, Avebury, Marshall, Perez, Whitman... la risposta più ovvia era un riferimento al numero delle vittime. Ma il nove era anche un numero mistico: tre volte tre, la Trinità al quadrato. Quel numero poteva avere un significato aggiuntivo per l'assassino? «Tracce del fatto che sia stata drogata?» Delaney si grattò la testa sotto la retina verde-turchese della tuta da chirurgo. «Noi non ne abbiamo trovate, però stiamo ancora attendendo il responso dell'esame tossicologico. Ma, per quanto ho potuto rilevare io, doveva essere del tutto sobria.» Il rumore di una porta distolse la loro attenzione dal cadavere e, quando si girarono, davanti ai loro occhi si presentò un elegante cinese-americano, all'ingresso dell'obitorio. Sollevò un pezzo di carta. «Agente Clark, credo che farebbe meglio a dare un'occhiata.» «Stuart!» Clark si abbassò la maschera da chirurgo e andò incontro al nuovo arrivato. «Dan, ti presento Stuart Yee, del Distretto di polizia di San Francisco. È lui che conduce l'inchiesta Kamei, Stuart - Dan Atwater, FBI.» «Agente Atwater.» Yee si portò un dito al labbro superiore. «Meglio che se li risistemi...» Imbarazzato, Dan si toccò i baffi posticci, metà dei quali si erano stacca-
ti quando a sua volta si era abbassato la maschera. «Al diavolo i baffi.» Scoppiando a ridere, si strappò via quello che restava della sua finta peluria facciale. «Che cosa abbiamo?» chiese Clark. Yee gli consegnò la fotocopia che aveva in mano. «L'assassino l'ha spedita al Chronicle. Non appena l'hanno letta, ci hanno chiamati.» «Meno male che non l'ha mandata al New York Post - non l'avremmo vista che domani mattina sulla prima pagina.» Clark lesse rapidamente il testo della lettera. «L'originale dov'è?» «Ce l'ha la scientifica.» «Hanno scoperto qualcosa?» «Nessuna impronta sulla carta, sulla busta o sul francobollo. Un francobollo autoadesivo, dunque niente saliva. Carta e busta di una marca molto diffusa e disponibile quasi dappertutto. Il carattere sembra un normalissimo Courier 12 di Word 2000, molto probabilmente ottenuto grazie a una stampante HP a getto di inchiostro. Nel complesso, non ci è stata di grande aiuto.» Clark passò il foglio a Dan. «Ha tutta l'aria di essere il nostro uomo.» La spaziatura singola e il grassetto erano centrati perfettamente: Caro Ed: Nove porte aperte, e ancora molte altre da attraversare. Gli occhi li conservo in un barattolo... Per vederti meglio!!! Ora devo proprio scappare, ho altro lavoro da svolgere. Avrai presto mie notizie. Sempre tuo, IL SIGNORE DELLE PORTE. «Non è esattamente Shakespeare.» Dan restituì il foglio a Yee. «Come facciamo a sapere che non si tratta del solito mitomane in cerca di attenzione?» «Perchè la busta non porta il timbro di ieri» replicò il detective. «È come minimo una conferma del tuo profilo» disse Clark. «E ci dice che cosa significa quel nove inciso sul petto della Kamei.»
Perché non mi fa sentire meglio? Dentro di sé, Dan vide Lucy sfiorare la chitarra di Hendrix, con i suoi occhi luminosi. I suoi occhi... Si voltò di nuovo verso il tavolo delle autopsie e scrutò il placido volto pallido della Kamei. «Per caso, avete trovato della gelatina vitrea nelle orbite?» chiese a Delaney. Il medico legale non si diede nemmeno la pena di alzare gli occhi dal cadavere. «No. Ha strappato quelle due gemme con grande precisione, senza intaccare niente. Solo minime lacerazioni alle palpebre, il che fa pensare che abbia usato le dita e non un coltello.» Clark si avvide dell'espressione perplessa di Dan. «Cosa c'è?» Dan indicò la lettera in mano a Yee. «Se davvero fa collezione dei loro occhi, quelli di Arthur McCord non devono aver rappresentato un gran trofeo. O in quel caso si è accontentato di un lavoro fatto alla meno peggio, o migliora a ogni crimine che commette. Oppure...» Esitò. «Oppure stavolta qualcuno l'ha aiutato» fu Clark a terminare la frase. «Era quello che stavi suggerendo?» «Forse. Qualcuno che non ha potuto superare la gabbia dell'anima di McCord ma che è stato capace di far entrare l'assassino nello studio di Kamei, al piano di sopra. Qualcuno in grado di far restare la Kamei completamente muta e immobile mentre l'assassino faceva il lavoro nel modo giusto.» Clark e Yee si scambiarono uno sguardo cupo. Prima che potessero rispondere, il cellulare di Dan squillò. Lui chiese scusa e si ritrasse di qualche passo per rispondere alla chiamata. «Qui Atwater. Chi parla?» «Dan! Sei ancora a San Francisco? Sto arrivando.» Lui abbassò la voce. «Natalie? Pensavo che fossi rintanata Dio solo sa dove.» «Lo ero. Stammi a sentire. Il mio aereo atterra alle undici e mezza. United Airlines uno-zero-zero-otto. Ce la fai a venirmi a prendere?» Dan estrasse la penna e il taccuino e si annotò le informazioni relative al volo. «Certo, ma perché stai venendo qui?» «Ho parlato con Lucy.» «Capisco» Diede un'altra occhiata al tavolo delle autopsie. Delaney aveva staccato la pelle dalla fronte della Kamei e gliel'aveva abbassata fino a coprirle la faccia. Brandendo una sega apposita, il coroner si mise a ritagliare una sezione elicoidale del cranio per rimuoverne il cervello. Il sibilo
della lama rotante della sega si fece più sordo non appena iniziò a intaccare l'osso. «E che cosa ti ha detto?» «Che qualcuno sta aiutando l'assassino. Qualcuno che è morto.» La faccia di Dan si irrigidì. «Era proprio quello che temevo. Ci vediamo a mezzanotte.» «Non vedo l'ora.» Il desiderio che la sua voce esprimeva lo lasciò senza parole per un secondo. «Sì» disse infine. «Anch'io.» Ma l'unica risposta fu il segnale di linea libera. 24 Partiti Dopo quello che le aveva detto Lucy, Natalie capì di non potersi permettere assolutamente e per nessun motivo di addormentarsi. Per essere certa di non assopirsi, fece ricorso a due cose che non avrebbe mai pensato di fare. Bevve una tazza grande di caffè Starbucks, che con ogni probabilità le avrebbe scatenato un cancro al colon nel giro di vent'anni, e si accomodò accanto al finestrino sul volo per San Francisco. Quando l'effetto della caffeina iniziò ad attenuarsi, Natalie si impose di guardare i puntini luminosi di San José sotto di lei. Rammentare a se stessa che stava viaggiando in una scatoletta di latta a seimila metri di altezza le diede uno scossone di terrore puro, vertiginoso, che la destò di soprassalto. Con un colpo secco, abbassò la tendina e si lasciò andare pesantemente contro lo schienale, respirando con affanno. Il passeggero di fianco a lei, sull'altro lato del corridoio, un nero esile dalla barba spuntata con cura, sorrise e si portò una mano davanti alla bocca, sussurrando con aria cospiratoria: «Non si preoccupi! Ce la faremo!» Lei rise della sua stessa superficialità. In realtà, c'era di che essere fieri. Era la prima volta che volava da sola. Non che la Lipinski non avesse minacciato di accompagnarla. In effetti, aveva costretto Natalie a telefonare a Delbert Sinclair, che aveva fatto delle sinistre allusioni alle sanzioni cui sarebbe andata incontro la sua famiglia se avesse abbandonato il programma di protezione della Sicurezza. «Se non sbaglio, l'azienda di suo padre si è aggiudicata proprio di recente un notevole appalto governativo» mormorò. «Sarebbe una disdetta se quel contratto dovesse venire invalidato. E poi c'è la questione dell'assicu-
razione sanitaria a lungo termine stipulata da sua madre...» Natalie aveva riattaccato prima di cambiare idea. Il suo unico rammarico era stato non poter stringere la mano di Dan durante le traumatiche fasi del decollo e dell'atterraggio. Quando finalmente il suo aereo giunse nei pressi dell'area di sbarco, Natalie si allontanò sulla passerella ed esplorò con lo sguardo l'area circostante, per individuare la faccia di Dan. A mezzanotte, il terminal dell'aeroporto internazionale di San Francisco era un posto desolato. Le poche persone che languivano ancora sulle panche imbottite avevano la stessa aria abbandonata dei bicchieri di bibite e dei giornali vecchi che insudiciavano le sedie vicine. Quando Natalie non scorse Dan in mezzo a loro, le prese un formicolio di panico. Il suo volo non aveva certo registrato il tutto esaurito, e i passeggeri uscirono dall'aereo e si dispersero come bolle da una bottiglia di seltz aperta. Quando quel flusso di viaggiatori si assottigliò, Natalie vide un uomo dagli occhiali cerchiati d'osso e baffetti marroni fermo vicino a lei, con il nodo della cravatta che pendeva lasco e il colletto della camicia sbottonato. Reggeva bene in vista un cartello su cui stava scritto a mano il nome JOSIE MITCHELL. Non riuscì a trattenere un risolino mentre si incamminava senza fretta verso di lui. «Il dottor Mitchell, immagino?» «Ah, Josie! Non sai quanto mi sei mancata, tesoro.» Dan si infilò il cartello sotto il braccio e sorrise. «A ogni buon conto... ti ha mai detto nessuno che i capelli castani ti donano molto?» «Be', no.» Si arruffò i capelli vaporosi della sua ultima parrucca. «Però grazie per averli notati, caro Kent. E, comunque, mi piacciono i baffi ma... quegli occhiali devono sparire.» Lo cinse con le braccia, in una stretta esplorativa. «Mi sei mancato.» Le mani di lui le strinsero la schiena. «Anche tu mi sei mancata.» Si ritrassero uno dall'altra con aria colpevole. «Hai altri bagagli?» le chiese Dan, indicando la ventiquattrore che era appesa alla sua spalla. «Sì. Una valigia che ho dovuto imbarcare.» «Fatto buon viaggio?» «L'aereo non si è schiantato, se è questo che intendi. Non credo che mi abituerò mai a...» Natalie non terminò la sua protesta. Dopo essersi diretti alla scala mobile che scendeva all'area recupero bagagli, imboccarono un corridoio sul quale si aprivano sportelli di fast-food, negozi di articoli da regalo e giornalai, in
buona parte chiusi per la notte. Ad attirare la sua attenzione fu un mormorio convulso proveniente dalla loro destra, ma Natalie impiegò un attimo a comprendere che cosa stesse dicendo quella voce. «...due per due quattro, due per tre sei, due per quattro otto...» Fu come se un fantasma le avesse messo una mano su una spalla. Si voltò e vide un vagabondo dalla barba sfatta fermo nei pressi dei bagni degli uomini. Da sotto il suo berretto di lana col pompon spuntavano dei ricci neri bisunti e la sporcizia gli scuriva le rughe della fronte. Era raggomitolato nel suo cappotto lanuginoso blu e aveva le mani strette sulle orecchie, come per escludere un strepito immaginario. Accorgendosi probabilmente di essere osservato, entrò nel bagno con andatura malferma e scomparve. Dan seguì la direzione del suo sguardo fino alla porta del bagno degli uomini. «Cosa c'è?» «Hai sentito cosa stava dicendo quell'uomo?» «Il barbone? Parole sconclusionate, mi è sembrato.» «Già. Forse hai ragione.» Natalie osservò l'ingresso del bagno, ma il barbone non venne fuori. Prese la mano di Dan. «C'è tempo per un caffè, prima di partire?» La fissò come se gli avesse chiesto di lanciarsi col paracadute. «Certo... come vuoi.» Saltò fuori che lui aveva molto più bisogno di caffeina di lei. Per poco non si addormentò al volante, nel viaggio di ritorno al motel dove alloggiava. Lei gli massaggiò la fronte. «Da quanto tempo è che non dormi?» «Be'... più o meno quarantadue ore. Niente che non abbia già fatto quand'ero al college.» Natalie sospirò e posò lo sguardo sulle linee bianche delle corsie dell'autostrada che guizzavano nel fascio di luce dei loro fanali. «Mi dispiace. Sarei felice di prendere il tuo posto al volante, ma non ho mai imparato a guidare.» «Non preoccuparti. Dammi solo un cazzotto ai fianchi se sto per addormentarmi.» Gli studiò la faccia nella luce riflessa dalla strada: l'angolazione risoluta della mascella rivestita da quella peluria, le pieghe che l'ansia aveva scavato alle estremità della sua bocca, gli occhi aggrappati al mondo visibile, timorosi di chiudersi. Poteva essere il viso di un Viola. Quando raggiunsero la non certo sfarzosa sistemazione del Walkright
Inn di San Francisco, Dan prese automaticamente le sue valigie e arrancò verso la scala di emergenza. «Spiacente» le disse senza voltarsi. «Se avessi saputo che venivi, avrei prenotato una stanza al piano terra.» «Non preoccuparti.» Natalie gli agganciò una mano al gomito. «Prendiamo l'ascensore.» Gli occhi stanchi di Dan luccicarono. «Non è necessario che tu... sono solo due piani.» Lei scrollò le spalle e sorrise. «Ehi, che probabilità abbiamo di essere colpiti da un 7.62 nei prossimi tre minuti?» Dan si accorse che stava facendo sul serio e scoppiò a ridere. «Comunque non devi per forza spezzarmi un braccio. Vai avanti tu!» Natalie riuscì a mantenere un'espressione calma per la breve durata della corsa fino al terzo piano, anche se trattenne il respiro per tutto il tempo e restò a braccia conserte per impedire che le tremassero le mani. «Casa dolce casa!» esclamò Dan entrando nella sua camera. Mise le valigie sulla cassettiera e si tolse il giubbotto. «Stavo pensando di darmi una rinfrescata nella doccia prima di coricarmi. Vuoi andare per prima?» «No, vai pure avanti tu.» Con un respiro profondo, Natalie si sedette su uno dei letti gemelli. «Dan... ti va di parlarmene?» Lui si tolse la cravatta e iniziò a sbottonarsi la camicia. «Di cosa?» «Lo sai.» Dan si appoggiò sul bordo dell'altro letto, dandole le spalle. «Voglio sentire la tua versione della storia» continuò Natalie, visto che lui non era in grado di rispondere oppure aveva scelto di non farlo. «Già, penso di dovertelo.» Si lisciò i capelli all'indietro, ma continuò a restare voltato. Non ci impiegò molto. Il blitz della squadra antidroga, l'indiziato che scappava, la sagoma nel vicolo, l'uomo sbagliato agonizzante al suolo - era chiaro che quella storia l'aveva già raccontata molte volte. Quando ebbe finito, rimase quasi senza voce e si guardò le mani come se non le riconoscesse. «Chi era quell'uomo?» gli chiese Natalie in tono pacato. «Allan Pellettier.» Fu come se pronunciare quel nome suscitasse in lui un dolore fisico. «Il custode di notte della lavanderia. Aveva una moglie e due figli.» Dopo essersi spostata dal proprio letto a quello di Dan, Natalie gli premette il palmo della mano sulla schiena. «Sei un brav'uomo. Non intendevi fare quello che hai fatto.»
Lui tirò su col naso e se lo grattò. «Saperlo non mi è di nessun aiuto.» «Ti sarebbe d'aiuto parlare con Pellettier in persona?» Dan si ritrasse. «No. Nel modo più assoluto. È una cosa folle...» Lei non mollò la presa sul suo braccio. «Mi hai detto che hai vissuto in una scatola per due anni. Forse è proprio questa la via d'uscita.» Dan si schiacciò le mani contro le orbite infossate. «E cosa potrei dirgli?» «Digli quello che provi. Quanto tu sia dispiaciuto. Chiedigli di perdonarti. Tutto ciò che vorresti aver fatto quella sera.» Gli prese la mano. Fu percorsa da un brivido. Quando lui alzò gli occhi per guardarla, Natalie si accorse che le lacrime a lungo trattenute avevano impastato le ciglia agli angoli dei suoi occhi. Le dita di Dan si strinsero sulle sue. «D'accordo. Fallo.» Natalie annuì e chiuse gli occhi. Voga, voga, voga... Non aveva neppure finito la prima sequenza del mantra dello spettatore che l'anima iniziò a pizzicarle le dita. Pulsò lungo le linee del palmo di Dan e fece drizzare i peli sul dorso della sua mano. Era evidente che Allan Pellettier aveva atteso quel momento a lungo. ...la vita è solo un sogno... Memorie tangibili del passato di Pellettier le fluttuarono nella mente: batté le sue mani nere e callose quando un ragazzino che indossava un casco e una casacca di colore rosso acceso portò la palla ovale in meta; strofinò il naso contro la guancia di una donna sorridente dalla pelle color cioccolato, inalando la fragranza di lavanda del suo profumo; rise mentre una bimbetta col pannolone sgambettava sul pavimento in cerca del suo piccolo dinosauro a molla. Fu allora che la forza della personalità di Pellettier la colpì con tutta la potenza di un ciclone. Natalie lottò per impedire che la sua faccia mostrasse quei torrenti di dolore e di rabbia. Il dolore per il mondo che Pellettier aveva conosciuto, un mondo ancora fresco e meraviglioso e, tuttavia, già morto per lui, come una rosa recisa che stia avvizzendo in un vaso. E rabbia - una furia travolgente, terribile - nei confronti degli uomini che gli avevano tolto un futuro. Avrebbe concesso a Dan una sola possibilità di fare ammenda? Oppure si sarebbe limitato a strangolarlo con le mani di Natalie? Con la mascella indolenzita a forza di digrignare i denti, Natalie pensò
ad Arthur e alle sue finte sedute spiritiche, alla madre che piangeva di gratitudine per le parole di consolazione che il figlio defunto non aveva mai pronunciato. Io dico loro quello che vogliono sentirsi dire, erano state le parole di Arthur. E, a ogni buon conto, a loro piace più della verità. Natalie si sforzò di mantenere la propria faccia immobile, una impassibile maschera della meditazione, mentre passava dal mantra dello spettatore al Salmo Ventitré. Il Signore è il mio pastore... L'anima di Pellettier gridò la sua muta rabbia. Cercò inutilmente di resistere, con tutta la sua furia, mentre lei lo strappava dalla gronda della sua mente, e la maledisse per avergli tolto la vita per la seconda volta. Natalie mandò giù il brivido che si dibatteva sulle sue labbra. Grazie a Dio non era collegata a uno Scanner dell'Anima. «Non c'è» disse. Dan sollevò la testa e deglutì la saliva che gli si era formata in bocca. «Che cosa?» «Non riesco a convocarlo. Se n'è andato.» «Andato?» «Andato.» Natalie lo cullò dolcemente mentre le piangeva sulla spalla. Dentro di sé, vide Lucy sfiorare la Stratocaster bruciacchiata. Mi dà speranza, erano state le parole di Lucy. Dan tremava tra le sue braccia proprio come aveva tremato quel giorno: di speranza. Natalie si chiese se aveva fatto la cosa giusta. Allan Pellettier avrebbe mostrato clemenza a Dan se lei gliene avesse dato la possibilità? Non ne era sicura. Ma una vita sprecata era più che sufficiente. Forse ora Dan sarebbe riuscito a vivere la sua. Dopo averlo delicatamente aiutato a salire sul letto, Natalie lasciò che il pianto di Dan avesse uno sfogo completo, finché lui non sprofondò in un sonno tranquillo. Passò il resto della notte al suo fianco, osservando la quiete infantile del suo viso e, di quando in quando, passando i polpastrelli sui ciuffi dei suoi capelli arruffati. 25 Contatto Facendo ruotare la punta di diamante intorno a un asse centrale, come il
perno di un compasso, Clement Maddox incise un perfetto cerchio bianco sulla finestra della camera da letto. La ventosa era ancora saldamente attaccata al centro del cerchio e lui ne fece oscillare il manico per liberare con un colpo il disco dal vetro circostante. Una volta rimosso il disco, infilò tagliavetro e ventosa nel marsupio, accanto allo scanner di codici di sicurezza che aveva utilizzato per oltrepassare il cancello di ingresso, e richiuse la cerniera lampo. Rannicchiato tra gli arbusti, lungo la parete della camera da letto, Maddox scrutò gli appartamenti vicini, nel caso vi fossero dei testimoni in giro. Erano passate le tre del mattino e non si vedeva una sola luce alle finestre. Trattandosi di un giorno feriale, molti avrebbero dovuto riposare, in vista dalla giornata di lavoro che li attendeva, per quanto a Los Angeles, non ci si potesse mai fare affidamento. Non scorgendo minacce immediate, Maddox infilò una mano nel buco della finestra e sganciò la chiusura a scatto. Con un'agilità da esperto aprì la finestra, saltò sul davanzale e si richiuse delicatamente il battente alle spalle in meno di venti secondi. Avviluppato dall'oscurità della camera da letto, Clem staccò una sottile torcia elettrica da un anello che teneva alla cintura e cominciò a cercare un elemento di contatto adeguato. Puntò il minuscolo fascio di luce sull'armadio aperto, ma lo spostò quasi subito: metà degli appendiabiti erano già liberi e i vestiti erano comunque troppo voluminosi da trasportare. Inoltre, per i suoi scopi Clem preferiva oggetti più personali - qualcosa che avesse maggiore risonanza. Nell'abitazione di Lucinda Kamei, dopo l'omicidio, non era riuscito a trovare un oggetto adeguato. Troppi sbirri in giro. Per fortuna, possedeva già un CD che si era fatto autografare da lei un paio d'anni prima in un megastore della Virgin. Certo non l'ideale, ma lei lo aveva toccato, e dunque se lo sarebbe fatto bastare. D'ora innanzi, però, avrebbe pianificato le cose in anticipo e avrebbe preso prima ciò che gli serviva. Ecco perché aveva trascorso tutta la notte in macchina per venire fino a Los Angeles. Le sue mani tremavano già per l'effetto delle troppe Red Bull e della dose eccessiva di compresse NôDôz23 e comunque, prima di poter andare a dormire, lo attendeva ancora un bel po' di strada. Il raggio della torcia danzò sulle teste nude dei manichini che poggiavano sul tavolo da trucco. La loro lucentezza da lucciole si rifletteva nel buio dello specchio. Dell'argento scintillò nel chiarore prodotto dal passaggio
della torcia e così Maddox puntò il fascio di luce sulla collana appesa. Sorrise. «Presto, Amy. Molto presto.» Accolse il ciondolo a forma di serpente nel palmo della mano e lo strofinò per scaramanzia. 26 Vecchi amici Dan si svegliò con l'alito cattivo e una pellicola simile alla bava delle lumache che gli rivestiva la bocca. Si grattò la lingua sui denti e si fece scricchiolare le ossa, girandosi sulla schiena, mentre i ricordi della notte precedente erano ancora obnubilati dal sonno. Quando una mano gli sfiorò la fronte, aprì gli occhi e vide quelli di Natalie che lo fissavano dall'alto. Sorpreso dall'intensa luce del sole filtrata dalla finestra della camera del motel, scattò a sedere, come una trappola per topi azionata da una molla. «Santo cielo! Che ore sono?» Natalie gli impedì di saltare giù dal letto. «Rilassati, sono solo le nove.» Lei indossava ancora la parrucca vaporosa lunga fino alle spalle, ma si era tolta le lenti a contatto che avevano donato alle sue pupille la medesima sfumatura castana. I suoi occhi erano un merletto di capillari rossi e le sue palpebre sembravano livide per la stanchezza. Dan rivolse un'occhiata al letto accanto al suo, le cui lenzuola non erano state toccate. «Non dirmi che...» «Non sarei riuscita a dormire comunque.» Col dito, Natalie percorse le curve dei suoi zigomi. «Come ti senti?» Avrebbe dovuto avere una risposta pronta per quella domanda, ma non fu così. Angosciato? Sollevato? Divertito? Tutte quelle cose insieme, e altro ancora. Il ricordo della notte precedente era come lo spettacolo video di un intervento chirurgico a cuore aperto praticato su di lui in persona: tutto fuorché reale. «Meglio» disse infine. «Mi sento meglio.» Fece per sfiorarle una guancia con la mano, poi la ritrasse e invece le toccò un braccio. «Grazie.» Senza staccargli quegli occhi viola dal viso, gli prese una mano fra le sue e se la portò alle labbra. Il bacio si posò sulle sue nocche con la delicatezza di una farfalla.
I suoi battiti si intensificarono sull'onda del desiderio e dell'inquietudine. «Forse... forse è meglio che andiamo...» Nonostante le sue parole, Dan oppose solo una resistenza simbolica quando Natalie si sporse in avanti per sfiorare le sue labbra con un bacio leggero come un sussurro. E fu allora che lui le accarezzò la guancia. «Natalie? Sei proprio tu?» «Sì. Sono io.» Si scostò un poco da lui. «È un problema?» «No.» Si abbandonò a una risatina nervosa. «Forse dovrebbe esserlo, ma non è così.» Scordandosi per un momento che i suoi capelli non erano veri, lui le passò le dita tra i ciuffi ondulati castani e, per la prima volta, si concesse di assaporare la bellezza di quella pelle secca come un osso e del bagliore di luce nera emesso da quegli occhi scurissimi. Un'attrazione gravitazionale lo spinse verso di lei. La sua bocca si aprì per accogliere quella di lei. Nella morsa della loro solitudine, si baciarono con la voracità di due persone che si stessero sbranando a vicenda. Dan, a disagio, si ritrasse di scatto. «Scusami. Ho un aspetto orribile.» Si massaggiò la guancia ruvida e guardò gli abiti in cui aveva dormito, che ora puzzavano di stantio. «Non mi sono lavato né rasato...» «Nemmeno io.» Si gettò in avanti per abbracciarlo e lui se la schiacciò al petto, grato di poter strofinare il naso sulla carne morbida del suo collo per assaporare la salinità del suo sudore. Con la barbetta ispida lasciò degli sfoghi rosa sul suo pallore, ma lei non protestò, neppure quando lui si mise a baciare le parti più basse del suo corpo. Né lui si lamentò di quanto fossero ruvide le sue gambe scoperte quando lei gliele strinse intorno alle cosce nude mentre facevano l'amore. Quando ebbero finito, Natalie si tolse la parrucca e fece la doccia insieme a lui, mentre Dan le accarezzava il cranio liscio come l'acqua, in muta adorazione. Una persistente sensazione di irrealtà prese possesso di lui mentre si vestivano e si paravano. Natalie indossò la parrucca e le lenti a contatto castane, e Dan gli occhiali e i baffi finti. Non dissero una parola su quanto era successo; erano riluttanti ad ammettere ciò che avevano fatto, oppure non intendevano sciupare l'incantesimo, che li aveva uniti, qualunque esso fosse. Ogni cosa tornò a essere quella di prima, anche se tutto era cambiato. Scesero al pianterreno in ascensore e Natalie insisté che si fermassero a prendere un caffè nella sala ristorante accanto alla hall del motel. La 'colazione continentale gratuita' prevedeva soltanto caffè Folgers24 in ustionanti
tazze di polistirolo con l'aggiunta facoltativa di crema di latte in polvere, non certo buono, ma Natalie trangugiò due tazze di quella schifezza senza fare una piega. «Stare sveglia deve proprio essere fondamentale per te.» Dan gettò nella spazzatura la sua tazza ancora piena per metà. «Già.» Lei mandò giù quel che rimaneva del suo caffè come se stesse tracannando un bicchierino di whisky. «Lucy ti ha spaventata così tanto?» L'espressione di Natalie si fece grave. «Lucy era una dei Viola più esperti che conoscessi. In meno di due secondi sarebbe stata in grado di espellere dal suo cervello qualunque anima. Se non ne è stata capace lei, non so come potrei farcela io.» «Non puoi stare sveglia per sempre.» «Lo so. Ed è per questo che non ti puoi fidare di me.» Fece scivolare la sua mano in quella di Dan, percorrendo la hall con lo sguardo, come se stesse per commettere un crimine. «Tienimi costantemente d'occhio. Se comincio ad avere dei comportamenti strani, stendimi. Prendimi a pugni, se serve. Qualunque cosa serva a...» Gli occhi di lei si fermarono su qualcosa che si trovava dall'altra parte della sala. «Che cos'è?» Dan guardò nella stessa direzione e vide un uomo di colore dalla magrezza cadaverica, con un abito grigio, seduto di fronte a loro, assorto nella lettura dell'edizione del mattino del Chronicle. «Forse sono soltanto paranoica.» Studiò la faccia aristocratica di quell'uomo, orlata da una barbetta lanuginosa nera. «Giurerei che quell'uomo ieri sera era sul mio stesso volo.» L'uomo ripiegò il giornale e se lo infilò sotto il braccio, mentre si alzava per avviarsi lentamente fuori dalla hall. Pareva perfettamente calmo, ma... forse c'era qualcosa di fin troppo studiato nella sua naturalezza, qualcosa di fin troppo calcolato nel modo in cui aveva evitato di rivolgere lo sguardo nella loro direzione? Dan rafforzò la presa sulla mano di Natalie. «Andiamo.» Quando raggiunsero il marciapiedi davanti al motel, l'uomo era scomparso. Mentre lui e Natalie salivano in macchina e si dirigevano verso il tribunale per incontrarvi Clark, Dan esaminò ogni pedone che superarono e il guidatore di ciascun veicolo intorno a loro, preoccupato di scorgere uno straniero il cui sguardo indugiasse troppo a lungo su di loro. La città si
trasformò nel Vicolo dei Gangster del poligono di tiro all'accademia di polizia - dietro cui si nascondevano mille minacce, una facciata dalle cui porte o finestre potevano spuntare dei malviventi in qualsiasi momento, come un pupazzo da una scatola a sorpresa. Non impiegarono molto a notare la Honda nera che li tallonava da tre svolte consecutive, mentre serpeggiavano per le anguste strade del centro cittadino. Natalie si abbandonò contro il finestrino dal lato del passeggero e ritrasse il capo, come fosse sul punto di starnutire, lamentandosi. Gli occhi di Dan fecero la spola tra la strada davanti a loro e la macchina riflessa nello specchietto retrovisore. Girando il volante con una mano sola, l'afferrò per un braccio e la tirò su. «Ehi! Stai bene?» Lei batté le palpebre e si scosse la stanchezza di dosso. «Sì... sto bene. Che sta succedendo?» «Fra poco lo scoprirò.» Sterzò dalla corsia di sinistra a quella di destra. La Honda fece altrettanto. Avvicinandosi all'incrocio seguente, Dan rallentò l'andatura finché scattò il giallo, dopodiché pigiò l'acceleratore. La Honda passò col rosso per non perdere i contatti. Con l'altra macchina praticamente attaccata al paraurti posteriore, Dan riuscì finalmente a inquadrare il guidatore nello specchietto: al volante sedeva quella che sembrava un'enorme bolla rosa con sopra un cappellino da baseball. Dan sorrise. «Che stai facendo?» gli chiese Natalie quando lui abbandonò la Van Ness e si mise a perlustrare i cordoli affollati di una stradina laterale, alla ricerca di uno spazio dove parcheggiare. «Vado a trovare un vecchio amico.» Ci volle un po' per individuare il posto perfetto; gli serviva uno spazio sufficientemente vicino a un semaforo, un posto di fianco al quale ci fosse un altro spazio libero. Per fortuna Preston era un pedinatore persistente e non certo esperto. Dan biasimò se stesso per non essersi accorto del giornalista molto tempo prima di quel pomeriggio presso l'abitazione della Kamei. Finalmente trovò un punto che sembrava adatto al suo scopo e posteggiò. Vedere la Honda che parcheggiava in retromarcia in uno spazio a mezzo isolato di distanza fu una bella soddisfazione. «Starò via solo qualche minuto» disse a Natalie. «Te la senti di restare sola?» Lei gli rivolse un cenno esitante. Nella luce accesa del giorno, la macchia scura sbiadita che aveva intorno agli occhi la faceva sembrare fragile e malaticcia. «Mi puoi lasciare le chiavi?» chiese con voce flebile. «Vorrei
tenere accesa l'aria condizionata.» «Mmm... certo.» Reinserì la chiave nel cruscotto e attese che il semaforo tornasse rosso, con la mano sulla maniglia della porta. Quando il semaforo cambiò colore, le macchine si ammassarono sull'incrocio e Dan smontò con un balzo e corse fino alla Honda. Sid Preston lo vide arrivare e innestò la marcia, ma era troppo tardi. Aveva a fianco una fila ininterrotta di macchine a stretto contatto e nessuno gli avrebbe concesso di inserirsi con il muso. Dal parabrezza, Dan vide Preston picchiare sul volante e imprecare, inscenando una pantomima acusticamente isolata. Fermo accanto alla Honda, Dan diede un colpetto sul finestrino del guidatore, con un sorriso allegro. Il giornalista lo fulminò con lo sguardo ma, comunque, abbassò il vetro. «Signor Preston! Che piacevole sorpresa.» Il reporter si calò la visiera del cappellino degli Yankee sulla fronte. «Cosa vuole, Atwater?» «Tanto per cominciare, che ne dice di scendere dalla macchina?» «Perché? Non devo parlare con lei.» «Al contrario: lei si trovava sul luogo di ciascuno degli omicidi dei Viola e questo fa di lei un importante indiziato.» «Andiamo! Sono tutte stronzate, e lei lo sa benissimo.» «Ottimo, allora. Che ne dice se l'arresto per aver ostacolato il corso della giustizia?» Preston fece una smorfia di scherno. «Non riuscirà mai a provarlo.» «Forse no, ma basterà a tenere il suo nome lontano dalla prima pagina finché il suo avvocato non la farà rilasciare dietro cauzione.» Schiacciandosi il chewing gum dietro i denti, Preston sbottò in una serie di oscenità e mise la marcia in posizione di sosta. Smontò dalla macchina e appoggiò la schiena alla Honda, a braccia conserte. «Gliel'hanno mai detto che non si scherza con il Quarto Potere?» Dan scrollò le spalle. «Che cosa posso dire? Sa bene quanto mi piaccia finire in prima pagina. A ogni buon conto, come ha fatto a trovarmi?» «Non è stato difficile. Mi sono detto che sarebbe dovuto venire allo scoperto per fare rapporto al suo capo, e così per alcuni giorni ho seguito gli spostamenti di Earl Clark. Vi ho visti insieme a casa della Kamei e all'obitorio, ho scoperto il suo travestimento da Groucho Marx e... bingo!» «Niente male. E gli omicidi dei Viola? Come ha fatto a collegarli?» Il reporter si produsse in un sorriso affettato, scoprendo i denti. «Be',
quella sì che è stata una trovata geniale, non le pare? Sono lì a occuparmi di una sparatoria tra gang a New York e Russell Travers è impegnato a lavorare al caso. Svanisce nel nulla e la gente comincia a chiedersi se non l'abbiano fatto fuori. «Mi metto in testa che potrebbe esserci una chiave di lettura diversa e così comincio ad assillare il DACA per avere maggiori informazioni. Ma loro mi forniscono risposte evasive, vogliono sapere come mai Travers mi interessi tanto. Faccio le mie indagini e scopro che Travers è il quinto Viola a sparire nell'arco di tre mesi circa. Non solo, ma hanno chiuso la scuola dove addestrano quei ragazzini raccapriccianti. È stato allora che ho capito di aver scoperchiato un bel pentolone.» «Complimenti. Ha scoperto qualcosa che dovremmo sapere anche noi?» Il sorriso di Preston si allargò. «Può darsi. Quanto ci tiene?» Dan gli rivolse l'espressione truffaldina di un venditore di tappeti persiani. «Dipende dall'informazione... e da quanto chiede in cambio.» «L'informazione in questione è un numero di targa. Quanto a quello che chiedo in cambio... be', immagino possa indovinarlo da solo.» Era troppo magro e segaligno, pensò Dan, accigliandosi di fronte al bagliore simile al riflesso di una punta di coltello che balenò negli occhi del giornalista. «Lei vuole uno scoop.» «Ovvio. L'esclusiva. Voglio esserci quando lo beccate e voglio che mi sia riconosciuto il merito di avervi aiutati a prenderlo.» Dan annuì, facendogli intendere che aveva capito. «Sarebbe sufficiente per strappare un contratto con un editore, giusto?» «Affare fatto, allora?» «Sì... dando per scontato che la sua pista porti da qualche parte. Se è un bidone, non se ne fa niente.» «Direi che è equo. Sono una persona ragionevole.» Preston infilò la testa nel finestrino dell'automobile, allungò le braccia oltre il sedile del passeggero e tirò fuori un taccuino giallo che era sepolto sotto un mucchietto di lattine vuote di Mountain Dew25. Lo porse a Dan, ma poi glielo sfilò subito da sotto il naso. «Non mi tradisca, Atwater.» Il suo non era più un sorriso, ma un ghigno. «In questa storia, posso fare di lei un eroe oppure uno squallido burattino.» «Credo che lo abbia già ampiamente dimostrato.» Dan afferrò il taccuino e Preston glielo lasciò prendere, con un'espressione di trionfo stampata in faccia. I primi fogli erano gualciti, stinti, lerci e coperti di scarabocchi incom-
prensibili. I bordi erano orlati da indecenti disegnini di donne nude. Preston fece scorrere i fogli gialli finché ne trovò uno su cui era appuntata una colonna di combinazioni alfanumeriche. «Mi sono annotato i numeri di targa di tutte le macchine che ho visto nei dintorni della casa dei Gannon e della bottega per le sedute spiritiche. Solo due sono comparsi più di una volta: il suo e questo.» Indicò una riga evidenziata in rosa, con la seguente dicitura: WA3APM-821-Camaro grigia. «L'avrei rintracciata io stesso, ma a Washington non ho le conoscenze nell'ambiente della polizia di cui dispongo a New York e a Los Angeles.» «Mmm.» Le pulsazioni di Dan subirono un'accelerazione, ma lui si comportò come se non fosse affatto impressionato e, addirittura, come se fosse un po' annoiato da quell'informazione, mentre si appuntava il numero di targa sul suo blocchetto personale. «Sarà meglio che ci scriva accanto anche il numero del mio cellulare» mormorò Preston, e poi gli dettò le cifre. «Mi chiami sarà pronto per l'arresto.» «Se ci sarà un arresto. E solo se mi sta alla larga.» Dopo essersi infilato blocchetto e penna nella tasca del giubbotto, restituì gli appunti a Preston, che lo fissava, ridendosela di gusto. Dan si accigliò. «Perché ride?» Il giornalista indicò con un cenno il semaforo posto a poca distanza da loro. «Non è la sua macchina quella?» Con la risata di Preston che gli ronzava in testa, Dan si voltò appena in tempo per scorgere la Buick presa a nolo che superava l'incrocio. Spintonando il reporter lontano dalla portiera della Honda, Dan stese una mano. «Mi dia le sue chiavi!» «Cosa? Non può...» Afferrò Preston per la camicia. «SUBITO!» «D'accordo!» Dan gli strappò il portachiavi di mano e si fiondò alla guida della Honda. «Se me la rompe, me la paga!» furono le parole che sentì pronunciare da Preston mentre la Accord si allontanava dal marciapiedi con un grande stridio di pneumatici. La luce del semaforo passò dal giallo al rosso proprio quando lui stava per raggiungerlo e il traffico iniziò a scorrere in direzione perpendicolare alla sua. Dan si piegò sul clacson dell'Honda e premette l'acceleratore. Scartò, con brusche sterzate, le macchine che giungevano da sinistra e da
destra, nel mezzo di un generale rumore di freni e ringhio di clacson, rischiando di far fare un testacoda alla Accord e poi di farla cappottare. Solo tre macchine lo separavano da Natalie quando vide un uomo in sella a una motocicletta infilarsi dietro la Buick e seguirla nella corsia di svolta obbligatoria a sinistra. Benché un casco nero nascondesse il volto del centauro, portava lo stesso abito grigio che quella mattina Dan aveva visto addosso all'uomo nella hall del motel. «Dio misericordioso!» Dan si immise nella corsia parallela, da cui proveniva il traffico in direzione opposta, nella speranza di compiere una manovra elusiva intorno ai veicoli in arrivo dalla direzione opposta, ma una Ford Explorer gli si fece incontro a tutta velocità ed evitò di un soffio uno scontro frontale. Intrappolato tra diversi flussi di traffico, subissato dagli improperi degli automobilisti che inveivano contro di lui da ogni lato della strada, osservò mestamente la Buick e la motocicletta scomparire sulla collinetta che gli stava davanti. 27 Auto-rapimento Natalie si svegliò al buio. Il fatto che non ricordasse di essersi addormentata la riportò bruscamente alla realtà vigile, mentre i suoi occhi cercavano di dare forma alle ombre. Una nube di pulviscolo all'interno di un cono di luce le turbinò davanti, e lei udì il ronzio sordo della ventola di un proiettore. «Come potete vedere, l'ottava vittima ha dato forma definitiva al metodo che da allora noi riconosciamo come marchio di fabbrica dell'assassino dei Viola.» Era la voce di Dan, e proveniva da un punto indistinto oltre il fascio di luce. «Si notino l'allestimento del corpo, il posizionamento degli intestini estratti...» Natalie si voltò a guardare a sinistra, dove il cono di luce diffondeva una impressionante foto della scena dell'omicidio di Arthur McCord su uno schermo rettangolare. «Come vedete, il modello viene reiterato nella mutilazione e nello svilimento della nona vittima.» Lo schermo diventò nero e il proiettore passò a un'altra diapositiva, emettendo un rumore meccanico. Il raggio di luce assunse una tinta rubino, inondando lo schermo con una foto che ritraeva Lucy, nuda, in un lago di
sangue. Benché Dan le avesse descritto quella scena mentre tornavano dall'aeroporto, Natalie non poté fare a meno di restare a bocca aperta davanti a una simile carneficina. Si guardò intorno per vedere la reazione degli altri, ma non riuscì a distinguere neanche una faccia. Si trovava nel quartier generale della polizia di San Francisco? L'aveva portata Dan in macchina, quella era l'ultima cosa che si ricordava. Possibile che il delicato rollio dell'automobile l'avesse tranquillizzata al punto da farla addormentare? Si era presentata a una riunione come una sonnambula, senza nemmeno accorgersene? Alla sua destra, c'era qualcosa che gocciolava. Con ogni probabilità, la condensa dello sfiatatoio del condizionatore. Dan andò avanti nel suo discorso, con la stessa piatta pedanteria di prima. «Possiamo individuare la crescente furia dell'assassino nella sempre maggiore audacia con la quale profana i cadaveri, a partire dalla prima vittima...» Ci fu un nuovo cambio di immagine e un primo piano del volto senza occhi di Jem all'obitorio balenò sullo schermo. «La sua pratica di prelevare gli occhi come trofei ci dice che abbiamo a che fare con un assassino estremamente organizzato e ossessivo.» La pelle avvizzita di Jem si era sbiadita, assumendo una tetra colorazione grigio-verdastra, dalla vivace tinta mogano che l'aveva sempre contraddistinta. Avevano appena individuato il suo corpo? Era per questo che avevano fissato quella riunione? Il ritmo dello stillicidio crebbe. Il condizionatore doveva essere stato in funzione troppo a lungo, perché la temperatura della stanza si era davvero rinfrescata e ora era satura di un odore stantio di muffa. «Per ogni nuova vittima, l'assassino impreziosisce le proprie atrocità...» Scatti delle autopsie di Gig, Sondra, Russell e Sylvia si succedettero con un ritmo impressionante. «Fermati! Non capisco» sbottò Natalie. «Quand'è che avete trovato...» «In un primo tempo casuali, le incisioni sul torace hanno progressivamente assunto una funzione precisa all'interno del rituale dell'assassino: il messaggio delle sue uccisioni.» Dan procedette nella sua fredda dissertazione, come se non l'avesse sentita. «Va tutto bene, Boo» le disse piano una voce di sesso non meglio identificato. «Non hanno sofferto.» Un lieve soffio le punse l'orecchio come l'esalazione di un freezer aperto. Sobbalzò e si guardò intorno, ma la persona che le aveva sussurrato
quelle parole, chiunque essa fosse, era sparita nell'oscurità. Lo stillicidio ora si accompagnava a uno sciacquio irregolare, simile a quello prodotto dal gocciolio di scarpe inzuppate d'acqua. La faccia di Evan si profilò sullo schermo davanti a lei. Nemmeno le orbite svuotate e gli squarci rossi sul collo erano riusciti a distruggere l'espressività carica di dolcezza della sua fronte alta e delle sue labbra carnose. Schiacciandosi un pugno contro la bocca, Natalie riconobbe finalmente l'inflessione inconfondibile della voce che le si era rivolta in un sussurro. Dan continuò la sua piatta ma dettagliata analisi dello sventramento di Laurie Gannon e il proiettore eruttò un'altra diapositiva. «Naturalmente, possiamo individuare il culmine della malattia mentale dell'assassino nel modo in cui si è occupato della decima vittima...» Un altro cadavere pallido, un altro paio di orbite rosse vuote. Ma stavolta il volto era quello di Natalie. Cercò di urlare, ma non riuscì a trovare la forza per farlo. L'assassino le aveva attorcigliato l'intestino intorno al collo, ottenendo un cappio grossolano, simile al cordone ombelicale in un parto podalico. «...È probabile, pertanto, che i delitti possano subire un'ulteriore impennata, per quanto attiene a efferatezza e depravazione, finché non riusciremo a fermarlo. Per farlo, potrebbe essere utile una migliore comprensione dei suoi metodi e della sua follia.» La presentazione si concluse con una schermata bianca. «Le luci, per favore.» Un'oscurità totale continuava a regnare nella stanza, benché Natalie fosse convinta di scorgere delle sagome ancora più scure intorno a sé, tra quelle ombre indistinte. La sua pelle fu trafitta da un freddo pungente e un odore di ferro e di muffa saturò l'aria. «Qualcuno può accendere le luci, per favore?» chiese Dan, stizzito. Tutt'intorno a lei, il solito rumore gocciolante, lo sciacquio di prima e uno scalpiccio di piedi. «Temo che sia impossibile.» Era la voce di Arthur, inconfondibile eppure stranamente gutturale e velata dal catarro. «Non ci sono luci qui.» Il rettangolo bianco dello schermo di proiezione svanì, come il contorno di una porta che sbatteva, e le ombre indistinte si strinsero su Natalie, come dita invisibili che brancolassero nel buio per darle il benvenuto... Fu il terrore a farla precipitare da un'oscurità all'altra: una transizione dall'incubo a uno stato di coscienza, senza soluzione di continuità, proprio come il risveglio di un cieco. Le pareva di avere gli occhi aperti e tuttavia non riusciva a vedere nulla.
Stava ancora sognando? Oppure era già morta? Cercò di avvertire qualche sensazione corporea ma non ne percepì neppure una. Tuttavia, la sua anima continuava a rimbalzare tra le pareti della sua carne, come una lucciola chiusa dentro un barattolo. Evidentemente, qualcuno l'aveva colpita mentre stava dormendo, sprofondandola nei recessi più occulti della sua stessa mente. Con la forza dell'istinto, Natalie invocò il Salmo Ventitré. In anni e anni di meditazione, aveva imparato ad agire su cervello e corpo così da consentire loro di riprendere il controllo, ogni volta che recitava il mantra protettivo. Ma in quel momento, la sua forza di volontà incontrò una tensione superficiale inattesa e i suoi pensieri restarono sigillati all'interno di una bolla impenetrabile. Mi hanno sorpresa nel sonno. La paura risuonò dentro di lei. Se quello che Lucy le aveva detto era vero, forse l'assassino in quel momento le stava squarciando lo stomaco. Non ho nemmeno mai visto la fine... Natalie passò freneticamente in rassegna i suoi ricordi, cercando una via di fuga. Cos'altro le aveva detto Lucy? Conoscevano il mio mantra e lo hanno usato contro di me. Riproducendo il mantra dell'ospite-Viola, l'anima-invasore doveva aver convinto il corpo, con l'inganno, a cedergli il controllo. Se le cose stavano così, in quale modo si sarebbe potuta ricongiungere alla sua stessa carne? In tutte le case c'è una porta sul retro, pensò. Ci dev'essere un altro modo per entrare. Abbandonò il Salmo Ventitré a metà e passò al mantra protettivo che Jem le aveva insegnato quando aveva solo sette anni, un frammento di un blues che la madre di Jem gli aveva cantato una volta come ninnananna: Gesù, caro Gesù, tienimi stretta quando giunge la morte E deponimi nel letto del grande cielo della notte. D'un tratto, due chiazze indistinte di luce si accesero nel buio, come le lenti non a fuoco di un binocolo. Mentre Natalie ripeteva a memoria quel ritornello, le chiazze si allargarono e si schiarirono, sovrapponendosi fino a formare un'unica immagine che, malgrado ciò, continuò a tremolare, sdoppiandosi e tentando ripetutamente di andare a fuoco. Si rese conto che stava ancora viaggiando sulla macchina presa a noleggio da Dan, solo che ora occupava il posto del guidatore. Il vecchio mantra
le restituì anche una certa percezione della propria corporeità, nonostante le sue membra sembrassero fatte di spugna. Solo la pigra pressione del volante sulle sue mani e l'acceleratore sotto il piede confermarono la solidità della sua forma. Con un fastidioso senso di impotenza, Natalie vide le sue mani che, di loro spontanea iniziativa, facevano svoltare la macchina in una strada fiancheggiata da sudici caseggiati grigi e da motel da quattro soldi. Nonostante avesse accelerato il ritmo del mantra, non riuscì a impedire alla sua entità corporea di parcheggiare la macchina e di entrare in quello che un tempo era stato un palazzo di uffici, sul cui ingresso era scritto un nome che qualcuno molto tempo prima aveva reso illeggibile con una mano di vernice a spruzzo. Il puzzo di urina dei gabinetti esterni filtrò nella coscienza di Natalie mentre si vedeva attraversare un atrio disseminato di rifiuti, salire una rampa di scale di cemento e raggiungere una porta priva di maniglia. La sua mano bussò. «L'ho presa.» Quelle parole suonarono vuote e distanti come il fruscio di un grammofono, e Natalie impiegò qualche istante per riconoscere la propria voce. «Tieniti pronta» disse. Un rumore di passi si avvicinò alla porta, seguito dallo schiocco secco di gomma messa in tensione e poi lasciata andare. Tre dita rivestite di lattice si infilarono nel foro in cui si sarebbe dovuta trovare la maniglia e tirarono la porta verso l'interno. No no no no! fu l'urlo di Natalie, ma il suo corpo entrò ugualmente nella stanza. Con la coda dell'occhio, vide la tappezzeria a disegni floreali macchiata di muffa, prima che i suoi occhi puntassero dalla parte opposta e affrontassero il velo nero e impersonale dell'Uomo Senza Volto, che aveva chiuso la porta alle sue spalle. «Hai...?» «Non parlare» sbottò Natalie. «Sta per aprirsi un varco e non sono sicuro di poterla trattenere ancora a lungo. Procediamo.» Il corpo di Natalie si liberò della maglietta e del reggiseno, dopodiché aprì la lampo dei jeans e se li abbassò fino alle caviglie. Sventolando i seni nudi, si sedette a terra e si sfilò pantaloni, mutandine e scarpe, ammonticchiando tutto in maniera disordinata. «E allora? Cosa stai aspettando?» La sua voce brusca tradì la sua impazienza, mentre con occhi astiosi fissava l'Uomo Senza Volto. L'immagine sdoppiata di quell'uomo si separò per poi fondersi e separarsi ancora, come un'ameba che cerchi di riprodursi. Dopo essersi piegato
accanto a quel corpo nudo, l'uomo si sfilò dalla cintura un coltello di acciaio al carbonio - del tipo utilizzato per ripulire le carcasse dei cervi - e le mise la lama in equilibrio sulla cintola, la punta a sfiorarle la parte interna dell'ombelico. Gesù, caro Gesù, tienimi stretta quando giunge la morte, ripeté Natalie con fervente disperazione. E deponimi nel letto del grande cielo della notte! Il mantra era diventato una preghiera. Il coltello sussultò in mano all'assassino. Il tessuto che gli copriva la bocca palpitò come un cuore pulsante. «Forza!» Le mani di Natalie si strinsero intorno al pugno dell'Uomo Senza Volto e tirarono il coltello verso il basso. «Fallo!» La pelle di Natalie iniziò a cedere contro la punta del coltello. Dal graffio nella sua pancia uscì una sola goccia di sangue. Con la petulanza di un bambino deciso a dimostrare che è capace di allacciarsi le scarpe da solo, l'Uomo Senza Volto liberò la mano dalla stretta di Natalie e tirò indietro il coltello, tendendo il braccio per sferrare il colpo. Gesù, caro Gesù... D'improvviso, l'assassino si irrigidì e si scagliò in avanti, sopra di lei, mentre il suo corpo veniva squassato da contrazioni spastiche e tremiti, come colpito da una saetta. Due piccoli dardi metallici, entrambi collegati a un filo bianco ondulato, si erano conficcati nella sua schiena. I fili erano attaccati a un apparecchio che assomigliava a un rasoio elettrico da uomo, solo che al posto dell'interruttore c'era un grilletto. La mano che reggeva l'arma apparteneva all'uomo di colore che aveva incontrato sull'aereo. La mente di Natalie rivolse una supplica a quell'uomo, ma non riuscì a farsi sentire. Al contrario, il suo corpo ringhiò contro di lui e sgusciò sotto l'assassino, scosso dalle convulsioni, per poi gettarsi alla ricerca del coltello da caccia. Quando le sue dita riuscirono a stringerne l'impugnatura, una delle eleganti scarpe in cuoio marrone dello straniero pestò la lama, schiacciandola contro il pavimento. Lo straniero liberò la sommità dell'arma, scoprendo la bocca a U di una pistola a scariche elettriche. Con un secco crepitio, un filo infuocato azzurro si innescò da un'estremità all'altra della parte anteriore dell'arma. Non più immobilizzato dalla scarica elettrica, l'assassino si alzò in piedi, gemendo.
Natalie avrebbe voluto avvisare il suo soccorritore, mettendosi a urlare, ma il suo corpo nudo obbedì all'altro padrone e si gettò con tutto il peso contro la gamba del nero e liberò il coltello. Ma invece di cercare di colpire lo straniero, con la mano rivolse la punta della lama all'interno, mirando al suo stesso cuore. Lo straniero le afferrò il polso, facendo il possibile per tenere il coltello a distanza, e le puntò la pistola a scariche elettriche contro il braccio. Un altro schiocco spezzò l'atmosfera e il sistema nervoso di Natalie, sovraccarico di emozioni troppo forti. Prima di restare completamente abbagliata, Natalie fece in tempo a vedere l'Uomo Senza Volto che si alzava in piedi dietro lo straniero e cercava di afferrarlo alla gola, con le mani rivestite di gomma. Senza sapere per quanto tempo avesse perso conoscenza, Natalie rimise insieme i suoi pensieri. Le prudeva tutto il corpo, come se si fosse rotolata nuda in mezzo alle ortiche, proprio come succedeva ogni volta che qualcuno schiacciava il pulsante antipanico dello Scanner dell'Anima. Aprì gli occhi quel tanto che bastava per captare un'immagine obliqua del coltello da caccia che giaceva sul pavimento, a pochi centimetri dalla sua faccia. Natalie chiamò a raccolta tutta la sua forza di volontà, concentrandola sull'arma. La sua mano annaspò come un ragno paralitico. Non appena le tornò l'udito, percepì un rumore di piedi che si trascinavano, inframmezzato da grugniti e grida stridule. Afferrando il coltello, Natalie rotolò sulla schiena e si accorse che l'Uomo Senza Volto aveva stretto un braccio intorno al collo dello straniero, mentre gli teneva la mano destra bloccata contro il muro. Le dita dell'uomo di colore lasciarono cadere la pistola a scariche elettriche. Con un movimento fulmineo all'indietro, la testa dello straniero scattò verso il volto mascherato dell'assassino, colpendolo appena sopra l'attaccatura del naso. Stordito, il killer allentò la sua presa soffocante e così l'altro gli poté assestare una gomitata al plesso solare. Aspettandosi quella mossa, l'Uomo Senza Volto arretrò di un passo e afferrò il braccio dello straniero, torcendoglielo dietro la schiena. Il lamento dell'uomo di colore si ridusse a un tenue gemito, quando la presa asfissiante tornò a stringersi intorno alla sua trachea. Con un movimento goffo ma pieno d'energia, Natalie riuscì a sollevarsi appena da terra e a caricare l'Uomo Senza Volto, brandendo il coltello. Alla vista di Natalie, l'assassino si bloccò per un istante, senza sapere cosa
fare, dopodiché le gettò addosso lo straniero. I due si scontrarono e caddero in terra, mentre il killer usciva dalla porta e scendeva per la tromba delle scale a passi irregolari. Lo straniero si alzò a sedere, tossendo e ansimando. «Stai bene?» disse con un filo di voce. Per la prima volta, Natalie posò lo sguardo sul proprio corpo nudo e notò la macchia rossa che le brillava tra l'ombelico e il pube. «Sì, sto bene. Credo sia solo un graffio. Ma...» Senza attendere che lei finisse, lo straniero raccolse la pistola a scariche elettriche dal pavimento e si lanciò all'inseguimento del killer. Lasciata sola, Natalie osservò prima i suoi abiti e poi il suo ventre sanguinante, incerta sul da farsi. Un minuto più tardi, l'uomo di colore tornò da lei, esibendo una postura più rilassata. «Se n'è andato. Ora ti do un'occhiata.» Si inginocchiò accanto a Natalie e studiò la ferita. «Bisognerebbe bendarla» fu la sua decisione e, così dicendo, si sbottonò la camicia. Natalie rimase a bocca aperta quando vide la lunga fascia elastica che quell'uomo si teneva avvolta al torace. «Credo che tu ne abbia più bisogno di me.» Sganciò la spilla da balia che teneva stretta la fascia e la srotolò. Gli occhi di Natalie si spalancarono ancor di più quando i seni liberi di quello che fino ad allora aveva creduto un uomo tornarono a gonfiarsi nella loro pienezza. «Chi sei?» chiese Natalie. Lo straniero sorrise e si strappò la barba. Liscio e glabro, quel volto si rivelò improvvisamente familiare: Natalie l'aveva visto al cimitero di Seattle. «Serena Mfume, per servirti» disse la donna. «Simon ti manda i suoi saluti.» 28 Di nuovo insieme Serena non si preoccupò neppure di coprirsi i seni prima di avvicinarsi a Natalie con la fascia elastica. «Solleva le braccia.» Ancora sbigottita per lo shock, Natalie fece come le era stato ordinato. L'altra le avvolse la striscia di tela intorno alla vita e gliela bloccò con forza. Il tessuto beige della fascia elastica si scurì, assumendo la colorazione
porpora del sangue che aveva assorbito. «Ecco. Dovrebbe bastare finché un dottore non ti darà una bella ricucita.» Si mise a sedere sui talloni e si riabbottonò la camicia. Scordandosi per un attimo dei suoi stessi vestiti, Natalie restò a bocca aperta a fissare la sua soccorritrice. Era troppo sbalordita per riuscire anche solo a esprimere la propria gratitudine. «Perché sei qui?» «Simon era preoccupato per te. Pensava che l'assassino potesse avere un complice dall'Altra Parte e non era convinto che gli sbirri fossero preparati a questa eventualità.» Serena si ficcò la barba finta in tasca e sollevò la pistola a scariche elettriche. «A volte Simon può davvero essere una specie di tiranno, ma in fondo è un vecchio sentimentale.» «Già. Immagino che sia così.» Natalie fece una smorfia, ricordandosi di come l'avesse additato come indiziato numero uno. «Mmm... non hai freddo?» Serena indicò gli abiti sparsi a terra. «Ah... già.» Improvvisamente agitata, Natalie afferrò la camicia, la girò dalla parte giusta, e la indossò senza prima mettersi il reggiseno. Mentre si teneva in equilibrio su un piede, per riuscire a infilare una gamba nei jeans, sentì Serena fischiare, da un punto non meglio identificato dietro di lei. «Sembra proprio che un amico ci abbia lasciato un regalino.» Natalie lasciò cadere i pantaloni e si avviò a gambe nude verso la borsa da ginnastica Adidas accanto alla quale Serena si era chinata. La donna di colore si scrollò di dosso la giacca elegante e se la attorcigliò intorno alla mano, che utilizzò per allargare i lembi della chiusura lampo aperta. Un fascio di luce illuminò un ammasso di abiti sgualciti. Schiacciato in un angolo della borsa, un toupet incolto mostrava qualche ricciolo biondo. Per un istante, Natalie pensò che Laurie Gannon stesse bussando alla sua porta. Tornò a percorrere col pensiero l'immagine trasmessale dalla la ragazzina dell'uomo biondo in tuta, accovacciato dietro il serbatoio di olio da riscaldamento, il volto tormentato dall'angoscia dell'indecisione. «E quella. Quella che indossava alla Scuola.» Serena la guardò. «Cosa?» «La parrucca.» «Capisco.» Piegò la giacca intorno alla borsa, come se stesse avvolgendo un neonato in fasce. «Forse quelli della Scientifica sapranno dirci qualcosa sul nostro uomo misterioso. Questa la dobbiamo far avere al tuo amico dell'FBI.» «Dan... oddio!» Natalie si affrettò a finire di vestirsi.
Non appena fu pronta, lasciò che Serena la guidasse giù per le scale, dietro i gradini di cemento, dove una corpulenta Harley nera poggiava sul suo cavalletto. Natalie guardò la motocicletta come fosse un rinoceronte. «L'hai portata dentro?» «Siamo nel Tenderloin26. Non potevo certo lasciarla là fuori.» Serena si agganciò la pistola a scariche elettriche alla cintura e infilò la borsa da ginnastica in uno degli scomparti posteriori della moto. «Siamo fortunati che il nostro uomo mascherato non se ne sia accorto. Ti va di montare dietro?» «Penso di sì...» «Bene. Ti spiace tenermi aperta la porta?» Annuì e aprì la porta mentre Serena spingeva l'Harley sul marciapiede. Dopo aver inforcato la moto, diede a Natalie il suo casco. «È meglio che lo prenda tu.» Natalie si infilò il casco e montò sul sedile posteriore in pelle, stringendo le braccia intorno alla vita dura come l'acciaio della sua soccorritrice. La donna di colore alzò il cavalletto con un calcio leggero. «Tieniti stretta.» «Serena?» «Sì?» «Grazie.» «Aspetta a ringraziarmi. Il mio lavoro è appena cominciato.» Schiacciò il pedale dell'avviamento, mandò l'acceleratore su di giri e si avviò, rombando, lungo Turk Street. Dan, al volante della Accord di Syd Preston, non sbatté nemmeno le palpebre, mentre dava una rapida occhiata a tutte le Buick blu e le moto nere che incrociava sul Geary Boulevard. Era più che una dedizione al dovere quella ad animare la sua vigilanza. Con gli occhi fissi sulla strada, non sarebbe stato comunque in grado di guardare l'orologio del cruscotto e di preoccuparsi di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui aveva visto Natalie. Dopo aver trasmesso alla centrale i dati della persona da cercare, aveva percorso i viali del centro secondo uno schema a spirale sempre più ampio, iniziando la ricerca dal punto in cui la macchina e la moto erano sparite. Incrociò diverse macchine del Dipartimento di polizia di San Francisco impegnate nella caccia, pregando che una di esse mettesse improvvisamente in funzione i lampeggianti, con le sirene spiegate a dichiarare che Nata-
lie era viva e stava tornando da lui. Ma a ogni macchina che gli passava accanto, silenziosa e triste, il cuore di Dan agonizzava e la speranza si affievoliva. Quando il suo cellulare si mise a squillare, per poco non rispose. Preston lo aveva chiamato già tre volte per chiedergli di restituirgli la macchina. Ma il telefono non ne voleva sapere di starsene zitto, così Dan, seccato, lo afferrò con foga dal sedile di fianco al suo. «Sì?» «Dan?» Il semaforo davanti a lui si fece rosso all'improvviso, ma per poco lui non si dimenticò di frenare. «Natalie? Stai bene?» «Sì, sto bene...» «Mio Dio! Ti ho fatto mettere alle costole metà dei poliziotti della città. Dove sei?» «A un telefono pubblico in un McDonald's.» «Dimmi dove, faccio venire la polizia in due minuti.» «Non ce n'è bisogno. L'ho già chiamata io. Stammi a sentire, puoi venirmi incontro al pronto soccorso del St Francis Memorial?» «Al pronto soccorso?» L'angoscia spense la sua gioia, come una doccia fredda. «Dio... sei ferita?» «No, sto bene... non è niente, davvero. Puoi venire?» «Arrivo. Senti, Natalie, ci...» La macchina dietro di lui suonò il clacson, esortandolo a procedere. «...ci vediamo là.» Chiuse la conversazione e schiacciò l'acceleratore. Come la maggioranza dei reparti di pronto soccorso degli ospedali metropolitani, quello del St Francis era un caos punteggiato da crisi di diversa gravità. Era un continuo viavai di medici e infermieri appesantiti da carichi di lavoro eccessivi, dentro e fuori dalle porte a vento della sala chirurgica, impegnati a occuparsi dei casi più seri, mentre tutti i pazienti in grado di attendere sedevano su panche imbottite nella sala d'attesa. Quando Dan arrivò, fu felice di vedere Natalie seduta tra loro. Il viso di lei rifletté il sollievo di Dan. Balzò in piedi dalla panca e gli si gettò contro, per abbracciarlo. Dan schiacciò il naso e le labbra contro la pelle della sua guancia, morbida come la buccia di una pesca. Toccarla, sentirne l'odore e il sapore gli diedero la conferma del fatto che fosse reale. «Grazie a Dio...» «È tutto a posto.» Le braccia di Natalie si strinsero dietro la schiena di Dan. «Sto bene.»
Lui si mise a tremare e gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Mi dispiace tanto.» «Non preoccuparti. Non è stata colpa tua.» Dan l'avrebbe tenuta stretta così per un'ora o forse più, ma lei si staccò e si rivolse alla sua destra. «Serena!» Concentrato com'era su Natalie, fino a quel momento non si era accorto che il detective Yee si trovava nelle vicinanze, impegnato a chiacchierare con una sottile donna di colore che portava un elegante abito da uomo. Non appena sentì pronunciare il proprio nome, la donna salutò il detective e si fece incontro a Dan. Il suo abito era lo stesso indossato dall'uomo sulla motocicletta. «Dan, ti presento Serena Mfume, un'allieva di Simon.» Natalie strinse una mano sulla spalla della donna, in un gesto di cameratismo. «Mi ha salvato la vita.» Dan tese la sua mano rigida alla Mfume. Gratitudine, senso di colpa e una fastidiosa vena di invidia si scontravano dentro di lui. Avrei dovuto farlo io... «Grazie» disse, stringendole la mano. Lei respinse i ringraziamenti con un gesto sbrigativo. «Qualunque cosa, pur di essere utile.» «A proposito, ci ha portato una borsa contenente un bel po' di cosine dell'assassino.» Yee si fece avanti per unirsi al gruppo. «Potrebbe essere il colpo di fortuna che stavamo aspettando.» «Fantastico.» Ha salvato la vita di Natalie, rammentò Dan a se stesso. Ma il doppio successo della Mfume gli bruciava. Non era migliore di lui solo come guardia del corpo, ma anche come detective. Nel flebile sforzo di redimersi, si infilò una mano nella tasca del giubbotto e ne estrasse il numero di targa che Preston gli aveva dato. «A ogni buon conto, Stuart, mi stavo chiedendo se potete controllarmi questo...» Prima che lui riuscisse a consegnare il taccuino a Yee, una donna in camice che portava un paio di occhiali dalla montatura in metallo aprì con una spinta una delle porte a doppia anta della sala chirurgica e disse a gran voce, «Signorina Lindstrom? Tocca a lei.» La Mfume sorrise e diede un colpetto a Natalie. «È il tuo momento, ragazzina.» Dan appoggiò una mano sulla schiena di Natalie e la accompagnò fino alla porta, ma il dottore gli indicò di fermarsi. «Spiacente, signore. Solo i pazienti e il personale possono entrare.»
Dan si sfilò dalla tasca il distintivo del Bureau. «Questa donna è una testimone materiale in una indagine per omicidio. Devo restare con lei in ogni istante, giusto Natalie?» D'un tratto, fu come se lei si fosse completamente dimenticata tanto di lui quanto del medico. Ruotò meccanicamente la testa verso destra, come il piatto di un radar che stia seguendo la traiettoria di un aereo nemico. Dan si irrigidì. «Che succede?» Natalie non rispose, ma fece un passo titubante in direzione di una delle panche della sala d'attesa. Un uomo con un'espressione da intellettuale, i capelli e le basette rossicci, era curvo su una di esse e si stava massaggiando la fronte. Mugugnò qualcosa tra sé, gli occhi chiusi sotto le lenti spesse dalla montatura in osso. Le sue parole si dispersero nel mormorio generale della sala, ma da quel che riuscì a cogliere Dan, sembravano piuttosto delle serie di numeri. Accortosi probabilmente che qualcuno lo stava osservando, l'uomo chiuse la bocca e alzò gli occhi, posandoli su Natalie. Le lenti dei suoi occhiali brillarono di una luce riflessa. Quando lei giunse a pochi metri di distanza, si alzò e fece per avviarsi in direzione dell'uscita del pronto soccorso, con il passo tranquillo di un fumatore che esca a farsi una sigaretta. «Fermati!» Natalie si precipitò per bloccarlo. L'uomo si mise a correre, liberandosi con una gomitata di una capo infermiera sdegnata. Natalie gli scattò dietro. Il medico, perplesso, indicò la direzione verso cui si era diretta la sua paziente. «Ma... io pensavo che fosse...» Dan non rimase lì abbastanza per finire di sentire quello che aveva da dire. Mettendosi a correre per non perdere di vista Natalie, si precipitò fuori dall'ospedale e procedette fino all'incrocio tra Hyde e Bush. La Mfume lo affiancò, mantenendo la sua stessa andatura. Raggiunsero Natalie quando lei si fermò, appena prima dell'incrocio seguente. «Che sta succedendo?» chiese Dan, ansimando. «Chi era?» Natalie scrutò le strade in ogni direzione, stringendosi lo stomaco. Le sue mani non riuscirono a nascondere il sangue che le si era diffuso sulla maglietta. «Era Evan» disse. «È vivo.» 29 L'impostore
«Stammi a sentire, era lui... Ahi!» Sdraiata sul lettino, Natalie sussultò quando il medico strinse il filo di un altro punto di sutura. L'anestesia locale evidentemente non aveva eliminato del tutto la stranezza di quella sensazione. La dottoressa, un'internista di nome Grimes, infilò nuovamente l'ago chirurgico nella pelle di Natalie. «Abbiamo quasi finito» le promise. Dan si grattò il mento. «Sei sicura che quello che hai sentito era il suo...» «Sì, il suo mantra.» «E non è possibile che qualcun altro - un altro Viola - possa avere lo stesso mantra?» Gli occhi di Natalie divamparono. «No! Sai...» La Grimes smise per un istante di cucire. «Non si muova, la prego.» La paziente espresse la propria frustrazione con un brontolio, dopodiché tornò a rilassare i muscoli addominali. «Voglio dire, è possibile che due Viola abbiano lo stesso mantra ma, di solito, ogni mantra funziona per una sola persona. Un mantra è una sequenza linguistica ripetuta che ti aiuta a concentrarti, a mantenere la tua personalità intatta e in collegamento col tuo corpo. Per Arthur, erano i koan dello Zen27; per Jem, gli inni afroamericani. E per Evan, erano le tabelline. Proprio ciò che ho sentito pronunciare al barbone dell'aeroporto e all'uomo che era qui, in sala d'attesa.» «Ma noi abbiamo parlato con Evan, dopo la sua sparizione. Lo ha convocato Russell Travers. Evan ci ha raccontato come è stato ucciso e ne abbiamo avuto la conferma tramite una scansione dell'anima.» «La scansione dell'anima ha confermato solo che Russell aveva convocato qualcuno - non che si trattasse di Evan.» «Stai dicendo che l'anima di un morto si è spacciata per Evan?» Dan si accorse di arrossire, al pensiero di com'era stato ingannato. «Ma tu non hai parlato con Evan? Dopo quello che mi hai detto, avrei pensato che...» «No.» Natalie distolse lo sguardo, serrando le labbra. «Ho avuto paura. Pensavo che avrebbe bussato, ma non l'ha fatto. Ora so perché.» Dan soppesò con cura le parole che stava per pronunciare. Non voleva che lei sentisse quanto lo rattristava l'idea che Evan fosse sopravvissuto. «Natalie, non credi che sia tutto una pia illusione?» I fasci dei muscoli del collo di Natalie si tesero. «Hai un nastro con la registrazione in video della testimonianza di Evan, vero?» «Esatto.»
La Dottoressa Grimes tagliò con le forbici il filo dell'ultimo punto di sutura. «Dovrebbe andare.» Indicò le righe parallele tratteggiate che correvano lungo lo stomaco di Natalie come dei minuscoli binari ferroviari. «Forse le resterà una leggera cicatrice, ma niente di cui preoccuparsi. E penso che non sia il caso di farsi fare un piercing all'ombelico, almeno per un po'.» Natalie ridacchiò. «Stia tranquilla, non c'è pericolo.» La Grimes spalmò un po' di Neosporin sulla ferita suturata e vi applicò un tampone di garza quadrata con del nastro. «La tenga pulita e coperta, e si potrà far togliere i punti nel giro di tre settimane. Per il momento, può andare.» «Grazie.» Natalie saltò giù dal tavolo e si infilò la maglietta che le porgeva Dan. «Andiamo a vedere quel video.» «Come vuoi.» Dan ringraziò la dottoressa Grimes con un gesto della mano e seguì Natalie all'esterno, dove raggiunsero Yee e la Mfume nella zona destinata all'accoglienza dei pazienti. Dan non fu sorpreso di trovare Earl Clark che li attendeva, al loro arrivo. Non fu sorpreso nemmeno di trovarci Sid Preston, che aveva un'aria decisamente seccata. Clark sospirò. «Agente Atwater, ti dispiace restituire la macchina a questo signore?» Dopo essersi sfilato le chiavi della Honda da una tasca, Dan le fece penzolare davanti a Preston tra il pollice e l'indice. Il reporter gli strappò il portachiavi di mano. «È due volte in debito, agente» sbottò, prima di sgusciare fuori dallo stabile. «Mi vuoi dire che cosa ci facevi insieme a quel tizio?» gli chiese Clark, quando Preston se ne fu andato. «Credo che Dio mi stia punendo» replicò Dan, in un tono nemmeno troppo scherzoso. «Ma sono riuscito a farmi dare un numero di targa che potrebbe tornarci utile.» «Be', spero proprio che tu riesca a tirarne fuori qualcosa.» Clark puntò la testa in direzione di Yee e di Natalie. «Stuart. Signorina Lindstrom, sono lieto di vedere che è ancora tutta intera. E lei deve essere la signorina Mfume.» Strinse la mano alla nuova venuta. «Ottimo lavoro. Stiamo già passando al microscopio la borsa da ginnastica.» Dan fece un respiro profondo, tentando di mantenere un'espressione mi-
te. «Avete trovato il video della deposizione di Evan?» chiese Natalie. «Sì.» Clark fece loro cenno di seguirlo lungo il corridoio. «L'abbiamo pescato, ma non so bene che cosa vi aspettiate. A me sembra solo Evan Markham.» «Forse lo è. Ma voglio esserne sicura.» Quando Clark si diresse verso la porta di un ufficio, Yee si staccò dal gruppetto. «Earl, vado a vedere se la scientifica ha scoperto qualcosa. Ci vediamo dopo, gente.» «Un attimo! Prima di andarsene...» Dan strappò il numero di targa da una pagina del suo taccuino e lo consegnò al detective. «Veda se riesce a rintracciarmi questa macchina...» «Sicuro!» Yee si infilò il pezzetto di carta in tasca e proseguì lungo il corridoio, mentre Clark faceva entrare il resto del gruppo in una sala riunioni nella quale un televisore e un videoregistratore attendevano sopra un carrello a due scomparti. Mentre Dan e gli altri si accomodavano su una serie di sedie sistemate a semicerchio di fronte alla TV, Clark accese l'apparecchiatura e afferrò il telecomando del videoregistratore. Rivolse a Natalie uno sguardo di avvertimento. «È pronta?» Lei si sfregò le braccia, come per scrollarsi di dosso un brivido, e gli diede il suo benestare. Clark schiacciò il tasto 'Play' del telecomando e il placido azzurro dello schermo si dissolse in una esplosione di neve bianca e nera, mentre il videoregistratore procedeva ad allineare il nastro con le testine. Quando l'immagine si schiarì, apparve il profilo di Russell Travers, inquadrato di tre quarti. Il suo cranio rasato era incrostato di elettrodi e di una selva di cavi. Dan si agitò sulla sedia quando vide quegli occhi rivolti verso il basso, con due fondi di bottiglia come lenti. Aveva già visto quel nastro, naturalmente, ma prima che il morto in questione cercasse di sedurlo attraverso il corpo di Natalie. La didascalia sulla parte inferiore dello schermo indicava il nome di Travers e quello di Evan Markham, il testimone che stava convocando. Una parentesi sul lato destro dello schermo mostrava il conteggio reale del tempo secondo lo Scanner dell'Anima. Gli apici delle onde cerebrali verdi suggerivano la presenza dell'anima occupante. Era chiaro che Clark aveva fatto partire il nastro dal momento in cui l'anima si era stabilita nel transfert, perché Travers si era raggomitolato fino ad assumere una posizione
fetale, sollevando le braccia come per proteggersi da un pestaggio. Nei pugni ricoperti di vene blu teneva stretta una catena d'argento da cui pendeva un ciondolo circolare di metallo. Il ciondolo ruotò verso la telecamera, mostrando due serpenti intrecciati a formare il simbolo dell'infinito, una specie di numero otto, con la coda di ciascuno nella bocca dell'altro. Natalie si irrigidì. Era il gemello di quello che si trovava nel suo appartamento. A Dan venne in mente il dolore negli occhi di lei mentre lo stringeva. Ma ora non può più struggersi per lui, insisté in silenzio. Non dopo la notte scorsa... Nel video, la postura di Travers si rilassò man mano che cedeva il controllo del suo corpo al testimone convocato. Si guardò intorno, cercando di mettere a fuoco ciò che vedeva attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali, abbandonò il ciondolo sul tavolo che aveva davanti, e tornò a sprofondare nella sedia, con un'aria di sfida degna di James Dean. «Chi sei?» chiese una voce di donna fuori campo. Dan sapeva che l'intervistatrice era Karen Spence, una dei suoi colleghi di Quantico. L'uomo che si celava sotto il volto di Travers fece una smorfia. «Evan Markham. Perché, forse vi aspettavate qualcun altro?» «Ci puoi raccontare come sei morto, Evan?» Sembrava che quell'interrogatorio lo divertisse. Non c'erano dubbi sul fatto che Evan avesse operato da transfert per molte interviste simili a quella e che ora si trovasse a rispondere alle stesse domande che aveva sentito dozzine di volte in passato. «Qualcuno mi ha attorcigliato un pezzo di fil di ferro intorno al collo e si è messo a tirare.» Mimò il gesto con macabra teatralità. «La pressione sanguigna mi è salita nel cervello fino a farmi esplodere le arterie cerebrali e sono morto. La spiegazione è esauriente?» Dan fissò Natalie per studiarne la reazione, ma lei continuò a osservare lo schermo con determinazione. Sulla cassetta, la voce distaccata della Spence non mostrò esitazioni. «Hai visto l'individuo che ti ha ridotto così?» «Stai scherzando? Dopo quello che ha fatto a Sondra? Se l'avessi visto, ora stareste parlando con lui invece che con me.» «Ti ha assalito alle spalle, dunque?» «Tu che ne pensi?» «Posso considerarla una risposta affermativa? Ora, dopo la sparizione della signorina Avebury, anche tu ti sei nascosto, contravvenendo ai consi-
gli del Dipartimento...» «Volevano rinchiudermi in una delle loro stramaledette case sicure!» Si tolse gli occhiali per asciugarsi gli occhi dalle lacrime di rabbia. «La donna che amavo era appena stata massacrata. Come avrei potuto piangerla in una prigione?» Natalie trasalì. «Deve essere stato terribile per te.» Il tono della Spence si fece più comprensivo. «Vogliamo punire il killer tanto quanto lo vuoi tu, ed è per questo che abbiamo bisogno del tuo aiuto. Dov'eri quando lui ti ha trovato?» Mettendo via gli occhiali, si afflosciò nuovamente contro lo schienale della poltrona. «A Virginia Beach. Era uno dei posti in cui Sondra preferiva trascorrere le vacanze.» «Lo sai come ha fatto il killer a scovarti fin laggiù?» «No.» «Hai idea di dove abbia nascosto il tuo corpo?» «Come diavolo faccio a saperlo? Ero già morto, se ti ricordi...» Natalie si irrigidì. «Stop! Riavvolgete appena il nastro.» Aggrottando la fronte per la sorpresa, Clark schiacciò il tasto 'Rewind' del telecomando. Travers pronunciò alla rovescia le ultime frasi, nella modalità reverse-scan28, quindi Clark fece nuovamente partire la cassetta. «...uno dei posti in cui Sondra preferiva trascorrere le vacanze.» «Lo sai come ha fatto il killer a scovarti fin laggiù?» «No.» «Hai idea di dove abbia nascosto il tuo corpo?» «Come diavolo faccio a saperlo? Ero già morto...» Natalie scattò in piedi. «Ci siamo! Mettete in pausa!» Clark inchiodò l'immagine, catturando Travers con la bocca aperta, a metà di una frase. In piedi su un lato dello schermo televisivo, Natalie indicò il braccio sinistro di Travers. «Vedete il modo in cui si passa una mano su un orecchio, per poi portarsela dietro la testa, mentre parla? È l'abitudine di chi ha sempre portato i capelli lunghi. Lo so perché lo faccio anch'io, persino quando non porto la parrucca. Evan non ha quasi mai portato una parrucca e, quando lo ha fatto, si è sempre trattato di un toupet corto. E poi Evan è destro; questa persona si è sfilata gli occhiali con la mano sinistra.» Dan e Clark si scambiarono un'occhiata interrogativa. «Ma c'è dell'altro» aggiunse la Mfume. «Fate ripartire il nastro dall'inizio.»
Clark riavvolse il nastro fino al momento in cui l'anima andava ad occupare il transfert: Travers rilassato sulla sedia, che si guardava intorno. «Visto come abbassa lo sguardo sulla collana che tiene in mano, prima di gettarla sul tavolo?» osservò la Mfume. «Fa così perché deve vedere qual è l'elemento di contatto. Deve vedere la persona in cui immedesimarsi.» Dan si sentì percorrere da un brivido: fu come se la temperatura della stanza si fosse abbassata repentinamente di una decina di gradi. «Ma era comunque necessario che la persona morta avesse toccato la catena nel corso della sua vita. È così che funziona con gli elementi di contatto, non è vero? Quante altre persone possono averla toccata, oltre a Evan?» «Non molte.» Natalie sfiorò con i polpastrelli l'immagine del ciondolo comparsa sul video. «Era il nostro segreto.» La nostalgia dolorosa che la sua voce trasudava fece digrignare i denti a Dan. «Ti viene in mente qualcun altro a cui potrebbe averla mostrata?» La sua espressione si fece più seria. «Sondra, immagino.» «Aveva studiato da agente segreto» disse Serena con indifferenza. «Era davvero un genio nell'arte delle imitazioni.» La guardarono tutti con aria stupefatta. «Abbiamo lavorato per un po' insieme alla Divisione Intelligence del Dipartimento.» Sorrise. «Comunque, sono informazioni riservate. Ditelo a qualcuno, e sarò costretta ad ammazzarvi.» Dan guardò Natalie. «Pensi che sia lei?» Indicò Travers, che stava ripetendo le sue risposte all'intervistatrice man mano che il nastro riproiettava le stesse immagini di prima. «Non lo so. Ma voglio scoprirlo.» Clark fermò il videoregistratore e spense il televisore. «È chiaro che dobbiamo affrontare di nuovo questo impostore. L'unico problema è: come si fa a indurlo a raccontare la verità? Quali strumenti si usano per minacciare una persona già morta?» L'espressione di Natalie si fece dura e fredda. «La stessa minaccia che si utilizza contro una persona ancora viva: la prigione.» 30 I Viola dentro i Viola Con un rumore secco, la Mfume attaccò con del nastro da idraulici l'ul-
tima lastra di alluminio sugli strati di rete metallica a maglie strette e sul materiale isolante in gomma, tagliando il nastro con un taglierino X-Acto. «Be', ecco fatto.» In quel buio si notavano solo i contorni della sua fronte, delle sue guance e del mento, illuminati dal raggio della torcia elettrica di Natalie che proveniva dal basso. «Sei proprio convinta che questo basti ad acchiappare un fantasma?» «Con Arthur ha funzionato.» Con il raggio della torcia, Natalie perlustrò l'angusto spazio dello sgabuzzino modificato. Le pareti rivestite dalla lamina restituivano la luce attraverso riflessi sbiaditi, formando una cella fatta di specchi sfocati. Avevano coperto tutto, incluse le prese elettriche e il portalampada della plafoniera sul soffitto. Dan gettò un rotolo già cominciato di Reynolds Wrap29 accanto a un paio di rotoli di cui non restava che il nudo tubo di cartone. «Non importa che funzioni sul serio o meno: quello che conta è convincere il nostro falso 'Evan'. A ogni buon conto... niente male, per aver fatto tutto in tre ore.» Con una spinta, aprì la porta dello sgabuzzino e fece uscire le due donne dalla sgangherata cabina che avevano costruito con il compensato e le assi acquistati da Home Depot30. Avevano rivestito anche quella con strati di metallo e di materiale coibente e dovettero abbassarsi a turno sotto la sua porticina per poter riemergere nel corridoio del quartier generale della polizia. Il vecchio contenuto dello sgabuzzino - bottiglie di disinfettante, bricchi di candeggina e sapone per le mani, e un vasto assortimento di stracci, scope e aspirapolvere - era disseminato sul pavimento del corridoio in mucchi disordinati che gli agenti della polizia di San Francisco erano costretti a scavalcare o ad aggirare. Furono in molti a fermarsi a fissare quella struttura bizzarra, compreso Stuart Yee. Salutò Dan con un sorrisino. «Adoro quello che avete fatto in questo posto. Le dispiace dirmi a cosa serve?» «È una cella per un prigioniero,» spiegò Dan «solo che il prigioniero in questione è morto.» «D'accordo, ma cosa c'entra il capanno da giardino?» Yee diede un calcio all'angolo del gabbiotto. «Ehi, faccia piano! Non lo rompa prima di averlo almeno inaugurato.» Fece arretrare il detective di un passo. «È una specie di camera di compensazione, una zona cuscinetto per impedire che l'anima scappi quando apriamo la porta per uscire.» «Mi sta dicendo che d'ora in poi lo sgabuzzino del nostro custode sarà
infestato da fantasmi?» «Solo se agiremo in modo avventato.» «Recluterò un esorcista.» «Grazie per la fiducia.» «Ma si figuri. A ogni modo, volevo dirle che ho controllato il numero di targa che mi ha dato.» Yee aprì uno stampato della Motorizzazione dello Stato di Washington e glielo consegnò. «La Camaro è registrata a nome di Clement Maddox. Età: trentasette anni; professione: tecnico riparatore delle televisioni; residenza: Seattle; stato civile: vedovo. Nessun precedente riscontrato, ma stiamo ancora controllando.» «Ottimo.» Dan sbirciò il nome sul prestampato e avvertì, non senza un fastidio quasi fisico, qualcosa di familiare. MADDOX, CLEMENT EVERETT Dove aveva già visto quel nome? Yee si rivolse alla Mfume. «E poi abbiamo analizzato la borsa da ginnastica e il suo contenuto. Abbiamo trovato dei grimaldelli e il resto del travestimento utilizzato alla Scuola. Purtroppo, non siamo riusciti a trovare delle impronte utilizzabili, ma la scientifica ha comunque prelevato dei campioni di cellule cutanee dalla parte interna del toupet, e noi abbiamo chiesto di sottoporle all'analisi del DNA.» «Pensate che possa dirvi qualcosa su quel tizio?» chiese la Mfume. «Solo se il suo DNA è già negli archivi dell'FBI. Ma se dovessimo mai trovare un individuo sospetto compatibile, lo inchioderemo in giudizio.» «Mmm. Vediamo se il nostro fantasma misterioso ha qualche idea.» Dan sfiorò la spalla di Natalie. «Sei sicura di volerlo fare? Serena potrebbe...» «No.» Natalie si era tolta la parrucca e le lenti a contatto, e ora i suoi occhi rilucevano come due ametiste. «Lo devo fare.» Dan le strinse una mano. «D'accordo.» «Ci abbiamo messo una batteria.» La Mfume sollevò uno Scanner dell'Anima da un carrello parcheggiato nel corridoio. «Dovrebbe durare almeno un'ora. Vuoi che venga dentro insieme a te?» «No. Meno Viola ci sono lì dentro, meglio è.» Reggendo una torcia elettrica in una mano, Dan afferrò la sedia di legno scelta per Natalie e la portò dentro lo sgabuzzino, sistemandola presso la parete posteriore. La Mfume posizionò lo Scanner dell'Anima su una cassetta di plastica rovesciata accanto alla porta e districò i cavi elettrici attor-
cigliati, mentre Dan posava la sua torcia elettrica sulla sommità dell'apparecchio e andava a prendere una sedia pieghevole di metallo per sé. Rientrò nello sgabuzzino insieme a Natalie, che si era procurata un'altra torcia e una matassa di corda di nylon. La Mfume diede un colpetto sullo schienale della sedia di legno. «Mettiti comoda.» Natalie si sedette e la Mfume prese la corda e gliela avvolse intorno alle caviglie e ai polsi, legandoli alle gambe e ai braccioli della sedia, come se dovesse allestire una fuga alla Houdini. «Assicurati che quei nodi siano stretti» le disse Natalie. Una volta sistemata la corda, Dan sollevò il fascio di luce della sua torcia in maniera che la Mfume potesse collegare gli elettrodi dello Scanner dell'Anima alla testa di Natalie. Non stava per raccogliere un deposizione ufficiale, dunque non gli serviva una lettura dei dati della macchina, però voleva che il pulsante antipanico fosse a portata di mano, nel caso l'interrogatorio si fosse fatto sgradevole. La Mfume finì il suo lavoro e gli passò accanto per uscire. «Fatemi un fischio quando volete che chiuda le porte.» «Messaggio ricevuto.» Dan posizionò una delle due torce elettriche sopra lo Scanner dell'Anima in maniera da orientare il fascio di luce sul torso di Natalie, e tenne l'altra in mano, dirigendogliela sulla bocca per non abbagliarla. Nel buio che regnava sopra il fascio luminoso, i suoi occhi si trasformarono in due puntini di luce riflessa, e la testa in una Medusa di cavi serpeggianti nell'oscurità. Dopo essersi inginocchiato accanto alla sedia, Dan le prese una mano. «Buona fortuna.» Le dita di Natalie si strinsero intorno alle sue. «Grazie. Buona fortuna a te.» Aprì il palmo. Dan infilò una mano nella tasca del giubbotto, ne estrasse il ciondolo con i due serpenti e glielo mise in mano. Le figure brillarono per un istante nel fascio di luce della torcia elettrica, finché lei non le strinse fra le dita. Dan si sedette sulla sedia pieghevole e si mise alla ricerca dei primi segnali di contatto. Se la loro gabbia dell'anima funzionava, qualunque entità elettromagnetica convocata da Natalie sarebbe riuscita a entrare nello sgabuzzino solo dalla porta aperta dietro di lui. Cercò di non pensare troppo al fatto che l'anima potesse effettivamente attraversarlo per raggiungerla. Il respiro di Natalie assunse una cadenza ritmica e il tracciato delle tre
righe superiori dello schermo seguì un andamento regolare. Il tempo procedeva stancamente nello spazio opprimente del gabbiotto. Non essendoci nient'altro da vedere a parte le onde verdi e la faccia impassibile di Natalie, Dan represse più di uno sbadiglio. Dopo una mezz'ora di silenzio, la Mfume infilò la testa nella porta. «Ancora niente?» «No.» Dan sospirò e si stirò. «Forse l'abbiamo costruito troppo a prova di fantasma...» Uno scricchiolio molto forte lo interruppe. Le giunture della sedia di Natalie cigolarono mentre lei oscillava da una parte all'altra e lottava con le braccia e le gambe contro la corda stretta. Le tre linee piatte sulla parte inferiore dello schermo si impennarono improvvisamente, assumendo un andamento frastagliato. Con un gesto della mano, Dan fece uscire la Mfume. «Abbiamo qualcosa. Chiudi le porte.» Lei si ritirò e le porte imbottite si richiusero con il risucchio sordo del coperchio di una bara. Dan tenne la torcia elettrica puntata su Natalie, che per poco non si ribaltò con tutta la sedia, a forza di dimenarsi. Passò più di un minuto e la sedia smise di cigolare. Natalie stramazzò in avanti. Dan orientò il fascio di luce verso l'alto in modo da riuscire a scorgere l'espressione del suo volto quando lei tornò a sedersi con la schiena eretta. Con l'inafferrabilità di un prestigiatore che nasconda un asso nella manica, aprì le dita quel tanto che bastava per dare una breve occhiata al ciondolo dei serpenti. Deve sapere chi è la persona in cui si vuole immedesimare. «Chi sei?» chiese Dan. «Evan. Evan Markham.» La voce di Natalie era più profonda e le sue sopracciglia arcuate. Strinse gli occhi per riuscire a guardarlo nonostante il raggio di luce puntato su di lei. «Tu non sei il tizio con cui ho lavorato al caso dello Squartatore? Ti chiami Dan, vero?» Chiunque sia, è in gamba, pensò Dan. «Mi piacerebbe chiacchierare dei vecchi tempi, Evan, ma ho bisogno del tuo aiuto.» «Volentieri, nel limite delle mie possibilità.» Sulla faccia logora di Natalie balenò un'ombra di preoccupazione quando lei si guardò intorno e osservò le pareti coibentate dello sgabuzzino del custode. «Dove siamo?» «Sono contento che tu me lo chieda, Evan. Ti ricordi il povero, grande Arthur McCord, vero?»
«È stato come un padre per me. Lui che c'entra?» «Non ci vai mai nella sua piccola bottega di Hollywood, Evan? Assomigliava a questa.» Dan spostò il fascio della torcia elettrica sui fogli di alluminio da cui erano circondati. «È una versione modificata della gabbia di Faraday. Impedisce alle anime di entrare. Ma può anche impedire loro di uscire.» Natalie allargò le narici. «Cosa stai cercando di dire?» «Niente, Evan. Stavo solo chiedendomi se ti va di riconsiderare la tua risposta alla mia prima domanda: chi sei?» Le labbra di Natalie si arricciarono in una smorfia feroce. «Sai dannatamente bene chi sono!» «Davvero, Evan? Sei sicuro di non volerci riflettere?» Dan tamburellò un'unghia sul disco di plastica del pulsante antipanico. Tic-tic-tic-tic. Terrore puro e malanimo turbinarono negli occhi di Natalie, ma lei non disse una parola. «Hai perso la lingua, Evan? Forse, restartene qui dentro per qualche giorno, sballottato da una parete all'altra, ti renderà più socievole.» Appoggiò il palmo al pulsante antipanico e lo illuminò con la torcia. Lei lo fulminò con lo sguardo, mentre la sua faccia era al buio, poi rise e si appoggiò allo schienale della sedia. «E se non sono Evan... allora chi dovrei essere?» Allontanando la mano dallo Scanner dell'Anima, Dan puntò nuovamente la torcia su di lei. «C'era solo una persona che conosceva Evan a sufficienza per impersonarlo in maniera così convincente. Non è vero, Sondra?» Lei ridacchiò. «Bravo, Dan! Sei più intelligente di quel che sembri.» «Ma non abbastanza per scoprire come mai hai messo in scena questa farsa. Ti dispiace schiarirmi le idee?» «Certamente... se mi apri la porta.» «Non prima di aver concluso questa conversazione.» «Tsk-tsk-tsk! Che mancanza di fiducia nei confronti di una vecchia collega!» «Il tempo che trascorrerai in questa stanza dipende solo da te, Sondra.» Lei emise un sospiro. «Quando l'assassino mi ha uccisa, sapevamo che sarebbe stata solo questione di tempo prima che sorprendesse anche Evan, e così abbiamo messo in scena la sua sparizione. Avevo toccato buona parte degli effetti personali di Evan nel periodo trascorso insieme, dunque qualunque Viola avesse cercato di convocarlo, avrebbe finito per convocare me. Fingendomi lui, ho fatto sì che tutti pensassero che fosse morto.»
«Ma l'assassino sapeva di non essere stato lui a uccidere Evan. Che senso aveva?» «Non stavamo cercando di ingannare l'assassino. Volevamo solo ingannare il Dipartimento.» «Perché?» «Perché altrimenti avrebbero messo Evan sotto la protezione della Sicurezza del Dipartimento e lui non sarebbe stato in grado di completare la sua ricerca.» «Ovvero?» «Ovvero trovare l'assassino e torturarlo fino alla morte.» Mentre pronunciava quelle parole le brillarono gli occhi, come un bambino che stia pensando al Natale. Dan impiegò un po' di tempo per fare mente locale su quello che aveva sentito. «Vuoi dire che...?» «A dir la verità, Evan mi ha assicurato che potrò farlo io stessa. Quando lo troverà, mi convocherà e così potrò essere io a punire quel bastardo con le mani di Evan. Non è romantico?» Il volto di Natalie pencolò davanti a lui nel buio, sorridente, folle e irrimediabilmente perso per il genere umano. Non aveva idea di cosa dirle. «Sondra... so quello che hai passato...» «Davvero, Dan?» Mezzelune di gaiezza sardonica le illuminarono la parte bassa della fronte, gli occhi e le labbra sorridenti. «Sai come ci sente a morire giovani?» Lui fece una smorfia, rammentando lo sguardo accusatorio di Alan Pellettier. «Penso di sì.» «Ah! E allora saprai che morire di per sé non è la parte peggiore. È doloroso, questo sì, ed è certamente fastidioso, ma non dura molto. «Quello che invece dura è il rimpianto: resti a fluttuare nel bitume dell'aldilà senza altro da fare che pensare alle gioie che non avrai mai, agli amici che non vedrai mai, all'amore che non conoscerai mai. E, di quando in quando, incontri qualche vecchio stronzo che ha vissuto per più di novant'anni e che ti parla affettuosamente dei suoi bis-nipoti, e così ti fai un'idea di tutte le cose che avresti potuto fare se solo un cretino col coltello non ti avesse individuato in mezzo alla folla e non ti avesse squarciato il corpo per dar sfogo alla propria frustrazione per la sua esistenza inutile. Ed è in quel momento che per te si scatena davvero l'inferno, perché è allora che ti accorgi di avere l'intera eternità a disposizione per sognare ciò che sarebbe potuto essere e non sarà mai.»
Scoppiò a ridere. «Ma non c'è bisogno che lo dica a te, vero Dan? Lo sai fin troppo bene, non è vero? Immagino che ciò significhi che siamo tutti e due morti.» Per Dan, fu come se gli avessero riempito la bocca di sabbia. «Lo sai che non posso permettertelo.» «Andiamo, Dan! Non faresti la stessa cosa anche tu se qualcuno facesse del male alla tua adorata Natalie?» La mano di Dan scivolò nuovamente sul pulsante antipanico. «Ti posso trattenere qui.» «Non importa. Evan ammazzerà quel figlio di puttana, con o senza di me.» «Dov'è Evan?» «Non lo so. E nemmeno tu lo sai.» La sua faccia minacciò di svanire nelle tenebre, lasciando solo la mezzaluna d'avorio del suo sorriso. «Non sono in grado di garantire la sicurezza di Evan se dovesse intralciare le nostre indagini.» «Non sono in grado di garantire la tua sicurezza se dovessi intralciare lui. E adesso posso andare?» Dan sospirò e bussò alla porta alle sue spalle. «Serena!» La Mfume aprì subito la porta, che Dan indicò con la mano. «Arrivederci, Sondra.» «Sono certo che le nostre anime si rincontreranno presto, Dan.» Gli fece l'occhiolino. «Ci vediamo dall'altra parte!» Gli occhi di Natalie si annebbiarono e la testa le cadde sul petto. La sua faccia stanca era immersa nel fascio di luce della torcia elettrica. Le dita della sua mano si rilassarono e il ciondolo cadde sul pavimento tirandosi appresso la catenina. Inginocchiato davanti alla sua sedia, Dan le accarezzò dolcemente una guancia. «Che cosa ha scoperto?» gli gridò la Mfume da dietro. «Che siamo in un guaio peggiore di quanto pensassi.» Quando Natalie sollevò il mento, Dan rivolse un'occhiata al monitor dello Scanner dell'Anima per accertarsi che Sondra se ne fosse davvero andata. «Stai bene?» le chiese. Natalie annuì, ma i suoi occhi erano ancora fiacchi e sconvolti. Scrollò le spalle e si stirò i muscoli doloranti. «Che cosa farai con Evan?» «L'unica cosa che mi resta da fare: prendere l'assassino prima che lo faccia lui.» Le unghie di Dan si trovarono alle prese con un nodo che non ne
voleva sapere di sciogliersi. «Cristo, Serena! Dove ha imparato a legare la corda in questo modo - negli Scout?» «Reparti speciali della CIA» replicò lei in tono malizioso. «Oh.» Lo scansò senza troppe cerimonie e fu lei stessa a finire di slegare Natalie. Uscirono tutti e tre insieme dallo sgabuzzino e trovarono Earl Clark ad attenderli nel corridoio. «Mi è stato detto che dobbiamo occuparci di una vittima in meno» commentò con voce fredda. Dan ruotò la testa per farsi schioccare il collo. «Questa è la bella notizia. Quella brutta è che la sedicente vittima vuole vendicarsi del nostro assassino.» «Che possibilità gli dai?» «Più o meno le stesse che abbiamo noi. Evan Markham ha lavorato a Quantico più a lungo di me e ha una esperienza di prima mano sui serial killer che è superiore a quella di molti tra i migliori agenti dell'FBI.» «Pensi che ci possa condurre all'assassino?» «Certo - se riusciamo a trovarlo.» «Non dovrebbe essere difficile.» Natalie si massaggiò i segni rossi lasciati dalla corda sulla pelle dei polsi. «Evan conosce tutti i classici sistemi impiegati dalle forze dell'ordine per localizzare gli individui sospetti.» «Può darsi» ammise Dan. «Però gli servono soldi e mezzi di trasporto per muoversi. Io dico di cominciare dando un'occhiata alla sua situazione finanziaria: rendiconti bancari, transazioni effettuate mediante carta di credito, estratti conto del bancomat, e via discorrendo.» «Ci metterò sopra qualcuno.» Clark rivolse un'occhiata preoccupata a Natalie. «Ha avuto una lunga giornata, signorina Lindstrom. La farò riaccompagnare al suo motel su una macchina della polizia.» La bocca di lei restò aperta, conferendole un'espressione disorientata. «Pensavo che sarei andata via con Dan...» «L'agente Atwater deve concentrarsi sul caso.» Clark guardò Dan di sottecchi. «Un altro agente le farà da guardia del corpo al suo posto.» Me lo sarei dovuto aspettare, pensò Dan. Con tutti gli errori grossolani che aveva commesso, non se la sentiva proprio di biasimare Earl per averlo scaricato. «No» rispose Natalie. «Resto con Dan.» Clark fece un profondo respiro. «Signorina Lindstrom, quali che siano i
suoi sentimenti personali in questa faccenda, l'agente Atwater ha irresponsabilmente messo in pericolo la sua vita...» «Non è stata colpa sua.» Dan e la Mfume si scambiarono uno sguardo perplesso. Lui fu sul punto di dire qualcosa, ma si trattenne. «È stata colpa mia» continuò Natalie. «L'ho ingannato, convincendolo a lasciarmi sola per poter sfuggire alla sorveglianza del Bureau.» Clark incrociò le braccia. «Non è così che mi hanno raccontato le cose.» «Naturalmente, Dan si è assunto la responsabilità dell'incidente, ma è stata tutta opera mia. Solo ora mi rendo conto di quanto sia stata stupida, e prometto che non succederà più.» Il detective capo fece una smorfia di disappunto. «Si rende conto che è una testimone materiale in questa indagine, vero? Il nostro successo - e le vite di molte persone - potrebbero dipendere dalla sua incolumità.» La sua spavalderia vacillò. «Lo so» disse pacatamente. Clark espresse la propria disapprovazione con un grugnito e poi si rivolse alla Mfume. «Sarebbe disposta a fornire loro almeno un rinforzo?» Lei sorrise. «Li terrò d'occhio, non si preoccupi.» Dan si morse le labbra, ma non obiettò. «Ecco, questa vi servirà.» Clark gli lanciò la chiave della sua Taurus, visto che la Buick che aveva preso a nolo era stata abbandonata nei bassifondi del Tenderloin, dove la polizia l'aveva ritrovata e l'aveva posta sotto sequestro, come prova. Come se tutto ciò non bastasse, a ricordargli i propri fallimenti contribuirono l'Harley nera e il suo pilota con tanto di casco, che vide procedere speditamente dietro di lui mentre riportava Natalie al motel. La Mfume fu sufficientemente discreta da non seguirli all'interno della camera, ma il pensiero che potesse essere appostata nelle vicinanze e che li osservasse come una specie di chaperon ninja innervosì non poco Dan. Per togliersela dalla mente, sparpagliò sul letto alcune cartelline che gli aveva dato Clark e si mise a passare al vaglio le pagine sui dipendenti della Scuola. Era sicuro di aver visto da qualche parte il nome MADDOX, CLEMENT EVERETT, ma aveva analizzato talmente tante prove che ricordare dove si fosse imbattuto in quel nome sarebbe stato come farsi venire in mente dove aveva pranzato il martedì di quella settimana, ma un anno prima. Natalie si tolse la parrucca e le lenti a contatto e si sdraiò sul letto di fianco al suo, mettendosi a fissare il soffitto. Da quando avevano lasciato
la stazione di polizia era precipitata nuovamente in uno stato confusionale semi-catatonico e non aveva praticamente detto una sola parola nelle ultime due ore. Probabilmente non erano altro che lo shock e lo sfinimento che stavano avendo la meglio su di lei, si disse Dan. Ma non poté fare a meno di osservare la sua espressione distante, preoccupata, e di chiedersi: stava pensando a lui? Quell'idea lo infastidiva più di quanto volesse ammettere. Mise da parte il fascio di carte che aveva scorso e si schiarì la gola. «Grazie per aver preso le mie difese oggi pomeriggio.» Parlò con un filo di voce. Se lei non avesse risposto, Dan avrebbe lasciato perdere. Natalie piegò stancamente la testa dalla sua parte. «Che cosa?» «Lo sai a cosa mi riferisco... Non eri tenuta a fare quello che hai fatto con Earl.» Dan intrecciò e districò le dita. «Non credo di essermelo meritato.» Lei gli rivolse un'espressione accigliata, al tempo stesso tenera e severa, come una madre che rimproveri il figlioletto per aver pianto troppo. «Non è stata colpa tua.» «Però ti ho delusa. Se non ci fosse stata Serena...» Non finì il pensiero. «Se ti succedesse qualcosa, non potrei mai perdonarmelo.» Natalie si lasciò scivolare giù dal letto e andò a sedersi accanto a lui, stringendolo in un abbraccio. «Lo so.» Dan adagiò le proprie braccia sulle sue. «Voglio tu sappia che, qualunque cosa dovesse succedere... io desidero solo il meglio per te.» Lei si ritrasse e Dan se la immaginò mentre si staccava da lui come un asteroide nello spazio profondo che si stesse dileguando nell'oblio. Ma Natalie gli prese il viso tra le mani e lo costrinse a guardarla negli occhi. «Sono felice che Evan sia vivo,» gli disse «ma non sono innamorata di lui.» Lo baciò e lui la tenne ferma in quella posizione. Ricaddero sulle lenzuola, scalciando coi piedi nudi le cartelline e i fax, una valanga di carta che cadde giù dal letto. Tuttavia, Dan fece grande attenzione a non esercitare eccessiva pressione sull'area molle del ventre di lei, avvolta nelle bende. Più tardi, quando caddero nel dormiveglia insieme, nudi a eccezione della benda, lui si districò delicatamente dalle sue braccia. «Torno fra un secondo» sussurrò.
Come una leonessa che stesse riposando, lo guardò con pigra circospezione mentre si avvicinava alla valigia e frugava tra gli abiti sgualciti che c'erano dentro. «Cosa stai facendo?» «Mi assicuro che tu non mi sfugga più.» Tornato a letto, ammanettò il polso sinistro di Natalie al proprio polso destro. «Spiacente.» Lei sollevò il braccio, tirando con forza anche quello di Dan, e fece tintinnare le manette, ridacchiando. «Dan, sei un pervertito!» E, così dicendo, si rannicchiò contro di lui, la testa nuda reclinata sul suo petto, le loro mani incatenate strette nel mezzo. All'Excelsior, un motel che affittava le camere solo a settimane, giù dalle parti del quartiere di San Francisco chiamato Western Addition31, un giovane prese possesso di una stanzetta spartana e si lasciò cadere sul flaccido materasso a molle. Si strappò la parrucca castano-ruggine dalla testa rasata e rimase lì, nell'oscurità, a massaggiarsi la testa e a mugugnare tra sé. «...sei per sei trentasei, sei per sette quarantadue, sei per otto quarantotto, sei per nove...» Chiuse la mascella di scatto, rischiando di mordersi la lingua. Dopo tutto il casino che aveva combinato quel pomeriggio, lei si sarebbe infuriata se lo avesse sorpreso a farlo di nuovo. E lui temeva la sua ira più della morte stessa. Quei mugugni si erano fatti tanto abituali ultimamente che spesso si ritrovava a farfugliarli senza nemmeno accorgersene. Le aveva detto che gli serviva per tenere gli altri a distanza. La verità era che intendeva tenere lei fuori, per ricavarsi una minuscola oasi di pace nel cervello. Ma lei lo conosceva fin troppo bene e riusciva sempre a entrare. Persino in quel momento, l'ira di lei gli montò dentro con la ferocia inarrestabile di una Furia. Lui artigliò il lenzuolo su cui era disteso, gemendo nell'estasi di un orgasmo o nell'agonia di uno stupro. Dentro il suo cervello risuonò tutta la forza con cui lei aveva bussato alla sua porta, come un calice di cristallo pronto ad andare in frantumi. «Ci sto provando, Sondra» frignò. «Ce la sto mettendo tutta.» Stringendosi le gambe al petto, sprofondò la testa nel cuscino e pianse. 31 Eureka
Svegliatosi di buon'ora, Dan rimase sdraiato nel letto per quasi un'ora, immobile per non disturbare Natalie col tintinnio delle manette che univano i loro polsi. Così se ne restò su un fianco a godersi il tepore del corpo di lei accanto al suo e la distante serenità del suo viso. Poi lei si svegliò e così, con gli occhi e le mani e le labbra, si scambiarono mute parole. Appoggiandosi su un gomito, Natalie gli agitò contro il polso ammanettato. «Adesso puoi aprirle.» «Vorrei poterlo fare.» Dan si grattò la testa con la mano libera e sorrise timidamente. «Sfortunatamente, ho lasciato le chiavi nella valigia.» Natalie ricadde sul cuscino, ridendo. «Chiamateci Mostro a Due Teste!» «Molto divertente... Scansati. Scenderemo dalla tua parte.» Coscia contro coscia, scesero dal letto in tandem e attraversarono la stanza a passo sincronizzato, come se si stessero esercitando per una corsa a tre gambe tra nudisti. Dan avvertì una sensazione secca di carta sgualcita sotto i piedi nudi e, guardando in basso, vide le pagine dei faldoni delle prove disseminate sul pavimento, in alcuni casi coperte orme fresche. «Ops...» «Non vedo l'ora di assistere al momento in cui lo spiegherai a Earl» scherzò Natalie. «Le chiavi?» «Giusto.» Pescò la chiave dalla valigia e liberò i polsi di entrambi. Natalie agitò le mani per riattivare la circolazione e gli rivolse un'occhiata provocante. «Dunque... dove eravamo rimasti?» Dopo averle insinuato le braccia intorno alla vita, se la strinse contro e le diede un bacio con la lingua, ma poi si ritrasse emettendo un sospiro. «Stavamo per vestirci e per dirigerci alla stazione di polizia. Immagino che Earl stia già controllando l'orologio.» Lei mise il broncio, affettando un dispiacere esagerato, e si alzò in punta di piedi per guardarlo negli occhi. «Vorrà dire che ci rifaremo più tardi.» Sottolineò la propria risolutezza baciandolo di nuovo, prima di allontanarsi per andare a vestirsi. Dopo essersi infilato la maglietta e i pantaloni sportivi, Dan si chinò a raccogliere i documenti ai piedi del letto. Quei fogli di carta erano sparpagliati come piume perse durante la muta da un mitico Uccello della Burocrazia. «Che casino.» Raccolse un ventaglio di fogli e lo rimise nella cartellina, ma si fermò perché una delle pagine attirò la sua attenzione. Graffata sulla
sommità di una pila di domande di assunzione dei dipendenti della Scuola, cucite con punti metallici, mostrava il titolo grassettato ACCADEMIA DI FORMAZIONE DEI TRANSFERT DI IRIS SEMPLE - VALUTAZIONI PSICOLOGICHE DEI POTENZIALI DIPENDENTI. Sotto al titolo c'era una lista di una dozzina di nomi in ordine alfabetico. Uno di essi era barrato da una linea disegnata col righello e accompagnata dalla dicitura 'Vedi rapporto', scritta con una penna a sfera blu. MADDOX, CLEMENT EVERETT Natalie gli si avvicinò, con le mani dietro la schiena, impegnate ad agganciarsi il reggiseno. «Che succede?» Dan le mostrò la lista. «Eureka» disse. Dato che la Scuola aveva respinto Maddox come dipendente, la sua valutazione psicologica non compariva nei file in possesso di Dan. Telefonò a Clark per vedere se era in grado di reperire quei documenti. Il detective capo aveva già il rapporto tra le mani quando Dan e Natalie entrarono nel suo ufficio provvisorio al quartier generale del Dipartimento di polizia di San Francisco. «Il Dipartimento ce lo ha mandato via fax.» Clark consegnò la valutazione di tre pagine a Dan. «Di norma, queste cose sono strettamente confidenziali, ma Delbert Sinclair ha fatto un'eccezione per noi.» Diede un piccolo colpo alla prima pagina del rapporto. «Se vuoi sapere come la penso, Maddox ha tutta l'aria di un caso da camicia di forza.» Dan si sforzò di decifrare la calligrafia dello psichiatra che aveva condotto il colloquio. «Asseriva di essere in grado di convocare i morti elettronicamente?» «Già, addirittura usando televisori e apparecchi radio. A quanto pare, era ossessionato dall'idea di parlare con la moglie defunta. Ha persino preteso che un medico legale aprisse un'inchiesta sulla sua morte, nella speranza che si potesse chiedere a un Viola di convocarla. La corte ha respinto la sua richiesta in quanto era ovvio che sua moglie fosse deceduta per un cancro al seno. «È stato allora che ha cercato di farsi assumere alla Scuola: qualunque cosa, pur di stare vicino ai Viola. Diceva che voleva condividere le sue scoperte con il Dipartimento, voleva che sponsorizzassero la sua 'ricerca'. Gli hanno subito mostrato la porta.»
Natalie guardò Dan. «Pensi che stia cercando di impartire una lezione al Dipartimento?» Dan terminò di scorrere il rapporto. «Essere snobbato dal Dipartimento potrebbe aver innescato l'odio che nutre per i Viola - direi che va di pari passo con il profilo del killer. Anche la convinzione di possedere poteri simili a quelli dei Viola sembrerebbe armonizzarsi con le manie implicita nella lettera del 'Signore delle Porte'...» «E sappiamo che è stato visto sulla scena di due delitti» aggiunse Clark. «Tre, se si conta il suo collegamento con la Scuola.» Dan scosse il capo. «È tutto troppo circostanziale. Siamo in grado di dimostrare che è pazzo... ma la pazzia non è un crimine.» Restituì la valutazione psicologica a Clark. «Pensi che abbiamo sufficiente materiale per ottenere un mandato di perquisizione?» «Con il tuo profilo del killer, direi di sì. E se al giudice non basta, be'... ho sempre il numero di telefono del signor Sinclair. Quell'uomo è bravissimo a far muovere le cose.» Il nome di Sinclair accese una scintilla nella mente di Dan. «Pensi che mi possa fare avere un distintivo da agente del Dipartimento?» «Probabile. Perché?» «Se troviamo Maddox e se è la persona immodesta che pensiamo lui sia, certo non dovrebbe dispiacergli di vantarsi della sua 'ricerca' con un agente del Dipartimento. Magari si potrebbe lasciar scappare qualche dettaglio importante.» Clark aggrottò la fronte, ma annuì. «Vedrò cosa posso fare. Ma voglio che la polizia locale ti fornisca un sostegno. Non possiamo permettere che Maddox ci sfugga, se si dovesse spaventare. Chiamerò Seattle per avvertirli che stai arrivando.» Natalie incrociò le braccia. «E il mio ruolo qual è?» Dan trasalì di fronte al tono accusatorio della sua voce. «Credo che faresti meglio a restartene qui...» «La faremo riaccompagnare al motel da un paio di agenti e piazzeremo una sentinella fuori dalla sua stanza» disse Clark. «Con un minimo di fortuna, d'ora in poi non ci sarà più bisogno che la importuniamo in questo modo.» «Oh, sono sicura che troverete qualche altra maniera per importunarmi.» Mantenne un'espressione seria, ma il suo sguardo aveva un che di impertinente. Dan per poco non scoppiò a ridere. Uscendo dall'ufficio di Clark, le fece scivolare un braccio intorno alla vita, e sentì una mano di Natalie
infilarsi sotto il lembo della sua giacca e toccarlo al centro della schiena. Appoggiata alla parete del corridoio, la Mfume mostrò lo stesso sorrisino di un ragazzino che avesse sorpreso il fratello maggiore a pomiciare sul divano del salotto. Dan lasciò andare la mano lungo il fianco. «Oggi la trovo di ottimo umore.» «Anche lei mi pare piuttosto allegro.» Il sorriso della Mfume si allargò. Persino la fredda tinta avorio della faccia di Natalie assunse una lieve sfumatura di rossore. Dan cercò di spostare subito la conversazione su questioni di lavoro. «Devo volare fino a Seattle per indagare su una persona sospetta. Natalie avrà a disposizione una protezione fornita dalla polizia, ma mi sentirei più tranquillo se ci fosse anche lei a farle compagnia.» «Non si preoccupi. La legherò al letto, se sarà necessario.» La Mfume fece l'occhiolino a Natalie, che strabuzzò gli occhi. «Bene,» riprese Dan «ma non si dimentichi di legare anche se stessa. L'anima che ha occupato Lucy e Natalie, chiunque fosse, potrebbe entrare anche dentro di lei. Vi suggerisco di dormire a turno.» «Idea saggia.» L'espressione della Mfume si fece più seria. «Buona fortuna.» «Anche a voi.» Afferrò la mano che lei gli aveva teso e si sporse in avanti per sussurrarle in un orecchio. «Ci concede un minuto?» «Nessun problema.» Rivolgendogli un sorriso da cospiratore, salutò Natalie con un gesto della mano. «A presto, amica mia.» Natalie sospirò mentre la Mfume si allontanava lungo il corridoio. «Un'altra baby-sitter.» Mise un braccio intorno alla vita di Dan. «A volte mi domando se riusciremo mai a starcene un po' per conto nostro.» «Lo so.» Dan l'attirò a sé. «Starai bene?» «Dipende.» La guancia di Natalie si schiacciò contro quella di lui. «Tu torna vivo. D'accordo?» «Solo se mi prometti che sarai qui quando torno.» Si baciarono e si cullarono nel loro abbraccio come se stessero ballando un walzer lento che solo loro sentivano. Dan vide oltre le spalle di Natalie che la Mfume era tornata e che si fingeva interessata ad alcuni scatti in bianco e nero di ex capi della polizia che erano appesi al muro. Strinse le mani intorno alle tempie di Natalie e la scrutò nel profondo degli occhi, desiderando di poterne scorgere il vero colore, di poter tastare il suo liscio cranio rasato invece delle rigide ciocche di nylon della parruc-
ca. Diglielo! lo incitò una vocina dentro di lui. Ma preferì tacere. Non era ancora il momento. Dan le strinse le spalle un'ultima volta. «Meglio che vada.» «Già.» Natalie si ritrasse appena, ma la punta delle sue dita indugiò sulla giacca di Dan prima di lasciarlo andare. «Mi tieni un posto sulla giostra?» Il suo sorriso sciocco le strappò una risata. «Ci puoi scommettere!» Sprovvisto di altre scuse per trattenersi, le rivolse un cenno di saluto mentre si allontanava da solo lungo il corridoio. Dan si voltò indietro e vide la Mfume ricongiungersi con Natalie, che era rimasta immobile a guardarlo. Dan era quasi arrivato al parcheggio quando si ricordò che non disponeva di una macchina. Quella mattina aveva restituito le chiavi della Taurus a Earl Clark. Sospirando, tirò fuori il cellulare e chiamò un taxi per l'aeroporto. Peccato non poter riprendere la Honda di Sid Preston... Il pensiero dello sguardo accigliato del reporter gli fece venire in mente il patto che avevano fatto. È due volte in debito, agente. Digrignando i denti, Dan tirò fuori il suo taccuino e cercò il numero del cellulare di Preston. Ma, mentre lo digitava, le sue dita rallentarono. Non mi infastidisca, Atwater. In questa storia, posso fare di lei un eroe oppure uno squallido burattino. «Che si fotta!» Dan schiacciò il tasto 'redial', dopodiché strappò la pagina con il numero di Preston e la gettò nel bidone più vicino. 32 Una pessima accoglienza La pioggia di Seattle inzaccherò il vetro posteriore del furgone della sorveglianza di chiazze liquefatte di rifrazione, offuscando a Dan la vista del tetro laboratorio di riparazioni TV sull'altro lato della strada. Ma non gli impedì di vedere la vecchia Camaro. Parcheggiata vicino al cordolo, davanti al laboratorio, quella macchina in tinta nebbia sembrava essere stata scaricata dal cielo bigio che incombeva su di loro. «I ragazzi dicono che l'auto è stata parcheggiata intorno alla mezzanotte» disse Harv Rollins. Il corpulento detective di Seattle si acquattò dietro
di lui e sistemò un cavo sulla schiena nuda di Dan con del nastro adesivo. «Da allora non si è più mossa.» «Mmm. Deve aver viaggiato senza mai fermarsi.» Dan flesse le spalle per abituarsi al cavo; era come se una vite avesse messo radici nella sua schiena. «Siamo pronti?» «Quando vuole. Lì davanti ci sono quattro agenti in borghese, e tre sono sul retro. Però, se Maddox si incazza, non è detto che basti...» «Lo so.» Dan si infilò la camicia, scrollando le spalle e abbottonandosela del tutto, in modo da nascondere l'apparecchiatura di intercettazione acustica. «Se mi accorgo che ci sono prove sufficienti, cercherò di farlo uscire in modo che possiate arrestarlo. Se mi sentite dire 'quello che ho visto mi basta', tenetevi pronti a intervenire. Altrimenti, statevene tranquilli.» «Messaggio ricevuto.» Rollins fece un cenno all'autista, il quale spostò il furgone dietro l'angolo, parcheggiandolo dove nessuno dal laboratorio elettronico avrebbe potuto vederlo. Mentre Dan si infilava la giacca e l'impermeabile, Rollins rimase seduto su un basso sgabello davanti all'attrezzatura da comunicazioni a corto raggio che avrebbe usato per mantenersi in contatto con i suoi agenti in borghese e per registrare la conversazione tra Dan e Maddox. «Sicuro di non volersi portare una pistola?» fu la domanda del detective mentre Dan scendeva dal furgone, armato solo di un parapioggia. «Sì, non voglio spaventarlo» replicò Dan, benché il motivo vero fosse un altro. Una volta sul marciapiede, aprì l'ombrello nero e si incamminò verso l'altro lato della casa. Scrutando la strada, notò che una coppia elegante, oltre la trentina, entrambi biondi, seguiva i suoi movimenti attraverso la vetrina di un caffè bohémien. Qualcuno aveva parcheggiato una Camry blu nello spazio dietro la Camaro e, quando lui si avvicinò, l'autista della Toyota si sporse sul sedile del passeggero e frugò nel vano portaoggetti. Davanti al negozio di chitarre, accanto alla bottega di Maddox, un tizio con un ampio impermeabile grigio era fermo sotto la pioggia a guardare la vetrina, con il cappuccio dell'impermeabile che gli copriva la testa. La gobba che aveva sulle spalle indicava la presenza di uno zaino nascosto sotto l'impermeabile, e quel cappuccio monacale si piegò in direzione di Dan mentre si avvicinava al laboratorio elettronico. Secondo l'insegna della bottega, quello sarebbe dovuto essere il Clem's Gadget Garage, ma sulla vetrina era stata verniciata in maniera non profes-
sionale la scritta 'Si acquistano, vendono e riparano televisori, videoregistratori e stereo'. Dietro il vetro, torri di televisori, amplificatori e registratori a cassetta si sostenevano a vicenda, simili a una metropoli di schermi, bottoni e manopole. In base a quanto diceva un foglietto ingiallito da bloc notes attaccato al vetro dell'ingresso, la bottega era 'Temporaneamente chiusa.' Dan schiacciò il bottone di plastica sulla parete alla sua destra, ma udì solo lo scroscio delle gocce di pioggia sul proprio ombrello. Era lo stesso rumore dei chicchi di mais che si trasformano in pop-corn. Schiacciò il pulsante una seconda volta, dopodiché picchiò alla porta, nell'eventualità che il campanello fosse rotto. Niente. Facendosi schermo per riuscire a vedere nonostante il riflesso, Dan sbirciò attraverso la porta, ma scattò indietro quando, d'un tratto, la sua immagine riflessa si trasformò nella faccia di un uomo con la barba sfatta che indossava una tuta militare da lavoro. Quell'uomo gli gridò qualcosa dall'altra parte del vetro. «Siamo chiusi!» Puntò con forza un dito sul foglietto, per dare maggiore enfasi alle sue parole. Nonostante i capelli gli cadessero sulle spalle e avesse il mento ricoperto da una barbetta ispida e incolta, Dan riconobbe la faccia che aveva visto sugli archivi della Motorizzazione. «Il signor Maddox? Clement Maddox?» Un altro grido attutito. «Chi è che lo vuole sapere?» «Mi chiamo Tate - Julius Tate. Dipartimento Americano per le Comunicazioni con l'Aldilà.» Estrasse il distintivo finto che Delbert Sinclair gli aveva procurato e lo tenne bene in vista. «Posso scambiare quattro chiacchiere con lei?» Maddox studiò il distintivo con aria diffidente e scontrosa, poi aprì la porta. «Che cosa vuole?» chiese, bloccando l'ingresso. «È a proposito del suo lavoro. I risultati di una nostra recente ricerca confermano la possibilità di una ricezione elettronica delle anime, e il Dipartimento è interessato al suo parere.» «Davvero?» Un sorriso della serie io-lo-avevo-detto gli si dipinse in volto. «C'era da aspettarselo.» «Le dispiace farmi entrare?» Dan guardò il cielo per ricordare a Maddox che stava piovendo. «Oh, certo.» Aprì la porta e si fece da parte, tenendo la mano destra nella
tasca del giubbotto militare. Dan chiuse l'ombrello e lo fece gocciolare prima di entrare. L'interno della bottega consisteva in poco più di un bancone, un registratore di cassa e varie scaffalature componibili su cui erano assiepate attrezzature elettroniche dalle cui viscere spuntavano cavi isolati. L'aria punse le mucose di Dan con una miscela acre di stagno caldo, circuiti stampati bruciati e polvere. Da un punto non meglio identificato dello stabile proveniva un sibilo, che trasmetteva la sensazione che quel posto respirasse. «Temo che il Dipartimento le debba delle scuse, signor Maddox» gli disse Dan. «Non avevamo la minima idea delle enormi implicazioni che potevamo derivare dalla sua ricerca.» «E allora sentiamo cosa avete da dire.» Maddox era fermo fra lui e la porta. Quando estrasse la mano dalla tasca del giubbotto, il tessuto si curvò sotto la pressione di un oggetto invisibile, spigoloso. Dan finse di non avvedersene, ma fece in modo di non rivolgergli la schiena. «Ovviamente, adesso ci rendiamo conto di che razza di risorsa lei potrebbe rappresentare.» «Davvero?» Maddox incrociò le braccia, come un giocatore di scacchi sicuro di avere l'avversario in pugno. «Qual è la vostra offerta?» Dan studiò la stanza, ma non vide nulla di strano. Rivolse un'occhiata alla porta aperta e buia dietro al bancone. «Verrà ricompensato profumatamente per il suo contributo... se saprà dimostrare la fondatezza delle sue rivendicazioni.» Il sorriso di Maddox svanì. «Non è una questione di soldi.» Ridusse la distanza che li separava, al punto che i loro nasi vennero quasi a contatto. «Non è mai stata una questione di soldi.» Dan sostenne il suo sguardo truce senza fare una piega. «E allora cos'è che vuole?» «Il controllo.» Quella parola restò sospesa nell'aria, come un pesticida. «Voglio il controllo completo del progetto.» Lungo la colonna vertebrale di Dan iniziò a scendere un brivido simile a un rivolo di acqua gelida. «Certamente» rispose, mantenendo un tono di voce calmo, professionale. «Se sarà in grado di dimostrare quello che ci ha detto.» Maddox esplose in una risata di esultanza. «Lo posso dimostrare, non si preoccupi.» Sollevò l'asse mobile del bancone e fece cenno a Dan di passare dalla porta retrostante.
Cercando di non perdere di vista Maddox con la coda dell'occhio, Dan avanzò nel retrobottega. Il sibilo che aveva sentito prima si fece più forte e ora sembrava uscire da più di una bocca, come un coro di aspidi. Mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità, vide un materasso, con sopra delle lenzuola sporche e sgualcite, sul pavimento nei pressi di una vecchia macchina del ghiaccio. Sulla sua destra, da una porta aperta, si scorgeva un bagno sudicio. Sul lato sinistro, una luce tenue e grigiastra pulsava nell'oscurità senza riuscire ad attenuarla. Dan si voltò verso la sorgente luminosa e scoprì più di trenta televisori ammassati su degli scaffali che coprivano un'estremità della stanza. In tutti quegli schermi rettangolari tremolava il biancore dei canali morti, e dagli altoparlanti usciva solo un fruscio tenue. «Allora?» Maddox indicò i televisori come un padre orgoglioso che stia mostrando i propri figli. «Le Vede?» Dan non vide nient'altro che una tempesta di puntini bianchi e neri sugli schermi. «Temo di non capire...» «A volte bisogna aspettare un po'.» Piegandosi sulle ginocchia finché non si trovò alla stessa altezza di uno dei televisori, Maddox fissò quel biancore, immergendo il proprio volto nel chiaro di luna punteggiato di fosforo. «Vanno e vengono. Dipende dalla ricettività dell'elemento di contatto.» Diede un colpo sulle antenne interne dell'apparecchio televisivo. Per la prima volta, Dan notò che un orologio da polso da uomo era stato fissato mediante una porzione di cavo a una delle asticelle telescopiche in metallo. Si accorse più esattamente che ciascuno degli apparecchi televisivi aveva qualche oggetto incongruo attaccato all'antenna: un medaglione contenente la foto sbiadita di un neonato, un pettine tra i cui denti erano tuttora incastrati dei capelli biondi, un guanto da donna appiattito come la pelle della muta di un serpente. «Ascolti.» Maddox fece girare la manopola del volume di un altro televisore e inclinò il capo per sentire lo stridore statico dell'altoparlante trasformarsi nel rombo di una cascata. «Ecco! Riesce a sentirla?» Dan trattenne il respiro e restò in ascolto. In effetti sembrava che una voce fosse rimasta imprigionata dietro quella cortina di interferenze - un gemito lontano, querulo, come il lamento di un bambino intrappolato nelle profondità di un pozzo. L'interferenza di un'altra stazione, si disse Dan e, tuttavia, si sentì venire la pelle d'oca. Maddox gli rivolse un sorriso. «Ecco! Ora la sente anche lei, vero?»
Senza attendere una risposta, si avviò rapidamente verso un tavolo da lavoro in legno, vicino alla parete opposta. Su quel tavolo ingombro di saldatori, pinze appuntite e bicchieri di plastica pieni di un vasto assortimento di resistenze, transistor e circuiti integrati, stavano altri nove televisori il cui schermo era screziato di bianco. «In questo momento, la ricezione non è abbastanza buona da permettere un livello affidabile di comunicazione. Sono convinto che il segreto stia nelle frequenze risonanti.» Maddox, in preda ai brividi dell'eccitazione, diede un colpetto alla sommità di un apparecchio che ricordava un oscilloscopio e che lui aveva collegato al televisore centrale attraverso dei cavi. «Immagini di poter sintonizzare la televisione sull'immagine del suo povero nonno con la stessa facilità con cui la sintonizzerebbe sul canale di 60 Minutes o Friends.» Dan osservò la riga intermittente verde sullo schermo tondo dell'oscilloscopio. Era in tutto e per tutto simile allo Scanner dell'Anima. Si umettò le labbra secche. «E come si fa a... trovare queste frequenze risonanti?» Maddox si guardò intorno e fece cenno a Dan di avvicinarsi. La sua voce si ridusse a un sussurro, come se temesse che gli stessi televisori potessero sentire quello che aveva da dire. «Sto studiando le anime dei Viola morti.» Indicò una bacheca appesa al muro, dietro il tavolo da lavoro. Sulla superficie in sughero erano state appuntate dozzine di ritagli di quotidiani, secchi e ingialliti come le foglie d'autunno. C'erano titoli come TRANSFERT INCHIODA ASSASSINO CON LE LACRIME DELLA VITTIMA, VIOLA VERIFICA AUTENTICITÀ DI VERMEER SCOPERTO DI RECENTE, e LA TRANSFERT KAMEI, ESPERTA DI MUSICA CLASSICA, ASSASSINATA NELLA PROPRIA CASA. Dan riconobbe foto di Jem Whitman, Gig Marshall, Russell Travers, Sylvia Perez... e di Natalie. «Le loro anime sono più risonanti delle nostre.» Maddox studiò quei ritagli con una soggezione carica d'invidia. «È per questo che sono in grado di accogliere i morti. Se riesco a replicare elettronicamente quella risonanza, potremo tutti disporre dello stesso potere.» Dan toccò l'apparecchio televisivo collegato all'oscilloscopio. Forse fu solo la forza della suggestione, però più fissava lo schermo e più quell'ammasso di puntini in movimento si ridefiniva assumendo contorni più precisi di luce e di oscurità. Due sbaffi ellittici per occhi e una O aperta come bocca. «È una di loro?» Ma la risposta la conosceva già.
A un'antenna del televisore era appeso, a mo' di esca, un tigrotto di peluche dal pelo sintetico arruffato. Laurie... «Già.» Maddox accarezzò il cinescopio. «Con l'attrezzatura giusta, sono certo di poter perfezionare il mio progetto.» Lo sguardo di Dan passò dal tigrotto agli oggetti attaccati alle antenne degli altri televisori. «Dove prende i suoi elementi di contatto?» Maddox si irrigidì e si fece improvvisamente guardingo. «Be'... negozi di articoli usati, svendite, cose del genere.» «Dev'essere difficile trovare oggetti di contatto per Viola morti in un qualunque Goodwill32.» Lo sguardo truce di Maddox brillava come una spada sguainata. «Se sai dove cercare, li trovi.» Dan ravvivò il tono della voce. «Sono certo che il Dipartimento le possa dare una mano. E cosa mi dice di questo?» Si spostò verso un televisore staccato da tutti gli altri, ma Maddox gli bloccò la strada. «Quello è speciale.» «Mmm.» Dan notò l'anello di fidanzamento col diamante dentro cui era stata infilata l'antenna. «A questo punto, sempre che non ci sia qualcosa d'altro che lei intendeva farmi vedere...» Un piccolo oggetto lucente sul tavolo da lavoro lo colpì: un ciondolo con due serpi avvinghiate nel simbolo dell'infinito. Ne aveva visti solo due in tutta la sua vita. Uno era custodito al sicuro negli archivi del Tribunale di San Francisco, in quanto prova. E l'altro... Dan inspirò per riuscire a parlare con voce calma. «Penso che quello che ho visto possa bastare, signor Maddox.» «Il che vuol dire che finanzierete la mia ricerca?» L'altro uomo lo scandagliò con la coda dell'occhio. «Sì. Se mi accompagna, seduta stante, al nostro ufficio in centro, potrà esporci le sue condizioni.» Maddox si massaggiò la peluria sulla guancia, rimuginando sull'offerta. «Inoltre la presenterò a Simon McCord» aggiunse Dan con aria di indifferenza. «Si trova a Seattle, in questo momento. Forse le può dare una mano.» Il volto di Maddox si illuminò di un piacere estatico - l'eccitazione del fan che sta per incontrare il proprio idolo. «Già... forse.» «Naturalmente, sempre che lei non abbia altri impegni. In tal caso, ci si può vedere in un altro momento...»
«No.» Lo sguardo di Maddox indugiò sul televisore con l'anello di fidanzamento. «No. Prima è, meglio è. Andiamo.» Si diresse alla porta senza preoccuparsi di spegnere i televisori. Dan lo seguì. Il rumore bianco si era ripartito in una fuga di sussurri conflittuali, come se alcuni sordomuti stessero disperatamente cercando di comunicare tra loro. Dalla nebbia di puntini su ogni schermo si materializzò la suggestione di un volto, come se degli spettri lottassero per prendere forma, con le macchioline fosforescenti degli occhi che imploravano di essere liberate, le bocche sconvolte da grida incomprensibili... Dan si affrettò a ricongiungersi con Maddox. Quando uscirono dall'ingresso principale e si ritrovarono sotto la pioggia, fu per lui un grande sollievo inspirare avidamente la fresca aria esterna. Mentre Maddox chiudeva a chiave la bottega, Dan aprì l'ombrello e rivolse una fugace occhiata all'altro lato della strada. La coppia seduta dietro la vetrata della caffetteria abbandonò immediatamente il proprio tavolo. La Camry era ancora parcheggiata vicino al marciapiede, ma il conducente era sparito alla vista, così come era successo all'uomo dall'impermeabile col cappuccio. «La mia macchina è da questa parte.» Dan indicò la Cadillac marrone presso il marciapiede opposto, a poca distanza dal punto in cui la coppia bionda era appena spuntata dal caffè. Maddox si strinse l'ampio giubbotto militare intorno alle spalle, battendo le ciglia, come per liberarsi dalle gocce di pioggia. «E allora cosa aspettiamo?» Orientando l'ombrello in maniera da proteggere Maddox dall'acquazzone, Dan lo guidò in direzione del marciapiede, aspettando che il traffico si placasse. La coppietta indugiò davanti al caffè. La donna agitò l'ombrello come se non riuscisse ad aprirlo. Senza nessun avvertimento, la portiera della Camry si aprì e l'uomo che vi era accovacciato sopra saltò giù sul marciapiede. Maddox e Dan, sorpresi, si voltarono mentre l'uomo avvicinava la macchina fotografica all'occhio. «Signor Maddox, come ci si sente a essere l'indiziato numero uno dell'FBI per gli omicidi dei Viola?» gridò Sid Preston. La macchina fotografica iniziò a produrre il classico suono: whirr-click-whirr-click-whirrclick. Maddox, preso dal panico, fece marcia indietro. La donna sull'altro lato della strada lasciò cadere l'ombrello ed estrasse una pistola, mentre il suo
collega agitava in aria un distintivo per arrestare il flusso del traffico sulla strada. Entrambi pronunciarono parole rabbiose, con le bocche vicine ai colletti delle camicie. Dan avrebbe voluto urlare qualcosa a Preston, ma non ne ebbe il tempo. Buttò giù l'ombrello e cercò di afferrare il braccio di Maddox. «Vogliamo solo farle qualche domanda...» I polmoni di Dan restarono senz'aria quando Maddox gli si gettò contro con tutto il suo peso. Oscillò su un fianco, inciampò sull'orlo dell'ombrello capovolto e cadde sul marciapiede, mentre l'altro si allontanava di corsa. La macchina fotografica di Preston riprese a produrre il classico suono: whirr-click-whirr-click-whirr-click, prima che il massiccio poliziotto biondo di Seattle bloccasse il reporter, intimandogli di tornare indietro. La sua collega attraversò la strada in diagonale per intercettare Maddox. «Fermo! Polizia!» Dan si rimise in piedi, sentendo una fitta al fianco colpito, e vide che altri due poliziotti in borghese erano scesi dalle automobili parcheggiate per unirsi alla caccia. Zoppicò verso di loro, mentre puntavano tutti sull'indiziato in fuga. Braccato da tre direzioni diverse, Maddox si fermò di colpo. I suoi occhi sembravano spiritati. Dando le spalle alla parete di un negozio di vecchi abiti usati, diede sfogo a un'angoscia quasi penosa mettendosi a piagnucolare, ed estrasse un vecchio revolver dell'esercito dalla tasca destra della giacca. La donna bionda gli puntò contro la pistola. «Gettala a terra!» Si era quasi infilato la canna in bocca quando lei premette il grilletto. Aveva una buona mira. La prima pallottola frantumò la spalla di Maddox, facendogli perdere l'equilibrio e cadere la pistola tremante. Il secondo proiettile gli colpì la parte superiore della coscia. Maddox cadde. L'acqua piovana che lambiva il marciapiede si tinse leggermente di sangue. I tre agenti in borghese lo circondarono. «Chiamate un'ambulanza» furono le parole pronunciate dalla bionda dentro al microfono inserito nel colletto della camicia. Mentre Dan le si avvicinava da dietro, lei si inginocchiò per comprimere la gamba di Maddox nei pressi della ferita. L'indiziato rotolò su un fianco. Dai capelli arruffati, gli colava acqua negli occhi. La sua faccia pallida si fece bluastra e i tratti del viso si rilassarono e si rasserenarono. «Amy...» Chiuse gli occhi, con un vago sorriso sulle labbra.
La donna poliziotto si avvicinò ulteriormente alla ferita sanguinante. «Non te ne andare così, Clem! Parlami di Amy. Chi è Amy?» «Sua moglie» disse Dan, visto che Maddox non rispondeva. «Immagino che fosse pronto a tutto, pur di incontrarla ancora.» L'altro agente raccolse il revolver di Maddox e tenne indietro la folla di curiosi che si era radunata, finché non giunse l'ambulanza. Nella confusione che regnava in strada, a metà isolato, nessuno notò l'uomo dai capelli scuri sgusciato fuori dall'ingresso principale del Clem's Gadget Garage, che mugugnava tra sé, «...nove per tre ventisette, nove per quattro trentasei, nove per cinque quaranta...» Lasciò la frase in sospeso e si guardò attorno con un'aria allarmata. Soddisfatto che nessuno lo avesse sentito, tirò su il cappuccio dell'impermeabile e si allontanò dalla zona della sparatoria, camminando a testa bassa sul marciapiede. 33 Dubbi Il monitor dell'elettrocardiogramma emise un bip regolare, per quanto freddo, a mostrare che l'uomo nell'Unità di terapia intensiva numero 6 era ancora vivo. Con una spalla e una gamba bendate e una flebo al braccio, non aveva aperto gli occhi e non si era mosso di sua iniziativa da quando era giunto allo Swedish Medical Center. Ciononostante, un agente armato della polizia di Seattle era di guardia all'interno della stanza perché a occupare il letto era Clement Everett Maddox, l'assassino dei Viola. Dan era sprofondato, con le dita giunte davanti alla bocca, nella sedia di fronte al letto, intento a osservare la faccia dal pallore cadaverico di Maddox. Era seduto lì da quasi due ore, cioè da quando il presunto assassino era uscito dalla sala operatoria. Harv Rollins, con impermeabile ancora umido per l'acquazzone, entrò ondeggiando dalla porta e indicò il letto con un cenno del capo. «Qual è la prognosi?» «È tuttora in condizioni critiche. Shock emorragico. Il dottore pensa che gli ci vorrà una settimana per riprendere conoscenza, ammesso che ce la faccia.» Rollins sbuffò. «Ci risparmierebbe un bel po' di guai se non ce la faces-
se.» Dopo aver arricciato il naso di fronte al commento del detective, Dan si alzò dalla sedia. «Che cosa avete trovato?» «Che cosa non abbiamo trovato? Un rotolo di corde per pianoforte, un coltello, una confezione di guanti da chirurgo, del materiale per costruire bombe, dei trofei sottratti ad alcune delle vittime... i nostri sono ancora impegnati a catalogare tutto. Compresa questa.» Estrasse una Polaroid da una tasca e la sollevò. Il quadrato lucido mostrava un armadietto aperto nella bottega di Maddox. Sullo scaffale c'era una maschera appiattita di crespo nero - in parte velo da lutto e in parte cappuccio del boia. «Ottimo lavoro, Harv» disse Dan con voce inespressiva. Rollins si infilò nuovamente la foto nella giacca e si diede un colpetto sulla tasca. «Se dovesse mai svegliarsi, lo rinchiuderemo fino alla fine dei suoi giorni. Se lo giudicano in California, si becca la pena di morte.» «Già.» Fissò Maddox ancora una volta e fece una risatina sforzata. «Cosa c'è di tanto divertente?» chiese Rollins. «Non è tanto divertente, quanto istrionico.» Dan indicò il paziente comatoso. «Vivo o morto che fosse, riuscirebbe comunque a parlare in difesa di sé.» Ignorò l'espressione perplessa di Rollins e uscì dalla stanza. Quella sera, Dan rinunciò a chiamare Natalie, temendo che lei potesse captare lo sconforto nella sua voce mentre le dava la 'bella' notizia. Cercò di telefonarle la mattina dopo, ma a rispondere fu uno degli agenti della polizia di San Francisco che erano montati di guardia alla sua stanza del motel, che gli disse che lei e Serena erano uscite a farsi un'abbondante colazione per celebrare l'arresto. Avvilito, Dan riattaccò e si mise i baffi e gli occhiali finti prima di lasciare il motel. Non aveva voglia di rispondere a nessuna domanda sugli omicidi dei Viola e, soprattutto, non aveva intenzione di ricevere la congratulazioni di nessuno per l'arresto del killer. Giunto alla sede della polizia di Seattle, passò in mezzo a un'orda di reporter assiepati all'esterno senza essere notato e raggiungere di soppiatto l'ufficio che gli era stato assegnato temporaneamente, senza neppure fermarsi a prendere una brioche. Earl Clark lo aspettava all'interno dell'ufficio. «Un travestimento o una scelta di stile?» gli chiese il detective capo.
«Né l'uno né l'altra.» Dan si strappò i baffi. «È uno stile di vita.» Clark gli diede una pacca sulle spalle. «Su col morale! Sei l'uomo del momento. E, a ogni buon conto... te ne ho tenuto da parte una copia.» Aprì l'edizione del mattino del New York Post e la sollevò. INCHIODATO L'ASSASSINO DEI VIOLA, strombazzava il titolo di testa. L'ASSASSINO CATTURATO NONOSTANTE L'INCOMPETENZA DELL'FBI. La foto principale mostrava il personale paramedico che caricava Maddox su un'ambulanza; sotto c'era una piccola foto di Dan che cadeva sul marciapiede accanto al suo ombrello rovesciato, mentre Maddox scappava sullo sfondo. «Non è il mio profilo migliore» ammise Dan. Clark rise e gettò il tabloid nel cestino accanto alla scrivania. «Rilassati. Ho comunicato al Bureau che sei stato tu a portarci sulle tracce di Maddox.» «Già... è vero.» Il sorriso del suo superiore si spense. «Non ne sembri tanto felice. A quanto dice il detective Rollins, pare che tu abbia dei dubbi a proposito dell'arresto.» «Sissignore.» «Mmm. Ti stai rivolgendo a me con deferenza. Dunque, ci deve essere qualcosa che non va. Sputa il rospo, ragazzo. Cos'è che hai in mente?» Dan fece un profondo respiro e scosse la testa. «C'è qualcosa che non quadra, Earl.» «E come fai a dire una cosa del genere? Santo cielo, l'hai vista tu stesso la bottega di quell'uomo. È un reliquiario dei Viola. Il Dipartimento di polizia di Seattle ci ha trovato le armi dei delitti e la maschera, per non parlare di tutti i souvenir sottratti alle vittime.» «Questo lo so...» «E questo lo sapevi?» Prese dalla scrivania una manciata di stampati spillati insieme. «Hanno trovato un paio di scarpe da ginnastica Nike che fanno il paio con le impronte raccolte sul tappeto della Gannon. Un campione prelevato dalla suola di una delle scarpe corrisponde alla fibra di cui è fatto il tappeto.» «Senti, ti posso garantire che Maddox è tutto matto. Come minimo, è colpevole di capi di imputazione multipli, tipo violazione di domicilio, effrazione e piccoli furti. Ma se è lui l'assassino, perché avrebbe dovuto rischiare di tornare sulla scena del crimine per raccogliere i suoi trofei? Perché non prenderne uno dopo aver commesso ciascun omicidio?»
«Forse è così che rivive l'esperienza dei suoi omicidi, la straordinaria eccitazione di quei momenti. Non sarebbe il primo psicopatico che lo fa, questo lo sai.» Dan, non senza una certa riluttanza, ammise che Earl aveva segnato un punto a suo vantaggio. Alcuni sociopatici traevano un'eccitazione perversa dalla rivisitazione dei luoghi dove avevano commesso i loro delitti. «Direi che ha senso,» disse «ma come lo spieghi, allora, il DNA di Maddox? I nostri risultati iniziali dicono che non corrisponde ai campioni prelevati dal toupet biondo che Natalie e Serena hanno trovato nella borsa da ginnastica.» Clark scrollò le spalle. «Probabilmente, il toupet era solo l'ennesimo trofeo sottratto a una delle vittime. Quale sistema migliore per godere della morte di qualcuno che portarne in testa un pezzo tutti i giorni? Forse per Maddox era un modo per strappare al Viola assassinato i suoi poteri mentali. È coerente col profilo che hai stilato tu, o sbaglio?» «Già. Il mio profilo.» Il fatto di argomentare contro la sua stessa logica fece sentire Dan ancora più sciocco. «E comunque non hai ancora risposto alla domanda più ovvia: se Maddox non è l'assassino, allora da dove vengono la maschera e le armi?» Touché. «Non lo so» confessò Dan. «Ce le deve avere messe qualcuno.» «Naturalmente. Immagino che tutto ciò abbia a che fare con l'assassinio di Kennedy.» La faccia di Dan avvampò di disappunto. «Risparmiati i sarcasmi, Earl. E poi, cosa mi dici dell'anima morta che ha agevolato l'omicidio di Lucinda Kamei? Quell'anima conosceva il suo mantra. Questo come lo spieghi?» «Facile... non è successo affatto. Probabile che la Kamei se lo sia sognato o abbia avuto le allucinazioni. Pensiamo che Maddox l'abbia drogata per portarla di sopra, nella stanza della torretta. Deve aver usato qualcosa che l'esame tossicologico dell'autopsia non è stato in grado di cogliere.» «Ma davvero? E il viaggetto in macchina che Natalie ha fatto fino al Tenderloin? Anche lei era sotto l'effetto di droghe?» Clark fu costretto a rifletterci sopra un momento. «Forse. Forse era ipnosi.» Esitò. «O forse la relazione di Maddox con la moglie morta è più stretta di quel che vorremmo pensare.» «Forse su questo hai ragione.» Dan pensò all'apparecchio televisivo con l'anello di fidanzamento infilato nell'antenna - l'apparecchio a cui Maddox
non lo aveva lasciato avvicinare. «Comunque sia, Maddox è l'uomo che aveva il movente, il sistema, e l'opportunità. Sei d'accordo?» Dan alzò una mano in segno di resa. «Sì, certo. Sto solo dicendo che penso sia prematuro abbassare la guardia prima di aver studiato attentamente tutte le prove raccolte.» «Studia tutto quello che vuoi. Per quel che mi riguarda, me ne torno a casa. Grazie a te, Charisse non mi ammazzerà per non essere stato presente al nostro anniversario.» Clark posò una mano sulla spalla di Dan. «So che la sparatoria ti ha fatto stare in ansia, però stavolta hai beccato l'uomo giusto.» Dan fece una smorfia. «Se lo dici tu.» Il detective capo fece un sospiro e si avviò verso la porta dell'ufficio. «Ah, dimenticavo.» Indicò una spessa busta gialla appoggiata sulla scrivania. «Lo stato patrimoniale di Evan Markham, se ancora ti interessa. Se scopri dove si sta nascondendo, digli che ora può uscire tranquillamente allo scoperto.» Clark toccò la schiena di Dan e lo lasciò solo, in preda ai suoi dubbi. Quel pomeriggio, nella camera del motel, mentre Dan frugava tra fogli di appunti, documenti fotocopiati, fotografie di scene del crimine e rapporti autoptici, alla ricerca di qualcosa di concreto cui i suoi nebulosi dubbi potessero aggrapparsi, la busta di Evan era ancora chiusa all'estremità del letto. Per quella che gli parve la millesima volta, rilesse la lettera del 'Signore delle Porte', passò al setaccio l'interno della bottega di Arthur McCord e le sue anime intrappolate, studiò attentamente il corpo massacrato di Lucinda Kamei, e tutto questo nella speranza di individuare un dettaglio rivelatore che gli fosse sfuggito in precedenza. Alla fine, con la schiena indolenzita e gli occhi che gli facevano male, mise via l'ultima cartelletta che aveva sfogliato e diede un'occhiata all'orologio. Erano le 18:23. A quell'ora, forse Natalie era rientrata al motel. Districando le gambe anchilosate, si sporse per prendere in mano la cornetta del telefono dal comodino di fianco al letto. Non avrebbe neppure dovuto cercare il numero prima di digitarlo: aveva già provato a chiamarlo quattro volte nelle ultime due ore. «Walkright Inn» rispose l'impiegata della reception. «In cosa posso esserle utile?»
«Mi passi la stanza ventidue, per favore.» «Attenda in linea mentre inoltro la chiamata.» Doveva aver riconosciuto la sua voce dalle telefonate precedenti, perché il suo tono tradiva un blando fastidio. Sentì due stridii nella cornetta e poi un clic. «Pronto?» La voce di Natalie lenì il mal di testa di Dan, come un unguento placa una scottatura. Possibile che fossero solo due giorni che non la vedeva? Lui sorrise. «Ciao!» «Dan! Stavo iniziando a domandarmi se ti avrei mai più sentito. Che sta succedendo?» «Già... Scusa se non mi sono fatto vivo. Da queste parti è stato tutto un gran casino.» «Ci credo! Non ti sei fatto male, vero?» «Solo qualche livido. Colpa della mia goffaggine. Hai sentito dell'arresto?» «Solo a grandi linee. Però, qui sembrano tutti convinti che ci siano forti indizi contro Maddox.» Dan fece un lungo respiro. «Già, anche qui.» «Sopravvivrà?» «È grave, però pensano che ce la possa fare.» All'altro capo del telefono ci fu una lunga pausa. «Pensi che Maddox sarà in grado di portarli ai cadaveri di Jem e degli altri?» «Immagino di sì.» Avrebbe voluto essere più convincente. «Ho cercato di chiamarti prima, ma tu non c'eri. I poliziotti mi hanno detto che tu e Serena eravate uscite a mangiare. Com'è andata?» «Benissimo. Siamo andati in un bel posto dove si mangia pesce, lungo il Fisherman's Wharf33, e poi siamo state in giro a guardare le vetrine prima che lei andasse all'aeroporto.» Dan scattò a sedere. «All'aeroporto?» «Già. L'ho salutata al posto di controllo della sicurezza e poi sono tornata indietro in taxi.» Scoppiò a ridere. «Farei meglio a imparare a guidare: questi tassisti sono tutti matti.» «Vuoi dire che Serena non è lì?» «Te l'ho appena detto, o no? A dire il vero, dovrebbe arrivare a Seattle più o meno fra un'ora.» «E la polizia? Ce l'hai ancora un uomo di guardia davanti alla stanza?» «No... non sembrava più necessario. Dan... stai iniziando a farmi paura. Che sta succedendo?»
«Spero niente. Stammi a sentire. Devi farmi un favore. Chiuditi dentro a chiave e resta lì per tutta la notte. Domani, di prima mattina, cerco di trovare un volo e vengo a prenderti al motel.» «D'accordo.» La sua voce perse tutta la sua brillantezza. «Pensi che non sia ancora finita, vero?» Stavolta, fu Dan a fare una lunga pausa. «Non lo so» disse. «Ma stanotte non farti prendere da un sonno troppo pesante.» Un sospiro. «Non serve più che tu ti preoccupi di quello.» La voce cupa di Natalie lo rattristò. «Intendo riprendere il discorso dove lo abbiamo interrotto l'altra mattina» mormorò lui. E lei, con molta dolcezza, rispose: «Anch'io.» «Ci vediamo domani.» «D'accordo. A domani.» «'notte.» Riluttante a riattaccare, Dan attese che fosse lei a farlo. Ma, a quanto pareva, anche lei aveva avuto la stessa idea. «'notte» replicò alla fine Natalie. Un click e un segnale di linea libera diedero a Dan il permesso di rimettere la cornetta al suo posto. Preoccupato, tornò al disordine delle sue prove. Prese in mano un dossier senza seguire un ordine preciso, e poi lo mise da parte, dopodiché ne prese un altro e poi un altro ancora. Ma, dopo mezz'ora, lasciò perdere. Quella roba l'aveva già vista così tante volte che per il suo cervello sovraccarico non era altro che un ammasso di sciocchezze. Gettando i fascicoli più recenti sopra gli altri, posò casualmente lo sguardo sulla busta contenente i conti di Evan Markham. Almeno avrebbe avuto qualcosa di nuovo da leggere. Strappò la busta come se fosse corrispondenza non richiesta, di quella che si cestina senza nemmeno leggerla, e diede una rapida scorsa ai documenti. Gli addebiti della Visa si interrompevano dopo la scomparsa di Markham. Una delusione, non una sorpresa. Evan era troppo astuto per lasciare al Dipartimento indicazioni sui suoi spostamenti utilizzando una carta di credito. Idem per le transazioni effettuate con il bancomat. Ciò significava che aveva dovuto ritirare un bel po' di denaro liquido prima del suo presunto 'assassinio'. Dan studiò i tabulati relativi ai prelievi e ai depositi della banca, a cominciare dalla data della scomparsa di Sondra Avebury. Aggrottando la fronte per riuscire a leggere le cifre, ripercorse tutti gli estratti conto della
banca. Man mano che voltava le pagine, con velocità crescente, sulla sua fronte si scavavano dei solchi sempre più profondi. D'improvviso gli venne un'idea, e così accantonò i dati patrimoniali e infilò le mani nel groviglio di documenti che aveva davanti, finché non riuscì a portare alla luce il rapporto dell'autopsia di Lucinda Kamei. All'interno della cartellina erano state graffate diverse fotografie post mortem. La prima mostrava un primo piano del volto privo di occhi e delle spalle nude e sbiancate della Kamei. Lì, appena sotto la clavicola, una lacerazione rossa e incrostata si arricciava fino a formare il numero 9. Dan fissò il numero come se, d'un tratto, si fosse impresso a fuoco nella pelle della Kamei, a mo' di stigmata. Con le mani che gli tremavano, lasciò cadere la cartellina dell'autopsia e afferrò il telefono. L'impiegata del ricevimento lo collegò nuovamente con la stanza di Natalie, ma stavolta il telefono suonò senza risposta. Subito dopo aver parlato al telefono con Dan, Natalie era tornata a rileggere Ragione e sentimento, ma le era risultato impossibile restare concentrata sulla storia. Il criptico consiglio di Dan aveva preso a volteggiarle nella testa, cristallizzando le paure che avevano proiettato cupi presagi su una parete lontana della sua mente. Stanotte non farti prendere da un sonno troppo pesante... Le si chiuse il libro sulle gambe. Natalie si raddrizzò con un sussulto, riprendendosi proprio mentre era sul punto di appisolarsi. Il peso di una settimana in cui non aveva dormito più di due ore a notte alla fine si era fatto sentire. Balzando in piedi, si mise a camminare sul pavimento della camera d'albergo, massaggiandosi le braccia per svegliarsi e riflettendo sul da farsi. Prese in considerazione l'ipotesi di accendere la TV, ma pensò che l'avrebbe fatta addormentare ancor più velocemente di Jane Austen. «In questo momento, sarei pronta ad ammazzare qualcuno per una tazza di caffè.» Non riusciva a credeva di aver detto una cosa del genere. Però, una volta che le fu entrata in testa, l'idea del caffè iniziò a solleticaria con insistenza. Il Walkright Inn si vantava di offrire caffè gratis ventiquattro ore al giorno. Considerata la pessima qualità del suo caffè del mattino, Natalie poteva solo immaginare quanto rancido e bruciaticcio potesse essere quello della sera, ma almeno avrebbe contenuto un po' di caffeina, e il gusto amaro
forse l'avrebbe aiutata a restare sveglia. La sala ristorante era a pochi passi dal bancone della reception, quindi lei non sarebbe mai rimasta sola; ci avrebbe fatto una rapida puntata, avrebbe agguantato una tazza di quella sciacquatura e si sarebbe ritrovata dietro la porta chiusa a chiave della sua stanza nel giro di cinque minuti. Ed era comunque meno rischioso che addormentarsi. Aprì la porta e scivolò nel corridoio con la furtività senza senso di una persona a dieta che si prepari a saccheggiare il proprio frigorifero. Nel motel non c'era molta gente, persino tenendo conto che era un giorno feriale di bassa stagione, e Natalie non incontrò nessuno finché non giunse nella hall, dove una donna quasi albina con un pesante trucco era seduta dietro il bancone, impegnata a leggere un romanzo di V.C. Andrews34. Fin qui, tutto bene, pensò Natalie attraversando il passaggio ad arco che immetteva nella sala adiacente. A quell'ora non c'era niente da mangiare, a eccezione delle patatine e delle barrette di cioccolato acquistabili da un distributore automatico con il pannello frontale in vetro, ma sul bancone c'era una macchina per il caffè con due plance di cottura su cui poggiava un bricco pieno fino a metà di un liquido nero come il petrolio. Benché sgradevole, il suo odore la allettò. Studiò con circospezione le altre persone che occupavano la sala. Alla sua destra, un tizio panciuto e scalzo in pantaloncini corti era in piedi a braccia conserte, impegnato a guardarsi un notiziario della CBS su un televisore montato in un angolo. Alla sua sinistra, un uomo su una sedia a rotelle con i capelli crespi che gli arrivavano alle spalle stava giocando con un Game Boy. I suoi pollici scattavano furiosamente, tra i ronzii e i bip dell'apparecchio. Né l'uno né l'altro manifestarono il minimo interesse per lei. Dopo aver raggiunto la caffettiera, Natalie afferrò una tazza di polistirene e ci buttò dentro qualche cucchiaio di zucchero e di Cremora35 raggrumata, prima di versare il discutibile infuso. Quel liquido, che ora aveva assunto una colorazione più chiara, nocciola, aveva un sapore acido ma corroborante. Andava più che bene. Ne prese un altro sorso e si voltò, facendo per andarsene, ma si accorse con grande sorpresa che l'uomo disabile si era avvicinato a lei con la sedia a rotelle. Ora la stava fissando con occhi grigi come l'ardesia. «Ciao, Boo» disse Evan. 34
Altre voci che contano Per poco non gli versò il caffè addosso. «Dio mio, Evan, che ci fai qui? Che ti è successo...?» Indicò la sedia a rotelle. «Niente!» ridacchiò. «Sto solo viaggiando in incognito.» «Puoi dirlo forte!» Se non le avesse parlato, non lo avrebbe mai riconosciuto. Non erano solo i capelli crespi finti e l'abbigliamento di taglia abbondante acquistato in un negozio di abiti usati; aveva anche il volto emaciato, e rughe di grande stanchezza gli solcavano la fronte. Il grigiore scuro intorno agli occhi poteva essere dovuto al trucco ma, probabilmente non era così. «Dove sei stato?» «In giro.» Evitò di incontrare il suo sguardo. «L'ho sentito. Sondra mi ha parlato del tuo piccolo piano di vendetta.» «Il piano era di Sondra, non mio. Io volevo solo proteggervi. E lo voglio tuttora.» La pacata gravità della sua voce, l'espressiva malinconia del suo viso... per un momento, sembrò tornare l'Evan che Natalie aveva conosciuto ai tempi della Scuola. «Perché mai ti fai vedere proprio ora?» gli chiese, a voce più bassa. «Perché sei in pericolo.» Un fremito sfiorò la pelle di Natalie. «Che cosa ti fa dire una cosa del genere?» Con la coda dell'occhio, si guardò dietro le spalle. L'uomo corpulente scuoteva la testa, qualunque cosa stesse dicendo il presentatore della CBS. «Possiamo andare a parlare da un'altra parte?» sussurrò Evan. «Non prima che tu mi abbia detto quello che sai.» Dopo aver posato il caffè sul bancone, estrasse una sedia da un tavolino e si sedette di fronte alla sedia a rotelle di Evan. «Hanno beccato Clement Maddox. Sono ancora in pericolo?» Lui ruotò lentamente la sedia a rotelle, per disporre di una vista migliore sull'ingresso della sala ristorante e sulla hall. «Non è stato lui a commettere gli assassinii. Comunque, non tutti.» «Sembri dannatamente sicuro di quello che dici. Come fai a saperlo?» «Ho letto di quella bomba sui giornali.» Fece una panoramica sulla sala, come se avesse una telecamera di sicurezza incorporata. «Maddox è un discreto elettricista, ma la persona che ha preparato la bomba doveva aver
seguito un corso di addestramento speciale. Un corso di addestramento del governo. Chi avrebbe potuto incastrare Maddox meglio delle persone addette alla raccolta delle prove?» «Ma perché mai il governo vorrebbe ucciderci? Gli facciamo più comodo da vivi che da morti.» «Forse. O forse no. I Federali hanno sepolto un sacco di corpi di cui gli elettori non sanno nulla. Noi siamo gli unici in grado di riportare indietro quella gente e di chiedere loro cosa sanno.» «Ma hanno smosso mari e monti pur di proteggermi...» «Proteggerti? Oppure tenerti in ostaggio fino al momento in cui saranno in grado di sbarazzarsi di te, proprio come hanno fatto con Lucy?» «Se mi volevano morta, allora perché sono ancora in vita? Avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento.» «Devo agire nel modo giusto. Finché possono incolpare un pazzo isolato, quegli omicidi non susciteranno i sospetti della stampa o del pubblico.» Natalie scosse la testa. «Dan non parteciperebbe mai a una cosa del genere.» Evan inarcò le sopracciglia, vagamente sorpreso. «Dan Atwater? L'agente dell'FBI che è stato miracolosamente scagionato dall'accusa di omicidio per aver sparato a un innocente? L'uomo che ha per primo indicato in Clement Maddox il killer, per poi fargli opportunamente sparare prima che potesse essere interrogato?» «No!» Evan si portò l'indice alle labbra. «Sai una cosa? È un fatto curioso che i Federali non sapessero dove fosse Arthur finché tu non hai portato l'agente Atwater gli elementi per trovarlo.» «No!» Lo disse a voce sufficientemente alta perché persino l'uomo che stava guardando la TV si voltasse. I suoi occhi si gonfiarono di lacrime e non riuscì a fare a meno di tremare. «Stammi a sentire... forse mi sbaglio» disse Evan per tranquillizzarla. «Sto solo dicendo che per un po' faremmo bene a tenere un profilo basso, finché non scopro di chi mi posso fidare.» Natalie si asciugò gli occhi con una manica della felpa. Siccome non rispondeva, Evan le prese una mano. «Da quando Sondra è morta, ho pensato molto ai vecchi tempi della Scuola, quando stavamo insieme.» Intrecciò le dita intorno a quelle di lei. «Ho capito che quelli sono stati gli unici giorni felici della mia vita.» Natalie cercò di leggere i suoi occhi sotto le lenti a contatto colorate.
Quante volte, negli ultimi otto anni, aveva sognato che lui ricomparisse per confessarle i suoi sbagli e per dichiararle eterno amore? Ma, in quel momento, non riusciva a pensare ad altro che a Dan. Evan le rivolse un sorriso flebile, forse accorgendosi che le sue parole non avevano avuto l'impatto sperato. «Ti ricordi quando la signora Osgood tenne la lezione di scienze nel boschetto di aceri, per farci andare a caccia di insetti? Andò a finire che passammo l'intera ora a sbaciucchiarci dietro una pianta. Se non sbaglio, tornammo in classe con un solo schifosissimo scarafaggio in due!» «Già.» Natalie scoppiò a ridere, ma quel ricordo sapeva di morte tanto quanto quelli che le attraversavano la mente quando qualcuno bussava alle porte della sua anima. «Se quei giorni sono stati così felici per te, perché non ti sei neppure degnato di telefonarmi? E poi, devo averti scritto un milione di volte e tu non mi hai mai risposto.» «Perché pensavo fosse meglio che tu mi dimenticassi.» Evan le strinse la mano così forte da farle quasi male e da farla impallidire. «Per il tuo bene, sono contento che non ti abbiano mai mandata a Quantico. Era addirittura peggio di quel che avevo sentito dire.» «Avrei saputo cavarmela, Evan» replicò lei, con una certa severità. «È così che mi guadagno da vivere.» «Non in quel modo.» Lo sguardo di Evan era perso in un abisso invisibile. Aveva sulle spalle il peso della spossatezza dei dannati. «Rivivere atrocità giorno dopo giorno. Omicidi e sevizie, assassinii con stupro - non lo augurerei al mio peggiore nemico.» «Ma non ti è dispiaciuto avere Sondra al tuo fianco, laggiù.» Lui si mise a ridere, producendo lo stesso rumore soffocato di uno a cui sia andato di traverso un pezzo di carne non masticata. «Già. Sondra. Ci amavamo come due compagni di cella.» «Vuoi dire che non hai scelto lei al posto mio?» «Scelto? Non ho mai avuto scelta.» Strinse la mano di Natalie tra i palmi delle sue. «Non prima d'ora.» Lei lo guardò come se lui l'avesse scambiata per un'altra donna. «Che cosa vorresti che io facessi, Evan?» «Vieni con me.» Il suo sguardo divagò sull'uomo panciuto, che, perso qualunque interesse per le notizie, stava uscendo dalla sala. «Conosco un posto sicuro.» Il vapore aveva smesso di salire dal caffè torbido contenuto nella tazza di Natalie. Avrebbe desiderato berne dell'altro per schiarirsi le idee. E se
Evan avesse avuto ragione riguardo al pericolo che stava correndo? Se solo avesse potuto parlare con Dan... «Ascoltami, lasciami fare una breve telefonata...» «A lui?» La voce di Evan si fece aguzza come un punteruolo. «Perché allora non chiami la Sicurezza del Dipartimento, tagliando fuori l'intermediario?» «Già, capisco. Addio, Evan.» Natalie si alzò e fece per andarsene, ma lui restò aggrappato alla sua mano. «Ti prego, non lasciarmi.» L'espressione derelitta e impaurita di Evan mitigò la sua rabbia, ma non la sua determinazione, e così lei si liberò della sua presa. «Mi dispiace.» «Anche a me» disse lui con voce stridula, mentre lei si allontanava. Natalie sentì il cigolio della sedia a rotelle e si voltò in tempo per vedere Evan che scattava in piedi. La pistola a scariche elettriche le scintillò davanti prima che avesse solo il tempo di gridare, spegnendo la sua coscienza come un fusibile bruciato. Evan raccolse il suo corpo pesante e lo gettò sul sedile vuoto della sedia a rotelle. Dopo essersi infilato nuovamente la pistola a scariche elettriche in tasca, si tolse la lunga parrucca nera dalla testa e la piazzò sul cranio ciondolante di Natalie per nascondere i suoi capelli posticci ramati. Si passò una mano sul corto toupet castano che indossava ancora, per accertarsi che non gli fosse scivolato fuori posto, dopodiché si abbassò per posizionare i piedi di Natalie sulla pedana della sedia a rotelle. «Qualcosa non va?» Alzò gli occhi e si accorse che l'impiegata del ricevimento si era avvicinata all'arcata che immetteva nella sala ristorante. Gli diede un'occhiataccia del tipo spero-che-non-mi-stiate-per-dare-dei-grattacapi. Evan le rivolse un sorriso rassicurante, alzandosi in piedi. «Stiamo bene, grazie.» Diede un colpetto alla spalla di Natalie. «È solo un po' stanca.» Le cornee di Natalie si mossero sotto le palpebre e le sue labbra si lasciarono sfuggire un lieve lamento. Sforzandosi di sorridere in maniera ancor più convincente, Evan spinse la sedia a rotelle fin dentro la hall. «Sarà meglio che porti a nanna la poverina. Buona notte!» Salutò allegramente l'impiegata del ricevimento, la quale sorrise sollevata e augurò loro di fare dei sogni d'oro. Natalie mugugnò e ciondolò la testa mentre lui la spingeva lungo il cor-
ridoio, per poi svoltare verso una delle uscite laterali del motel. Non appena si trovarono fuori dal campo visivo della hall, Evan le diede un'altra scossa. Lei ebbe un sussulto e poi giacque immobile. Brontolando le tabelline sotto voce, Evan la sospinse fuori dall'uscita, fino al furgone parcheggiato all'esterno. 35 Risposte e domande Dan rimase di sentinella accanto al cancello di imbarco N14 dell'aeroporto di Sea-Tac36, in attesa che i passeggeri del volo 1238 della United proveniente da San Francisco sbarcassero. L'ambiente gli fece venire in mente la volta in cui era andato a prendere Natalie all'aeroporto, con il suo goffo travestimento. Una parte di lui, modesta ma disperata, avrebbe voluto vederla in quel momento, stravolta per il volo appena affrontato, ma viva e sorridente. Però, sapeva bene che non sarebbe accaduto. Il cancello N14 si aprì e i viaggiatori con le loro borse da shopping e le valigette da computer si riversarono nella zona d'attesa. Dan scrutò quella processione di estranei, augurandosi che la compagnia aerea gli avesse fornito le informazioni giuste sul volo. Nonostante la sua vigilanza attenta, per poco non lasciò che la donna elegante in pullover e gonna di maglia e stivali alti fino alla ginocchia gli passasse accanto. I capelli di quella donna ora erano neri, lunghi e lucenti, e lui dovette fissarla per alcuni secondi prima di riconoscerla. «Apprezzo la calda accoglienza,» mormorò Serena nell'avvicinarsi «ma lei non sembra tanto felice di vedermi.» Dan estrasse due biglietti aerei da una tasca del giubbotto. «L'imbarco del nostro volo è fra meno di trenta minuti. Le va una tazza di caffè prima di partire?» Non appena il segnale 'Allacciate le cinture di sicurezza' si fu spento, Dan abbassò il tavolino di Serena e lo riempì dei campioni di prove che aveva estratto dal suo bagaglio a mano. «Devo essere stato completamente cieco.» Indicò il primo piano dell'autopsia di Lucinda Kamei. «Quel 9 avrebbe dovuto aprirmi gli occhi.» Serena aggrottò la fronte davanti a quella immagine. «Io continuo a essere cieca. Che cosa significa questa foto?»
«All'inizio, pensavo che indicasse il numero delle vittime, il sistema attraverso cui il killer si gloriava pubblicamente del conto dei cadaveri, cosa che ha fatto di nuovo attraverso la lettera del 'Signore delle Porte'» disse Dan. «Io avrei dovuto pensare che il conto dei corpi assommasse a nove. Ma Evan Markham non era tra le vittime. L'assassino ha disseminato questi indizi per rafforzare la nostra convinzione che Evan fosse stato ucciso. Sono solo due le persone che avrebbero potuto farlo: Sondra Avebury e lo stesso Evan.» «Mi pare che lei stia basando tutta la sua teoria sul fatto che il numero 9 rappresenti la somma delle vittime. E se invece significasse qualcosa di totalmente diverso?» «Domanda assennata. Ed è per questo che non ci ho pensato finché non ho visto questa.» Estrasse i documenti relativi allo stato patrimoniale di Markham dalla busta e piegò le prime pagine. «A Evan serviva del contante per operare senza attirare l'attenzione del Dipartimento. Ho pensato che avesse messo da parte qualche soldo in anticipo, così ho controllato l'ammontare dei suoi depositi bancari per vedere se avessero subito un'improvvisa flessione prima che 'morisse'. È saltato fuori che la flessione c'è stata... ma non quando me la sarei aspettata io.» Tracciò una riga tra due somme consecutive presenti sulla lista. «Da questa settimana alla successiva, la quota dello stipendio di Evan destinata a finire sul suo conto corrente è calata di quasi due terzi. Osservi le date.» Serena restò a bocca aperta. «E tutto più di sei mesi fa!» «Già. Cioè, all'incirca, cinque mesi prima che Jem Whitman, la prima vittima, sparisse. Non ho ancora controllato, ma scommetto che Sondra in quel periodo ha iniziato a nascondere dei soldi sotto il materasso.» «Intende dire che è stata complice del suo stesso omicidio?» A giudicare dall'espressione di Serena, sarebbe stato come sostenere che Sondra fosse stata rapita dagli alieni. «Anche a me sembra un'idea folle, però, se Evan è il nostro assassino, allora Sondra lo ha aiutato. Con ogni probabilità è proprio lei l'anima che ha fatto visita a Lucy e Natalie. E probabilmente anche a Russell Travers e a Sylvia Perez, dato che entrambi sono stati sorpresi nel sonno. Sondra li conosceva tutti bene e deve aver individuato un modo per superare i loro mantra protettivi, soprattutto nel sonno, quando erano più vulnerabili.» Fu quella la prima volta in cui vide Serena davvero preoccupata. «E che mi dice degli altri? Jem Whitman e Gig Marshall sono stati assassinati prima che Sondra scomparisse. E poi ci sono Laurie Gannon e Arthur
McCord...» «Penso che a Evan e Sondra servisse ammazzare un paio di Viola prima di inscenare i loro stessi 'omicidi'. Se fossero scomparsi per primi, avrebbero attirato troppa attenzione su di sé. Jem e Gig erano più vecchi, e sul piano fisico non avrebbero certo rappresentato un ostacolo difficile: per Evan sarebbe stato più facile farli fuori da solo. Inoltre, facendo in modo di essere visto dalle prime vittime sotto le mentite spoglie 'dell'Uomo Senza Volto', ha convinto il Dipartimento e l'FBI che si sarebbe dovuta dare la caccia a una specie di fantasma. Per far sì che continuassimo a brancolare nel buio, hanno scelto delle vittime provenienti da diverse aree del paese, in modo che i loro stessi 'omicidi' si collocassero nel contesto della furia immaginaria dell'assassino dei Viola, furia che colpiva in tutta la nazione. «Dubito che l'uccisione di Laurie Gannon facesse parte del loro piano originale. È probabile che abbiano pensato che avrebbe dato fuori di matto come il resto degli studenti della Scuola. Ma lei ha sorpreso Evan mentre piazzava l'ordigno, e lui ha perso la calma e non è riuscito ad avviare il timer della bomba. Nonostante a quel tempo utilizzasse un travestimento, lei l'aveva visto senza maschera e, se lui non l'avesse tolta dalla circolazione, sarebbe forse stata in grado di condurre qualcuno sul luogo in cui aveva piazzato la bomba. Così l'ha seguita fin sulla Costa Occidentale per ucciderla, prima che potesse raccontarlo a qualcuno.» «E perché Sondra non si è stabilita dentro di lei?» «Sondra non era mai entrata fisicamente in contatto con Laurie e dunque non avrebbe potuto utilizzarla come contatto nel modo in cui era solita fare con i Viola che conosceva di persona, come Natalie, Lucy e gli altri. Jem Whitman è riuscito a mettersi in contatto con Laurie perché era stato uno dei suoi insegnanti.» «E Arthur?» «La gabbia dell'anima di McCord deve essere riuscita a non fare entrare Sondra. È probabile che lei ed Evan ne avessero sottostimato l'efficacia. Immagino che Evan avesse fatto affidamento sul fatto che Sondra riuscisse a prendere possesso del corpo di McCord. Ma non c'è riuscita, ed Evan è stato costretto ad affrontare Arthur da solo. Questo spiega come mai l'assassinio di Arthur è stato così caotico.» «E che mi dice della storia di Sondra secondo cui lei ed Evan volevano vendicarsi dell'assassino dei Viola?» «Una balla. Quando abbiamo scoperto che si era travestita da Evan, Sondra è stata costretta ad allontanare i sospetti da lui, inventandosi una
scusa plausibile sulla scelta di inscenare la sua morte.» Serena, accigliata, fece scivolare da una parte la foto dell'autopsia, scoprendo un'immagine di Clement Maddox pubblicata sul New York Post. Aveva gli occhi sporgenti come quelli di un cane rabbioso. «E lui cosa c'entra in tutta questa storia?» «Maddox era alla ricerca di un sistema artificiale per mettersi in contatto con i morti, e così ha pensato che le anime dei Viola tenessero in serbo i segreti di cui lui aveva bisogno. Quando hanno cominciato a morire i primi Viola, lui l'ha vista come un'opportunità per procurarsi le anime necessarie alla sua ricerca. Dopo ciascun omicidio, si metteva sulle tracce del vero assassino, infilandosi nella casa della vittima per sottrarle un oggetto di contatto. Sfortunatamente per lui, Evan si è accorto di ciò che Clem stava facendo, forse spiando le nostre indagini. Una volta che lo ha rintracciato a Seattle, Maddox è diventato il merlo ideale.» «Perché Maddox rappresenta il profilo ideale.» Dan trasalì. «Già... il profilo. Un caso da manuale, non trova? Infatti il modus operandi del nostro assassino è un minestrone di tratti di diversi assassini seriali.» Li indicò sulla punta delle dita. «Abbiamo lo smembramento rituale, alla Jack lo Squartatore; un'arrogante lettera alla stampa nello stile dello Zodiac killer37; la sottrazione di parti dei cadaveri, alla Dahmer38. E chi saprebbe preparare un profilo meglio di Evan e Sondra, che a Quantico convocavano ogni giorno delle vittime di omicidi seriali?» «Mi sta dicendo che si sarebbero inventati l'assassino dei Viola? Perché?» «Avevano bisogno di un capro espiatorio per i loro omicidi, qualcuno che avesse un movente ovvio che oscurasse il loro. Fin dall'inizio, le incoerenze nel modus operandi dell'assassino mi hanno lasciato perplesso. Perché, per esempio, dopo aver occultato i corpi, si è improvvisamente messo a sistemare i cadaveri perché noi li vedessimo? Benché a volte si noti quel tipo di inasprimento nella violenza dei serial killer, credo che, in questo caso, Evan e Sondra abbiano creato la personalità dell'assassino dei Viola in corso d'opera.» Dan frugò tra le foto sparpagliate, affiancando un primo piano dell'autopsia di Arthur McCord a quello di Lucinda Kamei. Indicò le orbite di entrambe le vittime. «Riesce a notare il modo grossolano con cui gli occhi di McCord sono stati bucati, mentre quelli della Kamei sono stati estratti con precisione? Scommetto che Arthur è quasi riuscito a guardare Evan in faccia, il che spiega come mai Evan abbia dovuto accecarlo.
«Se fossimo venuti a sapere che l'assassino era qualcuno che Arthur avrebbe potuto riconoscere, forse saremmo risaliti a Evan prima. Così, lui e Sondra hanno fatto sembrare l'assassino dei Viola un 'collezionista' di occhi. Hanno razziato con molta attenzione quelli di Lucy e hanno mandato questo biglietto al Chronicle nel quale sostenevano che l'assassino avrebbe conservato gli occhi in un barattolo.» Picchiò il dito su una fotocopia della lettera del 'Signore delle Porte'. Serena annuì lentamente. «Dunque, la messinscena degli assassini rituali era solo una burla.» «Già.» Dan scosse la testa. «È proprio quello che non mi ha convinto fin dal principio: era come se l'assassino non traesse mai piacere dal suo lavoro. Laurie Gannon aveva percepito una certa riluttanza nell'omicida sia quando aveva piazzato l'ordigno alla Scuola che quando l'aveva uccisa. Un vero sociopatico non avrebbe nessuna esitazione: l'atto di uccidere gli avrebbe dato un godimento fisico. Persino la mutilazione dei corpi aveva un non so che di teatrale, come se l'assassino stesse semplicemente recitando il ruolo di un sadico.» «Se le cose stanno davvero così, qual è il movente vero?» «Non lo so» disse Dan, con un sospiro. «Solo gli assassini stessi possono dare una risposta a questa domanda.» Sfiorando ancora con le dita le foto delle autopsie, Serena indugiò sul numero 9 impresso sul torace di Lucinda Kamei. «Natalie sa tutto?» «No. Non sono riuscito a mettermi in contatto con lei da quando ho ricomposto le tessere del mosaico.» Un tremito percorse la sua voce. Si schiarì la gola per metterlo a tacere. «Ho chiamato Stuart Yee e gli ho chiesto di andare a controllare. È convinto che la mia preoccupazione sia eccessiva, ma mi ha promesso di mandare degli agenti al motel.» «Non credo affatto che la sua preoccupazione sia eccessiva. Spero solo che lei abbia fatto in tempo.» Lo sguardo che gli rivolse era al tempo stesso risoluto e cupo. «Cosa vuole che faccia?» «Si faccia dire la verità da Sondra.» Dan rimise le prove nella sacca, mentre l'aereo incominciava la lunga, lenta discesa verso la Baia di San Francisco. 36 Il breve viaggio
Quando Natalie riprese i sensi, si ritrovò le braccia e i piedi legati insieme dietro la schiena e la bocca sigillata con del nastro da idraulico. Era avvolta in una coperta dozzinale che la mummificava col suo odore di stantio. Solo un tappeto sottilissimo la isolava dal metallo su cui giaceva, tanto che riuscì ad avvertire le vibrazioni del pavimento sotto di lei, prodotte dal ronzio di un motore. Ogni volta che l'accelerazione straziante del motore si placava, udiva la litania incessante di Evan, il suo mantra ridotto allo stridio di una talpa impaurita. Natalie piegò i polsi e strusciò le caviglie l'una contro l'altra per cercare di liberarsi dalla corda, ma Evan aveva evidentemente seguito lo stesso corso di nodi frequentato da Serena. Con gambe e braccia piegate dietro di sé, il suo corpo divenne un goffo triangolo che le impediva il minimo movimento. Per un po', il veicolo accelerò, rallentò e girò. Poi la velocità si fece costante e la strada dritta. Evidentemente Evan era passato da strade secondarie a un'autostrada. Mi sta portando fuori città, fu il pensiero di Natalie. Ancora una volta, si dimenò nel vano tentativo di allentare le corde. L'unico risultato fu il dolore delle abrasioni che si procurò ai polsi e la calura soffocante, prodotta in parte dal suo stesso fiato, trasmessale dalla coperta. Evan continuò a guidare, senza mai smettere di mugugnare la sua litania. Viaggiarono per quelle che parvero ore, e la monotonia del viaggio finì per avere la meglio sul terrore di Natalie. Senza poter vedere altro che oscurità, continuò a cadere preda di un sonno irregolare per poi svegliarsi bruscamente, mentre le miglia le sfilavano accanto. Dormiva da un arco di tempo imprecisato quando l'improvvisa cessazione di qualunque rumore e movimento la svegliò. Udì un fruscio dietro di sé. Qualcuno le sollevò la coperta dalla faccia. Era Evan, che le rivolse un sorriso dall'alto, eccitato e reticente come quello di un ragazzino che sta marinando la scuola. «Eccoci arrivati.» Le strappò il nastro dalla bocca, lasciandola ansimare per la fatica e il sollievo. Prima ancora che potesse mettersi a gridare in cerca d'aiuto, sentì il filo ben noto di un coltello da caccia accarezzarle la gola. «Qui intorno non c'è nessuno per miglia e miglia» la informò Evan. «Qui si può parlare.» Prima di replicare, attese che la sua respirazione tornasse regolare. «Dove siamo?»
«Poco a nord di Big Sur39.» Aprì con forza il portellone laterale del furgone, mettendo in mostra un panorama di tenebre e nebbia vaporosa. «Non è meraviglioso?» «Mmm.» Sempre legata come un vitello da rodeo, Natalie riuscì a cogliere un'immagine obliqua del paesaggio all'esterno. Nonostante non riuscisse a vedere praticamente nulla, avvertì l'odore della salsedine e udì l'impeto dei marosi. Evan si sedette sul margine del portellone aperto e il suo sguardo si perse nella notte. Nella scarsa luce naturale, il suo volto era appena visibile. «È come quella volta che andammo tutti a Cape Cod. Ti ricordi? La nebbia sembra così vicina e fa apparire così piccolo il mondo che ti circonda, e tuttavia sai bene che nasconde questo enorme oceano e, al di là di esso, un sacco di paesi stranieri. La visibilità non superava i dieci metri quel giorno, ma non feci altro che pensare come sarebbe stato volare in mezzo a quella nebbia e finire in Inghilterra, in Francia o da qualche altra parte.» «Già.» Natalie si dimenò, nel tentativo di far riprendere la circolazione alle gambe. «Perché mi hai portato qui?» «Come ti ho detto, voglio solo parlare.» Posando il coltello di fianco a sé, si nascose la faccia tra le mani. «Sono così stanco.» Natalie deglutì e, mantenendo un tono di voce pacato e benevolo, gli chiese, «Perché lo hai fatto, Evan?» «È dura. Non sai quanto sia dura.» Si appoggiò la fronte sulle ginocchia e fu come se si stesse rivolgendo a una terza persona invisibile. «Eravamo entrambi d'accordo che sarebbe dovuto toccare a me, però non penso di poter reggere ancora per molto. Non da solo.» «Va bene. Hai fatto del tuo meglio.» Natalie scelse le parole con la stessa attenzione con cui avrebbe scelto i passi da compiere in un campo minato. «Ora puoi riposarti...» «No.» Evan si raddrizzò di scatto. L'ovale del suo viso in ombra era nero e implacabile come lucide penne di corvo. «Non posso fermarmi. Devo salvarli.» «Salvarli? E da cosa?» «Dalla paura. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro, Boo.» Fissò la nebbia in profondità. «Non è giusto. Quasi tutti vivono le loro intere esistenze senza nemmeno pensare allo Stanzone Nero che li attende. Ma a noi quella possibilità è negata. Ogni attimo di felicità che viviamo viene guastato dal monito costante secondo il quale tutto finirà.» La sua voce si spezzò e dalla bocca gli uscì un alito amaro. «Sondra a-
veva ragione. Meglio abbandonare la vita come si abbandona una cattiva abitudine, prima di prenderci gusto.» La bruma fredda penetrò dentro il pullover di Natalie, facendole battere i denti. «È per quello che intendevi ammazzare i bambini?» Evan annuì lentamente. «Per liberarli da una vita senza gioia, una vita vessata dalla schiavitù del Dipartimento? Sì. Sondra aveva ragione: avrei dovuto far saltare in aria la Scuola. Ma... lo sguardo di quella bimba...» Si torse le mani e Natalie riconobbe la riluttanza dell'Uomo Senza Volto di Laurie Gannon. «Però la ragazzina l'hai uccisa lo stesso, vero?» «Ho dovuto farlo. Mi ha visto.» «E Jem?» chiese Natalie. «E Arthur, Lucy e gli altri? Perché anche loro?» Evan scrollò le spalle, come se le risposte fossero ovvie. «Erano miei amici. Dovevo salvarli.» Il cuore di Natalie fu percorso da un brivido. «E io sono tua amica, Evan?» «Sì.» Con una voce tremante per l'angoscia, prese in mano il coltello e si chinò su di lei. Le strofinò le nocche della mano sgombra sulla guancia. «Lo farei per te, ma...» Tremando, le strappò la parrucca dalla testa e le accarezzò la lucentezza marmorea del cranio rasato. «Tu rappresenti tutte le cose che rendono la vita così insopportabile. Così preziosa e meravigliosa che non vorrei mai separarmene.» Deglutendo, Natalie sentì la pressione del coltello sulla trachea. «So come ci si sente» sussurrò, con la paura che la lama le tagliasse la gola al minimo movimento. «Per tutta la vita ho avuto il terrore della morte, una paura tale da restarmene spesso chiusa nella mia stanza. E tuttavia, persino quando facevo il possibile per restare viva, vivere non sembrava avere un senso. «Il momento peggiore fu quando te ne andasti; dissi a me stessa che sarebbe stato meglio morire che restarmene sola in una stanza per sempre. L'unica cosa che mi ha spinto ad andare avanti è stata la speranza di rivederti, un giorno.» Il coltello sussultò. Natalie lo sentì tirare su col naso. Riuscì a controllare il battito dei denti abbastanza a lungo da sorridere. «E nemmeno io voglio privarmi della mia vita. Non più. Mai più.» Di nuovo, Evan tirò su col naso. «Oh, Boo... non sai quanto abbia desiderato sentirtelo dire.»
«Tanto quanto io ho desiderato dirlo. So bene che quello che hai fatto lo hai fatto per amore. Ora lo capisco. Per questo, voglio aiutarti.» A quelle parole, Evan abbassò il coltello e la abbracciò, scoppiando in singhiozzi. «Va tutto bene» gli disse Natalie, con dolcezza. «Adesso siamo insieme.» «Sì, insieme.» Dopo essersi asciugato la faccia sulla manica, accostò la lama al nodo che le teneva legate braccia e gambe. Il polso di Natalie ricominciò a muoversi. Tuttavia, mentre iniziava a tagliare la corda, il corpo di Evan si irrigidì, percorso da un improvviso crampo. «No» mormorò. «Non ora.» Il coltello da caccia cadde in terra ed Evan rotolò contro la parete del furgone, stringendosi le tempie con le mani. «Uno per uno uno! Uno per due due! Uno per tre tre!» Pronunciò quelle parole a denti stretti, come un pessimo ventriloquo. Natalie si agitò, tendendo la corda che la teneva legata, nella speranza che il nodo si fosse allentato. Ma così non era. «Forza, Evan. Resisti!» «Uno per dodici dodici! Due per uno due! Due per tre... due per TRE!» Evan si interruppe. Il suo volto era contratto come se si fosse torturato il cervello pur di trovare la risposta. Rimase a bocca aperta, con l'aria che gli usciva dalla laringe, e si lasciò cadere le mani sulle gambe. Natalie piagnucolò. «Mai far fare a un uomo un lavoro da donna» mormorò lui, con la fredda risolutezza di Sondra. Con una spinta, scavalcò Natalie per recuperare il coltello. 37 Conversazione in gabbia Era passata la mezzanotte quando Dan sollevò lo Scanner dell'Anima, sistemandolo al suo posto accanto alla sedia pieghevole, e sbucò fuori dallo sgabuzzino rivestito di alluminio per andare a prendere Serena. Lei lo aspettava nel corridoio, la testa nuda, impegnata in una seria conversazione a bassa voce con Stuart Yee. «L'ha trovata?» chiese Dan al detective, benché la risposta la sapesse già.
Yee scosse il capo. «La sua roba è ancora nella stanza, ma lei non c'è.» «Cosa le hanno detto al motel?» «L'impiegata della reception non ricorda di averla vista andarsene. Ovviamente, è difficile chiedere a un testimone un'identificazione certa, quando non disponi del colore dei capelli o degli occhi della persona che stai cercando.» «L'impiegata si è accorta di qualcosa di insolito?» Yee si allargò le falde aperte della giacca. «Sembra che una donna in sedia a rotelle, dalla capigliatura scura, si sia addormentata o abbia perso i sensi mentre si trovava nella sala ristorante del motel. Un giovane dai capelli castani corti, le sopracciglia folte e la barba sfatta ha detto all'impiegata che avrebbe messo quella donna a letto e l'ha spinta fuori dalla hall. Abbiamo interrogato altri impiegati, ma nessuno si ricorda di aver registrato una donna disabile.» Il cuore di Dan sussultò. «Quanto tempo fa è successo?» «Più o meno tre ore fa.» In quelle parole risuonò un tono implicito di scuse, come quello di un chirurgo reduce da un'operazione non riuscita. Dan guardò Serena, che era angosciata quanto lui. «Allora sarà meglio che ci diamo da fare» disse. Mentre Yee era all'ingresso del gabbiotto, pronto a chiuderne le porte, Dan fece entrare Serena nel bugigattolo e la legò alla sedia di legno. Mentre armeggiava tra i cavi dello Scanner dell'Anima e lo scalpo di Serena nella luce irrisoria della torcia elettrica, le fece cadere un elettrodo sulle gambe. «Mantenga la calma» lo rimbrottò lei. «Non sarà di nessun aiuto a Natalie, se si fa prendere dal panico.» Respirando profondamente, Dan finì di collegarla all'apparecchio ed estrasse dalla tasca il ciondolo di Evan Markham con i serpenti. «Non ne avrò bisogno» disse Serena. «Non si dimentichi che Sondra è una mia vecchia compagna dei tempi della CIA. Posso utilizzare me stessa come contatto.» Dan annuì e mise via la catenina. Si sedette e accese il monitor dello Scanner dell'Anima mentre la donna chiudeva gli occhi, mormorando una muta litania. Un tremore sismico increspò le righe sulla parte bassa del monitor che, subito dopo, tornarono ad appiattirsi. Serena fece una smorfia di frustrazione. «Oh-oh.» «Che c'è?» Dan si piegò in avanti. «Cosa sta succedendo?»
«Mi dà il segnale di occupato.» «Cosa?» «L'ha trovata?» chiese Yee dall'altra parte della porta, alle spalle di Dan. «No! Aspetti!» Si sporse verso Serena. «Cosa intende per segnale di occupato?» «Ho captato dei frammenti di Sondra, ma in questo momento ha un'altra mente a cui restare aggrappata e continua a sfuggirmi. Il che significa che ha preso possesso di un altro Viola.» Il cuore di Dan sussultò. «Natalie?» «Non lo so.» Serena inarcò le sopracciglia. «Chiunque si trovi dall'altra parte, sta facendo di tutto per sbarazzarsi di Sondra. Mi dia un minuto e chissà che non riesca a mettermi in collegamento con lei.» Irrequieto e impotente, Dan fece scorrere lo sguardo dalla calma glaciale del volto di Serena alla ostinata piattezza del tracciato del monitor. Guardò l'orologio, per quanto sapesse che avrebbe solo peggiorato le cose. Secondo il display azzurro erano le 12:38, e il panico di Dan sfiorò la disperazione. Fu allora che Serena ansimò e che sul monitor dello Scanner dell'Anima si materializzò un'esplosione verde di graffi smerlati. «Le porte!» fu l'ordine di Dan per Yee. L'ingresso dello sgabuzzino si richiuse con un rumore sordo, mentre Serena metteva a nudo la dentatura, ringhiando. Dan riconobbe la sua espressione quando lei gli rivolse uno sguardo torvo. «Bentornata, Sondra.» Lei sorrise senza mostrare il minimo buonumore. «Dan. Non potevi che essere tu, a interrompermi!» Interromperla? Dunque, c'era una speranza... «Dov'è Natalie, Sondra?» Lei scoppiò a ridere. «Sulla via del paradiso.» «Piantala!» Indicò il pulsante antipanico. «Dimmi dov'è, altrimenti il resto dell'eternità lo trascorrerai in questa scatola.» Il sorriso di Sondra avvizzì come un frutto marcio. «Pensi che mi importi qualcosa? Pensi che mi dispiacerebbe starmene da sola per la prima volta nella mia miserabile vita? Senza avere dei morti che mi ronzano nelle orecchie... Sarebbe un sollievo.» Dan alzò la voce. «Sappiamo già che Evan è l'assassino dei Viola. È solo questione di tempo, ma lo prenderemo. Se ci aiuti, gli possiamo risparmiare la pena di morte.»
Sondra continuò come se lui non avesse aperto bocca. «Non sai quanto sei fortunato. Non devi morire che una volta sola.» «Stiamo perdendo tempo.» Ormai Dan stava gridando. «Dov'è Natalie?» «Ti ricordi il caso Randolph Ester, vero? Convocai la sua ultima vittima: una ragazzina di dodici anni. Le aveva strappato tutti i denti con le pinze prima di infilarle il pene in bocca.» «Ne ho abbastanza! Dov'è Natalie?» «Poi le asportò le palpebre, in modo che non potesse fare a meno di guardarlo in faccia mentre la stuprava...» «Ho detto che ne ho abbastanza!» «Nient'altro che una normale giornata lavorativa, per un Viola. Ordinaria amministrazione...» Dan scattò dalla sedia e l'afferrò per il collo. «Dov'è, lurida cagna?» Sondra sogghignò e i suoi occhi si accesero di una folle eccitazione. «Ecco tutto» gracchiò. «E pose fine alle sue sofferenze!» Le staccò le mani tremanti dalla gola e si ricompose, mentre la sua voce diveniva un sussurro. «Te lo chiedo ancora una volta: dov'è Natalie?» «In un posto dove non potrà morire mai più.» Il suo sorriso aveva la sicurezza incrollabile della follia. «Se l'avessi amata davvero, ce l'avresti mandata tu stesso.» Senza aggiungere una sola parola, Dan si voltò di scatto e schiacciò il pulsante antipanico. Serena scalciò sulla sedia come un condannato a morte i cui neuroni stiano per essere mondati di ogni traccia di coscienza dall'azione della corrente elettrica. Gli occhi le si gonfiarono, sporgendo come lune bianche nell'oscurità, e lei piombò nell'immobilità più assoluta. Dan lanciò un'occhiata allo schermo dello Scanner dell'Anima. Il tracciato era piatto. Le slegò i polsi prima che si riprendesse. Lei si alzò a sedere e si massaggiò la fronte. Gocce di sudore si raccolsero sulle sue ciglia e i suoi muscoli facciali caddero preda di spasmi, come un paziente sottoposto a elettroshock. «Non c'era bisogno che facesse quello che ha fatto.» «Mi dispiace.» Si inginocchiò per allentarle i nodi sulle caviglie. «Sarà bene che lei cominci a recitare il suo mantra protettivo. Non lasceremo che quella donna esca di qui.» Serena gli rivolse uno stanco cenno di assenso e iniziò a brontolare tra sé. «È riuscita a ricavare qualcosa dai ricordi di Sondra?» le chiese Dan
mentre le liberava la gamba sinistra. «Qualcosa che ci possa aiutare a trovare Natalie?» Con un gemito, i suoi sussurri si interruppero bruscamente. «Serena?» Alzando lo sguardo, si accorse che si era di nuovo accasciata su un fianco, con le palpebre che si muovevano freneticamente e le labbra percorse da un fremito. In preda a una terrificante inquietudine, tornò a scrutare lo Scanner dell'Anima. Un gran caos di ghirigori verdi danzava sul monitor. L'apparecchio cadde dalla cassetta del latte e atterrò sul pavimento con un rumore secco. Dan sentì la matassa dei cavi degli elettrodi che gli si stringevano intorno al collo. «Mi vuole intrappolare qui?» gli sussurrò Serena. «Allora voglio che mi faccia compagnia.» Conosceva il mantra di Serena. Dan se ne accorse con un secondo di ritardo. Non essendo nelle condizioni di gridare, si dimenò da una parte e dall'altra, cercando di colpire con le braccia la donna che gli stava dietro. Ma Sondra tenne duro e sfruttò la muscolatura di Serena, forgiata dalla CIA, per stringere il cavo con maggior forza. Il cervello di Dan, disperatamente a corto di sangue, agonizzava, e l'oscurità dello sgabuzzino coibentato si fece ancora più nera. Con un riflesso condizionato, estrasse la 38 dalla fondina ascellare e la puntò dietro di sé, armando il cane. «Avanti» disse la voce alle sue spalle. Il dito di Dan si mise a tremare sul grilletto. È Serena. Finiresti per ammazzare Serena! Dopo aver orientato la canna della pistola verso il soffitto, sparò quattro colpi in rapida successione. Il quinto proiettile andò a conficcarsi nella parete proprio quando Sondra gli afferrò il braccio e glielo piegò dietro la schiena, slogandogli una spalla. Il cavo sgusciò via dal collo di Dan non appena lei mollò la presa, inondandogli i polmoni di una ventata di ossigeno. Dan avrebbe voluto mettersi a urlare, ma dalla sua gola straziata non uscì nient'altro che un rantolo sferragliante. Con quel dolore lancinante alla schiena, non si accorse quasi che Sondra gli stava strappando la pistola di mano. Memore che la caviglia destra di Sondra era ancora legata, Dan afferrò una delle gambe della sedia e la rovesciò. Sondra proruppe in un grido di sorpresa e sbatté la testa contro la parete, stramazzando a terra. Alcune strisce di nastro da chirurgo erano ancora attaccate al suo scalpo nei punti
in cui si era strappata gli elettrodi. Scalciò come una belva per liberare la caviglia dall'ancoraggio della sedia ribaltata, mentre Dan girava su se stesso e si gettava sopra di lei. Proprio in quel momento, la porta alla loro sinistra si aprì di scatto e Stuart Yee infilò la pistola nello sgabuzzino, mirando su Serena. «Ferma!» «Non spari!» fu la rauca invocazione di Dan, ancora senza respiro. Quando vide la porta aperta, Sondra gli rivolse una parodia perversa del classico sorriso di Serena. «Credo proprio sia ora di andarmene. Ci si vede, Dan.» Sollevò la 38 e la puntò direttamente alla testa di Dan. Natalie, pensò lui. E Sondra premette il grilletto. 38 Anime che si incontrano Dan non sentì la pallottola che gli trapassava il cranio. Prima ancora che le sue cellule cerebrali riuscissero a elaborare il dolore, la deflagrazione gli aveva ridotto la materia grigia in poltiglia. Era già morto da parecchio quando il suo sangue screziò la parete dello sgabuzzino e il suo corpo cadde in terra. Bisogna mettersi in pace con il mondo finché si è in tempo, per essere pronti ad andarsene quando giunge l'ora... Le parole di Jem tornarono alla memoria di Dan mentre si sforzava di orientarsi nel mondo senza direzioni dei morti. C'erano tante cose che non aveva fatto: avrebbe voluto aiutare ancora una volta la sua nipotina nella caccia alle uova pasquali, avrebbe voluto abbracciare sua madre, andare a pesca sul molo insieme a suo padre, pur senza prendere niente. Gli sarebbe piaciuto chiedere ancora una volta scusa a Susan, e avrebbe desiderato implorare il perdono della moglie e dei figli di Allan Pellettier. Ma, soprattutto, avrebbe desiderato tanto poter stringere Natalie tra le braccia e guardarla dritto in quei suoi occhi meravigliosi. E, invece, ora era tardi - troppo tardi per tutte quelle cose. A eccezione di una, forse. Incapace di vedere, sentire, toccare, cogliere odori e gusti, a Dan restava la percezione della sua mente che, d'un tratto, gli sembrò non avere più confini. Frammenti infinitesimali della sua anima sfioravano ogni atomo
che avesse mai toccato, dai chicchi di sabbia del Maui che aveva calpestato durante la luna di miele con Susan alla pelle del palmo di Sid Preston. Trilioni su trilioni di oggetti di contatto, ciascuno in grado di esercitare una minuscola influenza quantica sull'energia del suo essere. Natalie è un elemento di contatto, pensò. Se riesco a trovarla... se c'è anche una sola possibilità... Animato dalla speranza, si mise a cercarla. Certo non si immaginava di incontrare l'anima di Allan Pellettier. Come materia e antimateria, gli spiriti incorporei di vittima e carnefice si attirarono l'un l'altro, alla disperata ricerca di un annullamento reciproco. Attraverso una distorsione spazio-temporale delle menti, le loro personalità subirono una dislocazione, tanto che Pellettier si insinuò in Dan, ribollendo dentro di lui come magma incandescente. Ridotto a un burattino della mente dell'altro uomo, Dan vide se stesso davanti a una porta di legno scuro - anche se fu più un ricordo che una percezione. Nella luce fioca irradiata dalla lampadina ingabbiata sopra di lui, le sue scure mani callose cercarono la chiave giusta tra le altre appese al gancio. «Non ti muovere!» gridò qualcuno dal vicolo alla sua destra. Non pensò che quelle parole fossero rivolte a lui. Dopo tutto, era il custode notturno della lavanderia ed era lì solo per fare il suo lavoro. «Mettila giù e alza le mani sulla testa. Adesso!» latrò un'altra voce. Ora tutte quelle voci sembravano rivolgersi a lui, tuttavia non riusciva a capirne la ragione. Si voltò a controllare cosa volessero, tenendo sempre le chiavi in mano. No, ti prego, non farlo! Fu un orribile senso di impotenza a guidare l'implorazione di Dan mentre quella scena si dispiegava davanti a lui con l'ineluttabilità di una replica televisiva. Fece in tempo a intravedere la sagoma dei tre uomini in divisa all'estremità opposta del vicolo, prima che le pallottole gli aprissero delle pozze cremisi di angoscia nella carne. Un istante dopo, si ritrovò riverso sulla schiena. Cercò di respirare, ma i suoi polmoni si riempirono di fluidi, mentre i fori che aveva sul torace sbuffavano, formando delle bollicine. Il pensiero che forse stava per morire parve troppo inconcepibile perché ci credesse: non poteva morire. Chi si sarebbe preso cura di Andrea e dei bambini? Bobby aveva solo otto anni, e a Olivia avevano appena tolto il pannolone... I tre uomini in divisa lo guardarono dall'alto. Le facce pallide mostravano la loro paura, sotto le visiere dei caschi. Chi erano? Perché gli avevano fatto questo? Uno di loro si tolse il giubbotto e si chinò per schiacciarglielo
sulle ferite aperte. Dan alzò gli occhi e guardò in faccia se stesso, sentendosi percorrere da una vampata di rabbia inestinguibile. Nessun perdono, nessuna assoluzione, solo odio infinito per quell'uomo che gli aveva strappato la famiglia e il futuro. Sarebbe stato quello il suo castigo, dunque - il disgusto eterno per se stesso. Dio, Natalie, perché mi hai mentito? Stava per consegnarsi alla dannazione quando accadde un fatto strano. Proprio mentre l'ira e il dolore di Pellettier stavano per avere il sopravvento su Dan, il suo stesso senso di colpa e la sua angoscia permearono l'essere dell'altro uomo. Alan Pellettier vide due dei suoi amici più stretti cadere davanti a sé sotto i colpi di una pistola e familiarizzò con la paura che regola la caccia a un assassino per le strade buie di una città di notte. Le sue viscere si contorsero per il rammarico, mentre scopriva che aveva provocato la morte di un innocente, e la sua faccia bruciò di vergogna quando sfilò accanto alla moglie, ai fratelli e alla madre della vittima, uscendo dall'aula del tribunale. Sfiorì davanti a un apparecchio televisivo a furia di guardare Cartoon Network, mentre il suo matrimonio, un tempo felice, si sfasciava sotto il peso del rimorso. Per un istante i due uomini divennero uno solo e, con un'empatia perfetta, finalmente riuscirono a capirsi l'un l'altro. Penso di non poterti davvero biasimare, ammise Pellettier. Le sue parole furono una mera eco nei pensieri di Dan. Al posto tuo, forse avrei fatto la stessa cosa. La marea rossa della rabbia e del dolore condivisi da quei due uomini si ritrasse, lasciandoli purificati e liberi. Non riesco a dirti quanto io sia dispiaciuto, gli disse Dan. Lo hai appena fatto, replicò Pellettier. E ora ti credo. E in quel momento, la sua anima restituì Dan al vuoto. Natalie... L'impellenza della ricerca di Dan tornò con forza centuplicata. Da quanto tempo si trovava insieme a Pellettier? Sembrava che da quelle parti il tempo non avesse alcun valore e, tuttavia, ogni secondo che passava avrebbe potuto significare l'assassinio di Natalie. Accelerando come un elettrone in una rete di distribuzione, Dan si lanciò da un oggetto di contatto della sua vita all'altro ma, dovunque andasse, finiva in una strada senza uscita. E dovette incrociare altre anime: un attimo si trasformava in un vecchio Anasazi40 che benediceva la nascita del nipotino all'ombra di una abitazione di Mesa Verde; l'attimo dopo era il
direttore generale di una delle 500 aziende più importanti d'America elencate dalla rivista Fortune e stava affrontando le nove buche di ritorno su un campo da golf di Coral Gables41; e ancora, una neonata morta all'improvviso, senza conoscere altro affetto che quello dei suoi genitori. Anime con la nostalgia di casa, alla deriva nel limbo, anime che ripercorrevano stancamente i propri ricordi, come se stessero passando in rassegna un mazzo di vecchie cartoline. Quelle anime sgretolarono la determinazione di Dan, ammantandola di una nostalgia disperata, dissolvendolo nel caustico mondo irreale delle loro solipsistiche esistenze ultraterrene. Come se stesse telegrafando un segnale di pericolo, si concentrò sull'immagine di Natalie in groppa al destriero sulla giostra, finché il suo essere non fremette completamente di quel ricordo, trasmettendolo a tutto l'universo. Ti prego, Natalie, ascoltami, fu la sua supplica. Convocami... chiamami a te! Un turbine travolgente di energia lo trascinò nel suo vortice, precipitando Dan nelle sue fauci, con la forza di una cascata d'acqua incanalata in un tubo di scarico. L'attrazione fu talmente forte che inizialmente ebbe l'istinto di opporvi resistenza, terrorizzato dalla prospettiva di essere trascinato all'interno di un'altra anima egoistica, all'inferno, nell'oblio. Subito dopo percepì un formicolio alle dita di mani e piedi - una sensazione reale, e non solo il ricordo di una percezione sensoriale. Polsi sfregati contro infinite spirali di corda, un dolore a una caviglia dovuto alla pressione su un pavimento duro, seni liberi di pendere da una parte sotto il tessuto di laniccio del pullover. Sono dentro di lei, pensò con soggezione. Faccio parte di Natalie. Altri sensi gli fecero progressivamente acquistare coscienza di sé: il pungente odore del sudore e la fredda brezza del mare. Il ribollire lontano delle onde e il mugugno vicino di un uomo. La macchia scura e indistinta nei suoi occhi si trasformò nella sagoma sbilenca di una figura rannicchiata su di sé, che si stringeva le ginocchia e oscillava avanti e indietro. Supina sul fondo del furgone, inerme, Natalie fu percorsa da un fremito di consapevolezza quando lui le penetrò sotto la pelle. «Dan?» sussurrò. «No! Non tu...» Sì, invece. Sono io, rispose lui, dentro la mente di Natalie. Dan percepì il tremito sulle labbra di lei. «Com'è successo?» Non ha importanza: sto bene. Voglio portarti via di qui. «Dan, non posso...» Shh! Non dire niente!
Dan si accorse troppo tardi che quel sussurro si era fermato. La figura rannicchiata sollevò la testa. «Hai appena pronunciato il suo nome, vero?» Una voce tremolante, rotta dall'incredulità della persona tradita, punta nell'orgoglio. Natalie si affrettò a calmarlo. «Evan, io non...» «Stai ancora pensando a lui.» Si inalberò come un cavallo pronto a impennarsi per disarcionarla. «Tutte le cose che mi hai detto sulla tua intenzione di stare insieme, e invece stai ancora pensando a lui.» Natalie! Come posso fare a insinuarmi dentro Evan? chiese Dan. Lo hai mai toccato? gli chiese lei, per tutta risposta. No, non ho mai toccato un Viola... prima... Aspetta che io entri in contatto con lui, rispose. A quel punto, potrai infilarti tra noi. Evan, furibondo, si premette le mani sulle tempie. «E io che ti ho salvata, troia ingrata! Lei stava per ucciderti e io l'ho scacciata. E ti ho salvata!» «Lo so! E per questo ti amo. Liberami e te lo dimostrerò.» «Davvero?» Evan si chinò fino a sfiorarle la guancia con le labbra e ad alitarle in un orecchio. «Desideri davvero che noi due stiamo insieme per sempre?» «Sì. Per sempre.» Preparati, disse a Dan. Evan le fece scorrere la mano sinistra dalla tempia nuda alla nuca. «In tal caso, mi limiterò a tagliarti la gola. Così potrò convocarti quando voglio.» Le sue dita sì strinsero intorno al collo di Natalie mentre il braccio destro si allungava per prendere il coltello da caccia. La testa di Natalie scattò verso l'alto, con la bocca aperta, e i suoi denti affondarono nel polso di Evan. Adesso! gridò a Dan. Dan udì il grido sbigottito di Evan e assaporò il gusto del suo sangue sulla lingua di Natalie. Fu allora che, nell'istante in cui lei lo scagliava fuori dalla sua mente come un dardo di pensiero, la sua coscienza implose. Un istante dopo, un dolore lancinante divampò nel suo braccio sinistro. Il suo campo visivo, fino a un momento prima nerissimo, si schiarì gradatamente, e lui ebbe la stridente impressione di essere stato capovolto, perché la sua prospettiva era cambiata repentinamente di 180 gradi: in quel momento aveva gli occhi puntati su Natalie, sotto di lui, i denti ancora
conficcati nel suo polso palpitante. Dimentico della ferita sanguinante, osservò, come paralizzato, la bellezza della sua fronte liscia e delle sue guance squadrate: un volto che aveva temuto di non rivedere mai più. Natalie gli rivolse uno sguardo incerto e gli lasciò il braccio. «Dan?» Riuscì a far funzionare le labbra e la lingua fiacche di Evan. «Sì...» Avrebbe voluto dirle tutte le cose che aveva represso dentro di sé, avrebbe voluto baciarla e stringersela al petto. Ma riusciva già a sentire Evan che bussava alla porta della sua psiche, erodendo il debole controllo esercitato da Dan sul suo corpo. Con la mano destra rafforzò la presa sul coltello da caccia. Natalie si agitò quando lui abbassò la lama tremolante verso di lei. «Stai bene?» L'argine mentale che aveva trattenuto la personalità di Evan si sbriciolò e un fiume di ira inondò i pensieri di Dan. Troia ingrata! Sondra a aveva ragione: le farei un favore. «Dan! Non lasciarlo entrare!» La voce di Natalie parve venire da lontano, come se lo invitasse ad attraversare un abisso profondo. «Inizia a recitare le tabelline - è così che lui si ricongiunge col suo corpo!» Faceva sempre più fatica a contenere quell'ondata di amarezza. Dentro di sé vide una Natalie adolescente che correva qualche metro avanti a lui in un boschetto di aceri, in una fresca giornata d'autunno. Dei foruncoli rossi punteggiavano la sua pelle pallida, senza però deturpare la luminosa bellezza del suo viso quando lei si voltò a guardarlo e rise di lui. Un colpo solo, e sarà mia per sempre... Dan allontanò quel pensiero. Uno per uno uno, uno per due due, uno per tre tre... Si sforzò di recitare le tabelline nella sua mente e, così facendo, la rabbia di Evan scemò. Riprendendo il controllo della propria mano, Dan fece calare la lama del coltello tra le corde che tenevano legate le mani e i piedi di Natalie e la liberò. No! Evan protestò da un meandro recondito della mente che condividevano. No, non puoi averla! È mia! Il braccio che reggeva il coltello si contorse sotto lo sforzo degli ordini contrastanti dei due padroni. Gemendo per lo sforzo, Dan puntò il coltello al cuore di Evan. «Non farlo!» Il grido di Natalie lo disorientò, e lui dovette lottare per trattenere il coltello.
Lei si drizzò a sedere, liberandosi, con uno scossone, della corda di nylon. «Se lo uccidi, non mi libererò mai di lui.» Dan manifestò la sua frustrazione con un lamento e un respiro profondo. Quattro per quattro sedici, quattro per cinque venti, quattro per sei... Aprì la mano, emettendo un grugnito, e lasciò cadere il coltello in terra. «Nnn... nnn... non so quanto tempo mi resti.» Da come aveva parlato, si sarebbe detto che avesse la lingua gonfia, anestetizzata. «Sarà mmm... mmmeglio che tu mi leghi.» Dopo aver afferrato il coltello, Natalie si infilò la lama fra i denti e, con ciò che restava della corda, legò le mani che Dan si sforzava di tenere dietro la schiena. Otto per tre ventiquattro, otto per quattro trentadue, otto per cinque... otto per cinque... «Svelta» sbottò Dan, cadendo in avanti. Natalie gli legò le caviglie insieme con ciò che restava della corda, appena prima che le sue gambe iniziassero a dimenarsi e a scalciare. Un torpore quadriplegico si diffuse lentamente sul torace di Dan, mentre Evan chiedeva la restituzione di ciò che era suo. Non ancora! Non ancora! supplicò Dan. Devo dirle... «Naaataaaliee!» Il suo nome venne fuori come se a pronunciarlo fosse stata una persona affetta dalla sindrome di Down. Si sforzò di riprendere per una volta ancora il controllo della bocca di Evan. «Io ti a...» Il corpo di Evan si dimenò come un marlin preso all'amo. Natalie dovette far ricorso a tutta la sua forza per legargli insieme le gambe e le braccia. Aveva appena finito di stringere i nodi quando udì le parole di Dan smorzarsi. Dopo essere salita sul suo corpo scosso da fremiti, lo guardò dritto in faccia, facendo appena in tempo a scorgere l'ultimo bagliore della sua anima sotto gli occhi di Evan. Si tolse il coltello dalla bocca e gli accarezzò una guancia. «Anch'io ti amo.» Il volto di lui, con un fremito, tornò ad animarsi al suo tocco. «Grazie a Dio, Boo! Sapevo che non gli avresti permesso di uccidermi.» Lei si ritrasse, brandendo il coltello, mentre Evan cercava di avvicinarsi. «Non devi avere paura: mi dispiace di averti spaventata, prima.» Senza dire una parola, Natalie uscì, muovendosi all'indietro, dal portellone aperto del furgone, e poggiò i piedi sulla ghiaia del terrapieno, senza mai togliergli gli occhi di dosso. Evan si dibatté in maniera ancora più frenetica, ma Natalie ci sapeva fare
con la corda almeno quanto lui. «Stammi a sentire: le cose che ti ho detto prima... be', ero sconvolto. Sai bene che non ti farei mai del male! Boo? Boo!» Lei chiuse il portellone scorrevole del furgone. Dopo aver girato intorno al veicolo, piantò il coltello da caccia nei quattro pneumatici, dopodiché si infilò la lama sotto la cintura dei jeans. La foschia si era diradata leggermente e un frammento velato di luna illuminava lo spiazzo accanto alla spiaggia dove Evan aveva parcheggiato il furgone. Torreggianti sempreverdi circondavano il belvedere, da una parte, mentre un terrapieno ripido e roccioso declinava verso il mare, dall'altro. Una curva asfaltata sul margine dello spiazzo ovale inghiaiato immetteva nell'oscurità degli alberi. Natalie immise aria fresca e tonificante nei polmoni e si concesse una lacrima - solo una - prima di avviarsi lungo la strada alla ricerca di un telefono di emergenza della polizia. 39 Dicembre a Washington Delbert Sinclair non sembrava soddisfatto. Dopo aver lanciato minacce e accuse per quasi mezz'ora, il direttore della Sicurezza del Dipartimento era scivolato nel silenzio carico di presagi dell'occhio di un ciclone. «È questa la sua decisione definitiva, dunque?» chiese infine. La sua faccia era ancora screziata da chiazze scarlatte. Ferma di fronte alla scrivania del direttore, Natalie tenne a freno l'istinto di abbassare la testa come una scolaretta mortificata. «Sissignore.» «Si rende conto di cosa significa, vero? Per lei... e per la sua famiglia.» Si soffermò sull'ultima parola. «Sissignore.» «Vi terremo d'occhio, giorno e notte. Se tenta di attraversare la strada dove non ci sono le strisce pedonali oppure se effettua un pagamento con la carta di credito senza avere una copertura bancaria, lo verremo a sapere. E potrà scordarsi di trovare un altro lavoro.» «Sissignore.» «Ci ripensa, dunque?» «Nossignore.» «Bene, come vuole lei.» Sinclair prese in mano l'Encomio su pergamena
che aveva pensato di concederle per la cattura dell'assassino dei Viola e lo strappò. «Scortate la signorina Lindstrom fuori dall'edificio» ordinò all'agente Brace, che attendeva alla sua destra, come un attento dobermann. «Non sarà necessario.» Natalie prese il pesante soprabito dall'appendiabiti vicino alla porta. «Conosco la strada.» Con il soprabito su un braccio, uscì con aria solenne dall'ufficio di Sinclair e si incamminò verso l'ascensore, lungo il corridoio rivestito da un tappeto marrone. Schiacciò il bottone di chiamata, poi cambiò idea e prese le scale di marmo lucido che scendevano fino al piano terra. Non che l'ascensore la preoccupasse. Voleva solo farsi un ultimo giro nella sussiegosa magnificenza di quell'edificio eretto prima della Depressione, con le sue colonne grecoromane e le sue finestre ad arco. Non vedeva l'interno del quartier generale del Dipartimento dal giorno della cerimonia di insediamento, quando aveva diciott'anni. Con un po' di fortuna, non li avrebbe mai più rivisti. Una volta scesa nel salone dal tetto a ombrello, Natalie intravide Serena, appoggiata contro la parete circolare, tra statue pretenziose di Iris Semple, Gideon Wicke e altri Viola che ne delineavano il perimetro. «Ehi. Come sta la mia amica?» Serena fece un passo avanti per abbracciarla. «Non mi aspettavo certo di trovarti qui» disse Natalie. «Washington è ben lontana da Seattle.» Serena scrollò le spalle. «Simon mi ha concesso un po' di ferie. Come ti ho già detto, sotto sotto è un tenerone.» Al suo sorriso mancava la solita sicurezza: sembrava leggermente imbronciata, nonostante il trucco e la parrucca. Rivolse uno sguardo furtivo alle scale, presso cui stazionava l'agente Brace che teneva d'occhio le due donne da dietro le lenti a specchio dei suoi occhiali da sole. «Come sono andate le cose lassù?» Natalie scoppiò a ridere. «Più o meno come immagini.» «Hai davvero mollato?» «Chiamala pure licenza di maternità.» Serena aggrottò la fronte e Natalie le rispose accennando un sorriso. «Bene. La nostra piccola Natalie sta per diventare mamma!» Il suo sorriso si spense appena. «Lui lo sa?» A quanto pareva, benché fossero passati tre mesi, Serena non ce la faceva a pronunciare il nome di Dan. «Sì, lo sa.» Serena annuì, ma distolse subito lo sguardo. «Ho sentito che Evan si è
beccato l'ergastolo. Pensi che basti?» Natalie sospirò. «L'hanno messo in isolamento, sotto sorveglianza antisuicidio, ventiquattr'ore su ventiquattro. Per i prossimi quarant'anni, o giù di lì, non dovremmo avere problemi. E che ne è stato di Maddox?» «La polizia di Seattle lo ha rilasciato. Hanno accettato di non incriminarlo per furto con scasso, e lui ha accettato di non citarli in giudizio per avergli sparato. Lo terranno d'occhio, ma ho la sensazione che sia davvero innocuo.» Natalie esitò. «E Sondra?» «Yee e io l'abbiamo rinchiusa in quel dannato bugigattolo - ma stavolta per davvero. Giuro che ho ancora i lividi di quella sera.» Serena inspirò lungamente, per prendere coraggio. «Volevo dirti ancora quanto io sia dispiaciuta. Avrei dovuto fermare tutta quella storia, in un modo o nell'altro.» Assunse un'espressione fredda e si mise sull'attenti, come un marine in attesa della corte marziale. Natalie scosse il capo. «Non avresti potuto farci nulla. E se le cose non fossero andate come sono andate...» «Lo so. Lui me l'ha detto.» Gli occhi di Serena riacquistarono parte dell'antica brillantezza. «Fammi sapere se ti serve una madrina tosta per il tuo bambino!» «Sei assunta!» Con la coda dell'occhio, Natalie scorse Brace che scendeva le scale. «È meglio che vada.» Serena annuì e la seguì verso l'uscita. «Muoio di fame. Ti va di andare a prenderci qualcosa da mangiare? Serata per sole donne, pago io.» «Certo. L'idea mi piace.» Natalie fece una pausa, come se le fosse venuto in mente un impegno dimenticato. «Prima, però, ho alcune cose da sbrigare in albergo. Puoi passare a prendermi alle cinque?» «Affare fatto! In che albergo stai?» «All'Harrington. Camera centodiciassette.» «D'accordo. Ti serve un passaggio?» «No, mi arrangio da sola. Ci vediamo alle cinque.» Avvicinandosi all'ingresso principale, Natalie indossò il soprabito ed estrasse un berretto di lana col pompon da una tasca. «Ha ragione lui, sai.» Serena sorrise - e stavolta a bocca spalancata, nel suo vecchio stile. «Stai proprio bene coi capelli biondi.» Natalie rise e si passò una mano sui peli ispidi biondo rossicci alla sommità della sua testa. Li aveva lasciati crescere per diverse settimane, e così i suoi capelli ormai oscuravano quasi del tutto i punti nodali tatuati sul suo
scalpo. «Grazie. Dopo tutto questo tempo, mi prudono.» Dopo essersi messa il berretto, fece un cenno di saluto, si infilò nella porta a vetri girevole e uscì su Judiciary Square. Una neve sporca che pareva cenere ricopriva la capitale della nazione. L'aria fredda le punse le gote, ma lei apprezzò la camminata di dieci isolati che la riportò all'Harrington. I lampioni erano ornati da decorazioni natalizie, il che prometteva che l'inverno appena iniziato avrebbe portato con sé anche dei momenti di gioia. Quando ebbe rimesso piede nella sua stanza e si fu richiusa la porta alle spalle, il riscaldamento dell'albergo gli risvegliò il naso intorpidito. Con placida meticolosità, tirò le tende, spense tutte le luci e si tolse cappello, guanti e soprabito. Abituandosi al buio come se fosse un bagno caldo, si sdraiò sul letto, incrociando le braccia sul petto. «Parlami, Dan» sussurrò, e sorrise, pregustando il momento, mentre chiudeva gli occhi. Note 1
Persone in grado di entrare in contatto con i morti attraverso i loro occhi viola, e che dipendono dal Dipartimento Americano per la Comunicazione con l'Aldilà (N.d.T.). 2 'Porco', in lingua spagnola (N.d.T.). 3 Famosa marca di pastiglie aromatizzate inglesi, commercializzate nel classico scrigno di latta (N.d.T.). 4 Nota marra di eleganti calzature americane (N.d.T.). 5 Los Angeles Police Departement (N.d.T.). 6 Acronimo di Special Agent in Charse, ovvero 'Agente Speciale Responsabile. (N.d.T.) 7 Una popolare rivista britannica principalmente destinata a un pubblico femminile, su casa, cucina, benessere ecc. (N.d.T.). 8 White trash è un termine spregiativo e popolare con cui in America si indicare gli operai della classe operaia, diseredata e incolta (N.d.T.) 9 Area residenziale di L.A., a ridosso del Ventura Boulevard e a non molta distanza dagli studi cinematografici di Hollywood (N.d.T.) 10 Georgia O'Keeffe (1887-1986), pittrice americana, una delle più grandi artiste del ventesimo secolo (N.d.T.) 11 Cerimonia di iniziazione, mediante circoncisione di tutti i ragazzini ebrei, con feste e balli (N.d.T.).
12
Nome di una popolare marca di cereali che ha per logo una specie di fantasmino molto amato dai bambini americani (N.d.T.) 13 Catena di alberghi situati soprattutto nelle aree urbane, presso i grandi aeroporti (N.d.T.). 14 Los Aneeles International Airport, poco a sud di Beverly Hills (N.d.T.). 15 Noto rasoio elettrico per la depilazione femminile. È probabile che in questo caso l'autore abbia giocato sull'ambiguità del marchio Remington, la più vecchia arma da fuoco degli Stati Uniti (N.d.T.) 16 Federal Aviation Administration, l'organizzazione federale che sovrintende all'aviazione civile (N.d.T.) 17 Lampada a petrolio molto in voga in passato (N.d.T.) 18 Catena di fast-food piuttosto nota negli Stati Uniti (N.d.T.) 19 Catena di caffetterie specializzate in ciambelline e diffusa in molti stati d'America (N.d.T.) 20 Genesi IV, 9 (N.d.T.) 21 Nel football americano, si designa con tale termine un giocatore appartenente alla seconda linea difensiva (N.d.T.) 22 Una delle più grandi catene di franchising librari d'America (N.d.T.) 23 Tavoletta ad alto contenuto di caffeina, utilizzate soprattutto da chi deve coprire lunghe distanze in macchina, per mantenersi vigile (N.d.T.) 24 Nota marca di caffè liofilizzato, molto in uso nella ristorazione alberghiera americana (N.d.T.) 25 Bibita gasata molto popolare negli Stati Uniti e dall'elevato contenuto di caffeina (N.d.T.) 26 Quartiere malfamato di San Francisco, a elevata densità di popolazione, noto per la presenza di ristoranti etnici, bar e locali di malaffare, in buona parte risistemato begli anni Novanta (N.d.T.) 27 Paradossi che consentono ai discepoli zen di conseguire un'illuminazione intuitiva mediante la rinuncia a spiegazioni fondate sulla ragione (N.d.T.). 28 Dicitura tecnica internazionale utilizzata per indicare la funzione di riavvolgimento lento del nastro video in modalità attiva, cioè con le immagini e il sonoro che scorrono all'inverso fino al raggiungimento del punto prescelto (N.d.T.) 29 L'equivalente americano dei nostri rotoli in plastica o in alluminio della Cuki (N.d.T.) 30 Popolare catena di negozi che vendono materiali per l'edilizia e la casa
(N.d.T.) 31 Rione tra i più caratteristici, una sorta di città nella città, sede di luoghi come Alamo Square e lo storico teatro Fillmore, patria prima del jazz e poi del rock (N.d.T.). 32 Si tratta di esercizi che vendono merci usate di tutti i genere a prezzi di realizzo. Negli USA sono sinonimo di un pubblico estremamente povero (N.d.T.). 33 Il molo con l'imbarcadero per il penitenziario di Alcatraz e il Golden Gate, a San Francisco, un tempo mecca del movimeto hippie oggi luogo turistico di grande richiamo (N.d.T.) 34 Scrittrice americana di grande successo, autrice di romanzi gotici, fantasy e anche horror, vissuta tra il 1923 e il 1986, e costretta all'uso di stampelle e sedia a rotelle, dopo essere caduta dalle scale in giovane età (N.d.T.). 35 Nota marca di crema liofilizzata per insaporire e rendere più denso il caffè americano (N.d.T.). 36 L'aeroporto internazionale di Seattle-Tacoma, a sud del centro cittadino (N.d.T.) 37 Tra il 1968 e il 1972, un serial killer della zona di San Francisco e a tutt'oggi senza un nome e senza un volto; rivendicò la paternità di circa cinquanta omicidi, attraverso un lungo, delirante, carteggio con la stampa; in realtà, le forze di polizia gli attribuirono con certezza solo sette uccisioni (N.d.T.). 38 Soprannominato 'Il cannibale di Milwaukee', Jeffrey Dahmer fu sorpreso dalla polizia nel 1991, grazie all'indicazione di una vittima sfuggita miracolosamente alla terribile sorte che toccò ad altri 17 soggetti maschi. Alcolista, omosessuale e necrofilo, figlio di un genitore fondamentalista evangelico e probabilmente vittima in giovane età di abusi sessuali, Dahmer adescava le vittime, in prevalenza afroamericani, e consumava rapporti sessuali nel suo appartamento che culminavano nello smembramento dei corpi, di cui alcune parti venivano conservate in frigorifero. Condannato a 926 anni di carcere, venne assassinato da un detenuto nero che scontava una pena per un doppio omicidio (N.d.T.). 39 Famosa località turistica a nord di Los Angeles, nota per le scogliere a strapiombo sull'Oceano Pacifico. Già patria d'elezione per Henry Miller e la Beat Generation, nel 1970 ospitò un grande raduno rock, con alcuni dei principali nomi della scena del tempo, tra cui Crosby, Stills, Nash & Young, Joni Mitchell e Joan Baez (N.d.T.)
40
Antica tribù pellerossa stanziata soprattutto nel quadrilatero UtahArizona-Colorado-Nuovo Messico, in villaggi spesso costruiti nella roccia, come testimoniano ancor oggi le loro vestigia conservate in posti come il Parco Nazionale di Mesa Verde (N.d.T.) 41 Esclusiva località turistica della Florida. (N.d.T.) Ringraziamenti Molti santi hanno posto le mani su questo libro per assicurarne il successo, e l'autore desidera ringraziarli tutti: Anne Lesley Groell, la mia stimabile editor presso Bantam Bell; Jimmy Vines, superagente straordinario, e la sua intrepida assistente, Dana Grayson; il mio agente per i diritti stranieri, Danny Baror; Greg Bear, Octavia Butler, Gordon van Gelder, Nancy Kress e Gwyneth Jones, miei istruttori presso il Laboratorio di Scrittura di Clarion West, nel 1999, così come Dave Myers, Leslie Howle e l'intero staff dietro le quinte di Clarion West; i miei compagni di corso del 1999 a CW, Sarah Brandel, Christine Casigliano, Duncan Clark, Sandy Clark, Monte Cook, Dan Dick, Andrea Hairston, Jay Joslin, Leah Kaufman, Margo Lanagan, Ama Patterson, Elizabeth Roberts, Joe Sutliff Sanders, Tom Sweeney, Sheree Renee Thomas e Trent Walters; la mia famiglia e i miei amici; e soprattutto la mia carissima collega, collaboratrice, anima gemella, sposa e partner in ogni cosa, Kelly Dunn. Ti amo, tesoro! FINE