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RUTH RENDELL I TREDICI SCALINI (Thirteen Steps Down, 2004) A P.D. James, con affetto e ammirazione 1 Mix si trovava lì dove avrebbe dovuto essere la strada, o dove pensava che fosse. Ormai aveva superato la fase della sorpresa e dell'incredulità. Una sensazione di amara disillusione, quindi di collera, si era impadronita di lui fin quasi a soffocarlo. Come avevano osato? Come avevano potuto, chiunque essi fossero, distruggere quello che meritava di assurgere a monumento nazionale? Già la sola casa sarebbe potuta diventare un museo, uno di quei caseggiati azzurri dalle mura imponenti, con tanto di giardino coltivato amorevolmente, tappa fissa di tour organizzati per i turisti. E se avessero cercato un curatore, non avrebbero dovuto far altro che rivolgersi a lui. Il quartiere era stato riedificato, accuratamente e aridamente progettato. 'Aridamente' - era orgoglioso di aver tirato fuori quella parola. Il luogo aveva un aspetto grazioso, rifletté lievemente disgustato, i tipici edifici per yuppie. In particolare, trovava irritanti le aiuole con le petunie. Naturalmente sapeva già che quel posto aveva cambiato nome prima ancora che lui venisse al mondo, da Rillington Place era stato ribattezzato Ruston Close, ma adesso non si chiamava neanche più così. Aveva con sé una vecchia mappa, ma consultarla era inutile; sarebbe stato più facile rinvenire nel volto di un cinquantenne le fattezze che aveva da bambino che rintracciarvi una vecchia strada. Erano trascorsi giusto cinquant'anni, cioè mezzo secolo, da quando avevano preso e impiccato Reggie. Se proprio dovevano cambiare nome alla strada, avrebbero almeno dovuto mettere un cartello con la scritta 'Già Rillington Place.' O qualcosa che ricordasse ai visitatori che si trovavano nel quartiere dove era vissuto Reggie. Quel posto doveva essere frequentato da centinaia di turisti, alcuni carichi di aspettative puntualmente deluse, altri del tutto ignari della sua storia, tutti comunque destinati ad arrivare di fronte a quella piccola e ben tenuta oasi in mattoni rossi con le aiuole coltivate, gerani e api laboriose che sciamavano dalle fioriere e alberi appositamente scelti come ornamento per via di quel tenero fogliame bianco dalle sfumature dorate. Era una deliziosa giornata di
mezza estate, con il cielo azzurro sgombro di nuvole. Le piccole e rigogliose distese d'erba scintillavano di verde, e una pianta rampicante ammantava di rosa le mura sfalsate ad arte su vari livelli. Mix distolse lo sguardo, sempre più in preda a un'ira che gli mozzava il respiro fino ad accelerargli freneticamente il battito del cuore. Se avesse anche solo immaginato che quel luogo era stato demolito, non avrebbe mai preso in considerazione l'idea di affittare l'appartamento a St Blaise House. Si era trasferito in quell'angolo di Notting Hill esclusivamente perché era il distretto dove Reggie aveva vissuto. Naturalmente era a conoscenza del fatto che la casa dove aveva abitato e i dintorni non esistevano più, ciononostante sperava che il luogo sarebbe stato in ogni caso facilmente riconoscibile, una strada da cui i codardi si tenessero alla larga, frequentata da persone entusiaste e intelligenti come lui. Purtroppo si era affermata la filosofia del politicamente corretto, aveva trionfato il punto di vista di gente debole che si scandalizza per un nonnulla, e tutto era andato in malora. Individui del genere avrebbero riso di quelli come lui, concluse, e magari andavano fieri di aver realizzato un complesso residenziale di pessimo gusto in un luogo carico di storia come quello. Aveva accarezzato a lungo l'idea di questa visita, una sorta di evento speciale per il momento in cui sarebbe andato a vivere lì. Un evento! Quante volte, da bambino, un avvenimento tanto atteso si era rivelato una enorme delusione? Troppo spesso, per quanto riusciva a ricordare, ed era stato così anche una volta diventato adulto, una persona responsabile. Per questo si era trasferito nell'appartamento in affitto solo all'ultimo momento, dopo aver fatto verniciare le pareti e sistemare la cucina da Ed e dal suo aiutante. Volse le spalle alle graziose palazzine di nuova costruzione, agli alberi e alle aiuole e si avviò lentamente verso Oxford Gardens attraverso Ladbroke Grove, per vedere con i propri occhi l'edificio dove la prima vittima di Reggie aveva una camera in affitto. Per lo meno, quello non era cambiato. A giudicare dall'aspetto, non era mai stato ritinteggiato dal 1943, anno della morte della donna. Pareva che nessuno sapesse quale era stata la sua stanza, né aveva trovato dei riferimenti in merito nei libri che aveva consultato. Rimase a scrutare le finestre, formulando ipotesi e congetture, finché qualcuno non si affacciò a guardarlo, costringendolo ad allontanarsi. St Blaise Avenue, all'altezza degli Oxford Gardens, era una strada piuttosto esclusiva, costeggiata da alberi di ciliegio come ornamento; ma percorrendola in discesa perdeva progressivamente la sua caratteristica eleganza, fino a trasformarsi in una serie di palazzi risalenti agli anni Sessan-
ta, sede di uffici municipali, lavanderie, parcheggi riservati a motocicli e negozietti vari. Uniche eccezioni, un caseggiato a schiera dal lato opposto, un signorile edificio vittoriano alquanto discosto dagli altri, e il palazzetto, St Blaise House, l'unico del suo genere nell'intero circondario a non essere stato diviso in una dozzina di appartamenti. Era un peccato, pensò Mix, che non avessero raso al suolo quello invece di abbattere Rillington Place. Qui non c'erano alberi di ciliegio ma grossi platani polverosi dalle foglie gigantesche e i tronchi spelacchiati, che contribuivano a rendere il posto così tetro. Si fermò a osservare la casa, stupito come sempre per le sue dimensioni, chiedendosi perché mai la vecchia non si fosse ancora decisa a venderla a un'agenzia immobiliare. Era alta tre piani e un tempo era stata bianca; adesso era completamente grigia e rivestita di stucchi, con gradini che portavano all'ampio portale parzialmente celato da un profondo portico a pilastri. Nella parte superiore, quasi sotto la grondaia, c'era una finestra a ogiva, in tutto diversa dalle altre, con vetri colorati ricoperti da uno strato di sporcizia accumulata da anni. Mix entrò. Già solo l'ingresso, aveva pensato quando l'aveva visto la prima volta, aveva le dimensioni di un appartamento di taglio medio, spazioso, squadrato e buio come ogni ambiente di quel caseggiato. Imponenti sedie scure dagli schienali in legno intagliato erano appoggiate contro i muri, inutilizzate. Una era sistemata sotto un enorme specchio dalla cornice di legno lavorato in rilievo, con il vetro interamente punteggiato di macchie verdastre che facevano pensare a immagini di isole su una cartina nautica. Alcuni gradini portavano giù in uno scantinato dove lui non era mai sceso, e per quanto ne sapeva da anni nessun altro vi si era mai avventurato. Ogni volta che rientrava in quella casa sperava di non incappare nella proprietaria, cosa che in effetti accadeva di rado, ma quello non era il suo giorno fortunato. Vestita come al solito con un lungo cardigan che le pendeva da tutte le parti e una gonna dall'orlo sbilenco, stava in piedi dietro un tavolo gigantesco che doveva pesare una tonnellata, fra le mani un volantino a colori che pubblicizzava un ristorante tibetano. Non appena lo vide lo salutò, con l'aristocratica pronuncia affettata che le era propria, in un tono che a lui parve decisamente sprezzante: «Buon giorno, signor Cellini.» Ogni qual volta era costretto a parlare con Gwendolen Chawcer faceva del suo meglio per stupirla - fino a quel momento, per la verità, con ben scarsi risultati.
«Non indovinerà mai dove sono stato.» «Ci può scommettere» ribatté lei. «Quindi è perfettamente inutile che io ci provi.» Vecchia strega, sempre pronta a fare del sarcasmo. «Sono andato a Rillington Place,» proseguì lui «o almeno dove si trovava un tempo. Ero curioso di vedere il giardino dove Christie seppelliva le sue vittime. Ma non ne è rimasta traccia.» La donna poggiò il volantino sul tavolo. Senza dubbio sarebbe rimasto lì per mesi. Poi, però, se ne uscì con una frase sorprendente: «Una volta, da giovane, sono entrata in quella casa.» «Davvero? E perché?» Sapeva che non si sarebbe aperta facilmente. «Avevo i miei motivi. Mi fermai non più di mezz'ora. Era un uomo sgradevole.» Mix non riusciva a controllare la sua eccitazione. «Che impressione le fece? Ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un assassino? Sua moglie era presente?» La donna proruppe nella gelida risata che le era propria. «Santo cielo, signor Cellini, non ho tempo per rispondere alle sue domande. Ho altro da fare.» Che cosa? Era raro che si dedicasse a un'occupazione diversa dalla lettura, per quanto ne sapeva lui. Doveva aver letto migliaia di libri, ne aveva sempre uno tra le mani. Di fronte a quella risposta che non aveva soddisfatto la sua curiosità, anzi era stata piuttosto provocatoria, provò una certa delusione. Quella donna poteva rivelarsi una miniera di informazioni su Reggie, ma era troppo spocchiosa per parlarne. Si avviò per la scalinata, che, sebbene non fosse stretta, malsicura o a chiocciola, detestava con tutta l'anima. Era composta da cinquantadue gradini, e una delle cose che non sopportava era il fatto che si sviluppasse su tre rampe, la prima di ventidue scalini, la seconda di diciassette e la terza di tredici. Se c'era qualcosa che disturbava Mix più delle sorprese spiacevoli e delle vecchie sgarbate era proprio il numero tredici. Per fortuna, il numero civico di St Blaise House era il 54. Un giorno, approfittando dell'assenza della vecchia Chawcer, si era messo a contare le stanze da letto; ce n'erano altre nove, oltre la sua. Alcune erano ammobiliate, se quelli si potevano chiamare mobili, altre erano vuote, tutte comunque sudicie. Era convinto che quel posto non venisse pulito da anni, anche se qualche volta l'aveva vista dare dei colpetti qua e là con uno spolverino. Tutto quell'arredamento in legno, intagliato a motivi di
spade, scudi, elmi, volti, fiori, foglie, ghirlande, nastri, era sepolto sotto una spessa coltre di polvere accumulatasi negli anni. Vi erano ragnatele ovunque, sulle balaustre e dietro le cornici dei quadri. Quella donna era sempre vissuta lì, dapprima con i genitori, poi con il padre e infine da sola. Di lei non sapeva altro. Tanto meno perché avesse tre camere da letto nel suo appartamento, al primo piano. Dopo il primo pianerottolo la scalinata si restringeva, l'ultima rampa era pavimentata con mattonelle e non aveva tappeto. Mix non aveva mai visto delle scale con mattonelle nere lucenti, ma la casa della signorina Chawcer era tutta una stranezza. Quando ci si passava sopra facevano un rumore infernale, qualunque tipo di scarpe si avesse ai piedi, ogni passo un picchiettio. Si era convinto che le avesse fatte piastrellare in quel modo per scoprire a che ora rientrasse il suo inquilino. Lui aveva preso l'abitudine di togliersi le scarpe prima di salire, non perché avesse qualcosa da nascondere, ma semplicemente perché non voleva che lei si impicciasse degli affari suoi. La vetrata colorata del pianerottolo superiore recava il disegno di una fanciulla che ammirava una pianta in un vaso. Quando la vecchia Chawcer l'aveva condotto lì per la prima volta, l'aveva definita 'la finestra di Isabella,' e la figura 'Isabella e il vaso di basilico,' cosa che per lui aveva ben poco senso. Per quanto ne sapeva, il basilico è un'erba aromatica che si compra al supermercato. La fanciulla raffigurata aveva un aspetto malaticcio, il viso era l'unica parte in cui il vetro era bianco e a Mix non piaceva per niente trovarsela di fronte ogni volta che entrava o usciva dal suo appartamento. Lui lo chiamava così, ma Gwendolen Chawcer usava la parola 'stanze.' Aveva l'impressione che quella donna vivesse nel passato, non trenta o quaranta anni addietro come la maggior parte della gente, ma almeno un secolo prima. Lui aveva sistemato il bagno e montato la cucina con l'aiuto di Ed, pagando di tasca sua, in modo che la signorina Chawcer non avesse nulla da ridire. Anzi, avrebbe dovuto farle piacere, dato che si sarebbe ritrovata con i servizi ammobiliati quando lui, una volta diventato famoso, fosse andato via. Lei non vedeva la necessità di arredare una stanza da bagno. Gli aveva detto che ai suoi tempi nella stanza da letto si teneva un vaso da notte e un lavamano su un portacatino, che la domestica riempiva con una brocca di acqua calda. L'appartamento di Mix consisteva in una stanza da letto e un ampio soggiorno, dove campeggiava un enorme poster di Nerissa Nash, una foto ap-
parsa su un giornale di moda al tempo in cui la chiamavano la Naomi Campbell dei poveri. Ma adesso le cose erano cambiate. Come al solito, Mix si piantò davanti al poster, con l'atteggiamento di un religioso in contemplazione di qualche immagine sacra, solo che invece delle preghiere andava mormorando: 'Ti amo, ti adoro'. Il suo impiego alla Fiterama gli garantiva uno stipendio discreto, e per l'arredamento non aveva badato a spese. Il televisore cromato, il videoregistratore e il lettore DVD come quasi tutti gli elettrodomestici, li aveva comprati a rate, ma in questo, per usare una delle espressioni tanto care a Ed, non c'era niente di strano: compravano tutti in quel modo. Il tappeto bianco e l'abito grigio di tweed li aveva acquistati in contanti, come anche il nudo di donna in marmo nero, che aveva preso senza pensarci su, né del resto se n'era mai pentito. Per il poster di Nerissa aveva scelto una cornice cromata che si accordava con il televisore. Nella libreria di frassino nero era sistemata tutta la collezione su Reggie: Rillington Place n.10, John Reginald Halliday Christie, La leggenda di Christie, Omicidio a Rillington Place e Le vittime di Christie tra gli altri. Del film di Richard Attenborough Rillington Place n.10 aveva sia la videocassetta che il DVD. Era vergognoso, si diceva, che si facessero in continuazione dei remake di film hollywoodiani e nessuno pensasse a girare di nuovo quella storia. Quel film lo vedeva spesso, soprattutto la versione digitale, perché le immagini risultavano più chiare e luminose. Richard Attenborough era bravissimo, su questo non aveva nulla da obiettare, solo che non somigliava per niente a Reggie. Avrebbero dovuto affidare il ruolo a un attore più giovane, con un volto spigoloso e lo sguardo magnetico. Mix aveva l'abitudine di sognare a occhi aperti, e alle volte immaginava di diventare famoso, per il fatto di aver conosciuto Nerissa o per la cultura che si era fatto su Reggie. Probabilmente non c'era nessuno ancora in vita, nemmeno quel Ludovic Kennedy che aveva scritto il libro, che su quell'argomento ne sapesse più di lui. Forse la sua missione nella vita era risvegliare l'interesse su Rillington Place e sul suo celebre inquilino, anche se, dopo ciò che aveva visto quel pomeriggio, non sapeva come fare per riuscire nell'impresa. Ma, naturalmente, qualcosa avrebbe escogitato. Per esempio, poteva scrivere un libro su Reggie, evitando i soliti stupidi commenti sulla malvagità e la depravazione del personaggio. La sua opera si sarebbe focalizzata su ben altro: l'assassino come artista. Si avvicinavano le sei. Mix si preparò la sua bevanda preferita, un co-
cktail di sua invenzione, che aveva battezzato 'Centro addestramento reclute', perché era molto forte. Era sconcertato dal fatto che quella miscela preparata con due porzioni di vodka, un bicchiere di Sauvignon e un cucchiaio di Cointreau con ghiaccio tritato non fosse piaciuta a nessuno di coloro che l'avevano assaggiata. Il suo frigorifero era di quelli che triturano il ghiaccio. Aveva appena mandato giù il primo sorso quando squillò il telefonino. Era Colette Gilbert-Bamber, che gli chiedeva di darle una mano a riparare il tapis roulant. Si trattava probabilmente della spina o di qualche guasto più serio; il marito non era in casa e lei non poteva uscire perché aspettava una telefonata importante. Mix sapeva cosa significava. Essere innamorato di una star irraggiungibile, sua signora e regina, non voleva dire che ogni tanto non potesse concedersi un po' di svago. Ma una volta che lui e Nerissa fossero stati insieme, una coppia legittima, sarebbe stato diverso. Con rammarico, ma ben consapevole di quali fossero le sue priorità, Mix mise il cocktail nel frigo. Si lavò i denti, fece i gargarismi con un colluttorio che aveva un sapore non dissimile da quello del cocktail, sebbene privo dei suoi effetti alcolici, e si avviò giù per le scale. Rinchiuso lì dentro non avrebbe mai potuto immaginare una giornata così meravigliosa, con il sole caldo e luminoso. Quella casa era sempre fredda e singolarmente silenziosa. Sempre. Da lì non si udiva la Hammersmith e la metropolitana di superficie che collegava Latimer Road a Shepard Bush, o il traffico di Ladbroke Grove. Gli unici rumori provenivano dalla parte occidentale della città, anche se quel suono non rievocava il frastuono del traffico. Dava piuttosto l'impressione del mare, il frangersi di onde sulla battigia, o anche il rumore di una conchiglia, un lieve, incessante fragore. Per leggere dei caratteri troppo minuti, Gwendolen doveva fare ricorso alla lente d'ingrandimento. E, per sua sfortuna, la maggior parte dei libri che la interessavano erano stampati con caratteri formato 10. Per esempio, con gli occhiali da lettura non poteva certo venire a capo dell'edizione Papa di Declino e caduta dell'impero romano, o del volume con cui era alle prese in quel momento, una copia molto antica di Middlemarch, pubblicata nell'Ottocento. Come la stanza da letto al piano superiore, il soggiorno abbracciava tutta la casa, con un paio di finestre a ghigliottina che si affacciavano sulla strada e portefinestre sul retro, che davano sul giardino. Gwendolen aveva l'abitudine di leggere sdraiata su un divano rivestito di velluto a coste marro-
ne scuro, lo schienale sormontato da un drago di mogano intagliato, la cui coda ricurva si piegava sino a incontrare uno dei braccioli, mentre la testa si innestava sulla struttura del camino in marmo nero. Quasi tutta la mobilia era di quel tipo, intarsiata, densamente imbottita e ricoperta di velluto marrone, verde opaco o rosso scuro come sangue, ma c'era anche qualche pezzo d'arredamento in marmo con venature scure e gambe dorate. A una parete era appeso uno specchio enorme con la cornice tutta ghirigori di foglie dorate e frutti, ormai opaca per l'incuria e la decrepitezza. Al di là delle portefinestre, che adesso erano aperte e lasciavano filtrare la calda luce della sera, c'era il giardino. Gwendolen lo vedeva ancora com'era stato un tempo, l'erba accuratamente tosata, simile a una stoffa di velluto color smeraldo, i cespugli impreziositi da fiori variopinti, gli alberi accuratamente potati per metterne in risalto il fogliame lussureggiante. O meglio, si figurava che con un po' di attenzione e non più di un giorno di lavoro avrebbe potuto ancora essere così. L'erba che arrivava alle ginocchia, il terreno dove un tempo spuntavano i fiori ridotto a una massa di erbacce, gli alberi appesantiti da rami secchi: tutto ciò sfuggiva al suo sguardo. Per lei la parola scritta era più reale di un interno accogliente e un esterno piacevole alla vista. Tuttavia, alle volte accadeva che i ricordi sopraffacessero i libri; in quei momenti si stendeva a osservare il soffitto brunastro ingombro di ragnatele e i prismi del candeliere ricoperti di polvere, per riflettere e tornare indietro nel tempo con la memoria. Detestava quel Cellini, per quanto poco potesse importare. Il suo rozzo discorso le aveva risvegliato dei ricordi, Christie e i suoi delitti, Rillington Place, la sua paura, il dottor Reeves e Bertha. Dovevano essere passati almeno cinquantadue anni, se non cinquantatré. A quel tempo Rillington Place era un sordido quartiere tappezzato di case a schiera con le porte che davano sulla strada e chiuso da una fonderia con una ciminiera alta. Se non l'avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe creduto che potessero esistere luoghi simili. Aveva sempre vissuto nella bambagia, prima e dopo quella visita. Bertha doveva essersi sposata - come sempre fanno quel tipo di persone. Probabilmente aveva avuto una sfilza di figli, ora persone di mezza età, il primo dei quali era stato la causa delle sue disgrazie. Perché le donne agivano in quel modo? Non era mai riuscita a capirlo. Lei non era mai caduta in tentazione. Nemmeno con il dottor Reeves. Per lui aveva sempre provato solo sentimenti casti e puri, come lui per lei, del resto. Ne era sicura, malgrado in seguito si fosse comportato diversamente
da come lei s'era aspettata. Forse, dopo tutto, ne aveva conosciuto la parte migliore. Cosa diamine spingeva Cellini a interessarsi a Christie? C'era qualcosa di morboso in quella curiosità. Gwendolen riprese il libro che stava leggendo. In un altro romanzo di George Eliot, Adam Bede, c'era una ragazza che aveva agito proprio come Bertha, andando incontro a un orribile destino. Lesse un'altra mezz'ora, dimentica del mondo, di tutto eccetto la pagina che aveva di fronte, finché un rumore di passi proveniente dal piano superiore non la mise in allerta. Poteva anche avere problemi di vista, ma aveva conservato un udito eccellente, da fare invidia a un giovane. La sua amica Olive Fordyce diceva che Gwendolen era in grado di sentire lo squittio di un pipistrello. Si mise in ascolto. Stava scendendo le scale. Senza dubbio quell'uomo era convinto che lei non sapesse che si toglieva le scarpe per andare e venire senza farsi sentire. Ma non la si ingannava così facilmente. I gradini della prima rampa scricchiolavano. E lui non poteva farci nulla, pensò trionfante. Lo sentì muoversi con passo felpato lungo l'ingresso, ma nel chiudere la porta provocò un fragore tale da far tremare tutta la casa, tanto che dal soffitto cadde un frammento di intonaco bianco, proprio accanto al suo piede sinistro. Si avvicinò a una delle finestre che davano sulla strada e lo vide salire in macchina. Era una piccola automobile blu, che di sicuro veniva maniacalmente pulita. Quando l'uomo fu partito andò in cucina, aprì una porta che celava una vecchia e mai usata asciugabiancheria e tirò fuori una cassetta che un tempo era stata utilizzata come contenitore per le patate. Era zeppa di chiavi, prive di etichetta, ma lei conosceva bene forma e colore di quella che cercava. La prese, la mise nella tasca del cardigan e si avviò su per le scale. Salire quelle rampe non era certo una passeggiata, ma vi era abituata. Anche se aveva passato l'ottantina si era conservata snella ed era ancora ben salda sulle gambe. In tutta la sua vita non era stata male nemmeno un giorno. Naturalmente non saliva le scale con la stessa andatura di cinquant'anni prima, ma questo è nell'ordine delle cose. Otto era accoccolato a metà dell'ultima rampa, intento a divorare qualche preda. Non si degnarono di uno sguardo. L'ultimo sole avvampava dalla finestra di Isabella, e poiché non c'era vento a far vibrare il vetro, sul pianerottolo era perfettamente riflesso in tutte le sfumature di colore il disegno della ragazza con il vaso di basilico, un mosaico circolare in varie gradazioni di rosso, blu, porpora e verde. Lo spettacolo era talmente incantevole che indusse
Gwendolen a fermarsi per ammirarlo. Rare volte aveva scorto una proiezione così nitida e chiara. Indugiò un paio di minuti prima di inserire la chiave nella toppa ed entrare nell'appartamento di Cellini. Era da sciocchi dipingere le pareti in quel modo, rifletté alla vista di tutto quel bianco. Mettevano in risalto le macchie. E il grigio era poco adatto alla mobilia, oltre a essere un colore che comunicava una sensazione di freddezza e desolazione. Entrò nella camera da letto, chiedendosi perché mai il suo inquilino si preoccupasse di rifare il letto se ogni sera doveva disfarlo. Tutto quell'ordine era deprimente. Quell'individuo doveva soffrire di quella patologia di cui si parlava in un giornale che le era capitato tra le mani, disordine ossessivo compulsivo. Anche la cucina era perfettamente in ordine. Sembrava una di quelle in mostra all'Esposizione della casa ideale, dove Olive aveva tanto insistito per portarla, negli anni Ottanta. Un posto dove tutto è in ordine, nemmeno un pacchetto o una scatoletta fuori posto, con il lavello completamente vuoto. Come si poteva vivere così? Aprì il frigorifero. Dentro c'era ben poco, due bottiglie di vino e un bicchiere poggiato sul ripiano centrale, pieno quasi fino all'orlo di un liquido che sembrava acqua leggermente colorata. La odorò. No, non era acqua. Quindi, quel tipo beveva. Non c'era da meravigliarsene. Tornando nel soggiorno, si fermò davanti alla libreria. Era attratta dai libri, di qualsiasi genere. Quelli però non erano di suo gusto, erano anzi libri che nessuno avrebbe dovuto leggere. Tutti eccetto uno, Il sesso per gli uomini nel XXI secolo, riguardavano Christie. Non ci aveva quasi mai pensato in cinquant'anni, e quel giorno invece non faceva che tornarle in mente. Doveva essere un'altra delle ossessioni di Cellini. Più conosco la gente, si disse Gwendolen citando le parole del padre, più amo i libri. Tornò dabbasso, in cucina, prese un panino con formaggio e sottaceti comprato al negozio di alimentari all'angolo della strada e un bicchiere di succo d'arancia, si sedette sul divano, e si rituffò nella lettura di Middlemarch. 2 Attraversata dalla Westway che andava verso nord, Wormwood Scrubs era una parte della città davvero strana, a cui Mix non si era ancora abituato, con la prigione poco distante, il groviglio di stradine tortuose, gli imponenti caseggiati, i quartieri edificati secondo un disegno ben definito, le orride case a schiera vittoriane, gli edifici gotici più simili a cattedrali che a
dimore, i villini dalla furbesca architettura a livelli sfalsati per dare l'impressione che fossero vecchi di duecento anni, i negozi agli angoli delle strade, uffici della motorizzazione civile, garage, sale riunioni, chiese di varie confessioni religiose e conventi di suore oblate e carmelitane. Tutto il circondario era abitato da famiglie che vivevano lì da sempre e da gente proveniente da Freetown, Goa, Vilnius, Beirut e Aleppo. I Gilbert-Bamber risiedevano nella zona più esclusiva e alla moda di West Eleven. La casa, a Lansdowne Walk, era meno grande di quella della signorina Chawcer ma aveva un aspetto più imponente, con colonne corinzie che correvano lungo tutto il lato anteriore e vasi colmi di piante sui balconi. Mix la raggiunse in cinque minuti, e ne impiegò altrettanti per trovare un posteggio per l'auto, che non dovette pagare perché dopo le sei e trenta si poteva parcheggiare liberamente. Colette lo accolse con uno dei suoi sguardi sensuali, del resto superfluo dal momento che entrambi conoscevano bene il motivo di quella sua visita. Da parte sua, Mix cercò di darsi un contegno, sorridendo mentre entrava in casa deciso, con la cassetta degli attrezzi. Se non ricordava male l'apparecchio era di sopra, vero? «Certo che ricordi bene» replicò Colette con un risolino imbarazzato. Ancora scale da salire, ma per lo meno qui c'era una sola rampa e i gradini erano larghi e bassi. «Come sta la signorina Nash?» Sapeva che la domanda non le avrebbe fatto piacere. «Come vuoi che stia? Sicuramente bene. Non la vedo da un paio di settimane.» Aveva incontrato Nerissa Nash proprio lì dai Gilbert-Bamber, per caso. Fino a quel momento aveva considerato Colette bellissima, con la sua figura slanciata, i lunghi capelli biondi e le labbra carnose, anche se gli aveva confessato di averle rifatte. La differenza tra le due, aveva concluso dopo aver conosciuto la signorina Nash, era la stessa che passa tra una star di Hollywood e la collega più carina dell'ufficio. Colette gli fece strada nella stanza da letto. Quella che lei chiamava la sua palestra era in realtà un'anticamera del bagno, nelle intenzioni del progettista destinata a spogliatoio per il signorotto che vi abitava originariamente. «Quando aveva voglia di scopare gli bastava bussare alla porta» gli aveva spiegato Colette. «A quei tempi erano tutti un po' picchiatelli.» La stanzetta era arredata con un tapis roulant, una macchina per lo step, una cyclette e una cross-trainer ellittica. C'erano anche uno scaffale con sopra dei pesi, un tappetino da yoga arrotolato, un pallone gonfiabile color turchese e un frigorifero nuovo che non aveva mai contenuto bevande co-
me il Boot Camp, ma solo acqua frizzante. Colette non era stupida. L'attrezzo ginnico aveva un congegno di sicurezza consistente in una chiavetta che si inseriva in una serratura all'estremità di una cintura che andava applicata agli indumenti quando lo si usava, in maniera che se si perdeva l'equilibrio la chiavetta si disinseriva e il motorino si arrestava. Mix prese la chiavetta. «Non l'hai inserita.» «Come la donna disse al vescovo.» A Mix la battuta suonò antiquata. L'aveva sentita dal suo patrigno almeno vent'anni prima. «Se la chiave non è inserita non funziona» rispose con voce priva d'espressione, per farle capire che non aveva trovato spiritosa la battuta. Ma si sarebbe rifatto intascando la tariffa, cinquanta sterline, per essere arrivato sin lì. Inserì la chiavetta, accese la macchina, fece riscaldare il motorino e aggiunse un po' d'olio ai pedali, in modo da tirarla per le lunghe. Colette la spense e lo portò in camera da letto. S'era chiesto più volte cosa sarebbe accaduto se lo stimabile Hugo Gilbert-Bamber fosse inaspettatamente rincasato prima del previsto, ma in quel caso poteva sempre rivestirsi in fretta e furia e trovare rifugio tra gli attrezzi ginnici armato di cacciaviti e lubrificatori. Mix voleva diventare famoso. Gli sembrava che la sola vita auspicabile fosse quella della celebrità. Essere fermato per strada da ammiratori a caccia di un autografo o costretto a viaggiare in incognito, vedere le proprie fotografie sui giornali, perennemente assediato dai giornalisti per un'intervista, avere una schiera di fan che vogliono sapere con chi vai a letto, la rubrica mondana che si occupa di te. Portare occhiali a specchio quando non si vuole essere riconosciuti, viaggiare in una limousine con i vetri fumé, avere un portavoce, magari Max Clifford. Avrebbe preferito diventare famoso per avere fatto qualcosa che piaceva alla gente, o anche suscitare l'ammirazione altrui come avveniva con Nerissa Nash. Ma per certi versi la condizione di chi raggiunge la fama per aver commesso qualche crimine efferato era invidiabile. Cosa si prova a essere un personaggio di quelli che la polizia fa uscire di nascosto dal tribunale, con un giaccone calcato sulla testa per non essere riconosciuto dalla folla inferocita che lo farebbe volentieri a pezzi? L'omicidio assicura una fama imperitura. Basti pensare all'assassino di John Lennon, o del presidente Kennedy, o a Princip, l'uomo che sparò all'arciduca d'Austria sca-
tenando la Prima guerra mondiale. Ma tutto sommato era meglio, oltre che più sicuro, assumere il ruolo di accompagnatore di Nerissa Nash. In quel modo sarebbe subito diventato una celebrità, l'avrebbero invitato ai talk show televisivi e alle feste di Beckham e di Madonna. Anche Colette era stata una modella, benché non da prima pagina, e il matrimonio con un mediatore di borsa aveva posto fine alla sua carriera. Però era rimasta molto legata a Nerissa. Mix si era trovato nella palestraspogliatoio per sostituire il tappetino del tapis roulant, una volta tanto, quindi, per un vero intervento. L'unico uomo oltre lui era un cuoco che stava preparando il pranzo per Nerissa e Colette. Le due donne erano salite in camera da letto perché Colette voleva mostrare all'amica un vestito all'ultimo grido che aveva appena comprato in una boutique di Notting Hill per una cifra astronomica. Mix aveva sentito i bisbiglii e i risolini delle due donne. Gli era sembrato che Nerissa avesse detto a Colette di fare attenzione mentre si spogliava perché lì, dietro la porta, c'era 'l'uomo'. Mix, che aveva ben presenti i modi disinibiti e i gusti di Colette, e sapeva che non le sarebbe importato se nella palestra ci fossero stati cinquanta uomini a guardarla dalla porta a vetri, anzi le avrebbe fatto piacere, rimase favorevolmente colpito dall'atteggiamento riservato di Nerissa. Al giorno d'oggi non si incontrano molte donne così. Prima d'allora l'aveva vista solo nelle foto sui giornali scandalistici. Aveva una voce così gradevole e una risata così argentina che decise di conoscerla. Impiegò la tecnica cui ricorreva ogni volta che voleva parlare con la padrona di casa: si schiarì la gola per farsi sentire e chiese a voce sufficientemente alta: «Signora GilbertBamber, è lì?» Colette rispose con una risatina, al che lui non indugiò oltre e fece il suo ingresso nella camera da letto. La donna aveva indosso solo le mutandine e un reggiseno rosso scarlatto, ma lui l'aveva vista in ben altre condizioni. Per usare le sue parole, la cosa non lo disturbò. D'altronde, tutta la sua attenzione fu attratta dall'amica di Colette. Dire che si trovò di fronte alla creatura più incantevole che avesse mai visto sarebbe un eufemismo. Si convinse all'istante che tutte le donne, per essere belle, dovrebbero avere lunghi capelli neri, grandi occhi dai riflessi dorati e pelle color cappuccino. Ma al di là della sua avvenenza, l'altezza e la grazia che mostrava, invece dell'alterigia che lui si sarebbe aspettato, Mix colse un'affabile dolcezza, e quando gli sorrise salutandolo con un 'salve', fu perduto. Da quel giorno cominciò a raccogliere in un album tutte le fotografie di lei su cui riusciva a mettere le mani. Aveva persino scovato una cartolina
raffigurante il suo volto in un negozio per turisti a Shepard Bush. A ogni prima cinematografica era capace di aspettare ore e ore, seduto fuori dal cinema, pur di riuscire a vederla per qualche istante mentre scendeva dalla macchina. In un'occasione fu ampiamente ricompensato, essendosi assicurato un posto in prima fila. Lei scese dall'automobile, aiutata da qualcuno, si gettò la stola bianca intorno al sottile tubino giallo che indossava e quando lo scorse - l'aveva forse riconosciuto? - gli concesse un sorriso radioso. In una delle sue fantasie erano seduti insieme a un tavolino in un locale, a guardarsi negli occhi. A un certo punto si avvicinava un tipo con una macchina fotografica, subito seguito da altri. Nerissa sorrideva ai fotografi, quindi a lui. Gli mormorava 'baciami', cosa che lui si affrettava a fare. Era un abbraccio meraviglioso, reso ancor più splendido dai flash che impazzavano intorno e dall'incoraggiamento dei fotografi. Il giorno seguente la scena compariva su tutti i giornali con titoli elettrizzanti: 'Nerissa con il nuovo compagno', e 'Nerissa sigilla con un bacio il nuovo amore'. Lo avrebbero chiamato 'Michael Cellini, l'illustre criminologo.' Ma non l'aveva più incontrata di persona, non aveva più visto quella pelle dorata che ne ammantava così soavemente il corpo slanciato, nonostante l'avesse aspettata a lungo davanti alla sua casa di Campden Hill Square, nella speranza di cogliere una fugace visione di lei. Colette gli aveva detto dove abitava, anche se a malincuore, e lui le aveva domandato se aveva attrezzi ginnici a casa. «Va in palestra.» «Dove?» le chiese mentre le mordicchiava delicatamente il collo, come piaceva a lei. «Quella più vicino a casa, immagino. Perché ti interessa?» «Pura curiosità» rispose. Avrebbe dovuto seguirla, lo sapeva, ma la cosa avrebbe avuto tutto l'aspetto di un losco pedinamento e non era certo questo che desiderava. L'avrebbe seguita solo una volta, e scoperta la palestra che frequentava vi si sarebbe subito iscritto. Non era in forma come avrebbe dovuto per il lavoro che faceva, quindi perché non scegliere la sua stessa palestra? Era alle dipendenze della Fiterama da nove anni, otto dei quali passati nella filiale di Birmingham. Appena trasferitosi a Londra aveva affittato una stanza a Tufnell Park. Proprio dietro l'angolo c'era un posto che lo affascinava, Hilldrop Crescent, il cui nome era rimasto immutato malgrado
vi avesse vissuto il dottor Crippen, celebre per aver fatto a pezzi la moglie e nascosto parti del cadavere sotto il pavimento. Non aveva mai letto nulla su Crippen, il cui crimine risaliva a prima ancora della Grande guerra, praticamente alla notte dei tempi. Poi gli era capitato di seguire un programma alla TV dedicato alla cattura di criminali per mezzo della radio, dal quale aveva appreso che Crippen era stato arrestato proprio con quell'espediente e aveva saputo l'indirizzo in cui aveva vissuto. Mix si eccitava per cose che altri trovavano ripugnanti, o semplicemente non interessanti; così decise di andare a dare un'occhiata. La delusione che provò quando scoprì che nuove costruzioni avevano preso il posto della vecchia casa fu niente rispetto all'amarezza che avvertì alla notizia che Rillington Place era stato abbattuto. Fu il film a farlo decidere. A quell'epoca abitava ancora con i genitori, e il film lo vide sul vecchio televisore in bianco e nero della madre. Poco aduso alla lettura, aveva trovato il libro da cui era stato tratto il film, o per lo meno così credeva, sulla bancarella di un rigattiere. Rimase sorpreso nello scoprire che, a giudicare dalle fotografie, John Reginald Halliday Christie non somigliava per niente ad Attenborough, quanto piuttosto a lui. Certo, lui era più giovane e non portava gli occhiali, eppure qualcosa li accomunava. Rimase a lungo davanti allo specchio per accertarsi della somiglianza. E questo, strano a dirsi, lo avvicinò emotivamente a quel serial killer. Da quel momento cominciò a chiamarlo Reggie piuttosto che Christie. Dopo tutto, cosa aveva fatto di così terribile? Aveva liberato il mondo da qualche donna inutile, per lo più ladre e prostitute. Reggie. Era un bel nome, evocava calore e affabilità. Non fu meravigliato di scoprire che piaceva alla gente, una persona stimata e rispettata da molti. Ne percepivano la forte personalità. Questa era una delle caratteristiche per cui gli andava a genio: era un uomo forte. Sarebbe stato un ottimo padre, di quelli che non tollerano sciocchezze dai figli, che non hanno bisogno di alzare le mani per farsi rispettare. Era fatto così. Come gli capitava quotidianamente, per un attimo gli tornò in mente Javy. A suo parere non si doveva permettere alle donne con figli di risposarsi. Guidando verso casa dopo avere lasciato l'abitazione di Colette, ripensò a quanto gli aveva rivelato la vecchia Chawcer. Era ancora sorpreso. Quella donna era entrata in casa di Reggie. Lo aveva conosciuto. A Mix, così giovane, sembrava che Reggie fosse vissuto in un passato davvero remoto, quasi fosse un personaggio storico, ma si era reso conto che per la vecchia Chawcer non era così. Doveva avere più di ottant'anni, e quando Reggie
aveva vissuto a Rillington Place era ancora giovane, praticamente una ragazza. Ora, come tutti coloro che si erano interessati al caso sapevano (lo si trovava sui libri), Reggie attirava le sue vittime spacciandosi per un medico che praticava l'aborto. Ergo, lei doveva essere andata lì con quel proposito. Per quale altro motivo, altrimenti? Da uomo del Ventunesimo secolo, Mix credeva che le cose fossero sempre andate come andavano adesso. Da giovane la Chawcer doveva aver condotto la vita che conduceva lui: relazioni amorose fugaci, incontri che si esaurivano nel giro di una notte, il più frequenti possibile. Probabilmente aveva commesso un'imprudenza, dimenticando di prendere la pillola, come capita alle donne, e si era ritrovata incinta. Le normative che il giovane Mix conosceva erano solo quelle relative alla sicurezza degli attrezzi ginnici e alle responsabilità dei produttori e dei rivenditori. Era completamente ignaro della legislazione che regola l'aborto, e supponeva che a quei tempi non si potesse abortire in ospedale. Era una questione di logica: se una cosa del genere fosse stata permessa, Reggie non si sarebbe messo in affari. Si pose una domanda fondamentale: se lei si era trovata lì, tra le sue mani, perché dopo cinquant'anni era ancora viva? Forse non l'avrebbe mai saputo, ma desiderava fortemente scoprirlo. Il suo appartamento era immerso nel silenzio più assoluto. Tutte le finestre davano sul giardino incolto, e sporgendosi si vedevano pezzi di frontoni e scorci di tetto. I giardini delle altre abitazioni erano tutti un groviglio di cespugli incolti, eccetto uno che aveva un prato curato e aiuole piene di rose. Quasi tutte le notti, quando calava il buio, tardi in quella stagione, dal denso fogliame d'edera che si arrampicava selvaggio sui muri e sulle grate scorgeva due occhi lucenti come fiamme verdi. Era convinto che la vecchia Chawcer andasse a letto presto. La casa sorgeva isolata, e non vi giungevano suoni dall'esterno. Se si dormiva nelle stanze che davano sul lato anteriore, poteva anche capitare di essere svegliati da urla improvvise, grida ed echi di musica provenienti dalle automobili, i rumori che costituivano il sottofondo sonoro di Londra. Ma sul retro, dove davano le sue stanze, ben poco poteva recargli disturbo. Avendo trascorso l'infanzia in uno dei tanti condomini chiassosi, gli sarebbe piaciuto avvertire di tanto in tanto qualche segno di vita intorno a lui. In quel luogo le ore silenti scivolavano via come se il tempo e il mondo si fossero dimenticati della sua esistenza. Ma non a Westway. Lì, nella zona occidentale della città, pareva che un millepiedi dalle zampe di cemento marciasse trasportando senza posa un
fardello, producendo rumori marini. Aprì il frigorifero. Ossessionato com'era dall'ordine, ricordava di aver messo il Boot Camp esattamente al centro del ripiano di mezzo, a cinque centimetri dal bordo. Non lo avrebbe mai lasciato sulla sinistra, poggiato contro una barretta di cioccolata. Sovrappensiero, lo assaggiò. Probabilmente era stata la fretta di uscire; doveva essere quella la spiegazione. Con il bicchiere mezzo vuoto si piazzò di fronte al poster di Nerissa e le disse: «Ti amo. Ti adoro.» Alzò il bicchiere e brindò a lei. «Lo sai che ti adoro.» 3 La casa di Gwendolen Chawcer a St Blaise Avenue era stata costruita dal nonno paterno, nel 1860. A quell'epoca Notting Hill venne edificata lasciando ampi spazi aperti, con l'idea di costruire un luogo vivibile. Il quartiere di Westway aveva visto la luce solo cento anni dopo. Il primo tratto della metropolitana londinese, da Baker Street a Hammersmith, fu costruito in tre anni, quando Rillington Place era ancora aperta campagna. Il padre di Gwendolen, il professore, era nato a St Blaise House sul finire dell'Ottocento, lei negli anni Venti del Novecento. Si continuò a edificare la zona verso sud. Grazie ai prezzi accessibili, negli anni Cinquanta vi si trasferirono diversi gruppi di immigrati, nei dintorni sempre più fatiscenti di North Kensington e Kensal Town, a Powis Square e Golborne Road. Fu un uomo di origine caraibica a rinvenire il cadavere della prima vittima di Christie, mentre abbatteva un muro dell'appartamento in cui si era stabilito. Nelle due decadi successive arrivarono gli Hippy e i Figli dei fiori. Consideravano Ladbroke Grove casa loro e la chiamavano 'The Grove'. Nelle abitazioni prese in affitto coltivavano piante di cannabis con i raggi ultravioletti. Vestivano in mussola di cotone e furono loro a dare vita al concetto di Villaggio Globale. La signorina Chawcer era completamente all'oscuro di tutto ciò. La vita le scivolava addosso, senza lasciare traccia. Figlia unica del professor Chawcer, ordinario di filologia alla London University, era nata a St Blaise House e ricevette l'educazione in casa. La madre morì quando lei aveva da poco superato i trent'anni. Il professore era sempre stato contrario all'idea che si trovasse un lavoro, e in quella casa si seguiva sempre e solo la sua volontà. Qualcuno doveva occuparsi di lui. La governante aveva lasciato la famiglia per sposarsi, e Gwendolen era destinata a prenderne il posto.
Aveva condotto un'esistenza anomala, priva di rischi o pericoli, senza paure, speranze, passioni, amori, rivolgimenti e problemi economici. Abitava in una casa molto grande, disposta su tre piani, con innumerevoli stanze che davano su ingressi squadrati o su lunghi corridoi e un'imponente scalinata a quattro rampe. Quando fu chiaro che Gwendolen non avrebbe mai preso marito, il padre fece eseguire dei lavori di ammodernamento al terzo piano trasformandolo in un appartamento indipendente tutto per lei, con due stanze, cucina e ingressi vari. Ma Gwendolen non vi si stabilì, e non per la mancanza di un bagno. A che pro trasferirsi lassù se il padre trascorreva le sue giornate nel soggiorno, sempre pronto a chiedere che gli venisse preparato il tè o qualcosa da mangiare? Sin da allora fu riluttante ad andare ai piani superiori; vi saliva solo per cercare qualcosa che non trovava nel resto della casa. Quello fu l'unico lavoro di ammodernamento della vecchia dimora. Avevano fatto installare la corrente elettrica ma non in tutte le stanze, e negli anni Ottanta si dovette modificare l'impianto solo perché quello esistente era pericoloso. I buchi nel muro praticati per sostituire i fili furono semplicemente ricoperti col gesso, senza provvedere alla tinteggiatura delle pareti. Gwendolen era solita ripetere di non essere un'addetta alle pulizie. Rigovernare casa l'annoiava a morte, e la sua unica felicità consisteva nel mettersi seduta a leggere. Aveva letto migliaia di libri; non vedeva alcuna ragione per occuparsi di altro, a meno che non fosse proprio indispensabile. La spesa continuò fino all'ultimo a farla nei soliti negozi, e quando scomparvero le ultime botteghe di alimentari, il macellaio e il pescivendolo, cominciò a recarsi nei supermercati, senza rendersi conto che quel cambiamento aveva modificato le sue abitudini. Gradiva solo la sua cucina e mangiava le stesse cose di quando era bambina, anche se raramente preparava pietanze calde. Ogni pomeriggio, dopo pranzo, si sdraiava a riposare con qualcosa da leggere per conciliare il sonno. Possedeva la radio ma non la televisione. La casa era piena di libri, opere dotte e vecchi romanzi, antichi fascicoli rilegati di National Geographic e di Punch, enciclopedie ormai antiquate, dizionari pubblicati nel 1906, collezioni del tipo The Bedside Esquire, The Mammoth Book of Thrillers, Ghosts and Mysteries. Li aveva letti quasi tutti, alcuni anche più di una volta. Tra le sue sparute conoscenze c'erano alcune persone incontrate nella circoscrizione di Latimer e di St Blaise, che si reputavano suoi amici. Chiunque non abbia frequentato le scuole incontra delle difficoltà a intrattenere relazioni sociali. Era sempre andata in va-
canza con il padre, anche all'estero, e grazie a lui aveva appreso piuttosto bene il francese e l'italiano, pur avendo ben poche opportunità di utilizzare quelle lingue a parte la lettura di Montaigne o di D'Annunzio. Non aveva mai avuto un ragazzo. Aveva frequentato cinema e teatri, ma non era mai stata in un ristorante alla moda, in un pub, in una discoteca o a un ricevimento. Alle volte si diceva, come conforto più che in tono di rammarico, che, come la Lucy di Wordsworth, 'amava indugiare su sentieri non battuti 1 '. Il professore visse a lungo, fino a novantaquattro anni. Negli ultimi tempi fu costretto a letto, assillato dal problema dell'incontinenza, ma rimase lucido fino al termine dei suoi giorni, e la sua esigenza di essere costantemente accudito non diminuì. A parte l'assistenza occasionale di un'infermiera, fu Gwendolen a occuparsi di lui. Non se ne lamentò mai, né manifestò segni di stanchezza. Gli cambiava i pannoloni e le lenzuola, cercando di ottemperare ai suoi obblighi il più rapidamente possibile, perché non vedeva l'ora di tornare ai suoi amati libri. Lo stesso avveniva quando gli portava da mangiare. Sembrava che l'educazione impartitale dal padre fosse consistita nel badare alla casa, occuparsi di lui in vecchiaia e leggere per evitare di combinare delle marachelle. C'erano stati dei momenti in cui lui, osservandola con occhi freddi e distaccati, riconosceva nella figlia una ragazza attraente. Nella sua visione del mondo l'unica ragione per cui un uomo dovesse sposarsi, o almeno desiderasse farlo, consisteva nella bellezza della donna che sceglieva come sposa. L'intelligenza, l'arguzia, il fascino, la gentilezza d'animo, una particolare predisposizione o il calore umano non contribuivano in alcuna misura a quella scelta, per lui come, a quanto gli risultava, per ogni uomo intelligente. Aveva sposato la moglie per la sua bellezza, e quando ne colse i riflessi nella figlia cominciò a preoccuparsi. Temeva che per lo stesso motivo un altro uomo potesse portargliela via. Ma non accadde. Che possibilità aveva la ragazza di incontrare un pretendente quando l'unico uomo ammesso in quella casa era il dottore, e non le era permesso di uscire se non in compagnia del padre, che non le staccava gli occhi di dosso un istante? Ma alla fine morì. Le lasciò un discreto gruzzolo e la casa, negli anni Ottanta ormai ridotta a un palazzetto fatiscente assediato da nuovi villini, recinzioni, piccole fabbriche, edifici comunali, negozi, case a schiera degradate e progetti di ampliamento delle strade. Quando accadde, lei era una donna di sessantasei anni, magra e allampanata, la cui silhouette da belle 1
The Solitary Reaper (1807) di William Wordsworth (N.d.r.).
époque diventava ogni giorno più simile a uno schiaccianoci, il grazioso naso greco sempre più incurvato verso il mento sporgente. La pelle, un tempo bianca ed estremamente delicata, appena arrossata sugli zigomi, era tutta aggrinzita, tanto da sembrare la buccia di una mela rimasta al sole troppo a lungo. Gli occhi azzurri si erano scoloriti in un grigio pastello e la chioma un tempo folta, sebbene ancora fluente, era completamente imbiancata. Due anziane signore che si professavano sue amiche, e che non trascuravano di dipingersi e laccarsi le unghie di rosso, di tingersi i capelli e di indossare abiti alla moda, sostenevano che la signorina Chawcer vestiva come una vittoriana. Ciò dimostrava come avessero dimenticato la loro giovinezza, dal momento che parte del guardaroba di Gwendolen risaliva al 1936, parte al 1953. Parecchi dei vestiti e dei cappotti erano stati confezionati in quegli anni, e avrebbero fatto la fortuna dei rigattieri di Notting Hill Gate, che tenevano in gran conto i modelli alla moda nel 1953, quando lei aveva rinnovato il guardaroba per farsi ammirare dal dottor Reeves, anche se poi lui era andato via per sposare un'altra donna. A quel tempo erano abiti alla moda, e li aveva tenuti così bene che sembravano ancora nuovi. Gwendolen Chawcer era un anacronismo vivente. Alla casa dedicava molta meno cura. A dire il vero, un paio d'anni dopo la morte del padre aveva deciso di ristrutturarla, ma non era mai stata rapida nel prendere le decisioni e quando fu il momento di scegliere una ditta si rese conto di non poter fronteggiare le spese. Nessuno si era mai premurato di versarle i contributi della previdenza sociale, e la pensione che riceveva era piuttosto bassa. Inoltre, il denaro lasciatole dal padre rendeva sempre meno. Una delle amiche, Olive Fordyce, le suggerì di affittare una parte del piano superiore. Sulle prime la sola idea di avere qualcuno in casa la faceva inorridire, poi pian piano vi si abituò, per quanto, se fosse dipeso da lei, non si sarebbe mai decisa. Fu la signora Fordyce a trovare l'annuncio di Michael Cellini sull'Evening Standard, a incontrarlo per verificare le referenze e a mandarlo a St Blaise House. Avendo studiato l'italiano, Gwendolen lo chiamava signor Cellini con la 'c', ma lui, nipote di un prigioniero di guerra italiano, pronunciava il suo cognome con la V. L'anziana signora, convinta di essere nel giusto, continuò a chiamarlo così anche se lui, che viveva in un mondo in cui ci si rivolge al prossimo con il nome di battesimo, avrebbe preferito i più informali Mix e Gwen. Quando glielo propose, la risposta di Gwendolen fu:
«Non credo proprio, signor Cellini.» Se qualcuno l'avesse chiamata per nome probabilmente ne sarebbe morta, e quanto al diminutivo Gwen, solo Olive Fordyce osava tanto, con suo disgusto. Lei non lo considerava il suo inquilino, né 'l'uomo a cui ho affittato l'appartamento', ma un pensionante. Dal canto suo, quelle rare volte che si riferiva a lei, Mix la chiamava 'quel vecchio pipistrello della padrona di casa', ma tutto sommato andavano d'accordo, soprattutto perché l'abitazione era molto grande e avevano poche occasioni d'incontrarsi. In fondo si conoscevano da poco: si era trasferito lì solo da un paio di settimane. Una volta le aveva detto di essere un ingegnere. Per la signorina Chawcer un ingegnere era qualcuno che costruisce dighe e ponti in luoghi esotici, ma Cellini le spiegò che il suo lavoro consisteva nella manutenzione di attrezzistica ginnica. Lei fu costretta a chiedergli di spiegarsi meglio e, non essendo un tipo particolarmente eloquente, lui la informò che le macchine su cui lavorava si potevano trovare nel reparto sportivo di un qualunque grande magazzino di Londra. L'unico grande magazzino in cui lei fosse mai entrata era Harrods, e quando vi capitò di nuovo volle verificare di cosa si trattasse. Si trovò di fronte un mondo incomprensibile; non capiva per quale ragione qualcuno potesse acquistare macchinari di quel genere e stentava a credere a ciò che Cellini le aveva raccontato. Stava forse, per usare una delle rare espressioni idiomatiche di suo padre, 'menandola per il naso'? Di tanto in tanto Gwendolen si avventurava per casa con uno spolverino e un aspirapolvere. Si trascinava dietro fiaccamente l'elettrodomestico, senza mai svuotare il sacchetto del suo contenuto. L'aveva comperato nel 1951, s'era guastato una ventina d'anni prima e non aveva mai provveduto a farlo riparare. Giaceva nello scantinato tra vecchi tappeti arrotolati, la prolunga di un tavolo da pranzo, scatole di cartone appiattite, un grammofono degli anni Trenta, un violino senza corde proveniente chissà da dove e il cestello di una bicicletta con cui il professore una volta si era spinto fino a Bloomsbury. Quell'aggeggio non faceva altro che sollevare la polvere. Quando arrivava nella stanza da letto, dopo averlo trascinato su per le scale, ne aveva già abbastanza delle pulizie e non vedeva l'ora di tornare alle sue letture, qualsiasi cosa stesse leggendo, magari, ancora una volta, Balzac o Trollope. Di riportare giù quell'attrezzo proprio non le andava, così lo lasciava in un angolo della stanza con il sacchetto penzolante dall'impugnatura zeppo di polvere; poteva rimanere lì intere settimane.
Quel giorno, nel tardo pomeriggio, aspettava per il tè Olive Fordyce e la nipote che non aveva mai conosciuto. Olive aveva insistito, sostenendo che era davvero crudele non farle vedere dove viveva Gwendolen, perché la donna 'adorava le case antiche' e alla possibilità di trascorrere un'ora a St Blaise House si era entusiasmata. Gwendolen non stava facendo nulla di speciale; rileggeva Le Père Goriot. Aveva intenzione di uscire di lì a poco per comprare un fagottino alla marmellata al negozio indiano all'angolo, e forse anche un barattolo di crema. Erano lontani i giorni in cui gli unici dolci che si consumavano erano quelli fatti in casa. Da anni non cucinava niente di più impegnativo delle uova strapazzate, ma c'era stato un tempo in cui ogni torta, crostata, biscotto o bignè che si mangiava da loro lo aveva preparato con le sue mani. In particolare ricordava un pan di spagna ricoperto da una crema giallina, marmellata di lampone e una spolverata di zucchero a velo. Il professore non sopportava l'idea che si comprassero i dolci. Il tè era la bevanda preferita da tutti in famiglia. Una tazza di tè non si rifiuta a nessuno. Quando la signora Chawcer si ammalò gravemente, spegnendosi lentamente tra atroci sofferenze, avevano preso l'abitudine di invitare il dottore a prendere il tè insieme a loro. La madre nel suo letto al piano di sopra, il padre a tenere conferenze da qualche parte, Gwendolen si ritrovava immancabilmente sola con il dottor Reeves. Aveva finito per convincersi che innamorarsi di lui ed esserne corrisposta fosse stato l'evento più importante della sua vita. Lui aveva qualche anno meno di lei, ma non tanti da renderlo inviso alla madre per via dell'età. La signora Chawcer disapprovava i matrimoni in cui la donna avesse almeno due anni in più del marito. Il dottor Reeves aveva l'aria di un ragazzino, con lunghi capelli ricci e neri, occhi scuri che emanavano bagliori e un'espressione calorosa sul viso. Sebbene fosse magro, divorava le focacce alla crema e alla marmellata di fragole fatta in casa, i dolci di frutta secca ricoperti di mandorle e i biscotti preparati da Gwendolen, mentre spizzicava appena i biscotti confezionati. La signora Chawcer le ripeteva sempre che agli uomini non piacciono le ragazze che mangiano e bevono smodatamente, ma aveva smesso di insistere quando lei aveva superato la trentina. Il dottor Reeves parlava in continuazione, prima del tè, tra un pasticcino e l'altro e anche dopo. Le raccontava della sua professione, delle ambizioni per la sua carriera, del luogo in cui vivevano, della guerra di Corea, della cortina di ferro, dei tempi che stavano cambiando. Per Gwendolen
discorrere con qualcuno era una novità; interveniva nella conversazione, e cominciava a nascerle il desiderio di conoscere di più la vita, avere amici, viaggiare, vedere il mondo. Tra gli argomenti non mancava mai quello della madre, la cui morte era imminente; ci si chiedeva cosa sarebbe accaduto in seguito. È risaputo che la grafia dei dottori è illeggibile. Gwendolen esaminava con attenzione le ricette che Reeves prescriveva alla signora Chawcer, cercando di decifrarne il nome. All'inizio le sembrò che si chiamasse Jonathan, poi pensò che il suo nome fosse Barnabas. Il nome a cui più si approssimò fu Swithun. Una volta condusse astutamente il discorso sui nomi, sull'importanza che rivestivano per chi li portava. A lei il suo piaceva, fin tanto che nessuno la chiamasse Gwen. E chi si sarebbe azzardato a farlo? Aveva forse amici che le si potessero rivolgere con un diminutivo? I soli a non chiamarla signorina Chawcer erano i suoi genitori. Tutto questo non lo disse al dottor Reeves, ma ascoltò con avidità quel che aveva da dire sull'argomento. Fu così che venne a sapere come si chiamava. «Stephen è un nome che non crea problemi. In questo periodo va anche di moda. A dire il vero, solo di recente. Così, forse, un giorno la gente mi darà trenta anni di meno.» Usava sempre la parola 'gente' quando si riferiva agli altri. A Gwendolen piaceva molto quel modo di esprimersi. E fu felice di scoprirne il nome. Alle volte, sola nella stanza, ripeteva a voce alta delle combinazioni di nomi intriganti: Gwendolen Reeves, la signora Stephen Reeves, G.M. Reeves. Se fosse vissuta in America si sarebbe chiamata Gwendolen Chawcer Reeves, mentre in qualche altro paese europeo sarebbe stata la signora del dottor Stephen Reeves. Per dirla col gergo della servitù, lui la corteggiava. Ne era sicura. Quale sarebbe stato il passo successivo? Un invito a uscire, avrebbe con tutta probabilità risposto sua madre. Posso avere il piacere di invitarla una sera a teatro, signorina Chawcer? Le piace andare al cinema? Posso chiamarla Gwendolen? Ma sua madre non parlò più. Era costantemente sotto l'effetto della morfina. Stephen Reeves veniva ogni giorno e si fermava sempre a prendere il tè con lei. Un pomeriggio, tra un dolce e l'altro, la chiamò Gwendolen e le chiese di chiamarlo Stephen. Il professore rientrava giusto in tempo per tenere d'occhio la figlia, proprio mentre erano alle prese con qualche pan di spagna, e lei notò che in presenza di suo padre il dottor Reeves tornava al più formale signorina Chawcer. Emise un lieve sospiro. Era trascorso mezzo secolo da quei giorni, e a-
desso per il tè non aspettava il dottor Reeves ma Olive e sua nipote. Non le aveva invitate lei, non l'avrebbe mai fatto. Si erano invitate da sole. Era stanca, anche della compagnia di Olive, e si rammaricò di non aver detto di no. E mentre se ne rammaricava salì nella stanza da letto che era stata di sua madre, la stessa dove era morta, non quella in cui aveva provato le combinazioni dei nomi, e indossò un abito di velluto azzurro con un merletto sulla scollatura, un modello con una sorta di gilè. Mise anche una collana di perle e s'appuntò una spilla raffigurante la fenice che sorge dalle ceneri, poi infilò l'anello di fidanzamento della madre all'anulare destro. Lo portava sempre, e la sera lo riponeva nel portagioie di vetro e argento cesellato, anch'esso della madre. La nipote non venne. Olive si presentò con un cane, un barboncino bianco con le zampette simili ai piedi di un ballerino. Gwendolen ci rimase male, benché se lo aspettasse. Era già accaduto. Il cane aveva in bocca un giocattolo, proprio come un bambino, un osso di plastica bianco che sembrava vero. Olive accettò due porzioni del fagottino e una gran quantità di biscotti senza mai smettere di parlare della pronipote, mentre Gwendolen considerava tra sé che per fortuna non era venuta anche la nipote, altrimenti sarebbero state in due a parlare di quella ragazza ideale, dei suoi successi, del suo patrimonio, la magnifica casa che possedeva e la devozione filiale che la contraddistingueva. In realtà aveva sprecato un giorno. Avrebbe preferito essere sola, a ricordare Stephen - magari ripromettendosi di... Olive indossava un tailleur pantalone d'un verde smeraldo vivace e una gran quantità di gioielli in oro falso. Com'era kitsch, pensò Gwendolen. Olive era troppo vecchia e troppo grassa per portare pantaloni o vestiti di quel colore. Andava fiera delle sue unghie, che aveva laccato d'un rosso scarlatto dello stesso colore del rossetto. Gwendolen si mise a fissare labbra e unghie con lo sguardo critico e beffardo d'una giovinetta. Spesso si chiedeva perché frequentasse quelle amiche pur avendole in uggia e non desiderando la loro compagnia. «A quattordici anni la mia pronipote era già alta un metro e settantotto» stava raccontando Olive. «A quel tempo mio marito era ancora vivo. 'Se diventi ancora più alta,' le diceva, 'non troverai un ragazzo. I maschietti non escono con le ragazze più alte di loro'. E come credi che andò? A diciassette anni, quand'era alta un metro e ottantatré, incontrò quel mediatore di borsa. Lui sognava di diventare attore, ma era alto uno e novantotto, troppo per fare teatro, così cominciò a lavorare con i titoli e ha costruito una fortuna. Erano proprio una bella coppia. Lui la voleva sposare, ma lei
pensava alla carriera.» «Interessante» rispose Gwendolen, ripensando al dottor Reeves che una volta le aveva detto che era molto carina e che gli piaceva molto. «Oggigiorno le ragazze non sono costrette a sposarsi come ai nostri tempi.» Sembrava aver dimenticato che Gwendolen era signorina, e continuò avventatamente: «Non hanno paura di rimanere zitelle. L'istituzione del matrimonio ha perduto il suo status sociale. Mi rendo conto che è impudente quanto sto per dire, ma se tornassi giovane non mi sposerei. E tu?» «Io non l'ho mai fatto» replicò Gwendolen austera. «Ah, hai ragione» ribatté Olive, come a fugare gli eventuali dubbi di Gwendolen in proposito. «Forse hai fatto bene.» Ma avrei sposato Stephen Reeves se lui me l'avesse chiesto, pensò Gwendolen dopo che Olive fu andata via, mentre sciacquava le tazze. Saremmo stati felici, l'avrei reso felice e mi sarei allontanata da papà. Ma non glielo aveva mai chiesto. Una volta le aveva confessato che gli piaceva, il padre era nei paraggi ma non poteva averlo sentito. Quando la madre venne a mancare Stephen stilò il certificato di morte e li informò che se volevano far cremare il corpo c'era bisogno della firma di un altro medico, così si rivolse a un collega. Non le accennò al piacere che aveva provato durante tutti quei tè presi insieme, né le disse di avere nostalgia di quei momenti o di lei. Per questo era persuasa che sarebbe tornato. Forse esistevano delle regole di comportamento per cui un medico non poteva chiedere ai familiari di un paziente di uscire insieme. Magari aveva in mente di tornare dopo il funerale. O forse si sarebbe presentato alle esequie. Gwendolen si dolse a lungo per non averlo invitato alla cerimonia. Ma forse anche quella era una questione di deontologia professionale. Non poteva chiederlo al padre. Erano troppo affranti per parlare di argomenti così futili. Il dottor Reeves non andò al funerale. La cerimonia funebre si tenne nella chiesa di St Mark's, e a parte lei e il padre erano presenti solo altre tre persone: un vecchio cugino della signora Chawcer, la domestica, che partecipò alla funzione perché era estremamente devota, e un vicino, un anziano signore che abitava a St Blaise Avenue. Non avendolo visto, Gwendolen si era convinta che un giorno o l'altro il dottor Reeves si sarebbe presentato a casa. Probabilmente non voleva essere inopportuno. Per tutta quella settimana si preoccupò del suo aspetto come non le era mai capitato in precedenza, né le capitò più dopo di allora, investendo tempo e denaro
per apparire più bella. Andò dal parrucchiere, comperò due vestiti nuovi, uno grigio e l'altro blu scuro, fece i primi esperimenti con il trucco. Lo portavano tutte le donne, anche in maniera pesante, soprattutto sulle labbra e sugli occhi. Per la prima volta in vita sua mise il rossetto, di un rosso vivo, fin quando il padre non le chiese se avesse baciato un carro dei pompieri. Il dottor Reeves non tornò mai più. 4 Per la terza volta in quella settimana Mix sedeva nella sua automobile in Campden Hill Square, con i finestrini chiusi e il motore acceso per godere dell'aria condizionata. Era una giornata calda e stava diventando sempre più afosa. Si sentiva come un malintenzionato sulle tracce della sua vittima, e la cosa non gli piaceva per niente, anche perché gli ricordava Javy. A dodici anni Javy lo aveva sorpreso con il binocolo del fratello maggiore, e lo aveva picchiato accusandolo di essere un guardone. Inutile giustificarsi dicendo che non stava sbirciando la vicina di casa ma il motorino nuovo parcheggiato accanto al marciapiede. Dimentica questa storia, si esortò, cancellala dalla mente. Se lo ripeteva ogniqualvolta gli tornavano in mente la madre, Javy e la vita che conduceva quando viveva in famiglia, ma non c'era mai riuscito. Avrebbe voluto ingannare il tempo con Le vittime di Christie, ma rischiava di immergersi troppo nella lettura e di farsela scappare. Era lì già da mezz'ora, in attesa che lei uscisse di casa, gli occhi fissi sulla porta d'ingresso o sulla Jaguar parcheggiata nel vialetto. Naturalmente l'aveva già vista altre volte, in compagnia di qualcuno, vestita con uno di quei tubini semitrasparenti che le piacevano tanto, sotto uno scialle di pelliccia o una giacca in denim con lustrini ricamati, o anche in jeans attillati e scarpe col tacco alto che le conferivano un'andatura affettata. In quelle occasioni s'era subito infilata nella limousine con l'autista. Da un momento all'altro sarebbe comparso un vigile intimandogli di andare via. Sarebbe stato utile avere un cliente a Campden Hill Square, ma non ce n'erano. A giudicare dai giovanotti abbronzati con i muscoli tatuati, le persone che abitavano in quella zona dovevano avere degli istruttori personali. Si stava chiedendo se non fosse inutile rimanere lì, dato che aveva diversi interventi da effettuare prima di pranzo, quando una donna con un cane bussò al finestrino. Aveva una sigaretta in mano e il cane, non più grande di un bambolotto,
portava un collare rosso da cui pendeva una targhetta ornata di pietre luccicanti. Se la passavano tutti bene, da quelle parti. «Senta,» gli disse, con una voce simile a quella di Colette GilbertBamber «non può restare qui con il motore acceso. Sta inquinando l'aria.» «E lei, con quella sigaretta?» Già nervoso per l'attesa, quel tono di voce aveva finito per esasperarlo. «Perché non va al diavolo e non mette il guinzaglio a quel cagnaccio?» La donna replicò qualcosa del tipo 'come osa?' e si allontanò stizzita, lasciando cadere in terra la cenere della sigaretta. Era sul punto di mollare quando Nerissa uscì di casa e si infilò in macchina. Aveva indosso un top rosa senza maniche e jeans bianchi, i capelli legati alti con un nastrino di seta anch'essa rosa. A Mix parve più bella che mai, anche con quegli occhiali a specchio che le nascondevano il viso. L'abbigliamento sportivo le donava particolarmente. D'altronde, c'era forse qualcosa che non le stesse bene? Doveva seguirla, anche se rischiava di fare tardi all'appuntamento che aveva fissato per mezzogiorno in Addison Road. Avrebbe chiamato la cliente pregandola di aspettarlo. Nerissa passò per Notting Hill Gate e voltò in direzione di Portobello Road senza imboccarla, proseguendo per Westbourne Grove. Una volta tanto non c'era troppo traffico, così poté seguirla facilmente. I lavori stradali li costrinsero a rallentare; la vide sporgere la testa fuori dal finestrino per accertarsi di cosa ingombrava la strada. Alla fine superarono l'ostacolo, sfilando lungo gli spartitraffico. All'improvviso, senza mettere la freccia, svoltò in una traversa laterale e andò a posteggiare in un parcheggio a pagamento. Inserì le monete, ritirò il biglietto e si diresse verso una porta con un'insegna a grosse lettere cromate: Charing Terrace n. 13, Shoshana's Beauty Center and Health Club. Intento com'era a seguire i suoi movimenti, aveva bloccato il traffico. Dietro di lui si levò un coro di clacson e di urla irose, che lo costrinsero a muoversi. Arrivò con dieci minuti di ritardo all'appuntamento in Addison Road. Mentre gli faceva strada intorno al villino e giù nello scantinato, la cliente gli tenne una predica sull'importanza della puntualità, trattandolo quasi come un suo dipendente. Era sul punto di dirle che, a suo parere, il guasto all'attrezzo per lo step era dovuto alla mancanza d'uso piuttosto che al logorio, e la cosa non lo sorprendeva certo a giudicare dalla taglia della signora. Ma si astenne dal farlo. Lei aveva ordinato un'ellittica alla Fiterama Accessori, e non poteva permettersi di essere sgarbato con lei, rischiando che ritirasse l'ordine.
Del resto, ora che aveva scoperto in quale palestra andava Nerissa queste erano cose di poco conto. Il civico, però, lo preoccupava. Tra le paure e le convinzioni arcane che aveva, la superstizione occupava un posto di rilievo, in particolare se si trattava di passare sotto una scala o imbattersi nel numero tredici. Se ne teneva sempre alla larga, per quanto poteva. Non rammentava quando fosse cominciata quella fobia, o di qualunque cosa si trattasse. Comunque, Javy, che la madre aveva sposato il giorno tredici, era nato il tredici di aprile. Probabilmente anche il giorno che l'aveva picchiato sin quasi a ucciderlo era caduto di tredici, ma Mix era troppo piccolo per ricordarlo o per farci caso. Il Cockattoodle Club a Soho era surriscaldato; nell'aria aleggiava un miscuglio di fumo e di curry verde Thai, e per giunta non era nemmeno troppo pulito. O per lo meno questa era l'opinione dell'amica che Steph, la fidanzata di Ed, si era portata dietro per lui. Ed era suo amico e collega alla Fiterama, Steph la ragazza con cui conviveva. L'altra ragazza continuava a far scivolare un dito lungo le gambe della sedia e sotto il tavolo, mostrando a tutti la polvere. «Mi ricordi mia nonna» disse Steph. «Un posto dove si mangia dovrebbe essere pulito.» «Mangiare! Magari potessi. Sono più di tre quarti d'ora che abbiamo ordinato quegli scampi.» Lara, così si chiamava l'amica, era affetta da raffreddore da fieno o qualcosa di simile che la costringeva a tirare su col naso in continuazione. Riportò in superficie il dito-spolverino che aveva passato sotto il tavolo. Steph si accese una sigaretta. Mix, a cui non piaceva la gente che fuma, ne aveva contate già sette da quando erano lì. Il volume troppo alto della musica hip-hop rendeva ardua la conversazione, e per farsi sentire bisognava gridare. Mix si mise a pensare ai polmoni danneggiati di Steph, immaginandosi gli alveoli rinsecchiti dal fumo. Nel momento in cui apparve la cameriera, con gli scampi aromatizzati al curry ordinati dalle ragazze e carne tritata con purè di patate per gli uomini, il dito esploratore di Lara toccò il suo ginocchio, ritraendosi di scatto come se lui l'avesse punta. Si scambiarono uno sguardo indignato. Tra il baccano, quella terribile ragazza e il piatto di carne che sembrava affogato nel curry verde, Mix non vedeva l'ora di tornare a casa. Ormai non aveva più l'età per quelle cose. Lara ebbe da ridire sui vestiti della cameriera, che a suo dire erano oltraggiosi per le clienti donne.
«Perché? Sta benissimo. La gonna mi piace molto.» «Ne ero certa, Ed. È proprio questo il punto. A mio parere è più una cintura che una gonna.» «Non ho chiesto il tuo parere» gridò Ed più forte che poté. «E quanto all'oltraggio di cui parli, sto solo guardando, mica me la devo scopare.» «Però ti piacerebbe.» «Oh, finiscila» intervenne Steph, prendendo affettuosamente la mano di Ed tra le sue. Non si stavano divertendo, eppure restarono. Ed ordinò una bottiglia di champagne Moravian e cercò di farsi un ballo con Steph, ma la minuscola pista era talmente ingombra di gente che non ci si poteva neppure muovere. Lara ricominciò a tirare su col naso, e dovette ricorrere a un fazzolettino di carta. Andarono via alle due. Prima di quell'ora sarebbe parso a tutti di lasciare il locale troppo presto. Mix si lasciò andare a una delle sue fantasie, questa volta alquanto maligna, nella quale lui dava un passaggio a Lara, ma invece di accompagnarla a casa a Palmer Green - a quell'ora di notte non era poi così distante da Notting Dale - la portava a Victoria Park o a London Fields, la scaraventava fuori dalla macchina e lasciava che tornasse a piedi, nella speranza che diventasse facile preda di qualche maniaco omicida presumibilmente in giro da quelle parti. Reggie, pensò, Reggie avrebbe saputo come fare. Procedevano in silenzio verso Hornsey, Mix fantasticando di Reggie che attirava la ragazza a Rillington Place con la scusa di un rimedio per curare il raffreddore da fieno con un inalatore, che invece avrebbe usato per asfissiarla. L'avrebbe fatta sedere su una sedia a sdraio, un po' di cloroformio e... «Perché sei stato così scortese?» gli chiese dopo che ebbe aperto lo sportello della macchina augurandole algido la buona notte. Mix voltò la testa senza rispondere. Lei si avviò verso la porta di casa, al civico tredici - non poteva essere altrimenti -, entrò e sbatté la porta dietro di sé. In quell'edificio dovevano esserci almeno altri dieci inquilini, che senza dubbio furono svegliati da quel boato. Rientrando in macchina Mix ebbe l'impressione che tutto il posto stesse ancora rintronando. La notte era gelida, e sui parabrezza delle automobili parcheggiate c'era uno strato di brina. Non conosceva bene la zona, sbagliò strada, e dopo quelle che gli parvero delle ore si ritrovò alle spalle della stazione di King Cross. Nessun problema. Avrebbe preso Marylebone Road e il viadotto. Lì c'era traffico anche di notte ma le strade secondarie erano deserte, illumi-
nate da lampioni che invece di farle apparire più sicure conferivano loro un'atmosfera di desolazione: davano l'impressione di essere più pericolose così che se fossero state immerse nell'oscurità. Dovette percorrere su e giù St Blaise Avenue un paio di volte prima di trovare un parcheggio libero riservato ai residenti. Se avesse lasciato l'auto sulle strisce gialle sarebbe dovuto uscire prima delle otto e mezzo per spostarla. A quell'ora della notte le strade erano ingombre di automobili parcheggiate, ma in giro non si vedeva un'anima. Sotto il portico, tra i pilastri, era talmente buio che gli ci volle un po' prima di trovare la serratura. Il grosso specchio dell'ingresso rifletté la sua immagine, irriconoscibile nell'oscurità. Le luci della scala erano temporizzate e, aveva calcolato, si spegnevano dopo una quindicina di secondi. Le lampadine dell'ingresso e sulle rampe avevano un voltaggio basso, e gli angoli erano immersi nelle tenebre. Cominciò a salire, maledicendo quella scalinata interminabile. Era esausto, senza una ragione. Forse quella spossatezza era dovuta allo stress per aver seguito Nerissa e aver scoperto dove andava, o forse era colpa di quella Lara, così diversa da Nerissa. Si trascinò sulle gambe, poi avvertì un dolore ai polpacci. Sul pianerottolo dopo la prima rampa, davanti alla poderosa porta in legno di quercia della stanza dove dormiva la signorina Chawcer, nei profondi recessi di quella casa, le luci erano ancor più deboli e duravano anche meno. Non gli riusciva di scorgere la cima delle scale, immersa com'era in una fitta tenebra. Quegli ambienti erano così ampi e i soffitti talmente alti che davano i brividi anche in pieno giorno. Di notte i fiori e i frutti incisi nel legno sembravano dei doccioni, e in quel silenzio gli pareva che dagli angoli più bui provenissero dei sospiri sommessi. Affrontò lentamente l'ultima rampa, perché come al solito aveva il fiato corto. Come avviene in situazioni del genere, si mise a pensare agli spiriti, nella cui esistenza era propenso a credere. Quando si trovava di fronte a qualche dimora molto antica, si faceva coraggio ripetendosi che tutte quelle storie sui fantasmi erano solo fandonie, ma in abitazioni come quelle non avrebbe trascorso una notte per nessun motivo al mondo. Non era facile togliersi l'abitudine di contare i gradini di quell'ultima rampa, per arrivare a dodici o a quattordici. Lo faceva in modo automatico, non appena si accendeva la luce sul pianerottolo. Era giunto appena a tre quando, nel fioco chiarore della lampadina, in cima alle scale gli parve di scorgere una figura umana. Aveva le sembianze di un uomo piuttosto alto, e sul grosso naso le lenti degli occhiali riflettevano la luce colorata proveniente dalla finestra Isabella.
Involontariamente emise uno stridulo piagnucolio, come quei suoni articolati in un incubo, quando siamo convinti di gridare con tutto il fiato che abbiamo in gola. Nello stesso istante, chiuse gli occhi. Rimase immobile, con un braccio proteso, finché da dietro le palpebre non percepì che le luci si erano di nuovo spente. Scese all'indietro i gradini, riaccese le luci, spalancò gli occhi e guardò su. La figura era scomparsa. Sempre che vi fosse mai stata. No, se l'era immaginata. Eppure dovette ricorrere a tutto il suo coraggio per continuare a salire e lasciarsi alle spalle il punto in cui aveva intravisto quel sembiante dall'aspetto umano, tra le macchie di luce di Isabella, per poi rifugiarsi nel suo appartamento. I terrori notturni svanirono alle prime luci del giorno. Era sabato, e Mix rimase a poltrire a letto nel calore soffocante della stanza surriscaldata, osservando uno stormo di piccioni, un airone solitario che volava basso e nuvole sfilacciate nel cielo azzurro. Adesso era convinto che quella figura era stata il frutto di un'allucinazione, o di un riflesso di luci creato dalla vetrata. Il buio e l'alcol fanno dei brutti scherzi. Aveva bevuto più del solito, e la casa al numero tredici dove aveva accompagnato quella tipa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Si alzò per preparare il tè e se lo portò a letto; guardando giù dalla finestra scorse in lontananza Otto, una sagoma color cioccolato scuro acquattata sulle mura sgretolate da cui sporgevano alberi decrepiti, e sulle quali era poggiata una vecchia grata. Nella zona altrettanto incolta sul limitare del giardino c'erano delle faraone con le penne grigie che sgambettavano indisturbate tra rovi ed erbacce. Otto era capace di rimanere ore intere a scrutare quegli animali, studiando il modo per catturarli e divorarli. Mix aveva osservato spesso il gatto, non perché gli piacesse ma nella speranza di assistere alla caccia e all'uccisione. Era convinto che fosse illegale tenere quegli uccelli, ma nessuno aveva mai avvertito le autorità. Da un cassetto tirò fuori l'album con i ritagli e le foto di Nerissa e se lo portò a letto. Un mattino così luminoso sarebbe stato l'ideale per scattare qualche istantanea alla casa dove lei abitava e alla palestra. Senza contare che così avrebbe avuto la possibilità di rivederla. Mentre passava in rassegna le pagine con le fotografie e i ritagli, cominciò a fantasticare sul modo per avvicinarla. Parlarle e ricordarle del loro incontro. L'ideale sarebbe stato capitare a una festa dove era stata invitata anche lei. Gli si insinuò la preoccupazione fastidiosa che lo avesse notato davanti casa, e che si fosse
accorta che l'aveva seguita. Avrebbe dovuto fare più attenzione. Sarebbe riuscito a convincere Colette Gilbert-Bamber a dare una festa? O meglio, a invitarlo se l'avesse fatta? Non aveva mai incontrato il manto; non l'aveva visto nemmeno in foto: era un perfetto sconosciuto. Forse detestava i ricevimenti, o tollerava solo quelli formali, con uomini d'affari, gente che beve prosecco e acqua minerale e parla di titoli di stato e mercati al ribasso. E se anche Colette avesse organizzato la festa, avrebbe avuto l'audacia di invitare Nerissa a uscire con lui? L'avrebbe portata in qualche luogo fantastico, per questo aveva già cominciato a mettere del denaro da parte, e una volta che lo avessero visto in compagnia di lei - per dire, tre volte di seguito - sarebbero cominciati a fioccare le proposte dalla TV, le richieste di interviste, gli inviti alle prime. Doveva provarle tutte. Quella mattina stessa avrebbe chiamato la palestra per chiedere informazioni sull'iscrizione. E se avesse scoperto chi era il suo guru, l'indovino o roba del genere? Sarebbe stato più semplice della festa. Sapeva che lei frequentava una persona del genere. L'aveva letto sui giornali. Per prendere appuntamenti di quel tipo non c'è bisogno dell'invito. Basta presentarsi e pagare. Non sarebbe stato difficile scoprire quando Nerissa aveva un appuntamento, e avrebbe trovato il modo di farsene fissare uno subito prima o subito dopo di lei. Inoltre, non sarebbe stato soltanto un pretesto, un semplice stratagemma. Infatti, non gli sarebbe dispiaciuto incontrare un esperto del sovrannaturale per chiedergli se spiriti e fantasmi esistono davvero o sono un parto della fantasia. Un guru o un medium avrebbe saputo dargli la risposta. Finì di bere il tè, mise da parte l'album con i ritagli e si costrinse a fissare la sua immagine riflessa nel lungo specchio verticale con la cornice in acciaio inossidabile. Chiuse e riaprì gli occhi. Là! - macché, non c'era niente e nessuno dietro di lui. Che idea folle. Nudo davanti allo specchio, dovette ammettere che doveva darsi da fare per migliorare il suo aspetto fisico. Per il lavoro che faceva e le ambizioni che nutriva avrebbe dovuto esibire un corpo perfetto, un torace ampio, fianchi snelli e un sedere piccolo e sodo. Un tempo era stato proprio così - avrebbe avuto di nuovo un fisico simile, poteva scommetterci. Doveva bandire dalla sua dieta tutte quelle patatine fritte e quelle barrette di cioccolata. Il viso andava bene. Era un uomo di bell'aspetto, o perlomeno così lo trovavano Colette e le altre, dai lineamenti regolari, gli occhi schietti d'un azzurro uniforme. Piaceva quel volto fine, i capelli castano chiari striati di biondo, ma la carnagione era troppo pallida. Lei era certo abituata a frequentare uomini dal fisico perfet-
to e dalla pelle abbronzata. La soluzione era la palestra e il solarium all'angolo. Non riusciva a vedersi la schiena, ma sapeva che le cicatrici erano scomparse. Peccato, però. Aveva continuato a coltivare una sua fantasticheria: aveva la schiena ancora sanguinante e mostrava a qualcuno - alla polizia, ai servizi sociali - quello che gli aveva fatto Javy, per vederlo trascinato in gattabuia con le manette ai polsi. O anche ucciderlo con le sue mani. Nei primi cinque anni di vita Mix era stato l'angioletto della mamma. Era figlio unico e il padre era andato via di casa quando lui aveva sei mesi, senza aver sposato la donna da cui aveva avuto il bambino. Lei aveva appena diciotto anni, e adorava il piccolo. Ma quel rapporto esclusivo cessò quando conobbe James Victor Calthorpe; ne rimase incinta e lo sposò quando Mix aveva cinque anni. Javy, come lo chiamavano tutti, era un bel ragazzo, robusto e scuro di carnagione. Nei primi tempi non sembrava fare molto caso al bambino, se non per mollargli qualche ceffone, e a Mix sembrava sempre di essere il cocco della mamma. Ma poi nacque Shannon, una pupetta con gli occhi e i capelli scuri. Mix non ricordava di aver nutrito particolare animosità nei confronti della sorellina, o che la madre avesse riversato tutte le sue attenzioni su di lei, ma lo psichiatra da cui lo mandarono qualche anno più tardi diagnosticò che era quella l'origine dei suoi problemi. Il piccolo Mix subì il contraccolpo. Era quella la ragione per cui aveva cercato di uccidere Shannon. Mix non aveva conservato memoria di quell'evento; non rammentava di aver scagliato la bottiglietta del ketchup contro di lei. La bottiglia andò a finire nella culla, ma non la colpì. Non si ricordava di Javy che accorreva nella stanza, ma non poteva dimenticare le botte che gli diede. E, soprattutto, sua madre che assisteva senza intervenire. Il patrigno si era sfilato la cinta dai pantaloni, gli aveva sollevato la maglietta e l'aveva percosso fino a farlo sanguinare. Fu l'unica volta, anche se Javy non perdeva occasione di mollargli qualche ceffone ogniqualvolta non rigava dritto. Psichiatra a parte, era stato Javy a dirgli che aveva tentato di uccidere Shannon. Glielo ripeteva in continuazione. In seguito andò sempre d'accordo con Shannon e con Terry, il fratellino che nacque un anno dopo, ma se Javy lo beccava a litigare con la sorellastra o a prenderle qualche giocattolo attaccava con la solita solfa, accusandolo di aver tentato di ucciderla. «A quest'ora saresti morta» diceva alla figlia «se non avessi fermato questo piccolo assassino.» E rivolto all'altro figlio: «Guardati da lui, ti può
far fuori da un momento all'altro.» A volte pensava che uccidere il patrigno per vendetta l'avrebbe reso celebre. Ma Javy aveva abbandonato la famiglia quando lui aveva quattordici anni. La madre di Mix s'era messa a piangere e a singhiozzare al punto di farsi venire una crisi isterica, finché lui non l'aveva presa a schiaffi. «Adesso ti faccio piangere io» le urlò in preda all'ira. «Sei rimasta a vedere come mi picchiava.» Per questo lo portarono dallo psichiatra. La diagnosi che colse di sfuggita da un assistente sociale fu 'soggetto con manifesta predisposizione alla violenza familiare'. La madre era in vita, ancora sotto i cinquanta, ma da allora non la rivide più. Il sabato si poteva parcheggiare liberamente a Westbourne Park Road. Casualmente trovò libero lo stesso posto dove Nerissa aveva fermato la sua auto il giorno prima. Era sufficientemente cotto perché una simile coincidenza lo eccitasse, proprio come se avesse toccato un oggetto già sfiorato da lei, o appena letto qualcosa che la riguardasse. Si avvicinò e suonò al primo campanello in basso. La porta si aprì rumorosamente, svelando un vestibolo alquanto squallido da cui promanava un odore di incenso, una scalinata stretta e ripida e un ascensore nuovo dall'aspetto elegante, tutto vetro e acciaio come lo specchio che aveva in camera da letto. Lo prese per un paio di piani e si ritrovò in un ambiente che, con suo sollievo, era come l'ascensore, elegante, pulito e scintillante. Al termine del corridoio si aprivano delle porte, su una delle quali c'era una targhetta: Riflessologia Massaggi Podologia. La palestra era piena di giovani alle prese con tapis roulant, simulatori di sci e cyclette. Attraverso una finestra panoramica intravide ragazze in bikini e uomini che le osservavano come avrebbe fatto lui, in piedi o seduti sul bordo di un'ampia vasca idromassaggio. Una ragazza magra e scura in body e giacca bianca aperta gli chiese cosa desiderasse. Mix ebbe un'idea. Le spiegò di cosa si occupava, chiedendole se per caso avessero bisogno di uno specialista per gli interventi e la manutenzione degli attrezzi ginnici. La ditta per cui lavorava avrebbe gradito avere il centro Shoshana tra i suoi clienti. «La sua richiesta capita a proposito» rispose la ragazza. «Il tipo che se ne occupava ci ha lasciato proprio ieri.» «Credo si possa trovare un accordo» prese la palla al balzo Mix. Si informò sulle tariffe applicate dal precedente tecnico e la risposta fu incoraggiante. Era in grado di offrire condizioni più vantaggiose. E cominciò
audacemente a pensare di prendere quel lavoro per sé, cosa assolutamente proibita dalla ditta per cui lavorava. Ma come avrebbero potuto scoprirlo? «Dovrò chiederlo alla signora Shoshana.» La ragazza aveva una voce incerta, gli occhietti lucenti e saettanti di un topolino. «Mi può telefonare più tardi?» «Certamente. Qual è il suo nome?» «Danila.» «Non è un nome comune.» Doveva avere sui sedici anni. «Sono originaria della Bosnia. Ma sono venuta qui da bambina.» «Bosnia, giusto.» C'era stata una guerra da quelle parti, pensò distrattamente, negli anni Novanta. «Per un momento ho temuto che volesse iscriversi» proseguì Danila. «Abbiamo una lista d'attesa lunghissima. La maggior parte dei nostri clienti non viene più di quattro volte - questa è la media, quattro volte - ma hanno la tessera, no? Sono iscritti.» A Mix interessava solo una cliente. «La chiamerò più tardi» promise. E se Nerissa era lì? Attraversò la corsia tra i macchinari. Su ognuno, in alto, era appeso un piccolo televisore che trasmetteva un quiz o un vecchio cartone animato di Tom e Jerry. La maggior parte delle persone seguiva il cartone animato mentre pompava o pedalava. Non c'era. Non aveva bisogno di cercare oltre: Nerissa risaltava tra gli altri come un angelo all'inferno o una rosa in una fogna. Le sue gambe slanciate, il corpo da gazzella e i capelli corvini avrebbero fatto scalpore in quel posto. Stava prendendo in considerazione l'idea di andare al cinema, e poi a bere qualcosa in compagnia di Ed al Kensington Park Hotel, il pub frequentato da Reggie, che Mix chiamava KPH, quando gli tornò in mente l'immagine che aveva creduto di scorgere sulle scale. E se non fosse stata un'allucinazione, bensì un vero fantasma? Magari Reggie? Cioè, il suo spettro. Il suo spirito, condannato a vagare nel quartiere dov'era vissuto. Mix sapeva che Reggie non somigliava per niente a Richard Attenborough; e neanche a lui, quanto a quello. C'erano un sacco di fotografie nei libri dedicati alla sua vicenda. Quando cercò di evocare la figura che aveva creduto di vedere, si spaventò a morte. D'altra parte, non gli era possibile. Sapeva solo che si trattava di un uomo, non troppo giovane, che forse portava gli occhiali. Be', quelli non avrebbe potuto immaginarseli, no? Non potevano essere frutto di una fantasia. Non era inverosimile che Reggie fosse stato a St Blaise House, da vivo.
Perché no? La signorina Chawcer gli era scappata, ma poteva averla seguita. Mix, che conosceva a fondo i dettagli della vita di Reggie da quando si era trasferito a Notting Hill, si immaginò la donna che si recava a Rillington Place, così com'era adesso, per abortire, ma aveva paura e fuggiva via. Per sua fortuna. Reggie aveva forse cercato di convincerla a praticare l'aborto in casa sua? No, avrebbe dovuto liberarsi del corpo. C'era andato per convincerla a tornare da lui... Esistevano, dunque, i fantasmi? E in questo caso, era lo spettro dell'assassino quello che gli era apparso? Perché era tornato? E perché lì e non a Rillington Place, dove aveva sepolto così tanti cadaveri? Be', la risposta a quest'ultima domanda era ovvia. Non avrebbe certo riconosciuto il posto, dopo lo scempio che avevano fatto, la sua abitazione vittoriana a tre piani e tutte le altre abitazioni simili rase al suolo. Quella schiera di palazzine eleganti, gli alberi e quella certa allegra atmosfera lo avrebbero dissuaso dal tornare, se anche avesse voluto. Sarebbe potuto andare in quel posto a Oxford Gardens dove Ruth Fuerst, la sua prima vittima, aveva una stanza. La tibia della ragazza era stata trovata appoggiata al recinto del giardino di Reggie. O anche a Putney, dove abitava la sua seconda vittima, Muriel Eady. Ma St Blaise House era più vicina, e soprattutto era rimasta così com'era. Gli avrebbe fatto piacere ritrovare una casa con lo stesso identico aspetto che aveva negli anni Quaranta e Cinquanta. Si sarebbe sentito a suo agio, oltre al fatto che doveva portare a termine un certo affare. Lei era vecchia, adesso; lui invece aveva la stessa età di quando l'avevano impiccato, e così sarebbe sempre rimasto. Era molto probabile che fosse tornato per prendere la vecchia Chawcer e portarla con sé, da qualsiasi luogo provenisse. Basta con questi pensieri, si impose mentre saliva i cinquantadue scalini, o ti spaventerai a morte. 5 Nella sua casa di Campden Hill Square, Nerissa Nash si stava preparando per andare a cena dai genitori. Se ci fosse stata solo la mamma, e il padre fuori per lavoro, avrebbe messo dei jeans, un paio di stivali e un vecchio pullover sotto il montone. Ma a suo padre, sempre così fiero di lei, piaceva vederla tutta in tiro. La vita che conduceva era distante anni luce da quella dei suoi genitori, che facevano fatica a comprenderla, ma di questo non era consapevole. Era convinta che chiunque, anche se non poteva permetterselo, desiderasse
condurre un'esistenza simile alla sua, legata alla cura del viso e del corpo, dei capelli - una chioma fluente, ma senza peli superflui -, e a vestiti, cosmetici, centri di bellezza, omeopatia, esercizi fisici, massaggi, acqua frizzante, insalata, integratori vitaminici, medicina alternativa, astrologia e predizioni, immagini e occupazioni di altre celebrità, mamma, papà, fratelli e sorelle. Sapeva ben poco di musica, nulla di pittura, libri, lirica, balletto, scoperte scientifiche e politica, né vi era interessata. Il suo lavoro di modella l'aveva portata nelle maggiori capitali del mondo, ma di quelle città aveva visto solo gli studi fotografici, gli spogliatoi degli stilisti, locali e palestre, le anticamere dei massaggiatori e il proprio viso riflesso negli specchi dei truccatori. Tuttavia, si considerava una donna felice. Da entrambi i genitori aveva ereditato un carattere solare, la disposizione a godere delle cose semplici e un'indole gentile. Di lei dicevano che si sarebbe fatta in quattro per aiutare un amico. Trovava il modo di divertirsi in tutto ciò che faceva. In particolare, le piaceva sedere davanti all'enorme toletta a truccarsi, i lunghi capelli legati sulle spalle, con indosso la mantellina bianca di cotone sul tailleur pantalone di Versace, e ascoltare in sottofondo la sua canzone preferita, un pezzo di Johnny Cash che adorava perché piaceva tanto anche al padre, che parlava di una ragazza adolescente, la più carina di tutte, come di una regina, che lavorava in una pasticceria e amava il ragazzo della porta accanto. Sotto molti aspetti, Nerissa si identificava con quella prospera bellezza. Si sciolse i capelli, perché al padre piaceva così. Se fosse stato inverno avrebbe indossato la nuova pelliccia finta di volpe bianca. Pellicce vere non ne comprava: amava troppo gli animali. Il solo pensiero di una pelliccia vera le dava i brividi. No, era più indicato un capo leggero, di seta. Lasciò cadere la mantellina, trascinando via inavvertitamente il coperchio di un vasetto e tre orecchini. Cosa avrebbe portato ai genitori? Aveva lavorato tutto il giorno, senza trovare nemmeno il tempo di acquistare un pensierino. Ma non era un problema. Si mise a rovistare nella credenza, da dove saltarono fuori due bottiglie di champagne e un vasetto di bastoncini da cocktail, che rovesciò, spargendoli dappertutto. Trovò anche quell'enorme scatola di cioccolatini regalatale da Rodney - era un pensiero carino, ma doveva essere pazzo a pensare che lei ne avrebbe assaggiato anche uno solo. Come un tornado, lasciava un gran disordine dove passava; rovesciò persino i vasi con i fiori. Le riviste precipitarono dallo scaffale, un mucchio di fazzolettini si sparpagliò sul pavimento, le lampade sotto il tavolo
caddero, gli specchi si infransero e una miriade di piccoli gioielli si sparsero lucenti sui tappeti e sui davanzali. Ci avrebbe pensato Lynette, la ragazza che si occupava delle pulizie, a rimettere tutto in ordine - era ben pagata per quello. Quel giorno stesso, quando fosse entrata in casa, si sarebbe data subito da fare per sistemare quel macello, trovando anche il tempo di fermarsi ad ammirare anelli e boccette di profumi che Nerissa le avrebbe regalato se fosse stata lì con lei. Pioveva, un tipico temporale estivo. Nerissa indossò un impermeabile bianco lucido sul tubino di seta e scivolò in macchina con lo champagne, la scatola di cioccolatini e l'ombrello gocciolante - anch'esso bianco, con la riproduzione del lungomare di Nizza - scaraventando tutto sul sedile posteriore. Si fermò a Holland Park per comprare dei fiori alla mamma, parcheggiando la macchina sulla doppia linea gialla. Scelse delle orchidee, dei gigli, delle rose e uno strano fiore verde non meglio identificato, consigliatole dal fioraio. Come sempre, la fortuna era dalla sua. Il portiere era in casa, a guardare Casualty alla TV. Era in ritardo - e quando non lo era? - ma a papà non sarebbe importato. Lui preferiva cenare più verso le nove che non alle otto. I genitori vivevano ad Acton, in una strada piena di villini bifamiliari in stile finto Tudor, con un'altra stanza da letto sul garage. Nerissa era cresciuta lì, con i fratelli, in quel quartiere aveva frequentato le scuole, i cinema e i negozi. Aveva due fratelli più grandi di lei, entrambi sposati. Quando aveva cominciato a guadagnare bene, aveva pensato di comprare ai genitori una casa più vicina alla sua, magari un piccolo cottage in una zona alla moda come Pottery Lane, ma i suoi non ne avevano voluto sapere. Si trovavano bene ad Acton. Andavano d'accordo con i vicini e non avrebbero mai rinunciato al grande giardino. Tutti i loro conoscenti vivevano nei paraggi, e non avevano alcuna intenzione di muoversi da lì. Inoltre, il padre aveva fatto costruire tre laghetti nel giardino, uno davanti e due sul retro della casa, che aveva riempito di pesci rossi. Dove avrebbe mai potuto trovare tre laghetti, o anche uno solo, a Pottery Lane? Quella sera i pesci rossi apparivano particolarmente vivaci, come se si stessero godendo la pioggia. Le aprì il padre. Nerissa gli gettò le braccia al collo, poi abbracciò la madre e le offrì i regali, che come al solito furono accolti con grande gioia. Lei non beveva alcolici, solo acqua minerale, ma quella volta accettò di buon grado una grossa tazza di tè Yorkshire. In fondo era stanca di bere sempre e solo acqua, in qualunque occasione. La mamma annunciava la
cena sempre nello stesso modo, con pessimo accento francese. Cosa sarebbe dovuto accadere per farle perdere quella abitudine? «Mademoiselle est servie.» Pietanze così le mangiava solo dai suoi. Per il resto, a casa spiluccava pompelmi e cracker al riso giapponesi, o insalata al ristorante. Era un miracolo che il suo organismo riuscisse a superare lo shock di digerire una zuppa così densa, panini al burro, carne arrosto e patate, e cavolini di Bruxelles, senza risentirne. La madre era convinta che quella fosse la sua dieta quotidiana. «Mia figlia può mangiare quanto vuole senza mettere su nemmeno un etto» ripeteva spesso alle amiche. Quando arrivarono al dolce di mele e alla torta al gelato, Nerissa chiese alla madre notizie dei vicini. Si trattava di amici intimi, un po' come parenti. «Credo stiano bene» rispose la signora. «Li ho visti poco, ultimamente. So che Sheila ha cambiato lavoro e... oh, Bill ha ottenuto il nulla osta dall'ospedale.» «Bene» disse Nerissa, e poi, in tono cauto: «E il figlio? Vive ancora con loro?» «Darel?» intervenne il padre. «È un ragazzo simpatico, molto educato. Vive ancora con i genitori, ma Sheila mi ha detto che ha acquistato un appartamento a Docklands. Dice che è venuto il momento di andare a stare da solo.» Nerissa non era sicura se quella fosse una buona o una cattiva notizia. Ogni volta che cenava dai genitori sperava sempre che Darel Jones bussasse alla porta, per chiedere una bustina di tè o per restituire un libro. Non era mai accaduto, sebbene sua madre sostenesse che loro e la famiglia Jones erano molto intimi. Se lo figurava lì accanto, al di là della parete, a guardare la televisione con i genitori o forse in giro in compagnia di qualche ragazza. Cosa questa più probabile, per un giovane di ventotto anni avvenente e affascinante. Sospirò, quindi sorrise per mascherare la tristezza che l'aveva assalita. Gwendolen non aveva mai provato sensi di colpa. Era convinta di aver condotto un'esistenza irreprensibile, di un'integrità assoluta. Violare l'appartamento di un inquilino approfittando della sua assenza e ficcarci il naso lo considerava un diritto del padrone di casa, e se quell'occupazione si rivelava piacevole, tanto meglio. Gli unici inconvenienti erano la stanchez-
za e il fatto che tra una rampa e l'altra doveva fermarsi per riprendere fiato. Quanto beveva quell'uomo! Dall'ultima ispezione aveva trovato sei bottiglie vuote, una di gin, un'altra di vodka e quattro di vino. Era chiaro che mangiava spesso fuori: il frigo era semivuoto e puzzava di antisettico. Sul tavolino scorse un libro voluminoso rilegato in pelle. Le era praticamente impossibile resistere alla tentazione di aprire un libro. Dentro c'erano solo delle fotografie di una ragazza di colore con minigonne vertiginose o in costume da bagno. Forse era quello che si intendeva per pornografia; in realtà, non aveva mai compreso il significato di quella parola. Accanto al libro c'era una copia del Daily Telegraph del giorno precedente. Quel giornale le piaceva, e se avesse potuto permetterselo l'avrebbe acquistato ogni giorno. Il fatto che Cellini lo leggesse la sconcertava. Era più il tipo da giornale scandalistico; probabilmente quella copia gliela aveva data qualcuno. In effetti era stato Ed, perché vi compariva un articolo riguardante gli attrezzi ginnici, dove si citava la Fiterama. Così come per i libri, Gwendolen non poteva fare a meno di leggere qualunque cosa scritta le capitasse sotto gli occhi. La sua attenzione fu attratta dal titolo in prima pagina; quindi cominciò a sfogliare il giornale, riuscendo a leggere anche senza la lente d'ingrandimento. Quando arrivò alla rubrica delle nascite, matrimoni e necrologi, posò il giornale sul tavolo e si mise dietro la porta, in ascolto. Era raro che il suo inquilino rincasasse prima di sera, ma era meglio essere prudenti. Che ordine spaventoso! La divertiva pensare che, tra i due, era lui, con quella mania per la pulizia e quei modi pignoli, a essere più simile a una vecchia signora, mentre lei, così raffinata e sofisticata, somigliava più a un uomo. Non aveva mai provato alcun interesse per i matrimoni e le nascite; tuttavia gettò l'occhio - o si costrinse a farlo, a dire il vero - sui necrologi. Non c'erano più le tempre robuste di un tempo, e ogni giorno se ne andavano molte persone ben più giovani di lei. Anderson, Arbuthnot, Beresford, Brewster, Brown, Carstairs - aveva conosciuto una signora Carstairs che abitava in fondo alla strada, ma non si trattava di lei, perché quella si chiamava Diana, non Madeleine. Davis, Edwards, Egan, Fitch, Graham, Kureishi. C'erano tre Nolan, un nome alquanto bizzarro, tutt'altro che comune. Palmer, Pritchard, Rawlings, Reeves - Reeves! Che straordinaria coincidenza. Erano mesi che non leggeva il Telegraph, e cosa ci andava a trovare? Il necrologio della moglie. Perché certamente si trattava di sua moglie.
Il 15 giugno si è spenta nella sua casa di Woodstock, Oxon, Eileen Margaret, di 78 anni, moglie adorata del dottor Stephen Reeves. La cerimonia funebre si terrà il 21 giugno presso la chiesa di St Bede, a Woodstock. Si prega di astenersi dai fiori. Sono gradite offerte da destinare alla ricerca contro il cancro. Fu uno sforzo notevole decifrare quei caratteri così piccoli, ma sul loro significato non ebbe alcun dubbio. Se avesse ritagliato quel necrologio, Cellini se ne sarebbe accorto? Probabilmente, ma cosa avrebbe potuto farci? Doveva procurarsi delle forbici. Le sue le teneva in un armadietto nel bagno o dentro il forno - le usava di rado - o da qualche parte sulla libreria, ma un tipo pignolo come quello le riponeva sicuramente in qualche cassetto insieme ad altri utensili di cucina come uno sbucciapatate e un apribottiglie. Doveva esser pieno di utensili del genere. Si mise a rovistare in cucina, incuriosita dal forno a microonde, di cui ignorava il funzionamento. Serviva a fare i toast o era una radio? Somigliava anche a una lavatrice in miniatura. Trovò le forbici proprio dove aveva supposto che fossero e ritagliò il necrologio. Giù da lei avrebbe potuto studiarlo a suo piacimento, con l'ausilio della lente d'ingrandimento. Fece giusto in tempo. Stava scendendo l'ultima rampa, quando lui entrò. «Buona sera, signor Cellini.» «'sera a lei» rispose Mix, figurandosela mentre si recava da Reggie, incinta. «Come va? Tutto bene?» Quando chiamò la palestra, quella Danila gli comunicò che la signora Shoshana aveva accettato la sua offerta, e lo invitò a passare per definire i dettagli. Mix buttò giù un contratto con l'intestazione Manutenzioni Mix era fiero dell'idea che aveva avuto - e ne stampò due copie. La consapevolezza che le sue paure aumentavano con il calare del buio lo sconvolgeva. La figura che aveva intravisto sulle scale non gli era più apparsa, ma a tratti gli era sembrato di udire dei rumori misteriosi nel lungo corridoio, come di passi, o un insolito fruscio come di un foglio accartocciato che venisse infilato o tirato fuori da una borsa, una volta persino una melodia, anche se in effetti poteva provenire dalla strada. Quando rincasava tardi doveva far ricorso a tutto il suo coraggio per decidersi a entrare in quella casa. Soprattutto, ad avventurarsi per quelle scale, che aveva sempre detestato. Anche quella sera dovette forzarsi a infilare la chiave nella serratura e a
entrare nell'ingresso, con quella luce fioca. Non ci pensare, si ripeteva mentre saliva, concentrati su Nerissa e sugli espedienti per incontrarla, su come piacerle. Per esempio, poteva comprare una cyclette. La poteva prendere dalla Fiterama a prezzo di costo. E poi fare un po' di moto, perdere qualche chilo. Ai suoi clienti ripeteva sempre che avrebbero ottenuto enormi benefici dall'uso degli attrezzi. Questo vale anche per te, concluse. E cerca di vedere le cose in maniera ottimistica: anche salire queste scale è un buon esercizio. Le sue riflessioni ebbero un effetto positivo che durò finché non giunse al pianerottolo da cui partiva la rampa con le mattonelle. Dalla finestra Isabella, attraverso i rami dell'albero, il fogliame e il vetro sporco filtrava una luce fioca, che proiettava su di lui riflessi multicolori man mano che saliva. Sul pavimento si disegnavano figure che parevano tracciate con gessetti variopinti, immobili nella quiete della notte. Dal pianerottolo partivano due lunghi corridoi scuri, vuoti e silenziosi, con le porte che vi si affacciavano tutte chiuse. Per l'ennesima volta riaccese le luci, fissando a occhi sbarrati il corridoio di sinistra, dove da dietro una porta, che subito si richiuse da sola alle sue spalle, apparve il gatto. Nell'oscurità scorse gli occhi verdi scintillanti dell'animale che avanzava verso di lui con noncuranza. Gli soffiò contro e scomparve giù per le scale. Chi o cosa aveva aperto quella porta? Si precipitò nel suo appartamento, brancolando nel buio in cerca dell'interruttore, che infine riuscì a trovare. Non appena la luce inondò la stanza si lasciò andare a un lungo sospiro di sollievo. Aveva sentito dire che alcuni gatti erano in grado di aprire le porte, ma in quella casa le porte non avevano maniglie, bensì pomelli. Avrebbe dovuto accertarsi che anche quella da dove era uscito il gatto ne fosse provvista, ma andare a verificare era fuori questione. Probabilmente aveva la maniglia e Otto, gatto intelligente se non addirittura diabolico, aveva imparato ad alzarsi sulle zampe e a fare pressione sulla maniglia per aprire la porta. Ma chi l'aveva richiusa? Le porte si chiudono da sole, si disse per rassicurarsi. Non c'era niente di strano. Un film brillante alla TV, un musical hollywoodiano non troppo datato, una tazza di cioccolato con un goccio di whisky e tre biscotti Maryland contribuirono a tranquillizzarlo. Però, appena avesse iniziato a fare sport, avrebbe dovuto smettere di bere e di mangiare quella roba. La temperatura era sui 27 gradi, la sua preferita. Amava starsene al calduccio, abbuffandosi di dolci ipercalorici su un materasso soffice e spesso, e rimanere in panciolle nell'ozio più assoluto - a chi non piaceva?
Il musical gli fece dimenticare il gatto e i suoi occhi. Quando spense il televisore, la casa sprofondò in un silenzio di tomba, interrotto solo dai rumori attutiti del traffico sulla Westway. Adesso stava meglio. Si compiacque per la sua - qual era la parola? - capacità di recupero. Ma una volta a letto, a luce spenta, tornò a pensare al gatto e a quella porta, e rimase a lungo con gli occhi sbarrati nel buio. 6 La mattina seguente si svegliò con la sgradevole sensazione della paura provata la sera prima. Gli ci volle qualche istante per ricordarne il motivo, ma tutto svanì alla luce del giorno, con il vociare dei bambini che giocavano nel giardino dove c'erano le faraone. Era stato Otto ad aprire la porta, che poi si era semplicemente richiusa. Si alzò, si infilò sotto la doccia e si risolse a fare una bella passeggiata: come inizio del programma di allenamenti poteva andar bene. Prima di uscire si avvicinò circospetto al corridoio dove si trovava la porta da cui era uscito il gatto. Sì, aveva le maniglie. Si sentì sollevato, come se avesse ricevuto una splendida notizia e non la conferma di una supposizione logica. E adesso, la passeggiata. Doveva liberarsi di tutte quelle ragnatele che, in ogni senso, lo avvolgevano, permettere all'energia e alla luce del sole di entrare nella sua vita. Nei pressi del convento sorgeva una piccola chiesa cattolica; vi sostò davanti, a osservare i fedeli che si recavano a messa. C'era un sacco di gente, più di quanta avrebbe mai immaginato. Fu assalito da una bizzarra sensazione di rammarico misto a nostalgia. Tutte quelle persone non erano afflitte dai suoi problemi, dai dubbi, dalle paure. Avevano la religione a cui dedicarsi, qualcosa o qualcuno che recava loro conforto. Se avessero visto un fantasma, udito dei passi e delle porte che si chiudevano, avrebbero invocato il proprio dio, o scagliato l'anatema appropriato alla circostanza. Funzionava sempre, per lo meno nei racconti dedicati a simili avvenimenti. Da bambino anche lui era credente, e andava a messa con la nonna. Ma era trascorso troppo tempo, adesso tutto era mutato. Era acqua passata, ormai aveva perso la fede. Entrare lì insieme a quella gente, a chiedere l'aiuto di qualcuno che stava in cielo, l'avrebbe imbarazzato enormemente, anzi, si sarebbe sentito uno stupido. E se anche si fosse rivolto al vicario - o si chiamava prete? - come spiegargli il suo problema, e quali risposte avrebbe potuto dargli quell'uomo? Tutto ciò era al di là della sua comprensione.
Lunedì e martedì fu completamente assorbito dal lavoro, e per una volta fu contento di essere così impegnato. Doveva installare un nuovo tapis roulant in un appartamento al pian terreno di Bayswater, e illustrarne il funzionamento. Malgrado le passeggiate, erano bastati una decina di passi di corsa sull'attrezzo per ridurlo col fiato corto. Poi aveva dovuto rispondere alle chiamate per la riparazione delle macchine rotte, alle e-mail di protesta e ai messaggi dei clienti pignoli. Il martedì sera fece un salto allo Shoshana Beauty Center and Health Club, giustificando la visita con Danila col pretesto di effettuare un'ispezione ed elaborare un piano di lavoro, giusto per non destare sospetti. Perché, naturalmente, era lì per Nerissa. Era sul punto di chiedere qualche informazione a Danila, per esempio se frequentava regolarmente la palestra e in quali giorni si faceva vedere, ma ripensandoci si rese conto che tutte quelle domande avrebbero insospettito la ragazza, con il rischio che mangiasse la foglia e quindi intuisse che la sua offerta di lavoro era solo uno stratagemma per conoscere la famosa modella. Alla fine le lasciò una copia del contratto e andò via. Il mercoledì sera si recò al cinema Coronet in compagnia di Ed e di Steph, e poi a bere qualcosa al Sun in Splendour. I ragazzi presero un gin tonic, Steph una vodka al ribes. Finalmente Mix si decise a porle la domanda che si era preparato. Lo fece con poche e semplici parole, senza pensarci su troppo. «Tu credi nei fantasmi, Steph?» La ragazza non lo canzonò, come lui aveva temuto, prese anzi sul serio la domanda. «Ci sono più cose in cielo e in terra... 2 » cominciò, ma non ricordava il seguito della citazione. «Per esempio, io sono convinta che se da qualche parte è avvenuta una cosa terribile come un assassinio... be', la vittima o l'omicida possono tornare sulla scena del delitto. È una questione di energia,» proseguì in modo vago «del tipo che si aggira intorno e fa... be', materializzare le persone.» Proprio come pensava lui. Stava per raccontarle della misteriosa apertura e chiusura della porta, ma poi ricordò che era stata opera del gatto. «Deve per forza essere la scena di un delitto? Voglio dire, un posto dove è morto qualcuno? Non può avvenire in un luogo dove non ci sono stati morti?» «Non è una specialista, Mix» si intromise Ed. «Non è una medium.» Mix non vi fece caso. «Supponiamo che ci sia un assassino che in vita abbia cercato invano di uccidere qualcuno. Potrebbe tornare nel posto dove 2
Amleto (1600-01), di W. Shakespeare, atto I, scena V. w. 166-7 (N.d.r).
ha fallito?» «Credo di sì» rispose Steph poco convinta. «Senti, si è verificato un fatto del genere? Ci sono dei fantasmi in quella strana vecchia casa dove vivi o cosa?» 'Strana vecchia casa' era la definizione giusta, ma a Mix non garbava che qualcun altro la chiamasse così. Suonava come un insulto al suo splendido appartamento. «Credo di aver visto... qualcosa» rivelò cautamente. «Che genere di cosa?» chiese Ed, piuttosto impaziente. Steph era più sensibile e intuitiva, e decifrò l'espressione che si dipinse sul volto di Mix. «Preferisce non parlarne, Ed. Davvero non vuoi? Lo sai cosa intendeva Ed, hai bisogno di aiuto.» «Credi?» «Senti, ti dirò cosa ho intenzione di fare. Ti presto questa, così potrai tenere a bada quella cosa, se ti appare di nuovo.» Si sganciò la catenina di argento che portava al collo, da cui pendeva una croce gotica tempestata di pietre rosse e nere. «Tieni, prendila.» «Oh, no, potrei perderla!» «Non sarebbe la fine del mondo. L'ho pagata solo quindici sterline. E mia madre dice che non dovrei portarla, sostiene che è... Qual è la parola, Ed?» «Blasfema» rispose il suo ragazzo. «Ecco, blasfema. Mia madre conosce un medium, e mi ha detto che nel caso ne avessi bisogno funzionerebbe. Secondo lei tutte le croci funzionano.» Mix esaminò la croce. Non era bella, le pietre così palesemente di vetro, l'argento chiaramente falso, probabilmente nickel. Ma era pur sempre una croce, e in quanto tale poteva servire ai suoi scopi. Se l'avesse scagliata contro Reggie, o anche se gliel'avesse piazzata davanti, lo spirito sarebbe svanito come una spirale di fumo o un genio che rientra nella bottiglia. Gwendolen aveva trovato un osso di plastica nella sua stanza da letto. Sulle prime si chiese cosa ci facesse lì un oggetto simile e da dove fosse saltato fuori, poi si sovvenne del cagnolino di Olive, che era entrato lì a giocare. Lo diede a Otto, che si ritrasse con espressione sprezzante, disgustato dall'odore di cane. Allora lo avvolse in un foglio di giornale e lo mise al sicuro nella lavatrice, in attesa della chiamata di Olive. A causa delle sue misere entrate. Gwendolen gestiva il denaro in modo estremamente oculato, evitando anche le telefonate superflue. Se Olive a-
vesse voluto indietro il giocattolo del suo cane, che chiamasse o passasse a prenderlo. Ma i giorni trascorsero senza che l'amica si facesse viva. Gwendolen metteva in funzione la lavatrice solo dopo aver accumulato una discreta quantità di panni sporchi. Così, quando venne il momento di fare il bucato, ci mancò poco che lavasse anche l'osso di plastica e il foglio di giornale, rimasti nascosti dietro il mucchio di panni sporchi accatastati nel cestello. A Ladbroke Grove e a Westbourne Grove c'erano diverse rivendite gestite da asiatici e alcuni grossi negozi di alimentari dove si serviva per la spesa, confrontando attentamente i prezzi - anche un solo penny faceva la differenza - prima di decidersi ad acquistare ciò di cui aveva bisogno. Per arrivare sin lì doveva passare davanti all'abitazione di Olive. Quella mattina indossò il soprabito di seta nera con i bottoncini, vecchio d'una trentina d'anni, e un cappellino di paglia, visto che faceva piuttosto caldo; mise l'osso di plastica nel carrello della spesa e uscì. Coprì il carrello con un plaid Black Watch, ancora elegante malgrado i suoi nove anni. Fece tappa da Olive e suonò alla porta. Nessuno rispose. Chiese al portiere di chiamarla al telefono: di nuovo nessuna risposta. Probabilmente era uscita. Gwendolen era seccata. Non era corretto lasciare la propria immondizia in casa altrui e scomparire senza porre rimedio a un comportamento non conforme al galateo. Era tentata di gettare l'osso nel primo bidone della spazzatura, e se non lo fece fu solo perché venne colta da un dubbio molesto: sarebbe stato come rubare. Oltre alla lettura, Gwendolen trovava piacere nel fare bene le compere. Non per gli oggetti in sé, o perché le piacesse andare in giro per negozi, né per la cordialità dei commercianti da cui si serviva, ma semplicemente per comparare i prezzi e spendere meno. Non era stupida, sapeva benissimo che quello che risparmiava con un barattolo di pomodori qui, e un pezzo di formaggio lì, non poteva mai superare, per dire, la somma di venti pence al giorno. Per lei era una sorta di gioco, che rendeva quelle scarpinate fino al mercato di Portobello Road o anche su fino a quello di Sainsbury una piacevole attività piuttosto che un compito ingrato. Inoltre, attraversando Ladbroke Grove e seguendo un determinato tragitto, passava davanti alla casa dove il dottor Reeves, tanti anni prima, aveva avuto l'ambulatorio. Ormai il dolore procurato dal ricordo di lui era scemato, lasciando il posto a una deliziosa nostalgia. E a una nuova speranza, nata dalla lettura di quel necrologio... Quando erano comparsi i primi sintomi della malattia che aveva colpito la signora Chawcer, appena terminata la guerra, i suoi genitori avevano
pensato di rivolgersi al dottor Odess. Ma il suo studio, a Colville Square, era troppo distante, mentre l'ambulatorio del dottor Reeves a Ladbroke Grove era a due passi, proprio dietro Cambridge Gardens. Solo in seguito al processo e a tutto il clamore suscitato dal caso Gwendolen venne a sapere che il dottor Odess era stato per anni il medico di fiducia di Christie e della moglie. Quella mattina fu tentata di spingersi sino al mercato. Era una bella giornata di sole, si vedevano fiori ovunque. L'amministrazione comunale aveva decorato i lampioni con cesti colmi di gerani. Chissà quanto era costato, si chiese Gwendolen. Alle volte, quando andava al mercato a comprare gli ortaggi, le mele e le banane - non aveva mai mangiato altra frutta che banane e mele cotte - riusciva a risparmiare un gruzzoletto, anche fino a quaranta pence. Si fermò davanti all'edificio a quattro piani con un piano interrato e una scalinata ripida che portava all'ingresso principale, dove lui aveva svolto la sua professione. Adesso era fatiscente, con la vernice scrostata e un vetro del bovindo rotto, rattoppato con una busta del supermercato e del nastro adesivo trasparente. Un tempo lì dentro c'era la sala d'attesa dove era solita sedere, prima di essere ricevuta per farsi rilasciare le prescrizioni per la madre. A quell'epoca gli studi medici non avevano il sistema delle luci o dei campanelli per segnalare che il paziente successivo poteva entrare, e spesso erano privi di segretaria o di infermiera. Il dottor Reeves aveva l'abitudine di entrare di persona nella sala d'attesa, scandire il nome del paziente e attenderlo sulla porta per farlo accomodare. A Gwendolen non dispiaceva aspettare che la ricevesse; così aveva l'occasione di ammirarlo ogni volta che lui entrava per chiamare i pazienti. E lui ricambiava i suoi sguardi. Le sorrideva sempre, in modo diverso da come faceva con gli altri, perché a lei riservava un sorriso più caldo, più aperto, come se condividessero un segreto. In effetti era così: si amavano. Non le importava andar via sola dall'ambulatorio, perché il giorno seguente lui sarebbe andato a casa, e allora sarebbero rimasti soli, a prendere il tè e a conversare a lungo, senza mai stancarsi. Erano soli in casa, a tutti gli effetti. Bertha, l'ultima cameriera che avevano avuto, si era licenziata da tempo e i domestici pretendevano salari ben più alti di quelli che i suoi potevano permettersi. La signora Chawcer giaceva addormentata, o comunque immobile, al piano di sopra. Il professore non rincasava prima delle cinque, a cavallo della sua vecchia bicicletta, facendosi strada nel traffico crescente di Marylebone Road e nell'intrico viario di Bayswater e Notting Hill. Negli anni Cinquanta St
Blaise House era una dimora estremamente tranquilla, quando Stephen Reeves e Gwendolen sedevano l'uno accanto all'altra a parlare e a bisbigliare, nel desiderio di cambiare il mondo, ridacchiando per questo o per quello, mani e ginocchia che si sfioravano, persi uno negli occhi dell'altra. Per quei momenti sempre più intimi, per il fatto che una volta lui le aveva confessato quanto lei gli piacesse, Gwendolen si considerava irrevocabilmente legata a quell'uomo. Intimamente lo considerava una sorta di vincolo, del tipo 'finché morte non ci separi'. A lungo aveva covato nei suoi confronti un certo risentimento per il suo abbandono, ritenendolo un traditore. Anche se non le aveva mai detto apertamente che l'amava, i suoi atteggiamenti erano inequivocabili. Tuttavia, con il passare del tempo, aveva analizzato la faccenda da un punto di vista più razionale, convincendosi che senza dubbio lui doveva essersi legato a quella Eileen prima ancora di conoscere lei, o prima che vi fosse costretto dalle circostanze. Era anche probabile che temesse una ritorsione nei suoi confronti per lo scioglimento della promessa di matrimonio. Oppure, il padre o il fratello della ragazza avevano minacciato di picchiarlo con un frustino. Cose del genere non erano così inusuali, lo si leggeva in continuazione. Certo, le sfide a duello erano fuori legge e da lungo tempo passate di moda, ma in qualche modo doveva essersi legato indissolubilmente a quella donna, quindi che altro poteva fare se non sposarla? In quanto a lei, Gwendolen, si sentiva unita a lui come se fosse sua moglie. Era interessante, rifletté mentre spingeva il carrello della spesa lungo Westbourne Grove, quante persone aveva sentito ultimamente che, rimaste vedove in vecchiaia, avevano sposato gli innamorati avuti in giovinezza, compiendo in un certo senso un salto indietro. Una era la sorella di Queenie Winthrop, un'altra tizia che faceva parte della Associazione dei residenti di St Blaise, tal signora Coburn-French. Gwendolen era realista, quindi consapevole del fatto che erano più spesso le donne a perdere il marito che non il contrario, ma capitava anche che a morire fossero prima le donne. Come era successo nella sua famiglia, per esempio. Certo, non aveva sposato nessuna ex fidanzata, ma il signor Iqbal del Hyderadab Emporium aveva appena fatto una cosa del genere, dopo aver incontrato fuori dalla moschea di Willesden una donna conosciuta cinquant'anni prima nel suo villaggio natio, in India. E adesso Eileen era morta... Stephen Reeves era rimasto vedovo. Sarebbe tornato da lei? Se avesse sposato qualcun altro, e il marito fosse venuto a mancare, lei l'avrebbe cercato. Il legame che li teneva avvinti doveva essere durevole e immutabile
anche per lui, così come lo sentiva lei. Toccava forse a lei compiere la prima mossa...? Magari lui era troppo timido, o si portava dietro dei sensi di colpa per come si era comportato nei suoi confronti, e aveva timore di incontrarla dopo tutti quegli anni. Gli uomini sono dei gran codardi, è risaputo. Lo dimostrava proprio il comportamento di suo padre, che aveva reagito vigliaccamente quando s'era trattato di badare alla moglie ammalata. Era trascorso quasi mezzo secolo dall'ultimo incontro con Stephen. Rispetto a quei tempi, oggigiorno è molto più semplice trovare una persona. Basta avere un computer. Con quello si entra in una cosa chiamata 'rete', ed ecco fatto. Ci sono dei posti - uno era proprio lì a Ladbroke Grove - che si chiamano internet café. Gwendolen era stata a lungo convinta che in quei locali servissero dolci e caffè, ma Olive, con quella sua risata stupida, le aveva spiegato di cosa si trattava. Se fosse entrata in un posto del genere, sarebbe riuscita a rintracciare Stephen Reeves dopo cinquant'anni? Erano questi i suoi pensieri mentre rincasava con la spesa. Il giorno che lui le aveva detto che era una bella ragazza e che gli piaceva molto, seduta nella sua camera lei s'era messa a scrivere il nome che avrebbe acquisito: presto si sarebbe firmata Gwendolen Reeves, o G.L. Reeves, ma sulle lettere d'invito sarebbe apparso 'Signora Stephen Reeves'. La signora Stephen Reeves sarà lieta di avervi sua ospite, e Il dottor Reeves e signora ringraziano per il cortese invito ma si scusano di non poter partecipare... Certo, era andata a finire che queste ultime frasi erano state riservate a Eileen, ma adesso che quella donna era morta non aveva più importanza. Chissà perché, era convinta che quel matrimonio non era stato felice, checché dicesse quella frase pubblicata sul necrologio, 'mia adorata moglie'. Aveva dovuto scriverlo, lo fanno tutti, è una questione di convenzioni. Probabilmente, quando litigava con Eileen, cosa che senza dubbio era avvenuta di frequente, lui le diceva che non avrebbe mai dovuto sposarla. «Avrei dovuto prendere Gwendolen in moglie» le ripeteva. «È stata lei il mio primo amore.» Gwendolen non gli aveva mai palesato i suoi sentimenti. A quel tempo non era opportuno per una donna, ma oggigiorno le cose sembrano andare in modo diverso. Probabilmente lui non era a conoscenza di quello che lei provava, non l'aveva mai saputo. Doveva trovare il modo di comunicarglielo, e tutto si sarebbe sistemato. 7
Aveva già letto Le vittime di Christie sei o sette anni prima, quando aveva cominciato a collezionare i libri su Reggie. Naturalmente lo ricordava bene, tuttavia trovava sempre affascinante ripercorrere la vita di uno dei più celebri serial killer di tutti i tempi attraverso la Notting Hill di quei giorni. 'John Reginald Halliday Christie si stabilì a Londra nel 1938', cominciò a leggere mentre faceva colazione, insieme alla moglie Ethel. Era un uomo curioso. La necrofilia ha in sé qualcosa di singolare, per non dire raccapricciante. L'idea in sé ripugna ogni essere umano, e per indulgere in essa chi è affetto da questa forma di aberrazione deve, a meno che non abbia accesso a un obitorio, uccidere le proprie vittime. Dal nostro punto di vista di uomini del Ventunesimo secolo, quello di Christie non si può definire un matrimonio felice. Cinque anni dopo le nozze, Ethel lo lasciò e si stabilì a Sheffield. I coniugi rimasero a lungo lontani, finché Christie non le scrisse, chiedendole di tornare da lui. Anche dopo il ricongiungimento lei trascorse lunghi periodi dai suoi famigliari, nel nord del Paese. Nella sua vita Christie aveva svolto i lavori più disparati, manovale nell'industria cinematografica, operaio in un opificio e anche postino; nell'esercizio di quest'ultima attività fu arrestato con l'accusa di aver sottratto dei vaglia postali. Non fu la sua unica esperienza in carcere; vi ritornò per aver rubato l'automobile di un sacerdote cattolico, che lo aveva preso a ben volere. Malgrado i suoi trascorsi, presentò domanda per entrare a far parte quale volontario della Squadra di Emergenza della polizia di Londra, e fu arruolato lo stesso anno che si trasferì con la moglie a Rillington Place, Notting Hill, West London. Non risulta che la polizia avesse indagato sui suoi precedenti, e se anche lo fece dovette concludere che i reati commessi non fossero sufficientemente gravi da inficiare il suo arruolamento, e nel 1939 divenne ausiliario di Polizia a tempo pieno. Quattro anni più tardi, sempre in forza alla polizia, incontrò la donna che sarebbe stata la sua prima vittima... A malincuore, Mix alzò gli occhi e infilò un segnalibro nel volume. Era tempo di muoversi: aveva detto a Danila che sarebbe passato alle dieci per la manutenzione di cinque macchine. Quel libro, opera di un tal Charles Q.
Dudley, era il quarto o il quinto che aveva letto sull'omicida di Rillington Place, e il brano appena esaminato non gli aveva rivelato niente di nuovo. C'era da aspettarselo. Sperava di trovare, magari a metà libro, un indizio, o anche solo un accenno, al fatto che Christie potesse essersi recato a casa di una delle sue vittime. Non ricordava se quando l'aveva letto per la prima volta avesse notato nulla del genere. Mix aveva deciso di prendersi un giorno di ferie, e per recuperare aveva lavorato la domenica precedente. Era inutile andare allo Shoshana Beauty Center prima o dopo il lavoro, perché era alquanto improbabile che Nerissa si recasse in palestra in quegli orari. Aveva letto da qualche parte che le modelle si alzano tardi, e trascorrono le serate a presenziare a prime cinematografiche o a frequentare locali notturni, partecipando a pubbliche manifestazioni o a feste in qualche maniero. Fantasticava sempre che nel momento in cui avesse realizzato i suoi sogni sarebbero rimasti a letto l'uno nelle braccia dell'altra, magari fino a mezzogiorno o anche più tardi. Una domestica avrebbe servito loro la colazione in camera, non prima delle undici, completa di toast al caviale, uova Benedict e un cocktail a base di succo d'arancia e champagne. La difficoltà di trovare parcheggio lo riportò alla realtà. Era un problema ineludibile. Alla fine riuscì a scovare un posto a pagamento, piuttosto lontano, e fece un biglietto valido per due ore. Per lo meno, tutto quel movimento gli avrebbe fatto bene. Arrivò alle dieci spaccate. Distolse lo sguardo dal numero tredici in caratteri cromati e sgusciò nell'ascensore. In palestra c'era qualche ragazza e una coppia di giovani alle prese con gli allenamenti. Di Nerissa nessuna traccia. Probabilmente era troppo presto. Malgrado la sua pignoleria, giudicò favorevolmente la silhouette di Danila, che, sebbene esageratamente magra e dall'aria smarrita, non era poi così male. Poteva tornargli utile approfondirne la conoscenza. «La signora Shoshana mi ha incaricato di dirle di non stare lì a trastullarsi con le macchine occupate dai clienti. Ambasciator non porta pena.» «Si fidi di me» la rassicurò. «Conosco il mio lavoro.» «E ha aggiunto che non deve usare olii o roba simile, perché se si sporcano gli indumenti i clienti si incazzano come tori. Parole sue.» «Uso solo un olio incolore non grasso» mentì Mix. Aveva portato tre cinture nuove e una serie di chiavi per smontare gli ingranaggi. La palestra aveva aperto da poco e non c'era granché da fare; trascorse il tempo a smontare ellissi e a registrare i manubri delle cyclette. Si ripromise di cantargliene quattro a quella Madam Shoshana per averlo co-
stretto ad annoiarsi in quel modo. Se la povera Danila non fosse stata nei paraggi a sorvegliarlo, come con tutta probabilità le era stato ordinato, si sarebbe sistemato in un angolo a leggere qualche pagina di Le vittime di Christie. Danila aveva un corpo estremamente snello, al pari di Nerissa, anche se quella della modella era una snellezza di tipo diverso: non le si vedevano le ossa sotto la pelle, come a Danila, che tra l'altro aveva il mento troppo piccolo e dei lineamenti da uccello, con un naso a forma di becco. Tuttavia metteva in mostra un gran bel paio di gambe e una folta chioma di capelli scuri intrecciati in modo davvero originale. Ormai si era rassegnato; nemmeno quel giorno avrebbe incontrato Nerissa. Erano le undici e un quarto, e se non voleva che gli rimuovessero la macchina, mettessero le ganasce alle ruote o qualunque provvedimento prendessero da quelle parti, aveva solo mezz'ora di tempo. Danila sedeva dietro il bancone a sorseggiare un caffè. «Potrei averne una tazza?» le chiese. «Forse ce n'è ancora, ma acqua in bocca, mi raccomando.» Scomparve in qualche recesso della palestra e riapparve con il caffè, una tazza di latte e un dolcificante in bustine tubolari. «Ecco. Shoshana mi ucciderebbe se lo venisse a sapere. Ci è consentito offrire il caffè solo al personale della palestra.» «Sei una stella» la ringraziò Mix. La ragazza gli sorrise. Bisogna battere il ferro finché è caldo, pensò, e, sempre tenendo d'occhio la porta d'ingresso nel caso Nerissa arrivasse ora che erano le undici e quaranta, le propose: «Ti andrebbe di uscire a bere qualcosa una di queste sere? Diciamo mercoledì o giovedì, se per te va bene.» La ragazza rimase sorpresa. Mix avrebbe preferito che avesse dato per scontato il suo invito, quasi fosse un atto dovuto. «Va bene» accettò. E poi, piuttosto ansiosa: «Sei sicuro?» «Allora ti passo a prendere. Dove abiti?» «Oxford Gardens» e gli diede il numero. «Non è lontano da me. Andremo al KPH» le disse, senza considerare che lei non poteva sapere a cosa corrispondevano quelle iniziali. «Va bene alle otto?» Tutto sommato, pensò, non aveva senso trascorrere la serata con lei. Poteva anche darsi che Nerissa fosse una di quei clienti di cui lei gli aveva accennato la volta precedente, che vanno in palestra quattro volte e poi si stufano. Non doveva farsi scoraggiare perché quel giorno non si era fatta
viva: probabilmente non andava in palestra tutti i giorni, per quanto potesse tenere alla forma fisica. La settimana seguente ci sarebbe andato il mercoledì invece del martedì. E magari si sarebbe anche preparato psicologicamente ad andarci a piedi. Dopo tatto non era distante più di un chilometro e mezzo da casa sua. Olive aveva dimenticato di aver lasciato l'osso a casa di Gwendolen; l'aveva cercato per tutti i giardini del quartiere, mettendosi persino a frugare nelle pattumiere fuori dai negozi. Kylie, il cagnolino bianco, non riusciva a stare senza il suo gingillo. Quindi aveva chiamato Gwendolen non per recuperare l'osso, ma per sfogarsi un po'. Gwendolen non era mai stata comprensiva con nessuno. Ascoltò piuttosto divertita le afflizioni dell'amica. L'osso era stato regalato a Kylie da una conoscente americana amante, come Olive, dei barboncini. Kylie vi si era subito affezionato, e adesso che l'aveva perso non sapeva come fare: giocattoli simili lì non se ne trovavano. Né aveva l'ardire di chiamare l'amica e confessarle la sua trascuratezza, chiedendole di spedirne un altro. «I tuoi problemi sono finiti. È qui» le annunciò Gwendolen ridendo. «L'osso di Kylie?» «L'hai dimenticato qui. Ti ho chiamata per avvertirti, ma naturalmente eri uscita.» Se anche quel 'naturalmente' l'avesse urtata, Olive non lo diede a vedere. Gwendolen si mise a cercare l'osso per tutta la cucina, sporca e disordinata come sempre; alla fine lo trovò poggiato su una pila di giornali riposti in quell'angolo dai tempi del professore, sotto un pacco di buste dell'aspirapolvere vecchie di venticinque anni. «Hai reso felice il mio cagnolino, Gwen.» «Che sollievo!» Il sarcasmo di Gwendolen non sfuggì all'amica, anche se era troppo lieta per prestarvi attenzione. La salutò tutta allegra, avviandosi verso casa. Gwendolen, che preferiva la solitudine alla compagnia delle amiche, fu lieta di essersene liberata. Negli ultimi giorni, dopo aver preso la decisione non priva di audacia di scoprire dove vivesse Stephen Reeves, stava prendendo sempre più seriamente in considerazione la possibilità di chiedere aiuto al suo inquilino. Lui un computer lo possedeva: glielo aveva visto una volta che l'aveva casualmente incrociato nell'ingresso. «Non ho intenzione di andarmi a cercare dei guai portandomelo in giro» aveva commentato. «Sul sedile dà troppo nell'occhio; lo nascondo nel co-
fano.» Gwendolen non aveva la minima idea di cosa stesse parlando. «Cos'è?» Lui la guardò circospetto, nel modo in cui si guardano le persone mentalmente disturbate. «È un pc, no?» Lei continuava a fissarlo con espressione assente, al che lui sbottò esasperato: «Un computer, no?» «Davvero?» Scrollò le spalle. «Allora farebbe meglio a sbrigarsi.» L'informazione di cui aveva bisogno era in qualche modo racchiusa in quell'aggeggio contenuto in una piccola valigetta? O era necessario attaccarvi una qualche macchina speciale? E dov'era lo schermo che aveva intravisto nei negozi? Naturalmente si era accorta che il signor Cellini aveva riso della sua ignoranza, e voleva evitare di rendersi di nuovo ridicola. Non che ci fosse qualcosa di intrinsecamente stupido in qualcuno che, pur avendo letto l'opera completa di Gibbon e di Ruskin, non era a conoscenza del funzionamento di quelle diavolerie moderne. A ogni modo, decise di non rivolgersi a lui. E nemmeno a Olive. Se fosse andata dalle parti di Golborne Mansions avrebbe dovuto sorbirsi di nuovo la storia dell'osso perduto e della gioia di Kylie, senza considerare il pericolo di imbattersi nella nipote modello e in sua madre, cosa che temeva sempre senza saperne il perché. In fondo non c'era niente di male a entrare in uno di quei ristoranti internet - anzi, café. Sapeva di essere una persona intelligente. Stephen Reeves la reputava un'intellettuale, e persino il padre le aveva detto che, per essere una donna, aveva una bella testa. Senza dubbio era in grado di imparare a usare quei computer e ottenere l'informazione che le serviva. Prese il cappello, pensando a quello che aveva indosso Olive - in canneté rosso vivo, che si accordava al colore delle unghie -, il soprabito di seta nero e i guanti di pizzo, data la giornata calda. Erano un regalo di papà per il suo cinquantaduesimo compleanno, e li teneva ancora come nuovi. Quel giorno il carrello della spesa non le serviva. Il mattino era luminoso e soleggiato. L'estate era più calda del solito, la temperatura in aumento. Le strade brulicavano di giovani in maglietta e sandali. Una ragazza aveva un bikini top, un giovane addirittura solo una canottiera. Gwendolen scosse il capo, pensando a cosa avrebbe detto sua madre se lei fosse uscita di casa solo col reggipetto. Nerissa era stata in palestra, si era fatta praticare un massaggio al viso e al corpo, e adesso, con gli immancabili occhiali scurì per passare inosservata, stava salendo al piano superiore di Madam Shoshana.
La rampa di scale era ripida e stretta. Era stata rivestita di linoleum marrone prima ancora che sua madre nascesse. Il bordo dei gradini, in metallo, la rendeva particolarmente insidiosa: a ogni passo si rischiava di scivolare e di farsi molto male. Salì i gradini facendo molta attenzione. Una sua amica, anche lei modella, cadendo dalle scale si era fratturata la tibia, e anche dopo essersi rimessa le era rimasta una caviglia visibilmente più gonfia dell'altra. Come se non bastasse, c'era anche un cattivo odore di cavoli stantii e hamburger scadenti, malgrado la piccola finestra sul pianerottolo fosse aperta. Mentre vi passava davanti, d'un tratto la sudicia tenda di merletto svolazzò, sfiorandole il viso. Non era la prima volta che capitava. Andava a farsi predire il futuro una volta a settimana. Sulla fatiscente porta marrone era appesa una targhetta: Madam Shoshana, Indovina. Si prega di bussare, e, più sotto, con caratteri irregolari scritti con una penna a sfera 'Anche se avete un appuntamento'. Bussò. Le rispose una voce profonda, dava quasi i brividi: «Avanti.» Entrò nella stanza più disordinata e ingombra di cianfrusaglie che avesse mai visto. C'era una temperatura eccessiva, persino per lei che amava il caldo. Oggetti stranissimi erano stipati sulle mensole e su ogni superficie libera, germogliavano dal pavimento e pendevano dal soffitto. Vasi con piante finte, per lo più cipressi, ma anche gigli e passiflore, si ergevano simili a stalattiti e stalagmiti, capruggini, sculture mobili e cristalli pendenti ciondolavano dal soffitto. Ma la cosa più bizzarra era proprio lei, Madam Shoshana, una vecchia segaligna avvolta da strati di indumenti variopinti che ricordavano un cielo burrascoso, indaco e carbone, grigio tortora e ardesia, bianco sporco e violetto, blu scuro e argento. I capelli bianchi tendenti al giallognolo le scendevano sino alla vita, ricadendo in ciocche scarmigliate sulle spalle e sulla schiena, qui e lì intrecciate con catenine d'argento e stringhe di perline di cristallo che portava al collo. Sebbene avesse ideato una linea di cosmetici che vendeva a prezzi stracciati, non portava trucco, e non dava certo un'impressione di pulizia. Le sue unghie dall'aspetto così poco umano ricordavano a Nerissa gli artigli di un uccello. Il pesante tendaggio di velluto era scostato e, per qualche oscura ragione, tenuto fermo in diversi punti da spille antiquate raffiguranti motivi celtici. Una pletora di uccelli imbalsamati, tra i quali dominava un grosso esemplare di civetta bianca, erano disposti in modo da fissare lo sguardo sul supplice non appena questi varcava la soglia. Ma probabilmente la presenza più inquietante era la statua di cera raffigurante un uomo vestito alla foggia di Merlino (o di Gandalf), con una tunica grigia, che inspiegabil-
mente stringeva tra le mani un bastone di Esculapio. La statua era sistemata alle spalle di Madam Shoshana, seduta dietro un largo tavolo di marmo, come per recarle consiglio su antichi saperi e su questioni di magia, negromanzia, divinazione astrologica e qualunque sapienza in cui lei la consultasse. L'unica luce della stanza proveniva da una lampada a basso voltaggio, in stile vagamente art nouveau, tutta peltro e vetro opaco colorato. Sul tavolo di marmo erano disposti in cerchio alcuni cristalli, frammenti di quarzo rosa, calcite islandese, quarzo ametista, scisto olivina, basalto e lapislazzuli, e al centro era posto un piccolo centrino di pizzo lavorato all'uncinetto. La sedia che occupava aveva degli intarsi d'ebano sullo schienale e cristalli bianchi con venature dorate sui braccioli; di contro, quella destinata ai clienti era in stile Windsor, non lavorata, macchiata qua e là da quelle che sembravano gocce di sangue, ma che più verosimilmente erano succo di pomodoro. «Si sieda.» Nerissa conosceva la procedura e obbedì. Al comando di Madam Shoshana poggiò le mani sul tavolo. Quella mattina aveva fatto manicure, e aveva le unghie laccate con un colore ambrato leggermente più chiaro della pelle delle dita, adagiate sul centrino di pizzo, all'interno del cerchio formato dai cristalli. Shoshana osservò le mani, poi si mise a roteare gli occhi posando lo sguardo su ogni pietra, come un gatto che segue un puntino luminoso. «Mi dica quali di queste pietre sacre sente attratte dalle sue dita. Quali sono le due che avverte più intensamente?» Nerissa provava sempre un certo sconforto a quella domanda, perché non riusciva a percepire, né tantomeno a vedere, alcun movimento di quelle pietre, e veniva puntualmente rimproverata per tale incapacità. Madam Shoshana lasciava intendere che fosse dovuta a una qualche sorta di insensibilità, o a mancanza di concentrazione. Convinta che anche quella volta la sua risposta sarebbe stata inadeguata, tentò: «Mi sembra quella blu e quella rosa.» «Ci riprovi.» «La blu e la verde.» Shoshana scosse la testa, esprimendo rammarico più che rabbia. Non era solita manifestare alcuna forma di amicizia o confidenza neanche ai clienti di più lunga data, preferendo trattare tutti come se li ricevesse per la prima volta. Questo esprimeva lo sguardo che indirizzò a Nerissa. «Quest'oggi, il basalto e l'ametista sono nel Cerchio del suo Destino.» La
voce sembrava provenire da un remoto passato, simile a quella che sarebbe potuta fuoriuscire da una mummia. «Entrambe spingono per cercare di infrangere la barriera di energia che le separa dalle sue dita. Deve rilassarsi e permettere loro di avvicinarsi. Si rilassi e le chiami a sé.» Non era certo la prima volta che le veniva rivolto quell'invito. Nerissa si sforzò di distendere le mani, ma avvertiva la presenza della civetta bianca e della statua di cera in tunica grigia e aveva l'impressione che la fissassero con sguardo accusatorio. «Vieni, vieni, vieni» cominciò a intonare. Poi, d'improvviso, si rese conto che quelle erano le stesse parole che un suo ex fidanzato, un tipo alquanto arrogante, le sussurrava nei momenti dell'amore, e si mordicchiò il labbro per reprimere un risolino imbarazzato. «Si concentri!» le intimò Shoshana con voce severa. Nerissa era convinta che se quelle pietre si fossero effettivamente mosse si sarebbe spaventata a morte. Ma la sola in grado di percepire un fenomeno del genere era Madam Shoshana. L'indovina iniziò a vaticinare. «Il suo equilibrio astrale è completamente disallineato. Le pietre rivelano confusione, dubbi e paure. Vedo un uomo scuro, il cui nome comincia per D. È parte del suo destino, nel bene e nel male. La sua sorte è vivere per acqua... Sta allontanando le pietre - ah, troppo tardi! Non parlano più. Guardi come si rimpiccioliscono mentre l'anima le abbandona.» A Nerissa le pietre sembravano sempre uguali, ma sapeva che quella incapacità era dovuta alla sua cecità spirituale. O per lo meno, questo le aveva ripetuto Shoshana in più occasioni. Era una persona eccessivamente legata all'aspetto materiale delle cose, l'aveva bollata l'indovina, esageratamente preoccupata della propria apparenza, di possedere ricchezze e manufatti. Non aveva capito cosa intendesse con la parola 'manufatti', e più d'una volta s'era ripromessa di controllarne il significato sul vocabolario, ma finiva sempre per dimenticarsene. L'uccello impagliato e la statua del mago le lanciavano sguardi sprezzanti. Nerissa abbassò il capo, mortificata. Il consulto era terminato. Le fu assegnato il compito di porre attenzione all'uomo il cui nome cominciava per D, all'acqua e a tutte le creature che vi nuotavano, non solo i pesci. Si alzò in piedi per prendere il portafogli nella borsa. Anche l'indovina si alzò. Non più seduta, Madam Shoshana era molto diversa. Assunse modi pratici e concreti, più interessata alla tasca che all'anima. «Quarantacinque sterline, prego. Non si accettano euro o carte di credito» recitò, come se avesse ricevuto un cliente per la prima volta.
Nerissa attraversò Westbourne Grove sovrappensiero. Quando Madam Shoshana aveva profetizzato che un uomo scuro sarebbe entrato nel suo destino, aveva subito pensato a Darel Jones. E se invece fosse stato Rodney Devereux? Inutile chiederglielo. Shoshana avrebbe risposto che le pietre non le avevano detto null'altro, sottintendendo che la colpa era sua, perché aveva creato una barriera con la sua energia. E riguardo all'accenno all'acqua, le era subito venuto in mente il ristorante Pacific Rim, dove Rodney amava portarla, malgrado a lei non piacesse vedere i pesci che poi avrebbero mangiato nuotare negli enormi acquari dalla forma bombata. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma comprarli in pescheria non le faceva quell'effetto. Eppure, Shoshana doveva alludere proprio a quello, perché vi aveva fatto riferimento subito dopo aver accennato all'uomo con la D. Certo, oltre ai pesci aveva parlato anche di altro ma in quegli acquari c'erano altri animali, come lumache dai gusci colorati, minuscole creature striscianti e una biscia d'acqua. L'ultima volta che erano andati lì aveva temuto che Rodney ordinasse la biscia - non l'avrebbe sopportato. Era stata sul punto di dirgli che non voleva più tornare in quel ristorante, ma per qualche ragione non l'aveva fatto. Era nel suo destino. La prima vittima di Christie, a quanto è dato sapere, fa una ragazza di origine austriaca, Ruth Fuerst. Era stata infermiera, ma quando Christie la conobbe, nel 1943, si guadagnava da vivere lavorando in una fabbrica di munizioni e prostituendosi occasionalmente. Non si sa con certezza se il primo incontro fosse avvenuto mentre lui era in servizio di ronda, oppure in un bar o in qualche locale, ma Christie dichiarò che lei andava a trovarlo a Rillington Place mentre Ethel Christie lavorava nella fabbrica Osram. Non si riuscì ad appurare se Christie si fosse mai recato nella camera che lei aveva preso in affitto al numero 41 di Oxford Gardens... Mix alzò gli occhi dal libro, mantenendo il segno con il dito. Davvero sorprendente! Aveva letto parecchi libri su Christie, tutti quelli su cui riusciva a mettere le mani, soprattutto scartabellando nelle librerie dell'usato, e in nessuno aveva trovato l'indirizzo esatto dove viveva Ruth Fuerst. Ec-
colo, a pochi isolati da dove abitava Danila. Se solo fosse stata la stessa casa, pensò con una punta di rammarico. Se solo quella ragazza avesse affittato la stessa stanza! Si figurò di accompagnarla, per finire magari a scoparsela proprio lì dentro. Tuttavia, quella scoperta rendeva l'appuntamento che aveva con lei un'esperienza eccitante piuttosto che una seccatura. Si immerse nuovamente nella lettura. Christie uccise Ruth Fuerst in un giorno di metà agosto. 'Si spogliò,' dichiarò Christie, 'e volle avere un rapporto sessuale con me.' Nel libro Rillington Place n.10 - che faceva parte della collezione di Mix - Ludovic Kennedy sostiene che la loro relazione si sviluppò gradualmente ed era quindi ben più plausibile che si fosse trattato di un semplice incontro tra cliente e prostituta, o che lei gli avesse accordato i suoi favori quale prezzo da pagare per non farsi arrestare con l'accusa di adescamento. Durante il rapporto sessuale lui la strangolò con un pezzo di corda. Poi l'avvolse nella sua pelliccia di leopardo, - una pelliccia in pieno agosto! - ne trasportò il cadavere nel salotto e lo nascose con tutti gli indumenti sotto le assi del pavimento. La sera stessa Ethel, che si era recata a Sheffield dai suoi famigliari, tornò a casa insieme al fratello, Henry Waddington, che quella notte si fermò da loro. Poiché avevano una sola stanza da letto, nella quale dormivano Christie e la moglie, Henry Waddington dormì nel salotto, a pochi centimetri da dove era stato provvisoriamente sepolto il cadavere di Ruth Fuerst... Mix fu costretto a fermarsi qui. Doveva passare da Danila alle otto, e aveva deciso di uscire in anticipo per andare a vedere il numero 41 e contemplare la casa dove era vissuta la prima vittima di Reggie. Il 41 di Oxford Gardens sorgeva dall'altra parte di Ladbroke Grove; aveva un aspetto alquanto squallido, e abbisognava di una mano di pittura, o meglio di un restauro generale. Senza dubbio adesso doveva valere una fortuna, inimmaginabile per chi vi aveva abitato durante la guerra, sempre che quel qualcuno fosse ancora vivo. Un gatto, simile a Otto ma più vecchio e col muso grigio, si muoveva rasente il muro e si inchiodò quando scorse Mix intento a guardare. Il giovane fece per scacciarlo, cercando di
intimorirlo con delle smorfie, ma si trattava di un gatto di strada, avvezzo a ogni vicissitudine, che gli restituì uno sguardo impenetrabile e si avviò lentamente verso una macchia di cespugli. Chissà se Reggie si era mai fermato nel punto in cui adesso era lui, a prendere una decisione, prima di avviarsi per il vialetto e suonare il campanello? Probabilmente aveva avuto altre occasioni di incrociare la sua vittima, magari proprio lì, prima dell'incontro fatale. L'autore del libro più noto pubblicato su Reggie non aveva forse ipotizzato che si conoscevano da tempo? Era molto probabile che tutte le relazioni con le sue vittime si fossero sviluppate gradualmente. Era evidente che alle volte doveva essersi recato da lei. Dopo tutto, Ethel Christie rimaneva spesso a casa, a Rillington Place, e lui non poteva sempre limitarsi a incontrarla in qualche bar o caffè. Mix era sempre più convinto che Reggie fosse andato da Gwendolen, a St Blaise House. Poco dopo aver affittato l'appartamento, lei gli aveva parlato di sfuggita dei suoi genitori e della morte della madre avvenuta subito dopo la guerra. Il padre era un professore, quindi, qualsiasi cosa insegnasse, doveva assentarsi da casa. Mix immaginò Gwendolen che faceva entrare Reggie, gli offriva una tazza di tè in cucina - era una donna così snob! mentre discutevano i dettagli dell'aborto. Forse lei non poteva permettersi di pagare la tariffa di Reggie, anche se non ricordava di aver letto che lui prendesse soldi... Tornò verso l'abitazione di Danila, e alle otto e due minuti la trovò ad aspettarlo dietro il cancello d'ingresso. La cosa non gli piacque affatto: era un segno di disperazione. Avrebbe preferito che l'avesse fatto attendere, anche mezz'ora. Comunque adesso era lì, tutta in ghingheri, come diceva sua nonna, con pantaloni di pelle attillati, camicetta decorata con gale e una giacca in finto leopardo. Proprio come Ruth Fuerst, non poté fare a meno di notare. Chissà se quella donna assomigliava a Danila, la carnagione scura, il fisico affilato, pelle e ossa. Non ricordava di averla vista in fotografia. Si avviarono verso Ladbroke Grove, diretti al Kensington Park Hotel. A Mix quel posto piaceva molto non perché avesse qualcosa di speciale, ma perché anni prima Reggie l'aveva frequentato. Era un locale storico. Avrebbero dovuto mettere una targa per rendere noto ai clienti che un tempo era stato una delle mete dell'assassino più famigerato di Londra Ovest. Ma cosa ci si poteva aspettare quando esisteva gente così ignorante da aver raso al suolo Rillington Place e distrutto ogni traccia di quel cele-
bre luogo? «Sei un tipo silenzioso» constatò Danila, che aveva ordinato una vodka al ribes. «Kayleigh mi ha chiesto se il gatto ti ha mangiato la lingua.» Quelle parole gli evocarono lo sgradito ricordo di Otto. «Chi è Kayleigh?» «La ragazza che fa il turno serale, in palestra. Siamo amiche.» Poiché Mix non rispondeva, Danila continuò impaziente - o disperata? -: «Oggi mi hanno predetto il futuro.» Mix stava per replicare che non aveva tempo da perdere con quel mucchio di sciocchezze quando si ricordò di aver letto che Nerissa frequentava stregoni, indovini e qualche guru. D'altra parte, non aveva ormai cominciato a credere nell'esistenza dei fantasmi? «Sono convinto che qualcosa di vero ci sia. Esistono un sacco di cose che non sappiamo spiegarci, no? O per lo meno, magari con il tempo si potranno spiegare scientificamente.» «Anch'io la penso così. Io vado da Madam Shoshana. È la proprietaria della palestra, ma è anche un'indovina, con tanto di titoli e requisiti.» «Cosa ti ha predetto?» «Te lo dico ma non ridere. Nel mio futuro c'è un ragazzo il cui nome comincia per C. Quando me l'ha detto ho pensato: chissà se è quel tipo che fa i pedicure in palestra. Si chiama Charlie, Charlie Owen.» «Potrei essere io» replicò Mix ridendo. «Il tuo nome è con la M.» «Ma non il cognome.» «Non comincia per S?» «No. Lo saprò bene, non credi? Mi chiamo C-E-L-L-I-N-I.» «Stai scherzando» gli disse guardandolo fisso. «Prendi qualcos'altro?» glissò lui. Tornando a Oxford Gardens, Mix comprò due bottiglie di bianco della California in offerta. Se le scolarono sul letto di lei, dopodiché lui non fece esattamente quel che si dice un figurone. Ma che importanza aveva? Erano entrambi ubriachi, e quella non era il genere di ragazza con cui bisognava fare faville. Quando uscì dalla sua stanza, pavimento e soffitto oscillavano come onde, un su e giù continuo. Si avviò per le scale, e malgrado si fosse aggrappato alla ringhiera inciampò e per poco non finì sulle ginocchia, il lembo della giacca sopra la testa. Si riprese alla meglio, e mentre scendeva incrociò un uomo che si fece da parte, arretrando visibilmente quando avvertì il suo alito. Un altro inquilino, ipotizzò, confuso com'era. Un tipo dai
tratti mediorientali, con i baffi neri e il viso giallastro: erano tutti uguali. Non si voltò a guardarlo mentre raccoglieva un cartoncino bianco sul pianerottolo, davanti all'appartamento della camera di Danila. Si trascinò verso casa nella notte umida e afosa. Un'aria più fresca l'avrebbe aiutato a smaltire la sbornia, ma l'atmosfera era come quella di un bagno pieno di vapore. Otto era di nuovo sulle scale, intento a pulirsi la faccia come se avesse appena terminato un pasto. Avvertiva una sensazione inquietante e sgradevole all'immancabile incontro con quel gatto. Tempo prima non accadeva mai. Nutrivano un'antipatia reciproca, quindi non era lì per lui. Per cosa, allora? 8 Nerissa aveva dato una festa. Non aveva invitato nessuno dei suoi amici, Rodney Devereux, Colette Gilbert-Bamber o la modella con una caviglia più grande dell'altra, ma solo i parenti e la famiglia Jones, i vicini di casa dei suoi genitori. Per gli inviti aveva usato i suoi splendidi bigliettini da visita color porpora a caratteri dorati, indirizzandoli al signor Bill Jones e signora e al signor Darel Jones. In basso aveva aggiunto con inchiostro bianco: 'Vi aspetto, affettuosamente, Nerissa'. Sheila Jones rispose con una lettera cortese ma alquanto fredda. Si scusava di non poter accettare l'invito, senza ulteriori spiegazioni. Nerissa non si reputava una persona particolarmente intelligente, tuttavia le parve di cogliere tra le righe che la signora Jones temesse che si sarebbe trattato di un ricevimento troppo fastoso, con la presenza di chissà quanti vip del mondo della moda in abito da sera, che avrebbero intavolato discussioni su argomenti a loro sconosciuti. Nerissa ci rimase male non solo perché non sarebbe venuto nemmeno Darel, ma anche perché a lei i Jones, gente semplice, pratica e riservata, piacevano sul serio. Se solo avessero compreso che quella che aveva in mente di organizzare era una festa per il compleanno del padre (cosa che aveva sottolineato sul bigliettino d'invito), con la presenza dei suoi fratelli insieme alle mogli, i sette nipoti, suo cugino (un leader del Sindacato trasporti), le sorelle della madre (quella più giovane, eletta consigliere comunale l'anno prima, e la maggiore, che aveva sposato un vecchio fidanzato perso di vista da anni), la zia della madre che viveva a Notting Hill con i suoi quattro nipotini, il più grande dei quali aveva tre anni, e la nonna, la matriarca della famiglia, nata in Africa novantadue anni prima.
Peggio per loro, pensò Nerissa sprezzante mentre insieme a Lynette offriva tazze di tè agli ospiti che non bevevano champagne. Tuttavia avvertiva la mancanza dei Jones come una sconfitta, e quando Lynette e il cugino sindacalista spostarono i mobili e diedero il via alle danze, non poté fare a meno di immaginare come sarebbe stata felice di ballare tra le dolci braccia di Darel. A peggiorare la situazione arrivò la telefonata di Rodney, che giunse nel momento in cui la nonna le stava raccontando una storia avvincente riguardo sua madre e uno strizzacervelli. Nerissa rispose dal telefono dello studio, e ascoltò impaziente la reprimenda di Rodney: perché non l'aveva invitato? Si era ammattita a dare una festa con tutta la famiglia? «È un fatto risaputo che tutti detestano i propri parenti» commentò. «Come sosteneva quel tale: 'I genitori fanno solo incazzare.'» «Non i miei. Quello che dici è disgustoso.» «Per l'amor di dio, pianta tutto che tra cinque minuti ti passo a prendere.» «Non posso, Rod. Mio padre sta per tagliare la torta.» Tornò nel soggiorno e offrì ai piccoli il gelato e i biscotti di cioccolata perché a loro il dolce alla frutta non piaceva. «Entro un paio d'anni ne avrai uno anche tu» le predisse la zia consigliere comunale, alludendo ai bambini. «Magari» rispose Nerissa, e si figurò Darel in compagnia di qualche ragazza. Forse si stava fidanzando - magari proprio in quel momento, mentre lei rispondeva: «Prima devo sposarmi.» «Non ha più importanza, per gli uomini» replicò la zia di Notting Hill o, meglio, la prozia. «Per me invece sì» ribatté Nerissa, pulendosi la boccuccia da uccellino. Mise su I Walk the Line di Johnny Cash e andò a ballare con il papà. Se fosse stata a conoscenza delle fantasie che il suo inquilino andava elaborando sulla sua vita da ragazza, Gwendolen sarebbe rimasta sbigottita. In realtà aveva dimenticato l'accenno fugace alla sua visita a Rillington Place. Si sarebbe sentita oltraggiata dalle supposizioni di Cellini, convinto che lei avesse intrattenuto con Christie lo stesso tipo di rapporto che questi aveva con Ruth Fuerst o con Muriel Eady, che andasse a trovarlo abitualmente e che lui si fosse recato in quella casa perché lei aveva deciso di abortire. Per la verità si era spinto anche oltre, giungendo alla conclusione che la donna era ancora viva solo perché non aveva i soldi per pagare Christie. Aveva dato alla luce un figlio, che adesso doveva essere di mezza
età. Ma se era andata così, perché non veniva mai a trovarla? Aveva mai visto quell'essere misterioso? Comunque, per sua fortuna Gwendolen non immaginava nemmeno il lavorio frenetico della mente del suo inquilino. Era tornata mogia mogia dalla sortita in un internet café, dove per un bel po' nessuno si era mosso a darle una mano. Brancolava nel buio. Gli altri avventori, tutti giovanissimi, manovravano con fare esperto quelle macchine e trovavano assurdo il suo sconcerto. Lo aveva intuito dai sorrisetti ironici e sprezzanti, e dal modo in cui distoglievano lo sguardo ogni qual volta lei si voltava a guardarli. Malgrado avesse già pagato se ne sarebbe andata via all'istante, pur non sopportando di buttare via il denaro, rassegnandosi a escogitare un altro sistema per rintracciare Stephen Reeves. Ma proprio quando, in preda allo sconforto, s'era abbandonata sullo schienale, un giovane appena entrato le aveva chiesto se aveva bisogno d'aiuto. «Temo di non essere in grado di usarlo...» «Cosa vuole sapere?» le aveva chiesto. C'era qualcosa di male a confessarlo a quell'estraneo? Non l'avrebbe più rivisto. E poi, come avrebbe potuto scoprire la ragione per cui stava cercando Stephen Reeves? La decisione di fidarsi di quello sconosciuto fu una delle più ardue della sua lunga esistenza. «Vorrei sapere... ehm, dove abita un certo dottor Stephen Makepeace Reeves.» Intuì che se avesse rivelato l'età di Stephen quel ventenne si sarebbe insospettito, ma non poté farne a meno. «Dovrebbe avere un'ottantina d'anni. È un medico, e un tempo praticava la professione a Ladbroke Grove... oh, una vita fa: è passato mezzo secolo.» Se il giovane venutole in soccorso trovò strana la sua richiesta, non lo diede a vedere. Malgrado il timore reverenziale che le procurava quello strano aggeggio, rimase affascinata dai gesti rapidi e sicuri con cui, come per magia, il ragazzo materializzò sullo schermo un'immagine dietro l'altra; colonne di testo, caselle di stampa e riquadri di informazioni si susseguivano senza posa apparendo dal nulla e ruotando, in una grande varietà di colori. D'un tratto, eccolo lì: Stephen Makepeace Reeves, Columbia Road n. 25, Woodstock, Oxfordshire, con tanto di numero di telefono e ciò che il giovane chiamò indirizzo e-mail, il tutto corredato da una breve biografia, grazie alla quale apprese dove e quando era nato, dove aveva compiuto i suoi studi, e il nome della moglie, Eileen Summers, da cui aveva avuto due figli, un maschio e una femmina. Aveva lasciato Notting Hill e si era associato a uno studio medico a Oxford, dov'era rimasto sino al 1985, anno in cui si era ritirato in pensione. In seguito aveva scritto diversi
libri con un medico come protagonista, ambientati in una cittadina universitaria, da uno dei quali era stata tratta una fiction per la TV. Di recente aveva subito l'inconsolabile perdita della moglie Eileen, di settantotto anni. Gwendolen si lasciò sfuggire un piccolo gemito di gioia, sperando in cuor suo che il giovane non l'avesse notato. Adesso non desiderava altro che rimanere sola, ma la curiosità la divorava: doveva sapere. «Tutti quanti hanno una cosa simile lì dentro?» chiese avvicinando un dito allo schermo, timorosa ma al tempo stesso fiduciosa che anche la storia della sua vita si celasse in quegli abissi. «No, non tutti. Vede, si tratta di un sito web. Probabilmente quel tipo ha un sito perché ha scritto dei libri, da cui hanno tratto quella roba per la TV.» Gwendolen non aveva la più pallida idea di cosa stesse dicendo il giovane; lo ringraziò e sgusciò via. La spesa poteva aspettare: adesso doveva riflettere. L'automobile del signor Cellini, parcheggiata davanti al portone di casa quando era uscita, non era più lì. Si sentì sollevata. Pur avendo ben pochi contatti con lui, il fatto che fosse in casa, sebbene confinato lassù, in quello che sua madre chiamava 'l'attico', in qualche modo interferiva con la pace assoluta necessaria per ricordare, riflettere ed elaborare un piano. Per un po' rimase seduta nel salotto, dove l'ambiente polveroso e il tanfo delle tappezzerie sudicie che non puliva da mezzo secolo, unito a quello dell'umidità, della muffa, dei frammenti d'intonaco e degli insetti morti, si fondevano nel ricordo confortante dei bei tempi andati. Ma le vibrazioni e lo stridore fastidioso del traffico proveniente dalla finestra, un rumore sconosciuto mezzo secolo prima, la costrinsero a rifugiarsi nella camera da letto al piano superiore, dove quel borbottio incessante giungeva attutito. Steso davanti al camino, sulla cui grata rimaneva ancora la cenere di un fuoco acceso nel 1975, Otto stava divorando la carcassa di un topolino. Non aveva mai preso l'abitudine di portarle le sue prede, a mo' di regalo, come la maggior parte dei gatti fa con i padroni, ma si acquattava nei luoghi dove era più a suo agio, ne spiccava la testa con un morso e ne consumava il resto a suo piacimento. Un anno prima, spuntando fuori dal nulla, si era stabilito in quella casa, ma Gwendolen non vi aveva mai prestato troppa attenzione, limitandosi a dargli da mangiare. Con un calcio si tolse le scarpe e si sdraiò sul letto, coprendosi le gambe con la trapunta di seta rosa. Stava pensando di recarsi a Oxford. E magari, con un po' di audacia, trascorrervi una settimana alloggiando al Randolph, dove il padre era solito
pernottare quando il direttore di qualche college non gli prenotava un posto destinato agli ospiti illustri. E poi, se non avesse trovato un autobus, avrebbe raggiunto Woodstock con un taxi, anche se le sarebbe costato. Però poteva anche scrivere una lettera. In circostanze del genere è sempre meglio farsi annunciare in questo modo. Ma, d'altra parte, non aveva la benché minima esperienza in quel genere di cose... Sin da quando era entrata in camera aveva avuto la percezione vaga di una melodia, che adesso si udiva più distintamente. Non veniva dalla strada, ma dal piano superiore; quindi, anche se l'automobile non c'era, il signor Cellini doveva essere in casa. Forse l'aveva portata a riparare, o qualsiasi cosa facessero a quelle macchine. Si alzò e aprì la porta, seccata ma tutto sommato compiaciuta dalla scoperta che al suo inquilino piacesse della musica autentica. Qualche giorno prima stava ascoltando Lucia; questa volta una sonata di Bach. Se qualcuno le avesse detto, prima dell'arrivo del signor Cellini, che avrebbe tollerato pazientemente, traendone persino un certo diletto, i suoni provenienti dall'appartamento affittato, non ci avrebbe mai creduto. Comunque la musica classica era un discorso a parte, e dopo tutto in quel modo poteva ascoltarla risparmiando sull'elettricità. Purché non si trattasse di Prokofiev - quei russi non li sopportava -, la cosa non la disturbava affatto. Una volta tornata a letto cominciò a vagheggiare l'incontro con Stephen Reeves, fuori dal cancello di Blenheim Palace. L'avrebbe riconosciuta all'istante, e prendendole le mani tra le sue le avrebbe detto che non era cambiata affatto. Quindi lei gli avrebbe mostrato l'anello di fidanzamento che portava al dito in luogo di quello che lui non le aveva mai regalato. A quel punto Stephen glielo avrebbe sfilato per metterlo nell'altra mano. Con questo anello io ti sposo... Allo Shoshana Beauty Center Mix stava provvedendo alla manutenzione di un altro lotto di macchinari. Era la quarta volta che vi si recava; era lì da prima delle cinque e aveva già terminato quello che aveva preso a chiamare il 'lavoro diurno'. Le altre volte c'era andato la mattina del giorno libero, prima di recarsi al lavoro o durante la pausa pranzo, ma in nessuna di quelle occasioni aveva incontrato Nerissa. Adesso che quelle macchine non avevano più bisogno di alcun intervento per almeno sei mesi, l'unica scusa per tornare era andare a trovare Danila. Non fosse stato per quella ragione, non l'avrebbe certo cercata. Al contrario, era evidente che lui le interessava. Pur non essendo un profondo co-
noscitore della natura umana, aveva compreso che quella ragazza era una perdente, una donna senza amor proprio, in cerca di un uomo al quale aggrapparsi, da amare e cui obbedire come fosse un cagnolino. E credeva di aver trovato in lui quello che cercava. Poiché in qualche modo l'aveva qualificata come una vittima, e dato che lei stessa, a causa della scarsa autostima, accettava di essere trattata come tale, era riluttante a spendere soldi per quella ragazza e portarla in posti dove potevano vederli insieme. Non andava fiero di quei seni piatti e delle gambe ossute, di quel volto da donnola con gli occhi bramosi. Dopo quella sera al Kensington Park Hotel non l'aveva più invitata a uscire. Si era limitato a prendere un paio di bottiglie e a passare la serata da lei. Danila lo considerava il suo ragazzo. Quando le chiese se avesse parlato di lui a qualche amica, gli confessò che, a parte Kayleigh, non aveva amiche. A lei però non l'aveva detto per paura di ferirla, perché non era fidanzata. Danila era a Londra solo da sei mesi; prima lavorava a Lincoln, in un salone di bellezza di proprietà di Shoshana. «Madam Shoshana mi ha chiesto di fare anche il turno serale, ma le ho risposto che non posso perché ho un ragazzo. Non le ho detto che sei tu, dato che lavori per lei. Ho pensato che si sarebbe insospettita.» Mix era convinto di poterla lasciare quando avesse voluto, senza conseguenze. Nel frattempo se la spassava, soddisfacendo le proprie voglie suscitate dal vino rosso dolciastro. Sotto certi aspetti era meglio di Colette Gilbert-Bamber, che quando facevano sesso si dimenava, si contorceva, mordeva e impartiva ordini. Danila era passiva e arrendevole, non chiedeva nulla, accontentandosi di quel che le si dava, e nel momento dell'orgasmo sorrideva. Era sorprendente come un corpo così ossuto fosse in realtà morbido, e quando la baciava, cosa che ogni tanto le concedeva, le labbra sottili parevano dilatarsi e diventare più calde. Ma tutto ciò non era sufficiente a trattenerlo, come si disse mentre saliva le scale immerse nell'oscurità dell'ultimo piano di St Blaise House, a mezzanotte, la sciarpa scura avvolta attorno agli occhi per evitare di vedere lo spettro di Reggie nel caso fosse apparso. A Danila non aveva detto nulla del fantasma; le aveva solo chiesto se sapeva che Ruth Fuerst era vissuta in quella stessa strada, qualche metro più giù. «Chi?» gli aveva chiesto a sua volta. Era sorprendente scoprire che a Notting Hill c'era gente che non aveva mai sentito parlare di Christie e dei suoi omicidi. Cinquanta anni prima poteva anche essere logico che accadesse, ma le persone intelligenti avrebbe-
ro dovuto serbare il ricordo di quegli avvenimenti, come fossero appena accaduti. Cosa ci si poteva aspettare da una ragazza così sciocca? «È stata la prima vittima di Christie. Abitava al numero 41.» Stesi sul letto dopo aver fatto l'amore, le aveva parlato di Reggie. Ruth Fuerst, Muriel Eady, molto probabilmente Beryl Evans e sua figlia Geraldine, parecchie altre e la stessa Ethel Christie. Tutte strangolate e seppellite in casa o nel giardino. «Se io fossi stato Reggie e tu una delle vittime,» le aveva detto «ti avrei scopato dopo averti uccisa.» «Mi stai prendendo in giro.» «Oh, no. Faceva proprio così. Puoi andare a vedere tu stessa dove viveva. Non è lontano da qui, ma adesso il posto è completamente cambiato.» Non si era offerto di accompagnarla. «La vecchia da cui ho preso in affitto l'appartamento, cioè la proprietaria, lo ha conosciuto, erano amici intimi, lui doveva praticarle un aborto ma poi lei è scappata via.» «Mi stai facendo accapponare la pelle, Mix.» Lui aveva riso. «Vado ad aprire l'altra bottiglia. Non ti muovere.» A mezzanotte meno un quarto si era rivestito, come un Cenerentolo, preparandosi per rientrare all'ora stabilita. Quella stanza era proprio una topaia. Non che fosse sporca, ma era tutta in disordine e arredata senza il minimo gusto. Le tende sembravano lenzuola lacerate a metà. «La prossima volta vieni tu da me» le aveva proposto, ponderando attentamente le implicazioni di quella decisione, ma St Blaise House era più sicura e molto più confortevole di quella stanza. Il pensiero di quanto quell'invito l'avesse colpita lo divertì. «Facciamo venerdì alle otto?» «Davvero posso venire da te?» gli aveva chiesto guardandolo, gli occhi scintillanti per l'emozione. Che stupida a non capire che non gli piaceva affatto. Anzi, la odiava, e sapeva anche perché: gli ricordava sua madre. Debole e passiva come lei, inadeguata. Bastava vedere il disordine che regnava in quella stanza. Come sua madre, non era attraente né intelligente, non era riuscita in nulla, non possedeva un briciolo di orgoglio e si faceva scopare dal primo venuto. L'avevano fatto la sera stessa che erano usciti per la prima volta. Le vere donne sono difficili da conquistare. Non che Colette lo fosse, ma lei era una ninfomane, a detta di tutti i suoi colleghi. Aveva cominciato a indirizzare contro Danila la collera che provava verso sua madre. Avrebbe voluto colpirla, come aveva fatto con lei. Per fortuna non aveva incontrato nessun vicino di Danila, nemmeno quel mediorientale. Camminando nell'aria gelida della notte aveva cercato di
tranquillizzarsi: lui non era Reggie, non era un assassino che teme di essere notato vicino alla scena del delitto. Che importanza aveva se qualcuno l'avesse visto? Anche in quel caso, l'avrebbero subito dimenticato. Distrattamente, aveva stretto tra le mani la croce che portava in tasca. Da qualche giorno ripeteva meccanicamente quel gesto, soprattutto quando gli capitava davanti il numero tredici, per esempio il 13 di Oxford Gardens, o quando era intento a lavorare al tapis roulant numero 13 nella palestra di Shoshana. L'indomani si rese conto che avrebbe dovuto escogitare qualcos'altro per incontrare Nerissa. I suoi stratagemmi non avevano portato a nulla. Per esempio, la mossa successiva poteva essere mettersi in lista per l'iscrizione in palestra. Danila non avrebbe avuto problemi a inserirlo all'inizio dell'elenco, forse sarebbe persino riuscita a farlo passare davanti agli altri. Così non avrebbe avuto problemi a entrare quando voleva. Senza contare che un po' di moto gli avrebbe fatto bene. Doveva ammettere che le passeggiate e la nuova dieta che si era imposto, senza tutte quelle schifezze che di solito ingurgitava, non avevano prodotto risultati apprezzabili. A pensarci bene, dopo essere stato da Colette aveva mangiato un frutto, una barretta di cioccolata alla nocciola e un pacchetto di patatine, divorate senza nemmeno accorgersene, mentre seduto in macchina era perso dietro le sue fantasticherie. Venerdì l'avrebbe chiesto a Danila. O meglio, le avrebbe comunicato le sue intenzioni. Se fosse andato in palestra ogni giorno avrebbe certamente incontrato Nerissa, e allora... Nei rapporti con l'altro sesso Mix era sicuro del fatto suo, ed era consapevole che era proprio quella sicurezza a permettergli di conquistare tutte le donne che voleva. O comunque, parecchie. A essere sinceri sino in fondo, doveva ammettere che non aveva successo con le ragazze che desiderava per davvero. Per quale ragione? Bisognava scoprirlo. Con Nerissa avrebbe dovuto giocare con attenzione le sue carte. Perché non c'era dubbio che la desiderasse come mai nessuna donna prima d'allora. Per la sua bellezza, naturalmente, ma anche per la notorietà che gli avrebbe procurato. Tutte quelle riflessioni lo affaticarono, e mentre si recava da una cliente partorì una delle sue fantasie. Stava accompagnando Nerissa a uno di quei ricevimenti brillanti, come la consegna dei Bafta Awards, con i tappeti rossi davanti alle macchine da cui scendono le star. Lei indossava uno splendido vestito trasparente tempestato di diamanti, lui lo smoking, che calzava a pennello facendo risaltare la sua figura slanciata. Mix non pen-
sava al matrimonio, o non ancora: se ne sarebbe parlato quando avrebbe raggiunto la quarantina. Ma adesso... Se avesse giocato bene le sue carte, perché non sposare Nerissa? Chi meglio di lei se proprio doveva compiere quel passo? Decise di annunciarsi con una lettera. Sebbene fossero passati diversi anni dall'ultima volta che era ricorsa a quel mezzo, Gwendolen era convinta di saper scrivere bene. Una volta terminata, sarebbe stata una gioia leggerla, perché era certa di riuscire a evocare nel cuore del destinatario il ricordo dei bei giorni andati, quando la gente sapeva parlare e scrivere un inglese forbito e costruire una frase senza commettere strafalcioni. Una volta aveva ricevuto una lettera da una ditta con la proposta di fornitura del gas, che recava la seguente dicitura: 'Lei avrà di ricevuto la nostra comunicazione.' Naturalmente aveva replicato in modo pungente, prevedendo l'indubbio e immediato fallimento di un'azienda che assumeva degli illetterati, ma non si erano degnati di risponderle. Adesso stava scrivendo a Stephen Reeves, ma il compito si rivelò inusitatamente complicato. Per la prima volta nella sua vita provò il desiderio di possedere un televisore, così non si sarebbe persa quel programma sul medico di campagna. Che emozione quando il suo nome fosse apparso sullo schermo! Se fosse stata a conoscenza di quella serie televisiva avrebbe potuto seguirla dalla vetrina di quel negozio di televisori a Westbourne Grove. Ma per come stavano le cose non poteva scrivergli, come avrebbe voluto, che aveva guardato con grande piacere quei telefilm. 'Le tue storie realizzate sul piccolo schermo mi hanno fatto decidere' - no, indotto; o meglio, stimolato? - 'mi hanno spinto a scriverti dopo tutti questi anni. Sebbene non fossi completamente sicura dell'identità dell'autore, sono venuta a conoscenza del tuo sito web che' - menzionare il sito era un modo per comunicargli che si era tenuta al passo con i tempi. Tuttavia dovette ammettere a se stessa che non aveva visto la serie - non possedeva nemmeno il televisore -, e si ritrovò a ricominciare da capo. 'Ho appreso da un conoscente che ti sei avventurato nel settore televisivo, e questo mi ha convinta' - quel giovane conosciuto all'internet café poteva considerarsi un conoscente. Non voleva certo esordire con delle menzogne - 'mi ha convinta a rinverdire una antica amicizia' - non si stava spingendo troppo oltre? Per la maggior parte della gente cinquant'anni erano un'interruzione sin troppo lunga per un'amicizia - 'mi ha convinta a con-
tattarti'. A quel punto avrebbe dovuto spiegargli il motivo, comunicandogli che desiderava incontrarlo. Appallottolò per la quinta volta il foglio e sedette sconsolata. Forse era meglio concentrarsi senza carta e penna e scegliere le parole prima di scriverle. Darel Jones era un giovane serio in procinto di trasferirsi in un appartamento nella zona portuale, accompagnato dall'amorevole preoccupazione dei suoi genitori. Era rimasto a casa dei suoi fino al conseguimento della laurea, e adesso, a ventotto anni, con un nuovo lavoro ben remunerato, era giunto il momento di andare a vivere da solo. Convinto da sempre della necessità di affrontare questo passo prima dei trent'anni, sin da quando era diventato maggiorenne aveva deciso di lavarsi e stirarsi i vestiti, cenare fuori quattro volte la settimana, recarsi lui a casa della fidanzata piuttosto che il contrario, in generale conquistarsi la sua indipendenza. Le cose gli andavano piuttosto bene. La madre avrebbe fatto di tutto pur di vederlo felice; per questo aveva accettato di buon grado la ragazza che aveva presentato come la sua fidanzata, sfoderando una certa ipocrisia, per esempio congratulandosi con lui per la scelta e al contempo condannando intimamente il loro rapporto impuro. Trascorreva almeno due sere a settimana con i genitori, li portava fuori a cena o al cinema e si mostrava cortese e disponibile con i loro amici, e non mancava mai di ringraziare scrupolosamente la madre ogniqualvolta lo aiutava in qualche piccola incombenza. E adesso era sul punto di andare a vivere da solo all'altro capo di Londra. I genitori non avevano trovato nulla da obiettare, ma alla vigilia del trasloco, l'arredamento nuovo già tutto sistemato, i vestiti raccolti in due valigie nell'ingresso che aspettavano di essere caricate sulla macchina, scorse una lacrima solcare la guancia della madre. «Andiamo, mamma, non fare così. E se fossi andato in Australia, come il figlio di quella tua vecchia amica, com'è che si chiama?» «Non ho nemmeno fiatato» replicò Sheila Jones sulla difensiva. «Le lacrime sono più eloquenti delle parole.» «E allora che farai quando si sposa?» la canzonò il marito porgendole il fazzoletto, evento che si verificava una volta a settimana da trent'anni a quella parte, da quando cioè si erano sposati. «Spero tanto che si sposi. Vorrò bene a sua moglie.» Darel non ci avrebbe giurato. «Non avverrà molto presto» commentò. «Sentite, sabato venite a cena da me. Mi sarò già sistemato.» Sheila cominciò a tirarsi su. «Tom e Hazel vogliono salutarti, sabato ci
hanno invitato per un drink. Ho detto che saremmo andati. Ci sarà anche Nerissa.» Darel non ci pensò molto a rispondere: «Andate voi. Salutateli da parte mia.» «Oh, senza di te non ha senso. Sarebbe inutile, e poi non passeremmo insieme le poche ore preziose che ci rimangono.» Se non avesse aggiunto che ci sarebbe stata anche Nerissa forse avrebbe accettato. Nerissa Nash - perché non aveva mantenuto quel suo cognome così interessante? - era bellissima, piaceva a tutti e, come diceva suo padre, era anche una ragazza simpatica. Ma Darel guardava con sospetto il mondo delle celebrità. Lo conosceva solo attraverso i giornali, e poiché preferiva il Financial Times, non certo la guida ideale per quell'ambiente, l'idea che ne aveva era alquanto vaga, ma certe parole che richiamavano quel mondo, come locale notturno, moda, star, apparizioni pubbliche, stilista e naturalmente 'celebrità', gli procuravano una inspiegabile avversione. Non pochi esponenti di quella cosiddetta élite dovevano essere delle teste vuote, ignoranti, grossolani e banali. Gente che conduceva un'esistenza futile e infelice, fatta di relazioni umane fallimentari, famiglie sfasciate, bambini alienati e una disperata riluttanza a invecchiare. Si dava spesso del moralista, proponendosi di assumere un atteggiamento più indulgente, ma comunque non aveva alcuna intenzione di approfondire la conoscenza di Nerissa Nash. Era già abbastanza rivolgerle un 'buona sera' o un 'ciao', o accennare un saluto con la mano quando la incrociava dall'altra parte della strada. 9 Mix si ricordò di avere un appuntamento con Danila solo nel momento in cui suonarono al campanello. Aveva dimenticato di prendere una delle solite bottiglie di vino scadente, quindi si trovava costretto a offrirle quell'ottimo Merlot che si era riservato per la domenica a cena. Non era uscito di casa e, convinto di trascorrere la serata da solo, si era immerso profondamente nella lettura del terzo capitolo di Le vittime di Christie: Muriel Eady, trentun anni, viveva a Putney ed era impiegata presso la Ultra Radio Works in Park Royal. Anche Christie lavorava lì, dopo aver lasciato la polizia per ragioni non meglio appurate. I due diventarono amici (Christie aveva una certa facilità a
stringere legami di amicizia), e in diverse occasioni lei e il fidanzato uscirono insieme a Christie e signora. Muriel Eady era affetta da rinite cronica e Christie le promise di curarla con l'ausilio di un inalatore di sua creazione. Durante uno dei periodi in cui la moglie era via da casa, in vacanza dal fratello a Sheffield, invitò Muriel, le offrì una tazza di tè e le mostrò la sua invenzione. L'inalatore conteneva della tintura di benzoino, ma era collegato, cosa che Muriel non sospettava, a un tubo del gas... Arrivato a quel punto, bussarono alla porta. La vecchia non vedeva alcun bisogno di installare un citofono o un campanello per l'appartamento all'ultimo piano; per questo, nelle rare occasioni in cui qualcuno lo cercava, Mix era costretto a scendere i cinquantadue scalini e a tornare su. A meno che non stesse aspettando visite, evento davvero improbabile, la vecchia non rispondeva mai, quindi era sicuro che non avrebbe aperto. Il campanello suonò altre due volte prima che raggiungesse l'ingresso. Non doveva preoccuparsi del vino perché la ragazza aveva portato una bottiglia di Riesling e una di gin. Per qualche strana ragione, la cosa lo infastidì. Dal suo punto di vista le donne non dovevano pensare a questi particolari: nessuna donna con un po' di amor proprio si sognerebbe di farlo, perché è compito dell'uomo provvedere. La massa scura dei capelli di Danila era più voluminosa e scarmigliata del solito - ai suoi occhi era una pettinatura ridicola, che le faceva apparire ancor più minuto il volto dalla carnagione pallida. Quello che fece in seguito contribuì ad aggravare ancor più la situazione. Appena poggiate le bottiglie sul tavolino dell'ingresso, la ragazza gli gettò le braccia al collo e lo baciò. «Sono sempre così felice di incontrarti. Non vedevo l'ora che arrivasse questo momento.» Lui non rispose, e la condusse su per le scale. Davanti alla porta della signorina Chawcer c'era Otto, intento a lustrarsi il pelo. «Oh, che micetto carino!» All'esclamazione di Danila, Otto si rizzò sulle zampe e inarcò la schiena. «È tuo? Com'è grazioso!» Poi commise l'errore di protendere una mano per accarezzarlo. Il gatto si ritrasse, le soffiò contro e tentò di graffiarla prima di fuggire su per le scale. «Oh, l'ho spaventato!» «Andiamo» la esortò Mix. La ragazza si meravigliò del buio che regnava nel pianerottolo di fronte
alla porta del suo appartamento, aggiungendo che quella vetrata colorata le dava i brividi. Mix ne aveva già abbastanza, ma l'ira sfumò in blanda irritazione quando lei cominciò a girare per le stanze mostrando tutto il suo apprezzamento. Andò in soggiorno, lanciò un'occhiata distratta al poster di Nerissa Nash e subito il suo sguardo si posò su di lui. Si entusiasmava per ogni particolare. Oh, le veneziane! Oh, i cuscini, l'arredamento, i soprammobili, i paralumi. E che fantastico televisore! E quella deliziosa statua di marmo grigio raffigurante una fanciulla? Chi era? «Una divinità. Il negoziante mi ha detto che si chiama Psiche.» Preparò due gin tonic con ghiaccio, ma gli mancava il limone. «Allora, ti piace il mio appartamento?» «Grandioso! Come deve sembrarti brutta la mia stanza!» «Non è stato facile arredarlo così.» «Non faccio fatica a crederlo. Ma perché in un posto così incantevole leggi libri che parlano di delitti orrendi?» gli chiese prendendo in mano il volume lasciato con la copertina in giù sul bracciolo del divano. «Puah! È orribile. 'Lei perse i sensi, e dopo averla strangolata la violentò'» lesse a voce alta. «Dài qua!» esclamò strappandole il libro dalle mani. «Mi hai fatto perdere il segno.» «Mi dispiace. È solo che...» «Va bene, non ti preoccupare. Porta il bicchiere in camera da letto.» Avrebbe di nuovo dovuto sopportare quei gridolini e quei gemiti alla vista dei mobili e dei quadri. Perché tirarla così per le lunghe prima di fare quello per cui era venuta? Tornò in cucina e si riempì di nuovo il bicchiere, mentre Danila si aggirava per la stanza in preda a quella stessa sorta di estasi che aveva manifestato in soggiorno. Assaporò il liquore. La bottiglia azzurra di Bombay gin era di ottima qualità, doveva concederglielo. Tornò in camera da letto, fingendosi sorpreso nel trovarla ancora con i vestiti indosso. «Credevo fossi già nuda.» «Mix.» Gli si avvicinò. «Mix, dobbiamo farlo appena arrivo? Non possiamo parlare un po'?» Lui rimase meravigliato. Per la prima volta aveva preso l'iniziativa, come se si sentisse in diritto di esprimere la sua opinione sull'ordine degli eventi. Intuì di cosa si trattava. Era convinta di essere la sua ragazza, e cominciava ad approfittare della situazione. Presto si sarebbe messa a dargli ordini, senza nemmeno chiedere il suo parere.
«Parlare di cosa?» «Non lo so. Di qualsiasi argomento. Di come hai arredato casa, del tuo lavoro, del mio, di quel bel gattino che hai.» «Quel gattaccio maledetto non è mio!» sbraitò. «Non c'è bisogno di gridare.» Si spogliò, ma non nel modo in cui lui avrebbe desiderato, come una spogliarellista che sa eccitare il suo pubblico. Si tolse i vestiti come fosse sola nella stanza, e li poggiò sulla spalliera della sedia, dandogli le spalle mentre si toglieva le calze e il perizoma. Lui detestava i collant. Nessuno le aveva mai detto che era ridicolo indossare le calze col perizoma? Rimase in reggiseno, piena di vergogna per i seni troppo piccoli. È l'ultima volta che la vedo, decise; escogiterò qualche altro stratagemma per conoscere Nerissa. Danila fece per avviarsi verso il letto, ma lui la bloccò: «Aspetta un momento.» Non aveva alcuna intenzione di farlo sulla coperta di satin color avorio, che si affrettò a togliere e ripiegare con cura, quindi annunciò: «Adesso va bene.» Lei lo fissò con sguardo sottomesso e lievemente disorientato. Mix si sfilò scarpe e pantaloni, ma lasciò la camicia e i calzini. Un uomo non deve denudarsi completamente, quello spetta alla donna. Un'ira bruciante si impadronì di lui, una rabbia sorda che non sapeva spiegarsi, e quel che fece si sarebbe potuto definire uno stupro se non fosse stato che la ragazza non gli oppose resistenza. Poi scivolò via da lei per finire il suo gin. Cinque minuti dopo Danila era di nuovo in giro per l'appartamento. «Perché l'hai appesa lì?» gli chiese d'un tratto. Capì subito cosa intendeva, ma volle assicurarsene: «Alludi a Nerissa Nash?» «La desideri o cosa?» Mix si alzò in piedi. Nella sua indole albergava qualche residuo puritano, probabile retaggio dell'infanzia trascorsa tra gli Avventisti del settimo giorno. Avrebbe reagito diversamente se a muovergli quell'appunto fosse stata Colette, o meglio ancora - sarebbe stato fantastico - Nerissa, ma nel caso di Danila assumeva l'aspetto di una sfida, un tentativo di imporsi, come se desse per scontato che lui le apparteneva. Una donna come lei sapeva bene che non si gira completamente nuda nell'appartamento di un uomo se non ci si sente un po' a casa propria, se non si ha una buona ragione per ritenere che quell'uomo ti appartenga. Prese la sua vestaglia e la coprì. Lei ci rimase male. Quando la rimproverava metteva su il broncio, pro-
prio come sua madre. In piedi davanti al poster, la ragazza mise un dito sul vetro che lo rivestiva e disse: «Lei è praticamente nuda. Suppongo che questo non sia un problema.» Senza considerare il dolore che poteva arrecarle, lui affermò: «È bellissima.» Danila non rispose. Continuava a fissare la fotografia, il dito sempre premuto sul vetro. Non era alta ma sembrò farsi ancora più piccola, e sugli avambracci scoperti comparve la pelle d'oca. Lui fu preso dal rancore. Quel silenzio e l'espressione offesa così palesemente ostentata lo mettevano a disagio. «Ti va di bere qualcosa?» «No.» Aprì la bottiglia di vino. Se avesse bevuto altro gin non sarebbe riuscito a farlo di nuovo, e l'unica ragione per cui lei era lì era farlo due o tre volte. Con Nerissa, rifletté, non si sarebbe stancato mai. Poi si sovvenne dell'altro motivo per cui l'aveva invitata lì. Doveva chiederle di iscriverlo in palestra. Anzi, 'comunicarglielo', si corresse, stringendo un bicchiere di vino pieno fino all'orlo. «Senti, per diventare socio della palestra, stavo pensando di...» Lei si girò lentamente, il viso solcato dalle lacrime. Non aveva fatto caso a quello che le stava dicendo. «L'ho vista» gli rivelò. «Chi?» «Lei. Nerissa Nash.» Le cose non stavano andando come aveva previsto. Se adesso le avesse ordinato di aiutarlo a iscriversi in palestra, lei avrebbe capito all'istante che il suo unico scopo era incontrare Nerissa. Era necessario aspettare ancora. Scelse accuratamente le parole: «Dove? Vuoi dire che l'hai vista in fotografia?» «No, in carne e ossa. Era andata da Madam Shoshana per farsi leggere le pietre.» Senza avere la minima idea di ciò di cui stava parlando, la incalzò: «Vuoi dire che non è socia della palestra?» «Nerissa? Oh, no. È così in forma che immagino frequenti una palestra, ma da qualche altra parte, nel West End, a Mayfair, credo. Anch'io ero andata a farmi leggere le pietre da Madame Shoshana - a me fa lo sconto - e l'ho incrociata per le scale. Era un mercoledì di luglio. Mi ha salutato, deve essere una persona simpatica. Era una bellissima giornata, una di quelle che ti rendono felice di essere vivo.»
Mix rimase di sasso. Non riusciva a parlare. Aveva sprecato intere settimane ad andare in quel posto, perso tempo dietro macchinari che non avevano bisogno di manutenzione, buttato via i soldi guadagnati lavorando duramente e sprecato le sue serate con quella puttana. I capelli annodati maliziosamente all'indietro erano, come sempre accadeva dopo le loro colluttazioni, ricaduti lisci sulle spalle, simili a code di topo. Era sbalordito e fuori di sé dalla rabbia per la rivelazione appena ricevuta, e tutto per colpa di quella stupida, brutta e ignorante, con la faccia lattiginosa e il petto tutto ossa. Dunque, Nerissa non frequentava la palestra. Era andata lì solo per farsi predire la sorte da una chiromante, e senza dubbio una volta sola. Del tutto inconsapevole dell'ira che si era impadronita di lui, Danila disse: «E, sai, vista da vicino non è la supermodella che appare in questo poster. Ha la pelle un po' rugosa - be', essendo così scura è normale. Credo che abbiano ritoccato la foto...» Non ascoltò il resto della frase. L'odio si unì alla collera che lo devastava. Come osava criticare la donna più bella del mondo? Ebbe l'impressione che quell'insulto gli scorticasse il cervello. Cercò a tentoni qualche oggetto, una cosa qualsiasi con cui scaricare la furia che lo pervadeva. Le mani si serrarono attorno alla Psiche di marmo e ancora una volta gli sembrò di sentire Javy che lo accusava di aver colpito Shannon, e la madre che assisteva inerte. Chi stava per abbattere con quell'arma? Javy? La madre? Quella ragazza senza dignità? «Cosa fai?» Furono le sue ultime parole. Mentre con la statua la colpiva ripetutamente alla testa, dalla gola le uscirono solo grida e gorgoglii. Si era immaginato che il sangue fluisse lentamente dalle ferite, invece zampilli scarlatti schizzarono dappertutto. Lei continuava a guardarlo con una fissità che esprimeva orrore e stupore. Le sferrò un colpo definitivo sulla fronte, così da chiudere quegli occhi sbarrati. La ragazza si abbatté di schianto, trascinando con sé il poster che le rovinò sulla schiena. Lasciò cadere la statua sul pavimento lucido. Gli parve di udire un rumore infernale, e temette che da un momento all'altre qualcuno sarebbe venuto a vedere cosa fosse successo. Ma non c'era nessuno, naturalmente. Nessuno. Seguì un silenzio di tomba, come in un immenso deserto, o in una casa sul mare dove giunge smorzato solo il frangersi delle onde. La statua continuò a rotolare per qualche secondo, poi rimase immobile. Adesso l'unico movimento era quello del sangue che gocciolava sul
vetro. 10 Si avvicinò lentamente alla finestra, sollevò una stecca senza tirare su la veneziana e guardò di sotto. Le luci nel retro dei caseggiati che davano sulla strada illuminavano i giardini. Non si vedeva nessuno. Il luogo era immerso in una quiete assoluta, non c'era traccia di essere umano, automobile o uccello. Una pallida luna crescente si era levata nel cielo striato di nuvole. Si accostò alla porta d'ingresso e rimase in ascolto. Anche da lì non proveniva alcun rumore. «Nessuno lo sa» esclamò a voce alta. «Non sanno cosa è accaduto, nessuno tranne me.» E poi, come per difendersi da un'accusa: «Non volevo farlo, se l'è cercata. È accaduto e basta.» L'istinto era di andare a chiudersi in camera sua, per celare alla vista quel che aveva fatto. Per un po' sedette sul bordo del letto con la testa tra le mani, la porta della stanza aperta. Al trillo del telefono provò uno spavento inaudito. Sobbalzò così bruscamente che temette di essersi spezzato un osso. Pensò subito alla polizia: qualcuno doveva averla avvertita. Sanno che ho commesso un delitto. Hanno sentito le grida, o il rumore della statua. Il telefono smise di squillare per qualche secondo, per poi riprendere quasi subito. Fu costretto a rispondere, la voce roca e tremante. «Ti sei beccato anche tu la famigerata influenza?» esordì Ed. «No, sto bene.» «Sì? Be', meglio così. Io invece penso di essermela presa. Senti, domani potresti sostituirmi con i miei clienti? Solo quelli importanti.» Gli fornì nomi e numeri di telefono. O, almeno, così parve a Mix. Non capiva ciò che stava accadendo. «Lo so che è sabato, ma non ti porterà via molto tempo. Più che altro bisogna tranquillizzarli.» «Va bene, come vuoi.» «Magnifico. Un'altra cosa, Mix. Mercoledì io e Steph festeggiamo il nostro fidanzamento. Per quel giorno devo tornare in forma. Diamo una festicciola all'Old Sun, alle otto e mezzo. Non mancare.» Mix riagganciò. Tornò lentamente nel soggiorno, a occhi chiusi. Per un attimo lo sfiorò l'idea che fosse tutto un sogno, un incubo spaventoso. Adesso avrebbe riaperto gli occhi, e il pavimento sarebbe stato sgombro. Lei era tornata a casa. Annaspò fino al divano, sedette tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, e la prima cosa che vide fu il vetro sporco di sangue, ormai
coagulato. Alcuni rivoletti si erano rappresi in gocce color cremisi scuro. Quello che sembrava un sospiro si tramutò in singhiozzo, e cominciò a tremare. Anche Reggie si era sentito così? O era un uomo dalla tempra più forte, più dura? Si rifiutava di ammetterlo. Comunque la ragazza se l'era cercata - e lo stesso valeva per le vittime di Reggie. Doveva agire. Non poteva lasciarla lì. Se anche gli fosse occorsa l'intera notte, doveva ripulire l'appartamento e decidere come disfarsi del corpo. Gli occhi, che aveva tentato invano di chiudere, lo fissavano sbarrati, sotto il taglio in mezzo alla fronte. Prese un tovagliolo nero di lino da un cassetto e glielo adagiò sul viso. Adesso andava meglio. Aveva ancora indosso solo le mutande, macchiate di sangue. Le sfilò gettandole sul pavimento e si infilò un paio di jeans e una felpa nera. Il corpo era caduto oltre il bordo del tappeto e quasi tutto il sangue si era riversato sul pavimento lucido di legno chiaro, sulle pareti e sul vetro del poster. Per fortuna aveva deciso di farlo incorniciare, anche se gli era costato un mucchio di soldi. Quel pensiero gli diede un po' di sollievo. Segno che stava riacquistando le sue facoltà. La prima cosa da fare era avvolgere il corpo con qualcosa e rimuoverlo. E poi? Doveva metterlo nel cofano della macchina e scaricarlo da qualche parte, in un parco o in un cantiere. Quando anche l'avessero trovato, non avrebbero potuto risalire a lui. Nessuno sapeva che si frequentavano. Trovò un lenzuolo che faceva al caso. Quando si era trasferito lì aveva acquistato tutta biancheria di lino, ma aveva conservato qualche capo che usava quando abitava a Tufnell Park. Com'erano cambiati i suoi gusti da quando comperava lenzuola rosse! Tuttavia, quel colore si adattava perfettamente all'uso che doveva farne: avrebbe nascosto il colore del sangue. Sforzandosi di guardare il meno possibile, avvolse il cadavere nel lenzuolo. Era leggero e aveva un aspetto fragile, tanto che si chiese se non fosse stata anoressica. Poteva darsi. Conosceva così poco di lei, non aveva mai suscitato il suo interesse. Dopo aver trascinato l'involucro nel piccolo ingresso, prese dalla cucina straccio, secchio e detersivo e si mise a ripulire il soggiorno. Cominciò dal poster, e quando il vetro tornò a brillare si sentì molto meglio. Aveva temuto che il sangue - ce n'era così tanto - fosse penetrato all'interno della cornice e avesse macchiato la fotografia di Nerissa. Non aveva mai notato quanto la statuetta di Psiche somigliasse a Nerissa, quasi fosse stata modellata sulle sue sembianze. La pulì per bene nel lavandino della cucina, con
acqua calda e poi fredda. Il sangue colava via dalla testa e dal petto, e l'acqua da rossa scolorò in rosa, fino a tornare trasparente. Sull'orlo del tappeto erano rimaste delle macchie. Strofinò a fondo, risciacquò e strofinò ancora, poi asciugò la stoffa, fino a quando non tornò pulita. Togliere le gocce di sangue dalle assi lucide del pavimento non fu un problema: erano verniciate di lacca e le lavò senza problemi. Peccato che i muri non erano di quello stesso verde scuro. Avrebbe dovuto ridipingerli; aveva ancora un barattolo da due litri di una tinta chiamata Cumulus. L'avrebbe fatto la domenica successiva. Dopo aver versato nel lavandino il quarto secchio di acqua rossastra e messo i panni insanguinati in lavatrice, sedette a bere un bicchiere di gin. Gli parve squisito, come se non bevesse da mesi. Una cosa era certa: doveva disfarsi del cadavere. Ma come? Se, per esempio, l'avesse scaricato a Holland Park, l'avrebbero certamente visto. E poi c'era anche un altro problema: quell'unica volta che l'aveva portata fuori, al KPH, qualcuno poteva averli notati insieme. Lei gli aveva assicurato di non aver detto a nessuno che si frequentavano, ma c'era da crederle? Aveva ammesso di aver confidato a Madam Shoshana che aveva un fidanzato, pur non rivelandone il nome. La barista del KPH avrebbe potuto riconoscerlo. La Chawcer non era andata ad aprire la porta, ma se glielo avessero chiesto avrebbe testimoniato di aver sentito bussare. E poteva anche aver visto Danila sbirciando da dietro la finestra. No, non era sufficiente scaricare il cadavere da qualche parte. Lo sguardo gli cadde sul libro che avevano lasciato sul tavolo, Le vittime di Christie. Anche Reggie, considerò, aveva dovuto affrontare lo stesso problema. Era stato visto in giro con Ruth Fuerst, alla mensa aziendale della Ultra Vox mangiava in compagnia di Muriel Eady e con la moglie erano usciti spesso insieme a lei e al suo ragazzo. Non poteva rischiare che trovassero il corpo, sarebbero certamente risaliti fino a lui. Bisognava escogitare qualcosa di più sicuro e al tempo stesso di più audace. Il libro lo ispirò. I vicini avevano visto quel che Reggie stava facendo, si erano messi persino a chiacchierare con lui mentre in giardino scavava il fosso in cui di notte avrebbe sepolto il cadavere della Fuerst. E vi seppellì anche Muriel Eady, a poca distanza dalla prima tomba. Sfogliando il volume, Mix notò la fotografia del giardino. Il luogo dove era stato rinvenuto un osso della gamba era cerchiato di bianco, mentre la tomba di Muriel Eady era contrassegnata da una croce. A parte quei segni, nulla faceva pensare che in quel giardino fossero stati occultati dei cadave-
ri. Prima di seppellirli, Reggie aveva nascosto i corpi sotto le assi del pavimento o nella stanza per il bucato. Chissà se poteva fare lo stesso - in quella casa esisteva una stanza simile? Doveva comunque esserci uno scantinato, e poteva accedere al giardino, seppur non agevolmente. A ogni modo viveva in una casa molto più grande della catapecchia di Reggie, che abitava in una porzione di un edificio a schiera. Richiuse il volume, si mise in tasca la chiave e uscì, sbirciando l'orologio: le undici e mezzo. Quella donna, quel vecchio pipistrello, aveva un udito sorprendente, non solo per la sua età, ma dimorava due piani sotto e a quell'ora probabilmente stava già dormendo. Si fermò sul pianerottolo, in ascolto. Voltò a sinistra e imboccò il corridoio. Naturalmente c'era sempre la possibilità di imbattersi nel fantasma, ma cercò con tutte le sue forze di convincersi che gli spettri non esistevano. Era stato un parto della sua fantasia, e la porta l'aveva aperta il gatto. Per tranquillizzarsi strinse la croce che portava nella tasca dei jeans. La luce si spense dopo pochi secondi, come sempre, ma aveva con sé una torcia. Nel buio più fitto aprì la prima porta a sinistra e si ritrovò in una stanza che doveva essere adiacente al soggiorno del suo appartamento. La torcia emanava un bagliore fioco, ma dalle finestre prive di tende filtrava un chiarore indistinto proveniente dalle luci ancora accese sul retro delle case, oltre a un flebile lucore lunare. Avrebbe preferito che la stanza fosse più illuminata. Non riusciva a trovare l'interruttore sulla parete, e nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il portalampada con la cordicella per accendere la luce scorse solo uno strano oggetto da cui pendevano due fili di metallo. La cosa lo incuriosì. Puntò la torcia verso l'alto. Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto che si trattava di un lume a gas. Una volta aveva seguito un documentario alla TV sull'istallazione della rete elettrica a Londra negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando vennero sostituiti gli impianti delle luci a gas. Negli anni Sessanta, a Portland Road, non lontano da lì, c'erano ancora delle abitazioni illuminate a questo modo. La prima mobilia che scorse fu il telaio di un letto e un comò con sopra uno specchio. Bisognava essere alti almeno due metri per potervisi specchiare. Una parete era occupata quasi per intero da una libreria, con le scansie ricurve sotto il peso di volumi affastellati l'uno sull'altro. Uscì nuovamente nel corridoio ed entrò nella stanza di fronte, illuminata dalla luce proveniente da St Blaise Avenue. Dopo un rapido controllo, appurò
che nemmeno lì era stata installata l'elettricità. Aveva la sensazione di essersi smarrito nel tempo, in un'epoca antecedente quella di Reggie e dei suoi delitti, quando la moderna tecnologia, con tutti i suoi strumenti per semplificare l'esistenza, era ancora di là da venire. Rabbrividì. E se si fosse trattato di una regressione nel tempo, senza più la possibilità di tornare nel presente? O magari stava sognando. Era tutto un sogno, l'omicidio, il sangue, il gas, il buio. Ma non era così. L'ambiente odorava di chiuso. Era stata una giornata insolitamente calda. In tutto l'edificio, solo le finestre del suo appartamento, all'ultimo piano, erano aperte. Le altre rimanevano sempre chiuse. L'aria era stantia e la polvere aleggiava ovunque. Stranamente, poiché lì dentro non entrava mai aria fresca, uno sciame di mosche ronzava nel buio, sul vetro della finestra. Tornò sui suoi passi, superò la porta del suo appartamento e imboccò il corridoio di destra. Entrò nella prima stanza, e a destra trovò l'interruttore della luce, ma la lampadina non c'era. Dalla strada giungeva un lieve chiarore, perché qui le finestre avevano le tende. Quando le scostò, con un movimento troppo brusco, grumi di polvere misti a brandelli di stoffa caddero sul davanzale. La stanza era arredata sommariamente con il telaio in ferro di un letto, una sdraio sfondata, una sedia con la spalliera dritta e una gamba rotta, poggiata su un vaso. La sdraio gli richiamò alla mente Reggie, che nella sua cucina aveva improvvisato una sedia simile a quella, realizzata con corde intrecciate, su cui aveva fatto accomodare almeno una delle sue vittime, Kathleen Maloney, per ucciderla con il gas. Sul pavimento scorse un giornale piegato. Doveva trattarsi di una copia del Sun vecchia di decenni, pensò, probabilmente dimenticata lì dagli anni Cinquanta. Ma quando la raccolse, esaminandola alla luce gialla dei lampioni, notò che risaliva appena a ottobre. La data lo turbò: tredici. Il vecchio pipistrello doveva essere stato lì e aveva dimenticato il giornale. Chi avrebbe mai pensato che leggeva il Sun? Forse aveva lasciato il quotidiano di quel giorno con l'intento di spaventarlo. Sì, doveva essere così. Anche nella stanza di fronte, adiacente alla parete dove aveva appeso il poster di Nerissa accanto al quale Danila era morta, mancava l'aria. L'elettricità c'era, ma non la lampadina. Era completamente vuota, eccezion fatta per il telaio di un letto. Scostò la sottile tenda dalla finestra. Fuori si intravedeva lo stesso paesaggio che si osservava dal suo appartamento, abbaini, porzioni di tetto delle case vicine, alberi dalle forme aguzze, tozzi cespugli in vasi da fiori che il vecchio teneva sul tetto di un garage, un grosso camino con una dozzina di canne fumarie che svettavano da una distesa di
tegole, il vetro infranto del soffitto di una veranda. Da lì, rifletté, si poteva accedere facilmente alla stanza accanto. Chiunque avrebbe potuto arrampicarsi ed entrarvi. Ma quando cercò di aprire la porta la trovò chiusa. Si chinò per guardare dal buco della serratura e s'avvide che dall'altra parte c'era la chiave. Era stata la vecchia a chiuderla. Una precauzione, per quanto minima, contro i ladri. Era un miracolo che quell'aria stantia non l'avesse soffocata. Rimaneva un'ultima stanza. Era completamente vuota, spoglia di ogni mobile che poteva aver contenuto. La finestra aveva il bastone ma non la tenda. Un tempo sul pavimento doveva esservi stato inchiodato e incollato un tappeto, poi ridotto a brandelli perché si notavano i buchi lasciati dai chiodi e dei frammenti di adesivo. Sapeva che alle volte lei si spingeva sin lassù, ma non nelle stanze illuminate a gas. Il primo degli ambienti che aveva passato in rassegna, quello in cui aveva notato con sorpresa quell'arcaico sistema di luci, avrebbe fatto da tomba a Danila. Christie aveva occultato il cadavere di Ruth Fuerst sotto le assi del pavimento. Mix si ricordò di come, anni prima, quand'era ancora un ragazzo, si fosse gelato uno dei tubi dell'acqua della casa di Coventry, dove viveva con la madre. Lei aveva detto che non poteva farci niente perché aveva la schiena malandata. In quel periodo Javy l'aveva lasciata - aveva sempre finito per tornare, fino all'ultima volta -, così lui era andato su nel bagno e, seguendo le sue istruzioni, aveva scardinato tre assi del pavimento. Per prima cosa aveva dovuto togliere le mattonelle. Adesso sarebbe stato molto più facile, dato che doveva levare solo le assi, tra l'altro molto vecchie. Gli unici arnesi a portata di mano erano quelli che adoperava per la manutenzione degli attrezzi ginnici. Quando tornò nel suo appartamento per prenderli, poco ci mancò che inciampasse nel cadavere lasciato nell'ingresso. Si mise a rovistare nella borsa, le mani madide di sudore. Chiavi inglesi, un martello, cacciaviti... La chiave più grande poteva andare bene. Se necessario avrebbe usato il cacciavite per sollevare le assi, anche se rischiava di danneggiarlo. Uscì di nuovo sul pianerottolo, senza richiudere la porta, e si fermò ad ascoltare. Malgrado la casa fosse sempre immersa nel silenzio, ebbe l'impressione che quella notte l'assenza completa di rumori avesse un che di innaturale. Si era fatta mezzanotte e mezzo e la vecchia doveva dormire da ore, ma il gatto? Aveva l'abitudine di trascorrere la notte sulle scale. E perché Reggie non era apparso? Forse la croce l'aveva protetto, o l'apparizione non era che una sua fantasia, si rimproverò severamente. E allora cos'era quella figura con gli oc-
chiali luccicanti che gli stava accanto e lo osservava? Chiuse gli occhi per non vedere, poi si precipitò nell'appartamento illuminato, ansimante. Sbarrò la porta e si versò ancora da bere, molto più di quanto avesse fatto fino a quel momento. Sedette sul pavimento accanto al cadavere e ingollò tutto il gin. L'alcol gli arse in gola, e si rialzò barcollando. Per l'ennesima volta uscì sul pianerottolo e rimase in ascolto; alla fine si decise a tirare fuori il corpo. Lo trascinò lungo il corridoio come un fagotto, avvolto nel lenzuolo rosso, ed entrò nella prima stanza a sinistra. Richiuse la porta senza fare rumore e accese la torcia. Come si suol dire, a Londra il buio non esiste; infatti dalla finestra filtrava un tenue chiarore Dio benedica l'uomo delle faraone, che teneva le luci accese fino a notte fonda -, che gli permise di vedere dove erano posizionati i chiodi che fermavano le assi. Con l'ausilio del cacciavite e della chiave inglese le scardinò con una certa facilità. Sotto, fra una trave e l'altra, gli parve di capire che ci fosse uno spazio di circa trenta centimetri, anche se attraversato da cavi e vecchie tubature di piombo. Come la polvere avesse potuto annidarsi lì sotto era un mistero, eppure quando ritrasse le mani da quella cavità le trovò ricoperte di uno spesso strato di lanugine. La torcia aveva risvegliato le mosche, che cominciarono a svolazzare attorno al fascio di luce. Si era ripromesso di dare un'ultima occhiata al cadavere prima di nasconderlo lì sotto, ma non ne ricordava la ragione e non riuscì a trovare il coraggio di farlo, perché non sopportava di rivedere quella ferita sul volto. Il corpo scivolò nell'interstizio del solaio senza alcun rumore, leggero come una piuma. La cavità vi si adattava alla perfezione, quasi che le sue dimensioni fossero state calcolate appositamente. Gli ci volle un attimo per rimettere a posto le assi. Una mosca gli si posò sulla mano: la schiacciò con furia spropositata. Non osò ribattere i chiodi a quell'ora della notte. L'avrebbe fatto l'indomani; se anche l'avessero sentito, la vecchia o chicchessia, avrebbero pensato che stava appendendo qualcosa, magari un quadro. A un certo punto fu colto da un brivido ed ebbe quasi la sensazione che Reggie fosse lì, alle sue spalle, intento a osservarlo, forse persino chino su di lui. Rimase bloccato dalla paura. Nonostante provasse ammirazione per le sue imprese, unita a rammarico per la terribile fine in cui era incorso, era terrorizzato, perché un morto che torna in vita non è un evento normale. Se si fosse voltato e l'avesse visto, non avrebbe retto allo spavento. Chiuse gli occhi e si rimise in piedi, traballando sulle gambe, con un sommesso piagnucolio. Se avesse avvertito una mano sulla spalla sarebbe morto di pau-
ra; gli sarebbe bastato sentire un respiro perché il cuore gli si spaccasse. Afferrò la croce e si voltò. Nulla. Certo che no, non c'era mai stato. I rumori, i sospiri, la porta che si apriva: era tutto frutto di un'illusione prodotta da quella casa raccapricciante, che ricordava lo scenario di un film dell'orrore. Quando fu di nuovo nel suo appartamento si sentì enormemente sollevato. Adesso avvertiva il silenzio come puro piacere, la giusta condizione di quel luogo a quell'ora della notte. Aveva la bocca terribilmente amara; fu colto dalla nausea, la testa gli scoppiava. Avrebbe fatto meglio a non bere oltre, ma riempì il bicchiere dove aveva preso il gin con il Riesling da quattro soldi che aveva portato lei. All'improvviso ebbe una folgorazione; si trascinò barcollando nella stanza da letto e li vide: i vestiti della ragazza giacevano poggiati ordinatamente sulla sedia. Ricordò quanto quell'ordine lo avesse irritato. Reggie aveva avvolto il cadavere di Ruth Fuerst nel suo cappotto, e l'aveva seppellito insieme ai vestiti. Avrebbe dovuto farlo anche lui. Stramazzò sul letto, con lo sguardo inespressivo fisso sull'orologio che segnava l'una e quaranta. Per quella notte non ce l'avrebbe fatta a tornare nella stanza, togliere di nuovo le assi e poi risistemarle. L'indomani avrebbe messo quei panni in una borsa e li avrebbe fatti sparire, in uno o in diversi bidoni dell'immondizia. Anzi, aveva un'idea migliore. Li avrebbe lasciati in uno di quei raccoglitori di vestiti da vendere per beneficenza, i cui proventi andavano ai malati di paralisi cerebrale, o roba del genere. E adesso, il meritato riposo... 11 Era l'anniversario del giorno in cui per la prima volta Reeves si era fermato in salotto a prendere il tè con lei. Mezzo secolo prima. L'aveva cerchiato in rosso sul calendario Beautiful Britain appeso in cucina sopra a quello dell'anno precedente, dove facevano bella mostra foto di gattini e fiori tropicali. Gwendolen aveva conservato tutti i calendari dal 1945 in poi. Erano attaccati al gancio, e man mano che lo spazio si esauriva stipava i più vecchi in qualche cassetto. Erano ovunque: tra i libri, in mezzo a panni vecchi, sopra o sotto ogni sorta di oggetti. Le annate dal 1949 al 1953 le teneva più da conto. Il calendario del 1953 lo aveva appeso per ovvie ragioni. Vi erano segnati tutti i giorni in cui aveva preso il tè in compagnia di Stephen Reeves. L'aveva rinvenuto per caso l'anno precedente, mentre cercava la comunica-
zione riguardante il rimborso di 200 sterline spettante ai pensionati per le spese di riscaldamento. E lì, accanto alla lettera, aveva trovato il calendario con i dipinti di Venezia del Canaletto. A quella vista il cuore le aveva cominciato a battere forte. Naturalmente non aveva mai dimenticato nemmeno un giorno trascorso insieme a lui, ma l'annotazione 'Tè con il Dr. Reeves' in qualche modo suffragava i ricordi, conferiva loro realtà, costituiva la prova tangibile che non si era trattato di un sogno. Accanto alla data di un mercoledì di febbraio aveva persino appuntato un raro commento: 'Purtroppo, non c'è Bertha né altri a servire il tè.' Come tanti, Gwendolen aveva condotto un'esistenza tranquilla e ritirata, povera di eventi memorabili. Di tutti serbava memoria, ma nessuno eguagliava lo stupore provato quando si era recata a far visita a Christie. Erano trascorsi oltre cinquant'anni. Lei aveva da poco superato i trenta. La domestica che preparava il tè e svuotava i vasi da notte ai piedi del letto era al servizio della sua famiglia da un paio di anni. Si chiamava Bertha, e aveva diciassette anni. Non ne ricordava il cognome, se mai l'aveva saputo. Il professore non provava alcuna curiosità per chi gli stava intorno, e la signora Chawcer era troppo indaffarata con l'organizzazione Santi cattolici apostolici per avere tempo di occuparsi dei problemi della servitù, ma a Gwendolen non era sfuggito il cambiamento intervenuto nel corpo della ragazza. Passava con lei molto più tempo degli altri abitanti della casa. «Stai diventando pingue, Bertha» le fece notare, impiegando il vocabolo preferito dagli scheletrici Chawcer. Gwendolen era troppo innocente e ingenua della vita per sospettare la verità, e quando Bertha le confessò come stavano le cose rimase profondamente turbata. «Ma non puoi essere incinta, Bertha. Hai solo diciassette anni e non puoi aver...» Non riuscì a terminare la frase. «Signorina, per come vanno queste cose avrei potuto farlo già a undici anni, anche se è successo solo adesso. Non lo dirà alla signora o a suo padre, vero?» Non fu difficile prometterglielo. Avrebbe preferito morire piuttosto che affrontare un simile argomento con il professore. E quanto alla madre, non avrebbe mai dimenticato la volta in cui, attanagliata dalla vergogna e dalla timidezza, le aveva confessato con un filo di voce che un vecchio le aveva mostrato le sue vergogne. La madre le aveva intimato di non pronunciare mai più simili oscenità e di lavarsi la bocca con il sapone. «Cosa hai intenzione di fare con il bambino?» «Non ci sarà nessun bambino, signorina. Mi sono procurata il nome e
l'indirizzo di una persona che mi aiuterà a liberarmene.» La cosa che più disorientava Gwendolen era ritrovarsi in una landa sconosciuta, popolata da donne e uomini che facevano cose proibite e parlavano un linguaggio infarcito di parole blasfeme, una terra laida e misteriosa, pericolosa quanto imbarazzante. Arrivò a pentirsi di aver chiesto a Bertha il motivo per cui stava ingrassando. Mai fu sfiorata da un sentimento simile alla compassione per quella ragazza che per quattro soldi sfacchinava in casa dieci ore al giorno, facendo lavori che gente della sua classe trovava detestabili. Non le era mai passato per la mente di mettersi nei suoi panni, di provare a immaginare il disonore che si sarebbe abbattuto come una clava su una donna non sposata in quelle condizioni, o l'orrore di vedere il proprio corpo ingrossare sino al punto in cui non avrebbe più potuto ingannare gli altri. Provava più curiosità di quanto avrebbe ammesso, ma era terrorizzata all'idea di rimanere coinvolta in quella faccenda. «Allora andrà tutto bene» tagliò corto, in tono gioviale. «Signorina, posso chiederle un favore?» «Suppongo di sì» rispose Gwendolen con un sorriso. «Mi accompagnerebbe da lui?» Gwendolen la prese come un'impudenza. Era stata educata ad aspettarsi un atteggiamento ossequioso dalla servitù, come del resto da chiunque appartenesse alle 'classi inferiori.' Ma la timidezza e il timore di tutto ciò che era diverso e apparteneva a quel mondo a lei sconosciuto non la fermarono. Sentiva la curiosità, emozione mai provata in precedenza, insinuarsi nella mente e rimanere in attesa, vibrante. Aveva l'opportunità di scoprire qualcosa di più su quella landa a cui non aveva accesso. Così, invece di replicare alla richiesta di Bertha con un secco: 'Come osi farmi una simile richiesta?' le rispose docile, seppur con il cuore in tumulto: «Sì, se lo desideri.» La strada era squallida, costeggiata al suo limitare dalle vetuste ciminiere di una fonderia d'acciaio, e nei pressi correvano in superficie i binari della metropolitana che collegava Ladbroke Grove a Latimer Road. L'uomo da cui si stavano recando abitava al numero 10. Entrarono in una casa sudicia in cui aleggiava un tanfo di sporcizia. In cucina c'erano due sedie a sdraio. Christie era sulla quarantina, forse anche poco sotto i cinquanta, difficile a dirsi, magro e piuttosto alto, con un viso affilato e occhiali spessi. Ebbe subito l'impressione che non gradisse la sua presenza; qualche tempo dopo, naturalmente, ne comprese la ragione. Avrebbe preferito che nessuno fosse al corrente che Bertha era stata in quella casa. I due sedette-
ro sulle sedie, lei preferì rimanere in piedi. La sua presenza lo irritava, forse perché era solito parlare con le sue clienti senza testimoni: fatto sta che le disse subito e senza mezzi termini che voleva rimanere solo con Bertha. Quello che doveva fare l'avrebbe fatto con l'aiuto della moglie, ma Gwendolen non la vide né la sentì aggirarsi per casa. Quel giorno, la rassicurò Christie, avrebbero solo fissato un appuntamento per l'esame e per il 'trattamento', ma lei doveva aspettare fuori. Il rapporto che stabiliva con le pazienti era di natura strettamente personale. «Non ci metterò molto, signorina» la rassicurò Bertha. «Se mi aspetta alla fine della strada la raggiungo tra un minuto.» Un'ennesima impudenza, eppure Gwendolen rimase ad aspettarla. Lì da sola sulla strada attirava l'attenzione dei passanti per il trucco accurato, i boccoli della permanente e il lungo vestito azzurro che le modellava il corpo. Avvampò per l'imbarazzo quando un uomo le fischiò dietro. Finalmente, Bertha arrivò. Di minuti ne erano passati dieci. L'appuntamento era fissato per la settimana seguente, nel suo giorno libero. «Signorina, non deve saperlo nessuno, mi raccomando.» Però Christie l'aveva spaventata. Sua moglie non era in casa, e inoltre le aveva chiesto di fare delle cose strane e imbarazzanti, come alzare la gonna o aprire la bocca perché lui le guardasse dentro la gola con uno specchietto attaccato a un bastoncino. «Devo tornarci, vero, signorina? Non posso avere un bambino se non sono sposata.» Gwendolen avrebbe dovuto chiederle chi era il padre del bambino e dove fosse, se era a conoscenza del misfatto e se esisteva qualche possibilità che la sposasse. Ma era un argomento estremamente scabroso, sordido, addirittura. Al sicuro tra le pareti domestiche, accomodatasi sul divano nell'atmosfera tranquilla e raffinata di St Blaise House, si ritirò nel suo mondo ovattato, con il settimo volume della Recherche di Proust. In quei libri le ragazze non rimanevano incinte... Bertha non tornò da Christie. Era terrorizzata. Gwendolen apprese dai giornali dei delitti commessi da quell'uomo, delle ragazze che si recavano da lui per abortire o per curare il catarro, della moglie, forse anche della donna con il bambino che abitava al piano superiore, solo nel 1953, quando già da parecchio Bertha non era più alle dipendenze della sua famiglia. Andò via prima della nascita del figlio, riuscì anche a trovare marito, anche se Gwendolen non seppe mai se si trattava dell'uomo che l'aveva messa incinta. Era una faccenda estremamente squallida. Ma non dimenticò
mai quella visita a Rillington Place, e il rischio corso da Bertha di fare la fine di quelle donne murate negli armadi o seppellite nel giardino. Bertha - erano secoli che non ci pensava. Quella visita a casa di Christie doveva essersi svolta tre o quattro anni prima del processo e della sua esecuzione. Avrebbe perso delle ore a cercare il calendario del 1949 ma, in fin dei conti, che altro aveva da fare? Da giorni aveva finito Middlemarch, aveva già riletto La rivoluzione francese di Carlyle e completato le opere di Arnold Bennett, sebbene le considerasse una lettura troppo leggera per dedicarvi il tempo necessario. Adesso aveva intenzione di leggere Thomas Mann. Non l'aveva mai fatto, imperdonabile omissione, pur avendo l'opera completa sepolta da qualche parte. Il calendario I Funghi inglesi - che argomento ridicolo! - del 1949 lo trovò dopo un'ora, in una stanza all'ultimo piano, adiacente all'appartamento del signor Cellini. La sera prima era stata svegliata da un grido e un tonfo che parevano provenire proprio da lì, ma probabilmente si sbagliava. Era una delle stanze in cui il professore non aveva reputato necessario installare l'energia elettrica. A quel tempo Gwendolen era una bambina, eppure ricordava perfettamente i lavori realizzati nelle stanze dei primi due piani, gli operai che scardinavano le assi del pavimento e facevano buchi nelle pareti. Era una mattina calda e luminosa. Le tende, mai sostituite, erano ridotte a brandelli sin dagli anni Trenta, e la luce del sole inondava l'ambiente. Era un'eternità che non saliva lassù, non ricordava nemmeno più da quando. I libri ammassati nella libreria erano molto antichi, quelli che leggeva con meno frequenza e per i quali non aveva trovato posto ai piani inferiori, volumi rilegati di riviste vittoriane con i romanzi di Sabine Baring-Gould e R.D. Blackmore, Le opere complete di Samuel Richardson e L'origine delle specie di Darwin. Ma di Thomas Mann nessuna traccia. Se non l'avesse scovato avrebbe finito per rileggere Darwin. Controllò anche i cassetti sotto gli scaffali. Erano zeppi di matite spuntate, elastici, fatture e bollette, oltre a frammenti di oggetti di porcellana imbustati ed etichettati da qualcuno con l'intenzione di ripararli. La voluminosa cassettiera era la sua ultima speranza. Mentre percorreva i pochi passi per raggiungerla inciampò, e se non vi si fosse aggrappata sarebbe finita bocconi. Una delle assi sporgeva dal pavimento di almeno due centimetri. Chinandosi quanto le consentivano le ginocchia, esaminò il pavimento servendosi degli occhiali da lettura e della lente d'ingrandimento che tene-
va nelle tasche del cardigan, facendo uso di entrambi. Sembrava che le assi non fossero fissate con i chiodi, ma era una cosa davvero curiosa: evidentemente le lenti non erano sufficienti a vedere bene. Strano. Forse era stata l'umidità a sollevarle. La casa era infatti particolarmente umida, con la condensa che proveniva dal terreno e dalle pareti. A fatica si piegò ancor più sulle ginocchia, con le giunture che scricchiolavano, e tastò la superficie dell'asse rialzata. Era asciutta. Strano, pensò di nuovo. Non si spiegava nemmeno tutti quei buchetti, cosparsi a dozzine sulle parti in legno. Forse era sempre stato così, e non ci aveva mai fatto caso. Si raddrizzò e si mise a cercare nella cassettiera. Il calendario con le foto dei funghi era nel secondo cassetto, insieme alla proposta di un costruttore che le aveva offerto una ingente somma di denaro per acquistare la casa, nel 1998. Non ricordava la ragione per cui l'aveva lasciata lì, cinque anni prima, ma era certa che allora le assi del pavimento erano tutte a posto. Si avvicinò alla finestra per avere più luce. Eccolo lì, il 16 giugno, un giovedì. 'Accompagnata B. a Rillington Place'. Quello lo ricordava, però aveva dimenticato l'annotazione in corrispondenza del giorno seguente: 'Credo di avere l'influenza, ma il nuovo dottore sostiene che si tratta solo di un raffreddamento.' Il cuore le si mise a battere all'impazzata, tanto da costringerla a portare una mano al petto, come a tenerlo fermo. Era il giorno del loro primo incontro. Si era recata allo studio medico di Ladbroke Grove, aveva aspettato nella sala d'attesa convinta di trovarsi davanti il vecchio dottor Smith, ma l'uomo che le aveva aperto la porta accogliendola con un sorriso era Stephen Reeves. La mano che reggeva il calendario ricadde lungo il fianco, e lo sguardo si perse lontano, fuori dalla finestra, indietro nel tempo, fino a quel giorno remoto della loro giovinezza, quando si erano conosciuti. Otto dormiva appoggiato alla parete, i volatili con la crinolina svolazzavano nell'angusto spazio loro concesso, mentre il loro proprietario si stava avvicinando per dar loro del granturco. Stephen era lì, davanti a lei, la folta chioma bruna, gli occhi sorridenti che scintillavano, e le stava dicendo: «Stamattina non ci sono molti clienti. Cosa posso fare per lei?» Non fosse stato che Kayleigh Rivers s'era svegliata con un brutto raffreddore, il fine settimana sarebbe trascorso senza che nessuno si accorgesse della scomparsa di Danila. Il suo turno in palestra era dalle otto alle sedici; Kayleigh invece lavorava dalle sedici alle venti e inoltre il sabato e la domenica mattina. L'aveva cercata sul telefonino per chiederle di sostituir-
la quel fine settimana, e non ottenendo risposta aveva chiamato Madam Shoshana. «Dorme ancora, è così?» blaterò Shoshana. «Anch'io stavo dormendo. Avrà il telefonino spento. Ma lo sai che ore sono?» La proprietaria aspettò fino alle otto, dato che il sabato la palestra apriva alle nove. Chiamò Danila, ma non ebbe risposta. Ormai era troppo tardi per cercare una sostituta. Pagava le sue ragazze - anche se non versava i contributi - dieci sterline alla settimana, ben al di sotto del minimo sindacale, ma non buttava certo i suoi soldi perché quella Kayleigh si desse ammalata. Quanto a Danila... Si rese conto che avrebbe dovuto aprire lei, e pur controvoglia fu costretta ad alzarsi. Nonostante fosse la proprietaria e gestisse una palestra con annesso centro estetico specializzato in manicure, pedicure e trattamento diatermico, aromaterapia e trattamenti snellenti, Shoshana non poneva alcuna attenzione alla cura della sua persona. Si lavava il minimo indispensabile: a una certa età è sufficiente un bagno alla settimana, e all'occorrenza sciacquarsi mani, viso e piedi. Ci avrebbero pensato le essenze di patchouli, cardamomo e noce moscata a celare eventuali cattivi odori. In palestra ci andava il meno possibile. La teneva solo perché le garantiva una fonte di reddito. Esercizi ginnici e trattamenti di bellezza per mantenersi giovani e in forma l'annoiavano a morte, e quando scendeva per incassare le quote dei clienti tendeva a addormentarsi sulla sedia. Suo nonno prima e sua madre poi erano stati parrucchieri, quindi era sembrato nell'ordine delle cose che anche lei continuasse l'attività di famiglia, magari aggiornandosi un po' e inventandosi qualcosa di nuovo. In realtà le sarebbe piaciuto trasformarsi in una guida spirituale, elaborare una propria dottrina religiosa, ma aveva trovato un compromesso, diventando un'indovina. Indossò la sottoveste usata il giorno prima, un largo vestito di velluto rosso, uno scialle lavorato a maglia e si guardò allo specchio. Persino al suo sguardo indifferente i capelli apparivano in pessimo stato, secchi e pieni di forfora com'erano. Li legò con un foulard rosso porpora, si sciacquò sommariamente il viso e le mani, e con passo pesante scese giù. Per carattere era poco incline all'allegria, ma quella mattina era davvero di pessimo umore. Aveva deciso di trascorrere la giornata partecipando a un incontro organizzato dal suo insegnante di idromanzia. Fece un ultimo tentativo di rintracciare Danila e infine, rassegnata, si appollaiò riluttante sull'alto sgabello dietro il bancone. Il primo cliente la scambiò per una vecchia che gli aveva venduto un tappeto, in un mercato di un villaggio
turco. Quella fu la notte peggiore della sua vita. Si era svegliato in continuazione, praticamente ogni ora, la bocca completamente arsa dalla sete. L'esperienza più tremenda fu la mattina quando alle nove si destò definitivamente, dimentico, per un attimo, degli avvenimenti della sera precedente. Poi era stato sopraffatto dal ricordo, e si era messo a gemere senza riuscire a controllarsi. Aveva avuto parecchi incubi, ma uno in particolare gli era rimasto impresso. Una strana creatura era scesa dal tetto, aggrappata alla grondaia, e aveva cercato di forzare la finestra. Era convinto che fosse un gatto, ma poi ne aveva visto il volto umano con la fronte squarciata che lo fissava con occhi sbarrati, e allora aveva cacciato un urlo. Si era ritrovato tremante, al buio, preoccupato che la vecchia Chawcer l'avesse sentito. Quando si alzò dal letto fu subito assalito dai postumi per tutto l'alcol ingurgitato quella notte. Bevve un bicchiere di acqua fresca, ma non gli recò alcun sollievo. La testa gli doleva come se l'avesse sfregata con della carta abrasiva, trapassata da fitte che attraversavano ora gli occhi, ora un orecchio o anche la nuca. Aveva letto da qualche parte che Nerissa era astemia, beveva esclusivamente acqua frizzante e centrifugati di verdura. Non se la sentiva di fare la doccia, con tutta quell'acqua martellante sulla testa, ma un bagno l'avrebbe aiutato a riprendersi. Era talmente debole che fece una fatica enorme a uscire dalla vasca, e mentre si asciugava barcollò e per poco non cadde. Si vestì con estrema lentezza, perché a ogni movimento avvertiva degli spasmi in tutto il capo. Era la prima volta che soffriva così per una sbornia. Non esagerava quasi mai con gli alcolici, anche se vi ricorreva nei momenti di particolare stress. Il problema è che non sono abituato a stare così male, si ripeteva. Pare che per curare i postumi di una sbornia si debba mangiare qualcosa o bere latte, o addirittura la stessa bevanda alcolica con cui ci si è sbronzati, ma il solo pensiero gli dava la nausea. Dopo un po' cominciò a sentirsi leggermente meglio. Si tirò su e tracannò un altro bicchiere di acqua. Quindi raccolse le sue mutande macchiate di sangue e gli indumenti di lei, un reggiseno nero, gli odiati collant, la minigonna di pelle nera e gli stivali, un maglioncino rosa striminzito e un colletto per giacca color crema, e pose il tutto in un sacchetto di plastica. A differenza degli indumenti indossati da Colette Gilbert-Bamber e dalle sue amiche, era roba dozzinale, acquistata in qualche supermercato da quattro soldi, nemme-
no in un grande magazzino. Nella borsetta di plastica rosa trovò il cellulare, un portafogli con cinque sterline e cinquanta - che intascò -, una tessera bancomat, un portacipria, un rossetto rosso, una spazzola e le chiavi di casa. Avrebbe preferito togliersi dalla mente l'accaduto, ma era impossibile: come dimenticare il sangue che colava sul suo splendido poster, gli occhi vitrei che lo fissavano implacabili? Be', se l'era proprio cercata. Aveva avuto quel che meritava: non avrebbe dovuto parlare in quel modo di Nerissa, avere l'ardire di trovare dei difetti alla sua pelle. Certo, l'aveva fatto per gelosia. Tuttavia, avrebbe dovuto sapere che cose del genere non doveva dirgliele. Avrebbe dovuto capire che si trovava di fronte un uomo pericoloso, avrebbe dovutoli corso dei suoi pensieri fu bruscamente interrotto dal rumore della porta della stanza accanto, che si chiudeva. Si portò una mano al petto, stringendo la felpa con la mano serrata, senza sapere perché. Probabilmente era un tentativo inconscio di trattenere il cuore. Fece uno sforzo tremendo per reprimere un grido di terrore. Chi si era introdotto in quella stanza? O piuttosto... ne era uscito? Sentì dei passi, un leggero tonfo come di qualcuno che inciampa. Trattenne il fiato. Un cassetto si apriva, poi un altro. Evidentemente le pareti erano molto sottili. Ma no, doveva essere quel vecchio pipistrello. Ne riconobbe il passo strascicato, di persona anziana. Che ci faceva lì? Non ricordava che si fosse mai spinta sin lassù. Probabilmente quella notte aveva sentito qualcosa, forse il grido della ragazza o il corpo che cadeva, o anche i rumori mentre ripuliva il sangue dal pavimento. E se gli avesse chiesto di entrare? La parete era ancora tutta macchiata... Non ha motivo di venire qui, continuava a ripetere a se stesso per rassicurarsi, nessun motivo, assolutamente nessuno. Tuttavia doveva sapere, non poteva rimanere all'oscuro. Aprì l'uscio con estrema cautela e sporse fuori la testa. La porta della stanza dove lei giaceva sotto le assi del pavimento era socchiusa. Aveva la testa in fiamme, squassata da spasmi violenti. Decise di uscire. Indossò la giacca, in una tasca mise la chiave di casa, nell'altra quella della macchina, e prese con sé la borsa con i vestiti della ragazza. Evidentemente aveva fatto qualche rumore, un gemito o un sospiro come quelli che si era lasciato sfuggire per tutta la notte, perché all'improvviso, mentre era ancora sulla soglia di casa, la signora Chawcer strisciò fuori dalla stanza e gli rivolse uno sguardo decisamente ostile. «Ah, è lei, signor Cellini.» Chi credevi che fosse, Christie? E glielo avrebbe detto davvero se non
avesse avuto paura, di lei e dell'assassino di Rillington Place. Cioè del suo spettro, o di ciò che infestava quella casa. Senza alcuna ragione particolare, lei esclamò: «Ha l'aria spaventata di chi abbia visto un 'revenant'!» «Prego?» «Uno spettro, signor Cellini, un fantasma. 'Revenant' significa colui che ha fatto ritorno.» Suo malgrado fu scosso da un brivido, che a lei non sfuggì. Era furibondo. Chi credeva di essere, una dannata maestrina alle prese con uno scolaretto di prima elementare? La vecchia proruppe nella risata più allegra che le avesse mai sentito. «Non mi dica che è superstizioso.» Non aveva intenzione di dirle un bel niente. Piuttosto, avrebbe voluto chiederle cosa era andata a fare in quella stanza, ma non lo ritenne opportuno. Dopotutto, era casa sua. Poi notò che aveva qualcosa tra le mani, sembrava un vecchio calendario, e un libro. Ecco spiegato l'arcano. Si sentì come alleggerito da un grosso peso, e il mal di testa si affievolì. La donna uscì dalla stanza, chiudendosi la porta dietro. «Qualcuno dovrebbe denunciare quell'indiano a... alle autorità.» «Quale indiano?» scattò puntandole gli occhi addosso. «Quello con il turbante, che alleva quei gallinacci o quel che diavolo sono.» Gli passò davanti e quando fu in cima alle scale gli chiese in tono inquisitorio: «Sta uscendo?» «Dopo di lei.» Mise la borsa nel bagagliaio della macchina e partì. Si fermò davanti al primo bidone che incontrò. Aprì la borsa, tirò fuori la gonna e ve la gettò. Dovette spingere per ficcarcela dentro, perché il contenitore era pieno. Non ci sarebbe entrato nient'altro. Avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi del resto un po' più lontano da lì. Ripartì diretto a Westbourne Grove e, per non passare davanti allo Shoshana Beauty Center, voltò in Bayswater Road, in direzione di Ladbroke Grove. La palestra gli fece riaffiorare alla mente la circostanza che aveva rimosso: Nerissa non andava lì ad allenarsi. Aveva sprecato un mucchio di tempo a chiacchierare con Danila per tirarle fuori qualche informazione e stipulare quel contratto. Glielo avrebbe dovuto dire subito che Nerissa veniva lì solo per farsi predire il futuro. Ecco un'altra buona ragione per averla uccisa. Se mai c'era stata una donna che se l'era meritato, quella era lei. Attraversando Edgware Road passò davanti all'Age Concern Charity Shop, ma non si arrischiò a lasciare lì i vestiti. Era più prudente gettarne
una parte nei bidoni di Maida Vale e il resto a St John Wood. Parcheggiò la macchina e scese gli scalini di Aberdeen Place. Si guardò intorno per assicurarsi di essere al riparo da sguardi indiscreti, provenienti magari da qualche barca nei paraggi o da una delle finestre che davano sul fiume, e gettò nel canale il telefonino e le chiavi. Tornò sui suoi passi, rimontò in auto e si diresse a Campden Hill Square, dove parcheggiò poco distante dall'abitazione di Nerissa. Si era diretto lì istintivamente, in cerca di sollievo. Il saperla a casa senza dubbio circondata da uno stuolo di domestici, forse in compagnia di una cara amica - gli dava nuove energie. L'avrebbe aiutato a superare il ricordo di quella ragazza e a ritrovare la voglia di andare avanti. Nessun posto più di quello gli avrebbe offerto lo spunto per escogitare nuovi modi di incontrare Nerissa. Era una bella abitazione dipinta di bianco, con la porta d'ingresso azzurra incorniciata da una pianta rossa. Il giornale era ancora poggiato sul gradino accanto a una busta di latte. Da un momento all'altro una domestica avrebbe aperto la porta per raccoglierli. Nerissa doveva essere ancora a letto. Certamente sola; aveva letto tutto su di lei, quasi mai si menzionavano fidanzati, né era oggetto di pettegolezzi; i giornali non avevano mai pubblicato fotografie compromettenti o che la ritraessero in compagnia maschile in qualche locale notturno. Era una ragazza casta e pura, in attesa dell'uomo giusto... La porta si aprì e sulla soglia apparve lei in persona. Mix non si capacitava di quella fortuna. Se l'avesse vista in vestaglia e pantofole, probabilmente l'adorazione nutrita per lei avrebbe ricevuto un duro colpo, ma era in tuta e scarpe da ginnastica bianche. Chissà come avrebbe reagito se l'avesse fermata per chiederle un autografo. In realtà desiderava lei, non uno scarabocchio. La vide chinarsi a raccogliere il latte e il giornale e richiudere la porta. Tornò a casa, soddisfatto e tranquillizzato da quella visione. Per prima cosa si recò nella stanza dove aveva nascosto il corpo di Danila, e risistemò i chiodi nelle assi. Si sarebbe rilassato un po', e dopo mangiato avrebbe tinteggiato la parete. Lunedì mattina, alla direzione generale, trovò Ed ad aspettarlo. Era letteralmente furibondo. «Quei due clienti mi hanno bombardato di telefonate. Perseguitato, sarebbe la parola giusta, e tutto grazie a te. Una di loro ha minacciato di acquistare una nuova ellittica e di rivolgersi a un'altra ditta per la manutenzione.»
«Non so di cosa stai parlando, amico» si difese Mix. «Non chiamarmi 'amico'. Non ci sei andato, vero? E non ti sei nemmeno preso la briga di avvertirli.» Solo allora Mix si ricordò della telefonata di Ed, venerdì sera. Aveva chiamato proprio dopo che... Non pensarci. «Me ne sono dimenticato.» «È tutto quel che hai da dire? Che ti sei dimenticato? Ti avevo detto che stavo male. Avevo la febbre a quaranta e la gola in fiamme.» «Vedo che ti sei ripreso subito!» replicò Mix, che ne aveva già abbastanza. «Mi sembri in perfetta forma.» «Vaffanculo!» Gli sarebbe passata. I litigi tra loro duravano poco. Se solo avesse scoperto quando Nerissa sarebbe tornata di nuovo da Madam Shoshana. Era sicuro che se l'avesse incrociata per le scale sarebbe riuscito a combinare un incontro. Mentre si recava con la macchina al primo appuntamento della giornata, da una fanatica dello sport che abitava a Hampstead e possedeva ben cinque attrezzi ginnici, si abbandonò a una delle sue fantasticherie a occhi aperti, immaginando l'incontro sulle scale. Le avrebbe detto di averla riconosciuta all'istante: adesso che l'aveva incontrata non sarebbe più andato da Madam Shoshana perché fortuna e destino non avevano più importanza. Doveva parlarle: poteva offrirle un succo di frutta fresca nel bar a pochi passi da lì? Naturalmente lei avrebbe accettato. Alle donne piace un mondo sentirsi dire che si ha qualcosa di riservato da confessare a loro, e solo a loro. E poi, pur non essendo interessata ai locali notturni o ai pub, l'idea di un bar dove si servissero succhi di frutta fresca le avrebbe fatto piacere. Avrebbe indossato le scarpe da ginnastica bianche, e al suo ingresso nel bar tutti gli sguardi sarebbero stati per lei. E per lui. Avrebbe persino bevuto succo di carota pur di farle piacere. E una volta seduti le avrebbe rivelato che erano anni che l'adorava, che era la donna più bella del mondo, e poi l'avrebbe... Si ritrovò in Flask Walk senza nemmeno accorgersene, con la maniaca dello sport ad attenderlo davanti all'uscio di casa. Non era granché, aveva una corporatura esile e un naso sproporzionato, tuttavia c'era in lei qualcosa di provocante e di sinuoso, un'aria briosa che gli fece considerare che in fondo non sarebbe stato male se... Lei rimase in piedi ad ammirarlo mentre aggiustava la cinghia del tapis roulant. «Dev'essere bello avere delle mani così capaci» gli disse, tutta in brodo di giuggiole. Si fermò molto più a lungo del previsto, saltando l'appuntamento con
una cliente a Palmer Green, ma ne valse la pena: lei era una dolce, facile preda, e non ebbe di che lagnarsi. Fu solo dopo aver imbucato la lettera per il dottor Reeves all'indirizzo di Woodstock che un pensiero molesto attraversò la mente di Gwendolen. E se lui l'avesse davvero amata, ma fosse venuto a sapere che lei si era recata a Rillington Place? Non la volta in cui aveva accompagnato Bertha, naturalmente, dato che quella visita era avvenuta quando nessuno sospettava che Christie potesse aver ucciso qualcuno. A quell'epoca quell'uomo non era l'essere famigerato e terrificante che sarebbe divenuto quando si tenne il processo e i suoi crimini vennero alla luce, ma un signor nessuno, un individuo insignificante che viveva in un luogo squallido. Se pure Stephen Reeves avesse appreso di quella visita, non ne sarebbe rimasto colpito. Eppure, argomentò tra sé Gwendolen, mettiamo il caso che ne fosse venuto a conoscenza, magari vedendola entrare in quella casa mentre si recava a far visita a qualche malato. Dopo tutto, lo aveva incontrato per la prima volta il giorno seguente a quello in cui aveva accompagnato Bertha da Christie, ed era più che probabile che avrebbe potuto riconoscerla come la donna che il giorno prima aveva notato a Rillington Place. In quel momento la circostanza non avrebbe avuto alcun significato, ma durante il processo a Christie l'episodio poteva essergli riaffiorato alla mente e, come si dice in questi casi, poteva aver fatto due più due. A gennaio le aveva confessato che gli piaceva tantissimo, e all'epoca del processo era sul punto di chiederle di fidanzarsi con lui. Eileen Summers avrebbe dovuto sapere che lui aveva perso ogni interesse nei suoi confronti. Il vero amore del dottor Reeves era Gwendolen Chawcer. Ma una volta appreso dai giornali che Christie attirava le donne a casa sua con la scusa di praticare operazioni illegali, per forza di cosa avrebbe sospettato che Gwendolen si fosse recata lì per abortire. Ah, che orrore! Che vergogna! Naturalmente nessun uomo rispettabile avrebbe sposato una donna che aveva abortito. A maggior ragione se si trattava di un medico. Immersa nelle sue riflessioni, Gwendolen passeggiava per Cambridge Gardens, sempre più sgomenta. Se solo non avesse spedito la lettera! Sì, ne avrebbe scritta un'altra, non c'era alternativa, e avrebbe aspettato la risposta. Se davvero le cose erano andate in quel modo, era molto probabile che non si sarebbe degnato di risponderle. Questo spiegava anche perché non aveva presenziato ai funerali della madre e non era più tornato a trovarla. Dopo tutto, era comprensibile che avesse sposato Eileen Summers. A un
tratto s'imbatté in Olive Fordyce e in Queenie Winthrop. Queenie trascinava un carrello per la spesa a cui si appoggiava come a una stampella, mentre Olive portava Kylie al guinzaglio. «Santo cielo, Gwendolen, sembra proprio che tu abbia la testa tra le nuvole» la salutò Queenie. «Dai l'impressione di essere persa in un altro mondo. A chi stai pensando? All'uomo dei tuoi sogni?» E a quelle parole fece l'occhiolino a Olive, che ricambiò il segnale. L'osservazione era sin troppo prossima alla verità. Gwendolen rispose sulla difensiva: «Non dire stupidaggini!» «Be', se non si possono fare battute nemmeno tra di noi...» replicò Queenie piuttosto freddamente. «Non litighiamo» cercò di mettere pace Olive. «Dopo tutto, noi siamo sole, no?» Ma il commento non fu ben accolto. «Grazie tante, Olive» replicò subito Gwendolen. «Apprezzo molto ciò che hai detto.» Queenie, da parte sua, si erse sul suo metro e cinquanta e precisò: «Nel caso tu l'abbia dimenticato, io ho due figlie e cinque nipoti.» «Non siamo tutti così fortunati» la blandì Olive conciliante. «Allora, Gwen, approfitto di questo incontro per chiederti un grande favore. Si tratta di mia nipote. Posso portarla a farti visita un pomeriggio di questi, in settimana? Non vede l'ora di visitare la tua casa.» «Me l'hai già detto,» rispose Gwendolen piuttosto irritata, «ma non si è mai fatta viva. Io mi creo un sacco di problemi e lei non si è mai scomodata a venire.» «Stavolta verrà, te lo prometto. Non c'è bisogno che ti disturbi a fare dei dolci. Siamo entrambe a dieta.» «Davvero? Be', suppongo che sì, può venire. Tanto andresti avanti a chiedermelo finché non ti rispondo di sì.» «Che ne dici di giovedì? Ti prometto che non porterò il mio cagnolino. Oh, ma che bell'anello!» «Lo metto tutti i giorni» replicò Gwendolen freddamente. «Non esco mai senza.» «Sì, l'ho notato. È un rubino?» «Naturalmente.» Gwendolen tornò a casa contrariata e in preda allo sconforto. Non che la preoccupasse la visita di Olive e della nipote: quella era una seccatura di poco conto, un po' come una zanzara che si aggira di notte nella stanza da letto. E nemmeno la disturbava il fatto che Olive non avesse notato prima
l'anello. L'unica, autentica preoccupazione era Stephen Reeves. A quell'ora avevano già raccolto la posta, e la lettera doveva essere in viaggio per Woodstock. Era necessario che ne scrivesse un'altra per chiarire le cose. In tutti quegli anni aveva pensato a lei come a una donna di infima moralità. Era tempo di mostrarsi a lui sotto una luce diversa. 12 Trascorse un lungo periodo prima che la polizia fosse informata della scomparsa di Danila Kovic. La ragazza aveva condotto un'esistenza piuttosto solitaria; veniva da Lincoln, si era trasferita a Londra su sollecitazione di Madam Shoshana, e a parte Mix non aveva altri amici. A trovarle la stanza a Oxford Gardens era stata una conoscente della madre, che viveva a Ealing. Danila non aveva mai incontrato né lei né il marito. La madre era una profuga bosniaca stabilitasi a Grimsby. Aveva portato con sé la bambina, e dopo aver perso il marito in guerra si era risposata. Nelle rare occasioni in cui si trovava a parlare con qualcuno, Danila si lamentava del disinteresse della madre nei suoi confronti, presa com'era dal marito e dai due figli avuti in seconde nozze. Spingerla a trasferirsi a Londra era stato un modo per liberarsi di lei. La madre era morta di cancro quando lei era a Londra da appena un mese. Danila era tornata a casa per il funerale, ma il patrigno le aveva detto chiaro e tondo che non poteva restare. Aveva diciannove anni. Fece ritorno a Notting Hill, praticamente sola al mondo, non particolarmente attraente, senza alcuna specializzazione e nemmeno un amico. A metà settimana, dal momento che non si era più presentata al lavoro, Madam Shoshana se ne lavò le mani e cominciò a cercare un sostituto. Aveva liquidato la faccenda convinta che la ragazza ne avesse abbastanza di quell'occupazione e fosse scappata con qualche uomo. In base alla sua esperienza, una ragazza fuggiva sempre in compagnia di un uomo. Oggigiorno sembra che la gente se ne vada a spasso per tutto il paese, anzi, per tutta Europa, assecondando i propri capricci. Danila non poteva certo aspettarsi che le conservasse il posto. Kayleigh Rivers non era un'amica intima di Danila. Non si erano mai scambiate visite; un paio di volte erano andate a cena insieme e una sola volta al cinema. Era comunque la persona a lei più vicina, l'unica a preoccuparsi di dove potesse essere finita. Assisa dietro il bancone nel suo vestito da venditrice turca di tappeti,
Shoshana chiamò l'agenzia con cui aveva già avuto contatti, la Beauty Placement Centre, e chiese che le mandassero una sostituta. Giusto in tempo, perché proprio in quel momento arrivò un nuovo cliente che voleva farsi predire il futuro. Mix trovò un messaggio provocatorio sul cellulare, che lo invitava a non presentarsi alla festa di fidanzamento di Ed e Steph. Non sarebbe stato il benvenuto. La festa, aveva precisato Ed, era riservata agli amici sinceri, e al Sun in the Splendour non c'era posto per chi non manteneva le promesse. «Quante storie per niente» commentò Mix a voce alta mentre guidava. Durante quella notte tremenda in cui la ragazza lo aveva provocato fino a costringerlo a colpirla a morte, andandosela a cercare come se gli avesse chiesto espressamente di ucciderla, c'erano stati dei momenti in cui aveva pensato di non avere più nessuna opportunità di incontrare Nerissa. Con il sorgere del nuovo giorno aveva cominciato a sentirsi meglio. Si impose - e ne fu orgoglioso - di chiamare la palestra e chiedere di Danila. La risposta che ottenne gli diede un sollievo immenso. «Palestra Shoshana. Sono Kayleigh.» «Vorrei parlare con Danila.» «Spiacente, Danila non c'è. Non lavora più qui.» Era chiaro che erano convinti che Danila avesse lasciato l'impiego. Se fossero stati in pensiero per lei, se avessero avuto il benché minimo sospetto che fosse stata rapita o uccisa, non avrebbero risposto così, ma avrebbero accennato in qualche modo alla sua scomparsa. Forse, si disse, nessuno ne avrebbe mai denunciato la sparizione, nessuno l'avrebbe cercata o si sarebbe preoccupato di sapere che fine avesse fatto. Aveva letto da qualche parte che ogni anno migliaia di persone scompaiono nel nulla. Poi ebbe un ripensamento, e chiese di parlare con Madam Shoshana. «Un attimo che controllo se è impegnata.» Così gli venne fissato un appuntamento. Era un mercoledì pomeriggio quando Danila, nel salire le scale, aveva incrociato Nerissa che scendeva. Forse anche lui l'avrebbe incontrata, quel mercoledì. Anche se quello non era lo stesso giorno della settimana in cui l'aveva vista entrare in quel portone. Eppure, chissà perché, era convinto che l'indomani anche lei sarebbe andata da Shoshana. Se non l'avesse incontrata, avrebbe dovuto trovare il modo di manomettere la sua automobile e offrirsi di ripararla, o almeno di darle qualche con-
siglio. Era un piano ardito, ma poteva funzionare senza dover perdere altro tempo. Quando lei avesse inutilmente provato a mettere in moto, si sarebbe avvicinato e le avrebbe educatamente offerto il suo aiuto. Mix si perse in quel sogno a occhi aperti. Dopo aver constatato la sua abilità nel riparare il motore, per ringraziarlo l'avrebbe invitato a bere qualcosa. La gente come lei beve solo champagne, e a casa doveva certo averne sempre una bottiglia in frigo - ma no, aveva letto che era astemia. Però poteva tenerne una per gli ospiti. Si sarebbero seduti a conversare, lui le avrebbe palesato l'adorazione che nutriva nei suoi confronti, mostrandole l'album di ritagli che conservava, e allora lei gli avrebbe chiesto di accompagnarla a un qualche evento quella sera stessa. Prima, però, doveva fare in modo di conoscerla. Come poteva far scaricare la batteria della sua auto senza essere scoperto? Doveva chiedere consiglio a qualcuno e poi agire. Dopo di che sarebbero bastati due cavetti per collegare la batteria. Se la figurò mentre cercava di accendere il motore. Era bellissima, lo sforzo e la tensione dipingevano un lieve rossore sulla pelle dorata, il piedino delicato spingeva nervosamente sull'acceleratore, invano. A quel punto sarebbe entrato in scena: «Posso aiutarla, signorina Nash?» «Ma lei mi conosce!» avrebbe detto Nerissa. Allora avrebbe sfoderato un sorriso enigmatico per stimolarne la curiosità. «È la batteria, vero?» «Sembra proprio di sì» avrebbe confermato lui. Fortunatamente aveva i cavetti in macchina. Una volta in moto, per ricaricarla avrebbe dovuto girare un po'. Poteva accompagnarla? Ci avrebbe pensato lui, lei poteva accomodarsi a fianco. Era più realistico che fosse lui a invitarla. L'avrebbe portata al Wimbledon Common o forse a Richmond Park, e lei sarebbe rimasta così entusiasta della sua guida e della sicurezza dimostrata nel padroneggiare la situazione che nel momento in cui le avesse chiesto di rivederla avrebbe accettato senza indugio. No, non le avrebbe chiesto se poteva rivederla, ma quando. Giunse alla palestra Shoshana con mezz'ora di anticipo. Decise di parcheggiare in una piazzola a pagamento - fece il biglietto nell'istante stesso in cui il vigile voltò l'angolo -, quindi rimase seduto al volante a leggere un altro capitolo de Le vittime di Christie. Pareva proprio che Reggie non si desse troppo da fare a trovare le ragazze. Quando ne voleva una la portava a casa, preparava quel marchingegno con cui affermava di curare il catarro
o con la scusa di praticare un aborto, e non appena la donna perdeva i sensi la strangolava. Dopo, naturalmente, se la scopava. Mix non trovava attraente questa parte, lui non sarebbe riuscito ad avere un rapporto sessuale con un cadavere, ma era quella la ragione che spingeva Reggie a uccidere. E quante ne aveva fatte fuori? Mix era arrivato fino al punto in cui si parlava della morte di Hectorina McClennan, ma sapeva che ne erano seguite altre. Tra queste non c'era la vecchia Chawcer, che l'aveva scampata. Quanto a lui, invece - si disse analizzando la situazione in modo freddo e distaccato, cosa di cui andava fiero -, probabilmente non avrebbe ucciso più. Erano troppi i fastidi che ne erano derivati, specialmente quando si era trattato di cancellare le tracce. Avrebbe fatto un'eccezione solo per Javy. Ora che l'aveva fatto una volta, l'idea di ripeterlo, se l'avesse desiderato, gli appariva un evento meno straordinario di quanto aveva creduto sino ad allora. Lesse ancora un paio di pagine, accorgendosi con una certa tristezza che mancavano solo tre capitoli alla fine del libro, poi mise il segno. Alla vista del vigile introdusse altre due sterline nel parchimetro prima di suonare al citofono di Shoshana. Gli rispose una voce eccitata, e capì che non era sola. La sentì dire piuttosto bruscamente: «Ci vediamo la settimana prossima.» Il portone si aprì ed entrò. Al pensiero di incontrare Nerissa per le scale gli venne un nodo in gola e il cuore si mise a galoppare, ma la donna che stava scendendo era una signora di mezza età in sovrappeso. Ormai non poteva tirarsi indietro; doveva comunque presentarsi all'indovina, e magari cercare di scoprire quando lei sarebbe venuta. Glielo avrebbe chiesto, se necessario. Non aveva mai visto una stanza come quella. Faceva un caldo eccessivo e, considerata l'ora, era troppo buia. Col suo fine odorato riconobbe un sentore di tabacco. Le stranissime tende, tenute insieme da fermagli incredibilmente grossi e di rozza fattura, gli procuravano una sensazione a dir poco sgradevole. Si voltò da un lato per evitare di guardare la civetta e la statua del mago con la tunica grigia collocata dietro la sedia dove era seduta Shoshana. Si aspettava di trovarsi davanti una donna affascinante, elegantemente vestita e sapientemente truccata, come sarebbe stato naturale per la proprietaria di un centro di bellezza. Non riusciva a osservarla bene, ma a giudicare da quel poco che vedeva le cose stavano in maniera diversa: una figura dal volto avvizzito avvolta in uno stravagante vestito grigiastro lo scrutava con occhi neri e penetranti come punte di spillo. «Si accomodi» gli disse. «Preferisce le pietre o le carte?»
«Prego?» «Per predirle il futuro devo usare le pietre preziose o le carte?» gli specificò aggrottando la fronte. «Suppongo sappia cosa sono le carte.» Da una tasca nascosta nella veste ne tirò fuori un sudicio mazzo, e aggiunse: «Questa roba qua. Carte. Cosa vuole sapere?» «Non mi interessa il futuro. Voglio una consulenza... sui fantasmi.» «Prima il futuro» si impose lei. «Prenda una carta.» Non sapendo se gli fosse permesso di scegliere, prese la prima carta del mazzo. Era un asso di picche. Lei guardò la carta, quindi alzò lo sguardo su di lui, il volto imperscrutabile. La rimise nel mazzo e gli intimò: «Ne prenda un'altra.» Venne fuori di nuovo l'asso di picche. Malgrado l'oscurità, percepì che la donna si era rabbuiata. Aveva l'espressione di chi avesse appena ricevuto una notizia spaventosa, sbigottita eppure ancora incredula. «Che cosa c'è?» volle sapere. «Ne prenda un'altra.» Questa volta estrasse una regina di cuori. Un sorriso appena accennato si disegnò sulle labbra dell'indovina. Prese la carta dalle sue mani, poggiò sul tavolo il mazzo di carte coperte, e da una borsetta di velluto a cordoncino tirò fuori una serie di cristalli luccicanti, nero, bianco traslucido, porpora, rosa, verde e blu scuro, posizionandoli in cerchio attorno a un centrino di pizzo bianco. «Metta le mani nel mandala.» «Che cos'è... quella parola?» «Le metta all'interno dell'anello formato dalle pietre. Così. Adesso mi dica da quale pietra sacra si sente attratto. Ne indichi due. Quali pietre sente che si stanno gradualmente avvicinando alle sue dita?» Mix non vedeva né percepiva alcun movimento delle pietre, ma non aveva intenzione di rivelarlo. Aggrottò la fronte e rispose gravemente: «La bianca e la verde.» Shoshana scosse il capo. Per quanto si sapeva, nessuno dei clienti aveva mai indovinato le pietre giuste. In effetti, la sua tattica consisteva nell'incrinare la loro sicurezza facendoli sentire ignoranti, poiché la sua fama si basava sulla capacità di dimostrare la sua superiorità. «Si è sbagliato» gli comunicò. «Nel cerchio della sua sorte oggi ci sono il lapislazzuli e l'ametista. Entrambe le pietre spingono con forza, ma le sue dita stanno opponendo una grossa resistenza. Si rilassi, smetta di resistere e ordini loro di avvicinarsi.»
Nemmeno questa volta Mix percepì alcun movimento delle pietre, ma ebbe l'impressione che la figura in tunica grigia alle spalle di Shoshana si fosse lievemente mossa. La mano che impugnava il bastone su cui si avvolgevano dei serpenti intrecciati s'era alzata impercettibilmente. Senza volerlo, ormai in preda alla paura, non riuscì a trattenere le parole: «Quella cosa... quell'uomo dietro di lei... si è mosso.» «Ah, questo significa che lei ha accesso alle visioni interiori,» commentò Shoshana «ma solo parzialmente» aggiunse. «Le pietre hanno rinunciato. Le lasci.» Mix non riuscì a capire se così dicendo lei gli avesse confermato che il mago si era effettivamente mosso, magari grazie a un meccanismo interno, o che lui fosse in possesso di un qualche tipo di potere, come lei. Fu costretto a serrare le mani a pugno per reprimere un tremito. «La bilancia del suo destino è completamente fuori asse» gli spiegò l'indovina. «Le pietre parlano di dubbi e sospetti, della paura che venga scoperta qualche colpa. A parte questo, non hanno detto nulla né hanno dato consigli. E adesso le carte. Hanno mostrato la morte.» Alzò la testa e lo fissò con sguardo enigmatico. «Farei volentieri a meno di dirglielo se potessi, ma per due volte è venuto fuori l'asso di picche, quindi se non la mettessi in guardia dal pencolo di morte verrei meno ai miei doveri. È uscita anche una regina di cuori, che, come tutti sanno, significa amore. Vedo una bellissima donna" scura. Non riesco a precisare se sia per lei o meno, ma la incontrerà presto. È tutto.» Mix si alzò. «Quarantacinque sterline» gli fece lei. «Va bene un assegno?» «Andrebbe bene, ma non si accettano carte di credito.» Sedette di nuovo per compilare l'assegno, e solo dopo aver scritto la data si ricordò del motivo per cui si era recato lì. «Volevo chiederle qualcosa su uno spettro che forse ho visto.» «Che significa 'forse'?» «Si tratta di un assassino che da vivo abitava vicino a dove risiedo io. Ha ucciso delle donne e le ha sepolte nel giardino. Credo... di aver visto qualcosa. Forse era il suo fantasma, a casa mia.» «È il posto dove ha ucciso quelle donne?» «Oh, no. Ma penso che qualche volta vi sia andato. Potrebbe... potrebbe tornare?» Madam Shoshana sedeva immobile, apparentemente immersa nelle sue riflessioni. Passò un minuto prima che gli rispondesse: «Perché no? Fareb-
be bene a tornare da me tra una settimana. Intanto rifletterò su cosa sia opportuno fare. Ascolti, questa faccenda merita particolare attenzione, e lei ha bisogno di protezione spirituale. Nel frattempo, se dovesse riapparire, gli metta davanti una croce. Non c'è bisogno di scagliargliela contro, basta tenerla bene in vista.» «Va bene» disse Mix, contento di avere la croce che gli aveva dato Steph. Si sentiva molto più tranquillo, e in quel momento si convinse che il fantasma non sarebbe tornato. «Altre dieci sterline.» Quando fu uscito, Shoshana si accese una sigaretta. Aveva mezz'ora prima di ricevere il cliente successivo. Era abituata alla loro credulità e ormai non si meravigliava più di niente. Non trovava nemmeno più motivo di scherno nelle loro reazioni, come le capitava all'inizio dell'attività. Prestavano fede a tutto. In lei stessa c'era una curiosa mescolanza di irriverente scetticismo nei confronti dell'occulto e di velata superstizione. Per continuare a seguire la strada che aveva intrapreso, dentro di lei doveva albergare un barlume di convinzione. Per esempio, non aveva alcun dubbio sull'efficacia dell'idromanzia e dell'esorcismo. Tuttavia, sapeva benissimo di condizionare i clienti dando loro consigli di ordine pratico, senza che tutto ciò avesse minimamente a che fare con i trucchi che impiegava. Per esempio, il mazzo di carte che utilizzava era interamente composto di assi di picche e di regine di cuori. Lo aveva acquistato in un negozio di articoli per prestigiatori. Le pietre facevano parte della collezione del nonno, che le aveva raccolte nel corso dei suoi viaggi in Oriente, e la statua del mago l'aveva trovata tra la merce di scarto di un rigattiere di Portobello Road, relegata in un baule su una stoffa di nylon tigrato e sopra un ritratto di Edoardo VII. Eppure... Quegli 'eppure' avevano una certa importanza per cogliere la reale portata della sua vocazione. Il futuro che prevedeva era basato semplicemente sulla fantasia e sull'osservazione degli esseri umani. Quel che facevano le pietre o quel che mostravano le carte era irrilevante. La sua ignoranza in materia di divinazione con i cristalli era assoluta, ed era completamente a digiuno di cartomanzia. Eppure era strano, e anche piuttosto sconvolgente quanto spesso le sue predizioni si avvicinassero alla realtà. Molto probabilmente quel giovane sarebbe morto o avrebbe procurato la morte di qualcuno, se già non era accaduto. Riguardo poi alla donna bellissima, le strade di Notting Hill ne erano piene, avrebbe potuto incontrarne una in qualsiasi momento. E comunque, un altro particolare curioso era
che, dopo avergli predetto quell'incontro, le era venuta in mente Nerissa Nash; per questo aveva descritto la donna fatale di cui parlavano le carte con le sue fattezze, sottolineandone la bellezza e il fatto che fosse scura. Era alquanto verosimile che quella ragazza lui l'avesse vista solo in fotografia. Quanto allo spettro, quelle erano tutte sciocchezze ma se rappresentavano una fonte di guadagno non vedeva alcuna ragione per non metterci le mani sopra. La seconda lettera al dottor Reeves costituì un problema pressoché insormontabile per Gwendolen. Fu ripetutamente costretta a interromperne la stesura, a girare per casa nel vano tentativo di schiarirsi le idee e sgranchirsi le gambe. L'idea di scrivere a un uomo sostenendo che questi l'aveva lasciata solo perché convinto che lei avesse abortito sconfinava nel ridicolo. Era costretta a far ricorso a delle perifrasi. In qualche modo doveva girarci intorno. Davanti alla finestra della sua camera da letto, guardando fuori senza vedere nulla, aveva iniziato a sognare a occhi aperti. Chissà come sarebbe stato dividere con lui quella stanza; aprire l'armadio, trovare i vestiti e l'impermeabile estivo del suo uomo appesi accanto ai suoi vestiti, avvolti dall'odore della canfora. Forse era ancora in tempo. Adesso lui era vedovo. Si avviò per la scalinata. Per tutta la vita, da quando aveva imparato a camminare, non aveva fatto altro che salire e scendere quelle scale. Inizialmente la rampa che portava all'ultimo piano non era stata rivestita di mattonelle, bensì pavimentata con semplici travi di legno su cui era stata stesa la moquette. Ma che ne era stato di quest'ultima? Era praticamente scomparsa. Il padre aveva fatto mettere le piastrelle per via dei tarli. Ben pochi operai, idraulici ed elettricisti inclusi, avevano messo piede a St Blaise House. L'ultima tinteggiatura delle pareti esterne dell'edificio risaliva addirittura al dopoguerra, e le più recenti migliorie all'impianto elettrico a undici o dodici anni prima. Tuttavia il padre aveva una vera e propria fissazione per i tarli; se ne preoccupava a tal punto che il pensiero gli toglieva il sonno. Avrebbe potuto scrivere a Stephen Reeves che ricordava di averlo incontrato mentre entrava a Rillington Place la vigilia del giorno in cui si erano conosciuti. Naturalmente non poteva ricordarsene, anzi, non era nemmeno sicura che ciò fosse accaduto. E, se così non fosse stato, si sarebbe rivelata una cosa molto stupida da scrivere, anzi avrebbe anche potuto pensare che lei fosse affetta da quella malattia - com'è che si chiamava? Alzheimer? -
sì, che fosse affetta da Alzheimer. Otto era accovacciato al centro della rampa con le mattonelle, in tutto simile a una sfinge. «Cosa fai lì?» A sua memoria era la prima volta che gli rivolgeva la parola. Giudicava ridicolo parlare agli animali. Otto si alzò sulle zampe, curvò la schiena e si stiracchiò. La fissò per un attimo prima di saettare verso uno dei corridoi e acquattarsi in fondo, nel buio. Gwendolen aprì la porta dell'appartamento di Mix ed entrò. Lì dentro provava sempre quella deprimente impressione di pulito. Quel tipo doveva essere davvero un fanatico se di mattina, prima di uscire, trovava il tempo di sprimacciare i cuscini. La statuetta raffigurante Psyche, poggiata sul tavolino, era di pessimo gusto; proprio il genere di oggetto che si vede in quei mobilifici dove si vendono combinazioni di divani e poltrone color crema e tavoli in plexiglas sagomati. La prese tra le mani, trovandola sorprendentemente pesante. Aveva la base ricoperta di feltro. Sembrava macchiata di caffè. Cos'altro poteva essere quella macchia scura che ne ricopriva buona parte, trasformando il color smeraldo del feltro in marrone scuro? «Gli innumerevoli mari che invermigliano, rendendo rosso il verde3 » recitò a voce alta. Si compiacque per l'appropriatezza della frase. Naturalmente, Macbeth si riferiva al sangue, anche se era improbabile che il pezzo di marmo di Cellini vi fosse venuto a contatto. La scarsità di libri la indusse a scuotere la testa. C'erano solo volumi riguardanti quel tipo, Christie. E questo le ricordò che doveva scrivere la lettera. Ma prima c'era da controllare il pavimento della stanza attigua. Contrariamente a quanto ricordava, l'asse non era schiodata. O non molto. Doveva esserselo immaginato, magari era inciampata su qualcos'altro. Rimase in piedi a fissare le vecchie tavole scheggiate, e d'improvviso capì: quei buchetti erano opera dei tarli. Papà ripeteva sempre che i tarli sono dannosi quanto le termiti, capaci anche di distruggere una casa intera. Cosa doveva fare? Si fermò sulla soglia, indecisa, ripensando alla lettera. Avrebbe compiuto un altro tentativo, facendogli intendere per vie traverse che non bisogna dar fede ai pettegolezzi - ma non era questo il punto. Non poteva certo dirgli di non credere a quel che aveva visto. Nella stanza c'era un lieve odore che, ne era sicura, non aveva avvertito l'ultima volta che era stata lì. Altri3
Macbeth (1605-06), di W. Shakespeare. Atto II, scena II, v. 26 (N.d.r).
menti l'avrebbe senza dubbio notato. Non era certo piacevole, tutt'altro. I tarli emanavano cattivo odore? Forse. Se fosse aumentato sarebbe stata costretta a rivolgersi a uno di quegli operai che eliminavano le tarme da mobili e pavimenti. Ne avrebbe cercato qualcuno sull'elenco del telefono, una volta terminata la lettera. C'era quel libro che chiamavano pagine gialle. Ecco un'occasione per consultarle, cosa che non aveva mai fatto da quando gliele avevano lasciate davanti alla porta di casa. 13 Gwendolen usava spesso la parola 'stravagante'. La impiegava per riferirsi a quasi tutte quelle cose che, per usare una delle sue frasi preferite, erano 'comparse sulla scena' a partire dagli anni Sessanta. Stravaganti erano i computer, i cd e quegli aggeggi per ascoltarli, i telefonini, le segreterie telefoniche, i parchimetri e le ganasce (anche se provava soddisfazione quando le vedeva sulle automobili parcheggiate male), le fotografie a colori sui giornali, le calorie e le diete, la scomparsa dei telegrammi e, naturalmente, internet. Come tutte le innovazioni, aveva deciso di ignorarle, ma le pagine gialle erano un libro, e in quanto tale a lei familiare. Papà diceva sempre che se fosse vissuto in un luogo isolato, senza nessuno intorno, e avesse avuto da leggere solo l'elenco del telefono, be', l'avrebbe letto. Gwendolen non sarebbe arrivata sino a tanto, ma non trovò quella lunga lista di ditte così stravagante come aveva temuto. Alle imprese che si occupavano delle tarme erano dedicate pagine intere. Sceglierne una non era un compito facile. Certamente non avrebbe optato per una con un nome ridicolo come 'Raid ammazzastecchiti' ('rapido come un raid, distrugge tarli e parassiti'), e nemmeno per ditte industriali. Alla fine si decise per la Woodrid, soprattutto perché aveva sede nei paraggi, a Kensal Green. Il nastro registrato che le rispose la fece inorridire. Dovette digitare il tasto 1, quindi il 2, poi commise un errore e fu costretta a ricomporre il numero. Dopo aver superato quelle difficoltà, le venne chiesto di digitare qualcosa chiamato 'cancelletto' per ottenere informazioni. Non ricevendo risposta dalla voce automatizzata ne arguì che, non trattandosi di un numero o di un asterisco, si doveva riferire a quel simbolo che somigliava a una saracinesca sghemba. Infatti era così. Attese a lungo, ascoltando una musica in sottofondo, stravagante come quella che martellava dai finestrini delle auto guidate dai giovani, il sabato sera. Alla fine riuscì a
parlare con qualcuno, che la lasciò sbigottita quando le disse che avrebbe mandato un addetto per un sopralluogo 'tra venti giorni lavorativi'. La telefonata l'aveva stremata, tanto che sentì il bisogno di riposarsi un po'. Si sdraiò nel salotto per una mezz'oretta, in compagnia dell'Origine delle specie. Quel pomeriggio aspettava Olive e la nipote per il tè. A dire dell'amica erano entrambe a dieta, ma Gwendolen considerò se prendere sul serio o meno tale affermazione. Per lei quella non era altro che una complicazione, perché oltre al tè avrebbe dovuto offrire anche biscotti dietetici, dolci a basso contenuto calorico o simili, stravaganti idiozie. E comunque lei, che non aveva la tendenza a ingrassare, preferiva qualcosa di più sostanzioso da accompagnare con il tè. Gente come quella non pensa mai ai problemi che causa agli altri. Lei e Stephen Reeves avevano tante cose in comune. Non c'era ragione di pensare che lui avesse mutato i suoi gusti. Gwendolen era convinta che le persone cambiano ben poco nel corso della vita, e se danno a intendere il contrario è solo per una forma di esibizionismo. A Stephen piaceva prendere il tè, i panini e i dolci fatti in casa, soprattutto il pan di spagna che lei preparava spesso. Ne sarebbe stata ancora capace la loro prossimo incontro? Però non aveva ancora scritto la lettera; se non quel giorno, l'avrebbe fatto l'indomani. Più rifletteva su come convincerlo che aveva commesso un errore di valutazione nei suoi confronti, più le pareva imbarazzante dover spiegare a un uomo che lei non aveva mai subìto un aborto e che si trovava lì per accompagnare un'altra donna proprio per quel motivo. Anche questo poteva apparire riprovevole, ai suoi occhi. Doveva utilizzare un qualche eufemismo. Per l'ennesima volta prese carta e penna e cominciò: 'Gentile dottor Reeves...' Non c'era alcun bisogno di impiegare le parole 'operazione illegale'. 'Gentile dottor Reeves, dopo aver spedito la mia lettera mi sono ricordata di un particolare riguardante il sentimento che ci legava' - no, non andava bene, si era trattato piuttosto di quella che oggigiorno si chiama 'relazione' - 'riguardante la nostra relazione'. Sì, poteva andare. Molto bene. Anzi, quando smisero di frequentarsi era ormai da molto tempo che non lo chiamava più dottor Reeves. 'Caro Stephen, dopo aver spedito la mia lettera mi sono ricordata di un particolare riguardante la nostra relazione, che mi era sfuggito. Il giorno precedente al nostro primo incontro nel tuo studio medico, dove mi recai per consultarti in seguito a una lieve indisposizione...' doveva specificare la data? Forse non era necessario... 'E giorno che ci conoscemmo, quando mi recai nel tuo studio medico in seguito a una lieve indisposizione, non feci alcun
riferimento al fatto che ci eravamo visti il giorno precedente'. Ma in realtà ignorava se lui quel giorno l'avesse vista, perché lei non l'aveva visto di certo. Per quanto ne sapeva poteva anche essere lontano un miglio da quel posto, e tutt'altra la causa del suo abbandono. Ma no, non poteva essere. Lui l'aveva amata, di questo era certa, e senza dubbio aveva continuato ad amarla, ma quell'episodio era stato determinante nel fargli credere che non fosse la moglie adatta a un medico. E avrebbe avuto perfettamente ragione, se lei avesse fatto veramente quel che lui supponeva. Controllò l'orologio e poco mancò che le venisse un colpo. Tra un'ora sarebbe arrivata Olive, da sola o in compagnia della nipote, e lei non aveva ancora comprato il dolce. Non era nemmeno sicura di avere latte a sufficienza. La lettera avrebbe aspettato, anzi, forse era il caso di scriverla dopo aver ricevuto la risposta. Malgrado Olive le avesse assicurato che la nipote era un'appassionata delle antiche abitazioni londinesi, Hazel Akwaa mostrò ben poco interesse per St Blaise House. Si rivelò una ragazza perfettamente educata, bevve il tè e mangiò un biscotto tutta compunta, lasciando a Olive l'onere della conversazione. Olive indossava un paio di pantaloni neri a zampa d'elefante e un maglioncino rosso con un motivo di abeti e sciatori, più adatto a una persona con un terzo dei suoi anni, mentre la nipote portava un vestito di lana grigio e una collana d'oro di un certo pregio. Durante le presentazioni, Gwendolen fu costretta a chiederle di ripetere il cognome, quindi di scandirne le lettere: sembrava un nome africano, per quanto le suonava strampalato. Gwendolen conosceva Rider Haggard sin dall'infanzia, e quel nome le ricordò un personaggio che compariva in Lei o nel romanzo Le Miniere di Re Salomone, chiamato Akwaa. Era molto probabile che Hazel come-sichiama avesse sposato un africano. «Le piacerebbe dare un'occhiata alla casa?» le propose Gwendolen dopo il tè. «L'avverto che ci sono un bel po' di scale.» Si aspettava che la giovane replicasse che non si sarebbe certo lasciata scoraggiare da quell'ostacolo, ma la signora Akwaa manifestò ben poco entusiasmo. «Non in modo particolare, se non le spiace.» «Oh, e perché dovrebbe dispiacermi? Io la conosco già, naturalmente. Lo facevo per lei, signora Akwaa.» «Mi chiami pure Hazel. Mi basta aver visto questa stanza deliziosa, non credo che il resto sia più bello.»
La garbata osservazione addolcì Gwendolen. «E lei dove abita?» «Io? Oh, ad Acton.» «Davvero? Non credo di esserci mai stata. E come ci si arriva?» Lo disse come se la sua ospite abitasse in Cornovaglia e volesse liberarsi di lei al più presto. «Non penserà di prendere la metropolitana, spero. Sarebbe a suo rischio e pericolo.» «Mia figlia ha promesso che passerà a prenderci alle cinque e mezzo. Ceneremo a casa mia.» «Ah, che cosa carina. Sua figlia è quel modello di virtù di cui mi parla sempre sua zia?» «Non so cosa intenda per 'modello di virtù'» rispose Hazel Akwaa con lo stesso tono glaciale di Gwendolen. «Abbiamo solo lei. Io e suo padre la consideriamo una ragazza speciale, ma credo sia una cosa normale, siamo i suoi genitori. Le dispiacerebbe indicarmi il bagno?» Gwendolen accennò a un sorriso. «Il gabinetto è al primo piano, la porta di fronte alla prima rampa di scale.» Approfittò dell'assenza di Hazel Akwaa per parlare dei tarli a Olive. «Sono appena salita per esaminare di nuovo il pavimento. Ho chiamato la Woodrid, ma come tutte le ditte al giorno d'oggi ci metteranno più di due settimane prima di venire. Spero che nel frattempo il solaio non crolli.» Terminò la frase con un sorriso privo di allegria. «Ti risulta che i tarli puzzino?» «Non lo so, Gwen. Non l'ho mai sentito dire.» «Me lo sarò sognato. Se quella tua pronipote tarda ancora ti porto su a vedere.» Proprio in quel momento comparve Hazel, seguita da Otto. «Il suo bellissimo gatto mi si è strofinato contro, l'ho accarezzato e mi ha seguita.» «Sì, concede i suoi favori solo a chi gli va a genio» replicò Gwendolen, volendo con ciò intendere che sui gusti non si discute. Mix teneva d'occhio l'abitazione di Nerissa a Campden Hill Square, e poco dopo le quattro e mezzo la sua attesa fu premiata. La modella uscì e si infilò in macchina. Adesso era vestita elegantemente con un tailleur pantalone color miele e un cappello dorato a falde larghe, che una volta a bordo poggiò sul sedile. Passandogli accanto rallentò e per un attimo si voltò a guardarlo. La cosa gli fece piacere. Mi avrà riconosciuto, pensò. L'ultimo appuntamento della giornata era con la signora Plymdale, a Pembroke Villas. Si trattava di una delle poche clienti che usava il tapis
roulant che aveva acquistato, se non quotidianamente, almeno tre o quattro volte la settimana. La cinghia era slittata sul rullo troppo a sinistra e lei non era riuscita a fissarla con la chiave. Parcheggiò nel vialetto davanti casa. Si congratulò con la cliente per l'assiduità negli allenamenti, aggiustò la cinghia e lubrificò la macchina. Tuttavia la cinghia andava sostituita, quindi le consigliò di ordinare il pezzo. In capo a quindici minuti era libero, per il resto della giornata. Tornò a casa passando per Portobello Road, Ladbroke Grove e Oxford Gardens, fermandosi a prendere una bottiglia di gin, una di vino rosso e una porzione di pollo alle spezie surgelato. Il vento era calato, e nonostante l'ora pomeridiana faceva molto caldo. Chissà se avevano cominciato le ricerche di quella Danila. I giornali non ne parlavano, quindi nessuno aveva avvertito la polizia. Aveva paura di scoprirlo, ma al tempo stesso voleva sapere. Se a quelli della palestra la sua scomparsa non interessava, almeno il proprietario dell'appartamento dove abitava avrebbe dovuto chiedersi che fine avesse fatto. Svoltò in St Blaise Avenue. Di fronte alla sua abitazione, nello spazio delimitato dalla linea gialla, era parcheggiata una Jaguar. Che strano, somigliava a quella di Nerissa. Le macchine comunque sono tutte uguali, costose o meno. Di lì a poco il vigile dal viso affilato che aveva scorto all'angolo sarebbe piombato sul proprietario come un fulmine. Si rammaricò di non essersi mai segnato il numero di targa dell'automobile di Nerissa. Non gli era mai parso necessario. Parcheggiò nello spazio riservato ai residenti e si avvicinò alla Jaguar. Il suo cappello dorato era poggiato sul sedile anteriore, accanto a quello di guida. Era la sua macchina! Alzò gli occhi, si voltò e se la ritrovò di fronte. Era sogno o realtà? «Nerissa, è meraviglioso poterti parlare, finalmente.» Lei sollevò i grandi occhi neri su di lui ma rimase in silenzio, immobile, come in preda a una forte emozione. «Hai parcheggiato l'auto sulla linea gialla, Nerissa» osservò. «Il vigile ti farà la multa. Lascia che la sposti io, Nerissa.» «La chiami signorina Nash» risuonò una voce alle spalle della ragazza. Mix non aveva occhi che per lei, e non si era accorto delle due donne che la seguivano, peraltro del tutto insignificanti, tanto che non le avrebbe notate nemmeno in circostanze diverse. «Ci penserà mia figlia a spostare l'auto, grazie. Lo stava per fare» continuò la donna. Nerissa gli rivolse un sorriso radioso, così dolce, amichevole e complice che fu quasi sul punto di cadere ai suoi piedi. «Molto gentile da parte sua»
lo ringraziò. Montò in macchina e passò il cappello alle donne, che si sistemarono sul sedile posteriore. Poi abbassò il finestrino e lo salutò: «Be', arrivederci.» L'automobile svoltò l'angolo nel momento esatto in cui apparve il vigile, che avanzava trafelato con il blocchetto delle multe in mano. Mix rimase per un attimo nello spazio lasciato vuoto dalla Jaguar, ora occupato solo da una lattina di birra vuota, uno straccio imbrattato d'olio e l'involucro di un Magnum. «Signore, se rimane lì le metteranno le ganasce» lo canzonò il vigile. «Ah, ah.» Si decise a rientrare in casa. Gli avvenimenti degli ultimi giorni avevano un che di onirico. Sogni fantastici come quello che si era appena avverato, o incubi. Che ne era della realtà? Be', che avesse parlato con Nerissa era un fatto, e - meraviglia delle meraviglie! - lei gli aveva risposto. Era stata così carina, così affascinante, lo considerava una persona gentile. Se quella vecchia che aveva detto di essere la madre non si fosse intromessa, probabilmente gli avrebbe permesso di spostare la macchina, forse si sarebbe persino seduta accanto a lui, concedendogli di accompagnarla. Ma la vecchia si era intromessa. Avrebbe voluto stenderla con un pugno e calpestarla. Come poteva essere la madre di Nerissa, con quei capelli grigiorossastri e quella faccia scialba da cagna? In casa regnava il silenzio più assoluto. Si avviò per le scale. La prossima volta Nerissa l'avrebbe sicuramente riconosciuto. Sarebbe uscita a parlargli, l'avrebbe persino invitato a prendere un caffè da lei. Allora avrebbe colto l'occasione per invitarla a cena. L'avrebbe portata in quel locale dal nome bizzarro che aveva vinto il premio come miglior ristorante italiano dell'anno. Fortunatamente aveva messo da parte un po' di denaro per comprare un televisore al plasma, ma Nerissa era ben più importante. Come sempre, non appena si trovò sull'ultima rampa, il ricordo dello spettro di Reggie si impadronì di lui. Nemmeno il pensiero di Nerissa riusciva a cancellarlo. Malgrado fosse ancora presto cominciavano già a calare le prime ombre, e quella zona della casa era sempre immersa nell'oscurità. A volte pensava di chiudere gli occhi per non vedere, e arrivare a tentoni sino alla porta del suo appartamento, ma aveva il terrore che una mano gli si posasse sulla spalla o che una voce gli bisbigliasse qualcosa all'orecchio. Meglio guardare. Non incontrò niente e nessuno. Era tutto come doveva essere. O no? Si fermò, cercando di ricordare. Era sicuro di aver chiuso la porta della stanza dove aveva sepolto Danila, sotto le assi del pa-
vimento. Ne era certo, non tralasciava mai di farlo. Da quando si trovava lì, non aveva mai lasciato la porta socchiusa, come invece lo era adesso. Avanzò in punta di piedi e l'apri furtivamente, anche se forse sarebbe stato meglio spalancarla di botto. La stanza era vuota e vi regnava un caldo eccessivo. I raggi del sole morente bruciavano come fiamma viva attraverso i vetri. Si percepiva un odore, non forte ma decisamente sgradevole. Da fuori non poteva venire, perché la finestra era chiusa. Si avvicinò e cercò di aprire il telaio scorrevole, senza successo. Le corde erano rotte, una penzolava. A Londra alcuni odori si insinuano attraverso le fessure dei muri, e non si riesce a capire da dove provengano. Guardò al di là del vetro. Le due faraone di quell'indiano stavano accovacciate sul tetto di un basso capanno; appostato sul muro, Otto le osservava con attenzione. Mix uscì dalla stanza e infilò la chiave nella serratura della porta del suo appartamento. Oltre a quell'odore, si sentiva anche una strana musica. L'aveva già udita in quella stanza. Era un genere musicale che non era mai riuscito ad apprezzare o a capire, lontano anni luce dai suoi gusti. Era convinto che chi lo ascoltava lo facesse solo per darsi un tono e apparire più intelligente. Un pianoforte, forse due, risuonavano in lontananza, mentre qualcuno straziava le corde di un violino. Da dove proveniva? Dalla stanza da letto del vecchio pipistrello, senza dubbio. Entrò, immaginando la ragazza che giaceva sotto le assi del pavimento. Doveva lasciarla lì? Inizialmente non era stata quella la sua intenzione: la stanza accanto doveva fungere solo da tomba provvisoria. Aveva pensato di caricare il cadavere nel cofano della macchina e sbarazzarsene, scaricandolo da qualche parte. Reggie non si era mai spinto fino a tanto. Aveva sepolto tutte le sue vittime in casa o nel giardino, ma lui non possedeva un'automobile. Erano in pochi ad averla, allora. E poi nel suo caso era andata in tutt'altro modo. Il necrofilo uccideva le donne per avere con loro dei rapporti sessuali, non appena morte, mentre lui aveva ucciso per difendersi, quando quella ragazza aveva cominciato a dirgli delle cose tremende. Si trattava solo di omicidio colposo. Al tempo di Reggie, i sistemi della scientifica non erano sofisticati come oggi. Mix era ben informato in quella materia, come chiunque guardi la televisione. Oggigiorno sarebbero stati perfettamente in grado di stabilire se avesse trasportato un cadavere in macchina, e dall'analisi del DNA sarebbero risaliti all'identità della ragazza. Finché non aveva ucciso anche la moglie, Reggie si era dovuto preoccupare di occultare i cadaveri. Era stato costretto a seppellirli in casa. Certamente avrebbe corso meno rischi se a-
vesse lasciato Danila dov'era, in una stanza dove nessuno aveva motivo di entrare. Eppure quel giorno qualcuno vi era stato. Probabilmente la vecchia Chawcer, in cerca di chissà quale robaccia nei cassetti di quell'armadietto. E se fosse stato il fantasma di Reggie, attirato dal cadavere che lui aveva nascosto lì? Forse Reggie non aveva intenzione di spaventarlo, ma voleva vigilare su di lui. Si sarebbe tranquillizzato solo dopo essere tornato da Madam Shoshana, a sentire quel che aveva da consigliargli. Uno spettro metteva comunque paura, anche se intendeva proteggerlo. Il fatto stesso che esistessero i fantasmi conferiva una prospettiva diversa alla realtà. Rabbrividì, e si disse che dopo tutto non era troppo presto per prepararsi un Boot Camp. 14 Abbas Reza si accorse della scomparsa di Danila solo quando la ragazza non pagò l'affitto. Si erano accordati per il pagamento in contanti, preferibilmente in banconote da cinquanta e da venti sterline, da lasciare in una busta dentro la buca delle lettere. Non accettava assegni o carte di credito. Era trascorsa già una settimana da quando, il sabato precedente, la signorina Kovic non aveva depositato il denaro come convenuto. Aveva bussato senza ottenere risposta, nemmeno a mezzanotte e mezzo. La ragazza non gli aveva dato l'impressione di essere una di quelle nottambule che amano fare le ore piccole, ma evidentemente si era sbagliato. Probabilmente, a Londra ormai da qualche mese, cominciava a sentirsi a suo agio nella città e ad assumere delle cattive abitudini, come prima o poi facevano tutte. Colpa della corruzione e dei mali striscianti tipici della società occidentale, dove si irride Dio e la morale è scomparsa. A volte ripensava a Teheran con nostalgia, ma non a lungo. Tutto sommato, era meglio Londra. La sostituta di Danila in palestra era una ragazza efficiente, più carina della bosniaca e per di più, con la sua figura regale, la postura elegante e il volto da dea nordica, costituiva un'ottima pubblicità per lo Shoshana Beauty Center. Peccato che non avesse intenzione di continuare a lavorare per lei. Shoshana aveva esaminato parecchi candidati che avevano risposto al suo annuncio. La clientela della palestra era in continuo aumento. Quell'idiota convinto di abitare in una casa infestata dagli spiriti era tornato da lei. Quando gli aveva consigliato di evitare il numero tredici se non
voleva rivedere il fantasma, aveva fatto una tale faccia che era stata sul punto di scoppiare a ridere. Aveva completamente dimenticato Danila. Kayleigh invece non smetteva di pensarci. Prima che Danila conoscesse Mix era stata la sua unica amica a Londra. Non che si frequentassero molto, a parte quando si incrociavano per darsi il cambio in palestra. Kayleigh l'aveva chiamata ripetutamente sul cellulare, perché Danila non aveva il telefono nella stanza a Oxford Gardens. Squillava a vuoto, senza risposta. Tuttavia, non s'era preoccupata più di tanto. Se le fosse accaduto qualcosa, se per esempio fosse rimasta vittima di una rapina o di un'aggressione, i giornali ne avrebbero dato notizia. Forse non rispondeva perché stava male. Ma di quale malattia poteva trattarsi, adesso che erano trascorse più di due settimane da quando Shoshana l'aveva cercata la prima volta? Kayleigh decise di andare direttamente a Oxford Gardens. Tutte le stanze degli appartamenti erano dotate di citofono. Abbas Reza andava fiero per aver allestito una struttura efficiente e organizzata. L'unico problema era che non sopportava di essere disturbato dagli ospiti a tutte le ore. Kayleigh bussò alla porta di Danila e, non ottenendo riposta, si rivolse al piano di sotto, suonando un campanello che recava una scritta alquanto balzana: Sig. Reza, proprietario dell'edificio. Le ricordava la scuola e i capoclasse. Le venne ad aprire un uomo slanciato, di bell'aspetto, con baffetti e capelli talmente neri e lucidi da sembrare dipinti. Doveva essere sui trentacinque anni. «Cosa posso fare per lei?» Di fronte a una ragazza di ventidue anni bionda e carina, il meno che potesse fare era mostrarsi educato. «Sto cercando la mia amica Danila.» «Ah, sì, la signorina Kovic. È un po' che mi chiedo dove sia finita.» «Anch'io me lo chiedo» disse Kayleigh. «Non risponde al telefono e adesso lei mi dice che non è qui. Crede che potremmo entrare nella sua stanza?» Al signor Reza piacque molto quel 'noi' implicito. «Proviamoci» accettò con un sorriso rassicurante. Bussarono alla porta. Era chiaro che dentro non c'era nessuno. Il proprietario infilò la chiave nella toppa e aprì. Entrando, lo sfiorò il pensiero che la ragazza fosse morta. Cose del genere, purtroppo, accadono ovunque, a Londra come a Teheran. Sarebbe stato uno shock per quella sua amica tenera e sicuramente ancora innocente! Ma no, non c'era nessuno. La stanza era tutta in disordine, come del resto lui si aspettava: vestiti sparsi ovunque, una tazza vuota con avanzi di tè, nel lavandino un piatto pieno di ac-
qua con una patina di grasso in superficie, un coltello e una forchetta. Il letto era stato rifatto in fretta. Accanto, in cima a una pila di riviste, c'era un opuscolo color turchese e argento lucido dello Shoshana Beauty Center. «Ha traslocato alla chetichella» commentò Abbas Reza, pensando ai soldi dell'affitto che avevano preso il volo. «Mi è già capitato un sacco di volte. Lasciano tutto così, va sempre a finire allo stesso modo.» «Non credo sia quel tipo di persona. Sono davvero sorpresa.» «Eh, lei è ingenua, signorina...?» «Mi chiami pure Kayleigh.» «Lei è ingenua, signorina Kayleigh. È ancora troppo giovane per aver visto tutto il male che ho conosciuto io. La sua purezza è incontaminata.» Il signor Reza aveva lasciato la moglie in Iran anni prima, e si considerava un uomo libero. «Non c'è nulla da fare. A questo punto bisogna limitare il danno.» «Io ho perso un'amica» ribatté Kayleigh mentre tornavano giù. «Il che non è poco.» «Certo che non è poco.» Il signor Reza stava pensando di vendere i vestiti di Danila, anche se non ci avrebbe ricavato granché. Però aveva notato un orologio che sembrava d'oro e un lettore CD nuovo. «Venga, le offro una tazza di caffè.» «Oh, grazie.» Kayleigh uscì un'ora dopo, entusiasta per il caffè più forte e denso che avesse mai assaggiato e con un appuntamento per la sera successiva con quell'uomo che già chiamava Abbas. Danila le era passata di mente, ma, adesso che ci ripensava, non era assolutamente d'accordo con il suo nuovo amico, convinto che fosse scappata di casa e svanita nel nulla. Per lei bisognava considerarla una persona scomparsa. L'espressione la colpì. È una persona scomparsa, ripeté tra sé. Doveva avvertire la polizia. Quella mattina il cielo era coperto e la temperatura più fresca rispetto agli ultimi giorni. Mix era di nuovo a Campden Hill Square, seduto nella sua macchina. A quell'ora avrebbe dovuto essere a casa della signora Plymdale, che l'aveva cercato sul cellulare per dirgli, molto gentilmente per la verità, che la nuova cintura fissata al tapis roulant la sera prima si era sganciata. Gli aveva chiesto di fare un salto a sistemarla, non appena possibile, e lui le aveva promesso che sarebbe passato per le undici. Invece eccolo lì, davanti all'abitazione di Nerissa, con un disperato bisogno di vederla anche solo per un attimo. Lei era un po' come la sua dose giornaliera
di droga. Aveva già risposto a due chiamate a Chelsea e a West Kensington, ma per continuare la giornata aveva bisogno di un'altra dose. L'incontro della settimana precedente, l'averle rivolto la parola e il fatto che lei gli avesse risposto non avevano migliorato la situazione. Tutt'altro. Prima desiderava solo conoscerla, nella convinzione di poter diventare celebre quanto lei. Adesso se n'era innamorato. Aspettò a lungo, ingannando il tempo con la lettura dell'ultimo capitolo di Le vittime di Christie, anche se alzava lo sguardo in continuazione per controllare se lei fosse uscita di casa. Apparve a mezzogiorno e mezzo, vestita con un elegante tailleur bianco, alquanto succinto, e un paio di scarpe da ginnastica dello stesso colore che poco si adattavano all'abito. In mano aveva un paio di sandali con dieci centimetri di tacco, che presumibilmente avrebbe indossato non appena arrivata a destinazione, dovunque fosse diretta. Evidentemente le scarpe da ginnastica le aveva messe per guidare. Decise di seguirla. Non poteva sopportare che quella visione svanisse. Gli sfilò proprio davanti, ma non era sicuro che l'avesse notato. La seguì lungo Notting Hill Gate e giù per Kensington Church Street. Per una volta non c'era molto traffico, riuscì a tenersi dietro la sua auto. Lei prese verso est. A un semaforo rosso si voltò a guardarlo. La salutò con la mano, lei accennò un sorriso e ripartì. Prima di rivolgersi alla polizia, Kayleigh chiamò il servizio informazioni dell'elenco abbonati e chiese il numero di telefono di una certa signora Kovic, che risiedeva a Grimsby. Sotto quel nominativo risultava un solo abbonato. Rispose la cognata della madre di Danila, una donna inglese originaria dello Yorkshire che aveva sposato un serbo, per poi divorziare. Le diede il numero del patrigno di Danila. L'uomo sembrava terrorizzato al solo pensiero di rimanere coinvolto in quella storia. «Non mi interessa sapere cosa le sia accaduto» le disse senza mezzi termini. «Non andavamo d'accordo. Non voglio avere nulla a che fare con questa faccenda.» «Ma lei non ha nessun altro parente» insisté Kayleigh. «Sono molto preoccupata.» «Davvero? Be', non so cosa lei si aspetti da me. Provi a mettersi nei miei panni. Ho perso mia moglie e devo tirare su da solo due ragazzini. Io e Danny non eravamo in buoni rapporti, e quando ci siamo visti al funerale abbiamo deciso di andare ognuno per la propria strada. Capisce?» Kayleigh cominciava a pensare che nessuno si fosse mai interessato ve-
ramente a Danila. Madam Shoshana, per esempio, si era subito dimenticata di lei. Quell'indifferenza l'atterriva. La sua famiglia, per fortuna, era completamente diversa. Ai suoi genitori importava moltissimo sapere ciò che facevano i tre figli, e si preoccupavano da matti se qualcuno di loro non rispondeva subito al telefono. Kayleigh si recò alla stazione di polizia di Ladbroke Grove, dove riempì un modulo per le denunce di scomparsa, senza fare menzione della conversazione avuta con il patrigno di Danila. Nerissa aveva un appuntamento con il suo agente in un ristorante di St James. Dovevano valutare la proposta di una prestigiosa rivista patinata di fama internazionale, che aveva intenzione di pubblicare una sua foto in copertina e un articolo di quattro pagine dedicato a lei. Parcheggiò in un posteggio a pagamento a St James Square e si cambiò le scarpe. Non poteva trattenersi troppo a pranzo, se voleva evitare che mettessero le ganasce alla sua auto. Appena chiusa la portiera si vide venire incontro quell'uomo che le aveva rivolto la parola il giovedì precedente, di fronte alla casa della vecchia signora. Era la terza volta che lo incontrava, ed ebbe la spiacevole sensazione che la stesse seguendo. Le era già capitata una cosa del genere. Diversi malintenzionati le si erano messi alle calcagna, in particolare uno che chiamava di continuo al telefono, quando lei era ancora una ragazzina e viveva con i suoi. Ma suo padre, un omone nero per niente rassicurante agli occhi di quel tipo, era riuscito a dissuaderlo. Il paparino si era dimostrato una guardia del corpo formidabile. Un altro che per un periodo l'aveva tampinata usava la stessa tecnica di quell'individuo, l'aspettava fuori casa e la seguiva. Quella volta ci aveva pensato la polizia a persuaderlo a tenersi alla larga. La cosa strana, rifletté mentre attraversava St James Street, era che si assomigliavano rutti. Di altezza media, sulla trentina, capelli chiari, viso ordinario e sguardo allucinato. Quel tipo la stava seguendo per King Street, a una cinquantina di metri. Era in anticipo per l'appuntamento e non sapeva come fare per liberarsene. I negozi di St James Street non sono di quelli che invitano a entrare e curiosare, magari a nascondersi dietro uno scaffale zeppo di vestiti o a scomparire in una toilette per signore. Lì non c'era questa possibilità. Non osava attardarsi a guardare la vetrina del negozio di cappelli o attraversare la strada per dare un'occhiata all'imponente enoteca, nel timore di concedergli l'opportunità di abbordarla. Non doveva assolutamente voltarsi. A un certo punto fu costretta a fermarsi, perché le si era sganciato il cinturino del san-
dalo. Mentre si chinava per rimetterlo a posto avvertì la presenza di qualcuno alle sue spalle. Alzò lo sguardo e si trovò davanti... Darel Jones. Nemmeno se si fosse trattato di suo padre sarebbe stata così lieta; quasi senza volerlo gli disse: «Oh, come sono felice di incontrarti!» «Davvero?» si stupì lui. «Un uomo mi sta seguendo. Guarda. No, non c'è più. Deve averti visto, avrà pensato che sei un mio amico e... è scomparso. È meraviglioso.» Se anche gli fosse importato di essere preso per un suo amico, Darel non lo manifestò affatto. «Fai attenzione a quel tipo. Dovresti avvertire la polizia.» «Non posso rivolgermi continuamente a loro. Sai, non è il primo. Forse adesso la smetterà. Spero sempre che si stanchino, dopo un po'. E tu cosa fai qui?» «Tu cosa fai. Qui c'è la mia banca» rispose indicando un edificio in stile georgiano che recava una targa in ottone e la scritta: Fratelli Laski, Banchieri Internazionali dal 1782. «Lavoro lì.» «Davvero?» Nerissa aveva un'idea molto vaga dei compiti di un impiegato di banca. «Vuoi dire che se entrassi lì dentro per chiedere di cambiare un assegno ti troverei dietro un vetro a darmi un mazzo di banconote?» Lui rise. «Be', non proprio. Sono uscito per la pausa pranzo. Suppongo che tu...» «Ho appuntamento con il mio agente. Non posso dargli buca.» Gli lanciò uno sguardo appassionato, memore della predizione di Madam Shoshana. «Preferirei non andare, ma devo.» «Be', allora ti saluto.» Forse era stata solo un'impressione, ma non lo aveva mai visto così... interessato a lei, persino curioso. «Sai,» le stava dicendo «sei molto diversa da... da come... ehm, dall'idea sbagliata che mi ero fatto di te.» E prima ancora di finire la frase era scomparso. Il suo agente era già seduto al tavolo. Cosa aveva voluto dire con 'idea sbagliata'? Che la reputava brutta e adesso le era sembrata bella? O, più probabilmente, malgrado quella sensazione di istintiva simpatia, pensava che lei fosse carina e invece l'aveva trovata orribile? Eppure stava quasi per chiederle di pranzare insieme... Mix fu convocato d'urgenza dal caporeparto, il signor Fleisch. La signora Plymdale si era aspramente lamentata del fatto che la nuova cinghia che Mix aveva installato sul tapis roulant fosse saltata, e che sebbene lui le avesse promesso di passare ad aggiustarla alle undici di quella mattina non
si era presentato. Era costretta ad allenarsi ogni giorno, per non perdere il ritmo. Per lei era fondamentale fare esercizio fisico. Entrambi i genitori erano morti in seguito a patologie cardiache ed era seriamente preoccupata di subire la stessa sorte. Ma c'era anche dell'altro. Ed West gli aveva riferito che Mix non l'aveva sostituito quando lui era stato male, e aveva fatto saltare l'appuntamento con due clienti importanti. «Ho attraversato un brutto periodo» si giustificò piuttosto evasivo. «Cioè?» «Non sono stato bene. Depressione, credo.» «Capisco. Le prenoterò una visita con il medico aziendale.» Mix ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non sapeva come esimersi. Se avesse rifiutato la faccenda avrebbe preso una piega ancora peggiore. Il dottore era un signore burbero e attempato, che nessuno trovava simpatico. Mix tornò a casa. Era una giornata da dimenticare. Per tutto il tempo che aveva seguito Nerissa si era lambiccato il cervello su cosa dirle quando lei si fosse girata e l'avesse riconosciuto. Sicuramente le avrebbe ricordato il loro incontro di giovedì, aggiungendo subito di essere molto dispiaciuto se il suo atteggiamento poteva in qualche modo avere offeso la madre. Avrebbe accettato un caffè, per dimostrargli che non se l'era presa? Quel giorno era stata così dolce e cordiale che senza dubbio non avrebbe rifiutato. Poi però era comparso quell'uomo, un giovane di bell'aspetto che aveva tutta l'aria di essere un suo amico. La solita sfortuna! Ma non sarebbe certo bastato quello a scoraggiarlo. Aveva appena finito il suo turno quando Colette Gilbert-Bamber lo chiamò sul cellulare. Non si trattava di riparare qualche attrezzo ginnico, ma di ciò che lui definiva 'un assaggino di quell'altra cosa'. Senza considerare che fuori dall'orario di lavoro prendeva quaranta sterline... Se Colette lo trovava così attraente, perché non doveva piacere a Nerissa? Comunque decise di non andare. Era stata una giornataccia e non ne aveva voglia. Era di nuovo tornato il caldo opprimente, e la casa sarebbe stata infuocata e soffocante. Non riusciva a capacitarsi di come fosse sempre immersa nell'oscurità anche quando splendeva un sole così brillante. Non tirava mai le tende, quella vecchia? Non apriva mai le finestre? Si fermò per qualche istante nel posto dove la settimana prima aveva incontrato Nerissa, che gli aveva parlato così dolcemente, mentre la madre si era mostrata così sgradevole. Non doveva pensarci, e non doveva tenere le braccia piegate in quella maniera, perché sentiva i rotoli di grasso attorno alla vita che fuoriuscivano dalla cintura dei pantaloni. Devi camminare, si disse, da domani
fai una passeggiata al giorno. Cominciò a salire le scale, con la sensazione che quel luogo fosse disabitato da anni. Sarebbe servito a qualcosa lamentarsi con la vecchia Chawcer dell'impianto di illuminazione, di quelle lampadine a basso voltaggio che si spegnevano prima che facesse in tempo ad arrivare all'interruttore successivo? Probabilmente sarebbe stato inutile. Persone come lei prosperavano al buio. E comunque era ridicolo dover ricorrere alla luce in un pomeriggio d'estate. Sulla rampa di scale con le mattonelle non c'era traccia degli occhi scintillanti del gatto né, grazie a dio, era apparso Reggie. Si è trattato di un'allucinazione, cercò di convincersi, mi trovavo all'inizio di quel brutto periodo che ho passato, mi è parso di vedere cose irreali. Checché ne dica Shoshana, i fantasmi non esistono, sono allucinazioni dovute alla tensione e allo stress. Le luci proiettate dalla finestra Isabella, rosso scuro, verde e porpora, erano talmente immobili da sembrare dipinte sul pavimento, ma non appena aprì la porta del suo appartamento luccicanti raggi dorati si riversarono nell'ingresso. Prima di entrare avrebbe fatto meglio a dare un'occhiata alla stanza dove aveva sepolto Danila. Anzi, avrebbe dovuto controllarla ogni giorno finché - be', finché cosa? Si era abituato alla sua presenza? Doveva trasportarla da qualche altra parte? Lasciò spalancata la porta del suo appartamento per far filtrare il piacevole bagliore del sole e aprì quella della stanza accanto. Anche lì sarebbe filtrata la stessa luce, se la finestra fosse stata pulita. Ma la sua attenzione fu subito attratta dal tanfo che impregnava la stanza, talmente intenso da costringerlo a fare un passo indietro. Adesso sapeva di cosa si trattava. Nelle ultime settimane il clima era stato insolitamente caldo, la temperatura aveva spesso superato i trenta gradi e il giorno precedente aveva addirittura segnato un record: ecco la causa di quei miasmi. Non riusciva a capacitarsene. Il cadavere era avvolto e ben sistemato sotto le assi del pavimento. Si fece coraggio e chiuse la porta alle sue spalle, dimentico dei fantasmi. I suoi pensieri erano completamente assorbiti da quel puzzo insostenibile, l'unica cosa davvero reale: non aveva mai avvertito in vita sua un tanfo simile. Rimase in piedi, immobile, tirò un lungo respiro e rabbrividì. Perché mai era entrato lì dentro, quel pomeriggio, quando già non si sentiva bene? Sarebbe scomparso quel cattivo odore? Forse, alla fine. Non aveva la più pallida idea di quanto impiegasse un corpo a decomporsi, settimane, mesi o addirittura anni, o se le esalazioni svanissero all'improvviso. La vecchia
Chawcer poteva mettere piede in quella stanza in ogni momento. Non poteva rischiare. Di giorno doveva recarsi al lavoro, e ogni istante che passava fuori casa sarebbe stato un tormento. Nel frattempo, comunque, era inutile rimanere lì. Con quel fetore nelle narici sarebbe stato impossibile mangiare. Anche i cadaveri che Reggie aveva sepolto in casa, soprattutto quelli occultati in una nicchia dietro il muro della cucina, dovevano aver emanato quel terribile odore. O forse no, dato che era dicembre e faceva freddo. Reggie era stato arrestato poco dopo averli messi lì. Mix si fermò sulla sommità delle scale e rimase in ascolto. Regnava il silenzio più assoluto. Scrutò con attenzione verso il basso e cominciò a scendere. Era appena arrivato sull'ultimo gradino della rampa con le mattonelle quando la porta si aprì e comparve la vecchia. Aveva indosso una vestaglia di seta rossa e pantofole ornate di piume. Lui fece per nascondersi, ma lei lo notò. «Qualche problema, signor Cellini?» «Tutto bene» rispose. Lei tirò su col naso. «Vorrei poter dire lo stesso. Temo di avere l'influenza.» Quella frase gli ricordò una rima che sua nonna era solita ripetere quand'era malata: 'Ho aperto la finestra, è entrata l'influenza ed è scappata Enza'. «Che sfortuna.» Se lei stava male, aveva la possibilità di andare e venire dalla stanza senza intralci. Se solo fosse stata ammalata a lungo! «Dovrebbe rimanere a letto» le consigliò. «Devo andare al bagno. La posso incomodare chiedendole la cortesia di telefonare alla mia amica, la signora Fordyce - vi siete incontrati qui fuori giovedì scorso - e avvertirla che sono... ammalata? Troverà il numero nell'elenco accanto al telefono. Fordyce. Se lo ricorda?» «Ci proverò» rispose Mix con un certo sarcasmo, che passò inosservato. Scese al piano di sotto, pensando che solo quella donna poteva beccarsi l'influenza nel giorno più caldo dell'anno. Riuscì a trovare il numero con una certa difficoltà. E se avesse riconosciuto la sua voce? «La signora Chawcer ha la febbre» annunciò adottando il tono più formale possibile. «Sta piuttosto male. Le sarebbe di grande aiuto se domani potesse venire, e anche chiamare il suo dottore, se lo conosce.» «È il signor Cellini, vero? Certo, verrò appena posso.» Sarebbe stato meglio non farsi trovare in casa, ma poi la vecchia avrebbe dovuto aprire lei la porta. Be', doveva soltanto limitarsi ad alzarsi e andare
ad aprire. Gironzolò un po' per le stanze, e si accorse che la padrona di casa aveva lasciato aperta la porta che dava sul retro. La chiuse e tirò il chiavistello. Sarebbe stato davvero un bel casino, in una zona poco raccomandabile come quella, con tutti quei malviventi, lasciare la porta spalancata. Un invito a entrare e servirsi a proprio piacimento. Ci mancava solo quello, con tutti i problemi che già aveva. Era la prima volta che metteva piede in quell'enorme soggiorno. Lei lo chiamava salotto. La polvere e l'odore di stantio gli fecero arricciare il naso, anche se erano ben poca cosa in confronto al tanfo che appestava la stanza da cui era appena uscito. Malgrado l'ora, in quella casa sempre buia era necessario accendere la luce. L'interruttore principale non funzionava. Si avvicinò alla lampada sul tavolino e vide le lettere. A chi diavolo scriveva quelle idiozie? Una cominciava con: 'Gentile dottor Reeves', un'altra: 'Mio caro dottore', una terza: 'Caro Stephen'. Seguivano un mucchio di parole poco chiare, di difficile lettura per via della sottile grafia tutta svolazzi, ma in quella penombra sarebbe stata un'impresa decifrare qualsiasi scrittura. Poi, un nome si impose alla sua attenzione: Rillington Place. 'So che mi hai visto a Rillington Place un giorno d'estate di tanti anni fa. Credo che passasti di lì per qualche visita a domicilio. Il giorno seguente, mi presentai per la prima volta al tuo ambulatorio. Sono sicura che ancora lo ricordi. Il nostro medico di famiglia era il dottor Odess. Fu solo dopo il processo a Christie che scoprii l'orrenda verità. Non che questo, naturalmente, avesse qualcosa a che fare col fatto che lo lasciammo venire a...' Seguivano altre parole completamente cancellate. Non aveva aggiunto altro. Quella lettera provava che la vecchia era andata da Reggie per abortire. Forse stava scrivendo al dottore che avrebbe dovuto operarla, prima che Reggie le offrisse una tariffa più bassa. Ma doveva essersi spaventata e aveva finito per rivolgersi a qualcun altro, e così quel dottore se l'era presa perché era rimasto all'asciutto. Doveva essere andata a quel modo. Aveva rifiutato di tenere la Chawcer tra i suoi assistiti, e adesso, dopo tutti quegli anni, lei gli stava scrivendo per spiegargli come erano andate le cose. Aveva acceso le lampade da tavolo con i paralumi di pergamena grinzata o di seta plissettata, tutti consunti, ma la stanza era ancora avvolta dalla penombra. Gli angoli, privi di lampade, rimanevano immersi nell'oscurità. Il caldo era tale che ben presto gocce di sudore cominciarono a rigargli il viso, giù, sino alle spalle. Non aveva mai visto una stanza più orribile di quella. Osservò annichilito un orrendo drago intagliato che troneggiava si-
nuoso sulla sommità dell'enorme divano, e uno specchio tutto chiazzato, con la cornice nera e dorata: avrebbe davvero potuto essere la scena di un film dell'orrore. Se avesse contattato gente del cinema per affittare la stanza avrebbe potuto ricavarne un bel gruzzolo. Non avrebbero dovuto spostare nemmeno uno spillo. Spegnere le lampade fu un'esperienza ancor più raccapricciante. Le tenebre si spalancarono dietro di lui: quando ebbe spento l'ultima luce si avvicinò alla portafinestra e con violenti strattoni aprì la lunga tenda di velluto marrone. Il movimento produsse grosse nuvole di polvere, che lo fecero tossire. Ma almeno entrò la luce, in quantità sufficiente a far svanire anche la più orribile delle visioni. Se quella stanza era così mostruosa, celando dio solo sa quali orrendi segreti e pericoli, il piano superiore incombeva minaccioso, con Reggie che forse giaceva in attesa da qualche parte e il corpo sepolto in avanzata decomposizione. Sembrava assurto a nuova vita, quasi come se nel passaggio a quel nuovo stato avesse acquisito la facoltà di muoversi. Non pensarci, mormorò tra sé. Dimentica le sciocchezze di Shoshana, quel fantasma te lo sei sognato. Passò davanti alla porta della Chawcer. Nessuna traccia del gatto né, naturalmente, di Reggie. Quando giunse di fronte alla rampa con le mattonelle fece una cosa che non faceva da una settimana: chiuse gli occhi, riaprendoli solo quando raggiunse la cima delle scale; quindi tenne lo sguardo rivolto a terra, avanzando cauto, attanagliato dalla paura. Anche lassù non c'era nessuno, nemmeno Otto. Al sicuro nella sua stanza, rilassato su una comoda poltrona con un gin tonic tra le mani, si disse che andava tutto bene, la fortuna era dalla sua, e se superava quel momentaccio tutto si sarebbe messo per il meglio. La vecchia stava troppo male per arrampicarsi di nuovo lassù, bisognava approfittarne. Probabilmente avrebbe avuto una settimana di tempo per agire. Doveva rimuovere il cadavere. Seppellirlo in giardino? Troppo rischioso. La Fordyce avrebbe cominciato a bazzicare per casa, ora che la vecchia era ammalata. Se anche non avesse sospettato di nulla - e perché, poi? - avrebbe comunque riferito alla Chawcer di averlo sorpreso a scavare. Senza considerare che la stessa padrona di casa avrebbe potuto vederlo dalla finestra. Se la stanza da letto della vecchia occupava lo stesso spazio del soggiorno, al piano superiore, allora aveva le finestre sia davanti che sul retro. No, non poteva correre quel rischio. Faresti bene a mangiare qualcosa, si esortò, ma al solo pensiero gli veniva la nausea. Si sentiva esausto. Erano solo le sei, ma non sarebbe stata
una cattiva idea andare a letto per un sonno ristoratore, magari dopo un altro gin o un Boot Camp. Sul cellulare trovò due messaggi, ma ci avrebbe pensato l'indomani. Si fermò davanti al poster di Nerissa per renderle il consueto omaggio: «Ti amo. Ti adoro.» Quando si fosse messo con lei l'avrebbe portata lì. Lei avrebbe sorriso davanti alla sua fotografia, e lui le avrebbe confessato che l'adorava. Sollevato da quelle considerazioni, si avvicinò alla finestra e guardò giù, verso il giardino, riflettendo sul luogo più opportuno per seppellire il corpo di Danila. Se trovava il coraggio di entrare nella stanza, poteva riuscire a trasportarla fin lì. Reggie l'aveva fatto, più di una volta, malgrado nel suo stesso caseggiato, al piano intermedio, vivesse un vecchio, e a quello superiore la famiglia Evans. I vicini lo avevano visto scavare, ma non avevano sospettato nulla, anzi si erano scambiati lo slogan tipico dei tempi di guerra, 'Scavare per vincere'. Lì sulla sinistra, accanto ai rovi più fitti, la terra poteva nascondere il suo misfatto. O anche al limitare del muro che confinava con il giardino del proprietario delle faraone. Come e quando? Sul muro, disteso in tutta la sua imponenza, Otto si godeva i raggi del sole morente, gli occhi socchiusi e la coda guizzante a intervalli regolari. 15 Dopo aver messo sul gas un pentolino annerito e aver gettato un'occhiata al salotto, Olive stava arrancando per le scale con il vassoio del tè, diretta alla stanza da letto di Gwendolen. Le aveva aperto quel tipo, Cellini, accogliendola con modi bruschi e scontrosi. Quando le aveva telefonato per avvertirla che Gwendolen stava male, non immaginava neppure lontanamente che si trattasse dello stesso giovane che aveva abbordato l'amata Nerissa. Era rimasta di stucco quando se l'era trovato davanti alla porta. Naturalmente, nemmeno lei era stata di molte parole. In quella casa faceva un caldo eccessivo. Un po' come in India al culmine dell'estate, intrappolati nel vicolo di un ghetto cittadino, polveroso e saturo di odori mefitici. In un modo o nell'altro doveva aprire le finestre. Quella della cucina era bloccata. Meglio provare con quella del salotto. La porta della stanza da letto era socchiusa. Gwen aveva un aspetto niente affatto rassicurante, il volto pallido e smunto, le gracili mani rilasciate sulla coperta. Si sforzò di parlare, con voce stridula, e fu costretta a interrompersi per un accesso di tosse.
«È necessario che ti visiti un medico, cara. Senza discutere.» «Sì, è vero. Ne ho davvero bisogno.» E di nuovo un accesso di tosse. «Il dottor Reeves. Se lo mando a chiamare il dottor Reeves verrà, come sempre.» «Non conosco nessun dottor Reeves qui nei dintorni, Gwen. È arrivato da poco?» «Papà ha deciso di lasciare il dottor Odess e provare il nuovo dottore.» Olive ritenne opportuno non porre altre domande. Ogni volta che parlava la povera Gwen era squassata da tremendi accessi di tosse. «Bevi il tè, cara, al dottore penserò io. Il numero lo trovo nell'elenco, vero?» Scese al piano di sotto portandosi dietro il battitappeto. Era rimasto così a lungo davanti al camino che vi si erano ammassati intorno enormi grumi di polvere. Le ci volle un po' per riuscire a scovare l'elenco, poggiato sopra una vetusta caldaia di rame nella stanza del bucato. Non vi figurava nessun Reeves, bensì una certa dottoressa Margaret Smithers. Immaginava che Gwen avrebbe preferito un uomo, ma non ebbe scelta, perché gli altri medici erano tutti occupati. Era uno scandalo. E, cosa ancor più grave, la segretaria le comunicò che la dottoressa Smithers non sarebbe venuta prima del giorno seguente, quando faceva il giro dei pazienti. «Si assicuri che venga» tagliò corto Olive, brusca. Gli accessi di tosse di Gwendolen le arrivavano fin là sotto. Olive tornò da lei, aggrappandosi al corrimano per scalare quella montagna. Alla sua età, sarebbe stato molto più sensato che Gwendolen alloggiasse in un appartamento. «Il dottore viene domani.» «Metterò il vestito blu che ho appena comprato.» «No, Gwen. Devi rimanere a letto. Vado a prendere una brocca d'acqua e un bicchiere. Devi bere molto. E sarebbe meglio che non toccassi cibo. Ho avvertito Queenie, passerà a mezzogiorno. Dove tieni le chiavi di casa?» Gwendolen era alle prese con la tosse. «Non ti preoccupare, le trovo io.» E così fece, dopo averle cercate per una decina di minuti. Uno dei messaggi sul cellulare era del caporeparto, che lo avvertiva dell'appuntamento con il medico aziendale, fissato per mercoledì alle quattordici. L'altro era di una certa Kayleigh Rivers, che gli rammentava che aveva un contorto con lo Shoshana Beauty Center e ne richiedeva l'intervento per una cyclette e un cross-trainer che davano dei problemi. Recarsi in quella palestra era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare, e non solo per il timore che qualche cliente potesse ricordarsi di averlo visto
conversare con Danila. Avvertiva un'inspiegabile idiosincrasia per quel posto. Sapeva già che se vi avesse messo piede qualcosa sarebbe andato storto. Per il momento doveva prendere tempo, poi avrebbe trovato un modo per rescindere quel maledetto contratto. Dal medico però non poteva evitare di presentarsi. Doveva anzi confermargli che era stato poco bene, cosa che del resto i dottori si aspettano sempre di sentirsi dire, e comunque si sarebbe trattato di un'ottima scusa per giustificare la negligenza sul lavoro dimostrata negli ultimi tempi. Non voleva certo diventare tutto a un tratto uno scansafatiche, ma in quel periodo non ce la faceva proprio a stare dietro al lavoro, con il cadavere da sistemare, il tanfo che emanava e tutta quella gente che girava per casa... oltre naturalmente a Nerissa. Era giunto davanti alla sua abitazione. Vi rimase dalle nove alle undici, poi desistette e si recò in auto a Pembridge Road, entrò in una libreria dell'usato e acquistò un volume a lui sconosciuto e che mancava alla sua collezione, Delitti degli anni Quaranta. A Reggie era dedicato un intero capitolo. Tornò a Campden Hill Square e si mise a sfogliare il libro. Si rese presto conto che sugli omicidi di Rillington Place c'era ben poco. Aveva solo buttato via i soldi. Si consolò con le fotografie, le migliori che avesse mai trovato sull'argomento. In particolare, gli piacque quella che compariva sul frontespizio, nella quale era ritratto Reggie scortato in tribunale. Osservò attentamente il viso ben modellato, la bocca sottile e il naso vistoso su cui poggiavano le lenti con la montatura di tartaruga. Come ti comporteresti al mio posto? Cosa faresti? Nerissa lo scorse da dietro una finestra del piano superiore e cominciò a riflettere sul da farsi. Forse la cosa migliore era chiamare la polizia. Ma, in fondo, quel tipo non stava facendo niente di male. Si sarebbe stancato di aspettare, avrebbe avuto altri impegni, e lei comunque non doveva uscire prima di mezzogiorno. Le sarebbe piaciuto fare un po' di jogging, ma con quell'individuo alle calcagna era fuori questione. La sera prima si era convinta che Darel Jones l'avrebbe chiamata. Non gli sarebbe stato difficile ottenere il numero dalla madre, che poteva chiederlo alla madre di Nerissa. Era rimasta in casa tutta la sera ad aspettare la sua telefonata. Non si era neanche allontanata dal telefono, nel timore di non fare in tempo a rispondere. Si era comportata come una quindicenne alle prese con il suo primo ragazzo. Alle dieci s'era rassegnata. Di uomini che avrebbero potuto chiamarla dopo quell'ora, anche più tardi se per que-
sto, ce n'erano tanti, ma certo non Darel Jones. In qualche modo lo sapeva. Era andata a letto presto, triste e delusa. Altre donne al suo posto avrebbero preso l'iniziativa. Perché lei non ci riusciva? Chissà, probabilmente a causa dell'educazione ricevuta in famiglia. Sì, doveva essere quella la ragione. L'indomani avrebbe cominciato a posare per le foto da pubblicare su quella famosa rivista e a lavorare all'articolo, e poi di lì a qualche giorno a Londra sarebbero cominciate le sfilate di moda. Sarebbe stata in passerella insieme a Naomi e a Christy. Erano i suoi ultimi giorni liberi, e invece di divertirsi stava sprecando il tempo dietro una finestra a osservare un uomo che a sua volta era lì per spiare lei. Il suo agente le aveva detto che quello era il prezzo da pagare per la notorietà, consigliandole però di allertare la polizia. Ma era restia a farlo. Con un po' di coraggio poteva infilarsi in macchina, evitando di guardare nella sua direzione, e fare un salto dalla cognata a trovare il nipotino. O forse era meglio aspettare ancora mezz'ora. Prima doveva recarsi da Madam Shoshana, a sentire cos'altro avevano da rivelare le pietre e le carte sul suo futuro. Se solo quel tipo avesse desistito. Si infilò sotto la doccia, si spruzzò addosso il suo profumo, Gardenia di Jo Malone (fece cadere il tappo del flacone), indossò un paio di pantaloni mimetici e una felpa giallo canarino. La madre era convinta che fosse una tinta difficile da abbinare, ma si intonava con il colore della sua pelle. Lasciò a terra dietro di sé la tuta che portava prima di vestirsi per uscire, una serie di indumenti di vario genere, dell'ovatta e una pinzetta per le pellicine, e si accostò alla finestra della stanza da letto. Era ancora lì. Sarebbe stato bello se la casa avesse avuto un altro ingresso, una via di fuga che desse in una stradina secondaria, come certe abitazioni di Notting Hill. Avrebbe dovuto pensarci, prima di acquistarla. Se non si muoveva avrebbe fatto tardi. Scese le scale, decisa a rischiare, passando sotto le forche caudine, qualunque cosa significasse quell'espressione, ma quando si risolse a dare un'ultima occhiata l'uomo non c'era più. Si sentì enormemente sollevata. Forse ne aveva avuto abbastanza, e non sarebbe tornato. A ogni angolo, durante tutto il tragitto per arrivare da Shoshana, si aspettava di veder comparire da un momento all'altro la sua auto, una piccola Honda blu con la targa che cominciava per LCO. Probabilmente aveva un lavoro anche lui. Per causa sua arrivò con dieci minuti di ritardo. Mentre si avviava su per le scale, all'improvviso le venne in mente che una volta, scendendo, aveva incrociato una ragazza che saliva, scura di carnagione e
dai lineamenti marcati, che le aveva fatto pensare alle foto delle donne in Bosnia durante la guerra. Strano che me ne sia ricordata proprio adesso, si stupì. Aveva chiesto a Shoshana chi fosse, e la chiromante le aveva risposto che lavorava in palestra e che si chiamava... Danielle? Come sempre l'ambiente era buio e saturo di odore di incenso. Questa volta però Shoshana indossava un abito di seta nero dal corpetto ricamato con lune e pianeti contornati da anelli. Sui capelli portava un velo, e sul capo una sorta di tiara. «Voglio le carte, non le pietre» scelse decisa Nerissa. A Shoshana non piaceva che le si impartissero ordini, ma i soldi erano soldi e Nerissa era una buona cliente. «Molto bene» replicò, con un tono che intendeva 'a tuo rischio e pericolo'. «Prenda una carta.» Regina di cuori, tre volte di seguito. «Fortuna in amore» le predisse Shoshana, chiedendosi dove aveva sbagliato, perché non preparava mai le carte in modo che uscissero simili sequenze. Sarebbe stato meglio che adesso fosse venuto fuori un asso di picche, ma per la quarta volta venne estratta la regina di cuori. Nerissa sorrise beata. «Non ho mai visto una fortuna così sfacciata» sibilò la cartomante, imprecando dentro di sé. Preferiva di gran lunga pronosticare sciagure, ma a quel punto non poteva certo inventarsi eventi nefasti, dato che Nerissa conosceva bene il significato della regina di cuori. «Scelga un'ultima carta.» Doveva per forza essere un asso, e così fu. Shoshana cercò di mascherare la soddisfazione. «Segno di morte, naturalmente.» Infilò la mano nella borsa dove teneva le pietre, tirò fuori il lapislazzuli e il quarzo rosa e li agitò tra le mani. «Non si tratta di lei o di qualche suo conoscente intimo. È già accaduto.» «Forse è la mia prozia Letizia. È morta la settimana scorsa.» Shoshana non sopportava i clienti che pretendevano di fornire le proprie interpretazioni. «No, non credo. Si tratta di una persona giovane. Una ragazza. Non riesco a vedere oltre. Ho intravisto le parole, ma sono state oscurate dalle nubi. È tutto.» Mise via le carte e le pietre. Nerissa detestava il guizzo della fiamma delle candele, perché in quel momento aveva l'impressione che la statua del mago si muovesse. La civetta bianca aveva gli occhi fissi su di lei. «Quarantacinque sterline, grazie» disse Shoshana. «Ricorda la ragazza che una volta ho incontrato sulle scale? Era carina. Si chiama Danielle?» «Che c'entra lei?»
«Non lo so. Mi è solo venuta in mente.» «È andata via» tagliò corto Shoshana, aprendo la porta per affrettare l'uscita della cliente. Due poliziotti chiamarono il signor Reza e la palestra. Quando fu riferito loro che Danila Kovic aveva lasciato l'impiego e la stanza che aveva in affitto senza avvertire nessuno, né il datore di lavoro né il padrone di casa, cominciarono a prendere la faccenda sul serio. Emisero un comunicato stampa, che non fece in tempo a essere pubblicato sull'Evening Standard ma fu ripreso dal telegiornale della sera della BBC e dai quotidiani dell'indomani, anche se passò in secondo piano rispetto alla notizia del 'giorno più caldo da quando si misurano le temperature'. Nerissa stava guardando la televisione mentre faceva da baby-sitter al nipotino, ma dal momento che non mandarono in onda nessuna fotografia non collegò la notizia alla ragazza che aveva incontrato sulle scale. Anche Mix stava seguendo il telegiornale. Sino ad allora aveva creduto di essersi preoccupato senza motivo, ma adesso comprese di essere stato uno stupido a pensare che la scomparsa di Danila sarebbe passata inosservata. Aveva trascorso un'ennesima pessima giornata, cominciata male perché non era riuscito a vedere Nerissa e continuata con un violento litigio con Colette Gilbert-Bamber, che aveva minacciato di avvertire la ditta che lui non rispondeva alle chiamate. Non gli aveva offerto nemmeno un bicchiere di vino, e così, completamente a digiuno, aveva dovuto affrettarsi all'appuntamento con il dottore. Si era sempre considerato un giovane in perfetta forma e in buona salute, ma il medico la pensava diversamente. Aveva insistito che facesse le analisi del sangue, per verificare il livello di colesterolo. Inoltre gli aveva trovato la pressione alta, 170 di massima e 100 di minima. «Lei fuma, giusto?» «Veramente no» rispose con aria virtuosa. «Beve?» «Non molto. Quattro o cinque bicchieri di vino a settimana.» Il che voleva dire poco più di una bottiglia. Il dottore lo squadrò poco convinto. Gli prescrisse un po' di moto, una dieta priva di grassi e di sale e qualche compressa. «Ritorni tra due settimane. Non vorrà ammalarsi di diabete a quarant'anni, vero?» Mix aveva letto da qualche parte che le preoccupazioni fanno alzare la
pressione. Be', ultimamente ne aveva avute, eccome. Il monito del medico gli aveva procurato mal di testa e nausea. Aveva chiamato il caporeparto avvertendolo che non si sentiva bene ed era andato a casa. Forse la vecchia Chawcer gli aveva attaccato l'influenza. Quel giorno il sole era abbagliante, e per una volta riusciva persino a illuminare quell'edificio tetro, rivelando la polvere annidata ovunque e le ragnatele attorno ai lampadari non più funzionanti che pendevano dai soffitti. Al piano terra qualcuno aveva aperto le finestre e tirato le tende. Spinse una porta che non aveva mai nemmeno sfiorato e gli si spalancò davanti una stanza enorme con al centro un tavolo e dodici sedie, le pareti coperte di quadri a olio raffiguranti scene bucoliche con mucche, cervi, conigli e inguardabili donne anziane in crinolina. Sul primo pianerottolo incrociò una donna che non conosceva, e in un primo momento pensò che si trattasse del feto che Reggie avrebbe dovuto annientare, la figlia della vecchia Chawcer. Ma era troppo in là con gli anni, e comunque, quando si presentò, sorridendo e sbattendo le ciglia per chissà quale ragione, disse di chiamarsi Queenie Winthrop. «La povera cara Gwendolen è gravemente malata, signor Cellini. Ha la febbre altissima, e il medico non potrà venire prima di domani pomeriggio. È un'indecenza.» Mix, abituato a misurare la febbre in gradi Celsius, pensò che la donna si fosse sbagliata. Che ci si poteva aspettare alla sua età? «Sì, è una vergogna» concordò. «Ha detto bene, è proprio una vergogna. Questi dottori dovrebbero vergognarsi. Sarebbe così cortese da prepararle una tazza di tè, domani mattina? Io o la signora Fordyce saremo qui alle otto e mezzo. Abbiamo la chiave.» «Io?» chiese Mix con un filo di voce. «Sì. Sia gentile. Non so chi di noi rimarrà per aprire a quel disgraziato d'un medico, ma qualcuno dovrà restare.» «Be', io non posso» tagliò corto Mix trovando rifugio sulle scale, per una volta completamente dimentico di Reggie. Fiutò l'aria. Gli sembrava di sentire il cattivo odore anche lì fuori. Ma poteva essere solo una suggestione. Come si fa a sapere cosa sia reale e cosa frutto dell'immaginazione? E in ogni caso quella sera non poteva entrare nella stanza. Aveva bisogno di riflettere sul da farsi, escogitare un piano. Alle otto lo chiamò Ed. Si pentì subito di aver risposto, perché temeva che l'amico ricominciasse la solita solfa su quanto lo avesse deluso. Invece a-
veva telefonato per metterci una pietra sopra. Non avrebbe dovuto perdere le staffe in quel modo. Si giustificò dicendo che aveva reagito così perché era ancora indisposto. «C'è un sacco di gente con l'influenza» osservò Mix pensando alla vecchia Chawcer. «Già, e comunque non era solo per quello. Io e Steph abbiamo dei problemi con il mutuo.» Andò avanti un bel po' a parlare dell'appartamento che avevano intenzione di acquistare, di quanto guadagnavano, delle possibilità che aveva Steph di ottenere una promozione e di cosa sarebbe accaduto nel caso fosse rimasta incinta. «Devi fare in modo che non succeda.» Mix aveva sempre avuto enormi difficoltà a chiedere scusa. Anzi, non ne era capace. Trovava umiliante ammettere un errore. Non riusciva a riconoscere che era dispiaciuto per come aveva agito, ma doveva pur dire qualcosa. «Ti va di uscire a bere qualcosa?» azzardò. «Stasera?» «Sì, be', stasera non posso. Facciamo domani alle otto, al Sun in Splendour? Senti, Mix, a buon intenditor poche parole. In ufficio sono piuttosto arrabbiati con te. Ho pensato che fosse meglio metterti in guardia.» La mattina dopo poco mancò che dimenticasse di preparare il tè alla vecchia. Lui quella roba non la beveva, tuttavia teneva una confezione di bustine accanto al vasetto del caffè, e fu solo quando gli ci cadde lo sguardo sopra che se ne ricordò. Avrebbe fatto meglio a portare giù anche lo zucchero. Ma lei non lo volle. Fu la prima cosa che gli disse non appena entrò nella stanza, dopo aver bussato. «Non c'era bisogno, signor Cellini. Non prendo zucchero.» Non una parola di ringraziamento. Nemmeno un 'Buon giorno'. Parlava con un filo di voce e tossiva in continuazione. Mentre si sforzava di tirarsi su a sedere, Mix notò delle grosse macchie di sudore sulla camicia da notte. «Che giorno è oggi?» Glielo disse, con un moto d'impazienza. «Allora domani verranno quelli dei tarli. Devono controllare la stanza accanto al suo appartamento. Non riesco a ricordare il nome della ditta, ma non importa.» Fu scossa da un accesso di tosse. «Oh, mio dio, non riesco nemmeno a parlare. Li farà entrare una delle mie amiche. Spero che scardinando le assi del pavimento siano in grado di capire la causa di quel puzzo spaventoso...» La stanza era ingombra di vecchi panni. Almeno, avrebbe potuto rimuo-
vere la cenere dal camino, non era stata sempre malata. L'aria era irrespirabile, incredibilmente calda, come se la si potesse tagliare con il coltello. E ovunque mosche, che sciamavano nella polvere vorticante tra i raggi di luce. «Vuole che apra la finestra?» Stava troppo male per rispondergli a tono. «La prego, no!, se non vuole farmi morire di freddo. Vada pure.» E poi ancora quella tosse, insopportabile. 16 Nerissa riconobbe la ragazza dalla fotografia pubblicata sul giornale. Quando la vide, Kayleigh si lasciò sfuggire un grido, e il signor Abbas Reza cercò di rassicurarla dicendosi certo che avrebbero ritrovato Danila sana e salva. Shoshana non leggeva i giornali. La giovane che serviva i clienti al bar del Kensington Park Hotel avrebbe potuto riconoscerla e dire di averla vista in compagnia di Mix, ma era andata in Spagna a lavorare in un bar da qualche parte della Costa Bianca. Mix non aveva bisogno di vedere la foto; gli era sufficiente sapere che l'avevano pubblicata. I giornali l'avevano avuta da un fratello di Danila, che l'aveva consegnata a un incaricato mentre il patrigno non era in casa. Mix era seduto nel salotto davanti alle pagine gialle, pur dovendo trovarsi al lavoro già da un'ora. Il cellulare era intasato di messaggi, alcuni dei quali aveva cancellato senza nemmeno leggerli. Avrebbe dovuto telefonare a tutte le ditte che si occupavano di disinfestazione dai tarli per scoprire quale fosse quella contattata dalla vecchia, ma ce n'erano a dozzine, se non a centinaia. Aveva provato a chiamarne un paio e, tra un tasto e l'altro e la musica di sottofondo, lo avevano lasciato in attesa così a lungo che ci aveva rinunciato. L'unica cosa da fare era prendersi un giorno, rimanere a casa ad aspettare l'operaio e dirgli che il suo intervento non era più necessario. Ma se quella Fordyce o l'altra avessero insistito per restare loro, poteva anche nascere una discussione, cosa da evitare a ogni costo. Doveva avvertire il caporeparto che prendeva un giorno di malattia. Il dottore sarebbe venuto nel pomeriggio, l'operaio poteva arrivare a qualunque ora, e la sera aveva appuntamento con Ed. Non riusciva a credere che se non avesse accettato di portare il tè alla vecchia non avrebbe scoperto l'imminente arrivo di un operaio. Alla fine si decise a entrare nella stanza dove aveva sepolto il cadavere di Danila. Con quel caldo esagerato il tan-
fo, già insopportabile, si era fatto più intenso, simile a quello provocato dagli alimenti marciti in un frigorifero spento. Pensò di rompere il vetro della finestra per facilitarne la dispersione, ma temeva di fare troppo rumore. Doveva rimuovere il cadavere al più presto. Non appena si fosse liberato dell'operaio e del dottore e quelle donne si fossero levate dai piedi, l'avrebbe tirato fuori e trascinato giù per i cinquantadue scalini. Comunque era meglio non rimanere nel suo appartamento: era troppo in alto, distante dalla porta d'ingresso. Non poteva correre il rischio di non sentire il campanello, anzi, sarebbe stato meglio sistemarsi in un punto da dove gli fosse possibile controllare chi arrivava. Mentre era a metà delle scale udì il rumore di una chiave inserita nella serratura della porta d'ingresso. La vecchia Fordyce o quella Winthrop. Era la Fordyce, quella con le unghie lunghe laccate di rosso. La sentì arrancare per le scale con passo pesante; si incrociarono proprio davanti alla porta della stanza da letto della vecchia Chawcer. «Buon giorno. Come si sente oggi?» «Bene» mentì Mix. «Ha dato da mangiare al gatto?» «Chi, io?» «Sì, lei» rimarcò Olive Fordyce. «Non vedo nessun altro in giro. Per favore, dia subito qualcosa a quella povera creatura.» E così dicendo scomparve nella stanza della Chawcer. Mi si è rivolta come se fossi il suo domestico, considerò Mix. Perché non lo sfama lei, quel gattaccio della malora? Con quegli occhi quasi umani che lanciavano sguardi carichi d'odio, Otto gli faceva paura. Ciononostante andò in cucina e si mise a cercare una scatoletta di cibo per gatti. Sua madre era disordinata come la Chawcer, per questo era diventato così pignolo nel mantenere l'ordine. Trovò una scatoletta con la foto di un gatto che si lecca le zampe in fondo a una credenza zeppa di patate e di cipolle ormai tutte germogliate. Non era importante a che ora sarebbe arrivato il dottore, o se non fosse venuto affatto: bastava che la Chawcer non si muovesse dal letto, ed era di fondamentale importanza intercettare l'operaio. Mix accostò alla finestra una sedia di velluto marrone a coste tutto consunto; da lì poteva tenere d'occhio la strada. Aveva dimenticato il cellulare nel suo appartamento, ma non importava. Poteva chiamare anche da lì, se avesse avuto urgenza di farlo. Mezz'ora dopo, Olive Fordyce lo trovò in quella posizione.
«Non credo che Gwen stia meglio. Temo che abbia la pleurite. Sarebbe incredibile, con questo caldo. Lei cosa fa qui?» «Qual è il nome della ditta che ha chiamato per i tarli?» chiese a sua volta Mix. «E lo domanda a me? Come faccio a saperlo? Lo chieda a lei.» «L'ha dimenticato.» Olive sedette. Per quel compito da angelo della provvidenza che si era assunta, con tutte quelle scale da salire e scendere, portava scarpe niente affatto comode, rosse, a punta e con almeno cinque centimetri di tacco. Le si erano gonfiate le caviglie. «Mi ha chiesto di dare un'occhiata nella stanza di sopra. Dice che si sente una puzza strana.» Se Mix non fosse stato già seduto, si sarebbe ritrovato a terra. Ebbe un capogiro, ma riuscì a replicare: «Ci penseranno quelli della ditta.» «Be', confesso che non mi va proprio di inerpicarmi fin lassù. Ho i piedi in condizioni pietose, come sempre quando fa caldo. Ci vorrebbe un ascensore.» Su quello era d'accordo. La donna si alzò, barcollando per un attimo. «Rimane lei per aprire al dottore, vero?» Mix avrebbe voluto prenderla a parolacce, ma si ricordò che, per quanto sembrasse impossibile, quella donna era la prozia di Nerissa. «Penso di sì.» Da dietro la finestra la osservò allontanarsi con passo malfermo, lo sguardo carico di disprezzo. Se queste vecchiacce si rendessero conto del loro aspetto! Comunque, probabilmente per quel giorno né lei né l'altra si sarebbero fatte rivedere, e questo tornava a suo vantaggio. Poteva controllare chi entrava o usciva. L'operaio della ditta non avrebbe certo forzato l'uscio, e il dottore non aveva alcun motivo di salire fin lassù per verificare la causa del cattivo odore. Non mollare, si impose, non mollare. È solo questione di tempo. Nerissa ricevette la telefonata mentre aspettava il taxi per raggiungere lo studio fotografico dove era attesa per posare, a Dorchester. Ormai non ci sperava quasi più. Se dopo un incontro un uomo non chiama entro quarantotto ore è ben difficile che chiami in seguito. Ma l'invito era così diverso da quelli che era abituata a ricevere, che per un attimo pensò si trattasse di uno scherzo. «Sabato sera ho invitato a cena i miei, i tuoi genitori, tuo fratello Andrew e la moglie. Mi farebbe piacere che ci fossi anche tu.»
Se ne avesse avuto il coraggio gli avrebbe chiesto se diceva sul serio. Era tentata di declinare l'invito, ma il desiderio di rivederlo e passare una serata con lui, seppure in compagnia di altre sei persone, ebbe la meglio. I genitori di lui le erano simpatici, e con Andrew, maggiore di lei di tre anni, era sempre andata d'accordo. «Nerissa?» «Sì, grazie» accettò esitante. «Mi... mi fa tanto piacere.» Le diede l'indirizzo; abitava lontanissimo dalla zona portuale, dalle parti di Old Crane Stairs. Le consigliò di prendere la East London Line e di scendere alla fermata di Wapping. «Credo che verrò in macchina» disse lei. «Adesso scusami, devo scappare. È arrivato il taxi.» Una volta a bordo, rifletté sulla telefonata. Era un ragazzo all'antica o aveva paura di rimanere solo con lei? Non era gay, vero? Il cuore le batteva piano, eppure aveva l'impressione di sentirlo sobbalzare nel torace. No, non poteva essere. Sheila Jones aveva più volte parlato delle ragazze che aveva avuto. Soppesò la faccenda. Forse voleva solo metterla alla prova, accertarsi che l'opinione che si era fatto era giusta o se lei si fosse rivelata diversa, come le aveva detto. Mentre Shoshana era impegnata con un cliente, Kayleigh rispose alle domande dei poliziotti, anche se aveva già riferito tutto ciò che sapeva. Come al solito, quel venerdì Danila aveva coperto il suo turno in palestra: Kayleigh l'aveva sentita al telefono alle tre e mezzo, trenta minuti prima di darle il cambio. Alle quattro avevano scambiato due parole e poi Danila era andata a casa, a Oxford Gardens. Un inquilino del secondo piano l'aveva notata rientrare, verso le quattro e mezzo. Danila l'aveva salutato ed era salita nella sua stanza, al primo piano. Abbas Reza non l'aveva vista, anche se quella sera gli era sembrato di sentirla uscire verso le otto meno dieci. Da allora se ne erano perse le tracce. Né lui né Kayleigh sapevano dell'esistenza di un fidanzato. La polizia sosteneva che se fosse stata uccisa il cadavere sarebbe già stato rinvenuto. Si ipotizzò un amante segreto, ma per quale ragione tenerlo nascosto? Non aveva alcun motivo di vergognarsene o di mantenere il riserbo. L'unico indizio, per quanto esile, era che l'inquilino del secondo piano, un immigrato di origine cinese che rispondeva al nome di Tony Li, aveva sentito Danila parlare con un uomo fuori dalla sua stanza, circa tre settimane prima della sua scomparsa. Purtroppo, però, non era riuscito a
vederlo. Quando non si ha niente da fare, nessuna distrazione, niente da leggere, da ascoltare o da guardare, il tempo sembra non passare mai. Dopo due ore trascorse in quelle condizioni, Mix salì nel suo appartamento a prendere il libro Delitti degli anni Quaranta. In quel periodo non riusciva a leggere altro che libri su Reggie, non sopportava né riviste né giornali, in particolare questi ultimi. Scendendo le scale sentì la vecchia Chawcer tossire fino a sputare l'anima. Nell'ingresso, Otto si stava leccando il muso, dopo aver mangiato il cibo che Mix gli aveva lasciato. Si comportava come se fosse solo, o come se quell'esemplare di maschio umano fosse talmente insignificante che non valeva la pena di dedicargli la propria attenzione e quindi di interrompere il rituale di pulizia del proprio corpo. Nel libro non trovò alcun elemento di cui non fosse a conoscenza. Sapeva già tutto di Beresford Brown, un immigrato caraibico di origine africana, nuovo inquilino del numero 10 di Rillington Place che, abbattendo una parete divisoria in cucina, aveva rinvenuto due cadaveri stipati in una nicchia. In quei giorni Reggie era lontano, anche se non abbastanza da sfuggire all'arresto. Pur conoscendo già tutti i particolari, Mix lesse quella ricostruzione con immutato interesse, nella speranza di trovare ulteriori dettagli sul processo di decomposizione dei cadaveri. Ma allora si era in dicembre, e la temperatura era rigida. Cinquant'anni fa, prima dell'aumento generalizzato delle temperature, a marzo poteva ancora gelare e in quanto ad agosto... La televisione aveva annunciato che faceva più caldo che in Spagna, e che c'era la stessa temperatura di Dubai. La solita sfortuna! Aveva divorato una quindicina di pagine - erano solo ventidue quelle dedicate a Reggie - quando squillò il telefono. Doveva rispondere? Perché no? Era un diversivo. «Potrei parlare con la signorina Chawcer, per favore?» A giudicare dalla voce doveva trattarsi di un uomo di una certa età. «Al momento non è possibile» rispose Mix, aggiungendo subito: «Per caso lei lavora per la ditta che si occupa della disinfestazione dai tarli?» «Veramente no. Mi chiamo Stephen Reeves. Dottor Reeves.» Non si trattava del medico che doveva venire nel pomeriggio, bensì dell'uomo a cui la vecchia aveva scritto tutte quelle lettere. «Ah, sì?» «Potrebbe lasciarle un messaggio da parte mia? Le dica che la passerò a trovare la prossima volta che capito a Londra.» Gli dettò un numero di telefono che Mix fece finta di annotare. Non a-
veva carta né penna a portata di mano, e comunque probabilmente lei lo conosceva già, non poteva non esserselo procurata. «Glielo riferirò» promise. Tornò a concentrarsi sul libro, in attesa degli eventi. Era turbato dalle fotografie, ma non poté fare a meno di studiarle. I cadaveri erano squallidi, più simili a involti di stracci che a persone morte. Quello di Ethel Christie giaceva sotto le assi del pavimento davanti al camino, nel salotto. Sarebbe apparsa così Danila una volta che il corpo fosse stato riportato alla luce, da lui o da qualcun altro? Adesso, di fronte a un pericolo reale, la paura dei fantasmi sembrava assurda e puerile. La didascalia di un'altra istantanea specificava che un osso della gamba di Ruth Fuerst era stato piantato nel terreno a supporto di un palo dello steccato in giardino. L'insensibilità di Reggie lo affascinava. Poco ma sicuro, non sono molti quelli che avrebbero il coraggio e il sangue freddo di impiegare un arto umano a quello scopo. Doveva trarne ispirazione per trovare il coraggio di rimuovere il cadavere di Danila, tenendo a mente il distacco dimostrato da Reggie. Cominciava ad avere un languore, ma nella cucina della vecchia non c'era niente di suo gradimento. Fece di corsa la prima rampa di scale e metà della seconda, due gradini alla volta, finché fu costretto a fermarsi, il fiato corto. Poi riprese a salire, barcollando fino al suo appartamento. Il telefono stava squillando. Di nuovo si chiese se rispondere o meno. Non poteva essere la ditta, il dottore nemmeno, tanto valeva lasciar perdere. Improvvisò un paio di sandwich con fette di pane e di formaggio già tagliate, recuperò un pacchetto di patatine e una barretta di müsli e tornò giù alla sua postazione davanti alla finestra. Le due donne arrivarono contemporaneamente. Vide la prima scendere da un'automobile che sul parabrezza aveva un cartello con la scritta 'dottore', e l'altra smontare da un furgone decorato con venature di legno e la parola 'Woodrid' stampata a caratteri dorati su una fiancata. Impenitente maschilista qual era, non si aspettava che si trattasse di due donne. La dottoressa fu la prima a bussare, precedendo l'altra di pochi passi. «Dov'è?» chiese piuttosto bruscamente, senza far troppo caso a Mix. «In camera da letto» replicò lui con pari asprezza. «E, di grazia, dove si trova?» «Primo piano. Prima porta a sinistra.» La dottoressa era appena entrata che l'incaricata della Woodrid aveva già messo piede sulla soglia.
«Non abbiamo bisogno di lei» la bloccò Mix. «Con chi ho il piacere di parlare?» Era una ragazza piuttosto carina, indossava un'uniforme marrone che le donava mollo, con una W ricamata sul taschino. «Il suo intervento non è necessario. Sta male. La signorina Chawcer, intendo. È a letto e non può riceverla.» La donna fece un passo indietro, ma non parve affatto intenzionata a desistere. «Comunque posso effettuare il sopralluogo. Sono qui solo per verificare la gravità dell'infestazione.» «Non c'è nessuna infestazione» le urlò Mix di rimando. «Le ho detto che non la può ricevere. Non oggi. Sta male. Torni la settimana prossima, se vuole.» Lei stava per replicare che dopo una simile accoglienza non era sua intenzione tornare quando Mix le sbatté la porta in faccia. Non si affacciò alla finestra finché non sentì il furgone ripartire, e non appena lo fece scorse la signora Winthrop avanzare con incedere barcollante sul sentiero, trascinandosi dietro alcune borse della spesa piene. Aveva la chiave, se la sarebbe cavata da sola, e se quelle borse erano piene di cibo ci avrebbe pensato lei a preparare il pranzo alla vecchia. Come avesse fatto a intuire che lui si trovava in salotto era un mistero, ma quando apparve nella stanza sembrò spiacevolmente sorpresa di trovarlo lì. «E lei cosa fa qui?» «Ho aperto alla dottoressa.» «Ah, sì, la sua macchina è qui fuori. Ha visto com'è dolce?» Mix non rispose. S'era appena ricordato di non aver avvisato il caporeparto. «Salgo su da me» le comunicò. «Ho dato da mangiare al gatto.» Sarebbe entrata nella camera da letto mentre la dottoressa stava visitando? Ma se anche l'avesse fatto e malgrado si fosse liberato di quella tizia della ditta, era comunque troppo rischioso trasportare il corpo, per tutte quelle scale. Doveva farlo di notte. Però poteva dare un'occhiata al giardino, scegliere il posto più sicuro dove seppellire il cadavere e verificare se c'era qualcosa di simile a un capanno dove deporre il corpo mentre scavava. Dalle finestre del suo appartamento riusciva a vederne solo un'estremità, per via dei tetti e delle campate. Comunque, doveva ancora risolvere il problema del caporeparto, mentre quelle donne erano lì in camera da letto. Poi avrebbe anche potuto arrischiarsi a uscire. Appena ne riconobbe la voce, la segretaria gli comunicò: «Jack ti vuole parlare subito.» Si riferiva al signor Fleisch, il caporeparto.
«Ha chiesto di te appena arrivato in ufficio. Te lo passo.» Nella conversazione che seguì, Mix non riuscì quasi a spiccicare parola. «È malato? Deve stare davvero male per aver saltato quattro interventi e non aver risposto a sette chiamate urgenti e tre messaggi. Mezza Londra è inviperita con lei. È un problema fisico o psicologico? Scommetto psicologico. È stato inutile mandarla dal dottore. Lei è nella merda, amico.» «Non so che dire. Non mi sento bene. Forse si tratta di depressione. Devo cercare di reagire, lo so.» «Giusto! Esatto. Nel frattempo, mentre cerca di reagire, domani mattina si presenti dal signor Pearson, all'orario di apertura.» «Ci sarò.» «Farà bene a non mancare.» Doveva essere una faccenda seria se il capo del personale voleva parlargli. Correva il rischio di essere licenziato, o, se gli andava bene, gli avrebbero concesso un'ultima possibilità. Al diavolo, adesso aveva altro di cui preoccuparsi. Se anche avesse portato il cadavere giù in giardino non sarebbe mai riuscito a scavare in una sola notte una fossa abbastanza profonda. Comunque, di giorno non poteva agire. Era di nuovo nella stanza dove aveva sepolto il cadavere, nauseato dal tanfo sempre più insopportabile. Stava meditando di scardinare le assi del pavimento quando udì l'insistente voce flautata di Queenie Winthrop che lo stava chiamando: «Signor Cellini. Signor Cellini, è in casa? Mi sente? Può scendere un minuto?» Doveva scendere, altrimenti sarebbe salita lei. Adesso la puzza sì percepiva sin dal pianerottolo. «Sì, vengo.» Richiuse la porta e si avviò per le scale. La signora Winthrop era esagitata, tutta rossa in volto. «Gwendolen ha la polmonite. La cosa non mi sorprende. La dottoressa Smithers ha chiamato un'ambulanza per portarla in ospedale.» Gli sembrò che il cuore gli balzasse in petto. Se ne andava! Sarebbe rimasto solo, forse per una settimana. Doveva sapere. «Per quanto tempo?» «La dottoressa non si è pronunciata. Solo qualche giorno, spero.» E poi gli si rivolse come a un quattordicenne: «Adesso, mentre Gwendolen è via, la casa è affidata alle sue cure, e noi facciamo affidamento su di lei. Mi raccomando, non ci deluda.» 17
C'era anche Steph, naturalmente. Non mancava mai. Per il momento erano una coppia inseparabile. Sarebbe durato un paio di anni, Mix ne era convinto, dopo di che, soprattutto se fosse nato un bambino, Ed avrebbe ripreso a uscire da solo. Li trovò già seduti al tavolo, al Sun in Splendour. Aveva quasi dimenticato l'appuntamento. Si erano fatte le otto meno un quarto; stava riflettendo sulla strategia da tenere il giorno seguente durante il colloquio con il signor Pearson quando all'improvviso si era ricordato di Ed. Se non si fosse presentato, gli avrebbe tolto definitivamente il saluto. Comunque, non gli dispiaceva uscire a prendere un po' d'aria fresca e scambiare due chiacchiere con un amico invece che con quelle vecchiacce. Scese le scale in uno stato di euforia. Alle tre e mezzo era arrivata l'ambulanza ed erano andati tutti via, compresa Queenie Winthrop, ma era troppo presto per scendere in giardino, c'era il rischio di farsi notare. Non era ancora il momento di rimuovere il corpo. Aveva passato il pomeriggio steso sul divano a leggere per la terza volta uno dei primi libri su Reggie che aveva acquistato, Morte sulla sedia a sdraio. Finalmente era arrivato alla parte che più gli interessava, il processo di decomposizione dei cadaveri di Ruth Fuerst, Muriel Eady, Hectorina MacLennan, Kathleen Maloney, Rita Nelson ed Ethel, la moglie del serial killer. Non era certo il migliore tra i libri dedicati all'argomento. Nel caso avesse dovuto conferire un premio la scelta sarebbe senza dubbio caduta su Un assassino eccezionale, ma prima di rileggerlo doveva terminare il capitolo che lo interessava. Che strano. Se tempo addietro qualcuno gli avesse detto che un libro era più avvincente della TV o di un videogioco gli avrebbe riso in faccia. Quando fece il suo ingresso nel pub stava ancora pensando a come aveva fatto Reggie a occultare tutti quei cadaveri, un paio dei quali carbonizzati. Ed l'accolse con un sorriso: «Puntuale come al solito, eh? No, non affannarti.» Mix decise di non controbattere al sarcasmo dell'amico. Si complimentò per l'anello di fidanzamento di Steph e si informò sulla data delle nozze. «Ci manca ancora un mucchio di tempo» rispose Ed mentre ordinava un gin tonic. Mix prese un whisky e l'amico commentò: «Vedo che siamo passati ai liquori forti.» Mix non replicò. Si aspettava che Ed gli chiedesse di fargli da testimone alle nozze. Sarebbe stato certamente così prima del litigio, e forse era ancora possibile che accadesse, ma non quella sera.
«Immagino che tu lo sappia già, ma sei nella merda fino al collo col caporeparto» se ne uscì a un tratto Ed. «Sei la seconda persona a dirmelo, oggi. Non mi va di parlarne.» «Quando il signor Pearson te lo dirà per la terza volta sarai costretto a farlo.» A Steph sfuggì un risolino. Ma era pur sempre una ragazza sensibile, e spostò subito il discorso sul matrimonio, sui mutui e la casa da acquistare. Andarono avanti per un po', finché Steph non tirò fuori l'argomento peggiore che Mix avrebbe voluto affrontare. «Stanno cercando quella ragazza, pare sia scomparsa proprio da queste parti.» «Quale ragazza scomparsa?» chiese Mix fingendosi sorpreso. «Danila Kovic o comunque si pronunci. Sono venuti due poliziotti a interrogare Frank, il barista. Ho sentito che si era rivolta qui per un lavoro, perché in palestra non guadagnava abbastanza.» «Dopo che se ne sono andati» intervenne Ed «Frank ci ha detto che non l'hanno presa perché non aveva esperienza. Lui conosce tutta la storia, la ricorda bene. Gli aveva dato l'impressione di una bambina. Pareva così giovane che sarebbe stato assurdo metterla a servire alcolici.» «Be', non mi sembra sia stato granché di aiuto alla polizia» commentò Mix alquanto sollevato. La stavano cercando, ma questo lo sapeva già. Grazie a dio non l'aveva mai portata in quel locale. Adesso doveva cambiare discorso. «Quando vi sposate?» «Me l'hai già chiesto, la risposta non cambia. Non a breve scadenza.» «Vogliamo sistemare e pagare ogni cosa prima di sposarci» gli spiegò Steph. «Così iniziamo col piede giusto, non credi?» Mix non aveva un'opinione in proposito ma si dichiarò d'accordo. Ricominciarono a parlare del nuovo appartamento, del mutuo, delle cooperative edilizie e dei tassi d'interesse, finché Ed se ne uscì all'improvviso: «Frank ha detto che l'aveva rivista giù a Oxford Gardens in compagnia di un tale.» Mix rovesciò il whisky, che formò una piccola pozza effervescente. Avrebbe dovuto chiedere 'Vista chi?' ma non ne ebbe bisogno: sapeva benissimo a chi si riferiva Ed. In un tono sin troppo stridulo chiese invece: «L'avrà detto alla polizia, no?» «Ha intenzione di farlo. Quando l'hanno interrogato gli era sfuggito di mente.» Si stavano avvicinando a lui. E quel Frank era in grado di descriverlo?
L'avrebbe riconosciuto? «È qui, Frank, stasera?» Ebbe l'impressione che la voce gli si incrinasse, e gli parve che Ed lo guardasse in modo strano quando gli rispose: «Arriverà più tardi.» Aspetta, non te ne andare subito, potrebbero insospettirsi. Si impose di restare seduto, malgrado sentisse i nervi schizzargli via dal corpo, quasi lo costringessero a fuggire via. Rimase immobile, la fronte madida di sudore. «Ne prendi un altro?» Ed era stanco di aspettare che fosse Mix a offrire. Poteva passare anche tutta la notte prima che lo facesse. «Lo stesso?» «Devo andare» disse Mix. Che faccia aveva quel Frank? Non se lo ricordava e non poteva chiederlo. Mentre usciva, avrebbe potuto incrociarlo a Pembridge Gardens senza riconoscerlo. Ma lui l'avrebbe riconosciuto. Salutò sbrigativamente Steph, e rivolto a Ed: «Ci vediamo.» Il locale era pieno, come sempre in quelle calde notti estive. Frank poteva essere uno qualsiasi di quei giovani. Per esempio, quello che stava arrivando dalla direzione di Notting Hill Gate o quell'altro che stava scendendo dalla macchina. A ogni modo, nessuno dei due diede segno di riconoscerlo. Poteva prendere l'autobus, ma se fosse rimasto ad aspettare alla fermata correva maggiormente il rischio di essere notato, mentre se tornava a piedi poteva allontanarsi dalla zona pericolosa senza dare nell'occhio, e comunque una camminata gli avrebbe fatto bene. Di solito, quando non rincasava troppo tardi, da un paio di finestre di St Blaise House traspariva una luce fioca, e un bagliore giallastro illuminava la finestra a mezzaluna che si trovava sulla porta d'ingresso, gli infissi del salotto e della camera da letto della vecchia. Invece quella notte la casa era immersa nell'oscurità più assoluta, talmente densa e fitta che sembrava premere dall'interno contro le finestre. Falla finita con queste fandonie, sai bene che è tutto frutto della tua immaginazione. Aprì la porta e sprofondò nel silenzio come in un rifugio. I fantasmi non esistono, non bisogna credere a queste stupidaggini. Quella Shoshana sarebbe disposta a inventarsi qualsiasi sciocchezza pur di fare soldi alla svelta. E non chiudere gli occhi quando arrivi su. Qualsiasi cosa ti sembrerà di vedere, è solo nella tua mente. Tenne gli occhi aperti, lanciò persino un'occhiata lungo i corridoi, senza scorgere nulla. E non bere adesso che sei qui, devi rimanere lucido. Durante il tragitto verso casa aveva deciso di portare giù il corpo quella notte stessa. Ma perché, poi? Non c'era alcun bisogno di farlo subito. La
vecchia Chawcer sarebbe stata via almeno una settimana. Puoi pensarci domani, cerca soltanto di essere a casa per le quattro. La fossa la puoi scavare sabato mattina. Se qualcuno ti vedesse scavare di notte si insospettirebbe. Avrebbe rimandato tutto al giorno seguente. Adesso si sarebbe fatto un goccio di gin e sarebbe andato a dormire. Una volta a letto, al calduccio e finalmente rilassato, cominciò a pensare con crescente preoccupazione all'incontro che lo aspettava la mattina seguente, con il signor Pearson. E se gli avesse detto: 'Abbiamo deciso di licenziarla'? No, non potevano prendere quel provvedimento solo perché aveva mancato di presentarsi a qualche appuntamento. E quel Frank, si sarebbe preso la briga di avvertire la polizia? E in questo caso, sarebbe stato in grado di riconoscerlo? Dopotutto lei poteva anche avere qualche altro ragazzo che l'accompagnava a casa. Si addormentò, si svegliò, si riassopì, infine si decise ad alzarsi. Accese la luce e si piazzò davanti allo specchio oblungo contemplando la propria immagine. Come avrebbero potuto descriverlo? Era un tipo ordinario, con qualche chilo di troppo, l'incarnato roseo, il naso affilato, gli occhi di un colore indefinito tra il grigio e il nocciola, capelli castano chiaro. Un confronto all'americana sarebbe stato tutt'altra cosa, ma persino in quello stato di agitazione si rese conto che la sua immaginazione stava prendendo il sopravvento. Il signor Pearson non aveva deciso di licenziarlo, come lui aveva temuto, ma di concedergli un'ultima opportunità. Il suo compito era quello di fare delle ramanzine al personale quando le cose non andavano. Adesso toccava a Mix subirne una. «Se si pretende da voi un comportamento esemplare non è a vostro o mio vantaggio, bensì perché giova a tutti i dipendenti che lavorano per questa ditta e alla reputazione della ditta stessa. Provi a immaginare cosa passa per la testa di un cliente quando si rivolge a lei, che nell'esercizio delle sue funzioni rappresenta la nostra azienda. Il cliente avverte una piacevole sensazione di sicurezza, di conforto e di soddisfazione. Si rassicura: tutto andrà per il meglio, interverranno prontamente non appena contattati. Qualunque sia il problema, la ditta lo risolverà. E adesso, invece, provi a immaginare cosa accade quando un dipendente lascia ripetutamente soli i clienti, li abbandona, non si presenta come concordato, senza nemmeno premurarsi di avvertire. Non crede che il cliente - o, più probabilmente, la cliente - cominci a considerare la ditta inaffidabile, non meritevole di fidu-
cia, di seconda categoria? E non crede che con ogni probabilità finirà per pensare: 'Farei meglio a cercarne un'altra sulle pagine gialle'?» In altre parole, rifletté Mix, mi sta dicendo che ho deluso le aspettative della ditta. Be', lo dica pure. Non accadrà più. «Non accadrà più, signor Pearson.» Al piano di sotto, dalla sua scrivania, Mix chiamò lo Shoshana Beauty Center. Rispose Shoshana in persona, poiché l'impiegata a contratto era andata via e ancora non aveva trovato una sostituzione per Danila. «La prossima settimana farò un salto per controllare le macchine.» «Immagino che questo significhi venerdì sera» ribatté Shoshana in tono scortese. «Non così tardi» rispose Mix, cercando di dare alla sua voce un tono cordiale. «Sarà meglio.» Appena messo giù, Shoshana compose il codice per identificare il numero da cui proveniva la telefonata. Supponendo che l'avesse chiamata dal cellulare o da casa, rimase sorpresa nel vedere comparire il prefisso di Londra seguito da sette cifre che non le suggerivano nulla. Ne prese scrupolosamente nota. Poi Mix chiamò Colette Gilbert-Bamber, che lo seppellì sotto una montagna di improperi. Dopo tutto quello che aveva fatto per lui era stata trattata come una sgualdrina da rimorchiare e scaricare a proprio piacimento. Aveva scovato il nome del capo del personale della sua ditta e stava prendendo in seria considerazione l'ipotesi di spifferare al signor Pearson ciò che era stata sul punto di raccontare al marito, cioè che Mix aveva cercato di violentarla. «Allora, che ne pensi?» «Non ho mai sentito tante fandonie.» Stava per aggiungere che si può parlare di violenza solo quando la vittima non è consenziente, ma ci ripensò e mise giù. Dopo di che si diresse nella sala di esposizione, dove c'erano un numero limitato di nuovi attrezzi ginnici pronti per la consegna, e trovò quello che stava cercando, una grossa e spessa busta di plastica azzurrina trasparente del tipo che si usa per imballare le cyclette e i tapis roulant. La depose nel cofano della macchina e si recò dai clienti, sopportandone i rimproveri e promettendo loro di tornare presto. Alle due, con un panino e una lattina di coca (Diet, perché era a dieta) si concesse il piacere di fare un salto davanti casa di Nerissa. Erano giorni che non vi andava; aspettò più di un'ora ma lei non comparve. Una volta risolto il problema della rimozione del cadavere avrebbe
dovuto studiare una nuova strategia, elaborare un vero e proprio piano di battaglia perché, fino a quel momento, era riuscito a parlarle in una sola occasione. Alle tre e mezzo passate arrivò dall'ultimo cliente, che abitava in una villa di fronte a Holland Park, e alle quattro e un quarto, con la busta di plastica saldamente in mano, salì a casa. Solo dopo essere sceso di nuovo nell'appartamento di Gwendolen a studiare il percorso migliore per trasportare il corpo in giardino, che comportava passare per la cucina e le due stanzette nel retro, si accorse della presenza di Queenie Winthrop. Era in cucina, con un grembiule sul suo vestito rosso a fiori, intenta a fare le pulizie. «Ha dimenticato di dare da mangiare al gatto?» gli chiese senza preamboli. «Provvedo subito.» «Non si preoccupi, ci ho già pensato io» replicò la Winthrop nel tono trionfale di chi ha brillantemente portato a termine un compito delicato e si aspetta i complimenti. «Anche se, devo dire, non sembrava aver fame» aggiunse. Mix non rispose. Quanto tempo sarebbe rimasta lì? Fu lei a rivelarglielo, senza che lui glielo avesse domandato. «Mi fermerò un paio d'ore. Ho già pulito il ripostiglio e la stanza del bucato, e ho appena cominciato con la cucina. Che disordine in questa casa!» L'espressione usata nel riferirsi a una di quelle stanzette sul retro lo fece trasalire. «C'è una stanza del bucato?» «Lì dietro. Guardi.» La seguì in un ambiente che sembrava un capanno in mattoni, con le pareti senza intonaco. In un angolo c'era un oggetto sporgente che aveva l'aria di un vecchio forno. «Cos'è?» «Una caldaia di rame. Immagino che non abbia mai visto una cosa simile, vero? Mia madre ne aveva una e ci lavava i panni. Orribile, no? A quel tempo le donne usavano una spatola e un asse da bucato. C'era di che rovinarsi la schiena.» Mix cercò di prendere mentalmente nota di quella spiegazione. Le parole 'spatola' e 'asse da bucato' non gli dicevano nulla, ma 'stanza del bucato' sì. Christie vi aveva collocato momentaneamente i cadaveri prima di seppellirli. Avrebbe fatto lo stesso se quella dannata vecchia se ne fosse andata. Doveva avere l'accortezza di chiederle indietro la chiave. Avrebbe dovuto farlo il giorno prima, quando lei lo aveva incaricato di dar da mangiare al
gatto. E se si fosse rifiutata? «Sarebbe meglio che mi restituisse la chiave.» «Oh, e perché?» ribatté Queenie tornando in cucina, dove si mise subito a pulire energicamente il lavandino con un detergente blu profumato. «Ho assicurato a Gwendolen che l'avrei tenuta io. Potrei avere bisogno di entrare e uscire. Quindi la terrò con me, se non le spiace. Io e Olive abbiamo intenzione di dare una ripulita a tutta la casa, una sorta di regalo per quando tornerà dall'ospedale. La povera Gwendolen è tutto meno che una casalinga modello.» Inutile aggiungere altro. Risalì nel suo appartamento, assillato dal timore che la Winthrop si fosse spinta fino all'ultimo piano. In tal caso non poteva non aver avvertito quel fetore terribile, e ne avrebbe certo parlato. Cercò invano di rilassarsi davanti alla TV e con un libro su Christie. Doveva fare qualcosa, organizzarsi per quella notte. Prese la borsa degli attrezzi e la busta di plastica e si fermò prudentemente in ascolto sul pianerottolo. Non si sentiva volare una mosca. Aprì la porta della stanza accanto. Si avvolse attorno al collo la sciarpa che si era portato per proteggersi dal tanfo. Lo sentiva anche così, per quanto attenuato, ma quando sollevò le assi divenne insopportabile. Devi andare avanti, si impose facendosi forza, non puoi arrenderti proprio adesso. Respira con la bocca. Il corpo era come lo ricordava quando l'aveva sepolto lì, minuto, esile, avvolto nel sudario di lenzuola rosse. Nel tentativo di sollevarlo e tirarlo fuori fu costretto ad avvicinargli il viso, e per due volte fu sul punto di vomitare. Ma infine riuscì a recuperarlo e adagiarlo sul pavimento. Ebbe l'impressione che fosse più pesante. Sull'assito polveroso scorse il perizoma nero e scarlatto, un affarino frivolo tutto pizzi. Come mai non si era accorto che mancava quando aveva raccolto i suoi vestiti prima di disfarsene? Lo prese e se lo mise in tasca. Non fu difficile infilare il corpo nel sacco di plastica. Fatto questo si sentì meglio, e quando poi chiuse il sacco con un filo provò un immenso sollievo. E se la vecchia fosse stata lì, fuori dalla porta, o in procinto di salire? Ma non c'era. Decise di trascinare il corpo nel suo appartamento. Non poteva ancora rilassarsi. Doveva risistemare le assi e verificare se quell'odore tremendo fosse diminuito. Macché. Forse appena più lieve, ma pur sempre insopportabile. Sperava almeno che una volta richiuso l'assito del pavimento scemasse un po'. Comunque ci sarebbe voluto del tempo. Si rammaricò di non aver comprato un bottiglia di gin. Ne aveva ben poco, in casa. Forse era meglio così. Ne scolò il rimanente, in attesa che Queenie Winthrop si togliesse dai piedi.
Cosa che fece alle sei e mezzo. La vide allontanarsi, dalla finestra della camera da letto. Avrebbe voluto chiederle quando aveva intenzione di tornare, ma temeva di insospettirla. In effetti, prima di portare giù il corpo avrebbe dovuto sprangare la porta dall'interno per evitare sorprese. Malgrado per natura fosse incline a procrastinare le incombenze, questa volta si decise ad agire subito. Scese a mettere il chiavistello alla porta; in quel modo, con o senza chiave, nessuno poteva entrare. Quel continuo saliscendi per le scale sarebbe stato salutare, anche se per la verità non si sentiva perfettamente in forma. Prese la chiave con sé e trascinò il cadavere sul pianerottolo, chiudendosi la porta alle spalle con un calcio. Se il corpo fosse stato più pesante difficilmente ce l'avrebbe fatta. Sul pianerottolo della prima rampa di scale incrociò Otto. Miagolava, piazzato di fronte alla porta della camera da letto della Chawcer. Gli aprì l'uscio, con gesto automatico, e il gatto filò dentro. Forse lo aveva degnato di quell'accortezza solo per concedersi una pausa. Arrivò al piano terra completamente esausto, e si preparò mentalmente a trascinare il fardello attraverso la cucina. Era appena giunto sulla soglia della prima porta quando sentì il rumore di una chiave inserita nella toppa. Gli si gelò il sangue e il cuore cominciò a battere all'impazzata. Non doveva preoccuparsi; la porta era sprangata, nessuno poteva entrare. Tentarono di nuovo di forzarla. A causa del movimento la cassetta della posta si aprì. Poi udì Olive Fordyce chiamare a gran voce: «Signor Cellini! Signor Cellini, è in casa?» Era così atterrito che trattenne il fiato per tutto il tempo. E lei ancora: «Mi faccia entrare! Cosa sta combinando? Perché ha sprangato la porta? Signor Cellini!» Provò di nuovo a entrare, suonò il campanello, batté sulla cassetta della posta. Gli sembrava che fosse lì da un'eternità, ma quando udì il ticchettio dei suoi passi allontanarsi verso il cancello sbirciò l'orologio: non erano passati nemmeno tre minuti. Era ancora troppo spaventato per avere la forza di scavare. Si sentiva debolissimo, e fu sul punto di perdere i sensi. Con sforzo immane chiamò a raccolta le residue energie e trascinò il voluminoso sacco di plastica nella cucina, sino a quella che la Winthrop aveva chiamato la stanza del bucato. Collocata in un angolo, l'enorme e antica caldaia di rame dominava l'ambiente, un'escrescenza di mattoni e malta che si ergeva dal pavimento per un metro e venti, con un portello di legno a coprire una vasca di terracotta completamente asciutta, chiaramente inutilizzata da anni. Sollevò il corpo, sbuffando e ansimando, e lo lasciò sci-
volare nella cavità. Poi si accorse di un rigonfiamento nella tasca posteriore dei pantaloni. Tirò fuori il perizoma, lo gettò dentro accanto al corpo e richiuse il portello. Avrebbe recuperato l'indumento più tardi per seppellirlo nel giardino insieme al cadavere. Quelle vecchiacce invadenti non avevano alcun motivo di ficcare il naso nella caldaia. La Chawcer aveva una lavatrice funzionante, per quanto antiquata, che rendeva inutile quel reperto dei tempi andati. Una volta in giardino cominciò a rilassarsi. Al caldo del giorno aveva fatto seguito una serata mite e senza vento. L'erba incolta era di un colore giallastro, riarsa come un campo di fieno. Nel giardino attiguo, al di là del muro di cinta, l'indiano era alle prese con un vecchio tosaerba a mano, con risultati decisamente scarsi. Le faraone bighellonavano con passo felpato, chiocciando. Non sarebbe stato facile trovare un posto dove scavare agevolmente. Ogni centimetro di terra era ricoperto di erbacce e sterpaglia. Non aveva mai scavato in vita sua, in nessun tipo di terreno, e quello, per quanto riusciva a scorgere in mezzo a quell'ammasso di cardi robusti, di sterpi e di piante dal nome sconosciuto e dall'aria minacciosa, dava l'impressione di essere duro come cemento, malgrado il colore giallastro fangoso. Nel capanno semidistrutto trovò alcuni attrezzi arrugginiti: una vanga, un forcone e un piccone. Ci avrebbe pensato il giorno seguente, ponendo fine una volta per tutte a quell'incubo. Concentrati su questo, bisbigliò, pensa che una volta terminato non avrai più niente di cui preoccuparti. Rientrò in casa e aprì il chiavistello della porta d'ingresso. La vecchia non faceva alcun rumore quando era nelle sue stanze. La lettura è un'occupazione silenziosa. Eppure senza di lei la casa sembrava ancor più immersa nel silenzio. Un'assenza di suoni così assoluta che opprimeva, insinuandosi in ogni anfratto. Aveva le scarpe sporche di terra. Per evitare di lasciare tracce sospette, le tolse e tornò su, assorto su ciò che l'aspettava il giorno seguente. Avrebbe fatto meglio a sondare il terreno, per saggiarne la consistenza. Ma a che pro? A quel compito ingrato non poteva sottrarsi comunque. Prima di rilassarsi doveva ancora verificare la situazione nella stanza dove l'aveva sepolta. Se il fetore fosse cominciato a svanire poteva stare tranquillo. Salì le scale ed entrò. Difficile dire se la situazione fosse migliorata. Poi lo vide. Lo spettro era in piedi al centro della stanza, sotto la lampada a gas, lo sguardo rivolto al punto dove aveva sepolto Danila. Mix si precipitò fuori, correndo all'impazzata verso la porta del suo appartamento, cer-
cando a tentoni la serratura, mentre la chiave, impugnata con la mano scossa da un tremore incontrollabile, non faceva che cozzare contro il legno. Dalla bocca gli fuoriuscivano suoni inarticolati. Solo lì dentro sarebbe stato al sicuro. Cercò d'infilare la chiave, che rimase incastrata. Provò ancora, e finalmente la porta si aprì. Stramazzò sul pavimento, e da terra chiuse la porta con un calcio. Serrò gli occhi e si mise a battere i pugni sul tappeto. Shoshana aveva ragione. Dopo qualche secondo cominciò a riprendere il controllo. Si ricordò della croce che aveva in tasca, ma ormai era troppo tardi per servirsene. 18 «Era solo una bambina» disse Frank McQuaid. Quella frase l'aveva sentita innumerevoli volte nei gialli alla TV, sperando di poterla ripetere, un giorno. Il poliziotto che lo stava interrogando continuò: «Ah, sì? Quindi lei sostiene di averla vista a Oxford Gardens in compagnia di un uomo. Sarebbe in grado di descriverlo?» «Un tipo assolutamente ordinario» rispose Frank come se stesse recitando un copione. Seduto di fronte al sergente in una stanza nel retro del bar, assunse un'espressione grave e assorta, immaginando di trovarsi davanti a milioni di spettatori. «Privo di caratteri distintivi - capisce cosa intendo? Capelli castano chiari, come gli occhi, suppongo. Era buio.» «A Londra non è mai buio.» Frank si fermò a riflettere su questa affermazione. Nella sua originalità aveva un che di equivoco. Decise di ignorarla. «Altezza media o giù di lì capisce cosa intendo?» «Suppongo che intenda un po' più basso della media, signor McQuaid.» «È quello che ho detto. Era solo una bambina» concluse, lo sguardo rivolto a un'invisibile telecamera. «Veniva da qualche paese straniero. Albania? Forse aveva chiesto asilo politico.» «Va bene. Grazie, signor McQuaid. Ci è stato molto utile» mentì il poliziotto. Quella notte ci fu una tempesta al largo. O almeno così sembrava, con quel rumore di onde che si infrangevano sulla riva. Mix non sapeva spiegarsi perché Westway fosse più rumorosa del solito. Forse il vento spirava da una diversa direzione. Si rammaricò di non essersi fatto prescrivere un sonnifero dal dottore. Rimase sveglio fino alle quattro, quando cadde in un
torpore che non valse a recargli riposo. Si destò alle otto del mattino, e la luminosità del giorno attenuò il terrore di quella notte fino a farlo sfumare in semplice paura. Il primo pensiero che lo assalì fu che doveva fuggire da quella casa infestata dai fantasmi. Ma non poteva certo lasciare il cadavere nella stanza del bucato. Era talmente assorto nel ricordo della visione di quella notte che la lettera raccolta giù, accanto allo zerbino, lo lasciò indifferente. Dagli esami del sangue risultava che i livelli di colesterolo erano sorprendentemente alti. E allora? Avrebbe preso delle pillole a base di statina, o roba del genere. Dove avrebbe trovato il coraggio di avventurarsi su quelle scale la sera, quando fosse rincasato? Non poteva più permettersi di saltare gli appuntamenti o non rispondere ai messaggi. Aveva rotto con Colette Gilbert-Bamber, senza rimpianti. Controvoglia, prese la macchina e si diresse a Westbourne Grove, allo Shoshana Beauty Center. Erano le dieci di mattina. Al citofono gli rispose una voce sconosciuta, che parlava con una pronuncia alquanto affettata e cantilenante, da giovane della Londra bene. «Sono il signor Cellini, per la riparazione degli attrezzi ginnici.» Non ebbe risposta ma gli fu aperto. Appena entrato alzò la testa e si trovò faccia a faccia con Nerissa, che scendeva le scale. Per un momento temette di essere in preda a un'allucinazione. Era un colpo di fortuna insperato, come se il fato lo stesse ricompensando della tremenda esperienza della sera precedente. Riuscì a parlare, anche se la voce venne fuori piuttosto stridula. «Buon giorno, signorina Nash.» Lei lo guardò con espressione grave. «Salve.» Era chiaramente spaventata. «La prego, stia tranquilla. È solo che... che ogni volta che la vedo sono felice.» Era bellissima, come sempre, con un paio di jeans e un top di cotone sotto un poncho rosso. Si era bloccata a metà delle scale, esitante, quasi terrorizzata all'idea di passargli accanto. «Mi ha seguita fin qui?» «Oh, no» si difese Mix cercando di conferire un tono rassicurante alla sua voce. «No, naturalmente no. Lavoro in questa palestra, mi occupo della manutenzione degli attrezzi.» Si allontanò dalla scala e si accostò all'ascensore. «Prego, scenda pure. Non le farò alcun male.» Quella vecchia troia della madre e quella cagna della zia dovevano essersela lavorata, aizzandogliela contro. Gli sarebbe tanto piaciuto far fuori quella megera della Fordyce. Nerissa scese cautamente gli ultimi gradini,
ancora esitante, quindi balbettò: «Be', arrivederci. La prego, non...» Sgusciò fuori dal portone senza terminare la frase. Mix pensò che volesse dire: 'La prego, non mi consideri scortese, ho equivocato', oppure: 'La prego, non pensi che abbia temuto che volesse farmi del male'. Qualcosa del genere, insomma. Era tanto gentile quanto bella, dolce e delicata. La domanda che gli aveva rivolto, cioè se l'avesse seguita, era certamente farina del sacco di quella perfida vecchia della madre; lei non avrebbe mai pensato una cosa simile. Alle volte le madri sono le peggiori nemiche dei figli. La sua ne era un tipico esempio: prima aveva sposato Javy, e quando era stata piantata, con tre bambini da tirare su, aveva cominciato a tenere una condotta immorale, portandosi a casa tutti quegli uomini. La madre di Nerissa avrebbe dovuto essere felice del fatto che la figlia avesse qualcuno che l'adorava e che, per di più, le portava un rispetto al giorno d'oggi inesistente. L'ascensore si aprì al piano della palestra. La sostituta di Danila era una ragazza incantevole quanto Nerissa, ma invece che scura di carnagione aveva la pelle candida come la neve, una fluente chioma biondo platino e lunghe unghie laccate di un colore argento. Era stata lei a rispondere al citofono. «Vado ad avvertire Madam Shoshana che lei è qui» gli annunciò infatti nello stesso tono da novizia. Mix avrebbe volentieri fatto a meno di incontrare la chiromante. Era probabile che lo riconoscesse come un suo cliente, e in tal caso avrebbe trovato quanto meno curioso che avessero anche un rapporto di lavoro. Aveva importanza? Era preferibile che nessuno trovasse strano il suo comportamento. Voleva evitare a tutti i costi di attirare l'attenzione. A ogni modo non sarebbe scesa, avrebbe incaricato quella splendida ragazza di riferirgli quanto aveva da comunicargli. La squadrò di nuovo. Nel tono di Eliza Doolittle 4 dopo la metamorfosi, la giovane lo apostrofò: «Vuole smetterla di guardarmi in quel modo?» Mix si allontanò di qualche passo, poi chiese: «Quali sono le macchine da controllare?» «Gliele indicherà Madam Shoshana. Lavoro qui da poco.» Prima ancora che lui replicasse, Shoshana uscì dall'ascensore, bardata con vesti nere e collane di giaietto, in tutto simile a una druida in lutto. Dallo sguardo che gli lanciò Mix comprese all'istante che lo aveva riconosciuto. Gli si rivolse con una voce del tutto differente da quella che modu4
Protagonista di My Fair Lady (1964), film per la regia di George Cukor, con Audrey Hepburn come principale interprete (N.d.r.).
lava quando prediceva il futuro, in tono aspro e con un forte accento londinese: «Ce ne ha messo di tempo a venire. Se preferisce farsi leggere le carte piuttosto che lavorare non andrà lontano. Ci sono due cyclette da riparare, la quattro e la sette. Va bene?» «Va bene» rispose Mix a denti stretti. Poi la donna aggiunse: «Scommetto che la ragazza che lavorava qui, quella pelle e ossa che è andata via senza avvertire, è scappata con lei.» Mix fu colto dal panico. Stava affrontando una delle prove più ardue della sua vita. Riuscì a reagire con un sorriso beffardo e a replicare: «Chi, io? La conoscevo appena.» «È quello che dicono sempre gli uomini. Non mi piacciono gli uomini. E adesso si dia da fare.» Brutta vecchiaccia! Non ne aveva mai conosciute di tanto orribili, batteva di gran lunga quelle altre tre, la Chawcer, la Fordyce e la Winthrop. Rabbrividì e cercò di concentrarsi sul lavoro. C'erano da sostituire dei pezzi che non aveva con sé; avrebbe dovuto sottrarli al magazzino della ditta. Per il momento non c'era altro da fare. Avvertì la ragazza dalla bellezza glaciale che avrebbe ordinato i pezzi necessari e sarebbe tornato per metterli in opera. «Quanto tempo ci vorrà?» «Qualche giorno. Meno di una settimana.» «Lo spero. Se la farà aspettare troppo, Madam Shoshana diventerà una furia.» Aveva altri interventi da effettuare. Cominciò da una nuova cliente che voleva ordinare un simulatore di sci. Abitava in un posto chiamato St Catherine's Mews, tra Knightsbridge e Chelsea. Percorse due volte in su e in giù Milner Street ma non riuscì a trovare l'indirizzo. Decise di lasciar perdere. L'avrebbe richiamata per farsi spiegare la strada. Quindi si recò da uno dei pochi clienti maschi, che abitava a Kentish Town, in Lady Somerset Road, ma quando vi arrivò, dopo aver trovato a fatica un buco dove lasciare la macchina, con l'assillo delle ganasce, scoprì che il signor Holland-Bridgeman non era in casa. A quel punto decise di fare un salto a St Blaise House, per controllare il corpo sistemato nella caldaia della stanza per il bucato. Mentre si avvicinava a Oxford Gardens gli venne da chiedersi come avrebbe reagito se la zona fosse stata interdetta e presidiata dalla polizia. In quel caso avrebbe fatto meglio a nascondersi da qualche parte, magari al nord, ma non dalla madre, che sicuramente conviveva con l'amante di tur-
no o era tornata in manicomio. Da suo fratello? Non erano mai andati d'accordo. L'unica persona della famiglia con cui aveva mantenuto un qualche legame era Shannon... St Blaise Avenue era deserta e piuttosto silenziosa per quell'ora del giorno, con la solita fila interminabile di auto parcheggiate su entrambi i lati. Fortunatamente trovò un posto. Entrò in casa e si fermò in ascolto, convinto che da un momento all'altro sarebbero apparse dalla cucina la Fordyce o la Winthrop, armate di strofinaccio. Era impossibile che almeno una delle due non fosse in casa. Si diresse guardingo verso la cucina, davvero irriconoscibile dopo la campagna di pulizie intrapresa da quelle vecchie, ed entrò nella stanza del bucato. Annusò a lungo l'aria: nessun odore. Il materiale da imballaggio che aveva usato stava facendo il suo dovere. Forse anche Christie aveva risolto in quel modo i suoi problemi, anche se non era sicuro che a quell'epoca esistesse la plastica. Dovette fare appello a tutto il suo coraggio per sollevare il coperchio della caldaia. Del resto, era quello il motivo per cui era tornato a quell'ora. Il fagotto era esattamente nella posizione in cui l'aveva lasciato, e anche con il coperchio alzato non promanava alcun odore. Poi fece una scoperta interessante. Visto così, sembrava un grosso sacco di plastica abbandonato pieno di vestiti smessi. A nessuno sarebbe venuto in mente di controllare cosa vi fosse dentro. Ma se non emanava alcun odore e pareva proprio uno di quei sacchi di panni sporchi che si portano in lavanderia, forse poteva addirittura lasciarlo lì. Era una situazione ben diversa da quella in cui si era trovato Beresford Brown quando, nel montare delle mensole a Rillington Place, aveva rinvenuto il cadavere di una donna dietro un tramezzo. In quel caso non c'erano cattivi odori perché era inverno e il clima era rigido, in questo il corpo era ben sigillato nella plastica. Per quale motivo non lasciarlo lì? Era una soluzione troppo audace ma, in fondo, perché no? Sarebbe rimasto sulle spine ogni volta che era fuori? La vecchia Chawcer non era una casalinga modello, come dimostrava la fatica che avevano fatto le due amiche per mettere un po' d'ordine. Non aveva motivo di andare a ficcare il naso nella caldaia, aveva una lavatrice funzionante, per quanto antiquata, e nella remota eventualità che vi avesse dato un'occhiata non avrebbe visto altro che un sacco di plastica. Sì, poteva lasciarlo lì. Richiuse il coperchio e tornò a passo lento in cucina, immerso nell'elaborazione di quel nuovo piano, quando si trovò di fronte Olive Fordyce. La donna non l'aveva sentito arrivare, e Mix ebbe la soddisfazione di vederla sobbalzare, un po' come era accaduto a lui davanti al fantasma, anche se in quel caso ne aveva avuto ben donde. La donna aveva con sé un
cagnolino bianco che era la metà di Otto. «Cosa fa qui?» «Sono entrato in casa e ho sentito un rumore.» «Quale rumore?» lo incalzò bruscamente. «Non lo so. Per questo sono venuto a controllare.» La donna lo scrutò con uno sguardo inquisitorio, per niente convinta delle sue spiegazioni. «Dov'è il gatto?» «E che ne so io? Sono giorni che non lo vedo.» Il cane prese ad annusargli il risvolto dei pantaloni. «Andrà via di casa se non gli dà da mangiare» lo rimproverò. «Basta, Kylie. Comportati bene. Sarà felice di sapere» continuò dopo una pausa «che Gwen tornerà domani o al massimo dopodomani.» Gli rivolse un sorriso aperto, carico di malizia. Si sarebbe detto che sapesse quel che gli passava per la testa. Temendo di cadere, Mix si aggrappò al tavolo appena pulito. L'idea di lasciare il corpo dov'era svanì all'istante. Doveva assolutamente portarlo fuori da lì, lontano da occhi indiscreti. «Me l'ha detto stamattina, quando sono passata a trovarla - le faccio visita ogni giorno -, e me l'ha confermato anche l'infermiera. Dovrebbe uscire domani.» Prese il cagnolino in braccio e se lo strinse al petto come un bambino con un giocattolo. «Al massimo dopodomani. Oggigiorno tendono a tenere i pazienti il minimo indispensabile, non come una volta. Be', rispetto a un tempo è cambiato tutto, no?» Mix non replicò. Sapeva ciò che lei si aspettava di sentirsi rispondere se fosse stato un giovane educato. Una frase del tipo: 'Sono contento che torni a casa', o anche: 'Sarà lieta di trovare la cucina tutta pulita e in ordine'. Ma non riusciva a spiccicare parola. «Sto uscendo a comprarle qualcosa. Bisognerà badarle per un po'.» Agitò la mano libera e lui notò le sue unghie, quel giorno smaltate di rosa, affilate e lucenti come quelle di una giovinetta. Perfettamente a suo agio, lo fissò negli occhi con sguardo penetrante, il collo in fuori e la testa lievemente inclinata. «Dovrà rimboccarsi le maniche, prepararle il tè e portarle armi e bagagli. Non le farà certo male. Per un po' non sarà in grado di muoversi molto.» «E lei quando torna?» le chiese. «Oggi? Non lo so. Dopo la spesa. Le secca?» «Se mi lascia la lista ci penso io.» Era la cosa migliore che potesse dire. Per la prima volta gli si rivolse
cortesemente: «Sarebbe molto gentile da parte sua. Accetto di buon grado. Meglio dosare le forze. Aspetti che le do i soldi.» Prese a rovistare nella borsa, trovò la lista della spesa e gliela porse. «Me li può dare dopo» disse Mix, rabbonendola ancor più. «Glieli renderò tra un paio di giorni. Non ho intenzione di passare prima, se posso evitarlo. Darò la chiave a Queenie, che farà un salto domani. Adesso saluti Kylie.» Che io sia dannato se lo faccio, si disse. Non era già tanto che si fosse offerto di fare la spesa? Dimenticò completamente le due riparazioni in programma quel pomeriggio, l'appuntamento con Jack Fleisch e altri colleghi, o meglio, tutto ciò passò in secondo piano dinanzi all'urgenza di occultare definitivamente il cadavere. Non salì nemmeno di sopra. Avrebbe preso qualcosa da bere da qualche parte, per trovare il coraggio necessario ad affrontare ciò che avrebbe potuto trovarsi di fronte, lassù. Una delle regole di Shoshana era: non seccare la polizia a meno che non sia lei a seccare te. Sedeva nel suo ufficio sopra la palestra, in attesa della prossima cliente che sarebbe arrivata di lì a dieci minuti, intenta a pensare a Danila Kovic. Non che fosse preoccupata per la sua sorte, o che si fosse messa nei panni dei parenti della ragazza. Non aveva nemmeno rimpianti per il fatto che non lavorasse più da lei, soprattutto adesso che aveva trovato un'ottima sostituta nella bella ed efficiente Julia. Stava semplicemente malignando sul suo conto. L'idea che Cellini si fosse sbarazzato di Danila non le era mai passata per la mente. E perché avrebbe dovuto? Per quanto ne sapeva i due si conoscevano appena, ed era più che probabile che non si fossero mai incontrati fuori di lì. Eppure sentiva crescere un sordo rancore nei confronti di quell'individuo. Non era per niente interessato al contratto che avevano stipulato. Dopo la scomparsa di Danila era letteralmente sparito, e quando si era rifatto vivo aveva addotto il pretesto che doveva ordinare dei pezzi di ricambio. Non era nata ieri. Avrebbe sprecato un mucchio di tempo a trovare un sostituto, come se non avesse avuto abbastanza problemi a rimpiazzare Danila. Era convinta di tenerlo in pugno per via di quel numero che si era annotata quando lui l'aveva chiamata, perché era quasi certa che lavorasse per una ditta che proibiva ai suoi dipendenti di svolgere un'attività autonoma. Sarebbe bastata una sua telefonata al direttore generale o all'amministrato-
re delegato, o comunque si chiamasse, per fargli perdere il lavoro. Era la vendetta che aveva in serbo per lui se il suo atteggiamento non fosse mutato radicalmente. Ma non sarebbe stata una punizione più adeguata spiattellare alla polizia che era lui il fidanzato di Danila che stavano cercando? Però non voleva ritrovarseli tra i piedi lì in palestra. Aveva anche lei qualcosa da nascondere - gli impianti non erano a norma, e ai piani superiori non esistevano uscite antincendio né altre misure di sicurezza. Certo, poteva sempre recarsi lei da loro, ma non c'era alcuna fretta. Un'altra delle sue regole era: non agire mai d'impulso. Bisogna sempre riflettere prima di prendere una decisione. Dalla borsa di velluto tirò fuori le pietre di quarzo, lapislazzuli e giada e verificò che le carte fossero nell'ordine voluto. Bussarono alla porta. Era una nuova cliente, una ragazza molto giovane che entrò tutta intimorita, palesemente impressionata dalla stanza e dalla stessa Madam Shoshana. Avanzò furtivamente fino alla sedia e alzò lo sguardo sul volto dell'indovina, parzialmente celato da un velo. «Metta le mani all'interno del mandala formato dalle pietre, faccia un respiro profondo e cominciamo» le ordinò Shoshana con il tono ieratico e misterioso che usava per predire il futuro. Mix sistemò nel frigo finalmente pulito e invitante mezzo litro di latte, duecento grammi di burro, pane a fette, una braciola di agnello, un petto di pollo, dei piselli congelati, una busta di minestra e parecchi altri alimenti. Aveva fatto la spesa per la Chawcer meccanicamente, mettendo nel carrello ciò che era annotato nella lista senza farci caso. Aveva perso lo scontrino e non ricordava quanto aveva speso. Un paio di gin al KPH l'avevano tirato su, e una fotografia di Nerissa con indosso una gonna Alexander McQueen pubblicata sull'Evening Standard gli aveva restituito il buon umore. Si sarebbe vestita così al loro matrimonio, con un enorme bouquet di orchidee bianche. Quel pomeriggio la Fordyce non sarebbe tornata, e la Winthrop sarebbe venuta solo il giorno seguente. Non bisognava indugiare oltre: doveva agire subito. Si impose di salire su, rincuorato dalla luce solare che filtrava dalla finestra Isabella. La brezza faceva vibrare i vetri e proiettava sul pavimento colorato una luce intermittente. Lassù non c'era niente. Era tutto tranquillo, immobile e... vuoto. Emise un sospiro di sollievo ed entrò nel suo appartamento. Non possedeva scarpe adatte per scavare; se ne infilò un paio da ginnastica con la suola spessa e indossò dei jeans logori. Avvertì ancora un vago odore, ben più marcato nella stanza dove aveva momenta-
neamente sepolto il cadavere. Sarebbe scomparso, era solo questione di tempo. Scese giù, sprangò la porta d'ingresso nel caso la Winthrop avesse cambiato idea, e uscì in giardino. Era una splendida giornata, come si dice in questi casi. Avrebbe preferito un clima freddo e grigio, perché con il caldo e il sole la gente si trattiene volentieri all'aperto. Alcune persone stavano sorseggiando un drink sedute attorno a un tavolino bianco di metallo, al riparo di un ombrellone a strisce. Da lì potevano facilmente vederlo. Prese la vanga e il forcone dal capanno e si mise a esaminare il terreno. Trovò un punto dove il terreno, ricoperto di erbacce rigogliose, sembrava più soffice rispetto alle zolle argillose circostanti, che avevano l'aria di essere dure come la pietra. Non ci vuole una laurea per scavare, tutti sono in grado di farlo, si disse, convinto che fosse uno scherzetto. Ma al primo colpo la vanga si incastrò. Con grande sforzo riuscì a farla penetrare di qualche centimetro nel terreno, ma non oltre. Era così duro che sotto poteva esserci della roccia. Forse era meglio usare il piccone, anche se l'idea non lo entusiasmava affatto. Lo tirò fuori dal capanno e, sempre meno convinto, s'accorse che il ferro era corroso dalla ruggine e una parte del manico era marcia. Lo brandì come aveva visto fare agli operai che lavorano sulle strade, ma dopo tre tentativi andati a vuoto decise di lasciar perdere, nel timore di ferirsi. Non riusciva a capacitarsi dell'abilità che bisognava avere per adoperare quegli attrezzi, e di cui lui era completamente privo. Forse non aveva scelto il posto adatto. Si allontanò dal muro e si diresse verso la casa, portandosi dietro piccone e forcone, i muscoli delle spalle già indolenziti per lo sforzo. Da quella posizione poteva allungare lo sguardo nel giardino del vicino, dove, invece delle faraone, scorse due grosse oche selvatiche che sgambettavano impettite tra le erbacce. Un uomo e una donna, lui con il turbante, lei con il sari, erano accomodati sulle sedie a sdraio, entrambi intenti a leggere rispettivamente il giornale e una rivista. Riusciva a vederli, ma non era sicuro che loro vedessero lui. Comunque non importava. Le sedie a sdraio gli ricordarono sua nonna, che ne aveva una simile quando lui era bambino. Ma subito dopo gli evocarono Reggie, che dopo aver venduto la mobilia aveva arredato la cucina con delle sedie dello stesso tipo. Ricominciò a scavare, stavolta usando il forcone. Andava meglio. Aveva i rebbi sufficientemente acuminati per affondare nello strato superficiale del terreno, e presto si rese conto che era più efficace piantarlo perpendicolarmente. Capì anche come conficcarlo per smuovere lo strato di terra più
compatto. Era già qualcosa. Non aveva certo intenzione di scavare una fossa profonda un metro e ottanta, come una vera e propria tomba, ma non poteva fermarsi prima di aver raggiunto almeno un metro e venti. Dopo circa un'ora fece una pausa per riprendere fiato. Aveva la maglietta inzuppata di sudore. Doveva bere qualcosa, fosse anche tè, ma temeva che una volta rientrato in casa non avrebbe più avuto la forza di uscire. Sulle prime aveva sperato che continuando a scavare il dolore ai muscoli sarebbe presto scomparso, ma si sbagliava. Appena si raddrizzò sentì una fitta lungo la schiena e nella coscia destra. Aveva i muscoli delle spalle tutti indolenziti. Cercò di scioglierli muovendoli alternativamente nei due sensi, con movimento rotatorio, quindi si concentrò sui muscoli del collo, roteando la testa da un lato all'altro. Fu così che scorse Otto acquattato sul muro di fronte, nella sua posizione preferita, intento a osservarlo. Era immobile, simile a una statua, i grossi occhi verdi fissi su di lui che trasmettevano come sempre disprezzo e ostilità. La coppia di asiatici era rientrata in casa, ma aveva lasciato fuori le sedie a sdraio. Mix ricominciò a scavare. Comprese ben presto che a quel punto sarebbe stato meglio usare la vanga, anche se non era agevole. Tornò nel punto dove l'aveva lasciata e, chinandosi a raccoglierla, la sua attenzione fu attirata da qualcosa che non aveva notato in precedenza. Si trattava di un cumulo di piume screziate grigie e nere. Alzò la testa verso il gatto. Sembrava proprio che avesse un'espressione tronfia e compiaciuta, ma poteva essere un parto della sua fantasia. Eppure, ripensando a quel che era successo quando si era convinto di aver avuto delle visioni... Scavare con la vanga fu durissimo. Ogni palata di terra che sollevava gli procurava una fitta nella spina dorsale, come di aghi acuminati. Non puoi fermarti, devi continuare, borbottava tra sé. Aveva le mani piene di vesciche, ma doveva tirare avanti almeno un'altra mezz'ora. Il sole brillava ancora malgrado fossero quasi le sei. Un acuto schiamazzo, lì da qualche parte, lo fece sobbalzare. Alzò la testa, temendo che ci fosse qualcuno, e scorse il vicino con il turbante che gettava manciate di granturco alle oche, le quali lanciavano il loro verso stridulo azzuffandosi per assicurarsi il cibo. Con sua sorpresa, l'asiatico lo salutò allegramente con un cenno della mano, e si vide costretto a rispondere al saluto. Continuò a lavorare per altri dieci minuti, poi si rese conto che più di così non poteva andare avanti. Avrebbe terminato la mattina seguente. Niente male, comunque. Doveva aver scavato una trentina di centimetri. Rimise a posto gli attrezzi e andò nella stanza del bucato a verificare che
tutto fosse a posto. Si trascinò stancamente su per le scale, aggrappandosi alla ringhiera e fermandosi a più riprese. Poi si ricordò che aveva di nuovo dimenticato di dar da mangiare al gatto. Comunque, a giudicare dal suo aspetto, sembrava in grado di procurarsi il cibo da solo. Come aveva fatto Reggie, più anziano di lui, a scavare tutte quelle fosse nel giardino? Dalle fotografie non sembrava dissimile dal suo, altrettanto incolto e probabilmente con lo stesso tipo di terreno. Infatti aveva affermato di avere problemi alla spina dorsale, e al processo aveva sostenuto che quello era stato il motivo per cui non aveva rimosso il cadavere di Beryl Evans. Probabilmente quel continuo scavare gli aveva rovinato la schiena. Non si era nemmeno reso conto di aver superato l'ultima rampa. Il dolore gli aveva fatto scordare la paura e i fantasmi. Entrò barcollando nel suo appartamento, si versò un gin tonic e stramazzò sul divano. Dopo una mezz'ora accese la TV con il telecomando, chiuse gli occhi e si addormentò all'istante, malgrado il frastuono della musica rock che proveniva dal televisore. Fu svegliato da un rumore ancora più forte. Stavano suonando il campanello, e qualcuno percuoteva con i pugni la porta e la cassetta delle lettere. Mix uscì furtivamente sul pianerottolo. Temeva che fosse la polizia. Quell'asiatico aveva riferito che qualcuno stava scavando una fossa nel giardino della signorina Chawcer ed erano venuti per controllare. La polizia era all'erta, e si sarebbe gettata sulla minima traccia. Da lì non si vedeva il giardino o la strada antistante la casa. Scese una rampa, poi un'altra, entrò nella stanza da letto della vecchia e sbirciò dalla finestra. Era calata l'oscurità. La luce dei lampioni fu però sufficiente a rassicurarlo: non c'erano macchine della polizia, e la zona non era stata interdetta con quei nastri che tanto lo spaventavano. All'improvviso cessò ogni rumore. Sul vialetto apparve un raggio di luce: era Queenie Winthrop con una torcia. Quando si voltò a guardare su, Mix si acquattò dietro la finestra. Forse era venuta per assicurarsi che avesse fatto la spesa. Be', sarebbe rimasta nell'incertezza. Non avrebbe aperto quella porta finché non avesse sepolto il corpo. Tornò stancamente al piano di sopra. La notte precedente in quella stanza aveva visto un fantasma, senza ombra di dubbio. Non se l'era sognato. Steph e Shoshana avevano ragione. Non era stata una visione causata dallo stress del lavoro, dalle pressioni di Ed, dalle preoccupazioni e dal desiderio di Nerissa o dai terribili ricordi dell'infanzia. L'aveva davvero visto, quello spettro.
19 Non riuscì a chiudere occhio per i dolori alla schiena. Non fosse stato per la paura di trovarsi di fronte il fantasma di Christie, sarebbe sceso giù dalla vecchia a cercare un sonnifero. Da qualche parte doveva pur averne, le persone anziane come lei ne tengono sempre qualche pastiglia. Ma era terrorizzato al solo pensiero di aprire la porta e trovarsi davanti quella figura spigolosa dal volto esangue, gli occhi a fissarlo da dietro le lenti. Prese un antinevralgico, una compressa da 500 milligrammi, la più forte in commercio a detta del farmacista. L'effetto fu scarso, il bruciore e le fitte continuarono a non dargli tregua. Non stava così male da quando Javy l'aveva frustato, il giorno in cui aveva scagliato la bottiglia contro Shannon. Alle cinque di mattina, dopo una tazza di caffè e un toast che sbocconcellò appena, era pronto. Stava albeggiando, le prime luci grigiorossastre cominciavano a colorare il cielo e una bianca brina ricopriva l'erba, non al punto tuttavia da indurire ancor di più il terreno. Aveva sperimentato che per agire non esiste motivazione più forte della necessità, quando non si hanno alternative. Non avrebbero certo fatto uscire la vecchia prima di mezzogiorno, no? A ogni modo, non potevano entrare. Sapeva bene di non essere in grado di scavare una fossa di un metro e ottanta, ancora più profonda della sua altezza. No, era impossibile, sarebbe stato sufficiente un metro e venti. Doveva bastare. Le oche erano rimaste in silenzio per tutta la notte, ma adesso, quando l'indiano, con il turbante e una vestaglia cammello, aprì loro la porta, vennero fuori starnazzando. Mix aveva letto da qualche parte che quegli animali possono sostituire i cani da guardia. E lui non voleva dare nell'occhio. Otto non si faceva vedere. Cominciò a scavare, malgrado i dolori, ben consapevole di non avere scelta, con il timore di provocare un danno permanente alla schiena e di rimanere invalido. Non poté evitare di chiedersi nuovamente come avesse fatto Reggie, come fosse riuscito a mantenere il sangue freddo quando era capitato che degli estranei, gente curiosa o anche la moglie, lo cogliessero in atteggiamento sospetto. Gli venne da pensare che forse era pazzo. O forse il pazzo sono io, e lui un uomo forte e coraggioso. Alle dieci estrasse l'ultima palata di terra e sedette sul terreno umido e pietroso a riposare. «Voglio andare a casa» si lamentò Gwendolen. «Subito!» «Se credi chiamiamo un taxi.»
La caposala aveva detto a Queenie Winthrop che l'avrebbero dimessa alle quattro, e trasportata a casa con un'ambulanza. «È il modo più veloce.» «I taxi costano troppo» rispose Gwendolen. «E il fine settimana sono ancora più cari.» «Lo pago io.» Gwendolen se ne uscì con uno dei suoi risolini privi di allegria, cosa che non faceva da giorni, e ribatté all'amica: «Non ho mai chiesto a nessuno la carità e non intendo certo cominciare adesso. Tra i tuoi conoscenti ci sarà senz'altro qualcuno che possiede un'automobile.» «Olive ha la patente, ma è scaduta.» «Già, fa proprio al caso nostro. E tua nipote, la signora con quel nome africano?» «Oh, non posso chiederglielo, Gwendolen.» «Perché no? Può sempre rifiutare, ma sarebbe una scortesia nei tuoi confronti.» Hazel Akwaa stava sorseggiando il caffè con la figlia, nella sua casa di Acton. O meglio, lei lo stava prendendo, mentre Nerissa beveva acqua frizzante con ghiaccio e una fetta di limone. Stavano decidendo quale vestito Hazel avrebbe indossato quella sera per la cena da Darel Jones, e Nerissa si era offerta di prestarle l'unico capo che stesse bene anche alla madre, un caftano di seta pesante tutto ricamato. «Andare a prendere Gwendolen Chawcer all'ospedale?» Nerissa sentì dire alla madre. «Non ho la macchina. L'ha presa mio marito e tornerà solo stasera.» «Dille che se vuole posso andare io» propose Nerissa. Si recarono insieme a Paddington a prendere il caftano. Perfino una donna ombrosa come Gwendolen si addolciva di fronte all'autentica cortesia, e quando scoprì in che modo si erano adoperate per farla uscire prima dall'ospedale si dimostrò estremamente cordiale con Nerissa. Per una volta, davanti a una ragazza si trattenne dal criticare i jeans troppo attillati, il colore e la lunghezza delle unghie, la camicetta troppo scollata e i tacchi esageratamente alti, ma le sorrise ringraziandola per la gentile premura che l'aveva spinta a sacrificare il sabato mattina per 'trasportare una vecchia creatura come me'. Arrivarono a St Blaise House a mezzogiorno in punto. Queenie Winthrop, che si era unita alla brigata, fece a Gwendolen un resoconto piuttosto risentito, che durò per tutto il viaggio, di come avesse provato invano a entrare in casa per preparare le ultime cose in vista del suo ritorno.
«Naturalmente avevo la chiave. Ma con immensa sorpresa ho trovato la porta sprangata, col chiaro scopo di impedirmi di entrare. Hai capito bene, sprangata. Non ci credi, eh? Forse quel Cellini ha paura di rimanere solo. Sono sicura che l'aveva chiusa sopra e sotto con tutti i chiavistelli. Ho suonato a lungo, ho bussato alla porta e sulla cassetta delle lettere. Quando ho capito che non avrebbe aperto ho guardato su e l'ho intravisto dietro la finestra, mentre tentava di nascondersi. E indovina dietro quale finestra? Quella al primo piano, che dà sulla strada: la finestra della tua camera da letto. Ne sono quasi certa. Cosa ne dici?» «Avrei qualcosa da dire se tu ne fossi assolutamente certa. Ma non è così, vero?» Queenie non rispose. Alle volte Gwendolen si mostrava esageratamente sgarbata. Mostrandosi offeso, l'aiutò con risentito distacco a smontare dalla macchina, ma non rimase sorpresa quando davanti alla porta di casa Gwendolen si liberò del suo braccio per inserire la chiave nella serratura. Lungi dal deridere Queenie per quanto le aveva riferito sul comportamento di Cellini, aveva temuto di trovare la porta sprangata e, mentre introduceva la chiave, stava già pensando a tutta una serie di invettive che gli avrebbe rivolto contro, culminanti nell'ingiunzione di sfratto. Ma la porta si aprì subito. Entrarono e si tolsero le giacche. Non erano ancora arrivate in salotto che Mix uscì dalla cucina. Rimase sconcertato nel vederle così presto, felice seppur allarmato alla vista di Nerissa, anche se aveva portato a termine la sua opera da circa una mezz'ora ed era sceso solo per controllare di non essersi lasciato dietro delle prove. Fu proprio la presenza di Nerissa che lo indusse a fermarsi. Non fosse stato per lei, si sarebbe limitato a un saluto frettoloso e sarebbe subito sgusciato via sulle scale, la mano sulla schiena dolorante. Stava cercando le parole giuste, dimentico del resto della compagnia, quando Gwendolen lo apostrofò: «Cosa stava facendo nella mia cucina?» Sin da bambino Mix era abituato alle menzogne e ai sotterfugi per cavarsi d'impaccio, e non aveva problemi a inventare delle scuse. «Sapevo che oggi sarebbe tornata a casa, così ho pensato di farle trovare una tazza di tè. Stavo cercando le tazze e la teiera.» «Molto gentile da parte sua» ribatté Gwendolen, che non credeva a una parola di quanto le aveva detto. «Ci penseranno le mie amiche.» Era un modo per congedarlo e Mix lo comprese bene. Prima però doveva dire qualcosa a Nerissa. Lei lo stava osservando con un sorriso appena
accennato. «La fotografia che la ritrae sullo Standard è bellissima, signorina Nash. Sarebbe così gentile da regalarmene una copia con dedica?» «È un'istantanea scattata dal fotografo del giornale» rispose la ragazza con voce più flebile di quanto lui ricordasse. «Non fa parte di un servizio fotografico.» «Peccato.» Prima di separarsi da lei, Mix era determinato a recitarle la frase che si era esercitato a ripetere innumerevoli volte, sperando che prima o poi gli si presentasse una simile occasione. «Signorina Nash, lei è la donna più incantevole che abbia mai visto. Bella dal vivo come in foto.» Si avvicinò sin quasi a sfiorarle il viso e concluse: «Più bella, per la verità.» Quindi si avviò barcollando per le scale, cercando di non mostrare quanto fosse dolorante. Gwendolen era entrata nel salotto per non sentire quelle idiozie, scortata da Queenie Winthrop. Hazel Akwaa era furibonda. Voleva inseguire Mix e cantargliene quattro, ma Nerissa la trattenne per un braccio cercando di calmarla: «Ti prego, mamma, lascia stare.» «Come ha osato rivolgersi a te in quel modo?» gridò a voce sufficientemente alta perché Mix, ormai già al primo piano, la sentisse. «Non sono la regina, mamma. La gente non è tenuta a chiedere il permesso prima di rivolgermi la parola. Sono proprio una stupida a non aver capito che viveva in questa casa. Voglio dire, lo abbiamo già incontrato qui fuori ma non mi è passato per la mente che ci abitasse.» «Sono spiacente che abbia dovuto subire questo affronto sotto il mio tetto» si scusò Gwendolen quando la raggiunsero nel salotto. Ma dal tono della voce era svanita la cortesia manifestata in precedenza. Biasimava Nerissa al pari di Mix per quell'esternazione. Adesso che era tornata a casa non vedeva l'ora di rimanere sola. Con modi bruschi ringraziò Nerissa per la gentilezza dimostratale, aggiungendo che non c'era alcun motivo che sacrificasse altro tempo. Le avevano prescritto medicinali e vitamine, non aveva per niente fame e il suo unico desiderio era stendersi sul divano e aprire la posta che Queenie aveva preso dalla cassetta delle lettere. C'era la possibilità che ci fosse una lettera di Stephen Reeves. Era molto stanca e voleva leggere qualche pagina prima di essere sopraffatta dal sonno. Fu Nerissa ad accorgersi di quanto fosse esausta e a condurre via la madre e Queenie. Quest'ultima, uscendo, trovò il modo di aggiungere che lei e Olive avevano fatto le pulizie di primavera in cucina. Finalmente sola, prima di aprire il libro Gwendolen si ricordò che quel
giorno era l'anniversario della prima visita di Stephen Reeves in quella casa, quando aveva cominciato a curare la madre. Era sceso e le aveva detto: «È triste vedere le persone anziane ridotte così.» Gli aveva offerto il tè e il dolce preparato quel giorno stesso, e lui l'aveva divorato. I complimenti di Mix e quel contatto troppo ravvicinato l'avevano turbata ben più di quanto avesse fatto vedere alla madre. Si era imposta di mantenere il controllo non senza sforzo, per non causare problemi alla povera signorina Chawcer, reduce dall'ospedale, ma una volta rimasta sola in casa, dopo aver accompagnato la madre e la signora Winthrop, era scoppiata a piangere. Malgrado si fosse ripetuta che in fondo quel tipo non aveva fatto altro che rivolgerle dei complimenti, anche se le si era avvicinato troppo, si abbandonò a un fiume di lacrime. Alla fine si sentì sollevata. Era troppo giovane per temere che il pianto le facesse venire le rughe. Chiamò il salone di bellezza che frequentava abitualmente e prenotò un taglio di capelli e una seduta con la manicure. Mentre stava per uscire gli tornò in mente quell'uomo, e istintivamente controllò da dietro la finestra se fuori era parcheggiata un'auto blu. Ne aveva persino memorizzato la targa. Non si vedeva nessuno. Per niente rassicurata, raggiunse nervosamente la sua auto e rimase sulle spine fin quando non cominciarono a lavarle i capelli. Ma continuò a pensarci, mentre le versavano l'acqua calda sul capo. Cosa voleva da lei? Che uscissero insieme? Odiava apparire altezzosa, o addirittura snob. Sapeva bene di non avere alcun diritto di esserlo nei confronti di nessuno; veniva da una famiglia normalissima, anche se la nonna affermava di essere la figlia di un capotribù. Probabilmente quell'individuo - si rese conto di non conoscerne nemmeno il nome - era più colto di lei e aveva anche un lavoro. E poi non le aveva procurato alcun danno: perché ne era così terrorizzata? Una volta un amico le aveva detto che lei possedeva un formidabile intuito femminile; forse era vero, poiché avvertiva una sensazione di pericolo, di minaccia incombente. L'aveva percepita nettamente quando lui aveva avvicinato il volto al suo. Aveva gli occhi vitrei e il viso assolutamente inespressivo, anche mentre le rivolgeva quei complimenti. Doveva trovare il modo di liberarsene, non voleva più correre il rischio che le si avvicinasse. Nico si stava avvicinando con spazzola e asciugacapelli; si voltò verso di lui e gli indirizzò quello splendido sorriso che scioglieva il cuore ai for-
tunati cui era destinato. Mix era seduto nel salotto a leggere Un assassino eccezionale. Stava osservando una fotografia, un primo piano che gli ricordava lo spettro apparsogli davanti. Abbassò il volume. Prima di cominciare a leggere aveva sentito Nerissa - com'era stata carina, incredibilmente dolce e gentile - che andava via con quella vecchia strega della madre e con la Winthrop. Come era possibile che una donna simile avesse una figlia così meravigliosa? Incredibile. E che tono aveva usato mentre lui era per le scale! Una volta che fosse uscito con Nerissa, anzi, che l'avesse sposata, si sarebbe preso la sua rivincita, proibendole categoricamente di mettere piede in casa della madre. Sì, l'avrebbe sposata. Adesso ne aveva la certezza. Le si era avvicinato fino al punto di poterla baciare, e lei non si era ritratta. Le piacevano i complimenti, naturalmente. L'indomani sarebbe andato da lei a piedi e l'avrebbe aspettata. Peccato che non sapesse cantare: le avrebbe dedicato volentieri una serenata. Si rese conto che da quando si era sbarazzato del cadavere aveva acquisito molta più fiducia in se stesso. Era convinto che una volta superata una prova come quella sarebbe stato in grado di affrontare qualsiasi situazione. Era chiaro che non aveva avuto intenzione di uccidere: non si considerava un assassino, né responsabile di omicidio colposo: si era trattato di un incidente. Eppure, se costretto, avrebbe ucciso ancora. Non era poi una grande impresa. Finalmente quella notte avrebbe dormito tranquillo. Non era più tormentato dai problemi; anzi, col senno di poi gli sembrava di averne esagerato la portata. Li aveva affrontati e superati, si erano dissolti nel nulla. Anche la schiena andava meglio. Ancora un po' di analgesico e i dolori sarebbero scomparsi. Del resto, quando teneva i piedi sollevati avvertiva un gran sollievo. Lo spettro, poi, lì non aveva mai messo piede. Se avesse evitato di guardare in quei corridoi bui e di entrare in quella stanza non l'avrebbe più rivisto. Comunque doveva andar via di lì. Era un peccato, dopo tutti i soldi che aveva speso per sistemare l'appartamento; ne avrebbe beneficiato la vecchia Chawcer ma non poteva farci nulla. Tanto, quando l'inquilino successivo si fosse trovato davanti quell'apparizione, avrebbe avuto poco da rallegrarsi. I rabdomanti percorrevano in fila una strada secondaria a Kilburn, diretti verso un vecchio palazzo restaurato sotto il quale, si diceva, scorreva anco-
ra un antico corso d'acqua, e conversavano amabilmente di argomenti a loro familiari, quali l'astrologia, la cartomanzia, l'esorcismo, la numerologia, i tarocchi, il culto dei gatti e di Astaroth, l'ipnotismo e l'esistenza degli gnomi. Non era ancora giunto il momento di tirar fuori le bacchette rabdomantiche. Durante quelle passeggiate Shoshana sceglieva una compagnia femminile, una strega o una chiromante, ma quel giorno procedeva sola, immersa nel dilemma rappresentato da Cellini. Dopo una decina di minuti decise di chiedere consiglio, rallentò il passo affinché un'amica di vecchia data, anche lei strega, la raggiungesse, e le illustrò il problema, senza fare nomi. «Cosa mi consigli di fare, Ecate?» In realtà la strega si chiamava Elena, ma Ecate era un nome ben più evocativo, che non mancava mai di fare una certa impressione sui clienti più colti, in grado di afferrarne le suggestioni letterarie. «Potrei fare una fattura,» le propose «a prezzo scontato, beninteso. Ne ho fatta una che procura la psoriasi.» «Sarebbe carino, ma ho queste due possibilità da giocarmi, e non voglio sprecarle. Non tutte e due, perlomeno.» «Capisco cosa intendi» disse Ecate. «Senti, tra un minuto saremo sul corso d'acqua. Lascia fare a me, entro lunedì ti darò la risposta.» «Va bene, ma non metterci troppo. Bisogna battere il ferro finché è caldo.» «Non preoccuparti, ti manderò una e-mail lunedì mattina.» L'appartamento, estremamente ordinato, era più grande di quanto Nerissa si aspettasse. Casa sua ricordava quelle fotografie delle riviste d'arredamento che sfogliava dal dentista, ma solo dopo che Lynette le aveva restituito un ordine che comunque non durava a lungo. Attraverso la porta aperta della sala da pranzo intravide una tavola apparecchiata con cura per otto persone, con fiori e candele. Nessun ragazzo le aveva mai preparato una sorpresa del genere. Aveva sempre frequentato giovani benestanti, alcuni per la verità molto ricchi, ma vivevano tatti in appartamenti disordinati quanto il suo e, sebbene vi scorressero fiumi d'alcol e droghe di ogni genere, non vi aveva mai visto una tavola imbandita o anche solo del cibo su un vassoio. Ma la triste realtà era che Darel non era il suo fidanzato, né sembrava probabile che lo diventasse. Si dimostrò un ospite squisito. Nerissa era abituata ad avere a che fare con uomini che la ponevano al centro dell'attenzione, facendola sentire unica, e si era sempre chiesta se ciò accadesse solo perché era un personag-
gio pubblico. Il fatto che Darel la trattasse come le altre donne lì presenti, le rispettive madri e la moglie di Andrew, tutto compito e pieno di premure, lungi dall'infastidirla accresceva il suo convincimento che le cose sarebbero dovute andare sempre così. Ma si accorse che, ogniqualvolta si trovava dalla parte opposta della sala intento a riempire i bicchieri o a controllare il cibo, che aveva tutta l'aria di aver cucinato con le sue mani, non perdeva occasione per lanciarle sguardi e sorriderle. Quando gli si avvicinò, mentre prendeva il suo soprabito, anche se fino ad allora non le aveva rivolto alcun complimento, ebbe la netta sensazione che la osservasse con sguardo ammirato, notandone l'acconciatura a chignon e l'elegante abito rosso dorato che aveva indossato per l'occasione. Per quella sera la dieta poteva andare a farsi benedire: avrebbe fatto onore alla sua cucina. In sottofondo c'era della musica classica, genere che lei sosteneva di non capire ma che trovò gradevole. Una melodia dolce e soave, senza quelle solite basi ritmiche così sgradevoli. A parte la festa organizzata per il compleanno del padre, era la prima volta che partecipava a un ricevimento dove si beveva con moderazione, nessuno spariva nelle camere da letto con il primo venuto, non si spettegolava maliziosamente e non si usava un linguaggio scurrile. La cosa più strana fu che non lo trovò affatto noioso. Comunque non si parlava di questioni personali o di affari immobiliari. Il fratello e la cognata erano entrambi avvocati, e parlarono di alcuni casi di cui si erano occupati. Poi la conversazione si spostò sul mercato azionario, argomento che a Darel era congeniale quanto i discorsi sulla politica. Tutti espressero tranquillamente la propria opinione, leggermente discordante l'una dall'altra, sulla guerra in Iraq. Il signor Jones era preside di una scuola, e aveva delle convinzioni piuttosto radicali in fatto di educazione. Se Nerissa non interveniva, le veniva chiesto cosa ne pensasse sull'argomento in questione. Era lieta di non passare per la solita modella dal cervello di gallina che badava esclusivamente ai soldi e all'apparenza. Solo in un'occasione si sentì a disagio, quando Andrew menzionò un caso in cui aveva sostenuto l'accusa contro un indovino. Tutti i presenti, esprimendosi comunque in modi urbani e misurati, liquidarono come fandonie la chiromanzia e l'astrologia. Darel fu particolarmente caustico in proposito. Nerissa rimase in silenzio, temendo di apparire l'unica in quel consesso a conoscere i nomi dei tarocchi e a frequentare una chiromante. Non riusciva a capire per quale motivo Darel l'avesse invitata, anche se intuiva che quell'incontro poteva avere degli sviluppi, che la serata avrebbe avuto un seguito. Avrebbe cercato di diventare il tipo di donna che piaceva
a lui. Si sarebbe impegnata a essere più ordinata, più metodica, avrebbe letto di più, si sarebbe informata per poter seguire con cognizione di causa gli argomenti intavolati dai Jones e avrebbe imparato a esprimersi con una certa proprietà di linguaggio. Avrebbe acquistato qualche cd di musica classica mettendo da parte l'hip-hop e quella canzone che parlava della ragazza più carina della città. I primi a congedarsi furono i suoi genitori; Darel li accompagnò alla porta. Nerissa aveva notato che dal soggiorno non si sentiva quel che si diceva nell'ingresso. Le erano giunti solo la buona notte augurata da Darel e il rumore della porta. Poi fu la volta del fratello e della cognata. Giudicò che sarebbe stato sconveniente andare via per ultima, anche se lo desiderava. Ormai era convinta di amare Darel, perché non aveva mai provato una sensazione simile. Lui non l'aveva mai baciata, non erano mai andati oltre una stretta di mano, eppure avrebbe voluto condividere con lui la vita intera. Era condannata a pensare a lui in ogni momento, senza alcuna speranza di essere amata. O, chissà, forse un barlume di speranza c'era... Cinque minuti dopo il fratello e la cognata, decise di congedarsi. Salutò educatamente i coniugi Jones, con la sobrietà dovuta, e si avviò all'ingresso. Darel la seguì, chiudendo dietro di sé la porta del soggiorno, procurandole un brivido alla schiena. Le prese il soprabito e l'aiutò a indossarlo. Quando ormai era convinta che nessuno dei due avrebbe pronunciato parola fino al momento dei saluti, lui le chiese: «Quel tipo che ti seguiva ti ha più dato problemi?» «Direi di no» rispose, subito pentita. Perché mentire proprio a lui? «Be', a essere sincera me ne ha dati proprio oggi. Non ti voglio far perdere tempo, è una lunga storia, comunque mi ha rivolto la parola. Si è avvicinato un po' troppo, e mi ha detto delle cose. Oh, niente di brutto, mi ha riempita di complimenti.» «Capisco.» Darel rimase in silenzio, assorto nei suoi pensieri. «Se accade di nuovo, qualsiasi cosa dovesse succedere, prometti di chiamarmi? Tieni, è il mio bigliettino, c'è il numero di telefono. Lo farai?» «Ma abiti così lontano.» «Non è poi così lontano, e comunque ho quella che si dice una guida sportiva. Non ti creare problemi, chiamami. Soprattutto la sera. Non esitare, anche se è buio.» «Va bene» promise. «Ciao. Grazie per avermi invitata, sono stata molto bene. Cucini proprio da dio.»
«Buona notte, Nerissa.» Domenica sera, prima di andare a letto, Shoshana aprì la posta elettronica. C'era solo un messaggio: Shoshana, ho riflettuto a lungo sul tuo problema. La cosa più saggia da fare è avvertire il suo capufficio. La teratomanzia mi ha rivelato che si chiama Desmond Pearson. Ho anche preparato una fattura; non mi arrischio a mandartela per e-mail, te la spedirò per posta. È estremamente efficace, agisce sulla colonna vertebrale, dura fino a una settimana e può essere ripetuta. Ti sono vicina, Ecate. Molto bene. Per prima cosa la mattina seguente - cioè alle dieci, perché quel genere di persone non va al lavoro prima di quell'ora - avrebbe chiamato Desmond Pearson per rivelargli che Mix Cellini stava contravvenendo alle regole della ditta per cui lavorava, avendo stipulato un contratto direttamente con lei. Poi, una volta ricevuta la fattura, avrebbe pensato a come praticargliela. Shoshana sapeva sempre cosa fare. 20 Per una volta, Gwendolen non avrebbe saputo dire se il suo inquilino fosse o meno in casa. Era troppo spossata per badare a simili inezie, aveva troppo sonno per mettersi a origliare. Le assurdità cui aveva dovuto assistere quella mattina, il comportamento incontrollato dei giovani, per lei così inaccettabile, l'avevano esasperata. Era convinta che, se l'avessero lasciata subito sola non appena tornata a casa, adesso sarebbe stata molto meglio. Si sentiva debole come un gattino. E a proposito di gatti, nella posta aveva trovato una lettera del signor Singh che accusava Otto di aver divorato le due faraone. Poiché era un individuo pacifico, le aveva scritto, non aveva intenzione di 'dare seguito alla faccenda'. Voleva solo portarla a conoscenza degli 'istinti predatori e dei misfatti' del suo 'selvaggio animale domestico'. Nel frattempo aveva comprato due oche, ostacolo insormontabile per la 'bestia ornitofagica'. A Gwendolen interessava ben poco la sorte delle faraone e, se per quello, anche di Otto, ma era rimasta colpita dal contrasto stridente tra la prosa colta e forbita esibita da un 'indigeno', le parole composte in modo perfettamente corretto, e l'inglese sgrammaticato parlato dalle generazioni più giovani. Persino lei non poteva giurare che
l'aggettivo 'ornitofagico" significasse 'divoratore di uccelli'. Per il resto, nella posta trovò bollette della luce, il menu di un ristorante vietnamita che consegnava specialità a domicilio e un dépliant che pubblicizzava l'inaugurazione di un nuovo negozio di prossima apertura a Bond Street. Nessuna lettera di Stephen Reeves. Forse era in vacanza. Era abituato a viaggiare, e certo non era cambiato. Anche se alla fine fossero tornati insieme, non avrebbe mai dimenticato che lui era partito per il viaggio di nozze mentre lei era rimasta lì ad aspettarlo. Comunque, dovunque fosse andato, sarebbe rientrato nel giro di qualche giorno. Si concesse un po' di riposo, e al risveglio verificò le condizioni della cucina. Quell'ordine improvviso la infastidiva. Chi glielo aveva chiesto a quelle due di mettersi a pulire casa sua? Niente era più al proprio posto. Il cibo in scatola era stato stipato in una credenza, spazzole e strofinacci in un'altra. Questi ultimi poi erano stati lavati, e non mostravano più quella patina di sporco che ne aveva mutato il colore dal giallo al grigio e infine al marrone scuro. Avevano quasi ripreso la tinta originale. Sbatté la porta della credenza, disgustata da un tale spettacolo. E che fine avevano fatto le cose che teneva nella stanza del bucato? La lampadina era fulminata, e in quello stato non poteva certo azzardarsi a montare su una sedia per sostituirla. Ci avrebbe pensato una delle sue amiche il giorno seguente. Si mise a cercare la torcia; avrebbe dovuto trovarsi nel frigorifero, ma non era al suo posto. Dopo una lunga perlustrazione la trovò sulla mensola di una credenza accanto agli apriscatole, a un cacciavite e a una scatola di lucido da scarpe. Accidenti alla mania dell'ordine che assillava quelle due. Nella semioscurità aprì lo sportello della caldaia. Avrebbe dovuto esserci un mucchio di panni. Anche se smessi, potevano tornare utili per farci degli asciugamani o per tappare il lavandino, dato che il tappo originale era inservibile da anni. Olive e Queenie se n'erano proditoriamente sbarazzate. Indirizzò la torcia verso l'interno, illuminando il fondo. Cos'era quella cosa laggiù? Un oggetto misterioso ai suoi occhi. Sulle prime le sembrò una fionda, l'arma, come le avevano insegnato al catechismo, che Davide aveva usato contro Golia. Ma poi si rese conto che si trattava di un indumento. Una specie di cinto erniario? Però non sembrava sufficientemente robusto per contenere un'ernia. Poteva essere una panciera, ma di un tipo ben strano. Dopo diversi tentativi, riuscì ad agganciarlo a un bastone uncinato, che un tempo veniva utilizzato per aprire il lucernario. L'avrebbe mostrato alle sue amiche: doveva appartenere a una di loro.
Completamente esausta, si mise a letto e dormì difilato sino al mattino. Quella domenica Nerissa la trascorse con alcuni amici in una casa sul lungofiume, a Marlow. Partì con la macchina di Rodney cinque minuti prima che Mix arrivasse a piedi. Mix aveva letto su una rivista che l'attore degli anni Trenta Ramon Novarro si teneva in forma facendo delle passeggiate quotidiane di qualche chilometro attorno a Hollywood, tirando in dentro la pancia e respirando profondamente. Decise di emularlo recandosi a piedi da St Blaise House a Ladbroke Grove, lungo Holland Park, fino a Campden Hill Square, una bella camminata di un miglio buono. Durante la passeggiata la schiena riprese a dargli qualche fastidio, nulla comunque al confronto dei dolori della notte precedente, e non se ne preoccupò troppo. La macchina di Nerissa era parcheggiata di fronte casa. Aveva temuto di essersi mosso troppo tardi, e che lei fosse già uscita. Bighellonò per una mezz'ora nella piazza. Arrivò il lattaio, che lasciò un cartone di latte davanti alla porta, in pieno sole. Si stava chiedendo se lei avesse già ritirato il giornale, quando arrivò il ragazzo che lo depositò accanto al latte. Qualcuno avrebbe potuto rubarli entrambi. L'avrebbe ringraziato se avesse bussato per darglieli. Forse lo avrebbe persino invitato a entrare, e in quel caso gli avrebbe anche offerto il caffè. Era molto probabile che avesse indosso solo qualche indumento, che fosse in déshabillé, come si dice. Mentre si avvicinava per suonare al campanello, se la figurò con un babydoll, e sopra una vestaglia trasparente che la copriva appena. Nessuna risposta. Avvicinò l'orecchio al citofono. Niente. Suonò di nuovo, ma evidentemente non era in casa. Doveva essere uscita a piedi, forse a fare una corsetta, o aveva preso un treno. Rimase tremendamente deluso. Era quasi fatta, si disse, indugiando ancora nel caso fosse rientrata. Nessuno faceva jogging per due ore. Sarebbe tornato l'indomani. Ma poi, sulla strada di casa, rifletté che avrebbe fatto meglio ad andare al lavoro, e così si rese conto di non aver avvertito il capufficio che venerdì si era preso un giorno di malattia. Anzi, non aveva sentito nessuno, né controllato i messaggi sul telefonino o sulla segreteria telefonica. Poco male. Dopo tutti quegli anni di lavoro poteva pure concedersi un pomeriggio di libertà, non era mica un apprendista. Si aspettava che almeno uno dei tre clienti che aveva piantato in asso lo avesse cercato, invece scoprì che l'avevano chiamato tutti e tre, il primo deluso, supplicandolo di fare un salto da lui, il secondo furibondo e il terzo minacciando di rivolgersi a un'altra ditta. Nessuna comunicazione da parte del capo del personale, né da Jack Fleisch.
Sarebbe stato sorpreso di trovare un messaggio di reprimenda dal signor Pearson, e infatti non c'era. Senza dubbio s'era guardato bene dal rimproverare un elemento prezioso per la ditta come lui, con l'esperienza e l'efficienza che aveva sempre dimostrato. Era una bella giornata, come al solito molto calda. Le oche dell'indiano si stavano dedicando alla toeletta sotto una palma. Questa era l'unica pianta che Mix fosse in grado di riconoscere, e solo perché ne ricordava una simile in un'illustrazione della Bibbia della nonna. Che fine avesse fatto quella Bibbia non lo sapeva, ma la fotografia la rammentava bene. La palma dava l'impressione di essere stata piantata parecchi anni prima, quando ancora l'indiano e la moglie non abitavano lì. Mix trovava sorprendente come avesse superato i rigori dell'inverno, visto che il clima di Londra non è certo quello di Gerusalemme. Era la prima volta che la notava. In effetti non si era mai soffermato a osservare il giardino, come quella mattina. Le due zone di terra scavate, la prima, dove era stato costretto a rinunciare per via del terreno troppo duro, e quella dove aveva sepolto Danila, erano chiaramente visibili. Per quello c'era ben poco da fare. Bisognava aspettare chissà quanto perché vi crescessero le erbacce. Se solo avesse avuto a disposizione altro tempo avrebbe scavato una fossa più profonda. Il fatto che il cadavere si trovasse a meno di un metro dalla superficie lo teneva in apprensione, perché per quanto fosse minuto, il corpo occupava parecchio spazio. Ma chi si sarebbe preso la briga di controllare? La vecchia non usciva mai, per quanto ne sapeva, a maggior ragione adesso, né aveva visto le sue amiche avventurarsi lì fuori. E, da quel che aveva avuto modo di constatare, il vecchio della veranda non sembrava interessato a ciò che avveniva oltre il muro di recinzione. Lo stabile dall'altro lato constava di appartamenti, ma quello al piano terra con il giardino era vuoto, inabitabile perché umidissimo, aveva sentito dire. Chi si sarebbe interessato di due rettangoli di terra scavati di recente? Secondo quanto aveva letto nel libro del dottor Camps, Inchiesta medica e scientifica sul caso Christie, i cadaveri si trasformano in scheletri dopo pochi mesi. Entro la primavera seguente sarebbero rimaste solo le ossa. L'aveva sepolta così com'era quando l'aveva uccisa, nuda, avvolta solo nel lenzuolo rosso, poi aveva tagliato il sacco di plastica di cui si era servito per trasportare giù il corpo, gettandone i pezzetti nella spazzatura, infine aveva controllato per ben due volte la caldaia, per assicurarsi di non essersi lasciato dietro qualche traccia. Nella stanza del bucato la luce scarseggiava, e non gli era stato possibile vedere bene sino in fondo alla caldaia, ma era sicuro di non aver
dimenticato niente di compromettente... Un brivido gelido gli percorse la schiena. Il perizoma! Dov'era finito? Si ricordò di esserselo infilato in tasca e poi di averlo buttato nella caldaia dopo avervi fatto scivolare il corpo. Non l'aveva recuperato, di questo era certo, quindi doveva trovarsi ancora lì. Che importanza aveva? A nessuno sarebbe venuto in mente di ficcare il naso lì dentro, erano anni che la vecchia non apriva quella caldaia e presumibilmente non l'avrebbe più fatto. E comunque poteva sempre tornare a prenderlo, nel momento in cui avesse voluto. Anche subito. Quando era rientrato dalla passeggiata a Campden Hill lei doveva essere ancora a letto, e se anche si fosse alzata l'avrebbe trovata stesa sul divano. Si rimise in tasca la chiave e uscì sul pianerottolo. Raggi luminosi filtravano dalla finestra sulle scale; il fantasma di Reggie doveva aver trovato rifugio in qualche angolo buio. Mentre scendeva sentì aprirsi e richiudersi la porta di casa, poi la voce della signora Fordyce: «Ciao, Gwen! Sei ancora nel regno dei vivi?» Vecchia stupida. Adesso avrebbe dovuto aspettare che andasse via, chissà per quanto. Con la speranza di non dover affrontare tutte quelle scale, Olive entrò nel salotto con due borse della spesa. Indossava un paio di pantaloni neri nuovi e una giacca di lino color limone che richiamava la nuova tinta dei capelli. Fortunatamente Gwendolen si era già alzata; la trovò in camicia da notte, stesa sul divano. «Ti ho portato un po' di leccornie, cara.» «Timeo Danaos et dona ferentes5 » se ne uscì Gwendolen. «Non conosco nessun Tim, Gwen» replicò Olive ridendo di cuore. «Lo supponevo. Non ti dovevi disturbare con le leccornie, come le chiami tu. Non ho appetito.» «Non fare la bisbetica. Sto cercando di esserti utile. Preparo il caffè, non ci metterò molto.» Rimasta sola, Gwendolen si mise a curiosare nelle buste della spesa. Cioccolata - be', quella la mangiava -, biscotti, fruttini di pasta di mandorle, un disgustoso pan di spagna farcito con quella che sembrava crema. Nel complesso, doveva ammettere che Olive aveva fatto le cose per bene. Per lo meno non aveva portato verdura e mele verdi insapori. 5
'Temo i Greci anche se portano doni', citazione di un verso dell'Eneide di Virgilio (N.d.r.).
Olive portò un vassoio con due tazze di caffè macchiato con latte e un piattino colmo di noccioline allo zenzero. «Sei così magra che puoi permetterti di mangiare quello che vuoi. Sei fortunata, sai?» «Non mi dirai che sei a dieta? Alla tua età!» replicò Gwendolen. «Come ripeto sempre, non si è mai troppo vecchi per badare al proprio aspetto.» «A proposito, è tuo questo?» le chiese Gwendolen mettendole in mano il perizoma. Olive scoppiò a ridere. «Mi prendi in giro, Gwen? Che scherzo è?» «L'ho trovato sul fondo della mia caldaia nella mia stanza del bucato. È tuo? E cos'è?» «Be', Gwen, capisco che non essendoti mai sposata tu sia rimasta indietro in merito a parecchie cose, ma non immaginavo fino a questo punto.» In quel modo Olive consumò la sua vendetta dopo aver subito per anni la scortesia e l'ingratitudine dell'amica. «Persino un bambino saprebbe cos'è.» «Grazie. Hai detto abbastanza. E adesso mi vuoi spiegare di che si tratta?» Olive si sforzò di celare un certo imbarazzo. «Be', è... è un paio di... sì, insomma, di mutandine. Le portano le ragazze. Un tempo avrei detto solo un certo tipo di ragazze, ma le cose sono cambiate, no? Adesso è normale portare un indumento simile, non lo indossano più soltanto le attrici o... be', le spogliarelliste. Capito che intendo?» «Certo che ho capito. Malgrado somigli a un bambino ritardato a causa della mia profonda ingenuità...» «Non ho detto questo, Gwen.» Sebbene non fosse una fanatica del politicamente corretto, il modo di esprimersi di Gwendolen la infastidiva sempre un po'. «Davvero? Io invece ho capito proprio questo. Malgrado le mie deficienze mentali, ho compreso perfettamente quel che intendevi. Spero vivamente che questa cosa non ti appartenga.» Olive ne aveva davvero abbastanza. «Certo che non è mia! Credi forse che vada in giro conciata così come fossi una...» «Meretrice? Dissoluta? Concubina? Frivola?» «Oh, adesso basta! Se non sapessi che parli così perché non stai bene, mi sarei già offesa a morte.» A quel punto Gwendolen si rese conto di aver esagerato. E poi non aveva la forza di stare lì a litigare. Bevve il caffè, che, dovette ammettere, era particolarmente buono. «Pensi che appartenga a Queenie?»
«Certo che no. Dev'essere di qualche donna giovane. Sulla ventina.» A Gwendolen venne subito in mente Nerissa e il suo inquilino, Cellini. Il giorno che era tornata a casa lo aveva visto uscire dalla cucina. Cosa ci faceva lì dentro? Aveva un angolo cottura anche nel suo appartamento. «Per caso tu e Queenie avete tolto una busta di panni riposta nella caldaia?» «Naturalmente no. Ho trovato una busta di panni nella stanza del bucato e l'ho lasciata dov'era. Sapeva di chiuso e aveva un cattivo odore, ma... be', non sono affari miei.» «Infatti.» Poi Gwendolen cercò di ammorbidire il tono. «Sei stata molto carina a portarmi la cioccolata e quegli altri dolcetti. Quanto ti devo?» «Niente, Gwen. Non essere ridicola. Anche se non vuoi ti dirò ciò che penso. Quel Cellini ha portato qui una ragazza approfittando della tua assenza, e se la sono spassata lì dove non avrebbero dovuto andare. Al giorno d'oggi la gente... be', non mi piace parlare di queste cose, ma si comportano così: fanno il bagno insieme, ed è possibile che... Vedi, si può stare più comodi in piedi in una caldaia piuttosto che in certe vasche.» «Non ho la più pallida idea di cosa intendi» tagliò corto Gwendolen. «Voglio leggere qualcosa di meno impegnativo di Darwin. Prima di andar via, vedi se riesci a trovarmi La coppa d'oro di Henry James.» Mix osservò la Fordyce andare via, e appena la vide scomparire dietro l'angolo cominciò a scendere, cercando di fare meno rumore possibile. Dalla porta aperta del salotto intravide la vecchia Chawcer distesa sul divano, che dormiva con la bocca aperta. Maniaco com'era dell'ordine e della pulizia, a Mix non sfuggì che la cucina stava già ripiombando nella consueta baraonda. E la vecchia era tornata soltanto da ventiquattr'ore. Sicuro di recuperare il perizoma, si avventurò in punta di piedi nella stanza per il bucato e sollevò il portello della caldaia. Ma era impossibile scorgere il fondo. Come facevano le donne a svuotarla dell'acqua? Probabilmente non era così che funzionava. Forse ne ristagnava sempre uno strato, ovviamente maleodorante. Doveva esserci una torcia, da qualche parte, perché una volta gliela aveva vista. Si mise a cercarla in cucina, muovendosi con passo felpato mentre apriva i cassetti della credenza. Trovò una candela e una scatola di fiammiferi: andava bene lo stesso. Con un cerino accese la candela e rimase in ascolto per accertarsi che lei non avesse sentito il rumore dello sfregamento. Una volta assicuratosi che continuava a dormire, introdusse la candela più giù che poté nelle profondità della caldaia. La luce era sufficiente a illuminare le pareti e il fondo, che sembrava
di terracotta bluastra. Niente. Era vuota. Il perizoma era scomparso. Malgrado ciò continuò a tenere la candela in giù, sperando di essersi sbagliato. Guardò in basso, chiuse e riaprì gli occhi, fin quando una goccia di cera bollente non gli cadde sul pollice facendogli fare un balzo all'indietro, e poco mancò che non si lasciasse sfuggire un grido. Imprecò sottovoce, spense la candela e la ripose insieme ai fiammiferi lì dove l'aveva presa. Tornò lentamente sui suoi passi, attraversando il salotto. La vecchia dormiva sempre. L'aveva trovato lei il perizoma? O una delle sue amiche? Fu assalito dal timore che avessero subito pensato alla ragazza scomparsa, la cui fotografia appariva quotidianamente sui giornali. Proprio quella mattina uno di essi recava a caratteri cubitali il titolo: AVETE VISTO DANILA? Di nuovo nel suo appartamento, si mise a riflettere sul da farsi. Domandare alla vecchia o alle sue amiche se l'avevano trovato? Sarebbe stato estremamente imbarazzante. Come poteva motivare la sua incursione in quello stanzino, o il fatto di aver ficcato il naso nella caldaia? Gli avrebbero chiesto a chi apparteneva il perizoma. Non riusciva a pensare a una scusa plausibile. Ma forse non gli avrebbero fatto domande. Mix non aveva la minima idea di come gli altri potessero reagire di fronte ai suoi comportamenti, o se quelle che lui reputava cose del tutto normali apparissero invece stravaganti. Ma da taluni commenti che era riuscito a cogliere mentre le tre vecchie parlavano aveva il vago sentore che un indumento così sfacciatamente sexy potesse risultare estremamente imbarazzante per delle persone appartenenti a una generazione tanto lontana dalla sua. Se anche l'avessero trovato, l'avrebbero gettato via sconcertate e piene di disgusto, preferendo probabilmente di non farne alcuna menzione. Certo, si convinse, poteva chiederglielo, ma probabilmente non era il caso. Mentre lei dormiva ancora, sgattaiolò nella sua stanza da letto e si diede a esaminare le bottiglie e i pacchetti che aveva portato dall'ospedale, poggiati sul comodino. Tra le altre cose c'era una boccetta con una etichetta incollata sopra: Compresse per favorire il sonno: prenderne due in caso di bisogno. Non si era certo messa a contarle, si disse prendendone otto. Se dopo quattro notti ne avesse avuto ancora bisogno ne avrebbe prese delle altre. Invece di due, quella sera ne ingerì tre e dormì difilato per tre ore, ma una volta sveglio non riuscì più a chiudere occhio e trascorse il resto della notte in uno stato di profonda agitazione. Adesso l'idea gli sembrava alquanto ottimistica: e se le tre vecchie (o an-
che una o due di loro) non si fossero sbarazzate del perizoma? Supponiamo che, per dire, la Fordyce avesse letto sui giornali che Danila lavorava in quello che chiamavano 'salone di bellezza con annessa palestra', che sapesse bene cos'era un perizoma e che con molta probabilità una ragazza che frequentava un posto simile poteva indossare un indumento del genere - se così stavano le cose, si sarebbe rivolta alla polizia? Non poteva considerare quella eventualità troppo remota, come aveva fatto quel pomeriggio, reso baldanzoso dalla luce del sole. Nel buio della notte sembrava più che ragionevole. La cliente di Holland Park lo aspettava per le nove e mezzo. Mix arrivò con venti minuti di ritardo, ma lei era così contenta di vederlo presentarsi all'appuntamento che non lo rimproverò. Mentre tornava a Chelsea controllò i messaggi, e fu molto sorpreso di trovarne uno della segretaria del signor Pearson che lo pregava di contattarla per fissare un appuntamento con il capo del personale. Gli si gelò il sangue nelle vene, una sensazione davvero sgradevole sebbene diversa dal brivido provato quando si era improvvisamente ricordato di aver dimenticato il perizoma. Pearson non voleva certo parlargli perché aveva saltato qualche appuntamento. Fu estremamente cortese con il cliente di Chelsea, mostrandogli come aggiustare da sé la cinghia del tapis roulant, sempre che quel rammollito fosse in grado di maneggiare una chiave. Malgrado gli allenamenti, aveva ancora i muscoli di una ragazza anoressica. Dopo i suoi exploit con vanga e piccone, Mix aveva cominciato a sentirsi fiero della propria forza fisica. Non volendo dare l'impressione di avere fretta di parlare con il capo, prima di chiamare la segretaria del signor Pearson passò da un altro cliente a Primrose Hill, dove sostituì una cintura. La segretaria era una giovane dai modi algidi, con una considerazione esagerata dell'importanza del proprio ruolo. «Ce ne ha messo di tempo» lo redarguì. «È inutile lasciarvi i messaggi se non li controllate mai.» «A che ora devo venire?» «Immediatamente. Alle dodici e trenta.» «Per l'amor di dio, manca solo un quarto d'ora.» «Farebbe meglio a sbrigarsi, sa?» E d'un tratto assunse un tono quasi umano, seppure sempre sgradevole: «È livido dalla rabbia. Non vorrei trovarmi nei suoi panni.» Mix accettò il suggerimento, cioè guidò più in fretta che poté nel traffico di Outer Circle e Baker Street. Erano le dodici e quarantacinque quando la
segretaria lo accompagnò nell'ufficio del signor Pearson. Questi era l'unico individuo di sua conoscenza che si rivolgeva alle persone, in quel caso ai dipendenti, chiamandoli solo per cognome. Non poteva fare a meno di associare un simile atteggiamento a quello che pensava fosse il trattamento riservato ai militari in consegna o dinanzi alla corte marziale. E la cosa non gli piaceva affatto. «Allora, Cellini?» Che risposta si aspettava, dopo un'accoglienza del genere? «Nessuna risposta fu la dura risposta» continuò Pearson, ridendo della sua fiacca battuta. Poi aggiunse, come in seguito a un ripensamento: «Lei è licenziato.» 21 Dal divano Gwendolen vide arrivare il postino. Lo osservò risalire il sentiero e udì il rumore della cassetta delle lettere quando vi imbucò la lettera di Stephen Reeves. Si sentiva già meglio. Si alzò senza sforzo eccessivo e andò a prendere la lettera. Non era di Stephen ma di un'associazione che chiedeva offerte da destinare alla ricerca sulla fibrosi cistica. Dopo un iniziale momento di delusione, rifletté sul fatto che se era in vacanza non sarebbe tornato prima di sabato o domenica, quindi era altamente improbabile che una sua lettera arrivasse quel giorno. Tornò mestamente sul divano, pensando che tra un'oretta sarebbe salita a fare un bagno, e in quel mentre giunse Queenie con il carrello della spesa pieno. «Tu e Olive siete convinte che io abbia un appetito smisurato» la accolse Gwendolen. Esaminò senza entusiasmo il contenuto della sporta: biscotti al cioccolato, una confezione di pasta frolla, due tubetti di caramelle al latte, yogurt magri e una busta di cuscus. «Per favore, metti tutto nel frigo. E senti...» aggiunse quando l'amica era già in cucina, «per favore, non lasciare di nuovo la torcia fuori posto.» Queenie si chiese per quale eccentrico ghiribizzo si potesse tenere una torcia nel frigorifero, ma si guardò bene dallo spostarla e, tornata in salotto, si accomodò docilmente su una sedia di fronte a Gwendolen. In considerazione della giornata afosa aveva messo il vestito rosa appena comprato, e, pur reputandolo un evento altamente improbabile, quasi si aspettava i complimenti dell'amica, che invece le mostrò un indumento di stoffa rosso e nero con una specie di stretta cintura. Pur non avendo mai visto nulla di
simile, intuì all'istante che doveva far parte del costume (se poteva chiamarsi così) indossato per un certo tipo di danza e arrossì violentemente. «Da come sei diventata paonazza deduco che tu sappia di che si tratta.» «Certo che lo so, Gwen.» Le aveva risposto come al solito, molto docilmente, e Gwendolen ebbe l'impressione che fosse riluttante a parlarne. «Va bene, non c'è bisogno di sbranarmi viva. Olive pensa che appartenga a una... ehm, a un'amante del signor Cellini.» «Che ti importa? Tra l'altro non mi sembra che sia un capo di valore.» «Non mi piacciono questi misteri» replicò Gwendolen. «Questo significa che lui, lei o entrambi sono entrati nella mia stanza del bucato.» «Perché non glielo chiedi?» «È quello che intendo fare. Naturalmente adesso è fuori, a occuparsi di ciò di cui si occupa, di qualsiasi cosa si tratti.» A quel puntò sospirò e aggiunse: «Credo che andrò a fare un bagno.» Era un modo per congedarla, ma Queenie la intese diversamente: «Vuoi che ti aiuti, cara? Non mi dà nessun fastidio. Quando mio marito stava tanto male gli facevo il bagno ogni giorno.» Gwendolen si mostrò palesemente scossa da quella proposta. «No, ti ringrazio infinitamente. Posso farlo benissimo da sola. A proposito,» disse anche se non c'era nessun nesso, «quell'indiano mi ha scritto che Otto si è mangiato le sue faraone.» Dimenticando per un momento l'abilità del signor Singh nella scrittura, aggiunse: «Naturalmente nessun inglese rispettabile infrangerebbe la legge tenendo in una zona urbana, praticamente al centro di Londra, animali che alla fine non sono altro che volatili.» Era raro che Queenie s'adirasse, ma da volontaria della Commissione per l'Uguaglianza Razziale, trovava alquanto fastidiosi i commenti discriminatori. «Come saprai, Gwendolen, o probabilmente non ne sei a conoscenza, se ti permettessi di fare una simile affermazione in pubblico potresti essere denunciata. Hai commesso un vero e proprio reato.» Quindi, in tono meno sprezzante, aggiunse: «Il signor Singh è una persona squisita oltre che estremamente intelligente. Era professore quando viveva nel Punjab.» Gwendolen scoppiò in una crassa risata. «Come sei ridicola, Queenie. Dovresti sentirti. Adesso devo fare il bagno, sarebbe meglio che te ne andassi.» Uscendo, Queenie incrociò Otto nell'ingresso, acquattato sul primo gradino della scalinata. Tra le fauci stringeva la carcassa di un topolino con la testa staccata, che gli giaceva davanti sul tappeto consunto. «Pussa via,
brutto mostro!» lo cacciò. Otto le lanciò una tale occhiata che Queenie ringraziò il cielo di essere un grosso esemplare di essere umano invece che un suo simile. Il gatto raccolse la testa e quel che rimaneva della sua vittima e se la filò su al primo piano. In quel momento entrò Mix, che le mormorò qualcosa di incomprensibile e subito seguì l'animale su per le scale. Il signor Pearson aveva insistito perché lavorasse fino al termine della settimana, anche se lui avrebbe preferito farla finita lì. E in quanto al preavviso di un mese... Be', l'avrebbero pagato per tutto il mese successivo, era già qualcosa. Naturalmente il provvedimento non era stato preso per il mancato rispetto degli appuntamenti fissati con i clienti, ma per una telefonata che Pearson aveva ricevuto la mattina stessa da quella cagna di Shoshana. Mentre saliva l'ultima rampa, Mix rifletté che da quando aveva cominciato a frequentare quella palestra gli era capitato di tutto. Vi era andato nella speranza di incontrare Nerissa, che era comunque riuscito a conoscere a prescindere da quel posto, grazie alla sua determinazione, tanto che adesso poteva considerarsi un suo amico. Essersi recato lì gli era valso solo a conoscere Danila, che con i suoi insulti l'aveva provocato fino a farlo reagire violentemente contro di lei. In tutta franchezza, lo aveva praticamente costretto a ucciderla. Era stata lei a consigliargli di preparare e stipulare un contratto, e il risultato era che Shoshana aveva avvertito Pearson, trovando anche la faccia tosta di accusarlo di non aver mantenuto fede agli impegni presi. Non riusciva a capacitarsi di tanta cattiveria gratuita. Cosa le aveva mai fatto? Aveva solo mancato di sostituire dei pezzi a un paio di attrezzi, e non per sua negligenza ma perché non aveva potuto trovare i ricambi. Tirò fuori una Diet Coke dal frigo, ne bevve una lunga sorsata e poi riempì la lattina di gin. Così andava meglio. Adesso doveva trovarsi un altro lavoro. Il che voleva dire rivolgersi a qualche agenzia e versarle per qualche mese una parte dello stipendio. Grazie a dio l'ufficio di collocamento gli avrebbe pagato l'affitto. Era venuto il momento di spillare qualcosa allo Stato, era nei suoi diritti, con tutto quello che pagava di contributi. Ma non era stata solo la perfidia di Shoshana a incastrarlo. La colpa era anche di Ed, che era subito corso dal capufficio a fare la spia quando lui non l'aveva sostituito come promesso, invece di lasciar sbollire la faccenda per un paio di giorni. Tutto aveva avuto inizio da lì. Di una cosa Pearson poteva star sicuro. Avrebbe cercato di portargli via più clienti possibile. Aveva praticato prezzi migliori rispetto all'azienda per cui lavorava - be', perché non mettersi a lavorare in proprio? Avrebbe gua-
dagnato bene. Bevve ancora qualche sorso di gin e coca. È risaputo che lavorare in proprio è meglio che essere dipendenti. Si lasciò andare a una delle sue fantasticherie, in cui era il fondatore e direttore di una delle maggiori ditte fornitrici di attrezzi ginnici del Paese, un mega-conglomerato di aziende che rilevava la Tunturi, la PJ e naturalmente la Multifit. Si vide seduto dietro un'immensa scrivania d'ebano in un ufficio dalle pareti di vetro al trentesimo piano di un edificio, con due affascinanti segretarie in minigonna nell'anticamera, e Pearson che si presentava, cappello in mano, a mendicare una pensioncina, in seguito al forzato pensionamento anticipato... Il lato positivo della faccenda era il tempo libero che avrebbe avuto a disposizione per consolidare l'amicizia con Nerissa. Doveva escogitare qualcosa per chiamarla e riuscire a entrare in casa sua. Per esempio avrebbe potuto consegnarle un pacco. Non era necessario che fosse vero e contenesse un oggetto che aveva ordinato in un negozio o per posta; all'uopo bastava anche qualche vecchia rivista avvolta in carta da imballaggio. Gli avrebbe permesso di entrare in casa sua e di parlarle. O poteva anche far finta di distribuire del materiale di propaganda elettorale, portandole il programma di qualche candidato che lui aveva già ricevuto. Magari il mese successivo era prevista qualche elezione amministrativa, ce n'era sempre qualcuna in programma, no? Comunque, sull'argomento non sarebbe stata informata più di lui. Una volta apparso in pubblico con lei al fianco, sarebbero subito fioccate le offerte dai giornali, dalle TV e dalle riviste di moda. Probabilmente non avrebbe nemmeno avuto bisogno di mettersi in proprio. O, se anche l'avesse fatto, il denaro guadagnato perché era il compagno di Nerissa gli avrebbe comunque consentito di partire in quarta. Perso nel suo sogno a occhi aperti, si congratulò con se stesso per le sue capacità di recupero, convinto di aver superato in tempi strettissimi il trauma della perdita del lavoro, esperienza comunemente considerata tra le più difficili nella vita di un individuo, paragonabile alla scomparsa di una persona cara. L'indomani lo aspettava una giornata di lavoro. Sentiva la testa pulsare per via del gin, e quando si alzò ebbe un violento capogiro che per poco non lo fece finire in terra, ma non poteva permettersi di assentarsi ancora. Informò tutti i suoi clienti che si era messo in proprio, che avrebbe praticato tariffe più convenienti conservando la qualità dei suoi interventi. Solo uno su quattro accettò di rivolgersi a lui, lo stesso che si informò sulla sua salute, facendogli notare che era piuttosto pallido. Quando passò dall'uffi-
cio incrociò Ed, che gli annunciò che Steph era incinta, per cui avevano deciso di rimandare la data delle nozze a dopo la nascita del bambino. «Steph non vuole sposarsi con il pancione. Sua madre teme che la gente pensi che ci sposiamo solo perché è incinta.» «Mi sono licenziato» lo informò Mix. «L'ho sentito dire.» Quell'espressione implicava che gli era arrivata una versione diversa dei fatti. «La colpa è tua, hai detto al capufficio che ti avevo piantato in asso, cosa a dir poco esagerata.» «Ah, sì? Ritieni forse di esserti comportato da amico assicurandomi che mi avresti sostituito e poi dimenticandotene?» «Perché non vai a farti fottere?» Fu la fine di una grande amicizia, anche se a Mix importava ben poco. Per un attimo valutò la possibilità di andare da Shoshana per cantargliene quattro, ma poi si ricordò che il numero civico di quel posto era il tredici e che probabilmente era proprio quella la causa di tutti i suoi guai. Ripensando alla stanza buia con i tendaggi pesanti e i simboli arcani, il mago e la civetta, e soprattutto alla stessa Shoshana che trafficava con la vita e con la morte, si rese conto che quella donna gli faceva paura. Non era un pensiero conscio, ma intuiva che con una persona simile doveva agire con cautela. Un conto era mettersi al telefono e vomitare calunnie su di lui, un altro passare a pratiche misteriose, tipiche delle streghe, che lui temeva molto, come le fatture o l'evocazione di demoni. Certo, erano tutte sciocchezze, ma lo erano anche i fantasmi e adesso si ritrovava con uno spettro in casa. Da sabato avrebbe avuto tutto il tempo che desiderava, e allora avrebbe cominciato a darsi da fare sul serio per incontrare Nerissa. Nel frattempo doveva elaborare un piano di battaglia. Un'azienda di cosmetici che aveva in progetto di lanciare un prodotto per il trucco riservato a donne di colore si era rivolta a Nerissa quale testimonial per la campagna pubblicitaria del 2004. In precedenza aveva ingaggiato una modella bianca, e Nerissa sarebbe stata la prima ragazza di colore per un ruolo simile. Le avevano offerto un mucchio di soldi per qualche ora di lavoro. Mentre era in visita nei saloni di bellezza dell'azienda, impegnata nella preparazione della campagna, si chiese perché non si sentiva emozionata come avrebbe dovuto essere. Ma lo sapeva già. L'atteggiamento di Darel Jones era stato esplicito: la considerava solo un'amica, una ragazza magari da proteggere, una compagna, una persona
su cui contare per far numero a cena. Sua madre era convinta che un uomo e una donna non potessero essere amici: erano innamorati o niente. Nerissa non la pensava così. Forse era vero ai tempi in cui sua madre era giovane, ma non oggigiorno, dove le donne seguono una propria carriera e hanno fatto passi da gigante verso una condizione di parità con l'altro sesso. Conosceva uomini eterosessuali che intrattenevano da anni rapporti stretti di amicizia con compagne della scuola superiore o dell'università, senza mai essersi scambiati nemmeno un bacio. Sarebbe stato così anche tra lei e Darel? No di certo, se fosse dipeso da lei. A volte era ottimista, altre, come adesso, piuttosto avvilita, ormai convinta che ciò che più desiderava non sarebbe mai accaduto: che Darel si innamorasse di lei. Dal sabato precedente quel tale, Cellini, non si era fatto più vivo. Vederlo di nuovo era l'ultima cosa che desiderava, ma, d'altra parte, se fosse ricomparso avrebbe avuto la scusa per chiamare Darel. Girando per le stanze appena pulite e sistemate da Lynette, si ripromise di mantenerle sempre così. Doveva essere più ordinata, come le ripeteva regolarmente la mamma, che diceva sempre di averla educata alla pulizia e che si comportava in quel modo perché aveva fatto tutti quei soldi troppo in fretta. L'appartamento di Darel era un miracolo di ordine. Certo, non poteva essere sempre così, rifletté mentre raccoglieva un fazzoletto di carta che le era caduto nel bagno, l'aveva pulito per bene per via degli ospiti, ma ciò non toglieva che era senz'altro un giovane particolarmente ordinato. Nella remota eventualità che fosse andato a trovarla - sempre più improbabile man mano che passavano i giorni - sarebbe rimasto disgustato da quella montagna di tazze e bicchieri sempre fuori posto, dalle riviste ammassate sul pavimento e dagli oggetti messi alla rinfusa come una boccetta di smalto per le unghie poggiata in una fruttiera. Era disordinata come la signorina Chawcer, che, le aveva detto zia Olive, teneva una torcia nel frigo e il pane in una busta poggiata sul pavimento. Quel venerdì pomeriggio aveva promesso di accompagnare la madre a St Blaise House, perché papà aveva preso la macchina. Hazel riteneva suo dovere fare un salto dalla signorina Chawcer per accertarsi delle sue condizioni e rendersi utile in qualche modo. La signorina era molto anziana e particolarmente debole per la convalescenza, e poteva aver bisogno di aiuto. «Oh, mamma, ti prego, non chiedermelo. Quello abita lì. Non ti puoi fare accompagnare da Andrew?»
«Andrew abita a Cambridge. Non c'è bisogno che entri, puoi lasciarmi lì.» Così aveva acconsentito. Accompagnò la madre assicurando che sarebbe passata a prenderla un'ora più tardi. Dopo tutto, se lui l'avesse vista e fosse uscito per parlarle aveva un pretesto per chiamare Darel. Si vestì accuratamente, con un abbigliamento sportivo-elegante, un paio di pantaloni mimetici grigioverdi, un top scollato e una giacchetta di raso. Poi si rese conto che quel completo pensato per piacere a Darel avrebbe attirato anche l'attenzione di quel tipo, così si svestì e mise jeans e maglietta. D'altra parte, sebbene quella mise non fosse adatta allo scopo, era anzi contraria ai canoni del mondo in cui lavorava, era convinta che gli uomini non fanno mai caso all'abbigliamento di una donna, a loro interessa solo se 'sta bene' oppure no. Sarebbe stata una disdetta se, con i minuti contati che aveva, lo avesse trovato lì fuori, ma non c'era nessuno. Campden Hill Square era deserta e silenziosa, sfrigolava al caldo persistente malgrado fosse settembre. La macchina era parcheggiata al sole e dentro era un forno. Passò a prendere la madre ad Acton, e la lasciò a St Blaise Avenue. Dell'uomo nessuna traccia; non lo incontrò nemmeno quando andò al Tesco di West Kensington, dove era solita fare la scorta settimanale di acqua minerale, verdure e pesce. Comprò anche due ottime bottiglie di Pinot grigio, il vino preferito da Darel. La fattura che aveva effetti sulla spina dorsale della vittima arrivò per posta ordinaria. Ecate era una spilorcia unica. Shoshana si aspettava una pozione in polvere, nel qual caso avrebbe dovuto escogitare un modo per somministrarla a quel tipo, cosa non certo facile, ma si trattava di un incantesimo da praticare con un crogiolo pieno di un intruglio fumante. Per quanto ne capiva, avrebbe anche potuto mandarglielo per e-mail. D'altra parte era una formula lunghissima, ed Ecate era troppo taccagna per dotarsi di uno scanner. «Potrei provarci» disse Shoshana rivolta al mago e alla civetta. Quale soggetto migliore di Mix Cellini per quell'esperimento? Gwendolen aveva fatto progressi; non si limitava più al divano e alla poltrona, e in quel momento era immersa nella lettura dell'ultimo capitolo della Coppa d'oro, il perizoma avvolto in una carta da pacchi poggiata in grembo, pronto per essere sventolato al suo inquilino non appena l'avesse
incrociato. Hazel entrò con la chiave datale dalla zia Gwendolen non sembrò spaventata di trovarsela davanti, né diede segno di sorpresa, ma era abbastanza chiaro che non gioiva della visita. Non ne chiese nemmeno la ragione. «Devo riavere quelle chiavi. Suppongo che sua zia ne avrà presa anche un'altra. Senza chiedermelo, naturalmente.» «Come sta?» «Oh, sto molto meglio, mia cara.» Gwendolen si ammorbidì. Mise giù il libro, usando come segnalibro la lettera dell'associazione per la raccolta fondi per la fibrosi cistica. «Cos'ha portato?» Uva bianca senza semi, pere William, Ferrero Rocher e una bottiglia di Merlot. Gwendolen fu meno critica del solito. Non mangiava altra frutta che mele cotte, ma gradì i cioccolatini e il vino. «Vedo che lei è più oculata di sua zia e della sua amica.» Hazel non sapeva cosa rispondere. Non era certo facile intrattenere una conversazione con quella persona anziana, che suo padre avrebbe etichettato come una bas-blue. Hazel non era una grande lettrice, era consapevole di non essere in grado di parlare di libri o di altri argomenti che presumibilmente la signorina Chawcer trovava interessanti. Finì per aggrapparsi a commenti banali sul tempo, sul miglioramento delle condizioni di salute della signorina e la bellezza della sua casa. Poi suonarono alla porta. «Chi diamine può essere?» «Vuole che lo faccia entrare o gli dico di tornare in un altro momento?» «Se ne liberi» ordinò Gwendolen. «Si inventi una scusa qualsiasi.» Forse era la consegna per espresso di una lettera di Stephen Reeves. Gwendolen era particolarmente ansiosa di ricevere la sua risposta. E se la lettera fosse andata perduta? Hazel si trovò di fronte un uomo sui sessanta, alto e dai lineamenti gradevoli, con un turbante. Le ricordò un guerriero Pathan di un film. «Buon pomeriggio, signora. Sono il signor Singh, abito in St Mark Road. Vorrei parlare con la signorina Chawcer, per favore.» «Mi dispiace, ma la signorina Chawcer è stata poco bene. È tornata da poco dall'ospedale. Potrebbe ripassare domani? Anzi, forse sarebbe meglio domenica.» «Naturalmente, signora. Passerò alle undici.» «Cosa voleva?» si informò Gwendolen. «Non gliel'ho chiesto. Avrei dovuto?» «Non importa, lo so già. Voleva parlarmi di quelle stupide faraone divo-
rate da Otto. Ho trovato le penne sulle scale. Mi aspetto che costui mi chieda un risarcimento.» Hazel cominciava a pensare che gli abitanti di quella casa erano a dir poco strani, con quella saccentona e quel malintenzionato del suo inquilino, e adesso un tipo dal nome tedesco che divorava gli animali da cortile che gli capitavano a tiro. Non vedeva l'ora che tornasse Nerissa, e accolse con gran sollievo il suono del campanello. «E stavolta chi è? Non riesco a capacitarmi di essere diventata tutto a un tratto così celebre.» «È mia figlia.» «Ah.» Ormai Gwendolen avrebbe associato per il resto dei suoi giorni quella giovinastra a un comportamento erotico sfrenato avvenuto nel suo ingresso. «Non credo che abbia intenzione di entrare.» Hazel la prese come un'umiliazione gratuita e fu ben lieta di andare via da quel posto. Perché la zia Olive non le aveva mai detto quanto fosse scorbutica quell'anziana signora? La salutò freddamente e si affrettò a raggiungere Nerissa, che era sulle spine per il timore che all'improvviso comparisse l'uomo che abitava lì. Non appena fu uscita, Gwendolen si addormentò. Da quando era tornata dall'ospedale, non era più sufficiente il sonnellino pomeridiano; aveva bisogno di dormire. Non di sognare, ma il sogno venne, più vivido e chiaro di quelli notturni, quanto mai realistico. Era giovane, come sempre avveniva in sogno, ed era andata da Christie a Rillington Place. Era scoppiata la guerra, l'unica vera guerra per lei, perché i conflitti di Corea, del Suez, delle Falklands, della Bosnia e del Golfo Persico non l'avevano nemmeno sfiorata. Mentre bussava a quella porta echeggiare nell'aria il suono nelle sirene. Era lei a essere incinta, ed era lì per abortire. Come Bertha, ma non c'era alcuna Bertha nel sogno, era terrorizzata da quell'uomo e da ciò che le disse. Fuggì via, decisa a non ritornare mai più. Quando uscì da quella casa si ritrovò in un altro ambiente, com'è tipico dei sogni. Era nel salotto a St Blaise House, con Stephen Reeves accanto che le stava confessando di essere il padre del bambino. Fu insieme uno shock, una sorpresa e una liberazione. Era convinta che a quel punto le chiedesse di sposarlo, ma la scena mutò di nuovo. Si ritrovò sola a Ladbroke Grove, in attesa al buio fuori dal suo ambulatorio, ma lui era scomparso. Cominciò a correre alla cieca, nella speranza di trovarlo; poi cadde, batté il capo e si destò. Le ci voleva più tempo per riprendersi da quei sogni diurni, molto più che da quelli notturni. Per qualche istante rimase seduta in poltrona a chie-
dersi dove fosse andato e quando avrebbe fatto ritorno. Si guardò persino le mani, stupendosi che alla sua età fossero già così rugose, le vene ramificate simili a radici avvinte a un terreno riarso. Poi, lentamente, riprese forma la realtà, a un tempo tranquillizzante e indesiderata, e si alzò. Mentre dormiva, e forse già quando c'era Hazel Akwaa, l'involto con il perizoma era scivolato tra il cuscino e il bracciolo della poltrona. Lo dimenticò lì. 22 Mix lasciò la ditta dove aveva lavorato per nove anni con la coda tra le gambe e in modo del tutto anonimo. Ci rimase male che a nessuno fosse venuto in mente di salutarlo con un brindisi, men che meno con qualche regalo come un orologio o una cena tra colleghi. Nessuno gli aveva manifestato la sua solidarietà per il trattamento che gli era stato riservato e, cosa ben peggiore, aveva dovuto restituire le chiavi dell'auto aziendale. Si consolò al pensiero di essere riuscito a strappare cinque clienti alla ditta. Si fermò a un bancomat e chiese un estratto conto, scoprendo di avere poco meno di cinquecento sterline, cui andavano aggiunti i soldi che gli avrebbero accreditato per le tre settimane seguenti. Non se la sentiva di tornare a Campden Hill Square. Quando ne avesse ritrovato il coraggio avrebbe dovuto recarvisi a piedi. Se non altro, un po' di moto gli avrebbe giovato. Il venerdì andò al cinema da solo, e sulla via di casa passò davanti a locali zeppi di gente e ristoranti con i clienti seduti ai tavolini all'aperto. Prima di rincasare comprò del cibo cinese, due bottiglie di vino e una di Cointreau per il Boot Camp. Il tempo era caldo e secco come fosse luglio. A parte un forte scroscio pomeridiano, nelle ultime settimane non era mai piovuto. Aveva accolto l'acquazzone con sollievo, perché avrebbe fatto crescere più rapidamente l'erba in giardino. Tornare a casa la sera era sempre una prova ardua. Non per niente faceva in modo di rientrare quando ancora non era buio. Purtroppo, man mano che si avvicinava l'autunno e si accorciavano le giornate, sarebbe stato sempre più difficile. Sull'ultima rampa di scale, con la borsa pesante che si portava dietro, sgranò gli occhi, cercando di fissare lo sguardo sulla porta del suo appartamento. In strada i lampioni erano spenti, e dalla finestra Isabella non filtrava luce alcuna. L'ultimo piano era immerso nelle tenebre. Riprese a respirare solo dopo aver varcato la soglia. Lì dentro si sentiva al
sicuro. La schiena aveva smesso di dolergli. Evidentemente era in ottima forma fisica se aveva superato così rapidamente quel problema. Lesse qualche pagina di Un assassino straordinario, sorseggiò il cocktail che si era preparato mentre guardava distrattamente un programma qualsiasi alla TV, mangiò e rimase in ascolto dei rumori di sottofondo della Westway. Se la polizia fosse stata sulle sue tracce, si sarebbe già fatta viva. Era probabile che tra qualche anno, dopo che la vecchia fosse morta, il nuovo proprietario avrebbe rimesso a posto il giardino. Ma non si sarebbe certo messo a scavare fino a un metro e venti, no? E comunque, lui avrebbe già lasciato da tempo quella casa infestata dai fantasmi. Sarebbe stato accanto a Nerissa, sua moglie, magari in Francia o in Grecia. Se anche un giorno avessero rinvenuto il corpo di Danila non l'avrebbero mai messo in relazione con il marito di Nerissa, il celebre criminologo. Quella notte si svegliò per il mal di schiena. Il dolore era così forte da farlo gemere. Accese la luce: le tre e dieci. Aveva cantato vittoria troppo presto. I sintomi sembravano quelli di un'ernia del disco. Ingollò quattro compresse di analgesico mandandole giù con il gin e tornò a letto, ma alle sette era di nuovo sveglio. Non se ne parlava proprio di cominciare ad allenarsi, come si era ripromesso di fare quella mattina. Il dolore alla schiena non accennava a diminuire e gli scendeva lungo tutta la spina dorsale, più acuto di quando l'aveva avvertito per la prima volta. Dopo un bagno caldo e altre due compresse si sentì meglio, anche se un po' stordito. Prese l'autobus a Westbourne Grove e scese a Portobello Market, per fare la spesa. Quel mercato è sempre affollato, soprattutto attorno alle bancarelle, ma il sabato si è letteralmente in balia della folla. Comprò del pollo arrosto, del pane, una fetta di torta e un casco di banane, unica concessione a quella che i giornali chiamano 'dieta equilibrata'. Del resto, con quei dolori non avrebbe potuto portare un peso maggiore. Comprò l'Evening Standard con l'intento di dare un'occhiata distratta agli annunci di lavoro, perché un introito gli avrebbe fatto comodo in attesa di affermarsi con la nuova attività che aveva in mente di avviare, quindi si diresse a Notting Hill Street in cerca di una farmacia. Aveva bisogno di altre compresse per dormire, e avrebbe fatto bene a prendere anche una pomata. Fuori dalla farmacia notò un mendicante. Era seduto sul marciapiede, con una scatola di biscotti a mo' di piattino, senza nemmeno un cagnolino per commuovere i passanti o un cartello che avvertisse che era cieco, sfrattato o padre di cinque bambini che non era in grado di sfamare. Mix non dava mai soldi ai mendicanti, e nel piatto c'erano già una ventina di
monete, ma qualcosa, forse una sorta di familiarità con quell'individuo, lo indusse a guardare. E vide Reggie Christie. Era lui in carne e ossa, la mascella scolpita, le labbra strette, il naso pronunciato e gli occhiali da cui filtrava uno sguardo gelido. Mix si precipitò nella farmacia per comprare l'analgesico. Se ci fosse stata un'altra uscita se ne sarebbe senz'altro servito, ma dovette tornare sui suoi passi. Il mendicante era scomparso. Mix attraversò la strada per prendere l'autobus. Si guardò in giro, ma di Reggie nessuna traccia. Se l'era sognato? Era stato un parto della sua mente, ossessionato com'era dal celebre serial killer e sempre smanioso di osservarne le fotografie sui libri? Una visione causata dallo stress? La sola idea che lo spettro di Reggie l'avesse seguito fin lì, che fosse tornato per lui, lo riempiva di terrore. Gwendolen aveva cercato dappertutto il perizoma, che aveva preso a chiamare 'l'indumento'. Se l'aveva nascosto in un 'luogo sicuro', rifletté, poteva averlo messo nel forno o su uno dei tanti scaffali, infilato tra un dizionario e l'altro. Arrivò persino a controllare all'interno del peluche portabiancheria regalatole dalla madre per il suo venticinquesimo compleanno, ma della cosa neanche l'ombra. Quella ricerca infruttuosa la seccava parecchio. Come poteva inchiodare il suo inquilino alle proprie responsabilità senza quella prova schiacciante? Stephen Reeves non aveva ancora risposto. Era sempre più convinta che la lettera che le aveva spedito fosse andata smarrita. Non c'era altra spiegazione. Comunque, prima di scrivergli di nuovo avrebbe fatto meglio a chiedere al suo inquilino se ne sapesse qualcosa. Conoscendolo, era molto probabile che l'avesse presa lui, per errore o di proposito. Cominciava a credere che quell'uomo fosse la causa di parecchi dei problemi che si stavano verificando in quel periodo. Tutti quei misteri e quelle disgrazie erano iniziate a manifestarsi da quando lui era lì. E con ogni probabilità era stato lui a infettarla con il germe della polmonite. Decise di pizzicarlo non appena l'avesse sentito salire le scale. Purtroppo, da quando si era ammalata le capitava di addormentarsi di colpo molto più spesso di prima, e temeva di non sentirlo. Al momento non aveva la forza di affrontare cinquantadue scalini, anche se non l'avrebbe confessato a nessuno, come non avrebbe mai rivelato alle amiche che arrivare fino in camera sua e prepararsi per andare a letto era diventata un'impresa titanica, tanto che le restava a malapena la forza per lavarsi il viso o le mani. Comunque, senza dubbio era rientrato in tarda mattinata. Era certa di a-
verne sentito i passi per le scale. Sarebbe uscito di nuovo? Se anche lo aveva fatto, non se ne accorse, perché sonnecchiò l'intero pomeriggio. Olive si presentò alle cinque, ma non si offrì di andare su a vedere se lui fosse in casa o meno. Non era malata, pensò Gwendolen sprezzante, ma semplicemente troppo grassa. «Perché non lo chiami al telefono?» A quel suggerimento Gwendolen rimase esterrefatta. «Telefonare a qualcuno che abita nella stessa casa? O tempora, o mores.» «Non so cosa significa, cara. Devi parlare in inglese.» «Significa: Che tempi, che consuetudini. Sì tratta della mia reazione alla tua idea di telefonare a un individuo che vive al piano di sopra.» Olive si convinse che l'amica doveva essere davvero esausta per esprimersi in modo così ridicolo, e si offrì di cucinarle 'il pranzo'. Gwendolen declinò decisamente l'offerta, ma l'amica non volle sentire ragioni; aveva portato tutto il necessario. «Ti prego di non chiamarlo 'pranzo', Olive» supplicò debolmente. «E nemmeno 'pasto'. Si chiama cena, o pasto serale, se proprio vuoi.» Non appena Olive fu uscita, si preparò per andare a letto. Le ci volle un'ora per salire su e indossare la camicia da notte. La casa era immersa nel silenzio, ancora più del solito, le pareva, e per niente calda. Le previsioni che aveva ascoltato alla radio dicevano che l'indomani sarebbe stata una bella giornata, con una temperatura ben oltre i venticinque gradi, qualunque cosa significasse, e una notte eccezionalmente mite per quella stagione. Era prevista una brezza di ponente, temperata, ma gli spifferi che provenivano dai telai malandati e dalle crepe nei muri erano gelidi. Nella sua stanza da letto c'erano due finestre, e da quella che aveva di fronte si vedevano solo fronde grigiastre. I lampioni in strada erano fuori uso, le lampade infrante probabilmente da quei teppisti che andavano vagabondando in giro per le strade. Dall'altra finestra, gli arbusti giù nel giardino apparivano piegati e contorti per il vento, e i rami degli alberi oscillavano paurosamente. Le oche del signor Singh, che poco prima aveva sentito starnazzare, s'erano acquietate, una volta rinchiuse per la notte. L'unico essere vivente nel giardino spazzato dalle raffiche di vento era Otto, acquattato sul muro e intento a divorare qualche animale appena cacciato. Da dietro la finestra, cercando di scrutare nelle tenebre, Gwendolen intuì che si trattava del piccione che era solito posarsi sul platano. Gettatasi sulle spalle un pesante maglione di lana, si accasciò sul letto e si addormentò prima ancora di es-
sersi rimboccata le coperte. Da quando era morta la nonna, la domenica per Mix era un giorno come un altro. Una sbiadita versione del sabato, giornata fastidiosa, persino irritante, dato che i negozi erano chiusi e si usciva in macchina con la fidanzata, la moglie o la famiglia. Ma proprio da lì avrebbe avuto inizio il nuovo piano d'azione che aveva deciso di intraprendere per incontrare Nerissa. Non era abituato a stare senza macchina e, come il giorno precedente, uscì alle nove e mezzo, avviandosi lentamente per il viottolo in cerca dell'automobile della ditta, con cui recarsi a Campden Hill Square. Poi d'un tratto si sovvenne degli ultimi avvenimenti, e cominciò a bestemmiare a tutto spiano. Non c'era altro da fare che mettersi in cammino. Per fortuna riusciva a tenere a bada i dolori alla schiena con tutto l'analgesico che aveva preso. Quel mattino il vento era più fresco. L'autunno si approssimava. Abituato alle elevate temperature dell'interno dell'abitacolo, aveva indosso solo una maglietta e rabbrividì per il freddo. Quando giunse nella piazza notò la Jaguar parcheggiata sul vialetto di casa, e si sentì subito meglio. Aveva dimenticato di portarsi dietro del materiale, opuscoli elettorali o una busta per le offerte di qualche ente di beneficenza, tanto per avere una scusa per bussare alla porta. Non poteva far altro che aspettare, nella speranza di escogitare qualche idea. Cominciò a tremare e gli venne la pelle d'oca. Per riscaldarsi si diresse a passo spedito dalla parte opposta della piazza, giù verso Holland Park Avenue. Tornò indietro a corto di fiato e ancora infreddolito, e per di più la Jaguar stava uscendo dal vialetto. La guardò inebetito: non era riuscito a cogliere l'attimo. Gli passò davanti; la salutò con la mano ma lei non rispose. Guardava fisso davanti a sé, e non gli sorrise. A quel punto non c'era altro da fare che tornare a casa. Una volta nel suo appartamento si spalmò la pomata sulla schiena e cominciò a compilare i moduli di risposta a un paio di annunci di lavoro pubblicati sull'Evening Standard, quelli che gli sembravano alla sua portata. Il suo inquilino era lì ormai da quattro mesi e capitava che passassero intere settimane senza che lo incontrasse, o avesse voglia di vederlo. Si rivolgevano qualche breve convenevole solo quando si incrociavano per caso. Quel tipo non le andava a genio, e la cosa doveva senz'altro essere re-
ciproca. Per questo era sorpresa dal bisogno che provava di parlare con lui. Aveva l'impressione che fosse essenziale, quella domenica, affrontarlo per fare chiarezza su quell'indumento e sulla lettera. E poi c'era anche la questione del gatto: secondo quanto le avevano riferito le sue amiche, durante la sua assenza non si era premurato di dargli da mangiare. Non che le importasse alcunché di Otto, ma nutrirlo era suo dovere, dal momento che aveva promesso di occuparsene lui. D'altra parte, era convinta che se l'avesse fatto Otto non sarebbe mai andato a caccia di faraone o del piccione. Fu così che si ricordò che alle undici sarebbe passato il signor Singh. Era così sicura che non sarebbe stato puntuale, come tutti al giorno d'oggi, che quando alle undici in punto il campanello suonò rimase sbalordita. Si alzò in piedi ed ebbe un capogiro così forte che dovette aggrapparsi al divano per non cadere. Le ci volle qualche minuto per arrivare alla porta, e quando suonarono nuovamente rispose tutta irritata dall'ingresso: «Va bene, va bene, arrivo.» Era un bell'uomo, più alto e dalla carnagione più chiara di quanto si aspettasse, con dei baffetti grigio acciaio. Era vestito di tutto punto, con un paio di calzoni grigi di flanella, una giacca sportiva e una camicia rosa con cravatta a sfumature rosa e grigie. L'unica nota stonata, agli occhi di Gwendolen, era un turbante bianco come la neve, arrotolato in più volute attorno al capo. La seguì nel salotto, adattandosi pazientemente al suo passo lento. «Complimenti, ha una casa davvero suggestiva.» Gwendolen annuì. Lo sapeva bene, lei. Per quello non aveva mai pensato di abbandonarla. Si accomodò facendogli segno di fare altrettanto. Siddharta Singh sedette con movimenti misurati. Si guardò intorno, abbracciando con lo sguardo ogni angolo della stanza, le pareti con l'intonaco scrostato e il soffitto pieno di crepe, gli infissi malfermi e scheggiati, i termosifoni antiquati risalenti agli anni Venti e i tappeti ammassati uno sull'altro, rosi dalle tarme e mangiucchiati dai roditori. Solo tanto tempo prima, nei sobborghi di Calcutta, gli era capitato di trovarsi di fronte a un simile sfacelo. «Se è qui per i suoi volatili,» cominciò Gwendolen sulla difensiva «non capisco come possa ritenere che io...» «Mi perdoni, signora» la interruppe educatamente il signor Singh. «Mi perdoni, ma la vicenda dei volatili è acqua passata. Storia, se posso esprimermi così. Ho cercato di limitare le perdite e ho voltato pagina. E lei certo, da autentica nobildonna inglese, è in grado di spiegarmi cosa si intende
con quest'espressione, voltare pagina.» In altre circostanze Gwendolen avrebbe replicato umiliandolo con una delle sue battute, ma l'uomo che aveva di fronte era così avvenente (e non solo secondo i canoni orientali), talmente affascinante che la sua sola presenza la intimidiva. Come la regina di Saba davanti a Salomone, aveva perso la sua presenza di spirito. «Immagino che si riferisca alle pagine del libro della vita» rispose con voce tremula. Il signor Singh sorrise. Era un sorriso simile a quello elargito dal dio sole, ampio, benevolo, che gli illuminò il viso dai lineamenti eleganti e rivelò una dentatura perfetta, brillante, candida e regolare. «La ringrazio. Alle volte, sebbene mi trovi in questo paese da trent'anni, ho l'impressione di vivere in una nuova età dei lumi.» Gwendolen non poté fare a meno di sorridere a sua volta. E gli fece un'offerta che, dai tempi in cui Stephen Reeves era uscito dalla sua vita, non aveva più rivolto ad alcun ospite occasionale: «Gradisce una tazza di tè?» «Oh, no, grazie. Non le ruberò altro tempo. Mi permetta di venire al punto. Durante la sua malattia, quando lei non era qui, ho avuto modo di osservare il suo giardiniere, un giovane estremamente solerte, e ho detto alla mia signora: 'Guarda, quel giovanotto è proprio quello che ci serve per mettere le cose in ordine qui.' È per questo che l'ho disturbata. Sarebbe così gentile da darmi il suo nome e il recapito telefonico, nella speranza che non sia troppo occupato?» Gwendolen fu assalita da una ridda di emozioni contrastanti. Non sapeva spiegarsi per quale ragione avesse avvertito un tuffo al cuore quando era stata fatta menzione di una signora Singh, ma conosceva benissimo il motivo della sorpresa e della collera incipiente che le stavano montando dentro. Si alzò in piedi, sforzandosi di tenere il busto eretto, nella segreta speranza di dimostrare in quel modo dieci anni di meno, e rispose: «Non ho nessun giardiniere.» «Oh, sì che ce l'ha, signora. Forse le è sfuggito di mente. Mi rendo conto che è stata appena dimessa dall'ospedale perché è stata poco bene. È stato qui mentre lei era via. Immagino che lo abbia assunto prima.» «Non ho assunto nessuno. Sono completamente all'oscuro di questa faccenda.» Era impossibile ingannarla. La stava guardando con un'espressione compassionevole, che lasciava chiaramente trasparire come non solo non le dava dieci anni di meno, ma la considerava una vecchia affetta da de-
menza senile. «Mi può descrivere quell'uomo?» «Dunque, mi lasci pensare. Sui trent'anni, capelli chiari, caratteri somatici britannici, occhi azzurri, mi sembra, di bell'aspetto. Non alto quanto me o... - e a questo punto la osservò per valutarne l'altezza - quanto lei, se mi permette, signora.» «Cosa ha fatto, per la precisione?» «Ha scavato in giardino» rispose semplicemente il signor Singh. «In due punti diversi. Come lei sa, il terreno qui è particolarmente duro, per non dire roccioso. Quasi» proseguì avventurandosi in una similitudine fantasiosa «pietra adamantina.» Aveva persino il suo stesso modo di esprimersi, considerò Gwendolen. Se lo avesse conosciuto prima, avrebbe riversato su di lui l'affetto che provava per Stephen Reeves? «L'uomo che mi ha descritto» lo informò, mentre l'ira riaffiorava di nuovo «è il mio inquilino. Abita di sopra, al piano più alto.» «In tal caso le porgo le mie scuse per averle recato disturbo.» Il signor Singh si alzò in piedi, e Gwendolen ebbe un'altra occasione per ammirarne la figura marziale, il ventre piatto e la statura superiore alla media. Avrebbe desiderato gridargli: «Rimanga ancora un po'!» Invece si limitò a dire: «Si chiama Cellini, e non gli è permesso di entrare nel mio giardino.» Il suo ospite sorrise ancora, questa volta mestamente. «Non posso nasconderle la mia delusione. No, la prego, non s'incomodi. Lei è convalescente e, se posso permettermi, non esattamente una giovinetta.» Colse un'immagine della propria figura in uno dei tanti specchi chiazzati dalle mosche, con le cornici d'argento scheggiate. «Come del resto io» aggiunse, con maggior tatto. «Le porgo i miei saluti, mi scuso ancora per il fastidio che le ho arrecato e tolgo il disturbo.» Senza di lui la stanza sembrava più buia. Gwendolen era furiosa come non mai. Doveva a tutti i costi vedere Cellini, magari ingerendo una pinta di caffè o qualsiasi altra cosa pur di rimanere sveglia in attesa del suo ritorno. Non bastavano quell'indumento e la lettera, adesso si aggiungeva anche la faccenda del giardino. Se ne sarebbe liberata, e al suo posto avrebbe affittato l'appartamento a una tranquilla e simpatica signora, non esattamente una giovinetta. Ah, come l'aveva ferita quell'espressione! Anche se poi si era accomunato a lei. Ma quel Cellini! L'avrebbe sbattuto fuori appena possibile.
23 Si era avviato a piedi, ma nei pressi di una fermata prese l'autobus al volo. Era una giornata troppo ventosa per godersi una passeggiata. Alcune foglie gialle cadevano dai platani, volteggiando davanti ai finestrini. Una volta sceso all'angolo di St Mark Road avvertì una fitta nella regione lombare, e punture di spillo nella colonna vertebrale, come fosse graffiata da dita d'acciaio. Con il movimento, il dolore si attenuò leggermente. Come sempre, un'interminabile fila di automobili parcheggiate ai bordi della strada ingombravano St Blaise Avenue. A un certo punto notò un particolare a cui qualche giorno prima non avrebbe fatto caso. Sul parabrezza di una vecchia Volvo c'era un cartello con su scritto 'Vendesi' e il prezzo, 300 sterline. Le Volvo erano eccellenti autovetture, che duravano nel tempo, e quella sembrava in ottimo stato. Vi girò attorno e si stava avvicinando al finestrino per osservarne l'interno, quando una donna uscì da una delle abitazioni sullo stesso lato di St Blaise House e gli si fermò accanto. «È interessato a comprarla?» Mix rispose che ci stava pensando. Sebbene non più nel fiore degli anni, era una donna ancora avvenente, con un virino da vespa, come piaceva a lui. «Mi chiamo Sue Brunswick, e la macchina è di mio marito Brian. In questo momento non c'è ma torna mercoledì. Può provarla insieme a lui se vuole.» «Lei non guida?» Non gli sarebbe dispiaciuto fare un giro al suo fianco. «Sono anni che non mi metto al volante.» «Peccato. Ci penserò» promise Mix. Mentre percorreva lentamente il vialetto di casa, si passò una mano sulle reni. Una volta entrato, sbirciò attraverso la porta del salotto, insolitamente socchiusa. La vecchia giaceva sul divano profondamente addormentata. Si avviò per le scale. Sebbene la temperatura fosse diminuita, il cielo non era più coperto e la luce si era fatta più intensa. I raggi che colpivano i muri ai lati della scalinata rivelavano impietosi ogni crepa, quelle sottili come le più profonde, le macchie lasciate dalle mosche sui quadri sbilenchi e gli insetti rimasti appiccicati al loro interno, le ragnatele che pendevano dalle cornici e dai cordoncini delle lampade. Gli venne da chiedersi dove andasse a rifugiarsi di giorno il fantasma di Reggie, ma si impose di non pensarci, a meno che non fosse necessario. Se quell'ossessione non fosse scom-
parsa, avrebbe dovuto consultare un medico. Il primo pensiero di Gwendolen quando si risvegliò fu il signor Singh. Va bene, quell'uomo non faceva per lei, ma Stephen Reeves sì. Sul momento era rimasta come ipnotizzata dal suo sguardo e dal fascino che emanava, ma a ogni modo lei non approvava i matrimoni tra persone di etnie e culture diverse - ai suoi tempi lo chiamavano 'incrocio di razze' - e la moglie doveva essere una gran zuccona. Archiviò la sconosciuta signora Singh come 'una indigena barcollante che portava il velo'. Eppure ciò che le aveva rivelato faceva passare in secondo piano tutto il resto. Approfittando della sua assenza - mentre era in ospedale, per giunta! quella serpe che si era messa in casa era penetrata nel giardino, per ben due volte, e aveva scavato delle fosse nelle aiole. C'era stato un periodo, nei bei tempi andati, in cui un vero giardiniere si occupava delle piante, e il giardino era tutto un fiorire di lupini, speronelle, zinnie e dalie, gli arbusti erano curati e il prato così ben tosato da sembrare un tappeto di velluto. Per certi versi, a Gwendolen pareva ancora lo stesso di una volta, forse solo un po' trascurato, e comunque era convinta che un uomo in gamba provvisto di falciatrice avrebbe saputo rimetterlo in ordine nel giro di un'oretta. E così, in quel piccolo paradiso, il suo inquilino si era avventurato armato di vanga - quasi certamente la sua vanga - e si era messo a scavare. E questo senza il suo permesso, senza nemmeno provare a chiederglielo! Doveva essere passato dalla cucina, era entrato nella stanza del bucato e aveva lasciato quell'indumento nella caldaia. Ma per quale motivo? Per seppellire qualcosa, certo. Forse, anzi probabilmente, le aveva rubato un oggetto o un gioiello, certamente di valore, e l'aveva sepolto lì in attesa di contattare un ricettatore. Avrebbe fatto bene a controllare se mancava qualcosa. L'ira si impadronì di nuovo di lei, a tal punto che percepì il sangue che le pulsava alle tempie. Non c'era da meravigliarsi che, adesso che era sveglia, avvertisse una sensazione così strana, un fortissimo giramento di testa e una debolezza infinita. Malgrado ciò si sarebbe avventurata su, scalino dopo scalino, fermandosi a riposare a ogni pianerottolo, se non fosse arrivata Queenie Winthrop. Quando sentì aprire la porta si augurò che fosse il suo inquilino, così si sarebbe risparmiata quella arrampicata, ma la voce dell'amica pose fine a ogni speranza: «Ihu hu, sono io!» Per quanto tempo ancora avrebbero continuato a venire e a portarle dei pensierini? Per settimane, forse per mesi. O per sempre? Ne aveva abba-
stanza di cioccolata, barrette di cereali, pere e uva. Ma la bottiglia di Porto che Queenie tirò fuori dalla borsa della spesa fu ben accetta, e Gwendolen, rinfrancata, ringraziò di cuore l'amica. «Spero di non diventare un'alcolizzata» ironizzò. «Di certo lo sarei già se dipendesse da te e da Olive. Ma è colpa del mio inquilino se ho cominciato a bere. Prima d'ora la bevanda più forte che avevo assaggiato era il succo d'arancia.» Aveva deciso di mettere Queenie al corrente dell'incontro avuto con il signor Singh e delle sue involontarie rivelazioni, ma poi cambiò idea. Per qualche recondita ragione non desiderava parlare di quell'uomo, con lei o con chiunque altro, ma non poteva riferire i misfatti del suo inquilino senza menzionare il suo vicino. Disse invece: «Non mi piace chiedere dei favori, la ritengo una forma di imposizione, ma sono costretta a fare un'eccezione. Andresti su a comunicare a Cellini che intendo parlare con lui oggi pomeriggio alle sei? Te ne sarei grata» aggiunse controvoglia. «Devo risolvere diverse questioni con quell'individuo.» «Va bene, cara, ma non subito. Devo ancora riprendere fiato dopo la scarpinata che ho fatto per arrivare fin qui. Ho aspettato a lungo l'autobus ma poi sono venuta a piedi. Ci salirò prima di andare via. Promesso. Adesso che dici, ti preparo qualcosa da mangiare?» E, lanciando uno sguardo bramoso alla bottiglia: «O qualcosa da bere?» «Potremmo assaggiare un bicchierino di Porto.» «Be', perché no? Dopo tutto è domenica.» «Anche se la domenica si dovrebbe bere il vino della comunione, non il Porto.» «Può darsi, cara. In effetti non saprei, non essendo praticante. Lo preparo?» Gwendolen rabbrividì. «Si tratta di un alcolico, Queenie, non si prepara come fosse tè.» Giudicava assurda l'usanza di condividere i regali ricevuti. Ma nemmeno la proverbiale scontrosità di Queenie le impediva di apprezzare il piacere di bere in compagnia. Osservò l'amica versare una quantità di vino che le parve esagerata in bicchieri non adatti a quel tipo di alcolico, poi sollevò il suo e ripeté la frase che il professore era solito dire in simili circostanze: «Salute!» Fecero uno spuntino a base di formaggio, frutta e una fetta di torta alle carote preparata dalla figlia maggiore di Queenie, il tutto servito su un vassoio coperto da una vecchia tovaglia gialla, decorata con trine e merletti e
scovata in un cassetto della credenza. «Sembra davvero che tu stia cascando dal sonno» osservò Queenie. «Quell'indumento non è l'unica cosa di cui mi devo lamentare con il mio inquilino» cominciò a spiegarle Gwendolen, senza neanche badare all'osservazione dell'amica. «Nei giorni in cui ero in ospedale sarebbe dovuta arrivare una lettera molto importante. Avrei dovuto riceverla, invece non mi è ancora stata recapitata.» Non aveva alcuna intenzione di rivelare alcunché sul contenuto della missiva o sull'identità del mittente. «Sospetto che Cellini c'entri qualcosa.» Era da tempo ormai che ometteva l'appellativo 'signor' prima del suo cognome. «A meno che tu o Olive vi siate immischiate della mia posta, cosa che» aggiunse in tono conciliante «ritengo improbabile.» «Ma certo che no, cara. Da quale città doveva arrivare la lettera?» «Probabilmente da Oxford. Adesso però desidero andare a dormire. Vuoi essere così gentile da salire e avvertire l'inquilino? Che si presenti alle sei.» Queenie si trascinò pesantemente per le scale, e passando davanti al telefono gli lanciò uno sguardo bramoso. Ma Gwendolen l'avrebbe sentita alzare la cornetta e le sarebbe subito piombata addosso. Malgrado l'età, aveva un udito di gran lunga migliore del suo. Giunta sul primo pianerottolo si levò le scarpe con il tacco troppo alto, respirò a fondo e, tenendole in mano, continuò la dura salita. Se quel tipo non era in casa non avrebbe esitato a cantargliene quattro, all'amica. Non crederà di essere la sola capace di trattare gli altri in modo villano. Riusciva a essere scortese anche lei, all'occorrenza. Mix era in casa. Andò ad aprire a piedi nudi e con un maglioncino sulle spalle. «Ah, salve. Che c'è?» Sin da adolescente, Queenie aveva sempre agito secondo la convinzione che se si vuole ottenere qualcosa da un uomo, o anche semplicemente farsi notare da lui, bisogna mostrarsi esageratamente educate, dolci, seducenti se non provocanti. Un atteggiamento del genere non le era tornato granché utile, ma quanto meno aveva contribuito al buon esito del suo matrimonio. «Oh, signor Cellini, sono desolata di doverla disturbare, e per giunta di domenica, ma la signorina Chawcer mi ha incaricata di pregarla di concederle cinque minuti del suo tempo, alle sei di oggi pomeriggio. Se vuole fare un salto giù a sentire cosa desidera, sono sicura che non la tratterrà a lungo, quindi...» «Di che si tratta?»
«Non me l'ha riferito.» Gli rivolse un sorriso a trentadue denti, di quelli che, come aveva osservato una volta un uomo, le illuminavano il viso. Quindi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, si affrettò ad aggiungere, tradendo così l'amica senza rendersene conto: «Lei lo sa com'è fatta Gwendolen, tremendamente pignola per ogni sciocchezza. Non che ciò si possa desumere dallo stato in cui versa questa casa, vero?» «Già.» Mix non vedeva l'ora di tornare a guardare la partita registrata un paio di settimane prima, con il Manchester United che affrontava una squadra dell'Europa centrale. «Le dica che sarò giù per le sei. Be', arrivederci.» Giù nel salotto Gwendolen stava già dormendo. Queenie prese un foglietto di carta e vi appuntò: Il signor Cellini viene alle sei. Affettuosamente, Queenie. Mix aveva smesso di seguire la partita. Sulle prime non aveva fatto troppo caso a quella richiesta, ma poi cominciò a rifletterci su. La vecchia doveva aver trovato il perizoma. Chi altri, se non lei? Bisognava che si inventasse qualche spiegazione plausibile, e l'unica che gli veniva in mente, cioè che aveva lavato la biancheria della fidanzata perché aveva la lavatrice rotta, non teneva. Chi avrebbe mai fatto il bucato in un buco come quello, al giorno d'oggi? E perché non aveva portato i panni in una lavanderia? In ogni caso, lui lì non sarebbe dovuto entrare. Però poteva negare. Forse sarebbe stata la strategia migliore. A ben pensarci, poteva persino insinuare che in quella faccenda ci fosse lo zampino delle sue amiche, la Fordyce e la Winthrop. Anzi, lui aveva visto una di loro con il perizoma in mano. Non ti preoccupare, si disse per tranquillizzarsi. Non stare a crearti tutti questi problemi. Concentrati su qualcos'altro. Per esempio? Che quel Frank del Sun in Splendour proprio in questo momento potrebbe essere dalla polizia? Che Nerissa potrebbe essere uscita con qualche bel tipo? No, pensa all'affare della Volvo. Magari offrendo duecentocinquanta sterline... Be', l'indomani poteva andare da Sue Brunswick e chiederle di accompagnarlo per provare la macchina. Avrebbe guidato lui. Magnifica idea. L'avrebbe portata a Holland Park, anzi, a Richmond, e le avrebbe proposto di mangiare qualcosa in un pub alla moda della zona. E poi, con quel Brian fuori dai piedi, una volta da lei... Una botta e via, tanto meglio così. Una volta che fosse riuscito a entrare in casa di Nerissa e a farsi offrire un caffè non avrebbe più avuto bisogno di donne di seconda mano, come Sue Brunswick, e neanche di automobili di seconda mano. Avrebbe avuto la Jaguar e, soprattutto, Nerissa. Magari
già la domenica successiva la situazione sarebbe stata completamente ribaltata a suo vantaggio. Non sarebbe stato costretto a rinchiudersi nel suo appartamento, per quanto accogliente. Si sarebbe trasferito a Campden Hill Square, senza più necessità di lavorare o di preoccuparsi di quel che pensavano di lui un gruppo di vecchiette. E poi lì non ci sarebbe stato il fantasma di un assassino. Le avrebbe raccontato del perizoma e ci avrebbero riso su, soprattutto del fatto che aveva detto alla Chawcer che il perizoma apparteneva alla Winthrop. Come se avesse potuto indossarlo, con quel culo grosso che si ritrovava! Alle sei e dieci, dopo aver ingollato tre compresse da 400 milligrammi di ibuprofene, indossò il maglioncino, infilò calzini e scarpe e scese giù. Gwendolen stava misurando a piccoli passi il salotto, irritata per il ritardo del suo inquilino. Quando lo vide era così adirata che non riuscì a controllarsi. «Non è puntuale! Il tempo non conta più nulla per la gente?» «Cosa voleva dirmi?» «Si sieda.» Era forse vero che una forte collera fa aumentare la pressione sanguigna tanto da poterla addirittura percepire come un martellio nella testa? Alle volte si immaginava le sue arterie, ormai ostruite da una sostanza simile alla placca dentaria. Ebbe un capogiro e fu costretta a sedersi, anche se avrebbe preferito rimanere in piedi per sovrastarlo. Ma temeva di cadere e di mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità. «Stamattina è venuto a trovarmi un vicino molto affascinante» cominciò, turando un profondo respiro. «Certa gente di qui avrebbe molto da imparare da questi immigrati in fatto di buone maniere. Comunque, sia come sia, aveva qualcosa da dirmi. Saprà già di che si tratta.» Infatti lo sapeva. Tuttavia, nonostante avesse passato in rassegna le varie ipotesi per cui la Chawcer desiderava parlargli, non aveva pensato a quella e quindi non si era preparato una scusa plausibile. Con crescente sgomento ascoltò il lungo resoconto della visita del signor Singh, al fraintendimento riguardo alla sua presenza in giardino e all'indignazione della vecchia. «Adesso forse vorrà dirmi cosa faceva lì.» «Ho zappato la terra» rispose semplicemente Mix. «Non si può negare che non ce ne sia bisogno.» «Questi non sono affari suoi. Non le ho affittato il giardino.» Gwendolen aveva deciso di non menzionare il perizoma, ma la lettera era tutt'altra faccenda. «E poi ho ragione di credere che lei si sia impicciato della mia po-
sta.» «Tanto per cominciare, non è vero.» «Non assuma quel tono con me, signor Cellini! Come osa mettere in dubbio la mia parola? Non mi ha ancora fornito una spiegazione per aver scavato nel mio giardino, senza considerare che si è introdotto nella mia cucina e nella stanza del bucato.» Quella vecchia somigliava proprio alla sua maestra delle elementari, di cui ricordava persino il nome, signorina Forester. Era stata l'insegnante della madre e della nonna, per quanto ne sapeva. Ma i bambini della sua classe le avevano dato filo da torcere, tanto da costringerla ad andare in pensione prima di beccarsi un esaurimento nervoso. Anche lui aveva contribuito per la sua parte, ma a quel tempo non aveva nulla da perdere. Adesso le cose stavano in tutt'altro modo. Era sul punto di apostrofarla come era solito fare con la signorina Forester, 'togliti dalle palle, brutta vacca che non sei altro', ma le parole gli morirono sulle labbra. «Se non mi fornisce una spiegazione adeguata per la sua condotta, le intimerò lo sfratto.» «Non può farlo. Mi ha affittato un appartamento non ammobiliato. Ho un contratto d'affitto blindato.» Pur essendo a conoscenza di quella clausola ingiusta, Gwendolen continuò imperterrita: «Che cosa ha seppellito? Qualcosa che mi appartiene, suppongo. Gioielli? Argenteria? Controllerò, può starne certo, stilerò una lista degli oggetti mancanti. O forse ha ucciso qualcuno e ne ha sepolto il cadavere? È così?» Malgrado avesse notato la macchia sul basamento della statua di Psiche, quell'idea non l'aveva mai sfiorata. Era roba da romanzi gialli, che in tutti quegli anni di letture, di quando in quando, gli erano capitati tra le mani. Più che altro, la sua intenzione era quella di insultarlo. Non si accorse nemmeno che Mix era impallidito, e che il suo volto aveva perso la consueta inespressività. Lui non replicò. Si limitò ad abbassare gli occhi che aveva tenuto fissi su di lei. Gwendolen era trionfante, consapevole di essere uscita vittoriosa. Non le rimaneva che completare l'opera: «Domani mattina, senza ulteriore indugio, informerò la polizia.» «Ha finito?» «Quasi. Intendo solo ribadirle che domani in mattinata metterò la polizia al corrente delle sue losche attività.» Ora che lui era uscito aveva bisogno di riposo. Non appena sentì chiu-
dersi la porta del suo appartamento - per la verità la sbatté così forte che tutto l'edificio parve vibrare - si trascinò verso le scale. Aveva paura di non farcela se avesse indugiato ancora. Giacque per una decina di minuti accasciata sul pavimento, poi cominciò a salire carponi. La scalata sembrava interminabile, ma infine riuscì a raggiungere la sua stanza. Temeva che qualcuno la costringesse a portare giù il letto. Queenie e Olive non glielo avevano ancora suggerito, ma era solo questione di tempo. Non glielo avrebbe mai permesso, pensò mentre si dibatteva inutilmente per svestirsi e infilarsi la camicia da notte. Riuscì solo a togliersi l'anello dal dito e a riporlo nel portagioie, ma non fu in grado di lavarsi le mani. Raggiungere il bagno rappresentava un'impresa impossibile, un po' come spingersi fino a Ladbroke Grove e ritorno. Stramazzò sul letto e chiuse gli occhi. Si sentiva debolissima, ma il sonno, che in quelle ultime settimane sopraggiungeva irresistibile, persino mentre lottava per rimanere sveglia, non voleva saperne di arrivare, tale era l'ira che la attanagliava. A ribollirle dentro non era solo la rabbia causata dal comportamento del suo inquilino, per quanto ignobile, ma quella di tutta una vita, che turbinava e traboccava dal suo essere. La rabbia nei confronti della madre, che le aveva insegnato a comportarsi come ci si aspetta da una signorina ben educata, a scapito delle sue esigenze di libertà di parola e di autonomia, senza considerare l'arricchimento culturale, il desiderio di amore, passione, avventura e ricerca della felicità. Rabbia verso il padre, che le aveva negato una vera educazione, con il pretesto di volerla proteggere dalla malvagità del mondo, finendo così per segregarla in casa e renderla sua schiava e segretaria personale. Rabbia contro Stephen Reeves, che l'aveva ingannata sposando un'altra donna e non rispondendo alle sue lettere. E sì, anche contro quell'enorme casa in rovina che si era trasformata nella sua prigione. Per un lungo intervallo di tempo di cui non avrebbe saputo precisare la durata, non avvertì più alcuna sensazione fisica, ma solo il turbinio della propria mente fremente di collera, attraversata da propositi di vendetta. Poi, d'improvviso, passò da quegli accessi di rabbia a una calma assoluta. Somigliava al sonno ma non lo era. Il primo pensiero che le balenò quando riemerse da quello stato catalettico fu che rivolgersi alla polizia sarebbe stata una punizione adeguata per il suo inquilino. Tentò di alzarsi, invano. Appena possibile, non certo quella sera, doveva controllare se dal portagioie mancava qualche prezioso, probabilmente sepolto in giardino. Avrebbe dovuto anche controllare l'argenteria custodita giù nella vetrinetta,
avvolta in un panno verde. Erano anni che non la toccava. Ebbe l'impressione di aver perso conoscenza per qualche istante. Aveva paura di alzarsi, non per il timore di cadere a causa dei consueti giramenti di testa, ma perché non riusciva a muovere la parte destra del corpo. Doveva trattarsi di crampi. Non era la prima volta che ne soffriva, soprattutto di notte. Si massaggiò la gamba, quindi il braccio sinistro. Anche se avvertiva una certa sensibilità, fu solo con grande sforzo che riuscì a poggiare a terra il piede. Il braccio penzolava inerte. Stava pensando di alzarsi per accendere la luce, quando la porta si aprì lentamente e Otto scivolò placido nella stanza. La sua sagoma scura dalle movenze morbide divenne ancora meno visibile nella debole luce che filtrava dalle finestre, mentre gli occhi verdi brillavano come due smeraldi. Senza una ragione si ritrovò a pensare, come mai le era accaduto, alla bellezza di quegli occhi e a quell'animale giovane e flessuoso, che era l'unico essere davvero perfetto che avesse mai visto. Senza farle caso, Otto si accomodò davanti al focolare vuoto, e con i denti bianchi e affilati si mise a rimuovere dalle zampe pietruzze e brandelli di rametti. Gwendolen trascinò di nuovo sul letto la gamba sinistra, aiutandosi con la mano destra. Lo sforzo finì per consumare le poche energie residue. Completata la manicure, Otto balzò sulle coperte con movimento elegante e si raggomitolò ai suoi piedi. 24 Dalla finestra della stanza da letto Mix stava osservando il signor Singh sistemare delle lampadine colorate sulla palma. Non era Natale, né quella ricorrenza che gli indiani festeggiano più o meno nello stesso periodo: a che gioco giocava? Meno male che qui non è possibile acquistare liberamente armi da fuoco, come negli Stati Uniti: non ci penserei due volte a fare fuori quel tipo. Il signor Singh scese dalla scala, entrò in casa e accese le lampadine. La palma brillò di sfavillanti lucette rosse, blu, gialle e verdi. Poi uscì la moglie, con un sari rosa, e insieme rimasero ad ammirare l'albero tutto illuminato. Anche a quell'ora tarda si riconoscevano le zone del giardino dove aveva scavato, una circoscritta, l'altra più estesa. Avrebbe dovuto farlo col favore delle tenebre, cioè dopo mezzanotte, ma ormai era inutile starci a pensare. Nelle abitazioni che davano sulla strada dove abitava Singh le luci erano accese, ma dal lato in cui si trovava riusciva a scorgere solo i giardini. In
uno c'erano dei lampioncini allineati lungo il muro, tra le piante sempreverdi. Una donna uscì per recuperare una coperta e un paio di jeans stesi ad asciugare; era Sue Brunswick. L'idea che gli era balenata di acquistare l'automobile del marito gli pareva un sogno di cui non ricordava più i particolari, per non parlare dei progetti fatti su di lei. Persino Nerissa, alla quale in quell'ora della sera si rivolgevano i suoi pensieri romantici, un po' come una canzone al tramonto, era svanita dalla sua mente. Il lavoro, i mezzi di sussistenza, l'automobile, l'amore: nulla ormai aveva più importanza. Un sola cosa contava: fermare la vecchia. Da quando era tornato su si sentiva quasi paralizzato dalla paura. Aveva superato di gran lunga le dosi di antidolorifico raccomandate, con l'unico risultato che adesso la testa gli girava come una trottola. Non era nemmeno riuscito a versarsi da bere o a preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Era rimasto in piedi di fronte alla finestra, aggrappato al termosifone per non cadere, a guardare fuori. L'avrebbe fermata, di questo poteva star certa. Non aveva nemmeno cercato di dissuaderla, sarebbe stato inutile. Se non l'aveva ancora denunciato era solo perché apparteneva a una generazione che riteneva sconveniente chiamare la polizia o il dottore di domenica; quel giorno non si faceva nemmeno la spesa. Anche sua nonna era così. Le incombenze si sbrigavano il lunedì. Ma l'indomani, per prima cosa avrebbe telefonato alla centrale. Gli occhi luccicanti di Otto non si vedevano da nessuna parte. Non si era mai soffermato troppo a pensarci, ma adesso si ritrovò a immaginare come sarebbe stato bello essere nei suoi panni, servito e riverito, senza bisogno di niente e di nessuno e senza problemi di sonno, libero di andare giorno e notte e di uccidere chiunque gli capitasse a tiro, se avesse voluto, a caccia in un territorio pieno di prede, agile e impavido e non tormentato dai dispiaceri. E asessuato, naturalmente. Era convinto che Otto fosse stato castrato. Il sesso era solo un fastidio, e non si può provare desiderio per ciò che non si conosce. Tali riflessioni lo distolsero dai problemi che lo assillavano. Andò in salotto e si preparò un Boot Camp con una dose generosa di Cointreau. Avrebbe dovuto pensarci un paio di ore prima, forse non si sarebbe ridotto in quello stato. Il cocktail produsse all'istante i suoi prodigiosi effetti; si sentiva pronto ad affrontare qualsiasi ostacolo. Bastava considerare la faccenda da un'altra prospettiva e stabilire le priorità. In primis, fare in modo che la vecchia non avvertisse la polizia. Probabilmente lei non immaginava neppure l'effetto prodotto dalle sue parole. Lui sì. Stavano cercando il cor-
po e l'assassino di Danila, e una segnalazione di quel tipo sarebbe stata per loro un boccone sin troppo ghiotto. Avrebbero risolto il caso in dieci minuti. Doveva fermarla. Sapeva come ridurre al silenzio una volta e per sempre una donna. L'aveva già fatto. Non sapeva nemmeno lei come fosse riuscita a scendere dal letto. Si trascinò con uno sforzo immenso sul pavimento. Nel giardino del signor Singh la palma si era trasformata in un candeliere risplendente di luci multicolori. La fantasia le stava giocando uno scherzo: doveva esserle capitato qualcosa al cervello. Si rese conto che non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere la porta, tanto meno le scale e il salotto dove teneva l'argenteria. Avrebbe voluto chiamare il dottore, o anche una delle sue amiche, ma si sarebbe dovuta rotolare giù dalle scale. E comunque era ancora domenica, per quanto ne sapeva, e, sebbene ancora in collera con la madre, non avrebbe mai contravvenuto al principio inculcatole per cui la domenica si possono chiamare solo i famigliari, e mai, in ogni caso, dopo le dieci di sera, qualsiasi giorno fosse. Così si trascinò di nuovo verso il letto, senza la forza di lavarsi o, come diceva sua madre, di 'fare i propri bisogni'. L'albero frutto della sua immaginazione era ancora lì, uno sfolgorio di stelle colorate. Stramazzò sul giaciglio, completamente vestita, riuscendo solo a levarsi le scarpe. In posizione supina, tirò su la coperta con la mano destra, cui era rimasta la funzionalità. Già da un po' aveva intuito cosa le era capitato, ma solo adesso aveva trovato il coraggio di dirselo: aveva avuto un ictus. Mix era uscito sul pianerottolo, allarmato dai rumori che aveva fatto la vecchia quando era scesa dal letto. Cosa aveva? Forse faceva sempre tutto quel baccano ogni volta che si preparava per andare a dormire. Non ricordava di averci mai badato. Si stava domandando se avrebbe avuto il coraggio di ucciderla a sangue freddo. Con Danila era stata tutt'altra faccenda. Gli aveva fatto perdere le staffe insultandolo in quel modo, con le critiche ingiustificate nei confronti di Nerissa. La luce delle scale si spense. Dalla finestra Isabella non filtrava alcun chiarore, perché il lampione in strada era fuori uso. Quando rimarrò solo dovrò prolungare i tempi di accensione e sostituirò questa robaccia con lampadine da cento o centocinquanta watt. Ma non sarà ancora per molto: non resterò a lungo qui dentro.
Volse lo sguardo ormai avvezzo al buio in direzione della porta socchiusa del suo appartamento, da cui filtrava un raggio di luce che si proiettava nel corridoio di sinistra. Scorse una figura che si allontanava lentamente, di spalle, come appena uscita dalla porta accanto. Non appena giunse davanti all'ultima porta si voltò, e nel vederlo si immobilizzò. Mix ne percepì il luccichio degli occhiali sul naso adunco. Poi lo spettro scrollò le spalle, protese le mani in un gesto di supplica o di disperazione e aprì la bocca senza emettere alcun suono. Mix chiuse gli occhi, e quando li riaprì lo spettro era scomparso. La paura della polizia aveva fatto passare in secondo piano quella del fantasma. Non si mosse, continuando a fissare il luogo dell'apparizione. Quei gesti avevano certo un significato. Forse gli stava consigliando di compiere quel che aveva già deciso. Lui, Reggie, aveva ucciso sei donne senza che la cosa lo turbasse più di tanto. Nessuno sapeva perché avesse ammazzato anche la moglie; secondo l'ipotesi più accreditata lei aveva finito per scoprire i suoi omicidi, minacciando di fare quel che la vecchia avrebbe fatto a lui. Voleva dirgli questo? Uccidila. Io non ho mai tentennato. Ammazzala. Falle quel che io ho fatto a Ethel. Adesso la mente di Gwendolen era completamente sgombra. Per un attimo le apparve l'immagine sfocata di Stephen Reeves, prima di svanire in lontananza lungo una strada tortuosa affollata dai suoi pensieri. Laggiù, sul ciglio di un sentiero dai contorni indefinibili, le pareva di scorgere ombre nebulose che avevano le fattezze di mamma e papà. Svanirono anch'esse, scivolando oltre il ciglio dove era scomparso Stephen. Era sola al mondo, come sempre. Sempre. Anche adesso, mentre avvertiva un mormorio lontano che le giungeva da quel luogo dove nascevano i suoi pensieri, comprese che stava abbandonando il mondo, completamente sola. Senza alcuna ragione particolare cercò di muovere mani e braccia; persino loro l'avevano tradita. Era troppo esausta per riprovare. Respirò a fondo, lentamente, ripetutamente, trattenendo l'aria nei polmoni, emettendo sibili sonori. Se qualcuno seduto di fianco a lei avesse assistito alla scena, non avrebbe potuto fare altro che attendere il suo ultimo respiro; quindi si sarebbe alzato dalla sedia, le avrebbe chiuso gli occhi e tirato il lenzuolo sul viso. I raggi della luna illuminavano la stanza. Quando era salita, Gwendolen stava troppo male per ricordarsi di tirare le tende. In quelle quattro ore la luna piena si era levata nel cielo limpido. La posizione del letto rispetto al-
le ampie finestre era tale che le coperte erano solcate da una lunga striscia argentea, che lasciava il suo viso al buio. Le luci nell'abitazione del signor Singh si erano spente più presto del solito, e anche la palma era immersa nell'oscurità. Una volta entrato nella stanza da letto, Mix cominciò a tremare. Non per il freddo, ma di paura. Eppure, cosa aveva da temere? Nemmeno l'apparizione dello spettro l'aveva spaventato. Le porte giù erano chiuse, addirittura sprangate. C'era solo lei. D'accordo, di sopra si aggirava un fantasma, ma ormai era convinto che approvasse quello che si apprestava a compiere. E, fatto sconcertante, il dolore alla schiena era scomparso, malgrado non avesse preso più gli analgesici. Si sentiva in perfetta forma. Quando si avvicinò al letto, una forma scura si srotolò impennandosi con la schiena arcuata. Gli occhi verdi parevano più lucenti e grandi del solito. «Ucciderò anche te!» esclamò Mix. Fece un balzo per afferrarlo ma Otto eluse agevolmente la sua presa, sibilò come un serpente e saettò in direzione della porta, diretto verso le scale. La donna distesa sul letto rimase perfettamente immobile. Muoviti, si esortò, non indugiare. Non guardarla. Agisci e basta. La testa era poggiata su un cuscino, un altro era adagiato accanto al corpo e un terzo era sistemato contro la spalliera del letto. Lo afferrò con mani tremanti, volse il capo da un lato e lo premette sul viso di lei, con tutta la forza che aveva. La donna non si mosse. Non lottò. Restò completamente inerte. Cominciò a contare, fino a cento, a duecento, le mani rigide che spingevano sul cuscino. A cinquecento mollò la presa, e in quel movimento le dita sfiorarono il collo della vecchia. Era gelato. Non aveva mai toccato una persona tanto anziana - la nonna era morta a settant'anni - e pensò che forse era normale essere così freddi a quell'età, quando l'impeto del sangue, il calore vitale, si raffreddano progressivamente. Risistemò il cuscino al suo posto e la scoprì. Rimase sorpreso nel constatare che era ancora vestita. Forse andava a dormire così conciata, non si denudava mai. Tirò fuori il lenzuolo da sotto le coperte e lo avvolse attorno al corpo. Ormai aveva un certa esperienza, i movimenti si erano fatti più sicuri, meno impacciati. Perfettamente calmo e rassegnato, non tremava più. Quella cosa andava fatta. Prima di avvolgere il lenzuolo intorno al capo, la guardò. Aveva gli occhi sbarrati, come Danila. Ma la ragazza aveva la pelle giovane e liscia, il corpo caldo. Quegli occhi, invece, acquosi, velati, erano sprofondati in una ragnatela di rughe. E la vecchia era gelida. Si rivelò molto più pesante di Danila, e ci mise parecchio a trascinarla su
per le scale, il corpo che urtava a ogni gradino. Temeva che la schiena ricominciasse a dolergli, ma non fu così. Una volta che ebbe portato il cadavere nel suo appartamento sì versò un bicchiere di gin, quindi scese di nuovo per sistemare il letto alla meno peggio per dare l'impressione che fosse stata lei a rifarlo. Ripose le scarpe dentro l'armadio, dove la confusione regnava sovrana. Lasciò la stanza come se lei fosse partita. Se gli investigatori glielo avessero domandato, avrebbe detto che aveva deciso di trascorrere la convalescenza da qualche parte. Mentre la trascinava per le scale l'idea che gli tornasse il mal di schiena l'aveva terrorizzato, invece stava benissimo. Forse i dolori l'avrebbero assalito di nuovo più tardi, come gli era già successo. Al processo intentatogli da Timothy Evans, Reggie aveva cercato di convincere la corte che non avrebbe potuto ucciderne la moglie perché le condizioni della sua schiena non erano tali da consentirgli di sollevarne il corpo. Io non subirò alcun processo, si ripeté convinto. Per questo mi devo liberare di lei. Scese al pianterreno e tolse i catenacci alla porta d'ingresso, nel caso la Winthrop o la Fordyce fossero arrivate la mattina presto. Se l'avessero trovata sprangata si sarebbero insospettite, e questa era l'ultima cosa che voleva. Quella casa di notte era un luogo spaventoso. Posti del genere dovrebbero abbatterli, pensò. A viverci troppo a lungo uno rischia di diventare matto. Dava l'impressione che si stesse sgretolando e marcendo, che il legno, la mobilia e i vecchi tappeti si disfacessero di ora in ora, minuto dopo minuto. Se si rimaneva in ascolto si potevano sentire i rumori prodotti dallo sfacelo, il rosicchiare delle tarme, gocciolii vari, frammenti e schegge di legno che si staccavano, ruggine e muffa che andavano riducendosi in polvere. Come aveva potuto pensare di vivere in un luogo simile? Perché aveva speso tutti quei soldi per ristrutturare il suo appartamento? Sul pianerottolo del primo piano incrociò Otto. Gli aveva dato da mangiare? Lei lo faceva sempre prima di andare a letto, e l'avrebbe fatto di certo anche la mattina, prima di partire per quel fantomatico viaggio. Andò in cucina per verificare, nel timore che le due vecchie trovassero la scodella vuota. O aveva già mangiato o la vecchia non gli aveva dato il cibo. Aprì una scatoletta e riempì la ciotola. «Ci metterei del veleno, se ne avessi» gli urlò contro. Otto scese le scale, e quando gli fu accanto Mix tentò di sferrargli un calcio. Il felino fece un balzo, sfoderò gli artigli e li affondò nella caviglia nuda. Mix diede un grido. Si toccò la parte lesa e la mano gli si riempì di sangue. Imprecando, si mise a scrutare attraverso il chiarore lunare per riu-
scire a scorgere quegli occhi fosforescenti, ma Otto si era dileguato senza aver toccato cibo. Mix si mosse, ma perdeva sangue. Una pallida luce filtrava ovunque, dalle tende scostate e dalle fessure sotto le porte, aloni e linee diffuse di lucori eburnei. Stillava dalla finestra del pianerottolo, penetrando sin nella stanza da letto della vecchia, che aveva lasciato socchiusa. Alzando la testa scorse il gatto che saliva lentamente la rampa di scale con le mattonelle. Una volta raggiunta la sommità, attraversò un'ampia pozza di luce e senza esitazione si infilò nel corridoio di sinistra. Quando anche Mix vi giunse, non gli riuscì di trovarlo. Quasi fosse un demone, era scomparso nella dimora dello spettro, e lui era troppo terrorizzato per andarlo a cercare. Gli avrebbe fatto comodo il sonnifero della vecchia, ma aveva paura di scendere. Era un sentimento irrazionale, certo, come quell'incubo tremendo che aveva avuto, nel quale, dopo un pesantissimo sonno di piombo, si risvegliava più stanco di prima con la polizia per casa, la porta d'ingresso abbattuta e la Fordyce che srotolava il lenzuolo in cui aveva avvolto il cadavere di Gwendolen. Doveva rimanere vigile, magari anche disteso a riposare, ma sveglio. Quella mattina aveva da sbrigare delle incombenze improrogabili. Queenie era stata invitata dalla famiglia Fordyce-Akwaa per il brunch, e questo l'aveva riempita di gioia, dato che la compagnia comprendeva oltre a Olive, la sorella, la nipote Hazel con i due figli, le rispettive mogli e i loro due bambini. Lei era quindi l'unica estranea. L'invito era stato esteso anche a Gwendolen, ma, come Olive aveva immaginato, l'anziana amica non lo aveva accettato, e forse per questo ci si era affrettati a invitare anche Queenie. Gwendolen aveva un carattere difficile, chiunque veniva a contatto con lei non tardava a scoprirlo, ma bisognava tener conto della sua età, dato che aveva dieci anni più della stessa Queenie, oltre che del fatto che non si era mai sposata. È risaputo che quando si rimane soli per tanti anni si finisce per sviluppare un certo egoismo. I modi sgarbati di Gwendolen e il suo carattere 'puntiglioso' erano spesso oggetto di discussione tra Queenie e Olive, che avevano comunque deciso di tollerare il suo comportamento e di non privarla della loro amicizia. Erano anche d'accordo che, date le sue condizioni di salute, non bisognava lasciarla sola troppo a lungo. Quella mattina toccava a Queenie fare un salto a St Blaise House, mentre Olive sarebbe passata nel pomeriggio, impegnata com'era nei preparativi del
brunch. Malgrado si fosse alzata abbastanza presto, Queenie si presentò da Gwendolen alle nove perché prima di andare da Olive aveva delle faccende da sbrigare. Per lei l'angosciosa questione di cosa indossare costituiva ancora un problema. Il vestito rosa o il tailleur pantalone bianco che con un colpo di fortuna aveva trovato della sua taglia? Probabilmente Gwendolen era ancora a letto. Queenie entrò annunciando la sua presenza con l'usuale 'Ihu hu', per evitare di spaventare l'amica. Come prima cosa entrò nel salotto. Sul tavolo c'erano ancora la bottiglia di Porto e i due bicchieri, con un sedimento color cremisi sul fondo. In cucina regnava la solita baraonda. Niente di insolito, quindi. Sapeva bene che la pulizia e l'ordine fatti da lei e Olive non sarebbero durati a lungo. La scodella di Otto era semivuota. Senza una ragione precisa, si sentì sollevata nel constatare che prima di andare a dormire Gwendolen aveva avuto l'energia di dare da mangiare al gatto. Purtroppo non poteva evitare di inerpicarsi per quelle scale. Almeno due volte, con ogni probabilità, perché sarebbe dovuta scendere a prepararle il tè. Oddio, questo poteva farlo subito. L'acqua nel vecchio bollitore dal bordo incrostato di nero e ricoperto di calcare all'interno ci mise un'eternità prima di giungere a ebollizione. Alla fine versò il tè nelle tazze, una per l'amica e una per sé, e lo zuccherò abbondantemente. Poggiò le tazze su un vassoio e cominciò la scalata. La stanza era vuota. Il letto era stato rifatto, anche se alla meno peggio, ma senza dubbio alla maniera di Gwendolen. Le tende erano tirate a metà, e l'aria era come sempre soffocante. Uscendo, sentì una voce dall'alto: «Salve.» Non era da lui salutarla, le venne subito da pensare. Come mai era diventato improvvisamente così affabile? «È lei, signor Cellini? Buon giorno. Per caso sa dov'è finita Gwendolen?» Mix la raggiunse. Aveva un aspetto orribile, la faccia smunta, gli occhi incavati, la pelle di un colorito cereo e sudaticcia, il ventre prominente sui jeans e i lacci delle scarpe da ginnastica sciolti. «È andata via» le rispose. «Ha detto che voleva prendersi un periodo di convalescenza, dalle parti di Cambridge, ospite di alcuni amici.» Per quanto le constava, le uniche amiche che Gwendolen avesse erano lei e Olive. Poi si ricordò che le aveva rivelato di aspettare una lettera da Cambridge - o da Oxford? -, quella che era convinta le avesse sottratto il signor Cellini. Possibile che avesse taciuto a lei e a Olive quella partenza?
Be', poteva essere. Era da Gwendolen comportarsi così. Poteva anche darsi che quegli amici l'avessero chiamata la sera prima. Ma perché andarsene così, su due piedi? Senza considerare le sue condizioni di salute... «Quando è partita?» «Saranno state le otto. Sono sceso a prendere la posta e l'ho trovata all'ingresso con le valigie pronte, che aspettava un taxi.» Non riusciva proprio a immaginarsi l'amica che chiamava un taxi, ma chi poteva dirlo? «Suppongo che le abbia lasciato il compito di dar da mangiare al gatto.» «Infatti, le ho promesso che ci avrei pensato io.» «E sa quando tornerà?» «Non me l'ha detto.» «Be', a questo punto è inutile che io rimanga qui, signor Cellini. Sono stata invitata per un brunch.» Queenie ne andava orgogliosa. Lei, una vedova assolutamente insignificante, che partecipava a una riunione di famiglia. «Con Olive e la nipote, la signora Akwaa.» Mix sgranò gli occhi. «Ci sarà anche la signorina Nash?» Che uomo ridicolo! Si ricordò le sciocchezze che aveva farfugliato a Nerissa il giorno che Gwendolen era uscita dall'ospedale. Evidentemente si era fissato di brutto e, come diceva il marito, era completamente cotto. «Purtroppo per noi, non ci sarà.» Queenie avvertiva sempre un certo fastidio quando un uomo manifestava apertamente delle preferenze per altre donne in sua presenza. Provò un piacere malizioso, che non le faceva onore, nel negare al signor Cellini anche solo la possibilità di mandarle una delle sue ridicole smancerie. «In questo periodo dell'anno fa sempre una gita con il padre, guarda caso fissata proprio per oggi. È una sorta di tradizione.» Si avviò giù per le scale e con sua sorpresa lui le andò dietro. «È venuta in macchina?» le chiese quando giunsero nell'ingresso. «Non posseggo un'automobile. Perché me lo domanda?» «Non importa. Pensavo che avrebbe potuto darmi un passaggio fino al Fai-da-te sulla North Circular.» Queenie, solitamente poco incline alla rudezza di modi che caratterizzava Gwendolen, per la prima volta non si preoccupò di esercitare il suo fascino su un uomo e si lasciò andare a un'acredine che le era sconosciuta: «Sono spiacente di deluderla. Le toccherà prendere l'autobus.» E, giunta alla porta, lo apostrofò in tono di avvertimento: «Io e Olive ci faremo vive. Andremo a fondo su questo misterioso viaggio di Gwendolen.»
25 Trovare un sacco di plastica sufficientemente ampio e resistente fu un'impresa più difficile del previsto. Nei negozi dove si era recato non avevano nulla di simile alla busta trovata nel magazzino della Fiterama perché era stato così stupido da tagliarla e gettare via la parte che non aveva utilizzato? Così dovette ripiegare su un coprimaterasso impermeabile. Per tutto il tempo durante il tragitto sull'autobus che lo portava a casa non smise di pensare al fetore emanato dal cadavere in decomposizione di Danila. Faceva di nuovo caldo, ben oltre i venti gradi. Questa volta non avrebbe potuto seppellire in giardino il corpo di Gwendolen. Mentre girava per il Fai-da-te alla ricerca del sacco, aveva avvertito un dolore lancinante, come delle stilettate che gli trafiggevano la schiena. Se avesse provato di nuovo a scavare in quella terra dura come il cemento si sarebbe procurato un'invalidità permanente. Il corpo della vecchia avvolto nel lenzuolo logoro giaceva nell'ingresso del suo appartamento. Una volta aperta la confezione, gli bastò un'occhiata per rendersi conto che non andava bene. Troppo sottile - a quel pensiero rabbrividì - e completamente trasparente. Si stavano riproponendo gli stessi problemi affrontati quando si era trattato di occultare il cadavere di Danila - anzi, persino più grandi, poiché le ricerche della Chawcer sarebbero cominciate subito. A quel punto non poteva far altro che aspettare il giorno successivo e mettersi a cercare un sacco più spesso e resistente. I dolori alla schiena avevano ripreso a tormentarlo. Non avrebbe dovuto caricarsi quel corpo così pesante per le scale. Ma aveva forse scelta? E, come se non bastasse, era probabile che avrebbe dovuto farlo ancora, se per caso non fosse riuscito a impedire che qualcuno entrasse nel suo appartamento. Senza considerare la caviglia infiammata per i graffi del gatto. La parte era gonfia e arrossata e aveva paura di beccarsi un'infezione, ma rispetto al pericolo incombente il dolore era ben poca cosa. Si fece coraggio e con sforzo immane trascinò il corpo nel soggiorno; lo abbandonò in un angolo e vi pose davanti un piccolo mobile bar. Ossessionato da quella presenza andò a rifugiarsi in cucina, quindi nella stanza da letto. Impossibile rilassarsi con un cadavere in casa, per quanto coperto e occultato in un cantuccio. In camera da letto si sentiva leggermente più tranquillo. Si distese e cominciò a esaminare la situazione. Domani trovo un sacco adeguato, ci infilo il corpo e lo nascondo sotto le assi del pavimento. E dopo sarà tutto finito, non dovrò più preoccuparmi di
niente. Nerissa era in gita con il padre, Tom. Unica femmina, la più piccola, Tom non avrebbe mai ammesso di amarla più dei figli maschi, ma era consapevole di volerle bene in modo diverso, sia perché aveva desiderato a lungo una femmina, sia per la sua somiglianza con lui, soprattutto nel colore della pelle, scura come la sua. Gli altri due figli avevano preso dalla madre, nella carnagione come nei tratti somatici. Erano entrambi alti e ben fatti, e riuscivano sempre in tutto ciò che intraprendevano: no, non poteva lamentarsene, ne andava anzi fiero, ma non li considerava membri della sua tribù - le cui donne erano celebri per la loro avvenenza -, cosa che invece avveniva per Nerissa e per l'anziana madre. Quindi, seguendo una tradizione familiare, aveva preso un giorno di ferie e insieme alla figlia si erano recati a trovare sua madre a Greenford, dove risiedeva in una casa di riposo. Come d'abitudine le avevano portato una pianta originaria dell'Africa e i migliori manghi che erano riusciti a trovare (purtroppo non quelli maturati al sole, con la polpa dorata piena di succo), e un mazzo di banksias del Capo, rosa, rosse e dorate, malgrado lei non fosse originaria di quella zona del continente africano. Non riuscirono a trovare regali più adatti. Durante il tragitto in automobile, Nerissa si annodò sul capo uno splendido turbante bianco, rosa e smeraldo, perché la nonna trovava che fosse un capo adeguato da indossare ogni volta che una donna usciva di casa. Mise anche un caftano verde brillante con il bordo color rubino. Sembrava proprio la moglie di un capo villaggio. Trascorse alcune ore spensierate insieme alla nonna, a bere e a mangiare le ghiottonerie che avevano portato. A dire il vero Nerissa, che evitava sempre di ingerire cibi troppo calorici, non toccò nulla, pur avendo una fame da lupi. Ma la giornata in compagnia del padre non era ancora finita. Dopo essere stati, come sempre, a trovare la nonna, ogni anno sceglievano un luogo da visitare. L'anno precedente si erano recati alla Barriera del Tamigi e al Museo Marittimo di Greenwich. Stavolta scelsero il palazzo di Hampton Court. Prima di entrare Nerissa si tolse il turbante, legò i capelli in una coda di cavallo e inforcò i suoi enormi occhiali da sole in modo da passare inosservata. Tenne invece il caftano. Era una giornata stupenda. Durante la visita al palazzo, nel corso della quale ammirarono ogni sorta di oggetti, Nerissa confessò al padre di essersi innamorata di Darel Jones.
«Ma tutto sommato non lo conosci bene, vero?» fu la prima reazione di Tom. «Credo di no. Non l'ho più rivisto da quella sera della cena, a casa sua. Mi sono resa conto di amarlo da anni, sin dai tempi in cui la sua famiglia si è trasferita accanto a noi.» «E lui ti ama, tesoro?» «Non penso, papà. Almeno, non per il momento. Altrimenti avrebbe fatto qualcosa. Per esempio mi avrebbe invitato a cena da sola.» Pranzarono in un ristorante italiano a Hampton, una scoperta di Tom, che in fatto di posti dove mangiar bene sbagliava di rado. Mentre gustavano lo zabaione - anche se Nerissa si lamentava che non sarebbe riuscita a finirlo - il padre le diede il suo parere: il fatto che Darel non le dedicasse l'attenzione che lei sperava non dipendeva dal suo aspetto o tantomeno dal suo carattere, dal momento che lei era una ragazza di rara bellezza e simpatia. «Potrebbe trattarsi di un caso analogo a quello del dottor Fell» osservò a un tratto. «Chi è il dottor Fell?» Tom recitò: «Io non ti amo, dottor Fell, La ragione dirti non so, Ma una cosa bene la so, Che non ti amo, dottor Fell.» «Spero che non sia così,» commentò Nerissa «altrimenti c'è poco da fare.» «L'amore è una faccenda assai strana. Tua madre era bellissima, e io la vedo ancora allo stesso modo, ma non saprei spiegarti perché me ne innamorai, e dio solo sa per quale ragione lei si innamorò di me. Tua nonna direbbe che un tempo le cose erano più semplici, quando il pretendente organizzava il matrimonio con i genitori della sposa e portava in dote un gregge di capre e qualche staio di frumento.» «Darel non saprebbe dove tenerle, le capre, e non credo proprio che sappia che farsene del frumento. Mi ha esortato a chiamarlo subito se quel tipo che mi segue mi avesse dato fastidio. A qualsiasi ora.» «C'è qualcuno che ti molesta?» si informò Tom, piuttosto ansioso. «Insomma, non proprio. È una settimana che non si fa vivo.» «Be', se chiami Darel prendi due piccioni con una fava.»
Nerissa ci rifletté su. «Sai, non è che muoia dalla voglia di rivedere quel tipo.» «Pensaci. Forse è proprio questo che vuoi.» Di prima mattina, Queenie e Olive si erano date appuntamento a St Blaise House. Erano entrambe indignate per l'atteggiamento di Gwendolen, sparita in quel modo senza neanche premurarsi di avvertirle. Erano sedute in salotto (avevano sistemato dei tovaglioli di carta sul divano per non riempirsi troppo di polvere) a bere caffè liofilizzato preparato da Olive e a gustare dei pasticcini portati da Queenie, poiché nessuna delle due avrebbe avuto il coraggio di toccare del cibo proveniente dalla cucina di Gwendolen. «Che stanza sudicia» si lamentò Olive. «Per la verità, tutta la casa è in queste condizioni.» Prima di versare il caffè aveva sterilizzato le tazze con acqua bollente e un disinfettante. «Be', cara, lo sappiamo bene, ma grazie a dio non viviamo qui. E se stai pensando di metterti a pulirla da cima a fondo approfittando dell'assenza di Gwendolen, ti dico subito che non sono d'accordo. Hai visto come l'ha presa quando abbiamo rassettato la cucina. Credo che sarebbe meglio farci gli affari nostri.» «Non riesco proprio a capire perché sia andata via. Da quando la conosco non si è mai allontanata da qui.» «Né ci ha mai detto di avere amici a Cambridge.» «Vero, ma forse il professore conosceva qualcuno laggiù. Perlomeno, è probabile.» «Sì, può essere,» convenne Queenie «ma perché non ce ne ha mai parlato? E poi lo sai bene anche tu, cara, che le persone della sua età - Gwendolen aveva dieci anni più di lei e dodici più di Olive - ci mettono secoli prima di decidersi ad allontanarsi per un periodo e a radunare le proprie cose. Ricordo che a mia madre, quando aveva un'ottantina d'anni, ci volevano due settimane buone per prepararsi, e in fondo andava solo da mio fratello. Si metteva lì a enumerare i pro e i contro fino al giorno della partenza. Meglio partire di mattina o di pomeriggio? Con che treno? Doveva chiedergli di andarla a prendere o l'avrebbe fatto di sua iniziativa? Insomma, cose simili. Gwendolen non si sarebbe comportata diversamente, anzi, forse anche peggio.» «Mah, chissà. Bevi, che il caffè si fredda.»
«Scusa, Olive, non ci riesco, sa di disinfettante. Credi che tenga una rubrica da qualche parte? Potremmo darle un'occhiata. Deve avere per forza annotato gli indirizzi dei suoi conoscenti.» Si misero alla ricerca, lasciandosi andare in continuazione a commenti sulle ragnatele e sulla sporcizia che in quel posto regnava sovrana, tirando fuori i libri dagli scaffali e spolverandoli, finché Mix non comparve nell'ingresso. Era sul punto di uscire per risolvere il problema del sacco quando erano arrivate le amiche di Gwendolen. Sulle prime aveva battuto in ritirata nel suo appartamento, poi s'era deciso ad affrontarle, soprattutto per farsi restituire le chiavi di casa. Proprio qualche attimo prima che entrasse in salotto Olive aveva trovato la vecchia rubrica di Gwendolen in un cassetto, tra pezzetti di carta, matite spuntate, fermagli, elastici, spine per la corrente ormai obsolete e una cinquantina di libretti di assegni di cui era rimasta solo la matrice. Stava consultando gli indirizzi alla lettera B quando lui entrò. «Ah, buon giorno, signor Cellini» lo accolse in tono poco cordiale. «'ngiorno.» «Ci stavamo per l'appunto chiedendo se per caso lei conoscesse il nome degli amici da cui si è recata Gwendolen.» «No, non me l'ha detto.» «Siamo in pensiero» intervenne Queenie. «Non è da lei andare via senza avvertire.» Gli rivolse uno di quei sorrisi che erano la sua arma vincente quando aveva diciotto anni, poggiandogli al contempo una mano sul braccio. Era pur sempre un uomo. «Siamo convinte che Gwendolen si fidi di lei.» Mix non replicò, e invece chiese: «Posso avere indietro le chiavi di casa?» «Quali chiavi?» ribatté Olive aspramente. «Quelle di casa. Non ne avete più bisogno adesso che lei sta bene.» «E chi l'ha detto? Dobbiamo venire a controllare che tutto sia in ordine durante la sua assenza. E comunque le restituirò solo alla signorina Chawcer. Sono stata chiara?» «Va bene, stia calma.» Si voltò per uscire e aggiunse mentre si allontanava: «Alla sua età arrabbiarsi fa male alla pressione.» Forse aveva esagerato, ma in ogni caso Olive non reagì. Non fece alcun commento nemmeno con Queenie, quando udì la porta d'ingresso chiudersi. Sedette sui tovagliolini disposti sul divano per controllare la rubrica. «Che razza di villano!» esclamò Queenie.
«Già. Senti, qui non c'è nessun indirizzo di Cambridge.» «Forse lo conosce a memoria, non aveva bisogno di appuntarlo.» «Alla sua età ci si scorda persino il proprio nome se non lo si scrive da qualche parte.» Richiuse la rubrica. «Che facciamo? Non possiamo far finta di niente. Domenica l'ho vista, e ti assicuro che non stava affatto bene. Aveva bisogno di restare a letto. E improvvisamente veniamo a sapere che è andata a Cambridge uscendo la mattina presto. In taxi, poi. Quando mai Gwendolen ha preso un taxi? Sempre ammesso che sia capace di chiamarlo.» «Sai che ti dico? Non mi fido per niente di quel Cellini.» «E allora perché fai così la svenevole con lui?» Avrebbe dovuto recarsi al Fai-da-te per trovare un sacco adatto per avvolgere il cadavere, ma aveva paura di uscire mentre quelle vecchie streghe stavano rovistando per tutta casa. E se la Chawcer teneva una chiave del suo appartamento? Per quanto ne sapeva, in sua assenza non vi si era mai introdotta. D'altra parte, non gli aveva mai detto di averla, né a lui era mai passato per la testa di chiederglielo. Ma se c'era l'avrebbero trovata. Non poteva correre il rischio di lasciare il campo incustodito. Uscì sul pianerottolo e sedette sull'ultimo scalino, in ascolto. Non erano più in salotto. Ne sentiva il gracchiare stridulo, sembravano rapaci, corvi, o meglio quella specie di uccellacci che si vedono ai bordi delle autostrade e si nutrono di carcasse di animali morti. Già, carcasse. La parola gli evocò il cadavere che aveva in casa, malamente mimetizzato dietro il mobiletto in cui teneva gli alcolici, a pochi passi da lì. Faceva piuttosto caldo. Non poteva dimenticare ciò che era accaduto al corpo di Danila a causa delle temperature elevate. Si alzò e aprì tutte le finestre per arieggiare l'ambiente. Adesso dovevano trovarsi in cucina. Scese furtivo al piano inferiore, la schiena trafitta da spasmi di dolore. Da lì le sentiva muoversi rumorosamente in cucina e nella stanza del bucato. Cosa stavano cercando? Poi tornarono nell'ingresso, costringendolo a risalire fino al pianerottolo superiore, anche se difficilmente avrebbero potuto scorgerlo o avvertirne la presenza. S'erano avviate per le scale, a passo lento; si fermavano spesso a riprendere fiato, ansimanti. Se le figurò aggrappate al corrimano, gradino dopo gradino. Ovviamente si stavano dirigendo nella camera da letto della vecchia, e questo lo spaventava. Acquattato sul pianerottolo, sporse il capo e attraverso la ringhiera le vide entrare nella stanza. Fortunatamente ave-
vano lasciato la porta aperta. Si aggiravano senza posa, spostando sedie e soprammobili. Le sentì tossire, e non c'era da meravigliarsene con tutta la polvere che doveva esserci. Non gli piaceva per niente che ficcassero troppo il naso lì dentro. Dopo averla uccisa non aveva avuto il sangue freddo e l'accortezza di controllare se avesse lasciato tracce dietro di sé. Fu allora che ricordò di aver preso dal letto il lenzuolo con cui aveva avvolto il corpo. Avvertì un'improvvisa vampata di calore in tutto il corpo. A quelle streghe un dettaglio del genere non sarebbe certo sfuggito. Cominciò a tremare, senza riuscire a controllare il convulso fremito delle mani. Vennero fuori una decina di minuti dopo, e mentre scendevano le scale udì la Fordyce che diceva: «Ho la sensazione che ci sfugga qualcosa, Queenie. Forse è solo un'impressione.» «Ho anch'io la stessa sensazione, cara. Qui c'è qualcosa di poco chiaro. Se solo riuscissimo a capire di che si tratta scopriremmo dov'è e cosa sta facendo.» «Be', forse non fino a questo punto.» Non gli riuscì di ascoltare altro. Ormai erano giù nell'ingresso, e non gli giungeva altro che un mormorio indistinto. Poi sentì chiudersi la porta. Mentre si infilava il soprabito, Queenie fece un commento sul caldo innaturale per la stagione. «È colpa del riscaldamento del pianeta» le spiegò Olive. «Questione di tempo, e la terra brucerà tutta. Meno male che noi non ci saremo.» «Non ti pare di essere un tantino macabra, mia cara?» «Realista, direi. Sto pensando a quel lenzuolo che manca. Gwen è così stravagante; chissà se dorme solo con la coperta e il piumino.» «Oh, no, cara. Voglio dire, sono d'accordo con te che sia stravagante, ma non fino al punto da non mettere il lenzuolo sotto la coperta, anche perché so per certo che lo usava. Ricordo perfettamente di averlo visto, quando sono entrata nella sua stanza prima che si ricoverasse. Era piuttosto sporco, tanto per cambiare.» «E allora che fine ha fatto?» si domandò Olive chiudendosi la porta d'ingresso alle spalle. Quindi si allontanarono lungo St Blaise Avenue. Fu solo a metà pomeriggio che Mix riuscì a trovare un sacco di plastica sufficientemente ampio e robusto. Dopo una breve tregua, le fitte alla schiena erano tornate a tormentarlo, e in più era subentrato anche un fastidioso prurito lungo le vertebre, come se fossero scorticate da aghi incande-
scenti. Una volta risolto il problema principale che lo aveva costretto a uscire, aveva pensato di fare un salto all'ufficio di collocamento, ma riusciva a stento a camminare in posizione eretta, e per quanto fosse leggero anche il peso del sacco peggiorava la situazione. Se si fosse presentato in quello stato gli avrebbero fatto compilare la domanda per ottenere il sussidio di invalidità. Di questo passo sarebbe andata così... Di nuovo a casa, si tirò su con un'abbondante dose di Boot Camp - aveva terminato il gin - e si preparò ad aprire il lenzuolo per avvolgere il corpo nel sacco. Si avvicinò carponi, e quando fece per alzarsi aggrappandosi al mobiletto degli alcolici si rese conto che non ce l'avrebbe mai fatta a spostare nemmeno un peso minimo come quello senza incorrere nel rischio di procurarsi un infortunio permanente alla schiena. D'altra parte non c'era altro modo di tirare fuori il corpo da lì dietro, perché gli spigoli posteriori del mobiletto s'incastravano perfettamente nell'angolo retto formato dalle pareti. Fu preso dal panico. Si mise a piangere, battendo i pugni contro il pavimento per sfogarsi. Dopo un po' riuscì a riacquistare la calma. Strisciò a quattro zampe in cucina e, sollevandosi con grande sforzo, ingollò quattro compresse di analgesico e quel che restava del Boot Camp. Dopo qualche ora Olive fece ritorno a St Blaise House in compagnia di Hazel Akwaa. Aveva bisogno del sostegno di una persona più giovane. Quando uscirono in giardino, il sole stava tramontando e una luce cremisi imporporava il cielo in direzione di Shepard's Bush e di Acton. Al di là del muro, dove le lampadine accese sulla palma rivaleggiavano con la luminosità del tramonto, il signor Singh gettava manciate di granturco alle oche. «Buona sera, signore» le salutò con squisita cortesia. «Che bell'albero» commentò Hazel. «È incantevole.» «Grazie, lei è molto gentile. Non abbiamo un giardiniere, e così mia moglie e io abbiamo pensato di abbellire il giardino. Come sta la signorina Chawcer?» «Pare che sia andata a passare la convalescenza da amici.» «In campagna, spero. Le farà bene.» Olive si stava guardando intorno in cerca di Otto. «Per caso ha visto il gatto? È dall'altro ieri che è sparito.» «Ora che mi ci fa pensare non l'ho visto nemmeno io» rispose il signor Singh. «Anche se, a essere sincero, la cosa non mi dispiace. È un predatore talmente vorace che temo sempre che le mie oche possano fare la fine delle
faraone.» Dopo aver gettato un'ultima manciata di granturco, salutò le due donne con un breve inchino e tornò in casa, seguito dallo starnazzare delle oche intente a divorare gli ultimi chicchi. «Guarda qui» disse Hazel. «Non ti sembra che qualcuno abbia scavato in questo punto?» «Hai un'immaginazione troppo fervida, Hazel.» «Forse perché ogni volta che mi trovo a passare da queste parti mi viene sempre in mente quell'assassino, Christie. Viveva a un tiro di schioppo da qui. Ero troppo piccola quando lo arrestarono, ma da bambini andavamo a vedere la sua casa.» «Me la ricordo bene» disse Olive. «Inizialmente le avevano cambiato nome, poi l'hanno abbattuta. Credo sia l'unico caso in cui abbiano demolito la casa di un assassino.» «Un po' come fecero i romani con Cartagine. Tom mi ha raccontato che prima la rasero al suolo e poi ararono il terreno. Christie aveva sepolto parecchie donne nel suo giardino.» «Be', nessuno ha sepolto Gwendolen. Il terreno qui è stato arato un mucchio di tempo fa. Lo vedi che stanno crescendo i cardi? Piuttosto mi chiedo dove sia andato a finire il gatto. Checché ne dica, Gwendolen gli si è affezionata, e se quando torna da dove si trova non lo dovesse trovare, è facile indovinare con chi se la prenderà.» Passarono davanti casa e si allontanarono lentamente in quel tramonto incredibilmente luminoso per la stagione, perlustrando la strada, col timore di trovare la carcassa di Otto in qualche cunetta. Forse a causa delle pillole, degli alcolici o di entrambi, Mix si svegliò in preda alle vertigini. Il dolore alla schiena si era attenuato, ma per esperienza sapeva che prima o poi si sarebbe ripresentato. Quando si era steso sul letto, a occhi chiusi, aveva avuto la fastidiosa impressione che gli fosse sfuggito qualcosa di vitale importanza. Quel pensiero molesto non gli dava requie, ma con il sonno si era dileguato. Adesso che le vertigini stavano scemando, cominciava a vederci chiaro. Capì di cosa si trattava, e si meravigliò di non averci pensato subito. Quando la Winthrop gli aveva chiesto se la Chawcer si fosse confidata con lui, gli aveva sfiorato il braccio con la mano. Era calda, né più né meno di lui. Avrebbe dovuto comprendere all'istante, e non solo dopo tutto quel tempo, che la temperatura corporea degli anziani è la stessa di quella
dei giovani. Quindi la vecchia era gelida perché era già morta. Era morta prima che entrasse nella stanza, prima che la guardasse, che la toccasse. Ecco perché aveva la pelle ghiacciata, e non aveva lottato quando le aveva premuto il cuscino sulla faccia. Il sudore cominciò a scorrergli copioso sul viso e sui palmi delle mani, e contemporaneamente avvertì un brivido gelido. Aveva ucciso una donna già morta. Era una cosa orribile, oltre che stupida. Aveva ucciso una persona già morta. In un certo senso aveva agito come Reggie. Non c'era da meravigliarsi che il suo spettro si fosse mostrato solidale con luì. Naturalmente non aveva fatto ciò che faceva lui - a quel pensiero orrendo si mise a sudare ancora di più. Comunque non poteva negare che c'erano degli elementi in comune. Si trovava forse sotto l'influenza di Reggie, in quei momenti? Era stato il suo fantasma a guidare le sue azioni? Si alzò in piedi e attraversò la stanza fino all'angolo in cui era steso il cadavere. Poggiò le mani sul mobiletto e si sporse. Se se ne fosse reso conto prima, a una semplice osservazione o toccandola, avrebbe potuto lasciarla lì dov'era. Ormai non poteva più avvertire la polizia. Era già morta. Invece, le aveva premuto il cuscino sul viso e aveva contato fino a cinquecento. Poi aveva strappato via il lenzuolo dal letto e vi aveva avvolto il cadavere di una donna morta già da ore. Sì, se il corpo era così freddo dovevano essere passate diverse ore. Era spacciato. Chi avrebbe mai creduto a un decesso per cause naturali? Aveva rimosso il corpo e l'aveva occultato, aveva sottratto un lenzuolo, forse avrebbero rinvenuto tracce del suo DNA - non era ferrato in materia sul cadavere, aveva mentito a quelle due vecchiacce inventandosi la storia della partenza col taxi. La polizia sarebbe stata in grado di accertare che non si era trattato di omicidio? O forse avrebbe potuto farlo il medico legale? Non poteva rischiare. Qualunque conseguenza avesse riportato la sua schiena, se anche avesse rischiato di rimanere zoppo, doveva avvolgerla nel sacco e nasconderla sotto il pavimento. Quella notte stessa. La caviglia non gli aveva mai fatto così male; pulsava dolorosamente sotto la pelle arrossata e tesa. 26 La stanza era immersa nel buio, come l'interno di una scatola chiusa. Per un attimo temette di dover rimandare ciò che si era rivelato ormai indifferibile al giorno dopo, quando intorno alle sei e mezzo avrebbe albeggiato,
ma gli occhi si abituarono presto all'oscurità. Il cielo fuori dalla finestra appariva luminoso e trasparente, malgrado fosse una notte senza luna. Anche dopo che ebbe spento la torcia continuò a filtrare un chiarore sufficiente. Chiuse la porta dietro di sé, si chinò e cominciò il suo lavoro, imponendosi di non pensare allo spettro, di cancellarlo dalla mente, altrimenti il terrore l'avrebbe paralizzato. Quando ebbe terminato si assicurò di aver fissato bene le assi, in modo che combaciassero perfettamente, senza nessuna sporgenza. Aveva sigillato il cadavere di Gwendolen nel robusto sacco di plastica appositamente comprato, assicurandolo con il filo di ferro e con la colla. Per tutto il tempo la schiena gli aveva dato fastidio, a tratti percorsa da un dolore continuo, quasi che qualcuno lo stesse tormentando con degli strumenti di tortura. La sofferenza era tale che in certi momenti s'era dovuto fermare, riuscendo a trovare un minimo sollievo solo completamente rannicchiato, col mento sulle ginocchia e le mani premute sulla spina dorsale. Adesso che si era sbarazzato del cadavere si sentiva enormemente sollevato. Immaginò che lui o qualcun altro l'avessero completamente distratto, bruciandolo o dissolvendolo per mezzo di qualche procedimento chimico, o che lei non fosse mai morta, ma si trovasse nascosta in un luogo irraggiungibile dalla polizia, lontano da quella casa. Ripose gli attrezzi, la colla, il filo di ferro. Nell'oscurità la stanza da letto appariva quella di sempre, con la vecchia lampada a gas, lo smilzo comò con sopra quello specchio grottesco, il nudo telaio del letto, la finestra che non si apriva. Dal soffitto pendevano le ragnatele e il davanzale era ricoperto di polvere. Era l'ora in cui la Westway era avvolta dalla quiete più assoluta, i flutti e i sospiri finalmente placatisi. Gli sembrava di essersi liberato da un peso enorme. La schiena gli doleva ancora, la caviglia pulsava come sempre ed era esausto, ma era persuaso che i suoi guai erano ormai finiti. Durante tutto il tempo che gli ci era voluto per occultare il cadavere, era riuscito a tenere lontana la paura dello spettro, ma adesso, sul pianerottolo, lo riassalì. Al sicuro nel suo appartamento, cercò di rilassarsi leggendo, per conciliare il sonno, uno dei libri su Christie che ancora non aveva aperto malgrado l'avesse comprato da settimane. Si sdraiò sul letto e cominciò a sfogliare le pagine di L'uomo che fece piangere un giudice, soffermandosi sulle intestazioni dei capitoli e dando un'occhiata alle fotografie, ma fu assalito dal timore di aver lasciato dietro di sé qualche prova che lo avrebbe inchiodato. Del resto, il libro che aveva tra le mani era lì a testimoniare la sorte che lo attendeva se fosse sta-
to scoperto. Non la stessa di Christie, certo, perché a quell'epoca era ancora in vigore la pena di morte, ma comunque un destino da non augurare a nessuno. Fu a quel punto che si rese conto che si stava riferendo a Reggie chiamandolo per cognome. Dentro di lui riecheggiava in continuazione la frase: ho ucciso una donna morta, ho ucciso una donna morta. Nel tentativo di distogliere la mente da quel pensiero ossessivo si concentrò sul problema ancora irrisolto: da chi poteva essersi plausibilmente recata Gwendolen? Nessuno era in grado di provare che non fosse partita, o dove fosse andata. Quelle due vecchie si sarebbero presto stancate di giocare al detective. A parte lui, la casa sarebbe stata deserta e in assenza della Chawcer non avrebbe dovuto pagare l'affitto. Sarebbe rimasto lì finché non fosse entrato nelle grazie di Nerissa. Non sembravano esserci impedimenti al suo piano. Nerissa era sempre stata carina con lui, probabilmente lo stava aspettando, forse era rimasta persino delusa perché non si era più fatto vivo e temeva che l'avesse lasciata perdere. Sarebbe andato a Campden Hill Square quel giorno stesso. Al solo pensiero si tranquillizzò. Erano le due di notte. Si spalmò sulla schiena un preparato antinfiammatorio consigliatogli dal farmacista, e subito avvertì il calore che si propagava sulla parte. Prese anche due compresse di analgesico, si svestì e si sdraiò di nuovo sul letto. Ma fu allora che quelle parole lo riassalirono beffarde: Ho ucciso una donna già morta. Sebbene la sera della festa di Darel avesse deciso di non rivolgersi mai più a una chiromante, convinta che fossero tutte sciocchezze e che non ci sarebbe più cascata - dicono tutti così -, Nerissa tornò da Madam Shoshana. Per l'ultima volta, questo era poco ma sicuro, perché era comunque curiosa di conoscere la sua opinione in merito alle possibilità che Darel le chiedesse di mettersi insieme. Prima di uscire lasciò in ordine la stanza da letto. Gettò nel cestino dei rifiuti fazzolettini usati e batuffoli di cotone idrofilo, raccolse e depose gli indumenti sporchi nel cesto per la biancheria, tolse persino la coperta per arieggiare le lenzuola, prima che Lynette rifacesse il letto. Il piano inferiore era già tutto in ordine. Era stato un compito ingrato da cui era uscita completamente spossata, ma mentre sistemava i bicchieri sporchi nel lavandino aveva pensato all'impressione favorevole che Darel ne avrebbe ricavato quando fosse venuto a trovarla: non avrebbe potuto fare a meno di pensare che lei sarebbe stata un'ottima fidanzata, anzi, una moglie ideale.
Accantonati una volta e per sempre Johnny Cash e la canzone sulla ragazza innamorata del giovane della porta accanto, adesso aveva preso ad ascoltare Dvorak. Sul tavolino del soggiorno erano poggiati due libri di Hatchard appena acquistati, il primo sulla politica europea durante il periodo della guerra fredda, l'altro dal titolo Prove contro l'occulto. Nel frattempo aveva fatto piazza pulita degli altri volumi della sua biblioteca: se solo fosse venuto avrebbe potuto constatare in che ambiente evoluto, persino intellettuale, lei vivesse! Mentre guidava per Westbourne Grove le si riaffacciò la paura di incontrare Mix Cellini sulle scale del Beauty Center. S'era messa un paio di jeans comodi e una felpa grigia proprio per non attirare l'attenzione, evitando persino di truccarsi il viso. Comunque, era ben consapevole che il trucco non migliora l'aspetto di una ragazza di colore avvenente come lei. Anzi, a detta del padre stava meglio senza. Non le restava altro che sperare che Cellini non fosse lì, a qualsiasi titolo si occupasse degli attrezzi della palestra. Se proprio doveva incontrarlo, meglio di fronte a casa, dove avrebbe avuto una buona ragione per chiamare Darel. Arrivò davanti alla porta di Shoshana senza incontrare nessuno. Bussò, e per la prima volta la chiromante le disse di mettersi seduta e di aspettare. In effetti, sbirciando l'orologio, si rese conto di essere in anticipo di un paio di minuti. Imparare a essere puntuale era parte del programma che si era imposta per piacere a Darel. Sul minuscolo pianerottolo non c'erano sedie; rimase in piedi a pensare a Darel, al lavoro che le avevano offerto per il lancio della campagna pubblicitaria 'Nuovo volto per il 2004', a un servizio fotografico propostole da Vogue e ai libri che Darel avrebbe gradito che lei leggesse, finché non si sentì chiamare dalla voce bassa e penetrante di Shoshana: «Entri.» L'aveva fatta aspettare perché, contrariamente al solito, la ragazza era in anticipo, e lei era indaffarata con la fattura di Ecate contro la schiena di Cellini. Era la seconda volta che vi si dedicava, e aveva deciso che per il momento poteva bastare. Non certo perché provasse pietà per quell'uomo, ma perché non sopportava gli sprechi. La fattura funzionava fino a un massimo di quattro rituali, quindi aveva deciso di conservare i due rimanenti per qualche cliente che in futuro avesse meritato lo stesso trattamento. Dopo tutto, avrebbe dovuto pagarla. Ecate non si era ancora fatta sentire, ma questo non significava che non avrebbe battuto cassa. Quella fattucchiera era un po' come quei medici e quei dentisti di gran fama che spediscono gli onorari mesi dopo la fine del trattamento, quando l'hai bello che
dimenticato, facendoti venire un colpo. Il tavolo era ancora ingombro di tutto l'armamentario richiesto dalla fattura. Non proprio occhi di salamandra e code di rospo, ma diversi contenitori di acqua distillata, una fiala di acido solforico e una di urina di donna incinta - non era stato facile trovarla, ma Kayleigh, che ora viveva con Abbas Reza e aspettava un bambino, era stata ben lieta di esserle utile -, un barattolo di bicarbonato di sodio e una boccetta di inchiostro verde. Non che fossero tutti riutilizzabili; Cellini aveva già sofferto di mal di schiena per due settimane; doveva gettare l'urina, rimettere a posto nella credenza il bicarbonato, l'acido solforico nella bottiglietta verde smerigliata, e tutto prima dell'ingresso della ragazza, che sul tavolo avrebbe invece trovato le solite pietre. Nerissa avvertiva sempre una certa soggezione al cospetto di Madam Shoshana. Ne aveva anzi quasi paura, non sopportava la statua del mago né la civetta e trovava ripugnante la sporcizia di quella stanza. La stessa Shoshana, poi, era di una laidezza da far rabbrividire. Quel giorno indossava una lunga veste ornata di piume, grigiobluastra, e un pennacchio nero. Aveva l'aspetto di un malefico uccello rapace, con le mani come artigli che si muovevano misteriosamente sul cerchio delle pietre. «Quando abbiamo finito posso chiederle una cosa?» esordì Nerissa con voce esitante, mentre poneva le mani all'interno del cerchio. «Perché non chiederlo alle pietre? Da quali si sente attratta?» Ben sapendo che, qualunque cosa avesse risposto, Shoshana l'avrebbe contraddetta, Nerissa citò i primi colori che le vennero in mente: «La gialla e la malva.» «Crede? Non si sta concentrando abbastanza. Vedo distintamente che oggi lei è attratta dalla cornalina rosso sangue e dal quarzo rosa pallido. Chieda quel che ha da chiedere alla cornalina.» «Va bene.» Gli ospiti alla festa di Darel avrebbero riso nel vederla domandare stupidamente l'opinione di una pietra. Eppure, arrossendo, pose il quesito che le stava a cuore: «C'è un uomo» cominciò, e finì per balbettare. Si schiarì la voce e provò di nuovo: «Voglio sapere se un uomo che ho appena conosciuto... si innamorerà mai di me.» Come sempre, il cristallo rosso scuro non rispose. Poco ci mancò che Nerissa, finalmente sollevata ora che era riuscita a esprimersi, scoppiasse a ridere all'idea che le pietre si mettessero a parlare. Certo, ci sarebbe poco da ridere se parlassero davvero, rifletté poi. Naturalmente fu Shoshana a interpretare il responso delle pietre, e ciò che proferì le fece passare defini-
tivamente la voglia di ridere. «Dovrai convocarlo. Chiamalo e lui verrà. E quando sarà da te, tutto dipenderà da quel che gli dirai. Il tuo destino è nelle tue parole - per il resto dei tuoi giorni.» A quel punto alzò lo sguardo a cercare gli occhi di Nerissa. «È tutto. La cornalina ha parlato.» Pagò le cinquanta sterline - Shoshana aveva aumentato la tariffa - e si avviò per le scale, sempre un po' timorosa di incontrare Mix. Ma l'unica persona che incrociò, ferma in attesa che lei scendesse al piano inferiore perché la rampa era troppo stretta per due persone, fu una donna, la cliente successiva di Madam Shoshana. Mix si svegliò con la schiena lievemente dolorante e intorpidita; per fortuna, i graffi sulla caviglia si stavano cicatrizzando. Non fosse stato per un incubo, avrebbe dormito anche bene. Si fece la doccia, si lavò i capelli e si vestì accuratamente, con una sensazione di maggior benessere rispetto agli ultimi giorni, malgrado non riuscisse a scacciare via dalla mente il brutto sogno. Aveva sognato di andare a Norfolk, per uccidere Javy. Durante tutta l'infanzia e l'adolescenza era stata una fantasia ricorrente, ma ormai erano anni che non ci pensava più. Il patrigno aveva abbandonato sua madre quando lui aveva quattordici anni, per andare a convivere con un'altra donna dalle parti di King's Lynn. Quel sogno aveva ridestato in lui il desiderio di ucciderlo poco a poco, per guardarlo soffrire tra gli spasmi dell'agonia, e adesso che era completamente sveglio non trovava niente di insensato o di irragionevole in quell'idea. Dopo tutto aveva già ucciso due volte senza problemi, e non c'era ragione per cui non potesse tornare a farlo. Christie non ci avrebbe visto nulla di strano, per lui sarebbe stata ordinaria amministrazione. Javy se lo meritava ben più di quelle due donne, la giovane e la vecchia. Era inutile arrivare a Campden Hill Square prima delle dieci. Era una splendida giornata, il cielo era limpido e sereno e le previsioni alla TV, che aveva acceso mentre faceva colazione, parlavano di una giornata di sole con minime probabilità di scrosci. Davanti a sé aveva la piacevole prospettiva di una bella passeggiata, e di quel che ne sarebbe seguito... Aveva escogitato un piano per entrare in casa di Nerissa; a quello scopo si era portato dietro una cartellina arancione che usava ai tempi della ditta, piena di dépliant elettorali che, per chissà quale ragione, non aveva gettato, e due penne a sfera. Alle nove e venti era pronto per uscire, quando sentì aprire e chiudere la porta dell'ingresso principale e qualcuno che entrava.
Naturalmente doveva essere la Winthrop, e se non lei, l'altra vecchiaccia. Erano come gli autobus, tra poco sarebbe arrivato il successivo. Avrebbe dovuto farsi consegnare le chiavi, con le buone o con le cattive. Chissà che trambusto sarebbe scoppiato! Sulle prime si irrigidì, in preda alla paura, ma poi si rassicurò, perché ormai non aveva nulla da temere. Aveva occultato il cadavere della vecchia, ormai invisibile come se fosse davvero andata a Cambridge. Era un nascondiglio formidabile, nessuno l'avrebbe scoperto. Scese nell'ingresso e salutò la Winthrop: «'ngiorno», aggiungendo, mentre apriva la porta: «Splendida giornata, eh?» Nei pressi del cancello incrociò la Fordyce, che apostrofò villanamente: «Un'altra gita del collegio femminile?» Olive gli passò davanti senza degnarlo di uno sguardo. Le due amiche passarono un bel po' di tempo a lagnarsi, indignate di quel comportamento, dicendogliene di tutti i colori. Quindi sedette nei pressi della portafinestra del salotto davanti a due tazze di caffelatte, che Queenie aveva portato da casa, con una spolverata di cioccolata e una fetta a testa di torta ripiena di pasta di mandorle e mele, pronte a tenere consiglio sulle iniziative da prendere per rintracciare Gwendolen. Non era stato facile aprire quelle finestre. I chiavistelli erano inceppati e Olive aveva dovuto oliarli, ma alla fine era riuscita a disincastrare le due porte a vetri. Una cinquantina di ragni, insieme alle ragnatele accumulatesi in un quarto di secolo, ricoprirono il pavimento. Saltò fuori anche quello che aveva tutta l'aria di essere un vecchissimo e da tempo abbandonato nido di rondine, disseminando ovunque fango, ramoscelli e frammenti di gusci d'uova. «Come si fa a vivere in queste condizioni!» esclamò Olive. Non era la prima volta che si lasciava andare a commenti di quel tipo. Queenie scrollò visibilmente le spalle. «Sì, è tremendo. Comunque, cara, siamo qui per decidere il da farsi. Se dobbiamo credere a quell'uomo, lunedì mattina, cioè due giorni fa, Gwen è salita su un taxi per andare a prendere il treno per Cambridge. Supponiamo che si sia inventato la storia del treno e di Cambridge, che lei sia uscita solo per fare due passi e si sia sentita male, e adesso sia ricoverata da qualche parte. Chi lo sarebbe venuto a sapere? E del resto, chi avrebbero potuto avvertire?» «D'accordo, ma perché inventarsi una storia del genere?» «Chi può dire cosa passa per la testa di un individuo simile? Forse ha in mente di buttarla fuori e di prendere possesso della casa, in un modo o nell'altro. Si sentono in continuazione storie di inquilini senza scrupoli che
fanno queste vigliaccate alle vecchiette che gli hanno affittato casa, e lui ne è proprio il tipo.» La più pratica Olive suggerì di chiamare gli ospedali. «Sì, cara, ma quali? Ce ne saranno centinaia in tutta Londra. Be', per lo meno dozzine. Da dove cominciamo?» «Da quelli nei dintorni. Se è uscita per fare due passi, come dici - anche se a me sembra improbabile - non può essere andata lontano. Quindi il St Charles dietro l'angolo o il St Mary's Paddington, no? Appena finisco il caffè chiamo il St Charles. Oh, Queenie, guarda cosa ho trovato, qui, in mezzo ai cuscini! Non è quel perizoma per cui la povera Gwen aveva montato su tutta quella storia?» «Che strano. Uhm, meglio chiudere le finestre se non vogliamo che la casa si riempia di mosche.» Prima di uscire di casa si era tirato su con due bicchieri di vodka di gradazione piuttosto alta, liscia, allungata solo con un paio di cubetti di ghiaccio. Attraversò Oxford Gardens e prese per Ladbroke Grove. Ora che il dolore alla schiena era finalmente passato, aveva riacquistato la sua baldanza. A ricordargli le sofferenze patite erano rimaste solo sporadiche, lievi fitte. Nel tragitto passò davanti all'abitazione dove Danila aveva la stanza in affitto. Che stupido, si rimproverò, a preoccuparsi in modo eccessivo di lei. Era andato tutto per il meglio. Da qualche parte aveva letto che la maggior parte degli eventi che si temono non si verificano. Era proprio così. Kayleigh era affacciata alla finestra dell'appartamento che ora divideva con Abbas Reza, al primo piano. Alberi ancora carichi di foglie si susseguivano su entrambi i lati della strada, ma di fronte a quella palazzina ne era stato abbattuto uno, così che dai balconi si aveva una buona visuale della strada. Avevano deciso di pranzare fuori, in qualche locale lungo il fiume. Kayleigh doveva iniziare il turno in palestra alle quattro del pomeriggio, e in quel momento stava controllando il cielo per capire se era probabile che venisse a piovere. Lei non si prendeva la briga di portarsi dietro impermeabili o ombrelli, ma Abbas, più grande di lei, era previdente. Lo chiamò fuori. «Non so cosa siano quelle macchie sulla finestra, Abby, ma non mi sembra pioggia. Vieni un po' a vedere.» Abbas uscì sul terrazzo, le cinse la vita con un braccio e guardò verso il basso. Proprio in quel momento, in direzione di Ladbroke Grove, stava passando un uomo vestito con indumenti di tipo sportivo elegante. «Eccolo lui!»
Qualsiasi inglese con un minimo di istruzione avrebbe riconosciuto in Abbas uno straniero, per il suo modo di esprimersi sgrammaticato. Kayleigh lo corresse. «Lui chi, Abby?» «Quell'uomo appena passato era quello che ho incontrato sulle scale, quello che era stato dalla signorina Kovic.» «Stai scherzando?» «Oh, no, non ti sto prendendo in giro, Kayleigh. È il fidanzato che tutti stanno cercando.» «Ne sei sicuro? Assolutamente sicuro? Perché se è così bisogna avvertire la polizia. Allora, sei proprio sicuro?» «Be', se la metti su questo piano no, non potrei giurare che è lui. Lasciami pensare. Dovrei vederlo da vicino. Se lo seguo, subito...» «No, Abby, non lo fare. Hai dimenticato che dobbiamo uscire? E se ti avvicini troppo arresteranno te, non lui.» Non arrivarono autobus, così Mix proseguì a piedi per Ladbroke Grove e attraversò Holland Park Avenue per giungere fin sotto l'abitazione di Nerissa. La sua auto non si vedeva. Era uscita o l'aveva messa in garage? Ti prego, fa' che sia in casa, pensò innalzando la sua preghiera a una qualche divinità in cui nemmeno credeva, e che, come oscuramente intuiva, non l'avrebbe aiutato a sfuggire al castigo, ma a diventare l'amante di Nerissa. Una divinità, o magari un angelo custode, avrebbero potuto esaudire quel desiderio. Mentre percorreva il vialetto di un'abitazione attigua a quella di Nerissa, la cartellina arancione ben in evidenza, la Jaguar apparve sulla collina e imboccò il vialetto. Non l'aveva visto perché era nascosto da un grosso cespuglio di bacche rosse. Mix suonò alla porta. Gli aprì una donna con un vestito a strisce e un vistoso paio di occhiali con la montatura nera, a cui cominciò a illustrare i pregi del sistema elettorale proporzionale. Come sempre faceva, nel risalire la collina Nerissa controllava se nei paraggi fosse parcheggiata la Honda blu. Fortunatamente non c'era. Non lo vedeva da... be', dovevano essere due settimane. Ci aveva rinunciato, e questo, purtroppo, la privava della scusa per chiamare Darel. Pur avendo fatto la doccia prima di recarsi da Madam Shoshana, si sentiva addosso tutto il sudiciume di quel posto - be', la parola giusta era 'topaia'. Ma aveva un appuntamento per l'ora di pranzo con l'inviata di Vogue, e le rimaneva poco tempo per prepararsi. Così, quando Mix suonò alla porta una mezz'ora più tardi, aveva indosso un vestito giallino, i capelli raccolti in uno chignon e un paio di stivali di camoscio giallo primula.
Mix aveva passato un brutto quarto d'ora con la donna dagli occhiali e l'abito castigato, che s'era rivelata una deputata, nonché ex professoressa della London School of Economics, e conosceva tutto quel che c'era da sapere sul sistema di elezione proporzionale, nonché tutte le dottrine sul voto, mentre lui non faceva altro che cianciare di nozioni rimasticate che comparivano sui giornali scandalistici. Mix batté in ritirata con la coda tra le gambe, convinto di aver subito una punizione immeritata. In fondo, aveva solo cercato di scoprire se la gente preferisce votare le persone o i partiti politici. L'uomo che gli aprì la porta dell'abitazione adiacente non era affatto interessato a quell'argomento, e quando Mix si lanciò in una descrizione confusa delle ragioni addotte da alcuni deputati in difesa del sistema elettorale proporzionale non ottenne altro risultato che esasperarlo. Nell'abitazione accanto a quella di Nerissa non rispose nessuno. Fece un respiro profondo, si esortò a bandire la timidezza, immaginando che in fin dei conti non era che una donna come tutte le altre, e suonò alla sua porta. Nerissa fu talmente sbalordita di trovarselo davanti che rimase sulla soglia a bocca aperta. Altri al posto suo gli avrebbero sbattuto la porta in faccia senza dargli neanche il tempo di parlare, ma lei era troppo educata per reagire in quel modo. Mix aveva imparato il copione a memoria: «Be', buon giorno, signorina Nash. Non siamo proprio due estranei, vero? Se non erro, la prima volta ci siamo incontrati a casa della mia amica Colette.» «Sì, ci siamo già incontrati» assentì lei annuendo. Era di una tale leggiadria che Mix non riuscì a nascondere, poiché gli occhi e l'espressione del viso lo tradivano, la speranza e il desiderio di averla. Sembra una rosa gialla: fu l'unica similitudine che la sua mente, poco versata in lirica o in prosa letteraria, riuscì a elaborare. E ha la stessa bellezza di una regina africana. «Credo che lei non sappia» continuò, recitando la parte ripetuta infinite volte «che nel tempo libero conduco delle indagini di mercato.» «No, non lo sapevo.» «Vorrei parlare con lei delle elezioni. Immagino che sappia cos'è il sistema proporzionale, vero?» Lei non rispose, limitandosi a fissarlo con sguardo perplesso. Sul suo volto Mix colse una sensazione di impotenza, anche se non avrebbe saputo spiegarlo a parole. «Posso entrare?» Era l'ultima cosa che Nerissa voleva. Si fosse trattato di un estraneo non
avrebbe avuto problemi a rifiutare, ma si erano già scambiati dei convenevoli in almeno altre tre occasioni prima di allora. «Veramente sto per uscire.» In realtà mancava ancora un'ora. «Solo un minuto.» Non appena pronunciate, si pentì di quelle parole. Avrebbe dovuto apparire ferma, risoluta, rispondergli come faceva sempre con i Testimoni di Geova e i venditori porta a porta: 'grazie, non sono interessata,' ma lui si era già introdotto in casa prima ancora che avesse avuto il tempo di articolare quel pensiero. Avanzò lentamente nell'ingresso, guardandosi intorno con espressione ammirata, annuendo e sorridendo platealmente in modo da comunicare apprezzamento per quel che vedeva. Avrebbe voluto che rimanesse lì, il più possibile vicino alla porta, ma era troppo tardi. Si trovava già nel soggiorno prima che riuscisse a fermarlo. Quella mattina, mentre lei era da Shoshana, Lynette aveva portato dei fiori. Li aveva messi in un grosso vaso color crema e in ciotole bordate. Osservandolo per un attimo sotto un'altra prospettiva, si rese conto che non doveva essere abituato all'opulenza di chi può permettersi di ornare la propria abitazione con gigli, lillà e gerbere. «Ha una casa incantevole.» «Grazie» replicò lei con un filo di voce. «Posso sedere, signorina Nash? E poi avrei un'altra richiesta da farle. Posso chiamarla Nerissa?» Non sapeva cosa rispondere a entrambe le domande. Se avesse detto di no sarebbe apparsa scortese, dandogli l'impressione di voler rimanere su un piedistallo. Sin da quando era diventata un personaggio pubblico, ricercata e adulata da tutti, si era imposta di evitare atteggiamenti di superiorità. In uno stato di totale passività, lo vide accomodarsi sul divano, aprire la cartellina arancione che aveva con sé e rivolgerle un sorriso a trentadue denti. Mix aveva una certa esperienza e abilità nel vendere se stesso e gli articoli che trattava, e con le donne riusciva a essere gradevole e provocante quel tanto che bastava. In simili circostanze superava la timidezza nei confronti dell'altro sesso, arrivando a mostrarsi persino brillante. D'altra parte, la vodka aveva cominciato a fare effetto ben prima che bussasse alla porta della parlamentare. A quel punto decise che era inutile indugiare oltre. «Ho intenzione di parlarti francamente, Nerissa. Non sono certo qui per discutere di politica, di elezioni e roba noiosa come questa. Del resto, come mi ha fatto notare senza tanti complimenti quella smorfiosa della tua vicina, non ne capisco
granché. No, sono venuto qui per incontrarti e confermarti che ciò che ti ho detto quel giorno a casa della vecchia Chawcer è oro colato, parola per parola. E desidero ripetertelo, questa volta scegliendo le parole con maggiore attenzione. Ma che ne dici di mettere prima su il caffè, amore mio?» Non avrebbe saputo spiegar se fosse stato quell''amore mio', o l'aver chiamato 'vecchia Chawcer' l'amica della sua prozia, o semplicemente il tono della voce e l'espressione del volto a urtarla in quel modo, ma il caffè le forniva un'ottima scusa per andare a telefonare. Comunque non aveva intenzione di avvertire Darel, anche se sarebbe stata felicissima di vederlo. Non poteva chiamarlo in quelle circostanze. Non era giusto distoglierlo dal lavoro, e poi avrebbe giocato un tiro subdolo e di cattivo gusto a quell'orrendo individuo. In tutte quelle settimane non aveva aspettato altro che le si presentasse l'occasione per telefonargli, persino a costo di incoraggiare quel tipo in modo da avere una buona scusa, ma adesso che era giunto il momento non se la sentiva. Avrebbe chiesto aiuto al padre. Prima, però, mise su il caffè, quindi compose il numero e disse solo: «Papà, quel tizio che mi seguiva, quello di cui ti ho accennato, è qui a casa mia.» «Va bene. Ci penso io.» Se il suo agente, o anche i genitori, i fratelli e Rodney Devereux avessero saputo di quella faccenda, le avrebbero consigliato di imparare ad affrontare in maniera risoluta e decisa le proposte di eventuali corteggiatori indesiderati. In realtà le era capitato di rado di trovarsi di fronte a situazioni del genere. C'era qualcosa in lei, di freddo e virginale ma al tempo stesso caldo e innocente, che scoraggiava uomini appena più sensibili di Mix. Nella sua vita aveva incoraggiato ben pochi pretendenti, e nessuno si era spinto troppo oltre prima di essere accettato. Mix, invece, non era in grado di cogliere la differenza tra una donna che gli permetteva di entrare in casa propria e gli offriva un caffè perché le ripugnava la scortesia e una che lo faceva perché non vedeva l'ora di portarselo a letto. Accettò con un sorriso e uno sguardo suadente la tazza che Nerissa gli stava porgendo, e la invitò: «Siedi qui accanto a me.» «Siedo qui, se non le spiace.» «Be', mi spiace sì, e anche tanto» ribatté lui distorcendo la bocca in un sorriso che nelle sue intenzioni voleva essere accattivante. «Ma per il momento soprassediamo. Dimmi un po', da dove viene quel bellissimo nome, Nerissa? È davvero stupendo e, ci crederesti?, non l'ho mai sentito prima.» «L'ha scelto mia madre. È il nome del personaggio di un dramma di Shakespeare.»
«Davvero? Ah, vedo che sei cresciuta in un ambiente colto. Io ritengo che queste coppie miste siano la cosa migliore, no? Mescolanza di geni e roba simile. Mio nonno era italiano. A te posso confessarlo, è una cosa che non dico a nessuno: era un prigioniero di guerra. Romantico, eh?» «Non so» replicò lei senza sapere come continuare. «Ma adesso vorrei arrivare al nocciolo della questione. Comunque questo caffè è ottimo. Veramente squisito. Quello che sto per dirti riguarda noi due. Credo che abbiamo parecchie cose in comune, certe esperienze, l'età, se vuoi, entrambi abbiamo cura della forma fisica e tutti e due viviamo nella buona vecchia Londra ovest. Non mi vergogno di confessarti che ti amo da sempre, e che sono orgoglioso di non dispiacerti. Quindi, che ne pensi di provare?» Nerissa era scattata in piedi. Cominciava ad avere paura, soprattutto quando anche lui si alzò. Non erano a più di un metro l'uno dall'altra, e lui fece un passo per avvicinarsi. «Che ne dici di un bacio, tanto per cominciare?» Era pronta a respingerlo, se necessario a sferrargli un calcio con gli stivali, ma mentre indietreggiava suonarono alla porta. Mix rimase sconcertato. Nel suo sguardo non c'era smarrimento o delusione, bensì pura ferocia, gli occhi due punti rossi, il labbro superiore sollevato. «Mi scusi» fece Nerissa, consapevole che in un frangente simile parole come quelle suonavano ridicole, e si precipitò ad aprire a suo padre. Ma era Darel Jones. 27 «È stato tuo padre a chiamarmi.» Appena lo vedo lo uccido, pensò immediatamente; ma l'amore che nutriva per il genitore ebbe subito il sopravvento. «Non avrebbe dovuto» si scusò. «Quel tipo... è andato via?» «No, è ancora qui. Di là.» Darel entrò nel soggiorno, dove Mix stava esaminando una statuetta di vetro molto simile a quella che Danila l'aveva costretto a usare contro di lei. Un'altra cosa in comune... «Fuori!» gli intimò Darel. «Prego? Non mi sembra di conoscerla. Piacere, Mix Cellini. Sono un amico di Nerissa. Per la verità stavamo decidendo come trascorrere la sera-
ta prima di essere interrotti così sgarbatamente.» «Ho detto fuori di qui. Avanti. A meno che non vuole che la sbatta fuori io.» «Per l'amor di dio!» esclamò Mix completamente sconcertato. «Vorrei sapere cosa ho fatto di male. Lo domandi a lei se non mi crede.» «Vorrei che se ne andasse» lo pregò Nerissa. «Per favore, senza litigare. Se ne vada.» «Dato che me lo chiedi, me ne vado. Ma so che lo fai contro la tua volontà. Vorrà dire che tornerò quando questo bullo si sarà tolto dai piedi.» Cercò di darsi un contegno mentre si dirigeva verso la porta, ma si rese conto che con quel ventre prominente non offriva uno spettacolo esattamente dignitoso. Sulla soglia si voltò e l'avverti: «Non ti lascerò mai andare..» Gli sembrava la cosa migliore da dire in quel frangente. Uscì e richiuse la porta alle spalle. «Grazie» mormorò Nerissa con un filo di voce. «Credi che parlasse seriamente quando ha detto che non mi lascerà mai in pace?» «No. Probabilmente è convinto che io viva qui, che sia la tua metà, il tuo compagno, o come si dice.» Avrebbe voluto rispondergli: 'vorrei che lo fossi, vuoi esserlo?' Ma si limitò a guardare il suo affascinante volto celtico dai lineamenti perfetti, la capigliatura corvina, la pelle chiara appena rosata sulle guance, le mani snelle dalle dita affusolate, la sua figura alta e slanciata. «Devo dirti una cosa, Nerissa. Sono settimane che aspetto l'occasione per parlarti.» Impossibile non controbattere: «Potevi chiamarmi.» «Lo so. Volevo rifletterci a fondo, essere sicuro di fare la cosa giusta. E adesso lo sono.» «Sicuro di cosa?» Le sorrise. «Vieni, siedi accanto a me.» Poco prima aveva rifiutato senza esitazioni la stessa proposta fattale da Mix, proprio lì sul divano, ma adesso accettò di buon grado. Darel si voltò a guardarla e le prese le mani tra le sue. «Siamo venuti ad abitare vicino ai tuoi quando ero ancora un adolescente e tu una bambina. Ti vedevo bellissima già da allora - come tutti, del resto -, ma non mi sono mai fatto avanti. Del resto, mi sono fidanzato molto giovane. Poi sono andato all'università - cinque anni, di cui uno negli Stati Uniti - e quando sono tornato a casa eri diventata una indossatrice famosa.» «Me lo ricordo.»
«Mi ero fatto l'idea che fossi una donna frivola, con un cervello da gallina. Pensavo che tutte le modelle fossero così. E poi capricciosa, spocchiosa, come direbbe mia madre, e... insomma, una che si atteggia a gran dama. Comunque sia provavo sempre una forte attrazione nei tuoi confronti, anche se ero convinto che se ti avessi frequentata non avrei sopportato il tuo modo di essere. Per questo non venni quando i tuoi ci invitarono a bere un drink. Sapevo che eri lì anche quella volta, la vigilia del mio trasloco, e pure in quel caso non mi feci vedere.» «E poi cosa è accaduto?» «Be', se mi fossi trovato da solo con te non avrei potuto fare a meno di chiederti di uscire insieme. Ma avevo sempre in mente quello che tua madre diceva alla mia, che sei estremamente disordinata, che non sei mai puntuale. Per me tutto questo è insopportabile. Ho dei progetti per il futuro, Nerissa, è tutto previsto, quel che voglio dalla vita e come realizzarlo. Una delle cose che desidero è una storia sentimentale seria. Ho quasi trentun anni, sono in cerca di una relazione stabile, anzi, penso anche al matrimonio.» Lei annuì, avvertendo la stretta delle sue mani. «Un matrimonio e dei bambini. Perché no? Ma non volevo finire col fare da controfigura a una donna ammirata e idolatrata da tutti. Non volevo una donna superficiale, e... sì, anche libertina e stravagante. E poi non sopporto le persone che non sono mai puntuali. In tutta franchezza, non me la sentivo di essere 'il signor Nerissa Nash', di arrivare ai ricevimenti che frequenti - o almeno all'idea che me ne sono fatto - con un'ora di ritardo, senza avere nessuno con cui parlare perché l'anfitrione sei tu.» Nerissa non conosceva il significato della parola 'anfitrione,' e aveva qualche dubbio anche su 'libertina', ma non osò interromperlo. «Da quel giorno che ci siamo incontrati a St James Street qualcosa in me è cominciata a cambiare. Ti ho messo alla prova in tante piccole occasioni. Per esempio alla festa a casa mia. Sei stata puntuale. E poi qui, dove vivi. Anche se non fai tu le pulizie, vedo che mantieni la casa pulita. Quella sera hai parlato di politica, di etica, e... be', persino di economia. Ho deciso di aspettare un po'. Se mi avessi chiamato, se mi avessi chiesto delle cose, se in qualche modo avessi approfittato di me nella convinzione di potermi gestire a tuo piacimento, insomma, sarebbe finita. Ma non l'hai fatto.» La attirò a sé e proseguì: «Hai superato l'esame a pieni voti. Ho concluso: sì, va bene, è proprio la donna che cerco, è davvero una brava ragazza. Allora, che ne dice di andare a cena fuori, stasera, signorina Nash?»
Nerissa ritrasse delicatamente le mani dalle sue e si allontanò con un movimento impercettibile. Il cuore, che solitamente pulsava a un ritmo inferiore alla media - un medico aveva osservato che aveva un cuore d'atleta - cominciò a martellare. «Non credo proprio» rispose con voce che a lei stessa parve remota e distaccata. «Non immaginavo di partecipare a un gioco a quiz, a un concorso o quello che sia. Non l'avrei mai fatto se l'avessi saputo.» «Che vuoi dire, amore?» «Non sono il tuo amore, né lo sarò mai. Non mi sottopongo a dei test per verificare se sono... un candidato idoneo.» «Dài, Nerissa, andiamo.» «Io sono fatta così, e chiunque voglia intrattenere con me quella che tu chiami una 'relazione stabile' dovrà accettarmi per ciò che sono. Ti ringrazio di essere accorso a liberarmi da quell'uomo. Te ne sono grata, ma questa è l'ultima volta che ci vediamo.» Darel si alzò in piedi. Dall'espressione del volto traspariva solo sconcerto. «Arrivederci, Darel» lo congedò. Non appena fu uscito chiamò il ristorante dove aveva appuntamento con l'inviata di Vogue per avvertire che sarebbe arrivata con mezz'ora di ritardo. Poi scoppiò in lacrime. Il telefono squillò mentre si stava ritoccando il trucco, disfatto dal pianto. Era suo padre. «È venuto?» «Sì. Non avresti dovuto, papà. Anche se so che l'hai fatto per me.» «Finché vivo mi adopererò con ogni mezzo perché mia figlia sia felice. Quando vi rivedrete?» «Mai più. Ti spiegherò più tardi.» Prima di uscire doveva fare un'ultima telefonata. Lui rispose dopo due squilli. «Rodney, mi porti fuori stasera? In qualche postaccio. Stavo pensando a quel locale a Soho, il Chicchiricchì, non ci sono mai stata. Andiamoci sul tardi, non importa che ora si fa, voglio bere champagne. Sì, è vero che non bevo ma per una sera voglio fare uno strappo alla regola. Ti va? Sei un tesoro. A stasera.» Dov'era scritto che doveva per forza avere un compagno o sposarsi?, rifletté mentre saliva sul taxi. Era giovane. Perché non divertirsi un po'? L'importante era mostrarsi sempre gentile con gli altri, non darsi arie e non essere troppo fiera della sua bellezza. Per prima cosa sarebbe andata dal
parrucchiere avrebbe chiesto una pettinatura stile afro, se non addirittura le treccine. Aveva bisogno di fare qualcosa di trasgressivo... Non posso chiamare a casa in questi giorni, pensò Mix mentre scendeva giù a prendere la posta. Era metà mattina, e dall'ingresso udiva le voci delle tre donne provenire dal salotto. La Winthrop e la Fordyce, ma chi era la terza? Rimase in ascolto. Ma sì, sua madre, la signora Mumbo-jumbo. Perché mai continuavano a venire ogni giorno? Si sentiva indignato per la vecchia Chawcer, che non poteva nemmeno stare via per un po' ospite di amici senza avere la casa invasa. Perché non badavano agli affaracci loro? Ma poi si ricordò che era morta. Probabilmente la signora Mumbo-jumbo era stata informata del suo scontro con quel bullo, il giorno precedente. Poteva anche darsi, però, che Nerissa glielo avesse taciuto. Presumibilmente, prima di parlarne ai genitori voleva liberarsi del bullo e stabilire con lui una relazione solida. Avrebbe fatto passare un paio di giorni e poi sarebbe andato ad accertarsi di come stavano le cose. Era convinto di avere agito con saggezza, in quel frangente. C'era qualcosa in quel tipo che gli riportava alla mente Javy, soprattutto nelle sembianze. Adesso il patrigno doveva avere i capelli grigi, ma nel ricordo che ne conservava era in tutto simile a quell'individuo: pelle olivastra, guance rubiconde e una fluente chioma nera. Non riusciva a capacitarsi di come le donne potessero trovare attraenti tipi del genere. Era passato all'ufficio di collocamento per presentare la domanda. Gli avevano dato un po' di soldi e offerto una serie di lavori che non aveva nemmeno preso in esame. Se ne sarebbe occupato tra un paio di settimane. Voleva evitare di incontrare le tre donne. Tirò fuori dalla cassetta della posta una rivista di giardinaggio e un catalogo di vendite per corrispondenza e si avviò per le scale. Ventidue gradini per arrivare al piano dove dormiva lei, altri diciassette per salire fino a quelle stanze dove nessuno entrava da anni, e gli ultimi tredici che lo separavano dal suo appartamento. Non li contava sempre, ed evitava di farlo soprattutto quando era attanagliato dalla paura, ma stavolta lo fece, come se fosse stato possibile aggiungerne un altro e contarne quattordici. Il perizoma poggiato sul grembo, Hazel Akwaa stava chiedendo alla zia e a Queenie se avevano pensato di dare un'occhiata ai vestiti di Gwendolen. Entrambe scossero il capo, e Queenie si strinse nelle spalle. «Se non l'abbiamo fatto è perché sarebbe un po' come un'usurpazione,
cara, una violazione della sua privacy» si giustificò Queenie. «Voglio dire, a te che effetto farebbe se durante la tua assenza le tue amiche si mettessero a frugare fra i tuoi vestiti? Non l'avvertiresti come una forma di violenza?» «Be', sarebbe così se le avessi informate di dove andavo, lasciando l'indirizzo. Ma se un giorno scomparissi nel nulla sarei ben felice se agissero così. Vorrei che mi venissero a cercare.» «Tutto sommato, credo che dovremmo farlo» considerò Olive. Si avviarono per le scale. «Spero che il gatto non stia morendo di fame.» «Il cibo nella scodella c'è sempre stato, ma da domenica è rimasto intatto. Penso che sia andato via.» «È successo in concomitanza con la scomparsa di Gwendolen» notò Queenie, che poi ragguagliò Hazel sul mistero del lenzuolo mancante. «Siete proprio sicure?» «Be', Gwen ha delle abitudini un po' bislacche. Potrebbe anche averlo tolto lei, e aver usato solo quello di sotto e la coperta, ma nella lavatrice non c'è. Ho controllato persino in quell'orribile vecchia caldaia - con Gwendolen non si sa mai. Potrebbe persino esserselo portato dietro.» «Cosa, il gatto o il lenzuolo?» «Be', tutti e due. Ma no, nessuno, dico nessuno, per quanto eccentrico, si porterebbe dietro un lenzuolo sudicio essendo ospite da amici. Bisognerebbe essere davvero tocchi per fare una cosa del genere. E poi come riuscirebbe a stare dietro a un gatto?» Nel frattempo erano giunte nella camera da letto di Gwendolen; Olive spalancò la finestra, per lasciar entrare il tepore della bella giornata di sole. «Non c'è un buon odore» notò Hazel. «È normale se non si fanno le pulizie» ribatté sua zia scrollando le spalle. «Guarda, questo tappeto è azzurro ma è talmente ricoperto di peli di gatto da sembrare grigio.» Hazel aprì l'armadio e fu assalita dal pungente odore della canfora. I vecchi abiti di Gwendolen erano stipati sulle stampelle, un tempo guarnite con trine di seta e appese insieme a sacchetti pieni di lavanda per mantenere la biancheria profumata. Le scarpe erano disordinatamente ammassate sotto i vestiti, tutte spaiate. Olive si mise a contarle. «Sette. È un elemento importante: non molto tempo fa mi ha detto di avere sette paia di scarpe.» «Può averne comprate altre.»
«No, non credo, me ne avrebbe parlato. Non che a me dicesse tutto; semplicemente, non era tipo da comprare qualcosa, figuriamoci poi un articolo costoso come un paio di scarpe, senza lamentarsi di quanto aveva speso con tutti quelli che le fossero capitati a tiro.» «Senza scarpe non poteva andare da nessuna parte» tirò le conclusioni Hazel. «E non si sarebbe mai separata dal suo rubino, cara» aggiunse Queenie, che aveva aperto il portagioie per verificarne il contenuto. Tirò fuori un anello con una gemma rossa e disse: «Era di sua madre; lo metteva sempre quando usciva.» 28 «Mi stai chiedendo di sedere davanti a questa finestra dalla mattina alla sera tutti i giorni per controllare se quel tipo ripassa di qui? Vuoi scherzare, Kaylee?» «Devi farlo, Ab. Se è lui quello che hai visto, potrebbe aver preso Danila in ostaggio, magari la tiene legata e imbavagliata da qualche parte. Se così fosse e non avvertissi la polizia, non te lo perdoneresti mai. Scommetto che bazzica spesso in questi paraggi. E che vive nei dintorni.» «Kaylee» proferì Abbas col tono di chi sia stato appena fulminato sulla via di Damasco. «Oh, Kaylee...» «Cosa c'è? Sei diventato improvvisamente... be', pallido, se capisci quel che voglio dire.» «Kaylee, quella notte che lo incrocio sulle scale, raccolgo un biglietto da visita. È ubriaco, capisci, e gli cade dalla giacca. Lo porto qui, a casa mia e...» «Dove l'hai messo, Ab?» «Credi che conservo il biglietto da visita di uno sconosciuto?» «Ma almeno hai letto cosa c'era scritto?» Abbas sedette e prese Kayleigh sulle ginocchia. «Siedi con me, fiorellino mio, e aiutami a ricordare. Devo concentrarmi.» «Sì, cerca di farlo, tesoro. Se abbandoni la povera Danila proprio adesso, cosa penserà di te il nostro bambino?» Il loro bambino, rifletté Abbas, in realtà un minuscolo feto nel ventre della madre, non aveva alcun bisogno di conoscere una storia del genere, e nei prossimi quindici anni si sarebbe interessato ben poco ai processi mnemonici di suo padre, se mai fosse successo. Comunque si sarebbe ado-
perato con ogni mezzo in suo potere per aiutare la polizia a scovare chi avesse fatto del male a Danila, di qualunque cosa si trattasse, forse persino di omicidio, anche se non aveva alcuna intenzione di dirlo a Kayleigh, facilmente impressionabile nella sua condizione. Cercò di concentrarsi. «Ricordo una parola. Non un nome o un indirizzo...» «Oh, Abby...» «Aspetta. Una parola: Fiterama. Sì, Fiterama. Però non so cosa significa. Ma su quel bigliettino c'era scritto questo.» Kayleigh saltò su come una molla. Era tutta eccitata. «Lo so io che significa, Ab! È il nome della ditta per cui lavora quell'uomo. Si occupa della manutenzione degli attrezzi della palestra, me ne ha parlato Shoshana. Non ha portato i pezzi di ricambio e lei ha chiamato la sua ditta per dirne peste e corna.» Mix si trovava in una libreria dell'usato, dove gli avevano chiesto venticinque sterline per un libro su Christie pubblicato quarant'anni prima. L'aveva appena tirato fuori dallo scaffale per guardarne le foto, e il commesso gli s'era avventato addosso come un avvoltoio, informandolo sul prezzo. «È un vero e proprio furto» commentò Mix. «Spero che non lo compri nessuno.» «Non c'è bisogno di offendere» replicò l'altro. Tornando a casa da Shepard's Bush, Mix si ripromise di smetterla di comprare libri su Christie e di non leggere più nulla sull'argomento. Doveva gettarsi tutto alle spalle. Poteva anche provare a vendere i volumi che aveva, magari proprio a quel tipo. Non fosse stato per Christie, Danila sarebbe stata ancora viva e lui non avrebbe finito per uccidere una donna già morta. A dire il vero, era stato Christie a compiere quei delitti, così che adesso il totale delle sue vittime ammontava a otto. Prima di iniziare un'attività in proprio, doveva trovare qualche impiego, ma non si sarebbe certo ridotto ad accettare un posto da impiegato, autista o portiere. Sarebbe retrocesso al rango di Javy. Javy - sin dal giorno dello scontro con il bullo di Nerissa aveva ripreso a pensare e rimuginare su di lui. Gli era comparso persino in sogno. Erano passati tredici anni dall'ultima volta che l'aveva visto, ma l'odio nei suoi confronti non era scemato. Pensava che il tempo avesse rimarginato le ferite, che ormai quella storia appartenesse definitivamente al passato, ma si sbagliava. Per lui quell'uomo aveva sempre rappresentato un ostacolo insormontabile, però, adesso che si era liberato in quel modo delle due donne - la parola 'liberato', piut-
tosto che 'ucciso', rendeva molto meglio l'idea di come si erano svolti i fatti -, vendicarsi di lui gli sembrava una cosa decisamente fattibile. Come al solito la vecchia Volvo dei Brunswick era parcheggiata lungo il marciapiede. Una macchina usata tanto vecchia, rifletté, per quanto di tutto rispetto, avrebbe creato solo problemi. Non avrebbe retto i lunghi tragitti e gli sarebbe costata un mucchio di soldi in riparazioni varie. Mentre era intento a esaminarla, con il cartello del prezzo, 300 sterline, poggiato sul parabrezza che pendeva sbilenco, dalla porta di casa uscì Sue Brunswick, con in braccio un grosso gatto nero é marrone. Con tutto quello che aveva passato nell'ultimo fine settimana, aveva dimenticato di darle la caccia. «Sta ancora pensando di comprarla?» «No, non credo di prenderla.» Riconobbe subito il gatto. Non fossero bastati il colore e la taglia, lo sguardo sprezzante e carico d'odio che l'animale gli rivolse era inconfondibile. Lo fissò glaciale con gli occhi imperiosi verde giada, finché si rannicchiò contro il florido petto di Sue Brunswick, strofinandole il muso sul collo in un gesto affettuoso. «Vedo che sta ammirando il mio gatto. Bellissimo, vero? Lunedì ce lo siamo ritrovati per casa e lo abbiamo adottato. L'abbiamo chiamato Chockie 6 , per via del colore. Non so da dove sia saltato fuori, ma è un animale dolce e affettuoso, mi sembra già di adorarlo.» L'aveva descritto in modo molto diverso dalla bestia che conosceva lui. Avvertiva ancora un debole pulsare alla caviglia, sgradito ricordo del loro ultimo incontro. «Be', arrivederci» la salutò mentre si avviava verso casa. Una volta su, entrò senza indugi nella stanza della sepoltura. In nessun libro si faceva menzione del fatto che Christie avesse ispezionato i luoghi dove aveva occultato i cadaveri della moglie e delle altre vittime. Aveva mai annusato l'aria come stava facendo lui in quel momento? Aveva mai controllato che il giardino di Rillington Place e le tombe di Ruth Fuerst e di Muriel Eady fossero in ordine? Riusciva a sentire solo il solito odore che regnava in quella casa, di polvere, insetti stecchiti e stoffe vecchie mai pulite. L'odore di una persona anziana, ma non di morte. Si accostò meccanicamente alla finestra che dava sul giardino. Malgrado non piovesse da molto, le erbacce erano cresciute, verdi e rigogliose, sul lieve dosso che segnava la tomba di Danila. Nessuno l'avrebbe scoperta. Perché non partire per un po'? Doveva pur impegnare il tempo che lo se6
Vezzeggiativo da chocolate, 'cioccolata' (N.d.r.).
parava dal prossimo incontro con Nerissa. Era passata un'eternità dall'ultima vacanza che si era concesso. Certo, andare a trovare la sorella a Colchester non poteva considerarsi una vera e propria vacanza, ma il viaggio avrebbe avuto anche un altro scopo. Shannon gli avrebbe detto dove viveva Javy. Era sicuro che stava con un'altra donna ancora, non con la stessa che aveva rimpiazzato sua madre. Aveva sicuramente traslocato per l'ennesima volta, nuova vita, nuova compagna, nuovi sussidi da riscuotere. Ironia della sorte, il membro della sua famiglia con cui andava maggiormente d'accordo era proprio la sorellastra che secondo Javy aveva tentato di uccidere. Eppure lei ne era perfettamente a conoscenza. Javy si era premurato di informarla. Gli pareva ancora di sentire le esatte parole: «Non gli lasceresti toccare i tuoi giocattoli se sapessi cosa ha fatto. Ha cercato di ucciderti, sai? Ti avrebbe rotto la testa se non l'avessi fermato in tempo.» Quel venerdì mattina si recarono insieme alla stazione di polizia di Ladbroke Grove. Avrebbero fatto a meno di Hazel che doveva tornare a casa, ma l'avrebbero informata sul colloquio con gli investigatori e sugli eventuali sviluppi. Entrando, incrociarono un uomo dai tratti mediorientali e una graziosa ragazza bionda. «Chissà perché sono venuti» disse Queenie. «Forse lui ha chiesto asilo politico e lei ha intenzione di sposarlo per fargli prendere la cittadinanza.» «Non funziona più così» asserì Olive squadrando la coppia. «Oggigiorno è molto più complicato ottenere la cittadinanza.» Olive compilò come meglio poteva il modulo per la denuncia di scomparsa, dopo di che chiese al giovane funzionario: «È tutto?» «Cosa intende?» «Che potreste anche cominciare a cercarla.» Il poliziotto si assentò per una decina di minuti, quindi tornò con il collega che aveva ricevuto in precedenza Abbas e Kayleigh. «Vi risulta che all'interno dello stabile abiti un giovane che risponde al nome di Michael Cellini, un ex dipendente della Ditta attrezzi ginnici Fiterama?» «Non so niente di attrezzi ginnici,» rispose Olive quasi con disprezzo «ma Cellini abita lì. Perché?» Fosse stata meno ingenua, o avesse seguito i notiziari alla TV, non avrebbe posto quella domanda, che cadde nel vuoto. «C'è qualcuno in quella abitazione che possa aprirci se facciamo un salto?»
«Cellini, suppongo» rispose Queenie, che da quando Mix se n'era uscito con la battuta sul collegio femminile ometteva il 'signor'. «Però non ci si può far affidamento. Ci sarà una di noi.» «Comunque non possiamo evitare di andarci» aggiunse Olive. «Se lo si lascia da solo quel tipo è capace di dare fuoco alla casa.» Tornarono in taxi. Queenie aveva comprato due fette di torta al limone e un paio di brioches alla crema in una pasticceria di Holland Park Avenue, da gustare con il tè. «Chissà se è di sopra» si chiese Queenie, ai piedi della scalinata. Mix era in casa. Aveva passato quasi tutto il giorno a telefonare a vecchi clienti che ancora non aveva contattato. A conti fatti, ne aveva convinti a rimanere con lui solo sei, uno dei quali non gli aveva ancora dato una risposta definitiva. Nel tardo pomeriggio chiamò la sorella per chiederle se poteva fermarsi qualche giorno da lei. Shannon gli domandò la ragione di quella strana richiesta. Non riusciva a capacitarsi di come qualcuno potesse desiderare di trascorrere anche soltanto qualche ora in compagnia di una donna esaurita, del compagno e di cinque bambini, due suoi e tre di lei, in un quartiere popolare alla periferia di Colchester. «Deve esserci per forza un motivo? Ho pensato che sarebbe stato bello stare un po' assieme a te, Markie e i ragazzi, tutto qui.» «Non fraintendere, Mix, però dovrai arrangiarti a dormire con i bambini. Abbiamo solo tre stanze da letto.» «Non ti vedo da non so quanto, Shan. Saranno anni.» «Sono sette» precisò la sorella. «Lee era appena nato. Senti, devo scappare. Quando pensi di venire?» L'indomani stesso, rispose Mix, di mattina. «Arriverò in treno. Ho portato la macchina a riparare, devo cambiare la coppa dell'olio. Prenderò un taxi alla stazione.» In realtà avrebbe preso l'autobus, ma non c'era necessità di dirglielo. Queenie e Olive aspettavano l'arrivo della polizia. Cominciava a calare la sera, erano ormai le otto e nessuno si era ancora presentato. Queenie sedeva di fronte alla portafinestra, a osservare il giardino al crepuscolo. Aveva visto il signor Singh radunare le oche e rinchiuderle nel capanno per la notte, poi era rientrato in casa e adesso non si vedeva più nessuno. Le luci colorate sulla palma si accesero, si spensero per un attimo quindi brillarono di nuovo. «È davvero un bell'uomo, sai, cara? Una persona molto distinta. Ha il portamento di un militare di alto rango.»
«Non dire idiozie, Queenie.» Olive si rendeva conto che in quel periodo stava assumendo i modi e le espressioni di Gwendolen. Doveva controllarsi. «Stavo pensando che sarebbe meglio se una di noi rimanesse qui stanotte.» «Be', non guardare me. Mi spaventerebbe a morte passare una notte in questo posto. Hai notato com'è buio? E non è nemmeno possibile fare più luce. Le lampadine sono troppo deboli. Avremmo dovuto sostituirle con altre da almeno cento watt.» «Perché non fai un salto a casa a prenderne qualcuna? Ti aspetto qui» le propose Olive. «A me non dà fastidio» mentì per mostrarsi coraggiosa. «Chiederò a mia nipote di convincere il marito a raggiungermi. È una persona squisita, anche se grande e grosso com'è non ha un aspetto rassicurante.» E così fecero. Quando Queenie tornò con le lampadine, prepararono la cena a base di toast, uova strapazzate e un barattolo di pesche sciroppate trovato nella credenza in cucina. Scadevano il 30 novembre 2003, quindi Queenie le ritenne ancora buone. Olive chiamò Tom, che si dichiarò disponibile, assicurandole che sarebbe arrivato intorno alle nove e mezzo e che si sarebbe divertito a passare una notte in una casa fuori dal comune come quella. A quel punto dovette organizzare i letti, sebbene non le andasse granché. Li preparò su al primo piano. Lì lo spazio era quasi completamente occupato dalla camera da letto di Gwendolen, con lo spogliatoio e il bagno, ma c'erano altre due stanze con letti e materassi. Davano l'idea di essere meno umide rispetto al resto della casa, e le tende apparivano in buono stato. In un armadio trovò lenzuola, coperte e cuscini. Le coperte erano tutto fuorché pulite, e le lenzuola non erano state stirate, ma per una volta poteva anche andare. Mentre preparava il letto nella stanza più vicina alle scale, Olive si chiese se non si fosse ammattita a decidere di passare la notte in quella casa. Ma poi udì i passi di Cellini e capì di aver preso la decisione giusta. L'indomani mattina avrebbe chiamato la polizia per capire come intendessero procedere. Mix a sua volta si accorse dei preparativi di Olive, e si chiese cosa mai stesse combinando. Niente di particolare, pensò. Molto probabilmente quei due vecchi avvoltoi avevano deciso di far man bassa di tutto ciò che riuscivano a trovare, approfittando dell'assenza della Chawcer. Era tipico. Come tutte le donne anziane, Gwendolen possedeva dei gioielli, e Mix era orgoglioso di sé: molti nella sua posizione ne avrebbero approfittato,
lui invece non aveva toccato neanche uno spillo. Sentì aprirsi e chiudersi la porta d'ingresso diverse volte, e poi la voce della Winthrop cianciare a proposito di certe lampadine. Innervosito da tutto quel trambusto, si decise a uscire sul pianerottolo per capire cosa stesse succedendo. La Fordyce stava scendendo le scale. Non appena mise piede giù al pian terreno, bussarono alla porta. Era un evento così raro che Mix sobbalzò per la sorpresa. Come al solito le luci delle scale si erano spente, e quella notte, senza luna e con le abitazioni limitrofe meno illuminate del solito, era particolarmente buia. L'eccessiva oscurità era parzialmente dovuta agli alberi ad alto fusto, che con il loro fitto fogliame celavano le luci dei lampioni. Gli giunse una voce maschile calda e profonda, e per un attimo pensò che fosse accaduto l'impossibile: la polizia doveva essersi decisa ad arrivare. Ma poi sentì la Fordyce salutare il nuovo arrivato: «Salve, Tom. È molto gentile da parte tua essere venuto.» «Nessun problema» rispose l'uomo dalla voce profonda. «È un piacere. Ho pensato che una bottiglia di vino non ci sarebbe stata male. E dopo esserci bagnati l'ugola accompagnerò a casa la signora Winthrop. Non la manderò certo in giro da sola a quest'ora.» Non gli riuscì di sentire altro. Dovevano essere andati in salotto. Mix tornò lentamente sui suoi passi; volgendo lo sguardo al corridoio sulla sinistra scorse lo spettro, in fondo, avvolto dalle tenebre. Si portò le mani alla bocca, come per impedirsi di gridare. Immobile, l'apparizione sembrava fissarlo. D'un tratto si mosse verso di lui, le mani protese come in un gesto di supplica - o di minaccia? Mix si affannò ad aprire la porta che aveva chiuso quando era uscito sul pianerottolo e si precipitò dentro, inciampando sul tappetino. Rimase dietro la porta chiusa, a terra, come a ripararla con il corpo contro eventuali effrazioni. Ma non successe niente. Ancora tremante, si rialzò e si affrettò a sbarrarla con i catenacci, cosa che non aveva mai fatto prima d'allora. Quella mattina Tom Akwaa fu il primo ad alzarsi, come sua abitudine. Aveva preso un giorno di ferie, e quando Olive scese per colazione si offrì di farle ancora compagnia: «Rimarrò fino all'arrivo della polizia. Vuoi che li chiami per ricordare che li stai aspettando?» «Oh, sì, grazie.» Mentre lui chiamava la centrale, Olive non seppe resistere alla tentazione di pulire la cucina. Apparteneva a una generazione che cambiava le lenzuola quando a casa era atteso il dottore, e quando partiva indossava la
biancheria intima migliore nel caso fosse successo un imprevisto e si dovesse venir ricoverati. Così ripulì a fondo la cucina, nel caso gli agenti avessero gradito un tè. Mix si sentiva enormemente sollevato all'idea del viaggio imminente. Forse non sarebbe più tornato. E se anche avesse fatto ritorno, non sarebbe certo rimasto lì. Avrebbe recuperato le sue cose, depositando la mobilia da qualche parte prima di trovare un'altra sistemazione. L'apparizione di quella notte, dopo tanto tempo, era stata davvero la goccia che fa traboccare il vaso. Al confronto, tutta la gente che entrava e usciva dalla casa non era altro che una seccatura di poco conto, anche se quel continuo andirivieni iniziava a preoccuparlo. Chi era quell'uomo, e cosa ci faceva lì? Il mal di schiena aveva ricominciato a farsi sentire, non come quella notte tremenda in cui aveva scavato la fossa in giardino, abbastanza però da procurargli parecchi fastidi. Prese due compresse di analgesico e cominciò a preparare la valigia. Non aveva intenzione di passare più di una notte da Shannon. La prospettiva di dividere la stanza con due quattordicenni indisciplinati - la sorella li aveva avuti a poca distanza l'uno dall'altro, all'età di diciannove anni - non lo solleticava affatto. Mise in borsa un paio di jeans di ricambio, tre camicie e il giubbotto di pelle. E adesso via, prima di imbattersi in una di quelle due vecchie streghe della malora. Telefonare alla polizia si rivelò una premura inutile: una volta messe a confronto la testimonianza di Abbas Reza e la denuncia di scomparsa di Olive e Queenie, erano pronti ad agire. Olive era con Tom e un sergente quando vide Mix scendere le scale. Lo aspettò nell'ingresso, anche se non aveva intenzione di informarlo che la polizia era lì. «Dove sta andando?» lo apostrofò con il tono più autoritario che le riuscì di tirare fuori. Mix aveva la borsa sulle spalle. «Non sono affari suoi. Comunque, se proprio vuole saperlo, vado nell'Essex, a trovare mia sorella.» «Non vedo più la sua macchina in giro.» «Infatti, impicciona che non è altro. L'ho venduta.» E sbatté la porta dietro di sé. Chissà se Gwendolen aveva una copia della chiave dell'appartamento di Cellini?, fu il pensiero che attraversò la mente di Olive, che abbandonò subito le pulizie e si diede a cercare nei disordinatissimi cassetti dei mobili del salotto. Quando arrivò Queenie, aveva trovato diciotto chiavi delle fogge e dei formati più vari.
«Non è nessuna di queste» fu il deludente responso dell'amica. «Una volta mi disse che le teneva - ehm, volevo dire 'tiene' - nell'asciugabiancheria.» Per Olive, pur abituata alle stranezze di Gwendolen, era davvero troppo: «E che accadeva se la metteva in funzione?» «Non la usava mai, cara. O per lo meno non ne faceva un uso normale.» Andarono in cucina. Il posto naturale per tenere un'asciugabiancheria sarebbe stata la stanza del bucato, ma Gwendolen l'aveva piazzata tra il forno e il frigorifero. Dalla finestra notò il poliziotto con un altro collega da poco sopraggiunto, il quale stava infilando un lungo bastone dentro un cumulo di erbacce, in quella che secoli prima doveva essere stata un'aiuola. Queenie aprì il portello dell'asciugabiancheria e recuperò una cesta di vimini, un tempo probabilmente usata per tenervi patate e cipolle, che adesso conteneva una dozzina di chiavi. «Potrebbe essere questa» suppose Olive prendendo la più nuova, una chiave lucente di ottone, per serratura Yale. Tom e i due poliziotti le raggiunsero. «Dovremo scavare in giardino» avvertì il sergente. «Scavare in giardino!» Il sergente sembrò sul punto di spiegarne il motivo, ma poi dovette ripensarci. Insieme al collega si avviarono per le scale, seguiti da Tom e, più lentamente, da Olive e Queenie. Quando raggiunsero il piano superiore ansimavano, ma quando i poliziotti suonarono alla porta di Mix Olive si affrettò a informarli: «È uscito.» Poi prese una decisione, e sperando che Queenie le reggesse il gioco, porse la chiave al poliziotto aggiungendo: «Ecco, me l'ha lasciata nel caso voleste dare un'occhiata al suo appartamento.» «Davvero?» Il sergente aveva solo ventotto anni e scarsa esperienza in fatto di assassini, ma non si sarebbe comunque mai aspettato che un killer invitasse la polizia a ficcare il naso nel proprio appartamento in sua assenza. A ogni modo, attenendosi al detto 'a caval donato non si guarda in bocca', accettò la chiave che gli veniva offerta, aprì la porta ed entrò insieme al collega. Tom e le due amiche rimasero in attesa nella stanza attigua all'appartamento. L'aria, lì dentro, sapeva insopportabilmente di chiuso e di polvere. Tom, dotato di un olfatto dalla sensibilità superiore alla media, annusò l'aria. Dovette percepire qualcosa di anomalo, perché annusò di nuovo con fare circospetto. «Cos'è quest'odoraccio?»
«Non sento niente, Tom.» «Nemmeno io.» Da autentico gentleman qual era, Tom Akwaa non avrebbe mai fatto notare alle due anziane signore che la loro veneranda età poteva aver indebolito i loro sensi. Si limitò a replicare: «Be', io lo sento.» Poco più tardi si unirono anche i due poliziotti. Il più giovane s'era portato dietro una pila di libri su John Reginald Halliday Christie. Olive, lettrice accanita, fu colpita dalle coste dei volumi, molti dei quali recavano in copertina fotografie con il volto emaciato di Christie. «Non sentite anche voi un odore strano, qui?» chiese Tom. Il poliziotto con i libri, un giovane alto e allampanato, poggiò i volumi sul tavolino e si chinò fin quasi a toccare il pavimento con il naso. Quindi, tirandosi su di botto, esclamò: «Dio, sì!» Quando Tom e i poliziotti andarono via, Queenie si apprestò a preparare il caffè mentre Olive tolse le lenzuola e i cuscini dai letti dove avevano dormito lei e Tom. Era contenta di fare qualcosa, perché si sentiva alquanto turbata e agitata. In fin dei conti, come le ripetevano un po' tutti, non era più giovane come un tempo. L'immagine del giovane poliziotto che infilava un bastone in quel tumulo che ricordava una tomba l'aveva scossa. E poi quell'odore, anche se lei non l'aveva percepito. I libri su Christie, le copertine, la foto dell'assassino e ciò che implicavano, erano stati la goccia che fa traboccare il vaso. Temeva di scoppiare in lacrime da un momento all'altro, ma si era imposta di controllarsi. Mentre ripiegava le lenzuola usate da Tom, le mani le tremavano come fogli di carta velina scossi dal vento. Gwendolen era morta. Per qualche ragione ne aveva ormai la certezza. Sebbene non avesse mai nutrito una gran simpatia per colei che pure considerava sua amica, fu assalita dall'enormità della situazione, dall'incubo spaventoso di quella morte violenta. Due lacrime caddero sulle lenzuola. Le asciugò, quindi insaccò le lenzuola nelle federe per portarle a casa a lavare. Uscita dalla stanza, sentì un rumore di passi al piano superiore. Che fosse tornato Cellini? Poggiò a terra le federe e rimase in ascolto, sperando che l'udito non si stesse indebolendo come l'olfatto. Di nuovo quel rumore. L'istinto era quello di fuggire, gettarsi a capofitto per le scale e raggiungere Queenie, eppure non si mosse. Se Cellini fosse tornato se ne sarebbero accorte. La polizia era andata via da una decina di minuti e Tom subito dopo.
Si decise a scalare l'ultima rampa. Fu la decisione più coraggiosa della sua vita. Gli ultimi gradini li avrebbe saliti carponi se non fosse stato per il timore che Queenie, portando su il caffè, potesse vederla. Riuscì a raggiungere la sommità, si aggrappò al piastrino della ringhiera e guardò verso i due corridoi. A destra, quindi a sinistra. Poi si lasciò sfuggire un grido. «Che c'è? Cos'è successo?» Non rispose alle domande di Queenie, ma non gridava più. La voce non le usciva. Tutta tremante, fissava a occhi spalancati il volto di Christie. Era in tutto simile alle fotografie sulle copertine di quei libri. Si stava avvicinando, le mani protese. Aveva paura di morire, di essere colta da un infarto. «Per favore, non abbia paura.» Aveva un forte accento straniero. Non certo come Christie, le venne da pensare. Per un attimo chiuse gli occhi, quindi li riaprì e chiese: «Chi è lei?» Ma emise solo un sussurro impercettibile. Si schiarì la voce, e in tono più fermo ripeté la domanda: «Chi è lei?» «Mi chiamo Omar. Omar Ahmed. Vengo dall'Iraq.» «La guerra è finita» disse Olive. «Era un combattente?» L'uomo scosse il capo. Olive notò gli occhi di un nero vellutato, come non se ne trovano nelle razze anglosassoni, e i capelli corvini spruzzati di grigio. Ma lì gli uomini non portano tutti i baffi?, si chiese proprio mentre lui stava dicendo: «Ho tagliato la barba per non sembrare un mediorientale.» «È un rifugiato politico?» L'uomo annuì, e poi scosse la testa. «Era mia intenzione chiedere asilo politico quando arrivai qui, ma commisi un errore, non feci domanda e adesso sono un immigrato clandestino. Voglio tornare a casa, a Basra, la mia città. Lì sarò al sicuro.» Sull'espressione 'al sicuro' Olive aveva delle perplessità. «È vissuto qui?» gli chiese, ma senza aspettare risposta disse: «Venga giù a prendere un caffè con me e la mia amica.» Queenie rimase impressionata dall'intruso, temendo che potesse essere pericoloso. Ma ascoltò attentamente la sua storia. Era arrivato in Inghilterra viaggiando clandestinamente su un treno Eurostar, fino a Folkestone. Era ben consapevole che ciò che stava facendo era illegale, per questo aveva avuto timore di chiedere asilo politico, finché non era stato troppo
tardi. Era arrivato a Londra grazie al passaggio di un camionista ceco che veniva da Praga. Non avevano quasi scambiato parola, perché il ceco non parlava inglese e tanto meno arabo, mentre lui masticava solo un po' d'inglese. Aveva vissuto per un po' di elemosina, dormendo all'addiaccio, finché non gli era venuto in mente di cercare una casa vuota e isolata, abitata da una sola persona, possibilmente anziana. Così era capitato davanti a quella di Gwendolen, e quando era cominciato il freddo aveva cercato il modo per introdurvisi. A quel punto Queenie gli chiese perché non fosse rimasto a casa sua, preferendo avventurarsi in un paese straniero. Lui pronunciò il nome di Saddam Hussein, e raccontò che la moglie e i bambini erano scomparsi nel nulla, al che Queenie annuì comprensiva, posò una mano sulla sua e non chiese altro. «Mi sono arrampicato sul tetto e sono entrato da una finestra» spiegò. «È stato facile.» «E questo quando?» «Oh, tanto tempo fa. A febbraio, forse a marzo. Faceva freddo.» Di giorno chiedeva l'elemosina per poter mangiare. Una volta, a Notting Hill Gate, aveva visto 'l'uomo che vive qui' e sembrava che lo avesse riconosciuto, anche se pareva molto più spaventato di lui. Questo succedeva ogni volta che s'incontravano su al piano superiore; non sapeva perché la sua vista terrorizzasse tanto quell'uomo. Omar avrebbe voluto confidarsi con lui e domandare il suo aiuto, ma non appena lo vedeva l'altro scappava in preda al terrore. L'unica creatura vivente con cui aveva stabilito un contatto assiduo sin da quando era arrivato a Folkestone era stato un gatto che viveva in quella casa, che gli si era affezionato tanto da dormire con lui, probabilmente perché gli dava degli avanzi di carne e pesce. Nello scantinato aveva trovato un vecchio mangianastri e alcune cassette, che ascoltava a volume basso perché senza musica non poteva vivere. Una notte, non molto tempo prima, aveva sentito un rumore sordo, e quando era uscito dalla stanza aveva visto l'uomo che abitava lì trascinare qualcosa avvolta in un grosso lenzuolo. Se fosse stato a Basra avrebbe certo pensato che si trattasse di un cadavere, ma lì in Inghilterra cose del genere non erano possibili. A Queenie sfuggì un grido, ma Olive ebbe la presenza di spirito di dirgli: «Bisogna informare la polizia di ciò che ha visto. Adesso l'accompagniamo noi, così potrà anche chiedere come fare per rientrare in Iraq.» La
prospettiva non entusiasmava Omar, ma Olive cercò di tranquillizzarlo: «Saranno lieti di rimpatriarla. Adesso che la situazione è più sicura l'aiuteranno a tornare. Glielo prometto.» E spero che non te ne debba pentire, aggiunse tra sé. 29 Il treno per Norwich, che fermava a Witham, Colchester e Ipswich, partiva dal binario tredici. Per un attimo fu tentato di non partire o di andare in autobus, ma aveva già comprato il biglietto, che gli era costato un mucchio di soldi. L'ultima volta che aveva preso il treno aveva viaggiato in prima classe, ma adesso le cose erano cambiate. Doveva ridurre le spese. Era tempo di mettere qualcosa sotto i denti. Si mise in cerca del vagone ristorante, prese un hamburger, patatine fritte e una lattina di Coca-Cola. Poi, pensando: 'che diavolo, potrò pur permettermelo', si concesse una bottiglietta di gin da aggiungere alla bevanda. La sola idea di quel che lo aspettava era oltremodo deprimente. Detestava i bambini, e la prospettiva di dormire con la tribù di Shannon gli appariva rivoltante. Si ricordò che il figlio più piccolo soffriva di raffreddore cronico e tirava su col naso in continuazione. Non si lavavano mai, e Shannon era sempre troppo indaffarata o troppo stanca per occuparsi di loro. D'un tratto gli venne in mente il giorno che aveva cercato di ucciderla. Ma l'aveva fatto per davvero? Era veramente sua intenzione colpirla con la bottiglia per ammazzarla? In realtà non l'aveva toccata, Javy era intervenuto prima. A ripensarci adesso, tutti i problemi che aveva avuto erano cominciati quando Javy l'aveva frustato con la cinghia, dopo quell'evento. Per questo aveva picchiato la madre, che poi l'aveva costretto ad abbandonare la famiglia e a cavarsela da solo. Ma c'era anche dell'altro. Si trovava bene alla filiale della Fiterama di Birmingham, non avrebbe mai dovuto accettare la promozione e trasferirsi a sud. Non si era mai interessato molto a Crippen, eppure constatare che la sua casa non esisteva più si era rivelata una grossa delusione, sebbene non paragonabile allo shock subito a Rillington Place. Trasferirsi a Notting Hill si era dimostrato uno sbaglio, e uno sbaglio ancor più grave era stato l'aver affittato un appartamento in quella casa. Si lasciò sopraffare dall'autocommiserazione, fin quando non sentì spuntare una lacrima. Per tutta la vita era stato perseguitato dalla sfortuna. Il destino l'aveva
condotto in quella palestra dove aveva conosciuto Danila, che era stato costretto a uccidere, e questo aveva segnato l'inizio della sua rovina. L'indiano aveva detto alla Chawcer di averlo visto scavare in giardino, aveva la schiena a pezzi, con il pericolo assai concreto che non tornasse mai più quella di prima, inoltre aveva ucciso una donna già morta. Adesso, poi, aveva preso un treno in partenza dal binario tredici. Di eventi sfortunati come quelli ne aveva contati... tredici. Ancora quel numero maledetto! Senza volerlo si lasciò sfuggire un gemito. Una ragazza seduta di fronte alzò gli occhi e gli chiese: «Tutto bene?» Annuì, sforzandosi invano di sorridere. Era come se fosse precipitato per tredici scalini fino alla miserabile condizione in cui era ridotto, senza lavoro, sempre meno denaro, allontanato dagli amici, probabilmente destinato a essere ossessionato dai fantasmi per il resto dei suoi giorni. Tredici scalini, proprio come quelli che separavano il suo appartamento dal regno oscuro di quella vecchia. E cosa l'aspettava? Con mano tremante versò il gin nella lattina di coca piena a metà. La ragazza che si era informata sulle sue condizioni gli lanciava sguardi inquieti, bisbigliando con il ragazzo che le sedeva accanto. Pur essendovi abituato, il cocktail lo mise fuori combattimento. Si sentiva esausto. Lo scompartimento era pieno di viaggiatori che facevano baccano (alcuni dei giovani mangiavano e bevevano le stesse cose che aveva comprato lui, gettando in terra buste oleose e lattine), eppure si addormentò. Non riusciva a rimanere sveglio. Sognò di ritrovarsi in cima a quelle scale, a guardare verso il basso. Una voce lo ammoniva a non scendere, a ritrarsi. Rimani dove sei, anche un solo passo può esserti fatale. Ma una forza lo attirava giù, irrefrenabile, uno, due, tre... Finché, giunto sul pianerottolo inferiore, trovava Reggie ad aspettarlo. Si svegliò gridando. La ragazza che gli sedeva di fronte non si mostrò più comprensiva come prima. Mormorava qualcosa nell'orecchio del ragazzo, e Mix capì che lo credeva ubriaco. Forse era così. Un po' di aria fresca gli avrebbe schiarito la mente, e da Shannon avrebbe fatto bene a non toccare alcolici. Una voce dall'altoparlante avvertì: «Il treno è in arrivo nella stazione di Colchester. Prossima fermata Colchester.» Mix recuperò la borsa e si avvicinò alla porta, già ingombra di giovani carichi di borse e zaini sulle spalle. Il treno entrò lentamente in stazione, e quando si fermò i passeggeri scesero facendosi largo e sgomitando. Anche lui scese, ma non andò lontano.
Nessuno gli mise una mano sulla spalla. Una cosa del genere accadeva solo nei film o alla TV. Le parole che gli rivolse il poliziotto più anziano le aveva sentite centinaia di volte, tanto da conoscerle a memoria. Roba del tipo: 'tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei'. Be', potevano anche dirlo, perché era vero. «Con la ragazza è stata legittima difesa» si giustificò subito. «La vecchia era già morta prima che la toccassi. Non sono un assassino, non sono Christie.» Olive non riusciva a trovare i suoi occhiali da lettura. Ne aveva solo un paio, vecchio di quindici anni, che tra l'altro non andava più bene. Stava per chiamare l'ottico per ordinarne uno nuovo quando si ricordò di averli lasciati a St Blaise House. La polizia aveva interdetto l'accesso alla casa per una settimana, in modo che la scientifica potesse svolgere il proprio lavoro. Adesso la casa era vuota. Michael Cellini era accusato dell'omicidio di Gwendolen, e per il momento le acque si erano calmate. Tom aveva detto che la polizia stava cercando di incriminarlo anche per la morte e l'occultamento del cadavere di Danila Kovic. Olive entrò in casa. Aveva già deciso, occhiali o non occhiali, di lasciare lì la chiave, una volta per tutte. L'avrebbe rimessa, insieme alle altre chiavi principali, nell'asciugabiancheria. Riporla in quel posto ridicolo era un modo per rendere omaggio alla bizzarra volontà della ex proprietaria, un piccolo tributo a Gwendolen. Fece ingresso nel salotto, chiedendosi cosa ne sarebbe stato della casa. Esistevano degli eredi? Gwendolen non aveva mai accennato a dei parenti, salvo una vecchia cugina della madre, che aveva presenziato al suo funerale. Ma questo aveva avuto luogo cinquant'anni prima. Per quanto ne sapeva, era figlia unica. Chissà se aveva lasciato un testamento. St Blaise House valeva milioni di sterline. Dove poteva aver lasciato gli occhiali? In salotto o in cucina, naturalmente (anche se lì non ne avrebbe avuto bisogno), o su nella camera da letto dove aveva dormito. Si avviò per le scale. Queenie aveva pianto per Gwendolen, a lei non era sfuggita una lacrima. Era troppo arrabbiata. Era stata una fortuna che, quando la verità era venuta a galla, quel Cellini non le fosse più capitato a tiro. «Gli sarei saltata addosso!» esclamò rivolta alla casa vuota. Sì, gli avrebbe conficcato le unghie in faccia. Almeno avrebbe avuto un senso tenerle così lunghe. Finalmente arrivò in cima alla rampa di scale ed entrò nella triste, sudicia e trasandata camera da letto. Cercò per
qualche minuto, poi dovette lavarsi le mani. Gli occhiali erano in salotto, sotto una poltrona, ricoperti da una lanugine di polvere e mosche morte. Andò in cucina a sciacquarli, e in quel mentre suonarono alla porta. Qualche venditore o l'arrotino, pensò mentre correva ad aprire. Si trovò davanti un uomo anziano e una donna di mezza età. Che si trattasse di qualche parente di Gwendolen? «Mi chiamo Reeves» si presentò l'uomo, con un ampio sorriso. «Dottor Stephen Reeves. Passavo da queste parti e ho pensato di fare un salto a salutare la signorina Chawcer. Questa è mia moglie Diana. È in casa la signorina?» «Purtroppo no.» Poi si rese conto che doveva spiegarne il motivo, pur con un giro di parole. «Gwendolen non è più tra noi. È accaduto all'improvviso.» Il dottor Reeves scosse il capo, atteggiando il viso a un'espressione di circostanza. «Santo cielo! Be', comunque aveva la sua età. Capita a tutti, prima o poi. Avevamo solo pensato di fare una capatina. A dire la verità» aggiunse, non riuscendo a trattenere un largo sorriso «siamo qui in luna di miele.» FINE