MARGARET WEIS & TRACY HICKMAN I DRAGHI DEL SOLE MORENTE (Dragon Of A Fallen Sun, 2000)
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MARGARET WEIS & TRACY HICKMAN I DRAGHI DEL SOLE MORENTE (Dragon Of A Fallen Sun, 2000)
DEDICATO CON RICONOSCENZA A PETER ADKISON, CHE HA RIPORTATO IN VITA LA MAGIA DI DRAGONLANCE
LA GUERRA DELLE ANIME VOLUME PRIMO La canzone di Mina Il giorno se n'è andato senza che noi potessimo fermarlo. I petali si chiudono sul fiore. La luce svanisce nell'ora dell'ultimo respiro del giorno. L'oscurità della notte circonda le anime distanti di stelle ora splendenti. Lontano da questo mondo di dolore, paura e morte, al quale siamo legati. Dormi, amore; dormi per sempre. La notte proteggerà la tua anima. Abbraccia l'oscurità profonda. Dormi, amore; dormi per sempre. L'oscurità avvolgente s'impadronisce delle nostre anime, racchiudendoci in un gelido abbraccio, nella profondità del vuoto della Signora che tiene il nostro destino nelle sue mani. Sognate, guerrieri, il buio sopra di voi, e sentite la dolce redenzione della Consorte della Notte e del suo amore per coloro che sono nel suo cerchio.
Dormi, amore; dormi per sempre. La notte proteggerà la tua anima. Abbraccia l'oscurità profonda. Dormi, amore; dormi per sempre. Chiudiamo gli occhi, riposiamo le menti, sottomettiamo i nostri desideri al suo ordine. Confessiamo le nostre debolezze, e pieghiamoci al suo volere. La forza del silenzio colma il cielo, la sua profondità oltre me e te. Nelle sue braccia voleranno le nostre anime, e là cesseranno paura e dolore. Dormi, amore; dormi per sempre. La notte proteggerà la tua anima. Abbraccia l'oscurità profonda. Dormi, amore; dormi per sempre. LIBRO PRIMO I IL CANTO DELLA MORTE I mani chiamavano la valle Gamashinoch - il Canto della Morte. Nessuno dei viventi ci metteva piede di sua spontanea volontà. Chi vi entrava lo faceva per disperazione, urgente bisogno, o perché ne aveva ricevuto l'ordine dal proprio comandante. I Cavalieri ascoltavano il «canto» da ore, mentre la loro avanzata li portava sempre più vicini alla valle desolata. Era angoscioso, terribile. Le parole, mai chiaramente udibili, mai del tutto distinguibili - almeno non con le orecchie - parlavano della morte, e peggio. Il canto parlava di catture, frustrazioni amare, tormenti infiniti. Era un lamento, un'espressione di desiderio per un luogo che l'anima ricordava, un porto di pace e di beatitudine ormai irraggiungibili. Nel sentire per la prima volta quel lugubre suono, i Cavalieri avevano tirato le redini dei destrieri, allungando la mano verso le spade; si guardavano intorno con apprensione, gridando: «Che succede?» e «Chi va là?»
Ma non c'era nessuno. Nessuno dei viventi. I Cavalieri fissarono il comandante che, ritto sulle staffe, esaminava le rupi a strapiombo su di loro, a destra e a sinistra. «Non è niente», disse questi, infine. «Solo il vento fra le rocce. Andate avanti.» Spronò il cavallo sulla strada che correva sinuosa attraverso i monti noti come Signori del Fato. La pattuglia seguì in colonna; il passaggio era troppo stretto perché gli uomini potessero procedere affiancati. «Ho già sentito il vento, mio signore», osservò un Cavaliere, burbero, «e deve ancora acquisire voce umana. Questo canto ci avvisa di stare lontani. Faremmo meglio a dargli ascolto.» «Sciocchezze!» Il caposquadra Ernst Magit si girò sulla sella per trafiggere con lo sguardo il suo ricognitore e comandante in seconda, che veniva dietro di lui. «Sproloqui superstiziosi! Del resto, voi minotauri siete famosi perché vi aggrappate a idee e costumi vecchi e superati. È tempo che entri nell'epoca moderna. Gli dei se ne sono andati, e meno male, dico io. Noi esseri umani governiamo il mondo.» Una sola voce, una voce di donna, aveva dapprima intonato il Canto della Morte. Ora le si aggiunse uno spaventoso coro di uomini, donne e bambini, innalzato in una tragica nenia di disperazione, rovina e tormento che riecheggiava fra le montagne. A quel suono luttuoso, diversi cavalli si fermarono, rifiutando di proseguire; e, a dire la verità, i loro padroni non fecero molto per incitarli. Il cavallo di Magit s'impennava e scartava. Magit gli conficcò gli speroni nei fianchi, lasciando grossi incavi sanguinolenti, e la bestia avanzò riluttante, con la testa bassa e le orecchie scosse da spasmi. Il caposquadra cavalcò per circa mezzo miglio, prima di accorgersi che non sentiva rumore di altri zoccoli. Guardandosi intorno, vide che era il solo a procedere. Nessuno degli uomini l'aveva seguito. Furibondo, Magit si girò, tornando al galoppo dai suoi. Trovò metà pattuglia a terra, e l'altra metà che, con aria imbarazzata, stava in sella a cavalli tremanti. «Le bestie hanno più cervello dei loro padroni», disse il minotauro, in piedi sulla strada. Pochi cavalli permettevano a un minotauro di montarli, e meno ancora avevano la forza e la stazza necessarie per portare uno dei più grossi. Galdar era alto più di due metri, contando le corna. Teneva il passo con la pattuglia, correndo agevolmente accanto alle staffe del comandante. Magit sedeva sul suo cavallo, le mani sul pomo della sella, il viso rivolto
agli uomini. Era un tipo alto, esageratamente magro, le cui ossa sembravano legate insieme con il filo d'acciaio, perché era molto più forte di quanto non dicesse il suo aspetto. Gli occhi, di un azzurro acquoso, erano scialbi, senza intelligenza, senza profondità. Era famoso per la sua crudeltà, per la sua disciplina inflessibile - molti l'avrebbero detta irragionevole - e per la sua devozione completa e totale a un'unica causa: se stesso. «Monterete sui vostri cavalli e mi seguirete», intimò freddamente, «o vi denuncerò tutti quanti al capobanda. Vi accuserò di codardia, ammutinamento, e tradimento della Visione. Come sapete, la pena per anche uno solo di questi crimini è la morte.» «Lo può fare?» bisbigliò un Cavaliere novello, che era alla sua prima missione. «Certo», risposero i veterani, cupi. «E lo farà.» I Cavalieri rimontarono in sella e incitarono i cavalli con gli speroni. Erano costretti a girare intorno al minotauro, Galdar, che restava in piedi in mezzo alla strada. «Ti rifiuti di obbedire al mio ordine, minotauro?» domandò rabbiosamente Magit. «Pensaci bene, prima. Sarai anche il pupillo del Protettore del Teschio, ma dubito che persino lui potrebbe salvarti se ti deferissi al Consiglio per codardia e violazione di giuramento.» Piegandosi sul collo del cavallo, Magit parlò con finta confidenza. «E da quel che sento, Galdar, il tuo padrone potrebbe non essere più tanto ansioso di proteggerti. Un minotauro con un braccio solo. Un minotauro guardato con pietà e disprezzo dalla sua stessa gente. Un minotauro ridotto al rango di "ricognitore". E sappiamo tutti che ti hanno assegnato quel ruolo tanto per farti fare qualcosa. Anche se ho sentito suggerire che ti mettessero a pascolare nei campi con il resto delle pecore.» Galdar strinse il pugno che gli rimaneva, conficcando nella carne le unghie acuminate. Sapeva molto bene che Magit lo stava provocando, adescandolo in una lite, lì, dove ci sarebbero stati pochi testimoni. Lì, dove Magit avrebbe potuto uccidere il minotauro storpio, e ritornare a casa sostenendo che il combattimento era stato equo e glorioso. Galdar non era particolarmente attaccato alla vita, non da quando la perdita del braccio l'aveva trasformato da temibile guerriero a goffo ricognitore. Ma che fosse dannato se doveva morire per mano del comandante: non voleva dargli quella soddisfazione. Il minotauro si fece strada a spallate oltre Magit, che lo guardò con un ghigno di disprezzo sulle labbra sottili.
La pattuglia continuò verso la meta, sperando di raggiungerla con la luce del giorno, se così si poteva chiamare il freddo, grigio chiarore che non riscaldava nulla. Il Canto della Morte risuonava lugubre e lamentoso. Una delle reclute cavalcava con le guance rigato di lacrime. I veterani procedevano curvi, con le spalle alzate sulle orecchie, come per escludere quel suono terribile. Ma anche con le orecchie piene di stoppa, anche con i timpani rotti, l'avrebbero sentito comunque. Il Canto della Morte riecheggiava nel cuore. La pattuglia entrò nella cosiddetta valle di Neraka. Nella notte dei tempi, la dea Takhisis, Regina delle Tenebre, aveva posato all'estremità meridionale della valle una prima pietra, salvata dall'esplosione del tempio del Sommo Sacerdote di Istar. La pietra aveva cominciato a crescere, attraendo vitalità dal male del mondo; diventò un tempio, vasto e imponente; un tempio di oscurità orrenda e grandiosa. Takhisis contava di usarlo per ritornare al mondo da cui era stata scacciata da Huma Dragonbane, ma l'amore e l'abnegazione le bloccarono la strada. Tuttavia, conservava un grande potere, e sferrò contro il mondo una guerra che quasi lo distrusse. I suoi perfidi comandanti, come un branco di cani selvatici, si misero a litigare fra loro. Sorse una coorte di eroi che, guardandosi nel cuore, trovarono il potere di contrastarla, sconfiggerla e umiliarla. Il tempio di Neraka fu fatto a pezzi dalla rabbia della regina per la sua disfatta. Le pareti esplosero, e piovvero dai cieli in quel giorno terribile: massi neri, enormi che schiacciarono la città di Neraka. Fuochi purificatori distrussero gli edifici del luogo maledetto, bruciarono i mercati e i recinti per gli schiavi, e i numerosi corpi di guardia, riempiendo di cenere le vie tortuose, labirintiche. Oltre cinquant'anni dopo, non rimaneva più traccia della città originaria. I frammenti dell'ossatura del tempio costellavano il fondo della parte meridionale della valle di Neraka. Da tempo, il vento aveva soffiato via la cenere. Qui, non cresceva nulla: i vortici di sabbia avevano coperto ogni segno di vita. Restavano solo i massi neri, i resti del tempio. Erano una vista orrenda, e persino il caposquadra Magit, posandovi lo sguardo per la prima volta, si chiese in cuor suo se la sua decisione di addentrarsi in quel luogo fosse stata intelligente. Avrebbe potuto aggirarlo, ma così avrebbe aggiunto due giorni al viaggio, ed era già in ritardo, avendo trascorso qualche notte in più con una nuova prostituta arrivata al suo bordello preferito. Doveva re-
cuperare tempo, e aveva scelto come scorciatoia questo percorso attraverso la parte meridionale della valle. Forse a causa della forza dell'esplosione, la roccia nera che aveva formato le pareti esterne del tempio aveva acquisito una struttura cristallina. I massi che si ergevano dalla sabbia non erano scabri, rugosi; erano lisci, con piani nettamente definiti culminanti in punte sfaccettate. Immaginate cristalli di quarzo nero che sporgano dalla sabbia grigia, alcuni alti quattro volte un uomo. Questi potrebbe vedere il suo riflesso nei loro lucidi piani, un riflesso deformato, distorto, e tuttavia completamente riconoscibile. Questi uomini si erano uniti di buon grado all'esercito dei Cavalieri di Takhisis, spinti dalla promessa del bottino e degli schiavi vinti in battaglia, dalla loro gioia nell'uccidere e nell'opprimere, dal loro odio per elfi, kender, nani, o qualunque altro essere diverso da loro. Questi uomini, da tempo insensibili ai buoni sentimenti, guardarono nei piani lucenti dei cristalli e furono atterriti dalle immagini che ritornavano loro, poiché si videro aprire la bocca, per intonare quel canto terribile. La maggior parte rabbrividì, e distolse rapidamente lo sguardo. Galdar non li imitò. Nel vedere i cristalli neri ergersi da terra, aveva abbassato gli occhi, e bassi li tenne, per reverenza e rispetto; o superstizione, come sicuramente avrebbe detto Ernst Magit. Gli dei non erano in quella valle. Galdar sapeva che era impossibile: erano stati scacciati da Krynn più di trent'anni prima; ma il loro spirito aleggiava in quel luogo, ne era certo. Magit guardò il suo riflesso nella roccia; e proprio perché ne rifuggiva internamente, si costrinse a fissarlo fino a dominarsi. «Non mi farò spaventare dalla mia ombra!» esclamò, con un'occhiata significativa a Galdar. «Come una stupida pecora.» Magit aveva da poco inventato questo humour "ovino". Lo considerava estremamente buffo e altamente originale, e non perdeva occasione di farvi ricorso. «Capito, minotauro?», concluse con una risata. Il Canto della Morte la raccolse, e le conferì melodia e tono: cupi, discordanti, opposti alle sue altre voci. Il suono era così orribile che Magit fu scosso. Tossì e inghiottì la risata, con grande sollievo dei suoi uomini. «Tu ci hai portato qui, caposquadra», ribatté Galdar. «Abbiamo visto che questa parte della valle è disabitata, che nessuna forza solamnica vi si nasconde, pronta a piombare su di noi. Possiamo procedere verso il nostro obiettivo, sicuri che da questa direzione non abbiamo nulla da temere dalla terra dei vivi. Ora lasciamo questo posto, e in fretta. Torniamo a fare rapporto.»
I cavalli erano entrati nella valle meridionale con tanta riluttanza che in certi casi i Cavalieri erano stati costretti a smontare di nuovo, a coprire loro gli occhi e a guidarli, come nella fuga da un edificio in fiamme. Sia gli uomini sia gli animali erano evidentemente ansiosi di andarsene. I cavalli si diressero piano verso la strada da cui erano arrivati, affiancati dai Cavalieri. Ernst Magit voleva lasciare quel luogo tanto quanto gli altri. E proprio per questa ragione decise che sarebbero rimasti. Nel profondo del cuore, era un codardo; e lo sapeva. Per tutta la vita, aveva compiuto imprese per provare a se stesso il contrario. Niente di veramente eroico. Magit evitava il pericolo non appena poteva; anche per questo stava di pattuglia, e non si era unito agli altri Cavalieri di Neraka, che assediavano la città di Sanction, controllata dai Solamnici. intraprendeva azioni futili, di poco conto, le quali non lo esponevano a rischi, ma avrebbero dimostrato a lui e ai suoi che non aveva paura. Azioni tipo trascorrere la notte in quella valle maledetta. Guardò ostentatamente il cielo, che era di un giallo pallido e malsano, una strana tinta che nessuno dei Cavalieri aveva mai visto. «Ormai, è il crepuscolo», annunciò in tono sentenzioso. «Non voglio farmi sorprendere dalle tenebre fra le montagne. Ci accamperemo qui e ripartiremo domattina.» I Cavalieri lo fissarono increduli, inorriditi. Il vento era cessato. Il canto non riecheggiava più nei cuori. Sulla valle era sceso il silenzio, dapprima accolto con gioia, poi sempre più odiato man mano che si protraeva. Il silenzio pesava su di loro, li opprimeva, li schiacciava. Nessuno parlava. Aspettavano che il comandante dicesse loro che aveva voluto scherzare. Magit scese da cavallo. «Ci accamperemo qui», ripeté. «Montate la mia tenda di comando vicino al più alto di quei monoliti. Galdar, ti rendo responsabile delle operazioni. Spero che saprai affrontare questo semplice compito.» Il tono sembrò innaturalmente alto, la voce stridula. Un soffio d'aria, freddo e pungente, sibilò nella vallata, alzando la sabbia in turbini che vorticarono sul terreno spoglio, e si allontanarono con un sussurro. «Stai commettendo un errore, signore», osservò Galdar sommessamente, per disturbare il silenzio il meno possibile. «Qui non siamo voluti.» «E chi non ci vuole, Galdar?» Il caposquadra sogghignò. «Le rocce?» Colpì il lato di un monolito di cristallo nero. «Ah! Che pecora stupida e superstiziosa!» La sua voce s'indurì. «Voi uomini. Smontate da cavallo e
cominciate a piantare le tende. È un ordine.» Ernest Magit si stiracchiò, fingendosi rilassato. Si piegò su se stesso, sciolse i muscoli. I Cavalieri, cupi e infelici, eseguirono i suoi comandi. Metà pattuglia scaricò i rotoli dalle selle e cominciò a montare le tende piccole, per due persone. Gli altri tolsero dal bagaglio cibo e acqua. Ogni tentativo di accamparsi fu un fallimento. Nessun martellio, per quanto protratto, riuscì a conficcare le punte di metallo nel terreno duro. Ogni colpo di martello rimbombava fra le montagne, e ritornava amplificato cento volte, finché non sembrò che le montagne stesse si accanissero su di loro. Galdar buttò a terra il mazzuolo, adoperato goffamente con l'unica mano. «Che succede, minotauro?» domandò Magit. «Sei così debole che non riesci a piantare un picchetto da tenda?» «Provaci tu, signore», replicò Galdar. Gli altri gettarono il mazzuolo e rimasero a fissare il comandante, con aria ostile e provocatoria. Magit era livido di rabbia. «Voi uomini potete dormire all'aperto se siete troppo stupidi per montare una semplice tenda!» Tuttavia, non tentò di conficcare i picchetti nel suolo roccioso. Si guardò intorno finché non trovò quattro cristalli neri che formavano un quadrato rozzo, irregolare. «Legate la mia tenda a quei quattro massi», ingiunse. «Almeno io dormirò bene stanotte.» Galdar eseguì l'ordine. Avvolse le corde alla base dei monoliti, borbottando nel contempo un canto magico che, per i minotauri, placava lo spirito dei morti senza pace. Gli uomini cercarono di legare le bestie alle pietre, ma esse s'impuntavano e s'impennavano, prese dal terrore e dal panico. Infine, i Cavalieri tesero una corda fra due monoliti, e vi legarono i cavalli. Questi si strinsero fra loro, nervosi e agitati, roteando gli occhi e tenendosi il più possibile lontani dalle rocce nere. Mentre gli uomini si davano da fare, Ernst Magit prese una mappa dalla bisaccia e, dopo un'ultima occhiataccia all'intorno per ricordare a ognuno il proprio dovere, l'aprì e cominciò a studiarla con un'aria attenta e tranquilla che non ingannava nessuno. Stava sudando, e non aveva lavorato per nulla. Lunghe ombre si stendevano sulla valle di Neraka, rendendola molto più oscura del cielo, illuminato da un bagliore giallo-fiamma. L'aria era calda,
più di quando erano arrivati, ma di tanto in tanto vortici di vento freddo turbinavano da ovest, gelando le ossa fino al midollo. I Cavalieri non avevano portato legna con sé. Mangiarono razioni fredde, o almeno cercarono di farlo. Ogni boccone era inquinato dalla sabbia; alla fine, gettarono via la maggior parte del cibo. Seduti sul terreno duro, si guardavano costantemente alle spalle, scrutando attentamente nel buio. Tutti avevano la spada sguainata. Non c'era bisogno di stabilire i turni di guardia: nessuno aveva intenzione di dormire. «Ehi! Guardate!» chiamò Ernst Magit in tono di trionfo. «Ho fatto una scoperta importante! Abbiamo fatto bene a passare un po' di tempo qui.» Indicò la sua mappa, e poi l'ovest. «Vedete quella catena montuosa? Non è segnata sulla mappa. Deve essere di formazione recente; lo farò certamente notare al Protettore. Forse sarà chiamata col mio nome, in mio onore.» Galdar guardò la catena. Si alzò lentamente, fissando il cielo occidentale. Sicuramente, a prima vista, quella formazione grigio acciaio e blu cupo sembrava proprio una nuova montagna spuntata dal terreno. Ma, d'un tratto, il minotauro notò qualcosa che il caposquadra, nel suo entusiasmo, si era fatto sfuggire. La montagna cresceva e si espandeva con rapidità allarmante. «Signore!» gridò Galdar. «Quella non è una montagna! Sono nuvole di tempesta!» «Sei già una pecora, non fare anche l'asino», ribatté Magit. Aveva raccolto un pezzo di roccia nera e lo stava usando a mo' di gessetto per aggiungere il Monte Magit alle meraviglie del mondo. «Signore, da giovane ho passato dieci anni per mare, e so riconoscere una tempesta. Anche se non ho mai visto niente del genere!» Ora il banco di nubi s'innalzava a velocità incredibile; con il suo cuore nero, ribolliva tumultuoso come un mostro vorace dalle molte teste, inghiottendo la cima delle montagne, allungandosi su di esse per consumarle tutte intere. Il vento gelido si rafforzò, buttando la sabbia negli occhi e nelle bocche, e investendo la tenda del comandante, che sbatté violentemente, lottando contro i legacci. Il vento ricominciò a intonare lo stesso terribile canto, lo stesso lamento funebre, lo stesso gemito di disperazione, lo stesso urlo di angoscioso tormento. Colpiti dal vento, gli uomini cercarono di rialzarsi. «Comandante! Dobbiamo andarcene!» gridò Galdar. «Ora! Prima che scoppi la tempesta!» «Sì!» rispose Ernst Magit, pallido e scosso. Si leccò le labbra, sputò del-
la sabbia. «Sì, hai ragione. Dobbiamo andarcene subito. Lasciate stare la tenda! Portatemi il mio cavallo!» Un fulmine lampeggiò nell'oscurità, trafisse il terreno vicino al punto in cui erano legati i cavalli. Esplose il tuono. La scossa fece cadere alcuni uomini. I cavalli nitrirono, s'impennarono, agitarono gli zoccoli. Chi era ancora in piedi cercò di calmarli, ma loro non ne vollero sapere; liberatisi con uno strattone dalla corda che li teneva, galopparono via in preda a un folle panico. «Prendeteli!» esclamò Magit, ma gli uomini avevano il loro daffare a restare ritti contro il vento sferzante. Un paio fecero qualche passo traballante verso i cavalli, ma era ovvio che la caccia era completamente inutile. Le nubi della tempesta correvano nel cielo, combattendo contro la luce, e sconfiggendola facilmente. Il sole cadde, sopraffatto dalle tenebre. La notte era scesa su di loro, una notte fitta di sabbia turbinante. Galdar non vedeva assolutamente nulla, nemmeno la sua unica mano. Un attimo dopo, ogni cosa all'intorno fu illuminata da un altro fulmine devastatore. «State giù!» urlò, gettandosi a terra. «Mettetevi distesi! Tenetevi lontani dai monoliti!» Le gocce di pioggia cadevano lateralmente, colpendoli come frecce lanciate da un milione di archi. I chicchi di grandine li percuotevano come fruste dalla punta d'acciaio, lasciando lividi e ferite. Galdar aveva la pelle dura, i chicchi lo pungevano come morsi di formica; ma gli altri gridavano di dolore e di terrore. Il fulmine si muoveva in mezzo a loro, scagliando le sue lance fiammeggianti. Il tuono scuoteva la terra, rombando e rimbombando. Sdraiato sulla pancia, Galdar lottava contro l'impulso di squarciare la terra con la mano, per rintanarsi nelle profondità del mondo. Fu stupefatto nel vedere, durante il lampo successivo, il suo comandante che cercava di alzarsi. «Signore, sta' giù!» intimò, e fece per afferrarlo. Magit imprecò, sferrandogli un calcio alla mano. A testa china contro il vento, il caposquadra barcollò fino a uno dei monoliti. Vi si mise davanti, usando la sua grande mole per ripararsi dalla pioggia battente e dalla grandine martellante. Poi, ridendo dei suoi uomini, sedette sul terreno, appoggiò la schiena contro la pietra e distese le gambe. Il lampo accecò Galdar. Lo scoppio lo assordò. Con la sua forza, il fulmine lo sollevò da terra, poi lo ricacciò giù. Aveva colpito così da vicino che il minotauro aveva udito lo sfrigolio nell'aria, e sentiva odore di fosfo-
ro e zolfo. Sentiva anche qualcos'altro: odore di carne bruciata. Si strofinò gli occhi per cercare di vedere attraverso il bagliore frastagliato che li riempiva. Quando gli tornò la vista, guardò verso il comandante. Con il lampo successivo, vide una massa informe, rannicchiata ai piedi del monolito. La carne di Magit rosseggiava sotto una crosta nera, come un pezzo di arrosto troppo cotto. Da essa si levava del fumo, che il vento soffiava via, insieme a frammenti carbonizzati. La pelle del viso, incenerita, rivelava una chiostra di denti aperta in un orrido sorriso. «Felice di vedere che stai ancora ridendo, caposquadra», borbotto Galdar. «Eri stato avvisato.» Si appiattì ulteriormente sul terreno, maledicendo le costole che facevano da ostacolo. La pioggia s'intensificò, se era possibile. Il minotauro si chiese quanto potesse continuare la violenta tempesta. Gli sembrava che durasse da una vita; che in essa fosse nato, e in essa sarebbe invecchiato e poi morto. Una mano l'afferrò per il braccio; lo scosse. «Signore! Guarda là!» Uno dei Cavalieri l'aveva raggiunto, strisciando sul terreno. «Signore!» L'uomo mise la bocca all'orecchio di Galdar, gridò raucamente per farsi sentire sopra la pioggia sferzante, la grandine martellante, il tuono costante e, peggio ancora, il Canto della Morte. «Ho visto qualcosa muoversi laggiù!» Galdar sollevò la testa, scrutò nella direzione indicata, nel cuore della valle di Neraka. «Aspetta il prossimo lampo!» urlò il Cavaliere. «Ecco! Eccolo!» Il lampo successivo fu una cortina di fiamma che illuminò il cielo, il terreno e le montagne di un fulgore bianco e porpora insieme. Contro la terribile luce si stagliava una figura, che avanzava verso di loro, muovendosi calma attraverso la tempesta impetuosa; sembrava non toccata dal vento, non scossa dal fulmine, non timorosa del tuono. «È uno dei nostri?» indagò Galdar, pensando dapprima che uno degli uomini fosse impazzito e scappato come i cavalli. Ma nello stesso momento in cui faceva la domanda, capì che non era così. La figura camminava, non correva. E non fuggiva, si avvicinava. Il lampo si spense. Cadde il buio, e la figura scomparve. Galdar aspettò con impazienza che il lampo successivo gli mostrasse quell'essere pazzo che sfidava la furia della tempesta. Il fulmine illuminò il terreno, le montagne, il cielo. La persona era ancora lì, e veniva ancora verso di loro. Sem-
brò a Galdar che il Canto della Morte si fosse trasformato in un peana di celebrazione. Di nuovo il buio. Il vento si placò un poco. La pioggia si addolcì in un acquazzone costante. La grandine cessò del tutto. Il tuono si stemperò in un rullio, che sembrava accompagnare il passo dello strano profilo scuro, sempre più vicino a ogni bagliore. La tempesta passò a infuriare dall'altra parte delle montagne, in altre parti del mondo. Galdar si alzò in piedi. Bagnati fradici, i Cavalieri si tolsero acqua e fango dagli occhi, guardando mestamente le coperte zuppe. Il vento era gelido e pungente, e tremavano tutti tranne Galdar, la cui pelliccia e la spessa pelle lo proteggevano fino alle temperature più rigide. Con uno scossone, il minotauro liberò le corna dall'acqua, e aspettò che la figura arrivasse a portata di voce. Le stelle, simili a punte di lancia dal bagliore freddo e mortale, apparvero a ovest. L'ultimo scaglione della tempesta, con i suoi bordi frastagliati, sembrava scoprirle al suo passaggio. La luna solitaria era sorta sfidando il tuono. Ormai, lo sconosciuto era a non più di venti piedi e, alla luce argentea della luna, Galdar poteva vederlo chiaramente. Un essere umano, un giovane, a giudicare dal corpo snello, ben piantato, e dalla pelle liscia del viso. I capelli, rossi, erano tagliati a spazzola, il che accentuava i tratti del viso, mettendo in risalto gli zigomi alti, il mento aguzzo, la bocca arcuata. Il giovane indossava la camicia e la giubba di un comune cavaliere e stivali di pelle, e non portava spada alla cintola, né nessun'altra arma che Galdar potesse vedere. «Alt, e fatti riconoscere!» gridò aspramente il minotauro. «Fermati lì, ai margini del campo.» Il giovane obbedì, con le mani alzate, i palmi rivolti all'esterno per mostrare che erano vuote. Galdar sguainò la spada. In quella strana notte, non voleva correre rischi. La teneva goffamente nella sinistra. L'arma gli era quasi inutile; a differenza di altri amputati, non aveva mai imparato a combattere con la mano rimasta. Prima della disgrazia, era stato un abile spadaccino, e ora era maldestro e inetto. Poteva benissimo far male a se stesso, oltre che al nemico. Molte volte Ernst Magit aveva riso fragorosamente nel vederlo annaspare durante le esercitazioni. Be', ora non aveva più tanto da ridere. Galdar avanzò, con la spada in mano. L'elsa era bagnata e scivolosa; sperava di non lasciarla cadere. Il giovane non poteva sapere che lui era un guerriero superato, finito. Il minotauro aveva un'aria intimidatoria, e rima-
se sorpreso nel vedere che lo sconosciuto non tremava davanti a lui, né sembrava poi tanto impressionato. «Sono disarmato», esordì questi, con una voce profonda che non si intonava con l'aspetto giovanile. La voce aveva uno strano timbro, dolce, musicale; ricordava stranamente a Galdar una di quelle del Canto, ora ridotto a un mormorio sommesso, come in segno di rispetto. Non era una voce di uomo. Galdar guardò attentamente il giovane, il collo sottile simile al lungo stelo di un giglio, che sosteneva il cranio meravigliosamente tonnato, perfettamente liscio sotto la peluria rossa. Esaminò anche il corpo flessuoso. Le braccia erano muscolose, così come le gambe, nelle calze di lana. La camicia bagnata, troppo grande, penzolava dalle spalle esili. Galdar, che non vedeva niente sotto le sue pieghe, non poté accertare se lo sconosciuto fosse maschio o femmina. I Cavalieri si raccolsero intorno al minotauro. Tutti fissavano il giovane, bagnato e luccicante come un neonato. Gli uomini erano accigliati, diffidenti, inquieti. E chi poteva biasimarli? Tutti si facevano la stessa domanda di Galdar. Nel nome del grande dio cornuto che era morto abbandonando il suo popolo, che cosa ci faceva quell'essere umano, in quella valle maledetta, in quella notte maledetta? «Come ti chiami?» chiese Galdar. «Il mio nome è Mina.» Una ragazza. Una ragazzina. Non poteva avere più di diciassette anni... se li aveva. E tuttavia, malgrado il nome, un nome da donna popolare fra gli umani, malgrado le tracce del suo sesso nella liscia sagoma del collo e nella grazia dei movimenti, Galdar ancora dubitava. C'era qualcosa di molto poco femminile in lei. Mina sorrise leggermente, come se potesse sentire i suoi dubbi inespressi, e disse: «Sono una donna». Scrollò le spalle. «Anche se fa poca differenza.» «Avvicinati», ordinò bruscamente Galdar. La ragazza obbedì, fece un passo avanti. Galdar la guardò negli occhi, e per poco il respiro non gli si fermò in gola. In vita sua, aveva visto esseri umani di tutte le forme e di tutte le misure, ma mai uno, mai una creatura vivente con occhi del genere. Innaturalmente ampi, infossati, erano color ambra, con le pupille nere, e le iridi circondate da un anello d'ombra. L'assenza di capelli li faceva sembrare ancora più grandi. Mina era tutt'occhi, e quegli occhi assorbivano
Galdar e lo imprigionavano, come l'ambra dorata imprigiona le carcasse dei piccoli insetti. «Sei tu il comandante?» chiese lei. Galdar lanciò un'occhiata verso il corpo carbonizzato alla base del monolito. «Ora sì» rispose. Mina seguì il suo sguardo, osservò il cadavere con freddo distacco. Riportò gli occhi ambra su Galdar, che avrebbe potuto giurare di vedervi il corpo di Magit chiuso dentro. «Che cosa fai qui, ragazzina?» domandò aspramente il minotauro. «Hai smarrito la strada nella tempesta?» «No, l'ho trovata», replicò lei. Gli occhi ambra, luminosi, non battevano ciglio. «Ho trovato voi. Sono stata chiamata, e ho risposto. Siete i Cavalieri di Takhisis, non è vero?» «Lo eravamo», disse seccamente Galdar. «Abbiamo aspettato a lungo la sua venuta, ma ora i comandanti ammettono ciò che la maggior parte di noi sapeva da tempo. Lei non tornerà. Per questo, ora ci chiamiamo i Cavalieri di Neraka.» Mina ascoltò, pensierosa. Sembrò approvare, perché annuì gravemente. «Capisco. Sono venuta per unirmi ai Cavalieri di Neraka.» In qualunque altro momento, in qualunque altro posto, gli uomini avrebbero potuto ridacchiare, o fare commenti rozzi. Ma non erano in vena di frivolezze. Lo stesso valeva per Galdar. La tempesta era stata terrificante: non ne aveva mai visto l'uguale, ed era al mondo da quarant'anni. Il loro caposquadra era morto. Li aspettava una lunga marcia, a meno che, per qualche miracolo, non riuscissero a recuperare i cavalli. Non avevano cibo, i cavalli erano fuggiti con le provviste; e non avevano acqua, tranne quella che fossero riusciti a strizzare dalle coperte fradice. «Di' alla marmocchia di tornare dalla mamma», esclamò impaziente un Cavaliere. «Che cosa facciamo, vicecomandante?» «Io dico di andarcene», suggerì un altro. «Camminerò tutta la notte se sarà necessario.» Gli altri borbottarono il loro assenso. Galdar guardò all'insù. Il cielo era limpido. Il tuono rombava, ma in lontananza. Fulmini purpurei lampeggiavano sull'orizzonte occidentale. La luna dava abbastanza luce per viaggiare. Galdar era stanco, insolitamente stanco. Gli uomini erano scarni, con le guance scavate, tutti vicini allo sfinimento. Tuttavia, sapeva come si sentivano. «Partiremo», annunciò. «Ma prima dobbiamo sistemare quello.» Indicò
con il pollice il corpo ardente di Ernst Magit. «Lasciamolo lì», propose uno dei Cavalieri. Galdar scosse la testa cornuta. Intanto, era conscio della ragazza che lo osservava attentamente con i suoi strani occhi. «Volete essere perseguitati dal suo spirito per il resto dei vostri giorni?» domandò il minotauro. Gli altri si guardarono a vicenda, guardarono il corpo. Il giorno prima, avrebbero riso sgangheratamente all'idea di essere perseguitati dallo spirito di Magit, ma ora non più. «Che cosa ne facciamo?» indagò uno, in tono lamentoso. «Non possiamo seppellire quel bastardo. Il terreno è troppo duro. E non abbiamo legna per accendere un fuoco.» «Avvolgete il corpo in quella tenda», disse Mina. «Prendete quelle pietre e costruitegli sopra un tumulo. Non è il primo a morire nella valle di Neraka», aggiunse freddamente, «e non sarà l'ultimo.» Galdar si lanciò un'occhiata alle spalle. La tenda appesa fra i monoliti era intatta, anche se piegata sotto l'accumulo di acqua. «L'idea della ragazza è buona», assentì. «Staccate la tenda e usatela come sudario. E fate presto. Prima finiamo, e prima ce ne andiamo. Toglieteli l'armatura», ordinò. «Dobbiamo riportarla al quartier generale come prova della sua morte.» «E come?» chiese uno dei Cavalieri, con una smorfia. «La carne è attaccata al metallo come una bistecca bruciata a una graticola.» «Tagliatela via», rispose Galdar. «Ripulitela come meglio potete. Non gli ero tanto affezionato da volerne portare in giro dei pezzi.» Gli uomini si misero al lavoro di buona lena, ansiosi di finire e di partire. Galdar si girò verso Mina, e trovò gli occhi ambra, grandi, fissi su di lui. «Faresti meglio a tornare dalla tua famiglia, ragazzina», disse bruscamente. «La marcia sarà rapida e dura. Non avremo tempo per coccolarti. Inoltre, sei una donna. Questi uomini non portano molto rispetto alle virtù femminili. Va' a casa.» «Sono già a casa», ribatté Mina, abbracciando la valle con lo sguardo. I monoliti neri riflettevano la fredda luce delle stelle, chiamandole a splendere pallide e gelide fra di loro. «E ho trovato la mia famiglia. Diventerò un Cavaliere. Questa è la mia vocazione.» Galdar era esasperato, incerto su cosa dire. L'ultima cosa che voleva era che questa bizzarra donna-bambina viaggiasse con loro. Ma era così controllata, così padrona di se stessa e della situazione, che non sapeva oppor-
le nessun argomento razionale. Pensieroso, fece per rimettere la spada nel fodero. L'elsa era bagnata e scivolosa, e la sua presa maldestra. Annaspò, per poco non lasciò cadere la spada. Riuscendo a trattenerla con uno sforzo disperato, alzò uno sguardo fiero, ardente, sfidando la ragazza a sorridere di scherno o di pietà. Lei guardò i suoi sforzi senza aprire bocca. Il suo volto era impassibile. Galdar rinfoderò la spada. «Per quanto riguarda l'unirsi alla Cavalleria, la cosa migliore è andare al quartier generale locale e lasciare il tuo nome». Continuò esponendo le politiche di reclutamento, l'addestramento richiesto. Si lanciò in un discorso sugli anni di dedizione e di sacrificio, e intanto pensava a Ernst Magit, che si era fatto strada nella Cavalleria a forza di tangenti. D'un tratto, Galdar capì di aver perso l'attenzione della sua interlocutrice. La ragazza non lo stava ascoltando. Sembrava ascoltare un'altra voce, una voce che lui non poteva sentire. Il suo sguardo era assente, il viso liscio, inespressivo. Le parole si spensero. «Non trovi difficile combattere con una mano sola?» chiese Mina. La guardò con aria torva. «Sarò anche goffo», replicò, sarcastico «ma maneggio la spada tanto bene da staccarti dal corpo quella testa rapata!» Lei sorrise. «Come ti chiami?» Il minotauro si rigirò dall'altra parte. La conversazione era finita. Vide che gli uomini erano riusciti a separare Magit dalla sua armatura e stavano facendo rotolare sulla tenda la massa ancora fumante. «Galdar, credo», proseguì Mina. Tornò a fissarla stupefatto, chiedendosi come conoscesse il suo nome. Certo, pensò, uno degli uomini doveva averlo pronunciato. Ma non ricordava che nessuno l'avesse fatto. «Dammi la mano, Galdar», l'invitò Mina. Lui la fulminò con lo sguardo. «Lascia questo posto finché puoi, ragazzina! Non siamo in vena di giochetti. Il mio comandante è morto. Questi uomini sono sotto la mia responsabilità, e non abbiamo né cavalli né cibo.» «Dammi la mano, Galdar», ripeté Mina, sommessamente. Al suono della sua voce dolce, Galdar riudì il canto risuonare fra le rocce. Sentì rizzarglisi il pelo. Un brivido l'attraversò, un fremito gli scese per la spina dorsale. Voleva allontanarsi da lei, ma si vide alzare la mano sinistra.
«No, Galdar», obiettò Mina. «La destra. Dammi la mano destra.» «Non ho mano destra!» urlò lui, con angoscia e rabbia. Il grido uscì come un rantolo. A quel suono strozzato, gli uomini si girarono allarmati. Galdar spalancò gli occhi, incredulo. Il braccio era stato tagliato all'altezza della spalla. Ora, dal moncone si estendeva l'immagine evanescente di quello che era stato il suo braccio destro. L'immagine tremolava nel vento, come se fosse fatta di cenere e fumo, e tuttavia poteva vederla chiaramente, poteva vederla riflessa nel piano nero e liscio del monolito. Sentiva l'arto fantasma, ma questo gli era sempre successo, anche quando il braccio non c'era. Ora guardò il braccio, il braccio destro sollevarsi; guardò la mano, la mano destra tendere le dita tremanti. Mina allungò la mano, toccò quella fantasma del minotauro. «Il tuo braccio destro ti viene restituito.» Galdar provava uno sbalordimento infinito. Il suo braccio. Il suo braccio destro era di nuovo... Il suo braccio destro. Non più un braccio fantasma. Non più un braccio di cenere e fumo, un braccio di sogni da perdere nella disperazione del risveglio. Galdar chiuse gli occhi, stretti stretti, poi li riaprì. Il braccio era ancora lì. I Cavalieri erano muti, immobili. Con i volti candidi alla luce della luna, fissavano Galdar, il braccio, e Mina. Galdar ordinò alle dita di aprirsi e chiudersi, e queste obbedirono. Allungò la mano sinistra, tremante, e toccò il braccio. La pelle era calda, la pelliccia soffice. Il braccio era fatto di ossa, carne e sangue. Il braccio era reale. Galdar abbassò la mano, per sguainare la spada. Le dita si chiusero amorevolmente sull'elsa. D'un tratto, fu accecato dalle lacrime. Debole, scosso dai brividi, si buttò in ginocchio. «Signora», disse, con voce tremante di meraviglia e sgomento «non so che cosa tu abbia fatto o come l'abbia fatto, ma sarò tuo debitore per il resto dei miei giorni. Qualunque cosa tu voglia da me, te la concederò.» «Giurami per il tuo braccio destro che mi concederai ciò che chiedo», rispose Mina. «Lo giuro!» assentì Galdar, aspro. «Fammi tuo comandante», intimò Mina. Galdar sentì la mandibola cadere, la bocca aprirsi e chiudersi. Inghiottì.
«Io... ti raccomanderò ai miei superiori...» «Fammi tuo comandante», ripeté lei, con voce dura come il terreno, cupa come i monoliti. «Io non combatto per avidità. Non combatto per guadagno. Non combatto per il potere. Combatto per un'unica causa: la gloria. Non per me stessa, ma per il mio dio.» «Chi è il tuo dio?» chiese Galdar, impressionato. Mina sorrise; un sorriso fiero, pallido e freddo. «II suo nome non può essere pronunciato. Il mio dio è l'Unico Dio. Colui che cavalca la tempesta, Colui che governa la notte. Il mio dio è l'Unico Dio che ha reintegrato la tua carne. Giurami lealtà, Galdar. Seguimi verso la vittoria.» Galdar pensò a tutti i comandanti sotto cui aveva servito. Comandanti come Ernst Magit, che alzavano gli occhi al cielo quando si parlava della Visione di Neraka. La Visione era falsa, quasi tutti nello scaglione superiore lo sapevano. Comandanti come il Principe del Giglio, il suo patrono, che sbadigliava apertamente durante la declamazione del Giuramento di Sangue, e che aveva portato il minotauro nella Cavalleria per puro scherzo. Comandanti come l'attuale Signore della Notte, Targonne, che, come tutti sapevano, toglieva fondi dalle casse dei Cavalieri per arricchirsi. Galdar alzò la testa, guardò negli occhi ambra. «Tu sei il mio comandante, Mina», annuì. «Giuro fedeltà a te e a nessun altro.» Mina gli toccò di nuovo la mano. Il tocco era doloroso, gli bruciava il sangue; ma la sensazione gli faceva piacere. Per troppo tempo aveva provato il dolore di un braccio che non c'era. «Sarai il mio comandante in seconda, Galdar.» Mina volse lo sguardo ambra sui Cavalieri. «Voialtri mi seguirete?» Alcuni uomini erano stati con Galdar quando questi aveva perso il braccio, avevano visto il sangue sgorgare dall'arto maciullato. Quattro l'avevano tenuto giù mentre il chirurgo lo amputava. L'avevano sentito implorare la morte, una morte che avevano rifiutato di concedergli e che lui non poteva, moralmente, concedere a se stesso. Questi uomini guardarono il braccio nuovo, videro Galdar stringere di nuovo una spada. Avevano visto la ragazza attraversare incolume quella tempesta innaturale e inesorabile. Alcuni di essi erano sulla trentina. Veterani di guerre brutali e di dure campagne. Era ovvio che Galdar giurasse fedeltà a questa strana donnabambina; lei l'aveva reso integro. Ma per quanto li riguardava... Mina non ricorse a pressioni, lusinghe, discorsi. Sembrava dare per scontato il loro assenso. Raggiungendo il punto in cui il cadavere del caposquadra giaceva sotto il monolito, parzialmente avvolto nella tenda, rac-
colse la corazza di Magit. La guardò, la studiò, e poi, infilando le braccia nelle cinghie, la indossò sopra la camicia bagnata. La corazza era troppo grande per lei, e pesante. Galdar si aspettava che la ragazza si piegasse sotto il carico. Invece, restò a bocca aperta nel vedere il metallo rosseggiare, cambiare, modellarsi sul suo corpo snello, e abbracciarla come un amante. La corazza era stata nera, con sopra l'immagine di un teschio. Apparentemente, l'armatura era stata colpita dal fulmine, anche se il danno fatto da quest'ultimo era estremamente strano. Il teschio che adornava la corazza era diviso in due; una saetta d'acciaio lo fendeva. «Questa sarà la mia insegna», annunciò Mina, toccandolo. Indossò il resto dell'equipaggiamento di Magit, facendo scivolare i bracciali sulle braccia, allacciando i parastinchi sulle gambe. Non appena lo toccava, ogni pezzo dell'armatura rosseggiava, come appena uscito dalla fucina; e, una volta raffreddato, le calzava come se fosse stato modellato per lei. Sollevò l'elmo, ma non lo mise in testa. Lo porse a Galdar. «Tienilo tu per me, vicecomandante», disse. Il minotauro lo ricevette con orgoglio e reverenza, come se fosse un manufatto che cercava da tutta la vita. Mina si inginocchiò accanto al corpo di Ernst Magit. Prendendo la mano inerte e carbonizzata nella sua, chinò la testa e cominciò a pregare. Nessuno poteva sentire le sue parole, cosa diceva o a chi lo diceva. Il Canto della Morte risuonava lugubre fra le pietre. Le stelle svanirono, la luna scomparve. Furono avvolti dalle tenebre. Mina pregava, e i suoi sussurri recavano conforto. Alzandosi, Mina trovò tutti i Cavalieri in ginocchio davanti a lei. Nel buio, non vedevano niente; non gli altri, e nemmeno se stessi. Vedevano solo lei. «Tu sei il mio comandante, Mina», cominciò uno, fissandola come l'affamato fissa il pane, e l'assetato fissa l'acqua fresca. «A te affido la mia vita.» «Non a me», ribatté lei. «All'Unico Dio.» «All'Unico Dio!» Le voci si levarono e furono assorbite nel canto che non era più spaventoso ma eccitante, esaltante, una chiamata alle armi. «A Mina e all'Unico Dio!» Le stelle brillavano di nuovo nei monoliti. La luna luccicava nel fulmine frastagliato dell'armatura di Mina. Il rombo si rifece sentire, ma stavolta
non veniva dal cielo. «I cavalli!» gridò uno dei Cavalieri. «I cavalli sono tornati.» A condurli era un destriero quale nessuno di loro aveva mai visto. Rosso come il vino, rosso come il sangue, distanziava di molto i compagni. Andò dritto da Mina e si strofinò contro di lei, appoggiandole il muso sulla spalla. «Ho mandato Foxfire a prendere i cavalli. Ne avremo bisogno», osservò lei, accarezzando la criniera nera della bestia color sangue. «Stanotte andremo a sud, e di buona lena. Dobbiamo essere a Sanction fra tre giorni.» «Sanction!» Galdar spalancò la bocca. «Ma, ragazzina, cioè caposquadra - Sanction è controllata dai Solamnici! La città è sotto assedio. La nostra destinazione è Khur. Gli ordini...» «Andremo questa notte a Sanction», ripeté Mina. Il suo sguardo si volse verso sud, e lì rimase. «Ma perché, caposquadra?» domandò Galdar. «Perché siamo chiamati», rispose lei. II SILVANOSHEI La tempesta strana e innaturale assediò tutta Ansalon. I fulmini percorsero la regione; guerrieri giganti che scuotevano la terra e lanciavano saette di fuoco. Alberi antichi - enormi querce che avevano resistito a entrambi i Cataclismi - s'incendiarono e furono ridotti in un attimo ad ardenti rovine. Vortici tonanti di vento infuriavano fra i guerrieri, sventrando case, e gettando nell'aria assi mattoni, malta e pietre con impeto micidiale. Nubifragi torrenziali fecero gonfiare e straripare i fiumi, spazzando via i giovani, verdi germogli di cereali che lottavano per emergere dall'oscurità e crogiolarsi al primo sole estivo. A Sanction, assedianti e assediati abbandonarono la lotta per cercare riparo dalla terribile tempesta. Le navi in alto mare cercarono di resisterle, con il risultato che molte s'inabissarono, senza lasciare più tracce né notizie. Altre sarebbero faticosamente rientrate con alberi di fortuna, nonché racconti di marinai trascinati fuori bordo e di pompe che lavoravano notte e giorno. A Palanthas, innumerevoli crepe apparvero sul tetto della Grande Biblioteca. La pioggia si riversò all'interno, facendo agitare pazzamente Bertrem
e gli altri monaci per tamponare il flusso, asciugare il pavimento e mettere in salvo i volumi preziosi. A Tarsis, la pioggia fu così pesante che il mare scomparso durante il Cataclisma ritornò, con enorme stupore degli abitanti. Sparì qualche giorno dopo, lasciando dietro di sé pesci boccheggianti e un odore fetido. La tempesta assestò all'isola di Schallsea un colpo particolarmente devastante. I venti spaccarono ogni singola finestra del Cuore Confortevole. Le navi all'ancora nel porto si schiantarono contro le scogliere, o contro le banchine. Un cavallone spazzò via molti edifici e molte case costruite lungo la costa. Morì moltissima gente, e moltissimi altri rimasero senza tetto. I fuggiaschi presero d'assalto la Cittadella della Luce, supplicando i mistici di aiutarli. La Cittadella era un faro di speranza nella notte oscura di Krynn. Cercando di riempire il vuoto lasciato dall'assenza degli dei, Goldmoon aveva scoperto il potere mistico del cuore, riportando nel mondo il dono della guarigione. Era la prova vivente del fatto che, benché Paladine e Mishakal se ne fossero andati, il loro influsso benefico viveva nel cuore di chi li aveva amati. E, tuttavia, Goldmoon stava invecchiando. I ricordi degli dei sbiadivano; e lo stesso sembrava accadere al potere del cuore. L'uno dopo l'altro, i mistici sentivano il loro potere scemare, come una marea che si ritraeva senza mai ritornare. Ma gli abitanti della Cittadella furono felici di aprire le porte e il cuore alle vittime della tempesta, di fornire rifugio e assistenza, e di cercare di guarire i feriti il meglio possibile. I Cavalieri Solamnici, che avevano costruito una fortezza a Schallsea, partirono per battagliare con la tempesta, uno dei nemici più terribili che questi valorosi Cavalieri avessero mai affrontato. A rischio della vita, tirarono fuori la gente dall'acqua tumultuosa, la estrassero dagli edifici schiacciati, lavorando nel vento, nella pioggia e nelle tenebre squarciate dai fulmini, per salvare coloro che il Giuramento e la Misura li obbligavano a proteggere. La Cittadella della Luce resistette alla furia della tempesta, anche se i suoi edifici furono investiti dai venti furiosi e dalla pioggia battente. Come nel tentativo disperato di far sentire la sua rabbia, la tempesta gettò contro le pareti di cristallo della Cittadella chicchi di grandine grossi come teste umane. Nei punti in cui colpirono, apparvero piccole fessure, e rivoli di pioggia vi s'infilarono, gocciolando come lacrime giù per i muri. Uno schianto particolarmente forte venne dalle vicinanze della stanza di
Goldmoon, fondatrice e signora della Cittadella. I mistici sentirono il suono del vetro infranto e accorsero spaventati, per vedere se l'anziana donna fosse sana e salva. Con loro grande stupore, trovarono chiusa a chiave la porta d'ingresso. Vi picchiarono sopra, pregando di poter entrare. Goldmoon rispose con una voce sommessa e terribile a udirsi, una voce che era la sua amata voce e tuttavia non lo era, ordinando che la lasciassero in pace, che attendessero ai loro doveri. Altri avevano bisogno del loro aiuto, non lei. Perplessi, turbati, quasi tutti eseguirono il comando. Quelli che restarono indietro riferirono di aver udito dei singhiozzi, strazianti e disperati. «Anche lei ha perso i suoi poteri», dissero quelli fuori dalla sua porta. Pensando di aver capito, la lasciarono sola. Quando, finalmente, venne il mattino e il sole si alzò rosseggiante nel cielo, la gente guardò, sbalordita e inorridita, la distruzione operata durante quella notte terribile. I mistici andarono nella camera di Goldmoon per chiederle consiglio, ma non ebbero risposta. La sua porta rimaneva chiusa e sbarrata. La tempesta passò anche per Qualinesti, un regno elfico, ma separo dai suoi cugini di Silvanesti da una distanza misurabile, oltre che in centinaia di miglia, in odio e diffidenza di lunga data. Lì, turbini di vento sradicarono alberi giganti, facendoli volare come i bastoncini sottili usati nel Quin Thalasi, un popolare gioco degli elfi. La tempesta agitò dalle fondamenta la mitica Torre del Presidente dei Soli, facendo piovere sul pavimento i bei vetri colorati delle finestre istoriate. L'acqua montante allagò le camere più basse dell'appena costruita fortezza dei Cavalieri Scuri di Newport, costringendoli a ciò cui non poteva arrivare nemmeno un esercito nemico: abbandonare le loro postazioni. La tempesta svegliò persino i grossi draghi, che dormivano, grassi e gonfi, in tane ricche di tributi. Scosse il Picco di Malys, rifugio di Malystrx, l'enorme dragonessa rossa che si credeva Regina di Ansalon, e presto anche Dea, se i suoi piani fossero andati in porto. La pioggia formò fiumi impetuosi che invasero la sua casa vulcanica. L'acqua entrò nelle pozze di lava, creando enormi nubi di un vapore dal puzzo ripugnante che riempì camere e corridoi. Bagnata, mezza cieca, asfissiata dal fumo, Malys urlò la sua indignazione e volò di tana in tana, cercando di trovarne una abbastanza asciutta per poter ritornare a dormire. Infine, fu costretta a cercare i livelli inferiori della sua dimora montuosa. Malys era una dragonessa vecchia, con una sorta di saggezza malevola. In-
tuiva che la tempesta aveva qualcosa di innaturale, e la cosa la metteva a disagio. Borbottando e brontolando fra sé, entrò nella Camera del Totem. Qui, su una sporgenza di roccia nera, Malys aveva impilato i teschi di tutti i draghi minori che aveva distrutto in occasione della sua venuta nel mondo. Teschi argento e oro, rossi e azzurri stavano l'uno sopra l'altro, monumento alla sua grandezza. Malys provò conforto alla loro vista. Ognuno le recava il ricordo di una battaglia vinta, di un nemico sconfitto e divorato. La pioggia non poteva penetrare tanto in basso; lei non poteva sentire ululato del vento, né i lampi disturbare i suoi sonni. Malys guardò gli occhi vuoti dei teschi con piacere, e forse si assopì, perché d'un tratto le sembrò che essi fossero vivi, e la fissassero. Sbuffò, alzò la testa. Studiò attentamente i teschi, gli occhi. La pozza ava nel cuore della montagna gettava un bagliore artificioso sui teschi, riempiva le orbite vuote di ombre tremolanti e intermittenti. Rimproverandosi per la sua immaginazione troppo vivida, Malys si avvolse comodamente intorno al totem e si addormentò. Un'altra grande dragonessa, una Verde nota con il nome pomposo di Beryllinthranox non riusciva a dormire durante la tempesta. La sua tana era formata da alberi viventi - carpini e sequoie - e da viticci enormi, attorcigliati. I viticci e i rami degli alberi erano intrecciati così strettamente che non una goccia d'acqua era mai riuscita a insinuarsi. Ma la pioggia che cadeva dalle nubi nere e turbolente di questa tempesta sembrava farsi un punto d'onore di trovare il modo di penetrare attraverso le foglie. Una volta entrata una goccia, aprì la strada a migliaia di compagne. Beryl si svegliò sorpresa, all'insolita sensazione dell'acqua che le cadeva sul naso. Una delle grandi sequoie che formava un pilastro della sua tana fu colpita da un fulmine. L'albero andò in fiamme, fiamme che si diffusero rapidamente, nutrendosi della pioggia come se fosse olio da lampada. L'urlo di allarme di Beryl fece accorrere i suoi servi a spegnere le fiamme. Draghi, Rossi e Azzurri che si erano sottomessi a lei piuttosto che farsene distruggere, strapparono gli alberi brucianti e li gettarono in mare. Draconici tirarono giù viticci roventi, soffocarono le fiamme con fango e terriccio. Ostaggi e prigionieri furono messi a lottare contro i fuochi. Molti morirono nel frattempo, ma alla fine la tana di Beryl fu salva. Per giorni e giorni, tuttavia, la dragonessa rimase di pessimo umore, convinta che la tempesta fosse un attacco sferratole magicamente dalla cugina Malys. Beryl intendeva governare, un giorno, al posto di quest'ultima. Mentre ricostruiva la tana con i suoi poteri magici - che, ultimamente, andavano ca-
lando, altra cosa di cui attribuiva la colpa a Malys - la Verde pensava ai torti subiti e covava vendetta. L'Azzurro Khellendros (aveva abbandonato il nome Skie in favore di questo titolo più grandioso, che significava Tempesta su Ansalon) era uno dei pochi draghi nativi di Krynn a essere emerso dalla Purga dei Draghi. Al momento, governava Solamnia e tutti i suoi dintorni. Era sovrintendente di Schallsea e della Cittadella della Luce, cui permetteva di rimanere perché - a detta sua - trovava divertente vedere i poveri umani lottare futilmente contro le tenebre crescenti. In realtà, la vera ragione per cui consentiva alla Cittadella di prosperare in tutta sicurezza era il guardiano di quest'ultima, un drago d'argento di nome Mirror. Mirror e Skie erano nemici da lungo tempo ma ora, nell'odio comune per i nuovi, grossi draghi provenienti da lontano che avevano ucciso tanti loro fratelli, erano diventati, se non amici, nemmeno totalmente avversari. Khellendros fu disturbato dalla tempesta molto più delle due grosse dragonesse, anche se - stranamente - la sua tana non subì molti danni. Misurò inquieto la sua enorme grotta in cima ai monti Vingaard, guardò i guerrieri di fiamma colpire ferocemente i bastioni della Torre del Sommo Chierico, e gli parve di sentire un canto nel vento, un canto che parlava di morte. Khellendros non dormì, ma osservò la tempesta fino alla fine. Questa non perse un briciolo del suo potere, mentre attaccava ruggendo l'antico regno elfico di Silvanesti. Gli elfi avevano eretto sul loro territorio uno scudo magico, che fino ad allora lo aveva protetto dalle scorrerie e dalle conquiste dei draghi, e che inoltre teneva lontane tutte le altre razze. Erano riusciti nel loro obiettivo storico di isolarsi dai guai del resto del mondo. Ma lo scudo non li riparò dal tuono e dalla pioggia, dal vento e dai fulmini. Alberi bruciarono, case furono squarciate dai venti impetuosi. Il fiume Thon-Thalas straripò, facendo annaspare in cerca di terre più alte coloro che vivevano sulle sue sponde. L'acqua s'infiltrò nel giardino del palazzo, il Giardino di Astarin, dove cresceva l'albero magico che, molti lo credevano, manteneva lo scudo al suo posto. L'albero fu salvato dal suo potere: quando la tempesta finì, la terra intorno a esso fu trovata completamente asciutta. Tutto il resto, nel giardino, era stato sommerso o spazzato via dalle acque. I giardinieri e i Modellatori dei Boschi, che nutrivano per le loro piante e i loro fiori, i loro alberi ornamentali, le loro erbe e i loro rosai lo stesso amore che nutrivano per i propri figli, furono straziati, affranti alla vista della distruzione.
Dopo la tempesta, corsero ai ripari, portando piante da casa loro per riempire quello che era stato il meraviglioso Giardino di Astarin. Sin dall'innalzamento dello scudo, le piante non erano più state bene, e ora marcivano nel suolo fangoso che, sembrava, non riusciva mai ad assorbire tanta luce solare da poter asciugarsi. La tempesta strana e terribile, infine, si ritirò dal continente, smise la guerra, come un esercito vittorioso che abbandona il campo di battaglia, lasciando dietro di sé devastazione e rovina. Il mattino dopo, la gente di Ansalon avrebbe guardato i danni sbalordita, confortato chi aveva subito dei lutti, sepolto i morti, e pensato con meraviglia al presagio sinistro di quella notte spaventosa. Eppure, ci fu, dopo tutto, una persona che quella notte si divertì. Era un giovane elfo, di nome Silvanoshei, che gioì della tempesta. Il fragore dei guerrieri fiammeggianti, i fulmini che cadevano come scintille emesse da spade di tuono, gli ribollivano nel sangue come un rullo di tamburi. Silvanoshei non cercò rifugio dalla tempesta, ma vi andò in mezzo. In piedi in una radura della foresta, alzò il viso verso il tumulto, mentre la pioggia lo bagnava, raffreddando l'arsura di bisogni e desideri vagamente avvertiti. Guardò l'abbacinante spettacolo dei lampi, si stupì del tuono che scuoteva la terra, rise delle raffiche di vento che piegavano i grandi alberi, costringendoli a chinare il capo fiero. Il padre di Silvanoshei era Porthios, un tempo orgoglioso sovrano dei Qualinesti, ora da loro scacciato, e denominato «elfo scuro», condannato a vivere fuori dalla luce della comunità elfica. La madre era Alhana Starbreeze, comandante in esilio della nazione Silvanesti, e da questa espulsa in occasione del matrimonio con Porthios. Con le nozze, avevano inteso riunire infine le due nazioni elfiche in una sola che, probabilmente, avrebbe potuto essere abbastanza forte da combattere i maledetti draghi e mantenersi libera. Invece, il loro matrimonio aveva solo acuito l'odio e la diffidenza. Ora Beryl era padrona di Qualinesti, che era una terra occupata, tenuta in soggezione dai Cavalieri di Neraka. Silvanesti era una terra tagliata fuori, isolata; i suoi abitanti si rannicchiavano sotto lo scudo come bambini che si nascondono sotto una coperta, sperando che li protegga dai mostri in agguato nel buio. Silvanoshei era l'unico figlio di Porthios e di Alhana. «Silvan è nato nell'anno della Guerra del Caos», era solita ripetere Alhana. «Suo padre e io eravamo in fuga, bersagli per qualunque assassino elfi-
co che volesse ingraziarsi i governatori Qualinesti o Silvanesti. È nato il giorno in cui seppellirono due dei figli di Caramon Majere. Il Caos è stato la bambinaia di Silvan, la Morte la sua levatrice.» Silvan era stato cresciuto in un campo armato. Il matrimonio di Alhana e di Porthios, nato per ragioni strategiche, si era approfondito in un rapporto di amore, di amicizia e di profondo rispetto. Insieme, moglie e marito avevano intrapreso una battaglia incessante e ingrata, prima contro i Cavalieri Scuri che erano ora i signori di Qualinesti, poi contro il terribile dominio di Beryl, la dragonessa che aveva accampato diritti su quelle terre e ora domandava tributi agli elfi locali per lasciarli vivere ancora un po'. Quando ad Alhana e Porthios era giunta voce che gli elfi di Silvanesti erano riusciti a innalzare uno scudo magico sul loro regno, uno scudo che li avrebbe protetti dalle devastazioni dei draghi, entrambi avevano visto la cosa come una possibile salvezza per il loro popolo. Alhana aveva viaggiato verso sud con le proprie forze, lasciando Porthios a continuare la lotta per Qualinesti. Aveva cercato di mandare un emissario agli elfi di Silvanesti, per chiedere il permesso di passare attraverso lo scudo. L'emissario non era stato in grado di entrare. Alhana attaccò lo scudo con l'acciaio e la magia, cercando ogni modo possibile per penetrarlo, ma senza successo. Più lo studiava, e più era sgomenta al pensiero che la sua gente potesse adattarsi a viverci sotto. Qualunque cosa lo scudo toccasse, moriva. I boschi presso i suoi confini erano pieni di alberi morti e morenti. I prati vicini erano grigi e brulli. I fiori appassivano, seccavano, si decomponevano in una polvere grigia e fina che ricopriva tutto come un sudario. È colpa della magia dello scudo! Alhana aveva scritto al marito. Lo scudo non protegge la terra; la sta uccidendo! Ai Silvanesti non importa, Porthios aveva scritto in risposta. Sono soffocati dalla paura. Paura degli orchi, paura degli umani, paura dei draghi, paura di terrori che non riescono nemmeno a nominare. Lo scudo è solo la manifestazione esteriore della loro paura. Per forza qualunque cosa vi entri in contatto appassisce e muore! Queste furono le ultime parole che ebbe da lui. Per anni, Alhana si era tenuta in rapporto con il marito tramite i messaggi portati fra di loro dai veloci e instancabili messi elfici. Sapeva dei suoi sempre più futili tentativi di sconfiggere Beryl. Poi arrivò il giorno in cui il messo inviato al marito non ritornò. Gliene mandò un altro, che pure svanì. Ormai, erano mesi che
non aveva notizie di Porthios. Infine, non potendo impegnare oltre la sua forza lavoro in declino, Alhana aveva smesso di inviare i messi. La tempesta aveva sorpreso Alhana e il suo esercito nei boschi presso Silvanesti, in occasione di un ennesimo tentativo di penetrare lo scudo. Alhana si rifugiò in un antico tumulo sepolcrale vicino al confine. L'aveva scoperto da tempo, quando aveva intrapreso la battaglia per strappare il controllo della sua terra natia dalle mani di coloro che sembravano decisi a condurre la sua gente al disastro. In altre, più felici, circostanze, gli elfi non avrebbero disturbato i resti dei morti, ma erano inseguiti dagli orchi, i loro antichi nemici, e cercavano disperatamente una posizione difensiva. Nondimeno, Alhana era entrata nel tumulo con preghiere propiziatorie, chiedendo comprensione agli spiriti dei morti. Gli elfi avevano scoperto che il tumulo era vuoto. Non trovarono corpi mummificati, né ossa, né alcuna indicazione che lì fosse mai stato sepolto qualcuno. Gli elfi che accompagnavano Alhana lo presero come il segno che la loro causa era giusta. Alhana non obiettò, anche se sentì l'amara ironia del fatto che lei - la vera e legittima Regina dei Silvanesti - fosse costretta a cercare rifugio in un buco del terreno abbandonato persino dai morti. Il tumulo sepolcrale era diventato il quartier generale di Alhana. I suoi cavalieri, le sue guardie del corpo personali, erano lì con lei. Il resto dell'esercito era accampato nei boschi all'intorno. Un perimetro di messi stava in guardia contro gli orchi, che imperversavano in quella zona. I messi, armati leggermente, e senza armatura, non avrebbero combattuto contro il nemico, una volta individuatolo, ma sarebbero corsi indietro verso i picchetti per avvertire l'esercito della sua presenza. Gli elfi della Casa del Modellatore dei Boschi avevano lavorato a lungo per far emergere magicamente dal terreno una barricata di roveti circondanti il tumulo sepolcrale. I cespugli avevano punte pericolose che potevano trafiggere anche la pelle dura di un orco. All'interno della barricata, i soldati dell'esercito elfico trovarono rifugi di fortuna all'arrivo della tempesta torrenziale. Le tende crollarono quasi immediatamente, lasciando gli elfi ad accovacciarsi dietro i massi o a strisciare nei fossi, evitando, se possibile, gli alberi alti, obiettivi dei fulmini maligni. Bagnati fino alle ossa, congelati e sbigottiti dalla tempesta, quale nemmeno i più anziani degli elfi avevano mai visto, i soldati guardarono Silvanoshei, che faceva le capriole nella burrasca come un pazzo, e scossero la
testa. Era il figlio della loro amata regina. Non avrebbero detto una parola contro di lui. Avrebbero dato la vita per difenderlo, perché lui era la speranza della nazione elfica. Ai soldati piaceva abbastanza, anche se non era oggetto né di ammirazione né di rispetto. Silvanoshei era bello e affascinante, seducente per natura, un compagno gioviale, con una voce così dolce e melodiosa che poteva convincere gli uccelli canori a scendere dagli alberi per posarsi sulla sua mano. In questo, Silvanoshei non ricordava nessuno dei suoi genitori. Non aveva niente della natura cupa, austera e risoluta del padre, e alcuni avrebbero potuto metterne in dubbio la discendenza, ma Silvanoshei aveva una tal somiglianza fisica con Porthios che il rapporto era inequivocabile. Silvanoshei, o Silvan, come lo chiamava la madre, non aveva ereditato il portamento regale di Alhana Starbreeze. Aveva qualcosa del suo orgoglio ma poco della sua compassione. Teneva al suo popolo, ma gli mancavano l'amore e la lealtà imperituri di Alhana. Considerava la sua battaglia per penetrare nello scudo un disperato spreco di tempo. Non riusciva a capire come mai lei spendesse tante energie per ritornare da un popolo che, chiaramente, non la voleva. Alhana stravedeva per suo figlio, ancora di più adesso che il padre sembrava disperso. I sentimenti di Silvan verso la madre erano più complessi, e anche lui li capiva solo in parte. Se gliel'avessero chiesto, avrebbe risposto che l'amava e l'idolatrava, il che era vero. Tuttavia, quell'amore era un olio che galleggiava sulla superficie di acque agitate. A volte, Silvan provava rabbia per i suoi genitori, una rabbia che lo spaventava per la sua furia e la sua intensità. L'avevano derubato della sua infanzia, l'avevano derubato del conforto, l'avevano derubato del legittimo rango fra la sua gente. Il tumulo sepolcrale rimase relativamente asciutto durante l'acquazzone. In piedi sull'entrata, Alhana guardava la tempesta, dividendo l'attenzione fra la preoccupazione per il figlio - a testa scoperta sotto la pioggia, esposto ai fulmini letali e ai venti selvaggi - e l'amaro pensiero che le gocce potevano penetrare lo scudo che circondava Silvanesti, e lei, con tutta la potenza del suo esercito, no. Un fulmine particolarmente vicino l'accecò per metà, e il tuono che seguì scosse la caverna. Timorosa per il figlio, si avventurò per una breve distanza fuori dal tumulo, cercando di vedere attraverso la pioggia battente. Un altro lampo, che coprì il cielo di una fiamma bianca e porpora insieme,
lo rivelò con lo sguardo all'insù e la bocca aperta, in uno scherzoso ruggito di sfida al tuono. «Silvan!» gridò. «Non è sicuro là fuori! Entra con me!» Lui non la sentì. Il tuono offuscò le parole, il vento le portò via. Ma, forse avvertendo la sua preoccupazione, Silvan girò la testa. «Non è meraviglioso, madre?» urlò, e il vento che aveva soffiato via le parole della madre le restituì con meravigliosa chiarezza quelle del figlio. «Vuoi che esca e lo trascini dentro, mia regina?» chiese una voce all'altezza della sua spalla. Alhana trasalì, fece un mezzo giro. «Samar! Mi hai spaventato!» L'elfo s'inchinò. «Mi spiace, Maestà. Non intendevo allarmarvi.» Non l'aveva nemmeno sentito arrivare, ma ciò non era sorprendente. Anche se non ci fossero stati i tuoni assordanti, non avrebbe udito l'elfo se lui non avesse voluto farsi udire. Veniva dalla Casa del Protettore, le era stato assegnato da Porthios, ed era rimasto fedele alla sua vocazione durante trent'anni di guerra ed esilio. Samar era ora il suo comandante in seconda, il capo dei suoi eserciti. Che egli l'amasse, lo sapeva bene, anche se lui non ne aveva mai fatto parola, perché era leale al marito Porthios come amico e come sovrano. Samar sapeva che lei non l'amava, che era fedele al marito, anche se non avevano notizie di Porthios da tempo. L'amore di Samar era un dono che questi le faceva quotidianamente, senza aspettarsi nulla in cambio. Camminava al suo fianco, e il suo amore per lei era come una torcia che guidava i suoi passi lungo il sentiero buio che percorreva. Samar non nutriva alcun affetto per Silvanoshei, che considerava un damerino viziato. Samar vedeva la vita come una battaglia che andava combattuta e vinta giorno per giorno. Frivolezze e risate, scherzi e marachelle sarebbero stati accettabili in un principe elfico il cui reame fosse in pace; un principe elfico che, come quelli di epoche più felici, non avesse niente da fare tutto il giorno tranne che imparare a suonare il liuto e a contemplare la perfezione di un bocciolo di rosa. I bollenti spiriti della giovinezza erano fuori luogo in questo mondo in cui gli elfi lottavano semplicemente per sopravvivere. Il padre di Silvanoshei era disperso, e probabilmente morto. Sua madre trascorreva la vita gettandosi contro il fato, e il suo corpo e il suo spirito s'arricchivano ogni giorno di nuovi lividi e di nuove ferite. Samar considerava la risata e il buonumore di Silvan un affronto a entrambi, e un insulto a se stesso. L'unico bene che Samar vedeva nel giovanotto era il fatto che Silvano-
shei poteva estorcere un sorriso alla madre, quando niente e nessun altro riuscivano a rallegrarla. Alhana posò la mano sul braccio di Samar. «Digli che sono in ansia. Le sciocche paure di una madre. O forse non poi così sciocche», aggiunse fra sé, perché Samar era già partito. «C'è qualcosa di sinistro in questa tempesta.» Entrando nella tempesta, Samar rimase subito bagnato fino al midollo, fradicio come se si fosse messo sotto una cascata. Le raffiche di vento lo facevano barcollare. Chinando la testa contro il torrente che l'accecava, maledicendo la stupidità avventata di Silvan, Samar aumentò il passo. Silvan stava con la testa rivolta all'indietro, gli occhi chiusi, le labbra semiaperte. Aveva le braccia distese e il petto scoperto: la camicia era così bagnata che gli era caduta dalle spalle. La pioggia si riversava sul suo corpo seminudo. «Silvani» Samar gridò all'orecchio del ragazzo. Afferrandogli bruscamente il braccio, diede al giovane elfo un bello scossone. «Vi state rendendo ridicolo!» esclamò, in tono cupo e aspro. Lo scosse di nuovo. «Vostra madre ha già abbastanza preoccupazioni senza che vi ci mettiate anche voi! Entrate con lei; è quello il vostro posto!» Silvan aprì gli occhi di una fessura; erano porpora, come quelli della madre, ma meno scuri; più simili al vino che al sangue. Erano accesi di estasi, e le labbra dischiuse in un sorriso. «Il fulmine, Samar! Non ho mai visto niente del genere! Riesco a sentirlo oltre che a vederlo. Tocca il mio corpo e mi fa rizzare i peli sulle braccia. Mi avvolge in lenzuoli di fiamma che mi lambiscono la pelle e mi incendiano. Il tuono mi scuote fin nel cuore del mio essere, la terra si muove sotto i miei piedi. Il mio sangue brucia, e la pioggia, la pioggia pungente, raffredda la mia febbre. Non corro alcun pericolo, Samar», il sorriso di Silvan s'allargò, la pioggia gli levigò viso e capelli. «Non corro più pericolo che se fossi a letto con un'amante...» «Discorsi del genere sono sconvenienti, Principe Silvan», l'ammonì Samar con fredda rabbia. «Dovreste...» Corni da caccia, che squillavano all'impazzata, lo interruppero. Il sogno estatico di Silvan s'infranse, spazzato via dal suono dei corni, uno dei primi che ricordava di aver sentito da bambino. Era il suono dell'allarme, il suono del pericolo. Silvan aprì completamente gli occhi. Non poteva dire da che direzione provenissero le chiamate; sembravano arrivare da tutte le parti contempo-
raneamente. In piedi all'entrata del tumulo, circondata dai suoi cavalieri, Alhana scrutava nella tempesta. Un messo elfico attraversò la boscaglia con fragore. Non c'era tempo per le azioni furtive; né ce n'era bisogno. «Che c'è?» domandò Silvan. Il soldato l'ignorò, corse dal comandante. «Orchi, signore», gridò. «Dove?» indagò Samar. Il soldato inspirò profondamente. «Tutt'intorno a noi, signore! Ci hanno circondato. Non li abbiamo sentiti. Hanno usato la tempesta per coprire i loro movimenti. I picchetti si sono ritirati dietro la barricata, ma la barricata...» L'elfo non poté continuare, era senza fiato. Indicò verso nord. Uno strano chiarore illuminava la notte di bianco-porpora, il colore del fulmine. Ma questo bagliore non colpiva, per poi andarsene; diventava sempre più fulgido. «Che cos'è?» urlò Silvan, sopra il rullo dei tuoni. «Che cosa significa?» «La barricata creata dai Modellatori dei Boschi sta bruciando», rispose Samar, cupo. «Sicuramente la pioggia spegnerà il fuoco...» «No, signore.» Il messo aveva ripreso fiato. «La barricata è stata colpita dal fulmine; non in un punto solo, ma in molti.» Indicò ancora, stavolta verso est e verso ovest. Ora, i fuochi si vedevano salire in ogni direzione, tranne che a sud. «È il fulmine ad accenderli. La pioggia non ha alcun effetto su di loro. Anzi, sembra che li alimenti, come se fosse olio che si riversa dal cielo.» «Dite ai Modellatori dei Boschi di usare la loro magia per spegnere il fuoco.» Il messo prese un'aria impotente. «Signore, i Modellatori dei Boschi sono esausti. L'incantesimo usato per creare la barricata ha esaurito tutta la loro forza.» «Com'è possibile?» obiettò rabbiosamente Samar. «È un incantesimo semplice... No, non importa!» Conosceva la risposta, anche se la respingeva di continuo. Recentemente, da un paio d'anni, gli stregoni elfici avevano sentito calare il loro potere di operare incantesimi. La perdita era stata graduale, appena sentita all'inizio, attribuita a stanchezza o a malattia, ma alla fine gli stregoni erano stati costretti ad ammettere che i loro poteri magici scivolavano via come granelli di sabbia fra dita che li stringono invano. Potevano conservarne alcuni, ma non tutti. Gli elfi non erano soli, in questo. Era stato riferito loro che
la stessa perdita veniva accusata fra gli umani, ma si trattava di una magra consolazione. Usando la tempesta per nascondere i loro movimenti, gli orchi avevano superato, non visti, i messi e sopraffatto le sentinelle. La barricata di roveti bruciava furiosamente in diversi punti alla base della collina. Oltre le fiamme stava la linea degli alberi, dove gli ufficiali disponevano in riga gli arcieri elfici dietro la barricata. Le punte delle frecce luccicavano come scintille. Il fuoco avrebbe tenuto a bada gli orchi per un po', ma quando si fosse estinto, i mostri sarebbero arrivati come un'onda di marea. Al buio, nel vento urlante e sotto la pioggia sferzante, gli arcieri avevano poca probabilità di colpire i bersagli prima di essere annientati. E quando questo fosse successo, la strage sarebbe stata terribile. Gli orchi detestavano tutte le altre razze di Krynn, ma il loro odio per gli elfi risaliva agli albori del tempo. Gli orchi erano belli, i favoriti degli dei; dopo la loro caduta gli elfi diventarono i preferiti, i vezzeggiati. Gli orchi non li avevano mai perdonati. «Gli ufficiali da me!» ingiunse Samar. «Capoarciere! Metti i tuoi in riga dietro i lancieri, alla barriera, e di' loro di trattenere le frecce fino a ordine contrario.» Ritornò di corsa nel tumulo. Silvan lo seguì, l'eccitazione della tempesta sostituita da quella fiera, ardente dell'attacco. Alhana gettò al figlio un'occhiata preoccupata. Vedendolo illeso, dedicò la sua attenzione completa a Samar, mentre altri ufficiali elfici si accalcavano nel rifugio. «Orchi?» chiese. «Sì, mia regina. Hanno usato la tempesta come copertura. Il messo ritiene che ci abbiano circondato. Io non ne sono sicuro; credo che la via per il sud possa essere ancora aperta.» «Che cosa suggerisci?» «Che ripieghiamo sulla fortezza della Legione d'Acciaio, Maestà. Una ritirata combattiva. I tuoi incontri con i cavalieri umani sono andati bene. Pensavo che...» Piani e schemi, tattiche e strategie. Silvan ne era stufo, stufo di sentirne parlare. Colse l'occasione per allontanarsi; corse in fondo al tumulo, doveva aveva sistemato il suo letto. Allungando la mano sotto la coperta, afferrò l'elsa di una spada, la spada comprata a Solace. Silvan amava quell'arma, tutta nuova e lucente. L'elsa intagliata era ornata del becco di un grifone; certo, era difficile da maneggiare - il becco si conficcava nella carne ma la spada aveva un aspetto splendido.
Silvanoshei non era un soldato; non ne aveva mai ricevuto l'addestramento. Ma non era colpa sua; Alhana l'aveva proibito. «A differenza delle mie, queste mani», la madre le prendeva fra le sue, stringendole, «non si macchieranno del sangue della sua gente. Queste mani guariranno le ferite che suo padre e io, contro la nostra volontà, siamo stati costretti a infliggere. Le mani di mio figlio non spargeranno mai il sangue degli elfi.» Adesso, però, non si parlava del sangue degli elfi, ma di quello degli orchi. La madre non poteva tenerlo fuori da quella battaglia. Crescendo disarmato e impreparato alla guerra in un campo di soldati, Silvan immaginava che gli altri lo disprezzassero, che nel profondo del cuore lo ritenessero un codardo. Aveva comprato la spada in segreto, preso qualche lezione finché la cosa non lo aveva stufato - e da qualche tempo aspettava con ansia la possibilità di mostrare il suo valore. Compiaciuto di quest'opportunità, Silvan si allacciò il cinturone intorno alla vita snella e ritornò dagli ufficiali, mentre la spada gli sbatteva rumorosamente contro la coscia. Messi elfici continuavano ad arrivare con i loro rapporti. Il fuoco innaturale consumava la barricata a una velocità allarmante; qualche orco aveva cercato di attraversarla. Illuminati dalle fiamme, erano ottimi bersagli per gli arcieri; purtroppo, ogni freccia che arrivava a portata del fuoco veniva da questo bruciata prima di poter colpire l'obiettivo. Decisa la tecnica di ritirata - Silvan non ne afferrò molto; si trattava di retrocedere a sud, dove si sarebbero riuniti a una forza della Legione di Acciaio - gli ufficiali ritornarono alle loro truppe. Samar e Alhana restarono insieme, parlando in tono sommesso, concitato. Sguainando la spada con un tintinnio, Silvan l'agitò in un mulinello, e per poco non mozzò il braccio a Samar. «Che diavolo...» Samar fissò il taglio sanguinante sul braccio e fulminò Silvan con lo sguardo. «Datemela!» Allungò la mano e, prima che Silvan potesse reagire, gli strappò la spada. «Silvanoshei!» Alhana era arrabbiata, più di quanto non l'avesse mai vista. «Non è il momento giusto per queste sciocchezze!» Gli girò le spalle, per indicare la sua disapprovazione. «Non sono sciocchezze, madre», ribatté Silvan. «No, non allontanarti da me! Stavolta non ti rifugerai dietro un muro di silenzio. Questa volta starai a sentire quello che ho da dirti!» Lentamente, Alhana si girò. Lo scrutò attentamente, gli occhi grandi nel
viso pallido. Gli altri elfi, scioccati e imbarazzati, non sapevano dove guardare. Nessuno sfidava la regina, nessuno la contraddiceva, nemmeno il figlio testardo e ostinato. Silvan stesso era stupefatto del proprio coraggio. «Sono un principe di Silvanesti e di Qualinesti», continuò. «È mio privilegio e mio dovere partecipare alla difesa del mio popolo. Tu non hai il diritto di cercare di fermarmi!» «Ne ho tutti i diritti», replicò Alhana. Gli afferrò il polso, trapassandogli la carne con le unghie. «Tu sei l'erede, l'unico erede. Sei tutto quello che mi rimane...» Alhana ammutolì, pentita delle sue parole. «Mi dispiace. Non intendevo dire questo. Una regina non ha niente che le appartenga. Ogni cosa che è e che ha appartiene al popolo. Tu sei tutto quello che rimane al tuo popolo, Silvan. Ora va' a raccogliere le tue cose», ordinò con la voce tesa per lo sforzo di controllarsi, «i Cavalieri ti faranno addentrare nel bosco...» «No, madre, non mi nasconderò più», disse Silvan, avendo cura di parlare con fermezza, calma, rispetto. La sua causa era persa, se fosse sembrato un bambino petulante. «Per tutta la mia vita, ogni volta che minacciava il pericolo, me ne hai allontanato, mettendomi in qualche caverna, infilandomi sotto qualche letto. Non c'è da stupirsi che la mia gente abbia poco rispetto per me.» Spostò gli occhi su Samar, che guardava il giovane con grave attenzione. «Adesso, voglio fare la mia parte, madre.» «Ben detto, principe Silvanoshei», approvò Samar. «Tuttavia, gli elfi hanno un proverbio: "Una spada in mano a un amico inesperto è più pericolosa di quella in mano al nemico". Non si impara a combattere alla vigilia della battaglia, giovanotto. Però, se vorrete coltivare seriamente questa meta, avrò piacere di addestrarvi in futuro. Nel frattempo, c'è qualcosa che potete fare, una missione che potete intraprendere.» Sapeva quale sarebbe stata la reazione; e non si sbagliava. La rabbia penetrante di Alhana aveva trovato un nuovo bersaglio. «Samar, devo parlarti!» esclamò la regina, con voce fredda, imperiosa, tagliente. Si girò di scatto, camminò con la schiena rigida e il mento sollevato fino al fondo del tumulo sepolcrale. Samar l'accompagnò con deferenza. Fuori c'erano urla e grida, e squilli di corno; in sottofondo risuonava come un tamburo militare il cupo e terribile canto di guerra degli orchi. La tempesta infuriava con violenza immutata, dando soccorso al nemico. Silvan stava vicino all'ingresso del tumulo, stupito di se stesso, fiero ma sgo-
mento, dispiaciuto ma insolente, impavido e terrorizzato al tempo stesso. Il tumulto delle sue emozioni lo confondeva. Cercò di vedere cosa stava accadendo, ma il fumo della barriera rovente si era steso sulla radura. Le grida si smorzarono, si attutirono. Avrebbe voluto ascoltare di nascosto la conversazione, mettendosi a portata d'orecchio, ma considerava la cosa infantile e indegna di se stesso. Del resto, poteva immaginare cosa si stavano dicendo; aveva già sentito abbastanza spesso le stesse parole. In realtà, probabilmente non si sbagliava di molto. «Samar, tu conosci ciò che auspico per Silvanoshei», esordì Alhana, quando si trovarono lontano dagli altri. «E tuttavia mi sfidi e lo incoraggi in questo pazzo comportamento. Mi hai deluso profondamente, Samar.» Le sue parole, la sua rabbia erano pungenti; lo colpivano al cuore facendolo sanguinare. Ma come Alhana era responsabile verso il suo popolo come regina, così Samar lo era come soldato. Aveva il dovere di garantirgli un presente e un futuro. In quel futuro, le nazioni elfiche avrebbero avuto bisogno di un erede forte, non di una femminuccia come Gilthas, il figlio di Tanis il mezzelfo, che attualmente giocava a governare Qualinesti. Tuttavia, Samar non espresse i suoi veri pensieri. Non disse: «Maestà, questo è il primo segno di coraggio che abbiamo visto in tuo figlio, e dovremmo incoraggiarlo.» Era diplomatico, oltre che soldato. «Maestà», azzardò, «Silvan ha trent'anni...» «Un bambino», l'interruppe Alhana. Samar s'inchinò. «Forse per gli standard Silvanesti, mia regina; ma non per quelli Qualinesti. Secondo la legge Qualinesti, sarebbe già classificato come giovane. Se fosse a Qualinesti, parteciperebbe all'addestramento militare. Silvanoshei sarà anche giovane d'età, Alhana», aggiunse Samar, abbandonando il titolo formale come talvolta faceva quand'erano soli insieme, «ma pensa alla vita straordinaria che ha condotto! Le sue ninnenanne sono stati i canti di guerra, la sua culla uno scudo. Non ha mai conosciuto una casa. Dal giorno della sua nascita, raramente i suoi genitori sono stati entrambi nella stessa stanza allo stesso tempo. Quando la battaglia chiamava, tu lo baciavi e partivi a cavallo, forse verso la morte. E lui sapeva che saresti potuta non tornare, Alhana; glielo leggevo negli occhi!» «Ho cercato di proteggerlo da tutto questo», rispose lei, spostando lo sguardo verso il figlio. In quel momento, assomigliava talmente tanto al padre che il dolore la sopraffece. «Se lo perdo, Samar, che ragione avrò di prolungare questa esistenza squallida e disperata?» «Non puoi proteggerlo dalla vita, Alhana», obiettò dolcemente Samar.
«Né dal ruolo che è destinato a ricoprire. Il Principe Silvanoshei ha ragione. Ha un dovere verso il suo popolo. Noi glielo lasceremo adempiere e enfatizzò la parola - al tempo stesso lo terremo fuori dai guai.» Alhana non disse nulla ma, con lo sguardo, gli diede il permesso riluttante di continuare. «Ultimamente, solo uno dei messi è ritornato al campo», proseguì Samar. «Gli altri sono morti o combattono per la vita. Hai detto tu stessa, Maestà, che dobbiamo mandare un messaggio alla Legione d'Acciaio, per avvertirla di quest'attacco. Propongo di inviare Silvan a informare i cavalieri del nostro disperato bisogno di aiuto. Siamo appena ritornati dalla fortezza, per cui ricorderà la via. La strada maestra non è lontana dal campo, e facile da trovare e da seguire. «Corre scarso pericolo. Gli orchi non ci hanno circondato. Lontano dal campo, sarà più al sicuro di qui.» Samar sorrise. «Se potessi averla vinta, mia Regina, tu andresti alla fortezza con lui.» Alhana sorrise a sua volta; la sua rabbia era svanita. «Il mio posto è con i miei soldati, Samar. Io li ho portati qui. Combattono per la mia causa. Se li abbandonassi, perderebbero ogni rispetto e ogni fiducia. Sì, ammetto che hai ragione su Silvan», riconobbe mestamente. «Non c'è bisogno di spargere sale sulle mie tante ferite.» «Mia regina, non ho mai inteso...» «Sì, invece, Samar», sospirò Alhana. «Ma hai parlato dal cuore, e hai detto la verità. Affideremo al principe questa missione. Porterà notizia del nostro bisogno alla Legione d'Acciaio.» «Canteremo le sue lodi quando ritorneremo alla fortezza», concluse Samar. «E gli comprerò una spada adatta a un principe, non a un pagliaccio.» «No, Samar», si oppose Alhana. «Può portare messaggi, ma non porterà mai una spada. Il giorno della sua nascita, ho fatto voto agli dei che non avrebbe mai usato armi contro il suo popolo. Il sangue degli elfi non dovrà mai essere sparso per colpa sua.» Samar s'inchinò, e rimase saggiamente in silenzio. Abile comandante, sapeva quando arrestare la sua avanzata, mantenere la posizione, e aspettare. Alhana tornò con la schiena rigida e portamento regale all'ingresso della caverna. «Figlio mio», disse, e nella sua voce non c'erano né emozione, né sentimento, «ho preso la mia decisione.» Silvanoshei si girò verso la madre. Figlia di Lorac, sciagurato re dei Silvanesti, che era quasi stato la rovina del suo popolo, Alhana Starbreeze si
era impegnata a pagare per le malefatte del padre, a riscattare la sua gente. Ma poiché aveva cercato di unirla ai cugini Qualinesti, poiché aveva propugnato alleanze con gli umani e con i nani, era stata ripudiata, espulsa da quei Silvanesti che sostenevano che solo tenendosi appartati e isolati dal resto del mondo sarebbero potuti sopravvivere con la loro cultura. Alhana era negli anni della maturità per gli elfi, ancora lontana dalla vecchiaia, e incredibilmente bella, più di quanto non fosse mai stata in vita sua. Aveva i capelli neri come gli abissi del mare, molto più giù di dove arrivano i raggi del sole. I suoi occhi, un tempo ametista, si erano incupiti e scuriti, come colorati dalla disperazione e dal dolore che tanto spesso vedevano. Invece di essere motivo di gioia la sua bellezza spezzava il cuore a chi la circondava. Come la leggendaria dragonlance, la cui riscoperta aveva contribuito a portare la vittoria a un mondo assediato, la regina avrebbe potuto essere racchiusa in un pilastro di ghiaccio. Distruggere il ghiaccio, distruggere la barriera protettiva che aveva eretto intorno a se stessa significava distruggere la donna all'interno. Solo suo figlio, solo Silvan aveva il potere di sciogliere il ghiaccio e toccare il calore vivente della donna in quanto madre, e non regina. Ma quella donna era sparita. La madre era sparita. La donna che gli stava davanti, fredda e severa, era la sua regina. Intimorito, umiliato, consapevole di essersi comportato scioccamente, cadde in ginocchio ai suoi piedi. «Mi dispiace, madre», si scusò. «Ti obbedirò. Lascerò...» «Principe Silvanoshei», cominciò la regina, con una voce ufficiale che non aveva mai usato con lui. Silvan non sapeva se essere contento o se piangere per qualcosa di irrevocabilmente perso. «Il comandante Samar ha bisogno di un messaggero che corra in tutta fretta all'avamposto della Legione d'Acciaio. Lì darai notizia della nostra situazione disperata. Di' al Gran Cavaliere che pensiamo di ritirarci combattendo. Dovrebbe riunire le forze, venirci incontro presso gli incroci, attaccare gli orchi sul fianco destro. Non appena i cavalieri attaccheranno, smetteremo la ritirata e manterremo la posizione. Dovrai viaggiare rapidamente attraverso la notte e la tempesta. Che niente ti trattenga, Silvan, perché questo messaggio deve arrivare a destinazione.» «Capisco, mia regina», rispose Silvan. Si alzò, rosso di trionfo. Il brivido del pericolo gli guizzava nel sangue come un fulmine. «Non deluderò te o la mia gente. Ti ringrazio per la fiducia che hai in me.» Alhana gli prese il viso fra le mani, così fredde che lui non poté reprimere un tremito. Gli posò le labbra sulla fronte. Il suo bacio bruciava come il
ghiaccio; il gelo gli penetrò fino al cuore. Da quel momento, non avrebbe mai smesso di sentire quel bacio. Si chiese se le labbra pallide avessero lasciato un segno indelebile. L'asciutta professionalità di Samar venne in soccorso. «Conoscete la via, Principe Silvan», spiegò il comandante. «L'avete percorsa a cavallo solo due giorni fa. La strada si trova a circa un miglio e mezzo a sud di qui. Non avrete stelle che vi guidino, ma il vento soffia da nord. Tenetelo alle vostre spalle, e andrete nella giusta direzione. La strada corre a est e a ovest, chiara e diritta. Prima o poi la dovrete incrociare. Una volta incontratala, viaggiate verso ovest. Il vento della tempesta soffierà sulla vostra guancia. Dovreste metterci poco tempo. Non c'è ragione di nascondersi; il rumore della battaglia maschererà i vostri movimenti. Buona fortuna, principe Silvanoshei.» «Grazie, Samar», replicò Silvan, commosso e compiaciuto. Per la prima volta in vita sua, l'elfo gli aveva parlato come a un suo pari, persino con un pizzico di rispetto. «Non deluderò né te né mia madre.» «Non deludete il vostro popolo, Principe», disse Samar. Con un'ultima occhiata e un sorriso per la madre, sorriso che lei non ricambiò, Silvan si girò e lasciò il tumulo, dirigendosi verso la foresta. Non si era allontanato di molto, quando udì la voce di Samar levata in un grido possente. «Generale Aranoshah! Porta due schieramenti di spadaccini sul fianco sinistro e mandane altri due sulla destra. Abbiamo bisogno di quattro unità di riserva, qui con Sua Maestà, caso mai rompano la linea e sfondino.» Sfondare! Era impossibile. La linea avrebbe tenuto; doveva tenere. Silvan si fermò e si guardò indietro. Gli elfi avevano innalzato il loro canto di battaglia, e la sua musica dolce e incoraggiante si levava sopra il rozzo canto degli orchi. Rincuorato, riparti, quando una palla di fuoco, candida e accecante, esplose sul lato sinistro della collina, poi rotolò lungo la china, diretta verso il tumulo sepolcrale. «Spostate il fuoco alla vostra sinistra!» gridò Samar, giù per il pendio. Gli arcieri erano momentaneamente confusi, non avendo individuato gli obiettivi, ma gli ufficiali riuscirono a dirigerli dalla parte giusta. La palla di fuoco colpì un'altra porzione della barriera, incendiò il boschetto, e continuò la sua opera distruttrice. Dapprima, Silvan pensò che le palle infuocate fossero di origine magica, e si chiese cosa dei buoni arcieri avrebbero potuto contro la stregoneria, ma poi vide che erano in realtà enormi fasci di fieno buttati giù per la china dagli orchi. Notò i loro corpi grandi e goffi
proiettati in nero contro le fiamme guizzanti. Gli orchi portavano lunghi bastoni che usavano per spingere i mucchi roventi. «Aspettate i miei ordini!» urlò Samar, ma gli elfi erano nervosi e diverse frecce vennero lanciate verso il fieno in fiamme. «No, maledizione!» Samar gridò rabbioso lungo il pendio. «Non sono ancora a tiro! Aspettate l'ordine!» Un rombo di tuono soffocò la sua voce. Vedendo tirare i compagni, gli altri arcieri fecero partire la loro raffica. Le frecce attraversarono la notte piena di fumo. Tre degli orchi che spingevano i mucchi di fieno caddero sotto il fuoco fulminante, ma il resto delle frecce atterrò molto lontano dall'obiettivo. «Tuttavia», si disse Silvan, «presto riusciranno a fermarli.» Un ululato assordante, come di un migliaio di cani che convergono sulla preda, si levò dai boschi, vicino agli arcieri elfici. Silvan sgranò gli occhi e sussultò, pensando che gli alberi stessi avessero preso vita. «Spostate il fuoco in avanti!» ordinò disperatamente Samar. Gli arcieri non potevano udirlo, sopra il ruggito delle fiamme che si avvicinavano. Troppo tardi, gli ufficiali notarono l'improvviso, rapido movimento fra gli alberi ai piedi della collina. Una linea di orchi si levò all'aperto, attaccando il boschetto che proteggeva gli arcieri. Le fiamme avevano indebolito la barriera. Gli enormi orchi infransero la massa ardente di tronchi e ramoscelli bruciati, facendosi largo a spallate. I tizzoni cadevano sui loro capelli arruffati e scintillavano nelle barbe, ma i bestioni, nella furia della battaglia, ignorarono il dolore delle ustioni e avanzarono. Attaccati ora davanti e di fianco, gli arcieri elfici annasparono disperatamente in cerca delle frecce, cercando di tirare un'altra raffica prima che gli orchi li stringessero in una morsa. I mucchi di fieno fiammeggianti cadevano su di loro con fragore. Gli elfi non sapevano quale nemico combattere per primo. Alcuni persero la testa nel caos. Samar gridava degli ordini; gli ufficiali si sforzavano di riportare le truppe sotto controllo. Gli elfi tirarono una seconda raffica, alcuni contro le balle di fieno roventi, altri contro gli orchi che li caricavano. Caddero altri orchi, un numero immenso, e Silvan pensò che si sarebbero ritirati. Rimase stupefatto e inorridito nel vedere che proseguivano, imperterriti. «Samar, dove sono le riserve?» chiamò Alhana. «Credo che siano state tagliate fuori», rispose Samar, cupo. «Non dovresti stare qui fuori, Maestà. Torna dentro, dove sei al sicuro.»
Ora, Silvan poteva vedere sua madre. Aveva lasciato il tumulo sepolcrale. Vestita di un'armatura d'argento, portava una spada al fianco. «Ho portato qui io la mia gente», ribatté Alhana. «Vuoi farmi rintanare in una caverna mentre il mio popolo muore, Samar?» «Sì», bofonchiò lui. La regina gli rivolse un sorriso tirato, ma pur sempre un sorriso. Afferrò l'elsa della spada. «Credi che sfonderanno?» «Non vedo molto che li possa fermare, Maestà», confessò mestamente Samar. Gli arcieri elfici tirarono un'altra raffica. Gli ufficiali avevano ripreso il controllo delle truppe. Ogni colpo andò a segno. Gli orchi che caricavano dal davanti caddero a dozzine. Metà linea scomparve. Tuttavia, avanzavano ancora, e i vivi calpestavano i corpi dei caduti. Nel giro di qualche momento, sarebbero stati a portata d'azione degli spadaccini. «Lanciate l'assalto!» ordinò Samar. Gli spadaccini elfici si levarono dalle loro postazioni dietro le barricate. Lanciando grida di battaglia, attaccarono la linea degli orchi. L'acciaio risuonò contro l'acciaio. I mucchi di fieno roventi finirono al centro del campo, schiacciando contendenti e incendiando alberi, erba e vestiti. D'un tratto, senza preavviso, la linea degli orchi si girò. Uno di loro aveva scorto l'armatura d'argento di Alhana, che rifletteva i bagliori del fuoco. Con grida gutturali, la indicarono; poi si buttarono verso il tumulo sepolcrale. «Madre!» ansimò Silvan, il cuore avviluppato insieme allo stomaco. Doveva portare aiuto. Contavano su di lui, ma era paralizzato, ipnotizzato da quella vista terribile. Non poteva correre da lei. Non poteva scappare. Non poteva muoversi. «Dove sono quelle riserve?» gridò furiosamente Samar. «Aranoshah! Bastardo! Dove sono gii spadaccini di Sua Maestà?» «Qui, Samar!» rispose un guerriero. «Abbiamo dovuto combattere per arrivare, ma siamo qui!» «Portali laggiù, Samar», disse Alhana, calma. «Maestà!» cominciò a protestare lui. «Non ti lascerò senza scorta in ogni caso.» «Se non fermiamo l'avanzata», ribatté Alhana «non avrà più molta importanza che io abbia o no una scorta. Ora andate. Veloci!» Samar voleva discutere, ma dall'espressione distante e risoluta sul volto della regina capì che sarebbe stato fiato sprecato. Riunendosi attorno le riserve, si avventò contro gli orchi che avanzavano.
Alhana rimase sola; l'armatura d'argento ardeva delle fiamme riflesse. «Fa' presto, Silvan, figlio mio. Fa' presto. Le nostre vite dipendono da te.» Parlava a se stessa ma anche, senza saperlo, al figlio. Le sue parole spinsero Silvan all'azione. Aveva ricevuto un ordine e l'avrebbe eseguito. Rimpiangendo amaramente il tempo perduto, il cuore gonfio di timore per la madre, si girò e si tuffò nella foresta. L'adrenalina gli scorreva nelle vene. Si fece strada nel sottobosco spingendo da parte rami, calpestando piantine. Ramoscelli crepitarono sotto i suoi piedi. Il vento gli soffiava addosso forte e freddo. Non sentiva la pioggia battente, ed era contento del fulmine che gli illuminava il sentiero. Era abbastanza prudente da tener d'occhio ogni segno del nemico e annusava continuamente l'aria perché il sudicio orco, mangiatore di carne, di solito si individua con l'olfatto molto prima che con la vista. Silvan teneva anche le orecchie aperte, perché, pur facendo quella che era, per un elfo, una quantità esagerata di rumore, era un cervo che scivolava nella foresta in confronto a un orco produttore di schianti, schiocchi, squarci e strappi. Silvan viaggiò in fretta, senza incontrare un solo animale notturno a caccia, e presto il suono della battaglia si affievolì alle sue spalle. Allora, capì di essere solo nella foresta, di notte, in mezzo alla tempesta. L'adrenalina cominciò a scemare. Una saetta di dubbio e di paura gli trapassò il cuore. E se fosse arrivato troppo tardi? E se gli umani - noti per le loro bizzarrie e la loro natura incostante - si fossero rifiutati di agire? E se l'attacco avesse sopraffatto i suoi? Se li avesse abbandonati alla loro morte? Nessun particolare del paesaggio gli sembrava familiare. Aveva preso la svolta sbagliata, si era perso... Silvan avanzò risoluto, correndo nella foresta con la facilità di chi è nato e cresciuto in mezzo ai boschi. Fu rallegrato dalla vista di un burrone sulla sinistra; ricordava di averlo visto nelle altre spedizioni verso la fortezza. La paura di essersi perso svanì. Ebbe cura di tenersi lontano dal margine roccioso del burrone, simile a una grande ferita sul pavimento della foresta. Silvan era giovane e forte. Bandì i dubbi che gli appesantivano il cuore, concentrandosi sulla missione. Un lampo rivelò la strada. Gli stava proprio davanti, e la sua vista aumentò energia e determinazione. Una volta raggiuntala, avrebbe potuto accelerare. Era un corridore eccellente; spesso percorreva lunghe distanze per il puro piacere di sentire l'espansione e la contrazione dei muscoli, il sudore sul corpo, il vento sulla faccia e il calore
soffuso che alleviava qualsiasi dolore. Si immaginò parlare al Gran Cavaliere, perorare la loro causa, indurlo alla fretta. Silvan si vide alla testa dei soccorsi, vide il volto della madre acceso d'orgoglio... Nella realtà, si vide il cammino bloccato. Seccato, si fermò con una scivolata sul sentiero fangoso per studiare l'ostacolo. Un ramo gigantesco, caduto da una vecchia quercia, giaceva attraverso il sentiero. Foglie e fronde impedivano il passaggio. Silvan sarebbe stato costretto ad aggirarlo, manovra che l'avrebbe avvicinato al bordo del burrone. Tuttavia, i piedi non l'avrebbero tradito, e il lampo gli illuminava la via. Avanzò piano piano intorno all'estremità del ramo, con un buon margine di sicurezza. Stava oltrepassando una fronda, allungando la mano per aggrapparsi a un pino vicino, quando un fulmine screziò l'oscurità e colpì il pino. La pianta esplose in una palla di fuoco bianco. La forza dello scoppio buttò Silvan oltre il bordo del burrone. Rotolando giù per la parete cosparsa di rocce, sbatté contro il troncone di un albero sul fondo. Il dolore gli bruciava il corpo, ma una pena peggiore gli straziava il cuore. Aveva fallito. Non avrebbe raggiunto la fortezza. I cavalieri non avrebbero mai ricevuto il messaggio. I suoi non potevano combattere da soli contro gli orchi; sarebbero morti. Sua madre sarebbe morta credendo che lui l'avesse abbandonata. Cercò di muoversi, di alzarsi, ma un dolore incandescente lo trapassò, così orribile che quando sentì spegnersi la coscienza, fu contento di pensare che stava per morire. Contento di pensare che avrebbe raggiunto i suoi nella morte, dato che non poteva fare nient'altro per loro. La disperazione e l'angoscia si levarono in una grande onda scura, si abbatterono su Silvan e lo sopraffecero. III UN VISITATORE INATTESO La tempesta sparì. Nella sua stranezza, aveva travolto Ansalon come un esercito invasore, colpendo al tempo stesso tutte le parti del vasto continente, attaccando per tutta la notte, per ritirarsi solo allo spuntare dell'alba. Il sole emerse lentamente dallo scuro banco di nubi, screziato di fulmini, per splendere trionfalmente nel cielo azzurro. Luce e calore rallegrarono gli abitanti di Solace che uscirono esitanti dalle case per vedere la distru-
zione operata dalla tempesta. Solace era in condizioni migliori di altre parti di Ansalon, anche se la tempesta sembrava essersi accanita contro quella città con odio particolare. I possenti alberi di vallen avevano dimostrato un'ostinata resistenza contro il fulmine devastatore che li aveva colpiti ripetutamente. La cima delle piante s'incendiò e bruciò, ma le fiamme non si diffusero ai rami sottostanti. Le forti braccia degli alberi si agitarono nei turbini di vento, ma tennero strette le case affidate alla loro cura. I torrenti si alzarono e i campi si allagarono, ma abitazioni, stalle e fienili furono risparmiati. La Tomba degli Ultimi Eroi, una bella struttura di pietra bianca e nera che si ergeva su una radura alla periferia della città, aveva subito seri danni. Il fulmine aveva colpito una delle guglie, facendola a pezzi, e mandando grossi blocchi di marmo a schiantarsi sul prato. Ma il danno peggiore toccò alle case rozze e improvvisate dei rifugiati che abbandonavano le terre a ovest e a sud, terre che erano state libere solo un anno prima, ma che ora stavano cadendo sotto il controllo della verde dragonessa Beryl. Tre anni prima, i grandi draghi che avevano combattuto per il controllo di Ansalon avevano raggiunto una tregua precaria. Rendendosi conto che le loro battaglie sanguinose li indebolivano, i draghi accettarono di accontentarsi del territorio conquistato da ognuno di loro; non si sarebbero mossi guerra reciprocamente per guadagnarne di più. Il patto era stato mantenuto fino all'anno precedente. Proprio allora, Beryl aveva notato che i suoi poteri magici cominciavano a declinare; dapprima, aveva incolpato la sua immaginazione, ma, col passare del tempo, si era convinta che qualcosa non andava. Beryl incolpava la dragonessa rossa Malys per la perdita dei suoi poteri; la cugina, più grossa e più forte, perpetrava qualche intrigo malevolo. Accusava anche i maghi umani, che le nascondevano la Torre dell'Alta Magia di Wayreth. Di conseguenza, Beryl aveva cominciato molto gradualmente a espandere il suo controllo sui territori umani. Si muoveva lentamente, per non attrarre l'attenzione di Malys. A Malys non sarebbe importato se qua e là una città fosse stata bruciata, o un villaggio saccheggiato. La città di Haven era proprio una di quelle cadute recentemente sotto l'attacco di Beryl. I rifugiati che erano riusciti a scappare da Haven e dai dintorni verso Solace ne avevano gonfiato la popolazione di tre volte la normale dimensione. Giungendo con i loro averi legati in fagotti, o impilati sul retro di carri,
i rifugiati venivano ospitati in quelli che i padri della città chiamavano «alloggi d'emergenza». Le casupole sarebbero dovute restare veramente temporanee, ma il flusso di uomini in arrivo ogni giorno sopraffece le buone intenzioni. I rifugi temporanei divennero, purtroppo, permanenti. La prima persona a raggiungere i campi dei rifugiati il mattino dopo la tempesta fu Caramon Majere, che guidava un carro a quattro ruote carico di sacchi di cibo, legname da ricostruzione, legna da ardere, e coperte. Caramon aveva superato l'ottantina, di quanto, esattamente, non lo sapeva nessuno, perché lui stesso aveva perso il conto degli anni. Era quello che a Solamnia chiamavano «un grande vecchio». La vecchiaia l'aveva raggiunto come un nemico onorevole, che gli faceva il saluto guardandolo negli occhi, e non si avvicinava furtivo a pugnalarlo alle spalle, o a derubarlo della sua intelligenza. Robusto e gagliardo, l'ampia struttura corpulenta ma non piegata («Non posso crescere curvo, la mia pancia non me lo permette», era solito dire con una risata fragorosa), Caramon era il primo della sua famiglia ad alzarsi; usciva tutte le mattine a tagliare la legna per i fuochi della cucina, o a trascinare i pesanti barili di birra su per le scale. Le sue due figlie si occupavano dell'attività della taverna dell'Ultima Casa - questa era l'unica concessione che Caramon faceva alla sua età - ma lui badava ancora al bar, lui raccontava ancora le sue storie. Laura gestiva la taverna, mentre Dezra, che aveva il gusto dell'avventura, frequentava i mercati di Haven e di altri posti, cercando il luppolo migliore per la loro birra e miele per il loro leggendario idromele, e persino recuperando l'alcool dei nani da Thorbardin. Non appena usciva, Caramon era attaccato da uno sciame di bambini di Solace, che lo chiamavano tutti «Nonno» e gareggiavano per farsi portare sulle sue spalle larghe, o lo pregavano di raccontare storie di eroi passati. Caramon era amico dei rifugiati che, probabilmente, non avrebbero avuto alcun alloggio, se lui non avesse donato il legno e sorvegliato la costruzione. Al momento, stava sovrintendendo a un progetto per costruire alloggi permanenti alla periferia di Solace, ricorrendo a pressioni, lusinghe, minacce perché le autorità recalcitranti si mettessero all'opera. Caramon Majere non camminava mai per le strade di Solace senza sentire pronunciare e benedire il suo nome. Una volta che i rifugiati furono assistiti, Caramon viaggiò nel resto di Solace, assicurandosi che tutti fossero al sicuro, sollevando i cuori e gli spiriti oppressi dalla terribile notte. Dopodiché, andò a far colazione, colazione che divideva, ultimamente, con un Cavaliere di Solamnia, un uomo che ricordava a Caramon i suoi due figli morti nella Guerra del Caos.
Nei giorni immediatamente successivi alla Guerra del Caos, i Cavalieri Solamnici avevano istituito una guarnigione a Solace. Dapprima, era stata piccola, intesa solo a fornire Cavalieri che facessero da guardia d'onore alla Tomba degli Ultimi Eroi. Poi, la guarnigione si era accresciuta per opporsi alla minaccia dei grossi draghi, che erano ormai i riconosciuti, se pure odiati, padroni di gran parte di Ansalon. Finché gli umani di Solace e di altre città e terre sotto il suo controllo continuavano a pagare tributi a Beryl, questa avrebbe consentito loro di andare avanti con la loro vita, di produrre altra ricchezza, in modo che i tributi diventassero ancora più gravosi. A differenza dei draghi malvagi delle età precedenti, che godevano nel bruciare, nel saccheggiare e nell'uccidere, Beryl aveva scoperto che le città consumate dalle fiamme non generavano profitto. I morti non pagavano le tasse. C'erano molti che si chiedevano perché Beryl e la cugina, con le loro meravigliose e terribili magie, dovessero concupire la ricchezza e domandare dei tributi. Beryl e Malys erano creature furbe. Se fossero state rapacemente e sfrenatamente crudeli, indulgendo al totale massacro di intere popolazioni, la gente di Ansalon sarebbe insorta dalla disperazione, mettendosi in marcia per distruggerle. Così come stavano le cose, la maggior parte degli umani trovava la vita sotto il governo dei draghi relativamente comoda; erano soddisfatti del loro «abbastanza bene». Cose brutte accadevano a certa gente; gente che, senza dubbio, se l'era voluta. Se centinaia di kender venivano uccisi o allontanati da casa, se gli elfi Qualinesti ribelli erano torturati e imprigionati, cosa importava questo agli umani? Beryl e Malys avevano servi e spie in ogni città e villaggio umani, messi lì per fomentare il sospetto, l'odio, la discordia, oltre che per accertarsi che nessuno stesse cercando di nascondere ai draghi nemmeno una moneta di rame incrinata. Caramon Majere era uno dei pochi che esprimeva esplicitamente il suo odio nei confronti dei tributi dovuti ai draghi; e si rifiutava proprio di pagarli. «Non una goccia di birra darò a quei demoni», diceva animatamente ogni volta che gli chiedevano qualcosa in proposito; ma lo facevano raramente, sapendo che una delle spie di Beryl era probabilmente lì a scrivere nomi. Era irremovibile nel suo rifiuto, anche se molto preoccupato di conseguenza. Solace era una cittadina ricca, ora più ampia di Haven. Il tributo che le veniva richiesto era assai alto. Tika, la moglie di Caramon, gli aveva
fatto notare che la loro parte veniva compensata dagli altri cittadini, e che questo causava loro delle privazioni. Caramon vide la saggezza delle argomentazioni di Tika. Infine, concepì l'idea nuova di imporsi una tassa speciale, una tassa pagata solo dalla taverna, i cui proventi non sarebbero stati assolutamente inviati al drago, ma usati per assistere coloro che soffrivano indebitamente per il pagamento di quella che era diventata nota come la «tassa del drago». Gli abitanti di Solace pagarono una tassa supplementare, i padri della città rifusero loro una porzione prendendola dal contributo di Caramon, e il tributo andò a Beryl come richiesto. Se avessero trovato il modo di far tacere Caramon su quest'argomento esplosivo, l'avrebbero fatto, perché lui continuava a dichiarare a gran voce il suo odio per i draghi, continuava a esprimere la sua opinione che «se solo ci mettessimo tutti insieme potremmo distruggere l'occhio di Beryl con una dragonlance.» In realtà, quando la città di Haven era stata attaccata da Beryl solo qualche settimana prima - con il motivo ufficiale dell'inadempienza nei pagamenti - i padri della città di Solace erano andati da Caramon a pregarlo in ginocchio di smetterla con le sue osservazioni rivoltose. Impressionato dalla loro paura e dalla loro angoscia, Caramon aveva accettato di moderare la sua eloquenza, e i padri della città se n'erano andati soddisfatti. Caramon mantenne la promessa, esprimendo le sue opinioni in tono di voce moderato, rispetto alla tonante indignazione di prima. Ripeté il suo parere non ortodosso quel mattino, al suo compagno di colazione, il giovane Solamnico. «Una tempesta terribile, signore», disse il Cavaliere sedendosi di fronte a Caramon. Un gruppo di compagni Cavalieri faceva colazione in un'altra parte della taverna, ma Gerard uth Mondar prestava loro scarsa attenzione. Essi, a loro volta, non gliene davano affatto. «Per me, è presagio di giorni bui», convenne Caramon, sistemando la sua mole sulla panca di legno dall'alto schienale, il cui sedile era stato lucidato dal didietro del vecchio. «Ma, tutto sommato, l'ho trovata esaltante.» «Papà!» Laura era scandalizzata. Sbatté sul tavolo un piatto di uova e bistecca per il padre, e una scodella di porridge per il Cavaliere. «Come puoi dire certe cose? Con tanta gente ferita. Intere case distrutte, da quanto sento.» «Non intendevo questo», protestò Caramon, contrito. «Naturalmente, mi
dispiace per chi è rimasto ferito ma, sapete, questa notte mi è venuta l'idea che questa tempesta ha dovuto scuotere per bene la tana di Beryl. Forse ha anche bruciato la vecchia strega. Ecco cosa pensavo.» Guardò preoccupato la scodella di porridge del giovane Cavaliere. «Sei sicuro di avere abbastanza da mangiare, Gerard? Posso dire a Laura di friggerti delle patate...» «Grazie, signore, ma non ho l'abitudine di mangiare altro a colazione», replicò Gerard, come tutti i giorni, in risposta alla stessa domanda. Caramon sospirò. Per quanto avesse imparato ad apprezzare quel giovane, non riusciva a comprendere chi non amava il cibo. Una persona che non amava le famose patate speziate di Otik era una persona che non amava la vita. Solo una volta in vita sua Caramon aveva smesso di provar gusto nei pasti, cioè dopo la morte, avvenuta mesi prima, dell'amata moglie Tika. Per giorni, si era rifiutato di mangiare un solo boccone, con terribile preoccupazione e sgomento dell'intera città, che tentò smaniosamente di cucinare qualcosa che lo allettasse. Non mangiava niente, non faceva niente, non diceva niente. O vagava senza meta per la città, o sedeva guardando ad occhi asciutti fuori dalle finestre di vetro colorato della taverna, la taverna in cui aveva conosciuto la ragazzaccia dai capelli rossi che era stata la sua compagna d'armi, la sua amante, la sua amica, la sua salvezza. Non spargeva lacrime per lei, non visitava la sua tomba sotto gli alberi di vallen. Non dormiva nel loro letto. Non voleva sentire i messaggi di condoglianze che venivano da Laurana e Gilthas a Qualinesti, da Goldmoon nella Cittadella della Luce. Caramon perse peso, la sua carne si afflosciò, la sua pelle prese una sfumatura grigiastra. «Presto seguirà Tika», diceva la gente della città. E sarebbe anche successo se un giorno un ragazzetto, uno dei più poveri, non l'avesse incrociato nei suoi tristi vagabondaggi. Mise il suo corpicino proprio davanti al vecchio e gli tese un pezzo di pane. «Tieni, signore», gli offrì. «Mia madre dice che se non mangi morirai, e allora cosa ne sarà di noi?» Caramon fissò il bambino meravigliato. Poi si inginocchiò, lo strinse fra le braccia, e cominciò a singhiozzare sfrenatamente. Mangiò il pane, fino all'ultima briciola, e quella notte dormì nel letto che aveva diviso con Tika. Il mattino successivo, mise dei fiori sulla sua tomba, e consumò una colazione che avrebbe nutrito tre uomini. Sorrideva e rideva ancora, ma nel suo sorriso e nella sua risata c'era qualcosa di nuovo; non dolore, ma un'ansiosa impazienza.
A volte, quando si apriva la porta della taverna, Caramon guardava il cielo blu e luminoso al di là, e mormorava: «Sto arrivando, mia cara. Non preoccuparti. Non mancherà molto.» Gerard uth Mondar mangiò il suo porridge con rapidità, senza gustarlo veramente. Lo voleva liscio: rifiutava di condirlo con lo zucchero scuro o con la cannella, e non ci aggiungeva nemmeno il sale. Il cibo era combustile per il corpo, e niente di più. Mandò giù la massa coagulata con una tazza di tè, e ascoltò Caramon che parlava delle terribili meraviglie della tempesta. Gli altri Cavalieri pagarono il conto e andarono, salutando educatamente Caramon al loro passaggio, ma ignorando il suo compagno. Gerard sembrò non accorgersene; continuò a portarsi il porridge alla bocca, senza soste. Caramon guardò i Cavalieri uscire, e interruppe la storia a metà di un fulmine. «Apprezzo il fatto che passi il tempo con un vecchio bislacco come me, Gerard, ma se vuoi fare colazione con i tuoi amici...» «Non sono miei amici», ribatté Gerard, senza amarezza né rancore, semplicemente enunciando un dato di fatto. «Preferisco di gran lunga mangiare con un uomo pieno di saggezza e di buon senso.» Alzò la tazza in segno di saluto a Caramon. «È solo che sembri...» Caramon fece una pausa, masticò vigorosamente la sua bistecca. «Solo», finì borbottando, con la bocca piena. Inghiottì, inforcò un altro pezzo. «Dovresti avere una ragazza o... una moglie.» Gerard sbuffò. «Quale donna guarderebbe due volte un uomo con una faccia del genere?» Gettò un'occhiata scontenta al proprio riflesso nella tazza di peltro ben lucidata. Gerard era brutto; non si poteva negarlo. Una malattia infantile gli aveva lasciato il viso pieno di rughe e di cicatrici. Il naso, rotto durante una lotta da lui avuta con un vicino all'età di dieci anni, era rimasto leggermente storto. I capelli erano gialli: non biondi, non dorati, proprio giallo paglierino. Avevano anche la consistenza della paglia, e non stavano giù, ma tendevano a saltar su ad angolazioni strane. Per evitare di sembrare uno spaventapasseri - il soprannome che gli avevano affibbiato da giovane - Gerard li teneva il più corti possibile. L'unica sua caratteristica buona erano gli occhi, di un blu stupefacente e, si poteva dire, quasi allarmante. Ma poiché dietro di loro c'era raramente calore e poiché erano sempre concentrati sull'obiettivo con intensità ferrea, gli occhi di Gerard tendevano a respingere più persone di quante ne attraessero.
«Bah!» Caramon respinse bellezza e avvenenza con uno svolazzo della forchetta. «Alle donne non importa l'aspetto di un uomo. Vogliono un uomo d'onore, di coraggio. Un giovane Cavaliere come te... Quanti anni hai?» «Ho compiuto i ventotto, signore», rivelò Gerard. Finendo il suo porridge, spinse di lato la scodella. «Ventott'anni noiosi e completamente sprecati.» «Noiosi?» Caramon era scettico. «E tu saresti un Cavaliere? Ho partecipato a qualche guerra. Se ben ricordo, le battaglie erano tutto fuorché noiose...» «Non sono mai stato in battaglia, signore», replicò Gerard, e ora il suo tono era aspro. Si alzò, mise una moneta sul tavolo. «Mi scusi, ma questa mattina sono di guardia alla tomba. Essendo questo il Giorno di Metà Anno, e quindi vacanza, ci aspettiamo un afflusso di kender turbolenti e distruttivi. Mi è stato ordinato di presentarmi alla mia postazione con un'ora dì anticipo. Vi auguro una buona giornata, signore, e vi ringrazio per la compagnia.» S'inchinò rigidamente, si girò sui talloni come se stesse già eseguendo la lenta e solenne marcia davanti alla tomba, e uscì dal locale. Caramon sentì gli stivali risuonare sulla lunga scala che conduceva giù dalla taverna, appollaiata fra i rami dell'albero di vallen più grande di Solace. Si appoggiò comodamente alla panca. Il sole entrava a fiotti dalle finestre rosse e verdi, riscaldandolo. Con la pancia piena, era soddisfatto. Fuori, la gente ripuliva dopo la tempesta, raccogliendo i rami caduti dagli alberi, arieggiando le case umide, spargendo paglia sulle strade fangose. Nel pomeriggio, tutti si sarebbero messi gli abiti migliori, adornandosi i capelli di fiori, per celebrare il giorno più lungo dell'anno con danze e banchetti. Caramon poteva vedere Gerard camminare nel fango con la schiena e il collo eretti, e dirigersi verso la Tomba degli Ultimi Eroi senza prestare attenzione a niente di ciò che lo circondava. Guardò finché non lo perse di vista in mezzo alla folla. «È un tipo strano», disse Laura, tirando via la scodella vuota e intascando la moneta. «Mi chiedo come tu faccia a mangiare insieme a lui, Papà. La sua faccia coagula il latte.» «Non ha colpa della faccia che si ritrova, figliola», ribatté severamente Caramon. «Ci sono ancora uova?» «Te ne porto un po'. Non hai idea di che piacere sia vederti mangiare di nuovo.» Laura fece una pausa dal lavoro, per baciare il padre dolcemente,
sulla fronte. «Quanto a quel giovanotto, il suo problema non è la bruttezza. In vita mia, ho amato gente molto più brutta. Sono la sua arroganza, il suo orgoglio a tener lontana la gente. Si crede migliore di tutti noi, davvero. Sapevi che proviene da una delle famiglie più ricche di tutta Palanthas? Suo padre praticamente finanzia la Cavalleria, dicono. E paga bene perché il figlio sia destinato qui a Solace, lontano dalle battaglie di Sanction e di altri posti. Non c'è da meravigliarsi che gli altri Cavalieri non abbiano rispetto per lui.» Laura corse in cucina a riempire il piatto del padre. Caramon la fissò stupefatto. Faceva colazione con il ragazzo tutti i giorni da due mesi, e non aveva la minima idea di tutto questo. Avevano sviluppato, gli pareva, uno stretto rapporto, ed ora Laura, che non aveva mai detto al giovane Cavaliere nient'altro che «Zucchero nel tè?» conosceva la storia della sua vita. «Le donne», Caramon mormorò fra sé, crogiolandosi al sole. «Ottant'anni e potrei averne ancora sedici. Non le capivo allora, e non le capisco ora.» Laura portò un piatto di uova con un'alta pila di patate speziate al fianco. Diede al padre un altro bacio e andò ad attendere alle incombenze della giornata. «Somiglia tanto a sua madre, però», concluse Caramon, teneramente, e si mise a mangiare con gusto. Anche Gerard uth Mondar pensava alle donne, mentre arrancava nel fango alto fino alla caviglia. Sarebbe stato d'accordo con Caramon sul fatto che le donne non erano creature comprensibili agli uomini. Tuttavia, Caramon le amava; Gerard né le amava né si fidava di loro. Una volta, quando aveva quattordici anni ed era appena guarito dalla malattia che gli aveva rovinato l'aspetto, una giovane vicina aveva riso di lui, chiamandolo «faccia butterata». La madre, scoprendolo singhiozzante e in lacrime, l'aveva consolato, dicendogli: «Non far caso a quella stupidina, figlio mio. Un giorno, le donne ti ameranno». E poi aveva aggiunto, vagamente: «Dopo tutto, sei molto ricco». Quattordici anni dopo, Gerard si svegliava la notte sentendo l'acuta, beffarda risata della ragazza, e la sua anima si faceva piccola per l'imbarazzo e per la vergogna. Riudiva il consiglio della madre, e l'imbarazzo si tramutava in rabbia, una rabbia tanto più cocente per il fatto che esso si era dimostrato profetico. La «stupidina» si era buttata fra le braccia di Gerard
quando entrambi avevano diciott'anni e lei aveva capito che il denaro poteva rendere la più brutta erbaccia bella come una rosa. Gerard aveva provato grande piacere nello snobbarla sdegnosamente. Da quel giorno, aveva sospettato che ogni donna che lo guardasse con interesse stesse segretamente calcolando le sue ricchezze, mascherando nel contempo il proprio disgusto per lui dietro dolci sorrisi e battiti di ciglia. Memore del precetto che la miglior offesa è una buona difesa, Gerard aveva costruito intorno a sé una straordinaria fortezza, irta di punte uncinate, circondata da un fossato di cupo risentimento, i muri muniti di secchi di commenti acidi, le alte torri nascoste in una nube di umori scuri. La fortezza si dimostrava estremamente efficace nel tenere lontani anche gli uomini. Il pettegolezzo di Laura era particolarmente preciso. Gerard uth Mondar veniva davvero da una delle famiglie più ricche di Palanthas, probabilmente una delle più ricche di tutta Ansalon. Prima della Guerra del Caos, suo padre, Mondar uth Alfric, era stato proprietario del cantiere navale meglio avviato di Palanthas. Prevedendo l'ascesa dei Cavalieri Scuri, sir Mondar aveva saggiamente convertito quanto più poteva dei suoi possessi in buon solido acciaio, e spostato la famiglia nell'Ergoth del Sud, dove aveva ricominciato da capo l'attività di costruzione e riparazione navi, ora molto fiorente. Sir Mondar era una forza potente fra i Cavalieri di Solamnia. Contribuiva con più denaro di qualunque altro Cavaliere al sostegno e al mantenimento della Cavalleria. Aveva badato che suo figlio diventasse Cavaliere, e che avesse la miglior postazione possibile, la più sicura. Mondar non aveva mai chiesto a Gerard che cosa volesse dalla vita. Il Cavaliere più anziano aveva dato per scontato che il figlio volesse imitarlo, e il figlio l'aveva dato per scontato anche lui, fino alla notte in cui faceva la veglia prima della cerimonia dell'investitura. Quella notte, aveva avuto una visione, non di gloria e di onori guadagnati sul campo di battaglia, ma di una spada che arrugginiva nel fodero, di commissioni insulse e di guardie a sentinella di polveri e di ceneri che non ne avevano bisogno. Troppo tardi per ritirarsi. Ciò avrebbe significato infrangere una tradizione di famiglia che risaliva, si diceva, a Vinas Solamnus. Suo padre l'avrebbe rinnegato, odiato per sempre. Sua madre, che aveva mandato centinaia di inviti per i festeggiamenti, si sarebbe rifugiata a letto per un mese. Gerard aveva ultimato la cerimonia. Aveva pronunciato il suo voto, che considerava privo di significato. Aveva indossato l'armatura che era diventata la sua prigione.
Ormai, serviva nella Cavalleria da sette anni, uno dei quali trascorso nel compito «onorario» di custodire un mucchio di cadaveri. Prima, aveva preparato il tè e scritto lettere per il suo comandante nell'Ergoth del Sud. Aveva chiesto di essere mandato a Sanction ed era stato sul punto di partire, quando la città era stata attaccata dai Cavalieri di Neraka, e il padre aveva fatto in modo che fosse inviato, invece, a Solace. Arrivato alla Tomba degli Ultimi Eroi, Gerard si ripulì gli stivali dal fango e andò a raggiungere il compagno di guardia, prendendo l'odiata e detestata posizione d'onore. La tomba era una semplice struttura dal profilo elegante, costruita dai nani in marmo bianco e ossidiana nera. Era circondata da alberi, piantati dagli elfi, carichi per tutto l'anno di fiori profumati. Dentro giacevano i corpi di Tanis il mezzelfo, eroe caduto nella battaglia della Torre del Sommo Chierico, e di Steel Brightblade, figlio di Sturm Brightblade ed eroe della battaglia finale contro il Caos. Lì c'erano anche i cadaveri dei Cavalieri che avevano combattuto il dio del Caos. Sopra la porta della tomba era scritto un unico nome, quello di Tassiehoff Burrfoot, il kender eroe della Guerra del Caos. I kender venivano da tutta Ansalon per rendere omaggio al loro eroe, facendo banchetti e picnic sui prati, cantando canzoni sullo zio Tas e raccontando storie sulle sue ardite azioni. Sfortunatamente, qualche anno dopo la costruzione della tomba, si misero in testa che ognuno dovesse andar via con un pezzetto, come portafortuna. A questo scopo, iniziarono ad attaccarla con scalpelli e martelli, costringendo i Cavalieri Solamnici a erigere un recinto di ferro battuto intorno alla tomba che cominciava a sembrare mordicchiata dai topi. Con il sole che gli picchiava addosso, e l'armatura che lo rosolava lentamente come Laura rosolava lentamente l'arrosto di manzo, Gerard marciò pian piano e solennemente per i cento passi che lo portarono dal margine sinistro al centro della tomba. Qui incontrò il compagno, che aveva percorso un'eguale distanza. Si salutarono a vicenda. Girandosi, salutarono gli eroi caduti; poi, girandosi ancora, tornarono indietro, i movimenti dell'uno rispecchianti esattamente quelli dell'altro. Cento passi avanti. Cento passi indietro. Ancora e ancora e ancora. Un onore per alcuni, come per il Cavaliere che, quel giorno, stava di guardia insieme a Gerard. Questi, un veterano, si era guadagnato la postazione con il sangue, non con il denaro, e faceva il suo giro zoppicando leg-
germente, ma con orgoglio. C'era poco da rimproverarlo se, ogni volta che si trovava faccia a faccia con Gerard, lo guardava con un'ostilità tale da increspargli le labbra. Gerard marciava avanti e indietro. Con l'avanzare del giorno, si radunavano le folle; molti erano venuti a Solace apposta per la festa. I kender arrivavano a sciami, stendendo i pranzi per terra, ballando e giocando a mosca cieca e a palla avvelenata. Amavano guardare i Cavalieri e disturbarli. Danzavano intorno a loro, cercavano di farli sorridere, li stuzzicavano, battevano sulla loro armatura, li chiamavano «Teste-a-teiera» e «Barattoli di carne», offrivano loro del cibo, pensando che potessero aver fame. Gerard uth Mondar non amava gli umani, non si fidava degli elfi, e odiava i kender. Profondamente. Li detestava tutti egualmente, compresi i cosiddetti kender «afflitti», che la maggior parte della gente guardava con pietà. Essi erano i superstiti di un attacco che la grande dragonessa Malys aveva sferrato sulla loro terra; si diceva che avessero visto tali atti di violenza e di crudeltà che le loro nature allegre, innocenti erano cambiate per sempre, rendendoli simili agli umani: cauti, sospettosi e malevoli. Gerard non credeva a questa stona dell'«afflizione». A suo parere, era un altro modo abietto usato dai kender per infilare le loro luride manine nelle tasche di un uomo. I kender erano come parassiti. Potevano appiattire i loro corpicini senz'ossa e introdursi in qualunque struttura creata dagli uomini o dai nani. Gerard ne era fermamente convinto, e perciò non provò grande sorpresa quando, vicino alla fine della sua guardia, verso il tardo pomeriggio, sentì una voce acuta chiamare e strillare. «Ehi!» gridò la voce. «Potete farmi uscire? Qui c'è buio pesto, e non trovo la maniglia della porta.» Il compagno di Gerard saltò un passo. Fermandosi, si girò con gli occhi sgranati. «Hai sentito?» chiese, e guardò la tomba preoccupato, aggrottando le sopracciglia. «Sembrava che là dentro ci fosse qualcuno.» «Sentito cosa?» ribatté Gerard, per quanto anche lui avesse udito distintamente. «È solo la tua immaginazione.» Ma non lo era. Il rumore crebbe d'intensità. Alle grida si erano aggiunti pugni e colpi. «Ho sentito una voce dentro la tomba!» annunciò un piccolo kender, corso in avanti per recuperare una palla rimbalzata sul piede sinistro di Gerard. Il kender appoggiò il viso al recinto, indicò le porte massicce e sigillate della tomba. «C'è qualcuno intrappolato là dentro! E vuole uscirei»
La folla di kender e di altri residenti di Solace venuti a rendere omaggio ai morti bevendo birra e masticando pollo freddo dimenticò cene e giochi. Con il fiato corto dallo stupore, si radunò intorno al recinto, quasi schiacciando i Cavalieri. «C'è qualcuno sepolto vivo!» strillò una ragazzina. La folla avanzò come un'ondata. «Indietro!» ordinò Gerard, sguainando la spada. «Questo è territorio sacro! Chiunque lo profani sarà arrestato! Randolph, va' a chiamare i rinforzi! Dobbiamo liberare questa zona.» «Forse è un fantasma», ipotizzò l'altro Cavaliere, con gli occhi accesi di reverente timore. «Il fantasma di uno degli Eroi caduti tornato ad avvisarci di un pericolo terribile.» Gerard sbuffò. «Hai ascoltato troppi racconti di bardi! Non è altro che uno di questi sporchi parassiti che si è infilato dentro e non riesce più a uscire. Io ho la chiave del cancello, ma non ho idea di come aprire la tomba.» I colpi alla porta diventavano sempre più forti. Il Cavaliere gettò a Gerard un'occhiata disgustata. «Andrò a chiamare il sovrintendente. Lui saprà cosa fare.» Randolph partì di corsa, tenendosi la spada al fianco per evitare che sbattesse contro l'armatura. «Via! Scostatevi!» ingiunse Gerard, in tono deciso. Tirò fuori la chiave e, con la schiena contro il recinto e il viso rivolto alla folla, annaspò finché non riuscì ad infilarla nella serratura. Sentendola scattare, aprì il cancello, con gran gioia dei presenti, diversi dei quali cercarono di entrare. Gerard colpì i più coraggiosi con il piatto della spada, respingendoli per qualche attimo, il tempo di sgusciare frettolosamente oltre il cancello e di richiuderlo. La folla di umani e di kender premeva intorno al recinto. I bambini misero la testa fra le sbarre, subito si incastrarono e cominciarono a strillare. Alcuni si arrampicarono nell'inutile tentativo di passare al di là, mentre altri gettarono dentro mani, braccia e gambe senza nessuna ragione logica, il che confermò a Gerard ciò che egli sospettava da tempo: i suoi simili erano dei babbei. Il Cavaliere si assicurò che il cancello fosse ben chiuso, poi si avviò verso la tomba, con l'intenzione di piazzarsi all'entrata finché il sovrintendente non fosse arrivato con qualche mezzo per rompere il sigillo. Stava salendo le scale di marmo e di ossidiana quando sentì la voce e-
sclamare allegramente: «Oh, non importa. Ce l'ho fatta!» Un forte schiocco, come di una serratura che si apre, e le porte della tomba cominciarono a schiudersi con un cigolio. La folla ansimò, eccitata e inorridita, e si avvicinò al recinto; ognuno cercava di vedere il meglio possibile lo spettacolo di un Cavaliere fatto a pezzi da orde di guerrieri ridotti a scheletri. Una figura emerse dalla tomba. Era sporca, polverosa, con i capelli scompigliati, gli abiti trasandati e bruciacchiati, le borse sciupate e logore per l'uso. Ma non era uno scheletro. Non era un vampiro succhiasangue, né un mangiacadaveri emaciato. Era un kender. La folla emise un gemito di disappunto. Il kender batté le palpebre, mezzo accecato dalla forte luce del sole. «Salve» esordì. «Sono...» s'interruppe per starnutire. «Scusate. Là dentro c'è un sacco di polvere; qualcuno dovrebbe farci qualcosa. Avete un fazzoletto? Sembra che abbia perso il mio. Be', in realtà apparteneva a Tanis, ma non credo che lo vorrà indietro, ora che è morto. Dove sono?» «In arresto», rispose Gerard. Stringendo saldamente il kender, lo trascinò giù per le scale. Comprensibilmente delusi per la mancata battaglia fra il Cavaliere e il morto vivente, i presenti ritornarono ai loro picnic e ai loro giochi di palla. «Riconosco questo posto», disse il kender, volgendo gli occhi all'intorno invece di guardare dove metteva i piedi, il che lo fece inciampare. «Sono a Solace. Bene! È qui che dovevo venire. Mi chiamo Tasslehoff Burrfoot, e sono venuto per parlare al funerale di Caramon Majere, per cui se puoi portarmi rapidamente alla taverna.... poi devo proprio tornare. C'è un piede gigante che sta per venirmi addosso - bam! - e non voglio perdermelo, per cui...» Gerard infilò la chiave nella serratura, la girò, e aprì il cancello. Diede al kender una spinta che lo mandò a gambe levate. «L'unico posto in cui andrai è la prigione. Hai già combinato abbastanza guai.» Il kender si tirò su allegramente, per nulla arrabbiato né sconcertato. «Molto gentile da parte tua trovarmi un posto in cui passare la notte. Non che intenda rimanere a lungo. Sono venuto per parlare...» S'interruppe. «Ho detto che sono Tasslehoff Burrfoot?» Gerard grugnì con indifferenza. Afferrò il kender, con l'intenzione di aspettare finché qualcuno non fosse venuto a portar via il piccolo bastardo. «Quel Tasslehoff», precisò il kender.
Gerard abbracciò la folla con un'occhiata stanca, e gridò: «Tutti quelli che si chiamano Tasslehoff Burrfoot alzino la mano!» Trentasette mani scattarono in aria, e due cani abbaiarono. «Oh, perbacco!» esclamò il kender, preso alla sprovvista. «Puoi capire perché non mi stupisco più di tanto», spiegò Gerard, aguzzando la vista in cerca dei rinforzi. «Non credo che importerebbe se ti dicessi che sono il Tasslehoff originale... No, temo di no.» Il kender sospirò, muovendosi irrequieto sotto il sole cocente. La sua mano, per pura noia, s'insinuò nella borsa dei soldi di Gerard, ma questi se lo aspettava, e assestò al kender un veloce e doloroso colpo sulle nocche. Il kender si succhiò la mano ammaccata. «Che cos'è tutto questo?» Guardò quelli che se la spassavano sul prato. «Che ci fa qui questa gente? Perché non partecipa al funerale di Caramon? È il più grande evento che Solace abbia mai visto!» «Probabilmente perché Caramon Majere non è ancora morto», ribatté Gerard, sarcastico. «Dov'è quel buono a nulla del sovrintendente?» «Non è morto?» Il kender sgranò gli occhi. «Ne sei sicuro?» «Ho fatto colazione con lui non più tardi di stamattina» rispose Gerard. «Oh, no!» Il kender emise un lamento straziante, battendosi sulla fronte. «Ho sciupato tutto di nuovo! E non credo di avere il tempo di provare una terza volta, con il piede gigante e...» Cominciò a frugarsi nella borsa. «Tuttavia, devo provare. Ora, dove ho messo quell'aggeggio...» Gerard si guardò intorno con sguardo di fuoco, aumentando la stretta sul colletto della polverosa giacca del kender. I trentasette kender di nome Tasslehoff erano tutti venuti a incontrare l'esemplare numero trentotto. «Voialtri, andatevene!» Gerard agitò la mano come per scacciare dei polli. Naturalmente, i kender lo ignorarono. Per quanto estremamente delusi che Tasslehoff non si fosse rivelato un goffo zombie, erano interessati a sentire dov'era stato, che cosa aveva visto, e cosa aveva nelle borse. «Vuoi un po' di torta?» gli offrì una kender graziosa. «Ehi, grazie. È proprio buona. Io...» Il kender strabuzzò gli occhi. Cercò di bofonchiare qualcosa, non ci riuscì per via della torta in bocca, e finì mezzo soffocato. I suoi simili gli batterono cortesemente sulla schiena; lui sputò la torta, tossì e poi ansimò: «Che giorno è questo?» «Il Giorno di Metà Anno!» esclamarono tutti. «Allora non ho sbagliato!» gridò trionfalmente il kender. «Anzi, è me-
glio di quanto potessi sperare! Confiderò a Caramon cosa dirò domani, al suo funerale. Probabilmente, lo troverà molto interessante.» Volse lo sguardo al cielo. Vedendo la posizione del sole, che era a metà strada verso l'orizzonte, disse: «Oh, però! Non ho molto tempo. Scusatemi, ma devo correre.» E corse davvero, lasciando Gerard in contropiede sul prato erboso, con una giacca in mano. Per un attimo, Gerard si chiese, perplesso, come quel briccone fosse riuscito a liberarsi della giacca conservando però tutte le borse, che sobbalzavano e rimbalzavano durante la corsa, spargendo il loro contenuto, con gran gioia dei trentasette Tasslehoff. Giunto alla conclusione che si trattava di un fenomeno che, come la dipartita degli dei, non avrebbe mai capito, stava per inseguire il kender errante, quando ricordò che non poteva lasciare la postazione sguarnita. In quel momento, si vide arrivare il sovrintendente, accompagnato da un intero reparto di Cavalieri Solamnici, solennemente abbigliati con le loro migliori armature, pronti a dare il benvenuto agli eroi che tornavano, perché questo avevano capito di dover fare. «Era solo un kender, signore», spiegò Gerard. «In qualche modo, è riuscito a infilarsi nella tomba. E a uscire da solo. Mi è sfuggito, ma credo di sapere dov'è diretto.» Il sovrintendente, un uomo corpulento che amava la birra, s'imporporò in volto. I Cavalieri sembravano estremamente sciocchi - i kender si erano messi a ballare in cerchio intorno a loro - e tutti guardavano con aria cupa Gerard, cui davano ovviamente la colpa dell'intero accaduto. «Affari loro», borbottò Gerard, e si precipitò dietro al suo prigioniero. Il kender aveva un bel vantaggio. Era agile e veloce, e abituato a sfuggire agli inseguimenti. Gerard correva in fretta, ma era ostacolato dalla pesante armatura cerimoniale, che sferragliava e lo pungeva dolorosamente in diversi punti sensibili. Probabilmente, non sarebbe nemmeno giunto in vista del briccone se questi non si fosse fermato in diversi frangenti a guardarsi intorno stupefatto. «E questo da dove viene?» domandò il kender a gran voce, fissando un presidio di recente costruzione e, un po' più in là: «Cosa ci fanno questi qui?», alludendo agli alloggi per i rifugiati e poi: «Chi ha messo lì quello?», in riferimento a un grande cartello, messo dai padri della città, proclamante che Solace era una città di buona fama la quale, avendo pagato il suo tributo al drago, era sicura da visitare. Il kender sembrò estremamente sconcertato dal cartello. Ci si mise da-
vanti, scrutandolo con aria severa. «Questo non può restare qui», dichiarò enfaticamente. «Bloccherà il corteo funebre.» A questo punto, Gerard pensò di averlo in pugno, ma il kender fece un gran salto e ripartì a gambe levate. Gerard fu costretto a fermarsi per riprendere fiato. Correre nel caldo, con la pesante armatura addosso, gli faceva girare la testa e gli offuscava gli occhi di piccole stelle cadenti. Tuttavia, era vicino alla taverna, ed ebbe la soddisfazione di vedere il kender sfrecciare su per le scale e oltre la porta d'ingresso. «Bene», pensò cupamente. «È mio.» Togliendosi l'elmo, lo gettò a terra, e si appoggiò all'insegna finché il suo respiro non tornò alla normalità, mentre guardava le scale per assicurarsi che il kender non scappasse. Agendo completamente contro le regole, si svestì dei pezzi di armatura che gli davano più fastidio, li avvolse nel mantello, e cacciò il fagotto in un angolo buio della legnaia della taverna. Poi raggiunse il barile d'acqua della comunità e vi tuffò profondamente la zucca vuota che fungeva da mestolo. Il barile stava in un luogo ombroso, sotto uno degli alberi di vallen, e l'acqua era fresca e dolce. Con un occhio fisso alla porta della taverna, Gerard sollevò il recipiente e se lo rovesciò sulla testa. L'acqua gli gocciolò giù per il collo e il petto, meravigliosamente rinfrescante. Gerard bevve un lungo sorso, si lisciò i capelli, si asciugò il viso, prese l'elmo e, infilandolo sottobraccio, cominciò la lunga ascesa verso la taverna. Udiva chiaramente la voce del kender. A giudicare dal tono formale e dal timbro innaturalmente profondo, questi stava facendo un discorso. «"Caramon Majere era un grandissimo eroe. Ha combattuto draghi, morti viventi, goblin, hobgoblin, draconici, e molti altri. Adesso non ricordo. Ha viaggiato indietro nel tempo con questo congegno, eccolo, proprio questo..."» Il kender riprese il tono normale per un attimo, per dire: «Poi mostro l'aggeggio alla folla, Caramon. Ti farei vedere quella parte, ma al momento non riesco a trovarlo. Non preoccuparti, non lascerò che nessuno lo tocchi. Ora, dov'ero rimasto?» Una pausa; un fruscio di carta. Gerard continuò a salire le scale. Prima, non aveva mai veramente notato quanti gradini ci fossero. Le gambe, già rigide e doloranti per la corsa, gli bruciavano, e aveva il fiato corto. Si pentì di non essersi tolto tutta l'armatura. Era mortificato nel notare quanto si fosse lasciato andare. Il suo corpo, un tempo atletico, sembrava molle come quello di una fanciulla. Si
fermò sul pianerottolo per riposare, e sentì il kender ributtarsi nel suo discorso. «"Caramon Majere ha viaggiato indietro nel tempo. Ha salvato lady Crysania dall'Abisso." Lei verrà, Caramon. Volerà qui sul dorso di un drago d'argento. E verranno anche Goldmoon, e Riverwind, e le loro belle figliole, e verrà Silvanoshei, il re delle Nazioni Elfiche Unite, insieme a Gilthas, il nuovo ambasciatore alle Nazioni Umane Unite, e, naturalmente, verrà Laurana. Persino Dalamar verrà! Pensa, Caramon! Il Capo del Conclave al tuo funerale. Starà proprio là vicino a Palin, che è il capo dell'Ordine delle Vesti Bianche, ma questo probabilmente lo sai già, dato che è tuo figlio. Almeno, penso che fossero in quel punto. L'ultima volta che sono venuto al tuo funerale sono arrivato che era già tutto finito, e tutti stavano andando a casa. Più tardi, ho sentito il resoconto da Palin, che si è scusato. Se avessero saputo che sarei venuto mi avrebbero aspettato, ha detto. Mi sono un po' offeso, ma Palin ha spiegato che pensavano tutti che fossi morto, il che era vero, naturalmente, tranne che in quel momento. E poiché ho mancato al tuo funerale la prima volta, dovevo riprovarci la seconda.» Gerard cacciò un gemito. Non solo aveva a che fare con un kender; aveva a che fare con un kender pazzo. Probabilmente, uno di quelli che si dichiaravano «afflitti». Gli dispiaceva per Caramon, sperava che il vecchio non si facesse turbare troppo dalla cosa. Ma, probabilmente, sarebbe stato tollerante; per ragioni incomprensibili a Gerard, Caramon sembrava avere un debole per le piccole seccature. «Comunque, il mio discorso continua così», riprese il kender. «"Caramon Majere ha fatto tutto questo e anche di più. Era un grande eroe e un grande guerriero, ma sapete in cosa riusciva meglio?"» La voce si addolcì. «"Era un grande amico. Era il mio amico, il mio migliore amico in tutto il mondo. Sono tornato indietro - o, meglio, andato avanti - per dirvi questo, perché credo sia importante, e anche Fizban credeva che lo fosse, per questo mi ha lasciato venire. Mi sembra che essere un grande amico sia più importante che essere un grande eroe o un grande guerriero. Essere un grande amico è la cosa più importante che ci sia. Pensate, se tutti al mondo fossero grandi amici, non ci sarebbero tante terribili ostilità. Alcuni di voi sono nemici in questo momento..." E qui guardo Dalamar, Caramon. Lo guardo molto severamente, perché ha fatto cose che non mi sono piaciute per niente. E poi vado avanti e dico: "Ma voi siete qui oggi perché eravate amici di quest'uomo e lui era amico vostro, come lo era per me. E così,
forse, quando seppelliremo Caramon Majere, tutti lasceremo la tomba con sentimenti più amichevoli verso gli altri. E forse questo sarà l'inizio della pace". E poi m'inchino, ed è la fine. Che cosa ne pensi?» Gerard arrivò sulla soglia in tempo per vedere il kender saltar giù da un tavolo, posizione di vantaggio da cui aveva pronunciato il suo discorso, e correre a mettersi davanti a Caramon. Laura si asciugava gli occhi con gli orli del grembiule. Il nano di fosso che le faceva da aiutante piagnucolava senza ritegno in un angolo, mentre i clienti della taverna applaudivano all'impazzata e battevano i boccali sul tavolo, gridando: «Bene! Bravo!» Caramon Majere sedeva su una delle panche dall'alto schienale. Sorrideva, un sorriso toccato dagli ultimi raggi del sole, che sembravano essersi insinuati nella taverna al solo scopo di augurare la buonanotte. «Mi dispiace per quanto è accaduto, signore», esordì Gerard, entrando. «Non mi ero reso conto che l'avrebbe disturbata. Ora lo porterò via.» Caramon allungò la mano e accarezzò il ciuffo del kender, i cui capelli stavano ritti, come il pelo di un gatto spaventato. «Non mi disturba affatto. Sono contento di rivederlo. Quella parte sull'amicizia era stupenda, Tas. Davvero stupenda. Grazie.» Caramon aggrottò le sopracciglia, scosse la testa. «Ma non capisco il resto di quello che hai detto, Tas. La storia delle Nazioni Elfiche Unite e di Riverwind che verrà alla taverna, quando è morto da tanti anni. Qui c'è qualcosa di strano. Ci dovrò pensare.» Caramon si alzò, dirigendosi verso la porta. «Ora farò la mia passeggiatina serale, Laura.» «La tua cena sarà pronta al tuo ritorno, papà», rispose lei. Lisciandosi il grembiule, scosse il nano di fosso, e gli ordinò di ricomporsi e di tornare al lavoro. «Non pensarci troppo, Caramon», esclamò Tas. «Perché... insomma, lo sai.» Alzò lo sguardo verso Gerard, che aveva afferrato la spalla del kender, e stavolta stringeva saldamente carne e ossa. «Perché presto sarà morto», continuò Tas, in un bisbiglio. «Ma ho evitato di dirlo. Sarebbe stato scortese, non credi?» «Credo che passerai il prossimo anno in prigione», ribatté severamente Gerard. Caramon Majere era in cima alle scale. «Sì, Tika, amore. Sto arrivando», disse. Mettendosi la mano sul cuore, cadde in avanti, a capofitto. Il kender si liberò dalla stretta di Gerard, si gettò sul pavimento, e scoppiò in lacrime.
Gerard si mosse rapidamente, ma non arrivò in tempo per fermare Caramon. L'omone ruzzolò ripetutamente giù per le scale della sua amata taverna. Laura urlò. I clienti gridarono, scioccati e allarmati. I passanti sulla strada, vedendo precipitare Caramon, cominciarono a correre verso il locale. Gerard sfrecciò giù per le scale più svelto che poté, e fu il primo a raggiungere Caramon. Temeva di trovarlo attanagliato da un dolore terribile, perché doveva essersi rotto tutte le ossa del corpo. Tuttavia, l'uomo non sembrava soffrire. Si era già lasciato alle spalle preoccupazioni e pene terrene, e il suo spirito indugiava solo per dire addio. Laura si gettò per terra, al suo fianco. Prendendogli la mano, la tenne premuta contro le labbra. «Non piangere, mia cara», mormorò lui, sorridendo. «Tua madre è qui, e si prenderà buona cura di me. Starò bene.» «Oh, papà!» singhiozzò Laura. «Non lasciarmi ancora!» Abbracciando con lo sguardo la cittadinanza che si era radunata, Caramon sorrise e annuì leggermente; poi, continuando a scrutare la folla, aggrottò le sopracciglia. «Ma dov'è Raistlin?» chiese. Laura sembrò sbigottita; ma rispose con voce rotta: «Papà, tuo fratello è morto da molto, molto tempo...» «Ha detto che mi avrebbe aspettato», protestò Caramon, in tono inizialmente forte, poi sempre più debole. «Dovrebbe essere qui. Tika c'è. Non capisco. Non va bene. Tas... cos'ha detto Tas... Un futuro diverso...» Posò lo sguardo su Gerard, facendogli cenno di avvicinarsi. «C'è qualcosa che devi... fare», gli comunicò, in un rantolo. Gerard si inginocchiò al suo fianco, più commosso dalla morte di quell'uomo di quanto avrebbe immaginato possibile. «Sì, signore», replicò. «Di che si tratta?» «Promettimi...» bisbigliò Caramon. «Sul tuo onore... di Cavaliere.» «Lo prometto», assentì Gerard. Supponeva che il vecchio gli avrebbe chiesto di badare alle figlie, o di prendersi cura dei nipoti, uno dei quali era pure un Cavaliere Solamnico. «Che cosa volete che faccia, signore?» «Dalamar lo saprà... Porta Tasslehoff da Dalamar», proseguì Caramon, con voce improvvisamente ferma e robusta. Guardò attentamente Gerard. «Me lo prometti? Mi giuri che lo farai?» «Ma, signore», esitò Gerard, «quel che mi chiedete è impossibile! Nessuno vede Dalamar da anni. Quasi tutti credono che sia morto. E in quanto a questo kender che dice di chiamarsi Tasslehoff...»
Caramon allungò la mano, sanguinante per la caduta. Afferrò quella del riluttante Cavaliere, e la strinse forte. «Lo prometto, signore», accettò Gerard. Caramon sorrise. Esalò un respiro e non ne tirò un altro. Gli occhi erano fissi nella morte, fissi su Gerard. La mano non mollava la sua stretta; Gerard dovette sollevare le dita del vecchio, e rimase con una macchia di sangue sul palmo. «Sarò felice di venire con te a trovare Dalamar, Cavaliere, ma domani non posso», concluse il kender, tirando su col naso e asciugandosi il viso rigato di lacrime con la manica della camicia. «Devo parlare al funerale di Caramon.» IV UNO STRANO RISVEGLIO Il braccio di Silvan era in fiamme. Non riusciva a spegnere il fuoco e nessuno veniva in suo soccorso. Chiamò a gran voce Samar e la madre, ma inutilmente. Era infuriato, profondamente irritato e offeso, perché quei due non si facevano vedere, lo ignoravano. Improvvisamente ricordò perché lo avevano abbandonato: erano arrabbiati con lui. Aveva fallito. Li aveva delusi. Silvan si svegliò gridando. Aprì gli occhi: un velo plumbeo lo sovrastava. La vista era sfocata e scambiò la massa grigia sopra di lui per il soffitto cinereo del tumulo sepolcrale. Il braccio gli doleva e improvvisamente rivide il fuoco. Spaventato e ansante, si spostò per spegnere le fiamme. Un dolore lancinante gli attraversò il braccio e gli trafisse il cervello. Soltanto allora si accorse che non c'erano fiamme e che quello del fuoco era stato solo un sogno. Ma così non era per il dolore al braccio sinistro: quello era terribilmente reale. Cercò di esaminare l'arto, sebbene a ogni movimento del capo trasalisse. Non c'erano dubbi: il braccio era rotto subito sopra il polso e aveva un aspetto mostruoso, gonfio e violaceo. Si accasciò, lo sguardo fisso davanti a sé. Perché in quel momento di profonda sofferenza, la madre non accorreva in suo aiuto? «Madre!» Si sedette così bruscamente che la fitta di dolore fu tale da rivoltargli lo stomaco e farlo vomitare. Non solo non aveva idea di come fosse giunto in quel luogo, non sapeva
nemmeno dove si trovasse. Sapeva dove avrebbe dovuto essere, sapeva di essere stato inviato come messaggero per chiedere aiuto per la sua gente assediata. Si guardò intorno, cercando di acquisire una qualche nozione temporale. La notte era passata. Il sole splendeva in cielo. Aveva scambiato un mantello di foglie grigie per il soffitto del tumulo sepolcrale. Erano soltanto foglie morte, che pendevano immobili da rami secchi e avvizziti. La morte non era sopraggiunta naturalmente, come accade in autunno quando le foglie abbandonano la vita e, sospinte dall'aria frizzante, si esibiscono in vortici rossi e dorati. Lì, la vita era stata risucchiata da foglie e rami, tronchi e radici, lasciandoli secchi, mummificati, niente più che gusci vuoti, una parodia della vita. Silvan non aveva mai visto un simile flagello abbattersi su tanti alberi e una pena profonda gli straziò il cuore. Ma non aveva tempo per riflettere sull'accaduto; doveva portare a termine la missione. Il cielo era di un caldo grigio perla con uno strano luccichio, che il giovane interpretò come effetto secondario della tempesta. Non sono passate tante ore, pensò. L'esercito avrà tenuto duro. Posso ancora aiutarli. Doveva immobilizzare il braccio e iniziò a rovistare nel sottobosco alla ricerca di un bastone robusto. Trovato ciò che cercava, allungò la mano per afferrarlo. Il bastone si disintegrò sotto le sue dita, riducendosi in polvere. La fissò, attonito. La cenere era bagnata e aveva una consistenza oleosa. Disgustato, si pulì la mano sulla camicia, ancora fradicia per la pioggia. Gli alberi intorno a lui erano grigi. Grigi e morenti o grigi e già morti. L'erba era grigia, le erbacce erano grigie, i rami caduti grigi: la vita sembrava essere stata risucchiata via da ogni elemento della natura. Gli era già capitato di vedere uno spettacolo simile o forse ne aveva sentito parlare... In quel momento non ricordava e non aveva tempo per pensarci. Si mise freneticamente a cercare un bastone e finalmente lo trovò: era ricoperto di polvere ma non era stato colpito dallo strano flagello. Lo appoggiò sul braccio: trasalì per il dolore e per resistere, digrignò i denti. Strappò un lembo della camicia e legò il bastone sull'arto. Sentì le estremità dell'osso rotto avvicinarsi l'una all'altra. Il dolore e quel suono lacerante lo fecero quasi svenire. Si lasciò cadere a terra, la testa fra le gambe, cercando di combattere la nausea e un sudore improvviso che gli aveva imperlato la fronte. Dopo qualche istante, la testa smise di girare e la vista tornò chiara e nitida. Anche il dolore diminuì. Tenendo il braccio ferito vicino al corpo, Silvan si alzò, vacillando. Il vento era calato. Non ne avvertiva più la pres-
sione. A causa di quel velo grigio di nuvole non riusciva a vedere il sole, ma in un angolo del cielo la luce era più brillante: quello doveva essere l'oriente. Il giovane voltò le spalle alla luce e puntò verso occidente. Non ricordava la caduta o che cosa fosse accaduto subito prima. Iniziò a parlare ad alta voce, trovando conforto nel suono delle sue parole. «L'ultima cosa che ricordo è che avevo avvistato la strada per Sithelnost», disse. Parlò in silvanesti, la lingua della sua infanzia, quella preferita dalla madre. Una collina si innalzava davanti a lui. Si trovava al centro di un burrone, un burrone di cui aveva vaghi ricordi. «Qualcuno ha scalato o è caduto nel burrone», disse osservando un solco irregolare lasciato nella cenere che copriva il fianco della collina. «E quel qualcuno probabilmente sono io», aggiunse con un mesto sorriso. «Ho inciampato nell'oscurità e sono rotolato nella scarpata. Il che significa che la strada deve essere là sopra. Non devo andare lontano.» Iniziò ad arrampicarsi lungo i fianchi scoscesi del dirupo, incontrando più difficoltà di quanto avesse immaginato. La cenere, mescolandosi alla pioggia, aveva formato uno strato di limo, scivoloso come olio. Per due volte ruzzolò lungo la collina, sbattendo il braccio con violenza e perdendo quasi conoscenza. «Non ce la farò mai», mormorò. Si trovava sul fondo del burrone da dove scrutava attentamente le condizioni del terreno alla ricerca di una roccia sporgente da utilizzare come scala per superare il dirupo. Avanzò barcollando sul terreno irregolare in preda alla sofferenza e alla paura. A ogni passo, una fitta lancinante gli trafiggeva il braccio. Si impose tuttavia di andare avanti, arrancando nel fango grigio, che sembrava volesse trascinarlo fra la vegetazione morta. Spinto dalla forza della disperazione, cercava una via di uscita da quella grigia valle di morte, che ormai detestava quanto un prigioniero detesta la sua cella. Aveva la gola arsa dalla sete. Il sapore della cenere gli riempiva la bocca e moriva dal desiderio di un goccio d'acqua. Avanzando, trovò una pozza ma la pellicola grigia che ne ricopriva la superficie lo dissuase dall'abbeverarsi. Barcollando, continuò il cammino. «Devo raggiungere la strada», disse fra sé e sé, iniziando a ripetere la frase come un mantra e adattando l'andatura al ritmo delle parole. «Devo andare avanti», affermò, esortando se stesso. «Se dovessi morire qui, mi trasformerei in una mummia grigia, come gli alberi, e nessuno mi trove-
rebbe mai.» Il burrone terminava all'improvviso in un'accozzaglia di massi e alberi caduti. Silvan inarcò la schiena, trasse un respiro profondo e si asciugò il sudore freddo dalla fronte. Si fermò un istante, quindi iniziò ad arrampicarsi. I piedi scivolavano e più di una volta finì a terra. Stringendo i pugni, fece appello a tutta la sua forza: doveva risalire il burrone, fosse stata l'ultima impresa della sua vita. Lentamente, si avvicinò alla sommità del dirupo, al punto da cui pensava avrebbe visto la strada. Scrutò tra i tronchi degli alberi grigi, sicuro che il sentiero fosse là, ma incapace di vederlo a causa di una strana deformazione dell'aria, una deformazione che faceva ondeggiare gli alberi. Continuò ad arrampicarsi. «Un miraggio», disse. «Come quando si vede una pozza d'acqua in mezzo a un sentiero in una giornata afosa. Appena mi avvicinerò, scomparirà.» Raggiunse la sommità della collina e cercò di guardare oltre gli alberi, alla ricerca della pista che sapeva doveva trovarsi proprio là. Per non mollare e continuare nonostante il dolore, si era concentrato su di essa, facendone il suo obiettivo primario. «Devo raggiungere la strada», mormorò, iniziando nuovamente a ripetere il mantra. «La strada è la fine del dolore, è la salvezza mia e della mia gente. Appena la raggiungerò, incontrerò un gruppo di ricognitori dell'esercito di mia madre. Affiderò a loro la mia missione. Poi mi sdraierò; il dolore cesserà e la cenere grigia mi ricoprirà...» Scivolò, quasi cadde. La paura lo riportò alla realtà. Si guardò intorno, tremante, sollecitando la mente a tornare a quel luogo confortevole dove aveva cercato rifugio. Gli mancavano pochi metri. Con sollievo, si accorse che là gli alberi non erano morti, sebbene sembrasse che fossero stati colpiti da qualche malattia. Le foglie, pur essendo ancora verdi, penzolavano avvizzite e la corteccia del tronco iniziava a cadere a pezzi. Spinse lo sguardo oltre gli alberi. Vedeva la strada, ma non chiaramente. Tutto davanti a lui sembrava ondeggiare. «Forse non ci vedo bene a causa della caduta», pensò. «O forse sto diventando cieco», sussurrò. Spaventato, girò la testa e guardò dietro di sé. Questa volta vide chiaramente gli alberi grigi, alti e immobili. Sollevato, si voltò nuovamente verso la strada. Tutto riprese a vacillare. «Strano», mormorò. «Che cosa succede?» Senza accorgersene, diminuì l'andatura. Osservò attentamente la distor-
sione. Era come una ragnatela tessuta da qualche ragno mostruoso e tesa fra lui e il sentiero. Era riluttante ad avvicinarsi. La paura di venire imprigionato da quella ragnatela luccicante e risucchiato della vita come gli alberi circostanti, si impadronì di lui. Ma oltre la distorsione c'era la strada, il suo obiettivo, la sua speranza. Fece un passo, poi si bloccò. Non poteva andare avanti. Eppure la pista era là, a pochi metri. Stringendo i denti, si spinse avanti, timoroso di sentire i fili appiccicosi della ragnatela sul viso. La via era bloccata. Silvan non avvertiva nulla. Nessuna pressione fisica gli impediva di avanzare, eppure non poteva muoversi. O meglio, non poteva andare avanti. Poteva spostarsi solo lateralmente o indietro. «Una barriera invisibile. Cenere grigia. Alberi morti e morenti», mormorò. La risposta emerse improvvisa dal dolore, dalla paura e dalla disperazione. «Lo scudo. Questo è lo scudo!» esclamò atterrito. Lo scudo magico che i Silvanesti avevano innalzato sopra il loro regno. Non lo aveva mai visto, ma aveva sentito spesso la madre descriverlo. E aveva sentito parlare dello strano bagliore, della distorsione dell'aria provocata dallo scudo. «Non può essere», piagnucolò disperato. «Lo scudo non può essere qui. È a sud della mia posizione! Ho camminato dirigendomi a ovest. Lo scudo era a sud rispetto a me.» Si voltò e sollevò lo sguardo alla ricerca del sole ma le nuvole, addensandosi, lo avevano nascosto. Improvvisamente capì e lo sconforto si impadronì di lui. «Ho sbagliato direzione», esclamò. «Tutta questa fatica... e sono andato dalla parte sbagliata!» Lacrime di disperazione gli velarono gli occhi. Non sopportava l'idea di dovere scendere lungo la collina, di ripercorrere il burrone e i propri passi, quei passi che tanto gli erano costati in termini di dolore. Si lasciò cadere, dando libero sfogo al suo tormento. «Alhana! Madre!» gridò. «Perdonami! Ti ho deluso! Nella mia vita non ho fatto altro...» «Chi sei tu che osi pronunciare il nome proibito?» disse una voce. «Chi sei tu che invochi Alhana?» Silvan balzò in piedi. Con la mano lurida si affrettò ad asciugarsi le lacrime. Si guardò intorno e trasalì nello scoprire chi aveva parlato. Inizialmente vide solo una macchia di un verde brillante e pensò di avere
scoperto una parte della foresta non contagiata dalla malattia che l'aveva colpita. Ma poi la macchia si mosse e si voltò, rivelando un volto, degli occhi, una bocca e delle mani: era un elfo. Gli occhi dell'elfo erano grigi come la foresta circostante, di cui riflettevano la morte e rivelavano il dolore. «Chi sono io che invoco il nome di mia madre?» esclamò Silvan, irritato. «Suo figlio, naturalmente.» Barcollando, fece un passo avanti, la mano tesa. «Ma la battaglia... Dimmi com'è andata la battaglia! Ce la siamo cavata?» L'elfo indietreggiò, allontanandosi da Silvan. «Quale battaglia?» domandò. Silvan fissò l'uomo. Nel farlo notò un certo movimento dietro di lui. Altri tre elfi emersero dal bosco. Se non si fossero mossi non li avrebbe mai visti e non poté fare a meno di chiedersi da quanto tempo fossero là. Non li riconobbe, ma non c'era da stupirsene. Non era sua abitudine aggirarsi fra le fila dei soldati semplici dell'esercito della madre. Quest'ultima non aveva mai incoraggiato il figlio, che un giorno sarebbe stato re, a stringere amicizia con i sottoposti. «La battaglia!» ripeté Silvan spazientito. «La scorsa notte siamo stati attaccati dagli orchi. Sicuramente dovete...» Solo allora si accorse che quegli elfi non erano vestiti per combattere. Indossavano abiti per viaggiare. Forse non sapevano nulla della battaglia. «Dovete appartenere alla pattuglia di perlustrazione a lungo raggio. Siete tornati al momento giusto.» Fece una pausa, si concentrò sui propri pensieri, cercando di penetrare la nebbia soffocante del dolore e della disperazione. «La scorsa notte, durante la tempesta, siamo stati attaccati. Un esercito di orchi. Io...» Si fermò, riluttante a rivelare il suo fallimento. «Io sono stato mandato a chiedere aiuto. La Legione d'Acciaio ha una fortezza nei pressi di Sithelnost. Da quella parte.» Con la mano indicò la direzione. «Devo essere caduto. Ho il braccio rotto. Ho sbagliato strada e ora devo tornare indietro, ma non ne ho la forza. Io non ce la posso fare, ma voi sì. Portate un messaggio al comandante della legione. Ditegli che Alhana Starbreeze è stata attaccata...» Si bloccò. Uno degli elfi si era lasciato sfuggire una lieve esclamazione. L'elfo al comando, quello che si era avvicinato a Silvan per primo, sollevò una mano imponendo il silenzio. Silvan era sempre più esasperato. Era perfettamente consapevole della figura umiliante che stava facendo davanti a quegli uomini standosene lì,
con il braccio fratturato penzoloni lungo il fianco come un povero uccellino dall'ala ferita. Ma era disperato. Il sole doveva essere ormai alto. Non ce la faceva più; non poteva andare avanti. Sentiva di essere vicino al crollo. Si erse in tutta la sua figura, forte del suo titolo e della dignità che gli conferiva. «Voi siete al servizio di mia madre, Alhana Starbreeze,» disse in tono imperioso. «Lei non è qui, ma davanti a voi avete Silvanoshei, suo figlio e vostro principe. Nel suo e nel mio nome, vi ordino di portare il suo messaggio di aiuto alla Legione di Acciaio. Muovetevi! Sto per perdere la pazienza!» Si sentiva anche sempre più debole, ma non voleva svenire davanti a quei soldati. Vacillando, allungò una mano per appoggiarsi a un tronco. Gli elfi non si erano mossi. Lo fissavano con uno sguardo attonito, che rendeva più grandi i loro occhi a mandorla. Quindi osservarono la strada che correva oltre lo scudo, per poi posare nuovamente lo sguardo sul giovane. «Perché ve ne state lì a guardarmi?» esplose Silvan. «Fate come vi è stato ordinato! Sono il vostro principe!» Un pensiero gli attraversò la mente. «Non dovete temere di lasciarmi,» disse. «Starò bene.» Agitò la mano. «Ma ora andate! Andate! E salvate la vostra gente!» Il primo elfo fece un passo avanti, gli occhi indagatori fissi su Silvan. «Come sarebbe a dire che avete sbagliato strada?» «Perché perdete tempo con queste stupide domande?» ribatté Silvan infuriato. «Vi deferirò a Samar! Vi farò degradare!» Guardò in cagnesco l'elfo, che da parte sua continuava a fissarlo. «Lo scudo si trova a sud della strada. Io camminavo verso Sithelnost. Quando sono caduto probabilmente mi sono girato. Perché lo scudo... la strada...» Si voltò per guardare dietro di sé. Cercò di mettere a fuoco i pensieri, ma il dolore lo stordiva. «Non può essere», mormorò. Indifferentemente dalla direzione presa avrebbe dovuto essere in grado di raggiungere la strada, che si estendeva oltre lo scudo. La pista era ancora là, al di là dello scudo. Era lui a trovarsi dall'altra parte. «Dove mi trovo?» domandò. «A Silvanesti», rispose l'elfo. Silvan chiuse gli occhi. Tutto era perduto. Il suo fallimento era completo. Si lasciò scivolare sulle ginocchia per poi cadere in avanti, il viso nella
cenere. Sentiva delle voci, ma erano distanti e si allontanavano sempre più. «Pensi sia davvero lui?» «Sì. È lui.» «Ma come fai a esserne sicuro, Rolan? Forse è un inganno!» «Lo hai visto. Lo hai sentito. Hai udito l'angoscia nella sua voce, hai visto la disperazione nei suoi occhi. Ha il braccio rotto. Guarda i lividi sul viso, i vestiti strappati e infangati. Nella cenere abbiamo trovato le tracce della sua caduta. Lo abbiamo sentito parlare fra sé e sé quando non sapeva che eravamo vicini. Lo abbiamo visto cercare di raggiungere la strada. Come puoi dubitare?» Silenzio. Poi, in un sussurro: «Ma come ha fatto ad attraversare lo scudo?» «Qualche dio lo ha inviato a noi,» replicò l'elfo in comando e Silvan sentì una mano accarezzargli la guancia. «Un dio?» esclamò in tono scettico l'altro. «Non esistono gli dei.» Silvan aprì gli occhi: vedeva chiaramente e anche i sensi erano nuovamente all'erta. Un dolore sordo alla testa gli impediva di pensare e inizialmente fu felice di giacere quasi immobile, limitandosi a lasciare vagare lo sguardo intorno a sé, mentre la mente si affannava per trovare un senso a ciò che stava accadendo. Rivide la strada... Cercò di mettersi a sedere. Una mano sul petto gli impedì di muoversi. «Non agitatevi. Vi ho sistemato il braccio e ho applicato un impiastro per accelerarne la guarigione. Ma non dovete urtarlo.» Silvan si guardò intorno. Un attimo prima era persuaso che fosse tutto un sogno e che una volta sveglio si sarebbe ritrovato nel tumulo sepolcrale. Ma si era sbagliato: non stava sognando. I tronchi degli alberi era come li ricordava: orrendamente grigi, malati, morenti. Il letto di foglie sul quale giaceva era il letto di morte di una vegetazione imputridita. Le piante, gli alberi e i fiori che ricoprivano il suolo, languivano ricurvi. Silvanoshei seguì il consiglio dell'elfo e si sdraiò, più per concedersi il tempo per capire ciò che gli era accaduto che per effettiva stanchezza. «Come vi sentite?» domandò l'elfo in tono rispettoso. «La testa mi duole», rispose Silvan. «Ma il braccio non mi fa più male.» «Bene,» commentò l'elfo. «Allora potete sedervi. Ma molto lentamente, se non volete svenire.» Un braccio forte e robusto circondò Silvan e lo aiutò a mettersi seduto.
Vertigini e nausea assalirono il giovane, ma gli bastò chiudere gli occhi per riacquistare il controllo di sé. L'elfo avvicinò un boccale di legno alle labbra di Silvan. «Che cos'è?» domandò, fissando insospettito il liquido scuro. «Una pozione d'erbe», spiegò l'elfo. «Avete avuto una leggera commozione cerebrale. La pozione allevierà il dolore alla testa e favorirà la guarigione. Forza, bevete. Perché siete così sospettoso?» «Mi hanno insegnato a non bere e a non mangiare niente a meno che non conosca chi l'ha preparato e qualcuno ha sempre assaggiato prima di me», replicò Silvanoshei. L'elfo lo guardò incredulo. «Anche se a offrirvelo è un altro elfo?» «Soprattutto se è un altro elfo», affermò il giovane. «Ah», esclamò l'elfo, fissandolo dispiaciuto. «Sì certo, capisco.» Silvan cercò di alzarsi, ma venne nuovamente colto dalle vertigini. L'elfo si portò alle labbra il boccale e bevve diverse sorsate. Quindi, dopo averne pulito il bordo, offrì la coppa al giovane. «Riflettete, ragazzo. Se vi avessi voluto morto, avrei potuto uccidervi quando eravate privo di conoscenza. O avrei potuto abbandonarvi qui.» E lasciò vagare lo sguardo sui circostanti alberi grigi e avvizziti. «La vostra morte sarebbe stata più lenta e dolorosa, ma sarebbe sopraggiunta anche per voi, come è già accaduto a molti altri di noi.» Sebbene stordito, Silvan cercò di mettere a fuoco le parole dell'elfo. Ciò che aveva detto aveva senso. Prese il boccale con mani tremanti e lo portò alle labbra. Il liquido era amaro e aveva l'odore e il sapore della corteccia. La pozione diffuse nel suo corpo un piacevole senso di calore. Il dolore alla testa si affievolì, le vertigini scomparvero. Che stupido era stato a scambiare quell'elfo per uno dei soldati della madre. Quell'uomo indossava infatti un mantello a lui sconosciuto, un mantello di pelle che aveva l'aspetto delle foglie e dei raggi del sole, dell'erba e dei fiori. Quando l'elfo era immobile si mimetizzava perfettamente con la foresta circostante, rendendo impossibile individuarlo. Ma là, nel seno della morte, la sua figura risaltava, una macchia verde simbolo di vita. «Per quanto tempo sono rimasto privo di conoscenza?» domandò Silvan. «Da quando vi abbiamo trovato questa mattina sono passate molte ore. Se può aiutarvi, oggi è il Giorno di Metà Anno.» Silvan si guardò intorno. «Dove sono gli altri?» Temeva stessero nascondendosi. «Dove devono essere», rispose l'elfo.
«Ti ringrazio per avermi aiutato. Ma tu hai da fare e anch'io.» Così dicendo, si alzò. «Devo andare. Potrebbe essere troppo tardi...» Il tono della sua voce lasciava trapelare una profonda amarezza. «Devo ancora portare a termine la mia missione. Ti sarei grato se mi indicassi la via d'uscita attraverso lo scudo...» L'elfo lo fissò intensamente. «Non c'è via d'uscita.» «Ma deve esserci!» replicò Silvan, infuriato. «Dopo tutto io sono entrato, giusto?» Così dicendo si girò a guardare gli alberi lungo la strada. «Non mi resta che raggiungere il punto in cui sono caduto e da là riuscirò a passare.» I pugni serrati, iniziò a ripercorrere i propri passi. L'elfo non aprì bocca e si limitò a seguirlo a distanza ravvicinata. Chissà se la madre e il suo esercito erano riusciti a resistere all'attacco degli orchi. Più di una volta Silvan aveva assistito a dei veri miracoli da parte dell'armata materna e ora non poteva credere che fosse tutto perduto: aveva bisogno di credere di essere ancora in tempo. Trovò il punto in cui doveva essere passato attraverso lo scudo, vide le tracce lasciate dal suo corpo mentre rotolava lungo la parete del burrone. La cenere grigia che quando aveva cercato di risalire la scarpata era scivolosa, ora si era seccata. Avanzare su quello strano terreno era più semplice. Facendo attenzione a non urtare il braccio ferito, si arrampicò faticosamente lungo il crinale della collina. Dal fondo del burrone, l'elfo lo osservava in silenzio. Silvan raggiunse lo scudo. Come in precedenza, era riluttante all'idea di toccarlo. Eppure quello era il punto in cui era riuscito a penetrarlo, sebbene inconsciamente. Aveva riconosciuto la particolare impronta lasciata nel fango dalla scanalatura nel tacco dei suoi stivali. E riusciva a vedere il ramo gigantesco caduto sul sentiero. Improvvisamente, si rivide mentre cercava di aggirarlo. La presenza dello scudo era rilevabile visivamente solo grazie a un leggero scintillio prodotto quando i raggi del sole lo colpivano alla giusta angolazione. Se escludeva quel particolare, capiva che lo scudo era là per il modo in cui vedeva alberi e piante oltre di esso. L'illusione ottica provocata era come quella delle ondate di calore che si levano dalle strade arse dal sole, oltre le quali tutto appare fluttuante. I pugni serrati, Silvan si avviò con passo deciso verso lo scudo. La barriera lo respinse. Inoltre, toccandola aveva provato una sgradevole sensazione, come se lo scudo avesse posato su di lui le sue labbra grigie
per cercare di succhiargli la vita. Tremante, indietreggiò. Non intendeva riprovarci. Restò impietrito a fissare quella cortina velata, mentre una furia incontenibile cresceva in lui. Per mesi la madre aveva cercato di penetrare la barriera, ma inutilmente. Il suo esercito era sempre stato respinto. Mettendo a repentaglio la sua stessa vita, aveva guidato il suo grifone contro di esso, ma senza successo. Che cosa avrebbe potuto fare lui, un elfo solo e inerme? «Eppure», ragionò Silvan, «l'ho attraversato. Lo scudo mi ha lasciato entrare. E quindi mi lascerà anche uscire. Deve esserci un modo. L'elfo. La causa deve essere lui. Lui che insieme ai suoi compagni mi ha imprigionato.» Si girò di scatto e vide l'elfo, immobile, sul fondo del burrone. Si lanciò lungo il pendio, cadendo e scivolando più volte sull'erba. Il sole stava calando. Anche la giornata più lunga dell'anno volgeva al termine. «Tu mi hai trascinato qui!» gridò una volta raggiunto l'elfo. «E tu mi farai uscire. Tu devi farmi uscire.» «È stata l'azione più coraggiosa che abbia mai visto», esclamò l'altro lanciando un'occhiata allo scudo. «Io stesso non riesco ad avvicinarmici e non sono certo un codardo. Tuttavia, il vostro coraggio è sprecato. Non potete passare. Nessuno può farlo.» «Tu menti!» lo attaccò Silvan. «Tu mi hai trascinato qui e tu mi farai uscire!» Senza quasi rendersi conto di ciò che stava facendo, allungò il braccio per afferrare l'elfo per la gola e strangolarlo, spaventarlo e indurlo a obbedirgli. L'elfo afferrò il polso di Silvan e prima che si rendesse conto di che cosa stesse accadendo, quest'ultimo si ritrovò a terra, in ginocchio. L'elfo lo lasciò immediatamente. «Siete giovane e vi trovate in una brutta situazione. Non mi conoscete. Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Rolan. Sono un kirath. Io e i miei compagni vi abbiamo trovato nella nostra terra. È la verità. Se conoscete i kirath, sapete che non mentono. Non so come abbiate fatto a penetrare lo scudo.» Silvan aveva sentito i genitori parlare dei kirath, una banda di elfi che pattugliavano i confini di Silvanesti. Il loro compito era quello di impedire l'ingresso di stranieri a Silvanesti. Disperato, nascose il volto fra le mani. «Ho fallito. Li ho abbandonati e ora moriranno!»
Rolan si avvicinò e posò una mano sulla spalla del giovane. «Prima che perdeste conoscenza avete pronunciato il vostro nome. Vorrei che lo faceste ancora. Non avete niente da temere e non c'è ragione per cui dobbiate tenere nascosta la vostra identità, a meno che», aggiunse in tono gentile, «non vi vergognate del vostro nome.» Silvan sollevò il viso, colpito. «Sono orgoglioso del mio nome. Non me ne vergogno. Se il mio nome deve essere la causa della mia morte, così sia.» La voce gli tremava. «La mia gente è ormai morta. O forse sta morendo. Perché dovrei essere risparmiato?» Si asciugò le lacrime che gli avevano velato gli occhi e posò lo sguardo su Rolan. «Sono il figlio di coloro che voi definite "elfi scuri", ma che in verità sono gli unici a vedere chiaramente nell'oscurità che ci circonda. Sono il figlio di Alhana Starbreeze e Porthios dei Qualinesti. Il mio nome è Silvanoshei.» Si aspettava uno fragorosa risata. O almeno incredulità. «E perché, Silvanoshei della Casata di Caldaron, ritenete che il vostro nome decreterà la vostra morte?» domandò Rolan in tono pacato. «Perché i miei genitori sono elfi scuri. Perché elfi assassini hanno provato più di una volta a ucciderli», replicò Silvan. «Eppure, Alhana Starbreeze, insieme al suo esercito, ha tentato molte volte di passare attraverso lo scudo, di entrare nella terra da cui è stata espulsa. Io stesso l'ho vista mentre con i miei compagni pattugliavamo il confine.» «Pensavo ti fosse proibito anche solo pronunciare il suo nome», ribatté Silvan. «Abbiamo molte proibizioni a Silvanesti», aggiunse Rolan. «E l'elenco sembra allungarsi ogni giorno di più. Perché Alhana Starbreeze vuole tornare in una terra che non la vuole?» «Questa è la sua casa», rispose Silvan. «Dove dovrebbe andare?» «E dove dovrebbe andare suo figlio?» domandò Rolan in tono gentile. «Allora mi credi?» chiese Silvan. «Ho conosciuto vostra madre e vostro padre, Maestà», replicò Rolan. «Ero uno dei giardinieri del povero re Lorac prima dello scoppio della guerra. Ho visto vostra madre bambina. Ho combattuto con vostro padre, Porthios, contro il sogno. Fisicamente gli assomigliate, ma c'è qualcosa in voi che vi avvicina più a vostra madre. Soltanto chi non ha fede non crede. Il miracolo è accaduto. Siete tornato da noi. Non mi sorprende il fatto che per voi, Maestà, lo scudo si sia aperto.»
«Ma non mi lascia più uscire», commentò amaramente Silvan. «Forse perché ora siete dove dovreste essere, Maestà. Il vostro popolo ha bisogno di voi.» «Se ciò che dici è vero, allora perché non fai sollevare lo scudo, così che mia madre possa tornare nel suo regno?» domandò Silvanoshei. «Perché tenerla lontana? Perché tenere lontana la tua stessa gente? Gli elfi che combattono per lei sono in pericolo. Mia madre ora non starebbe combattendo contro gli orchi, non sarebbe intrappolata...» Il volto di Rolan si rabbuiò. «Credetemi, Maestà. Se noi kirath potessimo abbattere lo scudo, lo faremmo. Lo scudo getta nella disperazione chi osa avvicinarvisi. Uccide tutto ciò che tocca. Guardate! Guardate qua, Maestà.» Così dicendo, Rolan indicò il cadavere di uno scoiattolo sul terreno, accanto al quale giaceva il corpo senza vita del suo piccolo. Indicò uccelli dalle piume dorate sepolti dalla cenere, creature che non avrebbero mai più allietato il mondo con il loro cinguettio festoso. «Così sta morendo anche il mio popolo», disse Rolan in tono mesto. «Ma che cosa dici?» esclamò Silvan scosso. «Morendo?» «Giovani e vecchi contraggono una misteriosa malattia, che provoca il deperimento del fisico e per la quale non c'è cura. La pelle diventa grigia come quella di questi poveri alberi, il corpo avvizzisce, gli occhi si spengono. Inizialmente fanno fatica a correre, poi non riescono più a camminare, quindi a stare in piedi o seduti. Lentamente, il corpo deperisce, fino a quando la morte li porta via.» «Allora perché non abbattete lo scudo?» chiese Silvan. «Abbiamo cercato di convincere il popolo a opporsi compatto al generale Konnal e ai Capi della Casa, che hanno deciso di innalzare lo scudo. Ma molti rifiutano d'ascoltarci. Sostengono che l'epidemia è giunta dall'esterno. E sono convinti che soltanto lo scudo ci tenga lontani dai mali del mondo. Se lo abbattessimo, moriremmo tutti.» «Forse hanno ragione», commentò Silvan, voltandosi a guardare oltre la barriera invisibile e ripensando all'attacco notturno degli orchi. «Che io sappia, nessuna peste sta falcidiando gli elfi. Ma esistono altri nemici. Il mondo è pieno di pericoli. Per lo meno qui siete al sicuro.» «Vostro padre disse che gli elfi dovevano diventare parte integrante del mondo», ribatté Rolan. «Se così non fosse, il nostro destino sarebbe quello di inaridire e quindi morire come un ramo tagliato dalla pianta o una...» «... rosa strappata dall'arbusto», Silvan terminò la frase sorridendo in ri-
cordo delle parole del padre. «Non abbiamo notizie di mio padre da molto tempo», aggiunse abbassando gli occhi e appiattendo la cenere grigia con la punta degli stivali. «Sappiamo che era impegnato nella lotta contro la grande dragonessa Beryl nei pressi di Qualinesti, una terra che l'animale ha assoggettato. C'è chi crede che sia morto... e mia madre è fra questi. Anche se rifiuta di ammetterlo.» «Se è morto, ha dato la sua vita combattendo per una causa in cui credeva», affermò Rolan. «La sua morte ha un senso. Anche se ora può sembrarvi inutile, il suo sacrificio permetterà di distruggere il male, di ritrovare la luce che scaccerà le tenebre. È morto da uomo vitale! Ardito, coraggioso. Quando muore uno di noi», continuò Rolan con la voce carica di amarezza, «ci accorgiamo appena del suo passaggio a miglior vita. Tremiti e debolezza si impadroniscono del corpo.» Guardò Silvan. «Voi siete giovane, forte, pieno di vita. Avverto l'energia vitale irradiare da voi, come un tempo la sentivo irradiare dal sole. Osservatemi. Lo vedete, vero, che sto avvizzendo? Che lentamente la vita mi viene risucchiata? Guardatemi, Maestà. Sto morendo.» Silvan non sapeva che cosa dire. Indubbiamente l'elfo era di un pallore anomalo, la carnagione era di un malsano grigiastro, ma il giovane ne aveva data la colpa all'età o alla polvere grigia. Soltanto allora ricordò che anche gli altri elfi che aveva visto avevano lo stesso aspetto sparuto, emaciato. «La mia gente vi vedrà e capirà che cosa ha perso», insistette Rolan. «Ecco perché siete stato inviato qui: per mostrare loro che il mondo là fuori non è afflitto da alcuna peste. La peste è qui, dentro di noi!» Rolan appoggiò una mano sul cuore. «Spiegherete alla mia gente che se ci liberiamo dello scudo, la vita fiorirà nuovamente.» Anche se ormai la mia è finita, pensò Silvan. Di nuovo il dolore. La testa riprese a girare. Il braccio a pulsare. Rolan lo guardò preoccupato. «Non avete un bell'aspetto, Maestà. Dovremmo andarcene da questo posto. Ci siamo soffermati troppo a lungo vicino allo scudo. Dovete allontanarvi prima che la malattia colpisca anche voi.» Silvanoshei scosse la testa. «Grazie, Rolan, ma non posso andarmene. Forse lo scudo si aprirà e mi lascerà uscire, così come mi ha lasciato entrare.» «Se restate qui morirete, Maestà», disse Rolan. «Non è ciò che vorrebbe vostra madre. Lei vorrebbe che voi veniste a Silvanost e reclamaste il posto che vi spetta sul trono.»
Un giorno siederai sul trono delle Nazioni Elfiche Unite, Sílvanoshei. Quel giorno rimedierai ai torti del passato. Libererai il nostro popolo dai peccati commessi da noi elfi, dal peccato dell'orgoglio, del pregiudizio e dell'odio. Questi peccati hanno causato la nostra rovina. Tu sarai il nostro redentore. Le parole di sua madre. Ricordava ancora la prima volta che le aveva pronunciate. Lui aveva cinque o sei anni. Erano accampati nella foresta vicino a Qualinesti. Era notte. Dormiva. Improvvisamente, un grido aveva squarciato il silenzio notturno, svegliandolo di soprassalto. Il fuoco era quasi spento, ma nell'oscurità aveva visto il padre lottare corpo a corpo con quella che sembrava un'ombra. Molte ombre li avevano circondati. Poi non aveva visto più niente, perché la madre si era lanciata su di lui, facendogli schermo con il proprio corpo. Silvan non poteva vedere, non poteva respirare, non poteva urlare. La paura, il calore e il peso della madre lo schiacciavano e lo soffocavano. All'improvviso, tutto era finito. La pressione e il calore del corpo materno erano diminuiti. Alhana lo aveva preso in braccio, cullandolo teneramente, piangendo e baciandolo e chiedendogli scusa per avergli fatto male. Il sangue le sgorgava copioso da un taglio nella coscia. Il padre aveva un coltello conficcato nel torace, poco distante dal cuore. I corpi di tre elfi, vestiti di nero, giacevano immobili intorno al fuoco. Anni dopo, Silvanoshei si era destato nel cuore della notte con la chiara percezione che uno di quegli assassini era stato inviato per uccidere lui. Avevano trascinato via i cadaveri, lasciandoli in pasto ai lupi, non considerandoli degni di una sepoltura. La madre lo aveva cullato fino a farlo addormentare, sussurrandogli quelle parole per consolarlo. Da quel giorno, le avrebbe sentite spesso. Forse ora lei era morta. Forse anche suo padre era morto. Ma il loro sogno viveva ancora, in lui. Voltò le spalle allo scudo. «Vengo con te», disse a Rolan dei kirath. V IL SACRO FUOCO Ai vecchi tempi, i tempi gloriosi, prima della Guerra delle Lance, la strada che portava da Neraka alla città portuale di Sanction era ben mantenuta, perché era l'unica via attraverso i monti noti come Signori del Fato.
La strada - chiamata delle Cento Miglia, perché era quasi lunga così, furlong più furlong meno - era lastricata di roccia frantumata. Nel frattempo, ci avevano marciato sopra migliaia di piedi: piedi umani calzati di stivali, pelosi piedi di goblin, piedi draconici con gli artigli. Talmente tanti che la roccia era stata sospinta nel terreno, e vi era ora profondamente infossata. Al culmine della Guerra delle Lance, la Strada delle Cento Miglia era stata stipata di uomini, animali e carri di provviste. Chiunque avesse esigenze di velocità viaggiava via aria, cavalcando i veloci Draghi Azzurri o attraversando i cieli sulle cittadelle volanti. Quelli costretti a muoversi lungo la strada potevano subire ritardi di giorni, bloccati dalle centinaia di fanti che arrancavano per il suo tortuoso percorso, avvicinandosi o allontanandosi dalla città di Neraka. I carri sobbalzavano e sbandavano. La forte pendenza, dall'alta valle fra i monti fino al livello del mare, rendeva pericoloso il tragitto. Carri carichi d'oro, d'argento e d'acciaio, di casse di gioielli rubati, di bottini strappati alle popolazioni sottomesse dagli eserciti, venivano affidati a bestie spaventose chiamate mammut, le uniche creature in grado di trainare simili pesi su per la montagna. Di tanto in tanto, uno dei carri si rovesciava, spargendo il suo contenuto, o perdeva una ruota, oppure uno dei mammut impazziva e calpestava i suoi guardiani e chiunque altro avesse la sfortuna di trovarsi sul suo cammino. In quei momenti, la strada veniva chiusa completamente, e tutto si arrestava, mentre gli ufficiali, inquieti e arrabbiati per il ritardo, cercavano di mantenere l'ordine fra gli uomini. I mammut erano spariti, estinti. Anche gli uomini se n'erano andati: per la maggior parte vecchi, alcuni morti; tutti, ormai, dimenticati. La strada era vuota, deserta. Solo il respiro sibilante del vento soffiava sopra la liscia superficie di ghiaia intarsiata, considerata una delle meraviglie di Krynn create dall'uomo. Il vento era ora alle spalle dei Cavalieri Scuri mentre galoppavano lungo il tortuoso, sinuoso dorso di serpente che era la Strada delle Cento Miglia. Residuo della tempesta, ululava fra le cime, come un'eco del Canto della Morte sentito a Neraka, ma non così terribile, né così spaventoso. Gli uomini cavalcavano di buona lena, come storditi, senza un'idea chiara del perché avanzassero, o di dove fossero diretti. Cavalcavano in preda all'estasi, a un'eccitazione mai provata prima. Galdar, certamente, non aveva mai sperimentato nulla del genere. Si muoveva a lunghi balzi al fianco di Mina, con forza nuova. Sarebbe potuto andare da lì al Muro di Ghiaccio senza fermarsi. Avrebbe potuto attribuire
la sua energia alla pura gioia di aver recuperato l'arto perduto, ma vedeva la sua reverenza e il suo fervore riflessi nei volti degli uomini che facevano quella corsa folle ed esilarante insieme a lui. Era come se portassero la tempesta con sé: gli zoccoli tuonavano fra le pareti delle montagne, e facevano scoccare fulmini dalla superficie rocciosa. Mina cavalcava alla loro testa, incitandoli quando si sarebbero fermati per la stanchezza, costringendoli a guardare dentro di sé per trovarvi un po' più forza di quanta credessero di possederne. Cavalcarono di notte, con la via illuminata dai lampi, e cavalcarono di giorno, arrestandosi solo per dare da bere ai cavalli, e per mangiare un boccone rapidamente, in piedi. Quando sembrò che i cavalli dovessero crollare, Mina diede l'alt. I Cavalieri avevano percorso ben più di metà della distanza. La sua bestia, Foxfire, avrebbe potuto continuare. Sembrava risentita per la pausa: scalpitava e sbuffava dal dispiacere, e le sue proteste irritate fendevano l'aria, rimbalzando dalle cime dei monti. Foxfire era ferocemente leale alla sua padrona, e a lei sola. Non sopportava nessun altro essere. Durante la loro prima breve pausa di riposo, Galdar aveva commesso l'errore di avvicinarvisi per tenere la staffa di Mina mentre questa smontava, come gli avevano insegnato a fare per il suo comandante, e con molta più grazia di quanta avesse mai usata per Ernst Magit. Foxfire ritirò il labbro sui denti, e gli occhi gli brillarono di una luce maligna, selvaggia. Galdar arretrò in tutta fretta. Molti cavalli hanno paura dei minotauri. Pensando che il problema fosse questo, Galdar ordinò a uno degli altri di assistere il comandante. Mina lo fermò. «State indietro, tutti quanti. Foxfire ama solo me. Obbedisce solo ai miei ordini, e solo quando essi collimano con il suo istinto. È molto protettivo verso la sua padrona, e non potrei impedirgli di prendervi a calci se vi avvicinaste troppo.» Smontò agilmente, senz'aiuto. Togliendo sella e briglia, portò Foxfire a bere. Gli diede da mangiare e lo spazzolò con le sue mani. I soldati si occuparono dei loro cavalli, li sistemarono adeguatamente per la notte. Mina non permise loro di allestire un fuoco da campo. Occhi solamnici potevano guardare, disse, e il fuoco sarebbe stato visibile a grande distanza. Gli uomini erano stanchi quanto i cavalli. Non dormivano da due giorni e una notte. Il terrore della tempesta li aveva prosciugati, la marcia forzata li aveva lasciati tremanti di fatica. L'eccitazione che li aveva portati fin lì cominciava a scemare. Sembravano prigionieri che si svegliano da un meraviglioso sogno di libertà per ritrovarsi ancora legati da ferri e catene.
Non più incoronata dal fulmine né ammantata dal tuono, Mina sembrava una giovane qualsiasi, e nemmeno molto carina. Una ragazzetta pelle e ossa. I Cavalieri sedevano chini sul loro cibo nell'oscurità illuminata dalla luna, borbottando che erano stati trascinati in un'impresa insensata, e gettando a Mina occhiate cupe e rabbiose. Un uomo si spinse fino a dire che uno qualunque dei mistici scuri avrebbe potuto restituire il braccio a Galdar, che nella cosa non c'era niente di speciale. Galdar avrebbe potuto zittirlo, osservando che nessuno di loro l'aveva fatto, anche se li aveva supplicati. Che si fossero rifiutati perché i loro poteri non erano così forti, o perché lui mancava dell'acciaio per pagarli, non faceva differenza per lui. I mistici scuri dei Cavalieri di Neraka non gli avevano ridato il braccio; questa strana ragazza sì, e lui le sarebbe stato devoto per tutta la vita. Tuttavia, non aprì bocca. All'occorrenza, era pronto a difendere Mina con la vita, ma era curioso di vedere come lei avrebbe gestito la situazione, sempre più tesa. Mina non sembrava notare che la sua autorevolezza calava lentamente. Sedeva lontana dagli uomini, appollaiata su un masso enorme, sopra di loro. Dalla sua posizione di vantaggio, abbracciava con lo sguardo la catena montuosa, simile a un dente frastagliato che mordeva il cielo stellato. Qua e là, i fuochi dei vulcani attivi erano macchie di arancio contro il nero. Isolata, distratta, era assorta nei suoi pensieri, al punto che sembrava totalmente inconsapevole dell'ondata di ammutinamento che saliva alle sue spalle. «Che io sia dannato se andrò a Sanction!» esclamò uno dei Cavalieri. «Sapete che cosa ci aspetta lì. Un migliaio dei maledetti Solamnici, ecco cosa!» «Alla prima luce, parto per Khur», disse un altro. «Devo essere pazzo per essere venuto fin qui!» «Non intendo fare la prima guardia», bofonchiò un terzo. «Non ci lascia accendere un fuoco per asciugare i vestiti o cucinare un pasto decente. Che monti lei la prima guardia.» «Sì, che monti lei la prima guardia!» convennero gli altri. «Lo farò», assentì Mina, calma. Alzandosi, discese fino alla strada. Vi si mise a cavalcioni, i piedi piantati saldamente sul terreno. Con le braccia incrociate sul petto, fronteggiò gli uomini. «Stanotte, monterò io tutte le guardie. Voi avete bisogno di riposo per domani. Dovreste dormire.» Non esternava rabbia, né indulgenza. Certo non si mostrava compiacente, nel tentativo di guadagnarsi il loro favore. Enunciava un dato di fatto,
presentando un argomento logico e razionale: gli uomini avevano bisogno di riposo per l'indomani. I Cavalieri erano rabboniti, ma ancora adirati. Si comportavano come bambini che sono stati oggetto di uno scherzo, e non lo gradiscono. Mina ordinò loro di farsi i letti e di coricarsi. I Cavalieri obbedirono, borbottando che le coperte erano ancora bagnate; come poteva pretendere che dormissero sulla nuda roccia? Giurarono, in coro, di andarsene all'alba. Mina tornò a sedere sul masso, volgendo ancora lo sguardo alle stelle e alla luna che sorgeva. Cominciò a cantare. Il suo canto non somigliava al Canto della Morte, la terribile nenia cantata loro dagli spettri di Neraka. Quello di Mina era un canto di battaglia. Il canto dei coraggiosi che marciano sul nemico, studiato per infondere coraggio nel cuore di coloro che lo intonano, e terrore nel cuore dei loro avversari. La gloria ci chiama con squilli di tromba ci chiama a compiere grandi atti sul campo del valore, ci chiama a dare il nostro sangue alla fiamma, alla terra, la terra assetata, il sacro fuoco. E il canto continuava, peana dei vincitori nel momento del trionfo, reminiscenza del vecchio soldato che racconta le sue prodezze. Chiudendo gli occhi, Galdar vide atti di coraggio e di ardimento, e vide, con un brivido d'orgoglio, che era lui a compiere queste eroiche gesta. La sua spada sfolgorava del bianco-porpora del fulmine, e lui beveva il sangue dei suoi nemici. Marciava da un combattimento glorioso all'altro, con il canto della vittoria sulle labbra. E sempre Mina gli cavalcava davanti, guidandolo, ispirandolo, incitandolo a seguirla nel cuore della battaglia. Il bagliore che emanava da lei riluceva su di lui. Il canto finì. Galdar batté le palpebre e si rese conto, sbigottito e mortificato, di aver ceduto al sonno. Non avrebbe voluto; aveva intenzione di montare la guardia con Mina. Si strofinò gli occhi, desiderando che rico-
minciasse con il canto; senza di esso, la notte era fredda e vuota. Si guardò intorno per vedere se gli altri provavano la stessa sensazione. Dormivano profondamente e tranquillamente, con il sorriso sulle labbra. Avevano posato le spade sul terreno, a portata di mano, le dita chiuse sull'elsa, pronti a balzare in piedi e lanciarsi nella mischia in un attimo. Condividevano il sogno di Galdar, il sogno della canzone. Meravigliato, il minotauro guardò Mina, che lo osservava a sua volta. Si alzò e la raggiunse sulla roccia. «Sai che cosa ho visto, comandante?» le chiese. Gli occhi ambra presero la luna, la racchiusero in sé. «Lo so», rispose lei. «Farai questo per me, per noi? Ci porterai alla vittoria?» Gli occhi ambra, tenendo la luna prigioniera, si volsero su di lui. «Lo farò.» «È il tuo dio che te lo promette?» «Sì», rispose Mina gravemente. «Dimmi il nome di questo dio, perché possa venerarlo» disse Galdar. Mina scosse la testa lentamente, enfaticamente. Il suo sguardo lasciò il minotauro, e tornò al cielo, che era insolitamente scuro, ora che lei aveva catturato la luna. La luce, l'unica luce, era nei suoi occhi. «Non è il momento giusto.» «Quando sarà il momento giusto?» insistette Galdar. «I mortali non hanno più fede in niente. Sono come uomini persi nella nebbia che non vedono più in là del loro naso; per cui si limitano a seguire quello, se mai seguono qualcosa. Alcuni sono talmente paralizzati dalla paura che non osano muoversi. Le persone devono acquisire fede in se stesse prima di riuscire a credere in qualcosa che va oltre.» «Tu ci aiuterai, comandante?» «Domani, vedrete un miracolo», annunciò lei. Galdar si sistemò sulla roccia. «Chi sei, comandante?» domandò. «Da dove vieni?» Mina volse lo sguardo su di lui e disse con un mezzo sorriso: «E tu chi sei, vicecomandante? Da dove vieni?» «Io sono un minotauro. Sono nato a...» «No.» Mina scosse la testa dolcemente. «Prima di quello.» «Prima della mia nascita?» Galdar era confuso. «Non lo so. Nessuno lo sa.» «Appunto», concluse Mina, e si girò dall'altra parte.
Galdar si grattò la testa cornuta, scrollò le spalle. Evidentemente, non voleva rispondere, e perché avrebbe dovuto? Non erano affari suoi, e non faceva differenza per lui. Lei aveva ragione. Prima di quel momento non aveva creduto in niente; ora aveva trovato qualcuno in cui credere. Aveva trovato Mina. Lei lo guardò di nuovo, gli chiese bruscamente: «Sei ancora stanco?» «No, caposquadra», rispose Galdar. Aveva dormito solo poche ore, ma il sonno l'aveva lasciato insolitamente ristorato. Mina scosse la testa. «Non chiamarmi "caposquadra". Voglio che mi chiami "Mina".» «Ma così non va, caposquadra» protestò Galdar. «Chiamarti col nome proprio non mostra il giusto rispetto.» «Se gli uomini non hanno rispetto per me, che importanza ha come mi chiamano?» ribatté lei. «E inoltre», aggiunse, con tranquilla convinzione, «il titolo che possiedo non esiste ancora.» Adesso si stava insuperbendo, pensò Galdar; bisognava farle abbassare la cresta. «Forse pensi che dovresti essere il "Signore della Notte"» suggerì per scherzo, nominando il rango più alto che poteva essere detenuto dai Cavalieri di Neraka. Mina non rise. «Un giorno, il Signore della Notte si inginocchierà ai miei piedi.» Galdar conosceva bene lord Targonne, e faceva fatica a immaginare quell'uomo avido e ambizioso inginocchiarsi, se non per raccogliere una moneta di rame lasciata cadere. Poiché non sapeva cosa rispondere a un'affermazione tanto ridicola, rimase in silenzio, tornando con la mente al sogno di gloria, anelando a esso come un assetato anela all'acqua. Voleva disperatamente credervi, voleva credere che fosse più di un miraggio. «Se sei sicuro di non essere stanco, Galdar», proseguì Mina «voglio chiederti un favore.» «Qualunque cosa, capos... Mina», balbettò lui. «Domani andremo in battaglia.» Un piccolo cipiglio le guastava la liscia pelle del viso. «E io non ho armi, né sono mai stata addestrata a usarle. Abbiamo il tempo di farlo stanotte, secondo te?» Galdar sentì la propria mascella cadere. Si chiese se avesse sentito correttamente. Era così sbalordito, che all'inizio non riuscì a replicare. «Tu... tu non hai mai maneggiato un'arma?» Mina scosse la testa, calma. «Sei mai stata in battaglia, Mina?»
Di nuovo lei scosse la testa. «Hai mai assistito a una battaglia?» Galdar era disperato. «No, Galdar.» Mina gli sorrise. «Per questo sto chiedendo il tuo aiuto. Andremo un po' giù per la strada ad allenarci, in modo da non disturbare gli altri. Non preoccuparti; saranno al sicuro. Foxfire mi avvertirebbe se si avvicinasse un nemico. Porta qualunque arma pensi sia più facile per me da imparare a usare.» Mina si avviò per la strada a cercare un buon campo di addestramento, lasciando un Galdar stupefatto a cercare fra le armi portate da lui e dagli altri per trovare quella adatta a lei, una ragazza che non ne aveva mai adoperata una e che, l'indomani, li avrebbe guidati in battaglia. Il minotauro si lambiccò il cervello, cercò di rimettersi in testa un po' di buon senso. Un sogno sembrava realtà, la realtà sembrava un sogno. Estraendo il pugnale, lo fissò per un momento, guardò la luce lunare scorrere come mercurio lungo la lama. Si conficcò la punta nel braccio, il braccio che Mina gli aveva restituito. Il dolore pungente e il caldo flusso del sangue indicarono che il braccio era vero, confermarono che lui era sveglio. Galdar aveva dato la sua promessa, e se c'era una cosa in quella vita che non aveva venduto, rovinato, o gettato via, questa era il suo onore. Rimise il pugnale nel fodero che portava alla cintola ed esaminò la scorta di armi. Una spada era fuori discussione. Non c'era il tempo di addestrare propriamente Mina al suo uso; avrebbe arrecato più danni a se stessa e a chi la circondava che al nemico. Non trovava niente che gli sembrasse adatto, quando notò la luce della luna brillare su un'arma in particolare, come se volesse portarla alla sua attenzione. Era quella nota come «Stella del mattino». Galdar la osservò. Con un cipiglio meditabondo, la soppesò sulla mano. La Stella del mattino è un martello da combattimento adorno di punte all'estremità, punte le quali, dicono i fantasiosi, gli conferiscono l'aspetto di una stella. Non era pesante, non richiedeva grande abilità per impararne l'uso, ed era particolarmente efficace contro i cavalieri in armatura. Bastava picchiarla contro l'avversario finché l'armatura di questi non si spaccava come un guscio di noce. Naturalmente, nel contempo, bisognava evitare l'arma del nemico. Galdar raccolse un piccolo scudo e, così armato, arrancò giù per la strada, lasciando un cavallo di guardia. «Sono diventato pazzo», borbottò. «Pazzo furioso.» Mina aveva individuato uno spazio aperto fra le rocce, probabilmente usato come luogo di accampamento lungo la strada dagli eserciti che, tanto tempo prima, avevano marciato per quella via. Afferrò la Stella del matti-
no, la scrutò con aria critica, la soppesò per saggiarne peso ed equilibrio. Galdar le mostrò come tenere lo scudo, in che posizione metterlo per sfruttarlo al meglio. Le insegnò l'uso dell'arma, poi le propose qualche semplice esercizio, perché potesse abituarsi alla sensazione dell'arma fra le mani. Fu gratificato (e sollevato) nel vedere che Mina imparava in fretta. Per quanto fosse di corporatura esile, aveva i muscoli al posto giusto. Il suo equilibrio era buono, i movimenti fluidi e aggraziati. Galdar alzò il proprio scudo, le fece tirare qualche colpo. Il primo fu impressionante, il secondo lo costrinse ad arretrare, il terzo causò una grande ammaccatura sullo scudo, facendogli vibrare il braccio fino al midollo. «Mi piace quest'arma», approvò Mina. «Hai scelto bene.» Galdar grugnì, si massaggiò il braccio dolorante, e posò a terra lo scudo. Sguainando lo spadone, lo avvolse in un mantello, legò strettamente il tessuto con della corda, e si mise in posizione di combattimento. «Ora iniziamo a lavorare», disse. In capo a due ore, Galdar era stupito dai progressi della sua allieva. «Sei sicura di non essere mai stata addestrata come soldato?» chiese, fermandosi a riprendere fiato. «Sicurissima», rispose Mina. «Guarda, te lo mostrerò.» Lasciando cadere l'arma, espose alla luce lunare la mano che aveva maneggiato la Stella del mattino. «Verifica la mia sincerità.» Il palmo delicato era scorticato e sanguinante per via delle vesciche aperte. Eppure, mai lei aveva emesso un lamento, mai aveva esitato nel colpire, anche se il dolore delle ferite doveva essere atroce. Galdar la guardò con aperta ammirazione. Se c'è una virtù che i minotauri apprezzano, è quella di sopportare il dolore in stoico silenzio. «Lo spirito di qualche grande guerriero deve vivere in te, Mina. La mia gente crede che ciò sia possibile. Quando uno dei nostri guerrieri muore coraggiosamente in battaglia, abbiamo l'abitudine di estrarre il suo cuore e di mangiarlo, sperando che il suo spirito entri nel nostro.» «Gli unici cuori che mangerò saranno quelli dei miei nemici», ribatté Mina. «La forza e l'abilità mi vengono dal mio dio.» Si chinò per prendere la Stella del mattino. «No, basta allenamento per stanotte», ingiunse Galdar, strappandogliela dalle dita. «Dobbiamo curare quelle vesciche. Peccato», continuò, fissandola. «Temo che domattina non potrai nemmeno tenere le redini del cavallo, figuriamoci maneggiare un'arma. Forse dovremmo aspettare qui qualche giorno, finché non sarai guarita.»
«Dobbiamo raggiungere Sanction domani», proclamò Mina. «Se arriviamo con un giorno di ritardo, la battaglia sarà conclusa, e le nostre truppe avranno subito una sconfitta terribile.» «Sanction è assediata da molto tempo», replicò Galdar, incredulo. «Da quando gli infami Solamnici hanno stretto un patto con quel bastardo che governa la città, Hogan Bight. Noi non riusciamo a scacciarli, e loro non hanno la forza di respingerci. La battaglia è a un punto morto. Tutti i giorni, attacchiamo le mura e loro le difendono. Muoiono dei civili. Zone della città prendono fuoco. Alla fine, si stancheranno e si arrenderanno. Ormai, l'assedio dura da più di un anno; non vedo come un unico giorno potrebbe fare differenza. Rimani qui e riposati.» «Non lo vedi perché i tuoi occhi non sono ancora completamente aperti», spiegò Mina. «Portami dell'acqua per lavarmi le mani, e una pezza per ripulirle dal sangue. Non temere: sarò in grado di cavalcare e di combattere.» «Perché non ti guarisci da sola, Mina?» suggerì Galdar, mettendola alla prova. Sperava di vedere un altro miracolo. «Guarisci te stessa come hai guarito me.» Gli occhi ambra catturarono la prima luce, che cominciava appena a rischiarare il cielo. Mina guardava l'alba, e Galdar ebbe l'impressione che stesse già vedendo il tramonto dell'indomani. «Molte centinaia moriranno con estrema sofferenza», mormorò lei. «Il dolore che sopporto, lo sopporto in omaggio a loro. Lo offro in dono al mio dio. Sveglia gli altri, Galdar. È giunta l'ora.» Galdar si aspettava che più di metà dei soldati se ne andasse, secondo le minacce della sera prima. Al suo ritorno al campo, trovò che gli uomini erano già alzati e in movimento. Erano di ottimo umore, fiduciosi, eccitati, e parlavano delle prodezze che avrebbero compiuto quel giorno. Prodezze che, dissero, avevano visto in sogni Più reali della veglia. Mina apparve fra loro, reggendo lo scudo e la Stella del mattino con mani che ancora sanguinavano. Galdar la scrutò preoccupato. Era stanca per l'allenamento e per la dura cavalcata del giorno prima. Sola sulla strada, con la testa china e le spalle cadenti, sembrava d'un tratto fragile, prostrata. Doveva avere le mani in fiamme e i muscoli doloranti. Sospirò profondamente e alzò lo sguardo al cielo, come per chiedere se veramente aveva la forza di continuare. Alla sua vista, i Cavalieri alzarono le spade, le batterono contro gli scudi in segno di saluto.
«Mina! Mina!» cantarono in coro, e il loro canto rimbalzò dalle montagne, eccitante come uno squillo di chiarina. Mina sollevò la testa. Il saluto era come vino per il suo umore cupo. Dischiuse le labbra, lo bevve avidamente. La stanchezza le cadde di dosso come un abito abbandonato. La sua armatura rosseggiò nella luce fiammeggiante del sole che sorgeva. «Cavalcate di buona lena. Oggi, andiamo verso la vittoria», annunciò, e i Cavalieri acclamarono all'impazzata. Foxfire venne al suo comando. Lei montò e afferrò saldamente le redini nelle mani sanguinanti, piene di vesciche. Fu allora che Galdar, prendendo posto accanto alla sua staffa, notò che essa portava intorno al collo un medaglione d'argento appeso a una catena d'argento. Lo guardò attentamente, per vedere cosa poteva essere inciso sulla sua superficie. Il medaglione era vuoto. Puro argento, senza segni. Strano. Che senso aveva portare un medaglione vuoto? Ma non ebbe la possibilità di fare domande perché in quel momento Mina conficcò gli speroni nel fianco del cavallo. Foxfire galoppò lungo la strada. I Cavalieri seguirono il loro comandante. VI IL FUNERALE DI CARAMON MAJERE Al sorgere del sole, un'alba meravigliosa dai bagliori dorati illuminata da una palla di fuoco, la gente di Solace si radunò davanti alla taverna dell'Ultima Casa in veglia silenziosa, in testimonianza dell'amore e del rispetto provati nei confronti dell'uomo buono, gentile e coraggioso, che giaceva all'interno. Poche voci spezzavano la quiete. La maggior parte dei presenti restava muta, la mente rivolta al grande silenzio che un giorno sarebbe caduto su ognuno di loro. Le madri chetavano i bambini irrequieti, che fissavano la taverna, abbagliante di luci, senza comprendere che cosa fosse successo, pur avvertendo che doveva trattarsi di qualcosa di grande e terribile. Ciò che provavano era una sensazione che avrebbe lasciato il segno sulle loro giovani menti e che avrebbero ricordato fino alla fine dei loro giorni. «Mi spiace davvero, Laura», le disse Tas, poco prima dell'alba. Laura se ne stava in piedi accanto alla panca dove Caramon soleva fare
colazione. Era là, immobile, lo sguardo fisso, il viso pallido e teso. «Caramon era il mio migliore amico», continuò Tas. «Grazie.» Gli rivolse un sorriso tremante. Aveva gli occhi rossi per le lacrime versate. «Tasslehoff», le ricordò il kender, pensando che la ragazza avesse dimenticato il suo nome. «Sì.» Laura sembrava a disagio. "Eh... Tasslehoff.» «Io sono Tasslehoff Burrfoot. Quello originale», aggiunse il kender, ricordando i suoi trentasette omonimi (trentanove contando anche i cani). «Caramon mi ha riconosciuto. Mi ha abbracciato dicendosi felice di rivedermi.» Laura lo fissò esitante. «Sicuramente sembri Tasslehoff. Ma l'ultima volta che ti ho visto ero una bambina e già allora i kender mi sembravano tutti uguali e poi... Tutto questo non ha senso! Tasslehoff Burrfoot è morto da trent'anni!» Tas avrebbe voluto raccontarle del Congegno per Viaggiare nel Tempo e di come Fizban l'avesse impostato in modo sbagliato la prima volta facendolo arrivare al primo funerale di Caramon troppo tardi perché potesse tenere il suo discorso, ma un improvviso nodo alla gola gli impedì di proferire parola. Gli occhi di Laura si posarono sulle scale della taverna, velandosi nuovamente di lacrime. Disperata, nascose il viso fra le mani. «Su, su», cercò di consolarla Tas, battendole affettuosamente una mano sulla spalla. «Palin arriverà presto. Lui sa chi sono e potrà spiegarti ogni cosa.» «Palin non verrà», singhiozzò Laura. «Non ho potuto avvertirlo. È troppo pericoloso! Il padre è morto e lui non può nemmeno venire al suo funerale. Sua moglie e la mia cara sorella sono bloccate a Haven da quando la dragonessa ha chiuso le strade. Sono sola a dare l'estremo saluto a nostro padre. Non ce la faccio! È troppo!» «Ma che cosa dici? Certo che Palin verrà», affermò Tas, chiedendosi quale dragonessa avesse chiuso le strade e perché. Intendeva scoprirlo, ma in quel momento, i pensieri che affollavano la sua mente erano così tanti che quello avrebbe dovuto aspettare. «Qui alla taverna c'è quel giovane mago... Quello della stanza diciassette. Si chiama... beh, ora non lo ricordo, ma puoi mandarlo alla Torre dell'Alta Magia di Wayreth, dove Palin è il capo dell'Ordine delle Vesti Bianche.» «Quale torre di Wayreth?» esclamò Laura, fissando Tas confusa. «La
torre non c'è più; è scomparsa, come quella di Palanthas. Palin era il capo dell'Accademia della Stregoneria, ma anche quella non esiste più. La dragonessa Beryl ha distrutto l'accademia un anno fa circa, proprio in questo periodo. E da quando la taverna è stata ricostruita, non esiste più una stanza diciassette.» Tas, impegnato a ricordare, non l'ascoltava. «Palin arriverà presto e porterà con sé Dalamar e anche Jenna. Manderà i suoi messaggeri da lady Crysania al Tempio di Paladine, da Goldmoon e Riverwind a Que-shu e da Laurana, Gilthas e Silvanoshei a Silvanesti. Presto arriveranno tutti, perciò dobbiamo... dobbiamo...» La sua voce divenne un sussurro. Laura lo fissava come se improvvisamente gli fossero spuntate due teste. Tas lo capiva, perché aveva avvertito sul proprio viso la stessa espressione, quando si era trovato davanti a un troll al quale erano realmente spuntate due teste. Lentamente, senza staccare gli occhi dal kender, Laura iniziò ad allontanarsi. «Siediti qui», gli disse in tono dolce e gentile. «Siediti qui, così... Adesso ti porto un bel piatto di...» «Patate speziate?» domandò Tas, speranzoso. Se c'era qualcosa che poteva sciogliere il nodo che sentiva alla gola, queste erano proprio le patate speziate di Otik. «Sì, un bel piatto stracolmo di patate. Questa mattina non abbiamo ancora acceso i fuochi della cucina, perciò ci vorrà un po' di tempo. Siediti e promettimi che non ti muoverai da qui», disse Laura, allontanandosi dal tavolo e facendo scivolare una sedia fra lei e Tas. «Oh, non me ne andrò da nessuna parte», promise Tas, mettendosi comodo. «Devo parlare al funerale, non scordarlo.» «Sì, certo.» Laura strinse così forte le labbra da non riuscire a spiaccicare parola per alcuni minuti. Infine, tirando un profondo respiro, aggiunse: «Certo, devi parlare al funerale. Stai qui, da bravo kender.» Essendo «bravo» e «kender» due parole che raramente venivano associate, Tasslehoff se ne restò seduto al tavolo domandandosi come dovesse essere un bravo kender e se lui lo fosse. Giunse alla conclusione che, essendo un eroe, probabilmente era anche bravo. Soddisfatto della risposta datasi, tirò fuori gli appunti e iniziò a ripassare il discorso, canticchiando un'allegra melodia per farsi compagnia e per scacciare il groppo alla gola. Sentì Laura parlare a un giovane, forse il mago della stanza diciassette, ma non prestò particolare attenzione alle parole della ragazza, poiché sem-
brava parlasse di un povero «afflitto», una persona che aveva perso la ragione e che forse poteva essere pericolosa. In qualsiasi altro momento, Tas sarebbe stato interessato a vedere un individuo pericoloso, afflitto e persino matto, ma doveva pensare al discorso, e poiché quello era il motivo della sua visita, si concentrò su di esso. Era ancora immerso nelle proprie riflessioni, in compagnia di un piatto di patate e un boccale di birra chiara, quando si accorse della presenza accanto a lui di un uomo alto, che lo fissava con sguardo severo. «Oh, salve», salutò Tas, guardando sorridente verso l'alto per scoprire che quell'uomo non era altri che il suo buon amico, il Cavaliere che lo aveva arrestato il giorno precedente. Poiché il Cavaliere era realmente un buon amico, era un vero peccato che Tas non ricordasse il suo nome. «Prego, siediti. Vuoi delle patate? Uova?» Il giovane rifiutò ogni offerta e si sedette di fronte a Tas, osservandolo con espressione grave. «Mi hanno detto che stai dando fastidio», affermò il Cavaliere in tono freddo e distaccato. Accadeva che in quel momento Tasslehoff fosse piuttosto orgoglioso di se stesso proprio perché non stava procurando alcun fastidio. Se n'era rimasto seduto tranquillo, ripensando ai momenti felici trascorsi con Caramon e rammaricandosi della sua dipartita. Non si era nemmeno preoccupato di controllare se la scatola di legno contenesse qualcosa di interessante. Si era astenuto dalla sua abituale ispezione al cofanetto d'argento e si era ritrovato soltanto con uno strano portafoglio e poiché non ricordava come ne fosse venuto in possesso, era giunto alla conclusione che fosse caduto a qualcuno. Sarebbe stata sua premura restituirlo subito dopo il funerale. Tas si sentì perciò legittimamente offeso dalle allusioni del Cavaliere. Fissò l'uomo con sguardo severo. «Sono certo che non volevi essere sgradevole», disse Tas. «Sei irritato. Lo capisco.» Il viso del giovane si colorì, passando dal rosso acceso al porpora. Cercò di proferir parola, ma era così infuriato che quando aprì bocca, emise solo un farfugliamento confuso. «Capisco il problema», affermò Tas, cercando di porre rimedio alle sue parole. «Non c'è da stupirsi che tu mi abbia frainteso. Con "sgradevole" mi riferivo al tuo atteggiamento, non al tuo viso che, comunque, è veramente sgradevole. Non ricordo di averne mai visto uno più brutto. Tuttavia, non puoi certo cambiare faccia, così come forse non puoi nemmeno cambiare carattere, essendo un Cavaliere Solamnico; però hai commesso un errore.
Non sto dando alcun fastidio. Me ne sto seduto a questo tavolo a mangiare patate... A proposito, sei sicuro di non volerne? Sono veramente buone. Beh, se non ne vuoi le finisco io. Che cosa stavo dicendo? Ah, sì. Sono sempre stato seduto qui a mangiare e a lavorare sul mio discorso. Sai, per il funerale.» Quando il Cavaliere fu finalmente in grado di parlare senza balbettare, il tono della sua voce si rivelò ancora più freddo e antipatico. «Padrona Laura ha mandato uno dei clienti a chiamarmi, perché la stavi spaventando con i tuoi discorsi stravaganti e irrazionali. I miei superiori mi hanno ordinato di riportarti in prigione. Inoltre, vorrebbero sapere», aggiunse in tono severo, «come hai fatto questa mattina a scappare dalla tua cella.» «Sarò felice di tornare in prigione con te. È una prigione veramente bella», replicò Tas educatamente. «Non ne avevo mai vista una a prova di kender. Verrò con te subito dopo il funerale. Cerca di capirmi, l'ho già perso una volta. Non posso perdermelo di nuovo. Oh no, dimenticavo», sospirò Tas. «Non posso tornare in prigione con te.» Quanto gli spiaceva di non ricordare il nome del Cavaliere. D'altro canto non voleva chiederglielo: gli sembrava poco cortese. «Al termine del funerale devo tornare immediatamente al mio tempo. Ho promesso a Fizban che non avrei vagabondato. Visiterò la tua prigione un'altra volta, sei d'accordo?» «Forse dovresti concedergli di restare, Gerard», disse Laura, avvicinandosi a loro e torcendo nervosamente fra le mani un lembo del grembiule. «Sembra così risoluto. Non vorrei che causasse guai. Inoltre», le lacrime iniziarono a scorrerle sul viso, «forse dice la verità! Dopo tutto, mio padre pensava che fosse Tasslehoff.» Gerard! Ecco come si chiamava il Cavaliere. Tas si sentì immensamente sollevato. «Davvero?» esclamò Gerard in tono scettico. «Te lo aveva detto lui?» «Sì», rispose Laura, asciugandosi gli occhi con il grembiule. «Quando il kender è entrato, papà era seduto qui, al suo solito posto. Il kender si è diretto verso di lui dicendogli: "Ciao, Caramon! Sono venuto per parlare al tuo funerale. E poiché sono arrivato in anticipo, ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere sentire ciò che dirò". Il papà lo ha guardato sorpreso. Inizialmente non penso gli credesse, ma poi lo ha osservato attentamente e alla fine ha esclamato "Tas!" e lo ha abbracciato.» «È vero.» Commosso, Tas tirò su ripetutamente con il naso. «Mi ha abbracciato e mi ha detto che era felice di rivedermi e voleva sapere dove fossi stato per tutti questi anni. Gli ho risposto che era una storia lunga e
che il tempo era proprio ciò che gli mancava e che quindi prima avrebbe fatto bene ad ascoltare il mio discorso.» Non sapendo come risolvere la situazione, si pulì con la manica il naso ormai colante. «Forse dovremmo permettergli di restare per il funerale», insistette Laura. «Penso che a papà avrebbe fatto piacere. Se tu potessi... beh... tenerlo d'occhio.» Gerard era chiaramente scettico. Cercò anche di discuterne con Laura, ma quest'ultima aveva ormai preso la sua decisione e in questo assomigliava molto a sua madre. Quando aveva deciso, nessuno, nemmeno un esercito di draghi, avrebbe potuto farle cambiare idea. Laura aprì la porta della taverna per lasciare entrare i raggi del sole, la vita e coloro che erano giunti a dare l'estremo saluto al defunto. Caramon Majere era stato deposto in una semplice bara di legno sistemata davanti al grande camino nella taverna che aveva tanto amato. Quel giorno, il fuoco non era stato acceso e soltanto la cenere riempiva il focolare. La gente di Solace iniziò a sfilare silenziosa, soffermandosi qualche istante per offrire al defunto un ultimo addio, una benedizione, un oggetto amato, un mazzolino di fiori freschi. Tutti notarono che l'espressione sul volto dell'uomo esprimeva una tranquilla serenità, sembrava persino felice, sicuramente più di quanto lo fosse stato dalla morte dell'amata Tika. «Sono di nuovo insieme», sussurravano i presenti, sorridendo fra le lacrime. Laura se ne stava accanto alla porta a ricevere le condoglianze. Indossava gli abiti che portava abitualmente per lavorare: una camicia candida, un grembiule fresco di bucato, una graziosa gonna blu e una sottogonna bianca. Molti le chiedevano perché non fosse vestita di nero dalla testa ai piedi. «Il papà non avrebbe voluto», era la sua semplice risposta. Era triste che nel momento dell'estremo saluto al padre, Laura non fosse circondata dagli altri membri della famiglia. Dezra, la sorella, si trovava a Haven intenta ad acquistare il luppolo per la famosa birra della taverna, quando la terribile dragonessa Beryl aveva attaccato la città. Fortunatamente, era riuscita a fare avere sue notizie a Laura, rassicurandola sul proprio stato di salute e informandola della sua impossibilità a lasciare la città, poiché le strade non erano più sicure. Palin, il figlio di Caramon, era partito da Solace per un altro dei suoi misteriosi viaggi. Anche se sapeva dove si trovava, Laura non lo disse. La moglie, Usha, una ritrattista di fama, aveva accompagnato Dezra a Haven. Poiché Usha aveva dipinto i ritratti delle famiglie di alcuni comandanti dei
Cavalieri di Neraka, si stava dando da fare per cercare di ottenere la protezione per potere tornare a casa sana e salva insieme alla cognata. I figli di Usha, Ulin e Linsha, erano partiti all'avventura. Del secondo, un Cavaliere Solamnico, non si avevano notizie da mesi. Mentre Ulin se n'era andato dopo aver sentito parlare di un manufatto magico e attualmente ritenevano si trovasse a Palanthas. Tas se ne stava seduto sotto il controllo di Gerard. Osservando la gente che sfilava lentamente, scuoteva la testa. «Credetemi, non è così che dovrebbe essere il funerale di Caramon», continuava a ripetere. «Chiudi la bocca, piccolo demonio», lo zittì Gerard in tono duro. «Per Laura e i suoi amici sono già momenti sufficientemente difficili senza che ti ci metta tu a peggiorarli con le tue chiacchiere.» Per sottolineare le sue parole, afferrò con forza la spalla del kender e lo scosse violentemente. «Mi fai male», protestò Tas. «Bene», ringhiò Gerard. «Adesso fai il bravo e ubbidisci.» Tas se ne restò tranquillo, atteggiamento quasi inaspettato da parte sua, ma che in realtà gli costava meno fatica di quanto si sarebbe potuto immaginare. Il suo inusuale silenzio era dovuto al nodo di tristezza che ancora provava e del quale non riusciva a liberarsi. Una tristezza che si mescolava alla confusione che gli offuscava la mente e che gli rendeva difficile pensare chiaramente. Il funerale di Caramon non si stava svolgendo come avrebbe dovuto. Lui lo sapeva perché ci era già stato una volta e lo ricordava bene. E non era così. Di conseguenza, non si stava divertendo come si aspettava. Era tutto sbagliato. Totalmente sbagliato. Completamente e irrimediabilmente sbagliato. Nessuno dei dignitari che avrebbe dovuto esserci, era presente. Palin non era arrivato e Tas cominciava a pensare che Laura avesse ragione nell'affermare che non sarebbe venuto. Lady Crysania non si era vista. Goldmoon e Riverwind mancavano. Dalamar non era comparso all'improvviso materializzandosi dal nulla e spaventando i presenti. Tas si rese conto che non avrebbe potuto fare il suo discorso. Il groppo alla gola era troppo forte: non ce l'avrebbe fatta. Un'altra cosa sbagliata. La folla era numerosa; l'intera popolazione di Solace e delle comunità vicine si erano riunite per salutare e ricordare un uomo amato e rispettato. La gente era tanta, ma non quanta al primo funerale di Caramon. Quest'ultimo venne sepolto vicino alla taverna che amava, accanto alle tombe della moglie e dei figli. L'alberello di vallen che Caramon aveva
piantato in onore di Tika era giovane e robusto. Gli altri esemplari, piantati per i figli morti prematuramente, erano ormai alti e rigogliosi e se ne stavano eretti come i Cavalieri di Solamnia, che avevano accordato a Caramon un onore riservato raramente ai civili: scortare la bara fino alla tomba. Laura piantò l'albero di vallen alla memoria del padre nel cuore di Solace, vicino a quello piantato per la madre. La coppia era stata il cuore di Solace per anni e tutti approvarono la posizione scelta. L'alberello se ne stava instabile nella terra appena smossa, sembrava sperduto, sconsolato. La gente esternò i propri sentimenti, rese omaggio al defunto. I Cavalieri inguainarono le spade con fare solenne e il funerale si concluse. Ognuno tornò alla propria dimora. La taverna restò chiusa per la prima volta da quando il Drago Rosso l'aveva sollevata e scagliata lontano dal suo albero nel corso della Guerra delle Lance. Gli amici di Laura si offrirono di farle compagnia, ma la ragazza rifiutò, dicendo che voleva stare sola. Mandò a casa Cook, che era in uno stato tale che anche quando rientrò al lavoro, non aveva più bisogno di salare le pietanze tante erano le lacrime che continuava a versare. Per quanto riguarda il nano piagnucolone, non si era più mosso dall'angolo in cui era crollato nel momento in cui aveva saputo della morte di Caramon. Era rimasto accovacciato a gemere e a lamentarsi malinconicamente fino a quando, con grande sollievo di tutti, si era addormentato. «Addio, Laura», disse Tas, porgendole la mano. Lui e Gerard furono gli ultimi ad andarsene. Il kender si era rifiutato di muoversi fino a quando non fossero andati via tutti e non avesse constatato che niente di ciò che avrebbe dovuto accadere era accaduto. «Il funerale è stato molto bello. Non tanto quanto l'altro, ma immagino che non potessi farci niente. Continuo a non capire che cosa stia succedendo. Forse è per questo che Caramon ha detto a sir Gerard di portarmi da Dalamar, e ci andrò, anche se temo che Fizban mi accuserà di essermene andato a zonzo. Ad ogni modo, addio e grazie.» Laura guardò il kender, che non sembrava più allegro e contento ma sconsolato, confuso, scoraggiato. D'istinto, si inginocchiò accanto a lui e lo abbracciò. «Sono convinta che tu sia veramente Tasslehoff», mormorò dolcemente. «Grazie per essere venuto.» Lo strinse fino a togliergli il respiro, quindi si voltò e corse oltre la porta che conduceva agli appartamenti privati della famiglia. «Gerard, chiudi tu, vero?» gridò, chiudendo a chiave la porta dietro di sé.
Nella taverna scese il silenzio. Soltanto il fruscio delle foglie dell'albero di vallen e lo scricchiolio dei rami riempivano l'aria. Il fruscio aveva un che di piagnucoloso e sembrava che i rami stessero gemendo. Tas non aveva mai visto la taverna vuota. Guardandosi intorno, ricordò la sera in cui si erano tutti incontrati di nuovo, dopo cinque anni di lontananza. Vedeva il viso di Flint e udiva le sue burbere lamentele, vedeva Caramon che con fare protettivo se ne stava accanto al fratello gemello e vedeva gli occhi penetranti di Raistlin guardarsi intorno attentamente. Gli sembrava quasi di udire la canzone di Goldmoon: Avvampa di luce azzurra il bastone, scompaiono entrambi: l'erba è sparita, l'autunno è arrivato. «Sono scomparsi tutti», mormorò Tas, avvertendo un altro groppo alla gola. «Andiamo», disse Gerard. La mano sulla spalla di Tas, il Cavaliere lo guidò verso la porta, dove lo bloccò per alleggerirlo di svariati oggetti che gli erano casualmente finiti nelle tasche. Gerard li lasciò sul bancone per permettere ai legittimi proprietari di recuperarli. Fatto ciò, prese la chiave appesa a un gancio sulla parete accanto alla porta e uscì insieme al kender. Dopo avere dato alcuni giri di mandata alla porta, appese la chiave a un gancio fuori dalla taverna, dove avrebbe potuto trovarla chi avesse avuto bisogno di una camera e fosse giunto fuori orario. «Dove andiamo?» domandò Tas, mentre scendevano le scale. «Che cosa hai dentro a quel fagotto? Posso vedere? Mi porti da Dalamar? È tanto che non lo vedo. Ti ho mai raccontato come ci siamo conosciuti? Io e Caramon eravamo...» «Tieni la bocca chiusa, d'accordo?» lo interruppe Gerard in tono secco. «Mi stai facendo venire mal di testa con tutto questo blaterare. Vuoi sapere dove stiamo andando? Ti riporto al presidio. E se non vuoi finire trapassato dalla mia spada, non osare toccare questo fagotto.» Da quel momento, il Cavaliere non disse più una parola, sebbene Tas non facesse che subissarlo di domande, tentasse di indovinare il contenuto del fagotto e implorasse Gerard di dargli qualche indizio. Quello che c'era nel fagotto era più grande di un cestino per il pane? C'era forse un gatto?
Un gatto in un cestino? Fu tutto inutile. Il Cavaliere non aprì bocca. In compenso, non mollò la presa sulla spalla del kender. I due giunsero così al presidio solamnico, dove le guardie in servizio salutarono il Cavaliere in tono freddo e distaccato. Sir Gerard non contraccambiò il saluto e si limitò a dire che aveva bisogno di vedere il Signore degli Scudi. Le guardie, appartenenti alla scorta personale del Signore degli Scudi, risposero che Sua Signoria era appena tornato dal funerale e aveva dato ordini di non essere disturbato. Perché Gerard voleva vederlo? «È una questione personale», spiegò il Cavaliere. «Dite a Sua Signoria che ho bisogno che venga presa una decisione dalla Misura. È urgente.» Una guardia si allontanò. Tornò dopo alcuni istanti dicendo, a malincuore, che sir Gerard poteva entrare. Quest'ultimo si incamminò con Tas al seguito. «Quanta fretta, signore», esclamò la guardia, bloccando il passaggio con l'alabarda. «Il Signore degli Scudi non ha parlato anche di un kender.» «Il kender è sotto la mia custodia», replicò Gerard, «come mi è stato ordinato da Sua Signoria. Non ho ricevuto il permesso di lasciarlo sotto la protezione di altri. Tuttavia, sarò felice di lasciarlo qui, se mi garantirete che non combinerà alcun guaio per tutto il tempo che sarò con Sua Signoria, probabilmente diverse ore vista la complessità del mio problema, e che al mio ritorno lo ritroverò qui.» Il Cavaliere di guardia esitò. «Sarà felice di raccontarvi come conobbe il mago Dalamar», aggiunse Gerard in tono secco. «Portatelo con voi», disse l'altro. Tas e la sua scorta entrarono nella guarnigione, passando attraverso il portale sistemato al centro di un'alta staccionata, realizzata con pali in legno dall'estremità appuntita e affilata. All'interno della guarnigione si trovavano le stalle per i cavalli, un piccolo campo di addestramento per il tiro con l'arco e svariati edifici. Non era una guarnigione particolarmente grande. Essendo stata costruita per accogliere i soldati destinati alla guardia della Tomba degli Ultimi Eroi, era stata ampliata in un secondo tempo per ospitare i Cavalieri che avrebbero probabilmente opposto una strenua difesa di Solace, in caso la dragonessa Beryl avesse attaccato. Negli ultimi tempi Gerard aveva pensato, con una certa esaltazione, che i giorni di guardia alla Tomba volgevano forse al termine e che la battaglia con la dragonessa era imminente, sebbene a tutti i Cavalieri fosse stato ordinato di evitare ogni accenno a una simile eventualità. I Cavalieri non a-
vevano le prove che Beryl stesse preparandosi ad aggredire Solace e non volevano provocare un suo attacco. Ma i comandanti solamnici stavano silenziosamente facendo i loro piani. All'interno della palizzata, si trovava un edificio lungo e basso che ospitava le camerate degli ufficiali e dei soldati ai loro ordini. Inoltre, vi erano numerosi fabbricati annessi, utilizzati come magazzini e un edificio amministrativo, dove risiedeva il capo della guarnigione. L'aiutante di campo di Sua Signoria andò incontro a Gerard e lo fece accomodare. «Sua Signoria, sarà subito da voi, sir Gerard», disse l'aiutante. «Gerard!» esclamò una voce di donna. «Che piacere vederti! Mi sembrava di avere sentito il tuo nome.» Lady Warren era un'affascinante signora di circa sessant'anni, dai capelli bianchi e dalla carnagione color dell'ambra. Nei loro quarant'anni di matrimonio, aveva sempre seguito il marito in ogni spostamento. In quel momento, indossava un grembiule coperto di farina. Baciò Gerard sulla guancia, che era rimasto rigido sull'attenti, l'elmo sotto il braccio, e lanciò un'occhiata interrogativa al kender. «Oh, perbacco», esclamò. «Midge!» gridò con una voce che sarebbe risuonata al di sopra del clangore di un campo di battaglia, «metti sotto chiave i miei gioielli!» «Tasslehoff Burrfoot, signora», disse Tas, porgendo la mano. «E chi non lo è di questi tempi?» commentò lady Warren, affrettandosi a nascondere dietro il grembiule le mani, che sebbene fossero infarinate, sfoggiavano anelli dall'aspetto interessante. «E come stanno la tua cara mamma e il tuo caro papà, Gerard?» «Molto bene, grazie, signora», rispose Gerard. «Che ragazzaccio», lo rimproverò lady Warren, scuotendo un dito. «Non hai assolutamente idea di come stiano. Sono due mesi che non scrivi a tua madre. La poveretta ha scritto a mio marito per lamentarsi e chiedergli, in modo commovente, notizie sulla tua salute. Che vergogna. Fare preoccupare così la tua mamma! Sua Signoria le ha promesso che le avresti scritto immediatamente. Non mi sorprenderebbe se ti facesse sedere e comporre la lettera mentre sei qui con lui.» «Sì, signora», disse Gerard. «Ora devo tornare in cucina. Io e Midge stiamo preparando un centinaio di forme di pane da portare a Laura per aiutarla a fare andare avanti la locanda, povera ragazza. Ah, oggi è una triste giornata per Solace.» Lady Warren si asciugò il viso con la mano, lasciando sulle guance tracce di fa-
rina. «Sì, signora», ripeté Gerard. «Potete entrare», disse l'aiutante, aprendo una porta che dal corpo principale conduceva agli appartamenti privati di Sua Signoria. Prima che se ne fosse andato, lady Warren raccomandò a Gerard di ricordarla a sua madre. Con voce atona, il Cavaliere promise che lo avrebbe fatto. Salutò con un inchino e seguì l'aiutante. Un uomo ben piazzato, di mezza età e dalla carnagione scura, tipica della gente dell'Ergoth del sud, salutò affettuosamente il giovane, un saluto che quest'ultimo ricambiò con un calore inusuale. «Sono felice che tu sia passato, Gerard», disse lord Warren. «Accomodati. Allora, questo è il kender, giusto?» «Sì, signore. Grazie, signore. Sarò da voi fra un secondo.» Gerard trascinò Tas verso una sedia, lo obbligò a sedersi e iniziò a darsi da fare con una fune. A gran velocità legò i polsi del kender ai braccioli della sedia, tanto che Tas non ebbe nemmeno il tempo di protestare. Per completare l'opera, estrasse un fazzoletto e imbavagliò il kender. «È proprio necessario?» domandò lord Warren in tono garbato. «Se vogliamo fare un discorso con un filo logico, sì, è necessario», replicò Gerard, prendendo una sedia. Depose il misterioso fagotto ai suoi piedi, sul pavimento. «Altrimenti non sentirete altro che racconti su come questa è stata la seconda volta in cui Caramon Majere è morto e su come questo funerale sia stato diverso dall'altro. Vi sorbireste inoltre l'intero elenco dei nomi dei personaggi presenti al primo e assenti al secondo.» «Capisco.» Sul volto di lord Warren si dipinse un'espressione compassionevole. «Deve essere uno degli "afflitti". Poveretto.» «Chi sono gli "afflitti"?» domandò Tas, solo che a causa del bavaglio le sue parole si mischiarono in un incomprensibile borbottio a cui nessuno prestò attenzione e a cui nessuno si diede la pena di rispondere. Gerard e lord Warren iniziarono a parlare del funerale. Sua Signoria ricordò Caramon con parole così affettuose che Tas venne assalito dalla tristezza al punto tale, che il bavaglio divenne inutile. «E adesso, Gerard, che cosa posso fare per te?» domandò lord Warren quando ebbero concluso l'argomento «funerale». «Il mio aiutante mi ha detto che hai una questione da sottoporre alla Misura.» «Sì, signore. Ho bisogno di una decisione.» «Tu, Gerard?» esclamò lord Warren, sorpreso inarcando un sopracciglio. «E da quando ti preoccupi degli ordini della Misura?»
Gerard arrossì, a disagio. L'alto ufficiale sorrise di fronte all'imbarazzo del Cavaliere. «Ho saputo che sei stato molto chiaro nell'esprimere ciò che pensi del modo "gretto e antiquato" di legiferare...» Gerard si agitò, sempre più imbarazzato. «Può essere, signore, che in qualche occasione io abbia espresso le mie perplessità su alcuni precetti della Misura...» L'espressione del viso di lord Warren era sempre più scettica. Gerard decise che era meglio cambiare argomento. «Signore, debbo parlarvi di un imbarazzante episodio avvenuto ieri. Erano presenti molti civili. Sicuramente si faranno delle domande.» «Debbo indire il Consiglio dei Cavalieri?» domandò Sua Signoria in tono grave. «No, mio signore. Nutro per voi un profondo rispetto e accetterò comunque la vostra decisione. Mi è stato affidato un compito e ho bisogno di sapere se devo portarlo a termine o se posso rifiutarlo con onore.» «Chi ti ha dato questo compito? Un altro Cavaliere?» Lord Warren sembrava inquieto. Sapeva che fra Gerard e gli altri cavalieri della guarnigione non correva buon sangue e aveva sempre temuto l'insorgere di qualche litigio, culminante in qualche stupida sfida sul terreno di un duello. «No, signore», rispose il giovane con voce pacata. «L'incarico mi è stato affidato da un uomo moribondo.» «Ah!» esclamò lord Warren. «Caramon Majere.» «Esatto, signore.» «Un'ultima richiesta?» «Non proprio una richiesta», spiegò Gerard. «Un compito. Direi quasi un ordine, se non fosse che Majere non era un Cavaliere.» «Non per nascita», precisò lord Warren, «ma per bontà d'animo non c'era Cavaliere migliore.» «Sì, signore.» Detto ciò, Gerard fece una pausa. Tas notò, per la prima volta, che il giovane era realmente addolorato per la morte di Caramon. «Secondo le norme stabilite dalla Misura, l'ultimo desiderio di una creatura in punto di morte è sacro e se possibile per un essere mortale, deve essere esaudito. La Misura non fa differenza fra cavalieri, maschi o femmine, umani, elfi, gnomi, nani o kender. Il tuo onore ti impone di accettare l'incarico, Gerard.» «Se possibile per un essere mortale», sottolineò il giovane. «Sì», affermò lord Warren. «Così dice la Misura. Figliolo, vedo che sei
terribilmente combattuto. Se ti è permesso farlo senza venire meno a una promessa, svelami la natura dell'ultimo desiderio di Caramon.» «Non vengo meno ad alcuna promessa, signore. E comunque, dovrei dirvelo in ogni modo, poiché nel caso accettassi questo compito, avrei bisogno del vostro permesso per allontanarmi da Solace. Caramon Majere mi ha chiesto di portare il kender qui presente, che sostiene di essere Tasslehoff Burrfoot, morto circa trent'anni fa, da Dalamar.» «Il mago Dalamar?» domandò Sua Signoria, stupito. «Sì, mio signore. Ecco come sono andate le cose. Quando ormai era in fin di vita, Caramon ha detto qualcosa a proposito del fatto di trovarsi nuovamente con la moglie defunta. Quindi ha iniziato a guardarsi intorno, come se stesse cercando un volto particolare nella folla riunitasi intorno a lui. "Ma dov'è Raistlin?", ha chiesto.» «Era suo fratello gemello», lo interruppe lord Warren. «Sì, signore. Caramon ha aggiunto, "Aveva detto che mi avrebbe aspettato". Laura mi ha spiegato che Raistlin aveva accettato di aspettare il fratello prima di lasciare questo mondo per quello successivo. Caramon diceva spesso che, poiché erano gemelli, uno non poteva entrare nel regno benedetto senza l'altro.» «Dubito che a Raistlin Majere venga permesso di entrare in un qualsiasi "regno benedetto"», commentò in tono asciutto lord Warren. «Ben detto, signore», affermò Gerard, sfoggiando un sorrisetto sarcastico. «Sempre che esista un regno benedetto. Personalmente ho qualche dubbio...» Si fermò, imbarazzato. L'alto ufficiale lo fissava con sguardo severo e accigliato. Gerard decise di lasciare a un'altra volta eventuali disquisizioni filosofiche. «Caramon ha detto anche qualcosa del tipo: "Raistlin dovrebbe essere qui. Con Tika. Non capisco. C'è qualcosa che non va. Tas... Ciò che ha detto Tas... Un futuro diverso... Dalamar ne sarà al corrente... Porta Tasslehoff da Dalama". Era così sconvolto che ho avuto l'impressione che non sarebbe morto in pace se non gli avessi promesso di fare come mi aveva chiesto. Così ho promesso.» «Il mago Raistlin è morto da più di cinquant'anni!» esclamò lord Warren. «Sì, signore. Burrfoot, il cosiddetto eroe, è morto da una trentina d'anni, perciò questo non può essere lui. E il mago Dalamar è scomparso. Nessuno l'ha visto o ha avuto sue notizie dalla scomparsa della torre dell'Alta Magi-
a. Pare sia stato dichiarato morto dai membri dell'ultimo Conclave.» «Sì, è vero. Mi è stato confermato da Palin Majere. Ma non ne abbiamo le prove e abbiamo a che fare con l'ultimo desiderio di un uomo in fin di vita. Sono incerto sul da farsi.» Gerard lo osservava silenzioso. Tas sarebbe anche intervenuto, se non fosse stato per il bavaglio e per la convinzione che niente di ciò che avrebbe potuto dire avrebbe cambiato la situazione. Per essere sinceri, Tas stesso non sapeva che cosa fare. Fizban era stato molto chiaro ordinandogli di presenziare al funerale e quindi di tornare immediatamente indietro. «Non vagabondare!» erano state le parole esatte dell'anziano mago e non sembrava scherzasse quando le aveva pronunciate. Tas se ne stava sulla sedia, masticando pensoso il bavaglio e chiedendosi quale fosse il significato esatto della parola «vagabondare». «Ho qualcosa da mostrarvi, signore», disse Gerard. «Con il vostro permesso...» Gerard sollevò il fagotto, lo appoggiò sulla scrivania di lord Warren e iniziò a slegare la corda che lo chiudeva. Nel frattempo, Tas era riuscito a liberarsi le mani. Avrebbe potuto togliersi il bavaglio e andarsene in giro a esaminare la stanza, che trovava estremamente interessante per le eleganti spade appese alla parete, per uno scudo e un baule ricolmo di mappe. Fissò con sguardo bramoso queste ultime e i suoi piedi stavano per muoversi in quella direzione, ma la curiosità di vedere che cosa contenesse il fagotto del Cavaliere era tale che restò incollato alla sedia. Gerard stava impiegando un'eternità per aprirlo; anzi, sembrava avere qualche problema con i nodi. Tas si sarebbe offerto di aiutarlo, ma in precedenza Gerard non sembrava avere apprezzato i suoi buoni intenti. Così si tenne occupato guardando i granelli di sabbia che cadevano in una clessidra e cercando di contarli. Ma non era facile, poiché i granelli cadevano alquanto velocemente e spesso in gruppi di due o tre alla volta. Era arrivato circa a cinquemilasettecentrotrentasei, quando la sabbia finì. Gerard stava ancora litigando con i nodi. Lord Warren allungò la mano e voltò la clessidra. Tas riprese a contare. «Uno, due, trequattrocinque...» «Finalmente!» mormorò Gerard, slegando il fagotto. Tas smise di contare i granelli di sabbia e allungò il collo per vedere meglio. Gerard arrotolò i lembi del sacco intorno all'oggetto, facendo attenzione,
come osservò Tas, a non toccarlo. Oro e pietre preziose brillarono e scintillarono sotto i raggi del sole quasi al tramonto. Tas era così eccitato che saltò giù dalla sedia e si strappò il bavaglio dalla bocca. «Hei!» gridò, allungando la mano. «È come il mio! Dove l'hai preso? Parla!» esclamò, osservando attentamente l'oggetto. «Ma è il mio!» Gerard chiuse la mano su quella del kender, che si trovava ormai a pochi centimetri dal prezioso monile. Lord Warren lo fissava a bocca aperta. «L'ho trovato nella tasca del kender, signore», spiegò Gerard. «La scorsa notte, quando gli abbiamo dato la caccia e poi lo abbiamo rinchiuso in prigione. Prigione che, devo ammettere, non è a prova di kender come pensavamo. Non ne sono certo, dopo tutto non sono un mago, ma l'aggeggio sembra essere magico. Alquanto magico.» «È magico», esclamò Tasslehoff con orgoglio. «È così che sono arrivato qui. Apparteneva a Caramon, ma lui aveva sempre paura che qualcuno lo rubasse e ne facesse un cattivo uso, io stesso non riesco a immaginare chi potrebbe fare una cosa simile. Mi offrii di custodirlo ma Caramon non volle, poiché riteneva che dovesse essere conservato in un luogo veramente sicuro. Allora si fece avanti Dalamar; Caramon glielo diede e lui...» Tas si interruppe, perché nessuno lo ascoltava. Lord Warren aveva tolto le mani dalla scrivania. L'oggetto aveva le dimensioni di un uovo ed era incastonato di luccicanti pietre. Da un attento esame, si accorsero che era costituito da una miriade di piccole parti che sembravano semoventi. Lord Warren lo osservò con circospezione. Nel frattempo, Gerard teneva bloccato il kender. Il sole era ormai basso all'orizzonte, i raggi filtravano obliqui attraverso i vetri. Una fresca penombra invase l'ufficio. L'oggetto emanava una propria luce, scintillante. «Non ho mai visto niente del genere», commentò lord Warren attonito. «Neanch'io, signore», disse Gerard. «Ma Laura sì.» Sua Signoria sollevò lo sguardo, sorpreso. «Mi ha detto che il padre aveva un oggetto come questo. Lo teneva sotto chiave in un nascondiglio segreto in una stanza della taverna dedicata alla memoria di Raistlin, il fratello gemello. Ricorda perfettamente il giorno in cui, alcuni mesi prima dello scoppio della Guerra del Caos, il padre ha preso l'oggetto dal nascondiglio segreto e lo ha dato a...» Gerard si fermò. «Dalamar?» esclamò lord Warren, incredulo. Guardò nuovamente il gioiello. «Il padre le ha spiegato quali proprietà magiche possiede?» «Le ha raccontato che gli era stato dato da Par-Salian, che grazie alle sue
proprietà magiche aveva viaggiato indietro nel tempo.» «È vero», s'intromise Tasslehoff. «Sono andato con lui. Ecco perché sapevo come funzionava. Vedete, mi era venuto in mente che forse non sarei sopravvissuto a Caramon...» Lord Warren disse una sola parola, con enfasi e sincerità. Tas ne fu impressionato. I Cavalieri non erano soliti dire cose simili. «Pensi sia possibile?» domandò lord Warren, posando lo sguardo su Tas e fissandolo come se gli fossero spuntate due teste. È chiaro che non ha mai visto un troll. Questa gente dovrebbe muoversi un po' di più, pensò il kender. «Pensi che questo sia il vero Tasslehoff Burrfoot?» «Caramon Majere pensava che lo fosse, signore.» L'alto ufficiale guardò nuovamente il misterioso oggetto. «È chiaramente un manufatto antico. Oggi nessun mago è in grado di creare un oggetto magico come questo. Persino io ne avverto il potere, e non sono certo un mago, cosa di cui ringrazio il fato.» Spostò ancora lo sguardo su Tas. «No, non è possibile. Il kender lo ha rubato e si è inventato questa bizzarra storia per nascondere il suo reato. Dobbiamo restituire l'oggetto ai maghi, logicamente e per ovvie ragioni, non al mago Dalamar.» Rifletté alcuni istanti, quindi riprese: «E comunque, è fondamentale tenere l'oggetto lontano dalle mani del kender. Dove si trova Palin Majere? Ritengo sia necessario consultarlo.» «Ma non potete impedire allo strumento di tornare nelle mie mani», sottolineò Tas. «È sempre tornato da me e così sarà anche questa volta. ParSalian - il grande Par-Salian, che ho avuto l'onore di conoscere - era molto rispettoso dei kender. Molto.» Così dicendo, fissò Gerard con sguardo severo, sperando che il Cavaliere capisse l'allusione. «Par-Salian ha detto a Caramon che l'oggetto è stato progettato magicamente per tornare sempre dalla persona che lo usa. Si tratta di una precauzione per impedire che si finisca proiettati nel tempo senza la possibilità di tornare a casa. Una particolarità che si è rivelata molto utile, visto che ho la tendenza a perdere le cose. Pensate che una volta ho perso addirittura un mammut. Mi trovavo...» «Sono d'accordo, signore», disse Gerard a voce alta. «Sta' zitto, kender. Parla quando sei interrogato.» «Scusate», intervenne ancora Tas, che iniziava ad annoiarsi. «Visto che non avete intenzione di ascoltarmi, posso dare un'occhiata alle mappe? Le adoro.»
Lord Warren agitò la mano. Tas si avvicinò al baule e si immerse nella lettura delle mappe, che erano veramente interessanti, ma più le guardava e più si sentiva confuso. Gerard abbassò la voce a un livello tale che non fu facile per Tas sentirlo. «Sfortunatamente, signore, Palin Majere si trova in missione segreta nel regno elfico di Qualinesti, per consultarsi con i maghi elfici. Incontri simili sono stati messi al bando dalla dragonessa Beryl e se venisse a sapere dove si trova il mago, la sua punizione sarebbe terribile.» «Eppure resto convinto che deve essere avvertito subito.» «Bisogna avvisarlo anche della morte del padre. Se mi concederete il permesso di partire, signore, mi assumerò l'impegno di portare il kender, e questo oggetto, a Qualinesti, dove li affiderò entrambi a Palin Majere, al quale darò inoltre la triste notizia della dipartita paterna. Parlerò a Palin della richiesta in punto di morte del padre e gli chiederò se ritiene che io debba assolvere l'incarico. Probabilmente mi solleverà dal compito.» L'espressione preoccupata di lord Warren si attenuò. «Hai ragione. Dobbiamo riporre la questione nelle mani del figlio. Se riterrà l'ultima richiesta del padre impossibile da soddisfare, potrai, con onore, rinunciare. Tuttavia, vorrei che non dovessi andare a Qualinesti. Non sarebbe più prudente aspettare il ritorno del mago?» «Non c'è modo di sapere quando questo avverrà, signore. Soprattutto ora che Beryl ha chiuso le strade. Ritengo la questione della massima urgenza. Inoltre», Gerard abbassò ulteriormente la voce, «avremmo dei problemi a tenere qui il kender per un tempo indefinito.» «Fizban mi ha detto di tornare subito indietro», li informò Tas. «Non devo vagabondare. Ma mi piacerebbe molto incontrare Palin e chiedergli perché il funerale era tutto sbagliato. Pensate che possa essere considerato "vagabondare"?» «Qualinesti si trova nel cuore del territorio di Beryl», stava dicendo lord Warren. «Quella terra è governata dai Cavalieri di Neraka, che sarebbero ben felici di mettere le mani su uno del nostro ordine. E se non saranno i Cavalieri di Neraka a catturarti e giustiziarti come spia, ci penseranno gli elfi. Un nostro esercito non può entrare in quel regno e sopravvivere.» «Non sto chiedendovi un esercito, signore. Non voglio una scorta», affermò Gerard in tono deciso. «Preferirei viaggiare da solo. Veramente», aggiunse con enfasi. «Vi chiedo il permesso di sollevarmi momentaneamente dai miei compiti, signore.» «Accordato, certo.» Lord Warren scosse la testa. «Anche se non so che
cosa dirà tuo padre.» «Dirà che è fiero di suo figlio, poiché voi gli riferirete che sono impegnato in una missione di estrema importanza per poter esaudire l'ultimo desiderio espresso da un uomo moribondo.» «Stai per metterti in una situazione di grande pericolo», commentò lord Warren. «Non gli piacerà di sicuro. A tua madre poi...» Aggrottò la fronte all'idea. Gerard si eresse in tutta la persona. «Sono un Cavaliere da dieci anni, signore, e tutto ciò che ho dovuto fare è togliere la polvere di una tomba dai miei stivali. Mi dovete questa avventura, signore.» Lord Warren si alzò. «Ecco la mia decisione. La Misura ritiene sacro l'ultimo desiderio di una creatura in punto di morte. Il nostro onore ci impone di soddisfarlo, se possibile a essere mortale. Andrai a Qualinesti e ti consulterai con il mago Palin. Lo ritengo un uomo di giudizio e buon senso, per essere un mago, ovviamente. Non bisogna aspettarsi troppo. Tuttavia, ritengo che tu possa contare su di lui per stabilire il corretto comportamento da seguire. O, per lo meno, per portare via il kender e questo manufatto magico dalle nostre mani.» «Grazie, signore.» Gerard appariva incredibilmente felice. Certo che è felice, pensò Tasslehoff. Sta per recarsi in una terra sotto il dominio di un drago, che ha chiuso tutte le strade, e forse verrà catturato dai Cavalieri Scuri, che lo riterranno una spia e se tutto ciò non dovesse accadere, raggiungerà il regno degli elfi e incontrerà Palin, Laurana e Gilthas. Il piacevole pizzicore tanto familiare ai kender, un pizzicore al quale amavano abbandonarsi, iniziò a farsi sentire alla spina dorsale di Tasslehoff. In un baleno, il pizzicore si diffuse fino ai piedi, che iniziarono a prudere, sfrecciò nelle braccia fino alle dita, che iniziarono ad agitarsi, e su fino alla testa. Sentiva i capelli arricciarsi dall'eccitazione. Il pizzicore gli arrivò alle orecchie e, a causa del forte afflusso di sangue alla testa, Tasslehoff notò che la raccomandazione di Fizban di ritornare immediatamente iniziava a perdersi fra pensieri di Cavalieri Scuri, di spie e, soprattutto, della Strada. Inoltre, pensò, sir Gerard conta che io lo accompagni! Non posso deludere un Cavaliere. E poi c'è la faccenda di Caramon. Non posso deludere nemmeno lui, anche se cadendo dalle scale ha picchiato la testa una volta di troppo. «Verrò con te, sir Gerard», annunciò Tas con fare magnanimo. «Ci ho ri-
flettuto attentamente e non mi sembra di perdere tempo vagabondando. Si tratta di una ricerca. E sono sicuro che Fizban non avrà niente da ridire.» «Penserò a qualcosa da raccontare a tuo padre per calmarlo», stava dicendo lord Warren. «C'è niente che posso procurarti per questa missione? Come viaggerai? Sai che secondo le norme della Misura non ti è concesso celare la tua vera identità.» «Viaggerò come un Cavaliere, signore», replicò Gerard. «Vi do la mia parola.» Lord Warren lo fissò con sguardo indagatore. «Hai in mente qualcosa. No, non dirmelo. Meno ne so e meglio è.» Guardò l'oggetto luminoso sul tavolo e sospirò. «Magia e kender. Una combinazione che potrebbe essere fatale. Ti do la mia benedizione, figliolo.» Gerard avvolse l'oggetto magico nel fagotto. Lord Warren lasciò la scrivania per accompagnare il giovane alla porta, seguito da Tasslehoff. Prima di uscire, Gerard tolse numerose mappe che sembravano avere trovato una nuova dimora nella camicia del kender. «Le avevo prese perché venissero corrette», affermò Tas, guardando lord Warren con fare accusatorio. «I vostri disegnatori sono veramente scarsi. Hanno commesso molti errori. I Cavalieri Scuri non si trovano più a Palanthas. Li abbiamo cacciati via due anni dopo la fine della Guerra del Caos. E perché quel ridicolo cerchio, simile a una bolla, intorno a Silvanesti?» I Cavalieri, immersi in un'importante discussione legata alla missione di Gerard, non prestarono attenzione alle parole del kender. Tas estrasse una mappa che era riuscito a cacciare nei pantaloni e che in quel momento lo pungeva in un punto anatomicamente sensibile. La spostò dai pantaloni alla tasca e nel fare ciò le nocche sfiorarono un oggetto ovale, duro e affilato. Il Congegno per Viaggiare nel Tempo. Lo strumento, che lo avrebbe riportato alla sua epoca, era tornato da lui, come doveva essere. Era nuovamente in suo possesso. L'ordine severo di Fizban gli risuonò nelle orecchie. Guardò lo strumento, pensò a Fizban e rifletté sulla promessa fatta all'anziano mago. Non c'era che una cosa da fare. Tenendo ben stretto l'oggetto e facendo attenzione a non attivarlo, scivolò dietro a Gerard - totalmente assorbito dalla conversazione con lord Warren - e silenziosamente come solo un kender sapeva fare, riuscì a sfilare un lembo del fagotto facendovi scivolare dentro il dispositivo. «E resta lì!» gli ordinò in tono severo.
VII LA SCORCIATOIA DI BECKARD Situata sulla costa del Mare Nuovo, Sanction era il maggior porto per la parte nordorientale di Ansalon. Era una città antica, fondata molto prima del Cataclisma. Non si sa molto con certezza della sua storia tranne che, precedentemente a quest'ultimo, era stata un luogo piacevole in cui vivere. Molti si sono chiesti come abbia acquisito il suo strano nome. Racconta la leggenda che c'era una volta nel piccolo villaggio una donna anziana le cui opinioni erano ben note e rispettate. Dispute e disaccordi riguardo a qualunque cosa, dal possesso di barche ai contratti matrimoniali, le venivano sottoposti. Lei ascoltava tutte le parti e poi emetteva i suoi verdetti, famosi per essere equi e imparziali, saggi e ponderati. «L'ha sanzionato la vecchia» era la reazione ai suoi giudizi, e il paesino in cui risiedeva divenne noto come posto di autorità e di legge. Quando gli dei, nella loro collera, gettarono contro il mondo la montagna di fuoco, questa colpì il continente di Ansalon, facendolo a pezzi. L'acqua dell'Oceano di Sirrion sgorgò nelle crepe e nelle fenditure appena formate, creando un mare, cui i pragmatici diedero il nome appropriato di Mare Nuovo. I vulcani della Catena del Fato esplosero furiosamente, versando su Sanction fiumi di lava. Poiché l'umanità sempre resiste, pronta a volgere i disastri a proprio vantaggio, coloro che avevano un tempo lavorato la terra, raccogliendo fagioli e orzo, passarono dall'aratro alla rete, raccogliendo i frutti del mare. Piccoli villaggi di pescatori spuntarono sulla costa del Mare Nuovo. La gente di Sanction si spostò sulle spiagge, dove la brezza di terra portava via i fumi dei vulcani. La città prosperò, ma non crebbe significativamente finché non arrivarono le alte navi. Avventurosi marinai di Palanthas portarono le loro imbarcazioni nel Mare Nuovo, sperando di trovare un passaggio rapido e agevole per l'altra parte del continente, evitando così il lungo e insidioso viaggio verso nord attraverso il Mare di Sirrion. Le speranze dei ricognitori furono infrante: il passaggio non esisteva. Tuttavia, scoprirono un porto naturale a Sanction, un percorso terrestre non troppo difficile, e mercati che aspettavano la loro merce dall'altra parte dei Monti Khalkist. La città cominciò a fiorire, a espandersi e, come ogni bambino che cre-
sce, a sognare. Sanction si vide come un'altra Palanthas: famosa, solida, ricca. Ma i sogni non si avverarono. I Cavalieri Solamnici sorvegliavano Palanthas, la proteggevano, la governavano con il Giuramento e la Misura. Sanction apparteneva a chiunque avesse la forza e il potere di appropriarsene. La città crebbe testarda e viziata, senza codici, senza leggi, e con un mucchio di denaro. Sanction non era schizzinosa sui suoi compagni: accoglieva gli avidi, i rapaci, i privi di scrupoli. Ladri e briganti, truffatori e prostitute, imbroglioni e assassini la chiamavano casa. Venne il tempo in cui Takhisis, Regina delle Tenebre, cercò di ritornare nel mondo. Radunò eserciti per conquistare Ansalon nel suo nome. Ariakas, loro generale, riconobbe il valore strategico di Sanction per Neraka, città santa della Regina, e per l'avamposto militare di Khur. Lord Ariakas marciò con le truppe su Sanction, e conquistò la città, che oppose scarsa resistenza. Lì costruì templi alla sua Regina, e stabilì il suo quartier generale. I Signori del Fato, i vulcani che circondavano Sanction, sentirono il calore dell'ambizione della Regina ribollire sotto di loro, e tornarono alla vita. Emisero torrenti di lava, che la notte accendevano la città di un bagliore rosseggiante. Il terreno tremava e vibrava. Le taverne di Sanction persero una fortuna in terraglie rotte, e cominciarono a servire il cibo su piatti di latta, e le bevande in tazze di legno. L'aria era velenosa, densa di fumi solforosi. Stregoni dalle vesti nere lavoravano costantemente per mantenere abitabile la città. Takhisis partì alla conquista del mondo, ma alla fine il suo sogno andò in fumo. I suoi generali litigarono, si attaccarono l'un l'altro. L'amore e l'abnegazione, la lealtà e l'onore prevalsero. Le pietre di Neraka giacquero distrutte e maledette nell'oscura vallata che portava a Sanction. I Cavalieri Solamnici marciarono sulla città; se ne impadronirono dopo una battaglia campale con i suoi abitanti. Riconoscendo l'importanza strategica e finanziaria di Sanction per quella parte di Ansalon, vi stabilirono una forte guarnigione. Abbatterono i templi del male, incendiarono i mercati di schiavi, demolirono i bordelli. Il Conclave degli Stregoni mandò dei maghi perché continuassero a purificare l'aria velenosa. Quando, una ventina d'anni dopo, i Cavalieri di Takhisis cominciarono ad accumulare potere, Sanction occupava uno dei primi posti nella lista delle loro priorità. Avrebbero potuto espugnarla. Anni di pace avevano reso assonnati e annoiati i Cavalieri Solamnici, che dormicchiavano nelle lo-
ro postazioni. Ma prima che i Cavalieri Scuri potessero attaccare Sanction, la Guerra del Caos distolse la loro attenzione, e risvegliò i Solamnici, allontanandoli. La guerra del Caos finì. Gli dei se ne andarono. Gli abitanti di Sanction si resero conto della loro sparizione. Anche la magia - così come l'avevano conosciuta - era sparita. Chi era sopravvissuto alla guerra ora rischiava la morte per asfissia, per colpa dei fumi nocivi. La gente fuggì dalla città, corse alle spiagge per respirare la limpida aria di mare. E così, per qualche tempo, Sanction tornò al punto di partenza. Uno stregone strano e misterioso di nome Hogan Bight non solo le restituì la gloria primitiva, ma l'aiutò a superare se stessa. Fece quel che nessun altro mago era stato in grado di fare: non solo ripulì l'aria, ma allontanò la lava dalla città. L'acqua, fresca e pura, scorreva dalle cime innevate. E si poteva uscire e tirare un respiro profondo senza piegarsi in due tossendo e ansimando. Più vecchia e più saggia, Sanction divenne prospera, ricca e rispettabile. Sotto la protezione e l'incoraggiamento di Bight, mercanti buoni e onesti vi si trasferirono. Sia i Cavalieri Solamnici che i Cavalieri di Neraka avvicinarono Bight, e ciascuna parte si offrì di stabilirsi in città, fornendo protezione contro l'altra. Bight diffidò di entrambe, e a entrambe rifiutò l'accesso. Furenti, i Cavalieri di Neraka obiettarono che Sanction faceva parte della terra data loro dal Concilio in cambio dei servizi da loro resi durante la Guerra del Caos. I Cavalieri di Solamnia non smisero di cercare di negoziare con Bight, che continuò a rigettare tutte le loro offerte di aiuto. Nel frattempo i Cavalieri Scuri, che ora si chiamavano Cavalieri di Neraka, crescevano in forza, in ricchezza e in potere, perché erano loro a raccogliere il tributo dovuto ai draghi. Guardavano Sanction come il gatto guarda la tana del topo. Da tempo concupivano il porto che avrebbe concesso loro una base operativa da cui salpare per assicurarsi il dominio di tutte le terre intorno al Mare Nuovo. Vedendo che i topi erano occupati a mordersi e a graffiarsi l'un l'altro, il gatto balzò sulla preda. I Cavalieri di Neraka assediarono Sanction. Si aspettavano che l'assedio durasse a lungo: non appena essi avessero attaccato la città, le parti divise si sarebbero riunite a sua difesa. Tuttavia, i Cavalieri erano pazienti. Non potevano sottomettere la città con la fame; c'era chi forzava il blocco e continuava a portare provviste. Ma i Cavalieri di Neraka potevano chiudere tutte le vie commerciali di terra; così strangolarono i mercanti e portaro-
no alla rovina l'economia di Sanction. Pressato dalle richieste degli abitanti, Hogan Bight aveva concesso nell'ultimo anno ai Cavalieri Solamnici di inviare una forza che sostenesse le sempre più deboli difese della città. All'inizio, i Cavalieri furono accolti come salvatori. La gente di Sanction si aspettava che essi avrebbero immediatamente posto fine all'assedio. I Solamnici risposero che dovevano studiare la situazione. Dopo mesi in cui avevano visto i Solamnici intenti allo studio, di nuovo gli abitanti li incitarono a rompere l'assedio. I Cavalieri replicarono che erano troppo pochi: avevano bisogno di rinforzi. La notte, gli assedianti bombardavano la città di massi e di balle di fieno infuocate, lanciati dalle catapulte. Il fieno ardente appiccava fuochi, i massi lasciavano buchi negli edifici. La gente moriva, proprietà venivano distrutte. Nessuno riusciva a farsi una bella dormita. Come previsto dai capi dei Cavalieri di Neraka, l'eccitazione e il fervore degli abitanti di Sanction, che ribollivano nei loro primi atti di difesa, si raffreddarono man mano che l'assedio si trascinava, mese dopo mese. I cittadini criticarono i Solamnici, chiamandoli vigliacchi. I Cavalieri diedero loro delle teste calde che li avrebbero fatti morire tutti per niente. Sentendo dalle loro spie che l'unità cominciava a incrinarsi, i Cavalieri di Neraka presero a radunare le forze per un attacco radicale, completo. I loro capi aspettavano solo il segno che le spaccature fossero penetrate nel cuore del nemico. A est di Sanction si trovava una grande vallata nota come Valle di Zhakar. All'inizio dell'assedio, i Cavalieri di Neraka avevano acquisito il controllo di quest'ultima, e di tutti i passaggi che la collegavano a Sanction. Nascosta fra le colline ai piedi dei Monti Zhakar, la valle veniva usata dai Cavalieri come zona di attestamento per i loro eserciti. «La Valle di Zhakar è la nostra meta», dichiarò Mina ai suoi Cavalieri. Ma quando le chiesero perché, e che cosa avrebbero fatto lì, lei rispose soltanto: «Siamo chiamati». Mina e le sue forze arrivarono a mezzogiorno. Il sole era alto in un cielo limpido, e sembrava fissare tutto quanto ai suoi piedi con avida aspettativa, un'aspettativa che risucchiava il vento, lasciando l'aria calda e immobile. Mina fece arrestare il suo piccolo gruppo all'entrata della valle. Proprio davanti a loro, dall'altra parte della valle, c'era un passaggio noto come «Scorciatoia di Beckard»; attraverso di essa, i Cavalieri potevano vedere la città assediata, e una piccola parte del muro che circondava Sanction. Fra loro e Sanction stava l'esercito dei Cavalieri di Neraka. Un'altra città era spuntata nella valle, una città di tende e di fuochi di accampamento, di car-
ri e di animali da tiro, di soldati e di civili al seguito. A quanto pareva, Mina e i suoi Cavalieri erano arrivati in un momento propizio. Il campo dei Cavalieri di Neraka risuonava di acclamazioni. Trombe squillavano, ufficiali gridavano, compagnie si formavano sulla strada. Già le forze di testa marciavano per la scorciatoia, dirette a Sanction; e altre vi si accodavano in fretta. «Bene», osservò Mina. «Siamo in tempo.» Lanciò il cavallo al galoppo giù per la strada ripida. I Cavalieri la seguirono; sentivano nelle trombe la melodia del canto udito nel sonno. I cuori martellavano, le pulsazioni acceleravano, ma essi non avevano idea del perché. «Scopri che cosa succede», ingiunse Mina a Galdar. Il minotauro agguantò il primo ufficiale a portata di mano, lo interrogò. Tornò da Mina strofinandosi le mani con un gran sorriso. «I maledetti Solamnici hanno lasciato la città!» riferì. «Lo stregone che governa Sanction li ha sbattuti fuori, li ha presi a calci nel sedere, li ha mandati a farsi friggere. Se guardi», Galdar si girò, indicò la Scorciatoia di Beckard «puoi vedere le loro navi, quei puntini neri all'orizzonte.» I Cavalieri agli ordini di Mina cominciarono ad applaudire. Mina guardò le navi lontane, ma non sorrise. Foxfire si muoveva irrequieto, scuoteva la criniera e raspava il terreno con le zampe. «Ci hai portato qui giusto in tempo, Mina», continuò Galdar con entusiasmo. «Gli assedianti si preparano a lanciare l'assalto finale. In questo giorno, berremo il sangue di Sanction; e questa notte, berremo la sua birra!» Gli uomini risero. Mina non disse niente; la sua espressione non rivelava né esaltazione né gioia. Gli occhi ambra vagavano per l'accampamento, in cerca di qualcosa che non trovavano, a quanto pareva, perché un piccolo cipiglio le apparve fra le sopracciglia. Arricciò le labbra dal disappunto. Continuò l'osservazione e, finalmente, si rasserenò in viso. Annuì fra sé e batté Foxfire sul collo, per calmarlo. «Galdar, vedi quella compagnia di arcieri laggiù?» Galdar guardò, li trovò, e indicò a gesti di sì. «Non portano la divisa dei Cavalieri di Neraka.» «Si tratta di una compagnia mercenaria», spiegò Galdar. «Sono pagati da noi, ma combattono sotto i propri ufficiali.» «Ottimo. Portami qui il loro comandante.» «Ma, Mina, perché...»
«Fa' come ti ho detto, Galdar», ordinò lei. I suoi Cavalieri, riuniti alle sue spalle, si scambiarono occhiate stupefatte, e scrollarono le spalle meravigliati. Galdar era in procinto di protestare. Stava per incitare Mina a lasciarlo partecipare all'ultimo slancio verso la vittoria, invece di mandarlo a compiere uno stupido incarico. Una vibrazione, un pizzicorio gli intorpidirono il braccio, come se avesse preso un colpo nell'"osso buffo". Per un momento terrificante, non riuscì a muovere le dita. I nervi pungevano e formicolavano. La sensazione se ne andò in un attimo, lasciandolo scosso. Solo un nervo schiacciato, probabilmente, ma gli ricordò quanto doveva a Mina. Galdar inghiottì le sue obiezioni e andò a svolgere il suo compito. Tornò con il comandante degli arcieri, un uomo maturo, sui quaranta, con le braccia straordinariamente robuste di chi tira con l'arco. L'ufficiale mercenario aveva un'espressione cupa, ostile. Non sarebbe affatto voluto venire, ma è difficile dire di no a un minotauro che torreggia su di te con spalle, testa, e corna, e che insiste perché tu lo accompagni. Mina portava l'elmo, con la visiera alzata. Una mossa saggia, pensò Galdar. L'elmo ombreggiava il viso giovane, da ragazza. «Quali sono i tuoi ordini, caposquadra?» chiese Mina. La voce risuonò fredda e dura come il metallo. Il comandante, per nulla intimidito, guardò il Cavaliere con un certo disprezzo. «Non sono un maledetto "caposquadra", signor Cavaliere», replicò, con una maligna, sarcastica enfasi sulla parola "signor". «Detengo il titolo di capitano dei miei uomini, e non prendiamo ordini da voi. Solo soldi. Facciamo quel che ci pare e piace.» «Parla educatamente al caposquadra», ringhiò Galdar, e diede all'ufficiale uno spintone che lo face barcollare. L'uomo girò su se stesso, fulminò il minotauro con lo sguardo, e allungò la mano verso la spada corta. Galdar afferrò la propria spada. I suoi compagni sguainarono le lame con stridore. Mina non si mosse. «Quali sono i tuoi ordini, capitano?» chiese di nuovo. Vedendosi schiacciato numericamente, l'ufficiale rinfoderò la spada, con movimenti lenti e studiati, per dimostrare che non era stupido, ma non rinunciava alla sfida. «Aspettare finché non viene lanciato l'assalto e poi tirare alle guardie sulle mura, signore», rispose accigliato, aggiungendo poi in tono astioso: «Saremo gli ultimi a entrare in città, il che significa che tutti i bocconcini
scelti saranno già spariti.» Mina lo guardò pensierosa. «Hai poco rispetto per i Cavalieri di Neraka o per la nostra causa.» «Quale causa?» Il comandante scoppiò in una breve risata, simile a un latrato. «Riempire i vostri forzieri? Non vi importa di altro. Voi e le vostre stupide visioni.» Sputò a terra. «Tuttavia, un tempo eri uno di noi, capitano Samuval. Una volta, eri un Cavaliere di Takhisis», obiettò Mina. «Te ne sei andato perché la causa per cui ti eri associato era sparita. Te ne sei andato perché non credevi più.» Il capitano sgranò gli occhi, i muscoli della faccia gli cascarono. «Come puoi...» Serrò la bocca di scatto. «E allora?» grugnì. «Non ho disertato, se è questo che pensi. Ho pagato per uscire; ho le mie carte...» «Se non credi nella nostra causa, perché continui a combattere per noi, capitano?» indagò Mina. Samuval sbuffò. «Oh, ci credo nella vostra causa, sicuro», ribatté con aria di scherno. «Credo nel denaro, proprio come tutti voi.» In sella al suo cavallo, ancora fermo e calmo sotto la sua mano, Mina guardò attraverso la Scorciatoia di Beckard, fissò la città di Sanction. Galdar ebbe la strana, improvvisa sensazione che potesse penetrare le sue mura, penetrare l'armatura di coloro che la difendevano, penetrare la loro carne e le loro ossa fino al cuore e alla mente, proprio come aveva fatto con lui. E con il capitano. «Nessuno entrerà a Sanction oggi, capitano Samuval», mormorò Mina. «Saranno gli avvoltoi a trovare i "bocconcini scelti". Le navi che vedete allontanarsi non sono piene di Cavalieri Solamnici. Le truppe allineate sui ponti sono in realtà fantocci di paglia con la loro armatura. È tutta una trappola.» Galdar spalancò gli occhi, inorridito. Le credeva. Le credeva come se avesse ispezionato le navi, o visto dentro le mura l'esercito nemico nascosto, pronto a colpire. «Come fai a saperlo?» domandò il capitano. «E se ti dessi qualcosa in cui credere, capitano Samuval?» chiese lei, invece di rispondere. «Se ti rendessi l'eroe di questa battaglia? Giureresti lealtà a me?» Fece un leggero sorriso. «Non ho denaro da offrirti. Ho solo questa certezza che divido liberamente con te: combatti per me e oggi arriverai a conoscere l'unico vero dio.» Il capitano Samuval la fissò muto e stupefatto. Sembrava attonito, come colpito da un fulmine.
Mina tese le mani scorticate e sanguinanti, con i palmi aperti. «Ti viene offerta una scelta, capitano Samuval. In una mano tengo la morte; nell'altra, la gloria. Quale vuoi?» Samuval si grattò la barba. «Sei un tipo strano, caposquadra. Non somigli a nessuno dei tuoi simili che ho incontrato finora.» Riportò lo sguardo sulla Scorciatoia di Beckard. «Fra gli uomini si è sparsa la voce che la città è abbandonata», proseguì Mina. «Hanno sentito che si arrenderà, aprendo le porte. Sono diventati una massa disordinata, e andranno incontro alla loro rovina.» Diceva la verità. Ignorando le grida degli ufficiali, che tentavano invano di mantenere qualche parvenza di ordine, i fanti avevano rotto le righe. Galdar guardò l'esercitò disintegrarsi, diventare in un attimo un'orda indisciplinata che irrompeva nella scorciatoia, ansiosa di uccidere, avida di bottino. Il capitano Samuval sputò di nuovo, disgustato. Con aria cupa, rimise gli occhi su Mina. «Che cosa vuoi che faccia, caposquadra?» «Prendi i tuoi arcieri e disponili su quella cresta laggiù. La vedi?» Mina indicò una collina che sovrastava la Scorciatoia di Beckard. «La vedo», rispose lui, guardandosi alle spalle. «E che cosa faremo una volta che ci saremo?» «I miei Cavalieri e io ci sistemeremo lì. Quando saremo arrivati, aspetterete i miei ordini», spiegò Mina. «E quando ve li daremo, obbedirete senza discussioni.» Tese la mano, la mano macchiata di sangue. Era quella che teneva la vita o quella che teneva la morte? si chiese Galdar. Forse il capitano Samuval si poneva la stessa domanda, perché esitò prima di stringerla, infine, nella sua. La sua mano era grande, marrone, sporca, con i calli provocati dalla corda dell'arco. Quella di lei era piccola, dal tocco leggero; aveva il palmo pieno di vesciche, incrostato di sangue. Tuttavia, fu il capitano a trasalire leggermente. Quando lei lo lasciò, si guardò la mano, strofinandola sul corsetto di cuoio, come per mandar via il dolore di una puntura, o di un'ustione. «Affrettati, capitano», gli ingiunse Mina. «Non abbiamo molto tempo.» «E tu chi saresti, signor Cavaliere?» indagò il capitano. Si stava ancora massaggiando la mano. «Io sono Mina», replicò lei. Afferrando le redini, le tirò bruscamente. Foxfire si girò. Mina gli conficcò gli speroni nei fianchi, puntò al galoppo verso la cresta sopra la Scor-
ciatoia di Beckard. I suoi Cavalieri la seguirono. Galdar corse accanto alla sua staffa, muovendo ritmicamente le gambe per mantenere il passo. «Come fai a sapere che il capitano Samuval ti obbedirà, Mina?» ruggì il minotauro sopra lo scalpiccio dei cavalli. Lei abbassò lo sguardo su di lui e sorrise. Gli occhi ambra luccicavano all'ombra dell'elmo. «Obbedirà», rispose, «se non altro per dimostrare il suo disprezzo verso i suoi superiori e i loro stupidi comandi. Ma il capitano è un uomo affamato, Galdar. Brama del cibo. Gli hanno dato fango per riempirsi la pancia; io gli darò carne. Carne per nutrirsi l'anima.» Mina si piegò sul suo cavallo, spingendolo a galoppare ancora più in fretta. La Compagnia di Arcieri del capitano Samuval prese posto sulla cresta che sovrastava la Scorciatoia di Beckard. Si trattava di centinaia di professionisti forti e ben addestrati, che avevano già combattuto in molte delle guerre di Neraka. Usavano l'arco lungo degli elfi, tanto apprezzato fra gli arcieri. Stavano stretti l'uno contro l'altro, piede contro piede, senza grande spazio di manovra, perché la cresta non era molto estesa. Erano di pessimo umore. Guardando l'esercito dei Cavalieri di Neraka piombare su Sanction, borbottavano che non sarebbe rimasto più niente per loro: le donne più belle sarebbero state portate via, le case più ricche saccheggiate. Tanto valeva che se ne tornassero a casa. Sopra di loro, si addensavano le nubi; nubi grigie e turbolente che ribollivano sui Monti Zhakar e cominciavano a discendere per il fianco della montagna. L'accampamento dell'esercito era ormai vuoto, tranne che per le tende, i carri delle provviste e alcuni feriti, che non erano potuti andare con i fratelli e maledicevano la propria sfortuna. Il clamore della battaglia si allontanava. Le montagne circostanti e le nubi sempre più basse deviavano i suoni dell'attacco; la valle era avvolta da un silenzio soprannaturale. Gli arcieri guardarono con aria cupa il capitano, che guardò impaziente Mina. «Quali sono i tuoi ordini, caposquadra?» chiese. «Aspettate.» Aspettarono. L'esercito si riversò sulle mura di Sanction, picchiò contro la porta. Il rumore e il trambusto erano un brontolio distante. Mina si tolse l'elmo, si passò la mano fra i capelli rosso scuro, tagliati a spazzola. Sedeva in sella con la schiena diritta e il mento sollevato. Il suo sguardo non era
su Sanction ma sul cielo sopra di loro, che andava rapidamente scurendosi. Gli arcieri sgranarono gli occhi, stupefatti dalla sua giovinezza e dalla sua strana bellezza. Lei non badò ai loro sguardi fissi, non sentì le rozze osservazioni inghiottite dal silenzio che scaturiva dalla valle. Gli uomini trovavano nel silenzio qualcosa di minaccioso. Quelli che continuavano a sparare commenti lo facevano per pura spacconeria, ed erano immediatamente zittiti dai loro inquieti compagni. Un'esplosione scosse la terra intorno a Sanction, distrusse il silenzio. Le nubi si agitarono, la luce del sole svanì. I gongolanti ruggiti di vittoria dell'esercito di Neraka si interruppero bruscamente. Urla di trionfo diventarono stridule grida di panico. «Che cosa succede?» domandarono gli arcieri, cui si era sciolta la lingua. Tutti parlavano contemporaneamente. «Riuscite a vedere?» «Silenzio fra le righe!» ordinò il capitano Samuval. Uno dei Cavalieri, posto come osservatore vicino alla scorciatoia, galoppò verso di loro. «Era una trappola!» gridò, quand'era ancora a qualche distanza. «La porta di Sanction si è aperta davanti alle nostre forze, ma solo per vomitare fuori i Solamnici! Ce ne saranno un migliaio. Alla loro testa cavalcano degli stregoni, somministrando la morte con i loro maledetti trucchi!» L'uomo fermò il suo cavallo eccitato. «Hai detto la verità, Mina!» La sua voce era piena di reverente timore. «Un'enorme esplosione di magia ha ucciso centinaia dei nostri fin dall'inizio. I loro corpi giacciono ardenti sul terreno. I nostri soldati fuggono! Corrono da questa parte, ritirandosi attraverso la scorciatoia. È una disfatta!» «Tutto è perduto, allora», commentò il capitano Samuval, pur guardando Mina con aria strana. «Le forze solamniche spingeranno l'esercito dentro la valle. Saremo presi fra l'incudine delle montagne e il martello dei Solamnici.» Le sue parole si dimostrarono veritiere. Gli scaglioni posteriori già irrompevano per la Scorciatoia di Beckard. Molti non avevano idea di dove stessero andando; volevano solo allontanarsi dal sangue e dalla morte. Alcuni fra i meno confusi e più calcolatori si dirigevano verso la stretta strada che portava a Khur, attraverso le montagne. «Uno stendardo!» esclamò Mina, con urgenza. «Trovatemi uno stendardo!» Il capitano Samuval prese la sciarpa bianca, sporca, che portava al collo e gliela porse. «Prego, prendi questa, Mina.»
Mina l'afferrò, chinò la testa. Mormorando parole che nessuno poteva udire, baciò la sciarpa e la passò a Galdar. Il tessuto bianco era macchiato del rosso proveniente dalle vesciche aperte sulle sue mani. Uno dei Cavalieri offrì la sua lancia; Galdar vi legò la sciarpa insanguinata e diede la lancia a Mina. Facendo girare Foxfire, lei lo portò su per le rocce, fino a un alto promontorio, e tenne alto lo stendardo. «A me, uomini!» gridò. «A Mina!» Le nubi si aprirono. Una pagliuzza di sole uscì dai cieli, toccò solo Mina in sella al suo cavallo. L'armatura nera sfavillò come immersa nelle fiamme, gli occhi ambra brillarono, accesi dall'interno della luce della battaglia. Il suo richiamo, uno squillo di chiarina, arrestò i soldati in fuga. Guardarono da dove proveniva, e videro Mina circondata da un alone di fuoco, rosseggiante come un falò sulla collina. I soldati fermarono la loro folle corsa, e alzarono gli occhi, stupefatti. «A me!» gridò ancora Mina. «Oggi la gloria sarà nostra!» I soldati esitarono, poi uno avanzò verso di lei, arrancando e scivolando sul pendio. Lo seguirono un altro e un altro ancora, lieti di avere di nuovo uno scopo e una direzione. «Portami qui quegli uomini», ingiunse Mina a Galdar, indicando un altro gruppo di soldati in piena ritirata. «Il maggior numero possibile. Abbi cura che siano armati. Mettili in formazione di combattimento sulle rocce quaggiù.» Galdar eseguì. Lui e gli altri cavalieri bloccarono la strada ai soldati, ordinarono loro di unirsi ai compagni che cominciavano a formare una plaga scura ai piedi di Mina. Sempre più uomini si riversavano per la scorciatoia. In mezzo a loro si trovavano i Cavalieri di Neraka; alcuni facevano coraggiosi tentativi di arrestare la ritirata, altri si univano ai fanti nel correre a più non posso. Dietro venivano i Cavalieri Solamnici con la loro armatura di argento splendente, e i loro cimieri dalle piume bianche. Una luce argentea, mortale lampeggiava; ovunque apparisse, gli uomini appassivano e morivano nel suo calore magico. I Cavalieri Solamnici entrarono nella scorciatoia, spingendo le forze dei Cavalieri di Neraka come bestiame, verso il massacro. «Capitano Samuval», gridò Mina, portando il cavallo giù per la collina, con lo stendardo che le ondeggiava alle spalle. «Ordina ai tuoi uomini di tirare.» «I Solamnici non sono a portata di tiro», ribatté lui, scuotendo la testa
davanti alla sua stupidità. «Qualunque idiota può vederlo.» «Il tuo obiettivo non sono i Solamnici, capitano», replicò freddamente Mina. Indicò le forze dei Cavalieri di Neraka che irrompevano per la scorciatoia. «Quelli sono i tuoi obiettivi.» «I nostri uomini?» il capitano Samuval la fissò. «Tu sei pazza!» «Guarda il campo di battaglia, capitano», disse Mina. «È l'unico modo.» Il capitano obbedì. Si asciugò il viso con la mano, poi diede l'ordine. «Arcieri, tirate.» «A quale bersaglio?» domandò uno. «Avete sentito Mina!» esclamò severamente il capitano. Afferrando un arco da uno dei suoi uomini, incoccò una freccia e tirò. La freccia bucò la gola di uno dei Cavalieri di Neraka, che cadde da cavallo all'indietro e fu calpestato dalla ressa dei compagni in ritirata. La Compagnia degli Arcieri si scatenò. Centinaia di frecce - ciascuna tirata a bruciapelo con mira esatta e calcolata - riempirono l'aria di un ronzio letale. La maggior parte andò a segno. I fanti si stringevano il petto e cadevano a terra. I dardi piumati colpivano attraverso le visiere alzate dei Cavalieri, o li prendevano alla gola. «Continuate a tirare, capitano», ordinò Mina. Altre frecce volarono. Altri corpi caddero. I soldati, in preda al panico, si resero conto che ora le frecce venivano dal davanti. Esitarono, si fermarono, cercando di scoprire dove fosse questo nuovo nemico. I loro compagni cozzarono contro di loro da dietro, spinti alla follia dai Cavalieri Solamnici in rapido avvicinamento. Le ripide pareti della Scorciatoia di Beckard precludevano ogni via di fuga. «Tirate!» gridò selvaggiamente il capitano, preso dalla foga dell'uccidere. «Per Mina!» «Per Mina!» ripeterono gli arcieri, e tirarono. Le frecce ronzavano con precisione mortale, colpivano i bersagli con un rumore sordo. Gli uomini urlavano e cadevano. I morenti cominciavano a impilarsi nella scorciatoia come orribili cataste di legno, formando una barricata imbevuta di sangue. Un ufficiale venne, rabbioso, verso di loro, con la spada in mano. «Idiota!» gridò al capitano Samuval. «Da chi hai preso ordini? Stai tirando sui nostri uomini!» «Io gli ho dato l'ordine», proclamò Mina, calma. Furibondo, il Cavaliere l'avvicinò. «Traditore!» Alzò la spada. Mina sedeva immobile sul suo cavallo. Non prestò attenzione al Cava-
liere; era attenta al massacro che si svolgeva ai suoi piedi. Galdar assestò un pugno micidiale sull'elmo del Cavaliere e questi, con il collo rotto, rotolò giù per il pendio. Succhiandosi le nocche ammaccate, Galdar alzò lo sguardo verso Mina. Rimase stupefatto nel vedere le lacrime scorrerle incontrollate lungo le guance. Con la mano stringeva il medaglione che portava al collo, e muoveva le labbra, come in preghiera. Attaccati dal davanti, attaccati da dietro, i soldati dentro la Scorciatoia di Beckard cominciarono a girare in tondo disordinatamente. Quelli della retroguardia si trovavano di fronte a una scelta terribile. Potevano essere trafitti dalle lance solamniche, oppure voltarsi e combattere. Si girarono verso il nemico, battendosi con la ferocia di chi è disperato, messo con le spalle al muro. I Solamnici continuavano a combattere, ma la loro carica era più lenta e, alla lunga, si arrestò. «Cessate il fuoco!» ordinò Mina. Porse lo stendardo a Galdar. Prendendo la Stella del mattino, la tenne alta sopra la testa. «Cavalieri di Neraka! È giunto il nostro momento! Oggi andiamo verso la gloria!» Foxfire diede un gran balzo e galoppò giù per il pendio, portando Mina diritta verso l'avanguardia dei Cavalieri Solamnici. Così veloce era il cavallo, così rapido lo spostamento di Mina, che lei si lasciò dietro i propri Cavalieri; a bocca aperta, la guardarono andare verso la propria rovina. Poi Galdar alzò lo stendardo bianco. «La morte è certa!» tuonò il minotauro. «Ma così è la gloria! Per Mina!» «Per Mina!» gridarono i Cavalieri con voce cupa, profonda, e scesero giù per la collina. «Per Mina!» urlò il capitano Samuval, lasciando cadere l'arco e sguainando la spada corta. Lui e l'intera Compagnia degli Arcieri si lanciarono nella mischia. «Per Mina!» ripeterono i soldati, che si erano raccolti intorno allo stendardo. Abbracciando la sua causa, le corsero dietro, come un'oscura cascata di morte che rombava per la collina. Galdar si precipitò giù per il pendio; voleva disperatamente raggiungere Mina, proteggerla e difenderla. Non era mai stata in battaglia. Era impreparata, inesperta. Sicuramente sarebbe morta. Facce nemiche incombevano su di lui. Spade lo tagliavano, lance lo trafiggevano, frecce lo pungevano. Lui allontanò le spade, ruppe le lance, ignorò le frecce. Erano meri fattori irritanti, che lo separavano dal suo scopo. Perse Mina e poi la ritrovò,
completamente circondata dal nemico. Galdar vide un Cavaliere cercare di infilzarla con la spada. Lei distolse il colpo, lo aggredì con la Stella del mattino: al primo tentativo, gli spaccò l'elmo; al secondo, la testa. Ma mentre combatteva contro di lui, un altro veniva ad attaccarla alle spalle. Galdar urlò un avvertimento, anche se sapeva, disperato, che lei non poteva sentirlo. Combatté ferocemente per raggiungerla, abbattendo coloro che si trovavano fra lui e il suo comandante. Ormai, non vedeva più i loro volti, ma solo le strisce di sangue lasciate dalla sua spada impazzita. Teneva lo sguardo fisso su di lei, ardendo di furore. Sentì il suo cuore fermarsi nel vederla sbalzata da cavallo. Combatté più impetuosamente che mai, nel tentativo affannoso di salvarla. Un colpo assestato da dietro lo tramortì; cadde in ginocchio. Cercò di rialzarsi ma, tempestato di colpi selvaggi, scivolò nell'incoscienza. La battaglia finì vicino al crepuscolo. I Cavalieri di Neraka reggevano, la valle era sicura. I Solamnici e i soldati di Sanction furono costretti a ritirarsi entro le mura della città, una città scioccata e annientata dalla sconfitta schiacciante. Si erano sentiti il serto della vittoria sopra la testa, e poi esso era stato brutalmente strappato, calpestato nel fango. Scoraggiati, sopraffatti, i Cavalieri Solamnici si medicarono le ferite e bruciarono i corpi dei loro morti. Avevano trascorso mesi a lavorare su quel piano, considerandolo l'unica possibilità per rompere l'assedio di Sanction; e ora si chiedevano ripetutamente come avesse potuto fallire. Un Cavaliere Solamnico parlò di un guerriero che l'aveva investito, così disse, con la collera degli dei ormai allontanatisi. L'aveva visto anche un altro, e un altro, e un altro ancora. Alcuni sostenevano che si trattava di un giovane, ma altri replicarono che no, era una ragazza, una ragazza con un viso per cui un uomo sarebbe potuto morire. Si era messa alla testa della carica, colpendo le loro righe come un fulmine; combatteva senza elmo né scudo, e aveva come arma una Stella del mattino grondante sangue. Disarcionata, si batteva da sola a piedi. «Dev'essere morta», affermò uno, rabbiosamente. «L'ho vista cadere.» «È vero, è caduta, ma il suo cavallo la proteggeva», ribatté un altro. «Aggrediva con gli zoccoli chiunque osasse avvicinarsi.» Nessuno fu in grado di dire se la bella distruttrice fosse morta o sopravvissuta. L'onda della battaglia venne a prenderla, l'avvolse; e inghiottì i Cavalieri Solamnici, riportandoli in una massa confusa dentro la loro città. «Mina», chiamò Galdar, con voce rauca. «Mina!»
Non ci fu risposta. Disperato, e disperando di trovarla, Galdar proseguì la ricerca. Il fumo delle pire funerarie aleggiava sulla vallata. La notte non era ancora scesa; il crepuscolo era grigio, denso di fumo e di scintille aranciate. Il minotauro andò alle tende dei mistici scuri, che stavano curando i feriti, ma invano. Guardò fra i corpi allineati per l'arduo compito della cremazione. Sollevandone uno, lo girò, guardò attentamente il viso, scosse la testa, e passò al successivo. Non la trovò fra i morti, almeno fra quelli che fino ad allora erano stati portati all'accampamento. Il lavoro di rimozione dei corpi da quella scorciatoia intrisa di sangue sarebbe durato tutta la notte, e parte del giorno dopo. Galdar sentì cascargli le spalle. Era ferito, esausto, ma deciso a continuare a cercare. Portava con sé, nella mano destra, lo stendardo di Mina; il tessuto non era più bianco, ma rosso brunastro, irrigidito dal sangue rappreso. Dava la colpa a se stesso. Avrebbe dovuto essere al suo fianco. Allora, se non fosse riuscito a proteggerla, almeno avrebbe potuto morire con lei. Colpito da dietro, aveva fallito. Quando, finalmente, aveva ripreso conoscenza, la battaglia era finita; gli dissero che la loro parte aveva vinto. Stordito, dolorante, Galdar guardò il punto in cui l'aveva intravista per l'ultima volta. I corpi dei suoi nemici giacevano impilati sul terreno, ma lei era introvabile. Non era fra i vivi; non era fra i morti. Galdar cominciava a pensare di averla sognata, di averla creata per il desiderio di credere in qualcosa o in qualcuno, quando sentì un tocco sul braccio. «Minotauro», cominciò l'uomo. «Scusami, ma non ho mai afferrato il tuo nome.» Per un attimo, Galdar non riuscì a identificare il soldato, il cui viso era quasi completamente coperto da una benda insanguinata. Poi riconobbe il capitano della Compagnia degli Arcieri. «La stai cercando, vero?» chiese il capitano Samuval. «Stai cercando Mina.» «Mina!» Il grido riecheggiò nel suo cuore. Galdar annuì; era troppo stanco, troppo abbattuto per parlare. «Vieni con me», disse Samuval. «Ho qualcosa da mostrarti.» I due arrancarono per il fondo della valle, diretti al campo di battaglia. I soldati rimasti illesi erano occupati a ricostruire l'accampamento, distrutto durante il caos della ritirata. Gli uomini lavoravano con inconsueto fervo-
re, senza l'incentivo della frusta e delle grida sferzanti dei sottufficiali. In combattimenti passati, Galdar aveva visto quegli stessi uomini accovacciati cupamente presso i fuochi da cucina, intenti a leccarsi le ferite, a tracannare l'alcool dei nani, e a vantarsi a gran voce del loro ardimento nel massacrare i feriti nemici. Ora, passando davanti ai gruppi di soldati che piantavano i paletti delle tende, eliminavano le ammaccature in scudi e corazze a forza di pugni, raccoglievano le frecce usate o attendevano a innumerevoli altri compiti, ascoltò i loro discorsi. Non parlavano di se stessi, ma di lei, la benedetta, la fatata. Mina. Il suo nome era sulle labbra di tutti, le sue azioni venivano raccontate più volte. Uno spirito nuovo pervadeva l'accampamento, come se la tempesta di fulmini da cui era uscita Mina avesse fatto guizzare negli uomini scariche di energia. Galdar ascoltò con meraviglia, ma non disse nulla. Accompagnava il capitano Samuval, che pareva riluttante a parlare, e si rifiutava di rispondere a tutte le sue domande. In un altro momento, il minotauro, frustrato, avrebbe potuto schiacciare il cranio dell'uomo fra le sue spalle, ma non in quello. Avevano condiviso un attimo di trionfo e di esaltazione, quali né l'uno né l'altro avevano mai conosciuto prima in battaglia. Entrambi erano stati trascinati fuori da se stessi, avevano compiuto atti di coraggio e di eroismo di cui non si erano mai creduti capaci. Avevano combattuto insieme per una causa e, contro ogni probabilità, avevano vinto. Quando il capitano Samuval inciampava, Galdar gli allungava un braccio cui reggersi; quando Galdar scivolava in una pozza di sangue, il capitano lo sosteneva. I due arrivarono ai bordi del campo. Il capitano scrutò attraverso il fumo che aleggiava sulla valle. Il sole era scomparso dietro le montagne, e l'ultimo bagliore riempiva il cielo di una chiazza rosso pallido. «Là», annunciò il capitano, indicando col dito. Il vento si era levato con il tramonto del sole, riducendo il fumo in brandelli che roteavano e turbinavano come sciarpe di seta, e che all'improvviso si diradarono per rivelare un cavallo color sangue e una figura inginocchiata sul campo di battaglia a pochi passi da lui. «Mina!» mormorò Galdar. Il sollievo gli indebolì tutti i muscoli del corpo. Un bruciore gli pizzicò gli occhi, un bruciore che attribuì al fumo, perché i minotauri non piangevano mai, non ne erano capaci. Se li asciugò. «Che cosa fa?» chiese dopo un attimo.
«Prega», rispose il capitano Samuval. «Sta pregando.» Mina era inginocchiata accanto al corpo di un soldato. La freccia che l'aveva ucciso gli aveva trafitto il petto, inchiodandolo al suolo. Mina sollevò la mano del morto, se la portò al petto, chinò la testa. Se parlava, Galdar non poteva sentirla, ma sapeva che Samuval aveva ragione. Stava pregando il suo dio, l'unico, vero dio. Il dio che aveva previsto la trappola, il dio che l'aveva guidata nel trasformare la sconfitta in una vittoria gloriosa. Finite le preghiere, Mina mise la mano dell'uomo sulla terribile ferita. Chinandosi su di lui, premette le labbra sulla fronte fredda, la baciò, poi si alzò in piedi. Aveva a malapena la forza di camminare. Era coperta di sangue, in parte suo. Si fermò, la testa piegata, il corpo floscio. Poi sollevò la testa verso i cieli, dove sembrò trovare forza, perché raddrizzò le spalle, e proseguì a passo deciso. «Da quando l'esito della battaglia è stato certo, è andata di cadavere in cadavere», spiegò il capitano Samuval. «In particolare, trova quelli caduti per colpa delle nostre frecce. Si ferma, s'inginocchia nel fango imbevuto di sangue e innalza preghiere. Non ho mai visto nulla del genere.» «Fa bene a onorarli», proclamò duramente Galdar. «Quegli uomini ci hanno procurato la vittoria con il loro sangue.» «Lei ci ha procurato la vittoria con il loro sangue», ribatté il capitano, arricciando l'unico sopracciglio visibile attraverso la benda. Dietro Galdar si levò un suono, che gli ricordò il Gamasbinoch, il Canto della Morte. Questo canto, tuttavia, veniva da gole viventi. Cominciò basso, frutto solo di pochi; poi altre voci lo ripresero e lo portarono avanti, come gli uomini avevano ripreso le spade per lanciarsi in battaglia. «Mina... Mina...» Il canto s'ingrossò. Cominciato come una nenia sommessa, riverente, diventò una marcia trionfale, un peana di celebrazione accompagnato dal clangore delle spade contro gli scudi, dallo scalpiccio dei piedi e dal battito delle mani. «Mina! Mina! Mina!» Girandosi, Galdar vide ciò che restava dell'esercito radunarsi ai margini del campo. I feriti che non potevano camminare da soli erano sostenuti dai compagni. Laceri, insanguinati, i soldati cantavano il nome di lei. Galdar eruppe in un grido fragoroso, sollevando lo stendardo di Mina. Il canto divenne un'acclamazione che rombò per le montagne come il tuono, e scosse la terra carica delle pile dei morti.
Mina aveva ricominciato a inginocchiarsi, ma il canto la fermò. Si girò lentamente a guardare la folla in festa. Il suo viso era pallido come un cencio; gli occhi ambra erano cerchiati di anelli cinerei di stanchezza. Le labbra erano secche e screpolate, macchiate dai baci della morte. Fissò le centinaia di viventi che gridavano, cantavano, invocavano il suo nome. Mina alzò le mani. Le voci si zittirono all'istante; cessarono persino i gemiti e le urla dei feriti. L'unico suono era il suo nome che riecheggiava dalla montagna, e alla fine anche quello svanì, mentre il silenzio calava sulla valle. Mina montò a cavallo, cosicché tutta la moltitudine che si era raccolta ai bordi del campo di battaglia, ora chiamato «La Gloria di Mina», potesse vederla e sentirla meglio. «Sbagliate a onorarmi!» disse loro. «Io sono solo lo strumento. L'onore e la gloria di questo giorno appartengono al dio che mi guida per il mio cammino.» «Il cammino di Mina vale per tutti!» gridò qualcuno. Le acclamazioni ricominciarono. «Ascoltatemi!» ordinò lei, la voce vibrante di autorità e di potere. «I vecchi dei se ne sono andati. Vi hanno abbandonato, e non torneranno più! Al loro posto, è arrivato un dio. Un dio che governa il mondo. Un unico dio. A quell'unico dio, dobbiamo lealtà!» «Qual è il nome di questo dio?» chiese uno. «Non posso pronunciarlo», rispose Mina. «È troppo sacro, troppo potente.» «Mina», ricominciò un altro. «Mina, Mina!» La folla riprese il canto e fu impossibile fermarla. Per un attimo, Mina sembrò esasperata, persino arrabbiata. Alzando la mano, strinse le dita sul medaglione che portava al collo, e il suo viso si distese, si ammorbidì. «Avanti! Pronunciate pure il mio nome», concesse. «Ma sappiate che lo fate nel nome del mio dio.» Le acclamazioni erano assordanti; staccavano pietre dai lati delle montagne. Galdar, dimenticato il proprio dolore, gridava con foga. Abbassando lo sguardo, vide il suo compagno immerso in un cupo silenzio, con gli occhi rivolti altrove. «Cosa c'è?» urlò sopra il trambusto. «Cosa c'è che non va?» «Guarda là», replicò il capitano Samuval. «La tenda di comando.»
Non tutti, al campo, applaudivano. Un gruppo di Cavalieri di Neraka stava accanto al suo capo, un Signore del Teschio; gli uomini avevano cipigli e sguardi tetri, e le braccia incrociate sul petto. «Chi è quello?» domandò Galdar. «Lord Milles», spiegò Samuval. «Colui che ha ordinato questo disastro. Come vedi, è uscito bene dalla mischia. Sulla sua bella, lucente armatura non c'è una macchiolina di sangue.» Lord Milles cercava di catturare l'attenzione dei soldati. Agitava le braccia, gridava parole che nessuno poteva sentire. Nessuno gli prestava il benché minimo ascolto. Alla fine, abbandonò il tentativo. Galdar sogghignò. «Mi chiedo come questo Milles prenda il fatto che la sua autorità scivoli giù per il buco della latrina.» «Non bene, immagino», commentò Samuval. «Lui e gli altri Cavalieri si considerano fortunati a essersi liberati degli dei», proseguì Galdar. «Hanno smesso da molto tempo di parlare del ritorno di Takhisis. Due anni fa, il Signore della Notte Targonne ha cambiato ufficialmente il nome in Cavalieri di Neraka. In passato, quando a un Cavaliere veniva concessa la Visione, gli era permesso di conoscere il suo posto nel grande piano della dea. Dopo che Takhisis è fuggita dal mondo, i capi hanno cercato per qualche tempo di mantenere la Visione con vari mezzi magici. I Cavalieri la sperimentano ancora, ma ora possono essere certi solo di ciò che Targonne e quelli del suo stampo ficcano loro in testa.» «Questa è una delle ragioni per cui me ne sono andato», rivelò Samuval. «Targonne e gli ufficiali come questo Milles godono nell'essere quelli che comandano, e non saranno contenti di sentire che corrono il pericolo di essere scalzati dalla vetta della montagna. Puoi star sicuro che Milles manderà al quartier generale notizie di questo nuovo personaggio.» Mina scese da cavallo. Tirando Foxfire per le redini, lasciò il campo di battaglia ed entrò nell'accampamento. Gli uomini acclamarono e gridarono finché non si avvicinò e poi, mossi da una forza incomprensibile, cessarono il vocio e si inginocchiarono. Alcuni tesero le mani per toccarla mentre passava, altri le chiesero di posare lo sguardo su di loro e di concedere loro la sua benedizione. Lord Milles guardò questo incedere trionfale con il viso contorto dal disgusto. Girandosi di scatto, rientrò nella tenda di comando. «Bah! Lasciamoli complottare di nascosto», esclamò Galdar, inebriato. «Lei ha un esercito, adesso. Che cosa possono farle?»
«Qualcosa di subdolo e di sleale, puoi starne certo», rispose Samuval. Gettò uno sguardo al cielo. «Potrà anche essere vero che c'è Uno che la protegge da lassù; ma ha bisogno di amici che la difendano quaggiù.» «Parole sagge», approvò Galdar. «Allora sei con lei, capitano?» «Fino alla fine dei miei giorni o a quella del mondo, quale che venga prima», proclamò Samuval. «E anche i miei uomini. E tu?» «Io sono sempre stato con lei», disse Galdar, e gli sembrò la pura verità. L'uomo e il minotauro si strinsero la mano. Galdar alzò orgogliosamente lo stendardo di Mina, e si mise al suo fianco, mentre lei compiva la marcia della vittoria attraverso il campo. Il capitano Samuval camminava dietro Mina, la mano sulla spada, guardandole le spalle. I Cavalieri di Mina seguivano lo stendardo. Tutti quelli che l'avevano accompagnata da Neraka avevano sofferto qualche ferita, ma nessuno era morto, e già raccontavano storie di miracoli. «Una freccia veniva dritta verso di me», riferì uno. «Sapevo di essere morto. Ho pronunciato il nome di Mina, e la freccia è caduta ai miei piedi.» «Uno dei maledetti Solamnici mi ha puntato la spada alla gola», fece un altro. «Ho invocato Mina, e la lama del nemico si è spezzata in due.» I soldati le offrirono cibo, vino e acqua. Diversi si impadronirono della tenda di uno degli ufficiali di Milles, lo scacciarono, e la prepararono per Mina. Afferrando tizzoni roventi dai fuochi, li tennero sollevati per illuminare la sua avanzata nel buio. Mentre passava, ripeterono il suo nome come se fosse un incantesimo capace di operare magie. «Mina» gridarono gli uomini, il vento e l'oscurità. «Mina!» VIII SOTTO LO SCUDO Gli elfi di Silvanesti hanno sempre venerato la notte. I Qualinesti si deliziano alla luce del sole. Il loro sovrano è il Presidente dei Soli. Le loro case sono illuminate e rallegrate dai raggi solari, gli affari vengono condotti alla luce del giorno, tutte le cerimonie importanti, come il matrimonio, vengono celebrate di giorno, così che possano essere benedette dalla luce del sole. I Silvanesti sono innamorati delle notti stellate. Il sovrano di Silvanesti è il Presidente delle Stelle. Un tempo la notte era
un momento benedetto a Silvanost, la capitale dello stato elfico. La notte portava le stelle e i dolci sogni dell'amata terra. Ma poi scoppiò la Guerra delle Lance. Le ali dei draghi malvagi coprirono le stelle. Un esemplare in particolare, un drago verde conosciuto come Cyan Bloodbane, rivendicò il proprio potere sul regno di Silvanesti. Aveva sempre nutrito un odio profondo per gli elfi e voleva vederli soffrire. Avrebbe potuto sterminarli, ma era crudele e astuto. Chi sta per morire soffre, è vero, ma il dolore passa ed è presto dimenticato appena il defunto viaggia da questa realtà a quella successiva. Cyan voleva infliggere un dolore che non potesse essere alleviato, un dolore che fosse durato per secoli. All'epoca, il sovrano di Silvanesti era un elfo esperto nelle arti magiche. Lorac Caladon predisse l'arrivo del male ad Ansalon e per questo mandò la sua gente in esilio, dicendole che possedeva il potere per proteggere il regno dall'attacco dei draghi. All'insaputa di tutti, Lorac aveva rubato uno dei globi magici dei draghi dalla Torre dell'Alta Magia. Sapeva che il tentativo di utilizzare il globo da parte di un individuo che non fosse sufficientemente forte da controllarne le proprietà magiche poteva provocare disastri e distruzioni. Ma nella sua arroganza, era convinto di essere sufficientemente potente da piegare il globo alla sua volontà. Fissò la sfera e vide un drago che lo guardava di rimando. Venne catturato e fatto prigioniero. Finalmente era arrivata l'occasione che Cyan Bloodbane aspettava da tempo. Il drago trovò Lorac nella Torre delle Stelle, seduto sul trono, le mani imprigionate dal globo. Cyan sussurrò nell'orecchio del sovrano un sogno di Silvanesti, un sogno terribile nel quale alberi meravigliosi diventavano spaventosi mostri deformi, che attaccavano coloro che un tempo li amavano. Un sogno nel quale Lorac vide la sua gente morire, straziata da dolori atroci. Un sogno nel quale le acque del fiume Thon-Thalas si tingevano di rosso per il sangue che vi scorreva. La Guerra delle Lance finì. La regina Takhisis venne sconfitta. Cyan Bloodbane venne obbligato a lasciare Silvanesti, ma se ne andò moderatamente soddisfatto, poiché sapeva di avere raggiunto il suo obiettivo. Aveva obbligato gli abitanti a vivere un incubo dal quale non si sarebbero mai svegliati. Quando al termine della guerra, gli elfi tornarono alle loro case, scoprirono con orrore e spavento che l'incubo era realtà. Il sogno di Lorac, impostogli da Cyan Bloodbane, aveva deformato mostruosamente la loro terra meravigliosa. I Silvanesti combatterono contro il sogno e sotto la guida di un generale
Qualinesti, Porthios, riuscirono infine a sconfiggerlo. Tuttavia, il prezzo che dovettero pagare fu incredibilmente alto. Molti elfi caddero vittime del sogno e anche quando quest'ultimo venne cacciato, alberi, piante e animali, restarono orribilmente deformati. Lentamente, gli elfi riuscirono a ridonare alle loro foreste l'antica bellezza, utilizzando nuovi incantesimi per sanare le ferite lasciate dal sogno. E poi sopraggiunse il bisogno di dimenticare. Porthios, che più di una volta aveva rischiato la propria vita per strappare quella terra dalle grinfie del sogno, divenne colui che più di ogni altro risvegliava il ricordo di quel terribile incubo. Non era più il salvatore. Era uno straniero, un intruso, una minaccia per i Silvanesti che volevano ritornare al loro isolamento e alla loro solitudine. Porthios voleva portare gli elfi nel mondo, renderli parte integrante di esso, unificarli con i loro cugini, i Qualinesti. Aveva sposato Alhana Starbreeze, la figlia di Lorac, con questa speranza nel cuore. Così, se fosse scoppiata un'altra guerra, gli elfi non avrebbero combattuto da soli: al loro fianco avrebbero avuto degli alleati. Ma gli elfi non volevano alleati. Alleati che forse si sarebbero impossessati delle terre di Silvanesti in cambio del loro aiuto. Alleati che forse avrebbero voluto sposare le figlie e i figli di Silvanesti, indebolendo così il sangue puro degli elfi. Il movimento degli isolazionisti aveva bollato Porthios e la moglie Alhana come «elfi scuri», condannandoli all'esilio dal regno di Silvanesti. Porthios venne cacciato. Il generale Konnal prese il controllo del paese instaurando la legge marziale, fino a quando non fosse stato trovato un re degno di governare il paese. I Silvanesti ignorarono le preghiere dei loro cugini, i Qualinesti, che chiesero aiuto per liberarsi dalla tirannia della terribile dragonessa Beryl e dei Cavalieri di Neraka. I Silvanesti ignorarono le suppliche di coloro i quali combattevano i grandi draghi e imploravano il loro aiuto. I Silvanesti non volevano fare parte del mondo. Immersi nelle loro faccende, guardavano nello specchio della vita e vedevano riflessi solo i loro volti. Accadde così che, mentre erano impegnati ad ammirarsi con orgoglio, Cyan Bloodbane, il drago verde che era stato la loro rovina, tornò nella terra che un tempo aveva quasi distrutto. O per lo meno, così riportarono i kirath di guardia ai confini del paese. «Non erigete lo scudo!» avevano ammonito i kirath. «Ci ritroveremo intrappolati con il nostro peggior nemico!» Gli elfi non li ascoltarono. Non credevano alle voci che circolavano. Cyan Bloodbane era la figura di un passato da dimenticare. Era morto nel-
la Purga dei Draghi. Doveva essere morto. Se era veramente tornato, perché non li aveva attaccati? Gli elfi erano così timorosi del mondo esterno che i Capi della Casa approvarono all'unanimità lo scudo magico. Fu così che la gente di Silvanesti realizzò il suo sogno più grande. Sotto lo scudo magico, era realmente isolata, tagliata fuori da tutto e da tutti. Era al sicuro, lontana dai mali del mondo esterno. «Eppure non sembra che abbiamo lasciato il male fuori dalla porta», disse Rolan a Silvan, «al contrario, direi che lo abbiamo chiuso dentro.» A Silvanesti era calata la notte. Silvan accolse con piacere l'oscurità, anche se gli era causa di dolore. Avevano camminato per tutto il giorno nel folto della foresta, coprendo miglia e miglia, fino a quando Rolan aveva stimato che fossero ormai sufficientemente lontani dagli effetti negativi dello scudo per potersi fermare e riposare. La giornata aveva riservato molte sorprese a Silvanoshei. Quante volte aveva sentito la madre parlare con desiderio, rimpianto e dolore della bellezza della sua terra natale! Ricordava quando, nascosto insieme ai genitori in qualche caverna per ripararsi dai pericoli incombenti, Alhana gli raccontava storie meravigliose su Silvanesti per acquietare le sue paure di bambino. Lui chiudeva gli occhi e vedeva non l'oscurità, ma il verde, l'argento e l'oro della foresta. Non udiva gli ululati dei lupi o dei goblin, ma il melodioso rintocco delle campanule o il malinconicamente dolce fruscio dell'albero del flauto. Tuttavia, in confronto alla realtà, la sua immaginazione impallidiva. Non avrebbe mai creduto che potesse esistere una simile bellezza. Per tutto il giorno gli era sembrato di vivere in un sogno, inciampando su rocce, radici di alberi e nei suoi stessi piedi, mentre le meraviglie che lo circondavano lo commuovevano al punto tale da velargli gli occhi di lacrime, ma riempirgli il cuore di gioia. Alberi dalla corteccia venata d'argento protendevano verso il cielo rami dalle curvature aggraziate, le cui foglie dai contorni argentei risplendevano sotto i raggi del sole. Una profusione di arbusti dalle foglie larghe fiancheggiava il sentiero, ognuno di essi illuminato da fiori fiammanti, che riempivano l'aria di un dolce profumo. L'assenza di rami caduti, erbacce sparse, boschetti di rovi, gli dava l'impressione di avanzare non in una foresta, ma in un giardino. I Modellatori dei Boschi permettevano soltanto la crescita di ciò che era bello, fertile e benefico. Il loro influsso magico si estendeva a tutto il territorio di Silvanesti, con l'eccezione delle zone di confine, dove lo scudo stendeva sulle loro creature un gelo assassino.
L'oscurità portò riposo agli occhi abbagliati di Silvan. Eppure anche la notte aveva una sua commovente bellezza. Le stelle splendevano con fiera luminosità, come per sfidare lo scudo a spegnerle. Fiori notturni aprivano i petali al cielo stellato profumando la calda oscurità di aromi esotici, mentre il loro luminescente splendore riempiva la foresta di una morbida luce argentea. «Che cosa vuoi dire?» domandò Silvan. Gli era impossibile identificare il male con la bellezza da cui era circondato. «Per esempio, la punizione crudele inflitta ai vostri genitori, Maestà», spiegò Rolan. «Come ringraziamento per l'aiuto prestatoci, abbiamo cercato di pugnalare vostro padre alle spalle. Quando l'ho saputo, mi sono vergognato di essere un Silvanesti. Ma siamo giunti alla resa dei conti. Stiamo pagando per il nostro comportamento oltraggioso e disonorevole, per esserci tagliati fuori dal mondo, per avere voluto vivere sotto lo scudo, protetti dagli attacchi dei draghi, mentre gli altri soffrono. Ma ora paghiamo con la nostra vita una simile protezione.» Si erano fermati a riposare in una radura, nei pressi di un ruscello dalle acque canterine. Silvan era felice di potere tirare il fiato. Le ferite avevano ripreso a dolergli, anche se non se ne lamentava. L'eccitazione e lo shock per l'improvvisa svolta che aveva preso la sua vita lo avevano prosciugato, letteralmente svuotato di energia. Per cena, Rolan trovò della frutta e dell'acqua dalla dolcezza del nettare. Medicò le ferite di Silvan con un'attenzione rispettosa e sollecita, che il giovane gradì molto. Samar mi avrebbe buttato uno straccio dicendomi di arrangiarmi, pensò Sílvanoshei. «Forse dormire un paio d'ore vi farebbe bene, Maestà», suggerì Rolan, quando ebbero consumato il loro frugale pasto. Silvan aveva pensato di essere ormai prossimo a stramazzare per la fatica, ma dopo essersi rifocillato, scoprì di sentirsi molto meglio, rinvigorito e rinfrescato. «Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla mia terra natale», disse. «Mia madre me ne ha parlato, ma naturalmente non poteva sapere che cosa stesse accadendo da quando... da quando se n'era andata. Hai parlato dello scudo.» Silvan si guardò intorno. La bellezza che lo circondava era tale da togliergli il fiato. «Capisco perché vogliate proteggere tutto questo», e indicò gli alberi, i cui tronchi brillavano di una luce iridescente e i fiori, che sfavillano nel prato, «dalla furia dei nostri nemici.»
«Sì, Maestà», rispose Rolan, abbassando la voce. «C'è chi sostiene che una simile protezione non abbia prezzo, anche a costo della nostra stessa vita. Ma se moriremo tutti, chi potrà godere di questa bellezza? E se noi moriremo, sono convinto che alla fine morirà anche la foresta, poiché le anime degli elfi sono un tutt'uno con la natura.» «Siamo tanti quante sono le stelle», commentò Silvan divertito, ritenendo Rolan eccessivamente drammatico. L'elfo sollevò lo sguardo verso il cielo stellato. «Cancellate metà di quelle stelle, Maestà, e vi accorgerete di quanto diminuisce la luce.» «Metà!» esclamò Silvan incredulo. «Non sarà proprio metà!» «Metà della popolazione di Silvanost è morta a causa della malattia che provoca un lento deterioramento fisico, Maestà.» Si fermò un istante, quindi riprese. «Ciò che sto per dirvi potrebbe essere considerato alto tradimento e per questo potrei essere punito.» «Punito? Vuoi dire cacciato via?» Silvan era turbato. «Esiliato? Condannato a vivere nell'oscurità?» «No, non ricorriamo più a simili punizioni, Maestà», spiegò Rolan. «Non possiamo cacciare i nostri simili fuori dallo scudo, perché non sappiamo come attraversarlo. Ora coloro che osano criticare il governatore generale Konnal scompaiono semplicemente nel nulla. Nessuno sa che cosa ne sia di loro.» «Se è vero, perché il popolo non si ribella?» domandò Silvan, perplesso. «Perché non rovesciano il governo di Konnal e non esigono che lo scudo venga abbassato?» «Perché soltanto un'esigua minoranza conosce la verità. E non abbiamo prove. Potremmo alzarci nel corso di un consiglio nella Torre delle Stelle e affermare che Konnal è impazzito, che ha così paura del mondo esterno che preferisce farci morire tutti quanti piuttosto che essere parte di quel mondo. Certo, potremmo dirlo, dopo di che Konnal balzerebbe in piedi e griderebbe: "Sono tutte menzogne! Abbassate lo scudo e i Cavalieri Scuri invaderanno i nostri amati boschi, gli orchi sopraggiungeranno e stermineranno i nostri alberi, i Grandi Draghi caleranno su di noi e ci divoreranno." Nell'udire queste parole, sapete che cosa griderebbe il popolo? "Salvaci! Buon generale Konnal, proteggici! Non abbiamo altri che te!" Credetemi, andrebbe esattamente così.» «Capisco», disse Silvan, pensieroso. Fissò Rolan, il cui sguardo era perso nell'oscurità. «Ora la nostra gente avrà qualcun altro a cui chiedere aiuto, Maestà», af-
fermò l'elfo. «Il legittimo erede al trono di Silvanesti. Ma dobbiamo procedere cautamente, con grande attenzione.» Un mesto sorriso gli illuminò il viso. «Altrimenti anche voi scomparirete, Maestà.» La dolce canzone dell'usignolo risuonò nell'oscurità. Rolan increspò le labbra e rispose al segnale. Tre elfi emersero dall'ombra. Silvan notò che erano gli stessi che lo avevano avvicinato nei pressi dello scudo, quella stessa mattina. La mattina! Silvan era incredulo. Possibile che fosse stato solo poche ore prima? Sembravano passati giorni, mesi, anni. Rolan si alzò per salutare i nuovi arrivati, stringendo loro la mano e scambiando il rituale bacio sulla guancia. Gli elfi indossavano un mantello simile a quello di Rolan e sebbene Silvan sapesse che si trovavano nella radura, faceva fatica a vederli, poiché sembravano avvolti dall'oscurità e dalla luce delle stelle. Rolan li interrogò sull'esito della perlustrazione. Risposero che lungo il confine di Silvanesti era tutto tranquillo, "mortalmente tranquillo" sottolineò uno di loro con una certa ironia. I tre spostarono la loro attenzione su Silvan. «Allora, lo hai interrogato?» domandò uno di loro, posando uno sguardo severo su Silvanoshei. «È veramente chi dice di essere?» Silvan balzò in piedi, imbarazzato e impacciato. Iniziò a inchinarsi ai tre anziani come gli era stato insegnato, ma poi ricordò che, dopo tutto, lui era il re. Erano loro che dovevano inchinarsi a lui. Guardò Rolan, confuso. «Non l'ho "interrogato"», replicò Rolan in tono severo. «Abbiamo semplicemente parlato. E sì, ritengo sia Silvanoshei, il legittimo Presidente delle Stelle, figlio di Alhana e Porthios. Il nostro re è tornato. Il giorno che attendevamo è finalmente giunto.» I tre elfi guardarono Silvan, lo squadrarono dall'alto in basso e quindi si rivolsero a Rolan. «Potrebbe essere un impostore», disse uno di loro. «Sono certo del contrario», affermò Rolan, deciso. «Conoscevo sua madre quando aveva la sua età. Ho combattuto con suo padre contro il sogno. Assomiglia a entrambi, anche se ha il fisico del padre. Tu, Drinel, hai combattuto con Porthios. Guarda questo giovane uomo e in lui vedrai l'immagine del padre.» L'elfo iniziò a osservare attentamente Silvanoshei, che incontrò e sostenne il suo sguardo. «Guarda con il cuore, Drinel», lo incitò Rolan. «Gli occhi possono esse-
re ciechi. Il cuore no. Lo hai sentito mentre lo seguivamo, quando non sapeva che lo stavamo spiando. Hai sentito che cosa ci ha detto quando pensava fossimo soldati di sua madre. Non stava fingendo. Sono così sicuro che ci giocherei la vita!» «Certo, assomiglia al padre e nei suoi occhi c'è qualcosa della madre. Ma per quale strano miracolo il figlio della nostra regina in esilio è riuscito ad attraversare lo scudo?» domandò Drinel. «Non so come mi sono trovato oltre lo scudo», replicò Silvan, imbarazzato. «Penso di essere caduto. Non ricordo. Ma quando ho provato ad andarmene, lo scudo non me lo ha permesso.» «Ci si è buttato contro», spiegò Rolan. «Ha provato a tornare indietro, ad andarsene da Silvanesti. Un impostore farebbe mai una cosa simile, dopo tutta la fatica fatta per entrare? Un impostore ammetterebbe di non sapere come ha fatto ad attraversare lo scudo? No, un impostore avrebbe una storiella, chiara e logica, pronta per noi.» «Hai detto di guardarlo con il cuore», disse Drinel. Guardò gli altri elfi. «Siamo d'accordo. Lo sottoporremo alla prova della verità.» «La vostra sfiducia getta il disonore sul popolo di Silvanesti!» esclamò Rolan, seccato. «Che cosa penserà di noi?» «Che siamo saggi e prudenti», replicò Drinel in tono asciutto. «Se non ha niente da nascondere, non avrà nulla da obiettare.» «Starà a lui la scelta», affermò Rolan. «Anche se io rifiuterei, se fossi in lui.» «Di che cosa parlate?» Silvan guardava i tre, confuso. «Che cos'è la prova della verità?» «È una sorta di magia, Maestà», rispose Rolan e il tono della sua voce divenne improvvisamente triste. «Un tempo, gli elfi potevano fidarsi l'uno dell'altro. Fidarsi incondizionatamente. Un tempo, nessun elfo sarebbe mai riuscito a mentire a un suo simile. Quel tempo giunse alla fine durante il sogno di Lorac. Quel sogno ha creato fantasmi di noi stessi, false immagini di elfi, che tuttavia sembravano assolutamente reali a coloro che li guardavano, li toccavano e parlavano con essi. Questi fantasmi potevano condurre alla rabbia e alla distruzione coloro che credevano in loro. Un marito poteva vedere la moglie chiamarlo e precipitare da una scogliera nel tentativo di raggiungerla. Una madre poteva vedere il proprio figlio avvolto dalle fiamme e lanciarsi nel fuoco solo per scoprire che il bambino era scomparso. «Noi kirath abbiamo ideato la prova della verità per stabilire se tali fan-
tasmi fossero reali o se facessero parte del sogno. All'interno i fantasmi erano vuoti, cavi. Non avevano ricordi, pensieri, sentimenti. Ci bastava appoggiare una mano sul cuore per capire se avevamo a che fare con un essere vivente o il sogno. «Con la fine del sogno, era cessata anche la necessità di ricorrere alla prova della verità», spiegò Rolan. «O per lo meno così speravamo. Ma era una vana speranza. Distrutto il sogno, gli alberi e tutta la natura avevano ripreso a vivere e la bruttezza che aveva invaso la nostra terra era scomparsa. Ma quella bruttura era penetrata nel cuore di alcuni di noi, svuotandoli, come i cuori degli esseri creati dal sogno. Oggi, un elfo può mentire a un suo simile ed è proprio ciò che accade. Nuove parole si sono insinuate nel nostro vocabolario. Parole umane. Parole come sfiducia, disonestà, disonore. Ora ricorriamo alla prova della verità fra di noi e più la usiamo, più sentiamo il bisogno di usarla.» Posò uno sguardo ostile su Drinel, che mantenne un atteggiamento fermo, deciso, provocatorio. «Non ho niente da nascondere», disse Silvan. «Se volete, usate pure la prova della verità su di me. Sebbene a mia madre si spezzerebbe il cuore se sapesse che la sua gente è caduta così in basso. Lei non metterebbe mai in dubbio la lealtà di coloro che la seguono, così come questi non dubiterebbero del suo amore per loro.» «Hai sentito, Drinel», fece Rolan arrossendo. «Che vergogna!» «Non importa. Voglio sapere la verità», replicò l'altro, in tono ostinato. «Davvero?» domandò Rolan. «E se l'incantesimo dovesse ingannarti nuovamente?» Un lampo d'ira illuminò gli occhi di Drinel, che guardò cupamente il compagno. «Frena la lingua, Rolan. Ti ricordo che attualmente non sappiamo niente di questo giovane uomo.» Silvanoshei non disse niente. Non toccava a lui intervenire in quella discussione. Tuttavia, fece tesoro di quanto aveva udito. Forse gli elfi maghi dell'esercito di sua madre non erano gli unici a cui stavano diminuendo i poteri. Drinel si avvicinò a Silvan, che rigido e immobile fissò l'elfo con sospetto. Quest'ultimo allungò la mano sinistra, la mano del cuore, poiché è quella che gli è più vicino, e l'appoggiò sul petto di Silvan. Il tocco dell'elfo era leggero, eppure a Silvan sembrò di sentirlo trapassargli l'anima. I ricordi fluirono dal suo profondo, ricordi belli e brutti, che superando sentimenti e pensieri superficiali affluirono nella mano di Drinel. Ricordi di suo padre, una figura severa e implacabile, che sorrideva raramente e
non rideva mai. Che non aveva mai esternato il proprio affetto, che non aveva mai espresso compiacimento per le azioni del figlio, e che raramente sembrava notarlo. In quel scintillante flusso di ricordi, Silvanoshei rammentò una notte, quando lui e la madre erano riusciti a sfuggire alla morte per un pelo. Porthios li aveva avvolti in un abbraccio, aveva tenuto il figlioletto stretto vicino al cuore e aveva bisbigliato una preghiera in elfico, un'antica preghiera rivolta a divinità che non erano più presenti per udirla. Silvanoshei ricordava le lacrime sulla guancia e ricordava di avere pensato che non erano sue. Erano di suo padre. Quello e altri ricordi fluirono e vennero raccolti nella mente di Drinel, come avrebbe potuto raccogliere nelle mani l'acqua sgorgante da una fonte. L'espressione del volto di Drinel cambiò e l'elfo posò su Silvan uno sguardo colmo di nuova stima e di rispetto. «Sei soddisfatto?» domandò Silvan in tono gelido. I ricordi avevano aperto in lui una dolorosa ferita. «Vedo suo padre nel suo volto, sua madre nel suo cuore», replicò Drinel. «Vi prometto solennemente fedeltà, Silvanoshei. E invito gli altri a fare lo stesso.» Drinel si profuse in un inchino, la testa piegata in segno di rispetto. Anche gli altri due elfi pronunciarono il giuramento di fedeltà. Silvan li ringraziò cortesemente, domandandosi, non senza un certo cinismo, che valore potessero avere tutti quegli inchini. Gli elfi avevano giurato fedeltà anche a sua madre, e Alhana Starbreeze era praticamente nelle stesse condizioni di un bandito che si nascondeva nella foresta. Se essere il legittimo Presidente delle Stelle significava trascorrere altre notti nascosto in tumuli sepolcrali e altri giorni a sfuggire ad assassini, Silvan ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non sopportava più quella vita, ne aveva le tasche piene. Era la prima volta che lo ammetteva. E per la prima volta ammise con se stesso di essere arrabbiato - profondamente e amaramente arrabbiato - con i suoi genitori per averlo obbligato a condurre un'esistenza simile. Un secondo dopo, già si vergognava della sua ira. Ricordò a se stesso che forse la madre era morta o era prigioniera ma, irrazionalmente, il dolore e la preoccupazione aumentarono la rabbia. Le emozioni contrastanti, complicate ulteriormente dal senso di colpa, lo confusero e lo stremarono. Aveva bisogno di tempo per pensare e non poteva farlo con quegli elfi che lo fissavano come se fosse stato un bambolotto imbottito esposto in un ne-
gozio di articoli magici. Gli elfi se ne stavano in piedi e, soltanto dopo qualche istante, Silvan si rese conto che aspettavano che lui si sedesse per poterlo imitare. Era stato allevato in una corte elfica, sebbene alquanto rustica, ed era abituato alle imposizioni dell'etichetta. Esortò gli elfi a sedersi, dicendo che dovevano essere stanchi, e li invitò a mangiare un po' di frutta e a bere un po' d'acqua. Quindi si accomiatò dalla compagnia, spiegando che doveva allontanarsi per le sue abluzioni. Restò sorpreso quando Rolan gli raccomandò di stare attento e gli offrì la sua spada. «Perché? Che cosa devo temere? Pensavo che lo scudo tenesse lontani tutti i nemici.» «Con un'eccezione», rispose Rolan in tono asciutto. «Pare che il grande drago verde, Cyan Bloodbane - a causa di un errore di calcolo del generale Konnal - sia rimasto intrappolato dentro lo scudo.» «Bah! Probabilmente è solo una storia inventata da Konnal per tenerci buoni», affermò Drinel. «Dimmi il nome di una persona che abbia visto questo terribile mostro. Nessuno. Si dice che il drago sia qui. Si dice che sia là. Noi corriamo avanti e indietro senza mai trovarne traccia. Mi sembra strano, Rolan, che questo Cyan Bloodbane venga sempre avvistato proprio quando Konnal viene messo sotto pressione dalle domande dei capi della Casa Reale sulla legittimità del suo comando.» «È vero, nessuno ha mai visto Cyan Bloodbane», concordò Rolan. «Tuttavia, devo ammettere di essere convinto che il drago si trovi da qualche parte qui, a Silvanesti. Una volta ho trovato delle tracce che non sono riuscito a spiegare in altro modo. State attento, perciò, Maestà. E prendete la mia spada. Non si sa mai.» Silvan rifiutò l'arma. Ripensando a come aveva quasi trapassato Samar, si vergognava di dovere confessare di non essere in grado di tenere in mano una spada, di non avere alcuna esperienza in tal senso. Dopo avere assicurato Rolan che avrebbe tenuto gli occhi bene aperti, si incamminò nella foresta scintillante. Sua madre, ricordò, lo avrebbe fatto scortare da una guardia armata. Per la prima volta in vita mia sono libero, si accorse improvvisamente Silvan. Completamente libero. Si lavò viso e mani in un ruscello dalle acque limpide e fresche, si passò le dita fra i capelli fluenti e fissò a lungo la sua immagine riflessa nell'acqua increspata. Nel suo volto non vedeva alcuna somiglianza con quello del padre e si irritava sempre con chi asseriva
il contrario. Ricordava Porthios come un guerriero inflessibile, duro come l'acciaio che, se aveva mai saputo sorridere, l'aveva da tempo dimenticato. Soltanto quando posava lo sguardo sulla moglie, gli occhi di Porthios si riempivano di tenerezza. «Sei re degli elfi», disse Silvan alla sua immagine riflessa. «In un giorno hai ottenuto ciò che i tuoi genitori non hanno potuto conquistare in trent'anni. Potuto... o voluto.» Si sedette sulla riva. La sua immagine si agitò e brillò alla luce della luna appena sorta. «Ciò che cercavano è a portata di mano. Non lo hai mai desiderato in modo particolare, ma ora che ti viene offerto, perché non prenderlo?» Una leggera folata di vento accarezzò la superficie dell'acqua, increspando l'immagine di Silvan. Poi il vento si acquietò, l'acqua si fermò e l'immagine divenne nuovamente nitida e immobile. «Devi stare attento a come ti muovi. Devi pensare prima di parlare, pensare alle conseguenze di ogni parola. Devi riflettere sulle tue azioni. Non devi lasciarti distrarre da niente. «Mia madre è morta», disse e aspettò che il dolore lo travolgesse. Le lacrime sgorgarono in lui; lacrime per la madre, lacrime per il padre, lacrime per se stesso, solo e privo del loro conforto e sostegno. D'un tratto, sentì una vocina dentro di sé sussurrare: «Ma i tuoi genitori quando ti hanno sostenuto? Quando hanno avuto fiducia nelle tue capacità? Ti hanno tenuto protetto nella bambagia, per paura che potessi romperti. Il destino ti sta offrendo la possibilità di dimostrare quanto vali. Non perderla!» Accanto al ruscello, cresceva un arbusto dai bianchi fiori profumati a forma di cuore. Silvan raccolse un pugno di fiori e strappò i boccioli dagli steli frondosi. «Onore a mio padre, che è morto», disse e disperse i fiori nel ruscello. Questi ultimi caddero sulla sua immagine riflessa, che ondeggiò sulle increspature. «Onore a mia madre, che è morta.» Disperse gli ultimi boccioli. Quindi, sentendosi purificato, svuotato di lacrime ed emozioni, tornò alla radura. Appena lo videro, gli elfi si mossero per alzarsi, ma il giovane li pregò di restare seduti e di non disturbarsi per lui. Gli elfi sembrarono apprezzare la sua semplicità. «Spero che la mia lunga assenza non vi abbia preoccupati», disse, sapendo che era vero il contrario. Era sicuro che avessero parlato di lui. «Questi cambiamenti sono stati così drastici, così repentini. Avevo bisogno di tempo per pensare.»
Gli elfi chinarono il capo in tacito assenso. «Abbiamo pensato al modo migliore per perorare la vostra causa, Maestà», spiegò Rolan. «Avete tutto l'appoggio del kirath, Maestà», aggiunse Drinel. Silvan ringraziò con un cenno del capo. Stava pensando a come guidare la conversazione verso ciò che gli interessava. Infine chiese: «Che cos'è il "kirath"? Mia madre non me ne hai mai parlato molto.» «E perché avrebbe dovuto farlo?» esclamò Rolan. «Vostro padre ha creato il nostro ordine per combattere il sogno. Siamo stati noi kirath a entrare nella foresta alla ricerca delle parti ancora schiave del sogno. «Alcuni di noi avevano il compito di difendere i Modellatori dei Boschi e i chierici, che venivano nella foresta per curarla. Per vent'anni abbiamo combattuto per rigenerare la nostra terra e alla fine ci siamo riusciti. Una volta sconfitto il sogno non avevamo più motivo di esistere e così l'ordine è stato sciolto e siamo tornati alla vita che conducevamo prima della guerra. Ma alcuni di noi avevano creato un legame più forte di quello familiare. E così abbiamo continuato a tenerci in contatto, a passarci notizie e informazioni. «Poi, sono giunti i Cavalieri Scuri di Takhisis per cercare di conquistare il continente di Ansalon, dopo di che è scoppiata la guerra del Caos. È stato in quel periodo che il generale Konnal ha preso il controllo di Silvanesti, affermando che soltanto i militari potevano salvarci dalle forze del male al lavoro nel mondo. «Abbiamo vinto la guerra del Caos, ma a caro prezzo. Abbiamo perso gli dei che, si dice, hanno fatto il sacrificio supremo, ritirandosi dal mondo per permettere a Krynn e alla sua gente di andare avanti. Con loro se ne sono andati la magia di Solinari e i poteri curativi. Abbiamo pianto a lungo per le divinità, per Paladine e Mishakal, ma dovevamo andare avanti con la nostra vita. «Ci siamo dati da fare per continuare a ricostruire Silvanesti. Infine, la magia è tornata a noi, una magia della terra, delle creature viventi. Sebbene la guerra fosse finita, il generale Konnal non ha rinunciato al potere. Sosteneva che la minaccia giungeva ora da Alhana e Porthios, elfi scuri che volevano soltanto vendicarsi.» «E voi gli avete creduto?» domandò Silvan, indignato. «Certo che no. Noi conoscevamo Porthios. Sapevamo i grandi sacrifici che lui aveva fatto per questa terra. Conoscevamo Alhana e il suo amore per la sua gente. Non gli abbiamo creduto.»
«E così avete appoggiato mio padre e mia madre?» chiese Silvan. «Esatto», replicò Rolan. «Allora perché non li avete aiutati?» domandò Silvan in tono aspro. «Eravate armati e addestrati ad utilizzare le armi. Eravate, come avete appena detto, in stretto contatto l'uno con l'altro. Mia madre e mio padre aspettavano ai confini, sicuri che il popolo di Silvanesti sarebbe insorto contro l'ingiustizia che era stata perpetrata nei loro confronti. Ma così non è stato. Il popolo non ha fatto niente. I miei genitori hanno atteso invano.» «Potrei addurre molte scuse, Maestà», disse Rolan in tono pacato. «Eravamo stanchi di combattere. Non volevamo scatenare una guerra civile. Eravamo convinti che con il passare del tempo saremmo riusciti a risolvere pacificamente questa questione. In altre parole», le labbra si atteggiarono a un mesto sorriso, «abbiamo nascosto la testa sotto la coperta e abbiamo ripreso a dormire.» «Se vi può essere di conforto, Maestà, abbiamo pagato per i nostri peccati», aggiunse Drinel. «Abbiamo pagato duramente. Appena lo scudo fu eretto, ci accorgemmo del nostro errore, ma ormai era troppo tardi. Non potevamo uscire. E i vostri genitori non potevano entrare.» Uno squarcio abbagliante e scioccante come il lampo che si era abbattuto davanti a lui si aprì nella mente di Silvan: finalmente aveva capito. Fino ad allora tutto era rimasto immerso nell'oscurità e ora la luce risplendeva ovunque, come in pieno giorno, ogni dettaglio finalmente chiaro. Sua madre aveva sempre affermato di odiare lo scudo. In realtà, lo scudo era la scusa che le impediva di condurre il suo esercito a Silvanesti. Ma avrebbe potuto farlo in un qualsiasi momento negli anni prima che lo scudo venisse eretto. Lei e suo padre avrebbero potuto marciare su Silvanesti a capo di un esercito e avrebbero trovato sostegno fra la loro gente. Perché non lo avevano fatto? Lo spargimento di sangue elfico. Questa era la scusa che avevano addotto. Non volevano vedere elfi uccidere altri elfi. La verità era che Alhana aveva aspettato che la sua gente andasse da lei e deponesse la corona di Silvanesti ai suoi piedi. Ma loro non lo avevano fatto. Come aveva detto Rolan, volevano soltanto dimenticare l'incubo di Lorac, lasciandosi andare a sogni più piacevoli. Alhana era stata il gatto che miagolava sotto la finestra, disturbando il loro riposo. Sua madre si era rifiutata di ammettere tutto ciò con se stessa e così, sebbene avesse inveito contro lo scudo, in realtà quest'ultimo era per lei un vero sollievo. Oh, aveva fatto tutto il possibile per cercare di distruggerlo.
Aveva fatto tutto il possibile per provare a se stessa di volere disperatamente attraversare quella barriera. Aveva lanciato il suo esercito contro di esso, lei stessa si era lanciata contro quel muro invisibile. Ma nel profondo del suo cuore, non voleva penetrarlo e forse proprio per questo lo scudo era riuscito a tenerla fuori. Per lo stesso motivo, Drinel, Rolan e gli altri elfi si trovavano all'interno. Lo scudo era stato innalzato, lo scudo esisteva, perché lo volevano gli elfi. Il popolo di Silvanesti aveva sempre desiderato essere al sicuro dal mondo, al sicuro dalle contaminazioni degli umani, rozzi e indisciplinati, al sicuro dal pericolo di orchi, goblin e minotauri, al sicuro dai draghi, al sicuro nella bellezza, nel lusso e nell'agiatezza. Per la stessa ragione, la madre voleva trovare il modo per attraversare lo scudo: per potere finalmente riposare serenamente sentendosi al sicuro. Non disse nulla, ma ora sapeva che cosa doveva fare. «Mi avete giurato fedeltà. Ma come faccio a essere sicuro che quando il cammino diventerà impervio non mi abbandonerete come avete fatto con i miei genitori?» Rolan impallidì. Lampi di collera illuminarono gli occhi di Drinel. Quest'ultimo iniziò a parlare, ma l'altro lo bloccò, posandogli una mano sul braccio. «Il suo biasimo è corretto, amico mio. Una simile domanda è comprensibile.» Rolan si voltò verso Silvan. «La mano sul cuore, giuro su me stesso e la mia famiglia che sarò fedele alla vostra causa, Maestà. Possa la mia anima restare prigioniera a questo livello d'esistenza nel caso io fallissi.» Silvan annuì solennemente. Era un giuramento estremo. Posò lo sguardo su Drinel e sugli altri due membri del kirath. Drinel esitava. «Siete molto giovane», affermò in tono brusco. «Quanti anni avete? Trenta? La nostra gente vi considererebbe un adolescente.» «Ma non i Qualinesti», sottolineò Silvan. «E vi chiedo di riflettere su quanto sto per dirvi», aggiunse, sapendo che i Silvanesti difficilmente si sarebbero lasciati impressionare dai paragoni con i loro più mondani - e quindi più corrotti - cugini. «Non sono stato allevato in una tranquilla e serena casetta di Silvanesti. Sono cresciuto in grotte, capanne, casupole, ovunque i miei genitori trovassero un rifugio sicuro. Posso contare sulle dita di una mano il numero delle volte in cui ho dormito in un letto in una stanza. Due volte sono stato ferito in battaglia. Ne porto ancora i segni sul corpo.» Non aggiunse che non era stato ferito mentre combatteva. Non disse che
era stato ferito mentre le sue guardie del corpo lo trascinavano in un luogo sicuro. Lui avrebbe combattuto, pensò fra sé e sé, se solo gliene avessero data la possibilità. E ora era pronto per farlo. «Faccio a voi lo stesso giuramento», affermò con orgoglio. «La mano sul cuore, giuro di fare tutto quanto è in mio potere per riconquistare il trono che è mio di diritto. Giuro di riportare salute, pace e prosperità alla nostra gente. Possa la mia anima restare prigioniera a questo livello d'esistenza nel caso io fallissi.» Gli occhi di Drinel lo setacciarono, alla ricerca di quell'anima. Sembrò soddisfatto di ciò che aveva visto. «Faccio il mio giuramento a voi, Silvanesti, figlio di Porthios e Alhana. Aiutando il figlio, possa il nostro popolo riparare gli errori commessi nei confronti dei genitori.» «E ora», disse Rolan, «dobbiamo stendere dei piani. Innanzitutto, dobbiamo trovare un nascondiglio per sua Maestà...» «No», lo interruppe Silvan con decisione. «Basta nascondersi. Io sono il legittimo erede al trono. La legge è dalla mia parte. Non ho niente da temere. Se dovessi strisciare e celarmi come un criminale, verrei percepito come tale. Se arriverò a Silvanesti come un re, tutti mi vedranno come tale.» «Eppure il pericolo...» attaccò Rolan. «Sua Maestà ha ragione, amico mio», intervenne Drinel, considerando Silvan con nuovo rispetto. «Sarà meno in pericolo uscendo allo scoperto che restando nella clandestinità. Per cercare di calmare coloro che mettono in discussione il suo diritto al potere, Konnal ha affermato più volte che sarebbe felice di vedere il figlio di Alhana occupare il posto che gli spetta sul trono. Certo, fare una simile promessa non gli costava nulla, poiché sapeva - o pensava di sapere - che con lo scudo eretto, il figlio non poteva passare. «Se sua Maestà entrerà trionfalmente nella capitale, sostenuto dalle grida di gioia del popolo, Konnal sarà obbligato a mantenere la promessa. Non sarà facile per lui fare scomparire il legittimo erede al trono come ha fatto con altri elfi in passato. Il popolo non lo tollererebbe.» «Le tue parole sono corrette. Ma non dobbiamo sottovalutare Konnal», affermò Rolan. «C'è chi sostiene che è pazzo ma se così fosse, la sua sarebbe una pazzia astuta e calcolatrice. Quell'uomo è pericoloso.» «Anch'io», disse Silvan. «Come scoprirà presto.» Descrisse brevemente il suo piano. Gli altri lo ascoltarono, espressero la loro approvazione, suggerirono alcune modifiche che il giovane accettò, poiché loro conoscevano meglio la sua gente. Ascoltò con grande solennità la discussione sugli eventuali pericoli ma, in realtà, vi prestò poca atten-
zione. Silvanoshei era giovane, e come ogni giovane pensava di vivere in eterno. IX VAGABONDAGGI La stessa notte NOTTE in cui Silvanoshei accettò il governo dei Silvanesti, Tasslehoff Burrfoot dormì profondamente e pacificamente, con sua grande delusione. Il kender era stato messo in custodia in una stanza all'interno della guarnigione solamnica di Solace. Tas si era offerto di ritornare nel fantastico carcere a prova di kender, ma la sua richiesta era stata fermamente respinta. La stanza era pulita e ordinata, senza finestre né mobili, tranne un letto dall'aria severa con le traversine di ferro, e un materasso talmente rigido da poter gareggiare con i migliori cavalieri nello stare sull'attenti. La porta non aveva serratura, che avrebbe potuto procurare qualche leggero divertimento dopo cena, ma era tenuta chiusa da una sbarra di legno posta all'esterno. «Tutto sommato», si disse Tasslehoff mentre sedeva sconsolato sul letto, scalciando contro le traversine di ferro e guardandosi tristemente all'intorno, «questa stanza è il posto più noioso in cui sia mai stato in vita mia, con la possibile eccezione dell'Abisso.» Gerard aveva persino portato via la candela, lasciandolo solo nel buio. A quanto sembrava, non c'era altro da fare che andare a dormire. Da tempo, Tasslehoff pensava che qualcuno avrebbe reso un grande servizio all'umanità abolendo il sonno. Una volta ne aveva parlato con Raistlin, osservando che uno stregone della sua competenza avrebbe potuto trovare il modo di eludere il sonno, che rubava buona parte del proprio tempo con scarsi benefici evidenti. Raistlin aveva risposto che il kender doveva essere grato che qualcuno l'avesse inventato, perché il sonno lo rendeva tranquillo e letargico per otto ore al giorno, e solo per questo il mago non l'aveva ancora strangolato. Il sonno aveva un vantaggio, cioè i sogni, ma esso era quasi completamente annullato dal fatto che, risvegliandoti, dovevi affrontare subito la terribile delusione che non si trattava della realtà, che il drago che ti inseguiva con l'intenzione di staccarti la testa a morsi non era vero, e nemmeno
lo era l'orco che cercava di ridurti in poltiglia con una mazza. A questo andava aggiunto il fatto che ti svegliavi sempre nella parte più interessante ed eccitante del sogno: quando il drago ti teneva la testa in bocca, per esempio, o l'orco ti aveva afferrato per il colletto. Il sonno, a parere di Tas, era una completa perdita di tempo. Ogni notte era deciso a non cedervi, e ogni mattino si ritrovava sveglio nella consapevolezza che esso l'aveva colto alla sprovvista, prendendogli la mano. Quella notte, Tasslehoff non combatté. Sfinito dalle fatiche del viaggio e dall'eccitazione e dalla malinconia causate dal funerale di Caramon, perse la battaglia senza lottare. Al risveglio, constatò che non solo il sonno l'aveva preso di sorpresa, ma anche Gerard. Il Cavaliere torreggiava su di lui, trafiggendolo con lo sguardo; la sua consueta espressione era resa ancora più cupa dalla luce della lanterna. «Alzati», gli ingiunse. «Mettiti questi.» Gerard porse a Tas alcuni indumenti puliti, ben fatti, grezzi, sobri e - il kender rabbrividì - funzionali. «Grazie», disse Tas, strofinandosi gli occhi. «So che hai buone intenzioni, ma ho i miei vestiti...» «Non viaggerò con qualcuno che sembra aver perso la lotta con un palo di maggio», ribatté Gerard. «Un nano di fosso cieco potrebbe vederti a sei miglia di distanza. Mettiti questi, e in fretta.» «Una lotta con un palo di maggio», ridacchiò Tas. «Una volta ne ho vista una davvero. Era a una festa di maggio a Solace; Caramon si era messo una parrucca e delle sottane ed era andato a ballare con le giovani vergini, ma la parrucca gli è scivolata sull'occhio...» Gerard alzò un dito, severamente. «Regola numero uno. Non si parla.» Tas aprì la bocca per spiegare che non stava davvero parlando, ma raccontando una storia, il che era tutt'altra cosa. Tuttavia, prima che potesse spiccicare parola, Gerard tirò fuori il bavaglio. Tasslehoff sospirò. Viaggiare gli piaceva, e aspettava quest'avventura con ansia, ma pensava proprio che avrebbe potuto avere un compagno più congeniale. Abbandonò tristemente i suoi abiti colorati, posandoli sul letto con un buffetto affezionato, e si vestì con i pantaloni marroni, le calze di lana marroni, la camicia marrone e il gilè marrone datigli da Gerard. Abbassando lo sguardo su di sé, pensò deluso che somigliava tutto a un ceppo d'albero. Fece per mettersi le mani nelle tasche, ma scoprì che non ce n'erano. «E niente borse», specificò Gerard, prendendo quelle di Tasslehoff e
preparandosi ad aggiungerle al mucchio degli abiti scartati. «Aspetta un attimo...» cominciò Tas, serio. Una delle borse si aprì. La luce della lanterna splendette allegramente sugli scintillanti gioielli del Congegno per Viaggiare nel Tempo. «Oops», disse Tasslehoff con aria estremamente innocente e, almeno stavolta, innocente lo era. «Come hai fatto a prenderlo da me?» indagò Gerard. Tasslehoff scrollò le spalle e, indicando le labbra sigillate, scosse la testa. «Se ti faccio una domanda, puoi rispondere», affermò Gerard, fulminandolo con lo sguardo. «Quando me l'hai rubato?» «Non l'ho rubato», replicò Tas, con dignità. «Rubare è un'azione estremamente malvagia. Te l'ho detto: il congegno ritorna da me. Non è colpa mia; io non lo voglio. Anzi, ieri sera gli ho parlato severamente, ma sembra che non ascolti.» Gerard gli lanciò un'occhiata furiosa, poi, borbottando fra sé che non sapeva perché si prendeva la briga di tutto questo, gettò il congegno magico in una borsa di pelle che portava al fianco. «Ed è meglio che ci stia», concluse cupamente. «Sì, farai meglio a obbedire al Cavaliere!» aggiunse Tas a voce alta, agitando il dito contro il congegno. Per tutta ricompensa, gli fu legato il bavaglio sulla bocca. Poi, Gerard fece scivolare un paio di manette sui polsi di Tas. Tas sarebbe sfuggito a manette normali, ma queste erano studiate appositamente per i polsi sottili di un kender, o così sembrava. Tas si sforzò ripetutamente, ma non riuscì a liberarsi. Gerard gli posò una mano pesante sulla spalla e lo condusse fuori dalla stanza e giù per il corridoio. Il sole non era ancora comparso. La guarnigione era scura e silenziosa. Gerard diede a Tas il tempo di lavarsi le mani e il viso - intorno al bavaglio - e di adempiere a qualunque altro bisogno, tenendolo d'occhio per tutto il tempo e non concedendogli un attimo di intimità. Poi lo scortò fuori dall'edificio. Gerard indossava sopra l'armatura un mantello lungo e avvolgente. Tas non poteva vedere la prima sotto il secondo, e sapeva che il Cavaliere aveva l'armatura solo perché la sentiva sferragliare. Gerard non portava né elmo né spada. Portò il kender ai quartieri dei Cavalieri, dove prese un grosso zaino e quella che avrebbe potuto essere una spada, avvolta in una coperta legata con la corda.
Quindi condusse Tasslehoff, legato e imbavagliato, nella parte anteriore della guarnigione. Il sole, una piccola scheggia di luce all'orizzonte, fu subito inghiottito da un banco di nubi; come se avesse cominciato a sorgere e poi avesse improvvisamente cambiato idea, tornando a letto. Gerard porse una carta al Capitano della Guardia. «Come può vedere, signore, ho il permesso di lord Warren di portar via il prigioniero.» Il capitano lanciò un'occhiata al documento, e poi al kender. Gerard, notò Tas, stava attento a tenersi lontano dalla luce delle torce ardenti montate sui pali di legno a entrambi i lati del cancello. Lo fulminò l'idea che il Cavaliere volesse nascondere qualcosa. La curiosità del kender si risvegliò, evento che spesso si dimostra fatale per il kender stesso e per quelli che si trovano in sua compagnia. Tas fissò Gerard con tutte le sue forze, cercando di vedere cosa c'era di così interessante sotto il mantello. Fu fortunato. Si levò la brezza del mattino. Il mantello svolazzò leggermente. Gerard lo riprese in fretta, se lo tenne stretto davanti, ma non prima che Tasslehoff avesse visto la luce delle torce brillare su un'armatura nera splendente. In circostanze normali, Tas avrebbe domandato eccitato, a gran voce, perché un Cavaliere Solamnico indossasse un'armatura nera. Probabilmente, il kender avrebbe tirato il mantello per ottenere una vista migliore, e richiamato l'attenzione del Capitano della Guardia su quel fatto strano e interessante. Ma il bavaglio impediva a Tas di proferire alcunché, tranne che squittii e umft soffocati e sconnessi. Ripensandoci meglio - e fu solo grazie al bavaglio che Tasslehoff ebbe occasione di ripensarci - il kender si rese conto che, forse, Gerard non voleva far sapere a nessuno che indossava un'armatura nera. Per questo portava il mantello. Affascinato da questa nuova piega dell'avventura, Tasslehoff rimase zitto, limitandosi a comunicare a Gerard con furbe strizzate d'occhio che lui era a conoscenza del suo segreto. «Dove stai portando il piccolo rettile?» indagò il capitano, restituendo a Gerard il documento. «E che cos'ha all'occhio? Non ha la congiuntivite, no?» «Non che io sappia, signore. Vi chiedo scusa, ma non posso dirvi dove ho avuto l'ordine di consegnare il kender, signore. Si tratta di un'informazione segreta», rispose Gerard, con rispetto. Abbassando la voce, aggiunse: «È quello che è stato preso a profanare la tomba, signore.» Il capitano annuì. Guardò di traverso i fagotti portati dal Cavaliere. «E
quelli che cosa sono?» «Prove, signore», spiegò Gerard. Il capitano assunse un'aria assai cupa. «Ha causato molti danni, non è vero? Spero che lo puniscano in modo da farne un esempio.» «Credo che sarà così, signore», replicò Gerard, in tono uniforme. Il capitano salutò Gerard e Tas che uscivano dal cancello, e non prestò più attenzione a loro. Gerard spinse il kender lontano dalla guarnigione, sulla strada principale. Il mattino non era ancora completamente sveglio, ma molta gente sì. I contadini portavano la loro merce al mercato. I carri per il trasporto del legname uscivano diretti ai campi fra le montagne. I pescatori si recavano al Lago Crystalmir. Le persone lanciarono qualche occhiata curiosa al Cavaliere con il mantello - la temperatura era già abbastanza alta - ma, prese dalle loro faccende, gli passarono accanto senza commenti. Se voleva soffocare dal caldo, erano affari suoi. Nessuno degnò Tasslehoff di un secondo sguardo: la vista di un kender legato e imbavagliato non era nulla di nuovo. Gerard e Tas uscirono da Solace per la strada meridionale, una strada che serpeggiava lungo i Monti Sentinella, e li avrebbe lasciati al Passo Sud. Il sole aveva finalmente deciso di uscire dal letto: una chiazza rosa vivace si allargava nel cielo. L'oro impreziosiva le foglie degli alberi, e diamanti di rugiada scintillavano sull'erba. Un bel giorno per le avventure, e Tas si sarebbe divertito immensamente se non fosse stato che lo spingevano, lo incalzavano, e non gli permettevano di fermarsi a guardare niente lungo la strada. Per quanto ostacolato dallo zaino, che sembrava piuttosto pesante, e dalla spada nella coperta, Gerard stabilì un ritmo veloce. Portava entrambi gli oggetti in una mano sola, tenendo l'altra libera per pungolare Tasslehoff nella schiena se questi cominciava a rallentare, oppure per afferrarlo per il colletto se iniziava ad allontanarsi, o dargli uno strattone all'indietro se voleva sfrecciare dall'altra parte della strada. Non si sarebbe detto a guardarlo, ma Gerard, pur essendo di statura e corporatura medie, era estremamente forte. Il Cavaliere era un compagno cupo e silenzioso. Non ricambiò gli allegri «buongiorno» di chi si recava a Solace, e rifiutò freddamente l'offerta di un posto su un carro, fattagli da uno stagnaio ambulante che andava nella loro direzione. Almeno, però, tolse il bavaglio dalla bocca del kender. Tas gliene fu grato. Non più giovane come una volta - cosa che era pronto ad ammettere -
trovava che, fra la rapida andatura imposta dal Cavaliere e le spinte e gli strattoni continui, doveva respirare più di quanto non gli permettesse il solo naso. Subito, Tas fece tutte le domande che aveva messo in serbo, a cominciare da: «Perché la tua armatura è nera? Non ne ho mai viste prima. Be', sì, ma non su un Cavaliere di Solamnia», e finendo con: «Andremo a piedi fino a Qualinesti e se sì, ti dispiace non afferrarmi il colletto della camicia in modo così energico, perché cominci a sfregarmi via la pelle?» Ben presto, Tas scoprì che poteva fare tutte le domande che voleva, purché non si aspettasse risposta. Sir Gerard non replicava mai altro che: «Va' avanti.» «La parte migliore delle ricerche», osservò il kender «è guardare gli spettacoli lungo la strada. Darsi tempo per godersi la vista e indagare tutte le cose interessanti, e parlare con la gente. Se ti fermi a pensarci, lo scopo della ricerca, come quello di combattere il drago, o di salvare il mammut, occupa solo un piccolo lasso di tempo e, per quanto sia sempre molto eccitante, ha periodi molto più lunghi prima e dopo - l'andata e il ritorno - che possono essere molto noiosi se non ci si adopera per cambiarli.» «L'eccitazione non mi interessa», ribatté Gerard. «Voglio semplicemente chiudere con questa spedizione e con te. Prima finisco, e prima potrò fare qualcosa per raggiungere il mio obiettivo.» «E quale sarebbe?» chiese Tas, felice che il Cavaliere gli stesse finalmente parlando. «Unirmi ai combattimenti in difesa di Sanction», rivelò Gerard. «E poi, liberare Palanthas dal flagello dei Cavalieri di Neraka.» «Chi sono?» domandò Tas, interessato. «Erano noti come Cavalieri di Takhisis, ma hanno cambiato nome quando hanno compreso che Takhisis non sarebbe più tornata.» «Come sarebbe, non sarebbe più tornata? Dov'è andata?» Gerard scosse le spalle. «Con gli altri dei, se credi a quel che dice la gente. A mio parere, sostenere che i brutti tempi sono la conseguenza del fatto che gli dei ci hanno lasciato è solo una scusa per i nostri fallimenti.» «Gli dei ci hanno abbandonato!» Tas rimase a bocca aperta. «E quando?» Gerard sbuffò. «Non voglio fare giochetti con te, kender.» Tas meditò su tutto quel che Gerard gli aveva detto. «Non avrai invertito tutta la storia?» chiese infine. «Sanction non è in mano ai Cavalieri Scuri e Palanthas ai vostri?»
«No, non ho invertito niente. Tanto peggio» rispose Gerard. Tas sospirò profondamente. «Sono estremamente confuso.» Gerard grugnì e pungolò il kender, che stava rallentando un po'; anche le sue gambe non erano più quelle di una volta. «Sbrigati», lo incitò. «Non ci manca molta strada.» «Davvero?» osservò docilmente Tas. «Hanno spostato anche Qualinesti?» «Se proprio vuoi saperlo, kender, ho due cavalli che ci aspettano al ponte di Solace. E prima che tu possa fare un'altra domanda, il motivo per cui abbiamo lasciato la guarnigione a piedi è che il cavallo che sto per usare non è il mio solito; e avrebbe provocato commenti, richiesto spiegazioni.» «Ho un cavallo! Un cavallo tutto mio! Che eccitante! Sono secoli che non vado a cavallo.» Tasslehoff si arrestò, alzò lo sguardo sul Cavaliere. «Sono terribilmente spiacente di averti giudicato male. Dopo tutto, mi sa che capisci qualcosa di avventure.» «Muoviti.» Gerard gli diede una spinta. Il kender fu colpito da un pensiero, un pensiero assolutamente stupefacente che gli tolse il poco fiato che gli rimaneva. Si fermò per riprenderlo, poi lo usò per porre la domanda che gli era balzata alla mente. «Io non ti piaccio, vero, sir Gerard?» disse. Non era né arrabbiato né accusatorio, soltanto sorpreso. «No», fece Gerard. «Non mi piaci.» Bevve un sorso d'acqua da una ghirba, che porse a Tas. «Ma se può consolarti, in questo non c'è niente di personale. Provo avversione per tutta la tua gente.» Tas rifletté mentre beveva l'acqua, che era tiepida e aveva assunto il sapore della ghirba. «Forse mi sbaglio, ma credo che preferirei di molto non piacere perché sono io piuttosto che perché sono un kender. Posso fare qualcosa riguardo a me stesso, capisci, ma non posso fare molto riguardo all'essere un kender perché mia madre era un kender e così lo era mio padre, e dev'essere per questo che io sono un kender. «Forse avrei voluto essere un Cavaliere», continuò Tas, infervorandosi. «Anzi, ne sono sicuro, ma gli dei devono aver pensato che mia madre, essendo piccola, non avrebbe potuto dare alla luce qualcuno grosso come te, non senza notevole disagio, e così sono nato kender. In realtà, non offenderti, ma ritiro ciò che ho detto. Quel che veramente avrei desiderato essere era un draconico, sono così minacciosi, con tutte quelle scaglie, e poi hanno le ali. Ho sempre voluto le ali. Ma, naturalmente, mia madre avrebbe fatto una fatica estrema a gestire la situazione.»
«Muoviti», fu l'unica risposta che venne da Gerard. «Potrei aiutarti a portare quello zaino, se mi togliessi queste manette», si offrì Tas, pensando che se si fosse reso utile, il Cavaliere avrebbe cominciato ad apprezzarlo. «No», ribatté Gerard, senza nemmeno un grazie. «Perche non ti piacciono i kender?» insistette Tas. «Flint diceva sempre che non gli piacevano, ma so che, nel profondo del cuore, mentiva. Quanto a Raistlin, non credo che li amasse molto; una volta ha cercato di uccidermi, il che mi ha lasciato intendere i suoi veri sentimenti. Però l'ho perdonato, anche se non lo perdonerò mai per aver ucciso il povero Gnimsh, ma questa è un'altra storia. Te la racconterò dopo. Dov'ero rimasto? Oh, sì. Stavo per aggiungere che Sturm Brightblade era un Cavaliere, e i kender gli piacevano, per cui mi chiedevo che cos'hai tu contro di noi.» «La vostra gente è frivola e sventata», proclamò Gerard con voce dura. «Questi sono giorni bui. La vita è una questione seria, e andrebbe presa sul serio. Non possiamo permetterci gioia e divertimento.» «Ma senza gioia e divertimento, per forza i giorni sono bui», obiettò Tas. «Che altro ti aspetti?» «Quanta gioia hai provato, kender, quando hai sentito che centinaia dei tuoi simili erano stati massacrati a Kendermore dalla grande dragonessa Malystrx?» chiese cupamente Gerard. «E che i sopravvissuti sono stati scacciati dalle loro case, e sembrano colpiti da una sorta di maledizione e si chiamano "afflitti" perché ora conoscono la paura, e portano spade, non borse? Hai riso quando hai sentito quella notizia, kender, e cantato "trallalà, come siamo felici oggi"?» Tasslehoff si fermò, voltandosi così bruscamente che il Cavaliere quasi inciampò in lui. «Centinaia? Uccisi da un drago?» Tas era inorridito. «Come sarebbe, centinaia di kender sono morti a Kendermore? Non l'ho mai sentito. Non ho mai sentito niente del genere! Non è vero. Stai mentendo... No», aggiunse tristemente. «Non puoi mentire. Sei un Cavaliere, e anche se non ti piaccio sei moralmente obbligato a non mentirmi.» Gerard non disse nulla. Posò la mano sulla spalla del kender e lo girò materialmente, rimettendolo, ancora una volta, in carreggiata. Tas avvertì una strana sensazione vicino al cuore, una specie di stretta, come se avesse inghiottito uno dei serpenti costrittori più feroci. Era fastidiosa, per nulla piacevole. In quel momento, capì che il Cavaliere aveva detto la verità, che centinaia dei suoi simili erano morti in modo orribile e
tormentoso. Non sapeva come fosse successo, ma sapeva che era vero, vero come l'erba che cresceva lungo la strada, o i rami degli alberi sopra di loro, o il sole che brillava attraverso le foglie verdi. Era vero in questo mondo, dove il funerale di Caramon era stato diverso da come lo ricordava. Ma non era stato vero in quell'altro mondo, il mondo del primo funerale di Caramon. «Mi sento strano», annunciò con voce fioca. «Ho le vertigini, come se dovessi vomitare. Se non ti dispiace, credo che rimarrò zitto per un po'.» «Evviva», disse il Cavaliere, aggiungendo: «Avanti», con un'altra spinta. Camminarono in silenzio e, infine, a metà mattinata circa, raggiunsero il ponte di Solace che attraversava il torrente omonimo, un ruscello pigro e sinuoso che vagava per le colline dei Monti Sentinella, e poi ruzzolava allegramente per il Passo Sud, prima di raggiungere il Fiume della Rabbia Bianca. Il ponte era ampio, per accogliere i carri e le squadre di cavalli, oltre che il traffico a piedi. Ai vecchi tempi, il ponte era stato gratuito per i viandanti, ma con l'aumentare del traffico, erano cresciute anche le spese di manutenzione. I padri della città di Solace, stanchi di impiegare le imposte per far funzionare il ponte, eressero una barriera di pedaggio con il relativo esattore. La cifra richiesta era modesta. Il livello del torrente di Solace era basso, in certi punti si poteva attraversarlo a piedi, ed esistevano vari guadi lungo la strada. Tuttavia, le sponde erano ripide e scivolose, e più di un carico di merce preziosa era finito in acqua. La maggior parte dei viaggiatori sceglieva di pagare la tassa. A quell'ora del giorno, il Cavaliere e il kender furono gli unici ad attraversare. L'esattore stava facendo colazione nella sua cabina. Due cavalli erano legati sotto un gruppo di pioppi che crescevano lungo la riva. Un giovanotto che aveva l'aria e l'odore del mozzo di stalla sonnecchiava sull'erba. Uno dei cavalli era nero lucente, con il manto che splendeva al sole. Era irrequieto, raspava il terreno con gli zoccoli e di tanto in tanto tirava le redini, come per saggiare se poteva liberarsi. L'altra bestia era un piccolo pony femmina, grigio pomellato, con gli occhi scintillanti e le orecchie e il naso scossi da spasmi. Aveva gli zoccoli quasi completamente coperti da lunghe strisce di pelo. Il serpente allentò notevolmente la stretta intorno al cuore di Tas, quando questi vide il pony, che sembrava guardarlo con occhio amichevole, per quanto un po' birichino. «È mio?» chiese, eccitato da non credersi.
«No», rispose Gerard. «I cavalli sono stati noleggiati per il viaggio, e basta.» Diede un calcio al mozzo di stalla, che si svegliò e, grattandosi e sbadigliando, disse che gli dovevano trenta monete d'acciaio per i cavalli, le selle e le coperte, dieci delle quali sarebbero state loro restituite quando i cavalli fossero tornati incolumi. Gerard tirò fuori il borsellino e contò il denaro. Il mozzo - tenendosi il più possibile lontano da Tasslehoff - lo ricontò con diffidenza e lo depositò in un sacchetto, che infilò sotto la camicia coperta di paglia. «Come si chiama il pony?» chiese Tas, entusiasta. «Grigetta», replicò il mozzo. Tas aggrottò le sopracciglia. «Non è un nome che dimostri molta fantasia. Penso che avreste potuto tirar fuori qualcosa di più originale. Come si chiama l'altro cavallo?» «Nerone», rivelò il mozzo, stuzzicandosi i denti con un filo di paglia. Tasslehoff sospirò profondamente. L'esattore emerse dalla sua casetta e, quando Gerard gli porse l'ammontare della tassa, alzò la barriera. Poi scrutò il Cavaliere e il kender con curiosità estrema; sembrava pronto a passare il resto della mattinata a discutere su dove i due erano diretti e perché. Gerard rispondeva seccamente «sì» o «no» a seconda del necessario. Caricò Tas sul pony, che girò la testa per guardare il kender e gli strizzò l'occhio, come se condividessero qualche meraviglioso segreto. Gerard posò lo zaino misterioso e la spada avvolta nella coperta sul dorso del proprio cavallo, legandoli strettamente. Afferrate le redini del pony di Tas, montò in sella e partì, lasciando l'esattore a parlare da solo sul ponte. Il Cavaliere apriva la strada, senza lasciare le redini del pony. Tas cavalcava dietro, stringendo il pomo della sella con le mani ammanettate. Nerone non sembrava amare il pony grigio molto più di quanto Gerard amasse il kender; forse non sopportava l'andatura lenta cui era costretto per aspettarlo, o forse era un cavallo dalla natura seria e severa, che si adombrava per la giocosità mostrata dal pony. Quale che fosse la ragione, se sorprendeva il compagno a fare un balletto con gli zoccoli per puro divertimento, o se pensava che questi potesse cedere alla tentazione di fermarsi a mordicchiare dei ranuncoli lungo la strada, girava la testa e guardava freddamente lui e il kender. Avevano percorso circa cinque miglia, quando Gerard ordinò l'alt. Fermo sulla sella, guardò a destra e a sinistra. Da quando avevano lasciato il
ponte, non avevano incontrato nessuno, e ora la strada era completamente deserta. Smontando da cavallo, Gerard si tolse il mantello, lo arrotolò e lo infilò in mezzo alle coperte. Indossava la corazza nera decorata con il teschio e il giglio della morte di un Cavaliere Scuro. «Che bel travestimento!» esclamò Tas, deliziato. «Hai detto a lord Warren che avresti viaggiato da Cavaliere e non hai mentito. Solo, non hai specificato che tipo di Cavaliere saresti stato. Mi travestirò anch'io da Cavaliere Scuro? Ossia, da Cavaliere di Neraka? Oh, no, ci sono! Non dirmelo: sarò il tuo prigioniero!» Tasslehoff era piuttosto orgoglioso di sé per aver capito. «La cosa si preannuncia più divertente - cioè più interessante di quanto mi aspettassi.» Gerard non sorrise. «Questa non è una gita di piacere, kender», obiettò con voce dura e cupa. «Tu tieni nelle tue mani la mia vita e la tua, oltre all'esito della nostra missione. Devo essere un idiota, per affidare qualcosa di così importante a uno della tua razza, ma non ho scelta. Fra poco entreremo nel territorio controllato dai Cavalieri di Neraka. Se dici una parola sul fatto che sono un Cavaliere Solamnico, verrò arrestato e giustiziato come spia. Ma, prima di uccidermi, mi tortureranno per scoprire cosa so. Per torturare la gente, usano la ruota. Kender, hai mai visto un uomo disteso sulla ruota?» «No, ma una volta ho visto Caramon fare ginnastica ritmica, e diceva che era una tortura...» Gerard lo ignorò. «Ti legano mani e piedi alla ruota, e poi li tirano in direzioni opposte. Braccia e gambe, polsi e gomiti, ginocchia e caviglie escono dalle articolazioni. Il dolore è straziante, ma il bello di questa tortura è che la vittima, pur soffrendo terribilmente, non muore. Possono tenere un uomo sulla ruota per giorni. Le ossa non tornano mai al posto giusto. Quando lo tirano giù, è uno storpio. Lo devono portare di peso al patibolo, metterlo su una sedia per poterlo impiccare. Questo sarà il mio destino se mi tradisci, kender. Capisci?» «Sì, sir Gerard», replicò Tasslehoff. «E anche se non ti piaccio, la qual cosa devo dirti mi amareggia davvero, non vorrei vederti disteso sulla ruota. Forse qualcun altro - perché non ho mai visto un braccio schizzare fuori dalla sua articolazione - ma non tu.» Gerard non sembrò colpito da quest'offerta magnanima. «Tieni a bada la lingua, per il tuo bene oltre che per il mio.» «Lo prometto», disse Tas, portandosi la mano al ciuffo e dandogli uno strattone che gli fece venire le lacrime agli occhi per il dolore. «Sono ca-
pace di tenere un segreto, sai. Ne ho tenuti moltissimi, anche importanti. Terrò anche questo. Puoi contare su di me, o non mi chiamo più Tasslehoff Burrfoot.» Gerard sembrò ancora meno impressionato di prima. Con aria molto accigliata, rimontò in sella e ripartì: un Cavaliere Scuro che guidava il suo prigioniero. «Quanto impiegheremo a raggiungere Qualinesti?» chiese Tas. «A questo ritmo, quattro giorni», replicò Gerard. Quattro giorni. Il Cavaliere non prestò più attenzione al kender, rifiutandosi di rispondere anche a una sola domanda. Era sordo alle storie più mirabolanti di Tas, e non si prese la briga di controbattere quando questi suggerì che conosceva una scorciatoia molto eccitante attraverso il Bosco di Darken. «Quattro giorni così! Non mi piace lamentarmi», borbottò Tas, parlando a se stesso e al pony, dal momento che il Cavaliere non ascoltava, «ma quest'avventura si sta rivelando monotona e noiosa. Non è nemmeno un'avventura, ma solo una sgobbata, per dirla giusta.» Lui e il pony arrancavano, con la prospettiva di quattro giorni senza nessuno con cui parlare, niente da fare, niente da vedere tranne alberi e montagne; questi ultimi sarebbero stati interessanti se Tas avesse potuto esplorarli ma, a distanza, ne aveva già visti in quantità. Il kender era talmente annoiato che quando il congegno magico ritornò da lui, comparendo all'improvviso fra le sue mani ammanettate, fu tentato di usarlo. Qualunque cosa, anche essere spiaccicati da un gigante, sarebbe stata meglio di quello strazio. Se non fosse stato per il pony, l'avrebbe fatto. In quel momento, il cavallo nero si girò per guardare minacciosamente il pony, e forse qualche sorta di comunicazione passò fra cavallo e cavaliere, perché anche Gerard si voltò. Con una scrollata di spalle e un sorriso imbarazzato, Tas alzò il Congegno per Viaggiare nel Tempo. L'espressione fredda e immobile come quella del teschio sulla sua corazza nera, Gerard si fermò, aspettando che il pony arrivasse al suo fianco. Allungò la mano, strappò il congegno magico a Tas e, senza una parola, lo gettò in una bisaccia. Tasslehoff sospirò di nuovo. Sarebbero stati quattro lunghi giorni. X
IL SIGNORE DELLA NOTTE L'Ordine dei Cavalieri di Takhisis era nato in un sogno di oscurità ed era stato fondato su un'isola remota e segreta nel lontano nord di Krynn, un'isola chiamata Galera della Tempesta. Il quartiere generale sull'isola era stato gravemente danneggiato durante la guerra del Caos. Le acque ribollenti del mare avevano sommerso completamente la fortezza; si mormorava che fosse stata opera della dea del mare, Zeboim, straziata dal dolore per la morte del figlio, lord Ariakan, fondatore dell'ordine dei Cavalieri. Sebbene le acque si fossero ritirate, nessuno era tornato. La fortezza era ormai ritenuta troppo distante per essere di utilizzo pratico per i Cavalieri di Takhisis, che erano usciti dalla guerra del Caos battuti e malconci, privati della loro Regina e della sua Visione, ma con una forza considerevole, una forza da non sottovalutare. Ecco perché un Cavaliere del Teschio, Mirielle Abrena, nel corso del primo Consiglio degli Ultimi Eroi, si sentì sufficientemente sicura da chiedere che ai superstiti dell'ordine venissero assegnate delle terre sul continente di Ansalon come compenso per i loro atti eroici nel corso della guerra. Il consiglio permise ai Cavalieri di tenere i territori che avevano conquistato: Qualinesti (come sempre, erano pochi gli umani che avevano a cuore gli elfi) e le terre nella parte nordorientale di Ansalon, inclusa Neraka e dintorni. I Cavalieri Scuri accettarono quella regione, sebbene parte di essa fosse distrutta e maledetta, e si diedero da fare per rafforzare il loro ordine. Molti dei partecipanti a quel primo consiglio speravano che i Cavalieri sarebbero morti per asfissia, a causa dei fumi solforosi di Neraka. I Cavalieri Scuri non solo sopravvissero, ma prosperarono. Parte del merito andava alla guida di Abrena, Signora della Notte, che al titolo militare aggiunse quello politico di governatrice generale di Neraka. Abrena inaugurò una nuova politica di reclutamento, una politica non più pignola, schizzinosa e restrittiva come quella di un tempo. Per i Cavalieri era semplice riempire i ranghi. Nei giorni oscuri seguiti alla guerra del Caos, la gente si sentiva sola e abbandonata. Ad Ansalon nacque quello che poteva essere definito l'Ideale della Grande «I», il cui motto era: «Nessuno conta. Soltanto Io.» Seguendo questo principio, i Cavalieri Scuri si rivelarono abili governanti. Sebbene non concedessero molto in termini di libertà personale, in-
coraggiarono il commercio e promossero i mestieri. Quando Khellendros, il grande Drago Azzurro, catturò la città di Palanthas, affidò ai Cavalieri Scuri il compito di governarla. Inizialmente terrorizzati dall'idea di ciò che quei crudeli dittatori avrebbero fatto alla loro città, in seguito gli abitanti di Palanthas si erano resi conto, non senza stupore, che in realtà sotto il governo dei Cavalieri Scuri, stavano prosperando. E sebbene venissero tassati, i profitti che riuscivano a conservare erano tali da indurli a pensare che la vita sotto la dittatura dei Cavalieri Scuri non fosse poi così male. I Cavalieri facevano rispettare la legge e mantenevano l'ordine, si opponevano alla Corporazione dei Ladri e cercavano di liberare la città dai nani di fosso. La Purga dei Draghi, che seguì l'arrivo dei grandi draghi, inizialmente spaventò e mandò su tutte le furie i Cavalieri di Takhisis, che nel massacro persero molti dei loro animali. I Cavalieri combatterono invano contro la grande dragonessa rossa, Malys, e i suoi cugini. Molti rappresentanti dell'ordine di Takhisis morirono, così come perirono molti dei loro draghi. Ma ancora una volta, l'astuta guida di Mirielle riuscì a trasformare un disastro in un trionfo. I Cavalieri Scuri strinsero dei patti segreti con i draghi, impegnandosi a raccogliere i tributi e a mantenere la legge e l'ordine nelle terre governate dalle mostruose creature. In cambio, queste ultime diedero carta bianca ai Cavalieri e si impegnarono a non attaccare più i draghi sopravvissuti di proprietà degli umani. Gli abitanti di Palanthas, Neraka e Qualinesti non sapevano niente del patto stretto fra i Cavalieri e i Draghi. Sapevano soltanto che, ancora una volta, i Cavalieri Scuri li avevano difesi contro un terribile nemico. Al contrario, i Cavalieri di Solamnis e i mistici della Cittadella della Luce erano a conoscenza dell'esistenza dei patti, ma non ne avevano le prove. Sebbene fra i ranghi dei Cavalieri Scuri vi fossero ancora individui fedeli agli antichi ideali di onore e abnegazione promossi dal defunto Ariakan, erano principalmente membri anziani, considerati ormai fuori dal mondo. Una nuova Visione aveva sostituito quella antica; una Visione che si basava sui poteri mistici del cuore sviluppati da Goldmoon nella Cittadella della Luce e rubati da numerosi Cavalieri del Teschio che, sotto mentite spoglie, erano penetrati nella Cittadella al fine di imparare a utilizzare tali poteri per i loro ambiziosi scopi. Quando se n'erano andati, avevano ormai sviluppato preziose abilità curative ma, soprattutto, una pericolosa e preoccupante capacità di manipolare i pensieri altrui. Forti della loro facoltà di controllare non solo i corpi ma anche le menti di coloro che entravano nell'ordine, i Cavalieri del Teschio avevano rag-
giunto posizioni di spicco fra le file dei Cavalieri Scuri. Sebbene questi ultimi non avessero mai cessato di affermare che la regina Takhisis sarebbe tornata, i Cavalieri del Teschio avevano smesso di crederci. Così come avevano smesso di credere in tutto, eccetto nella loro forza e nel loro potere. I Cavalieri del Teschio, che amministravano la nuova Visione, erano esperti nel sondare la mente di un eventuale candidato, scoprendone le più segrete paure, giocando con esse e al tempo stesso promettendogli ciò che più desiderava, il tutto in cambio della sua cieca obbedienza. I Cavalieri del Teschio divennero così potenti, grazie all'utilizzo della nuova Visione, che i più stretti collaboratori di Mirielle Abrena cominciarono a guardarli con sospetto. Ma, soprattutto, misero in guardia Abrena contro il capo di quei Cavalieri, il Giudice, un uomo di nome Morham Targonne. Abrena non diede peso a simili avvertimenti. «Targonne è un abile amministratore», disse. «Devo ammetterlo. Ma dopo tutto, che cos'è un amministratore? Nient'altro che un impiegato. Ed è quello che è Targonne. Non mi sfiderebbe mai per ottenere il comando. La vista del sangue gli dà la nausea. Rifiuta di prendere parte a giostre e tornei e se ne resta rinchiuso nella sua squallida stanzetta, immerso nei suoi conti. Non ha il fegato per combattere.» Abrena diceva la verità. Targonne non aveva il fegato per combattere. Non si sarebbe mai sognato di sfidare Abrena in un onorevole combattimento per la detenzione del potere. La vista del sangue lo faceva stare male. E così la fece avvelenare. Al funerale di Abrena, Targonne annunciò che, come Signore dei Cavalieri del Teschio, era il legittimo successore di Mirielle. Nessuno si fece avanti per sfidarlo. Coloro che avrebbero potuto farlo, amici e sostenitori di Abrena, tennero la bocca chiusa, per paura di dovere ingoiare quella stessa «carne contaminata» che aveva ucciso il loro comandante. Alla, fine comunque, Targonne uccise anche loro, divenendo così il capo indiscusso. Lui e i Cavalieri esperti in mentalismo iniziarono a utilizzare i loro poteri per esplorare le menti dei seguaci, al fine di stanare traditori e insoddisfatti. Targonne proveniva da una ricca famiglia proprietaria di vasti terreni a Neraka. La famiglia era originaria di Jelek, una città a nord di quella che un tempo era stata la capitale Neraka. Il motto della famiglia Targonne era quello della Grande «I», che si intrecciava con quello della Grande «P» di profitto. I Targonne avevano raggiunto ricchezza e potere con l'ascesa del-
la Regina Takhisis, fornendo inizialmente le armi ai capi dei suoi eserciti e in seguito, quando era iniziato il suo declino, fornendo armi ai suoi nemici. Grazie alla ricchezza accumulata con la vendita delle armi, la famiglia Targonne aveva acquistato grandi appezzamenti di terreno, soprattutto nella fertile zona di Neraka. Il rampollo della famiglia Targonne aveva avuto persino l'incredibile fortuna (lui sosteneva si fosse trattato di preveggenza) di portare il suo denaro via dalla città, pochi giorni prima che il Tempio esplodesse. Al termine della Guerra delle Lance, quando Neraka era una città sconfitta, saccheggiata da bande di soldati, di goblin e draconici, lui era l'unico a possedere ciò di cui la gente aveva un disperato bisogno: grano e monete di acciaio. Uno dei desideri di Abrena era stato quello di costruire una fortezza per i Cavalieri Scuri nella parte meridionale di Neraka, vicino al vecchio tempio. Aveva fatto preparare i progetti e aveva mandato una squadra di uomini a iniziare la costruzione. Ma tale era stato il terrore indotto dalla valle maledetta e dal misterioso e ossessionante Canto della Morte, che gli uomini erano fuggiti immediatamente. La capitale venne allora spostata nella parte settentrionale della valle di Neraka, un luogo per alcuni ancora troppo vicino alla parte meridionale. Il primo ordine di Targonne fu quello di spostare nuovamente la capitale. Il secondo di cambiare il nome dell'ordine. Stabilì il quartier generale dei Cavalieri di Neraka a Jelek, vicino alle attività della famiglia. Molto più vicino di quanto la maggior parte dei Cavalieri di Neraka potesse immaginare. Jelek, posta all'incrocio fra le due strade principali che attraversavano Neraka, era diventata una città fiorente e brulicante di gente. Per un incredibile colpo di fortuna o forse grazie ad abili contrattazioni, l'ira dei grandi draghi l'aveva risparmiata. Mercanti provenienti da tutta Neraka, persino dalla meridionale Khur, si affrettavano verso Jelek per intraprendere nuove attività o incrementare quelle già esistenti. E fino a quando si fermavano per pagare i tributi richiesti ai Cavalieri di Neraka e per porgere i loro omaggi al Signore della Notte e governatore generale Targonne, erano i benvenuti. Gli omaggi tributati a Targonne risultavano freddi al tatto ed emettevano un piacevole tintinnio quando venivano depositati, insieme ad altre dimostrazioni di rispetto, nella grande cassetta per il denaro del Signore della Notte, ma mercanti e commercianti si guardavano bene dal protestare. Co-
loro che si lamentavano o ritenevano gli omaggi verbali sufficienti, si ritrovavano ben presto a navigare in cattive acque. E se persistevano nel loro atteggiamento, solitamente venivano trovati morti per strada, scivolati accidentalmente su uno stiletto. Targonne stesso aveva progettato la fortezza dei Cavalieri di Neraka che torreggiava sulla città di Jelek. L'aveva infatti fatta costruire sul promontorio più alto della città, da dove poteva controllare sia quest'ultima, sia la valle circostante. Forma e struttura della fortezza erano estremamente pratiche: una serie di quadrati e rettangoli disposti l'uno sull'altro con torri squadrate. Le poche finestre aperte sulle spesse mura erano strette e longitudinali. Le mura interne ed esterne erano semplici e disadorne. La fortezza era così squallida e macabra che i forestieri giunti in città la scambiavano per una prigione o un edificio amministrativo. La vista di figure in armature nere che pattugliavano le mura, modificava subito la loro prima impressione che, dopo tutto, non era poi così lontana dalla verità. I sotterranei della fortezza ospitavano infatti una prigione, al di sotto della quale si trovava la camera del Tesoro dei Cavalieri, sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro. Il quartiere generale e gli appartamenti di Targonne si trovavano nella fortezza. Entrambi avevano una struttura essenziale, rigorosamente funzionale, e se la fortezza veniva scambiata per un edificio amministrativo, il suo comandante veniva preso per un impiegato. Chi doveva incontrare il Signore della Notte veniva condotto in un ufficio piccolo e angusto, dalle pareti spoglie e l'arredamento essenziale, dove doveva aspettare che un omuncolo pelato e occhialuto dagli abiti scuri, ma di ottimo taglio, terminasse di trascrivere delle cifre su un grande libro mastro rilegato in pelle. Pensando di essere alla presenza di qualche funzionario di grado inferiore, che lo avrebbe condotto dal Signore della Notte, il visitatore finiva per gironzolare spazientito per la stanza, la mente che vagava. Ma i suoi pensieri venivano impigliati, come farfalle in una ragnatela, dall'uomo dietro la scrivania. Quest'ultimo ricorreva ai suoi poteri per esplorare ogni angolo della mente del visitatore. Trascorsi alcuni minuti, durante i quali il ragno aveva sfiancato la sua preda, l'uomo sollevava la testa pelata, scrutava lo sconosciuto attraverso gli occhiali e lo informava che si trovava in presenza di Targonne, il Signore della Notte. Il visitatore che quel giorno sedeva nella stanzetta sapeva perfettamente che l'uomo dall'aspetto mite era in realtà il suo signore e governatore. Si trattava infatti del comandante in seconda di lord Milles e sebbene sir Ro-
derick non avesse ancora incontrato Targonne, lo aveva visto in veste ufficiale ad alcune cerimonie dell'ordine. Il Cavaliere stava sull'attenti, immobile e impettito, in attesa che il superiore mostrasse di essersi accorto della sua presenza. Essendo stato avvisato dei poteri di Targonne, il Cavaliere cercava di mantenere allineati anche i propri pensieri, sebbene con scarso successo. Ancora prima che sir Roderick parlasse, lord Targonne sapeva già molto su ciò che era accaduto a Sanction. Ma poiché non amava fare sfoggio delle sue capacità, invitò il Cavaliere a sedersi. Sir Roderick, che per la stazza possente e robusta avrebbe potuto sollevare Targonne per il colletto senza alcuno sforzo, si accomodò sul bordo dell'unica sedia a disposizione dei visitatori. Era teso e rigido. Forse perché ormai assomigliava a ciò che più amava, gli occhi di Morham Targonne sembravano due monete d'acciaio: piatte, lucenti e fredde. Chi guardava in quegli occhi non vedeva un'anima, ma soltanto numeri e cifre. Tutto ciò su cui Targonne posava gli occhi veniva ridotto a debiti e crediti, profitti e perdite, soppesato in senso economico, contato al centesimo e aggiunto in una colonna o nell'altra del registro contabile della sua mente. Sir Roderick vide se stesso riflesso nell'acciaio luccicante di quegli occhi di ghiaccio e si sentì spostato nella colonna delle spese inutili. Si chiese se fosse vero che gli occhiali fossero antichi manufatti recuperati dalle rovine di Neraka e che donassero a chi li indossava la capacità di leggere nella mente altrui. Roderick iniziò a sudare nonostante la temperatura fresca, assicurata, estate e inverno, dalle mura spesse e massicce dell'edificio. «Il mio aiutante di campo mi ha detto che venite da Sanction, sir Roderick», disse Targonne. La sua voce aveva il tono gentile, piacevole, modesto, dell'impiegato. «Come va l'assedio della città?» È necessario sottolineare che la famiglia Targonne possedeva numerose proprietà nella città di Sanction, proprietà che aveva perso quando i Cavalieri di Neraka avevano perso la città. Ecco perché la conquista di Sanction era, per Targonne, una delle priorità dell'ordine dei Cavalieri. Sir Roderick aveva ripassato il discorso nel corso dei due giorni di viaggio da Sanction a Jelek e ora era pronto a rispondere. «Eccellenza, sono qui per comunicarvi che il giorno successivo al Giorno di Metà Anno, i maledetti Solamnici hanno tentato di spezzare l'assedio cercando di ingannare il nostro esercito. I bastardi hanno provato a indurre il mio comandante, lord Milles, a sferrare l'attacco facendogli credere di avere abbandonato la città. Ma lord Milles ha intuito il loro piano e, a sua
volta, li ha fatti cadere in trappola. Lanciando un attacco contro la città di Sanction, lord Milles ha attirato i Cavalieri fuori dai loro nascondigli. Ha quindi simulato una ritirata. I Cavalieri hanno abboccato all'amo e sono partiti all'inseguimento delle nostre forze. Alla Scorciatoia di Beckard, lord Milles ha ordinato alle nostre truppe di interrompere la fuga e opporre resistenza. I Solamnici sono stati sbrigativamente sconfitti, molti di loro sono stati uccisi o feriti. Non hanno potuto fare altro che ritirarsi nuovamente a Sanction. Lord Milles è felice di potervi riferire, Eccellenza, che la valle nella quale è accampato il nostro esercito resta tranquilla e sicura.» Le parole di sir Roderick entrarono nelle orecchie di Targonne, mentre i pensieri gli entrarono nella mente. Sir Roderick stava rivivendo la disperata fuga per portare in salvo la vita accanto a lord Milles che, comandando dalle retrovie, si era ritrovato coinvolto nel fuggi fuggi. In un altro angolo della mente del Cavaliere, Targonne trovò un'immagine estremamente interessante, sebbene al contempo preoccupante. L'immagine era quella di una giovane donna in armatura nera, esausta e imbrattata di sangue, che veniva festeggiata e osannata dalle truppe di lord Milles. Targonne udì il suo nome risuonare nella mente di Roderick: «Mina! Mina!» Con la punta della penna, il Signore della Notte si grattò i sottili baffi che gli coprivano il labbro superiore. «Effettivamente sembra una grande vittoria. I miei complimenti a lord Milles.» «Sì, Eccellenza.» Sir Roderick sorrise, compiaciuto. «Grazie, Eccellenza.» «Sarebbe stata una vittoria ancora più grande se lord Milles avesse effettivamente conquistato la città di Sanction come gli era stato ordinato, ma immagino che si occuperà di questa piccola questione quando lo riterrà opportuno.» Sir Roderick non sorrideva più. Iniziò a parlare, tossì, si schiarì la gola. «In realtà, Eccellenza, saremmo stati sicuramente in grado di catturare Sanction se non fosse stato per il comportamento sovversivo di uno dei nostri ufficiali minori. Disubbidendo agli ordini di lord Milles, questo ufficiale ha richiamato un'intera compagnia di arcieri dalla mischia, privandoci così della copertura necessaria per sferrare un attacco alle mura di Sanction. Ma non basta. Presa dal panico, l'ufficiale ha ordinato agli arcieri di scagliare le frecce, mentre i nostri uomini erano ancora sulla prima linea. Le perdite riportate sono state causate esclusivamente dall'incompetenza di quell'ufficiale. Per questo lord Milles non ha ritenuto opportuno procedere con l'attacco.»
«Senti, senti», mormorò Targonne. «Immagino che questo giovane ufficiale sia stato immediatamente punito.» Sir Roderick si mordicchiò il labbro. Quella era la parte più difficile. «Lord Milles avrebbe voluto farlo, Eccellenza, ma ha ritenuto che prima fosse meglio consultarsi con voi. Si è infatti creata una situazione per la quale il mio signore non sa come comportarsi. La giovane donna esercita sugli uomini una sorta di influenza magica e misteriosa, Eccellenza.» «Davvero?» Targonne si finse sorpreso. Quando riprese a parlare il suo tono era sarcastico. «Le ultime notizie davano i poteri magici dei nostri maghi in netto declino. Non sapevo che avessimo una maga così dotata.» «Non è una che utilizza la magia, Eccellenza. O, per lo meno, così dice. Afferma di essere una messaggera inviato da un dio: l'Unico, il Vero Dio.» «E come si chiama questo dio?» domandò Targonne. «Ah, quella è furba, Eccellenza. Sostiene che il nome del dio è troppo sacro per poterlo pronunciare.» «Gli dei sono venuti e se ne sono andati», esclamò spazientito Targonne. Nella mente di sir Roderick vedeva un'immagine sorprendente e inquietante e voleva sentire l'uomo parlarne. «I nostri soldati non si lasciano intrappolare dalle parole.» «Eccellenza, la donna non ricorre solo alle parole. Fa miracoli. Miracoli come negli ultimi tempi non se ne sono più visti a causa dell'indebolimento dei nostri maghi. Questa ragazza è in grado di riattaccare arti mozzati. Basta che posi le mani sul petto di un soldato, perché una ferita si cicatrizzi. Se dice a un uomo con la schiena spezzata di alzarsi, questi si alza! L'unico miracolo che non fa è resuscitare i morti. Per loro prega.» Sir Roderick udì lo scricchiolio di una sedia; alzò lo sguardo e vide gli occhi di acciaio di Targonne illuminati da lampi d'ira. «Naturalmente», si affrettò ad aggiungere l'ufficiale per riparare l'errore commesso, «lord Milles sa che non si tratta di miracoli, Eccellenza. Lui sa che quella donna è una ciarlatana. È solo che non riusciamo a capire come faccia», aggiunse in tono mesto. «E gli uomini sembrano molto attratti da lei.» Targonne capì che tutti i fanti e buona parte dei Cavalieri si erano ammutinati e rifiutavano di ubbidire a Milles. Avevano fatto oggetto della loro fedeltà una ragazzina in armatura nera. «Quanti anni ha la ragazza?» domandò Targonne, aggrottando la fronte. «Probabilmente non più di diciassette, Eccellenza», rispose sir Roderick. «Diciassette!» Targonne non poteva credere alle proprie orecchie. «In-
nanzitutto, perché Milles l'ha nominata ufficiale?» «Non l'ha fatto, Eccellenza», spiegò sir Roderick. «Non fa parte del nostro contingente. Prima del suo arrivo nella valle nessuno di noi l'aveva mai vista.» «Non potrebbe essere una solamnica sotto mentite spoglie?» gli chiese Targonne. «Dubito, Eccellenza. È stato a causa sua se i Solamnici hanno perso la battaglia», replicò sir Roderick, inconsapevole del fatto che ciò che aveva appena affermato non concordava con quanto raccontato in precedenza. Targonne notò l'incongruenza, ma era troppo concentrato sui suoi calcoli per prestarvi attenzione; si limitò ad annotarsi mentalmente che Milles era un incompetente pasticcione e che andava sollevato dal suo incarico il più presto possibile. Suonò una campanella d'argento posata sulla scrivania. La porta dell'ufficio si aprì immediatamente e l'aiutante di campo entrò nella stanza. «Controlla negli elenchi dell'Ordine», ordinò Targonne, «e cerca... come avete detto che si chiama?» domandò a Roderick, sebbene sentisse il nome echeggiare nella mente del cavaliere. «Mina, Eccellenza.» «Miinaa», ripeté Targonne, riempiendosi la bocca con il nome come se volesse assaggiarlo. «E basta? Niente cognome?» «Non che io sappia, Eccellenza.» L'aiutante se ne andò e passò l'incarico ad alcuni subalterni. I due Cavalieri se ne stettero seduti in silenzio in attesa del risultato della ricerca. Targonne ne approfittò per continuare a setacciare la mente di Roderick, che gli confermò il suo sospetto: l'assedio contro Sanction era nelle mani di un babbeo. Se non fosse stato per quella ragazza, l'assedio sarebbe stato infranto, i Cavalieri Scuri sconfitti, annientati, i Solamnici trionfanti e in totale controllo di Sanction. L'aiutante tornò. «Dagli elenchi non risulta alcun cavaliere di nome "Mina", Eccellenza. Nemmeno un nome che gli somigli.» Con un gesto della mano, Targonne congedò l'uomo. «Geniale, Eccellenza!» esclamò sir Roderick. «È un'impostora! Possiamo arrestarla e giustiziarla.» «Hmm», brontolò Targonne. «E in tal caso che cosa pensate faranno i vostri soldati, sir Roderick? Che cosa faranno quelli che ha guarito? E quelli che ha condotto alla vittoria contro l'odiato nemico? Non dimenticate che il morale delle truppe di Milles non era particolarmente alto.» Batté
con la mano su una pila di registri. «Ho letto i rapporti. La percentuale di diserzione fra le truppe di Milles è cinque volte più alta di quella di qualsiasi altro comandante dell'esercito». «Ditemi», fissò l'altro Cavaliere con fare astuto, «riuscireste a fare arrestare questa Mina? Avete dei soldati che ubbidirebbero a un simile ordine? O è più probabile che arresterebbero lord Milles?» Sir Roderick aprì la bocca per poi richiuderla immediatamente senza avere proferito parola. Si guardò intorno nella stanza, guardò il soffitto, guardò ovunque tranne in quegli occhi di acciaio, orrendamente ingranditi dalle spesse lenti degli occhiali, che gli stavano perforando il cranio. Targonne spostò le palline del suo abaco mentale. La ragazza era un'impostora, travestita da Cavaliere. Era arrivata al momento giusto. Aveva saputo trasformare una terribile sconfitta in una sorprendente vittoria. Faceva «miracoli» in nome di un dio innominato. Era un attivo o un passivo? Se era un passivo, poteva essere trasformata in attivo? Targonne aborriva le perdite. Da eccellente amministratore e scaltro mercante, sapeva dove e come veniva speso ogni singolo centesimo. Non era un taccagno. Si assicurava che l'Ordine avesse le armi e le armature della migliore qualità e che reclute e mercenari venissero ben pagati. Pretendeva che i suoi ufficiali annotassero accuratamente quanto veniva loro pagato. I soldati volevano seguire quella Mina. Molto bene. Che la seguissero. Proprio quella mattina, aveva ricevuto un messaggio dalla grande dragonessa Malystris, la quale voleva sapere perché lui permetteva agli elfi di Silvanesti di farsi gioco dei suoi editti mantenendo uno scudo magico sulla loro terra e rifiutando di pagarle i tributi dovuti. Targonne aveva preparato una lettera di risposta, nella quale spiegava che attaccare Silvanesti sarebbe stata una perdita di tempo e di uomini, che avrebbero potuto essere utilizzati altrove e con maggior profitto. Ricognitori inviati a studiare lo scudo magico avevano riferito che era impossibile penetrarlo, che nessuna arma d'acciaio o magica - riusciva a scalfirlo. Un'intera armata non avrebbe ottenuto niente; così concludeva il rapporto. A ciò si aggiungeva il fatto che un esercito diretto a Silvanesti avrebbe prima dovuto attraversare Blöde, la terra degli orchi. Un tempo alleati dei Cavalieri Scuri, gli orchi erano andati su tutte le furie quando i Cavalieri di Neraka si erano espansi a sud, inglobando le terre migliori degli orchi, spingendo questi ultimi sulle montagne e compiendo un vero massacro.
Sui rapporti si leggeva che attualmente gli orchi stavano dando la caccia all'elfo scuro Alhana Starbreeze e alle sue forze, nei pressi dello scudo. Ma se i Cavalieri si fossero spinti nelle terre degli orchi, questi ultimi sarebbero stati ben felici di interrompere l'attacco agli elfi (attacco che avrebbero potuto riprendere in qualsiasi momento) per vendicarsi dell'alleato che li aveva traditi. La lettera era sulla scrivania, in attesa di essere firmata. Targonne era pienamente consapevole che quella missiva di rifiuto avrebbe provocato l'ira della dragonessa, ma preferiva di gran lunga affrontare la furia di Malys, piuttosto che buttare via risorse fondamentali in una causa senza speranza. Allungò la mano, prese il foglio e con gesti lenti e misurati, lo fece in mille pezzi. L'unico dio in cui credeva Targonne era una piccola divinità rotonda che poteva essere ammonticchiata in pile ordinate nella sua stanza del tesoro. Non credeva nel modo più assoluto che quella ragazza fosse una messaggera inviata dagli dei. Non credeva nei suoi miracoli, né nelle sue capacità di comando. A differenza di quel povero imbecille di sir Roderick, Targonne non sentiva il bisogno di spiegare come la donna avesse fatto ciò che aveva fatto. A lui bastava sapere che ciò che lei stava facendo era a favore dei Cavalieri di Neraka: e ciò che avvantaggiava i Cavalieri avvantaggiava Morham Targonne. Le avrebbe dato la possibilità di fare un «miracolo». Avrebbe mandato quel falso Cavaliere e quei suoi stupidi seguaci ad attaccare e catturare Silvanesti. Con un investimento minimo di un pugno di soldati, avrebbe compiaciuto e fatto felice la dragonessa Malystrx. La pericolosa Mina e le sue forze sarebbero state spazzate via, ma la perdita sarebbe stata compensata dal guadagno. Che morisse in qualche angolo della foresta e diventasse cibo per gli orchi. Così si sarebbe liberato della ragazzina e del suo dio «senza nome». Targonne sorrise a sir Roderick e lasciò persino la sua sedia per accompagnarlo alla porta. Restò a guardare fino a quando la figura in armatura nera scomparve nei corridoi vuoti e rimbombanti della fortezza, quindi convocò l'aiutante di campo nel suo ufficio. Dettò una lettera per Malystrx, nella quale le spiegò il suo piano per la conquista di Silvanesti. Emise un ordine per il comandante dei Cavalieri di Neraka di stanza a Khur, perché marciasse con le sue forze verso Sanction, dove avrebbe preso il comando e destituito lord Milles. Emise un ordine per il caposquadra Mina, affinché insieme a una compagnia di soldati scel-
ti marciasse a sud, per attaccare e conquistare la grande nazione elfica di Silvanesti. «E per quanto riguarda lord Milles, Eccellenza?» domandò l'aiutante. «Deve avere una nuova assegnazione? E dove?» Targonne prese in considerazione la questione. Era di ottimo umore, una sensazione che solitamente provava alla conclusione di un affare estremamente vantaggioso. «Manda Milles a rapporto da Malystrx. Può raccontarle di persona la storia della sua "grande" vittoria sui solamnici. Sono sicuro che lei ascolterà con grande interesse i dettagli su come è caduto nella trappola del nemico e su come stava per perdere tutto ciò per cui abbiamo lottato duramente.» «Sì, Eccellenza.» L'aiuto raccolse i fogli e stava per tornare alla sua scrivania per eseguire gli ordini, quando chiese: «Devo eliminare lord Milles dai nostri elenchi?» Targonne era già tornato ai suoi registri. Aggiustò gli occhiali sul naso, prese la penna, agitò la mano in segno di acquiescenza e si immerse nuovamente in crediti e debiti, addizioni e sottrazioni. XI IL CANTO DI LORAC Mentre Tasslehoff stava per morire di noia sulla strada per Qualinesti e sir Roderick tornava a Sanction, beatamente inconsapevole di avere appena consegnato il suo comandante alle fauci della dragonessa, Silvanoshei e Rolan del kirath intrapresero il viaggio necessario per mettere il primo sul trono dei Silvanesti. Il piano di Rolan era di avvicinarsi alla capitale Silvanost, ma senza entrarvi, finché nella città non si fosse sparsa la voce che il vero capo della Casa Reale stava tornando per rivendicare il suo legittimo ruolo di Presidente delle Stelle. «Quanto tempo ci vorrà?» domandò Silvan, con l'impazienza e l'impetuosità dei giovani. «La notizia viaggerà più in fretta di noi, Vostra Maestà», rispose Rolan. Drinel e gli altri kirath che erano con noi due sere fa sono già partiti per diffonderla. Lo diranno a ogni altro kirath che incontreranno ed a ogni Staffetta di cui sentiranno di potersi fidare. La maggior parte dei soldati è fedele al generale Konnal, ma ce ne sono alcuni che cominciano a dubitare
di lui. Non denunciano ancora apertamente la propria opposizione, ma l'arrivo di Vostra Maestà dovrebbe fare molto per cambiare le cose. Le Staffette hanno sempre giurato fedeltà alla Casa Reale, come Konnal stesso sarà obbligato a fare o, almeno, a fingere di fare.» «Quanto impiegheremo a raggiungere Silvanost, allora?» domandò Silvan. «Lasceremo il sentiero e viaggeremo in barca sul Thon-Thalas», replicò Rolan. «Ho in programma di portarvi a casa mia, situata alla periferia della città. Dovremmo arrivare in due giorni. Prenderemo un terzo giorno per riposare e per ricevere i rendiconti che a quel punto arriveranno. Quattro giorni da oggi, Vostra Maestà, e se tutto va bene entrerete nella capitale in trionfo.» «Quattro giorni!» Silvan era scettico. «Può tanto essere compiuto in così poco tempo?» «Negli anni in cui abbiamo combattuto il sogno, noi kirath potevamo mandare un messaggio dal nord all'estremo sud di Silvanesti in un solo giorno. Non sto esagerando, Vostra Maestà», precisò Rolan, sorridendo dell'evidente incredulità di Silvanoshei. «Abbiamo compiuto ripetutamente una simile impresa. Allora eravamo molto organizzati, e in numero di gran lunga maggiore di adesso. Ma credo che rimarrete lo stesso impressionato.» «Sono già impressionato, Rolan», ammise Silvanoshei. «Sono profondamente in debito con te e con gli altri del kirath. Troverò qualche modo per ripagarvi.» «Liberate il nostro popolo da questo terribile flagello, Vostra Maestà», ribatté Rolan con lo sguardo segnato dal dolore, «e sarà abbastanza». Malgrado i suoi elogi, Silvanoshei covava ancora dei dubbi, che teneva per sé. Sua madre aveva un esercito ben organizzato, e tuttavia faceva piani solo per vederli fallire. La malasorte, cattive comunicazioni, il brutto tempo, qualunque di queste o una moltitudine di altre disgrazie potevano trasformare in un disastro un giorno destinato alla vittoria. «Nessun piano sopravvive mai al contatto con il nemico», era uno dei detti di Samar, e si era dimostrato tragicamente vero. Silvan si aspettava problemi, ritardi. Se la barca promessa da Rolan esisteva, avrebbe avuto un buco, o l'avrebbero trovata arsa dal fuoco. Il fiume sarebbe stato troppo alto o troppo basso, troppo veloce o troppo lento; i venti li avrebbero spinti nella direzione opposta a quella in cui volevano andare.
Silvan rimase completamente stupefatto nel trovare la piccola barca all'approdo descritto da Rolan, solida e in buono stato. Non solo: era stata riempita di cibo avvolto in sacchi impermeabili e riposto ordinatamente a prua. «Come vedete, Vostra Maestà», disse Rolan, «i kirath sono stati qui prima di noi.» Il fiume Thon-Thalas era calmo e sinuoso in quell'epoca dell'anno. La barca, fatta di corteccia, era piccola e leggera, e così stabile che sarebbe stato molto difficile rovesciarla. Sapendo bene che Rolan non avrebbe mai chiesto al futuro Presidente delle Stelle di remare, Silvan offrì il suo aiuto. Rolan dapprima oppose resistenza, ma non poteva discutere con il suo sovrano: alla fine accettò, offrendogli una pagaia. Silvan vide che, con il suo atto, si era guadagnato il rispetto dell'elfo più anziano, un bel cambiamento per il giovane che, a quanto pareva, si era sempre attirato l'irriverenza di Samar. Silvan si godette l'esercizio che bruciava un po' della sua energia repressa. Il fiume era placido, le foreste attraverso le quali scorreva erano verdi e rigogliose. Il tempo era buono, ma Silvan non poteva dire che la giornata fosse bella. Il sole brillava attraverso lo scudo, al di là del quale si vedeva il cielo. Ma il sole che splendeva su Silvanesti non era lo stesso globo ardente di fuoco aranciato che splendeva sul resto di Ansalon; era di un giallo pallido e smorto, il giallo della pelle itterica, il giallo di un brutto livido. Sembrava un sole riflesso, che galleggiava a faccia in giù, immerso in una pozza di acqua stagnante e oleosa. Il sole giallo cambiava il colore del cielo da azzurro a un blu-verde duro, metallico. Silvan non lo fissò a lungo, ma spostò lo sguardo sulla foresta. «Conosci un canto che allevi i nostri sforzi?» chiese a Rolan, che sedeva nella parte anteriore della barca. Il kirath remava a colpi rapidi e forti, tuffando profondamente la pagaia nell'acqua. Silvan, di parecchio più giovane, faceva molta fatica a mantenere il suo ritmo. Rolan esitò, si lanciò un'occhiata alle spalle. «C'è un canto che i kirath amano molto, ma temo che possa dispiacere a Vostra Maestà. Racconta la storia del vostro onorato nonno, Re Lorac.» «Comincia con "Era l'Età della Forza, l'Età del Sommo Sacerdote e dei suoi servi?"» domandò Silvan, cantando la melodia in modo incerto. L'aveva sentita solo una volta in vita sua. «Quello è l'inizio, Vostra Maestà», confermò Rolan.
«Cantalo per me», approvò Silvan. «Mia madre me lo cantò una volta, il giorno che compii trent'anni. Fu la prima occasione in cui sentii la storia di mio nonno. Mia madre non mi aveva mai parlato di lui, né me ne ha più parlato da allora. E per onorarla, nessuno degli altri elfi ne parla.» «Anch'io onoro vostra madre, che raccoglieva le rose nel Giardino di Astarin quando aveva la vostra età. E comprendo il suo dolore. Condividiamo quel dolore ogni volta che intoniamo questo canto, perché come Lorac fu ingannato dalla propria arroganza fino al punto di tradire il proprio paese, così noi che scegliemmo la via facile, che fuggimmo dalla nostra terra lasciandolo a combattere da solo, fummo pure colpevoli. «Se tutta la nostra gente fosse rimasta a lottare, quelli della Casa Reale, della Casa del Servitore, della Casa del Protettore, della Casa del Mistico, della Casa del Muratore, se ci fossimo stretti fianco a fianco, indipendentemente dalla casta, contro gli eserciti dei draghi, credo che allora avremmo potuto salvare la nostra terra. «Ma sentirete tutta la storia nel canto.» Il canto di Lorac Era l'Età della Forza, l'Età del Sommo Sacerdote e dei suoi servi. Geloso degli stregoni, il Sommo Sacerdote disse: «Mi cederete le vostre Alte Torri, e mi dovrete timore e obbedienza». Gli stregoni cedettero le Alte Torri; l'ultima fu la Torre di Palanthas. Viene alla Torre Lorac Caladon, Re dei Silvanesti, per sostenere la sua Trova di Magia prima che la torre venga chiusa. Durante la Prova, uno dei globi dei draghi, timoroso di cadere nelle mani del Sommo Sacerdote e dei suoi servi, parla a Lorac. «Non devi lasciarmi qui a Istar. Se lo fai, io andrò perduto, e il mondo perirà». Lorac obbedisce alla voce del globo del drago, e lo nasconde.
Lo porta con sé lontano dalla Torre, lo riporta a Silvanesti, lo tiene segreto, e stringe il segreto a sé, senza mai parlarne a nessuno. Viene il Cataclisma. Viene Takhisis, Regina delle Tenebre, con i suoi draghi, forti e potenti. Viene la guerra. La guerra contro Silvanesti. Lorac riunisce tutta la sua gente, le ordina di fuggire dalla terra natia, le ordina di andarsene. Dice: «lo solo sarò il salvatore del popolo». «Io solo fermerò la Regina delle Tenebre». Via la gente, Via l'amata figlia, Albana Starbreeze. Solo, Lorac sente la voce del globo del drago, che chiama il suo nome, lo chiama verso le tenebre. Lorac risponde alla chiamata, discende fra le tenebre. Mette le mani sul globo del drago e il globo mette le sue mani su Lorac. Viene il sogno. Viene il sogno a Silvanesti, sogno dì orrore, sogno dì paura, sogno di alberi che trasudano il sangue degli elfi, sogno di lacrime che formano fiumi, sogno di morte. Viene un drago, Cyan Bloodbane, servo di Takhisis, a sibilare nell'orecchio di Lorac i terrori del sogno. A sibilare le parole: «Io solo ho il potere di salvare il popolo. Io solo». A parodiare le parole: «Io solo ho il potere di salvare». Il sogno entra nella terra, la uccide, deforma gli alberi, alberi sanguinanti, riempie i fiumi con le lacrime della gente, le lacrime di Lorac,
tenuto schiavo dal globo e da Cyan Bloodbane, servo della Regina Takhisis, servo del male, che solo ha il potere. «Posso capire perché mia madre non ama sentire questo canto», dichiarò Silvan, quando l'ultima nota, lunga, dolce e triste, scivolò sull'acqua, per essere ripresa da un passero. «E anche perché la mia gente non ama ricordarlo.» «E invece dovrebbero farlo», ribatté Rolan. «Se fosse per me, andrebbe cantato tutti i giorni. Chissà se il canto dei nostri giorni non sarà altrettanto tragico, altrettanto terribile? Noi non siamo cambiati. Lorac Caladon credeva di essere abbastanza forte per maneggiare il globo del drago, anche se tutti i saggi l'avevano ammonito in senso contrario. Fu preso in trappola, e cadde. La nostra gente, in preda alla paura, scelse di fuggire invece di restare a combattere. E oggi, in preda alla paura, ci rannicchiamo sotto questo scudo, sacrificando le vite di alcuni per salvare un sogno.» «Un sogno?» chiese Silvan. Pensava al sogno di Lorac, al sogno del canto. «Non parlo dei sussurri del drago», spiegò Rolan. «Quel sogno è svanito, ma i dormienti rifiutano di svegliarsi, e allora un altro sogno è venuto a prendere il suo posto. Un sogno del passato; delle glorie di giorni andati. Non li biasimo e aggiunse con un sospiro: «Anch'io amo pensare a ciò che è stato, e desidero riconquistarlo. Ma chi di noi ha combattuto al fianco di tuo padre sa che il passato non può mai essere recuperato, né dovrebbe esserlo. Il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare con lui. Dobbiamo diventarne una parte, altrimenti ci ammaleremo e moriremo nella prigione in cui ci siamo rinchiusi.» Per un attimo, Rolan smise di remare. Si girò verso Silvan. «Capite cosa dico, Vostra Maestà?» «Credo di sì», rispose cautamente Silvan. «Io appartengo al mondo, per così dire. Vengo da fuori. Sono colui che può portare nel mondo il nostro popolo.» «Sì, Vostra Maestà.» Rolan sorrise. «Purché eviti il peccato dell'arroganza», riprese Silvan, e smise di remare, grato della pausa. Fece un largo sorriso, perché aveva inteso scherzare, ma, ripensandoci, divenne più serio. «L'orgoglio, il difetto di famiglia», bofonchiò, quasi fra sé. «Sono avvisato, e uomo avvisato è mezzo salvato,
dicono.» Raccogliendo la pagaia, si rimise all'opera di buona lena. Il pallido sole si inabissò dietro gli alberi. Il giorno languiva, come se anch'esso fosse vittima del deperimento. Rolan scrutò la sponda, in cerca di un posto adatto in cui ormeggiare per la notte. Silvan guardava la riva opposta, e così vide per primo quello che sfuggì al kirath. «Rolan!» bisbigliò con foga. «Dirigiti alla riva ovest! Svelto!» «Che c'è, Vostra Maestà?» Rolan reagiva velocemente agli allarmi. «Che cosa vedete?» «Là! Sulla riva est! Non li vedi? Sbrigati! Siamo quasi a portata di freccia!» Rolan arrestò le sue rapide vogate. Si girò per rivolgere a Silvan un sorriso di simpatia. «Maestà, nessuno vi dà la caccia. Quella raccolta sulla sponda è la vostra gente; è venuta a vedervi e a rendervi omaggio.» Silvan era stupefatto. «Ma... come fanno a sapere?» «I kirath sono stati qui, Vostra Maestà.» «Così presto?» «Ho detto a Vostra Maestà che avremmo sparso rapidamente la voce.» Silvan arrossì. «Mi dispiace, Rolan. Non intendevo dubitare di voi. È solo che... Mia madre usa dei messi. Viaggiano in segreto, portando messaggi fra lei e sua cognata Laurana, a Qualinesti. È così che restiamo informati di ciò che succede in quel regno. Ma impiegherebbero molti giorni a coprire lo stesso numero di miglia... Pensavo...» «Pensavate che stessi esagerando. Non dovete scusarvi per questo, Vostra Maestà. Siete abituato al mondo oltre lo scudo, un mondo vasto e pieno di pericoli che crescono e calano giornalmente, come la luna. Qui a Silvanesti, noi kirath conosciamo ogni sentiero, ogni albero che vi cresce sopra, ogni fiore che vi spunta accanto, ogni scoiattolo che l'attraversa, ogni uccello che canta su ogni ramo, tante sono le volte che abbiamo percorso il territorio. Se l'uccello canta una nota stonata, se lo scoiattolo contorce le orecchie per paura, noi lo sappiamo. Niente può sorprenderci, e niente può fermarci.» Rolan aggrottò le sopracciglia. «Ecco perché troviamo preoccupante che il drago Cyan Bloodbane ci abbia eluso per tanto tempo. Non è possibile che ci riesca; eppure, al tempo stesso, sembra che lo sia...» Il fiume li portò presso gli elfi sulla sponda orientale. Le loro case erano negli alberi vivi, case che un umano, probabilmente, non avrebbe mai visto, perché ricavate dai rami amorevolmente indotti a formare tetti e pareti.
Le reti erano stese sul terreno ad asciugare, le barche tirate sulla riva. Gli elfi non erano molti: si trattava di un piccolo villaggio di pescatori, e tuttavia era chiaro che si era radunata l'intera popolazione. Persino i malati erano stati portati sulla riva, dove giacevano avvolti in coperte, e sostenuti da guanciali. Imbarazzato, Silvan smise di remare e posò la pagaia in fondo alla barca. «Che cosa faccio, Rolan?» chiese nervosamente. Rolan si girò a guardarlo, gli rivolse un sorriso rassicurante. «Dovete solo essere voi stesso, Maestà. Non si aspettano altro.» Rolan si avvicinò alla riva. Qui il fiume sembrava scorrere più veloce, e spinse Silvan verso la gente prima che fosse completamente pronto. Aveva sfilato con la madre per passare in rassegna le truppe, provando lo stesso disagio e lo stesso senso di indegnità che lo assalivano adesso. Il fiume lo portò all'altezza dei suoi. Li guardò, annuì leggermente, e alzò la mano in un timido saluto. Nessuno rispose al saluto. Nessuno applaudì, come si era mezzo aspettato. Lo osservavano galleggiare in silenzio, un silenzio pregnante che toccò Silvan più delle acclamazioni più scatenate. Vide nei loro occhi, sentì nel loro silenzio, una triste speranza, in cui non volevano credere, perché altre volte le loro speranze erano state tradite. Profondamente commosso, Silvan smise di salutare e allungò la mano verso di loro, come se li vedesse affondare e potesse tenerli fuori dall'acqua. Il fiume lo allontanò, lo portò dietro una collina, e lui li perse di vista. Umiliato, si rannicchiò a poppa, senza muoversi né parlare. Per la prima volta, comprese fino in fondo quale fosse il peso schiacciante che si era assunto. Che cosa poteva fare per aiutarli? Che cosa si aspettavano da lui? Troppo, forse. Troppo davvero. Ogni tanto, Rolan gli lanciava qualche occhiata preoccupata, ma non diceva nulla, non faceva commenti. Continuò a remare da solo finché non trovò un posto adatto per approdare. Il suo compagno si riscosse e saltò nell'acqua, aiutò a tirare in secco la barca. L'acqua gelida fu uno shock piacevole per Silvan, che sommerse nel Thon-Thalas le angosce e le paure di inadeguatezza, e fu felice di tenersi impegnato. Abituato a vivere all'aperto, sapeva cosa bisognava fare per accamparsi. Scaricò le provviste, distese le coperte, e cominciò a preparare la loro cena leggera a base di frutta e pane di segala, mentre Rolan assicurava la barca. Mangiarono taciturni per la maggior parte del tempo: Silvan era ancora soggiogato dall'enormità della responsabilità accettata con tanta noncuran-
za due sere prima, e Rolan rispettava il bisogno di silenzio del suo sovrano. I due andarono a dormire presto. Avvolgendosi nelle coperte, lasciarono gli animali dei boschi e gli uccelli notturni a vegliare sul loro sonno. Silvan si addormentò molto più presto di quanto avesse previsto. Svegliato nella notte dal grido di un gufo, si mise a sedere allarmato; ma l'animale stava solo scambiando con un suo simile i pettegolezzi del buio, gli spiegò Rolan, muovendosi. Silvan giacque ascoltando il richiamo lugubre, ossessionante, e la sua risposta, un'eco solenne in una parte lontana della foresta. Rimase sveglio a lungo, fissando le stelle che brillavano incerte sopra lo scudo, mentre il Canto di Lorac gli correva nella mente. Le lacrime di Lorac tenuto schiavo dal globo e da Cyan Bloodbane, servo della Regina Takhisis, servo del male, che solo ha il potere. In quel momento, le parole e la melodia del canto riecheggiavano nell'opera di un menestrello che intratteneva gli ospiti a una festa nella capitale Silvanost. La festa aveva luogo nel Giardino di Astarin, sul terreno della Torre delle Stelle, dove sarebbe vissuto il Presidente delle Stelle, se ce ne fosse stato uno. Lo scenario era fantastico. La Torre delle Stelle, foggiata in marmo, magicamente, poiché gli elfi non tagliano né danneggiano altrimenti alcuna parte della loro terra, aveva un aspetto fluido, organico; sembrava quasi che qualcuno l'avesse plasmata con la cera fusa. Durante il sogno di Lorac, la Torre era stata orrendamente trasformata, come tutte le altre strutture di Silvanost. I maghi elfici lavorarono lunghi anni per farla rivivere. Rimpiazzarono la miriade di gioielli nelle pareti dell'alto edificio, gioielli che un tempo avevano catturato la luna d'argento, Solinari, e la luna rossa, Lunitari, bagnando l'interno della Torre d'argento e di fiamma. Ora le lune erano sparite. Una sola luna splendeva su Krynn e, per qualche ragione che i saggi fra gli elfi non riuscivano a spiegare, la sua pallida luce brillava in ogni gioiello come un occhio fisso, senza rischiarare affatto la Torre, cosicché gli elfi erano costretti a ricorrere a torce e a candele. Nel giardino di Astarin, sedie erano state poste fra le piante, che sembravano rigogliose, e riempivano l'aria della loro fragranza. Solo Konnal e
i suoi giardinieri sapevano che non erano cresciute lì, ma vi erano state portate dai Modellatori dei Boschi dai loro giardini privati, perché ormai nessuna pianta viveva a lungo nel Giardino di Astarin. Nessuna, tranne una: un albero. Un albero circondato da uno scudo incantato, e noto come Albero dello Scudo, perché dalla sua radice, si diceva, era nato lo scudo magico che proteggeva Silvanesti. Il menestrello cantava il canto di Lorac in risposta alla richiesta di uno degli ospiti. Terminò sull'ultima, triste nota, accarezzando leggermente le corde del liuto. «Brava! Ottima esibizione! Bis!» si levò una voce vivace dall'ultima fila di sedili. La donna guardò incerta l'anfitrione. Il pubblico degli elfi era troppo garbato e troppo educato per manifestare aperta sorpresa, ma un artista arriva a conoscere l'umore dell'uditorio da vari segni sottili. Il menestrello notò lievi rossori sulle guance e occhiate imbarazzate lanciate di traverso all'anfitrione. Una volta sola per questo canto era più che abbastanza. «Chi l'ha detto?» Il generale Rey Konnal, governatore militare di Silvanesti, si agitò sulla sedia. «Prova a immaginare, zio», replicò il nipote, gettando sguardi cupi ai sedili dietro di loro. «La persona che ha richiesto il canto la prima volta. Il tuo amico, Glaucous.» Il generale Konnal si alzò bruscamente, mossa che pose fine all'intrattenimento musicale della serata. Il menestrello s'inchinò, grato che gli fosse risparmiato un compito arduo come quello di reintonare quel canto. Gli astanti applaudirono gentilmente ma senza entusiasmo. Un sospiro che avrebbe potuto essere di sollievo si unì alla brezza notturna nel far frusciare gli alberi, i cui rami intrecciati formavano una tettoia sopra di loro. Lanterne di filigrana argento pendevano dai rami, illuminando la notte. Gli ospiti lasciarono il piccolo anfiteatro, andarono a un tavolo sistemato presso una pozza, per consumare una cena di frutta zuccherata e biscotti burrosi, e per bere vino ghiacciato. Konnal invitò il menestrello a consumare un boccone, e scortò personalmente la donna al tavolo. L'elfo di nome Glaucous, che aveva richiesto il canto, era già nei pressi, con una coppa di vino in mano. Brindò al menestrello, senza risparmiare lodi. «Peccato che non vi abbiano permesso di ricantare il canto», esordì, con un'occhiata verso il generale. «Non mi stanco mai di quella melodia. E i versi! La mia parte preferita è quando...»
«Posso offrirvi da mangiare e da bere, signora?» chiese il nipote del generale, rispondendo a una gomitata dello zio. Il menestrello gli lanciò un'occhiata riconoscente, accettando l'invito. Il nipote condusse al tavolo la donna, che fu amabilmente ricevuta dagli altri ospiti. Lo spazio erboso in cui stavano Glaucous e il generale fu presto vuoto; anche se molti ospiti avrebbero voluto crogiolarsi alla presenza dell'affascinante e attraente Glaucous e fare le loro lusinghe al generale, bastò loro un'occhiata per capire che Konnal era arrabbiato. «Non so perché ti invito a queste feste, Glaucous», disse Konnal, fremendo. «Fai sempre qualcosa che mi mette in imbarazzo. Era già abbastanza sconveniente aver fatto cantare quel pezzo, senza dover richiedere il bis!» «Alla luce delle voci che ho sentito oggi», replicò languidamente Glaucous, «ho ritenuto il canto di Lorac Caladon fortemente appropriato.» Konnal gettò all'amico un'occhiata penetrante da sotto le sopracciglia abbassate. «Ho sentito...» s'interruppe, guardò gli ospiti. «Vieni, cammina con me intorno allo stagno.» I due si allontanarono. Liberi dalla soggezione imposta dalla presenza del generale, gli elfi si riunirono a capannelli: erano ansiosi di discutere le dicerie che pervadevano la città, e le loro voci vibravano di eccitazione repressa. «Non c'era bisogno che ce ne andassimo», osservò Glaucous, occhieggiando il tavolo dei rinfreschi. «Tutti hanno sentito la stessa cosa.» «Sì, ma ne parlano come di una chiacchiera. Io ne ho avuto conferma», ribatté Konnal, cupo. Glaucous si fermò. «Lo sai per certo?» «Ho le mie fonti fra i kirath. Uno l'ha visto, gli ha parlato. Si dice che il giovane sia il ritratto del padre. È Silvanoshei Caladon, figlio di Alhana Starbreeze, nipote del defunto e non compianto Re Lorac.» «Ma è impossibile!» dichiarò Glaucous. «L'ultima volta che abbiamo avuto notizie di quella maledetta strega di sua madre, si aggirava fuori dallo scudo, e suo figlio era con lei. Non può essere passato attraverso lo scudo; niente e nessuno può penetrarlo», affermò con decisione. «Allora il suo arrivo deve essere un miracolo, come sostengono», riprese seccamente Konnal, indicando gli ospiti bisbiglianti con un cenno della mano. «Bah! Si tratta di un impostore. Ma tu scuoti la testa.» Glaucous fissò incredulo il governatore. «L'hai bevuta davvero!»
«La mia fonte è Drinel. Come sai, è in grado di applicare la prova della verità», rivelò Konnal. «Non c'è alcun dubbio; il giovane l'ha superata. Drinel ha visto nel suo cuore; a quanto pare, sa più cose di lui e su quanto gli è successo.» «Che cosa gli è successo, allora?» domandò Konnal, alzando leggermente un sopracciglio delicato. «La notte di quella tempesta terribile, Alhana e i suoi ribelli si stavano preparando a lanciare un attacco decisivo contro lo scudo, quando il loro campo è stato invaso dagli orchi. Il giovane correva verso la Legione d'Acciaio per chiedere l'aiuto degli umani - guarda com'è caduta in basso quella donna - quando è stato abbagliato da un fulmine. È scivolato ed è caduto in un burrone. Ha perso conoscenza e, a quanto pare, al suo risveglio si è ritrovato dentro lo scudo.» Glaucous si accarezzò il mento con la mano. Il mento era ben conformato, il viso avvenente. Gli occhi a mandorla erano grandi e penetranti. La carnagione era pallida e liscia, senza difetti. Tutti i suoi tratti erano perfettamente modellati, tutti i suoi movimenti aggraziati. Agli occhi umani, tutti gli elfi sono belli. Secondo i saggi, questo spiega l'animosità fra le due razze. Gli umani - anche i più attraenti fra loro - non possono che sentirsi brutti in confronto. Gli elfi, che venerano la bellezza, la vedono in vari gradi nella loro razza. In una terra di bellezza, Glaucous era il più bello. Al momento, la sua perfezione irritava Konnal oltre misura. Il generale spostò lo sguardo sullo stagno. Due nuovi cigni scivolavano sulla superficie a specchio. Si chiese quanto sarebbero vissuti; più dell'ultima coppia, sperava. Stava spendendo una fortuna in cigni, ma senza di loro lo stagno era triste e vuoto. Glaucous era un favorito alla corte degli elfi, il che era strano, se si pensava che per colpa sua molti membri della stessa avevano perso la loro posizione, la loro influenza e il loro potere. Ma nessuno biasimava Glaucous; biasimavano Konnal, colui che li aveva allontanati. «E tuttavia, che scelta ho?» si chiedeva Konnal. «Quei soggetti non erano degni di fiducia. Alcuni complottavano persino contro di me! E se non fosse stato per Glaucous, forse non l'avrei nemmeno saputo.» Non appena era entrato a far parte del seguito del generale, Glaucous aveva scoperto qualcosa di negativo su tutte le persone di cui Konnal si era fidato. Un ministro era stato sentito difendere Porthios. Un altro, donna, da giovane era stata innamorata di Dalamar lo Scuro, o così si diceva. Un al-
tro ancora fu condannato per aver dissentito con Konnal su una questione fiscale. Arrivò il giorno in cui Konnal si rese conto di essere rimasto con un solo consigliere, e cioè Glaucous. L'unica eccezione era il nipote di Konnal, Kiryn. Glaucous non nascondeva il suo affetto per lui: lo lusingava, gli portava regalini, rideva delle sue battute e lo copriva di attenzioni. I cortigiani che cercavano il favore di Glaucous erano assai gelosi del giovane. Kiryn stesso avrebbe preferito di gran lunga non essere nelle sue grazie; per qualche inspiegabile ragione, non si fidava di lui. Tuttavia, Kiryn non osava dire una sola parola contro Glaucous. Nessuno ne aveva il coraggio. Glaucous era uno stregone potente, il più potente che i Silvanesti avessero mai contato fra di loro, compreso l'elfo scuro Dalamar. Glaucous era arrivato a Silvanost un giorno poco dopo l'inizio della Purga dei Draghi. Era, disse, un rappresentante di quegli elfi che prestavano servizio nella Torre di Shalost, un monumento situato nella parte ovest di Silvanesti, dove giaceva il corpo del druido Waylorn Wyvernsbane. Anche se gli dei della magia se n'erano andati, l'incantesimo restava intorno al feretro di cristallo in cui era custodito l'eroe degli elfi. Stando attenti a non disturbare il riposo del defunto, gli stregoni elfici, ansiosi di riguadagnare i loro poteri, avevano cercato di catturare e di usare parte di quell'incantesimo. «Abbiamo avuto successo», aveva riferito Glaucous al generale. «Cioè», aveva aggiunto, con opportuna modestia, «io ho avuto successo.» Temendo i grandi draghi che decimavano il resto di Ansalon, Glaucous aveva collaborato con i Modellatori dei Boschi per escogitare il modo di proteggere Silvanesti dalle loro devastazioni. I Modellatori, sotto la sua direzione, avevano creato l'albero ora noto come Albero dello Scudo. Circondato dalla propria barriera magica attraverso la quale niente poteva penetrare per danneggiarlo, l'albero fu piantato nel Giardino di Astarin, e divenne oggetto di grande ammirazione. Quando Glaucous aveva comunicato al governatore generale che egli era in grado di erigere uno scudo magico su tutta Silvanesti, Konnal aveva provato un sollievo e una gratitudine sconfinati. Aveva sentito un peso cadergli dalle spalle. Silvanesti sarebbe stata al sicuro, veramente al sicuro. Al sicuro dai draghi, dagli orchi, dagli umani, dagli elfi scuri, dal resto del mondo. Aveva sottoposto la questione al voto dei Capi della Casa, e il voto era stato positivo all'unanimità.
Glaucous aveva innalzato lo scudo, diventando l'eroe degli elfi, alcuni dei quali già parlavano di costruirgli un monumento personale. Poi le piante del Giardino di Astarin cominciarono a morire. Giunse notizia che alberi e piante nella zona toccata dallo scudo magico stavano facendo la stessa fine. Gente di Silvanost e di altre città elfiche iniziò a soccombere, vittima di uno strano deperimento. I kirath e altri ribelli dissero che era colpa dello scudo; Glaucous replicò che era una piaga portata nella loro terra dagli umani prima dell'erezione dello scudo, e che solo quest'ultimo impediva al resto della popolazione di morire. Ormai, Konnal non poteva più fare a meno di Glaucous. Era il suo amico, e il suo unico consigliere fidato. Glaucous, con la sua magia, aveva messo lo scudo sopra Silvanesti, e Glaucous, con la sua magia, avrebbe potuto toglierlo in qualunque momento. Toglierlo e lasciare i Silvanesti esposti ai terrori del mondo esterno. «Uhm? Scusa? Cosa stavi dicendo?» Il generale Konnal distolse l'attenzione dai cigni, e la riportò su Glaucous, che aveva parlato per tutto il tempo. «Ho detto, "Tu non mi ascolti"», ripeté Glaucous, con un sorriso mielato. «No, scusa. C'è una cosa che voglio sapere, Glaucous. Come ha fatto questo giovane a passare attraverso lo scudo?» Konnal abbassò la voce a un bisbiglio, anche se non c'era nessuno a portata d'orecchio. «Anche la magia dello scudo sta venendo meno?» Glaucous s'incupì. «No», rispose. «Come puoi esserne certo?» insistette Konnal. «Dimmelo onestamente: non hai sentito il tuo potere indebolirsi nell'ultimo anno? A tutti gli altri maghi è successo.» «A loro, può darsi. A me, no», dichiarò freddamente Glaucous. Konnal scrutò attentamente l'amico. Glaucous rifiutò di incontrare il suo sguardo, e il generale intuì che lo stregone mentiva. «Allora che spiegazione abbiamo per il fenomeno?» «Una semplicissima», rivelò Glaucous, imperturbabile. «L'ho fatto entrare io.» «Tu?» Konnal era talmente scioccato che gridò la parola. Molti, tra la folla, interruppero la loro conversazione per girarsi a fissarlo. Glaucous rivolse loro un sorriso rassicurante; poi afferrò l'amico per il braccio, portandolo in una zona del giardino più isolata. «Perché hai combinato una cosa del genere? Che cosa vuoi fare con quel
giovane?» domandò Konnal. «Farò quello che avresti dovuto fare tu», rispose Glaucous, lisciandosi le maniche fluenti delle vesti bianche. «Metterò un Caladon sul trono. Ti ricordo, amico mio, che se avessi proclamato tuo nipote Presidente, come io ti avevo consigliato, non ci sarebbero problemi con Silvanoshei.» «Sai perfettamente che Kiryn ha rifiutato la posizione.» «Per via di una malintesa lealtà verso sua zia Alhana.» Glaucous sospirò. «Ho cercato di consigliarlo, ma non vuole ascoltarmi.» «Se è per questo, amico mio, non ascolta neanche me», spiegò Konnal. «E vorrei farti notare che è la tua insistenza nel voler mantenere il diritto della famiglia Caladon alla sovranità su Silvanesti che ci ha messo in questo pasticcio. Io stesso sono di Casa Reale...» «Non sei un Caladon, Reyl», mormorò Glaucous. «Posso far risalire la mia stirpe più indietro dei Caladon!» s'indignò Konnal. «Fino a Quinari, moglie di Silvanos! Ho gli stessi diritti di loro; forse anche di più.» «Lo so, mio caro amico», convenne Glaucous sommessamente, mettendogli una mano sul braccio per calmarlo. «Ma faresti fatica a persuadere i Capi della Casa.» «Lorac Caladon ha fatto precipitare la nazione nella rovina», continuò amaramente Konnal. «Sua figlia Alhana Starbreeze ci ha quasi portato dalla rovina alla distruzione con il suo matrimonio con Porthios, un Qualinesti. Se non avessimo agito in fretta per liberarci di entrambe queste vipere, avremmo lasciato Silvanesti sotto il controllo di quello sciocco mezzosangue di Gilthas, il Presidente dei Soli, figlio di Tanis. E, tuttavia, la gente continua a sostenere che un Caladon dovrebbe sedere sul trono! Io non capisco!» «Amico mio», replicò gentilmente Glaucous, «quella casata ha governato Silvanesti per centinaia di anni. La gente sarebbe contenta di accettare senza fiatare un altro Caladon come sovrano. Ma se tu ti proponi come sovrano, ci saranno mesi o persino anni di discussioni e di gelosie, di indagini genealogiche, forse anche di pretese rivali al trono. Chissà che non sorgesse una figura potente che ti caccerebbe per soppiantarti? No, no. Questa è la miglior soluzione possibile. Ti ricordo comunque che tuo nipote è un Caladon, e sarebbe la scelta perfetta. La gente sarebbe pronta a vederlo assumere la posizione. Sua madre, tua sorella, è entrata per matrimonio nella famiglia Caladon. È un compromesso che i Capi della Casa accetterebbero. Ma questi sono discorsi oziosi. Fra due giorni, Silvanoshei Caladon sarà a
Silvanost. Tu hai proclamato pubblicamente che avresti sostenuto un membro della famiglia Caladon come Presidente delle Stelle.» «Perché tu mi hai consigliato di farlo!» esclamò Konnal. «Ho le mie ragioni», disse Glaucous. Lanciò un'occhiata agli ospiti, che continuavano a parlare. Le voci si alzavano per l'eccitazione, e si sentiva il nome «Silvanoshei» riecheggiare nell'oscurità trapunta di stelle. «Ragioni che un giorno ti diverranno chiare, amico mio. Devi fidarti di me.» «Benissimo. Ma come mi consigli di agire con Silvanoshei?» «Lo farai Presidente delle Stelle.» «Che cosa dici?» Konnal era allibito. «Questo... il figlio di elfi scuri... Presidente delle Stelle...» «Calmati, mio caro amico», Glaucous l'esortò in tono tranquillizzante. «Seguiremo l'esempio di Qualinesti. Silvanoshei governerà solo nominalmente. Rimarrai il Generale delle Staffette; conserverai il controllo delle forze armate. Sarai il vero sovrano di Silvanesti. E, nel frattempo, Silvanesti avrà un Presidente delle Stelle. La gente sarà contenta; l'ascesa di Silvanoshei al trono metterà fine all'irrequietezza che si è sviluppata di recente. Una volta raggiunto il loro scopo, le fazioni battagliere del nostro popolo - e specialmente i kirath -smetteranno di creare problemi.» «Non posso credere che parli sul serio, Glaucous.» Konnal scuoteva la testa. «Non sono mai stato più serio in vita mia, caro amico. La gente porterà preoccupazioni e dolori al re invece che a te, e tu sarai libero di governare veramente Silvanesti. Naturalmente, qualcuno andrà proclamato reggente. Silvanoshei è giovane, molto giovane per una responsabilità così ampia.» «Ah!» Konnal prese un'aria perspicace. «Comincio a vedere che cos'hai in mente. Credo che io...» S'interruppe. Glaucous scuoteva la testa. «Non puoi essere reggente e Generale delle Staffette», decretò. «E tu chi suggerisci, allora?» chiese Konnal. Glaucous s'inchinò con garbata umiltà. «Mi offro io. Prenderò l'incarico di consigliare il giovane re. Tu hai trovato i miei suggerimenti utili di tanto in tanto, ritengo.» «Ma non hai nessuna qualifica!» protestò Konnal. «Non sei di Casa Reale. Non hai prestato servizio nel Senato. Prima d'oggi, eri uno stregone della Torre di Shalost», affermò bruscamente. «Oh, ma sarai tu stesso a raccomandarmi», ribatté Glaucous, posando la mano sul braccio di Konnal.
«E che cosa dovrò dire a titolo di raccomandazione?» «Solo questo: ricorderai a tutti che l'Albero dello Scudo cresce nel Giardino di Astarin, un giardino controllato da me, e che sono stato io ad aiutare a piantarlo. Ricorderai loro che sono io, attualmente, a tenere lo scudo al suo posto.» «È una minaccia?» Konnal lo fulminò con lo sguardo. Glaucous fissò a lungo il generale, che cominciò a sentirsi a disagio. «È mio destino non riscuotere mai la fiducia altrui», disse infine. «Vedere i miei motivi messi in discussione. Lo accetto, come sacrificio per servire il mio popolo.» «Mi dispiace», replicò Konnal, burbero. «È solo che...» «Scuse accettate. E ora», proseguì Glaucous, «dovremmo fare preparativi per accogliere il giovane re a Silvanost. Tu proclamerai una festa nazionale. Non baderemo a spese. La gente ha bisogno di qualcosa da celebrare. Chiederemo al menestrello che si è esibito stasera di cantare qualcosa in onore del nostro nuovo Presidente. Ha una voce bellissima.» «Sì», assentì Konnal. Era assente, distratto: cominciava a pensare che il piano di Glaucous non fosse affatto malvagio. «Ah, che tristezza, amico mio», concluse Glaucous, indicando lo stagno. «Uno dei tuoi cigni sta morendo.» XII IN MARCIA Il giorno dopo la battaglia di Sanction, Mina cercò di lasciare la sua tenda per mettersi in fila con gli altri soldati in attesa del rancio. Non aveva ancora messo un piede fuori che era già stata assalita, circondata dai soldati e dai civili al seguito delle truppe, che volevano toccarla o essere toccati. I soldati erano rispettosi, intimoriti dalla sua presenza. Mina parlò a ciascun presente, sempre in nome dell'Unico Vero Dio. Ma la calca di uomini, donne e bambini le toglieva il fiato. Accortisi che il loro comandante stava per crollare per la stanchezza, i suoi Cavalieri, guidati da Galdar, allontanarono la gente. Mina tornò alla sua tenda, davanti alla quale i Cavalieri montarono la guardia, mentre il minotauro si affrettava a portarle acqua e cibo. Il giorno successivo, la fanciulla tenne un'udienza formale. Galdar ordinò ai soldati di mettersi in riga. La donna passò fra di loro, interpellandoli
per nome, ricordando il loro coraggio in battaglia. Se ne andarono affascinati, il nome della ragazza sulle labbra. Dopo avere passato in rassegna le truppe, Mina andò a visitare le tende dei mistici scuri. I suoi Cavalieri avevano diffuso la storia di come avesse ridato il braccio a Galdar. Miracoli simili erano stati all'ordine del giorno nella Quarta Era, ma ora non più. I guaritori mistici dei Cavalieri di Neraka, guaritori che avevano rubato i segreti della taumaturgia dalla Cittadella della Luce, negli anni passati erano stati capaci di esibirsi in miracoli all'altezza di quelli che gli stessi dei avevano eseguito nella Quarta Era. Ma ultimamente, si erano accorti che i loro poteri stavano diminuendo. Erano sempre in grado di guarire, ma anche il più semplice degli incantesimi li svuotava totalmente di energie. Nessuno sapeva il perché di tutto ciò. Inizialmente, i guaritori avevano accusato i mistici della Cittadella della Luce sostenendo che questi ultimi avevano trovato il sistema per impedire ai Cavalieri di Neraka di guarire i loro soldati. Ma, in seguito, avevano saputo dalle loro spie disseminate all'interno della Cittadella, che anche i mistici di Schallsea e di altre località di Ansalon denunciavano gli stessi problemi. E anche loro cercavano risposte, ma, fino ad allora, invano. Sopraffatti dal numero delle vittime, obbligati a conservare le loro energie, i guaritori avevano iniziato a curare lord Milles e i suoi ufficiali, poiché l'esercito aveva innanzitutto bisogno dei suoi comandanti. E, comunque, non potevano fare niente per le ferite più gravi. Non potevano riattaccare un arto mozzato, non potevano bloccare un'emorragia interna, non potevano aggiustare un cranio fratturato. Non appena Mina entrò nella tenda dei guaritori, gli occhi dei feriti si puntarono su di lei. Anche coloro che erano stati accecati, che avevano gli occhi coperti da bende insanguinate, voltarono istintivamente la testa in direzione della donna, come piante morenti nell'ombra alla ricerca del sole. I guaritori andarono avanti nel loro lavoro, come se non avessero notato l'ingresso della fanciulla. Uno soltanto si bloccò, sollevò lo sguardo e stava per ordinarle di uscire quando vide Galdar che, dietro di lei, aveva appoggiato la mano sull'impugnatura della spada. «Siamo occupati. Che cosa vuoi?» le domandò il guaritore in tono brusco. «Aiutare», rispose Mina, guardandosi intorno. «Che cosa c'è là dietro? Dietro a quella coperta?» Il guaritore lanciò un'occhiata in quella direzione. Gemiti e lamenti pro-
venivano da oltre la coperta, che era stata frettolosamente appesa nel retro della grande tenda adibita a ospedale. «Moribondi», disse con voce fredda, distaccata. «Non possiamo fare niente per loro.» «Non gli date niente per alleviare il dolore?» domandò Mina. L'uomo scrollò le spalle. «Quelli non ci servono più. Le nostre scorte sono limitate e devono essere utilizzate per chi ha ancora possibilità di tornare a combattere.» «Allora non vi dispiace se prego per loro.» «Ma certo, "prega" pure. Sono sicuro che ne saranno felici», replicò il guaritore non senza un certo sarcasmo. «Sì, anch'io», affermò la ragazza con gravità. Si diresse verso il fondo della tenda, passando attraverso le file di brande sulle quali erano distesi i feriti. Molti allungarono le mani verso di lei o la chiamarono, implorando di prestare loro attenzione. Mina sorrise, promettendo che sarebbe tornata. Raggiunta la parte posteriore della tenda, sollevò le coperte dietro le quali si trovavano i soldati in condizioni disperate e le lasciò cadere dietro di sé. Galdar si piazzò davanti al divisorio improvvisato, la mano sulla spada e lo sguardo fisso sui guaritori. Questi ultimi mantennero un atteggiamento indifferente, anche se di tanto in tanto lanciavano occhiate furtive al militare. Galdar ascoltava ciò che accadeva dietro di lui. Sentiva il puzzo della morte. Da un'occhiata oltre la cortina aveva visto sette uomini e due donne. Alcuni giacevano sulle brande, ma altri erano ancora deposti sulle barelle utilizzate per trasportarli dal campo di battaglia. Le loro ferite erano spaventose, o per lo meno così gli era sembrato. Carne squarciata, organi e ossa esposti. Il sangue gocciolato a terra aveva creato macabre pozze. L'intestino di un uomo fuoriusciva dal suo corpo come una filza di strane salsicce. A una donna Cavaliere era saltata via metà faccia, il bulbo oculare penzolava orrendamente dietro a una benda intrisa di sangue. Mina si avvicinò proprio alla donna. L'unico occhio rimasto era chiuso. Il respiro era rantolante. Sembrava che avesse ormai iniziato il lungo viaggio senza ritorno. Mina posò la mano sull'orribile ferita. «Ti ho visto combattere, Durya», sussurrò dolcemente. «Ti sei battuta con coraggio, hai mantenuto la tua posizione nonostante quelli intorno a te si fossero dati alla fuga in preda al panico. Devi interrompere il tuo viaggio, Durya. L'Unico Dio ha bisogno di te.»
Il respiro della donna divenne regolare. Il volto maciullato si voltò lentamente verso Mina, che si piegò e lo baciò. Galdar udì un brusio levarsi dietro di sé. Si girò di scatto. Nella tenda era sceso il silenzio. Tutti avevano udito le parole di Mina. I guaritori non facevano più finta di lavorare. Tutti guardavano, aspettavano. Galdar sentì una mano toccargli la spalla. Pensando fosse Mina, si voltò. Ma era la donna, Durya, che fino a pochi istanti prima era distesa in fin di vita. Aveva il viso coperto di sangue e un'orribile cicatrice che non sarebbe mai scomparsa, ma la carne si era chiusa, l'occhio era tornato al suo posto. Camminava, sorrideva, respirava. «Mina mi ha riportato indietro», affermò in tono riverente. «Mi ha riportato indietro affinché mi metta al suo servizio. Ed è quello che farò, per sempre.» Eccitata, il viso radioso, Durya lasciò la tenda. I feriti applaudirono e iniziarono a ripetere in tono cantilenante: «Mina, Mina!». I guaritori sussultarono, increduli, alla vista di Durya. «Che cosa sta facendo là dietro?» domandò uno di loro, cercando di passare oltre le coperte. «Pregando», affermò Galdar brusco, bloccando l'entrata. «Le avete dato voi il permesso, ricordate?» Il guaritore lo guardò torvo, girò i tacchi e si allontanò a passo deciso. Galdar lo vide dirigersi verso la tenda di lord Milles. «Sì, vai a raccontargli ciò che hai visto», mormorò Galdar, divertito. «Diglielo e gira ancora di più il coltello nella piaga.» Mina li guarì tutti. Guarì i soldati che erano in fin di vita. Guarì un comandante colpito allo stomaco da una lancia nemica. Guarì un fante calpestato dagli zoccoli taglienti di un cavallo imbizzarrito. Ad uno ad uno, i moribondi si alzarono, acclamati dagli altri feriti. Ognuno di loro si fermò da Mina per ringraziarla e lodarla, ma la donna sviò la loro gratitudine. «Offrite i vostri ringraziamenti e la vostra lealtà all'Unico, Vero Dio», disse loro. «È grazie al suo potere che siete guariti.» Ed effettivamente sembrava sorretta da una forza divina, poiché non mostrò alcun segno di stanchezza pur dopo avere curato molti feriti. E furono veramente tanti. Dopo avere finito con i moribondi, passò da un ferito all'altro, imponendo le mani, baciandoli, lodando il loro coraggio in battaglia. «Il potere taumaturgico non viene da me», disse loro. «Proviene dal Dio che è tornato per prendersi cura di voi.»
Allo scoccare della mezzanotte, la tenda adibita a ospedale era vuota. Su ordine di lord Milles, i mistici scuri tenevano sotto stretto controllo Mina, per cercare di scoprire il suo segreto e poterla così screditare e denunciare come ciarlatana. Erano convinti che ricorresse a trucchi o a giochi di prestigio. Punsero con degli spilli gli arti da lei ricreati, sperando di provare che erano mere illusioni, solo per vedere spillare sangue vero. Le mandarono pazienti affetti da malattie terribilmente contagiose, pazienti che gli stessi guaritori non osavano avvicinare. Mina si sedeva vicino a quei malati, poneva le mani sulle loro piaghe e pustole purulenti e augurava loro ogni bene nel nome dell'Unico Dio. Fra i veterani girava voce che lei fosse come i sacerdoti di un tempo, ai quali gli dei avevano donato strepitosi poteri. Quei sacerdoti, affermavano, erano stati capaci di resuscitare i morti. Ma Mina non voleva, o non poteva, fare quel miracolo. Ai morti dedicava attenzioni particolari, ma non ridava loro la vita, nonostante le molte implorazioni. «Veniamo alla luce in questo mondo per servire l'Unico Vero Dio», sosteneva Mina. «Come noi serviamo il Vero Dio in questo mondo, così i morti assolvono ad altri incarichi in quello successivo. Sarebbe sbagliato farli tornare indietro.» Su suo comando, i soldati avevano trasportato i cadaveri, di amici e nemici, dal campo di battaglia e li avevano disposti in lunghe file sull'erba insanguinata. Mina si inginocchiò accanto a ogni corpo, pregando e affidandone l'anima al Dio senza nome. Quindi, diede ordine che venissero sepolti in una fossa comune. Su insistenza di Galdar, il terzo giorno d'assedio Mina si incontrò con i comandanti dei Cavalieri di Neraka, ovverosia con quasi tutti quegli ufficiali che un tempo riportavano a lord Milles e che ora la esortavano ad assumere il comando dell'assedio di Sanction e a condurli a quella che sarebbe stata una schiacciante vittoria sui Solamnici. Mina non accolse le loro suppliche. «Ma perché?» domandò Galdar al mattino del quinto giorno, quando lui e Mina si ritrovarono soli. Era deluso per il suo rifiuto. «Perché non vuoi lanciare un attacco? Se conquisterai Sanction, lord Targonne non potrà toccarti! Dovrà riconoscerti come uno dei suoi più valorosi Cavalieri!» Mina era seduta al grande tavolo che aveva fatto portare nella sua tenda. Mappe di Ansalon erano aperte su di esso. Da giorni studiava le cartine, muovendo silenziosamente le labbra mentre memorizzava i nomi di città, paesi e villaggi. Interrompendo il suo lavoro, sollevò lo sguardo sul mino-
tauro. «Di che cosa hai paura, Galdar?» domandò dolcemente. Il minotauro si accigliò, tante piccole rughe comparvero sul suo volto. «Ho paura per te, Mina. Quando un uomo rappresenta una minaccia per Targonne sparisce. Nessuno è al sicuro da lui. Neppure il nostro precedente capo, Mirielle Abrena. Ci hanno detto che è morta dopo avere mangiato della carne deteriorata, ma tutti sappiamo la verità.» «E cioè?» domandò Mina in tono distratto. Stava nuovamente osservando le mappe. «L'ha fatta avvelenare, è ovvio», replicò Galdar. «Se mai ti capiterà di incontrarlo, chiediglielo. Non lo negherà.» Mina sospirò. «Mirielle è fortunata. È con il suo Dio. Sebbene la Visione che aveva promulgato fosse scorretta, ora conosce la verità. È stata punita per la sua presunzione e ora compie grandi azioni nel nome dell'Unico. E per quanto riguarda Targonne», Mina sollevò nuovamente lo sguardo, «serve l'Unico Vero Dio in questo mondo e per questo gli sarà concesso di restare, per il momento.» «Targonne?» Galdar si produsse in uno sbuffo tremendo. «Sì, certo, serve un dio: il dio denaro.» Mina celò un involontario sorriso. «Non ho detto che Targonne sa di servire l'Unico Dio, Galdar. Però lo fa. Ecco perché non attaccherò Sanction. Altri combatteranno questa battaglia. Sanction non ci interessa. Siamo chiamati a una gloria ben più grande.» «Una gloria più grande?» Galdar era attonito. «Non sai quello che dici, Mina! Che cosa c'è di più grande della conquista di Sanction? Soltanto allora il popolo capirà che i Cavalieri di Neraka sono tornati a essere una vera potenza.» Con il dito, Mina tracciò una linea sulla mappa, una linea che si fermò vicino alla parte meridionale della piantina. «Che cosa ne dici della conquista del grande regno elfico di Silvanesti?» «Hah! Hah!» Galdar scoppiò a ridere. «Uno a zero, Mina. Te lo concedo. Sì, quella sarebbe una vittoria fantastica. Così come sarebbe fantastico vedere la luna cadere dal cielo e atterrare nel mio piatto, cosa molto facile che accada, vero?» «Vedrai, Galdar», replicò Mina in tono tranquillo. «Avvertimi appena arriva il messaggero. Ah, e Galdar...» «Sì, Mina?» Il minotauro stava già per andarsene. «Stai attento», gli disse. I suoi occhi color ambra lo trapassarono. «Il tuo
scherno offende il Dio. Non commettere mai più un simile errore.» Galdar sentì un improvviso formicolio al braccio destro. Le dita persero la sensibilità. «Sì, Mina», mormorò. Massaggiandosi il braccio, scivolò fuori dalla tenda, lasciando la donna a studiare le sue mappe. Galdar calcolò che a un tirapiedi di lord Milles sarebbero stati necessari due giorni a cavallo per raggiungere il quartier generale dei Cavalieri a Jelek, un giorno per informare il Signore della Notte Targonne e altri due giorni per tornare indietro. Avrebbe dovuto essere di ritorno proprio quel giorno. Dopo avere lasciato la tenda di Mina, girovagò ai margini del campo, tenendo d'occhio la strada. Non era l'unico. Trovò infatti anche il capitano Samuval e la sua Compagnia di Arcieri, oltre a numerosi soldati al comando di Milles. Se ne stavano pronti, con le armi spianate. Ognuno di loro aveva giurato che avrebbe fermato chiunque avesse osato portare via Mina. Gli occhi erano puntati sulla strada. I soldati della pattuglia di picchetto che avrebbero dovuto controllare Sanction continuavano a guardarsi indietro, invece di tenere gli occhi fissi sulla città assediata. Lord Milles, che dopo l'attacco aveva fatto un'incursione fuori dal suo rifugio per poi ritornare immediatamente sui propri passi, spinto da uno sbarramento di sterco di cavallo, fischi e scherni, sollevò spazientito i lembi della tenda per gettare un'occhiata verso la strada, sicuro che Targonne gli sarebbe corso in aiuto mandando delle truppe per sedare l'ammutinamento. Gli unici occhi dell'accampamento che non si voltarono verso la strada furono quelli di Mina, che rimase nella sua tenda immersa nello studio delle mappe. «Ed è questo il motivo per cui non attacchiamo Sanction? Perché dobbiamo marciare su Silvanesti?» esclamò il capitano Samuval rivolgendosi a Galdar, mentre aspettavano l'arrivo del messaggero. Il capitano si accigliò. «È assurdo! Non pensi abbia paura, vero?» Galdar lo fissò torvo. Appoggiò la mano sull'impugnatura della spada e iniziò a sguainarla. «Dovrei tagliarti la lingua per avere detto una cosa simile! L'hai vista lanciarsi fra le file nemiche! Dov'era allora la sua paura?» «Tranquillo, minotauro», cercò di calmarlo Samuval. «Metti via la spada. Non intendevo mancarle di rispetto. Sai quanto me che quando in battaglia il sangue ribolle, ogni uomo pensa di essere invincibile e compie azioni che a sangue freddo non si sognerebbe mai di fare. Sarebbe soltanto naturale che ora, dopo avere studiato attentamente la situazione ed essersi
resa conta dell'enormità dell'impresa, fosse un po' spaventata.» «Lei non conosce la paura», ringhiò Galdar, riponendo la lama. «Come può esserci paura in chi parla della morte con uno sguardo impaziente e desideroso negli occhi, come se fosse pronta ad abbracciarla, se solo potesse, ed è invece costretta a continuare a vivere contro la sua volontà?» «Un uomo può temere molte cose oltre alla morte», sottolineò Samuval. «Il fallimento, per esempio. Forse ha paura che se condurrà in battaglia questi uomini che ora l'adorano e dovesse fallire, loro le si rivolteranno contro, come hanno fatto con lord Milles.» Galdar voltò la testa cornuta, guardò oltre le spalle, verso la piccola altura dove la tenda di Mina svettava solitaria, riconoscibile dallo stendardo insanguinato conficcato nel terreno. La tenda era circondata da uomini e da donne che se ne stavano in silenzio, in attesa, sperando di vederla o di sentirne la voce. «Le volteresti le spalle, capitano?» domandò Galdar. Il capitano Samuval seguì lo sguardo del minotauro. «No», affermò infine. «Non so perché. Forse mi ha stregato.» «Te lo dico io», replicò Galdar. «È perché ci ha offerto qualcosa in cui credere. Qualcosa al di là di noi stessi. Mi sono appena fatto gioco di quel qualcosa», aggiunse in tono mesto, massaggiandosi il braccio che formicolava ancora. «E ne sono profondamente dispiaciuto.» Uno squillo di tromba risuonò nel silenzio. I soldati di pattuglia all'ingresso della valle avvisavano i commilitoni nel campo dell'arrivo del messaggero. Nell'accampamento tutti interruppero le loro attività e sollevarono lo sguardo, le orecchie aperte per sentire, il collo allungato per vedere. La folla che bloccava la strada si aprì per lasciare passare il messaggero a cavallo. Galdar si affrettò per portare la notizia a Mina. Lord Milles emerse dalla sua tenda nello stesso momento in cui Mina lasciava la sua. Sicuro che il messaggero gli avrebbe riferito della rabbia di Targonne e gli avrebbe portato la sua promessa di inviare una truppa armata per arrestare e giustiziare l'impostora, lord Milles lanciò un'occhiata di trionfo verso Mina. Era certo che la caduta della donna fosse imminente. Lei non lo degnò di uno sguardo. Restò davanti alla tenda, in attesa degli sviluppi con calmo distacco, come se fosse già a conoscenza delle notizie. Il messaggero smontò da cavallo. Fissò attonito la folla radunata intorno alla tenda di Mina, spaventato dall'aria bieca e minacciosa con cui lo guardavano. Mentre si dirigeva verso lord Milles per consegnarli un cilindro per pergamene, continuò a lanciare occhiate dietro le spalle. I fedeli di Mi-
na lo seguirono con gli occhi, senza mai sollevare le mani dalle impugnature delle spade. Lord Milles strappò il contenitore dalle mani del messaggero. Era così sicuro del contenuto dello scritto che non si preoccupò di rientrare nella tenda per leggerlo in solitudine. Aprì il semplice cilindro in pelle, estrasse la pergamena, ruppe il sigillo e la srotolò velocemente. Si era persino riempito i polmoni per fare l'annuncio che avrebbe decretato la fine della femmina venuta dal nulla. Il fiato se ne andò come dalla vescica sgonfia di un maiale. Il volto dell'uomo divenne giallastro, quindi livido. Il sudore gli imperlò la fronte, la lingua umettò più volte le labbra. Cacciò la missiva in tasca e, barcollando come un cieco, annaspò alla ricerca dei lembi della tenda, cercando invano di aprirli. Un aiutante di campo si fece avanti. Lord Milles lo cacciò con un ringhio furioso ed entrò nella tenda, chiudendo e allacciando i lembi dietro di sé. Il messaggero si voltò per affrontare la folla. «Cerco un caposquadra di nome Mina», disse a voce alta scandendo bene le parole. «Che cosa vuoi da lei?» ruggì un gigantesco minotauro, emerso dalla folla. «Le porto degli ordini da parte del Signore della Notte Targonne», rispose il messaggero. «Lasciatelo passare», gridò Mina. Il minotauro scortò l'uomo. La folla che aveva sbarrato la strada al messaggero creò un varco dalla tenda di lord Milles a quella di Mina. Il messaggero s'incamminò lungo il passaggio delimitato da soldati che, pronti a sguainare le spade, gli lanciavano occhiate tutt'altro che amichevoli. L'uomo tenne lo sguardo fisso davanti a sé, cosa non semplice, poiché la visuale era bloccata dalla schiena, le spalle e il collo taurino dell'enorme minotauro che lo precedeva. Il messaggero continuò per la propria strada, attento ad assolvere al proprio dovere. «Sono stato inviato per consegnare un messaggio a un cavaliere ufficiale di nome Mina», ripeté il militare con una certa enfasi. Fissava infatti confuso la ragazza che gli stava davanti. «Tu sei poco più che una bambina!» «Una figlia della battaglia. Una figlia della guerra. Una figlia della morte. Io sono Mina», disse la fanciulla con la tranquilla sicurezza del comando. Il messaggero si inchinò e le porse un secondo contenitore per pergame-
ne. Questo era in elegante cuoio nero impreziosito dal sigillo raffigurante un teschio e un giglio incisi in argento. Mina lo aprì ed estrasse la pergamena. La folla ammutolì, quasi trattenesse il fiato. Il messaggero si guardò intorno, sempre più stupito. In seguito avrebbe raccontato a Targonne di avere avuto l'impressione di trovarsi in un tempio e non in un accampamento militare. Mina lesse la missiva. Il suo volto non lasciò trasparire alcuna emozione. Terminata la lettura, porse la pergamena a Galdar. L'uomo la scorse velocemente. La mascella gli cadde al punto tale che i denti brillarono al sole, la lingua penzoloni. Lesse e rilesse il messaggio, quindi posò uno sguardo incredulo su Mina. «Perdonami, Mina», mormorò, restituendole la pergamena. «Non chiedere il mio perdono, Galdar», replicò lei. «Non è di me che hai dubitato.» «Che cosa dice il messaggio, Galdar?» domandò il capitano Samuval impaziente, mentre la folla avanzava la stessa richiesta. Mina sollevò una mano e i soldati ubbidirono immediatamente al suo muto comando. Un riverente silenzio si diffuse nuovamente nell'accampamento. «I miei ordini sono di marciare verso sud, invadere, conquistare e presidiare la terra elfica di Silvanesti.» Un brontolio basso e irato, come il rombo di un tuono lontano, si levò dalle gole dei soldati. «No!» gridarono in molti, infuriati. «Non possono farlo! Vieni con noi, Mina! All'Abisso Targonne! Marceremo su Jelek! Sì, è questo ciò che faremo! Marceremo su Jelek!» «Ascoltatemi!» La voce di Mina si levò al di sopra del fragore. «Questi ordini non provengono dal generale Targonne! Lui rappresenta soltanto la mano che li ha scritti. Gli ordini vengono dall'Unico Dio. Dobbiamo attaccare Silvanesti per volontà di Dio, al fine di provare il suo ritorno nel mondo. Marceremo su Silvanesti!» La voce di Mina divenne un grido travolgente. «E vinceremo!» «Urrà!» I soldati applaudirono e iniziarono a intonare con voce cantilenante: «Mina! Mina! Mina!» Il messaggero si guardò intorno in stupefatto sbalordimento. Un intero accampamento, migliaia di voci, ripetevano il nome della ragazza. Il canto echeggiò fra le montagne e risuonò in cielo. Venne udito anche nella città di Sanction, dove gli abitanti tremarono e i Cavalieri strinsero le armi, in-
terpretando tutto ciò come un presagio di sventura che ben presto si sarebbe abbattuta sulla città assediata. Uno spaventoso grido si levò al di sopra del canto, interrompendolo in parte, poiché coloro che si trovavano al limite esterno del grappolo di folla continuarono ignari. Il grido proveniva dalla tenda di lord Milles. Era così terribile che coloro che si trovavano nei suoi pressi indietreggiarono, spaventati. «Vai a vedere che cosa è successo», ordinò Mina. Galdar eseguì l'ordine. Il messaggero lo seguì, ben sapendo che Targonne avrebbe mostrato interesse all'accaduto. Sguainata la spada, Galdar tagliò i lacci di cuoio che tenevano chiusi i lembi della tenda. Entrò, per uscire immediatamente dopo. «Sua Signoria è morto», annunciò, «per sua mano.» I soldati ripresero il canto e molti sghignazzarono divertiti. Mina investì quelli intorno a lei con una tale rabbia che gli occhi d'ambra apparvero improvvisamente infuocati. I soldati interruppero il canto, sgomenti. La fanciulla non proferì parola, ma li oltrepassò, il mento alto, la schiena rigida. Raggiunse l'ingresso della tenda. «Mina», disse Galdar, sollevando il messaggio macchiato di sangue. «Questo bastardo ha cercato di farti impiccare. La prova è qui, nella risposta di Targonne.» «Lord Milles si trova ora davanti all'Unico Dio, Galdar», replicò Mina, «dove tutti noi ci troveremo un giorno. Non spetta a noi giudicarlo.» Prese il pezzo di carta insanguinato, lo infilò sotto la cintura ed entrò nella tenda. Galdar si mosse per seguirla, ma lei lo allontanò, richiudendo dietro di sé i lembi della tenda. Il minotauro si trovò a fissare l'ingresso di quello che era stato il ricovero di lord Milles. Quindi, scuotendo la testa, si voltò e montò la guardia. «Non state lì imbambolati», ordinò ai soldati che gironzolavano intorno. «C'è un sacco di lavoro da svolgere se dobbiamo marciare su Silvanesti.» «Che cosa fa là dentro?» gli domandò il messaggero. «Prega», tagliò corto Galdar. «Prega!» esclamò l'altro incredulo. Saltato a cavallo, partì al galoppo, ansioso di arrivare a destinazione per raccontare gli straordinari avvenimenti della giornata al Signore della Notte. «Allora, che cosa è successo?» domandò il capitano Samuval appena ebbe raggiunto Galdar. «A Milles?» grugnì il minotauro. «È caduto sulla sua spada. Ho letto il
messaggio. Come avevamo immaginato, aveva fatto pervenire a Targonne un mucchio di menzogne su come Mina avesse ormai perso la battaglia e lui ne avesse ribaltato le sorti. Targonne sarà anche un assassino, un bastardo intrigante, ma non è uno stupido.» Il tono della voce lasciava trasparire un'ammirazione forzata. «Non si è fatto incantare dalle menzogne di Milles e gli ha ordinato di fare rapporto personalmente alla grande dragonessa Malystrx.» «Non c'è da stupirsi che abbia scelto questa via d'uscita», commentò Samuval. «Ma perché mandare Mina a sud, a Silvanesti? Che cosa ne sarà di Sanction?» «Targonne ha ordinato al generale Dogah di lasciare Khur. Si occuperà lui dell'assedio di Sanction. Come ho già detto, Targonne non è stupido. Sa che Mina e il suo Unico, Vero Dio costituiscono una minaccia per lui e per quell'ipocrita "Visione" che ci propina. Ma sa anche che provocherebbe una rivolta delle truppe se cercasse di farla arrestare. La grande dragonessa Malystrx è da tempo infuriata con gli elfi di Silvanesti che sono riusciti a sottrarsi a lei nascondendosi sotto lo scudo magico. E così Targonne da una parte tiene buona Malystrx dicendole che ha mandato un reparto ad attaccare Silvanesti e dall'altra, si libera di una pericolosa minaccia alla sua autorità.» «Mina sa che per raggiungere Silvanesti dobbiamo attraversare Blöde?» domandò il capitano Samuval. «Il regno degli orchi? Sono già infuriati perché ci siamo impossessati di parte delle loro terre. Non tollereranno altre incursioni nel loro territorio.» Scosse la testa. «È un suicidio! Non arriveremo mai a Silvanesti! Dobbiamo cercare di dissuaderla da questo atto di pura follia, Galdar.» «Non spetta a me discutere le sue azioni», affermò il minotauro. «Questa mattina, prima che arrivasse il messaggero, sapeva già che saremmo andati a Silvanesti. Ti ricordi, capitano? Te l'ho detto io stesso.» «Davvero?» si stupì Samuval. «Con tutta quella confusione, me ne sono dimenticato. Chissà come faceva a saperlo.» Mina uscì dalla tenda di Milles. Era pallidissima. «I suoi crimini sono stati perdonati. La sua anima è stata accettata.» Sospirò, si guardò intorno e sembrò contrariata di ritrovarsi fra i comuni mortali. «Come lo invidio!» «Mina, quali sono i tuoi ordini?» le domandò Galdar. Per qualche secondo, la ragazza lo guardò senza riconoscerlo, gli occhi ambra ancora colmi di visioni meravigliose inaccessibili ai mortali. Quindi
sorrise cupamente, sospirò di nuovo e tornò alla realtà. «Riunisci le truppe. Capitano Samuval, tu prenderai la parola e dirai loro, in tutta onestà, che l'incarico è pericoloso. Qualcuno potrebbe perfino definirlo "suicida".» Sorrise a Samuval. «Non obbligherò nessuno a unirsi a questa marcia. Chi lo farà, sarà per sua libera scelta.» «Verranno tutti, Mina», disse Galdar in tono gentile. Mina lo guardò, gli occhi luminosi, raggianti. «Se così fosse, allora saremmo in troppi. Dovremo muoverci velocemente, senza rivelare la nostra presenza. Naturalmente, i miei Cavalieri verranno con me. Tu, Galdar, sceglierai i cinquecento fanti migliori. Gli altri rimarranno qui, con la mia benedizione. Continueranno l'assedio a Sanction.» Galdar ammiccò. «Ma Mina, non hai sentito? Targonne ha ordinato che sia il generale Dogah a occuparsi dell'assedio di Sanction.» Mina sorrise. «Il generale Dogah riceverà nuovi ordini e dovrà dirigersi con le sue forze verso sud e marciare in tutta fretta verso Silvanesti.» «Ma... da dove arriveranno quegli ordini?» domandò Galdar, guardandola allibito. «Sicuramente non da Targonne. Ci ha ordinato di marciare su Silvanesti semplicemente per liberarsi di noi, Mina!» «Come ti ho già detto, Galdar, Targonne compie la volontà dell'Unico Dio, che lo sappia o meno.» Mina infilò la mano nella cintura ed estrasse il messaggio che Milles aveva ricevuto da Targonne. Spiegò la pergamena al sole. Il nome di Targonne si profilò a grandi lettere nere sul fondo del foglio, il rosso del suo sigillo luccicò sotto i raggi solari. Con il dito, Mina indicò le parole sulla pagina, una pagina macchiata dal sangue di Milles. «Che cosa dicono, Galdar?» Sconcertato, Galdar guardò le parole e iniziò a leggere, a leggere esattamente ciò che aveva letto in precedenza. A lord Milles viene qui ordinato... Le parole iniziarono improvvisamente a ondeggiare e distorcersi sotto i suoi occhi. Galdar li chiuse, li sfregò, li riaprì. Le parole continuarono a ondeggiare e iniziarono anche a strisciare sulla pagina, con il nero dell'inchiostro che si mischiava al rosso del sangue di Milles. «Che cosa dicono, Galdar?» domandò nuovamente Mina. Galdar si ritrovò improvvisamente senza fiato. Cercò di parlare, riuscì soltanto a bisbigliare con voce roca: «Al generale Dogah viene qui ordinato di spostare le sue truppe a sud e di marciare a tutta velocità verso Silvanesti. Firmato in nome di Targonne.» La scrittura era quella di Targonne. Non c'erano dubbi. La sua firma era
al posto giusto, così come il sigillo. Mina arrotolò delicatamente la pergamena e la ripose nel cilindro. «Voglio che sia tu stesso a consegnare questi ordini, Galdar. Poi dovrai raggiungerci sulla strada verso sud. Ti mostrerò il percorso della nostra marcia. Samuval, tu sarai comandante in seconda fino a quando Galdar non ci raggiungerà.» «Puoi contare su di me e sui miei uomini, Mina», disse il capitano Samuval. «Se sarà necessario, ti seguiremo nell'Abisso.» Mina lo guardò pensosa. «L'Abisso non esiste più, capitano. Colei che vi regnava se ne è andata, per non tornare mai più. I defunti ora hanno un loro regno; un regno dove è permesso loro di continuare a servire l'Unico Dio.» Spostò lo sguardo, abbracciando le montagne, la valle, i soldati impegnati a smontare il campo. «Partiremo all'alba. Marceremo per due giorni. Date le disposizioni necessarie. Voglio due carri con i rifornimenti. Avvisatemi quando sarete pronti.» Galdar ordinò agli ufficiali di radunare gli uomini. Entrando nella tenda di Mina, la trovò curva sulle mappe, intenta a disporre dei sassolini su alcune località. Dando un'occhiata, il minotauro si accorse che i ciottoli erano tutti concentrati in una zona denominata «Blöde». «Ci incontreremo qui», disse la ragazza, indicando un punto sulla mappa segnato con un sasso. «Ho calcolato che ti ci vorranno due giorni per raggiungere il generale Dogah e altri tre per riunirti a noi. L'Unico Dio ti aiuterà ad andare a passo spedito, Galdar.» «Che l'Unico Dio sia con te fino a quando non ci incontreremo di nuovo, Mina», replicò Galdar. Intendeva andarsene. Poteva coprire molte miglia prima che scendesse l'oscurità. Ma non riusciva ad allontanarsi. Non sopportava l'idea di non vedere anche per un solo giorno i suoi occhi color ambra, o di non udire la sua voce. Si sentiva denudato, come se improvvisamente lo avessero privato della sua pelliccia, lasciandolo esposto ai pericoli del mondo come un vitellino debole e tremante. Mina posò la mano su quella del minotauro, sulla mano che lei gli aveva dato. «Sarò con te ovunque andrai, Galdar», disse. Quest'ultimo cadde in ginocchio, premendo la mano di lei sulla propria fronte. Conservando il ricordo della sua carezza come un prezioso amuleto, si alzò, si voltò e fuggì dalla tenda. Qualche istante dopo, giunse il capitano Samuval a riferire che, come aveva previsto, ogni singolo soldato del campo si era offerto volontario per
intraprendere l'impresa. Aveva scelto i cinquecento fanti che riteneva migliori e che ora erano oggetto di invidia da parte di tutti gli altri. «Temo che coloro che sono stati scartati, diserteranno per seguirti, Mina», affermò Samuval. «Parlerò loro», disse Mina. «Spiegherò che devono continuare l'assedio di Sanction senza aspettarsi alcun rinforzo. Spiegherò loro come fare. Capiranno qual è il loro dovere.» Continuò a disporre sassolini sulla mappa. «Che cos'è?» domandò Samuval incuriosito. «Le postazioni delle truppe degli orchi», spiegò Mina. «Guarda, capitano, se marciamo in direzione est verso i Monti Khalkist, invece di dirigerci a sud attraverso le Pianure di Khur, risparmieremo parecchio tempo. Eviteremo la concentrazione maggiore delle loro truppe che sono raccolte qui, nell'estremità meridionale della catena montuosa, impegnate nel combattimento contro la Legione d'Acciaio e le forze di Alhana Starbreeze. Cercheremo di aggirarli viaggiando lungo questo percorso che segue il fiume Thon-Thalas. Immagino che prima o poi ci imbatteremo in loro, ma se il mio piano funziona, dovremo affrontare solo una forza limitata. Con la protezione di Dio, la maggior parte di noi raggiungerà l'obiettivo.» E che cosa sarebbe accaduto quando fossero giunti a destinazione? Come pensava di penetrare uno scudo magico che fino ad allora aveva respinto ogni tentativo di attraversarlo? Samuval non glielo chiese. Né le chiese come facesse a conoscere la posizione delle truppe degli orchi o come facesse a sapere che erano impegnati a combattere contro la Legione d'Acciaio e gli elfi scuri. I Cavalieri di Neraka avevano mandato dei ricognitori nelle terre degli orchi, ma nessuno di loro era mai tornato per raccontare ciò che aveva visto. Il capitano Samuval non domandò a Mina come intendesse conquistare Silvanesti con una forza così modesta, una forza che quando sarebbero giunti a destinazione, sarebbe già stata decimata. Samuval non le chiese niente di tutto ciò. Aveva fede. Se non in quell'Unico Dio, in Mina. XIII IL FLAGELLO DI ANSALON Lo strano evento che capitò a Tasslehoff Burrfoot la quinta notte della sua avanzata verso Qualinesti sotto la sorveglianza di sir Gerard trova la
sua migliore spiegazione nel fatto che, benché i giorni fossero stati caldi, soleggiati e adatti per viaggiare, le notti erano state coperte e nuvolose, con una pioggerella sottile. Fino a quella notte. Quella notte il cielo era limpido, e l'aria tiepida e dolce, vibrante dei rumori della foresta: lo stridio dei grilli, i gridi dei gufi, e gli occasionali ululati dei lupi. Molto più a nord, vicino a Sanction, Galdar, il minotauro, correva lungo la strada che portava a Khur. Molto più a sud, a Silvanesti, Silvanoshei entrava a Silvanost come previsto, in trionfo e fra le fanfare. L'intera popolazione di Silvanost uscì a dargli il benvenuto, guardandolo con meraviglia. Silvanoshei rimase scioccato e turbato nel vedere quanti pochi elfi rimanevano in città; tuttavia, non disse nulla a nessuno e fu accolto con le dovute cerimonie dal generale Konnal e da uno stregone ammantato di bianco i cui modi affascinanti glielo resero subito caro. Mentre Silvanoshei consumava leccornie elfiche in piatti d'oro e beveva vino spumeggiante in calici di cristallo, e mentre Galdar sgranocchiava piselli secchi durante la marcia, Tas e Gerard facevano il loro consueto, monotono pasto a base di pane di segala e carne di bue essiccata, innaffiati di semplice acqua fresca. Procedendo verso sud, erano arrivati fino a Gateway, dove avevano superato diverse locande, i cui gestori stavano sulle soglie col viso smagrito. Prima che la dragonessa chiudesse le strade della zona, i locandieri avrebbero sbarrato le porte davanti a un kender; ora, erano corsi fuori per offrire vitto e alloggio al prezzo inaudito di una sola moneta d'argento. Sir Gerard non aveva dato loro retta, cavalcando innanzi senza degnarli di un'occhiata. Tasslehoff aveva sospirato profondamente, e girato la testa indietro con desiderio verso le locande che rimpicciolivano in lontananza. Quando aveva fatto intendere che un boccale di birra fresca e un piatto di cibo caldo sarebbero stati un cambiamento gradito, Gerard aveva risposto di no: meno attenzione attiravano su di sé, meglio sarebbe stato per tutti gli interessati. Avanzarono verso sud, lungo una nuova strada che correva vicino al fiume, una strada che, disse Gerard, era stata costruita dai Cavalieri di Neraka per mantenere le linee di rifornimento per Qualinesti. Tas si chiese perché i Cavalieri di Neraka fossero interessati a rifornire gli elfi di Qualinesti, ma pensò che si trattasse di qualche nuovo progetto ideato dal re Gilthas. Da quattro notti, Tas e Gerard dormivano all'aperto sotto l'acquerugiola. La quinta notte il tempo fu bello. Come al solito, il sonno colse di sorpresa
il kender prima che lui fosse pronto. Nel cuore della notte, fu svegliato di soprassalto da una luce che gli splendeva negli occhi. «Ehi! Cos'è quella?» domandò a voce alta. Gettando via la coperta, balzò in piedi e afferrò Gerard per la spalla, scuotendolo e prendendolo a pugni. «Sir Gerard! Svegliati!» gridò Tasslehoff. «Sir Gerard!» Il Cavaliere fu sveglio in un attimo, spada in mano. «Che cosa c'è?» Si guardò intorno, vigile nei confronti del pericolo. «Hai sentito qualcosa? Visto qualcosa? Che cosa?» «Quella! Quella là!» Tas afferrò la camicia del Cavaliere e indicò. Sir Gerard gli rivolse uno sguardo estremamente torvo. «È la tua idea di scherzo?» «Oh, no», dichiarò Tas. «La mia idea di scherzo è questa. Io dico: "Toc toc" e tu rispondi: "Chi è?", e io dico: "Sir Kac", e tu rispondi: "Sir Kak chi?", e io dico: "Ecco cos'hai pestato". Questa è la mia idea di scherzo. Quella che mi preoccupa è la strana luce nel cielo.» «Quella è la luna», bofonchiò sir Gerard, a denti stretti. «No!» Tasslehoff era esterrefatto. «La luna? Davvero?» La guardò di nuovo. Certo, la cosa aveva delle qualità lunari: era sferica, era nel cielo insieme alle stelle, e brillava. Ma lì finiva la somiglianza. «Se quello è Solinari», osservò Tas, adocchiando la sfera con scetticismo, «che cosa gli è successo? È malato?» Sir Gerard non rispose. Si ridistese, posò la spada a portata di mano e, afferrata la coperta per un angolo, vi si avvolse. «Va' a dormire», ordinò freddamente, «e fino al mattino.» «Ma io voglio sapere della luna», insistette Tas, accovacciandosi accanto al Cavaliere, per nulla scoraggiato dal fatto che questi aveva la schiena girata e la testa ammantata dalla coperta, ed era ancora evidentemente molto arrabbiato per essere stato svegliato bruscamente per nulla. Persino la sua schiena sembrava in collera. «Cos'è successo a Solinari per renderlo così pallido e smorto? E dov'è la bella rossa Lunitari? Mi chiederei dov'è Nuitari se fossi capace di vedere la luna nera, cosa che non so fare, per cui potrebbe essere lì senza che io lo sappia...» Sir Gerard si girò all'improvviso. La testa emerse dalla coperta, rivelando un occhio severo e ostile. «Sai benissimo che Solinari non si vede nei cieli da trent'anni e rotti, fin dalla fine della Guerra del Caos. Lo stesso vale per Lunitari. Per cui smettila con queste sciocchezze ridicole. Ora vado a dormire, e non bisogna svegliarmi per niente meno di un'invasione di
hobgoblin. È chiaro?» «Ma la luna!» obiettò Tas. «Ricordo che, quando sono venuto al primo funerale di Caramon, Solinari splendeva così forte che sembrava giorno, anche se era notte. Palin diceva che così rendeva omaggio a suo padre e...» Gerard si rigirò, coprendosi la testa. Tas continuò a parlare finché non sentì il Cavaliere cominciare a russare. Gli diede una gomitata sperimentale sulla spalla, inutilmente. Poi pensò che poteva provare ad aprirgli una delle palpebre, per vedere se dormiva veramente o se fingeva soltanto, un trucco che non aveva mai fallito con Flint, per quanto il risultato fosse, di solito, il nano adirato che rincorreva il kender per tutta la stanza con l'attizzatoio. Tas, tuttavia, aveva altre cose cui pensare, così lasciò Gerard in pace e ritornò alla sua coperta. Sdraiatosi, mise le mani dietro la testa e contemplò la strana luna, che lo fissò di rimando senza il minimo accenno di simpatia. Tas ebbe un'idea. Abbandonando la luna, spostò lo sguardo sulle stelle, cercando le sue costellazioni preferite. Anche quelle erano sparite. Le stelle di adesso erano fredde, lontane e sconosciute. L'unica stella benevola era una rossa isolata che brillava luminosamente non lontano dalla strana luna. Aveva un fulgore caldo e confortante, che compensava la fredda sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco di Tas, una sensazione che il kender, da giovane, aveva attribuito al bisogno di mangiare qualcosa, ma che ora, dopo anni di avventure, sapeva essere il modo del suo corpo di informarlo che c'era qualcosa di storto. In effetti, si era sentito più o meno così nel momento in cui il piede del gigante gli era stato sospeso sopra la testa. Tas mantenne lo sguardo sulla stella rossa e dopo un po' il gelo e il vuoto non gli fecero più così male. Proprio quando si sentiva più tranquillo, aveva scacciato dalla mente il pensiero della strana luna, delle stelle ostili, e del gigante incombente, e cominciava finalmente a godersi la notte, il sonno lo inghiottì all'improvviso. Il giorno successivo, il kender voleva discutere della luna, e lo fece, ma solo fra sé. Sir Gerard non rispose mai a nessuna delle sue innumerevoli domande, non si girò mai; si limitò a procedere a passo lento, con in mano le redini del pony di Tas. Gerard cavalcava in silenzio, ma era vigile e all'erta, e scrutava continuamente l'orizzonte. Quel giorno, tutto il mondo sembrava cavalcare in silenzio, una volta che Tasslehoff tenne la bocca chiusa, cosa che fece dopo un paio d'ore, stufo non tanto di parlare, quanto di rispondersi da solo.
Non incontrarono nessuno sulla strada, e a un certo punto persino i rumori delle altre creature viventi cessarono. Nessun uccello cantava. Nessuno scoiattolo scorrazzava sul sentiero. Nessun daino camminava fra le ombre o fuggiva da loro, segnalando allarme con la bianca coda. «Dove sono gli animali?» Tas chiese a Gerard. «Sono nascosti», rispose il Cavaliere, con le prime parole pronunciate in tutta la mattinata. «Hanno paura.» L'aria era immobile e silenziosa, come se il mondo trattenesse il respiro, timoroso di essere sentito. Nemmeno gli alberi frusciavano e Tas aveva la sensazione che, potendo scegliere, si sarebbero sradicati dal terreno per fuggire. «Di che cosa?» domandò Tas con interesse, e si guardò intorno eccitato, sperando in un castello infestato dagli spiriti, in un maniero cadente o, almeno, in una grotta sinistra. «Temono la grande dragonessa verde, Beryl. Siamo nelle Pianure Occidentali. Abbiamo superato i confini del suo regno.» «Io non ne ho mai avuto notizia. L'unico drago verde che conoscevo si chiamava Cyan Bloodbane. Chi è Beryl? Da dove viene?» «Chi lo sa?» ribatté Gerard, con impazienza. «Dall'altra parte del mare, presumo, insieme con la grande dragonessa rossa Malystrx e altri della loro abominevole razza.» «Be', perché qualche eroe non va a piantarle una lancia in corpo?» chiese Tas, allegramente. Gerard fermò il cavallo. Tirò le redini del pony di Tasslehoff, che arrancava dietro a testa china, annoiato quanto il kender. Si affiancò al nero, scuotendo la criniera e adocchiando speranzoso una chiazza d'erba. «Parla a bassa voce!» mormorò Gerard. Il kender non l'aveva mai visto così cupo e severo. «Le spie di Beryl sono dappertutto, anche se non le vediamo. Qui, niente si muove senza che lei lo sappia; niente si muove senza il suo permesso. Abbiamo superato i confini del suo regno un'ora fa», aggiunse. «Sarei molto sorpreso se qualcuno non venisse a darci un'occhiata... Ah, ecco. Che cosa ti dicevo?» Si era mosso sulla sella, per guardare attentamente a est. Un grosso punto nero si espandeva sempre più di attimo in attimo; Tas lo vide sviluppare ali e una lunga coda, e poi vide un corpo massiccio - un corpo massiccio e verde. Tasslehoff aveva già visto dei draghi, ne aveva cavalcati, ne aveva combattuti. Ma mai aveva visto o sperato di vedere un drago così enorme. La
coda sembrava lunga come la strada su cui viaggiavano; i denti, posti in mascelle sbavanti, sarebbero potuti servire da mura alte e merlate di una fortezza formidabile. Gli occhi rossi e cattivi bruciavano di un fuoco più rovente del sole, e sembravano illuminare tutto ciò che guardavano di una luce abbagliante. «Se hai qualche riguardo per la tua vita o per la mia, kender», disse Gerard in un pungente bisbiglio, «non dire e non fare niente!» La dragonessa volò direttamente sopra di loro, ruotando la testa per studiarli da tutte le angolazioni. La paura scese su di loro come la sua ombra, cancellando la luce del sole, cancellando la ragione, la speranza e l'equilibrio. Il pony tremava e gemeva. Il nero nitriva dal terrore, scalciava e si slanciava in avanti. In preda allo stesso panico, Gerard si aggrappò al dorso sobbalzante, incapace di calmare l'animale. Tasslehoff allibito guardava verso l'alto, a bocca aperta. Fu invaso da una sensazione estremamente spiacevole, che gli raggrinziva lo stomaco, gli rammolliva la schiena, gli piegava le ginocchia, gli faceva sudare le mani. Non gli piaceva granché. Quanto a farti sentir male, era al livello di un brutto raffreddore di testa, con tanto di naso che cola. Beryl li accerchiò due volte; poi, non vedendo niente di più interessante di uno dei suoi Cavalieri alleati con un kender prigioniero, li lasciò in pace, volando pigramente e senza fretta alla sua tana, mentre i suoi occhi acuti prendevano nota di tutto ciò che si muoveva sul suo territorio. Gerard smontò da cavallo. In piedi accanto alla bestia tremante, posò la testa contro il suo fianco che si alzava e si abbassava ritmicamente. Era straordinariamente pallido e sudato, e scosso dai brividi. Aprì e chiuse la bocca diverse volte e a un certo punto sembrò voler vomitare, ma poi si riprese. Alla fine, il suo respiro si regolarizzò. «Mi vergogno di me stesso», disse. «Non credevo di poter provare una paura simile.» «Io non ho avuto paura», annunciò Tas, con una voce che sembrava contaminata dallo stesso tremore del corpo. «Neanche un po'.» «È perché non hai un minimo di buon senso», ribatté severamente Gerard. «È solo che, anche se ho visto draghi terribili in vita mia, non ne avevo mai visto uno così...» Tasslehoff si fece piccolo piccolo sotto lo sguardo minaccioso di Gerard. «Così... imponente», concluse il kender a voce alta, caso mai una delle spie della dragonessa fosse in ascolto. «Imponente è una specie di com-
plimento, no?» sussurrò a Gerard. Il Cavaliere non rispose. Avendo calmato se stesso e il cavallo, recuperò le redini del pony di Tas e, stringendole in mano, rimontò sul nero. Non partì immediatamente, ma rimase qualche tempo in mezzo alla strada, guardando verso ovest. «Non avevo mai visto uno dei grandi draghi», mormorò. «Non credevo che sarebbe stato così brutto.» Sedette immobile per qualche attimo ancora, poi, la mascella serrata e il viso pallido, avanzò. Tasslehoff lo seguì perché non poteva far altro, dato che il Cavaliere teneva le redini del pony. «Quella era la dragonessa che ha ucciso tutti i kender?» domandò, a voce bassa. «No», spiegò Gerard. «Quella era ancora più grossa. Una dragonessa rossa di nome Malys.» «Oh», sospirò Tas. «Oh, santo cielo.» Una dragonessa ancora più grossa. Non riusciva a immaginarsela, e stava quasi per dire che gli sarebbe piaciuto vederla quando lo colpì l'idea che, onestamente, non si trattava della verità. «Che cosa mi prende?» gemette costernato. «Devo aver preso qualche malattia. Io non sono curioso! Non voglio vedere una dragonessa rossa che potrebbe essere più grossa di Palanthas. E questo non è da me.» La cosa gli richiamò un pensiero stupefacente, così stupefacente che per poco non lo fece cadere dal pony. «Forse non sono me stesso!» Tasslehoff ci pensò. Dopo tutto, nessun altro aveva creduto nella sua identità tranne Caramon, e lui era molto vecchio e quasi morto, per cui, forse, non contava. Laura aveva detto di credergli ma, probabilmente, voleva solo essere cortese, così nemmeno lei contava. Sir Gerard e lord Warren avevano affermato che lui non poteva assolutamente essere Tasslehoff Burrfoot, ed erano Cavalieri Solamnici, il che significava che erano intelligenti e sapevano il fatto loro. «Questo spiegherebbe tutto», Tas disse fra sé, e più ci pensava più si rallegrava. «Spiegherebbe perché niente di quel che mi è successo al primo funerale di Caramon mi è successo al secondo: lì non ero io ma qualcuno di completamente diverso. Ma se è così», aggiunse, la testa confusa, «se non sono me stesso, chi sono?» Ci rifletté su per un buon mezzo miglio.
«Una cosa è certa», concluse. «Non posso continuare a chiamarmi Tasslehoff Burrfoot. Se incontrassi quello vero, lui sarebbe molto seccato di vedere usurpato il suo nome. Proprio come mi sono sentito io quando ho scoperto che c'erano altri trentasette Tasslehoff Burrfoot a Solace (trentanove contando i cani). Credo che dovrò restituirgli il Congegno per Viaggiare nel Tempo. Chissà come mai ce l'ho io? Ah, certo: deve averlo lasciato cadere.» Tas assestò un calcio ai fianchi del pony, che riprese vigore e trottò in avanti, fino a raggiungere il Cavaliere. «Scusa, sir Gerard», cominciò Tas. Il Cavaliere gli lanciò un'occhiata, aggrottando le sopracciglia. «Che c'è?» chiese freddamente. «Volevo solo dirti che ho fatto un errore», rivelò Tas, in tono mansueto. «Non sono la persona che ho detto di essere.» «Ah, ma che sorpresa!» grugnì Gerard. «Vuoi dire che non sei Tasslehoff Burrfoot, morto da oltre trent'anni?» «Credevo di esserlo», replicò tristemente Tas. Trovava l'idea più difficile da abbandonare di quanto avesse immaginato. «Ma non è possibile. Vedi, Tasslehoff Burrfoot era un eroe. Non aveva paura di niente. E non penso che si sarebbe sentito tutto strano come mi sono sentito io quando la dragonessa è volata su di noi. Ma so cosa c'è che non va in me.» Aspettò che il Cavaliere reagisse cortesemente con una domanda, ma questi rimase zitto. Tas offrì spontaneamente l'informazione. «Ho la magnesia», proclamò solennemente. Stavolta Gerard disse: «Che cosa?» ma senza troppa cortesia. Tas si portò una mano alla fronte, per vedere se poteva sentirla. «La magnesia. Non sono sicuro di come si prenda; credo abbia qualcosa a che fare con il latte. Ma ricordo che Raistlin disse di aver conosciuto qualcuno che ce l'aveva una volta, e che quella persona non ricordava chi era, perché esisteva, dove aveva lasciato gli occhiali, niente. Devo avere la magnesia, perché mi trovo esattamente nella stessa situazione.» Risolta la questione, Tasslehoff - o, meglio, il kender che aveva pensato di essere Tasslehoff - si sentì estremamente orgoglioso di sapere di avere contratto una malattia così importante. «Naturalmente», aggiunse con un sospiro, «molte persone come te che si aspettano che io sia Tasslehoff rimarranno amaramente deluse quando scopriranno che non lo sono. Ma dovranno accettare la cosa.» «Cercherò di sopportarlo», borbottò seccamente Gerard. «Ora perché
non ti concentri e vedi se riesci a "ricordarti" la verità su chi sei?» «Non mi dispiacerebbe ricordare la verità», ammise Tas. «Ma ho la sensazione che la verità non voglia ricordarsi di me.» I due cavalcarono in silenzio in un mondo silenzioso finché, con suo grande sollievo, Tas non udì un suono, il suono dell'acqua, l'acqua incollerita di un fiume che schiumava e ribolliva, come risentito di essere tenuto prigioniero fra le sue sponde rocciose. Gli umani lo chiamavano il Fiume della Rabbia Bianca, e segnava il confine settentrionale della terra elfica di Qualinesti. Gerard rallentò il passo. Percorsa una curva, entrarono in vista del fiume, una vasta distesa di acqua biancastra che cadeva sopra e intorno a scintillanti rocce nere. Erano arrivati alla fine del giorno. L'arrivo del buio copriva la foresta di ombre. L'acqua spumeggiante conservava gli ultimi bagliori, e a quella luce videro in lontananza un piccolo ponte che attraversava il fiume. Il ponte era protetto da una barriera abbassata e da guardie che portavano la stessa armatura nera di Gerard. «Quelli sono Cavalieri Scuri», disse Tasslehoff, sbalordito. «Parla a bassa voce!» ordinò severamente Gerard. Smontando da cavallo, si tolse il bavaglio dalla cintura e si avvicinò al kender. «Ricorda, solo se ci lasciano passare potremo vedere il tuo preteso amico Palin Majere.» «Ma perché ci sono Cavalieri Scuri qui a Qualinesti?» obiettò Tas, parlando rapidamente, prima che Gerard avesse il tempo di applicare il bavaglio. «La dragonessa Beryl governa il reame. Questi Cavalieri sono i suoi sovrintendenti. Fanno osservare le sue leggi, e riscuotono le tasse e il tributo pagati dagli elfi per restare vivi.» «Oh, no», mormorò Tas, scuotendo la testa. «Dev'esserci un errore. I Cavalieri Scuri sono stati cacciati dalle forze congiunte di Porthios e Gilthas nell'anno... Ulp!» Gerard ficcò il bavaglio nella bocca del kender, legandolo fermamente con un nodo dietro la nuca. «Continua a dire cose del genere, e non ci sarà più bisogno del bavaglio. Tutti penseranno semplicemente che sei pazzo.» «Se mi dicessi che cosa è successo», protestò Tas, togliendosi il bavaglio e volgendo lo sguardo verso Gerard, «non dovrei farti domande.» Gerard, esasperato, rimise il bavaglio al suo posto. «Benissimo», concesse, adirato. «I Cavalieri di Neraka si sono impadroniti di Qualinesti durante la Guerra del Caos e non ne hanno più lasciato il controllo», spiegò,
facendo il nodo. «Erano preparati a lottare contro la dragonessa quando questa ha preteso che le cedessero il territorio. Ma Beryl è stata tanto intelligente da capire che non c'era bisogno di combattere: i Cavalieri potevano esserle utili, e si è alleata con loro. Gli elfi pagano il tributo; i Cavalieri lo riscuotono e consegnano una percentuale - una grossa percentuale - alla dragonessa, tenendosi il resto. I Cavalieri prosperano. La dragonessa prospera. Sono gli elfi a stare male.» «Dev'essere successo tutto mentre avevo la magnesia», disse Tas, sciogliendo un angolo del bavaglio. Gerard legò il nodo ancora più stretto e aggiunse, nervosamente: «Si dice "amnesia", maledizione. E vuoi star zitto?» Rimontò in sella, e i due cavalcarono verso la barriera. Le guardie erano vigili e probabilmente li aspettavano, avvisate del loro arrivo dalla dragonessa, perché non sembrarono sorprese di vederli emergere dalle ombre. Cavalieri armati di alabarde erano di guardia alla barriera, ma fu un elfo, vestito di panno verde e di una lucente corazza a maglia, che si avvicinò per interrogarli. Era seguito da un ufficiale dei Cavalieri di Neraka, che rimase dietro di lui, in osservazione. L'elfo guardò i due, e particolarmente il kender, con disprezzo. «Il regno elfico di Qualinesti è interdetto a tutti i viaggiatori per ordine di Gilthas, Presidente dei Soli», dichiarò, parlando nella Lingua Comune. «Qual è lo scopo della vostra venuta?» Gerard sorrise per indicare che apprezzava lo scherzo. «Ho urgenti notizie per il maresciallo Medan», spiegò e, infilando le dita nella manopola di pelle nera, tirò fuori un documento consunto che porse con l'aria annoiata di chi ha compiuto molte volte lo stesso gesto. L'elfo non gli lanciò nemmeno un'occhiata, ma lo passò all'ufficiale dei Cavalieri di Neraka, che vi prestò maggiore attenzione. Scrutò minuziosamente prima il documento, poi Gerard. Restituì la carta a Gerard, che la rimise nel guanto. «Che cosa vi porta dal maresciallo Medan, capitano?» indagò l'ufficiale. «Ho qualcosa che lui vuole, signore», rispose Gerard. Indicò con il pollice. «Questo kender.» L'ufficiale alzò le sopracciglia. «Che se ne fa il maresciallo Medan di un kender?» «C'è un mandato di cattura contro questo ladruncolo, signore. Ha rubato un importante manufatto ai Cavalieri della Spina. Un manufatto magico che una volta apparteneva, si dice, a Raistlin Majere.»
A queste parole, l'elfo batté le palpebre. Guardò i due con più interesse. «Non ho sentito di nessun mandato» affermò l'ufficiale, con un cipiglio. «Né di nessuna rapina, se è per questo.» «La cosa non è sorprendente, signore, se si considerano le Vesti Grigie», disse Gerard, con un sorriso beffardo e un'occhiata furtiva all'intorno. L'ufficiale annuì, contraendo un sopracciglio. Le Vesti Grigie erano stregoni. Lavoravano in segreto, obbedendo ai propri ufficiali, perseguendo i propri scopi e le proprie ambizioni, che potevano coincidere o no con quelli del resto della Cavalleria. Stando così le cose, erano oggetto della forte diffidenza dei Cavalieri combattenti, che consideravano i Cavalieri della Spina con quel sospetto che da secoli gli uomini di spada riservano agli uomini di magia. «Ditemi di questo reato», esortò l'ufficiale. «Quando e dove è stato commesso?» «Come sapete, le Vesti Grigie setacciano da tempo la Foresta di Wayreth, cercando la magica e sfuggente Torre dell'Alta Magia. È stato durante questa ricerca che hanno scoperto questo manufatto. Non so come o dove, signore; queste informazioni non mi sono state fornite. Le Vesti Grigie stavano trasportando il manufatto a Palanthas per studiarlo ulteriormente, quando si sono fermate presso una locanda a bere e a mangiare qualcosa, e a riposare. Lì il manufatto è stato rubato; le Vesti Grigie si sono accorte della sua sparizione il mattino dopo, al risveglio» spiegò Gerard, roteando gli occhi in modo allusivo. «Questo kender l'aveva rubato.» «Ecco come ne sono venuto in possesso!» mormorò Tas fra sé, affascinato. «Che avventura meravigliosa. Peccato che non possa ricordarmene.» L'ufficiale annui. «Maledette Vesti Grigie. Ubriachi fradici, senza dubbio, con un manufatto prezioso fra le mani. Arroganti come al solito.» «Sì, signore. Il criminale è fuggito con il suo bottino a Palanthas. Ci è stato detto di stare attenti a un kender che poteva cercare di vendere manufatti rubati. Abbiamo tenuto d'occhio i negozi di articoli magici, e lo abbiamo preso. Ed è stata una bella fatica portare il demonietto fin qui, sorvegliandolo giorno e notte.» Tas cercò di assumere un'aria feroce. «Lo immagino.» L'ufficiale era comprensivo. «Il manufatto è stato recuperato?» «Temo di no, signore. Il kender sostiene di averlo "perso", ma il fatto che sia stato sorpreso nel negozio di articoli magici ci induce a pensare che debba averlo nascosto da qualche parte con l'intenzione di tirarlo fuori do-
po aver concluso un affare. I Cavalieri della Spina vogliono interrogarlo in proposito. Altrimenti, naturalmente», e Gerard scosse le spalle, «avremmo potuto risparmiarci la fatica, e impiccare direttamente la piccola canaglia.» «Il quartier generale dei Cavalieri della Spina si trova a sud. Stanno ancora cercando quella maledetta torre. Una perdita di tempo, a parer mio. La magia è scomparsa dal mondo, e meno male, dico io.» «Sì, signore», rispose Gerard. «Mi hanno ordinato di fare rapporto al maresciallo Medan prima, perché la cosa è sotto la sua giurisdizione, ma se credete che debba procedere direttamente...» «No, no, riferite pure a Medan. Se non altro, si farà una bella risata nel sentire la storia. Avete bisogno di aiuto con il kender? Ho un uomo di cui potrei fare a meno...» «Grazie, signore. Ma, come potete vedere, è sotto controllo. Credo che non ci saranno problemi.» «Avanti, allora, capitano» concluse l'ufficiale, comandando di alzare la barriera con un cenno della mano. «Una volta consegnato il delinquente, tornate da questa parte. Apriremo una bottiglia di alcool dei nani, e mi racconterete le novità di Palanthas.» «Certo, signore», assentì Gerard, facendo il saluto. Superò la barriera. Tasslehoff, legato e imbavagliato, lo seguì. Il kender avrebbe voluto agitare amichevolmente le mani ammanettate, ma considerò che la cosa sarebbe potuta non andare d'accordo con la sua nuova identità di Bandito, Ladro di Preziosi Manufatti Magici. Il suo nuovo personaggio gli piaceva assai, e decise che avrebbe cercato di esserne degno. Perciò, invece di salutare, rivolse un cipiglio di sfida al Cavaliere mentre gli passava davanti. Per tutto il tempo, l'elfo era rimasto in piedi sulla strada, mantenendo un silenzio colmo di rispetto e di noia. Non aspettò nemmeno che la barriera calasse per tornare al corpo di guardia. Il crepuscolo era diventato notte, e si accendevano le torce. Tasslehoff, guardandosi alle spalle mentre il pony attraversava rumorosamente il ponte di legno, vide l'elfo accucciarsi sotto una torcia e tirare fuori una borsa di pelle. Un paio di Cavalieri si inginocchiarono nel terriccio, e i tre cominciarono a giocare a dadi. Prima che Tas li perdesse di vista, l'ufficiale li aveva raggiunti, portando con sé una bottiglia. Da quando la dragonessa pattugliava le strade, pochi viandanti passavano da quella parte. La loro era una guardia solitaria. Tas indicò a grugniti che avrebbe voluto parlare della loro felice avventura presso la barriera - in particolare, desiderava sentire altri particolari
sulla sua audace rapina - ma Gerard non gli prestò attenzione. Non partì al galoppo ma, una volta che il ponte scomparve alla vista, spronò Nerone ad aumentare notevolmente l'andatura. Tasslehoff supponeva che avrebbero continuato a viaggiare. Non erano lontani da Qualinost, o almeno così ricordava dai suoi precedenti viaggi alla capitale elfica. In poco tempo, sarebbero arrivati in città. Tas era ansioso di rivedere i suoi amici, ansioso di chiedere loro se avessero idea di chi egli fosse, se non era lui. Se qualcuno poteva curare la magnesia, questi era Palin. Rimase quindi estremamente sorpreso quando Gerard fermò il suo cavallo e, dichiarandosi esausto per la lunga giornata, annunciò che avrebbero trascorso la notte nella foresta. Si accamparono, allestendo un fuoco, con grande stupore del kender, perché questa era una cosa che il Cavaliere si era sempre rifiutato di fare, definendola troppo pericolosa. «Probabilmente, ritiene che siamo al sicuro, ora che siamo dentro i confini di Qualinesti.» Tas parlò fra sé, perché portava sempre il bavaglio. «Ma chissà perché ci siamo fermati? Forse non sa quanto siamo vicini.» Il Cavaliere fece friggere della carne di maiale salata, il cui aroma si diffuse per la foresta. Tolse il bavaglio a Tas per lasciarlo mangiare ma se ne pentì all'istante. «Come ho rubato il manufatto?» chiese il kender, con impazienza. «È così eccitante. Non ho mai rubato niente, sai. Rubare è un'azione estremamente malvagia. Ma, in questo caso, credo che non importi, perché i Cavalieri Scuri sono gente cattiva. In che locanda è successo? Ce ne sono diverse sulla strada per Palanthas. È stato all'Anatra Sporca? Quello è un posto fantastico; ci si fermano tutti. O forse alla Volpe e all'Unicorno? Probabilmente no, perché lì non amano molto i kender.» Tasslehoff continuò a parlare, ma non riuscì a indurre il Cavaliere a dirgli nulla. La cosa non importava molto a Tas, che era perfettamente in grado di inventarsi l'intero episodio da solo. Quando ebbero finito di mangiare e Gerard fu andato a lavare la padella e le ciotole di legno in un torrente vicino, l'intrepido kender aveva rubato non uno, ma una miriade di meravigliosi manufatti magici, strappandoli da sotto il naso di sei Cavalieri della Spina, che l'avevano minacciato con sei potenti incantesimi, ma erano stati fermati, tutti e sei, da un abile colpo del suo hoopak. «E dev'essere così che mi sono ammalato di magnesia!» concluse Tas. «Uno dei Cavalieri della Spina mi ha colpito forte in testa! Sono rimasto incosciente per diversi giorni. Ma no», aggiunse deluso, «non può essere
vero, perché altrimenti non sarei scappato.» Rifletté per parecchio tempo. «Ci sono», esclamò infine, guardando Gerard con aria di trionfo. «Mi hai colpito sulla testa quando mi hai arrestato!» «Non mi tentare» ribatté Gerard. «Ora chiudi il becco e va' a dormire.» Distese la sua coperta vicino al fuoco, che si era ridotto a una pila di ceneri ardenti; poi, tirandosela addosso, volse le spalle al kender. Tasslehoff si rilassò sulla sua coperta, contemplò le stelle. Quella notte il sonno non l'avrebbe colto di sorpresa. Era troppo occupato a rivivere la sua vita come Flagello di Ansalon, Minaccia di Morgash, Criminale di Thorbardin. Era proprio un tipaccio. Le donne sarebbero svenute e gli uomini forti sarebbero sbiancati solo a sentire il suo nome. Non era ben sicuro di cosa comportasse lo sbiancare, ma avendo sentito che gli uomini forti vi erano soggetti di fronte a un nemico terribile, gli sembrava un fenomeno appropriato. Immaginava di arrivare in una città e di vedere tutte le donne perdere i sensi nei loro lavatoi e gli uomini forti sbiancare a destra e a sinistra, quando sentì un rumore. Un rumore lieve, come di un ramoscello che si spezza, niente di più. Tas non ci avrebbe fatto caso, se non per il fatto che era abituato a una foresta completamente silenziosa. Allungò la mano e tirò la manica della camicia di Gerard. «Gerard!» bisbigliò con urgenza. «Credo che ci sia qualcuno!» Gerard tirò su col naso e sbuffò, ma non si svegliò; anzi, si raggomitolò meglio nella coperta. Tasslehoff giacque immobile, le orecchie tese. Per un attimo non sentì nulla, poi udì un altro suono, come di uno stivale che scivola su una pietra che si muove. «Gerard!» chiamò. «Stavolta credo che non si tratti della luna.» Avrebbe voluto avere il suo hoopak. In quel momento, Gerard si girò verso Tas, il quale rimase sbalordito nel vedere, alla luce del fuoco morente, che il Cavaliere non dormiva. Stava solo facendo la commedia. «Sta' zitto!» sibilò Gerard. «Fingi di dormire!» Chiuse gli occhi. Tasslehoff, obbedientemente, chiuse gli occhi, anche se li riaprì un attimo dopo per essere sicuro di non perdersi nulla. Il che fu un bene, altrimenti non avrebbe visto gli elfi emergere dall'oscurità e avvicinarsi loro furtivamente. «Gerard, sta' attento!» voleva gridare, ma una mano gli tappò la bocca e il freddo acciaio gli punse il collo prima che potesse balbettare più della
prima sillaba. «Come?» borbottò Gerard, in tono assonnato. «Che cosa...?» Un attimo dopo era perfettamente sveglio, e cercava di afferrare la spada vicina. Un elfo gli schiacciò la mano col piede; Tas sentì le ossa scricchiolare e trasalì per simpatia. Un altro raccolse la spada, sottraendola al Cavaliere. Gerard cercò di alzarsi, ma l'elfo che gli aveva calpestato la mano ora gli riempiva la testa di calci violenti. Gerard gemette e si rovesciò sulla schiena, privo di sensi. «Li abbiamo presi entrambi, padrone», disse uno degli elfi, parlando alle ombre. «Quali sono i tuoi ordini?» «Non uccidere il kender, Kalindas», rispose una voce dalle tenebre, una voce umana e maschile, soffocata, come se provenisse dalle profondità di un cappuccio. «Mi serve vivo. Ci deve dire tutto quello che sa.» A quanto pareva, l'umano non era molto abile a muoversi nei boschi. Anche se non poteva vederlo - era rimasto nell'ombra - Tas sentiva i suoi stivali pestare le foglie secche e rompere i ramoscelli. Gli elfi, invece, erano silenziosi come l'aria notturna. «E il Cavaliere Scuro?» chiese l'elfo. «Ammazzatelo» replicò l'umano, con indifferenza. Un elfo mise un coltello alla gola di Gerard. «No!» strillò Tas, dimenandosi. «Non potete! Non è un vero Cavaliere Sc... ulp!» «Sta' zitto, kender» intimò l'elfo che lo teneva fermo. Spostò la punta del coltello dalla gola alla testa di Tas. «Ancora un suono e ti taglio le orecchie. Tanto, ci sarai utile lo stesso.» «Vorrei che non mi tagliaste le orecchie» disse Tas, concitato, anche se sentiva la lama del coltello scalfirgli la pelle. «Impediscono ai capelli di cadere dalla testa. Ma se proprio dovete, pazienza. È solo che state per commettere un terribile errore. Noi veniamo da Solace, e Gerard non è un Cavaliere Scuro. È un Solamn...» «Gerard?» riprese d'un tratto l'umano, dall'ombra. «Fermo, Kelevandros! Non ucciderlo ancora. Conosco un Solamnico di Solace, di nome Gerard. Fatemi vedere.» La strana luna era sorta di nuovo. La sua luce era intermittente; andava e veniva con il passaggio delle nuvole scure sulla sua faccia vuota, vacua. Tas cercò di scorgere l'umano che, a quanto pareva, era al comando dell'operazione, perché gli elfi rimettevano a lui ogni decisione. Il kender era cu-
rioso di vederlo, perché aveva la sensazione di aver già sentito la sua voce, anche se non sapeva esattamente dove. Era destinato a essere deluso. L'umano portava un pesante mantello, e un cappuccio. Si inginocchiò accanto a Gerard. La testa del Cavaliere ciondolava da una parte. La faccia era coperta di sangue; ansimava. L'umano lo studiò in volto. «Portatelo con noi», ordinò. «Ma, padrone...» iniziò a protestare l'elfo di nome Kelevandros. «Potete sempre ucciderlo dopo», concluse l'umano. Alzandosi, si girò e tornò nella foresta. Uno degli elfi spense il fuoco. Un altro andò a calmare i cavalli, particolarmente il nero, che si era impennato per l'agitazione alla vista degli intrusi. Un terzo mise un bavaglio in bocca a Tas, e cominciò a pungergli l'orecchio destro con la punta del coltello non appena aveva l'aria di voler protestare. Gli elfi si occuparono di Gerard con rapidità ed efficienza. Gli legarono mani e piedi con nastri di cuoio, gli ficcarono un bavaglio in bocca, e gli bendarono gli occhi. Sollevando da terra il Cavaliere in stato comatoso, lo portarono al suo cavallo e lo buttarono in sella. Nerone si era allarmato per l'improvvisa invasione, ma ora stava placido e tranquillo sotto la mano rassicurante dell'elfo; la testa sulla spalla di quest'ultimo, gli strofinava il naso contro l'orecchio. Gli elfi legarono le mani di Gerard ai suoi piedi, passando la corda sotto la pancia del cavallo, e assicurando così fermamente il Cavaliere alla sella. L'umano guardò il kender, ma Tas non riuscì a scorgerlo in faccia perché, in quel momento, un elfo gli calò sulla testa un sacco di iuta, limitando a questo il suo campo visivo. Gli elfi gli legarono i piedi insieme. Mani forti lo sollevarono, lo gettarono orizzontalmente sulla sella; e il Flagello di Ansalon, con la testa in un sacco, fu trascinato prigioniero nella notte. XIV IL BALLO IN MASCHERA Mentre il Flagello di Ansalon veniva trascinato nella vergogna con la testa dentro un sacco, a poche miglia di distanza, a Qualinost, il Presidente dei Soli, signore dei Qualinesti, teneva un ballo in maschera. Si trattava di un evento relativamente nuovo per gli elfi: era infatti un'usanza umana in-
trodotta dal loro Presidente, nelle cui vene scorreva anche sangue umano, una disgrazia trasmessagli dal padre, il mezzelfo Tanis. Solitamente gli elfi disdegnavano i costumi umani, così come disdegnavano questi ultimi, ma ormai si erano abituati al ballo in maschera, che era stato introdotto da Gilthas nell'anno 21 per celebrare la sua ascesa al trono avvenuta vent'anni prima. E così ogni anno, alla stessa data, si teneva la festa, che era ormai divenuta l'evento sociale più importante della stagione. L'invito al ballo era molto ambito. Vi partecipavano infatti Membri della Casa Reale, Capi della Famiglia Reale e del Thalas-Enthia - il senato elfico -, così come gli alti ufficiali dell'ordine dei Cavalieri Scuri, i veri signori di Qualinesti. Inoltre, il prefetto Palthainon, ex-membro del senato elfico e ora nominato dai Cavalieri di Neraka giudice sovrintendente a Qualinesti, sceglieva venti fanciulle, che avrebbero avuto l'onore di partecipare alla festa. Teoricamente, Palthainon era il consigliere di Gilthas, ma per capire la sua vera funzione era sufficiente ricordare il soprannome che gli era stato scherzosamente affibbiato: «burattinaio». Il giovane monarca Gilthas non era ancora sposato. Non c'era un legittimo erede al trono, né ci sarebbe stato nell'immediato futuro. Gilthas non nutriva una particolare avversità nei confronti del matrimonio, soltanto non riusciva a decidersi a fare il grande passo. Quella del matrimonio era una decisione importante, era solito dire ai suoi cortigiani, e non doveva essere presa avventatamente. Che cosa sarebbe successo se avesse commesso un errore e avesse scelto la persona sbagliata? La sua vita sarebbe stata rovinata, così come anche quella della sua sposa. Nessuno parlava mai di amore. Nessuno si aspettava che il re fosse innamorato della futura moglie. Il matrimonio doveva avere esclusivamente scopi politici; così era stato deciso dal prefetto Palthainon, che aveva scelto numerose candidate fra le famiglie più illustri (e più ricche) di Qualinesti. Ogni anno da ormai cinque anni, Palthainon riuniva venti di queste fanciulle e le presentava al Presidente dei Soli. Gilthas danzava con tutte loro, le trovava tutte quante deliziose, vedeva qualità in tutte loro, ma non riusciva a decidersi a sceglierne una. Il prefetto controllava buona parte della vita del Presidente - sprezzantemente soprannominato dai suoi sudditi «il re burattino» - ma non poteva obbligarlo a prendere moglie. Quella notte l'orologio aveva già battuto l'una. Il Presidente dei Soli aveva danzato con tutte le venti candidate, ma con nessuna aveva ballato più di una volta, poiché un'iniziativa simile sarebbe stata interpretata come una scelta. Al termine di ogni ballo, il re si rifugiava sul trono e restava a
osservare gli invitati con fare triste e meditabondo, come se decidere con quale delle deliziose fanciulle danzare fosse un peso così grande da distruggere in lui il piacere della festa. Le venti ragazze gli lanciavano occhiate furtive; ognuna di loro nutriva la segreta speranza di essere la prescelta. Gilthas era un giovane di bell'aspetto. Soltanto la mascella e il mento quadrati, rari nell'elfo maschio, ricordavano il sangue umano che scorreva in lui. I capelli color del miele, di cui si diceva fosse molto orgoglioso, gli arrivavano alle spalle. Gli occhi erano grandi e tagliati a mandorla. Il viso era pallido; tutti sapevano che il re era di salute cagionevole. Raramente sorrideva e nessuno poteva biasimarlo, poiché era risaputo che la sua vita fosse quella di un uccello in gabbia. Gli veniva insegnato che cosa dire e quando dirlo. E quando l'uccello doveva stare zitto, la gabbia veniva coperta con un telo. Non c'era quindi da stupirsi che Gilthas fosse terribilmente indeciso, insicuro, amante della solitudine, della lettura e della composizione poetica, un'arte che aveva intrapreso da circa tre anni e verso la quale appariva indubbiamente portato. Seduto sul trono, un seggio di antica fattura dallo schienale dorato intagliato a forma di sole, Gilthas guardava i ballerini con aria inquieta e sembrava non vedesse l'ora di rifugiarsi nella tranquillità dei suoi appartamenti per rituffarsi fra le sue amate rime. «Sua Maestà sembra insolitamente di buon umore», osservò il prefetto Palthainon. «Avete notato con quanta gentilezza ha trattato la figlia maggiore del maestro della Corporazione degli Orafi?» «Non ho avuto la stessa impressione», replicò il maresciallo Medan, capo delle forze di occupazione dei Cavalieri di Neraka. «Ma sì, vi assicuro che è così», ribatté Palthainon. «Guardate come la segue con gli occhi.» «A me sembra che sua Maestà stia guardando il pavimento o le sue scarpe», sottolineò Medan. «Se volete vedere un erede per quel trono, Palthainon, dovrete organizzare voi stesso il matrimonio.» «Lo farei», disse il prefetto in tono lamentoso, «ma secondo la legge elfica soltanto la famiglia può combinare un matrimonio, e sua madre rifiuta categoricamente di farsi coinvolgere fin tanto che il figlio non avrà preso una decisione.» «Allora non vi resta che sperare che sua Maestà abbia una vita molto, molto lunga», commentò Medan. «E a giudicare da come lo tenete sotto controllo e ne assecondate ogni desiderio, dovrebbe essere così. Pensandoci bene, non potete biasimare il re, Palthainon», aggiunse il maresciallo.
«Dopo tutto, sua Maestà è esattamente ciò che voi e il defunto senatore Rashas avete voluto che fosse: un giovane uomo che non osa nemmeno pisciare senza il vostro permesso.» «Sua Maestà è delicato di salute», replicò Palthainon in tono gelido. «È mio dovere alleggerirlo del fardello delle preoccupazioni e delle responsabilità di signore della nazione elfica. Povero ragazzo. Non può fare a meno di agitarsi. Il sangue umano è notoriamente debole, come d'altronde voi ben sapete. E ora, con il vostro permesso, vorrei andare a porgere i miei omaggi a sua Maestà.» Il maresciallo, che era un umano, abbozzò un inchino silenzioso mentre il prefetto, che quella sera indossava, molto appropriatamente, la maschera di un uccello da preda, andava a beccare il giovane sovrano. Politicamente, Medan trovava il prefetto Palthainon estremamente abile. Umanamente, lo trovava detestabile. Il maresciallo Alexius Medan aveva cinquantacinque anni. Era entrato a fare parte dei Cavalieri di Takhisis sotto il comando di lord Ariakan prima dello scoppio della guerra del Caos con la quale si era conclusa la Quarta Era di Krynn ed era iniziata la Quinta. Medan era stato il comandante responsabile dell'attacco a Qualinesti condotto trent'anni prima. Era stato lui ad accettare la resa dei Qualinesti e da allora tutto il territorio era rimasto sotto il suo comando. Il governo di Medan era severo, se necessario duro, ma non sfrenatamente crudele. Indubbiamente agli elfi erano rimaste ben poche libertà, ma Medan non considerava tali mancanze come eventuale motivo di sofferenza. Per lui, quello di libertà era un concetto pericoloso, che portava al caos, all'anarchia, allo smembramento della società. Disciplina, ordine e onore: questi erano gli dei di Medan, ora che Takhisis, dimostrando una totale mancanza di onore e disciplina, si era rivelata una traditrice ed era fuggita via, lasciando i suoi leali Cavalieri come dei perfetti cretini. Medan aveva imposto ordine e disciplina ai Qualinesti. Così come li aveva imposti ai Cavalieri, ma soprattutto, come li aveva imposti a se stesso. Disgustato dalla scena, Medan osservò Palthainon inchinarsi davanti al re. Ben sapendo che l'umiltà del prefetto era solo esteriore, si voltò. Era giunto al punto di provare pietà per quel poveretto di Gilthas. I ballerini volteggiarono intorno al maresciallo, elfi mascherati da cigni, orsi e ogni varietà di uccelli o creature dei boschi. Giullari e clown dai costumi variopinti erano ovunque. Medan partecipava al ballo perché così esigeva il protocollo, ma si rifiutava di indossare una maschera o un costu-
me. Anni prima, aveva adottato il tipico abbigliamento elfico e indossava vesti lunghe e sciolte drappeggiate morbidamente intorno al corpo, che ben si adattavano al clima temperato di Qualinesti. Poiché era l'unico invitato vestito in abiti elfici, l'umano assomigliava a un elfo più di qualsiasi elfo presente nella sala. Indispettito dal caldo e dal chiasso della sala da ballo, Medan si rifugiò in giardino. Non era accompagnato da guardie del corpo; detestava essere scortato da Cavalieri in armature tintinnanti. La sua sicurezza personale non lo impensieriva. I Qualinesti non lo amavano, ma era sopravvissuto a svariati attentati. Sapeva badare a se stesso, probabilmente meglio di quanto avrebbero potuto fare i suoi Cavalieri. Medan non sopportava i nuovi uomini arruolati nell'ordine, che riteneva un branco di ladri, assassini e delinquenti, indisciplinati e arroganti. La verità era che si fidava di più di un elfo alle spalle che di un suo uomo. La notte era piacevolmente mite e si respirava il dolce profumo delle rose, delle gardenie e dei fiori d'arancio. Gli usignoli cantavano sugli alberi e le loro melodie si fondevano con quelle dell'arpa e del liuto. Riconobbe la musica. Dietro di lui, nella Sala del Cielo, deliziose fanciulle elfiche erano impegnate in una danza tradizionale. Si fermò e fece per girarsi, tentato dall'idea di rientrare, attirato dalla bellezza di quelle note. Le fanciulle danzavano il Quanisho, il Ballo del Risveglio, una danza che, si diceva, risvegliasse la passione nel sesso maschile. Si chiese se avrebbe avuto effetto sul re. Forse lo avrebbe spinto a comporre una poesia. «Maresciallo Medan», disse una voce dietro di lui. Medan si voltò. «Onorabile Madre del nostro Presidente», esclamò e si inchinò. Laurana porse la mano, una mano bianca, morbida e profumata come il fiore della camelia. Medan la prese e la portò alle labbra. «Suvvia», disse la donna, «siamo soli. Fra due... come dire... "vecchi nemici" come noi, non c'è bisogno di ricorrere a titoli così formali.» «Preferisco definirci stimati avversari», replicò Medan, sorridendo. Le lasciò la mano, anche se con una certa riluttanza. Il maresciallo Medan non aveva moglie; si considerava sposato al dovere. Non credeva all'amore, lo considerava un punto debole nella corazza di un uomo, un'imperfezione che lo rendeva vulnerabile ad ogni attacco. Medan ammirava e rispettava Laurana. La riteneva bellissima, così come riteneva bello il proprio giardino. Lei gli era utile per trovare la giusta via in quel complicato labirinto che era la versione elfica di governo. Lui la usa-
va ed era ben consapevole del fatto che lei, a sua volta, usava lui. Un accordo soddisfacente e naturale per entrambi. «Credetemi, signora», disse l'uomo con estrema tranquillità, «preferisco la vostra avversione nei miei confronti all'amicizia di altre persone.» Spostò significativamente lo sguardo verso il palazzo, dove Palthainon era intento a bisbigliare all'orecchio del sovrano. Laurana seguì il suo sguardo. «Vi capisco, maresciallo», replicò. «Voi rappresentate un'organizzazione che io ritengo in mano al demonio. Siete il conquistatore del mio popolo, colui che ci ha assoggettati. Voi siete alleato con la nostra peggior nemica, una dragonessa che vuole soltanto la nostra distruzione. Eppure, mi fido molto più di voi che di quell'uomo.» Si voltò di scatto. «Non mi piace ciò che vedo, signore. Vi va di fare due passi verso l'arboreto?» Medan era ben contento di trascorrere una meravigliosa notte di luna piena nel luogo più incantevole di Ansalon in compagnia della donna più affascinante del paese. Camminarono l'uno accanto all'altra in piacevole silenzio lungo un sentiero di frammenti di marmo, che brillavano e rilucevano in imitazione delle stelle. Il profumo delle orchidee era inebriante. L'Arboreto Reale era una costruzione di cristallo nella quale avevano trovato riparo quelle piante la cui natura fragile e delicata non avrebbe permesso loro di sopravvivere nemmeno ai miti inverni di Qualinesti. L'arboreto si trovava a una certa distanza dal palazzo. Durante la passeggiata, Laurana non parlò. Medan sentiva che non spettava a lui rompere quel tranquillo silenzio e si astenne dal conversare. Raggiunsero così l'edificio di cristallo, le cui molte sfaccettature riflettevano la luna, dando l'impressione che il cielo fosse popolato non da una, ma da centinaia di lune. Entrarono attraverso una porta di cristallo. Vennero investiti dall'aria pesante del respiro delle piante, che ondeggiarono e frusciarono quasi in segno di benvenuto. Il suono della musica e delle risate si era ormai perso in lontananza. Laurana inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni della fragranza che profumava l'aria calda e umida. Posò la mano su una rosa, volgendola verso la luna. «Meravigliosa», commentò Medan, ammirando la pianta. «Le mie rose producono dei fiori bellissimi, soprattutto quelle che mi avete donato voi, ma sono niente in confronto a questi stupendi boccioli.» «Tempo e pazienza», disse Laurana. «Come in tutte le cose. Per riprendere la nostra conversazione, maresciallo, vi dirò perché rispetto più voi di
Palthainon. Sebbene a volte non vorrei sentire le vostre parole, so che quando parlate lo fate dal cuore. Non mi avete mai mentito, anche quando una menzogna vi avrebbe aiutato di più della verità. A Palthainon, le parole scivolano fuori dalla bocca e cadono a terra, per poi strisciare nell'oscurità.» Medan si inchinò in segno di ringraziamento per il complimento ricevuto, ma non volendo denigrare ulteriormente l'uomo che lo aiutava a tenere Qualinesti sotto controllo, cambiò argomento. «Avete lasciato presto la festa, signora. Spero stiate bene», disse in tono garbato. «Non sopportavo più il caldo e il frastuono», replicò Laurana. «Sono uscita in giardino alla ricerca di un po' di tranquillità.» «Avete cenato?» si preoccupò il maresciallo. «Volete che vi faccia portare qualcosa da mangiare o da bere?» «No, grazie, maresciallo. Ultimamente ho ben poco appetito. Potete essermi molto più utile restando qui a farmi compagnia, sempre che i vostri doveri non vi chiamino altrove.» «Con una compagnia così affascinante, nemmeno la morte potrebbe farmi allontanare», ribatté l'uomo. Laurana lo sbirciò da sotto le ciglia, lasciandosi sfuggire un sorriso. «Gli umani non sono soliti lasciarsi andare a parole così galanti. Siete circondato dagli elfi da troppo tempo, maresciallo. Sono convinta che ormai siate più elfo che umano. Indossate abiti della nostra foggia, parlate fluentemente la nostra lingua, apprezzate la nostra musica e la nostra poesia. Avete emesso delle leggi che proteggono i nostri boschi, leggi più dure di quelle che avremmo decretato noi stessi. Forse mi sono sbagliata», aggiunse con dolcezza. «Forse voi siete il conquistato e noi i conquistatori.» «Vi prendete gioco di me, signora», replicò Medan, «e probabilmente scoppierete a ridere quando vi dirò che non siete molto lontana dalla verità. Prima di giungere a Qualinesti ero cieco alla natura. Un albero era un pezzo di legno che utilizzavo per costruire il muro per una fortezza o per il manico della mia ascia da guerra. L'unica musica che apprezzavo era il rullo dei tamburi di guerra. L'unica lettura che mi dava piacere era quella dei dispacci del quartier generale. Ammetto francamente che sono scoppiato a ridere quando, giunto in questa terra, ho visto un elfo parlare rispettosamente a un albero o rivolgere educatamente la parola a un fiore. E poi una primavera, quando ormai mi trovavo qui da sette anni, mi sono trovato ad aspettare impazientemente il ritorno dei fiori nel mio giardino, domandan-
domi quale sarebbe sbocciato per primo e se il rosaio che il giardiniere aveva piantato l'anno prima sarebbe fiorito. Più o meno nello stesso periodo, mi sono accorto che le melodie dell'arpista echeggiavano nella mia mente. Ho iniziato a studiare la poesia, a impararne le parole. «In tutta sincerità, signora Lauranalanthalas, io amo la vostra terra. Ecco perché», aggiunse in tono grave, «faccio del mio meglio per salvarla dall'ira della dragonessa. Ecco perché devo punire duramente gli elfi che si ribellano alla mia autorità. Beryl cerca solo un pretesto per distruggere voi e la vostra terra. Continuando la resistenza, commettendo atti di terrore e sabotaggio contro le mie forze, i ribelli che si nascondono fra la vostra gente corrono il rischio di portare alla distruzione tutti voi.» Medan non aveva idea di quanti anni avesse Laurana. Forse centinaia. Eppure era ancora bella, giovane e vitale come al tempo in cui era il Generale Dorato al comando degli Eserciti della Luce contro le forze della regina Takhisis durante la Guerra delle Lance. L'uomo aveva conosciuto degli anziani soldati che ricordavano ancora il coraggio della donna in battaglia, il suo entusiasmo che trascinava gli animi abbattuti, dalle forze ormai vicino al collasso e li conduceva alla vittoria. Gli sarebbe piaciuto averla conosciuta allora, anche se si sarebbero trovati su due fronti opposti. Gli sarebbe piaciuto averla vista cavalcare in sella al suo drago, i lunghi capelli biondi uno stendardo scintillante da seguire. «Avete detto che vi fidate di me, signora», continuò, prendendole una mano. «Allora dovete credermi quando vi dico che lavoro giorno e notte per cercare di salvare Qualinesti. Questi ribelli non mi facilitano il compito. La dragonessa ha saputo dei loro attacchi e delle loro provocazioni e la sua ira aumenta di giorno in giorno. Ha cominciato a chiedersi perché perda tempo e denaro per cercare di governare soggetti così fastidiosi. Faccio del mio meglio per calmarla, ma è molto vicina a perdere la pazienza.» «Perché mi raccontate tutto questo, maresciallo?» domandò Laurana. «Che cosa c'entro io?» «Signora, se avete qualche influenza su questi ribelli, fermateli. Spiegate loro che se gli atti di terrorismo danneggiano in qualche modo me e le mie truppe, alla lunga, fanno del male solo alla loro gente.» «E che cosa vi fa pensare che io, la Regina Madre, abbia qualcosa a che fare con i ribelli?» domandò Laurana. Le guance arrossate. Gli occhi scintillanti. Medan la guardò per un istante in silenziosa ammirazione, quindi rispose: «Diciamo pure che trovo difficile credere che qualcuno che ha combat-
tuto con tanta tenacia la Regina Scura e i suoi tirapiedi più di cinquant'anni fa durante la Guerra delle Lance, abbia smesso di lottare». «Vi sbagliate, maresciallo», reclamò Laurana. «Sono ormai troppo vecchia per questioni simili. No, signore», gli impedì di parlare. «So che cosa state per dire: che sembro giovane come una fanciulla al ballo del suo debutto in società. Risparmiate le vostre sdolcinature per chi desidera sentirle. A me non interessano. Ho perso l'entusiasmo per la battaglia, per la sfida. Il mio entusiasmo è nella tomba dove il mio caro marito, Tanis, è sepolto. Ora mi preoccupo solo per la mia famiglia. Voglio vedere mio figlio felicemente sposato, voglio stringere fra le braccia i miei nipotini. Voglio che nel mio paese regni la pace e sono pronta a pagare qualsiasi tributo alla dragonessa perché ciò accada.» Medan la guardò scettico. Sentiva la sincerità nelle sue parole, eppure era convinto che non gli avesse detto tutta la verità. Nei giorni che seguirono la guerra, Laurana si era rivelata un'abile diplomatica. Era abituata a dire alle persone ciò che volevano sentirsi dire pur conducendole sottilmente a credere ciò che lei voleva che credessero. Tuttavia, sarebbe stato estremamente scortese dubitare apertamente delle sue parole. E se lei intendeva realmente ciò che aveva affermato, allora non gli restava che provarne pietà. Il figlio per cui stravedeva era uno smidollato che impiegava ore per decidere se mangiare fragole o mirtilli. Difficilmente Gilthas avrebbe mai preso una decisione così importante come quella di sposarsi. A meno che, naturalmente, qualcun altro avesse scelto la moglie per lui. Laurana voltò la testa, ma non prima che Medan avesse visto le lacrime velarle gli occhi a mandorla. L'uomo cambiò argomento di conversazione ritornando ai fiori. Stava cercando di fare crescere delle orchidee nel suo giardino, ma con scarso successo. Chiacchierò di fiori per un po', lasciando così a Laurana il tempo di ricomporsi. Una passata veloce della mano sugli occhi e la Regina Madre riprese il controllo di sé. Consigliò al maresciallo il suo giardiniere, un vero maestro in fatto di orchidee. Medan accettò l'offerta con piacere. I due si fermarono ancora un'oretta nell'arboreto a chiacchierare amabilmente di radici e di clusie. «Dov'è la mia nobile madre, Palthainon?» domandò Gilthas, Presidente dei Soli. «È da circa mezz'ora che non la vedo.» Il re indossava il costume di guardaboschi elfico, un trionfo di verdi e marroni, colori che gli donavano particolarmente. Era perfetto in quell'abbigliamento, sebbene probabilmente fossero pochi i guardaboschi che at-
tendessero ai loro doveri indossando pantaloni e camicia di seta finissima, o un gilè in pelle ricamato a mano con fili d'oro e stivali coordinati. In mano teneva una coppa di vino, che sorseggiava solo per educazione. Tutti sapevano che il vino gli faceva venire mal di testa. «Immagino che vostra madre stia passeggiando in giardino, Maestà», rispose Palthainon, che non perdeva d'occhio chi entrava e usciva dalla sala. «L'ho sentita dire di avere bisogno d'aria. Vuole che la mandi a chiamare? Non avete una bella cera, Maestà.» «Non mi sento bene», replicò Gilthas. «Grazie per la tua gentile offerta, Palthainon, ma non c'è bisogno di disturbarla.» I suoi occhi si rabbuiarono, mentre osservava con tristezza e malinconica invidia i gruppi di ballerini. «Pensi che qualcuno potrebbe offendersi se mi ritirassi nelle mie stanze, prefetto?» domandò a bassa voce. «Forse un ballo vi tirerebbe su il morale, Maestà», disse Palthainon. «Guardate come vi sorride la graziosa Amiara.» Il prefetto si piegò verso il sovrano per sussurrargli: «Suo padre è uno degli elfi più ricchi di tutta Qualinesti. È un orefice. E lei è così affascinante...» «Sì, è vero», concordò Gilthas totalmente disinteressato. «Ma non me la sento di ballare. Mi sento debole e ho la nausea. Penso proprio di dovermi ritirare.» «Certamente, Maestà, se non vi sentite bene», affermò Palthainon in tono riluttante. Medan aveva ragione. Avendo privato il sovrano della spina dorsale, non lo si poteva biasimare se camminava a quattro zampe. «Sarà meglio che domani restiate a letto a riposare, Maestà. Mi occuperò io degli affari di stato.» «Grazie, Palthainon», disse Gilthas in tono sommesso. «Se non c'è bisogno di me, vorrei trascorrere la giornata a lavorare sul ventesimo canto del mio nuovo poema.» Si alzò. La musica si interruppe di colpo. I ballerini si bloccarono a metà piroetta. Gli uomini si inchinarono, le donne fecero la riverenza. Le venti fanciulle posarono gli occhi sul sovrano, in trepidante attesa. Gilthas sembrò imbarazzato alla loro vista. Abbassò la testa, scese velocemente dalla pedana sulla quale era posto il trono e si diresse verso la porta che conduceva ai suoi appartamenti. Il suo valletto lo precedette con in mano un candelabro per illuminargli la strada. Le fanciulle si strinsero nelle spalle e con falsa pudicizia, si guardarono intorno alla ricerca di un nuovo compagno. La musica riprese. Le danze continuarono. Il prefetto Palthainon, imprecando, si diresse verso il buffet.
Gilthas, lanciando un'ultima occhiata alla sala, sorrise fra sé e sé. Quindi si voltò e seguì il debole bagliore delle candele attraverso i bui corridoi del palazzo. Lì non c'erano cortigiani a blandirlo e adularlo, lì nessuno poteva entrare senza il permesso di Palthainon, che viveva nel continuo terrore che qualcuno potesse strappargli dalle mani i fili della marionetta. Guardie Kagonesti piantonavano tutti gli ingressi. Lontano dalla musica e dalle luci, dalle risatine nervose e le conversazioni sussurrate, Gilthas tirò un profondo sospiro di sollievo. Il nuovo palazzo del Presidente dei Soli era una grande e ariosa dimora creata da alberi viventi, trasformati amorevolmente in soffitti e pareti. La tappezzeria era costituita da intrecci di fiori e piante che creavano vere e proprie opere d'arte, ogni giorno diverse a seconda della fioritura del momento. I pavimenti di alcune stanze del palazzo, come la sala da ballo e le sale delle udienze, erano in marmo. Ma la maggior parte delle stanze private e dei corridoi che si dipanavano fra i tronchi degli alberi era pavimentata da tappeti di piante odorose. Fra i Qualinesti, il palazzo era considerato una vera meraviglia. Gilthas aveva insistito affinché tutti gli alberi presenti sul terreno venissero utilizzati nelle forme e nelle posizioni in cui crescevano naturalmente. Nutriva un rispetto profondo per le piante, che crescendo rigogliose sembravano volerlo ringraziare per il suo amore. Il risultato finale era un dedalo irregolare di corridoi frondosi, dove chi non conosceva il palazzo correva il rischio di vagare per ore. Il re non parlava, ma procedeva a capo chino, le mani intrecciate dietro la schiena. Era ormai famoso per questo suo contegno, che assumeva spesso quando vagava irrequieto per le sale del palazzo. Tutti sapevano che in quei momenti rifletteva su qualche rima o cercava il ritmo giusto per una strofa. I servitori si guardavano bene dall'interromperlo e chi lo incontrava si limitava a sprofondarsi in un inchino senza aprire bocca. Quella notte il palazzo era tranquillo. Si sentiva ancora la musica, ma era attutita dal dolce fruscio delle foglie, strettamente intrecciate, che formavano l'alto soffitto del corridoio che stavano percorrendo. Il re sollevò la testa, si guardò intorno. Accertatosi che non ci fosse nessuno, si avvicinò al servitore. «Planchet», disse a bassa voce in umano, lingua che ben pochi elfi conoscevano, «dov'è il maresciallo Medan? Mi era sembrato di vederlo uscire in giardino.» «Esatto, Vostra Maestà», sussurrò l'altro nella stessa lingua, evitando di
voltarsi per timore che qualcuno li stesse osservando. Le spie di Palthainon erano ovunque. «Che sfortuna», commentò Gilthas aggrottando la fronte. «E se fosse ancora là fuori?» «Vostra madre se n'è accorta e lo ha immediatamente seguito, Maestà. Ci penserà lei a tenerlo occupato.» «Hai ragione», esclamò il sovrano sorridendo. Un'espressione che soltanto poche persone di fiducia avevano mai visto. «Questa notte, Medan non ci importunerà. È tutto pronto?» «Ho preparato viveri a sufficienza per un giorno di viaggio, Maestà. Lo zaino è nascosto nella grotta.» «E Kerian? Sa dove dobbiamo incontrarci?» «Sì, Vostra Maestà. Ho lasciato un messaggio al solito posto. Quando sono andato a controllare il mattino seguente non c'era più. Al suo posto ho trovato una rosa rossa.» «Sei stato bravo come sempre, Planchet», disse Gilthas. «Non so come farei senza di te. A proposito, voglio quella rosa.» «È nel vostro zaino, Vostra Maestà», replicò il valletto. I due interruppero la conversazione. Erano arrivati agli appartamenti privati del Presidente. Le guardie Kagonesti del re - teoricamente guardie del corpo, ma praticamente guardie carcerarie - scattarono sull'attenti all'avvicinarsi del sovrano. Gilthas non prestò loro attenzione. Le guardie erano sul libro paga di Palthainon, al quale riferivano ogni mossa del sovrano. Alcuni servitori aspettavano quest'ultimo in camera da letto per aiutarlo a prepararsi per la notte. «Sua Maestà non si sente bene», annunciò Planchet, mentre appoggiava il candelabro su un tavolo. «Mi occuperò io di lui. Voi potete andare.» Gilthas, pallido e debole, passò il fazzoletto di pizzo sulle labbra e si diresse verso il letto, dove si sdraiò senza nemmeno preoccuparsi di togliersi gli stivali. Ci avrebbe pensato Planchet. I servitori, abituati al precario stato di salute del re e al suo desiderio di solitudine, non restarono sorpresi da un simile comportamento dopo le fatiche di una festa. Si inchinarono e lasciarono la stanza. «Che nessuno disturbi sua Maestà», raccomandò Planchet, chiudendo a chiave la porta. Anche le guardie avevano le chiavi, ma ormai le usavano raramente. In passato, avevano controllato il giovane re con grande frequenza. Ma lo avevano sempre trovato dove avrebbe dovuto essere: a letto, malato o sognante con una penna in mano, e così avevano smesso di con-
trollare. Planchet appoggiò l'orecchio alla porta, aspettò finché sentì le guardie rilassarsi e tornare ai giochi d'azzardo con i quali ingannavano le lunghe ore di noia. Soddisfatto, attraversò la stanza, spalancò la porta-finestra che dava sulla terrazza e guardò fuori nella notte. «Tutto è tranquillo, Vostra Maestà.» Gilthas saltò giù dal letto e si diresse verso la finestra. «Sai che cosa fare?» «Sì, Vostra Maestà. I cuscini che prenderanno il vostro posto nel letto sono già pronti. Farò credere che siete nella stanza. Non permetterò l'ingresso a nessuno.» «Molto bene. Non devi preoccuparti per Palthainon. Non si farà vedere fino a domani mattina. Sarà troppo impegnato ad apporre il mio nome e il mio sigillo su documenti importanti.» Gilthas si fermò davanti alla balaustra della terrazza, alla quale Planchet legò saldamente una fune. «Vi auguro un viaggio proficuo, Maestà. Quando tornerete?» «Se tutto va bene, Planchet, sarò di ritorno all'alba di domani.» «Andrà tutto bene», replicò l'elfo. Planchet era molto più vecchio di Gilthas ed era stato scelto da Laurana come servitore per il figlio. Il prefetto Palthainon aveva approvato la scelta. Se si fosse preso la briga di controllare il passato dell'elfo, che includeva molti anni di leale servizio agli ordini dell'elfo scuro Porthios, probabilmente avrebbe cambiato idea. «Il destino vi arride, Maestà.» Gilthas stava controllando il giardino, alla ricerca di eventuali presenze indesiderate. Voltò il capo. «C'è stato un tempo in cui avrei avuto da ridire su una simile affermazione, Planchet. Mi credevo la persona più sfortunata del mondo, intrappolato dalla mia presunzione e dal mio orgoglio, prigioniero delle mie stesse paure. C'è stato un tempo in cui vedevo la morte come la mia unica via di fuga.» D'impulso, afferrò la mano del servitore. «Tu mi hai obbligato a sollevare gli occhi dallo specchio, Planchet. Tu mi hai imposto di smetterla di guardare la mia immagine riflessa, di voltarmi e di guardare il mondo. E quando l'ho fatto, ho visto la mia gente soffrire, schiacciata dalla prepotenza di stivali neri, obbligata a vivere all'ombra di ali nere e ad affrontare un futuro di disperazione e di morte.» «Oggi non vivono più senza speranza», replicò Planchet, ritirando delicatamente la mano, imbarazzato per l'affetto dimostratogli. «Il piano di
Vostra Maestà funzionerà.» Gilthas sospirò. «Non ci resta che sperare, Planchet. Sperare che il fato non arridi solo a me, ma a tutta la nostra gente.» Scivolò agilmente lungo la fune, atterrando con delicatezza nel giardino. Planchet restò a guardare fino a quando il sovrano scomparve nella notte. Quindi chiuse la porta-finestra e si diresse verso il letto. Dispose i cuscini sopra di esso e sistemò le coperte in modo tale che, se qualcuno fosse entrato, avrebbe avuto l'impressione che il letto fosse occupato. «E ora, Maestà», disse a voce alta, raccogliendo una piccola arpa e facendo scivolare le dita sulle corde, «prendete il sonnifero e io suonerò per voi una dolce melodia, una ninnananna che vi farà cadere in un sonno profondo.» XV TASSLEHOFF, L'UNICO E INIMITABILE Malgrado il dolore e l'estremo disagio, sir Gerard era soddisfatto del modo in cui le cose erano andate fino a quel momento. I calci dell'elfo gli avevano causato un mal di testa lancinante. Era legato al suo cavallo, e ciondolava a testa china sulla sella. Il sangue gli martellava nelle tempie, la corazza gli feriva lo stomaco e gli comprimeva il petto, nastri di cuoio gli mordevano la pelle, e aveva i piedi completamente intorpiditi. Non conosceva coloro che l'avevano catturato; non aveva potuto vederli nel buio e ora, bendato, non vedeva niente del tutto. Per poco non l'avevano ucciso; doveva ringraziare il kender se era ancora vivo. Sì, tutto andava come previsto. Il viaggio sembrò interminabile a Gerard, il quale dopo un po' cominciò a pensare che stessero cavalcando da decenni, abbastanza per circumnavigare Krynn almeno sei volte. Non aveva idea di come stesse il kender ma, a giudicare dagli occasionali squittii di protesta che si levavano alle sue spalle, giudicò che dovesse essere relativamente integro. Forse il Cavaliere scivolò nel sonno, o forse svenne, perché si risvegliò all'improvviso quando il cavallo si fermò. L'umano, che riteneva il capo, stava parlando. Parlava in Elfico, una lingua che Gerard non conosceva. Ma sembrava che fossero arrivati a destinazione, perché gli elfi stavano recidendo i legami che lo assicuravano alla sella. Uno di loro lo afferrò per il retro della corazza, lo tirò giù da cavallo,
e lo buttò a terra. «Alzati, maiale!» ordinò aspramente, nella Lingua Comune. «Non abbiamo intenzione di portarti in braccio.» Gli tolse la benda dagli occhi. «Dentro quella grotta laggiù. Avanti.» Avevano viaggiato per tutta la notte. Il cielo si tingeva del rosa dell'alba. Gerard non vide nessuna grotta, solo la foresta folta e impenetrabile, finché uno degli elfi non afferrò quello che sembrava un gruppo di alberelli, scostandolo. Apparve una caverna scura sul lato di una parete rocciosa. L'elfo posò lo schermo vegetale da una parte. Alzandosi barcollante, Gerard avanzò zoppicando. Il cielo, sempre più chiaro, era ora arancio vivo e azzurro-mare. Il Cavaliere si guardò intorno in cerca del suo compagno, e vide i piedi del kender sporgere da un sacco che ingombrava il dorso del pony. L'umano a capo dell'operazione montava la guardia vicino all'entrata della grotta. Portava mantello e cappuccio, ma sotto il mantello Gerard scorse degli abiti scuri, abiti tipici di un praticante di magia. Il Cavaliere era sempre più sicuro che il suo piano avesse funzionato; ora doveva solo sperare che gli elfi non lo uccidessero prima che avesse la possibilità di spiegarsi. La grotta si trovava in una collinetta, in mezzo a una foresta particolarmente fitta. Gerard aveva l'impressione che non fossero in una regione selvaggia e isolata, ma vicini a una comunità. Sull'onda della brezza lontana, gli giungeva il suono delle campanule che gli elfi amavano piantare intorno alle finestre delle loro abitazioni, i cui fiori tintinnavano armoniosamente quando venivano toccati dal soffio del vento. Sentiva anche il profumo del pane appena sfornato. Un'occhiata al sole nascente gli confermò che avevano viaggiato verso ovest durante la notte. Se non era già nella città di Qualinost, doveva esserci molto vicino. L'umano entrò nella caverna. Due degli elfi lo seguirono: uno portava il kender, che si contorceva avvolto nel suo sacco, l'altro camminava dietro a Gerard, e lo pungolava con la spada. Gli altri elfi che li avevano accompagnati non andarono con loro, ma svanirono nel bosco, portando con sé il pony e il cavallo di Gerard. Questi esitò un attimo prima di entrare nella grotta, ma l'elfo ce lo buttò con uno spintone. Un passaggio stretto e buio si apriva in una camera non molto grande, illuminata da una fiamma galleggiante in una ciotola di olio profumato. L'elfo che portava il kender mollò il sacco a terra, dove la vittima cominciò a squittire e a dimenarsi. L'elfo colpì il sacco con il piede, ordinò al kender di stare zitto: l'avrebbero lasciato uscire a tempo debito, e solo se si fosse
comportato bene. L'elfo di guardia a Gerard lo pungolò di nuovo. «In ginocchio, maiale», gli intimò. Gerard obbedì, e alzò la testa. Da quella posizione, poteva vedere bene il volto dell'umano. L'uomo dal mantello lo guardò con aria cupa. «Palin Majere», disse Gerard, con un sospiro di sollievo. «Ho fatto molta strada alla vostra ricerca.» Palin avvicinò la torcia. «Gerard uth Mondar. Sospettavo che foste voi. Ma da quando siete diventato Cavaliere di Neraka? Farete meglio a spiegarvi, e in fretta.» Aggrottò le sopracciglia. «Come sapete, non amo affatto quel maledetto Ordine.» «Sì, signore.» Gerard lanciò un'occhiata incerta agli elfi. «Parlano la lingua degli umani, signore?» «E la Lingua dei Nani, e la Lingua Comune», rispose Palin. «Posso ordinare loro di uccidervi in tutte le lingue possibili. Ve lo ripeto, spiegatevi. Avete un minuto.» «Benissimo, signore», assentì Gerard. «Porto quest'armatura per necessità, non per scelta. Reco notizie importanti per voi e, scoprendo da vostra sorella Laura che eravate a Qualinesti, mi sono travestito da nemico per potervi raggiungere sano e salvo.» «Quali notizie?» indagò Palin. Non si era tolto il cappuccio scuro, ma parlava dai suoi bui recessi. La sua voce era profonda, fredda e severa. Gerard pensò a cosa la gente di Solace diceva di Palin Majere in quei giorni. Da quando l'Accademia era stata distrutta, era cambiato, e non in meglio. Aveva abbandonato la strada illuminata dal sole per percorrere un sentiero oscuro, un sentiero che suo zio Raistlin aveva percorso prima di lui. «Signore», annunciò Gerard. «Il vostro onorato padre è morto.» Palin non disse nulla. La sua espressione non cambiò. «Non ha sofferto», si affrettò a rassicurarlo il Cavaliere. «La morte l'ha colto rapidamente. È uscito dalla porta della taverna, ha guardato il tramonto, ha pronunciato il nome di vostra madre, si è premuto la mano sul cuore, ed è caduto. Ero con lui quando è morto. Era in pace, e non sentiva dolore. Abbiamo celebrato il funerale il giorno dopo; è stato sepolto accanto a vostra madre.» «Non ha detto niente?» chiese infine Palin. «Mi ha fatto una richiesta, di cui vi parlerò a tempo debito.» Palin fissò Gerard in silenzio, a lungo. Poi domandò: «E come va tutto il resto a Solace?»
«Signore?» Gerard era stupefatto, sgomento. Il kender, nel sacco, cacciò un lamento, ma nessuno gli prestò attenzione. «Non avete sentito?» cominciò Gerard. «Mio padre è morto. Ho sentito», ribatté Palin. Gettò indietro il cappuccio, puntò lo sguardo sul Cavaliere. «Era vecchio. Aveva nostalgia di mia madre. La morte è parte della vita; qualcuno potrebbe dire - la sua voce s'indurì - la parte migliore.» Gerard sgranò gli occhi. Aveva visto Palin Majere per l'ultima volta qualche mese prima, quando aveva partecipato al funerale della madre, Tika. Palin non era rimasto molto a Solace; era ripartito quasi subito, impegnato in un'altra ricerca di antichi manufatti magici. Con l'Accademia distrutta, Solace non aveva più interesse per lui. E con la diffusione delle voci che gli stregoni dell'intero mondo stavano perdendo i loro poteri, tutti pensarono che lo stesso accadesse a Palin. Sembrava, mormoravano, che la vita non gli riservasse più niente. Il suo matrimonio non era dei migliori. Era diventato incauto, incurante della propria sicurezza, specialmente se gli si offriva anche la minima possibilità di ottenere un manufatto magico della Quarta Era; questi, infatti, non avevano perso il loro potere, che poteva essere estratto da un abile stregone. Palin non aveva un bell'aspetto, aveva pensato Gerard al funerale. Il viaggio non aveva certo contribuito a migliorare la sua salute. Anzi, era scarno, pallido, irrequieto; e il suo sguardo era furtivo, diffidente. Gerard sapeva parecchio su Palin. Caramon amava parlare del suo unico figlio vivente, che era stato argomento di conversazione quasi a ogni colazione. Palin Majere, il figlio più giovane di Caramon e Tika, era stato un giovane e promettente stregone quando gli dei avevano lasciato Krynn, portando con sé la magia. Pur lamentando la perdita della magia divina, Palin non aveva desistito, come tanti stregoni della sua generazione. Aveva riunito maghi da tutta Ansalon nel tentativo di imparare a usare la magia che, secondo lui, rimaneva nel mondo; la magia naturale che era intrinseca al mondo stesso. Questa magia era stata parte del mondo prima della venuta degli dei e così, supponeva, vi sarebbe rimasta anche dopo la loro dipartita. I suoi sforzi erano stati coronati dal successo. Aveva istituito a Solace l'Accademia della Stregoneria, un centro di apprendimento della magia. L'Accademia era diventata fiorente. Palin aveva usato le sue doti per combattere contro i grandi draghi ed era noto in tutta Abanasinia come un
grande eroe. Poi l'arazzo della sua vita aveva cominciato a disfarsi. Straordinariamente sensibile alla magia naturale, Palin era stato fra i primi, due anni addietro, a notare che i suoi poteri cominciavano a indebolirsi. All'inizio, pensò non si trattasse altro che di un sintomo dell'età che avanzava; dopo tutto, aveva superato i cinquanta. Ma poi i suoi studenti cominciarono a riferire problemi simili; persino i giovani trovavano più difficile praticare incantesimi. Evidentemente, l'età non c'entrava. Gli incantesimi funzionavano, ma il loro uso richiedeva sempre maggior fatica. Una volta, Palin aveva paragonato la cosa al mettere un vaso su una candela accesa. La candela brucia solo finché c'è aria intrappolata nel vaso; quando questa finisce, la fiamma tremola e si spegne. La magia era in esaurimento, come dicevano alcuni? Poteva inaridirsi spontaneamente come uno stagno nel deserto? Palin non lo credeva. La magia c'era; poteva sentirla, vederla. Ma era come se lo stagno fosse prosciugato da una vasta moltitudine. Chi o che cosa stava consumando la magia? Palin sospettava i grandi draghi. Fu costretto a cambiare parere quando la grande dragonessa Beryl diventò più aggressiva e minacciosa, e mandò i suoi eserciti a conquistare altro territorio. Le spie di Qualinesti riferirono che ciò succedeva perché la dragonessa sentiva diminuire i suoi poteri magici. Beryl voleva da tempo trovare la Torre dell'Alta Magia di Wayreth. La foresta incantata l'aveva tenuta nascosta a lei e ai Cavalieri della Spina, che pure la cercavano. Il proprio bisogno della Torre e della sua magia divenne più urgente. Inquieta e arrabbiata, cominciò a estendere il suo controllo su quanta più parte di Abanasinia poteva senza attirarsi addosso l'ira della cugina Malys. Anche i Cavalieri della Spina, il braccio magico dei Cavalieri di Neraka, sentivano declinare i loro poteri, e davano la colpa a Palin e ai suoi compagni dell'Accademia della Stregoneria. Con un'audace incursione contro di essa, rapirono Palin, mentre i draghi servi di Beryl la distruggevano. Dopo mesi di «interrogatori», le Vesti Grigie avevano rilasciato Palin. Caramon non aveva voluto scendere nei dettagli riguardo ai tormenti sopportati dal figlio, e Gerard non gli aveva fatto pressioni. Gli abitanti di Solace, tuttavia, parlarono molto della cosa. A parer loro, il nemico aveva storto non solo le dita, ma anche l'anima di Palin Majere. Palin aveva il volto sparuto, scavato, con chiazze scure sotto gli occhi come se dormisse poco. Aveva poche rughe; la pelle era tesa, tirata sulle
ossa fini. Le grinze profonde intorno alla bocca, che avevano accompagnato i suoi sorrisi, cominciavano a sparire per mancanza di sollecitazione. I capelli castano ramati si erano completamente ingrigiti. Le dita delle mani, un tempo snelle e flessuose, erano ora contorte, crudelmente deformate. «Liberatelo», Palin ordinò agli elfi. «È un Cavaliere Solamnico, come afferma.» I due elfi erano dubbiosi, ma obbedirono, pur continuando a tenerlo d'occhio. Gerard si alzò in piedi, fletté le braccia, stirò i muscoli doloranti. «E così, avete fatto tutta questa strada, travestito, rischiando la vita per portarmi questa notizia», disse Palin. «Devo confessare che non vedo il bisogno del kender. A meno che la storia che ho sentito non sia vera, e che il kender non abbia davvero rubato un potente manufatto magico. Diamogli un'occhiata.» Si inginocchiò accanto al sacco dove il kender si dimenava. Tese la mano, cercò di slegare i nodi, ma le dita deformi non ci riuscirono. Gerard le fissò, poi distolse rapidamente lo sguardo, per non dare l'aria di compatire lo stregone. «Questo spettacolo vi affligge?» chiese Palin, con un sogghigno. Alzandosi, coprì le mani con le maniche degli abiti. «Starò attento a non turbarvi.» «Mi affligge davvero, signore», ribatté tranquillamente Gerard. «Mi affligge vedere un brav'uomo soffrire come voi avete sofferto.» «Sofferto, sì! Sono rimasto prigioniero dei Cavalieri della Spina per tre mesi. Tre mesi! E non è passato giorno senza che mi tormentassero in qualche modo. Lo sapete perché? Lo sapete che cosa volevano? Volevano sapere perché il loro potere magico stava diminuendo! Credevano che io c'entrassi per qualcosa!» Palin sbottò in una risata amara. «E lo sapete perché mi hanno lasciato andare? Perché hanno capito che non ero una minaccia! Ero solo un vecchio distrutto che non poteva ostacolarli né nuocere loro in alcun modo.» «Avrebbero potuto uccidervi, signore» osservò Gerard. «Sarebbe stato meglio se l'avessero fatto» replicò Palin. I due rimasero in silenzio. Gerard abbassò lo sguardo sul pavimento della grotta. Persino il kender era calmo, quieto. Aveva smesso di agitarsi. Palin sospirò leggermente. Tendendo la mano rotta, toccò Gerard sul braccio. «Perdonatemi», riprese in tono più pacato. «Non fate caso a ciò che ho detto. Ultimamente, sono molto permaloso. E non vi ho nemmeno ancora
ringraziato per avermi portato notizie di mio padre. Ve ne sono davvero grato. Mi dispiace per la sua morte, ma non posso addolorarmi per lui. Come ho detto, è andato a star meglio.» «E ora», aggiunse Palin, con un'occhiata penetrante al giovane Cavaliere, «comincio a pensare che non sia stata solo questa triste notizia a farvi fare tutta questa strada. Portare questo travestimento vi mette in grave pericolo, Gerard. Se i Cavalieri Scuri dovessero scoprire la verità, subireste tormenti molto peggiori di quelli che ho sofferto io, e poi sareste giustiziato.» Le labbra sottili di Palin si atteggiarono a un sorriso amaro. «Che altre notizie avete per me? Non possono essere buone. Nessuno rischierebbe la vita per portarmi buone notizie. E come facevate a sapere che mi avreste trovato?» «Non vi ho trovato, signore», spiegò Gerard. «Voi avete trovato me.» Dapprima, Palin sembrò perplesso, poi annuì. «Ah, capisco. La menzione del manufatto che un tempo apparteneva a mio zio Raistlin. Sapevate che questo avrebbe risvegliato il mio interesse.» «Lo speravo, signore», assentì Gerard. «Pensavo che o l'elfo di guardia al ponte facesse parte del movimento di resistenza, o che il ponte stesso fosse sotto osservazione. Contavo che l'accenno a un manufatto unito al nome Majere vi sarebbe stato riferito.» «Avete corso un grande rischio a fare assegnamento sugli elfi. Come avete visto, ce ne sono certi che ucciderebbero uno come voi senza scrupolo alcuno.» Gerard lanciò un'occhiata ai due elfi, Kalindas e Kelevandros, se aveva sentito bene i loro nomi. Non l'avevano perso di vista un attimo, le mani sull'elsa della spada. «Ne sono consapevole, signore», disse Gerard. «Ma sembrava l'unico modo per raggiungervi.» «Così, non c'è nessun manufatto?» domandò Palin, aggiungendo, in tono amaramente deluso, «era solo un trucco.» «Al contrario, signore, il manufatto c'è. È una delle ragioni per cui sono venuto.» A queste parole, il kender riprese i suoi squittii, più forti e più insistenti. Cominciò a battere i piedi sul pavimento, rotolandosi all'impazzata dentro al sacco. «Per carità, fatelo star zitto», ordinò nervosamente Palin. «I suoi versi richiameranno tutti i Cavalieri Scuri di Qualinesti. Portatelo dentro.»
«Dovremmo lasciarlo nel sacco, padrone», intervenne Kalindas. «Non vogliamo che ritrovi la strada.» «D'accordo», convenne Palin. Uno degli elfi sollevò il kender, sacco e tutto. L'altro lanciò un'occhiata severa a Gerard e pose una domanda. «No», rispose Palin. «Non c'è bisogno di bendarlo. Lui appartiene alla vecchia scuola dei Cavalieri, quelli che credono ancora nell'onore.» L'elfo che portava il kender si diresse verso il fondo della caverna e, con immenso stupore di Gerard, continuò a camminare oltre la pietra massiccia. Palin lo seguì, mettendo la mano sul braccio di Gerard e spingendolo in avanti. L'illusione della pietra era così convincente che Gerard fece fatica a non sussultare quando attraversò quella che sembrava una parete di rocce aguzze e frastagliate. «A quanto pare, qualche magia funziona ancora» osservò, impressionato. «Qualcuna», ammise Palin. «Ma è incostante. L'incantesimo può cessare in qualunque momento, e dev'essere rinnovato di continuo.» Emergendo dalla parete, Gerard si ritrovò in un giardino di meravigliosa bellezza, ombreggiato da alberi i cui rami e le cui fitte foglie formavano una cortina compatta sopra e intorno a loro. Portato il kender insaccato attraverso il muro, Kalindas lo depositò sul vialetto lastricato del giardino. Sedie fatte di rami di salice piegati e un tavolino di cristallo stavano accanto a uno scintillante laghetto d'acqua limpida. Palin disse qualcosa a Kelevandros. Gerard colse il nome «Laurana». L'elfo partì, correndo agilmente per il giardino. «Avete guardiani fedeli, signore», notò Gerard, guardando l'elfo. «Appartengono alla casa della Regina Madre», rispose Palin. «Sono al servizio di Laurana da anni, da quando è morto suo marito. Sedetevi.» Fece un gesto con le mani deformi e davanti alla finta parete apparve una cascata d'acqua, che si gettava nel lago sottostante. «Ho mandato Kelevandros a informare la Regina Madre del vostro arrivo. Ora siete ospite a casa sua; o, meglio, in uno dei giardini di casa sua. Qui, siete al sicuro, per quanto lo si possa essere in questi tempi bui.» Riconoscente, Gerard si tolse la pesante corazza che gli sfregava le costole ammaccate. Si lavò la faccia con l'acqua fresca e bevve avidamente. «Adesso, fate uscire il kender», ordinò Palin. Kalindas slegò il sacco e il kender saltò fuori, paonazzo e indignato, i lunghi capelli sparsi sul viso. Tirò un respiro profondissimo e si asciugò la
fronte. «Finalmente! Ero veramente stufo di sentire odore di sacco.» Risistemandosi il ciuffo sulla testa, il kender si guardò intorno con interesse. «Ehi!» esclamò. «Questo giardino è proprio grazioso. Ci sono dei pesci in quella pozza? Credete che potrei prenderne uno? In quel sacco c'era aria viziata, e preferisco di gran lunga cavalcare seduto sulla sella anziché sdraiato. Ho una specie di dolore qui nel fianco, dove qualcosa mi ha punto. Mi presenterei», disse contrito, rendendosi conto che non stava rispettando i costumi della buona società, «ma soffro»; incrociò lo sguardo di Gerard e continuò con enfasi «soffro dei postumi di un brutto colpo in testa e non so bene chi io sia. Tu hai un'aria terribilmente familiare. Ci siamo già incontrati?» Durante tutto questo discorso, Palin Majere non aveva detto nulla, ma era impallidito. Aprì la bocca, ma non ne uscirono parole. «Signore» Gerard allungò una mano per sostenerlo. «Signore, dovreste sedervi. Non avete un bell'aspetto.» «Non ho bisogno del vostro aiuto», sbottò Palin, spingendo via la mano. Fissò il kender. «Basta con le sciocchezze», intimò freddamente. «Chi sei?» «Chi pensi che io sia?» svicolò il kender. Palin sembrava sul punto di replicare sgarbatamente, ma strinse le labbra e, dopo aver tirato un respiro profondo, disse in tono teso: «Assomigli a un kender che conoscevo una volta, di nome Tasslehoff Burrfoot.» «E tu assomigli un po' a un mio amico, di nome Palin Majere.» Il kender guardava Palin con interesse. «Io sono Palin Majere. Chi sei...» «Davvero?» Il kender spalancò gli occhi. «Sei Palin? Che cosa ti è successo? Hai un aspetto terribile. Sei stato male? E le tue povere mani! Fammi vedere. Hai detto che sono stati i Cavalieri Scuri? E come hanno fatto? Ti hanno schiacciato le dita con un martello, perché sembra proprio...» Palin si calò le maniche sulle mani, allontanandosi dal kender. «Hai detto che mi conosci? Com'è possibile?» «Ti ho visto al primo funerale di Caramon. Tu e io abbiamo fatto una bella chiacchierata, sulla Torre dell'Alta Magia di Wayreth e sul fatto che eri capo delle Vesti Bianche, e c'era Dalamar, che era Capo del Conclave, e la sua ragazza Jenna era capo delle Vesti Rosse, e...»
Palin aggrottò le sopracciglia, guardò Gerard. «Di che cosa parla?» «Non dategli retta, signore. È da quando l'ho trovato che si comporta da pazzo.» Gerard lanciò a Palin un'occhiata stupita. «Avete detto che somigliava a "Tasslehoff". È quello che sosteneva di essere, finché non ha cominciato con questa storia dell'amnesia. So che sembra strano, ma anche vostro padre credeva che si trattasse di Tasslehoff.» «Mio padre era un vecchio», osservò Palin, «e, come molti vecchi, probabilmente riviveva i giorni della sua giovinezza. E tuttavia», aggiunse sommessamente, quasi fra sé, «per certo somiglia a Tasslehoff!» «Palin?» chiamò una voce dall'altro capo del giardino. «Cos'è questa notizia che mi ha dato Kelevandros?» Voltandosi, Gerard vide una donna degli elfi, bella come un crepuscolo d'inverno, camminare verso di loro sul vialetto. Aveva i capelli lunghi, del colore del miele misto alla luce solare. Indossava abiti di un materiale diafano e perlaceo, cosicché sembrava vestita di nebbia. Vedendo Gerard, lo guardò incredula, troppo indignata per prestare attenzione al kender, che saltellava su e giù e sventolava la mano dall'eccitazione. Gerard, in preda a confusione e soggezione, fece un inchino maldestro. «Hai portato un Cavaliere Scuro qui, Palin!» Laurana lo aggredì irata. «Nel nostro giardino segreto! Perché l'hai fatto?» «Non è un Cavaliere Scuro, Laurana», spiegò subito Palin, «come ho detto a Kelevandros. A quanto pare, lui ne dubita. Quest'uomo è Gerard uth Mondar, Cavaliere di Solamnia, un amico di mio padre e viene da Solace.» Laurana guardò Gerard con scetticismo. «Ne sei sicuro, Palin? Allora, perché porta quell'odiosa armatura?» «La porto solo come travestimento, mia signora» intervenne Gerard. «E, come vedete, me ne sono liberato alla prima occasione.» «Era l'unico modo in cui poteva entrare a Qualinesti», aggiunse Palin. «Vi chiedo scusa, signore» disse Laurana, tendendo una mano bianca e delicata. E tuttavia, quando la strinse, Gerard sentì sui palmi i calli che risalivano ai giorni in cui aveva portato lo scudo e adoperato la spada, i giorni in cui era stata il Generale Dorato. «Perdonatemi. Benvenuto nella mia casa.» Gerard s'inchinò di nuovo, con profondo rispetto. Voleva dire qualcosa di garbato e di corretto, ma la lingua gli sembrava troppo grande per la sua bocca, proprio come mani e piedi gli sembravano troppo goffi e imponenti. Arrossì profondamente e balbettò qualcosa di incomprensibile.
«Me, Laurana! Guarda me!» chiamò il kender. Laurana si girò per scrutarlo attentamente, e parve sbalordita da ciò che vide. Le sue labbra si aprirono, la mascella si rammollì. Mettendosi la mano sul cuore, indietreggiò di un passo, senza lasciare il kender con gli occhi. «Alskana, Quenesti-Pah», sussurrò. «Non può essere!» Palin la fissava. «Lo riconosci anche tu.» «Be', sì. È Tasslehoff!» esclamò Laurana, stupefatta. «Ma come... dove...» «Sono Tasslehoff?» Il kender sembrava ansioso. «Ne sei sicura?» «Che cosa ti fa credere il contrario?» chiese Laurana. «Ho sempre ritenuto di esserlo», disse solennemente Tas. «Ma non ci credeva nessun altro, e così ho pensato che forse mi sbagliavo. Ma se tu dici che sono Tasslehoff, Laurana, presumo che la questione sia chiusa. Tu, fra tutti, non commetteresti un errore. Ti dispiace se ti abbraccio?» Tas gettò le braccia intorno alla vita di Laurana. Sopra la sua testa, lei guardò confusa da Palin a Gerard, chiedendo silenziosamente una spiegazione. «Dite sul serio?» domandò Gerard. «Vi chiedo scusa, mia signora», aggiunse, rendendosi conto di aver quasi dato della bugiarda alla Regina Madre, «ma Tasslehoff Burrfoot è morto da oltre trent'anni. Com'è possibile tutto questo? A meno che...» «A meno che cosa?» chiese bruscamente Palin. «A meno che l'intero, pazzo racconto non sia in qualche modo vero.» Gerard tacque, riflettendo su questo sviluppo inaspettato. «Ma, Tas, dove sei stato?» domandò Laurana, togliendogli di mano uno dei suoi anelli che stava sparendo giù per la camicia del kender. «Come ha detto sir Gerard, ti credevamo morto!» «Lo so. Ho visto la tomba. Molto carina.» Tas annuì. «È lì che ho incontrato sir Gerard. Credo che dovreste darvi da fare per mantenere più pulito il parco - tutti quei cani, sapete - e la tomba stessa non è in buono stato. Quando c'ero dentro è stata colpita dal fulmine. Ho sentito un botto spaventoso, ed è caduto del marmo. E c'era un buio terribile. Qualche finestra renderebbe l'ambiente più allegro...» «Dovremmo andare da qualche parte a parlare», interruppe urgentemente Gerard, rivolto a Palin. «In privato.» «Sono d'accordo. Laurana, il Cavaliere ha portato altre tristi notizie. Mio padre è morto.»
«Oh!» Laurana si portò la mano alla bocca. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Mi dispiace, Palin. Il mio cuore è addolorato per lui, e tuttavia il dolore sembra sbagliato. È felice, ora», aggiunse con una sorta di malinconica invidia. «Lui e Tika sono insieme. Venite dentro», li esortò, abbracciando con lo sguardo il giardino dove Tasslehoff sguazzava nel laghetto ornamentale, spostando le ninfee e terrorizzando i pesci. «Non dovremmo parlare di questo qui fuori.» Sospirò. «Temo che nemmeno il mio giardino sia più sicuro.» «Che cosa è successo, Laurana?» indagò Palin. «Che cosa vuol dire che il giardino non è più sicuro?» Laurana sospirò di nuovo, e una ruga le segnò la fronte liscia. «Ho parlato con il maresciallo Medan ieri sera, al ballo in maschera. Sospetta che io abbia rapporti con i ribelli. Mi ha esortato a usare la mia influenza per indurli a cessare i loro atti di terrore e di scompiglio. Ultimamente, la dragonessa Beryl è diventata paranoica. Minaccia di mandare i suoi eserciti ad attaccarci, e non siamo ancora pronti per una simile evenienza.» «Non dare retta a Medan, Laurana. Si preoccupa solo di salvare la sua pellaccia», disse Palin. «Credo che abbia buone intenzioni, Palin», ribatté lei. «Medan non ama la dragonessa.» «Non ama nessuno tranne se stesso. La sua preoccupazione è una finta; non farti ingannare. Medan vuole evitarsi dei guai, e basta. È preso in un dilemma. Se gli attacchi e i sabotaggi continuano, i suoi superiori gli toglieranno il comando e, da quello che ho sentito del loro nuovo Signore della Notte, Targonne, potrebbero anche togliergli la testa. Ora, se mi scusate, vado a levarmi questo mantello pesante. Ci vedremo nell'atrio.» Palin si allontanò; le pieghe del nero mantello da viaggio svolazzavano alle sue spalle. Il suo portamento era eretto, l'andatura rapida e decisa. Laurana lo seguì con lo sguardo, turbata. «Signora», cominciò Gerard, ritrovando infine la lingua. «Sono d'accordo con Palin. Non dovreste fidarvi di questo maresciallo Medan. È uno dei Cavalieri Scuri, e anche se parlano di onore e di sacrificio le loro parole sono vuote e vacue come le loro anime.» «So che avete ragione», assentì Laurana. «Tuttavia, ho visto il seme del bene cadere nella palude più buia e crescere forte e bello, per quanto avvelenato dai miasmi più terribili. E ho visto lo stesso seme, nutrito dalle piogge più dolci e dal sole più brillante, crescere brutto e contorto, e recare un frutto amaro.»
Continuava a fissare Palin. Poi, sospirando, scosse la testa e si girò. «Vieni, Tas. Vorrei mostrare a te e a sir Gerard le altre meraviglie che ho nella mia casa.» Allegro e gocciolante, Tasslehoff uscì dal laghetto. «Va' avanti, Gerard. Voglio parlare a Laurana da solo per un attimo. Si tratta di un segreto», spiegò. Laurana sorrise al kender. «Benissimo, Tas. Dimmi il tuo segreto. Kalindas», ordinò all'elfo che aveva aspettato in silenzio per tutto il tempo, «accompagna sir Gerard alla casa. Portalo in una delle camere degli ospiti.» Kalindas obbedì. Guidando Gerard verso la casa, usava un tono cortese, ma teneva la mano sull'elsa della spada. Non appena lei e il kender rimasero soli, Laurana si volse verso quest'ultimo. «Sì, Tas?» lo incitò. «Di che cosa si tratta?» Tas sembrava estremamente in ansia. «È una cosa importantissima, Laurana. Sei sicura che io sia Tasslehoff? Sei assolutamente sicura?» «Sì, Tas, lo sono», replicò Laurana, con un sorriso indulgente. «Non so né come né perché, ma sono totalmente certa che tu sia Tasslehoff.» «È solo che io non mi sento Tasslehoff» continuò il kender, serio. «Non sembri te stesso, Tas, questo è vero», ammise Laurana. «Non sei gioioso come ti ricordavo. Forse sei addolorato per Caramon. Ha avuto una vita piena, Tas, una vita d'amore, di stupore e di gioia. Ha avuto le sue pene e i suoi guai, ma i giorni bui sono serviti solo a far risplendere di più quelli luminosi. Tu eri il suo amico speciale. Ti amava. Non essere triste. Lui non ti vorrebbe infelice.» «Non è questo che mi rende infelice», protestò Tas. «Cioè, ero infelice quando Caramon è morto perché è stata una cosa così inaspettata, anche se io me l'aspettavo. E a volte, quando penso che non c'è più, ho ancora un nodo di tristezza, qui, in gola, ma posso sopportarlo. È l'altra sensazione che non riesco a gestire, perché non ho mai provato niente del genere.» «Capisco. Forse potremmo parlarne dopo, Tas», disse Laurana, avviandosi verso casa. Tas l'afferrò per la manica, tenendola stretta. «È la sensazione che mi è venuta quando ho visto il drago!» «Quale drago?» Laurana si fermò, girandosi. «Quando hai visto un drago?» «Mentre Gerard e io entravamo a Qualinesti. Il drago è venuto a darci un'occhiata. Ho avuto...» Tas s'interruppe, poi aggiunse, con un sospiro
angoscioso: «credo di aver avuto... paura.» Fissò Laurana con gli occhi spalancati, aspettandosi di vederla cadere all'indietro nel laghetto, scioccata e inorridita da questa innaturale rivelazione. «È normale che tu abbia avuto paura, Tas», ribatté Laurana, accettando con molta calma quella notizia terribile. «La dragonessa Beryl è una bestia disgustosa, orrenda. I suoi artigli sono macchiati di sangue. È un tiranno crudele, e tu non sei il primo a provare spavento in sua presenza. Ora, non dovremmo far aspettare gli altri.» «Ma sono io, Laurana! Tasslehoff Burrfoot! L'Eroe della Lancia!» Tas si batté freneticamente sul petto. «Non ho paura di niente. Nell'altra epoca, c'è un gigante che sta per pestarmi e probabilmente mi schiaccerà, e quando ci penso mi si contorce un po' lo stomaco, ma questa cosa è diversa.» Sospirò profondamente. «Forse ti sbagli. Non posso essere Tasslehoff e avere paura.» Il kender era veramente sconvolto, questo era chiaro. Laurana lo guardò pensierosa. «Sì, è una cosa diversa. E molto strana. Hai già avuto a che fare con i draghi, Tas.» «Draghi di ogni tipo», disse orgogliosamente lui. «Azzurri, rossi, verdi e neri, bronzo, rame, argento e oro. Ho persino volato sul dorso di uno. È stato fantastico.» «E non hai mai provato paura?» «Ricordo di aver pensato che i draghi erano belli, nel loro modo terribile. E ho avuto paura, ma per i miei amici, mai per me stesso.» «Dev'essere accaduto lo stesso agli altri kender», rifletté Laurana, «quelli che ora chiamiamo "afflitti". Alcuni di loro devono aver avuto paura dei draghi anni fa, durante la Guerra delle Lance e dopo. Perché le ultime esperienze sono state diverse? Non ci ho mai pensato.» «È raro che la gente pensi a noi», replicò Tas, in tono comprensivo. «Non preoccuparti.» «Me ne rammarico, invece.» Laurana sospirò. «Avremmo dovuto fare qualcosa per aiutare i kender. È solo che sono successe tante cose che erano più importanti; o, almeno, lo sembravano. Se questa paura è diversa dalla paura dei draghi, chissà cosa può essere? Un incantesimo, forse?» «Giusto!» gridò Tas. «Un incantesimo! Una maledizione!» Era eccitatissimo. «La dragonessa mi ha lanciato una maledizione. Lo credi davvero?» «Veramente non so...» cominciò Laurana, ma il kender non l'ascoltava più. «Una maledizione! Sono vittima di una maledizione!» Tasslehoff emise
un sospiro beato. «I draghi mi hanno fatto molte cose ma nessuno mi aveva mai maledetto! È straordinario, quasi quanto quella volta che Raistlin mi ha sbattuto per magia in un laghetto di anatre. Grazie, Laurana» esclamò, scuotendole la mano con fervore e togliendole accidentalmente l'ultimo anello. «Non hai idea di quale peso tu mi abbia tolto dalla mente. Ora posso essere Tasslehoff. Un Tasslehoff vittima di una maledizione. Andiamo a dirlo a Palin!» «Ehi, a proposito di Palin», aggiunse con un bisbiglio penetrante, «da quando è diventato una Veste Nera? L'ultima volta che l'ho visto, era il capo dell'Ordine delle Vesti Bianche! Che cosa l'ha fatto cambiare? Gli è successo come a Raistlin? Qualcun altro si è impossessato del suo corpo?» «Vesti nere, vesti bianche, vesti rosse, la distinzione fra le une e le altre è sparita, ormai, Tas» osservò Laurana. «Palin indossava abiti neri perché voleva mimetizzarsi nella notte.» Lanciò al kender un'occhiata stupita. «Palin non è mai stato capo dell'Ordine delle Vesti Bianche. Che cosa te l'ha fatto pensare?» «Comincio a chiedermelo anch'io» rispose Tasslehoff. «Devo confessarti, Laurana, che sono estremamente confuso. Forse qualcuno si è insinuato nel mio corpo» propose, ma senza troppa speranza. Fra tutte le strane sensazioni e i groppi in gola, proprio non c'era posto per nessun altro. XVI IL RACCONTO DI TASSLEHOFF La casa della Regina Madre era sull'orlo di una rupe che dominava Qualinesti. Come tutte le costruzioni elfiche, si fondeva con la natura circostante, sembrava parte di essa, come in effetti era. Gli architetti elfici l'avevano costruita in modo tale da utilizzare il fronte della rupe. Da lontano, la dimora appariva come un boschetto d'alberi su un'ampia sporgenza che si protendeva dalla rupe. Soltanto avvicinandosi, si poteva scorgere il sentiero che saliva verso la casa e ci si accorgeva che gli alberi erano in realtà i muri, i rami il tetto e che anche la rupe era stata utilizzata per creare alcuni muri della dimora. La parete a nord dell'atrio era costituita dalla china rocciosa del fronte della rupe. Fiori e alberelli erano fioriti, gli uccelli cantavano fra i rami. Un ruscello scivolava dal dirupo, gettandosi lungo il percorso in tanti deliziosi
laghetti. Poiché la profondità di questi ultimi era diversa dall'uno all'altro, il tonfo dell'acqua variava di laghetto in laghetto, creando una melodiosa armonia di suoni. Affascinato dalla presenza di una vera cascata all'interno della casa, Tasslehoff si arrampicò sulle rocce, scivolando pericolosamente sulla superficie sdrucciolevole. Proruppe in un'esclamazione di meraviglia davanti alla perfezione di un nido di uccello, estirpò una pianta rara nel tentativo di raccoglierne il fiore e venne spostato di peso da Kalinda quando tentò di arrampicarsi fino al soffitto. Quello era Tasslehoff. Più Palin lo guardava, più ricordava e più si convinceva che quello fosse il kender che ben aveva conosciuto più di trent'anni fa. Notò che anche Laurana lo osservava. Lo fissava con uno sguardo fra il perplesso e lo stupito. Palin ammise che poteva essere perfettamente plausibile che Tasslehoff avesse vagabondato per il mondo per una trentina d'anni e infine avesse deciso di andare a fare quattro chiacchiere con Caramon. Ripensandoci, scartò l'ipotesi. Un altro kender avrebbe potuto fare tutto ciò, ma non Tasslehoff. Lui era un kender unico, come soleva ripetere Caramon. O, forse, non proprio così unico. Forse se si fossero presi la briga di conoscere un altro kender, avrebbero scoperto che erano tutti amici leali e compassionevoli. Ma se Tas non aveva girovagato per il mondo per circa trent'anni, allora dove era stato? Palin ascoltò attentamente la storia del Cavaliere sull'apparizione di Tas nella Tomba la notte della tempesta (eccezionalmente, prese mentalmente nota dell'accaduto), sul riconoscimento da parte di Caramon e sulle sue ultime parole. «Vostro padre era adirato perché non trovava il fratello, Raistlin. Diceva che Raistlin aveva promesso di aspettarlo. E poi ha avanzato la sua ultima richiesta, signore», disse Gerard concludendo. «Mi ha chiesto di portare Tasslehoff da Dalamar. Pensa che si riferisse a quel mago Dalamar, quello dalla pessima reputazione?» «Immagino di sì», replicò Palin in tono evasivo, deciso a non lasciare trapelare i propri pensieri. «Secondo la Misura, signore, l'onore mi impone di esaudire l'ultimo desiderio del moribondo. Ma poiché il mago Dalamar è scomparso e non si hanno sue notizie da anni, non so bene che cosa fare.» «Neanch'io», disse Palin. Le ultime parole del padre lo incuriosivano. Sapeva che Caramon era
sempre stato convinto che Raistlin non avrebbe abbandonato questo ambito mortale fino a quando il gemello non lo avesse raggiunto. «Io e Raist siamo gemelli», soleva affermare. «E poiché siamo gemelli, uno di noi non può lasciare questo mondo e passare a quello successivo senza l'altro. Gli dei avevano concesso a Raist di riposare in pace, ma poi lo hanno svegliato durante la guerra del Caos ed è stato allora che mi ha detto che mi avrebbe aspettato.» Raistlin era effettivamente tornato dalla terra dei morti durante la Guerra del Caos. Si era recato alla taverna dell'Ultima Casa e aveva trascorso un po' di tempo con Caramon. Ed era stato in quell'occasione che Raistlin, secondo quanto affermò in seguito Caramon, aveva cercato il perdono del fratello. Palin non aveva mai discusso la fede del padre in quel fratello infido, sebbene avesse pensato che Caramon carezzasse delle mere illusioni. Aveva sempre ritenuto di non avere alcun diritto di dissuadere il padre dalla sua convinzione. Dopo tutto, nessuno sapeva con certezza che cosa accadesse alle anime di coloro che passavano a miglior vita. «Il kender sostiene di avere viaggiato nel tempo e di essere arrivato in quest'epoca grazie all'aiuto del congegno magico.» Gerard scosse la testa e sorrise. «È indubbiamente la scusa più originale che abbia mai sentito da uno di questi ladruncoli.» «Non è una scusa», affermò Tas a voce alta. Aveva cercato di interrompere Gerard in diversi punti chiave del suo racconto, fino a quando il cavaliere aveva minacciato di imbavagliarlo nuovamente se non se ne fosse stato tranquillo. «Non ho rubato il congegno. Me lo ha dato Fizban. E ho veramente viaggiato nel tempo. Due volte. La prima volta sono arrivato tardi e la seconda... non so che cosa sia accaduto.» «Mostratemi l'oggetto magico, Gerard», disse Palin. «Forse così troveremo una risposta.» «Ci penso io!» si offrì Tas entusiasta. Rovistò nelle tasche, guardò nella pettorina, si tastò i pantaloni. «È qui da qualche parte...» Palin posò uno sguardo accusatore sul cavaliere. «Se questo oggetto è prezioso quanto sostenete, perché lasciate che resti nelle mani del kender? Sempre che sia ancora nelle sue mani...» «Lasciatemi spiegare, signore», affermò Gerard sulla difensiva. «Non so quante volte glielo abbia portato via, ma il congegno torna sempre da lui. Dice che è così che funziona.» Il cuore di Palin iniziò a battere all'impazzata. Il sangue si scaldò. Le mani, sempre fredde e insensibili, formicolarono di vita. Laurana scattò in
piedi senza nemmeno accorgersene. «Palin! Non penserai...» iniziò. «Eccolo!» gridò Tas trionfante. Estrasse l'oggetto da uno stivale. «Vuoi tenerlo in mano, Palin? Non è pericoloso. Non fa niente.» Il congegno era sufficientemente piccolo da stare nello stivaletto del kender. Eppure, appena Tas lo aveva tirato fuori, aveva dovuto sorreggerlo con entrambe le mani. Ma Palin non lo aveva visto cambiare forma o ingrandirsi. Era come se avesse sempre la forma e la dimensione che doveva avere, indipendentemente dalle circostanze. Se qualcosa cambiava, era la percezione dell'oggetto da parte di chi lo guardava e non l'oggetto stesso. Pietre antiche - rubini, zaffiri, diamanti e smeraldi - brillarono e scintillarono alla luce del sole, catturando i raggi solari e trasformandoli in macchie multicolori riflesse sulle pareti e sul pavimento. Palin allungò le mani deformi per prendere il congegno, quindi esitò. Improvvisamente aveva paura. Non temeva che l'oggetto gli avrebbe fatto del male. Sapeva che non sarebbe stato così. Lo aveva visto quando era ragazzino. Il padre lo aveva mostrato con orgoglio ai figli. Inoltre, in gioventù Palin aveva studiato quel congegno. Ne aveva visti i disegni nei libri nella Torre dell'Alta Magia. Quello era il Congegno per Viaggiare nel Tempo, uno dei più grandi e potenti manufatti creati dai Maestri delle Torri. Non gli avrebbe fatto del male, eppure lo avrebbe terribilmente e irrevocabilmente danneggiato. Per esperienza, conosceva il piacere che avrebbe provato nel toccare l'oggetto: avrebbe avvertito la magia pura, la magia amata, la magia che andava a lui incontaminata, libera, un dono di fede, una benedizione degli dei. Ne avrebbe percepito il potere, ma debolmente, come si avverte il profumo dei petali di una rosa schiacciati fra le pagine di un libro, la loro odorosa fragranza ridotta a un ricordo. E poiché era soltanto un ricordo, dopo il piacere sarebbe sopraggiunto il dolore - il dolore struggente e bruciante della perdita. Ma non poteva evitarlo. «Forse questa volta sarò capace di tenere duro. Forse con questo oggetto, la magia tornerà a me», questi erano i suoi pensieri. Toccò il congegno con dita tremanti, contorte. Gloria... splendore... resa... Palin gridò, mentre le sue dita deformi si chiudevano sul manufatto. Le pietre gli tagliarono la carne. Verità... bellezza... arte... vita...
Le lacrime gli velarono gli occhi, bagnarono le guance. Morte... perdita... vuoto... Iniziò a singhiozzare amaramente, disperatamente, per ciò che aveva perso. Pianse per la morte del padre, pianse per le tre lune scomparse dal cielo, pianse per le sue mani deformi, pianse per il suo tradimento verso tutto ciò in cui aveva creduto, pianse per la sua incoerenza, per il suo bisogno disperato di cercare di provare ancora l'estasi. «Sta male. Dobbiamo fare qualcosa?» domandò Gerard a disagio. «No, Cavaliere. Lasciatelo stare», ammonì Laurana in tono gentile. «Non possiamo fare niente per lui. Tutto questo gli è necessario. Ora soffre, ma dopo starà meglio.» «Mi spiace, Palin», piagnucolò Tasslehoff sentendosi colpevole. «Non pensavo che ti avrebbe fatto del male. Davvero! A me non l'ha mai fatto.» «Certo che a te non l'ha mai fatto, kender maledetto!» ribatté Palin, il dolore che viveva in lui, strisciando e avvolgendosi intorno al cuore e sbattendo le ali in petto come un uccello disperato, catturato dal serpente. «Per te non è nient'altro che un giocattolo con cui trastullarti! Per me è l'oppio che porta sogni felici, meravigliosi.» La voce gli si spezzò. «Fino a quando l'effetto svanisce. I sogni terminano e mi risveglio nella disperazione della dura e triste realtà.» Strinse la mano intorno al congegno, spense la luce delle pietre. «Una volta», disse con voce ferma, «avrei potuto creare un manufatto potente e meraviglioso come questo. Una volta avrei potuto essere ciò che affermi che ero: il Capo dell'Ordine delle Vesti Bianche. Una volta avrei potuto avere il futuro che mio zio predisse per me. Una volta avrei potuto essere un mago, dotato, forte, potente. Guardo questo congegno e vedo tutto ciò. Ma se guardo nello specchio, vedo tutt'altro.» Aprì la mano. Non vedeva l'oggetto, poiché lacrime amare gli avevano velato gli occhi. Ne intravedeva soltanto la luce della magia, scintillante, ammiccante e beffarda. «Le mie capacità magiche scemano, il mio potere diminuisce di giorno in giorno. Senza la magia non ci resta che una speranza: la speranza che la morte sia migliore di questa misera vita!» «Palin, non devi parlare così!» lo sgridò Laurana. «Nei giorni oscuri prima della Guerra delle Lance la pensavamo in questo modo. Ricordo Raistlin dire qualcosa riguardo al fatto che la speranza era la carota appesa davanti al muso dell'asino per indurlo a camminare. Noi abbiamo camminato, siamo andati avanti e alla fine siamo stati premiati.» «È vero», disse Tas. «Io ho mangiato la carota.»
«E con che cosa siamo stati premiati?» esclamò Palin in tono ironico. «Con questo mondo bastardo in cui siamo obbligati a vivere!» Il congegno gli procurava dolore; lo aveva stretto con tanta foga che effettivamente le pietre affilate gli avevano tagliato la carne. Ma ciononostante lo stringeva ancora, lo accarezzava con bramosia. Persino il dolore era meglio del senso di intorpidimento. Gerard si schiarì la gola, imbarazzato. «Mi sembra di capire, signore, che avessi ragione», disse timidamente. «Questo oggetto è un potente manufatto della Quarta Era?» «Sì», rispose Palin. Aspettarono che dicesse qualcosa di più, ma l'uomo non si lasciò andare ad alcuna confidenza. Voleva che se ne andassero. Voleva stare solo. Voleva raccogliere i propri pensieri, che in quel momento correvano qua e là come topi improvvisamente illuminati da una torcia in una cantina. Alcuni se la danno a gambe rifugiandosi in buchi bui, altri strisciando in strette fenditure e altri ancora restano lì, gli occhi luccicanti fissi sulla fiamma ardente. Doveva sopportarli, doveva sopportare la loro stupidità, le loro domande senza senso. Doveva sentire il resto del racconto di Tasslehoff. «Raccontami che cosa è accaduto, Tas», disse Palin. «E lascia perdere le storie sui mammut. Stiamo parlando di cose importanti.» «Capisco», replicò Tas, colpito. «Dirò la verità. Lo prometto. Tutto è iniziato mentre partecipavo al funerale di una carissima amica kender che avevo incontrato il giorno prima. La poveretta aveva avuto uno scontro con un goblin. Era successo che... ehm...», Tas notò la fronte di Palin aggrottarsi, «non importa, come dicono gli gnomi. Questa storia ve la racconterò dopo. Allora, durante il funerale mi sono reso conto che pochi kender vivono sufficientemente a lungo per diventare, come dite voi, vecchi. Ho già vissuto più a lungo della maggior parte dei kender che conosco e improvvisamente ho capito che Caramon avrebbe probabilmente vissuto più a lungo di me. Se c'era una cosa che volevo assolutamente fare prima di morire era proclamare al mondo intero quanto Caramon fosse stato per me un buon amico. Mi è sembrato che il momento migliore per farlo fosse al suo funerale. Ma se Caramon avesse vissuto più a lungo di me, allora sarebbe stato un problema partecipare al suo funerale. «Comunque, un giorno mentre ero con Fizban gli ho parlato di questo mio desiderio e ritenendolo un gesto nobile e generoso, il mago ha detto che avrebbe potuto organizzare la cosa. Avrei potuto parlare al funerale di Caramon viaggiando nel tempo e raggiungendo il giorno in cui si sarebbe
tenuta la cerimonia funebre. Così mi ha dato il congegno, mi ha spiegato come usarlo e si è raccomandato di fare un salto in avanti nel tempo, parlare al funerale e quindi tornare immediatamente indietro. "Non vagabondare", mi ha detto. A proposito», aggiunse ansioso, «secondo voi considererà questa gita come "vagabondare"? Sono così felice di rivedere tutti i miei amici. È molto più divertente che essere calpestato da un gigante.» «Vai avanti con la storia, Tas», lo richiamò Palin in tono severo. «Di quello parleremo dopo.» «Sì, hai ragione. Così ho usato il congegno e sono balzato in avanti nel tempo ma, ecco, voi sapete benissimo che a volte Fizban fa un po' di confusione. Si dimentica il suo nome, dove ha messo il cappello quando ce l'ha in testa, come si fa un incantesimo di fuoco. E quella volta probabilmente ha fatto un errore di calcolo. Perché quando sono giunto a destinazione, il funerale di Caramon era già finito. Lo avevo perso. Sono arrivato giusto in tempo per il rinfresco. E anche se ero felice di vedere tanti amici e ho assaporato quei fantastici bignè al formaggio preparati da Jenna, non ho potuto fare ciò per cui mi ero mosso. Ricordandomi che avevo promesso a Fizban di non vagabondare, me ne sono tornato indietro. «E per essere sincero», Tas abbassò il capo e strascicò i piedi, «poi mi sono dimenticato completamente del discorso e del funerale di Caramon. Però avevo una buona ragione. Era scoppiata la Guerra del Caos e ci siamo ritrovati a combattere gli spiriti ombra. E sai, Palin, è stato allora che ho incontrato Dougan e Usha, tua moglie. Era tutto immensamente interessante ed eccitante. E adesso il mondo è ormai giunto alla fine e c'è questo orribile gigante che sta per spiaccicarmi ed è stato proprio in quel momento che mi sono ricordato di non avere parlato al funerale di Caramon. Così ho attivato velocemente il congegno e prima che venissi calpestato dal gigante, sono giunto qui per poter dire a tutti che buon amico è stato Caramon.» Gerard scuoteva la testa. «Ma è ridicolo.» «Scusa», disse Tas, irrigiditosi. «Non è educato interrompere. Sono arrivato qui e sono finito nella Tomba; Gerard mi ha trovato e mi ha portato da Caramon. E ho potuto raccontargli ciò che avrei detto di lui al suo funerale, parole che gli sono piaciute moltissimo, solo che niente era come ricordavo. Ne ho parlato anche a Caramon e lui sembrava preoccupato, ma è morto prima che potesse fare qualcosa. E poi non riusciva a trovare Raistlin, pur sapendo che il fratello non sarebbe passato nel mondo successivo senza il gemello. Ed è per questo che penso abbia detto che dovevo parlare con Dalamar.» Ormai senza fiato, Tas trasse un respiro profondo. «Ed ecco
perché sono qua.» «Voi gli credete, signora?» domandò Gerard. «Non so che cosa credere», rispose Laurana in tono sommesso. Guardò Palin, ma quest'ultimo evitò accuratamente di incontrare il suo sguardo, facendo finta di essere impegnato a esaminare il congegno, come se si aspettasse di trovare tutte le risposte incise nel scintillante metallo. «Tas», disse dolcemente il mago, non volendo rivelare la direzione dei suoi pensieri, «raccontami tutto ciò che ricordi del primo funerale di mio padre.» Tasslehoff non si fece pregare e parlò di Dalamar, lady Crysania, Riverwind e Goldmoon, del rappresentante dei Cavalieri Solamnici giunto dalla lontana Torre del Sommo Chierico, di Gilthas dal regno elfico di Qualinesti, di Silvanoshei dal regno di Silvanesti, di Porthios e Alhana, più bella che mai. «E c'eravate anche voi, Laurana, felice come non mai perché avevate visto realizzarsi il vostro più grande sogno: i regni elfici uniti in pace e fratellanza.» «Ma si è inventato tutto», commentò Gerard spazientito. «È una di quelle storie su "come avrebbe potuto essere".» «Come avrebbe potuto essere», ripeté Palin, fissando la luce del sole risplendere sulle pietre preziose. «Mio padre mi raccontava una storia su come avrebbe potuto essere.» Guardò Tas. «Tu e mio padre una volta avete viaggiato insieme nel tempo, vero?» «Non è stata colpa mia», si affrettò a dire Tas. «Ci eravamo sbagliati. Stavamo cercando di tornare alla nostra epoca, che era il 356, ma a causa di un errore di calcolo siamo finiti nel 358. Non il 358 vero, ma un orribile 358 dove abbiamo trovato la tomba di Tika, la povera Bupu morta nella polvere e il cadavere di Caramon. Un 358 che, grazie a dio, non è mai accaduto, perché io e Caramon siamo tornati indietro ad assicurarci che Raistlin non diventasse un dio.» «Una volta Caramon mi ha raccontato quella storia», disse Gerard. «Pensavo che... beh, insomma, era ormai avanti con gli anni e amava parlare, così non l'ho mai preso sul serio.» «Mio padre era convinto che fosse accaduto», commentò Palin senza aggiungere altro. «E tu ci credi, Palin?» insistette Laurana. «Ma, cosa più importante, pensi che la storia di Tas sia vera? Che abbia viaggiato veramente nel tempo? È questo che stai pensando?» «Ciò che sto pensando è che ho bisogno di saperne di più su questo con-
gegno», replicò l'uomo. «Ed è per questo che mio padre ha insistito perché venisse portato a Dalamar. Lui era l'unico presente quando mio padre è ricorso alla magia del manufatto.» «C'ero anch'io!» ricordò loro Tas. «E ora sono qui.» «Sì», disse Palin sarcastico. «Lo vedo.» Nella sua mente stava prendendo forma un'idea. Era solo una scintilla, un piccolo sprazzo di luce in un'oscurità vuota e profonda. Eppure era sufficiente per fare agitare i topi. «Non potete interrogare Dalamar», affermò Laurana, ragionando in modo pratico. «Nessuno l'ha più visto da quando è tornato dalla Guerra del Caos.» «No, Laurana, ti sbagli», ribatté Palin. «Una persona lo ha visto prima della sua misteriosa scomparsa: la sua donna, Jenna. Ha sempre sostenuto di non avere idea di dove lui fosse andato, ma non le ho mai creduto. E lei potrebbe essere la persona che sa qualcosa su questo manufatto.» «Dove vive questa Jenna?» domandò Gerard. «Vostro padre mi ha affidato l'incarico di portare il kender e il congegno a Dalamar. Forse non sarò in grado di farlo, ma almeno potrei scortare voi, signore, e il kender...» Palin stava scuotendo la testa. «Non è possibile, Cavaliere. Maestra Jenna vive a Palanthas, una città sotto il controllo dei Cavalieri Scuri.» «Come Qualinesti», sottolineò Gerard, con un sorrisetto. «Scivolare inosservati lungo i rigogliosi confini di Qualinesti è una cosa», osservò Palin. «Entrare in una città circondata da mura e costantemente pattugliata, è un'altra. Inoltre, il viaggio richiederebbe troppo tempo. Sarebbe molto più semplice incontrare Jenna a metà strada. Forse a Solace.» «Ma Jenna può lasciare Palanthas?» domandò Laurana. «Pensavo che i Cavalieri Scuri avessero limitato i movimenti sia verso l'esterno sia all'interno della città.» «Simili restrizioni valgono per la gente comune», affermò secco Palin. «Non per Maestra Jenna. Da quando i cavalieri hanno assunto il controllo della città, andare d'accordo con loro è per lei un dovere. Ed è anche molto abile. Non è più giovane, è vero, ma è ancora una donna molto attraente. Inoltre, è anche la più ricca di Solamnia e una delle maghe più potenti. No, Laurana, Jenna non avrà nessun problema per raggiungere Solace.» Si alzò in piedi. Aveva bisogno di stare da solo, di pensare. «Ma i suoi poteri non stanno diminuendo come i tuoi, Palin?» domandò Laurana. L'uomo strinse le labbra, seccato. Non gli piaceva parlare della sua per-
dita, così come a un altro non avrebbe fatto piacere parlare di una crescita cancerosa. «Jenna possiede alcuni manufatti che continuano a funzionare per lei, così come io ne ho altri che funzionano per me. Non è molto», aggiunse sarcastico, «ma dobbiamo accontentarci.» «Forse il piano può funzionare», concordò Laurana. «Ma come farete a tornare a Solace? Le strade sono chiuse...» Palin si morse le labbra, ricacciando indietro le parole pungenti che stava per pronunciare. Avrebbero mai smesso di piagnucolare? «Non per un Cavaliere Scuro», stava dicendo Gerard. «Mi offro come scorta, signore. Sono arrivato con un prigioniero kender. Ripartirò con un prigioniero umano.» «Sì, sì, un buon piano, Cavaliere», disse Palin spazientito. «Occupatevi dei dettagli.» Iniziò ad allontanarsi, desideroso di rifugiarsi nel silenzio della sua stanza, quando gli venne in mente una domanda importante. Fermandosi, si voltò e chiese: «Qualcun altro sa della scoperta di questo manufatto?» «Ormai lo saprà metà Solace, signore», rispose Gerard in tono tetro. «Il kender non è stato molto riservato.» «Allora non dobbiamo perdere tempo», affermò Palin concisamente. «Mi metterò in contatto con Jenna.» «Come farai?» gli domandò Laurana. «Ho i miei sistemi», replicò e, storcendo la bocca aggiunse: «Non molti, ma basteranno.» Lasciò la stanza repentinamente, senza più voltarsi. Non ne aveva bisogno. Sentiva il dolore e il dispiacere di Laurana accompagnarlo come uno spirito garbato. Provò una vergogna improvvisa, quasi si voltò per scusarsi. Dopo tutto, era suo ospite. E dandogli asilo, lei metteva a rischio la propria vita. Esitò, poi continuò a camminare. «No», pensò risoluto, «Laurana non può capire. Usha non capisce. Quel cavaliere insolente e arrogante non capisce. Nessuno di loro può capire. Non sanno che cosa ho passato, quanto ho sofferto. Non conoscono la mia perdita. Una volta», gridò in silenziosa angoscia, «una volta ho toccato la mente degli dei!» Si fermò, in ascolto del silenzio; forse una voce flebile avrebbe risposto al suo grido di dolore. Sentì, come sempre, una vuota eco. «Pensano che sia libero dalla prigionia. Pensano che i miei tormenti siano finiti. Si sbagliano.
«La mia prigionia continua tediosa, giorno dopo giorno. La tortura va avanti all'infinito. Mura grigie mi circondano. Mi accovaccio nella mia stessa lordura. Le ossa del mio spirito sono spaccate e ridotte in schegge. La mia fame è tale che divoro me stesso. La mia sete è così grande che bevo il liquido che elimino. Ecco che cosa sono diventato.» Raggiunto il santuario della propria stanza, chiuse la porta e vi trascinò davanti una sedia, per bloccarla. Nessun elfo si sarebbe mai sognato di disturbare l'intimità di chi si isolava, ma Palin non si fidava di loro. Di nessuno di loro. Si sedette alla scrivania, ma non scrisse a Jenna. Appoggiò la mano su un piccolo orecchino d'argento che portava al lobo dell'orecchio. Pronunciò le parole dell'incantesimo, parole che forse non servivano più, perché non c'era nessuno ad ascoltarle. A volte i manufatti funzionavano senza le parole rituali, a volte funzionavano solo con le parole, a volte non funzionavano affatto. E in quei giorni accadeva sempre più spesso. Ripeté le parole e a esse aggiunse: «Jenna». Un mago affamato le aveva venduto i sei orecchini d'argento. Era stato evasivo sul luogo di provenienza dei monili, limitandosi a balbettare qualcosa su un'eredità di un vecchio zio. Jenna aveva detto a Palin: «Sicuramente il defunto possedeva questi orecchini. Ma non li aveva ricevuti in eredità. Li aveva rubati.» Non era andata a fondo della questione. Molti maghi, un tempo rispettabili - fra cui Palin stesso - erano divenuti predatori di tombe, nella disperata ricerca di oggetti magici. Il mago aveva descritto il potere degli orecchini e aveva aggiunto che non li avrebbe venduti, se non fosse stato spinto da un bisogno estremo. Jenna gli aveva dato una considerevole somma di denaro e invece di esporre gli orecchini in negozio, ne aveva dato uno a Palin e uno al figlio Ulin. Non aveva mai svelato chi portava gli altri. E lui non lo aveva mai chiesto. C'era stato un tempo in cui i Maghi del Conclave avevano fiducia l'uno nell'altro. Nei giorni oscuri del presente, con la magia che scemava, tutti si guardavano di traverso, domandandosi: «Lui avrà più di me? Avrà trovato qualcosa che io non ho? Il potere che non possiedo, sarà stato dato a lui?» Palin non udì alcuna risposta. Sospirando, ripeté le parole e sfregò il metallo con il dito. Quando gli era stato donato l'orecchino, l'incantesimo aveva funzionato subito. Ora avrebbe dovuto fare tre o quattro tentativi, con la paura che quella fosse la volta in cui non avrebbe funzionato del tutto. «Jenna!» sussurrò impaziente.
Qualcosa di leggero e delicato, come il tocco delle ali di una mosca, gli sfiorò il viso. Irritato, agitò la mano per scacciarla, la concentrazione ormai infranta. Si guardò intorno alla ricerca dell'insetto per eliminarlo, ma non lo trovò. Stava per sistemarsi per ritentare l'incantesimo, quando i pensieri di Jenna gli risposero. «Palin...» L'uomo focalizzò la mente, elaborando un messaggio breve, per timore che la magia non durasse sufficientemente a lungo. «Bisogno urgente. Incontriamoci a Solace. Immediatamente.» «Verrò subito.» Jenna non aggiunse altro, non perse tempo in domande. Si fidava di lui. Non l'avrebbe cercata se non avesse avuto un valido motivo. Palin abbassò lo sguardo sulle mani deformi, che stringevano il congegno che tanto gli stava a cuore. «Sarà la chiave della mia prigione?» si domandò. «O un altro colpo di frusta?» «È molto cambiato», commentò Gerard dopo che Palin ebbe lasciato l'atrio. «Non lo avrei riconosciuto. E il modo in cui ha parlato del padre...» Scosse la testa. «Ovunque si trovi Caramon, sono certa che capirà», disse Laurana. «Palin è cambiato, è vero, ma chi non lo sarebbe dopo un'esperienza così terribile? Penso che nessuno di noi possa nemmeno immaginare i tormenti che ha dovuto patire per mano delle Vesti Grigie. A proposito, come pensate di raggiungere Solace?» domandò spostando abilmente il discorso da Palin su considerazioni più pratiche. «Ho il mio cavallo, quello nero. Pensavo che Palin potrebbe montare quello più piccolo che ho portato per il kender.» «Così io potrei cavalcare quello nero con te!» esclamò Tas, compiaciuto. «Anche se non sono sicuro che a Grigetta piacerà Palin, ma forse se le parlassi...» «Tu non vieni», affermò Gerard categorico. «Non vengo!» ripeté Tas attonito. «Ma voi avete bisogno di me!» Gerard ignorò l'affermazione che, di tutte le affermazioni mai fatte nel corso della storia, poteva essere classificata come la più probabile ad essere ignorata. «Il viaggio richiederà molti giorni, ma d'altronde non possiamo evitarlo. Quella sembra l'unica via...» «Ho un'idea», disse Laurana. «I grifoni potrebbero portarvi a Solace.
Hanno portato Palin qui e potrebbero riportarlo indietro e voi con lui. Brightwing, il mio falcone, porterà loro un messaggio. I grifoni potrebbero essere qui dopodomani. E la sera stessa voi e Palin sarete a Solace.» Gerard ebbe una fugace visione di se stesso mentre volava in groppa a un grifone o, per meglio dire, ebbe una fugace visione di se stesso mentre cadeva dalla groppa di un grifone e si schiantava a testa in giù. Arrossì e iniziò ad annaspare alla ricerca di una risposta che non lo facesse apparire un vigliacco codardo. «Non potrei mai imporre... Dovremmo partire subito...» «Sciocchezze. Un po' di riposo vi farà bene», replicò Laurana sorridendo, come se avesse percepito il motivo reale che si celava dietro a tanta riluttanza. «In questo modo risparmierete una settimana e, come ha detto Palin, dobbiamo muoverci velocemente prima che Beryl scopra che quel prezioso congegno magico si trova sulle sue terre. Domani notte, al calare dell'oscurità, Kalindas vi accompagnerà al luogo dell'appuntamento.» «Non ho mai cavalcato un grifone», commentò Tas. «Per lo meno non che io ricordi. Lo zio Trapspringer una volta l'ha fatto. Mi ha raccontato che...» «No», lo interruppe Gerard risoluto. «Assolutamente no. Resterai con la Regina Madre, sempre che ti ospiti. È già sufficientemente pericoloso senza...» Le parole gli morirono in gola. Il congegno magico era tornato ancora una volta nelle mani del kender. Tasslehoff lo stava infilando nuovamente nella pettorina. Lontano da Qualinesti, ma non così lontano da non riuscire a tenere un occhio e un orecchio puntati su quella terra, la grande dragonessa verde Beryl giaceva nel suo aggrovigliato pergolato sormontato da un lussureggiante vitigno e rimuginava sui torti subiti. Torti che prudevano e pizzicavano come un'infestazione di parassiti e, come con questi, poteva grattarsi qui e là, ma il prurito si spostava senza che lei riuscisse mai a liberarsene. Il centro di tutti i suoi problemi era una grande dragonessa rossa, un mostruoso wrym che Beryl temeva più di qualsiasi altra creatura al mondo, anche se si sarebbe lasciata strappare le ali verdi e si sarebbe fatta annodare l'enorme coda piuttosto che ammetterlo. Quella paura era il motivo principale per cui, tre anni prima, aveva accettato il patto. Nella sua mente aveva infatti visto la propria testa adornare il totem di Malys. E al di là del fatto che ci teneva alla testa, aveva deciso che non avrebbe mai dato a quella boriosa della cugina rossa una simile soddisfazione.
A quel tempo, l'accordo di pace fra draghi era sembrata una buona idea. Poneva infatti fine alla sanguinosa Purga dei Draghi, durante la quale le mostruose creature avevano combattuto e ucciso non solo mortali, ma anche loro simili. I draghi usciti vittoriosi e potenti si erano divisi Ansalon, ognuno aveva ottenuto una porzione di terra da governare e tutti avevano lasciato alcune zone un tempo oggetto di disputa, come Abanasinia, inviolate. La pace era durata un anno prima di iniziare a sgretolarsi. Quando Beryl aveva sentito i suoi poteri magici iniziare a scemare, ne aveva dato la colpa agli elfi, agli umani, ma in cuor suo sapeva perfettamente chi fosse la responsabile. Malys le stava rubando i poteri. Ecco perché la cugina rossa non aveva più bisogno di uccidere quelli della sua stessa razza! Aveva trovato il sistema per prosciugare gli altri draghi dei loro poteri. La magia era stata per Beryl il principale sistema di difesa nei confronti della cugina più forte. Senza di essa, la dragonessa verde sarebbe stata indifesa come un nano di fosso. Cadde la notte e Beryl continuò a rimuginare. L'oscurità avvolse il pergolato come un secondo vitigno ancora più grande. Si addormentò, cullata dalla ninnananna delle sue congiure e complotti. Sognava di avere finalmente trovato la leggendaria torre dell'Alta Stregoneria di Wayreth. Avvolgeva il corpo immenso intorno alla torre e sentiva il potere magico fluire in lei, caldo e delicato come il sangue di un drago d'oro... «Magnifica!» Una voce sibilante la strappò al piacevole sogno. Beryl batté gli occhi e sbuffò, soffiando esalazioni di gas velenoso fra le foglie. «Sì, che cosa c'è?» domandò, mettendo a fuoco la fonte del sibilo. Anche nell'oscurità della notte vedeva perfettamente, senza dovere ricorrere all'aiuto della luce. «Un messaggero da Qualinost», disse il servo draconico. «Sostiene di avere informazioni della massima urgenza, altrimenti non vi avrei disturbata.» «Fallo entrare.» Inchinatosi, il draconico si allontanò. Al suo posto ne apparve un altro. Un Baaz di nome Groul, uno dei favoriti di Beryl, un messaggero fidato che faceva la spola fra la sua tana e Qualinesti. I draconici erano stati creati durante la Guerra delle Lance quando gli stregoni dalle vesti nere e i sacerdoti malvagi fedeli a Takhisis avevano rubato le uova dei draghi benevoli e avevano dato loro la vita sotto forma di quegli orribili uominilucertola alati. Come tutti quelli della sua specie, il Baaz camminava eretto
su due poderose gambe, ma poteva correre anche a quattro zampe, utilizzando le ali per potenziare i movimenti a terra. Il corpo era ricoperto da squame dalla smorta lucentezza metallica. Indossava pochi vestiti per essere libero nei movimenti. Era un messaggero e come tale era armato di una sola spada corta, che portava sulla schiena, fra le ali, legata con una cinghia. Beryl si destò completamente. Solitamente una creatura laconica raramente lasciava trapelare le emozioni, ma quella sera Groul sembrava estremamente soddisfatto di se stesso. Gli occhi da lucertola brillavano per l'eccitazione, i denti aguzzi risaltavano in un ampio ghigno. La punta della lingua guizzava dalla bocca. Beryl spostò e ondeggiò il corpo mastodontico, sguazzando ben bene nella fanghiglia per mettersi più comoda, e raccogliendo intorno a sé la vite come una coperta intrecciata. «Notizie da Qualinost?» domandò in tono incurante. Non voleva sembrare troppo impaziente. «Sì, Magnifica», rispose Groul, avvicinandosi a uno dei giganteschi artigli della zampa anteriore della dragonessa. «Notizie estremamente interessanti sulla Regina Madre, Laurana.» «Davvero? Quello stupido di Medan è ancora innamorato di lei?» «Naturalmente.» Groul cercò di liberarsi velocemente della notizia, considerandola roba vecchia. «Secondo la nostra spia, lui la difende e la protegge. Ma non è una cosa così terribile, Padrona. La Regina Madre si crede invulnerabile e così noi possiamo scoprire che cosa stanno complottando gli elfi.» «Vero», concordò Beryl. «Finché Medan ricorda a chi deve essere fedele, può andare avanti con il suo romanzetto d'amore. Finora mi ha sempre servito a dovere e, nel caso, trasferirlo non sarà un problema. Che altro? Perché c'è dell'altro, vero?» Beryl appoggiò la testa a terra per essere alla stessa altezza del draconico e poterlo fissare negli occhi. L'eccitazione di quest'ultimo era contagiosa. La dragonessa la sentiva fremere dentro di sé. La sua coda si contorse, gli artigli affondarono nel fango. Groul si avvicinò ancora di più. «Alcuni giorni fa vi avevo riferito che il mago umano, Palin Majere, si nascondeva nella casa della Regina Madre. Ci eravamo chiesti il perché di questa visita. Voi sospettavate che fosse alla ricerca di manufatti magici.» «Sì», disse Beryl. «Continua.»
«Sono felice di comunicarvi, Magnifica, che ne ha trovato uno.» «Davvero?» Gli occhi di Beryl luccicarono, proiettando una sinistra luce verde sul draconico. «E che manufatto ha trovato? A che cosa serve?» «Secondo la nostra spia elfica, il manufatto pare abbia a che fare con la capacità di viaggiare nel tempo. L'oggetto è in mano a un kender che sostiene di provenire da un altro periodo, un periodo precedente alla Guerra del Caos.» Beryl sbuffò, riempiendo la tana di fumi nocivi. Il draconico si sentì soffocare e iniziò a tossire. «Quei parassiti direbbero di tutto. Se non c'è altro...» «No, no, Magnifica», si affrettò ad aggiungere Groul appena fu nuovamente in grado di parlare. «La spia elfica ha riferito che Palin Majere era incredibilmente eccitato per il ritrovamento. Così eccitato da prendere accordi per lasciare immediatamente Qualinost portando con sé il manufatto per poterlo esaminare.» «Ah, è così?» Beryl si rilassò, mettendosi più comoda. «Era eccitato. Allora quel manufatto deve essere potente. Ha un sesto senso per queste cose, come ho spiegato a suo tempo alle Vesti Grigie quando volevano ucciderlo. "Lasciatelo andare", dissi loro. "Ci porterà a ciò che cerchiamo come un orso al miele." Come possiamo impossessarci di questo oggetto?» «Dopodomani, Magnifica, il mago e il kender partiranno da Qualinesti. Si incontreranno con dei grifoni che li trasporteranno a Solace. Quello dovrebbe essere il momento migliore per catturarli.» «Torna a Qualinost. Informa Medan...» «Perdonatemi, Magnifica. Non sono ammesso alla presenza del maresciallo. Trova me e quelli della mia razza disgustosi.» «Ogni giorno che passa assomiglia sempre più a un elfo», ringhiò Beryl. «Un bel mattino si sveglierà con le orecchie a punta.» «Posso mandare la mia spia a rapporto da lui. Solitamente agisco in questo modo. Così la spia mi tiene informato anche su ciò che accade in casa di Medan.» «Molto bene. Ecco i miei ordini. Manda la tua spia dal maresciallo Medan affinché gli dica che voglio che questo mago venga catturato e mi venga consegnato vivo. Deve essere portato a me, attenzione. Non da quei buoni a nulla delle Vesti Grigie.» «Sì, Magnifica.» Groul fece per allontanarsi, quindi si voltò. «Vi fidate del maresciallo per una questione così importante?» «Assolutamente no», rispose Beryl in tono sprezzante. «Ma prenderò le
mie precauzioni. E adesso vai!» Il maresciallo Medan stava facendo colazione nel suo giardino, da dove gli piaceva ammirare la nascita del sole. Aveva posizionato tavolo e sedia su una sporgenza rocciosa accanto a uno stagno così affollato di ninfee che riusciva a mala pena a vedere l'acqua. Poco distante, un ceanoto riempiva l'aria di fiorellini bianchi. Terminato di mangiare, lesse i dispacci appena arrivati e iniziò ad annotare gli ordini del giorno. Ogni tanto, si fermava per buttare briciole di pane ai pesci, che erano così abituati a quella routine che tutte le mattine, alla stessa ora, salivano in superficie in attesa dell'arrivo dell'uomo. «Signore.» L'aiutante di campo di Medan si avvicinò, scacciando irritato i fiori che si erano posati sulla sua giubba nera. «Un elfo vuole vedervi, signore. Proviene dalla casa della Regina Madre.» «Il nostro traditore?» «Sì, signore.» «Fallo passare.» L'aiutante starnutì, annuì accigliato e se ne andò. Medan estrasse il coltello dal fodero che portava su una cintura intorno alla vita, lo appoggiò sul tavolo e sorseggiò il vino. Solitamente non avrebbe preso simili precauzioni. Molti anni prima, quando era arrivato per assumere il controllo di Qualinesti, era stato oggetto di un tentato omicidio. Nient'altro. Gli attentatori erano stati catturati, impiccati, sventrati e squartati. I resti dei loro corpi erano stati dati in pasto agli uccelli necrofagi. Ultimamente, tuttavia, i gruppi di ribelli stavano diventando più audaci, più disperati. Lo preoccupava soprattutto una guerriera, la cui bellezza, il coraggio in battaglia e le ardite imprese, la stavano trasformando in un'eroina per tutto il popolo elfico sottomesso. La chiamavano la «Leonessa», per la sua criniera di capelli splendenti. Lei e la sua banda di ribelli attaccavano i carri con i rifornimenti, infastidivano le pattuglie di ricognizione, tendevano agguati ai messaggeri e in generale rendevano la vita di Medan fra gli elfi di Qualinesti, un tempo tranquilla e pacifica, sempre più difficile. Qualcuno passava ai ribelli informazioni sui movimenti delle truppe, sugli orari delle pattuglie, sulle posizioni delle salmerie. Medan aveva dato un giro di vite per quanto concerneva la sicurezza, eliminando tutti gli elfi dal suo staff, tranne il giardiniere, e raccomandando al prefetto Palthainon
e agli altri ufficiali elfici, che collaboravano con i cavalieri, di prestare attenzione a ciò che dicevano e a dove lo dicevano. Ma non era facile mantenere un elevato livello di sicurezza in un paese dove uno scoiattolo appollaiato sul davanzale della finestra, intento a sgranocchiare nocciole, poteva in realtà essere intento a dare un'occhiata alle mappe, annotando mentalmente la disposizione delle tue forze. L'aiutante di Medan tornò, starnutendo ancora, seguito dall'elfo con in mano una talea. Medan congedò il militare, raccomandandogli di bere un infuso di erba gattaia per il suo raffreddore. Il maresciallo sorseggiò lentamente il vino, assaporandolo. Amava il profumo del vino elfico, poteva sentire il sapore dei fiori e del miele con i quali era prodotto. «Maresciallo Medan, la mia padrona vi manda questa talea di lillà per il vostro giardino. Ha detto che il vostro giardiniere saprà sicuramente come piantarla.» «Appoggiala lì sopra», disse Medan, indicando il tavolo. Continuò a gettare briciole ai pesci, senza guardare l'elfo. «Se è tutto, puoi andare.» L'elfo tossì, si schiarì la gola. «C'è dell'altro?» domandò Medan con studiata indifferenza. L'elfo lanciò uno sguardo furtivo intorno a sé. «Parla. Siamo soli», lo incitò Medan. «Signore, mi è stato ordinato di trasmettervi alcune informazioni. Vi avevo già detto che il mago Palin Majere era ospite dalla mia padrona.» Medan annuì. «Sì, dovevi tenerlo sotto controllo e riferirmi ogni sua mossa. Devo dedurre dalla tua visita che ha fatto qualcosa di particolare?» «Palin Majere è recentemente entrato in possesso di un manufatto di grande valore, un manufatto magico della Quarta Era. Ha intenzione di portare quell'oggetto fuori da Qualinost. E per la precisione, a Solace.» «E tu hai riferito della scoperta del manufatto a Groul, che a sua volta lo ha riferito alla dragonessa», disse Medan con un muto sospiro. Altri guai. «E, naturalmente, Beryl lo vuole.» «Majere volerà in groppa a un grifone. L'appuntamento è per domani mattina all'alba in una radura a circa venti miglia a nord di Qualinost. Viaggerà in compagnia di un kender e di un Cavaliere Solamnico...» «Un Cavaliere Solamnico?» Medan era stupito, più interessato al cavaliere che al mago. «Come ha fatto un Cavaliere Solamnico a entrare a Qualinesti senza essere scoperto?» «Travestendosi da vostro cavaliere, signore. Ha fatto credere che il ken-
der fosse suo prigioniero, che avesse rubato un manufatto magico e che lo stesse portando alle Vesti Grigie. La notizia è giunta alle orecchie di Majere, che ha teso un agguato al kender e al Cavaliere, come quest'ultimo aveva previsto, e li ha portati nella casa della Regina Madre.» «Intelligente, coraggioso, ingegnoso», commentò Medan, continuando a lanciare briciole ai pesci. «Non vedo l'ora di conoscere questo campione.» «Sì, signore. Come vi ho detto, il Cavaliere sarà con Majere e il kender, nella foresta. Posso fornirvi una mappa...» «Ne sono sicuro», lo interruppe Medan. Agitò la mano in segno di congedo. «Fornisci i dettagli al mio aiutante. E ora porta via la tua infida pellaccia dal mio giardino. Avveleni l'aria.» «Chiedo venia, signore», azzardò l'elfo sfacciatamente. «Ci sarebbe la questione del pagamento. Secondo Groul, la dragonessa era estremamente compiaciuta per la notizia. Questo ne aumenta il valore. Più del solito. Diciamo, il doppio di quello che ricevo abitualmente?» Medan lanciò all'elfo un'occhiata sprezzante, quindi prese carta e penna. «Consegnalo al mio aiutante. Penserà lui a pagarti.» Medan scriveva lentamente, prendendosi tutto il tempo necessario. Odiava dovere ricorrere alle spie, il cui utilizzo riteneva vile e umiliante. «Che cosa te ne fai di tutto il denaro che ti diamo per tradire la tua padrona, Elfo?» Non avrebbe mai onorato il bastardo con un nome. «Vuoi entrare al Senato? O vuoi prendere il posto del prefetto Palthainon, quell'altro bel monumento alla falsità?» L'elfo si avvicinò, gli occhi fissi sulla carta e sulle cifre che il maresciallo stava scrivendo, la mano pronta ad afferrare il foglio. «È facile per voi parlare, Umano», disse in tono amaro. «Non siete nato servitore come me, senza alcuna possibilità di cambiare. "Dovresti sentirti onorato per ciò che hai ricevuto dalla vita", continuano a ripetermi. "Dopo tutto, tuo padre era un servo della Casa Reale. Tuo nonno un servitore in quella stessa casa, come anche suo nonno prima di lui. Tu sei nato nella Casa del Servitore. Se cerchi di andartene o di salire sulla scala sociale, determinerai il crollo della società elfica." Puah! «Che sia mio fratello a umiliarsi. A inchinarsi e strisciare davanti alla padrona. Che le faccia lui da servitore. Che muoia insieme a lei quando la dragonessa attaccherà e distruggerà tutto e tutti. Voglio fare qualcosa di meglio della mia vita. Appena avrò risparmiato denaro a sufficienza, me ne andrò da questo posto e mi farò strada nel mondo.» Medan firmò la breve nota, versò alcune gocce di cera fusa sotto la sua firma e premette nella cera l'anello con sigillo. «Ecco, prendi. Sono felice
di potere contribuire alla tua partenza.» L'elfo afferrò il foglio, lesse l'ammontare, sorrise e, inchinandosi, se ne andò in gran fretta. Medan buttò i resti del pane nello stagno e si alzò. Il piacere provato all'inizio della giornata era stato rovinato da quella creatura spregevole che, spinta dall'avidità, ora stava spiando la donna che serviva e che si fidava di lui. Per lo meno, pensò Medan, catturerò questo Palin Majere fuori da Qualinost. Non ci sarà bisogno di coinvolgere Laurana. Se fossi stato obbligato a prendere Majere nella casa della Regina Madre, avrei dovuto arrestare anche lei per avere dato ospitalità a un fuggitivo. Non era difficile immaginare lo scompiglio che avrebbe suscitato un simile arresto. La Regina Madre era incredibilmente popolare; la sua gente sembrava averle perdonato il fatto di avere sposato un mezzo-umano e di avere un fratello in esilio, un cosiddetto «elfo scuro», allontanato dalla luce. Il Senato avrebbe fatto un gran clamore. La popolazione, già in stato di eccitazione, si sarebbe infiammata ancor di più. C'era persino la remota possibilità che la notizia dell'arresto della madre svegliasse quello smidollato del figlio. Molto meglio così. Medan aspettava proprio un'occasione simile. Avrebbe consegnato Majere e il suo manufatto a Beryl e la questione sarebbe finita lì. Il maresciallo lasciò il giardino per andare a mettere nell'acqua la talea di lillà, perché non seccasse. XVII GILTHAS E LA LEONESSA Gilthas, il «Figlio inetto» di Laurana, riposava in quel momento la schiena contro una sedia in una stanza sotterranea di una taverna posseduta e gestita dai nani di fosso. La taverna si chiamava «Ingolla e Rutta», essendo queste, per quanto potessero constatare i nani, le uniche attività che gli umani praticavano in posti simili. L'Ingolla e Rutta si trovava in un piccolo insediamento di nani di fosso (non si poteva nobilitarlo chiamandolo «villaggio»), situato vicino alla fortezza di Pax Tharkas. La taverna era l'unico edificio presente. I nani che la gestivano vivevano in grotte nelle colline retrostanti, grotte raggiungibili
solo attraverso tunnel che correvano sotto la taverna. La comunità dei nani di fosso distava da Qualinost circa ottanta miglia a volo di grifone, e di più - molto di più - se si viaggiava lungo la strada. Gilthas ci era arrivato sul dorso di un grifone, uno la cui famiglia era al servizio della Casa Reale. La bestia aveva deposto il re e la sua guida nella foresta, e ora attendeva il loro ritorno con meno impazienza di quanto si sarebbe potuto immaginare. Kerian aveva fatto in modo di procurargli un cervo ucciso di fresco, per rendergli piacevoli le lunghe ore di attesa, e per assicurarsi che non mangiasse uno degli osti. L'Ingolla e Rutta era sorprendentemente popolare. O forse nemmeno tanto, dato che i prezzi erano i più bassi di tutta Ansalon. Con due monete di rame, si comprava di tutto. L'attività era stata intrapresa dallo stesso nano di fosso che era stato cuoco a casa del defunto Verminaard, Sommo Signore dei Draghi. Chi conosce i nani di fosso, ma non ha mai assaggiato la loro cucina, trova impossibile anche solo immaginare di mangiare qualche cosa preparato da loro. Considerato che una delle leccornie preferite dei nani di fosso è la carne di ratto, alcuni paragonano a un desiderio di morte l'idea di averli come cuochi. I nani di fosso sono i paria della società dei nani. Pur essendo dei nani, sono disconosciuti dagli altri, che vi spiegheranno diffusamente perché sono nani solo di nome. I nani di fosso sono estremamente stupidi, o così crede la maggior parte della gente. Non sanno contare oltre il due: la loro numerazione comprende l'«uno» e il «due». La più intelligente fra loro, un mito per i suoi simili, di nome Bupu, una volta ci riuscì, coniando l'espressione «un mucchio». I nani di fosso non sono famosi per il loro interesse nella matematica superiore. Lo sono per la loro vigliaccheria, il loro sudiciume, il loro amore per lo squallore e - stranamente - la loro cucina. I nani di fosso sono cuochi eccellenti, purché chi mangia stabilisca delle regole su ciò che può e non può essere servito a tavola, e si astenga dall'entrare in cucina per vedere come viene preparato il cibo. L'Ingolla e Rutta serviva un ottimo cervo arrosto, coperto di cipolle e annegato in un intingolo bruno e denso. La birra era passabile - non buona come in molti altri locali, ma dal prezzo appropriato. L'alcool dei nani dava alla taverna la sua nomea. Era davvero notevole. I nani di fosso lo distillavano in proprio da funghi coltivati nelle loro camere da letto; chi lo beveva doveva semplicemente non pensarci troppo.
La taverna era frequentata principalmente da umani che non potevano permettersi di meglio, da kender felici di trovare locandieri che non li risbattessero immediatamente in strada, e dai delinquenti, veloci nello scoprire che i Cavalieri di Neraka raramente pattugliavano le carreggiate che vi conducevano. L'Ingolla e Rutta era anche il nascondiglio e il quartier generale del guerriero noto come «la Leonessa», una donna che era, all'insaputa di tutti, regina di Qualinesti, moglie segreta del Presidente dei Soli, Gilthas. Il re degli elfi sedeva nella semioscurità della sala appartata, e cercava di calmare la sua impazienza. Gli elfi non sono mai impazienti. Gli elfi, che vivono per centinaia di anni, sanno che l'acqua bollirà, che il pane lieviterà, che la ghianda germoglierà, che la quercia crescerà, e che le attese irritate e i tentativi di affrettare le cose servono solo a scombussolare lo stomaco. Gilthas aveva ereditato l'impazienza dal padre mezzo umano e, anche se faceva del suo meglio per nasconderlo, le sue dita tamburellavano sul tavolo e il suo piede batteva sul pavimento. Kerian lo guardò, sorrise. Un'unica candela si ergeva fra loro, sul tavolo. La fiamma si rifletteva negli occhi castani di lei, splendeva di un morbido chiarore sulla pelle liscia e scura, baluginava nell'oro brunito dei folti capelli. Kerian era una Kagonesti, un elfo selvaggio, appartenente a una razza che, a differenza dei più cittadini Qualinesti e Silvanesti, vive a contatto con la natura. Poiché non cercano di modellare la natura, gli elfi selvaggi sono considerati dei barbari dai loro cugini più sofisticati, che si sono spinti fino ad assoggettare i Kagonesti, costringendoli a servire nelle ricche famiglie elfiche; il tutto per il loro bene, naturalmente. Kerian era stata schiava in casa del senatore Rashas. Era stata presente quando Gilthas vi era stato portato per la prima volta, apparentemente come ospite, in realtà come prigioniero. I due si erano innamorati all'istante, anche se erano passati mesi, persino anni, prima che parlassero dei loro sentimenti, scambiando i loro voti segreti. Solo altre due persone, Planchet e la madre di Gilthas, Laurana, sapevano del matrimonio del re con la ragazza che era stata schiava e ora era nota come «la Leonessa», intrepido comandante dei Khansari, il Popolo della Notte. Incrociando lo sguardo di Kerian, Gilthas si controllò immediatamente. Chiuse a pugno le dita tamburellanti e incrociò i piedi, calzati di stivali, per tenerli fermi. «Ecco», disse in tono mesto. «Così va meglio?» «Se non stai attento, ti ammalerai a furia ti agitarti», lo rimproverò Ke-
rian, sorridendo. «Il nano verrà. Ha dato la sua parola.» «Così tanto dipende da questo», riprese Gilthas. Tese le gambe per alleviare i crampi dovuti al movimento fatto di recente, per lui insolito. «Forse la nostra stessa sopravvivenza come...» S'interruppe, fissò il pavimento. «Hai sentito?» «La vibrazione? Sì. La sento da due ore. Probabilmente, sono solo i nani che costruiscono i loro tunnel. Amano scavare nel terriccio. Quanto a quello che stavi dicendo, la nostra distruzione finale non è in "forse",» ribatté animatamente Kerian. La sua voce, con quell'accento che gli elfi civilizzati consideravano rozzo, somigliava al canto del passero, un canto di una dolcezza pungente con una nota di malinconia. «I Qualinesti hanno dato alla dragonessa tutto quello che ha chiesto. Hanno sacrificato la loro libertà, il loro orgoglio, il loro onore. Persino i loro beni, e tutto in cambio del permesso di vivere. Ma arriverà il momento in cui Beryl farà una richiesta che la vostra gente troverà impossibile soddisfare. Quel giorno, ostacolata nella sua volontà, distruggerà i Qualinesti.» «A volte, mi chiedo perché te la prendi tanto a cuore» osservò Gilthas, fissando gravemente la moglie. «I Qualinesti ti hanno fatto schiava, ti hanno strappato dalla tua famiglia. Hai tutto il diritto di vendicarti. Hai tutto il diritto di fuggire nella foresta e abbandonare chi ti ha fatto del male al destino che merita pienamente. Eppure, non lo fai. Rischi quotidianamente la vita, lottando per costringere la nostra gente a guardare la verità, per quanto brutta, e ad ascoltarla, per quanto sgradevole.» «Questo è il problema», obiettò lei. «Dobbiamo smetterla di pensare alla gente degli elfi come "tua" e "mia". Divisioni ed emarginazioni ci hanno portati a questa situazione, e danno forza ai nostri nemici.» «Non vedo mutamenti all'orizzonte», lamentò Gilthas, cupo. «A meno che qualche grande calamità non ci costringa a cambiare, e potrebbe non bastare. La Guerra del Caos, che avrebbe potuto riunirci, è riuscita solo a frammentare ancor più la nostra gente. Non passa giorno senza che qualche senatore pronunci un discorso su come i nostri cugini Silvanesti ci abbiano escluso dal loro porto sicuro sotto lo scudo, su come vogliano farci morire tutti per conquistare le nostre terre. Oppure qualcuno attacca una diatriba contro i Kagonesti, su come i loro modi barbari distruggeranno tutto quello che abbiamo impiegato secoli a costruire. Ci sono quelli che approvano il fatto che la dragonessa abbia chiuso le strade; meglio non a-
vere contatti con gli umani, dicono. E i Cavalieri di Neraka li incoraggiano, naturalmente. Amano queste farneticazioni; rendono molto più facile il loro compito.» «Dalle voci che mi arrivano, i Silvanesti potrebbero scoprire che il loro celebrato scudo magico è in realtà una tomba.» Gilthas sembrò sbigottito, si mise a sedere diritto. «Dove l'hai sentito? Non mi hai detto niente.» «Non ti vedo da un mese», replicò Kerian, con un pizzico di amarezza. «L'ho sentito solo qualche giorno fa, dal messo Kelevandros che tua madre invia regolarmente per tenersi in contatto con tua zia Alhana Starbreeze. Alhana e le sue forze si sono insediate sul confine di Silvanesti, vicino allo scudo. Sono alleate con gli umani che appartengono alla Legione d'Acciaio. Alhana riferisce che la terra intorno allo scudo è brulla e desolata; gli alberi si ammalano e muoiono. Un'orribile polvere grigia si deposita su tutto. Teme che la medesima malattia stia contagiando tutta Silvanesti.» «Allora perché i nostri cugini mantengono lo scudo?» chiese Gilthas. «Hanno paura del mondo esterno. Sfortunatamente, in certi casi hanno ragione. Alhana e le sue forze hanno combattuto una battaglia campale contro gli orchi solo poco tempo fa, la notte di quella terribile tempesta. La Legione d'Acciaio è venuta in loro aiuto, o sarebbero stati annientati. Il figlio di Alhana, Silvanoshei, è stato catturato dagli orchi, o così lei crede. Alla fine della battaglia, non è riuscita a trovarne traccia, e ora lo piange come morto.» «Mia madre non mi ha detto niente di tutto questo», affermò Gilthas, con un cipiglio. «Secondo Kelevandros, Laurana teme l'aumentata sorveglianza del maresciallo Medan. Si fida solo di quelli della sua Casa; dubita di tutti quelli che ne stanno al di fuori. È certa che, quando siete insieme, voi due siete sputi. Non vuole far scoprire ai Cavalieri Scuri che è in costante contatto con Alhana.» «Mia madre ha probabilmente ragione», ammise Gilthas. «Il mio servo Planchet è l'unica persona di cui mi fidi, e lo faccio solo perché mi ha dimostrato ripetutamente la sua lealtà. E così Silvanoshei è morto, ucciso dagli orchi. Povero giovane. La sua morte dev'essere stata crudele; speriamo che sia sopravvenuta in fretta.» «L'hai mai incontrato?» Gilthas scosse la testa. «È nato nella taverna dell'Ultima Casa, a Solace, durante l'esilio di Alhana. Dopo di che, non l'ho più visto. Mia madre mi
ha detto che il ragazzo somigliava a mio zio Porthios.» «La sua morte ti lascia erede di entrambi i regni», osservò Kerian. «Presidente dei Soli e delle Stelle.» «È quello che aveva sempre voluto il senatore Rashas», replicò sarcasticamente Gilthas. «In realtà, sembra che non sarò niente di più che il Presidente dei Morti.» «Non pronunciare parole di cattivo augurio!» esclamò Kerian, e con la mano fece il segno contro il male, tracciando un cerchio nell'aria per intrappolare le parole. «Tu... Sì, cosa c'è, Silverwing?» Si girò per parlare con un elfo che era entrato nella stanza segreta. L'elfo cominciò a dire qualcosa, ma fu interrotto da un nano di fosso che, a giudicare dall'odore, sembrava in uno stato di estrema eccitazione. «Io dico!» gridò indignato il nano, scostando l'elfo a spintoni. «Io fatto guardia! Lei ordinato!» indicò Kerian col dito. «Vostra Maestà.» L'elfo fece un inchino frettoloso a Gilthas, prima di rivolgersi a Kerian, il suo comandante, con le informazioni. «Il sommo re di Thorbardin è arrivato.» «Lui qui», annunciò a gran voce il nano di fosso. Pur non parlando l'Elfico, poteva intuire cosa veniva detto. «Io porto dentro?» «Grazie, Ponce.» Kerian si alzò in piedi, si sistemò la spada che portava alla cintola. «Verrò io a incontrarlo. Sarebbe meglio se voi rimaneste qui, Vostra Maestà», aggiunse. Il loro matrimonio era un segreto, anche per gli elfi al comando di Kerian. «Nano molto elegante. Lui porta cappello!» Ponce era impressionato. «Lui porta scarpe!» Il nano di fosso era doppiamente impressionato. «Io mai visto nano portare scarpe.» «Il sommo re ha portato con sé quattro guardie» l'elfo informò Kerian. «Come avete ordinato, abbiamo spiato i loro movimenti da quando hanno lasciato Thorbardin.» «Per la loro sicurezza, oltre che per la nostra, Vostra Maestà», Kerian si affrettò a spiegare, vedendo incupirsi l'espressione di Gilthas. «Non hanno incontrato nessuno», continuò l'elfo, «e non sono stati seguiti...» «Tranne che da noi», corresse beffardamente Gilthas. «La prudenza non è mai troppa, Vostra Maestà», disse Kerian. «Tarn Bellowgranite è il nuovo sommo re dei clan di Thorbardin. Il suo governo è saldo fra la sua gente, ma i nani, come noi elfi, hanno traditori in mezzo a loro.»
Gilthas sospirò profondamente. «Vorrei vedere il giorno in cui non sarà più così. Oso sperare che i nani non si siano accorti che li stavamo tallonando...» «Hanno visto la luce delle stelle, Vostra Maestà», rispose orgogliosamente l'elfo. «Hanno sentito il vento fra gli alberi. Quanto a noi, non ci hanno né visto né sentito.» «Lui dice che piace nostro alcool», osservò Ponce con aria d'importanza, il volto lucido, anche se questo, forse, era dovuto al fatto che era impiastricciato del grasso usato per ungere un'oca. «Lui dice che è buono. Vuoi provare?» chiese a Gilthas. «Bello forte.» Kerian e l'elfo si allontanarono, portando con sé il nano di fosso. Gilthas rimase seduto a guardare la fiamma della candela tremolare con lo spostamento d'aria. Sotto i suoi piedi venne quella strana scossa nel terreno, come se l'intero mondo tremasse. Tutt'intorno a lui era il buio. La fiamma era l'unica luce, e poteva essere spenta da un soffio. Tante cose potevano andare storte. In quel momento, il maresciallo Medan sarebbe potuto entrare nella sua stanza, togliendo i cuscini dal letto, arrestando Planchet, e chiedendo dove si trovasse il re. D'un tratto, Gilthas si sentì stanchissimo. Era stanco di quella doppia vita, stanco delle bugie e degli inganni, stanco del fatto che recitava di continuo. Era sempre sul palco, mai senza un momento per riposare dietro le quinte. Non riusciva nemmeno a dormire bene la notte, per paura di dire, nel sonno, qualcosa che avrebbe causato la sua rovina. Non che sarebbe stato lui a soffrire. Il prefetto Palthainon e il maresciallo Medan l'avrebbero evitato. Avevano bisogno del re Gilthas, pronto a farsi tirare dai loro fili. Se avessero scoperto che li aveva tagliati, li avrebbero semplicemente riattaccati. Sarebbe rimasto sul trono. Sarebbe rimasto in vita. Planchet sarebbe morto, torturato finché non avesse rivelato tutto ciò che sapeva. Laurana, forse, non sarebbe stata giustiziata, ma sarebbe stata certamente esiliata, giudicata un elfo scuro come suo fratello. Kerian avrebbe potuto essere catturata, e Medan aveva parlato pubblicamente della morte orribile che la Leonessa avrebbe subito se fosse caduta nelle sue mani. Gilthas non avrebbe sofferto personalmente, ma sarebbe stato costretto a veder soffrire coloro che più amava al mondo, sapendo di non poter far nulla per aiutarli. Quello sarebbe stato, forse, il tormento più grande possibile. Dal buio emersero i suoi vecchi compagni: la paura, l'incertezza, l'odio e
il disgusto verso se stesso. Li sentì poggiare le fredde mani su di lui, penetrargli dentro, torcergli le budella e spremere il sudore gelido dal suo corpo tremante. Sentì le loro voci lamentose urlargli presagi di sventura, gridare profezie di distruzione e di morte. Non era all'altezza di quel compito. Non osava continuare quella missione temeraria. Stava mettendo in pericolo il suo popolo. Era certo che fossero stati scoperti. Medan sapeva tutto. Forse se fosse tornato subito, avrebbe potuto sistemare le cose. Si sarebbe infilato nel letto, e non avrebbero mai saputo che se n'era andato. «Gilthas», chiamò una voce severa. Gilthas trasalì. Guardò stravolto un viso che non conosceva più. «Marito mio», disse gentilmente Kerian. Gilthas chiuse gli occhi, un brivido lo attraversò. Lentamente, aprì le mani che aveva stretto a pugno. Si costrinse a rilassarsi, a smettere di tremare, a scacciare la tensione dal corpo. Il buio che l'aveva momentaneamente accecato si ritirò. La fiamma di Kerian splendeva forte e costante. Tirò un respiro profondo. «Sto bene, adesso», asserì. «Ne sei sicuro?» chiese Kerian. «Il re attende nella stanza accanto. Devo farlo aspettare?» «No, l'attacco è passato», affermò Gilthas, inghiottendo per liberare la bocca del sapore della bile. «Tu hai scacciato i demoni. Dammi un momento per rendermi presentabile. Che aspetto ho?» «Quello di chi ha visto uno spettro», rispose Kerian. «Ma il nano non noterà niente di strano. Per i nani, tutti gli elfi sono pallidi.» Gilthas afferrò la moglie, la tenne stretta. «Lasciami!» protestò lei, mezzo ridendo, mezzo sul serio. «Non abbiamo tempo per queste cose, adesso. E se qualcuno ci vedesse?» «Pazienza», ribatté lui, abbandonando la cautela. «Sono stanco di mentire al mondo. Tu sei la mia forza, la mia salvezza. Hai salvato la mia vita, il mio equilibrio. Quando ripenso a com'ero, prigioniero dei miei demoni, mi stupisco che tu abbia potuto amarmi.» «Ho guardato oltre le sbarre della cella e ho visto l'uomo chiuso dentro», spiegò Kerian, rilassandosi fra le braccia del marito, fosse pure solo per un attimo. «Ho visto il suo amore per il suo popolo. Ho visto come soffriva perché esso soffriva, e si sentiva impotente a impedire il suo dolore. La chiave è stata l'amore. Ho dovuto solo metterla nella porta e girarla nella serratura. Tu hai fatto tutto il resto.» Scivolò fuori dal suo abbraccio e tornò a essere la regina guerriera. «Sei
pronto? Non dovremmo tardare oltre.» «Sono pronto», confermò Gilthas. Tirò un altro respiro profondo, scosse i capelli e, con portamento eretto, entrò nella stanza accanto. «Sua Maestà, il Presidente dei Soli, Gilthas della Casa di Solostaran» annunciò formalmente Kerian. Il re, che si godeva la sua dose di alcool, posò il boccale sul tavolo e abbassò la testa in segno di rispetto. Era alto per essere un nano e sembrava molto più vecchio della sua età, perché aveva la barba brizzolata e i capelli prematuramente ingrigiti. Gli occhi erano limpidi, lucenti e giovanili. Lo sguardo, acuto e penetrante, era fisso su Gilthas; sembrava voler trapassargli lo sterno, per vedergli dritto nel cuore. «Ha sentito voci su di me», si disse Gilthas. «Si sta chiedendo che cosa credere. Sono uno straccetto per piatti che tutti possono strizzare a loro piacimento? Oppure sono veramente il sovrano del mio popolo, come lui lo è del suo?» «Il Sommo Re degli Otto Clan», annunciò Kerian, «Tarn Bellowgranite.» Il nano era lui stesso un mezzosangue. Come Gilthas, che aveva sangue umano nelle vene, Tarn era il prodotto di un legame fra un nano degli Hylar - i nobili della società dei nani - e uno dei Daergar, i nani scuri. Dopo la Guerra del Caos, i nani di Thorbardin avevano lavorato con gli umani per ricostruire la fortezza di Pax Tharkas. Sembrava che essi potessero ricominciare a interagire con le altre razze, compresi i loro fratelli, i nani delle colline che, a causa di una contesa risalente al Cataclisma, erano a lungo stati esclusi dal grande regno dei nani sotto la montagna. Ma, con la venuta dei grandi draghi e la morte e la distruzione da essi portati, i nani erano tornati sottoterra. Avevano risigillato le porte di Thorbardin, e il mondo aveva perso i contatti con loro. I Daergar avevano sfruttato l'agitazione per cercare di acquisire il controllo di Thorbardin, precipitando la nazione in una sanguinosa guerra civile. Tarn Bellowgranite era un eroe della guerra e, quando venne il momento di raccogliere i pezzi, i signorotti cercarono la sua guida. Quando era salito al potere, aveva trovato un popolo diviso, un regno sull'orlo della rovina. Aveva posto quel regno su una solida base; aveva unito i clan rivali sotto il suo comando. Ora stava contemplando di fare un altro passo che sarebbe stato qualcosa di completamente nuovo negli annali dei nani di Thorbardin. Gilthas fece un passo avanti e s'inchinò, con rispetto sincero. «Sommo
re», disse, parlando impeccabilmente la Lingua dei Nani, che aveva imparato dal padre. «Sono onorato di incontrarvi, infine. So che non amate lasciare la vostra casa sotto la montagna. Il vostro viaggio è stato lungo e pericoloso, come tutti quelli compiuti nel mondo in questi tempi bui. Vi ringrazio di averlo fatto, di essere venuto qui a incontrarmi in questo giorno a concludere e suggellare formalmente il nostro accordo.» Il sommo re annuì, tirandosi la barba, segno che le parole gli facevano piacere. Il fatto che l'elfo parlasse la Lingua dei Nani l'aveva già impressionato. Gilthas aveva visto giusto: Tarn aveva sentito storie sulla natura debole e indecisa del re degli elfi. Ma, nel corso degli anni, aveva imparato che non era mai saggio giudicare un uomo finché, come dicevano i nani, non si era visto il colore della sua barba. «Il viaggio è stato piacevole. È bello respirare l'aria "di sopra", una volta tanto», replicò Tarn. «E ora, pensiamo agli affari.» Guardò Gilthas con aria sagace. «So che voi elfi amate girare intorno alle cose; ma penso che possiamo fare a meno delle finezze.» «Io ho una parte umana», ammise Gilthas, con un sorriso. «Quella impaziente, o così mi dicono. Devo essere di ritorno a Qualinost prima dell'alba di domani. Perciò, cominciamo pure. La questione è in discussione da un mese. Conosciamo le reciproche posizioni, o almeno credo. Nulla è cambiato?» «Nulla è cambiato, da parte nostra», spiegò Tas. «E da parte vostra?» «Nemmeno. Allora siamo d'accordo.» Gilthas abbandonò il tono formale. «Avete rifiutato di accettare qualsiasi pagamento, signore. Non lo permetterei, ma so che non c'è abbastanza ricchezza in tutta Qualinesti per ricompensare voi e il vostro popolo per quanto state facendo. So che rischi correte. So che questo accordo ha causato controversie fra la vostra gente. Immagino che abbia persino minacciato la vostra autorità. E in cambio non posso darvi che i nostri ringraziamenti, i nostri ringraziamenti eterni e imperituri.» «No, giovanotto.» Tarn arrossì per l'imbarazzo: ai nani non piace essere elogiati. «Ciò che faccio arrecherà del bene al mio popolo oltre che al vostro. Non tutti se ne rendono conto a questo punto, ma capiranno. Troppo a lungo siamo vissuti nascosti sotto la montagna, isolati dal mondo. Quando a Thorbardin è scoppiata la guerra civile, mi è venuta l'idea che noi nani avremmo anche potuto sterminarci a vicenda, e chi l'avrebbe mai saputo? Chi avrebbe pianto per noi? Nessuno, a questo mondo. Le caverne di Thorbardin potrebbero cadere nel silenzio della morte, il buio potrebbe so-
praffarci, e non ci sarebbe nessuno a dire una parola per riempire quel silenzio, nessuno ad accendere una lampada. Le ombre si chiuderebbero su di noi, e saremmo dimenticati. «Ho deciso che non l'avrei lasciato succedere. Noi nani saremmo ritornati nel mondo. Il mondo sarebbe entrato a Thorbardin. Naturalmente», osservò Tarn con una strizzatina d'occhio e una sorsata di alcool, «non potrei imporre un tale cambiamento ai miei sudditi da un giorno all'altro. Mi ci sono voluti lunghi anni per indurli a darmi ragione, e molti sono ancora lì a scrollare la barba e a pestare i piedi. Ma stiamo facendo la cosa giusta; ne sono convinto. Abbiamo già iniziato il lavoro sui tunnel», aggiunse, con compiacimento. «Davvero? Prima che fossero firmati i documenti?» chiese Gilthas, stupefatto. Tarn bevve un lungo sorso, ruttò soddisfatto, e fece un largo sorriso. «Bah! Che cosa sono i documenti? Che cosa sono le firme? Datemi la mano, Re Gilthas. Così suggelleremo il nostro patto.» «Vi do la mia mano, Re Tarn, e sono onorato di farlo», rispose Gilthas, profondamente toccato. «C'è qualche punto su cui posso rassicurarvi? Avete domande da farmi?» «Solo una, giovanotto», affermò Tarn, posando il boccale e asciugandosi il mento con la manica. «Alcuni dei signorotti, e soprattutto i Neidar - gente sospettosa, a parer mio - hanno detto ripetutamente che, se permettiamo agli elfi di entrare a Thorbardin, essi ci aggrediranno, prenderanno il nostro regno e ne faranno la loro casa. Voi e io sappiamo che non succederà», precisò Tarn, alzando la mano per prevenire la rapida protesta di Gilthas, «ma cosa direste al mio popolo per convincerlo dell'impossibilità di questa tragedia?» «Chiederei ai signorotti del Neidar» spiegò Gilthas, sorridendo, «se costruirebbero le loro case sugli alberi. Quale sarebbe la loro risposta, secondo voi, signore?» «Ah, ah! Piuttosto si impiccherebbero per la barba!» ridacchiò Tarn. «Allora, per lo stesso criterio, noi elfi preferiremmo impiccarci per le orecchie, piuttosto che vivere in un buco nel terreno. Senza offesa per Thorbardin», specificò Gilthas, gentilmente. «Nessuna offesa, giovanotto. Riferirò ai Neidar le vostre parole esatte. Così abbasseranno la cresta!» Tarn continuò a ridacchiare. «Per parlare più chiaramente, giuro sul mio onore e sulla mia vita che i Qualinesti useranno i tunnel al solo scopo di sottrarre coloro che si trovano
in pericolo all'ira della dragonessa. Abbiamo preso accordi con il popolo delle Pianure perché ospiti i rifugiati finché non potremo riaccoglierli in patria.» «Possa quel giorno sorgere in fretta», disse gravemente Tarn, senza più ridere. Guardò attentamente Gilthas. «Vi chiederei perché non mandate i rifugiati nella terra dei vostri cugini, il regno di Silvanesti, ma sento che è chiuso e sbarrato. Gli elfi vi hanno posto intorno qualche specie di fortezza magica.» «Le forze di Alhana Starbreeze continuano a cercare il modo di penetrare lo scudo», rivelò Gilthas. «Dobbiamo sperare che alla fine lo troveranno, non solo per il nostro bene, ma anche per quello dei nostri cugini. Quanto credete ci vorrà a creare un tunnel che raggiunga Qualinost?» «Due settimane, non di più», replicò Tarn, sicuro. «Due settimane, signore! Per scavare un tunnel lungo più di sessantacinque miglia nella roccia massiccia! So che i nani sono tagliapietre provetti», ammise Gilthas, «ma devo confessare che la cosa mi sbalordisce.» «Come ho detto, abbiamo già cominciato a lavorare. E abbiamo degli aiutanti» osservò Tarn. «Avete mai sentito parlare degli Urkhan? No? Non mi sorprende. Nel mondo esterno, pochi ne sanno qualcosa. Gli Urkhan sono vermi giganti che mangiano la roccia. Noi li imbrigliamo, e loro rosicchiano il granito come se fosse pane appena sfornato. Chi pensate abbia costruito le migliaia di miglia di tunnel di Thorbardin?» Tarn fece un sorrisone. «Gli Urkhan, naturalmente. I vermi fanno tutto il lavoro, e noi nani ci prendiamo tutto il merito!» Gilthas espresse la sua ammirazione per quelle creature straordinarie, e ascoltò educatamente un'esposizione delle loro abitudini, della loro natura docile, e di cosa accadeva alla roccia una volta digerita dal loro organismo. «Ma ora basta. Vorreste vederli in azione?» chiese Tarn, d'un tratto. «Mi piacerebbe, signore», rispose Gilthas, «ma forse un'altra volta. Come ho detto prima, devo tornare a Qualinost con la luce del mattino...» «Ce la farete, giovanotto, ce la farete» affermò il nano, con un sorriso enorme. «Attento.» Batté lo stivale due volte sul pavimento. Un attimo di pausa, e poi due colpi risuonarono forti dal terreno. Gilthas guardò Kerian, che sembrava arrabbiata e allarmata. Arrabbiata perché non aveva pensato di indagare sugli strani brontolii; allarmata perché, se quella era una trappola, ci erano appena cascati bellamente. Tarn rise fragorosamente del loro imbarazzo. «Gli Urkhan!» esclamò a mo' di spiegazione. «Sono proprio sotto di
noi!» «Qui? Davvero?» ansimò Gilthas. «Sono arrivati così lontano? So di aver sentito il terreno tremare...» Tarn annuiva, scrollando la barba. «Volete venire di sotto?» Gilthas guardò sua moglie. «In tutto il resto di Qualinesti io sono il re, ma qui il capo è la Leonessa», osservò, sorridendo. «Che cosa ne dite, signora? Andiamo a vedere questi vermi meravigliosi?» Kerian non fece obiezioni, anche se questa imprevista svolta degli eventi la rendeva diffidente. Apertamente, non disse nulla che potesse offendere i nani, ma Gilthas notò che ogni volta che incontrava uno dei suoi elfi selvaggi, gli lanciava un segnale con uno sguardo, un cenno della testa, o un lieve gesto della mano. Gli elfi scomparivano, ma Gilthas sapeva che non erano andati lontano: aspettavano, all'erta, la mano sulle armi. Lasciarono l'Ingolla e Rutta. Alcune delle guardie di Tarn partirono con evidente dispiacere, asciugandosi le labbra ed emettendo sospiri carichi dell'odore pungente dell'alcool dei nani. Tarn non percorse sentieri, ma si aprì la strada a spintoni attraverso la boscaglia, spingendo da parte tutto ciò che gli ostacolava il cammino. Gilthas, girandosi, vide che i nani aprivano una larga pista nel bosco, una pista di rami rotti, viticci pendenti, ed erba schiacciata. Kerian diede uno sguardo a Gilthas, roteando gli occhi. Lui sapeva esattamente che cosa pensava. Non c'era da preoccuparsi che l'eco delle mosse dei suoi elfi giungesse alle orecchie dei nani; con tutti i loro trapestii e calpestii, questi avrebbero avuto difficoltà a sentire persino un rombo di tuono. Tarn rallentò l'andatura; sembrava che cercasse qualcosa. Parlò nella Lingua dei Nani ai suoi compagni, che pure cominciarono a esplorare. «Cerca l'ingresso del tunnel», sussurrò Gilthas a Kerian. «Dice che la sua gente doveva averne lasciato uno qui, ma non riesce a trovarlo.» «E non ci riuscirà», ribatté Kerian, cupa. Era ancora irritata per essere stata raggirata dai nani. «Conosco questa terra, a palmo a palmo. Se ci fosse stata qualche specie di...» S'interruppe, sgranò gli occhi. «L'ingresso del tunnel», terminò Gilthas, stuzzicandola. «Tu l'avresti scoperto?» Erano arrivati a un grosso spuntone di granito, che si elevava dal suolo della foresta per circa trenta piedi. La roccia era percorsa da striature oblique; fra uno strato e l'altro di essa crescevano alberelli, chiazze d'erba e piante selvatiche. Parecchi massi, staccatisi dallo spuntone, giacevano ora
ai suoi piedi. I massi erano enormi: alcuni arrivavano alla cintola di Gilthas, molti erano più grandi dei nani. Gilthas osservò stupefatto quando Tarn ne raggiunse uno, vi mise la mano sopra e gli diede una spinta. Il masso si scostò come se fosse stato cavo. Come, in effetti, era. Cadendo, il masso rivelò una vasta apertura nello spuntone di granito. «Da questa parte!» gridò Tarn, sventolando la mano. Gilthas guardò Kerian, che scosse la testa con un sorriso ironico, e si fermò a studiare il masso, l'interno del quale era stato scavato come un melone a una festa. «Sono stati i vermi a fare questo?» domandò sbalordita. «Gli Urkhan», confermò orgogliosamente Tarn, agitando la mano. «Quelli piccoli», aggiunse. «Loro rosicchiano. I più grandi avrebbero inghiottito il masso tutt'intero. Non sono molto intelligenti, temo. E hanno sempre molta fame.» «Vedila così, mia cara», disse Gilthas a Kerian mentre passavano dalla notte illuminata dalla luna alla frescura della caverna costruita dai nani. «Se i nani sono riusciti a nascondere l'ingresso del tunnel a te e alla tua gente, non avranno alcuna difficoltà a nasconderlo ai maledetti Cavalieri.» «Vero», ammise Kerian. Dentro la caverna, Tarn pestò il piede due volte su quello che sembrava solo un pavimento di terriccio. Due colpi gli risposero da sotto. Crepe si formarono nel terriccio e si aprì una botola, abilmente nascosta. Emerse la testa di un nano, insieme a un fascio di luce. «Visitatori» annunciò Tarn nella sua lingua. Il nano annuì, e la testa scomparve. Sentivano i suoi spessi stivali battere sui pioli di una scala. «Vostra Maestà», invitò Tarn, con un gesto di cortesia. Gilthas andò immediatamente. Esitare avrebbe significato che non si fidava del sommo re, e Gilthas non aveva alcuna intenzione di alienarsi il nuovo alleato. Si calò agilmente per la scala robusta, discendendo di circa quindici piedi e giungendo infine su una superficie liscia. Il tunnel era ben illuminato da quelle che, di primo acchito, Gilthas credette lanterne. Strane lanterne, però, pensò avvicinandosi a una. Non emanavano calore. Guardò meglio e vide, con immenso stupore, che la luce veniva non da olio ardente ma dal corpo di quella che sembrava una grossa larva d'insetto. La larva giaceva appallottolata in una gabbia di ferro appesa a un gancio sulla parete del tunnel. C'era una gabbia ogni pochi piedi, e il chiarore
emesso dalle larve dormienti illuminava l'ambiente come se fosse giorno. «Persino i piccoli degli Urkhan lavorano per noi», osservò Tarn, arrivando in fondo alla scala. «Le larve risplendono così per un mese, e poi si oscurano. A quel punto, comunque, sono troppo grosse per entrare nelle gabbie, così le sostituiamo. Fortunatamente, c'è sempre una nuova messe di Urkhan da raccogliere. Ma dovete vederli. Da questa parte. Da questa parte.» Fece loro strada. Girando una curva, si trovarono di fronte a una vista stupefacente. Una creatura enorme, ondeggiante, coperta di bava, di color rosso-bruno, occupava circa metà del tunnel. Sovrintendenti camminavano al suo fianco, guidandola tramite redini attaccate a cinghie avvolte intorno al suo corpo, e colpendola con le mani o con bastoni se questo cominciava a deviare dalla sua rotta o magari, a rotolare, schiacciando qualcuno di loro. Metà tunnel era già stato scavato da un verme precedente, spiegò Tarn; quest'altro lo seguiva, ampliando il lavoro. Il verme gigantesco si muoveva a velocità incredibile. Gilthas e Kerian si stupirono delle sue dimensioni. Era spesso quanto era alto Gilthas e, secondo Tarn, la bestia era lunga trenta piedi. Pile di roccia masticata e semidigerita sporcavano il pavimento alle sue spalle. Nani venivano a sgombrare le macerie, stando attenti a non lasciarsi sfuggire pepite d'oro e gemme grezze. Gilthas percorse tutta la lunghezza del verme, arrivando infine alla testa. Era priva di occhi; passando la vita a scavare sottoterra, la creatura non ne aveva bisogno. Dalla testa sporgevano due corna, su cui erano posti finimenti di cuoio. A partire da questi, delle redini si estendevano fino a un nano seduto in un grosso cesto legato al corpo del verme. Dal cesto, il nano guidava la bestia, tirando la testa nella direzione voluta. Il verme sembrava non accorgersi nemmeno della sua presenza; il suo unico pensiero era mangiare. Vomitava del liquido sulla roccia massiccia che gli stava davanti, liquido che doveva essere una specie di acido, perché sibilava quando colpiva la pietra, che subito cominciava a ribollire e a sfrigolare. Diversi grossi pezzi di roccia si staccarono; il verme aprì la bocca, ne afferrò uno e lo inghiottì. «Veramente impressionante!» commentò Gilthas, con tale sincerità che il sommo re provò immenso piacere, e gli altri nani sembrarono soddisfatti. C'era un unico problema. Mentre il verme masticava la roccia, il suo corpo ondeggiava, facendo vibrare il terreno. Essendovi abituati, i nani
non facevano caso al movimento, ma camminavano con l'agilità di marinai su un ponte dondolante. Gilthas e Kerian avevano un po' più di difficoltà, e inciampavano l'uno nell'altro o cadevano contro il muro. «I Cavalieri Scuri se ne accorgeranno!» osservò Kerian, a voce alta per sovrastare lo sgretolio della roccia e le urla e le imprecazioni dei sovrintendenti. «Quando Medan vedrà il suo letto rimbalzare dall'altra parte della stanza e sentirà le grida venire da sotto il pavimento, si insospettirà.» «Tarn, questi tremiti e brontolii», riprese Gilthas, parlando direttamente nell'orecchio del nano, «non si può fare niente per eliminarli? I Cavalieri Scuri li sentiranno sicuramente.» Tarn scosse la testa. «Impossibile!» esclamò. «Guardatela così, giovanotto. I vermi sono molto più silenziosi di una squadra di nani che lavora con martello e piccone.» Gilthas sembrava dubbioso. Tarn li chiamò con un cenno, e ripercorsero il tunnel a ritroso, lasciandosi alle spalle i vermi e il peggio del frastuono. Risalendo la scala, emersero in una notte che era molto meno scura di quando erano discesi sottoterra. Stava arrivando l'alba; Gilthas sarebbe dovuto partire presto. «La mia idea era di non scavare sotto Qualinost», spiegò Tarn, mentre tornavano all'Ingolla e Rutta. «Adesso, siamo a circa quaranta miglia dalla capitale; porteremo i tunnel fino a cinque miglia dai confini della città. Così, saremo abbastanza lontani perché i Cavalieri di Neraka non abbiano idea di cosa stiamo facendo; inoltre, sarà meno probabile che scoprano gli ingressi.» «E se li scoprissero?» obiettò Gilthas. «Potrebbero usare i tunnel per invadere Thorbardin.» «Li faremmo crollare prima», rispose Tarn, senza mezzi termini. «Franerebbero su di loro e, probabilmente, anche su qualcuno di noi.» «Comprendo sempre meglio i rischi che correte per noi», disse Gilthas. «Non c'è modo di ringraziarvi.» Tarn Bellowgranite respinse i complimenti con un gesto della mano; sembrava imbarazzato e a disagio. Gilthas pensò bene di cambiare argomento. «Quanti tunnel ci saranno in tutto, signore?» «Col tempo, possiamo costruirne tre buoni», replicò il nano. «Per adesso, abbiamo questo. Presto, potrete cominciare a evacuare parte dei vostri abitanti. Non molti insieme, però, perché le pareti non sono ancora completamente puntellate. Quanto agli altri due tunnel, ci serviranno almeno
due mesi.» «Speriamo di averceli», mormorò Gilthas. «A Qualinost, ci sono persone che sono entrate in contrasto con i Cavalieri di Neraka. La punizione dei Cavalieri per chi infrange la legge è rapida e crudele. La minima violazione di una delle loro tante norme può portare alla reclusione o alla morte. Ma con questo tunnel, potremo salvare alcuni che altrimenti sarebbero periti. «Ditemi, sommo re», chiese (conosceva già la risposta, ma aveva bisogno di sentirla con le sue orecchie), «sarebbe possibile evacuare l'intera città di Qualinost attraverso il tunnel esistente?» «Sì, credo proprio di sì», confermò il nano, «ma ci vorranno due settimane.» Due settimane. Se la dragonessa e i Cavalieri di Neraka avessero attaccato, avrebbero avuto al massimo delle ore per evacuare la popolazione; in capo a due settimane, non sarebbe rimasto nessuno da evacuare. Gilthas sospirò profondamente. Kerian gli si avvicinò, gli mise una mano sul braccio. Le sue dita erano fresche e forti, e il loro tocco lo rassicurò. Gli era stato concesso più di quanto avesse mai sperato. Non era un bambino che, quando gli viene data la luna, piange per avere le stelle. Lanciò a Kerian uno sguardo significativo. «Dovremo stare buoni e non contrastare la dragonessa per almeno un mese.» «I miei guerrieri non si butteranno a pancia all'aria, fingendosi morti», ribatté bruscamente Kerian, «se è questo che hai in mente. Inoltre, se cessassimo all'improvviso tutti i nostri attacchi, i Cavalieri sospetterebbero che tramiamo qualcosa, e comincerebbero a indagare. Con qualche azione, li terremo distratti.» «Un mese», pregò Gilthas fra sé, rivolgendosi a qualunque entità fosse là fuori, se mai ce n'era una. «Dammi solo un mese. Da' un mese al mio popolo.» XVIII LA LUCE NELL'OSCURITÀ Giunse il mattino ad Ansalon, troppo velocemente per alcuni, troppo lentamente per altri. Il sole era un sottile taglio rosso nel cielo, come se qualcuno avesse passato un coltello sulla gola dell'oscurità. Gilthas scivolò
in tutta fretta nel giardino ombroso che circondava il suo palazzo-prigione, pronto per calarsi nuovamente nel pericoloso ruolo che doveva continuare a recitare. Planchet, appostato sul balcone, stava guardandosi ansiosamente intorno alla ricerca del giovane sovrano, quando un colpo alla porta annunciò l'arrivo del prefetto Palthainon, giunto per dare la solita tirata alle corde del suo burattino. Quel giorno, Planchet non avrebbe potuto addurre a pretesto l'indisposizione di sua Maestà, come aveva fatto l'ultima volta. Palthainon, mattutino come sempre, era giunto per angariare il re, per esercitare il suo potere sul giovane uomo, per mostrare al resto della corte la sua abilità di burattinaio. «Un momento soltanto, prefetto!» gridò Planchet. «Sua Maestà è impegnato sul vaso da notte.» L'elfo intravide dei movimenti in giardino. «Maestà!» sibilò, non osando alzare troppo la voce. «Sbrigatevi!» Gilthas era sotto la terrazza. Planchet calò la fune. Il re l'afferrò e si arrampicò agilmente, una mano dopo l'altra. I colpi alla porta ripresero, più forti e impazienti di prima. «Insisto per vedere sua Maestà!» richiese Palthainon. Gilthas scavalcò la balaustra. Si tuffò nel letto, infilandosi sotto le lenzuola completamente vestito. Planchet gli tirò le coperte fino alla testa e andò a socchiudere la porta tenendo un dito sulle labbra. «Sua Maestà è stato male tutta notte. Questa mattina non riesce a tenere giù nemmeno un pezzetto di pane secco», sussurrò. «L'ho dovuto aiutare a tornare a letto.» Il prefetto sbirciò oltre la spalla di Planchet. Vide il re sollevare la testa e guardarlo con occhi cisposi. «Sono spiacente che sua Maestà stia male», commentò il prefetto, aggrottando la fronte, «ma farebbe meglio ad alzarsi e a darsi da fare, invece di piangere su se stesso. Sarò di ritorno fra un'ora. Sono certo che sua Maestà sarà pronto per ricevermi.» Palthainon se ne andò. Planchet chiuse la porta. Gilthas sorrise, stirò le braccia allungandole oltre la testa e sospirò. Il distacco da Kerian era stato straziante. Sentiva ancora l'odore del fumo della legna sui vestiti di lei, il profumo dell'olio di rose che si spalmava sulla pelle. Sentiva l'aroma dell'erba schiacciata sulla quale avevano giaciuto, avvolti in un abbraccio, recalcitranti all'idea di doversi salutare. Sospirò ancora, quindi scivolò fuori dal letto diretto in bagno dove, a malincuore, avrebbe dovuto cancellare ogni traccia dell'incontro clandestino con la moglie.
Quando il prefetto tornò, un'ora più tardi, trovò il re impegnato a scrivere una poesia, una poesia - che lo si credesse o meno - su un nano. Palthainon arricciò il naso e disse al giovane di lasciare perdere quelle stupidaggini per occuparsi di cose più importanti. Le nuvole varcarono il cielo di Qualinesti, coprendo il sole. Una leggera pioggerellina iniziò a cadere. Lo stesso sole del mattino che aveva brillato su Gilthas risplendeva su Silvanoshei che, come il cugino, aveva passato la notte sveglio. Ma a differenza di Gilthas, non aveva temuto il sorgere del giorno. Al contrario, lo aveva atteso con un'impazienza e una gioia che lasciavano incredulo e stupefatto lui stesso. Quel giorno, Silvanoshei sarebbe stato incoronato Presidente delle Stelle. Quel giorno, al di là di ogni speranza e aspettativa, sarebbe stato proclamato sovrano del suo popolo. Sarebbe riuscito dove la madre e il padre avevano fallito. Gli avvenimenti si erano susseguiti così velocemente, che il giovane si sentiva ancora stordito. Chiuse gli occhi e rivisse ogni singolo istante. Il giorno prima, giunti nei sobborghi di Silvanost, lui e Rolan avevano dovuto affrontare un gruppo di soldati elfici. «E io dovevo essere re!» aveva pensato Silvanoshei, più seccato che spaventato. Quando i soldati avevano sguainato le spade, Silvan si era preparato a morire. Aveva aspettato, intrepido, disarmato. Sarebbe almeno andato incontro alla morte con dignità. Non avrebbe combattuto contro la sua gente. Sarebbe rimasto fedele a ciò che la madre avrebbe voluto da lui. Con suo grande stupore, i soldati elfici avevano sollevato le spade al cielo, gridando e proclamando Silvan Presidente delle Stelle, loro sovrano. Quello non era un plotone di esecuzione, si era reso conto il giovane. Era una guardia d'onore. Gli avevano portato un cavallo, uno stupendo stallone bianco. Era salito in sella e aveva cavalcato fino a Silvanost, entrando in trionfo. Gli elfi erano allineati lungo le strade, impegnati ad applaudire e a lanciare fiori, creando così un meraviglioso tappeto multicolore. Il profumo dei boccioli riempiva l'aria. I soldati avevano marciato ai lati del giovane per tenere lontana la folla. Silvan aveva agitato educatamente la mano, in segno di saluto. In quel momento aveva pensato alla madre e al padre. Alhana aveva desiderato tutto ciò più di qualsiasi cosa al mondo. Sarebbe stata pronta a dare la pro-
pria vita per ottenerlo. Forse lo stava guardando dal luogo dove andavano i morti, forse stava sorridendo nel vedere il figlio realizzare il suo più grande sogno. Lui lo aveva sperato. Non era più arrabbiato con la madre. L'aveva perdonata e sperava che lei avesse fatto altrettanto. Il corteo era poi giunto alla Torre delle Stelle. Là, un elfo alto, dallo sguardo severo e i capelli brizzolati, lo stava aspettando. Si era presentato come il generale Konnal. Accanto a quest'ultimo c'era il nipote, Kiryn, che, come aveva in seguito scoperto Silvan con piacere, era un cugino. Konnal gli aveva quindi presentato i Capi della Casa, che avrebbero stabilito se Silvanoshei era realmente il nipote di Lorac Caladon (il nome della madre non era stato nemmeno menzionato) e perciò legittimo erede al trono di Silvanesti. In realtà, preso Silvan in disparte, Konnal gli aveva assicurato che si sarebbe trattato di una pura formalità. «Il popolo vuole un re», aveva affermato Konnal. «I Capi della Casa sono pronti a credere che tu sia un Caladon, come affermi di essere.» «Io sono un Caladon», aveva replicato Silvanoshei, offeso per il fatto che i Capi lo avrebbero accettato comunque, chiunque fosse stato. «Io sono il nipote di Lorac Caladon e il figlio di Alhana Starbreeze.» Aveva parlato a voce alta, ben sapendo che non avrebbe dovuto pronunciare il nome di colei che era ritenuta un elfo scuro. Poi un elfo, una delle più belle creature che Silvan avesse mai visto, si era avvicinato a lui. L'uomo, che indossava abiti bianchi, lo aveva osservato attentamente. «Conoscevo Lorac», aveva detto infine. La sua voce era delicata e melodiosa. «Questo è sicuramente suo nipote. Non ci sono dubbi.» Piegandosi in avanti, aveva baciato Silvanoshei su entrambe le guance. Quindi aveva guardato il generale Konnal e aveva ripetuto: «Non ci sono dubbi.» «Chi siete, signore?» aveva domandato Silvan, affascinato. «Il mio nome è Glaucous», aveva risposto l'elfo, inchinandosi. «Sono stato nominato reggente per aiutarvi nei giorni che verranno. Se il generale Konnal è d'accordo, darò disposizioni affinché la vostra incoronazione avvenga domani. Il popolo attendeva questo giorno da anni. Non lo faremo aspettare oltre.» Silvan giaceva a letto, nel letto che un tempo era appartenuto a suo nonno, Lorac. Le colonne del mobile erano in oro e argento intrecciati come un vitigno e decorate con splendenti pietre preziose. Raffinate lenzuola profumate alla lavanda coprivano il materasso, imbottito con piume di ci-
gno. Un copriletto di seta rossa scarlatta riparava il giovane dal freddo della notte. Il soffitto sopra di lui era in cristallo. Poteva starsene sdraiato a letto e, ogni sera, dare udienza alla luna e alle stelle giunte per rendergli omaggio. Silvanoshei ridacchiò fra sé e sé per il piacere della situazione. Forse avrebbe dovuto darsi un pizzicotto per risvegliarsi da quel sogno meraviglioso, ma poi decise di non rischiare. Se stava sognando, non voleva svegliarsi. Non voleva svegliarsi per ritrovarsi tremante in una grotta fredda e umida, a mangiare bacche secche e centonervia e a bere acqua salmastra. Non voleva svegliarsi e vedere elfi guerrieri cadere morti ai suoi piedi, colpiti dalle frecce degli orchi. Non voleva svegliarsi. Voleva che quel sogno durasse tutta la vita. Era affamato, meravigliosamente affamato, di una fame di cui poteva godere, perché sapeva che sarebbe stata soddisfatta. Fantasticò su ciò che avrebbe ordinato per colazione. Torte al miele. Petali di rosa zuccherati. Panna aromatizzata con noce moscata e cannella. Poteva avere ciò che voleva, e se non fosse stato di suo gusto, l'avrebbe rimandato indietro e avrebbe chiesto qualcos'altro. Allungò pigramente la mano per prendere la campanella d'argento posata sul comodino riccamente decorato in oro e argento, e suonò. Si lasciò andare contro i cuscini in attesa della valanga di servitori che avrebbero invaso la stanza, lo avrebbero lavato, vestito, pettinato, profumato e ingioiellato per l'incoronazione. Il viso di Alhana Starbreeze, il viso di sua madre, gli tornò alla mente. Le augurò ogni bene, ma quello era il suo sogno, un sogno in cui lei non aveva alcuna parte. Lui era riuscito dove lei aveva fallito. Lui avrebbe ricomposto ciò che lei aveva spezzato. «Vostra Maestà. Vostra Maestà. Vostra Maestà.» Gli elfi della Casa del Servitore si sprofondarono in inchini. Lui li accolse con un sorriso affascinante, permise loro di sprimacciare i cuscini e tendere il copriletto. Da parte sua si accomodò ancora meglio nel letto e attese languidamente di vedere che cosa gli avrebbero servito per colazione. «Vostra Maestà», disse l'elfo scelto dal reggente Glaucous come ciambellano per il futuro re, «il principe Kiryn è impaziente di porgervi i suoi omaggi.» Silvanoshei alzò lo sguardo dallo specchio nel quale stava ammirando il suo nuovo abbigliamento. I sarti avevano freneticamente lavorato un gior-
no e una notte per cucire gli abiti e il mantello che il giovane sovrano avrebbe indossato durante la cerimonia. «Mio cugino! Vi prego, fatelo entrare immediatamente.» «Vostra Maestà non dovrebbe mai dire "vi prego"», lo rimproverò il ciambellano con un sorriso. «Quando Vostra Maestà desidera che venga fatto qualcosa, basta che lo dica e ogni suo desiderio verrà esaudito.» «Sì, lo farò. Grazie.» Silvan si accorse del secondo errore e arrossì. «Immagino che non dovrei dire nemmeno "grazie", giusto?» Il ciambellano scosse la testa e si allontanò. Tornò con un elfo giovane, eppure più vecchio di Silvan di diversi anni. Il giorno prima si erano incontrati brevemente. Quella era la prima volta che si trovavano da soli. Si scrutarono attentamente, alla ricerca di qualche segno di parentela che, con evidente piacere, trovarono entrambi. «Che cosa pensate di tutto questo, cugino?» domandò Kiryn dopo avere scambiato i convenevoli di rito. «Scusate. Volevo dire, "Vostra Maestà".» E si inchinò. «Ti prego, chiamami "cugino"», disse Silvan affettuosamente. «Non ho mai avuto un cugino. O, meglio, non l'ho mai conosciuto. Lui è il re di Qualinesti. O per lo meno, lo chiamano così.» «Vostro cugino Gilthas. Il figlio di Lauranalanthalas e del mezzelfo, Tanis. Ne ho sentito parlare da Porthios. Pare che non goda di buona salute.» «Dì pure le cose come stanno, cugino. Tutti sappiamo che soffre di follia malinconica. Certo non è colpa sua, ma così stanno le cose. È corretto che ti chiami "cugino"?» «Forse non in pubblico, Maestà», replicò Kiryn sorridendo. «Come forse avrete notato, qui a Silvanesti amiamo le formalità. Ma in privato, ne sarei onorato.» Fece una breve pausa, quindi aggiunse in tono mesto: «Ho saputo della morte di vostro padre e di vostra madre. Vorrei sapeste quanto sono addolorato. Li ammiravo molto entrambi.» «Grazie», disse Silvan e, dopo un breve silenzio, cambiò argomento. «Per rispondere alla tua prima domanda, devo ammettere che trovo tutto ciò alquanto sconcertante. Meraviglioso, ma sconcertante. Un mese fa vivevo in una grotta e dormivo sulla nuda terra. Adesso ho questo letto, questo letto stupendo, il letto in cui ha dormito mio nonno. Il reggente Glaucous lo ha fatto portare in questa camera pensando che mi avrebbe fatto piacere. Ho questi vestiti. Ho tutto quello che voglio da bere e da mangiare. Sembra un sogno.» Silvan si voltò nuovamente per guardarsi allo specchio. Era incantato dal
suo nuovo abbigliamento, dal suo nuovo aspetto. Era pulito, i capelli profumati e spazzolati, le dita adornate di gioielli. Non era stato morso dagli insetti e non aveva il collo rigido per avere dormito con un masso come cuscino. In cuor suo promise che non sarebbe accaduto mai più. Non si accorse che Kiryn era divenuto stranamente serio sentendo parlare del reggente. La sua serietà aumentò quando Silvan riprese a chiacchierare. «A proposito di Glaucous, che nobile uomo! Sono soddisfatto di averlo come reggente. Così gentile e accondiscendente. Chiede il mio parere su tutto. Inizialmente, non mi vergogno a dirtelo, cugino, ero alquanto seccato con il generale Konnal per avere suggerito ai Capi della Casa di nominare un reggente che mi guidasse fino a quando avrò raggiunto la maggiore età. Secondo gli standard dei Qualinesti, sono già maggiorenne, sai.» L'espressione del viso di Silvan si indurì.