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GLI OCCHI DELLA PAURA Il meglio dei racconti mystery americani 2003 (The Best American Mystery Stories 2003, 2003) Introduzione e cura di MICHAEL CONNELLY Editor della serie OTTO PENZLER INDICE Prefazione di Otto Penzler Introduzione di Michael Connelly Il re dei juke-box di Doug Allyn Da abaco ad Azteco di Christopher Chambers Il borsaiolo di Christopher Cook Quando sarai morto di John Peyton Cooke Ostaggi di James Crumley Morti parallele di O'Neil De Noux Il gioielliere di Pete Dexter Delinquentare: significato e (de)costruzione del sé di Tyler Dilts Omicidio di guerra di Mike Doogan I figli di Riccardo di Brendan DuBois Quando le donne escono per andare a ballare di Elmore Leonard La confessione di Robert McKee Lavanda di Walter Mosley Il cranio di Joyce Carol Oates Gli occhi della paura di George P. Pelecanos Colpo di grazia di Scott Phillips L'avventura dell'attrice inquieta di Daniel Stashower Incendio autorizzato di Scott Wolven Quell'autunno di Monica Wood Note biografiche degli autori PREFAZIONE Ogni libro della serie Best American Mystery Stories, pur nella sua peculiarità, presenta caratteristiche ricorrenti. Alcune di queste analogie appaiono subito evidenti a chi ha letto i diversi volumi della collana.
La prima caratteristica, e forse la più importante, è la straordinaria qualità dei racconti. Sia che si tratti di autori già affermati, sia che si tratti di esordienti, è innegabile un'eccezionale capacità di scrittura. Non c'è da stupirsi che molti dei racconti presenti in questa serie siano apparsi per la prima volta su riviste letterarie, alcune anche a bassa tiratura. Spesso sono proprio queste pubblicazioni quelle che più di altre sono disposte a sperimentare, pubblicando opere che difficilmente riescono a trovare un grande pubblico. Certo, non sempre ci si imbatte in "buoni esperimenti"; anzi, in alcuni casi, ci si trova di fronte a cattivi lavori che difficilmente avranno successo. Ma altre volte, invece, funzionano e sono sorprendenti. La maggior parte di essi non è mystery nel senso classico del termine, ma rientra nella mia personale e libera definizione di mystery, cioè qualunque storia in cui un delitto o la semplice minaccia di un delitto sia centrale nella trama o nell'argomento. La seconda caratteristica comune ai volumi di questa serie è la presenza costante di Joyce Carrol Oates, una delle stelle più luminose nel firmamento della letteratura americana. L'autrice è presente in sei dei sette libri finora pubblicati. E non è stata una scelta dettata dalla sua fama - nessuno degli autori della raccolta è stato inserito seguendo questo criterio - bensì dall'eccezionale qualità del suo lavoro, come, per esempio, Il cranio, il racconto presente nella raccolta di quest'anno, oppure L'angelo dell'ira, finalista all'Edgar Allan Poe Award. Un altro elemento comune della serie è la presenza di diversi sottogeneri all'interno dell'ampia categoria del mystery: si va dal racconto hard-boiled a quello dove la violenza è meno manifesta, alla classica detective story, al giallo psicologico, o quello di spionaggio. Ci sono storie di poliziotti e storie di criminali; storie ambientate vicino a noi, altre in angoli remoti della terra. Ci sono storie a lieto fine e altre strappalacrime. Paradossalmente si potrebbe dire che una delle caratteristiche comuni della serie stia proprio nella diversità tra le varie edizioni. Ci sono poi analogie che il lettore non è in grado di notare perché riguardano i miei rapporti con gli autori dei racconti selezionati. Naturalmente la maggior parte degli autori è onorata di essere stata scelta per la collana. Solamente due di loro si sono rifiutati di includere il loro racconto nella raccolta. E. L. Doctorow non mi spiegò il perché di questo suo rifiuto, a ogni modo il suo eccellente racconto è stato inserito nelle Best American Short Stories; T. Coraghessan Boyle, invece, non volle essere identi-
ficato come un autore di mystery, sebbene ne avesse scritto uno fantastico. Ma gli autori che mi piacciono di più sono quelli che, pur essendo assolutamente entusiasti di essere inclusi nella raccolta, ammettono candidamente di non essersi mai resi conto di aver scritto un mystery. In questi casi mi affanno a spiegare loro che mystery non significa solamente detective story, ma gli propongo la mia personale definizione del genere che comprende un ambito molto più vasto: a questo punto anche loro capiscono di aver scritto un mystery! Sono proprio questi racconti che hanno valorizzato maggiormente i volumi in cui sono apparsi; anzi, se avete letto le raccolte precedenti, potrebbe essere un esercizio divertente cercare di scoprirli (un piccolo aiuto: tutti sono stati pubblicati per la prima volta in riviste letterarie). Michael Connelly ha fatto un lavoro splendido come curatore di questa edizione: certo c'era da aspettarselo da un maestro del thriller come lui, anche se la sua passione per il "genere racconto" è nata pochi anni fa. Inoltre non posso fare a meno di ringraziare Michele Slung, che ha lavorato per la selezione preliminare dei racconti per questa e per altre edizioni. La sua esperienza, la sua intelligenza e il suo "fiuto" sono stati indispensabili. La ringrazio non solo per aver letto oltre mille racconti, ma anche per aver spulciato centinaia e centinaia di riviste e aver identificato quei testi che rientravano nella categoria del mystery. Il titolo di un racconto singolo, infatti, non è sufficiente per comprendere il genere, anzi a volte può essere fuorviante. Se non mi credete provate a pensare ai titoli di alcuni racconti di questa raccolta come Delinquentare: significato e (de)costruzione del sé oppure Da abaco ad Atzeco o ancora Quell'autunno. Il procedimento di selezione dei racconti di ciascuna edizione è sempre lo stesso: dopo aver individuato i migliori cinquanta dell'anno, li sottopongo al curatore della raccolta che li legge e definisce quelli che faranno parte del volume. Tutto questo, naturalmente, si basa sulla nostra opinione e il nostro gusto, che è comunque il massimo che ognuno di noi può offrire. Buona lettura. Otto Penzler
INTRODUZIONE
Io guido una due posti. È una decappottabile molto bassa, una vettura sportiva che aderisce perfettamente al terreno, garantendomi un controllo totale. D'accordo, è tutta automatica, compreso la capote, che si alza e si abbassa con la semplice pressione di un pulsante. Ma non è questo il punto. Il punto è che, quando la capote è abbassata e io percorro danzando le curve che si snodano lungo la baia, con il vento che si insinua dietro le lenti scure degli occhiali, sono sicuro che non esista macchina migliore di questa. Certo, è così piccola da non poter ospitare più di una valigia. Eppure anche questo è irrilevante. Quello che conta sono le prestazioni e la velocità. E questa è anche la ragione per cui amo il racconto. La velocità. Il fatto che c'è posto per un'unica valigia. Il racconto tratta temi importanti o minimali, ma lo fa in modo conciso, senza dilungarsi. È un'auto perfetta per un viaggio breve. Abbassate la capote e lanciatevi lungo le curve. Ma se preferite i viaggi lunghi, prendete un romanzo e imboccate l'autostrada a bordo di una SUV. Ne ho guidate ben sette, di SUV, prima di sperimentare un'auto sportiva. La differenza è strabiliante. Scrivere un romanzo è un lavoraccio, un labirinto di cui bisogna perlustrare ogni angolo. Quello che vi serve è un baule abbastanza capiente da contenere un mucchio di valigie e di provviste. Il racconto, al contrario, è smilzo, scattante e aderisce bene al terreno. Non si perde in digressioni, ma va subito al punto. Quello che è successo a me, è capitato a molti scrittori che conosco. Si pubblicano un paio di libri, li si piazza sugli scaffali delle librerie, si gode di una certa notorietà. E a questo punto, puntuale come il destino, arriva la domanda: «Hai mai pensato di scrivere un racconto?». Da cosa nasce cosa e allora lasci il macchinone in garage e ti imbarchi sulla decappottabile, rossa come una mela. È un cambio di ritmo divertente, altamente raccomandato da nove medici su dieci. L'anno scorso James Ellroy, presentando la raccolta da lui curata, ha dichiarato di aver scritto il suo primo racconto per pagare un debito. E tuttavia, dopo quell'iniziale esperienza, è ritornato più di una volta alla forma breve. Lo stesso è successo a me. Tra l'altro ho il sospetto che anche il mio debito fosse stato contratto con la stessa persona, ma questa è un'altra storia. La verità è che ho cominciato con riluttanza, ma poi ci ho preso gusto e quella che all'inizio mi era parsa una costrizione si è rivelato in seguito un evento fortunato. Sono rimasto sedotto dal racconto e ho dovuto riconosce-
re che mi dava una sorta di equilibrio. Gli elementi di una narrazione c'erano tutti: personaggi, azione, intrigo, ma in una forma concisa che personalmente mi dà energia. Il racconto mi piace perché il tempo di elaborazione e di scrittura si articola in ore o in settimane, invece che in mesi o anni. Ora sono certo che non lo abbandonerò più. Con questo non voglio dire che rappresenti una comoda scorciatoia. Semplicemente, si tratta di un tipo di animale diverso. La sua struttura rapida nasconde una particolare filosofia: quella del "piccolo è bello". Il che significa che ogni paragrafo, ogni frase, ogni parola è così importante, che lo scrittore deve sottoporsi a uno sforzo quasi maniacale se vuole raggiungere un buon risultato. I racconti che trovate in questa raccolta sono esempi perfetti di quanto ho detto. Gli autori hanno affrontato il tunnel della fatica e ne sono usciti con altrettante piccole gemme. Ognuno di questi lavori nasconde un motore perfetto sotto la carrozzeria. Il mio tentativo è stato quello di creare un insieme sfaccettato che, nella sua varietà, desse un'idea esaustiva della forma racconto. Troverete di tutto, dai tentativi più tradizionali a quelli sperimentali, dalle voci serie a quelle satiriche, dai nomi più conosciuti a quelli che non avete mai sentito, ma che, ci scommetto, diventeranno noti ben presto. Ogni storia è un'auto sportiva agile e sicura, che vi porta verso una destinazione sconosciuta. Non perdetevi le infinite sfumature del percorso, i dettagli rivelatori dei luoghi e dei personaggi, la forza delle emozioni, il dono dell'esperienza. Troverete un uomo che si arrabatta con una lingua nuova, in un paese altrettanto nuovo, e un altro, che riconosce la figlia scomparsa da tempo nell'identikit della vittima di un omicidio. Incontrerete una donna che si fa giustizia da sé dopo essere stata tradita. E così via, di sorpresa in sorpresa. Questi racconti non sono delle auto sportive tirate a lucido, tutt'altro. Le pagine che leggerete sono coperte di polvere, perché le strade che hanno percorso sono delle sterrate piene di curve. Vi scontrerete con la violenza, il tradimento e una giustizia fai-da-te, ma vi imbatterete anche in sentimenti forti, amore, comprensione, irriducibile speranza. Il racconto viaggia leggero ed è proprio questo il suo segno distintivo, la capacità di contenere tutti gli ingredienti che fanno una storia pur con una sola valigia. Viviamo in un'epoca di incertezza. E mentre scrivo queste poche righe ho l'impressione che possa solo peggiorare. Questi racconti non sono un antidoto, ma possono servire a rassicurarci, ad aiutarci a capire come va il
mondo. È forse poca cosa, ma decisamente meglio che niente. E allora cominciamo. È ora di partire per il nostro viaggio. E siate certi, queste pagine non vi deluderanno. Michael Connelly Doug Allyn IL RE DEI JUKE-BOX (Da «Alfred Hitchcock's Mystery Magazine») Agosto 1960. La peggior ondata di caldo dal '43. L'anno dei disordini. Niente nuvole. Il sole attraversava un cielo di metallo liquido, arroventando senza tregua le strade di Detroit, penetrando con il suo calore fin nelle antiche miniere di sale scavate sotto la città. A mezzogiorno le fabbriche di auto erano forni. La gente diceva che la temperatura alla Ford Rouge, in prossimità dei soffitti di acciaio, superava i cinquanta gradi. Gli operatori alle gru dovevano alternarsi ogni mezz'ora per poter scendere a terra, ansimando come cani, con gli indumenti fradici. Dietro i visori offuscati da una condensa umida, i saldatori strizzavano gli occhi nel tentativo di vederci meglio, mentre i cannelli della fiamma ossidrica rischiavano di scivolare loro di mano, resi viscidi dal grasso e dal sudore. Il trio di John Lee Hooker iniziò a suonare alle nove, e la gente prese ad agitarsi sulla pista da ballo grande come un francobollo. Big John faceva gemere la sua vecchia chitarra acustica, James Cotton ci dava dentro con l'armonica, e in più c'era un bassista raccattato per l'occasione. Niente percussionista. Sarebbe stato superfluo. Se non sentite il ritmo quando John Lee batte il piede calzato di Florsheims numero quarantacinque su una pista da ballo di legno, è meglio che vi mettiate sdraiati perché potreste anche essere morti. Verso mezzanotte la folla iniziò finalmente ad assottigliarsi. Gli operai dovevano essere in piedi alle quattro, per produrre Thunderbirs, Fairlanes e macinare ore di straordinario. Era l'unico modo in cui un colletto blu di pelle nera poteva pensare di fare strada nella vita. Il Sindacato destinava ai neri i lavori più merdosi, ma poi si disinteressava se uno si caricava di turni pur di portare a casa un po' di quattrini. All'una e mezza al Brownie's Lounge era rimasto il solito gruppetto di tiratardi.
Quattro ragazzi bianchi, studenti all'Università di Detroit e fanatici del blues, applaudirono selvaggiamente quando John Lee concluse il suo show con Smokestack Lightning. Sulla pista qualche coppia continuava a girare su se stessa, muovendosi a un ritmo tutto suo, che non aveva niente a che fare con quello della musica, ma seguiva il pulsare segreto del cuore e della pelvi. Un paio di puttane cicalavano vicino alla porta, troppo fatte per andare a ciondolare sul Corridor in cerca di clienti. E al bar? Un vecchio bianco. Un killer. Moishe Abrams era entrato poco dopo le nove, aveva parcheggiato il suo vasto culo su uno sgabello all'estremità del bar, spalle al muro. Brownie lo individuò subito. Difficile non notarlo. Quasi tutti i clienti di Brownie erano neri o color caffelatte, oltre a qualche bianco alternativo. Generalmente lavoravano come operai, o non lavoravano affatto. Ma Moishe? Un vecchio musone bianco dai lineamenti pesanti. Strutturato come un blocco di cemento, tozzo, squadrato e duro come la pietra. Completo grigio antiquato, cravattona larga, cappello a torta. Vestito ancora come un re dello swing. Ma nessuno si permetteva di fare battute sull'abbigliamento di Moishe Abrams. Né davanti a lui, né alle sue spalle. Carolina lavorava dietro il bancone. Un donnone con la pelle color cioccolato al latte e il sorriso grande come la tastiera di un pianoforte a coda. Indossava abiti maschili: camicia del frac, cravattino a farfalla e pantaloni. Ma nessuno la scambiava mai per un uomo. Brownie se ne stava sulla soglia del suo ufficio, nella penombra, e teneva d'occhio Moishe. Lo osservò trangugiare il suo primo drink, poi buttarne giù un altro a tempo di record. Quando Moishe si girò sullo sgabello per guardare la band, Brownie fece cenno a Carolina di avvicinarsi, poi si piegò verso di lei, parlandole a bassa voce. «Hai visto il tizio all'estremità del bar? Dagli da bere gratis. Paga la casa.» «Sei sicuro?» obiettò Caroline. «È già sbronzo da far schifo e continua a trangugiare bourbon come se dovesse spegnere un incendio.» «Non importa. Dagli quello che vuole e non chiedergli quattrini. E mi raccomando, abbonda con gli ossequi. "Sissignore, nossignore". È una co-
sa che adora.» «Per me va bene. Purché sia chiaro che io non sono compresa nel prezzo. A proposito, chi diavolo è?» «È il re del juke-box di zona» rispose Brownie. «Vuoi dire che è un cantante?» «No.» Brownie fece un sorriso divertito. «La sua gente possiede tutti i juke-box di Detroit. Senza contare i distributori di sigarette e di caramelle, e le fottutissime slot machines di contrabbando. Quei tizi sono soci di quasi tutti i locali di Motown, compreso il mio. Ho reso l'idea?» «Vuol dire che quel vecchiaccio è un mafioso?» «Moishe è la mafia. Era uno degli uomini della Purple Gang durante il proibizionismo. Portava il whisky dal Canada e, d'inverno, guidava i camion sul Detroit River ghiacciato.» «Doveva essere pazzo» commentò Caroline, lanciando un'occhiata incuriosita al vecchio. «Lo è tuttora. Solo che oggi gira per i locali a raccattare i quattrini delle macchinette e fa l'esattore per i pescecani che prestano a usura. Chi non paga in fretta si becca una manica di botte o sparisce del tutto. Quindi vedi di essere carina con lui, bambina, mentre escogito un sistema per togliercelo dalle palle.» «Capito» affermò Caroline, annuendo; poi si precipitò ancheggiando ad addolcire i drink di Moishe con il suo sorriso. Lasciando Brownie a lambiccarsi il cervello e a litigare con la sua coscienza. Perché ovviamente le aveva taciuto la cosa più importante. E cioè che a volte Moishe si divertiva ad ammazzare, così, solo per il gusto di farlo. Cinque o sei anni prima in un locale dove si giocava illegalmente Brownie l'aveva visto accoltellare un tizio senza alcuna ragione particolare. Gli aveva aperto la pancia e l'aveva mollato lì, sul pavimento del bar. Era una calda sera d'estate, più o meno come quella. Allora Brownie era solo un povero barista precario. Aveva asciugato il sangue, pulito il pavimento, poi aveva aiutato il proprietario a caricare il cadavere nel baule della sua macchina, una Lincoln del '54, che avevano portato in uno dei vicoli che si diramavano dalla Dodicesima, con le chiavi inserite nel blocco dell'accensione. Fine della storia. Un nero accoltellato a morte sul Corridor. E chi se ne fregava? Ma quelli erano altri tempi. Brownie non era più un barista. Il Lounge era il suo locale e quelli che lo frequentavano erano i suoi clienti.
Il che rendeva Moishe un problema. Il guaio era che Brownie si ricordava ancora la faccia con cui il vecchio era rimasto seduto tranquillo sul suo sgabello a trangugiare l'ennesimo drink con il morto a qualche metro di distanza dai suoi piedi. La sua espressione... No, non era la parola giusta. Non si poteva parlare di espressione nel caso di Moishe. I suoi occhi erano vuoti, come finestre di una casa disabitata. Aveva ucciso quel tizio come se niente fosse. Forse perché era nero. O chissà. Leo Brown, Brownie per gli amici e per il resto del mondo, non era un codardo. Gestire un locale sul Corridor voleva dire affrontare un mucchio di casini. Roba legata al territorio, ubriachi, attaccabrighe. Una volta aveva persino disarmato un rapinatore. Ma Moishe? Dentro di sé, nel profondo, Brownie aveva paura di Moishe Abrams. Anzi, se la faceva sotto. Era una cosa che non gli piaceva. Lo faceva sentire piccolo. Anche perché aveva la soluzione a portata di mano. Una Colt Commander calibro 45. Automatica, nichelata e sempre carica. Pensò di andare a prenderla, togliere la sicura, avvicinarsi a Moishe, e far schizzare quel suo cervello da pazzo sulla parete senza dirgli una parola. Era un sistema come un altro di risolvere il problema. In modo definitivo. L'idea gli piaceva, era semplice e richiedeva un certo coraggio. Ma sapeva che non avrebbe posto fine a niente, anzi, avrebbe portato altri guai. Guai maggiori. Quindi era una mossa stupida. E Brownie, nonostante la sua parlata bonaria e il fatto che sembrasse un tipo alla mano, era tutt'altro che stupido. Alla sua maniera, era anche un uomo colto. Non aveva frequentato chissà quali scuole, ma leggeva molto e soprattutto sapeva ascoltare. Si ricordava i discorsi della gente e imparava dagli altri. Eppure non gli era mai capitato di sentire nessuno che non si facesse problemi a trattare con Moishe Abrams. Il vecchio mafioso era prevedibile come una donnola sotto anfetamine. Quindi Brownie tirò un bel respiro e mise a tacere le sue paure. Si tolse la giacca firmata e la appese all'attaccapanni, accanto alla porta del suo ufficio, chiedendosi se se la sarebbe mai più infilata. Poi si avviò con aria disinvolta verso Moishe. «Come andiamo stasera, signor Abrams?» gli chiese sorridendo. L'altro non alzò nemmeno lo sguardo. «Gira al largo, pidocchio.» «Si ricorda di me, signor Abrams? Sono Brownie e questo è il mio loca-
le. Posso offrirle un ultimo drink? Stiamo per chiudere.» «Come mai? È presto.» «No, signore, sono quasi le due. Gira voce che la polizia stia battendo in su e in giù il Corridor per appioppare multe salate a chi sta aperto oltre l'orario.» «Me ne frego della polizia. Mica mi arrestano.» «Già, ma non è di lei che mi preoccupo, signor Abrams. Il fatto è che se decidesse di fare a botte nel mio locale, gli affari finirebbero per risentirne. I miei e i suoi.» Moishe lanciò un'occhiata a Brownie, osservandolo per la prima volta. Alto, scuro, magro. Lineamenti regolari, occhi nocciola dallo sguardo morbido, spalle larghe. Vestiti di classe, eloquio educato. «Stai cercando di buttarmi fuori?» «No, signore, certo che no. Non potrei farlo nemmeno se volessi, lo sappiamo tutti e due. E allora, che cosa mi dice di quel drink?» «Lo accetto, ma non me ne vado. Sono a piedi. Il motore della mia Caddy si è surriscaldato, ed è impossibile trovare un taxi in zona a quest'ora di notte.» «Non c'è problema, l'accompagno a casa io» si offrì Brownie. Un attimo dopo si sarebbe mangiato la lingua. «Ho l'auto qui fuori. Sarà un piacere.» Moishe valutò l'offerta. «Che razza di macchina è?» «Una Studebaker Hawk. Verde smeraldo e nuova di pacca.» «La Hawk è un'auto da magnaccia» grugnì Moishe, buttando giù in un sorso quello che restava del bourbon. «Comunque, sempre meglio che farsela a piedi. Andiamo.» Mentre tornava a prendere la giacca in ufficio, Brownie ripensò alla pistola che teneva in un cassetto della scrivania. Poi decise di lasciar perdere. Se Moishe avesse capito che la portava, gli sarebbe toccato usarla. Ma misurarsi con un professionista del livello di Moishe era pazzia pura. Un po' come saltare sul ring con Joe Luis, sperando nella fortuna. La Studebaker di Brownie si accese con un ruggito sordo come quello di un felino in gabbia. Dopo qualche isolato la radio prese vita e, tra un soul e l'altro, Long Lean Larry Dean cominciò a mormorare con la sua morbida voce baritonale. Moishe la spense. Poi si voltò a controllare la strada, con gli occhi che schizzavano a destra e a sinistra come insetti nel fuoco. Paranoia pura. Il prezzo di essere un bastardo. Nessuno dei due parlava. Moishe era immerso in un suo silenzio alcolico
e Brownie non aveva nessuna voglia di fare conversazione. «Fermati» disse Moishe all'improvviso. «Accosta qui.» Brownie, sorpreso, rallentò e accostò al marciapiede. Moishe viveva a Grosse Pointe, a sette chilometri buoni di distanza, mentre lì si trovavano nel bel mezzo della città. Strade deserte, finestre vuote. Moishe smontò. «Fila via» disse, sbattendo la portiera. «Con piacere, padrone» rispose Brownie parlando piano per non farsi sentire. Mentre girava attorno all'isolato per tornare al suo locale, una macchina schizzò fuori da un vicolo e gli si incollò dietro, a un paio di metri di distanza. Era un'autopattuglia. I due agenti che stavano a bordo, invece di accendere la luce ruotante, gli spararono addosso un riflettore per controllare l'interno della Studebaker. Accecato dal bagliore, Brownie si preparò all'incontro, chiedendosi se volevano quattrini o semplicemente rompergli le balle. Un nero a bordo di un'auto nuova... beh, doveva essere per forza in cerca di guai, no? Alla fine, chissà perché, lo lasciarono andare. Si erano limitati a stargli alle costole per un paio di chilometri con quel maledetto riflettore che illuminava a giorno la macchina, ricordandogli che era del colore sbagliato, e che stava gironzolando nella parte sbagliata di Detroit all'ora sbagliata. Come se fosse stato necessario che qualcuno gli rinfrescasse la memoria. Fu svegliato dall'aroma intenso del caffè, che lo richiamò dal mondo dei sogni. Brownie aprì gli occhi, sbatté le palpebre e aspirò a fondo. Mmm. Un bel caffè nero, appena fatto. La porta della stanza da letto si socchiuse appena e Caroline fece capolino dallo spiraglio. «Ehi, Brownie, sei sveglio?» «Più o meno. Che ore sono? Come hai fatto a entrare?» «È mezzogiorno appena passato. Ero appena arrivata al Lounge quando Eddie mi ha dato la chiave e mi ha detto di venire a svegliarti. Deve dirti qualcosa, ma non vuole parlarti al telefono.» «E perché?» chiese Brownie, improvvisamente all'erta. «Cosa c'è che non va?» «Ti ricordi il tizio che hai accompagnato ieri notte? Beh, è morto.» «Che cosa vuol dire morto? E come?» «Secondo te? Qualcuno l'ha sistemato.»
Brownie scosse il capo, cercando di schiarirsi le idee. Si sentiva come un pugile che fosse andato al tappeto per un pugno tirato per sbaglio. Si ricordò che si era trastullato con il pensiero di fare secco Moishe, che era stato persino tentato di portare la pistola. Per una frazione di secondo fu colto da un dubbio... ma no. Quando l'aveva scaricato, Moishe era vivo e vegeto. Forse un po' ubriaco, o forse sbronzo fradicio. Difficile dirlo con un tipo come quello. «Cosa diavolo gli è successo? Voglio i particolari!» «Ehi, stai calmo. Non so un accidente di tutta questa storia. Sto dietro al bancone di un bar, di solito.» C'era qualcosa di strano nel tono della sua voce, tanto che lui le lanciò un occhiata penetrante. «Non penserai che sono stato io a farlo secco, vero?» Lei ebbe un attimo di esitazione, assai più eloquente del cenno di diniego della sua testa. «No, naturalmente. Ho messo su il caffè. Ne vuoi un po'?» «Sì. C'è anche della pancetta nel frigo. È meglio che cucini anche delle uova. Ho idea che sarà una giornata lunga.» Si fece una rapida doccia e tirò fuori dall'armadio un abito formale blu scuro. La giacca gli stava un po' abbondante sulle spalle, perfetta per piazzare la fondina della calibro .45 sotto l'ascella. Peccato che la pistola fosse ancora nella sua scrivania, al Lounge. Comunque, era meglio premunirsi. Quando Brownie entrò nel locale, due uomini si alzarono immediatamente dagli sgabelli che occupavano. Entrambi indossavano dei completi che avevano l'aria di essere stati comperati in un grande magazzino a buon mercato. Uno era bianco, l'altro nero. Si vedeva lontano un miglio che erano della polizia. «Leo Brown?» chiese il bianco. Il nero non disse una parola, ma si limitò a indicargli la parete. Brownie alzò le mani, mentre l'altro lo tastava lungo tutto il corpo in cerca di armi poi, non trovando niente, lo fece girare su se stesso. Era un bel po' più alto di Brownie, e massiccio quanto bastava. Aveva una faccia triste e molto segnata, simile al muso di un segugio. Il poliziotto bianco era più piccolo, pieno di efelidi, sulla quarantina, Sparò sotto gli occhi di Brownie il distintivo, su cui c'era scritto Gerald Doyle, tenente. Poi attaccò con le domande. «Ci racconti di ieri sera, Leo. Che cosa è successo tra lei e Moishe A-
brams? Ha fatto casino qui dentro?» «No, niente casino» rispose Brownie, sistemandosi il colletto. «È arrivato verso l'una, si è scolato qualche bicchierino, ed è rimasto fino all'orario di chiusura. Non è riuscito a trovare un taxi, allora gli ho dato un passaggio.» «A che indirizzo l'ha portato?» «Niente indirizzo. Si è fatto lasciare sull'angolo tra Clairmont e la Dodicesima.» «La Dodicesima? A quell'ora di notte?» intervenne il nero con aria scettica. «Voi due conoscevate Moishe, no?» «Certo» assentì Doyle. «E allora?» «E quindi sapete benissimo che in questa città decideva lui dove farsi lasciare, e a che ora.» «È possibile» convenne Doyle. «Mi risulta che era socio di questo locale. È vero?» «Moishe era il re dei juke-box. Lavorava per i proprietari dei juke-box e dei distributori di sigarette.» «Lo sappiamo benissimo per chi lavorava» replicò Doyle in tono mite. «La mia domanda era un'altra. Era socio o no di questo locale?» «Non esattamente.» «Si spieghi meglio.» «Di che banca si serve, tenente?» chiese Brownie. «Io? Della Detroit National. Perché?» «Cinque anni fa ero un semplice barista. Avevo da parte circa diecimila dollari e avevo bisogno di un prestito per comprare questo posto e per risistemarlo. E chi pensa mi abbia dato i quattrini? La Detroit National?» «Immagino di no» rispose Doyle con un sorriso involontario. «E allora, cos'è che è andato storto ieri notte? Era un po' in ritardo con i pagamenti, per caso?» «Gliel'ho già detto quello che è successo. Niente di niente. Insomma, guardatemi» disse Brownie mettendosi di profilo, prima a destra poi a sinistra. «Le sembro il tipo che se ne va a zonzo per i vicoli con Moishe Abrams?» I due si scambiarono un'occhiata, poi Doyle scrollò le spalle. «Forse no, Leo, resta il fatto che da qui siete usciti insieme. Il che significa che lei è stata l'ultima persona a vederlo vivo.» «Non è detto. Io l'ho lasciato alle due e un'autopattuglia, sbucata da un
incrocio, mi ha seguito per una decina di isolati per assicurarsi che mi allontanassi dalla zona. Chiedete a loro.» «Lo faremo senz'altro. Ma anche se il suo alibi regge, non creda di esserne fuori. Se sa qualcosa...» «Tutto quello che so è che Moishe aveva bevuto come una spugna e che da sbronzo era insopportabile. Per la verità anche da sobrio. E ieri notte non si respirava dal caldo. Non mi stupisce che qualcuno sia rimasto secco. Mi stupisce solo che sia capitato a Moishe. Cosa gli è successo, comunque?» «È stato accoltellato» intervenne il nero, con una voce da basso che sembrava il ruggito di un leone. «L'hanno aperto per benino. Forse per mandare un messaggio.» «Che tipo di messaggio?» «Moishe faceva parte del racket di Motown, la vecchia mafia locale. Pare che qualcuno stia cercando di scalzarli, dei siciliani di Chicago. Il che significa che lei è in un mare di guai.» «E perché? Io non so un accidente di tutta questa storia.» «Lei c'è proprio in mezzo, che le piaccia o no. E se i siciliani hanno sistemato Moishe a titolo di avvertimento, secondo lei di chi si servirà la mafia locale per rispondere?» «Non è che i siciliani sono venuti a trovarla, per caso?» chiese il nero. «Ho sentito dire che si sono già fatti vivi con qualcuno, qui in zona» ammise Brownie. «Ma non con me.» «Può star certo che verranno. E quando arrivano, è meglio che ci chiami, è chiaro? Potremmo darle una mano.» «Mi state proponendo una bella conversazione sugli affari della mafia? Già, un'idea geniale. Perché non mi ficcate una pallottola in testa addirittura, così non ci pensiamo più?» «Forse dovremmo.» Il poliziotto nero si esibì in una sorta di ghigno che voleva essere un sorriso. «Magari le faremmo un piacere.» «Abbiamo già perso fin troppo tempo con questa faccenda» disse Doyle. «Abbiamo altri due omicidi di cui occuparsi prima di pranzo. Forse uno potrebbe interessarla, Brownie. Un tizio è stato massacrato di botte poco lontano da qui, la notte scorsa. Chissà chi ce l'aveva tanto con lui, mi domando.» «Non è questo il problema, tenente. È che ieri faceva un caldo bestia, e quando fa caldo la gente diventa nervosa.» «Vuoi venire con noi, tanto per vedere la fine che farai?»
«No, grazie. Sto benissimo dove sono.» «Per il momento» ringhiò il nero. «Ingaggia mai dei cantanti blues?» «Il blues è la mia specialità. I locali del centro si beccano i nomi famosi, come Jackie Wilson o Sam Cooke. Ma il blues funziona meglio da queste parti.» «Ha mai ingaggiato Jimmy Reed?» «Non posso permettermelo.» «Peccato. Il vecchio Jimmy ha in repertorio una canzone che le andrebbe giusto a fagiolo. È meglio farsi un'assicurazione, così dice il titolo. Nella sua situazione non avrà bisogno. Ci vediamo, Brownie. Spero che respiri ancora la prossima volta che ci incontriamo.» Quando se ne andarono, Brownie entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. Non accese la luce, ma rimase in piedi, al buio, cercando di dare un senso a quello che avevano detto i due poliziotti. Un tizio era stato pestato a morte sul Corridor? E cosa c'era di strano? Succedeva almeno tre volte alla settimana. Moishe era stato ucciso a qualche isolato da dove Brownie l'aveva lasciato? Questo era più difficile da credere. In parte perché il vecchio sembrava invincibile, ma soprattutto perché era troppo bello per essere vero. Comunque il poliziotto bianco una cosa l'aveva azzeccata. Se tra le bande stava montando la tensione, era meglio non starsene nel mezzo. Accese la luce e aprì il primo cassetto della scrivania. Fissò per un attimo la Colt Commander .45, poi richiuse il cassetto, lasciando la pistola dov'era. La verità è che non andava pazzo per le armi e che la .45 aveva più che altro uno scopo intimidatorio. Anche perché era difficile che quelli del racket o i siciliani si sarebbero lasciati impressionare da una miserabile pistola. Avevano un mucchio di armi ben più potenti. Un'ora dopo si presentarono tre scagnozzi del racket di Motown, che entrarono quasi urtandosi, come se avessero fretta di trovare un po' di refrigerio al calore opprimente del pomeriggio. Brownie li conosceva di vista. Tony Zeman Jr. apparteneva all'aristocrazia del crimine. Suo padre, Big Tony Zee, era già un capo quando Capone si pisciava ancora nelle mutande. A quanto si diceva, era relegato su una sedia a rotelle. Gli avevano dovuto amputare una gamba per via del diabete. Stava perdendo i pezzi, come se la vita avesse voluto punirlo per tutti quelli che lui
e i suoi uomini avevano fatto a fettine. Tony Junior sembrava più uno studentello che un delinquente. Era piuttosto basso, con i capelli biondastri, la faccia pallida. Abito di classe, scarpa classica, unghie curate. Brownie aveva sentito dire che frequentava la facoltà di legge, il che l'avrebbe reso molto più pericoloso di suo padre. La sua guardia del corpo era un tipetto esagitato, un irlandese che tutti chiamavano il Rosso. Aveva i capelli color carota, la carnagione chiara e un carattere infernale. Uno da cui tenersi alla larga. Il terzo, un tizio vestito di grigio con la faccia butterata, non l'aveva mai visto. «Come va, signor Zeman?» lo salutò Brownie, senza scomodarsi a porgergli la mano. «Preferite andare a parlare nel mio ufficio?» «Lascia perdere. Va benissimo qui» rispose il Rosso, spostandosi all'estremità del bancone, da dove poteva controllare la porta. Quello era stato il posto preferito di Moishe, che si sedeva immancabilmente sullo stesso sgabello. Brownie disse a Caroline di andarsene e si piazzò dietro il banco del bar, togliendosi la giacca per far vedere al Rosso che non era armato. «Posso offrirvi qualcosa?» «Non siamo venuti a bere» disse Junior. «Hai esattamente cinque secondi per dirmi cosa è successo a mio zio.» «Non sapevo che Moishe fosse suo zio» ribatté Brownie. «Condoglianze per la perdita. Ma non c'è molto da dire. È arrivato verso l'una, ha bevuto qualche bicchiere, poi gli ho offerto un passaggio e l'ho lasciato tra Clairmont e la Dodicesima.» «Vuoi dire che l'hai mollato lì da solo?» si intromise il Rosso. «Moishe mi ha detto di togliermi dalle palle, e io l'ho fatto.» Brownie si strinse nelle spalle. «Un'autopattuglia mi ha seguito per un bel po', ma presumo che questo lo sappiate già, visto che i vostri informatori sono più numerosi delle linee telefoniche.» «Hai notato qualcuno nei paraggi quando l'hai lasciato?» chiese Junior. «Non c'era un cane, e nessuno ci ha seguito.» «E tu come lo sai?» abbaiò il Rosso. «Lo so, e soprattutto lo sapeva Moishe. Si è guardato attorno almeno una dozzina di volte.» «Ti sembrava nervoso, come se temesse qualche guaio?» insisté il Rosso. «Direi di no. Moishe ci andava cauto.»
«Purtroppo non abbastanza» commentò Tony Junior, lanciandogli un'occhiata penetrante. «È venuto qualcuno a parlarti, Leo? Qualcuno da fuori? Nessuno ti ha proposto di cambiare fornitore?» «No. Forse mi tengono per ultimo.» «E allora sai di chi si tratta?» «Pare che siano dei siciliani di Chicago. Gente che fa sul serio. Ma a me non importa. Voi mi avete finanziato quando ne avevo bisogno. Sono cose che non si dimenticano, signor Zeman.» «Sono contento di sentirtelo dire» commentò Junior, avvicinandosi. «A titolo di informazione, è molto probabile che io mi occupi personalmente dei juke-box. Mio zio era un ottimo uomo d'affari. Ma i suoi metodi erano ormai antiquati. Io ho nuovi progetti, Brownie. Tanto per dirne uno, anche tu dovresti fare qualche cambiamento qui dentro, metterti al passo con i tempi.» «Che tipo di cambiamento?» «Tanto per cominciare, è ora che la pianti con il blues. Cambia tipo di musica, amplia l'offerta della birra, ingaggia qualche gruppo rock. E piazza qualche ragazza al piano di sopra. Devi attirare i giovani. Sei seduto su una miniera d'oro, Leo. Insieme possiamo fare faville.» «A me piace così com'è» rispose Brownie in tono calmo. «Non diventerò ricco, ma pago sempre regolarmente e questo dovrebbe bastarle. Questo è un bar di quartiere. La gente ci viene per sentire il blues e dimenticarsi dei suoi problemi. Ragazzini e spacciatori sono una fonte di guai, e io preferisco tenermene lontano. I quattrini non servono a molto se uno li deve impiegare a pagarsi una cauzione.» «Forse non hai sentito quello che ti ha detto» intervenne il Rosso, in una pessima imitazione del cattivo hollywoodiano. «Sei duro d'orecchio, forse?» «Ci sento benissimo» rispose Leo, rivolgendosi direttamente a Zeman. «Il problema è che mio zio è vivo e vegeto, giù in Alabama, e il suo è sdraiato su una lastra di marmo, duro come un baccalà.» «Mi stai minacciando, Brownie?» «No, signore. Le sto solo dicendo che forse non ha ancora capito come funzionano le cose da queste parti. Se fossi in lei, mi preoccuperei molto di più di chi può aver fatto fuori Moishe, piuttosto che della musica nei jukebox.» «Lo sappiamo già» sentenziò il Rosso. «Sono stati i siciliani.» «Eh, no» replicò Leo, scuotendo lentamente la testa. «Quelli non c'en-
trano.» «E perché no?» «Se fossero stati loro, avrebbero provveduto a farlo sapere a tutti, tanto per mettere un po' di strizza addosso alla gente. Ma io non ho sentito niente del genere. E lei?» «Nemmeno io» ammise Tony Junior. «Abbiamo sondato il terreno, ma nessuno sa niente. Te compreso.» «È vero, non so chi ha ucciso Moishe, ma forse potrei scoprirlo più facilmente di lei.» «Cosa intendi dire?» «Questa è la mia zona, signor Zeman. So a chi chiedere, e come chiederlo.» «Com'è che sei così disponibile?» commentò il Rosso con un ghigno. «Cosa speri di ottenere?» «Tanto per cominciare, non mi dispiacerebbe salvare la pelle. Se decidete di dar battaglia ai siciliani, è possibile che io ci vada di mezzo. D'altra parte, se riesco a rintracciare il tizio che ha fatto secco Moishe, potrei anche meritarmi qualcosa, no?» «È possibile» ammise Tony Junior in tono vago. «Quanto vuoi?» «Diciamo che andiamo a pari, che non ho più debiti con voi. È una proposta onesta, no?» «Non proprio. Mio padre mi ha insegnato che in ogni accordo c'è un lato positivo e uno negativo. Beh, il lato negativo è che hai solo ventiquattr'ore, Brownie. Dopo di che cominceremo a darci da fare. E il primo della lista sei tu.» «Io? Ehi, aspetti un attimo...» «Lascia perdere, Brownie. Hai ragione. Non so come funzionano le cose da queste parti, e non me ne frega niente. Forse pensi che io sia troppo giovane per rilevare il business. Troppo inesperto. E magari ti sei anche illuso di farmi fesso. È così?» «No, io...» «Chiudi il becco e stammi bene a sentire! Hai un giorno per consegnarmi il tizio che ha sistemato Moishe, altrimenti la conclusione è che quel tizio sei tu. Capito? O devo chiedere al Rosso di portarti nel vicolo per spiegartelo meglio?» «Non ce n'è bisogno» disse Brownie, deglutendo. «È tutto chiaro.» Brownie non perse tempo. Cinque minuti dopo che Tony Junior e i suoi
scagnozzi erano usciti dal locale, lui era già a bordo della sua Studebaker color smeraldo, a ripercorrere la strada che aveva fatto con Moishe la notte prima. Arrivato al punto il cui il vecchio era smontato, accostò al marciapiede ed esplorò con lo sguardo la zona, ricordandosi che Moishe non gli aveva chiesto di essere condotto lì, ma gli aveva ordinato di fermarsi all'improvviso, come se, tutt'a un tratto, gli fosse venuto in mente qualcosa. Davanti all'isolato successivo c'era un'edicola, ma la notte precedente doveva essere sicuramente chiusa. Cristo, tutto era chiuso a quell'ora... No. Non tutto. Parcheggiò la Hawk e scese. La calura pomeridiana lo investì di colpo, come se avesse aperto la porta di una fornace. Cominciò immediatamente a sudare. Lasciò cadere una moneta nel parchimetro e si avviò lungo il vicolo che conduceva allo spiazzo di carico e scarico, dietro i negozi. Una scala di legno portava a un magazzino situato al primo piano, sopra una tipografia. Non c'erano luci, ma era ovvio. Le finestre erano dipinte di nero. Brownie salì e bussò due volte sulla porta di metallo grigio, poi altre due volte. Lo spioncino si aprì, mentre qualcuno dall'interno controllava di chi si trattasse. Poi la stessa persona socchiuse la porta, solo di poco. «Siamo chiusi.» «Lo so. Sono Brownie, il proprietario del Lounge, il locale su Dequinder. Dica a Fatback che devo vederlo. È importante.» La porta si richiuse per un attimo, poi si spalancò per farlo entrare. Bass, la guardia del corpo di Fatback, lo tastò per verificare che non fosse armato, poi gli fece cenno di proseguire. Il locale era vuoto, le sedie erano rovesciate sui tavoli, e un vecchio inserviente stava passando uno straccio sul pavimento di legno. Su un piccolo palco, in un angolo, erano disposti i supporti per i microfoni, simili a scheletri. L'unica differenza tra questo posto e il suo era una licenza per la vendita di alcolici e i tavoli da gioco. Roulette, dadi, blackjack. Tutto illegale. Anche l'orario di apertura era fuori da ogni norma. Il locale di Fatback apriva verso mezzanotte e chiudeva verso le cinque o le sei, ma se il gioco si faceva serio era possibile che non chiudesse affatto. Fatback era seduto all'estremità del bancone. Stava controllando gli scontrini del registratore di cassa, con un bicchiere di acqua tonica davanti. Il soprannome gli calzava a pennello. Un metro e sessanta per centocin-
quanta chili, Fatback assomigliava a un Babbo Natale nero. L'abito di acetato blu Cina, evidentemente confezionato su misura, lo vestiva senza fare una grinza. Brownie accostò uno sgabello e gli si sedette accanto. Fat continuò a contare. «Siamo nei guai» disse Brownie a bassa voce. «Di che guai stai parlando? Non si può star tranquilli un momento!» «La notte scorsa ho lasciato Moishe Abrams davanti al tuo locale» esordì Brownie, addomesticando la verità. «So che è entrato qui dentro, Fat. Cosa diavolo è successo?» Fat lo guardò, poi scosse il capo. «Niente di diverso da quello che succede di solito quando c'è di mezzo Moishe» sospirò, segnando il totale su un quadernino. «Un gran casino. E a proposito, grazie per averlo scaricato proprio qui. Già che c'eri perché non hai sparato una sventagliata di mitra sulla porta? Almeno mi avresti avvertito.» «Pensavo che non ci avresti messo molto a notarlo. Si è scontrato con qualcuno?» «Con me, tanto per cominciare. Non volevo servirlo, era già sbronzo fradicio. Mi ha detto che se non gli davo da bere, avrebbe fatto volare il maledetto juke-box dalla finestra, e me al seguito.» «Mi sembra di sentirlo. E allora?» «E allora gli ho dato una bottiglia. Cos'altro potevo fare? Non credevo che avrebbe fatto danni, e invece mi sbagliavo.» «Perché? Cosa ha combinato?» «All'inizio niente. La serata era piuttosto tranquilla, un paio di tavoli di poker, qualcuno ai dadi. Un ragazzo che si chiama Little Diddley stava suonando la chitarra, anche se nessuno gli badava. Troppo caldo per ballare. Poi Moishe urlò a Diddley di piantarla con il blues e l'altro, che non lo conosceva, gli rispose di andare a farsi fottere. A quel punto dissi al ragazzo di smetterla per evitare che ci lasciasse le penne.» Fatback scosse il capo al ricordo. «Poi Moishe decide di giocare e si intrufola al tavolo di Charlie Cee. Era tutta la notte che andavano avanti, con delle puntate da capogiro. Sette, ottocento dollari ogni mano. Moishe punta mille dollari al buio, gioca per un po' e naturalmente perde tutto. A questo punto accusa Charlie Cee di barare.» «Santo cielo» commenta Brownie con un fischio. «E poi?» «Si è scatenato l'inferno. Charlie si è alzato di scatto con un coltello in mano. Io e Bass ci siamo precipitati su di lui, siamo riusciti a calmarlo, poi
abbiamo spedito Moishe fuori dai piedi. È possibile che mi costi il jukebox, ma meglio così. Pensa se ci fosse scappato il morto.» Brownie rimase a fissarlo in silenzio. «Che cosa c'è?» chiese Fatback, seccato. «Non sai niente, vero?» «E che cosa dovrei sapere? Sono arrivato qui dentro dieci minuti fa. Perché? Cosa è successo?» «Moishe è rimasto secco la notte scorsa. Qualcuno lo ha accoltellato. Il suo corpo è stato ritrovato a un paio di isolati da qui. I suoi soci si sono già messi in battuta per vendicarlo.» «Ehi, amico, stai scherzando, spero» gemette Fatback. «E chi stanno cercando?» «Potresti essere tu, o io, non ha importanza. L'unica cosa che vogliono è togliere di mezzo qualcuno in fretta. È possibile che Moishe abbia aspettato che uscisse Charlie Cee per fargliela pagare e che poi le cose siano andate al contrario?» «No. L'ho buttato fuori alle tre e mezzo. Cee ha finito di giocare alle sette passate. Poi ho chiuso e insieme siamo andati dalla mia donna che sta a Greektown a fare colazione.» «Vuoi dire che Cee è rimasto con te tutto il tempo?» insisté Brownie. «Sì, maledizione. Non ci siamo separati un istante...» Fatback si interruppe e aggrottò la fronte. «Che cosa c'è?» «Stavo riflettendo. Una decina di persone ha visto Moishe e Charlie Cee accapigliarsi, ma io sono l'unico che può garantirgli un alibi per le ore successive.» «Vuoi scaricarlo? Hai un bel fegato, Fatback.» «Ehi, non siamo mica parenti. Se qualcuno deve fare una brutta fine, meglio lui che noi. Perché, hai un'idea migliore?» «Non al momento» disse Brownie, alzandosi. «Per ora rilassati. Torno tra un po', ti troverò qui?» «E dove vuoi che vada» rispose Fatback con un sospiro. «Ti consiglio di bussare forte, però. Ho intenzione di chiudere il locale e di alzare al massimo il volume del juke-box. Indipendentemente da quello che escogiti, non credo che ce l'avrò per molto.» Una volta fuori, Brownie si fermò in cima alla scala e si guardò attorno. Secondo quanto gli aveva detto Fatback, Moishe era stato sbattuto fuori al-
le tre e mezza. Cosa poteva aver fatto in seguito? Dove era andato? La risposta arrivò immediata. Moishe non avrebbe mai accettato di farsi estromettere da un nero. Avrebbe cercato di vendicarsi, e subito anche. Il che voleva dire che non era andato da nessuna parte. Era rimasto ad aspettare che Fatback o Cee si decidessero a uscire. C'era un unico posto dove avrebbe potuto nascondersi, e precisamente contro il muro in ombra del magazzino, sullo spiazzo di carico e scarico dietro i negozi. Da lì c'era una visuale perfetta della porta del locale, per cui Moishe avrebbe potuto fare la sua mossa appena fossero comparsi i due. Brownie scese le scale di corsa e perlustrò rapidamente i dintorni. Scorse i segni quasi subito. Delle goccioline scure, ora più marroni che rosse, dei minuscoli schizzi sugli scatoloni di cartone che ingombravano il vicolo. Sangue secco. Difficile notarlo a prima vista. Maledizione. Brownie scostò gli scatoloni con la punta della scarpa, quasi aspettandosi di trovarvi sotto un corpo. Il cadavere non c'era, ma al suo posto vide la custodia malandata di una chitarra. Sul fianco, a caratteri grossolani, era scritto il nome di Little Diddley con della vernice bianca, anch'essa costellata di puntini marroni. «Il ragazzo si chiama Jonas Arquette» spiegò Fatback. «L'altro è un soprannome.» Erano sulla Studebaker di Brownie e stavano percorrendo l'Ottava, mentre il tramonto scendeva sopra Detroit, oscurando le strade senza che la temperatura fosse calata di un solo grado. «È da tanto che lavorava per te?» «Da qualche settimana. Era arrivato da New Orleans circa un mese fa in cerca di lavoro. Come cantante era piuttosto bravo, ma suonava da schifo.» «E si accontentava di poco» commentò Brownie, secco. «Già» disse Fatback, sogghignando. «Ma non lo sfruttavo mica. Gli ho offerto un lavoro e gli ho trovato una stanza al Delmore Arms, dove risiedono quasi tutti i musicisti. Ho pensato che si sarebbe fatto delle amicizie e forse avrebbe finito per trovare qualcosa di stabile. E lui mi ripaga così. Si mette nei guai con quel bastardo del re dei juke-box. Tanto valeva che si fosse presentato direttamente all'obitorio.» «Forse ci è finito davvero» osservò Brownie, andando a fermarsi nel parcheggio del Delmore Arms. «I poliziotti hanno detto che hanno trovato un corpo in un vicolo adiacente al Corridor, ieri notte. Era stato massacrato
di botte.» «Pensi che si tratti di Diddley?» «Non hanno fatto nomi. Vediamo di scoprirlo noi.» Fatback allungò al portiere dell'albergo un biglietto da cinque dollari per farsi dare la chiave della stanza del ragazzo. Poi salirono al quarto piano su un ascensore che sferragliava come un carro bestiame. Senza darsi la pena di bussare, Fatback aprì silenziosamente la porta e i due fecero capolino nella stanza buia. Brownie accese la luce. «Oh, dio» sibilò Fatback. Sul letto c'era un corpo, una sagoma contorta malamente avvolta nelle lenzuola sporche di sangue. Fatback appoggiò un dito grasso alla gola del ragazzo, scuotendo il capo. «È vivo, ma è appeso a un filo.» «Già, e mi sa che non durerà molto» disse Brownie, tirando su dal comodino il rasoio insanguinato di Moishe. Fat rimase a fissarlo a labbra strette. Poi cominciò a schiaffeggiare il ragazzo. «Svegliati, Jonas! Su, andiamo.» Diddley sbarrò gli occhi di colpo, facendo correre lo sguardo freneticamente da uno all'altro. Era terrorizzato. Cercò di mettersi seduto, ma ricadde all'indietro con un gemito. «Raccontaci di ieri notte» gli ingiunse Fat. «Cosa hai combinato?» «Niente, lo giuro» disse il ragazzo con voce stridula. «Me ne stavo andando, come mi aveva detto lei, quando quel vecchio mi è saltato addosso. Non ha detto una parola, ma è sbucato fuori all'improvviso con in mano un rasoio. Era veloce come un fulmine e deve avermi colpito almeno cinque volte prima che capissi quello che stava succedendo.» «E com'è che tu non sei morto, e Moishe sì?» gli chiese Brownie. «Il vecchio è morto?» «Lo sai benissimo, visto che sei stato tu a farlo secco,» «Non è vero» protestò il ragazzo, rabbrividendo. «Mi sono limitato a farmi scudo con la chitarra e, quando il rasoio ci è rimasto incastrato, l'ho afferrato e gli ho tirato un paio di fendenti, ma solo per tenerlo lontano. Allora si è messo a correre e io me la sono squagliata dalla parte opposta. Sono venuto qui e credo di essere svenuto. Maledizione, ho perso la chitarra, devo tornare a prenderla.» «Rilassati, è giù in macchina» disse Brownie. «Cerca di star fermo, se non vuoi ricominciare a sanguinare.» Si voltò e fece cenno a Fatback di avvicinarsi. «E adesso cosa facciamo?»
«È conciato male» osservò Fat. «Ha bisogno di un dottore.» «Se lo portiamo in ospedale, il clan di Moishe verrà a saperlo in un baleno. Tanto varrebbe farlo fuori adesso.» «Forse se lo merita. Dopotutto è stato lui a mettersi nei guai.» «Non è stata colpa sua, lo sai benissimo. Moishe non lo conosceva nemmeno. Quando l'hai buttato fuori, se l'è presa con il primo nero che è sceso dalla scala. Potevi essere tu, o io, era indifferente.» «Beh, la sfiga ha voluto che toccasse a lui.» «Non la metterei in questi termini. Diddley lavora per te, Fat, e in quanto a me, sono stato io a mollare Moishe davanti al tuo locale. La gente di Tony Junior è così fissata che sicuramente penserà a una trappola. Possiamo consegnargli il ragazzo su un piatto d'argento, e finire ugualmente coi piedi in avanti.» «E allora cosa facciamo? Ce ne stiamo buoni e zitti, sperando che la faccenda si sgonfi?» «No. Come siamo arrivati noi, a Diddley, ci arriveranno anche loro. Conosci un medico che sappia tenere la bocca chiusa?» «Mio cognato era nella sanità quando stava nell'esercito.» «Meglio che niente. Fallo venire qui a medicare il ragazzo, ma niente ospedali.» «Hai qualcosa in mente, Brownie?» «Diavolo, no.» Brownie sospirò, avvolgendo il rasoio sporco di sangue nel suo fazzoletto e infilandoselo in tasca. «Fa troppo caldo per pensare e sono stufo di fare sempre quello che vogliono gli altri. A questo punto ho voglia di reagire. E tu, Fat? Sei pronto per la battaglia?» «Ho qualche alternativa?» «Mi sa di no, ora che ci penso» gli confermò Brownie con un ghigno. Mentre aspettava nella lobby dotata di aria condizionata del Churchill's Grill, Tony Zeman Junior era vagamente inquieto. Aveva spedito il Rosso a prendere la macchina ormai da cinque minuti. Perché diavolo ci metteva tanto tempo? Stava per tornare all'interno del ristorante, quando vide la Lincoln nera che si fermava davanti all'ingresso. Un inserviente nero che indossava un blazer blu si precipitò ad aprire la portiera posteriore e si scostò per farlo passare, sorridendo. Ma quando Tony montò sulla Lincoln, l'inserviente salì dietro di lui, poi chiuse rapidamente la portiera e gli afferrò i polsi con una mano, mentre
con l'altra gli toglieva la pistola dalla fondina. «Non faccia gesti avventati, signor Zeman» disse Brownie, lanciando la Lincoln nel traffico. «Vogliamo solo parlare.» «Cosa sta succedendo?» sbraitò Junior, fissando la pistola che Fatback teneva in mano e cercando di controllare il panico. «Dov'è il mio autista?» «È dentro, nel bar, che risponde a una chiamata fasulla. A proposito, il Rosso è troppo scemo per farle da guardia del corpo. Lei si merita qualcosa di meglio.» «Questi sono affari miei» osservò Tony con voce cupa. «Che cosa vuoi, Brownie?» «Voglio farle un regalo» rispose questi, con un cenno a Fatback, che tirò fuori un fazzoletto dall'interno della giacca e lo depose in grembo a Junior. L'uomo esitò un attimo, poi svolse il tessuto facendo emergere il rasoio insanguinato. «Oh, dio mio.» «Lo riconosce?» chiese Fat. «È di mio zio. Dove l'avete trovato?» «L'abbiamo comprato da un ragazzino, in strada. Ha detto di averlo prelevato da un cadavere che hanno trovato sull'Ottava, ieri notte.» «Chi è il morto?» «Il tizio che suo zio ha pestato a morte, prima di morire a sua volta per le ferite. Quello che l'ha ucciso.» «E chi è?» «Non so come si chiama, ma sono sicuro che, con tutte le sue relazioni, lo scoprirà facilmente. Adesso è all'obitorio. Cadavere non identificato numero cinquantaquattro.» «Era un professionista? Lavorava per il racket?» «Direi di no. Nessun professionista si sarebbe messo da solo contro suo zio. È probabile che si sia trattato di una rissa che è finita male per tutti e due. Lo sa come diventava suo zio quando beveva, no?» «Già, ma non so niente di te. Perché dovrei crederti? Come faccio a sapere che non stai lavorando...» «...per i siciliani? È questo che intende dire?» chiese Brownie con un sogghigno. «Perché è ancora lì che respira, giovanotto, ecco perché.» Brownie accostò al marciapiede e si fermò. «La corsa è finita. A proposito, le faccio le mie congratulazioni, signor Zeman. Adesso è lei il nuovo re dei juke-box. Le dispiace se le do un consiglio?» «E cioè?» disse Junior deglutendo, come se si aspettasse di ricevere un proiettile dalla sua pistola.
«Nessuno sa ancora che cosa è successo al tizio trovato nel vicolo. Forse le conviene mettere in giro la voce che è stato lei a sistemarlo. Tanto per dimostrare ai siciliani che con lei c'è poco da scherzare.» «Ci penserò» disse Junior, smontando dall'auto e prendendo posto dietro il volante. «E il mio debito?» insisté Brownie. «Lo consideriamo saldato, no?» «Penserò anche a questo» gli urlò Tony, pigiando sull'acceleratore. Le gomme stridettero e la Lincoln si perse nella notte, lasciando Brownie e Fatback sul marciapiede, accanto alla Studebaker verde smeraldo di Brownie. «Il re dei juke-box» sbuffò Fatback. «Pensi che possiamo fidarci di quel deficiente?» «Junior studia legge, quindi tanto scemo non deve essere. E prendersi il merito di aver tolto di mezzo il tizio del vicolo è una mossa astuta. Se ci casca, Little Diddley è fuori pericolo. E noi pure.» «Di quale debito stavi parlando?» «Non ha importanza. Cercherà di fare il furbo. Gli devo sei bigliettoni, e pensare che i suoi uomini si scannano per le monete dei juke-box.» «Sommale tutte insieme!» «Già, per quale bel risultato? Finire affettati in un vicolo? Quello che mi interessa dei juke-box è la musica che c'è dentro. John Lee Hooker, Muddy Waters, sono loro i veri re della situazione. La gente ascolterà la loro musica anche fra cent'anni, quando a nessuno importerà più niente di chi si è beccato i quattrini.» «A me importerebbe, se fossi io.» «Cosa vuoi dire?» «Dopo aver visto Junior da vicino, non sono sicuro che sia abbastanza in gamba per gestire il business.» «Vuoi diventare tu il re dei juke-box, Fat? Vuoi essere il nuovo Moishe? Guarda la fine che ha fatto.» «D'accordo, magari non il re» concesse Fatback. «È troppo rischioso. Forse non vale la pena di pigliarsi l'affare in toto, potremmo accontentarci della zona attorno al Corridor.» «Significa che ti accontenteresti di fare il principe?» «Già, è così» rispose Fatback, soddisfatto, mentre il suo faccione si illuminava. «Questa mi piace. I principi del juke-box. Senti un po', perché non vieni a trovarmi questa notte, quando chiudi? Faremo un paio di tiri al bigliardo, ci berremo un paio di birre. E penseremo al nostro futuro di principi. Che ne dici?»
«Devo ammettere che mi sembra una proposta interessante. I principi dei juke-box. Già, perché no?» Christopher Chambers DA ABACO AD AZTECO (Da «Washington Square») In teoria Miranda Wheeler era contraria all'adulterio. Era stata tirata su come si conviene, i suoi erano membri della Chiesa Episcopale, anche se in chiesa non ci andavano molto e lei aveva avuto occasione di peccare molto più con la fantasia che nei fatti. Non era una bellezza da mozzare il fiato, ma era piuttosto attraente e aveva un sorriso delizioso. Il suo corpo, nonostante la maternità, attirava ancora gli apprezzamenti maschili, cosa a cui reagiva immancabilmente arrossendo in modo imbarazzante. Aveva tutte le curve al posto giusto e si muoveva con una sorta di fascino sgraziato, come se portasse un paio di scarpe troppo strette. Durante l'anno scolastico lavorava come maestra alla scuola elementare Laurei, dove il piccolo Duff Junior sarebbe entrato proprio quell'autunno in quarta elementare. Miranda investì un clown davanti al Krusty Kreme. Lo guardò attonita attraverso il parabrezza incrinato mentre piombava davanti all'auto con la sua aria buffa e triste, incespicando nelle scarpe troppo grandi, per abbattersi con un tonfo sordo sul cofano sbiadito dal sole della Nova. La parrucca arancione oscillò contro il parabrezza, come un frutto osceno. Miranda fermò la macchina. Scese e toccò esitante la spalla del buffone, il quale era ricaduto carponi sul cartello che pubblicizzava i cornetti del Krusty Kreme: «Caldi di forno! Provateli!». Comparve il direttore, madido di sudore, e preoccupatissimo per Miranda. Dopo aver constatato che il clown non era ferito, lo licenziò. Miranda si sentì uno schifo. Chiese al clown, che si chiamava Josh, se poteva offrirgli una tazza di caffè nel bar lì accanto. Fu così che si ritrovò seduta a un tavolo di cemento, rivolta verso la strada, con davanti una tazza di caffè e accanto un clown sorprendentemente affascinante anche se disoccupato. Mentre il mondo sfrecciava davanti a loro, parlarono di poco o niente. Ma Miranda non ricordava quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva riso tanto. La settimana seguente, quando finì la scuola, Miranda accompagnò Duff
Junior in vacanza dai suoi genitori, a Jackson, perché lei e Duff potessero starsene un po' in pace. Nei giorni successivi, Duff se ne andava al lavoro e Miranda rimaneva a pulire la casa vuota e leggeva romanzi tascabili aspettando che lui tornasse a casa. Certe sere si addormentavano guardando dei vecchi film dai colori improbabili sul nuovo televisore dotato di mega schermo. I giorni passavano e lei si scopriva a pensare a quel suo strano incontro, sorridendo al ricordo e chiedendosi che fine avesse fatto quel goffo clown. Il marito di Miranda, Duff, un ex atleta dei tempi del liceo, lavorava come consulente alle vendite da un concessionario di auto. In realtà passava le sue giornate a bighellonare tra vetture carissime e tirate a lucido in uno showroom asettico e bene illuminato, cercando di persuadere i possibili acquirenti ad appoggiare i loro deretani sui lussuosi sedili. «Cosa devo fare per convincerla a salire su questa macchina?» era il suo approccio tipico. Appendeva con un gesto preciso la giacca del completo costoso sulla spalliera della sedia, si arrotolava le maniche della camicia e allentava il nodo della cravatta. La gente restava sedotta dall'aria di successo che emanava, così diceva a Miranda. L'immagine di un uomo che si sentiva a suo agio nel suo ambiente era tranquillizzante. E quando la gente era tranquilla, comprava. Duff, durante il giorno, sniffava di nascosto cocaina nel bagno del personale. In generale non approvava l'uso di droghe illegali, ma aveva scoperto che una sniffata di tanto in tanto gli dava una marcia in più, cosa che gli era di grande aiuto nell'ambiente competitivo del commercio. C'era poco da scherzare. Le alternative erano due: vita o morte, successo o fallimento. In fondo non c'era differenza con gli steroidi che il vecchio dottor Highfield passava ad alcuni giocatori scelti della squadra del Liceo Laurei verso la fine dei gloriosi anni Settanta. Josh, studente dell'università locale ed ex clown, arrancava pieno di speranze con le sue enciclopedie da piazzare giù per la strada afosa, diretto verso la porta di Miranda, una delle tante a cui aveva o avrebbe bussato in quel quartiere. Miranda aveva appena finito di leggere un thriller a sfondo legale, quando sentì il colpo. Prudentemente guardò dallo spioncino e sbarrò gli occhi incredula. Brillava come un miraggio nella calura della veranda.
«Lei è il clown» disse finalmente. Anche le scarpe del ragazzo erano della taglia giusta e i capelli non erano più arancioni. Poi lo invitò a entrare. Non potevano certo permettersi un'enciclopedia con le entrate irregolari di Duff e con il suo stipendio da fame, ma fuori faceva un caldo insopportabile. Era la fine di giugno, il più languido dei mesi. Josh si fermò appena oltre la porta, cercando di abituarsi all'aria condizionata, con il sudore che cominciava finalmente ad asciugarglisi addosso. Accettò l'invito a bere qualcosa di fresco. Mentre stava versando del tè freddo in cucina, Miranda gridò: «Lo vuole zuccherato?». «Sì, grazie, signora» rispose. Questo era il Sud, dove le buone maniere stentavano a morire. «Quindi ora vende enciclopedie?» chiese lei tornando nella stanza. «Sì, signora.» Josh le tolse il bicchiere di mano, la ringraziò e buttò giù il tè tutto di un fiato. Senza il suo costume da clown, Josh era di una timidezza assoluta. Quel costume gli dava una jote de vivre che non era in grado di riprodurre da solo, era per questo che quel lavoro gli mancava tanto. Non aveva la parlantina sciolta e rimediava a questa mancanza con la buona educazione e la freschezza dell'età. La conversazione che ne seguì era sostenuta da Miranda che quando era nervosa aveva l'abitudine di parlare molto velocemente e senza pause, ad infinitum. Quando finalmente si fermò, si sentì la testa leggera. Si fece aria con un depliant. Il bicchiere di Josh era vuoto, il volume omaggio dell'Enciclopedia Americana giaceva ai suoi piedi. Miranda guardò il ragazzo come se lo vedesse per la prima volta. Era impossibile definire a che ceto appartenesse, così abbronzato, alto e di una bellezza priva di grazia. Se ne stavano in un silenzio palpabile, seduti sul divano che Miranda aveva ereditato dai suoi genitori. Aveva ricoperto quell'orribile affare (tappezzato in origine con un broccato scuro decorato con delle scene della Guerra Civile) con un allegro lenzuolo giallo. Miranda allungò una mano e toccò il viso del ragazzo con un gesto più materno che seduttivo. Lui rabbrividì involontariamente e quel brivido si trasmise a Miranda che avvertì una memoria d'amore, come una corrente a basso voltaggio. Per Josh, questo era un sogno che diventava realtà. Una donna matura arresa davanti a lui, con il vestito di cotone leggermente aperto. Non era una foto di «Playboy» o di «Hustler». Lei era reale. In carne e ossa, come si dice. Ci fu un
altro momento di silenzio. Josh si tirò su, tremante e allungò una mano per toccare delicatamente una voglia di caffè all'interno della gamba sinistra di Miranda. Lei sospirò inavvertitamente. «Ti prego, non farlo» disse, ma non si mosse di un centimetro. «Mi scusi» disse lui. «È come se mi avessero fatto un incantesimo.» Poi distolse lo sguardo come per combattere il suo desiderio. Era dolorosamente eccitato e gli venivano in mente le parole di alcune canzoni pop. Nell'angolo spiccava uno stereo hi-fi, comprato a rate. «Ha un bello stereo, signora.» «Chiamami Miranda» disse lei. Si alzò, incerta sulle gambe, e attraversò la stanza. Inspirò profondamente, poi tirò le tende. I sandali che aveva ai piedi le sembrarono all'improvviso scomodi e dozzinali. Li scalciò via, mandandoli a sbattere uno su una lampada e l'altro sulla poltrona reclinabile di Duff Miranda scelse le Quattro Stagioni di Vivaldi in una registrazione del la Filarmonica di Atlanta. Quando era bambina aveva studiato il violino e ancora adesso aveva una passione per gli strumenti a corda. Tornò lentamente verso il divano, con i piedi nudi che facevano presa sul tappeto, sentendosi avvolgere dall'attacco roboante del primo movimento. Quando il telefono sulla sua scrivania squillò, Duff ebbe un brivido. La conversazione fu breve e bisbigliata. Coprì il ricevitore dell'apparecchio con la mano e lanciò un'occhiata cauta alla porta dell'ufficio. «Ascolta...» «Sì, ma...» «Oh, bello...» «Va bene, va bene...» «Ma...» «Okay. Va bene. Venerdì.» «Venerdì. Giuro.» Duff appese la cornetta, strinse i denti e si asciugò la fronte madida. «Figlio di puttana.» Cercò sulla scrivania qualcosa di piccolo da rompere, sollevò e riappoggiò senza danneggiarlo il suo trofeo, una placca ricevuta come "commesso della settimana". Poi prese la fotografia incorniciata di Miranda e del piccolo Duff Junior. Fissò la sua bella moglie e il suo unico figlio, carne della sua carne. C'era una sola cosa da fare. Alitò debolmente sul vetro antiriflesso, lo lustrò con un lembo della camicia e lo rimise al posto d'onore che occupava sulla scrivania. Dopodiché si alzò in piedi, mentre il vecchio spirito combattivo si destava in lui. Era arrivato il momento di darsi da fare.
Miranda si sedette accanto a Josh e di punto in bianco lo baciò sulla bocca. Poi lo guardò negli occhi. «Io non l'ho mai fatto» disse con aria sincera. «Non posso, beh, capisci. Ma se tu vuoi, se stiamo attenti, forse, potremmo, in un certo modo. Ma senza andare fino in fondo.» «Va bene» disse Josh. All'inizio le si mise sopra, cercando di farla godere, con le mani e la bocca che si muovevano sul suo corpo, attento e deciso al tempo stesso, con diplomazia. Erano secoli che si preparava a questo momento. Miranda aveva accantonato la sua infanzia impacciata, il richiamo del suo senso di colpa. Ci sarebbe stato tutto il tempo in seguito, pensava. Ora c'era spazio solo per il paradiso. Josh si accoccolò a terra e le baciò entrambe le ginocchia, poi la voglia sulla coscia che lei aveva sempre detestato. La sua bocca risalì lungo le gambe, mentre il respiro caldo comunicava con lei a livello primordiale, rendendo inutile ogni parola. Miranda ringraziò Dio di aver fatto la doccia quella mattina, e gli cacciò le mani nei capelli, guidando la sua passione avanti e indietro. Dall'altra parte della città, in una delle toilette del Jeff Davis Honda, Duff sniffava con entusiasmo. Si leccò le dita, strofinò la cartina per raccattare tutta la polvere che era rimasta appiccicata e si bloccò. Fissò il piccolo pezzo di carta, l'immagine patinata di una guancia paffuta, di un interno coscia, di una curva del seno, forse. Il Francese impacchettava la roba nelle pagine dei giornali porno. Un vero pervertito, pensò Duff, buttando il pezzo di carta nel water. Si strofinò le gengive, schiacciò lo sciacquone con la suola della scarpa lucida e uscì dal bagno. Nel suo ufficio lo stava aspettando un distinto professore universitario e la sua giovane seconda moglie, che non riuscivano a decidersi sull'acquisto di una nuova D'Accord 1x rossa. Controllò l'orologio da tasca di suo nonno, tirò su con il naso, ammirò il ticchettio morbido e ancestrale della lancetta dei secondi e assaporò il retrogusto metallico in fondo alla gola. Avrebbe concesso loro altri cinque minuti. Il tempo sufficiente a chiamare sua moglie. Avrebbe concluso la vendita, smontando in anticipo, con il tempo di una giocatina e di festeggiare all'happy hour del Maxi Lounge. Duff chiamò casa da un ufficio vuoto e, come tutta risposta, sentì la propria voce nella segreteria telefonica. Seccato, riattaccò il telefono. Nell'ufficio accanto, il professore e sua moglie discutevano bisbigliando sulle di-
verse possibilità di finanziamento. Duff concluse il conto alla rovescia, fece un respiro profondo e si presentò in tutto il suo splendore. «Buone notizie, gente» cominciò. «Ho appena parlato con il capo e mi ha detto che posso togliervi due bigliettoni dal modello di lusso. Solo per questa volta.» Duff fece una pausa significativa dopo l'affondo. «Non ditelo ad anima viva» continuò in tono cospiratorio. «Sono io che ci rimetto, perché so che volete montare su questa macchina oggi stesso. Che cosa ne dite?» Firmarono il contratto, l'intellettuale in tweed e la sua signora. Duff consegnò loro le chiavi e li salutò con una ferma stretta di mano, aggiungendo una strizzatina d'occhio alla ragazza. Che cosa ci trovava in quel vecchio coglione ottuso, si chiese, un imbecille infarcito di Dante e Shakespeare, ma assolutamente incapace di cambiare una gomma o di mandare in buca una palla. Come se non bastasse, sembravano felici. Duff li accompagnò con decisione alla porta, segnò sulla lavagna la vendita appena conclusa e si diresse alla sua Interludi seminuova. Una volta per strada, esaltato dalla sua vittoria, chiamò di nuovo a casa dal cellulare e questa volta lasciò un messaggio in segreteria. «Miranda, baby. Ho fatto un colpaccio e sto lavorando sodo per portarne a termine un altro. Farò un po' tardi, non aspettarmi sveglia. Ah, sì. Non dimenticarti la mia roba che è in tintoria. Ti amo.» E si sentì il rumore di un bacio. Miranda, ormai sazia e in una nuova posizione, sentì la voce di Duff provenire incorporea dall'altra stanza, e fece una pausa nel rito che stava compiendo, con la testa nel grembo di Josh. La segreteria si spense. Le sembrava di essere in un sogno. Negli spasimi provocati dall'esuberanza instancabile di Josh, non solo si era dimenticata della tintoria, ma anche di gran parte degli ultimi dieci anni. Ovvio che se ne fosse dimenticata. Aveva goduto come non mai e ora le sembrava carino contraccambiare. Il clown di un tempo ora se ne stava stravaccato sul divano foderato di giallo, con le membra scomposte come se fosse stato investito da un furgone. Si stavano avvicinando al momento della verità, quella biforcazione della strada che Miranda cercava di far riemergere dai ricordi della sua breve luna di miele, dai primi appuntamenti con Duff e dai quei pochi incontri intimi che aveva avuto con alcuni rappresentanti del sesso maschile. Non le era mai piaciuto particolarmente questo momento del rituale, quindi fu sorpresa di sentire uno strano brivido nel portare questo giovane uo-
mo educato a picchi di estasi apparentemente nuovi. Lui non la toccava, come se avesse paura di rompere l'incantesimo e lei sentiva di averlo in pugno grazie alla semplice manipolazione della sua fiera appendice. La mistura di potere e piacere era inebriante. D'altronde c'era da considerare il pasticcio che sarebbe successo di lì a poco, la prova del reato, che avrebbe coinvolto la sua mano, la fodera del divano, il suo vestito, forse persino i capelli. Senza contare la sensazione di stupidità e il rimorso esasperato dal fastidio di dover pulire. Mentre Miranda valutava la situazione, la mano che stava accarezzando pigramente Josh si fermò e il ragazzo tornò riluttante alla realtà. «Per favore» implorò con un filo di voce. «Miranda, oh, per favore.» «Mmmm» disse Miranda. «Va bene...» Chiuse gli occhi e ricominciò con vigore, come se stesse assaporando gli ultimi pasticcini proibiti rimasti nella scatola. Lui manifestò il suo affetto in rapidi sospiri leggeri. Miranda proseguì e inghiottì disciplinatamente. Josh, sconvolto, la abbracciò e la baciò, ma Miranda gli infilò la camicia nei pantaloni e lo accompagnò alla porta. «È stato così, voglio dire...» balbettò lui. «Credo di amarti, devo vederti di nuovo. Oh, Miranda.» «Non essere stupido.» Miranda gli porse la valigetta con i volumi campione, e aprì la porta. Vennero travolti da una vampa di calore che li lasciò senza fiato. «Questo non avrebbe dovuto succedere. Non è mai successo. Spero che tu riesca a vendere qualcuna delle tue enciclopedie. E che non rinunci mai ai tuoi sogni. Ora va'.» Sul portico, Josh indietreggiò e provò di nuovo a esprimere i suoi sentimenti confusi. «Miranda, io capisco, ma io devo rivederti...» «Addio, Josh.» La porta gli si chiuse in faccia e lui rimase solo nell'afa pomeridiana. Il sudore ricominciò a colargli sulla fronte e su questo nuovo dolore. Josh entrò in macchina, stordito e guidò fino a casa. Quel giorno non sarebbe riuscito a vendere altre enciclopedie. Doveva pensare. Aveva pianificato di tornare all'università in autunno, per laurearsi in marketing e ricominciare a dare la caccia alle sue compagne di corso, dei peperini sempre in movimento. Ma ora gli sembrava tutto insignificante, sminuito dal ricordo di Miranda, il suo primo assaggio del paradiso. Un futuro senza di lei non sembrava neanche un futuro. Josh si congratulò per la sua efficienza ed esaminò gli indizi decisivi che
aveva raccolto quella mattina. Leach, Miranda e Duff, un figlio, indirizzo e numero di telefono. Aveva elaborato delle fantasie grandiose, nelle quali lui salvava Miranda dal suo limbo suburbano e dal rozzo Duff che, non rendendosi conto di quanto fosse impareggiabile sua moglie, la costringeva a cucinare, ad andare in tintoria e a vivere in una casa modesta con appese alle pareti stampe di anatre in cornici dorate. Nelle elaborate fantasie di Josh, Duff che era pelato e pancione, indossava una canottiera sporca e aveva un gran bisogno di farsi la barba. La povera Miranda, vestita con un semplice abito blu che metteva in risalto le sue belle forme, era combattuta tra la promessa fatta a quel ruffiano e il suo vero amore per Josh. Il nostro eroe appariva sulla scena virtuoso e rassicurante, citando a tratti le scritture per sottolineare l'importanza dell'amore e infine mettendo fuori gioco Duff con un onesto gancio sul mento non rasato. A volte Duff, ubriaco, si limitava a fare un rutto dalla sua poltrona reclinabile e li congedava entrambi senza distogliere gli occhi dal televisore mentre giocava la sua squadra preferita. Da qui le fantasie subivano un'impennata. Josh e Miranda, vestiti del minimo indispensabile, che vivevano in una capanna sulla spiaggia a Dauphin Island o in qualche località altrettanto esotica. Josh e Miranda, con indosso un camice bianco, che lavoravano insieme in un self-service, lucidi di olio vegetale, e poi tornavano insieme nel loro appartamento per passare una notte d'amore senza fine. Josh e Miranda eccetera, eccetera. E tuttavia, anche se comprensibilmente, Josh trascurava un particolare di fondamentale importanza, il piccolo Duff Junior, che in quel momento era impegnato in una sorta di delirio elettronico al Mamaw e Papaw di Jackson, scatenando un fuoco di fila di spari con il joystick stretto nella sua zampina innocente e disseminando lo schermo di morti. Duff ordinò un sandwich al petto di pollo e fece una smorfia alla cameriera, avvolta in una finta uniforme da domestica francese. Le passò un dollaro di mancia per la Coca con il bourbon che lei stava per portargli. Si chiese quanti anni avesse e che cosa sarebbe successo se lui fosse stato single. Oh, ma lui amava Miranda, pensò, con un fondo di sentimentalismo. La commissione sulla vendita della D'Accord sarebbe bastata fino alla fine del mese e avrebbe tenuto a bada per un po' il Francese. Anche se Duff gli avrebbe dovuto ancora più o meno un migliaio di dollari. Aveva sperato di riuscire a smerciare gran parte della sua ultima dotazione di droga per coprire il suo debito e magari tenere anche qualcosa per
sé. Ma era stata una settimana dura al reparto vendite del Jeff Davis. Senza contare che aveva barattato con un nero del reparto assistenza un grammo di coca contro una .38 special a canna corta. Non sapeva bene neanche lui perché. Tranne forse per il fatto che il Francese, un picchiatore con gli incisivi spaccati che aveva giocato per una stagione come ala sinistra nei Winnipeg Jet, lo trattava senza il minimo rispetto. L'arma lo faceva sentire pericoloso, degno di considerazione. Sapeva che non l'avrebbe mai usata, ma il conforto della sua presenza, il suo piglio combattivo, lì nel cassetto della Honda, gli dava sicurezza. Miranda si spazzolò i denti e fece dei gargarismi con un collutorio alla menta. Poi si guardò allo specchio. Qualche capello bianco, zampe di gallina agli angoli degli occhi. Le mancavano sia il figlio sia il marito, che era troppo spesso fuori casa. Cercò di sorridere e scosse la testa mentre diceva «No, no, no, no, no, mai più». Si chiese se non avrebbe dovuto comprare l'enciclopedia per Duff Junior. Almeno il primo volume. Forse avrebbe dovuto chiamare Josh per ordinarlo, ma sapeva che non era il caso. Doveva andarsene. Un fine settimana sul Golfo. Una vera e propria vacanza in famiglia. Decise di parlarne con Duff e di andare a recuperare suo figlio. Josh si mise a guardare la televisione, ma non riuscì a concentrarsi. Continuava a pensare a Miranda. Spense il televisore. Cercò di ricordarsi le parole della donna, ma si erano già perse e anche la sua immagine si stava sbiadendo insieme a loro. Non riusciva più a vedere la sua faccia tutta intera, ma solo gli occhi, il sorriso increspato. Rivedeva anche il vestito, la sua sagoma imprecisa, ma l'unica cosa che gli appariva con chiarezza era la voglia di caffè sulla coscia e il dolce odore di bosco che Mirando emanava. Doveva riuscire a vederla di nuovo, anche solo per fissarsela nella memoria per sempre. Si sedette al tavolo per scrivere. E buttò giù tutto, pagina dopo pagina, il suo grande amore illecito. Il sole tramontò, ma il caldo rimase acquattato nel buio come un criminale. Josh, fresco di doccia, indossò la sua miglior maglietta bianca e i pantaloni kaki. S'infilò la parrucca arancione per darsi un po' di coraggio e salì in macchina. Duff finì il gustoso panino al petto di pollo e trangugiò l'ultima CocaCola corretta con il bourbon. Pagò con la carta di credito e invitò la cameriera ad appartarsi con lui per farsi un tiro, approfittando del suo toccasana. Lei declinò educatamente l'invito, come faceva sempre. E Duff se ne andò
solo. In qualche modo sollevato, a dire la verità. Assaporando il senso di lieve malinconia che gli dava l'alcol. Nel parcheggio si fece un tiro per affrontare il viaggio. Aveva il timore di tornare a casa in quei giorni e ogni volta si chiedeva il perché. Come era potuto succedere? E quindi, infilata nell'autoradio una cassetta dei Black Sabbath d'annata, Duff prese a tamburellare sul cruscotto mentre guidava, al ritmo della sua sete di giovinezza, cantando con voce stonata le orribili parole del testo. Miranda si fece una doccia e si infilò un paio di jeans e una maglietta. Strappò dal divano la fodera gialla e la ficcò in lavatrice con una dose abbondante di detersivo. Le tornarono in mente le cose di Duff che giacevano in tintoria e si precipitò fuori nella vecchia Chevy. La tintoria stava per chiudere. Il calore della giornata, solo leggermente affievolito, penetrò attraverso i finestrini aperti come un campione gratuito dell'inferno. Un tramonto dalle strane incandescenze si stendeva sopra la città. "Sembra una visione soprannaturale" pensò Miranda. Mentre si destreggiava nel traffico della sera vide tutta la famiglia riunita in una multiproprietà in riva al mare. Duff, lei e il vivace Duff Junior. Josh guidava una Mustang di seconda mano, la macchina dei suoi sogni. Comprata e pagata. Sul sedile posteriore, il suo sostentamento. Una scatola di cartone con dentro il primo volume dell'Enciclopedia Americana, da "Abaco" ad "Azteco", in finta pelle blu, con le rifiniture dorate in rilievo. Accanto a lui sul sedile dell'auto c'era la lettera in cui si raccontava a Miranda, scritta a mano su fogli di carta a righe gialla, piegati con precisione in tre parti. Gliel'avrebbe infilata nel volume omaggio che, nella foga e nell'eccitazione del pomeriggio, si era dimenticato di lasciarle. Avrebbe scelto la pagina dedicata all'amarilli. Un fiore e un nome che gli rimanevano da qualche remota tesina. Una bella voce, completa di illustrazione, per rappresentare quello che era successo tra loro. Il resto doveva deciderlo lei. Miranda, Duff e Josh, residenti nella stessa città, tutti e tre sulla strada. La città non era piccola, ma neppure grande. È plausibile che tre macchine che lasciano posti differenti dirette nello stesso posto, si incrocino, magari si scontrino, anche, date le modeste capacità di quelli che guidano. Ma non accadde. Duff arrivò a casa per primo, parcheggiò nel vialetto e notò che la Chevy non era lì. Frattanto una vecchia Mustang in buone condizioni si stava avvicinando lungo la strada. Duff guardò nello specchietto retroviso-
re, ma non riuscì a distinguere chiaramente il conducente, del quale, alla luce fioca, distinse solo la chioma selvaggia. L'ammaccatura sulla parte anteriore della carrozzeria riduceva sicuramente il valore di mercato dell'automobile. L'auto si fermò, ma non scese nessuno, e Duff cominciò a sudare. Uno scagnozzo del Francese, pensò d'istinto. Cercò di calmarsi, ma in ogni caso prese la pistola dal cassetto del cruscotto e la fece scivolare nella cintura dei pantaloni. Josh stava seduto in macchina con il cuore che batteva all'impazzata. Vide un uomo ben vestito scendere da una Honda nuova e avviarsi verso la porta di Miranda. L'uomo si fermò per scrutare l'altro lato della strada. Josh era seduto immobile nell'auto buia quando fu illuminato dai fari dell'auto di Miranda. Rimase abbagliato, come un porcospino in mezzo alla strada, di notte. La vecchia Chevy si avvicinò, entrò nel vialetto e parcheggiò di fianco alla Honda. Miranda emerse dalla macchina con un pacco della tintoria. Duff uscì ad accoglierla. «Pensa al Golfo, Duff, in questo momento dell'anno» esordì lei. Josh scese dalla macchina e fece per attraversare la strada. «Scusa» urlò. «Solo un momento, per favore. Non posso più aspettare.» Concluse con il tono di voce più deciso che riuscì a produrre. «Lasciala fuori da questa storia» strillò Duff, parandosi davanti a Miranda. «Ti ho già detto che venerdì sistemo tutto.» Miranda guardò Duff e poi Josh. Mise una mano sul braccio di Duff per farlo entrare in casa. «È solo un ragazzino fuori di testa. Andiamo dentro.» Josh si avvicinò ulteriormente. «Credi di farmi paura?» disse Duff. «Beh, ripensaci, teppistello.» Ma in realtà aveva una gran paura, paura di perdere, paura del dolore, paura di invecchiare in un mondo privo di senso, un mondo abitato da ex giocatori di hockey feroci e violenti, e dai loro scagnozzi psicopatici con la parrucca arancione. Miranda si appoggiò al braccio di Duff, ma lui se la scrollò di dosso bruscamente. Lei lasciò cadere il pacco della tintoria. All'improvviso si senti piccola, travolta da qualcosa più grande di lei, e senti che stava perdendo il controllo di quello che accadeva. «Ho qualcosa per te» disse Josh a Miranda, avanzando. «No» rispose lei.
«Anch'io ho qualcosa per te, stronzo» replicò Duff. In seguito, Miranda ricordò di essere stata sbattuta sul prato secco subito dopo l'inizio della colluttazione, ricordò l'odore della terra e la camicia bianca e blu di Duff, rigida e pulita, che spiccava nella poca luce della strada. Il rumore attutito della rissa. E poi un colpo di pistola. Che strano, pensò, che avesse capito immediatamente che si trattava di un colpo di pistola, dal momento che non ne aveva mai sentito uno se non alla TV e al cinema. E, proprio come in televisione, in quell'attimo si accesero tutte le luci delle verande della strada e qualche istante dopo si udì il rumore delle sirene in lontananza. Il mondo cambiò, la sua vita divenne importante, degna di essere raccontata. Si alzò in piedi e raccolse il pacco della tintoria. Andò verso Duff e gli porse le camicie, tranne una. Lui sembrava essere diventato sordo e muto. «Vai a chiamare un'ambulanza, tesoro.» Lei si inginocchiò accanto all'uomo che giaceva sdraiato sul prato di casa sua con gli occhi spalancati e una mano sulla pancia. Gli sollevò la testa e se l'appoggiò in grembo, raddrizzandogli la parrucca con delicatezza, e premendogli la camicia bianca sulla ferita scura. «Vai dentro, Duff.» E Duff entrò in silenzio. La porta si chiuse alle sue spalle e il suono delle sirene si fece più forte. «Sto morendo, vero?» disse Josh. «Sì» disse Miranda, convinta che in momenti come quelli la sincerità fosse importante. «Dovevo rivederti.» «Avrei preferito che non lo facessi.» «Il primo volume» disse Josh. «È per te. E credo di amarti.» Miranda raccolse il libro dal punto in cui era finito, sul prato, e insieme con quello la lettera e quello che conteneva. «Grazie, Josh» gli disse, poi accarezzò con delicatezza la finta pelle blu. «Andrà tutto bene.» Ma sapeva che non sarebbe stato così. Erano solo le parole di una canzone che in passato conosceva bene. Miranda gli toccò di nuovo il viso. Lo tenne come avrebbe tenuto Duff Junior, finché non arrivò l'ambulanza a portarselo via. Entrò portando con sé da "Abaco" ad "Azteco". Sul prato davanti a casa rimase una camicia bianca con delle macchie scure, dimenticata.
Miranda preparò un caffè per Duff e per i poliziotti, quando arrivarono. Si misero in salotto e fecero a Duff le solite domande di routine, solidali con un uomo che aveva difeso sua moglie e la sua casa. Uno di loro aveva giocato a football con lui, al liceo. Parlarono dei bei vecchi tempi, del vandalismo dilagante tra i giovani, delle armi e della necessità di difendersi. Fecero i complimenti alla elaborata tappezzeria del divano. Miranda, nel frattempo, stava seduta sui gradini sul retro e pensava all'Australia, al suo clima, all'economia e alla qualità dell'educazione. Fumò una delle sigarette di Duff, con il primo volume dell'enciclopedia in grembo, carica di fatti e possibilità. Pensò e fumò, poi bruciò la lettera vergata a mano nel barbecue, alimentando il fuoco blu pagina dopo pagina. Christopher Cook IL BORSAIOLO (Da Measures of Poison) Il mio nome è Christian Richelieu. Un bel nome, tutto considerato, celebre per entrambi i suoi componenti, anche se nessuno dei due ha influenzato positivamente la mia vita. Che io non creda nel Messia, è persino inutile dirlo. Se non nascondesse tanta infelicità, l'idea che un giorno un Salvatore ci libererà dalla solitudine e dalla disperazione la troverei anche divertente. Ma lo sgomento che vedo dipinto sui volti della gente per strada è sincero e io non riesco a riderci sopra. Il cardinale, almeno, era francese come me, ed essendo un uomo politico e un pragmatico, la consolazione se l'andò a cercare nella vita. E forse la trovò pure. Chi lo sa? Resta il fatto che fu prima di tutto un grande moralista, poi un peccatore instancabile, mentre io non sono né l'uno né l'altro. Io sono semplicemente amorale. Tutto questo per parlare del mio nome, che è molto più interessante del mio aspetto. Il mio aspetto è piuttosto anonimo, il che nella mia professione è un vantaggio, e questo è quanto. Io faccio il borsaiolo fin da ragazzo, dai tempi in cui Moses Marchant mi ha insegnato il mestiere. Originario di Algeri, Moses a quel tempo era già avanti con gli anni. Era un pied noir dalle spalle curve, emigrato a Parigi subito dopo la guerra, che viveva vicino a Place d'Italie nello stesso palazzo dei miei genitori. Odorava di patchouli, faceva rutti all'aglio e fumava
una pipa d'argilla puzzolente. Passava la sua vita a brontolare. Moses abitava al piano sopra di noi. Io lo guardavo attraverso la tromba delle scale, mentre saliva faticosamente, avvolto in una nuvola di tabacco, borbottando tra sé in un incomprensibile miscuglio di arabo e francese. I miei genitori erano giovani, i miei nonni erano morti e Moses rappresentava ai miei occhi quella decrepitezza della vecchiaia così difficile da comprendere quando si è nel fiore degli anni. Sia in casa sia fuori indossava un fez sbrindellato color vino. Dovevo avere quindici o sedici anni quando Moses cominciò a interessarsi a me. La cataratta gli aveva rovinato la vista e l'artrite lo faceva zoppicare, impedendogli di lavorare, ma era un buon maestro, molto preciso ed esigente. Se qualche volta posso sembrare critico sui costumi odierni è perché Moses mi ha insegnato che essere orgogliosi del proprio lavoro dà sicurezza in un mondo dimenticato da Dio e dagli uomini. Predicava il dogma dell'infaticabilità e io non ho mai trovato nulla da ridire. A quei tempi i professionisti del mio mestiere tenevano in grande considerazione l'apprendistato. In argot ci chiamavamo voleurs à la tire che significa "ladri a strappo". Quando ci incontravamo per strada ci scambiavamo un cenno in segno di reciproco e silenzioso riconoscimento. Eravamo bene educati. Allora la civiltà non aveva ancora cominciato il suo declino. Anche un borseggiatore andava fiero della sua professione. Si diventava bravi lavorando duramente e sottoponendosi a una disciplina ferrea. A dire la verità noi consideravamo la nostra vocazione un'arte. Quando cominciai, Moses mi faceva fare pratica nel suo appartamento. Marinavo la scuola e imparavo i trucchi su un fantoccio costruito riempiendo con una coperta un vecchio abito da uomo. Poi Moses indossò una vecchia giacca da smoking di velluto rosso che non avevo mai visto prima e che puzzava di terra e naftalina, così cominciai a fare pratica su di lui. Era un lavoro noioso, molto impegnativo. Moses era estremamente critico e quando mi distraevo mi pigliava a schiaffi sulle orecchie. «Devi imparare a concentrarti!» mi rimproverava. «Un uomo in grado di controllare la sua mente, può controllare anche il suo destino.» Naturalmente era difficile. La mente di un adolescente è come un cavallo selvaggio. Ma io mi ci applicai e con il tempo le mie orecchie si fecero meno sensibili. L'idea di controllare il mio destino mi faceva gola. Anche adesso che è passato tanto tempo continua ad affascinarmi. Dopo sei mesi Moses cominciò a farmi esercitare in pubblico. Insistette perché gli rubassi il portafoglio sul metrò, al mercato, agli angoli delle
strade. Alla fine mi permise di fare un colpo vero e lo chiamò il mio battesimo. Tolsi il portafoglio a un energumeno alla Gare St. Lazare, durante l'ora di punta. Quello stava correndo a prendere il treno e Moses gli si piazzò davanti. L'uomo inciampò e cadde, imprecando. Lo aiutai a rialzarsi e lui mi spinse via con rabbia. Andai nella toilette degli uomini ad aprire il portafoglio dove trovai seicento franchi, una fotografia sbiadita di sua moglie, i numeri di telefono di alcune prostitute con a fianco le tariffe e una scatola di preservativi. Tenni tutto, tranne il portafoglio e la foto della moglie anche se non era una brutta donna, con quei riccioli biondi e il sorriso triste. Questo successe molto tempo fa. Il mese prossimo compirò sessantatré anni. Il lavoro è faticoso, ma non ti strema come un'attività manuale o come starsene in un ufficio con tutti quei giochi di potere. Posso ritirarmi oggi stesso, se lo desidero. Con il denaro sono stato sempre molto oculato, sicuramente più di altri. Per raccontare la mia storia ci vorrebbe troppo tempo. D'altra parte è stata assai monotona, come quella di molti. Sono stato sposato, poi abbiamo litigato e l'unione è finita in un divorzio. Adesso i miei due figli sono cresciuti. Conducono delle vite convenzionali, e continuo a vederli, ma hanno i loro interessi. In amore sono stato tradito e anch'io mi sono comportato male. Sono molto egoista. Faccio vacanza sulla costa, controllo il peso, mangio pesce invece della carne e per tenermi in forma vado a passeggiare ai Giardini del Lussemburgo. La forza di gravità ha fatto il suo dovere e spesso ho male al fondoschiena. La prostata fa i capricci, ma non c'è niente di strano alla mia età. Vivo da solo, ma ho una padrona di casa che si lamenta e un certo numero di amici molto stretti. Mi piace il buon vino e la bella musica. Conduco una vita tranquilla. Non mi aspetto molto dagli altri e così non vengo deluso. Come ho detto, la mia è una vita ordinaria da tutti i punti di vista. È il lavoro, il mio lavoro, che è interessante. Senza dubbio tutto questo può sembrare romantico. Nessun capo, nessun orario da rispettare. Un sacco di tempo libero per pensare o sognare a occhi aperti. Vivere della propria intelligenza è una vera e propria sfida. Comunque, si tratta pur sempre di lavoro, con tutte le sue esigenze, come ogni altro lavoro che si rispetti. E io cerco di non dimenticarmene. Le persone che non ci pensano, che diventano pigre, che praticano questa professione in maniera automatica, sono in prigione. Diventano vittime di se stesse. E tuttavia, il modo in cui provvedo al mio mantenimento incuriosisce la
gente. Vogliono conoscere i dettagli. E più esotici sono, meglio è. Ho sentito di sfuggita vittime di borseggi vantarsi della propria sfortuna, come se fosse stata fonte di una specie di brivido indiretto. Ma come in tutti i mestieri, i fatti straordinari non capitano tutti i giorni e, tra uno e l'altro, ci sono dei lunghi momenti di quiete, quasi di monotonia. Come posso descrivere la mia vocazione in modo imparziale? Forse sarebbe più facile se raccontassi i primi tre incidenti che mi vengono in mente. Ognuno di essi esprime al meglio quello che faccio. Il primo riguarda quello che la gente si porta appresso. La maggior parte delle cose che trovo nei portafogli è pura routine: carte di credito, fotografie, matrici di biglietti del tram, ricevute. Se quello che trovo di solito può essere considerato un buon metro di misura, bisogna ammettere che molta gente ha una vita più interessante della mia. Non c'è da meravigliarsi che poi si senta inquieta! Nelle tasche si trovano un sacco di cose che io non prendo, passaporti, accendini, penne. Se fossi un ladro di appartamenti, sarei milionario. La gente è assolutamente sbadata con le chiavi. Ma certe volte c'è qualcosa che cattura la mia attenzione. La settimana scorsa, in un portafoglio che ho preso alla Gare de Lyon, ho trovato una bustina di eroina. Una volta al Musée Picasso sono rimasto a bocca aperta quando mi sono accorto di aver rubato la tessera di identificazione a un agente dell'FBI. Faceva parte di un gruppo di turisti americani. Ho lasciato immediatamente il museo, avevo sentito parlare di questi cowboy abbastanza da tenermene alla larga. Un'altra volta, sulla scala mobile de Les Halles, ho allungato una mano in una tasca e ho trovato una pistola. Anche in quell'occasione mi sono ritirato prontamente. So calcolare i rischi. La violenza non mi interessa. Tranne i soldi, tutto finisce nel primo bidone della spazzatura che incontro. Moses mi ha tirato le orecchie quel primo giorno alla Gare St. Lazare, quando ho tenuto i preservativi e i numeri di telefono delle prostitute. «Credi che verranno a farti visita in prigione?» mi chiese. «Abbi un po' di buon senso!» Disgustato, prese la sua parte di soldi e buttò via tutto il resto. Si era dimenticato delle ossessioni erotiche che tormentano il corpo di un ragazzino giorno e notte. Pensate quante voglie ci si possono togliere con trecento franchi! Ma io imparai la lezione. Da allora in poi i bidoni della spazzatura ricevettero tutto, tranne i soldi. Era una linea politica molto dura, lo so. La gente che perde il portafoglio subisce un grave danno. Rimpiazzare documenti e carte di credito è una seccatura. Non di meno, farsi prendere dalla compassione ed evitare di farle sparire significa invita-
re a nozze il disastro. Naturalmente, di questi tempi, molti di noi tengono anche le carte di credito e le ricette. Per molti anni dopo la morte di Moses, quando le carte di credito diventarono moneta corrente, lo facevo anch'io. Ma ora questo genere di truffa è diventato come una grande industria e quelli del settore sono estremamente squallidi. Lavorano in branco e di loro non ci si può fidare. Non conoscono il senso dell'onore. Io li evito. Può sembrare strano, ma quando i ladri si organizzano tra loro diventano corrotti. Meglio lavorare da soli. L'episodio che voglio raccontare è capitato molti anni fa al Centre George Pompidou. I curatori avevano organizzato una mostra di un fotografo che ammiravo molto. Mentre stavo uscendo sono andato a sbattere contro un uomo e istintivamente gli ho preso il portafoglio dalla tasca dei pantaloni. E pensare che quel giorno ero in vacanza. Nella toilette, quando lo aprii, fui deluso di trovarci dentro meno di venti franchi. Se il borseggio avesse richiesto uno sforzo, non ne sarebbe valsa la pena. Dalle condizioni del portafoglio dedussi che l'uomo o non dava alcuna importanza alle apparenze o stava passando un momento poco fortunato. Non so cosa mi spinse a esaminare il contenuto più a fondo. In un angolo del portafoglio c'era un pezzo di carta ripiegato accuratamente. Era una lettera scritta sulla carta intestata di un ospedale con una data dell'anno precedente. Era stata stilata dalla moglie dell'uomo, a quanto pareva poco prima di morire. Non lo diceva, ma era chiaro che avesse un cancro. Aveva spedito a suo marito un'ultima missiva d'amore. Le sue parole erano davvero commoventi. Gli descriveva il suo amore per lui e gli diceva che l'affetto che l'uomo le aveva dimostrato aveva reso la vita degna di essere vissuta, e ora le rendeva sopportabile la morte. Aveva sofferto molto, questo era ovvio. Le ultime settimane erano state un tormento. Le dispiaceva morire così giovane. Era turbata dalla sua debolezza e dal fatto di lasciare incompiute tante cose. Poi c'era il dolore fisico, a cui alludeva semplicemente. Infine raccontava di quando si erano conosciuti e ricordava il loro primo bacio. Menzionava una vacanza fatta in Spagna e in ogni paragrafo ripeteva la sua devozione per lui. Quella donna in procinto di morire aveva anche trovato la forza di giocare, e aveva aggiunto: «Ma tu lo sai che sto scherzando!». Ancora una volta la donna esprimeva la sua preoccupazione per il marito. Lo spingeva a farsi coraggio e lo rassicurava che ovunque fosse stata dopo la morte, lui non sarebbe stato solo perché lei sarebbe sempre rimasta
con lui. Il loro amore, gli scriveva, avrebbe sconfitto la morte. Un luogo comune, forse, ma nella lettera sembrava plausibile. Malgrado la mia opinione personale riguardo a queste faccende, mi resi conto che le credevo. Chi ha il coraggio di smentire una donna che sta morendo? Se fosse stata mia moglie, sarei stato d'accordo su tutto. La firma si leggeva a malapena, un pallido scarabocchio. Nel momento in cui finii di leggere, fui sopraffatto dal rimorso. Le mie mani cominciarono a tremare. Mi sedetti sul lavandino e mi misi a fissare la firma. Poi cominciai a piangere. Sapevo che quella lettera doveva tornare al proprietario. La ripiegai con cura e me la misi in tasca. Quello che avrebbe potuto essere semplicissimo divenne complicato. L'uomo non viveva più all'indirizzo di Montparnasse che era scritto nel portafoglio. Mi spacciai per un suo amico e un vicino mi diede il suo nuovo indirizzo, in una brutta zona vicino alla Gare de l'Est. Purtroppo si era nuovamente trasferito. Alla fine ottenni un altro indirizzo dalla portinaia e lo trovai al quarto piano di un palazzo senza ascensore nel ghetto di Aubervilliers. Di spostamento in spostamento, si era trovato delle sistemazioni sempre più economiche in palazzi fatiscenti. Mi immaginai che dopo la morte di sua moglie fosse caduto in quel tipo di declino che solo un dolore inimmaginabile può causare. Quando mi aprì, lo investii con un fiume di parole. Dissi di aver trovato la lettera sul sedile di un autobus. Sembrava importante e molto personale. Vedendo l'intestazione dell'ospedale mi ero fatto in quattro per rintracciarlo. Cominciai a sudare e mi si spezzò la voce. Tutta colpa dell'emozione profonda che la lettura della lettera aveva provocato in me. Per un momento persi la testa e aggiunsi che anche mia moglie era morta di cancro non molto tempo fa. Quell'affermazione scriteriata era volta a giustificare il motivo di tanto affanno, e a non destare sospetti nei confronti di tutti gli sforzi che avevo compiuto per trovare quest'uomo. Ma lui ebbe una reazione diversa. Prese la lettera e scoppiò in un pianto dirotto. Era un giovane vestito poveramente. Si strinse al petto la lettera e gridò: «Grazie, grazie». Gemeva e piagnucolava come un bambino. Tra un sospiro e l'altro, si asciugava il naso nella manica della giacca. Io ero fermo sulla porta, decisamente imbarazzato. Mentre la lettera della moglie mi aveva commosso, il suo dolore spudorato mi pareva patetico. Sua moglie - che dopo tutto era quella che stava morendo - gli aveva chiesto di essere coraggioso. Gli aveva detto che sarebbe rimasta sempre con lui, che il loro amore avrebbe sconfitto la morte. E invece eccolo lì, pallido
come un cencio, un uomo a pezzi. In quel momento mi accorsi di quanto era magro. I segni della disperazione si erano impressi profondamente sulla sua faccia stretta e l'appartamento, disseminato di putridume, puzzava di marcio. Senza aggiungere una parola, girai sui tacchi e me ne andai. Discesi i gradini a tre a tre. Avevo bisogno di aria fresca. Capii in quel momento che la mia abitudine di buttare tutto nella pattumiera era da coltivare. Quello che si conserva diventa sempre fonte di preoccupazione. Come potete immaginare, il mio lavoro si svolgeva soprattutto nel metrò. Ogni rappresentante ha il suo territorio, e ogni territorio ha il suo rovescio della medaglia. La città sotterranea non ha niente a che vedere con quella che si stende in superficie. È fuori di dubbio che la metropolitana non sia un posto allegro. I treni si incistano nei cunicoli come lunghi vermi gonfi, con le pance piene di pendolari che vengono ingurgitati e vomitati a ogni fermata. La gente resta silenziosa e distaccata, con i sensi attutiti dalla calca, dal rumore e dal continuo movimento. È un posto buio e umido, un mondo fatto di ombre senza corpo e senza personalità, che puzza di fogna. I ragazzi che passano le loro giornate lì sotto a vendere giornali assomigliano a topi. Gli occhi spiccano sulle facce tirate, furtivi e astuti. Queste creature repellenti si precipitano da un vagone all'altro per raccattare poche briciole. I passeggeri alzano i piedi e li evitano. Forse sono troppo severo. Per la verità, ci sono volte in cui, in alcune stazioni della metropolitana sembra carnevale. La musica allegra e chiassosa echeggia nei corridoi e si insinua per le scale. Fisarmoniche, chitarre, sassofoni, trombe suonano insieme. Ci sono nordafricani che si offrono di leggervi nel futuro. Per qualche franco in più possono migliorare la vostra vita sentimentale e aumentare il vostro vigore sessuale. Giovani uomini arrabbiati tengono conferenze sulla fame nel mondo, sulla siccità, la guerra e la disoccupazione. E poi piedi che marciano, amanti che si baciano. Mendicanti senza gambe che sbatacchiano i piattini con le offerte mentre si trascinano lungo le banchine. Per non parlare dei venditori ambulanti! Legioni di gente che cerca di venderti noccioline, fiori e bigiotteria. È gente che coltiva grandi sogni, d'altra parte dal mondo di estrema povertà e di accattonaggio dei sotterranei non si può che salire.
Tutto considerato, questo mondo chiassoso e brulicante non è tanto distante da quello che raccontano Dickens o Hugo, quando descrivono la folla alla Corte dei Miracoli. Può sembrare strano, ma lì sotto c'è poca violenza. Come sa bene qualunque poliziotto, la piccola delinquenza previene il grande crimine. Quando la violenza si manifesta raramente, anche il delinquente più incallito passa a più miti consigli. Comunque, io lavoro in questo circo sotterraneo. Sul breve periodo può anche andare. Fa leva sul fascino che ognuno di noi prova per il perverso, che sia uno spettacolo di nani o un film pornografico. Nonostante un'istintiva repulsione, non si può fare a meno di guardare. Naturalmente, per quanto mi riguarda, il brivido della novità si è esaurito da tempo. Ora quando comincio a provare fastidio, quando gli occhi mi si offuscano e mi sento sporco, esco in cerca di luce. Vado a lavorare nelle vie dove si trovano le banche e dove passeggiano i turisti. Ho già parlato dei musicisti del metrò, il che mi fa venire in mente un altro episodio che vorrei raccontare. Come i venditori ambulanti, questi musicisti sono dappertutto: nelle stazioni, nei corridoi, sui treni. Alcuni sono straordinari. Mi riferisco a un vecchio signore elegante che suona il violino nella stazione di Chàtelet, o a una giovane donna con un vestito da sera blu che sta fissa a St. Michel. Altri sono terribili, è ovvio: penso a un uomo che suonava il tamburo e che, sulla linea numero quattro, ha tormentato i passeggeri da St. Placide a Les Halles. La gente si tappava le orecchie, scendeva dal treno solo per sfuggire a quell'obbrobrio. Sulla stessa linea una donna alta e bionda con le labbra enormi si esibisce da sola ricreando l'effetto di un'intera banda. Ha i tacchi alti e una pettinatura che assomiglia a un alveare. Suona la fisarmonica, alternando il canto a un'armonica a bocca e a un fischietto. Su un braccio tiene appeso un tamburello e allacciato alla caviglia ha un braccialetto di campanelli. È terribile, ma la gente apprezza la sua energia e il suo cappello si riempie di monete. Ma i musicisti che ho in mente sono un gruppo di indiani del Sud America che compaiono spesso alla stazione Montparnasse. Suonano quella misteriosa musica andina che sembra portata dal vento. Due flauti di bambù, una chitarra, un mandolino e dei tamburi. Di solito si esibiscono durante le ore di punta del tardo pomeriggio, quando i soldi affluiscono più abbondanti. Per cinquanta franchi ti vendono la cassetta. Il gruppo si chiama Vento delle Ande. La prima volta che li ho sentiti ero sulle scale della stazione. La musica
era incredibilmente dolce, triste e gioiosa allo stesso tempo, semplice ed elaborata. Il suono mi chiamava e io ne ero irresistibilmente attratto. Alla fine li trovai accanto alla scala mobile principale, sette uomini sorridenti, bassi e tarchiati, con la pelle scura e i capelli neri e spessi. Alcuni indossavano un poncho di lana colorato, altri giacche di cotone ricamate. Mi appoggiai al muro e mi misi ad ascoltarli, entrando subito in una specie di trance. Com'era possibile che una musica facesse sentire una persona triste e felice al tempo stesso? Eppure era esattamente così che mi sentivo. Fui sopraffatto da una profonda malinconia e contemporaneamente provavo un totale senso di pace. Anche se non sono uno sdolcinato, l'intensità della malinconia ha su di me un effetto purificante. Per più di un'ora rimasi ad ascoltarli. Verso la fine mi staccai dal muro per accostarmi alle prime file, il più vicino possibile ai musicisti. Mi crogiolavo nella luce intensa che illuminava quelli che stavano ascoltando. Era veramente straordinario. Davanti ai piedi dei suonatori giaceva la custodia di una chitarra zeppa di monete e banconote, in cui misi una banconota da venti franchi, seguita da un'altra. Dopo un po' l'orchestrina fece una breve pausa. Uno dei suonatori di flauto, un uomo tracagnotto con i capelli lunghi legati in una coda di cavallo, si diresse in mezzo alla folla per raccogliere le offerte e vendere le cassette. Mentre dava il resto a qualcuno, mi accorsi che teneva un rotolo di soldi nella tasca della giacca ricamata. Si fermò accanto a me. D'istinto gli parlai, dicendogli quanto fosse bella la loro musica. Gli spiegai che mi aveva catapultato in una dimensione celestiale, quasi mistica. Ero un po' imbarazzato dal mio entusiasmo, in particolar modo dalla banalità delle mie parole, ma ero sincero e lui annuì con una naturalezza che mi mise a mio agio. Notai che il suo viso emanava quella stessa serenità profonda che la musica faceva risuonare nel mio petto. Quando mi fissò ebbi la sensazione che tra noi scorresse qualcosa di soprannaturale. Non mi era mai successo niente di simile. Poi qualcuno gli toccò il braccio e lui andò oltre. Mi dileguai tra la folla e me ne andai. Mi incamminai lungo Rue de Rennes, proseguendo per il Boulevard St. Germain mentre le note della musica eterea che avevo ascoltato mi risuonavano in testa. Quella curiosa sensazione mi tenne compagnia per molto tempo. Quando mi fermai a mangiare un cuscus al Tunisian Café entrai nella toilette per contare i soldi. Era stato un buon colpo, più o meno duecento
franchi. Mi chiesi se quel giovane musicista così sereno avesse perso il suo contegno. Sperai che non fosse così. Ma lui era stato così incauto e la tentazione troppo forte. Anche gli artisti dovrebbero essere un po' più responsabili. L'ultimo incidente descrive le condizioni in cui versa la mia arte ai giorni nostri. Perdonatemi se mi lamento. Quando osservo la gente che esercita la mia professione oggi, in particolare i più giovani, resto assolutamente sbigottito. Sono maldestri e impreparati. Non hanno più nessun rispetto di se stessi. È come se la pratica, per non parlare dell'apprendistato vero e proprio, non li riguardasse. Basta osservarli lavorare. Una mattina decidono di diventare borseggiatori e, arrivati alla sera, hanno rubato un portafoglio. Questi impostori non hanno la più pallida idea di quello che ci vuole. Sono assolutamente privi di scaltrezza. Invece che sulla professionalità, fanno affidamento sulla violenza. Se le vittime protestano, è facile che si trovino un rasoio o una lama alla gola. Rubano ai vecchi, alle donne sole. Lavorano di notte. Naturalmente i loro guadagni sono miserevoli, quindi moltiplicano gli sforzi. E presto la paura dilaga. Secondo me questa decadenza va di pari passo con il declino culturale. Noi francesi abbiamo una cultura democratica costruita su forme aristocratiche. Hugo ci ha messo in guardia contro il deterioramento. Spengler l'ha predetto. Ma chi ha dato loro ascolto? Ora il disprezzo della forma è diventato un passatempo popolare, un male d'importazione. Spediamo a ovest il sole e indietro ci ritorna il buio. Senza dubbio qualcuno si stupirà di sentire un borseggiatore che condanna la perdita di valori, che cita Hugo e Spengler. Questa incredulità rispecchia perfettamente il declino di cui sto parlando. Ai giorni nostri siamo convinti che solo gli intellettuali e le classi alte detengano il monopolio della cultura e dell'educazione e io dubito seriamente che per quanto riguarda la seconda sia vero. Eppure non è sempre stato così. Quando ero più giovane anche i ladri e i papponi leggevano, andavano a teatro, ascoltavano sia Mozart sia la Piaf. Conoscevo uno scassinatore che scriveva poesie di nascosto. Genet divenne un autore famoso. Finiamola con gli stereotipi. Tuttavia ogni tanto capita che un giovane borseggiatore mi sorprenda.
Mi ricordo un giorno che avevo lavorato tra la folla di turisti, sulla Rive droite. Nella maggior parte dei casi i turisti sono bersagli facili, soprattutto gli americani. So sempre dove un americano tiene il portafoglio, anche perché se lo tocca di continuo. È così contento di arrivare nella Ville Lumière che viene sopraffatto da una sorta di esaltazione e si dimentica di tutto. Le guide turistiche lo avvisano, ma lui ignora le precauzioni. È una strana creatura, questo americano. Tutto lo coglie di sorpresa. È un grande ottimista, anche se è facile alla delusione. Considera il pessimismo una debolezza. Ma è ben organizzato. In questo senso sorpassa anche i tedeschi. Mi rendo conto che questo punto di vista va contro l'opinione comune, ma è la verità. Il giorno di cui parlo era stato particolarmente positivo. La stagione turistica era nel pieno. I marciapiedi lungo Rue de Rivoli erano gremiti. I portafogli sembravano balzare fuori dalle tasche per conto loro. Le mie dita non mi erano mai sembrate così agili. Passavo da un bersaglio all'altro. Era come raccogliere l'uva. A un certo punto tornai a casa per svuotarmi le tasche e poi andai di nuovo in strada. A metà pomeriggio passai un'ora in un caffè. Le cose stavano andando bene, ma io ero nervoso e avevo bisogno di calmarmi un po'. Quando mi rimisi al lavoro, scoprii che non era cambiato niente. Ero al massimo della forma, come se i miei polpastrelli avessero gli occhi. Generalmente sto sempre all'erta per scovare i poliziotti in borghese. Sono facili da riconoscere, come le auto civetta. Comunque bisogna farci caso. Alcuni sono furbi e si nascondono negli androni. Quel giorno mi sentivo così sicuro di me che quando ne vidi uno vicino all'Hotel Meurice, gli passai accanto e gli rubai il portafoglio. Che insolenza! Che audacia! Non avrei mai dovuto rischiare, ma ero animato da una specie di euforia, come un giocatore di golf che infila una buca dopo l'altra. L'unica cosa che mi dispiaceva era di non potermi attardare per vedere la sua faccia quando avrebbe scoperto il fatto. Ero tentato di avvicinarmi per chiedergli se aveva da cambiare, solo per vedere la sua reazione, ma ebbi il buon senso di resistere. Mi ero già tolto lo sfizio. Perché provocare il destino? All'incrocio di Rue de Rivoli con Place des Pyramides vidi un ragazzo che stava tentando goffamente di rubare un portafoglio. Il pollo era un tedesco grande e grosso che indossava un paio di pantaloni larghi e una camicia hawaiana. Cominciò ad attraversare la strada quando il semaforo era ancora rosso e scostò con uno strattone la mano del ragazzo. Era il tipico
incidente che capita ai principianti. Non bisogna mai fare affidamento sulla prevedibilità di un bersaglio. Il tedesco fece un balzo all'indietro e strillò indicando la folla. Ma il ragazzo era scomparso. Da questo punto di vista la sua prestazione era stata grande. Lo seguii lungo il marciapiede per parecchi isolati. Girò a destra in Rue d'Alger, si appoggiò al muro e si accese una sigaretta. Gli tremavano le mani. Quando mi avvicinai, fece un salto. Pensava che fossi un flic in borghese. Con grande fermezza negò l'intera faccenda, dicendo che non era mai passato dalle parti di Place des Pyramides quel giorno. In questo, almeno, dimostrò di avere giudizio. I suoi timori erano giustificati. Sarebbe potuto finire in prigione. Fumai una sigaretta insieme a lui, finché si calmò. Parlammo. Era un bel ragazzo, aveva i capelli neri e gli occhi azzurri, incorniciati da lunghe ciglia. Il suo viso aveva quell'ossatura delicata, tipica degli adolescenti, che le donne sembrano apprezzare molto. Allo stesso tempo ero attratto dalla sua insolenza. All'orecchio sinistro portava un orecchino. Venne fuori che il ragazzo era di Lione, era arrivato da poco a Parigi ed era assolutamente deciso a non finire in un ufficio dove avrebbe dovuto timbrare il cartellino. Lo portai al ristorante Au chien qui fume sulla Rue du Pont Neuf e gli offrii la cena. Era chiaro che non mangiava da tempo. Poi andammo a passeggiare alle Tuileries e gli diedi qualche dritta. Si trattava dell'"abc" del mestiere: come riconoscere un poliziotto in borghese, non fare mai colpi in ascensore se non c'è una via di fuga, non lavorare mai nello stesso posto per due giorni di fila. Questo era quello che avevo imparato da Moses Marchant molto tempo prima. Per me queste regole erano diventate una seconda natura. Il fatto di ripeterle mi fece ripensare con tenerezza a Moses e cominciai a riflettere sull'eventualità di prendere con me il ragazzo, che si chiamava Sebastien, in qualità di apprendista, esattamente come Moses aveva fatto con me. Ma Sebastien disse qualcosa che mi fece cambiare idea. Mi spiegò che aveva intenzione di diventare ricco rapidamente e di ritirarsi in Corsica prima dei trent'anni. Era assolutamente serio. Voleva vivere su una barca e starsene tutto il giorno sdraiato a bere pastis. Se c'è una cosa pericolosa in questo mestiere è l'avidità. Una persona avida si assume dei rischi assurdi, corre pericoli eccessivi. E alla fine si fa prendere. Per evitare che questo accada è anche pronta a far del male. Ha troppa fretta. Di solito questa impazienza deriva dall'ambizione e dalla
giovinezza. Ma quando si è troppo ambiziosi si può anche non raggiungere la maturità. Mi accorsi che il punto debole di Sebastien era proprio questo miscuglio. Alla fine tenni i miei pensieri per me e gli augurai buona fortuna. Ci separammo all'altezza di Gare de la Concorde, da dove proseguii verso casa. Era stata una gran giornata. Non avevo mai lavorato con tanta precisione e non mi ero mai sentito così padrone del mio mestiere. In quanto a Sebastien, non mi ero lasciato trasportare dai sentimenti. Avevo preso una saggia decisione. Fischiettai per tutta la strada. Arrivato a casa misi nello stereo il Concerto in A minore per violino di Bach, aprii una bottiglia di La Bacholle Gamay, accesi una sigaretta e mi sdraiai sul divano. Appena mi rilassai, mi sentii invadere da una sensazione stranissima. Mi alzai in piedi e andai verso il cappotto che avevo buttato sullo schienale di una sedia. Infilai una mano nella tasca dove avevo messo l'incasso del pomeriggio. La tasca era vuota. Fui così sconvolto che sarebbe bastato niente a farmi crollare. Avevo le vertigini, quasi mi dimenticai di respirare, mossi un passo di lato, barcollai, poi mi ripresi. Appena riuscii a respirare di nuovo, cedetti alla rabbia. Cominciai a camminare avanti e indietro, imprecando. Battevo i pugni e mi davo delle gran pacche sulle gambe. Che oltraggio! Maledii Sebastien, poi maledii me stesso. Presi a calci la porta, il divano, le sedie. Arrivai perfino a mordermi il pugno, come i pazzi. Era un bello spettacolo, peccato che non ci fosse nessuno a vederlo. Alla fine mi calmai. Per un attimo restai alla finestra scuotendo la testa per il disappunto. Guardavo il via vai dei passanti per strada. Fumai una sigaretta, poi un'altra. A quel punto cominciai a ridere. Era meraviglioso. Mi aveva davvero fatto fesso, il ragazzo, con una prestazione di tutto rispetto. Fu allora che tornai a sdraiarmi sul divano, finii il mio vino e mi misi ad ascoltare Bach. Avevo perso metà delle entrate di quella giornata. Ma che ci potevo fare? Il mondo è pieno di ladri. John Peyton Cooke QUANDO SARAI MORTO (Da Stranger) L'amavo così tanto che me la cullavo tra le mani, accarezzandone l'im-
pugnatura, stringendo la camera di scoppio tra i pollici, fissando intensamente l'interno della canna, come perdendomi negli occhi di un'innamorata, in cerca di una qualche verità. Lei mi ricambiò con uno sguardo penetrante e mi rivelò l'ultima verità: "Sì, hai capito bene, Grant. Sono la tua fedele Glock. Puoi contare su di me. Ti ucciderò". Baciai la sua bocca. Mi restò sulla lingua sapore di olio e odore di polvere da sparo sulle dita. L'avevo smontata e ripulita dopo aver passato tutto il pomeriggio al poligono a sparare su quei cupi bersagli sospesi, nel tentativo inutile di liberarmi dai miei pensieri ossessivi. Era l'unico modo per trattenermi dal puntare la Glock su me stesso all'istante. Non volevo andarmene così, davanti a tutti. Volevo un po' di privacy e il tempo di lasciare un messaggio: anzi, tre, indirizzati a tre persone diverse, e attaccati con il nastro adesivo allo specchio del bagno. Uno al padrone di casa, per scusarmi del macello e dirgli di prendere quello che voleva. Un altro al comandante Feliciano: grazie di avermi aiutato tutte le volte che le cose si sono messe male, però diciamoci la verità, amico, sono un buono a nulla. L'ultimo a mamma: ti voglio un sacco di bene e non è colpa tua, anche se hai ammazzato Poncho. Amavo così tanto la mia Glock che me ne appoggiai dieci centimetri, dei quindici totali, sulla lingua, richiusi le labbra intorno a lei, e circondai con i pollici il grilletto a sicura automatica. Non c'è una sicura esterna nella Glock, ma se non si preme nel punto giusto, il grilletto agisce da sicura e non spara. Il mio pollice era nel punto giusto. Sarebbe stato un gioco da ragazzi. Dicevo a me stesso che ero un vero uomo, che ci sarei riuscito. Ero agitatissimo; mi si incrociavano gli occhi a forza di guardare il grilletto sotto il naso. L'ultima cosa che avrei visto sarebbero state le grinze sulla nocca del pollice che si distendevano quasi impercettibilmente. Spinsi in giù il grilletto, in modo che la sicura non sarebbe più stata sicura e io non mi sarei più sentito giù. Lo feci davvero. Premetti il grilletto. Avrebbe dovuto sparare. Ma non lo fece. Si inceppò. Per la prima volta nella mia carriera, la mia Glock mi aveva piantato in asso. E ora mi tremavano le mani e mi batteva il cuore così forte che pensai mi sarebbe venuto un infarto. Se ci avessi riprovato subito avrei fallito di nuovo. E non volevo fallire. Posai la pistola. Avevo lo stomaco sottosopra per la nausea. Armeggiai
nervosamente con il pacchetto delle sigarette per tirarne fuori una. Consumai tre fiammiferi prima di riuscire ad accenderla. Il fumo nei polmoni mi fece bene. La nicotina riuscì a farmi ragionare: forse la vecchia Glock mi stava lanciando un segnale, forse voleva dirmi che avevo bisogno di aiuto, che c'era qualcosa che non andava in me. E guai a contraddire una Glock. Non sapevo da dove cominciare. Il capo ci invitava sempre ad approfittare degli psichiatri del dipartimento, ma si sapeva cosa c'era sotto. Non potevo contare su una riservatezza assoluta. Qualunque fosse il mio problema, c'era il rischio che venisse spifferato e schedato. Avrebbe potuto essere citato in una futura causa giudiziaria se le mie capacità di poliziotto fossero state messe in discussione: il che non era poi tanto improbabile. O, più semplicemente, si sarebbe potuta spargere la voce nel distretto: "All'agente Grant manca qualche rotella". "Già, Tom Grant non è affidabile." "Quel tipo è fuori di testa. Mettiamolo dietro una bella scrivania in modo che non faccia danni per le strade." Non potevo chiedere aiuto al dipartimento di polizia. Nossignore, neanche per sogno. Di fronte a me, girato a faccia in giù sul tavolo della cucina, c'era il «Village Voice». Uno degli annunci sull'ultima pagina attirò la mia attenzione: Sei solo? Depresso? Vuoi suicidarti? Chiama il telefono amico attivo 24 ore su 24 555-aiuto 555-aiuto 555-aiuto. Sembrava proprio fare al caso mio. L'aiuto che cercavo era all'altro capo del filo. Anche se erano le due del mattino, ci sarebbe stato qualcuno dall'altra parte pronto a dissuadermi dal mio proposito. Alzai la cornetta e chiamai. «Pronto.» Era la voce di un uomo, estremamente dolce, alquanto assonnata. «Ehm, sì, pronto, è il telefono amico?» Le parole mi uscirono stridule. «Sì, esatto.» Si schiarì la voce. «Cosa posso fare per te?» «Ho... Poco fa ho cercato di uccidermi.» «Veramente?» «Sì, veramente.» «Cos'è successo? Perché non ci sei riuscito?» «La pistola si è inceppata.»
«Ah, usi una pistola. Di che tipo?» «Come "di che tipo"? Fa differenza?» «Certo che fa differenza. Che tipo di pistola hai?» «Be', ecco, una Glock.» «Mmh» disse il tipo del telefono amico. «Che modello?» «Una 17L semiautomatica, con canna di 15 centimetri.» «Che calibro? Nove millimetri? Quaranta Smith & Wessons? O quarantacinque?» «Nove millimetri» risposi. «Quanti colpi nel caricatore?» «Diciassette nel caricatore e uno nella camera di scoppio. Quello nella camera si è bloccato. Devo ricominciare da capo.» «Quanto costa un'arma così?» s'informò il telefono amico. «Non so quanto costi adesso. La mia l'ho presa, dunque... quattro anni fa, quando sono entrato in accademia. Mi è costata più o meno ottocento dollari.» «L'accademia?» esclamò. «Intendi dire l'accademia di polizia?» «Sì, sono un poliziotto.» «Interessante.» «Senti, non sto scherzando. Adesso smonto la Glock, la pulisco tutta, la ricarico e ci riprovo. Ci sarà una probabilità su un miliardo che mi si inceppi di nuovo.» «Una su un miliardo» ripeté il telefono amico. Seguì un silenzio imbarazzante. «Non dici niente per convincermi a non farlo?» «Perché dovrei?» «Pensavo che fossi lì per questo.» «Se vuoi spararti e pensavi che io avrei cercato di convincerti a rinunciare, perché hai chiamato?» chiese. «Non ti seguo» dissi. «Perché non lo fai adesso, subito, mentre siamo al telefono?» «Che stai dicendo?» «Mi hai sentito. Continua a parlarmi mentre fai quello che devi fare: sbloccare la pistola o quello che è. Io aspetto. Prepara tutto per benino, e poi fallo. Fallo e basta. Voglio proprio sentire.» «Ascolta, amico, forse ho sbagliato numero.» «No, per niente. Hai fatto proprio il cinque-cinque-cinque-A-I-U-T-O. Sono io, sono il telefono amico, hai trovato quello che cercavi.»
«Continuo a non capire.» «Ma chi se ne frega se non capisci? Stai per ammazzarti. Tra qualche minuto non importerà più niente a nessuno di te. Tu te ne sarai andato e noi saremo ancora qua. Non ti conviene capire. Cominci ad afferrare il mio ragionamento?» «Non proprio.» «Dove pensavi di spararti? Alla tempia? In bocca? Oppure al torace?» «In bocca.» «Bene» disse. «È la scelta migliore. Alla tempia, rischi di ridurti a un vegetale. Al torace, non è garantito che tu colpisca il cuore. Potresti ferirti e basta, svenire e ritrovarti all'ospedale.» «Non mi servono i tuoi consigli» dissi. «Io ho bisogno di aiuto.» «Aiuto? Ti serve aiuto? Cosa credi che sia quello che ti sto offrendo?» «Non intendo quel tipo di aiuto.» «Ti sembra forse che io abbia specificato il tipo di aiuto nell'annuncio?» «No, però...» «Date sempre tutti per scontato che io sia qua per salvarvi. E invece no. Vuoi ammazzarti? Per me va bene. Non sopporto quelli che fanno le cose a metà, e non sanno andare fino in fondo. Ad alcuni serve solo una piccola spinta. Così ho messo il numero sul giornale. Voglio che mi chiamino nel momento critico, quando tutto quello di cui hanno bisogno è un po' di incoraggiamento.» «Tu sei malato.» «Oh, oh!» esclamò. «Sei tu quello che stasera ha cercato di farsi fuori già una volta e vuole riprovarci. E chi sarebbe quello malato tra noi due?» «Aspetta un attimo» dissi, cominciando a ridere. «Ho capito quello che stai facendo. Ho capito perfettamente. Sei furbo, sai? Meriteresti un premio. Stai usando il principio della psicologia inversa, proprio come faceva mia madre quand'ero piccolo.» «Ah, sì?» disse il telefono amico. «E come sarebbe, esattamente?» «Fai finta di volere che io porti fino in fondo quello che ho iniziato, come se provassi piacere nel sentire la gente morire all'altro capo del telefono. Tu pensi che non facciamo altro che piangerci addosso e siamo solo in cerca di qualcuno che ci tenga per mano e ci dica che va tutto bene, che un arcobaleno splende per noi, annunciando l'alba di un giorno migliore.» «Mi stai facendo perdere tempo. Basta. Hai intenzione di farlo o no?» «Vedi? Invece di offrirci parole di conforto, ci insulti. Cerchi di farci sentire delle nullità, perché credi che così ci ribelleremo e diremo a noi
stessi che invece andiamo benissimo come siamo. Mentre ti ascoltiamo e pensiamo che sei un cretino, ci diciamo "Ma perché dovrei stare a sentire questo qua?", e in men che non si dica ci hai guariti dalla nostra fissazione e fatti tornare felici e contenti. Non è così che funziona?» Dal telefono amico giunse distintamente uno sbadiglio. «Pronto?» dissi. «Ci sei ancora?» «Mi sono fatto un panino. Stavi dicendo?» «Non importa quello che stavo dicendo. Ti ho scoperto, e con me non funzionerà; magari con qualche altro credulone sì, ma non con me, amico.» «Che cosa non funzionerà?» «Il trucco della psicologia inversa. Sei la dimostrazione di quanto faccia schifo il mondo in cui viviamo, e io voglio starne fuori. Pulirò la pistola e mi farò saltare in aria il cervello.» «Fai davvero sul serio, stavolta?» «Certo che faccio sul serio!» gridai. «Se vuoi sentire con le tue orecchie, basta che resti in linea. Non ci vorrà molto.» «Prometti? Non è che mi stai solo prendendo in giro?» «Prometto. Che mi venga un colpo se non lo faccio.» «Così ti voglio! Dove abiti?» «Eh no» dissi. «Non te lo dico. Ora mi credi e vuoi mandare qui qualcuno, dal mio distretto, magari, oppure un'ambulanza o un maledetto assistente sociale.» «No» disse con quella sua voce calma, controllata. «No, sono io che voglio venire per vedere con i miei occhi. Magari posso anche aiutarti. Cioè, sempre che tu voglia veramente il mio aiuto...» «So cavarmela da solo, grazie molte.» «Non ne sono poi tanto sicuro, mi sembri un codardo.» «Codardo?» dissi. «Ma perché non vai a farti fottere?» «Come ti chiami?» chiese, per niente turbato dal mio suggerimento. «Tom» risposi. «Tom come?» «Solo Tom, va bene? Non voglio che tu faccia il mio nome in giro.» «Non ho intenzione di farlo. Puoi fidarti di me, Tom. Io sono Ray, il tuo amico Ray, e sono qui per aiutarti.» «Bell'aiuto che mi hai dato finora, amico.» «Sì che te ne ho dato» disse Ray. «Solo che tu non l'hai apprezzato. Adesso perché non mi dici dove vivi? Voglio venire da te.»
«Solo se prometti di non interferire.» «Prometto; non ci penso proprio a intromettermi» disse Ray. Gli diedi il mio indirizzo. Disse che abitava a soli quindici isolati di distanza e che ci avrebbe messo dieci minuti. Riattaccammo. Stesi alcuni fogli di giornale e cominciai a pulire la pistola. «Perché una nove millimetri?» mi chiese Ray, seduto dall'altra parte del tavolo, in cucina. Aveva la mia età, e uno sguardo troppo intenso. «Perché non un revolver? I revolver non s'inceppano mai. Non avresti mai avuto questo problema e non mi avresti dovuto chiamare.» «Se lo vuoi proprio sapere,» risposi, infilando con cura diciassette proiettili nel caricatore «credevo davvero che la nove millimetri fosse il top. Poco tempo dopo il mio ingresso in accademia, il dipartimento aveva cambiato i regolamenti per consentirci di portare qualcosa di più potente di una calibro trentotto.» «La trentotto Special» disse Ray con un sorriso radioso. «Il modello standard in dotazione alla polizia.» «Già, ai vecchi tempi» dissi. «La maggior parte di noi era favorevole al cambiamento, ma i veterani erano contrari. Non smettevano di ripeterci che le semiautomatiche erano inaffidabili e tendevano a incepparsi.» «Vedi?» disse Ray. «Loro sì che se ne intendevano!» «Erano così spaventati dal cambiamento che cercarono altre scuse: dicevano che noi giovani avremmo potuto perdere il controllo e svuotare un intero caricatore su qualsiasi punk che avesse avuto la sfortuna di capitarci tra i piedi.» «Alla fine si sono adeguati?» «No, si sono tenuti le loro 38 Special. Cambiare sarebbe stato come chiudere una storia d'amore. Tuttavia, la maggior parte di noi sotto i quaranta è passata alla nove millimetri. Eravamo noi quelli in prima linea. I gangster avevano armi più potenti, a volte persino mitragliatori AK47. Dovevamo metterci a un livello il più possibile paritario.» «Ecco perché la Glock» disse Ray pieno di ammirazione. «È proprio bella, Tom.» «Grazie. Io e la mia Glock ne abbiamo passate tante insieme. Una volta ho dovuto usarla per fermare un ragazzino di sedici anni, armato di una bellissima Colt Double Eagle dieci millimetri argentata.» «Racconta!» «Il ragazzo aveva appena rapinato un negozio di alcolici. Mi sono identi-
ficato e gli ho chiesto di gettare la pistola. Si è rifiutato di farlo. Immagino volesse morire in un tripudio di gloria, e non ho avuto altra scelta se non accontentarlo.» «Grande!» disse Ray, e a quelle parole gli brillarono gli occhi. «Ho sempre pensato che sarebbe stato meglio se avesse preso la mira e fatto fuoco: almeno non sarebbe sembrata un'esecuzione. Ma per farlo, avrebbe dovuto avere qualche colpo in canna. Quando il ragazzo era già a terra, abbiamo controllato la sua Colt e abbiamo scoperto che il caricatore era vuoto, come il mio dopo che gli avevo sparato.» «Oh, questa non ci voleva!» Ray fece un'espressione dispiaciuta. «Povero Tom!» «Basta tener premuto il grilletto un secondo per sparare a raffica tutte le pallottole. Pensavo di avergliene messe in corpo solo qualcuna, ma dal conto dei buchi sul petto ne sono saltate fuori diciassette.» «Wow!» esclamò Ray. «E non sei finito nei guai?» «Certo che no» risposi. «Era tutto a posto. Avevo fatto il mio dovere per proteggere i miei colleghi e i cittadini. Il mio capo, il capitano Feliciano, mi ha detto "Hai fatto un buon lavoro, figliolo" e mi ha dato una gran pacca sulle spalle. "Non preoccuparti" ha detto. "Se l'è cercata, e tu gli hai dato quello che voleva. Vai a casa e fatti una bella doccia rilassante. Domani starai meglio."» «Bel tipo il tuo capo, mi piace» disse Ray. «E aveva ragione? Ti sentivi meglio il giorno dopo?» «Eccome, stavo benone. Credevo a quello che mi aveva detto il capitano: avevo fatto il mio dovere. Se la pistola del ragazzo fosse stata carica, avrei anche potuto ricevere una lode per aver salvato la vita a tutti i passanti fermi davanti al negozio a guardarci mentre facevamo i fuochi d'artificio. Agente Grant in soccorso. Stretta di mano del capo. Onori del sindaco. Champagne per tutti.» «Dimmi delle altre volte» disse Ray con voce roca. Così gli raccontai dell'inseguimento a tutta velocità sulla FDR Drive, a Manhattan. Dopo essere riusciti a bloccare il conducente, io ero rimasto appostato presso l'auto della polizia per coprire il mio collega che si era avvicinato alla macchina, ma il tizio era balzato fuori brandendo una Rossi 851 calibro 38 Special in acciaio brunito. Avevo dovuto ucciderlo, non avevo alternative. In seguito, il capitano Feliciano aveva approvato la mia linea d'azione, e si era sistemato tutto. Poi ci fu l'incidente stradale: a un semaforo un tassista sikh tagliò la
strada a un fattorino giamaicano in bicicletta. Il fattorino reagì mandando in frantumi il finestrino sul lato del conducente con il lucchetto della bici, che poi usò per colpire il tassista sul turbante. A quel punto l'autista, sanguinante, tirò fuori da sotto il sedile una luccicante Colt King Cobra cromata calibro 357 Magnum, e mirò alla testa del fattorino, con il dito che gli tremava sul grilletto. Io ero all'angolo a chiamare rinforzi quando vidi la pistola. Estrassi la mia Glock, mi identificai come agente di polizia, e ordinai al sikh di buttare a terra la sua arma. Gli concessi persino più tempo del necessario, ma lui continuava a puntare la pistola contro il fattorino. Anche quella volta non ebbi scelta. Uccisi l'autista del taxi e accusai il fattorino di aggressione e crimini contro la proprietà. In seguito venimmo a sapere che il tassista non capiva una parola di inglese, ma il capitano Feliciano era fermamente convinto che avessi fatto la cosa giusta. Mi pagò persino una birra. «Credo che quel tuo capitano sia pazzo di te» disse Ray. «Ti permette di passarla liscia con tutti quegli omicidi perché non vede l'ora di strapparti le mutande.» «Feliciano? No. Se lo conoscessi non la penseresti così.» «Sì invece» ribatté Ray. «E questa non è una buona ragione per andare fino in fondo con il suicidio? Voglio dire, come fai a non essere disgustato? Hai ucciso tutte quelle persone mentre eri in servizio e non ricevi nemmeno una sospensione o un rimprovero perché il tuo capo pensa che sei un bel bocconcino. Credimi: potrò anche non conoscere lui, ma conosco la natura umana. Sei il suo amichetto del cuore, il suo cocchino. Quando va a casa la sera ti sogna, Tom.» «Ne dubito» risi nervosamente. «Feliciano è sposato.» «Ma quello non vuol dir niente! Tom, non essere così ingenuo!» «Gli ho lasciato una lettera d'addio» dissi. «Veramente?» Ray inarcò le sopracciglia scure. «Posso vederla?» «È sigillata, ed è attaccata allo specchio del bagno con del nastro adesivo.» Ray si alzò. «No!» dissi. «Ti ho detto che è già sigillata.» «E allora? La chiuderemo di nuovo!» disse Ray, dirigendosi verso il bagno. «Può leggerla solo lui» dissi, alzandomi a mia volta per seguirlo. «Non toccarla!» «Scommetto che è una lettera d'amore!» Ray scattò avanti, lasciandomi
indietro. «Non è vero!» Arrivò per primo allo specchio e staccò la busta chiaramente indirizzata al capitano Feliciano. «Ah-ah!» fece Ray, indietreggiando per sistemarsi nella vasca da bagno. «L'ho presa» strappò la busta ed estrasse la lettera, ridendo. «Oh, questa è bella! Adoro le lettere d'addio dei suicidi!» «Dammela!» gridai, allungando un braccio per prenderla. Ray la spostò prima che potessi afferrarla e cominciò a leggerla ad alta voce: «''Caro Tony..." Tony, eh? Ma allora siete proprio amici intimi. Non lo chiami comandante? Va be', non importa. "Caro Tony, quello che vedi è il risultato finale della vita che ho sprecato. Non so cosa mi abbia permesso di andare avanti tutto questo tempo. Credo sia stato tu. Mi sei sempre stato vicino quando le cose si mettevano male. Se non fosse stato per te, credo che mi sarei arreso prima." Oh, Tom, è troppo divertente! "Ma tutto si sta ritorcendo contro di me, Tony. Non sono un buon poliziotto, e tu lo sai. Non faccio in tempo a entrare in azione che mi parte la pistola e qualcuno ci resta secco. Puoi dire quello che vuoi, ma non è così che dovrebbero andare le cose. Avrei dovuto essere rinchiuso da qualche parte e punito." Oh, adesso stai chiedendo al capitano Tony di sculacciarti! Tom ha fatto il bambino cattivo! "Non merito di portare il distintivo. Ma che altro posso fare? La polizia era la mia ultima occasione. Se sono un fallito come poliziotto, sarò un fallito anche in tutto il resto. La mia vita è stata tutta un fallimento. Non mi resta altra alternativa che farla finita. Scusa se sono un tale buono a nulla. Non disturbarti a mandare fiori al funerale, risparmia i soldi per te e Stella. Addio per sempre. Tom."» «Dammela!» gridai di nuovo, riuscendo finalmente a strappargliela di mano. «Tom, è una lettera deliziosa!» disse Ray. «Adesso vattene via.» «Dai, Tom, non fare così!» «Credo sia tu quello che è pazzo di me, Ray» dissi, dirigendomi nuovamente verso la cucina. «Ancor meglio ti amerò dopo la morte» declamò Ray. «Elizabeth Barrett Browning, hai presente?.» «Una volta avevo una pistola Browning» dissi. Rimisi la lettera nella busta, la sigillai di nuovo usando dello scotch, e la
riattaccai allo specchio del bagno. «Cosa c'è scritto nelle altre lettere?» «Più o meno le stesse cose. Non ti azzardare a toccarle.» Lo afferrai per il colletto e lo buttai fuori dal bagno. «Ehi!» disse lui. «Anzi, credo proprio che faresti meglio ad andartene.» «Oh no, Tom. Devo restare per accertarmi che tu vada fino in fondo. Per quanto ne so io, potresti anche tirarti indietro. Non sopporterei proprio di tornare qui domani e trovarti ancora vivo.» «Smammare. Aria. Sayonara.» Gli diedi una spinta verso l'uscita. «Lo sapevo» fece lui. «Sei un codardo. Non mi vuoi tra i piedi perché sei troppo fifone per farla davvero finita. Non sei abbastanza uomo. Ti manca il fegato per infilarti la pistola in bocca e farti saltare il cranio. Sei più checca di me, Thomas.» «Sta' zitto» dissi. «Checca, checca, checca.» «Ti ho detto di stare zitto!» «Non appena sarò uscito da quella porta, ti volterai e dirai, con espressione incredula, "Oh mio Dio! Cos'avevo in testa? Non posso farlo! Amo troppo la vita! È così bella! ". Poi metterai via la pistola nella sua custodia, e la chiuderai a chiave in un posto dove non puoi vederla, e cercherai di non pensarci più. Tornerai in bagno, ridurrai quelle lettere a pezzettini, e poi le butterai nel water. Ti guarderai allo specchio e ringrazierai il cielo che la pistola si sia inceppata e tu sia ancora vivo. Anche se non credo che si sia inceppata da sola. Sei tu che l'hai sistemata in modo che si bloccasse.» «Non è vero» protestai. «Oh sì, invece» replicò Ray. «Non era poi tanto difficile. Sapevi esattamente cosa fare perché la pallottola si fermasse lì nella camera di scoppio. Forse l'hai fatto inconsciamente. Comunque sia, non volevi suicidarti davvero. E perché no? Perché sei un debole! Non sei un vero uomo. Sei solo un tenero gattino che si diverte con un giocattolo luccicante. E quando il gattino è stanco di giocare, si raggomitola nel suo cestino e si addormenta. Fai la ninna, fai la nanna. Sogni d'oro, bel micino.» Afferrai Ray per la camicia e lo colpii alla mascella con un montante sinistro. Barcollò, ma io lo tenevo stretto. «Oh, Tom» disse. «Non c'era bisogno di farmi male. Ma questo non fa
che confermare quello che penso, e cioè che sto dicendo la verità: non hai il fegato di ucciderti. Sei patetico.» Lo lasciai andare, tornai al tavolo in cucina, e guardai la pistola. La presi in mano e montai gli ultimi pezzi. Con un colpo deciso inserii saldamente il caricatore nell'impugnatura e caricai un'altra pallottola direttamente nella camera di scoppio. «Adesso è tutto pronto» dissi. Massaggiandosi la mascella, Ray rientrò in cucina e si sedette di fronte a me. «Sicuro di potercela fare?» «Certo che sono sicuro.» «Se proprio non ci riesci, potresti lasciar fare a me.» «No, grazie, faccio da solo.» «Potrei ucciderti io stesso. Nessuno lo scoprirebbe. Certo sarei un assassino, ma tu hai già preparato per bene tutte quelle lettere - per il padrone di casa, il comandante, tua madre - e nessuno sospetterebbe mai niente. Non ci sono legami tra noi due. Non ci siamo mai visti prima. L'unica persona a sapere che hai chiamato sono io, e non lo dirò ad anima viva!» «Non sarà necessario. Sono capace anche da solo.» «Non ne sono tanto convinto» disse Ray. «Fammi vedere.» «È meglio se stai lontano» dissi, girando la pistola verso di me, a un millimetro dalla bocca. «Potrebbe schizzare di tutto.» «So dove sedermi per non trovarmi nel mezzo. L'ho fatto decine di volte.» «Come, scusa?» «Non mi credi? Pensi di essere l'unica persona speciale dell'universo? Be' non è la prima volta che metto quell'annuncio. Sei un poliziotto, saprai quante persone si suicidano ogni anno in questa città. Sono in molti a chiamare in cerca d'aiuto, e alcuni contattano me. Io cerco di dare loro indicazioni al telefono, ma di tanto in tanto mi capita un caso davvero speciale, come il tuo, e a qualsiasi ora del giorno e della notte interrompo quello che sto facendo e vado da loro a vedere come posso aiutarli. Stavo dormendo quando hai chiamato, lo sai? Eppure sono saltato giù dal letto e sono venuto qua. Niente male come dedizione alla causa, non ti pare?» «Allora non è veramente una linea attiva 24 ore su 24. Adesso che sei qui ad aiutare me non puoi rispondere alle telefonate.» «Be', sai com'è, posso aiutare solo una persona alla volta.» La bocca della pistola era quasi a contatto con la mia, ma ero curioso di
saperne di più: «Di quanti suicidi sei stato testimone, esattamente?». «Ho perso il conto. Buffo, no? Si potrebbe pensare che uno come me abbia un registro o qualcosa del genere per riuscire a stare dietro a tutti, ma a me non interessa. Ogni cliente si merita la mia più completa attenzione. Non voglio che finiscano in un'altra statistica delle tante. Sai, non sto sempre a guardare e basta, a volte fornisco assistenza. È del tutto legale.» «Balle.» «Il suicidio assistito? Certo che è legale! Il dottor Kevorkian è stato il pioniere. Scommetto che non sa più neanche lui quanti ne ha fatti.» «È diverso» dissi. «Tu non sei un medico e non aiuti i malati terminali.» «Non cercare il pelo nell'uovo, Tom! Il dottor Kevorkian aiuta persone che soffrono terribilmente e vogliono farla finita. Io faccio lo stesso. Tutti quelli che mi chiamano sono in preda a un tormento straziante. Non lo sei forse anche tu? Voglio dire, Tom, quel malessere che provi, non ti consuma dentro? È doloroso, e fai fatica a sopportarlo.» «Più o meno,» dissi «ma...» «Niente ma, Tom! Il suicidio assistito è la nuova frontiera. Ci sono dei precedenti, e presto spunteranno centri per suicidi in tutto il paese. Un'intera catena di megastore del suicidio.» «Tu sei pazzo» dissi. «Se ti sei stancato di starmi a sentire, perché non premi quel grilletto e non ti togli il pensiero?» Mi infilai in bocca la canna della pistola, per dieci centimetri della sua lunghezza totale. La reggevo con entrambe le mani, il pollice attorno al grilletto. Non c'era alcuna probabilità che si inceppasse questa volta. Era pronta a fare fuoco. Ray mi guardava con quei suoi occhi intensi. Sembrava sul punto di sbavare. Ancor meglio ti amerò dopo la morte... Mi tolsi la pistola dalla bocca. «Aspetta un attimo» dissi, girandola verso Ray. Il sorriso lascivo di Ray si appiattì nella sottile linea rossa delle labbra. «Che hai, Tom? Ero così orgoglioso di te. Credevo che avresti mantenuto la parola.» «Sta' zitto» dissi. «Potrei ammazzarti anche subito.» «Non lo farai» ribatté Ray fiducioso. «Tutti quelli che hai ammazzato erano armati. Io sono indifeso e innocuo. Non lo farai.» «Scommettiamo?»
«Ehi, Tom! Dai, amico! Non vedi che ha funzionato?» «Che cosa ha funzionato?» «Avevi ragione! Tutto questo tempo ho usato il trucco della psicologia inversa, e ha funzionato. Ho salvato un'altra vita. Accidenti, sono forte!» «Non ti credo» dissi. «Fa' come ti pare.» Ray si strinse nelle spalle. «Tu sei malato. Ti eccita la morte, tutto ciò che riguarda la morte. Ti stimola. È da quando sei arrivato che hai quello sguardo pieno di voglia...» «Voglia?» Ray faceva il finto tonto. «Voglia di cosa?» «Del mio corpo, ecco di cosa!» «Che stupidaggine!» disse Ray. «E sai cosa ti dico? Non credo nemmeno che tu sia finocchio o roba simile. Ti basta un corpo qualsiasi, purché sia morto.» «Tom, non credo alle mie orecchie! Stai dicendo una cosa orribile!» «È orribile perché è vera. Non t'importa com'è che si ammazzano, o perché, purché rimani da solo con loro dopo.» «Tom, non essere ridicolo! Io non faccio queste cose!» «Ma davvero? Non ti credo. E non credo nemmeno che saresti capace di ammazzare qualcuno. Con un po' di astuzia, in questa città basta poco per rimorchiare uno sconosciuto qualsiasi incontrato per strada e portarlo a casa, o in un posto buio e appartato, tipo un parco. Se fossi capace di uccidere, è così che faresti.» «Metti giù quella pistola, Tom. Sei impazzito? Mi preoccupi. Non vorrai farmi del male sul serio?» «Oh, sì invece, Ray. Puoi scommetterci. Sei un verme, anzi, peggio, sei uno sciacallo. Preferirei farti del male, ma mi limiterò ad arrestarti. Su, in piedi.» Mi alzai dalla sedia e gli feci cenno con la pistola di fare altrettanto. Obbedì. «Arrestarmi? Con quale accusa? Non hai prove!» Ray non aveva tutti i torti. Non potevo provare i suoi reati. «E allora che cosa devo fare con te?» gli chiesi a voce alta. «Perché non mi uccidi e basta?» suggerì Ray. «Non è il caso. Non riuscirei mai a farla franca.» «Uccidi me e poi ucciditi, risolveresti tutti i tuoi problemi.» «La tentazione è forte... Hai un desiderio da esprimere prima di morire?» «Se l'idea non ti convince, perché non ti metti in società insieme a me?» «In società insieme a te?» Non ci potevo credere.
«Certo, saremmo una grande squadra! Tom e Ray, i ragazzi del telefono amico! Due è meglio di uno. Ehi, uno potrebbe fare la parte del buono e l'altro del cattivo! Scommetto che così avremmo più successo. Dalla tua lettera si capisce chiaramente che hai chiuso con la polizia. Be', Ray è qui per restituirti il tuo futuro su un piatto d'argento. Potresti mollare il corpo di polizia e venire a lavorare con me a tempo pieno. Che ne dici?» «Lo fai a tempo pieno? E come fai a guadagnarti da vivere?» «Tom, ti facevo più sveglio! Vado a casa della gente, l'aiuto a morire, mi procuro la mia dose di emozione, e poi frugo per la casa in cerca di soldi. Dato che loro non li possono portare con sé, tanto vale che li prenda io. È così che riscuoto la mia parcella.» «La tua parcella?» ripetei. «Credi che faccia tutto questo per bontà d'animo? È un business, Tommy caro. Allora, ci stai o no?» «Quanto guadagni?» «Alcune sere va meglio di altre. Scommetto che tu non hai molta grana qui dentro. Al massimo qualche figurina dei giocatori di baseball...» «Scordati le mie figurine, e scordati anche di me.» «E pensare che c'ero andato così vicino.» «Il tuo appartamento dev'essere pieno di refurtiva» dissi. «Non è facile ricettare tutto subito.» «Già» sogghignai. «È proprio quello che immaginavo.» Gli vuotai addosso l'intero caricatore. Ray cadde a terra in un lago di sangue. Posai la mia Glock sul tavolo della cucina. Aprii la porta d'ingresso, controllai tutto il corridoio, avanti e indietro, per accertarmi che non mi vedesse nessuno. Quindi tornai alla porta, la chiusi, e le assestai tre calci violenti con il tacco della scarpa, finché la serratura si ruppe, lo stipite andò in frantumi e la porta si spalancò. Andai nel bagno, staccai le lettere e diedi loro fuoco con un fiammifero. Aspettai che il fuoco mi sfiorasse le dita prima di buttarle nel water e tirare l'acqua per far sparire la cenere. Presi il telefono e chiamai il distretto. Il caso volle che quella notte fosse di turno il capitano Feliciano. «Tony, sono Tom» dissi. «Ehi, Tom!» disse lui. «Non sei in servizio stasera, vero?» «No, ma ho avuto un piccolo problema a casa. Stavo guardando la televisione, quando è entrato un tipo sfondando la porta d'ingresso. Sembrava
che dentro la tasca della giacca avesse un'arma puntata verso di me. Mi ha detto che se non gli davo tutti i soldi mi ammazzava. Non volevo correre rischi, così...» Feliciano sospirò. «Quante volte gli hai sparato, Tom?» «Quel dannato grilletto mi si è bloccato un'altra volta, Tony, così mi è partito il colpo dalla camera di scoppio e tutti i diciassette del caricatore.» «Diciotto, eh? Quindi immagino che sia morto.» Gettai un'occhiata a Ray, immobile. «Supposizione corretta, signore.» «Lui che arma aveva?» «Non era affatto un'arma, saranno state le sue dita.» «Be', non c'è problema» disse il comandante. «Basta che in tribunale giuri di aver visto il calcio della pistola spuntare dalla giacca. Sei sicuro che volesse derubarti?» «Sicurissimo» dissi. «Era freddo, deciso nei movimenti, come se l'avesse fatto decine di altre volte. Scommetto che ha tonnellate di refurtiva in casa. Si può chiedere un mandato di perquisizione?» «Non ti agitare, Tom, hai fatto la cosa giusta. Mando qualcuno a stendere il verbale. Rilassati, non hai niente di cui preoccuparti, ci penso io.» «Grazie Tony, cioè capitano, ehm signore» dissi, salvandomi in corner. Il capitano Feliciano rise di cuore e riattaccò. Dal corpo di Ray si propagava una macchia scura sul tappeto. Guardai la mia Glock e sorrisi. Alla fine, non mi aveva tradito. Mi aveva concesso un'ultima possibilità per provare che valevo qualcosa. La presi in mano e sentii che la canna era ancora calda e fumante. La raffreddai con un bel bacio, lungo e molle. James Crumley OSTAGGI (Da Measures of Poison) Schiacciata tra il sole martellante del Midwest e il vento arido che soffiava incessante, la cittadina di Wheatshocker sembrava sul punto di alzarsi in volo sulle pianure. Come nastri di nebbia, lunghe onde di polvere riempivano le strade vuote. I cani maschi dovevano accovacciarsi per fare pipì, o appoggiarsi ai pali rinsecchiti delle staccionate per evitare di essere ribaltati dal vento quando alzavano la zampa. La pipì si asciugava all'istante sulla terra riarsa, che poi volava via ancor prima che i cani avessero finito.
Ombre nere come il catrame si accalcavano, quasi in cerca di riparo, tra le dune basse allineate lungo i pochi edifici rimasti sulla strada principale. Sulle facciate, le tante finestre senza vetri assomigliavano a bocche sdentate, mentre su quelle ancora intatte il vento tagliente e spettrale incideva figure informi. Il rosso dei mattoni della Farmers Bank and Trust si era sbiadito in un rosa pallido, mentre la calcina che li teneva insieme era così secca che andava sgretolandosi. Una Ford berlina del '32 era ferma nel vicolo della banca, con il motore al minimo, coperta di polvere come tutti gli altri catorci parcheggiati di fronte all'edificio. Un uomo gobbo, alto quanto un bambino, era seduto al volante, e stava fumando una sigaretta. Solo un esperto avrebbe capito dal rumore, simile a una risata soffocata, che il motore era truccato. La strada era deserta, fatta eccezione per un tiro di muli che trainavano lentamente un carro, con sopra un negro grande e grosso in tuta da lavoro e un letto coperto da un telone di canapa. Nel torpore della calura, il silenzio fu improvvisamente squassato da un colpo di arma da fuoco. Quattro uomini armati, di spalle, uscirono dalla banca con un sacco da biancheria in mano, trascinando con loro un'anziana signora in un vestito di tela grezza e una ragazzina dall'abito bianco a balze. «E voi state giù, zotici che non siete altro!» gridò quello coi capelli rossi. «Abbiamo degli ostaggi!» La banda entrò in fretta nella berlina, mentre l'ultimo a salire sparava ancora un colpo contro la finestra della banca. Poi la macchina partì a gran velocità lungo la strada polverosa e girò all'angolo, dietro al carro dei muli che procedevano a fatica. Il marciapiede dissestato antistante alla banca si affollò poco alla volta di un gruppo di clienti e cassieri, che si stringevano l'uno all'altro, confusi, come i sopravvissuti di una calamità naturale. Un uomo rosso in volto, che si teneva un fazzoletto premuto contro un bernoccolo sanguinante sulla testa pelata, si fece largo a spintoni tra la folla e si fermò a guardare la nuvola di polvere in cui si erano dileguati i rapinatori. «Uno di voi, idioti, porti fuori dalla mia banca quel vecchio buono a nulla» ordinò. «Credo che lo sceriffo stia morendo» si arrischiò a dire uno degli impiegati. «Be', certo non nella mia banca» ribatté il direttore. «Adesso non è il momento di sotterrare quel dannato imbecille!»
Un'esile vecchietta dal naso aquilino disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Credo che il signor Baines fosse innamorato di quella povera vedova». «Come diavolo facevano a sapere che proprio oggi era il giorno buono?» borbottò il banchiere, e le sue parole si persero nel vento sabbioso. Il settimo giorno, Mabel era quasi sprofondata nel sonno per la stanchezza quando sentì il giovane nero della Georgia, Sledge, caricare il suo fucile a pompa, un Ithaca calibro 12 a canne mozze. Il colpo violento risuonò con forza attraverso le sottili pareti della fattoria. Mabel sapeva cosa voleva dire. Lo sapeva fin troppo bene. Uno della banda, durante l'interminabile partita a poker al piano di sotto, aveva estratto la pistola. Probabilmente quel coglione dai capelli rossi. Questo andava assolutamente contro le sue regole. Mabel sospirò, si girò nel letto, e baciò Baby Emma su quelle labbra che sembravano un bocciolo di rosa. Anche se stava dormendo, Baby Emma succhiò la lingua di Mabel per un istante, mordendola poi con i suoi dentini bianchi, simili a semi di granturco. Mabel avrebbe voluto prolungare quel bacio assonnato - e infatti strinse tra le mani i seni di Em, piccoli e impertinenti, con quei capezzoli appuntiti - ma aveva del lavoro da sbrigare. Baby Emma aveva vent'anni, ma gliene davano solitamente dieci o undici. La ragazza-bambina sembrava fatta di palline di gelato di vaniglia, calde e cremose, e i riccioli biondi arruffati attorno al viso assomigliavano a una colata di dense gocciole di caramello. Mabel le sfiorò ancora le labbra, delicatamente, non volendo svegliare la ragazza troppo bruscamente. Anche sbronza di gin e di laudano, il suo respiro ricordava a Mabel il chiosco di gassose di Ogallala, la città dove quel maledetto di suo padre, il morfinomane dalla faccia blu, faceva il farmacista. Il ricordo rese più facile il compito che l'attendeva. Avrebbe voluto tener fuori la piccola questa volta - sembrava che a Baby Em la cosa cominciasse a piacere un po' troppo - e detestava l'idea di perdere lo zoppo, ma dovevano andarsene tutti. «Preparati, pasticcino» disse, infilandosi i vestiti ammucchiati sul cassettone sgangherato. La banda si era rintanata nella fattoria del coltivatore di barbabietole dal giorno della rapina alla Farmers State Bank, un colpo da quasi sedicimila dollari. Era sempre quella la sua tattica. I furbi non perdono tempo cercando di lavorare. Poi si davano alla macchia nelle vicinanze per almeno due settimane. Erano sempre la parte più difficile, quelle due settimane di at-
tesa. Quella facile era trovare un contadino in rovina, senza figli e con una moglie frustrata che li ospitasse in cambio di soldi. Era il 1932, e praticamente chiunque avrebbe fatto qualsiasi cosa per denaro. Naturalmente, il pagamento finale avveniva sempre tramite una pallottola calibro 22 in fronte e un sacco di calce in cantina. Mentre Mabel pensava a come affrontare la banda, sapeva di avere a disposizione tutto il tempo necessario per indossare i suoi abiti da nonna. Aveva sempre l'impressione che i suoi ragazzi le obbedissero di più quando aveva l'aspetto di una vecchia signora che quello di un'ex prostituta lasciva sui trentacinque anni. Raccolse i folti capelli rossi sotto una parrucca grigia. Strinse il corpo un po' troppo abbondante in un corsetto da vecchia e in un reggipetto imbottito di calzini pieni di sabbia, per simulare un seno cadente fino alla vita, poi coprì il tutto con un vestito cucito da sacchi di mangime per polli. Si fasciò le gambe, lunghe e snelle, con pesanti calze grigie, e si allacciò ai piedi orribili scarpe dal tacco grosso. Vestite in quel modo, lei e Baby Em formavano una coppia di ostaggi perfetta. Infine aggiunse il tocco finale: un cappello nero di paglia senza tesa, decorato da una corona di fiori di stoffa, che fissò alla parrucca con tre robusti spilloni, e una Derringer calibro 22 che si infilò in una manica. Baby Em si spogliò, restando senza mutande. Forse non le piaceva avere sangue sugli indumenti da notte, oppure le piaceva sentire il flusso caldo sulla pelle candida e perfetta. La scena al pianterreno si presentava più o meno come se l'era immaginata Mabel. Il contadino e la moglie, bianchi come cadaveri, si stringevano l'uno contro l'altro dietro la ghiacciaia, tremando così forte che l'acqua raccolta nella vaschetta oscillava come se un vento freddo stesse spazzando le assi consumate del pavimento. Il tavolo della cucina era disseminato di carte da gioco e pile di fiche scompigliate. Il mucchio più grande era di fronte a Freddy Okrentski il Veloce, il piccolo gobbo zoppo che aveva messo la polizia sulla pista sbagliata e poi aveva abbandonato la macchina, mentre la banda lasciava la città sul retro del carro del contadino, coperto da un telone. I due fratelli Zale, Al il Pazzo e Bruno il Forzuto, avevano di fronte piccole pile ordinate di fiche, che coprivano con le loro mani enormi, così grandi che le loro Smith & Wesson calibro 38 sembravano piccole in confronto. I fratelli, originari di Nutley, nel New Jersey, avevano la mascella robusta e il muso orribilmente rincagnato: con quelle facce, quando minac-
ciavano di morte gli ostaggi, non era difficile immaginare sangue, frammenti di ossa e di cervello colargli dalla bocca deforme, quasi ne pregustassero il sapore. Carter Docktrey - lo stronzetto di Terre Haute dal viso sbarbato e i capelli rossi, che si credeva il capo della banda, il sogno di tutte le donne e un asso del poker - era in piedi accanto alla sua sedia rovesciata, una pila di fiche praticamente piatta davanti a sé, e una Colt militare semiautomatica calibro 45 in mano, puntata contro Lindsey. Mabel sapeva che quell'arrogante pezzo di merda portava quella pistola più che altro per sfoggio; non la puliva mai, così di solito si inceppava dopo il primo colpo. Sapeva anche che Lindsey - i cui occhi azzurri erano gelidi come palle di vetro e la cui fronte solitamente distesa era leggermente increspata - era un assassino spietato. Un'unica goccia di sudore gli scivolò dalla testa calva, passando per la fronte aggrottata, e andò a cadere sulle carte con un leggero tic. Teneva le mani sotto il tavolo e con ogni probabilità stava puntando su Carter la calibro 410 che portava legata al polpaccio. Il piccolo schioppo era stato ridotto alle dimensioni di una pistola e caricato con puntine. Essere sbudellato con quello garantiva una morte lenta e atroce, quindi, in un certo senso, era un favore quello che Mabel stava per fare a Carter. Quel piccolo bastardo ipocrita odiava Lindsey perché era sempre lui a organizzare le rapine e fare i sopralluoghi. Quindi era una questione tra loro due, e aveva poco a che fare con Freddie lo zoppo, che probabilmente stava barando a favore di uno di loro. Era abile con le carte quanto con le macchine. La scena era fissa come una fotografia. Naturalmente non si era mosso nessuno perché Sledge, dall'angolo, teneva puntato il suo Ithaca calibro 12 contro il tavolo. Da quella distanza, un paio di colpi con quei pallettoni doppio zero avrebbero fatto piazza pulita nella stanza. Mabel considerò un istante la situazione, poi, sorridendo, si spostò dietro a Carter e gli raccolse la sedia. Lo afferrò saldamente per le spalle e lo fece sedere con delicatezza, quindi gli tolse di mano la pistola e la posò di fronte a lui. «Questa non ti serve, dolcezza» gli disse piano, poi si girò verso il nero e gli fece un cenno col capo. Sledge rispose al cenno con un sorriso. Lui e Mabel si erano messi in società quando il bordello della zona est di Memphis in cui lavoravano era stato dato alle fiamme da un pastore battista ubriaco. Si erano dati alle rapine in banca e gli era andata bene: Sledge aveva messo su un piccolo al-
levamento di polli fuori Tacoma, e Mabel una locanda a nord di Bellingham, dove era facile procurarsi whisky canadese. Mabel si girò di nuovo verso Carter e prese a strofinargli il collo dolcemente con la mano sinistra, mentre con la destra si toccava il cappello. «Allora, che problema c'è, tesoro?» «Quello sporco bastardo è tutta la sera che bara» rispose Carter. «Non ci posso credere,» disse lei, sempre in tono tenero «così come non posso credere...» Si interruppe, poi riprese, con voce dura: «...che hai dimenticato che non voglio armi, brutto figlio di puttana dal pisello microscopico». In passato Mabel aveva beccato il punto sbagliato un paio di volte e aveva dovuto rimediare (solitamente con la Derringer) a convulsioni, stati confusionali e scatti d'ira. Ma l'esperienza le aveva insegnato il punto esatto alla base del cranio in cui infilare lo spillone. Quando lo spinse dentro con la parte inferiore del palmo, penetrò agevolmente nel povero cervello di Carter, quasi scivolasse dentro un pezzo di formaggio. L'uomo era morto ancora prima che la sua faccia andasse a sbattere sulle poche fiche sparse di fronte a lui sul tavolo. «Credo che adesso dobbiate giocare in quattro, ragazzi» disse con disinvoltura mentre raccoglieva dal tavolo la calibro 45 di Carter. «A meno che non convinciate il contadino a cambiarsi quella tuta da lavoro.» Inaspettatamente, Mabel sollevò la pistola e sparò a Lindsey nell'esatto punto d'incontro tra la fronte e la crapa pelata. L'uomo cadde in avanti con un salto da acrobata. Baby Em sbucò da dietro l'angolo con una calibro 32 nichelata, mirò contro la tempia di Freddy, poi premette il grilletto due volte. Continuò a fare fuoco mentre lo zoppo cadeva lentamente dalla sedia, su un fianco. Al il Pazzo fece per prendere l'arma da sotto la giacca, ma Sledge lo abbatté al primo colpo, da una distanza così ravvicinata che gli staccò di netto la mano che reggeva la pistola e fece prender fuoco alla cravatta sporca. Bruno cominciò ad alzare le mani in segno di supplica, ma Sledge gli sparò in faccia prima che potesse aprire bocca. Scossi dai tremiti e dal pianto, il contadino e la moglie faticavano non poco a trascinare i corpi giù in cantina, ma Mabel continuava a rassicurarli che la calce avrebbe distrutto i cadaveri e che con la loro fetta di bottino avrebbero potuto cominciare una nuova vita in California o in Oregon. Scaricato l'ultimo sacco di calce, i due ormai non tremavano più, e le la-
crime si erano asciugate quando Mabel piantò loro nel cranio i due proiettili calibro 22. Marito e moglie, nei loro abiti logori, caddero sul mucchio di cadaveri con precisione, quasi l'avessero fatto apposta. Mentre le donne si vestivano per il viaggio, Sledge ultimò i preparativi in casa. Sistemò sui corpi lampade al cherosene e al fosforo, poi predispose la miccia per appiccare il fuoco, stendendola dalla cantina al tavolo della cucina, dove l'avvolse alla base di una candela che sarebbe durata tre giorni. Quindi lavò la Lincoln, che lo Zoppo aveva nascosto nel granaio, cambiò la targa del posto con quella vera del New Jersey, e indossò la divisa da autista. Imboscarono armi e denaro in un doppio fondo del bagagliaio, ammucchiandovi sopra una quantità spropositata di bagagli, assicurati alla parte posteriore dell'automobile. Le donne si accomodarono sul sedile dietro, agghindate con soprabiti leggeri, grandi cappelli e velette per ripararsi dalla polvere: una ricca vedova e la figlia dirette nella West Coast per cominciare una nuova vita. «Siamo pronti, signor Sledge?» chiese Mabel mentre l'uomo usciva dal granaio in retromarcia con la grossa auto. «Manca solo il fiammifero, signora» disse lui. «Allora accendilo, grazie» disse la donna. «Vorrei essere qui a guardare quando brucia» disse Baby Em mentre Sledge si dirigeva verso la casa. «Che si fa adesso, ma'?» «C'è una piccola banca piena di soldi a Ogallala, proprio accanto alla drogheria» rispose. «Credo ci faremo una visitina prima di andare a casa. Ho un po' di vecchi amici a Denver che potrebbero darci una mano.» «Però niente stronzetti dai capelli rossi questa volta, okay? Preferirei succhiare una pasticca per la tosse» disse Baby Em mentre Sledge si immetteva sulla strada principale. «Solo un mostro dalla faccia blu,» disse Mabel «che avrà un mucchio di pasticche per la tosse e forse anche qualche bastoncino di zucchero candito. Una volta ne aveva tanti.» «Voglio sparare anch'io nella banca la prossima volta» piagnucolò Baby Em. «Tu no?» Mentre il sole scivolava verso l'orizzonte, il vento si calmò un istante, la polvere si depositò, e negli occhi di Mabel divampò brevemente un fuoco, fugace come il suo sorriso triste. «Non ci servono pistole, bambolina.»
O'Neil De Noux MORTI PARALLELE (Da Flesh and Blood: Dark Desires) «Il Mississippi. Il padre delle acque. Il Nilo del Nord America. E l'ho trovato io.» HERNANDO DE SOTO, 1541 L'odore oleoso dei motori diesel entra dalla finestra aperta e invade la piccola stanza sopra il molo di Algiers. Gordon Urquhart, seduto su una sedia pieghevole di metallo grigio, aspira una boccata dalla sua sigaretta, osservando un rimorchiatore inquieto che arranca controcorrente. L'acqua del Mississippi, come un enorme serpente nero, riflette le luci di New Orleans, sull'altra riva. La sigaretta è l'unica fonte di luce nella stanza. È così buio che Gordon riesce appena a vedersi la mano. Gli piace starsene lì, seduto nell'oscurità, ad aspettare il ritorno della persona che vive in quella stanza. Gordon, alto poco meno di un metro e ottanta, massiccio e con i capelli spruzzati di grigio, si vede ancora come il rubacuori affascinante che era in gioventù. Quando è nato, quarant'anni fa, non si chiamava Gordon Urquhart. Un giorno ha sentito quel nome in un film, e gli è piaciuto. E non gli è andata male, come Gordon Urquhart. Dopo aver cambiato nome, infatti, la sua vita è decisamente migliorata. Sbadiglia, si toglie i guanti di pelle e li appoggia su una gamba, asciugandosi le mani sudate sui pantaloni. La stanza è un buco di tre metri per tre, con un letto singolo, una cassettiera e un lavandino in un angolo. Gordon è rivolto con il viso verso la porta. Chiude gli occhi e pensa a Stella Dauphine. L'ha vista ieri sera in Bourbon Street. Gli è passata accanto, con il suo corto vestito rosso, senza neppure notarlo. Mentre si allontanava sui tacchi a spillo, il vento le ha sollevato la gonna e Gordon ha visto un lampo di mutandine bianche. Immerso nell'odore rancido di quella stanza, Gordon immagina Stella, con le sue labbra piene e i lunghi capelli castani. Indossa lo stesso vestito rosso. Sta salendo una rampa di scale, e lui da sotto le guarda il culo, appena velato dalle minuscole mutandine bianche.
Si trovano sulla nave della marina americana dove Gordon ha fatto il servizio militare. Oceano Indiano. Stella si ferma sopra di lui, allarga leggermente le gambe, facendogli vedere il pelo scuro attraverso la stoffa degli slip. Lo guarda, gli chiede indicazioni. Gordon sale e le indica un'altra scala, su cui lei si inerpica dimenandosi a pochi centimetri dal naso di Gordon, il quale sale dietro di lei. Sul pianerottolo si ferma ad aspettarlo. Gordon allunga una mano e le tira giù le mutandine fino alle ginocchia, le accarezza le cosce fino al cespuglio di peli, infilando le dita nella fica bagnata. Lei geme di piacere. Un rumore riporta Gordon al presente. Passi sulle scale, poi nel corridoio. Gordon si infila i guanti e solleva la Bersa calibro 22. Mentre la porta si apre toglie la sicura, e punta la pistola contro la figura tondeggiante che è apparsa sulla soglia. Lex Smutt cerca a tastoni l'interruttore. Gordon chiude un occhio. La luce si accende e Smutt resta immobile, con gli occhi nocciola fissi sulla Bersa. «Non muoverti, palla di lardo!» Gordon apre l'occhio e indica il letto con un cenno del capo. «Siediti.» Smutt obbedisce senza discutere. È alto un metro e sessantasette, pesa centotrenta chili, e sa bene di essere un rospo. Si passa una mano sulla testa pelata, mordendosi il labbro. «Tieni le mani bene in vista.» Gordon si alza, facendo crocchiare le ginocchia, e va a chiudere la porta. Il suo completo nero, con camicia nera e cravatta antracite, contrasta con il consunto gessato blu, la camicia bianca e la cravatta marrone allentata di Smutt, che lo fanno sembrare una busta accartocciata. Sbadigliando, Gordon dice: «È passato un sacco di tempo, vero?» Smutt fa una risatina nervosa. Le labbra di Gordon si tendono in un ghigno freddo. «Lex Smutt. È il tuo vero nome, giusto? È un nome stupido. Tu sei uno stupido?» Smutt scuote lentamente la testa, lo sguardo sempre fisso sulla Bersa. «Sai perché sono qui.» Smutt spalanca gli occhi, come se non ne avesse la più pallida idea. «O mi dai i quindicimila, o muori.» Sulle labbra sottili di Smutt appare un sorriso tremulo. «Non ce li ho.» «Allora crepa.» Gordon solleva il cane e gli punta la pistola in mezzo agli occhi. Smutt solleva le mani, e balbetta: «Aspetta. Dammi un minuto».
«Vuoi dire che tra un minuto avrai i soldi?» Gordon tiene la Bersa puntata con mano ferma sul neo tra le sopracciglia di Smutt. La sirena improvvisa di una nave rompe il silenzio. Smutt ha un soprassalto, Gordon resta impassibile. Passa un lungo secondo. Gordon comincia lentamente a premere il grilletto. Fissandolo negli occhi, Smutt dice: «Ne ho seimila». Il dito di Gordon si ferma. «Dove?» «Qui.» «Dove?» Smutt si asciuga il sudore che gli cola sulle guance, ed emette un lungo sospiro. «Per un attimo ho pensato...» «Dove?» ripete Gordon. Smutt si guarda intorno. Gordon gli molla un calcio sullo stinco sinistro. Lui strilla e si afferra la gamba. Si dondola avanti e indietro per il dolore, poi Gordon gli punta di nuovo la Bersa contro la fronte. «Dove?» «Sotto il letto.» Smutt si sfrega il mento con entrambe le mani. «Sotto un'asse del pavimento.» Gordon lo afferra per il bavero della giacca con la mano sinistra e lo getta a terra. Poi scosta il letto, e ordina a Smutt di togliere l'asse. «Tira fuori una cosa qualunque che non sia il denaro e sei morto.» Smutt si sposta carponi sul pavimento, afferra l'asse che copre il nascondiglio e solleva gli occhi verso Gordon. «Dobbiamo raggiungere un accordo.» Gordon spara un colpo sul pavimento. Si ode un plop attutito, seguito dal rumore del bossolo che rimbalza sulle assi di legno. Smutt fissa il foro netto accanto alla sua mano, torna a guardare Gordon, poi tira via l'asse e infila la mano nel buco, estraendone una busta di carta marrone. La consegna a Gordon senza alzare lo sguardo. Gordon fa due passi indietro, apre la busta e conta il denaro. Esattamente seimila dollari. «Ne mancano ancora novemila.» Smutt si siede sul pavimento come un buddha, con le mani sulle ginocchia. Si terge di nuovo il sudore dal viso e dice: «Il signor Happer capirà. Tu sei nuovo, in questa storia, ma lui e io ci conosciamo da molto. Ho bisogno di tempo. E comunque la maggior parte di quei quindicimila sono... interessi. Sai di cosa parlo». Gordon appoggia di nuovo la Bersa sul neo. «Sei sicuro di non avere altro?» Smutt annuisce lentamente, indicando la stanza con un gesto circolare. «Ho l'aspetto di uno che possa avere di più?»
«Rispondi sì o no.» «No!» «Ho sentito dire che hai vinto parecchio, ai Fairgrounds.» «Hai sentito male.» Gordon aspetta. Smutt tiene gli occhi bassi. Allora Gordon dice: «Perché ti ostini a negare? Hai vinto più di ventimila dollari». «Avevo altri debiti da pagare.» «Più importanti di quello con il signor Happer?» la voce di Gordon è gelida e profonda. «Ti ho detto che quella con il signor Happer è una storia che va avanti da molto. Ho bisogno di tempo.» «Avresti dovuto pensarci prima. Ora guardami.» Gordon chiude di nuovo l'occhio sinistro. Smutt alza gli occhi, e Gordon spara un colpo, a sinistra del neo. Smutt sussulta e sbatte le palpebre. Gordon spara un altro colpo, stavolta a destra del neo. Smutt spalanca la bocca e cade lentamente in avanti, a faccia in giù. Gordon gli piazza altri due proiettili nella nuca. Poi raccoglie tutti e cinque i bossoli, e se li mette in tasca. La stanza ora puzza di polvere da sparo e di sangue. Gordon perquisisce il cadavere e trova altri quattrocento dollari. Guarda anche nel buco del pavimento, ma dentro non c'è più nulla. Prima di andarsene mette a soqquadro la stanza, frugando dappertutto. L'umidità della notte gli accarezza il viso, mentre svolta nella stradina dove ha lasciato la sua Cadillac. Salendo le scale esterne, vicino al molo di Governor Nicholls Street, controlla l'orologio. Le nove e mezza precise. Si ripara gli occhi dal sole con una mano, e guarda in direzione del molo di Algiers. Riesce quasi a vedere la finestra di Smutt. Arrivato in cima alle scale, entra in uno stretto corridoio e bussa due volte alla prima porta. Resta in attesa, alzando gli occhi verso la telecamera a circuito chiuso. Raddrizza il nodo della cravatta. Prima di uscire di casa, si è guardato nello specchio del bagno, con indosso il suo vestito marrone chiaro, la camicia blu scuro e la cravatta blu ghiaccio, e si è detto che aveva un aspetto "magnifico". La serratura scatta con un ronzio, e Gordon apre la porta.
Il signor Happer è seduto dietro l'ampia scrivania. È un uomo piccolo, affondato in una sedia troppo grande per lui. Ha lo sguardo fisso sul televisore sistemato in un angolo della scrivania, accanto al videoregistratore nero. Non alza gli occhi mentre Gordon attraversa l'ufficio. La stanza puzza di sigaro e di birra stantia. La moquette è vecchia e consunta. Gordon si siede, tira fuori una busta e la poggia sulla scrivania. Happer solleva una mano come un vigile urbano, e si china in avanti per non distrarsi dalla scena sul video. Gordon non ha bisogno di guardare per sapere di cosa si tratta: di nuovo Peter Ustinov, in quel dannato film che il signor Happer guarda continuamente. Dai dialoghi, sembra che Ustinov e David Niven siano al punto in cui stanno lentamente risolvendo l'omicidio su quella barca. Come si chiamava il detective interpretato da Ustinov? Hercules qualcosa. Il signor Happer all'improvviso si volta e fissa Gordon con i suoi occhi neri. È una specie di scheletro dalle guance infossate, gli zigomi taglienti e braccia che fanno pensare ai film sui campi di concentramento. Prende la busta con la sinistra, e la apre. «È tutto quello che aveva» dice Gordon. «Quattrocento?» chiede Happer. «E cosa ne è stato dei ventimila che aveva vinto?» Gordon sa di dover stare attento. Guarda dritto negli occhi neri di Happer. Si stringe nelle spalle. «Ha detto che aveva dovuto pagare altri debiti.» «Più importanti di quello che aveva con me?» «È quello che gli ho chiesto anch'io.» «E allora?» «Allora l'ho eliminato. Ho perquisito la stanza, ma questo è tutto quello che ho trovato.» Il signor Happer scuote la testa. Gordon sa che non si chiama Happer, ma Sam Gallizzo, e che ha passato la maggior parte della vita lavorando alla periferia di Cosa Nostra, cercando di fare carriera. Non ce l'ha fatta, ma almeno è riuscito a restare vivo, che non è comunque un'impresa da poco. Il signor Happer mette la busta in un cassetto della scrivania, e ne tira fuori un'altra, che spinge verso Gordon. Lui la prende e la infila nella tasca interna della giacca. Non ha bisogno di aprirla. Sa che dentro ci sono mille dollari, la tariffa che il vecchio bastardo paga per un omicidio. Happer prende un mozzicone di sigaro da un portacenere colmo e se lo
infila in bocca. Aspira, e la punta del sigaro diventa rossa. Scuote di nuovo la testa. «Va bene così» dice, come se avesse bisogno di convincersene. «Si spargerà la voce, e la prossima volta sarà più facile. È così che fanno i pesci grossi.» Gordon annuisce. «Non mi avrebbe mai dato quei quindicimila» dice Happer, e Gordon si chiede se non stia cercando di farlo cadere in trappola. «Non mi avrebbe mai pagato.» Disperdendo con una mano il fumo tra loro due, il signor Happer dice: «Sei sicuro di aver guardato dappertutto, vero? Non avevi nessuna fretta». «Nessuna fretta.» Gordon sente che il vecchio vuole spremerlo. Happer solleva una mano all'improvviso, e si china di lato per ascoltare una frase di Ustinov. Annuisce, come approvando la battuta, quindi appoggia un gomito sulla scrivania. Fissa Gordon. «Ne sei proprio sicuro?» Eccola. Quella è la domanda. «Ne sono sicuro, signor Happer.» Gordon è contento della sua voce profonda, del tono tranquillo. «Dovevo chiedertelo, lo sai, vero?» La faccia del vecchio avvoltoio è priva di espressione. Nega. Nega. Nega. Gordon non sbatte neppure le palpebre. Si sente a posto. Finalmente il vecchio smette di fissarlo, e Gordon dice: «Signor Happer, io sono sempre stato onesto con lei, lo sa». L'altro fa un gesto vago con la mano. «Quel figlio di puttana ha finito i soldi con una velocità pazzesca» dice. Poi torna a guardare il televisore. Gordon fa uno sforzo per non ricordargli il loro accordo: "Trova Smutt, spremigli fuori tutto quello che puoi, poi sparagli e lascialo dove possa essere trovato". Lui aveva eseguito alla lettera. Un contratto è un contratto. Ora vorrebbe dire: «Bene, se non c'è altro...». Ma aspetta. Sa che deve essere Happer a congedarlo. Il vecchio si volta e guarda le finestre che danno sul fiume. Aspira un'altra boccata dal sigaro, esala una nuvola di fumo «Questo mi tocca per aver dato fiducia a pagliacci come Smutt» dice. «Almeno lui ha avuto ciò che si meritava.» Lo fissa, sorride, e Gordon sente un brivido freddo lungo la spina dorsale. «Pensavo di chiederti se sai quali posti frequentava Smutt. Magari aveva
anche una stanza da qualche altra parte. Ma è inutile. I soldi non ci sono più.» Il vecchio torna a guardare il televisore. Gordon guarda verso le finestre. Si ode uno sparo, e un suono di voci agitate, compresa quella di Ustinov. Gordon aspetta. Finalmente, dopo che il chiasso sulla nave si è calmato, il signor Happer si volta verso Gordon e dice: «So dove trovarti». Gordon si alza in piedi, saluta con un cenno del capo ed esce. con la frase del vecchio che gli risuona nelle orecchie. "Sa dove trovarmi. Buongiorno e arrivederci allo stesso tempo." Uscendo di nuovo alla luce del sole Gordon socchiude gli occhi, poi scende le scale. Guarda il fiume marrone e ride tra sé. Ustinov è ancora su quella nave, intento a risolvere il caso, mentre il signor Happer guarda con attenzione. Gordon lo trova buffo. Molto buffo. Prima di mettere in moto la Cadillac, infila gli occhiali da sole e si guarda intorno. Due minuti dopo individua la Chevy nera che lo segue. La stanza da letto di Gordon Urquhart odora di dopobarba e di muffa. Stella Dauphine è seduta sul letto matrimoniale di Gordon, in attesa nel buio, con la Beretta calibro 22 a portata di mano. Indossa un trench leggero con scarpe intonate, e un paio di guanti sottili come una seconda pelle. Stella ha trent'anni, ma ne dimostra meno. Capelli mossi, lunghi fino alle spalle, e un petto prosperoso malgrado sia magra. Quella caratteristica l'ha resa molto popolare a scuola, ma è stata un problema in tutti i lavori d'ufficio che ha svolto in passato. Sotto il trench non indossa altro che un paio di calze autoreggenti. Si accarezza un ginocchio, arrivando fino alla fine della calza, sulla coscia. Chiude gli occhi, e ascolta ogni rumore. Un tempo non si chiamava Stella Dauphine, ma Carla Stellos. Ha cambiato nome dopo aver trascorso un anno a New Orleans, dopo aver visto Un tram chiamato desiderio e dopo aver parcheggiato in Dauphine Street. E ora si sente Stella Dauphine ogni giorno di più. Apre gli occhi di scatto, udendo il rumore della serratura. La porta d'ingresso si apre con un cigolio. In piedi accanto al letto, Stella sbottona l'impermeabile, afferra la Beretta, e la nasconde nelle pieghe del tessuto. Sente un soffio d'aria estiva entrare nella stanza, un sospiro e dei passi leggeri che si avvicinano alla stanza da letto. Una figura si staglia nel vano della porta.
Si accende la luce. Gordon Urquhart è in piedi davanti a lei, con la Bersa in mano. Stella apre il trench e lo lascia cadere a terra. Mentre Gordon fissa il suo corpo nudo, Stella spara un colpo, beccandolo sul lato destro del petto. Gordon è così stordito e sorpreso che lascia cadere la pistola. Apre la bocca, barcolla e cade contro la cassettiera. Attraverso le dita della mano destra, premuta contro la ferita, cola il sangue. «Mi hai sparato!» «Spingi la pistola verso di me con un piede.» Gordon è terreo. La guarda, poi si guarda il petto e ripete: «Mi hai sparato!». «Se non stai zitto ti sparo di nuovo.» Le labbra di Stella sono strette in un'espressione decisa. «Ora da' un calcio a quella pistola.» Gordon fa scivolare la Bersa sul pavimento di legno. Stella le dà a sua volta una pedata, mandandola a finire sotto il letto. Gordon ora ansima. Il sangue gli inzuppa la camicia. «Hai colpito un'arteria» dice debolmente. «Allora non abbiamo molto tempo, giusto?» «Per cosa?» Stella indica il letto con un cenno del capo. «Siediti, prima di cadere.» Gordon obbedisce. Stella si sposta sulla soglia, tra la stanza e la cucina, con la Beretta sempre puntata contro di lui. «Allora, dov'è?» dice. Gordon la fissa come se non avesse la più pallida idea di cosa stia dicendo. «Il signor Happer mi ha detto di darti dieci secondi, per restituire il denaro che hai preso a Smutt. Uno. Due. Tre...» «Erano quattrocento dollari, e glieli ho già dati.» «Quattro. Cinque. Sei...» Gordon solleva la testa e dice: «Uccidimi pure. I soldi non ci sono». «Sette. Otto. Nove...» «Anche se li avessi, mi credi così scemo da portarmeli addosso? Ho individuato la tua auto appena lasciato il molo.» Stella spara un altro colpo, e manda in pezzi la lampada sul comodino. «Merda!» geme Gordon. «Non ho nascosto nulla. Smutt aveva già speso tutto.» Stella si toglie una ciocca dal viso con la mano libera, e dice: «Il signor Happer non ti crede, e io neppure».
Gordon si schiarisce la voce. «Il signor Happer e io ci conosciamo da molto tempo, ragazza. Lui sa che non mento.» Un sorriso freddo attraversa le labbra sottili di Stella. «Allora ti uccido e perquisisco la casa. Mi pagherà lo stesso.» «È assurdo. Ti dico che non ci sono altri soldi.» Stella gli punta la Beretta in faccia, con entrambe le mani. «Così tu e il vecchio vi conoscete da molto, eh? Be', io sono quella che lui chiama quando le cose si mettono male. E tu sei messo proprio male.» Gordon annuisce. «Ti ho vista, in giro. So tutto di te. E tu sbagli a non credermi.» Stella gli si avvicina e lo fissa negli occhi. «Quando Smutt è uscito dai Fairgrounds, è andato direttamente a casa del funzionario che gli ha fatto ottenere la condizionale, e lo ha pagato. Tremila. Una bella somma, ma evidentemente Smutt pensava che ne valesse la pena. Poi è andato in due ristoranti ad abbuffarsi, e infine ha lasciato un altro po' di soldi al tavolo delle scommesse di Rampart.» Stella osserva le pupille di Gordon. E vede apparire un lampo quando dice: «Seimila dollari. A Smutt restavano circa seimila dollari. E glieli hai presi tu». «No.» Stella gli spara nel ventre. Gordon lancia un urlo. «Continua così» sorride lei. «Continua a negare.» «Non ce li ho!» grida Gordon. Poi cade all'indietro. Stella gli punta la pistola alla fronte, e aspetta, dandogli un'ultima possibilità. «Non ce li ho!» strilla Gordon. Lei preme il grilletto. Lo colpisce in mezzo alla fronte. Gli pianta altri due proiettili in testa prima che cada riverso sul letto, e poi gli vuota addosso tutto il caricatore. Raccoglie tutti i bossoli, infilandoli nella tasca dell'impermeabile. Lascia la Bersa sotto il letto. Così la polizia avrà un colpevole per l'omicidio di Smutt. Poi, con metodica lentezza, comincia a perquisire l'appartamento. Un'ora dopo trova i seimila dollari, nascosti in un barattolo di farina. Appena ha tolto il coperchio ha capito tutto. Quale scapolo tiene della farina fresca in un barattolo? Il signor Happer, affondato nella sua sedia, fissa il televisore. Peter Ustinov sta battendo un S.O.S. in codice Morse sulla parete del bagno, mentre
un cobra si prepara ad attaccarlo. Stella, in piedi accanto alla scrivania, con lo stesso trench della sera prima, riconosce la scena e attende finché entra David Niven, che infilza il serpente con la spada. Quando la tensione sullo schermo si calma, il signor Happer fissa Stella con i suoi occhi infossati, e chiede: «Allora? Hai trovato i soldi?». Stella scuote la testa. Happer fa una faccia sorpresa. «Non c'erano?» «Ho perquisito la casa metro per metro. Se li aveva, li ha nascosti bene.» «Dannazione!» Il vecchio picchia una mano scheletrica sulla scrivania. Prende il telecomando e mette in pausa il film. I suoi occhi neri fissano quelli di Stella come per estrarne la verità. Lei si morde il labbro, allunga una mano e apre lentamente il trench, mentre lo sguardo di Happer scorre lungo il suo corpo. L'impermeabile cade a terra, e Stella resta nuda, a parte le calze autoreggenti che danno un aspetto di seta alle sue gambe. Si siede sul bordo della scrivania. Happer la fissa come ipnotizzato, e ci mette un minuto buono prima di sollevare di nuovo lo sguardo fino agli occhi di Stella. «Sei sicura di aver perquisito bene la casa?» Stella annuisce. Il signor Happer preme un bottone sul telecomando, e il film riprende. La nave adesso è ancorata sulla riva del Nilo. «Bene, si spargerà la voce, e la prossima volta sarà più facile. È cosi che fanno i pesci grossi.» Stella scende dalla scrivania e raccoglie l'impermeabile. Mentre lo riabbottona, guarda il vecchio. Lui la fissa di nuovo con i suoi occhi neri, e dice: «Sei proprio sicura di aver guardato dappertutto?». Lei è pronta, il viso ha un'espressione perfetta. «Ne sono sicura.» «Va bene.» Happer torna a fissare lo schermo, e mima le parole di Ustinov. Senza voltarsi, apre il cassetto centrale della scrivania e ne tira fuori una busta. La spinge verso Stella. Lei la prende e la infila nella borsetta. «Ottimo lavoro» dice il vecchio. «Grazie.» Stella si volta e lo lascia solo con Peter Ustinov, David Niven e la nave sul Nilo. Scendendo, guarda le acque scure del Mississippi, e sussurra un messaggio al cadavere di Gordon. «Così tu e il signor Happer vi conoscevate da molto tempo. Bene, lui e io ci conosciamo da più tempo ancora. E io conosco un sacco di modi per manovrarlo. Per manovrare tutti gli uomini.» Tre minuti dopo, Stella individua una Oldsmobile blu che la segue.
Pete Dexter IL GIOIELLIERE (Da «Esquire») Il vecchio ordinò di nuovo la zuppa del giorno - noodles e pollo - accompagnata da un pezzo di pane e da un bicchiere di vino della casa. Mentre mangiava, si asciugava continuamente il naso con il tovagliolo. Era febbraio, e sulla costa orientale tutti avevano l'influenza. Il vecchio aveva l'aria di uno che avrebbe fatto meglio a restarsene a letto, quel giorno, ma evidentemente non rinunciava alle sue abitudini. Alle sei meno dieci, ogni mattina, compariva sulla soglia in accappatoio e pantofole, per prendere l'«Inquirer». Due ore dopo usciva di nuovo, stavolta in soprabito, e andava a prendere l'autobus della SEPTA in fondo all'isolato, per recarsi al lavoro. All'una precisa lasciava il negozio, percorreva quattro isolati fino al ristorante, si sedeva sempre allo stesso tavolo vicino alla cucina, e ordinava la zuppa del giorno, con un bicchiere di vino. Il suo conto era sempre di sei dollari, e lui ne lasciava sempre uno di mancia per la cameriera, la quale aveva un serpente tatuato sul braccio con sotto il nome "Jerry". L'uomo che teneva sotto sorveglianza il vecchio si chiamava Whittemore, e notò il capello sul piatto non appena la cameriera lo posò sul tavolo. Era di traverso sul pesce, ancorato a una coppetta di plastica piena di salsa tartara, e si agitava leggermente sotto la spinta del ventilatore, come agonizzante. Whittemore avvicinò il viso al piatto, e notò che era un capello nero, anche se verso la radice, vicino alla salsa tartara, appariva castano. La cameriera era bionda, perciò il capello veniva dalla cucina. Il che, da un certo punto di vista, era anche peggio. Certamente, lei aveva quel tatuaggio, un piercing al naso con una piccola perla e la blusa macchiata. Ma era un essere umano, la persona che loro mandavano fuori ad accogliere i clienti. Dio solo sapeva che facce potevano avere quelli in cucina. «Tutto a posto, tesoro?» La cameriera si avvicinò al suo tavolo. Whittemore notò la parte posteriore del piercing che brillava dentro il naso. Quando era entrato lì per la prima volta, una settimana prima, e aveva visto la perla, aveva pensato che fosse una specie di verruca. «Tutto a posto» rispose. Lei si appoggiò una mano sull'anca, e l'uomo notò le sue dita. Unghie gialle e macchie marroni sui polpastrelli. Magari era anche fotografa, e
quando non lavorava al ristorante maneggiava sostanze chimiche. O forse era semplicemente una fumatrice accanita. Il punto era un altro: chi poteva mangiare del cibo servito da quella donna, dopo aver visto le sue mani? Whittemore ebbe un brivido, ricordando che all'inizio della settimana aveva quasi pensato di portarsela a letto. Ricordava le parole esatte che gli erano venute in mente: "Questa prende su quello che trova". «Non mangi molto» disse la donna. «Troppo stress.» Lei annuì, come se quella fosse una risposta molto sensata, e gli strizzò l'occhio. «Anch'io sono così» disse. «Qui dentro almeno mi calmo i nervi.» Il vecchio aveva capito subito di non avere scampo, e non aveva creato problemi nel parcheggio, e neppure in auto, mentre uscivano dalla città. Si chiamava Eisner, e qualunque fosse la somma che aveva rubato, certamente non l'aveva spesa in vestiti. Se ne stava seduto sul sedile accanto al guidatore, con addosso un completo vecchio di almeno cinquant'anni, cravatta a farfalla e camicia bianca inamidata, masticando pastiglie per la tosse Smith Brothers. Mentre passavano davanti al municipio si schiarì la voce. «Era già qui quando ancora non c'erano i grattacieli» disse. «C'era un'ordinanza locale che vietava di costruire edifici più alti del Billy Penn.» Si spostò sul sedile, e aggiunse: «Questo posto non era così buio, allora». Una goccia di muco gli brillava sotto una narice, salendo e scendendo secondo il respiro. Whittemore ebbe l'impulso di allontanarsi un po' da lui. Cercò di ricordare se l'aveva toccato, nel parcheggio. Quando l'aveva seguito fuori aveva abbassato la maniglia con la manica. Era una cosa che ormai faceva senza pensarci, e non aveva più stretto la mano a nessuno dal giorno del funerale di sua madre. Ogni volta che se ne presentava l'occasione, lui tossiva portandosi una mano alla bocca, e diceva che forse aveva un po' di influenza. Così nessuno insisteva per toccarlo, e ormai non aveva contatti fisici con un essere umano da moltissimo tempo. Erano arrivati alla superstrada, e svoltarono verso il fiume. Whittemore alzò gli occhi e vide il museo d'arte, a circa un chilometro di distanza, triste e fatiscente nonostante la bella giornata. Il vecchio si mosse di nuovo, propagando i suoi germi nell'aria. «A giudicare dall'abbronzatura, lei deve viaggiare parecchio» disse. Oltrepassarono il museo e presero verso ovest, oltre lo Schuylkill e i barconi. Eisner aggiunse: «Io invece sono un abitudinario. Non vado mai da nessu-
na parte». Poi starnutì coprendosi la bocca con una mano. Whittemore gli passò un fazzoletto, con il quale Eisner si asciugò le dita e gli occhi. Quindi guardò fuori dal finestrino, e indicò Fairmount Park. «Durante la guerra,» disse «si diceva che ci vivessero alcuni giapponesi, che dormivano in scatole di cartone e mangiavano cani. Ma immagino che preferissero vivere lì, piuttosto che rischiare il linciaggio.» Senza volerlo, Whittemore ripensò alla sua ultima visita dal dottore prima di lasciare Seattle. Il suo medico era giapponese, e gli aveva detto che i vuoti di memoria non erano nulla di preoccupante. Secondo lui erano solo sintomi di stress. I medici di Seattle ovviamente vedevano parecchio stress, nel loro lavoro. Whittemore aveva notato che da circa dodici anni i dottori avevano smesso di dire: «Lei sta bene». Ora dicevano: «Credo che non sia nulla di preoccupante». Il che puzzava di assicurazione. L'umanità si divideva ormai in miliardi di polizze assicurative, e tutti cercavano di agire in modo da non essere attaccabili. «A me, quello che non piace sono gli alberghi» disse Eisner. «Materassi scomodi, spioncini alle porte, i camerieri sempre con la mano tesa. Le persone sbavano sulle federe, e la bava penetra nel cuscino, anche in un hotel da cento dollari a notte.» Si asciugò il naso con il fazzoletto e aggiunse: «I ricchi sbavano proprio come gli altri, forse anche di più. E tutti quegli estranei nei corridoi. Senza offesa, ma più forestieri vedo in giro, più scemano le mie speranze per il futuro». Whittemore era rimasto paralizzato dal riferimento ai cuscini. Come poteva essergli sfuggita una cosa del genere? In un certo senso gli sembrava pericoloso che il vecchio ci avesse pensato e lui no. Davanti a loro, un furgone della Rolling Rock prese una buca profonda, spaccando di sicuro almeno la metà delle bottiglie che doveva consegnare. «Le interessa sapere come è successo tutto questo?» disse il vecchio, poco dopo. Whittemore pensò di scuotere la testa. Non erano affari suoi. Invece si limitò a stringersi nelle spalle. Aveva di nuovo sensazioni strane, già da prima di lasciare Seattle. Come se la faccenda fosse fuori dal suo controllo. «Non c'è stato un motivo preciso» disse il vecchio. «È questo il lato buffo. Io ho settantasei anni. Loro non hanno nulla che mi interessi. Nulla. Non c'è alcun motivo, a parte i gemelli. La loro generazione bastarda: www.ilfuturoènostro.com.» Gli lanciò una rapida occhiata e aggiunse: «Parlo dei ragazzi. Niente di personale. Vuole una pastiglia per la tosse?». Whittemore fece segno di no con la testa. E per un intero chilometro si
chiese come mai al vecchio era venuto in mente che lui avesse bisogno di una pastiglia per la tosse. «Mi sarei tagliato la mano destra, piuttosto che prendere un centesimo da Paul e Bonnie. Ma loro si sono schiantati in macchina mentre andavano in gita per il fine settimana sul Black Horse Pike. E i gemelli hanno assunto il controllo immediatamente, senza neppure aspettare il funerale. Loro due erano stati miei amici per quarantadue anni, ma la verità è che non passavano abbastanza tempo con i figli. Gli affari erano troppo importanti. Questo è tutto ciò che ho da dire al riguardo. Fine della storia. Non passavano abbastanza tempo in casa.» Whittemore annuì, come se fosse d'accordo, anche se non aveva mai conosciuto di persona i ragazzi. C'erano altri, tra loro e lui, che gestivano i soldi e i lavori. Così era tutto più pulito. «Hanno cominciato a imbrogliare persone che si servivano nel negozio da quarant'anni, ecco cosa è successo, Hanno truffato giovani coppie che venivano a comprare le fedi per il matrimonio. Hanno rovinato la buona reputazione dei loro genitori. Quanto può valere, questo? Quanto costa oggi una buona reputazione?» Ormai erano in macchina da una mezz'ora, e le case che oltrepassavano erano più grandi, circondate da recinzioni metalliche. Superarono un campo da golf. «Lei gioca a golf?» chiese il vecchio, e un attimo dopo Whittemore si afferrò il ginocchio e frenò, accostando l'auto al ciglio della strada. La sensazione era più strana che dolorosa. Come se qualcosa dentro il ginocchio si svitasse. Gli accadeva in aereo, al cinema, dovunque fosse costretto a restare seduto e immobile. Whittemore prendeva vitamine, andava in bicicletta tre volte alla settimana, faceva sessanta flessioni ogni mattina, eppure non passava mai un'intera giornata senza che gli accadesse qualcosa. E ogni volta poteva essere quella decisiva. «Sa che sono stato io a insegnare a giocare a quei piccoli bastardi? Gliel'hanno detto?» Il vecchio ora si stava scaldando. «Hanno voluto subito i club migliori, fin dal primo giorno. Borse di pelle per le mazze, scarpe nuove... Figuriamoci se potevano giocare con delle normali scarpe da tennis. A quattordici anni, giravano sulle auto elettriche come vecchietti.» Eisner si asciugò di nuovo gli occhi, e guardò fuori dal finestrino, osservando un giocatore che sollevava la mazza. Si spostò leggermente sul sedile mentre l'uomo spariva, nascosto dal terrapieno. «E il peggio non sono le truffe» riprese. «Il fatto è che ti mettono in imbarazzo.»
Il campo da golf scomparve, ed Eisner starnutì ancora. Un po' di muco sfuggì da sotto il fazzoletto e gli bagnò i pantaloni. «Mi scusi, ha detto che sa giocare? Ormai spesso non riesco a ricordare quello che mi dice la gente, e divento nervoso.» «In passato ho giocato, qualche volta.» «Allora sa di cosa sto parlando.» Entrarono nella contea di Lancaster, e pochi minuti dopo uscirono dalla statale, svoltando in una strada quasi in disuso, con le corsie invase dalle erbacce. Videro un calesse a cui si era rotto l'asse di una ruota. Un mennonita, con la sua lunga barba bianca e il cappello, era in piedi accanto al cavallo, e cercava di calmarlo, mentre nell'ombra del calesse intravidero una donna con un neonato in braccio. «Ho sentito che la Titleist sta per lanciare sul mercato una nuova palla,» disse Eisner «capace di percorrere quasi venti metri più delle altre, con la stessa forza di battuta.» Whittemore vide la strada sterrata che aveva scelto in precedenza e rallentò, preparandosi a svoltare. La voce del vecchio era così malferma che riuscì appena a distinguere le sue parole: «Mi piacerebbe poterla provare. Alla mia età, un po' di distanza in più fa comodo». Whittemore accostò a lato della strada, e restò immobile per un minuto buono, pensandoci su. «Sarebbe disposto ad andarsene lontano?» «Io?» disse Eisner. «E dove?» «In qualche altro posto. Dall'altra parte del mondo.» Il vecchio ci mise qualche secondo a capire. «Per esempio sui monti Poconos?» disse poi. Whittemore si recò sulla Settima Strada quel pomeriggio stesso, per restituire i cinquemila. Era la sua unica possibilità di incontrare i gemelli. Una cosa del genere, non esattamente uguale ma simile, gli era già accaduta una volta, ed era stata negoziata. Questa era la parola usata dagli intermediari. Negoziata. Significava che avevano atteso tre o quattro mesi, dandogli il tempo di convincersi che avessero dimenticato, poi un giorno un paio di tipi dalla risata facile, con mazze da baseball, bicipiti come meloni e foruncoli sulle spalle avevano suonato alla porta, sbalzandolo di colpo nel mondo degli ospedali e della scienza medica. Whittemore non ricordava con esattezza come era stato, quella volta. Ma ora, se non avesse trovato una soluzione, la cosa avrebbe dovuto essere spiegata. E questa per gli intermediari era una parola più seria di "negoziata".
I gioiellieri lo fecero salire di sopra, nel loro ufficio. Sembrava avessero una gran fretta di allontanarlo dal negozio. Mentre uno dei due chiudeva la porta, l'altro si tolse la giacca e l'appese alla sedia dietro la scrivania, mettendo in mostra le braccia da culturista. Poi lo fissò come se stesse cercando di prendere una decisione. Era lui quello che conduceva i colloqui. «Allora?» disse. Whittemore capì subito cosa aveva voluto dire il vecchio. «Noi abbiamo anticipato cinquemila dollari, giusto? E io ho detto alle persone con cui ho parlato che se la consegna fosse avvenuta in ritardo l'altra metà della somma non sarebbe stata pagata. Semplice, no?» Whittemore spostò lo sguardo dall'uno all'altro. Erano identici, ma lui riusciva già a distinguerli. «Non comprende?» disse il ragazzo. Whittemore stava quasi per dire loro che non importava, perché lui non aveva eseguito il lavoro, ma si fermò, per vedere cosa sarebbe successo. «L'accordo era dieci» disse. «Cinque anticipati, e cinque dopo.» Il ragazzo scosse la testa. Lui e il fratello si scambiarono un'occhiata. «L'ho già detto agli intermediari» disse. «I tempi non sono stati rispettati, e l'accordo non è più valido.» Whittemore restò immobile, spostando lo sguardo dall'uno all'altro. «So cosa sta pensando» disse il ragazzo. «So esattamente cosa sta pensando. Ma come ho detto anche alle persone con cui ho trattato, mio fratello e io abbiamo depositato dai nostri avvocati una busta sigillata, da aprire nel caso che ci accada qualcosa. Dentro ci sono nomi, date, tutto. Basta che scivoliamo mentre stiamo facendo la doccia, e gli avvocati apriranno la busta.» Fece una pausa, per accertarsi che Whittemore avesse capito, poi sorrise. Subito sorrise anche il fratello. «Voi due vi fate la doccia insieme?» «Parlavo in senso figurato» disse il ragazzo. Whittemore osservò i gioielli che indossavano: orologi Rolex alti un centimetro e mezzo, anelli con diamanti, bracciali e catene d'oro. Quello accanto alla libreria aveva anche i gemelli ai polsini. Whittemore non era sicuro che per fare i gioiellieri fosse necessario assumere quell'aspetto da gitani. Forse a quei due piaceva luccicare come alberi di Natale quando camminavano. Così si sentivano diversi dai comuni mortali. Il ragazzo seduto guardò il fratello, che ora si era messo accanto alla finestra. Quelle occhiate ricordavano a Whittemore il modo in cui due in-
namorati si prendono per mano meccanicamente, senza neppure rendersene conto. «Insomma, guardati» disse il ragazzo. «Sei entrato qui in questo modo...» Whittemore annuì, e il ragazzo fraintese il gesto. Ma del resto aveva frainteso tutto fin dall'inizio. «È un Mexican standoff, una situazione di stallo» disse. «E ora fuori di qui, prima che chiami la polizia.» Whittemore sparò prima a quello alla finestra, poi si voltò lentamente verso l'altro, dandogli il tempo di riflettere sulla sua situazione di stallo. Dopo, restò nella stanza più a lungo del necessario, con la puzza di cordite che gli irritava il naso, e sistemò i cadaveri studiandone la posizione fin nei minimi dettagli. Si sedette sulla sedia del ragazzo, scaricando per un po' il peso dalle ginocchia. Quello alla finestra aveva le unghie rosicchiate. Whittemore pensò al vecchio, chiedendosi quanto tempo sarebbe passato prima che si lasciasse vincere dalla nostalgia, e tornasse al suo ristorante. Quando aveva capito, avevano cominciato a tremargli le mani. E basta. Niente pianti, niente rimorsi. Lì in macchina Whittemore aveva ripensato a come i due tizi dalla risata facile gli avevano sistemato le gambe sopra una sedia della cucina. Un ginocchio, non era mai riuscito a ricordare quale, non si era dislocato la prima volta che lo avevano colpito, e neppure la seconda, o la terza. Aveva accompagnato Eisner fino a una fermata dell'autobus. Eisner era sceso, aveva fatto il giro dell'auto ed era riapparso un istante dopo dall'altra parte, bussando al finestrino. Whittemore aveva abbassato il vetro, per sentire cosa voleva, e lui si era infilato dentro come la morte stessa, tutto lacrime e muco, testa e mani e spalle, e Whittemore non riusciva ancora a credere alla propria reazione: se ne era restato immobile, lasciandosi abbracciare. Tyler Dilts DELINQUENTARE: SIGNIFICATO E (DE)COSTRUZIONE DEL SÉ (Da: «Puerto del Sol») Io delinquento. Questo non è un errore di grammatica. Intendevo proprio usare la parola "delinquentare" come verbo. Capisco che a voi questo possa sembrare strano, a meno che non abbiate una certa conoscenza della musica hip-hop,
o della narrativa hard-boiled. Ma la mia intenzione era proprio quella di usare il termine come verbo, e non nella sua comune accezione di sostantivo. I motivi di questa scelta sono due: 1) Ultimamente ho pensato molto a come definiamo noi stessi e gli altri in base a ciò che facciamo1. E sono restato affascinato dalle sottili ma importanti differenze tra le frasi: «Io delinquento» e «Io sono un delinquente». Il gioco di significati qui sembra inesauribile, ed è interessante cercare di individuare il momento in cui io smetto di essere la somma delle mie azioni per diventare la cosa in sé (cioè, in quale punto preciso smetto di delinquentare e divento un delinquente). 2) Trovo che questo uso non tradizionale e giocoso del linguaggio sia stimolante e divertente. E ho sempre pensato che fosse il tipo di esercizio intellettuale con cui i miei amici e io ci saremmo potuti divertire senza sosta, bevendo cocktail o cappuccini da Mum, o al Cha Cha Cha. Sempre che io avessi degli amici, naturalmente. In ogni modo, io delinquento. Dal che consegue la domanda: «Poiché delinquento, sono un delinquente?». Invece di provare a rispondere subito2, prendo dal tavolino il telecomando e la copia di «TV Guide» sulla quale è poggiato. La guida è già aperta al giorno giusto, ma devo sfogliare diverse pagine per arrivare agli "eventi" televisivi delle quattro del pomeriggio3. Di solito non guardo la tivù nel pomeriggio, e scopro con piacevole sorpresa che alle quattro c'è una replica del Charlie Rose Show, che normalmente va in onda alle undici di sera. Accendo il Mitsubishi da 36 pollici e seleziono il canale ventotto, ansioso di sapere chi sarà il soggetto dell'intervista di Charlie Rose4. Faccio appena in tempo a capire che si tratta di un gruppo di giornalisti famosi, intenti a discutere delle implicazioni etiche della recente copertura mediatica di parecchi eventi nazionali5 degli ultimi tempi, che sento l'inconfondibile rumore della porta del garage che si solleva. Spengo la tivù, scivolo furtivamente in cucina, e prendo posizione con la schiena contro la parete, accanto alla porta che conduce in garage6. Sento il tintinnio delle chiavi di Bobby, quindi un clic, e la porta si apre, nascondendomi alla vista. Bobby entra nella stanza, e io chiudo di colpo la porta alle sue spalle. Lui fa un salto e si volta. Quando mi vede, l'espressione di paura sul suo viso è più che evidente. I motivi di tale paura sono comprensibili, anzi per-
sino logici, a causa di tre fattori significativi inerenti alla situazione: 1) Nella sua cucina c'è qualcuno che non ha il diritto legale di trovarsi lì. 2) Quel qualcuno è particolarmente intimidatorio, non soltanto a causa della sua stazza7, ma anche perché è completamente calvo, a parte le ciglia (io soffro di una malattia relativamente rara, l'alopecia areata, che nei casi estremi, come il mio, causa una completa cessazione della crescita di peli e capelli, che può essere permanente o temporanea)8. 3) Bobby sa perfettamente chi è quel qualcuno, e perché si trova lì. «Ciao Bobby» dico, con un sorriso amichevole. È importante per me cercare sempre di essere cortese, se la situazione lo permette. Credo che abbia a che fare con il mio fisico imponente. È un tentativo, a livello conscio e forse anche inconscio, di attenuare, per quanto possibile, le reazioni della gente al mio aspetto9. «Porca puttana!» urla Bobby. «Mi sono quasi pisciato addosso dalla paura, testa pelata!» (il corsivo è mio). Tra tutte le imprecazioni possibili, ha scelto l'unica in grado di farmi perdere l'aplomb, almeno temporaneamente10. Gli mollo uno schiaffo in piena faccia, e mentre solleva le mani per proteggersi lo colpisco con un uppercut al plesso solare. Il colpo lo solleva di un paio di centimetri dal pavimento, togliendogli tutta l'aria dai polmoni e facendolo cadere a terra come un salmone disossato. Resto a guardarlo mentre si contorce, ansimando e cercando di riprendere fiato. So che ci metterà qualche secondo prima di riuscire di nuovo a produrre dei pensieri razionali, così decido di sedermi. La cucina è un monumento al consumismo americano: frigorifero a due porte degno di un ristorante, fornelli sproporzionati per un appartamento, forno triplo: a convezione, a microonde e grill, tutto in un unico blocco di acciaio satinato. Il piano di lavoro è un'isola di granito su un pavimento di cotto anticato. I contorcimenti di Bobby diminuiscono, e torno a fissarlo. La sua giacca di pelle con cintura gli è salita fino alle ascelle, ciocche di capelli biondi lisciati con il gel ora formano angoli strani rispetto alla testa, e lui è rannicchiato in posizione semifetale sulle mattonelle. Il respiro comincia a farsi meno irregolare, e Bobby solleva gli occhi a guardarmi. Gli sorrido, affabile. «Mi dispiace, Bobby» dico. «È stato un comportamento poco professionale da parte mia.» Lui mi fissa perplesso con gli occhi di un blu artificiale
a causa delle lenti a contatto colorate. «Comunque devi capire che sono particolarmente sensibile ai commenti sulla mia calvizie11.» Faccio una pausa, per aggiungere enfasi a quello che sto per dire. «Perciò te lo dico una volta sola: evita di menzionarla di nuovo.» Il respiro di Bobby ormai è quasi normale. Si tira a sedere sul pavimento. «È chiaro quello che ho detto?» Cerca di rispondere, ma non ci riesce, e si limita ad annuire. «Bene.» Gli lascio un momento per riflettere sulla sua situazione. Lui si scosta dalla fronte una ciocca irrigidita. Mi chiedo se ha intenzione di restare sul pavimento o di provare ad alzarsi e sedersi al tavolo accanto a me. «Naturalmente sai perché sono qui» dico. Bobby resta sul pavimento, e annuisce di nuovo. Bene12. Resto in silenzio per dargli l'opportunità di dire qualcosa, ma lui si limita a fissarmi per dieci secondi buoni. «Dove sono i soldi, Bobby?» Lui infila una mano nella tasca interna della giacca, e tira fuori un rotolo di banconote. Mi basta un'occhiata per capire che non sono abbastanza. Le prendo e le conto rapidamente. «Ne mancano un bel po', Bobby.» Lui abbassa gli occhi sulle mattonelle. «Queste non coprono neppure il vig13.» «Lo so.» «Lo sai?» «Sì.» «E allora perché offrirmeli?» «Non lo so.» Mi fissa con uno sguardo di plastica blu, implorante. «Sembri un tipo ragionevole.» «Lo sono, Bobby.» Lui assume un'espressione sollevata. Non ha capito che c'è un "ma" in arrivo. «Ma sono anche onesto, Bobby.» Ora la sua espressione è perplessa. «Cosa ti ho detto la scorsa settimana?» Lui ingobbisce le spalle, allarga le mani. «Lo sai» dico. Guarda di nuovo il pavimento. Comincio a pensare che lo trovi più interessante della nostra conversazione. «Dimmelo, Bobby.»
Silenzio. Gli sollevo il mento con una mano, obbligandolo a guardarmi. Forse è così che si sentono le madri dei bambini testardi. «Dimmi cosa ti ho detto che sarebbe accaduto, se questa settimana non avessi avuto i soldi.» Ancora silenzio. Lo afferro per il bavero e mi alzo in piedi, sollevandolo. Poi lo lascio andare, gli appoggio una mano sul viso e gli dò una spinta, mandandolo a sbattere contro il muro bianco panna14. Gli vado vicino e lo fisso negli occhi, appoggiandogli una mano sulla spalla. Poi sussurro: «Cosa ti ho detto, Bobby?». «Che mi avresti spezzato i pollici» mormora. «Esatto.» Mi allontano leggermente, ma non abbastanza da permettergli di staccarsi dalla parete. «E ora cosa dovrei fare, secondo te, Bobby?» «Dammi solo un altro po' di tempo. Per favore.» Considero quella possibilità. «Sai che non posso» dico poi. «Ci sono persone a cui devo rendere conto.» Cercando di ammorbidire la voce, come se stessi parlando a un bambino, dico: «Ma c'è una cosa che posso fare...». Me ne pento immediatamente, perché vedo che gli ho dato una falsa speranza. «Cercherò di farti meno male possibile. Siediti al tavolo, resta fermo, e non gridare.» Non riesco a interpretare la sua espressione. Ha le sopracciglia sollevate, gli occhi spalancati e i denti stretti. «Siediti al tavolo» dico. Lui mi guarda come se parlassi in una lingua straniera. Gli appoggio una mano sulla spalla e lo tiro verso il tavolo. Lo faccio sedere. Lui abbassa la testa. «Stai piangendo?» chiedo. Scuote la testa. Mente. «Dammi una mano.» Tende entrambe le mani e le guarda. «Avanti, Bobby. Tanto devo romperli entrambi. Non è mica La scelta di Sophie15.» Lui fa una faccia ancora più confusa. Gli afferro la mano sinistra, e rapidamente gli spezzo il pollice16. Bobby guaisce come un chihuahua che ha ricevuto una pedata. Prima che possa tirare via la mano destra, gliela afferro e ripeto l'operazione. Un altro guaito, altre lacrime. Tende le mani in avanti, allontanandole dal corpo. È stravolto e piange17.
Vado ad aprire il frigorifero. Tiro fuori un vassoio di cubetti di ghiaccio, lo vuoto in una tovaglietta a scacchi verdi, e porto il fagotto a Bobby. «Tienilo tra le mani» gli dico. «Non troppo stretto. Ci vediamo la prossima volta, Bobby.» Lui borbotta qualcosa di incomprensibile. «Sai cosa accadrà la prossima volta, vero, Bobby?» Lui annuisce. «Guardami, Bobby.» Mi guarda. «Lo sai?18» Annuisce di nuovo. «Ora ti conviene andare al pronto soccorso, per farti rimettere a posto i pollici.» Ancora un cenno affermativo. «Buona giornata, Bobby.» Mi chiudo la porta alle spalle, ed esco in strada. L'azzurro fresco del cielo comincia appena a scaldarsi, mentre il sole sale verso l'orizzonte. Sento un prurito dietro la testa. Ci passo sopra le dita, sperando di sentire un segno di ricrescita dei capelli. Ma non sento nulla. Mi siedo al volante della mia auto, e penso di nuovo: verbo o sostantivo? 1
Uso qui la prima persona plurale per riferirmi anche alla cultura in generale. 2 Una cosa in cui, lo ammetto, ho fallito diverse volte, in passato. 3 Devono essere considerati semplici "eventi", perché in almeno tre annunci erano riportati come eventi del varietà "speciale", "importante" e "da non perdere". 4 Charlie Rose è, ovviamente, il miglior intervistatore che lavora attualmente in televisione. Accanto a lui, i pettegolezzi di Barbara Walters possono essere visti nella loro vera luce. Alcuni torse diranno che Ted Koppel è bravo come Rose. Questo è vero per ciò che riguarda la tecnica, ma il tipo di personaggi intervistati da Rose, e le sue conoscenze enciclopediche in tanti campi diversi gli assicurano senz'alno il primato. Non mi degno neppure di menzionare Larry King e la sua interfaccia nasale/anale. 5 Naturalmente non mi è sfuggito l'ossimoro rappresentato dalle espressioni "implicazioni etiche" e "copertura mediatica" usate nella stessa frase. Questo è proprio il tipo di ironia che mi aspettavo di vedere analizzata durante il programma.
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Malgrado la mia stazza (sono alto un metro e novanta e peso centoventisette chili) sono molto bravo a scivolare furtivamente. Si tratta di un requisito importante per chi desidera ottenere un certo successo nel campo della delinquenza. 7 Vedi nota 6. 8 Per maggiori informazioni, visitate il sito web della National Alopecia Areata Foundation: www.alopeciaareata.com 9 Come corollario al mio interesse verso il modo in cui le nostre azioni determinano il concetto di sé, cerco anche attivamente di comprendere il modo in cui il nostro aspetto influenza le azioni, e come entrambi tali fattori, uniti o separati, influenzano l'idea che abbiamo di noi stessi. 10 I riferimenti alla mia calvizie sono l'unico tipo di insulto che, da quando ho perso i capelli all'età di dodici anni, non riesco a tollerare. Tuttavia mi reputo in un certo senso fortunato, perché, tramite minacce implicite o esplicite di violenza fisica, sono riuscito a ridurre al silenzio la grande maggioranza di coloro che cercavano di farmi soffrire in quel modo. I pochi che non si sono lasciati intimidire dalle minacce, hanno subito danni fisici da moderati a gravi. Spesso penso alle altre persone che soffrono di alopecia e di altri disturbi che danno loro un aspetto diverso dalla norma, e mi chiedo come fanno ad andare avanti un giorno dopo l'altro. Mi piace pensare che educando coloro che cercano di sminuire gli altri sulla base dell'aspetto fisico, rendo un piccolo servizio all'umanità in generale. 11 Durante un recente incontro di gruppo sull'alopecia, uno dei partecipanti ha proposto di adottare la definizione "persone con problemi follicolari", per descriverci. Si trattava di un'idea così politically correct da risultare comica. L'unico motivo che mi ha impedito di scoppiare a ridere è stato il fatto che comprendevo il dolore da cui era sorto il suggerimento. 12 Se si fosse alzato, ciò sarebbe stato una manifestazione del desiderio, conscio o inconscio, di sfidare la mia posizione di superiorità. 13 Il vig, in slang americano, è l'interesse esorbitante applicato dagli strozzini (detti anche shylock, con buona pace di chi ha ascendenza ebrea). Si tratta di interessi studiati apposta perché il pollo non possa mai riuscire a pagarli, in modo da forzarlo a cedere i beni mobili e immobili che possiede. 14 Non posso sostenere con assoluta sicurezza che il colore della parete sia bianco panna. Potrebbe essere anche color "guscio d'uovo" o "bianco navajo". 15 Mi pento immediatamente di questo riferimento letterario. Pensavo
che il film tratto dal romanzo di Styron fosse abbastanza noto da far comprendere quello che intendevo dire. Invece non è stato così. 16 La tecnica giusta per spezzare un pollice è la seguente: afferratelo alla base, il più vicino possibile alla mano, stringendolo tra l'indice e il pollice della vostra mano. Ripetete l'operazione con la parte superiore del dito. Dopodiché piegate di scatto il pollice in direzione perpendicolare al suo moto naturale. Nella maggior parte dei casi sentirete l'osso spezzarsi tra le vostre mani. Per avere un'idea della sensazione, immaginate di spezzare una matita avvolta in parecchie fette di mortadella. 17 Anche se si tratta di una reazione patetica, la preferisco a quelle violente o indignate. E comunque Bobby almeno non si è pisciato addosso. 18 La prossima volta, prima di segargli via i pollici, gli darò la possibilità di estinguere il debito cedendo l'atto di acquisto della casa, con il mutuo di cui ha già pagato circa trentottomila dollari. Penso di sapere con ragionevole certezza quale opzione sceglierà Bobby. Mike Doogan OMICIDIO DI GUERRA (Da The Mysterious North) Due uomini scesero dalla jeep e si diressero verso l'edificio. Gli stivali di pelle foderati di pelo scricchiolavano sulla neve. Uno dei due uomini era giovane, robusto e nero. L'altro era anziano, magro e bianco. Entrambi indossavano pantaloni di lana verde oliva, giubbe di tela e cuffie di lana. Il nero camminava premendo sulle dita dei piedi a ogni passo, come se stesse per spiccare un salto. Il bianco aveva un'andatura a metà tra rilassata e barcollante. Il loro respiro usciva in nuvolette bianche. Le teste erano affondate nei colletti delle giacche e le mani nelle tasche. «Cristo, che freddo» disse il nero. La jeep si stava raffreddando con un ticchettio metallico. L'edificio verso il quale camminavano era un capanno di tronchi e lamiera, con un portico in multistrato sul davanti. Da tre piccole finestre usciva una luce gialla e dal comignolo di metallo saliva del fumo. Sull'insegna accanto alla porta era dipinto un gatto nero seduto su una falce di luna, con sotto le parole "Carolina Moon". «Sei sicuro di voler entrare?» chiese il nero. «È necessario» rispose il bianco. «Devo proteggere il mio investimento.»
Entrarono rapidamente e si chiusero la porta alle spalle. Si trovavano in una stanza con una mezza dozzina di tavoli e un grosso bancone, che puzzava di fumo di sigarette, birra stantia e disperazione. Dentro non c'era nessuno. Il bianco, seguito dal nero, si diresse oltre il bancone, aprì una porta, voltò a sinistra e percorse un corridoio buio, verso la luce che veniva da una stanza con la porta aperta. Dentro la stanza c'era un ampio letto e quattro persone che evitavano di guardare il cadavere sul pavimento. Uno era un omone dai capelli rossi in tuta mimetica verde oliva. Intorno al braccio aveva una fascia nera con su scritto "MP", in lettere bianche. L'altro uomo era basso, grassottello e biondo, vestito di marrone. Entrambi avevano una pistola alla cintura. Delle due donne, una era minuta, con i capelli biondi tinti, e indossava una vestaglia rossa che nascondeva ben poco. L'altra era nera, alta e regale. «Ve l'ho detto» stava dicendo la bionda tinta. «Mi ha dato due dollari e mi ha detto di andare a mangiare qualcosa da Leroy's.» «Ciao, Zulu» disse il magro, rivolto alla nera. «Signor Sam» rispose lei. «Che cavolo ci fai qui, soldato?» latrò l'uomo della polizia militare. «Sergente, in realtà» replicò allegro l'uomo magro. Rivolse un cenno di saluto al tizio grasso. «Capitano Olson» disse. «Una notte davvero fredda per uscire, eh?» «Proprio così, sergente Hammett» rispose l'altro. «Proprio così.» Si strinse nelle spalle, indicando il cadavere sul pavimento. «Ma dove si trova lui fa ancora più freddo, può scommetterci.» «Ascolti, lei» intervenne l'MP. «Le ordino di andarsene. E si porti via anche il negretto. Questa è un'indagine militare, e se si ostina a istruirla la sbatto dentro.» «Se mi ostino a fare cosa?» «A istruirla.» «Qualcuno ha idea di cosa stia dicendo?» chiese Hammett. «Credo che intenda "ostruirla"» disse il nero. «Ah, grazie, Clarence» disse Hammett. Indicò il suo compagno. «Lui è Clarence Jefferson Delight, meglio noto come Little Sugar Delight. Ha combattuto e pareggiato con Toni Zale prima della guerra. Ventisette incontri da professionista senza perderne neppure uno. Ventisette, dico bene, Clarence? Niente male per un negretto, eh?» Poi si rivolse all'uomo grasso. «Ascolta, Oscar, è passato un po' di tempo dall'ultima volta che mi sono trovato in una situazione simile, ma credo che in quanto capitano della po-
lizia degli Stati Uniti sia tu l'unica autorità, qui. Il che significa,» spiegò all'uomo della polizia militare «che tu puoi prendere i tuoi ordini e ficcarteli dove non batte il sole.» Il rosso scattò in avanti. Hammett attese l'attacco con le braccia lungo i fianchi. Il capitano si mise in mezzo e poggiò una mano sul petto del rosso. «Calmati, ragazzo» disse. «Forse è meglio se vai a chiamare via radio il quartier generale e chiedi istruzioni, mentre io parlo con queste persone.» L'uomo esitò, poi si rilassò e disse: «Ha ragione, signore» e uscì dalla stanza. «È meglio se andiamo di là» disse il capitano. Gli altri cominciarono a uscire. Hammett si chinò sul cadavere, che giaceva sulla schiena, con le braccia aperte, completamente nudo. Era un giovane dai capelli color sabbia, con gli occhi blu e le labbra piene. Aveva la testa piegata su una spalla e il collo spezzato. Hammett gli appoggiò una mano sul petto. «Dammi una mano, Oscar» disse. «Voglio voltarlo.» Lo girarono a pancia in giù. Hammett lo studiò attentamente, poi lo rimisero com'era prima. «Forse farai meglio a farlo esaminare da un dottore» disse Hammett, mentre si dirigevano verso il bar. «Probabilmente scoprirai che era qui per prendere, e non per dare.» La bionda tinta raccontò una storia semplice. Un soldato era entrato nella sua stanza e le aveva dato due dollari per andare a prendersi qualcosa da mangiare. «Mi ha detto di non tornare prima di un'ora» aggiunse. Lei era uscita dalla porta posteriore per evitare domande, disse, gettando un'occhiata nervosa alla nera. Quando era tornata, il soldato era nudo e morto. «È venuta a dirmelo,» disse la nera «e io ho mandato a chiamare il capitano.» «Cosa hai mangiato da Leroy?» chiese Hammett alla bionda. «Leroy ha detto che era una bistecca di manzo, ma secondo me era alce. Poi ho preso un contorno di piselli in scatola e una fetta di torta al cioccolato. Ora mi brucia lo stomaco, non so se per la torta o per il cadavere.» «Dovrebbe essere una storia facile da controllare» disse Hammett. «E tu cos'hai da dire, Zulu?» chiese il capitano. «Sono stata tutta la notte nell'ufficio dietro il bar, signor Olson» disse la nera. «Quell'uomo è entrato, ha bevuto qualcosa, ha pagato la tariffa e ha
chiesto una ragazza. Quando gli ho domandato chi voleva, mi ha detto che non importava. Così l'ho mandato da Daphne.» «L'avevi mai visto prima?» chiese il capitano. «Credo di sì» disse Zulu. «Anche se qui vengono un sacco di uomini, e non è facile ricordarsi le facce.» «È una cosa che aveva già fatto almeno altre quattro volte» intervenne la bionda. «Con me o con altre ragazze.» Gettò un'altra occhiata nervosa alla nera. «A volte parliamo tra noi, sapete com'è.» «Avete notato qualcuno in particolare, stanotte?» chiese il capitano. «C'era parecchia folla» disse Zulu. «Alcuni erano qui per la musica, altri per le ragazze. Una trentina di persone, direi, quando è stato scoperto il cadavere. Ho riconosciuto un politico locale, poi c'era il presidente della banca...» «Basta così» disse il capitano. «E comunque lui può aver fatto entrare chi voleva, dalla porta posteriore» concluse Zulu. Il poliziotto militare dai capelli rossi entrò nella sala, seguito da una ventata di aria fredda. «Il maggiore mi ha ordinato di portare la puttana alla base» disse al capitano. «Non penso che Daphne voglia venire con lei, giovanotto» disse Zulu. «Quello che pensa una puttana non mi interessa» rispose lui. Zulu si sporse da dietro il banco e lo schiaffeggiò con deliberazione. Il poliziotto cercò di afferrarla, ma Hammett e il capitano lo fermarono. «Probabilmente non ti ricordi di me, Tobin» disse Hammett, con il viso vicinissimo al suo. «Ma io ricordo che eri nella polizia di San Francisco, e ho sentito dire che hai fatto qualcosa per cui ti hanno buttato fuori, appena prima della guerra. Di cosa si trattava, eh?» «Vai a farti fottere» disse il poliziotto. «Come fai a sapere queste cose?» «Ho lavorato alla Pinkerton, per un periodo» disse Hammett. «E conosco parecchia gente.» «Rilassati, figliolo» disse Olson. «Nessuno può maltrattare Zulu davanti a me. Va' a dire al tuo maggiore che se vuole partecipare all'indagine deve parlare con me direttamente. Ora fila.» «Sono troppo vecchio per queste stupidaggini» disse Hammett dopo che il poliziotto se ne fu andato. «Ma permettere che qualcuno faccia del male alla mia socia nuocerebbe all'attività.» «Non ci sarà nessuna attività qui per un bel po'» disse Olson. «Zulu, fin-
ché non avremo risolto questo caso il locale resterà chiuso. Manderò qualcuno a prendere il cadavere. Non lasciar entrare nessuno in quella stanza finché non te lo dirò io.» Detto questo, si voltò e uscì. «Ho bisogno di bere qualcosa, Zulu» disse Hammett. «Ha sentito cosa ha detto il capitano» ribatté la nera. «Siamo chiusi.» «Ma io sono tuo socio» sorrise Hammett. «Socio silenzioso» disse lei. «Non dimentichi la parte che riguarda il silenzio.» «Hai visto che gratitudine, Clarence?» disse Hammett al suo compagno. «Mi prega di prestarle i soldi per aprire questo posto, e ora che glieli ho dati, non vuole avere più nulla a che fare con me. Pensa a cosa sto rischiando. Se i miei amici a Hollywood sapessero che sono comproprietario di un bordello...» «Verrebbero tutti a fare la fila per bere e scopare gratis» disse Zulu. «Ora è meglio che voi due ve ne andiate. Devo spostare Daphne in un'altra stanza, e passerò il resto della notte a sorvegliare grossi uomini bianchi che non faranno altro che entrare, uscire e frugare dappertutto. Parleremo dopo, signor Sam.» I due uscirono nel freddo. «Little Sugar Delight?» disse il nero. «Tony Zale? Che senso ha raccontare storie del genere?» «Le racconto, Clarence,» rispose Hammett «perché se non inventassimo tutti delle storie la vita sarebbe molto noiosa.» Il nero si sedette al volante e premette lo starter. Il motore si avviò con una piccola esplosione. «Lasciami al Lido Gardens» disse Hammett. «Sono in licenza per il fine settimana, e lì c'è un'infermiera che ormai dovrebbe essere ubriaca al punto giusto.» Il mattino seguente Hammett si svegliò solo e completamente vestito sul letto di una piccola stanza d'albergo. Uno stivale era sul pavimento, l'altro ancora infilato al piede sinistro. Si tirò lentamente a sedere. Il riscaldamento sibilava, e da qualche parte oltre la finestra coperta di brina si udì il suono di un clacson. Hammett grugnì mentre si chinava per togliersi lo stivale. Si sfilò entrambi i calzini, andò a versarsi un bicchiere d'acqua dalla caraffa sul tavolino e lo bevve. Poi ne bevve un altro. Prese il bicchiere vuoto e andò a piedi scalzi fino alla sedia dove aveva appeso la giacca. Frugò nelle tasche e ne estrasse una bottiglietta di whisky. Ne versò due dita nel bic-
chiere, lo bevve e fece una smorfia. «L'inizio di un altro giorno perfetto» disse a voce alta. Si guardò nello specchio sopra il lavandino. La faccia che vide era pallida e stretta. Aveva i capelli grigi tagliati corti, gli occhi marroni da sanbernardo e un paio di baffi sale e pepe sopra una bocca ampia. Si tolse la camicia, e si guardò anche le braccia magre come tubi e il petto scarno. «Sta' attento, Tojo» disse. Andò a prendere il suo necessaire in una piccola valigia dall'altro lato del letto, tornò al lavandino e si tolse la dentiera. La lavò per bene con lo spazzolino e se la rimise in bocca. Si fece la barba, poi prese della biancheria pulita dalla valigia, uscì e si avviò lungo il corridoio verso il bagno, scavalcando un uomo dai capelli scuri che russava sul pavimento. Si fece una doccia, tornò nella sua stanza, si vestì e scese nell'atrio. Aprì una porta con sopra la scritta "Café" e si sedette al bancone. Un orologio accanto alla cassa segnava le undici e quarantacinque. Una donna dal viso duro gli mise davanti una tazza e la riempì di caffè. Hammett prese gli occhiali dal taschino della camicia, e se li infilò per consultare il menu macchiato di salsa. «Colazione o pranzo?» chiese alla donna. «Quello che preferisce» rispose lei. «Prendo pancake di farina acida, uova e succo d'arancia. E dell'altro caffè.» «Ehi, ma le uova sono vere?» chiese un uomo di mezza età ben vestito, seduto un paio di sgabelli più in là. Il braccio sinistro della giacca era vuoto e attaccato al bavero con una spilla da balia. La cameriera sbuffò. «Certo che sono uova vere» disse. «E anche il burro è autentico. Questa è una zona di guerra.» Urlò l'ordinazione di Hammett al cuoco indiano attraverso la finestra che comunicava con la cucina. «Non trovate roba del genere, a casa?» chiese Hammett all'uomo. «Solo con le tessere» rispose lui. «Oppure al mercato nero.» «Girano molti soldi nel mercato nero?» chiese Hammett. L'altro assunse un'espressione cupa. «Credo proprio di sì» disse. «Ci sono camion che vendono praticamente di tutto, quasi sempre roba con marchio militare. E dicono che ai party dell'alta società è lo Zio Sam che fornisce cibo e bevande. Ma non lo so per certo.» Agitò la manica vuota. «Questo l'ho perso a Midway. Io non compro un cazzo al mercato nero.» Entrò un ragazzo che vendeva giornali. Hammett ne prese uno. Era gela-
to. «Budapest si arrende!» proclamava il titolo di testa. Un articoletto comunicava che la notte prima la temperatura era scesa a ventotto gradi sotto zero, la più bassa di tutto l'inverno. Nell'angolo a destra in basso della prima pagina c'era una mappa con la didascalia "Strada verso Berlino". Mostrava che le truppe alleate ormai erano a soli cinquanta chilometri da Berlino sul fronte orientale, a quattrocentocinquanta sul fronte occidentale, e a settecentocinquanta sul fronte italiano. La cameriera dalla faccia dura mise davanti ad Hammett il suo piatto con le uova e i pancake. Lui continuò a leggere mentre mangiava. Ice Carnival aveva donato più di mille dollari di incassi al Fondo per la Paralisi Infantile. I Pribilof Five, due chitarre, banjo, fisarmonica e violino, avevano suonato alla baita della USO, e Jimmy Foxx aveva firmato di nuovo con i Phillies. Hammett finì di mangiare, lasciò accanto al piatto una moneta da cinquanta centesimi e si alzò. «Dove crede di essere?» disse la cameriera. «A Seattle? Il suo conto è di un dollaro.» «Caspita!» disse l'uomo con un braccio solo. Hammett si frugò in tasca, prese un dollaro e lo diede alla donna, lasciando la moneta sul bancone. «Beva qualcosa alla mia salute» disse all'uomo senza un braccio. Attraversò la lobby, andò al banco della reception e chiese il telefono all'impiegato. Consultò l'elenco, compose un numero, si identificò e attese. «Oscar» disse a un tratto. «Sam Hammett. Il medico ha esaminato il cadavere? Ah. Bene. Avevo ragione? Capisco. Avete scoperto come si chiamava e dove era di stanza? Un sergente? Quel ragazzino era sergente? Ma dove andremo a finire? Ah, era nella sussistenza? No, lì non conosco nessuno. Ma se vuoi posso dire due parole al generale Johnson. Bene. Ora parliamo del Carolina Moon. Zulu può aprire di nuovo? Dai, Oscar, sii ragionevole. Loro non hanno nulla a che fare con l'omicidio. Va bene, come vuoi. Spero solo che riusciate presto a trovare l'assassino. Ci vediamo, Oscar. Ciao.» Hammett tornò nella sua stanza, indossò il cappotto e uscì. L'aria era più calda della notte precedente, ma non di molto. Percorse diversi isolati, camminando lentamente sulla neve compressa. Gli edifici di legno, a uno o due piani, erano quasi tutti hotel, bar o caffè. Ne contò sette ancora in costruzione. Sulla strada passarono diverse macchine di prima della guerra,
parecchie jeep e un'auto verde militare nuova di zecca. Le persone a piedi erano quasi tutti uomini in tuta da lavoro o in uniforme. Quando ormai aveva le guance indolenzite dal gelo, svoltò a sinistra, poi di nuovo a sinistra, e cominciò a tornare indietro verso l'albergo. A un tratto girò ancora a sinistra, ed entrò in una piccola libreria. Sfogliò alcuni libri, ne scelse uno e andò alla cassa. «Cos'ha preso?» gli chiese la donna dietro il banco. Aveva i capelli grigi quasi come i suoi. «Principi teorici del marxismo, di V.I. Lenin.» Sorrise. «Dal titolo sembra un giallo. Lo compra o lo noleggia?» «Lo noleggio» rispose Hammett. «Non è un libro molto richiesto. Che ne dice di dieci centesimi alla settimana?» «Facciamo due settimane, allora» disse Hammett, dandole un quarto di dollaro. «Non è una lettura facile.» La donna annotò su un registro il titolo del libro, la durata del prestito, il nome e il numero di alloggio di Hammett. Poi gli diede il resto e sorrise di nuovo. «Non è un po' troppo vecchio per essere un soldato?» «Quando mi sono arruolato avevo ventun anni» disse Hammett, con un largo sorriso. «La guerra fa invecchiare in fretta.» Arrivò all'altezza del suo albergo, ma invece di svoltare proseguì per altri due isolati, fino a un edificio di legno con la scritta "Military Police" sulla porta. «Posso parlare con l'ufficiale di turno?» chiese all'uomo dietro la scrivania. Pochi secondi dopo dall'ufficio sul retro uscì un giovane tenente. «Sergente Sam Hammett» disse Hammett. «Staff del generale Johnson. Sto scrivendo un pezzo sulla polizia militare per "Army Up North", e ho bisogno di alcune informazioni.» «Da voi non si usa salutare gli ufficiali?» disse il tenente, brusco. «Non quando non siamo in servizio e senza uniforme, signore» disse Hammett. «Sono certo che glielo hanno insegnato, alla scuola di addestramento, signore.» I due uomini si fissarono per qualche secondo, poi il tenente disse: «Cosa posso fare per lei, sergente?». «Ho bisogno di informazioni sulla quantità di uomini impiegati, signore. Per esempio, potrebbe dirmi quanti ce n'erano in servizio ieri notte qui ad Anchorage, signore?» Ogni "signore" sembrava mettere un po' più a suo agio il tenente. «Non saprei, così su due piedi» disse. «Ma se vuole seguirmi in ufficio,
possiamo dare un'occhiata alla scheda.» Hammett controllò la scheda, e vide che il nome di Tobin non c'era. Tirò fuori un block-notes dalla tasca della giacca e prese appunti. «Grazie mille, signore» disse. «Ora avrei bisogno del suo nome e della città di provenienza. Per l'articolo.» Di ritorno in albergo, Hammett si tolse giacca e stivali, versò un po' di whisky in un bicchiere e vi aggiunse dell'acqua, poi si stese sul letto e si mise a scrivere una lettera. «Cara Lillian» cominciò. «Sono tornato ad Anchorage, e probabilmente il mio periodo di stanza tra gli aleutini sta per finire.» Quando ebbe terminato di scrivere, si preparò un altro drink e prese in mano il libro. Cinque minuti dopo russava. Sognò che lavorava di nuovo per l'agenzia investigativa Pinkerton, in coppia con un grosso irlandese di nome Michael Carey. Si occupavano del caso di Fatty Arbuckle. Sognò di essere allo Stork Club, dove discuteva con Hemingway della guerra civile in Spagna. Sognò di trovarsi con Carey in una bettola di Lombard Street. Carey era più vecchio, gli indicava Billy Tobin, grosso e rosso di capelli, e diceva qualcosa che Hammett non riusciva a sentire. Sognò di trovarsi chiuso nella sua stanza di Post Street, intento a scrivere The Big Knockover. Sua moglie Josie bussava forte alla porta, chiedendogli più soldi per sé e per le figlie. «Signore, si svegli.» Era la voce dell'impiegato, che stava bussando alla porta. «Si svegli, per favore.» «Cosa c'è?» gridò Hammett. «Una visita per lei. Un muso nero.» Hammett si alzò e andò ad aprire la porta. «Lo accompagni di sopra» disse. L'impiegato tornò poco dopo, seguito dal nero. «Clarence, ti presento... Come si chiama?» chiese Hammett all'impiegato. «Joe» rispose l'uomo. «Joe» disse Hammett. «Il mio amico è Clarence "Mazza" LeBeau. Prima della guerra era terza base nei Birmingham Black Barons. Più di trenta home run in sette campionati. Erano sette, vero Clarence? Se non fosse stato per il colore, lo avrebbero preso negli Yankees. Niente male per un muso nero, eh?» «Non intendevo offenderlo» disse l'impiegato, spostando nervosamente gli occhi da Hammett a Clarence. «Ora devo tornare al mio posto» aggiun-
se, e sparì lungo le scale. «Benvenuto nel mio castello» disse Hammett, scostandosi dalla porta per far passare il nero. «Come mai questa visita?» «Sto partendo per la Florida, per iniziare l'allenamento di primavera» rispose l'altro. «Le cose che inventi. Credevo che nessun bianco avesse mai sentito nominare i Birmingham Black Barons. E posso chiederti perché continui a chiamarmi Clarence?» «Suona molto meglio di Don Miller» disse Hammett. «E confonde le idee al nemico.» «Hai bevuto?» domandò il nero. «Un po'. Vuoi un whisky?» Miller scosse la testa. «Ma più che altro ho dormito. I vecchi hanno bisogno di dormire. Allora, come mai sei qui?» «Ero in ufficio a lavorare alle illustrazioni per quell'articolo sugli episodi di congelamento, quando sono stato chiamato dal generale Davenport Johnson in persona. Mi ha detto che gli avevi promesso di andare a un party a casa di un banchiere, stasera, e poiché sa che sei un figlio di puttana irresponsabile - parole sue - mi ha ordinato di venire a cercarti e di accompagnarti sul posto. Il party comincia tra mezz'ora, perciò farai meglio a prepararti in fretta.» «Non vado a nessun party in casa di nessun fottutissimo banchiere» disse Hammett. «Stasera andrò al Lido Gardens, al South Seas e forse anche all'Ovvi Club.» «Stai parlando con Little Sugar Delight, ricordalo» disse Miller. «Andrai a quel party, con le buone o con le cattive. Ordine del generale.» «Ordine del generale» rise Hammett. «Ecco cosa mi tocca per aver voluto diventare famoso.» Si tolse la camicia, si lavò mani e faccia, poi si rimise la stessa camicia, con la cravatta, la giacca dell'uniforme e un paio di scarpe nere lucide. «Va bene, Little Sugar» disse, prendendo il cappotto. «Andiamo a intrattenere la crema della società di Anchorage.» Hammett scese dalla jeep davanti a una casa di legno a due piani. Dalle finestre illuminate usciva un brusio attutito. «Puoi andare» disse a Miller. «Tornerò in albergo a piedi.» «Siamo a più di venti gradi sottozero, Sam.» «Quasi trenta, secondo me» ribatté Hammett. «Ma sono soltanto sei isolati, e mi piace camminare.» Dentro, la temperatura era di molti gradi più calda. Uomini in uniforme
o in completi scuri bevevano, chiacchieravano e sudavano. Tra loro si muovevano donne con troppi gioielli e con pettinature curatissime. Una donna dal viso cavallino con una scollatura notevole e una collana che poteva anche essere di diamanti veri, si avvicinò ad Hammett. «Lei non è Dashiell Hammett, lo scrittore?» «In realtà sono Samuel Hammett, l'ubriacone» rispose Hammett, dopo aver dato una buona occhiata alla scollatura. «Dove posso trovare qualcosa da bere?» Hammett vuotò un bicchiere di liquore in un colpo solo, e ne prese un altro. La donna lo guidò verso un gruppo di uomini in borghese, che discutevano della guerra. «Io vi dico,» stava dicendo un tizio robusto dai capelli ondulati «che stiamo vincendo perché crediamo nella libertà e nella democrazia.» Tutti annuirono. «E anche nella libera impresa, qualunque cosa ne dica Roosevelt.» Tutti annuirono di nuovo. «Cosa ne pensa, Dashiell?» chiese la donna. Hammett vuotò il bicchiere. Si sentiva già gli occhi lucidi. Con un leggero sorriso rispose: «Penso che vorrei un altro drink». «Intendevo dire cosa pensa della guerra.» «Ah, la guerra» disse Hammett. «Prima di tutto, non siamo noi che stiamo vincendo. Non da soli. Abbiamo ricevuto aiuti da parecchie direzioni. Molti sovietici, per esempio, sono morti al nostro posto. Secondo, la parte della guerra che stiamo vincendo dipende dal fatto che siamo in grado di produrre più carri armati, aerei e bombe dei tedeschi e dei giapponesi. Non stiamo vincendo perché le nostre idee sono migliori delle loro, ma perché li stiamo seppellendo sotto strati di metallo.» Quando tacque, si rese conto che nella stanza era sceso il silenzio. «Un discorso interessante» disse la donna, in tono molto meno amichevole di prima. «Avrebbe fatto meglio a darmi un altro drink» disse Hammett. «Ma non si preoccupi, posso andare a prendermelo da solo.» Stava osservando un quadro che rappresentava un alce, quando gli si avvicinò un tizio magro dai capelli ricci che non poteva avere più di trent'anni. Sulle spalline aveva le foglie di quercia che lo identificavano come un maggiore. «Un discorso interessante» disse. «Ma cosa ci fa un sottufficiale in questo party?» «Lo chieda al generale.»
«Ah, giusto. Lei è Hammett, l'eroe del tour per sollevare il morale delle truppe.» Il maggiore bevve un sorso dal bicchiere che aveva in mano. «Sono certo che ottiene grandi risultati con discorsi del genere, nel suo tour.» Hammett non disse nulla, e il maggiore continuò: «Ho sentito dire che lei è coinvolto nell'omicidio di uno dei miei sergenti». Hammett rise. «Coinvolto non è la parola giusta» disse. «Ma ho un'idea piuttosto precisa riguardo al colpevole.» Il maggiore gli si avvicinò ulteriormente. «Nell'esercito è molto meglio occuparsi degli affari propri» disse. «È molto più sicuro.» Hammett lo fissò negli occhi e aprì la bocca per ribattere, ma fu interrotto da una voce nota. «Ah, sergente Hammett, vedo che ha già conosciuto il maggiore Allen. Il maggiore è a capo del servizio di sussistenza, al forte.» «Grazie per la precisazione, generale» disse Hammett. «Credevo che fosse il figlio della padrona di casa, e che questo tosse il suo pigiama.» Il maggiore arrossì violentemente, ma prima che potesse parlare il generale intervenne: «Sergente!» latrò. «Sa qual è la punizione per il reato di insubordinazione?» «Le mie scuse, generale. E anche a lei, maggiore. Normalmente ho il più alto rispetto per la disciplina militare, ma il whisky purtroppo mi fa straparlare.» Il maggiore si allontanò senza salutare. «Un giorno o l'altro la sua boccaccia la metterà nei guai, sergente» disse il generale. Aveva l'aria di star facendo un grosso sforzo per non scoppiare a ridere. «È vero, signore» disse Hammett. «Ma quello lì è uno stronzetto gonfiato.» «Lo è» ammise il generale. «Esercito regolare, come suo padre. Il padre era capo della sussistenza, al Presidio. Ha fatto carriera, ora è in pensione e abita in una bella villa. Il figlio segue la tradizione di famiglia. Tutto contatti e apparenza. Eccolo lì, guardi come si congeda cortesemente dalla padrona di casa. Ora si comporti bene, Hammett.» Il generale diede un'occhiata al quadro. «Strano animale, l'alce, vero?» disse. Poi si allontanò. Il generale lasciò la festa mezz'ora dopo, e Hammett lo seguì a ruota. Percorse il vialetto ghiacciato, e non appena svoltò a sinistra scivolò. Mentre cadeva, udì tre forti esplosioni. Qualcosa gli fischiò accanto all'orecchio. Si voltò di lato e rotolò dietro un'auto parcheggiata. Sentì il rumore di molte persone che si precipitavano fuori dalla casa. «Cosa è successo?» udì che gridavano. «Sta bene?»
Hammett si alzò lentamente in piedi. Non ci furono altri spari. «Sto bene» gridò. «Ma starei meglio se qualcuno mi desse un passaggio in macchina.» Era quasi mezzanotte quando Hammett entrò nel fumo e nel rumore del Lido Gardens. Una band di quattro musicisti riempiva la sala di chiasso, e la maggior parte degli uomini presenti era rivolta verso un tavolo pieno di donne soldato. Hammett si fece strada fino al banco e ordinò un whisky. "Non male per un ubriaco" disse tra sé, e mentre si voltava a guardare la sala urtò con il gomito l'uomo accanto a lui. «Ehi, sta' attento, vecchio bastardo» grugnì l'uomo. Alzò gli occhi dal bicchiere, e il suo viso s'illuminò quando vide Hammett. «Ehi, che mi venga un colpo se non è Dash Hammett, il peggior pedinatore che abbia mai visto. Cosa ci fai qui, alla fine del mondo?» «Quando non sono impegnato nella propaganda, faccio da balia alle star di Hollywood» disse Hammett. «Non è per questo che tutti vanno in guerra? E tu, Carey? I Pinkerton finalmente hanno capito che non vali un accidente e ti hanno buttato fuori?» I due si strinsero la mano. «No, è una triste storia» disse Carey. «Un uomo della mia età dovrebbe avere il diritto di farsi tutta la guerra a casa, in borghese. Ma l'esercito si è reso conto che la guerra fa girare un sacco di soldi, e che quei soldi possono spingere la gente a fare delle brutte cose. Così mi hanno reclutato, malgrado la vista corta e le ginocchia rovinate. Ed eccomi qui, di nuovo in pista dietro ai delinquenti. Per uno stipendio ancora più basso di quello dell'agenzia.» «La guerra è proprio un inferno» disse Hammett. «Permettimi di offrirti qualcosa da bere per alleviare il dolore.» Fece un cenno al barista. Quando si trovarono entrambi con un bicchiere in mano, Hammett chiese: «Qual buon vento ti porta in Alaska?». «Be', questo ti farà ridere» rispose Carey. «Non indovinerai mai chi abbiamo trovato a fare il sergente della sussistenza a Fort Lewis. Bennie Arraffatutto. E i suoi caporali erano Pete Gomez e "Dita" Malone.» «Madre di Dio» disse Hammett. «Probabilmente in quel posto non è rimasto più nulla che valga la pena rubare.» «Tu li conosci, fratello» disse Carey. «Perciò puoi immaginare come ci siamo sentiti noi quando l'abbiamo scoperto. Comunque, Bennie e i ragazzi rischiavano al massimo un anno di carcere, per aver giurato il falso al
momento di arruolarsi. Solo che un giovane scribacchino ha notato una cosa strana: quei tre mandavano al Trecentotrentaduesimo battaglione, qui a Fort Richardson, un carico di cibo e praticamente nient'altro.» «Non mi dire. Non esiste nessun trecentotrentaduesimo battaglione.» «Esatto» disse Carey. «I camion partivano regolarmente dai magazzini, ma le merci destinate a quel battaglione non arrivavano mai alle navi. Non c'era un solo ristorante o fast-food in tutta la costa del Pacifico che non servisse carne e burro dell'esercito. Abbiamo arrestato Bennie e gli altri due, un paio di capitani, un maggiore e addirittura un colonnello. Le autorizzazioni al prelievo delle merci erano firmate da un certo sergente Prevo, ed è toccato a me venire fin qui per arrestarlo.» «Mi sa che sei arrivato tardi, Michael» disse Hammett. «A meno che non ci siano due sergenti Prevo alla sussistenza, il tuo uomo si è fatto spezzare il collo in un bar, ieri notte. Nel mio bar, per la precisione.» «Fottuto esercito» disse Carey. «Non avevamo detto nulla a nessuno di qui, perché non sapevamo chi potesse essere implicato. E ora probabilmente non lo scopriremo mai.» «Non è detto» disse Hammett. «Ho bisogno di sapere due cose. Una: quelli che conducevano le operazioni di sussistenza a Fort Lewis erano tutti uomini dell'esercito regolare? Due: qual è stato il motivo per cui un giovane di nome Billy Tobin è stato buttato fuori dalla polizia di San Francisco? Se conosci la risposta a queste domande, potrei essere in grado di aiutarti.» Il mattino dopo, prima di aprire la porta della sua stanza per recarsi nel bagno comune in fondo al corridoio, Hammett prese una piccola pistola dalla valigia e se la infilò nella tasca dei pantaloni. Poi scese a fare colazione, e ordinò uova e pancetta. Mentre mangiava, lesse un articolo sui giapponesi che a Manila usavano i bambini come bersagli per allenarsi all'uso della baionetta. Passò il resto della giornata nella sua stanza, a leggere e a dormire, uscendo solo per ricevere una telefonata. Non pranzò, e controllò sempre il corridoio prima di andare in bagno. Quando il suo orologio segnava le sette e mezza di sera, si vestì, fece la valigia e si sedette sul letto. Alle nove precise qualcuno bussò alla porta. «C'è una visita per lei» disse la voce dell'impiegato. «La stessa persona di ieri.» Hammett scese, pagò il conto e seguì Miller a bordo di una jeep. Nessuno dei due disse nulla. Alla periferia della città, oltrepassarono locali pieni
di gente. Il Carolina Moon era l'unico edificio buio. Parcheggiarono davanti alla porta, e prima di scendere Hammett disse: «Trovati un posto tranquillo da cui guardare». «Perché lo fai?» chiese Miller. «Risolvere gli omicidi non è affar tuo.» «Questo lo è. Finché il locale resta chiuso, Zulu e io non guadagniamo nulla.» «Tu e lei non siete solo soci in affari, vero?» chiese Miller. «Un gentleman non farebbe mai una simile domanda» disse Hammett. «E nel caso che qualcuno la facesse a lui, non risponderebbe.» Hammett scese dall'auto ed entrò nel locale. Nella sala in penombra si distinguevano appena i presenti. C'erano Zulu e la bionda tinta, il capitano Olson, il poliziotto della MP, Carey, un paio di tizi imponenti che Hammett non conosceva, e il maggiore che aveva incontrato al party. Il poliziotto era appoggiato al bancone, e si guardava nello specchio appeso al muro. Tutti gli altri erano seduti. Hammett andò dietro il banco, si tolse il cappotto, si versò da bere e vuotò il bicchiere. Il poliziotto andò a mettersi accanto alla porta del corridoio. «Vedo che sei riuscito a portare tutti» disse Hammett a Carey. L'investigatore annuì. «Il maggiore è venuto da solo» disse. «Ha detto che voleva essere presente perché il morto era un suo sergente.» «Questa è una delle cose che mi hanno insospettito» disse Hammett. «Il maggiore Allen sembra sapere una quantità di cose. Per esempio, maggiore, come ha saputo che io ero coinvolto in questa storia?» Il maggiore, dopo un attimo di silenzio, disse: «Devo aver sentito il suo nome dal maggiore Haynes, della polizia militare». «Per il momento non approfondiamo questo punto,» disse Hammett «perché l'altra cosa che mi ha insospettito è accaduta prima. Oscar, sei stato tu a chiamare la polizia militare, la notte dell'omicidio?» Il capitano fece segno di no con la testa. «Allora come mai il sergente era qui?» «Ha detto che si trovava nelle vicinanze» disse il capitano. «Ma Oscar, loro non girano sempre in coppia?» «Di solito sì», rispose Olson. «Può dirci qualcosa al riguardo, giovanotto?» Il sergente fissò prima lui, poi Hammett. «Il mio compagno era malato,» disse «e sono dovuto andare da solo. Poi ho visto molti soldati uscire da questo locale, e sono venuto a vedere cosa era successo.» «Michael?» disse Hammett.
«Come hai detto tu,» disse l'investigatore «dall'ordine del giorno della polizia militare risulta che il sergente quella sera non era in servizio.» Tutti fissarono il poliziotto, il quale restò in silenzio. «Questo caso è tuo, Oscar» disse Hammett. «Perciò lascia che ti racconti una storia. C'è una banda di ladri a Fort Lewis, che finge di inviare cibo a un battaglione fantasma, da queste parti, e poi lo vende al mercato nero. Le persone implicate laggiù sono tutte di San Francisco. Tobin è stato nella polizia di San Francisco, e probabilmente li conosce. Il loro appoggio qui, l'uomo che è stato ucciso l'altra notte, sembra non avere nessun collegamento con loro. Michael ha controllato i suoi precedenti, e oggi mi ha telefonato dicendomi che non è mai stato arrestato. Probabilmente era solo un innocuo omosessuale che usava questo locale per incontrarsi con il suo ragazzo.» «Disgustoso» disse il maggiore. «È ciò che succede quando l'esercito comincia a mandare gli elementi indesiderabili tutti nello stesso posto, per tenerli fuori dai piedi. Lei come mai è finito qui?» «Mi sono offerto volontario» rispose il maggiore, a denti stretti. «Certo» disse Hammett. «In ogni modo, l'altra sera Michael mi ha detto che il sergente Tobin è stato cacciato dalla polizia di San Francisco per aver picchiato un ballerino da Finocchio's. Tobin ha sostenuto che l'uomo aveva cercato di abbordarlo, ma in seguito è emerso che si trattava di una lite tra amanti.» «È una menzogna!» gridò il sergente. «È solo una coincidenza di troppo» disse Hammett, in tono duro. «Tu conosci dei delinquenti di San Francisco che frodano il governo. Prevo partecipa alla truffa, ed è omosessuale. Anche tu sei omosessuale. Cosa è successo? Prevo ha cominciato ad avere paura e hai dovuto farlo fuori?» «Non l'ho ucciso io» disse il sergente. «È stato lui.» Indicò il maggiore, e tutti si voltarono a guardarlo. Quando tornarono a fissare Tobin, videro che aveva in mano l'automatica. «Questa non è una buona idea, giovanotto» disse Olson. «Siamo in Alaska. Dove pensi di scappare?» Tobin sembrò non averlo udito. «Non sono frocio!» gridò. «Odio i froci. Ho picchiato quel tipo a San Francisco perché mi voleva portare a letto. E qui volevo solo coprire il maggiore, nel caso che qualcosa fosse andato storto. Due giorni fa il maggiore mi ha detto che un suo amico lo aveva avvertito che quelli di Fort
Lewis erano stati scoperti, e che noi dovevamo occuparci del suo ragazzo. "Jerry parlerà", mi ha detto. "Lo conosco bene." Io gli ho risposto che non avrei ucciso nessuno. Meglio la galera che il plotone d'esecuzione. E l'altra notte, quando l'ho visto uscire dalla porta posteriore di questo locale, lui mi ha detto che l'aveva ammazzato.» «Non è vero!» gridò il maggiore, balzando in piedi. «Io non conosco quest'uomo. A casa ho moglie e figli. Non sono omosessuale.» «Sei fregato, Tobin» disse Hammett. «Il maggiore non lascia nulla al caso. Figurati che mi ha sparato, ieri notte, solo perché aveva il sospetto che sapessi qualcosa. Sono sicuro che ha davvero moglie e figli, a casa. E sono sicuro che non troveremo nessun collegamento tra lui e te, o tra lui e il morto. E infine ci sono le lettere d'amore che Michael ha trovato nel tuo armadietto.» «Lettere d'amore?» chiese il sergente. «Quali lettere d'amore?» Fissò prima Hammett, poi il maggiore. E una luce di comprensione gli apparve in viso. «Mi ha incastrato!» urlò al maggiore. «Mi ha incastrato facendomi fare la figura del frocio!» L'automatica fece fuoco. Il maggiore cadde all'indietro, la bionda tinta strillò, e tutti tirarono fuori le armi da tasche e fondine. Ma ogni cosa sembrava succedere al rallentatore. Tobin puntò la pistola contro Hammett. «Non avresti dovuto ficcare il naso» disse. In quel momento Don Miller apparve dietro di lui e lo colpì con un manganello dietro la nuca. Tobin cadde come un sacco pieno di segatura. Miller e Hammett si guardarono per un lungo momento. Hammett tolse la mano dal calcio della pistola che aveva in tasca. «Direi che è il caso di bere qualcosa» disse, versandosi un drink. Il capitano stava ammanettando Tobin. Carey era chino sul maggiore. Alzò gli occhi e scosse la testa. «Credo che questo significhi che puoi aprire di nuovo, Zulu» disse Hammett. Il pomeriggio seguente, Miller trovò Hammett steso sopra un tavolo, negli uffici della rivista «Army Up North», intento a leggere Lenin. «Devo andare in città per delle commissioni» disse Miller. «Per me va bene» ribatté Hammett, tirandosi a sedere. «Sai, penso di rassegnare le dimissioni. La guerra ormai non durerà ancora a lungo, e non
credo che riuscirò a partecipare a qualche azione.» «Se Tobin avesse avuto il tempo di premere il grilletto, ieri notte, saresti morto esattamente come se ti avessero sparato i giapponesi.» «Immagino di sì» disse Hammett. «Stamattina il generale mi ha detto che il maggiore Allen sarà dichiarato "morto nell'adempimento del dovere". Tobin resterà in galera a vita, dopo un processo veloce. Stanno mettendo tutto a tacere. Non vogliono mettere in imbarazzo il padre del maggiore, e non vogliono che lo scandalo arrivi alle orecchie del presidente e al Congresso. È questo il paese che mi sono impegnato a difendere, arruolandomi?» Miller si strinse nelle spalle. «Devo proprio andare» disse. «Hai ragione» disse Hammett. «A proposito, grazie per essere intervenuto, ieri sera. Non volevo sparare a Tobin, ma non volevo neppure che lui sparasse a me.» Miller si voltò per uscire. «Credo che regalerò il locale a Zulu, se vado via» aggiunse Hammett. «Sarebbe un bel gesto» disse Miller, senza voltarsi. Uscì, salì sulla jeep e andò in centro. Parcheggiò davanti al palazzo federale, ed entrò in un ufficio senza targhe sulla porta, al primo piano. Si sedette e raccontò tutta la storia all'uomo seduto dietro la scrivania. «Interessante» disse l'uomo, alla fine. «Ma il soggetto ha detto qualcosa, a lei o ad altri, riguardo a Lenin, a Marx o al comunismo?» «Questa è l'unica cosa che le interessa?» chiese Miller. «Gliel'ho ripetuto mille volte: non l'ho mai sentito parlare di comunismo.» «Deve capire,» disse l'altro «che questa faccenda dell'omicidio non è così importante. Il direttore dice che stiamo già combattendo la prossima guerra, quella contro il comunismo. La guerra di adesso è il trionfo della verità, della giustizia e del modo di vivere americano. Ed è già finita.» Miller restò in silenzio. «Può andare, ora» disse l'uomo. Poi si voltò verso la macchina da scrivere, infilò un modulo nel rullo, e cominciò a scrivere. Brendan DuBois I FIGLI DI RICCARDO (Da Much Ado About Murder) Benché fosse ottobre, a Londra faceva caldo e c'era il sole, cosa rara in quella città nuvolosa. Kevin Tanner, ricercatore di letteratura inglese alla
Lovecraft University del Massachusetts, era seduto su una panchina in un piccolo giardino nei pressi della Torre di Londra e sentiva ancora su di sé gli effetti del jet-lag: tutto ciò su cui posava gli occhi gli appariva troppo intenso e vistoso e tutti gli odori gli risultavano troppo forti e decisi. Aspettava di fronte alla White Tower, uno degli edifici più imponenti del complesso della Torre di Londra. Era già stato lì da studente, più di sedici anni prima, e gli sembrava che col tempo non fossero cambiate molte cose. Prati curatissimi, marciapiedi, muri, torri e bastioni che rappresentavano quasi un millennio di storia inglese. Poco più avanti si scorgevano il Tower Bridge che, a dispetto dell'aria antica, aveva meno di cent'anni, e il magnifico Tamigi. Per terra, accanto a Kevin, c'era uno zainetto che poco tempo prima era stato esaminato da un agente della sicurezza, al termine di una coda di venti minuti che aveva assicurato a Kevin il privilegio di accedere a quel luogo. Nello zainetto c'erano due barrette al cioccolato, una bottiglia d'acqua, una voluminosa guida di Londra e, in una tasca con cerniera, il passaporto e il biglietto aereo. Se l'agente della sicurezza fosse stato più scrupoloso, pensò Kevin, avrebbe esaminato il biglietto, e gli avrebbe chiesto come mai un assistente universitario con un conto in banca di appena duemila dollari poteva permettersi un'andata e ritorno in prima classe. Nonostante la particolarità degli accordi che l'avevano reso possibile, a Kevin quel viaggio era piaciuto molto. Non aveva mai volato in business class, e meno che mai in prima, e inizialmente il comfort e le attenzioni da parte del personale di bordo l'avevano fatto sentire un po' in colpa. Ma dopo una decina di minuti si era rilassato. Era logico che chi poteva permetterselo viaggiasse in prima classe: sedili comodi, ampio spazio per braccia e gambe, hostess pronte ad accorrere a ogni minimo cenno. Era stato allora che si era sentito invadere da un senso di rabbia e di imbarazzo. Rabbia perché, in teoria, lui era una persona che la società teneva in gran conto, un insegnante destinato a formare le generazioni future, eppure, nella pratica, si trovava a viaggiare in prima classe solo grazie alla generosità di estranei. E imbarazzo perché era un uomo adulto, aveva fatto le sue scelte e non aveva senso provarne rabbia. Comunque, pensò, lanciando un'occhiata allo zainetto ai suoi piedi, il ritorno sarebbe stato altrettanto piacevole. Si guardò intorno, osservando la folla di turisti. Ce n'erano di due tipi: quelli che visitavano la torre da soli, armati di mappe e dépliant, e quelli che seguivano, in folti gruppi, i guardiani della Torre di Londra, i Beefea-
ters con l'uniforme rossa e blu su cui spiccavano le lettere ER, "Elizabeth Regina". Kevin accavallò le gambe e controllò l'ora. Le undici. In quel momento vide avvicinarsi un uomo con una rosa rossa all'occhiello. Era alto, allampanato, con una folta chioma di capelli grigi. L'abito, la cravatta e le scarpe erano neri, mentre la camicia era bianca. L'uomo gli rivolse un cenno di saluto. «Professor Tanner?» chiese, con un colto accento inglese che diceva tutto di lui: Oxford o Cambridge, e poi un posto di rilievo a Whitehall. Membro dei club che contano, appassionato di cricket. «In persona» rispose Kevin. «Lei è il signor Lancaster?» «Sì. Posso sedermi?» Kevin si scostò e osservò l'uomo mentre si sedeva sulla panchina, aggiustandosi con cura la piega dei pantaloni. «Come è stato il suo volo?» «Molto piacevole» rispose Kevin. «E la stanza è di suo gradimento?» Kevin sorrise. «Il Savoy è all'altezza della sua fama. Penso che in un posto del genere troverei di mio gradimento anche il ripostiglio delle scope.» Se aveva sperato in una reazione da parte di Lancaster, rimase deluso. Il vecchio si limitò ad annuire, dicendo: «Capisco. La ringrazio di essere venuto con così breve preavviso. All'università sentiranno la sua mancanza, immagino». «No» disse Kevin, con una punta di rimpianto nella voce. «Sono in congedo sabbatico. In teoria sto lavorando a un libro. Per questo mi è stato possibile mollare tutto e venire qui a Londra.» «Ah.» «E va bene, lo ammetto: ero anche molto curioso. Un biglietto aereo di andata e ritorno in prima classe, un hotel di lusso e un rimborso spese equivalente a circa mille dollari... tutto per incontrare lei alla Torre di Londra. E per parlare di cosa?» «Di storia» rispose Lancaster, appoggiando le mani dalle dita lunghe e affusolate sulle ginocchia. «Storia vecchia e nuova.» «È sicuro che io sia la persona che fa al caso suo? Sono ricercatore di letteratura inglese, non di storia.» Lancaster si strinse nelle spalle. «So che non insegna storia, professor Tanner. So tutto quel che c'è da sapere su di lei: vive a Newburyport, nel Massachusetts, è single, ama Shakespeare e l'Inghilterra elisabettiana. Il
suo unico libro, pubblicato due anni fa, è uno studio sugli epitaffi dell'Inghilterra del Nord e ha venduto esattamente seicentoquattro copie. E ora sta lavorando con fatica a un altro libro, che potrebbe valerle una cattedra, ma che è ben lungi dall'essere finito. Dico bene?» Il fatto che quell'inglese pomposo sapesse tante cose di lui avrebbe dovuto infastidirlo. Invece Kevin si sentiva quasi onorato. «Dice bene. Ha fatto una ricerca accurata su di me, ma perché?» «Per darle una mano a finire il suo libro.» «Come ha detto, scusi?» Lancaster fece un gesto vago. «Si guardi intorno, professor Tanner. Centinaia di anni di storia trasformati in una stupida attrazione turistica. Pochi giorni fa ho accompagnato qui un visitatore tedesco e abbiamo seguito un tour. Uno dei Beefeater ha detto ai turisti che le lettere "ER" sulla sua uniforme significavano "Estremamente Romantico". Capisce? Prendersi gioco della nostra regina, in questo castello che appartiene a lei. Pensi a tutti coloro che sono stati imprigionati qui, da Jane Gray, a Sir Walter Raleigh, a Rudolf Hess. Lei sa che cosa è accaduto nella White Tower alle nostre spalle, no?» Kevin si voltò a guardare l'alto edificio, in cui stava entrando una fila di turisti. «I due principi.» «Già, i due principi. Il giovane Edoardo IV e suo fratello minore Riccardo, il Duca di York. Imprigionati qui da Riccardo III. Conosce Riccardo III, vero?» «Visto che sa tutto di me, saprà anche la risposta a questa domanda.» «Ah, certo. Riccardo III. Uno dei sovrani più controversi che questa povera isola abbia mai avuto. Reso ancor più famoso da Shakespeare. "L'inverno del nostro scontento." Un grande re, o un malvagio, a seconda dei punti di vista. E anche ciò che è accaduto ai due principi dipende dai punti di vista. Lei che cosa pensa che sia successo, professor Tanner?» «Forse Riccardo III li ha fatti uccidere, per eliminare due possibili rivali al trono,» rispose Kevin «o forse era all'oscuro dell'intera faccenda. Ci sono prove a favore di entrambe le versioni. Ma, comunque sia andata, le ossa dei due giovani sono state trovate alcuni anni dopo, sepolte sotto una scalinata.» «Questa è una risposta da professore, non da studioso. Perciò le ripeto la domanda: lei che cosa pensa che sia successo?» Kevin si sentiva sotto pressione, come se si trovasse davanti al consiglio di facoltà che doveva decidere se assegnargli la cattedra o rifiutargliela.
«Io penso che Riccardo li abbia fatti uccidere.» «E quali prove può addurre a favore della sua tesi?» «La prova migliore è considerare chi potesse trarre beneficio dalla loro morte. Dopo che Riccardo III si era impadronito del trono, doveva eliminare i possibili rivali. E ha fatto quello che doveva fare. È stata una mossa politica e nient'altro.» «Mmh... E il suo libro, quello a cui sta lavorando, mette a confronto il nostro Riccardo, duca di Gloucester, con un altro Riccardo, un americano. Giusto?» «Cristo!» esclamò Kevin. «Ma come fa a saperlo?» «Questo non ha importanza, adesso. Ho ragione, no? Riccardo III e Richard Nixon. Un paragone interessante. L'uso del potere, l'autorità... Ma il libro non sta procedendo bene, non è vero?» Per un attimo, Kevin pensò di mentire, poi disse: «Vero: il libro non sta procedendo bene». «Perché?» «Perché non c'è niente di realmente profondo, ecco perché» rispose Kevin, accalorandosi. «Certo, in teoria l'argomento può essere interessante per una lezione in facoltà, ma, in pratica, come si può stabilire un paragone serio tra quelle due figure? Nixon non era uno stinco di santo, ma non si è macchiato le mani di sangue, come il vostro duca di Gloucester. E ora non mi tiri fuori il Vietnam. La guerra era stata iniziata da Kennedy e da Johnson e Nixon l'ha portata a termine come meglio ha potuto, anche se non è stato il modo migliore in assoluto. E credo, come molti altri storici, che la sua apertura alla Cina abbia compensato gli errori in Vietnam. E questo è il motivo per cui il libro non procede. Perché il paragone con Riccardo III è superficiale.» Lancaster annuì e spazzò via con la mano un immaginario granello di polvere dal bavero della giacca. «Forse, però, lei ignora il paragone più ovvio.» «Che cosa intende dire?» Lancaster indicò White Tower. «Quale crimine è stato commesso qui? L'assassinio di due giovani principi. E quale crimine è stato commesso nel suo paese, nel 1963 e nel 1968? L'uccisione in giovane età di due principi, amati e ammirati, che promettevano grandi cose al loro popolo.» Kevin era sbigottito. «I Kennedy?» «Già.» «Lei mi ha fatto venire fin qui per parlarmi di un'assurda teoria della co-
spirazione? Chi diavolo è lei? Chi rappresenta?» «Glielo dirò tra pochi mi...» Kevin afferrò lo zainetto. «No, o me lo dice subito, o me ne vado. Non ho intenzione di rimanere ad ascoltare teorie da bar sulla morte dei Kennedy. E può anche disdire la prenotazione della mia stanza e il biglietto di ritorno, se vuole. Mi pagherò il viaggio da solo.» «Ed è disposto anche a non terminare il suo libro?» «Pagherò anche questo prezzo» ribatté Kevin. «Molto nobile» osservò Lancaster, con un sorriso enigmatico. «Bene, allora: se ne vada adesso, e non riuscirà mai a completare il suo libro; se ne vada, e non otterrà la cattedra. Non solo. Probabilmente, in mancanza di una pubblicazione interessante, le sarà chiesto di lasciare l'università. Forse finirà a insegnare inglese alle superiori, alle scuole tecniche o magari ai carcerati. Questo le sembra davvero meglio che insegnare in una bella università?» Kevin sentì il respiro farsi affannoso. «Prosegua.» «Rimanga qui, scopra quello che ho da offrirle e il suo libro diventerà un best seller. Lei acquisterà una notorietà internazionale. Se vuole potrà restarsene nella sua università, ma, dopo la pubblicazione del libro, tutti i più importanti atenei la pregheranno di accettare una cattedra da loro. Harvard, Yale, Stanford, Columbia... Ci pensi. Sta a lei scegliere, adesso: andarsene o rimanere.» «Non mi sembra di avere molta scelta» commentò Kevin. Lancaster sorrise. «È una bella giornata, professor Tanner. Siamo entrambi vivi e vitali e ci godiamo questo splendido autunno nella più bella città del mondo. Lasci che le dica quello che devo dirle e poi decida il da farsi, va bene? Direi che mi deve almeno un po' del suo tempo, considerate le spese che ho sostenuto per farla venire qui.» Kevin appoggiò di nuovo a terra lo zainetto. «Ha ragione, un po' di tempo glielo devo. Ma arrivi al punto in fretta e sappia che non farò nulla, se prima lei non mi dirà chi è e perché ha speso tutto questo denaro per portarmi qui.» Lancaster annuì e intrecciò le mani. «Mi sembra una proposta ragionevole. Allora cominciamo pure. Un'altra lezione di storia, se così si può dire. Prepariamo il palcoscenico, il luogo in cui, secondo Shakespeare, siamo tutti attori. Mi dica, chi governa il mondo?» Kevin esitò, pensando che forse era caduto preda di uno di quei matti che a volte infestano le università. A un pranzo di facoltà, alcuni mesi pri-
ma, un professore di fisica aveva raccontato di uno sfasciacarrozze del New Hampshire che aveva partorito una teoria del campo unificato e chiedeva il suo aiuto per pubblicarla. A quanto pareva, adesso era il turno di Kevin. Tuttavia, come aveva detto Lancaster, era una bella giornata e lui aveva denaro in tasca, una stanza al Savoy, un biglietto di ritorno in prima classe e, se non altro, il materiale per una bella storia da raccontare al prossimo pranzo di facoltà. «Bella domanda» rispose. «Chi governa il mondo? Non sono sicuro che il mondo sia governato da qualcuno. È difficile perfino trovarsi d'accordo su chi comandi davvero i singoli paesi. Un conservatore direbbe che la maggior parte dei paesi è governata da rappresentanti legalmente eletti. Un liberale, forse, sosterrebbe che in alcuni paesi le grandi imprese, o l'esercito, hanno le mani in pasta nel governo.» «Una risposta niente male» commentò Lancaster. «Ma proviamo un'altra teoria. Che cosa replicherebbe se io le dicessi che famiglie reali, in tutto il mondo, hanno... per dirla con le sue parole, le mani in pasta nel governo?» La storia che Kevin avrebbe raccontato, al suo ritorno nel Massachusetts, prometteva di essere davvero interessante. «Be', è una teoria...» disse. «Strana, ma pur sempre una teoria. Tuttavia non sono sicuro di aver capito bene. Quando parla di famiglie reali, intende famiglie come la casa di Windsor, per esempio?» rise. «In tal caso, non crede che prima di governare il mondo farebbero meglio a cercare di governare la loro vita privata?» Lancaster non rise. «Molto divertente, professor Tanner. Ma non mi riferivo solo alle famiglie reali europee. Se preferisce, parliamo del suo paese.» «Degli Stati Uniti?» Kevin fece uno sforzo per non ridere di nuovo. «Le nostre famiglie reali risiedono a Hollywood, a Palm Springs o a Wall Street. I reali d'Inghilterra almeno sono stati celebrati da Shakespeare. I nostri sono celebrati da "People", quando diventano famosi, e dal "National Enquirer" quando si fanno arrestare o entrano in terapia per disintossicarsi.» Lancaster non sembrava affatto apprezzare le sue battute. «Non si tratta di uno scherzo» disse. «Mi scusi, non volevo fare lo spiritoso.» «Vedo che non mi prende sul serio. Invece dovrebbe farlo.» «Altrimenti che cosa succede? Mi farà arrestare?» Lo sguardo di Lancaster non fu molto rassicurante. «Sarebbe più facile
di quello che crede, professor Tanner. Ma proseguiamo. Parlando dei reali d'America, intendevo riferirmi non certo ai vostri magnati o alle stelle dello spettacolo, ma a coloro che sono coinvolti nella politica e che, sempre per dirla con le sue parole, hanno le mani in pasta nel governo.» A Kevin non era piaciuta la minaccia di Lancaster, ma decise di ignorarla. «Mi perdoni, ma non la capisco. Negli Stati Uniti non abbiamo reali di nessun tipo.» «Davvero? Ripensi un po' alla storia del suo paese. Quali nomi, nella seconda metà del XX secolo, hanno occupato lo Studio Ovale o le poltrone del Congresso? Roosevelt, Kennedy, Rockefeller, Dupont, Bush, Gore, Byrd, Russell... Famiglie ricche e influenti che appartengono tutte alla cerchia del potere del suo paese. È davvero così ingenuo, professor Tanner?» «Nient'affatto» ribatté Kevin. «Ma trovo un po' esagerata la sua teoria. Quei nomi sono influenti in politica, proprio come altri lo sono nel settore del petrolio, in quello delle vendite al dettaglio e così via. Alcune famiglie scelgono il bestiame, altre la politica. Questo è tutto.» «Davvero?» chiese Lancaster, scettico. «Davvero» rispose Kevin. «Queste famiglie, professor Tanner, governano il suo paese da decenni, proprio come le famiglie reali ai tempi di Shakespeare. In pubblico mostrano il loro lato buono e caritatevole, ma in privato è tutt'altra faccenda. Mentono, truffano, rubano e spesso uccidono. Ha notato che molti di loro non muoiono di morte naturale?» «Che cosa intende dire? Che si uccidono tra loro?» Lancaster fece un gesto vago con la mano. «Ma certo. Dia un'occhiata ai giornali. Legga gli articoli che riguardano la morte di un Kennedy, di un Dupont, di un Rockefeller. A volte si parla di overdose di droga. Altre di uno sparo accidentale. Altre ancora, come in un memorabile caso di qualche anno fa, di incidente aereo. Sono tutte storie di copertura. La realtà è molto più oscura e maligna. I membri di quelle famiglie si uccidono tra loro, in una lotta continua per il potere, l'influenza, il denaro.» Kevin sospirò. Le ombre cominciavano ad allungarsi, faceva già più fresco e il letto che lo attendeva al Savoy era un pensiero invitante. «Senza offesa, signor Lancaster, ma io penso che lei sia pazzo» disse. «Mi scusi, sa, ma questa storia di famiglie reali negli Stati Uniti, che si comportano come personaggi di Shakespeare... insomma, è troppo fantastica.» «Ne è davvero convinto? Pensi al giovane John F. Kennedy junior, morto in un incidente aereo. Un uomo affascinante, intelligente e capace. Cer-
to, non possedeva alcun talento straordinario, ma se avesse deciso di entrare in politica, quanto ci sarebbe voluto perché diventasse il candidato principale dei democratici alla presidenza? Due anni? Quattro? Dubita davvero che sarebbe andata così?» La verità era che Kevin non ne dubitava. Ciò che Lancaster diceva era sensato. Nel Massachusetts, il vecchio Teddy Kennedy era il King Kong della politica, che ogni sei anni schiacciava come mosche avversari inconsistenti. Per non dire dei rampolli Kennedy che si erano allontanati dal Massachusetts, per fondare dinastie politiche nel Rhode Island, a New York, nel Maryland... «Insomma, quello che sta cercando di dirmi è che John-John è stato assassinato?» chiese. Lancaster si strinse nelle spalle. «È una possibilità. Nient'altro che una possibilità. Ma c'è una realtà che noi vorremmo sottoporre alla sua attenzione. Si tratta di un evento accaduto quarant'anni fa. Un bel lasso di tempo, indubbiamente... ma la morte dei vostri giovani principi è ancora capace di stimolare l'immaginazione, no?» Kevin ormai cominciava a sentirsi davvero strano, forse per l'effetto combinato di quella discussione assurda, del freddo incipiente e delle strida dei corvi. Ricordò che i corvi della Torre di Londra avevano le ali tarpate, per scongiurare la leggenda secondo cui, se un giorno avessero lasciato quel luogo, l'Inghilterra sarebbe caduta. Tutt'a un tratto, la Torre aveva perso il suo fascino di piacevole attrazione turistica. Kevin cominciò a rievocare tutti i fatti di sangue accaduti tra quei bastioni e si trovò a rimpiangere che quell'uomo allampanato l'avesse strappato alla sua confortevole vita nella Lovecraft University. Desiderò aver gettato via senza aprirla la busta con la scritta "ROYAL MAIL" nell'angolo in alto a destra. «È vero, i due principi, i due Kennedy, stimolano ancora l'immaginazione» ammise. «Ma devo chiederle di nuovo chi è lei e perché ha scelto me.» Lancaster si accomodò meglio sulla panchina. «Va bene, è una domanda giusta. Da qualche secolo, il nostro povero, piccolo mondo si trova sotto l'influenza di queste famiglie, che finanziano industrie, governi ed eserciti. Con il passare del tempo, tra loro si sono formate due alleanze principali. Si tratta non di schieramenti immutabili (ogni tanto ci sono spostamenti da una parte e dall'altra), ma piuttosto di raggruppamenti di interesse.» Il vecchio emise una specie di gemito, come chi ha portato per anni un pesante fardello sulle sue magre spalle. «Il nostro gruppo crede nella libertà dell'individuo, nel potere dei piccoli gruppi. Dove esistono libertà di
stampa ed elezioni democratiche, può star certo che dietro c'è il nostro gruppo o i nostri alleati.» «Capisco. E qual è l'altro gruppo?» «L'altro gruppo ha come obiettivo il potere. Il potere di un governo o di una grande impresa su un popolo, di un insieme di persone su un altro. Ogni volta che in Russia viene chiuso un quotidiano, ogni volta che qualcuno sviluppa un software capace di rintracciare le persone via Internet, ogni volta che una tribù dei Balcani cerca di sterminarne un'altra, si può stare certi che dietro tutto ci sono i membri di quel gruppo. In mancanza di una definizione migliore, noi li chiamiamo i "Figli di Riccardo".» «Un nome interessante» disse Kevin, ormai convinto di parlare con un pazzo. «E come chiamate il vostro gruppo?» Un altro sorriso sottile. «Lei è un uomo intelligente. Sono sicuro che può arrivarci da solo.» Kevin lo capì in un lampo. La rosa rossa all'occhiello. Il cognome dell'uomo. «La guerra delle due rose» disse. «La casa di York contro quella di Lancaster. La rosa bianca contro la rosa rossa. Si tratta di questo?» Un deciso cenno di assenso. «Esatto. È una lotta che dura da generazioni, ma ora noi pensiamo sia arrivato il momento di sferrare il colpo decisivo. Malgrado la caduta del muro di Berlino e del comunismo, i Figli di Riccardo stanno acquistando forza. Ed è tempo di rivelare al mondo come stanno le cose.» «A questo punto entro in scena io, vero?» «Sì. Un anonimo - senza offesa - ricercatore di un'oscura università scrive un libro sull'assassinio di due giovani principi americani. Il libro diventa un best seller mondiale. Le prove che l'autore presenta sono inconfutabili. Tutti i più grandi giornali, sorpresi dal fatto che un simile scoop sia potuto sfuggire loro per anni, effettuano ricerche basandosi sul materiale presentato dal giovane professore e scoprono una serie di cose molto interessanti. I Figli di Riccardo dovranno ritirarsi, forse per decenni, forse abbastanza a lungo da permettere l'emergere di una vera civiltà umana, fondata sul rispetto dell'individuo.» Lancaster estrasse da una tasca della giacca una grossa busta marrone. «Qui dentro troverà diverse prove, ma non la storia completa, e nulla di troppo esplicito, naturalmente.» Kevin si astenne dal prendere la busta. «Che cosa intende con "nulla di troppo esplicito"?» «Intendo dire che qui troverà soprattutto piste da seguire, idee da appro-
fondire. Se le offrissimo tutto su un piatto d'argento, sarebbe chiaro che lei non ha condotto ricerche originali e il suo libro verrebbe severamente criticato e messo da parte. Se invece seguirà queste piste,» disse, scuotendo la busta «tutto le diventerà chiaro. E la sua vita cambierà in un modo che lei non può neppure immaginare.» Kevin non disse nulla, limitandosi a osservare l'uomo da cui veniva quell'offerta così generosa. Che cosa c'era dietro? Lancaster aggiunse: «Nella busta troverà anche un altro rimborso spese in sterline, per un importo pari a circa cinquemila dollari». Prima di parlare, Kevin lasciò passare qualche secondo. «Non ci sono garanzie, lo sa, vero?» disse poi. «Gli editori non fanno la fila davanti alla mia porta. Forse scriverò il libro e non accadrà nulla.» «Ne dubito» ribatté Lancaster. «E tanto per mettere le cose in chiaro, non creda che non la sorveglieremo. Faccia le sue ricerche e scriva il libro. Non pensi di poter tornare a casa e fingere che questo incontro non sia avvenuto. Se prende questa busta, lei ha un obbligo nei nostri confronti. Mi sono spiegato bene?» La mano di Kevin sembrò muoversi di propria iniziativa per prendere la busta. «Sì, molto bene.» «Ottimo. Ci terremo in contatto.» Kevin si chinò per infilare la busta nello zainetto e, quando sollevò la testa, Lancaster non c'era più. Si guardò intorno, senza vedere traccia dell'uomo nei vialetti ormai quasi deserti, poi si alzò e si mise lo zainetto in spalla. Nel giro di pochi minuti si trovò a camminare su un marciapiede affollato, diretto verso la stazione della metropolitana di Tower Hill. Lo zainetto gli pesava come un macigno. Due giorni dopo, nella stanza al Savoy, il cui costo era pari a due mesi d'affitto del suo appartamento nel Massachusetts, Kevin lanciò un'occhiata ai suoi pochi bagagli. In quei due giorni a Londra, aveva cercato di non pensare a Lancaster e alla busta che aveva ricevuto da lui. Era andato a una matinée del Re Leone al London Lyceum, aveva trascorso un'intera giornata al British Museum e, in una mattinata sorprendentemente assolata, aveva assistito al cambio della guardia a Buckingham Palace. Londra e i londinesi, i taxi neri e la metropolitana gli piacevano, ma la sera, quando tornava nella sua stanza, Kevin sentiva l'attrazione della busta. Sapeva che avrebbe dovuto aprirla, esaminare le piste fornite da Lancaster e intascare i soldi, ma aveva evitato di farlo per non rovinare il poco tempo che gli re-
stava da trascorrere in quella città. E così la busta era rimasta chiusa, come una gabbia contenente un rettile pericoloso. «"Guarda come sono sciocchi questi mortali!"» citò. «"Sì, Puck, su questo avevi ragione."» Poi prese i bagagli e lasciò la stanza. Sul volo di ritorno della British Airways, immerso nel comfort della prima classe, Kevin bevve un po' troppo champagne. Intontito e frastornato, si immaginò di riuscire a convincere il pilota e l'equipaggio a volare per sempre intorno al mondo, fermandosi solo per i rifornimenti di cibo e carburante. Gli sarebbe piaciuto passare il resto della vita in quel bozzolo di metallo, leggendo riviste e quotidiani, mangiando pietanze raffinate servite da hostess premurose e guardando i film più recenti. Sarebbe stata una vita strana, ma gli avrebbe permesso di non pensare allo zainetto e alla busta che conteneva. Bevve un ultimo bicchiere di champagne e dormì fino all'atterraggio. Il suo appartamento si trovava in un vecchio edificio vicino al fiume Merrimack, a Newburyport. La vista sul fiume era un privilegio che gli costava cento dollari in più al mese, ma Kevin riteneva che ne valesse la pena. Seduto nel suo studio, fissava le pile di fogli, volumi e raccoglitori che rappresentavano il libro a cui stava lavorando. Un libro che era ben lontano dall'essere finito e che aveva pensato di intitolare Due Riccardi per sottolineare somiglianze e contrasti tra Riccardo III e Richard Nixon. Accidenti a quel Lancaster! Sapeva che lui si trovava a un punto morto e che certamente non avrebbe completato l'opera nei tempi previsti e nel modo in cui lui voleva. All'inizio, aveva pensato a un libro inquietante, pieno di fatti e di contrasti, un libro che gli avrebbe assicurato la cattedra, consentendogli finalmente di lasciare una traccia nel mondo. E adesso? Adesso il libro era impantanato nel fango, proprio come aveva detto Lancaster. Di solito, l'atmosfera del suo studio, tra libri e carte, gli procurava un senso di pace. Ma non quella sera. Il suo incontro con Lancaster aveva cambiato tutto. Quella gente - era ovvio che Lancaster non aveva potuto fare tutto da solo - si era intromessa nella sua vita, sapeva tutto di lui. Prese la busta dalla scrivania. Ecco il dilemma: continuare a lavorare al suo libro, o immergersi nelle farneticazioni di un pazzo? Alzò gli occhi verso il piccolo ritratto di Shakespeare appeso alla parete.
«Will, vecchio mio,» disse ad alta voce «hai mai vissuto momenti come questo? Ti è mai capitato che tipi strani, o nobili, si presentassero da te chiedendoti di scrivere di loro e delle loro famiglie?» Il ritratto non rispose. Per fortuna. Se il Bardo gli avesse rivolto la parola, Kevin avrebbe dovuto chiedere di essere internato nel più vicino ospedale psichiatrico. Prese la busta e l'aprì con un tagliacarte. Dentro c'erano tre fogli bianchi accuratamente piegati, al cui interno trovò un assegno al portatore di tremila sterline. Circa cinquemila dollari, come promesso. Oltre a ciò, la busta conteneva anche due foto patinate in bianco e nero. Kevin accese la lampada sulla scrivania e fissò le immagini. L'aria dello studio sembrò farsi all'improvviso fredda e umida. Kevin riconobbe subito le scene ritratte, anche se non vi aveva assistito di persona. La prima foto mostrava una limousine Lincoln decappottabile, nera, parcheggiata fuori da un ospedale. L'auto era circondata da poliziotti, giornalisti e curiosi, tutti con espressioni sconvolte di stupore, rabbia e disperazione. Sembrava una giornata luminosa e soleggiata e accanto all'auto si vedeva l'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale. Parkland Memorial Hospital, Dallas, 22 novembre 1963. La seconda foto mostrava il corridoio affollato di un edificio. C'erano persone assiepate, giornalisti in piedi su tavoli o sedie e poliziotti che cercavano di contenere la folla. Sul pavimento giaceva un uomo, di cui erano visibili solo i piedi. Come nella prima foto, le facce sconvolte delle persone erano improntate a stupore, incredulità, rabbia. Hotel Ambassador, Los Angeles, 4 giugno 1968. I due giovani principi degli Stati Uniti. Assassinati. Kevin fissò a lungo quelle foto. Secondo le versioni ufficiali dell'accaduto, i due erano stati uccisi da uomini con problemi psichici, animati da oscuro rancore. Kevin non aveva mai dato troppo credito alle teorie della cospirazione, ma ora, dopo il suo incontro con Lancaster... Osservò di nuovo i volti delle persone nella folla. Cittadini di una nazione, sicuri del fatto che i loro leader e governanti venivano liberamente eletti ogni due, quattro o sei anni. Una nazione diversa da quelle dei tempi di Shakespeare, governate da famiglie reali ramificate, armate di lunghi coltelli e di una memoria ancora più lunga. Ma qual era il significato di quelle foto? Nell'incontro alla Torre di Londra, Lancaster gli aveva detto che gli sarebbero state fornite solo delle piste. Nessuna informazione esplicita. Nessun indizio. Kevin avrebbe dovuto
lavorare sodo per districarsi tra quegli indizi e svelare la storia del secolo e, forse, del millennio. Sospirò e gettò un'altra occhiata al ritratto di Shakespeare. «Che cos'hai da guardare?» grugnì, prendendo in mano la prima foto. Kevin si svegliò di soprassalto, dopo un brutto sogno. Correva lungo un sentiero, inseguito da fantasmi armati di lance appuntite e di coltelli. Si passò una mano sugli occhi e sulla bocca, ancora tremante. Si mise a sedere sul letto, fissando il buio della notte. Dalla finestra della camera, affacciata sul Merrimack, scorse le luci di navigazione verdi e rosse di un peschereccio che si dirigeva verso l'Atlantico. Prese a massaggiarsi il collo, chiedendosi che cosa lo avesse disturbato tanto in quel sogno. Prima di andare a letto aveva passato molte ore rinchiuso nello studio. Aveva fissato le due foto fino a farsi venire il mal di testa. Aveva fatto una ricerca su Internet ed era stato risucchiato dallo strano mondo dei complotti e delle cospirazioni. Alcuni siti contenevano allusioni a quello che gli aveva raccontato Lancaster a proposito di potenti interessi e famiglie che governavano il mondo, ma poi si perdevano in deliri religiosi e cabalistici. Dopo una cena rapida a base di maccheroni e formaggio e un'ora di relax davanti alla televisione, Kevin era andato a dormire e aveva avuto quell'incubo. In che pasticcio era andato a cacciarsi? Un oscuro professore di un'università ancora più oscura, che scopriva la chiave di un complotto mondiale? Assurdo. No, senza dubbio era caduto vittima di una burla, della quale gli sfuggiva il senso. Quella era solo una caccia ai fantasmi. Proprio come i fantasmi che davano la caccia a lui nel sogno, spaventosi e uniformi... Uniformi. Quel pensiero lo indusse ad alzarsi dal letto e a tornare nello studio. Accese la luce, prese una lente d'ingrandimento e si mise a esaminare le foto. Il cuore iniziò a martellargli nel petto e le mani a tremargli. Fece alcuni respiri profondi, cercò di calmarsi e guardò di nuovo. Dallas, Texas. Fuori dall'ospedale, impegnato a contenere la folla, c'era un uomo in uniforme da poliziotto, con il naso prominente, messo in evidenza dalla ripresa di profilo. Los Angeles, California. Nel corridoio dell'hotel, impegnato a contenere la folla, c'era un uomo in uniforme da poliziotto, con il naso prominente,
messo in evidenza dalla ripresa di profilo. In entrambe le foto, l'espressione sul viso di quell'uomo era diversa da quella delle persone intorno a lui. Non rifletteva shock, orrore o paura, ma piuttosto... contentezza? tristezza? dolore? Kevin sbatté le palpebre ed esaminò ancora una volta le foto. Era lo stesso uomo. Doveva essere lo stesso uomo. Quante probabilità c'erano che lo stesso poliziotto si trovasse a Dallas il giorno dell'uccisione di John Kennedy, e a Los Angeles cinque anni dopo, il giorno dell'uccisione di Robert Kennedy? Kevin continuò a guardare, spostando gli occhi da una foto all'altra, e alla fine identificò l'espressione sul viso dell'uomo. Era la stessa, in due luoghi diversi, a cinque anni di distanza. Un'espressione di soddisfazione. Ecco che cos'era. Soddisfazione per un lavoro ben eseguito. Si alzò e uscì dallo studio, lasciando la luce accesa. Tornò a letto e rimase sveglio fino all'ora di colazione. Tre settimane dopo quella notte, seduto al volante di un'auto a noleggio, Kevin si chiedeva se avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo. Aveva seguito una pista lunga e contorta per cercare di identificare l'uomo in uniforme che appariva in entrambe le foto. Fortunatamente, la biblioteca della sua università era una delle migliori dello stato. Gli ci era voluta quasi una settimana di duro lavoro. Si era rovinato gli occhi guardando microfilm e sfogliando centinaia di vecchi quotidiani e riviste, che lo avevano riportato indietro nel tempo, a un'epoca in cui sembrava che quei due giovani principi avrebbero segnato una svolta nell'impero americano. E alla fine aveva trovato didascalie che identificavano il poliziotto nella foto di Dallas come Mike McKenna e quello nella foto di Los Angeles come Ron Carpenter. Ma quei nomi, in sé, non dicevano molto. Erano seguiti lunghi e frustranti contatti con i dipartimenti di polizia di Dallas e di Los Angeles, per cercare di scoprire chi fossero Mike McKenna e Ron Carpenter e se fossero ancora vivi. Ma non era approdato ad alcun risultato, perché la polizia non si era dimostrata propensa a collaborare. Allora si era tuffato nei siti Internet dedicati alla teoria del complotto. Infine era andato di persona a Dallas e a Los Angeles, spendendo gli ultimi soldi ricevuti da Lancaster e aveva contattato due uffici diversi, in cui persone custodivano ossessivamente quella che, secondo loro, era la verità.
Era stato, quindi, indirizzato verso altri individui, i quali gli avevano fornito due informazioni interessanti: i nomi Mike McKenna e Ron Carpenter esistevano ancora nei computer dei dipartimenti di polizia di Dallas e di Los Angeles e l'indirizzo al quale inviare la pensione e altre informazioni era lo stesso per entrambi: 14, Old Mast Road, Nansen, Maine. Incredibile. E così adesso Kevin si trovava lì, su una strada sterrata nella parte rurale del Maine, dopo aver fatto qualche ricerca nel locale municipio e aver scoperto che al numero 14 di Old Mast Road viveva un certo Harold Brown, di settantanove anni, pensionato. A bordo della sua auto a noleggio, si fermò all'incrocio tra Old Mast Road e un vialetto anch'esso sterrato che portava a una casa grigia in cima a una collina. Dal comignolo usciva un filo di fumo. Kevin si sfregò il mento. Era davvero possibile che anni di controversie, indagini, dichiarazioni e controdichiarazioni portassero a quella casa sulla collina, in una delle zone più remote del Maine? E che tutto ciò accadesse per opera di Kevin Tanner, ricercatore universitario? Pazzesco. Sembrava tutto assolutamente pazzesco. E ora cosa doveva fare? Quella era la domanda a cui aveva cercato di rispondere per quasi due giorni, prima di prendere il coraggio a due mani, noleggiare una macchina (la sua vecchia Toyota non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare fin lì) e guidare per quattro ore. Per tutto il viaggio si era ripetuto quello che avrebbe detto, il modo in cui avrebbe affrontato il vecchio, le informazioni che voleva ottenere da lui. E adesso era arrivato il momento. Aprì la portiera, rabbrividendo nel freddo di novembre. Percorse il vialetto sterrato fino alla casa, insignificante come migliaia di altre simili nelle zone rurali del Maine, del Vermont e del New Hampshire. Ma, se lui avesse davvero scritto e pubblicato il suo libro, quella catapecchia sarebbe diventata una delle dimore più famose del mondo. Il prato sul davanti era soltanto una piccola distesa di erba secca. In mancanza di un campanello, Kevin bussò sulla porta. Attese qualche secondo, poi bussò di nuovo, più forte, e udì un rumore provenire dall'interno. Rimase in attesa, con il cuore in tumulto. Era davvero sul punto di scoprire la verità? La porta si aprì lentamente e apparve un vecchio in jeans e felpa grigia. I radi capelli bianchi gli coprivano appena la testa lentigginosa. Gli occhi
erano acquosi e velati e il naso prominente era solcato da vene rosse. «Sì?» disse, quasi in un sussurro. Kevin si sentì mancare il fiato: era proprio lui l'uomo delle foto. Si schiarì la voce e chiese: «Il signor Brown? Harold Brown?». «In persona» rispose l'uomo. «E lei chi è? L'esattore delle tasse?» «No, mi chiamo Kevin Tanner e sono un professore di inglese.» Il vecchio lo fissò, sorpreso. «Un professore di inglese? Si è perso?» «No, non mi sono perso. Vorrei scambiare due parole con lei. Le porterò via solo un paio di minuti.» «Non è uno di quei predicatori religiosi, vero?» chiese Brown, guardandolo con diffidenza. «No. Come le ho detto sono soltanto un professore.» Brown si scostò dalla porta, per lasciarlo passare. «In tal caso, entri pure» disse. Kevin lo seguì in casa, respirando lentamente per calmarsi. L'interno odorava di polvere e di cucina. Il vecchio lo precedette nel soggiorno, spostandosi con l'aiuto di un tutore di metallo e strusciando le pantofole nere sulla moquette. Si lasciò cadere su un vecchio divano, mentre Kevin si accomodò su una poltrona accanto a lui, con una busta sulle ginocchia. Alle pareti rivestite di carta da parati celeste erano appese foto di navi e fari, in nessuna delle quali comparivano persone. Sul pavimento e sul televisore erano ammonticchiate pile di giornali. «Così lei insegna inglese» disse Brown, tossendo. «Dove?» «Alla Lovecraft University, Massachusetts.» «Mai sentita. E come mai si trova qui, nel Maine?» «Per vedere lei.» «Me?» disse Brown, sorpreso. «Per quale motivo?» «Perché sto scrivendo un libro e credo che lei sia in possesso di alcune informazioni che mi sarebbero molto utili.» «Temo che abbia fatto un viaggio a vuoto, giovanotto.» Kevin ricordò le prove di quel colloquio fatte in macchina e decise di andare dritto al punto, senza perdere tempo. Aprì la busta, ne estrasse le due foto in bianco e nero e le allungò a Brown. Lui cercò gli occhiali nel taschino della camicia, li infilò ed esaminò le immagini, in silenzio. Kevin rimase in attesa di una reazione, aspettandosi di dover controbattere al rifiuto del vecchio di riconoscersi in quelle foto e di dover, quindi, esibire le altre prove da lui raccolte della presenza di
Brown su ciascuna scena del delitto. Ma la reazione del vecchio, quando arrivò, lo lasciò sconcertato. «È qui per uccidermi?» chiese Brown. «No, niente affatto» rispose Kevin. «Sono davvero un insegnante e sto davvero scrivendo un libro. Sulla morte di John Fitzgerald Kennedy e di suo fratello. E le mie ricerche mi hanno condotto a queste foto e poi a lei, signor Brown. Lei era presente a entrambi gli omicidi.» La voce di Brown si abbassò fino a diventare un bisbiglio. «È stato tanto tempo fa... tantissimo tempo fa...» «Ma perché? Perché l'ha fatto?» sbottò Kevin, con un accesso d'ira che sorprese lui stesso per primo. Brown lo fissò, sbalordito. «Perché? E me lo domanda? L'ho fatto perché mi è stato ordinato, ecco perché. Ero giovane, pieno di energia e di ideali. Ho fatto ciò che credevo giusto e che mi era stato ordinato di fare. Erano tempi diversi, molto turbolenti.» «E chi glielo ha ordinato?» Brown scosse la testa. Posò le foto sul divano e tornò a guardarle. «Non dirò una parola di più. Sono un vecchio, vivo qui solo e tranquillo e non intendo dire altro.» «Sono stati i Figli di Riccardo, vero?» Brown sollevò gli occhi di scatto. «Chi gliel'ha detto?» «L'ho scoperto durante le mie ricerche» rispose Kevin. «Sto scrivendo un libro, signor Brown, in cui c'è una parte che la riguarda. E io la rivelerò, con o senza il suo aiuto.» «Potrebbe essere pericoloso» lo avvertì Brown, cercando di calmare il tremito delle mani. «Forse, ma sarà la verità.» Brown rimase in silenzio per parecchi secondi. Poi disse: «Sono in pensione da anni. Ma ho ancora documenti, fotografie... Una quantità di informazioni, che ho conservato contravvenendo agli ordini». «Davvero?» Un lento cenno d'assenso. «Davvero. Un libro... Ha detto che sta scrivendo un libro?» «Sì.» «E le piacerebbe dare un'occhiata ai documenti in mio possesso?» «Mio Dio, certamente!» Brown fece un altro cenno di assenso e si alzò lentamente dal divano, aggrappandosi al tutore. «Mi aspetti qui. Vado a prenderli.»
Kevin si fregò le mani, sentendo il cuore battergli all'impazzata. Avrebbe passato la giornata con il vecchio, raccogliendo la sua confessione ed esaminando la sua storia in tutti i dettagli. Era lo scoop del millennio e l'avrebbe scritto lui. Sorrise. Il problema della cattedra alla Lovecraft non si poneva più. Una volta pubblicato il libro, avrebbe avuto solo l'imbarazzo della scelta tra Yale, Harvard e... Brown tornò nel soggiorno. Camminava senza tutore, con l'agilità di chi si è tenuto in forma tutta la vita. E in mano, invece di carte e fotografie, aveva una lucente pistola automatica nera. «Avrebbe fatto molto meglio a rimanersene con il suo Shakespeare» disse, con voce ferma e decisa. Quelle parole e la detonazione che seguì furono le ultime cose che Kevin udì. Dopo aver ricevuto la notizia tramite una telefonata intercontinentale in codice, l'uomo che a volte si faceva chiamare Lancaster, e a volte York, si alzò dalla scrivania e andò a bussare a una massiccia porta di quercia. Attese che una voce sommessa dicesse: «Avanti» ed entrò. La stanza era accogliente, con grandi arazzi e una libreria piena di volumi rilegati in pelle, alcune foto incorniciate e un'ampia finestra con vista sul Tamigi. Guardando fuori, oltre la sedia su cui era seduto il vecchio, Lancaster scorse la sagoma tonda del Globe Theatre. L'uomo sulla sedia indossava una pesante vestaglia e aveva i capelli neri pettinati all'indietro e il naso prominente. Teneva un braccio, rinsecchito e inutile, appoggiato sulla scrivania e l'altro su un bracciolo della sedia. Era uno dei più ricchi filantropi del mondo intero e le fotografie appese alle pareti lo ritraevano in compagnia del presidente degli Stati Uniti, del principe Filippo d'Inghilterra, del primo ministro e di parecchi notabili. C'era perfino una sua foto con Richard Nixon, il quale sorrideva come se fosse contento per un accordo appena concluso. «Notizie?» chiese alzando lo sguardo. «Il professore è stato eliminato» rispose Lancaster. «Brown ha eseguito gli ordini alla lettera e gli ho appena versato il compenso pattuito.» «Molto bene» commentò l'uomo. «Tutto sotto controllo?» Lancaster esitò un attimo, poi decise di parlare chiaro, sapendo che l'uomo davanti a lui preferiva gli approcci diretti. «È tutto sotto controllo, signore. Ma c'è una cosa che vorrei sapere.»
«Dica pure.» «Capisco il senso di questo esercizio» disse Lancaster. «Individuare le persone dotate di immaginazione e interesse sufficienti a scoprire le nostre attività, vedere fin dove riescono ad arrivare e poi eliminarle, insieme a tutti quelli che hanno fornito loro informazioni pericolose. La cosa che vorrei sapere riguarda Brown, il nostro uomo nel Maine.» «Sì?» «Non crede che anche lui dovrebbe essere... rimosso?» Il vecchio si girò e fissò lo sguardo sul possente Tamigi, senza rispondere nulla. Lancaster sapeva che non era il caso di sollecitarlo e attese. Alla fine, l'uomo disse: «No, non credo che sia il caso di rimuoverlo. Vuol sapere perché?». «Certo.» «Quell'uomo ci ha reso nobili servigi per tanti anni. Merita la nostra lealtà. Perciò dev'essere lasciato in vita.» «Capisco» commentò Lancaster. «Bene» dichiarò l'uomo che si faceva chiamare Richard. «Come ha detto il Bardo con riferimento al mio antenato spirituale, "Sono deciso a dimostrarmi duro, e odio i piaceri oziosi di questa epoca". E ora al lavoro. Abbiamo parecchio da fare.» «È vero, signore» approvò Lancaster. «È proprio vero.» Elmore Leonard QUANDO LE DONNE ESCONO PER ANDARE A BALLARE (Da When the Women Come Out to Dance) Lourdes era divenuta la cameriera personale della signora Mahmood quando la sua amica Viviana aveva lasciato il lavoro per trasferirsi a Los Angeles con il marito. Lourdes e Viviana erano entrambe di Cali, in Colombia, ed erano arrivate in Florida come spose ordinate per corrispondenza. Il marito di Lourdes, il signor Zimmer, lavorava alla pavimentazione stradale ed era morto due anni dopo il matrimonio. Quando Lourdes si presentò nella casa di Ocean Drive, a pochi isolati da quella di Donald Trump, si aspettava di provare antipatia per la signora Mahmood, moglie del dottor Wasim Mahmood che rimodellava i volti e i seni delle donne di Palm Beach e aspirava loro il grasso in eccesso. E così
rimase sorpresa nel constatare che la donna che venne ad aprirle la porta personalmente non aveva affatto l'aspetto di una signora Mahmood. Alta, capelli rossi, bikini verde e occhiali da sole. La prima cosa che le disse fu: «Lourdes, come Nostra Signora di Lourdes?». «No, Lourdes, pronunciato alla spagnola» rispose la sunnominata, affrettandosi poi a chiedere: «Non c'è qualcuno che venga ad aprire la porta?». «Il personale è nella lavanderia, a fissare le bolle di sapone» rispose la rossa signora Mahmood. «Ma entra pure.» Condusse Lourdes attraverso quella casa dai pavimenti di marmo, piena di statue e quadri privi di significato, fino alla piscina, dove si sedettero sotto un ombrellone bianco e giallo. Sul tavolino c'erano sigarette, un accendino d'argento e un bicchiere con qualche cubetto di ghiaccio. La signora Mahmood si accese una lunga Virginia Slim e spinse il pacchetto verso Lourdes, la quale stava estraendo dalla borsetta un foglio su cui erano stampati pochi dati biografici. «Questo è tutto quello che ho» disse, mettendolo sul tavolino davanti alla signora. Lei si chinò per leggerlo, mettendo in mostra i seni. «"La tua futura moglie è nell'elenco"?» «È una presentazione tratta dalla lista delle donne latinoamericane disponibili al matrimonio» spiegò Lourdes. «Gli uomini interessati possono consultarla sul loro computer. È stata scritta tre anni fa, ma i miei dati sono corretti. Eccetto l'età, ovviamente. Adesso ho trentacinque anni.» La signora Mahmood, ricca e ben tenuta, non dimostrava più di trent'anni. I capelli rossi erano tagliati corti e ricordavano a Lourdes l'attrice televisiva Jill St John. «Già, anche Viviana era una moglie ordinata per corrispondenza» disse la donna. «Qui c'è scritto che il tuo inglese è buono, ed è vero, e che non bevi e non fumi.» «Adesso a volte bevo, nelle occasioni conviviali.» «E non hai un indirizzo e-mail.» «No, ci siamo scambiati lettere per posta ordinaria, finché lui non è venuto a Cali, dove io vivevo. Si organizzano feste per gli uomini che arrivano e noi... insomma, ci vestiamo al meglio per l'incontro.» «Capisco. Così vi conoscete.» «Sì. Quella è stata la prima volta che ho incontrato il signor Zimmer di persona.» «Era così che lo chiamavi?» «Non lo chiamavo in nessun modo.»
«La signora Zimmer» disse la donna dai capelli rossi. «Ti piacerebbe essere la signora Mahmood?» «Non avrei mai pensato che questo fosse il suo nome.» L'altra continuò a leggere. «Sei virtuosa, sensibile, lavoratrice, ottimista. E cercavi un uomo gentile, amorevole, con un buon lavoro. Il signor Zimmer rispondeva ai requisiti?» «Era un brav'uomo, eccetto quando beveva troppo. Allora dovevo stare attenta a quello che dicevo, altrimenti mi picchiava. Ed era forte, per la sua età. Aveva cinquantotto anni.» «Era l'età che aveva quando vi siete sposati?» «No, quando è morto.» «Viviana mi ha detto che è rimasto ucciso...» disse la donna, con l'aria di chi si sta sforzando di ricordare meglio. «Un incidente sul lavoro?» Lourdes era sicura che la sua interlocutrice sapesse già tutto e tuttavia rispose: «È scomparso per alcuni giorni, poi hanno trovato il suo camionbetoniera dalle parti di Hialeah, con un blocco di cemento accanto. Non c'era motivo perché il camion si trovasse lì, visto che lui non stava facendo alcun lavoro da quelle parti. E così la polizia ha fatto aprire il blocco di cemento e dentro ci ha trovato il signor Zimmer». «Assassinato» disse la signora Mahmood. «Credono di sì. Aveva le mani legate dietro la schiena.» «La polizia ti ha interrogata?» «Sì, certo. Era mio marito.» «Intendo dire, pensava che tu fossi coinvolta in qualche modo?» Quella donna sapeva. Lourdes ne era certa. «La polizia aveva il sospetto che fosse stato ucciso da alcuni miei amici colombiani. Glielo aveva detto qualcuno.» «C'entrava la droga?» La solita storia. Anche lei considerava tutti i colombiani trafficanti di droga. «Mio marito guidava un camion che trasportava cemento.» «Ma allora perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo?» «Chi lo sa?» disse Lourdes. «La persona che ha parlato con la polizia ha detto che sono stata io a chiedere ai miei amici di ucciderlo, perché lui mi picchiava sempre. Una volta mi ha dato un pugno così forte che mi si è lussata una spalla» disse, toccandosi la bretella del prendisole scolorito da innumerevoli lavaggi. «Tu hai detto ai colombiani che lui ti picchiava?»
«Non ce n'è stato bisogno. Era un fatto risaputo. A volte il signor Zimmer mi picchiava anche in pubblico, quando aveva bevuto.» «Quindi forse sono stati davvero quei colombiani» disse la signora Mahmood, come se fosse propensa a crederci. «Non lo so» ribatté Lourdes. Poi tacque, sperando che l'interrogatorio fosse finito. Spostò lo sguardo sull'acqua ferma della piscina e, più in là, verso le buganvillee rosse che crescevano contro i muri bianchi. C'erano alcuni giardinieri al lavoro. Tre di loro sembravano latini, ma c'era qualcosa di diverso nel colore della pelle. «Quegli uomini...» cominciò a dire Lourdes. «Sono pakistani» la anticipò la signora Mahmood. «Non mi sembra che si diano troppo da fare. A casa mia ho sempre avuto un orto, dove coltivavo verdura e frutta. Qui, dopo che mi sono sposata, ho lavorato per la signorina Olympia. La sua impresa si chiamava "Pulizie bibliche". Non ho mai capito bene che cosa volesse dire, ma mentre lavoravamo lei recitava passi della Bibbia. Pulivamo uffici a Miami. Viviana mi ha detto che il lavoro qui sarà diverso, che dovrò lavorare solo per lei. Di che cosa si tratta? Tenere in ordine le sue cose, stirarle i vestiti?» Sistemare i cassetti. Pulire i gioielli. La signora Mahmood disse che aveva l'abitudine di gettare le scarpe alla rinfusa nella cabina armadio, perciò Lourdes avrebbe dovuto appaiarle e sistemarle nella scarpiera. Inoltre, sarebbe stato suo compito controllare quali abiti andavano lavati a secco. A questo punto, si fermò un attimo, cercando di farsi venire in mente altre mansioni. Ah, sì. Ci sarebbe stato da controllare e riordinare i cassetti del trucco, nel bagno. Lourdes avrebbe abitato in casa con lei e il marito. Avrebbe avuto libere la domenica e una mezza giornata durante la settimana. Ai fini fiscali, sarebbe risultata un'impiegata del dottor Mahmood. Lourdes non era certa di che cosa significasse quell'ultima frase. Prima che potesse chiedere spiegazioni, però, la signora Mahmood volle sapere se era naturalizzata americana. Lourdes rispose che aveva un permesso di soggiorno permanente, ma che aveva avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza. «Se mi chiedono per chi lavoro, dico per il dottor Wasim Mahmood?» «Così è tutto più facile. Sai, per non pagare troppe tasse. Ma farò in modo che tu prenda almeno trecentocinquanta dollari alla settimana.» Lourdes disse che era un'offerta molto generosa. «E dovrò fare qualcosa anche per il dottor Mahmood?» La donna dai capelli rossi tirò una boccata dalla sigaretta, poi disse:
«Che cosa ti ha detto di lui Viviana?». «Solo che non parlava molto con lei.» «Viviana è una taglia quarantotto. A Woz piacciono giovani e snelle come serpenti. Tu quanto pesi?» «Circa sessanta chili.» «Sì, più o meno, direi. Probabilmente sei al sicuro da lui. Sai cucinare?» «Certo.» «Qui cucinerai solo per te. Noi mangiamo fuori, oppure ci facciamo portare piatti già pronti dal ristorante. Io non mi avvicino neppure ai fornelli e Woz lo sa.» «Woz?» «Wasim. Pensa che sia perché non so cucinare, il che è vero, ma non è quello il motivo. Le altre due domestiche sono filippine e parlano inglese. Non ti daranno problemi. Quando rivolgono la parola a qualcuno guardano sempre a terra. E, grazie a Dio, se ne vanno alle quattro. Woz nuota sempre nudo, non chiedermi perché, forse è una cosa musulmana, non lo so. Comunque, se loro lo vedono, corrono a nascondersi in lavanderia. Se io metto su un po' di hip-hop e loro entrano mentre sto facendo i miei esercizi di aerobica, scappano in lavanderia.» Poi, senza fermarsi un attimo, chiese: «Che cosa ti ha detto Viviana di me?». «Che è una brava persona e che lavorare per lei è un piacere.» «Sono sicura che ti ha detto anche altro. Che lavoravo in locali di striptease, per esempio.» «Mi ha detto che faceva la ballerina, prima di sposarsi.» «Ho iniziato in una bettola sulla statale, sono stata scoperta da un talent scout e mi sono ritrovata al Miami Gold, su Biscayne. Sono stata una delle prime, a parte le nere, naturalmente, a danzare l'hip-hop del Sud, e intendo quello vero, grezzo, mentre le altre ballavano solo i Limp Bizkit, e perfino Bob Seeger e la Bad Company. Nel frattempo, con la lap dance e le esibizioni private facevo più soldi di tutte le altre messe insieme. All'epoca avevo ventisette anni ed ero la più vecchia. Woz veniva al Gold con i suoi amici, tutti in giacca e cravatta e preoccupati di non avere troppo l'aria da Terzo Mondo. La prima volta che mi ha sventolato davanti una banconota da cinquanta, gli ho fatto uno strip tribale molto ravvicinato. Gli ho detto: "Dottore, riuscirà a vedere meglio se rimetterà gli occhi nelle orbite". A lui piaceva che gli parlassi così. Alla quarta visita, gli ho fatto quella che è passata alla storia come la sega da un milione di dollari e poco dopo sono diventata la signora Mahmood.»
Raccontava tutto questo in tono rilassato, fumando la sua Virginia Slim, mentre Lourdes annuiva, dicendo «Capisco» in tono gentile, ogni volta che la donna faceva una pausa. «La sua prima moglie era rimasta in Pakistan, mentre lui frequentava l'università qui. Poi, poco dopo che lui si è laureato e ha cominciato a esercitare la professione, lei è morta.» Un'altra pausa. «Vediamo... Non dovrai indossare una divisa, a meno che Woz non ti chieda di servire qualcosa da bere. A volte vengono i suoi amici, per un cocktail. Arrivano vestiti come Nehru e parlano tra loro in urdu. Quando entro io, mi dicono, nel loro inglese cantilenante: "Ah, signora Mahmood. Che bella vista per i miei occhi". E si chiedono se sono proprio la stessa donna che si spogliava davanti a loro al Miami Gold.» Si interruppe per accendersi un'altra sigaretta e Lourdes disse: «Devo indossare i miei vestiti, mentre lavoro?». «Per adesso, sì, ma poi ti prenderò qualcosa di carino. Che cosa sei, una quarantadue?» «La taglia, intende? Sì, credo di sì.» «Vediamo. Alzati.» Lourdes si alzò e si allontanò dal tavolino. La signora Mahmood la fissò e disse: «Ti ho già detto che la sua prima moglie è morta?». «Sì, signora.» «È morta bruciata.» «Ah» fu il commento di Lourdes. La signora non aggiunse altro. «Le tue gambe sono belle, ma la vita è un po' bassa,» sentenziò poi, esalando una boccata di fumo «e il busto un po' pesante. Ma non preoccuparti, ci penserò io a sistemarti. Qual è il tuo colore preferito?» «Il blu, signora Mahmood.» «Senti» disse la donna. «Non chiamarmi più così. Davanti a Woz puoi chiamarmi "Madam", ma quando siamo sole preferisco che usi il mio nome.» «Qual è?» «Ginger. In realtà sarebbe Janeen, ma tutti mi chiamano Ginger. Gli amici di un tempo, intendo.» Cioè quelli che frequentava prima di sposare il dottore, pensò Lourdes. Donne che ballavano nude e, forse, anche qualche uomo. «Ghingher?» provò a dire Lourdes. «No. Ginger. Ripetilo.» «Gingar?»
«Ci sei quasi. Provaci ancora.» Ma Lourdes non riuscì a chiamarla Ginger. Perlomeno, non nelle prime settimane. Andarono insieme a fare shopping nei negozi di Worth Avenue, dove la signora conosceva tutti i commessi, alcuni dei quali la chiamavano Ginger. Lei sceglieva per Lourdes vestiti e accessori che costavano centinaia di dollari, dicendo: «Questo è carino» e consegnandolo alla commessa perché lo mettesse da parte, senza mai chiedere a Lourdes che cosa ne pensasse. A lei piacevano, per fortuna, ma avrebbe voluto almeno qualcosa di blu, invece era tutto giallo, o bianco e giallo o giallo e bianco. Non doveva indossare una divisa, no, ma doveva intonarsi con i cuscini e gli ombrelloni del patio, rendersi parte dell'arredamento, diventare invisibile. Diverse sere alla settimana, quando il dottore non rincasava, loro due si sedevano fuori. La signora Mahmood faceva di tutto per dare l'impressione che fossero amiche, preparando Daiquiri per entrambe in calici di cristallo. A Lourdes piaceva quel trattamento e pensava che la cosa sarebbe continuata finché la signora Mahmood non avesse deciso che era arrivato il momento di parlare chiaro e di chiederle quello che aveva in mente, quello che Lourdes avrebbe dovuto fare per lei. Il lavoro era una sciocchezza: tenere in ordine i vestiti della signora, annaffiare le piante di casa, preparare da mangiare per sé e spesso anche per le due filippine, che arrivavano in cucina attratte dall'odore dei suoi piatti speziati a base di pesce. Quando parlavano con lei la guardavano in faccia. Alla domanda come mai evitassero lo sguardo del dottor Mahmood risposero che lui faceva domande molto personali sulla loro vita sessuale. Inoltre, pensavano che la signora Mahmood fosse fuori di testa, per la sua abitudine di danzare in mutandine e reggiseno. E la sera la padrona di casa le raccontava quanto si annoiasse e quanto le pesasse non poter invitare i suoi amici, perché a Woz non piacevano. «Che cosa faccio? Esco. Ascolto musica. Commento le soap opera con le domestiche. Qualche volta Melda viene a chiamarmi. "Signora, venga, presto." Lei e l'altra sono in lavanderia a guardare As the World Turns. Allora, mi fa il riassunto delle puntate. "Dick segue Nikki nel luogo dove lei deve incontrare Ryder e sembra che le voglia fare del male. Ma Ryder arriva in tempo per salvarla".» La signora Mahmood raccontava quelle cose e la fissava, aspettandosi da Lourdes un sorriso o una risata. Ma cosa c'era di divertente in tutto ciò? «Che cosa faccio?» ripeteva spesso. «Esisto, ma non ho una vita.»
«Esce a fare shopping.» «Questo è tutto.» «Gioca a golf.» «Vuoi scherzare?» «Va a cena fuori con suo marito.» «Accade molto di rado. Quante volte è tornato a casa la sera, da quando lavori qui? Ha un'amante e passa tutto il tempo con lei. O con altre. E non gli importa che io lo sappia. Tutti gli uomini prima o poi ti mettono le corna, almeno una volta. Woz e i suoi amici lo fanno d'abitudine. Nel loro paese è una cosa normale, accettata. In Pakistan, se un uomo si stanca della moglie le dà fuoco. O incarica qualcun altro di farlo. Non sto scherzando. Woz racconta a tutti che il dupatta di sua moglie ha preso fuoco mentre lei era davanti ai fornelli.» «Ah, è per questo che lei si rifiuta di cucinare.» «È uno dei motivi. Woz è di Rawalpindi, una città dove almeno quaranta donne al mese, dico quaranta, finiscono in ospedale con terribili ustioni. E se la donna non muore... ma mi ascolti?» «Certo.» Lourdes sorseggiava il suo Daiquiri. «...se la donna non muore, vive nella vergogna, perché il marito, il bastardo che le ha dato fuoco, la sbatte fuori di casa. E la legge non lo punisce. In India e in Pakistan ogni anno bruciano migliaia di donne, perché i mariti si sono stancati di loro, o perché si sono sposate con una dote troppo scarsa.» «E la prima moglie del dottore è morta bruciata.» «Sì. Ormai lui poteva permettersi le donne bianche. Che bisogno aveva di lei?» «Ha paura che voglia bruciare anche lei?» «È la loro cultura. E sai qual è l'ironia più grande? Woz è venuto qui per diventare un chirurgo plastico, ma in Pakistan non ce n'è neppure uno per tutte quelle povere donne sfigurate. Ad alcune gettano in faccia dell'acido.» Una pausa. «Ho commesso un gravissimo errore, sposando un uomo che appartiene a una cultura diversa dalla mia.» «E perché l'ha sposato?» chiese Lourdes. Lei fece un gesto, indicando la casa e tutto il resto. «Per questo...» «Allora adesso ha ciò che vuole.» «Non avrò più nulla, se lo lascio.» «Magari, se divorziate, lui le lascerà la casa.» «È tutto scritto nel contratto prematrimoniale. Se divorziamo, non pren-
do niente. E mi ritrovo a trentadue anni a fare lo strip-tease in qualche locale per camionisti. Se hai le tette, un lavoro lo trovi sempre. Il numero preferito di Woz era quando uscivo vestita da infermiera e mi toglievo tutto, eccetto la cuffia.» Il pensiero di quella donna finiva sempre lì. «Mi ha detto che la prima volta che mi ha vista farlo, avrebbe voluto assumermi. Sarei stata la prima assistente di sala operatoria in topless.» Lourdes cercò di immaginarsi la signora Mahmood mentre danzava nuda, sotto gli sguardi degli uomini, e pensò agli ammonimenti della signorina Olympia e alla sua integrità biblica: non bisognava cantare o ballare, mentre si pulivano gli uffici, altrimenti si correva il rischio di attirare gli sguardi degli impiegati intenti a fare gli straordinari. A quanto pareva, Olympia pensava che quegli uomini rimanessero lì proprio in attesa delle donne delle pulizie. «Leggete il Libro dei Giudici» diceva. «Capitolo ventuno, versetto ventuno.» Era il punto in cui si parlava degli uomini che aspettavano le fanciulle di Silo che uscivano per danzare, con l'intenzione di rapirle per costringerle a diventare le loro mogli. Lourdes conosceva donne delle pulizie che cantavano mentre lavoravano, ma nessuna che danzasse. Si chiese che cosa avrebbe provato a danzare nuda davanti a degli uomini. «Lei non vuole rimanere con suo marito,» disse a un tratto «ma vuole rimanere in questa casa.» «Esatto» confermò la donna che non aveva assolutamente l'aria da signora Mahmood. Lourdes bevve un sorso di Daiquiri, mise giù il bicchiere e allungò una mano verso il pacchetto di Virginia Slim. «Posso?» «Certo. Fai pure.» Lourdes accese la sigaretta e aspirò una lunga boccata. «Ho smesso di fumare,» disse «ma il modo in cui lei tiene la sigaretta e aspira le boccate mi ha fatto venire voglia di ricominciare.» Lourdes credeva che la signora Mahmood fosse ormai sul punto di dirle che cosa voleva da lei. Evidentemente era qualcosa di cui non era facile parlare con un'estranea, nemmeno per una donna abituata a danzare nuda. Quella sera, Lourdes decise di venirle in aiuto. «Come si sentirebbe,» disse «se suo marito restasse sepolto sotto un carico di cemento?» Poi, mentre aspettava una reazione in silenzio e senza guardare la donna, si chiese se non avesse parlato troppo presto. «Come è accaduto al signor Zimmer?» disse alla fine la signora Ma-
hmood. «Tu come ti sei sentita?» «L'ho accettato,» rispose Lourdes «con un senso di sollievo, sapendo che non sarei più stata picchiata.» «Sei mai stata felice, con lui?» «Neppure un giorno.» «Ma, se l'hai scelto, doveva piacerti almeno un po'.» «È stato lui a scegliere me, durante quella festa, a Cali. C'erano sette ragazze colombiane per ogni americano. Io non pensavo che sarei stata scelta. Ci siamo sposati... Nel giro di due anni ho ottenuto la carta verde e mi sono stufata di essere picchiata.» «Hai sofferto molto, vero?» chiese la donna dai capelli rossi. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Quanto costa, di questi tempi, un carico di cemento?». «Trentamila» rispose prontamente Lourdes. «Cristo» commentò la signora, rimanendo compostamente seduta in mezzo ai suoi cuscini gialli. «Eri già pronta, eh? Viviana ti ha raccontato la situazione e tu hai deciso di approfittarne.» «Veramente è stata lei ad assumermi,» ribatté Lourdes «e a dimostrarsi tanto interessata a quello che era accaduto al signor Zimmer. Ho capito fin dal primo giorno che non le importa nulla di suo marito.» «Puoi capirne anche la ragione, vero? Ho una paura del diavolo di finire arrostita. Ogni volta che lui si accende un sigaro, non lo perdo di vista un attimo.» Stava cercando una scusa, un pretesto. «Non c'è bisogno di parlare di lui» disse Lourdes. «Lei mi dà i soldi, in anticipo, e non ne parliamo più. Se lei non dà i soldi, non ne parliamo più lo stesso.» «I colombiani devono avere per forza tutto il denaro prima?» «Quali colombiani?» «Quelli del cemento.» «Lei non sa chi sono, né da dove vengono. Può darsi che sembri un incidente e allora lei potrà dire: "Ah, ma loro non hanno fatto nulla, il dottore è caduto dalla sua barca".» «Woz non ha una barca.» «Oppure la sua auto andrà a schiantarsi contro un camion. Capisce? Lei non saprà nulla, prima.» «Immagino che vogliano i soldi in contanti.» «Naturalmente.»
«Non posso ritirare tanto denaro dal mio conto.» «Allora non parliamone più.» Lourdes attese, mentre la signora ci pensava su. Stavano fumando entrambe. A un tratto la donna disse: «Se ti do ventimila dollari in contanti, adesso, crederai ancora che sia il caso di non parlarne più?». «Ha una cifra del genere in casa?» «Sono i soldi che ho preparato nel caso in cui debba andarmene in fretta. Sono tutte le mance accumulate quando lavoravo. Questo è quello che posso pagare: ventimila dollari. Li vuoi o no? Se non li vuoi, puoi andartene anche subito. Non ho più bisogno di te.» Nelle poche settimane trascorse in quella casa, Lourdes aveva incontrato il dottor Mahmood solo due volte. La prima, quando si era presentato in cucina per chiederle di preparargli la colazione a base di pesce freddo affumicato, tè e pane tostato. Le aveva detto che poteva assaggiare il pesce, se voleva, spiegando che non era buono come il salmone, ma neppure cattivo. Lei ne aveva preso un pezzo, trovandolo pieno di spine, ma gli aveva detto che era buono. Avevano parlato dei tipi di pesci che piacevano a entrambi e lui le era sembrato gentile e ragionevole. La seconda volta, Lourdes lo aveva visto uscire nudo dalla piscina, mentre era intenta ad annaffiare le piante del patio. Il dottore l'aveva chiamata, chiedendole di portargli un asciugamano. Quando Lourdes si era avvicinata con il telo di spugna, lui le aveva chiesto: «Mi aspettavi?». «No, signore.» Mentre lui si asciugava i capelli cortissimi, Lourdes aveva abbassato lo sguardo sul suo ventre rotondo e sullo strano pene nero. Poi aveva risollevato gli occhi prima che lui si togliesse l'asciugamano dal viso. «Sei vedova?» le aveva chiesto il dottor Mahmood. Lourdes aveva annuito, e lui aveva continuato: «Quando ti sei sposata eri vergine?». Lei aveva esitato, ma poi, pensando che stava parlando con un medico, aveva risposto: «No, signore». «Non aveva importanza, per tuo marito?» «Credo di no.» «Ti piacerebbe tornare vergine?» Lei avrebbe voluto pensarci su, era una cosa che non le era mai neppure passata per la mente. Ma non voleva farlo aspettare, così aveva detto: «No, non alla mia età». «Io posso ricostruire la tua verginità, se vuoi. Bastano pochi punti di su-
tura nel posto giusto. È una pratica diffusa in Oriente, tra le ragazze che si apprestano a sposarsi e anche tra le prostitute: possono chiedere moltissimo, a volte anche migliaia di dollari, per la notte in cui perdono la verginità.» Dopo un attimo di silenzio aveva aggiunto: «Se cambi idea e vuoi che ti dia un'occhiata, dimmelo. Possiamo fare l'esame preliminare nella tua stanza». Il modo in cui lui l'aveva guardata, mentre le parlava, aveva fatto venire a Lourdes un'immediata voglia di spogliarsi. La sera in cui la signora Mahmood e Lourdes avevano parlato d'affari, il dottore non era tornato a casa. E non tornò neppure la sera successiva. Il mattino dopo, due poliziotti di Palm Beach si presentarono alla porta. Mostrarono a Lourdes il distintivo e chiesero di vedere la signora Mahmood. La donna era in camera da letto, intenta a provarsi un completo nero davanti allo specchio. «C'è la polizia» annunciò Lourdes. La signora annuì, poi si mise in posa e chiese: «Come mi sta?». La gonna del completo era piuttosto corta. Lourdes lesse la storia sul giornale. Il dottor Wasim Mahmood, noto chirurgo plastico, era stato raggiunto da vari colpi di pistola, durante un evidente tentativo di furto della macchina. Quando l'ambulanza era arrivata in ospedale, il dottore era già morto. La sua Mercedes era stata trovata abbandonata per strada, a Delray Beach. La signora Mahmood uscì di casa con il suo completo nero. Poche ore dopo telefonò a Lourdes per riferirle che aveva identificato il corpo, parlato con la polizia, che sembrava brancolare nel buio, e preso accordi con un'impresa di pompe funebri per far cremare il marito. «Mi è sembrata un'ottima idea.» «Che cosa?» «Quella di farlo bruciare.» Aggiunse che doveva passare a trovare alcuni amici e che sarebbe rincasata tardi. All'una del mattino, dopo una serata trascorsa a bere con i suoi vecchi amici, la signora Mahmood entrò in cucina dal garage e non le piacque quello che vide. Rum e caraffe sul tavolo, limoni, una ciotola di ghiaccio. Dal patio veniva un ritmo latino. Seguì la musica e vide Lourdes al centro di un cerchio di candele accese, che ballava con le braccia alzate e le lab-
bra strette, con addosso un bikini verde. I due uomini che fumavano seduti al tavolo videro la signora Mahmood, ma non fecero neppure il gesto di alzarsi. Lourdes si girò e le disse, con un lieve sorriso: «Come sta? Non sembra molto addolorata». «Hai addosso il mio costume» disse la signora Mahmood. «Mi ero messa il mio, quello giallo, ma poi l'ho tolto. Ho deciso di non portare più niente di giallo. Perciò ho preso in prestito uno dei suoi. Non c'è problema, vero?» «Che cosa sta succedendo qui?» chiese la signora Mahmood. «E una cumbia, una musica colombiana per festeggiare i matrimoni, i funerali, qualunque cosa. E le candele fanno parte della scena. Con la cumbia, bisogna sempre accendere le candele.» «Sì, ma che cosa succede?» «E una festa in suo onore, Ginger. I colombiani sono venuti a vederla danzare.» Robert McKee LA CONFESSIONE (Da «Eureka Literary Magazine») Entrai nel vialetto d'ingresso dei Thatcher e spensi la moto. Abbassai il cavalletto, ma non scesi. Non ancora. Jane mi aveva chiamato mezz'ora prima, dicendomi che Charlie era peggiorato e che voleva vedermi. Mi aveva chiesto di venire subito. Ero arrivato di corsa, ma ora, invece di entrare, me ne restavo seduto sulla moto e respiravo a pieni polmoni. Aveva appena smesso di piovere e l'aria notturna era intrisa del profumo intenso dei gelsomini. Charlie Thatcher era orgoglioso del suo giardino e io pensai che non ci fosse nulla di male a rimanere lì un momento a godere la fragranza dei gelsomini. E tuttavia sapevo che era una menzogna. La lampada sotto il portico si accese, ma io mi trovavo fuori dall'alone di luce gialla. La porta si aprì e ne uscì Jane. «Pry?» chiamò. «Sei tu?» «Sì» risposi, scendendo dalla moto. «Sono io.» Lei mi venne incontro. «Sei arrivato in moto?» disse, incredula. «Non ti sei accorto che pioveva?» Cercò di sorridere, ma sul suo volto stanco e gonfio il sorriso non riuscì a materializzarsi. «Me ne sono accorto, ma avevo voglia di prendere la moto.» La verità era che quando mi sentivo depresso mi piaceva girare in moto e quella not-
te la depressione era penetrante come il profumo dei gelsomini di Charlie. Mi strinsi nelle spalle. «A volte, mi fa sentire meglio.» Appena pronunciai quelle parole, Jane disse: «Oh, Pry» e mi abbracciò stretto, appoggiandomi la testa sul petto, incurante del fatto che il mio giaccone da moto fosse bagnato di pioggia. Singhiozzava in modo orribile. «Ci siamo» disse. «Sta succedendo così in fretta.» Le passai le braccia intorno alle spalle e la tenni stretta, senza dire nulla. Un mese prima a Charlie era stato diagnosticato un cancro al fegato. Una settimana prima era stato ricoverato in ospedale e due giorni prima, contro il parere dei medici, aveva insistito per essere riportato a casa. «Mi ha chiesto di chiamarti» disse Jane. Sollevò la testa per guardarmi in faccia. «Ha detto che è importante. Ha dolori terribili, ma non vuole prendere nulla. Vuole essere lucido per quello che deve dirti.» La allontanai con gentilezza. «Sono qui» la rassicurai. «E tu come stai?» Lei si asciugò le lacrime con entrambe le mani. «Non ce la faccio. Piango continuamente. Riesco a trattenermi solo quando sono accanto a Charlie. Con tutto quello che deve sopportare, non voglio imporgli anche i miei attacchi isterici.» Sottolineò quelle parole con un altro accenno di sorriso. Prima di entrare in casa, mi tolsi il giaccone, lo scossi e l'appoggiai sulla ringhiera del portico. «Ti ha detto che cos'ha in mente di dirmi?» chiesi. «No, non ha voluto parlarmene, ma ho capito che per lui è una cosa molto importante.» Jane mi condusse dentro. «Ha detto che spiegherà ogni cosa a me e ai ragazzi, ma solo dopo aver parlato con te.» Mi indicò le scale, invitandomi a salire. Con una nota di materno rimprovero nella voce, aggiunse: «Ti offrirei una birra, ma sapendo che dopo devi guidare la moto, preferisco non farlo». Non perdeva mai occasione per ricordarmi che secondo lei le moto erano pericolose. Salii le scale afferrandomi alla massiccia ringhiera di quercia. La casa, un grande edificio pieno di spifferi, costruito negli anni Trenta, era sulla Quinta Strada, a un isolato di distanza da Balboa Park. Charlie era stato il mio numero due per anni e, quando io avevo venduto la società, i nuovi proprietari lo avevano nominato direttore generale. Pensavo che, dopo la promozione, lui e Jane avrebbero venduto la loro casa di San Diego, per trasferirsi nel Nord della contea, dove si trovava la sede principale della società. Ma Charlie si era rifiutato anche solo di parlarne. «Qui abbiamo allevato i nostri due figli,» mi aveva detto una volta «e qui resteremo.» Fuori dalla stanza di Charlie, ebbi di nuovo un attimo di esitazione. Ormai non sentivo più il profumo dei gelsomini, perciò fui costretto ad am-
mettere la verità. Charlie Thatcher per me era come un parente, come uno zio e non stavo prendendo bene quello che era capitato. Una voce roca disse: «Entri pure, padre Delaney». Io deglutii, abbassai la maniglia ed entrai. «È la prima volta che mi prendono per un prete» dissi. Charlie era steso in un lettino da ospedale, sistemato in modo da tenerlo in una posizione semiseduta. «Oh, Gesù, guarda chi c'è. Il motociclista.» Charlie era di New York e, alle mie orecchie californiane, il suo accento suonava come quello di Archie Bunker, il personaggio di una vecchia serie televisiva. Gli assomigliava anche, a parte la corporatura. Charlie era alto un metro e novanta e pesava più di un quintale. O, almeno, quello era il suo peso prima della malattia. Dimagriva a una velocità impressionante. Ero stato a trovarlo solo due giorni prima e adesso sembrava aver perso altri dieci chili. Feci del mio meglio per sorridere e dissi: «Buon Dio, Charlie, hai un aspetto terribile». «Grazie. Mi sentivo un po' giù, ma tu sai come sollevare il morale di un malato.» Gli toccai una mano. «È il minimo che posso fare.» «Ultimamente,» disse lui «fare il minimo sembra la tua occupazione principale.» Charlie amava fare battute su quella che considerava la mia vita sfaccendata. Dai venti ai trent'anni o poco più, mi ero dedicato a fondare e a espandere la mia società. Quando l'avevo venduta, copriva tutto il settore della sicurezza: guardie giurate, guardiani notturni, installazione di sistemi antifurto, investigazioni private. Era stato un impegno a tempo pieno per parecchi anni. Ora potevo permettermi di fare quello che volevo, il che significava soprattutto andarmene in giro sulle moto che personalizzavo nel garage di casa. Non era precisamente il tipo di attività che un lavoratore forsennato come Charlie Thatcher considerava produttiva. Concluse le schermaglie, scese il silenzio. Fu Charlie a romperlo, dicendo: «Il dottore mi dà meno di una settimana». Io mi sentii troppo pesante per restare in piedi e mi lasciai cadere sulla sedia accanto al letto. «Forse meno» aggiunse. «Al principio non gli credevo, ma ora so che è vero. È una sensazione strana, sai, sentire la vita che se ne va.» Feci per dirgli quanto mi dispiacesse, ma lui lo sapeva già, senza bisogno che parlassi. Ci conoscevamo da diciotto anni. Charlie si era appena congedato dalla marina e io lo avevo assunto come guardia di sicurezza in
un locale di strip-tease a National City. Quello era stato il primo contratto per la mia società, quindi potevo ben dire che Charlie era stato con me fin dall'inizio. Lui sollevò una mano con gran fatica, indicando la porta. «Chiudila bene, per favore, John.» Il mio nome è John Pryor, ma tutti mi chiamano Pry, eccetto Charlie. Andai a chiudere la porta e, quando tornai accanto al letto, Charlie disse: «Pensavo che fosse padre Delaney perché ho chiesto a Jane di farvi venire entrambi. E poiché lui abita a pochi isolati da qui, credevo che sarebbe arrivato per primo». «Si vede che hai dimenticato la mia inosservanza dei limiti di velocità.» Charlie sorrise alla battuta, ma capii subito che aveva altre cose in mente. «Meglio così» disse. «Preferisco parlare prima con te.» «Che cosa vuoi dirmi?» chiesi. Si fissò per un lungo momento le mani fragili e macchiate. Infine scosse la testa e disse, con voce debole: «Io non sono un uomo buono, John». «Non dire sciocchezze. Tu sei l'uomo migliore che io abbia mai conosciuto.» E le mie non erano solo parole di circostanza. Charlie Thatcher era un uomo stimabile e altruista, un padre amorevole e un marito devoto. Era capo dei boy scout e allenatore di una squadra di ragazzi. Una sera alla settimana andava a servire zuppa calda alla mensa dei poveri, in Market Street. Per molti ragazzi a rischio era stato una specie di fratello maggiore. «Charlie,» dissi «tu sei il tipo di persona che ogni politico di questo paese finge di essere. Perché dici che non sei un uomo buono?» Lui si voltò a guardarmi, con gli occhi arrossati che risaltavano contro la pelle giallastra. «Perché non lo sono, John. Avrei voluto esserlo. Ci ho provato.» Voltò la testa verso la finestra, cercando di penetrare con lo sguardo l'oscurità del giardino. «Era un modo per rimediare a ciò che avevo fatto, ma ci sono cose a cui non si può rimediare.» «Di che cosa stai parlando?» chiesi. Tornò a fissarmi e il dolore che gli lessi sul volto non era quello causato dalla malattia. «Sono un assassino, John. Trentacinque anni fa ho ucciso un uomo.» Non so quanto tempo passò, prima che riuscissi a dire; «Stai scherzando, vero?». Era una domanda così stupida che Charlie non si prese neppure la briga di rispondere. «Sei la prima persona a cui lo confesso. Ma ora è arrivato il momento di dirlo a tutti. A padre Delaney, a Jane, ai ragazzi. Avrei dovuto farlo già molto tempo fa.»
«Come è accaduto, Charlie?» Ancora non potevo crederci. Semplicemente non riuscivo a immaginare Charlie Thatcher nei panni di un assassino. Lui abbandonò la testa sulla pila di cuscini e fissò un punto sul soffitto. «Ero in marina» disse. «Stavo bevendo qualcosa in un bar di San Diego, quando, per un motivo che non ricordo, un tizio si è messo in testa di fare a pugni. Io ero giovane e facile all'ira e così siamo usciti nel vicolo.» «Allora è accaduto durante una rissa?» «Non proprio. Lui era grosso come me, forse anche di più, ma non sapeva fare a pugni. L'ho colpito un paio di volte e lui è caduto a terra, battendo la testa. Sarebbe potuto finire tutto lì, ma non so che cosa mi abbia preso. Una specie di furia, non riesco a descriverla meglio. Gli sono saltato addosso mentre era a terra e l'ho colpito in faccia un sacco di volte. Quando sono tornato in me, ho cominciato a correre e mi sono fermato solo quando sono arrivato alla mia nave. Il giorno dopo ho sentito alla radio che quel tizio era morto.» «La polizia ti ha interrogato?» chiesi. «No. Era uno che non conoscevo, non c'era nulla che potesse collegarmi a lui. Non ricordo neppure com'era cominciata la lite. Avevamo parlato per meno di dieci minuti e probabilmente nessuno nel bar si era accorto di noi. San Diego a quell'epoca era un posto violento. Due giorni dopo ho letto un articolo su di lui. Si chiamava Duane Tragovic ed era un delinquente di bassa lega. Era già stato arrestato una dozzina di volte. La polizia non ha fatto troppe indagini.» Restammo entrambi in silenzio per alcuni secondi. E di nuovo fu Charlie a parlare per primo. «Ho cercato per anni di dimenticare quello che avevo fatto,» disse «ma non ci sono riuscito. Forse Tragovic era un delinquente, ma io ero un assassino. Il giornale diceva che il morto aveva una moglie. Si chiamava Marlee e io non riuscivo a togliermela dalla mente. Le avevo ucciso il marito. Sono arrivato al punto di non poter più sopportare San Diego. Ho pensato che, se me ne fossi andato, forse sarei riuscito a lasciarmi alle spalle quello che avevo fatto. Così mi sono offerto volontario per un servizio di pattuglia in Vietnam.» Charlie mi fissò di nuovo con gli occhi rossi, prima di continuare: «Ma non potevo smettere di pensarci, John». Sollevò una mano, stringendola a pugno. «Non è passato un solo giorno, in questi trentacinque anni, senza che io abbia ricordato quello che ho fatto. Ho pensato a quell'uomo e a sua moglie. Avrei voluto rintracciarla, dirle quanto mi dispiaceva, ma non ne
ho mai avuto il coraggio. Sapevo che, se le avessi parlato, la verità sarebbe venuta fuori e non ero pronto ad affrontare le conseguenze del mio atto. Poi mi sono sposato, ho avuto dei figli e non ho mai avuto il coraggio di dire la verità neppure a loro.» Scosse la testa, con gli occhi pieni di lacrime. «Ero troppo vile per confessare che tipo di uomo sono in realtà.» Ebbe un sussulto e il suo corpo di irrigidì. Dal modo in cui digrignò i denti, trattenendo il fiato, era chiaro che il dolore era fortissimo. «Charlie» dissi. «Che cosa posso fare?» Lui non rispose. Rimase lì a denti stretti e a occhi chiusi. Dopo un po' sembrò rilassarsi, ma il suo aspetto era ancora più fragile. Il suo corpo sotto il lenzuolo era pieno di spigoli. Era come se quello spasmo si fosse portato via un pezzo di Charlie. Si sfregò gli occhi, ma nel suo sguardo c'era un'ombra che non poteva essere cancellata. «Ho cercato di essere buono,» mormorò, in un roco sussurro «ma non è servito a cambiare quello che ero diventato quella notte di tanto tempo fa.» Udimmo bussare alla porta e un attimo dopo un uomo di mezza età con il clergyman mise dentro la testa. «Padre Delaney» disse Charlie. «La prego, ci lasci ancora un minuto da soli.» L'uomo annuì. «Aspetterò qui fuori. Mi chiami quando è pronto.» Fece un passo indietro e chiuse la porta. «Ho bisogno di fare la mia confessione, John» mi spiegò Charlie. «Certo» dissi alzandomi. «Ti lascio e dico al prete che può entrare.» «No, no. È vero, devo confessare ciò che ho fatto a padre Delaney e anche a Jane e ai ragazzi, ma quello che volevo dire adesso è che ho bisogno di fare la mia confessione a Marlee Tragovic. Devo dirle quello che ho fatto a suo marito e pregarla di perdonarmi.» Sollevò gli occhi e io lessi nel suo sguardo quella tristezza che conoscevo da sempre, ma di cui non avevo mai indovinato l'origine. «Ti chiedo di trovarla» mi pregò. «E di portarla qui.» Non potevo credere alle mie orecchie. «Charlie, ma sono passati trentacinque anni.» «Già» convenne lui, e l'ombra nei suoi occhi si fece più scura. «Trentacinque, lunghi anni. Ma tu puoi farcela, John. Ho fiducia in te. Solo che devi affrettarti. Io non sono più giovane e non diventerò molto più vecchio di così.» Evitai l'autostrada e tornai a casa per la strada lunga, passando da Mis-
sion Bay, Pacific Beach, La lolla e oltre le scogliere di Torrey Pines. I continui cambi di marcia, le soste ai semafori, le partenze mi impedivano di pensare. Ma quando imboccai la rampa che portava al garage sotterraneo di casa mia, i pensieri mi inondarono la mente. Dubitavo di essere la persona giusta per svolgere il compito che Charlie mi aveva affidato. Ormai erano più di tre anni che non lavoravo, ma la cosa che mi paralizzava era il fatto che per Charlie trovare quella donna era molto importante e io temevo di deluderlo. Salii in casa, inserii nello stereo un vecchio CD dei Crusaders, versai del brandy in un bicchiere e mi sedetti al computer. La mia casella di posta elettronica era piena di messaggi inutili, come al solito. Li cancellai tutti, aprii un motore di ricerca e digitai "Marlee Tragovic". Neppure un risultato. La cosa non mi sorprese. Dopo tanti anni, se non era morta, quella donna quasi certamente si era risposata. Ancora oggi molte donne assumevano il cognome del marito, dopo il matrimonio. E tenendo conto dell'attuale tasso di divorzi, il cognome di Marlee Tragovic poteva essere cambiato più di una volta, negli ultimi trentacinque anni. Mi ero ritirato dagli affari proprio quando Internet aveva cominciato a diventare di uso comune e non mi ero mai preoccupato di sfruttare tutti i vantaggi che la Rete offriva agli investigatori privati. Tuttavia sapevo che nella mia vecchia società si erano aggiornati e avevano accesso a database specializzati. L'ufficio investigativo era aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, così inviai un'e-mail con la richiesta di effettuare quella ricerca per me. Quando mi giunse la risposta che non era stato trovato nulla, ero già al terzo brandy. Il sistema semplice non aveva funzionato. La mattina dopo feci colazione con un uovo alla coque, due tazze di caffè e quattro aspirine. Anche se non credevo di poter soddisfare la richiesta di Charlie, sapevo che dovevo almeno provarci. Così chiamai il sergente Al Bruun, un amico del dipartimento di polizia di San Diego. Avevamo la stessa età, ci eravamo incrociati spesso sul lavoro e ci scambiavamo favori da anni. «Cristo, Pry» mi disse. «Non sapevo neppure che Charlie fosse malato.» «Già. È stata una cosa improvvisa.» Senza rivelargli del coinvolgimento di Charlie, gli parlai di quell'omicidio di trentacinque anni prima. Al Bruun disse che avrebbe dovuto mandare qualcuno a scartabellare in archivio, ma che con un po' di fortuna in serata sarebbe stato in grado di inviarmi una copia dei documenti riguardanti
il caso. «Hai sempre lo stesso numero di fax?» mi chiese. Risposi di sì e chiudemmo la comunicazione. Dopo una doccia veloce e un altro caffè, salii sulla moto e andai a San Diego. La città era cambiata molto dai tempi in cui Charlie era in marina. A quell'epoca la Broadway era costellata di bar malfamati e locali di striptease. Tipi furbi in vestiti sgargianti se ne stavano sui marciapiedi, in cerca di polli da spennare. In seguito, le autorità cittadine avevano ripulito quelle zone e avevano diretto i loro interventi verso un nuovo e sofisticato tipo di truffa, quella delle attrazioni turistiche. Risalii la Broadway e più proseguivo verso est, più l'ambiente diventava sudicio e trasandato. Le autorità avevano investito milioni di dollari per sistemare il centro, ma la periferia era evidentemente invisibile ai loro occhi. Prima che me ne andassi, Charlie mi aveva dato un'ultima informazione. Esisteva ancora un bar nel luogo dove lui aveva ucciso quell'uomo. Lo trovai, feci una rapida inversione di marcia e parcheggiai la moto con la ruota posteriore contro il marciapiede. Il locale si chiamava Silk Hat Lounge, come diceva la scritta al neon spenta che sormontava un cappello a cilindro. Non era ancora aperto, ma dalla vetrata vidi una donna dietro il bancone, intenta a contare bottiglie e a prendere appunti su un foglietto. Bussai sul vetro e lei mi gridò: «Apriamo alle undici». «Vorrei solo fare alcune domande. Ci vorrà un minuto.» Era una rossa sui sessant'anni, con seni come meloni che tendevano la blusa di nylon. «Non mi piacciono i motociclisti» disse. «Fuori dai piedi.» Evidentemente mi aveva visto arrivare sulla mia Harley Davidson. Estrassi un fascio di banconote dalla tasca dei jeans, ne presi una da venti e la tenni premuta contro il vetro. La donna la fissò per un attimo, poi spense la sigaretta e uscì da dietro il bancone. Indossava pantaloni rosa attillati e aveva la vita sottile. «Hai detto che ci vorrà un minuto» disse, aprendo la porta. «E per una strana coincidenza i tuoi venti dollari ti danno diritto a un minuto esatto.» Allungò una mano verso la banconota, ma io la tirai indietro. «Sarà tua tra sessanta secondi» ribattei. «Sempre che tu abbia qualcosa da vendere.» «Dipende da che cosa cerchi, motociclista» replicò lei, pronunciando l'ultima parola in tono acido. «Cerco informazioni. Questo posto è tuo?» Lei fece una faccia diffidente. «Sì, perché?» «Da quanto tempo?»
«Da circa quindici anni. E prima di allora ho servito ai tavoli per otto anni.» In passato, doveva essere stata molto attraente. Ora aveva quel genere di viso che la cruda luce del mattino non migliorava affatto. Le chiesi da chi avesse acquistato il bar e lei mi citò un nome, ma aggiunse: «Lui lo possedeva da un paio d'anni e io l'ho comprato a un buon prezzo perché è stato costretto a vendere». Sorrise e le sue rughe triplicarono istantaneamente. «Soffriva di un male comune tra i gestori di bar.» «E cioè?» chiesi. «Si beveva tutti i guadagni.» Infilò una mano in tasca e ne estrasse un pacchetto schiacciato di Winston e un accendino di plastica in un astuccio cromato. «Prima di lui il locale era di Parker Heath, il quale lo aveva costruito dopo essere tornato dalla guerra di Corea e lo aveva gestito per trent'anni.» Fissò i venti dollari. «Adesso non diventare avida» dissi. «Mancano ancora quindici secondi. Il signor Heath è ancora in giro?» «Dipende.» «Lasciami indovinare: dipende dal motivo per cui voglio saperlo, giusto?» «Sei un ragazzo intelligente, vedo.» L'occhiata che mi rivolse indicava che forse sarebbe stata disposta a dimenticare i suoi pregiudizi contro i motociclisti, almeno per quella volta. Era uno sguardo che doveva aver rivolto a parecchi uomini, nel corso degli anni. Io rimasi impassibile. Lei si strinse nelle spalle e aggiunse: «Ho lavorato molto tempo per Parker e non sarebbe bello da parte mia aiutare qualcuno che non conosco a rintracciarlo». «Io cerco soltanto alcune risposte.» Lei aspirò un'intensa boccata dalla sigaretta, esalando il fumo dal naso. «Venti dollari valgono alcune risposte, ma gli indirizzi si pagano a parte.» Charlie aveva sempre meno tempo e non potevo permettermi di contrattare. Presi un'altra banconota da venti e gliela tesi insieme alla prima. Lei le prese, le infilò nella stessa tasca delle Winston, poi con le dita che tenevano la sigaretta indicò un punto alle mie spalle. Mi voltai. Dall'altra parte della strada c'era un edificio fatiscente e dalla finestra di un appartamento al secondo piano, un vecchio ci fissava, masticando un sandwich. Dall'appartamento usciva un odore di salsiccia fritta. Quando Parker Heath mi aprì la porta, aveva quasi finito il sandwich e un grumo di maionese
gli pendeva dal mento come una sfida alla legge di gravità. Gli spiegai che non gli avrei portato via molto tempo e che desideravo parlare con lui di una cosa accaduta trentacinque anni prima. Dal suo ampio sorriso capii che doveva essere un uomo a cui piaceva rievocare il passato. Lo seguii attraverso il soggiorno in una piccola cucina. «Si sieda» mi disse, indicando con la mano del sandwich una sedia di plastica e alluminio. Lanciò un'occhiata al bar attraverso il vetro sporco della finestra e aggiunse: «È fortunato. Non sono molti gli uomini che riescono a sfuggire ad Arlene con i pantaloni ancora addosso». Fece una risata stridula, da vecchio, e io sorrisi. «Deve essere stata una tigre, ai suoi tempi» commentai. «Già. Solo che i suoi tempi sono passati da un pezzo, ed è ancora una tigre. Potrei raccontarle molte cose interessanti su Arlene.» Ingollò un sorso di latte da un bicchiere sul tavolo. «Vuole un po' di succo di vacca?» «No, grazie. Arlene mi ha detto che lei è stato il primo proprietario del bar.» «È vero. L'ho costruito con le mie mani, nell'estate del '53.» Si batté le nocche sulla tempia destra. «Grazie a una granata cinese, ho una placca di metallo in testa. All'epoca ero uscito dall'ospedale da circa sei mesi, ma avevo ancora le vertigini ogni volta che salivo su una fottuta scala a pioli.» Lanciò un'altra occhiata al bar dalla finestra. «Comunque ce l'ho fatta, alla fine.» Si pulì la maionese dal mento con una mano e poi si leccò le dita. «L'ho venduto nel 1982, ma ho preso questo appartamento per continuare a tenerlo d'occhio. Le vecchie abitudini sono dure a morire.» «Ricorda per caso una notte, verso la fine degli anni Sessanta, quando un uomo di nome Tragovic è stato assassinato fuori dal suo bar?» «Certo che me la ricordo.» «E che cosa può dirmi al riguardo?» Lui scosse la testa. «Non molto. Era solo un tizio che frequentava il mio locale. Un piccoletto che non piaceva a nessuno.» «E che cosa può dirmi della notte dell'omicidio?» Lui si ficcò in bocca l'ultimo pezzo di sandwich e, mentre lo masticava, rispose: «Ricordo solo che qualcuno ha trovato il cadavere e che quando è arrivata l'ambulanza tutti i miei clienti sono usciti a vedere. Mancava circa un'ora alla chiusura. Quando l'ambulanza se n'è andata, tutti sono tornati dentro e io ho venduto più bevande in quell'ora che in tutto il resto della serata. La morte mette sete». «Ricorda se quella sera Tragovic avesse avuto una lite con un mari-
naio?» Parker Heath si infilò il mignolo in un orecchio e ispezionò con attenzione ciò che ne tirò fuori. «La polizia mi ha fatto la stessa domanda, il giorno dopo. Se non ricordo male, c'erano alcuni vagabondi che avevano visto un marinaio picchiare selvaggiamente qualcuno, nel vicolo dietro il locale. Ma io non mi ero accorto di nulla. Le risse erano una cosa normale, nel mio tipo di attività. E qui giravano un sacco di marinai, con la guerra del Vietnam in corso e tutto il resto.» «Ho sentito dire che Tragovic era sposato.» «È vero. Anche la moglie veniva nel locale, qualche volta. Non era ancora maggiorenne e quindi non potevo servirle alcolici. Ma in ogni modo non credo che il marito le avrebbe offerto qualcosa. Era il tipo che spendeva tutto per sé. Lei era graziosa, ma timida.» «Sa, per caso, che fine abbia fatto?» Lui scosse lentamente la testa. «Non ne ho idea.» Lanciò un'altra occhiata fuori dalla finestra e un'ombra gli attraversò il viso. «Sono passate migliaia di donne da quella porta, nel corso degli anni» disse. «Migliaia. Non ricordo neppure il suo nome.» «Marlee.» «Davvero? Non mi dice nulla. Ricordo che aveva anche un paio di fratelli, clienti regolari.» «I loro nomi se li ricorda?» Si grattò il punto dove aveva la placca d'acciaio. «Accidenti, lei fa domande difficili.» «Qualunque cosa ricordi può essermi d'aiuto.» Lui restò qualche secondo soprappensiero, poi gli angoli della bocca si sollevarono in un sorriso. «Abbott e Costello» rispose. «Abbott e Costello?» «Sì, era così che li chiamavano tutti, perché i loro veri nomi erano Bud e Lou, come i due comici.» «Capisco. E ricorda il cognome?» «Il cognome? Sempre più difficile, eh?» Rimase a lungo in silenzio, poi si voltò a guardarmi con sguardo allusivo. Misi la mano in tasca, in cerca di un'altra banconota da venti. Ma lui mi fermò con un gesto. «Non voglio i suoi soldi» disse. E capii che quella lunga pausa non era stata altro che un modo per costruire un po' di suspense. Davanti a me c'era un uomo che aveva fatto per tanti anni il barista e certamente conosceva qualche trucco per rendere più interessante una conversazione. «Bickman» disse. «Bud e
Lou Bickman. Ma se non sono indiscreto vorrei sapere che cosa la porta a frugare in fatti accaduti tanto tempo fa.» Scrollai le spalle. «Sto facendo un favore a un amico.» «Un amico» ripeté lui. Poi annuì. «È una bella cosa.» Capii che ormai mi aveva detto tutto ciò che sapeva, ma chiesi ugualmente: «Non ricorda altro? Io sto cercando di rintracciare Marlee». «Non sarà facile, dopo tutti questi anni.» «Eh, già,» convenni «non sarà facile.» «Comunque non c'è altro che io possa dirle» aggiunse lui. «Le persone vanno e vengono.» Mi alzai in piedi. «Grazie, signor Heath. Mi è stato di grande aiuto.» «Vanno e vengono» ripeté lui. «Vanno e vengono.» Mi avviai da solo verso la porta e, prima di uscire lo ringraziai di nuovo, ma lui non rispose. Probabilmente non mi aveva neppure udito. Sorseggiava il suo latte e fissava il Silk Hat Lounge dalla finestra. Chiamai il servizio abbonati della compagnia telefonica con il cellulare. C'era un Louis Bickman che abitava a El Cajon. Mi feci dare indirizzo e numero di telefono e decisi di passare da lui, invece di chiamarlo. Misi in moto la Harley e uscii sull'autostrada, diretto a est. La casa era piccola e ben tenuta, alla periferia della cittadina. Mentre suonavo il campanello, mi parve di sentire l'eco di un gioco a premi televisivo da qualche parte dentro la casa, ma nessuno venne ad aprire. Allora scrissi un biglietto, dicendo che se il Louis Bickman che abitava lì aveva una sorella di nome Marlee era pregato di telefonarmi, perché avevo delle notizie sulla morte del di lei marito, Duane Tragovic. Lasciai nome, indirizzo e numero di telefono, poi aggiunsi: «Si tratta di una cosa urgente, ho bisogno di parlare con la signora Tragovic al più presto. Mi chiami appena può». Infilai il biglietto nella cassetta della posta, salii sulla moto e tornai verso casa. Il fax di Al Bruun mi attendeva sulla scrivania. Sei pagine scritte a macchina: alcune lettere erano più scure, altre un po' sopra o un po' sotto la riga. La segreteria telefonica lampeggiava. Premetti il tasto di ascolto e mentre il nastro si riavvolgeva esaminai il dossier di trentacinque anni prima sulla morte di Duane Tragovic. «Ciao, Pry» disse la voce di Al, resa metallica dall'altoparlante della segreteria. «Ti ho appena inviato un fax con tutto ciò che sappiamo sul caso che ti interessa. Come vedrai, è poca roba. Un cliente del bar ha chiamato
un'ambulanza, ma quando i soccorsi sono arrivati, Tragovic era già morto. Una mezza dozzina di vagabondi che stavano bevendo nel vicolo avevano visto un marinaio che picchiava qualcuno, ma la polizia non è riuscita a ricavare da loro nessuna informazione utile. Per un paio di giorni gli uomini della Omicidi hanno fatto domande nel quartiere, ma non hanno trovato nulla. Tragovic aveva una moglie. Giovane, circa diciassette anni e fuori di testa per la morte del marito. È stata interrogata anche lei, ovviamente, ma non sapeva nulla. Non conosceva nessun marinaio e, per quel che ne sapeva lei, neppure il marito ne conosceva. La polizia ha tenuto il caso aperto, ma non c'erano piste utili e, anche in seguito, non hanno fatto molti progressi. Ti ho mandato anche una copia della fedina penale di Tragovic, da cui capirai che non deve esser stato proprio uno stinco di santo... La polizia probabilmente lo conosceva bene e non credo che si sia ammazzata di lavoro cercando di scoprire chi lo avesse ucciso. Come vedrai, ti ho allegato anche una copia del referto dell'autopsia. Nessuna sorpresa: la morte è stata causata da una frattura del cranio. So che non è molto, ma non ho altro. Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. E di' a Charlie che facciamo tutti il tifo per lui.» Il nastro si arrestò con un clic. Presi i fogli del fax e andai a sedermi sotto il portico che dava sulla spiaggia, appoggiando i piedi sulla ringhiera. Non ci misi molto a leggere tutto il dossier e, quando ebbi terminato, avevo un nodo in gola delle dimensioni di una palla da tennis. Mi appoggiai i fogli in grembo e guardai verso il mare. Un surfista testardo faceva di tutto per cavalcare le deboli onde che scivolavano verso riva. Lo osservai per qualche minuto, poi rilessi la parte del referto dell'autopsia che descriveva il morto. Aspettai una chiamata da parte di Lou Bickman fino alle sei di sera. Invano. Allora programmai il cellulare per il trasferimento di chiamata e tornai a El Cajon. Parcheggiai davanti alla casa. Sotto la tettoia c'era un pickup e dalle finestre aperte riecheggiavano voci, che si zittirono non appena salii i tre gradini fino alla porta. Mentre stavo per suonare il campanello, un uomo enorme venne ad aprire. «Che cosa vuole?» chiese. Aveva le spalle larghe e forti e il collo grosso come la mia coscia. Una voce calma alle sue spalle disse: «È lui, vero, Louis?». «È tutto a posto» disse l'uomo, senza voltarsi. «Ci penso io.» Era almeno cinque centimetri più alto di me (io sono alto un metro e ottantatré) e molto più grosso. «Che cosa vuole da noi?» chiese.
«Mi chiamo John Pryor» dissi. «Ho lasciato un biglietto nella vostra cassetta della posta, qualche ora fa. Sto cercando una donna di nome Marlee Tragovic.» Decisi di tentare un piccolo bluff. «So che è sua sorella, signor Bickman. Vorrei parlare con lei dell'omicidio del marito, avvenuto negli anni Sessanta.» Dall'espressione sul suo viso capii di aver trovato l'uomo giusto. «Non ho intenzione di crearvi alcun problema. Ho solo bisogno di trovare la signora Marlee.» «Lascialo entrare, Louis» disse la stessa voce di prima. L'uomo si girò e io scorsi la donna dietro di lui. Se era chi pensavo che fosse, non poteva avere più di cinquantadue anni, ma ne dimostrava almeno dieci di più. Era magra e fragile e si teneva con entrambe le mani a un tutore di alluminio. «Dammi retta» disse Bickman. «È una cattiva idea.» La voce della donna era calma, rassegnata. «Per favore, Louis, lascialo entrare.» Il fratello esitò, ma finalmente si scostò dalla porta, e io entrai in casa. «Si accomodi» disse la donna, indicando un divano dall'altra parte della stanza. Andai a sedermi. Lei si strinse nella vestaglia di cotone, si toccò i capelli in disordine, poi aggiunse: «Ho un problema alla schiena. Alcuni giorni sono peggio di altri». Immaginai che fosse un modo di scusarsi per il suo aspetto. Si sedette lentamente su una poltrona davanti al divano. L'uomo rimase in piedi accanto alla porta, con le braccia incrociate sul petto. «Lei è Marlee?» chiesi alla donna. «Sì» rispose lei, stringendo l'orlo della vestaglia con tanta forza da far sbiancare le nocche. «Si chiama ancora Tragovic?» «Sì, non mi sono mai risposata.» Lanciai un'occhiata al fratello. «Dov'è Bud?» chiesi. «Non siamo obbligati a parlare con quest'uomo, Marlee.» «Lo so, Louis. Bud è morto di infarto nel 1983» disse. «Perché è qui, signor Pryor? Che cosa vuole?» «Sono qui per conto di un amico» risposi. «So che cosa è accaduto a suo marito.» «È passato un sacco di tempo» disse lei. «Una vita intera.» Rimasi in silenzio alcuni secondi, ma lei non aggiunse altro. Allora dissi: «Duane Tragovic era un uomo con cui era difficile vivere, vero?». Lei annuì. «La picchiava.»
«Sì» sussurrò la donna. «Ho visto la sua fedina penale. È stato fermato cinque o sei volte per maltrattamenti nei suoi confronti, signora Tragovic. Due volte è finito addirittura in galera, ma questo non è bastato a farlo cambiare, giusto?» Lei annuì di nuovo. «Poi un giorno lei ne ha avuto abbastanza e l'ha ucciso. O l'ha fatto uccidere da uno dei suoi fratelli.» Bickman avanzò verso il centro della stanza. «Marlee, non parlare con quest'uomo. Non sei obbligata a dirgli nulla.» Poi, voltandosi verso di me, disse: «Chi si crede di essere per entrare in casa nostra ad accusarci di omicidio?». «Non sono della polizia, signor Bickman» lo rassicurai. «Né intendo raccontare quello che so alla polizia. Ho letto i verbali, signora Tragovic, e mi sono fatto l'idea che suo marito non sia stato ucciso in quel vicolo dietro il Silk Hat Lounge, come tutti credono. Penso che sia stato lasciato lì, già morto, dai suoi fratelli.» Fissai Louis. «Quanto era alto Bud, signor Bickman?» Lui esitò, ma alla fine rispose. «Non lo so. Uno e settantacinque, uno e settantasette. Perché?» «Credo che voi due abbiate messo a punto un piano per depistare la polizia. Uno dei due, credo lei, ha attaccato briga proditoriamente con un giovane marinaio ubriaco. Volevate che ci fossero dei testimoni, ma sapevate anche che si trattava di testimoni poco attendibili, i quali non sarebbero stati in grado di dare una versione molto precisa dell'accaduto.» Lui rimase a fissarmi in silenzio, con gli occhi spalancati. «Lei ha scatenato la rissa, signor Bickman, ma non era sua intenzione avere la meglio. Voleva solo che quei vagabondi vedessero che qualcuno veniva picchiato nel vicolo. Così, quando il corpo di Tragovic sarebbe stato trovato, la polizia avrebbe cercato un marinaio.» «Non ha modo di provare quello che dice» ribatté Bickman, ma la sua voce era priva di forza. «Il marinaio con cui ha litigato è un mio amico. Mi ha detto di aver fatto a pugni con un uomo grosso, ma secondo l'ex proprietario del Silk Hat, Tragovic era un piccoletto. Nel referto dell'autopsia si dice che era alto un metro e sessanta e pesava sessantotto chili. Il mio amico ha detto di aver picchiato ripetutamente sul viso il suo avversario, ma Tragovic non presentava contusioni al volto. Aveva solo una frattura sulla parte posteriore del cranio, come se avesse battuto la testa cadendo a terra, o come se,» ag-
giunsi, guardando Marlee Tragovic «qualcuno lo avesse colpito da dietro con un oggetto contundente.» «Sta solo tirando a indovinare, Marlee» disse Bickman. «Allora,» sussurrò Marlee «bisogna ammettere che è piuttosto in gamba con gli indovinelli, non trovi?» A quelle parole, il fratello lasciò andare un sospiro e si accasciò sul divano. Restammo tutti e tre in silenzio per un lungo momento. Fu Bickman a parlare per primo. «Va bene, l'ho ucciso io quel figlio di puttana. È contento?» «Oh, smettila, Louis» disse Marlee. «Tu e Bud vi siete presi cura di me per tutta la vita, ma per me è arrivato il momento di affrontare quello che ho fatto.» Si voltò verso di me. «I miei fratelli avrebbero fatto qualunque cosa, per me, signor Pryor. Mi erano devoti e avrebbero ucciso Duane con piacere. Ma non sono stati loro. Sono stata io. Avevo solo diciassette anni e mi muovevo già come una vecchia, a causa delle botte di Duane. Mi picchiava alla base della schiena, dove non si vedevano i segni, ma il dolore era fortissimo. L'ultima volta mi ha picchiata così forte che non mi sono mai più ripresa. Ho vissuto per tutti questi anni con il dolore di quelle botte. Ma sono state le ultime, signor Pryor, perché ho ucciso mio marito subito dopo. Quando lui mi ha voltato le spalle ho afferrato una padella e l'ho colpito dietro la testa. Una volta sola, ma con tutta la forza che avevo. Quando mi sono resa conto che era morto, ho chiamato i miei fratelli, i quali mi hanno detto che se ne sarebbero occupati loro, e così è stato. Hanno mascherato l'omicidio e si sono presi cura di me.» Posò una mano sul massiccio avambraccio del fratello. «E da quando Bud è morto, Louis si occupa di me da solo.» Annuii, con un sorriso di comprensione. Bickman si passò le dita tra i capelli e chiese: «Che cosa vuole da noi?». Senza farmi pregare, lo spiegai a entrambi. Bickman dovette portare Marlee in braccio fino alla stanza di Charlie. La donna aveva subito tre operazioni alla schiena, nel corso degli anni, e non era in grado di salire le scale. Una volta giunto sul pianerottolo, Bickman la depose a terra. «Lasciatemi entrare per prima» disse Janey, la moglie di Charlie. «Gli dirò che sei qui, Pry, e che hai bisogno di vederlo.» La sua faccia era ancora più gonfia della notte precedente. Bussò una volta alla porta chiusa ed entrò.
«Questa è una cosa che devo fare da sola, Lou» disse allora Marlee. «Tu aspettami qui con la signora Thatcher e non preoccuparti. Andrà tutto bene.» Il fratello era ancora un po' riluttante, ma ormai era chiaro che avrebbe fatto qualunque cosa Marlee gli avesse chiesto. Quando Janey uscì dalla stanza, piangeva. Ormai doveva aver smesso di sforzarsi di nascondere le sue lacrime a Charlie. «Non metterci troppo, Pry. Oggi è peggiorato parecchio.» Annuii, e lei si avviò giù dalle scale, seguita da Lou Bickman. Io mi voltai verso Marlee. «È pronta?» chiesi. «Sì» rispose. Sembrava perfino ansiosa di parlare con Charlie. Posai la mano sulla maniglia, ma prima di aprire la porta dissi: «Questo significherà moltissimo per Charlie». Sulla sua bocca apparve un accenno di sorriso. «È buffo, vero? Lui si apprestava a farmi la sua confessione e invece sta per accadere il contrario.» «La ringrazio moltissimo di essere venuta. Charlie ha passato tutta la vita portandosi addosso il senso di colpa di quella storia.» Gli occhi di Marlee si inumidirono. «E il senso di colpa è un fardello pesante» disse. «Mi creda, signor Pryor, io lo so.» Walter Mosley LAVANDA (Da Six Easy Pieces) Era un martedì mattina, verso le undici e un quarto. Il cagnolino giallo si era nascosto tra le tende, da cui si affacciava di tanto in tanto per vedere se io ero ancora seduto sulla poltrona del salotto. Ogni volta che mi vedeva, digrignava i denti e si ritraeva tra le pieghe del tessuto verde. La stanza odorava di lavanda e fumo di sigaretta. Il ticchettio dell'orologio a carica meccanica che mi ero portato dietro dalla Francia, dopo il congedo, era l'unico rumore, a parte quello di qualche auto di passaggio. L'orologio aveva una cassa di legno lucido e i numeri erano di un metallo rosato. Una lega di rame e stagno, probabilmente. Le auto sulla Genesee sembravano raffiche di vento. Scossi la cenere della sigaretta nel portacenere. Sentii un'auto rallentare e frenare davanti alla casa. Si aprì una portiera e un uomo disse qualcosa in francese. Una battuta spiritosa. Essendo cresciuto in Louisiana, io capivo un po' il francese, ma
di certo non abbastanza per comprendere la parlata parigina di Bonnie. L'auto si allontanò. Aspirai una lunga boccata dalla Pall Mall che stavo fumando. Lei arrivò fino alla porta e si fermò. Probabilmente stava annusando il profumo delle rose rosse e gialle che avevo piantato ai due lati dell'ingresso. Quando le avevo chiesto di venire a vivere con noi, aveva detto: «Solo se mi prometti di non togliere quei cespugli di rose». La chiave girò nella serratura e la porta si aprì. Sapevo che lei non sarebbe apparsa subito, per via della valigia. Apriva sempre la porta, prima, e poi sollevava la valigia ed entrava. La poltrona dov'ero seduto era a sinistra della porta, perciò la prima cosa che Bonnie vide entrando fu la boccia di cristallo piena di steli di lavanda secchi. Indossava un paio di pantaloni blu scuro e una felpa color ruggine. Tutte quelle settimane trascorse con la divisa da hostess dell'Air France le facevano desiderare di vestirsi nel modo meno appariscente possibile. Notò i fiori e sorrise, ma poi il sorriso si mutò in un'espressione perplessa. «Sono arrivati due giorni fa» dissi. Bonnie gridò e fece un salto indietro. Il cagnolino giallo saltò fuori dal suo nascondiglio, si guardò intorno e poi sfrecciò fuori dalla porta aperta. «Easy, mi hai spaventata a morte!» esclamò lei. Mi alzai dalla poltrona. «Scusami. Credevo che mi avessi visto.» «Come mai sei a casa?» Il suo sguardo era spaventato. Per la prima volta non provai il desiderio di stringerla tra le braccia. «Pura curiosità» dissi. «A che cosa ti riferisci?» Feci due passi verso di lei. Probabilmente le sembravo strano, con addosso solo i calzoncini e un accappatoio aperto, in una mattina di un giorno feriale. «Ai fiori» dissi. «Mi riferisco ai fiori.» «Non capisco.» «Sono in quella boccia da quando il corriere è venuto a consegnarli. Io e i ragazzi eravamo curiosi.» «Di sapere che cosa?» «Chi li ha mandati.» Il tono della mia voce era normale, quasi piacevole, ma galleggiava su un silenzio di morte. «Non capisco» disse Bonnie. Quasi le credetti. «Sono per te.» «Allora devi aver letto il biglietto.»
«La busta è chiusa» dissi. «Sai che ho sempre insegnato ai miei figli che la posta degli altri è una cosa privata. Non mi sarei mai sognato di aprire una tua lettera.» Lei aveva notato che avevo detto "miei" riferendomi ai figli. Mi fissò per un attimo. Io indicai con un gesto la piccola busta attaccata al mazzo di fiori. Lei andò a staccarla, l'aprì e lesse il biglietto. Lo fissò a lungo, prima di metterselo in tasca. «Allora?» «È di un passeggero» disse. «Jogaye Cham. L'ho incontrato su parecchi voli.» «Ah. E manda fiori a tutte le hostess?» «Non lo so. È possibile. Viene da una famiglia reale del Senegal. Suo padre è un capo. E lui si dà da fare per unire le ex colonie.» C'era una sorta di orgoglio nelle sue parole. «Era su almeno la metà dei voli che abbiamo fatto» continuò Bonnie. «E io sono stata gentile con lui. Gli ho portato il cibo che preferiva e abbiamo parlato della libertà.» «Della libertà» ripetei. «Un buon argomento di conversazione.» «Non sai neppure che cosa dici» si irritò lei. «I neri in America sono liberi da più di un secolo. Ma quelli di noi che vengono dai Carabi o dall'Africa sentono ancora il morso della frusta dell'uomo bianco.» Era una strana espressione. Pensai che quando due persone diventano amanti, spesso cominciano a esprimersi nello stesso modo. Mi chiesi se nei suoi discorsi Jogaye parlasse della frusta dell'uomo bianco. Non dissi nulla e mi limitai a guardarla, aspirando una boccata di fumo. Dopo una breve esitazione, Bonnie prese la valigia e si diresse in camera da letto. Io tornai a sedermi in poltrona, spensi la sigaretta e ne accesi un'altra. La mia idea di limitarmi a dieci al giorno era stata accantonata del tutto. Dopo qualche minuto udii lo scrosciare della doccia. Avevo installato quella doccia proprio per Bonnie. Se qualcuno mi avesse visto in quel momento, avrebbe detto che ero cupo, ma calmo. In realtà ero in preda a una crisi di rabbia, intrappolato da una donna che non voleva mentire, ma neppure dire la verità. Avevo letto il biglietto, aprendo la busta con il vapore e richiudendola subito dopo. Era in francese, ma con l'aiuto del dizionario l'avevo decifrato quasi tutto. Jogaye la ringraziava per la breve vacanza che avevano trascorso insieme nel Madagascar, una piccola pausa tra i suoi difficili incon-
tri con diplomatici francesi, inglesi e americani. Era stata la sua affettuosa compagnia a dargli la forza di parlare della libertà che tutta l'Africa un giorno avrebbe ottenuto. Se lei mi avesse detto che era un regalo della compagnia aerea, o del pilota, o di un'amica che sapeva quanto le piacesse la lavanda, avrei potuto urlarle contro tutta la mia rabbia per le sue menzogne. Ma non aveva mentito. Si era solo limitata a non menzionare il Madagascar. Avevo cercato quell'isola sull'enciclopedia. Settecentocinquanta chilometri al largo della costa africana, circa trecentosettanta chilometri quadrati. Gli abitanti, quasi cinque milioni, non sono neri, o almeno non si considerano tali, e sono etnicamente più affini agli indonesiani. Un posto parecchio grande, per non menzionarlo. Avrei voluto trascinare Bonnie fuori dalla doccia per i capelli, nuda e bagnata, e costringerla a confessare tutto quello che lei e il suo amante di famiglia reale avevano fatto su quell'isola lontana migliaia di chilometri. Il mazzo di fiori le era stato inviato presso l'ufficio dell'Air France. Sicuramente Jogaye pensava che lo avrebbero tenuto lì per lei. Invece qualche imbecille glielo aveva fatto recapitare a casa. Decisi di entrare in bagno e chiederle se si aspettava davvero che me ne stessi lì tranquillo a sopportare le sue menzogne. Avevo le mani strette a pugno, il cuore che martellava nel petto. Mi alzai di scatto dalla poltrona e feci cadere il portacenere, che andò a fracassarsi sul pavimento. Probabilmente fece un gran rumore, ma io non lo notai. La mia rabbia faceva più rumore. «Easy» gridò lei dalla doccia. «Che cosa è successo?» Feci un passo verso il bagno, ma in quel momento squillò il telefono. «Puoi rispondere tu, tesoro?» Tesoro. «Pronto?» «Easy, sei tu?» «Chi parla?» Era una voce che conoscevo, ma la rabbia mi impediva di collegarla a una persona. «Sono EttaMae.» Tornai a sedermi. Anzi, mi lasciai cadere pesantemente sulla poltrona, che si inclinò. Il tavolino si rovesciò, portandosi dietro la lampada. Altri vetri in frantumi. «Che cosa c'è?» «Ho chiamato la Sojourner Truth» disse lei. «E mi hanno detto che ti sei
dato malato.» «Etta, sei davvero tu?» Bonnie si precipitò fuori dal bagno. «Che cosa è successo?» gridò. Vidi il suo corpo nudo, pensai all'altro uomo che lo aveva accarezzato, mentre allo stesso tempo udivo al telefono la voce di una donna che cercavo da mesi. Rimasi senza parole. «Ho bisogno di un attimo di calma» dissi a entrambe le donne in una volta. Poi, rivolto a Etta, aggiunsi: «Aspetta in linea» e feci cenno a Bonnie di tornare in bagno. Lei mi fissò per un attimo, sembrò sul punto di dire qualcosa, poi uscì dal soggiorno. Mi sedetti sul pavimento, con il telefono in grembo. Se avessi avuto in mano una pistola, sarei uscito di casa e avrei ucciso il cagnolino giallo. Dal microfono uscivano delle parole, così me lo portai all'orecchio. «... Easy, che cosa sta succedendo?» «Etta?» «Sì?» «Dove sei stata?» «Non c'è tempo per questo, Easy. Devo parlarti.» «Dove sei?» Mi diede un indirizzo di Malibu Beach. Chiusi la comunicazione e andai in camera da letto. Tre minuti dopo ero vestito e pronto per uscire. «Chi era?» chiese Bonnie, dal bagno. Uscii senza rispondere, perché avevo un urlo nel petto. Non ricordo il viaggio da casa mia, a West Los Angeles, fino a Malibu. Non ricordo di aver pensato al tradimento di Bonnie o al crimine che avevo commesso contro il mio migliore amico. Avevo la mente in corto circuito e tutto quello che potevo fare era guidare e fumare. La casa distava almeno cinquanta metri da quelle vicine, ma avevano tutte l'aria di appartenere allo stesso quartiere. Il recinto di metallo era stato decorato con conchiglie e la ringhiera del portico era sormontata da dozzine di bottiglie di vino colorate. La casa era sotto il livello della strada e, volendo, sarebbe stato possibile saltare dal marciapiede direttamente sul tetto. Era un'abitazione piccola, per una sola persona, o al massimo una persona e mezza. Aprii il cancello e scesi le scale di cemento. Lei mi venne incontro sulla
porta. Pelle vellutata e ossa grosse, EttaMae Harris era sempre stata il mio modello di bellezza femminile. In altri tempi eravamo stati amici e amanti. Non ci vedevamo da quasi un anno, perché suo marito si era fatto sparare per colpa mia. «Hai un aspetto terribile, Easy» fu la prima cosa che disse. «Come?» «Hai i capelli in disordine e la barba lunga. Che è successo?» «Dov'è LaMarque?» «È con la mia famiglia, a Ventura.» «Quale famiglia?» chiesi, dimenticandomi per un attimo di Bonnie Shay. «Una cugina. Ha una casa in campagna, da quelle parti.» «Dov'è Mouse?» Etta mi fissò come se mi guardasse da una grande altezza. Era un misto tra una strega, una veggente e un'annunciatrice televisiva. «È morto» disse. «Lo sai.» «Ma il medico...» ribattei, in tono quasi supplichevole. «Non sono i medici a decidere quando un uomo muore.» «Dov'è?» «È morto.» «Ma dove?» «L'ho seppellito in campagna, con le mie mani.» Ci si poteva credere. EttaMae era una nera capace di cose del genere. Braccia forti e volontà di ferro. Si era caricata sulle spalle un uomo e lo aveva portato via dall'ospedale, dopo aver messo fuori combattimento un grosso infermiere bianco con un vassoio di metallo. «Posso visitare la sua tomba?» «Un giorno, forse» rispose lei, gentilmente. «Perché non ora?» «Perché il dolore è ancora troppo vivo. Per questo non ti ho chiamato per tanto tempo.» «Ce l'avevi con me?» «Ce l'avevo con tutti. Con te. Con Raymond. Perfino con LaMarque.» «Lui è solo un ragazzino, Etta. Non è responsabile.» «Il bambino diventerà un uomo» disse lei, in tono da predicatrice. «E quando questo avverrà, puoi scommettere che sarà tutto uguale, se non peggio.» «Raymond è morto?» chiesi.
«Vorrei che se ne fosse andato anche dalla nostra mente.» Etta guardò il cielo, come se la sua predica fosse una preghiera: liberaci dalla nostra stupidità. Perché eravamo stupidi, su quello non c'era dubbio. In quale altro modo potevo spiegare quello che era successo? Ero caduto in un'imboscata, in un vicolo, quando avrei dovuto essere a casa, a piangere per la morte del nostro presidente. Come avrei potuto spiegare al figlio di Mouse che suo padre era morto cercando di aiutarmi a risolvere un problema con una banda di gangster? «Entra, Easy» disse Etta. Il soggiorno sembrava la cabina di una nave in un film di Walt Disney. Un'amaca in un angolo, reti da pesca e galleggianti sul pavimento. Il parquet era rivestito di uno strato di vernice trasparente, che gli dava un aspetto grezzo e rifinito allo stesso tempo. Le finestre erano oblò e il lampadario era stato ricavato dalla ruota di un timone. «Siediti, Easy.» Mi sedetti su una panca che sembrava un sedile da rematore. Etta si accomodò su un divano blu con i piedi a forma di conchiglie dorate. «Come stai?» «No, no, aspetta» dissi. «Sei stata tu a chiamarmi e a chiedermi di venire da te, dopo undici mesi che ti cercavo dappertutto. Perché sono qui?» «Volevo solo sapere se stai bene. Nel posto in cui lavori mi hanno detto...» «Spiegami, Etta. Spiegami o lasciami andare. Sai bene, come lo so io, che per quanta voglia abbia di vederti e di farmi perdonare da te, porterò il culo fuori di qui senza pensarci due volte, se non mi dici perché mi hai chiamato dopo tutto questo tempo.» Il suo viso s'indurì e per un attimo sembrò che stesse per dirmi parole dure come la sua espressione. Ma si trattenne e fece un respiro profondo. «Questa non è casa mia» disse. «L'avevo immaginato.» «Appartiene alla famiglia Merchant.» «Pierre Merchant?» chiesi. «Il miliardario?» «Lymon Merchant» rispose Etta. «Suo cugino. Compravendita di fragole, a nord di Los Angeles. Io lavoro per sua moglie. Mi occupo della casa e dei figli.» «E lei ti lascia usare questo posto quando vieni in città.»
«No. Lei non sa che sono qui. Questa è una casa che il signor Merchant mette a disposizione di alcuni clienti e soci in affari, quando vengono a Los Angeles.» «Etta» dissi. «Posso sapere perché mi hai chiamato?» «La signora Merchant ha quattro figli» proseguì lei. «Il più piccolo ha tredici anni, il più grande ventidue.» Stavo per dirle di venire al punto, più che altro perché non volevo silenzi, nella stanza. Il silenzio mi avrebbe permesso di pensare a quello che avevo appena saputo: il migliore amico che avessi mai avuto era morto, per colpa mia. Per tutti quei mesi avevo sperato che fosse vivo, che in qualche modo EttaMae fosse riuscita dove l'ospedale aveva fallito. Ma ora le mie speranze erano distrutte. E se non avessi continuato a parlare, temevo che sarei precipitato nella disperazione. Eppure evitai di fare pressione su Etta, perché capii che aveva un nodo in gola. EttaMae Harris non era il tipo di donna da mostrare una debolezza del genere. Doveva essere successo qualcosa di molto grave e lei aveva bisogno di me per rimettere tutto a posto. Mi aggrappai a quella possibilità e le presi la mano. Una lacrima le scivolò sul viso. «È stato difficile per me telefonarti, Easy. Sai che ti ritengo responsabile per quello che è accaduto a Raymond.» «Lo so.» «Ma devo superarlo. Non è stata solo colpa tua. Raymond ha sempre avuto una vita dura e ha commesso un sacco di errori. Ha deciso spontaneamente di accompagnarti in quel vicolo. Perciò non è solo perché ho bisogno del tuo aiuto che ti ho chiamato. Già da qualche tempo pensavo che avremmo dovuto parlare.» Le strinsi più forte la mano. EttaMae aveva mani da lavoratrice, dure e forti, e la mia stretta non le faceva alcun male. «La seconda figlia della signora Merchant è una ragazza di nome Sinestra. Ha vent'anni e un brutto carattere. È sempre stata un problema per i genitori. Da bambina si è fatta espellere dalla scuola. Ora che è una donna, passa da una mela marcia all'altra.» «È un po' troppo grande perché ti occupi di lei, Etta.» «Di quella troietta non può fregarmene di meno. È il tipo che salta da un uomo all'altro. Suo padre crede che siano loro a correrle dietro e non vede che è lei la mela più marcia del cesto.»
«E cosa c'entro io in tutto questo?» «Sinestra è scappata di casa.» «Ha vent'anni» dissi. «Ciò vuol dire che può andare dove le pare senza bisogno di scappare.» «Non se suo padre è uno degli uomini più ricchi dello stato. Non se è scappata con un ragazzo nero che è più scemo di lei.» «Come si chiama?» «Willis Longtree. Un vagabondo di Seattle. Un giorno si è presentato insieme ad altri per lavorare. Il caposquadra del ranch dei Merchant a volte va alla stazione della ferrovia di Oxnard, quando ha bisogno di lavoratori a giornata. Trova sempre qualche vagabondo che viaggia a sbafo sui treni merci, o dei messicani disoccupati tra un raccolto e l'altro. Il signor Woodson...» «Chi?» «...il caposquadra,» disse Etta «quattro mesi fa ha portato al ranch una dozzina di uomini, per gettare le fondamenta di una serra. Il signor Merchant coltiva piante esotiche e roba del genere. È un vero esperto del settore.» «Conosco il tipo. Mio cugino Smith riusciva a far crescere qualunque cosa, se aveva la giusta quantità di luce e acqua piovana.» «Il signor Merchant, invece, non deve dipendere dalla natura.» «È per questo che la gente costruisce serre, invece di chiese» dissi. «Vuoi lasciarmi parlare o no?» «Certo, Etta. Vai pure avanti.» «Quel tipo, Willis, possedeva solo una chitarra e un'armonica a bocca. Durante le pause del lavoro, intratteneva i compagni suonando vecchie canzoni. Minstrel, blues, perfino un po' di dixieland. Un giorno sono andata al campo con il piccolo Lionel Merchant. La musica era così bella che sono rimasta lì per tutta la pausa pranzo.» «Immagino che anche a Sinestra piacesse la musica.» «Esatto. In realtà piaceva a tutti. Il signor Merchant ha offerto un lavoro a Willis, come assistente del guardiano dei campi. E lo ha invitato a suonare per gli ospiti quando dava le feste.» «E l'ingrato ha pensato di meritarsi anche la figlia del padrone» commentai. «Non è divertente, Easy. Il signor Merchant ha messo insieme una squadra di uomini pronti a tutto. Sono quelli che di solito usa nelle fattorie per tenere in riga i messicani. E ha detto al capo, Abel Snow, che è disposto a
pagare diecimila dollari per risolvere il problema.» «E qual è per lui il problema, esattamente?» Etta sollevò l'indice. «Il primo è che Sinestra è scappata di casa.» Sollevò il medio. «Il secondo è che Willis Longtree si trova ancora nel mondo dei vivi.» «Ah.» «Questo è tutto ciò che hai da dire?» «No» risposi. «Potrei anche dire: tu cosa c'entri? Ogni giorno ci sono ragazzi che scappano. I padri si incazzano regolarmente per questo e, a volte, qualcuno ci lascia la pelle. La maggior parte delle volte la ragazza torna a casa in lacrime, e tutto finisce lì. Era così anche quando eravamo ragazzi noi. Ricordo quella volta che Mouse era geloso di te e abbiamo dovuto portare via quel povero stupido prima che gli sparasse con la sua calibro 41.» «Ora non sei più un ragazzo, Easy Rawlins. Non siamo più a Houston e la storia che ti sto raccontando non è una barzelletta.» Di nuovo avvertii un grumo di pianto trattenuto nelle sue parole. «Che cosa c'è, Etta?» «Willis ha solo diciannove anni. Pensa di essere un uomo, ma è appena più grande di LaMarque. E Abel Snow è la morte stessa in abito blu.» «Quel ragazzo ti piace, eh?» «Veniva in cucina, il pomeriggio. Mi suonava qualcosa e mi raccontava i suoi progetti per il futuro. E se solo chiudevi gli occhi e lo ascoltavi, ti veniva quasi voglia di credergli.» «Quali progetti aveva?» «Oh, vari. Un giorno voleva suonare in una band e il giorno dopo voleva fare l'attore del cinema. Diceva che assomigliava a Sidney Poitier e magari in alcuni film avrebbe potuto fare la parte di suo figlio. Voleva diventare una star. Poi Sinestra gli ha messo gli occhi addosso. Lei è così, è la sua natura. Vede un uomo con l'aria da bambino bello come Willis e non capisce più niente. Vuole solo farlo impazzire, farlo correre come un cane dietro al suo odore. È successo sotto i miei occhi, Easy. Ho anche provato a far ragionare Willis. Invano.» «Forse ti stai preoccupando per niente, Etta» dissi. «Los Angeles è una grande città. La polizia ha troppo da fare per occuparsi di due ragazzi scappati di casa.» «Abel Snow non è un poliziotto. È un assassino spietato. E può contare sui soldi di Merchant.»
«Questo non significa che troverà Willis. Dove potrebbe cercarlo?» «Negli stessi posti dove lo cercherei io. Locali in cui si suona, nightclub, studi cinematografici o discografici. I posti dove quello stupido potrebbe andare per provare a realizzare i suoi sogni. Ha parlato dei suoi progetti a tutti, non solo a me.» «Sai che io ora sono soltanto un bidello, Etta.» «Easy Rawlins, tu me lo devi.» «Se il ragazzo è stupido come dici, è soltanto questione di tempo. Sai bene che, per quanto ci provi, uno stupido non riuscirà mai a correre più veloce della sua ombra.» «Tutto quello che so è che devo provare a salvarlo» disse lei. «Sì» convenni. «Lo so.» Mi vennero di nuovo in mente Bonnie e il suo principe africano. Quel pensiero mi faceva ancora male, ma il dolore era attutito davanti alla disperazione materna di Etta. E lei sembrava offrirmi una speranza di assoluzione, riguardo alla morte del marito. «Non so neppure che faccia abbia il ragazzo» dissi. «Né conosco la ragazza. Le probabilità che li trovi prima di questo Snow sono molto scarse.» «Lo so» disse lei. «Quindi ci limitiamo a sperare?» «No. Io posso darti una mano.» «Come?» «Portami al ranch dei Merchant. Sai dov'è, vicino Santa Barbara.» Sogghignai. Non so perché. Forse era solo l'idea di un lungo viaggio in macchina nella campagna. Lymon Merchant era noto come il "Re delle Fragole", mi raccontò Etta. Ma non c'era un solo campo di fragole nel raggio di quindici chilometri dal suo ranch. Dalla strada sterrata che si inerpicava tra le montagne, verso Santa Barbara, si vedeva il blu dell'oceano. Sobbalzammo un bel po', ma alla fine arrivammo in cima, dove la strada si faceva più ampia ed era fiancheggiata da alti eucalipti. Abbassai il finestrino per sentirne il profumo. «È questo il posto?» chiesi, quando arrivammo davanti a un edificio di legno a tre piani. «No» rispose Etta. «Questa è la casa del caposquadra.» La casa del caposquadra di Lymon Merchant era più grande e più bella di molte villette di Beverly Hills. Aveva una grande porta d'ingresso di
quercia massiccia e finestre enormi. I cespugli di rose intorno al prato mi fecero di nuovo pensare a Bonnie. Sentii una fitta allo stomaco e accelerai, sperando di lasciare il mio dolore sulla strada. La casa del caposquadra sembrava una capanna in confronto alla villa a due piani dei Merchant. Costruita con centinaia di assi di pino spesse trenta o quaranta centimetri, era un edificio fantasmagorico, simile alla dimora di un gigante delle favole, più che a quella di un comune mortale. La porta d'ingresso era a due battenti ed era alta tre metri e mezzo. Le maniglie di bronzo dovevano pesare almeno quattro chili l'una. Prima che potessimo bussare o suonare il campanello, la porta si aprì. Evidentemente l'ingresso era dotato di un sistema di videosorveglianza. Un uomo bianco e alto in smoking apparve davanti a noi. «Signorina Harris» disse, in tono condiscendente. «Lawrence» rispose lei, passandogli accanto. «E lei chi è?» mi chiese l'uomo. «Un ospite della signorina Harris.» Seguii Etta attraverso l'atrio e lungo un corridoio molto ampio, decorato con teste e corpi di animali morti. Cinghiali, pesci spada, puma e alci. Verso il centro c'era una testa di rinoceronte da un lato e una di ippopotamo dall'altro. Continuavo a guardarmi intorno, chiedendomi se Lymon Merchant avesse avuto l'audacia di appendere anche qualche trofeo umano in quel corridoio. Passammo nella galleria di famiglia, una sala con un pavimento di assi di pino larghe almeno mezzo metro ciascuna. Alle pareti erano appesi quadri di dèi e mortali, paesaggi e, naturalmente, altri animali morti. In un angolo c'era un pianoforte a coda bianco. «Easy, vieni» disse Etta, vedendo che mi stavo perdendo in contemplazione del pianoforte. Il bianco crema sembrava naturale e mi chiesi quale legno potesse avere una simile sfumatura. Avvicinandomi, mi resi conto che era d'avorio, con le gambe costituite da zanne intere. «Chissà quanti elefanti hanno ucciso, per costruire questo pianoforte» osservai. «Non è il motivo per cui ti ho portato qui.» «Qualcuno almeno lo suona?» «Willis lo suonava durante i cocktail party.»
«Sapeva suonare anche il piano?» «Ha talento» rispose EttaMae, con orgoglio materno. «Per questo mi si spezzava il cuore, quando mi parlava dei suoi sogni.» «Se ha talento, magari riuscirà a realizzarli.» «Ma sei fuori di testa?» disse Etta. «È un povero ragazzo nero in un mondo di bianchi.» «È stato così anche per Louis Armstrong.» «E per ogni Armstrong c'è una fila di tombe di ragazzi neri. Tu sai bene come le strade ingoiano gli uomini, soprattutto se hanno qualche sogno.» Mi voltò le spalle, dirigendosi verso un'altra porta. La seguii pensando all'amore di una donna nera, tanto forte da cercare di proteggere i suoi uomini dai loro stessi sogni. Mi venne di nuovo in mente Bonnie. Lei mi amava e mi spingeva a cercare di salire più in alto. E adesso che ero salito, potevo solo scendere. La stanza successiva era una magnifica cucina. Tre stufe a gas e un enorme forno incassato a una parete. Piani di lavoro in legno, lavelli in porcellana e una dozzina tra cuochi, assistenti e sguatteri. Tutti mi fissarono, chiedendosi probabilmente se ero un nuovo membro dello staff. Un uomo con il cappello da chef mi fermò e mi chiese: «Sei il nuovo aiutante?». «Sì» risposi. «Ma mi occupo solo della marmellata.» Da lì passammo in un'altra stanza, piena di ceste traboccanti di tessuti, dove gli unici mobili erano una macchina da cucire a pedale e due sgabelli, accanto a una finestra inondata di sole. Su uno degli sgabelli era seduta una donna bianca dai lunghi capelli castani. Passava sotto l'ago della macchina un tessuto blu e, contemporaneamente, azionava il pedale. «Signora Merchant» disse Etta. La donna alzò gli occhi dal suo lavoro e si voltò verso di noi. Aveva una quarantina d'anni e l'aspetto giovanile. Anche Etta aveva più o meno la stessa età, ma io l'avevo sempre giudicata più vecchia: sebbene la sua pelle fosse liscia e priva di rughe, le vicende della vita avevano lasciato ugualmente il segno. Etta era una matrona, mentre la signora Merchant sembrava una bambina, con il viso tondo e gli occhi grigi. Si vedeva che aveva pianto e che era pronta a farlo ancora. «Etta» disse soltanto. Si alzò in piedi e si abbracciarono come sorelle. «Questo è l'uomo di cui le ho parlato, Brian Phillips» mi presentò Etta, usando il nome che le avevo suggerito durante il viaggio.
La donna mi tese la mano con un sorriso. «Grazie per essere venuto, signor Phillips» disse. «Sono qui per Etta, signora Merchant.» «Sheila. Mi chiami Sheila.» «Che cosa posso fare per lei?» «Etta non gliel'ha detto?» «Tutto quello che so è che sua figlia è scappata di casa con uno dei suoi lavoranti.» «Sin è maggiorenne» disse Sheila Merchant. «Non è scappata, se n'è andata. Ma ha anche lasciato un biglietto per il padre, dove gli comunicava che se ne andava con Willis. Quel povero ragazzo non ha idea di come lei lo stia usando.» «Mi scusi, forse ho capito male» dissi. «Lei è preoccupata per il ragazzo?» «Sin è come un gatto, signor Phillips. Cade sempre in piedi e su un materasso di soldi. Questo è solo un gioco che fa con suo padre. Deve continuamente metterne alla prova l'affetto, facendolo arrabbiare.» «Immagino che fuggendo con un povero vagabondo nero lo abbia fatto arrabbiare parecchio.» «Mio marito ama Sin più di tutti gli altri nostri figli» spiegò lei. «È una cosa morbosa.» Sembrava che stesse per aggiungere qualcos'altro, ma all'ultimo momento si trattenne. Notai che i suoi capelli erano striati di grigio. «Quando Etta mi ha raccontato di Willis e di sua figlia,» intervenni, allora «le ho detto che credo di non poter fare molto. Los Angeles è una grande città, dove la gente si sposta continuamente.» «Io so qualcosa» disse lei. «Qualcosa che Lymon e Abel non sanno.» «Che cosa?» Sheila Merchant si guardò intorno, come per accertarsi che non ci fossero spie nella stanza. «C'è un grosso cespuglio, accanto al palo che segna l'inizio del viale degli eucalipti. Un cespuglio di more.» «L'ho visto.» «Sotto il cespuglio c'è un cesto. È lì dentro.» «Che cosa?» «Un diario che Willis portava sempre con sé. Sa a malapena leggere e scrivere, ma ci sono alcuni appunti e una quantità di ritagli di giornale.» «Mi scusi, Sheila, ma come mai lei ha il diario di Willis?» «È stato lui a chiedermi di tenerglielo» rispose la donna. «Non voleva
che qualcuno glielo portasse via. Parlavamo spesso di musica, lui e io. Nella mia famiglia tutti suonavamo qualche strumento, a parte mio padre, che aveva una bella voce da tenore. Dei miei figli, invece, nessuno apprezza la musica.» «E quel piano d'avorio che ho visto?» «Quello è un abominio. È costato trentamila dollari e l'unico che l'abbia mai suonato è stato Willis Longtree.» «Capisco» dissi. «Insomma, un giorno, mentre parlava con Willis...» «Lui mi ha mostrato il suo diario. In realtà è una specie di registro, come quelli che usano i contabili. C'erano incollati molti articoli riguardanti stelle del cinema e nightclub di Los Angeles.» «Se non sapeva quasi leggere, come faceva a capire quali articoli ritagliare?» «Non sei qui per fare il terzo grado alla signora» intervenne Etta. «Infatti, sono qui per aiutare te. Ora, se vuoi che ti aiuti, tieni la bocca chiusa e lasciami fare tutte le domande che mi pare.» EttaMae mi rivolse uno sguardo di fuoco. L'avevo vista schiaffeggiare degli uomini per molto meno. «È tutto a posto, Etta» intervenne la signora Merchant. Poi, rivolta a me: «Willis si taceva leggere gli articoli da altri. Sfogliava i giornali finché trovava alcune parole che conosceva, per esempio "Hollywood", o foto di attori e musicisti, quindi chiedeva a qualcuno di leggergli l'articolo». Avevo la sensazione che lei gliene avesse letti diversi. «Che cosa vuole da me, signora?» «Trovi Willis prima di Abel» rispose lei. «Gli dica che cosa ha fatto Sin e cerchi di portarlo al sicuro da qualche parte.» Infilò una mano sotto il grembiule e tirò fuori una busta bianca. «Qui dentro ci sono mille dollari. Li prenda, trovi Willis e lo porti al sicuro.» «E riguardo a sua figlia?» «Non si preoccupi. Tornerà a casa appena avrà finito i soldi.» Sheila Merchant guardò fuori dalla finestra e io seguii il suo sguardo. C'era un bel bosco di pini, sotto un cielo azzurro. Sembrava impossibile che persone così ricche e circondate da tanta bellezza potessero avere un motivo per essere infelici. «Vedrò che cosa posso fare» dissi. Sotto il portico, Etta e io incontrammo un uomo dai capelli color sabbia, che ci squadrò con occhi blu spento.
«Buongiorno, signor Snow» disse Etta, in tono nervoso. Sembrava quasi che ne avesse paura. «EttaMae» rispose lui. Indossava pantaloni grigi, cappello di paglia e una camicia aperta. Piegata sul braccio destro portava una giacca blu. Aveva un sorriso cattivo, ma non fu quello a spaventarmi. EttaMae Harris aveva trascorso gran parte della sua vita adulta con Mouse, cioè con l'uomo più implacabile che io avessi mai conosciuto. E non avevo mai visto un segno di paura sul viso di Etta davanti ai selvaggi attacchi di rabbia di Mouse. Non l'avevo mai vista spaventata davanti a nessuno. Abel Snow quindi godeva di una posizione unica, ai miei occhi. «E chi c'è con te?» «Brian Phillips» dissi. «Che cosa sei venuto a fare qui?» «A vedere come vivono i ricchi.» Sorridemmo entrambi. «Stai cercando guai, figliolo?» «No, perché dovrei cercare qualcosa che ho proprio davanti agli occhi?» Etta si schiarì la voce. «Sei qui per Willis Longtree?» mi chiese Snow. «Chi?» Il suo sorriso divenne ancora più ampio. «Per caso hai in tasca qualcosa di cui io dovrei essere informato, Brian?» «Qualunque cosa sia mi appartiene.» Abel Snow si stava divertendo. Chissà se il suo cuore batteva alla stessa velocità del mio. Ci fissammo in silenzio, per un istante che sarebbe potuto diventare un'ora, se Etta non avesse detto: «Mi scusi, signor Snow, ma il signor Phillips deve darmi un passaggio a Los Angeles». Lui annuì e si fece da parte, continuando a sorridere. Il cesto era esattamente dove Sheila Merchant aveva detto che l'avremmo trovato. Sfogliai rapidamente il diario, poi lo misi nel bagagliaio. Durante il viaggio di ritorno Etta dormi per la maggior parte del tempo. Quando si svegliò, le feci ancora qualche domanda su Mouse, ma ottenni solo una replica di ciò che mi aveva già detto: Raymond era morto e lei lo aveva seppellito con le sue mani. La lasciai in quella sua casetta disneyana a Malibu e tornai a casa mia. Erano circa le nove di sera.
Bonnie mi aspettava sulla porta, con gli stessi pantaloni e la stessa felpa di quando era arrivata. «Ciao» disse. «Posso entrare?» chiesi e lei si fece da parte. La casa era finalmente in ordine. Io l'avevo riordinata un po' di tanto in tanto, ma quella era la prima volta che era davvero pulita, dal giorno della partenza di Bonnie. «Dove sono i ragazzi?» «Con la signora Riley. Le ho chiesto di tenerli, perché probabilmente è meglio se parliamo da soli.» «No» dissi. «Non ho da dire nulla che loro non possano sentire.» «Easy, che cosa c'è che non va?» «Ha chiamato EttaMae.» «Dopo tutto questo tempo?» «Mouse è morto. Un ragazzo che EttaMae conosce ora si trova nei guai.» «Hai ricevuto tutte queste notizie?» Bonnie andò a sedersi sul divano. «Come ti senti?» «Di merda.» «Dobbiamo parlare» disse lei, nel tono che le donne usano quando trattano gli uomini come bambini. Mi alzai in piedi. «Più tardi, forse. Adesso devo uscire.» «Easy.» Andai a chiudermi in bagno. Mi rasai, mi feci una doccia e mi tagliai le unghie. Quando entrai in camera per vestirmi, Bonnie era già a letto. «Dove vai?» mi chiese. «Fuori.» «Fuori dove?» «A cercare quel ragazzo che si trova nei guai.» «Non mi hai dato neppure un bacio da quando sono tornata.» Tirai fuori i pantaloni neri e la giacca gialla. Poi presi da un cassetto una T-shirt di seta nera. Quella notte non sarei stato Easy Rawlins, il bidello. Un bidello non avrebbe mai potuto trovare Willis Longtree e Sinestra Merchant. Infilai un paio di calzini neri e, mentre mi allacciavo le scarpe, Bonnie disse, piano: «Easy, per favore, dimmi qualcosa» Mi avvicinai al letto, mi chinai e la baciai sulla fronte. «Non aspettarmi alzata. Forse starò via tutta la notte.»
Mi avviai verso la porta, poi mi fermai. Bonnie si sollevò a sedere sul letto, pensando che volessi aggiungere qualcosa. Invece io andai verso la cabina armadio, la aprii e presi la pistola. Controllai che fosse carica e uscii. La Grotta era stato il primo locale nero a spingersi oltre Watts. Si trattava di un jazz club in Hoover Street. In realtà, l'ingresso era in un vicolo, tra due edifici che davano sulla Hoover. La Grotta non aveva un vero indirizzo. E anche se i proprietari erano neri, era la mafia a mettere i soldi. Pearl Sondman era (almeno da un punto di vista legale) la direttrice e la proprietaria del club. Me la ricordavo dai tempi in cui io facevo la spola tra la strada e la galera e lei stava con Mona El, la prostituta più popolare dell'epoca. Mona seduceva tutti, uomini e donne. E se una volta ti capitava di passare una notte con lei, eri felice di mettere insieme i trecento dollari che ci volevano per farlo di nuovo. O almeno, così dicevano tutti. Mona era il paradiso in terra e non scontentava mai nessuno, uomo o donna che fosse. Il problema era che, dopo una notte con Mona, diversi tipi dalla personalità instabile si innamoravano di lei. Gli uomini non facevano altro che picchiarsi e minacciarsi a vicenda, sostenendo di volerla salvare. Fu solo quando lei incontrò Pearl che tutto quel casino ebbe fine. Pearl stava con un certo Harry Riley, ma dopo un bacio di Mona, o forse due, lo buttò fuori di casa. In seguito si scoprì che gli uomini, per qualche strano motivo, non erano tanto interessati a salvare Mona dalle braccia di una donna. Tromba, trombone e sax dialogavano dentro il locale. La musica mi portò il sorriso sulle labbra, se non nel cuore. «Ciao, Easy» mi salutò Pearl. Indossava un vestito rosso e forse aveva messo su una decina di chili, dall'ultima volta che ci eravamo visti. Aveva un viso piatto e sensuale, del colore del cioccolato fuso. «Ti credevo morto» mi disse. «È morto l'altro» risposi. La risata di Pearl era profonda e contagiosa. Come la polmonite. «Mona sta bene?» «Sì, ora sì. Ha avuto un altro infarto sotto Natale e si sta riprendendo.»
«Mi dispiace» dissi. «Oh, non ti preoccupare» ribatté lei. «Mona dice di aver vissuto una vita almeno tre o quattro volte più intensa di quella della gente normale. Sai, una volta c'è stato un principe europeo che le pagava il viaggio in prima classe, ogni due mesi.» «E com'è andata a finire?» «Lui voleva che Mona fosse la sua amante. Le offrì soldi, appartamenti meravigliosi, ma lei rifiutò.» «Perché?» «Perché le piaceva di più la vita che faceva qui» disse Pearl. «Con me e con i nostri due cani.» Fui sul punto di chiederle come avesse potuto condividere l'amore di Mona con un estraneo, ma preferii tacere. «Sto cercando un ragazzo di nome Longtree» dissi. «Un tipo carino con una puttana bianca pazza?» «Proprio lui.» «È stato qui domenica sera. Ha detto che sapeva suonare. Quando gli ho chiesto che cosa suonava, ha risposto: "Chitarra, piano, qualunque cosa".» «Sicuro di sé, eh?» «Già. E aveva ragione di esserlo. Ha suonato tutto il pomeriggio per venti dollari e probabilmente ne ha tirati su il doppio in mance. Non suonava niente che somigliasse al be-bop, ma era in gamba.» «Devo trovarlo.» «Guarda sul marciapiede e segui le tracce di sangue.» «È messo così male?» «Quella ragazza ha flirtato con tutti gli uomini più pericolosi della sala. Uno di loro si è avvicinato a Willis e gli ha detto che voleva prenderla in prestito per la notte.» «Si sono picchiati?» «No. Ho consigliato a quel grosso nero di tornare a sedersi, altrimenti gli avrei sparato. Qui sanno che non scherzo. Poi ho detto a Willis di portare la sua donna fuori di qui e, mentre uscivano, quella troia si è voltata per lanciare all'altro la tipica occhiata che dice: "Seguimi".» «Credi che gli avesse detto dove alloggiavano?» «Mi è sembrata il tipo capace di farlo.» «E come si chiamava l'uomo?» «Aspetta... Art. Sì, Big Art Farman. Vive dalle parti di Watts. Fa il muratore.»
Trovai l'indirizzo su un elenco telefonico, in una cabina fuori dal locale. Il jazz e la preoccupazione per come avrei affrontato Big Art avevano ridotto Bonnie a un piccolo dolore pulsante nel mio cuore. L'uomo che venne ad aprire la porta non era affatto grosso. Al contrario, era un tipo minuto. «Art?» chiesi. «No» rispose lui. «Art Farman abita qui?» «Sai che ore sono, amico?» Estrassi dalla tasca un rotolo di banconote. «Non è mai troppo tardi per cento dollari.» L'uomo di fronte a me era piccolo, ma aveva gli occhi grandi. «Che... che cosa vuoi?» «Voglio comprare una cosa da Art. Lui sa di che si tratta.» Potevo permettermi di essere vago, visto che i soldi erano veri. «Glielo dirò non appena torna» disse il piccoletto. «Digli che Lenny Charles ha qualcosa per lui, se torna entro due ore.» «E se torna più tardi?» «In quel caso l'offerta non è più valida. Dovrò comprare quello che mi serve da qualcun altro.» «Di che cosa si tratta?» chiese lui. Aveva la pelle di uno strano colore disomogeneo, che andava dal marrone scuro al miele, ed era quasi privo di sopracciglia. «Devo trovare una ragazza bianca di nome Sinestra.» «Perché?» Nei suoi occhi l'avidità si trasformò in sospetto. «Suo padre vuole che le chieda di tornare a casa. È disposto a dare un centone ad Art se mi aiuta a trovarla.» «Come hai detto che ti chiami?» «Len» mentii. «E tu?» «Norbert. Quanto mi dai se ti trovo Art?» «Dov'è?» «No, prima i soldi.» «Quanto vuoi?» «Cinquanta.» Gli voltai le spalle. «Aspetta, aspetta. Quanto sei disposto a pagare?» «Trenta.»
«Trenta? Trenta per me e cento per Art?» «Lui può darmi la ragazza. Tu no.» «Io posso darti Art. E lei è con lui.» Fui sul punto di tirare fuori la pistola, ma cambiai idea. A volte una minaccia di morte riesce a trasformare un piccoletto in un eroe. «Quaranta» dissi. «No, devi offrire di più, amico. Quaranta dollari non valgono il mio tempo.» «Allora troverò Willis da solo» dissi. «Willis? Intendi quel ragazzino?» Norbert rise. «Art lo ha preso a calci nel culo e gli ha portato via la donna.» «Davvero?» «Certo» disse Norbert. «Naturalmente lei è stata contenta di seguirlo.» «Non ci credo.» «Come no? Che cosa se ne faceva di quello spaventapasseri con la chitarra, se poteva avere Big Art nel suo letto?» Allungai a Norbert una banconota da venti. «Dov'è successo tutto questo?» «Vicino a quel grande condominio sulla Avalon. Dove c'è la stazione di servizio della Chevron.» Gli diedi altri venti dollari. «È l'unico edificio blu di tutto l'isolato.» «Come mai sai tutte queste cose?» «Ho accompagnato io Art in macchina fin lì.» «Sinestra era dispiaciuta che Art avesse picchiato il suo ragazzo?» «Mi è sembrato di no.» Altri venti dollari. «Dov'è Art adesso?» «Havelock Motel, Santa Barbara. Andiamo sempre lì quando abbiamo una donna, così l'altro può dormire. Capisci, qui ci sono solo due stanze.» Gli diedi un'ultima banconota e me ne andai. Ora avevo un piccolo dilemma. Dovevo cercare la ragazza o Willis? Mi sembrava che di lei non importasse nulla a nessuno, eccetto forse al padre. Etta era preoccupata per Willis e sapevo che, se glielo avessi chiesto, mi avrebbe detto di trovare prima lui. Ma io non la pensavo così. Qualunque cosa avesse fatto Sinestra Merchant, non potevo lasciarla nelle mani di un possibile violentatore, che magari l'aveva rapita. Norbert mi aveva detto che lei aveva seguito Art spontaneamente, ma non potevo fidarmi della sua
parola. Il motel era un edificio basso a forma di ferro di cavallo. Quando arrivai era quasi mezzanotte. Alla reception c'era un impiegato seduto dietro il banco, di spalle al centralino. Parcheggiai dall'altro lato della strada per decidere il da farsi. L'insegna diceva che ogni stanza era dotata di televisore e telefono. Andai in una cabina e composi un numero che non era cambiato in sedici anni. «Hola» disse in spagnolo una voce assonnata. «Primo.» «Oh, ciao Easy. Come ti viene in mente di chiamarmi a quest'ora di notte?» «Hai una matita e un orologio?» Gli dettai un numero, dicendogli di chiamare dopo sette minuti esatti. Gli dissi di chi doveva chiedere e che cosa dire nel caso in cui fosse riuscito a farsi passare la chiamata. Lui non fece domande, disse solo: «Okay» e riagganciò. «Buonasera» dissi all'impiegato della reception, cinque minuti dopo. «Vorrei prenotare una stanza.» Era una frase che avevo studiato apposta per non farlo innervosire alla vista di un grosso nero che entrava nel motel in piena notte. I rapinatori di solito non chiedono di prenotare una stanza e raramente entrano dicendo "Buonasera". «Ecco...» fece l'impiegato, lanciando un'occhiata prima alle mie mani, poi dietro le mie spalle, per vedere se avevo qualche complice «...qui non prendiamo prenotazioni. Ci limitiamo ad affittare le stanze alla gente sul momento.» «Lo immaginavo» replicai. «Ma vede, io lavoro in un night-club qui vicino e vorrei venire a dormire qui domattina, dopo il lavoro. Pensa che sia possibile?» «Non lo so» disse lui, rilassandosi. «Di solito i clienti guardano l'insegna. Se dice che ci sono stanze libere, entrano, altrimenti provano in un altro motel.» In quel momento squillò il telefono. Lui mi voltò le spalle e sollevò la cornetta. «Havelock Motel» disse. «Chi? Ah, certo. Glielo passo subito.» Inserì lo spinotto nella presa numero 6. Quando si voltò di nuovo verso
di me, gli sorrisi. «Va bene» dissi. «Allora guarderò l'insegna.» Contai le porte sul lato nord dell'edificio, poi girai sul retro, contando le finestre. Le tende della stanza numero 6 erano aperte. L'unica luce veniva da dietro una porta socchiusa, quasi certamente quella del bagno. C'erano due letti matrimoniali. Uno era vuoto, mentre sull'altro si scorgeva un paio di piedi calzati nelle scarpe e piegati in una strana angolatura. La finestra non era chiusa. Big Art, o meglio Arthur Farman, come diceva la sua patente di guida, era morto da alcune ore. La causa del decesso era probabilmente il proiettile che gli avevano sparato in un occhio. Ma prima di ucciderlo il suo assassino lo aveva legato, imbavagliato e picchiato. Poi aveva usato un cuscino per attutire il rumore dello sparo. Non c'erano tracce di Sinestra. Ma questo non significava che non fosse con Art al momento della sua morte. Uscii dalla finestra e tornai alla macchina. Quel morto, che non avevo mai conosciuto da vivo, era profondamente impresso nella mia mente. Non è facile distinguere un edificio blu alle tre del mattino. Tutto sembra bianco, nero o grigio. Ma lo trovai senza difficoltà, perché le luci erano accese. Bussai alla porta. Nessuno rispose e così abbassai la maniglia. La porta era aperta e la casa era un disastro. Cartoni di pizza e piatti sporchi dappertutto, lattine mezze vuote e una bottiglia di whisky quasi piena. Il tipico sudiciume in cui vivono molti giovani, in attesa di diventare adulti. Non riuscii a capire se le stanze fossero state perquisite. Ma, perlomeno, non c'era sangue. Arrivai a casa pochi minuti prima delle quattro. Etta rispose al primo squillo. Le dissi dei giochetti di Big Art e di Sinestra. «Willis non deve preoccuparsi di Abel Snow, con quella ragazza nel suo letto» dissi. «Sinestra ha chiamato il padre» mi riferì Etta. «Gli ha detto dove si trovava e gli ha chiesto di venire a prenderla.» «E poi è scappata di nuovo?» «Non lo so. So solo quello che mi ha detto la signora Merchant. Suo ma-
rito ha mandato Abel a prenderla.» «E lui l'ha riportata a casa?» «No.» «Merda.» «Credi che Abel li abbia trovati, Easy?» «Non posso dirlo con certezza, ma credo di no. Altrimenti penso che quell'appartamento sarebbe stato imbrattato di sangue e budella.» «Forse faresti meglio a lasciar perdere tutto.» «Ora non posso più farlo, Etta. È troppo tardi.» «Non voglio che tu ti faccia uccidere, Easy» disse lei. «Questa è la cosa più carina che qualcuno mi abbia detto in tutta la giornata.» Trascorsi il resto della notte sul divano. Quando aprii gli occhi, Bonnie era seduta davanti a me. «Dobbiamo parlare» disse. «Devo uscire.» «No.» «Bonnie.» «Si chiama Jogaye Cham» disse lei. «Noi... abbiamo chiacchierato, in aereo, mentre tutti dormivano. Mi ha parlato dell'Africa, della nostra terra, Easy. Del posto da cui siamo ve nuti.» «Io sono nato nella Louisiana del Sud e mi definisco texano perché è stato nel Texas che sono diventato un uomo.» «Mi ha detto che lavorava per la democrazia» continuò Bonnie. «Lavorava giorno e notte. Voleva un paese dove tutti fossero liberi. Una terra dove la nostra gente di qui avrebbe desiderato emigrare. Una terra con presidenti neri e professionisti neri di tutti i tipi.» «Già.» «Lui lavorava per questo. Sempre, a qualunque ora della giornata. Ma un giorno c'è stato un cambiamento di programma e abbiamo avuto il tempo di prendere un volo per una spiaggia del Madagascar che lui conosceva.» «Saresti potuta tornare a casa» dissi, anche se non avrei voluto dire nulla. «No» ribatté lei e il dolore nel mio petto si fece più acuto. «Avevo bisogno di stare con lui, con i suoi sogni.» «E mi avresti raccontato tutto questo, se non fossero arrivati quei fiori?» «No. No.» Bonnie ora piangeva. «Non c'era nulla da raccontare.»
«Cinque giorni su una spiaggia con un altro uomo e secondo te non c'era nulla da dire?» «Avevamo stanze separate.» «Ma avete scopato?» «Non usare questo linguaggio con me.» «Va bene, scusami se ti ho sconvolta con il mio gergo di strada. Te lo chiederò in un altro modo: avete fatto l'amore?» Quelle parole lasciarono il segno più di qualunque volgarità. Vidi riflesso nel suo viso lo stesso dolore che provavo io. E la cosa, anche se non mi fece sentire bene, almeno sembrò creare una specie di equilibrio. Nessuno dei due sarebbe uscito illeso da quella discussione. «No» sussurrò. «No, non abbiamo fatto l'amore. Non avrei potuto, con te qui che mi aspettavi.» Mille domande mi invasero la mente. "Vi siete baciati? Vi siete tenuti per mano guardando il tramonto? Gli hai detto che lo amavi? Ti ha toccato il seno? Avete respirato vicini, stesi su un asciugamano vicino all'acqua?" Ma non dissi nulla. Sapevo che se le avessi posto una sola di quelle domande, sarebbero arrivate anche tutte le altre, all'infinito. Mi alzai. Mi girava la testa, ma riuscii a non darlo a vedere. «Dove vai?» chiese Bonnie. «Ho da sbrigare quel lavoro per Etta. Sono stato pagato in anticipo e quindi devo darmi da fare.» «Di che lavoro si tratta?» «Nulla che ti riguardi. Sono affari miei.» Andai a chiudermi in bagno e ne uscii lavato e vestito. La lasciai sola in casa, con le sue confessioni e le sue bugie. Poiché non avevo altre informazioni su dove cercare i ragazzi, andai da Etta, nella casa al mare dei Merchant. Lei aprì appena uno spiraglio della porta. «Va' via, Easy» disse. «Apri la porta, Etta.» «Vattene.» «No.» Forse il mio lavoro nelle scuole cittadine mi aveva fatto acquistare una maggiore forza di volontà. O forse Etta, dopo essere rimasta vedova e aver cominciato a lavorare per i ricchi, aveva perso grinta. Comunque fosse, in passato avrei abbassato gli occhi e me ne sarei andato. Stavolta, invece, fu
lei a cedere e ad aprire la porta. Dentro, seduti sul divano blu con i piedi dorati a forma di conchiglie, c'erano un giovane nero e una giovane bianca, entrambi molto belli. Si tenevano per mano, come bambini spaventati. Di fatto, erano due bambini impauriti. E se non fosse stato per il mio cuore spezzato a causa di Bonnie, avrei avuto paura anch'io. «Sono venuti dopo che ci siamo sentiti al telefono, Easy.» «Perché non mi hai richiamato?» «Avevi già fatto quello che ti avevo chiesto: li avevi trovati. Che cos'altro avrei potuto chiederti?» «Io sono Easy» dissi, presentandomi ai due ragazzi. «Willis» disse il ragazzo. Fece un gesto di saluto e notai che aveva le mani insanguinate e fasciate. «Sin» disse la ragazza. C'era qualcosa di asimmetrico nel suo volto, ma serviva solo ad attizzare il fuoco della sua pericolosa bellezza. «Che cosa è successo a Big Art, Sin?» Lei rimase a bocca aperta, cercando disperatamente una menzogna. «So già che hai chiamato tuo padre» dissi. «Ero solo arrabbiata con Art» spiegò lei. «Non doveva picchiare Willis e rovinargli le mani. Pensavo che mio padre sarebbe arrivato e avrebbe fatto qualcosa.» «E che cos'è accaduto?» «Ho detto ad Art che andavo al negozio di liquori all'angolo e ho chiamato papà. Gli ho detto che ero con un uomo, ma che avevo paura di andarmene e lui mi ha detto di aspettare lì vicino. Ho aspettato in una caffetteria sull'altro lato della strada. Ho visto Abel e ho avuto paura. Sono andata da Willy e, quando siamo tornati per prendere la mia roba, Art era...» si interruppe, ricordando il massacro. Mi voltai verso Willis e dissi: «Una pistola puntata alla testa sarebbe meno pericolosa di lei». «Io non volevo che lo uccidessero» intervenne Sinestra, con rabbia. «E ora che cos'hai intenzione di fare?» chiesi a Etta. «Sto cercando di farli ragionare» rispose lei. «Sto cercando di convincere Sin a tornare a casa e Willis a sparire dalla circolazione, prima di finire come Art.» «Io a casa non ci torno» dichiarò Sinestra. «E io non lascio né lei, né Los Angeles.» «Lei ha adescato Art, lo ha istigato a picchiarti e a romperti le mani e poi
se l'è scopato.» «Lei non sapeva quello che sarebbe successo. Stava solo flirtando e la situazione le è sfuggita di mano. Sin è soltanto un po' ingenua.» Io fissai Willis a bocca aperta. Etta cominciò a ridere forte. Risi anch'io. «Che cos'avete da ridere?» gridò Sinestra. «Zitti! State zitti!» «Sì, un po' di silenzio, per favore» disse Abel Snow, apparendo sulla soglia dell'ingresso posteriore. Aveva una pistola in mano. «C'è un uomo al volante di un'auto parcheggiata davanti alla casa, Sinestra» aggiunse, poi. «Va' da lui. Ti porterà a casa.» Senza una parola, la ragazza si avviò verso la porta. Etta mi fissò negli occhi. Uno sguardo duro e deciso. «Sin» la chiamò Willis. Lei esitò un attimo, poi uscì di casa senza voltarsi indietro. «Bene, bene, bene» disse Abel Snow. «Eccoci qui, noi quattro da soli.» Willis era seduto sul divano. Etta e io eravamo in piedi ai suoi lati. Willis si sporse per vedere in faccia Snow. «Hai intenzione di ucciderci?» chiesi, cercando di mettere nella mia voce una paura convincente. «Andrete via» rispose lui, sorridendo. Io mi spostai di lato, allontanandomi da Etta. «Ci lascerà andare?» chiese Willis, interpretando benissimo la sua parte, anche se non ne era consapevole. Snow aveva un'espressione divertita. Stava aspettando qualcosa. Etta lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi. Alzò gli occhi al cielo e pregò: «Signore, perdonaci». Il largo sorriso di Snow fu quasi amichevole. Io feci un altro passo e andai a sbattere contro la parete. «Non c'è via di scampo» disse Snow, come scusandosi. «Comportati da uomo e non sarà doloroso.» «Ti prego, signore» disse Etta, chinandosi leggermente in avanti. Da fuori provenne un colpo di clacson. Era quello che Snow stava aspettando. Sollevò la pistola e io chiusi gli occhi, ma mi costrinsi subito a riaprirli. Prima che Snow premesse il grilletto, Etta estrasse una pistola dalle pieghe del vestito e inspirò con forza. Il rumore di quel respiro indusse Snow a girare la testa, invece di premere il grilletto. Il proiettile di Etta lo colpì alla tempia. Snow cadde a terra di schianto, come un sacco di pietre. «Oh, no!» gridò Willis, rannicchiandosi sul divano. «Oh, no!» Etta mi fissò, con la mascella serrata e un'espressione di trionfo negli
occhi. «Sapevo che dovevi essere armata» dissi. «Se fosse stato più furbo, avrebbe sparato prima a te.» «Non è divertente, Easy. Ora che cosa facciamo con il cadavere?» «Che pistola usi?» chiesi. «Una calibro 25, lo sai.» «Non fa tanto rumore. Nessuno abita così vicino da aver udito lo sparo.» «Quando lui non si presenterà a fare rapporto al signor Merchant, di sicuro qualcuno verrà qui a controllare.» «Dimmi una cosa, Etta.» «Che cosa?» «Pensi di tornare a lavorare per loro?» «Certo che no!» «Allora chiama Merchant. Digli che Abel non tornerà e che qui c'è un gran casino.» «Ma così mi metto nei guai!» «È lui quello nei guai. Scommetto che la pistola che Abel ha in mano è la stessa che ha usato per togliere di mezzo Big Art. E se Sinestra scopre che qualcuno è stato ucciso in questa casa, ricatterà Merchant finché non gli avrà portato via tutti i soldi.» «E Willis?» «A lui ci penso io. Ma ora è meglio tagliare la corda.» Accompagnai Etta a una stazione di pullman, a Santa Monica. Prima di partire, lei si affacciò al finestrino della vettura. «Non sentirti in colpa per Raymond» disse. «Lui si è sempre assunto la responsabilità di tutto quello che faceva.» «Dove mi porti?» chiese Willis, sulla strada verso Los Angeles. «Da un dottore, per farti sistemare le mani.» «Sono ancora deciso a sfondare nel settore della musica» disse lui. «Bene. Come ti chiamavano, da piccolo?» «Little Jimmy» rispose lui. «Jimmy era il nome di mio padre e tutti dicevano che gli assomigliavo moltissimo.» «Little Jimmy Long» dissi, cercando di valutare l'effetto che faceva. «Non è un brutto nome. Posso trovarti lavoro come bidello nella mia scuola. Così, mentre insegui i tuoi sogni, potrai anche guadagnare qualcosa. E, chissà, forse un giorno sarai davvero una star.»
«Little Jimmy Jones» disse Willis. «Mi piace ancora di più.» Arrivai a casa nel tardo pomeriggio. Bonnie non c'era, ma i suoi vestiti erano nella cabina armadio. Andai nel garage e presi gli attrezzi da giardinaggio. Tagliai tutte le rose e le misi in un grande recipiente sul cassettone della camera da letto. Poi segai entrambi i cespugli, lasciandoli lì, ai lati della porta. Il cagnolino giallo doveva aver capito quello che stavo facendo, perché continuò ad abbaiarmi contro, finché non ebbi finito. Poi andai al lavoro. Arrivai mentre suonava la campanella delle tre e lavorai fino alle undici. Quando tornai, i cespugli recisi non c'erano più. Bonnie, Jesus e Feather dormivano nei loro letti. Non c'erano valigie pronte nella cabina armadio, né biglietti pieni di rabbia sul tavolo della cucina. Mi stesi sul divano e pensai a Mouse, al fatto che era davvero morto. Il sonno arrivò in fretta e capii che il tempo del lutto ormai stava per finire. Joyce Carol Oates IL CRANIO (Da «Harper's Magazine») Contrariamente a quello che molti credono, il cranio umano è costituito non da un osso unico a forma di elmo, ma da otto ossa saldate insieme. E la faccia è formata da quattordici ossa, che, nella vittima, erano state frantumate con un oggetto contundente, come se l'assassino avesse voluto non solo ucciderla, ma cancellarla. Sui frammenti del cranio non c'erano capelli né residui di cuoio capelluto; ciocche di capelli castani scoloriti dal sole erano state rinvenute insieme allo scheletro e gli erano state portate in una busta di plastica separata. Poiché i vestiti imputriditi trovati sul cadavere erano femminili, la vittima era stata identificata come donna. Più o meno giovane. «Un puzzle a tre dimensioni.» Sorrise. Aveva sempre amato i puzzle, fin da ragazzo. Non era vecchio. Non lo sembrava e non si comportava come tale. Eppure sapeva che altri, invidiosi, cercavano di farlo passare per vecchio. E questo lo faceva infuriare. Gli piaceva vestire con stile. Spesso indossava maglioni scuri a collo alto, con un soprabito di pelle che gli arrivava sotto
il ginocchio. D'estate portava camicie con il colletto sbottonato e a volte magliette che mettevano in risalto le spalle e le braccia muscolose. Quando, intorno ai cinquantacinque anni, i capelli avevano cominciato a diradarsi, si era rasato la testa, che, di sfumatura olivastra e solcata da vene, aveva l'aspetto di un organo maschile pulsante di vigore, baldanza e buonumore. Kyle Cassity era un uomo che si faceva notare ed etichettarlo come "anziano" era assurdo e offensivo. Ora aveva sessantasette anni. Doveva ammettere che anche lui, da giovane, aveva spesso ignorato gli anziani, dandoli per scontati, considerandoli irrilevanti. Ma lui era un tipo diverso di anziano. Non c'era nessuno come lui. Si considerava un puledro selvaggio, non ancora marchiato. Era nato nel 1935 a Harrisburg, Pennsylvania, e risiedeva da molti anni a Wayne, nel New Jersey: un essere umano unico e insostituibile. Per i suoi numerosi parenti era sempre stato un enigma. Generoso nei momenti difficili, sempre distante per il resto. Fino a pochi anni prima aveva goduto di una discreta reputazione di donnaiolo, benché fosse sposato da quarant'anni con la sua prima e unica moglie. I tre figli, da ragazzi, avevano fatto a gara per ricevere la sua attenzione e lo avevano amato e quasi venerato, mentre ora, da adulti, erano più vicini alla madre. Fuori dal matrimonio, Kyle aveva avuto un'altra figlia, che non aveva mai conosciuto. Anche dal punto di vista professionale il dottor Kyle Cassity era difficilmente etichettabile. Professore di ruolo alla William Paterson University del New Jersey, a volte insegnava anche nelle scuole serali o nei licei. Poteva tenere un seminario di scultura alla scuola d'arte, oppure un corso per laureati dedicato a salute, educazione e scienza. Aveva conseguito titoli di studio in antropologia, sociologia e medicina legale. Alla Paterson aveva istituito un corso intitolato La "sociologia del crimine in America", che aveva attirato più di quattrocento studenti. La sua reputazione nel New Jersey era quella di testimone esperto e di consulente per il dipartimento di Medicina legale. Aveva suscitato spesso l'attenzione dei mass media e gli era stato dedicato un articolo sulla rivista «Newark Star-Ledger», dall'accattivante titolo "Lo scultore Kyle Cassity combatte il crimine con la punta delle dita". Kyle regalava spesso le sue sculture a persone, scuole e musei. E teneva conferenze gratuite in tutto lo stato. Come scienziato, non era portato al sentimentalismo. Sapeva che l'individuo all'interno della specie conta pochissimo e che la cosa essenziale è la
sopravvivenza di quest'ultima. Ma, come esperto di criminalistica, si concentrava principalmente sull'individuo: sull'unicità della vittima e sull'unicità dell'assassino. Dove c'era una vittima c'erano uno o più assassini. Questo era un fatto che non lasciava spazio ad ambiguità. E Kyle Cassity lavorava con i resti delle vittime, spesso decomposti, mutilati o frammentari, apparentemente impossibili da ricostruire e identificare. Kyle era bravo nel suo lavoro e lo era diventato sempre di più negli anni. Amava i puzzle, soprattutto quelli che nessuno, a parte lui, sarebbe stato in grado di ricomporre. Vedeva gli assassini senza volto e ancora senza nome come prede che lui era abilitato a cacciare. Quel cranio, che disastro! Kyle non aveva mai visto una cosa del genere. Quanti colpi c'erano voluti per ridurlo così? Venti? Trenta? Cinquanta? Un assassino in preda a un raptus, si sarebbe detto. Meglio pensare alla follia che a una paziente metodicità, volta a rendere impossibile l'identificazione del cadavere. Niente impronte digitali, ovviamente, visto che non c'era più carne sulle ossa. Il cadavere era stato lasciato, tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate, in una cava di ghiaia abbandonata, vicino al fiume Toms, nella parte meridionale dello stato, a mezz'ora circa da Atlantic City. Le ossa erano state sparse in giro dagli animali, ma erano state in gran parte ritrovate e rimesse insieme. La vittima era alta approssimativamente un metro e cinquantacinque e pesava tra i cinquanta e i cinquantacinque chili. Di origine caucasica, a giudicare dai capelli. C'era un particolare macabro che non era stato rivelato alla stampa: l'assassino aveva non solo frantumato il cranio, ma anche staccato le braccia e le gambe della vittima per mezzo di uno "strumento da taglio non troppo affilato", come un'ascia, per esempio. Kyle ebbe un brivido, leggendo il rapporto. Cristo! Sperava almeno che l'avesse smembrata dopo la morte e non prima. Una cosa gli sembrava strana: con la stessa folle energia che gli era servita a distruggere la sua vittima l'assassino avrebbe potuto scavare una fossa in cui seppellirne il cadavere, coprendolo di sassi e ghiaia in modo che non venisse mai ritrovato. Eppure non l'aveva fatto. Perché? Forse voleva che il corpo fosse trovato. Forse era orgoglioso di ciò che aveva fatto. Quello che l'assassino aveva distrutto, Cassity avrebbe ricostruito. Era
sicuro di farcela. Ci sarebbero stati dei pezzi mancanti, ovviamente, ma avrebbe potuto sostituirli con materiale sintetico. Una volta rimesso insieme il cranio, sarebbe stato possibile ricostruire una faccia in argilla. Dopodiché, con l'aiuto di una disegnatrice con cui aveva già lavorato in passato, avrebbe realizzato bozzetti a colori di quel viso, da diversi angoli visuali, e li avrebbe consegnati agli investigatori. La ricostruzione di Kyle Cassity sarebbe finita in televisione, su Internet e su volantini diffusi in tutto il New Jersey. Era quasi impossibile risolvere un caso di omicidio senza prima identificare la vittima. Kyle aveva già ricostruito con successo alcuni volti, in passato, ma non aveva mai lavorato in una situazione così svantaggiata. Il suo era un compito molto difficile e tuttavia possibile: i frammenti di ossa c'erano. Si trattava solo di ricomporli. Quando Kyle cominciò a lavorare su quel cranio nel suo laboratorio all'università, la vittima era morta da circa quattro mesi e il cadavere era rimasto esposto al calore di un'estate quasi tropicale. Kyle teneva l'aria condizionata al massimo e ascoltava il Clavicembalo ben temperato e le Variazioni Goldberg di Bach nell'esecuzione di Glenn Gould. Musica precisa e brillante, rapida come una cascata, che esiste solo nel momento presente. Musica senza emozioni e senza associazioni. I capelli. Erano biondi, anzi, castani schiariti dal sole e sfumati di rosso. Ne erano state raccolte sei ciocche sul luogo del delitto ed erano state portate nel suo laboratorio. Kyle le aveva sistemate su un davanzale, dove poteva vederle molto bene ogni volta che alzava gli occhi dal lavoro di ricostruzione. La ciocca più lunga misurava diciotto centimetri. La vittima aveva i capelli lunghi fino alle spalle. Di tanto in tanto, Kyle allungava una mano e toccava quei resti. Otto giorni: ci sarebbe voluto più di quanto avesse creduto, perché procedeva con esasperante lentezza e perché commetteva più errori del solito. Le sue mani erano ferme, come sempre, e la sua vista rinforzata dalle lenti bifocali era affidabile, come sempre. Eppure, Kyle cominciava a notare che, quando si allontanava dal laboratorio, le sue mani erano scosse da un tremito quasi impercettibile. E fuori dal raggio d'azione delle forti luci fluorescenti, la sua vista non era più così acuta. Era un problema che non avrebbe confessato a nessuno e che nessuno avrebbe notato. Senza dubbio sarebbe sparito da solo. Verso la fine della seconda giornata Kyle non ne poteva più di Bach e di
Glenn Gould. Cercò di ascoltare altri CD, musica per pianoforte o per violoncello, poi rinunciò e decise di lavorare in silenzio. Solo che il silenzio non esisteva. Tutto faceva rumore: il traffico in strada, gli aerei che decollavano e atterravano all'aeroporto di Newark, il sangue che gli pulsava nelle orecchie. Strano: l'assassino non l'ha seppellita. Strano: odiare tanto un altro essere umano. "Spero davvero che fosse già morta, quando lui ha cominciato con l'ascia..." «Ora hai un amico, cara. Kyle è il tuo amico.» L'età della vittima era stata stimata tra diciotto e trent'anni. I vestiti erano taglia quarantadue e in mezzo alla ghiaia era stata ritrovata una scarpa numero trentanove. La donna aveva il bacino e il torace piuttosto piccoli. Non c'era modo di sapere se fosse mai stata incinta o se avesse partorito. Non erano stati ritrovati anelli vicino allo scheletro. Solo un paio di orecchini d'argento. Ma le orecchie della vittima erano sparite, come se non fossero mai esistite. «Forse lui si è portato via gli anelli. Sicuramente tu avevi qualche anello.» Il cranio aveva la fronte bassa e il mento sfuggente. Gli zigomi erano alti e marcati. Questo sarebbe stato d'aiuto, al momento di scolpire il viso. I denti superiori erano sporgenti. Kyle non poteva sapere se il naso fosse lungo, corto o camuso. Negli schizzi avrebbero disegnato vari tipi di nasi, pettinature e sfumature di colore degli occhi. «Eri carina? Le ragazze carine spesso finiscono nei guai.» Sul davanzale, i capelli giacevano in ciocche sinuose. Kyle allungò la mano a toccarle. Il matrimonio: un mistero. Infatti, com'era possibile che un uomo poco portato per le relazioni a lungo termine e per la vita domestica fosse felicemente sposato da più di quarant'anni? Kyle rise. «In qualche modo, è accaduto.» Era padre di tre figli, avuti in quel matrimonio. Adesso che erano adulti, se n'erano andati da Wayne. I due più grandi avevano avuto a loro volta dei figli. Né i tre figli, né la moglie sapevano nulla della figlia che Kyle aveva
concepito fuori dal matrimonio. E non ne sapeva nulla neppure Kyle, il quale aveva perso i contatti con la madre più di venticinque anni prima. Il rapporto con Vivian, sua moglie, non era mai stato passionale. Kyle voleva una moglie, non un'amante. Preferiva non pensare a quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevano fatto l'amore. Anche appena sposati il sesso tra loro era sempre stato un po' goffo, perché Vivian era inesperta, timida e ingenua, il che era parte del suo fascino. Perlopiù lo facevano al buio, senza quasi parlare. Se Vivian diceva qualcosa, Kyle si distraeva. Spesso la guardava dormire e le sfiorava il corpo ignaro, senza svegliarla. Poi si toccava. Ora aveva sessantasette anni. Non era vecchio, lo sapeva. Eppure, l'ultima volta che aveva fatto sesso era stato con una donna che aveva conosciuto a una conferenza, a Pittsburgh, vari mesi prima. E prima di allora, con una donna poco più che ventenne, dall'identità ambigua, forse una prostituta. Non gli aveva chiesto soldi, però. Lo aveva fermato per strada, dicendogli di averlo visto in un'intervista in tivù. Alla fine dell'unica serata che avevano trascorso insieme, lei gli aveva baciato la mano, un curioso gesto di omaggio e abnegazione. «Dottor Cassity, io venero un uomo come lei.» Le ossa più importanti erano tutte al loro posto: zigomi, fronte, mascella, mento. Erano quelle che determinavano i contorni del viso. Lo spazio tra gli occhi, per esempio. O l'ampiezza della fronte in proporzione a quella del viso all'altezza del naso. Sotto la maschera epidermica, l'inconfutabile struttura ossea. Kyle cominciava a vederla, ora. Le orbite vuote del cranio lo fissavano con tranquillità. Qualunque domanda Kyle avesse posto loro, avrebbe dovuto rispondersi da solo. Dottor Cassity. Non aveva una laurea in medicina e alle sue orecchie sensibili il fatto che lo si chiamasse "dottore" suonava sempre come una sottile presa in giro. Aveva smesso di chiedere ai suoi studenti laureati di chiamarlo semplicemente Kyle. Adesso che era un po' avanti con l'età e aveva una certa reputazione, i giovani non riuscivano a rivolgersi a lui in tono confidenziale. Volevano rendergli onore, pensava lui. Volevano che il divario d'età che li separava da lui rimanesse un abisso incolmabile. Dottor Cassity. Nella famiglia di Kyle, questo titolo era appartenuto al
nonno, un internista di Harrisburg, in Pennsylvania, specializzato in gastroenterologia. Da ragazzo, Kyle adorava il nonno e voleva diventare anche lui un dottore. Lo affascinavano i voluminosi testi di medicina, che sembravano contenere risposte a tutto, i disegni anatomici e le tavole a colori che rivelavano l'interno del corpo umano. Molte illustrazioni erano ingrandite e riprodotte in colori lividi che conferivano agli organi un aspetto umido. C'erano anche straordinarie fotoarafie di corpi umani nudi e sezionati. Kyle le contemplava in segreto, con il cuore che gli batteva forte nel petto. A distanza di decenni, provava ancora una sorta di erotico interesse, una tensione inguinale, quando ripensava a quei vecchi libri proibiti nella biblioteca del nonno. Intorno agli undici anni, aveva iniziato a copiare alcune figure e tavole, ricalcandole con un pennarello. Poi aveva cominciato a disegnarle a mano libera, scoprendo di essere in grado di tracciare copie del tutto simili agli originali. A scuola i suoi disegni si meritavano elogi. Divenne molto bravo negli schizzi a carboncino, che eseguiva con gli occhi socchiusi. Poi si era appropriato della tecnica della scultura e le sue dita si muovevano rapidamente per dare all'argilla la forma di visi e busti. Ma quel "talento" lo imbarazzava. Per mascherare il suo interesse verso la figura umana, aveva imparato a scolpire anche altre cose. Scoprì che la facoltà di Medicina non faceva per lui. La dissezione dei cadaveri non lo eccitava e gli procurava disgusto. Alla prima lezione pratica di anatomia era quasi svenuto. Inoltre odiava la fanatica competitività degli studenti, l'egemonia quasi militaresca del rango. Decise di dedicarsi alla criminalistica. Li, diceva ai suoi intervistatori, il suo compito consisteva nel rimettere insieme e non nel fare a pezzi. Il cranio era quasi completo. Splendidamente modellato, come un busto greco. O almeno, così pareva a Kyle. Un altro avrebbe definito brutte le orbite e la cavità nasale vuote. Kyle le vedeva piene, perché la ragazza gli si era rivelata, in un sogno fuggevole, ma che ricordava nitidamente. Viveva, ma dove? La sua mente si spostò dal cranio alla figlia perduta, che per lui era una persona astratta, priva perfino di un nome. L'aveva vista solo due volte, quando era appena nata. All'epoca la madre, una donna manipolatrice ed emotivamente instabile, non le aveva ancora dato un nome. Oppure non aveva voluto rivelarlo a Kyle, per ragioni sue.
«Lei non ha ancora bisogno di un nome. È mia.» Kyle era stato ingannato da quella donna, che si faceva chiamare Letitia. Un nome di fantasia, forse. O forse no. Letitia era venuta a cercarlo all'università, quando lui aveva trentanove anni. Il pretesto che aveva inventato per entrare nel suo ufficio era di chiedergli consiglio su un'eventuale carriera nei servizi sociali psichiatrici. Aveva detto che frequentava i corsi serali del college, il che poi si era rivelato falso. E aveva aggiunto di essere separata da un marito che la "minacciava", il che forse era vero. Kyle si era sentito lusingato da quella giovane donna, che mostrava apertamente di essere attratta da lui. Con il tempo, aveva iniziato a darle soldi. Sempre contanti, mai un assegno. E non le aveva mai scritto. Lei gli lasciava biglietti appassionati sotto il tergicristallo dell'auto, sotto la porta dell'ufficio, ma lui non era mai caduto nella trappola di rispondere. Mai esporsi per iscritto! Allo stesso modo, in anni più recenti, Kyle Cassity non avrebbe mai scritto un'e-mail che non potesse essere resa pubblica. Non si era mai fidato di Letitia, ma provava per lei una forte attrazione sessuale e trovava piacevole la sua compagnia. Lei aveva dodici anni meno di lui, non era carina, ma molto sensuale e seducente. Dopo che era scomparsa dalla sua vita, Kyle si era detto certo che frequentasse altri uomini, prendendo soldi anche da loro. Ciò nonostante aveva accettato di assumersi la responsabilità della gravidanza di Letitia. Lei gli aveva detto che il padre della bambina era lui e Kyle le aveva creduto. Non desiderava lasciarla sola in quel momento difficile, anche se i suoi figli avevano già dodici, nove e cinque anni e Vivian lo amava, si fidava di lui e si sarebbe sentita profondamente ferita, se fosse venuta a sapere di Letitia. Era possibile, tuttavia, che Vivian sapesse qualcosa. C'era il fatto che Kyle faceva pochissimo l'amore con lei. Poi improvvisamente, nel dicembre del 1976, Letitia e la piccola avevano lasciato Wayne. Già prima del parto Letitia aveva iniziato ad allontanarsi da Kyle. Lui immaginava che lei avesse trovato un altro uomo e sapeva che non avrebbe mai rivelato alla figlia chi era il suo vero padre. Adesso a distanza di ventotto anni, Letitia, sempre se era ancora viva, probabilmente non ricordava neppure il nome di Cassity. «Ora dicci il tuo nome, cara.» Dopo otto giorni di lavoro indefesso, il cranio era completo. Tutti i frammenti d'osso erano stati sistemati al loro posto e Kyle aveva dovuto ri-
costruire alcuni pezzi in materiale sintetico. Eccitato, eseguì un calco del cranio, sul quale iniziò a modellare un viso in argilla. Le sue dita lavoravano rapide, come sull'onda di un ricordo. Durante quella fase del lavoro, per festeggiare Kyle mise alcuni CD comprati da poco: cantate di Bach, la Settima e la Nona sinfonia di Beethoven e la Tosca cantata da Maria Callas. All'inizio di ottobre la vittima fu identificata. Il suo nome era Sabrina Jackson, una studentessa di informatica che lavorava part-time come cameriera in un bar di Easton, in Pennsylvania. La famiglia ne aveva denunciato la scomparsa verso la metà di maggio. Sabrina aveva ventitré anni, pesava cinquantasei chili e le sue foto somigliavano in modo inquietante agli schizzi realizzati da Kyle Cassity e dalla sua assistente. A marzo aveva troncato una relazione con un uomo con cui viveva da anni e aveva detto agli amici che aveva intenzione di lasciare l'università e il lavoro, per "iniziare una nuova vita" con un uomo che occupava "un posto di rilievo" in un casinò di Atlantic City. Aveva fatto le valigie, lasciando un messaggio enigmatico sulla propria segreteria telefonica: «Ciao, sono Sabrina. Mi dispiace di non poter rispondere alla tua telefonata, ma rimarrò fuori città per un periodo imprecisato. Non so quando potrò richiamarti, ma ci proverò». Da allora non si erano più avute sue notizie. Ad Atlantic City nessuno ricordava di averla vista e, interrogando gli impiegati dei vari casinò, la polizia non era approdata a nulla. A Easton, nessuno sembrava conoscere l'identità dell'uomo con cui Sabrina Jackson aveva detto che sarebbe andata via. Del resto la ragazza era già sparita varie volte, in passato, sempre al seguito di qualche uomo, e la famiglia e gli amici, all'inizio, avevano esitato a denunciarne la scomparsa. Si aspettavano di vederla tornare, un giorno o l'altro. Ma gli schizzi di Kyle le assomigliavano troppo e alla fine anche gli orecchini trovati con i resti furono identificati come suoi. «Sabrina.» Era un bel nome. Ma Sabrina non era una bella donna. Kyle fissò le foto che la ritraevano. La pelle era rovinata e, invece che chiara, come lui l'aveva immaginata, era piuttosto scura e unta. Le sopracciglia non formavano un arco delicato, come nei suoi schizzi, ma erano pesanti e il contorno della bocca carnosa era esagerato dal rossetto. La fronte bassa, però, il mento sfuggente, il naso camuso e i capelli castani lunghi fino alle spalle erano proprio come li aveva disegnati Kyle. Osservando la ragazza negli schizzi accanto a quella reale delle foto, si poteva pensare
che una fosse la versione più giovane e idealizzata dell'altra, oppure che le due ragazze fossero sorelle: una molto graziosa e femminile, l'altra sensuale e un po' rozza. C'era un fatto strano e difficile da accettare per Kyle: il cranio che aveva ricostruito era quello di Sabrina Jackson e non della ragazza che aveva disegnato. Sabrina Jackson era la vittima. E Kyle Cassity, nonostante i complimenti ricevuti per il suo eccellente lavoro, si sentiva vittima a propria volta. Vittima di un inganno. Contemplò per alcuni minuti la ragazza delle foto, che sorrideva all'obiettivo, seducente, incurante del fatto che noi siamo mortali, ma che le nostre pose più stravaganti continuano a vivere. Il trucco pesante la faceva sembrare più vecchia dei suoi ventitré anni. Indossava vestiti da pochi soldi, attillati e sexy. Top, bluse scollate, minigonne e pantaloni di pelle, stivali dai tacchi alti. Fumava e sembrava spiritosa. A Kyle piaceva. Era il tipo che non avrebbe chiesto soldi a un uomo, ma che li avrebbe accettati volentieri se le fossero stati offerti: un sorriso compiaciuto le avrebbe illuminato il viso, come se l'offerta fosse stata un grande complimento, lei avrebbe mormorato un "grazie!", le banconote sarebbero sparite in una tasca e non si sarebbe più parlato di quell'operazione. Il cranio ora non si trovava più nel laboratorio di Kyle. I resti di Sabrina Jackson sarebbero stati sepolti a Easton. Ora che si sapeva che era morta, le indagini sulle circostanze della sua scomparsa si erano intensificate. E Kyle non dubitava che prima o poi ci sarebbe stato un arresto. Kyle Cassity! Congratulazioni. Stupefacente il lavoro che hai fatto! Un bel momento per andare in pensione, eh? Proprio mentre sei ancora sulla cresta dell'onda. Non c'era più il pensionamento obbligatorio all'università; non sarebbe mai andato in pensione come scultore e artista; avrebbe potuto continuare all'infinito a lavorare per lo stato del New Jersey, essendo un consulente free-lance e non un impiegato soggetto alle leggi statali sul pensionamento: tutte obiezioni che gli erano salite alle labbra, ma alle quali aveva preferito non dare voce. Aveva smesso di ascoltare i nuovi CD. L'ufficio e il laboratorio erano silenziosi. Una vena gli pulsava sulla tempia. Che delusione! Sabrina non era la persona che lui aveva cercato. «Si accomodi, agente.»
La madre di Sabrina Jackson aveva il viso tirato come una salsiccia nel suo involucro. Si sforzava di sorridere, come una malata che cerca di star su di morale, ma solo a beneficio degli altri. Fece entrare Cassity e continuò a chiamarlo "agente" anche dopo che lui le ebbe spiegato che non era un funzionario di polizia, ma solo un privato cittadino che aveva contribuito alle indagini. Era l'uomo che aveva disegnato il ritratto che aveva permesso a lei e ad altri parenti di identificare la vittima come Sabrina. Questo non era del tutto vero, naturalmente. Kyle aveva disegnato un ritratto non di Sabrina Jackson, ma di una ragazza fittizia. Aveva dato vita al cranio che gli era stato affidato, non a Sabrina Jackson, di cui non aveva mai neppure sentito parlare. Ma tali sottigliezze metafisiche sarebbero state sprecate con la signora Jackson, che lo fissava come se avesse dimenticato di nuovo chi era. Un agente in borghese della polizia di Easton? Gentilmente, Kyle glielo ricordò: il disegno di Sabrina... quello che era apparso in tivù e sui giornali... lo aveva fatto lui. «Ah, già, il disegno.» La donna parlava lentamente, come se ogni parola fosse un sassolino che le lacerava la gola. Gli occhi piccoli e iniettati di sangue, sepolti nel grasso della faccia, erano fissi su di lui. «Quando l'abbiamo visto in tivù... abbiamo capito che era lei.» Kyle mormorò qualche parola di scusa. Adesso sembrava che la signora Jackson lo ritenesse responsabile di qualcosa. La sua testa oblunga e rasata non si era mai sentita così vulnerabile. «Signora Jackson, vorrei tanto che le cose fossero andate in modo diverso.» «Sabrina faceva sempre cose assurde, sa? Mi faceva incazzare moltissimo, ma poi finiva sempre per cadere in piedi, come un gatto. È stata l'unica dei nostri figli a darci tante preoccupazioni. Più dei maschi.» Stranamente la donna sorrideva. Disapprovava la figlia, ma ne era anche in qualche modo orgogliosa. «Aveva buon cuore, però, agente. E poteva essere una ragazza dolcissima, se voleva. Come quella volta, il giorno della festa della mamma. Io ero incazzatissima perché sapevo che nessuno di loro avrebbe telefonato...» Kyle era sconcertato dal fatto che la madre della ragazza morta fosse così giovane. Quarantacinque anni al massimo. Una donna piccola e rotonda, con un viso volgare, in pantaloni, camicia a fiori e ciabatte infradito. Il dolore per la morte di Sabrina le pesava addosso come un altro strato di grasso. A ben guardare, era abbastanza giovane da poter essere figlia di Cassity.
Ormai tutti sembravano abbastanza giovani da poter essere suoi figli! «Sono venuto per farle le mie condoglianze, signora Jackson» disse, aggiungendo poi: «Mi piacerebbe vedere delle foto di Sabrina». «Oh, le ho qui, le foto! Sono già pronte. Sapesse quante persone sono venute a vederle. Parlo non solo di parenti e amici di Sabrina, ma anche di giornalisti, gente della tivù... È passata più gente da quella porta negli ultimi dieci giorni, agente, che in tutto il resto della nostra vita qui.» «Mi dispiace, signora, non intendevo disturbarla.» «Oh, no! Immagino che sia una cosa che va fatta.» Mentre la donna esibiva a Kyle una collezione di fotografie negli album di famiglia, il telefono squillò varie volte, ma lei non rispose. Per quanto immobile sul sofà, ansimava, come se avesse corso a perdifiato. «Adesso lascio sempre scattare la segreteria telefonica. Capisce, non so più chi mi chiama. Prima erano quasi sempre persone conosciute e se, di tanto in tanto, mi capitava uno di quei dannati venditori gli sbattevo giù il telefono. Ma ora potrebbe essere chiunque. Molti telefonano per dirmi che hanno dei sospetti su chi può essere il bastardo che ha ucciso Sabrina, ma io dico loro di chiamare la polizia, non me. Io non sono la polizia.» La signora Jackson parlava con veemenza e il suo corpo emanava un odore di intensa eccitazione. Esitante, Kyle si piegò verso di lei, fissando le foto con le sopracciglia aggrottate. Alcune erano vecchie polaroid sbiadite, altre erano piene di orecchie e ditate. Nelle vecchie foto di famiglia non era sempre chiaro quale delle ragazze fosse Sabrina. La madre doveva indicargliela. Da adolescente aveva una brutta pelle, che doveva essere stata dura da accettare, malgrado il suo buonumore e la sua energia. In alcuni primi piani, Kyle vide una ragazza quasi carina, piena di vita e di speranze, aperta. "Ehi, guardami! Amami!" sembrava dire. Kyle voleva amarla. Non voleva essere deluso da lei. La madre trasse un profondo sospiro. «Tutti dicono che quei disegni le assomigliavano molto e che per questo l'hanno riconosciuta. In realtà le assomigliano, ma non troppo. Una madre vede le cose in modo diverso. Sabrina non è mai stata graziosa come in quei disegni. Se li avesse visti avrebbe riso come una matta. È come se qualcuno le avesse fatto una specie di plastica facciale, sa? Era proprio quello che lei voleva. Ci scherzava sopra, ma io sapevo che diceva sul serio. Voleva farsi un'iniezione al mento, o qualcosa del genere.» La signora Jackson si toccò il mento, sfuggente come quello della figlia. Kyle disse, in tono quasi incoraggiante: «Sabrina era molto attraente e non aveva alcun bisogno della chirurgia plastica. Le ragazze fanno spesso questi discorsi. Io ho una figlia
e quando era adolescente... Insomma, non si può prendere sul serio tutto quello che dicono.» «È vero, agente, non si può.» «Sabrina aveva personalità. Si nota in tutte le foto.» «Oh, Cristo! Ma certo.» La signora Jackson fece una smorfia, come se tra le foto che stava sfogliando avesse incontrato qualcosa di tagliente. Continuarono a guardare fotografie ancora per un po'. Kyle immaginava che quella madre frastornata dal dolore stesse vedendo sua figlia in un modo nuovo, attraverso gli occhi di un estraneo. Da parte sua, non riusciva a capire perché guardare quelle immagini fosse diventato così importante per lui. Erano giorni che progettava una visita alla signora Jackson e alla fine aveva trovato il coraggio di telefonarle. Mostrandogli una foto di Sabrina il giorno in cui si era diplomata, la donna disse: «Le superiori sono state il suo periodo felice. Era così... popolare. Sarebbe dovuta andare all'università, invece di fare le scelte che ha fatto. E adesso sarebbe ancora viva». In quel momento il suo umore cambiò di colpo. «Da non crederci! Persone che la conoscevano da tempo, amici e insegnanti, hanno cominciato a dire cattiverie su di lei, a definirla "pazza", "imprevedibile". Come se mia figlia non facesse altro che frequentare bar e uscire con uomini sposati.» Il viso rubicondo della signora Jackson si fece ancora più rosso per l'indignazione. Mezzelune di sudore le comparvero sotto le ascelle. «Se la polizia avesse lasciato perdere tutto, forse sarebbe stato meglio. Abbiamo denunciato la sua scomparsa in maggio. Per tutta l'estate, ci siamo chiesti: "Dov'è Sabrina? Dove sarà andata?". Alcuni di noi si sono recati ad Atlantic City, a cercarla, ma nessuno l'aveva vista, è una grande città, con un viavai continuo di gente. E i poliziotti continuavano a dire: "Sua figlia è maggiorenne" e altre scemenze del genere, come se avesse deciso lei di sparire. Hanno ascoltato il suo messaggio registrato e sono giunti a quella conclusione. Non era neppure più un caso di persona scomparsa. Sabrina era in viaggio con quell'uomo di cui aveva parlato. Si è sparsa la voce che fosse un tipo ricco, un giocatore di alto livello. Dovevano essersi stancati di Atantic City ed erano partiti per Las Vegas. Forse si erano spinti fino in Messico. Sabrina diceva sempre che le sarebbe piaciuto vedere il Messico. E ora... è tutto finito.» La signora Jackson chiuse l'album di scatto, facendo cadere a terra diverse foto sciolte. «Vede, agente, forse sarebbe stato molto meglio lasciare tutto così com'era. Noi ci aspettavamo di rivederla, un giorno. Ma voi avete cominciato a
ficcare il naso, a "indagare", a dire brutte cose sui giornali riguardo a mia figlia. Io non so neppure perché lei è venuto qui ad abusare del mio tempo, non so neppure chi è lei!» Il tono rabbioso della donna colse Kyle di sorpresa. «Io... Mi dispiace. Io volevo solo...» «Noi non vogliamo la sua comprensione, agente. Non la vogliamo e non sappiamo che cosa farcene. Se ne torni nel New Jersey, o da dove diavolo è venuto, e la smetta di impicciarsi della vita di mia figlia.» I suoi occhi erano umidi, dilatati e accusatori. La sua pelle sembrava bruciare. Kyle era certo che non fosse ubriaca, il suo fiato non sapeva di alcol, ma forse era drogata. Amfetamina? Era una droga molto popolare nelle piccole città come Easton. Kyle protestò: «Ma, signora Jackson, lei e la sua famiglia senza dubbio volevate sapere... intendo dire, quello che è accaduto a...». Si interruppe, incapace di proseguire. Perché avrebbero dovuto desiderare di saperlo? Lui lo avrebbe desiderato, al loro posto? «Ma certo, mi dica pure tutto, agente. Voi avete tutte le risposte» disse la donna, sarcastica. Poi, si alzò in piedi, lasciando intendere che per l'ospite indesiderato era giunto il momento di togliere il disturbo. Kyle estrasse il portafoglio. Si sentiva profondamente umiliato, ma era deciso a mantenere il controllo delle emozioni. «Signora Jackson, vorrei dare un piccolo contributo. Per le spese del funerale, capisce?» «Non vogliamo la carità di nessuno!» esclamò la donna. «Ce la facciamo benissimo da soli!» «Questo è solo un... segno della mia comprensione.» La signora Jackson distolse altezzosamente lo sguardo mentre Kyle frugava nel portafoglio e cominciò a farsi vento con una rivista. Kyle estrasse alcune banconote da cinquanta e una da cento. Le piegò con discrezione e le posò sul bordo del tavolo. La donna non lo ringraziò e non lo accompagnò alla porta. Dove si trovava? In uno squallido quartiere di bungalow e di villette a schiera, nella periferia nord di Easton. Primo pomeriggio. Troppo presto per cominciare a bere. Kyle guidava lungo strade piene di buche, incerto sulla direzione da prendere. Doveva riattraversare il fiume, per tornare sull'interstatale... In un 7-Eleven comprò una confezione da sei di birra scura, parcheggiò in un vicolo cieco tra un cimitero e uno svincolo stradale e co-
minciò a bere. La birra gelata gli faceva dolere la fronte, ma in modo non sgradevole. Era una giornata frizzante di ottobre, con nuvole alte nel cielo blu. All'orizzonte, sopra la città, stagnava una foschia color tabacco. Kyle sapeva dove si trovava, più o meno, ma non era importante; ciò che importava davvero era qualcosa che era stato deciso, ma che lui ora non riusciva a ricordare. Sapeva solo che era fondamentale. Ma tante cose che da giovane gli erano sembrate fondamentali poi erano risultate non esserlo. Una ragazzina di circa quattordici anni gli passò accanto in bicicletta, con una coda di cavallo che le rimbalzava sulla schiena. Jeans attillati e zainetto. Non lo degnò di uno sguardo, come se Kyle e la macchina in cui era seduto fossero invisibili. Kyle la seguì con gli occhi, mentre spariva pedalando in lontananza. Una nostalgia, un amore fortissimo, gli si spandeva nel cuore. Accarezzandosi una vena pulsante proprio sotto la mascella, guardò la ragazza dileguarsi all'orizzonte. George P. Pelecanos GLI OCCHI DELLA PAURA (Da Measures of Poison) Un giorno scriverò tutto questo. Ma non so ancora scrivere bene in inglese, così per ora mi limiterò a pensare ad alta voce. Ieri notte ho fatto un sogno. Nel sogno ero un ragazzo ed ero ancora al villaggio. C'erano anche i miei amici e i parenti del chorio e ce ne stavamo tutti intorno alla piazza. Mio padre legava un agnello a un palo. L'animale emetteva un verso, quasi un grido, con gli occhi pieni di paura. Mio padre mi passava il coltello italiano a serramanico, quello che mi regalò prima che partissi. Io tagliavo la gola all'agnello e il suo sangue caldo mi schizzava sulle mani. Mia madre una volta mi ha detto: «Se sogni qualcosa, c'è sempre un motivo». Ora non sono più un ragazzo. Ho ventotto anni. Siamo all'inizio di giugno del 1933. La temperatura oggi è salita a trentadue gradi e ho letto sul «Tribune» che alcuni anziani sono morti per il caldo. Vi descrivo la situazione, così potrete farvi un'idea di come mi vanno le cose. Ho un piccolo monolocale, che prendo in affitto da una vecchia signora. Un letto a scomparsa, un tavolo, un frigorifero e un fornello. Ho anche una radio, pagata un dollaro e novantanove. Lavo i miei vestiti in una bacinella e poi li appendo ad asciugare su una corda tesa attraverso la stanza. In questo mo-
mento c'è un bucato steso: pantalonia, una camicia da lavoro, vrakia e calzini. Io sono seduto al tavolo, sto fumando una Fatima e bevo una birra Abner Drury. Mi guardo le mani. Ho ancora del sangue sotto le unghie. Mi sono lavato con attenzione, ma non è facile eliminarlo del tutto. Sono le cinque o le cinque e mezzo del mattino. Facciamo un passo indietro, per capire come sono arrivato a questo punto. Quanto tempo è passato? Quattro anni? Meglio saltare il viaggio in nave e partire dal mio arrivo in America. Appena sbarcato a Ellis Island, andai direttamente a Washington da mia cugina Toula e da suo marito Aris. Aris aveva un carretto di frutta su Pennsylvania Avenue. Il padre di Toula era in debito con mio padre, perciò era tutto a posto. Lei mi offrì una stanza dove stare finché non fossi stato in grado di pagare un affitto. Ad Aris la cosa non piaceva, ma a me non importava un accidente di quello che pensava Aris. Il padre di Toula doveva pagare il suo debito. Toula e Aris avevano un appartamento a Chinatown. Il quartiere non era solo per i cinesi. C'erano italiani, irlandesi, polacchi e greci. Tutti poveri, eccetto i criminali. I cinesi controllavano il gioco d'azzardo, le puttane e l'oppio. Tutti gli affari venivano trattati nei ristoranti o nei retrobottega delle lavanderie. I cinesi non davano fastidio a nessuno, se nessuno dava fastidio a loro. L'appartamento di Toula si trovava in un edificio in H Street. Tre piani di scale, ma non mi importava. Il lattaio le saliva e le scendeva tutti i giorni e così pure il vecchio ebreo che ritirava i soldi dell'affitto, quindi avrei potuto farcela anch'io. La mia stanza era così piccola che quando il letto era giù la porta non si chiudeva. C'era solo un gabinetto nell'appartamento e gli avevano messo una tenda intorno, come quelle che si usano per la doccia. Se volevi cacare, dovevi chiudere la tenda. Non era affatto un bel posto, ma era gratis. Niente è davvero gratis, diceva sempre mio padre. Infatti Aris, il marito di Toula, me la fece pagare fin dal primo giorno: mai una parola gentile, mai una raccomandazione per un lavoro. Era un figlio di puttana, quello. Scuro, con il naso a becco, sembrava che avesse sangue turco nelle vene, quel gamoto. Non mi piaceva il modo in cui trattava mia cugina, soprattutto quando aveva bevuto. E quel malaka beveva tutte le sere. Seduto nella mia stanza, sentivo che alzava la voce con lei e poco dopo li sentivo scopare sul loro letto. Era una cosa insopportabile. Io non avevo una donna e, senza un lavoro, non potevo neppure pagarmi una puttana. Pensavo di im-
pazzire. Poi un giorno Dimitri Karras, uno che abitava al numero 606, mi disse che si era liberato un posto di custode alla chiesa di St Mary, dove suo figlio Panayoti e altri ragazzi del vicinato frequentavano la scuola cattolica. Mi misi un po' di acqua di colonia sui capelli, mi pettinai e andai a parlare con la madre superiora. Probabilmente le feci una buona impressione, perché ottenni il lavoro. Dovetti mentire un po' sulle mie capacità di factotum. Non ero un tecnico, certo, ma pensai che se la caldaia si fosse spenta, sarei riuscito a riaccenderla. L'accordo era semplice. Una stanza nel seminterrato, due pasti al giorno e qualche spicciolo, ma per me andava bene, era meglio di un albergo. E mi permetteva di non dover più abitare con quel bastardo di Aris. Toula pianse quando me ne andai. L'abbracciai, mentre ad Aris non dissi neppure una parola. Lavorai nella scuola di St Mary per due anni. Il lavoro non era pesante. Conoscevo tutti gli alunni e la maggior parte dei loro padri: Karras, Angelos, Nicodemus, Recevo, Damiano, Carchedi. Vedevo i ragazzi crescere ed evitavo di guardare le suore negli occhi quando mi parlavano, perché non si facessero idee sbagliate. Un paio di volte mi pagai una puttana alla Eastern House, ma di solito mi arrangiavo da solo, con il mio pootso. E cercavo di non pensare che mi stavo masturbando in una chiesa. Nel frattempo, mi sforzai di migliorare. Presi lezioni di inglese a Santa Sofia, la chiesa greca ortodossa sulla Ottava. Comprai un abito di serge blu da Harry Kaufman, un sarto ebreo sulla Settima Strada. Costava undici dollari e settantacinque, ma lui mi diede la possibilità di pagarlo a rate. Ora finalmente non mi sarei più dovuto vergognare presentandomi nella chiesa di Santa Sofia per la messa domenicale. Andare in chiesa mi piaceva. Non per motivi religiosi, no. Certo, porto al collo una croce, ma questo non vuol dire niente. È solo superstizione. Non amo Dio, ma ho paura di lui, così vado in chiesa tanto per stare sicuro. E per guardare le ragazze. Ce n'era una che mi piaceva molto. Poteva avere al massimo sedici anni. Sapevo che di solito si sedeva, con la madre, nel lato della chiesa riservato alle donne. E la domenica mattina mi piazzavo sempre dove potevo vederla bene. Venni a sapere che si chiamava Irene. Ero certo che fosse pura. Vergine, intendo dire. Una ragazza da sposare. Volevo aspettare di avere un po' di soldi da parte, prima di provare a parlarle. Ma non volevo aspettare troppo, per paura che qualcun altro me la portasse via. Una ragazza come quella non sarebbe rimasta sola a lungo. Di giorno lavoravo e andavo in chiesa. Di sera frequentavo i cafeneion
lungo la Navy Yard. Ce n'era uno in particolare dove andavo spesso. Era di proprietà di Angelos, un tipo del mio quartiere. Lì si poteva giocare a carte e a dadi, ma soprattutto si poteva essere se stessi. La clientela era tutta greca. Fu lì che una sera conobbi Nick Stefanos. Quell'incontro fu un altro punto di svolta nella mia vita. Stefanos era un tipo allegro, con una cicatrice sulla guancia. Si vedeva che era un duro e non aveva bisogno di provarlo. Avevo sentito dire che si era procurato la cicatrice mentre faceva la guardia a un camion pieno di liquori distillati clandestinamente, nello stato di New York. A quanto pareva, una pistola gli era esplosa vicino alla faccia. Comunque erano affari suoi, non miei. Quella notte parlammo a lungo. Lui era capo aiuto cameriere in un albergo di lusso tra la Quindicesima e la Penn, ma stava per licenziarsi e aprire un locale suo. Anche il suo amico Costa, un altro spartiati come lui che lavorava lì, si licenziava. Stefanos mi chiese se mi interessava prendere il posto di Costa. Disse che poteva farmi assumere. Lo stipendio era appena superiore a quello che prendevo come custode, ma anche pochi soldi in più facevano comodo. Io volevo fare strada, come tutti. Ringraziai Nick Stefanos e gli chiesi quando avrei potuto cominciare. Iniziai la settimana successiva, appena ebbi trovato la stanza in cui abito ora. Il costo dell'uniforme di aiuto cameriere (pantaloni neri, camicia bianca e un gilè nero corto) mi venne detratto dallo stipendio, perciò per qualche tempo non guadagnai nulla. Alcuni camerieri lasciavano generose mance agli aiuto camerieri, altri no. I tavoli di quelli che non lasciavano nulla andavano sparecchiati lentamente e per ultimi. Imparai in fretta. L'albergo era davvero di lusso e lo era anche il ristorante, all'ultimo piano. Piatti di vera porcellana, cristalli che tintinnavano al minimo tocco e vassoi di argento massiccio. Era un periodo ditficile per tutti, ma a giudicare da come i tavoli si riempivano ogni sera non si sarebbe detto. Pensavo che avrei potuto lavorare lì per un paio d'anni, imparare il mestiere e poi aprire un locale mio, come Stefanos. Lui sì che era uno in gamba. La divisione dei ruoli era la seguente: i camerieri erano tutti americani, mentre gli aiuto camerieri addetti a sparecchiare i tavoli erano greci e filippini. I neri erano confinati in cucina. E fuori dal ristorante lo schema era lo stesso. I bianchi erano in cima alla scala, i greci in mezzo e i neri in fondo. Nessuno parlava molto con quelli di un'altra razza, a meno che non si trattasse di lavoro. Io non ho nulla contro nessuno, neppure contro la gente di colore. Non parlo con loro, e basta. È così che va il mondo.
I camerieri pensavano di essere migliori di noi. Ma ce n'era uno, un giovane americano di nome John Petersen, che era davvero un tipo a posto. Aveva gli occhi castani e portava i capelli un po' lunghi. Ma era lo sguardo quello che ti colpiva: serio, intelligente e, al tempo stesso, gentile. Petersen era diverso dagli altri camerieri, che non muovevano un dito per aiutarti neppure quando non avevano nulla da fare. Lui invece sparecchiava i tavoli al mio posto quando mi vedeva preso fino al collo. Entrava perfino in cucina, quando in sala cominciavano a scarseggiare le posate d'argento. E come ho detto, in cucina c'erano i neri. Ma lui parlava tranquillamente anche con loro, come se fossero amici. Sembrava venire da un posto in cui quel modo di comportarsi era normale. John Petersen era una di quelle persone che si fanno facilmente degli amici. Non c'era nessuno a cui non piacesse. O forse uno c'era, uno solo. Ma ne parlerò dopo. Una volta, dopo il lavoro, John e io andammo a farci una birra in un locale che conosceva lui. Io non mi sentivo tranquillo lì, perché erano tutti americani, ma John mi mise a mio agio e, dopo un paio di birre, non ci pensai più. Mi parlò del lavoro, di quanto poco guadagnassimo io e gli sguatteri e di come questo non fosse giusto. Mi disse che le cose sarebbero cambiate presto, ma non specificò in quale modo. «Io sono contento così» dissi, finendo la birra che avevo davanti. «Ho un lavoro, che altro potrei volere?» «Non vorresti avere un po' più di soldi? E magari un giorno libero, ogni tanto?» «Certo. Ma se mi prendo un giorno libero, quel giorno non guadagno nulla.» «Non deve essere per forza così, amico.» «Sì, certo.» «Sai che cosa significa la forza del numero?» Mi guardai intorno, in cerca del barista, perché non avevo idea di che cosa stesse dicendo John e non sapevo che cosa rispondere. Lui mi passò un braccio intorno alle spalle. «Sto organizzando una riunione» annunciò. «Spero che alcuni aiuto camerieri e sguatteri riescano a venire. Tu ci verresti?» «Qual è l'argomento della riunione?» «Parleremo dei cambiamenti di cui ti dicevo prima. E insieme potremmo preparare un piano.» «Io non voglio andare a nessuna riunione» dissi. John avvicinò la faccia alla mia. «Non capisci. I lavoratori sono sfrutta-
ti.» «Io lavoro e vengo pagato» ribattei, stringendomi nelle spalle. «Questo è tutto quello che so. Del resto non me ne frega niente.» Mi scostai da lui, ma sorridendo. Non intendevo unirmi a nessun gruppo, ma volevo fargli capire che eravamo ancora amici. «Dai, John, beviamoci sopra.» Avevo bisogno di quel lavoro, ma mi dispiaceva aver deluso Petersen. Si vedeva che quella riunione era importante per lui. John mi piaceva, mi faceva sentire un uomo. Ma c'era anche un'altra persona che aveva su di me lo stesso effetto: Laura, una bionda platinata come Jean Harlow, che accompagnava i clienti ai tavoli e a volte preparava anche il conto. Indossava vestiti troppo attillati e, nel giro di un paio d'anni e con dieci chili di troppo, nessuno l'avrebbe più guardata. Non era bella, Laura, ma aveva un culo che suscitava commozione in un uomo e un paio di tette davvero enormi. Avevo notato che mi guardava, fin dalla mia prima sera di lavoro al ristorante. La terza sera mi disse qualcosa a proposito del mio petto ampio, mentre le passavo accanto. Le sorrisi, ma non mi fermai, perché stavo portando un vassoio pesante. Quando mi voltai lei mi strizzò l'occhio. Una vera puttana. Capii subito che l'avrei scopata. Alla fine del turno le chiesi se le sarebbe piaciuto venire al cinema con me, qualche volta. «Domani sono libera» rispose. Io mi comportai come se fosse una sorpresa e un onore. Poiché lavoravo tutte le sere, andammo a una matinée. Prendemmo il tram fino all'Earle, sulla Tredicesima Strada. Io indossavo il mio abito blu e un paio di scarpe alte con i bottoni. Attiravamo molti sguardi, lungo la strada: una bionda e un greco scuro e baffuto. Era evidente che non era passato molto tempo da quando ero sceso dalla nave. L'Earle presentava sempre un piccolo show, prima del film. Un tizio di nome William Demarest e alcune ballerine, che secondo Laura erano simili alle Rockettes. Non sapendo neppure di che cosa stesse parlando, mi limitai a guardare le loro gambe. Dopo una rassegna dei film in programma e un breve notiziario, iniziò lo spettacolo: La danza delle luci. I ballerini mi sembravano tutti succhiacazzi. Mi piacevano di più i western, ma non importava. Quindici centesimi a testa. Più economico che portare Laura in un locale. Dopo, andammo a casa sua. Un appartamento in una villetta a schiera dalle parti della H. Io andai in bagno e notai un flacone di schiuma da barba Bernards e altri accessori da uomo, ma non feci domande. Lei era in
camera da letto. Aveva versato un bicchiere di whisky di segale per entrambi e aveva chiuso le tende, così sembrava notte. Alla radio suonavano quella che pareva musica da gente di colore. Mi chiese se volevo ballare. Io bevvi in una sorsata tutto il whisky nel bicchiere e attrassi Laura a me. Ci muovevamo lentamente, malgrado il ritmo della musica fosse vivace. «Bill?» disse lei, alzando lo sguardo. Vicino a un occhio aveva una macchia nera di trucco disfatto. «Si?» «Qual è il tuo nome nel posto da dove vieni?» «Vasili.» La baciai sulla bocca. Era calda. Lei mi morse il labbro, facendo uscire una goccia di sangue. La strinsi a me per farle sentire la mia virilità. «Cristo, Vasilly!» esclamò. «Ce l'hai come un cavallo, o sbaglio?» Io mi limitai a sorridere. Lei fece un passo indietro, si sfilò il vestito e le mutandine, poi si slacciò il reggiseno. Il tutto molto lentamente. «Ella» dissi. «Che cosa vuol dire?» «Sbrigati» risposi, accompagnando le parole con un gesto della mano. Laura rise. Si tolse il reggiseno, liberando le tette. Erano proprio come le avevo immaginate. Poi, mi si avvicinò e mi slacciò la cintura, con movimenti goffi. Il suo respiro era caldo sul mio viso. Dio, se ne avevo voglia. La feci sedere sul letto, mi misi una delle sue gambe sulla spalla e cominciai a scoparla. Una volta avevo sentito una donna che partoriva, giù al villaggio. Laura emetteva suoni molto simili. Un filo di bava le colò da un angolo della bocca, mentre glielo sbattevo dentro, un colpo dopo l'altro. Gli scossoni del letto fecero cadere un po' di intonaco dal muro, quel giorno. Dopo esserle venuto dentro, scesi dal letto. Non le sussurrai parole carine. Lei aveva avuto quello che voleva e io pure. Laura si accese una sigaretta e rimase a guardarmi mentre mi vestivo. Tutta la stanza odorava di fica. Lei aveva smesso di sembrarmi attraente. Non vedevo l'ora di uscire e respirare un po' d'aria fresca. Non ci vedemmo più, fuori dal lavoro. Lei rimase al ristorante solo un altro paio di settimane, poi sparì. Probabilmente l'uomo della schiuma da barba le aveva detto che era arrivato il momento di mollare. Per un po' non accadde nulla e io continuai a lavorare a pieno ritmo. John era sempre gentile con me, ma non parlò più di riunioni. Io dormivo fino a tardi e la sera apparecchiavo e sparecchiavo i tavoli. La vita non era
né buona, né cattiva. Era normale. Poi arrivò quel bastardo di Wesley Schmidt e tutto cambiò. Schmidt era un giovane alto con i baffi sottili, le spalle larghe, le mani grandi e gli occhi blu come l'acqua sotto il ghiaccio. Portava i capelli pettinati all'indietro con la brillantina. Aveva denti grandi e dritti e sorrideva continuamente, ma il suo non era un sorriso rassicurante. Fu assunto come cameriere, anche se non era affatto bravo. Quando c'era molta gente si incasinava subito. Portava il cibo ai tavoli sbagliati, rovesciava le bevande. Sembrava che non avesse mai fatto prima quel lavoro. Non piaceva a nessuno, ma doveva essere uno di quei tipi che non se ne rendono conto, o a cui non importa. Rideva, faceva battute e dava pacche sulla schiena a noi aiuto camerieri, come se fossimo tutti amici suoi. Quando si incasinava trattava gli sguatteri come cani, alzando la voce se i piatti non arrivavano in fretta. Più tardi, poi, cercava di essere gentile con loro. Una volta si mise a inveire contro Raymond, il capocuoco. Lo chiamò "sporco negro". Quando la sala da pranzo si fu svuotata, Schmidt entrò in cucina e disse a Raymond che non era sua intenzione insultarlo, gli sorrise in quel suo modo strano e gli diede un buffetto sul braccio. Raymond annuì lentamente, senza dire nulla. «Bisogna trattarli così» mi disse Schmidt, dopo. «Sgridarli e poi lisciarli con gentilezza. È così che imparano. Sono come bambini, no, Bill?» Intendeva quelli di colore, immagino. Dal modo in cui mi parlava, lentamente, come se fossi un bambino, capii che per lui ero di colore anch'io. A fine serata, i camerieri si sedevano sempre in sala da pranzo e mangiavano uno stufato o qualcos'altro preparato dai cuochi. Noi aiuto camerieri li servivamo. Stavo portando fuori un piatto per uno di loro, ma avevo dimenticato una cosa in cucina e così tornai a prenderla. Appena entrai, vidi Raymond che sputava in un piatto di stufato. Gli altri uomini di colore stavano a guardare. Tutti si voltarono verso di me, in silenzio. Immagino che aspettassero di vedere che cosa avrei fatto. «Per chi è quello?» chiesi. «Per Schmidt» rispose Raymond. Mi avvicinai e sputai a mia volta un grumo di catarro in quel piatto. Raymond prese un cucchiaio e mescolò bene. «Sarà meglio che glielo porti,» dissi «prima che si raffreddi.» «Manca la guarnizione» mi fermò Raymond, disponendo sul piatto una foglia di prezzemolo in modo da abbellire tutto l'insieme. Io portai fuori la
pietanza e la servii a Schmidt. Poi, rimasi a osservarlo mentre addentava il primo boccone e annuiva con approvazione. Nessuno in cucina parlò più dell'episodio. Un paio di sere dopo mi ubriacai con John Petersen e gli raccontai quello che avevo fatto. Pensavo che sarebbe scoppiato in una bella risata, invece divenne molto serio. Mi mise una mano sul braccio, come faceva sempre quando voleva che ascoltassi con attenzione. «Sta' lontano da Schmidt» mi avvertì. «Ah» dissi, con un gesto vago. «Se mi crea problemi, gli mollo un paio di cazzotti in faccia e fine del discorso.» La birra mi rendeva coraggioso. «Sta' lontano da lui» ripeté John. «Mi stai dicendo che devo avere paura?» «Ti sto dicendo che Schmidt non è un vero cameriere.» «Quello l'avevo capito. È il peggiore che abbia mai visto. Forse dovresti convocare una delle tue riunioni e vedere se riesci a farlo licenziare.» «Non parlare mai di quelle riunioni con nessuno, capito?» John mi strinse forte il braccio. Cercai di liberarmi, ma lui mantenne la presa. «Bill, sai che cos'è un Pinkerton?» «Un che?» «Lascia perdere. Ricorda: fatti gli affari tuoi e non parlare mai di quelle riunioni con nessuno. Hai capito?» Dovetti distogliere lo sguardo. «Certo, va bene.» «Perfetto, amico» disse John, lasciandomi andare il braccio. «Beviamoci un'altra birra.» Una settimana dopo, John Petersen non si presentò al lavoro. E una settimana dopo ancora la polizia trovò il suo cadavere che galleggiava nel Potomac. Lo lessi sul «Tribune». Solo un trafiletto, nient'altro. Alcuni camerieri dissero che forse si era ubriacato ed era caduto in acqua. Io non sapevo che cosa pensare. Quando la notizia si diffuse, tutti al lavoro rimasero in silenzio. Neppure quel bastardo di Wesley Schmidt azzardò una battuta. Credo che tutti pensassimo a John, ciascuno per conto proprio. Io avevo voglia di vomitare. L'idea di John morto nel fiume mi dava la nausea. Lui non aveva mai parlato della sua famiglia e nessuno sapeva niente del funerale. Qualche giorno dopo, sembrò che tutti nel ristorante lo avessero dimenticato. Ma io non potevo dimenticare. Una notte andai a Chinatown. Non era lontano dal posto dove abito. C'era un ragazzo che frequentava la scuola di St Mary, Billy Nicodemus, il cui padre lavorava all'obitorio. Lavava i tavoli delle autopsie e faceva le
pulizie. Era noto come un bevitore incallito, forse a causa di quello che vedeva ogni giorno, o forse solo perché gli piaceva bere. Io sapevo quali posti frequentava. Lo trovai in un ristorante sconosciuto, nella zona Hip Sing di Chinatown. Era in un séparé da solo e beveva qualcosa da una tazza. Attraversai la sala, immersa nel fumo delle sigarette. Passai accanto alle puttane, ai gangster cinesi magrissimi, con abiti scuri troppo grandi per loro, e ai poliziotti che prendevano soldi dai cinesi. Mi avvicinai a Nicodemus e mi presentai. Dissi che conoscevo suo figlio e che era un bravo ragazzo. Nicodemus mi fece segno di sedermi. Un cameriere mi portò una tazza vuota. Mi versai del gin dalla teiera che era sul tavolo. Alzammo le tazze per un brindisi e bevemmo. Nicodemus aveva i capelli neri lisci e imbrillantinati e un grosso neo peloso sulla guancia. Parlava meglio di me. Chiacchierammo per qualche minuto di cose senza importanza, poi gli feci qualche domanda su John. Il gin gli aveva sciolto la lingua. «Sì, me lo ricordo» disse, dopo averci pensato su qualche secondo. «Era un tuo amico?» «Sì.» «Aveva un proiettile nella nuca. Calibro 22.» Annuii, facendo ruotare il gin nella tazza. «Il "Tribune" non parlava di proiettili.» «A volte fanno così. La polizia insabbia la notizia, in attesa di trovare il colpevole. La cosa sicura è che quel ragazzo non è annegato. È stato ucciso e poi gettato in acqua.» «Tu l'hai visto?» chiesi. Lui si strinse nelle spalle. «Certo.» «Che aspetto aveva?» «Vuoi davvero saperlo?» «Sì.» «Era tutto grigio e gonfio come un pallone. Succede sempre a quelli che restano molto tempo in acqua.» «E gli occhi?» «Erano aperti. Supplichevoli.» «Eh?» «Era come se volessero dire: "No, per favore".» Avevo bisogno di bere. Mi versai dell'altro gin. «Ti dice niente il nome Pinkerton?»
«Certo» rispose Nicodemus. «Sono dei detective.» «Come la polizia?» «No.» «E come, allora?» «Si fanno assumere in qualche posto e fingono di essere come i loro colleghi. E intanto scoprono chi ruba. O chi sta cercando di creare problemi al proprietario. Per esempio, chi organizza gli scioperi.» «Vuoi dire quelli che vogliono radunare i lavoratori e cambiare il modo in cui vengono trattati?» «Esatto. Quelli che organizzano riunioni segrete e cose simili. O che vogliono costituire un sindacato. I Pinkerton cercano di individuarli.» Bevemmo il resto del gin. Parlammo del figlio di Nicodemus, poi di Schmeling e Baer e dell'incontro di lotta libera che ci sarebbe stato presto tra Londos e George Zaharias, al Griffith Stadium. A un certo punto mi alzai, strinsi la mano a Nicodemus e lo ringraziai di quella conversazione. «Efcharisto, patrioti.» «Yasou, Vasili.» Tornai alla mia stanza e bevvi una birra di cui non avevo bisogno, perché ero già ubriaco e confuso. Continuavo a udire la voce di John, che mi chiamava "amico". E vedevo i suoi occhi dire: «No, per favore». Continuavo a pensare che sarei dovuto andare a quella riunione così importante per lui. Lo avevo deluso. Mentre pensavo, affilavo su una pietra la lama del mio coltello italiano. La sera dopo, cioè ieri sera, stavo servendo la cena a Schmidt, dopo la chiusura. Era seduto da solo, come sempre. Gli misi davanti il piatto e dissi: «Hai tempo per due chiacchiere?». «Parla pure» rispose lui, infilando la forchetta nello stutato e mescolandolo. «Voglio diventare un Pinkerton» dissi. Schmidt smise di mescolare lo stufato e mi fissò, sorridendo con i suoi denti bianchi, ma senza calore. «È una bella cosa, ma perché lo dici a me?» «Voglio essere un Pinkerton, proprio come te.» Schmidt scostò il piatto e si guardò intorno, per assicurarsi che nessuno potesse sentirci. Studiò il mio viso. Ero madido di sudore. Lo sentivo gocciolare lungo la schiena. «Sembri sconvolto» disse Schmidt, in tono soave, musicale. «Hai tutta l'aria di aver bisogno di un amico.» «Voglio solo parlare.»
«Va bene. Ti andrebbe una birra?» «Certo, con piacere.» «Finisco di mangiare, poi scendo a prendere la macchina. Ci vediamo nel vicolo sul retro. Non dirlo a nessuno, perché se viene qualcun altro non potremo parlare in privato.» «Non lo dirò a nessuno. Faremo solo un giretto in macchina, eh? Sono troppo sporco per andare in un locale.» «Perfetto» disse lui. «Solo un giretto in macchina.» Quando scesi nel vicolo dove lui aveva parcheggiato, nessuno mi vide salire sulla sua macchina. Era una Dodge blu coupé del '31, con i cerchioni in metallo, un sedile posteriore aggiuntivo ribaltabile e il portabagagli. Un'auto da cinquecento dollari, come minimo. «Bella» dissi, salendo accanto a lui. I coprisedili di stoffa erano fatti a mano. «Mi piacciono le cose belle» dichiarò Schmidt. Nonostante il caldo, indossava la giacca, sotto la quale si vedeva un rigonfiamento. Capii che aveva una pistola. Ci fermammo da Colvin, sulla Quattordicesima. Schmidt entrò e tornò con alcune bottiglie di birra. Schlitzes. Non era certo con la sua paga da cameriere che poteva permettersi quella macchina e le birre più costose. Aprì due bottiglie e me ne passò una. Il vetro era gelato. La birra era buona. Girammo in macchina per un po', arrivando fino a Hanes Point. Schmidt parcheggiò la Dodge di fronte al canale. Sulla riva opposta, le luci dei venditori di pesce di Maine Avenue gettavano riflessi colorati sull'acqua. Bevemmo un'altra birra. Schmidt mi offrì una delle sue sigarette e fumammo. Lui parlò dei Senator e degli Yankee, di come Baer aveva messo fuori combattimento Schmeling con un destro alla decima ripresa. Si capiva che non aveva ancora voglia di affrontare l'argomento serio. Aspettava che la birra mi facesse effetto. «Fa un caldo pazzesco» dissi. «Facciamo un giro, così almeno entra un po' d'aria.» Lui mise in moto. «Dove vuoi andare?» «Ti porto in un bordello. È uno dei migliori della città, ma è un segreto.» Schmidt mi fissò e rise. Come si ride alle battute di un clown. Gli spiegai la strada per arrivarci. Ci allontanammo da quella zona di parchi e monumenti per avvicinarci ai luoghi dove vive la gente. Attraversammo un piccolo tunnel ed entrammo nella Southwest. Lì i lampioni erano quasi tut-
ti rotti, le case erano fatiscenti e i vicoli erano fiancheggiati da baracche con il bucato steso fuori. Era tardi, molto dopo mezzanotte, e non c'era quasi nessuno in giro. A parte qualche nero. Eravamo a Bloodfield. «Fermati qui» dissi, indicando un punto non illuminato. «Voglio mostrarti il posto di cui ti parlavo.» Schmidt accostò e spense il motore. Dall'altra parte della strada c'erano alcune case. Solo una aveva le luci accese e dalle finestre usciva una musica ritmata, simile a quella che avevo sentito nella stanza di Laura. «È proprio lì» dissi, indicando la casa dalle luci accese. Naturalmente mentivo. Non sapevo chi abitasse in quel posto e non c'ero mai stato prima di allora. Schmidt si voltò per guardare la casa. Io estrassi dalla tasca il coltello e lo tenni appoggiato contro la gamba destra. Quando si girò di nuovo verso di me, Schmidt non sorrideva più. Doveva aver capito che eravamo a Bloodfield ed era spaventato. «Perché mi hai portato in questo quartiere di negri?» disse. «Per mostrarmi un bordello?» «Pensavo che ti sarebbe piaciuto.» «Ho l'aria di un uomo disposto a pagare per scoparsi una negra, eh? Tu non sai nulla di me.» Ora stava mostrando il suo vero carattere. Era nervoso come un gatto. E lo ero anch'io. Avevo la camicia macchiata di sudore e sentivo la mia puzza dentro l'auto. «So un sacco di cose» dissi. «Davvero? Che cosa?» «Bella macchina, bei vestiti, birra costosa... Come puoi permetterti tutto questo, eh?» «Me lo guadagno.» «Lavorando per i Pinkerton?» Schmidt scosse lentamente la testa. Guardò fuori dal finestrino, prendendo tempo per decidere il da farsi. Premetti il bottone sul manico di madreperla del mio coltello e feci scattare la lama, quasi senza rumore. Il sudore mi colava lungo il collo. Guardai in giro. Per strada non c'era nessuno. Schmidt voltò di nuovo la testa verso di me. Aveva il braccio destro teso in avanti e stringeva il volante con la mano. «Che cosa vuoi?» chiese. «Voglio solo sapere che cosa è accaduto a John.» Schmidt sorrise. Tutti quei denti bianchi. Me lo immaginai con la bocca aperta, le labbra tirate, i
denti in mostra. Steso su un tavolo dell'obitorio. «Ho sentito dire che è annegato» disse Schmidt. «Davvero?» «Già. Probabilmente non sapeva nuotare.» «È difficile nuotare, se hai un proiettile nella nuca.» Il sorriso di Schmidt si spense. «Tu sai nuotare, Bill?» Con un gesto rapidissimo gli conficcai il coltello sotto l'ascella, spingendovelo fino al manico. Schmidt emise un grido strozzato. Girai la lama e il sangue cominciò a uscire come se qualcuno lo stesse versando da una caraffa. Era caldo sulle mie mani. Poi estrassi il coltello e mentre Schmidt scalciava contro il pavimento dell'auto, lo pugnalai altre due volte sul petto. Probabilmente lo colpii al cuore, perché all'improvviso l'auto si riempì di sangue. I sedili erano diventati scivolosi. Schmidt smise di muoversi. Aveva gli occhi aperti ed era morto. Non mi impressionai, né mi feci prendere dal panico. Aprii la sua giacca e vidi il revolver d'acciaio con il calcio di legno. Era di piccolo calibro. Non lo toccai. Gli presi il portafoglio dai pantaloni, ne estrassi i soldi, lo ripulii con un lembo della camicia e lo gettai per terra. Presi le bottiglie di birra vuote e le misi nella borsa insieme a quelle ancora piene. Scesi dall'auto con la borsa in mano. Mi infilai le banconote in una scarpa, chiusi il coltello e mi avviai a piedi lungo la strada. Non incontrai nessuno per un paio di isolati. Arrivai allo scarico di una fogna e vi gettai dentro la borsa. All'isolato successivo ne trovai un altro e mi liberai della camicia insanguinata, rimanendo in canottiera. I pantaloni erano neri, quindi il sangue non si notava. Continuai a camminare. Qualcuno rise in un vicolo. Non mi voltai. A un tratto mi trovai davanti un gruppo di neri che bevevano birra e fumavano seduti sui gradini di una casa. Non avevo intenzione di scappare. Dovevo oltrepassarli, se volevo tornare a casa. Smisero di parlare e mi fissarono con occhi duri. Fu allora che riconobbi Raymond, il cuoco del ristorante. Incrociammo gli sguardi, ma nessuno dei due disse una parola. Non ci scambiammo neppure un sorriso, né un cenno del capo. Uno dei neri fece per alzarsi e venire verso di me, ma Raymond lo fermò posandogli una mano sul petto. Tirai dritto. Camminai per almeno due ore. Sulla Northwest gettai il coltello in un altro scarico fognario. Quando sentii il tonfo iniziai a piangere. Non perché avevo ucciso Schmidt, di lui non me ne fregava nulla. Piangevo perché quel coltello me lo aveva dato mio padre e ora non l'avevo più. Sapevo che sarei rimasto per sempre in America e non sarei mai tornato in Grecia. Non avrei mai rivisto la mia casa e i miei genitori.
Quando rientrai a casa, mi lavai le mani con molta cura. Accesi una Fatima, aprii una bottiglia di Abner Drury e mi sedetti al tavolo. Ed è qui che mi trovo ora. Forse mi prenderanno, o forse no. Troveranno Schmidt in quel quartiere e penseranno che un nero lo abbia ucciso per denaro. La polizia metterà a soqquadro tutta Bloodfield. Se Raymond dirà di avermi visto, mi daranno la sedia elettrica. Se non parlerà, rimarrò libero. In ogni caso, adesso non posso fare nulla. Continuerò ad andare al lavoro, accumulerò esperienza e un giorno aprirò un locale mio, come Nick Stefanos. Forse, se riesco a mettere qualcosa da parte, andrò in chiesa e parlerò a quella ragazza, Irene. Le chiederò se vuole diventare mia moglie. Non aspetterò troppo a lungo. Lei è pura. La tengo d'occhio già da un po'. Scott Phillips COLPO DI GRAZIA (Da Measures of Poison) 1. Carrozzeria Dopo aver incassato l'ultimo assegno dell'impiego estivo, passai da casa per farmi una doccia e cambiarmi, quindi andai al Royal Crown Club sulla East Douglas. Rimasi per un po' a chiacchierare con il vecchio Gleason, lo storico barista del locale, sforzandomi invano di ignorare il calore appiccicoso e opprimente di quell'estate nel Kansas. Ero intento a osservare con un interesse morboso una goccia di sudore che scendeva dalla tempia calva di Gleason verso la sua guancia cascante, quando una donna entrò nel locale e venne a sedersi al bancone. La sua presunta indifferenza fu smentita dal fatto che piazzò il suo sedere ben carrozzato a solo uno sgabello di distanza da me. Nel bar non c'era nessuno, a parte me e Gleason, e se lei non avesse voluto compagnia si sarebbe sistemata a un tavolo. Gleason, il più vecchio amico di mio padre, era vedovo da oltre vent'anni e si mise a fissare senza vergogna le tette della donna. Lei fece finta di niente. Gleason, con le guance cascanti, la bocca bavosa, lo strano odore di polvere e i lobi delle orecchie che gli arrivavano quasi al mento, era abbastanza vecchio da aver servito nei bar prima che il Kansas mettesse fuorilegge gli alcolici. E il Kansas lo aveva fatto con trent'anni di anticipo ri-
spetto agli altri stati. Qui l'alcol era ancora una merce di contrabbando, malgrado l'approvazione del Ventesimo Emendamento, ma era possibile procurarselo senza troppa difficoltà, se sapevi dove cercarlo. La donna spostò il sedere sullo sgabello e si aggiustò la scollatura del leggero abito estivo, dando una rapida sistemata alle tette a beneficio del vecchio Gleason. Dimostrava circa trentacinque anni, aveva i capelli neri permanentati e un po' di ciccia extra intorno alla vita e sotto gli occhi truccati. Nulla di tutto ciò mi disturbava, anzi. Per tutta l'estate mi ero chiesto come sarebbe stato scopare una donna di quell'età. Intendo dire una vera donna, non una di quelle che aprono le gambe e aspettano che tu abbia finito, così possono tornarsene a leggere riviste o a mangiare cioccolatini ascoltando un radiodramma. Le ragazze che avevo scopato finora, da quando avevo compiuto quattordici anni, erano di quel tipo. Facevano sesso in cambio di status sociale, per il gusto di figurare come le ragazze del quarterback della scuola o del presidente del consiglio studentesco. Ma non potevo seguire i miei impulsi, malgrado le molte opportunità che mi offriva il mio lavoro di venditore porta a porta. Prima di tutto, ero un professionista con un codice etico. In secondo luogo, se avessi violato tale codice e fossi stato scoperto, avrei potuto perdere il lavoro, anche se si trattava solo di un impiego estivo. In terzo luogo, erano tempi duri e molte delle offerte che avevo ricevuto nelle ultime tre estati erano una sorta di baratto: un pompino per una caffettiera nuova, una scopata per una padella in ferro battuto. Una donna particolarmente sfacciata, madre di cinque figli, mi aveva proposto tre scopate alla settimana per tutta l'estate, in cambio di un set completo di stoviglie d'acciaio. Una specie di pagamento a rate carnale che mi avrebbe mandato in rovina. Se non avessi avuto una mia compagna di scuola, con cui scaricare la pressione fisica un paio di volte alla settimana, forse mi sarei lasciato tentare. Adesso, però, non stavo lavorando e la donna alla mia destra non era una cliente. Sulla sua permanente appena fatta e sul suo profumo penetrante aleggiava l'odore dei drink che la signora doveva aver bevuto prima di entrare da Gleason e calcolai che avrei potuto scoprire quello che volevo sapere al prezzo di un altro paio di bicchieri. Il mio portafoglio conteneva una piccola fortuna, trentasei dollari, e non appena lei ebbe finito il cocktail che aveva ordinato, tirai fuori una banconota da due e feci un cenno a Gleason.
«Un altro giro per la signora» dissi e lei si voltò sullo sgabello a fissarmi, accavallando le lunghe gambe. Il leggero vestito estivo bianco e rosso era abbastanza corto da rivelare una certa mollezza di cosce che trovai attraente. «Che gentile» disse, con una "g" molto morbida. «È un piacere» replicai, sollevando il mio bicchiere. «Wayne Ogden.» «Mildred Halliburton. Piacere di conoscerti, Dwaine.» Si spostò sullo sgabello accanto al mio e, quando la sua coscia toccò il mio ginocchio, non la allontanò. «Mi chiamo Wayne.» Gleason le servì il cocktail, con gli occhi azzurri fissi sui suoi capezzoli. Lei rise. «Oh, scusa, Wayne. E di che cosa ti occupi?» «Faccio il venditore per la Lanham Company.» Almeno, quello era il mio lavoro fino a due giorni prima. Non credevo fosse il caso di dirle che la settimana successiva avrei iniziato il mio ultimo anno alle superiori. «Ah. Vendi pentole e padelle porta a porta, allora?» «Stoviglie e utensili da cucina.» «Interessante» commentò lei, con la voce impastata. «Io adopero molti utensili da cucina.» Mi preparai all'inevitabile offerta di un baratto, ma la donna mi spiazzò. «Comunque, ho già tutto quello che mi serve, perciò non cercare di vendermi nulla» disse. Rise di nuovo e cominciai a pensare che sarebbe bastato quell'unico drink a procurarmi il biglietto d'ingresso nelle sue mutande. «Sono fuori servizio, in questo momento» feci presente. Lei vuotò il bicchiere in un colpo solo, poi si mise una mano sul seno. «Oh.» Rimase un attimo con gli occhi spalancati, poi rise di nuovo. «Credo che questi cocktail stiano cominciando a farmi effetto.» Tracannai il mio come aveva fatto lei e decisi di andare dritto al sodo. Se l'avessi lasciata bere ancora, ci sarebbe stato poco da divertirsi. «Perché non vieni con me al Miller?» dissi. «Prendo una doppia e ce la spassiamo un po'.» Lei posò la mano sinistra sul mio ginocchio e per la prima volta notai che portava la fede. «Sei molto dolce, caro» disse e io mi preparai a un rifiuto motivato dalla differenza d'età tra noi. Invece, lei confermò il mio sospetto che le transazioni sessuali tra adulti fossero molto meno complicate di quelle tra ragazzi della mia età. «Ma io ho un'idea migliore.» Abbassò la voce fino a un sussurro roco. «Perché non andiamo a spassarcela a casa mia?»
Intascai il resto, lasciando una bella mancia per Gleason e aiutai la donna a scendere dallo sgabello. Mentre ci dirigevamo verso la porta, Gleason mi rivolse un cenno di approvazione, con un'aria di vago rimpianto. Attraversammo la strada quasi di corsa e lei rise vedendo la mia Hudson Super Six Phaeton del 1916. «Prendiamo la tua, allora?» chiesi, cercando di nascondere la mia irritazione. Quella macchina mi era costata l'incasso di un mese di lavoro, l'anno prima, e avevo passato un'infinità di tempo a migliorarla dal punto di vista meccanico ed estetico. Ma per alcune persone una macchina vecchia di vent'anni era spazzatura, indipendentemente da ogni altra considerazione. «Sono venuta in taxi» disse lei. «Perciò va bene la tua. Abito a Riverside, sulla Woodrow, dalle parti del parco.» L'aria era appiccicosa e, malgrado la doccia, la camicia pulita mi si era già incollata addosso. Notai con piacere che la stessa cosa accadeva anche a Mildred e l'abito di cotone che le aderiva alla pelle faceva risaltare la pienezza dei seni. Quando abbassai la capote la situazione migliorò sensibilmente e lei chiuse gli occhi con un sospiro di piacere, godendosi il vento. Attraversammo il canale. Sopra di noi ronzava un aereo e, come facevo sempre, alzai lo sguardo per identificarlo. «Un Collins Airmaster nuovo di zecca» sentenziai. «Diretto al campo di atterraggio della Collins.» Lei spalancò gli occhi, guardandomi di traverso. «Nientedimeno» disse. «Un Airmaster nuovo di zecca.» Restai impassibile, anche se avrei voluto cancellarle quel sorrisetto beffardo dalla bocca con un bel ceffone. Non parlammo più, finché non arrivammo sulla Woodrow, dove lei mi indicò la casa. 2. Quello che potevi ottenere in cambio di un drink, a quei tempi Era un edificio a due piani in mattoni rossi, vicino all'angolo con la Porter, dove abitavano i genitori della mia ragazza. Magari lei li conosceva. Cominciai a preoccuparmi che qualcuno ci vedesse entrare insieme in casa sua alle cinque del pomeriggio. Misi la mia troppo identificabile Super Six in garage e, mentre aiutavo Mildred a scendere, mi venne in mente che for-
se c'era anche qualcun altro che aveva il diritto di parcheggiare la macchina in quel garage. «Non c'è pericolo che arrivi tuo marito, vero?» chiesi. «No» rispose lei. «Non sono così ubriaca. Floyd e i ragazzi sono partiti per una vacanza in campeggio alle cinque di stamattina. Hai mai sentito parlare di un posto chiamato "Il giardino degli dèi"? È in Colorado.» Entrò dall'ingresso principale, ignorando il mio suggerimento di servirci di quello sul retro. Faticò a trovare la chiave e poi a infilarla nella serratura. «Ne ho sentito parlare» dissi. «Come mai non sei andata con loro?» Lei rise. Aveva una bella risata melodiosa, ma stavolta era un po' fuori controllo. «Sono rimasta per organizzare la fiera parrocchiale per il dannato inizio dell'anno scolastico. Faccio parte del... del... comitato direttivo.» Ormai era quasi in preda a una crisi isterica. Si appoggiò allo stipite e poi entrò in casa barcollando. La seguii, chiudendomi la porta alle spalle. Lei si lasciò cadere sul divano e io accesi una lampada. Vidi una radio in un angolo e feci per andare ad accenderla. «Che cosa fai?» chiese lei dal divano, senza fiato. «Pensavo che sarebbe carino avere un po' di musica.» «Perché? Non siamo mica qui per ballare.» Scoppiò a ridere di nuovo e io mi sedetti sul divano accanto a lei. «Comitato direttivo. Col cavolo! Sono rimasta a casa per due settimane di sbronze e scopate.» Finalmente smise di ridere. «Quindi, datti da fare e scopami, Wayne.» Cominciammo con una sveltina sul divano, io con i pantaloni abbassati, lei con il vestito alzato. Poi mi condusse al piano di sopra. Benché avessimo finito da meno di due minuti, le guardai il culo con desiderio, mentre saliva davanti a me. Una calza le era scesa sotto il ginocchio e la vista delle sue gambe lunghe, con i muscoli che si rilassavano e si contraevano a ogni passo sotto un piacevole strato di ciccia, fu sufficiente a darmi la carica per un nuovo round. La stanza era luminosa e non troppo calda, poiché due finestre, entrambe aperte, creavano corrente d'aria. La carta da parati era verde scuro e in un vaso dozzinale ordinato per posta c'erano fiori freschi. «Stavolta cerca di essere meno veloce» disse, buttandosi sul letto. «Voglio godermela di più.» Non lo presi come un insulto. Era vero che la scopata di prima era stata rapida, ma lei aveva fatto abbastanza rumore da dare a tutto il vicinato l'impressione che se la stesse godendo abbastanza. La spogliai lentamente e, guardandola nella luce dorata che filtrava dalle persiane, pensai che fosse la donna più bella che avessi mai visto nuda. La sconvolsi, posando le labbra sulle sue parti intime, ma lei aveva fatto la
stessa cosa con me, prima, sul divano, e comunque era già così calda e pronta che non doveva fregargliene poi molto se fosse una pratica ortodossa o meno. Dopo essermi assicurato che avesse avuto la sua parte di piacere, la penetrai di nuovo, cavalcandola con movimenti lenti, ma sicuri fino al punto in cui entrambi cominciammo a gemere e ad ansimare. Appena prima dell'orgasmo, lei urlò: «Rudy, prendimi. Rudy, prendimi. Così, Rudy, così...». Poi i suoi gemiti divennero incomprensibili e animaleschi, quindi scesero di intensità fino a smettere del tutto. Mi staccai da lei e rotolai pancia all'aria sul letto. Rimanemmo l'uno accanto all'altra per un po', a goderci le carezze dell'aria sulla pelle e, quando mi sembrò che fosse di nuovo il momento di parlare, le chiesi chi fosse Rudy. Lei indicò il cassettone, sopra il quale, tra molte foto di famiglia incorniciate, ce n'era una di Rodolfo Valentino, firmata. «È stato un gran peccato che sia morto prima che io avessi la possibilità di darmi a lui» disse. «Avrei potuto farlo felice, molto più di quella puttana russa.» Aveva gli occhi umidi di lacrime, eppure non sembrava più così ubriaca. Avevo sentito dire che Rudy era frodo, ma pensai fosse meglio non dirglielo. Tanto era morto da dieci anni. Mi alzai dal letto, per darmi una lavata e uscire. «Dove credi di andare?» «Pensavo di lasciarti sola a goderti un po' di quiete.» «Al diavolo la quiete. Tu e io abbiamo ancora un po' di scopate in sospeso.» Evidentemente feci una smorfia buffa, perché lei scoppiò a ridere. «Che senso ha portarsi a letto un ragazzo giovane, se poi non si approfitta della sua superiore potenza?» Cazzo. Comunque, l'idea non mi dispiaceva. «Okay.» «E ci sono parecchie cose che non abbiamo ancora fatto. Quel giochetto con la lingua mi è piaciuto parecchio. Floyd non metterebbe mai la sua bocca da quelle parti.» Si alzò sulle ginocchia, chinandosi in avanti. «L'hai mai messo nel culo a una donna, Wayne?» Feci cenno di sì con la testa. Una ragazza molto religiosa, al secondo anno, voleva farlo solo così, perché era convinta che la vagina fosse riservata al matrimonio e servisse unicamente per concepire futuri soldati di Cristo. Ma era passato un anno e mezzo dall'ultima volta che l'avevo fatto e adesso ne avevo voglia. «Bene, puoi farlo anche con me, se vuoi» disse lei. «Credimi, ci sono
davvero parecchie cose che non abbiamo ancora sperimentato.» Si sedette sull'orlo del letto e con aria pensosa si mise le mani sotto i seni, come soppesandoli. «L'ultima volta che Floyd ha portato i ragazzi in campeggio è stato più di un anno fa. E io ho una voglia di scopare che non puoi neppure immaginare.» «Floyd non ti scopa?» «Quello che fa lui, una volta alla settimana, per la durata di novanta secondi circa, non è scopare. Mi darebbe più soddisfazione fare l'amore con un piolo di legno, cosa che faccio spesso, in realtà.» Tornai a guardare il cassettone e vidi una foto di quello che presumibilmente era suo marito. Un tipo bovino, un po' stempiato, con uno spazio tra gli incisivi superiori. Accanto a lui c'erano Mildred e tre bambini piccoli. A giudicare dall'età che dimostrava, dalla pettinatura cotonata e dal vestito, la foto doveva risalire a qualche anno prima. «Quanti anni hanno i tuoi figli?» Ci pensò su un attimo. «Sylvester diciassette. Myrtle ne farà sedici in ottobre, ed Herbert dieci. Lui è stato una sorpresa, per così dire.» "Porca puttana" pensai, e cominciai a sentire un formicolio alle mani. Avevo appena scopato la madre di Sylvester Halliburton. L'anno prima gli avevo rubato Sally, la mia attuale ragazza, e lui mi odiava ancora per questo. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto, se avesse scoperto che mi ero scopato anche la sua cara mammina. E mi venne da ridere. «Che cosa c'è da ridere?» chiese Mildred. «Nulla» risposi. Lei non insistette e mi chiese se sapevo dove trovare qualcosa da bere, visto che nessuno dei due aveva pensato di portar via una bottiglia dal Royal Crown. «Floyd non mi permette di tenere alcol in casa. È contro la legge» disse, imitando un tono strascicato da idiota. Conoscevo un posto a pochi isolati di distanza e decisi di andarci a piedi. «Compra del rum» mi gridò dietro lei. 3. Rum, sodomia e ciglia finte Il sole era calato e l'aria stava già rinfrescando, quando attraversai il ponte sull'Undicesima Strada. Pensavo che questa storia con Mildred poteva diventare un'abitudine. Perché no? A lei sembrava piacere e io potevo certamente permettermi il prezzo di un motel da camionisti un paio di volte alla settimana. Il favore l'avrei fatto non solo a me stesso, ma anche a lei, fornendole la merce che Floyd non le dava.
Ero diretto in una bettola clandestina tra la Dodicesima e la Bitting, al piano superiore di un vecchio capannone, vicino a un ripido pendio che portava al fiume. In quella stagione, i bar cominciavano a riempirsi solo con il fresco della sera e il proprietario si sentiva così solo che, prima di vendermi la bottiglia, insistette per offrirmi un drink, solo per avere qualcuno con cui fare due chiacchiere. Mi trattenni lì volentieri e pensai che la reazione di Mildred al mio ritardo mi avrebbe dato un'idea di cosa aspettarmi se la nostra storia fosse andata avanti. «La scuola sta per cominciare, se non sbaglio. Tu hai già finito?» «Ancora un anno e sarò un uomo libero, Norman.» «Che cosa pensi di fare, dopo?» «Andrò al college. Non ho scelta, mio padre ne parla da quando sono nato.» «Ah, è una buona cosa, Wayne.» Vuotò il suo bicchiere. «E come stai a donne?» «Sono un venditore porta a porta» dissi, come se quella risposta chiarisse tutto. Lui annuì e si versò un altro bourbon. «Donne sposate, eh? Ma sta' attento. È un modo facile per mettersi nei guai.» «Hai ragione» convenni. Poi chiesi a mia volta come gli andassero le cose, in quel settore. Norman alzò la mano destra e agitò le dita. «Da quando Lisette ha tagliato la corda, vedo principalmente Madame Palma e le sue cinque figlie.» «Lisette?» «Mia moglie. È partita verso climi più caldi, due... no, tre anni fa. Prima che tu iniziassi a frequentare il mio locale.» Cercai di immaginare che tipo di donna potesse essere la moglie di Norman. Lui aveva circa cinquant'anni, i capelli sempre in disordine, il viso largo e un paio di occhiali tondi attraverso i quali osservava tristemente l'universo limitato del suo locale. Nei due anni da quando lo conoscevo, non avevo mai bussato alla sua porta senza che Norman fosse lì, pronto ad aprire. Sapevo che quella bettola per lui era casa e bottega. Se andava da qualche parte, anche solo per fare la spesa o per comprare un francobollo, io non me ne ero mai accorto. Presi la bottiglia e me ne andai, rifiutando l'offerta di un secondo bicchiere. Si stava facendo buio e mi sentivo pronto a dare un'altra ripassata a Mildred. "Cristo" pensai. "Magari darò a Sylvester un altro fratellino, ancora più sorprendente dell'ultimo."
Entrai nel soggiorno come se tosse casa mia. «Cara, sono tornato» gridai. Salii i gradini a tre per volta e trovai Mildred seduta sul letto, nuda e in lacrime. Il trucco si era disfatto, le ciglia finte si erano staccate a metà e la colata nera del rimmel sciolto le arrivava fino alle tette. L'eccitante donna matura che avevo conosciuto al Royal Crown si era trasformata in una specie di Gorgone e, per un attimo, ebbi la tentazione di andarmene con una scusa, lasciandola sola con la sua bottiglia «Perché piangi?» chiesi. «Perché, secondo te? Dammi quella dannata bottiglia.» Gliela passai. Lei l'aprì e bevve una lunga sorsata. Poi cercò di posarla sul comodino, ma la rovesciò, e una buona parte del rum si versò a terra prima che riuscissi a raddrizzarla. Io non volevo più bere, ma la bottiglia l'avevo pagata e la sua disattenzione mi infastidì. Lei sembrava stare un po' meglio. Senza pulirsi il viso, mi sorrise. «Grazie per la bottiglia, tesoro. Sei proprio un bravo ragazzo. Ora, hai visto che cosa ho qui per te?» No, non l'avevo visto e glielo dissi in un tono asciutto che non sembrò farle nessun effetto. «Sono andata in cucina e ho preso un po' di questo» disse lei, mostrandomi una confezione di burro. Ebbi un'erezione, nonostante l'aspetto grottesco di Mildred. Lei infilò un dito in quella massa biancastra e io vidi quello stesso dito con l'unghia smaltata di rosso sparire poi nella fenditura del sedere fino alla terza falange. Quando lo estrasse, mi rivolse un sorriso così depravato che mi venne l'impulso di scappare via, ma lo dominai e cercai di montare sul letto e di togliermi i pantaloni al tempo stesso. Il mio terzo orgasmo quella sera si fece aspettare a lungo. A un certo punto lei allungò una mano verso la bottiglia, rischiando di rovesciarla di nuovo. Io uscii da lei il tempo necessario per permetterle di bere una lunga sorsata, poi rimisi la bottiglia sul comodino e ripartii. Alla fine mi alzai e andai a lavarmi l'uccello in bagno, malgrado Mildred mi supplicasse di restare a letto con lei. Se non l'avessi fatto immediatamente, quella mistura di materia fecale, burro e rum mi avrebbe dato il voltastomaco. Quando tornai dal bagno lei aveva di nuovo la bottiglia in mano e un filo di rum le colava lungo il mento. Per la prima volta, pensai che avere una storia con un'alcolizzata poteva essere meno divertente del previsto. Le ragazze che conoscevo a scuola con un po' d'alcol in corpo diventavano allegre. Mildred invece in quel momento mi faceva pensare a un'ubriacona di mezza età, piena di amarez-
za e autocommiserazione. Mi tese la bottiglia, ma io la rifiutai con un gesto della mano. Mi infilai i pantaloni e lei aggrottò la fronte, senza mostrarsi troppo delusa. «Perché non torni domani?» disse. «Possiamo pensare a qualche altra porcheria da fare.» «Va bene» dissi, dirigendomi verso le scale. «Porterò una bottiglia.» Lei rispose con una risata orrenda. In soggiorno raccolsi le sue mutandine di seta dal divano e me le infilai in tasca, come souvenir. Quando entrai in macchina le misi nel vano portaoggetti sul cruscotto. Uscendo dal garage, mi venne l'idea di passare a prendere la mia ragazza, ma avevo l'impressione che il mio uccello puzzasse ancora della merda di Mildred, malgrado lo scrupoloso lavoro che avevo fatto con acqua e sapone. E poi, questa era la parte curiosa, mi sentivo sazio di sesso. Un quarto orgasmo sarebbe stato superfluo. Ero diretto a est lungo la Douglas, senza alcuna destinazione particolare, quando pensai di fermarmi al Royal Crown per raccontare al vecchio Gleason com'era andata. Entrando, trovai sette od otto avventori seduti al bancone e un'altra dozzina sparsi tra i tavoli. Quasi tutti uomini, con qualche moglie o fidanzata. Salutai Gleason, il quale mi rispose con un cenno del capo e chiese subito: «Com'è andata, campione?». «Poker d'assi» risposi. «Sei riuscito a portarti fuori di qui l'unica femmina non accompagnata che io abbia visto in tutta la settimana. Congratulazioni.» «Ha avuto quello che cercava.» «Bene. Vuoi qualcosa da bere?» In realtà non volevo nulla, ma preferii non fare la figura del ragazzino. «Lo stesso di prima.» Gleason mi posò il bicchiere davanti e un uomo accanto a me si voltò e mi fissò. Sembrava sui quaranta e aveva i capelli castani radi e un naso che era già stato rotto diverse volte. «Vuoi farmi il ritratto?» gli chiesi, e la sua espressione si fece più dura. «Porca miseria, Gleason» disse. «Ti ho già detto un milione di volte di non servire alcolici ai ragazzini.» «Chi sarebbe il ragazzino?» dissi, cercando di dare alla mia voce un tono virile e sentendomi più adulto al pensiero di avere appena conosciuto carnalmente una donna di oltre trent'anni. «Tu» rispose l'uomo, per niente impressionato. Arricciò il naso. «E puzzi, anche. Va' a casa a pulirti il culo e torna quando avrai ventun anni.»
«Stronzate» protestai, alzando il tono. «Non c'è un'età minima per bere.» «C'è eccome. Io pago i poliziotti e una delle condizioni perché chiudano un occhio è quella di non servire alcolici ai minori, qui dentro. Capito? Ora smamma.» Prese il mio bicchiere e lo diede a Gleason. All'improvviso mi sentii come se avessi di nuovo dieci anni. «Merda, Gleason. Stanley Gerard arriva da Kansas City domani. Non deve vedere niente del genere, capito?» «Sissignore, signor Shelton» rispose Gleason, annuendo con dignità. Io scivolai giù dallo sgabello e mi diressi verso la porta, bruciando di rabbia e vergogna. Rimasi seduto in macchina per un po', accarezzando sogni di vendetta, poi me ne tornai a casa. 4. La Duesie Il giorno dopo rimasi a leggere fino alle quattro e mezzo del pomeriggio, poi andai a trovare la mia ragazza, a un solo isolato di distanza da Mildred. Sally era in casa, i suoi genitori no e non sarebbero tornati prima di sera. Scopammo furtivamente nella sua stanza, poi, mentre mi riabbottonavo i pantaloni, le dissi che dovevo andare. «Così presto?» si lamentò lei. «Pensavo che mi avresti portata al cinema.» «Mi sento un po' spompato. Credo sia meglio che vada a casa.» Accompagnai le parole con un'espressione triste, per mostrare quanto mi dispiacesse lasciarla sola. Lei mi lanciò un'occhiata storta e mi voltò le spalle. Non rispose neppure al mio saluto quando uscii. Fuori, mi venne da ridere. Altro che spompato. Ero arrapatissimo e non vedevo l'ora di presentarmi alla porta di Mildred. Passai dalla bettola di Norman per comprare una bottiglia. Lui era, come sempre, solo e io accettai il bicchiere che mi offrì. «Merda, in giorni come questi non vale neppure la pena tenere aperto. Riesco a stento a coprire le spese.» «Quanto paghi di affitto?» chiesi. «Se sono più di venti dollari al mese, ti stanno fregando.» «Ne pago diciassette e cinquanta, ma non è questo il problema. Il fatto è che devo pagare anche diverse persone, per poter rimanere nel giro d'affari. Nel caso tu non l'abbia sentito dire, questa roba è illegale.» Vuotò il suo bicchiere e se ne versò un altro.
«Chi paghi? I poliziotti?» «Loro per primi, più altra gente di fuori. Tenere aperto questo posto mi costa quasi centocinquanta dollari al mese.» Al piano di sotto, qualcuno aprì la porta del capannone e mise in moto un'auto. Poi la porta venne richiusa e il guidatore diede un colpo di clacson. Guardai fuori dalla finestra in tempo per vedere una Graham Custom Eight, che ovviamente era l'orgoglio dell'uomo seduto al volante. Uscì in strada e partì sgommando, con un altro colpo di clacson prima di girare l'angolo. «Lui è uno di quelli che devo pagare per rimanere in affari. Affitta lo spazio qui sotto come garage.» «Di che cosa si occupa?» «Si occupa,» rispose Norman, irritato «di farsi pagare da chi vuole rimanere in affari.» Avrebbe voluto offrirmi un secondo bicchiere, ma io rifiutai. Mentre stavo per uscire, mi voltai e gli chiesi se conoscesse il proprietario del Royal Crown. «Larry Shelton? So chi è, ma lui ignora completamente che io esisto.» «Capisco» dissi. «Ci vediamo, Norman.» Parcheggiai nel garage di Mildred. Bussai alla porta d'ingresso, ma nessuno venne ad aprire. Abbassai la maniglia e scoprii che la porta era aperta. «Mildred?» chiamai. Nessuna risposta. Mi chiesi se non fosse di sopra, addormentata. «Ho portato una bottiglia.» Il soggiorno era in ordine e di sopra il letto era stato rifatto con lenzuola pulite. Mildred, dopotutto, non era l'ubriacona sciatta che immaginavo. Sarei potuto tornare da Sally e farla contenta portandola al cinema. Invece mi diressi al Royal Crown, sperando di non incontrare Larry Shelton. Davanti al locale c'era l'unica Duesenberg SJ che avessi mai visto fuori dalle pagine di una rivista. Parcheggiai poco lontano, scesi dalla macchina e rimasi in contemplazione davanti alla Duesie per un minuto buono, chiedendomi di chi fosse. Aveva la capote abbassata. Di lì a poco, un bifolco che passava da quelle parti si fermò, fischiando di ammirazione. «Sai che macchina è?» mi chiese. Facendo il finto tonto, mi grattai la testa. «Una decappottabile?» buttai lì. «È una Duesie SJ.» «Ah.» «Una Duesenberg. Alcune hanno un motore che tira più di quattrocento
cavalli.» «Anche questa?» «L'unico modo per saperlo è di guidarla, oppure aprire il cofano e guardarci dentro.» «Gesù Cristo» dissi. «E la lasciano per strada così. A qualcuno potrebbe venire davvero l'idea di aprire il cofano e dare un'occhiata dentro.» Mi ero stancato di prendere in giro quel bifolco e così lo lasciai lì a tormentarsi con la tentazione che gli avevo fatto balenare nella mente. Ma condividevo in pieno la sua ammirazione per quella macchina bellissima, bianca e nera con le finiture rosse. Al confronto, la Graham che avevo visto da Norman sembrava un barile con le ruote. Il sole era basso e l'aria cominciava a farsi fresca, ma il Royal Crown non lavorava ancora a pieno ritmo. Gleason mi vide e scosse la testa, indicando Shelton, seduto a parlare con un uomo elegante che aveva tutta l'aria di essere il padrone della Duesenberg. Shelton mi dava le spalle e, a due sgabelli di distanza da lui, era seduta Mildred, ancora in grado di mantenere l'equilibrio malgrado fosse già quasi il tramonto. Indossava lo stesso vestito leggero del giorno prima. Probabilmente era l'unico capo estivo sexy che possedeva. Mi sedetti accanto a lei, ignorando i silenziosi tentativi di Gleason di mandarmi via. Scuoteva la testa così forte che le guance tremolavano come palloncini pieni d'acqua. «Gin,» dissi «e un altro drink per la signora.» Gleason rimase immobile, a labbra strette. Poi si voltò, preparò solo il gin e me lo mise davanti. «Lasciala stare» sussurrò. «Stasera è con questi uomini.» «E chi se ne frega» ribattei a voce alta. «Un altro drink per la signora, ho detto.» Gleason scosse di nuovo la testa, disgustato. Mildred si voltò verso di me. Era ancora più attraente del giorno prima. Mi riconobbe e sorrise. «Ciao, Wayne.» I suoi occhi promettevano i più sordidi piaceri proibiti dalla Bibbia. «Mildred.» Gleason le mise davanti il drink. «Sei proprio carino.» «Grazie. Sono passato da casa tua con una bottiglia, ma non c'eri.» «No. Ero qui.» «Vuoi venire a berla con me?» Lei lanciò un'occhiata a Shelton, immerso nella conversazione con l'altro uomo. «Ma sì» disse. Vuotò il bicchiere d'un fiato e aggiunse: «Fai strada,
MacDuff». Lasciai dei soldi sul bancone e Gleason si limitò a scuotere di nuovo la testa, con un'espressione dura. Eravamo quasi alla porta, quando Shelton si voltò. «Ehi» gridò. «Mildred.» «Sono stanca di aspettare, Larry, e questo giovanotto si è offerto di accompagnarmi a casa. Non è gentile?» Larry Shelton mi fissò. «Tu hai l'aria di un ragazzino che non capisce il significato della frase "Sta' alla larga"» disse. «Mi aveva detto di non tornare finché non avessi avuto ventun anni e si dà il caso che oggi sia il mio compleanno.» Lui sembrò ammorbidirsi. «Be', perché non l'hai detto subito?» Sorrise, mostrando uno spazio tra gli incisivi al cui confronto quello di Floyd sembrava un capolavoro odontoiatrico, e mi tese la mano. «Lascia che ti offra un drink per il tuo compleanno.» Ingenuamente pensai di averlo fregato e mi avvicinai, tendendo a mia volta la mano. L'uomo elegante osservava la scena con un disinteresse annoiato, impaziente di poter riprendere la conversazione con Shelton. Quando fui a un metro da lui, Shelton afferrò il suo bicchiere e mi gettò in faccia il contenuto. Restai immobile per un secondo, umiliato, con il bourbon che mi colava sul mento, mentre lui e il suo amico scoppiavano a ridere. «Pensavi di offrire un passaggio alla signora sulla tua bicicletta, giovanotto?» chiese l'uomo elegante. «Andiamocene, Mildred» dissi, voltandomi. Ma lei non era dietro di me. Era appoggiata al bancone, piegata in due dalle risate, con le mani sulle ginocchia. Aveva le lacrime agli occhi e le si stava sciogliendo il trucco, come il giorno prima. Il mio primo impulso fu quello di mollarle un pugno. Invece lo mollai a Shelton, dritto allo stomaco, e ci misi tanta forza che lui andò giù come un sacco. Mildred e l'uomo elegante stavano ancora ridendo. Quindi, sferrai a Shelton un calcio nelle costole e uno nel ventre che gli tolsero il fiato. Poi presi il mio drink dal bancone e glielo versai sulla testa, frizionandogli i capelli. Ridevano tutti, tranne Shelton e io. Gleason se ne stava dietro il bancone, sforzandosi di mantenere un'espressione seria, ma gli occhi gli brillavano di gioia. «Basta così, ragazzo» disse l'uomo elegante. «Ti sei divertito, ma ora devi andartene.» Aveva il sorriso sulle labbra, ma il suo tono era deciso.
Adesso che il mio onore era salvo, ero felice di lasciare quel posto. «Andiamo, Mildred» dissi. «Eh, no, Mildred non viene.» Stavo quasi per rispondere con una battuta oscena, ma vidi che Mildred era tornata a sedersi sul suo sgabello e si puliva il trucco che le era colato sulle guance con un panno umido. Mi voltava le spalle come se non esistessi. «Da che parte stai, Mildred?» Lei si girò. «Sei un caro ragazzo, Wayne, ma oggi vorrei una serata tra adulti, se non ti dispiace. Ci vedremo un'altra volta.» «Sentito, Wayne? Ora fila.» Sapevo che non era il caso di insistere, ma in quel momento volevo Mildred più di quanto avessi mai voluto una donna prima di allora. Più di qualunque cosa avessi mai desiderato. Volevo scoparla, fuggire con lei, sposarla, avere dei figli da lei. Non mi importava che fosse una troia alcolizzata, che avesse quasi vent'anni più di me e che mi avesse mollato per il primo coglione con un po' di soldi che era entrato in quel bar. La volevo, lì e in quel momento. L'afferrai per un braccio. «Mildred, andiamo via.» Avevo sperato di non assumere un tono supplichevole, ma quella che udii fu una voce stridula da ragazzino. E la udirono anche gli altri. «Mildred, andiamo via» mi fece il verso l'uomo elegante, con una voce da Topolino. Poi, con una specie di ringhio basso, aggiunse: «Lasciala andare, o ti rompo il braccio». «Vaffanculo, Charlie» dissi. «Mi chiamo Stan Gerard e sono il proprietario di questo posto.» Si alzò e, senza preavviso, mi mollò un manrovescio in piena faccia. Poi estrasse dalla tasca un oggetto metallico e lo usò per colpirmi. Chiusi gli occhi, vidi mille colori e, mentre cadevo, sentii un altro colpo, sopra l'orecchio. Non persi conoscenza, ma non riuscivo ad aprire gli occhi. Sentii che mi sollevavano, mi trasportavano attraverso il locale e mi gettavano nel vicolo sul retro. «Non fargli troppo male» disse languidamente la mia amata, dal suo sgabello. Steso sull'asfalto, udii di nuovo il tono educato di Stan Gerard. «Riesci a sentirmi, Wayne?» Accennai di sì con la testa. «Come ti ha detto Shelton, torna quando avrai ventun anni. Ti offrirò da
bere. Ma non prima, è chiaro?» Annuii di nuovo e Gerard rientrò nel bar, chiudendosi la porta alle spalle. Aprii gli occhi e mi guardai intorno. Era quasi buio. Mi trascinai zoppicando fino alla mia Hudson, parcheggiata a pochi metri dalla Duesenberg di Gerard. «Idiota» mi dissi, cercando inutilmente di mettere in moto. «Sei andato su e giù per la città senza mai fermarti a fare benzina.» Con lo zigomo che mi pulsava, scesi e iniziai a camminare, umiliato, verso casa e verso la mia bicicletta. 5. In cui accetto il mio status, per il momento Non riuscii a trovare la tanica di mio padre, così presi una bottiglia del latte vuota e la infilai in un cestello di metallo. Mentre salivo in bicicletta mi venne un'idea. Tornai indietro, presi una seconda bottiglia e pedalai fino alla stazione di benzina Skelly di Hillside. «Non metto la benzina in bottiglie di vetro» disse il gestore, scuotendo con fermezza la testa. «Ce la metto da solo, allora.» «Niente da fare. Prendi questa latta di metallo. Devi lasciarmi un nichelino di cauzione, che ti restituirò quando me la riporti.» L'aria era rinfrescata parecchio, ma l'asfalto sotto i piedi era ancora caldo e i vapori di benzina mi entravano nel cervello, dove sarebbero rimasti per tutta la notte, se non mi fossi dato una mossa. «Vada per la tanica, allora» dissi. Il benzinaio si alzò dalla sua sedia, portò la tanica fino alla pompa e la riempì. Io lo pagai e tornai al Royal Crown. Misi la bicicletta e il cestello con le bottiglie del latte sul sedile posteriore della Hudson, versai una parte della benzina nel serbatoio e un po' anche nel carburatore, poi appoggiai la tanica con la benzina avanzata sul sedile accanto al mio. Percorsi un isolato verso est sulla Douglas, voltai a sinistra e parcheggiai davanti a una casa bifamiliare a due piani. Tirai fuori dalla macchina la bicicletta e riempii di benzina una bottiglia. Presi dal vano portaoggetti le mutandine di Mildred che avevo conservato, le inzuppai di benzina e le usai per tappare la bottiglia. Saltai sulla bici, tornai sulla Douglas e, da dietro un cespuglio, osservai l'ingresso del Royal Crown. Nelle vicinanze non c'era nessuno. Tirai fuori
l'accendino e pedalai lungo il marciapiede, tenendo il manubrio della bici con una mano e la bottiglia con l'altra. All'altezza della Duesenberg mi fermai, appoggiai un piede a terra e diedi fuoco alle mutandine di Mildred. Quindi, in rapida sequenza, gettai la bottiglia contro il cruscotto dell'auto e ripresi a pedalare di corsa, udendo con soddisfazione il rumore del vetro che si rompeva e quello del fuoco che avvolgeva la Duesie. Non mi voltai, ma sentii il calore sulla schiena. Attraversai l'incrocio ignorando il semaforo rosso, mi nascosi nell'androne di un negozio che vendeva protesi e mi preparai a godermi lo spettacolo. Le fiamme che avvolgevano l'interno della decappottabile erano alte e splendenti. Vidi Stan Gerard precipitarsi fuori dal Royal Crown, seguito da altre persone, tra cui Larry Shelton. Mildred uscì per ultima, barcollando. Udii le loro grida, mentre la folla cominciava ad assieparsi sul marciapiede e le auto si fermavano a debita distanza dall'incendio. Alla fine Gerard, con un'aria molto spaventata, si lanciò verso la macchina per tirarne fuori qualcosa. Shelton lo prese per un braccio e cercò di trattenerlo, cosa che gli avrebbe procurato un bel calcio nel culo da parte del suo capo, se il serbatoio della Duesie non fosse esploso proprio in quell'istante. Dalla folla si levarono una quantità di "oohh" e "aahh", alla vista dello scheletro dell'auto che si delineava tra le fiamme. Davanti a quella scena, mi sentii fiero della mia opera. Era stato un peccato dover sacrificare una macchina così bella, ma mi consolai con l'idea di averla usata per creare qualcosa di ancora più bello, anche se effimero. Avevo letto di certi strani uccelli che si eccitano sessualmente guardando il fuoco, ma il mio godimento era puramente estetico. Quello era uno spettacolo di luci e ombre, metallo e calore, biancheria intima e benzina. Finì in fretta. Appena udii le sirene dei pompieri che scendevano da Hillside, pedalai via, verso College Hill. Ero contento di andare di nuovo in bicicletta, dopo tanto tempo, e prima di tornare alla Hudson feci un bel giro, osservando le case e chiedendomi chi ci abitasse. Si trattava di un quartiere dove non avevo mai lavorato, ma ero pronto a scommettere che c'erano almeno una dozzina di donne come Mildred, lì, e un centinaio di ragazzi proprio come me. Daniel Stashower L'AVVENTURA DELL'ATTRICE INQUIETA
(Da Murder, My Dear Watson: New Tales of Sherlock Holmes) «Tutti abbiamo sentito parlare dei suoi metodi sorprendenti, signor Holmes» disse James Larrabee, prendendo una sigaretta da una scatola d'argento sul tavolo. «Esistono innumerevoli storie riguardanti il suo meraviglioso intuito, la sua capacità di trovare e seguire le tracce e il modo sbalorditivo in cui ricava informazioni dai particolari più insignificanti. Lei e io non ci siamo mai incontrati prima d'ora, ma sono certo che in questo breve lasso di tempo lei ha già scoperto un certo numero di cose su di me.» Sherlock Holmes abbassò il giornale che stava leggendo e fissò indolentemente il soffitto. «Nulla di importante, signor Larrabee» dichiarò. «Mi sono soltanto chiesto come mai lei sia uscito tanto in fretta per inviare un telegramma, per quale ragione abbia ingollato una doppia dose di brandy al Lyon's Head mentre tornava dalla posta, perché la sua amica con i capelli castani si sia allontanata all'improvviso dalla finestra della terrazza e che cosa possa esserci nel cassetto chiuso a chiave sotto la scrivania che le provoca tanta ansia.» Prese di nuovo in mano il giornale, sfogliandone pigramente le pagine. «A parte questo, nient'altro.» «Holmes!» gridai. «Tutto ciò ha del soprannaturale. Come ha potuto fare simili deduzioni? Siamo entrati qui solo cinque minuti fa.» Il mio compagno mi lanciò uno sguardo distratto, come se non mi avesse mai visto prima. Per un attimo sembrò esitare, combattuto tra impulsi contrastanti. Poi si alzò dalla sedia e si avvicinò alle luci del proscenio. «Mi dispiace, Frohman» disse. «Non funziona affatto come avevo sperato. Non abbiamo bisogno di Watson in questa scena, secondo me.» «Gillette!» urlò una voce dall'oscurità al di là della fila di luci. «Vorrei che si decidesse, una volta per tutte! Devo ricordarle che debuttiamo domani sera?» Udimmo dei passi e Charles Frohman, un uomo basso e massiccio, vestito nel modo pratico del signorotto di campagna, salì sul palcoscenico dalle scalette laterali. Brandiva un volantino con la scritta: «William Gillette nella sua straordinaria interpretazione di Sherlock Holmes! Direttamente dalla trionfale tournée di New York!». «Lui squilibra la scena» disse Gillette. «La situazione non richiede un Watson pieno di ammirazione.» Si voltò verso di me. «Senza offesa, mio caro Lyndal. Si è calato perfettamente nella parte. Quel gesto con il braccio stretto contro il fianco a suggerire il dolore di una vecchia ferita è splendido.» «In realtà, Gillette,» mormorai «stavo solo cercando di tenermi su i pan-
taloni.» «Come, scusi?» Aprii la giacca e mostrai i pantaloni troppo larghi in vita. «Non c'è stato tempo per adattare il costume di scena alla mia taglia» spiegai. «Io ho lo stesso problema» disse Arthur Creeson, scritturato per interpretare James Larrabee, il cattivo della storia. «Se non sto attento, rischio di ritrovarmi con i calzoni alle caviglie.» Gillette trasse un profondo sospiro. «Quinn!» gridò. Il giovane Henry Quinn, che interpretava il ruolo di Billy, il servitore di Baker Street, fece capolino da dietro le quinte. «Sì, signor Gillette?» «Saresti così gentile da mandarci qui la costumista? O, almeno, da portarci un po' di spille di sicurezza?» Il ragazzo annuì e sparì di corsa. Charles Frohman, la cui espressione tormentata e la fronte solcata da rughe esprimevano tutta la difficoltà del suo ruolo di produttore di Gillette, piegò il volantino e se lo mise in tasca. «Non capisco perché lei senta il bisogno di cambiare la sceneggiatura» disse. «La commedia ha avuto un enorme successo a New York. Ormai, per gli americani Sherlock Holmes è lei. E sono certo che anche il pubblico londinese la penserà allo stesso modo.» Gillette si sedette e prese il suo copione. «Il pubblico londinese non ha niente in comune con quello americano» disse, sfogliando rapidamente le pagine. «I gusti inglesi sono stati affinati da secoli di Shakespeare e Marlowe. L'America si è svezzata solo recentemente dalla Capanna dello zio Tom.» «Gillette» disse Frohman, in tono grave. «Questo è ridicolo.» L'attore prese una penna e cominciò a scrivere su una pagina del copione. «Io sono un attore americano che si cimenta in un ruolo inglese. Devo prendere ogni possibile precauzione prima di espormi al fuoco dei critici teatrali di Londra. Si aggrapperanno a qualunque nota falsa per mandarci via.» Si voltò verso Arthur Creeson. «Bene. Riprendiamo dal punto in cui Larrabee fa di tutto per mascherare il suo inganno. Invece delle espressioni di incredulità di Watson rimettiamo le parole elusive di Larrabee. Se le ricorda, Creeson?» L'attore annuì. «Eccellente. Riprendiamo.» Io mi ritirai dietro le quinte, mentre Gillette e Creeson tornavano ai loro posti. Gillette assunse una maschera di impassibilità, rientrando nei panni
di Sherlock Holmes. «...perché la sua amica con i capelli castani si sia allontanata all'improvviso dalla finestra della terrazza» disse, riprendendo il dialogo a metà della frase «e che cosa possa esserci nel cassetto chiuso a chiave sotto la scrivania che le provoca tanta ansia.» «Ah! Notevole!» esclamò Creeson, di nuovo nel ruolo dell'infido Larrabee. «Davvero notevole. Se solo queste cose fossero vere, ne sarei rimasto molto impressionato.» Gillette lo fissò con un'espressione di fastidio e impazienza. «Non creda di ingannarmi» disse. «Sono venuto qui per vedere la signorina Alice Faulkner e non me ne andrò finché non le avrò parlato. Ho ragione di credere che sia tenuta qui contro la sua volontà. E lei farà meglio a cedere, o dovrà pagarne le conseguenze.» Creeson si portò una mano al cuore. «"Contro la sua volontà"? Questo è un insulto! Non intendo tollerare...» Un tremendo urlo proveniente da dietro le quinte lo interruppe. Creeson cercò di rimanere impassibile e di continuare. «Non intendo tollerare una tale accusa in casa...» Un secondo urlo. Gillette sospirò pesantemente e si alzò, con il copione in mano. «Quella donna imparerà mai a entrare in scena al momento giusto?» Si portò di nuovo sul proscenio e, riparandosi gli occhi dalla luce dei faretti si rivolse a Frohman: «Ecco che cosa succede quando si vuole risparmiare, assumendo una compagnia locale» disse, in tono esasperato. «Ora ci ritroviamo con una quantità di attori che non conoscono la parte e per di più hanno i costumi di scena male adattati. Avremmo dovuto portarci dietro la compagnia di New York, e al diavolo le spese.» Si voltò. «Quinn!» Il giovane uscì da dietro le quinte. «Signore?» «Vorresti, per favore, informare...» La frase fu interrotta dalla comparsa improvvisa di Maude Fenton, l'attrice che interpretava il ruolo di Alice Faulkner. Arrivò di corsa, in uno stato di evidente agitazione. I capelli castani le ricadevano disordinatamente sulle spalle e il corpetto di velluto era abbottonato male. «Non c'è più!» disse. «Qualcuno me l'ha rubata!» Gillette tamburellò le dita sul copione. «Mia cara, secondo il copione lei è entrata in scena almeno diciassette pagine prima del dovuto.» «Al diavolo il copione!» gridò lei. «La mia spilla è sparita. La mia bellissima spilla! Signor Gillette, qualcuno deve avermela rubata.» Selma Kendall, l'attrice dai capelli ramati che interpretava la parte di
Madge Larrabee, le fu subito accanto. «Non può essere» disse. «Lui te l'ha appena... Voglio dire, l'hai appena acquistata! Sei certa di non averla semplicemente messa in qualche posto che ora non ricordi?» La Fenton accettò il fazzoletto di lino che io le offrii e si asciugò le lacrime. «Non è possibile» singhiozzò. «Una spilla come quella non è il genere di cosa che uno lascia distrattamente da qualche parte.» Gillette, che in tutto quel tempo non aveva fatto altro che lanciare occhiate impazienti al suo orologio da taschino, si fece avanti per prendere in mano la situazione. «Su, su, signorina Fenton» disse, nel tono blando di un uomo poco abituato ad avere a che fare con le emozioni femminili. «Capisco la sua agitazione. Non appena avremo finito le prove condurremo una ricerca accurata nei camerini. Sono certo che ritroveremo il suo ninnolo.» «Gillette!» gridai. «Non penserà davvero di continuare le prove? Non vede che la signorina Fenton è troppo agitata per proseguire?» «Ma andare avanti è necessario» dichiarò l'attore. «Come il signor Frohman ci ha appena ricordato, la prima dello spettacolo è domani sera. Dobbiamo assolutamente portare a termine le prove, poi penseremo a ritrovare la spilla perduta. La signorina Fenton è una brava attrice e io confido che riuscirà a tenere a freno la sua agitazione.» Diede un buffetto all'attrice in lacrime. «È d'accordo, mia cara?» A quelle parole, l'agitazione della Fenton sembrò aumentare. Iniziarono a tremarle dapprima le labbra e poi le spalle e infine uno strano mugolio uscì da dietro il fazzoletto. A un tratto, la donna si gettò tra le braccia di Gillette e cominciò a singhiozzare sulla sua spalla. «Gillette» disse Frohman, cercando di farsi udire al di sopra dei gemiti. «Forse sarebbe meglio fare una piccola pausa.» Gillette, piuttosto a disagio con quella donna in lacrime tra le braccia, annuì. «Va bene. Quella spilla sarà semplicemente scivolata tra i cuscini di un divano. Andiamo a cercarla.» Con Frohman in testa, ci dirigemmo in corteo dietro le quinte, fino al camerino delle signore. Passando davanti ai bauli che contenevano i nostri effetti personali, mi fermai a riflettere su quanto poco sapevo degli altri membri della compagnia. La commedia di Gillette era stata un grande successo in America, ma ciò nonostante solo pochissimi attori e tecnici di scena lo avevano seguito a Londra. Il grosso della compagnia, a cominciare da me, era stato assunto in loco, dopo un rapido provino. Fino a quel momento il ritmo incalzante delle prove e dell'allestimento scenico non ci aveva lasciato il tempo di creare quel clima cameratesco che normalmente
si instaura tra gli attori durante la preparazione di uno spettacolo. Per questo sapevo così poco sui miei compagni, a parte i soliti pettegolezzi. La Fenton, che recitava la parte di Alice Faulkner, era giudicata promettente nei ruoli di "giovane ingenua". I critici facevano spesso commenti sulla sua bellezza, se non proprio sul suo talento. Selma Kendall, la nostra Madge Larrabee, era una comprimaria capace ed era considerata una specie di mamma dalle attrici più giovani. Arthur Creeson, che interpretava James Larrabee, il cattivo della commedia, era stato un promettente "giovane romantico", ai suoi tempi, ma l'alcol e il gioco gli avevano rovinato la bellezza e la reputazione. William Allerford, la cui fronte alta e i capelli bianchissimi lo rendevano perfetto nella parte del terribile professor Moriarty, era in realtà il più gentile degli uomini, con una vera passione per il giardinaggio. In quanto a me, avevo iniziato la mia carriera pensando di diventare un cantante d'opera, ma il mio talento non era pari alle mie ambizioni e così, con il tempo, mi ero affermato come coprotagonista affidabile, se non proprio brillante. «Eccoci qua» disse Frohman, alla fine di un lungo corridoio. «Dobbiamo cercare dappertutto.» Dopo aver preventivamente bussato a una porta priva di targhetta, ci precedette all'interno del camerino. Secondo l'usanza, le attrici condividevano uno spazio comune per cambiarsi. Si trattava di una sala scarsamente ammobiliata e illuminata da una fila di faretti. Un'intera parete era occupata da un lungo specchio con una serie di tavolini da trucco. La parete opposta era affollata di attaccapanni, appendiabiti, divanetti e poltrone consunte. Io non ero mai entrato prima in un camerino femminile e arrossii alla vista di tanti capi di biancheria intima sparsi in giro. Distolsi gli occhi da un corsetto di mussola sullo schienale di una sedia, solo per ritrovarmi a fissare un assortimento di calze e mutandine di pizzo su un'ottomana. «Signor Lyndal» disse la Kendall, piuttosto divertita dal mio disagio. «Non ha mai visto prima della biancheria femminile?» «Ecco, io... non tanta tutta insieme» ammisi. «Il dottor Watson ha fama di avere un'esperienza di donne che spazia tra vari paesi e continenti. La mia, invece, non va oltre Hatton Cross.» Gillette, a quanto pareva, non era affatto turbato da quella vista. Appena entrato nel camerino, si mise risolutamente a esaminare ogni cosa, sfrecciando da una parete all'altra, aprendo cassetti e rivoltando cuscini. «Bene» annunciò, pochi minuti dopo. «Non sono riuscito a trovare la
sua spilla, signorina Fenton. Ma nell'interesse della nostra commedia sono disposto a comprargliene una nuova, purché riprendiamo subito le prove.» La Fenton lo fissò con un'espressione incredula. «Credo che lei non abbia capito, signor Gillette. Non si tratta di un comune pezzo di metallo con sopra un vetro colorato. La mia spilla è uno zaffiro purissimo, incastonato in una rosa d'oro e circondato da diamanti.» Gillette spalancò gli occhi per la sorpresa. «Davvero? E posso chiedere come mai possiede un oggetto del genere?» «Si tratta... del regalo di un ammiratore» rispose la Fenton arrossendo. Poi distolse lo sguardo. «Preferirei non aggiungere altro.» «Sia come sia» intervenni. «Se si tratta di un oggetto prezioso, bisogna chiamare subito la polizia.» «Purtroppo devo convenire con lei» disse Gillette. «È l'unica cosa da fare.» Un lampo di panico attraversò gli occhi della signorina Fenton. «Per favore, signor Gillette! Non metta di mezzo la polizia. Non è affatto una buona idea!» «Ma il suo zaffiro...» «La persona in questione...» disse lei, tormentando con le dita il merletto della manica «...l'uomo che mi ha regalato la spilla... insomma, gode di una certa posizione sociale e sono certa che preferirebbe risolvere la faccenda in privato. Sarebbe molto imbarazzante per lui se le sue... attenzioni verso di me diventassero di dominio pubblico.» Frohman tossicchiò. «Non è insolito che una giovane attrice abbia una relazione con un ammiratore di un certo livello sociale» disse. «Ma è vero che a volte, se la faccenda diventa di dominio pubblico, può sfociare in uno scandalo. Soprattutto se il gentiluomo in questione è sposato.» Fissò la Fenton, la quale sostenne il suo sguardo per un attimo, poi distolse gli occhi. «E uno scandalo,» concluse «è proprio quello che dobbiamo evitare, soprattutto prima di debuttare, Gillette.» «Sono d'accordo» intervenni. «E bisogna considerare anche la reputazione della signorina Fenton. Dobbiamo scoprire dov'è finita quella spilla senza coinvolgere le autorità. Dobbiamo condurre noi le indagini.» Tutti gli occhi si fissarono su Gillette, in un silenzio carico di aspettativa. L'attore non sembrò notarlo. Si guardava nello specchio del camerino, sistemandosi meticolosamente il gilè. Alla fine però si rese conto dei nostri sguardi. «Che cosa c'è?» chiese, voltandosi. «Perché mi guardate così?»
«Io non sono Sherlock Holmes» disse Gillette, alcuni minuti dopo. Eravamo seduti in poltrona. «Sono un attore che interpreta Sherlock Holmes. C'è una notevole differenza. Se un giorno dovessi interpretare un cavallo, Lyndal, sono sicuro che lei non si aspetterebbe di vedermi trainare un carretto e mangiare fieno.» «Ma lei ha studiato il personaggio di Sherlock Holmes» replicai. «Ha interiorizzato i suoi metodi, per poterlo interpretare in modo convincente. Perché non mette a frutto l'esperienza acquisita? A chi ha saputo dare vita a un detective così sofisticato non può certo mancare l'intuito.» Gillette mi fissò a lungo. «Molto astuto, Lyndal, questo appello alla mia vanità.» Era già un po' che discutevamo dell'argomento e finalmente Gillette aveva acconsentito a occuparsi del problema della spilla. Frohman gli aveva fatto notare che, se la cosa non si fosse risolta in fretta, i loro interessi economici avrebbero potuto soffrirne seriamente e che lui, Gillette, in quanto capo della compagnia, era la persona più indicata per farsi carico della situazione. E alla fine si era arrivati alla decisione che Gillette avrebbe interrogato separatamente ciascun membro della compagnia, iniziando da me. Lo scenografo aveva pensato che sarebbe stato divertente cambiare la scena dal salotto di James Larrabee allo studio di Sherlock Holmes in Baker Street, in modo che Gillette potesse condurre l'indagine in un ambiente appropriato. Gillette prese da un tavolino un'enorme pipa di schiuma e iniziò metodicamente a riempirla. «Perché insiste a fumare quell'obbrobrio?» chiesi. «Non è scritto da nessuna parte che Sherlock Holmes fumasse una pipa simile. Il dottor Watson ci dice che la compagna preferita delle sue meditazioni è una pipa di argilla nera, che sostituisce con una di ciliegio quando è di umore litigioso.» Gillette scosse tristemente la testa. «Io non sono Sherlock Holmes» ripeté. «Sono un attore che interpreta Sherlock Holmes.» «Ciò nonostante, restare fedeli all'originale non guasta mai.» Gillette avvicinò la fiamma al tabacco e aspirò diverse boccate, finché la pipa non fu ben accesa. Per un attimo i suoi occhi assunsero un'espressione sognante e io pensai che non mi avesse sentito. Quando parlò di nuovo, aveva lo sguardo fisso sulle tende. «Lyndal» disse. «Si volti verso la platea.» «Che cosa?» «Per favore, guardi la platea.»
Mi alzai e guardai oltre il proscenio. «Che cosa vede?» mi chiese Gillette. «Poltrone vuote.» «Precisamente. La mia ambizione è quella di riempirle. Ora, per favore, guardi verso il corridoio a sinistra, all'altezza dell'ultima fila.» Feci un passo avanti e strinsi gli occhi. «Fatto.» «Riesce a leggere il numero di quella poltrona?» «No» risposi. «Certo che no.» «Neppure io. Ora, per la stessa ragione, l'uomo o la donna seduti in quella poltrona non riusciranno a notare la differenza tra una pipa di ciliegio e una di argilla nera. Questo è teatro, Lyndal. Un vero detective non lavora davanti a un pubblico, mentre io sì. Perciò è importante che i miei movimenti, quello che dico e gli oggetti che maneggio siano chiaramente distinguibili.» Sollevò la pipa di schiuma. «Questa pipa è visibile dall'ultima fila, amico mio. Un attore deve considerare anche il più piccolo oggetto da ogni angolatura. Questa è l'essenza del teatro.» Ci pensai su. «Intendevo dire solo che, per calarsi meglio nel ruolo di Sherlock Holmes, forse avrebbe desiderato aderire il più possibile all'originale.» «Capisco» disse Gillette. «Va bene, vediamo dove ci porterà questa storia. Mi dica, Lyndal, dov'era quando è avvenuto il furto?» «Io? Ma non penserà...» «Lei non è lo stimato dottor Watson, amico mio, ma solo un attore, proprio come me. Poiché la signorina Fenton aveva con sé la spilla quando è arrivata in teatro stamattina, dobbiamo presumere che il furto sia avvenuto dopo l'inizio delle prove. Lei è in grado di dirmi dove si trovava in quel periodo?» «Lo sa perfettamente, Gillette. Mi trovavo in piedi alla sua destra e rivedevo con lei le battute del primo atto.» «Esatto. Come vede, la mia revisione della commedia le fornisce un alibi perfetto. Se il furto fosse avvenuto nel pomeriggio, lei sarebbe stato in cima alla lista dei sospetti. Se l'è cavata per il rotto della cuffia, amico mio.» Gillette sorrise e sbuffò una nuvola di fumo. «Ora, poiché abbiamo provato la sua innocenza, che ne dice di restare con me durante gli altri interrogatori?» «Il motivo?» «Forse sto cercando di aderire all'originale.» Gillette si voltò e vide il giovane Henry Quinn al suo solito posto tra le quinte. «Quinn!» chiamò.
Il ragazzo fece un passo avanti. «Mi dica, signore.» «Potresti chiedere alla signorina Fenton se vuole essere così gentile da venire qui?» «Subito, signore.» Seguii con lo sguardo il ragazzo che scompariva lungo il corridoio. «Gillette» dissi, abbassando la voce. «Questa ambientazione è gradevole, ma non crede che sarebbe meglio condurre gli interrogatori con un po' più di riservatezza? Sherlock Holmes lo fa sempre. Chiunque può sentire quello che diciamo, qui al centro del palco.» Gillette sorrise. «Io non sono Sherlock Holmes.» Pochi secondi dopo Quinn uscì da dietro le quinte, seguito dalla Fenton. La donna aveva gli occhi arrossati dal pianto ed era seguita dalla Kendall, che la sorvegliava con aria protettiva. «Posso restare, signor Gillette?» chiese l'attrice più anziana. «La signorina Fenton è molto agitata.» «Ma certo» acconsentì Gillette, in tono accomodante. «Cercherò di essere il più breve possibile. Per favore, sedetevi.» Intrecciò le mani, chinandosi in avanti. «Mi dica, signorina Fenton. È sicura di avere avuto con sé la spilla, quando è arrivata in teatro, stamattina?» «Sì» rispose l'attrice. «La tenevo sempre con me. E l'ho messa nella scatola dei miei gioielli quando ho indossato il costume di scena.» «E la scatola dei gioielli era sul suo tavolino da trucco?» «Sì.» «In piena vista?» «Sì, ma non credevo che fosse un rischio. In quel momento ero sola. Inoltre l'unica altra donna della compagnia è la signorina Kendall e mi fido di lei come di una sorella.» Allungò un braccio e prese la mano della Kendall. «Capisco» disse Gillette. «Ma questo significa che lei intendeva lasciare la gemma nel camerino durante le prove? Mi perdoni, ma lo trovo un po' sconsiderato.» «Non era affatto questa la mia intenzione, signor Gillette. Una volta indossato il costume, pensavo di appuntare la spilla su una calza. Naturalmente avrei preferito indossarla in piena vista, ma James, l'uomo che me l'ha regalata, non avrebbe approvato. Non ama l'ostentazione.» «In ogni caso,» intervenni «un gioiello del genere non sarebbe stato adatto al personaggio di Alice Faulkner.» «Già» disse la Fenton. «Proprio così.»
Gillette unì le punte delle dita. «Com'è potuto accadere, dunque, che il gioiello sia stato rubato? Da quel che ho capito, lei non l'ha mai perso di vista.» «È stato imperdonabile, da parte mia» disse l'attrice. «Stamattina sono arrivata un po' in ritardo per le prove. Nella fretta di prepararmi, ho rovesciato il vasetto della cipria. Io uso solo Satinette di Gervaise Graham e volevo trovare qualcuno che andasse a comprarmene un'altra confezione. Sono uscita dal camerino, ma naturalmente tutti i miei colleghi erano già al loro posto, in attesa del cambio di scenografia della terza scena. Quando ho visto che non c'era nessuno in giro, ho deciso di prepararmi come meglio potevo, senza la cipria.» «Quindi è tornata nel camerino?» «Sì.» «Più o meno, quanto tempo è rimasta fuori dalla stanza?» «Due o tre minuti al massimo.» «E quando è tornata la spilla non c'era più?» Lei annuì. «È stato allora che ho gridato.» «Già.» Gillette si alzò, intrecciando le mani dietro la schiena. «Straordinario.» Fece alcuni passi accanto al fondale che rappresentava una libreria. «Signorina Kendall?» «Sì?» «A lei non è stato rubato nulla?» «No» rispose la donna. «Almeno, non questa volta.» Gillette sollevò un sopracciglio. «Non questa volta?» L'attrice esitò. «Sono certa che è una sciocchezza» disse. «Di tanto in tanto ho notato la sparizione di alcune piccole cose. Niente di importante. Uno specchietto, una moneta, cose così.» La Fenton annuì. «L'ho notato anch'io. Ma ero convinta di aver messo quelle cose in qualche posto che non ricordavo. Non erano mai oggetti di valore.» Gillette aggrottò la fronte. «Signorina Fenton» disse. «Poco fa, quando lei si è accorta del furto, abbiamo notato che la signorina Kendall sapeva già che lei possedeva quella spilla. Posso chiederle chi altri, nella compagnia, era a conoscenza di quello zaffiro?» «Nessuno» disse l'attrice. «L'ho ricevuto in regalo solo ieri e l'ho mostrato solo a Selma.» «E a nessun altro? Ne è sicura?» «Ne sono sicura.»
Gillette allora si rivolse alla Kendall. «E lei ne ha parlato a qualcuno?» «Certo che no, signor Gillette.» «Ne è sicura? Può essersi trattato di un commento del tutto innocente...» «Maude mi ha chiesto di non parlarne a nessuno» rispose la Kendall. «Noi donne sappiamo mantenere un segreto.» Gillette si sforzò di reprimere un sorriso. «Ma certo, signorina Kendall, ma certo.» Si voltò a fissare i falsi libri nella libreria dipinta. «Grazie per la collaborazione, signore.» Attesi che le due donne si fossero allontanate, poi chiesi: «Gillette, se la Kendall non ha parlato a nessuno della spilla, chi altri avrebbe potuto sapere della sua esistenza?». «Nessuno» rispose lui. «Vuole insinuare,» dissi, chinandomi in avanti e abbassando la voce «che sia stata la Kendall a rubarla? Se era l'unica a sapere...» «No, Lyndal, non credo che sia lei la ladra.» «Però,» dissi «non possiamo essere certi che abbia davvero mantenuto il segreto. Una compagnia teatrale è un covo di pettegolezzi e gelosie.» Mi interruppi, colpito da un nuovo pensiero. «La Fenton sembra decisa a proteggere l'identità del suo ammiratore, ma se saremo costretti a chiamare la polizia ciò non sarà possibile. Forse il furto è stato orchestrato proprio per mettere in imbarazzo quell'uomo.» Ci pensai su. L'idea mi sembrava plausibile. «Sì, forse il ladro ha intenzione di danneggiare lui. Si tratta indubbiamente di un uomo ricco e di elevata posizione sociale. Chissà? Forse questo triste evento è un complotto che arriva fino...» «Non credo» mi interruppe Gillette. «No?» «Se l'intenzione fosse stata quella di mettere in piazza la relazione tra una giovane attrice e un uomo importante, non ci sarebbe stato bisogno di inscenare un furto. Una parola all'orecchio di certe matrone, nei salotti giusti, avrebbe avuto un effetto migliore e più rapido.» Si rimise seduto. «No, io credo che si tratti di un crimine dettato dall'occasione. La Kendall e la Fenton hanno detto entrambe di aver notato la sparizione di alcuni piccoli oggetti. Sembra che ci sia un ladruncolo, tra noi, e che costui si trovasse vicino alla spilla nel momento in cui la signorina Fenton l'ha lasciata incustodita nel camerino.» «Ma chi potrebbe essere? Eravamo quasi tutti sul palco o impegnati dietro le quinte e tutti sotto gli occhi di almeno un'altra persona.» «Ma non è impossibile che qualcuno sia scivolato via per un attimo sen-
za farsi notare. I tecnici di scena e gli aiutanti si spostano continuamente e nessuno fa caso a dove vanno.» «Allora interroghiamo i sospetti. È necessario smascherare subito un tale nefasto briccone.» Gillette mi guardò da sopra la pipa. «Boucicault?» chiese. «Prego?» «La battuta che ha appena citato. Mi sembrava tratta da un melodramma di Boucicault.» Arrossii. «No, era mia.» «Davvero? Molto efficace.» Gillette si voltò verso il giovane Quinn, che aspettava istruzioni accanto al fondale. «Vorresti essere così gentile da portare qui il signor Allerford? Vorrei fare alcune domande anche a lui.» «Allerford?» dissi, mentre il ragazzo spariva dietro le quinte. «Quindi sospetta del malvagio professor Moriarty. Dopotutto c'è un po' di Holmes, in lei.» «Niente affatto» ribatté Gillette con un sospiro. «Sto solo procedendo in ordine alfabetico.» «Ah.» Quinn si ripresentò di lì a poco, accompagnato da Allerford. L'attore indossava il lungo frac nero del genio del male e i suoi capelli bianchi erano una nuvola cotonata che esagerava le dimensioni della sua testa, suggerendo un personaggio dalla mente in perenne attività. «Si sieda, Allerford» disse Gillette. «E mi scusi per averle chiesto di sottoporsi a questo interrogatorio. Non pensi neppure per un attimo che io voglia accusarla...» L'attore alzò le mani, interrompendo le scuse di Gillette. «Mi rendo perfettamente conto della situazione» disse. «Al suo posto farei la stessa cosa. Immagino che lei voglia sapere dove mi trovavo mentre tutti voi eravate impegnati nelle prove del primo atto, giusto?» Gillette annui. «Se volesse essere così gentile...» «Purtroppo, la risposta non sarà molto soddisfacente. Mi trovavo nel camerino degli uomini.» «Da solo?» «Sì. Tutti gli altri erano sul palco o con la costumista.» Sollevò un pezzo di stoffa del gilè. «Il mio costume doveva essere sistemato nel pomeriggio. Perciò, immagino di essere il sospettato principale.» Il suo viso si indurì, assumendo l'espressione del professor Moriarty. «Non riuscirà mai a incastrarmi, Sherlock Holmes» sibilò, muovendo la testa come un serpente.
«Ho un alibi di ferro! Ero solo nel camerino e leggevo una rivista!» Allerford sorrise, e sollevò le mani in un gesto di scusa. «Mi dispiace, non ho altro da offrirle, Gillette.» «Sono certo che non ci sarà bisogno d'altro, Allerford. Mi permetta di nuovo di farle le mie scuse per questo inconveniente.» «Non ce n'è affatto bisogno.» «Ancora una cosa» disse Gillette mentre Allerford si alzava. «La rivista che stava leggendo era per caso "The Strand"?» «Sì. Ne ho trovato una copia sul tavolo.» «C'era un'avventura di Sherlock Holmes, se non sbaglio.» Allerford fece un sorriso timido. «Non è il genere di lettura che mi interessa, Gillette. C'era, invece, un interessante articolo sulle piantagioni di canna da zucchero dello Yucatàn.» «Capisco.» Gillette cominciò a riempire di nuovo il fornello della pipa. «Grazie mille, Allerford.» «Gillette!» dissi, a bassa voce, appena Allerford sparì dietro le quinte. «Stava cercando di coglierlo in fallo?» «Che cosa? No, ero solo curioso.» Accese la pipa con una espressione sognante. «Molto curioso.» Poi restò assorto in silenzio, esalando nuvole di fumo verso il sipario. «Gillette,» dissi, dopo alcuni secondi «non dovremmo continuare? Il prossimo è Creeson, giusto?» «Creeson?» «Se procediamo in ordine alfabetico...» «Ma certo. Creeson. Quinn, chiedi per favore al signor Creeson se vuole raggiungerci qui.» Nelle due ore successive, Gillette restò seduto con la pipa in bocca, muovendosi pochissimo, mentre davanti a lui sfilavano attori, attrici, tecnici di scena e aiutanti. Rivolse loro all'incirca le stesse domande che aveva fatto agli altri, ma era evidente che la sua attenzione era altrove. In alcuni momenti era così distante che dovetti esortarlo a proseguire gli interrogatori. A un certo punto tirò le gambe a sé sulla poltrona, abbracciandosi le ginocchia, nella stessa posa di un'illustrazione di Sidney Paget, che mostrava Sherlock Holmes nel pieno di uno dei suoi «problemi da tre pipe». A differenza di Holmes, tuttavia, Gillette presto cedette a un altro tipo di meditazione. Subito dopo l'ultimo interrogatorio, dalla sua postazione si levò un russare soddisfatto. «Gillette» dissi, scuotendolo per una spalla. «Ormai abbiamo parlato con
tutti.» «Davvero? Molto bene.» Si alzò in piedi e si stirò le lunghe membra. «Il signor Frohman è da queste parti?» «Sono qui, Gillette» rispose il produttore, dalla prima fila. «Devo dire che tutto ciò mi è sembrato una colossale perdita di tempo e temo che dovremo comunque rivolgerci alla polizia.» «Sono d'accordo» convenni. «Siamo allo stesso punto di stamattina.» Gettai un'occhiata a Gillette, che fissava le luci del proscenio con uno sguardo vuoto. «Gillette? Mi ascolta?» «Credo che sia possibile tenere le autorità fuori da questa faccenda» disse lui. «Frohman, posso chiederle il favore di riunire tutta la compagnia?» «Per quale motivo?» mi intromisi. «Ha già parlato con... Un momento! Non vorrà dire che ha scoperto chi ha rubato la spilla della signorina Fenton?» «Non ho detto questo.» «Ma allora, perché...?» Lui si portò un dito alle labbra. «Temo che dovrà aspettare l'ultimo atto» disse. Non aggiunse altro, mentre tutti i membri della compagnia e il personale andavano a sedersi nelle prime due file di poltrone. Gillette, da sopra il palco, li osservò con manifesto interesse. «Amici miei» disse, quando tutti furono seduti. «Siete stati molto pazienti, durante questo spiacevole incidente, e ve ne sono grato. Sono certo che Sherlock Holmes avrebbe risolto la questione in pochi secondi, ma poiché io non sono Sherlock Holmes, ci ho messo un po' di più.» «Signor Gillette!» gridò la Fenton. «Sta dicendo che ha ritrovato la mia spilla?» «No, mia cara, ma sono convinto che tornerà molto presto in suo possesso.» «Gillette,» disse Frohman «non faccia il misterioso. Dov'è la spilla? Chi è il ladro?» «L'identità del ladro mi è stata evidente da subito» rispose Gillette, placido. «Quello che non capivo era il movente.» «Ma che cosa dice?» intervenne Arthur Creeson. «Lo zaffiro è una pietra di grande valore. Che altro movente potrebbe esserci?» «Oh, me ne vengono in mente parecchi. E il nostro "nefasto briccone", come direbbe qualcuno di noi, potrebbe aver ceduto a ciascuno di essi.» «Non faccia tanti giri di parole, Gillette» lo incalzò Frohman. «Se cono-
sceva dall'inizio l'identità del ladro, perché non l'ha rivelata subito?» «Perché desideravo risolvere la faccenda senza chiasso» rispose Gillette. «Ora, purtroppo, questo non è più possibile.» Stirò le lunghe braccia, andò a prendere la pipa e la riempì lentamente con il tabacco contenuto in una vecchia borsa persiana. «Speravo.» disse poi «che il ladro si pentisse delle sue azioni e corresse ai ripari. Se lo zaffiro fosse stato semplicemente rimesso sul tavolino da trucco della signorina Fenton, avrei lasciato perdere tutto, facendo finta di non aver scoperto il colpevole. Ora invece il furfante sarà smascherato e mi toccherà perdere un membro della compagnia alla vigilia della prima. Ma purtroppo è inevitabile.» I membri della compagnia si mossero a disagio sulle poltrone. «È uno di noi, allora?» chiese Allerford. «Naturalmente. Questo dovreste averlo capito tutti.» Gillette accese un fiammifero e lo avvicinò al fornello della pipa, indugiando più del necessario. «Il lato increscioso di tutto questo è che non sarebbe avvenuto nulla se la signorina Fenton non fosse uscita dal camerino lasciando la gemma incustodita.» L'attrice si portò le mani alla gola. «Ma le ho detto che avevo rovesciato il vasetto della cipria.» «Esatto. Satinette di Gervaise Graham. Una sfumatura molto particolare. E così il catalizzatore del crimine diventa lo strumento della sua soluzione.» «Che cosa intende dire, Gillette?» chiesi. Gillette si avvicinò al caminetto, cioè alla tela e alle assi di legno sistemate in modo da sembrare un caminetto. Fissò per un attimo le braci di cartapesta. «Il lavoro del detective,» disse poi «è basato sull'osservazione dei particolari. Quando la signorina Fenton ha rovesciato quel vasetto, ha messo in moto una catena di eventi che hanno lasciato una traccia, un'impronta distinta. E quella traccia mi ha rivelato chi ha preso la spilla con lo zaffiro.» «Gillette!» gridò Frohman. «Basta trucchi teatrali. Chi ha preso la spilla della signorina Fenton?» «Il ladro è qui tra noi» dichiarò Gillette, in tono vibrante. «E le tracce della cipria sono chiaramente visibili sul... Ehi! Fermatelo!» Tutt'a un tratto scoppiò un pandemonio, quando il giovane Henry Quinn, che osservava la scena dal suo solito posto accanto al fondale, si mise a correre verso l'uscita posteriore. «Fermatelo!» gridò di nuovo Gillette a un paio di robusti tecnici di sce-
na. «Hendricks! O'Donnell! Non lasciatelo passare!» Il ragazzo cambiò direzione, rovesciando un tavolino, e puntò verso il proscenio. Prese la rincorsa e cercò di saltare oltre le prime file. Forse ci sarebbe riuscito, se i pantaloni di scena, mal sistemati, non gli fossero scivolati giù, bloccandogli le gambe a metà salto e facendolo cadere goffamente a terra. «È svenuto, signor Gillette» disse Hendricks. «Ha un bel bozzo in testa.» «Molto bene, Hendricks. Se vuol essere così gentile da portarlo nel foyer, più tardi decideremo che cosa fare di lui.» La signorina Fenton si asciugò il viso con un fazzoletto di lino, mentre il ragazzo svenuto veniva portato via. «Non capisco, signor Gillette. È stato Henry a prendere il mio zaffiro? È solo un ragazzo! Non riesco a credere che abbia fatto una cosa del genere.» «Credo che le sue intenzioni non fossero cattive» disse Gillette. «Deve aver pensato che fosse un gioiello di scena e solo in seguito, quando lei ha dato l'allarme, si è reso conto di quanto valesse. A quel punto però era spaventato e non è riuscito a pensare a un modo di restituirlo senza confessare la sua colpa.» «Ma che cosa se ne sarebbe fatto un ragazzino di una gemma del genere?» chiese Frohman. «Non ne ho idea» rispose Gillette. «In realtà credo che lo zaffiro non gli interessasse affatto.» «No?» dissi io. «E allora perché l'ha preso?» «Per la spilla.» «Come?» Gillette sorrise, divertito. «Tutti voi indossate costumi troppo larghi. Le nostre prove sono state spesso rallentate dalla necessità di andare in cerca di spille di sicurezza per tenere su i pantaloni degli uomini e le gonne delle signore. Io stesso ho mandato Quinn a cercarne qualcuna per i pantaloni del signor Lyndal.» «L'essenza del teatro» dissi, scuotendo la testa pieno di meraviglia. «Come dice, Lyndal?» «È proprio come ha detto lei prima. Un attore deve considerare anche il più piccolo oggetto da ogni angolatura. Tutti noi abbiamo supposto che la spilla fosse stata rubata per il valore dello zaffiro. Solo lei ha pensato a considerare anche il lato pratico di quell'oggetto. Bravo, Gillette.» Lui fece un rapido inchino, mentre tutta la compagnia scoppiava in un applauso spontaneo. «Siete molto gentili» disse. «Ma ora, signori e signo-
re, se non ci sono altri problemi vorrei continuare con le prove. Atto primo, scena quarta, se non ricordo male...» Diverse ore dopo, bussai alla porta del camerino di Gillette. Lui mi fece entrare e mi offrì un bicchiere di ottimo Porto. Ci sedemmo su due sgabelli da trucco e restammo per qualche istante in un piacevole silenzio. «Ho sentito dire che la signorina Fenton ha deciso di non denunciare Quinn» dissi, dopo un po'. «Ne ero sicuro» ribatté Gillette. «Non credo che il suo ricco ammiratore avrebbe apprezzato la pubblicità. Tuttavia, non possiamo più tenere Quinn con noi. Frohman lo ha già licenziato e si è messo in contatto con un altro ragazzo che era candidato al ruolo, Charles Chapman.» «Chaplin, se non sbaglio.» «Sì, Charles Chaplin. Credo che imparerà la parte in fretta.» «Non ne dubito.» Bevvi un sorso di Porto. «Gillette» dissi. «C'è ancora una cosa che mi disturba in questa faccenda.» Lui sorrise e prese la pipa. «Lo immaginavo» commentò. «Lei ha detto di aver capito che Quinn era il colpevole dalle tracce di cipria sul suo costume.» «Esatto.» Sollevai un braccio. «Ma ci sono tracce di cipria della signorina Fenton anche sulla mia manica. Devo essermela sporcata durante la ricerca della spilla nel camerino.» «Certo» disse Gillette. «E la stessa cosa deve essere successa anche agli altri.» «Probabile.» «Perciò anche Quinn avrebbe potuto sporcarsi durante la ricerca e in questo caso le tracce non sarebbero state incriminanti, per lui.» Gillette mi fissò, divertito. «Forse ho notato la cipria sulla manica di Quinn prima che iniziasse la nostra perquisizione del camerino.» «È così?» Sospirò. «No.» «Allora si trattava di un bluff? Tutto quel discorso sull'osservazione dei particolari non era altro che una sciocca posa?» «Ha portato Quinn a confessare, amico mio, quindi non è stata del tutto sciocca.» «Ma lei non aveva idea di chi fosse il colpevole, fino al momento in cui
Quinn si è spaventato e ha cercato di fuggire!» Gillette esalò una serie di anelli di fumo verso il soffitto. «Proprio così» ammise. «Ma come le ho già ripetuto diverse volte, il fatto è che io non sono Sherlock Holmes.» Scott Wolven INCENDIO AUTORIZZATO (Da Harpur Palate) L'inverno era stato brutto e la primavera anche peggiore. Poi venne l'estate in cui Bill Allen visse e morì, l'estate afosa in cui io trovai lavoro come taglialegna per la segheria di Robert Wilson, dalle parti di Orford, nel New Hampshire. Il caldo torrido di giugno si fuse con i vapori pesanti di luglio. Ondate di calore salivano dall'asfalto al passaggio dei camion di legname. Verso la fine di luglio cominciammo a tagliare legna per la stufa. Io ne tagliavo circa trenta tonnellate al giorno, mentre Robert lavorava con il cuneo idraulico. Poi facevamo le consegne con uno dei nostri camion a cassone ribaltabile. Certi clienti venivano a prendersi la legna direttamente in segheria. Alcuni avevano gli stivali e le giacche macchiati di sudore. Altri puzzavano di birra. La maggior parte puzzava di benzina. Non parlavano molto, pagavano la legna e se la portavano via sui loro pick-up. Erano occupati a lavorare o a vivere le loro menzogne, che è un lavoro pure quello, come io sapevo bene. L'attività ferveva e le lattine di birra vuote si accumulavano l'una sull'altra, aggiungendosi alla pila di vuoti a perdere della mia vita. L'estate proseguì, grigia a dispetto del sole splendente. Quel venerdì, io ero Bill Allen. Lo fui per tutta l'estate. Bill Allen era il motivo per cui avevo un soprassalto ogni volta che squillava il telefono. Ero Bill Allen di Glens Falls, New York, e mi ero trovato un lavoro nella pausa estiva dell'università. Ripetevo quella storia ad alta voce, il più possibile. E a ogni telefonata pensavo fosse qualcuno che mi chiedeva di provare che ero davvero Bill Allen. A dicembre, mentre vivevo un'altra menzogna, avevo cercato di rapinare una stazione di servizio a Cape May, nel New Jersey. Era bassa stagione, non c'era nessuno in giro e credevo che sarebbe stato facile. Era un'azione adatta al tipo di persona che fingevo di essere. Alla cassa c'era una ragazza. Io avevo un passamontagna di seta e una pistola semiautomatica. Probabilmente avevo toccato il grilletto, perché la pistola aveva sparato. Forse la ragazza era ancora viva. Non potevo
saperlo. Ero fuggito a tutta velocità. Avevo il cervello in fiamme, non volevo spararle. Ma ormai era tardi per i rimpianti. Poi ero finito a lavorare da Robert. Lui pagava in contanti alla fine della settimana, non faceva domande sul servizio militare e non chiedeva referenze. E senza il figlio ad aiutarlo, il lavoro era davvero tanto. Bill Allen era l'uomo giusto per lui e ogni giorno io ero Bill Allen, al meglio delle mie capacità. Ma non serviva. Il mio passato gettava ombre lunghe nella valle del fiume Connecticut. Osservavo ogni auto, studiavo ogni viso. Bill Allen non viveva in pace un solo giorno. Se non fosse stato per il carico di lavoro che Robert esigeva, non avrebbe mai dormito. Probabilmente avrei sparato a Bill Allen io stesso, se non avessi avuto tanto da fare per mantenerlo in vita. Oggi, a volte Bill vive ancora, sotto nomi diversi. Allen Williams, Al Wilson, Bill Roberts. Bill Allen probabilmente morì quell'estate in un incendio. Perciò niente più domande su di lui. Il telefono, quel venerdì, squillò verso mezzogiorno. Lo sentii, come sempre. Quell'agosto il figlio di Robert era in galera, in attesa di giudizio per percosse e tentato omicidio, quindi arrivavano molte telefonate. Robert aveva collegato al telefono due altoparlanti, uno fissato alla canna fumaria che usciva dal soffitto del nostro capanno e l'altro legato con il filo di ferro all'olmo malato vicino al cancello. L'urlo improvviso del telefono che riecheggiava tra le cataste di tronchi mi faceva sobbalzare almeno due volte al giorno. La segheria si trovava in una conca naturale, circondata da basse colline, a poca distanza dalla statale. Nelle giornate tranquille, il mormorio del fiume a quasi mezzo chilometro di distanza era la cornice in cui si inserivano tutti gli altri suoni: il cinguettio degli uccelli, lo stormire delle fronde nel vento... Io non facevo mai parte di quelle giornate. Il suono del telefono sovrastò il ruggito del mio Maxi-lift giallo, il vecchio sollevatore diesel che usavamo per tenere in ordine il legname. Stavo spostando un carico di dodici tonnellate di acero del New Hampshire in fondo alle cataste di legna da ardere per l'inverno. Il telefono squillò di nuovo. Non che credessi davvero che fosse per me. La maggior parte delle volte spegnevo il motore, correvo fino alla baracca, sollevavo la cornetta e qualcuno diceva: «C'è Robert?» e riagganciava non appena io rispondevo che non c'era. A volte capivano dalla voce che non ero Robert e riattaccavano senza dire una parola. E io riprendevo a respirare. Erano solo persone del posto, che mi trattavano come se non fossi capace di prendere un'ordinazione di legna. Oppure era il centralinista della prigione, che chiedeva se
ero disposto ad accettare una chiamata a carico del destinatario da parte di John Wilson, detenuto nel carcere di Merrimack. In quel caso rispondevo di sì e andavo a cercare Robert. Nessuno voleva parlare con me e io non volevo parlare con nessuno. Perciò quella volta lasciai che il telefono squillasse. Avrebbe risposto Robert. Oppure non si sarebbe preso il disturbo di farlo. «Sanno dove trovarmi» diceva spesso. «Lavoro nello stesso posto da trent'anni. Se non sanno neppure dove venirmi a cercare, che cavolo ci parlo a fare?» La voce di Robert aveva il suono della ghiaia scaricata da un camion. Anni e anni di sigarette accumulati nell'immenso torace. Non c'era nessuna insegna all'entrata della segheria. Quello era il posto di Robert Wilson e tutti lo sapevano. Robert uscì dalla baracca e mi fece segno di spegnere il motore. Io girai la chiavetta, tirai il freno a mano e lo raggiunsi. Lui socchiuse gli occhi per proteggersi dal sole e disse: «Era Frank Lord. Vuole la sua legna per domani». Estrasse dalla tasca venticinque dollari e me li diede. Quello era il nostro accordo. Cinquanta dollari se dovevo lavorare di sabato, venticinque anticipati. «Puoi farcela, no?» Annuii. «Quanta roba è?» «Sette tonnellate. Più un'altra mezza di quella essiccata.» Robert aveva convertito un vecchio container in un essiccatoio e la maggior parte dei suoi clienti ordinava carichi misti di legna stagionata all'aria aperta e nell'essiccatoio. La stagionatura artificiale permette al legno di sviluppare più calore, quando brucia. Nella stufa, sette tonnellate di legna normale mescolate con mezza di quella essiccata artificialmente producevano più calore di quattordici tonnellate di legna stagionata all'aria. E quando la stufa deve riscaldare un'intera casa, ogni ceppo deve rendere al massimo. Robert vendeva più cara la legna dell'essiccatoio e nessuno se ne lamentava. Mi tolsi il berretto della Texaco. «Se non vuoi mescolarla, dobbiamo prendere due camion.» La fattoria di Lord era a cinquanta chilometri di distanza, vicino a Newbury. Da quella parte il fiume faceva un'ansa a ferro di cavallo, voltando brevemente a nord per poi riprendere il suo corso normale verso sud. La terra di Lord racchiudeva quell'ansa, sul confine tra il Vermont e il New Hampshire. Era il posto più bello del mondo. I campi, i boschi e i cieli più belli che Bill Allen avesse mai visto. Un giorno Robert e io ci eravamo passati davanti, mentre andavamo a ritirare una motosega a Wells River. Guardando dal camion i campi verdi e
gli edifici bianchi della fattoria, avevo pensato che forse un giorno avrei potuto abbandonare la menzogna di Bill Allen e costruirmi una vita da qualche parte. Quell'ansa del fiume mi aveva fatto tornare in vita per qualche minuto, in cui tutto si era fermato. Poi, mentre la fattoria svaniva in lontananza, ero tornato a essere Bill Allen, lo zombie. Robert mi stava parlando. «Stobe può guidare il camion piccolo.» Stobik viveva a sud della segheria, a White River Junction, e di tanto in tanto faceva qualche lavoretto per Robert. La moglie di Stobik era enorme, come la casa in cui abitavano. Non aveva il telefono e, quando Robert aveva bisogno di lui, andavo a prenderlo io la mattina presto. Parcheggiavo la mia Bronco scassata nel cortile e rimanevo ad aspettare finché lui usciva. A volte alla finestra appariva una mano bianca e sottile, che faceva segno di no. Troppo ubriaco per lavorare. Una volta che le cose con la moglie si erano messe male, era venuto a stare per un mese alla segheria. Era magro come un chiodo e non si lavava quasi mai. Aveva i denti rotti e ingialliti e le dita macchiate di nicotina. Ma tagliava e accatastava la legna più rapidamente di chiunque altro, per la metà della paga. «Passerò a prenderlo domattina» dissi. «No, ci penso io. Stasera passo da lui e gli chiedo di dormire sotto il portico. Voglio essere sicuro che domani sia in grado di lavorare.» Robert rientrò nella baracca. Io preparai il carico di legna per Frank Lord e poi tornai nella soffitta sopra una rimessa che chiamavo casa. Il mattino dopo, ero alla segheria alle cinque e mezzo. Era ancora buio. Robert, seduto sul suo pick-up, stava bevendo un caffè e mangiando un uovo sodo. Aveva i fari accesi. Con la mia macchina mi avvicinai lentamente alla portiera aperta. «Pensavo che avresti tardato» disse. Scesi dalla Bronco e salii sul camion bianco grande con rimorchio, mentre Robert si sistemava al posto di guida. Stobik salì al volante del camion piccolo. Nel cassone del camion grande c'erano parecchie catene da tronchi. Robert le aveva lasciate lì dopo l'ultimo carico. Ne aveva un magazzino pieno a casa. Le caricava sul camion e procedeva alla pesatura, poi le usava per il lavoro e le lasciava lì. Il cliente pagava la differenza. Quelle catene dovevano essere state pagate innumerevoli volte. Il portafusibili era aperto sul lato del passeggero, perciò ogni pezzo di metallo che saltava durante il percorso poteva causare una scintilla o peg-
gio. Sarebbe stato un viaggio alquanto teso. Partimmo per North Haverhill dal lato del fiume Connecticut che apparteneva al New Hampshire. Il sole cominciava a splendere nel cielo. Il camion a pieno carico non superava i cinquanta all'ora. Stobik era sempre dietro di noi, con le doppie frecce accese. Robert scalò la marcia per affrontare una salita. Poi si accese una sigaretta. «Quando avevo quindici anni,» raccontò «scappai di casa e andai a finire nella fattoria di Frank Lord.» «Non lo sapevo» dissi. «Frank mi fece lavorare tanto che pensavo di morire. Ma mi ha raddrizzato le ossa. È stata la cosa migliore che mi sia mai capitata.» «Perché eri scappato? Che problema avevi?» «Brutto carattere» rispose Robert. «Brutto carattere e alcol.» «A quindici anni?» Lui annuì. «A quell'epoca, quindici anni erano come trentacinque oggi. Avevi un lavoro, una macchina... Ti lasciavano fare la tua vita e, se non ti piaceva, potevi anche togliere il disturbo.» Aspirò una boccata dalla sigaretta e non disse più nulla per il resto del viaggio. Frank Lord ci aspettava nel vialetto d'ingresso. Portava una maschera a ossigeno, collegata a una grossa bombola verde accanto a lui. Alle sue spalle, i campi si stendevano fino al fiume. La grande fattoria avrebbe avuto bisogno di essere ridipinta e anche granai e magazzini avrebbero tratto beneficio da una mano di intonaco. Accanto alla casa c'era un pick-up nuovo di zecca e sul tetto dell'edificio notai una banderuola in ferro battuto a forma di cavallo rampante. In quel momento puntava a nord. «Che cosa c'è, state cercando di farvi notare?» disse Frank. La voce suonava attutita dietro la maschera e il fiato produceva condensa. Indicò il magazzino più vicino. «Mettete lì la legna. Non mescolatela.» Lui e Robert si avviarono lentamente verso la casa e si sedettero sotto il portico. Stobik e io cominciammo a scaricare. Stobik lavorava veloce, in silenzio, con una specie di sorriso perpetuo sul viso. Le sue cataste erano le più dritte e squadrate che avessi mai visto. Appena finito, raggiungemmo Robert e Frank sotto il portico. Era circa mezzogiorno. «C'è un altro lavoretto da fare» disse Frank, tendendo un pezzo di carta. «Di che cosa si tratta?» chiesi. «Ieri mattina è passato di qui il giudice Harris. In visita non ufficiale. Conosco la sua famiglia da oltre cinquant'anni.» La brezza agitò le barbe del granturco. «Mi ha detto che la polizia di Stato ha ricevuto una soffiata,
secondo la quale io coltiverei marijuana, e sta cercando di ottenere un mandato per controllare i miei campi e la casa. Harris mi ha lasciato questo» disse, tendendo di nuovo il foglio. Lo lessi. Si trattava di un permesso speciale, valido un giorno, per un incendio autorizzato. «Che cosa dobbiamo fare?» chiesi. «Bruciare tutto. Fino al fiume.» Distolse lo sguardo per un attimo, poi fissò me e Stobik negli occhi. «Nel caso in cui un po' di quell'erba si sia mescolata per caso con il mio granturco.» Robert venne come supervisore. Lui e io riempimmo di benzina uno spruzzatore e inzuppammo una buona parte del campo, lasciando in mezzo una striscia completamente asciutta. Poi, a bordo del trattore, superammo un filare di alberi e raggiungemmo un altro campo di granturco, enorme, che arrivava fino al fiume. In mezzo al campo c'era una piccola baracca bianca. «Ho abitato lì, con la mia prima moglie» disse Robert. Mi voltai a guardarlo. «Non sapevo che fossi stato sposato.» «Non è durato molto» disse lui. Indicò la baracca con un cenno del capo. «Vivere in un posto come quello non favorisce l'armonia della coppia. E io allora avevo un brutto carattere.» Annuii. «Dobbiamo bruciare anche quella?» «Certo.» Robert si asciugò la fronte con un fazzoletto da collo rosso. Il sudore gli gocciolava dal mento. «E se c'è qualcuno dentro?» «Brucerà con la casa. Frank non vuole abusivi.» Robert sputò nel campo. «Mi ha detto di bruciare tutto e questo è ciò che faremo.» Guardò la distesa di granturco che arrivava fino al fiume. «Farà più caldo che all'inferno» disse. «Dopo oggi, non avrai mai più freddo in vita tua.» Diresse il trattore verso la baracca. «Sta' a vedere che cosa succede ora» mi urlò, sovrastando il frastuono del trattore. Ci avvicinammo alla baracca. I vetri delle finestre su un lato erano rotti. Robert prese lo spruzzatore e diresse un getto dentro la casa. Uno sciame di vespe uscì dalla finestra. Alcune di loro si muovevano lentamente sugli infissi. Vedevo le loro teste da insetti, i corpi divisi in sezioni e i pungiglioni. Erano inzuppate di benzina. «Getta un fiammifero» disse Robert. «No» risposi, indicando lo spruzzatore e la tanica di benzina sul trattore. «Esploderanno.» «La benzina non brucia» disse Robert. «È bagnata... e le cose bagnate non possono bruciare. Sono i vapori, che bruciano.» Estrasse dalla tasca un
fiammifero, lo accese contro la fiancata del trattore e lo gettò sulla benzina vaporizzata. Nell'aria si alzò una parete di fuoco, con un suono come una specie di gemito. Le vespe ora volavano all'impazzata e cercavano di attraversare le fiamme. La corrente d'aria le sollevava in alto mentre bruciavano. Una vespa infuocata atterrò sulla mia camicia e la gettai con una manata tra le piante. Adesso erano dappertutto e pungevano tutto ciò che toccavano. Una che aveva perso un'ala continuava a volare in un cerchio di brace. Un'altra prese fuoco mentre usciva dalla finestra e continuò a volare sul campo finché fu ridotta in cenere. Robert fece marcia indietro e diresse il trattore verso il fiume. Inzuppammo di benzina il granturco anche da quella parte. «Il fuoco andrà in cerca della benzina» disse Robert. «La parte che abbiamo lasciato asciutta, nel mezzo, brucerà più lentamente.» Decidemmo di fare così: Stobik avrebbe portato il camion dall'altra parte del ferro di cavallo formato dal fiume. Poi io avrei acceso il fuoco anche sulla riva dove eravamo noi, in modo che le fiamme impetuose si fermassero lì senza superare il fiume. Robert tornò indietro con il trattore, lasciandomi lì con una scatola di fiammiferi. Riuscivo appena a vedere la baracca al di là delle pannocchie. Il fiume scorreva alle mie spalle, mormorando tra i sassi. Tutto era immobile e il mio cuore per la prima volta da molto tempo era calmo. Bill Allen sapeva che era arrivato per lui il momento di morire. Sapeva di dover tornare nel luogo in cui era nato e rispondere del crimine che lo aveva generato. Udii un colpo di clacson dal camion. Era il segnale che Robert era uscito dal campo. Accesi un fiammifero e, mentre il granturco prendeva fuoco, Bill Allen decise di morire tra le fiamme. Saltai nel fiume. L'acqua doveva essere fresca, ma a me sembrò bollente. Salii sull'altra riva in tempo per vedere crollare la baracca dove aveva vissuto Robert. Le pareti e il tetto si erano incendiati come se fossero stati di carta. Il fuoco emanava un calore così intenso che non era possibile neppure guardarlo. Mi allontanai dalla riva e trovai Stobik che mi aspettava sul camion piccolo. Una nuvola nera si alzava nell'aria, sopra l'orizzonte azzurro, e si estendeva per chilometri. Era come se avessimo macchiato il cielo per sempre. Quando tornammo alla fattoria di Lord, Robert stava cercando di mandare via i vigili del fuoco, che erano arrivati a sirene spiegate, e mostrava lo-
ro il permesso che il giudice Harris aveva rilasciato a Frank. Stobik e io rimanemmo sul camion. A un certo punto, le fiamme del campo superarono in altezza la fattoria. Stobik fece retromarcia, per paura che il parabrezza si crepasse. Alla fine io scesi e andai a sedermi sul camion grande. Mi addormentai. Era già notte quando Robert salì al posto di guida e sbatté la portiera, svegliandomi di soprassalto. I campi bruciavano ancora e l'odore acre del fumo era l'unica cosa che riuscivo a sentire. Tornammo lentamente alla segheria e io dormii là, dentro la mia Bronco. Il mattino dopo, domenica, sarei andato a costituirmi. Bill Allen era morto. Lo squillo ripetuto del telefono mi svegliò. Vidi Robert che entrava nella baracca per rispondere. Ne uscì poco dopo e si avvicinò alla Bronco. Scesi e lui mi mise in mano un bicchiere di plastica pieno di caffè. «Hai dormito bene?» chiese. Annuii, e lui continuò: «Era mio figlio John. Domani ci sarà il patteggiamento e gli daranno due anni. Io andrò a Concord per essere presente alla lettura della sentenza. Tu prenditi il tuo giorno libero». Estrasse dalla tasca un rotolo di banconote e me lo diede. «Perché?» chiesi. Lui mi fissò, socchiudendo gli occhi. «Ti servono, sì o no?» Nella sua voce percepii amore, puro e semplice. Annuii. Robert si voltò e tornò verso la baracca. Quando si fu chiuso la porta alle spalle, salii in macchina e uscii sulla statale. Mi diressi a nord e attraversai il confine con il Vermont, passando accanto ai campi bruciati, che fumavano ancora. La fattoria di Lord era avvolta in una nube grigia. Non trovai il coraggio di costituirmi. Passai l'inverno in un campo di taglialegna, nel Quebec. Una volta telefonai, da una cabina fuori da un ristorante, nel Dakota. Riconobbi immediatamente la voce di John e riagganciai. In seguito, molto più tardi, in un'altra vita, con un altro nome, eravamo in macchina e qualcuno mi passò un atlante stradale. Lo sfogliai fino a trovare il Vermont e il New Hampshire, sulla stessa pagina. Seguii con il dito il confine segnato dal fiume Connecticut e, quando il dito raggiunse il ferro di cavallo, lasciai cadere l'atlante. Per una frazione di secondo mi sembrò che la pagina fosse caldissima. Sentii il ruggito dell'incendio e' vidi bruciare la baracca bianca. Tra le fiamme, Bill Allen cavalcava in groppa a un cavallo nero. Tre forme scure lo seguivano. Lo raggiungevano e lo trascinavano urlante nel fuoco.
Anni dopo, nel reparto di sicurezza del Western State Hospital, a Tacoma, vidi un uomo in camicia di forza legato a una barella. Mi avvicinai a lui. «Credevo che non si usassero più le camicie di forza» dissi. L'uomo riusciva a stento a muovere la testa. «Invece si usano ancora.» Rimase in silenzio mentre passava un medico in camice bianco, poi disse: «Amico, mi gratteresti la schiena?». Allungai la mano e grattai. Ovunque c'era odore di etere. «Più forte» disse lui. «Altrimenti non sento niente.» Mi fissò. «Ho sempre freddo, qui» aggiunse. «Credo che vogliano risparmiare sul riscaldamento. Tu non hai freddo?» Io scossi la testa e affondai le unghie nella tela, sopra la sua spalla destra. «Mi chiamo John Wilson» dissi. Lui mi fissò, con gli occhi spalancati per la sorpresa. «Quello è il mio nome» sussurrò. Smisi di grattare. «E qual è il tuo secondo nome?» chiesi. Lui scosse la testa, chiudendo gli occhi. «È uguale al tuo.» Rabbrividì. Faceva freddo, ma il mio camice di carta era intriso di sudore e il mio viso scottava. Sentii l'odore del fumo. Monica Wood QUELL'AUTUNNO (Da Glimmer Train Stories) Quell'autunno, quando Marie arrivò alla baita, notò che c'era qualcosa che non quadrava. Osservò con maggiore attenzione il bungalow di legno che lei ed Ernie avevano ereditato dal padre di lui, gli alberi e i cespugli che erano cresciuti nel corso degli anni, il pontile tirato a riva per la stagione. Rimase a guardare dalla macchina, con il motore al minimo, come se fosse una sorta di "trova l'errore", il gioco con cui suo figlio John trascorreva il tempo da piccolo, scoprendo i guantoni da sci addosso a uno sciatore d'acqua o le bottiglie del latte in salotto. Restava a fissare la pagina per ore con i suoi occhi blu, convinto che, trovato un errore, ne restassero sempre altri da scoprire. Davanti alla soglia una chiazza di sole. La giornata era serena e l'aria tersa del Maine avvolgeva ogni cosa di un tenue biancore. La ghiaia sembrava vagamente in disordine. Osservando la linea di cespugli che scende-
va al lago, Marie cercò di individuare segni di movimento. Dietro la fitta rete del portico anteriore le sembrò di vedere gli schienali di vimini delle sedie. Spense il motore, cercando di ricordare se aveva avuto il tempo di riordinare il portico, l'ultima volta che era stata lì, all'inizio di agosto, per il compleanno di Ernie. Lui e John avevano litigato, come sempre, e forse tra la confusione e il silenzio che era seguito, lei aveva dimenticato di mettere in ordine. Era possibile. Scese dall'auto e diede un'occhiata in giro. Tutto sembrava diverso, dopo solo poche settimane: il lago più nero, le erbacce in mezzo ai fiori, le sedie sotto il portico decisamente fuori posto. Ernie ne aveva spinta una, lo ricordava, e John aveva reagito rovesciando la sedia verde prima di uscire e dirigersi verso il lago. Quel fine settimana, come tanti altri, avevano cominciato tutti con le migliori intenzioni, solo per scoprire ancora una volta che erano male assortiti, come genitori e figlio. Così lei aveva rimesso a posto le sedie, ora ne era certa, mentre fuori i passi rabbiosi di Ernie scricchiolavano sulla ghiaia e nel lago John colpiva l'acqua con furiose bracciate. Salì i gradini e aprì la portafinestra, che non era chiusa a chiave. «C'è qualcuno?» gridò, con un po' di paura. «Prendi il cane,» le aveva detto Ernie «ti farà compagnia.» E ora Marie si pentiva di non aver seguito il consiglio, anche se la cagna, una yorkshire terrier di nome Honey Girl, era minuscola e di nessun aiuto in un momento difficile. «Non voglio compagnia, Ernie. È solo una settimana, a sessanta chilometri di distanza. Non intendo lasciarti.» Marie stava attraversando una crisi emotiva, dopo che la partenza di John per l'università li aveva lasciati entrambi in una specie di stupore. «Ma sei ancora debole» aveva detto Ernie. «Guarda come sei pallida.» Lei aveva messo nel bagagliaio una scatola di acquerelli e un manuale sul fai da te, mentre John restava a guardarla, confuso. «Sono anni che non rimango un po' da sola» gli aveva spiegato. «Voglio ricordare come ci si sente.» John non era dovuto partire per il Vietnam, perché per fortuna sei mesi prima la guerra era finita e aveva scelto l'università di Berkeley, il più lontano possibile dai suoi genitori. E ora Marie voleva stare un po' da sola. Ernie l'aveva afferrata per la vita e lei aveva respirato la sua vicinanza. Uomo, cane, casa, cortile, fabbrica. Lo conosceva da tutta la vita e, a volte, quando si concedeva di pensarci, si chiedeva se non fosse stata proprio quella loro inconsueta intimità a trasformare il figlio in un estraneo. «Sii prudente» le aveva gridato dietro Ernie, mentre lei partiva. Quelle
parole le tornarono in mente, ora che dalla porta socchiusa intravedeva un angolo di cucina che stentava a riconoscere: barattoli di marmellata aperti sul bancone, strofinacci appallottolati, una scatola di fiocchi d'avena rovesciata, una spazzola per capelli, un rossetto schiacciato. Attraverso la finestra, Marie vide nell'altra stanza un sacco a pelo davanti al caminetto, con accanto un bicchiere vuoto e un paio di libri. Sentì che le mancava il fiato, ma non aveva paura, perché aveva riconosciuto quel disordine come tipicamente femminile. Entrò di corsa e iniziò a guardare in tutte le stanze, come una madre irritata. Trovò il water pieno di urina, il corridoio ingombro di roba da campeggio e le due camere da letto quasi intatte, a parte uno zainetto macchiato gettato sul letto matrimoniale. Marie tornò nel portico con lo zainetto in mano e lo gettò sulla ghiaia. Lo sforzo la fece piegare in due. Ernie aveva ragione: il suo corpo non si era ancora ripreso da quello che aveva passato. Ma quella fitta allo stomaco fece aumentare la sua rabbia. Poi udì il rumore di qualcuno che risaliva il sentiero dal lago verso la casa. Fruscio d'erba, ciottoli smossi. Era una ragazza. Comparve alla luce del sole completamente nuda, con un asciugamano sotto il braccio. Vedendo la macchina, si fermò e guardò verso la casa. «E tu chi diavolo sei?» disse Marie lentamente. La ragazza la fissò, evidentemente priva di vergogna. Le costole sporgevano attraverso la pelle bianchissima. I capelli bagnati e i peli pubici erano biondi e sottili. «Merda!» esclamò. «Che fregatura.» Poi piegò la testa in un'espressione di sfida che Marie aveva visto innumerevoli volte sul volto di suo figlio. «Copriti» le ingiunse Marie. La ragazza obbedì, senza fretta, sistemandosi l'asciugamano sulle spalle. Attraversò tranquillamente il cortile, raccolse lo zainetto e salì i gradini, passando accanto a Marie ed entrando in casa. Marie la seguì dentro. Odorava di lago. «Vattene, prima che chiami la polizia» disse. «Il telefono non funziona» comunicò la ragazza, stizzita. «E neppure lo scarico del bagno.» Era ovvio che non funzionasse niente, visto che avevano chiuso acqua, luce e tutto il resto, dopo il loro ultimo soggiorno. John ed Ernie avevano trovato il modo di litigare di nuovo mentre tiravano a riva il pontile mobile. Ernie andava troppo piano, John troppo veloce e, nel frattempo, non smettevano di discutere su Richard Nixon, se fosse corrotto, oppure no, e
se dovesse rassegnare le dimissioni subito, oppure no. «Ti ho detto di andartene. Questa è casa mia.» La ragazza frugò nello zainetto, ne tirò fuori mutandine, jeans e una camicia dal profumo penetrante e si vestì. Mentre si asciugava la testa, i suoi capelli diventarono più chiari, quasi bianchi. Fissò Marie con uno sguardo vuoto e stolido come un muro di cemento. «Ho detto fuori!» gridò Marie, agitando le chiavi della macchina. «Ho sentito.» «Allora muoviti.» La ragazza lasciò cadere l'asciugamano, prese un pettine e se lo passò tra i capelli sottili. Poi lo rimise nello zainetto e ne estrasse un coltello a serramanico, che aprì con uno scatto secco. «Facciamo così. Gli ordini li do io e tu chiudi la bocca.» Marie uscì e corse verso l'auto, ma una fitta di dolore la lasciò senza fiato. La ragazza fu molto veloce e l'afferrò per un polso prima che si riprendesse. «Non fare scherzi» la minacciò, in tono freddo. «Io sono imprevedibile.» Si guardò in giro. «Aspetti qualcuno?» «No» ammise Marie, troppo sconvolta per pensare. «Allora siamo solo noi ragazze.» Sorrise in modo strano, poi tese il palmo e Marie le consegnò le chiavi della macchina. «Hai portato qualcosa da mangiare?» «È nel bagagliaio.» La ragazza la minacciò con il coltello. «Non muoverti.» Atterrita, Marie rimase a guardarla, mentre apriva il bagagliaio e, dopo aver frugato tra le sue provviste, si ficcava in bocca un pomodoro e allungava la mano in cerca del pane. Un rivolo di succo di pomodoro le colò lungo il collo. Osservando la ragazza e i suoi movimenti veloci e spaventati, Marie sentì la paura trasformarsi in una morbosa curiosità. Quella giovane magra come un chiodo sembrava improbabile come assassina. I polsi esili avevano un aspetto fragile e l'incredibile bianchezza le conferiva l'aspetto di un fantasma. In pochi secondi, Marie si sentì prendere dalla compassione materna. «Quando è stata l'ultima volta che hai mangiato?» chiese. «Non sono affari tuoi» rispose la ragazza, con la bocca piena di pane. «Quanti anni hai?» Lei finì di masticare poi disse: «Diciannove. Che te ne importa?». «Ho un figlio della tua età.»
«Felice di saperlo» disse la ragazza. Poi le passò una borsa di cibo e la seguì in casa trasportando lei l'involucro più pesante, con i piedi nudi che producevano rumori animaleschi sulla ghiaia. Appena dentro, aprì una scatola di cereali Cheerios. «Vuoi metterci un po' di latte?» chiese Marie. Tutt'a un tratto, gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. Annuì, asciugandosi il viso con il dorso della mano. «Io non sono così» disse. Sollevò il coltello. «E questo non è mio.» «Di chi è?» chiese Marie, versando del latte in una scodella. «Del mio ragazzo.» Non disse altro per qualche minuto, finché non ebbe divorato due scodelle di latte e cereali. Si alzò e andò a sedersi sul divano letto decorato con motivi ad ancora, che Ernie aveva comprato per far piacere a John, il quale ovviamente aveva fatto finta di non vederlo neppure. «Dov'è il tuo ragazzo?» chiese alla fine Marie. «Fuori a comprare da mangiare.» Un rapido lampo negli occhi fece intuire qualcosa a Marie. «Da quanto tempo è via?» Lei attese un attimo prima di rispondere. «Da un giorno e mezzo.» Marie annuì. «Forse ha avuto un guasto alla macchina.» «L'ho pensato anch'io.» La ragazza indicò la cucina con un gesto del braccio esile. «Mi dispiace per il casino. Lui è così. È già molto che sappia usare la carta igienica.» «Allora forse dovresti trovarti qualcun altro» osservò Marie. «Sono stata io a insistere per non dormire nei letti. Li abbiamo lasciati intatti.» «Grazie.» «E non è stata un'idea mia quella di forzare la porta ed entrare in casa.» «Ne sono certa.» «Lui è più o meno nei guai e io sto più o meno con lui.» «Ah» disse Marie, guardandosi intorno in cerca di corpi contundenti. Attizzatoio, vocabolario, bastone delle tende. Non immaginava certo di usarli sulla ragazza, il cui corpo sembrava tenuto insieme dal filo. «Ha rapinato una stazione di servizio. Anzi due, in realtà. A Portland.» «Sembra una cosa seria.» Lei sorrise appena. «È un tipo che fa sul serio.» «Tu meriti di meglio, non credi?» disse Marie. «Una bella ragazza come te.» La ragazza si irrigidì. «Quanti anni hai?»
«Trentotto.» «Sembri più giovane.» «Ma non lo sono» disse Marie. «A proposito, mi chiamo Marie.» «Io Tracey.» «Dimmi una cosa, Tracey: sono tua prigioniera?» «Solo finché lui non torna. Poi ce ne andiamo.» «Dove siete diretti?» «In Canada, dove lui sarebbe già dovuto andare sei anni fa.» «È un reduce del Vietnam?» Tracey annuì. «La guerra fa schifo.» «Questa è una riflessione molto profonda.» «Non tentare troppo la fortuna, Marie» la mise in guardia Tracey. «È stata una settimana davvero molto lunga.» Trascorsero le ore seguenti sedute sotto il portico. Marie su una sedia, con i pensieri in fermento. Tracey sui gradini, con il coltello in mano. A un certo punto Tracey si alzò e andò verso un'aiuola, si abbassò i jeans e fece pipì sugli iris appassiti, senza perdere di vista Marie neppure un secondo. Marie, cresciuta in un'altra epoca, trovò la situazione molto imbarazzante. L'unico conforto era il pensiero che il ragazzo di Tracey avesse davvero tagliato la corda, come sembrava. Tracey fissava lo spiazzo antistante la casa come se sperasse di far materializzare il suo uomo con la sola forza del desiderio. «Come si chiama?» chiese Marie. «Non sono affari tuoi. Ci siamo conosciuti a lezione di chimica.» Fece un sorriso ironico notando lo sguardo sorpreso di Marie. «Primo anno di medicina.» «E pensate di riprendere gli studi?» Tracey gettò la testa all'indietro e rise, mostrando due file di denti perfetti. «Sì, certo. Lui in realtà è andato a pagare le tasse universitarie.» Marie trasse un profondo respiro, mantenendo la calma. «È solo che trovo difficile credere...» «Lo so» disse Tracey, guardandola di traverso. «Le persone come te non sono mai disposte a credere il peggio su qualcun altro.» Marie chiuse gli occhi, desiderando Ernie. Lo immaginò che usciva dal lavoro più o meno a quell'ora, allontanandosi dalla fabbrica con la gavetta del pranzo e il berretto, le spalle curve all'idea della casa vuota. Desiderò essere lì ad aspettarlo, per sedersi con lui sotto il portico, con una caraffa di limonata, e parlare di com'era andata la giornata.
Era una scena che si ripeteva da anni, ma che riservava sempre qualche piacere. Oggi avrebbero parlato di John, avrebbero pensato di chiamarlo e, alla fine, avrebbero deciso che era meglio non farlo. «Sei sposata?» chiese Tracey, come leggendole nel pensiero. «Da vent'anni. Ci siamo conosciuti alle medie.» «E come mai sei qui da sola?» «Non lo so» rispose Marie. Ma a un tratto lo seppe, guardando quella ragazza, che sicuramente da qualche parte aveva dei genitori preoccupati per lei. «So che cosa stai pensando» disse Tracey. «Non è possibile.» «Ti stai chiedendo come mai una brava ragazza come me sia finita così.» Marie non rispose e lei aggiunse: «Perché continui a fare quel gesto?». «Che cosa?» «Quello.» Indicò la mano di Marie, che si muoveva in senso circolare sul ventre. «Sei incinta?» «No» disse Marie, togliendo la mano. Ma lo era stata, per quasi tutta l'estate. Durante le ultime settimane in cui John era rimasto con loro, lei era incinta. Una cosa assolutamente imprevista. Lei ed Ernie si accarezzavano a letto, straniti e felici. Per mesi avevano mormorato progetti, persi in una specie di ubriachezza, in attesa che John tornasse a casa, a notte fonda. Allora si alzavano e lui, il loro primo figlio e non più l'unico, li fissava con gli splendidi occhi blu carichi di adolescenziale disprezzo e bisogno. Non gli avevano detto della gravidanza, che comunque era finita prematuramente il primo di settembre. Marie era crollata a letto e ci era rimasta per tre giorni, raggomitolata in posizione fetale, senza quasi aprire gli occhi gonfi. «Forse è meglio così» le aveva sussurrato Ernie, accarezzandole la schiena. Sentivano John che si muoveva in cucina, riempiendo gli armadietti di miso, crema di soia e altre cose di cui loro non avevano mai sentito parlare. Contava i giorni che mancavano alla partenza. Mentre Ernie le baciava i capelli, Marie teneva la mano sul ventre ferito, che aveva contenuto la loro seconda possibilità. «Forse non ne valeva la pena» aveva sussurrato Ernie. Parole che le avevano fatto male. Si era alzata di scatto a sedere. «Che cosa hai detto, Ernie? Hai detto qualcosa?» Avevano allevato John con le migliori intenzioni, desiderando per lui solo il meglio. Non avevano l'abitudine di ammettere le delusioni, di riconoscere il rimpianto e il dolore. La porta d'ingresso si era chiusa, segno che
John era uscito per un'altra nottata con i suoi misteriosi amici. Marie si era voltata verso il marito che amava - "Dio perdonami" - più di quanto amasse suo figlio. "Ritira quello che hai detto" avrebbe voluto dirgli, ma lui non aveva capito la supplica nei suoi occhi. «Forse ci avrebbe spezzato il cuore» aveva mormorato, tenendola abbracciata, come se parlasse tra sé. Marie aveva sentito le sue mani come quelle di un intruso. «Ernie, non dire altro» lo aveva pregato e lui aveva obbedito. Solo ora, tenuta prigioniera in casa propria da una ragazzina che sarebbe dovuta essere a scuola, Marie comprese che era venuta lì da sola per trovare un modo di perdonare Ernie. Che cosa aveva voluto dire con «Non ne valeva la pena»? Aveva voluto riferirsi, per caso, a John? Marie guardò il lago, oltre gli alberi. Lei ed Ernie avevano vent'anni, quand'era nato John. «Ora credi di essere innamorata» le aveva detto sua sorella. «Ma vedrai quando nascerà tuo figlio», intendendo dire con ciò che l'amore coniugale le sarebbe sembrato tiepido rispetto a quello tra madre e figlio. John si era rivelato un bambino equilibrato e diffidente, che in qualche modo li metteva in soggezione. E mentre cresceva, diventando sempre più un crittogramma che non riuscivano a decifrare, gli sforzi confusi che facevano per amarlo e capirlo rivelavano loro più cose su se stessi che su John. Ernie e Marie, innamorati l'uno dell'altra fin dai tempi della scuola, immaginavano che il figlio, da grande, avrebbe raccontato quella storia d'amore ai loro nipotini. Cose che si pensano a vent'anni. Marie voleva che John ricordasse la sua infanzia come la ricordava lei: una raccolta un po' sfocata di cartoline, in cui Ernie e Marie passeggiavano mano nella mano in qualche giardino pubblico, mentre il frutto del loro amore trotterellava pochi passi davanti a loro. Adesso, però, Marie dubitava della sua memoria. Forse John aveva davvero trotterellato allegramente, qualche volta. Ma lei ora riusciva a ricordarlo solo cupo e rassegnato, come se fosse già stanco di loro ancora prima di nascere. Ora sarebbero stati genitori migliori, aveva pensato Marie. Ora lei era in grado di amare meno Ernie, se questo era ciò che un bambino richiedeva. L'ombra dei cespugli si era allungata sullo spiazzo antistante la casa. Era il crepuscolo. Tracey si alzò. «Ho di nuovo fame. Tu vuoi qualcosa?» «No, grazie.» Tracey rimase in attesa. «Devi venire dentro con me.» Marie entrò per prima e rimase a guardare Tracey che si preparava un sandwich. «Suppongo che non ti sia venuto in mente che forse il tuo ra-
gazzo non tornerà» disse. Tracey addentò il sandwich. «Non mi è venuto in mente» confermò. «Se io stessi scappando, preferirei farlo da sola. Non ti sembra sensato?» Masticando lentamente, Tracey rivolse a Marie uno sguardo strano, come se le leggesse nella mente. «Tu stai fuggendo, Marie?» «Quello che intendo dire è che lui può muoversi più in fretta e arrivare più lontano senza un'altra persona al seguito.» Tracey trangugiò il boccone. «Quello che intendo dire io, invece, è che tu non sai un cazzo di lui. Né di me. Perciò tieni la bocca chiusa.» «Potrei darti un passaggio a casa.» «Senza le chiavi della macchina, non puoi.» Aprì il frigorifero e ingollò un sorso di latte direttamente dalla bottiglia. «Se avessi voluto tornare dai miei, l'avrei fatto già da tempo.» In casa era calata l'oscurità. Marie accese la luce della cucina. Lei e John non staccavano mai il contatore dell'elettricità, perché riattaccarlo a ogni nuovo ritorno era assai più complicato. Ogni tanto venivano anche d'inverno, per fare lunghe passeggiate nei boschi innevati. Era per John che si erano inventati quei passatempi, per lui la baita si era riempita di guide per riconoscere farfalle, insetti, uccelli e pesci. Ma John preferiva i puzzle accanto al fuoco o le veglie solitarie in riva al lago, lasciando ai genitori il divertimento di scoprire la natura. Loro portavano a casa pigne, pezzi di corteccia su cui incidere monogrammi, qualche volta la penna di un fagiano. John esaminava tutto con indifferenza e ascoltava le prediche dei genitori sulla bellezza del mondo, con l'aria condiscendente di chi è disposto a perdere un po' di tempo con il venditore di enciclopedie che ha bussato alla porta. «Perché non vuoi tornare a casa?» chiese Marie. «Mi interessa saperlo, davvero.» Ricordò la scena della partenza, all'aeroporto. John era stato insolitamente cordiale, permettendole di abbracciarlo a lungo e ringraziandola "di tutto", una frase di circostanza che lei avrebbe potuto riempire di significato negli anni a venire. Ernie, con le braccia massicce incrociate sul petto, aveva pianto, riuscendo solo ad annuire energicamente. Ma appena John era sparito alla volta del cancello d'imbarco, Ernie aveva preso la mano di Marie ed entrambi avevano saputo, senza bisogno di dirselo, che il loro primo e unico figlio non sarebbe più tornato. Avrebbe finito l'università, si sarebbe trovato un lavoro in California e li avrebbe chiamati due volte all'anno. «Mio padre è un ipocrita rompicoglioni, se proprio vuoi saperlo» disse
Tracey. «E mia madre è il suo zerbino.» «Forse hanno fatto del loro meglio.» «O forse no.» «Forse ci hanno provato, in un modo che tu nemmeno t'immagini.» Tracey la squadrò. «Mia madre ha quarantadue anni» disse. «Al tuo posto, alla sola vista del coltello, sarebbe strisciata a nascondersi sotto una sedia.» Marie tappò il barattolo della senape e lo rimise nel frigorifero. «È possibile, Tracey, che loro non abbiano mai trovato la chiave per arrivare a te.» Questa interpretazione sembrò piacere alla ragazza, che si ammorbidi un po'. «E tuo figlio dov'è?» chiese. «È appena partito per Berkeley.» Sulla bocca di Tracey apparve un sorriso ironico. «Ah.» «Che cosa significa "ah"?» chiese Marie. «Berkeley non è il posto adatto dove mandare un dolce ragazzino.» «Non ho mai detto che mio figlio sia un dolce ragazzino» disse Marie, sorpresa dalle sue stesse parole. Ma era vero: John non era mai stato dolce e forse non era mai stato neppure un ragazzino. «Sarai fortunata se, quando torna, avrà ancora il cervello che funziona.» «Sarò fortunata se torna.» Tracey aggrottò la fronte. «Stai cercando di fregarmi, eh? Con la storia della povera madre in pena. Probabilmente non hai neppure un figlio.» Incrociò le braccia. «Ma se ce l'hai ed è davvero a Berkeley, preparati.» «Senti, Tracey,» sbottò Marie, irritata «perché non prendi la mia macchina? Se sei tanto devota al tuo ragazzo, perché non vai a cercarlo?» «Perché non saprei dove cercarlo e tu, intanto, correresti al commissariato di polizia più vicino.» Tracey finì il sandwich e sciacquò il piatto, facendo sospettare a Marie che qualcuno le avesse insegnato almeno a tenere un po' d'ordine. Perfino i peggiori genitori del mondo possono riuscirci. Ebbe una visione confortante del figlio che sciacquava il suo piatto nel lavello di un pensionato universitario. «Il commissariato di polizia più vicino è a trenta chilometri» disse Marie. «Meglio così. Guarda un po' chi è tornato.» Una Valiant color fango, con un solo fanale acceso e il parabrezza crepato, era appena entrata nel vialetto. Tracey corse fuori e l'uomo al volante scese dall'auto come un'ombra indistinta. Marie fuggì verso la porta poste-
riore e batté sul chiavistello con i pugni. Lui la raggiunse in un attimo. Un uomo nodoso, dall'odore acre e dalle mani dure. La portò in cucina. Marie era quasi paralizzata dal panico. Poi, come il protagonista di un film muto, l'uomo la legò a una sedia con lacci di cuoio. «Ora vuoi dirmi come cazzo ce ne liberiamo?» ringhiò a Tracey. La ragazza sembrava spaventata e questo fece aumentare ancora di più il terrore di Marie. Il fatto che l'uomo fosse bello - occhi scuri, mascella squadrata e labbra piene - lo rendeva ancora più terrificante. «Che cosa avrei dovuto fare?» gemette Tracey. «Ascolta, l'ho tenuta qui per tutto il giorno, senza bisogno di...» «Dove sono le chiavi della macchina?» chiese l'uomo a Marie. «Ce le ho io» rispose Tracey, tirandole fuori dalla tasca. «Andiamocene, Mike. Per favore andiamo via di qui e basta.» «Hai soldi?» chiese l'uomo chinandosi su Marie. I suoi capelli lunghi le sfiorarono il braccio. Riusciva appena a respirare. «Nella mia borsa» disse con un filo di voce. «In macchina.» Lui uscì. Sul sedere dei suoi jeans sformati era cucita una riproduzione della bandiera americana. Sembrava affamato, con le braccia sottili e forti. Marie lo udì aprire la portiera della macchina e rovesciare sulla ghiaia il contenuto della borsetta. «Non è vero che ero iscritta a medicina» disse Tracey. «L'ho conosciuto a un concerto.» Lanciò un'occhiata fuori, con le labbra tremanti. «Sai quanto potere ho sulla mia vita, Marie?» sollevò la mano, accostando l'indice al pollice. «Tanto così.» Lui tornò, aprì il frigorifero e cominciò a riempirsi la bocca di cibo. Questo sembrò calmarlo un po'. Si guardò intorno. Poteva avere venticinque anni o quarantacinque. Era un uomo gravato dalla malasorte e da un animo meschino, che mascheravano la sua vera età. «Prendi la tua roba» ordinò a Tracey. «Ce ne andiamo da questo schifo.» Tracey cominciò a infilare il sacco a pelo in una borsa. Lui la osservava come istupidito. Marie sentì un conato di vomito, ma non poteva muoversi, neppure quel tanto necessario per coprirsi la bocca. Aveva le gambe divaricate legate alla sedia e le braccia dietro la schiena e provava la sgradevole sensazione di essere immobilizzata in uno spazio vuoto. Desiderava disperatamente chiudere le gambe e incrociare le braccia sul petto. Non voleva morire con le parti più intime esposte. «Sto per vomitare» annunciò, ma era troppo tardi perché un fiotto di bava e bile le stava già uscendo dal-
la bocca e colando sulla camicetta. Mike sollevò un braccio tatuato e la colpì con un manrovescio. La sedia si rovesciò e lei cadde all'indietro sul pavimento, provando un dolore lancinante. Emise un urlo disperato, poi rimase lì, inebetita, a fissare la stanza da sotto in su. Udì lo scatto del coltello e vide l'ombra di Mike calare su di lei. Chiuse gli occhi, in attesa di ciò che sarebbe seguito, ma poi li riaprì e fissò quelli dell'uomo, in cerca di un segno di umanità latente o di rimorso sepolto dal tempo. Rimasero così, occhi negli occhi, disperazione contro disperazione. «Merda, fallo tu» disse Mike a Tracey, lasciando cadere il coltello. Poi uscì. Marie lo udì mettere in moto la macchina, con la radio a tutto volume. I suoi occhi si chiusero. Un fruscio si materializzò dietro il suo orecchio sinistro. Era Tracey, china accanto a lei, con il coltello in mano. «Ssh» disse. «È un vigliacco e non sopporta la vista del sangue, ma mi picchierà se non gli obbedisco.» Diede a Marie un buffetto sulla guancia. «Perciò, facciamo finta che ti abbia ucciso.» Marie cominciò a piangere in silenzio. Pregò la Vergine Maria, una cosa che non faceva più da quando era bambina. Immaginò Ernie seduto sotto il portico, che sentiva la sua mancanza. John che lavava il suo piatto, nel pensionato universitario. Con incredibile tenerezza, Tracey le praticò un piccolo taglio sulla tempia, in mezzo ai capelli. Il dolore fu impercettibile, ma il sangue cominciò a colare in rivoli caldi. Tracey sollevò la lama insanguinata. «È solo un graffio» la rassicurò. «Ma le ferite alla testa sanguinano molto.» Da fuori arrivarono due lunghi colpi di clacson. «Ti sei scelta davvero una brutta vita, Tracey» commentò Marie. «Sì» convenne la ragazza, chiudendo il coltello nel palmo della mano. «Ma almeno l'ho scelta io.» «Tu non sai niente di me.» «Hai ragione. Abbi cura di te.» Per gran parte di quella lunga serata, Marie rimase immobile. Doveva disperatamente fare pipì, ma era decisa a resistere, a costo di morire. Era ancora legata, sdraiata a terra con lo sguardo al soffitto; il sangue sul viso si era seccato. Ricordò che da piccolo John aveva l'abitudine di appendersi a testa in giù alle ringhiere, per vedere il mondo alla rovescia. Forse da quel punto di vista i suoi genitori gli risultavano più comprensibili. Ora vedeva ciò che probabilmente lui aveva amato: il soffitto era un pavimento meraviglioso, una distesa liscia su cui muoversi a piacere. Si poteva saltare da un angolo all'altro, senza ostacoli, a parte un eventuale lampadario. An-
che le pareti erano invitanti. Le finestre sembravano aprirsi dall'alto in basso, la parte superiore delle porte formava uno strano gradino che conduceva all'interno delle stanze, i quadri galleggiavano a metà, con le immagini rovesciate difficili da interpretare. Con il passare del tempo, Marie si abituò a quella vista e cominciò perfino a preferirla, a trovarla calmante. La nausea era passata. Sapeva che Ernie stava arrivando. Sarebbe arrivato prima del sorgere della luna, scusandosi per essere venuto a disturbare la sua pace, ma la casa era vuota, il figlio era via e lui aveva bisogno di lei. Lo vedeva svoltare sulla strada sterrata, passare accanto alla grande roccia, entrare nel vialetto e trovarci una macchina scassata che non conosceva. E un silenzio spaventoso. «Oh, Ernie» disse Marie, non appena lui entrò nella stanza. «Ernie, caro, slegami.» Era arrivato, proprio come lei aveva immaginato. E poi? Ricordarono quella stagione non più come l'autunno in cui avevano perso il loro secondo figlio, ma come l'autunno in cui quelle persone orribili avevano invaso la loro baita. Scambiarono un ricordo con l'altro, rammentando i singhiozzi rabbiosi di Ernie che scioglieva i lacci di cuoio e che la teneva tra le braccia, mentre un raggio di luna entrava dalla porta aperta; rammentando, con un sorriso, che, dopo essere stata salvata dal suo principe azzurro, Marie aveva voluto fare per prima cosa la pipì. Quel momento, e nessun altro, divenne il punto di svolta, in cui due persone sposate da molto tempo decisero di rimanerlo per il resto della vita. Si appoggiarono l'una all'altro negli anni a venire, perché in quel punto di svolta non c'era altro viso di cui sopportassero lo sguardo, né altre braccia in cui volessero rifugiarsi, e riuscirono a star bene di nuovo, solo loro due. NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI DOUG ALLYN, nato e cresciuto nel Michigan settentrionale, ha imparato il cinese all'università dell'Indiana e, durante la guerra del Vietnam, è stato inviato nel Sud-Est asiatico. Dopo la guerra, ha studiato scrittura creativa e psicologia criminale all'università del Michigan e, al tempo stesso, è stato chitarrista e autore dei testi delle canzoni del gruppo rock Devil's Triangle. In seguito, ha insegnato scrittura creativa al Mott Community College. Attualmente, oltre che scrittore a tempo pieno, è recensore di libri per il «Flint Journal». Fin dall'inizio, ha sempre goduto del favore della critica. Il suo primo
racconto ha vinto il premio Robert L. Fish della Mystery Writers of America. Altre sue opere hanno vinto il premio Edgar Allan Poe, il premio American Mystery, il Derringer Award per la migliore novella, e cinque volte l'Ellery Queen Mystery Award. Nella sua carriera, gli è capitato anche di bere champagne con Mickey Spillane e di ballare un valzer con Mary Higgins Clark. La famiglia Allyn vive, attiva e felice, a Montrose, nel Michigan. «Il re dei juke-box trae spunto dalla realtà dei nightclub di Detroit. Non è stato il rap a introdurre i gangster nel business della musica. La mafia era presente sulla scena già dai tempi del proibizionismo. Attratti dalla vita notturna e dai soldi facili, i criminali avevano interessi finanziari in locali da ballo, juke-box e perfino studi di registrazione. Il che non è necessariamente un fatto negativo. Si può essere criminali e avere buon gusto. Ma quando il rhythm and blues ha cominciato a evolversi nel rock and roll, anche nella mafia si è creato un gap generazionale.» CHRISTOPHER CHAMBERS è nato a Madison, nel Wisconsin, e ha vissuto nella Carolina del Nord, nel Michigan, nel Minnesota, in Florida, Alabama e Louisiana. Si è laureato in Letteratura inglese all'università del Wisconsin nel 1984 e nei dieci anni successivi ha lavorato come rappresentante, autista di autobus, macellaio, bracciante, carpentiere, giornalista, fotografo, barista, scaricatore di porto, guardia del corpo, editor e sceneggiatore. Ha insegnato arti marziali a Minneapolis, educazione fisica nelle scuole della Florida e scrittura creativa all'università dell'Alabama, dove ha conseguito anche un Master of Fine Arts. I suoi scritti sono apparsi su riviste quali «Gettysburg Review», «Washington Square», «Hayden's Ferry Review», «Quarter After Eight», «Notre Dame Review», «Exquisite Corpse», «Controlied Bum», «Quarterly West», «Carolina Quarterly». La sua raccolta di racconti Da abaco ad Azteco è arrivata in finale per il premio Mary McCarthy. I suoi romanzi brevi hanno ricevuto quattro nomination per il Pushcart Prize, il premio Scott e Zelda Fitzgerald Literary Award for Short Fiction, e sono stati inclusi nella recente antologia French Quarter Fiction: The Newest Stories from Amenca's Oldest Bohemia. Chambers vive a New Orleans, dove insegna alla Loyola University. «Da abaco ad Azteco è stato scritto in estate su una vecchia Royal portatile. All'epoca vivevo in un bungalow fuori Tuscalosa, in Alabama. Avevo
portato un tavolo sotto il portico, affacciato su una scarpata. La vista non era niente di eccezionale per la maggior parte dell'anno, ma in primavera la scarpata si riempiva di boccioli di sanguinello e in estate le lucciole l'accendevano come una città lontana. È stato durante una di queste notti che, seduto sotto il portico e circondato da un coro di insetti, ho scritto la prima frase. Il racconto iniziava con il personaggio di Miranda e il suo vago senso di scontentezza, così non mi sono troppo sorpreso, alla fine, scoprendo che il racconto era la sua storia. Il clown e altre cose sono arrivati dai nulla. Forse sul tavolo c'erano anche un bicchiere di whisky e un sigaro da quattro soldi. Mi sono reso conto subito che in quel racconto sarebbe morto qualcuno. Non sapevo ancora chi, ma era una cosa che mi intristiva, perché mi stavo già affezionando a tutti i personaggi.» CRISTOPHER COOK vive a Praga, nella Repubblica Ceca. Ha vissuto anche in Francia e in Messico, ma è cresciuto nel Texas, dove è maturato il suo incurabile nomadismo. Cook ha deciso molto presto di diventare uno scrittore, ma non sapeva come fare. Per imparare ha lavorato come inviato per i quotidiani locali di diversi stati. Capiufficio odiosi lo hanno stimolato a diventare un attivista sindacale. In seguito è finito in un istituto di ricerca, dove ha avuto tempo per pensare e per capire che una politica pubblica intelligente è un obiettivo quasi impossibile da raggiungere. Scrivere è diventato il suo rifugio privato. A parte questo, la sua vita è stata piuttosto ordinaria. Ci sono parecchi buchi nella sua biografia. Il suo romanzo Robbers (2000) è stato pubblicato negli Stati Uniti e all'estero, come anche il suo secondo libro, Screcn Door Jesus & Other Stories (2001). «Quando vivevo a Parigi e facevo il pendolare sulla metropolitana, spesso desideravo che accadesse qualcosa di interessante, qualunque cosa. Sarei stato disposto perfino a farmi borseggiare, anche se avrei preferito vedere un borseggiatore in azione su qualcun altro. Meglio ancora, perché non diventare io stesso un borseggiatore? L'idea mi attraeva, ma la prospettiva di finire in galera no, perciò ho deciso di trasformarmi in borseggiatore in un racconto. Il borsaiolo è stato respinto senza commenti da diverse riviste negli Stati Uniti, mentre in Francia ha vinto il primo premio in un concorso letterario sponsorizzato dalla Sorbona e da Transcontinental Paris. Era il 1995. Nel 2002, dopo un periodo di esilio biblico, è stato pub-
blicato anche in patria, nell'antologia di Dennis McMillan Measures of Poison.» JOHN PEYTON COOKE è nato ad Amarillo, nel Texas, ed è cresciuto a Laramie, nel Wyoming. È autore di cinque romanzi e di parecchi racconti e ha collezionato quella varietà di lavori strampalati che è tipica di molti scrittori: aiuto bibliotecario, addetto all'inserimento dati nel computer, assistente d'ufficio presso l'American Institute of History of Pharmacy, dattilografo del dipartimento di Polizia di Madison, nel Wisconsin. Il suo attuale lavoro (il più strano di tutti) è quello di direttore editoriale di un'agenzia di comunicazione nel settore medico, a New York. Vive a Ketonah, nello stato di New York, con il suo compagno Keng e due cani: Ricky, un barboncino ladruncolo, e Quilty, un levriero e poeta occasionale. «Vorrei dedicare questa uscita di Quando sarai morto alla memoria di mio padre, William Peyton Cooke, autore dei romanzi gialli The Nemesis Conjecture e Onoris Shroud e morto il 16 gennaio 2003 ad Amarillo. Quando gli ho chiesto che cosa pensasse di questo racconto, la sua risposta è stata: "Mi piace, ma naturalmente ho sempre saputo come andava a finire". Non c'è niente come un padre per stimolarti a fare meglio. Questo racconto ha un tema simile a quello del mio romanzo The Chimney Sweeper, nel senso che entrambi parlano della violenza che esplode quando il giovane protagonista maschio ha a che fare con un'improvvisa e inaspettata confusione sessuale. Mi piace pensare che sesso e violenza nella mia scrittura siano inestricabilmente legati. Io non sono un violento e non so da dove tragga origine questo impulso che si trova nelle mie storie. Quasi certamente, comunque, è in relazione con la mia identità di gay, sviluppatasi durante l'adolescenza, cosi come il mio interesse per la letteratura di genere: horror, fantasy, fantascienza e mystery. Sono cresciuto a Laramie, nel Wyoming, dove le uniche fonti di informazioni sui gay erano la biblioteca pubblica della contea di Albany (dove lavoravo come aiuto bibliotecario) e la biblioteca Coe dell'università del Wyoming. Laramie, come tutti sanno, è la città in cui Man Sheperd è stato assassinato per l'unica ragione che era gay. Io sono uscito allo scoperto con i miei amici già dall'età di quindici anni, ma non mi sono mai sentito minacciato dall'ambiente in cui vivevo. Tuttavia mi ha dato da pensare il fatto che gli assassini di Matt fossero suoi ex compagni di liceo. La loro violenza gratuita è rappresentativa di ciò di cui io scrivo: la violenza irrazionale, sadica e improvvisa che può manife-
starsi quando giovani maschi si sentono minacciati dall'esistenza stessa di qualcuno con una sessualità diversa dalla loro. Quando sarai morto è il risultato di numerosi stimoli, tra cui quelli menzionati sopra. La scintilla iniziale è stata un passaggio di un racconto di Robert W. Chambers, The Repairer of Reputations, scritto intorno al 1890 ma ambientato in una New York futura del 1920: "Nell'inverno seguente cominciarono le agitazioni per l'abolizione della legge che proibiva il suicidio e, finalmente, nel mese di aprile del 1920, in Washington Square, fu aperta la prima camera letale governativa". Io volevo scrivere un racconto in cui un rappresentante del governo va in giro ad aiutare le persone a suicidarsi. L'avrei intitolato The GAS man, dove GAS sta per Government-Assisted Suicide. Ciò si è poi evoluto nel personaggio "deviato" di Quando sarai morto, al quale però avevo bisogno di fornire una motivazione. Ho pensato subito al dottor Jack Kevorkian, il patologo ossessionato dalla morte che ha aiutato parecchi malati terminali a suicidarsi e ora è in prigione con l'accusa di omicidio plurimo. E se le sue motivazioni non fossero state tanto altruistiche? Se aiutare la gente a uccidersi fosse stato per lui uno stimolo erotico? Molti articoli di giornale sui suicidi dei poliziotti a New York (di solito maschi che non si sentivano all'altezza della situazione) mi hanno aiutato a sviluppare la "vittima" del mio "assistente al suicidio". La confusione sessuale, che è il tema principale, naturalmente doveva entrare nel racconto, in un modo o nell'altro e qui è servita come trampolino di lancio per la violenza a venire.» O'NEIL DE NOUX, nato a New Orleans, è un ex detective della squadra Omicidi e si è occupato anche di indagini sul crimine organizzato. Ha lavorato, inoltre, come investigatore privato, fotografo dell'esercito americano in zone di guerra, analista criminologo, giornalista, curatore di riviste e disegnatore di computer graphics. Come poliziotto, De Noux ha ricevuto diversi encomi per la soluzione di casi difficili di omicidio. Nel 1981 è stato nominato detective dell'anno dal Jefferson Parish Sheriff's Office. Nel 1989 è stato proclamato testimone esperto sulla scena del crimine dalla Corte distrettuale federale di New Orleans. I romanzi pubblicati da De Noux comprendono Grim Reaper, The Big Kiss, Blue Orleans, Crescent City Kills, The Big Show and Hollow Point, The Mystery of Rochelle Marais. De Noux ha pubblicato, inoltre, più di centocinquanta racconti, in Canada, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Scozia e
Svezia. Insegna scrittura mystery all'università di New Orleans. È fondatore e curatore di due riviste di narrativa: «Mystery Street» e «New Orleans Stories». «L'ispirazione per Morti parallele mi è venuta un giorno in cui mia moglie Debra Gray De Noux (curatrice dell'antologia Erotic New Orleans) si è affacciata in soggiorno e ha detto: "Stai guardando di nuovo Assassinio sul Nilo?" La domanda mi ha fatto venire in mente un gioco di parole e così sono partito dal titolo, cosa che faccio spesso, e ho riempito i vuoti, includendo nella storia anche un personaggio che ama guardare in continuazione Assassinio sul Nilo.» PETE DEXTER vive su un'isola del Puget Sound, con i suoi cani, Pansy e Fred, e la moglie Dian. Ha appena finito il suo sesto romanzo, Train. Ha una figlia, Casey, che vive a Phoenix, in Arizona, con un figlio di nome Tate e un gatto di nome George, nato a Tucson. Per via delle sue cattive maniere, non lo lasciano uscire di casa (il gatto George, non Pete Dexter). «Il gioielliere, in origine, era il primo capitolo di un romanzo, o meglio una cosa che avevo scritto per me, per dare corpo a un personaggio, e che poi avevo tagliato dal manoscritto, come spesso succede. Ma un giorno mi ha chiamato mio fratello Tom, che vive nel Montana con la moglie Jane, la cagna Gretta e le figlie Molly, Annie e le belle, ma inquietanti gemelle Phoebie ed Elizabeth. Tom mi ha detto perentoriamente che dovevo scrivere dei racconti. Così invece di buttare via quelle pagine, le ho mandate alla mia agente, Esther Newberg, che vorrebbe avere un cane, ma è allergica, e così ha un gatto che le obbedisce istantaneamente, come tutti noi, del resto.» TYLER DILTS ha conseguito un Master of Fine Arts presso la California State University, dove ora insegna scrittura nelle facoltà di Lingua e letteratura inglese e Arti teatrali. Ha vinto l'Associated Writing Programs' Award e i suoi racconti sono apparsi su diverse riviste letterarie, tra cui «RipRap», «The Circle» e «Puerto del Sol». Ha finito da poco il suo primo romanzo, A King of infinite Space, e sta lavorando al secondo, in cui compare di nuovo il narratore senza nome di Delinquentare: significato e (de)costruzione del sé.
«Il protagonista di Delinquentare è un personaggio che mi frullava per la testa da tempo e che finalmente ha trovato il suo posto in questo racconto. Avevo cercato di usarlo in vari modi, principalmente come personaggio di supporto, ma non aveva mai funzionato. Non riuscivo a trovare la voce giusta per lui e stavo quasi per lasciarlo perdere, quando, durante un mese di lavoro particolarmente intenso, mi sono trovato a leggere una strana giustapposizione di opere di Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Thomas Pynchon, David Foster Wallace, più una mezza dozzina di teorici letterari postmoderni (Derrida, Lacan e compagnia bella). È stato allora che il personaggio è risalito alla superficie della mia coscienza, rifiutando di andarsene. Avevo intenzione di scrivere un saggio sulla decostruzione per una delle mie lezioni, ma è venuto fuori qualcosa di completamente diverso: le prime righe di questo racconto.» MIKE DOOGAN è nato e vive ad Anchorage, in Alaska, con la moglie Kathy e ha festeggiato di recente i trentadue anni di matrimonio. È titolare di una rubrica sull'«Anchorage Daily News», ha vinto diversi premi giornalistici, tra cui, in condivisione, il Pulitzer del 1989 per il giornalismo. Doogan è autore di due "stupidari" sull'Alaska e curatore di una serie di saggi sulla vita nell'estremo Nord. Omicidio di guerra è il suo primo racconto del genere mystery. «Sono da sempre un fan di Dashiell Hammett e tempo fa ho fatto una ricerca sul periodo in cui è stato in Alaska con l'esercito americano, durante la seconda guerra mondiale. Quando la scrittrice di mystery Dana Stabenow mi ha chiesto un racconto per la sua antologia The Mysterious North, ho pensato immediatamente ad Hammett. Per fortuna la mia ricerca su di lui era riassunta in un articolo che avevo scritto per "Armchair Detective" (Dashing Through The Show, 1989), perciò il materiale era a portata di mano. Il racconto è un insieme di realtà e finzione. Il personaggio di Hammett è il più autentico possibile, come pure i particolari riguardanti la seconda guerra mondiale ad Anchorage. Il resto è inventato. Ho fatto del mio meglio per imitare anche lo stile di scrittura di Hammett e il senso etico delle sue opere. Tenendo presente che lui è Dashiell Hammett e io sono solo io, il risultato mi sembra abbastanza soddisfacente.» BRENDAN DuBOIS ha vinto vari premi per racconti e romanzi. Suoi
scritti sono apparsi su «Playboy», «Ellery Queen's Mystery Magazine», «Alfred Hitchcock's Mystery Magazine», «Mary Higgins Clark Mystery Magazine» e in numerose antologie. Ha vinto tre volte lo Shamus Award della Private Eye Writers of America per i suoi racconti e ha ricevuto tre nomination per l'Edgar Allan Poe Award della Mystery Writers of America. Questa è la quarta volta che un suo racconto viene incluso nell'antologia annuale Best American Mystery Stories curata da Otto Penzler. Un suo racconto è stato incluso anche nell'antologia Best American Mystery Stories of the Twentieth Century. DuBois è inoltre l'autore delle serie mystery con Lewis Cole: Dead Sand, Black Tide, Shattered Shell e Killer Waves. Il suo romanzo Il giorno del riscatto, un thriller che esplora ciò che sarebbe potuto accadere se la crisi cubana del 1962 si fosse evoluta in una guerra nucleare, ha vinto il premio Sidewise nel 2000 per il miglior romanzo storico alternativo ed è stato pubblicato in sette paesi. Il suo ultimo romanzo, un thriller intitolato Betrayed, è stato pubblicato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. DuBois vive a Exeter, nel New Hampshire, con la moglie Mona. Il suo sito web è: www.brendandubois.com «I figli di Riccardo è apparso per la prima volta in un'antologia curata da Anne Perry, Murder by Shakespeare. Quando sono stato invitato a scrivere un mio contributo, sapevo che la maggior parte dei racconti, anche se non la totalità, sarebbe stata ambientata all'epoca di Shakespeare. Essendo un bastian contrario, ho deciso che il mio, pur ispirato al Riccardo III, avrebbe avuto un'ambientazione contemporanea. Uno degli aspetti per me più affascinanti di questa tragedia è la storia di famiglie influenti che si tradiscono e si uccidono tra loro, nella lotta per il potere. Inoltre sono appassionato di storia americana ed è divertente (e a volte anche inquietante) scoprire quante famiglie reali ci sono in questo paese così democratico, dai Kennedy ai Gore, ai Bush e via elencando. Questi due aspetti sono diventati la base per l figli di Riccardo e il fatto che io sia riuscito a usare l'opera di Shakespeare per scrivere una storia moderna è un'altra prova, se mai ce ne fosse bisogno, dell'incredibile genialità del Bardo.» ELMORE LEONARD, descritto dalla «New York Times Book Review» come «il più grande scrittore noir dei nostri tempi e forse di tutti i tempi», è autore di oltre quaranta romanzi, tutti best seller. Citiamo tra gli altri Tishomingo Blues, Che razza di coppia, La scorciatoia, Chili con
Linda, Il massimo della pena, Stick, Imbroglio, Hombre. Léonard ha scritto anche molti racconti e sceneggiature ed è stato nomi nato Gran Maestro dell'associazione Mistery Writers of America. Vive con la moglie a Birmingham, nel Michigan. «Una volta, guardando alla tivù un documentario sulle mogli ordinate per corrispondenza in Russia, mi sono chiesto se avrei potuto usarne una in un libro o in un racconto. Ma non ero sicuro di riuscire a farla esprimere in inglese con un accento russo, così ho chiesto a Gregg Sutter, il mio ricercatore, di trovarmi mogli da ordinare per corrispondenza che non fossero russe. E lui ha trovato decine di foto di ragazze colombiane, attraenti e ansiose di conoscere qualche simpatico gringo. Più o meno nello stesso periodo, ho letto un articolo sul numero impressionante di donne indiane e pakistane che finiscono in ospedale con gravi ustioni "accidentali". Si tratta di donne che hanno "perso la faccia" e sono state ripudiate dai mariti, dopo essere state sfigurate. Sarebbe stato possibile combinare questi elementi sullo sfondo di un omicidio? Perché no?» ROBERT McKEE vive a Douglas, nel Wyoming, con la moglie Kathy e i figli Kent e Jessica. Lavora come cronista di giudiziaria e ha seguito il processo riguardante l'omicidio dello studente gay Matthew Sheperd. McKee è stato eletto membro della Wyoming Art Council Literary Fellowship, si è classificato due volte al primo posto nel concorso letterario annuale tenuto dalla Wyoming Writers, Inc. Suoi racconti sono apparsi in più di venti pubblicazioni letterarie e commerciali. Quando non si trova in tribunale o seduto a scrivere davanti al computer, McKee fruga nei negozi di anticaglie, in cerca di vecchie penne stilografiche, oppure percorre le strade secondarie del Wyoming sulla sua moto BMW, a "velocità spesso eccessiva", come ammette lui stesso. «Oggi sembra che la vita non abbia più alcun valore. I film e i romanzi sono pieni di cadaveri e i personaggi sembrano non dare mai peso agli omicidi che commettono. In La confessione ho voluto creare un personaggio che da giovane ha ucciso un altro uomo e ha dovuto lottare per tutta la vita contro il senso di colpa generato da quel gesto. Forse pensavo che un personaggio capace di vergogna e pentimento potesse dare alla storia un sapore insolito.»
JOYCE CAROL OATES è autrice di molti romanzi, tra cui il più recente è The Tattooed Girl. Ha scritto spesso storie di suspense e di horror psicologico, tra cui citiamo il romanzo Bestie e, con lo pseudonimo di Rosamond Smith, The Barrens, Starr Bright Will Be With You Soon, Double Delight, Snake Eyes. I suoi racconti hanno ricevuto varie nomination per l'Edgar Award e uno di essi è stato incluso nell'antologia The Best American Mystery Stories of the Century. Joyce Carol Oates è membro dell'American Academy of Arts and Letters. «Il cranio è uno di quei racconti nati da un'immagine. Un uomo lavora, come un artista, per ricreare i lineamenti della vittima di un omicidio. Proprio come un artista, deve convincersi di essere l'unica persona al mondo in grado di raggiungere quel particolare obiettivo. Nella sua missione c'è qualcosa di magico e anche di ossessivo. A poco a poco, la "personalità" del cranio comincia a esercitare un potere su di lui, l'irresistibile potere dell'inconscio, di fronte al quale siamo tutti vulnerabili. In una versione più lunga del racconto, che è stata poi tagliata, lo scultore mette in gioco il suo matrimonio nella ricerca dell'identità di quel cranio. Quando finalmente si reca a casa della vittima, scopre chi era "davvero" la donna. Il cranio su cui lavora con tanta assiduità è, in un certo senso, il suo, la consapevolezza della propria incombente mortalità.» GEORGE P. PELECANOS è giornalista, sceneggiatore, produttore cinematografico indipendente e autore di undici romanzi noir di successo, l'ultimo dei quali si intitola Soul Circus. Attualmente scrive per la serie televisiva The Wire, e ha da poco terminato il romanzo Hard Revolution. La rivista «Esquire» lo ha definito «il poeta laureato del mondo del crimine di Washington». «Gli occhi della paura descrive quell'epoca della storia americana in cui gli immigrati europei arrivavano a frotte dai loro paesi natali. Molti erano introdotti alla cultura americana da parenti che li avevano preceduti. Altri trovavano solitudine, pregiudizi e confusione. La famiglia di mio padre si è stabilita nella Chinatown di Washington, che ospitava non solo cinesi ma anche immigrati poveri di tutto il mondo. Queste persone, uomini e donne, di solito lavoravano come sguatteri, venditori ambulanti e braccianti. Come gli immigrati di oggi, facevano i lavori che la gente del posto non voleva più fare. Una notte, un mio prozio stava camminando lungo un tunnel
pedonale, dopo un turno di lavoro come aiuto cameriere in un albergo. Un uomo, emerso dall'oscurità, gli è saltato addosso, cercando di rubargli la paga della giornata. Mio zio, che era un pugile semiprofessionista, portava sempre con sé un coltello e ciò che è accaduto quella notte lo ha tormentato per il resto della vita. Questo racconto è liberamente tratto da quel fatto. La maggior parte dei greci arrivava in America senza una regolare istruzione e senza conoscere una parola di inglese. E riusciva non solo a sopravvivere, ma a eccellere. Questa e la storia di un giovane che è scivolato tra le maglie della rete. È il mio tentativo di entrare nella sua testa.» SCOTT PHILLIPS è nato a Wichita, nel Kansas, nel 1961. È autore di Vigilia di sangue, The Walkaway e Cottonwood, di prossima pubblicazione. Ha ricevuto nomination per l'Edgar Award, l'Hammett Prize, il Gold and Silver Daggers della CWA, il John Creasey Memorial Dagger, l'Anthony Award e il Barry Award. Ha vinto il California Book Award per la migliore opera prima. Ha una moglie e una figlia, con le quali vive da qualche parte a ovest del fiume Mississippi. «Wayne Ogden è un personaggio del mio secondo romanzo, The Walkaway, e suo padre Bill Ogden è il narratore di Cottonwood, il romanzo che sto finendo ora. Quando Dennis McMillan mi ha chiesto un racconto ambientato negli anni Trenta per Measures of Poison, sono rimasto perplesso, finché lui non mi ha suggerito di usare come protagonista un Wayne adolescente. Anche altri personaggi del racconto vengono dai miei romanzi: Mildred Halliburton appare brevemente in The Walkaway, all'età di novantacinque anni, e Gleason, il vecchio barista, appare ventenne in Cottomvood. Stan Gerard, il proprietario del bar, è il padre di Bill Gerard, il proprietario del locale di striptease di Vigilia di sangue. L'incendio dell'auto in Sockdolager è liberamente ispirato a un vero attentato incendiario, avvenuto a Wichita negli anni Sessanta. Mi è stato detto che il movente dell'attentatore era molto simile a quello di Wayne nel racconto.» DANIEL STASHOWER è autore di cinque romanzi noir e due biografie. Il suo libro più recente è The Boy Genius and the Mogul: the Untold Story of Television. Ha vinto l'Edgar Award nel 2000 con Teller of Tales: The Life of Arthur Conan Doyle. Stashower ha ricevuto anche la Chandler Fulbright Fellowship per il romanzo poliziesco. Giornalista free-lance dal 1986, ha scritto articoli per il «New York Times», il «Washington Post»,
lo «Smithsonian Magazine», il «National Geographic Traveller» e «American History». Vive a Washington, con la moglie Alison e il figlio Sam. «Quando avevo tredici anni, ho fatto un provino per la parte di Billy in una ripresa dello Sherlock Holmes di Gillette. La parte è stata assegnata a un altro, cosi sono tornato a casa e ho scritto una commedia mia, intitolata Sherlock Holmes versus the Lizard People. Nella storia, Holmes e Watson devono combattere contro un esercito di uomini lucertola, i quali, se non ricordo male, avevano anche navi spaziali e pistole laser. Sono stato molto soddisfatto del risultato e, sotto vari aspetti, L'avventura dell'attrice inquieta assomiglia a quella commedia, solo che qui non ci sono le pistole laser.» SCOTT WOLVEN sta per conseguire un Master of Fine Arts alla Columbia University. Attualmente insegna scrittura creativa all'università di Birmingham (SUNY) e vive con la moglie nello stato di New York. Il suo racconto The Copper King è stato selezionato per l'edizione del 2002 di questa stessa antologia. Altri suoi racconti sono apparsi nel numero monografico sul crimine della «Mississippi Review» e sul sito www.Plotswithguns.com «Incendio autorizzato è stato scritto a partire dal titolo (preso da un programma radiofonico sulle tecniche agricole e forestali) e da alcune riflessioni sulla natura del fuoco. Il racconto, alla fine, parla di parecchie cose e combina elementi del mystery, del noir con dettagli del lavoro in una segheria o in una fattoria, che ho sentito descrivere come "un modo facile per rendersi la vita difficile". Prima della versione finale è stato necessario un gran lavoro di revisione e sono grato per i suoi commenti a Toiya Kirsten Finley, direttore di Harpur Palate. Il racconto è dedicato a mio nonno. Un grazie speciale agli uomini e alle donne che servono nelle nostre forze armate e un grazie anche a Ray e Renate Morrison, Colin Harrison, Anthony Neil Smith di Plotswithguns.com, David Bartine, Sloan Harris, e a tutta la squadra di WSBW.» MONICA WOOD è autrice di tre romanzi, Secret Language, My Only Story e Any Bitter Thing, in corso di pubblicazione. Inoltre ha scritto una raccolta di racconti, Ermes Ark, e due manuali di scrittura creativa, Description e The Pocket Muse: Ideas and Inspirations far Writing. I suoi racconti sono stati pubblicati in molte antologie, tra cui le più recenti sono
Manoa, Glimmer Train e Confrontation. «Quell'autunno fa parte di Ermes Ark, una raccolta di racconti collegati tra loro, ed è l'unico a essere ambientato nel passato. Nel presente, Ernie si prende cura di Marie, che ha un cancro. Il loro è un matrimonio riuscito, anche se Ernie ha la tendenza a mitizzarlo. Ho deciso di tornare indietro di trent'anni e scoprire dov'era cominciato il mito, per loro. Così è nato il racconto. Tracey compare anche in seguito nel libro, nel caso in cui vi chiediate che cosa le sia capitato.» FINE