JONATHAN CARROLL TU E UN QUARTO (The Panic Hand, 1995) Indice Il signor Sviolino Oh oh lallà Collezione d'autunno Il mig...
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JONATHAN CARROLL TU E UN QUARTO (The Panic Hand, 1995) Indice Il signor Sviolino Oh oh lallà Collezione d'autunno Il migliore amico del cane La tristezza del dettaglio Un cenno di saluto La stanza di Jane Fonda Tu e un quarto Il mio zoondel Imparare ad andarsene Panic hand Il dente dell'orso Dopo la laurea Angelo stanco La morte ti ama Florian La vita del mio crimine Una ruota nel deserto, la luna su un'altalena Fuoco di paglia Due racconti compresi in questa raccolta, Il signor Sviolino e Tu e un quarto, sono già stati pubblicati in altra traduzione e con titolo diverso (Mister Testamatta e Un quarto d'ora solo per te) all'interno del romanzo I bambini di Pinsleepe (Fazi Editore, 2006). A Boris Cavlina e Joel Gotler Il signor Sviolino Il giorno in cui ho compiuto quarant'anni Lenna Rhodes mi ha invitata a pranzo a casa sua. È una tradizione ormai: festeggiamo ogni nostro compleanno con un bel pranzo, un regalo carino e un pomeriggio di risate per
dimenticare che ormai ci ritroviamo un anno di più. Ci conosciamo da anni, da quando, sposandoci, siamo entrate nella stessa famiglia: sei mesi dopo il mio sì a Eric Rhodes, lei è andata all'altare con Michael, il fratello di mio marito. Lenna è stata più fortunata di me: lei e Michael sono ancora strafelici insieme, mentre io ed Eric abbiamo continuato a litigare per tutto finché non abbiamo divorziato. Con mia grande meraviglia e un certo sollievo, Lenna e Michael mi hanno aiutato moltissimo al tempo del divorzio anche se si sono trovati a dover affrontare non pochi ostacoli spinosi legati ai doveri di famiglia e di sangue. Abitano in un grande appartamento sulla Centesima Strada con lunghi corridoi e poca luce. Ma anche se non è molto luminoso, è bello con tutti quei giocattoli sparsi ovunque, i giubbotti colorati ammonticchiati uno sopra l'altro, le tazzone da caffè con su scritto «La mamma più meravigliosa del mondo» e «Dartmouth, Canada». È una casa piena di amore e di confusione, di disegni dei bambini appesi sul frigorifero accanto a promemoria per non dimenticare di acquistare «La Stampa». Michael è proprietario di un elegante negozio di penne stilografiche, mentre Lenna lavora come giornalista freelance per «Newsweek». Il loro appartamento è come la loro vita: ben strutturato, ha soffitti alti, trabocca di combinazioni e possibilità interessanti. È sempre piacevole andarci e respirarne per un po' l'atmosfera. Non trovavo sgradevole l'idea di avere quarant'anni, tutto sommato. Per la prima volta avevo un po' di soldi in banca e un compagno con cui divertirmi a progettare un viaggio in Egitto in primavera. I quaranta sono in genere un traguardo importante, ma a me non sembrava, almeno per il momento. Già da un po', in fondo, mi ero abituata all'idea di essere una donna di mezza età, ma mi sentivo in forma e avevo in mente diversi progetti, perciò chi se ne frega se ero entrata negli anta! «Ti sei tagliata i capelli!». «Come sto?». «Hai un'aria molto francese». «Sì, ma come sto?». «Bene, direi. Ci devo fare l'occhio. Dai, entra». Ci siamo sedute in soggiorno e abbiamo pranzato. Elbow, il bull-terrier di casa, mi ha appoggiato il muso sulle ginocchia senza staccare un momento gli occhi dalle varie portate. Quando abbiamo finito, dopo avere
sparecchiato, Lenna mi ha dato una scatolina rossa. «Spero che ti piacciano. Li ho fatti io». Dentro la scatolina c'erano i più begli orecchini d'oro che avessi mai visto. «Mio Dio, Lenna! Sono splendidi! Li hai fatti tu? Non sapevo che disegnassi gioielli». Lenna aveva un'aria imbarazzata e felice. «Ti piacciono? Sono d'oro». «Lo vedo. Sono un capolavoro! Li hai fatti tu per davvero, Lenna? Non ci posso credere. Sono un'opera d'arte, sembrano spuntati fuori da un quadro di Klimt». Li ho tirati fuori con cura e li ho messi. Battendo le mani come una ragazzina, Lenna ha esclamato: «Oh, Juliet, come ti stanno bene!». La nostra è un'amicizia profonda, importante per entrambe, e da tanti anni ci lega ormai, ma quello era un dono da mille e una notte, una di quelle cose che si regalano alla propria moglie o a qualcuno che ti ha salvato la vita. Prima che glielo potessi dire, prima che potessi anche solo aprire bocca, si sono spente le luci e i due figli di Lenna sono arrivati con la torta di compleanno, e quaranta candeline sopra. Qualche giorno più tardi stavo camminando per Madison Avenue quando qualcosa nella vetrina di una gioielleria ha attirato la mia attenzione. Eccoli lì, i miei orecchini, il mio regalo di compleanno. Erano proprio loro. Mentre li fissavo a bocca aperta, ho visto la targhetta col prezzo. Cinquemila dollari! Sono rimasta scioccata, senza fiato, per non so quanto. Comunque la mettessi, quella storia era incomprensibile. Lenna mi aveva mentito dicendo che li aveva fatti lei, quegli orecchini? Oppure aveva speso cinquemila dollari per il mio regalo di compleanno? Non è una che racconta frottole ma non è neanche ricca straricca. D'accordo, allora aveva riprodotto il modello in ottone, o qualcosa di simile, e mi aveva detto che erano d'oro per farmi piacere. Ma anche un comportamento del genere non era da lei. Che cosa diavolo c'era dietro quella storia? Ero talmente confusa che mi sono decisa a entrare. O meglio ad avvicinarmi alla porta e suonare il campanello. Dopo avere atteso qualche istante, qualcuno da dentro mi ha aperto mentre da dietro una tenda compariva una commessa che aveva l'aria di essersi come minimo laureata a Harvard. Forse era necessario per lavorare lì. «Cosa desidera, signora?».
«Vorrei vedere quegli orecchini che avete in vetrina». La commessa mi ha guardato ed è stato come se un sipario le si sollevasse davanti agli occhi. Appena entrata, le ero sembrata una donnetta qualsiasi in gonna scozzese che desiderava respirare per qualche minuto l'aria del loro raffinato palazzo. Ma vedere quei cinquemila dollari alle mie orecchie, cambiò tutto: sarebbe stata mia schiava, o mia amica, per sempre, stava a me decidere quale delle due. «Senz'altro: i Dixie». «I cosa?». Ha sorriso, come se la mia fosse stata una battuta. Mi sono resa conto che doveva essere convinta che sapessi bene cos'erano i Dixie, visto che ne avevo un paio addosso. Li ha presi dalla vetrina e me li ha posati davanti con cura, su un panno di velluto. Erano bellissimi e, contemplandoli, per qualche istante ho dimenticato di possederne un paio. «Mi sorprende vedere che anche lei ne abbia un paio. Ci sono arrivati soltanto da una settimana». Ho cercato di trovare in fretta qualcosa da rispondere e ho detto: «Me li ha regalati mio marito e mi piacciono così tanto che sto pensando di comprarli per mia sorella. Mi dica, chi è il designer? Si chiama Dixie?». «Non so cosa dirle, signora. Soltanto il proprietario sa chi sia Dixie e da dove vengano questi orecchini. In ogni caso è sicuramente un genio. Pare che Bulgari e il gruppo Memphis si stiano dando da fare per scoprire chi sia e come contattarlo». «Come fa a sapere che è un uomo?», le ho chiesto posando gli orecchini e fissandola. «Oh, non lo so. È solo che mi sembra così evidente che siano stati disegnati da un uomo che l'ho semplicemente dato per scontato. Ma può darsi che lei abbia ragione: potrebbe anche essere una donna». Ha preso un orecchino in mano e lo ha portato sotto la luce. «Ha notato come esaltano la luce? Creano una luce dorata che lei può avere ogni volta lo desideri. Non ho mai visto nulla di simile. La invidio». Erano d'oro. Sono andata da un gioielliere sulla Quarantesettesima Strada per farli valutare e poi nelle uniche altre due gioiellerie di New York che vendevano i "Dixie". Nessuno sapeva nulla del loro creatore, o non volevano dirlo. Entrambi i gioiellieri sono stati gentili e rispettosi, ma han-
no tenuto la bocca chiusa quando ho chiesto loro qualcosa di più riguardo alla provenienza degli orecchini. «Il signore che ce li ha venduti ci ha chiesto di non fornire questo genere di informazioni a nessuno, signora. Dobbiamo rispettare i suoi desideri». «Allora è un uomo». Sorriso professionale. «Sì». «Posso contattarlo tramite voi?». «Sì, questo è senz'altro possibile, ne sono certo. Cos'altro desidera, signora?». «Ha creato qualche altro gioiello?». «Che io sappia, soltanto gli orecchini, la stilografica e questo portachiavi». Mi aveva già mostrato la penna, che non era nulla di speciale. A quel punto tirò fuori un piccolo portachiavi d'oro su cui era tracciato un profilo di donna. Il profilo di Lenna Rhodes. Quando sono entrata in negozio, il campanello appeso alla porta ha tintinnato. Michael era impegnato con un cliente, perciò mi ha salutato e mi ha fatto segno che sarebbe stato da me appena si fosse liberato. Aveva aperto "Ink" subito dopo la laurea e fin dall'inizio aveva avuto successo. Una penna stilografica può mostrarsi irascibile e spietata, richiede grandi attenzioni e pazienza, ma emana lampi di un'eleganza d'altri tempi e la sua gratificante lentezza non offre altra ricompensa se non la visione dell'inchiostro scuro che scorre scintillando sulla pagina bianca. Non tutti i clienti di "Ink" sono ricchi, ma vedi a tutti lo stesso luccichio negli occhi: lo sguardo fiammeggiante del collezionista, quell'ossessivo desiderio di possesso. Un paio di giorni al mese, quando Michael ha bisogno di una mano, lavoro da lui e così ho imparato che ci si può commuovere alla vista di vecchie astine di bachelite e cannucce placcate d'oro come davanti a qualsiasi altro oggetto della nostra passione. «Ciao, Juliet! È venuto Roger Peyton stamattina e ha comprato quella Parker gialla "Duofold" a cui faceva la corte da mesi...». «Finalmente. L'ha pagata, almeno?». Michael ha sorriso abbassando lo sguardo. «Costava troppo. Me la pagherà a rate. Come mai da queste parti?». «Hai mai sentito parlare di una certa Dixie? Assomiglia un po' alla Santos di Cartier». «Dixie. No. Hai detto che assomiglia alla Santos?». Dalla sua espressione era evidente che era sincero.
Ho tirato fuori il catalogo che mi avevano dato in gioielleria, l'ho aperto alla pagina con la foto della penna e gliel'ho fatta vedere. La sua reazione è stata immediata. «Quel bastardo! Per quanto tempo ancora mi toccherà sopportarlo!». «Lo conosci?». Michael ha alzato la testa dalla foto e sul suo viso ho visto un braccio di ferro tra rabbia e stupore. «Se lo conosco? Certo che lo conosco. Vive a casa mia, dannazione. Dixie, eh? Che bel nome, proprio perfetto per un bel tipo come lui! Aspetta. Ti voglio far vedere una cosa, Juliet. Rimani qui. Non muoverti! Che testa di cazzo». Dietro il bancone di "Ink" c'è un grande specchio. Quando Michael si è diretto nel retro con passo marziale, mi sono guardata allo specchio e ho detto: «Adesso sì che l'hai combinata bella». È ritornato in un lampo. «Guarda qua. Vuoi vedere un vero splendore? Ecco». Ho aperto l'astuccio di velluto blu che mi porgeva e dentro c'era... la Dixie. «Ma avevi detto che non ne avevi mai sentito parlare». Michael mi ha risposto con un tono leggermente alterato: «Questa non è la stilografica Dixie. È una Sinbad. Una Sinbad originale d'oro massiccio prodotta in Germania, a Costanza, dalla Benjamin Swire Fountain-Pen Works intorno al 1915. Si dice che l'abbia disegnata un futurista italiano, un certo Antonio Sant'Elia, ma non è provato. Bella, eh?». Sì, era bella, ma lui era così arrabbiato che non avrei comunque mai osato dirgli di no. Mi sono affrettata ad annuire. Riprendendosela, ha aggiunto: «Sono vent'anni che vendo penne stilografiche, ma in tutto questo tempo ne ho viste soltanto due come questa. Una è quella che possedeva Walt Disney e l'altra ce l'ho io. Vuoi sapere quanto la pagherebbe un collezionista? Circa settemila dollari. Ma come ti ho detto, è praticamente introvabile». «Chi ha disegnato la Dixie non finirà nei guai per averla copiata?». «No, perché sono sicuro che avranno comprato il modello, oppure avranno inserito delle lievissime differenze rispetto all'originale. Fammi dare un'altra occhiata al catalogo». «Ma la tua è autentica, Michael. Il suo valore è immutato». «Non è questo il punto! Non è il suo valore che mi preoccupa. Non la venderei mai. La conosci la famosa Porsche, modello classico? Una delle macchine dal
design più strano e originale che esistano? C'è stato qualcuno, un furbo senza tanti scrupoli, che l'ha capito e adesso ne sta producendo delle imitazioni in vetroresina. Sono macchine ben fatte, con tutti gli optional. Ma sono dei bidoni, Juliet. Basta annusarle: hanno l'odore del mondo d'oggi, di quei piccoli particolari di plastica e altre furbate invisibili che non contano per chi vuole solo un'automobile, ma per chi ammira l'oggetto in sé invece sì. La cosa più bella è che la Porsche aveva disegnato già a quell'epoca un modello tanto raffinato e originale. Un vero capolavoro. Ma non basta riprodurre in maniera convincente l'aspetto esteriore di un oggetto per ricreare un'opera d'arte. Ti posso garantire che la tua Dixie è piena di plastica e ha un pennino d'oro che pesa meno di un terzo di quello originale. È bella, a vedersi, ma sono i dettagli invisibili quelli che contano. Guarda, prima o poi, lo verresti comunque a sapere, perciò è meglio che te lo dica subito». «Di cosa stai parlando?». Ha preso un telefono da sotto il bancone e mi ha fatto cenno di avere un attimo di pazienza. Ha chiamato Lenna raccontandole in due parole della Dixie e di quanto avevo scoperto. Dopo di che ha sollevato la testa e guardandomi le ha chiesto: «Tu sapevi cosa stava combinando, Lenna?». Ha ascoltato la lunga risposta che lei gli ha dato con un'espressione impassibile. «Va be', allora adesso porto Juliet a casa. Voglio che lo conosca. Perché? Perché questa storia deve finire, Lenna! Magari a lei viene un'idea. Credi che sia una cosa normale? Ah, davvero? Interessante. Credi che anch'io dovrei vederla così?». Una goccia di saliva è schizzata dalle sue labbra e ha attraversato il negozio. Quando Michael ha aperto la porta, Lenna era lì che ci aspettava a braccia conserte. Il suo viso dolce era contratto in un'espressione di sfida. «Qualunque cosa ti abbia detto, probabilmente non è la verità, Juliet». Ho alzato le mani in segno di resa. «Non mi ha detto niente, Lenna. Non volevo neanche venire. Gli ho solo fatto vedere la foto di una penna». Non era esattamente la verità. Gli avevo fatto vedere quella foto perché volevo che mi dicesse qualcosa di più della Dixie e magari anche dei miei orecchini da cinquemila dollari. Sì, a volte sono una gran ficcanaso. Il mio ex marito me lo ripeteva sin troppo spesso. I Rhodes sono due persone calme e pacate. Non credo di averli mai visti
in disaccordo su nulla di importante né alzare la voce per discutere. Michael ha mugugnato: «Dov'è? È ancora di là che mangia?». «Può darsi. E con questo? Tanto a te non piace quello che mangia». Michael si è voltato verso di me. «Il nostro ospite è vegetariano. Adora più di ogni altra cosa i noccioli delle prugne». «Sei davvero meschino, Michael. Davvero meschino». Lenna ci ha voltato le spalle ed è sparita. «È in cucina, allora? Bene. Andiamo, Juliet.». Michael mi ha preso per mano e mi ha trascinata con sé sulle tracce del loro ospite. Ancor prima di arrivare da lui, ho sentito le note di un ragtime al pianoforte. Sembrava Scott Joplin. C'era un uomo seduto a tavola. Ci dava le spalle. Aveva lunghi capelli rossi che gli scendevano sul colletto del giubbotto. Una mano coperta di lentiggini giocherellava con la manopola di sintonizzazione della radio che aveva accanto. «Signor Sviolino? Vorrei farle conoscere la migliore amica di Lenna, Juliet Skotchdopole». Lui si è voltato e ancora prima di vederlo per intero ho capito di essere spacciata. Che viso! Lineamenti eterei e delicati, zigomi alti e occhi verdi incavati, allegri e profondi. Occhi da fiaba, capelli color carota e una miriade di lentiggini. Come facevo a trovare quelle lentiggini all'improvviso così dannatamente sexy? Andavano bene per i bambini di quelle pubblicità graziosette. Invece in quel momento avrei voluto toccarle tutte, una a una. «Ciao, Juliet! Skotchdopole, eh? Bel nome. Non dispiacerebbe neanche a me. Sempre meglio di Sviolino, questo è poco ma sicuro». La sua voce profonda dondolava tranquilla sulle note di un evidente accento irlandese. Ho allungato la mano e lui me l'ha stretta. Chinando la testa, gli ho accarezzato la mano con un dito, dolcemente. Ero stordita e accaldata come se un uomo che desideravo mi avesse infilato una mano tra le gambe per la prima volta. Lui ha sorriso. Forse aveva percepito tutto ciò. Sul tavolo, accanto alla radio, c'era un piatto giallo con qualcosa dentro. Per smettere di fissarlo a quel modo - era troppo imbarazzante - ho focalizzato lo sguardo sul piatto e mi sono resa conto che era pieno di noccioli di prugne. «Ti piacciono? Sono deliziosi». Ne ha preso uno da quel brillante mucchietto marrone, se l'è messo in bocca e l'ha addentato. Si è sentito un gran scricchiolio, come se si fosse spezzato un dente, ma ha continuato a sgranocchiare senza perdere il suo sorriso beato. Ho guardato Michael che si è limitato a scuotere la testa. Lenna è entrata
in cucina e ha salutato il signor Sviolino con un bacio e un abbraccio affettuoso. Lui ha sorriso e ha continuato a mangiare i suoi noccioli. «Juliet, la prima cosa che devi sapere è che ti ho mentito riguardo al tuo regalo di compleanno. Non li ho fatti io gli orecchini: è stato Sviolino. Ma dal momento che io e lui siamo un'unica persona, non era neanche una vera bugia». Ha sorriso come se io avessi potuto capirci qualcosa. Ho guardato Michael in cerca di aiuto, ma lui stava scrutando il frigorifero in cerca di qualcosa, mentre il mio bel signor Sviolino continuava a far fuori noccioli. «Cosa intendi, Lenna, dicendo che "tu e lui siete un'unica persona"?». Michael ha tirato fuori un cartone di latte e una prugna, che ha offerto cerimoniosamente a sua moglie. Lenna gliel'ha strappata di mano con un'occhiataccia. Mentre l'assaggiava, mi ha detto: «Sai che sono figlia unica, vero? Da piccola, come molti altri bambini senza fratelli o sorelle, risolsi il problema della solitudine come meglio potevo: inventandomi un amico immaginario». Ho spalancato gli occhi. Ho dato un'occhiata a quell'uomo dai capelli rossi e lui mi ha fatto l'occhiolino. Lenna ha proseguito: «Sviolino è frutto della mia fantasia. Tutti i libri e i sogni che facevo a quel tempo sono confluiti nella mia idea di un amico perfetto. Prima di tutto si doveva chiamare signor Sviolino, perché mi sembrava il nome più buffo del mondo. Se mi capitava di essere triste, quel pensiero sarebbe bastato a farmi scoppiare a ridere di nuovo. Poi doveva essere irlandese, perché è in Irlanda che abitano fate e folletti e io volevo una specie di folletto dalle fattezze umane. Doveva avere i capelli rossi e gli occhi verdi e, ogni volta che lo desiderassi, il potere magico di creare dal nulla braccialetti e altri gioielli d'oro da regalarmi». «Il che spiega la faccenda dei gioielli Dixie?». Michael ha annuito. «Ha detto che si annoiava a non fare niente tutto il giorno, così gli ho suggerito di fare qualcosa di utile. È andato tutto bene finché si è trattato degli orecchini e del portachiavi». Ha sbattuto il bicchiere sul bancone della cucina. «Ma adesso ho scoperto che c'è anche una stilografica in giro. Che cos'è questa storia, eh, Sviolino?». «Volevo fare una prova. Mi è piaciuta talmente tanto quella che mi avevi fatto vedere, che ho pensato di usarla come modello. Che cosa c'è di male? La perfezione è insuperabile in fondo. Mi sono limitato solo ad aggiungere un po' più d'oro qui e là».
Ho alzato una mano come quando si vuole fare una domanda a scuola. «Ma chi è Dixie?». Lenna ha sorriso. «Sono io. Era il mio nome segreto quand'ero piccola. L'unico a saperlo, oltre a me, era il mio amico immaginario», ha detto indicando il signor Sviolino. «Meraviglioso! Così adesso a New York qualsiasi idiota che si può permettere un orologio Piaget o una valigetta di Hermès potrà comprarsi una stilografica Dixie e avere una volgare imitazione della Sinbad. È disgustoso». Michael ha puntato uno sguardo infuocato e belligerante su Sviolino in attesa di una replica. Per tutta risposta lui è scoppiato in una risata alla Woody Woodpecker che ha fatto piegare in due dalle risate me e Lenna mentre Michael usciva indignato. «È vero?». Hanno annuito entrambi. «Anch'io avevo un amico immaginario quando ero piccola. Si chiamava Bimbergooner. Ma non mi è mai apparso davanti in carne e ossa». «Forse non è mai stato abbastanza reale per te. Forse te lo sei solo immaginato quando eri triste o avevi bisogno di qualcuno con cui parlare. Nel caso di Lenna, invece, più cresceva il suo bisogno di me, più io diventavo reale. E per lei la mia presenza era davvero importante. Così un giorno sono comparso sul serio e non me ne sono più andato». Ho guardato la mia amica. «Vuoi dire che è con te, che vive con te, da quando eri bambina?». Lei è scoppiata a ridere. «No. Crescendo, il mio bisogno di lui si è attenuato: ero più felice, avevo più amici, c'erano un sacco di altre cose nella mia vita. Così lui ha cominciato a essere meno presente». Ha allungato una mano e gli ha sfiorato una spalla. Lui l'ha guardata con dolcezza, ma quel sorriso carico di ricordi nascondeva un'immensa tristezza. «Le posso regalare pentoloni pieni d'oro e fare ogni genere di trucchetti. Mi sono esercitato a fare il ventriloquo e sono anche abbastanza bravo. Ma le donne che ammirano un uomo che sa fare il ventriloquo sono incredibilmente poche: da non credere. Se non vi dispiace, io andrei di là a guardare la tele con i ragazzi. Tra un po' iniziano I tre marmittoni. Ti ricordi quanto ti piaceva, Lenna? Credo che un episodio dobbiamo averlo visto almeno dieci volte. Quello in cui vanno ad aprire un negozio di parrucchiere in Messico». «Me lo ricordo. Il mio personaggio preferito era Moe e il tuo Curly».
Si sono scambiati un gran sorriso ripensando a quel ricordo comune. «Ma aspetta, se lui è... quello che dici, com'è che è di nuovo con te adesso?». «Non te l'abbiamo mai detto, ma io e Michael abbiamo attraversato un periodo molto brutto un po' di tempo fa. Lui se n'è persino andato di casa per due settimane. Pensavamo che fosse finita. Una sera sono andata a letto piangendo come una scema e desiderando con tutta me stessa che ci fosse Sviolino ad aiutarmi. Ed eccolo lì, sulla soglia del bagno che mi sorrideva». Lenna gli ha di nuovo posato una mano su una spalla. E lui vi ha appoggiato la sua. «Mio Dio, Lenna! E tu cos'hai fatto?». «Mi sono messa a urlare! Non l'avevo riconosciuto». «Come non l'avevi riconosciuto?». «Era cambiato! Il signor Sviolino che avevo creato quand'ero piccola aveva la mia età. Immagino che, man mano che gli anni sono passati per me, sia successa la stessa cosa anche a lui. Naturale, no?». «Mi siedo. Mi devo sedere un momento. È stato il pomeriggio più assurdo della mia vita». Sviolino è balzato in piedi cedendomi la sedia. Non ho rifiutato. Mentre se ne andava a guardare la televisione con i bambini, l'ho osservato uscire. Soprappensiero, ho sollevato il bicchiere di latte che Michael si era versato e aveva bevuto soltanto per metà, e l'ho finito. «È vero quello che mi hai detto?». Lei ha sollevato la mano destra. «Te lo giuro sulla nostra amicizia». «Quell'uomo affascinante che è uscito adesso da qui è sul serio sbucato fuori da uno dei tuoi sogni da bambina?». Lenna mi ha guardato sorpresa. «Oh, pensi che sia affascinante? Davvero? A me sembra soltanto molto buffo, a dire il vero. Gli voglio bene come amico», ha aggiunto lanciando uno sguardo imbarazzato verso la porta, «ma non ho mai desiderato uscire con lui o roba del genere». Ma io sì, e così siamo usciti insieme. Dopo i nostri primi incontri, sarei andata a caccia di topi nel Bronx con lui se me l'avesse chiesto. Com'era prevedibile, mi aveva letteralmente fatto perdere la testa. Il profilo del collo di un uomo può cambiarti la vita. Vederlo infilare una mano in tasca in cerca di qualche spicciolo può spedirti sulla luna e farti gelare all'improvviso le mani. Il modo in cui ti tocca il gomito o vedere come porta i polsini della camicia slacciati possono avere un effetto devastante. Sono demoni
che lui sguinzaglia senza neanche accorgersene e che in un istante ti stringono nelle loro grinfie. Lo trovavo assolutamente irresistibile. Volevo dimostrarmi degna della sua presenza al mio fianco e fare cose di cui non mi sarei mai ritenuta capace. Credo che anche lui avesse cominciato a innamorarsi di me, anche se non era tipo da pronunciare una frase simile. Al massimo diceva che era felice e che desiderava condividere con me cose che aveva sempre tenuto gelosamente in serbo per una persona speciale. Dal momento che sapeva che prima o poi se ne sarebbe dovuto andare (dove non lo disse mai e io alla fine smisi di chiederglielo), sembrava avere gettato al vento qualsiasi cautela. Ma prima ancora di lui, avevo anch'io gettato al vento tutto, prudenza compresa. Sino a quel momento avevo studiato con cura tabelle e orari, ogni mattina prima di ogni altra cosa rifacevo bene il letto, e detestavo lasciare i piatti sporchi nel lavandino. A quarant'anni la mia vita era in perfetto ordine e comodamente racchiusa entro limiti ben definiti. Perdere la testa e mandare tutto all'aria non faceva parte del mio repertorio e di solito la gente che si lasciava andare mi faceva venire i brividi. Ho compreso di essermi innamorata e che per lui avrei mandato all'aria qualsiasi cosa il giorno in cui gli ho insegnato a giocare a squash. Dopo avere rincorso la pallina per un'ora, ci siamo seduti davanti ai campi a bere una Coca. A un certo punto lui si è passato due dita sulla fronte per asciugarsi il sudore e una goccia calda mi è caduta sul polso. L'ho coperta in fretta con una mano e me la sono strofinata sulla pelle. Lui non se n'è accorto. A quel punto ho capito che dovevo abbandonare ogni genere di aspettativa e vivere del suo respiro senza preoccuparmi di cosa poteva succedere. Quel giorno compresi che avrei sacrificato qualunque cosa per lui e per qualche ora mi sono sentita una specie di santa, di invasata, l'incarnazione stessa dell'amore. «Come mai Michael ti permette di vivere con loro?». Lui ha preso una sigaretta dal mio pacchetto. Aveva cominciato a fumare da una settimana e gli piaceva moltissimo. Quasi quanto l'alcol, diceva, da bravo irlandese. «Non dimenticare che è stato lui a lasciare Lenna, e non viceversa. Quando è tornato, si è messo praticamente in ginocchio per farsi perdonare. Non poteva dire gran che riguardo alla mia presenza. Soprattutto dopo avere scoperto chi ero. Hai qualche nocciolo di prugna da qualche parte
per caso?». «Domanda numero due: perché diavolo mangi i noccioli delle prugne?». «Semplice, perché Lenna andava matta per le prugne quando era piccola. Prendevamo spesso il tè insieme: sottofondo di Scott Joplin, tè immaginario e prugne vere. Lei mangiava le prugne e dava a me i noccioli. Logico, no?». Gli ho passato una mano tra i capelli: adoravo il modo in cui le dita mi si intrecciavano ai suoi riccioli rossi. «È disgustoso! Che schiavitù! Come mai la mia migliore amica comincia a piacermi sempre meno?». «Se ti piaccio io, ti deve piacere anche lei, Juliet: è lei che mi ha fatto». Gli ho baciato le dita. «Quella è la parte che mi piace. Verresti a vivere con me?». Lui mi ha preso la mano e me l'ha baciata. «Mi piacerebbe un sacco, ma devo dirti che credo di non rimanere qui a lungo. Ma se tu vuoi, starò con te finché, be', non me ne dovrò andare». Mi sono irrigidita. «In che senso?». Ha sollevato una mano davanti al mio viso. «Guarda bene. Lo vedrai». Mi ci è voluto un attimo, ma poi ho capito: da certe angolazioni la sua mano sembrava quasi trasparente. Era diventata vagamente evanescente. «Lenna è di nuovo felice. È la solita vecchia storia: quando è giù e ha bisogno di me, mi chiama», ha detto stringendosi nelle spalle. «Poi quando torna a essere felice, non le servo più e così mi manda via. Non lo fa coscientemente, ma... Senti, lo sappiamo tutti che sono il suo piccolo mostro di Frankenstein. Può fare di me tutto quello che vuole. Persino sognare che mi piacciano questi dannati noccioli di prugna». «Non è giusto!». Sospirando, si è raddrizzato e ha iniziato a infilarsi la camicia. «Non è giusto, ma è la vita, dolcezza. Non possiamo farci molto, lo sai». «Sì, che possiamo, invece. Possiamo eccome». Mi stava dando le spalle. Mi è tornata in mente la prima volta che l'avevo visto: anche allora era di spalle. E i suoi lunghi capelli rossi gli cadevano sul colletto del giubbotto. Sono rimasta in silenzio finché lui non si è voltato e mi ha guardato da sopra una spalla con un sorriso. «Possiamo fare qualcosa? Cosa?». I suoi occhi erano gentili e pieni d'amore e io volevo continuare a vederli per il resto della mia vita. «Possiamo fare in modo che sia triste e che abbia bisogno di te». «In che senso?». «Nel senso che ti ho detto, Sviolino mio. Quando è triste, Lenna ha bi-
sogno di te. Dobbiamo soltanto trovare qualcosa che possa renderla triste per molto, molto tempo. Qualcosa che abbia a che fare con Michael. O i bambini». Le sue dita smisero di muoversi attorno ai bottoni della camicia. Quelle dita sottili, d'artista. E poi le lentiggini. Oh oh lallà I vecchi dovrebbero essere esploratori Il luogo e l'ora non importa Noi dobbiamo muovere senza fine Verso un'altra intensità... Nella mia fine è il mio principio T.S. ELIOT, East Coker1 D'accordo, mettetela così. Se si fosse chiamata Codruta o Glenyus o Heulwen, sarebbe stato più semplice da accettare. Un nome esotico che rammenta gli Urali o il paese dei druidi, luoghi in cui eventi arcani e misteriosi sono all'ordine del giorno. Invece no, si chiamava Beenie. Beenie Rushforth. Non vi sembra che si potrebbe chiamare così un'allegra cinquantenne socia del golf club dietro casa? Io direi proprio di sì. Una donna che parla a voce troppo alta, dall'abbronzatura troppo intensa e troppo bourbon nel bicchiere già alle undici di mattina. Beenie Rushforth, Wellesley, diplomata nell'anno 1965. Anche il modo in cui ha fatto la sua comparsa non è stato niente di speciale. La nostra ultima donna delle pulizie aveva deciso di sposare il suo ragazzo e trasferirsi a Chicago. Non che fosse una gran perdita. Non era una gran lavoratrice, era una di quelle che preferiscono spazzare intorno a un tappeto piuttosto che sollevarlo. Mia moglie Roberta è anche convinta che ogni tanto bevesse un goccetto dalle nostre bottiglie di liquore, per quanto non fosse una cosa che mi preoccupava troppo, quella. Mi secca di più pagare fior di quattrini per avere la casa pulita e ritrovarmi invece mucchietti di polvere in ogni angolo e i vetri della stanza degli ospiti tutti rigati di sporco. Quando si è licenziata, Roberta ha attaccato un avviso sulla bacheca davanti al supermarket, accanto ai vari «Volete farvi tagliare il prato?/Lezioni di tedesco offrensi/Macchina da scrivere seminuova...».
Saremmo perfettamente in grado di fare le pulizie da soli, ma da quando i nostri figli non vivono più con noi e io ho un posto fisso all'università, abbiamo più denaro a nostra disposizione. E mi fa piacere usarne un po' per rendere la nostra vita più confortevole. Roberta se lo merita. Nel corso della mia esistenza ho sempre dimostrato un misterioso talento di trovarmi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo la laurea ho scelto di proseguire i miei studi presso l'Università del Michigan in modo da poter studiare con il professor Ellroy, il più famoso studioso di Melville in circolazione, il quale, guarda caso, è morto sei settimane dopo il mio arrivo. Roberta era incinta della nostra prima figlia, Norah, e aveva i suoi problemi, ma è stata splendida. Mi ha detto che avevo un dottorato di ricerca in una grande università e che con o senza Ellroy era un'occasione preziosa, perciò era ora di smetterla di frignare e di rimboccarmi le maniche. L'ho fatto, e tre anni più tardi siamo usciti di lì con un dottorato e due bambine tra le braccia. Per dieci anni abbiamo vissuto la tipica vita itinerante di ogni giovane ricercatore universitario, ritrovandoci a caricare il nostro furgoncino Volkswagen ogni due anni e metterci in viaggio da un capo all'altro del paese in cerca di un nuovo posto. Gli studenti mi amavano, ma i miei colleghi erano gelosi. Scrivevo tanto e bene a quell'epoca e avevo già sfornato la monografia sullo gnosticismo di Melville che aveva spinto un sacco di gente a correre a riprendere in mano la propria copia di Moby Dick per capire cosa le era sfuggito. Poi fu la volta di "Marine al chiar di luna: uno studio comparato dell'opera di Albert Pinkham Ryder2 e Herman Melville". Si trattava di un saggio che mi avrebbe dovuto rendere famoso, ma non fu così. Non me la presi. Sapevo che era un buon lavoro, noi eravamo giovani, avevamo il nostro amore, due bambine sane, tante promesse... di cos'altro si ha bisogno a quell'età? Nel Minnesota acquistammo la nostra prima casa e il nostro primo cane. Gli anni Sessanta cominciavano a mostrare i muscoli e io ancora una volta scelsi il posto sbagliato al momento sbagliato. Norah iniziò ad andare all'asilo nel Nuovo Messico. Ci trovavamo bene lì. Quegli inverni assolati e quel panorama di montagne lontane ci rendevano felici. L'università era un luogo disgustosamente conservatore, ma avevamo trovato degli amici e facevamo una vita comoda. Negli anni Sessanta la passione infiammò tutti gli animi. Tutti avevano qualcosa di "importante" da dire riguardo alla situazione mondiale. Me compreso. Fui anch'io uno di quegli idioti che si lasciarono crescere i capelli e dimostrarono gridando slogan contro la guerra. Sarebbe andato bene
se fossimo stati nel New England o in California, dov'era di moda, ma il Nuovo Messico era la patria di un cieco patriottismo nonché di vari fabbricanti di armi. E poi lavoravo in un'università statale e perciò legata a doppio filo al governo. Basti dire che la mia domanda per ottenere la cattedra, per quanto avessi tutte le carte in regola, fu respinta. Disperato, mi misi in cerca di qualcos'altro, ma l'unico posto disponibile era in una facoltà di agraria a Hale, in Texas. Dio vi scampi e liberi dal dover vivere a Hale. Vi passammo i quattro peggiori anni della nostra vita. Avevo uno stipendio da fame, i nostri figli andavano in una scuola desolante e i miei colleghi di dipartimento erano dei cromagnon sia per quel che riguardava il metodo educativo sia per la socievolezza. Rischiai di andare fuori di testa. Mi comportai in modo talmente imperdonabile che rischiai di far saltare il nostro matrimonio. Una sera spaventosa Roberta e io ci ritrovammo a fissarci dai capi opposti della tavola e lei mi disse: «Non avrei mai pensato che saresti diventato così». «Succede quando si sposa una persona inutile che non sa nemmeno tenere la bocca chiusa», risposi, e lei replicò: «Ho sempre saputo che non eri capace di tenere la bocca chiusa, ma non che fossi anche inutile. Ora lo so. Inutile, squallido e ignobile». Sfortunatamente non finì lì e se siamo sopravvissuti è stato soltanto grazie alla pazienza e alla buona volontà di mia moglie. Non ero più in me e i miei figli erano così terrorizzati che non mi si avvicinavano più se non a comando. Una vita che era stata ricca e interessante come un bel romanzo si era trasformata in un grigio orario dei treni. Poi, un giorno, inaspettatamente, mi venne offerto un posto qui. Il capo del dipartimento era una vecchia conoscenza dei tempi dell'Università del Michigan, con cui ero rimasto in contatto nel corso degli anni perché lavoravamo alle stesse cose. Non dimenticherò mai il momento in cui mi volsi verso Roberta al termine della telefonata dicendole: «Piccola, fa' i bagagli. Si parte, andiamo al nord!». La transizione non fu facile. Norah era contenta della sua vecchia scuola, la vita divenne molto più costosa (anche perché in Texas non facevamo mai nulla, non essendoci nulla da fare) e io avevo un carico di ore di insegnamento decisamente maggiore. Ma, malgrado tutto, dopo sei mesi mi sembrava di non avere più le arterie intasate: eravamo di nuovo in pista. Da quel momento ebbero inizio vent'anni di giornate interessanti e, nonostante alcuni momenti orrendi, uno stato di generale soddisfazione che è raro da conquistare. Non sono molti quelli che dicono: «Sono contento
della mia vita». È come se si sentissero a disagio o in imbarazzo per aver avuto tanta fortuna, come se si vergognassero di aver ricevuto in dono da Dio una strada senza ostacoli. Non è il mio caso. Cinque anni fa mi sono reso conto della benevolenza che mi è stata dimostrata e ho ritenuto che fosse il momento di cominciare ad andare in chiesa. Mi sono guardato un po' intorno e ho scelto la più semplice che ho trovato. Un posto in cui poter ringraziare Dio senza essere soffocato da paramenti di velluto e riti contorti che perdono di vista lo scopo vero. Ho cinquantacinque anni e credo che Dio sia disposto ad ascoltarci se gli parliamo chiaramente e senza tanti giri di parole. Il suo responso non si manifesta in risposte o risultati immediati, ma in una serie di puntini intorno a noi che sta alla nostra intelligenza unire uno all'altro. Ne sono ancora più convinto adesso, dopo avere conosciuto Beenie. Malgrado abbia conosciuto Beenie. Che Dio la benedica. Dannazione a lei. Risposi io al telefono la prima volta che ha chiamato. La voce di certa gente si accorda al suo aspetto. Uomo robusto uguale voce profonda, tanto per intenderci. La mia prima impressione è stata di avere a che fare con una donna di mezza età ben disposta, cordiale. Disse di avere visto il messaggio che avevamo appeso in bacheca e di essere interessata ad «accettare il mandato». La cosa mi fece sorridere. Da quando in qua una donna delle pulizie svolge un «mandato»? Certo, viviamo in un mondo in cui gli spazzini sono diventati «operatori ecologici», perciò se lei voleva un mandato, l'avrebbe ottenuto: io non avevo nulla da ridire. Mi raccontò di sé più di quanto fosse necessario. Aveva dei figli già grandi, era vedova, non aveva bisogno di soldi, ma le piaceva tenersi in forma. Mi domandai se fosse vero: chi si mette a fare le pulizie in casa degli altri per tonificare i muscoli? Perché allora, se voleva un corpo scolpito, non si iscriveva in una palestra piena di macchinari luccicanti? La invitai a venire a casa nostra la mattina seguente e lei accettò prontamente. Aggiunsi un'altra caratteristica alla lista stilata in base alla sua voce: doveva soffrire un po' di solitudine. Prima di chiudere, mi diede il suo numero di telefono nel caso ci fosse qualche problema e avessi dovuto cancellare il nostro incontro. Al termine della telefonata, presi l'elenco e controllai sotto Rushforth. Mi capita a volte di cercare il nome di qualcuno nell'elenco del telefono o di leggere le clausole di un'offerta promozionale o le varie scritte su una scatola di corn flakes. È dovuto a un miscuglio di curiosità, impudenza e spirito da studioso in pari dosi. Sono abituato a raccogliere il maggior numero di informazioni possibili su ogni argomento e poi concentrarmi sugli elementi che mi pos-
sono essere utili. Non mi misi a sfogliare l'elenco perché avessi qualche particolare sospetto sulla signora Rushforth. Pura curiosità. Con mia grande sorpresa l'unica B. Rushforth che c'era abitava a Plum Hill, un quartiere elegante e prestigioso sulla sponda del lago. Una donna delle pulizie che viveva a Plum Hill? Adesso sì che ero incuriosito, e lo stesso Roberta dopo aver saputo della telefonata e del risultato della mia piccola ricerca. «Oh, Scott, sarà una specie di ricca ed eccentrica zia Marne3. Verrà Rosalind Russell a farci le pulizie in casa!». La mattina seguente mi telefonò un collega dicendomi che aveva urgentemente bisogno del mio aiuto, così dovetti uscire e mi persi l'incontro con la misteriosa Beenie. Quando rientrai, all'ora di pranzo, Roberta mi raccontò com'era andata. «Com'è?». «È una donna di mezz'età, corporatura media, un po' rotondetta. Ha i capelli grigi, corti, e l'aspetto di una massaggiatrice». «Me l'immaginavo. Com'era vestita?». «Con una di quelle tute supercolorate e quelle complicatissime scarpe da jogging. È molto cordiale, ma un po' autoritaria. Hai presente cosa intendo, no? Mi ha domandato se poteva dare un'occhiata alla casa prima ancora che le chiedessi di venire a lavorare da noi. Per controllare il carico di lavoro». «E alla fine gliel'hai chiesto di venire a lavorare da noi?». «Sì, tesoro. È carina e mi sembra affidabile. Una donna che vive a Plum Hill, ma è disposta a fare le pulizie per avere qualcosa da fare, deve essere come minimo una persona interessante, non credi? Se poi fa anche le pulizie bene, tanto di guadagnato». «Giusto. Ben venga!». «Inizia domani». Il mio seminario su Hawthorne mi prese quasi tutta la mattina. Ho un buon gruppo di studenti, intelligenti e interessati. Di solito esco dalla lezione rinvigorito e felice di fare l'insegnante. Quel giorno era sorta una discussione piuttosto animata intorno al simbolismo del racconto Il giovane Goodman Brown. A un certo punto un ragazzo aveva chiesto a un compagno: «Credi che diresti tutte queste cose se sapessi che c'è Hawthorne seduto in aula? Dovresti sentirti. Saresti altrettanto sicuro se sapessi che chi ha scritto queste cose ti sta ascoltando?». Una buona domanda che nei miei anni di insegnamento avevo sentito ri-
petere in molte formulazioni diverse. Stavo ancora pensandoci su quando, entrando in casa, sono stato salutato dalla voce familiare del nostro aspirapolvere. «C'è nessuno in casa?». L'aspirapolvere ha continuato a rumoreggiare imperterrito. «Salve a tutti...». Niente. Dopo di che in soggiorno scoppiò una gran risata. Entrai e vidi Roberta piegata in due sul divano che rideva come una matta. Mia moglie ride in modo plateale: se qualcuno le racconta qualcosa di divertente, si dà delle gran manate sulle ginocchia e si spancia dalle risate. È facile divertirla, ed è sempre gratificante, visto che dimostra di apprezzare in modo tanto evidente. Credo che una delle cose che mi hanno fatto innamorare di lei sia stato scoprire che era la prima donna a ridere sinceramente delle mie battute. Il sesso è meraviglioso, ma far ridere una donna a volte può essere ancora più piacevole. «Tu devi essere Scott. Roberta mi stava raccontando di te». Era una nuvola di grigio e argento. Capelli grigi, felpa grigia, scarpe da ginnastica grigie. Le mani sui fianchi, mi osservava come se stesse scrutando una macchina usata. L'aspirapolvere ancora acceso continuava a rombare al suo fianco. «Beenie?». «Sarebbe Bernice, ma se ti azzardi a chiamarmi così, mi licenzio. Piacere di conoscerti». «Piacere mio. Sembra che voi due vi stiate divertendo». «Stavo raccontando a Roberta di mio figlio». Mia moglie agitò una mano per aria, come se una mosca le stesse volando sul naso. «Dovresti sentire, Scott. Raccontagli la storia del coniglio. Per favore!». Beenie parve compiaciuta ma un po' intimidita. «Un'altra volta. Devo finire di passare l'aspirapolvere, sono ancora così indietro». Staccò la spina e si tirò dietro l'aspirapolvere in sala da pranzo. Voltandomi per assicurarmi che non fosse più nelle vicinanze, domandai: «Come sta andando?». «Splendidamente! È una bomba atomica. Hai visto la cucina? Va' a dare un'occhiata. Sembra una di quelle pubblicità della cera per i pavimenti: luccica come uno specchio. Bisogna mettersi gli occhiali da sole per non rimanere abbagliati. Credo che abbiamo avuto fortuna stavolta». «Sarebbe una gran bella cosa. Perché ridevi così?».
«Perché è davvero divertente! Racconta delle storie... devi sentirla». «Mi accontenterei che sapesse fare le pulizie». «È questo il bello: fa tutte e due le cose meravigliosamente». Quel giorno rumori mai uditi riempirono la nostra casa. Cuscini sbattuti e sprimacciati. L'aspirapolvere passato lungo le pareti e in angoli del pavimento che non erano stati puliti da anni. Beenie scovò una finestra in bagno da cui probabilmente non filtrava più la luce del sole da quando era stata costruita la casa, trent'anni prima. Le ciotole del cane scintillavano. Roberta non riusciva a credere ai suoi occhi vedendo che sotto il lavandino nel bagnetto piccolo che nessuno usava mai non solo non c'era più una macchia, ma si sentiva il profumo di un nuovo disinfettante sconosciuto. La risposta di Beenie? «Porto sempre i miei prodotti per la pulizia». La mia scrivania era stata spolverata e le carte messe in ordine. Persino i libri erano stati allineati in ordine alfabetico. In genere non amo che qualcuno si avvicini alla mia scrivania: c'è un veto assoluto per tutta la famiglia a toccare le mie cose, ma sono rimasto colpito dalla precisione con cui Beenie aveva pulito anche lì sopra e non ho detto nulla. Né io né mia moglie sapevamo se quel vortice si sarebbe arrestato all'ora di pranzo. Non l'abbiamo vista sedersi un solo istante. In quelle otto ore ha fatto talmente tanto che io e Roberta, dopo, ci siamo messi a fare il giro della casa che ancora scintillava, mandando gridolini di sorpresa a ogni passo. «Mio Dio, ha persino fatto il bagno al cane?». «No, l'ha solo pulito con l'aspirapolvere e l'ha spazzolato, ma hai visto le tue scarpe? Le ha lucidate». «E le mie mutande? Credo che le abbia stirate. Nessuno mi ha mai stirato le mutande fino a oggi». «Stai cercando di dirmi qualcosa, maritino?». Sembrava una caccia al tesoro. Chi avrebbe mai pensato di pulire cose invisibili come le lampadine degli abat-jour? O lo spargisale, come mi accorsi diversi giorni dopo, a colazione. L'avevo guardato spesso pensando che avrei dovuto scrostare lo strato di sale che gli si era formato sopra e pulire i fori con uno stuzzicadenti. E adesso qualcuno l'aveva fatto, insieme a un gran numero di altre cose. Vi posso assicurare che io e Roberta non siamo mai a corto di argomenti. Se non sono i nostri figli, è la nostra vita, o quello che facciamo quando non siamo insieme, o un libro, o qualcos'altro. Ma per qualche giorno Beenie Rushforth diventò uno dei principali spunti di conversazione. Se non era quel che aveva fatto, era come l'aveva fatto: in un modo o nell'altro
spuntava sempre fuori. Scoprimmo che non solo aveva pulito, stirato, strofinato, lucidato tutta la casa da cima a fondo, ma aveva anche fatto una miriade di piccole cose nelle varie stanze per organizzare meglio la nostra vita. I libri in ordine alfabetico sulla mia scrivania, per esempio. In cucina invece aveva messo a posto i barattoli, allineando le spezie in modo tale che fossero tutte visibili, e non più come prima, quando erano ammucchiate una sopra l'altra e bisognava tirarle fuori tutte ogni volta che si cercava qualche foglia d'alloro o un po' di cannella. La bottiglia d'inchiostro sulla scrivania di Roberta era stata pulita e le buste erano state ordinate per colore. «Questo è troppo». «Cosa?». «Guarda, il tubetto di dentifricio è stato spremuto ben bene dal basso. Non sei stata tu, vero?». «Io? Ma se sono trent'anni che mi rimproveri perché non lo faccio mai». «Lo immaginavo. Roberta, perché la nostra donna delle pulizie ci lascia tanto sbalorditi?». «Perché è assolutamente prodigiosa. E la paghiamo come quella di prima, che non alzava un dito». «Dimmi che cos'altro ti ha raccontato. Com'è che riesce a vivere a Plum Hill?». «Le cose sono un po' diverse da come pensavamo. A quanto pare vive nella casa del custode all'interno di una grande villa. È lì da anni e paga pochissimo di affitto. Suo marito è morto dieci anni fa. Era direttore di una compagnia di assicurazioni a Kansas City». «Immagino che questo spieghi perché ha detto di non aver bisogno di soldi: quando un assicuratore ci lascia le penne, la famiglia eredita un bel gruzzolo, puoi starne certa, perché si era fatto la polizza migliore a disposizione». «Ha detto che non ha problemi finanziari». «Non ho dubbi. E ha un figlio?». «Sì, e una figlia. Il figlio dev'essere un gran bel tipo. Fatti raccontare la storia dei sigari». «D'accordo. Sai cosa stavo pensando? Sembrerà strano, ma mi sto chiedendo cosa si metterà a pulire la prossima settimana, quando torna. Cos'è rimasto?». Il seminterrato. «Oh, Beenie, non è necessario. Ci sono solo la lavanderia e la scantinato,
di sotto. Non ci andiamo mai». «Sono scesa la scorsa settimana a dare un'occhiata e credo ci sia dello spazio che può tornare utile se volete. Datemi un paio d'ore e ve lo metto a posto». Roberta disse che per il resto della mattinata, finché non tornai a casa all'ora di pranzo, sentì i rumori più strani di sotto. Il nostro seminterrato è una sorta di buco nero. Il buio in fondo alle scale. Il luogo in cui si è costretti a scendere una volta alla settimana con il cesto della biancheria da lavare anche se si preferirebbe fare un migliaio di altre cose piuttosto. In casa nostra ci sono due luoghi in cui accumulare la roba: la soffitta e lo scantinato, in quest'ordine. Se vogliamo conservare una cosa senza averla più tra i piedi, la infiliamo in soffitta. Se ce ne vogliamo sbarazzare, ma non abbiamo la forza, o il coraggio, di prendere la decisione di sbatterla nel bidone della spazzatura, finisce nello scantinato. In compagnia di umide ombre e valigie defunte. Se fosse stato per me, avrei staccato quella parte della casa come il primo modulo di un razzo che ormai ha raggiunto una certa altitudine. Con l'eccezione della nostra lavatrice che vive con noi da dieci anni, l'unica funzione del seminterrato è quella di accendere di quando in quando nella memoria un flash di bambini che corrono di sotto per giocare a nascondino o strepitano inseguiti da qualche mostro immaginario. Le nostre figlie sono ormai cresciute e non abitano più con noi. E quando vengono a trovarci, i loro figli sono ancora troppo piccoli, o comunque non interessati a giocare nel seminterrato. Man mano che gli anni passano per noi, anche la nostra casa ci si restringe intorno. Abbiamo bisogno di meno spazio e dietro le porte chiuse, in stanze un tempo piene di animazione, regna un silenzio pesante che ci accusa di avere dato loro la vita per poi sottrargliela. Dove sono i bambini, le feste, il baccano, il movimento e tutta quella baraonda di roba per terra? Nessuno si guarda più negli specchi, nessuno lascia più delicate scie di profumo in corridoio, né si respira più l'odorino di un buon pollo arrosto per cena nella sala da pranzo in cui ormai non entra più nessuno. Non avete più niente per me? Allora io vi imprigiono nella mia quiete, tra oggetti che nessuno tocca più e che rimangono puliti troppo a lungo. Io la chiamo sindrome da museo delle cere: tutto quello che possediamo, man mano che diventiamo vecchi, assume un'aria museale, noi compresi. «Oh oh lallà!». M'ero dimenticato di dirlo. Le tavole del pavimento che separano il piano terra dal seminterrato non sono molto spesse. La prima volta che udii
quella strana esclamazione echeggiare di sotto guardai mia moglie seduta accanto a me per essere illuminato. Stavamo pranzando e, coincidenza, avevamo entrambi delle patatine in mano, che per un attimo rimasero sospese a mezz'aria. «E questo cosa sarebbe?». «Pare che sia il suo grido di battaglia quando trova qualcosa di interessante». «Il che significa che tra poco ci comparirà davanti? Buona, l'insalata con le uova sode. Ci hai messo qualcosa di nuovo?». «Un po' di rafano. Me l'ha insegnato Beenie. Buono, vero?». «Scott, sei tornato. Cosa sono queste?». «Ehilà. Sono delle vecchie copie del "New Yorker", come puoi ben vedere». «Vedo, vedo. Ma le vuoi tenere, o che? Le ho trovate nello scantinato, ma alcune sono talmente coperte di muffa che non si riesce a leggere più neanche una parola». Aveva ragione, ma quel suo tono di rimprovero mi rammentò la signorina Katsburg, la mia insopportabile insegnante di prima elementare. Non era un ricordo piacevole. «Beenie, sei qui per pulire, ma non è necessario spazzare via ogni cosa. Rimetti a posto quelle riviste, d'accordo?». «Anche quelle ammuffite? Potrei sceglierle e...». «Anche quelle ammuffite. Adoro la muffa: le sfoglio con più cura». «Sei ben strano, Scott». «Grazie, Beenie. Lasciale dov'erano». Ricomparve più di una volta portando su a piene braccia misteriosi oggetti dimenticati e coperti di polvere, chiedendo se poteva buttarli via. Ogni volta Roberta e io acconsentimmo con entusiasmo. Alla fine la sentimmo salire le scale con passo più lento e più pesante del solito. Per forza: aveva un televisore sulla testa e sembrava una di quelle donne africane che portano una giara al pozzo. «Mio Dio, Beenie!». «Oh, Beenie, cosa stai facendo?». «Vi ho portato un tesoro! Sapete cos'avete qui? Un Brooker: dicono che sia il televisore migliore che sia mai stato prodotto negli Stati Uniti. Più resistente di una Ford Modello T4». Io e mia moglie ci scambiammo un sorrisino. «È stato il primo televisore che abbiamo comprato e non ha mai funzionato. Una sfilza di problemi
senza fine. Quante volte si è rotto?». Roberta guardò Beenie e si strinse nelle spalle come se si sentisse in colpa. «Almeno cinque volte. Ti ricordi quell'orribile grassone che veniva a ripararla?». Il ricordo di quell'uomo con la barbetta a punta mi investì come una nuvola di gas di scarico fuoriuscita da un vecchio camion. «Craig Tenney! Ricordo il nome scritto in giallo sulla sua tuta blu. Terribile! Che uomo pieno di sé! Per non parlare di quanto era disonesto... Beenie, metti giù quell'aggeggio. Ti farai male». «No, niente affatto. Una volta che ce l'hai sulla testa, il collo è in grado di sostenere praticamente qualsiasi peso. Cosa volete farci con questo? Non lasciatelo lì di sotto. Vi assicuro che farebbe gola a qualsiasi collezionista, anche se non è funzionante». «Be', allora puoi prenderlo, se lo vuoi». Beenie mi rivolse uno sguardo interrogativo. «Com'è che l'avete tenuto, se non lo volete?». «Probabilmente ero troppo pigro per portarlo fino al cassonetto. Davvero, se lo vuoi, prendilo». «D'accordo, allora. Conosco una persona che potrebbe essere interessata a comprarlo». Erano anni non vedevo quel televisore. Doveva essere rimasto talmente tanto tempo nello scantinato che, anche se gli ero passato davanti, non l'avevo notato perché era diventato praticamente invisibile. Capita a certi oggetti, quando non funzionano o non li usiamo più. Eppure rivedere quell'apparecchio fare ritorno alla luce del sole, nel nostro soggiorno, là dove un giorno aveva catturato l'attenzione dell'intera famiglia, mi fece tornare in mente un sacco di cose. Come quel tecnico che si metteva a pontificare sulla situazione mondiale mentre riparava, o almeno così diceva, quel marchingegno malefico. C'erano anche ricordi piacevoli. Tutta la famiglia raccolta davanti allo schermo dopo cena a guardare Laugh-In5 o Star Trek con in mano una bella coppa di gelato guarnita con nocciole e crema calda al caramello. A differenza di tanti altri, non ho mai avuto nulla contro la televisione, per quanto sia consapevole della sua stupidità. Quando ero bambino, ascoltavamo religiosamente spettacoli non meno sciocchi alla radio, e non ci vedo nessuna differenza. Le nostre figlie sono sempre state delle lettrici appassionate e delle buone studentesse. Se desideravano guardare la televisione
per un'ora o due dopo la scuola o vedere una partita di football durante il fine settimana, perché dovevo avere qualcosa in contrario? Anzi, spesso mi sedevo con loro, a godermi lo spettacolo e la loro compagnia. Mi rammentai anche che la prima volta che ci avevano rivolto una domanda sul sesso era stato proprio mentre guardavamo la tivù. Una sera, nel bel mezzo del Dick Van Dyke Show6, Norah ci comunicò di aver sentito dire da un'amichetta che i bambini nascono quando un uomo e una donna vanno in ospedale e, mentre sono distesi in due letti separati, i loro organi genitali vengono collegati da un lungo tubicino di gomma bianco, ecc. ecc. È vero, papà? Insomma, grandi cose erano successe davanti a quel cavolo di apparecchio di cui ci eravamo ormai disfatti. Mi venne quasi voglia di riprendermelo. Evidentemente a Roberta era accaduta la stessa cosa. Quella sera a cena mi raccontò di aver pensato anche lei ai vari ricordi che quel televisore le aveva fatto tornare in mente. «Rammento di averlo acceso nel preciso istante in cui Oswald veniva condotto fuori e Ruby gli sparava. Lo ricordo come fosse adesso. Il mondo intero era in lutto. Andavamo in giro come degli zombie, nessuno si immaginava che non fosse ancora finita! Invece ecco che succedeva una cosa simile proprio davanti ai nostri occhi. Fu come se fosse la prima volta che si vedeva un assassinio in diretta». «L'abbiamo visto su quell'apparecchio, il Brooker? Sei sicura?». «Sì». «Cazzo». «Mio figlio Dean vive in campagna. Lui e sua moglie Gaby hanno un cane bassotto che si chiama Zip. È un cagnolino simpatico, ma il problema è che dava di continuo la caccia al coniglietto dei vicini. Ogni volta che quelli lo lasciavano libero in cortile, Zip diventava matto. Appena lo vedeva, si metteva ad abbaiare e a cercare di scavalcare o a scavare sotto il recinto. La cosa era motivo d'attrito tra le due famiglie, ma del resto cosa ci si poteva fare? Una sera Dean e Gaby se ne stavano seduti in cucina a bere il caffè dopo cena, quando chi ti vedono entrare tutto coperto di terra dalla testa ai piedi con il coniglietto morto in bocca e il petto gonfio d'orgoglio come il generale MacArthur7? Quel piccolo demonio alla fine era riuscito a passare sotto il recinto e a far fuori il povero coniglio. Be', vi potete immaginare
cosa non è successo! Gaby ha avuto una crisi isterica e gliel'ha strappato di bocca prima che lo sbranasse. Fortunatamente non aveva segni di morsi. Pensarono che doveva averlo ucciso sbattendolo e spezzandogli il collo. Cosa potevano fare a quel punto? Già sentivano quello che avrebbero detto i vicini l'indomani mattina quando gli avrebbero riportato il coniglio spiegando cos'era successo. Pensarono a tutti i modi possibili per evitare una simile situazione e alla fine escogitarono un piano, una gran bella trovata, ma un po' macchinosa a dire il vero. Gaby prese il coniglio e lo lavò per benino. Con tanto di shampoo e tutto il resto. Poi prese il suo asciugacapelli e, potete immaginare, asciugò e pettinò quel dannato coniglio morto finché non ebbe tra le mani un bel batuffolo di pelo soffice soffice. Era tornato come nuovo. A quel punto si erano fatte le dieci di sera ed era il momento di mettere in atto la seconda parte del piano. Dean prese il coniglio, entrò di soppiatto nel cortile dei vicini e rimise nella sua casetta, una conigliera sollevata da terra da quattro sostegni. Poi tornò a casa in punta di piedi e lui e Gaby andarono a dormire tenendo le dita incrociate. Speravano che i vicini, trovandolo morto nella sua gabbia, pensassero che fosse morto di un infarto o qualcosa del genere durante la notte. Cause naturali, insomma. Ma la mattina presto udirono un urlo pazzesco dal cortile dei vicini ed entrambi pensarono: è fatta, hanno scoperto tutto. Dopo un po', la loro vicina, che è molto religiosa, si mise a bussare come una furia alla loro porta. Sembrava che avesse appena visto un film dell'orrore. Era bianca come un cencio e parlava a macchinetta, continuando a ripetere: "Un miracolo! Quanto è vero Iddio, questo è un miracolo! ". Insomma, è venuto fuori che il coniglietto era morto la mattina precedente. Lei e suo marito avevano scavato una fossa in giardino e l'avevano seppellito. Ma quel giorno, uscendo ad appendere il bucato, l'aveva trovato di nuovo nella conigliera, tutto pulito e profumato come se non avesse passato un solo istante sotto terra. Era risorto! Be', sì, era ancora morto, ma, insomma, si fa quel che si può!». Eravamo tutti e tre seduti in veranda. Beenie aveva finito di pulire la soffitta e Roberta l'aveva convinta a raccontare quella storia. Io avevo la sensazione che le facesse piacere rimanere un po' a chiacchierare piuttosto che tornare nel suo appartamento vuoto. Sapevamo dei suoi figli, del marito defunto e per sommi capi degli eventi salienti della sua vita sino a quel momento. Da quel che avevo sentito, la sua esistenza non doveva essere stata nulla di speciale, ma tutto sommato piacevole. Beenie era orgogliosa
dei suoi figli, stava bene, aveva abbastanza denaro per tirare avanti senza problemi e un senso dell'umorismo che faceva scintille e le permetteva di essere al centro dell'attenzione quando voleva. «Be', devo proprio andare adesso, ma vi avviso, la prossima settimana entro in garage e ci metto le mani. Mi ci vorrà tutto il giorno, quindi non mi resterà molto tempo per il resto della casa. Ma una volta finito anche quello, resteranno da fare soltanto le pulizie di tutti i giorni». Era inutile obiettare che non mettevamo mai piede in garage se non per parcheggiare la macchina d'inverno, che lo usavamo ancor meno spesso dello scantinato. In fondo mi faceva piacere che nel nostro piccolo mondo a partire dalla settimana successiva non ci sarebbe stata una virgola fuori posto. Dopo aver visto quello che Beenie era riuscita a fare nel seminterrato e in soffitta, io e Roberta avevamo intenzione di non aprire più bocca. Dove c'erano state ragnatele e polvere adesso c'era un sacco di spazio libero e diversi oggetti interessanti che, come il televisore, evocavano cari ricordi e perciò erano piacevoli da rivedere. Una slitta rossa su cui avevamo trasportato i nostri figli quando abitavamo nel Minnesota e nel Nuovo Messico, una bambola che un tempo era stata la cosa più importante che possedevano due bimbe e, con mia incredibile sorpresa e felicità, le copie dell'edizione tascabile di Pierre e di Redburn8, che avevo usato per la tesi e credevo di avere perso nel corso di qualche trasloco risalente alla notte dei tempi. Beenie continuava a portarci ogni genere di cose. «Con questo che ci faccio?»: era il suo modo di domandarci se volevamo o no conservare quel che aveva scovato. Domanda che finì presto per diventare un semplice: «E questo?». Roberta e io eravamo ormai curiosissimi di vedere cos'altro sarebbe venuto fuori da quelle montagne di roba, quale pezzo della nostra storia sarebbe riaffiorato come un periscopio per dare un'occhiatina in superficie. Era difficile dire addio ad alcune cose, sebbene non ci fosse ragione al mondo di non sbarazzarsene. Per quanto fossero vecchie, obsolete e in pezzi, facevano comunque parte del nostro passato. Piccoli tasselli di una vita in cui avevano figurato per qualche tempo finché, non più utilizzabili, erano state messe da parte. Qualche giorno più tardi andai a fare la spesa. È una cosa che amo fare perché mi piace ritrovarmi in mezzo a tanta profusione. Nella mia famiglia ero il quarto di cinque figli e per quanto il cibo non ci sia mai mancato, non posso neanche dire che ne avessimo in abbondanza. Entrare in un supermercato, vedere tutto quel po' po' di roba e sapere che posso comprare ciò che voglio è a tutt'oggi per me una gioia. Io e Roberta abbiamo avuto i
nostri tempi di magra, ma avendo avuto trascorsi simili, non abbiamo mai risparmiato sul cibo. La nostra macchina poteva anche essere mezza andata e il tetto pieno di buchi, ma a tavola c'era sempre da mangiare in quantità, e se le nostre figlie volevano invitare qualcuno a cena era sempre il benvenuto. Visto che a entrambi piace cucinare, ci occupiamo della cena una sera io una sera lei, ma la spesa è compito mio e non mi pesa affatto. Stranamente, durante il mio seminario su Hawthorne, era ripresa la discussione riguardo alle intenzioni dell'autore e la classe si era trovata divisa a metà tra chi era convinto che uno scrittore abbia l'ultima parola sulla propria opera e chi invece pensava che ogni interpretazione sia valida purché adeguatamente sostenuta dal testo. Io non mi ero schierato né con gli uni né con gli altri, ma avevo seguito con interesse la discussione finché una ragazza dall'aria seria non si era spinta un po' troppo in là dichiarando: «Prendete Dio, supponendo che esista. Qual è il significato della creazione? Potremmo equiparare le diverse religioni a dei critici letterari convinti che vi sia una sola interpretazione giusta, la propria. Ma può verificarsi davvero una cosa del genere? Non è forse una domanda a cui può rispondere solo il Creatore?». «Sì, ma il tuo "autore" è morto, o si guarda bene dall'aprire bocca, e dal momento che non ci racconta quali erano le sue intenzioni, sta a noi immaginarcelo, no?», aveva replicato un altro in tono canzonatorio. Teologia spicciola per studentelli saccenti che si facevano beffe del soprannaturale. Me ne ero rimasto zitto, ma mi aveva irritato sentire quei venticinquenni pontificare beffardi su qualcosa di fondamentale e innegabile. Immerso in quei pensieri stavo automaticamente controllando la lista della spesa mentre prendevo le varie cose dagli scaffali quando, alzando la testa, scorsi Beenie Rushforth a cinque, sei metri da me. Il primo impulso fu quello di andare a salutarla, ma notai in lei una tale espressione di gioia che mi trattenni. Aveva in mano un pacco di biscotti aperto e ne stava mangiando uno. Fin qui niente di speciale, se non fosse stato per quell'aria di beatitudine. Addentava il biscotto, chiudeva gli occhi e mi sembrava quasi di sentirla gemere di piacere. Dopo un po' riapriva gli occhi, guardava il biscotto come se le stesse dicendo delle cose meravigliose, ne mangiava un altro pezzo, e avanti così. O erano i migliori biscotti che fossero mai esistiti, oppure c'era qualcosa sotto. Mentre la guardavo, mi resi conto tutt'a un tratto che
mi stavo comportando esattamente come i miei studenti. Non riuscivo a immaginare di essere di fronte a qualcuno che semplicemente stava godendosi un istante piacevole della propria vita. No, tanta felicità poteva essere spiegata soltanto supponendo che Beenie fosse un po' svanita o strampalata, se non del tutto fuori di testa. Perché siamo sempre così diffidenti riguardo alle cose belle? «Ehilà, Beenie». Lei sorrise subito, anche se dovette passare qualche frazione di secondo prima che mi riconoscesse. «Ehilà, Scott! Come stai?». «Bene. Devono essere buonissimi. Hai un'aria così felice». «Sono buoni, ma non sorrido per i biscotti. È che sto ricordando un episodio della mia infanzia. Eravamo poveri e io avevo sempre una fame da lupo. Anche quando mangiavo. C'erano un paio di supermercati in città e andavo io a fare la spesa per mia madre. Però cambiavo negozio ogni volta perché avevo escogitato un piccolo trucco. Prendevo quello che serviva, poi sceglievo una scatola di biscotti, non importa quali, a me sembravano tutti così buoni. In ogni negozio c'era un angolino un po' nascosto in cui non si era visti dai commessi. E io lo conoscevo bene. Prendevo i miei biscotti, mi dirigevo verso quell'angolo come per dare un'occhiata in giro e aprivo pian pianino la scatola lungo il bordo senza rompere troppo la carta. Basta fare un po' di attenzione. E io ero un'esperta! Una volta aperta la scatola, tiravo fuori due biscotti. Due, non di più! Me li infilavo in bocca, li mangiavo senza fare il minimo rumore per non farmi notare da nessuno e rimettevo a posto la scatola sul suo scaffale, dietro alle altre, in modo che non la trovassero subito. Non mi hanno mai scoperto e ne sono sempre andata fiera». «Ma non è più la stessa cosa adesso che li puoi comprare, eh?». «Be', ti dirò, Scott. Cinque settimane fa il dottore mi ha detto che le cose non vanno per niente bene. Da allora ogni cosa ha un sapore più buono di quanto non rammentassi». Lo disse con voce serena, senza la minima traccia di autocommiserazione. «Beenie, mi dispiace. C'è qualcosa che possiamo fare? Ci sono delle cure...». «È troppo tardi. Stavo male da un sacco di tempo e continuavo a dirmi che dovevo andare a fare un controllo, ma sai come vanno queste cose: ci si lascia prendere dalla pigrizia. Sotto sotto a dire il vero si ha una paura del diavolo e si preferisce non sapere... ma poi, quando si comincia a stare da cani, allora sì che ti viene la strizza e quando non ce la fai più, vai a
farti vedere sapendo già di essere nei guai fino al collo...». Fece una smorfia e scosse la testa. «Ricordi che si parlava di "stoltezza" un tempo? Non sarai un professore d'inglese per niente. Com'è che nessuno usa più questa parola? Comunque ho deciso di prendere le medicine e di seguire le cure che mi hanno prescritto, purché non mi rovinino il tempo che mi rimane. Al diavolo, vivrò il resto della mia vita a modo mio. E lo vedi questo pacco di biscotti? Ne ho mangiati tre e adesso lo rimetto a posto dov'era senza pagarlo, proprio come ai vecchi tempi. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ma i biscotti non avranno mai più il sapore delizioso di un tempo». «Ti va di prendere un caffè?». «No, devo andare a fare delle pulizie. È una delle cose che mi dà ancora più soddisfazione. Vai da qualcuno, lavori sodo tutto il giorno per mettere a posto ogni cosa e poi restituisci la casa ai proprietari che ci vivranno un'altra settimana». «Sei senza ombra di dubbio la migliore donna delle pulizie che abbiamo mai avuto». «Grazie, Scott. Mi fa piacere che tu me lo dica». Com'era naturale, Roberta rimase scioccata quando le raccontai del mio incontro con Beenie. Mi fece le stesse domande, seguite dallo stesso triste silenzio in cui ero sprofondato io nel tragitto dal supermercato a casa. Mio padre lo chiamava "il filo del rasoio": senti che qualcuno che conosci è morto o sta morendo e la prima reazione è quella di fare un balzo indietro come se avessi toccato un rasoio. «Possiamo fare qualcosa?». «Lasciarle fare le pulizie. Ha detto che è ancora una delle cose che le piace di più». «Le piace mettere in ordine tutte le sue case, eh?». «Immagino di sì. Aveva un tono talmente tranquillo. "Non sto bene ed è troppo tardi per fare qualcosa". Chissà perché mi ha fatto venire in mente la storia del coniglio morto». Stavo per entrare in aula quando sentii una voce alle mie spalle. «Scott?». Voltandomi, mi vidi Beenie davanti con un sorriso incerto e una piccola borsetta di vernice in mano. «Beenie! Segui qualche lezione qui?». «No. Volevo chiederti se potevo assistere a una delle tue. Ho chiamato
Roberta poco dopo che eri uscito oggi e mi ha detto di venire direttamente. Ho pensato che tanto valeva fare un tentativo. Al massimo puoi dirmi di no». «Certo che puoi assistere. Stiamo analizzando i racconti di Nathaniel Hawthorne. Li conosci?». «No, ma fa lo stesso. Voglio entrare in un'aula e vedere cosa succede. L'argomento non è importante». «Certo, signora, la prego, dopo di lei». Gli studenti erano già seduti e la guardarono incuriositi. La presentai come la professoressa Rushforth dicendo che quel giorno sarebbe stata con noi in qualità di osservatrice. Non avevo mai portato nessuno in classe, perciò i ragazzi erano doppiamente interessati a quell'insolita presenza. Era la prima volta che la vedevo senza la sua tuta da jogging. Aveva una gonna dello stesso marrone delle panche e un cardigan in tinta su una camicetta bianca con un gran fiocco al collo. Non potevo dire che quegli abiti le donassero. In tuta era una massa grigia e compatta di energia. Così vestita sembrava aver deciso di mimetizzarsi tra le persone più noiose del mondo. Nel corso della lezione la osservai più volte con la coda dell'occhio. Ebbe per tutto il tempo quell'espressione sorridente che si assume quando qualcuno ci parla in una lingua che non conosciamo, ma ci dispiace offendere il nostro interlocutore: uno sguardo vagamente assente. Mi chiesi cosa l'avesse spinta a venire. Alla fine del seminario rimase a sedere finché non mi avvicinai. «Ti vogliono bene, eh, i tuoi studenti?». «Se è così mi fa piacere, ma a volte sarebbe meglio il contrario. Perché allora si scatena in loro uno spirito di competizione che gli permette di dare il massimo. Perché sei qui, Beenie?». «Per vederti in azione, Scott. Per capire cosa fai fuori di casa. Ti ho sempre visto a pranzo con Roberta. Sei un buon insegnante, è evidente. Non conosco Nathaniel Hawthorne, ma tu lo sai rendere affascinante. E ho persino imparato cosa significa "antropomorfismo" oggi!». Mi diede un colpetto sul braccio e si alzò. Mentre si raddrizzava, si arrestò un attimo e fece una smorfia. Doveva essere il dolore di cui mi aveva parlato. Vedendo che me n'ero accorto, mi sorrise. «Il mio ospite: si fa sempre sentire prima o poi. Sei in gamba. Sei in gamba, professor Silver. Ci vediamo dopodomani».
Roberta era andata a fare aerobica e io ero nel mio studio che stavo lavorando a un articolo. Nel bel mezzo di un pensiero grandioso, sentii bussare alla porta. «Sì?». «Scott, ho una cosa qui. Puoi venire un attimo a dare un'occhiata?». Beenie mi era simpatica e ammiravo il suo coraggio, ma era proprio necessario disturbarmi mentre lavoravo per chiedermi se volevamo o meno tenere una vecchia racchetta da tennis? Andai ad aprire storcendo la faccia. «Sì, Beenie, cosa c'è?». Aveva in mano una scatola di cartone marroncina chiusa da una striscia di cuoio grezzo con su scritto a grandi lettere maiuscole IL RE DI DOMANI. Erano vent'anni che non vedevo quella scatola, ma non avevo bisogno di aprirla per sapere cosa ci fosse dentro. Dopo la laurea, quando studiavo per il dottorato, mi erano state affidate le lezioni di un corso di scrittura per le matricole. Era un compito piacevole e, poiché ero giovane, idealista e pieno di energia, lo svolgevo bene. Tra i miei studenti c'era una ragazza molto seria che si chiamava Annette Taugwalder. Era intelligente e dotata, e più di ogni altra cosa desiderava diventare scrittrice. Per lei la letteratura era così importante che spesso leggeva due volte i testi che assegnavo. Annette mi piaceva, anche se tanto fervore mi turbava. Anch'io amo i libri, ma avevo l'impressione che lei non li leggesse, li divorasse. E poi c'era in lei una certa arroganza che sembrava dire: Nessuno di voi è alla mia altezza, gente, perciò fate largo, per favore. A metà semestre venne da me al termine di una lezione domandandomi se ero disposto a leggere un romanzo che aveva scritto lei. Risposi di sì, ma le dissi anche che sarei stato sincero con lei se non mi fosse piaciuto. Annette disse che lo sapeva e che era uno dei motivi per cui mi aveva chiesto di leggerlo. Disgraziatamente non era un granché. L'ennesimo Bildungsroman scritto da una ventenne, con alcune parti che non erano male, ma per lo più la solita, vecchia storia senza niente di nuovo. Malgrado ciò trascorsi quasi tutto il fine settimana a leggerlo e annotare commenti, così che Annette vedesse che non l'avevo soltanto sfogliato. Il lunedì, dopo la lezione, con tutto il tatto e la delicatezza di cui fui capace le dissi cosa mi pareva che non andasse nel suo libro. Alcune cose andavano ripensate, era necessario lavorare un po' di più sulla caratterizza-
zione dei personaggi e conferire alla trama una linea più chiara. Mi domandò se ritenevo che il manoscritto fosse pubblicabile e io le risposi di no. Ero dell'idea che dovesse essere riscritto. A quel punto si mise sulla difensiva, disse che l'aveva già presentato a un editore il quale le aveva risposto in modo molto incoraggiante. Le feci le mie congratulazioni e dissi che naturalmente potevo sbagliarmi. Lei cominciò ad altalenare tra un atteggiamento di arroganza e di supplica. Era evidente che quel genere di discussione non ci avrebbe portato da nessuna parte e dopo due ore, due ore!, ribadii che le avevo già detto tutto quello che ero in grado di dirle e che comunque alla fine la decisione era solo sua. Non mi sono mostrato né troppo condiscendente né troppo perentorio, ne sono certo. Insomma, per farla breve, Annette è uscita dall'aula lasciando il manoscritto sulla mia scrivania. Mi parve un gesto troppo plateale e melodrammatico, e decisi di non seguirla. Gliel'avrei restituito la prossima volta a lezione. Non la rividi mai più. Una settimana dopo si suicidò. Se mi venite a raccontare che siete in qualche modo implicati in un suicidio, ma non vi sentite in colpa, siete dei bugiardi. Il senso di colpa scava insidiose gallerie dentro e fuori la nostra anima disintegrandola pian piano. Nel mio caso una parte della struttura sarebbe ormai dovuta essere dichiarata pericolante. È una cosa che non sono mai riuscito a lasciarmi alle spalle. Non so quanto possa avere contato il nostro incontro sulla sua decisione, ma che differenza fa? Ho comunque la sensazione di trovarmi nel banco degli imputati. Ne ho parlato con Roberta. Ne ho parlato con un analista. Ho provato a parlarne con Dio. Ma non è servito. «Dove l'hai trovata questa?». «In garage, in uno scaffale su in alto. Cosa vuoi farne?». Sono stato tentato di dirle di buttarla nella spazzatura, invece le ho detto di darmela. La cosa che mi sconcertava, ancor più di rivedere quella scatola, era sapere con assoluta certezza che l'avevo portata alla polizia quando ero venuto a conoscenza della morte di Annette. Ero andato alla stazione di polizia e avevo parlato con due uomini con cui praticamente non avevo mai avuto nulla a che fare, se si esclude il fatto di averli visti mentre facevano qualche multa per divieto di sosta o chiacchieravano con qualche proprietario di un negozio in centro. Quel giorno agenti in divisa azzurra mi rivolsero una serie di domande con aria grave, solenne e sospettosa. Uno aveva preso la scatola e l'aveva aperta per guardarci dentro, sebbene gli avessi già detto cosa conteneva. Che cosa si aspettava di trovare? Quando ebbi raccontato quel che sapevo, mi congedarono. Appoggiata su
quell'ampia scrivania di quercia, aperta, la scatola mi parve quasi nuda. Me ne andai dalla stazione di polizia a mani vuote. Beenie mi porse la scatola e se ne andò senza dire una parola, lasciandomi in un bagno di sudore e adrenalina, col fiato che si faceva sempre più corto. Dimenticato quello che stavo facendo, portai il romanzo di Annette sulla mia scrivania e trascorsi il resto della giornata a leggerlo. Alle quattro, quando Beenie venne a salutarmi, Roberta non era ancora tornata. «Bene, allora io ho fatto. Il garage è di nuovo in forma smagliante. Ehi, Scott, stai bene? Hai una faccia grigia come il cemento. Credo che dovresti mettere giù quei fogli e andare a farti una passeggiata». Ne avevo letto due terzi. Era ancora un brutto libro, peggiore di quanto non ricordassi. «Lo sai cos'è, Beenie? Hai un minuto, ti va di sentire questa storia?». Lei disse: «Certo», e io la invitai a entrare nel mio studio. Andai alla scrivania mentre lei si dirigeva verso la poltrona imbottita accanto alla finestra in cui di solito mi siedo a leggere. Per essere un'esperienza tanto terribile, non ci volle troppo tempo. Anche se erano anni che ci pensavo, a raccontarla non mi ci vollero più di dieci minuti. Quando ebbi finito, Beenie non alzò lo sguardo e continuò a fissarsi le mani. «Quando ero giovane, a me e mio marito piaceva trascorrere l'ultimo dell'anno in qualche posto interessante. Una volta su un treno in viaggio attraverso il Canada, un'altra in una caserma dei pompieri a Moscow, nell'Idaho. Poi sono arrivati i bambini...», sollevò una mano come per gettare dei coriandoli al vento. «I figli ti addomesticano, non trovi? Dopo che è nato Dean, siamo sempre rimasti in casa, al massimo con una bottiglia di champagne da stappare. Qualche volta capitava che ci fosse una festa, ma non ci faceva impazzire l'idea di andare da qualche parte con un cappellino di carta sulla testa». La guardai, confuso da quel collegamento tra i cappellini di carta e la mia storia. Rimanemmo seduti in silenzio a pensare alla morte e al 31 dicembre. «Non sono mai riuscita a decidere cosa fosse meglio, se l'ultimo dell'anno sul dorso di un cammello oppure quelli passati in soggiorno insieme ai bambini che accendevano le girandole e saltavano di qua e di là. Erano belli entrambi. Che cosa c'entra tutto questo con te? Era più saggia la persona che eri
prima della morte di quella ragazza o quella che sei diventato dopo, Scott? Le cicatrici a volte sfigurano, ma rendono un viso più intenso. Ti assicuro che avrei fatto la stessa cosa che hai fatto tu. Quella ragazza non desiderava conoscere la tua opinione, voleva solo che tu le dicessi che era un genio. Be', non lo era, e prima o poi l'avrebbe scoperto anche da sé». «Sì, ma forse a quel punto sarebbe stata meglio preparata...». «Sciocchezze. È morta, Scott. Un filo troppo sottile si spezza. Ma ti dirò una cosa in cui credo fermamente: il senso di colpa è come una puttana. Va con tutti e non ti fa godere. Tu non stai per morire, ma la tua storia con questa ragazza non è molto diversa dalla situazione in cui mi trovo io ora. Potremmo entrambi passare giornate intere a rammaricarci di quello che non abbiamo fatto nella vita, ma perché dovremmo andare a letto con qualcuno che non ci fa godere?». «Non è così semplice, Beenie». «Certo che no! Buttarsi sensi di colpa e rimpianti alle spalle e andare avanti è la cosa più difficile che esista al mondo. Ma io ci sto provando. E mi dispiace se non la vediamo allo stesso modo. Sai, io credo nel riciclaggio: conserva pure tutti i vecchi fogli, le lattine di Coca-Cola e le bottiglie vuote, se vuoi. Ma non il senso di colpa, quello no. Per come la vedo io, quello dopo un po' appesta e te ne devi disfare». Ci salutammo e lei se ne andò. Che delusione. Non era Albert Einstein, ma credevo che una persona che sapeva di essere sul punto di morire dovesse mostrare più... comprensione della vita. Invece le sue parole sembravano uscite da quei libretti di psicologia che si trovano al supermercato. Sospirando, mi rimisi gli occhiali e ripresi a leggere il manoscritto di Annette Taugwalder. L'arrivo dell'ultimo dell'anno e del primo gennaio mi fecero pensare a come Beenie avrebbe festeggiato l'anno nuovo con la sua famiglia. L'avrebbe passato a casa di Dean e sua moglie? O con la figlia? Perché parlava sempre del figlio e quasi mai della figlia? Lo chiesi a Roberta. Lei lo sapeva. «Perché non vanno d'accordo. Ha sposato uno stronzo e adesso non corre buon sangue tra lei e la figlia. È una cosa che le spezza il cuore». «E non si sono riconciliate neanche quando sua figlia ha saputo che sta male?». «No». Non potevo buttare quel manoscritto nella spazzatura, ma come al solito mia moglie mi venne in aiuto con una grande idea. Seguii il suo suggeri-
mento, andai a scuola a spulciare i vecchi elenchi degli studenti, trovai l'indirizzo di Annette e spedii il romanzo alla sua famiglia con il messaggio di rimandarlo al mittente se il destinatario fosse risultato inesistente. I suoi genitori dovevano averne senza dubbio una copia, ma in caso contrario sarebbe stata proprio una bella sorpresa! Alle due di mattina svegliai Roberta per leggerle questo passo di Rousseau: Rimase a letto solo due giorni e continuò a conversare tranquilla con tutti fino all'ultimo. Infine, quando non era quasi più in grado di parlare, ormai in punto di morte, scoreggiò rumorosamente. «Bene!», esclamò voltandosi dall'altra parte. «Una donna che scoreggia non è ancora morta». Queste furono le sue ultime parole. «Non ti sembra che potrebbe essere Beenie Rushforth? Non te la vedi morire così? Scoreggiando e strepitando e agitando la sua ramazza contro gli dèi?». Roberta allungò una mano per prendere gli occhiali sul comodino, il che significava che stava per dire qualcosa di importante. Quando chiacchierava del più e del meno poteva anche farlo senza occhiali, ma aveva bisogno di vedere bene, se si trattava di qualcosa di più serio. «Credo che tu l'abbia giudicata male, Scott. È una donna forte in un certo senso, è vero, ma anche molto vulnerabile. Estremamente vulnerabile. È così triste sentirla parlare di sua figlia! Soffre molto. Credo che il distacco tra lei e la figlia le pesi più del cancro. Sai, la guardo, quando parliamo, e ogni volta penso: "Scott e io siamo così fortunati. Davvero, davvero fortunati"». Stavo spalando la neve sul vialetto quando vidi la Toyota di Beenie Rushforth accostarsi al marciapiede. Beenie scese tutta infagottata nel gigantesco parka verde che le aveva dato suo figlio al termine del servizio militare. «Scott, io e te dobbiamo parlare». «Cosa c'è, Beenie?». «Quel libro. Non avresti dovuto spedirlo ai suoi genitori». «Come fai a saperlo? Te l'ha detto Roberta?». «No, lo so e basta. D'ora in avanti quel genere di cose o le butti via o le tieni tu. Non darle mai ad altri. Sono tuoi ricordi e gli altri non c'entrano».
«Cosa stai dicendo?». «Ho fatto anch'io la stessa cosa e sono finita nei guai grossi. Fa' pure quello che vuoi, ma adesso te lo dico, così lo sai: possono sorgere dei problemi. Quel genere di cose tienile tu oppure buttale via. Nient'altro». Mi ha posato una mano sul braccio per un istante, poi è tornata verso la macchina e ha tirato fuori un barattolo di detergente. «Sembra tutto così limpido, così tranquillo: è questo che frega. Ma non è così! A dopo». La guardai dirigersi verso casa. Cos'era che fregava? Come faceva a sapere cosa avevo fatto con quel manoscritto? Dovevo tenerlo io oppure buttarlo via? Era impazzita? Infilai la pala in un mucchietto di neve e mi diressi a passo di marcia verso la porta della cucina, preparandomi a chiedere a Beenie che cosa diavolo stesse succedendo. Guardai dentro attraverso il vetro e vidi Beenie e Roberta sedute al tavolo della cucina che parlavano. Beenie aveva lo sguardo fisso davanti a sé e piangeva. Diceva qualche parola, poi s'interrompeva, scuoteva la testa, la chinava con aria sconfitta. Rimasi lì a guardare senza sapere cosa fare. Alla fine Roberta alzò gli occhi e io indicai prima me, poi la porta. Posso entrare? Scoccandomi un'occhiataccia, mi rispose tra i denti: No! Me ne tornai a spalare la neve. Avevo sgombrato tutto il marciapiede e l'interminabile vialetto che conduceva alla porta di casa quando mi sono chiesto se potevo finalmente entrare. Era scoppiata una gran baraonda, e per di più sembrava in qualche modo legata alla nostra donna delle pulizie. «Scott?». «Sì? Sto gelando! Posso entrare in casa mia adesso? Oppure c'è un'altra crisi in corso?». «Vieni pure». Nonostante il mio malumore, drizzai le antenne e i segnali che ho captato non sono stati dei migliori. Roberta era a braccia conserte. Brutto segno. Aveva un'aria serissima. Brutto segno anche quello. Mia moglie è una donna ottimista, tranquilla. Se va in collera una volta ogni due mesi è già tanto, e di solito la sua ira è ampiamente giustificata. «Cos'è successo, tesoro?». «È successo che adesso mi porti a pranzo fuori e mi spieghi queste». Avevamo vissuto quattro anni in Texas, a Hale. Tra i pochi momenti piacevoli che ricordo di quegli anni, ci sono quelli trascorsi al Lone Star Bar con un bicchiere di birra insieme a Glenda Revelle, probabilmente la più bella studentessa che mi sia mai capitato di avere. Ogni insegnante, se
vuole essere sincero, vi dirà che gli è capitato almeno una volta nella propria carriera di vedere entrare in aula una persona che avrebbe potuto mettere a soqquadro la sua vita. Qualcuno si lascia andare, altri no. Il problema di chi si frena è che quell'incantevole ragazza, o quello splendido ragazzo, continueranno a sedertisi davanti per almeno un semestre provocandoti con la loro mera presenza e ricordandoti come sarebbe affascinante vivere in un luogo in cui la mente non ha alcun potere. Un luogo in cui contano solo i sensi, in cui regna l'erotismo e si corre il rischio dell'umiliazione ogni momento e fuori della porta della propria stanza non esiste nulla. Con Glenda non ebbi una relazione, anche se lei mi fece chiaramente capire che avrebbe potuto esserci. Ci andammo vicino due volte e confesso di essere stato molto tentato. Tanto vicino da sentire l'odore del suo respiro e il calore della sua pelle sulla mia spalla. Ma non accadde nulla. Lei non aveva desistito e mi aveva scritto varie lettere. Vergate a caratteri d'argento su carta nera. Stupidamente ne conservai due e Roberta finì per trovarle. Fu quella la causa della serata intorno al tavolo in cui mi chiamò inutile e squallido. Alla fine credette che non ero andato a letto con lei e riuscii a convincerla a sospendere le ostilità e stipulare una fragile tregua: il meglio che si può sperare di ottenere in una situazione del genere. Roberta era in piedi davanti al camino con due buste nere in mano che sembrava fossero appartenute a un appestato. «Ro...». «Perché le hai conservate, Scott?». «Non le ho conservate. Hai visto anche tu cos'ho fatto con quelle lettere. Dove le hai trovate?». «Le ha trovate Beenie». «Ah, Beenie, eh? Be', dov'è? Voglio proprio farle un paio di domande». «Se n'è andata. Era troppo turbata per lavorare. Ma lei non ha niente a che fare con queste. Perché mi hai mentito? Le hai scritto?». Mi avvicinai, le strappai le lettere di mano e le gettai nel camino. «Non ho fatto proprio niente! Ho bruciato quelle lettere un sacco di tempo fa, proprio come ho fatto adesso con queste, e tu mi hai visto! Mi sono sempre comportato bene da allora, Roberta. Ho fatto tutto quello che potevo per farmi perdonare per come ho trattato te e i nostri figli, e credo di esserci riuscito. Se hai così poca fiducia in me da credere che abbia conservato per vent'anni delle lettere d'amore del cazzo in un cassetto per fantasticare su una studentessa... Dov'è Beenie? Le devo parlare». «Se n'è andata. Te l'ho già detto che se n'è andata, no? Perché hai tenuto
quelle lettere?». «NON LE HO TENUTE!». «E allora come ha fatto a trovarle?». «NON LO SO!». «Sì, invece!». «NO! MI HAI VISTO GETTARLE NEL CAMINO A HALE!». «Evidentemente non tutte!». «Per Dio, Roberta, ti sto dicendo la verità!». «Come ha fatto a trovarle, allora?». «Non lo so! Come faceva a sapere che ho spedito il manoscritto alla famiglia di Annette? Come ha fatto a trovare anche quello? L'avevo consegnato alla polizia. PER QUESTO VOGLIO PARLARLE!». Mi voltai e mi diressi verso la porta come una furia. «Dove stai andando? Torna qui e dimmi la verità!». Mi girai di nuovo verso di lei. «Cosa ti è sacro più di ogni cosa al mondo, Roberta!». «I miei nipoti». «Allora ti giuro su di loro che a Hale mi hai visto bruciare tutte le lettere di Glenda Revelle. Dalla prima all'ultima. OK? C'è qualcos'altro che posso dire? Devo tagliarmi le vene per dimostrartelo? Non merito proprio nessuna fiducia?». Fu un momento terribile. Lo sguardo che ci rivolgemmo da un capo all'altro di una stanza che all'improvviso era vasta miglia e miglia e il silenzio che calò tra noi mi dissero no, in fondo in fondo lei è ancora convinta che non meriti nessuna fiducia, neanche adesso. Fu uno shock, dopo tutti quegli anni. Sarei andato nella tomba sapendo di essermi comportato male una volta ma fiducioso di essermi pian piano riconquistato il posto che meritavo nel cuore di mia moglie. Mi sbagliavo. Come uno di quegli incidenti in una centrale nucleare, il mio quasi con Glenda Revelle mi aveva bruciato la terra intorno per migliaia di anni. «Scott!». «Cosa? Vado a cercare Beenie. Devo parlarle e capire che cosa diavolo sta combinando. Poi torno qui e voglio vedere quali altri veleni hai in serbo per me». Non mi piace guidare con la neve, perché temo di non avere il controllo della vettura se la strada è ghiacciata. Ma quel giorno mi misi in macchina lo stesso, ci potete scommettere. E spinsi pure sull'acceleratore, tanto che un paio di volte la macchina diede di coda in curva. Non era mai successo
che Beenie tornasse a casa prima, meno che mai dieci minuti dopo essere arrivata, ma a quel punto non era certo la sua infelicità a preoccuparmi. L'avrei lasciata in pace non appena mi avesse spiegato tutto riguardo al manoscritto di quella ragazza e dove aveva trovato quelle lettere finite in cenere. Per quanto possa apparire strano, non mi resi affatto conto che si trattava di circostanze talmente bizzarre da rasentare l'inverosimile. Sapevo di avere consegnato il libro di Annette alla polizia e di avere gettato quelle lettere nel fuoco. Ciò nonostante eccoli ricomparire, pronti ad accusarmi e seminare scompiglio nella mia esistenza. Eppure non ero sconcertato: ero furibondo! Chi era questa donna che si metteva a scavare nel mio passato e se ne veniva fuori con delle cose che avrei voluto sapere sepolte per sempre sotto metri e metri di terra? Non sono un disgraziato, dannazione, malgrado quei ricordi deponessero contro di me, facendomi passare per un uomo insensibile, egoista, pedante e libidinoso a cui non importa nulla di nessuno e che corre dietro a chi non dovrebbe. Abbiamo degli amici che abitano a Plum Hill, in quelle grandi case con una lunga storia alle spalle e ampi prati che scendono sino al lago. Groucho Marx vi trascorse un'estate e pare abbia detto che potrebbe essere un bel posto se non fosse così splendido. Ogni volta che ci vado mi sorprende il modo in cui quelle ville si ergono sulla collina come potenti e attempati uomini di Stato sapendo di fare un grande effetto anche se nessuno ne conosce i proprietari. Di tanto in tanto Roberta e io parliamo di Plum Hill e di quanto ci piacerebbe abitarvi, pur essendo consapevoli, in fondo in fondo, che non fa per noi. Come ci sentiremmo se ci trovassimo ad avere come vicino Peter Dawson, il proprietario del giornale più importante dello Stato? O Dexter Lewis, il re dei junk bonds9? Gente che capita di incontrare il sabato in camicia di jeans e pantaloni cachi appena stirati, quando vengono in centro a tagliarsi i capelli o a comprare un martello in ferramenta. Ci si saluta con un cenno del capo e magari per cortesia si scambiano due chiacchiere mentre si fa insieme la fila alla cassa. Ma poi, di fuori, i "Plum" salgono sulle loro Mercedes nuove mentre tu ti frughi nelle tasche in cerca delle chiavi di una Chevy che non viene lavata da settimane. Non è una differenza straziante, ma a volte capita di rimanere immobili a guardare la propria auto un secondo di più del necessario tirando un breve sospiro. Mi fermai da un benzinaio ed entrai nella cabina telefonica per controllare l'indirizzo nell'elenco. "B. Rushforth, Plum Hill 67a". Quella "a" doveva
indicare la casetta del custode. Il cielo azzurro di quella mattina si era fatto grigiastro e quando attraversai i cancelli di Plum Hill era quasi marrone. Cominciai a cercare il numero giusto mentre un grosso labrador. retriever nero correva fuori da un giardino abbaiando. Inseguì la mia macchina per un po' finché non finì per stufarsi e se ne ritornò verso casa scodinzolando. 63, 65, 67. Il nome sulla cassetta delle lettere era niente di meno che quello di Samuel Morgan, proprietario unico della Morgan Computer Company. Sapete, vero, di cosa sto parlando? La compagnia produttrice di computer che costano milioni di dollari utilizzati dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America. Credo che Morgan non abbia ancora raggiunto la quarantina, ma si dice che sia ricco sfondato. Ed era da lui che Beenie aveva preso in affitto la sua casa? Il viale d'accesso s'inerpicava serpeggiando su per la collina prima che si scorgesse la minima traccia di un'abitazione. Dopo di che per prima apparve la casa del custode. Non c'era nessuna macchina parcheggiata fuori e, a quanto potevo vedere, neanche davanti alla villa. Mi sentivo un ladro intento a perlustrare il luogo in cui sta progettando di fare un colpo. Non sono né un rapinatore né uno spione, ma quel giorno pensai di darmi un'occhiata in giro senza preoccuparmi tanto di essere visto se arrivava qualcuno. Non mi sarei aggirato con fare furtivo, ma ero deciso a guardare in casa attraverso le varie finestre per raccogliere tutte le informazioni possibili. Era cominciato a nevicare e i fiocchi scendevano leggeri e allegramente svolazzanti. Il pensiero di quel che stavo per fare mi divertiva: era così insolito che facessi il ficcanaso a quel modo mettendomi a sbirciare in casa d'altri attraverso i vetri. Non potei fare a meno di sorridere malgrado fossi ancora incavolato nero. I fiocchi di neve avevano iniziato ad appiccicarsi e pian piano sciogliersi sulle lenti dei miei occhiali. Fui costretto a togliermeli per asciugarli prima di mettermi all'opera. Con gli occhiali in mano mi diedi un'occhiata intorno rendendomi presto conto dello stupendo panorama che si godeva da lassù: davanti a me si stendevano ettari ed ettari di prato che terminavano in una linea scura di alberi lungo lo specchio verdastro del lago nascosto dietro un velo di grossi fiocchi volteggianti. L'abitazione di Beenie non era niente di speciale. Una piccola casetta in legno chiaro come se ne vedono tante a Cape Cod, dall'aria accogliente, che da fuori dava l'impressione di essere giusta giusta per una persona, due al massimo. Alle finestre erano appese delle tendine rosa trasparenti e da
lontano, guardando dentro, vidi un divano coperto da un telo a fiori. Rimessi gli occhiali, mi avvicinai alla finestra e guardai nel soggiorno. Le solite cose: i vari mobili, qualche tappetino qua e là, un paio di scialbi quadri appesi alle pareti. Senza particolare motivo guardai l'orologio. La cosa mi fece sorridere: avevo visto troppi telefilm. Senza rendermene conto stavo per comportarmi proprio come si vede fare in tivù, controllando ogni secondo l'orologio e guardandomi di continuo alle spalle mentre passavo da una finestra all'altra senza perdere tempo. Tieni d'occhio l'orologio: hai i minuti contati! Non sapevo quanto tempo avrei potuto girare intorno alla casa di Beenie prima che qualcuno se ne accorgesse e decidesse di venire a controllare o di chiamare la polizia, mettendomi nei guai seri. Muovendomi pian piano intorno alla casa, passai davanti alla cucina dove c'erano ancora i resti della colazione sul tavolo: un coltello posato su un piatto pieno di briciole, una tazza da caffè rovesciata su un piattino. Il mio cervello registrò inconsapevolmente qualcosa, ma mi sarei reso conto di cosa si trattava soltanto qualche istante più tardi. Dalla finestrella del bagno, alzandomi in punta di piedi, riuscii a scorgere una tenda della doccia gialla e un asciugamano spiegazzato buttato sul lavandino. Stavo per raggiungere la finestra successiva quando compresi cosa c'era di strano. «La casa è in disordine!». Proprio cosi. Beenie Rushforth, Sterminatrice del Granello di Polvere, Gran Regina dello Spazzolone e della Ramazza, In-Guardia-Sporco-StoArrivando, viveva in una casa con gli asciugamani bagnati e macchie di marmellata di fragole sulla tovaglia? Non solo era difficile da credere, ma praticamente impossibile. Lo so, ogni persona è un coacervo di contraddizioni e nulla dovrebbe sorprenderci nella vita, ma se voi aveste visto i risultati del lavoro di quella donna, comprendereste perché era inconcepibile che potesse abitare in una casa simile. Sbalordito, mi avvicinai all'ultima finestra e vidi Annette Taugwalder, seduta sul letto di Beenie Rushforth, che leggeva una rivista. Era un trucco, uno scherzo. Ero ubriaco. Ero pazzo. Annette si era suicidata. Non poteva essere lì. Invece c'era, eccome. Quella ragazza morta e sepolta da vent'anni era lì che sfogliava una rivista. Senza accorgermene appoggiai la testa al vetro perché all'improvviso non capivo più nulla. «Annette?», appoggiai anche una mano al vetro. Era freddo, ne ebbi la percezione netta. Lei sollevò la testa e sorrise. A cinquantacinque anni pensavo... Al diavolo quel che pensavo. Mi sbagliavo.
Si alzò e uscì dalla camera da letto. Io rimasi con la fronte contro il vetro continuando a fissare il copriletto sgualcito su cui solo qualche istante prima era stata seduta. In tutta la mia vita non ero mai stato tanto vicino alla verità, eppure ero impietrito. Dentro di me era scoppiato un coro di ululati e gridi accompagnati da un assordante fragore di sbarre che venivano scosse con violenza. Vogliamo uscire, fuggire. Si sta avvicinando un incendio e moriremo se rimaniamo qui dentro. «Professor Silver?». Mi voltai: era Annette. «Mi fai paura». Lei annuì, disse che lo sapeva. «Non so cosa fare. Si può parlare alla Morte?». «Sì, professore. Noi dobbiamo parlare». «C'è Beenie dietro a tutta questa storia?». Lei annuì di nuovo e mi fece cenno di seguirla. Camminammo a lungo sul prato, fino a una rimessa per le barche accanto al lago. C'era una panchina di pino lì davanti e ci sedemmo. «Ha pensato fosse meglio che lei incontrasse me per prima perché è con me che deve parlare più a lungo. Le altre cose sono meno gravi». «Qualche volta mi capita di sognare di parlare a delle persone che sono morte. Qualche volta sono sogni molto vividi». Accigliata, Annette esclamò: «Questo non è un sogno. Io sono qui sul serio e noi due dobbiamo parlare, perciò per favore non si metta a darsi pizzicotti o a saltellare di qua e di là per cercare di svegliarsi. È tutto vero, tutto reale. Io sono reale. Sono morta, ma adesso sono qui». «Perché?». Con uno sguardo carico di ostilità rispose: «Perché io la odio e lei lo deve sapere. È stata tutta colpa sua allora. O quasi. Lei è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mi ha detto che il mio libro era brutto ed è stato sufficiente. Tombola». «Oh, Annette. Io non...». «Sì, invece! Non sono mica cretina. Ho capito cosa mi stava dicendo». «Avrei dovuto mentire? Avevi detto di volere la verità». «È vero, ma non una verità che mi uccidesse. La sua verità è stata come una pugnalata al cuore, maledizione! Ero così sicura che fosse un bel romanzo. Così sicura che lei avrebbe detto: "Annette, è sbalorditivo! Incomparabile"». Mi scivolò accanto puntandomi un dito contro furibonda. «Si ricorda cosa mi disse, eh? Io, sì. Disse: "Credo che in certi punti tu ti sia riscaldata un po' troppo al fuoco
dei tuoi scrittori preferiti. A volte usi le loro fiamme per accendere la tua prosa". Che stronzo pomposo e paternalista. Era il mio, quel fuoco! Sono io che ho fatto ardere le fiamme di quel libro...». «Annette, adesso basta». Udii la voce risoluta di Beenie alle mie spalle, ma prima che potessi voltarmi, vidi Annette ingoiare la sua ira. Mi detestava con tutta se stessa, ma aveva troppa paura di quello che poteva accadere se non metteva a tacere il suo odio. Sentii una mano sulla spalla. «Ehilà, Scott. Non ti aspettavo così presto. Torna a casa, Annette. Potrete parlare ancora più tardi». Plateale come sempre, o forse dovrei dire come allora, Annette sbuffò, si alzò senza degnarmi di uno sguardo e si allontanò a grandi passi. Le guardai le scarpe e mi accorsi che aveva gli stessi stivali da cavallerizza che portava e che andavano di moda all'epoca in cui la conobbi. «Credo che stia per venirmi un infarto, Beenie». «Non ti preoccupare, hai un cuore forte come una roccia. Dovresti piuttosto tenere sotto controllo l'acido urico. Non mangiare pomodori, se vuoi seguire il mio consiglio». Tirai un respiro profondo e guardandola negli occhi le chiesi: «Chi sei?». «Dio». «Ah». Lei sorrise e mi prese la mano. «Oh oh lallà!». Si era fatto più freddo oppure era la temperatura della mia anima a essere scesa di parecchi gradi da quando mi ero seduto su quella panchina? Beenie aveva un bastoncino in mano e lo stava spezzettando. Non si sentiva altro rumore intorno a noi, a eccezione di qualche macchina lontana che svoltava verso Plum Hill. «Non hai nessuna domanda da farmi?». Stavo cercando di tranquillizzarmi. Avevo gli occhi chiusi. Lei mi diede di gomito e mi allungò un legnetto. Lo guardai. Era lungo una decina di centimetri e c'era la mia testa intagliata. Perfetta, anche nei colori: i capelli grigi come i miei, gli occhi azzurri. Lo lasciai cadere e mi venne spontaneo pulirmi le mani sui pantaloni. «Forza, ragazzo, non fare così! Sorridi. Fammi qualche domanda, non restare muto come un pezzo di pietra».
A quel punto fui io a rivolgerle uno sguardo carico d'ostilità. «Come fa Dio ad avere il cancro?». «Sei in gamba, professore. Questo si chiama parlare! Immagino di dover cominciare dall'inizio, eh?». Stava per proseguire quando scorse qualcosa alle mie spalle e si interruppe. Si alzò e dopo essersi portata entrambe le mani ai due lati della bocca a mo' di megafono, gridò: «Torna a casa, Annette! Non sto scherzando e non te lo ripeterò più». Io non mi voltai perché non avevo nessun desiderio di rivedere Annette Taugwalder così presto. «Quella dannata ragazza. Gliel'ho detto io, in realtà. Le avevo detto che poteva esporti le sue ragioni, ma poi doveva lasciare che io ti spiegassi come stanno le cose. Ma è così ostinata e abituata ad averla sempre vinta. Tutto bene, Scott?». «No». «Mi spiace. A che punto ero? Non avevo ancora cominciato. D'accordo. Sono nata a McPherson, in Kansas. Mio padre aveva un negozio di ferramenta in cui lavorava tutta la famiglia. Un giorno ero dietro al banco e arrivò uno sconosciuto che voleva un paio di tenaglie. Cominciammo a parlare e mi disse di chiamarsi Gilbert, Nolan Gilbert. Io avevo quindici anni. Mai sentito parlare degli ebrei mistici?». «Intendi dire i mistici ebraici?». «Sì, loro». «Be', un po'. Ho letto...». «Sono quelli che ci sono andati più vicino. Sai niente dei Lamed Wufnik10?». «Beenie, di cosa stai parlando?». «Quei mistici credevano nei Lamed Wufnik. Trentasei giusti che hanno il compito di giustificare il mondo davanti a Dio. Oppure si potrebbe dire di spiegare a Dio perché l'uomo abbia diritto a essere al mondo. Se però uno di quei trentasei giusti scoprisse chi è, morirebbe all'istante e qualcun altro, in un altro angolo del mondo, prenderebbe il suo posto. Perché, vedi, pur essendone ignari, sono i pilastri segreti su cui si regge l'universo. I salvatori del mondo. Senza di loro a giustificare l'umanità, Dio la spazzerebbe via in un sol colpo». «Wup...». «Wuf, Lamed Wufnik. Tutto questo non è tanto lontano dalla realtà. La sola differenza è che noi non dobbiamo giustificare nulla, perché noi siamo Dio».
«Tu sei un wufni...?». «No, io sono Dio. O meglio un trentaseiesimo di Dio. Il numero, l'avevano azzeccato». Un uccello passò in volo sull'acqua e si allontanò. Guardai Beenie, poi per terra, poi Beenie e ancora per terra. Che cosa dovevo dire? «Non mi credi. E Annette, allora? Hai bisogno di altri miracoli? Posso farne quanti ne vuoi, ma credevo che lei bastasse. Sei difficile da convincere, professor Silver. Ecco qua». Con la mano sinistra tirò fuori un dollaro d'argento dalla mia nuca, mentre nella destra reggeva qualcosa: una di quelle piccole cupole di plastica che, quando le scuoti, si riempiono di fiocchi di neve che cadono pian piano svolazzando su Parigi o sul Polo Nord. Solo che in quella c'erano delle minuscole persone vere sedute su una panchina e, guardando bene, capii che c'eravamo noi lì dentro, che ci muovevamo e ripetevamo esattamente ogni più piccolo gesto che stavamo facendo in quel preciso momento. «Santo cielo, fallo sparire!». «D'accordo». Serrò la mano e la cupola scomparve. Sul punto di alzarmi le chiesi: «Cosa vuoi da me? Perché stai facendo tutto questo?». Lei mi tirò giù di nuovo. «Siediti e ascolta il resto della mia storia. Avevo quindici anni quando incontrai Nolan Gilbert. Lui ne aveva circa settanta. La prima cosa che mi disse, e poi mi mostrò, fu chi era, come sto facendo io con te. Poi disse che stava morendo e che avrei dovuto prendere io il suo posto. Vedi, è così che funziona. Si vive la propria vita normalmente, anche dopo aver saputo chi siamo. Come tutti gli altri. Siamo come tutti gli altri, Scott: questo lo devi capire. Prima o poi arriverà anche il tuo momento di morire. Vivrai un'esistenza normale: sessanta o settant'anni, di solito. Ma la differenza è che, quando arriva il nostro momento, dobbiamo trovare un sostituto. Alcuni sono più fortunati di altri: sanno già chi è molti anni prima di morire. Come me con te». «Mi conosci da tanto?». «Certo. Ho fatto le pulizie nel tuo ufficio dell'università per anni, ma tu praticamente non mi hai mai visto perché facevo il turno di notte. Qualche volta ci incrociavamo nell'ingresso se lavoravi fino a tardi». «Mi stai dicendo che Dio è un essere umano?». «No, no, no! Niente affatto. L'uomo ha Dio in sé, ma non è Dio! No, il modo più semplice di metterla è così: gli uomini sono uomini, ma esistono
trentasei esseri umani che, insieme, sono Dio. Ecco perché le persone comuni si sentono così vicine a Dio, perché in un certo senso sono Dio. Nolan mi ha raccontato cosa credevano i greci. Tu lo sai. Pensavano che ci fossero molti dèi, il che in un certo senso è vero, e che avessero dei sentimenti umani. Che fossero interessati al sesso, che andassero in collera e a volte commettessero delle ingiustizie e tutto il resto. Perciò anche i greci ci sono andati vicini, ma credevano che gli dèi vivessero in cima a una montagna, lontano dagli uomini. Non è così. Siamo qui, sparsi per il mondo e non assomigliamo per niente a quello che si aspetta la gente. Non trovi anche tu? Guarda me, non ho certo un aspetto prodigioso. Ma io sono solo un trentaseiesimo del puzzle completo. Mettimi insieme alle altre parti e allora sì che avrai davanti la tua PRODIGIOSA IMMAGINE DI DIO! Ti dirò anche un'altra cosa: ci sono tasselli sparsi per tutto il mondo. Sai perché mi sento sola e così diversa a volte? Perché i vari pezzi non sono collegati nel modo giusto. Chi scopre questo segreto trascorre la propria vita a cercare le altre tessere del mosaico. Ma non è di questo che ti voglio parlare. Non ce n'è il tempo. Ci sono così tante altre cose che devo dirti». Come ho già detto, prima di quello strabiliante pomeriggio con Beenie Rushforth, stavo cominciando a credere sempre più fermamente in Dio, ma era un Dio più vicino ai versi di Emily Dickinson: «Dio è un maestoso, remoto amante», un Dio che sa ogni cosa di noi e cosa combiniamo in ogni momento della nostra vita, ma è capace di tanto amore e rispetto da concederci di scegliere il nostro destino. Alla nostra morte, quando raggiungiamo l'aldilà, qualunque cosa esso sia, Dio sfoglierà le pagine della nostra vita come se fosse un tema da correggere. Riconosceremo da soli gran parte dei nostri errori e gli altri ce li indicherà Lui. Alzandoci dalla Sua scrivania, avremo compreso appieno quali sono stati i nostri passi falsi. Se credo nella reincarnazione? No. Perché dovremmo essere costretti a ripetere un anno se abbiamo compreso cosa abbiamo sbagliato? Credo in una vita dopo la morte, ma non sulla terra. Non ho idea di dove andremo e non mi interessa cercare di indovinarlo. Tuttavia, quando molto più tardi arrivai alla porta di casa mia, la comprensione del mondo, della vita, della morte, di Dio... era lontana bilioni, trilioni di chilometri da quel che avevo creduto sino a quel momento. Come aveva detto Beenie, ero un osso duro e chiesi altre prove, Annette non bastava. Prove che trascendessero la trascendenza. Non posso dirvi cosa fece, ma posso dirvi che mi portò dove volevo andare e mi mostrò l'impos-
sibile. Volevo vedere Melville e Hawthorne in carne e ossa, volevo sentire la loro voce e che genere di parole usavano quando non scrivevano. Volevo vedere Albert Pinkham Ryder distillare boccette di profumo a Natale e regalarle ai bambini. Volevo visitare Montaigne nella sua torre, intorno all'anno 1591, e guardare sopra la sua spalla mentre scriveva «... abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo»". Erano i miei eroi, le persone a cui avevo dedicato la maggior parte dei pensieri della mia vita adulta. Se Beenie era Dio, dal momento che il tempo appartiene a Dio, battendo mani poteva concedermi di vederli per un attimo. Lo fece. Mi condusse ovunque volessi andare dicendomi affabilmente che potevo rimanere tutto il tempo che volevo. La cosa buffa è che non fu necessario. Mi bastò respirare la loro aria per pochi minuti, vedere come tenevano la penna in mano o come le parole affioravano sulle loro labbra. Era tutto quello di cui avevo bisogno, e lei me lo concesse. Dopo, quando ero ormai sicuro, le feci molte domande, ma le sue risposte spesso non riuscirono a soddisfarmi. «Perché io?». «Scott, te lo direi se lo sapessi. Ma non lo so, sul serio. È così, e basta. Ci viene semplicemente detto che succederà così: un giorno vedremo il nostro sostituto e lo riconosceremo. Immagino che sia un po' come un amore a prima vista». «Beenie, tu sei Dio! Dio sa ogni cosa. Non c'è nulla che sfugga alla Sua conoscenza». «Forse se fossimo tutti insieme, tutti e trentasei. Ma non succede mai e dobbiamo lottare individualmente con quel poco che sappiamo. Tu sei il mio sostituto, mio caro. Tu prenderai il mio posto». «Dove si va dopo la morte?». «Dove si vuole. C'è chi sceglie di rimanere e chi se ne va». «Se ne va, dove?». «Te l'ho detto, dove si vuole». «Ma così non mi sei di nessun aiuto!». «Sono domande troppo vaghe. Ti ricordi a scuola? "Silver, cerca di essere più preciso! ". A proposito, lo sai come mai ti chiami così? Il vero nome della tua famiglia era Flink, ma quando tuo nonno lasciò il Saarland per venire qui, gli sembrava che quel nome non suonasse abbastanza americano e così lo cambiò con Silver. Jack Silver al posto di Udo Flink».
«Udo Flink? È il nome più stupido che abbia mai sentito». «Immagino che anche tuo nonno fosse dello stesso parere. Vuoi insalata di uova sode o manzo sotto sale?». Dalla tasca destra e sinistra tirò fuori due sandwich avvolti nella carta trasparente. «Roberta mi ha detto che ti piace l'insalata di uova sode». «È vero. Grazie. Mi va proprio qualcosa». Beenie mi porse il sandwich e io lo contemplai un momento. «Un sandwich con le uova sode fatto da Dio». «Almeno puoi essere sicuro che sia fresco, no?». «Beenie, cosa devo fare? È un grande onore essere stato scelto, ma... cosa si fa quando si è...?». «Be', innanzi tutto tu non lo sei ancora, perciò non cominciare a preoccuparti prima del tempo. Prima devi passare una serie di prove. Certo, hai già superato la prima barriera, sei stato scelto. Ma adesso ci sono da affrontare le prove. Queste sono le regole e bisogna seguirle». «Che genere di prove? Che genere di regole?». «Vuoi proprio saperlo subito? Non vuoi prima finire il tuo sandwich?». «No, subito». «OK». Si pulì la bocca con un tovagliolino con su stampato "La Regina del Latte". «Prima di tutto devi... La prima prova, se la si può chiamare così, è risolvere il tuo problema con Annette. Chi muore non può essere in collera. Ci sono un sacco di cose da fare nell'aldilà e la rabbia che si prova per qualcosa che è accaduto nel corso della propria vita è motivo di distrazione. Capisci cosa intendo?». «Perché non puoi fare qualcosa tu per liberarla della sua rabbia?». «Prima di tutto non saprei come, ricorda che io non sono che una frazione del tutto e non ho i poteri che pensi. Secondo, ve la dovete vedere voi. Se con un colpo della mia bacchetta magica facessi quello che dici tu, non risolverei i problemi di Annette. Sarebbe soltanto una soluzione temporanea. Un bambino deve comunque imparare ad allacciarsi le scarpe da solo prima o poi». «Cosa posso fare per aiutarla?». «Questo fa parte della tua prova. Sei tu che devi capire Annette e scoprire come rimettere a posto le cose. Ti avverto, però, Annette non ti sarà di grande aiuto. L'avrai sempre contro, mio caro professore. Ti detesta con tutta se stessa». «Questo l'avevo capito. Sa di me? È evidente che sa chi sei tu, dal mo-
mento che l'hai riportata qua». «Sì, sa di me, ma non di te. Crede che l'abbia riportata qui soltanto per farvi rappacificare. Non sa di costituire una prova per te». «Come si possono placare i defunti?». Dandomi una pacca sulla spalla, esclamò: «Questa sì che è una bella domanda. Sai qual è stata una delle mie prove?». «Beenie, mi stai mettendo davanti ai misteri più insondabili e profondi! Reconditi e inattingibili! Come posso io...». «Cosa significa "reconditi"?». «Difficili da comprendere». «Smettila di lamentarti, caro. È ovvio che sono difficili da comprendere! Sei tu l'erudito, il pensatore. Io sono soltanto una semplice donnetta del Kansas con dei figli che non la sopportano. Ma ho passato le mie prove. Chiaro, erano diverse dalle tue, ma non per questo più semplici». «Come è possibile che Dio abbia dei problemi con i propri figli?». «Ehi, amico, l'hai mai letta la Bibbia? Quanti Suoi figli si sono ribellati? A quel che ho sentito, Mosè si è seduto sulla montagna e ha passato quaranta giorni a discutere! E Cristo? "Perché mi hai abbandonato?". Un po' di gratitudine no, eh? E Giobbe. Pretendeva una dimostrazione! Dovevamo lasciar perdere tutto, scendere giù e mostrargli chi siamo, come quando si illustra un aspirapolvere!». «Credevo che voi trentasei non vi riuniste mai». «Non più. In passato sì, ma ora non più. Non è stato più necessario. Non capisci, Scott? È per questo che l'uomo continua a desiderare di essere immortale. Non per vivere un milione di anni, ma perché dentro di sé sa che Dio deve continuare a esistere per le generazioni a venire. Dio, che è parte di ogni uomo perché è fatto di esseri umani. Trentasei. Uomini, donne, bambini, di culture, professioni, personalità diverse. I volti di Dio mutano di continuo perché i pezzi che lo compongono cambiano. Ma alla fine l'unica cosa che conta è l'esistenza di Dio, che sopravviverà fino a che l'uomo desidererà di essere immortale. Il fatto che io abbia dei problemi con mia figlia o che sia malata di cancro non ha importanza. Ne ha per me, questo è certo, ma questo non conta. Si tratta semplicemente delle mie prove, devo rappacificarmi con i miei figli e accettare di dover morire. Anche Cristo ha dovuto accettare di dover morire». Agitando un pugno in aria gridai: «È tutto troppo banale, troppo prosaico! Dov'è la maestosa solennità di Dio?». Beenie non disse nulla né quando vide la mia reazione né quando quel
pugno inutile si disserrò e la mano mi scese pian piano in grembo. «Finisci di mangiare, Scott. Te lo "recondito" caldamente». Riprese a nevicare mentre ci dirigevamo verso casa di Beenie. Avrei preferito rimanere fuori e guardare lo spettacolo piuttosto che entrare e dover affrontare Annette. «Cosa devo dirle?». «Improvvisa. Vedi come si comporta lei». Beenie aprì la porta d'ingresso e mi fece cenno di entrare. C'era un buon profumo in casa. Odore di legna e di sapone. Passandosi una mano tra i capelli per spazzolarsi via la neve, Beenie esclamò: «Annette?». Nessuna risposta. «Annette, vieni, dai». Non vedendola comparire, si grattò il naso e andò a cercarla. Niente. Non era da nessuna parte. «Non c'è! Dove sarà andata a finire quella Viperetta?». «Forse non vuole vedermi». Speravo che dalla mia voce non si sentisse troppo quanto ero sollevato. «Già, immagino anch'io. Be', tu non ci puoi fare niente, comunque. La troverò e vi farò incontrare di nuovo. Ti va un grog caldo o qualcos'altro? Un altro sandwich?». «No, grazie. Adesso devo andare per poter riflettere un po'. Sono successe troppe cose tutte in una volta». «Te lo dico!». Beenie mi aprì la porta e mi accompagnò alla macchina. «Ehi, chi c'è lì? Annette?». «Non lo so». C'era qualcosa appoggiato al sedile accanto al posto di guida. Dapprima pensai anch'io che fosse Annette, perché era qualcosa di grande. Avvicinandomi, stavo quasi... «Nisco! Buon Dio del cielo, è proprio lui! È Nisco!». «Cosa?». Beenie mi si avvicinò e si chinò sul parabrezza per vedere meglio. «Cos'è Nisco? Un animale di pezza. Guarda com'è grosso! Ti dev'essere costato una fortuna. L'hai comprato per uno dei tuoi nipotini? Ehi, cosa ti succede?». «È Nisco. Non riesco a crederci. Non pensavo...». Non potei finire la frase. Aprii e richiusi la mandibola un paio di volte senza riuscire a emettere alcun suono. «Ehi, cosa c'è? Cos'è che hai visto?».
Mi girai verso Beenie e le rivolsi uno sguardo sbalordito. «È Nisco». «D'accordo, continui a ripeterlo. A me sembra un semplice animale di pezza». «È un animale di pezza, è vero. Quand'ero piccolo, i miei incubi avevano sempre come protagonista quel lupo. La vedi quella X al posto degli occhi? Una volta al cinema ho visto un cartone animato, e c'era quel lupo cattivo con in testa quel berretto tutto storto e la bocca enorme e quelle grosse zanne. Stava inseguendo i tre porcellini. Da quella notte per diversi mesi continuai a sognare che mi inseguiva. Con in mano coltello e forchetta e la bava alla bocca, pronto a farmi a fettine. Era una scena che mi spaventava a morte: mi svegliavo urlando come un pazzo. I miei genitori correvano in camera credendo che un assassino mi stesse sgozzando». «Perché lo chiami Nisco?». «Non lo so. È sempre stato Nisco per me. Il lupo cattivo, Nisco. L'unico essere che mi metteva una paura mostruosa quando ero piccolo. È opera di Annette, vero? Chi altro al mondo potrebbe sapere di lui?». «Sì, è probabile. Ecco perché se l'è svignata. Ha lasciato un biglietto con la sua firma, ma non so cosa stia cercando di dirti. Che cosa vuoi farci con quel pupazzo?». Rivedevo quel bambino atterrito che così tante volte si era svegliato bruscamente nel bel mezzo della notte con il cuore in gola, senza fiato, raggelato dalla sensazione di essere riuscito a fuggire solo per il rotto della cuffia. Sentivo ancora i passi di Nisco che mi correva dietro, facendosi sempre più vicino, sempre più vicino, mentre affilava il coltello contro la forchetta, ssslick ssslick ssslick, e ormai a pochi centimetri da me gridava: «Adesso ti MANGIO!». E quella stupida, agghiacciante risata da cartone animato. Nessun diavolo dell'inferno può spaventarci più dei demoni dell'infanzia, anche se sono i personaggi di un cartone animato. Siamo troppo vulnerabili a quell'età. Non abbiamo ancora nessuna corazza. «Eh? Vuoi tenerlo?». «No! Posso buttarlo via qui?». «Non è necessario». Beenie sollevò una mano e Nisco cominciò a sfumare e dissolversi pian piano. Poi, all'ultimo momento, quando non era rimasto altro di lui che un fosco alone tremolante, con un gran BLAP l'interno del parabrezza si coprì di schizzi di sangue. Non ebbi notizie di Beenie e di Annette per tre giorni. Mi sforzai di vivere la mia vita come al solito, ma era un'assurdità. Dio e la Morte e la
Sanità Mentale erano entrati in casa mia e si erano accomodati attorno a un tavolo per discutere dei progetti che avevano in serbo per me. Avrei dovuto fare finta di non sapere chi fossero e ascoltarli come se mi stessero facendo una semplice proposta di lavoro? Come comportarmi con Annette? Quali altre prove avrei dovuto affrontare se fossi stato capace di risolvere il conflitto con lei? Che cosa succedeva una volta che si superavano tutte le prove? Un angelo scendeva dal cielo e ti faceva visitare le sfere celesti? Ma esistono davvero gli angeli? Dovevo ricordarmi di chiederlo a Beenie: ci sono sul serio gli angeli? Vi immaginate cosa significhi avere qualcuno che possa dare una risposta a una simile domanda? Rimasi teso e all'erta. Le lezioni andarono splendidamente: una ghirlanda perfetta di domande e risposte con gli studenti letteralmente con il fiato sospeso. Una ragazza mi fermò in corridoio chiedendomi il perché di tanto buon umore. Scoppiai a ridere come una iena. Buon umore? Oh, mia cara ragazza, se solo sapessi. Una sera telefonò Norah dicendo che aveva chiuso con il fumettista e al momento stava uscendo con un pilota d'aereo. La volubilità e la blanda promiscuità di mia figlia erano state per me una vera e propria spina nel fianco per anni e avevamo avuto più di un diverbio al riguardo, e sul suo stile di vita in generale. Ma quella sera, nel corso della nostra conversazione, mi espose in maniera seria e illuminante il motivo della sua decisione. Alla fine, dopo qualche piacevole istante di silenzio, mi disse: «Grazie, papà». «Di cosa?». «Di avermi preso sul serio». «Tesoro, ti ho sempre preso sul serio, anche quando eri piccola». «No, mi hai spesso trattata come se fossi una studentessa in cui avevi riposto grandi speranze ma che alla fine ti aveva deluso». «Norah!». «È così, papà. Ascoltami, però. Voglio che tu capisca quello che ti voglio dire. Stasera la nostra chiacchierata è stata speciale, diversa. È la prima volta da non so quando che ho la sensazione che tu mi ascolti e sia seriamente interessato. Non è necessario che approvi tutto quello che faccio, papà. È una cosa di cui non ho più bisogno da tanto ormai. Desidero solo che tu mi ami e mi ascolti quando ti parlo della mia vita». Alla fine della telefonata andai a cercare Roberta che aveva seguito la nostra conversazione da un altro apparecchio. «È vero quello che ha detto
Norah? Sono stato un padre così orribile?». «Orribile, no, Scott, ma severo e spesso distaccato, sì. Sei stato molto duro con le ragazze in passato. Ne abbiamo già parlato. Gerald è nato quando Norah aveva dodici anni, ricordatelo, sono certa che era a quello che si stava riferendo». I nostri tre figli, Norah, Freya e Gerald. Norah fa l'illustratrice di testi medici e vive a Los Angeles. Freya è sposata e ha due figli e vive a Chicago. Gerald è gravemente ritardato e vive in un istituto per minorati mentali. Abbiamo cercato per anni di tenerlo in casa con noi, ma se avete un po' di esperienza di cosa significhi prendersi cura di una persona in simili condizioni, allora saprete che rende virtualmente impossibile, a chiunque le viva intorno, avere un'esistenza normale. Si finisce ingoiati da immensi buchi neri di necessità d'affetto e di cure. Per quanto le si dia tutto il possibile, non è mai abbastanza e mai nella forma giusta. Certo, si continua a pregare di vedere un minimo cenno di riconoscimento o di normalità. Almeno una volta, una soltanto. Un solo brevissimo flash di quanto le tue più grandi speranze ti fanno credere possa un giorno accadere: che risponda con un sorriso a un bacio invece di urlare come se fosse stata accoltellata. O che prenda in mano un cucchiaio e lo infili nella minestra invece di sbatterselo in faccia o infilarselo negli occhi. Senza volerlo ti prende tutto. Tutto quello che hai. E quando sei esausto e carico di risentimento, il senso di colpa ti viene a bussare su una spalla e ti demolisce in un altro verso. È una lezione terribile, un peso spaventoso. Non lo auguro neanche al mio peggiore nemico. Quando Gerald aveva sette anni, Freya l'ha lasciato un attimo da solo in cucina una mattina per rispondere al telefono e suo fratello ha messo una mano sulla fiamma del gas. Quella volta in ospedale anche Roberta, che è quella che ha lottato di più per tenerlo con noi, ha dovuto accettare che non eravamo più in grado di prenderci cura di lui nel modo giusto. Quando si è ristabilito, abbiamo trovato un istituto davvero perfetto e da allora Gerald vive lì. Nostro figlio è la nostra spada di Damocle, ma ci ricorda anche costantemente quanto la vita possa essere meravigliosa se si è fortunati. «Abbiamo reagito alla sua presenza in modo diverso, Scott. Io ho esagerato a cercare di considerarlo normale contro ogni evidenza e ho riversato su di lui l'amore che avrei dovuto dedicare alle bambine. Tu hai fatto del tuo meglio, ma per te è stata davvero una terribile delusione e ti ha devastato. Quando non ce l'hai più fatta, ci hai abbandonato tutti per rifugiarti nel tuo lavoro. È comprensibile. Tipico di entrambi. Io volevo che tutti
fossero felici e tu volevi che tutti fossero eccezionali. Nessuno dei due aveva la minima possibilità di ottenere quel che voleva, così abbiamo fatto entrambi un sacco di sbagli. Però non dobbiamo averne fatti troppi alla fin fine, visto che le ragazze ci vogliono ancora bene. È evidente in tutto quello che fanno». Sì, è vero, ne avevamo parlato già, ma risentire quelle cose dopo il commento di Norah mi colpì dritto al cuore. Ero stato un padre così mostruoso e incurante? E come se non bastasse, pur avendolo sempre saputo, avevo davvero continuato a nascondermelo per tanti anni? So bene che la vita è un gioco a nascondino con se stessi sempre più raffinato e complesso man mano che il tempo passa, ma si può ignorare una cosa tanto importante? E poi, se era vero, come potevo essere stato scelto per sostituire Beenie Rushforth? Un uomo che trattava la propria famiglia con tanta arroganza e mancanza di rispetto? Certo, nel suo modo inimitabile Beenie mi aveva fatto capire che venivano scelte persone di ogni genere e qualità, ma poteva un individuo tanto egoista essere tra queste? Era davvero troppo, tutto in una volta. Gran sussulti e soprassalti stavano scuotendo la mia vita che, scagliata all'improvviso in uno spazio privo di gravità, aveva perso all'improvviso ogni peso e sembrava galleggiare nelle galassie. Tentai ripetutamente di chiamare Beenie, ma non mi rispose. Alla fine capii che voleva che io riflettessi e che avrebbe risposto alle mie domande soltanto quando sarebbe tornata a fare le pulizie a casa nostra. Quanto era ridicola e al tempo stesso perfetta per lei una simile professione: un bel colpo di scopa per ristabilire l'ordine dell'universo. Inutile dire che in attesa di rivederla vissi più volte l'intera gamma delle emozioni. Così quel giorno cancellai le lezioni e convinsi Roberta a uscire offrendole un pranzo e un pomeriggio al cinema con la sua amica più cara. Mi bastarono dieci minuti nella nostra casa vuota e silenziosa per essere tesissimo, tanto che tirai fuori l'aspirapolvere e mi misi a passarlo in cucina. Avevo già finito quando sentii suonare il campanello. Aprii e mi trovai davanti Annette Taugwalder. «Beenie non poteva venire, così ha mandato me. Farò io le pulizie oggi». Si infilò in casa passandomi accanto ed esclamò senza fermarsi: «Uau, non avrei mai pensato di entrare in questa casa. L'aspirapolvere è già qui pronto, eh? Bene». Chiusi la porta e la guardai. «Perché non è venuta Beenie?». «Perché ha detto a me di venire. Sono una brava colf. Non ricorda nel
mio libro il capitolo in cui la protagonista va a fare le pulizie durante l'estate per guadagnare qualche spicciolo? Non si preoccupi, professore, la sua casa brillerà quando avrò finito». Dopo di che si tolse il cappotto, lo gettò su una poltrona, accese l'aspirapolvere e si mise al lavoro senza degnarmi di uno sguardo mentre io rimanevo lì come un fesso. Cosa stava succedendo? Non mi restava che infilarmi nel mio studio e provare ancora una volta a chiamare Beenie a casa. Il suo telefono continuò a squillare. Aveva senz'altro qualche ragione per fare una cosa simile, ma quale? Doveva immaginarsi che avrei avuto un milione di domande da farle. Perché non era venuta? Come poteva sparire così e mandare al posto suo quella ragazza? Dove diavolo si era cacciata? Fortunatamente c'era un piccolo televisore nel mio studio. Lo accesi per riempire il vuoto che mi stava intasando il cervello. Che cosa ci faceva Annette in casa mia? L'idea di una ragazza morta che mi faceva le pulizie di casa era mostruosa e mostruosamente ridicola. Non potei fare a meno di sorridere. Mi venne in mente una cosa: non era la prima persona priva di vita a entrare in quella casa. Nostro figlio, poverino, non è mai stato veramente vivo e vi ha abitato per anni. In televisione c'era un tipo che parlava del gorgonzola. Un tempo avevo vissuto anch'io nell'universo del gorgonzola, ora ero stato catapultato in un mondo in cui studentesse morte mi passavano l'aspirapolvere per casa e Dio non rispondeva al telefono. Mi sedetti alla scrivania e feci finta di lavorare spostando matite e carte da una parte all'altra, sfogliando la rubrica tanto per fare, leggendo un estratto conto bancario due volte prima di riuscire a vedere un solo numero. Mi avvicinai alla porta in punta di piedi e vi appoggiai un orecchio. Soltanto il vuuuush dell'aspirapolvere. Davvero era venuta solo per fare le pulizie? L'espressione sul suo viso e il tono della sua voce erano carichi di un tale altezzoso distacco. Sapeva di avere lei tutti gli assi nella manica e che io dovevo aspettare che facesse lei la prima mossa. E tutto per colpa di un libro scritto male, puerile, affannato, una brutta copia di... Sentii bussare. Cercai di non correre alla porta. Contai fino a cinque, mi alzai con calma, con calma girai la maniglia. «Sì?». «Mi spiace interromperla, ma vorrei sapere cosa devo fare con questo». Di nuovo il ritrovamento di vecchie reliquie in cui si era esibita Beenie ogni volta che era venuta a pulire. Aveva suggerito lei ad Annette di fare la stessa cosa? Mi stava mostrando un malandato quaderno a spirale verde con su scritto «ALLA CARICA!» in grossi caratteri neri. Era il sopranno-
me del liceo dov'erano andate le nostre figlie. Doveva essere di una di loro. «Dallo pure a me. Grazie». «Non c'è di che». Me lo porse e fece per andarsene. «Annette? Perché sei venuta?». Con la massima innocenza mi rispose: «Per fare le pulizie. Beenie mi ha chiesto di sostituirla. Gliel'ho detto». «Le pulizie non sono importanti. Non preferisti parlare del tuo...». «No. Mi ha detto soltanto di portarle delle cose e di chiederle se le voleva». E scomparve. Non sapevo cosa fare. Seguirla, afferrarla per un braccio, costringerla a sedersi e dirle: «Senti, cadavere. Io e te dobbiamo risolvere questa faccenda. Dobbiamo parlare di quell'obbrobrio del tuo romanzo una volta per tutte». No, tutto sommato non mi sembrava una buona idea. Tornai alla mia scrivania con il quaderno in mano e, non avendo nulla di meglio da fare, lo aprii. «Ehi, cagone!». Mi girai di scatto per vedere chi era stato, ma qualcuno mi coprì la bocca con una mano. Terrorizzato, cercai di vedere a chi apparteneva la mano: non conoscevo quel ragazzo, ma compresi che eravamo vicinissimi, praticamente attaccati. E lo sentivo. Sentivo il suo pene dentro di me. «Buona, ssst. Vedrai che adesso se ne va». Lo guardai. Chi era quel ragazzo? Aveva tre foruncoletti sul mento. Di cosa stava parlando? Eravamo in un gabinetto. Io ero seduto sulle sue gambe. Lui era sul water e aveva i pantaloni calati. «Ehi, amico, sbrigati con quella, OK?». Lui ridacchiò e si mise a muoversi dentro di me più in fretta che poteva, cercando di concludere malgrado la posizione così scomoda, per venire e poi chiudere e tornare alla lezione che stava andando avanti in classe senza di noi. Vidi mia figlia Freya. Freya, così tranquilla, così banale, che aveva tappezzato le pareti della sua camera di poster di gattini e aveva letto settecento romanzi tipo Il fuoco e le fiamme dell'amore. A scuola andava discretamente bene e a casa lasciava le discussioni a sua sorella. Le piaceva prendersi cura di Gerald. Gli preparava delle torte e poi lo imboccava con pazienza. Freya stava scopando in un gabinetto del liceo con un ragazzo che stava facendo di tutto per finire il più in fretta possibile e ritornarsene in classe col suo compagno che lo stava aspettando fuori.
Io ero Freya. Sentivo quel ragazzo, il suo corpo, il suo calore, l'orribile profumo della sua acqua di colonia. La sua cerniera dei pantaloni infilata in una gamba. «OK, OK, OK!». Gettando il capo all'indietro nel momento in cui veniva, diede una testata contro il muro. «Maledizione! Oh, sì, bello. Maledizione, che male! Grazie, Friga, è stato bello». Grattandosi la testa con una mano, mi scostò gentilmente con l'altra. Io rimasi sospesa sopra di lui a gambe piegate e tremanti. Avrei voluto che mi dicesse ancora qualcosa. Non l'avevo seguito fuori nel mezzo della mia lezione preferita? Qualcosa di carino che potessi tenere stretto quando se ne fosse andato. Ma era troppo occupato a rivestirsi. «Forza, pisellone! Mancano soltanto cinque minuti alla fine della lezione!». «OK!». Si tirò su la cerniera in fretta e allungò un braccio alle mie spalle per aprire la porta. «Ciao, Friga. Grazie per la figa-regalo!». Il suo amico infilò la testa dentro ed esclamò con voce in falsetto: «FREEEEEEGAL!». Se ne andarono entrambi ridacchiando. Sapevo che sarei dovuta tornare in aula anch'io, ma per cosa, poi? Mi sarei pulita le gambe con un po' di carta igienica, avrei dato un'occhiata al trucco e prima che suonasse la campanella sarei stata pronta per uscire dal bagno dei maschi davanti a tutti. «L'ho fatto anch'io una volta al liceo. Ma lui non è riuscito a venire. Eravamo tutti e due troppo terrorizzati». Dal momento che avevo gli occhi chiusi, sentii soltanto la voce di Annette e le sue dita che mi strappavano il quadernone di mano. «Ehi, non fare quella faccia, sorridi! È tutto finito. Puoi aprire gli occhi, sei di nuovo a casa». Era accovacciata davanti a me, vicino vicino. Per quanto mi guardasse con aria impassibile, si vedeva che era compiaciuta. «Era davvero Freya? Ha fatto una cosa così?». «E non una volta sola, anzi. Se tocca ancora il suo quadernone, può scoprire molte altre cose che ha fatto sua figlia. Aveva due soprannomi a scuola. "Friga", ovvero "Freya tutta figa", e "Fregai", la "Figa-regalo". Ho trovato anche qualcos'altro per lei, professore». «Non voglio più niente! Va' via!». «Oh, no, deve volerlo, prof. Sono le regole. Lei mi ha detto la verità. Adesso gliela dico io a lei. Perché pensa che Beenie mi abbia riportato
qua? Sono la sua Medusa! Non le dirò altro che la verità, tutta la verità riguardo alla sua vita. È stata Beenie a trovare le prime cose in casa sua, no? Be', io ne ho trovate delle altre». «Beenie non è malvagia!». «Queste cose non sono né buone né malvagie, sono fatti. Le mostro soltanto la verità. Quello che pensavano gli altri di lei, cosa succedeva quando lei voltava le spalle. Ricorda cosa le ha detto Norah? "Non è necessario che approvi tutto quello che faccio, papà"». «Tu non la conosci, Norah!». «No, ma conosco la verità. Ecco il suo secondo tesoro, papà. Sa cos'è? Gli piacevano così tanto». Mi stava porgendo qualcosa ed ero così confuso che a tutta prima non capii di cosa si trattasse. «È una treccina di pane! Non si ricorda quanto piacevano a Gerald? Se ne andava sempre in giro per casa con una in bocca. Ai bei tempi, certo. Prima che lo spediste tanto coscienziosamente in manicomio». Vedendo che non la prendevo, me la lasciò cadere in grembo. Non volevo toccarla. Era così pesante: una semplice treccina di pane. Non appena mi cadde sulle gambe, vidi il mondo coi suoi occhi. Gli occhi di Gerald/bambino/uomo/pazzo/animale. I colori ululavano, sibilavano, parlavano, a voce troppo alta: ogni cosa gridava a tutto fiato. Le sedie non erano più sedie perché non capivo più cosa fossero. Gli odori... il minimo odore, il più insignificante era un'esplosione cento volte più potente di quanto non avessi mai sperimentato. Odori buoni e odori cattivi. Prodotti chimici, fiori, gli scarafaggi nel terreno, i miasmi che esalavano dai piatti della colazione nel lavandino. Ogni genere di cose. Le sentivo tutte, una a una. La mia bocca. Avevo qualcosa in bocca e mi piaceva. Ci giocherellai un po' con la lingua. Era piacevole contro i denti. Morbida. Stavo gironzolando per casa. Ogni tanto c'erano delle persone. Avevano un buon odore. A volte mi toccavano, o mi dicevano delle cose, o mi spingevano dentro una stanza o fuori da una stanza. Se il posto in cui mi avevano messo non mi piaceva, urlavo. OK, OK, OK, dicevano, OK. Era tutto OK e aveva un buon sapore e io sentivo l'odore del mondo e i rumori della gente intorno. E poi sentii BANG ed è entrato lui e io caddi per terra e mi misi a gridare perché era arrivato. Mi fa male. Grida. Mi prende per un braccio e lo tira e grida. Lo odio. Lo odio. Gli do un colpo. Uno, due. Quella cosa così grossa gli farà male. Prendila e colpiscilo e lui
cadrà giù. È cattivo. Qualche volta è dolce e mi mette un braccio sulla spalla, ma è cattivo. Gli altri gli parlano, ma hanno paura di lui. Grida anche contro di loro. Entra in una stanza e sbatte la porta, BANG! Quando se ne va, gli altri parlano di nuovo e sorridono. È cattivo. Lo odio. Cattivo. Odio. Cattivo. BANG! «Basta!». Non capisco. «Basta, Annette! Portagliela via immediatamente». Urlano. Non capisco. Quella bianca viene da me e mi porta via quella cosa di bocca. Ritornai nel mio studio e compresi. Per qualche minuto avevo guardato il mondo attraverso le incoerenti capacità percettive di mio figlio. Il mondo visto attraverso un vetro in frantumi, abissali e sfrenate schegge di bellezza e terrore e mistero. Sconfinatamente inquietante, vero tormento infernale, scoprire che mio figlio mi odiava. Di tutti i bizzarri lacerti, brandelli, frammenti di mondo che riusciva a percepire, l'unica cosa che sapeva con certezza era che mi odiava. La sua sola verità, l'unica cosa chiara che esisteva per lui. Io ero cattivo e mi avrebbe voluto vedere morto. «Vattene. Torna a casa mia e aspettami lì». «È stata lei a dirmi di venire a fare le pulizie!». «Annette, vattene!». Ero seduto per terra e sbattevo le palpebre, sopravvissuto chissà come all'impatto micidiale della mia vita. Le guardai urlarsi. La donna coi capelli grigi e la ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia. «Perché non posso finire? Lo lasci a me! Se lo merita!». «Sparisci, Annette. È l'ultima volta che te lo dico!». Mio figlio. Cervello di pietra, d'aria, di nuvole che precipitano nelle viscere della terra, eppure sapeva che mi odiava. Mi avrebbe voluto vedere morto. Ero sul serio così cattivo? Ero stato davvero tanto malvagio? «Per lui, lo eri, ma non è che capisse tanto bene come stavano le cose, Scott. Su, ti aiuto ad alzarti». Ero spossato. Stavo bene lì, sul pavimento. Dovevo essere caduto. Non lasciai che mi tirasse su. Annette se ne andò strillando: «RAZZA DI COGLIONI!». Mi sentivo sul serio un coglione. Anzi peggio, una bestia, uno schifo. «Mi odia. È in grado di odiare. È sorprendente. Credevamo che non avesse nessuna percezione chiara. Invece è capace di odiarmi». «Ti capisco, ragazzo mio. Quando ho detto a mia figlia che ero malata di
cancro, la prima cosa che ha fatto, la prima, è stata chiedermi se avevo fatto testamento». Beenie uscì dallo studio e ritornò con due bicchieri di succo di pompelmo. Offrendomene uno disse: prima bevi, poi parleremo. Ero talmente svuotato e inaridito che avrei inghiottito anche il bicchiere se me l'avesse chiesto. Bevvi un sorso e il gusto fresco e amaro del pompelmo mi accarezzò la gola. «Ehi, non ti ricordi?», mi chiese sorpresa. «Che cosa? Beenie, sono stato davvero un tale disastro? Un fallimento su tutti i fronti?». «Non sto parlando di quello. Non ti ricordi di quel bicchiere?». Guardai e vidi soltanto un bicchiere normalissimo. Cos'era? «Cos'è?». «Non te li ricordi, questi bicchieri?». Lo guardai di nuovo. «No». «Natale 1975. Norah voleva che fosse una serata speciale e che beveste un cocktail prima di cena, così le hai detto di versare del succo di frutta in questi bicchieri». «E poi li abbiamo gettati nel fuoco. Io sono stato il primo. Persino Gerald l'ha fatto. Ci ha guardati e ha tirato anche il suo. Erano dei bicchieri molto costosi. Roberta è andata su tutte le furie, ma alla fine ha buttato nel fuoco anche il suo. È stato bello. Ci siamo sentiti molto russi». «Ci sono molte cose belle nella tua vita. No, non sei stato un disastro. Annette ti ha mostrato soltanto alcuni momenti. È facile quando si hanno cinquant'anni di vita tra cui scegliere. È una ragazza tremenda. Ha una gran rabbia e un caos spaventoso in testa». «Cosa posso fare adesso, Beenie? Come posso domarla?». «Non puoi. Questo è il problema. Pensavo...». La porta dello studio si spalancò rumorosamente e apparve Annette sulla soglia, con un dito puntato contro di me. «Non m'importa cosa dite. Sono anni che aspetto questo momento». Mi venne incontro. Non potei neanche domandarmi cosa sarebbe successo e ancor meno alzarmi e scappare, poiché dietro di lei c'erano delle cose. Non orchi e mostri, né creature orribili, ma scene della mia vita, dettagli che avrei conosciuto soltanto perché lei li aveva riportati alla luce. E che mi apparivano sotto forma di vapori, colori, odori, rumori, luci, ombre, profili, sfumature... La mia esistenza, alle sue spalle, era pronta a partire all'assalto e uccidermi con le sue verità letali. La vita attraverso gli occhi di Gerald, mia figlia in un gabinetto del liceo, cose che già conoscevo e aborrivo o cercavo di ignorare. Sogni che sapevo non
si sarebbero mai realizzati. Bugie che avevo raccontato a me stesso, verità taglienti come lame, intuizioni penetranti o amare o pungenti come l'aria sul ghiaccio. Tutte, con tutta la loro energia e la loro forza. Crediamo che col tempo esse scompaiano come la foschia che vela un campo all'alba e si dissolve non appena compare il sole. Non è così. Avendo scorto per un attimo quella valanga che mi rotolava incontro con violenza, vi posso dire che non se ne vanno. Come ogni suono che produciamo, la verità della nostra vita rimane. Sopravvive da qualche parte, per sempre, a dispetto di tutti gli sforzi della nostra memoria di assicurarci del contrario. Se avessi dovuto affrontare quella valanga soltanto per qualche istante di più, mi avrebbe ucciso. Ma anche scorgerla per pochi secondi mi ha indelebilmente corroso l'anima. E se non mi sbaglio, lì in mezzo, tra gli altri fatti della mia vita, c'era anche quanto tempo mi restava da vivere. «Annette!». Beenie sollevò un braccio come per lanciare una palla da baseball e la ragazza e tutto quello che aveva dietro di sé scomparvero all'istante. Beenie mostrò i pugni e li agitò in aria. «Non c'è proprio fine a questa storia. Perché? Cosa diavolo sta succedendo?». Non era il momento di fare domande, così rimasi zitto. Ammutolito e sconvolto. Beenie continuò ad agitare i pugni per qualche istante, ma alla fine lasciò lentamente cadere le braccia lungo il corpo. «Mi dispiace, Scott». «Di cosa? Mi hai salvato la vita!». «No, ti ho usato». Si avvicinò e mi si sedette accanto, per terra. Prima di parlare serrò di nuovo i pugni ed esclamò: «Perché sta accadendo tutto questo? Scott, ti ricordi che ti ho parlato delle trentasei persone che insieme danno corpo all'immagine di Dio? Quello, almeno, è vero. Ed è vero che io sono una di loro, malgrado tutta la mia stupidità. Riguardo a te e Annette, invece, ti ho raccontato una bugia. Ricordi che ti ho detto di averti tenuto d'occhio per anni? Be', è vero, ma non per la ragione che ti ho detto. Anni fa, poco prima che si laureasse, ho visto Annette e ho capito che era lei che doveva prendere il mio posto. Mi dispiace di averti detto che eri tu. Ti ho mentito». Allungò una mano e prese la mia stringendola per un attimo prima di lasciarla andare. «Non sei tu il mio successore... ma Annette. L'ho capito nell'istante in cui l'ho vista. Ho cominciato a seguirla, proprio come aveva fatto Nolan con me.
Gliel'ho detto e, so che può sembrare sorprendente, ma lei è parsa comprendere. All'inizio è andato tutto bene e Annette ha superato senza difficoltà le sue prime prove. Poi ha cominciato l'università e a frequentare le tue lezioni. Ha scritto quel romanzo, ti ha chiesto di leggerlo e il resto lo sai». «Si è suicidata». Mi ci volle un istante per mettere a fuoco. «Si è suicidata? Uno dei trentasei prescelti che si suicida? Com'è possibile? Dio non...». «No, esattamente. È proprio questo il problema. Anche noi non comprendiamo come sia possibile. E come se non bastasse, sta accadendo più spesso di quanto tu possa immaginare. In passato poteva capitare che ci fosse un errore e accadesse qualcosa del genere, ma era così raro che non c'era motivò di preoccuparsi. Ma ora dev'essere successo qualcosa di grosso perché sta avvenendo sempre più spesso. Dobbiamo scoprire per quale motivo. Così io e un paio di altri abbiamo avuto il compito di andare a cercare queste persone e riportarle qui per tentare di scoprire perché l'hanno fatto, o almeno di riconciliarsi col motivo che le ha spinti a farlo. Forse in questo modo potrebbe essere possibile cominciare a capirci qualcosa...». Fece una smorfia e sospirò. «Perché vedi, se commettono un fatto simile, nessuno può prendere il loro posto...». «Mi stai dicendo che qualcuno che è stato scelto per essere Dio decide lo stesso di suicidarsi pur sapendolo e avendo compreso cosa significa una cosa simile?». «Già». «Come "già"? Tutto qui... "Già"? Cosa significa? Cosa comporta una cosa simile per il futuro? Qualcuno dovrà pur sostituire Annette». «No, nessuno può farlo. Lei non ha scelto nessuno. Non ha nemmeno finito di superare le sue prove. Ecco perché sono qui con te. Ecco perché l'ho riportata da te. Non lo sappiamo». «Cosa dici? Voi sapete tutto, dannazione! Siete DIO! E se non ci siete tutti, Dio ne è diminuito e sarà il bene a farne le spese». «Esatto. Ecco perché si sta diffondendo tanto scompiglio. Perché c'è tanto male nel mondo». «E adesso, Beenie, cosa dovrei fare io? Non sono stato prescelto, d'accordo, non me lo merito, ma cosa ci faccio con tutto quello che so? Cosa dovrei fare adesso che so tutte queste cose? Per favore, riprenditi tutto. Dai, passami una mano davanti agli occhi e toglimi tutte queste cose dalla testa. È l'unica cosa che ti chiedo».
«No, Scott. Le tue esperienze ti appartengono. Per sempre. Ora che conosci la verità, usala per cercare di migliorare. È la cosa più bella che tu possa fare con quello che sai. Certo, potrei farti dimenticare tutto con un solo gesto, così, abracadabra, ma hai la possibilità di diventare una persona migliore ora che sai chi sei realmente». «Ma il destino non è predeterminato? Io ho persino visto il momento della mia morte!». «Quello è solo il tempo degli orologi. Io parlo del tempo umano. Quanto tempo ci vuole a scrivere un libro? Qualcuno ci mette poco, altri una vita. Quanto tempo ci vuole a trascrivere le parole incise nel cuore, eh? Non posso mostrarti il libro che scriverai, Scott. Posso solo aiutarti a compiere con cura le tue ricerche e verificare le tue fonti». Malgrado tutto sulle mie labbra affiorò un sorriso. «Verificare le mie fonti?». «Be', diciamo che mi sto dando da fare per ampliare il mio vocabolario in modo da non sfigurare troppo». «Tu... e gli altri non avete ancora deciso il futuro?». Scosse la testa. No, è stata la risposta di Dio. Più chiaro di così... Collezione d'autunno Fin dall'inizio rifuggì ogni compassione. Non voleva che gli fosse riservata la raccapricciante gentilezza che si dedica a chi sta per morire. La stessa che aveva provato lui diversi anni prima nei confronti di sua madre, quando la malattia, che ora si accaniva contro di lui, le aveva lentamente rosicchiato il volto cancellando tutte le rotondità e i solchi di un'esistenza, finché non erano rimaste che le fide ossa del cranio a rammentare alla sua famiglia quale sarebbe stato presto, e per sempre, il suo aspetto. Poiché amava il cielo notturno, per lui la parola «cancro» non significava altro che una manciata di stelle la cui disposizione ricordava vagamente la forma di un granchio. Ebbe modo di scoprire, tuttavia, che la malattia non era una creatura che sfreccia sulla sabbia agitando due tenaglie, ma semmai una lenta onda color malva che lambiva le rive più lontane del suo corpo per poi ritirarsi rispondendo al ritmo di maree quasi imprevedibili. Aveva avuto una moglie convinta di essere divertente ed eccitante. Opinione che per anni aveva tratto in inganno entrambi. Quando tra loro era finita, lei aveva pianto dando a lui la colpa di tutto: le aveva rubato il suo
fuoco e aveva lasciato che si spegnesse. Tutti e due sapevano che non era vero, ma era meglio che ammettere di essere entrambi, in fondo in fondo, due persone noiose. Poiché avevano continuato a vivere nella stessa città, gli capitava di vederla ogni tanto, quasi sempre con personaggi tanto stravaganti da metterlo in imbarazzo. Sapeva cosa le passava per la testa e lo trovava avvilente. L'ultima volta che si erano incrociati, lei indossava un berretto giallo e scarpe da basket nere ai piedi. Si era infilato nel primo negozio che aveva trovato per evitarla. Faceva l'insegnante di storia in una modesta scuola privata. Erano anni che rivolgeva gli stessi quesiti ai suoi studenti e sapeva che per quanto curiosi e brillanti fossero, non sarebbe mai stato capace di far loro intuire il fulgore del passato. Nel migliore dei casi ascoltavano le sue lezioni con la stessa espressione con cui si guarda un serial tivù. Non era mai stato in Europa, non aveva combattuto nessuna guerra. Non aveva mai desiderato vivere in un luogo eccitante. Una volta aveva posseduto un cane, ma quando era morto, non ne aveva più voluti. La notte, a letto, pensava che ormai era rimasto a fargli compagnia solo il cancro che lo stava uccidendo. Aveva trentasettemila dollari in banca, ma non aveva idea di cosa farsene. Non voleva neanche, però, che finissero alla sua ex moglie che probabilmente ci si sarebbe comprata una quantità di scarpe da ginnastica oppure, convinta di bruciare di passione, li avrebbe regalati a qualche squattrinato pittore di sua conoscenza. Non era solo la fredda inevitabilità della morte a terrorizzarlo, ma anche la consapevolezza di non provare il minimo desiderio di fare né possedere nulla di eccezionale durante i suoi ultimi giorni sulla terra. I medici avevano detto che avrebbe avuto un anno o due di vita se si comportava con cautela. Lui sapeva che quella era l'unica cosa che era in grado di fare bene: comportarsi con cautela. Alla fine dell'anno scolastico informò il preside che non sarebbe ritornato alla ripresa delle lezioni. Gli fece piacere il vago, perplesso sguardo di ammirazione che questi gli rivolse quando gli disse di non poter rivelare il motivo delle proprie dimissioni. Non aveva mai provocato un simile sguardo in nessuno prima di quel giorno. Vendette la sua macchina bianca, il televisore nero e il divano color fango. Aveva così tanti soldi da sentirsi quasi in colpa. Riconsiderò la possibilità di darne una parte a sua moglie, ma il ricordo del suo ego strabordante e di quel berretto giallo lo dissuasero.
In punto di morte sua madre aveva detto che le dispiaceva non essere mai stata a Bali. Che fortuna avere dei sogni, dei rimpianti! Si disse che se si recava in un'agenzia viaggi, qualche poster colorato o qualche brochure patinata l'avrebbero ispirato a comprarsi un biglietto per una remota destinazione esotica dove cani emaciati sonnecchiano in mezzo alla strada e donne con grandi ceste in equilibrio sul capo vendono sulla spiaggia ananas appena raccolti. All'agenzia viaggi l'impiegata, dopo avere data un'occhiata alla sua faccia, gli suggerì Disneyworld. Lui sapeva bene di avere un'aria banale, un mediocre orologio al polso e un paio di penne a sfera con il nome di una ditta di impianti idraulici infilate nel taschino. Davanti a quella ragazza che probabilmente era appena tornata da una vacanza a Tangeri con uno dei suoi tanti amanti, fu tentato di dire: «Guardi, si è sbagliata sul mio conto, sono diverso: sto per morire!». Ma non era il tipo da fare una cosa del genere. Quando lei vide che non era interessato al tour di quattro giorni, comprensivo di volo e albergo, in quella tipica meta di famiglie che desiderano assecondare i più fantasiosi capricci dei propri figli e vogliono prendersi una piacevole pausa di riposo dalla propria, peraltro già piacevolissima, esistenza, lo gelò con un'occhiata di sufficienza. Gli porse con aria imbronciata la brochure del safari in Africa di cui le aveva chiesto informazioni, quasi fosse convinta che persino quelle foto di leoni e delle spettacolari cascate Victoria fossero sprecate nelle sue mani. Così lui cominciò ad accogliere con gioia il dolore, quando arrivava. Perché no? Se non poteva fare nulla di originale, avrebbe almeno potuto tentare di essere stoico. Poteva custodire il segreto della propria morte come un inconfessato ricordo d'infanzia. Poteva anche darsi che dopo la sua scomparsa un paio di persone rimanessero colpite dal fatto di non aver saputo che gli restava così poco tempo da vivere. Non impiegò molto a mettere ordine tra le sue carte. Dopo di che chiuse il suo conto in banca e cambiò il denaro con un mazzo di traveller's cheque così grosso da gonfiargli il portafoglio. Andò a New York. Non sapeva quanto tempo ci sarebbe rimasto, ma inconsciamente sperava che quella città così grande e vitale gli trasmettesse un po' della propria sconfinata energia. C'era stato con sua moglie in luna di miele e a quel tempo ne era rimasto terrorizzato, ma adesso non aveva più nulla da perdere. Una delle prime cose che lo colpirono fu il pensiero che ci dovevano
abitare migliaia di persone che, come lui, sarebbero morte presto. Per mezza giornata non fece altro che fissare i volti dei passanti cercando di scorgere un segno o un gesto che rivelasse la consapevolezza di dover morire presto. Alla fine si arrese, ma fu rincuorato dal pensiero che a pochi passi da lui, se non in quel momento forse soltanto un minuto dopo, ci sarebbe stato qualcuno che condivideva il suo destino. Era sicuro che anche se si fosse spinto nella zona più buia e feroce di Harlem non gli sarebbe accaduto assolutamente nulla perché nessuno avrebbe sprecato il proprio tempo a dare una botta in testa a uno come lui. Bastava uno sguardo per capire che non era tipo da avere in tasca più di nove dollari e un pettine di plastica. Per verificare la sua teoria, prese una sordida metropolitana alle dieci di sera e si spinse fino alla Centoventicinquesima Strada. Aveva perfettamente ragione: avrebbe avuto più chance di essere notato se fosse stato invisibile. Ma quell'esperienza non lo deluse, perché aggirarsi in quel quartiere che brulicava di vita e di pericoli lo fece sentire audace e avventuroso. Per la prima volta desiderò avere ancora qualche contatto con sua moglie, per chiamarla e raccontarle cosa aveva fatto. Sapeva che lei non avrebbe creduto a una sola parola, ma non gli importava, perché era tutto vero e quell'episodio della sua vita ormai gli apparteneva come i capelli che aveva in testa. Il giorno successivo non perse lo spirito che gli aveva infuso la visita notturna a Harlem e senza nessuna ragione particolare portò con sé tutti i traveller's cheque, dal primo all'ultimo. Quante persone se ne andavano in giro per Manhattan con quasi quarantamila dollari in tasca? Un temporale arrivato da chissà dove lo sorprese sulla Quinta Strada in maniche di camicia. Mentre si riparava insieme a diverse altre persone sotto una tenda, si girò e si rese conto di essere davanti all'esclusivo negozio d'abbigliamento da uomo di uno stilista italiano. In vetrina era esposto l'ombrello più bello che avesse mai visto. Non riusciva a capacitarsi che un oggetto tanto banale potesse essere trasformato in qualcosa di tanto raffinato. Invece esistevano al mondo delle persone che ogni giorno davano vita a oggetti di simile, inaudita bellezza. Era un pensiero che lo faceva sentire ancora più avvilito. Tuttavia era un ombrello stupendo. Assolutamente incantevole. Malgrado l'avvilimento, sentì di non poter fare a meno di comprarlo. Rabbrividendo impercettibilmente, spinse il pesante portone ed entrò in quel negozio in cui gli sembrava di non avere nessun diritto di accedere,
nonostante intendesse farvi un acquisto: un oggetto bellissimo e scandalosamente costoso sarebbe presto stato suo, proprio suo, fino alla fine della sua breve esistenza. Mentre camminava su una soffice moquette color prugna, sapeva che non avrebbe mai osato fare una cosa simile se non fosse stato per l'avventura della sera precedente. Gli si fece incontro un commesso che indossava un completo che doveva essere firmato da un altro genio italiano della moda. Si avvicinò con garbo e lentamente, senza apparire minimamente sorpreso che quell'uomo con una scialba camicia fuori moda chiedesse di vedere l'ombrello di Veroni esposto in vetrina. Glielo aprì con un gesto da grande matador e lo posò con delicatezza ai suoi piedi. Un gesto affascinante ma inutile, perché lui aveva già infilato una mano in tasca in cerca dei traveller's cheque. Anche l'ombrello parve accogliere con grazia il proprio destino. Sapeva che il proprio posto era sul sedile di un jet personale o appeso al braccio di un uomo con il frigobar in macchina, ma come tutte le cose belle e nobili, accettò di seguire quell'uomo che stava per morire come se fosse stato un principe o un grande magnate dell'industria. Conosceva il proprio valore, ma avrebbe mentito al mondo dicendo che il suo possessore meritava di averlo per sé. Costava trecento dollari. L'idea che qualcuno potesse avere tanta fantasia da chiedere una simile somma di denaro per un ombrello lo stupì, ma pagò senza battere ciglio e fu entusiasta del vago sorriso d'approvazione che ricevette dal commesso. «Desidera qualcos'altro, signore?». Stava per rispondere di no quando ricordò i neon arancioni e la musica assordante che lo attendevano in strada. Chiuse gli occhi e si vide morto in meno di qualche mese. Di cosa si preoccupava? Aveva trentasettemila dollari e la morte in tasca. Scoppiò a ridere. Sapeva che più di ogni altra cosa desiderava essere sepolto con il suo ombrello accanto, come un faraone egizio che vuole essere accompagnato dai suoi tesori nel suo viaggio verso l'oltretomba. Rise di nuovo mentre il commesso lo guardava. «Sì. So che può sembrare una richiesta strana, ma sto guardando il suo completo da quando sono entrato. È in vendita qui?». «Sì, signore, per quanto questo sia un modello dell'anno scorso. Come lei sa, questa stagione i baveri di Veroni sono molto più stretti. Desidera vedere qualcosa?». Gli parve di sognare mentre seguiva quella persona così gradevole e
gentile verso il reparto degli abiti da uomo e, dopo un'ora trascorsa a scegliere, uscì dal negozio con scatole e sacchetti avvolti nella famosa carta verdina e marrone di Enrico Veroni. I pantaloni del completo loden da mille dollari che aveva comprato non sarebbero stati pronti prima di una settimana, ma quella sera stessa indossò il suo nuovo giubbotto di cashmere e una camicia di lino con il colletto aperto che insieme costavano più del doppio del suo stipendio di insegnante. Non aveva idea di dove potesse recarsi vestito come un re e passeggiò per un po' per la Terza Strada guardando la gente che passava, mentre decideva quale film andare a vedere e in quale ristorante cenare dopo. Il film fu così commovente e la cena talmente deliziosa che per non porre termine a una serata tanto incantevole entrò in un bar in cui si ritrovò circondato da una folla di uomini e donne affascinanti, che entravano e uscivano parlando ad alta voce e ridendo, belli ed eleganti. Una donna coi capelli corti e le unghie lunghe gli si sedette accanto guardandolo con aria ammirata. «Lei è la prima persona che porta i vestiti di Veroni in maniera decente». A quanto pareva, la sua magica serata proseguiva. Il giorno seguente si svegliò con i postumi della sbornia e nome e indirizzo di quella donna scritti con un pennarello arancione sul proprio fazzoletto. Uscendo, per prima cosa acquistò tre riviste di moda maschile. Nella tranquillità di un bar vuoto, ne studiò le foto e le parole con lo zelo di uno studente di una scuola rabbinica davanti alle pagine del Talmud. Rimase di nuovo colpito dal modo in cui gli stilisti combinavano stoffe e tinte per dar vita a coordinati bizzarri, sconcertanti e favolosi che donavano al corpo umano il fascino di foreste d'autunno, fiere selvagge e tramonti tropicali. A metà mattina gli accaddero due cose prodigiose. Un dolore smisurato all'improvviso gli sconquassò lo stomaco con tale ferocia da fargli comprendere che la morte sarebbe stata così quando sarebbe giunta. Non poteva esistere nulla di più brutale e violento. Dovette usare ogni grammo delle proprie energie e del proprio coraggio per non morire soffocato in quella morsa. Ma poi, soltanto qualche istante dopo, accadde la seconda cosa, mentre cercava debolmente di prepararsi ad accogliere un'altra esplosione di dolore: decise semplicemente di non essere ancora pronto a morire. Per un po' la Morte avrebbe dovuto aspettare. Non si sarebbe disteso per sem-
pre accanto al proprio ombrello così in fretta. Nei mesi successivi imparò a comprare bene e con cura. Ritornò tanto spesso da Veroni che tra lui e il commesso nacque un'amicizia silenziosa anche se distaccata. Alla fine trovò il coraggio di parlargli della sua fantasia di morire «con il suo ombrello addosso», come diceva lui, ma non di dirgli che ciò sarebbe accaduto molto prima dei due anni che Veroni contava di impiegare per inaugurare la sua nuova linea di abbigliamento femminile. Dal momento che il negozio era spesso vuoto, il commesso aveva tempo di rispondere a tutte le sue domande e consigliarlo riguardo ai suoi acquisti. Una volta lo dissuase dal comprare un costoso maglione perché gli sembrava non donasse al suo viso scarno e alla sua figura sempre più esile. Non glielo fece mai intuire, ma sin dall'inizio il commesso aveva immaginato che doveva essere un uomo gravemente ammalato. Non sapeva perché quell'uomo così pallido e taciturno fosse tanto ossessionato dalla moda, ma era una di quelle rare persone che senza esserne consapevoli donano tutto di sé agli altri e rimangono sorprese quando vedono apprezzare il proprio dono. Questo è tutto. L'uomo con la morte in tasca finì per possedere in breve tempo il guardaroba di un uomo ricco e di buon gusto. Si osservava spesso allo specchio dell'armadio con un sorriso sulle labbra. Continuò a vivere a New York fino alla sua morte. Prima che l'esile coperchio di latta che era la sua vita cominciasse a borbottare e saltasse per aria cadendo a terra immoto e riverso, ebbe una relazione d'amore con una donna eccitante e piena di vita che era la responsabile degli acquisti di un esclusivo negozio di abbigliamento da uomo. Era rimasta folgorata dal suo gusto e dalle sue conoscenze in materia di abbigliamento. Fu l'unica persona a cui confessò il suo terribile segreto. Nel momento più importante della sua vita vide il volto di lei rigarsi di lacrime di dolore. Lo amava, gli disse. Non avrebbe mai più conosciuto nessuno altrettanto gradevole e interessante. Con un vago senso di sorpresa lui la guardò piangere e si domandò come potesse essere tanto fortunato. Il migliore amico del cane 1.
La cosa finì su tutti i giornali. Su due testate comparve persino lo stesso titolo: "Il migliore amico del cane!". Ma io non li vidi che in seguito, quando ero ormai tornato a casa dall'ospedale e lo shock aveva cominciato ad attenuarsi. Dopo il fatto comparvero decine di testimoni, anche se io non ricordo di aver visto nessuno quel giorno oltre a me, Friend e quel lungo convoglio merci. Friend è un terrier Jack Russell di sette anni. Assomiglia a un bastardino: zampotte corte e tozze, pelo bianco e marrone chiazzato, un comunissimo muso da cane con due occhi dolci e intelligenti. In verità, però, i Jack Russell sono rari e avevo speso un bel gruzzolo per comprarlo. Anche se da poco le cose sono cambiate, non sono mai stato ricco, ma mi sono sempre concesso la piccola stravaganza di scegliere il meglio, quando potevo permettermelo. E quando è stato il momento di comprare un cane, sono andato in cerca di un vero cane. Non una di quelle creaturine frufrù che hanno continuamente bisogno di essere tosate e pettinate. Né volevo uno di quegli animali elegantissimi che provengono dall'Estonia o da altri luoghi altrettanto strani e assomigliano più a degli alligatori che a dei cani. Ho visitato canili e allevamenti di ogni genere e alla fine ho trovato Friend attraverso un annuncio su una rivista cinofila. Mi sono innamorato di lui a prima vista. C'era solo una cosa che non mi convinceva troppo, il suo nome. Friend. Mi sembrava spaventosamente kitsch chiamare un cane Friend, e avevo la sensazione che per di più un simile nome non c'entrasse niente con un cane che, a giudicare dal suo aspetto, sarebbe stato perfettamente a suo agio con una bella pannocchia in bocca. Anche da cucciolo era un tozzo e massiccio groviglio di pelo. Bill sarebbe andato bene, o Ned. Magari anche Jack, se non fosse già stato un Jack Russell. Ma la donna da cui lo acquistai disse che gli aveva dato quel nome in base a una ragione precisa: ogni volta che abbaiava (cosa che peraltro capitava di rado) sembrava proprio che dicesse: friend. Ero scettico, ma poi mi resi conto che aveva ragione: mentre i suoi fratelli e le sue sorelle guaivano più che abbaiare, lui si piazzava solidamente sulle sue zampotte e se ne usciva con un inimitabile «Friend! Friend! Friend!», agitando la coda a più non posso. Era una cosa davvero strana, ma alla fine me lo fece piacere ancora di più e come conseguenza quel nome gli rimase. Mi ha sempre stupito con quanta facilità i cani imparino ad andare d'accordo con gli esseri umani. Entrano nella nostra vita senza chiasso, chie-
dendo soltanto una sedia tutta per sé e, imparando presto a conoscere umori e malumori, si adattano senza fatica a situazioni di ogni genere. E sin dal primo istante dormono sonni tranquilli nel paese sconosciuto e straniero in cui all'improvviso sono stati catapultati. Prima di proseguire, devo dire che Friend non mi è mai sembrato un cane speciale. Perfetto, forse, in un certo senso, ma non speciale. Aspettava tutto eccitato che tornassi a casa dal lavoro e gli piaceva appoggiare il muso sulle mie gambe mentre guardavo la televisione. Ma non era Jim the Wonder12 Dog: non ha mai saputo contare, né guidare la macchina o fare altri prodigi di cui a volte si legge nei giornali. Gli piacevano le uova strapazzate e se il tempo era bello e io non avevo intenzione di andare troppo lontano, veniva a fare jogging con me. Avevo ottenuto quello che volevo: un cane-cane che si era conquistato una fettina del mio cuore con la sua fedeltà e la sua allegria. E che non chiedeva troppo in cambio, eccezion fatta per una buona dose di carezze e un angolino sul letto in cui accucciarsi se fuori faceva freddo. Quel giorno c'era un bel sole e il cielo era limpido. Indossai tuta e scarpe da ginnastica e feci qualche esercizio di stretching. Friend mi osservò dalla sua sedia e quando mi preparai per uscire saltò giù e mi accompagnò alla porta dando un'occhiatina fuori per vedere com'era il tempo. «Vuoi venire?». Se la risposta era no, di solito crollava per terra e non si muoveva più fino al mio ritorno. Ma quel giorno scodinzolò e uscì con me. Ero contento che avesse deciso di farmi compagnia. Scendemmo verso il parco. A Friend piaceva corrermi accanto, a circa mezzo metro di distanza. Quando era ancora cucciolo, l'avevo pestato un paio di volte perché mi correva in mezzo alle gambe fiducioso che io tenessi d'occhio ogni suo minimo movimento. Ma io quando corro guardo ovunque fuorché per terra. Di conseguenza c'erano state un paio di spettacolari collisioni seguite da una serie di folli mugolii, che gli avevano infuso una certa cautela riguardo alle mie abilità di navigazione. Attraversammo Harold Road e ci infilammo dentro il parco, l'Ober. Di solito ci dirigevamo verso la linea ferroviaria, dopo di che correvamo per circa due chilometri lungo le rotaie finché, arrivati alla stazione, facevamo dietrofront e tornavamo pian piano verso casa. Friend conosceva così bene la strada che poteva permettersi di fare diverse soste lungo il percorso, sia per fare pipì, sia per analizzare qualche odore interessante o chissà che altra novità scoperta sui suoi passi. Capitava a volte che arrivasse un treno, ma si sentiva da lontano e c'era
tutto il tempo di spostarsi e lasciarlo passare. Era una cosa che mi piaceva, sentire quei convogli avvicinarsi pesantemente alle mie spalle, e poi accelerare l'andatura quando passavano per vedere quanto a lungo ero in grado di correre accanto alla locomotiva. Un paio di macchinisti ci conoscevano e ci salutavano con un lungo fischio. Mi facevano piacere quei saluti e anche Friend si fermava e abbaiava un paio di volte per rispondere e perché fosse chiaro a tutti chi era il boss. Quella mattina avevamo percorso più o meno metà della distanza che ci separava dalla stazione, quando sentii arrivare un treno. Come al solito mi guardai intorno in cerca di Friend. Stava correndo tutto fiero poco lontano. Una linguetta rosea gli penzolava da un lato della bocca. Lo sferragliare del treno si era fatto più vicino quando vidi una macchina attraversare i binari a circa cinquanta metri di distanza. Che stupidità fare una cosa simile sapendo che il treno era tanto vicino! Che fretta c'era? Mentre formulavo quel pensiero, sentii il treno avvicinarsi sempre di più alla mia spalla sinistra. Guardai alla mia destra per controllare un'altra volta dove fosse Friend, ma non lo vidi. Mi girai di qua e di là senza riuscire a scorgerlo. Preso dal panico, mi voltai indietro e lo vidi in mezzo alle rotaie intento a odorare un animaletto morto. «Friend! Vieni qui!». Si mise a scodinzolare senza sollevare la testa. Mi lanciai di corsa verso di lui continuando a chiamarlo. «Friend! Dannazione! Friend!». Il tono della mia voce alla fine attirò la sua attenzione e, quando ormai il treno stava già frenando a non più di cinque, sei metri di distanza, alzò la testa. Stavo correndo a più non posso: sentivo i sassi schizzare via come missili sotto la suola delle mie scarpe. «Friend! Vieni via!». Non capì cosa gli stavo dicendo, ma comprese dal tono della mia voce che stava per buscarsi una bella sgridata. Fece la cosa peggiore che potesse fare. Abbassò la testa e aspettò che andassi a prenderlo. Il treno era lì, davanti a me. Sapevo di essere ancora in tempo per fermarmi, ma credo che avessi già deciso come mi sarei comportato quando mi ero messo correre verso di lui. Mi gettai sul mio cane, chinandomi e sperando di riuscire ad agguantarlo e rotolare fuori dei binari in meno di una frazione di secondo. Ci riuscii quasi. Ce l'avrei fatta se non fosse stato per la gamba tesa all'indietro durante il salto, che fu tranciata di netto dalle
grosse ruote del treno. 2. Conobbi Jasenka in ospedale. Jasenka Ciric. Nessuno era in grado di pronunciare Ia-zen-ca come si doveva, così la chiamavano tutti "Jazz". Aveva sette anni e aveva trascorso gran parte della propria vita collegata a qualche infausto congegno che l'aiutava a combattere la sua lunga battaglia persa contro un corpo inaffidabile. La sua pelle era del colore di una candela bianca in una stanza buia, le labbra di un viola tenue che ricordava quello di scialbe banconote straniere. Per quanto la malattia le avesse conferito una insolita serietà, Jazz aveva conservato tutta la carica di speranza e vivacità della sua giovane età. Avendo trascorso così tanto tempo a letto in qualche camera d'ospedale, circondata da volti sconosciuti e pareti bianche rallegrate da ben pochi quadri, aveva solo due hobby: leggere e guardare la tivù. Quando guardava la tivù, il suo viso si irrigidiva in un'espressione di gravità e concentrazione assoluta: sembrava di vedere qualcuno che ascoltava la lettura del testamento di un membro di famiglia. Ma quando leggeva, qualsiasi libro fosse, il suo volto era privo di espressione, svuotato. Ci conoscemmo perché aveva saputo di me e di Friend dai giornali. Una settimana dopo il fatto venne un'infermiera nella mia stanza e mi chiese se mi andava di fare la conoscenza di Jazz Ciric (Ci-RIC come RIC-ino, avete presente l'olio, no?). Dopo che mi ebbe spiegato la sua situazione, immaginai un angioletto malato alla Shirley Tempie o quanto meno la piccola Buffy di Tre nipoti e un maggiordomo. Jasenka Ciric invece aveva una faccia particolare, interessante, puntuta, con i lineamenti sottili e folti capelli neri ricci che facevano pensare all'imbottitura di vecchi mobili. L'infermiera ci presentò e riprese il suo giro. Jazz si sedette accanto al mio letto e mi studiò. Io stavo ancora molto male, ma avevo da poco deciso di smetterla di commiserarmi. Quella visita era il primo tentativo in tal senso. «Qual è il tuo libro preferito?». «Non so. Il grande Gatsby, immagino. E il tuo?». Lei sorrise e fece schioccare la lingua come se la risposta fosse ovvia. «Signore con camicie da notte in fiamme». «È il titolo di un libro? Chi l'ha scritto?».
«Egan Moore». Sorrisi. Egan Moore è il mio nome. «Di cosa parla?». Mi guardò con attenzione e cominciò a dar vita a una di quelle storie interminabili e piene zeppe di digressioni che i bambini adorano. «Poi i mostri sono saltati fuori da dietro gli alberi e li hanno agguantati tutti e se li sono portati nel castello cattivo dove il re Scaldor...». La cosa più bella era il modo in cui Jazz raccontava la sua storia con l'abilità di un'attrice provetta. Scaldor aveva uno sguardo perfido che lei imitava alla perfezione. Quando qualcuno finiva nelle grinfie di un inseguitore, le sue mani si inarcavano come quelle di una strega e le sue dita mi si avvicinavano come diavoletti furtivi attraversando in punta di piedi lo spazio che ci separava. «... e poi sono tornati a casa giusto in tempo per non perdersi il loro programma preferito alla tivù», esclamò appoggiandosi alla sedia, stanca ma chiaramente soddisfatta dello spettacolo. «Dev'essere proprio super. Mi piacerebbe essere l'autore». «Già. Posso fare una domanda adesso?». «Certo». «Chi è che si sta prendendo cura di Friend adesso?». «La ragazza che abita accanto a casa mia». «L'hai più visto dal giorno dell'incidente?». «No». «Sei arrabbiato con lui perché ti ha fatto perdere una gamba?». Riflettei un momento cercando di decidere se dovevo parlarle come a una bambina o un'adulta. Una rapida occhiata al suo viso mi disse che voleva essere trattata da grande. Non aveva tempo da perdere. «No, non sono arrabbiato con Friend. Penso di essere arrabbiato con qualcuno, ma non so dirti con chi. Non so se sia stata colpa di qualcuno. Però, non sono arrabbiato con Friend». Da allora mi venne a trovare tutti i giorni. Il più delle volte al mattino quando eravamo entrambi freschi di sonno e allegri. Appena sveglio di solito stavo bene, a differenza che nel pomeriggio. Per qualche strana ragione l'enormità di quel che mi era accaduto, e di come avrebbe modificato la mia esistenza, faceva capolino insieme al vassoio del pranzo e non mi lasciava più finché le ore di visita non erano passate da un pezzo. Mi venivano in mente cose strane, tipo quell'uccello che sta ritto tutto il tempo su una zampa sola. Oppure la barzelletta dell'uomo senza una gamba che partecipa a una gara di calci nel culo. Pensavo che frasi come «dare un calcio»
non avrebbero più fatto parte del mio vocabolario. Sapevo che esistevano protesi degli arti davvero splendide: «l'inarrestabile marcia della scienza!», ma non mi era di grande conforto. Volevo riavere quel che mi apparteneva, non qualcosa che al massimo mi avrebbe dato una gamba «come nuova», come ripeteva il mio fisioterapista ogni volta che ne parlavamo. Io e Jazz diventammo amici. La sua compagnia rendeva più felici le mie giornate in ospedale aprendomi nuovi orizzonti. Ho avuto occasione di stare vicino soltanto a due persone che sapevano di stare per morire: mia madre e Jasenka. Entrambe guardavano il mondo con gli stessi occhi, lo stesso senso di urgenza e di gratitudine. Quando a qualcuno non rimane più molto tempo, è come se la sua capacità visiva, decuplicata, illuminasse dettagli che fino a quel momento sono stati trascurati ma che all'improvviso diventano essenziali per una comprensione più vivida e completa del quadro d'insieme. Durante le sue visite, le indimenticabili osservazioni di Jazz riguardo alle persone che conoscevamo o il modo in cui mi faceva notare le lame di luce che filtravano nella mia stanza mi colpivano profondamente per la loro maturità e saggezza. La consapevolezza di dover morire presto le aveva fatto sviluppare una visione poetica della realtà non priva di una venatura di cinismo, malgrado la sua giovane età. Il primo giorno che mi fu permesso di fare un giretto fuori, Kathleen, la mia vicina di casa, mi fece una sorpresa: portò Friend in ospedale a salutarmi. Di solito non è permesso l'ingresso ai cani, ma date le circostanze fu fatta un'eccezione. Mi fece piacere rivederlo e, con mia sorpresa, fu solo dopo diversi minuti che rammentai che era per causa sua se mi trovavo lì. Continuava a cercare di saltarmi sulle gambe e ne sarei stato felice se non mi avesse fatto tanto male. Così gli tirai la palla un migliaio di volte mentre chiacchieravo con Kathleen. Mezz'ora dopo chiesi all'infermiera se era possibile far venire Jazz a conoscere i miei amici. Così dopo un po', tutta imbacuccata sotto diversi strati di coperte, la signorina Ciric fu presentata a Sua Signoria Friend Moore. Si diedero la mano solennemente (l'unica cosa difficile che Friend sapeva fare: «Da' la zampa!») e lui le concesse di accarezzargli la testa mentre ce ne stavamo tutti e quattro seduti lì fuori a goderci il sole pomeridiano. Il dottore mi aveva sollecitato a provare a fare una passeggiatina con le mie stampelle. Così, una mezz'oretta dopo, mentre Jazz teneva Friend accanto a sé, feci il mio primo tentativo con le nuove stampelle di alluminio mentre Kathleen mi camminava accanto per ogni evenienza.
Non era il momento giusto per un simile esperimento. In un'epoca più felice avevo trascorso diverse ore piacevoli immaginandomi come sarebbe stato vivere insieme a Kathleen. Credo che anche lei avesse un debole per me, per quanto ci conoscessimo relativamente da poco, da quando eravamo diventati vicini di casa. Prima dell'incidente avevamo cominciato a trascorrere sempre più tempo insieme e io ne ero stracontento. Avevo cercato di capire come aprirle il mio cuore, ma ora, ogni volta che avevo il coraggio di sollevare per un attimo lo sguardo dall'infido terreno che mi si stendeva davanti, vedevo sul suo viso una preoccupazione e un'aria di compatimento che non mi piacevano per niente. Mai come allora fui consapevole di quanto avevo perso. La giornata era rovinata, ma mi sforzai di nasconderlo a Kathleen. Dissi che ero stanco, le dispiaceva se tornavamo da Jazz e Friend? Avevano entrambi un'aria talmente seria e immobile: sembravano i personaggi di una di quelle fotografie di pionieri del vecchio West. «Che cosa state combinando voi due qui?». Kathleen mi lanciò un'occhiata per vedere se aveva fatto qualcosa per meritarsi di essere congedata così. Evitai di incontrare il suo sguardo. Venti minuti dopo ero di nuovo a letto. Mi sentivo un bastardo, ma ero annientato da una spaventosa sensazione di impotenza e di smarrimento. Sentii squillare il telefono accanto al mio letto: era Jazz. «Egan, adesso ci penserà Friend ad aiutarti. Me l'ha detto oggi mentre passeggiavi con Kathleen. Ha detto che te lo potevo dire». «Davvero? E cosa farà?», le domandai sorridendo, aspettandomi che si lanciasse a capofitto in un'altra delle sue pazze storie telefoniche. Mi faceva piacere sentire la sua voce, mi faceva piacere che mi tenesse compagnia in quel momento. «Un sacco di cose! Ha detto che era un po' che pensava a cosa avrebbe potuto fare per te, ma adesso l'ha capito. Non te lo posso dire, sarà una grossa sorpresa». «Com'è la sua voce, Jazz?». «Assomiglia a quella di Paul McCartney». Kathleen e Friend venivano in ospedale ogni due o tre giorni. Di solito rimanevamo solo noi tre, ma ogni tanto Jazz si sentiva abbastanza in forze da scendere a tenerci compagnia. Allora ce ne stavamo per un po' seduti tutti insieme, poi io facevo la mia passeggiata in giardino con Kathleen. Jazz non disse più di aver parlato con Friend, ma la parte riguardante
Paul McCartney fece piegare in due Kathleen dalle risate, quando gliela raccontai. Kathleen si dimostrò davvero carina, facendo tutto il possibile per allietare me e Jazz. Come c'era d'aspettarsi, la sua gentilezza e premurosità ebbero l'effetto di farmi perdere del tutto la testa per lei, il che non fece che complicare le cose. La vita aveva cominciato a dimostrare un lugubre senso dell'umorismo. «Ti devo dire una cosa». «Cosa?». «Ti amo». Sguardo di terrore. «No, non è vero». «Sì, è vero, Egan», disse rivolta a me, sì, proprio a me. «Quando tornerai a casa, ti va di provare a vivere insieme?». Guardai dritto davanti a me. Jazz e Friend erano seduti in fondo al prato. Jazz alzò una mano e l'agitò pian piano: era il suo segnale per dire che andava tutto bene. La sera prima che uscissi d'ospedale, andai a fare un'ultima visitina a Jazz nella sua stanza. Tradita ancora una volta da chissà quale organo interno, aveva un'aria spaventosamente stanca e pallida. Mi sedetti accanto al suo letto stringendo la sua mano fredda. Malgrado i miei tentativi di dissuaderla, insistette a raccontarmi una nuova, lunghissima puntata di Sloothack, il maiale di fuoco. Come i genitori di Jazz, anche Sloothack era nato in Iugoslavia, dove viveva su su tra monti in cui vivono pecore che camminano su due zampe e dove agenti segreti di ogni paese si recano per concedersi una pausa di riposo tra una missione e l'altra. Jazz aveva una vera passione per gli agenti segreti. Avevo già sentito un sacco di storie di Sloot, ma questa era una chicca. C'erano dentro un carrarmato nazista, i laghi di Plitvice, lo zio Vuk di Belgrado e una finestra di pelle. Alla fine della storia il viso di Jazz era ancora più pallido. Tanto da farmi preoccupare sul serio. «Ti senti bene, Jazz?». «Sì. Verrai a trovarmi tutte le settimane, Egan, come hai promesso?». «Senz'altro. Verremo tutti e tre se vuoi». «Sì, ma magari all'inizio è meglio se venite solo te e Friend. Kathleen può rimanere a casa se è stanca». Annuii sorridendo. Era un po' gelosa di quella persona che era da poco
entrata nella mia vita. Sapeva che io e Kathleen avevamo deciso di provare a vivere insieme. Forse sarei riuscito a dimostrare di essere abbastanza uomo da smetterla di commiserarmi e mettermi a far sì che le cose andassero nel verso giusto. Ero terrorizzato, questo è certo, ma anche impaziente ed eccitato all'idea di tutte le nuove possibilità che avevo davanti. «Posso chiamarti se ho bisogno di te, Jazz?», le chiesi, sapendo che le avrebbe fatto piacere sentire che qualcuno aveva bisogno di lei anche se era solo una ragazzina chiusa in ospedale e con l'energia di un uccellino. «Sì, puoi chiamarmi, ma anch'io dovrò telefonarti ogni tanto. Per dirti quello che mi racconta Friend». «Certo. Ma come farà a parlarti? Sarà sempre a casa con me». Lei alzò gli occhi al cielo, accigliata. Ero così stupido ogni tanto. «Quante volte te lo devo dire, Egan? Mi manda dei messaggi». «Già, è vero. Cosa ti ha detto nell'ultimo?». «Friend ha detto che vi avrebbe fatto mettere insieme, a te e Kathleen». «Ah, è stato Friend? E io che credevo che il merito fosse mio!». «Tu hai fatto la tua parte, ma il resto è opera di Friend. Ha detto che avevi bisogno di un aiuto». Con quale convinzione disse quelle parole! Di tutto quel che successe dopo, la cosa che mi sorprese di più fu con quale rapidità e naturalezza riuscii ad abituarmi a una vita tanto diversa. Kathleen non era un angelo, ma mi concedeva tutti gli spazi e la gentilezza di cui avevo bisogno. Mi faceva sentire amato e al tempo stesso libero: una combinazione non da poco. Io in cambio cercavo di darle quel che lei diceva di amare di più in me: il mio umorismo, il rispetto che provavo per lei e il mio modo di vedere la vita che secondo lei era al tempo stesso benevolo e ironico. In realtà stavo vivendo due vite del tutto nuove: quella di compagno di Kathleen e quella di disabile. Ero stato catapultato in un vortice emotivo in cui non so se vorrei trovarmi un'altra volta, anche se non credo di poter vivere mai più momenti altrettanto sublimi. Kathleen usciva ogni mattina per andare a lavorare, lasciando Friend e me alle nostre cose. Il che significava di solito una lenta passeggiata fino al negozio all'angolo a comprare il giornale e poi un paio d'ore al sole in cortile. Dopo di che trascorrevo il resto della giornata affaccendato a pensare e a imparare come adattarmi a un mondo in cui mi sembrava di avere perso il senso dell'equilibrio e quello dell'orientamento. Parlavo spesso con Jasenka e andavo a trovarla in ospedale una volta la
settimana, portandomi sempre dietro Friend. Se il tempo era brutto e Jazz non poteva uscire, parcheggiavo Friend da English, l'infermiera alla reception, e passavo a prenderlo quando uscivo. Un pomeriggio, entrando nella sua stanza, vidi un nuovo macchinario che ticchettava con impazienza e arroganza accanto al suo lettino. Una serie di tubi e tubicini rosa e argentei la collegavano a quel pachiderma. Ma quel che mi strinse il cuore fu vedere cosa indossava: un pigiama di Guerre stellari con robot e altre creature alte almeno cinque centimetri stampate ovunque, in ogni colore e angolazione. Era un sacco di tempo che parlava di quel pigiama. Sapevo che i suoi genitori le avevano promesso di regalarglielo per il suo compleanno se faceva la brava. Dovevano averglielo dato a causa di quella macchina, perché non ci sarebbe stato nessun compleanno. «Ehi, Jazz, hai il tuo pigiama nuovo!». Era seduta bella diritta e sorrideva tutta felice con un tubicino rosa nel naso e uno argenteo infilato nel braccio. La macchina ronzava, contava gocce, registrava livelli di ogni genere sui suoi quadranti verdi e neri tracciando grafici che dicevano tutto e non spiegavano niente. «Lo sai chi me l'ha regalato, Egan? Friend! Me l'ha fatto mandare dal negozio. Era in una scatola rossa, il mio colore preferito. Mi ha comprato il mio pigiama e me l'ha spedito in una scatola rossa. Sarà bello? Guarda, ecco R2D2. Qui», disse indicando poco sopra l'ombelico. Abbiamo parlato per un po' del pigiama, della generosità di Friend, della nuova figurina di Guerre stellari che le avevo portato per la sua raccolta. Lei evitò l'argomento Kathleen e io pure. A suo modo, da sorella un po' burbera, approvava di noi due, ma adesso che stavamo così poco insieme, non aveva tempo per "lei". Io e Jazz avevamo un mondo tutto nostro che era quello delle chiacchiere d'ospedale, dei racconti su Friend e delle storie di Jasenka Ciric, l'ultima delle quali, Una montagna al guinzaglio, dovetti riascoltare ancora una volta dall'inizio alla fine. «E poi Friend regalò a Jazz il suo pigiama e saltarono tutti sul letto e guardarono la televisione tutta la sera». «Te l'ha davvero regalato Friend, Jazz? Che cane meraviglioso!». «Eccome! E la sai una cosa, Egan? Mi ha detto che farà in modo che tu vinca il concorso». «Quale concorso?». «Ma sì, dai, quello che c'è su tutte le riviste. Quello di cui mi hai parlato
l'ultima volta. "In volo con un milione di dollari"». «Vincerò un milione di dollari? Non sarebbe male». Scosse la testa, tenendo gli occhi chiusi e spostando il tubicino da una parte. «No, non un milione. Centomila. Il quarto premio». Qualche minuto più tardi (dopo aver deciso insieme come avrei speso tutti quei soldi), arrivarono il signore e la signora Ciric. Lo sguardo spaventato sui volti di entrambi alla vista di quel nuovo macchinario mi fece capire che era ora di andarmene. In corridoio la signora Ciric mi chiamò gentilmente in disparte. Dopo uno sguardo alle mie stampelle mi strinse con calore una mano. «I medici dicono che quel nuovo macchinario farà miracoli, ma mio marito Zdravko non ci crede». Avendo trascorso tanto tempo in compagnia di Jazz, mi sembrava di conoscere da sempre anche la signora Ciric e l'ammiravo enormemente per la forza che dimostrava nell'affrontare ogni giorno una situazione tanto triste. «Be', non so se sia quella macchina o semplicemente il suo pigiama nuovo, ma oggi Jazz mi sembra proprio in forma, signora Ciric. Le sue guance sono molto più colorite». Lei mi guardò e scoppiò a piangere. «Gliel'avevo comprato per il suo compleanno, sa? Adesso non ci voglio più pensare al suo compleanno, Egan. Per questo gliel'ho dato». Cercò di sorridere mentre si puliva con disinvoltura il naso con una mano. «Quanto sono stupide le mamme, eh? Ho visto Friends di sotto. Gli ho detto: "Dammi la zampa! ", e lui me l'ha data. Sa, Jasenka gli è proprio affezionata. Dice che qualche volta si parlano, al telefono». Infine si girò e tornò in camera. Mentre mi allontanavo, mi parve di vederli, lei e suo marito, fermi accanto a quel complicato macchinario, che fissavano la figlia con uno sguardo di impotenza, cercando di capire cosa avessero mai fatto per meritarsi una cosa simile. Passarono alcune settimane. Il nuovo macchinario si dimostrò utile. Kathleen trasferì il resto delle sue cose nel mio appartamento. Ricevetti una telefonata da parte di una televisione privata che mi chiedeva se ero disposto a raccontare agli spettatori come avevo salvato Friend. Ci pensai un po' su e decisi di no. C'era già stato fin troppo chiasso sui giornali e dentro di me qualcosa mi diceva che speculare su quella storia non sarebbe stato bene. Kathleen mi diede un bell'abbraccio per suggel-
lare la mia decisione. Quando invece una sera consultai Friends, accoccolato su di me, lui non mi degnò neanche di uno sguardo. La mia vita non sarebbe mai più tornata alla normalità così come l'avevo conosciuta in precedenza, ma pian piano riprese a procedere a una più moderata velocità di crociera. Finalmente non mi sfrecciava più tutto intorno come un razzo. L'ultima scheggia di follia arrivò sotto forma di raccomandata una mattina: una voluminosa lettera di «Tutto vero», quell'orribile rivista che ostenta titoli del tipo: "Ho sposato un cavolfiore" e si trova in vendita accanto alla cassa di qualsiasi supermercato del paese. Mi offrivano duemila dollari per raccontare la mia storia in esclusiva. Mi comunicavano di avere comunque intenzione di condirla con qualche ingrediente che l'avrebbe resa più «vivida» agli occhi dei lettori di «Tutto vero» che, come tali, sono dei fan della verità a tutto tondo. E a tale scopo avrebbero dunque presentato Friend nella veste di un alieno o di un messaggero inviato dal continente scomparso di Atlantide, e via discorrendo. Scrissi una bella letterina di risposta in cui dicevo che avrei voluto poter accettare, ma avevo giurato al mio cane di mantenere il segreto riguardo a importanti interessi di Stato implicati nella vicenda e di conseguenza non avevo la possibilità di... «Egan?». «Jazz? Ciao, piccola! Come stai?». «Non molto bene, ma ti devo riferire cosa mi ha appena raccontato Friend». Mi venne spontaneo guardarmi intorno per vedere dov'era il mio cane. Lo scorsi seduto nell'angolo opposto della stanza che mi fissava. La cosa mi provocò una strana sensazione. «È lì con te adesso, vero?». «Sì, Jazz, è qui». «Lo sapevo. Ha detto di avvertirti che un uomo si sta aggirando intorno a casa tua. Devi fare attenzione: è un agente segreto!». «Jazz, ecco, vedi...», tirai un gran respiro e fui sul punto di farle una paternale. Non si devono dire le bugie. Una cosa era raccontare le avventure di Sloothack o dire che ogni tanto parlava con Friend, ma inventarsi una storia come quella era diverso. «Oh oh, sta arrivando qualcuno, Egan. Devo chiudere. Mi raccomando, fa' attenzione!». Attaccai soltanto dopo avere sentito il suo clic. Rimasi per qualche istan-
te lì fermo con la cornetta in mano chiedendomi cosa fare. A dispetto di quel che mi diceva il buon senso, mi diressi zoppicando verso la finestra e guardai fuori. Com'era naturale, non vidi nessuno. In quel momento suonò il campanello. Quello squillo mi terrorizzò a tal punto che mi cadde una stampella di mano. «Un secondo!». Mi chinai a raccoglierla con il cuore in gola. Ci sono dei momenti in cui la cosa più insignificante ci atterrisce, ci inchioda dalla paura. La cosa più seccante, però, è che il motivo è spesso privo di qualsiasi consistenza: il telefono che ti scuote dallo stato di trance in cui sei sprofondato leggendo un bel libro, una persona che ti si avvicina da dietro e ti posa con delicatezza una mano sulla spalla sinistra... Mi tremavano talmente le mani che per diversi interminabili secondi non tentai nemmeno di sollevare quella maledetta stampella. Il campanello squillò di nuovo. «Sto arrivando! Un attimo!». «Signor Moore?», domandò il postino con una cartellina in mano. «Sì?». «Raccomandata. Firmi qui». Mentre spostavo il peso sulla gamba e prendevo il foglio su cui firmare, il postino seguì la mia manovra con particolare curiosità. «L'ho letto sui giornali. Il cane adesso dov'è?». Gli restituii il foglio con un sospiro. «In casa, da qualche parte. Mi dà la lettera?». «Ah, sì, certo, eccola. Dev'essere davvero importante quel cane per lei per aver fatto una cosa simile». Il suo tono mi urtò, e poi non la smetteva di fissare la mia gamba. Proprio un bell'agente segreto! Afferrai la lettera senza neanche darle un'occhiata. Volevo solo sbarazzarmi di quel tipo, chiudere la porta e aspettare che il mio cuore si calmasse. «Ha ricevuto una ricompensa, o qualcosa del genere?». «Per cosa?». «Per salvare il suo cane! Sì, dalla Protezione animali, o qualcosa del genere?». «No, ma le dirò una cosa: mi ha promesso che mi porterà su Marte con sé la prossima volta che ci va!». Lo guardai col sorriso più folle che fui in grado di fare. Lui arretrò di qualche passo e scomparve in un lampo. Dopo aver letto la lettera, chiamai Kathleen al lavoro per dirle che avevo
vinto diecimila dollari in un concorso. Per un po' non udii nulla, solo il ticchettio delle macchine da scrivere in sottofondo. «Come ti aveva detto Jazz». «Sì, ma lei aveva detto che avrei vinto centomila dollari, non diecimila. Cento, non dieci!», ripetei con voce troppo alta, atterrita. Serrando gli occhi aspettai che Kathleen spezzasse il silenzio. «Cos'hai intenzione di fare?». «Non lo so. Oh, è entrato Friend». Lo osservai avvicinarsi e sedersi sotto il telefono senza guardarmi. «Kathleen, com'è che il mio cane improvvisamente mi rende nervoso?». «Be'...». «E com'è che ho vinto questi soldi?». Quella sera andammo entrambi a trovare Jazz in ospedale. Lasciammo Friend a casa, addormentato sulla sua sedia preferita. C'erano più tubicini del solito. La macchina era la stessa, erano soltanto aumentati in maniera spropositata i tubi che uscivano da ogni angolo e andavano a infilarsi sotto le coperte di Jazz. Aveva l'aria di essere debolissima. Tanto che il primo pensiero che mi colpì quando la vidi fu «sta per morire». Era brutalmente evidente. Stava per morire. Quando ci vide il lato sinistro della bocca di Jazz si sollevò di un millimetro in un minuscolo sorriso. Era il sorriso più stanco, più rassegnato che avessi mai visto. Kathleen si fermò sulla soglia mentre io mi avvicinavo al letto. Gli occhi di Jazz si mossero da me a lei e poi di nuovo verso di me, in attesa di vedere come ci saremmo comportati. Io appoggiai le stampelle al muro e pian piano mi sedetti su una sedia accanto a lei. «Ehilà, piccola». Di nuovo il sorriso di prima mentre un dito si sollevava dalle mani incrociate sul suo torace minuto. «Hai vinto, vero?», disse con voce roca, soffocata dal catarro. Avevo deciso di essere sorridente ma risoluto con lei, ma tutti i miei progetti scomparvero alla vista di tanta debolezza. La morte aveva preso il sopravvento ormai e Jazz era diventata soltanto il comandante in seconda. «Possiamo parlare da soli, Egan?».
Lo chiese a voce così bassa che sono sicuro che Kathleen non riuscì a udire nulla, ma non potei lo stesso evitare di irrigidirmi per un brevissimo istante. «Kat, ti dispiace lasciarci soli qualche minuto?». Lei annuì con un'espressione carica di turbamento e compassione. Se ne andò chiudendosi pian piano la porta dietro le spalle. «Kathleen vede un altro a volte, Egan. Si chiama Vitamin D!3. Qualche volta ti dice che va a lavorare, mentre invece va a casa sua». Mi guardava, mentre pronunciava quelle parole, con occhi assenti, la voce svuotata di qualsiasi emozione. Poi allungò una mano e prese la mia con la stessa delicatezza con cui si raccoglie uno spillo da terra. «Domandaglielo. Me l'ha detto Friend. Ha detto che era giusto che tu lo sapessi». In macchina, mentre ci dirigevamo a casa, non scambiammo una parola. Si erano alzate delle folate di vento che sferzavano e scompigliavano ogni cosa. Quella sera era il mio turno in cucina, così appena entrato in casa mi diressi ai fornelli. Kathleen accese il televisore in soggiorno. La sentii dire a Friend qualcosa che assomigliava a un saluto. Versai dell'acqua in una pentola per cuocere degli spaghetti, pensando ai diecimila dollari. Mescolai un po' di burro e aglio tritato in padella, pensando a Vitamin D, chiunque fosse uno con un nome simile! «Oh, dannazione. Friend, toglilo di lì! No, Friend, no!». «Cosa c'è?». «Niente. Friend è saltato sul divano con il suo osso e ha fatto una macchia. Se lo piglio!», esclamò Kathleen che era arrivata in cucina scuotendo la testa e sorridendo. «Quel farabutto! Gli avrò detto cento volte di non farlo. E lui per tutta risposta mi ringhia contro. Non l'avevo mai visto ringhiare prima», disse continuando a scuotere la testa. «È che è abituato al mio vecchio divano in cui poteva fare quel che voleva». Kathleen si avvicinò e si mise a fare un gran casino sotto al lavandino per prendere un panno e uno spray e aprire il rubinetto. «Be', questo non è il tuo vecchio divano, e sarà meglio che gli entri in testa, al tuo cane!». «Kat, fermati un momento, per favore. Ti devo chiedere una cosa. Conosci un tipo che si chiama Vitamin D?». «Non è un tipo, ma conosco il tipo che ha fondato il gruppo. Victor Dixon. È il chitarrista del gruppo». Chiuse il rubinetto e strizzò il panno nel lavandino. «Come fai a conoscere i Vitamin D? Non ascolti mai musica
rock». «Chi è Victor Dixon?». «Uno con cui sono stata un po' di tempo fa. Ha messo su lui il gruppo. Stanno cominciando a farsi conoscere. MTV sta trasmettendo il loro primo video. L'hai visto?». L'acqua stava bollendo. Avrei voluto buttare giù gli spaghetti, ma in quel momento non potevo proprio. Troppa paura? «Cosa... cosa c'è stato tra voi?». Kathleen incrociò le braccia con un sospiro. Le luccicavano gli occhi. «Geloso, eh? Ma, bene. L'ho conosciuto all'università. Poi è scomparso per qualche anno e alla fine un giorno è spuntato di nuovo fuori e siamo stati insieme per un paio di mesi. Eravamo più che altro amici, in realtà, anche se un sacco di gente pensava che facessimo sul serio. Perché me lo chiedi? Chi ti ha raccontato questa storia?». «Me l'ha detto Jazz...». In quel momento, in soggiorno, Friend si mise ad abbaiare come un matto. «Friend! Friend! Friend!». Sembrava del tutto fuori di sé. Dopo esserci scambiati un'occhiata, Kathleen e io siamo corsi a vedere. In televisione un uomo stava colpendo un piccolo di foca con un randello. L'animale strepitava mentre scuri schizzi di sangue chiazzavano la neve tutt'intorno. Alcuni pescatori giapponesi issarono una rete enorme piena di delfini morti. Friend si era accostato al televisore e continuava ad abbaiare. «Friend, basta!». Sullo schermo un uomo aprì una cassa di legno in cui c'erano dieci pappagalli colorati ordinatamente in fila. Tutti morti. Tra un latrato e l'altro udii qualcosa riguardo all'importazione illegale di uccelli rari negli Stati Uniti. «Friend, smettila!». «Oh, Egan, guarda». Un cane era stato legato con delle cinghie a un tavolo operatorio e gli era stato aperto uno squarcio nello stomaco. Aveva le labbra contratte e i denti scoperti. Negli occhi gli si vedeva uno sguardo folle di paura. Ci mancava solo un documentario contro la crudeltà nei confronti degli animali. Era stata una giornata impossibile, assurda. Uno di quei giorni in cui la cosa migliore da fare è arrendersi, andare a letto subito dopo cena e sperare che sia finita lì. Ma qualcosa di grosso e poco piacevole aleggiava ancora nell'aria e alla
fine, a tavola, è venuto fuori. Victor Dixon. No, da quando stavamo insieme non era più successo niente. Sì, lui la chiamava al lavoro ogni tanto. Sì, erano andati a pranzo insieme un paio di volte. No, non era successo niente. Non ci credevo? Come potevo essere capace anche solo di immaginare una cosa simile? Le dissi che avrei voluto crederle, ma perché non me ne aveva parlato prima, allora? Perché sarebbe soltanto venuto fuori un gran casino, disse lei. Le nostre voci aumentarono di volume e la cena, per quanto buona, finì per diventare fredda. Friend rimase con noi più o meno fino al terzo round, poi se la svignò con la coda tra le gambe. Avrei avuto voglia di dirgli: l'hai voluto tu, no? «Dove la metti la fiducia, eh, Egan? Ti fidi solo del tuo Fido, vuoi che mi metta a scodinzolare?». «Molto divertente, Kathleen. Ma come ti sentiresti al mio posto? Prova a capovolgere la situazione». «Mi sentirei bene, grazie. Perché io ti crederei». «Uau, che brava». Al che si è alzata e se n'è andata. Mentre aspettavo, preoccupato, che tornasse, Jazz ha telefonato due volte in un'ora. La prima volta ha detto che Kathleen era da Vitamin D e mi ha dato il suo numero di telefono. L'ho chiamato. Mi ha risposto una voce assonnata con un accento del Sud. Ho chiesto di lei. «Ehi, amico, lo sai che ora è? Kat non è qui. Non la vedo da chissà quanti giorni. Cristo, ma lo sai che ora è? E poi come hai fatto ad avere il mio numero? Non è sull'elenco! Te l'ha dato Kat? Quando la vedo, mi sente. Mi aveva promesso di non darlo a nessuno». «Mi scusi, ma è davvero importante. Le sarei estremamente grato se mi lasciasse parlare con lei. Sono suo fratello e abbiamo dei gravi problemi in famiglia». «Be', mi dispiace, ma Kat non c'è, sul serio. Aspetta un attimo... Ho questo numero, forse la puoi trovare lì». Mi ha dato il mio numero di telefono. La seconda telefonata di Jasenka è stata più lunga. La sua voce era come
il sussurro di un bambino all'orecchio di un genitore. Le parole si smorzavano pian piano alla fine di ogni frase. «Egan? Sono ancora io. Senti, devi ascoltarmi. Gli animali stanno per ribellarsi. Succederà prima di quanto non pensassi. Uccideranno tutti. Si sono stufati. Salveranno soltanto chi è loro amico. Gli animali di tutto il mondo insorgeranno e uccideranno tutti. Prendi una cartina quando metti giù. C'è un'isola in Grecia che si chiama Formori. F-O-R-M-O-R-I. Devi andarci subito, domani. Fra tre giorni scoppierà la rivolta». «Jazz...». «No, ascolta! A Formori sarà permesso a qualche essere umano di sopravvivere, qualche amico degli animali. Friend dice che se andrai lì ti salverai. Non ti uccideranno. Ma Kathleen no. Non lo lasciava mai giocare col suo osso. Ti prego, Egan, va', ti prego. Ciao! Ti voglio bene!». Fu l'ultima volta che le parlai. Quando arrivai in ospedale, una ventina di minuti più tardi, un'infermiera mi disse con voce addolorata che Jazz era morta da pochi minuti. Adesso sono quasi le tre e mezzo di notte. Ho guardato nell'atlante e l'ho trovata, eccola qua, F-O-R-M-O-R-I. Ho lasciato uscire Friend più di tre ore fa ma non è ancora tornato. Lo stesso vale per Kathleen. La luna è straordinariamente luminosa. In piedi sulla soglia di casa con la porta aperta, qualche minuto fa, ho visto migliaia e migliaia di uccelli volare in formazione compatta sul suo volto scintillante e tranquillo. Devo decidere. Non è rimasto molto tempo. La tristezza del dettaglio Andavo spesso a sedermi al Café Bremen. Fanno un caffè deliziosamente amaro e su quei sedili di velluto blu pavone ci si sente a proprio agio come in compagnia di un vecchio amico. Le grandi finestre danno il benvenuto alla luce del mattino con la stessa cordialità con cui Herr Ritter, il cameriere, accoglie gli avventori. Non è necessario ordinare chissà che, giusto una tazza di tè o un bicchiere di vino. I croissant vengono da una pasticceria lì accanto che li consegna freschi due volte al giorno. In tarda serata il Café Bremen prepara la sua specialità per i clienti amanti della notte: le "gustose", delle ciambelline
col buco grandi come un orologio da tasca. Una delle cose più piacevoli che si possono fare in una serata d'inverno è arrivare lì e farsi servire un piatto di "gustose" calde. Il Café Bremen è aperto diciannove ore al giorno. Chiude i battenti un unico giorno all'anno, la vigilia di Natale, ma il venticinque riapre con i tavoli decorati con tovaglie rosse e verdi e si riempie di gente che sfoggia i propri maglioni nuovi e di single che, in quella giornata che di solito si festeggia in casa, lì si sentono un po' meno soli. La vita è fatta di piccoli piaceri, piccoli ma importanti, come l'ultimo numero della propria rivista preferita, un pacchetto di sigarette ancora da scartare, il profumo di qualcosa di buono nel forno. Lì si possono gustare tutti. O si può essere felici anche senza. Andavo spesso al Bremen, mi sedevo e guardavo fuori canticchiando. È il mio vizio segreto. Mio marito mangia di nascosto barrette di cioccolata, mia madre legge riviste di cinema, io canticchio. Datemi un'ora senza niente da fare e una bella finestra davanti alla quale sistemarmi e vi canticchierò tutta la Quinta di Mahler, o qualsiasi canzone a vostra scelta dall'Album bianco dei Beatles. Sono la prima ad ammettere di non essere un portento, ma si canticchia per un pubblico molto limitato, vale a dire solo per sé, e chi origlia lo fa a proprio rischio e pericolo. Questa storia è accaduta in un tardo pomeriggio di novembre in cui l'intera città sembrava essersi trasformata in un liquido bagliore di fari e di pioggia. Una giornata d'autunno inoltrato in cui la pioggia è più gelida della neve e la città assume un'aria graffiante e velenosa. E la cosa migliore da fare sarebbe rimanersene al caldo a leggere un libro e gustarsi una minestra calda in una bella scodella bianca. Avevo deciso di concedermi un salto al Bremen perché ero a terra dopo una discussione coi bambini, una visita dal dentista e una serie interminabile di spese per una lista di cose invisibili come carta igienica, sale e colla. Cose di cui nessuno si cura finché non finiscono e non diventano disperatamente necessarie. Una giornata in cui ci si sfinisce a correre di qua e di là per portare a termine una sfilza di lavori ingrati, tanto necessari quanto insignificanti: l'ossimoro della casalinga. Entrando tutta bagnata e carica di borse, credo di avere emesso un mugolio di gioia vedendo che il mio tavolo preferito era libero. Sono volata lì come un pettirosso stanco al nido.
Herr Ritter è arrivato subito, con un'aria elegante e molto ottocentesca nel suo abito nero con farfallino e, come sempre, un tovagliolo bianco drappeggiato alla perfezione sul braccio. «Ha un'aria molto stanca. È stata una giornata dura?». «È stata una giornata insulsa, Herr Ritter». Mi ha suggerito una fetta di torta alla panna, al diavolo le calorie, ma ho preferito un bicchiere di vino. Avevo un'ora prima che i bambini tornassero a casa. Un'ora per sciogliere i nodi che avevo nello stomaco mentre guardavo fuori dalla finestra e contemplavo la pioggia che da quel tavolino sembrava all'improvviso diventata così romantica. Quanto tempo può essere passato? Due minuti? Tre? Quasi senza accorgermene, ho cominciato a canticchiare, ma dal séparé alle mie spalle si è levato all'improvviso un lungo, sonoro «Sssst!». Imbarazzata, mi sono voltata e ho visto un viso roseo e piuttosto anziano fissarmi con aria severa. «Non piace a tutti Neil Diamond, sa». La perfetta conclusione di una giornata perfetta. Adesso venivo messa alla sbarra per aver canticchiato Holly Holy. Ho fatto una faccia come per dire «mi scusi» e stavo per voltarmi quando, con la coda dell'occhio, ho visto alcune fotografie sparse sul tavolino di marmo a cui era seduto quell'uomo. Erano quasi tutte fotografie mie e della mia famiglia. «Dove le ha prese, quelle?». Lui ha allungato una mano, ne ha presa una e me l'ha porta. Senza neanche guardarla ha detto: «Questo è suo figlio tra nove anni. Porta quella benda perché ha perso un occhio in un incidente d'auto. Voleva fare il pilota, ma come lei sa, è necessaria una vista perfetta, così è diventato imbianchino e beve. La ragazza nella foto è la sua compagna. È eroinomane». Mio figlio Adam ha nove anni e l'unica cosa che conta al mondo per lui sono gli aeroplani. Chiamiamo la sua stanza l'"hangar" perché ha tappezzato le pareti di poster degli Angeli Blu, delle Frecce Rosse inglesi e delle Frecce Tricolori italiane, le varie squadriglie di volo acrobatico. Ha un sacco di modellini e di riviste di aeronautica e talmente tante cose che hanno a che fare con gli aeroplani da mettere un po' d'ansia quando ci si entra. Ultimamente Adam ha trascorso una settimana intera a scrivere alle compagnie aeree più importanti (inclusa la Air Maroc e la Tarom, la compagnia di bandiera rumena) chiedendo quali requisiti sono richiesti ai loro piloti. Sia io che mio marito siamo sempre stati affascinati e orgogliosi
della passione di nostro figlio e siamo più che convinti che diventerà un pilota. Nella fotografia che avevo in mano, invece, il nostro bambino con i capelli a spazzola e intelligenti occhi verdi aveva l'aspetto di un macilento accattone diciottenne. L'espressione sul suo viso era una spaventosa combinazione di noia, amarezza e mancanza di speranza. Era senza dubbio Adam tra qualche anno, trasformato però in un ragazzo a cui la vita non aveva più nulla da offrire, un soggetto cui rivolgere un'occhiata sdegnosa o da cercare di evitare per strada. E la benda sull'occhio! Immaginare la mutilazione dei nostri figli è un pensiero non meno lacerante e arcano di quello della loro morte. Sono cose... inammissibili. Non possono accadere. E se poi, tragicamente, dovessero succedere, allora la colpa è solo nostra, non importa quale sia la loro età, o le circostanze in cui accadono. Come genitori abbiamo il dovere di tenerli sotto la nostra ala e proteggerli da qualsiasi dolore e sventura. Questo abbiamo giurato a Dio accettando la responsabilità della loro venuta al mondo. Ricordo quel personaggio di Macbeth che alla notizia della morte dei propri figli reagisce chiamandoli «pulcini». «Dove sono tutti i miei pulcini? Dove sono?»14. Alla vista di mio figlio con una benda sull'occhio ho sentito in bocca il sapore del sangue. «Chi è lei?». «Eccone un'altra, di suo marito dopo il divorzio. È convinto che i baffi gli donino. A me sembra che abbia piuttosto un'aria ebete». Mio marito Willy ha tentato invano, per anni, di farsi crescere i baffi. Ogni volta il risultato era peggiore del precedente. Un giorno, durante un brutto litigio, gli ho detto che provava a farseli crescere ogni volta che aveva una relazione. Da allora niente più baffi. Nella foto indossava anche una di quelle stupide magliette dei fan dell'Heavy Metal (coperta di fiamme e saette), dedicata ai BrainDead. La cosa più inquietante è che ultimamente Adam ha sul serio portato a casa un album dei BrainDead dicendo che sono «fortissimi». «Il mio nome è Giovedì, Frau Becker...». «Oggi è giovedì». «Esatto. Se ci fossimo incontrati ieri, mi sarei chiamato Mercoledì...». «Chi è lei? Cosa sono queste fotografie?». «Il suo futuro. O meglio una delle possibilità. È sempre così instabile, così incerto, il futuro. Dipende da così tanti fattori. A giudicare da come
stanno andando ora le cose e da quello che lei sta facendo della sua vita e della vita di chi le sta intorno, questo è quello che accadrà». Ha indicato la fotografia che avevo in mano, poi ha spalancato le braccia come per dire: «Cosa ci vuol fare? È così che va la vita». «Non ci credo. Mi lasci in pace!». Ho fatto per girarmi, ma lui mi ha posato una mano sulla spalla. «Adora l'odore della legna che arde. Ha sempre mentito dicendo che il primo uomo con cui è andata a letto è Joe Newman. Il primo è stato il garzone dei suoi genitori, Leon Bell». Non lo sapeva nessuno. Né mio marito, né mia sorella, nessuno. Leon Bell! Pensavo a lui così di rado! Era stato gentile e dolce, ma mi aveva fatto un po' male, e poi avevo così paura che tornassero i miei genitori e ci trovassero a letto. «Cosa vuole?». Ha preso la fotografia che avevo in mano e l'ha posata sul tavolo insieme alle altre. «Il futuro può cambiare. È come le linee che abbiamo sul palmo della mano. Si può scendere a patti col destino. Io sono qui per le trattative necessarie». «Cosa vuole da me?». «Il suo talento. Ricorda il disegno che ha fatto l'altra sera di quella bambina ferma sotto un albero? Voglio quel disegno. Me lo porti e potrà salvare suo figlio». «Quello? Era solo uno schizzo. Ci ho messo dieci minuti. L'ho fatto mentre guardavo la televisione!». «Me lo porti qui domani alla stessa ora». «Come posso credere a quello che mi sta dicendo?». Ha preso una fotografia nascosta sotto le altre. Me l'ha mostrata. La mia vecchia camera. Io e Leon Bell. «Io non la conosco. Perché mi sta facendo questo?». Ha raccolto le foto come se fossero un mazzo di carte che intendesse mescolare. «Vada a casa e trovi quel disegno». Un tempo disegnavo bene. Ho studiato belle arti con una borsa di studio e secondo alcuni miei insegnanti avevo talento. E lo sapete cos'ho fatto io? Mi sono spaventata. Dipingevo perché mi piaceva. Quando la gente ha cominciato a interessarsi a quel che facevo e a tirar fuori il libretto degli assegni, ho mollato tutto e mi sono sposata. Il matrimonio (con le sue re-
sponsabilità) è una splendida roccia dietro cui nascondersi quando il nemico (i genitori, la maturità, il successo) ti spara addosso. Se te ne stai accucciata al suo riparo, nulla al mondo può toccarti. Per me la felicità non significava diventare una pittrice di successo. Il successo mi faceva solo pensare allo stress e agli obblighi che avrebbe portato con sé e come alla fine avrei deluso tutta quella gente che mi giudicava migliore di quanto non fossi realmente. È da poco, da quando i bambini sono abbastanza grandi da prepararsi la merenda da soli, che ho comprato alcuni costosi colori a olio inglesi e due tele. Ma sono quasi in imbarazzo a usarli, perché negli ultimi anni l'unica volta che ho preso una matita in mano è stato per fare qualche disegnino buffo per i bambini e un paio di scarabocchi in fondo alla lettera a una cara amica. E per disegnare nel mio album, il mio più vecchio amico. Ho sempre desiderato tenere un diario, ma non ho mai avuto la costanza necessaria. Il mio album è diverso, perché il giorno in cui vi ho fatto il primo schizzo, quando avevo diciassette anni, mi sono ripromessa di disegnare lì soltanto quando lo desideravo o quando accadeva qualcosa di tanto importante (la nascita dei bambini, il giorno in cui ho scoperto che Willy aveva una relazione) che dovevo "parlarne". Quando sarei diventata vecchia, l'avrei dato ai miei figli dicendo: «Queste sono le cose che non avete mai saputo. Non sono più importanti ora, ma vi possono raccontare qualcosa di me, se vi interessa». Oppure mi sarei limitata a guardarlo, tirare un sospiro e gettarlo nel fuoco. Qualche volta lo sfoglio, ma di solito anche le parti più belle, i ricordi piacevoli mi deprimono. C'è una tale tristezza nei dettagli: come mi sentivo elegante e all'ultima moda con indosso quei pantaloni a righe a zampa d'elefante durante quella festa, appena sposati. Oppure un ritratto di Willy seduto alla sua scrivania, che fuma un sigaro, felice di avere concluso l'articolo su Fischer von Erlach15, che credeva avrebbe segnato il momento più rilevante della sua carriera e invece non fu mai neanche pubblicato. Avevo ritratto quelle scene con cura e nei più piccoli particolari, ma quando le riguardo non vedo altro che quei ridicoli pantaloni o le dita di Willy che battono eccitate sui tasti della macchina da scrivere. Se quegli schizzi mi deprimono, perché continuo a farli, allora? Perché questa è la mia vita, l'unica che ho, e non sono così presuntuosa da credere di conoscere le risposte che soltanto il tempo può offrirci. Continuo a sperare che fra trenta o quarant'anni, guardando i miei disegni, una rivelazione illumi-
nerà alcune parti della mia vita. Non sono riuscita a trovare da nessuna parte il disegno che mi aveva chiesto Giovedì. Ho cercato ovunque: nei cassetti della scrivania, tra la carta straccia, in mezzo ai fogli dei vecchi compiti dei bambini. Come si fa brutale la morsa del panico quando non si riesce a trovare qualcosa di cui si ha spaventosamente bisogno! Anche se è una cosa banalissima, in quel momento diventa la più importante del mondo: la chiave di una valigia, una vecchia ricevuta della società del gas. La tua casa si trasforma in un nemico che nasconde ciò di cui hai bisogno e ascolta con indifferenza le tue suppliche. Non era nel mio album, non era sul tavolino del telefono, non era nella tasca del cappotto. Niente neanche nelle desolate praterie sotto i letti, né tra il finto aroma di pino e i vapori chimici sotto il lavandino. Mio figlio avrebbe sul serio perso un occhio perché io non riuscivo a trovare uno stupido disegno? Quell'uomo aveva detto così. E dopo aver visto la foto di me e Leon insieme, gli credevo. Ho passato una serata assurda cercando di essere la solita, brava mamma, mentre rovistavo come una pazza in ogni angolo della casa in cerca di quel foglio. A cena ho chiesto se per caso qualcuno l'avesse visto da qualche parte. Niente. Nessuno. In famiglia sono abituati ai miei disegnini e scarabocchi sparsi per casa. Di tanto in tanto a qualcuno ne piace uno e se lo porta in camera, ma non questa volta. Per tutta la sera ho continuato a lanciare occhiate furtive ad Adam, con l'unico risultato di desiderare sempre più spasmodicamente di trovare quel disegno. I suoi occhi non sono certo speciali, ma sono intelligenti e affettuosi. Quando parla con qualcuno lo guarda e gli concede tutta la sua attenzione. A mezzanotte avevo esaurito i posti in cui cercare. Seduta in cucina con un bicchiere di succo d'arancia davanti, pensavo che l'indomani pomeriggio avrei avuto due possibilità quando avrei incontrato Giovedì al Café Bremen: dire la verità o provare a fare un altro disegno uguale. Era uno schizzo talmente semplice che non mi sarebbe stato difficile disegnare qualcosa di simile, ma certo non identico. Sono andata in soggiorno e ho preso la cartellina con i fogli bianchi. La carta almeno sarebbe stata la stessa. Willy ne comprava delle risme intere perché era economica e robusta e piaceva a tutti e due. Non ci sentivamo in colpa ad accartocciare un foglio se facevamo uno sbaglio. Magari avevo semplicemente accartocciato quel dannato disegno senza pensarci.
Una bambina sotto un albero. Una ragazzina con un paio di jeans. Un castagno. Nient'altro. Cos'aveva di tanto speciale? Ci ho messo cinque minuti a farlo, cinque minuti ad assicurarmi che tutti i particolari fossero giusti, altri cinque minuti a ripetermi che non sarebbe mai andato bene. In tutto un quarto d'ora. Il pomeriggio seguente non mi ero ancora seduta che Giovedì era già lì che tamburellava ansiosamente sul tavolino di marmo. «L'ha trovato? Ce l'ha?». «Sì. È nella mia borsa». Ho visto immediatamente allentarsi la tensione in ogni suo tratto. Il suo viso si è rilassato, il dito, seguito dal palmo della mano, si è posato sul tavolino, la schiena si è lentamente adagiata al sedile di velluto. «Magnifico. Me lo dia, per favore». Lui si sentiva meglio, io no, però. Cercando di mantenere la calma, ho tirato fuori dalla borsetta il foglio tutto spiegazzato. Prima di uscire l'avevo accartocciato nella speranza che potesse sembrare l'originale. Se non lo guardava troppo da vicino, forse potevo riuscire a ingannarlo. Oppure no. Non avevo molte possibilità di riuscita, ma a quel punto potevo soltanto sperare in un colpo di fortuna. Guardandolo lisciare il foglio con cura e osservarlo con l'attenzione che avrebbe potuto riservare a un documento raro e pregiatissimo, compresi che avrebbe senz'altro notato la differenza e sarebbe scoppiato un casino. Mi sono tolta il cappotto e mi sono seduta davanti a lui. Ha sollevato lo sguardo dal disegno. «Può canticchiare se vuole. Ci metto un minuto». Quel caffè che mi piaceva così tanto si era all'improvviso trasformato, per la presenza di quell'uomo, in un luogo sgradevole e minaccioso da cui non desideravo altro che andarmene il prima possibile, appena avessi finito quel che dovevo fare. Persino vedere Herr Ritter in piedi accanto al bancone che leggeva il giornale mi inquietava. Come faceva la vita ad andare avanti come se niente fosse quando nell'aria aleggiava un tale senso di maleficio, così denso e scuro come una nuvola di fumo? «Ha buona memoria». «In che senso?». Infilò una mano nel taschino della giacca e ne tirò fuori un foglio. Lo aprì e mi mostrò il disegno originale. «Ce l'aveva lei!».
Fece cenno di sì con la testa. «Non sono l'unico ad avere usato un sotterfugio. Anche lei mi ha detto di averlo trovato e al suo posto mi ha dato una copia. Chi è stato più disonesto?». «Ma io non sono riuscita a trovarlo perché ce l'aveva lei! Perché ha fatto una cosa simile?». «Perché dovevamo vedere se aveva una buona memoria. Era importante». «E mio figlio? Non gli succederà nulla?». «Glielo garantisco. Le potrei anche mostrare una nuova foto di Adam, ma credo che sia meglio per lei sapere che non avrà problemi e condurrà una vita gratificante. Grazie a quello che oggi ha fatto per lui». Ha indicato il disegno. «Vuole vedere la foto di suo figlio?». Sono stata tentata di dire sì, ma alla fine ho preferito di no. «Mi dica soltanto se farà il pilota». Giovedì ha incrociato le braccia. «Sarà capitano di un Concorde sulla rotta Parigi-Caracas. Un giorno il suo aeroplano verrà dirottato, ma suo figlio Adam si comporterà con tanta intelligenza e coraggio che salverà da solo aeroplano e passeggeri. Un vero e proprio atto d'eroismo. Finirà persino in copertina sul «Time», con un articolo intitolato "Forse esistono ancora degli eroi"». «Mio figlio?». Sollevando il disegno, rispose: «Suo figlio. Grazie a questo». «E Willy e io divorzieremo?». «Lo vuole proprio sapere?». «Sì». Trasse dal taschino un altro foglio e un mozzicone di matita. «Disegni una pera». «Una pera?». «Disegni una pera e glielo dirò». Ho preso la matita e ho lisciato il foglio. «Non ci capisco niente, signor Giovedì». Una pera. Larga in fondo e più sottile in cima. Il picciolo. Un po' di ombreggiatura per darle profondità. Eccola lì, una pera. Gliel'ho data e lui l'ha a malapena guardata prima di ripiegare il foglio e metterlo in tasca. «Il divorzio ci sarà perché sarà lei a lasciare suo marito, e non viceversa, Frau Becker, come lei teme». «Perché mai dovrei fare una cosa simile?».
«Perché Frank Elkin tornerà da lei». Credo che se avessi sposato Frank Elkin sarebbe stato tutto perfetto. Di certo lo amavo abbastanza. Ma lui, oltre a me, amava il paracadutismo. Un giorno è saltato, ha tirato la cordicella e il suo paracadute non si è aperto. Quanto tempo fa è successo, vent'anni? Ventiquattro? «Frank Elkin è morto». «Sì, è vero, ma le cose possono cambiare. Dipende solo da lei». Ho aperto la porta e ho trovato l'appartamento vuoto. Giovedì aveva detto che avrebbe fatto sì che non ci fosse nessuno finché non avremmo fatto tutto. Sono andata in camera e ho preso l'album da disegno dal comodino. Quella copertina grigia e rossa così familiare. Ricordo ancora il giorno in cui lo comprai, pagandolo con delle monetine nuove. Non so perché, ma tutte quelle monete luccicavano come se fossero d'oro o d'argento. A quell'epoca ero ancora abbastanza romantica da credere che fosse un buon segno. In soggiorno ho porto l'album a Giovedì che lo prese senza un commento. «Si sieda». «Ma cosa succederà ai miei figli se divorzio?». «Se vuole, il tribunale li assegnerà a lei. Può dimostrare che suo marito è alcolizzato e non è in grado di prendersi cura di loro». «Ma Willy non beve!». «Anche questo dipende da lei». «Come? Com'è possibile? Lei continua a ripetere che dipende da me, ma in che senso?». Ha aperto il mio album da disegno e si è messo a sfogliarlo rapidissimamente senza fermarsi neanche una volta. Alla fine mi ha guardato. «In questo album ci sono diversi ritratti di Dio, Frau Becker. Non posso dirle quali sono, ma le posso assicurare che ci sono. Esistono persone che posseggono questo dono. Altri sono capaci di dipingerlo con le parole, altri ancora di trascriverlo in musica. Non sto parlando di gente come Tolstoj o Beethoven. Loro erano solo dei grandi artisti. Lei conosce la tristezza del dettaglio, per usare una sua espressione. È questo che la rende capace di attingere alla trascendenza. D'ora in avanti, se lei vuole, ogni tanto verrò e le chiederò un disegno. Come oggi, con la pera. Le chiederò cose così, oppure la copia di alcuni
schizzi che sono nel suo album. Le posso dire che è pieno di disegni strabilianti. Ci sono almeno tre ritratti di Dio, uno non l'avevo mai visto nemmeno io. E anche altre cose. Abbiamo bisogno di questo album e abbiamo bisogno di lei, ma sfortunatamente non le posso dire altro. Se le mostrassi quali sono i disegni... divini, non capirebbe di cosa sto parlando. Lei può fare delle cose che noi non siamo in grado di fare, e viceversa. Per noi riportare in vita Frank Elkin non è un problema. O salvare suo figlio». Ha sollevato il mio album con entrambe le mani. «Ma non siamo in grado di fare questo. Ecco perché abbiamo bisogno di lei». «E se non accettassi?». «Noi manteniamo le promesse. Suo figlio diventerà comunque pilota, ma lei sprofonderà nella mediocrità della sua vita finché non si accorgerà che sono anni che vi si sente soffocare». «E se invece le do il mio album e i disegni che mi chiede?». «Io le posso dare in cambio Frank Elkin e qualsiasi altra cosa voglia». «Lei viene dal cielo?». Il signor Giovedì sorrise per la prima volta. «In tutta sincerità non le posso rispondere perché non lo so. Ecco perché abbiamo bisogno dei suoi disegni, Frau Becker. Perché persino Dio non sa più o non rammenta troppe cose. È come se soffrisse di una sorta di amnesia progressiva. In parole povere sta perdendo la memoria. L'unico modo che abbiamo di aiutarlo a ricordare è mostrargli dei ritratti di Sé come quelli che ha disegnato lei. O fargli ascoltare determinati brani di musica, o leggere alcune pagine di certi libri... Soltanto allora Egli è in grado di ricordare e dirci le cose di cui abbiamo bisogno. Noi annotiamo ogni Sua parola, ma i momenti di lucidità sono sempre più rari. Sempre più spesso ormai la Sua mente perde colpi. Vede, la cosa più triste è che persino Dio ha cominciato a perdere la cognizione di alcuni dettagli. E se ne perde la memoria Lui, le cose cambiano e non torneranno mai più com'erano. Per ora si tratta solo di piccoli particolari, come certi odori, oppure di cose come dimenticarsi di dare le braccia a un dato bambino o a un uomo la libertà che merita. Capita persino che chi lavora per Lui, come me, a volte non sappia da dove viene, né se stia facendo la cosa giusta. Sappiamo solo che il Suo stato va rapidamente peggiorando ed è necessario fare qualcosa al più presto. Quando Dio vedrà i suoi schizzi, ricorderà alcune cose e magari per un po' tornerà persino a essere quello di un tempo. E noi faremo il possibile per approfittarne. Ma senza quei disegni, se non possiamo mostrargli nessun Suo ritratto, immagini che Egli stesso ha creato, o parole che Egli ha
pronunciato, Dio non è altro che un vecchio con una memoria che fa acqua da tutte le parti. E quando non ricorderà più niente, al mondo non esisterà più niente». Non vado più al Café Bremen. Una strana sensazione me lo ha reso sgradevole. Qualche giorno dopo il mio incontro con Giovedì, ero lì che disegnavo il maiale, la rocca di Gibilterra e l'antica moneta spagnola che mi aveva chiesto. Avevo appena finito di abbozzare la moneta quando, alzando gli occhi, ho visto Herr Ritter che mi osservava dal suo solito posto dietro il bancone con grande attenzione. Troppa. Devo essere prudente e non mostrare a tutti i miei disegni. Giovedì ha detto che c'è sin troppa gente in giro che non desidera altro che si perda per sempre la memoria di certe cose. Un cenno di saluto Il tempo non era affatto bello. Era così da giorni, da quando era successo tutto, da quella terribile telefonata in cui lei gli aveva detto con voce esanime che aveva deciso di non tornare, che sarebbe rimasta là. Erano ormai quasi due settimane che le giornate rispecchiavano il suo spaventoso stato d'animo. Iniziavano con un sole abbagliante oppure con un brutale acquazzone, e in meno di un'ora il cielo cambiava drasticamente continuando a oscillare tutto il santo giorno dal bello al brutto tempo, senza che ci si riuscisse a capire niente. Il che significava un posto in meno in cui cercare rifugio. Qualcosa gli diceva che la cosa migliore al momento era avere sempre qualcosa da fare. Una passeggiata, un salto al cinema, oppure decidere di infilare il cane in macchina e portarlo a fare un giro in qualche posto nuovo. Ma anche se usciva e faceva in modo di essere impegnato, c'era sempre di mezzo quel maledetto tempo o i suoi maledetti pensieri che continuavano a ricordargli che non esiste posto al mondo in cui nascondersi dal dolore. Troverai sempre qualcosa che ti perseguiterà sguinzagliandoti contro una ridda di fantasmi, ti scoppieranno continue tempeste sopra la testa, tutto ti ricorderà che lei se n'è andata. Andò a vedere un film western, ma dopo dieci minuti stava già piangendo. Fortunatamente c'era poca gente in sala, così si limitò a coprirsi il viso con una mano e lasciar scorrere le lacrime. Cosa stava facendo lei, mentre lui piangeva? Stava innamorandosi, con indosso quell'abito estivo rosso e
bianco che le piaceva così tanto? Era appena cominciata l'estate laggiù. Stava lavorando nel giardino che qualche tempo prima aveva descritto con tanto orgoglio in una lettera? Era questa la parte più straziante della tortura che spesso impartiva a se stesso: raccogliere frammenti di quel che lei gli aveva detto o scritto in precedenza e incollarli nella sua mente in modo da creare vividi collage di dolore e abbandono. Se la immaginava con quel vestito indosso, che lavorava con la vanga in giardino al crepuscolo, scalza. Poi, da dietro, giungeva quel nuovo qualcuno cui lei aveva accennato con tanta cautela e vaghezza durante la loro ultima conversazione. «È solo questo, oppure hai conosciuto qualcuno?». Lei aveva esitato, poi aveva risposto con una punta di civetteria: «C'è una persona con cui mi piace parlare, ma devi capire, è una cosa completamente diversa». Se la immaginava raddrizzarsi lentamente perché da ragazzina si era fatta male alla schiena. Aveva la spina dorsale più sporgente che lui avesse mai visto. Voltandosi e rivolgendo il suo meraviglioso, grande sorriso a quel nuovo uomo, lei avrebbe lasciato cadere la vanga e si sarebbe pulita le mani. Lo stava aspettando. Lui si era vestito elegante, apposta per lei. Non era sicura che le piacesse quell'acqua di colonia, però. Aveva gusti difficili a proposito di profumi, ma se rimanevano insieme, dopo qualche tempo gli avrebbe confessato che quello non era di suo gradimento. Era ora di cambiarsi e andare fuori a cena, magari a una festa. Gli aveva detto che negli ultimi tempi andava a un sacco di feste, che faceva ogni genere di cose che non aveva mai sperimentato nella sua vita. Era quello il punto: era tutto così diverso, e nuovo, e lei ora rideva sempre. Lui era stato il possessore di quel sorriso per anni, ma ora l'aveva perduto. L'ultima volta che avevano parlato, lei gli aveva detto: «Mi sei molto caro, ma...». «Caro», che brutta parola, un aggettivo che riduceva lui e gli anni in cui erano stati insieme a poco più di zero. Nonne, preti e biglietti d'auguri lo usavano. Ora lo faceva anche lei quando pensava a lui. Il cane era sempre felice di uscire, fortunatamente. Ma i cani sono così. Svegliali nel bel mezzo della notte e portali a passeggiare per un'oretta o presentagli una ciotola piena di cibo e non ti diranno di no. Anche il cane però... Dall'istante in cui l'aveva vista, l'aveva amata più di ogni altra cosa al mondo. Molto più di quanto non amasse lui. Si sarebbe buttato nel vuoto e si sarebbe in qualche modo fatto crescere un paio d'ali per tornare ai suoi piedi, se lei gliel'avesse chiesto. Quando lei non c'era, correva come un pazzo verso ogni donna che le assomigliasse anche solo vagamente, ululando di felicità. E se era proprio lei, perdeva letteralmente la testa. Grazie
al cielo, non doveva dirgli che non sarebbe più tornata. Almeno lui avrebbe continuato ancora a correre verso ogni donna che incontravano per strada pieno di speranza, senza prendersela troppo se non era lei, perché la prossima volta, sì, la prossima, senz'altro sarebbe stata lei. Di solito non era superstizioso, ma in quei giorni cercò in vario modo di ingraziarsi gli dèi. Teneva in tasca una lucida pietra verde che lei gli aveva comprato alla Burlington Arcade qualche anno prima, durante un viaggio a Londra. Se succedevano tre cose insieme che lo facevano pensare a lei, significava che poteva sperare. Vedeva passare un'auto bianca come la sua con una donna con la stessa folta capigliatura alla guida. E sulla macchina c'era un adesivo con su scritto "I love Canada". Lei era canadese. Tre cose tutte insieme. Non era un messaggio? Poteva sperare. Durante quel viaggio a Londra, lei aveva comprato da Marks & Spencer un maglione a trecce che aveva pagato pochissimo ma di cui andava pazza e che aveva continuato a portare tutto l'anno in casa. Dopo quella micidiale conversazione telefonica, lui era corso a vedere se per caso l'avesse lasciato appeso nell'armadio e quando aveva visto che c'era era stato tutto contento. Aveva comprato un'auto nuova. Era talmente aerodinamica e piena di gadget che l'aveva soprannominata "Terminator". Quando entrava e premeva un pulsante, il volante e il sedile di guida si adattavano automaticamente al suo corpo. C'era un pulsante per la persona numero uno e la persona numero due. Lui aveva scelto di essere la persona numero due, ma ora non c'era più nessuna persona numero uno. Qualche mese prima, ordinandola, aveva segretamente assaporato l'idea di andare in giro con lei alla guida. Era un po' che lei amava mettersi al volante e la cosa gli faceva piacere. Adesso accanto a lui, in macchina, c'era solo il suo cane, bianco e silenzioso. «Vorresti guidare tu?». Sentendo la sua voce, il cane si girò verso di lui per un attimo, poi tornò a guardare fuori del finestrino. La città era piena di fantasmi. Non esisteva un solo posto in cui potesse andare o passare del tempo o che potesse visitare senza essere assalito da qualche ricordo di lei o di quando stavano insieme. Mentre cercava di godersi la sua magnifica automobile nuova, ecco il negozio dove lei comprava la sua biancheria intima, il ristorante dove avevano fatto quella cena spaventosa e, peggio che peggio, il caffè in cui si erano incontrati. Quello era davvero troppo, troppo doloroso, e fu costretto a guardare da un'altra parte. Evitava di guardarlo ogni giorno, quando passava di lì per andare al
lavoro. Dopo la sua telefonata, era dovuto passare ogni giorno davanti al posto in cui tra loro era cominciato tutto con tanta speranza ed eccitazione. Quando tramontava una relazione, perché non potevano fare la stessa fine anche i luoghi che le avevano fatto da sfondo? Se fosse potuto scomparire tutto in un istante senza lasciare alcuna traccia, alcuna prova tangibile che ci fosse mai stato nulla, sarebbe stato tutto molto più semplice. Qui avevano passeggiato insieme, lì l'aveva portata con sé sulla bicicletta, laggiù lei l'aveva convinto a comprarle delle patate fritte durante una fredda serata d'inverno. Ricordi tersi e limpidi, così profondi, così rapidi e inattesi, che non c'era modo di difendersi. Aveva perso dieci chili. Almeno quello. Erano anni che voleva dimagrire e adesso finalmente i pantaloni gli scivolavano giù e doveva stringere la cintura di due buchi. Almeno quello, no? Un piccolo lato positivo in quel periodo così negativo. E lei, cos'aveva perso? Cosa le veniva in mente durante le sue giornate? Ben poco, temeva, e la cosa gli trasmetteva un dolore straziante. Tutti quegli anni insieme e poi, dopo quella fatale telefonata, non si era più fatta sentire neanche una volta. Era ancora la stessa donna che aveva conosciuto? Oppure la distanza e le circostanze l'avevano trasformata in modo così rapido e profondo che, anche se fosse tornata, non l'avrebbe riconosciuta? E lui cosa faceva, pregava davvero che quella donna tornasse? Non lo sapeva. No, non era vero: sapeva che ora gli sembrava di morire senza di lei, anche se lei sembrava avere reciso senza fatica ogni rapporto tra loro congedandolo con il cenno di saluto più spensierato e sbrigativo che si potesse immaginare. Si diresse verso il fiume. Anche lì c'era un posto dove andavano insieme e il cane era sempre al settimo cielo perché poteva stare con loro e allo stesso tempo correre di qua e di là. Ma quel giorno, quando aprì la portiera e batté le mani per farlo scendere, anche il cane uscì pian piano, senza entusiasmo. Il cielo si era di nuovo fatto scuro. Sembrava che il cane sapesse che stava per piovere. Detestava il tempo brutto. Ridendo lei gli aveva raccontato di aver passeggiato una sera sotto la pioggia per ore mentre lui la seguiva cercando di ripararsi dentro ogni portone. Eccoli lì, quell'uomo dimagrito e il suo cane bianco e il vento e un cielo di nuvole viola come un lecca lecca. Continuano a camminare malgrado le sferzanti folate di vento. Il cane corre a tutta velocità verso nient'altro che la sua felicità, l'uomo indossa il berretto da baseball blu che gli ha regalato lei e tiene le mani infilate in tasca.
Si ferma quando vede sull'altra sponda, in una piccola ansa, un pescatore solitario che ha deciso di sfidare gli elementi per vedere se quel giorno ha un po' di fortuna. Non c'è nessun altro intorno. Su una sponda l'uomo col suo cane, sull'altra l'uomo con le sue lenze. L'uomo col cane pensa: se il pescatore mi guarda, gli faccio un cenno di saluto. Se mi risponde, mi porterà fortuna. Dipende tutto da quel saluto, tutto. Se riesco a farmi salutare, la mia vita cambierà, lei tornerà e affronteremo questa cosa come va affrontata. Così aspetta che l'altro abbia finito di sistemare la sua lenza. Il cane saltella sull'erba di un verde verdissimo sotto le nuvole basse. «Guardami, dai», esclama a voce alta, ma il pescatore è tutto preso da quel che sta facendo. «Dai, su. Guarda soltanto un momento. Ti saluterò e tu ricambierai il mio saluto. Devi. Devi farlo». Il pescatore si volta e guarda nella sua borsa da pesca. Rimane chino a lungo, volgendogli le spalle. Il cane è calmo ora, si è seduto sull'erba e guarda il fiume. Il vento è più forte, le nuvole si sono addensate e hanno smesso di correre. Lui ha le mani fredde, ma le tiene sotto le ascelle, in modo da poterle tirar fuori in fretta appena necessario. Sta aspettando che il pescatore si volti, anche se sa che tutta quella storia è ridicola, patetica. Come può pensare che una cosa da nulla come un saluto possa cambiare il corso della sua vita e fargli riconquistare quello che desidera più di ogni altra cosa al mondo? Eppure rimane lo stesso lì immobile, aspettando di rivolgergli quel cenno di saluto. Cos'altro gli resta da fare? La stanza di Jane Fonda Fino ad allora l'unica fortuna che Paul Domenica aveva avuto era stata quella di andare all'inferno. Fino ad allora, almeno. Fino ad allora, infatti, non aveva visto altro che lunghi corridoi bianchi non molto diversi da quelli dell'aeroporto internazionale di Los Angeles (dove aveva lavorato quand'era vivo). C'erano persino dei tapis roulant con tanto di cartelli che avvisavano di reggersi al corrimano di gomma nero quando si saliva. La sua guida era una certa signora Baker che sorrideva in continuazione senza mai smettere di annuire a non si sa cosa. Appuntata sulla camicetta aveva una targhetta bianca di plastica col proprio nome. «Sono sicuro che avrà già sentito questo commento milioni di volte, signora Baker, ma non è per niente come me l'aspettavo!».
Lei annuì e strinse al petto il pacco di carte che aveva tra le mani come una giovane liceale studiosa. «Sì, è uno shock per tutti. La gente fa le cose più strane quando arriva. Ti potrei raccontare delle cose, Paul, che... be', te ne potrei raccontare delle belle! Hai già dato un'occhiata alle brochure?». Paul lanciò uno sguardo alle cartelline rosse, gialle e blu che aveva sotto il braccio e sorrise. «Sì, e ho già deciso. So già tutto». «Così in fretta? Splendido! Anche qui ne avrei di cose da raccontare, Paul. Sinceramente diamo tutto il tempo necessario per decidere, invece sono tutti sempre così... ecco... incerti». «La capisco benissimo, signora Baker. Facevo il cameriere, sa? La metà delle volte non riuscivo a ottenere una risposta come si deve. Desidera delle patate fritte o saltate in padella insieme alle uova? Sembrava gli stessi proponendo un'assicurazione sulla vita, o qualcosa del genere! Patate fritte o in padella! Cosa facevano quando dovevano comprare una macchina nuova?». «O decidere il nome dei propri figli?», ridacchiò la signora Baker. «O comprare una casa?», incalzò Paul e la risata di entrambi rimbombò in quegli interminabili corridoi bianchi che sembravano estendersi, be', ecco, all'infinito. All'infinito. Che cosa significa, esattamente? Non aveva mai pensato a cose del genere, ma adesso, cavolo, adesso sì. Corridoi bianchi, la signora Baker... all'infinito. Eccolo lì, Paul Domenica, che si addentrava nella bianca gola dell'inferno senza avere la minima idea di dove stesse andando. Non che facesse troppa differenza. Aveva tutto il tempo che voleva. Quel pensiero lo fece scoppiare a ridere e la signora Baker lo guardò compiaciuta. «È vero, Paul. Hai davvero tutto il tempo che vuoi. Rilassati, prendi le cose con calma. Tra un secondo arriviamo». Questa sì che era bella: erano in grado di leggere nel pensiero! Potevano davvero leggerti nel pensiero. «Posso fare una domanda?». «Sì, Paul. Qualsiasi cosa. Purché sia ragionevole, naturalmente», rispose la signora Baker con una strizzatina d'occhi. «Come fate? A leggere nel pensiero. Posso saperlo?». «Certo, come no! È una cosa da niente». Tirò fuori dalla tasca una piccola matita. «Ecco, tieni questa. È una specie di piccolo congegno, Paul. Vedrai». Non appena Paul ebbe in mano la matita, si trovò a navigare in mezzo ai
pensieri della signora Baker, tra pesci tropicali, ciambelline dolci e come sarebbe stato andare a letto con quel nuovo arrivato. Anche se non era particolarmente timido, Paul restituì immediatamente la matita come se avesse in mano un carbone ardente, senza avere più il coraggio di alzare lo sguardo. «Su, Paul, non essere imbarazzato. È così che funziona qui. Anch'io ti ho letto nel pensiero prima e ho visto delle cose proprio carine e altre terribili, ma è così. Che importa cosa pensano gli altri ormai? Il sesso, le tasse... È tutto finito, Paul. È un'altra cosa a cui ti dovrai abituare. Eh, sì. Oh, eccoci... Stanza 3112». Paul guardò davanti a sé ma non vide nessun numero. La sua guida puntò un dito verso la porta e quella si aprì dolcemente. «Prego». Paul entrò in una stanza celeste arredata con moderni mobili in pelle e alluminio. C'erano alcuni quadri interessanti appesi alle pareti: tramonti, alcune barche in mare, una stampa di Norman Rockwell di un bambino che si tagliava i capelli dal barbiere. Una ragazza molto graziosa era seduta a una scrivania trasparente e stava leggendo La principessa Daisy. Alzò lo sguardo dal libro e sorrise. «Ciao, Leslie». «Ciao, Sally. Sally, ti presento Paul Domenica. È appena arrivato». Si scambiarono un sorriso e, per spezzare il ghiaccio, Paul le disse che alla sua ragazza quel libro era piaciuto un sacco. «Oh, è meglio di una torta alla panna, Paul. Non riesco a metterlo giù». «Sta' attenta a non farti vedere dal tuo capo». «Oh, Leslie, ma se me l'ha dato lui!». Scoppiarono tutti e tre a ridere, mentre Paul e la signora Baker si sedevano su un divanetto molto comodo. «D'accordo, Paul. Hai detto che hai già deciso?». «Sì, è voglio andare... qui». Sfogliò le brochure colorate che aveva in grembo e sollevò quella rossa. «Le stanze del cinema? Perfetto!». «Ha buon gusto», commentò Sally con un gridolino dall'altro capo della stanza. A Paul sembrò di avere appena dato la risposta giusta nel corso di una lezione di matematica. «Senti, non ti voglio mettere fretta, Paul, ma sai già anche in quale stanza vuoi andare? So che non è facile scegliere...». «Quella di Jane Fonda. Punto e basta. Non ho bisogno di pensarci nean-
che un minuto». «Ti piace, eh?», esclamò lei dando a Paul un malizioso buffetto su un ginocchio. «Mi fa impazzire!». Il telefono sulla scrivania di Sally si mise a trillare e lei in una frazione di secondo sollevò la cornetta. «Sì, signore, è qui. Come? No, non è necessario. Ha già scelto le stanze del cinema. Come, scusi? Jane Fonda». La persona all'altro capo del filo disse qualcosa e Sally scoppiò a ridere. Strizzando l'occhio a Paul e alla signora Baker, esclamò: «Ha detto la stessa cosa che avevo detto io, Paul. "Ha buon gusto"». Paul guardò la signora Baker: non aveva la minima idea di cosa Sally stesse parlando. Lei gli fece cenno con un dito di aspettare che la segretaria finisse di parlare al telefono. «Sì, signore. Il suo prossimo appuntamento è tra mezz'ora». Dopo essere rimasta in ascolto per un attimo, Sally posò il telefono. Scrollò la testa e disse: «È di ottimo umore ultimamente. Non lo vedevo così allegro da mesi». Paul stava per chiederle di chi stava parlando quando si aprì una porta e comparve davanti a loro il Diavolo in persona. Indossava un completo a tre pezzi grigio. Andava chiaramente di fretta, ma non appena scorse Paul e la signora Baker si avvicinò con un gran sorriso. «Paul Domenica, Los Angeles, California. Piacere, Paul». Gli porse la mano e Paul la strinse senza la benché minima esitazione. Era piacevolmente calda. Una bella stretta di mano risoluta. A Paul piacque quella stretta di mano, e anche lui. «Stanno arrivando delle persone davvero in gamba ultimamente, eh, Sally?». La segretaria annuì sorridendo. «Bene, allora vado. Tra mezz'ora sono di ritorno. Sally, prenditi cura di Paul, mi raccomando». «Sì, signore!». Quando il Diavolo se ne fu andato, Paul si voltò verso la signora Baker con uno sguardo interrogativo. «Avevo anch'io un appuntamento con lui?». «Solo se fossi stato indeciso, Paul. Non ti preoccupare», rispose lei e fece per alzarsi. Paul le posò una mano sul braccio. Aveva sentito un minuscolo trillo di paura in fondo al cuore, come se qualcuno avesse fatto tintinnare un bel bicchiere di cristallo con un dito. «Cosa, ecco, cosa succede se si è indecisi?». La signora Baker gli diede uno di quegli sguardi che si rivolgono alla
scena di un agghiacciante incidente stradale fuori del finestrino della macchina. In un istante Paul comprese ogni cosa e il trillo di paura si trasformò in un gigantesco colpo di gong. «Oh». Guardò per terra e si chiese se sarebbe riuscito a reggersi sulle gambe. «Paul, non ti preoccupare, tu puoi stare tranquillo! Dobbiamo solo condurti a destinazione». Il tono della signora Baker era dolce e rassicurante. Paul guardò prima lei, poi la segretaria. Avevano entrambe, stranamente, la stessa espressione: cordiale, quasi affettuosa, ma assolutamente identica. Paul non sapeva se esserne rallegrato o atterrito. «Vieni, Paul». Salutarono Sally e uscirono di nuovo in quei lunghi corridoi bianchi. Ora, tuttavia, sia il colore, sia la loro lunghezza interminabile parvero a Paul sinistri e minacciosi e per nulla simili a quelli dell'aeroporto di Los Angeles. Continuarono a camminare per un po'. Paul avrebbe voluto dire qualcosa, ma si rese conto di non avere più nulla da dire. Alla signora Baker sembrava essere tutt'a un tratto venuta fretta e quando Paul le lanciò un'occhiata vide che il suo volto era totalmente privo di espressione. All'improvviso, girando l'angolo, il bianco dei corridoi si trasformò in un rosso identico a quello della brochure delle stanze del cinema. Paul guardò di nuovo la signora Baker. Lei gli sorrise e strinse le sue carte al petto. «Siamo quasi arrivati, Paul. Non manca molto!». Eccoli. Una porta rossa. Senza nessun cartello né nessun numero. Una semplice porta rossa davanti alla quale la signora Baker si fermò e disse, indicandogliela: «Qui, monsieur. Eccoci arrivati», esclamò con un'espressione felice e animata. «Sei giusto in tempo per l'inizio della Caccia con Jane Fonda e Marion Brando. Niente male come cast, eh? Poi c'è Barbarella, Una squillo per l'ispettore Klute, Tornando a casa, Dalle nove alle cinque... orario continuato. Come ti pare? Niente male come inizio!». «E dopo?», chiese Paul preoccupato. Aveva cominciato ad avere una vaga idea di cosa stava per succedere. Per la prima volta la signora Baker lo guardò accigliata. «Dopo? Vedrai tutti gli altri film che ha fatto. Tutti quelli che ci sono. Non è stupendo? Cosa si può chiedere di più...». «Uno dopo l'altro, di continuo?». Paul sentì che aveva le dita gelate.
«Ecco...». «Senza mai smettere? Tutti i film di Jane Fonda uno dopo l'altro, senza mai smettere?». La signora Baker sospirò e lo guardò con un'aria un po' annoiata. «Sì, Paul, senza smettere mai, mai e poi mai...», dopo di che puntò un dito in direzione della porta e quella si aprì. La prima cosa che Paul riuscì a scorgere nel buio fu quel volto per il quale, un tempo, avrebbe dato la vita. Tu e un quarto Cominciò tutto in modo abbastanza innocente, in un certo senso. Si amavano. Volevano invecchiare insieme, dimostrando così che il loro era un vero, grande amore. Ma negli ultimi tempi c'era qualcosa, un piccolo granello di polvere su una lente altrimenti limpidissima. Il sesso. Era sempre andato bene e c'era anche stato un momento in cui l'avevano vissuto con entusiasmo e passionalità. Ma dopo avere dormito un migliaio di notti nello stesso letto, anche lo sfavillante fulgore del sesso finisce per essere offuscato dall'impronta di dita ormai troppo familiari. Una volta, mentre cercavano di accordare il ritmo dei propri corpi, lei aveva inavvertitamente mormorato qualcosa che lo fece sorridere e decidere di provare a parlarne più tardi. «Questo no!». Lui non stava facendo nulla di nuovo né di speciale, perciò s'immaginò che lei stesse fantasticando di essere tra le braccia di un altro. Quel pensiero lo eccitò, soprattutto perché l'aveva fatto anche lui... e abbastanza spesso per sapere che poteva aggiungere un tocco piccante e tenebroso alla vecchia ricetta. Più tardi, nella penombra della stanza, le sfiorò una mano e le chiese di cosa si trattava. «È troppo imbarazzante», rispose lei, ma poi scoppiò a ridere, il che significava che era disposta a parlarne. «Dai, non devi essere imbarazzata. È capitato anche a me. Sul serio. Cosa vuoi che sia!». «Mi prometti che non ci rimarrai male?». «Promesso». «D'accordo, però è davvero imbarazzante». Le strinse la mano senza aggiungere nulla perché sapeva che altrimenti
lei non avrebbe più aperto bocca. «Ecco, non è nessuno di preciso, in realtà. Un uomo, tutto qua. Partorito dalla mia fantasia. Lo vedo in metropolitana e non riesco a staccargli gli occhi di dosso». «Com'è vestito?». «Come piace a me: giacca e cravatta, un bel completo elegante. Ma ha ai piedi un paio di scarpe da tennis bianche nuove che danno un tocco speciale a tutto il resto. È un modo spiritoso di dire che si veste come vuole e non gliene importa niente di quello che pensano gli altri». «OK. E dopo cosa succede?». Lei tirò un respiro profondo, espirando pian piano prima di riprendere a raccontare. «Lo vedo e non ce la faccio a smettere di guardarlo, te l'ho detto. È sexy, senza dubbio, ma ci sono anche altre cose che lo rendono particolarmente attraente. Ha gli occhi splendidi di un uomo francese e in mano ha un libro che io desidero leggere da un sacco di tempo. Alla fine mi guarda anche lui e io vado fuori di testa. La cosa più bella è che non mi squadra né niente del genere. Mi guarda soltanto, ma è evidente che è interessato a me. È una cosa che mi affascina terribilmente. Non mi esamina da sotto in su come se fossi una macchina nuova in esposizione in un autosalone». È una storia molto più dettagliata di quanto lui non avesse immaginato. Nelle sue fantasie si era sempre limitato a fare l'occhiolino a qualche cameriera coi tacchi alti o a una commessa dalle labbra cariche di rossetto. Dopo aver combinato un appuntamento, si recavano nell'appartamento di lei (che immancabilmente, e alquanto opportunamente, viveva sempre sola) dove si lanciavano con entusiasmo e curiosità in lunghi amplessi ardenti. Passa qualche istante prima che si renda conto che lei ha ripreso a parlare. «...mi segue quando scendo dalla metropolitana. Sapere che è dietro di me mi eccita da morire. So cosa sta per succedere e so che andrò fino in fondo, succeda quel che succeda». Continua a raccontare la sua storia con una profusione di dettagli. Lei e il signor Scarpe-da-ginnastica-bianche non si scambiano una sola parola. Man mano che la scena si fa più intensa e passionale, il ritmo rallenta sino a imitare il movimento di due corpi sott'acqua. L'unica cosa che viene pronunciata è il suo «Questo no!» nell'istante in cui giungono al sesso vero e proprio e lei viene colta dalla zampata im-
provvisa del senso di colpa. Ma sta vivendo un'esperienza troppo rara e straordinaria per lasciare spazio a qualcosa di tanto banale. Quando ebbe terminato il racconto, calò tra loro un silenzio di piombo, finché lei non mormorò che non era certo una fantasia originale. «Non dirlo neanche! Non sminuirla! Cosa t'importa, se tu la trovi eccitante? Che differenza fa se è originale o no? Scommetto che i tre quarti della gente nelle loro fantasie sessuali non fanno altro che prendere o essere presi. Come si chiama?». «Chi, quell'uomo? Non ne ho idea. Non me lo dice». «E tu come vorresti che si chiamasse?». «Non ci ho mai pensato. Che strana domanda». Lui andò in cucina a prendere del vino. Tornando, la lampada sul comodino era accesa e lei era seduta con le ginocchia strette al petto. «Peter Copeland». Gli sorrise e si strinse nelle spalle come se si vergognasse un po'. «Peter Copeland? Sembra il nome di uno che si è laureato a Harvard». Lei scrollò le spalle. «Non so. Mi sembra che potrebbe chiamarsi così». «D'accordo. È sempre la stessa scena? Oppure quell'uomo ritorna anche in altre fantasie?». Lei bevve un sorso di vino e ci pensò su un momento. Non sembrava più imbarazzata a parlare di Peter Copeland adesso che aveva un nome e lui sapeva tutto. «Di solito è la stessa: la metropolitana, i suoi vestiti... Lui che mi segue. Mi basta». Quella frase lo colpì con la violenza di una frustata. Nelle sue fantasie erano entrate un sacco di facce e di luoghi diversi, ma alla fin fine erano tutte così prevedibili. «Mi basta». Era geloso di lei e del suo Peter Copeland, paghi entrambi della propria silenziosa reciproca passione. Il giorno successivo, mentre si recava al lavoro, si fermò in mezzo alla strada e iniziò a sorridere. Passò dal fioraio e comprò dieci tulipani, i fiori che lei amava di più. Diede al fioraio il loro indirizzo e sul biglietto scrisse: «Spero che ti piacciano i tulipani. Sono i miei fiori preferiti. Grazie per avere acceso una cometa nel cielo della scorsa notte. Peter». E a letto quella sera, nell'oscurità, si trasformò, diventò una persona completamente diversa. Lei non poteva vederlo, lui poteva essere chiunque e voleva essere Peter Copeland, anche se non sapeva come fare. Di solito parlavano quando facevano l'amore, ma durante quella mezz'o-
ra in cui i loro corpi si fusero, non dissero nulla. Sin dal primo istante lei comprese e rispose con ardore. Ogni volta che avvistavano un porto familiare, una riva conosciuta in quegli anni trascorsi insieme, lui dava un colpo alla barra e virava. Quindi fu lei a prendere il timone diventando aggressiva o passiva quando lui meno se l'aspettava. Andò meglio di quanto non si fosse aspettato e di nuovo si sentì rodere di gelosia per Peter Copeland. Nessuno sconosciuto, per quanto meraviglioso, meritava quello che lei gli aveva appena offerto. Alle proprie amanti lui aveva regalato soltanto sensazioni anonime e insignificanti. Alla fine, quando lei esclamò di nuovo «Questo no!», lo elettrizzò pensare che lo stava dicendo a lui e al tempo stesso a un altro. Un attimo dopo desiderò che quelle parole fossero solo per sé. Il giorno successivo le comprò il libro che lei desiderava da leggere da così tanto tempo. Vi scrisse: «Credo che ti piacerà, Peter». Quando lei lo trovò sotto il cuscino, rimase seduta sul letto immobile, in silenzio, con il libro sulle ginocchia e le mani posate sopra. Cosa stava combinando lui? E a lei piaceva quel gioco oppure no? Scoprirsi così diversi e desiderosi di esplorare direzioni nuove intimidì e spaventò un poco entrambi. Si chiesero per chi lo stessero facendo, se per se stessi o il proprio partner. Peter Copeland era diventato una presenza reale nella loro vita. Eppure se fossero stati capaci di dipingerne un ritratto, sarebbero venuti fuori due volti completamente diversi. Per tutta la settimana le loro notti si trasformarono in lunghi esperimenti estenuanti. Lui non poteva chiederle cosa le piacesse, perché tutto doveva accadere nel silenzio più assoluto e solo alle loro mani e al movimento dei loro corpi era concesso di parlare. Ogni sera già alle otto cominciavano a guardare eccitati l'orologio. Quel che avevano fatto prima non aveva più nessuna importanza. Adesso non desideravano altro che infilare al più presto la loro seconda pelle e diventare due sconosciuti, mentre tutto il resto scompariva. Il giovedì seguente, mentre passeggiava in città, lei decise di comprargli un regalo. In un negozio il commesso spiegò sul bancone di vetro una serie di bellissimi maglioni di cashmere. Color talpa. Lilla. Nero. Non riusciva a decidersi. Soltanto dopo averlo comprato, si rese conto di avere scelto un colore che sarebbe stato meglio a Copeland che a suo marito. Per quanto
sorpresa, non tornò indietro a cambiarlo. Avrebbe semplicemente evitato di dirglielo. Al lavoro lui si accorse di avere scritto PETER COPELAND tre volte su un blocco che aveva davanti durante una riunione sulle vendite. L'aveva fatto soprappensiero. Ogni volta la calligrafia era completamente diversa, come se cercasse di imitare la firma di quell'uomo. «Cosa c'è per cena?». «Pollo alla messicana, il tuo piatto preferito». A lui il pollo alla messicana non era mai piaciuto. Niente pollo alla messicana, in realtà, era solo uno scherzo, ma i tulipani che le aveva mandato torreggiavano in un vaso nuovo, nero e giallo, sul tavolo da pranzo, in mezzo a loro. Era come se ci fosse una terza persona nella stanza. Avrebbe voluto dirle che aveva scarabocchiato il nome di Copeland durante la riunione, ma i fiori erano già una presenza abbastanza forte. Guardandoli si rese conto che non erano quelli che le aveva comprato lui: i suoi erano rosa, questi di un rosso intenso. Dov'erano i suoi? «È di nuovo la stagione dei tulipani, eh?». Lei sorrise e annuì. «Ne ho visti alcuni bellissimi l'altro giorno, rosa. Avrei dovuto prenderteli. Sono stato battuto sul tempo, eh?». Il sorriso di lei non mutò, rimase lo stesso di qualche istante prima. O vi era comparsa una punta di compassione? Gli piaceva radersi prima di andare a letto, era una sua piccola mania. Quella sera davanti allo specchio, mentre puliva il viso dagli ultimi soffici fiocchi di schiuma, puntò all'improvviso il rasoio contro lo specchio. «Guarda che lo so cosa state combinando voi due. Non credere che non me ne sia accorto, bastardo!». «Stai parlando con me?», disse lei dalla camera da letto. «No, con Peter Copeland». Lei non aggiunse nulla e lui accolse quel silenzio con uno strano sorriso. Lei stava accarezzandogli il viso quando gli venne in mente come poteva farla finita con quella storia. Le scostò la mano, prese le redini e si mise a
toccarla con brutalità, facendole male. Con sua sorpresa lei si contorse e si liberò ma senza aprire bocca. Rimaneva sempre in silenzio ormai. Nel corso delle ultime notti avevano entrambi accettato che fosse così. Ma perché non protestava neanche a quel punto? Perché non gli diceva di smettere? Le piaceva? Com'era possibile? Gli aveva ripetuto un milione di volte che non riusciva a capire come ci fosse della gente che godeva a farsi del male. Oppure a Peter Copeland era permessa qualsiasi cosa? O ancora peggio, persino il dolore che lui le procurava si trasformava in piacere per lei? Era una follia! Significava che lui non conosceva sua moglie. Scoprì che gli era venuto il fiato corto. Era terrorizzato. Quali parti di lei poteva dire di conoscere con sicurezza? Cos'altro gli aveva tenuto celato in tutti quegli anni? Cominciò a dirle delle frasi oscene e crudeli. Era una cosa che detestavano entrambi. Si erano sempre scambiati soltanto parole buffe, dolci e amorose a letto. «Basta!». Finalmente lei aveva parlato e ora lo stava fissando con uno sguardo profondamente allarmato. «Perché? Posso fare quello che voglio». Continuò a parlare. A essere violento, a parlare, a rovinare tutto. Le disse dove lavorava, quanto guadagnava, quali erano i suoi hobby. Non voleva sapere qualcosa del suo uomo misterioso? Le raccontò in quale università aveva studiato, dov'era cresciuto, che gli piacevano le uova. Ben presto lei scoppiò a piangere e smise di muoversi. Lui le stava spiegando che portava quelle scarpe da tennis bianche perché aveva una brutta infezione a un piede... Il mio zoondel La mia amica Sarah è sempre stata una tipa in gamba. Quando gli altri erano ancora tutti impegnati a paracadutarsi da un letto all'altro, lei acquistava azioni di società di ingegneria genetica e della Daimler-Benz. «Il sesso è passato di moda, Frank. Ha lasciato il posto alla paura e al desiderio di successo. Prima o poi uno di questi sezionatori di geni troverà la cura per l'AIDS e per l'herpes, perciò la cosa da fare adesso è comprare lì. Ma finché fare sesso sarà pericoloso, tutti vorranno almeno guidare una Mercedes. Vedrai». Lui seguì il suo consiglio e non rimpianse di averlo fatto. Sarah aveva avuto ragione, come in tante altre occasioni, del resto.
Quando mi disse che aveva saputo che c'era un magazzino pieno di quei spaventosi mobili in vinile degli anni Cinquanta, io le porsi l'assegno chiudendomi gli occhi. Qualche mese più tardi rivendemmo tutto per un pacco di soldi a una nuova discoteca che stava per aprire in città, la Edsel. Abbiamo avuto una storia qualche anno fa, ma abbiamo entrambi scoperto in fretta che andiamo più d'accordo al telefono o a cena in un buon ristorante piuttosto che guancia a guancia nell'oscurità. Siamo stati abbastanza intelligenti da fermarci quando ancora ci piacevamo e da allora siamo sempre stati legati da una profonda amicizia. C'è un tacito accordo tra noi in cui si stabilisce che troveremo sempre qualcuno ad ascoltarci quando ci verrà voglia di telefonare o di bussare alla porta di casa per lanciarci in racconti strabilianti oppure per lamentarci e piangere lacrime amare sulla spalla dell'altro. Qualche mese fa Sarah mi ha chiamato e mi ha detto che aveva deciso di prendere un cane. La cosa mi ha stupito, perché non mi sembrava mi avesse mai detto che le piacessero gli animali e in più ha uno di quegli appartamenti dove è sempre tutto così pulito che si potrebbe fare un intervento di microchirurgia cerebrale sul tappeto del soggiorno. «Come mai t'è venuta un'idea simile?». «Ho letto un libro su come combattere lo stress. Dice che se vuoi evitare di farti venire l'infarto, devi cominciare a coltivare le tre 'A' - Amici, Animali e Alberi e piante». «Perché allora non ti compri un bel cactus? Non hanno nemmeno bisogno di essere annaffiati». «Mi sentirei una cretina a parlare con una pianta. No, ho visto la foto di un cane in una rivista l'altro giorno e me ne sono innamorata». «Che cos'è?». «Uno zoondel». «Un che?». «È una razza rara, austriaca. Assomigliano a piccoli carri merci». «Quanto costano?». «Mille dollari». «Cosa?». «Verresti con me a sceglierlo?». Ci siamo incontrati e abbiamo preso il treno fino alla punta di Long Island. Alla stazione di Montauk ci è venuto a prendere un certo Otto Kak, un uomo calvo e rotondetto, che ci ha accompagnati a casa sua. Ha parlato degli zoondel per tutto il tragitto. Come sono intelligenti, come imparano
subito in che modo deve comportarsi in casa, come non abbaiano mai... Io mi sono limitato a guardare fuori del finestrino e scuotere la testa. Non ho pazienza con gli animali, neanche quelli degli altri. Ti si infilano sempre tra i piedi oppure te li ritrovi davanti con una gamba alzata o mentre stanno vomitando da qualche parte. In un certo senso riesco a capire le persone anziane. Magari quando avrò ottant'anni e mi ritroverò anch'io senza nessuno che mi faccia compagnia, andrò al canile e me ne porterò a casa uno da coccolare e strapazzare un po'. Ma fino a quel momento se pesto una cacca sul marciapiede o se i latrati di un cane mi svegliano alle tre di notte, ringrazio il cielo di non averne uno anch'io. L'abitazione di Kak sembrava la casetta in miniatura di un trenino elettrico. Linda, luminosa e tenuta alla perfezione. Non appena siamo entrati nel vialetto, la porta d'ingresso si è aperta ed è uscita sua moglie seguita da tre cani che sono corsi subito verso la macchina. Non assomigliavano a dei vagoni merci, ma erano squadrati e compatti. Sì, compatti è la parola giusta. Immaginatevi una vecchia cassetta delle lettere americana con sopra uno strato di pelo corto e rossiccio, e vi farete un'idea di uno zoondel. Grande più o meno come un beagle, con le orecchie a penzoloni e dolci occhi scuri che ti guardano con aria amichevole e intelligente. Grazioso, ma mille dollari? Siamo scesi e ci siamo chinati ad accarezzarli. Inginocchiato accanto a Sarah, le ho detto senza farmi sentire: «Sono bellini, ma perché costano così tanto?». «Perché ce ne sono soltanto un migliaio in tutto il mondo». «È un investimento?». Mi ha guardato e ha rivolto gli occhi al cielo. «No, Frank. Mi piacciono. È permesso?». Ci sono rimasto male, così non ho più aperto bocca e ho preso ad accarezzare un cane che mi era venuto vicino. Lui mi ha leccato la mano: aveva la lingua gialla come un limone. «Ehi, guarda!». «È stata quella lingua a metterli nei pasticci. Ecco perché ne sono rimasti così pochi in giro», ha detto il signor Kak. «Come mai?». «Fu un certo Graf Leopold von Bimplitz ad allevare per primo gli zoondel, in Austria, per dare la caccia ai licantropi». «Per dare la caccia ai licantropi?». A quel punto sono stato io a rivolgere gli occhi al cielo.
«Sì. Pare che von Bimplitz fosse un ricco possidente terriero appassionato d'alchimia. Doveva essere un personaggio davvero particolare dal momento che si dice che Goethe abbia tratto ispirazione da lui per il Faust. Comunque sia, dovette probabilmente finire invischiato in qualcosa di grosso, tipo magia nera o roba del genere, perché spese gran parte della sua fortuna per allevare dei cani che potessero riconoscere i licantropi. Sul serio, è scritto nella sua biografia». «Forse era solo un pazzo». Sarah mi ha lanciato un'occhiataccia: voleva sentire quella storia fino in fondo se doveva comprare uno di quei cani. «Forse, ma alla fine è riuscito ad allevare dei gran bei cani, come potete vedere». «Cosa succede se vedono un licantropo?». Kak ha sorriso. «Se hanno un qualsiasi tipo di contatto fisico con un licantropo, gli occhi diventano dello stesso colore della lingua. Ma questo solo se il cane ha più di sei mesi. Prima è solo un cucciolotto come tutti gli altri». «E dopo che ha individuato... il nemico, cosa succede?». «Nulla. Ne segnala solo la presenza. Il resto sta a voi». «Ha mai avuto esperienze di questo genere, signor Kak?». «No, direi di no. Magari perché a Montauk non ci sono tanti licantropi, chissà». Ha sorriso, ma per un istante soltanto. «Però vi voglio raccontare una storia interessante, una storia vera. Alla fine della seconda guerra mondiale, Hitler affidò a un corpo di soldati scelti l'ultimo disperato tentativo di fermare gli alleati. Erano denominati i "Licantropi" e pare si trattasse di uomini straordinariamente feroci e spietati. Qualcosa di simile ai LURP16 in Vietnam, avete presente? Comunque pare che quegli uomini si diedero molto da fare in Austria e una delle prime cose che fecero fu andare nella vecchia tenuta di von Bimplitz e uccidere tutti gli zoondel che riuscirono a trovare. Ci sono le prove. Ecco perché ne sono rimasti così pochi in giro. Fortunatamente qualche esemplare era stato portato qui prima della guerra così, pur avendo rischiato l'estinzione, esistono ancora. Quel che viene spontaneo chiedersi è perché prendersi la briga di uccidere quei poveri cani se non c'era almeno un granello di verità in quella storia?». Naturalmente Sarah finì per comprarne uno. La storia dell'acchiappalupi-mannari l'aveva talmente affascinata che credo avrebbe speso anche il doppio se fosse stato necessario.
Ma devo dire che Mailbox (le era piaciuta la mia descrizione della cassetta delle lettere e alla fine l'aveva chiamato proprio così) si rivelò un cane davvero delizioso. Dormiva fino a tardi, non ha fatto quasi mai la pipì in casa (anche quando aveva ancora solo pochi mesi) e gli piaceva stare con la gente senza stare troppo addosso. Alla fine sono stato costretto a confessare che piaceva anche a me. «Sono contenta, Frank, perché ti devo chiedere un grosso favore. Può darsi che io sia costretta ad andare a Hong Kong per un paio di mesi, tra non molto. Pare che quel palazzo per l'Istituto Wakoski alla fine sarà costruito e vogliono che ci sia anch'io tra i progettisti. Il che significa che o porto Mailbox in un canile, oppure me lo tieni tu». «Te lo tengo io. Credo che per un paio di settimane lo sopporterò». «È questo il punto, Frank. Non si tratta di un paio di settimane, ma di un paio di mesi». «Non ti preoccupare. Ti devo in sacco di favori, comunque. Andiamo d'accordo, non ci saranno problemi». «Sei sicuro?». «Al cento per cento». Così Sarah è andata a costruire il suo palazzo a Hong Kong e il suo zoondel è venuto a vivere con me. C'è voluto un po' per abituarmi, ma mi è bastata una settimana per essere contento di averlo intorno. Quando tornavo a casa la sera dal lavoro, veniva sempre alla porta a salutarmi saltando e correndo di qua e di là. Quando lo portavo in giro, mi camminava accanto senza tirare il guinzaglio come ho visto fare a tanti altri cani. E in più andare a passeggio con un cane raro offre l'ulteriore privilegio di incontrare belle signore che amano i cani. Insomma andava tutto alla perfezione, se non fosse stato per uno strano episodio accaduto qualche settimana più tardi. Era una bella giornata estiva e avevo portato Mailbox a fare una lunga passeggiata a Central Park. Accanto al Dakota, mentre stavamo per attraversare la Settantaduesima Strada, ho sentito un gran botto. Ho fatto un balzo all'indietro e ho visto che una grossa tegola era caduta poco lontano, rischiando di finirci sulla testa. Ho alzato gli occhi e su in alto ho visto un tipo proteso fuori dalla finestra che gridava. Verso di noi? Così pareva. New York è piena zeppa di squinternati, ma essere così matto da buttar giù una roba del genere mi sembrava davvero troppo. No, in questa città può capitare questo e altro. Basta dare un'occhiata al telegiornale per convincersene. Ed è stato proprio dopo avere visto il telegiornale che le cose hanno co-
minciato a prendere un brutta piega. Qualche giorno dopo la storia della tegola, il telegiornale stava dando la tremenda notizia di un omicidio di massa nella contea di Westchester. Ascoltai scuotendo la testa: un uomo era entrato in una pizzeria di White Plains, aveva tirato fuori una mitraglietta e aveva aperto il fuoco sugli astanti. Aveva ucciso dieci persone prima che arrivasse la polizia e lo facesse fuori. Lo speaker ne parlava con lo stesso tono grave e blando con cui aveva letto le altre notizie. Simili esplosioni d'orrore sono a tal punto entrate a far parte della nostra vita quotidiana che nessuno sembra più farci caso. Persino i giornali pubblicano la notizia soltanto in decima pagina, accanto alle previsioni del tempo. L'indifferenza della gente e il modo in cui sembrano avere tutti accettato un tale crescendo di follia mi atterrisce. Ascoltiamo sbalorditi e indignati cosa è successo agli ebrei nella Germania nazista, ma quando la stessa cosa si affaccia alla nostra porta, ci limitiamo a scrollare le spalle e girare pagina o canale. «Perché negli ultimi tempi succedono tutte queste atrocità? Perché le cose vanno sempre peggio?». Mailbox si è limitato a scodinzolare guardandomi con aria speranzosa: stavamo per uscire? Ho tirato un sospiro e mi sono alzato per andare a prendere il guinzaglio. Mentre mi dirigevo verso la porta, lui mi è venuto a sbattere contro una gamba per raggiungermi di corsa. L'ho guardato e mi sono reso conto che era cresciuto un sacco da quando stava con me. Avevo dimenticato quando Sarah esattamente sarebbe tornata, ma tanti piccoli momenti piacevoli trascorsi insieme a Mailbox mi avrebbero fatto rimpiangere, tutto sommato, di doverglielo restituire. Continuavo a essere dell'idea di non volere un cane, anche se ora capivo perché tanta gente li amasse. «Dai, piccolo, andiamo». L'ho legato al guinzaglio e siamo usciti. Pensando a quando Sarah sarebbe tornata mi sono chiesto da quanto tempo Mailbox fosse da me. Ho calcolato che dovevano essere passati quasi due mesi. Fuori c'era una leggera pioggerellina estiva, un tempo delizioso per una passeggiata se non ci si preoccupa troppo di bagnarsi un po'. Mentre uscivamo dal palazzo, sono passati un uomo e una donna con la testa infilata sotto lo stesso ombrello. Le loro voci sexy e suadenti sembravano incuranti del resto del mondo, come se non esistessero altri che loro due sulla terra. Senza volerlo la donna si è trovata Mailbox tra i piedi, il quale ha mugolato sorpreso. Lei si è subito fermata chinandosi su di lui.
«Oh, tesoro, mi spiace! Ti ho fatto male?». Anche sotto la pioggia ho visto che era una di quelle splendide newyorchesi avvolte da un morbido alone di profumo, spaventosamente chic e affascinanti. E poi sembrava sinceramente preoccupata di aver fatto male a Mailbox. Il suo amico si è fermato mentre lei continuava ad accarezzarlo per farsi perdonare. Dimenticando subito cos'era successo, Mailbox si è messo a saltellare e dare qualche amichevole morsetto a quella mano che giocava con lui. I suoi occhi hanno cominciato a diventare sempre più gialli. Anche nell'oscurità, sotto la pioggia, mi parvero di fuoco. Ricordando quel che Kak aveva detto riguardo all'origine degli zoondel e che Mailbox doveva avere ormai sei mesi, ho lanciato un'occhiata alla donna. Per un attimo sono stato colto da un capogiro, pensando a cosa poteva voler dire. Sì, insomma, se quella storia era vera. «Vieni, Jennifer, andiamo». «Un attimo. Non è adorabile? Guarda che buffi occhi gialli. Sembrano due piccole torce!». «Tesoro, dobbiamo andare. Lo spettacolo inizia tra dieci minuti». Accovacciata per terra, lei lo ha guardato con una tale espressione di odio, carica di una tale sbalorditiva malvagità che sembrava sprizzare radiazioni atomiche. Una rabbia simile sarebbe stata capace di qualsiasi cosa, non vi era il minimo dubbio. Mio Dio, che cos'era quella donna? Si è alzata. Il suo viso sembrava velato da una nube di ferocia radioattiva. Senza aspettare un solo istante, è ripartita lasciandosi alle spalle il proprio compagno che, imbarazzato, mi ha guardato, ha alzato le spalle con aria di impotenza e s'è accinto a seguirla. Io sono rimasto lì immobile e smarrito. Quella donna splendida era un lupo mannaro? Impossibile. Ho sentito un rumore di rotelle e ho visto un ragazzino afroamericano avvicinarsi su uno skateboard. Quando ci ha raggiunto, ha frenato elegantemente e si è chinato ad accarezzare Mailbox. «Ehi, lo so che cane è questo. È uno zoondel, vero?». «Già, proprio così». «Posso accarezzarlo?». «Certo». Ho lanciato un altro sguardo alla coppia che si stava allontanando. L'uomo aveva raggiunto la sua compagna e stava dicendo qualcosa gesticolando. Quando ho guardato di nuovo il ragazzino accanto al mio cane, la prima cosa che ho visto sono stati gli occhi di Mailbox. Gialli.
«Questi cani costano una fortuna, eh?». Giallissimi. «Su, Mailbox! Andiamo!». L'ho tirato via, sono partito di gran carriera e me lo sono trascinato dietro. «Ehi, capo, cosa c'è?». Mi sono abbassato e me lo sono preso in braccio. Poi ho cominciato a correre. «Ehi, mozzarellone!». Ho continuato a correre finché non sono arrivato a casa. Senza neanche rendermene conto, ho superato l'ascensore e ho fatto di corsa tutti e cinque i piani fino al mio appartamento. Se era vero, se quei due erano davvero dei licantropi come aveva detto Kak, perché non avevano cercato di uccidere Mailbox, come quel tipo che ci aveva tirato quella tegola addosso? Mi sono tirato la porta dietro e l'ho chiusa a chiave alla velocità della luce. Mentre mettevo giù Mailbox, ho controllato i suoi occhi. Erano di nuovo scuri. Ho guardato di nuovo il telegiornale più tardi e ho trovato la risposta alle mie domande. Almeno credo. Durante un servizio riguardo all'omicidio di White Plains, tutti hanno parlato del killer come di un uomo tranquillo che non aveva mai commesso nulla di strano in tutta la propria vita. Un giorno, però, aveva caricato la sua mitraglietta ed era uscito ad ammazzare la gente. È sempre così che succede, no? È questa la risposta. È così che succede perché anche loro fino a quel momento non sanno di essere dei mostri. Lo scoprono dopo. La donna e il ragazzino per strada non lo sapevano ancora, ma prima o poi lo scopriranno, quando commetteranno qualche gesto agghiacciante, disumano e spietato, come quell'uomo tranquillo che ha imbracciato la mitraglietta. Dopo di che, vedendo Mailbox, allora sì che desidererebbero la sua morte, come il tipo del grattacielo. Ma fino ad allora non vedranno altro davanti a sé che un semplice cagnolino di sei mesi. Ed era anche la risposta alla mia domanda di prima. Perché negli ultimi tempi succedono tutte queste atrocità? Perché se questa storia è vera, come Mailbox può dimostrare, il mondo è ancora una volta pieno di... orribili creature. Come faccio a saperlo? O piuttosto, come faccio a dirlo? Perché quella sera sono uscito di nuovo per vedere se avevo ragione. Ho lasciato accarezzare Mailbox a chiunque si avvicinasse. Ventitré. Soltanto in questo angolo di questa città ho contato ventitré persone che hanno toccato il mio cane e hanno fatto avvampare i suoi occhi come fiamme.
Imparare ad andarsene «Raccontami una storia di Honey». «Te le ho già raccontate tutte». «Dai, ce ne saranno centinaia, conoscendola». «Ti ho mai raccontato quella dei sigari?». «No!». «Leo, il padre di Honey, fuma il sigaro. Una volta ne aveva cinquecento che erano andati a male o ammuffiti, non so bene. Comunque sia, un giorno Honey si è presentata da me con un gigantesco sacchetto pieno di sigari. Ti dirò che non era affatto bello, sembrava pieno di pezzi di merda. Mi ha chiesto se conoscevo un certo George Reynolds, un suo ex. Io non avevo mai neanche sentito il suo nome. Perfetto, così non avrei avuto problemi ad andare con lei. Oh oh... Cos'è che hai in mente, Honey? "Andiamo nel suo appartamento: lui è fuori città per una settimana. E infiliamo questi cinquecento sigari in ogni angolo della casa, negli armadietti in cucina, sotto la ciotola del gatto, nella sua tazza da caffè... dappertutto. Continuerà a trovarne per almeno cinque anni"». «E tu ci sei andata?». «Certo. Per una volta, almeno, Honey non aveva in mente di scalare il ponte di Brooklyn a mezzanotte! E poi era un'idea divertente, devi ammetterlo». «È vero. Cos'è successo? Vuoi un altro po' di caffè?». «No, sono a posto così. Siamo andati a casa di George con i sigari. I suoi genitori vivono nello stesso palazzo. Honey ha bussato a casa loro e quando sua madre è venuta ad aprire, si è illuminata. A quanto pare lei e Honey sono grandi amiche e vanno anche a pranzo insieme a volte. Comunque sia, le ha raccontato una storia assurda dicendo che dovevamo andare a casa di George e la donna ci ha dato la chiave. Siamo entrate e ci siamo messe a infilare quei sigari da tutte le parti. Sotto i cuscini del divano, dentro...». «Be', non mi sembra così fantasioso, come posto». «Aspetta! È solo l'inizio. In dieci minuti abbiamo fatto il giro dei posti più ovvi, ma avevamo ancora centinaia di quei dannati sigari. Centinaia! Così a quel punto abbiamo cominciato a fare le cose sul serio. Uno nella copertina di ogni disco, sotto il materasso, nelle sue ciabatte e poi in tutte le scarpe che c'erano nell'armadio... Alla fine siamo andate alla ricerca di
altri posti in cui nasconderli come due disperate, ma ce l'abbiamo fatta. Eravamo esauste. Non volevo più vedere un sigaro in tutta la mia vita, ma ero soddisfatta del risultato». «E quando lui è tornato cos'è successo?». «Aspetta, non sono ancora arrivata alla fine. Circa dieci minuti dopo che avevamo finito, Honey, con quel suo fare inimitabile, ha tirato fuori una banconota da cento dollari e me l'ha sventolata sotto il naso». «E dove li aveva presi cento dollari? È sempre al verde». «Lo so. Si è messa a sventolare quei soldi e mi ha detto: "Sono tuoi se riesci a trovare quattrocentottanta sigari in due ore. Gli altri venti te li concedo come bonus"». «Uau, e tu cos'hai fatto?». «Cos'ho fatto? Le ho detto di cominciare a contare. Mi sono messa a cercare, ovvio. Credimi, non hai mai visto nessuno muoversi tanto in fretta. E trovare i primi duecento è stato un gioco da ragazzi. Ero sorpresa di ricordarmi talmente tanti posti. Compresi nascondigli strani tipo cinque sigari dentro una valigia, altri cinque sotto l'ingranditore nella camera oscura. Un gioco da ragazzi. Dopo di che mi sono ritrovata con duecentottanta sigari ancora da trovare in un'ora di tempo». «E lei nel frattempo cosa faceva? Sorrideva compiaciuta sul divano?». «Peggio. Sorrideva compiaciuta fumandosi uno di quei sigari schifosi. L'avrei strozzata. Mi esasperava vederla lì seduta che si divertiva come una matta. Dovevo assolutamente trovarli, anche a costo di farmi venire l'infarto». «Wonder Woman!». «Wonder Woman ha rischiato davvero di farsi venire un infarto. Si perde la tramontana in una situazione del genere. Quando ho visto che mi rimanevano soltanto tre quarti d'ora, per la disperazione ho cominciato a guardare di nuovo negli stessi posti in cui ero già stata. Honey era praticamente piegata in due dalle risate. Il che naturalmente mi ha fatto infuriare ancora di più. Ma a quel punto mi è venuta un'idea grandiosa che mi ha salvato». «Che idea? Aspetta! Devo andare in bagno. Non ce la faccio più. Tu non ti muovere. Arrivo tra un secondo». È balzato in piedi ed è sparito. La sua ragazza ha chiuso gli occhi, ricordando con un sorriso lo sguardo negli occhi di Honey quando aveva capito che stava rischiando di perdere la scommessa.
«D'accordo, eccomi. Racconta». «Cosa?». «Sì, dai, racconta cos'hai escogitato. A sentir te, nessuno è in grado di competere con Honey Dilz». «Quella volta, invece l'ho proprio fregata. E sai come? Con una lista. Tutto qua. Ho fatto una lista dei posti in cui avevo già guardato e ho continuato a spulciarla mentre cercavo». «Bella idea! Proprio quello che ci voleva, andare per eliminazione». «Esatto. L'unico problema è stato che ci sono voluti cinque minuti per trovare carta e penna e scrivere tutto». «Ma ha funzionato?». «Certo. Mancava ancora mezz'ora e ne avevo trovati trecentocinquanta. A quel punto Honey ha cominciato a innervosirsi. Cercava di distrarmi sventolando i cento dollari e dicendo: "Mezz'ora. Meglio che ti sbrighi! ". E cose del genere». «Perché stavi per fargliela», ha esclamato lui incrociando le braccia tutto soddisfatto all'idea che qualcuno stesse per lasciare la grande Honey Dilz con un palmo di naso. «È vero, ma non dimenticare che me ne mancavano ancora centotrenta. Dovevo correre di qua e di là con la lista in mano, trovare i sigari, essere sicura che Honey li contasse bene... Lo sai che le bastano due secondi per farti qualche scherzetto, se solo gliene dai l'occasione. Era peggio di una corsa a ostacoli». «OK, OK. E allora cos'è successo?». «A quindici minuti dalla fine mi mancavano ancora quaranta sigari. Lei era lì che continuava a fare dello spirito mentre io avevo letteralmente la lingua di fuori. Mi sono seduta per terra e ho chiuso gli occhi come un guru indiano del cavolo e mi sono detta: rilassati, pensa. Dopo qualche secondo mi sono resa conto che non avevo guardato abbastanza bene in bagno. Via! Sono partita alla carica come una saetta. E ce l'ho fatta. Sopra il water c'era un armadietto in cui George teneva la carta igienica. In ogni rotolo c'era un sigaro e così ne ho trovati dodici. Mio Dio, mi ricordo ancora con precisione quanti erano! Poi ce n'erano cinque che galleggiavano nel serbatoio». «Anche lì li avevate messi?». «Ce li aveva messi Honey, ma a quel punto stavo ormai cercando ovunque. Qualcuno era nascosto in cima all'armadietto e qualche altro tra gli asciugamani puliti. Tre sotto il lavandino insieme ai detersivi... Voilà:
quattrocentottanta». «Brava!». «Non è ancora finita. Stavo tornando in soggiorno qualche minuto prima che scadesse il tempo, quando ne ho visti tre infilati dietro a una fotografia appesa al muro. Li ho presi per stare sul sicuro. Entrando, ne ho acceso uno». «Le deve essere venuto un colpo». «No, in queste situazioni dimostra sempre un gran sangue freddo e mi ha dato i cento dollari senza fare una piega. Sono rimasta sorpresa e mi sono anche sentita un po' in colpa. E così, siccome sono sempre splendida, ho pensato di fare un gesto che avrebbe fatto invidia a Cirano di Bergerac. Uscendo, mi sono voltata e le ho detto: "Honey, sei invitata a un pranzo da cento dollari. Ce li pappiamo tutti in una volta sola"». «È una follia! Avresti potuto goderteli e andare in giro a divertirti per almeno due settimane con quei soldi». «È vero, ma devi ammettere che è stato un gran bel gesto». «Be', sì. Dove siete andate?». «Da Coco's». «Coco's? Non ci posso credere. È stato il pranzo più sublime di tutta la tua vita?». «Sì. Assolutamente squisito, perfetto. Il dessert, una mousse di cioccolato, costava più di quanto ho pagato la mia gonna nuova». «Non mi sorprende. Quanto avete speso?». «Centodieci dollari. Io ho pagato il conto e Honey ha lasciato la mancia». «Figurarsi, s'è sprecata. Congratulazioni, sei riuscita a fargliela». «Non esattamente». «In che senso?». «Be', dopo pranzo siamo andate a farci una passeggiata e non ho resistito: ho dovuto chiederle dove aveva preso quei soldi. I suoi genitori ne hanno una caterva, lo sai, ma lei non chiede mai un dollaro. Ne ha meno di me, potremmo fondare la Tasche Vuote & Co.». «Sì, anch'io vorrei proprio saperlo. Dove li aveva presi?». «Sai dove? Citerò Honey Dilz: "Oh, in un cassetto nella scrivania di George"». «Ecco, tipico! Troppo orgogliosa per chiedere i soldi ai suoi genitori ma non per rubarli ai suoi ex». «Non è tutto. Mi ha raccontato che aveva trovato anche un'altra cosa na-
scosta in fondo a un cassetto. George è fotografo, ma disegna e dipinge anche. E Honey ha trovato un disegno incredibilmente dettagliato di una bara. All'inizio ha creduto che fosse per la copertina di un disco. Sai quelle robe lugubri che piacciono ai rockettari. Ma poi si è resa conto che era troppo pacato, troppo delicato. E poi sul retro c'erano diverse scritte in una serie di caratteri diversi, che ripetevano tutte la stessa frase: George Reynolds, la data di nascita, quella di morte, e poi sotto "Imparò infine ad andarsene". Aveva disegnato la propria bara in ogni dettaglio, compresa l'iscrizione sulla tomba!». «Mio Dio, è peggio che trovare delle fotografie oscene, no? Che perversione. È malato, quel tipo? Voglio dire, sta per morire?». «Secondo Honey, no. O meglio, allora ancora no». «In che senso?». «Be', questa è la cosa più inquietante. Ce l'hai presente "Tutto vero", quello spaventoso giornale che vendono al supermercato?». «Sicuro, mi piace un sacco. L'ultimo numero che ho comprato era intitolato "HO FATTO SESSO CON UN ALIENO"». «Sì, bravo! Proprio in quel numero c'era anche un articolo sulle varie superstizioni e da cosa nascono. Te lo ricordi?». «No, ho letto soltanto l'articolo sull'extraterrestre, poi qualcuno in ufficio me l'ha fregato dalla scrivania». «Era interessante. Spiegava perché si dice "Tocca ferro", perché è meglio non posare un piede su una crepa nel marciapiede e così via. Comunque c'erano anche un paio di cose che non avevo mai sentito. Una era questa: "Scopri i nascondigli segreti di un uomo e ne accelererai la morte"». «E con questo?». «Non hai capito? Siamo andate nel suo appartamento, abbiamo guardato in tutti i suoi "nascondigli segreti" per infilare quegli stupidi sigari ed ecco che alla fine Honey trova quel disegno. Accelerando la sua morte». «Ma dai! Era naturale che lo trovasse, se si è messa a frugare nei suoi cassetti!». «Però devi sapere che George ha detto che non l'aveva fatto lui, quel disegno. Quando Honey gliel'ha chiesto lui è caduto dalle nuvole». «Be', grazie! Ehi, aspetta un momento, non è che ti stai inventando tutto? Non è che questa storia è una gran balla?». Lei si è passata la lingua sulle labbra e dopo un lungo istante ha scosso la testa. Si sono scambiati un sorriso che pian piano si è trasformato in uno sguardo d'intima intesa. C'era riuscita ancora una volta. Anche senza rac-
contargli l'inquietante finale che aveva già pronto in mente, l'aveva stregato. Incantato, catturato nelle maglie di quella storia come quando, a letto, lo portava fino all'orgasmo. Lui adorava ascoltarla mentre raccontava qualche storia, era una delle cose che sin dall'inizio gli era piaciuta di più di lei. Non aveva mai conosciuto nessun'altra donna che lo sapesse fare altrettanto bene. Fu allora che accadde la cosa più sconvolgente. Stava pensando all'incredibile fantasia che lei dimostrava di avere, a come riusciva in un attimo a tirare fuori delle trovate tipo il disegno della bara e superstizioni assolutamente credibili come «Scopri i nascondigli segreti di un uomo e ne accelererai la morte». Fu proprio in quell'istante, in cui si gustava ripensandoci in silenzio il suo racconto per la seconda, la terza volta. Anche lei era in silenzio, per lasciare che la sua storia si sedimentasse (sapeva che a lui piaceva ripensarci con calma, senza fare commenti). Ma in quel silenzio, o almeno nella propria metà di silenzio, lui fece una di quelle terribili e penosissime scoperte che sono così dolorose proprio perché cariche di verità. Stavano insieme da quattro anni e lui sapeva bene che lei aveva scoperto la maggior parte dei suoi nascondigli segreti fin dai primi mesi della loro relazione. Ma non era quello che lo preoccupava, perché l'amava e si fidava di lei. Quel che adesso, invece, per la prima volta, cominciò a preoccuparlo fu che per un istante spaventoso e sconvolgente sentì di odiarla. Di odiare il suo fascino, la sua bontà, la sua disponibilità ad accettare i suoi cattivi umori e delusioni. Pur non essendone pienamente consapevole, lei gli aveva salvato la vita più di una volta. Gliel'aveva salvata con la sua forza, il suo umorismo e il suo amore sconfinatamente generoso. La detestava perché una donna come lei era del tutto sprecata per lui, un uomo passabile ma tutto sommato mediocre. Certo che aveva scoperto subito tutti i suoi nascondigli segreti. Se lui fosse stato l'appartamento di George Reynolds, lei avrebbe di certo trovato senza problema tutti e cinquecento i sigari in un batter d'occhi. Perché lo amava? Se l'era chiesto altre volte e ora sapeva che il proprio rancore veniva in parte dalla certezza che non esisteva nessuna buona ragione: lei lo amava per qualche motivo insondabile, e non per qualcosa di speciale, qualche qualità segreta in lui. Per tanto tempo aveva sperato che potesse insegnargli quel che lei sapeva fare così bene: vivere generosamente, essere paziente e mostrargli infine le qualità rare nascoste dentro di lui. Ma non c'era nessuna qualità rara in lui. In quegli attimi di silenzio comprese con disperante evidenza il proprio ruolo nell'universo di lei. Non sarebbe mai stato un maestro, né un contastorie.
Sempre e soltanto il suo pubblico. Panic hand Ero appena uscito da un lungo periodo della mia esistenza in cui le mie giornate si erano susseguite spente ed esangui. Non c'era nulla che andasse bene, nulla che mi sorridesse, nulla che funzionasse o emanasse un buon profumo. Per qualche misteriosa ragione mi erano persino cresciuti i piedi e avevo dovuto comprarmi tre paia di scarpe nuove. Immaginate un po'. Forse, come un serpente, il mio corpo stava cercando di uscire dalla sua vecchia, brutta pelle facendosene crescere una nuova. Nel mezzo di quel buco nero avevo conosciuto Celine Davenant. Celine viveva a Monaco, a solo cinque ore di treno da Vienna. Aveva una bellissima voce, morbida e rassicurante, e faceva l'annunciatrice in una radio in lingua inglese della città. Tutti i venerdì sera, dopo il lavoro, correvo alla Westbahnhof e salivo sul Rosenkavalier. Già, si chiamava proprio così il treno che ogni settimana mi portava a Monaco. Qualche volta era Celine a venire, ma non mi aveva mai nascosto che Vienna non le piaceva. Le dissi che per me il viaggio in treno era un piacere e decidemmo tacitamente che per il momento avremmo lasciato che le cose andassero avanti così: lei mi aspettava alle undici e mezzo alla Hauptbahnhof di Monaco, dove il nostro weekend aveva inizio tra voli di piccioni intimoriti, viaggiatori e fischi e scossoni dei treni. La prima volta che, tutto eccitato, mi misi in viaggio verso ovest, feci l'errore di comprare un biglietto di prima classe. Anche le carrozze di prima, però, erano piene di gente carica di borse in partenza per il weekend. In seguito, imparai a prendere un biglietto di seconda classe, arrivare in stazione con un po' d'anticipo e salire direttamente nel vagone ristorante. Rimanevo seduto lì sino alla stazione di Attnang-Puchheim, dove il treno si svuotava e io potevo scegliere il posto che volevo. Era un piano che funzionava sempre alla perfezione, anche perché la cena a bordo era molto buona. Era piacevolissimo mangiare davanti a quei grandi finestrini da cui potevo osservare la campagna austriaca. Perchtoldsdorf, St Pölten, Linz. I capistazione salutavano il passaggio del treno col loro berretto rosso in testa agitando le braccia. A bordo di vecchi camion, i contadini ci guardavano passare con aria indifferente. La gente ferma in qualche stazioncina oppure davanti a un passaggio a livello in aperta cam-
pagna ci osservava perfettamente immobile. I cani abbaiavano in silenzio. Mi capitava spesso di scorgere dei cervi. E conigli che sfrecciavano a zigzag tra i campi. Come si chiama quel giglio rosa e bianco che ha un profumo intensissimo di pepe e di spezie? Non riesco a ricordarne il nome in questo momento, ma è uno dei miei fiori preferiti. Quando sono entrate nel vagone ristorante quella sera è stata la prima cosa che mi ha colpito. Avevano entrambe quello splendido giglio tra i capelli. O forse, a dire il vero, è stata la seconda cosa che ho notato. Era difficile non rimanere a bocca aperta davanti a quei due volti altrettanto belli per quanto unici. La donna era alta, davvero splendida. Poteva avere fatto l'attrice o aver trascorso le sue serate a contemplare i tetti di Parigi o le luci di Manhattan con un elegante calice di champagne tra le dita. E ora che stava per compiere, o aveva appena compiuto, quarant'anni, era sicura di sé, vitale, disinvolta. Le poche rughe che apparivano sul suo viso servivano solo a renderlo più sexy. Il fiore all'orecchio diceva che aveva senso dell'umorismo, che le piaceva regalare qualche sorriso. Il fiore all'orecchio della figlia, invece, diceva che era anche una madre premurosa, felice. Una rara combinazione. La ragazza aveva la stessa capigliatura ramata e i grandi occhi rotondi della madre. Immaginai che fossero madre e figlia perché si assomigliavano troppo: il viso della ragazza era la versione più giovane dei lineamenti magnifici della donna che le era accanto. Tra vent'anni, se era fortunata, avrebbe avuto anche lei lo stesso volto incantevole. A quel tempo passavo gran parte delle mie giornate a pensare a Celine e a come sarebbero andate le cose tra noi. Volevo che la nostra storia funzionasse e speravo che anche per lei fosse importante. Non avevamo ancora fatto nessun programma a lunga scadenza, perché si comincia a pensare dove fondare i primi pilastri di una relazione quando ormai si è portata a termine l'esplorazione dei nuovi territori che ci fa scoprire. Avevamo gusti molti simili, non ci stancavamo mai di fare l'amore e soprattutto sapevamo che avremmo sempre avuto qualcosa di cui chiacchierare. Quando eravamo insieme, non c'erano molti silenzi, e se c'erano, era perché desideravamo assaporare il quieto fruscio dell'appagata contentezza che è la vera elettricità dell'amore. Quando pensavo a Celine, non esisteva praticamente nulla al mondo che potesse distrarmi. E quella sera stavo proprio pensando a lei quando madre
e figlia entrarono nel vagone ristorante. Mi sorprese rendermi conto che vedere avvicinarsi quelle due donne strepitose aveva all'improvviso fatto svanire qualsiasi altro pensiero nella mia mente. «Le spiace se ci sediamo qui?», chiesero fermandosi davanti al mio tavolo. Il ristorante era occupato solo per un terzo e c'erano diversi tavoli liberi. Perché volevano sedersi lì con me? Ritengo di essere un uomo di bell'aspetto e di solito ho fortuna con le donne, ma non tanto da spingerle ad abbordarmi. Soprattutto due bellezze simili. «Prego». Alzandomi, indicai i posti liberi. Mi giunse il profumo dei fiori che avevano tra i capelli. La ragazzina era arrossita e sorrideva tenendo gli occhi bassi. Mentre si sedeva, rischiò di inciampare. La madre scoppiò a ridere portandosi le mani davanti al viso. «Povera Heidi. Desiderava tanto farle una buona impressione. L'ha vista passare sul marciapiede alla stazione ed è praticamente saltata giù dal treno per vedere in quale carrozza saliva. Mi ha costretto ad aspettare un po' perché non voleva fare la figura dell'impertinente». La ragazza la guardò in tralice: la madre stava ridendo di lei e del suo segreto. A me non parve divertente e tentai di farglielo capire rivolgendole un sorriso e un'amichevole scrollatina di spalle. Lei, rossa come un'aragosta, continuò a tenere gli occhi bassi, limitandosi a lanciarmi un rapido sguardo. La mamma scosse il capo e mi porse la mano, sottile e delicata. «Sono Francesca Pold. Questa è mia figlia, Heidi. E lei?». Le dissi il mio nome stringendole la mano. Era calda e lei prolungò la stretta per qualche secondo di troppo. La fissai per vedere se stesse cercando di dirmi qualcosa, ma nei suoi occhi vidi soltanto: «Ti piacerebbe saperlo, eh?!». Quindi, con un ampio sorriso, si sedette. Mmmm. «Cosa sta leggendo? Racconti favolosi d'Albania? Dev'essere interessante». Senza chiedere il permesso, prese il libro, lo aprì e iniziò a leggere ad alta voce. «Che crediate o no a queste storie, possa la vita dimostrarvi benevolenza!». Madre e figlia scoppiarono a ridere all'unisono. La risata era esattamente la stessa, soltanto una era più giovane e acuta, l'altra più matura e profonda. Affascinante. «Che modo buffo di iniziare un racconto! Sono delle favole?», domandò posando il libro sul tavolo. E subito la ragazzina lo raccolse.
«Sì, mi piace leggere favole. È uno dei miei passatempi preferiti». La donna annuì con un'espressione di totale approvazione. Avevo probabilmente guadagnato dei punti. «Che lavoro fa?». «Vendo computer nei paesi dell'Est». «Vende computer e legge favole? Un uomo a tutto tondo». «La ringrazio, ma credo si tratti di un semplice ritardo nel processo evolutivo». Risatina e secondo sorriso d'approvazione. Sollevò una mano per chiamare il cameriere e quello si precipitò al tavolo come un falco. È possibile dividere il mondo in chi è in grado di attirare l'attenzione dei camerieri e chi non lo è. I primi non devono fare altro che sollevare pigramente un dito e qualsiasi cameriere alzerà la testa come se un misterioso segnale radio segreto fosse stato appena inviato sulla sua frequenza d'onda privata. E in un secondo arriverà. Gli altri, invece, malgrado facciano ricorso a gesti più o meno imbarazzanti come schioccare le dita per aria, non otterranno mai nulla. Nessuno li sente, nessuno li vede. Nulla può salvarli dall'indifferenza più totale. Francesca Pold faceva parte della prima categoria. La cosa non mi sorprendeva. Hanno ordinato e abbiamo continuato a chiacchierare. La ragazza fingeva di leggere il mio libro di favole, ma vedevo che di quando in quando il libro le scivolava di mano e i suoi occhi ci osservavano attenti e interessatissimi. Begli occhi. Grandi e intelligenti, un po' liquidi, come se fossero pieni di lacrime: era una cosa che li rendeva speciali e particolarmente affascinanti. La madre aveva una gran parlantina e anche se diceva delle cose interessanti, capitava di perdersi qualche battuta di quel suo lungo monologo. Mi ritrovai sempre più spesso con gli occhi posati sulla figlia. Quando il cameriere le servì, pensai fosse arrivato il momento giusto per provare a parlarle. «Qual è la tua materia preferita, Heidi?». «Ma-ma-mate-ma-ma-tica», rispose con la mascella tremolante. «E ti piacerebbe specializzarti in matematica?». Scosse la testa e sorrise indicandomi. «C-C-C-Computer». Aveva un tortuoso balbettio che sputava fuori sillabe a raffica e peggiorava se lei si animava. Ma era anche evidente che desiderava con tutta se stessa di parlare con me. La madre non fece mai nessun tentativo di interromperla o di spiegare cosa intendesse dire, anche quando lei pronunciava
qualche parola o intere frasi in maniera praticamente incomprensibile. Lo trovai carino da parte sua. Avevano chiaramente deciso così insieme e la ragazza, malgrado il suo handicap, sarebbe almeno cresciuta in un mondo in cui era abituata a combattere da sola. Io avevo già cenato, ma mi unii a loro per il dessert quando vidi com'erano grandi e fresche le fragole che avevano ordinato. Mentre tutti e tre gustavamo le nostre fragole, l'ultimo chiarore del giorno abbandonò il cielo. Era completamente buio quando ci alzammo da tavola. «Dov'è seduto?». Sorrisi. «Intendete in che classe? In seconda, ahimè». «Bene, anche noi! Le spiace se ci sediamo insieme a lei?». Era piacevole guardare quella donna, ma stavo cominciando a stufarmi della sua chiacchiera. Andavano invece aumentando gli sguardi tra me e Heidi. Sarei stato ben felice di rimanere con lei e il suo balbettio fino a Monaco (anche loro erano dirette lì), se solo fosse stato possibile. Malgrado non dovesse fare nessun genere di sforzi per chiamare un cameriere, Francesca sembrava essersi fatta l'idea errata che essere bella significava anche poter blaterare di qualsiasi cosa ad infinitum. Provai pena per quella ragazza che doveva sopportarla ogni giorno. Ma cosa potevo dire: no, voglio restare solo? Certo, avrei potuto, ma sarebbe stato scortese e in fin dei conti neanche del tutto vero. Ci saremmo seduti insieme e Francesca avrebbe continuato a parlare e io avrei provato a rendere il viaggio di Heidi un po' più piacevole. Come al solito i compartimenti erano quasi tutti vuoti. Non appena ci fummo sistemati, Francesca infilò una mano nella borsetta e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Quel gesto mi sorprese, perché fino a quel momento non aveva fumato una sola sigaretta. Erano delle Carnei senza filtro e lei aspirava una boccata dopo l'altra a pieni polmoni. Mentre lei fumava, io e Heidi ci mettemmo a parlare di computer e di come le insegnavano a usarli a scuola. Sapeva un sacco di cose e mi chiesi cosa avrebbe fatto da grande. Una delle cose più belle quando si lavora con i computer è che non è necessario dire loro una sola parola affinché obbediscano ai tuoi ordini. Se Heidi avesse continuato a balbettare, quello dei computer era il campo migliore per lei: avrebbe potuto realizzare cose meravigliose senza dover pronunciare una sola parola. Essere giovani e dover fare i conti con una simile difficoltà di parola doveva essere non meno spiacevole, in un certo senso, di soffrire di un brutto caso di acne. Solo che i foruncoli di solito a un certo punto spariscono,
mentre il balbettio resta, fregandosene allegramente di date di nascita e crescita di autostima. Lei si sforzava in tutti i modi di parlare. Qualsiasi argomento toccasse la nostra conversazione, Heidi aveva qualcosa da dire, ma le parole venivano fuori così lentamente e penosamente dalle sue labbra che a volte mi capitava di dimenticare di cosa stavamo discutendo mentre la guardavo lottare a quel modo per completare una frase. A un certo punto, mentre parlavamo di videogame, Heidi non riuscì a pronunciare il titolo del suo gioco preferito e la madre dovette accorrere in suo aiuto. «Si chiama "Panic Hand". Lo conosce?». «No, non l'ho mai sentito». Heidi provò a raccontarmi come funzionava, ma dopo diversi tentativi rinunciò e sprofondò nel suo sedile avvilita. Sapevo che era sul punto di scoppiare a piangere. Aveva sfidato il suo nemico interiore e aveva perso ancora una volta: quale contrasto con quella madre favolosa che come se nulla fosse insisteva nel suo interminabile, tediosissimo monologo. Ma a quel punto anche la madre per un po' rimase in silenzio. La ragazza stava guardando fuori del finestrino, tutta rossa e senza più aprire bocca, mentre Francesca mi sorrideva continuando a fumare. All'improvviso Heidi mi guardò e disse: «Lei non tr-tr-trova che sia f-ff-fi-go fu-fu-fumare? Io sì». Alzai le spalle. «Ho provato a fumare quand'ero giovane, ma è una cosa che non mi ha mai affascinato. Conferisce eleganza solo nei film». Sentendo nelle mie parole un leggero tono di disapprovazione, la ragazza si ritirò in sé come se le avessi rifilato uno schiaffo. Era così sensibile? La stavo guardando per cercare di incontrare il suo sguardo e strizzarle l'occhio quando sua madre disse: «Mi piacerebbe fare l'amore con te. Adesso. Qui». «Come?». La guardai. Aveva una mano sulla camicetta e la stavo sbottonando. «Ho detto che voglio fare l'amore con te. Qui». «E tua figlia?». «Lei può uscire in corridoio. Possiamo tirare le tendine». Le sue dita stavano scendendo lungo la fila di bottoni. «No». La camicetta si era aperta e un bel reggiseno di pizzo lilla era apparso sulla candida pelle segreta del suo petto.
«Senti, Francesca. Aspetta. Cristo santo. Pensa a tua figlia!». Lei guardò prima Heidi, poi me. «Puoi fare l'amore anche con lei. Preferisci? Posso andarmene!». Con una gran risata fece l'occhiolino alla figlia e cominciò a riabbottonarsi la camicetta. «Vedi, tesoro, a volte non hai bisogno di me. Basta che ti trovi un uomo che ama i computer». «Ehi, adesso basta». A quel punto mi alzai e mi diressi verso la porta dello scompartimento. «No-no-no-n andartene, per favore!». La ragazza mi prese per un braccio e mi trattenne. Aveva un'espressione impaurita e imbarazzata. Si alzò in piedi e mi buttò le braccia al collo. «Per favore, non andartene, per favore! La f-f-f-f-farò s-s-s-sco-scompa-ri-ri-re!». Ricambiai l'abbraccio per un attimo, poi mi sciolsi pian piano dalla sua stretta convincendola a sedersi. A quel punto mi girai verso Francesca. Che non c'era più. Non c'era da nessuna parte. Ma io ero in piedi con le spalle alla porta e non era possibile che fosse uscita. Combattuto tra l'impulso di andarmene di lì a gambe levate e la curiosità di capire cosa stava succedendo, rimasi praticamente immobile in attesa che accadesse qualcosa che decidesse per me. Il treno aveva cominciato a rallentare e l'altoparlante annunciò che eravamo nella stazione di Rosenheim, l'ultima fermata prima di Monaco. Mi sedetti. Heidi mi scivolò accanto. Poi fece una cosa tanto erotica e sconveniente che ancora rabbrividisco al solo ricordo. Con delicatezza mi prese la mano e se la portò sotto la gonna, tra le gambe. Lasciai che rimanesse lì un millesimo di secondo prima di cercare di tirarla via. Inutilmente, però, perché Heidi la trattenne con violenza, molta più di quanta non fossi in grado di contrastare. La sua forza, più ancora del luogo in cui si trovava la mia mano, mi terrorizzò sul serio. Quanti anni aveva, undici, dodici? Nessuna dodicenne poteva avere tanta forza. Quando parlò di nuovo fu con voce normale, senza balbettare. «Non ti piaceva Francesca? Dimmi cosa preferisci e l'avrai. Promesso. Qualsiasi cosa!». «Cosa stai facendo, Heidi? Eh, cosa stai facendo?». La sua mano si strinse intorno al mio braccio ancora più forte. «Non trovi che fosse bellissima? Quei capelli ramati e il modo in cui fumava le sue Carnei? Anch'io sarò come lei. È così che voglio essere quando sarò grande. È così che diventerò». Mi guardò con aria di sfida. «Non mi credi? Non era bella da morire? Io sarò così e ogni uomo mi desidererà. Vorranno tutti riuscire ad avermi e ascoltare quello che dico. Avrò un sacco di storie
e di cose da raccontare. Potrò dire quello che voglio». «Perché non puoi dire quello che vuoi anche adesso?». Mi strinse la mano con tale violenza che lanciai un urlo. «Perché balbetto! Mi hai sentito! Credevi che stessi divertendomi, che stessi facendo finta, forse? No!». Rinunciai a strappare la mia mano da lì, era impossibile. «Perché adesso stai parlando normalmente?». «Perché tieni la mano lì. Tutti gli uomini mi vorranno perché parlerò come lei. Sarò bella e parlerò benissimo». «Sei tu che l'hai creata?». La sua mano allentò un poco la presa. Mi guardò come se aspettasse di vedere come reagivo. «Sì. Non ti piace? Piace a tutti. Tutti gli uomini la vogliono. Nessuno le dice mai di no. E se vogliono lei, vorranno anche me quando sarò come lei». Avevo due possibilità: non contraddirla e fingere, oppure dire la verità e sperare. «Parla troppo». Heidi smise di stringermi la mano, pur continuandola a trattenerla. «In che senso?». «Parla troppo. È noiosa». «No-no-noiosa?». «Sì. Continua a parlare di sé e racconta un sacco di cose che non sono per niente interessanti. Era da un po' che non l'ascoltavo più. Ero più attirato da te». «Perché? Non la trovavi bella?». «Sì, bella, sì, ma pesante». «Gli altri uomini non la pensavano così! Ci sono stati tutti! Tutti!». «Non tutti gli uomini sono uguali. A me piacciono le donne interessanti». «Non quelle affascinanti?». Sembrava che mi stesse facendo quelle domande per riempire un questionario. E io ero costretto a rispondere. Non avevo altra scelta. E continuò per tutto il resto del tragitto fino a Monaco a interrogarmi su Francesca. Mi piaceva la sua voce? E il suo corpo? Cos'avevano le sue storie che non andava? Se fosse stata sola, avrei fatto l'amore con lei? Non scoprii mai chi "era" quella donna. Per ovvie ragioni non volevo innervosire né irritare ulteriormente Heidi. Cercai di rispondere alle sue domande meglio che potei e, credetemi, non furono poche. Risposi fino a che
non giungemmo in stazione a Monaco. Mentre il treno rallentava, lei si alzò e mi disse che doveva andare. Nient'altro. Neanche una parola di più. Aprì la porta a vetri, mi rivolse un ultimo, timido sorriso e scomparve. Cosa penso di tutta quella storia? Non so cosa dirvi. Penso che quella ragazza si fosse fatta un'idea della donna perfetta e nella sua infelicità l'avesse creata perché prendesse il suo posto finché non avesse potuto indossarne la pelle. Ma era una ragazzina e aveva commesso degli errori. Spesso noi adulti sorridiamo vedendo cosa i giovanissimi ritengono "figo" o sexy. Questa potrebbe essere una possibilità. Oppure, chissà, magari era una strega che si divertiva a giocare alla sua versione personale di "Panic Hand", videogame che naturalmente cercai, ma non trovai da nessuna parte. Oppure... vattelapesca. So che faccio la figura del cretino a dire una cosa simile, ma non lo so. Mi spiace se non riesco a soddisfare la vostra curiosità. La vidi un'ultima volta. Mentre scendevo dal treno, lei era lì, sul marciapiede, che correva tra le braccia di una bella coppia, raggiante di felicità al vederla. Lui la sollevò per aria, mentre lei la copriva di baci. Heidi non si voltò a guardarmi una sola volta. Io non cercai di avvicinarmi. Continuai a camminare a una certa distanza, felice che non mi avesse visto. E poi, ecco Celine. E chi c'era con lei? A quell'ora! Fiona. Fiona, la splendida figlia di Celine. Il dente dell'orso È andata così. William Linde era sempre stato al verde. Finché non aveva compiuto trent'anni, pur desiderando di tutto, non aveva mai avuto nulla. Argentee automobili che ti sfrecciano accanto la notte nella corsia di sorpasso, con pannelli di controllo simili a remote metropoli illuminate da piccole luci verdi che emanano scintillanti messaggi segreti. Ecco cosa desiderava: sfreccianti automobili d'argento. Donne che scendevano da splendide limousine, che uscivano da negozi costosi ed eleganti e grandi aeroporti internazionali con grandi occhiali da sole. Ecco cosa desiderava: donne con grandi occhiali da sole. E anche altre cose, ma avete capito. Linde lavorava più che poteva, ma non serviva a nulla. Lavorava tutto il giorno, ma alla fine non gli restavano che i soldi per pagare le bollette.
Punto e basta. Quando si è poveri, si fanno grandi sogni, perché si è convinti che ciò che si può comprare con i soldi possa trasformare la propria vita. È vero, ma questo non significa che diventi una vita migliore. Cos'altro? Nella sua ingenuità Linde vedeva solo lo scintillio di seta delle top model con i loro long drink in mano, raffinate valigie con scintillanti angoli d'ottone e le impossibili colline viola di lavanda nel sud della Francia. Aveva una ragazza, non ricordo più come si chiamasse, che gli diede un insegnamento importante: se non puoi avere i soldi, guarda cosa fanno i ricchi con il loro denaro, così almeno saprai come comportarti quando ne avrai. E Linde era sicuro che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui li avrebbe avuti anche lui, i soldi. Di questo non aveva il minimo dubbio. I ricchi girano per musei. Usano un linguaggio tutto loro. Si tagliano i capelli in una certa maniera. Dicono di leggere Shakespeare. Linde compilò una lista di tre pagine. Rimandano indietro i piatti in cucina. Parcheggiano male la macchina, fregandosene se può dare fastidio a qualcuno. Linde fu felice di scoprire, una volta terminata la sua lista, che alcune cose poteva già farle. Se risparmiava un po', poteva andare a tagliarsi i capelli da quel parrucchiere. Una raccolta delle opere di Shakespeare costava una sciocchezza, e lo stesso entrare in un museo. Chiunque poteva mettersi a usare certe espressioni. Molti ricchi stavano attraversando una fase in cui facevano del loro meglio per convincersi di vivere sulla terra come tutti e non librandosi leggeri nell'aria. Malgrado tutti i loro soldi, indossavano rozzi pantaloni di velluto e camicie da lavoro. Abiti di jeans. Gli uomini non si facevano la barba per tre giorni e si presentavano a teatro a una prima senza la cravatta. Le loro donne sfoggiavano semplici gonne di felpa e braccialetti di gomma. I ricchi sono diversi, ma qualche volta, per un po', fanno finta che non sia così. E quello era uno di quei momenti. Linde poteva dirsi fortunato! Era uno che imparava in fretta e fingersi ricco divenne il suo hobby. Ogni volta che aveva qualche ora libera, leggeva Re Lear memorizzandone persino qualche verso. Se un domani qualcuno lo avesse messo alla prova, avrebbe dimostrato che sapeva il fatto suo! Tu credi gran cosa questa bufera accanita che ci penetra nelle ossa; e lo sarà per te. Ma là dove si è abbarbicata una malattia più grave, la minore è appena sentita. Tu fuggirai un orso, ma se la tua fuga s'im-
batte nel mare muggente, ti volgerai a sfidare il dente dell'orso17. Imparò a riconoscere le loro marche di profumo preferite, in quali negozi compravano e che tipo di omelette ordinare. Il suo «mare muggente» era la povertà e la realtà folle, letale che portava con sé. Se fingere di essere ricco era un'impresa falsa e disperata come appoggiare il naso a una vetrina impossibile, allora avrebbe volentieri sfidato il dente dell'orso, in qualsiasi momento. La cosa bella e magica di tutta questa storia è che Linde un giorno vinse alla lotteria. Comprò un biglietto da cinque dollari e vinse venti milioni. Venti milioni di dollari! Per spenderli tutti in un anno, sarebbe stato necessario fare fuori cinquantacinquemila dollari al giorno. Oppure comprarsi un jet, o un grattacielo, o pagare il debito di una piccola nazione africana o dei Caraibi. Linde li portò a un mago. «Cosa farà se le do tutti questi soldi?». Il mago era un vecchio saggio che un tempo aveva fabbricato del denaro da cui non aveva ricavato altro che un sacco di problemi. «Non voglio i tuoi quattrini. Tu invece cosa vuoi? Hai ottenuto quello che hai sempre sognato. Vatti a comprare una Porsche. Chissà quante donne con grandi occhiali da sole ti stanno aspettando all'aeroporto. Prendi il Concorde!». Guardò Linde negli occhi e vide che avere finalmente realizzato il suo sogno lo terrorizzava. «Voglio tornare a quando ero giovane e povero, ma con questi soldi in tasca. È possibile?». «Sì, ma non cambierebbe nulla. Non hai letto Ouspenski? Ha scritto un libro intero proprio su questo. Ti comporteresti in modo diverso forse, ma saresti comunque la stessa persona, perciò alla fine non farebbe nessuna differenza. Non è male come inizio, però. Vieni di nuovo da me con una buona idea e io ti aiuterò senza farmi pagare un centesimo». Linde lo guardò con sospetto. «Quanto chiede di solito?». «Dipende da cosa devo fare. Di solito per qualcosa di simile a quello che mi hai appena chiesto tu, circa mille dollari». «Perché mille?». «Perché se ne chiedessi meno, la gente si insospettirebbe, e se ne chiedessi di più non sarei competitivo». «Mi può suggerire qualcosa?». «Be', a prima vista direi che hai trascorso un mucchio di tempo a studia-
re come i ricchi si comportano da ricchi. Come quel tipo che voleva fare l'attore e cercava di capire come si comportano gli attori. Ma uno come Marlon Brando non fa l'attore, è se stesso e basta, è un grande attore, tutto qua. Giusto? I ricchi non si mettono a pensare come ci si comporta da ricchi, lo sono e basta. Quel che tu vuoi scoprire è come ci si sente a essere ricchi». Sollevato, Linde esclamò: «Esatto! Può aiutarmi?». «Mi dispiace, ma non è il mio campo. Adesso hai tutti i soldi che vuoi. Come ti senti?». Linde abbassò lo sguardo. «Come se non li meritassi. Ho quasi l'impressione che siano di qualcun altro, come se li avessi trovati dentro una valigia in un parco, sopra una panchina», disse scuotendo la testa. «Mi sembra quasi di doverli restituire». «Sciocchezze!». Il mago, che si chiamava Venasque18, gli diede una manata su un ginocchio. «Aspetta un momento! M'è venuta in mente una cosa». Si alzò, sollevò una mano per indicare a Linde di rimanere dov'era e scomparve. Dopo un attimo riapparve con un giubbotto di pelle in mano. «Tieni, mettilo». Linde si alzò e lo indossò. Sembrava uno di quei bomber della seconda guerra mondiale con il colletto di montone, tutto graffiato e scrostato. Un attimo dopo un pelo fitto cominciò a crescere sul giubbotto. Sembrava di vedere uno di quei documentari che mostrano in pochi fotogrammi un fiore che sboccia in primavera. Non appena Linde se ne accorse, si strappò di dosso il giubbotto gettandolo per terra il più lontano possibile. Venasque si chinò a raccoglierlo con la massima calma. «Che diavolo è?». «Il giubbotto della virtù. Quando qualcuno lo indossa, se il pelo cresce, vuol dire che la sua anima ha conservato qualche traccia della propria integrità. Se invece questo non accade, vuol dire che è del tutto scomparsa. Da qualche parte dentro di te, c'è ancora qualcosa di buono. Sei confuso, ma onesto. Un milionario virtuoso. Cosa ci farai con quei venti milioni?». Per Linde sarebbe stato più facile decidere cosa fare del proprio futuro piuttosto che rispondere a quella domanda. Venasque, che cercava di non dare a nessuno suggerimenti su come andare in paradiso, provò compassione per lui, perché era evidente che la sua confusione nasceva dalla sua bontà. Linde aveva passato così tanto tempo a pensare a cosa fare se fosse diventato ricco che non era più consapevole
di cosa fosse: potenzialmente un santo. Venasque, che lo sapeva, ignorò per un attimo i propri principi per cercare di dargli una piccola spinta nella giusta direzione. «Hai mai notato che non si ha mai in tasca la cifra che si credeva di avere? Se ti guardi nel portafoglio e sei convinto di avere dieci dollari, ne trovi tredici. Oppure otto. Dov'è finito il resto del denaro? Quello che credevi di avere. Ci hai mai pensato?». «No». Linde continuò a fissarlo smarrito: nessuna lampadina si era accesa nei suoi occhi, nessuna idea gli era balenata in mente all'improvviso, niente di niente. Venasque scosse la testa. Chissà, forse non sarebbe mai diventato santo. Soltanto ricco e stupido. È così che succede quando si ha molto denaro. Dopo un po' di tempo tutta la brava e stimolante confusione e le domande che si avevano a un certo punto spariscono. Si comincia a trovare comoda e piacevole la propria fortuna. Perché continuare a domandarsi: «Perché a me?», oppure: «A che pro?», se si hanno le tasche piene? È proprio per questo che si tratta di un piano tanto ingegnoso. Sempre più gente diventa ricca e sempre meno si chiede cosa significhi. Linde avrebbe dovuto scoprirlo da solo. Venasque l'aveva fatto, non senza fatica. «Ascoltami attentamente, Linde. Dove va tutto quel denaro in più? Pensi che sia stato speso? O smarrito? Pensa solo questo: avevi dieci dollari. Invece te ne ritrovi tredici oppure otto. E non è la stessa cosa. Va' a casa e pensaci su. Fine della conversazione». Linde tornò a casa più confuso che mai. Era sicuro che Venasque sapeva il fatto suo, sprizzava intuizioni e scintille di magia come una stella filante nel cielo il 4 luglio. Parlava per enigmi. Era un uomo umile. Perciò cos'era che aveva voluto dire? Nei giorni che seguirono, mentre si faceva sempre più vicino il momento in cui la sua fortuna sarebbe stata depositata in banca e chissà quale putiferio si sarebbe scatenato nella sua vita, Linde continuò a controllare il proprio portafoglio. La mattina aveva messo dentro due dollari e trentanove centesimi, ma alle quattro del pomeriggio si erano trasformati in quattro dollari e undici centesimi, e una volta persino in quindici dollari e quarantacinque centesimi. Il giorno seguente, con la massima attenzione, mise di nuovo dentro due dollari e trentanove centesimi. Ma alla fine della giornata se ne ritrovava immancabilmente di più o di meno, e sempre comunque una cifra del tutto
diversa da quella di partenza. Succedeva davvero di continuo? Era sempre andata cosi anche quand'era povero e credeva di conoscere il volto e il valore di ogni dollaro che aveva in tasca? Possibile? Comprò libri e riviste di finanza e li lesse finché non gli parve che gli si stessero liquefacendo gli occhi. Parlò a consulenti monetari, funzionari di banca, truffatori. Tutti gli dissero qualcosa di diverso. Era come se parlassero lingue differenti tra loro, per quanto l'argomento fosse sempre lo stesso, il denaro. Liquidità, fondi offshore, rinnovabilità, metalli preziosi, arbitraggio, aggiotaggio. Per controllare la fondatezza di una teoria che cominciava a formarsi nella sua mente, Linde chiese a un rinomato consulente finanziario quali fossero le chance di rinnovabilità in metalli preziosi se trasferiva il deprezzamento netto dei suoi titoli Dog Cusp e IRA in un fondo Finky Linky. Il consulente gli rispose che era maledettamente rischioso, ma possibile. Linde ritornò da Venasque e disse con uno sguardo d'acciaio negli occhi: «Sono i soldi! Parlano una lingua tutta loro! Tu puoi dire quello che vuoi e la gente crede di capire. In realtà, invece, nessuno ha la minima idea di cosa si stia parlando». Raccontò a Venasque dell'incontro con il consulente finanziario. Il mago sorrise. «Adesso sì che sei sulla strada giusta! Hai capito cosa succede nel tuo portafoglio ogni giorno?». Linde annuì e gli raccontò dei due dollari e trentanove centesimi stregati. Venasque era così eccitato che si mise a battere le mani come un bambino. «Esatto! E allora?». Linde lo guardò negli occhi e se ne uscì con una follia. «E allora voglio parlare con i soldi. Voglio che lei mi trasformi in denaro per poter parlare con loro nella loro lingua». «Bravo!», esclamò Venasque e trasformò il neo milionario in una banconota di un dollaro. La conoscete l'espressione «Il denaro parla»? È proprio così. È vero, anche se non ci sono accenti, né dittonghi, cediglie o umlaut nella lingua del denaro, che non è altro che un sussurro incessante senza interruzione né fraintendimenti. Ogni moneta, ogni titolo, ogni banconota, verde, rossa o blu che sia, parla e viene intesa senza fallo. I soldi non conoscono confini, né differenze d'altitudine, azimut o longitudine. Nel loro egoismo assoluto conoscono
soltanto il proprio valore e quello dei propri simili, vale a dire le centinaia di migliaia di pezzetti di piante o di rocce, di conchiglie o chissà che altro che in un tempo vicino o lontano sono stati trasformati in denaro. Tutto il resto non ha alcuna importanza. Perciò è vero che parla, ma nessun essere umano lo ascolta, né lo comprende. La banconota da un dollaro-Linde passò dal portafoglio di coccodrillo di un ricco signore alla tasca sdrucita di uno strillone, alle mani di una donna dalle unghie lunghe... Finché non comprese che non aveva bisogno che fosse la gente a decidere dove doveva finire. Poteva andare e venire quando e come voleva. Era libero di fare quel che voleva. Linde-banconota imparò in fretta il linguaggio del denaro, ma ci mise un po' di più a scoprire il suo grande segreto. E più precisamente soltanto dopo essere stato depositato in un conto dalle dimensioni paurose alle Grand Cayman, dove venne a conoscenza del "Piano". Molto tempo prima che ne parlassero i filosofi, i soldi (le monete e tutte le altre forme di baratto e di denaro esistenti) scoprirono il libero arbitrio. L'unico problema era che avevano bisogno dell'uomo per avere importanza e, in lui, un artefice. Così, senza fretta, ne parlarono all'interno della propria vasta comunità in continua espansione. E alla fine escogitarono il loro piano. Data l'impotenza del denaro senza l'uomo, e viceversa, malgrado esistano molti più soldi che uomini, fu stabilito di permettere all'uomo di credere di essere lui a decidere. Poteva venerare il denaro o trattarlo come se non contasse nulla, darsi a ogni genere di speculazioni finanziarie o disprezzare qualsiasi operazione del genere. Ma come si fa con un bambino che crede di dettare legge, il denaro avrebbe seguito premurosamente ogni mossa del proprio creatore a bocca chiusa. Purché non venissero commessi gravi errori. Dopo di che, in silenzio come i grossi banchieri svizzeri, avrebbe preso in mano le redini della situazione e portato a termine le correzioni necessarie, provocando un crollo finanziario qua, dando vita a un cartello monetario là, rovinando un democratico oggi, facendo trovare domani a una persona come William Linde più soldi in tasca di quanti non credesse di averne. Al denaro era sempre piaciuto giocare. Aveva un raffinato senso dell'umorismo e si divertiva a fare scherzi alla gente, saltando fuori dalle sue tasche o balzandovi dentro, il più delle volte con tale astuzia che nessuno
se ne accorgeva. Era un geniale trasformista che si esibiva per un pubblico estremamente ridotto ma caloroso. Di tanto in tanto c'era qualche essere umano che riusciva a capire cosa stesse succedendo, ma si guardava bene da spargere la voce, perché quella era l'unica richiesta da parte del denaro ai propri accoliti. Sappiamo quel che facciamo, perciò tenete la bocca chiusa e non ce ne dimenticheremo. Linde domandò perché al mondo c'erano persone tanto ricche e altre tanto povere. Perché Dio aveva lasciato al denaro la libertà di decidere, e questo, da parte sua, faceva del proprio meglio, ma nessun sistema è perfetto. C'erano delle ingiustizie. Dio? Ingiustizie? A quel punto sì che Linde si infuriò! Lo sapevano cosa significava desiderare ogni genere di cose che non si possono avere? Non avere bisogno, ma desiderare di riverniciare la propria casa o di poter comprare i biglietti per la partita di calcio. E non poterlo fare perché bisognava prima saldare i conti? Lo capivano cosa voleva dire «saldare i conti»? Certo. Ridendo, gli dissero di smetterla di parlare come un essere umano. Si risvegliò a casa di Venasque, sul divano, in soggiorno. Il vecchio aveva un bicchiere di tè freddo in mano. Linde balzò in piedi e puntò un dito contro il mago, come se lo ritenesse responsabile di ogni cosa. «Il denaro pensa con la propria testa e fa quello che vuole!». «Esatto», disse lui continuando a sorseggiare il suo tè. «Perciò non importa cosa deciderò di fare coi miei soldi, Posso anche spenderli tutti con le donne o darli in beneficenza. Non cambierà nulla. Perché potrebbero andare dove voglio io, oppure no. Potrebbero servire, oppure no. Chissà, magari si mette in mezzo qualche ingiustizia e tutti i miei piani vanno all'aria!». «Esatto». «E allora cosa devo fare a questo punto? Come diavolo potrò mai essere felice?». Venasque sorrise. «Eri felice quando studiavi il comportamento dei ricchi. Perché non fai la stessa cosa con il denaro? Studia un modo per spenderlo bene, così se arriva il momento giusto, almeno saprai cosa fare». Linde lo guardò accigliato. «Ma allora almeno ero sicuro che sarei diventato ricco prima o poi. Invece adesso non sono sicuro per niente che i soldi un giorno mi permetteranno di usarli in un modo o nell'altro».
«Dimostra al denaro che sai quello che fai. Convincilo che si tratta della cosa giusta». Da quel giorno la gente cominciò a dire che Linde era impazzito. Parlava al denaro. Ci discuteva per ore! Spese i suoi milioni di dollari (finché durarono) in modi strani, indecifrabili. Se qualcuno gli chiedeva cosa avesse in mente, si limitava a scrollare le spalle e rispondere: «Non chiedetelo a me, non sono io che comando». Dopo la laurea Perché mai il nostro cuore batte, una sigaretta accesa pian piano si consuma e alcuni cani hanno un buon odore? Una risposta c'è. Esiste una risposta per ogni cosa se la cerchiamo seriamente, ma quella volta Louis Kent non ebbe modo di farlo. Successe quel che successe e a quel punto non gli restò più nulla da fare. Si svegliò al suono della campanella. Uno squillo perfido e assordante che anche nelle lande nebbiose del sonno non gli fu possibile non riconoscere. «Cristo santo!». Si girò e vide un volto che non vedeva da quindici anni e aveva ormai quasi del tutto dimenticato: Deryl Sipp. Dall'angolo opposto della stanza questi mugugnò qualcosa e si coprì la faccia col cuscino. Deryl Sipp, diciotto anni, arrivato da poco a Tufts. Con le sue boccette di acqua di colonia italiana nell'armadio. Con una ragazza in paese e un'altra a New York. «Non è sabato? Perché diavolo non è ancora sabato?». Ce n'era voluto di tempo, ma a trentadue anni Louis Kent poteva finalmente dire di essere un uomo felice. Aveva un lavoro interessante, una moglie che lo trovava sexy, una bimba che la sera andava a letto contenta solo se c'era il papà a rimboccarle le coperte. Le cose avevano cominciato a girare nel verso giusto quando era arrivato all'università e aveva finalmente trovato quel che faceva per lui, dopo un penoso periodo di infelicità in un collegio per ragazzi terribilmente snob nel New Hampshire, dove gli insegnanti facevano ogni genere di favoritismi e nevicava venti volte in un anno. Quando si era diplomato e quegli anni di scuola avrebbero potuto diventare soltanto un ricordo, il collegio e le persone che vi aveva incontrato avevano invece iniziato a popolare le sue notti. Non si trattava di veri e
propri incubi, ma i compiti in classe di algebra, gli allenamenti di lacrosse19 e l'odore del dormitorio vi si ripresentavano non meno reali che in passato e lui spesso si svegliava con gli occhi sbarrati e il fiato corto. In quei sogni, tornato ragazzo, correva a lezione allacciandosi la cravatta, oppure entrava in classe il giorno di un compito in classe di storia con lo stomaco chiuso in una morsa. Avrebbe voluto gettarsi quegli anni alle spalle. Sua moglie gli faceva spesso notare che parlava di rado della sua adolescenza. Lui replicava nel suo solito modo calmo e gentile che non era piacevole rievocare un periodo durante il quale non ci si è divertiti neanche un po'. Non è così facile come a volte si crede liberarsi di ricordi che siamo sicuri di poter dimenticare col tempo. Un'espressione dipinta su un volto a causa di qualcosa che abbiamo fatto, un amore fugace di quando avevamo quattordici anni. Siamo creature intelligenti e razionali, ma non sempre siamo padroni di quanto ci accade. Kent sognava i tempi della scuola così come si accarezza la cicatrice di una vecchia ferita: con gelosia e delicatezza, rievocandone ansie e timori. I ricordi d'infanzia sono le nostre ferite e, pur detestandoli, spesso li accarezziamo e proteggiamo. «Mio Dio, sono le otto passate!». Sipp saltò giù dal letto in mutande bianche e corse in bagno. Louis rimase a fissare il letto vuoto. Sentiva, fuori, vociare, ridere, imprecare. Guardò stordito fuori della finestra e vide un cielo grigio come l'acciaio. Anche dopo quindici anni sapeva che gli rimanevano solo sette minuti per alzarsi, vestirsi e scendere in mensa per l'appello. L'appello! In quei quindici anni si era laureato con lode, aveva combattuto in Vietnam e aveva sposato una ragazza che avrebbe detto troppo bella, assolutamente impossibile, per lui. Sì, aveva fatto tutte queste cose, e invece eccolo lì ancora una volta intimorito all'idea di mancare all'appello. Sospirando, scostò lentamente le coperte. D'accordo, avrebbe accettato di recitare la sua parte in quel sogno come già tante altre volte. Sapeva che comunque si trattava soltanto di un sogno e quello almeno era rassicurante. Sapeva che nel bel mezzo dell'assemblea, oppure mentre sgranocchiava una barretta di cioccolata tra una lezione e l'altra, sarebbe stato catapultato all'improvviso di nuovo in un mondo ad anni di distanza, in cui non avrebbe più avuto un filo di acne, in garage lo attendeva un'automobile straniera acquistata un anno e mezzo prima e Ronald Reagan era presidente degli Stati Uniti. Fu colto dal primo vero shock quando si avvicinò allo specchio e si
guardò. Niente foruncoli! L'attaccatura dei capelli, all'orizzonte, era quella di un trentaduenne e c'erano tante rughe sulla sua pelle da farlo assomigliare a un adolescente affetto da progeria. Aveva la faccia del più vecchio liceale del mondo. Nei suoi sogni aveva sempre, sempre avuto di nuovo sedici o diciassette anni. Quel viso adulto era una novità inquietante. «Dai, Kent, muovi le chiappe!». Sipp schizzò dentro di nuovo puntando dritto verso il proprio armadio. «Se stamattina è di turno il Mangiatore di Uomini, siamo strafottuti». Lui rimase fermo immobile, con addosso il pigiama verde di flanella che ricordava di aver gettato via durante il primo anno di università. «Sipp, guardami!». L'altro lanciò uno sguardo alle proprie spalle e alzò gli occhi al cielo. «Cos'è che sei, finocchio? Sì, sei bello. Ma dobbiamo darci una mossa. Sbrigati. Vuoi beccarti un altro giorno di punizione?». Si girò di nuovo verso l'armadio e strappò da un attaccapanni una camicia tutta spiegazzata. «Se mi becco un'altra punizione non metto il naso fuori di qui questo weekend, e non se ne parla proprio, mio caro Louis». «Deryl, ho trentadue anni! Guardami!». «Kent, puoi avere l'età che vuoi. Io sto per alzare i tacchi e non ho tempo di preoccuparmi del tuo stato mentale». In pochi secondi Sipp finì di vestirsi e scrollando la testa tristemente alla volta del proprio compagno di stanza destinato ad arrivare in ritardo corse via. Kent si sedette sul letto prendendosi la testa tra le mani. «Mia figlia si chiama Lauren. Ho ventiquattromila dollari in banca. Il mio numero di conto corrente è 35203564. La mia macchina ha quarantunomila miglia». Con la testa tra le mani, continuò a enumerare i dati di fatto della propria vita: nomi di clienti, ristoranti eleganti, come a sua moglie piaceva baciarlo. Mentre recitava quella litania sacra, sentì di nuovo la campanella e comprese che la colazione doveva essere terminata, le preghiere in cappella concluse e la prima lezione della giornata iniziata. Poco più tardi (nel frattempo si era di nuovo buttato sul letto e aveva chiuso gli occhi), entrò il direttore del convitto chiedendogli con voce pacata: «Signor Kent? È tutto a posto, figliolo?». Louis lo guardò e gli rivolse un vago sorriso. «Signor Haller, ho trentadue anni. Mi sono diplomato nel 1968!». «Si sente bene, figliolo? Vuole andare in infermeria?».
«Haller, sono Louis Kent. Verso regolarmente il mio contributo al fondo degli ex alunni. Sono più vecchio di lei, Cristo santo!». Era vero. Il giovane insegnante si sedette sul letto disfatto di Deryl e strinse le ginocchia, racchiuse nei pantaloni di tweed, con entrambe le mani. «Louis, lo sai che io sono uno dei tuoi sostenitori più accaniti. Hai cervello, quando ti va di usarlo. Ma fare così, ragazzo, significa non usare la testa. Hai saltato le preghiere in cappella sei volte in questo quadrimestre senza giustificazione e questo non va bene». «Ma signor Haller, non vede? Sono un uomo! Ho trentadue anni. Non devo più scendere in cappella ogni mattina! Sono sposato! Ho una carta di credito dell'American Express!». L'altro si alzò in piedi sospirando. «D'accordo, Louis, faremo come vuoi tu. Rimani pure sul letto a fare lo scemo. Io ho lezione adesso. Ti ho detto tutto quello che avevo da dirti». Haller chiuse silenziosamente la porta dietro di sé e Kent rimase solo, e in preda al panico. Blasingame si sporse per dare un'occhiata al foglio di Kent, che era rimasto praticamente in bianco. Kent non ricordava nulla. Tutto quello che sapeva era il teorema di Pitagora, che non gli serviva gran che per il compito in classe di analisi, ahimè. L'altro sbuffò disgustato e tornò al proprio foglio. «Credevo di essere io lo stupido, Kent», bisbigliò perfidamente. Louis non riuscì a rispondere altro che un debole: «Ma io ho trentadue anni!». L'insegnante smise di scrivere alla lavagna e voltandosi di scatto gli tirò addosso una gomma da cancellare. «Kent, non sei furbo abbastanza per copiare. Per favore, non provarci neanche, così almeno non ci metti tutti in imbarazzo». Kent non riuscì in nessun modo a porre fine a quella storia. Durante l'allenamento di football qualcuno lo colpì con tale violenza che cadendo si ruppe una costosissima capsula che si era appena fatto fare dal dentista di Leonard Bernstein. Durante gli scatti al termine dell'allenamento, anni di sigarette senza filtro gli perforarono il torace come spietate lance roventi. Non gli importava un cavolo se gli altri avevano tutti vent'anni e gli facevano mangiare la polvere. Lui non desiderava altro che riaprire gli occhi e trovarsi nel suo letto, con Peggy accanto, sotto il meraviglioso Daunende-
cke che avevano comprato a Zurigo qualche anno prima, durante un suo viaggio di lavoro. Quel che è peggio è che non si stava allenando con la prima squadra, né con quella di riserva, peraltro: era nella squadretta interna della scuola, quella in cui finivano tutti i più tonti, sfigati, imbranati, quattr'occhi e due stanghette di Tufts. Non ci aveva messo molto a riconoscere le facce: Dave Miller, che teneva un topo in camera, non si faceva mai il bagno e al compito di fisica avanzata non aveva praticamente sbagliato una risposta. Tom Connolly, che era convinto che Savonarola fosse il più grande personaggio della storia, e Woody Barr, che non faceva altro che leggere riviste di armi e aveva la tessera del partito nazista americano. Ecco i suoi compagni di squadra, che in quel momento gli saettavano intorno, si lanciavano contro i pupazzi d'allenamento come frecce avvelenate e alla fine, quando lo videro crollare in mezzo al campo assalito da una tremenda fitta nel fianco, si misero tutti a sghignazzare. Fortunatamente l'allenatore era Rummelhardt, il professore di latino e greco, che lo faceva soltanto perché era parte integrante dei doveri di ogni insegnante e portava il suo collie nano, Oreste, a ogni allenamento. E quando vedeva che Kent rimaneva indietro, gli gridava cose del tipo: «Dai, Kent, corri! Non fare la pappamolla!». Più tardi, negli spogliatoi, i pochi compagni di squadra che fecero la doccia lo accolsero con un misto di pietà e di disgusto. Sapevano quale infimo livello di considerazione avessero all'interno della scuola. E trovavano difficile credere che esistesse qualcuno che li batteva. Soltanto Doug Prouty, famoso a Tufts perché era alto un metro e mezzo, gli si avvicinò per chiedergli se voleva andare nella sua camera, dopo, a leggere insieme a lui qualche vecchio numero di «Trenini elettrici». Mentre si rivestiva lentamente, entrarono nello spogliatoio i giocatori della prima squadra, ridendo, affaticati e carichi di fascino. E ancora una volta Kent li riconobbe tutti all'istante. Soprattutto Grey Harris. A diciotto anni Harris era l'immagine della perfezione. Aveva talmente tante qualità che lo guardavano tutti con stupore e una sorta di timor panico. Era cordiale, brillante, bello, atletico. Eccelleva in tutto e per di più senza fare nessuno sforzo. Davanti a lui si era costretti a fare qualche passo indietro e mettersi una mano davanti agli occhi per non essere accecati da tanto fulgore. Harris attraversò lo spogliatoio e appoggiò il casco tutto graffiato sulla panca di legno che li separava. Louis lo guardò con la coda dell'occhio
ricordando quanto era stato geloso di lui in passato. Con sua grande sorpresa Harris si voltò verso di lui e iniziò a parlargli a bassa voce. «Senti, Kent, hai tutti contro ultimamente. Capisci cosa significa?». Si chinò per slacciarsi le scarpe. «Haller è venuto da me alla fine delle lezioni e mi ha chiesto di parlarti. Per quel che mi riguarda, puoi fare quel diavolo che ti pare. L'unica cosa è che se ti becchi un altro giorno di punizione, sei sospeso, okay? E sarebbe un casino per la nostra squadra di dibattito. Lo sappiamo entrambi che sono tutte stronzate e se fossi tanto coraggioso, o matto, quanto te, anch'io salterei le lezioni a più non posso. Ma non è questo il punto. Sei il migliore, in squadra. Non ce la faremo mai ad andare in finale senza di te, chiaro?». Louis guardò Harris e annuì. Era commosso. Avevano bisogno di lui! Grey Harris aveva detto che lui e il resto della squadra avevano bisogno di lui. Harris lo guardò con un gran sorriso. «Sì? Farai il bravo per un po'? Favoloso! Grazie mille, amico. Perfetto!». E riprese a slacciarsi le scarpe. Un attimo dopo l'alone di magia che aveva avvolto Harris si dissolse e Louis si rese conto di quanto fosse ridicolo da parte sua sentirsi in colpa nei confronti della squadra di dibattito! «È una follia!». Harris alzò la testa e gli chiese con un sorriso angelico: «Cosa?». «Tu! Questa storia! Non me ne frega un cazzo della vostra squadra di dibattito! Ho trentadue anni!», gridò balzando in piedi e correndo fuori. Era davvero troppo. Quel sogno l'aveva invischiato talmente da allontanarlo dalla realtà. Andava anche bene sognare se a un certo punto ci si risvegliava, ma questa volta non sembrava esserci nessuno sviluppo in tal senso. E quella storia gli stava stritolando il cervello. Doveva fare qualcosa, al più presto. «Pron-to?». Era la voce di sua figlia, così reale, così chiara. Dentro alla cabina telefonica nella Frankfurt Hall Kent aveva davanti gli scarabocchi che da milioni di anni gli studenti avevano lasciato sulle pareti. «Ciao, piccola, è papà! È papà, piccola!». «Ciao, papà! Mamma, è il pa-pà». Il fracasso che seguì lo fece sentire tutt'a un tratto meravigliosamente vicino alla realtà. Sua figlia aveva lasciato cadere la cornetta sul tavolo. Quante volte l'aveva rimproverata, dicendole di non farlo? Ora, sentire rimbombare quel suono nelle orecchie lo fece trasalire di gioia e di speranza.
«Louis, ciao, tesoro. Come va la scuola?». «Peg, Peg, sono io!». «Lo so, dolcezza. Credi che non riconosca la tua voce, stupidino?». Rise per un attimo anche lui. Finché non ricordò cosa gli aveva chiesto: come va la scuola? «Peg, la sai una cosa?». «Cosa? Cos'è che devo sapere? Com'è andato il compito di analisi?». Piccole bombe a mano di ghiaccio e di terrore stavano deflagrando dentro di lui. «Peg, sono tornato a scuola! Pensano tutti che abbia diciott'anni!». «Louis, tesoro, sono stanca. La bambina oggi è stata tremenda e non sono proprio in vena. Vieni a casa questo weekend o no? Te l'hanno dato il permesso?». Kent non rispose. «Louis, cos'è che vorresti dire?». La voce di Peg era diventata dura e gelida come una roccia coperta di neve. «Hai fatto un casino nel compito?». La sentì ripetere quella domanda con un tono sempre più alto e abrasivo, mentre lui posava lentamente il ricevitore. Si appoggiò alla cabina e fissò le parole impresse in modo brutalmente indelebile sul muro davanti a sé. Schmalz, Powell, Grazioso. Tutti nomi che comparivano nell'elenco in fondo alla rivista degli ex alunni. Vicepresidenti di banca. Ricercatori. Falliti. Uomini di successo. Pesci grossi e pesci piccoli. Riconobbe persino i nomi di qualcuno che era morto. La campanella, il tormento quotidiano di quella sua nuova vita, interruppe le sue fantasticherie avvisandolo che era ora di andare in biblioteca a studiare. Sarebbe andato in biblioteca. Era un privilegio dei ragazzi dell'ultimo anno. Anche se erano in punizione. Sarebbe andato in biblioteca e si sarebbe messo a leggere qualche rivista, angosciato. Alla fine, quando sarebbe mancato un soffio al momento in cui il peso di quell'incubo l'avrebbe schiacciato soffocandolo inesorabilmente, si sarebbe alzato e avrebbe cercato tra gli scaffali qualche libro per l'argomento del prossimo dibattito: «Pena di morte: un passo avanti o indietro?». Angelo stanco Non mi conosci, ma non ancora per molto. Concedimi un'oretta per presentarmi. Anche meno, se leggi in fretta. Immagino tu sia una che legge sempre velocemente. Perché non hai tempo da perdere. Ti alzi per cambia-
re canale (malgrado quella scatoletta che hai accanto potrebbe farlo al posto tuo), sai esattamente dove sono le forbici e tutte le altre cose nella tua scrivania. Ogni mattina, ti metti un paio di mutandine pulite. Lasciami indovinare, bianche? E magari tieni un paio di slip neri, sexy, nel cassetto per un'occasione speciale? Ho ragione? Ci potrei scommettere. Ho pensato a te oggi al ristorante. Mi sono chiesto se avresti reagito come quella cameriera. Mentre correva di qua e di là, ha fatto cadere un bicchiere d'acqua. È finito per terra, facendo volare schegge di vetro dappertutto. Ma lei ha fatto finta che non fosse successo nulla! Non si è neanche fermata, ha continuato a fare quello che stava facendo come se niente fosse. Non ha smesso di correre, non ha pulito per terra. Per un bel po' di tempo grosse schegge di vetro sono rimaste per terra in mezzo al ristorante. Chiunque avrebbe potuto finirci sopra e lei non si è minimamente preoccupata di pulire! Non era sua intenzione che accadesse nulla del genere e così quando è successo ha ignorato la cosa. Per un po' il suo piccolo, stupido pianetino ha continuato a girare intorno a un sole inesistente... Insomma, mi sono chiesto se anche tu avresti agito allo stesso modo quando sarebbe arrivato il tuo momento. Se avresti fatto finta di niente, malgrado le folli telefonate nel bel mezzo della notte o il sangue nella borsetta, una gomma da masticare ancora calda e morbida sul cuscino, e altre cose del genere. Se avresti fatto finta di non vedere, lasciando le schegge sul pavimento e continuando a camminare scalza finché i pezzi di vetro non ti sarebbero penetrati talmente a fondo che. La chiamerò Toni. Non è il suo vero nome, ma mi piacciono le donne che hanno un nome che termina per "i", che pretenderebbe di suonare esotico e francese e invece risulta soltanto cretino e grazioso come il culo di un barbone. La mia Toni era una donna non particolarmente bella che con un po' di gusto e di denaro era riuscita ad avere un aspetto tutto sommato carino nonostante il naso troppo piccolo e la fronte troppo alta per compensare l'eccessiva rotondità del viso. Quando faceva l'amore, quella rotondità diventava ancora più evidente e le dava un'aria infantile e interessante. Per questo forse desiderava un naso più grande. Per avere almeno un tratto importante in un viso che altrimenti non aveva nulla di speciale. Conosco il suo volto così bene perché l'avevo osservato per mesi col mio binocolo prima di fare nulla. Non è un binocolo particolarmente potente, solo 7x21, uno di quelli che si usano a teatro per guardare l'ugola di un grasso cantante d'opera, ma funziona.
Scoprii Toni nel suo appartamento la sera che lo comprai. Mentre perlustravo con calma l'edificio sul lato opposto della strada, eccola lì, un piano più in basso. Potevo guardare attraverso le sue tende bianche trasparenti e vederla che guardava la televisione. Nuda! Sì, era proprio nuda la prima volta che la vidi. Piccoli seni, fianchi stretti... adorabile. Il sogno di ogni uomo, una donna da poter spiare che renda eccitanti le sue notti solitarie. La sua nudità non mi eccitò, ma me la fece piacere molto. Quella donna, a casa, si sentiva libera di fare quello che voleva: guardava la tivù tutta nuda a gennaio con una tazza di cioccolata in una mano e l'altra infilata sotto il sedere. A volte accendevo il televisore e cercavo di indovinare cosa stesse guardando. Il telegiornale, nuda? Oppure si spogliava per vedere il suo talk show preferito? Stava senza niente addosso davanti a Mel Gibson per poter fingere di mostrargli le sue bellezze? Le piaceva svestirsi non appena poteva. Adoravo guardarla passare da una stanza all'altra, spesso irrequieta a notte fonda, che non sapeva cosa fare, quando ormai mancava poco all'alba e lei avrebbe dovuto rivestirsi per uscire e recarsi al lavoro. Immaginai che fosse una donna d'affari, a giudicare dal gusto e dal prezzo degli oggetti nel suo appartamento, o almeno quelli che riuscivo a scorgere. Naturalmente non potevo avere accesso a ogni angolo della sua casa dalla visuale ristretta consentita dalle mie due finestre. Spesso trascorrevo sere intere al buio, camminando lentamente dalla finestra numero uno alla finestra numero due, osservando come Toni passava le sue serate. Aveva un finto arcolaio antico in un angolo e un comodo divano rivestito da un imperdonabile tessuto a fiori. Il televisore era quasi di spalle alla finestra, così a volte fantasticavo che stesse guardando me dalla sua poltrona, e non Channel Two. Una sera in cui non era a casa tirai fuori la pistola e sparai diversi colpi alla sua finestra. Non dal mio appartamento, naturalmente. No, salii sul tetto dell'edificio accanto, così che la polizia, quando venne a controllare, pensasse si fosse trattato del solito pazzo che si mette a sparare alle finestre di qualche povera vittima innocente. Non le domandai mai nulla in seguito, ma sono sicuro che quell'episodio le tornò in mente quando cominciarono ad accadere le altre cose. Ebbe tutto inizio in maniera spontanea. Non avevo deciso di volermela portare a letto finché non la vidi nel supermercato all'angolo una mattina che comprava un pompelmo. All'improvviso l'idea di fare colazione insieme la mattina mi parve splendida. Per la prima volta la desiderai fortemente. Così mi mossi nella sua stessa direzione attraverso il negozio, lasciando
che mi potesse scorgere di quando in quando, che capisse che la stavo guardando. Alla cassa era davanti a me, come previsto. Quando posò il pompelmo, sospirai e dissi che avrei voluto poter sceglierlo io quello e non essere costretto a comprare il pompelmo striminzito che avevo nel cestino. Non era il modo migliore per farmi amare dal fruttivendolo, ma Toni sorrise e cominciammo a chiacchierare. Niente di più semplice. Uscimmo insieme dal supermercato ed entrai nella sua vita. La prima volta che andai a casa sua mi avvicinai alla finestra, guardai fuori e salutai con un cenno le mie finestre. Ehilà! Quella fu anche la prima volta che facemmo l'amore. Una noia terribile. Chi avrebbe mai pensato che una donna che amava girare nuda a letto fosse tanto monotona? Credeva che muovere un poco le anche e lanciare qualche squittio alla fine fosse La dolce vita. Mi disse che ero l'unico uomo con cui aveva fatto l'amore che non aveva aperto bocca né fatto il minimo movimento al momento dell'orgasmo. Poi mi chiese scherzosamente se avevo raggiunto l'orgasmo. Risposi: «Sì». Le scomparve il sorriso ed esclamò: «Oh», come se avesse fatto capolino in una stanza off limits. Era così. Per prima cosa, perciò, le insegnai come fare l'amore. Imparò, ma non poteva essere sufficiente. A letto, quando chiacchieravamo, nella vita, non era neanche lontanamente altrettanto interessante dell'altra Toni, quella che vedevo col mio binocolo. In quel modo almeno potevo immaginare qualsiasi cosa. Nel suo letto, mangiando quel che aveva cucinato o ascoltando i suoi discorsi per nulla interessanti, era invece quel che era, niente di più. Non c'era niente da immaginare. Quante volte fuggii dalla sua casa, dalle sue braccia, dai suoi sogni, per correre a casa mia, prendere in mano binocolo e uccello e guardarla, nuda, svuotare il posacenere che avevo appena riempito, togliere il disco alle cui note avevamo ballato prima di andare in camera da letto un'ora prima. Il giorno del suo compleanno feci qualcosa che la conquistò per sempre. Da bambina la sua storia preferita era stata Peter Pan e mi raccontò scherzando che sperava ancora che un giorno arrivasse Peter Pan a portarla nell'Isola-che-non-c'è. Presi in affitto un costume verde da elfo e quella sera, con l'aiuto di una grossa fune che avevo usato anni prima per fare delle arrampicate in montagna, mi calai dal tetto del suo palazzo, in costume naturalmente, e bussai alla sua finestra. Eccomi! Sono venuto a prenderti, Toni! Guarda quella stella ed esprimi un desiderio... Fu così che mi guadagnai il mio soprannome. Quando aprì la finestra e
io mi infilai dentro, lei mi abbracciò chiedendo se non avessi avuto paura là fuori, a trenta piani di altezza. Dissi di no, ero solo un po' stanco. «Oh, il mio meraviglioso angelo stanco. Come ti amo!». Dopo di che avrei potuto metterle un guinzaglio al collo e chiederle di seguirmi come un cagnolino. Invece cominciai a fare le telefonate. È necessaria una vera e propria arte in questo genere di cose, come per ottenere un perfetto soufflé. Senza gli ingredienti migliori non si gonfierà mai. Certo, puoi metterti a dire a qualcuno al telefono che lo vuoi uccidere, ma è come usare uova di seconda qualità. Se invece per il tuo soufflé vuoi delle uova di qualità extra, devi spedire alla sua porta un impresario di pompe funebri a chiedere del compianto ai parenti in lacrime. Solo che per una volta sarà il compianto a essere in lacrime. Immaginate la costernazione dell'impresario di pompe funebri. O meglio, il terrore di Toni. La chiamavo dieci volte al giorno. Le dicevo che conoscevo la marca del suo reggiseno più bello, il colore delle piastrelle del suo bagno. Le dicevo che la amavo. Che la odiavo. E così via. Davanti alla finestra, con le luci spente, prendevo il binocolo in una mano e il telefono nell'altra, e chiamavo. Vedere il suo viso quando capiva chi era! Spesso metteva giù subito. Oppure chiudevo io, nel caso avesse chiesto di far mettere sotto controllo il telefono. La prudenza non è mai troppa. La guardavo scoppiare a piangere. La guardavo buttare giù la cornetta tremando. La guardavo coprirsi la testa e crollare a terra in preda alla disperazione. La cosa sorprendente è che per un mese intero non me ne parlò. Neanche una parola. Che coraggio, quella ragazza! Io andai su tutte le furie. Doveva subito chiamare la polizia! Chi credeva di essere quel pervertito! Le diedi un sacco di buoni suggerimenti e le mie parole la calmarono, rassicurandola. Era certa che una delle mie idee avrebbe funzionato. Ma non potevano, naturalmente, perché io ne ero a conoscenza e tenevo d'occhio ogni sua mossa. Quando lei si metteva il fischietto in bocca e fischiava nel ricevitore con tutto il fiato che aveva in gola, io scostavo il telefono dall'orecchio ridendo. Non appena aveva finito, prendevo io il fischietto e soffiavo tanto da spezzarle il timpano. E così via. La chiamavo nel mezzo della notte e le dicevo delle cose terribili. Poi, qualche minuto dopo, lei chiamava me dicendo, scusa, ma mi ha richiamato, per favore dimmi qualcosa. Dire qualcosa? Correvo da lei, la prendevo tra le braccia. Ero l'uomo
migliore che avesse mai avuto. Peter Pan, amante e amico nella buona e cattiva sorte! Qualche volta capitava che squillasse il telefono quando ero con lei, ma lei non rispondeva mai, andavo sempre a rispondere io. E due volte feci finta che fosse lui. Imprecando gridai: «La polizia è sulle tue tracce, maledetto bastardo!». Non avevo ancora deciso cos'avrei fatto dopo quando, una notte d'aprile, la chiamai. La vidi avvicinarsi al telefono e buttarsi dalla finestra. Booom! Che sorpresa. Tutto qua. Non ho nient'altro da raccontarti. Solo un piccolo indizio: potrei essere una persona che già conosci. Oppure no, chissà. In questo momento potrei essere nascosto da qualche parte che ti osservo. Hai mai pensato quanta gente, che non vedrai mai, ti guarda? A presto, il tuo angelo stanco La morte ti ama Non esiste al mondo suono più terrificante del battito del proprio cuore. Non è un'idea piacevole, ma è così. Quando si è attanagliati dalla paura, il nostro cuore è una belva che batte pugni giganteschi contro una porta chiusa nel nostro petto, chiedendo di essere liberata. Qualche minuto dopo l'incidente, vidi scritto su un muro, a caratteri bianchi alti almeno trenta centimetri, tutti storti: «La morte ti ama». Che cosa voleva dire? Chi in città poteva pensare che quella frase fosse tanto importante da dipingerla lì in mezzo al traffico? Certo poteva essere una battuta o un messaggio al mondo di un fan dei Grateful Dead, ma ebbi la sensazione che si trattasse di qualcosa di più. Mi chiamo Anthea Powell e sono una donna in carriera di un certo successo. Ho da poco passato la trentina, possiedo alcuni buoni titoli azionari, un piccolo condominio e soffro di un problema cardiaco. Da quando non sono più una bambina, ascolto il battito del mio cuore con timore e fascinazione. E il mio motore primo e pensiero costante dei miei giorni. Non voglio che la morte mi ami, non ancora. Andavo di corsa, volevo recarmi fuori città. Se mi chiedete perché, posso solo rispondere «Perché...». Perché pensavo che fosse necessario, perché l'orologio della mia macchina è sempre avanti. Perché non volevo arrivare in ritardo a Samara dove avevo un appuntamento. Conosco quell'incrocio, so che il semaforo è piuttosto lento. Era rosso quando sono arriva-
ta, rosso quando la Fiat bianca si è fermata dietro di me. Dal momento che ero lì che aspettavo con le mani in mano, senza avere altro da fare, guardai nello specchietto e vidi la macchina e l'uomo alla guida. Portava degli occhiali da sole, il che mi fece sorridere, visto che erano le nove di sera. Stava sorridendo? Non ricordo. Mentre il semaforo diventava verde, una bicicletta arrivò a tutta velocità alla mia sinistra. In quello stesso momento la Fiat accelerò e cercò di superarmi a destra. La bici era così vicina che ero sicura che l'avrei investita. Non potei fare altro che sterzare a destra, contro la macchina. Forse la bici non era poi così vicina, mi era solo sembrato così. Forse, chi può dirlo. Mentre andavo a sbattere contro la Fiat, il fracasso dell'urto fu coperto da un gran botto. Era scoppiato il mio pneumatico anteriore destro. I rumori di un incidente trasmettono un profondo senso di impotenza e amarezza. Nel momento stesso in cui accade, malgrado lo shock, si pensa con rammarico a tutto il casino che porterà con sé. Fermandomi, vidi il ciclista allontanarsi in mezzo al traffico. Avrei voluto tirargli il collo. Avrei voluto tornare indietro di trenta secondi per evitare di fare quell'errore. Avrei voluto potermela filare con la macchina ancora intatta. Sentii una portiera sbattere. «Dannazione!», esclamò una voce irata. Il proprietario della Fiat aveva ancora gli occhiali da sole addosso, ma la parte inferiore del viso e la sua bocca che si agitava furibonda erano abbastanza eloquenti. Aveva i capelli chiari e dimenava le braccia come un pazzo. Aprii la portiera e feci per scendere dalla macchina, quando una crisi improvvisa di aritmia mi lasciò per un istante impietrita, a occhi chiusi, terrorizzata. «Che cos'è, fuori di testa, porco cazzo?». «Può aspettare un momento almeno?». Senza rendermene conto avevo posato entrambe le mani sul cuore. Mi sembrava di essere un pezzo di carta che qualcuno aveva appena stracciato. «Aspettare? Senta, signora mia, ha appena fatto fuori il muso della mia macchina. Cosa vuole che aspetti?». «Ho un problema cardiaco». «E io ho un problema con la mia macchina!». Sentii una sirena avvicinarsi rapidamente alle nostre spalle e raggiunger-
ci in un attimo. Guardai quell'uomo praticamente per la prima volta. Si era tolto gli occhiali: soltanto allora compresi la ragione per cui li portava: era albino. Capelli biondi quasi argentei, ciglia di un bianco trasparente, carnagione chiarissima. Non so se avesse anche gli occhi rosa degli albini. Era troppo buio per riuscire a scorgerne il colore. La cosa che mi sorprese di più fu che la sua pelle bianchissima sembrava quasi scintillare e far stagliare la sua silhouette nell'oscurità notturna come un giocattolo o una torcia fosforescente. «Okay, cos'è successo?». Il poliziotto era un uomo corpulento, robusto, con una voce che ricordava un camion che ingrana la marcia. «È successo che questa mi è venuta addosso, porco cazzo». «Sta' attento a come parli davanti a una signora, bello mio». Guardai il poliziotto e cercai di ringraziarlo con un sorriso. Il mio cuore si era zittito, così scesi dall'auto lentamente ritrovandomi in mezzo ai due uomini. «Stavo ripartendo quando qualcuno su una bici mi ha tagliato la strada. Ho dovuto sterzare per evitarlo». «Sterzare addosso a me, vuol dire». «È vero». «È vero alla grande, cazzo!». Il poliziotto gli lanciò un'occhiataccia e scrisse qualcosa su un grosso bloc-notes che tirò fuori da una tasca sul petto. Era tutto grande: il blocnotes, la penna, la pistola marrone che scintillava sui suoi grossi fianchi. «E tu cosa facevi, la stavi sorpassando a destra, eh?». «Andava avanti come una lumaca. Dovevo pur passare». «Non andava avanti, stava cercando di evitare quella bicicletta. Non avresti dovuto cercare di sorpassarla. È per questo che ti ha urtato e puoi stare sicuro che è proprio questo che scriverò nel mio rapporto». La bocca dell'albino si spalancò ma poi si richiuse senza che lui avesse pronunciato una sola parola. Non credeva alle sue orecchie. «Che cazzo sta dicendo! Come fa a sapere che questa stronza le ha raccontato la verità?». «Prima di tutto perché ci sono dei testimoni e poi perché non mi sembra che tu stia sostenendo il contrario!». «Dove sarebbero questi testimoni?». Il poliziotto indicò un gruppetto di persone intorno alla macchina, che il suo compagno stava interrogando. «Dicono tutti che sei ripartito troppo in fretta e hai cercato di sorpassarla a destra. Mossa rischiosa, caro mio. Non permessa dal codice della strada,
peraltro. Significa che te la vedrai brutta se finisci davanti al giudice». «Non riesco a credere a quel che sta dicendo, porco cazzo!». «Non mi piace il tuo comportamento, biondino. Fammi vedere la patente». L'albino infilò una mano in tasca e tirò fuori un bel portafoglio rosso di pelle. Vidi che sopra aveva una decalcomania di Mezzanotte20, quell'orribile film dell'orrore che negli ultimi tempi va tanto di moda. «Ah, questa è bella! Ti rendi conto che è scaduta da tre mesi? Hai una patente di guida scaduta e rischi un'accusa di guida pericolosa, Bruce. Bruce... Beetz? Che diavolo di nome! C'è qualcos'altro di cui vuoi lamentarti, Bruce Beetz?», disse il poliziotto strizzandomi l'occhio. L'albino lo vide e fece una faccia come se avesse dovuto mandare giù un topo morto. Non appena arrivai a casa, cominciai a far scorrere l'acqua nella vasca. Per la seconda volta quella sera. Un bel bagno è una delle cose che amo di più e un segreto piacere in cui adoro indulgere. Come la mia eroina Bianche Dubois21, ogni volta che nella mia vita c'è qualcosa che va storto, apro il rubinetto. E faccio scorrere l'acqua calda, caldissima... più calda possibile. I medici dicono che è uno shock che non fa bene al mio cuore, ma è uno dei pochi casi in cui non li ascolto. Sono convinta che il mio cuore abbia un cervello e che lo sappia usare, per quanto a modo suo. Dal momento che vive dentro di me, deve averci ormai fatto l'abitudine a finire in una vasca d'acqua vicina all'ebollizione ogni volta che qualcosa ha reso la sua padrona un po' troppo nervosa. Versai nell'acqua qualche goccia di bagnoschiuma all'olio di cocco. Mentre guardavo vorticare sotto il getto quella chiazza perlacea e cremosa, dimenticai per qualche istante la mia macchina ammaccata e quell'uomo su tutte le furie e la sua auto dello stesso colore dei suoi capelli. Appesi i vestiti a un attaccapanni ed entrai tra le bolle fumanti. Provando un meraviglioso senso di gratitudine, mi rilassai subito ed ebbi appena il tempo di sbattere un paio di volte le ciglia appesantite che mi addormentai. Sognai di trovarmi in una città sconosciuta che, a quanto mi dicevano occhi e narici, doveva essere abbastanza grigia e triste per poter essere in un paese dell'Est, con ogni probabilità un paese comunista. Sofia o Praga, una città straniera in tutti i sensi. Un luogo traboccante di dolore, di una sofferenza anonima e silenziosa, in cui non ero mai stata prima, senza ombra di dubbio. Ancor più sorprendente era la persona con cui mi trovavo. Mi teneva stretta per mano un bambino che non conoscevo: un albino che indossava
un paio di jeans e una giacca blu, scarpe da ginnastica rosse e un berretto da baseball dei St Louis Cardinals dello stesso colore. «Come ti chiami?». «Bruce Beetz». «Quanti anni hai?». «Sette». «Sai dove stiamo andando?». Mi guardò accigliato. «Credevo che mi stessi accompagnando a casa». «Dov'è casa tua?». A quella domanda scoppiò a piangere. Gli strinsi la mano e cercai di sorridere per rassicurarlo. Non avevo idea di dove fossimo, né chi fosse quel bambino, a parte il fatto che doveva trattarsi dell'uomo che avevo appena investito da piccolo. Un sogno così strano e ridicolo, dall'inizio alla fine, che mi svegliai ridendo. Mi addormento spesso nella vasca e ancora non sono affogata, ma svegliarmi ridacchiando non è da me. Mi guardai intorno con occhi stanchi e arrossati, cercando di mettere a fuoco la situazione. Non scorsi nulla di nuovo intorno a me. Poi guardai nella vasca. Tra le bolle bianche c'era un'automobilina di plastica, una Fiat Uno, identica a quella di Bruce Beetz. Mi accorsi subito che il paraurti anteriore era stato ammaccato come era successo poco prima alla sorella più grande, la macchina vera. Un'esplosione di terrore. Un cuore che ti scuote come un albero in una tempesta ti avverte che quel che hai sulla punta della lingua potrebbero essere le tue ultime parole. Perciò assaporale e cerca di essere sicuro che siano quelle giuste prima di usarle. Vero terrore. Quella macchinina mi aveva gettato nel panico. Era una cosa impossibile, assurda, una forma di minaccia assolutamente mostruosa. Quell'albino era davvero entrato nella mia stanza da bagno mentre dormivo e l'aveva infilata nella vasca? L'aveva messa lì mentre sognavo di stringere la sua giovane manina in quella strana e remota città? E peggio ancora, si trovava ancora in casa mia in quel momento? Una donna che vive sola deve sapersi difendere oggigiorno. Ho due pistole in casa e l'ultima cosa che mi preoccupa è essere accusata di paranoia. Una la tengo sotto la vasca e l'altra dietro il letto. Sono regolarmente denunciate e mi sono allenata abbastanza al poligono di tiro per sapere come sparare a qualcuno se necessario.
Accertandomi che la porta del bagno fosse chiusa (lo era prima che entrassi nella vasca), mi asciugai in fretta e infilai jeans e maglietta. La pistola sotto la vasca è una trentotto, piuttosto pesante. Ed è sempre carica. Tolsi la sicura e mi diressi verso la porta. Il mio cuore stava ancora una volta battendo come un pazzo contro il mio petto. In punta di piedi perlustrai l'appartamento da cima a fondo. Non c'era anima viva. Tutto sommato me l'aspettavo, ma era così bello esserne sicura. Guardai in ogni possibile nascondiglio, dentro l'armadio, sotto il mio letto prima di dire: «Okay». Quando tornai in bagno, un brivido mi scese lungo la schiena come un'unghiata gelida. L'albino era entrato lì dentro mentre dormivo. Si era avvicinato abbastanza da allungare una mano e lasciar cadere quella macchinina nella vasca. Anche il fatto che mi avesse vista nuda non mi inquietava tanto quanto l'idea di quella mano bianca che s'immergeva nell'acqua in cui ero distesa e ne usciva gocciolante. In quel momento squillò il telefono. Risposi all'apparecchio accanto al lavandino. «Anthea Powell?». «Sì, chi parla?». «Una Fiat bianca senza più vita. Ti ricordi? Il tipo contro cui sei andata a sbattere. La macchinina nella tua vasca. Io». Avevo ancora la pistola in mano. La posai contro il ricevitore, come se potesse essermi d'aiuto in qualche modo. «Cosa vuoi da me? Cosa ci facevi in casa mia?». «Mi hai rovinato la macchina, Anthea. Devi pagare». «Cosa vuoi?». «Quello che mi devi. Un sacco di soldi». «Allora portala a mettere a posto. Dimmi quanto può costare e ci mettiamo d'accordo». «Non voglio metterla a posto. Ne voglio una nuova, Anthea. Comprami una macchina nuova e ti lascerò in pace». «Non essere ridicolo. Ti ho solo schiacciato un po' il parafango». «Voglio una macchina nuova, Anthea». «Non mi minacciare, Bruce. Ricordo il tuo nome. Non dimenticare che posso chiamare la polizia e raccontare tutto. Telefonate minatorie, irruzione in un'abitazione privata... Non è difficile rintracciarti. Non credo ci sia-
no molti albini in città che si chiamano Bruce Beetz!». Lui scoppiò a ridere. «Brucey! Credi sul serio che sia il mio nome? È morto, tesoro. La patente che ho mostrato al poliziotto? Era scaduta da tre mesi perché anche il vecchio Bruce è ormai "scaduto". L'ho presa dal suo cadavere e l'ho modificata un po'. È morto in un incidente d'auto. Strana coincidenza, eh? Fai quello che ti dico, Anthea, oppure giuro che ti faccio a pezzettini, cazzo». E riattaccò. Non dormii gran che quella notte. Tutti i sogni che mi tennero compagnia furono in bianco e nero e si svolsero in quella nuova città sconosciuta. Il piccolo Bruce Beetz e io camminavamo per strade illuminate da un chiarore alla De Chirico, bianco come la neve, oppure falciate in due da ombre spietate e punitive che dividevano brutalmente ogni cosa in luce o buio. Non accadeva nulla di speciale e non parlavamo molto. Ma ricordo che eravamo tranquilli e a nostro agio. Mi sembrava di sapere dove stavo andando. Il ragazzino lo sentiva e non si lamentava né piangeva se per caso sbagliavo strada o mi confondevo. «Qual è il tuo vero nome? Mi hai mentito prima. Non ti chiami Bruce...». Nascondendo il viso tra le mani scoppiò in una capricciosa risata infantile. «Sei arrabbiata con me?». «No, per niente. Com'è che ti chiami?». «John Cray». Continuava a nascondere il viso tra le mani. «Mi stai dicendo la verità stavolta?». Lasciò cadere le mani indignato. «Sì, mi chiamo John Cray. È vero!». Svegliandomi, guardai sul letto e vidi un libro posato sul cuscino a una decina di centimetri dal mio viso. Non avevo letto nulla prima di addormentarmi la sera prima, ero troppo nervosa. Afferrai il libro e cercai di leggere il titolo attraverso la nebbiolina che mi velava gli occhi assonnati: Adesso vengo a prenderti. Era un libro per bambini, con le pagine grandi grandi, molti disegni e poche scritte. Era la storia di un mostro venuto da un altro pianeta che arriva sulla terra a divorare un bambino. Aveva un finale dolce e divertente che avrei trovato adorabile se l'avessi letto in un momento diverso. Ma io non possedevo nessun libro per bambini. E la sera precedente non avevo portato quel libro a letto con me. Adesso vengo a prenderti. Quando ebbi finito, posai il libro e guardai fuori della finestra. Cosa potevo fare? Chiamare la polizia e denunciare un inesistente "Bruce Beetz"
che mi stava terrorizzando? Dargli i soldi che voleva anche se l'incidente non era certo accaduto soltanto per colpa mia? Cosa intendeva quando aveva detto che mi avrebbe «fatto a pezzettini»? L'elenco del telefono. John Cray! Tutto quel che era accaduto nelle ultime dodici ore era così folle che potevo anche mettermi a cercare nell'elenco il nome di un bambino apparso in un sogno in bianco e nero. C'erano due John Cray e un J. Cray. Era domenica mattina. Avevo tutto il tempo di provare a telefonare a quei tre numeri e vedere cosa succedeva. Sollevai il telefono e composi il primo numero. Mi rispose la voce di un afroamericano. Chiaramente non era la persona che cercavo, ma volevo che mi dicesse qualcosa di più di un semplice: «No», così... «John Crayon?». «Crayon? No, Cray, signorina, John Tyrone Cray. Cos'è, vuole fare la simpatica? Hai fatto il numero sbagliato, bellezza», esclamò ridendo prima di riattaccare. Al secondo numero rispose una donna anziana che mi disse con voce tremolante che suo marito John era morto sei mesi prima. Composi il numero di J. Cray senza grandi speranze. «Potrei parlare con John Cray, per favore?». «In questo momento non c'è. Vuole lasciare un messaggio?». «No, richiamo più tardi, grazie», risposi sorridendo. Dopo avere gironzolato per casa per qualche ora uscii e mi diressi verso il mio ristorante preferito. Un brunch domenicale da Chez Uovo è un buon modo di spendere sette dollari. Basta andarci un paio di volte che ti salutano come se ti conoscessero da sempre e ti offrono una fetta di dolce se hai un'aria triste o una delle tue torte preferite è stata appena sfornata. Mi piaceva sedermi accanto alla finestra e guardare il silenzioso via vai sul marciapiede. Visto che era ormai metà pomeriggio, il ristorante era semivuoto. Mi ero praticamente appena seduta al mio solito tavolo quando Walter, il capo cameriere, arrivò con un drink in mano. «Che cos'è?». «Non te lo posso dire, Anthea. Bevilo, sarà una sorpresa». Guardai il bicchiere e sorrisi. Era un kir con una fettina di limetta, il mio aperitivo preferito in assoluto, anche se poche persone al mondo potevano saperlo. L'ultimo a cui l'avevo detto era il mio ex fidanzato, Victor Dixon. Era stato lui a dire a Walter di portarmelo?
«Chi me lo manda, Walter?». «Non dovrei dirti neanche questo, ma non importa. Il tipo al bancone con quello splendido giubbotto di Gaultier addosso». Vidi al bancone un uomo che mi voltava le spalle. Aveva i capelli scuri e indossava un giubbotto color lampone con una scritta nera in cirillico in fondo. Era molto vistoso ma decisamente magnifico. Victor Dixon non amava gli abiti troppo appariscenti. «Chi è, Walter?». «Non lo so. Mi ha chiesto di preparatelo dicendo che ti piace. E mi ha allungato cinque verdoni. Bye bye». S'è allontanato fischiettando Love Is in the Air. Chi era? Come faceva a sapere che quello era il mio aperitivo preferito? Mentre lo guardavo sperando che si girasse, sentii crescere dentro di me una sensazione di attesa calda e sensuale. Ma lui sembrava non avere nessuna intenzione di girarsi e la cosa alla fine mi infastidì un po'. Quell'aria di mistero era sexy, ma non mi piacciono i giochi troppo lunghi, così dopo un po' tornai a guardare fuori della finestra. «Posso sedermi?». Voltandomi, sorpresa da quell'improvvisa apparizione, vidi soltanto i suoi capelli neri e lisci e gli occhiali da sole da pilota. No, aveva anche una bella mascella. Forte e squadrata. «Come fai a sapere che mi piace il kir con la limetta?». Si tolse gli occhiali. Era Bruce Beetz. «So un sacco di cose di te, Anthea. Tieni il diaframma in una scatola di plastica viola nel comodino. Mangi solo tonno "Bumblebee" e russi un po' quando dormi. Devo continuare? Tuo padre si chiama Corkie. Corkie Powell. Tua madre è morta. Hai un fratello e due sorelle. So un sacco di cose di te, Anthea». «Perché?». Sorrise, scrollando le spalle. «Devo conoscere i miei polli». «E chi ti ha detto che io sono un pollo, John?». Smise di sorridere. Era il mio turno adesso. «Ti chiami così, non è vero? John Cray». «Come fai a saperlo?». Mi cominciò a tremare la mano che tenevo posata sulle gambe. Strinsi il pugno, poi rilassai le dita distendendole. «Ti ho sognato. Non so se sei scappato fuori da un mio sogno o se ci sei finito dentro». Si alzò. «Di cosa cazzo stai parlando?».
«Dove sono i tuoi capelli da albino, John Cray? Scomparsi insieme a Bruce Beetz?». Agitandomi contro il dito sibilò: «Ti ho studiato! So un mucchio di cose di te, Anthea!». Scrollai le spalle, sorridendo. «Vuoi dire che il nostro incidente non è stato casuale?». Mi puntò il dito contro. «Non commettiamo mai errori. Non sbagliamo mai quando scegliamo la gente!». «Forse io non sono come l'altra gente». Walter guardò Cray andarsene poi si avvicinò. «Un po' rapida come storia d'amore. Cosa gli hai detto, Anthea, che hai l'AIDS?». Bevvi il mio kir e sollevai il bicchiere vuoto per chiedergli di portarmene un altro. «Più o meno. L'avevi mai visto, Walter?». «No, ma è un tipo affascinante, non c'è dubbio». «Vuoi dire una tipa affascinante». Walter mi rivolse uno sguardo sinceramente sorpreso. «No! Coi tempi che corrono sono diventato un esperto a capire chi ho davanti. Non ci credo che quella era una donna, Anthea». Annuii spingendo il bicchiere verso di lui. «Sì, Walter, era una donna. Fa di tutto per nasconderlo, ma il mento la tradisce. È troppo morbido». «Il suo John Cray è in realtà Joanne Cray. È una donna e vive insieme alla sua compagna, Petra Hackett. Probabilmente era lei quella sera, in bici. Mettono in scena tutta una serie di situazioni di questo genere. Hanno entrambe fatto le attrici, ma senza grande successo. Così adesso fanno i soldi spaventando la gente. È un buon business oggigiorno». «Spaventando la gente in che modo?». Accavallò le gambe e prese un'altra sigaretta dal mio pacchetto. «In ogni modo. Più che altro esercitando grosse pressioni su di loro». «Che genere di pressioni?». «Ricatti. Ho sentito dire che una volta hanno rapito un bambino, ma sono solo voci. Terrorizzano le loro vittime per convincerle a fare quello che chiedono. Come hanno provato a fare con lei». Scoppiò a ridere appoggiandosi allo schienale della poltrona. «Cristo santo, se solo sapessero chi sono andate a stuzzicare, eh?». Mi lisciai la gonna e spinsi una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Cos'altro?».
Guardò il bloc-notes posato sul ginocchio. «Nessuna delle due ha la fedina penale sporca. I travestimenti che usano convincono la maggior parte della gente che si tratti di due uomini. E poi si spostano di continuo da una città all'altra. Ma nel giro si parla bene di loro». «È sicuro che facciano davvero al caso nostro?». «Assolutamente. Non c'è il minimo dubbio». Gli feci cenno che poteva andare. Si alzò immediatamente. «Posso fare qualcos'altro per lei, signora Powell?». Era sempre pronto a collaborare: una delle sue poche qualità positive. Per il resto non era altro che uno dei tanti topi di fogna intriganti e ficcanaso di cui mi servivo quando ne avevo bisogno. «No, grazie. Mi farò viva io». S'inchinò con il cappello in mano e se ne andò. Mi rilassai e mi misi a guardare fuori della finestra. Prima di tutto volevo vedere coi miei occhi come stavano esattamente le cose. Non posso fidarmi delle opinioni altrui. La macchinina nella vasca e il libro sul letto mi erano piaciute, come idee, ma potevano essere due trovate fortunate, come il tenore che emette un acuto una volta nella sua vita e trascorre il resto della sua carriera cercando invano di ripeterlo. E io cercavo ispirazione vera, genialità, non fortuna. Solo ai geni è permesso di far parte della nostra schiera. Così le tenni d'occhio. Bruce Beetz/John/Joanne Cray amava giocare la carta della sensualità. Rimorchiare qualcuno in un bar travestita da uomo, portarselo a casa dove trovavano Peter (Petra) ad aspettarli, oppure rimaneva da sola con la povera vittima ignara di tutto coinvolgendola in qualche scenetta sexy e imbarazzante. Niente di speciale, come scattare qualche fotografia che un paio di giorni dopo avrebbe minacciato di sventolare ai quattro venti come la bandiera libanese se il poveretto non accettava di fare quel che gli veniva chiesto. La cosa più interessante però è che le due ragazze non chiedevano solo denaro o cose altrettanto ovvie. Qualche volta volevano vedere la gente umiliarsi. Costrinsero un'impicciona a passeggiare nuda in un centro commerciale e finire arrestata per atti osceni. Un poveretto dovette fare una proposta oscena a suo figlio rovinando così per sempre, in un istante infernale, un rapporto splendido. Un pomeriggio, seduta in macchina fuori del palazzo in cui abitavano, mi addormentai e sognai ancora una volta il bambino e quella misteriosa città. Soltanto che questa volta eravamo in tre. I piccoli John Cray e Peter
Hackett mi tenevano entrambi per mano mentre camminavamo contenti per le strade anonime e grigie di quella città. «Quanto manca, Anthea?». «Poco, John. Un paio di isolati, credo». «Posso venire anch'io?». «Certo. John me l'ha già chiesto e gli ho detto di sì». John guardò Peter e mi girò intorno per mettere un braccio sulle spalle del suo amichetto. «Anthea mantiene sempre la parola». Mi guardarono e sorrisero. Sorrisi anch'io. So che non sono un gran che come narratore. Potrei fare di meglio, ma non è una cosa che mi appassioni. Tralascio deliberatamente alcuni dettagli e ne ignoro altri se non mi interessano. Racconto le barzellette in modo orribile. Comunque sia, questa voce sta cominciando ad annoiarmi. Non sono Anthea Powell, anche se la sua fragilità e la sua insicurezza mi affascinano (e ispirano altri). L'ho usata spesso quando vengo qui durante i miei... viaggetti, insieme a quel pidocchioso del mio detective, per fare il lavoro più sporco, ficcare il naso, inscenare la commedia, seminare qualche trappola in giro. Siete confusi? Bene! Rimanete con me un altro po' e vi spiegherò tutto. Avrei potuto continuare così fino alla fine. Ma voglio vedervi rabbuiare quando, ancor prima di tirare la cordicella e pregare che il vostro paracadute si apra, capirete che ha qualcosa che non va. P.S. Non si aprirà. Le tenni d'occhio per settimane. Erano entrambe davvero brave a dimostrare al mondo che accadono cose senza senso e la crudeltà veste spesso nuovi colori. È un vero talento, anche se oggi come oggi è sempre più diffuso. Solo i cattivi sono in grado di sopravvivere. È un po' come a Hollywood negli anni Trenta: tutte quelle belle ragazze che si tingevano i capelli alla Jean Harlow e andavano da Schwab's nella speranza di essere scoperte, anche se alla fine ben poche riuscivano a sfondare. Quando ebbi visto abbastanza, feci fuori Petra Hackett. Non era brava come la sua amante e c'era posto solo per una delle due. La uccisi nel suo appartamento mentre Joanne era fuori per il weekend. Al suo ritorno, la domenica sera, trovò la tavola apparecchiata con tanto di posateria d'argento, bicchieri di cristallo e tovaglia di lino. Avevo preparato una cena con cinque portate e come piatto forte un tacchino di dodici chili. Petra era seduta sulla sua sedia in un abito di seta color malva con il
tacchino cotto alla perfezione e ancora fumante piantato sulla testa. Ma Joanne superò l'esame a pieni voti! Entrò e guardò la sua vita sgretolarsi con estrema calma. Io uscii dalla cucina con un berretto da chef e una torta salata in mano. «Hai fame? C'è un sacco da mangiare». Mi guardò. «È morta?». «Soffocata. Con una Fiat». Mi portai una mano sul collo. «Un'automobilina bianca infilata in gola. Tennessee Williams ha fatto una fine simile22. Lo sapevi?». «Chi sei?». «Anthea! Una delle tue vittime, Joanne!». Sorrise tristemente. «Ho scelto la persona sbagliata, eh?». Battei le mani fingendo costernazione. «Al contrario! È arrivato il tuo grande momento. È per questo che hai fatto tutto quello che hai fatto. Stavi cercando proprio me! Ti va di venire a vedere?». Domandò con tono civettuolo: «È qualcosa che mi piacerà? Stavo cercando proprio te? Buffo». «È così, te l'assicuro. Vieni, ti faccio vedere». Allungai il braccio e la presi per mano. Era calda e asciutta. La condussi fuori e scendemmo giù. Davanti alla porta del palazzo, le chiesi: «Davvero non hai idea di dove stiamo andando?». Scrollò le spalle e disse: «Forse, ma non ne sono sicura». «Siamo quasi arrivati comunque. È qui, dietro l'angolo». Non appena fummo fuori, sentii la sua mano farsi sempre più piccola fino ad assumere le dimensioni di quella di un bambino. Guardai quella ragazzetta albina che mi camminava accanto e le strinsi la mano. «E Petra, Anthea? Avevi detto che poteva venire anche lei». «Be', qualche volta è necessario dire delle bugie. Pensavo che potesse, ma mi sbagliavo. Sei arrabbiata?». Scosse la testa. «Nooo, tanto è una scema. Quanto manca?». «Due minuti». Arrivammo in quasi due minuti esatti. Entrammo nell'edificio e scendemmo le scale. Davanti alla porta del seminterrato tirai fuori la chiave, aprii la porta e cominciammo a scendere in una stanza immersa in un'oscurità quasi totale. «Non vedo niente, Anthea!». «Non ti preoccupare, tesoro. Lo conosco bene questo posto». La condussi attraverso il buio con una mano tesa davanti per non rischia-
re di andare a sbattere contro qualcosa. Avevamo quasi raggiunto l'angolo opposto della stanza, quando toccai una scala a pioli. «Eccoci». La spinsi davanti a me e posai le sue manine sul primo piolo. «Sali. Sono venticinque scalini. Più facile di così». Cominciò a salire. Io rimasi alle sue spalle, per sicurezza. A metà scala si cominciò a sentire un odore dolce e zuccheroso, tanto intenso da essere quasi nauseabondo. «Sento odore di torta». «Continua a salire, tesoro. Siamo quasi arrivati». «Sono arrivata! Sento qualcosa quassù». «Prendine un pezzo e assaggiala. È la tua torta preferita». «Cioccolato! È una torta di cioccolato, Anthea!». «Sì, Joanne. Adesso aprila. Sono tutti lì che ti stanno aspettando». Sentii una specie di fluff, un coro di voci festose sopra la nostra testa e un lampo di luce bianca ci abbagliò. La bambina era ormai in cima alla scala. La seguii alla luce, in mezzo a quelle grida di «Urrà, Joanne!». Mi guardai intorno. C'erano tutti, tutti quelli che meritavano di essere lì, dopo la fatica che avevano fatto nella loro vita. Anime splendide. Le più laide e immonde della terra. «La morte ti ama, Joanne. Benvenuta a casa!». Florian «Avevano il bambino più bello del mondo. Sul serio. Quando era ancora in carrozzina, la gente lo guardava con tenerezza e rimaneva stupefatta. I genitori finirono per adottare un'espressione d'impotenza, che diceva che anche loro non se ne capacitavano: sì, era loro figlio, ma una tale eterea bellezza era altrettanto incredibile e incomprensibile per loro quanto per quelli che rimanevano senza parole vedendolo per la prima volta. I tibetani vivono con l'Himalaya dietro casa, ma non è merito loro. Hanno semplicemente la fortuna di avere una vista simile in cortile. Il padre cercava a lungo nei negozi di giocattoli qualcosa che potesse essere degno dell'attenzione di un bambino come il suo: bambolotti che parlavano quattro lingue e rispondevano a domande complicatissime, palloni che gli sarebbero corsi incontro al suono del proprio nome, matite colorate che non si sarebbero consumate mai. Gli comprò un gatto di nome Fib che mentiva tanto bene e con tanta simpatia che nessuno capiva quando dices-
se la verità, ma tutti erano contenti lo stesso. Vivevano in un piccolo appartamento accanto a una stazioncina ferroviaria in campagna. I genitori lavoravano entrambi nella stazione. Il padre vendeva riviste e sigarette al Tabak, la madre, nella sua uniforme da cameriera, correva da un tavolo all'altro servendo ai ferrovieri tazze di tè tanto calde e grosse da poter aprire con il loro vapore qualsiasi busta al mondo. Viaggiatori infastiditi, ignari della fortuna che era loro capitata a trovarsi lì, continuavano a chiedere quando sarebbe arrivato il prossimo treno, quanto costava un caffè, di chi era quel bambino che di tanto in tanto, se in casa si annoiava, attraversava la sala in volo sul suo aeroplanino dello stesso colore di un uccello azzurro. Le locomotive gli insegnavano i segreti del ferro e dell'acciaio e come rallentare con grazia. Il bambino le osservava attentamente e imparava a trainare centinaia di automobili o ad abbassare le sbarre di un passaggio a livello a tre miglia di distanza. In verità non esisteva luogo al mondo abbastanza bello per un bambino simile. Florian era il suo nome». Sua moglie entrò e attese che avesse finito di scrivere prima di parlare. «La temperatura non è ancora scesa». L'uomo guardò il nome del figlio - FLORIAN - stampato sul foglio che aveva davanti. Chiuse gli occhi. Comprese che non c'era speranza. Non c'è tanto spazio per la magia al mondo. Non abbastanza perché tutti ne possano godere, di certo non a sufficienza per salvare un bambino scrivendo un racconto. Come il bambino magico della storia, suo figlio aveva attraversato i primi anni di vita senza finire nelle grinfie di nessuna malattia infantile: niente orecchioni, niente morbillo, niente varicella. I suoi genitori avevano creduto che si trattasse di una piccola dose di fortuna, niente di più. Erano convinti che prima o poi le avrebbe prese e, a parte un visetto a pois per una settimana, sarebbero passate senza colpo ferire. Lui sarebbe cresciuto e un giorno, andando in bici in modo un po' troppo spericolato, cadendo si sarebbe rotto un braccio. Una brutta botta: un gesso o forse due avrebbero segnato il passaggio dalle tre alle due ruote. Oppure arrampicandosi su un albero sarebbe scivolato provocandosi una profonda cicatrice, non troppo grande, ma che gli sarebbe rimasta per tutta la vita, sul mento, sulla sua guancina perfetta. Ma era polmonite. Una tosse autunnale s'era fatta sempre più limacciosa
e profonda, accompagnata da una febbre tanto alta da mettere in fuga i polpastrelli. Era stata necessaria la tenda a ossigeno: comica e mostruosa cugina di quella scatola in cui si tengono le carote in frigorifero. I suoi libri preferiti rimanevano posati in grembo, chiusi. I felici animaletti di stoffa, fermi accanto alle manine calde e immobili sotto la tenda, sembravano vivide gocce di colore dentro quel guscio trasparente e asettico in cui il bambino avrebbe vissuto gli ultimi giorni della sua vita. Il bambino guardava i genitori con gli occhi compassionevoli e senza età di chi ha visto l'impossibile prima di far ritorno a casa per brevissimo tempo: vittime di guerra, centenari, agonizzanti. Non voleva mai nulla, né un succo di frutta fresco, né che gli leggessero una storia o gli tenessero la mano. Era una cosa che li rendeva pazzi, costringendoli a tornarsene a casa accompagnati dalla loro inutilità, e li spingeva a odiare se stessi e detestarsi l'un l'altro. Era facile capire perché. «Scrivigli una storia. Sei o non sei un famoso scrittore? Questo almeno puoi farlo, no?». Gli occhi di lei lo accusavano di tutto e di niente. Ma aveva ragione. Poteva almeno scrivere una storia per suo figlio. Vivevano in Austria, in aperta campagna, vicino a una stazioncina ferroviaria in cui ogni giorno si fermavano due treni in miniatura per qualche minuto nel loro buffo vai e vieni da Vienna. Lui aveva sempre desiderato vivere vicino a una stazione ferroviaria. Col successo ottenuto dal suo libro, aveva avuto all'improvviso i mezzi per comprarsi una casetta alla Hansel e Gretel, con tanto di arredamento bauern, bassi soffitti a botte, la data "1849" dipinta rozzamente sulla porta d'ingresso. E soprattutto una bella vista sulla stazioncina al di là di un campo di giovani pini. Gli faceva piacere pensare che un giorno suo figlio avrebbe avuto la possibilità di decidere se tagliare i pini per non perdere la veduta oppure lasciarli crescere e avere la sua piccola foresta. Ma il bambino morì prima che la storia scritta dal padre fosse terminata. Le sue dita non si mossero più, il respiro un giorno decise semplicemente di arrestarsi invece di continuare a farsi strada attraverso la sua pelle calda e stanca. «Quando Florian aveva cinque anni, suo padre lo portò a Vienna una domenica, al Prater. Florian avrebbe voluto arrampicarsi sui cavi della Riesenrad e guardare dall'alto la città che un giorno sarebbe stata sua. Ma suo padre non glielo permise. E così pagarono il biglietto e salirono sulla grande ruota panoramica nella giusta maniera. Ma Florian si annoiava.
Quando suo padre si voltò ad ammirare lo spettacolo del Wienerwald, aprì un finestrino e scivolò fuori, nell'aria tagliata soltanto dalle linee tracciate dalle ali dei passeri e dai cavi d'acciaio che sostenevano quella ruota gigantesca. Quando il padre tornò a guardare davanti a sé, non fu sorpreso di non scorgerlo più. Non è possibile trattenere un lampo con la mano, o legarlo al guinzaglio». Lesse quella parte alla moglie e poi posò i fogli per bere il suo tè. Lei aveva i capelli dello stesso colore del tè, un tè rimasto in infusione troppo a lungo, ora che suo figlio non c'era più, di una sfumatura più scura del caldo rosso autunnale, che avevano quando il bambino era ancora vivo. «Perché vuoi farmi ascoltare questa storia? Non capisci che sofferenza è per me? È morto ormai! Perché non la smetti e non scrivi qualcos'altro, Cristo santo? Non ha più bisogno di storie. Ogni volta che dici "Florian" mi dai una pugnalata al cuore». «Ma questo racconto è Florian, non capisci? L'ho incominciato quando era vivo e finché continuerò a scriverlo, in un certo senso lui continuerà a vivere». «Oh, davvero? E dove?». Quelle parole affiorarono come perfida schiuma alle sue labbra. «Io non lo sento da nessuna parte, e tu? Non vedo i suoi giocattoli sparsi dappertutto. Sono chiusi in una scatola in cantina. E i suoi vestiti sono sempre puliti adesso!». Si alzò e, sopraffatta da tanto dolore, scappò via desiderando soltanto la propria morte, e quella di lui, di ogni cosa al mondo. Lui si mise la giacca e uscì in quella notte d'inizio primavera. Per tre giorni c'era stato il sole e un raro tepore fuori, per quel periodo dell'anno, solitamente molto più grigio e freddo. Il manto di stelle sopra la campagna buia lo fece sentire perso, svuotato. Desiderava soltanto scrivere una storia per suo figlio anche se era morto ormai. Si diresse verso gli alberi, scure e basse ombre contro la terra di un azzurro lunare. Nel villaggio si sentì abbaiare un cane solitario e un'automobile sfrecciò nella notte. La notte era traboccante di doni segreti: l'odore dei pini coperti di rugiada, le stelle cadenti, i suoni di animali che si muovevano invisibili nel buio. Ma lui era solo e troppo intimorito per accogliere quei doni. Era troppo giovane e pieno di successo per pensare alla propria morte, ma la bilancia della sua vita pendeva da una parte ormai e non aveva alcun desiderio di reggere il peso che gli era stato gettato sulle spalle. Suo figlio era morto,
sua moglie chiusa dietro la cortina impenetrabile di un terribile senso di colpa. La porta si aprì ed entrò suo figlio, pronto per andare a letto. «Pa-pà, ti ho portato regalo». Posò la penna e guardò il bambino di cui stava scrivendo la storia, anche se era ancora un po' più piccolo di quello nella sua storia. «La mamma dice che lavori, ma io portato regalo». Il bambino, col suo recente taglio di capelli estivo da fraticello, gli porse una costruzione azzurra di Leg tutta storta. «A-roplano, pa-pà, guarda». Posandolo sulla scrivania del padre, cominciò a spingerlo avanti e indietro, imitando quello che secondo un bambino di tre anni dovrebbe essere il rumore di un aeroplano. Corse sopra le pagine che lui aveva appena scritto, sopra il posacenere rosso vuoto, sopra un pacchetto di sigarette ancora chiuso. Dall'altra stanza lui sentì la voce della moglie che lo chiamava, avvisandolo che il papà stava lavorando ed era meglio che uscisse immediatamente dal suo studio... altrimenti! Il piccolo lanciò un'occhiata vittoriosa al padre e corse via. Nell'altra stanza il televisore era acceso. Ne sentiva le voci, in tedesco, e sentiva il bambino che giocava e i passi di sua moglie, più lenti e pesanti adesso che era quasi giunta alla fine della gravidanza. Come al solito le aveva letto la storia man mano che si era andata sviluppando. Lei gli aveva dato qualche buon suggerimento, utile, ma lui si era chiesto cos'avesse sinceramente provato ascoltandola. Come poteva accettare il racconto della morte, per quanto fittizia, del bambino che amava così profondamente, dell'amarezza e della follia che lui le aveva assegnato in quella storia strana e, tutto sommato, inutile? Qualche giorno prima lui aveva accompagnato il bambino nel parco a giocare con la sabbia nel recinto dei giochi. Era da poco passata l'ora di cena e non c'era nessun altro bambino in giro. Suo figlio, senza paura, si era arrampicato agilmente sul castello metallico e aveva cominciato a strisciare dentro e fuori da quel rosso labirinto. Mentre lui lo guardava giocare, gli era venuta in mente una frase. «Avevano il bambino più bello del mondo». Era venuta fuori così, da chissà dove, ma gli era piaciuta e aveva cominciato a giocarci come con una bilia tra le dita. La vita del mio crimine
Non so nulla di cavalli. Sono scenografici, nervosi, spesso molto belli. Ma mi lasciano del tutto indifferente. Come può un animale tanto grande e possente lasciarsi domare in quel modo? Stavo passeggiando nel parco con la mia cagnolina. Era un meraviglioso pomeriggio di inizio primavera, carico di odori intensi, lussureggianti. Adoro dimenticare i profumi della stagione appena trascorsa per imparare a conoscerli di nuovo come fosse la prima volta. La mia cagnolina era pazza di gioia. L'avevo sciolta e correva eccitata di qua e di là. Non sapeva dove andare, voleva vedere tutto, annusare tutto. È ancora giovane, sciocca e affettuosa. Ci stavamo godendo la reciproca compagnia. Ci sono due sentieri paralleli nel parco, uno per i pedoni e l'altro per chi va a cavallo. La mia cagnolina non sapeva cosa fare quando quelle montagne in movimento ci trottavano lentamente accanto. Invece di lanciarsi all'inseguimento, si arrestava e guardava passare quegli animali sconosciuti ferma immobile, unico segno di vita la sua lunga coda bianca che si muoveva avanti e indietro come un tergicristallo alla velocità massima. Avevamo passeggiato per mezz'ora senza vedere nessun cavallo. Lei sembrava aver dimenticato la loro esistenza finché non ci giunse un rumore di zoccoli alle nostre spalle cui lei rispose, poverina, con un balzo di sorpresa. Atterrando, si schiacciò sul terreno come se fosse sul punto di essere assalita. Scoppiai a ridere e, voltandomi, vidi che anche l'uomo in sella aveva notato la sua performance. Il cavallo rallentò il passo sbuffando indignato. Perché ci fermiamo? Perché stai imbrigliando la mia corsa? Quei muscoli lucidi e scuri in movimento cominciarono a frenare, il capo piegato da una parte, occhi e dentatura un lampo di bianco. Impiegai qualche istante a riconoscere l'uomo a cavallo, ma a quel punto, che shock! Gordon Epstein. Uno dei più grandi ed eminenti bugiardi che abbia mai conosciuto. «Harry Radcliffe23! Cosa ci fai in Europa?». «Ciao, Gordon. Sto lavorando a un progetto vicino a Salisburgo. E tu?». Prima che risponda, lasciate che vi racconti qualcosa di Epstein. Ci siamo conosciuti a scuola, prima dell'università, venticinque anni fa. Alcune persone crescendo cambiano, altre diventano peggio di com'erano a quindici anni. Bruchi e serpenti. Epstein fa parte della seconda categoria. Ha sempre avuto un grande talento, quello di mentire impunemente. La menzogna è per lui un dono naturale come per altri la prestanza fisica o l'intelligenza. Ma ricordate, mentre non sono molti gli atleti o le menti eccelse,
tutti mentiamo. Perciò per essere dei grandi bugiardi si deve essere più perspicaci, brillanti, sensibili di chi si ha intorno. Se non altro per evitare il rischio di essere colti in fallo. Epstein si presentò al suo primo anno di scuola come un signor nessuno qualsiasi (esattamente come tutti noi), si guardò per bene intorno e quindi cominciò a fare il suo gioco. Incantò con la giusta dose di lodi, pacche sulle spalle, pugnalate alle spalle e manovre sottobanco tutti quelli che in qualche modo contavano. Agli insegnanti piaceva perché era abbastanza intelligente da essere un buono studente ma non tanto da entrare in competizione con loro o metterli in ombra. Epstein imparò in fretta il gergo e le regole della scuola e si concentrò su due sport lievemente di secondo piano, calcio e lacrosse, in modo da diventare in fretta il capitano di entrambe le squadre. Bravo studente, buon atleta, aveva tutte le qualità per apparire sufficientemente in gamba da essere ricercato da tutti come amico. Qualcuno ha detto che il mondo è diviso in due tipi di persone: quelle che ci fanno esclamare «Ehi, guarda chi c'è!» quando le vediamo e quelle che ci fanno mormorare «Merda!». Alla fine del nostro primo anno di scuola, quasi tutti dicevano: «Ehilà, guarda chi c'è» quando arrivava Gordon. Eppure il suo successo era fondamentalmente basato sulla sua profonda disonestà. Se lo si osservava con attenzione, era evidente che reggere il castello di menzogne che aveva costruito gli costava non poca fatica. Lo dimostrava l'espressione di preoccupazione o stanchezza o vera e propria paura negli occhi e nel sorriso mentre tesseva le sue tele e raccontava le sue storie cercando di non dimenticare quelle precedenti che, come animali in gabbia, se non venivano costantemente nutrite e tenute sotto controllo, avrebbero spezzato le loro catene assalendolo. Riuscì a farla franca fino al nostro ultimo anno di scuola. Quando ormai non era più possibile fermarlo. Fu comunque nominato rappresentante di classe, ottenne una borsa di studio per una buona università e si presentò al ballo di primavera della scuola con una ragazza al braccio che era arrivata in aereo dalla California apposta per quel fine settimana e non faceva altro che fissarlo con occhi pieni d'orgoglio e di desiderio. Le sue trame vennero smascherate un poco alla volta. Dopo tre anni nella stessa scuola, alcune sue menzogne e doppiezze non potevano non rivoltarsi contro di lui. Gente che sino a quel momento lo aveva creduto in perfetta buona fede cominciò a dire: «Ehi, che cos'è questa storia?», e a raccontare ad altri i propri sospetti. Credo che metà della nostra classe avesse ormai scoperto come stavano le cose prima della fine dell'anno. E nessuno
lo difendeva più con abbastanza vigore da convincere gli altri a tenere per sé la propria collera e le proprie rimostranze. Nel corso di quegli anni io avevo galleggiato nella mediocrità e Gordon, non avendo tempo da perdere con gente come me, non mi aveva dedicato particolare attenzione. Anzi, a dire il vero, proprio nessunissima attenzione. Io invece l'avevo tenuto d'occhio, perché già allora ero in grado di apprezzare una vera canaglia. Fui tra i primi a capire che razza di persona era, ma raramente aprivo bocca quando si parlava di lui, perché in fondo Epstein non era più importante per me di quanto io non lo fossi per lui. Mi limitai ad attraversare quegli anni come un pesce rosso che sguazza qua e là dando qualche occasionale colpo di coda. Quando arrivai all'università e scoprii l'architettura, mi trasformai in fretta nell'uomo di successo sicuro di sé e poco gradevole che sono oggi. In seguito, ogni volta che mi capitava di ripensare a lui, chiesi notizie di Epstein. Di tanto in tanto veniva fuori il suo nome nella rivista degli ex studenti, o bevendo un drink insieme a un vecchio compagno incontrato per caso in un aeroporto o in una stazione. Era andato all'università, si era laureato ed era praticamente scomparso. Ogni cosa lasciava pensare che avesse vissuto il suo momento di massimo trionfo durante quegli anni di scuola passati insieme, per poi scivolare in un'esistenza di nessun rilievo. Sentii che si era messo in affari, poi che era diventato insegnante, infine assistente sociale. Assistente sociale! Quella sì che era bella. Gordon Epstein non si sarebbe mai preso cura di altri che di se stesso. L'idea che si preoccupasse di rendere meno faticosa la vita di una donna incinta o di aiutare un vagabondo senza tetto era impossibile da mandar giù. So che non si dovrebbe dire una cosa simile, e che a volte capita che la gente cambi, ma non lui. Impossibile. Tre anni fa ero a pranzo da Musso & Frank quando sentii una sonora risata provenire da un tavolo poco lontano. Alzando la testa vidi che quella risata apparteneva a niente di meno che Gordon Epstein. Era più anziano di come me lo ricordavo, con le guance più piene e meno capelli in testa, ma era lui, senza ombra di dubbio. Sapevo che non mi avrebbe riconosciuto, ma parte del divertimento stava proprio nel vedere che faccia avrebbe fatto. Mi alzai immediatamente in piedi e mi avvicinai al suo tavolo con la mano tesa. «Gordon Epstein! Come stai?». Era in compagnia di un paio di donne così così e la prima espressione sul suo volto fu di risentimento: non voleva che qualcun altro si mettesse a
cacciare nel suo territorio. Dopo di che mi rivolse uno sguardo calcolato di sorpresa: non sapeva chi fosse la persona che lo stava salutando ma non voleva fare la figura dello stupido dandolo troppo a vedere, o mostrandosi troppo entusiasta. Come ai vecchi tempi, bastava osservarlo un momento per vedere tutte le lucette del centro di comando Gordon Epstein accese. «Ehi, come va?». «Gordon, Harry Radcliffe. Banks, classe '67». Per quanto fosse evidente che non aveva ancora capito chi fossi, fu sufficiente che citassi il nome del luogo di cui era stato re perché mi rivolgesse uno sguardo carico di affetto. «Harry, santo cielo, come stai? Vieni, siediti». Parlammo per un paio di minuti. Il suo comportamento mi fece pensare a quello di un grosso cane che mi leccava la faccia benevolo. Era così grato di avere incontrato qualcuno che lo conosceva a quel tempo. Ascoltandolo parlare, mi resi conto della grande fortuna di non aver avuto una giovinezza memorabile. A chi ottiene il meglio dall'esistenza nei primi anni della propria vita, non resta altro, poi, che il ricordo della gioia o del senso di potere sperimentati allora. Niente potrebbe mai essere altrettanto bello, niente lo sarà mai. Gordon aveva un lavoro, era stato sposato, niente figli. Non mi importava nulla di quel fiume di informazioni. Mi bastava aver capito che stava vivendo una vita di tranquilla disperazione. Quando mi domandò di me, con la massima cura e tutta la falsa modestia di cui fui capace gli parlai della mia vita così piena, del mio grande successo. Quando ebbi finito, provai un piacevole senso di soddisfazione. Era ridicolo vantarsi in quel modo, ma Epstein era un fastidioso fantasma del mio passato e non avevo altro modo di esorcizzarlo. E poi credo che non ci si debba mai lasciare scappare un'opportunità quando ci si presenta. Era un po' che blateravo dei miei trionfi, quando mi resi conto di una cosa. Quell'uomo, malgrado l'aria dimessa che ostentava, era uno dei più grossi bugiardi che avessi mai conosciuto. Chi, come la persona che avevo davanti, sino a quel momento ha costruito la propria vita su menzogne di così vasta scala e di tale complessità, solo in seguito a una conversione religiosa o a chissà quale altra scoperta metafisica smette di mentire. Perché allora Epstein mi confessava il proprio fallimento con tanta franchezza? E per di più davanti a due donne su cui chiaramente stava cercando di fare colpo? C'era qualcosa sotto. Il mio cuore diffidente mi disse che Gordon si stava comportando come un borseggiatore che ti ha già portato via
tutto quello che hai prima ancora che ti renda conto che ti è venuto a sbattere contro. Che figlio di puttana. Non avevo intenzione di rimanere con lui un minuto di più. Mi sentivo un vero idiota. Guardai l'orologio e mugugnai qualcosa a proposito di un appuntamento. Mentre tagliavo la corda sperando di poter ancora salvare il salvabile, voltandomi, vidi soltanto l'espressione di sorpresa con cui mi osservava correre via. La mia cagnolina cominciò ad abbaiare al cavallo. La legai al guinzaglio stringendomela contro le gambe tutta tremante. Gordon scese di sella e ci stringemmo la mano. «Harry, sono felice di vederti. Quanto tempo è passato? Santo cielo, quante cose sono successe!». Era abbronzantissimo e aveva intorno agli occhi rughe che lo facevano apparire più anziano di quanto non fosse. Era anche molto più magro di quando c'eravamo incontrati in California. «Hai un gran bell'aspetto, Gordon. Ti mantieni proprio in forma». Alle nostre spalle il cavallo sbuffò rumorosamente ed Epstein ruotò su se stesso per guardarlo. «Cosa c'è? Se non ho ancora detto niente!», esclamò. «Parli sempre con il tuo cavallo, Gordon?», dissi in tono scherzoso. Si voltò verso di me con un'espressione di amarezza e ripulsa. «Parlo con i miei fantasmi, Radcliffe. I fantasmi della mia vecchia vita, maledizione. Vieni, sediamoci. Ti racconterò una storia. Hai tempo?». «Certo». Ci sedemmo e lui cominciò subito a parlare. Aveva lasciato andare le redini, ma il cavallo non si allontanò mai dalla nostra panchina. Quando la mia cagnolina comprese che quel bestione non era interessato a lei, si accovacciò ai miei piedi. «Ricordi Frederick Spode?». «Gran genio in scienze? Tipo un po' strano?». «Esatto. Non faceva mai il bagno, ma aveva ottimi voti in tutto. Un cervellone, senza ombra di dubbio. Be', quando io e te ci siamo incontrati l'ultima volta ero stato appena licenziato. Mi occupavo delle pubbliche relazioni di una grande compagnia petrolifera di Los Angeles e, credimi, avevo appena salvato il culo a quella gente. Ricordi quella grossa petroliera che si era incendiata davanti a Long Beach? Quella che aveva versato in porto più di cento tonnellate di greggio? Era una delle navi della "Future Oil", la compagnia per cui lavoravo. Mi sono dato da fare come un pazzo
per quegli stronzi cercando di escogitare qualche modo per convincere il mondo che una fuoriuscita di cento tonnellate di petrolio non è poi così grave. Ho fatto un gran lavoro, Harry, ma mi hanno licenziato ugualmente nel momento stesso in cui la notizia è scomparsa dalle prime pagine dei giornali. Non volevano che la mia presenza gli ricordasse tutto quel casino. Credimi, non esiste nulla di più falso del vecchio adagio "ambasciator non porta pena". Ebbene, io ero il loro ambasciatore, e ciò nonostante mi hanno fatto fuori!». Il cavallo nitrì, ma Gordon lo ignorò. «Spode era il mio compagno di stanza a Banks durante il primo anno di scuola e ti dirò che andavamo anche abbastanza d'accordo, nonostante tutto. Era okay, anche se aveva il paraocchi. Purché si lavasse di tanto in tanto, io comunque non avevo problemi. Senza di lui non avrei mai passato algebra due! Poi siamo andati entrambi a Penn dove è capitato che ci incontrassimo qualche volta per caso. Niente di speciale. Poi, dopo la laurea, non l'ho più visto. Dopo essere stato licenziato non me la sono passata bene. La casa era andata alla mia ex moglie, in banca non mi era rimasto gran che e non avevo la più pallida idea di dove andare a sbattere la testa a quel punto. Ogni anno al Beverly Wilshire Hotel c'è una riunione degli ex studenti di Banks. Non è mai un gran che, ma si finisce sempre per trovare qualche sorpresa e alla fine si passa una bella serata. Non ti ci ho mai visto, Harry. Lo sapevi che c'era? Comunque sia, ero incasinato fino al collo ma ho detto chi se ne frega, e ci sono andato. Avevo già scolato diversi bicchieri, quando mi sono ritrovato sulla spalla la mano di chi? Di Fred Spode, figurarsi! Non l'avrei mai riconosciuto, aveva un aspetto magnifico: abito di sartoria, unghie fresche di manicure, acqua di colonia! Ai vecchi tempi era difficile dire di che colore fossero i suoi vestiti, perché non li lavava mai. E adesso me lo vedo davanti tirato a lucido come un damerino! Viene fuori che ha sfondato con una compagnia di ricerche minerarie, tanto da stipulare contratti sottobanco con diversi governi con cui gli Stati Uniti hanno interrotto ogni rapporto da anni. Tipo Libia e Yemen del Sud, per intenderci. Ma Fred era riuscito a ottenere il consenso tacito del governo di lavorare con quella gente e stava facendo soldi a palate. Avrei voluto strangolarlo. Invece gli ho raccontato qualcosa della mia storia. Un paio di giorni più tardi mi chiama e mi offre un lavoro, così, in quattro e quattr'otto. Sono rimasto senza parole».
«Che genere di lavoro?». «Fatto su misura per me: mi dovevo occupare delle pubbliche relazioni per la sua compagnia. Non lo sanno in molti, ma in quei posti succedono cose da non dire. C'è un sacco di gente che lavora in segreto per modificare l'atteggiamento del governo del proprio paese in modo da poter riprendere a fare affari e lavorare di nuovo con l'Occidente. Non gridano tutti morte all'infedele con la scimitarra in mano, credimi. Ed era in quel terreno che si muoveva Spode. Più prendeva piede un atteggiamento di moderazione nei confronti del nostro paese e più lui ci avrebbe guadagnato. Quel che voleva da me era che andassi là a darmi un'occhiata intorno, e poi, una volta tornato, dare il via a una serie di programmi e di campagne, tutto molto in sordina, naturalmente, che avrebbero fatto cambiare opinione al mondo riguardo a quei paesi. Cose tipo film promozionali e brochure sui popoli che vivono là e i loro costumi, la bellezza del loro patrimonio folcloristico... Naturalmente sarebbero stati pubblicati a nome dei vari governi, ma saremmo stati noi a fare tutto il lavoro». «Dove sei andato? E come ci sei entrato, infilandoti di nascosto?». «Se hanno bisogno di te, puoi entrare accolto da una fanfara», esclamò Gordon facendo schioccare le dita. «Sai quanti americani lavorano nei campi petroliferi libanesi? Abbastanza per riempire una cittadina di media grandezza del Midwest. Però se guardi nei loro passaporti non ci troverai nessun visto libanese, per evitare guai. No, Harry, entrare e uscire di lì non è un problema. Il problema è quel che vedi quando sei dentro. O cosa ti succede se vedi certe cose. Per qualche mese è stata un'esperienza magnifica. Lavoravamo un sacco e anche se il modo in cui fanno le cose in quei posti ti fa venir voglia di metterti a urlare dalla frustrazione, alla fine riuscivamo sempre a combinare qualcosa. E poi Fred faceva in modo che non ci mancasse nulla. Uno stipendio da favola, incontri con personaggi importanti e grandi alberghi. Ti sentivi di fare qualcosa per il progresso e ti svegliavi ogni mattina al suono del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera. Credo che proprio quella fosse una delle cose che amavo di più: appena sveglio, ancora a letto, ti dicevi, "Sono ad Aleppo!", oppure Al Mukalla, Bahgdad. Qualche mese prima ero a Los Angeles a cuocermi un hamburger e adesso sono qui con le mille e una notte fuori della finestra. Che meraviglia. È stato un bel periodo per me. Mi sembrava di essere rinato. Cosa pensi di me, Harry?». Quella domanda mi fece letteralmente trasalire. La mia testa fece un bal-
zo all'indietro, come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato. Era arrivata all'improvviso e come se non bastasse soltanto un minuto prima mi stavo chiedendo: perché mai tanta fortuna proprio a uno come lui? Avrei scommesso un migliaio di dollari che non era cambiato molto dal tempo della scuola. Sentire come aveva cercato di convincere il nostro mondo, già sin troppo inquinato, che un'ennesima fuoriuscita di petrolio non era niente di grave era bastato a convincermi che aveva continuato a mentire allegramente finché non si era ritrovato col culo per terra, in un mare di guai. E a quel punto cosa succede? Spunta fuori dal nulla l'ex-svitato-neoelegantone Fred Spode che lo trae in salvo. Trovavo quella storia non solo stomachevole, ma anche sconsolante. «Cosa penso di te, Gordon? Che sei un poco di buono con una gran fortuna». «Una volta, adesso non più. Mi riferisco alla fortuna. Sono ancora un poco di buono, ma anche quello sta cambiando. Non per merito mio, comunque». «In che senso?». «Be', questa è la seconda parte della storia. Come sai, sono sempre stato... Sai, Harry, mi fa piacere che tu mi abbia risposto così. Ti ammiro. Sei sempre così sincero?». «Solo con la gente che non mi piace». Scoppiò a ridere battendo le mani. «Ti sentirai meglio quando avrò finito. Allora, dov'ero? A Parigi. Un giorno ero a Parigi e mi arriva una telefonata di Spode. Voleva che andassi a Teheran e da lì mi recassi a nord, verso il confine con la Russia, dove c'erano alcune persone che lavoravano per noi. A quel punto un viaggio in Iran non era più niente di speciale: ero già stato in un sacco di posti pericolosi e me l'ero sempre cavata più che bene. Così salii sul primo volo e una volta là trovai all'aeroporto una persona che mi aspettava per accompagnarmi in macchina nel nord del paese. È bella quella zona, si attraversa un paesaggio fertile e verdissimo, anche se uno non se lo immagina quando pensa all'Iran. Due giorni dopo è scoppiato il terremoto». «Mio Dio, Gordon, quel terremoto in cui è morta tutta quella gente? Cinquantamila persone o una cosa del genere?». «Esattamente. Grazie a Dio eravamo alloggiati in una vecchia casa che malgrado tutto non è crollata. Il terremoto ci ha sorpreso nel mezzo della notte e...». Fino a quel momento la sua voce era stata calma, come quella del com-
mentatore di un documentario. Ma a quel punto si arrestò bruscamente. Lo guardai e vidi alcune lacrime scendergli lungo le guance. «Tutto a posto?». Sul suo volto un sorriso si mescolava a un dolore profondo. «A posto? Stavo pensando a quella notte. I suoni di quella notte. Ti ci sei mai trovato in un terremoto?». «Ero a Los Angeles l'anno scorso». Annuì. «Allora sai cosa si prova. Io non avevo mai udito nulla di simile. Sembrava l'avanzata di un esercito. È il mondo che si spacca, e geme, milioni e milioni di tonnellate di roccia che si sfregano una contro l'altra... Hai mai sentito parlare di "zalzalah"?». «No». «Neanch'io, prima del giorno successivo. Vuol dire terremoto, in arabo e in persiano. Secondo il Corano sarà con un terremoto che avrà inizio la fine del mondo. Una zalzalah, e la terra svelerà tutti i suoi segreti. Tutto il bene e il male saranno rivelati agli uomini. Ma la sai una cosa? Tutti credono che quando arriverà la fine del mondo, la terra salterà in aria, ci sarà un gran botto e non rimarrà più nulla. Non è così. La fine del mondo è già iniziata anche se la gente non lo sa. Io sì. Perché c'ero». «Dove, in Iran? Anch'io ho vissuto l'esperienza di un terremoto, Gordon, e non è stato bello, ma non ho visto Gesù Cristo uscire dalla faglia di Sant'Andrea». «Non sai cos'hai visto perché ancora la zalzalah non ti ha raggiunto, ma prima o poi succederà anche a te. Credimi. Ti racconterò cos'è accaduto a me. Giusto un piccolo esempio. Sia tu che io sappiamo che tipo di persona sono. Non ho bisogno di spiegarti niente, no?». Scossi la testa. Proprio così, entrambi sapevamo bene che tipo di persona era Gordon Epstein. «Okay, perciò posso limitarmi all'essenziale. Sapendo che genere di persona ero, immagina quell'uomo, Gordon Epstein, che cammina tra le rovine di quel mondo distrutto più terrorizzato ed euforico di quanto non fosse mai stato. Ero vivo! Ero sopravvissuto a un terremoto che aveva ucciso cinquantamila persone! Da non credere! Non ero mai stato tanto felice in tutta la mia vita. Ce l'avevo fatta ancora una volta. Circondato da morti e macerie, lamentazioni e grida, ero lì indenne, ancora sulle mie gambe, sano e salvo! Anche quando giunsero le altre scosse, e non furono poche, te
l'assicuro, ero sicuro che ormai non mi sarebbe più accaduto nulla. Te lo senti che il peggio è passato. E tu sei sopravvissuto. E non successe nulla, infatti, finché non mentii per la prima volta. Vennero a chiedermi di partecipare alle ricerche per salvare i superstiti. Sapevo che sarebbe stato pericoloso e mentii dicendo che non ero ancora in condizioni di farcela. C'erano due uomini, Radcliffe. Più o meno della nostra età. Avevano perso tutto, ma avevano messo da parte il dolore e la disperazione per poter prima dare una mano ai sopravvissuti. Mi guardarono con una faccia priva di espressione. Poi uno dei due mi chiese se sapevo cosa fosse la zalzalah. Dissi di no e lui mi raccontò quel che ti ho appena detto. Nient'altro. Qualche istante dopo la mia lingua si trasformò in un pezzo di pietra». Lo guardai e lui annuì. «Sì, era davvero diventata un pezzo di pietra. E la sai una cosa? In quell'istante compresi cosa significava: da allora in poi, per il resto della mia vita, mi si sarebbe bloccata la lingua ogni volta che mentivo. Come Pinocchio, a cui cresceva il naso, con la sola differenza che dopo dieci o quindici secondi la mia lingua ritornava normale, e se facevo bene attenzione, nessuno si accorgeva di nulla. Solo io ero consapevole di quel che era accaduto, solo Pinocchio Epstein che si ritrovava con un pezzo di pietra in bocca al posto della lingua. Zalzalah. La terra avrebbe rivelato i suoi segreti. Tutto il bene sarebbe stato rivelato. E tutto il male. E indovina un po' chi aveva qualcosa di male da nascondere e veniva smascherato?». Senza darmi il tempo di digerire quello che mi aveva detto, proseguì: «Ma io non avevo bisogno di quella rivelazione, perché ne ero consapevole da sempre. Sapevo di essere un bugiardo. La terra mi diceva che mentivo. E con ciò? Ma la lingua è stata solo l'inizio, perché non appena riuscii a tagliare la corda, appena ebbi superato il confine, la mia lingua ritornò normale e si scatenò la pioggia. Ogni volta che mentivo, il cielo si rannuvolava all'improvviso e anche nel bel mezzo della giornata più bella del mondo un'enorme nube carica di pioggia arrivava su di me e cominciava a riversarmi addosso acqua a catinelle. E così, in quella splendida giornata di sole, io, per alcuni interminabili minuti, mi ritrovavo bagnato fradicio con una spaventosa tempesta sopra la testa». «Gordon...». «Poi fu la volta del cibo. Ogni volta che mentivo, mi ritrovavo all'improvviso qualcosa in mano: un tacchino al forno o dei fagiolini lessati, un
gelato mezzo sciolto o delle patate arrosto». Feci per alzarmi, ma lui mi trattenne. Cercai di liberarmi, ma lui non mi lasciò andare. «Da quando sono qui, c'è questo cavallo! Un giorno me lo sono trovato fuori dell'albergo che mi aspettava. Lo sai cos'è, Radcliffe? La concretizzazione di tutte le mie bugie. Guardalo, non vedi com'è bello? Troppo, no? Guarda i suoi occhi, non vedi come sono intelligenti? Guarda il modo in cui ci sta fissando. Se riesco a essere sincero per un po', si allontana. Ma io non so cosa sia la sincerità, non so cosa significhi. Non si tratta semplicemente di mentire o di non mentire. La disonestà ti si appiccica addosso e ti ammorba come un virus che si moltiplica in mille forme diverse. Non sono mai stato sincero in tutta la mia vita e adesso arriva sempre qualcosa di nuovo a ricordarmelo: una nuvola, una lingua di pietra, un cavallo. Hai presente Giobbe? Quello che Dio mise alla prova con una disgrazia dopo l'altra? Vale anche il contrario, credimi: qualche volta Dio mette anche alla prova gli uomini malvagi. Ma tu lo sai quant'è difficile non mentire? Anche con questo», disse indicando il cavallo, «che non ti lascia un minuto?». Non riuscii a resistere. «Come faccio a sapere che non stai mentendo anche adesso, Gordon?». Sorrise. «Guarda il cavallo». Sorrisi e mi voltai a guardarlo. Aveva in bocca un enorme e splendido bouquet di fiori rari, di quelli che si vedono nelle vetrine dei fioristi del centro. Non capivo da dove fosse spuntato fuori. Non avevo la minima idea dove potesse avere trovato quei fiori esotici in mezzo a quel parco di pini e castagni, in un giorno di primavera ancora troppo poco avanzata perché fossero nati, e tanto meno sbocciati, dei fiori. Una ruota nel deserto, la luna su un'altalena La prima cosa che Beizer fece dopo avere saputo che sarebbe diventato cieco fu comprare un macchina fotografica. Non sapeva nulla di fotografia: soltanto, come tutti, apprezzava una bella foto quando la vedeva. Gli era capitato a volte di trovarne di così sorprendenti, originali e provocanti da costringerlo a fermarsi e guardare quell'istante o quell'angolo di mondo a bocca aperta, scrollando la testa. Altrimenti non era una cosa a cui avesse mai dedicato particolare attenzione. È questo il bello della vita: c'è chi sa
fare fotografie e chi costruire camini o addestrare barboncini. Beizer credeva nell'esistenza. Era grato di aver avuto la possibilità di partecipare alla grande parata della vita. A volte la sua allegra bonarietà era quasi eccessiva. Amici e conoscenti si domandavano con diffidenza: com'è che è così contento? Cosa c'è sotto? Qualcuno raccontava che Beizer avesse scoperto una lettera scritta dalla sua ragazza a un amante segreto e le avesse pagato il biglietto per andare da lui in modo da capire quali fossero i suoi veri sentimenti. Desiderava solo la sua felicità: con o senza di lui. Ma adesso sì che la musica sarebbe cambiata! Con quella storia della cecità, Dio o chiunque altro ne fosse responsabile aveva deciso che era arrivato il momento di far sentire anche a Beizer il sapore della frusta. I suoi amici erano sicuri che sarebbe cambiato. Avrebbe cominciato a inveire contro tutto e tutti, oppure sarebbe sprofondato nella palude dell'autocommiserazione e avrebbe fatto la fine di tutti gli altri: capaci solo di sorridere a denti stretti, scrollare le spalle e rimandare all'infinito il momento di andare alla ricerca di qualche vera risposta. Invece lui si comprò quella macchina fotografica. Un vero splendore: una Cyclops 12. Dato che non sapeva nulla di tecnica e apparecchi fotografici, entrato nel negozio aveva confessato al commesso: «Senta, io non ci capisco niente di tutta questa roba, ma voglio la macchina più bella che avete per un incapace totale come me. Voglio poter guardare dentro all'obiettivo e scattare e sapere che farà lei tutto il resto». Il commesso apprezzò quelle parole e così, invece di proporgli una Hiram Quagola o una Vaslov Cyncrometer, le macchine che i tedeschi usano per fare studi in bianco e nero dei nasi delle celebrità, posò sul bancone la Cyclops dicendo: «Eccola. In un'ora imparerà a usarla e poi sarà a posto». Beizer a quel punto fece una cosa strana. Prese in mano la macchina e stringendosela al petto chiese: «Mi sta dicendo la verità?». Qual era l'ultima volta che uno sconosciuto gli aveva fatto una domanda simile? Il commesso era sbalordito. Il suo lavoro era fatto di bugie e falso zelo, fregature e gomitate nella schiena. Aveva detto la verità, ma quel cliente voleva la sua parola. «È la migliore che c'è per lei. La provi un paio di giorni e se non le piace la riporti indietro e troveremo qualcos'altro». Il problema della Cyclops era che si trattava esattamente della macchina che Beizer voleva. Ci mise un'ora a leggere le istruzioni e imparare a usarla. La mattina seguente scattò il suo primo rullino di foto e lo portò a sviluppare. Le fotografie erano perfettamente a fuoco e tutte insulse come
l'hamburger di un fast-food. Era in tutto e per tutto quello che aveva chiesto, ma un attimo dopo avere guardato quelle fotografie le aveva già dimenticate. Fu allora che comprese la prima cosa importante. Quante migliaia, milioni di volte sono state scattate certe foto da quando esistono le macchine fotografiche? Quante volte la gente ha immortalato i propri animali, la torre Eiffel, la propria famiglia riunita a tavola? Gironzolando un giorno per casa cercando di farsi venire in mente qualcosa di interessante e di artistico da fotografare, s'inginocchiò nel bagno e scattò una foto del suo spazzolino da denti attraverso il vetro della mensola. Una bella trovata, ma quando vide la foto sviluppata, si accigliò e comprese che centinaia di migliaia di persone dovevano avere già avuto la stessa idea. Nel mondo esistevano cassetti pieni di foto "artistiche" di spazzolini da denti. E c'era anche chi aveva persino dovuto perdere tempo a regolare l'otturatore e selezionare il tempo di esposizione, perché solo da poco tempo esistevano macchine fotografiche sofisticate come la sua. Adesso bastava guardare nell'obiettivo, scattare e, voilà, ecco il tuo spazzolino. Ma in passato si doveva pensare, correggere l'inquadratura e capire come poter ottenere un certo effetto. Era necessaria una lunga e accurata riflessione. Mentre tutti quei pensieri gli si affollavano alla mente, dalla finestra aperta sentì le voci e i rumori dei bambini che stavano giocando nel parco di fronte a casa. Le loro grida, stridule e irruente, gli fecero pensare: Se stessi per diventare sordo, come potrei preservare questi suoni meravigliosi in modo da poterli rievocare con precisione nel mio silenzio e non perderli? Siamo tutti consapevoli che alla fin fine l'unica cosa che possediamo sono i nostri ricordi, ma come custodirli quando una parte di te decide di morire prima del resto? Aveva compreso di aver comprato quella macchina fotografica per potersene andare in giro a guardare per l'ultima volta il mondo che conosceva e, così facendo, forse insegnare alla sua memoria a ricordare. Ma tutto ciò non poteva funzionare con una macchina fotografica perfetta ma senza cervello che faceva esattamente quello che lui le chiedeva di fare, ma non riusciva a regalargli niente di lui. Era come uno di quei macchinari per fare ginnastica con una serie di elettrodi da fissarsi addosso, dopo di che uno si stende e si riposa mentre l'elettricità rende il corpo snello e muscoloso. Ritornò nel negozio. Quando il commesso lo vide, fu quasi intimorito. Beizer aveva deciso di raccontargli tutto. Della perdita della vista, del suo bisogno di trovare una macchina fotografica che non solo facesse quello
che lui le diceva, ma che gli insegnasse anche a vedere e a ricordare. Mentre si avvicinava al bancone, si disse che qualsiasi macchina avesse comprato questa volta, si sarebbe preso una settimana per impararne il funzionamento, dopo di che avrebbe scattato soltanto dieci fotografie prima di posarla per sempre. Il medico gli aveva detto che aveva tre mesi prima che la malattia invadesse tutto il campo visivo trascinando un sipario scuro sui suoi occhi. Nei novanta giorni che gli restavano avrebbe cercato di imparare, valutare con cura e ottenere quello che desiderava. Dieci scatti. Novanta giorni per realizzare dieci fotografie che, quando non sarebbe più stato in grado di vedere, avrebbero dovuto riempire i suoi occhi vuoti. Il commesso lo ascoltò e gli suggerì di andare in una libreria specializzata in fotografia. «Prima si guardi i libri di Stieglitz e Strand. I fotografi della Bauhaus. Loro sono stati i più grandi. È il modo migliore per incominciare. Chiunque desideri dipingere deve andare in un museo a vedere i quadri di Leonardo Da Vinci». «Non mi servirebbe. Potrei trovare qualche foto grandiosa, ma non mi aiuterà a ricordare. Non so neanche se desidero ricordare quello che loro...». Beizer si portò le mani vicino alla testa come per mostrare all'uomo che gli stava di fronte quanto poco spazio avesse da riempire. «Non voglio imparare a dipingere o a fare delle belle foto. Voglio ricordare quello che ho visto, non quello che hanno visto altri. E non mi rimane più tanto tempo». Il commesso si strinse nelle spalle. «Allora non so cosa dirle. Ci sono due possibilità. Le posso dare una macchina fotografica per bambini. La più semplice che esiste, il che significa che dovrà fare tutto lei. Per ottenere una bella foto, la luce dovrà essere quella giusta, l'immagine a fuoco, tutto dovrà essere perfetto perché la macchina si limiterà a scattare, nient'altro. Esattamente l'opposto della Cyclops, che invece fa tutto. L'altra possibilità è che lei compri una Hasselblad o una Leica, che sono le migliori. Ma ci vogliono anni e migliaia di fotografie per riuscire a usarle bene. Non so cosa dirle. Mi dà un po' di tempo per pensarci?». Beizer uscì dal negozio a mani vuote. Ma per il momento forse era la cosa migliore. Avere la macchina giusta significava dover cominciare a decidere. Finché non ce l'aveva, poteva ancora andarsene in giro a guardarsi intorno e pensare cosa avrebbe scelto. A qualche isolato da casa vide un uomo seduto per terra con un cappello tra le gambe e davanti a sé un cartello scritto a mano davanti che diceva:
«Sono cieco, disoccupato e affranto. Ti prego, sii gentile, aiutami». C'erano alcune monetine nel cappello. «Sei cieco sul serio?». Il mendicante sollevò lentamente la testa e sorrise. Era abituato a essere trattato in malo modo, a essere insultato, a volte capitava. Oppure gli chiedevano delle cose stupide, ma se poi erano soddisfatti o impietositi dalla sua risposta, gli davano qualcosa. Prima che avesse la possibilità di rispondere, quell'uomo gli disse: «Dimmi cosa ti manca di più ora che non puoi vedere e ti darò dieci marchi». «Il pollo fritto. Adesso mi dà i miei dieci marchi, grazie?». Beizer era perplesso, ma portò ugualmente la mano al portafoglio. «Non capisco», disse porgendogli i soldi. Il cieco avvicinò la banconota al naso e l'annusò. Era denaro, senza ombra di dubbio. Magari erano davvero dieci marchi. Perché no? Il mondo era pieno di pazzi. Perché non poteva averne uno davanti? «Hai presente quando uno fuma? Della sigaretta si gustano tre cose: l'odore del tabacco, il gusto della sigaretta in bocca e quel fumo grigio che ti esce dalle labbra e sale su in aria. Devi poter vedere anche il fumo della tua sigaretta per riuscire a godertela fino in fondo. Ho smesso di fumare un mese dopo che sono diventato cieco. Conosco qualcuno che non ci vede ma continua lo stesso, ma è una perdita di tempo, secondo me. Lo stesso vale per il pollo fritto. Devi sentire il sapore della carne, e l'odore, sicuro, ma più di tutto è importante vederlo. Quella pelle dorata che si spezza quando ne stacchi un pezzo, la carne rosea e fumante se è ancora caldo, e le tue dita che luccicano d'olio una volta che hai finito... Non mi fraintenda, mangio ancora il pollo, ma non è più la stessa cosa. Se non lo vedi, non ha lo stesso gusto». Beizer gli diede altri dieci marchi e appena fu tornato a casa, si scrisse quella frase. «Se non lo vedi, non ha lo stesso gusto». Una settimana dopo ne trovò un'altra in un libro di fotografia che stava sfogliando: «Il celebre pittore Gainsborough provava altrettanto piacere a osservare un violino che a sentirne la musica». Quel che lui cercava era lì, da qualche parte, nel territorio da cui venivano quelle due frasi. Gli telefonò la sua ragazza, di ritorno dal viaggio romantico che le aveva offerto. «Non ha funzionato. Lo sai cosa faceva quell'uomo, per dirtene una? Mi spediva delle meravigliose poesie d'amore che credevo avesse scritto apposta per me. Invece le copiava da un'antologia che aveva tenuto
dai tempi dell'università. Scusa se non ti ho chiamato prima. Cosa fai in questi giorni?». «Divento cieco». «Oh, mio Dio!». Parlarono a lungo e infine lei gli disse dolcemente: «Tesoro, non si possono fare fotografie quando si è ciechi». «In realtà, sì. Ho sentito di un gruppo di ciechi che fanno delle fotografie meravigliose. Ma non è questo il punto. Non mi interessa fare fotografie, voglio solo essere sicuro di ricordarmi com'è un violino e il pollo fritto». Alla fine della telefonata ripensò a quel che lei gli aveva detto di quel tipo che cercava di spacciare per proprie poesie di altri. Le emozioni più profonde di un'altra persona. Un modo astuto di ingannare il cuore di qualcuno, ma cosa diceva di quell'uomo? Beizer cambiò un paio di carte in tavola e si vide mostrare a qualcuno una fotografia famosa non scattata da lui, dicendo: «Questa è una delle mie dieci fotografie. Questa mi consolerà quando non vedrò più». Quella notte si svegliò e andò lentamente in bagno. Mentre pisciava, comprese che quando sarebbe stato vecchio, la vita sarebbe stata così. Si sarebbe alzato la notte per andare in bagno perché il nostro sistema idraulico perde colpi quando si diventa vecchi. Un rumore che aveva sentito spesso durante le visite ai propri genitori: lo sciacquone del bagno accanto alla loro stanza da letto che spezzava il silenzio nelle ore piccole. Le ore piccole. Quell'espressione lo fece sorridere. Un buon titolo per una poesia: "Pipì nelle ore piccole". Poteva suggerirlo al ladro di poesie... Mentre finiva, assonnato, ebbe ancora una volta la sensazione che ci fosse qualche invisibile connessione che al momento gli sfuggiva tra quella situazione e le dieci fotografie che voleva scattare. Tornato a letto, mentre sprofondava in fretta nel sonno, pensò: «Una poesia non è meno personale di un'impronta digitale. Rubarne una significa smarrire la propria identità, come se si perdessero le linee della nostra pelle o i tratti del nostro volto. Il suo volto! Trasalì e si tirò su a sedere, sveglissimo. Un vecchio che pisciava nella notte. Che aspetto avrebbe avuto lui, Norman Beizer, con l'uccello in mano a settant'anni? Non l'avrebbe mai saputo. Non poteva certo vedere le fotografie scattate da qualcun altro! Non avrebbe mai saputo come le prime rughe gli avrebbero cambiato il viso, che effetto avrebbero avuto i capelli bianchi sul suo aspetto. Sono dettagli importanti. Aveva cominciato ad abituarsi all'idea che in futuro tutto gli sarebbe co-
stato più tempo. I secondi persi a cercare con la mano un interruttore o la cordicella per tirare la tenda. Un compito, quello di tirare una tenda, complicato per un cieco. Era necessario trovare prima la cordicella, capire se era quella giusta, tirarla. Una questione di una manciata di secondi per una persona che ci vedeva, che a un cieco avrebbe richiesto almeno quattro o cinque volte più tempo. Stava lentamente cominciando ad accettare l'ingiustizia di quella situazione, di tutto il tempo che presto avrebbe dovuto impiegare per realizzare cose che ora faceva senza la minima fatica. Ma quanto avrebbe perso quando non avrebbe più potuto vedersi allo specchio? E non avrebbe potuto osservare l'avanzata del tempo e della vita su quel paesaggio a lui tanto familiare. Sentiva che con il passare degli anni sarebbe stato capace di accettare le privazioni e i limiti che gli sarebbero stati imposti dalla sua condizione, ma fino a quel momento non era stato consapevole che avrebbe perso anche delle parti di sé. La mattina seguente chiamò gli uffici di «Vogue» e della Paramount Pictures. Dopo un lungo iter riuscì a parlare con le persone giuste che, in entrambi i casi, furono straordinariamente gentili e disposte ad aiutarlo. Chiese alla redattrice di «Vogue» chi pensava fosse il più bravo ritrattista in città. Senza esitare un momento, lei rispose che era Jeremy Flynn e gli diede il nome del suo agente. Alla Paramount, il vicepresidente incaricato di un certo settore gli disse che il truccatore migliore al mondo era il tale. Beizer prese nota di nomi e indirizzi. Aveva pensato che procurarsi quelle informazioni sarebbe stato più difficile, ma forse, nel momento stesso in cui aveva compreso qual era il suo problema, aveva ingranato la soluzione con la facilità con cui si cambia marcia su un'automobile. Chiamò fotografo e truccatore e prese un appuntamento con entrambi. Gli domandarono una somma di denaro oscena, ma erano i migliori e valevano quei soldi, specialmente in quel caso. Quando li incontrò, spiegò la sua situazione a entrambi praticamente con le stesse parole: presto sarebbe diventato cieco. Prima di quel momento voleva vedere che aspetto avrebbe avuto quando sarebbe invecchiato. Voleva che lo aiutassero a farsi un'idea di come sarebbe mutato il suo aspetto. Il truccatore avrebbe cercato di trasformare di volta in volta il suo viso in quello di un cinquantenne, sessantenne e settantenne. Sapendo che qualche problema di cuore aveva ucciso quasi tutti nella sua famiglia intorno ai settanta, Beizer immaginò che anche lui avrebbe fatto la stessa fine. Perciò il suo viso a settant'anni sarebbe probabilmente stato quello dei suoi ultimi giorni.
Il fotografo fu affascinato da quella proposta. Disse che avrebbero fatto delle foto pulite, senza usare nessun genere di trucchi, né sfondi particolari o un'illuminazione speciale. Soltanto Beizer con indosso un abito scuro e una camicia bianca. In quel modo il suo viso sarebbe stato tutto, magnetizzando lo sguardo di chiunque avrebbe guardato quelle fotografie. Sì! Era proprio quello che Beizer voleva. Alla fine Flynn gli chiese a cosa gli sarebbero servite le foto una volta che non avrebbe più potuto vederle. «Ma le avrò viste. Le potrò dare in mano a qualcuno e chiedere: "Sono così adesso? Dimmi la differenza tra la foto e il mio aspetto"». «Dei punti di riferimento». «Esattamente! Saranno dei punti di riferimento». «Riuscirà a ricordarsele? Anche dopo anni e anni?». «Non lo so. Ma devo almeno tentare». Arrivò il gran giorno e Beizer visse la strabiliante esperienza di vedersi invecchiare di quarant'anni in un pomeriggio. Come in un filmato in cui scorre in maniera accelerata una sequenza di fotogrammi, vide nuovissime rughe solcare il suo viso conferendogli un'aria sconosciuta anche se stranamente familiare. Vide i suoi capelli scomparire, gli occhi piegarsi all'ingiù, la pelle del mento e del collo afflosciarsi. Se un'esperienza può essere divertente ma al tempo stesso agghiacciante, era quella. Malgrado fosse ansioso di vedere come sarebbe stato dopo altri dieci anni, quando il truccatore diceva: «Okay, adesso può guardarsi», Beizer esitava un istante. Poi continuava a ripetere: «Pensa davvero che sarò così?», anche se dentro di sé sapeva che la risposta era sì. Eccola lì, dunque. La sua faccia nei prossimi quarant'anni. Quando era piccolo, era sempre stato bravissimo a scovare i suoi regali di Natale. Ogni anno faceva di tutto per scoprire dov'erano nascosti i vari pacchi e così, settimane prima del gran giorno, sapeva esattamente cosa gli avrebbe portato Babbo Natale. Era successa ancora una volta la stessa cosa. Adesso sapeva cosa gli avrebbero portato gli anni a venire. Verrebbe da pensare che sia scioccante vedere se stesso attraversare con la rapidità di un lampo il resto della propria esistenza, invece alla fine della seduta l'unica vera emozione che Beizer poteva dire di provare era un certo divertimento. Lo confessò, ma gli altri due risposero entrambi la stessa cosa: aspetta di vedere le fotografie. Dal vero una persona truccata ha la faccia... di una persona truccata. Soprattutto se si tratta di un trucco spesso e complicato. Ma aspetta che siano pronte le fotografie di Flynn. Ci sarà
una differenza come dal giorno alla notte. Flynn era esaltato all'idea di mostrare a quell'uomo come sarebbe cambiato nel corso della sua vita. Aveva deciso che avrebbe usato quelle foto per la sua prossima mostra e perciò si diede da fare ancora più del solito perché fossero davvero perfette. Era molto tardi quando Beizer sentì squillare il telefono. Era seduto davanti al televisore e stava mangiando una prugna. Non sapeva cosa gli piacesse di più, se guardare la tivù o quella grossa prugna viola. «Norman, sono Jeremy Flynn. Ti disturbo?». «Assolutamente no. Hai sviluppato le foto?». Flynn rispose solo dopo qualche istante e anche allora a Beizer parve che stesse scegliendo le parole con cura prima di farle avanzare una a una sulla lingua. «Be', ecco, sì, mi sono messo a lavorarci giusto stasera. Ma c'è una... Ecco, non so come dire. È una follia, so che è tardissimo, ma pensi che potresti venire qui?». «Alle undici di sera? Ho davvero una gran voglia di vederle, Jeremy, ma non possiamo fare domani?». «Sì, possiamo. Certo che possiamo, Norman, ma credo sia meglio che tu le veda ora. Credo sia decisamente meglio». «Perché?». La voce di Flynn si fece stridula, quasi isterica. Qualche giorno prima nel suo studio era stato estremamente calmo e affabile. «Norman, puoi venire, per favore? Ti pago io il taxi, però vieni, okay?». Preoccupato, Beizer posò la sua prugna e annuì. «D'accordo, Jeremy, arrivo». Flynn era sul portone che lo aspettava. Non aveva una gran bella cera. Guardò Beizer come se fosse riuscito ad arrivare per il rotto della cuffia. «Eccoti, grazie al cielo! Vieni, entra». Non appena furono in casa e Flynn ebbe chiuso fragorosamente la porta alle loro spalle, disse: «Avevo intenzione di lavorarci tutta la notte. Sì, avrei passato la notte nella camera oscura per vedere i nostri scatti. Così ho preparato tutto e mi sono messo a sviluppare il primo rullino. Hai idea di come si sviluppa una fotografia?». Prese Beizer sotto braccio e lo condusse verso la camera oscura. «No, ma mi piacerebbe imparare. Non credo di avertelo detto, ma questa storia è incominciata quando...». «Non importa, ascolta. Ho sviluppato i negativi. È una cosa che faccio sempre io e poi... Eccoci, qui dentro. E poi mi sono messo a lavorare alle
prime stampe. Vuoi sederti?». Flynn si stava comportando in modo davvero strano, parlava tutto d'un fiato e con voce strozzata come se avesse ingoiato dell'aria e stesse cercando di soffiarla fuori dai polmoni. «No, Jeremy, non ti preoccupare». «Okay. Allora, ho preso le prime foto convinto di vedere te a cinquanta o sessant'anni, no? Avevo in mente un sacco di idee, di modi di ottenere l'effetto che volevo creare usando la carta in maniera particolare... Ma quando ho visto cosa c'era nel rullino, mi è venuto un colpo». Beizer pensò che stesse scherzando, per quanto intuisse dal tono serio e spaventato di Flynn che non doveva essere così. «In che senso ti è venuto un colpo? Sono così brutto?». «No, Norman, non sei brutto, e neanche bello. Non ci sei proprio, nelle foto». «In che senso?». «Guardale». Flynn aprì una grossa busta gialla e tirò fuori lentamente l'immagine patinata di una grossa ruota infilata nella sabbia in un paesaggio desertico. «Bella. Cos'è?». «Sei tu Norman. Guarda questa». Ne tirò fuori un'altra. Un'immagine inquietante e romantica della luna che si affaccia obliqua in mezzo a una fila di altalene in un parco. Beizer avrebbe voluto dire qualcosa, ma il fotografo non glielo permise. Gli porse un'altra foto, e poi un'altra e un'altra ancora. Tutte diverse, arcane, alcune bellissime, altre niente di speciale. Quando ebbe finito, si posò le mani sui fianchi e guardò Beizer con aria perplessa. «È il rullino che ho scattato quel giorno, Norman. Non ci può essere stato nessun errore, perché l'avevo appositamente lasciato nella macchina. Sono le foto che la macchina fotografica ha scattato l'altro giorno». «Mi spiace, Norman, davvero, ma non credo di essere una ruota né un'altalena». «Lo so, ma non ti ho fatto venire qui per prenderti in giro. Questo è quello che ho, Norman. Non è uno scherzo. Queste sono le foto che ho scattato l'altro giorno». «Cosa vuoi che ti dica?». «Non lo so». Flynn si sedette un istante e subito si alzò di nuovo. «No, non è vero. Devo dirti un'altra cosa. Te la devo dire, anche se non so se possa esserti utile o no. Potrebbe anche spaventarti a morte. Quando ero
ancora un ragazzo e stavo imparando a sviluppare le mie prime foto, scattai un rullino intero di una ragazza che conoscevo e di cui mi ero preso una cotta. Kelly Collier. Poi sono corso a svilupparle perché ero ansiosissimo di vederle. Mentre ero nella camera oscura, lei e sua madre morirono in un incidente stradale. Lo seppi soltanto dopo, naturalmente, ma la cosa strana fu che su nessuna foto c'era lei. Erano tutte come queste». «Vuoi dire ruote e altalene?». «No, ma comunque degli oggetti. Oggetti. Cose che non avevano niente a che fare con lei. Non ho mai raccontato a nessuno questa storia, però, questa volta, Norman, è successa la stessa cosa che mi era accaduta con Kelly. Identica. Dopo quelle foto lei è morta. Adesso fotografo te mentre stai diventando cieco. Ci deve essere un collegamento». «Credi di essere tu la causa?». «No, credo... credo che a volte la macchina sia in grado di cogliere quel che sta per accadere. O che sta accadendo. Oppure...». Flynn si passò la lingua sulle labbra. «Non lo so. Dev'essere qualcosa che ha a che fare con una trasformazione. O con...». Vedendo la confusione di Flynn, Beizer tentò di dire qualcosa. Perché aveva capito che aveva ragione, quelle foto avevano immortalato una trasformazione. Mentre ascoltava Flynn, continuando a osservare le fotografie che aveva davanti, Beizer aveva cominciato a comprendere cos'era successo. La macchina di Flynn aveva fotografato le loro anime, quella della ragazza morta e la sua, mentre stavano attraversando... mentre vivevano una serie di esperienze diverse. Un'anima è in grado di calarsi in situazioni diverse come se indossasse un abito appeso in un guardaroba. E naturalmente sa cosa sta per accadere. L'anima sa ogni cosa, Beizer ne era convinto. Nel caso della ragazza, sapeva che il suo corpo sarebbe morto. Nel suo caso, sapeva cosa avrebbe comportato per lui diventare cieco. Perciò, pur continuando a vivere dentro di loro, l'anima di entrambi se n'era andata un po' in giro, si era messa a vagare qua e là per decidere cos'avrebbe fatto. Ecco cos'era riuscita a cogliere la macchina fotografica. Quell'aggregato di plastica e metallo, vetro e sostanze chimiche era riuscito a catturare due anime che stavano giocando, sperimentando, compiendo, insomma, un breve viaggio nel proprio futuro. O si trattava del passato? Forse amavano riposarsi al chiaro di luna e dondolarsi su un'altalena durante il giorno. Oppure, chissà, stavano soltanto rivivendo l'esperienza di essere una ruota, inutile e meravigliosa, in mezzo al deserto.
Come faceva Norman Beizer a sapere quelle cose? Com'era possibile che un uomo così semplice, banale e bonario come lui avesse intuito un segreto tanto profondo? Perché mentre Flynn parlava, lui aveva cominciato a riconoscere le foto che aveva davanti. La misteriosa parte di sé che vi era impressa aveva cominciato a ricordare la sensazione del metallo freddo in una notte di luna o il calore della sabbia intorno a sé. Riconobbe e rammentò percezioni, temperature, suoni... di ognuna di quelle fotografie. E la cosa più bella fu rendersi conto che quelle erano le cose che avrebbe ricordato quando sarebbe divenuto cieco. Era abbastanza, più che abbastanza, per il resto della sua vita. Non aveva più bisogno di una macchina fotografica, né di dieci scatti indimenticabili, o di vedere il suo viso invecchiato. Quello che aveva scoperto gli avrebbe permesso di conoscere e ricordare per sempre i luoghi visitati dalla sua anima. Fino al momento della sua morte, sia che fosse cieco o no, avrebbe conosciuto le sensazioni e le avventure di quella parte di sé così curiosa e universale. La parte che viaggia, sperimenta, conosce la vita delle cose. Oggetti come una ruota, un'altalena. Un'anima libera, in volo, alla ricerca incessante di qualcosa di nuovo. Fuoco di paglia Non aveva mai mentito a una bella donna. E non c'era dubbio che questa lo fosse, bella ed esitante sulla soglia di casa sua, con l'aria di chi sa di essere invadente ma non può evitarlo, come quei fanatici appartenenti a qualche bizzarra setta religiosa, i venditori di enciclopedie per corrispondenza, i poliziotti. Di solito è una seccatura trovarseli di fronte, ma quella ragazza era talmente bella da trasformarla in un'esperienza deliziosa. Con un aspetto simile quante volte si era sentita indiscreta o costretta a parlare con voce sommessa, quasi implorante, per ottenere qualcosa? Mai. Non doveva fare nulla. Con un volto simile si ottiene qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. Cosa poteva offrirle lui? La sua casa. «Mi dispiace disturbarla, ma ho vissuto qui. Sono cresciuta in questa casa. Stavo facendo un giro della città con mio fratello per rivedere i vecchi posti e mi... ci siamo chiesti se non ci farebbe entrare un momento. Per rievocare i tempi andati». Era stanco e di malumore. Le cose non andavano bene al lavoro negli ultimi tempi e la sera tornava a casa sfinito, assolutamente a terra. Mangiava una fetta di formaggio con qualche cracker oppure apriva una scatoletta
rossa e bianca di minestra e la trangugiava senza neanche versarla nel piatto: qualsiasi cosa purché non dovesse fare la fatica di preparare. Non voleva neanche ricordare che sapore avesse una buona cena. Sua moglie era una brava cuoca, ma da quando non stavano più insieme, ogni volta che gli capitava di mangiare qualcosa di buono pensava a lei e la cosa lo intristiva o avviliva ancora di più. Per qualche anno erano stati abbastanza felici in quella casa, anche se non era mai stato un posto speciale per loro, piuttosto un punto d'appoggio, una di quelle abitazioni in cui si fa ritorno la sera per poi ripartire di nuovo la mattina seguente. Una casa invisibile con accanto un vialetto d'accesso in cui, nel corso degli anni, erano state parcheggiate un certo numero di automobili altrettanto invisibili, mentre i proprietari, dentro, ne sognavano una migliore: un'auto migliore, una casa migliore, una vita migliore. Era rimasto lì dopo il divorzio, perché ci si trovava bene e la cosa bella di quella casa era che non gli ricordava troppo sua moglie. Capitava di tanto in tanto che aprisse un cassetto in cucina e vedesse un apriscatole che aveva comprato lei, o che sentisse la sua assenza in soggiorno la sera, ma tutto sommato gli andava bene rimanere lì finché non avrebbe trovato qualcosa di meglio da fare del resto della sua vita. Guardando quella dea sulla soglia, si chiese meschinamente come fosse possibile che quella casa contenesse dei ricordi per qualcuno. Neanche la città in cui si trovava era niente di speciale. Qualche negozio, un cannone in mezzo al fazzoletto di verde nella piazza centrale, una stazione in cui ogni mattina una folla di persone che altrimenti non avresti mai incontrato prendevano un treno per una città più grande e migliore. E invece quella sventola gli stava chiedendo se lei e suo fratello potevano dare un'occhiata a una serie di stanze ordinarie e banalissime, Per quanto comprendesse il desiderio di avere accesso a quello che per loro era un luogo della memoria, la sola idea lo fece sospirare. Nei pochi istanti che trascorsero tra quei suoi pensieri e il momento in cui la invitò a entrare, si rese conto di una cosa triste: non era in vena di bellezza. Non gli interessava contemplare la curva pesante di quei magnifici capelli castani, non desiderava che quell'incantevole creatura facesse scoppiare un fuoco di paglia nei suoi pantaloni. La bellezza, in qualsiasi sua forma, richiede un coinvolgimento interiore eccessivo. Desiderio, eccitazione, ammirazione: sei costretto a spalancare gli occhi, dedicare energia e immaginazione a quello che ti trovi davanti. Tutte cose di cui per il momento faceva volentieri a meno. Non aveva nessuna voglia di rimanere a
bocca aperta davanti a nulla e di certo non voleva consumare l'esigua riserva di energia che gli era rimasta e gli serviva a trascinarsi da un giorno all'altro. «Certo, entri, la prego. Fate pure». Lei si girò e chiamò il fratello: «Conor, dai, puoi venire!». Non si era aspettato di veder apparire da dietro l'angolo un ragazzino così giovane, con il sorriso di un politico texano. Era un sorriso inquietante, falso come Giuda. Si sentì subito a disagio. «Piacere. Sono Conor Bryson. È molto gentile da parte sua concederci questo favore». Quanti anni poteva avere, quindici? Parlava come un diplomatico e aveva l'aspetto di un imbroglione o di un membro di qualche assurda setta religiosa. Malgrado la sorella fosse tanto affascinante, sperò che lei e Conor se ne andassero in fretta. Era casa sua, ma non appena quei due furono entrati, non seppe più cosa fare. Non avevano l'aria di essere dei ladri o dei voyeur, perciò cosa doveva fare, seguirli per accertarsi che non portassero via niente e non ficcassero il naso dove non dovevano? Quel dubbio lo fece rendere conto di una cosa patetica: non c'era niente da rubare in quella casa. Né esistevano, nascosti dentro qualche cassetto o sotto qualche mobile, deliziosi segreti o piccole perversioni che sarebbero arrossite di vergogna se un estraneo vi avesse posato gli occhi sopra. Lui e sua moglie avevano sempre fatto l'amore in camera da letto e quasi sempre di notte. Non c'erano riviste piccanti né giocattoli lascivi comprati con una risatina e le guance in fiamme in un sex shop, portati a casa di corsa e usati in gran segreto per rendere ardenti e felici le proprie notti. Segreto era una parola inutile nel lessico della sua vita. Non possedeva niente, niente di abbastanza interessante perché qualcuno potesse volerglielo rubare. Desideriamo davvero scoprire simili cose di noi stessi? No, non gli interessava, soprattutto in quel momento: aveva già abbastanza problemi a tirare avanti così senza che l'esistenza si mettesse i guantoni e lo inchiodasse con una raffica di penose rivelazioni. Ma non ci poteva più fare nulla ormai, così andò a sedersi sullo scadente divano marrone ascoltando i rumori dei due ragazzi che giravano per casa, ricordando bei tempi, genitori affettuosi e magari anche un cane meraviglioso che si sedeva adorante ai loro piedi. Lì solo in soggiorno, mentre sentiva i loro passi di sopra, cercò di immaginarsi un albero di Natale gigantesco e la stanza piena di regali per la
gioia dei due bambini. Ci dovevano essere state anche tante feste, il soggiorno zeppo di gente, bicchieri colmi fino all'orlo e posacenere traboccanti. Lui e sua moglie non erano gran che in quel genere di cose, a nessuno dei due piaceva darsi troppo da fare e così avevano passato la maggior parte delle loro serate guardando la tivù o chiacchierando di cose ormai del tutto dimenticate. Quando si comprendono simili verità della propria vita, ci si ritrova con la pelle d'oca ad agitare i pugni in aria e si decide su due piedi di ridare il via alla propria esistenza. Lui invece comprese con un brivido che non aveva né l'energia, né i mezzi per farlo, per quanto ne comprendesse la necessità. Quando quei due se ne sarebbero andati, per un paio di giorni sarebbe stato più depresso del solito, dopo di che avrebbe lentamente cominciato a dimenticare quella storia e le cose avrebbero ripreso ad andare avanti come al solito. In quel momento entrò in soggiorno la ragazza, sola, con un'espressione davvero indimenticabile: sul suo viso rammarico e tristezza si mescolavano alla felicità. Sembrava persino più bella, se solo fosse stato possibile, dopo essersi aggirata tra quei ricordi. «Grazie mille! Non so se questa visita mi abbia reso più felice o triste. È stata così intensa! In ogni stanza c'è un intero mondo di ricordi che avevo completamente dimenticato. Comunque è stato davvero gentile a farci entrare». La porta di casa era aperta. Il ragazzo era fuori, di spalle. Lui li accompagnò alla macchina attraversando il piccolo prato davanti a casa. Avevano parcheggiato lì la loro brutta automobilina giapponese grigia. La cosa lo consolò un po': si era aspettato di vederli salire su una costosa decappottabile rossa o un'affusolata berlina nera con più pulsanti di un aeroplano. Almeno per strada quei due non erano degli dèi. Era già qualcosa. Li guardò allontanarsi e tornò dentro. Pensò che forse aveva fame e, visto che non aveva molte altre possibilità, pensò di andare in cucina a farsi un panino o qualcosa del genere. Un panino e una birra mentre guardava qualcosa alla tivù. Attraversando il soggiorno ricordò quelle voci di sopra che rievocavano i giorni in cui avevano vissuto in quella casa. Non era un uomo lascivo, ma per un attimo immaginò la ragazza, un'adolescente in fiore, che passeggiava nuda per la sua stanza. O nella piccola stanza dei giochi nel seminterrato, distesa sul divano tra le braccia di un fidanzato fortunato. Stava pensando a quelle cose quando, aprendo la porta della cucina, scorse un'oliva sul bancone. Detestava le olive, di qualsiasi genere fossero.
Erano troppo aspre, quasi amare, e trovava vagamente osceno il modo in cui si sfaldavano in bocca nonché l'odore fortissimo che usciva dal vasetto o dal barattolo appena lo si apriva. Un'oliva nella sua cucina perciò poteva essere solo uno scherzo. Eppure la triste verità era che a nessuno poteva importare di fargli uno scherzo. Da dove era scappata fuori, perciò? Quella grossa oliva verde appoggiata sul ripiano di formica bianca. La prese in mano e la guardò come se si trattasse di un reperto di uno scavo archeologico o dell'indizio di un importante mistero. Esclamò ad alta voce: «E questa cosa ci fa qui?». Ma non ottenendo nessuna risposta, aprì lo sportello sotto il lavandino e infilò quel verde invasore nel bidone della spazzatura. La sentì toccare il fondo con un rumore sordo che lo spinse a sporgere istintivamente la testa per vedere cos'altro ci fosse dentro al bidone. Quasi nulla. Era da un pezzo, chissà da quando, che non lo svuotava. Eppure era praticamente vuoto. La cosa lo turbò non poco. Viveva lì, oppure no? Non era neanche possibile avvertire la sua presenza nel bidone della spazzatura? Fece dietrofront e marciò in soggiorno. Sulle pareti erano appesi alcuni quadri, convenzionali e insulsi, comprati insieme a sua moglie a un'esposizione d'artigianato anni prima. Da dimenticare. Con le mani sui fianchi perlustrò la stanza in cerca di qualche segno di sé. Non c'era nulla che dicesse il suo nome. Nulla che dimostrasse che lì viveva un uomo diverso da tutti gli altri. Solo un divano marrone, squallidi quadri alle pareti, sugli scaffali vecchi bestseller che nessuno ricordava più. Le cose erano state diverse quando c'era sua moglie? Lo dubitava. Ritornò in cucina, puntando dritto al frigorifero. Si sarebbe fatto un panino col prosciutto e avrebbe bevuto la birra che aveva comprato uscendo dal lavoro. All'inferno quei pensieri. Chi se ne fregava di capire perché la sua presenza non fosse più incisiva, perché non era qualcuno. Era quello che era e viveva in una casa in cui avevano abitato altre persone invisibili. E con ciò? Cosa gli importava se quella bella ragazza aveva... Il frigorifero era pieno. C'era caviale iraniano (per quanto lui non sapesse neanche cosa fosse, non avendo mai visto, né tanto meno assaggiato, del caviale iraniano), pâté de foie gras di Strasburgo, Dreikornbrot austriaco. Il suo frigorifero era un circo a tre piste zeppo di bottiglie e barattoli colorati con scritte in ogni lingua del mondo, compreso il cirillico. Sembrava uno di quei negozi assurdamente costosi di New York in cui una pagnotta di pane costa dieci dollari. Invece tutta quella roba si trovava proprio nel suo frigorifero, come diavolo era possibile? Era così scioccato che lasciò lo sportello aperto e morsicandosi il labbro inferiore, rimase a fissare quel-
la straordinaria profusione. Ci volle un po' perché riuscisse a collegare quella scena con l'oliva che aveva avuto il coraggio di apparire in cucina qualche minuto prima. Prima un'oliva e adesso tutto quel ben di Dio? Stava succedendo qualcosa, ma come un selvaggio che vede la propria immagine riflessa in uno specchio per la prima volta, non riusciva a staccare gli occhi da quella baraonda di colori e di cibo stipata nel suo frigorifero senza che lui avesse comprato niente di tutto ciò. Lesse "litchi" sul fianco di un barattolo e pensò di sapere cosa fossero, anche se non ne era del tutto sicuro. E poi coriandolo e aceto di dragoncello e chissà che altro da quali lontani pianeti alimentari. Poi, quando fu finalmente capace di staccare lo sguardo dal frigorifero, voltandosi, vide che anche la cucina all'improvviso si era trasformata. Sgargianti pentole di rame erano appese alle pareti. Sul bancone c'erano tre coltelli col manico di legno e altri utensili da cucina che non aveva mai visto. Una radio nera Philco troneggiava sulla finestra sopra il lavandino. Ne ricordava una simile da quando era bambino: grande e panciuta, con le manopole color avorio un po' ingiallite. Suo padre ne aveva una così in rimessa. Se fosse rimasto in cucina avrebbe notato anche gli altri cambiamenti: le mensole dipinte di un colore diverso, paffute tazzone gialle e arancioni dal Portogallo, un coltello giapponese abbastanza affilato da tagliare l'aria. C'era un blocchetto giallo a righe sul bancone con un disegnino di Babbo Natale fatto da un bambino. Invece di due ordinarie sedie di plastica, intorno al tavolo erano disposte quattro sedie cromate che non avrebbe riconosciuto se fosse rimasto lì, ma a quel punto era già uscito, perciò poco importa. Dalla cucina era passato in soggiorno, dove lo aspettava una trasformazione non meno evidente e scioccante. Dalla padella alla brace. Anche se il suo calendario diceva che era luglio, il soggiorno era tutto un addobbo natalizio. Proprio come aveva immaginato qualche minuto prima, la stanza ospitava la scena natalizia più traboccante e felice che avesse mai visto. C'era un albero di Natale gigantesco con splendide decorazioni, un presepe bellissimo, lunghi calzettoni che sarebbero stati appesi con cura davanti al caminetto se ce ne fosse stato uno. Sembrava uscita da un film, dall'ultima scena di uno di quei film sdolcinati e strappalacrime degli anni Quaranta in cui tutto si risolve per il meglio e i buoni si ritrovano tutti insieme a Natale. Capra avrebbe potuto girare La vita è meravigliosa nel suo soggiorno.
Ma quello non era il suo soggiorno, non più. Fece qualche passo come un astronauta atterrato su Venere, toccando una cosa qua e una là con mano esitante, come se da un momento all'altro quegli oggetti avessero potuto saltargli addosso e azzannarlo. In quella sua stanza non c'era più nulla di suo. Né i mobili, né l'albero di Natale, né le tende. O il tappeto, il pouf, le riviste sul tavolino da caffè. Lui non l'aveva neanche mai avuto un tavolino da caffè! Era sbalordito ma anche straordinariamente affascinato. Che diavolo era quella storia? La sua casa era stata invasa dai marziani? Cos'era, una specie di candid camera di Ai confini della realtà? Qualcuno era entrato a casa sua e aveva cambiato tutto in pochi secondi per fargli credere di essere diventato matto da un minuto all'altro, da una stanza all'altra? Erano talmente tanti i pensieri che gli si affollavano in mente che non udì il campanello. Non lo udì suonare neanche la seconda, o la terza volta, e non udì la porta di casa aprirsi, né i passi di qualcuno che entrava. Era talmente incantato da quel che aveva davanti che non sentì nulla finché la ragazza non gridò. E anche allora quella voce non infranse del tutto la sua meraviglia. «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!». Pur sentendo quelle parole, non si accorse davvero della presenza di quella ragazza finché, voltandosi lentamente, non la vide sulla soglia, con le mani sulla bocca, lo sguardo che correva impazzito da un angolo all'altro del soggiorno, incapace di credere ai suoi occhi. «Oh! Mio Dio! Mio Dio!». Sapeva che era tutta una follia, ma perché mai quella ragazza era di nuovo lì? E perché era così terrorizzata? Si guardò di nuovo intorno per vedere se non ci fosse per caso un mostro o qualche altra impossibile creatura di cui non si era ancora accorto. No, niente di tutto ciò, ma solo in quell'istante si rese conto di un dettaglio che sino a quel momento non aveva notato: ogni cosa in quella stanza veniva dal passato, da chissà quanto tempo prima. Almeno una decina d'anni, probabilmente, come la grossa radio in cucina, anche se era tutto in perfette condizioni. Gli cadde lo sguardo su «Time» posato sul tavolino, guardò la data sulla copertina e vide che era un numero di dodici anni prima. Scorse le fotografie appese alle pareti e stava per andare a guardarle quando la ragazza attirò la sua attenzione. «Il presepe della mamma! Oh, guarda!», esclamò attraversando la stanza per avvicinarsi. Prese una statuetta in mano e la sollevò. «È l'agnellino! È impossibile! È quello che ho tirato addosso a Conor. Ha persino la zampet-
ta rotta. Credevo che la mamma sarebbe morta quando gliel'ho detto». Lo guardò come se lui potesse capire di cosa stava parlando. Scostando la ragnatela di meraviglia che gli aveva avviluppato la mente, lui a quel punto le rivolse con voce tranquilla e comprensiva la domanda giusta: «Hai già visto questa stanza?». «Certo! È esattamente come allora. Come quando eravamo qui. È tutto esattamente come allora. Non ci posso credere. Come ha fatto? Dove l'ha trovato un agnellino uguale...? Come fa a sapere tutte queste cose?». Sarebbe andata avanti, ma vedendolo scuotere il capo, la sua voce pian piano si smorzò. «Io non c'entro niente. Non so cosa stia succedendo. Appena ve ne siete andati la casa ha cominciato a trasformarsi in...». Fece un gesto con la mano indicando quello che aveva intorno. «Ma come...». «Non lo so!». Si passò la lingua sulle labbra. «Forse vi sta ricordando». Era una cosa strana da dire, ma aveva proprio ragione, era evidente. Lei lo guardò con gli occhi spalancati, comprendendo pian piano cos'era successo. «Come? In che senso? Come fa una casa a ricordare?». Come per rispondere a quella domanda, una canzone cominciò a echeggiare intorno a loro. Ammutoliti, l'ascoltarono entrambi con la massima attenzione, anche se era una canzoncina talmente sciocca che chiunque l'avrebbe riconosciuta subito: Alvin and the Chipmunks intonavano una melodia di Natale insieme a David Seville. Le loro voci fastidiosamente stridule e accelerate traboccavano allegria natalizia. La ragazza lo guardò e disse con voce monocorde: «L'avevo regalato a mio padre. Lo pagai cinque dollari in un negozio di dischi di seconda mano, ma a lui piaceva così tanto che lo cercai per settimane prima di riuscire a trovarlo». «Gli piaceva questa canzone?». «Sì, adorava i dischi strani. Ne aveva un mucchio». Rimasero entrambi ad ascoltare la canzone fino alla fine senza aggiungere altro. Un'espressione nuova apparve all'improvviso sul volto della ragazza. «La mia stanza! Devo andare a vedere la mia stanza!». Prima che lui potesse aprire bocca, la vide sfrecciare verso la stretta scala che portava di sopra correndo più veloce che poteva. Non sapendo cosa fare, la seguì. Di certo non aveva intenzione di rimanersene in soggiorno con Alvin and the Chipmunks.
Quando arrivò davanti alla camera, dalla porta aperta vide che la stanza da cucito di sua moglie era diventata la stanza da letto di un'adolescente. C'era un copriletto di raso rosa sul letto, poster di idoli del rock'n'roll alle pareti, amorfi pupazzi di stoffa sparsi dappertutto. La ragazza era seduta sul letto con in mano un telefono rosa modello "Principessa" e stava facendo un numero. «Cosa fa?». «Chiamo Madeleine Henry. Era la mia migliore amica al liceo. È morta durante l'ultimo anno. Voglio provare. Devo vedere cosa succede». I suoi occhi lo implorarono di comprendere l'assurdità di quel gesto. Il telefono dovette squillare per lo meno una ventina di volte prima che lei rinunciasse e mettesse giù. Lo guardò di nuovo. «Questa è casa nostra. È esattamente com'era quando vivevamo qui. Identica. Cosa intendeva quando ha detto che ci sta ricordando?». Lui rifletté un momento: aveva proprio detto così? «Non lo so. Forse, quando siete venuti qui, lei e suo fratello, ha cominciato a ricordare. Vuole dimostrarvi che non vi ha dimenticato». Lei non lo contraddisse, si limitò a guardarlo come se lui avesse compreso qualcosa di tremendamente importante. «Non è possibile». «Lo so, ma vede anche lei cosa sta succedendo. Questa non è la mia casa. Sono cinque anni che vivo qui, eppure non c'è una sola cosa mia qui dentro. Questi pupazzi, i mobili, i dischi dei Chipmunks». Lei lo guardò, poi abbassò gli occhi di nuovo. «Non sono mai più stata felice come in questa casa. Tutta la nostra famiglia lo era. È una casetta da niente, ma per noi ogni cosa era meravigliosa qui. Il babbo era direttore dello stabilimento aeronautico, la mamma faceva la maestra elementare, Conor non era ancora diventato così strambo». Stava parlando tra sé, o forse anche un po' alla casa. Dal tono della sua voce, comunque, lui comprese di non essere incluso. «Immagino che ci sia un periodo nella nostra vita in cui tutti ci vogliono bene e ci incoraggiano. Da quando ce ne siamo andati, è tutto cambiato. Non so neanche perché ce ne siamo andati. Perché siamo dovuti venire via?». Lui attraversò la stanza e si avvicinò alla scrivania. Prese in mano una cornice con una foto della famiglia riunita di fronte alla casa. Mamma e papà dietro, con un braccio intorno alla vita l'uno dell'altra, che sorridono all'obiettivo. La ragazza e suo fratello davanti, lui che le schiaccia la testa come se fosse una palla da bowling. Lei che ride. Una scena che emanava un calore e un senso di perfezione quasi tangibili. Com'era contenta quella
famiglia, com'erano felici di stare insieme. Fissando la foto, disse: «Forse le siete mancati, a questa casa. E ve lo sta dicendo così. Per tutto questo tempo non ha aspettato altro che tornaste per potervelo dire. Sua madre era una cuoca meravigliosa e suo padre vi aiutava a fare i compiti, vero?». La guardò e vide che lei stava annuendo con la bocca leggermente socchiusa. «Suo fratello era un gran rompiscatole, ma era anche divertente e vi faceva sempre fare un sacco di risate». Lei continuò ad annuire, ma lui era tornato a guardare la foto e non poteva notarlo. Sapeva che nessuno aveva mai amato tanto quella casa, nessuno si era mai più voluto tanto bene in quella casa. Era naturale che adesso essa sentisse la mancanza di quella ragazza e della sua famiglia. Stava per chiederle come mai era tornata indietro, quando udì qualcosa che ammutolì entrambi. Si scambiarono uno sguardo incredulo. Poteva anche essere stato il vento. Una raffica di vento che aveva spazzato la casa correndo tra le mediocri tavole di legno con cui era stata costruita. Il vento che fa scricchiolare il legno può far credere che una casa abbia emesso un gemito. Un lamento, un singhiozzo... un suono molto umano e triste, più triste del cuore di un vecchio. Poteva anche essere stato il vento, ma entrambi sapevano che non era così. Entrambi sapevano che la casa stava piangendo per quello che le era accaduto. Gemeva per la tristezza che aveva conosciuto, le persone stupide, insensibili che vi avevano abitato detestandosi e seminando odio per la casa come una malattia. E cosa dire della disperazione di chi vi aveva vissuto senza sogni e ben poche speranze? La casa aveva dovuto sostenere il peso della rabbia dei figli nei confronti dei genitori e della delusione dei genitori nei confronti dei figli. Liti, bugie, voci irate e lacrime che servivano solo a scatenare altre lacrime. Sapeva di aver contribuito anche lui a quel peso. Sapeva che la sua vita grigia, sia quando vi aveva vissuto con sua moglie, sia da solo, si era andata a sommare a quel carico di infelicità. Per anni quella piccola casa aveva ospitato una famiglia dopo l'altra di falliti, depressi, firmassegninbianco e bastonamogli che non pagavano le bollette, non amavano i propri figli, non si curavano di altro che di salvare la propria pellaccia. Poi un giorno era arrivata una famiglia nuova e all'improvviso tutto era cambiato. Si amavano, amavano la loro vita, amavano la loro casa. Era tutto così bello. La casa era stata dipinta di fresco, due bei bambini cantic-
chiavano a colazione, i genitori accarezzavano la testa ai figli mentre guardavano la televisione tutti insieme. Tutte queste cose e molte altre ancora. Ci era voluto un po' di tempo, ma pian piano la casa si era ripresa. La nuova famiglia l'aveva ridipinta fuori e riarredata dentro con bei mobili, coltelli lucidi, buoni odori. Così, come un cane che è stato bastonato ma poi viene adottato da una famiglia che gli vuole bene, quella casa spossata da tanta fatica aveva pian piano risollevato la testa e si sarebbe anche messa a scodinzolare se solo avesse potuto. Erano persone dolci, sensibili, divertenti. La loro vita era bella e spandeva bellezza intorno a sé, persino nell'anima della loro casa. Ed essa aveva offerto loro tutto quello che aveva per mostrare la propria gratitudine. Aveva impedito che le finestre andassero in frantumi durante un temporale e quando il tetto gocciolava nella camera da letto dei due genitori aveva fatto sì che l'acqua non finisse sul letto rovinando il quilt che era nel loro corredo da cento anni. Faceva quel che era in suo potere perché li amava e li rispettava tutti così tanto. Poi il padre ottenne un lavoro migliore, oppure la madre cominciò a desiderare una casa più grande. Comunque sia, un giorno la vendettero e se ne andarono. E così quella casa fu acquistata da un'altra famiglia di falliti e tornò a essere quello che era sempre stata: un tetto e quattro pareti con dentro solo dolore, meschinità, disperazione e cose peggiori. Non c'era da meravigliarsi che stesse piangendo. Non c'era da meravigliarsi che lui e quella bella ragazza rimanessero in silenzio, senza parole. Lui perché sapeva di essere in parte responsabile di quei singhiozzi, lei perché sapeva che la sua vita non sarebbe mai più stata tanto bella quanto lo era stata lì. Note 1.
T.S. Eliot, "Quattro Quartetti", trad. di Filippo Donini, Vicenza, UTET, 1978.
2.
Pittore romantico americano (1847-1917) noto per i suoi quadri visionari che generalmente traevano ispirazione dall'opera di grandi poeti e artisti come Shakespeare, Byron, Poe, Melville e Wagner.
3.
Auntie Mame, film del 1958 con Rosalind Russell nel ruolo dell'omonima protagonista.
4.
La Ford Modello T è un modello storico che la Ford produsse per vent'anni, dal 1908 al 1928.
5.
Laugh-in, varietà condotto dai comici Dan Rowan e Dick Martin, fondeva musica rock e comicità e dominò gli schermi americani dal 1968 al 1973.
6.
The Dick Van Dyke Show, dedicato al celebre attore Dick Van Dyke (protagonista insieme a Julie Andrews del film Mary Poppins), fu uno dei programmi simbolo degli anni Sessanta americani.
7.
Il generale americano Douglas MacArthur, grazie al rapporto instaurato con l'imperatore giapponese Hirohito durante la seconda guerra mondiale, fu una delle figure fondamentali per la soluzione del conflitto con il minor numero di vittime possibile.
8.
Si tratta di due romanzi minori di Herman Melville: Redburn (1849) e Pierre o le ambiguità (1852).
9.
Titoli obbligazionari ad alto rischio e per questo denominati, letteralmente, 'obbligazioni spazzatura'.
10.
«Sulla Terra ci sono, e ci sono sempre stati, trentasei uomini giusti la cui missione è giustificare il mondo davanti a Dio. Non si conoscono l'un l'altro e sono molto poveri. Se un uomo viene a sapere di essere un Lamed Wufnik, muore immediatamente e qualcun altro, forse da un'altra parte del mondo, prende il suo posto. I Lamed Wufnik sono, senza saperlo, i pilastri segreti dell'universo. Se non fosse per loro, Dio annichilerebbe l'umanità intera. Inconsapevoli, sono i nostri salvatori», da Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari, trad. di Fausta Antonucci, Roma, Theoria, 1984.
11.
La citazione è tratta dalla celebre conclusione dei Saggi del filosofo francese.
12.
Celebre cane prodigio vissuto in America nei primi decenni del secolo scorso.
13.
Victor Dixon, chitarrista e fondatore del gruppo rock Vitamin D, viene brevemente citato anche in un altro racconto della raccolta, "La morte ti ama", nonché nel romanzo I bambini di Pinsleepe e in una breve scena di Sleeping in Piarne, come accade a diversi personaggi di Jonathan Carroll.
14.
Il personaggio del Macbeth shakespeariano cui si fa riferimento qui è Macduff, nobile scozzese che, alla notizia che il suo castello è stato preso d'assalto e la moglie e i figli sono stati trucidati, esclama «Tutti? Tutti i miei cari piccini? Avete detto tutti? Oh! nibbio d'inferno! Tutti? Che? Tutti i miei poveri pulcini insieme con la chioccia con un feroce colpo d'artiglio?».
15.
Johann Bernhard Fischer von Erlach (Graz 1656 - Vienna 1723) architetto e scultore austriaco che portò e diffuse in patria lo stile barocco. Long Range Reconnaisance Patrol, famosa unità di combattimento USA in Vietnam.
16.
17.
Re Lear, William Shakespeare, scena IV, atto III, Biblioteca Universale Rizzoli, trad. di Ugo Dettori, Milano, Rizzoli & C, 1951.
18.
Venasque, citato anche nei Bambini di Pinsleepe, è uno dei protagonisti del romanzo di Jonathan Carroll Sleeping in Flame.
19.
Gioco in cui due squadre di dieci giocatori devono mettere nella rete avversaria una pallina con l'ausilio di un bastone ricurvo, crasse, alla cui estremità è fissato un retino triangolare.
20.
Mezzanotte è il film dell'orrore che ha reso famoso Phil Strayhorn, uno dei protagonisti dei Bambini di Pinsleepe.
21.
Bianche Dubois è la protagonista del dramma Un tram chiamato desiderio scritto e messo in scena da Tennessee Williams nel 1947.
22.
Il celebre drammaturgo americano Tennessee Williams, noto per testi quali Lo zoo di vetro, La gatta sul tetto che scotta, nonché Un tram chiamato desiderio di cui si cita la protagonista verso l'inizio del racconto, morì nel 1983 all'età di settantun anni soffocato da un tappo di bottiglia.
23.
Harry Radcliffe è il protagonista del romanzo di Jonathan Carroll The Dog's Museum. FINE