IL LIBERO SENTIERO
Mauro Biglino
RESURREZIONE REINCARNAZIONE Favole consolatorie o realtà?
Riflessioni e domande per liberi pensatori
ISBN 978-88-97623-17-5 © 2009 Uno Editori Prima edizione: aprile 2009 Tutti i diritti sono riservati Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da aidro, corso di Porta Romana 108, Milano 20122, e-mail
[email protected] e sito web www.aidro.org Editing: Andrea Cogerino Copertina: Monica Farinella www.unoeditori.com
[email protected] Prefazione dell’editore
Per me la religione è una storia d’amore personale con l’esistenza. Non ha nulla a che fare con le Sacre scritture, niente a che fare con il sapere, con l’apprendimento, queste sono cose prive di senso. Osho, Una storia d’amore con l’esistenza (Infinito records edizioni, 2009)
È semplice parlare di religione e di vita, lo facciamo da secoli… ma essere religiosi e trovare la scintilla che potrebbe unire il mondo è ben altra cosa… Si parla di “percorsi iniziatici” o di “fede”, ma la vera Iniziazione e la vera fede, sono legate indissolubilmente a quel fenomeno chiamato consapevolezza, alla verità oggettiva di quel che è, e non appartengono al mondo della soggettività culturale. La Terra è divisa in fazioni perennemente in lotta tra loro: religioni contro religioni, dio contro dio (o contro dèi…), sette contro sette, “appartenenze” contro “appartenenze”, politici contro politici, ideologie contro ideologie, uomini
contro uomini (o uomini contro donne e viceversa…), movimenti spirituali contro movimenti spirituali… Alcuni cercano il “dialogo”, ma pochi sono in grado di vedere oltre la propria mente; si discute di “incontro tra le religioni”, di “dialogo per la pace”, ma ho sentito poche parole di saggezza tra coloro che sono definiti i “leader del mondo”. Forse tutto ciò a cui abbiamo sempre creduto… potrebbe essere falso? Le gabbie sono tante, e sembra che all’uomo piaccia girovagare da una cella all’altra. Un uomo libero è colui che con forza e coraggio inizia un sentiero Iniziatico, libero dal gioco delle appartenenze, libero dal conosciuto… Lavorare per il bene dell’umanità vuol dire “semplicemente” liberarsi dai concetti obsoleti di Nazione e di Religione, per sostituirli con Umanità e Religiosità. Il libero sentiero della ricerca dovrebbe essere percorso a cuor leggero, con il coraggio del guerriero che impugna e usa la spada, per tagliare le radici dell’inconsapevolezza. Come uomini di ricerca, ogni tanto (per tenere la mente in allenamento) dovremmo chiederci: «Che cosa siamo rispetto all’immensità delle galassie? Che cosa sono i settanta o gli ottanta anni di vita conosciuta che vivremo, rispetto allo sconosciuto da esplorare?». E dovremmo mettere serenamente in discussione le risposte già sentite: è impossibile rispondere attraverso le impalcature culturali delle tante ideologie, nessuno si è mai illuminato all’interno di una stanza buia, si deve uscire allo scoperto per vedere i raggi del sole…
Sono convinto che l’umanità intera sarà matura, e si avvierà verso una ricostituzione, quando il gioco delle appartenenze terminerà e ogni singolo individuo si reggerà in piedi da solo, libero da ogni idea preconcetta, e conoscerà per la prima volta la responsabilità individuale di essere parte di un gioco immenso e misterico chiamato vita, nel quale ognuno è chiamato a partecipare con un senso di responsabilità totale nei confronti della collettività (come un bimbo che si stacca dalla mano della mamma per camminare, e lentamente Inizia a esplorare e conoscere la vita…). Ho deciso di inserire nella collana “Il libero sentiero” il testo Resurrezione Reincarnazione, nella speranza che le menti aperte colgano i giochi invisibili che tengono l’uomo bloccato ai piani bassi della scala dell’evoluzione (siamo progrediti in alcuni campi, ma la natura umana e la sfera interiore sono rimaste inalterate nei secoli). L’intento è di stimolare l’approfondimento e la riflessione, per cercare di andare oltre il conosciuto, e chiedersi: tutte le filosofie, i secoli di pratiche religiose, fede cieca e ideologie politiche… hanno forse reso l’uomo più consapevole e l’umanità più armoniosa? A noi la risposta. L’editore
Oblio di sé* Fischiano le nevi nella notte eburnea, le mani tutte rotte dal vento, una tempesta di stelle sul monte, la luna esile falciata via, nascosta dal freddo. Calda, famigliare regna la pace nelle case, le stufe accese dal profumo di legno, una teiera già fumante, e la carezza rassicurante dell’oblio di sé. Tu,
da che parte stai del vetro? (Andrea)
* In Di spirito e d’amore (opera inedita).
Introduzione
Iniziamo con una precisazione metodologica la cui valenza si farà sempre più chiara nel corso del testo. L’approccio alla realtà e la via per tentare di conoscerla possono seguire, almeno in via teorica, diverse strade. Possiamo tentare di assumere forma e dimensioni di una particella subatomica e di lasciarci coinvolgere in un esperimento di fusione nucleare, oppure provare a trasformarci nella molecola di una qualsiasi sostanza e partecipare come protagonisti a una reazione chimica (o, ancora, assumere la struttura di una cartina di tornasole e immergerci in un liquido per subirne le trasformazioni conseguenti…). C’è poi un secondo ordine di strade percorribili ed è quello che ci vede assumere la posizione del fisico o del chimico che agiscono e osservano con freddo distacco ciò che sta avvenendo sotto i loro occhi e tentano di comprendere chi e che cosa sta agendo, quali forze e quali leggi sono all’opera.
La prima tipologia di scelte è quella propria del mistico, o dell’Illuminato, che sono parte attiva della situazione: si modificano in funzione di ciò che stanno vivendo con la loro intima e personale esperienza, spesso non traducibile in precise descrizioni formali. Abbiamo sottolineato che le varie possibilità si presentano solo “in via teorica” perché comprendiamo bene che l’esperienza del mistico o dell’illuminato non può essere vissuta a seguito di una semplice decisione, di una scelta razionale o di un atto volontaristico: ben più difficile e ardua si presenta infatti, e forse anche impossibile per chi scrive. Ma il problema non si pone nella fattispecie di questo libro, perché la nostra scelta metodologica prevede comunque la via del fisico o del chimico, cioè quella di chi decide di non farsi coinvolgere, per poter osservare con distacco e c o n imparzialità – per quanto questi due atteggiamenti siano effettivamente possibili… – gli avvenimenti cui assiste, con l’obiettivo di cogliere il vero, o quella parte di vero che risulta attingibile. Noi, in questo testo, scegliamo quindi dichiaratamente la seconda – forse anche a motivo della consapevolezza di non essere capaci di percorrere la prima! – e proviamo a ipotizzare che la conoscenza della verità sia appannaggio del fisico, o del chimico, e non della particella subatomica o della molecola. Non possiamo sapere se è in assoluto la via giusta, ma abbiamo scelto questa… Tra il I e il II secolo d.C., nell’isola di Sri Lanka, sono stati redatti in lingua pāli i più antichi codici buddhisti che si conoscano. Secondo quei testi Buddha avrebbe affermato che l’uomo pienamente realizzato nella sua totale maturità e
completezza è rappresentato da quell’individuo la cui vita, le cui azioni, i cui atteggiamenti sono posti sotto il totale controllo dell’elemento razionale. Queste affermazioni consentirono a diversi suoi importanti discepoli di definire il loro Maestro come Prahmana butta, cioè “Logica incarnata”. Razionalità dunque – e non il suo annullamento! – come garanzia di piena realizzazione dell’uomo… Questi due primi paragrafi introduttivi definiscono una delle caratteristiche del presente scritto: non dare per scontato nulla, non accettare passivamente ciò che spesso viene dato per vero e assodato. Questo libro è scritto quindi per donne e uomini disposti ad adottare questo atteggiamento nei confronti del pensiero comune. Per donne e uomini che non hanno il bisogno disperato di credere, ma che sono spinti dal desiderio profondo di conoscere; che pensano che il dubbio sia il sale della vita e garanzia di libertà di pensiero; che amano le domande prima ancora che le risposte; che pensano che l’oro promesso dalla Pietra filosofale non è il risultato finale della ricerca, ma la ricchezza insita nella ricerca: l’attività che produce il tanto desiderato “arricchimento”. In quest’ottica matura la consapevolezza che non si può fare una scelta di vita senza il presupposto imprescindibile della conoscenza delle vie da scegliere. Quando ci si accinge ad acquistare un’auto o una moto, si tende a verificarne le caratteristiche al fine di evitare una scelta sbagliata: chi desidera percorrere gli sterrati di montagna sta ben attento a non acquistare una moto da strada con la
quale non raggiungerebbe certo il suo obiettivo. Ora, la scelta di una via spirituale è “affare” ben più serio, arduo e rischioso dell’acquisto di un mezzo meccanico: ne va della nostra eternità, oppure dell’impossibilità di liberarci dai legami della materia per conseguire il fine della nostra evoluzione. Scegliamo di agire in funzione di un’eternità che sarà vissuta in un rapporto individuale con un Dio personale oppure nella speranza di una liberazione che porterà al nostro annul-lamento totale inteso come massima realizzazione di una libertà definitiva? Già qui, l’esemplificazione ci porta a un tipo di scelta che si può definire esclusiva: l’una non accetta l’altra, la verità dell’una falsifica l’altra, la vita richiesta dall’una richiede un’impostazione assolutamente diversa da quella richiesta dall’altra. Sviluppare e moltiplicare i talenti personali, come richiesto da un Dio che ci giudica come individui, è cosa ben diversa dall’annullare il proprio ego per sfuggire all’inesorabilità di un Karma che ci lega a un indesiderabile ciclo di rinascite. Insomma: resurrezione e reincarnazione non sono la stessa cosa (supponendo che una delle due esista veramente…). Ma è ciò che cercheremo di capire studiandone le origini proprio come farebbero degli Iniziati (i chimici o i fisici) che intendono conoscere quali sono le forze in gioco e che, per conoscere, usano l a ragione, quello strumento che ci “specifica”, ci definisce cioè come esseri appartenenti alla specie umana.
Cercheremo di comprendere le molecole e i legami che stanno alla base delle formule elaborate dall’uomo nel tentativo mai interrotto di risolvere la paura della morte. E, in quanto chimici rigorosi, rimarremo fedeli ai testi che contengono le dottrine: non ci sono tesi precostituite da sostenere, ma solo affermazioni di presunte verità da verificare. Come si sa, la ricerca fa tesoro della storia del pensiero e dei risultati degli studi precedenti; ogni punto di arrivo deve infatti essere conosciuto, analizzato e utilizzato come occasione e stimolo per una nuova partenza lungo un percorso che forse non ha fine. In questo percorso si inserisce questo libro; parte da studi precedenti e tenta di proseguire versi nuovi traguardi; sollecita la curiosità del lettore e fornisce indicazioni per approfondire: non una bibliografia aridamente alfabetica nella quale è spesso difficile districarsi, ma l’indicazione di pochi testi cui riferirsi per arricchire ulteriormente le proprie conoscenze.
UN INVITO AL LETTORE
Alcune pagine potranno apparire ostiche a chi non conosce il tema e si è seriamente riflettuto sull’opportunità di inserirle, ma il loro contenuto è funzionale alla comprensione dell’analisi complessiva. Il lettore interessato e fiducioso proseguirà serenamente, sapendo che troverà
sempre alla fine dei capitoli le conclusioni e le sintesi chiare ed esplicative.
PARTE PRIMA
RISORGEREMO? LA NOSTRA CARNE RISORGERÀ?
1
Riflessioni preliminari: l’apostolo Paolo
Risorgeremo? La nostra carne risorgerà? Questa domanda concerne il tema fondamentale della fede cristiana, la certezza imprescindibile per ogni fedele che vede nella resurrezione dai morti la speranza suprema, il fine ultimo di ogni vita umana individuale. L’apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (15,14), dice: Se però Cristo non è risuscitato, vuota allora la predicazione nostra, vuota anche la fede vostra.
Il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica riprende questa affermazione, ne riconferma la centralità e la pone come elemento fondamentale, come «verità culminante della fede in Cristo», come «mistero», come «giustificazione di tutte le verità, anche le più inaccessibili allo spirito umano». La resurrezione è «compimento delle promesse dell’Antico Testamento» e in questo senso è anche
«principio e sorgente della nostra resurrezione futura» in quanto «giustificazione della nostra anima e vivificazione del nostro corpo» (tutto questo è compiutamente espresso e analizzato nei capitoli 638-658 del paragrafo 2 dell’articolo 5). Ma la resurrezione del Cristo è una questione a sé stante: i problemi che nascono da un’analisi attenta dei racconti evangelici esulano dagli obiettivi del presente scritto, che invece intende capire come e quando è nata la fiducia in una resurrezione estesa a tutti gli uomini. Perché, se anche si vuole concedere che Cristo sia risorto in grazia dell’intervento di Dio – che così avrebbe definitivamente decretato la divinità di questo Suo inviato avallandone ogni diritto a parlare e agire in nome Suo… – è altrettanto vero che la resurrezione dai morti concessa a tutta l’umanità rappresenta un altro aspetto della questione, che solo apparentemente dunque è la stessa. Infatti, come si vedrà, la fede nei due momenti distinti della stessa verità ha avuto un’evoluzione, è maturata nel tempo in funzione di specifiche esigenze dettate da eventi verificatisi nelle prime comunità cristiane.
Paolo di Tarso Ogni credente sa che i contenuti della sua fede sono quelli propri della predicazione paolina: l’apostolo Paolo infatti è il secondo vero fondatore del cristianesimo. Si potrebbe forse addirittura sostenere che fu il primo fondatore del cristianesimo, in quanto ne elaborò gli aspetti dottrinali fondamentali e reinterpretò la figura del Cristo alla luce di concetti che non erano presenti nel primitivo annuncio e nella predicazione stessa di Gesù, così come ci è stata tramandata dagli evangelisti. Paolo di Tarso è dunque l’apostolo per eccellenza, colui che ha elaborato i contenuti dottrinali del messaggio cristiano, li ha slegati dalla loro prima essenza esclusivamente giudaica – o almeno giudaizzante – e li ha riscritti in funzione universalistica, estendendone il valore e il significato all’umanità intera. Naturalmente molto importante è stato il suo apporto anche nell’argomento che qui si sta esaminando. Abbiamo aperto l’argomento “resurrezione” citando proprio Paolo e ricordando l’importanza da lui stesso attribuita a questo specifico contenuto della fede: è allora importante conoscere questo rifondatore del cristianesimo per meglio capire ciò che in seguito verrà analizzato. La sua vita e la sua attività missionaria sono descritte in diversi capitoli degli Atti degli apostoli, che rappresentano dunque la fonte primaria per le notizie che lo riguardano.
«Sono un ebreo di Tarso in Cilicia»: Paolo si presenta così al tribuno romano che lo stava arrestando a Gerusalemme. La Cilicia corrisponde all’attuale Turchia e la città di Tarso si trovava in una posizione che definiremmo “fortunata”. Era al crocevia di diverse culture: comunicava con il Nord e con l’Ovest rappresentato dalla Grecia ellenistica, era aperta sull’Oriente mesopotamico e al porto che si trovava alla foce del suo fiume approdavano le navi provenienti dall’Occidente romano. Era dunque un centro cosmopolita nel quale convivevano la cultura greca e la tradizione e la mentalità proprie della cultura semitica. Lì nacque Sha’ùl (“Saulo”), grecizzato poi in “Paolo”, da una famiglia di ebrei (della tribù di Beniamino) di osservanza farisea, che aveva il privilegio di godere della cittadinanza romana. Paolo, nato circa nell’anno 10 d.C. (secondo la datazione tradizionale), fu dunque circonciso, venne educato e istruito nell’osservanza della legge ebraica, la Toràh scritta e orale; imparò a parlare correntemente sia il greco sia la lingua ebraico-aramaica; ebbe una formazione culturale aperta agli influssi della cultura ellenistica che nella sua città era fortemente radicata e rappresentata da illustri personaggi. Fisicamente doveva essere piccolo, grassoccio, calvo, con ciglia spesse e naso enorme, ma dotato di un grande fascino e di un’eccezionale resistenza fisica e psicologica, che gli consentirono di superare le innumerevoli avversità incontrate nella sua vita: veglie, digiuni, freddo, migliaia di chilometri percorsi a piedi; e inoltre fu lapidato, flagellato cinque volte dagli ebrei e vergato tre volte dai romani, imprigionato per lunghi periodi… Viaggiò incessantemente affrontando tutti i disagi immaginabili in quei tempi;
riuscì anche a uscire indenne da tre naufragi, rimanendo un giorno e una notte su di una tavola in balia del mare. Era indubbiamente uomo di elevatissima intelligenza, dotato di capacità straordinarie, arricchite da un grande talento creativo: nel primo viaggio, alcuni pagani vollero addirittura adorarlo avendolo creduto un dio (Hermes-Mercurio) per il modo in cui parlava! Era un contemplativo dotato però di tutta quella abilità raziocinante propria della cultura greca, un uomo dunque capace contemporaneamente di affrontare anche i problemi pratici dell’organizzazione delle comunità che nascevano a seguito della sua predicazione. Questi gruppi erano spesso eterogenei, costituiti da ebrei e greci con i quali bisognava saper dialogare e ai quali era necessario presentare il nuovo messaggio, rispettando le diverse sensibilità e i diversi retroterra culturali e religiosi. Gli stessi Atti degli apostoli danno conto di questa sua capacità di comunicare, con altrettanta efficacia, sia con gli ebrei sia con i greci: nel capitolo 21,37-40 e poi nel capitolo 22 parla prima in greco con il tribuno romano e successivamente in ebraico agli abitanti di Antiochia; nel capitolo 13,16-41 si rivolge nella sinagoga agli abitanti ebrei di Antiochia di Pisidia, esponendo quello che appare essere il suo primo vero discorso missionario; nel capitolo 17,16-34 lo vediamo parlare apertamente ad Atene nel mercato «con quelli che vi capitavano», con «filosofi epicurei e stoici» e poi lo vediamo condotto nell’Areopàgo, dove pronuncia un discorso di fronte ai cittadini ateniesi.
La conversione Uomo dunque di ampia cultura, legato alle tradizioni ebraiche al punto da essere uno dei più duri avversari della nascente setta cristiana, approva apertamente l’uccisione di Stefano dopo avervi assistito; perseguita uomini e donne, li fa imprigionare (At 8,1-3) sinché, sulla via che lo portava a Damasco (così si chiamava forse il territorio in cui vivevano le comunità degli esseni, di cui Cristo fu probabilmente un importante esponente), per una missione diretta a catturare i cristiani (nazorei) del luogo, subisce la folgorazione che produrrà la sua conversione al messaggio di Cristo (At 9,1-19). Viene così iniziato al nuovo credo e battezzato, si ritira nel deserto, nel territorio dei nabatei, poi fa ritorno a Damasco, da dove inizia la predicazione. Nel racconto della conversione è forse indicato un percorso individuale di conversione partito da posizioni vicine a quelle del sinedrio gerosolimitano, passato attraverso un’adesione alle idee della dissidenza esseno-messianica (conversione sulla via di Damasco) e terminato con l’elaborazione di una dottrina originale, sempre messianica, ma di valenza universale: la sua nuova predicazione univa elementi giudaici a teologie di origine ellenistica che contenevano le narrazioni di salvatori morti e resuscitati. Per questi motivi è costretto a fuggire, per evitare di essere ucciso dai suoi precedenti correligionari, e si rifugia a Gerusalemme, protetto da Barnaba, un giudeo cristiano molto influente che lo fa incontrare con Pietro. Durante questa sua permanenza a Gerusalemme Paolo sostiene di avere avuto una seconda visione del Cristo che
gli dice: «Io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22,21). Segue un periodo di soggiorno a Tarso, sua città di origine, nel corso del quale probabilmente Paolo inizia la sua rielaborazione del messaggio e della figura del Cristo: mentre svolgeva il suo lavoro di «fabbricatore di tende» (At 18,3), maturava nel suo spirito quell’idea di missione che avrebbe poi compiuto negli anni successivi percorrendo il mondo “pagano” per portare la buona novella. Questo periodo di quattro-cinque anni fu interrotto da Barnaba che, nel 43-44, lo chiamò per farsi accompagnare ad Antiochia di Siria, città nella quale si stavano sviluppando comunità di credenti che necessitavano ovviamente di organizzazione e di una corretta istruzione (anche perché in questi gruppi stavano entrando cittadini che non erano di origine e cultura ebraiche). Antiochia fu dunque il punto di partenza, la base di tutte le future peregrinazioni e di quell’opera missionaria che per diversi anni portò Paolo in molti viaggi dall’Asia minore alla Grecia sino a Roma. La formazione e la successiva cura delle varie comunità di “cristiani” (così cominciarono a chiamarsi proprio ad Antiochia i seguaci di questa nuova religione) costrinse l’Apostolo delle genti a continui interventi per dare conferme, per eliminare distorsioni ed errori, per elaborare nuovi e più articolati modi di presentare il messaggio. Nascevano infatti continuamente esigenze, domande, dubbi, che erano frutto della diversità culturale delle varie comunità sorte nei luoghi toccati dalla predicazione paolina. Era necessario intervenire per prendere decisioni che alle volte generavano contrasti all’interno degli stessi gruppi: c’erano per esempio coloro che sostenevano che i pagani convertiti dovevano
sottomettersi alle prescrizioni delle leggi ebraiche in riferimento alla circoncisione; si poneva il problema della purezza rituale e del cibo; ci si chiedeva da dove proveniva la vera salvezza, se dalla Legge di Mosè o da Cristo. Le controversie che sorgevano erano talmente importanti, e pericolose per l’unità della nascente Chiesa, che fu necessario convocare un concilio a Gerusalemme (48-50 d.C. circa) per dirimere tutte le diverse questioni che sono narrate con ricchezza di particolari nel capitolo 15 degli Atti degli apostoli; a un periodo ancora posteriore sembra risalire lo scontro con Pietro verificatosi ad Antiochia e narrato dallo stesso Paolo nella lettera ai Galati. A questo proposito sono eloquenti le testimonianze presenti negli scritti dei Padri della Chiesa come Ireneo, Teodoreto ed Eusebio, che riportano come i primi gruppi di credenti (ebioniti, i poveri, i nazareni) rifiutassero l’apostolo Paolo ritenendolo un apostata della legge, mentre nei documenti giudeo-cristiani e nei testi esseni si parla ripetutamente di un «uomo di menzogna» (Commentario di Abacuc), definizione che sembra essere riferita proprio a Paolo.
I viaggi Paolo dunque fu il missionario per eccellenza, l’evangelizzatore dei pagani e, nel suo incessante peregrinare, compì quattro importanti viaggi di evangelizzazione. Nel primo, in compagnia di Barnaba, andò a Cipro e poi visitò diverse città delle regioni del Sud dell’attuale Turchia. Nel secondo viaggio si spinse a nord e poi raggiunse in Grecia le famose città di Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto (51-
52 d.C.) e proprio da quest’ultima Paolo inviò le lettere ai Tessalonicesi, che sono forse lo scritto più antico del Nuovo Testamento e che saran-no oggetto di questa analisi in riferimento all’argomento di cui ci stiamo occupando. In seguito l’apostolo riparte per una terza spedizione missionaria che, dopo l’evangelizzazione della Galazia, si concentrerà a Efeso (presso la costa occidentale dell’attuale Turchia), da cui partiranno le lettere ai Corinzi, ai Galati e forse anche ai Filippesi. Questa missione fu molto tormentata da contrasti con i pagani del luogo, per cui Paolo dovette fuggire e spostarsi più volte raggiungendo la Macedonia, da cui scrisse la seconda lettera ai Corinzi, per poi andare nuovamente a Corinto e scrivere la lettera ai Romani (57-58 d.C.) e ritornare infine a Gerusalemme, per consegnare le collette che aveva nel frattempo raccolto presso le varie comunità. A Gerusalemme viene arrestato e condotto prima a Cesarea poi a Roma per essere processato, assolto una prima volta e poi giustiziato forse già nell’anno 64 (o, secondo altri, nel 67). Quest’ultimo periodo è molto travagliato, interrotto da altri viaggi in Spagna e in Oriente, e non è ancora conosciuto con sufficiente precisione, ma ci ha lasciato le lettere forse più importanti di tutto l’epistolario paolino: quelle agli Efesini, ai Colossesi, ai Filippesi, a Tito e a Timoteo. E proprio in tali lettere è contenuto il pensiero dell’apostolo Paolo: redatte tra il 51 e il 64-67 d.C., sono i più antichi documenti scritti della nascente religione cristiana e rappresentano lo strumento sul quale il cristianesimo è stato ripen-sato, rielaborato, rifondato e diffuso in quel mondo intriso di cultura ellenistica. San Giovanni Crisostomo (patriarca di Costantinopoli, grande moralizzatore
della vita della Chiesa e dell’Impero del IV secolo) dirà che tutta la sua scienza era dovuta alla costanza con la quale si dedicava settimanalmente alla lettura delle lettere di Paolo. Queste sono storicamente il prodotto di un pensiero che si è evoluto in quindici anni di predicazione, di meditazione e di ripensamenti: un’evoluzione che si è andata sviluppando anche sulla scorta delle sollecitazioni provenienti dalle domande poste dalle nuove situazioni che non erano state previste e alle quali, quindi, il messaggio evangelico non dava risposte. Come si vedrà, gli evangelizzatori dovettero insomma elaborare le dottrine in funzione della necessità di rispondere alle sollecitazioni anche pressanti che provenivano dalle nascenti comunità di fedeli che vedevano tardare la Parusìa, il “ritorno di Cristo”, con la conseguente realizzazione del Nuovo regno, promesso invece come imminente dai predicatori cristiani.
2
La resurrezione della carne nell’antico Testamento1
Fatta questa necessaria presentazione dell’artefice delle dottrine cristiane si rende necessario cercare di capire come e quando sia nata questa dottrina e, prima ancora, si rende necessario sapere se fa parte della tradizione ebraica da cui il cristianesimo deriva per filiazione diretta. Ecco alcune delle domande alle quali cercheremo di dare risposta, mantenendo come criterio la necessità di rimanere fedeli ai testi che parlano di quella dottrina, certi come siamo di non avere tesi precostituite da sostenere… • Quand’è nata l’idea che i credenti risorgeranno con i loro corpi? • Qual era il pensiero della tradizione ebraica in merito, così come si presenta nei testi sacri a noi conosciuti? • La resurrezione con la connessa retribuzione sono state presenti sin dall’inizio
della cosiddetta “ispirazione divina” che ha originato la religione ebraica e quella cristiana? • Che cosa pensavano del destino dei corpi Giovanni Battista e lo stesso Gesù? Un dato di fatto appare accertato: l’idea della resurrezione dei corpi prende vita solo in un periodo molto tardo della tradizione ebraica. Nel rispetto alla nostra dichiarazione di rimanere fedeli a quanto ci dicono i testi sacri, ci limiteremo qui a esaminare i passi che paiono avere una qualche connessione con il tema, tralasciando volutamente la successiva evoluzione del pensiero ebraico. Vi sono nell’Antico Testamento alcuni passi che in un primo periodo sono stati interpretati come riferiti a una fede nella resurrezione dei corpi, ma successivamente si è visto che si trattava di una lettura forzata. Leggiamoli, dunque.
Ezechiele Il primo di questi è riportato nel libro di Ezechiele. Profeta biblico del periodo dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.), Ezechiele operò principalmente negli anni 593-570 a.C. presso gli Israeliti deportati. Apparteneva a una famiglia sacerdotale, era sposato e godeva di un grande prestigio anche presso gli anziani, che ricorrevano a lui per avere indicazioni sul modo di dirimere affari importanti. A questa considerazione sociale però si affiancava un destino curioso, che era quello di non essere poi creduto o seguito. Forse anche per questo ricorreva spesso ad azioni simboliche molto originali, nel tentativo di colpire profondamente l’animo dei suoi ascoltatori: mangiò pane cotto con lo sterco, si tagliò i capelli con la spada, stava coricato per lunghi periodi su un solo fianco, si legava… Ezechiele è anche il profeta che ebbe la visione del carro di fuoco, così importante per un certo tipo d’interpretazione di vari passi dell’Antico Testamento. La stranezza dei suoi comportamenti ha fatto anche pensare a molti studiosi che quest’uomo fosse affetto da diverse possibili sindromi quali l’epilessia e l’isterismo, e che cadesse spesso in catalessi; ma tutto questo non inficia i contenuti di quanto stiamo esaminando. Il brano che ci interessa narra di una visione nella quale Dio gli mostra una «pianura piena di ossa […] molto secche» che, a un ordine della parola divina, si ricoprono di nervi, carne, pelle e, pervase dallo spirito, «ripresero a vivere e si alzarono in piedi». Nel prosieguo della profezia, Dio dice a Ezechiele:
Profetizza e dì loro […] ecco io aprente sepolcri vostri, farò venir fuori voi da sepolcri vostri, popolo mio, e farò entrare voi in terra di Israele […] darò riposo a voi in terra vostra. (Ez 37,1-14)
Si tratta di un messaggio rivolto al popolo, che era affranto e disperato per la deportazione e l’esilio: popolo che era sfiduciato e riteneva di essere ormai destinato a scomparire soffocato dalle popolazioni che lo avevano vinto e strappato alla sua terra. È dunque chiaramente un messaggio di speranza per il ripristino di una precisa situazione terrena e territoriale, senza alcun riferimento a una promessa escatologica di vera resurrezione dai morti. Questo è tanto più vero se si contestualizza l’intera opera di Ezechiele nell’ambito del pensiero religioso ebraico che sempre si è occupato di ciò che avviene in questa vita, coinvolgendo il popolo in un sistema di premi e retribuzioni che Dio concede nel momento in cui il patto con lui viene rispettato o violato. Premi e retribuzioni che si consumano sempre in questo mondo e che mai vengono promessi o minacciati come appartenenti a una vita successiva.
Isaia e Osea Così pure i passi in Isaia 25,8; 26,19 («distruggerà/inghiottirà la morte per sempre […] e vergogna di [da] popolo suo toglierà»; «vivranno morenti tuoi, cadavere mio [??] si alzeranno, svegliatevi e gridate di gioia dimoranti di [in] polvere») e in Osea 13,14 («da mano di sheòl riscatterò da morte riscatterò essi») sono chiaramente riferiti a una speranza di resurrezione generale del popolo di Israele dalla situazione in cui si trova e non contemplano alcuna promessa specifica di resurrezione individuale dei morti; si tratta sempre di una resurrezione metaforica più che di un vero risorgere della carne dalla morte fisica. Sul primo passo di Isaia poi esistono seri problemi d’interpretazione che ne rendono ancora più incerta l’attribuzione in quanto molti pensano che si tratti di un’interpolazione posteriore, risalente forse al periodo di Daniele, di cui si dirà più avanti. Isaia nacque intorno al 765 a.C. e nel 740 a.C. ebbe una visione in cui il Signore lo inviava ad annunciare la rovina di Israele. Visse in un periodo di forti tensioni; un momento storico in cui Israele era sotto la costante minaccia di un’invasione assira e fu attivo durante la campagna condotta da Sennacherib contro la Giudea. In contrasto con molti suoi contemporanei rappresentanti del potere, si dichiarò sempre contrario a ogni alleanza militare con altri paesi, in quanto riteneva e predicava che la via unica per la salvezza della nazione era rappresentata dalla fiducia in Dio. La sua attività fu sempre dedicata a denunciare la degradazione morale generata dalla ricchezza.
Anche il profeta Osea visse nel tempo della grande espansione del regno assiro e dunque esercitò la sua opera missionaria in un momento di estremo sconforto del popolo di Israele. La situazione in cui queste profezie prendono corpo, dunque, è sempre la stessa: un popolo sconfitto, affranto, deportato che attende dal suo Dio la speranza e la promessa di una prossima rinascita.
Giobbe Ci sono dei versetti del libro di Giobbe che vengono a volte letti con chiaro riferimento a una prospettiva di resurrezione corporale. Questo libro di autore ignoto è stato redatto in epoca posteriore all’esilio babilonese (V-III secolo a.C.) e affronta in modo mirabile il problema del dolore e della retribuzione dei giusti e dei malvagi, così come viene posto dall’osservazione della realtà quotidiana. Dal punto di vista meramente letterario, è stato giudicato il capolavoro della produzione sapienziale anticotestamentaria e uno dei capolavori dell’intera letteratura mondiale di tutti i tempi, un vero poema di grande pregio artistico. Vediamo il passo che ci interessa, nel quale Giobbe descrive la sua situazione miseranda, chiede compassione agli amici e poi, in un ritorno di fede, esclama: E io so riscattante me vivente e ultimo su polvere si alzerà e dopo [che] pelle mia sarà recisa [reciderà, sarà avvolta??] questa e da carne mia vedrò signore suo [??], che io vedrò per me [io stesso??] e occhi miei hanno visto e non deviante [essente altro, essente straniero, essente avversario??]: cessano [sono finite, si disfanno??] viscere mie [??] in interno mio [in grembo mio??]. (Gb 19,25-27)
Come si vede già dai vari punti interrogativi, questo testo si presta a diverse versioni che ne rendono difficoltosa l’inter-pretazione, ma in particolare i dubbi riguardano una parola che cambia totalmente il significato dei versetti in relazione proprio all’argomento in questione: la parola n’qq’ f (niqqefu), che viene alternativamente tradotta con “essere reciso” o con “essere avvolto”. Nelle due versioni date sopra “l’essere avvolto nella carne” parrebbe far pensare a una resurrezione del corpo, ma tutto il libro rende estremamente
improbabile questa interpretazione. L’idea dell’aldilà contenuta in Giobbe infatti riprende il pensiero dell’antica tradizione ebraica che vedeva lo sheòl (regione dei morti) come luogo di grande tristezza, come dimora in cui le anime rimangono per sempre senza alcun possibile rapporto con Dio e senza aver comunque subito un giudizio con relativo premio o condanna. Lo sheòl rappresenta infatti una concezione molto primitiva dell’oltretomba: era il mondo sotterraneo nel quale tutti i morti si trovavano in una situazione di assoluta uguaglianza, senza aver subito alcun giudizio, come detto. In quel luogo, senza alcuna presenza divina, i morti vivono una specie di esistenza larvale, oscura, silenziosa, perduta in un oblio totale e senza ritorno. Così è descritto l’aldilà in diversi passi dell’Antico Testamento (Isaia, Ezechiele, Salmi, Giobbe…) e questo era quindi il modo in cui era rappresentato l’oltretomba presso il popolo di Israele. Una visione condivisa con – o forse addirittura mutuata da – la civiltà ugaritica, che precedette la cultura ebraica nei territori in cui quest’ultima si è formata. A questo punto dell’analisi è importante introdurre un concetto che si rivela fondamentale per lo sviluppo di una prima forma d’idea di resurrezione: la necessità di premiare i giusti e punire i malvagi. Un concetto che nasce dalla palese contraddizione tra ciò che l’uomo si attende da un Dio giusto e la realtà che invece mostra come i malvagi prosperano e i giusti spesso soffrono. Apriamo quindi una breve parentesi su questo concetto.
L’esigenza della retribuzione Per arrivare a una vera e propria affermazione della possibilità di una resurrezione corporale individuale bisogna attendere il periodo di Daniele e dei Maccabei, i cui rispettivi libri sono stati scritti, almeno nella forma attuale, nel II e I secolo a.C. Questo nuovo concetto è dunque il frutto di un’evoluzione che si è sviluppata lentamente nei secoli ed è stata soprattutto condizionata dal desiderio di rispondere al bisogno della “retribuzione” con il giusto premio per i meriti e la punizione per le colpe. Questa esigenza peraltro, nel periodo precedente l’esilio babilonese, veniva risolta in termini collettivi: i meriti e le colpe riguardavano il popolo intero, l’individuo aveva valore in quanto elemento della nazione che veniva punita o premiata nel suo complesso e qui, su questa Terra, nella sua storia quotidiana. Solo con Ezechiele, e dopo l’esilio, l’individuo acquista una sua identità e quindi una sua responsabilità di cui risponde personalmente: la nazione era apparentemente scomparsa, gli Israeliti deportati non accettavano di dover pagare per le colpe dei loro padri. Questa nuova idea della “responsabilità individuale” rimaneva comunque sempre legata, nelle sue conseguenze finali di ricompensa o di punizione, alla vita terrena, nella quale tutto si risolveva. Ma proprio l’incongruenza – che appariva palese agli occhi di tutti – tra una vita giusta e le sofferenze da cui spesso era travagliata, e la contemporanea apparente felicità dei malvagi, rendeva assolutamente insoddisfacente l’idea di un
Dio che interviene con il suo giudizio su questa Terra, nel corso di questa vita. L’esperienza comune stava a dimostrare la verità dell’esatto contrario: i giusti soffrono mentre i malvagi prosperano. Dunque il comportamento apparente di questo Dio in funzione di un giusto ed equo giudizio era assolutamente inaccettabile o, nella migliore delle ipotesi, misterioso e insondabile. Questo tormento angoscioso è mirabilmente espresso nel seguente Salmo, in cui è contenuto tutto lo smarrimento del giusto che, di fronte allo scandalo offerto dalla quotidiana visione della prosperità e dell’arroganza degli empi, dice: Certo invano ho mantenuto puro cuore mio e ho lavato in innocenza [pulizia] mano mia. E sono stato essente colpito tutto il [ogni] giorno e biasimo mio a le mattine [ogni mattina]. (Sal 73,13-14)
Un grido disperato che si chiude però con la riaffermazione di un’incrollabile fiducia nella giustizia divina in grazia della quale il salmista è certo di potersi rivolgere a Dio dicendogli: «Poiché ecco quelli che si allontanano da te moriranno; distruggi [hai distrutto] ogni prostituentesi da te» (Sal 73,27), «E io sempre con te […] e poi gloria [peso] prenderai me» (Sal 73,23-24). Queste affermazioni fanno pensare a un primo abbozzo di un’idea di retribuzione slegata dagli eventi della vita mortale e proiettata in una dimensione diversa, nella quale tutti gli equilibri verranno ristabiliti; si tratta forse di una prima possibile risposta alle domande angoscianti poste nel libro di Giobbe.
Breve puntualizzazione Riprendiamo l’esame dei libri anticotestamentari ma, per correttezza d’informazione e per amore di verità, va segnalato che prenderemo in considerazione anche quei libri che si trovano nel Canone cattolico, ma che non sono riconosciuti dal Canone ebraico (che, oltre a non accettare l’intero Nuovo Testamento, non contempla i libri di Tobia, Giuditta, I e II Maccabei, Baruc, Sapienza, Ecclesiastico, parti di Ester e di Daniele).
il libro della sapienza Una più articolata evoluzione di quanto stiamo esaminando si trova nel libro della Sapienza, l’ultimo dei libri dell’Antico Testamento. Fu scritto direttamente in greco da un autore ebreo che apparteneva alla comunità giudaica residente in Egitto, soprattutto ad Alessandria. Composto nel I secolo a.C., questo testo, pur avendo l’obiettivo di rinsaldare l’autentica tradizione e il patrimonio storico della fede ebraica, non ha potuto evitare le influenze della cultura e della mentalità ellenistiche che proprio in quella città trovavano massima espressione. Nel capitolo 5 si fa espresso riferimento a una forma di ricompensa che trascende la vita terrena e si proietta nell’assoluto del mondo divino, supera la concezione oscura e rattristante dello sheòl per fornire al “giusto” la certezza di una vita eterna (non ancora corporale) tutta vissuta presso il Signore: Poiché speranza dell’empio è come essente portata pula sotto [da] vento […]. Giusti invece [verso] per il secolo [eternità] vivono, e in signore il compenso loro e la cura di loro presso altissimo. (Sap 5,14-15)
Qui si fa riferimento a una precisa certezza circa l’immortalità dell’anima così come era concepita dalla cultura ellenistica, che rielaborava i concetti espressi dalle correnti filosofiche di derivazione platonica e aristotelica. Queste concepivano l’uomo in chiave dualistica, ponendo una netta distinzione tra l’elemento corporale, destinato a scomparire, e la parte spirituale, di origine divina, destinata alla vita eterna.
Ma per trovare una vera e propria affermazione circa la resurrezione dai morti bisogna leggere i due libri dei Maccabei e il libro di Daniele.
I libri dei Maccabei I libri dei Maccabei contengono la narrazione delle vicende giudaiche verificatesi nel periodo compreso all’incirca tra il 175 e il 135 a.C. Si tratta di un momento storico molto difficile per gli ebrei, caratterizzato da aspre lotte combattute contro i generali di Antioco Epifane, signore della Siria, e contro i “pagani” ellenizzanti in genere. Questa lotta è stata guidata da Mattatia, fondatore della dinastia Asmonea, e poi dai suoi figli, primo fra tutti Giuda denominato appunto Maccabeo (soprannome che significava “martello” o “inviato di Jahwè”) e da cui prendono il nome i libri in questione. Fu proprio questa lunga guerra l’elemento scatenante, l’origine e la causa della precisa affermazione che troviamo nel secondo libro. A causa infatti della guerra, in quel periodo molti furono i martiri, coloro cioè che morirono per testimoniare il loro attaccamento fedele alle tradizioni dell’antico Israele. Si assisteva a un’apparente e inconcepibile assurdità: a fronte di questo immenso sacrificio di tante vite umane rispettose della tradizione sacra, i pagani prosperavano, i persecutori apparivano vincenti, la morte di tanti giovani ebrei si presentava senza significato, una sconfitta cocente e inspiegabile visto che questi “giusti” morivano per la loro fedeltà alla legge di Dio. Tutto ciò richiedeva una spiegazione: non era possibile né comprensibile che Dio avesse dimenticato il suo popolo al punto da consentire che si realizzasse una tale palese ingiustizia. Era sempre più forte l’esigenza di trovare una spiegazione che rendesse accettabile una situazione così angosciante e allora quella che abbiamo visto
essere un’idea non ancora deter-minata nei suoi aspetti fondamentali assume invece una forma chiara, una concretezza capace di porre fine al turbamento disperato di un popolo che vede i suoi martiri dimenticati da quel Dio per il quale sono morti. Si giunge così alla “chiusura del cerchio”: partiti dalla rappresentazione di uno sheòl popolato da ombre, si perviene alla concezione di una vita eterna legata alla remunerazione – post mortem, nell’aldilà – delle opere compiute durante la vita terrena. Una verità consolatoria: i martiri non sono morti inutilmente, avranno la loro giusta ricompensa. Il capitolo 7 del secondo libro dei Maccabei narra la vicenda di sette fratelli fatti torturare e uccidere con la madre dal tiranno Antioco e di come essi esprimano la loro certezza nella giustizia divina che premierà i giusti e punirà gli empi. Il secondo dei fratelli dice: Tu, flagello, da la essente presente [essente presso] noi vivere sciogli ma il del cosmo re morenti noi per le di lui leggi verso [per] secolo [eternità] resurrezione di vita noi farà alzare. (2Mac 7,9)
Il terzo: Da cielo queste [membra] ho ottenuto, ma a causa delle sue leggi non curo esse e da lui queste nuovamente spero essere riportate. (2Mac 7,11)
Il quarto: Desiderabile essenti messi a morte da uomini, le da dio attendere speranze [di] nuovamente essere risuscitati da lui. Per te però risurrezione a vita non sarà. (2Mac 7,14)
Successivamente la madre si rivolge ai figli esprimendo la certezza che Colui che ha dato loro la vita interverrà nuovamente con una sorta di seconda creazione: Perciò il del cosmo fondatore il formante di uomo genere […] e lo spirito e la vita a voi nuovamente darà. (2Mac 7,23)
Infine il più giovane dei fratelli rivolto al carnefice che già aveva ucciso gli altri dice: Infatti ora nostri fratelli breve sopportanti travaglio di perenne vita sotto [in] alleanza di Dio sono pervenuti; tu invece di Dio per giudizio giuste le pene della tracotanza porterai. (2Mac 7,36)
Ecco dunque una risposta che nasce precisa in un momento in cui altrettanto precisa e pressante è l’esigenza di un intervento riparatore di quella giustizia divina nella quale ogni fedele vuole riporre la sua fiducia. Tutta la storia precedente di Israele ci aveva indicato una fede in una giustizia da realizzarsi su questa Terra ; premio e castigo dovevano concretizzarsi qui, sotto gli occhi del popolo; nei primi secoli addirittura questa giustizia riguardava la nazione nella sua interezza, l’individuo non era portatore di responsabilità personali per le quali essere punito o premiato.
Ora invece dobbiamo registrare un’evoluzione nel concetto della retribuzione, un’evoluzione determinata ovviamente dalla triste esperienza del fallimento quotidiano del precedente modo di concepire l’intervento equiparatore di Dio: la vita di ogni giorno rivelava al popolo tutta la contraddittorietà e la vanità di questa attesa; la giustizia divina rimaneva celata nell’assurdità della sofferenza dei giusti e nell’inaccettabile prosperità dei malvagi. Ecco allora la soluzione: ciò che non vediamo avvenire qui e ora avverrà dopo, ma avverrà ineluttabilmente e sarà per sempre. Questo il nuovo concetto (speranza) maturato nel tempo e riaffermato nel libro di Daniele.
Daniele Composto nel II secolo a.C., il libro di Daniele è dunque contemporaneo delle vicende narrate nei libri dei Maccabei, anche se la sua ambientazione storica, probabilmente un artificio letterario, risale al tempo dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.). È un testo prettamente apocalittico e quindi è scritto rispettando i canoni di quel tipo di letteratura e ne contiene gli elementi caratteristici: la visione, il linguaggio simbolico e di difficile interpretazione, la mancanza di una precisa definizione, l’attesa del nuovo regno impersonato dal Messia che verrà a ristabilire gli equilibri infranti dalla malvagità umana, ecc. In una delle visioni profetiche, Daniele dice: In il tempo il quello starà Michele il principe il grande lo stante su figli di popolo tuo […] e sarà tempo di sventura […] molti da [tra] addormentati di terra di polvere si sveglieranno, questi a [per] vite di sempre e questi al [per] insulti [vergogne), a [per] orrore di sempre. (Dn 12,1-2)
E Mosè? Riflettendo su quanto detto, dobbiamo rilevare che un primo fatto si presenta subito con grande evidenza: nel trattare il tema della resurrezione dei morti non è mai stato nominato Mosè. Mosè, il fondatore dell’ebraismo, non conosceva la resurrezione, o almeno non quella che ci viene presentata ora dalla Chiesa! Mosè era un egiziano (cfr. Es 2,19) per educazione, cultura, religione e quindi probabilmente aveva un suo preciso concetto sulla sopravvivenza dei defunti, un concetto che non ci ha comunque trasmesso e che non comprendeva sicuramente la totalità degli individui, neppure di quelli che formavano il popolo eletto.
BREVE DIGRESSIONE
E la tomba di Mosè? Forse un giorno gli archeologi riusciranno a svelare uno degli eventi più misteriosi di tutta la storia di Israele: la morte e la sepoltura di Mosè. Questi momenti così importanti per la storia di un popolo sono stati volutamente celati nel silenzio, i libri sacri hanno dimenticato di raccontarci che cosa è successo dopo la sua scomparsa “annunciata”: non ci hanno mai descritto né il luogo né le modalità dell’inumazione di
colui che, dal nulla, ha creato il popolo di Israele e lo ha dotato di un sistema di credenze comunemente considerato tra i più alti fra quelli conosciuti nella storia dell’uomo. Il luogo in cui si trova la tomba di Mosè è sconosciuto, non è mai stato oggetto di venerazione come sarebbe stato invece naturale. Ci auguriamo quindi che gli archeologi possano fare luce su un evento tanto misterioso e, se questo avverrà, con ogni probabilità scopriranno che l’inviato di Dio si era preparato proprio quel tipo di tomba che, secondo le credenze della religione egiziana, era la sola capace di garantire la sopravvivenza al defunto che poteva disporne. Ma qui siamo nel campo delle semplici ipotesi e noi ci siamo prefissati di rimanere sempre alla “lettera” dei testi per analizzare quanto viene presentato come frutto della rivelazione divina e quindi proseguiamo con il nostro esame. Mosè dunque non si occupa della resurrezione e tutta la “rivelazione” successiva ci presenta una concezione dell’aldilà molto semplice e primitiva (lo sheòl) sino al momento in cui matura nel popolo l’esigenza di dare una risposta certa al bisogno di giustizia che, contrariamente alle promesse della tradizione profetica, non trova riscontro negli eventi della realtà quotidiana. Nasce così l’idea di una vita eterna legata a quella remunerazione che, assente nel corso della vita terrena, deve “necessariamente” verificarsi in un qualche altro momento, pena la caduta totale di ogni possibilità di fede in un Dio giusto e misericordioso.
Domande ineluttabili A questo punto dell’analisi, richiamando le parole di Paolo sulla vanità della fede in assenza della resurrezione , è inevitabile cominciare a porre alcune domande: • Perché Dio dall’età dei patriarchi – per un periodo quindi di 1600-1800 anni! – ha taciuto sulla sorte ultraterrena dell’uomo e dei suoi fedeli in particolare? • Perché, tra le leggi da lui stesso “scritte sulla pietra”, non ha enunciato chiaramente anche l’esistenza di un giudizio finale con la conseguente remunerazione da godere, o da scontare, nella vita dopo la morte? • Perché per un periodo così lungo il suo popolo è vissuto nell’ignoranza di un destino che inevitabilmente attenderebbe tutti gli uomini? • Perché non ha dato ai patriarchi, ai profeti, e ai fedeli in genere, la possibilità di effettuare la scelta definitiva sin dal momento della sua prima “rivelazione”? • Perché questo nuovo e stravolgente contenuto della “rivelazione” ha dovuto attendere la nascita del bisogno di giustizia a fronte di una realtà che negava, in tutta evidenza, la validità della fiducia in una remunerazione puramente terrena? Infine, quindi, ci chiediamo:
• Quando fa la sua comparsa la fede nella resurrezione dei corpi? Per rispondere a quest’ultima domanda dobbiamo esaminare quanto scritto nel Nuovo Testamento: anche qui, come si vedrà nel prosieguo, si assiste alla nascita di una “nuova presunta rivelazione” a fronte di una nuova specifica esigenza. 1 Le citazioni sono frutto di traduzioni letterali effettuate dall’autore, nel rispetto anche dell’ordine dei termini così come è presente nel testo ebraico (e nel testo greco per Sapienza e Maccabei). Ne deriva una forma forse non corrispondente alle regole della lingua italiana, ma certamente più vicina al pensiero degli antichi autori. Le abbreviazioni delle opere citate sono indicate nell’Appendice 7 (p. 177).
3
La resurrezione della carne nel Nuovo Testamento1
Molto spesso si dà per scontato ciò che non lo è, allora è necessario accantonare subito uno dei luoghi comuni più diffusi tra i credenti: quello che la resurrezione dei corpi fosse un elemento della predicazione di Cristo e dei primi apostoli. Per Giovanni Battista e per Gesù la resurrezione dei corpi non pare essere un elemento fondante della rivelazione divina, anzi non è neppure un elemento determinante nella scelta di fede da parte dei diretti seguaci!
Giovanni Battista La predicazione del Battista in relazione all’intervento divino si risolve, come per gli ebrei, ancora una volta tutta qui, su questa Terra: riguarda il rapporto con la morte imminente che colpirà inesorabilmente il peccatore che persevera nel male. Il giudizio di Dio è vicino e inevitabile, riguarderà gli uomini che ascoltano la predicazione e non ha riferimenti alle generazioni che non siano quella contemporanea al profeta: non c’è accenno ai trapassati e a coloro che verranno; non c’è accenno a un giudizio che segua il momento della morte, in quanto la morte stessa rappresenta lo strumento del giudizio. Molto concretamente: i giusti continueranno a vivere, mentre i peccatori saranno sterminati. Leggiamo le parole del profeta, così come ci sono state tramandate dal vangelo di Luca: Diceva dunque alle uscenti folle per essere battezzate da lui: «Razza di vipere, chi ha insegnato a voi scampare da l’avvicinantesi ira? Fate dunque frutti degni di conversione […] già, anzi, la scure davanti la radice degli alberi è messa; ogni quindi albero non portante frutto buono sarà reciso e in il fuoco sarà gettato». (Lc 3,7-9)
E ancora: «Viene però il più forte di me del quale io non sono degno [di] sciogliere il legaccio dei calzari suoi. Egli voi battezzerà in Spirito Santo e fuoco: di cui il ventilabro in la mano di lui mondare la aia sua e raccogliere il frumento in il granaio suo, la ma pula brucerà in fuoco inestinguibile». (Lc 3,16-17)
Affermazioni simili sono riportate nei vangeli di Marco (Mc 1,1-8) e Matteo (Mt 3,1-12).
Come si può osservare, dunque, per Giovanni il giudizio è imminente e i peccatori verranno distrutti per sempre, mentre i “giusti” continueranno a vivere evitando la punizione che viene. Noi non sappiamo quale fosse la posizione del Battista nei confronti delle opinioni dei vari gruppi giudaici in riferimento al problema della resurrezione (i farisei ne sostenevano l’esistenza mentre i sadducei la negavano), ma di certo questo problema non aveva per lui alcun interesse: la sua predicazione riguardava esclusivamente i vivi che potevano evitare il giudizio e scampare quindi alla distruzione eterna, praticando opere degne di conversione. Gli alberi che non portano frutti verranno recisi mentre quelli che portano frutti buoni continueranno a esistere nella comunità dei giusti che si realizza comunque su questa Terra: non c’è morte e non c’è dunque necessità di resurrezione (così come non vi è necessità di resurrezione riparatrice nel pensiero dello stesso Gesù, come vedremo al termine del presente capitolo). Ma se i primi due grandi profeti del nuovo regno, per i motivi evidenziati, non hanno avvertito la necessità di affrontare un tema che è invece divenuto determinante per ogni credente, chi lo ha introdotto nella predicazione facendone uno degli elementi portanti di tutta la struttura su cui si fonda il cristianesimo? Abbiamo iniziato a rispondere a questa domanda nel primo capitolo, narrando le vicende del rifondatore della religione cristiana: Paolo di Tarso. Ora proseguiamo…
Le Lettere degli apostoli L’apostolo dei gentili ha dovuto affrontare la questione in quanto costretto dagli eventi e forse sarebbe ancora più preciso dire: costretto dagli eventi che non si verificarono. La generazione contemporanea a Cristo stava lentamente passando; i primi gruppi di credenti attendevano quella nuova venuta che era stata profetizzata come vicinissima ma che evidentemente tardava a verificarsi; lo stesso Paolo era certo che avrebbe assistito da vivo allo straordinario evento e lo scrive ai cristiani di Tessalonica: Noi, i viventi, i superstiti […] saremo rapiti in nubi verso incontro di il signore in aria. (1Ts 4,15-17)
La stessa tensione escatologica, la stessa ansiosa certezza si legge nella prima lettera di Giovanni redatta verso la fine del I secolo: Figlioli, ultima ora è e come avete udito che Anticristo viene e ora anticristi molti sono giunti, da questo sappiamo che ultima ora è. (1Gv 2,18)
Lo stesso Pietro, nella seconda lettera a lui attribuita (ma forse scritta da un suo discepolo intorno al 90 d.C.), è costretto ad affrontare la questione che stava ormai diventando difficile da sostenere: Un giorno davanti signore come mille anni e mille anni come un giorno uno. Non è lento Signore di la promessa come alcuni considerano ma è longanime per voi non volendo alcuni muoiano ma tutti giungano a conversione fare posto. (2Pt 3,8-9)
Pietro ribadisce ancora una volta che l’offerta di salvezza riguardava i viventi ai quali veniva dato un lasso di tempo maggiore per pentirsi e scampare così alla morte. Il ritardo nel verificarsi degli eventi profetizzati da Gesù, e sistematicamente inseriti nella predicazione missionaria degli apostoli, rappresentava dunque un problema crescente per le prime comunità. Questa circostanza, che pare non essere mai presa in sufficiente considerazione dai commentatori, doveva presentarsi come una difficoltà non da poco per i primi apostoli.
Breve considerazione storico-sociale A questo proposito vale la pena di tentare un esercizio di non facile realizzazione, ma che ci consente di fare alcune considerazioni circa le origini del cristianesimo e gli atteggiamenti dell’attuale Chiesa romana. Proviamo a cancellare in noi gli effetti di una tradizione secolare e di un’educazione che ci hanno condizionati e ci spingono a vedere nel cristianesimo la religione per eccellenza, l’unica vera e affermata, quella con la quale tutte le altre si devono confrontare ritenendola il termine di paragone imprescindibile. Cerchiamo di dimenticare che gli “altri” devono essere considerati “uomini da convertire” all’unica verità assoluta o “fratelli separati”, “pecorelle smarrite” da riportare nell’ovile dell’unico vero Padre-Pastore. Con questo atteggiamento di fondo la Chiesa romana invita i credenti a
guardare con “amorevole sufficienza” alle altre forme di culto e comunque sollecita il mantenimento di una desta attenzione nei confronti di quelle che vengono considerate “sette”, anche se dichiarano di rifarsi ai contenuti del messaggio evangelico e raccolgono migliaia di fedeli in tutto il mondo grazie alla loro vitalità missionaria. Dimentichiamo, o almeno proviamo a farlo, che il cristianesimo ha soppiantato antiche religioni facendosi prima riconoscere come religione di Stato dagli imperatori romani (Editto di Costantino, 313 d.C.) e costituendosi poi come entità statale autonoma nei secoli successivi alla caduta dell’impero romano. L’adeguamento della Chiesa alle istituzioni terrene e alle loro intrinseche necessità è stato sancito dai padri stessi del pensiero cristiano; Sant’Agostino2 dice: I delitti poi contro le istituzioni umane devono essere evitati in rapporto alla diversità delle istituzioni, ma in modo che ciò che è stato sancito dalle consuetudini di una città, di un popolo, o confermato da una legge non debba essere trasgredito per il capriccio di un cittadino o di un forestiero, perché è disordinato ogni elemento che non si accorda con il tutto.
Proviamo in sostanza a storicizzare il nostro giudizio, collocando la nostra mente e il nostro modo di riflettere agli albori dello sviluppo del cristianesimo. Così facendo vivremmo l’esperienza derivante dal trovarci di fronte un gruppo ristrettissimo di persone, poche decine di apostoli, che tentano d’inserirsi nella cultura religiosa del tempo per trasmettere il loro messaggio di salvezza, per parlare di un nuovo Dio rivelatosi nel Medio Oriente (come molte delle divinità che allora venivano adorate nel mondo greco-romano). Non dovevano comportarsi in modo molto diverso da quello che siamo abituati a vedere anche
oggi, attuato dai fedeli delle cosiddette “sette”: predicazione porta a porta, insistenza, determinazione al limite della sopportazione da parte degli uditori. Questi apostoli, animati da una fede incrollabile nella fine che annunciavano come ormai imminente, dovevano apparire agli occhi dei loro contemporanei come dei fanatici esaltati che predicavano la fine dei tempi con conseguente relativa salvezza riservata ai convertiti: predicavano lo scandalo di un Dio fatto uomo che si era volontariamente fatto uccidere per salvare gli uomini di buona volontà che avrebbero creduto in lui. I giorni dell’ira erano vicini e la salvezza era prossima, bisognava dunque convertirsi alla nuova fede, essere “iniziati” con il battesimo, celebrare nuovi riti ed entrare così nella cerchia dei salvati. Questi cristiani erano dunque una “setta” (un ristretto gruppo separato) che tentava di sostituirsi ai culti misterici esistenti, esattamente come sono stati considerati “sette” – e quindi sempre combattuti sin’anche allo sterminio – i gruppi di credenti che, nei secoli successivi alla presa di potere da parte della Chiesa romana, hanno tentato di diffondere messaggi non rispondenti ai dettami della gerarchia centrale. Questi sono fatti che non bisogna dimenticare per avere una comprensione globale del fenomeno: questi primi gruppi di predicatori hanno infatti vissuto le stesse difficoltà di coloro che, successivamente e con minore fortuna, hanno tentato di diffondere nuovi culti. Pensiamo ai millenaristi, ai vari predicatori che in diversi momenti storici hanno indicato come prossima la fine del mondo (che poi regolarmente non c’è stata).
Ebbene questa sconfessione pubblica è stata vissuta anche da Pietro, Paolo e da tutti quei missionari della prima ora che invitavano alla conversione sino al sacrificio estremo della vita, in vista dell’ingresso certo nel nuovo regno promesso dallo stesso Figlio di Dio. Anche nel nostro secolo molte sono le sette che hanno portato al gesto estremo i loro fedeli, con la promessa della salvezza costituita dall’ingresso in un nuovo mondo.
BREVE DIGRESSIONE
Le sette? Nel fare queste considerazioni non si può evitare di porre delle domande che si presentano anche troppo evidenti alla mente di chi riflette… • Con quale diritto si giudicano e si condannano questi nuovi martiri dopo aver addirittura santificato i cristiani morti in nome di una stessa – errata! – profezia? • Che cosa differenzia i primi credenti che si affidavano alle promesse di un nuovo Dio apparso in Palestina, dalla fede di questi credenti che, con altrettanto ardore, ritengono di avere trovato la verità, la luce e la vita in nuove forme e nuovi contenuti religiosi?
Ricordiamo che stiamo tentando di collocare nella storia il nostro giudizio e la mente che lo esprime, stiamo collocando noi stessi in quel preciso momento, quindi ci accorgiamo che le differenze tra i vari gruppi, visti nel loro momento storico, non sono quelle che la tradizione sviluppatasi nei secoli ci presenta. Se una di queste sette dovesse affermarsi e assumere nel tempo l’importanza acquisita dal cristianesimo, noi vedremmo questi fedeli, ora considerati come poveretti plagiati da ciarlatani, divenire i primi martiri della nuova vera e unica religione! Non dimentichiamo infatti che anche la profezia dei primi anni – come tutte le altre che l’hanno seguita – non si è avverata: la fine dei tempi non è stata vista da «quella generazione» e nemmeno da quelle seguenti; anche i seguaci del presunto figlio di Dio sono stati sconfessati dai fatti.
*** Certo doveva essere estremamente difficile per gli apostoli missionari incontrarsi con i primi gruppi dei nuovi credenti, cacciati da tutti, perseguitati, torturati, uccisi, e convincerli che comunque la profezia continuava a rimanere valida anche con il passare degli anni (ed erano ormai molti quelli che stavano trascorrendo nell’inutile attesa…). Nascevano domande, questioni, richieste di conferme, con i conseguenti tentativi di spiegare, convincere, con quegli sforzi insomma che devono compiere
i profeti di tutti i tempi quando sono costretti a giustificare di fronte ai loro discepoli il mancato verificarsi di ciò che viene dato per certo nelle profezie da loro predicate. Ecco allora il significato e il motivo delle parole sopra citate con le quali Pietro cercava di spiegare ciò che, ai nostri occhi e con il classico senno di poi, si rivela come difficilmente spiegabile.
La Parusìa Riprendiamo ora il nostro discorso per dire, riassumendo, che, con il passare degli anni, andava crescendo l’ansia nell’attesa della Parusìa (seconda e definitiva venuta del Signore); Cristo era invocato dai primi convertiti che vivevano ormai proiettati in un futuro chiuso nel ristretto orizzonte di quanto doveva verificarsi di lì a poco. I testi riportano l’invocazione con la quale le comunità cristiane sollecitavano il nuovo avvento: la prima lettera ai Corinzi (16,22) e il libro dell’Apocalisse (22,20) terminano proprio con la formula aramaica marana tha e greca érku Kýrie che racchiude mirabilmente il contenuto della speranza dei primi credenti: viene normalmente tradotta “Signore vieni in fretta”, anche se si presterebbe a varie interpretazioni. Ma la Parusìa tardava a verificarsi e questo fatto risultava ancora più grave considerandolo in funzione della professione di fede e del contenuto della speranza: l’avvento del Signore riguarda i viventi che verranno risparmiati mentre gli empi verranno puniti con la morte eterna. E i morti? Per la prima volta si comincia a porre il problema. Siamo intorno al 50 d.C., sono passati quasi vent’anni dalla morte di Cristo e nel frattempo sono morti anche alcuni dei primi cristiani, ma la morte era allora considerata come prova del giudizio negativo di Dio e, nell’attesa del secondo Avvento, era considerata come triste prerogativa riservata ai pagani.
• Che cosa sarebbe stato di questi credenti defunti al momento della Parusìa? • Bisognava considerarli irrimediabilmente esclusi? • Era giusto che i morti in nome di Cristo non godessero della nuova vita nel nuovo regno? Ricordiamo che, oltre ai defunti per così dire “anonimi” delle prime comunità, erano stati uccisi Stefano e Giacomo, fratello di Giovanni, che rappresentavano i primi veri martiri della nascente Chiesa cristiana. Stefano predicava a Gerusalemme (At 7,10-60) suscitando l’ira dei giudei che «erano colmi di sdegno in cuori loro e digrignavano i denti contro [di] lui», per questo venne portato davanti al Sinedrio, il sommo Consiglio costituito dai sacerdoti, dagli anziani e dai dottori della legge (scribi), per essere processato. Di fronte al contenuto della sua predicazione, estremamente critica nei confronti della tradizione, questi capi di Israele furono presi dall’ira e lapidarono Stefano, che divenne così il primo martire cristiano. Giacomo invece venne fatto morire “di spada” da Erode, che aveva cominciato a «maltrattare alcuni membri della Chiesa» (At 12,2-3) facendo arrestare anche Pietro. Si trattava, dunque, di martiri eccellenti, che erano membri ufficiali della Chiesa ed erano morti indubitabilmente per aver professato la loro fede in Cristo: come potevano non essere compresi in quella salvezza finale ormai data per imminente? Bisogna precisare che, dalla lettura dei testi, non pare che queste due morti abbiano sollevato una particolare questione in riferimento al futuro di Stefano e
Giacomo. Dobbiamo però ricordare che probabilmente, per quanto riguardava i martiri, era già presente un certo concetto di “giusta retribuzione” da ricevere dopo la morte (a questo proposito si rimanda a quanto è stato detto nelle pagine in cui si è parlato dei Maccabei, i giovani fratelli martiri dell’antica fede di Israele). Ma la soluzione non era così scontata per tutti gli altri, il problema si poneva evidentemente per i defunti anonimi i normali fedeli, per coloro che erano morti “in Cristo”, ma non “a causa di Cristo”.
Lettere di Paolo Secondo il già citato studioso,3 la prima comunità a essere toccata da morti avvenute al suo interno fu probabilmente quella di Tessalonica, creata da Paolo nel suo secondo viaggio missionario. L’apostolo non poteva non essere investito del problema che si andava evidenziando a causa del ritardo della Parusìa ed è proprio la prima lettera ai Tessalonicesi (scritta da Corinto intorno al 50) che ce ne rivela, per la prima volta, l’esistenza. Questo documento è anche il più antico testo in cui siano contenuti gli elementi della predicazione dopo la morte del Cristo; in esso leggiamo: Non vogliamo dunque voi essere nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che dormono affinché non siate afflitti come anche i rimanenti, i non aventi speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato, così anche Dio attraverso di Gesù riunirà con lui. Questo infatti vi diciamo in parola del Signore: che noi, i viventi, i restanti a la venuta del Signore non [per nulla] andremo davanti i dormienti […] noi, i viventi, i superstiti insieme con essi saremo rapiti in nubi verso incontro il Signore in aria. (1Ts 4,13-17)
In queste frasi si dice espressamente che la Parusìa riguarda i credenti viventi ; si afferma per la prima volta che i morti in Cristo ne godranno comunque i frutti e che ne saranno esclusi i pagani (coloro che non hanno speranza). Supponendo come veramente avvenuta la resurrezione di Cristo dobbiamo rilevare come, a questo punto, si sia verificata un’evoluzione nel modo di concepirla e presentarla: la resurrezione di Gesù – che era prima vista come evento unico, riservato al Figlio di Dio e finalizzato a decretarne l’investitura divina – diviene in realtà garanzia per i credenti e viene quindi potenzialmente
estesa a tutti coloro che muoiono in Cristo. Paolo dunque credeva nell’annuncio della salvezza che avrebbe coinvolto la comunità dei credenti in Cristo; posto di fronte alla nuova e imprevista situazione dei morti prima della Parusìa, comprende che il contenuto della predicazione non è più sufficiente e allora estende la promessa di salvezza anche a quelle situazioni che risultavano nuove e che costituivano delle eccezioni rispetto alla normalità dei viventi, che sarebbero stati salvati al momento della seconda venuta. Insomma, l’impostazione della predicazione dovette cambiare in quanto la situazione si stava invertendo: i viventi al momento dell’attesa Parusìa avrebbero costituito un’eccezione rispetto ai morti, il cui numero si andava progressivamente moltiplicando. Il numero dei morti infatti strava crescendo inesorabilmente e il nuovo problema che si poneva era quello di garantire l’uguaglianza tra i pochi che avrebbero assistito da vivi alla Parusìa e i molti che erano scomparsi nel frattempo. Si rendeva necessaria una nuova soluzione che comprendesse “tutti i morti”: Paolo fu quindi costretto a rivedere il suo concetto di resurrezione. A quel punto la morte non era più un problema che riguardava i soli credenti in Cristo, morti o vivi che fossero al momento della nuova venuta del Signore, ma coinvolgeva tutta l’umanità e la buona novella doveva quindi affrontare e risolvere il problema per tutti gli uomini. Nella prima lettera ai Corinzi si assiste in effetti a questo fondamentale cambiamento del pensiero di Paolo: la resurrezione – fino a quel momento una sorta di “esclusiva” riservata al figlio di Dio – diventa garanzia di salvezza per
tutti. In questo cambiamento compare persino quella che sembra essere una vera e propria assurdità nella successione logica del ragionamento. Proviamo a leggere: Se ora Cristo è annunciato che da morti fu resuscitato, come dicono in voi alcuni che resurrezione dei morti non è? Se quindi resurrezione dei morti non è, neppure Cristo fu resuscitato. (1Cor 15,12-13)
Questa affermazione ribalta inaspettatamente la situazione, in quanto fa addirittura dipendere la resurrezione di Cristo da quella generale dei morti. In altre parole: Cristo non rappresenta più la garanzia per gli altri, ma addirittura egli risorge perché anche gli altri risorgono (se così non fosse neppure lui avrebbe potuto vincere la morte!). Ma l’assurdità logica prosegue, perché Paolo riformula ancora una volta la sua tesi e pone la resurrezione di Cristo come garanzia della resurrezione di tutti: Ma invece Cristo è stato risuscitato da morti, primizia di quelli che si sono addormentati. Poiché infatti attraverso un uomo morte e [anche] attraverso un uomo resurrezione dei morti, come infatti in lo Adamo tutti muoiono così anche in il Cristo tutti avranno la vita. (1Cor 15,20-22)
E ancora: Ecco mistero a voi dico: tutti non morremo, tutti però saremo trasformati, in istante, in batter d’occhio, a la ultima tromba; suonerà infatti e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. (1Cor 15,51-52)
E così è avvenuta la trasformazione: Cristo è primizia e garanzia di salvezza
per l’umanità destinata alla corruzione; in Cristo i morti, tutti i morti, avranno nuova vita. I credenti che sperimenteranno da vivi la nuova venuta del Signore (e Paolo conta di essere tra quelli: «Tutti non morremo […] saremo trasformati») saranno l’eccezione e non più la normalità, come invece era al tempo della lettera ai Tessalonicesi e rispetto alla quale erano passati alcuni anni, con un notevole, naturale cambiamento nel rapporto numerico tra morti e vivi. Per Paolo era necessario l’intervento di Dio stesso che «ricrea e trasforma» sia i morti che i vivi, ponendoli su un piano di uguaglianza: E corpi celesti e corpi terrestri e altro certo lo dei celesti splendore, altro però quello dei terrestri […]. Così anche la resurrezione dei morti: si semina in corruzione si risorge in incorruttibilità […] si semina corpo naturale [animale, psichico] risorge corpo spirituale. Se vi è un corpo naturale vi è anche corpo spirituale […]. Questo allora dico, o fratelli, che carne e sangue regno di Dio ereditare non possono ereditare, né ciò che è corruttibile la incorruttibilità eredita […]. Tutti non morremo tutti allora saremo trasformati […]. I morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti il corruttibile questo rivestire incorruttibilità e il mortale questo rivestire immortalità. (1Cor 15,40-53)
Compaiono qui interessanti similitudini con scritti misticoesoterici del tempo circa la visione escatologica dei destini dell’uomo e del percorso di crescita che lo attende: per esempio, nel Poimandres4 (dello stesso periodo storico di Paolo) l’anima che segue le parole della guida divina vive un’esperienza mistica e percorre una sorta di viaggio astrale nel quale attraversa le sette sfere dei pianeti per raggiungere il cielo delle stelle fisse, l’Ogdoade. Si unisce poi agli altri beati e raggiunge il suo obiettivo finale rappresentato dall’unione rigenerante con Dio, e il tutto può avvenire senza dover necessariamente passare attraverso
l’esperienza della morte, come per Paolo. Sembra di assistere dunque a un ulteriore passo in avanti, sempre determinato dall’insorgere di esigenze particolari all’interno delle comunità di credenti e anche dalla necessità di adeguare l’elaborazione teologica alle dottrine ellenistiche di cui si doveva necessariamente tenere conto, in quanto erano diffuse in quelle città in cui Paolo intendeva diffondere la buona novella. Corinto era certamente una di queste. Una delle città più importanti di tutto il Mediterraneo orientale, affacciata sul mare e abitata da circa 200.000 uomini liberi, Corinto era aperta a tutte le influenze culturali che nel periodo ellenistico si diffondevano con estrema facilità in tutti i territori toccati dai viaggi e dal commercio. Era molto frequentata da stranieri anche per le feste e per i giochi che vi si svolgevano in onore delle molteplici divinità cui erano tributati culti di vario genere e contro i quali Paolo ebbe non poche difficoltà ad affermare e sostenere i contenuti della sua predicazione: fu addirittura portato davanti al tribunale del proconsole e costretto a sospendere la sua attività di apostolato a causa dei tumulti fomentati dai componenti della stessa comunità giudaica nella cui sinagoga si recava a predicare. L’evoluzione del pensiero paolino evidenzia proprio questo fatto: se si volevano convertire gli ellenisti e convincerli dell’universalità di questa nuova elaborazione teologica, bisognava assolutamente adeguare la predicazione alla loro mentalità e saper rispondere alle domande che il sincretismo religioso e filosofico del tempo poneva.
Giovanni Evangelista Prima di fare uno schematico riassunto per riordinare i contenuti esposti sulla formazione e sullo sviluppo dell’idea della resurrezione, è necessario esaminare anche quanto Becker ci dice circa il pensiero dell’evangelista Giovanni, in quanto rappresenta la generazione più tarda nell’evoluzione della dottrina cristologica e il culmine della tradizione dei testi considerati rivelati. Nel vangelo di Giovanni troviamo un’affermazione, fatta dal Cristo, che corrisponde ai sentimenti d’attesa delle prime comunità così come descritti in altra parte del testo: In la casa del Padre mio dimore molte sono. Se allora non fosse avrei forse detto a voi che vado a preparare posto a voi? E quando sarò andato e avrò preparato posto a voi nuovamente verrò e prenderò voi presso di me affinché dove sono io anche voi siate. (Gv 14,2-3)
Anche qui la salvezza è presentata come continuità di vita, non è presente il concetto di una fine con relativo giudizio; si richiama nuovamente la Parusìa a seguito della quale la comunità dei credenti passerà direttamente da questa vita alla comunione con il padre nel nuovo regno. La salvezza è rappresentata dalla relazione diretta, ininterrotta e irrinunciabile, della comunità con Dio, attraverso la fede in Cristo. Questa affermazione sembrerebbe dunque appartenere alla prima fase della nascita della nuova comunità, a quei primi anni cioè in cui erano ancora forti l’annuncio e l’attesa dell’imminente venuta di Cristo. Su questa certezza – con il
passare del tempo e con l’affievolimento della speranza stessa nel ritorno, che tardava a verificarsi – si inserì il concetto di una salvezza legata alla vita eterna dispensata dopo la morte e concessa individualmente ai credenti in funzione di un giudizio basato sulla loro scelta di fede. A questo proposito, l’evangelista inserisce un commento personale alle vicende che sta narrando e lo fa allo scopo di chiarire la speciale funzione mediatrice svolta da Gesù tra Dio e gli uomini; dice espressamente: Il Padre ama il figlio e tutto ha dato in la mano sua. Il credente in il Figlio ha vita eterna; il invece non obbediente al Figlio non vedrà vita ma la ira di Dio rimane su di lui. (Gv 3, 31-36)
È interessante notare come Giovanni distingua tra chi crede nel figlio e sin d’ora, a partire dal presente, «ha la vita eterna [ékei zoèn aiónion]» e chi invece non crede e «non vedrà la vita [ouk ópsetai zoén]» nel futuro. Chi crede viene dunque salvato già nel presente mentre chi non crede non potrà vedere la vita in quanto sarà soggetto all’ira devastante di Dio. Il passo successivo determina un superamento assolutamente inatteso, in quanto porta all’eliminazione della necessità della Parusìa. La Parusìa non si sta verificando? (Abbiamo già visto come questo fosse un problema di non poco conto…). Giovanni trova allora una soluzione: ne cancella la necessarietà. La salvezza si realizza indipendentemente da questo ritorno e si concretizza comunque qui, su questa Terra , in contrasto con l’idea paolina secondo la quale si realizzerà esclusivamente con l’intervento “ricreatore e trasformatore” di Dio.
Leggiamo ancora Giovanni, là dove riporta il discorso nel quale Gesù rivela la missione e il significato dell’opera del figlio sulla Terra: In verità, in verità [amèn, amèn] dico a voi: «Non può il Figlio fare da se stesso nulla se non ciò [che] vede il Padre facente; quello che infatti quello fa, queste [cose] anche il Figlio in modo simile fa […] come infatti il Padre risuscita i morti e dà la vita così anche il Figlio quelli che vuole fa vivere […]. In verità, in verità [amèn, amèn] dico a voi che lo la parola mia ascoltante e credente a inviante me ha vita eterna e in giudizio non va ma è passato da la morte a la vita. (Gv 5,19-24)
Ma l’elaborazione teologica non termina ancora con questa affermazione. Nei successivi versetti 28 e 29 l’idea della resurrezione si estende e prevede un giudizio che coinvolge indifferentemente sia gli appartenenti sia i non appartenenti alle comunità dei credenti: Poiché viene [la] ora in cui tutti [quelli] che in i sepolcri ascolteranno la voce di lui e usciranno gli le [cose] buone aventi fatto verso resurrezione di vita gli invece le [cose] malvagie aventi compiuto verso resurrezione di giudizio.
Per il Giovanni dell’elaborazione finale – propria della terza generazione di comunità cristiane attive circa sessant’anni dopo la morte di Cristo – chi crede «è passato da la morte a la vita» (Gv 5,24) e «il credente in me anche se morisse vivrà e ogni il vivente e credente in me non [per nulla] morrà in [per] lo secolo [eterno]» (Gv 11,25-26). Si tratta di un destino individuale che si realizza già qui e ora, in questa vita, senza ulteriori attese di futuri eventi, perché la vita terrena di Gesù realizza già di per sé la Parusìa senza necessità di attendere una nuova venuta.
Al termine della sua elaborazione teologica, dunque, Giovanni risponde in sostanza così a uno dei problemi più pressanti: il ritorno non si sta verificando, ma il ritorno non è più fondamentale.
Gesù il Cristo E Gesù? Qual era la sua posizione? Diciamo subito che anche per il Messia la resurrezione non sembra essere un tema degno di nota. Ritorniamo a Luca e leggiamo quanto riportato in alcuni versetti fondamentali per il contenuto della predicazione: Verranno giorni […] come infatti il lampo, guizzando, brilla da la [una parte] sotto il cielo a la [all’altra] sotto cielo, così sarà il Figlio dell’uomo […] in quella notte saranno due su letto uno, lo uno verrà preso e lo altro lasciato; saranno due macinanti su lo stesso, la una sarà presa e [ma] la altra verrà lasciata. (Lc 17,22-36)
Se si vogliono accantonare per un momento i problemi di esegesi di questo passo e attribuirne il significato al momento della fine del mondo (e non, come vorrebbero a ragione molti, alla caduta di Gerusalemme verificatasi a opera dei romani) possiamo senz’altro rilevare come non ci sia alcun accenno a una resurrezione dei corpi con relativo giudizio post mortem, tutto è riferito a ciò che avverrà qui. Il vangelo di Matteo (fatti salvi gli stessi dubbi di attribuzione cui prima si accennava) è più articolato nel seguente passo e riporta il discorso sui momenti finali con maggiore compiutezza: Quando allora vedete l’abominio della desolazione […] stante in luogo santo […] sarà infatti allora tribolazione grande quale non è stata da inizio del mondo sino a ora né più mai sarà […] e se non fossero stati abbreviati i giorni i quelli non si salverebbe tutta [nessuna] carne, a motivo quindi degli eletti saranno abbreviati i giorni quelli. (Mt 24,15-22)
Anche qui nessuna affermazione circa la resurrezione, ma anzi un preciso riferimento a coloro che si salveranno in grazia degli eletti che hanno permesso (permetteranno) l’accorciamento dei giorni di tribolazione. Il mondo dunque non terminerà. D’altra parte i versetti che riportano le parole del Cristo inerenti l’ingresso nel regno di Dio non contengono mai riferimenti a una morte e successiva resurrezione, riguardano sempre i vivi. Leggiamoli: E se scandalizza te la mano tua, taglia essa; buono [meglio] per te monco entrare in la vita che le due mani avente, finire in gehenna5 […] e se il piede tuo scandalizza te taglia esso; buono [meglio] per te entrare in la vita zoppo che i due piedi avente essere buttato in la gehenna. (Mc 9,43-45)
E ancora: In verità [Amèn] dico a voi: «Chi non accoglie il regno di Dio come bambino non [per nulla] entrerà in esso». (Mc 10,15)
E infine: E vi dico: «Ogni che si dichiarerà in [per] me davanti agli uomini, anche il figlio dell’uomo si dichiarerà in [per] lui davanti agli angeli di Dio». (Lc 12,8)
Anche quando parla del rifiuto dei giudei di rispondere alla chiamata di Dio e della contemporanea volontà dei pagani di entrare nel nuovo regno, sembra proprio che Cristo si riferisca ai viventi, là dove dice: E verranno da oriente e occidente, da settentrione e mezzogiorno, e si distenderanno [giaceranno] in il regno di
Dio. (Lc 13,29)
Riferimenti precisi? Per completezza di analisi occorre rilevare che esistono, per la verità, alcuni passi – peraltro controversi – che farebbero pensare a un preciso riferimento alla resurrezione; si tratta dei seguenti: Guai a te Chorazin, guai a te Betsaida, perché se a Tiro e Sidone si fossero verificati i prodigi [miracoli] quelli verificatisi tra voi già da tempo […] si sarebbero convertiti […] quindi per Tiro e per Sidone più tollerabile sarà in il giudizio che per voi. (Lc 10,13-14)
E ancora: Regina del mezzogiorno si leverà in il giudizio con gli uomini della generazione questa e condannerà loro perché è venuta da le estremità della Terra per ascoltare la saggezza di Salomone ed ecco più di Salomone qui. (Lc 11,31)
Nella prima affermazione si parla di un giudizio che terrà conto della diversità d’opportunità data ai giudei e alle città pagane, ma non si fa comunque riferimento a una resurrezione che lo preceda. Ricordiamo che il giudizio è sempre dato come imminente nel corso di tutta la predicazione, quindi è lecito supporre che questo confronto riguarderà comunque i viventi nel momento finale. Il secondo brano sembra far pensare al fatto che, nei giorni del giudizio, anche i pagani defunti interverranno a condannare i giudei viventi («questa generazione») che si sono rifiutati di accettare le leggi del Signore: il giudizio
infatti riguarda sempre e soltanto la generazione presente, non coinvolge quelle passate e tanto meno le future. Non è espresso il concetto di una fine del mondo con successiva resurrezione e conseguente valutazione delle opere dei defunti: la salvezza offerta ai giudei si realizza proprio nell’evitare il momento del giudizio imminente che colpirà i peccatori e si concretizza quindi nella continuità della vita attuale, senza riferimenti a un post mortem. Un terzo passo che sembra richiamare direttamente l’idea della resurrezione è quello narrato da Marco: in questo racconto i sadducei pongono a Gesù una domanda capziosa, chiedendogli di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, una donna che in questa vita, in ottemperanza a una precisa legge mosaica, abbia sposato in successione ben sette fratelli. Gesù risponde testualmente: Quando infatti da morti si alzano non si ammogliano né si maritano ma sono come angeli in i cieli. Circa poi i morti che risorgono non avete letto in il libro di Mosè, su il roveto, come parlò a lui il Dio dicendo: Io il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è Dio di morti ma di viventi. Molto errate. (Mc 12,18-27)
Bisogna intanto precisare che, secondo molti studiosi, questo brano non è il racconto fedele di una discussione realmente sostenuta dal Cristo, ma un’aggiunta posteriore che riporta dibattiti sviluppatisi nelle prime comunità di cristiani. In ogni caso, anche volendo accettare la veridicità del racconto, si rileva immediatamente come non si parli della resurrezione della carne, non ci sia alcun cenno a un giudizio finale e come si faccia riferimento invece a una non meglio precisata “vita di carattere angelico”.
Diciamo per inciso che gli angeli sono esseri intermedi tra la divinità e l’uomo, provengono dalla mitologia assiro-babilonese e sono stati introdotti nella religione ebraica solamente in epoca molto tarda, nel corso dell’esilio babilonese, verificatosi a seguito della distruzione di Gerusalemme, nel VI secolo a.C., e terminato all’epoca di Ciro il grande, nel 517. Nello stesso passo poi abbiamo letto come Cristo dica anche chiaramente che il Dio degli ebrei è un Dio di viventi e non di morti, neppure di morti risorti. D’altra parte il vangelo di Marco, in due brevi affermazioni tanto semplici quanto rivelatrici, ci fa capire che gli stessi discepoli di Cristo non avevano assolutamente alcuna idea precisa sulla resurrezione. Nel capitolo 9, Gesù intima ai suoi di non rivelare a nessuno l’episodio della trasfigurazione, almeno sino a quando il Figlio dell’uomo non fosse resuscitato dai morti, e al versetto 10 Marco dice, riferito ai discepoli: «E la parola tennero in se stessi, domandandosi che cosa è il [quel] da morti risorgere». E ancora la stessa incertezza si ripete nel versetto 32, nel quale si dice: «Essi però non comprendevano la parola [resurrezione] e avevano timore [di] lui interrogare». L’argomento della resurrezione , dunque, non faceva parte della normale dottrina esposta da Cristo, neppure nell’intimità dei colloqui che aveva con i suoi, ai quali rivelava ciò che agli altri non era dato di sapere. Cristo e Giovanni Battista sembrano occuparsi e preoccuparsi esclusivamente dei loro contemporanei, in quanto sono proprio questi che stanno per vivere il momento finale e a loro è data una possibilità, l’ultima possibilità, di scampare
all’ira che viene, quell’ira che secondo Giovanni sarà espressa da «colui che viene» e la cui venuta è imminente. Lo stesso messaggio è ripreso da Cristo quando, parlando dell’ormai prossima venuta del Figlio dell’uomo, dice: Se qualcuno a voi dice: «Guarda qui il Messia, ecco [guarda] là, non credete, sorgeranno infatti pseudomessia e pseudoprofeti» […] Voi però state attenti, ho predetto a voi tutto […] quando vedete queste cose accadere sapete che vicino è su porte. In verità [Amèn] dico a voi che non [per nulla] passerà la generazione questa prima che queste cose tutte siano avvenute. (Mc 13,21-30)
Quindi anche le profezie sulla nuova venuta del Signore, così importanti per le prime comunità, esprimono sempre una certezza inequivocabile: gli eventi ultimi, con l’instaurazione del nuovo regno, riguardano esclusivamente quella generazione di viventi; ecco perché il problema della resurrezione non esiste per Cristo e per il Battista: una cernita sarà fatta tra coloro che ascoltano la chiamata in quel momento storico e a seguito di questa i giusti vivranno e i malvagi saranno annientati per sempre.
Lazare, deuro exo: «Lazzaro, qui, fuori» Certo, un cristiano fervente potrebbe affermare che tutto quanto scritto fin qui in questo capitolo non ha alcun valore, che le tesi del già citato studioso del Nuovo Testamento non sono altro che un esercizio retorico o di analisi psicologica, un piacevole impegno intellettuale, un mero divertimento filologico, un inutile tentativo di negare l’evidenza, perché la resurrezione della carne concessa a tutti gli uomini è già stata verificata, è stata vista e testimoniata in modo inconfutabile, è già stata raccontata nei particolari: è insomma la resurrezione di Lazzaro. Il brano evangelico (cfr. Gv 11,1-44) viene infatti considerato non solo un esempio straordinario ma la prova provata, la concretizzazione certa, la documentazione inconfutabile di ciò che può produrre l’intervento diretto di Cristo nel confronti di coloro che sono morti nella carne. • Che cosa rispondere a un’obiezione così concreta? • Come non credere alla realtà dei fatti? Il fedele ha il diritto-dovere di credere, ma il libero pensatore ha il dirittodovere di riflettere, e questo noi ora faremo… Diciamo subito che, nella sua stessa modalità narrativa, il brano evangelico può essere ricondotto a un rito di “reinserimento” nella comunità dei “viventi” di un adepto che era considerato “morto”, cioè uscito temporaneamente dal gruppo degli iniziati.
Nella tradizione di riti simili, in genere l’adepto veniva posto all’interno di una cripta dove trascorreva tre giorni nel buio e nel silenzio, senza acqua né cibo: per lo più si trattava di 36 ore, in quanto entrava la sera del primo giorno e veniva “richiamato in vita” all’alba del terzo. Per inciso diciamo che non può sfuggire come questa modalità presenti singolari analogie non solo con la “resurrezione” di Lazzaro, ma anche con i racconti evangelici della morte e resurrezione di Cristo. Intanto la vicenda della presunta resurrezione si svolge a Betania, che si presenta come un possibile luogo di formazione e sviluppo del movimento messianico; basti pensare che anche Giovanni il Battista operava nella zona di Betania, come ci dice lo stesso vangelo nel racconto del battesimo/iniziazione di Cristo: «Queste [cose] in Betania avvennero» (Gv 1,19-34). Gli appartenenti alle comunità iniziatiche, o comunque a gruppi ristretti, erano soliti definirsi “fratelli” e anche Lazzaro viene definito tale, con un appellativo che Cristo riservava a coloro che lo seguivano e che avevano diritto a essere così chiamati prima ancora dei suoi fratelli o sorelle di sangue: «Fratelli miei sono gli ascoltanti e i facenti la parola di Dio» (Lc 8,21). L’apostolo Paolo usa almeno 130 volte questo termine per indicare i veri seguaci di Cristo. Nella Didaché6 il termine indica la comunità di coloro che condividono la fede nella buona novella: «Parteciperai [farai partecipare] tutte [le cose] a [con] il fratello tuo e non dirai private [tue personali] essere» (4,8). Ma l’idea della comunione di fratelli era legata alla condivisione di un
percorso che rappresentava una sorta di linea di demarcazione tra la vita e la morte o, meglio ancora, tra coloro che potevano essere definiti “i viventi” e coloro che venivano invece inesorabilmente definiti come “i morti”. Rileviamo infatti che le primitive comunità cristiane richiamavano costantemente nella loro didaché (“insegnamento”) il concetto di “via” (odós), distinguendo nettamente tra coloro che la percorrevano, conseguendo così la salvezza, e quelli che la rifiutavano, avviandosi così alla morte. In Didaché 1,1 si legge infatti chiaramente che «vie due sono [odòi dùo eisì], una della vita [mìa tes zoés] e una della morte [kái mìa tu tanátu]».7 E questa indicazione corrisponde anche formalmente a precisi passi dei vangeli in cui si pone una chiara distinzione tra coloro che sono definiti “vivi” e i “morti”. Leggiamo a questo proposito il passo famoso e controverso di Luca: E disse a un altro: «Segui me». Ed egli disse: «Permetti a me di andare prima a seppellire padre mio». Allora gli disse: «Lascia i morti seppellire i loro morti». (Lc 9,59-60)
Spesso si afferma che questo brano è di difficile interpretazione, in quanto risulterebbe apparentemente ostico comprendere come dei morti possano seppellire i loro morti, ma a noi pare che in questa affermazione sia invece assolutamente chiara la distinzione che Cristo faceva tra i vivi (seguaci della nuova buona novella) e i morti, coloro che, essendo fuori dalla via della salvezza (odòs tes zoés), sarebbero stati inesorabilmente esclusi dal nuovo regno. D’altra parte, ambedue le sorelle, Marta e Maria, dicono (cfr. Gv 11,21 e Gv 11,32) che, se Gesù fosse stato presente, Lazzaro non sarebbe passato tra i morti e
questa affermazione induce proprio a pensare che la presenza costante del maestro avrebbe impedito o prevenuto la scelta di abbandonare la via. L’espressione riportata nel vangelo di Giovanni scritto in ebraico contiene una formula che esprime questa certezza in un modo molto più perentorio di quanto non faccia la versione greca che, nella forma verbale e nella particella che la introduce (an: dubitativa), contiene un certo margine di eventualità. Ki-az lo-met8 dicono invece testualmente le sorelle in ebraico e l’espressione ki-az ha un valore affermativo enfatico (“sì, certo”, “non vi è dubbio”) rispetto al fatto che non sarebbe morto (lo-met). Una certezza che lascerebbe perplessi se si trattasse di morte fisica, perché non ci sono altri riferimenti nei vangeli dai quali si sia autorizzati a concludere che la presenza “fisica” di Cristo era di per sé sufficiente a impedire o prevenire la morte “fisica” dei suoi discepoli. Mentre la presenza fisica di un maestro rende indubbiamente più difficoltoso, meno probabile, l’abbandono di una via o di un gruppo da parte dei seguaci. È ovvio pensare che, soprattutto con il passare degli anni e con il progredire della predicazione apostolica nell’area mediterranea, unitamente a tante nuove conversioni si registravano sicuramente altrettante defezioni, a seguito della mancata promessa di un imminente ritorno del Cristo, quindi altrettanto pressante doveva essere la necessità di recuperare i fuoriusciti. Ricordando che il vangelo di Giovanni è stato scritto quando già diverse comunità cristiane erano attive, non ci è difficile pensare a Lazzaro come a un
discepolo che, in assenza del maestro, ha abbandonato la “via” e viene poi invitato a riprendere il cammino. Il racconto della sua presunta resurrezione potrebbe proprio nascere dalla volontà di narrare il recupero di un personaggio che era sicuramente eccellente all’interno della primitiva comunità messianica e altrettanto pericoloso per le autorità costituite, come appare dallo stesso vangelo e come noteremo più avanti.
BREVE DIGRESSIONE “ESOTERICA”
Vale quindi la pena di effettuare una breve e curiosa digressione per analizzarlo. Per comprendere il significato di quanto si dirà, non bisogna dimenticare che Giovanni era l’evangelista più dotto e aveva la necessità di trasmettere un messaggio a uomini altrettanto colti ed esigenti, permeati di cultura ellenistica, abituati al linguaggio simbolico delle religioni misteriche ampiamente diffuse nell’area mediterranea e quindi desiderosi di ricevere messaggi in forma che diremmo esoterica, cioè riservata a coloro che erano in grado di comprendere. Questo aspetto ovviamente non intacca la fede del credente contemporaneo che non ha dubbi sulla possibilità della realizzazione dei miracoli, ma esorta il libero pensatore a tentare di comprendere…
A questo proposito dobbiamo rilevare che molti sono i passi evangelici in cui è possibile cogliere la volontà di trasmettere un messaggio in forma simbolica, e tra i tanti ne citiamo uno. La presunta resurrezione di Lazzaro offre lo spunto per richiamare un altro passo di Giovanni (Gv 5,1-18), quello della guarigione del paralitico, che viene spesso interpretato come un richiamo simbolico a riprendere un cammino abbandonato. Scegliamo di analizzare in particolare questo brano evangelico in quanto l’espressione usata da Cristo per il paralitico – “alzati e cammina” – viene spesso citata erroneamente mettendola in relazione proprio a Lazzaro: si tratta certamente di un errore, ma è comunque curioso questo accostamento che ricorre spesso. Diciamo subito che scopriremo, con una certa sorpresa, che l’accostamento non è forse così immotivato… “Alzati e cammina” dice dunque Cristo al paralitico (e non a Lazzaro!) parlando in aramaico e usando quindi con ogni probabilità un’espressione che suonava così: Qumì, lèch. Bisogna sapere però che il verbo qumì (“alzati”, forma aramaica dell’imperativo) aveva molto spesso il significato di un’esortazione incisiva, che può corrispondere ai nostri “orsù, forza, dài…”: l’espressione che il redattore greco dei vangeli ha indicato letteralmente con “alzati e cammina” con ogni probabilità suonava quindi come un’esortazione accorata a “mettersi in cammino lungo la via”. Il verbo qum, nel suo significato originale, indica spesso il semplice avvio di
un movimento, di un’azione, ma, una volta tradotto letteralmente nel testo greco, è stato reso nel suo significato di “alzarsi” in tutta la tradizione successiva, mentre poteva semplicemente suonare come un caloroso e fraterno invito a rimettersi in cammino. Una sollecitazione a riprendere la via abbandonando la strada del peccato che porta alla morte: «Non [mai più] peccare affinché non peggio a te qualcosa avvenga» (Gv 5,14). E non sarà un caso che anche gli altri evangelisti narrano l’evento mettendolo in relazione diretta con le conseguenze di una vita condotta nel peccato. Dal confronto tra le varie modalità narrative, inoltre, si ricava un’ulteriore indicazione: Giovanni colloca l’evento a Gerusalemme, sotto i portici della piscina di Betesda dove il paralitico si trovava in mezzo a una moltitudine di altri infermi; Matteo (cfr. Mt 9,1-7) invece fa avvenire il tutto nella città di Gesù, al ritorno da Gadara dopo un attraversamento del lago di Genezaret, e il paralitico gli viene presentato adagiato su di un letto; Marco infine (cfr. Mc 2,1-11) narra che la guarigione è avvenuta quando Gesù rientra a Cafarnao dopo alcuni giorni di peregrinazione e predicazione nei villaggi della Galilea, e, in questo caso, il paralitico gli viene calato dal tetto della casa in cui si trovava. Date queste differenze, rileviamo invece al contempo un elemento comune: in tutti e tre i racconti Cristo interviene sui peccati dell’uomo e concede l’assoluzione. Atto che viene presentato come l’elemento essenziale di tutta la vicenda. Abbiamo quindi ambientazioni decisamente diverse nelle quali si ripete, come indicazione fondamentale ed essenziale, il richiamo al rapporto diretto tra
peccato e sofferenza. La costruzione di questo evento quindi aveva l’evidente scopo di comunicare un messaggio preciso: la via del peccato conduce alla sofferenza e alla morte, la via del nuovo annuncio del regno di Dio porta alla liberazione dal dolore e alla vita. Soffermiamoci brevemente sul termine qum per rilevare che, nel particolare significato sopra descritto di esortazione e non di richiesta di alzarsi in senso letterale, lo si trova in altri passi delle sacre scritture. Lo vediamo, per esempio, in Genesi 28,2, dove si narra che Isacco invita Giacobbe ad andare a cercarsi moglie in Paddan Aram e lo fa usando appunto la formula qum lech (qum è la forma imperativa ebraica), cioè semplicemente sollecitandolo a partire: quel qum, nel contesto della vicenda, non significa affatto “alzati” perché in quell’espressione l’atto letterale di “alzarsi” non avrebbe alcun senso concreto in quanto Giacobbe non era disteso, ma stava parlando con il padre. Così come in Giudici 20,8 si dice «vaijàqam […] lemòr», dove il verbo iàqam (perfetto del verbo qum) starebbe a indicare che tutto il popolò «si alzò […] per dire» ed è ovvio che non si intende l’atto concreto di un popolo che letteralmente “si alza in piedi” ma si vuole comunicare che il popolo “iniziò a parlare”, “prese la parola”; il verbo cioè, come detto prima, indica l’avvio di un’azione, che in questo caso è quella del parlare. La successione del racconto della guarigione del paralitico, elaborata nel tempo, potrebbe quindi essere stata la seguente:
Aramaico (parlato da Gesù): Qumì lech, “Mettiti in cammino”, oppure “Riprendi il cammino (la via giusta), abbandonando la via del peccato”. 2. Greco (usato dagli evangelisti per trasporre letteralmente la parlata ebraica): Eghéire kái peripátei, “Alzati e cammina”. 3. Vulgata 9 latina (ulteriore traduzione successiva alle precedenti versioni): Surge et ambula, “Sollevati e cammina”. 1.
Dalla trasposizione letterale in greco e dall’ulteriore, successiva trasposizione in latino deriva quindi l’interpretazione tradizionale del brano che potrebbe avere invece una valenza puramente simbolica. Mentre la letteralità del testo ci aiuta a comprendere quello che potrebbe essere stato il vero svolgersi di una situazione in cui un adepto che ha abbandonato la via viene sollecitato a rientrarvi per liberarsi dalle conseguenze immediate del peccato e dal rischio della futura morte (“non peggio a te qualcosa avvenga”). Ma torniamo a Lazzaro, per dire di quella sorta di sorpresa cui abbiamo accennato in precedenza. Abbiamo visto che la versione greca ci racconta che Gesù esorta Lazzaro a “venire fuori” (Lazare déuro exo ), ma se leggiamo la versione ebraica dello stesso passo del vangelo di Giovanni (Gv 11,43) scopriamo che Gesù… vajiqrà beqòl gadòl laEzàr: Qum zé, cioè letteralmente: “e gridò con voce forte a Lazzaro: Alzati esci” o meglio sarebbe dire: “Forza, coraggio, vieni fuori” (dal mondo dei morti in cui sei volontariamente ritornato).
Ecco tornare, nel testo ebraico, l’imperativo qum (“alzati”), quell’espressione che abbiamo esaminato e che contiene il significato di alzarsi, ma possiede anche il valore di semplice esortazione. Il parallelismo tra i due racconti dunque trova una sua curiosa riaffermazione e probabilmente quello che viene comunemente ritenuto come un banale errore di citazione riferito a Lazzaro invece che al paralitico (alzati e cammina), in realtà potrebbe non essere così lontano dal vero perché anche nei confronti di Lazzaro si ripete quell’invito (qum) che può essere letto in vario modo. Nella vicenda di Lazzaro l’autore greco utilizza due avverbi: déuro exo, il primo dei quali contiene un valore esortativo simile al qum aramaico (“qui, forza…”) e il secondo significa semplicemente “fuori”.
Riflessioni generali Lasciamo ora l’analisi letterale per procedere con alcune riflessioni relative al contesto dell’evento e agli eventi successivi, soprattutto a quegli eventi cui ci si sarebbe ragionevolmente attesi di assistere, ma che stranamente non si sono verificati. Tra le numerose domande che sorgono di fronte alla straordinarietà di questo evento, la prima nasce da una considerazione quanto meno sconcertante: il racconto di questo atto straordinario e unico si trova esclusivamente nel vangelo di Giovanni… e ci chiediamo:
Ma come poterono gli altri tre evangelisti non ricordare? Lo tralasciarono di proposito? Non lo ritenevano importante? Oppure non lo conoscevano? Non sapevano che Cristo aveva richiamato dalla morte un uomo? Proprio loro che ci raccontano nei particolari altri eventi molto meno significativi? • È mai possibile? • È concepibile dimenticare la “prova provata” di un evento che rappresenta il cardine di tutta la speranza dei destinatari dei vangeli? • • • • • •
E inoltre: • Che fine avrebbe fatto Lazzaro se fosse stato un vero resuscitato? • Il vangelo dice che era presente al «pranzo» che a Betania fecero per Gesù sei giorni prima della Pasqua (cfr. Gv 12,1-2), e dopo? • Non ha partecipato all’ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme? • Perché non era presente al processo? • Perché non era sotto la croce a urlare tutta l’evidenza del fatto straordinario che l’aveva coinvolto? Proprio lui, la prova vivente! Ma ancora…
•
Dove sono scomparsi i «molti giudei» che erano con Maria e Marta in quei giorni, che hanno dunque assistito all’evento e addirittura sono andati dai farisei a raccontare il fatto? (cfr. Gv 11,31; 11,36; 11,45) • Dopo averlo raccontato alla fazione ebraica che credeva nella resurrezione, si può dimenticare il tutto? • E perché i farisei non ne hanno approfittato per riaffermare e imporre, al di là di ogni ragionevole dubbio, le loro convinzioni nei confronti della casta di potere rappresentata dai sadducei, che negavano la resurrezione dei morti?! Un’occasione unica e irripetibile per i farisei, una testimonianza inconfutabile, e immediatamente verificabile, da utilizzare nei confronti di quella corrente rivale, costituita dall’aristocrazia delle antiche famiglie sacerdotali nell’ambito delle quali venivano nominati i sacerdoti di rango più elevato. Giovanni ci dice infatti che «decisero allora i sommi sacerdoti ché [affinché] e [anche] Lazzaro uccidessero» (Gv 12,10). • Ma che senso avrebbe uccidere un vero resuscitato? • Questa uccisione non avrebbe concesso un’ulteriore possibilità di ripetere l’evento proprio con lo stesso destinatario del miracolo? • Non poteva rappresentare una sorta di pericolosissima “autorete” tentare di uccidere uno cui era già stata concessa la vittoria sulla morte? • Era possibile anche solo pensare di compiere un gesto del genere? • Non è più ovvio ipotizzare allora che questo desiderio di mettere a morte
Lazzaro sia nato piuttosto dalla consapevolezza che la sua scomparsa avrebbe chiuso, o almeno ostacolato, lo svilupparsi di una situazione pericolosa, grazie proprio all’eliminazione di uno dei capi del movimento messianico che Cristo era riuscito a recuperare alla sua causa? Ricordiamo sempre che il tutto avveniva a Betania, territorio in cui il messianismo trovava nella predicazione del Battista una delle fonti d’ispirazione e di reclutamento di adepti. E dove è scomparsa «la folla molta» (Gv 12,9) accorsa per vedere Gesù e Lazzaro, resuscitato dai morti? • Tutti improvvisamente svaniti nel nulla? • Come si fa a non divenire immediatamente discepoli e fervidi testimoni di un essere dotato di tali poteri divini? •
Ma sappiamo che non è così che avvenne. Sappiamo che la fede nella resurrezione dei morti si è sviluppata e affermata in luoghi geograficamente lontani da quelli in cui sarebbero esistite queste prove eclatanti e inconfutabili: hanno creduto cioè quelli che non hanno visto, e non quelli che hanno (avrebbero) visto! Ci viene più facile fantasticare un po’ e provare a ricordare quanto ci scrive lo storico giudeo Flavio Giuseppe10 nella sua opera intitolata Guerra giudaica. Nel 73 (o 74) d.C. i romani, guidati dal governatore della Giudea Flavio Silva,
stavano per conseguire ormai la vittoria definitiva sui ribelli ebrei, che si erano asserragliati nella fortezza di Masada; gli assedianti avevano eretto una rampa grazie alla quale potevano ormai combattere faccia a faccia con gli assediati. Ma, racconta lo storico, la notte precedente l’assalto decisivo i ribelli, per non essere catturati e ridotti in schiavitù, decisero di suicidarsi in massa, spinti a questo gesto estremo da un discorso infuocato e appassionato pronunciato dal loro comandante Eleazar, Lazzaro appunto, di cui dice lo storico:11 A comandare gli zeloti [sicari] che avevano occupato la fortezza c’era Eleazar, uomo potente, discendente da quel Giuda che aveva convinto molti giudei a sottrarsi al censimento ordinato da Quirino.
Insomma: si richiama anche qui l’idea dell’esistenza di gruppi messianici, facenti capo a personaggi ben definiti, sviluppatisi proprio in quel periodo e con riferimento a Betania, dove si trovava Lazzaro e dove operava il Battista. È suggestivo quindi fantasticare e pensare a un Lazzaro che, pienamente recuperato alla “via”, sarebbe in definitiva quello stesso Eleazar che ha pronunciato la grande esortazione alla comunità ebraica asserragliata nella fortezza. Un giovinetto che, seguace entusiasta delle dottrine messianiche, fuoriuscito e successivamente richiamato dalle parole del maestro, divenuto uomo maturo e consapevole, si pone alla guida dei movimenti di resistenza all’occupante romano, combattendo fino alla sconfitta finale… Pensiero suggestivo, ma dobbiamo dire onestamente che si tratta di un’ipotesi, probabilmente proprio una fantasia già variamente formulata, e diciamo anche che il farne una tesi vera e propria determinerebbe la necessità di affrontare e
risolvere una serie di questioni che esulano comunque dagli obiettivi del presente scritto… Quindi ce ne asteniamo, rilevando solo un ultimo aspetto della questione. I tre evangelisti sinottici che non conoscevano – o che hanno colpevolmente dimenticato – la vicenda di Lazzaro, con ogni probabilità scrissero i loro libri prima del tragico evento di Masada, mentre Giovanni scrisse il suo vangelo dopo quella definitiva sconfitta dei ribelli ebrei guidati da un Lazzaro (Eleazar). Allora, nell’ipotesi suddetta, ci è facile pensare che per i primi tre il reintegro di Lazzaro nella “via” non era ancora così importante e non valeva quindi la pena di narrarlo, mentre per Giovanni poteva essere utile ricordarlo alla luce di quanto questo Eleazar aveva poi fatto successivamente e di cui l’evangelista era venuto nel frattempo a conoscenza. In ogni caso, in assenza di certezze storiche, anche questa è una pura ipotesi e allora concludiamo rimarcando che quanto si ricava dall’analisi del testo della presunta resurrezione pare comunque descrivere una situazione probabilmente molto più concreta di quella tradizionalmente accreditata: Lazzaro ritorna a percorrere la via della vita dopo averla abbandonata. 1 L’impostazione di una parte di questo capitolo trae spunto dalle tesi elaborate da Jürgen Becker, ordinario di Nuovo Testamento, e pubblicate in La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo (Paideia Editrice, Brescia 1991), che contiene uno studio documentato e approfondito della materia in esame. Le citazioni del Nuovo Testamento sono frutto di traduzioni letterali effettuate dall’autore nel rispetto anche dell’ordine dei termini così come è presente nel testo greco. Ne deriva una forma forse non corrispondente alle
regole della lingua italiana, ma certamente più vicina al pensiero degli antichi autori. 2 Si veda Le Confessioni (libro iii, cap. 8), Einaudi, Torino 1966. 3 Cfr. nota 1 a p. 27. 4 Si veda l’Appendice 4. 5
Il termine gehenna deriva dall’ebraico ghe hinnòm (in aramaico ghe innàm) che significa “Valle di Hinnòm”, un avvallamento che si trova a sud-ovest di Gerusalemme, in cui nel passato si celebravano riti idolatrici che prevedevano il passaggio nel fuoco delle vittime, spesso costituite da bambini o bambine. Secondo diversi testi profetici in quel luogo si compirà il definitivo Giudizio divino: gli idolatri saranno divorati nelle tenebre dal fuoco e dai vermi. 6 Si veda l’Appendice 4. 7
Per facilità di lettura si è provveduto a traslitterare il testo greco ponendo esclusivamente l’attenzione a riprodurre la pronuncia. 8 Per facilità di lettura si è provveduto a traslitterare il testo ebraico ponendo esclusivamente l’attenzione a riprodurre la pronuncia. 9 Si veda l’Appendice 4. 10 Si veda l’Appendice 5. 11 Si veda il testo Guerra giudaica, Mondadori, Milano 2003.
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Resurrezione: considerazioni generali e conclusioni
Abbiamo affrontato il tema della resurrezione come se fosse una prerogativa del cristianesimo e apparentemente, nel pensiero comune, si dà per scontato che lo sia, ma la realtà è ben riversa. L’idea della resurrezione è sempre stata ampiamente diffusa nel pensiero religioso o mitologico religioso dell’umanità e non senza motivo: la paura della morte – la madre di tutte le angosce che tormentano l’uomo – ha sempre richiesto risposte capaci di tranquillizzare.
La resurrezione nelle altre culture religiose Non è nostro scopo analizzare i contenuti del concetto di resurrezione nelle varie realtà storiche e culturali, per cui ci limitiamo a riportare qui di seguito solo dei cenni di alcuni miti, credenze e racconti relativi a “salvatori” morti e resuscitati nelle teologie di varia origine che in alcuni casi presentano curiose affinità con il credo cristiano.
Zoroastro Lo zoroastrismo prevedeva la resurrezione corporale dei morti a seguito di un giudizio finale esercitato da Dio. Il dio Mazda opera tramite lo Spirito Santo, di cui è Padre; ha come nemico uno spirito malvagio, signore delle tenebre, che si è ribellato così come il Satana della religione cristiana. Il mondo deve attraversare tre ere: la creazione iniziale, il mondo presente, in cui il Bene e il Male si contrappongono, e l’era finale, in cui Bene vincerà sul Male, grazie all’intervento di un Saoshyant (“salvatore”), nato da una vergine della stirpe del profeta Zoroastro, che risorgerà dalla morte per costituirsi giudice alla fine dei tempi. Zoroastro fu probabilmente il primo a predicare la resurrezione dei morti nel giorno del giudizio universale, quando l’uomo sarà chiamato a rispondere della sua condotta.
Osiride Osiride, dio egizio, viene ucciso dal fratello Seth e successivamente riportato in vita. Il mito egizio narra che Osiride ha portato la civiltà agli uomini, insegnando loro come coltivare la terra e produrre il vino e per questo era molto amato dal popolo. Seth, invidioso del fratello, cospirò per ucciderlo: lo fece entrare con l’inganno in una cassa e la gettò nel Nilo facendolo annegare. Iside, con l’aiuto della sorella Nefti, riportò Osiride alla vita ma Seth riuscì a ucciderlo una seconda volta, fece a pezzi il suo corpo e nascose le parti in luoghi diversi. Iside trovò i vari pezzi e lo riportò in vita. Successivamente Osiride andò negli inferi per giudicare le anime dei morti e tornerà sulla terra dei vivi per governare in eterno e con lui si affermerà la vittoria definitiva del Bene sul Male.
Attis Attis, divinità siriaca, muore e risorge in occasione dell’equinozio di primavera. Molte sono le leggende relative a questa divinità e molte sono anche le analogie con il cristianesimo. Attis nasce il 25 dicembre dalla Vergine Nana; nel “Venerdì nero” viene crocifisso a una pianta; scende nel mondo sotterraneo e dopo tre giorni risuscita, il 25 marzo. Egli era definito sia “Figlio divino” che “Padre”. Il suo corpo veniva mangiato come pane dai suoi adoratori e i suoi sacerdoti erano eunuchi per il regno del cielo. Chiamato anche “Figlio unigenito”, era considerato il salvatore ucciso per la salvezza dell’umanità. Come salvatore era adorato dai
frigi, che lo rappresentavano legato (o inchiodato) a una pianta, ai piedi della quale c’era un agnello. Apollo di Mileto narra che era un mortale secondo la carne; saggio in opere miracolose. Ma, arrestato da una forza armata per ordine dei giudici caldei, subì una morte resa amara da chiodi e pali.
Mitra Mitra, divinità persiana, muore e risorge. La religione cristiana avversò sempre il mitraismo come il concorrente più pericoloso. Va rilevato che il mitraismo condivideva con il cristianesimo molti elementi: dalle origini mediorientali alle lustrazioni (battesimo), dalla resurrezione dei morti alla coincidenza della celebrazione della natività fissata il 25 dicembre, in concomitanza con il solstizio d’inverno, da entrambe le religioni. Una delle leggende riguardanti la nascita di questa divinità, che si fa uomo per salvare il genere umano sconfiggendo il male, narra che il dio decide di venire al mondo incarnandosi nel ventre di una vergine, e vede la luce in una grotta. Mitra abbandonò infine il mondo terreno per tornare in cielo 33 anni dopo essersi incarnato.
Quetzalcoatl Il dio piumato tolteco Quetzalcoatl era considerato simbolo di morte e resurrezione dagli aztechi, che ne attendevano anche il ritorno in un tempo futuro.
Come Osiride, questo dio portò saggezza e conoscenza, introdusse le pratiche agricole e le leggi, il calcolo matematico e l’uso dei calendari. Quetzalcoatl visse un episodio che ricorda lo scontro tra le divinità egizie: ebbe un duro scontro con il dio Tezcatlipota al seguito del quale decise di andarsene, promettendo che sarebbe ritornato.
Dioniso Il dio greco Dioniso muore e risorge ogni anno all’equinozio di primavera. Secondo Esiodo il dio viene fatto a pezzi dai Titani, che lo divorano, ma egli risorge. Le baccanti, sue sacerdotesse, divorano animali ed esseri umani perché nelle carni crude è presente proprio questa divinità che muore e risorge, e, sacrificandosi e donandosi agli uomini, fa continuamente morire e risorgere chi si unisce a lui.
Atahualpa La religione inca afferma la resurrezione dei morti, almeno per gli imperatori: lo stesso Atahualpa affronta con coraggio gli invasori europei e la morte, certo com’è della sua futura resurrezione.
Il Libro egizio dei morti Il Libro egizio dei morti è stato scritto per fornire al defunto risorto nell’altro mondo indicazioni utili al raggiungimento di un paradiso di beatitudini, peraltro molto simile a quello cristiano. È una raccolta di testi funerari di epoche diverse, contenente formule magiche, inni e preghiere che, per gli antichi egizi, guidavano e proteggevano l’anima (Ka) nel suo viaggio attraverso la regione dei morti. La conoscenza di questi testi doveva garantire all’anima la certezza di sconfiggere i demoni che le ostacolavano il cammino e di superare le prove poste dai 42 giudici del tribunale di Osiride. In particolare il testo doveva servire a preparare la testimonianza sulla sua condotta in vita, che il defunto doveva fornire. Quando il defunto compariva davanti al tribunale di Osiride, si discolpava con una serie di formule che sono curiosamente richiamate dai dieci comandamenti forniti da Mosè al popolo ebraico nel corso dell’Esodo; tra le altre cose l’anima diceva infatti: Non ho ucciso uomini, non ho detto il falso, non ho rubato, non ho commesso cattive azioni, non ho bestemmiato il nome del dio, non ho fatto l’amore con la donna di altri…
Per facilitarne l’utilizzo, il papiro era posto nella tomba, o direttamente nel sarcofago, assieme a tutto ciò che era ritenuto utile per il viaggio dell’anima.
Kechari mudra
Lo yoga tantrico conosce una pratica che si chiama Kechari mudra, attraverso la quale l’adepto raggiunge uno stadio di morte apparente da cui successivamente viene richiamato in vita. Kechari mudra significa “chiusura della lingua” e la tecnica consiste nel far assumere a questo organo una posizione dalla quale può solleticare la parte molle del palato con un movimento ritmico e continuo, capace di stimolare le ghiandole poste nella regione cervicale e aumentare la produzione di determinate sostanze chimiche, in grado di agevolare la percezione di realtà sottili. Particolarmente interessata dagli effetti della tecnica sarebbe la ghiandola pineale, con relativa secrezione di una sorta di fluido contenente la serotonina, precursore delle endorfine. Uno degli effetti di questa pratica pare essere la dilatazione delle percezioni, l’arresto delle attività mentali e il conseguimento di uno stato di abbandono totale, simile appunto alla morte. Tutte le forme iniziatiche di spiritualità conoscono pratiche simili (egizi, esseni, indu, ecc.).
Il Messia risorto giudaico Nello stesso ambiente giudaico, poi, l’idea non era nuova. All’Israel Museum di Gerusalemme si trova una tavola di pietra, scoperta nei pressi del Mar Morto, su cui si trovano circa novanta versi in ebraico che narrano la storia di un Messia che sarebbe risorto tre giorni dopo la sua morte. L’elemento curioso, e importante, è che la tavola risalirebbe a un’epoca antecedente alla nascita di
Gesù, e quindi non si riferisce a lui… La resurrezione dei morti è dunque un argomento molto complesso, articolato, assolutamente non univoco nella presentazione e nella rivelazione; argomento che ha subito continue elaborazioni e riscritture alla luce degli eventi e delle attese fideistiche delle varie comunità distribuite tra la Grecia e il Medio Oriente.
Breve compendio della tradizione giudaico-cristiana… L’evoluzione all’interno degli scritti sacri della tradizione giudaico-cristiana può quindi essere schematicamente rappresentata nel seguente modo: • Cristo e Giovanni Battista non predicavano una resurrezione, in quanto il regno di Dio era imminente e avrebbe interessato i vivi, che dovevano dunque rapidamente convertirsi; • il cristianesimo primitivo non andava oltre questi orizzonti temporali definiti da quella generazione e viveva dunque nell’attesa dell’imminente ritorno, con relativa instaurazione dei tempi nuovi; • con la prima lettera ai Tessalonicesi la speranza viene estesa e concessa anche a coloro che, essendo morti nel frattempo, non avrebbero potuto partecipare al grande momento dell’assunzione delle comunità nella vita offerta dal Cristo;
•
nella prima lettera ai Corinzi la salvezza si fa universale in quanto affronta, risolvendolo, il problema della morte, cui sembra condannata l’umanità intera, vista alla luce della concezione dualistica propria della mentalità ellenistica; • Giovanni Evangelista rielabora a sua volta, e a suo modo, le varie tradizioni che l’hanno preceduto, senza sceglierne una in particolare.
E infine, alcune domande… Concezioni diverse, dunque, in funzione di tempi ed esigenze diverse; idee in continua evoluzione, in funzione dei diversi momenti storici e delle diverse situazioni geografiche e culturali. • Di fronte a tanta complessità, in quale posizione si trova il credente? • A che cosa deve credere? • Al Dio di Mosè che non ha avvertito la necessità di rivelare nulla su questo argomento? • Allo sheòl in cui credevano le tribù di Israele? • Al Dio dei profeti che legavano i concetti della benevolenza e giustizia divine alla gloria e al successo puramente terreni della nazione intera? • Al Dio di Giovanni Battista e di Gesù che profetizzava un imminente giudizio mai avvenuto? • Al Dio di Paolo che, continuando ad alimentare e sostenere l’attesa di una Parusìa mai verificatasi, ha variato i termini della resurrezione man mano che
si ponevano questioni non risolte dai contenuti della precedente rivelazione e conseguente predicazione?
… e una piccola distinzione I l credente deve necessariamente scegliere. Una volta effettuata la scelta non deve mettere in discussione la sua fede, ma viverla concretamente nella convinzione che una fede coerente salva la vita – quella attuale, nella sua quotidianità – perché le fornisce spiegazioni e obiettivi assoluti. I l libero pensatore , al contrario, non si pone il problema del credere e prosegue la sua ricerca, continuando a navigare serenamente nel mare della relatività.
PARTE SECONDA
RINASCEREMO? CI REINCARNEREMO?
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Riflessioni preliminari
Dopo l’analisi critica del pensiero cristiano in merito alla sua dottrina della resurrezione (in cui si sono tralasciate eventuali tracce di una fede protocristiana nella reincarnazione perché sono incerte e di non facile attribuzione) diviene necessario proseguire, con lo spirito descritto nell’Introduzione, per esporre sani e liberi dubbi anche sul pensiero orientale. In queste pagine si troverà chiaramente espressa la difficoltà nel capire, presente in molti e derivata da quelle che appaiono come profonde contraddizioni esistenti all’interno stesso del pensiero e delle dottrine che comunque hanno sostenuto e sostengono l’idea di un ciclo di vite da cui è necessario liberarsi. Si prova sempre una sorta di disorientamento quando si sente dire che “l’Oriente crede nella reincarnazione” come se si trattasse di una tesi univoca, unanimemente accettata, affermatasi in un periodo preciso (per illuminazione o rivelazione divina). Quando si leggono le statistiche sul numero di persone che sostengono di
credere nella reincarnazione non si considera mai che la maggior parte di quelli che rispondono di sì, poi, non sanno rispondere alle successive inevitabili domande: • • • • •
Che cosa si reincarna? Qual è l’elemento che procede nelle vite successive? Quali caratteristiche possiede? Che cosa porta con sé delle vite precedenti? Perché si reincarna?
Il concetto di “reincarnazione” pare affermarsi con una superficialità che non è permessa a chi si considera iniziato (nel senso tradizionale e quindi diverso da quello definito nell’Introduzione), illuminato o semplicemente possessore di verità definitive: non si può dire semplicemente “Credo nella reincarnazione”, perché la domanda immediatamente successiva è: “In che tipo di reincarnazione?”. Questa è una domanda alla quale un simile credente non può esimersi dal dare risposta, perché la scelta concreta di vita che ne consegue, con le tecniche, i comportamenti e gli atteggiamenti che ne derivano, può essere profondamente diversa. Non possiamo illuderci di risolvere con semplicità la questione pensando che, quando si parla di reincarnazione, tutti intendano la stessa cosa, con le stesse caratteristiche e le stesse finalità.
Purtroppo non è così: metempsicosi, reincarnazione e rinascita sono spesso accomunate in una semplificazione sbagliata e pericolosa. Non sono la stessa cosa, partono da principi diversi al punto tale che, se è vera l’una, risulta essere necessariamente falsa l’altra.
La conoscenza come base per ogni scelta Ora, ogni forma di pensiero, dottrina, conoscenza, non è mai fine a se stessa, ma si pone sempre il grande obiettivo di “salvare” l’uomo: cristianesimo, buddhismo, induismo, islam, ebraismo hanno scopi precisi cui conseguono pratiche di vita e finalità diverse. La scelta d’improntare la propria vita in funzione di uno di questi scopi dipende dall’accettazione di una di queste religioni o forme di pensiero: la pratica e la vita quotidiana di un cristiano che attende d’incontrare individualmente il suo Dio personale sarà inevitabilmente diversa dalle tecniche adottate da uno yogi per accelerare l’annullamento e l’identificazione del suo Sé nel Sé universale indistinto e impersonale. La conoscenza non è mai – non può essere mai – fine a se stessa: la conoscenza determina le scelte. Osho,1 importante maestro spirituale della seconda metà del Novecento, afferma che la Verità è di un’evidenza tale da imporsi di per sé a chi la sa e la vuole vedere, ma le verità elaborate dall’uomo nell’intero corso della sua storia sono tante, diverse e contraddittorie; e i sostenitori di ciascuna di queste possono, a buon diritto, fare propria questa affermazione di Osho, applicandola a quella che a loro appare come l’evidenza incontrovertibile della verità in cui essi credono. Per quanto concerne la reincarnazione, i dubbi nascono dalla difficoltà, che
spesso appare come impossibilità, di districarsi nei meandri di dottrine diverse, contrastanti, che si sono combattute nella loro stessa coesistenza storica, nella consapevolezza che l’affermazione dell’una rendeva inevitabilmente impossibile l’esistenza dell’altra, se almeno siamo autorizzati a pensare che la Verità sia una sola. D’altra parte bisogna riconoscere che storicamente coloro che vivono nell’incertezza sono stati sempre in buona compagnia: l’induismo ha prodotto almeno sei scuole che, per loro stessa definizione, si sono chiamate “Punti di vista” (darsana), spesso in contrasto l’una con l’altra; il buddhismo, messaggio strettamente elitario, articolato come pochi altri nella storia del pensiero filosofico-religioso umano, ha prodotto dispute mentre ancora il Maestro era in vita, ha generato poi due movimenti iniziali (hinayana e mahayana), si è diviso in diciotto scuole successive, ha avuto necessità di numerosi concili dottrinali per tentare di porre ordine al suo interno, data la sua grande complessità intrinseca.
Oriente, garanzia di verità? Nell’elaborare queste considerazioni ci si chiede che cosa succederà alle dottrine orientali quando qualcuno le sottoporrà alla stessa profonda e “feroce” analisi cui è stato sottoposto il pensiero occidentale. Che cosa rimarrà del loro contenuto “spirituale”? L’Oriente ha indubbiamente goduto di una posizione privilegiata che gli ha
consentito di usufruire di una sorta di tacita accettazione e di un accredito maturati all’interno di quell’alone di mistero e di “insondabile antichità” che sempre avvolge ogni discorso sulle dottrine orientali. Spesso pare addirittura che questi elementi siano, da soli, garanzia sufficiente di “verità” indiscutibile. Ma quando si passa, com’è doveroso e necessario, alla storicizzazione degli eventi, dei testi, dei maestri e li si contestualizza, immediatamente ci si accorge che forse l’atteggiamento di alcuni occidentali è un po’ troppo superficiale, troppo accondiscendente, troppo desideroso di nuove verità, troppo disposto quindi ad accettare in modo acritico ciò che proviene dal lontano e misterioso Oriente, ritenuto, per definizione, saggio e pressoché indiscutibile. Eppure le contraddizioni esistono anche là; i contrasti sono nati e si sono sviluppati proprio all’interno di quel mondo che a noi appare invece – e così viene spesso tendenzialmente presentato – come un tutto unitario, coerente e concorde. Eppure Buddha si è posto in dichiarato e aperto contrasto con i Veda; il giainismo ha fatto lo stesso con il buddhismo (Ghosala accusava Buddha di profonda incoerenza); il buddhismo ha dovuto abbandonare l’India per i suoi contrasti con l’induismo; Vivekananda (grande pensatore orientale moderno, morto nel 1902) ha sostenuto che bisognava “tornare ai Veda”; i Veda stessi sono il prodotto di un’elaborazione che è iniziata nel 1500 a.C. circa ed è proseguita sino al 700-800 d.C., con un’evoluzione dei contenuti che non ha nulla da invidiare all’evoluzione e alle trasformazioni avvenute nell’Antico Testamento ebraico; il buddhismo, per dare ragione di alcune sue interne incongruenze, ha poi
comunque dovuto fare ricorso ai Veda che in un primo tempo aveva rifiutato in toto, e così via.
Storicizzare per comprendere Facciamo un esempio di storicizzazione per giustificare la mole d’incertezze che proliferano in chi sa nuotare liberamente nel mare della relatività e non ha timore del dubbio: l’Occidente è abituato, per educazione religiosa e cultura, a considerare semplicemente “mitologica e fantasiosa” la teologia del mondo greco classico, con le sue divinità molto umanizzate e addirittura risibili, mentre, per contro, tende a giustificare, con la definizione di “simbolica e altamente spirituale”, la complessa religiosità politeistica orientale. Nel 1500 a.C. circa, le popolazioni dell’alto Iraq attuale hanno iniziato un processo di colonizzazione di altri territori: si definivano “gli Arii”, i puri, gli uomini veri, i nobili; erano un popolo di guerrieri affiancati da una casta sacerdotale molto potente. Spostandosi verso oriente sottomisero le popolazioni dravidiche contadine della valle dell’Indo, occupandone i territori e imponendo un sistema di caste (efficacemente sostenuto dalla dottrina del Karma) utile a mantenere in modo ferreo il loro potere. Avevano un pantheon molto ricco e le loro divinità vengono considerate dagli occidentali come testimonianze di una spiritualità profonda, capace di esprimersi attraverso simboli tanto antichi quanto misteriosi e affascinanti. Spostandosi verso occidente, le stesse genti giunsero a occupare la Grecia: si trattava dei popoli che noi conosciamo come “achei”, che avevano quegli dèi che, come detto prima, sono considerati nulla di più che bei miti, addirittura oggetto di possibile derisione.
Ebbene, i concetti possono essere ribaltati se si pensa che i famosi e antichi Veda sono il prodotto di una complessa elaborazione rituale, formalizzata proprio a partire da quello stesso periodo, e durata, nella sua prima fase, circa mille anni. È curioso inoltre sapere che il sanscrito vedico è molto simile alla lingua degli Achei e che le loro divinità sono addirittura le stesse: •
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la madre di tutti gli dèi greci, Rea, corrisponde alla madre di tutti gli dèi brahmanici, Aditi; ambedue hanno avuto un figlio, Zeus per i greci e Indra per gli indù, che ha mantenuto, nelle due teologie, le stesse caratteristiche; Zeus e Indra hanno sostenuto lotte di potere contro rivali molto potenti e simili nelle due mitologie, i Titani e gli Asura: dei veri anti-dèi che in tutti e due i casi sono stati sconfitti; il Varuna indù corrisponde all’Urano dei greci; Surya corrisponde ad Apollo; Cronos, il dio greco del tempo, corrisponde a Kala, il dio del tempo indiano (e a Zurvan, il dio del tempo iranico); i sanscriti Angiras, sacerdoti vedici dalle origini antichissime, erano mediatori tra uomini e dèi e il termine corrisponde al greco ángheloi, esseri aventi la funzione di collegare il mondo divino con quello umano; il Mahabarata, testo compilato tra il 400 a.C. e il 400 d.C., contiene l’epopea dell’India e racconta l’epica battaglia avvenuta intorno al 1100 a.C.; le caratteristiche della narrazione ricordano continuamente (compresa la datazione stimata per gli eventi) quelle dell’omerica Iliade, anche se il
Mahabarata è circa otto volte più lungo di Odissea e Iliade messe assieme; • tra gli dèi, infine, citiamo ancora Kama, che è uguale a Eros, il primogenito degli dèi, con il suo bravo arco e le sue cinque frecce d’oro capaci di far innamorare. A proposito, il Kamasutra (“le regole di Kama”, il manuale dell’amore) è stato elaborato in una società in cui le emozioni sessuali erano bloccate dal sistema rigido di matrimoni e necessitavano di una sorta di “sveglia”: non dunque un manuale per libertini, non una visione altamente simbolica e spirituale (forse lo è diventato coi secoli), ma un vero trattato di sessuologia utile per coppie annoiate e inattive. In tema di elaborazione dottrinale determinata dalle necessità contingenti, ricordiamo che uno dei più accreditati pensatori orientali moderni, il già citato Osho, sostiene che Cristo e Buddha hanno “inventato” le loro dottrine per rispondere a precise esigenze storico-sociali. Cristo doveva affrontare la triste situazione di genti povere e derelitte, che andavano in qualche modo risollevate con la promessa di un regno futuro in cui “gli ultimi sarebbero stati i primi”; Buddha, al contrario, aveva la necessità di garantire il superamento di una situazione di “noia esistenziale” in cui si trovavano le ricche classi sociali cui lui stesso apparteneva: doveva fornire un sistema per uscire da una situazione che si era fatta pesante e difficile da tollerare. Ma Osho non è il solo a formulare questo tipo d’ipotesi. Due dei più importanti orientalisti del Novecento (Heinrich Zimmer e Joseph Campbell,2 docenti, studiosi favorevoli alla divulgazione delle dottrine orientali in
Occidente) scrivono che l’esigenza della “liberazione” si è sviluppata nel mondo induista, una società che si sente alla mercé delle forze distruttive della morte (malattie, epidemie, guerra, tirannia e ingiustizie umane) e l’inevitabile vittima dell’inesorabile divenire del tempo (che divora gli individui, che spazza via lo splendore dei regni e delle città e che riduce anche le rovine in polvere).
E quindi non si può non pensare che questa sublime ricerca indiana del regno trascendente non sarebbe mai stata intrapresa se le condizioni di vita fossero state meno disperate […] la liberazione può diventare la massima preoccupazione soltanto quando la normale esistenza quotidiana non offre assolutamente nessuna speranza, lasciando soltanto doveri e obblighi e non promettendo compiti o scopi che stimolino e giustifichino ambizioni più elevate. La propensione indiana per la ricerca trascendente e la miseria della sua storia sono, di certo, intimamente collegate. La spietata filosofia della politica e i risultati sovrumani nella metafisica rappresentano i due lati di un’unica esperienza di vita.
Per confermare la necessità di storicizzare eventi e idee, bisogna tenere presente che la situazione socio-politica era particolarmente pesante al tempo del Buddha: nel VI e V secolo a.C. le strutture ariane si stavano sgretolando e venivano sostituite dal sistema persiano, caratterizzato da un dispotismo assoluto, garantito da un apparato poliziesco estremamente efficiente e spietato, che non si faceva scrupolo di usare ogni sistema, lecito e illecito, per mantenere il potere: esercito potente, spie, delatori, prostituzione, malavita… Non stupisce quindi il desiderio disperato di “liberazione” definitiva! La situazione sociale dell’India, poi, con il sistema delle caste cui Buddha intese ribellarsi, prevedeva un atteggiamento che comunque preludeva alle
dottrine che predicano l’annullamento individuale. L’individuo doveva innanzitutto, forse esclusivamente, preoccuparsi di trovare la propria identificazione nel ruolo sociale imposto dal suo stato; ogni espressione personale doveva essere annullata in favore del compito sociale cui doveva dedicarsi totalmente: l’appartenenza a un gruppo sociale prevedeva come condizione inevitabile il dissolvimento delle tensioni e aspirazioni individuali. La massima virtù era l’annullamento e l’identificazione dell’individuo nel ruolo che gli era socialmente affidato (semplificando, potremmo dire che di qui all’ideale dell’annullamento totale il passo non è più così lungo…). Nel Bhagavad Gita3 si afferma che è meglio svolgere male il proprio compito piuttosto che svolgere bene un compito altrui. Un’affermazione che documenta con grande efficacia la volontà di mantenere una rigida stratificazione sociale, caratterizzata da immobilità assoluta e dalla impossibilità, anche solo teorica, di fare qualcosa di diverso da ciò per cui si è stati in un qualche modo programmati. Anche qui torna quindi il concetto della storicizzazione, che abbiamo applicato alle prime fasi dell’evoluzione del pensiero cristiano in relazione all’idea della resurrezione della carne. Questa storicizzazione rende indubbiamente meno affascinanti, e dunque forse meno facilmente credibili, le dottrine cosiddette “antiche”, e perciò stesso degne di fede: ma l’uomo descritto nell’Introduzione, destinatario del presente libro, ha bisogno di fascino, magari illusorio, o di ricerca, magari più cruda ma potenzialmente liberatoria?
Parallelismi… Dicevamo che è facile attuare un parallelismo con quanto detto nella prima parte in merito all’evoluzione dell’idea della resurrezione che è venuta maturando nell’Antico e nel Nuovo Testamento in funzione delle esigenze storico-sociali che si andavano determinando: Ezechiele, Maccabei, libro della Sapienza, Paolo, la responsabilità individuale e la necessità di garantire la resurrezione anche ai morti in attesa del ritorno – mai avvenuto – di Cristo. Esigenze storiche, questioni socio-culturali che determinano l’insorgere di un’idea, di una dottrina, di una forma di pensiero che trova la soluzione attribuendola immancabilmente a “piani più alti”. I parallelismi tra le dottrine vediche e il pensiero occidentale presentano però altre curiosità: Ferecide di Siro, uno dei più antichi filosofi greci, sostenitore della metempsicosi, affermava – come le Upanishad, tradizione vedica, VIII secolo a.C. – che la luna è il contenitore del cibo dell’immortalità e che la luna, come per le Upanishad, è importante per il ciclo delle reincarnazioni: sulla luna vanno coloro che lasciano questo mondo perché la luna è la porta di passaggio per il mondo celeste. Lì gli uomini vengono sottoposti a una prova: chi la supera procede, mentre chi non la supera torna sulla Terra sotto forma di pioggia e rinasce in forme differenti.
BREVE DIGRESSIONE E
l’islam? Sia detto per inciso che anche l’islam non va esente da questo tipo di curiosa coincidenza storica: ad esempio, le sure coraniche che parlano del martirio e della sua desiderabile remunerazione nel paradiso sono state “ispirate”, non a caso, subito dopo la battaglia di Uhud, nella quale i seguaci di Maometto hanno subito una dura sconfitta da parte dei loro nemici meccani. Bisognava anche lì dare una risposta, spiegare che i morti non erano morti per nulla, che il loro sacrificio avrebbe avuto un riconoscimento. Insomma, nasce l’esigenza e immediatamente si crea la risposta: pare proprio che a tutte le latitudini gli uomini si sentano dire ciò che vogliono sentirsi dire. • Occidente e Oriente accomunati, quindi, da una metodologia simile? • Siamo autorizzati a liquidare come mito e favola ciò che proviene dal pensiero occidentale, e a definire invece “alta spiritualità” ciò che proviene dal pensiero orientale? Proseguiamo ora, elencando alcune delle considerazioni che appaiono evidenti nel momento in cui un individuo si rende conto di avere la necessità di scegliere una via per un’ipotetica salvezza o liberazione: il fine ultimo cui tendono sia la dottrina della resurrezione sia quella della reincarnazione.
1 Si veda l’Appendice 5. 2 Si veda il testo Filosofie e religioni dell’India, Mondadori, Milano 2001. 3 Si veda l’Appendice 4.
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La liberazione, le diverse liberazioni
Nel prosieguo della trattazione, i riferimenti al buddhismo saranno più numerosi in quanto questa dottrina si sta diffondendo maggiormente in Occidente e dunque desta in modo speciale l’interesse del pensatore che l’analizza come possibile via per la verità e, in secondo luogo, perché l’induismo ha avuto, a partire dalle fasi iniziali della sua formazione, una finalità più legata a obiettivi di tipo politico e sociale, e di controllo tecnico-magico della realtà. Al buddhismo verrà poi dedicato un capitolo a parte, in quanto una sua ipotetica comprensione richiede la conoscenza di dottrine buddhiste poco conosciute in Occidente: si tratta dei testi in lingua pāli che hanno preceduto di diversi secoli i testi in sanscrito (che sono stati invece alla base delle elaborazioni da cui deriva il buddhismo più diffuso attualmente). E qui le sorprese non mancheranno per l’uomo che ama pensare liberamente, senza timore di nuotare nel mare della relatività… La dottrina trascendente relativa alla reincarnazione, e che porta alla necessità
della liberazione dal ciclo delle rinascite, è considerata una sorta di “sapienza segreta” che fu introdotta nella tradizione brahmanica induista solo nel tardo periodo delle Upanishad (800-700 a.C.). La precedente conoscenza vedica (1500-1300 a.C.) sembrava non sapere nulla dell’idea della trasmigrazione, così come nulla sapeva della reincarnazione la dottrina avestica di Zoroastro, il primo e antico profeta indoeuropeo, originario di quegli stessi territori da cui partirono le migrazioni arie (1500-1200 a.C.) che occuparono da un lato la Grecia (achei) e dall’altro la valle dell’Indo, dando origine alla cultura indoariana. Per inciso, è bene ricordare che Zarathustra predicava la dottrina di un dio unico (diviso nei due principi del Bene e del Male) e l’unicità della vita umana individuale che terminava con un giudizio finale costituito dal metaforico attraversamento di un ponte: i malvagi sarebbero precipitati nell’abisso sottostante mentre i giusti ne avrebbero completato il passaggio per raggiungere l’atteso Pairidaeza, il Paradiso, il “Luogo recintato”, a loro riservato. L’idea della reincarnazione sembra appartenere quindi al pensiero non ariano, alla cultura dravidica contadina aborigena, a quei clan o tribù che si contrapposero alla cultura brahmanica.
Metempsicosi, reincarnazione, rinascita L’idea, così come è giunta sino a noi, pare essere il frutto di una complessa elaborazione: in Grecia si è giunti alla dottrina della metempsicosi contenuta nel pensiero orfico, pitagorico e platonico, mentre in Oriente si è elaborata l’idea della reincarnazione e della rinascita. Ricordiamo sempre che non bisogna semplificare ciò che semplice non è: bisogna notare come le varie definizioni si riferiscano a eventi diversi. •
La metempsicosi si è sviluppata in Grecia con l’idea stessa di anima. L’orfismo assegna all’uomo un’anima che, pura in origine, si è macchiata di una colpa: scopo dell’anima è quello di riconquistare l’antica purezza attraverso le pratiche misteriche di carattere sacramentale. Per compiere il suo percorso l’anima individuale, sempre uguale a se stessa, è costretta a vivere diverse esistenze nei vari mondi (animale, vegetale e anche minerale). Per Pitagora, invece, l’anima è un “frammento di etere” che si suddivide in intelligenza, ragione e impulso passionale: anche lui credeva nella metempsicosi anche se l’etere, il principio animatore per eccellenza, era considerato un elemento materiale e dunque la trasmigrazione riguardava per il filosofo un elemento materiale e non spirituale. Altrettanto materialistica pare essere la concezione di Platone e di Aristotele: una vera spiritualità sorgerà solo con lo stoicismo e il neoplatonismo che concepiranno, in modo sostanzialmente laico, il concetto di spirito. Ma con
Aristotele e la sua idea di anima viene meno la stessa idea di metempsicosi, in quanto l’anima è la “forma” del corpo e dunque con esso muore. • La reincarnazione è un concetto specificamente brahmanico: prevede l’esistenza dell’Atman, un Sé sostanziale e permanente che è parte dell’Atman universale ed è in grado di trovare diversi veicoli per proseguire nel suo processo di purificazione. • La rinascita pare essere un concetto applicabile quasi esclusivamente al buddhismo, il quale non prevede un’essenza che rimane uguale a se stessa e che passa da una vita all’altra: c’è una sorta di sostanza sottile, il principio cosciente, il vijana, che sostituisce l’Atman; esso è legato a un particolare individuo e, carico di Karma, si proietta in una vita nuova come centro di aggregazione per una successiva esistenza. Dunque non c’è un’essenza che trasmigra, ma un principio che torna a nascere. Questo concetto si pone dunque in contraddizione con quello brahmanico dell’Atman.
L’universo e l’uomo Le differenze all’interno del pensiero orientale, però, non finiscono qui, perché le stesse concezioni dell’universo e dell’uomo presentano diversità sostanziali. Le scuole di origine non vedico-ariana (giainismo, yoga, sankya) hanno una visione assolutamente dualistica dell’uomo e del cosmo, che sono descritti come costituiti da due principi, materiale e spirituale, nettamente distinti, mentre i Veda partono da una visione monistica.
Le contraddizioni non sfuggirono nemmeno ai pensatori del tempo che avvertirono la necessità di superarle tentando una sintesi: di qui prese l’avvio la particolare elaborazione del pensiero che sarà poi contenuto nel Bhagavad Gita1 (200 a.C. circa). Questo testo però rispecchia chiaramente la confusione e l’incertezza là dove afferma che «la dottrina è molto difficile da comprendere» e soprattutto: il principio più profondo della natura umana è immanifesto, impensabile, immutabile […]. Alcuni guardano a questo Sé come a una meraviglia, altri ne parlano come di una meraviglia, altri ancora ne sentono parlare come di una meraviglia. Tuttavia dopo aver ascoltato e appreso nessuno sa veramente che cosa sia.
Nella tradizione comune si sostiene che il buddhismo (testi sanscriti) attribuisce alla mente la responsabilità dell’attaccamento al mondo illusorio (maya) e dunque la responsabilità dell’incatenamento al ciclo delle rinascite; per contro, nel mito induista-brahmanico della creazione (900-600 a.C.), la volontà di vivere appartiene all’essenza stessa degli uomini. Lo stesso impulso a esistere e a creare apparteneva addirittura al dio Prajapati, il “Signore delle creature”, la personificazione di tutto ciò che è e della stessa forza vitale che desidera continuamente generare mondi viventi. Pare quindi essere proprio la mente la parte di noi che si rende consapevole di tutto questo: la mente comprende che la liberazione è bloccata da queste propensioni involontarie che spesso sono ereditate da vite precedenti. Il saggio deve quindi annientare queste propensioni attraverso la pratica ascetica, l’apprendimento dell’insegnamento sacro e la sottomissione alla grazia e alla volontà divina.
Induismo e buddhismo inconciliabili Si coglie già qui un contrasto di difficile composizione tra induismo e buddhismo, ma le difficoltà che s’incontrano nel tentativo di comprendere il pensiero orientale come un insieme unitario vanno oltre: si vedrà infatti più avanti che i testi buddhisti in lingua pāli contengono affermazioni diverse da quelle normalmente attribuite a Buddha. Il Buddha si è posto in aperta e dichiarata rottura con le dottrine vediche. Il brahmanesimo sostiene infatti la tesi dell’esistenza dell’Atman, un Sé sostanziale e permanente; il buddhismo nega questa esistenza ed esprime il concetto centrale fondamentale dell’Anatman, il non-Sé, l’Anatta o il Vuoto, Sunya. • Ma allora: che cosa si reincarna? • Che cosa si mantiene unitario al punto tale da passare in un’altra esperienza? La risposta appare intuitiva: nulla. La risposta che normalmente si dà invece a questa domanda è che dopo la morte rimane un substrato, costituito dall’ultimo pensiero, che diventa una sorta di centro di cristallizzazione attorno a cui si formano nuovi stati mentali che determinano la nuova esistenza. In sostanza, dicono coloro che hanno tentato di risolvere la contraddizione, «è l’ultimo pensiero quello che determina la natura della successiva rinascita». Come può non venire in mente la tanto derisa e condannata tesi della Chiesa cattolica che richiama la necessità del pentimento in punto di morte come
garanzia sufficiente per la salvezza eterna! La vita del cristiano e del buddhista dovrebbe dunque essere caratterizzata da una specie di “allenamento” per giungere a concepire il pensiero giusto nel momento del trapasso? Così pare sostenere il Libro tibetano dei morti.
Esperienze “altre”… La mente dunque pone al libero pensatore questioni di difficile superamento e allora, consapevoli di ciò, molti fedeli seguaci delle dottrine orientali affermano spesso che, per conseguire la verità, è necessario accantonare il normale processo di conoscenza mentale per dedicarsi esclusivamente alla sperimentazione, al momento emozionale in cui noi “proviamo” la sensazione di unità con il tutto. • Ma così facendo che cosa succede? • Siamo sicuri di non ingannarci? La domanda che ci si pone è la seguente: se sono uno yogi che crede nell’esistenza fondamentale dell’Atman brahmanico, io proverò (crederò di provare, m’illuderò di provare) l’unione del mio Sé (Atman individuale della cui esistenza sono certo) con l’Atman universale. Se invece sono un buddhista, in quel momento proverò (crederò di provare, m’illuderò di provare) l’annullamento del mio Anatman (non-sé) nel Nulla universale. Chi dei due si è ingannato? Perché pare certo che, se esiste l’Atman, non è vera la dottrina dell’Anatman, e viceversa. Ancora più inestricabile si fa la situazione se, nell’elenco delle possibili contraddittorie esperienze, si inseriscono anche le visioni mistiche cristiane: Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Teresa di Lisieux, Ildegarda di Bingen…
le cui evidenze esperimentali sono ancora diverse e assolutamente inconciliabili con le precedenti. Tutto questo induce a ritenere che forse, in fondo, ognuno di noi prova ciò che ha piacere di provare : il maestro yogi narrerà al discepolo la sua esperienza dell’Atman, il maestro buddhista invece la sua illuminazione derivante dall’avere sperimentato l’esatto opposto, e il mistico cristiano sperimenterà l’incontro con il suo dio personale… Un ulteriore esempio di possibile condizionamento è il seguente: Vivekananda (uno dei massimi esponenti della via della conoscenza per giungere alla liberazione) era discepolo di Ramakrishna che, come dice il nome, si riteneva incarnazione di Rama e di Krishna: ebbene, questo grande mistico indù, dopo aver incontrato il cristianesimo (e solo dopo) si riconosce anche come avatar (“incarnazione”) di Cristo. Non ne aveva mai avuto consapevolezza prima che i missionari cristiani portassero il vangelo in quei territori?
La salvezza Nei secoli XIII e XIV d.C., all’interno del pensiero buddhista si dibatteva una questione fondamentale: la salvezza (liberazione dal ciclo delle rinascite) deriva dalle azioni compiute dall’uomo o esclusivamente dall’intervento misericordioso del Buddha? Erano numerosi i sostenitori dell’una e dell’altra tesi. La salvezza sta nel comportamento quotidiano o nell’invocazione ininterrotta del nome di Buddha? Quest’ultima affermazione, a sua volta, è ancora diversa da quella precedente che postula l’intervento misericordioso del Buddha. Come si comprende, tutte queste diversità non si riducono a semplici questioni di lana caprina: dalla risposta che si dà derivano scelte di vita notevolmente diverse. Curiosamente, queste dispute hanno preceduto di alcuni decenni diatribe simili sviluppatesi all’interno del cristianesimo: Lutero, Calvino, Giansenio, ecc. affrontavano la questione da punti di vista simili: la salvezza deriva dalle opere o dalla fede che è dono imperscrutabile della misericordia divina? Ancora una volta la storia si ripete: Occidente e Oriente vivono esperienze simili. La questione relativa agli strumenti utili a sottrarsi all’inesorabile legge delle rinascite è invece decisamente più complessa. Alcune vie per conseguire la liberazione, completamente diverse, sono indicate dallo stesso Krishna nel Bhagavad Gita:
Alcuni [si liberano] con la meditazione, altri con la visualizzazione interiore, altri ancora con lo yoga del Sankhya, altri con lo yoga dell’azione disinteressata, e quelli che non conoscono queste vie [si salvano] venerandomi secondo la tradizione orale ortodossa che hanno appreso e anche questi, benché siano devoti esclusivamente alla rivelazione comunicata dal Veda [!!?], superano la morte.
Altre dottrine sostengono che la liberazione può avvenire con l’aiuto delle divinità (ma si sa che in Oriente le divinità sono considerate il frutto della pura proiezione illusoria della mente umana e allora: come può un’illusione intervenire per aiutare?). Altre ancora pongono la possibilità della salvezza nell’intervento misericordioso di Amitabha (un famoso Bodhisattva) che può distruggere con il suo intervento il meccanismo del Karma. Alcune infine vedono la salvezza nella conoscenza esoterica, che produce un immediato passaggio dalla sfera fenomenica alla sfera della luce. Nel turbinio incontrollabile delle onde che increspano il mare della relatività, il libero pensatore prosegue sereno.
Il Libro tibetano dei morti Il discorso appena fatto, però, avviene dimenticando l’indicazione fondamentale del Libro tibetano dei morti, d’ispirazione buddhista, che pone la garanzia di salvezza nella capacità (acquisita con lunga pratica) di riconoscere, dopo la morte e con un atto immediato e unico, la luce che porta la salvezza. La dottrina contenuta in questo testo rappresenta la sintesi di vari orientamenti maturati in epoche diverse all’interno del pensiero buddhista. In sostanza si dice che, al momento della morte, ogni individuo si trova di fronte a più vie, o “matrici”, che possono portare al definitivo dissolvimento della creatura (la sorte desiderata e riservata degli Eletti), alla rinascita nel paradiso o al reinserimento nel ciclo delle rinascite materiali. Ma che cos’è che rinasce? I buddhisti tibetani non concepiscono ovviamente l’esistenza dell’anima, pongono al suo posto una specie di sintesi del nostro essere psicofisico che si può definire “Pensiero”: una sostanza materiale, molto rarefatta, capace di muoversi e agire a distanza. Questo Pensiero poggia sul respiro e, al momento della morte, quando il respiro viene meno, il Pensiero si trova in una situazione di grande rischio entrando nello stato di esistenza intermedia (bardo). Di qui, sostanzialmente, si può raggiungere il Nirvana o ricadere nel Samsara, il ciclo delle rinascite. In questo stato intermedio il Pensiero viene colpito da una veloce e nutrita serie d’immagini prodotte dal Karma. Tra queste immagini il defunto deve saper
riconoscere la luce che rappresenta le vibrazioni della coscienza essenziale: la matrice giusta capace di garantire da sola la salvezza, la liberazione definitiva. Tutto il processo durerebbe quarantanove giorni, al termine dei quali chi ha saputo cogliere l’elemento liberatorio è salvo, gli altri ricadono nel mondo materiale di maya, l’illusione, e ricominciano una nuova vita. In sostanza la salvezza dipende tutta da quel particolare momento in cui si realizza la folgorazione: in un solo istante uno diventa “un Buddha perfetto”. Certo bisogna passare la vita ad allenarsi per saper cogliere l’attimo: ma siamo sicuri che… ne valga la pena? La dottrina qui schematizzata ha generato numerose discussioni, in quanto i vari maestri buddhisti che se ne sono occupati hanno formulato diverse teorie e hanno espresso opinioni anche fortemente discordanti, a partire dalla durata del periodo in poi: alcune scuole negavano addirittura l’esistenza del periodo intermedio mentre altre lo prevedevano solo per alcune categorie di esseri viventi (per citare solo alcune delle varie opinioni…). Dal momento che si è parlato della necessità di storicizzare, è forse importante sapere che il Libro tibetano dei morti deve essere stato prodotto e nascosto in Tibet intorno alla fine del 700 d.C., mentre in Occidente regnavano i re franchi della dinastia merovingia, ma già stavano per essere sostituiti dai carolingi, e i saraceni compivano le loro incursioni in Europa. A nascondere il testo sarebbe stato un taumaturgo, negromante, di nome Padmasambhava, che fu il creatore della “Chiesa nazionale” buddhista tibetana: il buddhismo diventava religione di stato in un momento in cui il Tibet, sconfiggendo i cinesi e occupando diversi territori,
diveniva una potenza egemone nell’Asia centrale e il monachesimo buddhista s’imponeva come la casta sociale predominante (e tale rimase fino all’invasione cinese degli anni Cinquanta del secolo scorso).
Riflessioni conclusive Fin qui le dottrine contenute nel testo che per molti è divenuto “la Bibbia” del buddhismo diffuso in Occidente. Il “desiderio di ricerca liberatoria” che motiva il lettore, però, sente la necessità di proseguire il cammino per conoscere che cosa dicono in merito i testi più antichi del buddhismo, quelli redatti in lingua pāli, a Sri Lanka, tra il I e il II secolo della nostra era. Va rilevato che, essendo i più antichi, sono quelli che hanno la maggiore probabilità di essere stati meno manipolati, meno arricchiti e trasformati da secoli di pensiero, di integrazioni, cancellature, omissioni, variazioni, riformulazioni, insomma, da tutti quegli interventi che caratterizzano inevitabilmente la storia di ogni “testo sacro” dell’umanità. Nella tradizione ebraica, anche i masoreti, i custodi della tradizione, a un certo momento hanno avvertito la necessità di mettere un punto fermo all’elaborazione delle scritture e, tra il VII e il IX secolo d.C., hanno provveduto a cristallizzare l’Antico Testamento, rendendone impossibile ogni successiva manipolazione.
1 Si veda l’Appendice 4.
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Storia del buddhismo pāli1
Vale la pena ora di affrontare un argomento che aiuta a fare ulteriore luce sulle tante possibili “verità” contenute in queste dottrine, così come abbiamo fatto per le tante possibili visioni della resurrezione nella tradizione ebraico-cristiana. Diversi studiosi stanno procedendo all’analisi dei più antichi codici buddhisti redatti in lingua pāli: questa operazione ha indubbiamente una valenza di ordine culturale (come tutto ciò che è stato elaborato e presentato in Occidente negli ultimi decenni come proveniente dall’Oriente) ma rappresenta anche uno strumento utile per un’efficace applicazione quotidiana, anche alla luce d’innegabili parallelismi con le dottrine religiose alle quali noi occidentali siamo stati educati. Conoscere quindi ciò che il Buddha ha forse veramente inteso dire per coglierne gli aspetti utili a migliorare la nostra quotidianità.
Gautama Siddharta Come abbiamo fatto per l’apostolo Paolo, alcuni brevi cenni biografici alla vita di Gautama Siddharta sono indispensabili per inquadrare la dottrina stessa, così come si presenta nei codici pāli. Compito non facile, perché le testimonianze storiche circa la sua vita sono scarse né le date sono verificabili: in questa mancanza di certezze risulta arduo distinguere gli elementi leggendari dalla realtà (il compito è reso difficile anche dal fatto che gran parte delle fonti storiche è posteriore di almeno duecento anni rispetto agli eventi narrati e lo stesso concetto di “storia” che sta alla base delle cronache orientali non conosce il rigore al quale è abituata la nostra mentalità occidentale, che cerca e richiede sempre riscontri precisi e obiettivi). Se ci si attiene ai riferimenti cronologici della dinastia indiana dei Maurya, la nascita potrebbe collocarsi nel 565 a.C. Nasce da famiglia benestante, è figlio di un governatore locale e di una principessa. Il racconto della sua nascita è accompagnato e arricchito da leggende che hanno l’obiettivo di creare una cornice di straordinarietà attorno all’evento. Si tratta ovviamente di storie che non hanno riscontri e che sono simili a quelle che, in tutte le religioni, annunciano eventi attinenti alla sfera del divino o dello spirituale. Dotato di una precoce tendenza contemplativa, si sposa giovane, all’età di sedici anni, con una cugina da cui ha un figlio. Sin da piccolo era stato allevato ed educato in un ambiente protetto: i genitori desideravano evitargli esperienze negative, per cui lo tennero lontano da ogni contatto con malattia, miseria e morte.
Ma questa sorta di “protezione” non poteva proseguire per tutta la vita e il giovane Gautama ebbe un giorno quelle che sono tradizionalmente chiamate “le quattro visioni”: incontrò un anziano indebolito dall’età, un ammalato, un cadavere e un eremita che appariva sereno e calmo. Le prime tre rappresentavano nel loro insieme la triste realtà della vita condizionata dal dolore; gli fecero comprendere che la sofferenza coinvolge tutta l’umanità e che i valori materiali che gli avevano insegnato a corte erano effimeri e caduchi. La quarta visone era invece il segno della possibilità di un riscatto, di un superamento, di una liberazione. Quindi, all’età di 29 anni, sposato da 13, decise di abbandonare tutto ciò che possedeva per dedicarsi alla ricerca della via che portasse alla salvezza, alla liberazione dalla schiavitù del dolore che pareva condizionare inesorabilmente la vita umana. È necessario precisare subito che l’abbandono della famiglia era una pratica consigliata dalla stessa tradizione dominante; l’induismo infatti sosteneva che chi desiderava conseguire la perfezione doveva organizzare la vita secondo un percorso ben definito: studiare da celibe, sposarsi e poi divenire un eremita (alla moglie e ai figli avrebbe pensato poi il resto della famiglia). Dopo aver vagabondato nella regione di Rajagaha, si pose sotto la guida di Alara Kalama e Uddaka Ramaputta, due famosi maestri yoga che gli insegnarono le tecniche di meditazione. Va detto che per il Buddha la meditazione non doveva servire a vivere esperienze effimere, piacevoli e soggettivamente gratificanti, ma a cogliere la
vera essenza della vita: e si vedrà nel prosieguo che questo aspetto presenta caratteristiche decisamente diverse da quelle che comunemente vengono credute vere in Occidente, soprattutto in relazione alla necessità del cosiddetto annullamento dell’io e alla pratica della “meditazione di consapevolezza”. Successivamente si stabilì presso Uruvela, dove trascorse quasi sei anni da asceta, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica – Kondanna, Bhaddiya, Vappa, Mahanama e Assaji – con i quali la sua ricerca si concretizzò in un’esperienza di vita estremamente rigida, caratterizzata da una disciplina durissima, nella convinzione che la liberazione potesse dipendere esclusivamente da una rinuncia totale. Con loro Gautama si nutrì solo di foglie e radici e diminuì costantemente la quantità di cibo assunto, fino a ridurre il suo corpo, come egli stesso raccontò, a essere simile a canne secche e sbattute dal vento: rischiò insomma di morire. A un certo punto si rese conto che tali pratiche erano assolutamente inutili ai fini della sua liberazione e le abbandonò. Questo suo periodo di ricerca attraverso lo yoga e l’ascesi durò circa sei anni e determinò una sorta di evoluzione costante nelle sue convinzioni, caratterizzate da una grande determinazione e da una notevole autonomia nei confronti di quella tradizione induista nella quale era stato educato. Autonomia che lo portò a rifiutare la dottrina della reincarnazione e a sostenere la necessità di abolire il sistema delle caste. In questa sua totale indipendenza, egli arrivò quindi a rifiutare quella pratica ascetica e si avviò lungo un percorso che definì la “Via media”: un cammino che
si poneva a metà strada tra l’eccessiva autoindulgenza e l’eccessiva autopunizione. Proseguì in solitudine, senza più avvalersi di maestri, sempre alla ricerca del modo utile a conseguire la salvezza/liberazione. All’età di 35 anni, a Bodh Gaya, dopo settimane di profondo raccoglimento, in una notte di luna piena del mese di maggio, sotto un albero di fico, conseguì l’illuminazione: il Nirvana. Ebbe la conoscenza delle Quattro nobili verità e dell’Ottuplice sentiero: visse cioè quella Grande esperienza che lo avrebbe liberato per sempre dal ciclo delle rinascite. Rifletté sulla condizione umana, sulla sofferenza, sulle cause che la determinano e sulle possibilità di superarla. Scoprì così quella che lui ritenne la vera essenza del dolore umano, la sua origine e i modi per liberarsene: ed è proprio questa scoperta che viene comunemente definita “illuminazione” (da cui il termine Buddha, che significa appunto “illuminato”). Nel prosieguo si comprenderà come questa “illuminazione” costituisca la situazione in cui si trova chi è in grado di osservare la vita in modo realistico grazie a un totale potere di controllo conseguito dalla mente che prende possesso della vera individualità, matura e compiuta nella sua evoluzione. Come si legge nel Majjhima Nikaya,2 egli espresse questa esperienza affermando di avere raggiunto il Nirvana – cioè la conoscenza, la visione e la liberazione definitiva – dopo aver preso coscienza del suo essere soggetto a nascita, invecchiamento, malattia, morte, dolore e corruzione e aver avviato la ricerca di ciò che non nasce, non invecchia, non muore, non soffre e non si corrompe.
Diciamo subito che quando si affronterà la dottrina del Nirvana si avranno piacevoli sorprese circa il suo possibile vero significato e la sua concreta valenza nella vita presente. Conseguita la liberazione, ritenne di doversi dedicare alla predicazione al fine di aiutare gli altri uomini; tornò innanzitutto dai cinque asceti, li convinse della bontà della sua dottrina, fondò monasteri e diffuse la pratica della “Via media” invitando colui che si è ritirato dal mondo a non avvicinarsi agli estremi opposti rappresentati dalla lussuria e dalla mortificazione ascetica; perché chi si è ritirato dal mondo deve seguire la Via media, cioè l’Ottuplice sentiero (Vinaya Pitaka 3) che sarà descritto più avanti. Buddha percorse per diversi decenni gran parte del Nord dell’India insegnando con notevole successo, favorito anche dalla nobile nascita: le sue origini, infatti, gli garantirono l’aiuto di notabili, ricchi e potenti che furono molto generosi con lui. Egli esortò dunque i monaci a predicare la dottrina della Via media. I suoi seguaci erano invitati a viaggiare e praticare la compassione per aiutare gli uomini, e il mondo intero, a conseguire il benessere e la felicità, intesi come risultato di dedizione, autodisciplina e lucidità mentale. Infine, nel 525 a.C., si stabilì a Savatti in un monastero che gli era stato donato da un suo ricco seguace. La sua attività di guida spirituale non fu comunque del tutto esente da problemi: tra i suoi discepoli ci furono divisioni e scismi, prima e dopo la sua morte; la sua predicazione venne fortemente contrastata dai brahmani, che cercavano di frenare la diffusione delle sue dottrine; rischiò anche di essere
assassinato. Secondo la tradizione più accreditata, morì a Kusinagara nel 486 a.C., circondato dall’affetto dei suoi più intimi discepoli, tra i quali Ananda, indubbiamente il prediletto, al quale lasciò le sue ultime disposizioni.
Predicazione e dottrina Si è detto dell’azione missionaria cui Buddha diede grande importanza, perché riteneva che la persona definitivamente liberata dovesse possedere quattro caratteristiche fondamentali, costituite da stati mentali detti “sentimenti infiniti o incommensurabili”, apraman . a e brahmavihara, cioè “dimore divine”: 1. benevolenza universale o gentilezza amorevole; 2. compassione; 3. mitezza d’animo e capacità di provare gioia compartecipe; 4. equanimità (l’attitudine mentale fondamentale che dà stabilità e fondamento alle altre tre). Queste caratteristiche dovevano essere quindi predicate e diffuse capillarmente con assoluta determinazione. Va detto, tuttavia, che si tratta di quattro virtù comuni anche ad altre correnti religiose indiane. Egli formulò la sua dottrina, in modo sostanzialmente compiuto, nel cosiddetto “Sermone delle Quattro nobili verità” in cui sostenne che la causa del dolore è
rappresentata dal desiderio smodato, quello che soggiace all’avidità, ai piaceri dei sensi, all’attaccamento all’esistenza individuale e anche alla non-esistenza. Ne consegue che la Nobile verità sulla fine del dolore esprime e contiene la completa rinuncia, il distacco (Vinaya Pitaka). La via che conduce alla cessazione del dolore è il Nobile ottuplice sentiero,4 costituito da otto atteggiamenti correlati in stretta e conseguente successione: Retta visione, Retto pensare, Retto parlare, Retto agire, Retto modo di sostentarsi, Retto sforzo, Retta concentrazione, Retta meditazione. L a liberazione definitiva della mente deriva quindi dalla capacità di comprendere e attuare queste otto indicazioni. Tutto il “Sermone delle Quattro nobili verità” costituisce una dimostrazione logica, sistematica e razionalmente argomentata, del fatto che l’Ottuplice sentiero rappresenta il percorso più utile per gli uomini e la sua utilità si concretizza ed esprime compiutamente in questa vita, che probabilmente è anche l’unica. Buddha pone a sostegno di questa convinzione la sua esperienza personale: l’Ottuplice sentiero, elaborato razionalmente e seguito con fredda determinazione, si è dimostrato assolutamente efficace; la Via media è stata la pratica che lo ha portato a sperimentare quella pace e quella serenità che prima gli erano sconosciute.
BREVE DIGRESSIONE
Buddhismo come terapia? Data l’impostazione assolutamente logico-razionale dell’intera elaborazione e formulazione della dottrina, è stato addirittura riscontrato un curioso parallelismo con la successione dei normali processi terapeutici, facendo corrispondere le quattro affermazioni rispettivamente alla diagnosi (la vita è dolore), alla eziologia (causa del dolore è il desiderio), al processo di guarigione (annullamento del desiderio) e, infine, all’indicazione terapeutica (Ottuplice sentiero). Il fondamento delle affermazioni del Buddha pare dunque essere questo: lo scopo di una religione, o sistema di pensiero filosofico-religioso, è quello di liberare gli esseri umani dalla sofferenza, in particolare dalla sofferenza interiore. Per inciso dobbiamo dire che anche il Dalai Lama sostiene che le religioni sono nate nella storia dell’uomo per dare risposte alle angosce fondamentali ed è anche per non aggiungere angoscia ad angoscia che, dice sempre il Dalai Lama, ciascuno dovrebbe tendenzialmente rimanere nell’ambito della religione in cui è nato e cresciuto. La dottrina della Via media rappresentò una vera rivoluzione per il tempo in cui venne formulata; metteva in discussione secoli di certezze consolidate e ritenute incontestabili: la via ascetica era tradizionalmente considerata lo strumento principale per il conseguimento della liberazione e anche oggi le forme più popolari di buddhismo (in Occidente e in Oriente) pensano spesso che solo un
profondo ascetismo possa determinare il risultato. Buddha considerava invece l’ascetismo un elemento addirittura estraneo agli scopi della religione: infatti non lo incluse nell’Ottuplice sentiero. Secondo Buddha dunque il monachesimo rappresentava una scelta di vita separata dalla normale vita familiare, ma non un sistema per imporsi delle torture inutili e dannose: egli riteneva che anche i laici potevano essere suoi discepoli e conseguire la liberazione. Questo è un elemento importante: l’ascetismo era (ed è ancora) una delle forme esteriori della manifestazione del sentimento religioso; per Buddha invece la religione aveva una stretta relazione con la mente. Lo scopo concreto della religione era la liberazione dal dolore, inteso nel suo aspetto mentale. Il resto rappresentava un orpello inutile; per lui non aveva alcuna importanza l’abito dei monaci (li lasciava liberi addirittura di vestirsi con abiti laici, come d’altra parte faceva anche egli). Buddha era inoltre assolutamente indifferente a ogni forma di espressione di culto, di cerimonie e di adorazione della divinità.
La Prima nobile verità L’aspetto fondamentale di tutta la dottrina è dunque il seguente: ciò da cui è necessario liberarsi non è il dolore in sé ma l’atteggiamento psicologico che trasforma il dolore in sofferenza. Gli effetti di ogni malattia possono variare a seconda dell’atteggiamento mentale con cui la si affronta, perché la sofferenza deriva da ciò che noi pensiamo. Egli affermava che il dolore proviene dall’abitudine-necessità umana di essere uniti anche a ciò che non si ama o di separarsi da ciò che si ama, e che il dolore proviene dalla nostra incapacità o impossibilità di raggiungere ciò che desideriamo. Con questo intendeva dichiarare che l’origine del dolore è da ricercare soprattutto nei sentimenti di amore e odio, in una parola, nelle emozioni (e si vedranno nel prosieguo le implicazioni di questa considerazione negativa delle emozioni in relazione alla determinazione dell’io e del conseguimento del Nirvana). I sentimenti sono radicati nell’animo umano e rendono quindi inevitabile l’esperienza del dolore: una presa di coscienza razionale di questa realtà (illuminazione) è il primo passo verso il suo superamento. In lingua pāli viene riportata l’espressione panca upadanakkanda, che indica letteralmente i “cinque aggregati della bramosia”5 e corrisponde a ciò che invece, nel buddhismo popolarmente conosciuto, viene normalmente definito come
“esistenza individuale effimera”. Ma Buddha scende ancora più in profondità nell’analisi delle cause del dolore. Egli sostiene che la bramosia (origine del dolore) può assumere tre forme: 1. bramosia per il piacere dei sensi; 2. bramosia per l’esistenza individuale; 3. bramosia per la non-esistenza. La prima forma è la più evidente e si esprime soprattutto in relazione alle due pulsioni fondamentali dell’uomo: il desiderio di nutrirsi e la spinta a riprodursi; cibo e sesso dunque. Spesso la bramosia supera il reale bisogno ed è proprio in questi ambiti che è necessario porre attenzione al fine di adottare un comportamento equilibrato, privo di eccessi, sia in un senso che nell’altro, bisogna evitare il troppo e il troppo poco: bisogna percorrere la Via media, appunto. Più difficile è interpretare la seconda forma di bramosia, quella che Buddha definisce (così almeno sostengono i codici in lingua pāli) bhava thana. Nella filosofia occidentale e nella tradizione corrente, questa espressione viene indicata come “stato di bramosia per l’esistenza” (bhava). In realtà, dicono gli specialisti, il termine indica l’aspetto mentale di questo atteggiamento e, in particolare, si riferisce a uno stato patologico dell’esistenza caratterizzato dall’eccessiva tendenza al possesso della vita e del piacere. Per
questo motivo il termine bhava viene usato dal Buddha esclusivamente in relazione agli esseri dotati di sensi e di emozioni, e per questo la liberazione è un obbiettivo che deve essere conseguito solo da quegli esseri che sono soggetti alla cosiddetta “esistenza emotiva”. Più difficile ancora il terzo tipo di bramosia e non a caso è proprio quello che pare aver prodotto più equivoci nella diffusione di quello che potrebbe invece essere il vero messaggio del Buddha. Tradizionalmente (soprattutto in Occidente) il vaibhava thana viene indicato come stato di “forte desiderio di nonesistenza”, con tutte le conseguenti interpretazioni e analisi che ha comportato. Molto più semplicemente, il significato letterale del termine identifica la ricchezza, il senso esagerato della proprietà, la ricerca della prosperità materiale. In questo senso quindi Buddha si riferiva al desiderio smodato di accumulare beni materiali, dimenticando che la vera grandezza di una persona non risiede in ciò che ha ma in ciò che è. In sostanza, l’origine del dolore si trova, per Buddha, nei tre tipi fondamentali di bramosia: quella dei sensi, quella delle emozioni e quella del possesso materiale. Nel testo Itivuttaka6 si riporta che Buddha diceva che è solo la catena del desiderio smodato a costringere l’uomo a vagare e ad affannarsi inutilmente in una vita che è schiava delle emozioni. Questa particolare concezione dell’origine del dolore si lega in modo inscindibile al concetto stesso della conoscenza, dell’ignoranza e della necessità di porre i sensi sotto il dominio della ragione.
Buddha era nato e cresciuto all’interno della tradizione induista e gran parte delle sue conoscenze derivavano proprio da quel sistema di pensiero filosoficoreligioso. La dottrina del dolore come frutto della bramosia prende origine dal concetto che l’induismo aveva della struttura del processo conoscitivo, del suo formarsi nella mente umana. Questa visione dell’uomo sostiene che ogni individuo è formato da due realtà: la forma corporea (rupa), composta dai sensi, e la personalità propriamente detta (nama), che è determinata dal modo in cui agiscono i sensi. Il termine sanscrito nama-rupa significa “nome e forma” e sta a indicare il mondo terreno in cui si trovano effettivamente nomi e forme che si presentano con la consistenza di maya (“illusione”). Si tratta di un modo estremamente concreto di concepire l’intera esistenza umana, che risulta essere quindi definita attraverso l’esperienza personale dei sensi. Buddha riprende questo particolare modo di concepire l’intera vita, vista come una successione di esperienze concrete. Secondo questa dottrina, ogni uomo è formato da “Cinque aggregati”: forma corporea, sentimento, percezione, reazioni emotive e coscienza.7 Si tratta di un processo che opera attraverso una catena di cause collegate e la cui formulazione è stata definita “dottrina dell’Originazione dipendente”,8 cui Buddha stesso diede una grande importanza sostenendo che questa dottrina
contiene l’essenza del suo insegnamento. Secondo questa dottrina il dolore è il frutto di un processo mentale che opera all’interno degli individui e la cui radice è costituita dall’ignoranza, primo anello della catena causale. La successione delle cause prevede che l’ignoranza produca l’esistenza emotiva (la forma più bassa dell’esistenza) caratterizzata dal desiderio che genera, prima, la dipendenza, e poi tutto l’insieme degli elementi che producono la sofferenza. Questa è una sintesi estrema della dottrina, perché la successione espressa da Buddha è stata riportata in forme altamente complesse e poco comprensibili, al punto che, nei secoli passati, molti maestri buddhisti hanno avvertito il bisogno di organizzare l’esposizione di quanto contenuto nella formula completa. Di qui prende l’avvio uno dei possibili equivoci, anzi forse quello fondamentale: in questa operazione di sistematizzazione, infatti, molti hanno ritenuto che la complessa successione di cause ed effetti (molti dei quali ripetuti) potesse essere più facilmente comprensibile se riferita a diverse esistenze. Di qui l’idea della rinascita.
In sintesi… Per sintetizzare, diciamo che il significato della formulazione completa viene normalmente riassunto nella seguente affermazione: la bramosia è fonte di dolore e l’ignoranza (non conoscenza di se stessi) è causa della bramosia. Fino a che i sensi non vengano messi sotto lo stretto controllo della ragione
essi corrono alla ricerca di ciò che li soddisfa, creando desiderio e attaccamento. Infatti, quando Buddha parla della formazione di morte, vecchiaia, ecc., sostenendo che l’uomo può liberarsi da queste forme di sofferenza, non si riferisce alla loro realtà oggettiva inevitabile bensì allo stato emotivo che determinano, perché era ovvio anche per lui che nessuno può liberarsi dall’invecchiamento e dalla morte del corpo. Buddha insomma predicava la liberazione dall’angoscia mentale che è prodotta dall’esistenza emotiva, la quale si ripete e si riproduce costantemente, ma all’interno di una stessa vita e non come successione di vite. Possiamo quindi dire che la causa della sofferenza va ricercata nel fatto che l’umanità si comporta in modo emotivo, cercando la gratificazione dei sensi e determinando così una continua ricaduta negli stadi più bassi (emotivi) e angosciosi dell’esistenza (di questa esistenza, non di un ciclo di esistenze). La dottrina buddhista è quindi una teorizzazione del rapporto di causa-effetto visto dal punto di vista psicologico: il tutto trae origine dall’interno dell’uomo, dalla presenza o assenza di consapevolezza, cioè di conoscenza del reale funzionamento del nostro rapporto con la realtà. Per questo motivo egli sostiene che la liberazione sia possibile: non sono richieste penitenze, rituali, atti di fede, ma l’adozione di una vita “illuminata” intesa come vita adulta, controllata dalla ragione. Stiamo quindi procedendo lungo un percorso che evidenzia alcuni aspetti fondamentali del buddhismo: la totale mancanza d’interesse per ogni
speculazione metafisica, il totale disinteresse per l’esistenza di dèi, il totale distacco da ogni forma di religiosità esteriore, la non affermazione dell’esistenza d i leggi universali (vedremo meglio parlando del Karma e del Nirvana), l’attribuzione di capacità salvifiche alla soggettività individuale, la realizzazione della liberazione in una vita, quella presente per ciascuno di noi, intesa anche come l’unica.
BREVE DIGRESSIONE
Facciamo una digressione di carattere generale, utile per chiunque si avvia lungo un percorso di ricerca della verità e tanto più per chi sta esaminando “verità” relative alle “cose ultime”, a ciò che avviene dopo la morte. Ogni volta che ci si accinge allo studio dei cosiddetti “testi sacri”, quelli che si ritiene contengano le verità da cui dipendono spesso le scelte di vita di miliardi di uomini, ci si scontra sempre con le incertezze, le necessità d’interpretazione, le tradizioni che hanno elaborato per secoli le dottrine dei maestri… l’impossibilità insomma di sapere che cosa hanno veramente detto. Basti pensare che i contenuti dei vangeli canonici vengono costantemente messi in dubbio anche se la filologia e l’archeologia contemporanea hanno ormai appurato che ci troviamo di fronte a testi elaborati pochi decenni (in un caso forse addirittura meno
di due) dopo i fatti narrati. Per il buddhismo siamo di fronte a testi risalenti ad alcuni secoli dopo la morte di Gautama Siddharta e su questi ci tocca riflettere per scegliere se avviarci lungo il difficile percorso di sperimentazione che porterebbe i più determinati a scoprire che esistono il Karma, il Nirvana e il ciclo di rinascite. Di qui nascono le possibili sorprese, come quelle che troveremo parlando di Karma e Samsara.
La Seconda nobile verità Per riprendere il tema dopo la digressione, ricordiamo che la Seconda delle Quattro nobili verità recita che la causa del dolore risiede nel desiderio smodato per i piaceri dei sensi, nell’attaccamento spasmodico all’esistenza individuale e alla non-esistenza. Questa Seconda nobile verità, spiegata dall’Originazione dipendente, trova ulteriori approfondimenti nelle dottrine del Karma e del Samsara, le più diffuse e conosciute nel buddhismo popolare anche perché appartenevano già alla cultura induista preesistente. Va detto che i termini che le definiscono sono portatori di significati diversi. La parola karma è un termine sanscrito denotato da ben tre significati: innanzitutto significa, etimologicamente, “azione” e definisce, presso le filosofie orientali, l’azione volontaria vista in correlazione con il principio di causa ed effetto. Dipendendo dalla volontà, questa azione ha un qualche valore morale, buono o cattivo, che determina poi un premio o una punizione. In questo senso il buddhismo, per esempio, identifica dieci azioni negative: uccidere, rubare, tenere una cattiva condotta sessuale, mentire, calunniare, parlare in modo sconveniente, fare della maldicenza, essere accidiosi, odiare, ingannare. Il secondo significato del termine karma è quello di “legge”, norma che determina automaticamente il premio o la punizione per le azioni compiute. In virtù di questa legge universale il bene viene sempre premiato e il male sempre punito.
Quando viene compiuta un’azione non virtuosa, vengono depositati dei “semi” o “residui” (vasana); per contro un’azione virtuosa produce Karma positivo. Ne consegue che ogni manifestazione degli esseri dotati di sensi e di emozioni possiede una certa quantità di “semi del Karma”, che tengono i loro portatori legati al ciclo del Samsara fino a che non si esauriscono grazie alle pratiche che portano appunto alla liberazione. Il terzo significato (legato in modo particolare alla Seconda nobile verità del buddhismo) rimanda sempre al concetto di legge, ma la ritiene applicabile esclusivamente agli uomini che non si sono liberati e che quindi vivono ancora nel Samsara: individui che sono ancora schiavi del desiderio e delle emozioni. Questa legge del Karma non ha invece alcun potere su quegli uomini che si sono liberati (o si stanno liberando) dalla schiavitù delle emozioni e sono per questo vicini all’illuminazione. Questi individui non agiscono in termini di attesa per la ricompensa o di timore per la punizione; l’unica vera ricompensa che compete loro è la pace mentale che deriva dall’aver compiuto il proprio dovere (e non si possono qui non ricordare gli ebrei per i quali, in assenza di certezze sul dopo morte, dicono che la ricompensa dell’uomo giusto è quella… di “essere stato un uomo giusto” in questa vita!). L’unica legge che regola la vita di costoro è la legge del Dharma (“Rettitudine”). La liberazione dal dolore passa dunque attraverso la liberazione dalla bramosia: si esce così dalla sfera d’influenza del Karma e si entra appunto nel
Dharma. Quest’ultimo è un termine sanscrito che presso le filosofie orientali assume vari significati: legge, legge cosmica, legge naturale, oppure il modo in cui le cose sono. Secondo il Dharma tutte le azioni producono semi (positivi o negativi) e l’unico modo per ottenere la liberazione è vivere in armonia con l’Ordine universale. In questo modo si esce dal Samsara. Questo termine, a volte rappresentato con una ruota, indica il ciclo della vita, una sorta di vagabondare senza meta o ancora il fluttuare di un sughero trasportato dalle onde. Gli uomini che vi si trovano sono mossi dagli oggetti che producono piacere per i sensi e le loro vite ruotano continuamente attorno a questi; si legge nel testo Itivuttaka: «In verità, o monaci, gli esseri errano pieni di affanni nel corso dell’esistenza legati dalla catena della bramosia». Questo continuo ritorno determinato dal legame richiama immediatamente il concetto di rinascita. Nell’India il termine “rinascita”, o meglio “reincarnazione”, aveva un significato fisico, riferito perciò alle esistenze che potevano essere successivamente sperimentate, ma aveva anche un significato morale, e si riferiva alla successione di atteggiamenti corrotti che si presentano e ripresentano continuamente nella mente umana. Ma ancora una volta rileviamo che si tratta di un alternarsi di situazioni che si ripetono più volte nell’arco di un’unica vita. Per Buddha questa seconda interpretazione era quella autentica:9
Tutte le cose sono poste in ordine dalla mente. Se l’uomo parla e agisce con mente impura, il dolore lo segue come la ruota del carro segue il piede del bue che lo traina. Se l’uomo parla e agisce con mente pura, la gioia lo segue come l’ombra che non si stacca mai da lui.
Nonostante questo continuo richiamo alla realtà dei fatti, che evidenzia come il ciclo di cadute e risalite appartenga sempre e soltanto alla vita presente, l’idea della rinascita fisica è però molto diffusa nel buddhismo popolare. Questo si spiega innanzitutto grazie ai numerosi racconti che vengono attribuiti al Buddha, nei quali si fa riferimento a un’effettiva rinascita fisica: il libro delle storie di Jataka contiene proprio affermazioni in tal senso e le 550 storie che vi si raccontano hanno fatto sì che venissero attribuite al Buddha stesso… 550 rinascite! La diffusione di questo concetto, però, è spiegata anche dal fatto che l’idea di rinascita (non necessariamente in forma umana) era fortemente radicata in tutta la cultura induista, in quanto era capace di dare risposta a tre domande fondamentali: 1. Perché gli esseri umani soffrono e alcuni soffrono più di altri? La risposta era: a causa delle vite precedenti, in quanto molto spesso non è possibile trovare una causa evidente nella vita attuale dell’essere che soffre (si pensi ai bimbi). 2.
Perché si deve fare il bene ed evitare il male? (Domanda motivata
dall’evidenza che molto spesso mostra come il male sia in realtà premiante: concetto già esaminato anche nella prima parte del libro). La risposta era: la ricompensa sarà fornita in una vita futura, perché è chiaro a tutti che spesso in questa vita non vi è la tanto attesa retribuzione nei confronti della malvagità. 3.
È possibile per l’essere umano raggiungere la perfezione? (Un desiderio presente nell’animo umano che vede spesso disattese le sue aspettative).
La risposta era: il processo di perfezionamento richiede un tempo che supera la durata di una singola vita, perché, a dispetto degli sforzi e dell’impegno, quasi mai la perfezione desiderata viene conseguita nella vita attuale.
Più vite o una sola vita? Buddha affrontò le stesse tematiche, ma intese dare una risposta che fosse compatibile con l’esistenza di una sola vita; la sua visuale non teneva conto di esperienze che precedessero la nascita o seguissero la morte dell’individuo. Egli ovviamente aveva un grande rispetto per ciò che il popolo credeva vero e fu quindi attento a non distruggere secoli di tradizione, ma fu molto chiaro nella esposizione della sua dottrina. Le azioni agiscono già (e solo) in questa vita. Si legge nel Dhammapada:
Non per casta o per nascita si diventa bramini. Chi che è veritiero ed equo può diventare bramino.
E nel Majjhima Nikaya: A causa di ciò che si fa si può divenire brahmino, a causa di ciò che si fa si può divenire non brahmino. A causa delle azioni compiute si può diventare ladro, soldato o consigliere del re.
Egli riteneva che il problema di vite precedenti o future appartenesse solo a persone prive d’illuminazione e d’istruzione e che fosse addirittura un ostacolo sul percorso della liberazione. Sempre nel Majjhima Nikaya, diceva infatti che solo il popolo ignorante circa la vera dottrina si chiede se ha, o non ha, vissuto altre vite nel passato. E, se pensa di averle vissute, si chiede chi era in quelle precedenti esperienze. Ma poi si chiede anche se ne vivrà ancora e chi sarà in queste eventuali vite future. Per Buddha domande inutili e ingiustificate, poste da chi non sa. Non solo Buddha però la pensava così. Dice infatti un maestro buddhista contemporaneo, Maha Thera Punnaji, che il buddhismo vero non è quello del Karma e della rinascita: il buddhismo vero non se ne occupa in quanto s’interessa unicamente del dolore e della possibilità di farlo cessare nella vita attuale. Questo maestro fa notare che l’insegnamento del Buddha è teso a un ritorno all’equilibrio di cui ogni persona è dotata in origine, ma che poi viene perso durante l’infanzia, a causa delle pulsioni emozionali. Per il maestro, il Nirvana
rappresenta la totale riconquista di questo stato e può essere realizzato attraverso precise tecniche psicologiche. Per Thera Punnaji, dunque, il buddhismo è una sorta di filosofia umanistica che contiene un messaggio di speranza, una forma di pensiero che garantisce la liberazione dalla sofferenza qui e ora, non in un ciclo di vite! Secondo moderne teorie buddhiste ben radicate nel pensiero comune, con la nascita in forma di animale si intende effettivamente la nascita fisica di un qualunque animale, e la rinascita dopo la morte in una forma inferiore sarebbe dunque il significato comune della rinascita nel mondo animale. Al contrario, il linguaggio della dottrina rimanda a un significato diverso: ogni volta che una persona si comporta in modo stupido, così come farebbe un animale, è come se, proprio in quel momento, rinascesse nel mondo degli animali. Come si può ben comprendere, questo evento si verifica normalmente nel corso della vita quotidiana. Sulla base di questo, infatti, una persona può nascere molte volte come animale anche nel corso della stessa giornata. Perciò nel linguaggio del dhamma si può a buona ragione dire che la (ri)nascita come maiale indica l’aver assunto un comportamento stupido e non il rinascere fisico in forma suina dopo la morte! Buddha dunque non sosteneva la dottrina della rinascita fisica; per lui il Samsara (ciclo di ritorni) è legato alla rinascita morale, su diversi livelli di comportamento, tutti sperimentabili in questa unica vita. In sostanza il Samsara, nel significato più autentico del termine,
rappresenterebbe il ciclo di rinascite dell’animale (cioè la parte emotiva inferiore) che è nell’uomo. Ed è da questo ciclo che Buddha intendeva liberare l’umanità nel corso della sua vita. Non sfugge quanto questa dottrina sia vicina a una delle convinzioni fondamentali dello stoicismo greco: la vera saggezza è lontana dalle illusioni generate dai tentativi di richiamare il passato o dai condizionamenti prodotti dalla speranza nel futuro. Passato e futuro non esistono, contano solo la volontà e la capacità – si direbbe l’intelligenza – di vivere l’unica dimensione reale del tempo e cioè il presente. Queste affermazioni veramente sconcertanti, se poste in relazione a ciò che si crede di sapere sul buddhismo, pongono alcune riflessioni e domande: •
Le illusioni non appartengono forse proprio a coloro che invitano gli altri a liberarsene? • Non è la conoscenza razionale lo strumento che ci aiuta a comprendere come la vera dottrina del Buddha probabilmente sia ben diversa da quella diffusa con tanta semplicistica convinzione nel mondo occidentale? • La sperimentazione che porta all’annullamento della mente, in realtà, non produce forse altro risultato che restituire in forma inconscia ciò che tutta la preparazione precedente, avviata da un atto di fede nei confronti di una dottrina ritenuta aprioristicamente vera, ha introdotto nel fedele? • Chi crede di sperimentare vite precedenti non lo fa forse perché ha scelto “prima” di credere che esistano vite precedenti?
• E chi ha scelto di credere, non lo ha forse fatto pensando che questa dottrina provenga proprio dalle parole del più grande illuminato di tutti i tempi, colui che ha raggiunto il Nirvana? • Ma se queste sono parole che lui stesso però non ha mai detto, questa fede si rivelerà un’illusione? Domande inevitabili per il destinatario del presente libro, per quel libero pensatore desideroso di essere il “ fisico” che osserva per comprendere e non la “particella subatomica” che subisce senza sapere.10
La Terza nobile verità Proseguiamo il nostro viaggio con l’esame della dottrina del “Nirvana”. Nell’induismo il Nirvana indica l’annullamento dei desideri e il raggiungimento della liberazione (moksa) dall’illusione (maya) e non ha comunque quella fondamentale importanza che riveste nel buddhismo. Nel Vinaya Pitaka si legge, a proposito della Terza nobile verità: Questa è la Nobile verità sulla cessazione del dolore. È la totale cessazione, rinuncia, abbandono del desiderio smodato: è liberazione e distacco dal desiderio smodato.
La liberazione dal dolore è dunque data dall’assenza di bramosia. Questa conseguita liberazione è stata normalmente identificata con il concetto di “Nirvana”, che però non viene usato da Buddha nella formulazione della Nobile verità. In effetti, nei suoi discorsi, Buddha preferiva usare il termine santi (“pace”), mentre il termine nirvana (nibbana nell’antico codice pāli) viene usato nel buddhismo popolare per indicare una sorta di luogo che si raggiunge dopo la morte. Questa trasformazione è avvenuta specialmente intorno al III secolo a.C., quando l’idea di annientarsi nel nulla del Nirvana appariva poco allettante e portava quindi all’abbandono progressivo del buddhismo da parte dei ceti popolari. Si rese necessario elaborare un concetto che fosse più accettabile e allora si riformulò la dottrina introducendo l’idea di una sorta di paradiso dei beati cui
avrebbero avuto accesso coloro che avessero conseguito l’illuminazione. Si cominciò a parlare quindi di svarga, una salvezza celeste vista come premio per l’essersi ben comportati in questa vita. Questa trasposizione di significato corrisponde, in un certo qual senso, a quella che è avvenuta con il concetto di “regno dei cieli”, o “regno di Dio”, espresso dalla dottrina giudaica e da Gesù stesso: il regno dei cieli è divenuto un luogo fisico da raggiungere dopo la morte, mentre in origine designava probabilmente uno “stato” preciso che l’uomo doveva conseguire già in vita (sempre che gli si voglia attribuire un significato spirituale e non intenderlo come l’affermazione storica di un nuovo e concreto regno messianico).
Il passaggio dal Samsara al Nirvana Nel testo Anguttara Nikaya11 è scritto che il dolore, il suo inizio, la sua cessazione si trovano nel corpo e nelle sue percezioni. Non ha esistenza separata dunque dal modo in cui l’uomo lo vive. Il dolore e la liberazione da esso sono quindi intesi in riferimento alla vita attuale e l’interpretazione del Nirvana come un luogo da raggiungere dopo la morte è frutto quindi (almeno così pare) di un’interpretazione errata del pensiero di Buddha. In effetti il termine nirvana indicava il “raffreddamento” di una qualsiasi cosa che fosse divenuta calda. Nel pensiero buddhista la passione era considerata come una sorta di febbre (riscaldamento, dunque) che andava raffreddata; infatti
l’obiettivo del Nirvana consisteva, in origine, nel tentare di ristabilire buone condizioni proprio all’interno della vita presente. Si legge nel Vinaya Pitaka: Tutto brucia, tutto è in fiamme […]. L’occhio brucia […] il provare piacere e dolore provoca un fuoco che brucia […] queste cose bruciano nel fuoco del desiderio.
Buddha chiamava samsara questo tipo di vita nel quale brucia un fuoco continuamente alimentato dalle passioni, un fuoco che consuma gli uomini nelle fiamme della sofferenza. Mentre nirvana era la vita calma, raffreddata. Questi due termini identificano quindi due “stati”, due modi diversi di essere, attribuibili alla stessa vita; due modelli di comportamento che la singola persona può scegliere di seguire nell’ambito della sua unica esistenza. Il passaggio dall’uno all’altro avviene quando il singolo acquisisce consapevolezza della realtà dell’esistenza e del dolore: la libertà giunge quando non si è più schiavi del desiderio. Questa liberazione giunge attraverso un lungo processo che prevede una successione di atti tesi a spezzare le corde (Buddha parla di “dieci legami”12 che tengono legato l’uomo; il processo prevede un’alternanza di avanzamenti e regressioni, per cui si concepisce anche la definizione di “colui che ritorna” e di “colui che non ritorna”, intendendo identificare con quest’ultima l’uomo che ha definitivamente passato la sponda, avendo spezzato per sempre i legami che lo tenevano incatenato al ciclo del Samsara.13 Colui che ritorna quindi non è colui che rinasce in una nuova vita dopo la morte, ma semplicemente chi torna a essere bloccato dalle catene del legame
precedente da cui non si è ancora definitivamente liberato. Il passaggio dal Samsara al Nirvana non è altro quindi che il processo di maturazione dell’individuo che mantiene la sua individualità. Dice il maestro buddhista Piyadassi Thera che Nirvana non significa negazione o annullamento dell’io. Un illuminato che abbia raggiunto il Nirvana è libero dal desiderio, ma questo non significa che egli abbia annullato il suo io. Il Nirvana insomma pone fine all’esistenza emotiva, ma non all’io: chi ha raggiunto il Nirvana continua a vivere nella sua individualità. I l totale disinteresse di Buddha per ciò che succede dopo la morte è direttamente legato alla necessità di non avere alcun legame con qualsivoglia forma di attaccamento: chi si pre-occupa troppo circa il post mortem manifesta un attaccamento che lo tiene legato al Samsara e che gli impedisce di divenire una persona matura in questa vita. Il passaggio dal Samsara al Nirvana è quindi un passaggio da uno stato di consapevolezza a un altro: si passa da una consapevolezza emotiva a una consapevolezza completamente intellettuale. La migliore definizione del Nirvana sarebbe quindi quella di “maturità ideale dell’uomo”, “salute mentale”: uno stadio della vita in cui i sensi e le emozioni sono sotto il controllo della ragione mentre in genere avviene il contrario; di norma la vita è infatti condizionata dalle emozioni ed è quindi animalesca, infantile, priva di disciplina; un atteggiamento che Buddha definiva avidya, cioè “ignoranza”; mentre il Nirvana è “conoscenza della realtà”.14
La vita in stato di Nirvana è caratterizzata da gioia e pace interiore, in quanto si vive in buona salute, si è liberi dall’odio e dai condizionamenti delle emozioni; il Nirvana insomma rappresenta la felicità perfetta, la massima beatitudine. A riprova di quanto si sta affermando in questo testo circa la difficoltà di avere una vera conoscenza delle dottrine che costituiscono la base di gran parte della “fede” che in Occidente si è sviluppata nei confronti delle dottrine orientali, va detto anche che per le scuole mahayana, madhyamika e cittamatra, non vi è distinzione tra Samsara e Nirvana. Secondo Nagarjuna (monaco buddhista del II-III secolo d.C., uno dei grandi saggi della scuola mahayana), non vi è la minima differenza fra questi due stadi dell’essere. Nel Mulaadhyamaka Karika, Nagarjuna dice che Nirvana è: pacificazione di tutte le percezioni oggettive, pacificazione di ogni illusione […]. Quale sia il limite del Nirvana, quello è il limite dell’esistenza ciclica. Non c’è la più lieve differenza fra loro.
E sostiene addirittura che «nessun Dharma è mai stato insegnato dal Buddha in nessun tempo, in nessun luogo, a nessuna persona [!!]». Insomma pare proprio che gli oggetti del “credere” siano diversi e che ognuno scelga tra di essi quello che più ama, preferisce o lo gratifica. In ogni caso, continuiamo a supporre che ci siano differenze oggettive tra Samsara e Nirvana e proseguiamo chiedendoci: «Come si raggiunge il Nirvana?».
La Quarta Nobile verità: il nobile ottuplice sentiero Il Nirvana si raggiunge con l’applicazione della più importante delle Quattro nobili verità: la quarta, la via che porta alla cessazione del dolore, il Nobile ottuplice sentiero, composto da: • • • • • • • •
Retta visione, Retto pensare, Retto parlare, Retto agire, Retto modo di sostentarsi, Retto sforzo, Retta concentrazione, Retta meditazione.
Questi atteggiamenti sono anche conosciuti come gli “Otto raggi della ruota della dottrina”: purezza di fede, purezza di volontà, purezza di linguaggio, purezza d’azione, purezza di vita, purezza di applicazione, purezza di memoria, purezza di meditazione. Dice Buddha nel Dhammacakkappavattana Sutta: E che cos’è questo sentiero di mezzo che produce la visione e la conoscenza, che conduce alla calma, alla perfetta conoscenza, al perfetto risveglio, al Nirvana? Esso è il Nobile ottuplice sentiero.
Il messaggio fondamentale dell’Ottuplice sentiero si può sintetizzare e parafrasare così: «Considera la vita nel modo giusto, realizza e mantieni il distacco, parla in modo giusto, agisci secondo giustizia, guadagnati da vivere onestamente, coltiva solo buoni pensieri, sii sempre consapevole di quello che stai facendo, abitua la tua mente alla quiete e alla riflessione».
1. Retta visione La prima delle otto affermazioni va analizzata in modo speciale, in quanto da essa dipendono alcune delle interpretazioni più diffuse e forse meno corrette del pensiero buddhista: la Retta visione, cioè il giusto modo di vedere la realtà dell’esistenza. Buddha analizza il modo di vivere degli uomini e ne ricava una sorta di formula molto breve, costituita da sole tre parole: anicca, dukkha, anatta (“impermanenza”, “dolore” e “inconsistenza del sé”). Le prime due definizioni sono sempre state di facile interpretazione. Quando si parla di “impermanenza” (anicca), transitorietà, non ci si riferisce alla ovvia considerazione che il cambiamento è inerente a ogni fenomeno, che la vita passa e va (chiunque lo comprende facilmente), bensì alla natura fugace dei piaceriemozioni che gli uomini cercano. N e l Satjpatthana Suttanta Buddha descrive l’insieme dell’esperienza che conduce alla consapevolezza dell’impermanenza del tutto, quando sottolinea che colui che medita «osserva il fenomeno del sorgere, osserva il fenomeno del
passare, osserva il fenomeno del sorgere e del passare». Questa transitorietà produce il “dolore” (dukkha) che costituisce un tratto fondamentale dell’essere: Buddha afferma che una vita dominata dalle emozioni è in realtà una vita segnata da una sofferenza intrinseca, soprattutto se le soddisfazioni-emozioni ricercate appartengono alla qualità inferiore tra quelle esistenti. L’ultimo termine, anatta, è invece il più difficile da definire, perché il suo significato presenta delle varianti che hanno determinato nei secoli diverse interpretazioni da parte delle varie scuole buddhiste. Anatta deriva dall’aggiunta del prefisso a- al termine atta e significa “non-atta, assenza di atta”. La parola atta poi ha due significati fondamentali: in quello più diffuso e popolare equivale a “sé”, “se stesso”, “ciascuno” e possiede anche il valore di aggettivo (in questo caso anatta significherebbe “non di se stesso”). Secondo gli studiosi dei codici pāli15 la parola atta viene usata soprattutto con quest’ultimo valore. Un altro uso del termine, invece, è diffuso in ambito che potremmo definire “metafisico”, e rimanda al concetto di “anima”, “individualità”, “sé” inteso come unità di corpo e anima: da questa complessità sono nati, in ambito buddhista, diversi sistemi filosofici differenti. Non dimentichiamo però che noi ci stiamo occupando qui dell’idea di “rinascita” e allora ciò che ci interessa rilevare è che Buddha usò il termine anatta non per descrivere la struttura intima dell’uomo, ma per indicare una “forma di vita” inferiore, ignobile, indegna di essere vissuta: in altri termini il
Samsara (il ciclo animalesco, basso, soggetto alle emozioni, non controllato dalla ragione). In realtà, tutti e tre i vocaboli sopra indicati (anicca, dukkha e anatta) sono stati utilizzati da Gautama per definire le condizioni proprie della vita vissuta all’interno del Samsara. Il livello più alto, quello cui bisogna tendere, è invece il Nirvana. Dunque Buddha non si pose il problema dell’esistenza dell’anima, della sopravvivenza, dell’immortalità, della prosecuzione della vita, della rinascita in vite future, ecc., ma esclusivamente del raggiungimento del livello massimo possibile nel corso dell’esistenza. Inoltre, la ricerca individuale del Nirvana (il livello più alto) fa comprendere come Buddha non negasse l’importanza dell’individualità, ma anzi l’affermasse, attribuendole potenzialità e responsabilità precise: è proprio l’individuo che decide e determina la sua posizione all’interno del ciclo vitale, la sua possibilità di vivere una vita matura o infantile, di conseguire cioè il Nirvana o di rimanere schiavo del Samsara. Nel famoso sermone sul significato del “non-io” (contenuto nel Vinaya Pitaka) Buddha afferma: Il sapiente e nobile discepolo sviluppa un disprezzo per il corpo, per il sentimento, per la percezione, per le reazioni emotive […]. Grazie a questo disprezzo […] comprende che la rinascita è conclusa, la vita pura è stata raggiunta.
Inoltre sostiene che ciò che non è sotto il nostro controllo è impermanente,
doloroso, insomma non ci appartiene ed è necessario che sia quindi realmente conosciuto nella sua vera natura, così da consentirci di distinguere tra ciò che è veramente nostro e ciò che non lo è, e soprattutto non ci rappresenta. Si noti che il termine “rinascita” va inteso come già specificato: rinascere in questa vita in una forma di esistenza inferiore, ritornare ancora sulla sponda di partenza del fiume. In sostanza, la vita quotidiana di chi aveva raggiunto il Nirvana era caratterizzata dal dominio della ragione, non dell’emozione. Nel suo Sermone, Buddha sostiene che la vita dominata dall’emozione non può essere considerata il “reale io” perché non è sotto il controllo della ragione e dunque non è soggetta alla capacità d’imporsi dell’uomo che, in quella situazione, deve invece subire passivamente. Questo fa dire agli studiosi dei codici pāli che il termine anatta – a differenza di quanto affermato dalle tradizioni più conosciute – significa in realtà “non di se stesso in quanto non sotto il controllo della ragione” o anche “non autonomo, non libero”. Ne consegue che la negazione dell’io – sostenuta da diverse tradizioni e da gran parte del buddhismo moderno occidentale… – nasce da un’errata interpretazione di questo termine: Buddha non si riferisce all’io inteso come entità, ma come modo di essere (Samsara), come scelta di vita. Ed è questa che va negata, non l’individualità che, anzi, con la ragione, è la responsabile del livello nel quale ognuno si pone (Samsara o Nirvana). Buddha invita quindi ad agire per liberarsi non già dalla propria
individualità, ma dal modo di vivere secondo una scala di valori bassi, animaleschi, emozionali, che deve essere assolutamente abbandonata per raggiungere la vera emancipazione, l’illuminazione, il Nirvana. Con la dottrina dell’anatta, Gautama ha inteso dimostrare che lo stato di maturità di colui che ha superato i comportamenti infantili e ha raggiunto la vera grandezza si trova là dove la ragione non è schiava delle emozioni e del piacere dei sensi. Retta visione è dunque comprendere questo , la vera realtà dell’esistenza che va cercata e conseguita ponendola sotto il controllo della ragione. Dopo la Retta visione, l’Ottuplice sentiero, la via che conduce al Nirvana “qui e ora”, contiene altre sette indicazioni.
2. Retto pensare Il Retto pensare (come si legge nel Majjhima Nikaya) si riferisce ai desideri e alle aspirazioni interiori e ci ricorda che bisogna consapevolmente nutrire pensieri di rinuncia, pensieri di buona disposizione, pensieri di protezione o compassione. L a rinuncia si riferisce alla necessità di annullare il desiderio smodato, l’avidità, e rappresenta quindi la massima espressione del controllo di se stessi. La protezione richiede che ogni individuo produca pensieri di benevolenza da destinare a tutti gli uomini, anche ai nemici. L a compassione è forse la virtù fondamentale dell’intero insegnamento
buddhista e richiede la capacità di nutrire sentimenti amorevoli alla vista della sofferenza altrui. Retto pensare è dunque controllo di se stessi, amore per il prossimo e conseguente retto decidere.
3. Retto parlare Questa indicazione segue ovviamente la precedente: un Retto pensare (secondo il Majjhima Nikaya) deve determinare la capacità di evitare la menzogna, la maldicenza, le parole eccessivamente dure e anche i pettegolezzi. Nel Suttanipata, Gautama spiega chiaramente il concetto, sottolineando che le persone buone pronunciano parole nobili; le persone buone sono intelligenti e sanno che è necessario dire ciò che è piacevole ed evitare ciò che è spiacevole; dire ciò che è vero senza mai mentire; pronunciare frasi che non generino rimorso e non feriscano gli altri. Tutto questo rappresenta la vera sostanza del Retto parlare.
4. Retto agire Questo precetto (secondo il Majjhima Nikaya) si riferisce in particolare a tre diversi aspetti del comportamento umano: astenersi dall’uccidere, astenersi dal rubare e astenersi da un comportamento sessuale sbagliato. Il non uccidere ha portato poi alla necessità di definire il comportamento
dell’uomo in merito al consumo di carne. Buddha, nel Mahaparinirvana Sutra, diede delle istruzioni sulla questione del vegetarianesimo sostenendo che chi segue il Dharma autentico non dovrebbe mangiare carne. Ma pare che (si vedano a questo proposito i testi Vinaya Pitaka e Mahavagga), sollecitato dai suoi discepoli, abbia trovato una mediazione: consapevole del fatto che il consumo di carne poteva essere talvolta una necessità, prescrisse che i suoi monaci potevano consumare carne a patto che non avessero assistito all’uccisione dell’animale e che l’animale stesso non fosse stato ucciso al solo scopo di fornire il nutrimento. Il Retto agire è improntato insomma alla necessità di tenere un comportamento benevolo e moderato in tutti gli aspetti della vita.
5. Retto modo di sostentarsi Questa indicazione consente una digressione di non poco conto in merito a ciò che si conosce del buddhismo in Occidente. Buddha dedicò non poco del suo insegnamento ai laici, a coloro cioè che non intendevano dedicarsi a una vita monacale. Ancora oggi esiste una sostanziale differenza tra diverse correnti buddhiste: per la corrente mahayana, la liberazione è conseguibile da tutti, mentre la corrente theravada sostiene che, di fatto, solo chi si dedica alla vita monacale può raggiungere il Nirvana (questo dipende probabilmente dal fatto che il buddhismo theravada è il frutto di una trascrizione effettuata nel corso di diversi secoli all’interno dei monasteri da parte dei monaci
che hanno rielaborato a loro uso le dottrine del Buddha). Esempio tipico di questa dicotomia è dato dal fatto che il precetto sul sostentamento era dedicato soprattutto ai laici perché i monaci non potevano avere mezzi propri di sussistenza e quindi l’insegnamento sul modo di sostentarsi per loro non ha, di fatto, nessun valore pratico. Nel Majjhima Nikaya è scritto «È mezzo di sostentamento sbagliato la truffa, il tradimento, la divinazione, l’usura» e nell’Anguttara Nikaya si dice che «un discepolo deve astenersi da cinque attività: commercio di armi, di esseri viventi, di carne, di sostanze intossicanti e di veleno», evidenziando poi che ci sono altre professioni da evitare quali quelle del cacciatore, del pescatore e, naturalmente, del soldato.
6. Retto sforzo Questo precetto contiene due indicazioni fondamentali: la prima è che gli obiettivi della vita possono essere conseguiti soltanto con un impegno costante; la seconda è che per conseguire l’obiettivo veramente importante (l’illuminazione) è necessario nutrire con incessante costanza pensieri positivi. Lo sforzo si concretizza in una serie di atteggiamenti che devono susseguirsi in un ordine che, nell’Anguttara Nikaya, è stato così definito: prevenire pensieri negativi riconoscendoli come nocivi e biasimevoli; non badarvi e possibilmente sopprimere «con i denti stretti e la lingua schiacciata contro le gengive» quei pensieri negativi che sono comunque entrati; sviluppare pensieri positivi;
trattenere i pensieri positivi sviluppati. Si tratta d’indicazioni pratiche tese alla costruzione di un carattere forte, dominato dalla ragione che analizza i pensieri e dalla volontà che ne determina l’allontanamento o la formazione. Dice il discepolo: Anche se la pelle, i nervi, le ossa, la carne e il sangue si seccano, non rinuncerò al mio sforzo finché non avrò raggiunto lo scopo con perseveranza.
Seguendo questa tecnica, infatti, la mente tornerebbe a ricomporsi nella calma e nella tranquilla concentrazione.
7. Retta concentrazione Il termine pāli che indica questo precetto viene anche tradotto come “giusta attenzione” e rappresenta, in ordine d’importanza, il secondo precetto dell’Ottuplice sentiero: bisogna infatti avere una retta visone della realtà e una giusta attenzione alle sue implicazioni nella vita quotidiana. Ne l Satipatthana Sutta (Majjhima Nikaya) Gautama chiarisce il concetto, dicendo che bisogna avere attenzione per ciò che si compie in ogni momento (dare la massima importanza a ciò che si sta facendo in ogni preciso istante: camminare, parlare, essere seduti, lavarsi…), attenzione alla realtà della vita (Retta visione) e attenzione agli impulsi interiori. Quest’ultima indicazione si riferisce alla necessità di esaminare lo stato della
mente nel momento in cui si fa, o si dice, qualcosa. La strada che conduce alla vittoria passa attraverso quattro fondamenti: rendersi conto del corpo, rendersi conto della sensazione, rendersi conto della mente, e rendersi conto degli oggetti della mente, osservandoli con attenzione. L’individuo maturo deve agire in modo razionale e obiettivo, ricercando i veri motivi che stanno all’origine dei suoi comportamenti per comprendere se sta agendo in preda alle emozioni. Dice ancora Gautama che «la vita emotiva è transitoria», per cui è necessario perseverare nella lotta con concentrazione. Questo precetto ha lo scopo di consentire una vita liberata dalla schiavitù delle emozioni, interamente vissuta nell’ambito dell’autocontrollo.
8. Retta meditazione È innanzitutto interessante rilevare che la meditazione è solo uno degli otto elementi che compongono il Sentiero verso il Nirvana e non è neppure il più importante. Il termine samadhi è tradotto normalmente come “meditazione”, ma il suo significato più profondo pare in realtà indicare una sorta di “padronanza di sé”. Descrive l’unione del meditante con l’oggetto della meditazione; nel samadhi colui che medita si trova in uno stato di coscienza non diviso nel quale il pensiero si ferma e la persona mantiene la consapevolezza cosciente. Chi è padrone di sé non si distrae, si controlla, mantiene la concentrazione
sugli obiettivi veramente importanti, non viene “disturbato” dalle vicende della vita e si trova in uno stato di quiete e serenità. Vipassana viene definita questa tecnica di meditazione nella quale la mente è posta nella condizione di poter riconoscere oggettivamente gli aspetti negativi per accettarli in modo consapevole, razionale, e agire così di conseguenza, per realizzare il loro superamento (Nirvana). La meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli, sia sensoriali che mentali. La tecnica è espressamente insegnata dal Buddha nel Satipatthanasutta (“Discorso sui fondamenti della presenza mentale”) e prevede una successione di vari momenti: • • • • •
contemplazione del corpo (respiro, posizioni, azioni, parti, elementi); contemplazione delle sensazioni; contemplazione della mente; contemplazione degli oggetti mentali; contemplazione del cimitero, in cui il discepolo viene invitato a osservare nei minimi, più macabri particolari i cadaveri, le carcasse abbandonate, e a riflettere sul fatto che anche il suo corpo ha la stessa natura e lo stesso destino di quel cadavere, e non può evitarlo.
Si rileva qui un curioso parallelismo con un certo pensiero cristiano medievale presente sia nella letteratura sia nelle rappresentazioni pittoriche.
Breve, parziale conclusione Questa “sintetica” e libera rivisitazione delle dottrine – così come risultano dagli studi degli specialisti dei codici in lingua pāli – ci porta a considerare come la dottrina espressa da Buddha possa avere una chiave di lettura forse meno affascinante e misterica di quella comunemente presentata, ma certamente più pratica, concreta, e praticabile senza la necessità di atteggiamenti di accettazione fideistica. Potremmo riassumere così il pensiero e l’insegnamento del Buddha: • la vita è dolore; • il dolore ha la sua origine nei comportamenti dell’uomo e deriva dalle emozioni e dai desideri incontrollati; • ogni uomo ha però la possibilità di arrivare a vivere una vita libera e serena; • la via è rappresentata dall’Ottuplice sentiero. La liberazione avviene in questa vita, che ha la probabilità di essere anche l’unica. Quindi, nessuna rinascita o reincarnazione! Ancora dubbi, dunque, che fanno serenamente proseguire il libero pensatore nel suo costruttivo percorso di ricerca.
1 La successione espositiva di parte dei contenuti di questo capitolo si basa sugli studi di Antony Fernando e Leonard Swidler pubblicati in Introduzione al buddhismo. Paralleli con l’etica ebraico-cristiana (EDB, Bologna 1992), un testo che ha finalità diverse dal presente scritto, ma a cui si rimanda per affrontare un esame più approfondito della materia. 2 Si veda l’Appendice 4. 3 Si veda l’Appendice 4. 4 Si veda oltre, pp. 116 e sgg. 5 Si veda l’Appendice 1. 6 Si veda l’Appendice 4. 7 Si veda l’Appendice 1. 8 Si veda l’Appendice 2. 9 Dhammapada; si veda l’Appendice 4. 10 A questo proposito si vedano i risultati dell’applicazione delle neuroscienze alla biologia del pensiero e dei fenomeni mistico-religiosi in: S. d’Aquili e A.B. Newberg, The Mystical Mind. Probing the Biology of Religious Experience, Fortress Press, Minneapolis 1999; E. d’Aquili, A.B. Newberg, V. Rause, Dio nel cervello. La prova biologica della fede, Mondadori, Milano 2002; V. S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano 2006. 11 Si veda l’Appendice 4. 12 Si veda l’Appendice 3. 13 Si veda l’Appendice 3. 14 Si veda l’Appendice 6. 15 Cfr. nota 1 a p. 91.
8
La reincarnazione nei vangeli
Da molte parti e in molti scritti si sostiene che nei vangeli sia evidenziato in maniera chiara e indiscutibile il pensiero di Gesù in merito alla reincarnazione. L’affermazione di questa tesi ha preso avvio nel XIX secolo a seguito della diffusione dello spiritismo in ambito cristiano e ha conosciuto un ulteriore sviluppo negli ultimi decenni, soprattutto in quelle correnti di pensiero che tendono a ricercare parallelismi tra le dottrine di Cristo e la religiosità orientale. Si sostiene quindi che nei vangeli si fa espresso riferimento alla reincarnazione e, a riprova, si citano alcuni passi che esaminiamo qui di seguito, leggendoli nella traduzione letterale. Come abbiamo fatto per altri testi analizzati in precedenza, ci limitiamo qui a prendere in esame i passi dei vangeli tralasciando volutamente la successiva evoluzione del pensiero nei padri della chiesa e nei commentatori successivi. Molto semplicemente, da liberi pensatori, proviamo a ragionare sulla base di quanto leggiamo.
I passi evangelici Il primo brano è quello della guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41). Siamo a Gerusalemme; Gesù, uscito dal Tempio, incontra un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli domandano: […] «Rabbì, chi ha commesso peccato, questo o i genitori suoi affinché cieco divenisse?». Rispose Gesù: «Né questo ha peccato né i genitori suoi…». (Gv 9,2-3)
La domanda posta dai discepoli starebbe a indicare che la reincarnazione rappresentava un’opzione possibile in quanto ci si chiede: •
Come potrebbe avere peccato lui visto che è nato cieco? Il peccato non dovrebbe infatti essere stato commesso necessariamente in una vita precedente?
Innanzitutto dobbiamo considerare come l’insieme di questo racconto abbia una serie di valenze simboliche che pongono forti dubbi sulla sua autenticità. Giovanni lo utilizza per trasmettere alcuni insegnamenti sul significato spirituale della cecità e sul fine della venuta di Cristo che dice: «In il mondo questo sono venuto affinché i non vedenti vedano e i vedenti ciechi divengano» (Gv 9,39). Il che farebbe supporre che, se è vera la guarigione fisica, ci dovrebbero essere trasformazioni altrettanto fisiche di vedenti in non vedenti, ma è ovvio che
il significato è ben altro e riguarda la conoscenza delle verità del regno di Dio. Va infatti notato che una vicenda parallela, costituita da elementi simili, è narrata da Marco (cfr. Mc 8,22-26), ma lì il miracolato non è dichiarato cieco dalla nascita. Giovanni dunque, come in altri passi, pare arricchire gli eventi al fine di utilizzarli per trasmettere dei messaggi riservati ai suoi lettori, probabili esponenti colti dell’ambiente culturale ellenistico, cui si doveva rivolgere con linguaggio che diremmo “esoterico-iniziatico” al fine di rispettare le loro abitudini e soddisfare le loro attese. Ma rimaniamo ancora alla letteralità del passo e ritorniamo alla risposta di Gesù: «Né questo ha peccato né i genitori suoi ma affinché appaiano [si manifestino] le opere del Dio in lui» (Gv 9,3). Risponde dunque con assoluta tranquillità, senza la minima reazione nei confronti di quella che poteva essere una domanda “difficile”. Per lui il problema non sussiste, le motivazioni e le finalità sono chiare ed esulano dalla situazione personale del miracolato, non hanno alcun legame con le sue eventuali responsabilità personali che non hanno alcuna importanza: ciò che conta è manifestare il potere di Dio. Verrebbe da fare una considerazione non propriamente “positiva” sul comportamento di un Dio che fa soffrire tutta una vita un poveretto al fine unico di manifestare la sua potenza (ma così dice Giovanni…). In ogni caso, questa assoluta noncuranza nei confronti della possibile necessità di dover ipotizzare la reincarnazione e la conseguente serenità della risposta paiono riecheggiare le
parole del Buddha quando sostiene che solo il popolo ignorante si chiede se ha vissuto vite precedenti, chi è stato in quelle vite e che cosa sarà nelle vite future. I saggi, Buddha e Gesù, non se ne curano.
La “reincarnazione” di Elia Esiste poi un nutrito elenco di passi evangelici che vengono citati in blocco in quanto si riferiscono tutti allo stesso evento: la presunta “reincarnazione” del profeta Elia. Matteo. La vicenda si svolge in una non meglio precisata cittadina a seguito dell’arresto di Giovanni da parte di Erode; il Battista, avendo sentito parlare delle opere compiute da Cristo, gli invia alcuni discepoli dal carcere per chiedere se è lui quello che deve venire o se si deve ancora attendere un altro. Gesù risponde elencando gli eventi straordinari che si stanno verificando e poi, parlando proprio del Battista dice alla folla presente: Ma cosa siete usciti in il deserto a vedere? Canna sotto [da] vento essente agitata? […] E se volete accogliere [comprendere] egli è Elia lo stante per [quello che sta, deve] venire. (Mt 11,2-15)
L’evangelista narra poi in un altro capitolo l’evento della trasfigurazione di Cristo avvenuta su un «alto monte» e nel corso della quale si presentano Mosè e il profeta Elia. Al termine della manifestazione straordinaria, mentre scendeva dal monte,
Gesù dice ai tre apostoli che avevano assistito di non raccontare nulla a nessuno. Allora Pietro, Giacomo e Giovanni gli chiedono: Perché dunque gli scribi dicono che Elia deve venire prima? Egli allora rispondendo disse: Elia certo viene e reintegrerà [rimetterà a posto] tutte [le cose], dico però a voi che Elia già venne e non conobbero lui ma fecero in [di] lui quante [cose] vollero […]. Allora capirono i discepoli che circa [di] Giovanni il Battista parlò [aveva parlato] a loro. (Mt 17,1-13)
Marco. L’evangelista racconta della predicazione itinerante compiuta da Gesù nella sua «patria» e dell’invio dei suoi discepoli per un’attività missionaria nei villaggi della Galilea. Erode, che sente parlare di lui, e le folle che assistono ai suoi prodigi cominciano a chiedersi da chi gli provenga tutto quel potere e chi in realtà egli sia, formulando anche ipotesi di risposta: […] e dicevano: «Giovanni il Battezzante è resuscitato da morti» […] altri ma [invece] dicevano: «Elia è». (Mc 6,14-15)
Dopo aver guarito il cieco di Betsàida, Gesù si sta recando a Cesarea di Filippo e, nel corso del viaggio, chiede ai suoi discepoli: «Chi me dicono gli uomini essere?». Essi allora risposero a lui dicendo: «Giovanni il Battista e altri Elia». (Mc 8,27-28)
Il seguente passo del vangelo ricalca quanto narrato da Matteo e che abbiamo già riportato. Anche qui, dopo essere discesi dal monte, i discepoli gli chiedono perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia ed egli risponde: Elia certamente venente [venendo] primo reintegra [ristabilisce, rimette a posto] tutte [le cose] […] ma dico a
voi che e [anche] Elia venne [è venuto] e hanno fatto a lui quante [tutte le cose] hanno voluto. (Mc 9,11-13)
Questi dunque sono i brani che vengono utilizzati per dimostrare l’esistenza dell’idea di reincarnazione nei vangeli. Se infatti Giovanni o lo stesso Gesù sono visti come la realizzazione del ritorno di Elia, è evidente, sostengono i favorevoli alla tesi, che la gente del tempo – e magari anche Gesù stesso – credeva alla reincarnazione. Era infatti opinione diffusa presso gli ebrei che il ristabilimento definitivo del regno di Dio sulla Terra dovesse essere preceduto dal ritorno del profeta Elia. Questi brani evangelici farebbero dunque ritenere che gli ebrei del tempo credevano nella possibile reincarnazione di Elia in Giovanni Battista o magari nello stesso Gesù. Le cose però stanno proprio così? Daremo la risposta, non prima di aver ricordato che è lo stesso Battista a negare di essere Elia . Nel vangelo di Giovanni si legge infatti chiaramente: E chiesero a lui: «Chi allora [sei]? Tu Elia sei?». E dice: «Non sono» […]. (Gv 1,21)
Ma questo di per sé non sarebbe sufficiente a confutare una tesi che appare così chiaramente comprovata dalle affermazioni che la folla fa circa la possibile identificazione tra il Battista ed Elia reincarnato in lui. L’elemento vero, concreto, che pone fine a ogni possibile ipotesi reincarnazionista in questi passi dei vangeli è la seguente: Elia non può essersi reincarnato per un motivo che ha una valenza incontestabile: non è mai morto!!!
E questo gli ebrei, conoscitori delle scritture, lo sapevano molto bene.
Ancora Elia… La vita e l’attività profetica di Elia sono narrate nei due libri dei Re. Il momento della sua vita che concerne il tema in questione è rappresentato dall’ultima fase della sua vita terrena. Nel secondo capitolo del libro II dei Re, Elia e il suo giovane discepolo Eliseo partono da Galgala, «in [quando] far salire [stava per sollevare] Jahweh Elia in [con] la tempesta…»; scendono poi a Betel dove incontrano dei discepoli che si dimostrano a conoscenza di quanto sta per avvenire, infatti dicono a Eliseo: «Sai che il giorno [oggi] Jahweh prendente [prenderà] signore tuo da su [sopra] testa tua? E disse [rispose]: Anche io so, fate silenzio». Sanno dunque che cosa (sollevamento) e quando (quel giorno) deve avvenire. Scendono poi a Gerico e anche lì trovano altri discepoli informati di quanto era in preparazione, cioè il rapimento di Elia su un carro celeste; anche a Gerico si ripete il dialogo con la domanda e la risposta già viste. I due ripartono in direzione del Giordano, seguiti da cinquanta discepoli che assistono poi da lontano all’evento straordinario, ampiamente annunciato e da tutti conosciuto. Elia ed Eliseo attraversano il fiume e parlano tra di loro: «[…] ed ecco carro di fuoco e cavalli di fuoco separarono [si interposero] tra due loro e salì Elia in [con] la tempesta [a] i cieli» (2Re 2,11). Elia viene dunque sollevato in cielo, vivo, da un carro di fuoco mosso da cavalli di fuoco, che s’interpone tra i due.
Che si tratti di un vero innalzamento fisico è poi confermato dai versetti successivi, nei quali si narra ciò che fece Eliseo quando «guardante […] non vide più lui» (2Re 2,12), ma soprattutto quando si racconta che i cinquanta discepoli vollero assolutamente andare a cercare Elia perché dicevano «forse ha portato [sollevato] lui vento [spirito??] di Jahweh e ha gettato lui su uno di i monti o in una di le valli» (2Re 2,16), dimostrando così che si riferivano a un vero e proprio allontanamento fisico del profeta che avrebbe poi potuto essere addirittura stato abbandonato da qualche parte. La ricerca diede però esito negativo: Elia era scomparso definitivamente nei cieli. La vicenda terrena del profeta termina dunque con questo viaggio fatto da vivo sul carro di fuoco di Jahweh, uno degli Elohim. Pertanto quello che gli ebrei attendevano era il ritorno di un profeta che era stato portato via da un oggetto celeste e che, probabilmente con le stesse modalità, si sarebbe ripresentato per preparare l’instaurazione definitiva del regno di Dio. Non si ha morte e non si ha quindi reincarnazione, rinascita e neppure resurrezione…
… e infine il Cristo Fin qui abbiamo esaminato e verificato l’inconsistenza delle prove più significative portate a supporto della tesi reincarnazionista, ma non dobbiamo dimenticare che è Cristo stesso a negarne la possibilità in modo evidente e non contestabile. Riprendiamo il passo (cfr. Mc 12,18-27), già citato nel capitolo dedicato alla resurrezione, in cui i sadducei pongono a Gesù una domanda capziosa: gli chiedono di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, una donna che in questa vita, in ottemperanza a una precisa legge mosaica, abbia sposato in successione ben sette fratelli. Gesù risponde testualmente: «Quando infatti da morti si alzano non si ammogliano né si maritano ma sono come angeli in i cieli» (Mc 12,25). Questo dunque è ciò che pensa e afferma chiaramente Gesù Cristo: dopo la morte ci sarà una sorta di non meglio identificata “vita angelica”.
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Contraddizioni, tesi fantasiose, domande e curiose esperienze
Le incertezze derivanti dalle tante possibili interpretazioni e dottrine non finiscono qui: un’ulteriore conferma della quantità di dubbi intorno alla dottrina della reincarnazione/rinascita si trovano leggendo nel Mahabarata una serie di affermazioni che paiono sconcertanti, se si pensa a quanto si ritiene di sapere sulla elevata spiritualità del pensiero orientale… Quando sei in basso cerca di sollevarti ricorrendo sia ad azioni pie sia ad azioni crudeli. Prima di essere morale cerca di essere forte.
E inoltre: Il potere è superiore al diritto. Il diritto viene dal potere: il diritto ha il suo sostegno nel potere. Il diritto è nelle mani del forte […]. Tutto ciò che viene dal forte è puro.
E ancora:
Se gli altri ti crederanno mite ti disprezzeranno. Quando viene perciò il momento di essere crudele sii crudele.
E infine: Non temere gli effetti del Karma e affidati alla tua forza stessa. Nessuno ha mai verificato in questo mondo quali siano i frutti delle buone azioni o delle cattive azioni. Quindi cerca di essere forte perché il forte è padrone di tutte le cose.
Di fronte a tanta varietà di affermazioni anche palesemente contrastanti, come può un libero pensatore non continuare a porsi delle domande? La liberazione dal ciclo del Samsara è esclusivamente un fatto individuale (come sostiene il buddhismo hinayana) o è come una sorta di grande veicolo destinato a tutta l’umanità (come ritiene la corrente mahayana)? Gli orientali sostengono che la salvezza è possibile anche grazie all’intervento del Bodhisattva che si fa carico dei debiti karmici di un individuo, consentendogli di evitare la necessità di ulteriori reincarnazioni. Ma, ci chiediamo: • Il Bodhisattva è un essere che sta per raggiungere la buddhità (come sostiene la corrente hinayana) oppure è un essere che non sperimenta la vera illuminazione del Buddha e rimane, per scelta, sul limite, sapendo che il ciclo degli eoni non finirà mai e che quindi il suo voto di non raggiungere il Nirvana sino a quando non si siano salvati tutti gli uomini è in realtà il voto di rimanere per sempre quello che è in quel momento (come vuole il buddhismo mahayana)? • Nell’impermanenza del non-sé (Anatman che rinasce) che cos’è che identifica
l’individualità del Bodhisattva nelle sue rinascite? Paramahansa Yogananda1 narra l’incontro avvenuto nel 1936, in un albergo di Bombay, con il suo maestro Sri Yukteswar, risorto dai morti. Yogananda chiede: «Ma siete proprio voi, Maestro?» e Yukteswar risponde:2 «Sì, figlio mio, sono lo stesso. Questo è un corpo di carne e ossa […]. Dagli atomi cosmici ho creato un corpo completamente nuovo […]» e poi prosegue sempre il Maestro risorto: «Il mio nuovo corpo è una copia perfetta dell’antico. Materializzo e dissolvo questa forma a volontà […] con istantanea disintegrazione adesso mi sposto per luce-espresso da un pianeta all’altro o per meglio dire dal cosmo causale a quello astrale o a quello fisico».
Nel racconto, questa entità sostiene di essere incaricata da Dio di occuparsi di altri esseri e si pone come un’individualità precisa, in assoluta continuità con ciò che è stato in precedenza: queste caratteristiche la farebbero definire come un vero e proprio Ego personale che, dotato di volontà, si differenzia da ogni altro e agisce come tale. Seguendo Yogananda quindi torneremmo a un concetto di reincarnazione che riguarda l’individualità personale di ciascun uomo e che presenta non poche, curiose similitudini con la resurrezione cristiana.
Le esperienze “personali” La confusione aumenta se si pensa a quanto affermano coloro che vivono “esperienze di contatto” con le altre dimensioni: i medium. Qui non possiamo fare a meno di narrare esperienze personali e non abbiamo alcun motivo per mettere in dubbio la veridicità di racconti e di contatti ai quali abbiamo direttamente partecipato. Nelle situazioni cui eravamo attivamente presenti abbiamo assistito a “contatti” con spiriti che tecnicamente vengono definiti “risolti”: entità cioè che hanno raggiunto il termine della loro evoluzione; non si reincarneranno più; non sono definibili come dei Bodhisattva; non sono però indistinto Atman né sono scomparsi nell’Anatman; mantengono una loro precisa identità, hanno caratteristiche individuali che li distinguono gli uni dagli altri (alcuni sono definiti simpatici, altri meno, alcuni rigidi, altri più disponibili, sono anche dotati di abiti, e così via…), sono indubitabilmente sempre uguali a se stessi, si ripresentano nel tempo con le stesse caratteristiche che li rendono sempre riconoscibili come individui ben identificati. Ovviamente questo tipo di esperienza aumenta la confusione, perché torna a far pensare a una vita ultraterrena molto simile a quella descritta dal cristianesimo, proprio quel cristianesimo che presenta tutti quegli elementi di riflessione critica cui abbiamo dedicato la prima parte di questo lavoro. I medium incontrati dall’autore appartenevano anche ad aree culturali diverse: uno proveniva da un percorso che si potrebbe definire tipicamente “New Age”,
mentre il secondo era di estrazione chiaramente cristiana. L’aspetto curioso di queste esperienze vissute è che, di fronte a domande precise, le entità che apparivano al medium di orientamento New Age erano assolutamente reincarnazioniste mentre le entità che si presentavano al medium di formazione cristiana negavano in modo assoluto l’esistenza della reincarnazione. Naturalmente gli incontri si sono sviluppati anche su temi diversi, ma qui interessa dare conto di ciò che è stato detto dalle entità in relazione al tema di cui ci si occupa. Sia chiaro che la buona fede dei medium visitati non è messa in dubbio; loro credevano veramente di avere contatti, ma il confronto tra le varie “fonti d’informazione” sul presunto mondo che viene dopo la morte fornisce risultati per lo meno sconcertanti. È molto più facile comprendere tutto ciò se si ipotizza che le risposte provenivano dal loro inconscio che, liberato dal controllo della mente, restituiva ciò che ciascuno dei due vi aveva introdotto in anni di educazione, letture, interessi, studi, ecc. Confusione che non disturba il libero pensatore, ma, anzi, lo spinge a proseguire…
La reincarnazione in Occidente E chissà se “confusa” non era anche Elena Petrovna Blavatskij3 quando, nel 1875, fondava la Società teosofica ed elaborava la sua complessa dottrina della reincarnazione, che prevede il passaggio dell’entità attraverso diversi tipi di vite condotte anche in mondi diversi: il fisico, l’astrale e il mentale. Questa articolata successione di vite è regolata dal Karma, che attribuisce a ogni incarnazione un compito che tiene conto delle esperienze precedenti. Tra i seguaci della teosofia troviamo Annie Besant 4 che elabora ulteriormente il concetto teosofico della reincarnazione sostenendo (all’incirca come gli gnostici) che l’Ego spirituale è una scintilla della monade divina e non si differenzia nelle varie persone per cui ogni ego che si reincarna ne è solo un veicolo. Durante il processo intervengono anche i “Signori del Karma”, che forniscono un modello utile a estrinsecare il Karma che deve essere elaborato e così si fabbrica il nuovo “doppio eterico”, mentre il nuovo corpo mentale e il nuovo corpo astrale sono formati dal corpo causale, che sarebbe poi l’ego che si reincarna. È ovviamente difficile comprendere quanto scritto, ma la dottrina elaborata dalla Besant è così: anche questo è un prodotto dell’idea della reincarnazione e certo non aiuta a fare chiarezza. Forse questa confusione deriva dal fatto che la Besant univa concetti presi dal buddhismo, dall’induismo, dalla scienza e dalla filosofia.
Altro iniziato alla teosofia fu Rudolf Steiner5 che, dopo aver abbandonato il movimento e fondato una sua corrente iniziatica chiamata Antroposofia, diede un nuovo originale contributo all’idea della reincarnazione, legata al suo particolare concetto relativo alla struttura dell’uomo costituito da nove elementi: tre appartenenti al corpo, tre all’anima e tre allo spirito, identificabili con termini presi dall’induismo. Steiner sosteneva inoltre che la reincarnazione porta con sé alcune caratteristiche che la scienza invece attribuisce alle predisposizioni ereditarie: acutezza dell’attività del pensiero, buona memoria, capacità artistiche, senso morale, ecc. A volte si ha veramente l’impressione che in certi ambiti dello scibile umano sia lecito dire tutto e il contrario di tutto. Pensatori come questi possono contare sull’applicazione di un aspetto tipico della cultura orientale messo in rilievo dai più importanti studiosi (anche da quelli favorevoli alla diffusione delle dottrine buddhiste o induiste) e che costituisce una delle differenze fondamentali rispetto alla cultura occidentale intesa nel suo senso più ampio. Mentre quest’ultima, per definizione e scelta precisa, si sottopone a una continua verifica, la cultura orientale (come d’altra parte quella religiosa occidentale) presuppone un rapporto maestro/discepolo assolutamente acritico: in Occidente Cristo e la Chiesa sono i depositari della verità; in Oriente al discepolo non viene chiesto di pensare autonomamente, ma di ascoltare, ubbidire e servire il maestro, partendo dal presupposto indiscutibile che quest’ultimo possiede la verità e lo aiuterà a scoprirla. Addirittura, la scelta iniziale di seguire un maestro deve già portare con sé la convinzione che egli possieda la verità!
Susrusa (“obbedienza”) e sraddha (“fede”) sono i due precetti basilari cui deve attenersi il discepolo; desiderio di imparare e fiducia nel fatto che le tecniche e le formule che sta per imparare contengono la verità sono gli atteggiamenti che identificano il “discepolo qualificato”, l’adhikarin. Forse molti sedicenti maestri occidentali, però, utilizzano più semplicemente quell’espediente che Friedrich Engels suggeriva a Karl Marx quando lo invitava a essere criptico nei suoi scritti, ricordandogli che, molto spesso, meno la gente capisce più è disposta a credere e ad accettare , pensando che, nel mistero di concetti poco comprensibili, si nascondano chissà quali verità. Noi certo non possiamo sapere se anche i personaggi citati si sono avvalsi di questa tecnica, ma i liberi pensatori sono “ liberi” anche da queste trappole e preferiscono la limpida trasparenza d’idee chiaramente espresse.
L’Oriente critico A volte è l’Oriente stesso ad avanzare dubbi e critiche severe. Le pratiche del tantra assumono caratteristiche e determinazioni assolutamente diverse, partendo dal principio fondamentale che l’uomo deve progredire nella natura, grazie alla natura, e non rifiutarla. Queste dottrine (codificate in testi a partire dal V secolo d.C.) hanno influenzato e condizionano tuttora gran parte del pensiero orientale: maestri tantra hanno affermato che lo scopo della liberazione ottenuta attraverso l’annullamento nell’Atman vedico o nell’Anatman buddhico è addirittura frutto di un’idea patologica, una distorsione prodotta da una malattia della mente (sic!). E a sostenerlo sono degli orientali, non dei “freddi razionalisti occidentali”, condizionati dalla cultura scientifica! Il discepolo tantra si chiede infatti: • A che cosa serve la salvezza se significa “assorbimento”? • Chi cerca il Nirvana? • Che cosa si ottiene con moksa? (Si ottiene che «l’acqua si mescola all’acqua», rispondeva con una certa dose d’ironica sufficienza il maestro Ramakrishna…). Ramprasad, uno dei grandi guru tantra, sosteneva: «Mi piace mangiare lo zucchero, ma non desidero diventare zucchero».
Dottrine orientali, dunque, che negano la validità di quella gran parte di pensiero cui spesso l’Occidente ha dato, e continua a dare, credito in modo fideistico e acritico.
Dichiarazioni sorprendenti del Dalai Lama Per ultimo vogliamo ricordare due affermazioni precise fatte dall’attuale Dalai Lama che concernono la rinascita, anzi proprio la sua stessa rinascita! Nel corso di un’intervista, Tenzin Gyatso ha detto che, se un giorno qualcuno dovesse riuscire a dimostrare che la reincarnazione non esiste, lui non avrebbe nulla da obiettare. E non possiamo che dargli credito, visto il rispetto e la grande opinione che nutre nei confronti della scienza occidentale. Certo stupisce ascoltare una simile affermazione da parte di chi sarebbe alla sua quattordicesima rinascita e quindi dovrebbe semplicemente negare anche solo la possibilità d’ipotizzare una tale dimostrazione, che lui invece non esclude a priori. Nell’agosto del 2005, nel corso di un concilio tenutosi a Dharamshala, sede del governo tibetano in esilio, ha parlato ai suoi monaci della tradizione di cercare in un bambino la reincarnazione del Dalai Lama dopo la sua morte. Ha detto: I tempi sono cambiati, non c’è alcun motivo per preservare questa istituzione. Alla mia morte i monaci dovrebbero riunirsi per nominare uno in mezzo a loro come nuovo Dalai Lama.
Più nessuna ricerca, dunque, tra bambini potenziali Dalai Lama rinati, nessuna premonizione, nessun segno particolare, nessun responso oracolare… I monaci sono invitati a effettuare una scelta semplice e razionale, che appare assai simile a quella con cui i cardinali cattolici eleggono il nuovo “pontefice”. Bisogna rilevare che l’apertura mentale dell’attuale Dalai Lama è veramente grande: con queste sue affermazioni mantiene vive tutte le possibilità, anche quella che la dottrina della rinascita del massimo esponente del buddhismo tibetano, elaborata dal monaco Tsong Khapà nel XIII secolo d.C., possa essere dimostrata non rispondente al vero! Consapevole del peso e dell’effetto devastante che avrebbero potuto avere queste sue parole, ha anche aggiunto: Mi rendo conto che i tibetani potrebbero non essere d’accordo con questo metodo.
Un atteggiamento decisamente diverso, quello di Tenzin Gyatso, dalla posizione del pontefice cattolico, che non ammette il dubbio sui contenuti della fede cristiana in relazione al ritorno imminente di Gesù e alla conseguente resurrezione della carne. A questo proposito bisogna anche rilevare come i credenti cristiani siano veramente encomiabili in quanto, da circa duemila anni, continuano a rimanere fedeli… a una promessa non mantenuta! Certo è difficile non cogliere nelle parole di Tenzin Gyatso un segnale, un’avvisaglia d’inizio della fine di una delle tante dottrine che l’uomo ha elaborato per fornire risposte ai problemi angoscianti della vita e – va detto – anche per costruire sistemi di potere con il quale tenere sotto controllo intere
nazioni. Basti pensare al sistema feudale gestito in Tibet dalle lamasterie nel corso dei secoli e all’utilizzo che è stato fatto in certi periodi storici di questa “fede”, che si è rivelata molto utile anche agli effetti pratici nell’ambito di strategie politiche internazionali (ma questa sarebbe un’altra storia e non mette conto di svilupparla in questo testo…).
La nostra piccola grande mente… Si forma così, nel libero pensatore, la consapevolezza che forse tante incertezze, tante contraddizioni, tante incongruenze, tante stranezze derivano proprio dal fatto che tutto ciò che proviene dall’Oriente (come dall’Occidente, ma questo lo ammettiamo senza difficoltà) è frutto della nostra piccola o grande mente di uomini che, costantemente, è alla ricerca di una fede in una qualche forma di salvezza dall’inesorabilità della morte. 1 Si veda l’Appendice 5. 2 Si veda Paramahansa Yogananda, Autobiografia di uno Yogi, Astrolabio, Roma 1971. 3 Si veda l’Appendice 5. 4 Si veda l’Appendice 5. 5 Si veda l’Appendice 5.
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In Conclusione…
• • • • • • •
Cristo e Giovanni battista non predicavano una resurrezione, ma un regno di Dio imminente che avrebbe coinvolto i vivi. Il cristianesimo primitivo viveva nell’attesa dell’imminente Parusìa. Con l’apostolo Paolo la speranza viene concessa anche a coloro che erano morti nel frattempo e che risorgeranno. Nella prima lettera ai Corinzi la salvezza si fa universale. Giovanni evangelista rielabora ancora a suo modo le varie tradizioni che l’hanno preceduto. Buddha, nei codici pāli, sembra escludere una rinascita che coinvolga vite successive. La reincarnazione prevista dall’induismo si presenta in forme variate e spesso non compatibili le une con le altre.
Concezioni diverse in funzione di tempi ed esigenze diverse. Idee in continua evoluzione che rispondono a particolari momenti storici e a specifiche situazioni
geografiche e culturali. E allora, nel frattempo: agire o non agire? E come agire?
Agire o non agire? Dopo tanti dubbi è inevitabile affrontare la questione. L’incertezza blocca ogni possibilità di decisione oppure qualcosa è possibile – giusto o addirittura doveroso – fare, al fine di raggiungere una meta di così difficile identificazione? È bene non tentare di aggiungere nulla a quanto già detto dai grandi del passato, e allora, ci chiediamo, la risposta alla domanda potrebbe essere quella presente nel Bhagavad Gita? In quel libro si racconta che Arjuna chiede a Krishna (avatar di Vishnù) se sia più giusto agire o astenersi dal farlo e Krishna risponde che nella vita è inevitabile agire, l’importante è non avere passione (attaccamento) per il risultato dell’azione. E allora, nel mare della relatività in cui amiamo navigare, nell’oggettiva difficoltà di scelta derivante da tutto quanto esposto, ci chiediamo: •
Si possono compiere azioni senza attaccarsi a dei risultati (resurrezione, reincarnazione) che potrebbero in realtà essere un’ulteriore fonte d’illusione e d’inganno?
D’altra parte, è innegabile che si registrano notevoli difficoltà nello scegliere (e quindi nell’attaccarsi a) uno degli obiettivi possibili. La scelta sarebbe comunque sempre un atto di fede. «Non pensare al domani, a ciascun giorno basta il suo affanno» sostiene Cristo nei vangeli: forse questa indicazione significa anche che il futuro non ha necessità di essere progettato, ma prende forma semplicemente come conseguenza del nostro comportamento nel presente; se opero bene in questo momento probabilmente il momento successivo porterà con sé le conseguenze positive del mio agire nell’istante che lo ha preceduto. Non devo quindi attaccarmi a ciò che sarà, ma vivere bene l’unico attimo che mi è dato di vivere: quello presente. E ancora ci domandiamo: • Quale certezza si ha nel momento in cui, messo il “silenziatore” alla mente, si procede lungo la via della sperimentazione? • Che cosa succede in noi quando riteniamo di acquisire la consapevolezza di aver dilatato la nostra coscienza nell’Atman o di aver annullato il nostro nonsé nell’Anatman o di essere entrati in contatto diretto con il nostro Dio personale nell’estasi mistica? Situazioni diverse; ognuna nega inevitabilmente l’altra, ma il risultato viene spesso descritto come sovrapponibile… •
È risultato vero o è il prodotto di ciò che noi ci attendiamo e quindi ci
creiamo? E infine ci chiediamo: Perché un mistico cristiano non prova mai la sensazione di annullamento nel Nirvana o, viceversa, un buddhista non prova mai quella di contatto con un Dio individuale? • Possibile che, nemmeno per errore, chi cerca una cosa non ne trovi mai un’altra, visto che almeno una delle due è inevitabilmente non rispondente al vero? •
Quale felicità? Non sapendo scegliere tra le vie proposte, proviamo a scendere “molto più in basso” e pensare che, forse, quei piccoli barlumi di felicità che ci sono realmente concessi, e la relativa possibilità di diminuire la sofferenza, possano derivare più semplicemente dal «liberarsi della paura degli dèi, non aver fame, non aver sete e non aver freddo» unitamente alla consapevolezza che «non esiste vita felice senza saggezza, bellezza e giustizia». Questo dice Epicuro, e subito vengono in mente i quattro scopi fondamentali della vita umana per gli indù: 1. artha, i beni materiali, le esigenze sostanziali; 2. kama, il piacere cercato con armonia;
3. dharma, i doveri religiosi e soprattutto morali; 4 . moksa, la liberazione derivante anche dalla consapevolezza che tutto – dèi compresi! – è illusione. I testi della cosiddetta “dottrina del trivarga” (i tre primi scopi: artha, kama e dharma) paiono appartenere per lo più al IV secolo a.C.; Epicuro è nato nel 341 a.C. ed è morto intorno al 270 a.C. Ancora una volta Grecia e India sembrano aver camminato assieme… Anche il testo del Bhagavad Gita tenta di proporre una sorta di “via di mezzo”: il devoto deve evitare il forte attaccamento alla sfera dell’azione (errore compiuto dall’uomo che vive disarmonicamente il rapporto con la materia) ma deve anche evitare l’errore opposto, compiuto da chi pensa di liberarsi dagli influssi del Karma mortificando la carne, bloccando e annullando i processi emozionali e mentali. Ma, come Epicuro sostiene che la felicità deriva dal conoscere i “veri piaceri” (quelli degni di essere soddisfatti) e dal conoscere la “vera realtà degli dèi” (che non possono nuocere all’uomo), così il Bhagavad Gita nei capitoli 3637 sostiene che la forza redentrice «consiste nella conoscenza» (quella puramente mentale: jnana-marga) perché anche se tu fossi il peggiore dei peccatori, una volta salito sul vascello della conoscenza supererai l’oceano della sofferenza. Come il fuoco che arde riduce in cenere ciò che lo alimenta, così il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutti i tipi di Karma.
L a conoscenza libera, insomma (il “libero sentiero”, il “vascello della
conoscenza”…), quella desiderata dal lettore di questo libro, che non si stanca mai di proseguire nel cammino di ricerca.
APPENDICI
Appendice 1
I cinque aggregati (skandha)
Il termine skandha significa “aggregati”, o “gruppi”, e si riferisce al fenomeno dell’accumulo di fenomeni fisici e mentali simili. 1. “Forma corporea” (nama, rupa): è il corpo fisico che contiene i sensi i quali poi avviano e determinano le prime fasi del percorso della conoscenza. Questo aggregato si riferisce alle cose fisiche che però non esistono indipendentemente. La loro esistenza dipende dall’incontro dei quattro elementi (i.e. terra [solido], acqua [liquido], aria [gas] e calore [energia]). Dunque, la materia occupa lo spazio, ed è per natura vuota: essa sorge e viene a esistere, e infine svanisce. 2. “Sensazioni” (vedana): è il primo passo della conoscenza; sono gli effetti prodotti dai sensi, quando vengono a contatto con suoni, odori, immagini, ecc. 3. “Percezioni” (sanna): è la consapevolezza delle sensazioni, la loro concettualizzazione. La mente identifica ciò che è stato oggetto di sensazione e
formula un giudizio. Il senso riconosce l’oggetto per ciò che è (un rettile come rettile, un fiore come fiore…) e la mente ne definisce soggettivamente degli aspetti: fiore piacevole, rettile repellente. 4. “Formazioni karmiche” (sankara): rappresenta la serie di abitudini, riflessi inconsapevoli, complessi mentali, ricordi inconsci, reazioni automatiche, che derivano dal nostro Karma, accumulato anche attraverso le vite precedenti. È il risultato della reazione emotiva, molto importante per Buddha che ne evidenziò i pericoli sino ad arrivare a identificare questa reazione con il Karma stesso. 5. “Coscienza” (vinnana): rappresenta ciò attraverso cui si conoscono i fenomeni e si ha esperienza del mondo. Con questo termine si indica una sorta di “magazzino” che memorizza gli aspetti e i contenuti emotivi della conoscenza forniti dai sensi. Secondo il buddhismo theravada (diffuso in Occidente) si tratta proprio di quella parte di noi che si trasferisce da una vita all’altra nel processo della rinascita. Questi “aggregati” si uniscono a formare un’unità interdipendente alla quale l’uomo si attacca nonostante essa sia soggetta a un continuo mutamento.
Appendice 2
Dottrina dell’Originazione dipendente (Samyutta Nikaya)
Proponiamo direttamente il testo nella sua completezza: L’ignoranza produce reazioni emotive. Le reazioni emotive si raccolgono in una memoria che contiene le sensazioni caratterizzate da amore e odio. La trasmissione della memoria riproduce ancora la struttura emotiva. La struttura emotiva attiva i sensi. L’attività dei sensi produce contatto. Il contatto produce i sentimenti. I sentimenti generano bramosia. La bramosia genera dipendenza. La dipendenza produce ancora un’altra esistenza emotiva. L’esistenza
emotiva produce tutti gli effetti negativi cui siamo soggetti: dolore, angoscia, invecchiamento, morte…
Appendice 3
I legami e il processo di liberazione
Vengono normalmente indicati dieci “legami” ( samyojana), suddivisi in due gruppi – cinque legami inferiori e cinque legami superiori – che incatenano l’uomo al mondo del desiderio, del kama, che è uno dei principali impedimenti per il risveglio. I legami – o “corde” – sono i seguenti: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
orgoglio, attaccamento all’io (legame inferiore); debolezza della mente; attaccamento ai miti, ai riti, alle regole, alle cerimonie (legame inferiore); attaccamento al sensuale (legame inferiore); odio, ingiuria (legame inferiore); attaccamento per gli oggetti materiali; attaccamento per elementi immateriali (potere, prestigio, ecc.); presunzione;
9. irrequietezza, affanno, dubbio (legame inferiore); 10. ignoranza. Il processo di liberazione (attraversamento del fiume) veniva così rappresentato: 1. Vidya (“conoscenza della realtà”): il primo passo per l’uscita dal Samsara. 2. Sotapanna (“colui che entra nel fiume”): l’uomo supera i primi tre legami, ma può ancora essere riportato sulla sponda di partenza. 3 . Sakadagami (“colui che ritorna una volta”): si può tornare una volta sola e due dei sette legami ancora da spezzare risultano indeboliti. 4. Anagami (“colui che non ritorna”): non è più possibile esser riportati indietro dalla corrente e rimangono ancora cinque legami da sciogliere. 5 . Arahat (“il perfetto”): l’uomo ha raggiunto la sponda del Nirvana e ha così conseguito la completa liberazione.
Appendice 4
Sintetica presentazione dei testi citati nel libro
Anguttara Nikaya Discorso numerico, è la quarta delle sacre scritture buddhiste, le cinque nikayas, o “collezioni”, del Sutta Pitaka. Questo nikaya si compone di diverse migliaia di discorsi attribuiti al Buddha e ai suoi discepoli. I discorsi sono raccolti in undici libri, in base al numero di dhamma. Una simile raccolta appare nel canone buddhista cinese.
Bhagavad Gita (“Canto del Divino” o “Canto del Beato”) È un poema sanscrito di circa settecento versi, diviso in diciotto canti, contenuto all’interno del grande poema epico Mahābhārata. Viene considerato un testo sacro e, nel corso dei tempi, è anche divenuto tanto conosciuto, amato e diffuso da arrivare a essere considerato una sorta di “vangelo indù”. È anche stato giudicato l’opera letterariamente più apprezzabile dell’intera produzione epica induista. Il poema, pur costituendo uno dei capitoli del Mahābhāra ta, ha in realtà un valore del tutto autonomo all’interno dell’intera opera. Questo testo è inoltre considerato un po’ come l’essenza di tutta la spiritualità vedica indiana, poiché racchiude il senso delle 108 Upanishad, le quali a loro volta costituiscono un condensato dei quattro Veda. Il protagonista è una figura divina che parla in prima persona e si mostra fornendo la possibilità di una Sua visione completa: si tratta di Krishna, avatar (“incarnazione”) di Vishnu. L’episodio narrato nel poema si colloca nel momento in cui il guerriero Arjuna sta per avviare una guerra che lo porta a combattere e uccidere i membri della sua stessa famiglia. Di fronte a questa prospettiva, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto e chiede consigli alla divinità. Krishna, di fronte al dubbio esposto da Arjuna circa la necessità o meno di agire, spiega l’importanza dell’azione senza attaccamento al risultato e gli indica
poi le tecniche per liberarsi dal ciclo delle nascite e delle morti, e ottenere la liberazione.
Corpus Hermeticum Nel 1460 il monaco Leonardo di Macedonia portò a Firenze, alla corte di Cosimo de’ Medici, una copia manoscritta in greco del Corpus Hermeticum: un’opera composta di diciassette trattati, attribuita a Ermete Trismegisto (“Ermete tre volte grandissimo”) e rappresentante la summa della cultura esoterica dell’antichità. Cosimo de’ Medici affidò a Marsilio Ficino, umanista rinascimentale e filosofo neoplatonico, il compito di tradurre in latino questi diciassette libri di difficile interpretazione e che erano attribuiti a un autore che gli stessi padri della Chiesa ritenevano fosse vissuto prima ancora di Platone. I l Corpus Hermeticum si presenta ora come un compendio di dottrine esoteriche formatesi in Egitto al tempo dei Tolomei (i successori di Alessandro il Grande nei secoli IV-I a.C.) e derivanti forse da una serie di opere letterarie di contenuto cosmogonico, astrologico ed escatologico; erano dunque testi che contenevano i miti e i racconti dell’origine dell’universo, della nascita degli dèi, della creazione dell’uomo e di ogni forma vivente; trasmettevano inoltre i princìpi delle dottrine concernenti le “cose ultime” (ta eskatà, da cui il termine “escatologico”), la fine cioè di tutto ciò che esiste. Considerata la vastità e la complessità degli argomenti trattati, è facile immaginare che questi libri siano il prodotto delle ricerche e delle riflessioni di una lunga teoria di studiosi, saggi, filosofi, sacerdoti e pensatori in genere. Il loro vero autore (o redattore), infatti, è sconosciuto, né si conoscono con esattezza luoghi e tempi della loro composizione. Si pensa comunque che il lavoro
definitivo di redazione sia stato compiuto tra i secoli I e III d.C., al tempo in cui scrivevano Paolo e gli evangelisti.
Dhammapada Il termine è in lingua pāli e corrisponde al sanscrito dharmapada o udanavarga. Tradotto spesso come “cammino del Dharma”, è un testo del Canone buddhista conservato nel Canone pāli, nel Canone cinese e nel Canone tibetano. È costituito di 423 versetti, raccolti in 26 categorie, che la tradizione attribuisce direttamente al Buddha. Definito anche come il “cammino della liberazione”, contiene le norme e le leggi da seguire per conseguire la liberazione dal dolore. Il termine dhamma ha acquisito anche delle valenze di ordine metafisico, definendo gli elementi costituivi della realtà e il corpo cosmico del Buddha. Particolarmente venerato dalla scuola theravada, il Dhammapada viene seguito anche da molti buddhisti appartenenti a scuole mahayana ed è molto conosciuto in genere all’interno del buddhismo.
Didaché Si tratta di un testo che raccoglie gli insegnamenti del cristianesimo primitivo. Scoperto e pubblicato per la prima volta nel 1883, suscitò grande interesse e, ovviamente, molte discussioni. Il testo pare rappresentare la dottrina insegnata da una chiesa che non era ancora gerarchicamente costituita, ma che operava attraverso dei predicatori itineranti che frequentavano le varie comunità primitive: contiene una sorta di “sintesi” degli insegnamenti morali evangelici, una parte di carattere più propriamente liturgico, un’ulteriore sezione che tenta di affrontare i problemi insorgenti nelle prime comunità e termina con un’esortazione a tenere alta la tensione per l’attesa della nuova venuta di Cristo. Una versione del testo è stata curata da Simona Cives e Francesca Moscatelli: Didaché – Dottrina dei dodici apostoli, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.
Itivuttaka Un’opera di carattere eminentemente etico, che contiene 112 discorsi di Buddha. Il titolo è in realtà la frase con cui iniziano tutti i sermoni e significa “Così è stato detto”.
Majjhima Nikaya Il Majjhima Nikaya o “Discorsi di media lunghezza” del Buddha è il secondo di cinque nikaya, o “collezioni”, nel Sutta Pitaka del Tipitaka, o “triplice cesto”. Contiene 152 discorsi del Buddha e dei suoi discepoli più importanti; questi sermoni costituiscono un corpo completo di tutti gli aspetti degli insegnamenti del Buddha. Si divide in tre pannâsa (mulapannasa, majjhimapannasa, uparipannasa) formati, ciascuno, da cinquanta sutta, tranne il terzo che ne comprende cinquantadue. Ognuno di questi pannâsa è a sua volta diviso in cinque vagga(capitoli).
Poimandres È chiamato Poimandres il primo dei trattati (lógoi) che compongono il cosiddetto Corpus Hermeticum. Questo titolo viene comunemente tradotto come “pastore di uomini” e sta a indicare la figura del Dio che interviene nella vita quotidiana con il fine di dirigere, guidare e proteggere il gregge che, senza di lui, si sente perduto e in balia delle forze del male. Il Poimandres assume su di sé le caratteristiche del Salvatore che gli uomini attendono: è il Nous, la Mente Suprema, il Padre che spontaneamente decide di rivelarsi, di farsi presente al popolo dei fedeli attraverso il suo mediatore. Dio interviene perché ama l’uomo (Ánthropos, l’uomo primordiale, l’Adam della Bibbia, fatto a sua immagine e somiglianza) che si è macchiato di una colpa originaria da cui dipende il suo essere divenuto mortale nel corpo: a questo uomo quindi viene offerta la possibilità di una nuova e definitiva salvezza. Egli deve seguire la “parola” del suo Pastore e percorrere così la via che lo porterà a riunirsi con il suo Padre divino.
Udana Il titolo significa “Esclamazioni” e definisce il terzo libro del Khuddaka Nikaya. Contiene una raccolta di sutta, ciascuno dei quali termina con dei brevi versi pronunciati dal Buddha. Ci sono ottanta sutta, sistemati in otto vagga o capitoli.
Vinaya È un termine sia sanscrito che pāli, significa “disciplina” e indica la raccolta scritta delle regole di condotta seguite dalle monache e dai monaci buddhisti. Il Vinaya è una delle due categorie degli insegnamenti del Buddha Shakyamuni insieme al Dharma (“dottrina”). Attualmente si conoscono sette Vinaya. 1. Vinaya Theravāda: si compone di 227 precetti per i monaci e 311 precetti per le monache, è conservato nel Canone pāli ed è suddiviso in tre parti: – Suttavibhanga, regole di comportamento fondamentali dei monaci e delle monache; – Khandhaka, a sua volta suddiviso in Mahavagga (regole di condotta e di etichetta per il sangha, con l’integrazione di altri discorsi e insegnamenti del Buddha) e Cullavagga (elaborazioni sull’etichetta e le regole cui devono attenersi i monaci e le monache, unitamente alla trattazione di come vadano affrontate le infrazioni alle regole monastiche); – Parivara, un sunto delle regole classificate secondo diverse modalità e a scopo didattico. 2 . Vinaya Mūlasarvāstivāda: è conservato nel Canone tibetano dove prende il nome di Dul-ba, tradotto nell’VIII secolo, costituito da tredici volumi; è suddiviso in sette parti e contiene 253 precetti per i monaci e 364 per le monache.
Poi abbiamo il Canone cinese, che contiene cinque Vinaya delle scuole del buddhismo dei Nikāya: 3 . Cāturvargīya-vinaya: “Quadruplici regole della disciplina” (della scuola Dharmaguptaka), tradotto in cinese nel 408, contiene 250 regole per i monaci e 348 regole per le monache. 4. Daśa-bhānavāra-vinaya: “Dieci suddivisioni delle regole monastiche” (della scuola Sarvāstivāda), tradotto nel 404, si compone di dieci libri. 5 . Pañcavargika-vinaya: “Quintuplici regole della disciplina” (della scuola Mahīśāsaka), tradotto nel 423. 6 . Mahāsāmghika-vinaya: “Grande Canone delle Regole monastiche” (della scuola Mahāsāmghika), portato in Cina all’inizio del V secolo e tradotto nel 416. 7 . Mūla-sarvāstivāda-vinaya-vibhanga: portato in Cina e tradotto nell’VIII secolo. Il Vinaya Mūlasarvāstivāda conservato nel Canone tibetano è praticamente identico a quello conservato nel Canone cinese.
Vulgata Con questo termine si indica la versione latina della Bibbia curata da san Girolamo, segretario personale del papa Damaso, che gli commissionò il lavoro. Girolamo iniziò con una revisione dei quattro vangeli sul testo greco e successivamente, trasferitosi a Betlemme, si dedicò alla revisione dell’Antico Testamento, concludendo l’opera nel 405. Egli, pertanto, propriamente effettuò la traduzione dei soli libri dell’Antico Testamento inclusi nel Canone ebraico, mentre per il Nuovo Testamento si dedicò soltanto alla revisione dei vangeli. Il fatto che fosse stata commissionata dal papa conferì alla Vulgata un prestigio speciale che le consentì di soppiantare nel tempo le altre versioni latine, fino a imporsi in via definitiva nell’VIII secolo: il Concilio di Trento, nel 1546, la dichiarò “versione ufficiale” della Chiesa cattolica e fece approntare dalla Santa Sede un’edizione “emendatissima”, conosciuta come la Vulgata SistoClementina, o più semplicemente Clementina, che costituì la base delle successive traduzioni nelle varie lingue nazionali. Il suo prestigio proseguì ininterrotto fino a che, nel 1943, Pio XII dichiarò la preferenza della Chiesa per i testi redatti nelle lingue originali, ma la sua preminente posizione di versione ufficiale della Chiesa cattolica terminò di fatto con l’adozione delle lingue cosiddette “volgari” nella liturgia, avvenuta a seguito del Concilio Vaticano II.
Appendice 5
Sintetica presentazione biografica dei personaggi citati nel libro
Annie Besant Annie Besant nasce a Londra da famiglia irlandese appartenente alla borghesia, nel 1847. All’età di diciannove anni sposa Frank Besant, un pastore anglicano da cui ha due figli. Il matrimonio però, anche a causa dei contrasti tra lo spirito autonomo della donna e l’autoritarismo del marito, si rivela un disastro e nel 1872 la Besant lascia il marito e stringe amicizia con Charles Bradlaugh, leader della National Secular Society, un’organizzazione che lottava per il laicismo dello stato inglese. Annie Besant diventa promotrice di attività che mirano all’affermazione della giustizia sociale e si fa sostenitrice di tutte le cause che ritiene giuste come la libertà di pensiero, i diritti delle donne e dei lavoratori, il laicismo, il socialismo;
partecipa anche alla costituzione del Partito laburista britannico. È stata una scrittrice molto prolifica. Nel 1889 la “Pall Mall Gazette” le chiese di scrivere una recensione di La Dottrina segreta, un libro di Helena Petrovna Blavatskij, allora presidente della Società teosofica. Dopo aver letto il libro realizzò un’intervista con l’autrice e la incontrò a Parigi. Da quell’incontro inizia la sua conversione alla teosofia, a cui darà un’impronta misticheggiante e cristianeggiante che sarà causa di discussioni e porterà a lotte interne e divisioni. Diventata presidente della Società teosofica, nel 1893 va in India, dove la società costituisce una sede ad Adyar, dalla quale opera tuttora con il nome di Theosophical Society Adyar. Nel 1909 scopre Jiddu Krishnamurti su una spiaggia vicino alla sede della società e si convince che il ragazzo sia la reincarnazione del Buddha. A seguito di questo riconoscimento, Krishnamurti vivrà all’interno della Società teosofica, staccandosene poi all’età di trentaquattro anni. Annie Besant muore ad Adyar nel 1933.
Madame Blavatskij (Helena Petrovna von Han) Helena Petrovna von Han, poi conosciuta come “Madame Blavatskij”, nasce in Ucraina il 31 agosto 1831; era figlia di un colonnello ucraino, nobile di stirpe prussiana, e di una romanziera russa, Helena Andreevna; il nonno era un “cultore” di poteri occulti. Helena a diciassette anni sposa un generale, che aveva allora quarantotto anni e che lei non amava. Il matrimonio termina senza mai essere stato consumato, viene formalmente sciolto e Helena continuò a portare il cognome del marito con cui è universalmente conosciuta. Si sposò una seconda volta in America e anche questo matrimonio non fu consumato. Nel corso della sua vita fu accompagnata da diverse donne, benestanti e aristocratiche, che erano per lei sia compagne di vita che finanziatrici. Nel 1851 conobbe a Londra un iniziato orientale rispondente al nome di Rajput, che le fece intraprendere la strada della teosofia. Nel corso della sua vita fece diversi viaggi; sostenne di aver conosciuto Garibaldi, con cui avrebbe partecipato alle battaglie di Monterotondo e di Mentana, dove sarebbe stata ferita al torace, gettata in una fossa comune e salvata da alcuni non ben identificati personaggi, definiti “maestri”. Nel 1875 a New York fonda la Società teosofica con Henry Steel Olcott, William Quan Judge e altri. Madame Blavatskij produsse alcuni scritti (tra i più famosi: Iside svelata e La dottrina segreta) attraverso i quali diffuse il suo pensiero sulla religione, sulla
teologia e su quel mondo esoterico che aveva conosciuto nei libri del nonno letti nel corso della sua adolescenza. Si stabilì infine a Londra, dove morì l’8 marzo 1891. Secondo i principi teosofici tutte le religioni deriverebbero da un’unica verità divina che viene tramandata nel corso della storia da una strettissima cerchia di iniziati, i quali rivelano solo gli aspetti comprensibili dagli uomini appartenenti al periodo storico in cui gli iniziati si vengono di volta in volta a trovare. La teosofia moderna è frutto di un movimento religiosoesoterico che nasce nel XVII secolo e ritiene di poter guidare l’uomo al conseguimento della conoscenza esoterica del divino. Nel XIX secolo si sviluppa in un sistema sincretistico fatto di elementi provenienti dal cristianesimo, dalle dottrine orientali, da varie filosofie e dallo spiritismo allora molto diffuso in Occidente; afferma la possibilità di un diretto contatto con la divinità e predica la metempsicosi. Il testo sacro dei teosofi è Il libro di Dzyan, un presunto manoscritto tibetano molto antico, cui la Blavatskij avrebbe avuto accesso e che sarebbe servito come base per La dottrina segreta. Secondo la teosofia il mondo è soggetto a una continua evoluzione che passa attraverso una successione di stadi intermedi tra la materia e lo spirito; come il mondo, anche l’uomo cresce attraverso vari stadi che attraversano la materia e una serie di corpi sottili variamente definiti come corpo etereo, corpo astrale, corpo mentale, anima e infine spirito. Il metodo della fondatrice della Società teosofica prevedeva un forte eclettismo e una conoscenza diretta dei testi sacri. Ma gli scritti e le affermazioni della Blavatskij hanno suscitato moltissime riserve da parte degli studiosi che lei
stessa citava per accreditare le sue dottrine. Lo studioso di cultura indiana Max Müller le contestò di non conoscere le lingue da cui lei traeva le sue citazioni; da altri venne accusata di plagio; secondo molti, infine, la Blavatskij era capace di distorcere qualunque fonte pur di piegarla e adattarla alle sue idee.
Flavio Giuseppe Nacque a Gerusalemme, nel 37 d.C. circa, da una nobile famiglia; fu educato nell’ambito della tradizione ebraica ma con influssi provenienti dalle civiltà greca e latina. Ebreo osservante della Torah, vicino al movimento dei farisei, ostile ai movimenti nazionalisti, nel 64 si recò a Roma ricavandone una forte e positiva impressione. Durante la Prima guerra giudaica (66 d.C.), ricopriva la carica militare di “governatore della Galilea”. Quando i ribelli si resero conto di non potere più contrastare i romani, decisero di suicidarsi: Giuseppe riuscì a rimanere vivo e si consegnò ai romani. Ebbe un incontro, molto positivo per lui, con il comandante militare Tito Flavio Vespasiano, al quale predisse che sarebbe diventato imperatore; a seguito di questa fortunosa premonizione il futuro signore dei romani gli risparmiò la vita e Giuseppe si legò alla famiglia dell’imperatore, assumendo anche il nome della gens Flavia. Visse poi a Roma, scrivendo opere che, se pure avevano una forte impronta filo-romana, diffondevano anche elementi della cultura ebraica. Il suo scritto Guerra giudaica rappresenta la principale fonte storica circa la guerra contro Roma e contiene anche la descrizione degli ultimi giorni della fortezza ebraica di Masada. Nelle Antichità giudaiche vi sono anche alcuni cenni sulla figura di Gesù e importanti informazioni circa i movimenti religiosi del giudaismo del tempo. Morì a Roma intorno al 100 d.C.
Osho (Rajneesh Chandra Mohan Jain) Rajneesh Chandra Mohan Jain, conosciuto come “Osho”, è nato a Cuchwada l’11 dicembre 1931. Figlio di un giainista, è stato il fondatore e leader del “Movimento Osho-Rajneesh”, un movimento spirituale i cui seguaci sono noti come neosannyasin (“nuovi asceti”). All’età di ventun anni ebbe l’esperienza dell’Illuminazione, quella in cui si raggiunge il più alto grado di consapevolezza, il momento in cui «la goccia si fonde nell’oceano, nel momento stesso in cui l’oceano si riversa nella goccia». Convinto dell’importanza di ciò che aveva raggiunto, volle dare a ogni individuo la possibilità di condividere la sua esperienza. Cominciò così a viaggiare per l’India, organizzando incontri, convegni e predicando a migliaia di persone. Conclusi gli studi, insegnò al Sanskrit College di Raipur e negli anni Sessanta gli fu assegnata la cattedra di Filosofia all’università di Jabalpur. Nel 1970 si stabilisce a Bombay dove, nel 1971, inizia Christine Wolff, in cui riconosce la reincarnazione del suo amore giovanile Shashi e che diventa la compagna stabile del maestro. Nel 1971, Rajneesh assume il nome di Bhagwan (“il Benedetto” o “il Realizzato”), titolo che implica caratteristiche pressoché divine e che suscita grande scandalo. Crescono i seguaci occidentali, per cui è creata una comune agricola nelle vicinanze di Kailash. Nel frattempo, il clima urbano di Bombay non giova alla salute di Rajneesh; così, nel 1974, l’intera comunità si trasferisce in un sobborgo di Poona, dove è aperto un ashram ed è fondata una Rajneesh Foundation grazie alla quale Osho può intensificare il suo
insegnamento. Nell’estate del 1981 si trasferisce negli usa, nello stato dell’Oregon, dove fonda una comune chiamata “Essenza di Rajneesh”: riscuote subito un grande successo fino a che, nel 1985, l’intolleranza degli abitanti del luogo – ma soprattutto una successione di scandali che coinvolsero la sua segretaria e alcuni dei suoi più stretti collaboratori – costringe Osho a lasciare l’ashram: viene poi arrestato, condannato per violazioni minori della legge sull’immigrazione, incarcerato ed espulso dagli Stati Uniti. Deve anche superare numerosi ostacoli posti da parte delle istituzioni che non si fanno scrupolo di utilizzare nei suoi confronti metodi decisamente “drastici”: si parla di un tentativo di avvelenamento da parte della cia e si registra un vero e proprio ostracismo da parte dei governi di ventun paesi, tra cui l’Italia, che gli negano il visto d’ingresso. Ritorna in India e si stabilisce nuovamente a Poona, dove si trova il vecchio ashram, che accoglie ancora oggi persone che vengono da tutto il mondo. Il suo insegnamento è spesso considerato come un insieme d’idee mutuate dalle filosofie orientali (induismo, giainismo, buddhismo zen, taoismo), dal pensiero occidentale (psicologia junghiana, filosofia greca, ecc.), dalla mistica sufi e dallo zoroastrismo. Il pensiero di Osho si rivela quindi come una sorta di sincretismo la cui singolarità consiste nel tentativo di adattare i concetti e le pratiche delle culture religiose, mistiche e psicologiche alle esigenze dell’uomo moderno, soprattutto occidentale. Osho afferma che il bene più grande che possa essere concesso a un uomo sia
l’illuminazione spirituale, una sorta di comprensione, non mediata dalla razionalità, di ogni cosa di cui è fatto l’universo. Per ottenere ciò occorre seguire un percorso di meditazione che, per lui, è uno stato che va “oltre la mente”, uno stato in cui si realizza la totale presenza di sé, caratterizzata dal silenzio interiore nel quale la mente e ogni pensiero logicorazionale vengono trascesi. Osho non predicava l’abbandono del mondo terreno per cercare rifugio in quello spirituale, ma sosteneva la necessità di vivere la vita in maniera naturale e consapevole. Muore a Poona il 19 gennaio 1990: viene cremato e le sue ceneri sono raccolte presso una lapide, dove viene scritto che Osho non è «mai nato, mai morto, ha solo visitato questo Pianeta Terra».
Paramahansa Yogananda Nato Mukunda Lal Ghosh nel 1893, da un’agiata famiglia del Bengali, è stato un pensatore e mistico indiano. Ha vissuto per la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti d’America, dove è divenuto famoso per aver integrato le due grandi tradizioni religiosespirituali del mondo, quella orientale e quella occidentale. Discepolo di Swami Yukteswar Giri, nel 1915 si laurea presso l’Università di Calcutta, entra nell’ordine monastico degli Swami ricevendo il nome di Swami Yogananda (“estasi”, ananda, “attraverso la divina unione”, yoga). Nel 1920 viene inviato a Boston come delegato indiano al Congresso Internazionale delle Religioni; il suo intervento riscuote un grande successo, gode di una notevole risonanza e viene poi pubblicato con il titolo La scienza della religione. Sempre nel 1920 avvia la costituzione della Self-Realization Fellowship, un’organizzazione che ha sede a Los Angeles e che si occupa della diffusione del Kriya Yoga. Yogananda, nel corso della sua vita, ha sviluppato la sua attività tenendo lezioni e conferenze in cui illustrava gli antichi precetti della filosofia indiana, sapientemente integrati con i principi del cristianesimo, e iniziando migliaia di persone al Kriya Yoga. Ha compiuto anche un lungo viaggio tra l’Europa e l’India, nel corso del quale ha avuto modo d’incontrare diverse personalità, tra cui il Mahatma Gandhi.
Fu in quel periodo che il suo guru Sri Yukteswar gli conferì il più alto titolo monastico di Paramahansa (“Cigno Supremo”). I suoi insegnamenti sono contenuti in molti suoi libri; da citare fra tutti la sua opera più famosa, Autobiografia di uno Yogi , una delle opere sulla filosofia indiana più conosciute e apprezzate in Occidente. Yogananda morì il 7 marzo 1952 a Los Angeles, al termine di una conferenza.
Rudolf Steiner Rudolf Steiner è nato a Donji Kraljevec (nell’Impero austroungarico, oggi in Croazia) il 27 febbraio 1861. Nel 1883 si laurea alla Technische Hochschule di Vienna, studiando matematica, fisica e filosofia. Nel 1888 fu invitato a lavorare come curatore negli archivi Goethe a Weimar e nel 1891 ottenne un dottorato in filosofia all’università di Rostock. Si trasferì poi a Berlino, dove divenne proprietario, redattore capo e autore principale della rivista letteraria Magazin für Literatur. Nel 1899 pubblicò un articolo intitolato “La rivelazione segreta di Goethe”, a seguito del quale venne invitato a parlare alla Società teosofica, divenendo poi, su nomina di Annie Besant, responsabile della sezione tedesca. Elaborò dottrine personali cercando di sostituire idee, concetti e terminologia di Madame Blavatskij con le proprie e soprattutto si oppose alle influenze orientali e reincarnazioniste, sostenendo la necessità di affermare e diffondere la tradizione esoterica occidentale. Questa fondamentale diversità d’impostazione portò alla sua uscita, nel 1912, dalla Società teosofica e alla fondazione, nel 1913, della Società antroposofica, che aveva lo scopo di portare avanti le idee della scienza dello spirito o antroposofia. Dal 1897 aveva intanto iniziato la sua attività d’insegnante e conferenziere instancabile, che lo porterà a tenere più di seimila incontri.
Steiner credeva nella possibilità di unire il pensiero scientifico moderno con la consapevolezza di un mondo spirituale che è presente in tutte le esperienze religiose e mistiche. L’antroposofia, come già detto, privilegia il pensiero esoterico occidentale piuttosto che l’antico pensiero esoterico orientale, in quanto lo ritiene più consono alle esigenze dell’uomo contemporaneo. Steiner ritiene quindi che Cristo abbia un posto rilevante nel processo di evoluzione dell’uomo, in quanto l’essere che si manifesta nel cristianesimo si trova anche in tutte le fedi e religioni: l’incarnazione del Cristo fu per Steiner una realtà storica e un punto unico e fondamentale nella storia umana. L’antroposofia incoraggia insomma un pensiero illuminato, libero e lo sviluppo della coscienza umana oltre i sensi materiali. Sostiene anche l’importanza di esternare le percezioni umane attraverso l’espressione artistica, vista come una via di conoscenza che porta a unire lo Spirituale presente nell’essere umano con lo Spirituale che è nell’universo. Steiner muore a Dornach, in Svizzera, vicino Basilea, il 30 marzo 1925. Steiner ha lasciato un’eredità culturale e spirituale che ha prodotto diversi effetti in vari ambiti, tra cui l’agricoltura biodinamica, la medicina antroposofica, l’euritmia, l’arte della parola, la pedagogia (scuole waldorf ) e l’architettura vivente. Le conferenze e gli scritti sono raccolti in 354 volumi. Tra i suoi libri principali, ricordiamo: La filosofia della libertà, Teosofia, L’Iniziazione, La scienza occulta nelle sue linee generali, La mia vita e
Calendario dell’Anima (1912-13).
Appendice 6
Razionalità ed emozioni negli studi di etologia
L’intuizione di Buddha che considera animalesca la vita condotta sotto il controllo delle emozioni trova una sorprendente corrispondenza negli esiti di studi condotti sul concetto di moralità presente nelle scimmie antropomorfe. Nella sua analisi condotta sulle pubblicazioni del primato-logo ed etologo Frans de Waal, Robert Wright, che si occupa di psicologia evoluzionistica, sostiene che l’utilizzo di un linguaggio antropomorfico applicato al comportamento dei primati apre prospettive sulla possibilità di comprendere aspetti importanti del comportamento umano. Egli scrive: Rendersi conto di come le emozioni possano condurre a un comportamento strategicamente sofisticato negli scimpanzè contribuisce a farci capire che noi esseri umani possiamo essere alla mercè del dominio delle emozioni più di quanto ci accorgiamo […]. A farci capire che i nostri giudizi morali sono colorati […] dall’interesse personale, mediato dalle emozioni.
Wright sostiene che le nostre valutazioni in ordine alla moralità possono essere fortemente condizionate da fattori emotivi e che, se tutti fossero coscienti di questo, l’intera umanità ne trarrebbe grande vantaggio, perché l’uomo sarebbe allora in grado di evitare le distorsioni prodotte dalle emozioni e di giudicare e agire secondo razionalità. Christine M. Korsgaard, esperta di storia della filosofia morale, interviene nel dibattito tra i due studiosi e cita l’esempio dell’espressione che si usa spesso per definire un uomo che si comporta male: di quel tale si dice che “agisce come un animale”. Ebbene, la studiosa effettua un raffronto con le possibilità decisionali dei primati e sostiene a proposito dell’uomo cui si attribuisce un comportamento animalesco: Nel dare corso al proprio impulso più forte senza interrogarsi o riflettere, quell’individuo non è riuscito a esercitare la capacità di controllo intenzionale sui propri movimenti che fa di noi degli esseri umani.
Questa branca della scienza che studia l’evoluzione dei nostri comportamenti e atteggiamenti1 sta dunque utilizzando concetti e formulando teorie che paiono riprendere l’intuizione del Buddha, quando sostiene che l’uomo pienamente realizzato è quello che pone la sua vita sotto il controllo della razionalità. 1 Un’esauriente esposizione del tema si trova nel testo Primati e filosofi: evoluzione e moralità (Garzanti, Milano 2008) di Frans de Waal – da cui sono tratte le considerazioni e le citazioni riportate in questa Appendice – che racconta, in modo comprensibile anche per i non addetti ai lavori, i risultati dei recenti studi di Etologia, con particolare riferimento alle loro dirette implicazioni filosofiche utili a stimolare riflessioni, e propone anche una possibile ridefinizione del concetto stesso di “essere umano” in alcuni dei suoi aspetti più specifici.
Appendice 7
Elenco delle abbreviazioni dei Testi sacri
Antico Testamento Pentauteco Genesi (Gen) Esodo (Es) Levitico (Lv) Numeri (Nm) Deuteronomio (Dt)
Libri storici Giosuè (Gs)
Giudici (Gdc) Rut (Rt) I e II Libro di Samuele (1 e 2Sam) I e II Libro dei Re (1 e 2Re) I e II Libro delle Cronache o Paralipomeni (1 e 2Cr) Esdra (Esd) Neemia (Ne) Tobia (Tb) Giuditta (Gdt) Ester (Est) I e II Libro dei Maccabei (1 e 2Mac)
Libri poetici e sapienziali Giobbe (Gb) Salmi (Sal) Proverbi (Pr) Qoelet o Ecclesiaste (Qo o Eccle) Cantico dei Cantici (Ct) Sapienza (Sap) Siracide o Ecclesiastico (Sir o Eccli)
Libri profetici: profeti maggiori Isaia (Is) Geremia (Ger) Lamentazioni (Lam) Baruc (Bar) Ezechiele (Ez) Daniele (Dn)
Libri profetici: profeti minori Osea (Os) Gioele (Gl) Amos (Am) Abdia (Abd) Giona (Gn) Michea (Mi) Naum (Na) Abacuc (Ab) Sofonia (Sof) Aggeo (Ag) Zaccaria (Zc) Malachia (Ml)
Nuovo Testamento Vangeli Matteo (Mt) Marco (Mc) Luca (Lc) Giovanni (Gv)
Atti Atti degli Apostoli (At)
Lettere 13 lettere attribuite a Paolo: ai Romani (Rm) I e II ai Corinzi (1 e 2Cor) ai Galati (Gal) agli Efesini (Ef ) ai Filippesi (Fil) ai Colossesi (Col) I e II ai Tessalonicesi (1 e 2Ts)
I e II a Timoteo (1 e 2Tm) a Tito (Tt) a Filemone (Fm) più la Lettera agli Ebrei (Eb), la cui attribuzione a Paolo è stata contestata fin dall’antichità 7 lettere dette «cattoliche»: di Giacomo (Gc) I e II di Pietro (1 e 2Pt) I, II e III di Giovanni (1, 2 e 3Gv) di Giuda (Gd)
Apocalisse Apocalisse (Ap)
Della stessa collana “Il libero sentiero”…
Di che cosa parla Lo studio parallelo svolto dall’autore mette in risalto i tanti elementi in comune tra le due istituzioni. Si evidenzia così un dato di fatto che appare innegabile: le idee della Chiesa, le sue affermazioni e le sue indicazioni programmatiche trovano ampia corrispondenza nella Massoneria.
A chi si rivolge Il libro è indirizzato a tutti coloro che desiderano saperne di più, che non si accontentano delle dichiarazioni di principio o di facciata, ma desiderano approfondire per comprendere e scoprire che spesso la realtà è molto diversa da ciò che comunemente si crede.
Concetti chiave Il concetto di laicità, la separazione dei poteri laico e religioso, affermazioni e ripensamenti della Chiesa, le scomuniche, le dottrine religiose, i precetti morali condivisi, la somiglianza nelle indicazioni rituali, le comuni origini nella tradizione giudaica, i simboli della Libera Muratoria e la simbologia ebraica, ma soprattutto le inaspettate straordinarie corrispondenze tra pensiero massonico e dichiarazioni pubbliche di alti prelati nonché documenti ufficiali del cattolicesimo: esortazioni apostoliche dell’attuale pontefice, dottrina sociale della Chiesa, libro-intervista di Giovanni Paolo II Varcare la soglia della speranza … Il libro si apre con un capitolo decisamente originale: un sorta di esercizio che invita il lettore a interagire per scoprire, con sua grande sorpresa, quanto sia
spesso difficile nella realtà distinguere le indicazioni fondamentali fornite dalle due istituzioni.
L’autore Mauro Biglino, realizzatore di numerosi prodotti multimediali di carattere storico, culturale e didattico per importanti case editrici italiane, collaboratore di riviste, studioso di storia delle religioni, traduttore di ebraico antico per conto delle Edizioni San Paolo, da circa trent’anni si occupa dei Testi sacri nella convinzione che solo la conoscenza e l’analisi diretta di ciò che hanno scritto gli antichi redattori possa aiutare a comprendere veramente il pensiero religioso formulato dall’umanità nella sua storia. Da oltre dieci anni si occupa inoltre di Massoneria, in quanto riconosciuta come organizzazione iniziatica e simbolica che ha avuto notevole influenza nella storia dell’Occidente.