SERGE BRUSSOLO PEGGY SUE E GLI INVISIBILI LA CREATURA DEL SOTTOSUOLO (Peggy Sue Et Les Fantômes: La Bête Des Souterrains...
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SERGE BRUSSOLO PEGGY SUE E GLI INVISIBILI LA CREATURA DEL SOTTOSUOLO (Peggy Sue Et Les Fantômes: La Bête Des Souterrains, 2004) I personaggi Peggy Sue Peggy Sue Fairway è una ragazza rossiccia di 14 anni: porta i capelli raccolti a coda di cavallo, con due ciuffi ribelli che le spuntano sulla fronte. È molto miope. Indossa una maglietta a righe rosa e dei pantaloni verdi, e ai piedi ha un paio di stivaletti. Molto tempo fa ha affrontato gli Invisibili, creature extraterrestri che era la sola a vedere e che si divertivano a seminare il caos sulla Terra. Tutti pensavano che fosse pazza e persino i suoi genitori si vergognavano di lei. Dopo una serie di avventure, Peggy è riuscita a sconfiggere gli Invisibili. Purtroppo, come dice sua nonna, «le specie di fantasmi sono tante quante le razze di cane!», così, a ogni nuova avventura, Peggy è costretta a battersi contro nuove creature più o meno spettrali. Non va più a scuola: preferisce vivere insieme alla nonna e vorrebbe aprire una pasticceria che vende solo torte alla frutta, oppure un negozio di vestiti fabbricati da lei stessa. Non ha ancora deciso... Deve pensarci su a mente fredda, fra una catastrofe e l'altra! Una cosa è certa: non vuole diventare una strega (le formule magiche sono troppo difficili da imparare e lei ha una pessima memoria) e neppure disporre di poteri straordinari. Ha un solo desiderio: fare la vita normale dei ragazzi della sua età. In effetti, Peggy Sue è proprio una ragazza normale alla quale capitano delle avventure straordinarie. Nonna Katy Il suo vero nome è Katy Erin Flanaghan. È la nonna materna di Peggy Sue. Di mestiere fa la strega di campagna. Vende cappotti in grado di assorbire la fatica e gatti della serenità, che si impregnano del nervosismo dei loro padroni facendoli tornare calmi. È un po' pazza, ma gentilissima e sempre pronta a lanciarsi in una nuova avventura. Ha pochi poteri. Il suo animale feticcio è un rospo che emana odori pestilenziali. Il cane blu In origine era un povero cane vagabondo, ma il suo cervello è stato irra-
diato da un sole malefico che l'ha reso intelligentissimo (e per qualche tempo anche un po' strano)... Il suo pelo ha preso una curiosa sfumatura bluastra. Ha la strana mania di portare una cravatta annodata intorno al collo! Ha il potere di comunicare con gli esseri umani attraverso la trasmissione del pensiero. È bisbetico e goloso, ma coraggiosissimo. Gli piace battersi e nutre una vera passione per un osso. Non ha un nome e non vuole averne: è una maniera per affermare la sua indipendenza rispetto agli esseri umani. È il compagno fedele di Peggy Sue, alla quale ha salvato la vita decine di volte. Sebastian È il fidanzatino di Peggy Sue. Ha 14 anni... da 70 anni! Per sfuggire alla miseria, aveva trovato rifugio nell'universo favoloso dei miraggi, dove gli anni passano senza che si invecchi di un solo giorno, sicché il tempo è trascorso senza che Sebastian crescesse. Al termine di un'avventura incredibile è riuscito a fuggire dalla sua prigione. Purtroppo, per rimanere insieme a Peggy Sue ha dovuto acconsentire a diventare una statua di sabbia vivente, che si trasformava in polvere quando non veniva bagnata. La sua esistenza perciò non è stata semplice e lui ha dovuto sbarazzarsi di questa maledizione per tornare umano e condurre una vita normale insieme a Peggy. Sebastian è bellissimo, con gli occhi a mandorla e lunghi capelli neri. La sua pelle olivastra gli dà l'aspetto di un giovane indiano apache. Non essendo veramente umano, non ha bisogno di dormire né di mangiare. Ha una forza colossale, ma è un po' troppo sicuro di sé, il che gli provoca qualche problema. Prima che Peggy lo aiutasse a liberarsi dalla maledizione1, ogni volta che aveva sete e non poteva bere si seccava, si trasforma in polvere e i suoi ricordi se ne andavano insieme ai granelli di sabbia trasportati dal vento. Bastava innaffiarlo con dell'acqua pura per fargli riprendere forma, ma lui non sopportava più quel genere di costrizioni, ed era spesso di cattivo umore. Continuava a ripetersi che stava rovinando la vita di Peggy Sue, che avrebbe meritato un ragazzo più in forma. Ma adesso, per fortuna, Sebastian è riuscito a guarire e ora può amare la sua Peggy! 1 Tre compresse blu... Quella sera, dopo aver guardato la tivù, Peggy Sue andò a dormire. Due
ore dopo, un frastuono assordante la risvegliò di soprassalto e scoprì che la casa della nonna era invasa da cavalieri che indossavano corazze tutte ammaccate. Avevano degli elmi spaventosi e brandivano spade gigantesche, come se fossero pronti a dar battaglia. 2 Tutto ebbe inizio così... Era all'incirca l'una di notte quando le lampadine e gli elettrodomestici cominciarono a sprigionare scintille. Il frigorifero si mise a cuocere gli yogurt; quanto alla lavatrice, il cestello iniziò a ruotare a trentamila giri al minuto: si staccò dal suo supporto e spiccò il volo verso il cielo (da quel momento è entrato in orbita attorno alla Terra come un satellite e gli astronomi lo hanno classificato come oggetto volante non identificato). Peggy si sedette sul letto, e il cane blu ne approfittò subito per saltarle sulle gambe, con il pelo così ritto da farlo sembrare un porcospino. Un curioso odore aleggiava nella casa, una miscela di gomma bruciata e gas da cucina. La ragazza si stropicciò gli occhi. All'improvviso si accorse che un cavaliere bardato di armatura se ne stava ai piedi del suo letto. Peggy cacciò un grido di sorpresa. Poi il guerriero si tolse l'elmo, svelando il volto. Era un uomo anziano, dalla barba grigia raccolta in sottili treccioline. Una cicatrice gli solcava la fronte, gli occhi avevano un'espressione dura. Non aveva certo l'aria di un buontempone! «Salve» disse con voce sorda. «Sono Anabius Torkeval Massalia, comandante in capo dell'esercito di Kandarta, il sesto pianeta del sistema solare appartenente alla galassia della Scimmia verde. Ho attraversato l'universo per venire a chiedere il tuo aiuto.» Col suo pigiama rosa a pallini verdi, Peggy Sue si sentiva un po' stupida al cospetto di quell'individuo interamente ricoperto d'acciaio. Cercò a tentoni la vestaglia (le venne in mente che l'abito non era propriamente pulito: in effetti aveva le maniche piene di macchie di caffelatte! Che impressione avrebbe dato?). Sentì la voce di Nonna Katy dal pianterreno che inveiva contro gli invasori: «Sarete forse un cavaliere, ma questo non autorizza il vostro destriero a mangiare i cuscini del mio divano! E poi con la spada state facendo a pezzi
la moquette!» «Benissimo,» balbettò Peggy «scendiamo giù a discuterne.» Cercava di dare l'impressione di una principessa abituata a quel genere di situazioni, ma stava sulle spine perché l'uomo non sembrava un tipo amichevole. Tuttavia il cavaliere la seguì senza ricalcitrare, con le suole di ferro che producevano un rumore assordante. Non appena raggiunta la scala, Peggy si rese conto che il generale non era venuto da solo. Una decina di uomini in armatura occupava il salone di Nonna Katy. Alcuni non erano ancora scesi dal cavallo e i loro elmi sfioravano il soffitto segnandovi profonde scalfitture. Sebastian fece capolino, i capelli arruffati. «Ehi!» esclamò sbadigliando. «Che succede? Stanno girando un film?» «Sono spiacente per questa intrusione,» tagliò corto Anabius Torkeval Massalia «ma per arrivare fin qui abbiamo dovuto ricorrere a un sortilegio che ci ha permesso di attraversare lo spazio-tempo. La nostra permanenza sulla Terra non potrà durare più di cinque dei vostri minuti, quindi devo fare in fretta.» «D'accordo» fece Peggy riassettandosi i capelli (si era appena accorta dello stato spaventoso della sua capigliatura guardandosi allo specchio del salone). «Di che si tratta?» «I vostri successi sono ormai celebri in tutto l'universo» dichiarò Massalia. «Sappiamo che avete trionfato, tra gli altri, sugli Zetani e sulle sanguisughe dello spazio2; ecco perché siamo qui a implorare il vostro aiuto. Il nostro mondo, Kandarta, è vittima di un terribile flagello. Nel sottosuolo vive una creatura che si sposta nel cuore del pianeta grazie a un immenso labirinto sotterraneo. È una bestia gigantesca, che non riusciremo mai a sconfiggere senza un aiuto esterno. Nel nostro pianeta regna il terrore. Dovete darci aiuto. Ne va della vita di migliaia di bambini. La minaccia si fa ogni giorno più grande. Non sappiamo più cosa fare. Siete disposti a venire da noi per studiare la situazione? Forse troverete una soluzione...» L'uomo prese un cofanetto dalla cintura e lo depose sul tavolino. La scatolina conteneva tre compresse blu. «Una per te, Peggy Sue, una per Sebastian, e la terza per il cane» annunciò il vecchio cavaliere. «La nonna non potrebbe sopportare il viaggio, è troppo anziana. Ingerendo queste compresse sarete trasportati in un'altra dimensione, attraverso lo spazio-tempo, e sbarcherete su Kandarta senza bisogno di un'astronave. Queste pillole sono molto rare, vi facciamo un grande onore nell'offrirvele. In genere il privilegio di utilizzarle è concesso
solo ai re.» «Ehi, ma è fantastico!» esclamò Sebastian. «Mi piace l'idea di un viaggio all'altro capo dell'universo.» «I piccoli del nostro pianeta hanno veramente bisogno del vostro aiuto» ripeté il cavaliere. «Mentre vi sto parlando, i bambini vengono rapiti a decine dalla creatura del sottosuolo... e andrà avanti così fin quando qualcuno non avrà il coraggio di affrontarla.» Nel pronunciare quelle parole, alcune scintille crepitarono in corrispondenza delle giunture della sua armatura. «Ehi!» esclamò Peggy. «Sta diventando trasparente!» «Il tempo a noi concesso è scaduto» sospirò Massalia. «Stiamo per essere richiamati su Kandarta. Spero con tutto il cuore che mi raggiungerete al più presto. Pensate ai bambini...» Poco a poco, tutti i guerrieri presenti nel salone di Nonna Katy diventarono trasparenti, al punto che si sarebbe potuto scambiarli per statue di vetro... o fantasmi. «Si stanno cancellando!» fece il cane blu. «Guardate! Stanno per scomparire...» Fu esattamente quello che avvenne. I cavalieri, insieme ai loro destrieri, sembrarono dissolversi nell'aria e, in pochi istanti, di loro non rimase traccia. «Se non vedessi i cuscini del divano ridotti a brandelli, mi verrebbe quasi da dubitare di quello che abbiamo appena vissuto...» fece Nonna Katy. «Nonna,» mormorò Peggy Sue «credi che dovremmo mandar giù queste compresse?» «Se ne va della vita di migliaia di bambini» sospirò l'anziana signora «non c'è da esitare neanche un momento. Tuttavia sono preoccupata all'idea di lasciarvi andare laggiù da soli. Mi sarebbe piaciuto potervi accompagnare.» «Meglio di no» disse Sebastian, «rischierebbe di ammalarsi. Veglierò io su Peggy e sul cane.» «Imbecille!» abbaiò l'animale. «Non ho bisogno di nessuno, ho ancora abbastanza denti per difendermi da solo... e credo che anche Peggy ne sia capace.» «Ora basta! Non litigate!» intervenne la ragazza. L'idea di lanciarsi in quella nuova avventura senza la nonna l'angoscia-
va, ma era giunto il momento di abituarsi a cavarsela da sola. Dopotutto non era più una principiante, e Nonna Katy aveva tutto il diritto di godersi un meritato riposo. Alla sua età non si aveva più voglia di passare le giornate a difendersi dagli assalti dei mostri... Peggy guardò le tre compresse blu che il generale Massalia aveva lasciato sul tavolino. Tre compresse che spalancavano le porte dell'universo. Una bestia che attacca i bambini, pensò. Credo di non avere scelta... 3 I misteri di Kandarta Dopo aver ingerito la pillola magica, Peggy Sue, Sebastian e il cane blu furono aspirati da un vortice formidabile che li proiettò attraverso lo spazio da una dimensione all'altra. Al termine di quello straordinario salto nello spaziotempo, si ritrovarono tra le macerie di un castello, alle porte di una città in rovina. Si sentivano come se fossero appena usciti da trentamila giri di giostra in una sagra paesana, e il cane blu fu sul punto di vomitare tutte le crocchette che aveva mangiato negli ultimi sei mesi. Il generale Massalia li attendeva; sempre bardato nella sua corazza ammaccata, montava su un cavallo da battaglia sfregiato di cicatrici. Peggy Sue si guardò attorno. Il paesaggio di Kandarta era a dir poco strano. Attraverso la bruma si distinguevano delle costruzioni semidiroccate. Interminabili crepacci solcavano il terreno, che sembrava formato da lastre di roccia sovrapposte. Sembra un gigantesco puzzle i cui pezzi sono male incastrati, pensò la ragazza. «C'è poco da stare allegri» biascicò il cane blu. «Avete visto quelle crepe? Alcune sono così grandi che potrebbero inghiottirci. Assomigliano alle fauci di uno squalo.» «Sono contento che siate venuti» esclamò il cavaliere levandosi i guanti di ferro. «Non perdiamo tempo, presto farà notte. Devo condurvi in un luogo sicuro. Seguitemi, ed evitate di passare sopra i crepacci: è più prudente.» Peggy non giudicò di buon augurio quell'avvertimento.
Prendendolo in parola, i tre amici avanzarono stando bene attenti a dove mettevano i piedi, perché di crepe ce n'erano un'infinità. Veniva da pensare che i terremoti fossero l'attività principale di quel pianeta. A causa della nebbia non riuscirono a scorgere granché della città, che pareva costituita da edifici fatiscenti; alcuni moderni, ma altri così antichi da dare ai nuovi arrivati l'impressione di essere finiti nel Medioevo. Arrivarono infine ai piedi di una fortezza sorvegliata da soldati che indossavano degli elmi di forma conica e cotte di maglia. Un'iscrizione a lettere gotiche era incisa sulla sommità della porta: DORMITORIO DI SICUREZZA «Strano» sussurrò Sebastian. «Ho visto case infestate più attraenti di questa.» «In effetti ha l'aria di una prigione» riconobbe Peggy. «Non c'è traccia di finestre!» «Speriamo di non essere caduti in un tranello» bofonchiò il cane blu. «Potrebbe trattarsi di un canile per randagi.» Peggy Sue era sconcertata, tutto sembrava così... medioevale! «Il viaggio attraverso gli universi paralleli deve avervi un po' storditi, dunque preferisco non dirvi nulla questa sera» dichiarò Massalia scendendo da cavallo. «Andate a riposare, vi metterò al corrente della situazione domani. Passate una buona notte: qui potrete dormire in pace, i muri sono spessi tre metri e non ci sono finestre. Non vi inquietate per le serrature e le sbarre, sono per il vostro bene.» Peggy Sue accennò un inchino e Massalia girò sui tacchi. Il ticchettio dell'armatura fece ridere il cane blu, per nulla intimorito dall'andatura marziale del comandante in capo. «Fa più rumore lui che dieci barattoli in un sacco della spesa» bisbigliò. Peggy gli intimò il silenzio, e i tre amici entrarono nella fortezza attraverso le porte di ferro che le guardie avevano aperto per lasciarli passare. Appena varcata la soglia, furono presi in consegna da un inserviente munito di un impressionante mazzo di chiavi. Dovettero superare tre cancellate metalliche prima di accedere alle camere. Peggy notò che erano occupate per la maggior parte da bambini, raggruppati per classi d'età. Sembra una colonia estiva, pensò. Una colonia-prigione... Non si udiva il minimo schiamazzo. I bambini apparivano fin troppo giudiziosi, e l'atmosfera era stranamente silenziosa. Insolito, pensò Peggy,
tenendo conto dell'assenza di sorveglianti. «Hanno paura» dichiarò convinto il cane blu. «Lo sento.» «Che strano, fissano le pareti» si stupì Sebastian. «Avete visto? Scrutano i muri, come se stesse per uscirne qualcosa.» L'inserviente li condusse al piano superiore. A ogni pianerottolo estraeva una chiave per aprire una cancellata. Cominciava a diventare davvero estenuante! Peggy Sue notò delle profonde crepe sulle pareti. Erano state sigillate con del cemento, ma restavano comunque visibili. «Ecco,» annunciò l'inserviente «le stanze dei signori sono qui. Devo portare il cane alle stalle?» «No!» protestò Peggy. «Dormirà qui con me.» «Come desiderate» fece l'uomo con un inchino. «Sono delle buone stanze, riposerete in assoluta tranquillità. Il generale Massalia ha fatto rinforzare le pareti con barre d'acciaio.» «Sto morendo dal sonno» sbadigliò Sebastian. «Questo viaggio mi ha distrutto, sento che sto per crollare. Da quando sono ritornato umano non sono più resistente come un tempo. Avevo dimenticato cosa significa la fatica. Non credo che mi sveglierò prima di mezzogiorno, neppure se un mostro mi tirasse per i piedi nel corso della notte!» Dopo aver baciato Peggy, aprì la porta della stanza e scomparve. La ragazza entrò nella stanzetta che le era stata riservata. «Una vera e propria cella!» fece il cane blu. «Non c'è neanche un vaso da notte! Che comfort! Qualcosa mi dice che non devono esserci molti turisti qui, su Kandarta.» Non avendo il coraggio di spogliarsi, Peggy Sue si accontentò di togliersi le scarpe e distendersi sul letto. L'assenza di finestre era opprimente. «Ho come l'impressione di essere murata viva» mormorò. «E io sono troppo stanco per preoccuparmene» sospirò il cane blu accovacciandosi sul pavimento. «Ne riparleremo domattina... sempre che non venga qualcuno a sgozzarci durante la notte!» Appena poggiato il muso sulle zampe, il cane si addormentò. La ragazza, invece, rimase a occhi aperti a fissare il soffitto. Per quanto fosse stanca, non riusciva ad abbandonarsi al sonno. Tutto era troppo strano... quella colonia dall'aspetto di prigione, quei bambini terrorizzati... no, doveva rimanere all'erta.
Dopo qualche istante, cominciò a percepire dei raschi in lontananza, come se qualcuno stesse scavando una fossa sotto le fondamenta dell'edificio. No, era qualcos'altro... Il rumore sembrava salire in superficie, come l'eco di una misteriosa opera di scalzamento3. Qualcuno stava scavando sotto l'edificio, sotto la città, con tenace regolarità, ma il rumore dei picconi che battevano sulla pietra si innalzava lungo le pareti, si diffondeva nelle stanze che diventavano altrettante casse di risonanza. Era lì, vicinissimo e lontanissimo allo stesso tempo. È l'eco delle profondità sotterranee, pensò Peggy Sue, senza sapere da dove le venisse quella strana idea. Incapace di trovare sonno, restò seduta sul letto, mentre il cane blu continuava a ronfare sul pavimento sbavando come di consueto. Dopo un po', insofferente, Peggy aprì la porta della stanza e scivolò furtivamente nel corridoio. Il sorvegliante del piano dormiva seduto al tavolo, la testa reclinata tra le braccia conserte. Spostandosi in punta di piedi, la ragazza gli si avvicinò, si impossessò del mazzo di chiavi e aprì una dopo l'altra le varie cancellate che permettevano di accedere alle scale che portavano alla cantina. Voleva vederci chiaro. Ne succedevano di cose strane, da quelle parti! Giunta dabbasso, rimase sorpresa dall'estensione della cripta. Era una caverna grande come il parcheggio di un supermercato, culminante in una volta a ogiva che sarebbe parsa più appropriata a una chiesa. C'erano delle gabbie vuote, classificate e raggruppate per dimensioni. Ognuna recava un'etichetta. Peggy rimase stupita nel leggere: Gabbia d'acciaio indeformabile per bambini dai 10 ai 12 anni. Serratura di sicurezza brevettata. Poco più avanti, un'altra etichetta annunciava: Gabbia per neonati a barre ravvicinate per garantire massima sicurezza. Modello munito di catena per il fissaggio a una colonna o a un anello assicurato al suolo. Acciaio temprato. Sulla parete, un cartellone pubblicitario proclamava: Gabbie in acciaio, sonni tranquilli per i neonati!
Che cosa significa tutto ciò? si domandò Peggy Sue, interdetta. Dove sono capitata? Sfortunatamente la scarsa illuminazione lasciava al buio buona parte dei luoghi, e la ragazza rimase immobile, le orecchie in allerta, ai margini di quella caverna nera come la notte nella quale non osava avventurarsi. Non ci mise molto a individuare da dove provenivano i rumori. Erano dei raschi regolari, come degli artigli che tracciano profondi solchi in una falesia di gesso. Non si fermavano mai, a volte sembravano lontani, altre volte vicinissimi, come se la creatura risalisse verso la superficie per poi rituffarsi nel più profondo degli abissi. Peggy Sue ipotizzò che la rete di gallerie nel sottosuolo fungesse da cassa di risonanza, diffondendo i suoni a grande distanza, lontano dalla reale sorgente d'emissione. Ogni galleria era come un altoparlante, e gli echi si mescolavano in un brusio soffocato che finiva per assomigliare a un esercito che scava una trincea sotto i piedi del nemico. Per tranquillizzarsi cercò il conforto della parete e vi batté sopra il pugno; mal gliene incolse: il muro le parve talmente friabile che avrebbe potuto sradicarne le pietre traballanti senza alcun problema. Quella protezione porosa sarebbe servita a ben poco di fronte a un eventuale invasore e, per un breve istante, Peggy immaginò che il muro si sarebbe dischiuso per lasciare spazio a un essere ripugnante: un tentacolo melmoso, uno pseudopodo4 terminante in un corno o un dente. Quella visione fantasmagorica la convinse a battere in ritirata. Non doveva assolutamente farsi contagiare dall'atmosfera di superstizione che aleggiava su Kandarta. Facendo uno sforzo per tranquillizzarsi, ritornò sui suoi passi. Mentre stava per lasciare la caverna, un'ombra di dimensioni portentose le sbarrò la strada, strappandole un urlo. Riconobbe Massalia, sigillato come al solito nella sua armatura ammaccata, scuro in volto. «Mi scusi,» balbettò Peggy «non volevo essere indiscreta, ma...» «Nessun problema» la interruppe il cavaliere. «Volevi capire cosa succede, rientra nella tua missione. È importante che tu ti renda conto dei pericoli che ti circondano. Domani ne saprai di più. Ti porterò ad ascoltare le prefiche, nel foro5.» Pronunciate quelle parole enigmatiche, scomparve nella notte senza neppure un cenno di saluto. Peggy si affrettò a ritornare nella sua stanza e chiuse la porta a doppia mandata.
Il cane blu stava ancora dormendo... e sbavando come di consueto. 4 Il sotterraneo della paura L'indomani mattina, all'ora della prima colazione, Massalia si presentò per accompagnare i ragazzi. Peggy Sue si era ovviamente premurata di mettere i suoi amici al corrente delle scoperte notturne. «Come vi ho già accennato,» spiegò il cavaliere «Kandarta è vittima di un terribile flagello. Nel sottosuolo vive una creatura infernale. Si sposta nelle profondità del pianeta grazie a una rete di migliaia di cunicoli sotterranei. Di notte fa scivolare i suoi tentacoli nelle case e rapisce i nostri bambini.» «E cosa ne fa?» balbettò Peggy. «Li mangia» rispose il generale. «È per questo che l'abbiamo soprannominata 'la Divoratrice'. Si tratta di una bestia gigantesca, una specie di piovra. Nelle città regna il terrore, i bambini non hanno più il coraggio di addormentarsi. Il suolo non fa che screpolarsi per lasciar emergere nuovi tentacoli. Dovete darci manforte. Ne va della vita di migliaia di bambini.» «I gatti...» fece il cane blu. «Mangia anche i gatti?» «No» rispose Massalia, «soltanto i bambini e gli adolescenti. Disdegna gli adulti, forse non sono di suo gradimento.» «Ah, se è così...» bofonchiò il cane blu, deluso. «Se avesse mangiato i gatti, forse avremmo potuto concludere che non è poi così cattiva...» «La minaccia cresce di giorno in giorno» ripeté con vigore il generale. «Mmmm» bofonchiò il cane blu. «Questa bestia, caro barone... diceva che non mangia i cani, vero?» «Né i cani, né i gatti, e neanche gli adulti» ripeté Massalia. «Soltanto i bambini e gli adolescenti fino ai quindici anni circa.» Tacque, poiché erano appena giunti in una piazza pubblica. Vi era riunita una folla gemente di uomini e donne che si lamentavano levando le braccia al cielo. Di tanto in tanto un oratore saliva sul basamento di una statua in frantumi e pronunciava un discorso. Le donne piangevano, agitando le mani tremanti. Gridavano o mormoravano delle preghiere. Poco a poco il cerchio dei volti si serrò, formando un muro di corpi saldati l'uno all'altro. I cittadini parlavano tutti insieme, e
Peggy stentava ad afferrare il senso delle loro parole. Tese l'orecchio. Le parve che rivendicassero il diritto a dormire in pace; parlavano della paura di vedere rapiti i loro figli. I piccoli, dicevano, dovevano essere protetti dai malefici della notte, dall'avidità della creatura nascosta al centro del pianeta. «I neonati dovrebbero poter dormire tranquilli nelle loro culle» gridò una donna. La folla approvava con cenni del capo, mormorando con voce sorda: sìè-vero, così-dovrebbe-essere. «Un tempo i nostri bambini potevano giocare senza timore» proclamò un uomo. «Gli asili erano posti tranquilli e sicuri, non vi avveniva alcun dramma...» «Sì-è-vero» scandì la folla. «Un tempo credevamo che sarebbe stato così per sempre. E poi... e poi si è risvegliata la Divoratrice, la vecchia bestia nascosta nel cuore del pianeta. Il mostro che si nutre di bambini. Col tempo è diventata sempre più forte e i pavimenti d'acciaio, le sbarre alle finestre non sono più bastati a difendere i nostri bambini dal suo terribile appetito. Ha cominciato a eludere i nostri stratagemmi, i nostri sistemi di protezione. Trova sempre il modo di infiltrarsi nelle stanze dei ragazzini per portarseli dietro nel suo nascondiglio...» «Sì» tuonò un uomo. «All'inizio le sue unghie erano fragili, si sgretolavano contro l'acciaio delle inferriate. Sapevamo che era qui, ma non la temevamo. Pensavamo che si sarebbe accontentata degli animali offerti in sacrificio.» «Ma poi è cresciuta» disse con voce tremula un vecchio col viso nascosto tra le mani. «Ed è cresciuta anche la sua fame. Ha cominciato a rifiutare le nostre offerte. Voleva altre prede... più succulente. Aveva bisogno di bambini. E le sue unghie, nel frattempo, erano diventate artigli in grado di tranciare il ferro. Ormai si faceva beffe delle porte blindate. Stritolava le inferriate tra le dita, come noci. Ha cominciato a rapire i neonati, di notte, durante il sonno... I suoi tentacoli approfittavano della minima fessura per infiltrarsi nelle case all'insaputa dei genitori...» «Sì, la Divoratrice è uscita dal letargo» confermò l'oratore, «e questo significa che presto abbandonerà il suo guscio per mettere fuori il naso, che squarcerà il terreno per spuntare all'aria aperta. Sarà uno spettacolo tremendo, perché nessuno conosce il suo aspetto, a quel che si dice orripilante. Sì, farà esplodere Kandarta e spiegherà le sue ali nella notte cosmica,
pronta a prendere il volo dopo un'attesa durata millenni.» Alcune donne, tra la folla, caddero in ginocchio e si misero a battere il capo contro il terreno. Un lamento generale correva di bocca in bocca. Peggy Sue prese il generale per un braccio e cercò di trascinarlo in disparte dietro una colonna, ma il cavaliere si liberò con uno strattone. «Cos'è questa storia del guscio?» bisbigliò la ragazza. «Credono che Kandarta sia un uovo?» Massalia le rivolse uno sguardo sorpreso. «Non hai ancora capito?» fece. «Santo cielo! Siete lenti di comprendonio, voi Terrestri! Devo dunque spiegarti tutto per filo e per segno? È proprio così: Kandarta è un uovo. Un uovo gigantesco, sospeso nello spazio. Un uovo deposto da un animale preistorico e abbandonato qui, nel vuoto cosmico. Un uovo destinato a schiudersi lentamente, al cui interno si è sviluppato l'embrione di un animale enorme di cui ignoriamo quasi tutto.» «Ma...» farfugliò Sebastian. «Non sarà una leggenda?» «Nient'affatto» replicò Massalia. «È la pura e semplice verità. Viviamo su un guscio d'uovo. Abbiamo costruito delle città sulla sua superficie. Camminiamo sopra una bestia addormentata, arrotolata su se stessa, che un giorno, quando avrà raggiunto lo stadio finale del suo sviluppo organico, farà scoppiare l'uovo che chiamiamo Kandarta. Allora moriremo tutti. Il pianeta esploderà in mille pezzi e la Divoratrice prenderà il volo.» Peggy Sue era frastornata, ma non osava contraddire il suo interlocutore. Dopotutto si trattava di una credenza come tante altre, e lei non era il tipo da perdersi in futili discussioni. Tuttavia, al pensiero di trovarsi appollaiata su un guscio prossimo a fendersi, provava un'angoscia terribile. Un uovo? Un uovo gigantesco che galleggiava nel cosmo, di dimensioni pari a quelle di un piccolo pianeta? Suvvia, era assurdo! Una storiella dell'orrore. Una superstizione da contadini analfabeti, ecco tutto. Ma per quanto tentasse di rassicurarsi, qualcosa la spingeva a tenere lo sguardo incollato al suolo sotto i suoi piedi. «Non ci credi, eh?» fece Massalia, con aria beffarda. «I Terrestri non ci credono mai, eppure è la verità. La Bestia è qui, come un enorme pulcino. Un pulcino orrendo il cui embrione ha impiegato mille anni per maturare. Ecco perché mangia i bambini: per completare il suo sviluppo. Rapisce i ragazzini perché sono privi di difese, a portata di mano. Può impadronirsene senza correre rischi. Le basta far scivolare a caso, di notte, una delle sue
zampe nelle gallerie che solcano il suo guscio e insinuarsi in una casa.» Il cavaliere fece una pausa, come se cercasse le parole, poi mormorò: «Dovete mettervi in testa che è un guscio poroso, sul punto di scoppiare, già rotto in diversi punti. È da queste crepe che passano le sue zampe.» «Già rotto?» ripeté Peggy Sue. «Sì, l'uovo stava per dischiudersi dieci anni fa. Il pianeta non è scoppiato solo perché abbiamo rinchiuso i bambini dentro fortezze dalle pareti molto spesse, mettendo la Divoratrice a dieta. La Bestia si è ritrovata priva di nutrimento e il suo sviluppo corporeo si è rallentato. Lo capite da soli, è impossibile che muoia di fame. Se non ha più da mangiare entra in letargo, come i rettili. Si iberna. Rimane in attesa. Può rimanere così anche per un secolo o due. Non ha fretta. Per lei il tempo non ha alcuna importanza.» «Ma perché gli abitanti del pianeta non hanno mai cercato di ucciderla?» domandò Peggy Sue, maledicendosi per essersi lasciata trascinare in quella discussione. «Alcuni vogliono ucciderla» sospirò il generale con stanchezza. «Altri no... dicono che è lei a darci il calore, è lei la nostra fonte di riscaldamento. Che è lei a emettere il nostro ossigeno. Il suo magnetismo ci fa stare con i piedi incollati al suolo. Se si rattrappisse nel suo guscio, e morisse, moriremmo tutti con lei, almeno stando a quello che sostiene questa gente. Ecco perché la Divoratrice è sopravvissuta così a lungo. Ma io sono deciso a mettere termine ai suoi crimini. Le farò guerra senza tregua... e la ucciderò, con il vostro aiuto, se accetterete di condurre questa missione.» Peggy Sue annuì per guadagnare tempo. Non aveva attraversato il cosmo per perdersi dietro a simili frottole. Era venuta lì per risolvere il problema dei rapimenti dei bambini, ma aveva sempre creduto che si sarebbe trovata ad affrontare una bestia reale, non un animale da leggenda. Aveva pensato che avrebbe potuto trattarsi di una bestiolina poco attraente, certo, ma non quella specie di dragone cui faceva allusione Massalia. «Allora» disse Sebastian un po' stupidamente, «è lei che sentiamo camminare sotto terra? Quando si annoia la si sente andare avanti e indietro dentro l'uovo?» Il generale si limitò a un'alzata di spalle e si allontanò, aprendosi un varco tra la folla. Peggy Sue gli si precipitò dietro. Si sentiva alquanto a disagio in mezzo a quella folla in lacrime. Quando raggiunse il cavaliere cercò di prendergli una mano, ma questi riuscì a liberarsi con uno scatto. «Sono deluso» fece con una sorta di stanchezza rassegnata. «Siete degli
idioti. Pensavo che foste degli eroi, e invece mi ritrovo di fronte a degli stupidi adolescenti capaci solo di fare ironia. Ero convinto che aveste la mente più aperta. Se continuate con quest'atteggiamento di scetticismo non capirete nulla di quello che succede sotto i vostri piedi. Siamo entrati nella fase finale. La Divoratrice è ormai prossima a trasformarsi. È quasi interamente formata e non pensa ad altro che a uscire. Il suo appetito aumenta, così come la sua impazienza. Ne ha abbastanza del suo stato di reclusione, vuole prendere il volo, spiegare le ali e partire alla scoperta delle galassie. Ha un solo desiderio: completare la costruzione del suo organismo, entrare in possesso di tutti i suoi poteri.» «È per questo che la volete uccidere?» chiese Peggy. «Sì» confermò Massalia con voce grave. «Ma non sarà facile. Ho dei nemici. La Divoratrice può contare su molti sostenitori, dei fanatici che la difendono. Hanno già tentato di assassinarmi più d'una volta.» «Cosa li spinge a mettersi al servizio di questo mostro?» «Sono degli stregoni» rispose il generale. «La creatura del sottosuolo possiede dei poteri immensi. Si serve delle crepe nel terreno, per meglio dire nel guscio, per soffiare dei gas stregati che provocano curiose metamorfosi. La sua bocca non emette gas carbonici, ma sostanze misteriose capaci di trasformare un essere umano in qualsiasi cosa... Gli stregoni traggono grande profitto da queste burrasche malefiche, che si premurano di sigillare in bottiglie. La Divoratrice è l'unica fonte del loro potere: ecco perché vogliono proteggerla, anche a costo della vita di tutti i bambini di Kandarta. Dovrete usare la massima cautela nei loro riguardi, perché non esiteranno a eliminarvi, facendo ricorso a ogni mezzo a loro disposizione.» «Che cosa contate di fare?» domandò Sebastian. «Gettare una bomba in un crepaccio?» «Vi racconterò una storia» sospirò Massalia. «La mia. Un tempo, ero al servizio del re Walner, che visse a Kromosa. Avevo fatto costruire una freccia gigantesca e una balestra delle stesse dimensioni. L'avevamo installata su una delle terrazze del palazzo reale. Da quel punto dominavamo uno dei crepacci più grandi di tutta Kandarta. Ci offriva una perfetta visuale di tiro. Il mio piano era scoccare la freccia verso il centro del pianeta, per trafiggere il mostro e porre fine alle sue malefatte.» «E poi?» chiese Sebastian. «Poi Ranuck, il gran visir, mi ha fatto allontanare dalla città con i pretesti più inverosimili. Mi ha assegnato ai confini dei territori. Alla fine ho capito che non aveva la minima intenzione di utilizzare la freccia. In realtà,
faceva parte di quella schiera di esaltati che difendono la Bestia e si fanno chiamare gli 'amici della piovra'.» «A che scopo farci venire qui?» chiese Peggy Sue. «Perché non mi fido di nessuno... gli amici della piovra sono dappertutto. I miei uomini hanno paura, alcuni hanno già disertato le nostre fila. Voi siete degli eroi, tutti hanno sentito parlare delle vostre gesta. I bambini vi conoscono, leggono le vostre avventure e vi amano. Se vi unirete a me, la gente riacquisterà le speranze e mi seguirà.» «Qual è il vostro piano di battaglia?» chiese Sebastian, preoccupato. «Dovrete introdurvi nel palazzo reale, a Kromosa, con un pretesto... e lanciare la freccia gigante nel crepaccio. Non è complicato: il mio maestro di guerra, Zabrok, vi spiegherà cosa fare.» «Questa notte, nella cantina del dormitorio, ho visto delle gabbie» disse Peggy. «A cosa servono?» «I genitori ci chiudono dentro i figli» rispose Massalia. «Sperano così di proteggerli dalla Divoratrice. Molti ragazzini passano anni rinchiusi in gabbia. Quando diventano grandi, basta aggiungere delle ruote per consentire loro di spostarsi.» «Non escono mai?» «No, la gran parte dei genitori si oppongono. Credono che le gabbie possano proteggere i bambini dall'avidità della Divoratrice, ma si sbagliano.» Parve soffermarsi a riflettere e poi aggiunse: «Adesso andate a mangiare. Sento che non siete ancora convinti. Tra poco vi mostrerò una cosa che vi farà capire che non sono pazzo.» Quando il cavaliere si fu allontanato, Sebastian si batté l'indice contro la tempia. «Secondo me è un po' suonato» mugugnò. «Non ne sarei così sicuro,» protestò il cane blu «il mio fiuto mi segnala una presenza sotto i nostri piedi... una presenza portentosa... un po' come se mi trovassi a fiutare ai margini di una tana... il guaio è che si tratta di una tana grande come un pianeta. Non mi garba molto l'idea di ritrovarmi di fronte alla bestia che ci si nasconde.» «Di qualsiasi cosa si tratti,» sospirò Peggy «dobbiamo aiutare quei bambini. Se è vero che qualcuno li rapisce, abbiamo il dovere di neutralizzarlo, che sia una banda di stregoni o... un mostro.» I tre amici andarono a fare colazione. Alla mensa del dormitorio ricevet-
tero della zuppa e del pane appena sfornato. Era delizioso, ma non servì a fugare i loro dubbi. «Ho paura, lo ammetto, ma sono tentato da quest'avventura» annunciò il cane blu. «Preferisco di gran lunga rabbrividire di terrore che starmene fermo. Sono mesi che non succede più nulla. Non mi diverto a fare il cane da salotto, ho voglia di un po' d'azione. E poi questo mostro deve avere degli ossi niente male... se riuscissi a catturarne uno potrei passare il resto della mia vita a sgranocchiarlo! Ve lo immaginate? Un osso grande come un transatlantico!» «Anche ammettendo che esista,» fece Sebastian «il problema è capire se bisogna davvero ucciderlo. Forse c'è una soluzione diversa...» «Sono d'accordo con te» disse Peggy Sue. «Massalia è accecato dall'odio, non bisogna prendere alla lettera tutto quello che dice.» Uscendo dalla mensa, i tre amici fecero quattro passi sulla piazza del mercato. Sebastian s'inginocchiò sul bordo di una fenditura e si sporse per guardare dentro. «Credi che la Bestia sia giù in fondo» domandò «e che ci stia spiando? Se avessi una torcia forse potrei vedere il suo occhio fisso su di noi. Deve essere enorme, no?» Peggy ebbe un brivido. Afferrò il ragazzo per l'orlo della camicia per impedirgli di sporgersi oltre. Aveva paura che perdesse l'equilibrio e scivolasse in fondo al buco. Il cane blu si era messo a fiutare sul limitare di quell'enorme tana, come se fosse sul punto di snidare una lepre. «Senti qualcosa?» chiese la ragazza. «Sì» fece l'animale. «E sento anche che si muove.» «Potrebbe trattarsi dell'eco di un fiume sotterraneo» sospirò Sebastian. «Come essere sicuri dell'esistenza del mostro? La gente di Kandarta ha l'aria di essere molto superstiziosa.» Peggy Sue non rispose. Fissava il baratro scuro della crepa, terrorizzata al pensiero di scorgere all'improvviso un occhio gigantesco puntato su di lei. 5 La metropolitana dell'incubo Nel primo pomeriggio il generale venne a cercarli.
«So che non siete convinti,» annunciò «ma una piccola visita alla metropolitana dovrebbe avere ragione delle vostre esitazioni.» «Avete la metro?» si stupì Sebastian. «Dalla maniera in cui vi vestite, pensavo piuttosto che foste ancora ai tempi del Medioevo.» «Kandarta non è stata sempre così» disse con tristezza Massalia. «All'inizio della colonizzazione era un pianeta assai moderno, ma la Divoratrice ha distrutto le nostre industrie, facendoci regredire poco a poco. La metropolitana risale a quell'epoca. Adesso non funziona più.» In quel momento, Peggy Sue si accorse che Massalia portava a tracolla una potente lampada a dinamo. «In genere i corridoi sono illuminati,» disse il generale, «ma ahimé, siamo sempre a rischio blackout. Se dovesse accadere non allarmatevi.» Il suo tono voleva essere rassicurante, ma Peggy Sue percepiva il suo nervosismo. Uscirono dal dormitorio e raggiunsero una piazza al cui centro si ergeva una statua di bronzo, alquanto orrida, dedicata alla memoria di un re dimenticato. Lì c'era l'ingresso della metropolitana. I gradini della scalinata d'accesso erano ricoperti da mucchi di spazzatura, e furono costretti a scostarli a pedate per raggiungere le porte d'ingresso. Peggy Sue si era preparata mentalmente a ritrovarsi nel cuore di un labirinto sinistro. Fu tutto il contrario. I corridoi che si aprivano dinanzi a lei erano vuoti e puliti, illuminati da batterie di lampade al neon che diffondevano una pallida luce scintillante sul pavimento umido. Per quanto si tendesse l'orecchio, non si percepiva alcun rumore di corse affannose, rollio di vagoni, sbattere di porte. Le tenebre regnavano solo in pochi luoghi, dove l'illuminazione non funzionava, ma le zone d'ombra non superavano i venti metri di lunghezza. Peggy Sue non poteva comunque fare a meno di accelerare il passo ogni volta che Massalia li guidava per quei tratti bui. Man mano che avanzavano, gli adolescenti si resero conto che il silenzio di quei luoghi era solo apparente. In fondo, c'era qualcosa che strisciava contro le pareti. Quel movimento a volte si interrompeva trasformandosi in un grattare feroce, come una mano contro le pietre di un muro. Massalia, pallido in volto, non diceva nulla. Avanzava meno velocemente, adesso che avevano raggiunto i binari. «È stato un errore costruire la metropolitana» ansimò arrivando sotto la volta della stazione. «Era prevedibile che i tunnel avrebbero costituito una perfetta via di circolazione per la Divoratrice. Non le è parso vero... meno
da scavare! Vi ha introdotto i suoi tentacoli, spostandosi come in una tana. Poco a poco ha invaso l'intera rete ferroviaria sotterranea, provocando numerosi incidenti. La gente ha smesso di utilizzare questo mezzo di trasporto, e i convogli sono rimasti ad arrugginirsi sui binari.» Malgrado la paura, Peggy sentì il bisogno di osservare l'estremità del tunnel. «Allora,» disse «secondo voi la creatura è da qualche parte qua dentro?» Massalia si limitò a un'alzata di spalle. «Non tutta» sussurrò. «Solo alcuni tentacoli. È un animale gigantesco che se ne sta seduto al centro della terra, come un pulcino nel suo guscio. Ve l'ho già spiegato. Pensa che tutto ciò che si trova sulla superficie dell'uovo le appartenga. Le città, gli uomini... i bambini.» Peggy Sue non trovò nulla da obiettare. Massalia tuttavia intuì il suo scetticismo, poiché sentì la necessità di spiegare ancora una volta: «Era un uovo di pietra, sospeso nel vuoto siderale, dal guscio così duro, così spesso da poter essere confuso con la roccia. Questo guscio era ricolmo di minerali di grande valore; ecco perché i primi coloni hanno creato una compagnia mineraria. I giacimenti sembravano inesauribili, i filoni di una ricchezza senza eguali. E poi, poco a poco, hanno scoperto la verità. Ci hanno messo degli anni per ammettere che una bestia viveva sotto i loro piedi, fornendo loro il calore di cui avevano bisogno, che era lei - tramite l'involucro poroso dell'uovo - a rilasciare l'ossigeno necessario a creare un'atmosfera artificiale. Se avessero avuto un briciolo di buonsenso avrebbero dovuto fuggire, ma il richiamo del denaro li ha fatti restare. Tutto quell'oro... per nulla al mondo ci avrebbero rinunciato. Scavando dei cunicoli minerari hanno aperto mille passaggi nei quali la Divoratrice si è precipitata, avvicinandosi alla superficie.» «E l'appetito dell'animale è cresciuto» completò Peggy Sue. «Più si sviluppa, più ha fame. Ma cosa farà questa... cosa, quando sarà uscita dal guscio?» «Volerà via, saltellando di pianeta in pianeta come un avvoltoio. Si librerà nella notte, alla ricerca dei mondi popolati da milioni di milioni di bambini. Comincerà a razziare negli asili nido, nelle scuole, nei collegi.» Peggy Sue fu percorsa da un brivido. Le sembrava quasi di sentire il battito di ali di quello pterodattilo leggendario: ali capaci di oscurare il sole e far sprofondare un intero pianeta nel buio più assoluto. «Ma qual è il suo aspetto?» domandò. «Immagino che ne abbiate almeno un'idea.»
Massalia la prese per mano e la condusse davanti a una parete della stazione. Sul muro erano dipinti degli affreschi rudimentali, degli abbozzi di un animale fantastico. Era simile a una piovra dai tentacoli brulicanti in attesa all'interno del guscio, ma anche a un enorme ragno. «Chi lo ha disegnato?» chiese Peggy Sue con un nodo alla gola. «La gente che viaggiava nei vagoni rovesciati dalla Divoratrice. Hanno dipinto queste immagini per testimoniare ciò cui avevano assistito.» Peggy si allontanò dai disegni. «Venite» ordinò il vecchio cavaliere. «Questa volta vi mostrerò qualcosa che vi convincerà definitivamente. Dovremo inoltrarci nel tunnel, ma immagino che non avrete paura, dato che non credete all'esistenza della Divoratrice, vero?» Non lasciando agli adolescenti il tempo di rispondere, saltò dalla banchina per scendere sui binari. Peggy e i suoi amici non poterono esimersi dal seguirlo. Tuttavia sentirono lo stomaco chiudersi quando imboccarono la volta del tunnel. Massalia azionò la manovella della lampada a dinamo, rischiarando la galleria di una luce tremolante che accentuava l'aspetto fantastico dei luoghi. Peggy si rese conto di avere la bocca completamente asciutta. Massalia adesso camminava lungo le carrozze rovesciate di un convoglio deragliato a causa di una collisione. La scarsa illuminazione non permetteva di distinguere le sagome dei vagoni. Grandi crepe solcavano il terreno. Presa da un senso di vertigine, Peggy prese in braccio il cane blu. «Guardate» ansimò all'improvviso il cavaliere dall'armatura ammaccata. «È lì, in testa al convoglio. La motrice l'ha segato in due al momento dell'impatto, ed è rimasto là sul posto a seccarsi.» Peggy strabuzzò gli occhi. La luce tremolante della torcia nelle mani di Massalia illuminava un animale raggomitolato. No, non era un animale, piuttosto... una mano? Una mano grande come la carrozza di un treno terminante con tre lunghe dita artigliate. La pelle aveva un aspetto squamoso e mummificato. L'illuminazione fioca poteva farla confondere con i resti di un ragno gigantesco, ma era davvero una mano dalle dita affilate. Seppure rattrappita, dava l'impressione di formidabile potenza. Era un utensile naturale, concepito
per squarciare i materiali più resistenti. «È l'estremità di un tentacolo» disse Massalia. «Il suo arto prensile. Il convoglio lo ha tranciato di netto al momento dell'impatto, trent'anni fa. È rimasto qui, da tutto questo tempo. Si dice che ci abbia messo un'eternità a morire. Strisciava lungo i vagoni, nonostante fosse spezzato in due, cercando di introdurvisi per catturare i giovani viaggiatori.» Il generale tacque, incapace di dire altro. Peggy Sue si rese conto che stava indietreggiando, allontanandosi inconsciamente da quella specie di strano rifiuto che ostruiva il tunnel. Inciampò su un binario e per poco non cadde. Sebastian l'afferrò per una manica e la rimise dritta. «Fate attenzione» mormorò Massalia, «tutte queste crepe conducono direttamente al centro della terra. Chi cade...» La ragazza si voltò. «Allora,» fece il cavaliere «ci credete adesso?» Peggy accennò un movimento verso l'uscita, ma Massalia l'arrestò. «Dove vai?» tuonò. «La visita non è ancora terminata.» Era impietoso, e i tre amici dovettero seguirlo fino a un'altra stazione, dove il generale indicò loro una volta solcata da crepe su tutta la lunghezza, come se avesse incassato terribili colpi d'ariete. «Vedete» disse Massalia. «I tentacoli salgono lungo i tunnel fino alla volta della galleria e la tempestano di colpi. Sopra le nostre teste c'è l'edificio del dormitorio in cui avete passato la notte. La Divoratrice lo sa. Ha percepito la presenza dei bambini. Vorrebbe provocare un cedimento del terreno. Se lo stabile crollasse, i bambini sarebbero inghiottiti dai crepacci, e lei allora li farebbe prigionieri. Non si accontenta più di attendere passivamente: appena fiuta la presenza di una preda fa di tutto per catturarla. Guardate, quanto tempo pensate che potrà resistere ancora la volta?» Stava per aggiungere qualcosa quando alle loro spalle si sentì un rumore. Rimasero immobili, in stato d'allerta. «Ehi...» sussurrò il cane blu «viene dal tunnel... sembra qualcosa che si sposta.» A Peggy venne la pelle d'oca sulle braccia. Girandosi verso il generale, balbettò: «Ditemi che sto sognando, non può essere...» Non osò terminare la frase. Il rumore si avvicinava. Dev'essere un ratto, pensò tra sé la ragazza. Un ratto enorme...
Tutti gli sguardi erano ormai fissi sull'ingresso del tunnel, per metà ostruito dai vagoni arrugginiti. La 'cosa' raschiava a più non posso, ben decisa a uscire. «È il tentacolo» ansimò Sebastian. «Non era morto! Santo cielo, generale, ci avete portato nella tana del lupo!» Il cavaliere sguainò la spada e avanzò sul bordo della banchina. «È stato risvegliato dal vostro odore» bofonchiò. «Dormiva, dunque. Eppure ero sicuro...» Non riuscì a dire altro. Le dita dello pseudopodo erano appena apparse, graffiando le lamiere ossidate dei vagoni. «Sembra la mano di una mummia!» esclamò il cane blu. «Ma è davvero orrida!» Le unghie si spostavano al rallentatore, ancora intorpidite, ma questo non impediva loro di dirigersi verso i visitatori imprudenti. Con un brusco sussulto, il frammento di tentacolo si proiettò fuori dal tunnel e ricadde sui binari. Un secondo dopo, era già in procinto di scalare la banchina. Massalia gli sferrò due colpi di spada. Ma le ferite, seppure profonde, non sanguinavano. «Scappiamo!» esclamò Sebastian. «Questo coso farà di tutto per tagliarci la ritirata.» Prese Peggy Sue per mano trascinandola verso il corridoio d'uscita. Intuendo che stavano per fuggire, il tentacolo mozzato si scagliò su di loro. Per fortuna non aveva ancora riacquistato tutte le forze. Un'unghia sfiorò la coscia di Peggy, graffiandole i jeans... La ragazza perse l'equilibrio e cadde sulla schiena. La mano mummificata si gettò immediatamente su di lei, ricoprendola con la sua ombra. Fu come se un granchio gigantesco stesse per afferrarla con le sue tenaglie! La ragazza urlò, dimenandosi e cercando di colpirla con gli stivali... Poi si accorse che le dita non si spostavano più. «Si è riaddormentata!» sussurrò Massalia. «Non ha più abbastanza energia per muoversi a lungo. Presto, usciamo da qui.» Peggy non se lo fece ripetere due volte. Abbandonarono la metropolitana, voltandosi ogni dieci metri per accertarsi che l'orrendo mostro non li stesse inseguendo. Appena riemersi alla luce del giorno, Peggy Sue si riempì i polmoni d'aria fresca e dichiarò: «Va bene, accettiamo la missione, ma non fatevi illusioni: non siamo dei supereroi come l'Uomo Ragno, Hulk o Batman... eroi del genere esistono solo nei fumetti. Dovremo risolvere questo problema con i mezzi a nostra
disposizione. Spero che la vostra idea della balestra funzioni.» «Se ne hai una migliore, sono pronto a prenderla in considerazione» mormorò il cavaliere. L'indomani, mentre passeggiava per la città, Peggy Sue prestò maggiore attenzione alle crepe sui marciapiedi. Ogni volta che ne scavalcava una, gettava un'occhiata nello squarcio sull'asfalto tentando di perlustrare quell'oscurità da cui risaliva un possente odore di terra smossa. Una filastrocca fastidiosa le risuonava nella testa. Lupo, ci sei? Mi senti? Cosa fai? Affrettò il passo, gli occhi fissi a terra. Il reticolo di fenditure sulla pavimentazione bituminosa si estendeva in tutta la città, disegnando sull'asfalto delle scacchiere esagonali quasi regolari. La canzoncina continuava a ronzare nella testa di Peggy: Lupo, ci sei? Mi senti? Cosa fai? All'improvviso, mentre scavalcava un'altra crepa, ebbe l'impressione di veder brillare qualcosa nelle tenebre. Un occhio a chilometri di distanza dai suoi piedi, enorme e luccicante. Un tizzone di brace viva puntato su di lei, e pieno di terribile malizia. Decise di non fermarsi. La filastrocca risuonò un'ultima volta nella sua mente: Lupo, ci sei? Mi senti? Cosa fai? Le parve allora di udire una voce mostruosa sotto i piedi, che faceva vibrare il marciapiede e diceva: Ci sono, ti sento... e mi occuperò di te, piccola miserabile Terrestre! 6 La colonia infernale L'indomani, Massalia annunciò: «Per consentirvi di familiarizzare con le peculiarità di Kandarta, per una settimana sarete assegnati all'incarico di osservatori in un dormitorio fortificato. Questa esperienza vi sensibilizzerà ai pericoli del pianeta e aumenterà le vostre possibilità di sopravvivenza. Immagino che conosciate il vecchio motto che recita: 'la forza più grande del vampiro è riuscire a far credere che non esista'. Lo stesso vale per la Divoratrice: quanto meno si crede alla sua esistenza, tanto maggiore è il pericolo.»
Prima di avere il tempo di reagire, Peggy, Sebastian e il cane blu si ritrovarono davanti a un edificio a forma di cubo che rassomigliava più a una catacomba che a un dormitorio. «Devo avvisarvi che si tratta di un rifugio refrigerato» disse il cavaliere. «Un cosa?» squittirono in coro i tre amici. «Come tutti gli animali che vivono all'interno di un uovo, la Divoratrice detesta il freddo» spiegò Massalia. «Si trova a suo agio solo in un ambiente caldo, e si tiene alla larga dal ghiaccio e dalla neve. Questo ci ha fatto venire l'idea di nascondere i nostri bambini in enormi frigoriferi attrezzati a dormitori. Così la temperatura è troppo bassa e la bestia non verrà ad attaccare briga. Trovo che sia uno stratagemma alquanto astuto.» Non osando contraddirlo, Peggy esaminò l'edificio le cui pareti di mattoni erano ricoperte da un velo di vapore. «Un frigo... un frigo alto dieci piani, ho capito bene?» «Sì, fino a oggi lo stratagemma ha dato buoni risultati. Ma generare il freddo costa caro, è per questo che il rifugio è a pagamento. Possono accedervi solo i figli dei signori o dei ricchi mercanti. Vi auguro un felice soggiorno.» Le guardie di sentinella aprirono le porte dell'edificio; Peggy fu subito sferzata da una burrasca polare che la fece indietreggiare. «Entrate!» ordinò la sentinella. «Non possiamo lasciare la porta aperta per più di cinque secondi, altrimenti il freddo esce. Troverete delle giacche a vento nel guardaroba.» E, con uno spintone, scaraventò i tre amici nel vestibolo. Peggy sgranò gli occhi. Il pavimento era ricoperto di brina e dal soffitto pendevano stalattiti di ghiaccio. «Sembra di stare all'interno di un iceberg!» mormorò Sebastian. «Si crepa dal freddo!» ringhiò il cane blu. «Mi sento già le zampe congelate. Vi avverto, non ho la vocazione del cane da slitta!» Un armadio mezzo sepolto sotto la neve troneggiava nell'atrio. Peggy fece una fatica del diavolo per riuscire ad aprire gli sportelli, bloccati dal ghiaccio. A una stampella erano appesi dei vecchi impermeabili rammendati. Li prese, ma appena ne ebbe indossato uno ricevette una palla di neve in piena faccia. A lanciarla era stato un bambino di circa dieci anni che aveva appena fatto capolino in fondo al corridoio.
«Siete i nuovi osservatori?» gridò. «Spero che conosciate dei giochi divertenti, qui ci si annoia da morire!» Portava un berretto di lana rossa calato giù fino alle sopracciglia ed esibiva un sorrisetto maligno. «Come ti chiami?» gli chiese Peggy Sue. «Eric della Landa nera di Belbosco,» disse il bambino «e sono figlio di un barone. Se mi punirai, mio padre ti farà bastonare dai suoi valletti! Voi osservatori siete solo dei servi, quindi non pensate di dettare legge. Vi ho avvisato!» Delizioso questo bambino, pensò Peggy sfoggiando un sorriso forzato. «Che ne dici di farci visitare l'edificio?» propose. «No!» bofonchiò il ragazzino. «Non ne ho voglia, fatelo da soli. E cos'è quel buffo cane blu? Possiamo attaccargli delle pentole sulla coda?» «Provaci,» tuonò l'animale «se non hai paura di perder tre o quattro dita. I miei denti sono ancora capaci di azzannare la carne dei giovani marmocchi come te.» Eric lanciò un'altra palla di neve, che il cane blu riuscì a schivare senza difficoltà, poi fuggì urlando: «I nuovi osservatori! I nuovi osservatori sono arrivati, hanno un'aria da veri deficienti!» «Cominciamo bene!» esclamò Sebastian. «Mi sa tanto che nei prossimi giorni voleranno un bel po' di sculacciate.» «Calma» fece Peggy. «Stiamo a sentire quello che questi marmocchi hanno da dirci. Dobbiamo saperne il più possibile sulle usanze di questo pianeta.» Salire le scale si rivelò impresa ardua, poiché i gradini erano ricoperti di ghiaccio. Bisognava aggrapparsi alla ringhiera per non perdere l'equilibrio e precipitare a schiena in giù. I bambini accorrevano a frotte sui pianerottoli per dare il benvenuto ai nuovi osservatori. Alcuni li accoglievano cordialmente, ma altri rivolgevano loro delle smorfie cattive. Erano tutti infagottati in impermeabili più o meno sbrindellati. «Dove dormite?» domandò Peggy. «Dentro degli igloo» spiegò una ragazzina di nome Chloe. «I vecchi osservatori li hanno costruiti perché nel dormitorio fa troppo freddo per dormire nei letti.» Peggy appurò che non mentiva. Ogni dormitorio ospitava una decina di grossi igloo.
«Qui ci si annoia» si lamentò Chloe «all'inizio sembrava di essere in settimana bianca, andavamo sugli sci e sugli slittini per le scale, ma ormai va avanti da troppo tempo. Adesso non vediamo l'ora di tornare a casa.» Peggy Sue cercava di contenere il suo stupore. Dei pupazzi di neve troneggiavano nei corridoi, le scale erano state attrezzate a piste da sci. L'acqua nelle vasche e nei lavandini era congelata. «L'unico lato positivo» disse ridendo un bambino «è che non ci laviamo da settimane!» In fondo a un corridoio, Sebastian scoprì due adulti congelati che sulle prime scambiò per due statue. Gli sventurati erano morti nel sonno. «Chi sono?» domandò. «Gli osservatori che vi hanno preceduto» rispose Chloe. «Non volevano farci ritornare a casa, quindi Eric ha versato del sonnifero nei loro caffè. Sono crollati prima di tornare nei loro igloo e sono morti congelati.» «Ma è terribile!» esclamò Peggy Sue. La ragazzina si limitò a un'alzata di spalle. «Erano solo dei servitori» disse distrattamente. «E poi erano davvero dei rompiscatole, non sapevano inventare giochi divertenti. Spero che con voi ci divertiremo di più.» Sebastian ribolliva di rabbia. «Mi sa tanto che dovremo stare in guardia» disse digrignando i denti. Il dormitorio-frigorifero ospitava un centinaio di bambini provenienti dalle famiglie più ricche della città. Erano tutti imbronciati, e per ammazzare il tempo si lasciavano andare a scherzi di pessimo gusto. Peggy Sue si dedicò all'osservazione delle pareti. La piccola Chloe (che in realtà si chiamava Chloe Adelaide Sofia della Rocca verde del Lago blu... ed era figlia di un duca) le indicò i punti in cui, grattando la brina, si potevano individuare le crepe coperte di cemento ove un tempo la Bestia introduceva i suoi tentacoli. Per mezzo di un raschietto, Peggy cominciò a grattare la parete. Ben presto scoprì delle otturazioni che testimoniavano come di recente fossero stati sigillati dei grossi buchi nella muratura. «È stato prima che installassero il sistema di surgelamento» commentò compitamente la bambina. «Questo era un dormitorio per bambini poveri. Ci si accontentava di rinchiuderli nelle gabbie... ma non funzionava, per-
ché la Divoratrice è forte quanto basta per divellere le sbarre. Il freddo costituisce una protezione migliore. La Bestia non ama congelarsi le zampe.» Peggy esaminò un'otturazione di cemento. «Le mura sono spesse» fece Chloe, «ma la Divoratrice spostava i mattoni uno a uno per aprirsi un varco. Finiva per scavare una specie di corridoio nello spessore della parete... e nessuno se ne rendeva conto, fino a quando non spuntava fuori la sua zampa che catturava uno di quei poveri ragazzini.» «Mangia solo i bambini?» «Sì, il sapore degli adulti non le piace. Al suo posto anch'io farei lo stesso, con l'unica differenza che non prenderei dei ragazzini poveri: sono piuttosto sporchi e puzzano. Mangerei dei figli di duca o di conte. O dei principi, se capita.» Peggy Sue batté le mani per riscaldarsi. Qualcuno le lanciò con cattiveria una palla di neve piena di cristalli di ghiaccio. «Inventerai dei nuovi giochi?» s'informò Chloe. «Sarà meglio per te, altrimenti Eric e i suoi compagni te ne faranno vedere di tutti i colori.» Un po' più tardi, Peggy raggiunse Sebastian alla mensa. Il cuoco, un omone gioviale di nome Zavrapa, fu prodigo di raccomandazioni. «Sono dei veri ragazzacci» bofonchiò sotto la barba. «Cattivi, per non dire pericolosi. Vi consiglio di tenere gli occhi bene aperti.» «Funziona, questa storia del freddo?» chiese Sebastian, concreto come suo solito. «Sì» rispose Zavrapa. «La bestia detesta ghiacciarsi le zampe. Prima era un'altra musica. Ne ho visti di ragazzini scomparire al di là dei muri, con un tentacolo annodato allo stomaco.» «E le gabbie?» chiese Peggy, stupita. Il cuoco alzò le spalle. «Non servivano a un piffero, mia cara! La bestia le torceva e le spezzava come se fossero di latta. Apriva le camere blindate come barattoli di pomodoro. Il problema adesso è che siamo alla mercé del compressore. Se si guastasse, il sistema frigorifero cesserebbe di produrre freddo e la temperatura salirebbe velocemente... la Divoratrice se ne accorgerebbe subito e in men che non si dica tornerebbe qui a fare la spesa.» Fece una smorfia e aggiunse: «A volte, questi ragazzacci mi fanno venire così i nervi che avrei voglia di andare a sabotare i macchinari, per avere la soddisfazione di offrirli in pasto alla bestia... ma zitti, mi raccomando: che resti tra noi.»
Calata la notte, Peggy Sue, Sebastian e il cane blu si tapparono nel loro igloo, mentre Zarapa si barricava in cucina per sfuggire ai pesanti scherzi di Eric e i suoi amici. Nei giorni seguenti, Peggy Sue cercò senza successo di fare amicizia con i bambini: tutti, o quasi, la trattarono con disprezzo poiché, ai loro occhi, non era altro che una serva, e non sarebbe stato degno del loro rango 'legare' con un essere inferiore. Sebastian fece del suo meglio per cercare di organizzare delle gare di scalata sui muri, delle lezioni di toboggan sulle scale ghiacciate, e il cane blu si prestò a svolgere la parte del lupo nei giochi dei ragazzi. «Mi diverto,» confidò a Peggy «ma il guaio è che faccio fatica a trattenermi dallo sbranarli per davvero!» Quanto a Peggy Sue, si dedicava a esplorare i luoghi e a sondare le pareti. Negli scantinati dell'edificio scoprì una gran quantità di gabbie semidistrutte, dalle porte divelte. La creatura dei sotterranei era dotata di una forza fuori dal comune, non v'era alcun dubbio. Un giorno, mentre era immersa nelle sue meditazioni, Peggy sentì Eric ridacchiare alle sue spalle. «Doveva essere formidabile!» esclamò il ragazzo. «I tentacoli che uscivano dai muri, e tutto il resto... doveva essere davvero fichissimo...» «Ma lo sai che rapiva i ragazzini della tua età per divorarli?» gli fece notare lei. «Sì,» sibilò il bambino «ma almeno non si annoiavano! Io avrei atteso l'arrivo dei tentacoli con un'ascia in pugno... e zac! Li avrei fatti a fettine, come una salsiccia.» «Certo, tu sei fortissimo» lo canzonò Peggy. «Chiaro» si pavoneggiò Eric. «Quelli erano ragazzini poveri, dei figli di staffieri, di valletti, dei buoni a nulla. Nelle mie vene invece scorre sangue di cavaliere.» «Forse la Divoratrice ama proprio questo, il sangue di cavaliere» ribatté la ragazza, infastidita dalla sua tracotanza. «Un giorno» mormorò Eric «saboterò la macchina che produce il freddo... così quel mostro tornerà e io l'aspetterò al varco, con il mio esercito di amici.» «Non ti azzardare a toccare il compressore,» tuonò Peggy «sarebbe da
criminali.» Il bambino sibilò con aria sdegnata: «Non osare più darmi ordini... sei solo una piccola serva. Se mi fai innervosire dirò allo scudiero di mio padre di rifilarti dieci frustate. Porterai i segni sulle chiappe per sei mesi!» «Piccolo delinquente...» scattò Peggy, ma il ragazzino si era già dileguato ridendo a crepapelle. Ogni sera Peggy, Sebastian e il cane blu facevano ritorno all'igloo riservato agli osservatori, poiché era impossibile utilizzare i letti del dormitorio. «Ci ho provato,» spiegò la ragazza «ma la coperta era talmente congelata che si è spezzata come se fosse di vetro! Le lenzuola sembrano fatte di cartone.» «Bisogna tenere gli occhi aperti con quei ragazzacci» mugugnò Sebastian. «Più di una volta, durante le attività sportive, hanno cercato di farmi cadere per le scale. Ogni volta si sono profusi in mille scuse, ma i loro sorrisi non mi hanno convinto. Sono cattivi, non vogliono essere sorvegliati. Per loro siamo solo degli scocciatori.» «Stanno complottando qualcosa di poco chiaro, mi sembra evidente» approvò il cane. «Ritengo sia il caso di stare in guardia.» I tre amici sigillarono l'ingresso dell'igloo per mezzo di un blocco di ghiaccio e accesero una piccola lampada a olio. Sebastian frugò nella cambusa dei vecchi osservatori in cerca di qualcosa da mangiare. Le bevande gassate erano congelate, le tavolette di cioccolata erano più dure del marmo. Se avesse cercato di morderle si sarebbe spezzato i denti! «Bisogna fare attenzione a quello che si beve» insisté Peggy. «Una bambina mi ha raccontato che il piccolo Eric aveva versato un sonnifero nel caffè ai vecchi osservatori per farli addormentare. Se gli venisse in mente di riprovarci, avrebbe buon gioco a spostarci fuori dall'igloo mentre dormiamo... e così congeleremmo nel corridoio. Al mattino ci ritroveremmo trasformati in statue di ghiaccio.» «Propongo di stabilire dei turni di guardia!» esclamò il cane blu. «D'accordo!» approvò Peggy. «Va bene» fece Sebastian, ancora alle prese con la tavoletta di cioccolato, che cercava di spezzare in tre parti uguali. Il cane cominciò il primo turno. I due adolescenti si addormentarono,
mentre la tormenta di neve filtrava dalle bocchette di ventilazione con ululati simili a un uragano. L'indomani, Sebastian organizzò una grande arrampicata sulle scale. Tutti si disposero in cordata per scalare insieme i gradini interamente rivestiti di ghiaccio. Arrampicarsi fino all'ultimo piano era difficile almeno quanto affrontare la parete di una montagna. Sebastian prese la testa della cordata, piccozza in pugno, ramponi ai piedi. «Questa volta andremo fino al decimo piano!» annunciò. «Non molleremo per nessun motivo!» I ragazzini mugugnarono. Era da un bel po' che i corsi di arrampicata avevano smesso di entusiasmarli. «È la millesima volta che lo facciamo!» protestò Eric. «Non se ne può più!» Senza starli ad ascoltare, Sebastian diede il segnale di partenza. Peggy aveva sistemato il cane blu nel proprio zaino. Per lo sforzo cominciò ben presto a sudare. Le scale formavano un immenso pattinatoio, inclinato a 45 gradi. Se avessero perso l'equilibrio, sarebbero scivolati fino al pianterreno senza possibilità di fermarsi. Bisognava prestare la massima attenzione. Tra una manovra e l'altra teneva d'occhio i bambini, attenta ai loro bisbiglii. Si aspettava qualche brutto tiro. Mi taglieranno la corda, diceva tra sé, oppure cercheranno di farmi perdere l'equilibrio... Ma non accadde nulla di tutto ciò. A ogni pianerottolo, scoprivano un pupazzo di neve modellato nel corso di una spedizione precedente. «L'avevo detto io, siamo già stati qui!» piagnucolava Eric. «L'abbiamo già fatto con gli altri osservatori, che noia! Le arrampicate, lo sci, lo slittino, ne abbiamo piene le scatole!» «Taci e arrampicati!» lo zittì Sebastian. «Sono sicuro che al decimo piano non c'è nessun pupazzo di neve. Sarà un grande onore fabbricarne uno.» «Che stupidaggine!» mugugnò a bassa voce il ragazzino. Peggy Sue non era tranquilla: l'istinto le suggeriva che i bambini stavano tramando qualcosa. Facevano finta di brontolare, ma i loro occhi brillavano di malizia, come se stessero progettando un bello scherzo.
Infine, dopo aver sudato sette camicie, raggiunsero il pianerottolo del decimo piano. A quell'altezza le bocchette di ventilazione ruggivano, vaporizzando nell'ambiente una bufera di fiocchi di neve. «Sopra c'è la soffitta» spiegò la piccola Chloe. «È il posto più freddo dell'edificio. L'abbiamo ribattezzato il 'freezer'. Dentro si trovano un sacco di oggetti divertenti, ma è impossibile giocarci perché sono bloccati dal ghiaccio. Ci sono delle bellissime bambole antiche di porcellana, con dei vestitini magnifici. Bisognerà scavare un bel po' per recuperarle. Temo sia troppo difficile.» Peggy aprì il grosso thermos che le aveva dato Zavrapa il cuoco, e distribuì il cioccolato bollente ai bambini riuniti in circolo di fronte a lei. Sebastian, aiutato dai ragazzi, aveva iniziato a modellare un pupazzo di neve gigante. «Penso sia meglio non attardarci da queste parti» sussurrò mentalmente il cane blu. «Ho un brutto presentimento.» Peggy Sue cercava di tener d'occhio Eric, ma i fiocchi di neve l'accecavano rendendo ardua la sua opera di sorveglianza. All'improvviso, Chloe le si gettò addosso in preda ai singhiozzi. Sembrava terrorizzata. «Che succede?» si agitò Peggy Sue. «Emma!» farfugliò la piccola. «Si è arrampicata al piano di sopra per intrufolarsi nella soffitta... per le bambole... La porta si è richiusa! E non riusciamo più a riaprirla.» «Nulla di serio» fece Peggy. «La tireremo fuori.» «Ma no, ti dico che è una cosa seria!» piagnucolò Chloe. «Non si resiste più di cinque minuti nel freezer! Forse è già morta!» Peggy chiamò Sebastian in soccorso e gli spiegò la situazione. Se la porta era incastrata, con la sua forza erculea il ragazzo non avrebbe avuto alcuna difficoltà a venirne a capo. Guidati da Chloe, i due giovani si issarono fino al piano superiore. «Emma! Emma!» gridava la bambina. «Stiamo arrivando, tieni duro!» Furono accolti da un'autentica tormenta di neve, che li lasciò senza fiato. Peggy distinse vagamente i contorni di uno stretto corridoio in fondo al quale si stagliava il profilo di una porta incrostata di brina. «È là, è la!» urlò Chloe con una vocina da topolino rimasto incastrato in
una trappola. Sebastian diede una spallata al battente d'acciaio blindato. Le cerniere cigolarono e la porta si dischiuse quel tanto che bastò per entrare nella soffitta. «Emma?» chiamò Peggy. «Emma, dove sei?» Le pareti della stanza erano rivestite da almeno un metro di ghiaccio, a tal punto che sembrava di stare all'interno di un iceberg. Sembrano delle vetrine, osservò tra sé Peggy Sue. Dentro c'è qualcosa... forse le bambole di cui parlava Chloe. «Emma?» gridò di nuovo. Non si vedeva granché; più di tutto temeva di scoprire la ragazzina raggomitolata sul pavimento, congelata. Non se lo sarebbe mai perdonato. Un boato assordante la fece sussultare. Si voltò. Chloe era scomparsa e la porta d'acciaio si era appena richiusa alle loro spalle. «Per la miseria!» imprecò Sebastian. «Ci siamo cascati! Qui non c'è traccia di Emma quanto non ce n'è di pepite d'oro in un pezzo di gruviera!» «Hanno bloccato la porta!» constatò Peggy. «Prova ad aprirla, forse tu ci puoi riuscire...» Sebastian obbedì di buon grado, ma i suoi assalti si rivelarono vani. Il battente metallico non si mosse di un millimetro. «Era questo il tranello!» osservò il cane blu. «Ci lasceranno qui a congelare.» «Ma no» fece Sebastian. «È solo uno scherzo. Vogliono metterci paura. Di qui a due minuti sono certo che torneranno ad aprirci.» «Non ne sarei così sicura» balbettò Peggy. «Vieni a vedere...» La ragazza si teneva appoggiata alla 'vetrina' di ghiaccio che ricopriva le pareti, scrutando le ombre che vi giacevano raggomitolate. Sebastian la raggiunse. «All'inizio mi erano sembrate delle bambole,» gemette Peggy Sue «invece guarda...» «Sono... sono esseri umani!» farfugliò il ragazzo. «Sì, credo che si tratti dei vecchi esploratori! Tutti quelli che ci hanno preceduto. Anche loro sono stati vittime dello stesso tranello, e si sono trasformati in statue di ghiaccio! Ora comincio a capire per quale motivo Massalia ci ha spedito qui. È una prova di selezione! Un test! Non siamo noi le prime persone alle quali il generale ha chiesto aiuto...» «Oh-oh!» ansimò il cane blu. «Vuoi dire che c'erano altri super-eroi
prima di noi nella lista d'assunzione? Ma è una vergogna! Non eravamo i primi? Che affronto!» «Ecco tutto quello che rimane dei concorrenti che ci hanno preceduto» spiegò Peggy indicando la parete di ghiaccio. «Con ogni evidenza non hanno superato l'esame! Si sono fatti mettere sotto dai ragazzini della colonia. Massalia si serve di Eric e dei suoi amichetti per selezionare chi dovrà aiutarlo... e se non sopravvive alla prova, lui attraversa di nuovo lo spazio per andare a proporre l'affare a qualcun altro.» «Che farabutto!» s'indignò il cane blu. «Avremmo dovuto essere noi i primi della lista! Siamo i migliori!» «D'accordo, adesso ho afferrato» sospirò Sebastian. «Ma ora la cosa più importante è trovare il modo di uscire di qui, prima di raggiungere quei poveri diavoli nella 'vetrina'! Il freddo mi toglie le energie, se aspettiamo troppo diventerò debole come un neonato.» Per un quarto d'ora, i tre amici unirono le forze nel tentativo di sbloccare la porta. Quel dispendio d'energia, sia pur privo di effetti, aveva quantomeno il merito di riscaldarli, poiché la temperatura all'interno del 'freezer' era pari a quella di un surgelatore. «È una porta blindata munita di un sistema a serrature multiple» fu la diagnosi di Sebastian. «Anziché incaponirci, forse faremmo meglio ad aggirare l'ostacolo.» «Vuoi dire passare dal tetto?» suggerì Peggy. «Perché no?» Gli adolescenti passarono la mezz'ora successiva a cercare di raggiungere la sommità della soffitta. Il ghiaccio rendeva impossibile quel tentativo. Ogni volta che provavano ad arrampicarsi su qualcosa, scivolavano giù e finivano col sedere sulla neve che ricopriva il pavimento. «Mi sto indebolendo» confessò Sebastian. «È per il freddo... sento che la mia forza mi sta abbandonando... sono capace di autentici miracoli quando fa caldo, ma l'inverno mi priva dei miei poteri. Mi dispiace, credo che siamo spacciati.» Peggy ebbe voglia di protestare, ma poi si rese conto che non ne aveva più il coraggio. Il torpore stava avendo la meglio, quella sonnolenza sorniona che negli ambienti gelidi prelude alla morte. «Riposiamoci per pochi istanti» gemette. «Accucciamoci stretti gli uni agli altri per riscaldarci. Non dobbiamo addormentarci!»
Fecero come aveva proposto. Ben presto un velo di brina li ricoprì interamente. Stavano cominciando a perdere i sensi quando dei colpi sordi risuonarono alla porta, che si aprì in una miriade di schegge di ghiaccio. Zavrapa, il cuoco, era dritto sulla soglia, imbacuccato in un eskimo, un attrezzo di ferro in pugno. «Siete ancora vivi?» domandò. «Quei ragazzacci avevano bloccato il battente con dei cunei di quercia. Ho temuto di arrivare troppo tardi.» «Dove sono?» farfugliò Peggy rialzandosi. Dovette ripetere la frase perché batteva talmente i denti che le sue parole risultavano incomprensibili. «Non lo so» ammise il cuoco. «Hanno cercato di rinchiudermi nella dispensa, ma sono riuscito a fuggire da un condotto del sistema di ventilazione. È un altro scherzetto del piccolo Eric... è sceso in cantina con i suoi compagni, richiudendosi alle spalle tutte le inferriate di sicurezza.» «Oh!» mormorò Peggy. «Credo di aver capito... Ne sta combinando una delle sue. Dobbiamo sbrigarci a raggiungerli, prima che scoppi una tragedia.» Tremavano tutti dal freddo. Perfino le zanne del cane blu sbattevano con un rumore di porcellana in frantumi. Scesero le scale passo passo, al seguito di Zavrapa. Il ghiaccio che ricopriva i gradini li obbligava a procedere con cautela. Al primo passo falso sarebbero precipitati in fondo alle scale a velocità vertiginosa, rischiando di rompersi l'osso del collo. Giunti al quarto piano, il cuoco inarcò le sopracciglia. «Ehi!» sbuffò. «Sentite caldo anche voi?» «Non nevica più nei corridoi» osservò Peggy. «Le bocchette di ventilazione non sputano più fiocchi di neve!» «E infatti fa caldo!» ribadì Zavrapa. «Non è normale: la temperatura dev'essere salita di almeno 10 gradi!» «Hai ragione,» esclamò Sebastian «il ghiaccio si sta sciogliendo... Guardate! Ci sono pozze d'acqua dappertutto, e le stalattiti gocciolano come rubinetti rotti.» «È stato Eric!» esclamò Peggy Sue. «Ha manomesso il compressore! Adesso tutto l'edificio si sta riscaldando... Me ne aveva parlato, ma pensavo fosse una delle sue solite smargiassate.»
«Ma perché lo ha fatto?» chiese Sebastian, stupito. «Si era stufato di sentire freddo?» «No, non è questo...» rispose la ragazza. «Vuole attirare la Divoratrice per sfidarla come un cavaliere. È la sua idea fissa. Mi ha detto che si annoiava a tal punto da preferire il rischio di essere catturato da un tentacolo, piuttosto che restare qui rinchiuso fino a quando fosse diventato troppo grande per destare l'interesse della Bestia.» «Piccolo idiota!» esclamò il cuoco. «No, io lo capisco» disse il cane blu. «È vero, in questo campo vacanze ci si annoia a morte. E Sebastian come osservatore non vale decisamente nulla!» «Cosa mi tocca sentire da un cane incravattato!» protestò il ragazzo, risentito. «Basta!» tagliò corto Peggy. «Scendiamo alla cantina, è lì che si trovano. Cerchiamo di impedire la tragedia.» Più facile a dirsi che a farsi. In tutti i piani la neve e il ghiaccio avevano cominciato a liquefarsi, dando vita a cascate d'acqua che minacciavano di trasformarsi in un'inondazione. Pioveva dappertutto: nei corridoi e nelle stanze, le stalattiti si stavano sciogliendo. Zavrapa consultò il termometro fissato sul pianerottolo del terzo piano. «È già salita a 7 gradi» annunciò, «e la colonnina di mercurio continua a impennarsi. Quei cretini non si sono accontentati di bloccare il sistema di raffreddamento, hanno anche acceso tutti i vecchi termosifoni.» «Cercano di attirare la Divoratrice con il calore» spiegò Peggy. «Il dormitorio non è più al sicuro. Fa caldo, e l'odore dei bambini risveglierà l'appetito della bestia dei sotterranei.» Sguazzando nel fango, raggiunsero infine il pianterreno. L'acqua grondava sulle pareti, filtrava da sotto le porte. Sembrava davvero di essere su una nave che cola a picco! Peggy Sue si avviò in direzione del sotterraneo, dove erano collocate le apparecchiature che regolavano la temperatura dell'edificio. Un'inferriata arrugginita sbarrò loro il passo all'ingresso della sala caldaie. I bambini si erano trincerati oltre quell'ostacolo. Eric si pavoneggiava, un mazzo di chiavi appeso alla cintura. Indossava un curioso travestimento confezionato con materiali presi qua e là. Portava una pentola sulla testa a mo' di elmo, e si era sistemato un vassoio di ferro nella cintura dei pantaloni per
fabbricarsi una sorta di corazza. Nella mano sinistra teneva un grosso coperchio inossidabile (forse uno scudo?), nella destra un attizzatoio dalla punta affilata. «La caldaia è stata impostata al massimo!» farfugliò il cuoco. «Siamo a 28 gradi!» Si soffocava. Peggy e Sebastian furono costretti a togliersi gli impermeabili. «Eric!» gridò la ragazza. «Smettila di fare l'idiota! Abbassa il riscaldamento e apri quest'inferriata!» «Non ci penso neanche!» urlò il ragazzino. «Sono un cavaliere e aspetto l'arrivo del drago... Lo decapiterò, così non ne sentiremo più parlare! Diventerò un eroe e mi nomineranno re di Kandarta.» Al colmo dell'eccitazione, saltava sul posto agitando l'attizzatoio. Altri bambini si unirono a lui, similmente addobbati di utensili da cucina. Uno agitava un'ascia antincendio visibilmente troppo pesante per lui. «Rischia di darsela su un piede!» sghignazzò divertito il cane blu. «Bene, gli servirà da lezione.» Peggy, avvinghiata strenuamente all'inferriata d'accesso alla sala caldaie, cercò invano di farli ragionare. «Siamo i cavalieri della Tavola Rotonda!» berciò Eric. «Uccideremo la Divoratrice, e io diventerò re!» I ragazzini appollaiati sui condotti lanciarono grida di trionfo. Servendosi dei martelli e delle chiavi inglesi sottratte all'officina di manutenzione, cominciarono a percuotere le condutture in sincronia, improvvisando un concerto assordante. Sebastian strinse le sbarre dell'inferriata e provò ad allargarle per aprirsi un passaggio. Stava quasi per riuscirci quando un colpo violentissimo scosse le pareti della sala caldaie. L'intero edificio sembrò vacillare sulle fondamenta. Il baccano dei bambini cessò all'istante. Sulla parete, le antiche crepe otturate sputavano fuori calcinacci e polvere di cemento. «Stanno per riaprirsi!» urlò il cuoco. «È la Divoratrice! Sta arrivando!» E, cedendo al terrore, fuggì via a gambe levate. Gli eventi si susseguirono con gran rapidità, senza dare agli adolescenti il tempo di intervenire. Nella parete si aprì un enorme squarcio, mentre si sollevava una nuvola
di polvere, da cui spuntò un tentacolo azzurrognolo che ondeggiò pigramente in mezzo ai macchinari. La maggior parte dei bambini emise grida di terrore, ma Eric e i suoi 'cavalieri' si lanciarono risolutamente all'attacco. «Montjoie! Saint-Denis6!» esclamò il ragazzino, colpendo lo pseudopodo col suo attizzatoio. «Marrano, pagherai care le tue nefandezze!» I suoi occhi brillavano d'eccitazione, e lui si gettò nella battaglia con evidente piacere. Sfortunatamente, gli eventi non si svolsero come aveva previsto. Dopo aver girovagato un paio di volte per la sala, il tentacolo si strinse attorno a Eric e lo sollevò a mezz'aria. «Presto!» gridò Peggy. «Bisogna aiutarlo!» Sebastian sfondò l'inferriata e balzò dentro nello stesso istante in cui il tentacolo scompariva all'interno dello squarcio, portandosi via il bambino. Peggy Sue si precipitò verso la parete, ma Sebastian la trattenne. «Attenta!» le sussurrò. «Ci cadrai dentro...» La ragazza affacciò la testa nell'apertura. Le sembrò di chinarsi sulla sommità di un pozzo senza fondo. Era completamente buio, un abisso insondabile da cui risaliva un fetore atroce, come un tanfo di pesce avariato o di ammoniaca. Da molto lontano le giunse l'eco delle grida d'aiuto di Eric. «Se lo sta portando via...» osservò Sebastian. «Non possiamo fare più nulla per lui.» «Se l'è cercata» biascicò il cane blu. «Non verserò neanche una lacrima per quel piccolo imbecille, mi ha tirato la coda più d'una volta.» Peggy si affrettò a evacuare tutti dalla sala caldaia. Questa volta i bambini non si fecero pregare e raggiunsero in gran fretta le rispettive stanze. Sebastian spense la caldaia e riavviò il sistema di raffreddamento. Dopo due giorni col morale sotto i tacchi, i bambini si ripresero d'animo e recuperarono la loro abituale arroganza. Un altro ragazzino, di nome Thibault, prese il posto di Eric e spronò i suoi compagni a proseguire la battaglia. «Non eravamo preparati a dovere» ripeteva. «La prossima volta ci armeremo meglio!» Nel sentire quelle parole, Sebastian scosse la testa sconsolato. «Sono incorreggibili» sospirò. «Ci risiamo.»
Fortunatamente, Massalia venne a riprenderli prima che le cose prendessero una brutta piega, e i tre amici lasciarono il dormitorio-frigorifero con un sospiro di sollievo. «Sono soddisfatto» fece il generale. «Siete i primi a uscire vivi dall'edificio. Tutti quelli che vi hanno preceduto hanno fallito. Avete superato la prova a pieni voti. È di buon auspicio per il futuro.» «Il giovane Eric è stato catturato dalla Divoratrice» gli fece notare Peggy. «Lo so» fece Massalia con aria distratta. «Almeno ha avuto l'opportunità di morire come un vero cavaliere, armi in pugno.» «Armi?» sghignazzò mentalmente il cane blu. «Sì, un attizzatoio! Bell'onore!» 7 La maledizione del cavolo blu Peggy Sue volle visitare il resto della città per avere un quadro più completo della situazione. Nelle case semidiroccate degli operai vide pareti piene di crepe mal rattoppate... e soprattutto dei neonati rinchiusi all'interno di piccole gabbie metalliche, simili a culle fissate al suolo da picchetti. «All'inizio era una protezione sufficiente,» le confidò una madre «ma adesso non più: la creatura è diventata troppo forte. Più mangia, più la sua potenza si accresce, e i suoi tentacoli diventano sempre più numerosi. Ce ne sono di tutte le dimensioni, grossi, piccoli. Ho paura per i miei figli... me ne hanno già rapiti tre. Li ho visti scomparire all'interno del muro... di notte me li sogno ancora.» Peggy strinse la povera donna tra le braccia e uscì dalla casa. Era decisa a combattere il mostro. Il problema era che non aveva la minima idea di come affrontarlo. Riuscì a saperne di più presso un'altra famiglia. Il padre, di nome Wladek, le spiegò: «Quando non si hanno i soldi necessari per mandare i ragazzini nelle colonie di sicurezza, l'unica soluzione è costringerli a mangiare degli alimenti che diano alla loro carne un sapore abominevole.» «Ed esistono cibi del genere?» chiese stupita Peggy. «Sì, il cavolo blu... È atroce. Quando lo mangi cominci a puzzare come trentacinque maialini immersi nel letame. Il mostro dei sotterranei detesta
quell'odore. Non rapisce mai i bambini che si nutrono esclusivamente di cavolo blu.» A prima vista sembrava una soluzione ideale, ma quando la ragazza interrogò Gerta, la figlia di Wladek, questa si mise a frignare in segno di protesta. «Il cavolo blu è disgustoso!» squittì. «E poi, se lo mangi tutti i giorni finisci per puzzare per il resto della tua vita. L'odore non scompare più! Avevo un'amica, Brigitte, che si rimpinzava sempre di cavolo blu... nel giro di un mese, puzzava a tal punto che ho dovuto smettere di frequentarla. Era impossibile darle un bacio senza vomitare! Perfino i suoi genitori erano costretti a mettersi una molletta sul naso in sua presenza. Il suo gatto e il suo cane sono fuggiti. Da allora non fa altro che piangere. No, preferisco essere portata via dalla Divoratrice piuttosto che puzzare come un maiale! Non accetterò mai di mangiare una simile schifezza!» Wladek condusse Peggy a visitare le coltivazioni di cavolo blu alla periferia della città. «È vero che ci vuole un bel coraggio a mangiarli» ammise. «Credo che non ci sia nulla di tanto disgustoso in tutto l'universo. Tuttavia è l'unica cosa che può salvare i nostri bambini.» Chinò il capo per lo sconforto. «Se voi veniste in nostro aiuto,» sospirò «ne saremmo felici.» L'indomani, Peggy e il cane blu furono assaliti da una banda di monelli: ognuno di loro, con in mano un libro tutto sgualcito della serie Peggy Sue e gli Invisibili, reclamava a viva voce un autografo. Peggy dovette accontentarli, mentre il cane blu appose su una pagina l'impronta della sua zampa fangosa. «Vi conosciamo!» gridavano in coro i bambini. «Sappiamo che siete dei supereroi, ci salverete...» Peggy era imbarazzata, il cane blu si pavoneggiava dimenando la coda. Una bambina strinse la mano della ragazza. «Sì» disse in tono supplichevole, «dovete fare qualcosa... Abbiamo paura della Divoratrice, la sentiamo tutte le notti... Gratta sui muri. Scava per entrare nelle nostre case. Viene per prenderci. Ma tu la ucciderai, vero Peggy? Tu la ucciderai, così finalmente potremo dormire in santa pace.» Quando rimase sola col cane blu, Peggy Sue sospirò: «Ci stanno affidando una grande responsabilità. Tutti questi bambini contano su di noi.
Ho un groppo in gola. Non abbiamo mai affrontato un mostro del genere: ne saremo all'altezza?» Giunta la sera, mentre consumavano una cena a base di zuppa al lardo e un pezzo di formaggio, Sebastian sussurrò: «Ho incrociato degli strani tipi in giro per la città. Uomini, donne... avevano tutti un sorriso ebete stampato sul volto. Massalia mi ha detto che sono vittime degli stregoni.» «Non capisco» disse Peggy, stupita. «È semplice: siccome la Divoratrice attacca solo i bambini, gli stregoni vendono ai genitori dei prodotti in grado di farli crescere nell'arco di una notte.» «Cosa?» guaì il cane blu. «Vuoi dire che basta bere uno sciroppo per addormentarsi bambini e risvegliarsi adulti?» «Esattamente! Invecchiano di dieci anni in una sola notte. Una volta diventati donne o uomini, non rischiano più che la bestia dei sotterranei s'interessi a loro... Il problema è che il cervello non cresce con il resto del corpo, ma rimane quello di un ragazzino, ragion per cui hanno quell'aria da veri idioti.» «In ogni caso c'è già un sacco di gente adulta che ha un'aria da vera idiota» bofonchiò il cane blu, con fare da filosofo. «Non capisco dove sia la differenza.» Sebastian abbassò ancora il tono della voce e aggiunse: «Massalia dice che gli stregoni sono dappertutto, complottano nell'ombra. Si fanno chiamare 'gli amici della piovra'. Difendono la Divoratrice, la considerano una specie da proteggere. Un animale in via d'estinzione. Cercano di convertire i giovani alle loro idee, spiegando che dovrebbero essere orgogliosi di servire da spuntino alla bestia, perché così contribuiscono alla sua sopravvivenza. A quanto pare formano una confraternita molto potente.» «Da cosa li si riconosce?» s'inquietò Peggy. «È questo il problema» borbottò Sebastian. «È impossibile riconoscerli. Sono come te, come me... l'unica differenza è che fanno parte di una setta.» 8 Scuola di sopravvivenza «Presto dovremo separarci» annunciò Massalia. «Devo raggiungere i
miei fedelissimi che, in questo momento, sono accampati non lontano da Kromosa, la città reale.» «Dunque non vi seguiremo?» si sorprese Peggy Sue. «No» fece il generale. «Non è opportuno che ci vedano insieme. Limitatevi a entrare nel palazzo per azionare la balestra. Non appena la freccia avrà ucciso il mostro, io interverrò con i miei soldati per assicurare la vostra protezione.» E con l'occasione prendere il potere! pensò tra sé Peggy. «A ogni buon conto,» concluse Massalia «non siete ancora pronti. Se vi abbandonassimo a voi stessi non sopravvivreste per più di due giorni. Vi affiderò al mio maestro di guerra, che vi insegnerà alcuni princìpi elementari di sopravvivenza e vi farà familiarizzare con la balestra gigante. Ci ritroveremo più tardi, quando la creatura sarà morta.» Sebastian assunse un'aria risentita, perché non si considerava affatto un novellino, ma la sua manifestazione di cattivo umore lasciò il cavaliere assolutamente indifferente. Un'ora dopo, i tre amici si ritrovarono al cospetto del maestro di guerra, un uomo scheletrico dal cranio rasato, vestito di una cotta di maglia. Delle brutte cicatrici gli rigavano il volto, rendendolo poco gradevole alla vista. «Sono Zabrok, il vostro insegnante di sopravvivenza» spiegò con voce rauca. «Non crediate che sarà facile sventare le insidie della Divoratrice: è abilissima nell'ingannare le menti, grazie a dei gas stupefacenti che spruzza attraverso i crepacci del terreno. Se li respirate (e li respirerete, inevitabilmente!), nella vostra testa cominceranno ad affollarsi idee stranissime e vi sentirete spinti a compiere azioni deliranti, come se foste sotto ipnosi.» «Non dovremo fare altro che ripeterci che sono delle allucinazioni, e il tranello sarà sventato» bofonchiò Sebastian, ancora convinto di poter fare il fanfarone. «Credi di essere furbo,» rise tra sé Zabrok «ma i fumi che escono dai crepacci hanno avuto ragione di guerrieri ben più temprati di te. La Divoratrice è assai abile con gli inganni, i suoi tentacoli proiettano getti di vapore allucinogeno che frastornano le prede. Se non volete finire tra le sue grinfie, ogni mattina dovrete prendere una pasticca di antidoto.» Sebastian chinò il capo, mogio. «Vi consegnerò un piccolo kit di sopravvivenza» sospirò il guerriero. «A te, ragazza, darò un libro che farai bene a imparare a memoria: è una guida scritta da uno stregone. Ci troverai diverse mappe e carte di Kandarta,
nonché delle utili raccomandazioni. Inoltre dovrai portare un astuccio contenente le pasticche. Quanto a te, giovanotto, ti darò un manuale che ti insegnerà i segreti della balestra. A te, cane, darò un bel calcio nel didietro se proverai a mordermi...» Che simpatia! pensò Peggy tra sé. Nei tre giorni seguenti, i ragazzi dovettero apprendere tutti i segreti della balestra gigante. Dapprima su un plastico, poi su un modello in scala ridotta, lungo sei metri. Si resero conto che l'operazione di caricamento della macchina era assai complessa. «Quella di Kromosa è molto più grande» spiegò Zabrok, pieno d'orgoglio. «È lunga trenta metri... Ero già al servizio del generale quando l'hanno installata sulla terrazza più alta del palazzo. È talmente potente che la sua freccia potrebbe attraversare da parte a parte le mura di una fortezza. Ma per sventura, quel traditore del gran visir ci ha sempre impedito di utilizzarla. È rimasta ad arrugginire sotto la pioggia... Spero che sia ancora in buono stato.» «Pensa che sarà sufficiente per uccidere il mostro?» domandò Sebastian. «Ma certo! È puntata su una faglia che comunica direttamente con il centro del pianeta. Non si potrebbe desiderare un angolo di tiro migliore. È l'unico punto di tutta Kandarta da cui si può uccidere la Divoratrice. Il crepaccio è così profondo e dritto che nessun ostacolo devierà la traiettoria del dardo.» «Ma con quale pretesto entreremo nel palazzo?» s'informò Peggy, inquieta. «Siete dei supereroi, tutti vi conoscono» rispose Zabrok. «Ranuck, il gran visir, sarà orgoglioso della vostra visita. Dovrete dire che state effettuando un sopralluogo su Kandarta nella speranza di girarvi un film. Vi darò un salvacondotto ben contraffatto che accrediterà questa versione.» «Basterà?» insistette Peggy Sue. «Spero di sì. Domani lascerete il villaggio per via aerea. Così non correrete il rischio di essere inghiottiti da un crepaccio prima del vostro arrivo a Kromosa.» «Per via aerea?» si stupì Peggy. «Intende dire a cavallo di una scopa?» «Credi di essere in un romanzo d'avventura, piccola?» scoppiò a ridere il guerriero. «È ora che ti svegli! No, salirete su un aereo, uno degli ultimi ancora in grado di volare. L'apparecchio vi condurrà allo scalo di Manda-
vaar, ai margini della città di Kromosa, dove si trova il palazzo reale.» «E come si chiama il re?» chiese Sebastian. «Me lo sono dimenticato.» Zabrok fece una smorfia e, con fare esitante, si grattò le cicatrici che gli rigavano il volto. «Walner. È spalleggiato da Ranuck, il gran visir. Kromosa è un postaccio» mugugnò. «Qualunque cosa vi dovesse accadere, ricordatevi che sono amici della piovra... degli alleati della creatura dei sotterranei. All'inizio non erano così, poi si sono lasciati corrompere dalla Divoratrice.» «Cosa?» ansimò Peggy. «Sì, è proprio così» bofonchiò il soldato in preda all'imbarazzo. «La adorano come un idolo, la difendono. In cambio, essa ha concesso loro dei misteriosi privilegi. State in guardia: non sono più veri esseri umani.» 9 L'aereo del sonno Era un vecchio aeroplano a elica con dodici motori. Un pezzo d'antiquariato di metallo inossidabile, con la fusoliera piena di abrasioni e ammaccature. «Ma è enorme!» esclamò Sebastian appena lo vide sulla pista di decollo. «Per la miseria, come minimo potrà imbarcare mille persone!» «Un vero transatlantico volante» confermò il cane blu. «Sulle ali ci si potrebbe costruire un villaggio...» Sui fianchi e sulla coda si distinguevano ancora le tracce di antiche sigle militari. Dei simboli e dei numeri. Tutti questi motori devono far vibrare lo scafo come martelli pneumatici, pensò Peggy Sue. Quando le vibrazioni si trasmettono all'aereo si deve avere l'impressione di essere all'interno di un ventilatore! In certi punti, le lastre della fusoliera sembravano sconnesse. Quanto agli oblò, presentavano delle fessure. «È un cargo residuato di una qualche guerra» borbottò Sebastian, «un ferrovecchio che va avanti a forza di rattoppi da almeno un secolo. Speravo in qualcosa di meglio.» Quando salirono a bordo dell'aereo, constatarono che l'apparecchio, concepito per il trasporto di materiale, era sprovvisto di sedili. Si sentivano le raffiche di vento accanirsi sulla fusoliera. Poiché il velivolo non era pressurizzato, avrebbero volato a quota relativamente bassa, ma Peggy Sue non se ne sentiva rassicurata: si vola sempre
troppo in alto quando c'è il rischio di precipitare. Allungò il collo per osservare meglio l'interno dell'aereo: un tunnel scuro appena illuminato da minuscole lampadine appese alle pareti. Le arcate metalliche della fusoliera davano l'impressione di essere entrati inavvertitamente nella gabbia toracica di un dinosauro. Sarebbe stato vano sperare di trovare delle file di sedili: appena abbandonata la cabina di pilotaggio si entrava in un cilindro d'acciaio che si estendeva fino alla coda del velivolo, dove un tempo erano accatastate tonnellate di ordigni. «È gigantesco» ripeté Sebastian. Poi i motori cominciarono a rombare nelle tenebre. «Benvenuti a bordo del 'charter del sonno'» gracchiò la voce della hostess dall'altoparlante. «La compagnia Riposo e Sicurezza vi augura buon viaggio. Tra cinque minuti procederemo alla distribuzione dei sonniferi.» In quell'istante, Peggy si rese conto che l'interno dell'aereo offriva un curioso spettacolo di amache sospese in mezzo al corridoio. Ingannata dalla semioscurità, in un primo momento la ragazza aveva creduto che fossero dei pacchi agganciati alle pareti! Alla fine capì che si trattava di viaggiatori già pronti per la notte. Alcuni dormivano direttamente a terra, rannicchiati in sacchi a pelo, altri si dondolavano raggomitolati nelle amache. Da quell'ammasso di corpi si levava un tanfo di sonno e sudore. C'erano uomini, donne e bambini, tutti nascosti nel guscio dei propri piumini, rannicchiati fianco a fianco per conservare il calore dei corpi. La hostess si avvicinò e porse a Peggy Sue e Sebastian il loro sacco a pelo. «Sono spiacente,» sussurrò «vi siete presentati troppo tardi all'imbarco, quindi non ci sono più amache disponibili. Sistematevi dove meglio potete, l'aereo è strapieno... Vi porterò subito il menu dei sonniferi, a meno che non ne abbiate uno personale.» Peggy Sue farfugliò che non avevano alcuna intenzione di dormire, ma la hostess si era già allontanata, destreggiandosi per mantenere l'equilibrio. «Ma cosa sta dicendo?» mormorò Sebastian. «Vuole forse obbligarci a dormire? Cos'è questa storia?» Esitanti, si sistemarono sul pavimento, vicino alla porta perché il resto dell'aereo era pieno da scoppiare. Poiché tardavano a infilarsi nei sacchi a pelo, la donna li redarguì gentilmente: «L'aereo non è pressurizzato e la temperatura scenderà di parecchi gradi non appena prenderemo quota, quindi vi conviene coprirvi se non volete
morire di freddo. Su, sdraiatevi.» I tre amici si sentirono costretti a obbedire. Anche la hostess era infagottata in un impermeabile bianco che le dava un aspetto da orso polare. Peggy Sue si infilò nel piumino. Malgrado fosse stato lavato con disinfettante conservava uno sgradevole odore di sudore. Ebbe come la sensazione di trovarsi in un letto a cui non si cambiavano le lenzuola da una dozzina d'anni. Attorno a lei si agitavano delle sagome, farfugliando parole incomprensibili. «Siamo atterrati?» domandò una viaggiatrice angosciata. «Siamo già arrivati?» La hostess si precipitò per rassicurarla. «Solo per fare rifornimento di carburante» sussurrò. «Stiamo già ripartendo. Non abbia paura, in un minuto saremo di nuovo in quota. Desidera un'altra compressa?» Andava da un passeggero all'altro, distribuendo bicchieri d'acqua e pillole di sonnifero che faceva scivolare da un piccolo tubicino. Uno dopo l'altro, i passeggeri si riaddormentarono, richiudendo fino all'estremità il cappuccio del sacco a pelo. Non si udiva altro che il rumore dei motori, quel ronzio da calabrone che faceva tremare le lamiere metalliche della fusoliera. Peggy Sue rimase sulle spine per tutto il tempo che l'aereo impiegò per portarsi in quota. L'inclinazione del velivolo faceva scivolare i viaggiatori verso la coda, ammassandoli sempre più, ma sembravano troppo addormentati per rendersene conto. «Cose da pazzi!» guaì il cane blu. «Un dormitorio volante! Una roba del genere non l'avevo mai vista!» Di tanto in tanto qualcuno parlava nel sonno. Da ogni angolo dell'aereo si levava il russare dei passeggeri. Peggy Sue non riusciva a capire perché quelle persone fossero ammucchiate le une sulle altre. E perché si rimpinzavano di sonniferi? Quando la hostess si avvicinò con il menu, le pose la domanda. La donna inarcò le sopracciglia, stupita dall'ignoranza della ragazza. «Ma come,» sbuffò «questo è il charter del sonno! Pensavo che lei lo sapesse.» «No» ammise Peggy Sue. «Ci hanno detto di prendere questo volo perché è l'unico che porta a Mandavaar. Qual è la vostra destinazione finale?» «Non c'è una destinazione finale» balbettò la donna. «È un volo circolare. La gente che lo prende non va da nessuna parte.»
«Da nessuna parte?» farfugliò Sebastian. «Ma allora perché salgono a bordo?» «Per dormire, ovviamente» scoppiò a ridere la hostess. «Per dormire in santa pace. Al sicuro dai tentacoli della Divoratrice... Si portano dietro i loro bambini e, una volta in volo, corrono meno rischi di essere rapiti. Ci fermiamo solo per fare rifornimento: la nostra compagnia è famosa per fare scali brevissimi. Con Riposo e Sicurezza, si è certi di passare la gran parte del tempo in volo.» «Ma perché dormono?» insisté Sebastian. «Per non annoiarsi» spiegò la donna che cominciava a spazientirsi. «In un aereo non ci sono grandi possibilità di distrazione. E poi questi sventurati hanno tanto di quel sonno da recuperare... Avevano una tale paura della Divoratrice che di notte non chiudevano più occhio. Capite adesso?» Peggy Sue annuì, poco desiderosa di proseguire quell'assurda conversazione, e si distese sul pavimento rivestito di gomma, tra una grossa donna che dormiva a bocca aperta e un uomo che digrignava i denti. Si strinse a Sebastian e disse al cane blu di venire a sistemarsi vicino a loro. Poco dopo, la hostess si inginocchiò accanto a lei, agitandole sotto il naso una specie di menu illuminato per mezzo di una minuscola torcia. «Volete dormire 'leggero' o 'profondo'?» chiese. «Con o senza sogni? Alcuni passeggeri preferiscono sprofondare in uno stato comatoso, altri vogliono sogni dolci. Se è questo che volete, vi suggerisco l'Hypnogodon, un sonnifero mescolato a un leggero euforizzante. Farete sogni rosa e azzurri, ve lo garantisco.» «Ma noi non vogliamo dormire» protestò Peggy Sue. «Se dormiamo, rischiamo di perdere lo scalo di Mandavaar.» Pensò tra sé di fare la figura della sempliciotta che sale per la prima volta nella sua vita su una corriera. «Fate scalo a Mandavaar, vero?» «Sì» rispose la hostess, «per fare rifornimento. Intende dire che avete preso questo volo per viaggiare?» Squadrò Peggy con stupore, richiuse il menu e poi si allontanò, abbandonando i tre amici nella penombra. Appena il velivolo ebbe raggiunto la quota di crociera, la temperatura si abbassò di colpo, e Peggy Sue cominciò a vedere delle piccole nuvolette di vapore che uscivano dalle bocche dei passeggeri addormentati. Il freddo non sembrava disturbarli più di tanto. Storditi dai sonniferi, incassavano le
imbardate dell'aereo senza svegliarsi. Peggy Sue, invece, sussultava ogni volta che il vecchio bombardiere, risucchiato da un vuoto d'aria, perdeva quota. Si metteva seduta, con le mani strette sulla pancia, convinta che stessero per precipitare. C'erano dei paracadute a bordo? Non era forse il caso di agganciarli alla schiena dei passeggeri, prima di spingerli giù nel vuoto? Raggomitolata nel suo sacco a pelo, si mise ad ascoltare i rumori sospetti della carlinga. Sebastian e il cane blu, invece, avevano finito per addormentarsi. Peggy Sue stentava a persuadersi di non sognare, di essere davvero lì, vicino a una donna che - a intervalli regolari - borbottava nel sonno: «Gratta sui muri... è lei... la creatura del sottosuolo... ti dico che sta venendo a prendere nostro figlio.» A un certo punto, vinti dalla noia, Peggy Sue, Sebastian e il cane blu decisero di abbandonare i sacchi a pelo e andare in esplorazione. L'aereo era gigantesco. Dei bimbi gironzolavano con l'aria imbronciata. Un bambino sui dieci anni prese Peggy per una mano e le domandò: «Vi ho visti salire, prima... venite da fuori. Io ci sono nato in questo aereo, non ho mai camminato a terra... com'è?» Peggy non riuscì a nascondere la sua sorpresa. «Sei nato in volo?» ripeté. «Ma davvero?» «Certo» si spazientì il bambino. «Ho un sacco di amici nella mia situazione. I nostri genitori hanno abbandonato il suolo circa quindici anni fa... da allora vivono in cielo. Non è divertente. Volete che vi faccia visitare l'aereo?» Peggy accettò. «Mi chiamo Antonin» disse il ragazzino. «Conosco tutte le norme di sicurezza. Per esempio, la notte bisogna sempre tenere chiuse le tendine degli oblò. Se no la Divoratrice vede le luci dell'aereo e allunga una delle sue zampe nel cielo, per acchiapparlo. È già successo in passato.» Sulle prime, Peggy pensò che si stesse inventando tutto per suscitare interesse, ma poi vide la hostess che, con fare preoccupato, calava giù delle tendine nere davanti a ciascun oblò. Un'immagine le attraversò la mente, quella di un gigantesco tentacolo che si allungava da un crepaccio in direzione delle nuvole per intercettare l'aereo in volo. Strinse i denti. «La piovra sarebbe capace di scoperchiare l'aereo come una scatola di
latta» commentò il cane blu che aveva letto nei suoi pensieri. «Sa che ci troverà dentro una folla di marmocchi, proprio quello che ama più d'ogni altra cosa!» «Qui, in queste cabine,» spiegò Antonin «tengono delle mucche, dei polli e delle capre. Forniscono alimenti freschi, ma spesso hanno il mal d'aria e allora... vomitano.» Socchiuse l'uscio di una porta, e Peggy poté vedere degli animali malinconici accampati su giacigli di paglia. «La mucca si chiama Amélie» disse il bambino. «Si annoia, proprio come me. Un giorno impazzirà e sfonderà il portellone dell'aereo per lanciarsi nel vuoto.» Li condusse quindi nel dormitorio di prima classe che era meglio attrezzato, disponendo di veri letti. Ogni famiglia aveva a disposizione una cabina che assicurava una parvenza d'intimità. Ma in ogni caso ci si doveva sentire stretti, soprattutto se si viveva lì dentro da quindici anni! «Cosa si prova a camminare giù in basso?» li interrogò Antonin. «Non riesco a immaginarmelo. L'erba, la terra... vi siete portati dietro qualcosa? Mi piacerebbe davvero sapere che aspetto hanno.» La hostess si intromise ossequiosamente. «Antonin,» mormorò «lascia tranquilli i passeggeri. Tra poco scenderanno. Le tue storie non li interessano.» Detto questo allontanò Peggy Sue e gli altri dal settore di prima classe. «Non prendetevela,» disse «ma i passeggeri di prima classe sono diffidenti. In ogni straniero vedono un potenziale amico della piovra.» «Si riferisce agli stregoni?» chiese stupita Peggy. La hostess alzò le spalle. «Non so se gli amici della piovra sono davvero degli stregoni,» fece con voce inquieta «ma si travestono da viaggiatori e approfittano degli scali per intrufolarsi negli aerei. La notte, quando tutti gli altri dormono, aprono le tendine e inviano dei segnali luminosi dagli oblò, per indicare alla Divoratrice la posizione dell'apparecchio, nella speranza che lanci un tentacolo verso il cielo per acciuffarci. Sono pericolosi. Se il generale Massalia non ci avesse avvertito del vostro arrivo, vi avrei tenuto d'occhio per tutto il viaggio.» Per farsi perdonare di averli buttati fuori dalla prima classe, la hostess condusse i tre amici al bar. Il comandante, che aveva affidato la guida dell'aereo al copilota, si trovava lì proprio in quel momento. Aveva la divi-
sa sgualcita e i galloni avevano perso il loro smalto dorato. Peggy, avanzando verso di lui, notò che aveva il volto sfigurato. Orribili cicatrici di ventose gli rigavano le guance e la fronte. Il comandante alzò il bicchiere (rum puro!) in direzione dei ragazzi, in segno di saluto. «Sembra sull'orlo di un esaurimento» osservò telepaticamente il cane blu. «Speriamo che il copilota sia in uno stato migliore.» «Nottataccia» bofonchiò il comandante. «Ho il terrore delle notti senza luna, è sempre in questi momenti che gli amici della piovra si intrufolano a bordo degli apparecchi.» «Perché?» s'informò Sebastian. «Quando il cielo è scuro la Divoratrice riesce a individuare più facilmente i segnali che inviano dagli oblò» sospirò l'uomo. «So di cosa parlo. Una volta me la sono cavata per un pelo. Non sapete cosa significa vedere all'improvviso un tentacolo gigantesco spuntare fuori dalle nuvole per arrotolarsi intorno all'aereo! L'ultima volta che mi è successo sono riuscito a sfuggire, ma non avrò per due volte la stessa fortuna.» È ubriaco, pensò Peggy. Ha un'aria terrorizzata. «Spero che voi non facciate parte di quella dannata setta...» tuonò il pilota. «Certo che no!» replicò sdegnato Sebastian. «Abbiamo una raccomandazione del generale Massalia.» «Ah sì, è vero!» biascicò l'uomo. «Massalia, quel folle che voleva dar la caccia alla creatura del sottosuolo con un arco e una freccia!» «Una balestra» lo corresse Peggy Sue. «Ma è la stessa cosa! Il re Walner l'ha cacciato via, a quanto pare. Adesso monta di guardia ai confini dei territori, in attesa della pensione.» Peggy e Sebastian chiesero un'aranciata, mentre il cane blu pretese un cocktail con una parte di rum e una parte di midollo osseo, ma poiché il barman non aveva quell'ingrediente sotto mano, dovette accontentarsi di una granatina. Peggy scoprì presto con stupore che il volo sarebbe durato cinque giorni. Ne rimase assai contrariata, poiché non si sentiva al sicuro all'interno dell'aereo. Per ammazzare il tempo, leggeva la guida che le aveva dato Zabrok, il maestro di guerra. Era piena di indicazioni utili sulla geografia, i costumi e i pericoli di Kandarta. A ogni scalo, nuovi passeggeri salivano sul velivolo. La maggior parte era accompagnata da neonati o da bambini piccoli. «Vivere giù non era più possibile» confidò a Peggy Sue una giovane
donna di nome Marie-Jeannette. «La notte non dormivo, ero terrorizzata all'idea che il mostro rapisse mio figlio. Abbiamo venduto la nostra casa, messo insieme i nostri risparmi e acquistato tre biglietti per il charter del sonno.» «Quanto tempo contate di restare in volo?» chiese Peggy. «Abbiamo prenotato una cabina per due anni» spiegò Marie-Jeannette. «Spero che ci troveremo bene. Tu sei qui da molto? Mi piacerebbe se diventassimo amiche, non conosco nessuno.» Peggy Sue fu dispiaciuta di doverle rispondere che sarebbe scesa allo scalo di Mandavaar. Marie-Jeannette sembrava una persona gentile. Il suo bambino (di nome Kevin) sorrideva sempre. Il marito, Joshua, era un bel ragazzone di venticinque anni. Andarono a sistemarsi nel settore di prima classe. «Poveretti» bofonchiò il cane blu. «Due anni in quest'aereo, ad ascoltare gente che russa e respirare tanfo di piedi.» «Su,» intervenne Peggy «non si dicono queste cose.» «Ma è la verità!» s'indignò l'animale. «C'è anche chi fa le puzze mentre dorme!» Quella sera stessa, le cose cominciarono a guastarsi. «La hostess sembra un po' nervosa» osservò Sebastian. «Hai visto come controlla le tendine degli oblò?» Era vero. La donna si muoveva con gesti febbrili. Di tanto in tanto sollevava una tendina per lanciare un'occhiata all'esterno. «Sembra come che voglia accertarsi che nessuno ci stia alle calcagna...» disse il cane. «Tira una brutta aria, forse è ora di mangiare del cavolo blu... ne avete con voi? Ne mangerei volentieri una ciotola, così, tanto per gradire.» Peggy Sue si raddrizzò. «Credi che un tentacolo stia cercando di prenderci?» domandò a Sebastian. «Sembrerebbe proprio di sì» rispose il ragazzo con una smorfia. «La hostess non si sognerebbe mai di dircelo per evitare di scatenare il panico, ma a mio avviso il mostro ci ha individuati.» Aveva appena pronunciato quelle parole che gli altoparlanti cominciarono a gracchiare. «Signore e signori passeggeri,» disse la voce nervosa del comandante «stiamo per spegnere l'illuminazione delle corsie e delle cabine per per-
mettere all'elettricista di procedere ad alcune piccole riparazioni. Vi preghiamo di scusarci per il disturbo momentaneo.» «Avete sentito?» sghignazzò il cane blu. «Mettete a cuocere il cavolo blu, ne avremo presto bisogno!» L'annuncio suscitò un moto di panico tra i viaggiatori. Non appena l'aereo sprofondò nell'oscurità i bambini cominciarono a frignare. Peggy sentì la voce del piccolo Antonin che strillava, in fondo al dormitorio di prima classe: «È la zampa della Divoratrice! Si avvicina...» E fu subito il parapiglia. Sordi ai richiami della hostess, tutti si precipitarono verso gli oblò per vedere cosa accadeva all'esterno. Peggy Sue si fece largo con i gomiti per saperne di più. All'inizio non vide granché a causa delle nuvole, poi cominciò a discernere un'ombra sinuosa che si attorcigliava nel cielo, come una frusta che schiocca al rallentatore. Un tentacolo di piovra, pensò tra sé, mentre i capelli le si drizzavano sulla testa dalla paura. Un tentacolo che esce da un crepaccio... «In nome di una salsiccia atomica!» ansimò il cane blu. «Questo coso è lungo almeno due chilometri!» «Perlustra le nuvole alla cieca» fece notare Sebastian. «Procede a tentoni... non sa dove ci troviamo. Con un po' di fortuna ce la caveremo, forse.» Peggy Sue aveva la gola completamente secca. L'aereo sembrava piccolissimo al confronto di quell'enorme zampa costellata di ventose, che si muoveva come un serpente tra le nuvole. All'interno dell'apparecchio, delle donne si misero a piangere mentre gli uomini chiedevano a viva voce che l'aereo salisse di quota. «È impossibile,» spiegò loro la hostess, pallidissima in volto «abbiamo raggiunto l'altitudine massima. I motori non sono sufficientemente potenti da portarci più in alto. Vi prego di restare in silenzio: è possibile che i tentacoli siano dotati di orecchie che consentono di percepire la presenza delle prede. Fate stare zitti i bambini che piangono... I loro lamenti accentuano l'appetito della creatura. È di loro che è in cerca.» I suoi consigli non sortirono alcun effetto. I passeggeri si spintonavano nell'oscurità, calpestando quelli che avevano perso l'equilibrio. Peggy Sue si domandò come mai corressero... dove pensavano di andare? Si ritrovò separata dai suoi amici e spinta in fondo alla corsia, verso il
settore di prima classe. «Calma!» ripeteva la hostess. «Se l'aereo continua a volare al buio e in silenzio è possibile che il mostro non riesca a localizzarci. Vi supplico di rispettare la procedura di sicurezza.» Poco a poco, tornò il silenzio. La gente ansimava nell'oscurità. I bambini che ancora si lamentavano erano stati imbavagliati. Peggy si liberò della calca e si allontanò a piccoli passi nella corsia. Non vedeva dove metteva i piedi. Sentiva soltanto il cuore che le batteva all'impazzata. Non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine del tentacolo irto di ventose che scudisciava il cielo notturno... All'improvviso, quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, le parve di scorgere dei lampi luminosi sotto la porta di una cabina. Si accendevano e spegnevano rapidamente, come se qualcuno stesse giocando con un interruttore. Che stupidi, pensò tra sé, la hostess ha detto che... E d'un tratto capì: si trattava degli amici della piovra! Chiusi nella loro cabina, mandavano dei segnali alla Divoratrice! Peggy si avventò sulla porta e la prese a pugni. «Fermatevi!» gridò. «Fermatevi! Siete pazzi, ci farete scoprire.» «Sei tu, Peggy?» fece la voce di Marie-Jeannette dall'altra parte. «Non devi avere paura... Lo facciamo per il bene della creatura. Ha troppa fame, capisci? Deve nutrirsi. È l'ultima rappresentante della sua specie, non si può lasciarla morire.» Peggy Sue indietreggiò, interdetta. Dunque la dolce Marie-Jeannette e suo marito, il buon Joshua, erano degli stregoni! «Siete pazzi» esclamò. «Ma non pensate al vostro bambino? La Divoratrice se lo mangerà!» «E noi ne saremo fieri!» rispose Marie con voce esaltata. «Di bambini ce ne sono a bizzeffe... La creatura del sottosuolo invece è l'unico esemplare in tutto l'Universo. Bisogna salvarla, anche se questo dovesse costare delle vite umane.» Le grida di Peggy Sue intanto avevano attirato l'attenzione degli altri viaggiatori. «Sono dei terroristi!» tuonò un uomo. «Si sono rinchiusi lì dentro per inviare dei segnali alla bestia! Presto, un'ascia, dobbiamo sfondare la porta...»
In pochi secondi il panico s'impossessò dell'aereo. Tutti si spintonavano, si colpivano. In preda al terrore, la gente se le suonava di santa ragione. Dalla porta chiusa a doppia mandata si sentivano le voci di MarieJeannette e Joshua che gridavano: «Siamo qui! Creatura del sottosuolo, vieni a prenderci! Ci vedi? Siamo i tuoi amici... siamo pronti, vieni! Vieni!» La potente torcia che agitavano davanti all'oblò lampeggiava a più non posso. Peggy pensò che la Divoratrice non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad avvistare quel segnale nel cielo notturno. L'aereo effettuò una brusca virata su un lato, probabilmente perché il pilota cercava di schivare il tentacolo che si stava avvicinando. Tutti i passeggeri persero l'equilibrio. Alcune porte, chiuse male, si aprirono. La mucca, le capre e i polli per il sostentamento scivolarono lungo i corridoi dell'aereo lanciando grida spaventose. Da quel momento fu il caos totale. La mucca da latte e le caprette cominciarono a caricare a casaccio, a corna basse, colpendo tutto quello che incontravano sul cammino. Si levarono grida di dolore, cui si aggiunse il frastuono delle pareti divelte dagli animali infuriati. L'aereo si produsse in una nuova oscillazione e questa volta Peggy sentì nettamente il tentacolo grattare su una delle ali... La ragazza si ritrovò catapultata verso la prua dell'apparecchio, tornando al punto di partenza. Invocò in soccorso i suoi amici. Sebastian la prese tra le braccia. «Vieni!» ansimò. «Ho trovato un vecchio paracadute, lanciamoci...» «Sei pazzo!» protestò Peggy. «No» replicò il ragazzo. «Sarebbe una pazzia restare a bordo. Dobbiamo lanciarci, prima che l'aereo si schianti o finisca nelle grinfie della Divoratrice. Vieni, aggrappati a me con tutte le tue forze. Mi sono sistemato il cane blu nella camicia.» Non ebbe tempo di aggiungere altro. La mucca fece irruzione muggendo più forte della sirena di un traghetto. Senza rendersi conto di quello che stava per fare, si lanciò contro lo sportello comunicante con l'esterno. L'istante successivo, si ritrovò con un piede nel vuoto, mentre una corrente gelida s'insinuava nell'aereo. «Seguiamola!» gridò Sebastian. «Tieniti forte, si salta!» Quando si sentì cadere, per un attimo Peggy Sue pensò che stesse per scoccare la sua ultima ora. Le raffiche di vento le strattonavano i capelli e
le gonfiavano i vestiti. Si avvinghiò con tutta l'energia di cui era in possesso alle bretelle che cingevano il torace di Sebastian. Alla fine il paracadute si aprì, rallentando la loro caduta. Alzando gli occhi, la ragazza vide l'aereo che procedeva a zig zag in mezzo alle nuvole, inseguito dall'enorme tentacolo. Da uno degli oblò, lampeggiava una luce intensa: la torcia di Marie-Jeannette e Joshua, gli amici della piovra. 10 La città avvelenata Sebastian azionò le funicelle del paracadute per tentare di correggere la traiettoria. Le cinghie dell'imbracatura strette sul suo sterno gli segavano le spalle. Come se non bastasse, aveva paura che Peggy Sue finisse per cedere a un crampo e abbandonasse la presa. In effetti, la ragazza appesa al suo collo non era assicurata da nessuna cintura. Non sapeva più da quanto tempo era agganciata al paracadute, che il vento si divertiva a spostare qua e là in giro sopra la campagna. Le sue mani, strette alle spalle di Sebastian, si stavano intorpidendo. Sapeva che anche il ragazzo la teneva stretta, ma a forza di contrarre i muscoli si affaticava. Prima o poi rischiava di farsi venire un crampo. All'improvviso, uscendo da una nuvola, vide disegnarsi in lontananza il profilo di una città. «È Kromosa, la città reale!» gridò. «La riconosco, è uguale alle illustrazioni della guida. Abbiamo avuto fortuna, il vento ci ha portato proprio dove eravamo diretti!» Al di sotto dei ragazzi, la città offriva allo sguardo un panorama di crepacci che si aprivano sulle strade, come delle fosse scavate tra le case. Dalle fenditure si innalzavano graziose colonne di fumo azzurrognolo che ondeggiavano sinuosamente nella brezza. Secondo la guida si tratta dell'alito della creatura del sottosuolo, pensò Peggy. Lo emette attraverso le spaccature del terreno per avvelenare gli esseri umani. È talmente opaco da nascondere la luce del sole e far scendere la notte in pieno giorno, come le ceneri di un'eruzione vulcanica. Sapeva che gli abitanti di Kromosa avevano l'abitudine di fuggire da quelle esalazioni tossiche. Si diceva che nessun fiore germogliasse nelle zone in cui ristagnava il fiato della Divoratrice. Gli alberi diventavano pal-
lidi, e i loro frutti cadevano in polvere solo al toccarli. La guida era prodiga di aneddoti terribili al riguardo, e Peggy Sue temeva l'istante in cui avrebbero poggiato piede a terra. «La nube blu si muove in balìa del vento» diceva il libro. «Si sposta lungo le strade, cancellando immediatamente tutto ciò che sfiora. I disegni sui tappeti si cancellano, i quadri prendono il loro aspetto originale di teli bianchi. Nulla resiste al contatto malefico. Si sono visti libri trasformati in blocchi di pagine bianche nell'arco di tre ore. Perfino i capelli dei bambini ingrigiscono al contatto.» Peggy Sue si sporse dal paracadute per cercare di seguire i movimenti delle colonne di fumo fuoriuscenti dai crepacci. Sembrano i tentacoli di una piovra, pensò. Ciascuno si allunga in una strada diversa. «Assomiglia a una notte liquida» disse il cane blu, «Una notte che inonda tutto...» «Proprio così» confermò la ragazza. «Quando si è sommersi dal fumo azzurrognolo non si vede più nulla.» Quella maledizione condannava interi quartieri a un'esistenza fatta di lamenti e corse affannose. Folle stravolte popolavano quelle strade avvolte dal fumo. Alcuni, all'arrivo della nebbia avvelenata, fuggivano strisciando carponi. Erano soprannominati 'i fuggiaschi': si tenevano alla larga dalla notte artificiale sprigionata dalla Divoratrice. Ma la maggioranza della gente aveva rinunciato e si era convinta a piantare lì fagotti e carretti, finendo per insediarsi in case che, a furia del continuo ricambio di inquilini, non appartenevano più a nessuno. «Non possiamo traslocare un giorno sì e un giorno no,» sospiravano le donne «è impossibile. Stare costantemente all'erta per avvistare l'arrivo del fumo e poi fuggire, zaino in spalla, un bambino in un braccio e uno nell'altro, no... Non è vita, questa. Una famiglia non può vivere senza un tetto, senza una strada, senza un proprio quartiere.» Avendo rinunciato alla fuga perenne erano rimasti là, cercando di trattenere il respiro quando l'alito della Divoratrice li avvolgeva coi suoi vapori venefici. Imbacuccati nelle coperte, negli stracci, facevano finta di non vedere i capelli dei loro bambini diventare sempre più grigi. E il vapore malefico passava su di loro, cancellando al passaggio libri e immagini, oscurando il sole anche nelle ore più calde della giornata. Anche i gatti s'incanutivano, i ratti, i topi...
Peggy aveva letto tutte queste cose nella guida di Zabrok. Molte di quelle storie, probabilmente, erano un po' colorite; cionondimeno doveva esserci un fondo di verità. Sebastian diede un nuovo strattone alle funicelle. Il vento gli deformava i lineamenti. Condivideva i timori dei suoi compagni d'avventure. Adesso, sotto i suoi piedi distingueva gli antichi quartieri devastati dai vapori tossici. Intere strade erano imbiancate al loro passaggio. Le case, a furia di trovarsi immerse in quelle fumigazioni, rassomigliavano a scogliere di gesso. Fece forza sulle funicelle nella speranza di trovare un'area libera propizia all'atterraggio. Non ci teneva proprio a finire infilzato su un segnavento o su una vecchia antenna della televisione. L'ideale sarebbe stato individuare una piazza, uno slargo, ma il vento lo trascinava, senza lasciargli alcuna possibilità di dirigere il paracadute. Sentì che le correnti aeree li sollevavano, portandoli fuori dalla città, verso le montagne. La cosa peggiore, pensò, sarebbe finire in un crepaccio! La Divoratrice ci inghiottirebbe vivi! Un uccello nero sorvolò le loro teste, lottando contro il vento. Sembrava spaventato a morte, come se l'odore della creatura dei sotterranei gli comunicasse l'approssimarsi della sua fine. Sebastian lo vide dibattersi nel vento senza riuscire a modificare la traiettoria. Come aspirato da una bocca invisibile, l'uccello scendeva a spirale verso il basso, avvicinandosi al suolo. La sua leggerezza non gli consentiva di resistere al vuoto d'aria causato dall'aspirazione dei crepacci. Lentamente, si avvicinava sempre più a terra. Peggy Sue lo vide entrare nelle volute di nebbia. Ebbe come l'impressione di percepire un pigolio strozzato, poi l'uccello precipitò ruotando su se stesso. Le sue piume erano diventate bianche. Al termine della caduta, fu inghiottito da una delle crepe che solcavano la strada. Che orrore! disse tra sé la ragazza. Come se il crepaccio lo avesse divorato... speriamo di non fare la stessa fine. Quella prospettiva la riempì di un sudore gelido, e si domandò se lei e Sebastian fossero sufficientemente pesanti da resistere al risucchio proveniente dal ventre del pianeta. Persero quota, ma riuscirono a sfuggire alle raffiche che li spingevano verso le montagne come una tempesta che sbatte una nave sugli scogli. Adesso i tetti appuntiti si avvicinavano, una foresta di cupole e torri irte di banderuole. Kandarta sembrava una città medievale. Sebastian distingueva
cupole dorate e templi sormontati da statue. «Ci sta risucchiando!» abbaiò il cane blu. «Sentite la corrente d'aria?» Peggy Sue guardò in basso. Anche lei aveva l'impressione di trovarsi nel vortice generato da un aspiratore gigante. Le parve di vedere una faglia nel terreno, i cui lembi disegnavano sul marciapiede un sorriso beffardo, come quello di uno squalo. Sta per inghiottirci! pensò con orrore. Nel breve scorrere di un secondo, s'immaginò mentre ruzzolava in fondo al precipizio, sempre più giù, attraverso chilometri di gallerie, fino alla caverna in cui la Divoratrice giaceva rannicchiata sin dall'alba dei tempi. Piegò le ginocchia per prepararsi all'impatto. Sebastian non era più in grado di controllare la caduta. Per sottrarsi alla corrente di aspirazione, il ragazzo ebbe l'idea di far forza sulle funicelle e sgambettare come un pazzo. Lo stratagemma funzionò. La corolla di tela rigonfia deviò sulla sinistra, evitando in extremis l'orribile crepaccio. Ci schianteremo, pensò Peggy Sue constatando che il paracadute scendeva adesso a velocità folle. Strinse i denti, mentre i piedi urtavano contro le tegole di un tetto. Sentì delle travi che si spezzavano, un muro che crollava. Finì per attraversare un solaio marcio e si ritrovò sospesa a due metri dal suolo all'interno di un magazzino abbandonato. Le funicelle si erano incastrate nelle travi frenando la loro caduta, ma i tre amici restarono bloccati dalle cinghie del paracadute, oscillando come impiccati dimenticati sul patibolo. L'impatto li aveva storditi. Il cane blu guaiva, stretto a sandwich tra i due ragazzi. Peggy Sue soffocava perché le cinghie le serravano il petto come una morsa. «Dove siamo?» domandò Sebastian massaggiandosi la testa. «Nel bel mezzo della zona avvelenata» spiegò la ragazza. «Non ci poteva andare peggio. Dai crepacci sulle strade fuoriesce il fumo venefico. Dobbiamo uscire al più presto da questo postaccio, senza dimenticarci di prendere le pasticche di antidoto che ci ha dato Zabrok.» Dopo essersi dimenato a lungo, Sebastian riuscì a estrarre il coltello e tagliare le cinghie. Caddero in mezzo ai calcinacci. Senza indugio, Peggy si diresse barcollando verso la porta del magazzino. Strabuzzò gli occhi: fuori sembrava calata la notte, una notte azzurrognola che conferiva alle facciate delle case un aspetto da città fantasma.
L'aria puzzava di polvere bruciata, come dopo uno spettacolo di fuochi d'artificio; irritava gli occhi e la gola. Delle fiaccole ardevano, conficcate sulle porte, ma le loro fiamme crepitavano producendo solo una timida luce. Perfino i suoni si propagavano con difficoltà, come attutiti da quella nebbia fetida. La strada offriva una prospettiva desolata di caseggiati in rovina. Gatti scoloriti, di un biancore spettrale, vagabondavano sgranando occhi rossi. Peggy notò un uomo ricoperto di fasciature, come una mummia, che si spostava tra le macerie di un antico palazzo. Gli rivolse un cenno amichevole, ma lo sconosciuto si diede alla fuga. «Un faraone fuggito dal sarcofago?» si stupì il cane blu. «Ramses secondo, forse?» «No,» disse Peggy Sue «penso che la gente dei dintorni si vesta così per proteggersi dall'acidità dell'aria.» Sebastian emise un sospiro e si decise ad abbandonare il magazzino. La notte gli bruciava gli occhi, sgradevoli punture gli solcavano la pelle. Anche Peggy Sue si grattava forsennatamente, assalita da infiniti pizzicorii. «Ho come l'impressione di essere stato cosparso di polvere urticante!» imprecò il cane blu mordendosi il didietro. «Prendiamo le pasticche» decise Peggy. La falsa bruma notturna li avvolgeva sollevando minuscole vescicole sulla loro epidermide. Poco più avanti incrociarono un'altra mummia, che alla loro vista se la diede a gambe levate. «Ehi, giovani!» esclamò una voce alle loro spalle. La ragazza si voltò. Era un vecchio sulla soglia di una casetta semidiroccata. Aveva il corpo interamente fasciato di bende, solo il viso restava scoperto. «Siete voi quelli che sono appena caduti dal cielo?» li interrogò. «Entrate qui da me. Non ci guadagnerete nulla ad andarvene in giro per la strada con questa nebbia avvelenata. Se vi ostinate, la vostra pelle cadrà in pezzi.» «Davvero?» si sorprese Peggy Sue. «Sì» fece il vecchio. «Se ci tenete a camminare nella nebbia, dovete fasciarvi di bende da capo a piedi, oppure spalmarvi di grasso, se no vi ritroverete ben presto sbucciati come una patata sotto il coltellaccio di un cuoco.»
Entrarono nella casupola del vecchio; una catapecchia rischiarata da un semplice lumino a olio appoggiato su di uno scrittoio. «Mi chiamo Junius Abraxas Servallon» disse l'uomo. «All'epoca d'oro di Kandarta, ero il primo scriba presso la biblioteca del palazzo. Oggi ripasso con l'inchiostro i libri sacri i cui caratteri sono stati cancellati dal fumo avvelenato.» Indicò tre volumi aperti sul tavolo da lavoro. Peggy Sue vide che alcune pagine erano talmente impallidite da risultare illeggibili. «Se non ridisegnassi le lettere ogni giorno» spiegò Servallon «questi libri magici diventerebbero bianchi in meno d'una settimana. Non abbiamo più molti testi, da queste parti. Il sapere si perde. Senza biblioteca si diventa idioti.» Fece segno ai due amici di sedersi. Sebastian e Peggy Sue si sistemarono su delle sedie di cuoio. Servallon versò nei bicchieri una miscela che assomigliava a vino allungato con acqua. «Questa zona è tutta un crepaccio» disse. «Ecco perché siamo avvelenati dai fumi che filtrano dalle fenditure. La Divoratrice è qui sotto, soffia come una balena. Si diverte a farci respirare i suoi odori infernali.» «Ma il re Walner non vi aiuta?» chiese Peggy, sorpresa. Sebastian sogghignò. «Gli abitanti dei quartieri ricchi non vogliono neppure sentir parlare di noi» sibilò tra le labbra screpolate. «Si sono trincerati dietro una muraglia per proteggersi dalle esalazioni della zona avvelenata. Sentinelle armate di archi e giavellotti montano di guardia in cima a quel bastione per respingerci nel caso che a qualcuno venga in mente di cercare rifugio presso di loro. In questo modo ci condannano a respirare l'alito putrido della Divoratrice.» S'interruppe per bere e tossì. «È un vinello» commentò. «Il fumo uccide gli ortaggi, le zucche, e i grappoli d'uva si seccano senza giungere a maturazione.» «Ci sono molti rapimenti di bambini?» chiese la ragazza. «Sì» rispose lo scriba con amarezza. «Tanto più che la gente del quartiere è povera e non può proteggersi dietro porte o finestre blindate. Per i ricchi va bene così. In effetti la Divoratrice si rifornisce solo da noi, lasciando tranquilli i loro bambini! Siamo diventati il mercato del mostro dei sotterranei. Viene a fare la spesa nelle nostre strade. Le basta intrufolare i suoi tentacoli nelle case in rovina: le fessure non mancano.» «È terribile» s'indignò Peggy Sue.
«Dobbiamo uscire da qui,» spiegò Sebastian «abbiamo un messaggio urgente da consegnare al palazzo reale.» Servallon ridacchiò, mandando giù un sorso di vino. Le sue dita macchiate d'inchiostro abbozzarono strani movimenti nel vuoto. I tre amici ne ricavarono l'impressione che fosse un po' suonato. «Nessuno può andare dall'altra parte del grande muro» ripeté lo scriba. «Non avete ascoltato le mie spiegazioni? Avete avuto la sfortuna di cadere in una sorta di zoo... una riserva. La gente del quartiere si sposta di continuo, passa la sua vita a traslocare da una strada all'altra per fuggire alla nebbia, ma non fa che girare in tondo. Dovrete imparare a fare come loro.» «Anche lei lo fa?» gli chiese Peggy Sue. «No» rispose il vecchio. «Non ci penso nemmeno ad abbandonare i miei libri! Avete mai provato a scrivere camminando? Ho passato cinque anni con i fuggiaschi, poi è sopraggiunta la stanchezza. Camminavo sempre più lentamente. Quando il vento avvelenato ha finito per acciuffarmi, ho capito che era giunta l'ora di diventare sedentario. La foschia è imprevedibile, si sposta lungo le strade, spinta dalle folate di vento. E quando arriva, cala la notte, fino a che una nuova folata la sposta più avanti.» Peggy Sue e Sebastian si scambiarono un'occhiata perplessa, non sapendo se prendere sul serio le parole del vecchio. «Ascoltate il mio consiglio» disse Servallon. «Sbrigatevi a unirvi ai fuggiaschi e tenetevi lontani dalla nube avvelenata. Non c'è altra soluzione, se non volete vedere la vostra pelle cadere in pezzi e i vostri capelli diventare bianchi come i miei.» Il vecchio era ritornato al suo scrittoio. Maneggiando la penna febbrilmente, ricopriva d'inchiostro i geroglifici semicancellati dei manoscritti che aveva iniziato a restaurare. «Riposatevi un istante, se volete» disse senza voltarsi, «ma partite appena farà giorno. Prendete l'abitudine di proteggervi sempre dall'oscurità, che sia quella vera o quella provocata dalla nebbia.» «E i fuggiaschi?» lo incalzò Peggy. «Come fanno a riposarsi se passano il tempo a correre per sfuggire all'avanzata della foschia?» «Avanzano a turno. Una metà trascina l'altra metà che dorme dentro i carri. Le due squadre si danno il cambio senza soluzione di continuità: quando una dorme l'altra corre e viceversa. Sono dei veri atleti. Se volete farvi accettare presso di loro dovrete tirare i carri, come farebbe un asino.» «Ma è una vita assurda!» osservò Sebastian. «Non dal loro punto di vista. Cercano di proteggere i loro bambini, di
sottrarli all'appetito della Divoratrice e alle malefatte del gas tossico sprigionato dai crepacci.» Sebastian annuì. La pelle sulle sue spalle si sollevava in grappoli di vesciche, come il giorno dopo una grossa scottatura. Il vecchio colse il suo sguardo. «La foschia» mormorò in segno di spiegazione «vi ha già colpito e comincia a corrodervi. Vi scuoierà vivi, se vi attardate qui. Avete una pelle troppo tenera.» Proferite quelle parole, s'immerse nella scrittura e non sollevò più la testa. Peggy si appostò accanto alla finestra per sorvegliare quello che accadeva fuori. Servallon aveva ragione: il fumo faceva calare la notte in pieno giorno! Dopo un po', la ragazza vide un grosso serpente procedere a zig zag nella polvere, dall'altro lato della strada. Ma quant'è lungo! pensò. Come una lancia antincendio dei pompieri... Oh! Ma sono completamente idiota! Non è un serpente, è uri tentacolo! Effettivamente, quello che aveva scambiato per un boa constrictor7 in realtà era uno pseudopodo azzurrognolo ondeggiante tra le macerie in cerca di una preda! Eccolo che striscia sulla facciata della casa di fronte in cerca di una fessura da cui introdursi, osservò Peggy. Sembra un lumacone gigantesco. Era la prima volta che vedeva un tentacolo così da vicino. Dall'altro lato della strada, lo pseudopodo fracassò un vetro per intrufolarsi in un appartamento. Ne riuscì due minuti dopo, senza aver trovato nulla. Sembrò esitare per un po', poi strisciò tra i sassi in direzione della casetta di Servallon. «Ehi!» gridò Peggy. «Sta venendo qui!» «Per la miseria!» ansimò Sebastian. «Si è accorto di noi. Pensavo che fossimo troppo grandi per risvegliare il suo appetito...» «Quanti anni avete?» domandò lo scriba. «Quattordici» risposero i ragazzi. «Allora siete ancora dei bambini» sospirò il vecchio, «e la Divoratrice in effetti ha tutto il diritto di inserirvi nel suo menu. Cercherà di entrare, statene certi.» Peggy esaminò la porta. Fortunatamente sembrava solida. Una robusta sbarra trasversale permetteva di bloccarla. Per prudenza, la ragazza sistemò lo schienale di una sedia sotto la maniglia.
«La finestra!» esclamò Sebastian. «Presto! Bisogna chiudere le persiane!» Fortunatamente, il tentacolo si spostava con lentezza, come se non ci vedesse bene e faticasse a localizzare l'obiettivo. «Inutile agitarsi!» fece Servallon con fatalismo. «Se la Bestia ha deciso di entrare, entrerà. Quando suona la propria ora, bisogna rassegnarsi.» «Facile per lei!» sibilò Peggy. «Alla sua età non si rischia di essere portati via. C'è un'ascia?» «Qui, nell'armadio... ma non servirà a nulla. È troppo forte.» «Non sono abituata a rassegnarmi senza combattere» tuonò Peggy, impossessandosi dell'arnese. «Non otterrete nulla con la forza» s'intestardì lo scriba. «Meglio agire d'astuzia.» «E come?» chiese Sebastian. «Il vostro cane» spiegò il vecchio. «Mascheratelo da bambino e gettatelo fuori dalla finestra... il tentacolo ci metterà almeno tre minuti per accorgersi del raggiro, così avrete il tempo di fuggire.» «Cosa? Cosa? Cosa?» abbaiò il cane blu. «Ho ancora dei vestiti da bambino in questo cassetto» disse cortesemente Servallon. «Li ho comprati da una balia. Non sono mai stati lavati, quindi sono impregnati dell'odore del neonato che li ha indossati. È uno stratagemma al quale facciamo spesso ricorso da queste parti in caso di pericolo. Avevo intenzione di venderli all'asta per ricavarne un po' di soldi, ma se possono esservi utili...» «Non voglio essere travestito da marmocchio!» protestò il cane blu. «Voglio morire da soldato, combattendo quella specie di wurstel costellato di ventose che sfonda le finestre!» «Nessuno morirà!» dichiarò Peggy con tono risoluto. Un colpo sordo si abbatté sulla porta, e tutta la casa tremò sulle fondamenta. «In nome di una salsiccia atomica!» si lamentò l'animale. «Perché non ho mangiato del cavolo blu?» Per una decina di minuti buoni, lo pseudopodo cercò d'intrufolarsi nella casa. Colpiva alla cieca, a volte sulla porta, a volte sulle persiane, ma senza riuscire a divellerle dai cardini. «È una costruzione solida» s'inorgoglì Servallon. «Non ho lesinato sulla sicurezza, ma bisogna evitare che questa cosa ci tenga sotto assedio troppo
a lungo.» A ogni nuovo colpo di maglio, dal soffitto cadevano pezzi d'intonaco e nuove fessure si aprivano sulle pareti. «Non resisterà in eterno» disse Sebastian. «Per fortuna questa zampa è piuttosto maldestra, altrimenti saremmo già morti da un bel pezzo.» «Il motivo è che non vede bene» spiegò dottamente lo scriba. «Si muove affidandosi all'olfatto... Abbiamo a che fare con un tentacolo privo di occhi, siamo fortunati! Ne esistono diversi tipi: alcuni possiedono le dita, altri gli artigli, altri ancora le orecchie...» Un nuovo colpo lo fece ammutolire. Questa volta, Peggy credette davvero che la finestra sarebbe volata in frantumi. Brandì l'ascia, pronta a difendersi. Curiosamente tornò il silenzio, come se lo pseudopodo avesse rinunciato a forzare l'ingresso della catapecchia. Gli adolescenti attesero, rannicchiati su se stessi, trattenendo il fiato. «Se n'è andata» annunciò Servallon. «Perché?» si stupì Peggy. «Sarebbe bastato un altro minuto e la porta avrebbe ceduto...» «Deve aver fiutato un'altra preda, più attraente, più facile da catturare» mormorò lo scriba. «Un ragazzino fuggito da casa, probabilmente, che cammina tra le macerie.» Peggy si avvicinò alla finestra per scrutare la strada dalle fessure delle persiane. Non vide nulla. Il tentacolo era scomparso. «C'è mancato un soffio» osservò il vecchio. «Non sarete sempre così fortunati, state in guardia. Non siete abbastanza grandi da potervi considerare al riparo dalle attenzioni della Divoratrice. Non pensate di farla franca.» Parve riflettere, poi aggiunse: «Se volete sopravvivere, posso vendervi una pozione magica fabbricata da uno stregone. Vi permetterà di invecchiare di dieci anni in una sola notte... in questo modo quando vi sveglierete avrete ventiquattro anni, troppi per la bestia.» «Ho visto dei ragazzini ai quali i genitori avevano fatto bere questa porcheria» mugugnò Sebastian. «Sembravano dei cretini!» Servallon abbozzò un gesto di scuse. «Non si può avere tutto, sicurezza e intelligenza» si difese. «Al vostro posto non andrei tanto per il sottile. Vi vendo la fialetta per una piccola moneta d'oro.»
Peggy Sue esitò. Cercò d'immaginarsi più vecchia di dieci anni... «Lei ha detto dieci anni» sibilò Sebastian, «ma come può esserne sicuro? E se invecchiassimo di venti o trent'anni in un colpo solo?» «Il rischio c'è, lo ammetto» ridacchiò lo scriba. All'improvviso, Peggy fu colta da un dubbio. E se questo vecchio in realtà fosse un bambino? pensò. Un bambino che ha bevuto l'elisir che sta cercando di venderci? «No, grazie» disse. «È gentile da parte sua, ma cercheremo di cavarcela con i nostri mezzi.» «Come volete» sospirò lo scriba. «Ma non andrete lontano... Avete i giorni contati.» 11 La fuga Come aveva annunciato lo scriba, il vento si alzò improvvisamente respingendo la foschia verso un altro viale. La notte si diradò all'istante e l'aria ritornò respirabile. «Non c'è alcun dubbio, siamo finiti nel posto sbagliato» bofonchiò il cane blu. «L'idea di perdere il mio pelo non mi entusiasma affatto.» «Come usciremo da questo vespaio?» si lamentò Sebastian. Dopo essersi congedati dallo strano vegliardo (ma lo era davvero?), Peggy Sue, Sebastian e il cane blu uscirono in strada. Il giorno era tornato, evidenziando l'aspetto gessoso dei palazzi scoloriti. Perfino i cartelloni pubblicitari erano diventati illeggibili, perché si erano trasformati in grandi fogli bianchi. «Se dovessi restare troppo nei paraggi, finiranno per chiamarmi il cane bianco» si lamentò l'animale. «Guardate! Anche la mia cravatta è diventata bianca! Come se fosse stata immersa nella candeggina.» Mentre svoltavano all'angolo della strada, i tre amici si imbatterono in quelli che Servallon aveva chiamato 'i fuggiaschi'. Gli adolescenti indietreggiarono all'istante per non farsi calpestare da quella folla che si muoveva velocemente sollevando una nuvola di polvere. Trecento sconosciuti vestiti di stracci che correvano a perdifiato. Alcuni trascinavano dei risciò, altri dei carri ricoperti da un telo. Madidi di sudore, avanzavano con andatura regolare, ossigenandosi come atleti in una gara sportiva. In testa alla colonna c'era un gruppetto di giovani muniti di scope, che sgombravano il
terreno dalle pietre o dai cocci di bottiglie. Sebastian guardò Peggy e le disse: «Che cosa aspettiamo? Visto che non conosciamo nessuno, tanto vale unirsi a loro.» «D'accordo,» fece la ragazza «in marcia per la maratona!» E si misero a trottare all'altezza del primo risciò. L'uomo alla guida della vettura dormiva a bocca aperta, con una benda sugli occhi per ripararsi dalla luce. Peggy richiamò l'attenzione del corridore che trascinava la piccola carriola e si presentò, ma l'uomo le fece segno di tacere con un gesto corrucciato. «Rischi di risvegliare Bomo, il nostro capo!» ringhiò. «Se vuoi chiacchierare, vai a correre in coda al gruppo. Io devo risparmiare il fiato...» Sebastian e Peggy Sue si fecero dunque distanziare. Passarono dei cam trainati da uomini aggiogati come animali da tiro. Peggy contò una ventina di carretti, al cui interno si intravedevano persone sdraiate sotto delle coperte. Tutti sembravano in ottime condizioni fisiche. Gli uomini, ma anche le donne, sfoggiavano una muscolatura armoniosa, sviluppata dalla corsa. La loro pelle aveva un bel colorito. In due occasioni Sebastian cercò di richiamare l'attenzione di altri corridori, ma nessuno gli rispose. Tutti sembravano preoccupati solo di risparmiare il fiato. Alla fine, un marciatore isolato gli rivolse un cenno. «Mi sono ferito al piede.» ansimò «Parlerò con te, se sei disposto a portarmi per cinque chilometri.» Sebastian non esitò. L'uomo era magro, tutto pelle e ossa. Se lo caricò sul dorso, per lui era un fardello trascurabile. «Non siete di queste parti» disse lo sconosciuto. «Vi ho visto cadere dal cielo col paracadute. Non siete stati fortunati ad atterrare nel bel mezzo del quartiere avvelenato.» «Forza!» urlò un sorvegliante munito di cronometro e megafono. «La zona della nebbia è lunga tre chilometri. Il vento soffia a una velocità approssimativa di dieci chilometri all'ora e spinge il fumo alle nostre calcagna. Se volete sfuggire al veleno dovete mantenere il passo.» «Chi è costui?» domandò Peggy Sue. «Il navigatore» disse il ferito. «È il pilota della carovana. Misura la forza del vento e la posizione delle sacche di foschia tossica. Più soffia il vento, più il veleno si sposta con rapidità. Questo significa dover correre più ve-
loce per non essere raggiunti dal fumo. Oggi non possiamo lamentarci, la brezza è leggera. Una media di dieci chilometri all'ora non ha mai ucciso nessuno. Ma in certi giorni di burrasca, la foschia scivola lungo le strade alla velocità di un cavallo al galoppo, e allora si è costretti a correre a testa bassa per restare nella zona dove l'aria è respirabile.» Sebastian girò la testa. In lontananza, all'orizzonte dei tetti, si scorgeva un pennacchio di fumo color indaco. «Se ci si ferma sul marciapiede per riposare» disse amaramente il ferito, «si corre il rischio di essere sommersi dalla foschia. Bisogna evitarlo a tutti i costi, se non si vuole finire ridotti a brandelli. Afferrato il concetto?» Peggy Sue annuì. Sebastian correva con passo pesante ma regolare. «Quando si scatena la burrasca è quasi impossibile tenere il ritmo» disse l'uomo. «Per fortuna il clima di Kandarta è abbastanza clemente. Nei giorni di calma piatta il soffio della Divoratrice ristagna sopra i crepacci e smette di inseguirci. Allora possiamo fermarci a riposare, ma questo non si verifica più di una o due volte a settimana in questa stagione.» «Come ti sei ferito?» domandò Peggy Sue. «In una trappola preparata dagli amici della piovra. Ci odiano. Hanno preso l'abitudine di scavare delle fosse nel terreno e nasconderci delle lunghe lance per trafiggerci i piedi. Ecco perché in testa alla colonna mettiamo dei giovani esploratori. Setacciano il terreno per individuare le trappole. È un lavoro pericoloso, perché si rischia di appoggiare il tallone su un chiodo avvelenato. Se volete far parte della colonna, dovete parlare con Bomo, il capo, e fare domanda per questo incarico: vi accetterà di buon grado.» «Io posso trainare i carri» disse Sebastian. «Sono forte.» «Sì» fece l'uomo. «Ma la ragazza è troppo gracile, non ce la farà mai. Se accetta il posto da esploratrice, ha una possibilità di essere ammessa. Ovviamente si tratta di un'attività pericolosa.» Peggy fece una smorfia. La prospettiva di mettere il piede su una buca piena di aculei velenosi non la allettava; d'altra parte, era l'unico modo per conquistare rapidamente l'apprezzamento del clan. «Se capisco bene» disse Sebastian «la nube di fumo nasconde altre insidie...» «Sì» mugugnò lo sconosciuto. «Bisogna vigilare di continuo: gli amici della piovra si aggirano nelle macerie, celandosi nella foschia. Preparano delle trappole, scavano delle fosse o cercano di intrufolarsi sui carri per sabotare l'attacco dei gioghi. Ogni mezzo è utile per offrirci in pasto al loro
idolo: la Divoratrice. Hanno un unico scopo nella vita, curarsi che abbia sempre qualcosa da mangiare.» Peggy Sue si sentiva sopraffatta dallo scoramento. In quale guaio si erano cacciati? Sebastian sarebbe stato capace di correre otto ore al giorno senza crollare per lo sfinimento? Da quando era tornato umano, non era più forte come in passato. Ogni volta che si affaticava, entrava in una sorta di sonno comatoso da cui nulla riusciva a risvegliarlo, neppure un colpo di cannone sparato a un centimetro dalle orecchie! «Un'ora di corsa, un'ora di riposo» confermò il corridore. «È la regola, le squadre sono abituate a questo ritmo. Vi abituerete anche voi.» Dopo cinque chilometri, Sebastian lo ridepositò a terra. L'uomo si offrì di condurli dal capo della carovana. «Si chiama Bomo» disse. «Io sono Goussah.» Continuando a trottare, si affiancarono a un risciò occupato da un uomo sulla cinquantina, dalle guance coperte di tatuaggi. Goussah s'incaricò delle presentazioni, profondendosi in inchini. «È gracilina» disse Bomo con aria maligna lanciando un'occhiata a Peggy. «Non sarà capace di correre a lungo.» Girandosi verso Sebastian, aggiunse: «E chi è questo ragazzino dai bicipiti così sproporzionati? Ha un'aria insolente, non mi piace affatto.» Goussah provò a perorare la causa dei due giovani. Bomo si produsse in una smorfia. «Va bene, vi concedo un'opportunità» disse abbozzando un gesto in direzione degli spazzini. «Se la ragazza riesce a correre fino a questa sera senza trafiggersi i piedi, potrà restare con noi. Se si ferisce, l'abbandoneremo alle nostre spalle, e gli amici della piovra la conceranno per le feste.» Peggy inclinò il capo in segno di ringraziamento e raggiunse la testa della colonna. Un ragazzo dai lineamenti scavati dalla stanchezza le allungò una scopa e si ritrasse all'indietro. La ragazza osservò gli esploratori che a furia di spazzare la strada sollevavano una nube di polvere. Si muovevano con gesti secchi, sondando il terreno con colpi precisi, scostando i pezzi di legno sotto ai quali poteva nascondersi una trappola. Nell'arco di dieci minuti portarono allo scoperto due buche contenenti dei bambù acuminati, nonché una tagliola rudimentale nascosta in una pozzanghera. «Bisogna restare vigili» spiegò Goussah. «Una ferita al piede, per un
corridore, può significare essere esclusi di punto in bianco dalla carovana. Ho conosciuto una ragazza di quindici anni il cui tendine d'achille è stato tranciato di netto da una lama a scatto. È stata costretta a fermarsi sul marciapiede. Gli amici della piovra l'hanno gettata in un crepaccio.» Peggy non rispose; le mani strette sulla scopa, spazzava la strada imitando i gesti degli altri esploratori. Il cane blu si rendeva utile fiutando il terreno e contribuendo a individuare le trappole nascoste. Si rivelò assai efficace e gli spazzini lo presero subito in simpatia. Alla fine della giornata era diventato la loro mascotte. Sebastian, invece, era stato assegnato a un carretto pieno di bambini e correva a perdifiato, la fronte bassa, i muscoli rigonfi per lo sforzo. Seguitò così fino al calar della notte, poi, quando la carovana si fermò, cadde a terra e sprofondò in uno stato semicoscienza, senza che nessuno, tranne Peggy Sue, ci facesse caso. Furono accesi dei fuochi, e delle sentinelle scelte tra la squadra che si era appena svegliata si misero a presidiare i paraggi. Peggy, lasciando Sebastian sotto la custodia del cane blu, si portò verso uno dei bivacchi per cercare di procurarsi un po' di zuppa. Goussah la aiutò e iniziò a massaggiare i piedi feriti della ragazza con una pomata grigia. «Sei carina,» disse «mi piaci. Devi resistere, altrimenti il capo ti butterà fuori.» «Però dobbiamo a tutti i costi andare via da qui» grugnì Peggy. «Siamo degli ambasciatori, dobbiamo portare un plico al palazzo reale.» Goussah la squadrò incredulo. Per una frazione di secondo sembrò sul punto di scoppiare a ridere. «Un plico? E chi potrà mai leggerlo? Non sai che tutti i signori di Kandarta si danno ai piaceri della droga?» «Quale droga?» «La droga prodotta dalla Divoratrice. La chiamano 'deliziosa leccornia', almeno stando a quello che raccontano le guardie della grande porta. Nella zona ricca la gente vive in uno stato di delirio permanente. Nulla li interessa se non l'appagamento del loro vizio. So solo che sono degli zombi, dei sonnambuli. Il tuo messaggio non lo leggerà nessuno, puoi gettarlo nel fuoco.» Su quelle parole, il giovane corridore si distese per dormire, lasciando Peggy Sue alquanto perplessa.
L'indomani, la corsa riprese. La carovana si mise in marcia nella luce grigia dell'alba. Uscito dal torpore, Sebastian era di nuovo in perfetta forma fisica e in grado di trainare carichi enormi. Bomo, il capo convoglio, lo teneva d'occhio con grande interesse. A mezzogiorno, l'asse di un carro stipato di bambini si ruppe, rovesciando tutto il suo carico sulla pavimentazione. I ragazzini si misero a urlare, terrorizzati all'idea che la nebbia potesse avvolgerli. «Hanno sabotato una ruota» annunciò Goussah, «un nuovo tiro degli amici della piovra. Devono essersi intrufolati nell'accampamento nel corso della notte! Sono dei veri demoni, non si fanno mai scoprire.» Indicò l'asse, sul quale erano visibili i segni di una sega. Raccolsero i ragazzini ancora in preda alle lacrime. Un'infermiera accorse a esaminarli. «La Divoratrice spera che li abbandoniamo» disse Goussah «a causa del sovraccarico. I carretti sono vecchi, se ci sale troppa gente si spezzano. La creatura del sottosuolo lo sa. Meno carri ci sono in giro, più gente sarà costretta a spostarsi a piedi. E in questo modo diventerà una facile preda. Appena la nebbia ti avvolge devi prepararti a vedere i tentacoli spuntare dai crepacci. È rapida, la strega! E anche silenziosa. Ci si ritrova al centro della terra senza neppure aver capito cosa succede.» Sebastian andò a sollevare il carro, mentre i corridori si dedicavano a sostituire l'asse spezzato. Bomo fremeva nel suo risciò, mentre il cronometrista calcolava il ritardo accumulato e stabiliva la posizione della colonna in rapporto all'avanzata della nebbia avvelenata. «Il fumo è a sette chilometri dietro di noi!» squittì. «Si avvicina, si avvicina.» Sostituito l'asse, rimesse in sesto le ruote, i ragazzini ripresero posto sulla piattaforma della vettura. «Da noi, chi non è in grado di correre non ha molte speranze di sopravvivere» disse Goussah evitando lo sguardo di Peggy Sue. «Il fumo!» urlò il cronometrista. «A quattro chilometri, si avvicina! Galoppate, se non volete ritrovarvelo alle calcagna!» Il convoglio riprese la corsa. Adesso gli uomini avanzavano coi gomiti aderenti al corpo, la bocca spalancata, cercando di recuperare il ritardo accumulato. Le ruote di legno dei carri producevano un baccano infernale sui cubetti di porfido della pavimentazione, e gli esploratori lavoravano di
gran lena per ripulire la strada dalle trappole astute seminate col favore della notte. La paura della nebbia avvelenata stimolava tutti. La sentivano avvicinarsi: Peggy Sue aveva come l'impressione di percepirne l'odore irritante. Temeva il momento in cui il fumo li avrebbe avvolti. «Quattro chilometri e mezzo!» annunciò il cronometrista con un certo sollievo. «Continuate, piccoli miei, la nostra salvezza è nella forza dei vostri polpacci e nella polvere che mangiate!» Come risposta ricevette un concerto di ansiti. 12 Il crimine di Peggy Sue Quella notte stessa, mentre dormiva con la testa appoggiata sul fianco del cane blu, Peggy Sue fu sottratta al sonno da una sensazione di pericolo imminente. Si mise a sedere, con gli occhi annebbiati. Con sua grande sorpresa vide i bambini scendere dai carri con mille precauzioni (come se non volessero svegliare i genitori) e sgusciare fuori dall'accampamento. Era curioso, e anche inquietante, perché non era affatto prudente per i piccoli camminare tra le rovine. La ragazza decise di seguirli. I bambini prestavano molta attenzione a non farsi notare, e la loro piccola statura facilitava quella 'evasione'. Che cosa staranno macchinando? si chiese Peggy. In genere hanno paura di allontanarsi dai carri. I piccoli scivolarono tra le rovine e si sedettero sul ciglio di un crepaccio. Sorridevano e dondolavano la testa, a volte scoppiando a ridere. Nel giro d'un minuto cominciarono a canticchiare in coro. Di tanto in tanto, si sporgevano pericolosamente per guardare dentro il crepaccio. «Cucù!» gridavano. «Siamo qua! Ci vedete? Cucù!» Preoccupata, Peggy uscì dal suo nascondiglio. «Ciao» disse avvicinandosi con aria indifferente. «Che cosa ci fate qui?» «Ascoltiamo le canzoni» rispose un bambinetto dai capelli ricci. «Non è per i grandi, lasciaci soli!» Peggy s'inginocchiò accanto a lui. «Delle canzoni?» chiese stupita. «Sì» ripeté il bambino. «Vengono dal crepaccio, ma i grandi non possono sentirle. Sono solo per noi bambini.» «E che cosa dicono, queste canzoni?»
«Cose divertenti, degli scherzi... laggiù sembra che si divertano come pazzi. Mi piacerebbe raggiungerli.» «Chi?» «I bambini che sono scomparsi nei crepacci. Sono laggiù in fondo, cantano, sono felici, si divertono.» «E tu come fai a saperlo?» «Ce lo dicono, nelle canzoni. Ci domandano di saltare e andare giù da loro.» Peggy rimase immobile, in allerta. Un tranello della Divoratrice! pensò. Imita le voci dei bambini per convincerli a saltare nel vuoto. Così si risparmia anche la fatica di andarseli a prendere, vengono da soli a gettarsi nelle sue fauci. Tese l'orecchio, cercando di captare il canto proveniente dalla voragine. «Non sento nulla» osservò. «Ma certo» disse il bambinetto, irritato. «Tacciono sempre in presenza dei grandi. Vattene! Ci impedisci di divertirci. Credi che sia bello vivere nella carovana? Ci si annoia tutto il giorno. Bisogna stare sempre sui carri, e quando ci fermiamo non possiamo neanche correre o allontanarci, è una vera noia! Laggiù invece fanno tutto quello che vogliono. Cantano, ballano, fanno festa tutti i giorni...» «È solo un inganno» mormorò Peggy Sue col tono più calmo possibile. «La creatura vi racconta queste cose per convincervi a saltare. È lei che imita le voci, non dovete ascoltarla. Vuole divorarvi.» «Ma cosa ci stai raccontando tu?» gridò il ragazzino. «Tu sei troppo grande per sentirle. E poi sei brutta, non ti vorrebbe! La creatura non è cattiva, si annoia, ama circondarsi di bambini che la distraggano. Vuole solo degli amici, tutto qui. Gli adulti la infastidiscono... Dice che se restiamo con i nostri genitori diventeremo cretini come loro!» «Ma su, stai esagerando, i vostri genitori non sono degli sciocchi: cercano solo di sottrarvi agli effetti del gas tossico.» «È proprio questo il punto: non vogliamo diventare come loro, correre tutto il giorno, trainare i carretti come asini... Noi vogliamo ridere e divertirci. Non vogliamo crescere, La creatura ci ha detto che giù in basso non cresceremo più e giocheremo tutto il tempo.» «Menzogne» ripeté Peggy. «Andiamo, tornate all'accampamento.» «Sei tu che dici menzogne!» l'apostrofò il bambinetto. «E anche i nostri genitori mentono. Sono gelosi perché sanno che saremmo più felici nel sottosuolo, e allora s'inventano delle storie come quella che ci divorereb-
be... È tutto falso! Falso!» Il ragazzino si era rizzato in piedi. Aveva il viso paonazzo dalla rabbia e gli occhi lanciavano lampi. I suoi compagni lo imitarono. «Vattene!» urlò. «Noi vogliamo solo cantare e giocare... lasciaci in pace!» All'improvviso, prima che Peggy Sue avesse il tempo di reagire, il bambino strinse le mani dei due amici che aveva accanto a sé e... saltò nel crepaccio insieme a loro. Peggy lanciò un grido di terrore e si sdraiò a pancia in giù cercando di riacciuffarli, ma ormai erano già scomparsi in fondo alla voragine. Gli altri bambini li imitarono all'istante. Da soli o in coppia, si tuffavano nelle tenebre del crepaccio ridendo come pazzi, come se si trattasse di un gioco. Le grida della ragazza avevano svegliato gli adulti, che accorsero immediatamente. «Presto!» esclamò Peggy. «Presto, bisogna riacchiapparli...» Lei stessa si era gettata su due bambini, tenendoli stretti ai fianchi nonostante la scarica di pugni con cui la tempestavano. Sebastian venne in suo soccorso e afferrò altri due marmocchi per la collottola, come due gattini. Nonostante i loro sforzi, non poterono impedire che gli altri bambini scomparissero nella voragine. Quel dramma mise in subbuglio la carovana. Peggy ebbe un bel ripetere quello che era successo, il dubbio rimase. Giunti troppo tardi sul luogo, gli adulti non avevano compreso pienamente quello che stava succedendo, né il significato di quanto avevano potuto vedere. «Ti accuseranno di aver gettato i bambini nel crepaccio» le sussurrò Sebastian. «Diffidano di noi, siamo degli stranieri. Tira una brutta aria... credo che dovremmo pensare a come sgombrare il campo prima che ci facciano qualche brutto scherzo.» 13 I boia verranno questa sera... Corsero tutto il giorno, tallonati dalla nebbia che minacciava di raggiungerli. Correvano guardandosi ripetutamente alle spalle, come fuggitivi che spiano con angoscia una muta di cani lanciati sulle loro tracce. Il fumo colava lungo i marciapiedi, s'insinuava nelle case attraverso le fessure delle persiane, i vetri rotti delle finestre.
Ma è veramente l'alito della creatura del sottosuolo? si domandava Peggy. Percepiva distintamente il formicolio irritante che assale chi viene spiato. Capì che erano gli amici della piovra a spiarli, nascosti nel paesaggio di rovine attraverso cui la carovana si trovava a strisciare. Erano dappertutto e in nessun luogo al tempo stesso, ordivano intrighi incessanti, lavoravano senza tregua ai loro piani malvagi. Malgrado gli sforzi, Peggy Sue non riusciva a individuarli. Le sue relazioni con i fuggiaschi si erano deteriorate dopo quell'orribile notte in cui aveva cercato di impedire che i bambini si gettassero nel crepaccio. «È terribile» le aveva confidato il cane blu, di fronte al quale la gente parlava senza precauzione. «I quattro bambini che tu e Sebastian avete salvato vi hanno accusato di aver spinto i loro amici nel baratro. Goussah vi ha difesi, ma Bomo non vi ama. Ha avuto un momento di esitazione, perché temeva, condannandovi all'esecuzione, di privarsi di un valido corridore e di una eccellente esploratrice, ma adesso ha preso una decisione. I genitori degli scomparsi pretendono le vostre teste. Vogliono rinchiudervi in un sacco e gettarvi in un crepaccio. Accadrà questa notte. Dobbiamo filarcela, subito. Siamo in pericolo.» «Ma è un'ingiustizia!» gemette Peggy Sue. «Io ho cercato di salvarli, quei bambini!» «Lo so bene» fece l'animale. «Ma la gente rifiuta di ammettere che i marmocchi si siano lanciati nel vuoto di loro spontanea volontà. Gli sembra inconcepibile.» «In effetti non lo hanno fatto coscientemente: la Divoratrice li ha ipnotizzati.» «Poco importa, dobbiamo filarcela. I boia sono già stati designati, verranno a prendervi nel sonno. Ho visto Bomo che glielo ordinava. Non sospetta nulla, crede che io sia un cane come gli altri.» Nel pomeriggio, mentre esplorava le macerie, Peggy Sue incontrò Junius Abraxas Servallon, il vecchio scriba. Stava raccogliendo dei funghi tra i sassi. Aveva più che mai l'aria di una mummia evasa dal sarcofago. «Ti voglio bene, piccola» sussurrò. «Non vorrei che ti capitasse qualcosa di male. Girano strane voci sul tuo conto: sembra che tu abbia assassinato dei bambini spingendoli in un crepaccio. Dicono che fai parte degli amici
della piovra... saresti stata incaricata di infiltrarti tra i fuggiaschi. È questo che raccontano in giro le donne. Io so che dici la verità. Conosco la Divoratrice meglio di quella povera gente, so di cosa è capace. Vuoi sapere perché detesta il genere umano? È semplicissimo. All'inizio, quando i primi uomini si sono insediati sulla superficie dell'uovo, lei li ha osservati dalle fessure del guscio. Era un modo per distrarsi, nella sua tana si annoiava. Per anni si è divertita a guardarli costruire delle città, colonizzare i deserti, ricoprirli di terra coltivabile per piantarci alberi e grano... Accostava gli occhi ai crepacci e li scrutava, come si spia qualcuno dal buco della serratura. Poi gli esseri umani hanno cominciato a scavare buchi nel guscio per estrarre l'oro, e questo non le è piaciuto. Infine, gli industriali hanno avuto l'idea di utilizzare le fenditure nel terreno per scaricarci i loro rifiuti, la loro spazzatura. Tutti quei veleni sono finiti sulla testa della Divoratrice, che all'improvviso si è ritrovata a nuotare in un lago di sporcizia. La spazzatura degli uomini! È stato a quel punto che ha cominciato ad andare su tutte le furie e a riempirsi d'odio. Ha scatenato dei terremoti per abbattere le fabbriche, e le industrie hanno dovuto chiudere i battenti, una dopo l'altra. Ciò malgrado, gli uomini si sono ostinati a rimanere sul pianeta, a trotterellare sul guscio, a riversare i loro liquami nei crepacci. Allora lei ha deciso di dichiarare guerra. Di assillarli fino a che non se andranno. È la sua casa. Ha il diritto di esigere che i Terrestri se ne vadano. Riesci a capirlo?» Peggy Sue annuì. «Allora ascolta la vera storia di Kandarta, il pianeta uovo» proseguì il vecchio. «Se la bestia ha fame, in realtà la colpa è degli uomini che l'hanno risvegliata poggiandosi con le loro astronavi sul suo guscio. Prima del loro arrivo dormiva... e avrebbe potuto continuare a riposare per diecimila anni, se non avessero fatto tutto quel baccano con i loro macchinari! Finché era in stato d'ibernazione non aveva bisogno di nutrirsi. Sonnecchiava, acquattata nella sua caverna di granito, nel suo uovo di pietra. Ma nell'esatto istante in cui ha riaperto gli occhi, il suo stomaco ha cominciato a gridare dalla fame, e quindi si è vista costretta a preoccuparsi del mangiare. Se ha fame, la colpa è ancora degli esseri umani: di cosa si lamentano dunque se la bestia rapisce i loro bambini? Questo basta appena a mantenerla in vita! Quando uscirà dal guscio la sua rabbia si abbatterà sulle città. Il suo appetito sarà insaziabile! Ci saranno bambini a sufficienza in tutto il pianeta per placarlo?» «Bisogna impedirlo» ansimò Peggy Sue. «Certo, ma non sarà facile.»
«Sembra che nel palazzo reale ci sia una balestra gigante.» Lo scriba ridacchiò: «Ranuck, il gran visir, l'ha lasciata ad arrugginire sotto la pioggia. Non la utilizzerà mai, ha venduto l'anima alla Divoratrice. È il capo degli amici della piovra. Il re Walner non è che un burattino nelle sue mani. Dall'altra parte del muro regna la follia... Non sarete al sicuro più di quanto non lo siate qui.» «Ma noi dobbiamo andarci» insistette la ragazza. «Potrebbe indicarci un cammino sicuro?» «Non ce ne sono» sospirò lo scriba. «I crepacci vi sbarreranno la strada ovunque, spalancati come voragini, pronti a inghiottirvi. L'unico modo per arrivare alla grande porta è passare per l'antica prigione...» «La prigione?» Servallon fece una smorfia e, con fare esitante, si grattò le crosticine del viso. «Un brutto posto» biascicò. «È lì che, un tempo, al termine della prima guerra contro i maghi, furono giustiziati gli scagnozzi della Divoratrice. Li decapitarono e poi li appesero alla forca, o li bruciarono vivi, ma non sono mai veramente morti...» «Cosa?» ansimò Peggy. «Uhm, è tutto vero» bofonchiò lo scriba con aria imbarazzata. «Hanno avuto un bel da fare per ridurli in cenere: con i suoi poteri la bestia dei sotterranei li ha mantenuti in vita, almeno una parvenza di vita. Si sono trasformati in fantasmi... O almeno è quello che si dice in giro. Forse si tratta di allucinazioni causate dai gas dei crepacci... chi lo sa? A ogni buon conto, gli amici della piovra hanno paura di quel posto, non ci mettono mai piede. Che cosa dico? Nessuno ci mette mai piede! Se riuscirete ad attraversare senza intoppi il cortile delle esecuzioni, uscirete dalla porta sud, il che significa che vi troverete allora dall'altro lato della muraglia, vicinissimi al palazzo reale.» «Può condurre fino a questa prigione me e i miei amici?» «Se vuoi, ma dubito che ne uscirete vivi. Se gli spettri esistono davvero, vi uccideranno. Se si tratta di allucinazioni, vi faranno perdere il lume della ragione, e alla fine del tragitto vi sarete dimenticati anche il vostro nome di battesimo!» 14 La prigione degli orrori
«Ecco» annunciò Servallon indicando un orribile edificio in fondo a una strada senza uscita. «Quella che vedete davanti a voi è l'antica prigione reale di Kandarta. Sotto il regno di Oton IV, qui vennero giustiziati migliaia di stregoni appartenenti alla setta degli amici della piovra. A quell'epoca i signori di Kandarta non si erano ancora compromessi con la creatura. Da allora, molte cose sono cambiate.» Peggy Sue e i suoi amici sollevarono lo sguardo per esaminare l'orrenda costruzione bucherellata da mille feritoie. Era tardi, ed erano parecchio stanchi. Avevano dovuto attendere la consueta sosta serale della carovana per abbandonare i fuggiaschi senza destare l'attenzione. Servallon consegnò a Peggy una pergamena su cui aveva tracciato una mappa dettagliata della prigione. «Non fermatevi mai, mi raccomando» disse. «Non ho la minima idea di cosa vi attenda all'interno. Quando attraverserete i corridoi delle celle non dovrete mai guardarvi indietro. Cercate il cortile delle esecuzioni, dove un tempo i carnefici decapitavano le vittime. Da due secoli a questa parte nessuno ci mette piede, nemmeno gli amici della piovra. In fondo al cortile vedrete una porta, quella è l'uscita. Vi auguro buona fortuna... ne avrete bisogno. Se riuscirete a uscire vivi da questa trappola, sarete a due passi dal palazzo reale.» Peggy lo ringraziò; il vecchio se ne andò via strisciando rasente i muri. «Si va?» chiese Sebastian, la mano appoggiata all'enorme portone corroso dai secoli. «Ne sei sicura?» «No» confessò la ragazza. «Ma non abbiamo scelta. Servallon ha detto che è l'unico modo per raggiungere il palazzo reale. Se avessimo commesso l'errore di avvicinarci al grande muro, le sentinelle ci avrebbero trafitto di frecce. Hanno l'ordine di uccidere chiunque cerchi di uscire dalla zona avvelenata.» «D'accordo, allora in marcia!» Il ragazzo spinse il portone, che cigolò sui cardini arrugginiti. «Che tanfo di topi!» esclamò il cane blu infilando il muso nello spiraglio. «Devono essere grossi come gatti!» «Facciamo presto!» sussurrò Peggy Sue. «Secondo la mappa il cortile è in fondo al corridoio principale.» I tre amici si lanciarono dentro, trattenendo il respiro. All'interno dell'edificio era buio pesto. Tutto era corroso dalla ruggine, cancellate e inferria-
te cadevano a pezzi. Bastava un piccolo calcio per ridurle in polvere. A Sebastian non fu facile trovare una sbarra di ferro abbastanza solida da ricavarne un bastone degno di questo nome. Dopo aver attraversato la costruzione a passo di corsa, si ritrovarono davanti a una porta d'acciaio che il ragazzo buttò giù con una spallata. Dall'altro lato si apriva il cortile delle esecuzioni. «È... è enorme!» ansimò Peggy. «Non pensavo fosse così vasto...» Sebastian e il cane blu rimasero immobili sulla soglia del cortile. «È talmente grande» ridacchiò il cane blu «che ci si potrebbero costruire sei cattedrali, neanche tanto piccole.» Peggy Sue esitava. Di certo, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di avventurarsi tra quelle mura così sinistre! «Deve essere lungo almeno un chilometro» grugnì Sebastian. «Una vera prateria, non un semplice cortile! Me lo immaginavo molto più piccolo.» Ai due lati del percorso si ergeva una selva di forche. I patiboli erano stati costruiti per mezzo di massicci pilastri ben piantati nel suolo, e ciascuno progettato per sostenere due dozzine di impiccati. I nodi scorsoi, secolari, avevano perso l'aspetto della canapa assumendo quello della pelle di serpente. Nel tenue chiarore del crepuscolo si aveva come la sensazione che alle travi fossero appesi dei tentacoli in attesa della loro preda. «Che buffo campeggio» sibilò il cane blu. «Non contate su di me per accendere un fuoco e strimpellare la chitarra...» «Junius Servallon mi ha raccontato che gli antichi sovrani di Kandarta decapitarono oltre trecentomila stregoni all'epoca della grande rivolta dei maghi, nel trentasettesimo anno dell'era del Rospo» spiegò Peggy Sue. «È un paesaggio di un'altra epoca» mormorò Sebastian. «Non dobbiamo farci spaventare. Tutto risale a un'epoca barbara ormai tramontata. Allora bruciavano uno stregone per un semplice sì o un no... oggi questo non accade più.» «Non accade più da noi» lo corresse il cane blu. «Qui non ne sarei così sicuro.» «Ma dai, ci vuole un po' di fegato!» insisté il ragazzo. «Basta convincersi che siamo in una specie di museo... o un antico campo di battaglia... niente di più.» Peggy avrebbe voluto condividere il suo ottimismo, ma ahimé, altri strumenti di tortura si ergevano sullo sfondo. Dietro le forche c'erano dei ceppi, con le asce arrugginite conficcate in verticale. Tutt'intorno, la terra
aveva una tinta rossastra: a forza di impregnarsi del sangue dei condannati aveva finito per perdere il suo colore naturale. «D'accordo, andiamo» sospirò Peggy. «Mi pare evidente che non c'è altro modo di raggiungere il palazzo reale.» Troppi morti, pensò. La terra si è imbevuta dell'anima, non solo del sangue degli stregoni. Il suolo è come una spugna impregnata d'odio. A ogni passo poggerò il piede su questa spugna... e un po' della loro collera s'infiltrerà in me attraverso le scarpe. Fu sul punto di chiedere a Sebastian di rinunciare. Sapeva tuttavia che era inutile, poiché non c'erano altre strade per arrivare al palazzo reale e azionare la balestra gigante. Il ragazzo percepì la sua esitazione. «Hai paura?» sussurrò. «Sì» rispose la ragazza con un filo di voce. «Neanche il più incallito degli amici della piovra oserebbe arrischiarsi in un posto del genere.» «Non abbiamo scelta.» «Lo so.» «Allora dobbiamo correre come pazzi senza voltarci indietro» fece Sebastian con voce cupa. Brandì il suo bastone lanciando un grido di battaglia, lo fece volteggiare sopra la testa per rinforzare la presa, poi se lo poggiò sulla spalla. Come tutti i ragazzi, gli piaceva maneggiare le armi e darsi un'aria da guerriero. «Andiamo» esclamò con atteggiamento da guascone. A malincuore, Peggy si mise in marcia. Le suole dei suoi stivali affondavano nel terreno. Se le cose dovessero girare storto, pensò, non sarà facile mettersi a correre. Il sole continuava a declinare... le forche sembravano dipinte di nero. Il vento agitava i loro cappi. Sebastian strinse i denti. L'arrivo dei tre amici risvegliò i corvi appollaiati sui patiboli. Le loro ali si misero a frusciare. Sebastian agitò il bastone per spaventarli. Per quanto cercasse di non mostrarlo a Peggy Sue, anche lui aveva paura. Diede un'occhiata ai due lati del cammino. Bofonchiò tra sé: quelli che aveva preso per sassi si rivelavano dei mucchietti di teschi impilati a formare un muretto che costeggiava tutto il percorso. Migliaia di teschi. I crani degli scheletri sembravano seguire con lo 'sguardo' gli spostamenti dei giovani intrusi. «Le pietre,» sussurrò in quell'istante Peggy Sue «hai visto? Sono dei...»
Aveva la voce tremante e le mani umide. Il ragazzo non le rispose. Che cosa avrebbe potuto dire? «Coraggio,» fece il cane blu «non si tratta d'altro che di vecchie ossa sparpagliate alla rinfusa. Non c'è da farne un dramma. Anzi, se mi capita sotto mano una bella tibia me la porterò dietro per rosicchiarla quando ne avrò voglia. Non dimenticatevi che sono un vero esperto in fatto di ossa: vi posso assicurare che tutto quello che vediamo è di ottima qualità! Un vero supermercato per cani, questo cortile!» Percorsero un centinaio di metri sotto lo sguardo vuoto del muro di teschi impilati. Il vento faceva cigolare le travi dei patiboli. «Servallon mi ha raccontato che, all'epoca della guerra contro i maghi, la prigione pullulava di gente» mormorò Peggy. «Intere squadre di boia erano in servizio permanente per decapitare gli stregoni o bruciarli vivi sui roghi.» «Non hai nulla di più divertente da raccontare?» protestò il cane blu. «Mi stai facendo venire la pelle d'oca, per la miseria! Se vai avanti così schiatterò di paura prima di arrivare a metà del cammino!» «Giusto» fece Sebastian. «Non spaventiamoci con queste storie, sono solo vecchie leggende. In ogni modo non è ancora buio, e i fantasmi escono solo di notte, è risaputo.» Peggy Sue s'inginocchiò per esaminare il terreno. Tutt'a un tratto notò un fremito anomalo nelle felci, come se qualcosa strisciasse al riparo delle erbacce e dei rovi. Un animale? Ne dubitava. L'anziano scriba l'aveva avvertita che gli scheletri dei condannati avevano l'abitudine di togliere la pelle dai corpi degli intrusi per ricoprire le loro povere ossa denudate. «Fanno davvero pena» le aveva spiegato il vecchio. «Bisognerebbe vederli quando scuoiano le loro vittime per confezionarsi dei vestiti di pelle umana. Poi indossano quegli stracci per crearsi l'illusione di possedere un corpo. Ovviamente questi abiti si disfano rapidamente, e devono ricominciare tutto da capo! Sì, gli scheletri sono commoventi nel loro desiderio di ritornare umani. Ma sono anche pericolosi, assai pericolosi.» Sebastian strinse una mano umida di sudore sul manico del bastone. Le felci si muovevano ancora. «Tanto io non rischio nulla!» ridacchiò il cane blu. «A nessuno scheletro degno di questo nome verrebbe in mente di vestirsi con una pelle di cane!» Peggy Sue ebbe l'impressione di intravedere un riflesso eburneo tra le
foglie, come quello di un cranio luccicante al sole. Forse si trattava solo di un ciottolo levigato o di un pezzo di marmo? La luce del giorno era talmente scarsa che si rivelava difficile formulare un'ipotesi. Bisognava tuttavia diffidare dei tranelli della razionalità. A forza di volersi tranquillizzare, si correva il rischio di finire nelle fauci del lupo. Peggy si fece coraggio e toccò Sebastian sulla spalla per fargli segno che potevano ripartire. In quello stesso istante il nodo scorsoio di un cappio sfiorò la guancia del ragazzo. La canapa scolorita e indurita dagli anni gli grattò l'orecchio, come se fosse animata di vita propria. Peggy fece un balzo di lato. Il movimento della corda non le era sfuggito. «Hai visto?» disse con un singulto. «Il nodo scorsoio ha cercato di acchiapparti!» «Ma no» sussurrò il ragazzo con voce angosciata, «è stato il vento.» «Niente affatto,» insisté Peggy, «è stato un fenomeno di stregoneria. Il vento soffia nella direzione opposta. La corda ha cercato di catturarti. Dobbiamo camminare in mezzo al sentiero e tenerci lontano il più possibile dalle forche. Forse dovresti accendere una torcia.» «Non temi che così segnaleremo la nostra presenza alle sentinelle appostate sui bastioni della grande muraglia?» le fece notare il ragazzo. «Potrebbero essere tentate di tirarci una scarica di frecce. Qui siamo allo scoperto.» «Sì, hai ragione, non è una buona idea: meglio camminare al buio.» Alle loro spalle si udì un rumore. Girandosi, i tre amici videro che i teschi del muretto stavano franando in mezzo al sentiero, formando un mucchio compatto. Ancora una volta, poteva trattarsi di un semplice scherzo della corrente d'aria, ma non ci credevano. Si stanno radunando per darci la caccia, pensò Peggy sentendo il panico crescere dentro di sé. Avanzò a grandi falcate, i polpacci contratti dalla paura. Dietro di lei i crani rotolavano al rallentatore, come tante bocce. Di tanto in tanto perdevano qualche dente, o una mascella, ma quei piccoli inconvenienti non li facevano demordere. «Il sentiero è in pendenza» azzardò il cane blu. «Potrebbe trattarsi di una frana naturale.» «Credi davvero a quello che dici?» lo rimbrottò Sebastian.
«No» ammise l'animale. «In realtà avrei voglia di mettermi a correre a tutta birra.» «Non ce la faremo mai,» gemette Peggy Sue «vi rendete conto che non siamo arrivati nemmeno alla metà del cortile?» «Non pensarci neanche a tornare indietro!» la sgridò Sebastian. «Forse si tratta solo di un'illusione...» «Lo credi davvero?» «Non lo so...» Incapace di resistere, Peggy si voltò per seguire con la coda dell'occhio l'avanzata dei teschi, che continuavano a rotolare nel più completo disordine. I crani sbattevano tra loro producendo dei suoni vuoti. Cosa sarebbe successo una volta che i teschi li avessero raggiunti? Avrebbero cominciato a morderli sulle caviglie? «Arrampichiamoci su un patibolo» ansimò Sebastian, «dobbiamo metterci al sicuro al più presto.» Peggy Sue prese in braccio il cane blu e corse verso la piattaforma di sostegno di un ceppo. Ci salì sopra, le gambe tremanti. Sebastian la imitò. I tre amici si distesero sul ventre, uno di fianco all'altro, scrutando l'oscurità. Tempo un minuto, sentirono il rumore dei crani che sbattevano contro i pilastri della piattaforma. Avendo preso troppa velocità, finirono per schiantarsi tutti nello stesso istante, in un baccano di porcellane in frantumi. «C'è mancato un pelo» mormorò Peggy Sue asciugandosi il sudore sulla fronte. «Ci avrebbero mangiucchiato i piedi, ne sono sicura.» Sebastian fece uno schiocco con la lingua per farla tacere. La luna stava sorgendo, un grosso disco cinereo dall'aspetto non troppo dissimile da quello di un dolce ammuffito. «Là in fondo, sulla sinistra» sussurrò il ragazzo. «Qualcosa si muove.» Peggy strabuzzò gli occhi. La pallida luce della luna che filtrava dalle nuvole illuminava una scena da incubo, che le fece venire la pelle d'oca. Cinque scheletri inginocchiati impastavano il fango con le loro dita ticchettanti. Come scultori, utilizzavano quell'argilla per spalmarsi vicendevolmente, ricoprendo le loro vecchie ossa di uno strato di fango che, seccandosi, avrebbe preso poco a poco la consistenza di una terracotta. Si affaccendavano febbrilmente a trasformarsi in statue, come se fosse urgente sottrarre le loro povere articolazioni sbriciolate al morso del vento notturno. «Gli scheletri hanno sempre freddo, me lo ha detto Servallon» sussurrò Peggy. «Non pensano ad altro che a confezionarsi un nuovo involucro. Se
ci vedono, ci strapperanno la pelle per farsene un abito.» Il cane blu emise un guaito di terrore e si rannicchiò contro la sua padrona. «Non possiamo restare qui, siamo troppo in vista» disse lei. «Finiranno per individuarci.» Provò il repentino desiderio di rinchiudersi a doppia mandata in una cassaforte. «Dalla mappa sembra che in fondo a destra ci sia un rifugio» continuò. «Una rimessa dove i carnefici depositavano le loro asce. Lì forse troveremo qualcosa per accendere un fuoco. Potremmo rinchiuderci là dentro e aspettare che faccia giorno...» «D'accordo» fece Sebastian, «ma in ogni caso bisognerà fare in fretta. Vedo che i nostri amici scheletri si dirigono verso di noi.» Il cane blu abbaiò per lo spavento e saltò giù dalla piattaforma. Sebastian gli andò dietro brandendo il suo bastone. Gli scheletri, trasformati ormai in statue di fango, ondeggiavano come se temessero di scivolare e frantumarsi in tanti piccoli ossicini. Quelle precauzioni da vecchie signore con i reumatismi erano alquanto buffe, ma ciò non diminuiva il loro aspetto orripilante. Dai loro gesti affannati s'intuiva che avevano avvertito la presenza di un involucro più caldo di un semplice mantello di creta. Desideravano ardentemente la carne di quei ragazzi imprudenti. Volevano togliere via loro la pelle per cingere le loro povere ossa corrose dal freddo. Oh, sì! Volevano sentire il calore di quella pelle appena scuoiata. Solo così si sarebbe potuta riaccendere una scintilla di conforto nell'intimo delle loro ossa ormai prive di midollo. Chi poteva mai rifiutarglielo? Erano così vecchi, così indifesi... Dopo tutto, si trattava solo di una piccola elemosina, no? Non è divertente essere uno scheletro, si passa tutto il tempo a perdersi falangine e falangette, si soffre sempre il freddo... Camminavano a mani tese in avanti. Peggy Sue barcollava nella notte nera come la pece. Sapeva che gli scheletri si sarebbero accaniti soprattutto su di lei, perché la pelle di una ragazza, soffice, avrebbe costituito per loro un autentico tesoro. Aveva già l'impressione di sentire le mani degli inseguitori sulle sue spalle! Le creature di fango avanzavano sempre più veloci, e la creta di cui erano rivestite si sfarinava svelando il profilo eburneo della loro struttura ossea. La ragazza scivolò e cadde in ginocchio. Senza perdersi d'animo, Sebas-
tian sollevò il bastone e colpì con violenza uno degli scheletri più vicini. Il macabro spettro si polverizzò in un geyser di fango e ossicini. «Rialzati!» urlò il ragazzo all'indirizzo dell'amica. «Alzati, per la miseria!» Fece volteggiare la sbarra di ferro sopra la testa per spaventare gli spettri, ma quelli non lo degnarono della minima attenzione. Il cane blu, dominando la paura, si era lanciato anche lui nella battaglia. Mordeva tibie e peroni a tutto spiano. Peggy Sue si rialzò e riprese la corsa a zig zag. Un secondo scheletro si stava già avvicinando. Appoggiò le mani sulle spalle della ragazza, ma le dita argillose gli impedivano di stringere la presa. Peggy cacciò un urlo e spiccò un balzo in avanti. Sebastian abbatté il manganello sullo spettro. Il cranio esplose in un geyser d'argilla. «Un albero!» urlò a un certo punto Peggy. «Là c'è un albero!» «Saliamoci sopra!» comandò Sebastian con voce imperiosa. «Gli scheletri sono troppo maldestri per seguirci fin lassù.» La ragazza prese in braccio il cane blu e, aiutandosi con la mano libera, si appese ai rami più bassi. Iniziò quindi a sollevarsi nell'intrico dei rami come poteva, ma non fu facile. Ansimava, il cuore le batteva forte sulle costole. A quattro metri dal suolo, l'albero si divideva in due tronchi maestri che s'innalzavano paralleli verso il cielo. Peggy si sistemò sulla biforcazione dei due tronchi. In basso, gli scheletri fangosi si agitavano, indecisi se intraprendere la scalata. Sebastian, che aveva raggiunto la sua compagna, capì che le creature avevano paura di perdere l'equilibrio e di sgretolarsi nella caduta. Una volta smantellate, per loro sarebbe stato difficile ricostituirsi. «Aspetteremo che faccia giorno» sussurrò il ragazzo. «Il sole seccherà l'argilla. Quando sarà indurita si ritroveranno paralizzati. E noi dovremo approfittarne per levare le tende.» Peggy Sue annuì senza dire nulla. Si strinse al petto il cane blu e gli diede una bella grattata tra le orecchie. «Se uscirò vivo da quest'avventura non toccherò più un osso!» ringhiò l'animale, gettando un'occhiataccia feroce agli scheletri che ballonzolavano ai piedi dell'albero.
Sebastian aveva chiuso gli occhi. Le sue braccia e le sue cosce erano percorse da crampi a causa degli sforzi compiuti. Sbadigliò, in preda a un irresistibile desiderio di dormire. Ritornato umano, aveva perso buona parte della resistenza di un tempo. Oramai, quando abusava delle proprie forze, cadeva in un letargo profondo come la morte, da cui nulla riusciva a scuoterlo. Inutile cercare di svegliarlo urlandogli nelle orecchie: rimaneva lì, più inerte di un blocco di pietra, e questo fino a che non recuperava le energie. Era un po' fastidioso, ma senza quel tempo di recupero sarebbe rimasto privo della sua forza erculea. In basso, gli scheletri tempestavano di graffi la corteccia dell'albero con le loro falangi coniche. Peggy stava morendo di sete. In quella posizione le era impossibile raggiungere la borraccia appesa alla vita di Sebastian, e non osava muoversi per paura di perdere l'equilibrio. Inoltre, il ragazzo dormiva di quel sonno bizzarro che lo assaliva ogni volta che si produceva in un grosso sforzo; inutile dunque sperare di risvegliarlo. Peggy allungò la mano a caso nella massa dei rami, nella speranza di cogliere un frutto. Sollevandosi lungo il tronco le era parso di intravedere le sfere rosse di una moltitudine di mele selvatiche. Di sicuro quei frutti erano asprigni, ma le sarebbe bastato un morso per dissetarsi. La mano di Peggy vagava ancora tra i ramoscelli quando qualcosa le morse il pollice. Ebbe il tempo di sentire il contorno di una piccola bocca dalle labbra fredde, poi quello di una doppia fila di denti minuscoli. Si lasciò sfuggire un grido di dolore e ritirò la mano. L'albero ospitava dei roditori! Forse degli scoiattoli? Un raggio di luna le permise di scorgere la forma arrotondata di una mela sospesa all'incrocio di due rami. Ma era una mela con due occhi e... una bocca! Con un brivido di spavento, Peggy capì allora che il frutto era in realtà una testa in miniatura, la cui bocca si apriva svelando un'accozzaglia di dentini aguzzi! L'albero era pieno di questi frutti le cui mascelle sbattevano con un rumore da trappola per topi. «Sebastian!» urlò Peggy. «Per la miseria, svegliati! Vieni a vedere...» Ma il ragazzo rimase prigioniero del suo sonno. Peggy ebbe un bel provare a svegliarlo rifilandogli un calcione: Sebastian si limitava a mugugnare con un filo di saliva che gli usciva dalla bocca. Peggy cercò allora di cogliere la testolina che l'aveva morsa, ma il frutto
esplose in un ruggito così spaventoso da farla indietreggiare. Adesso che vedeva meglio, la ragazza si rendeva conto di essere circondata da decine di mele animate. Dei brutti tuberi dal volto umano. Ogni frutto aveva una fisionomia differente, con i suoi occhi furibondi, la bocca orlata di zanne aguzze. Sbattevano i denti con golosità, come se stessero morendo di fame. «Dei veri mostriciattoli!» ansimò il cane blu. «Sembra che abbiano l'abitudine di mordere chi si azzarda a coglierli... è proprio il mondo alla rovescia!» Mentre tentava di spezzare un ramo per farne un bastone, Peggy vide che diversi frutti avevano inclinato il ramoscello su cui erano appoggiati per avvicinarsi a Sebastian... e morderlo mentre dormiva! Immerso nel suo sonno comatoso, il ragazzo non avvertiva il contatto di quelle minuscole bocche che gli laceravano la pelle, e se ne restava accasciato sotto l'assalto di quelle teste sospese ai rami che andavano su e giù, come il bilanciere di una pendola, strappandogli a ogni passaggio un nuovo brandello di carne. «Sebastian!» urlò Peggy. «Svegliati! Ti divoreranno vivo!» Sapeva che era inutile gridare. Aiutandosi col bastone cercò di respingere i frutti, ma quelli si allontanarono da lei sputandole sul viso. Le parve che quelle teste in miniatura percepissero la sua paura e si mettessero a ridacchiare. «Lasciateci in pace!» gridò. «Non siamo responsabili dei vostri problemi... È la prima volta che mettiamo piede da queste parti!» Era necessario che Sebastian si risvegliasse al più presto, se non voleva essere sbranato nel sonno. Dormiva così profondamente da non accorgersi dei ripetuti assalti dei frutti demoniaci. Come se fosse sotto anestesia! pensò Peggy, affranta. Le mele tornarono alla carica, accanendosi sulle mani e i polsi del ragazzo. Il cane blu cercò di maciullarle con i denti, ma erano così disgustose che finì per vomitare! Peggy Sue cominciò a far mulinare il bastone. L'albero fu percorso da un fruscio inquietante. Le testoline si agitavano in tutte le direzioni, facendo oscillare le fronde. Nonostante l'assenza di vento, i rami fremevano come l'albero di una nave in piena tempesta. Peggy sondò il groviglio di rami con la punta del bastone. Riuscì a colpire una «mela» facendola scoppiare. Le testoline ricominciarono a muoversi all'impazzata, e tutti i rami gemettero come in preda a una sorta di tremolio frenetico.
Peggy avrebbe potuto saltare giù, ma questo significava gettarsi nelle braccia degli scheletri ai piedi dell'albero, fermamente decisi a scuoiarla viva. Difficile stabilire cosa fosse più pericoloso... Schiaffeggiò il ragazzo senza cavarne la minima reazione. Nel frattempo, le mele indiavolate non smettevano di mordere il giovane addormentato, riducendo a brandelli i suoi vestiti. «Per fortuna che hanno la bocca piccolissima,» ansimò il cane blu «le ferite non sono serie.» «Sì, ma in ogni caso sono tantissime, sembrano dei piranha!» obiettò Peggy. «A furia di mordere finiranno per spolpare Sebastian fino all'osso.» Se solo avesse potuto risvegliarsi! «Ehi!» gridò all'improvviso il cane. «Gli scheletri si sono finalmente stufati di aspettare, stanno sgombrando il campo! Possiamo saltare a terra, finalmente!» Peggy gettò un'occhiata in basso per verificare con i propri occhi. Il cane blu aveva ragione. Non c'era più nessuno ai piedi dell'albero; gli scheletri fangosi avevano fatto dietro front. Non c'era tempo da perdere, dovevano darsi alla fuga. Cercò subito di spingere Sebastian per farlo cadere dall'albero, ma il ragazzo, prima di addormentarsi, aveva preso la precauzione di richiudere le braccia attorno al tronco. Era tale la sua forza che Peggy Sue non riusciva a disserrare la morsa formata dalle mani congiunte dell'amico. Era come provare a spezzare un cerchio di ferro! Certo, avrebbe potuto salvarsi col cane blu, ma abbandonare Sebastian nella trappola del sonno era fuori questione. Doveva restare lì per proteggerlo, per impedirgli di essere divorato! Se fosse saltata a terra, le mele diaboliche si sarebbero avventate sul povero ragazzo per spolparlo fino all'osso. La ragazza gemette. Le testoline smorte saltellavano in aria; Peggy vedeva passare i loro volti avanti e indietro davanti ai suoi occhi, in un carosello diabolico. Quelle maschere striminzite sprigionavano odio e malizia. Una gioia perversa sembrava illuminarle dall'interno, come le zucche cave che si usa rischiarare con una candela in occasione di Halloween. Si susseguivano le une alle altre, livide o gialle, avvicinandosi o indietreggiando in un fruscio di rami impazziti. Adesso l'albero scricchiolava come un parquet calpestato da una compagnia di ballerini.
Peggy Sue emise un sospiro di dolore. Le mele, folli di rabbia, si lanciavano in una sarabanda infernale. Dovette proteggersi il volto dietro il braccio per sfuggire ai mille morsi delle teste in miniatura. Infine, Sebastian si decise ad aprire gli occhi. Sbadigliò e parve sorpreso di scoprirsi appollaiato su un melo. «Ehilà!» biascicò. «Che ci facciamo qui?» Poi prese coscienza di essersi addormentato, e scoprì i morsi sulle spalle. «Ehi! Ma sono pieno di ferite!» balbettò ottusamente. «Dobbiamo scendere!» urlò Peggy. «Non è il momento di chiedere spiegazioni! Salta, ti spiegherò tutto più tardi!» Il ragazzo obbedì senza battere ciglio. Una volta a terra, i tre amici cercarono di orientarsi per localizzare il deposito in cui avrebbero potuto barricarsi in attesa del giorno. A più riprese, le forche fecero sibilare i lazo dei loro nodi scorsoi verso di loro, ma riuscirono a evitarli saltando abilmente di lato. Sebastian, dopo aver dormito, era come nuovo, pronto ad affrontare le prove fisiche più dure... e questo fino a quando la fatica successiva non lo avrebbe steso ancora una volta, facendolo ripiombare nell'incoscienza. Un giorno mi addormenterò nel bel mezzo di una battaglia - gli capitava di pensare sempre più spesso -, e mi sdraierò a terra, nel frastuono delle spade. Mi arrotolerò su me stesso e non desidererò altro che dormire... dormire. Allora i miei nemici si avvicineranno e mi uccideranno senza che me ne accorga. Mi faranno a pezzi mentre russerò, e il mio sangue colerà da mille ferite senza che il dolore riesca a risvegliarmi. Sì, è così che finirà... un giorno... I morsi delle mele malefiche non gli arrecavano quasi la minima sofferenza. Era pronto a scommettere che si sarebbero rimarginate molto rapidamente. Tuttavia, si rendeva conto che addormentandosi aveva messo in seria difficoltà Peggy Sue, e ne traeva motivo di profonda vergogna. Aveva visto le mele, mentre saltava giù dall'albero. Quale battaglia aveva dovuto affrontare la ragazza per proteggerlo, mentre lui vagava in balia dei sogni? Non osava chiederglielo. «Lì, davanti!» gridò d'un tratto la ragazza. «Il rifugio!» La luna era sorta da uno squarcio nelle nubi, illuminando le mura fatiscenti di una torre rudimentale, sprovvista di merli e feritoie. Una sorta di
scatola cieca, munita, a livello del terreno, di un massiccio portone d'accesso. Il deposito... era proprio l'antico deposito dove un tempo i carnefici tenevano i loro utensili da 'lavoro'. Peggy poggiò la mano sul portone e cercò di abbatterlo con una spallata, sperando che il battente non fosse chiuso a chiave. La porta cedette in un urlo di cardini, e la ragazza si ritrovò catapultata nell'oscurità di una sala dall'aria impregnata di muffa. Sebastian la raggiunse e si affrettò a richiudersi il battente alle spalle. Le sue dita individuarono la presenza di due massicci saliscendi; li abbassò. Presa quella precauzione, si frugò nella cintura in cerca del lume datogli da Zabrok, il maestro di guerra. Era un semplice cofanetto di rame che, una volta aperto, sprigionava un alone verdastro la cui luce disegnava un cerchio di tre metri di raggio. Quel gioco di prestigio elementare funzionava per tre ore, dopodiché bisognava richiudere il cofanetto per un giorno intero. La luminescenza verdastra fuoriuscì dalle dita del ragazzo formando una chiazza sul terreno, ma l'interno della torre era troppo vasto perché il lumino potesse rischiararlo nella sua interezza. «Speriamo che non ci sia un altro tranello» bofonchiò Sebastian. «Se qui nelle tenebre si nasconde un qualsiasi nemico, lo vedremo solo quando ci sarà addosso.» I tre compagni si avvicinarono alla fiammella verde accesa al centro della scatola di rame. Peggy Sue aveva gli occhi dilatati dalla tensione. Con mano distratta, si massaggiava i numerosi lividi che le chiazzavano le caviglie. «La Divoratrice» ripeté. «Sa che siamo venuti in aiuto del suo nemico numero uno, Massalia. Farà di tutto per eliminarci.» Si distese nella polvere e si accovacciò. Sebastian si appoggiò contro il muro le cui asperità gli martoriavano le scapole. Era assolutamente convinto che nell'oscurità si nascondesse una minaccia. 15 La notte delle streghe Peggy Sue capì che l'alba era spuntata quando un raggio di luce grigia s'insinuò sotto la porta. Andò ad aprire il battente e gettò un'occhiata furti-
va all'esterno. Il cane blu la imitò, insinuando il muso fremente nello spiraglio socchiuso. Il cortile della prigione aveva ripreso il suo aspetto di terreno abbandonato, e le forche non erano più che assemblaggi di vecchie travi ricoperte di muschio. Peggy si chiese se non avesse sognato gli avvenimenti della notte passata. Se Sebastian, il cane blu e lei stessa non fossero stati vittima delle esalazioni allucinogene che risalivano dai crepacci del suolo, quei crepacci da cui la bestia dei sotterranei nebulizzava strani veleni. Non era per niente impossibile. Avevano inalato quelle polveri terrificanti? Il veleno, forse, si era subito impadronito del loro cervello facendovi germogliare immagini inverosimili. Servallon mi aveva avvisato, pensò. Avrei dovuto ricordarmene, ma sembrava tutto così reale. Fece qualche passo intorno al rifugio. Il cielo era grigio, dei corvi affilavano il becco sul granito dei muri con la stessa minuzia di un maestro d'armi che affila una spada. Peggy provò una sgradevole fitta allo stomaco. Gli uccelli si preparavano forse ad attaccarla? «Suvvia!» disse cercando di scuotersi. «Ormai è arrivato il giorno, le allucinazioni sono finite! Non succederà più niente!» «Lo spero anch'io» sospirò il cane blu. «In nome di una salsiccia atomica, quest'avventura stava per finire male!» Peggy andò a svegliare Sebastian. «Dobbiamo muoverci,» mormorò «è sorto il sole.» «C'è qualcuno o qualcosa che ci sta aspettando, là fuori?» domandò il giovane appoggiandosi sul gomito. «No, è come se non fosse successo nulla.» Per tutta risposta Sebastian emise una sorta di grugnito. Peggy Sue aprì lo zaino, estraendone delle gallette di frumento imbottite di carne essiccata, che condivisero senza dire una parola. Mangiarono frettolosamente, si dissetarono, poi radunarono le loro cose. Non appena si rimisero in cammino, Sebastian rimase sorpreso dalla vetustà delle forche allineate. Legno vecchio, pensò. Potrei divellere questi antiquati strumenti di tortura con un semplice pugno. Siamo rimasti vittima di un sortilegio? «Da adesso in avanti non ci fermeremo più, d'accordo?» fece Peggy. «Okay» disse Sebastian. «Niente soste: dobbiamo uscire al più presto da
questa trappola.» «Sembrate molto sicuri di voi, stamattina» mugugnò il cane blu. «Io invece ho la sgradevole impressione che un regista satanico non attenda altro che il nostro arrivo per dare inizio allo spettacolo! Questa mi sembra la quiete che precede la tempesta. Faremmo meglio a stare in guardia.» Sebastian annuì. Da qualche secondo condivideva quella sensazione. I leoni, pensò, cominceranno a ruggire solo quando gli schiavi saranno stati gettati nell'arena. Peggy Sue scavalcò un cumulo di sterpi, col fiato sospeso, come se stesse per immergersi nell'acqua ghiacciata. In quel preciso istante i roghi carbonizzati con le loro fascine catramose si riaccesero tutti, all'unisono! Fu come l'esplosione di una miscela gassosa al contatto con una scintilla; un vento arroventato spazzò il cortile. Peggy Sue contò dodici roghi da cui si innalzavano verso il cielo lingue di fuoco. «È in questo cortile che un tempo bruciavano gli stregoni complici della Divoratrice» balbettò. «Sta scritto nel taccuino di Servallon. Ma era tantissimo tempo fa...» «Ricordati quello che ha detto quel vecchio pazzo» latrò il cane blu. «Qui, nulla è veramente morto... 'tantissimo tempo fa' non significa nulla, quando si ha a che fare con dei fantasmi!» Una cortina di fumo nero sovrastò le nuvole, oscurando il cielo. In breve tempo sull'antica prigione scese la notte. Peggy si fermò per un momento. I cumuli di fascine carbonizzate bruciavano a dispetto di qualsiasi logica, mentre un orribile odore di carne arrostita si diffondeva nell'aria. Era assurdo, visto che sui roghi non era appesa alcuna vittima! La ragazza esitava a mettersi a correre, temendo una nuova trappola. Il vento schiacciava verso il basso la nube di fumo, che adesso stagnava a livello del suolo come un tappeto di tenebre. Quel velo nero le salì rapidamente alle caviglie, alle ginocchia. Era saturo di ceneri. La cenere degli stregoni morti! pensò Peggy con un brivido. «Attenta» disse Sebastian. «Se c'è qualcosa che si sposta sotto questa coltre di nebbia non te ne accorgerai.» «Lo so» disse Peggy muovendo il piede destro con prudenza. La cortina fumogena formava una sorta di tappeto opaco sospeso a sessanta centimetri da terra. Non si distinguevano più né l'erba né la pavimen-
tazione. La ragazza si mise a immaginare che i fantasmi dei temibili maghi si avvicinavano strisciando verso di lei, occultati da quel velo protettivo. Stavano forse per catturarla e gettarla nel fuoco? I roghi non cessavano di crepitare, vomitando un autentico pennacchio di fuliggine che poi calava sulle rovine. Peggy prese su di sé il cane blu, temendo che potesse asfissiare rimanendo a livello del terreno. «Per la miseria, sta salendo» osservò Sebastian. «Tra dieci minuti non vedremo più a un palmo dal naso!» «Cerca di individuare la direzione da seguire» esclamò Peggy Sue. «La porta d'uscita deve essere da quella parte. Non dobbiamo assolutamente commettere l'errore di girare in tondo.» I ragazzi si slanciarono a grandi falcate, tentando di battere in velocità la marea di tenebre, ma la fuliggine li avvolgeva incollandosi alla loro pelle. Sebastian si torceva il collo a furia di guardarsi intorno: non si vedeva nulla a due metri di distanza! Peggy tossì. Faceva una gran fatica a tenere gli occhi aperti e lacrimava come una fontana. «Tieni le palpebre socchiuse» le consigliò il cane blu. «La porta d'uscita emana un odore di ruggine: proverò a individuarla nonostante questo tanfo di fuliggine. Per il momento procedi dritto davanti a te.» Appollaiato sulle spalle della ragazza, l'animale era in parte indenne dalle esalazioni irritanti della nebbia. «Tutto il cortile è in fiamme!» gridò all'improvviso. «Se va avanti così finiremo bruciati vivi prima di aver raggiunto l'uscita. Dobbiamo metterci al riparo! Vai a destra, c'è un pezzo di parete franata a terra.» Il cane gemeva per il morso dei carboni ardenti trascinati dal vento. Sebastian tossiva, gli occhi bagnati di lacrime. Dopo aver Vagato un po' a casaccio, Peggy finalmente inciampò sul muro. Erano le macerie di una torre. Grazie alla sua forza titanica, Sebastian si mise a impilare i blocchi di pietra sparpagliati, in modo da costruire una sorta di dolmen8 su cui avrebbero potuto ripararsi. Procedeva emettendo dei grugniti, il viso paonazzo per lo sforzo. I suoi muscoli sembravano sul punto di scoppiare. Nel giro di pochi minuti, eresse una piattaforma sbilenca con massi di granito che un uomo normale non sarebbe mai riuscito a sollevare.
Quand'ebbe terminato l'assemblaggio era allo stremo delle forze. La piattaforma di pietra non era certo un capolavoro di architettura, ma costituiva comunque un rifugio apprezzabile che avrebbe consentito loro di sfuggire alle fiamme dei roghi magici. Peggy Sue si issò in cima alla tavola di pietra. Facendo forza sulle dita, si tirò fuori dalla nube di fumo. Aveva il viso completamente annerito. Sebastian, più pesante, fece molta più fatica a sollevarsi da terra. Appena giunto sul dolmen artificiale che aveva costruito con incredibile rapidità, stramazzò sulla lastra di pietra sprofondando in un sonno ipnotico, come ormai accadeva troppo spesso. La sua caduta per poco non fece scivolare giù Peggy e il cane blu. Disteso supino sul cumulo di massi, il ragazzo occupava tutto lo spazio disponibile. Peggy fu quindi costretta a sdraiarsi sopra di lui, perché la lastra orizzontale del dolmen era talmente stretta da non permettere a due persone di starsene coricate una di fianco all'altra. Un autentico mare di fuoco ricopriva adesso tutto lo spazio interno del cortile. In breve tempo le fiamme raggiunsero e accerchiarono il tumulo eretto da Sebastian. Peggy Sue sentiva le pietre diventare sempre più calde sotto i palmi delle mani: le lingue di fuoco le riscaldavano! Nel giro di venti minuti al massimo, il dolmen si sarebbe trasformato in un blocco di pietra incandescente, inabitabile, e i fuggitivi che vi avevano trovato rifugio si sarebbero trovati in pessime acque. La ragazza tastò ansiosamente i blocchi di pietra impilati. La temperatura saliva rapidamente. Dall'interno del tumulo risuonavano strani scricchiolii. Le pietre, dilatandosi, rischiavano di scoppiare. In un documentario trasmesso alla tv Peggy aveva visto dei massi pieni di fessure esplodere nella lava di un vulcano... era quello che stava per accadere! Se non fosse riuscita a spegnere l'incendio magico, il dolmen si sarebbe riscaldato fino al punto di rottura, con uno scricchiolio sordo, e la rupe sarebbe crollata scaraventando i suoi occupanti nel braciere. La pietra diventava sempre più calda, ma Sebastian, ancora immerso nel sonno, restava indifferente a tutto quel fermento. In effetti, non sentiva neppure il bollore del granito rovente su cui era disteso! «Per la miseria!» ringhiò il cane blu. «Se va avanti così finirà per cuocersi come una bistecca in padella! Siamo seduti sulla sua schiena come su un cuscino, ma è un cuscino animato che non tarderà a rosolarsi!»
«È terribile» gemette Peggy Sue. «Dorme, non si rende conto di nulla... È di nuovo a causa di quello strano sonno che lo coglie quando è troppo stanco. Non so che fare, è troppo pesante per le mie forze. Rischio di farlo cadere nel vuoto, direttamente nelle fiamme.» «È una situazione pazzesca...» ansimò il cane. «In nome di una salsiccia atomica, vorrei proprio farmi venire in mente un'idea, ma non me ne viene nessuna.» Alla base del dolmen, le lingue di fuoco ondeggiavano con avidità demoniaca, leccando le pietre del tumulo come se fosse il sughetto di una pentola. Il vento le ravvivava accarezzandole, e il loro rossore si rischiarava fino a trasformarsi nel bianco dell'incandescenza più assoluta. Il dolmen scricchiolava per la dilatazione. Il contatto con la pietra si faceva sempre più insopportabile. Peggy dovette bagnarsi di saliva i palmi delle mani per attenuare la sensazione di bruciore. Sebastian aveva preso ad agitarsi per il calore. Si muoveva debolmente, senza svegliarsi, cercando invano una posizione più confortevole. Ma cominciava già a scivolare, rischiando di far precipitare Peggy e il cane blu. La situazione si stava facendo critica: era necessario tentare qualcosa. Nell'equipaggiamento c'era sì una borraccia d'acqua, ma il suo contenuto sarebbe servito a raffreddare la pietra di appena mezzo grado. Inoltre, quella variazione di temperatura avrebbe rischiato di accelerare l'esplosione delle rocce e dunque il momento in cui i tre amici sarebbero stati scaraventati nel 'lago' di fuoco. «Spicciati» sibilò il cane. «Credo proprio che Sebastian stia cominciando a cuocere! Non senti un odore di bistecca? Tra l'altro è davvero appetitoso! Se non ti dai una mossa, somiglierà più a un hamburger che al tuo fidanzato!» «Gli stregoni morti hanno deciso di farci subire lo stesso trattamento che un tempo venne inflitto loro» osservò Peggy. «Vogliono farci vivere gli stessi tormenti.» Rimase immobile, a bocca aperta, ricordandosi d'un tratto il cofanetto degli incantesimi ricevuto da Zabrok, il maestro di guerra. Fino a quel momento non gli aveva dato molta importanza, ma la situazione senza sbocchi in cui si trovavano la costringeva a non trascurare alcuna possibilità. Si gettò sulla bisaccia, tirò fuori la cassetta e l'apri con tale impeto che per poco non ne spezzò il coperchio. All'interno trovò delle bustine di polvere, delle fiale, dei ciuffi di piume e delle ossa intagliate, il tutto corredato
da piccole etichette su cui erano riportate le modalità d'uso. C'era tutto l'occorrente per generare una cortina di fumo, spegnere le lampade di una casa, scatenare un tornado di foglie secche, scavare un buco in un muro, resistere agli effetti di un potente veleno, provocare una pioggia fittissima, rimarginare in mezzo minuto una ferita profonda. Peggy sfogliava con l'indice quei gingilli magici, leggendo rapidamente le etichette. Nonna Katy avrebbe saputo come utilizzarli! Perché non era lì? Si trattava di trucchi elementari, la cui durata molto probabilmente non superava i due o tre minuti. Dei miseri giochetti di prestigio per maghi apprendisti. Sebastian gemette ancora. La pelle del suo viso diventava sempre più rossa... All'improvviso Peggy si immobilizzò, affondò la mano nel cofanetto e rilesse una delle etichette: 'Come scatenare una pioggia torrenziale per dieci minuti.' Santo cielo! Era esattamente quello che ci voleva. Aprì il sacchetto di tela. Conteneva l'occorrente per fabbricare un uccello costituito da ossicini su cui erano fissate delle piume. Le istruzioni per l'uso raccomandavano di bagnarlo con la saliva e poi di lanciarlo in aria in modo da farlo volare in cielo. La ragazza bagnò di saliva l'amuleto e cercò di capire in che direzione spirasse il vento. Le tremavano le mani. Col braccio alzato cercò di individuare una corrente ascensionale che avrebbe sospinto l'amuleto verso le nuvole. Il minuscolo oggetto, formato da ossicini cavi, era leggerissimo. Tuttavia esitava a lanciarlo nel vuoto. Se avesse calcolato male la forza, il feticcio sarebbe ricaduto nel rogo. Riportò indietro il braccio per prendere slancio; il dolmen continuava a emettere uno scricchiolio sordo. Sta per esplodere, pensò. Sta per esplodere! L'immagine dei massi che si sbriciolavano nella lava del vulcano la ossessionava. Tutt'a un tratto il vento l'accarezzò scompigliandole i capelli. Con un gesto istintivo, lanciò in aria l'amuleto con un grido. L'animale parve esitare, ruotò su se stesso come se stesse per iniziare a scendere in picchiata, poi si innalzò come una foglia sospinta dalla burrasca. Peggy Sue abbassò le braccia e chiuse gli occhi. Adesso non rimaneva altro che pregare perché l'incantesimo funzionasse. Il contatto del granito rovente era insopportabile. La pelle di Sebastian era diventata color scarlatto, le sue braccia erano ricoperte di grosse vesciche. Giù da basso, ai piedi del dolmen, le fiamme sfuggite ai roghi proseguivano la loro opera di
surriscaldamento. Il vento amplificava il loro sfrigolio. A un tratto, lungo l'asse verticale del tumulo si sprigionò una sorta di scarica elettrica. Una scintilla azzurrognola risalì verso l'alto, e una pioggia torrenziale si rovesciò sui tre amici. Il ragazzo si risvegliò rialzandosi di scatto, in preda ai singulti. «Che cosa... che cosa succede?» balbettò. «Non muoverti!» gli urlò Peggy. «Se perdi l'equilibrio sei morto!» L'acquazzone scrosciava su di loro con la furia di una cascata. Le gocce erano gelide; il monolito fumava al contatto dell'acqua. Peggy Sue batteva i denti. Come temeva, la differenza di temperatura era troppo forte e, dal boato che montava dalla pietra, capì che il dolmen stava per esplodere. Non ebbe neppure il tempo di gridare. Il tumulo scoppiò aprendosi come un fiore di granito. Peggy Sue, Sebastian e il cane blu furono catapultati nel vuoto, mentre i blocchi di roccia crollavano. I ragazzi e l'animale rotolarono a terra, mezzi storditi. Alla fine il temporale cessò, e una nebbia di vapore s'innalzò sul tumulo ridotto in frantumi. Vittima della magia del feticcio di piuma, l'incendio scatenato dagli stregoni morti si spense di colpo. «Filiamocela!» strepitò il cane blu. «Questa volta per poco non ci rimanevamo secchi!» Peggy Sue si rialzò, si mise il braccio di Sebastian su una spalla e lo aiutò a sollevarsi. I vestiti del ragazzo erano tutti rossi, le braccia e il viso coperti di vesciche. «Coraggio!» esclamò il cane blu. «Siamo quasi usciti dalla prigione. L'ultimo sforzo!» Lasciandosi alle spalle il territorio dei carnefici, giunsero in vista di un grande muro di cinta, coronato da cuspidi e filo spinato. «Non mi sento bene» farfugliò Sebastian. «Fermiamoci. Santo cielo, non mi ricordo assolutamente nulla di quello che è successo. Mi sono di nuovo addormentato nel bel mezzo della battaglia, è così?» «Sì» fece Peggy. «Ma ci hai salvati costruendo una specie di dolmen mal riuscito. Adesso ti metterò accanto a quella roccia. Nel cofanetto degli incantesimi c'è una pomata contro le ustioni. Spero che sia efficace.» Fecero una sosta vicino al muro. Un'atmosfera spettrale incombeva sulla prigione. Il vento soffiava in tondo, prigioniero delle mura di cinta. Il suo lamento era lacerante.
Il cane blu dichiarò: «A mio avviso per un po' staremo tranquilli. La Divoratrice probabilmente ha bisogno di riposarsi tra un assalto e l'altro. Resuscitare i morti, riaccendere dei roghi spenti da due secoli... tutto questo necessita una quantità d'energia straordinaria.» Peggy curò Sebastian, poi si divisero le gallette e la carne essiccata che avevano nella bisaccia. Da parte sua, si sentiva allo stremo delle forze. Sebastian, come ogni volta dopo aver dormito, era in forma smagliante. Mangiò con appetito e si dissetò con ingordigia. La pomata magica cancellò istantaneamente le bruciature. Non abbiamo ancora raggiunto il palazzo reale e abbiamo già usato quasi tutti i nostri sortilegi, pensò Peggy. L'unguento era formidabile, ma ce ne resta appena un briciolo. Che faremo, se qualcun altro dovesse bruciarsi? Non smetteva per un attimo di voltarsi a ogni minimo rumore. La prigione le incuteva paura. Spiluccò la carne essiccata; aveva lo stomaco chiuso per l'angoscia e faceva fatica a masticarla. Il cane blu poggiò il muso sulle ginocchia della padrona; aveva letto lo sconforto nei suoi pensieri. «Non stare in ansia,» disse con tono rassicurante «vedrai che ce la caveremo.» «Ho un dubbio atroce» ammise la ragazza. «Mi domando se quello che ci è appena accaduto sia successo realmente.» «Pensi ai gas allucinogeni della Divoratrice, vero?» fece il cane. «Sì, secondo me potrebbe aver cercato di farci morire di paura, mentre in realtà è stato solo frutto della nostra immaginazione. Nessuno scheletro, nessuna mela cannibale ci ha aggredito. Ci siamo inventati tutto... Il lago di fuoco... Tutto. È stato solo un incubo, che è cessato quando ci siamo allontanati dalle crepe che solcano il cortile. Guardati attorno... Qui il suolo è intatto. I vapori venefici non possono raggiungerci.» «E le bruciature di Sebastian?» «Quali bruciature? Osserva il suo viso, le sue mani... Sono intatti.» «Ma è stata la pomata a guarirlo.» «Così velocemente? Magari potremmo scoprire che non c'è stata mai alcuna vescica perché Sebastian non si è mai bruciato.» «In effetti è possibile» fece il cane blu. «Se quello che dici è vero, la Divoratrice dispone di un'arma assai temibile: il vento delle illusioni.»
«Mi dispiace di essermi addormentato un'altra volta» si scusò Sebastian. «Da quando sono ritornato umano, ho l'impressione di non essere più un valido compagno d'avventure. Immagino che sia il prezzo da pagare per essermi liberato della maledizione della sabbia...9» «Quello che mi preoccupa è che hai rischiato di morire ben due volte mentre dormivi: sull'albero, quando le mele piranha hanno cercato di sbranarti, e poi in cima al tumulo. Dormi così profondamente che è inutile sperare di svegliarti. Non ti accorgi più di nulla, neanche del dolore.» «Suvvia,» intervenne il cane blu «non drammatizziamo. Ricordiamoci che le mele cannibali e gli scheletri squartatori forse non sono mai esistiti se non nella nostra immaginazione! Mi pare di intravedere la porta d'uscita, dall'altra parte cominciano i quartieri dei ricchi. Spero che quei signori ci accoglieranno come si deve.» Non incontrarono alcuna difficoltà a forzare il battente arrugginito, che venne giù alla prima spallata. Evitando di guardarsi indietro, si lasciarono alle spalle il territorio maledetto della prigione abbandonata. 16 Prigionieri degli orchi Valicata la porta, si ritrovarono in una vasta piazza pavimentata di marmo bianco. Una sorta di foro, come quelli dell'antica Roma, sul cui perimetro erano allineate colossali statue bronzee. «È deserta» si stupì il cane blu. «Dove sono gli abitanti?» «È ancora presto, forse si alzano più tardi» suggerì Peggy Sue. «Entriamo in una di queste dimore» propose Sebastian «e chiediamo aiuto. Dopo tutto siamo in possesso di un salvacondotto che ci autorizza a incontrare il re.» «Vuoi dire un falso salvacondotto!» ridacchiò il cane. «Evita di atteggiarti ad ambasciatore, se non vuoi finire con la testa sulla ghigliottina.» Entrarono in una villa circondata da alte colonne, rassomigliante più a un tempio greco che a un'abitazione. I muri erano di marmo bianco. I paraventi laccati, le ceramiche, il vasellame d'oro abbandonato sui tavoli testimoniavano una ricchezza sfacciata. Splendide statue di marmo si susseguivano lungo i corridoi ma, come tutto il resto, erano sepolte dalla polvere e dalle ragnatele. Le pareti e il pavimento erano ricoperti di affreschi con scene di combattimenti tra gladiatori. Sembra di essere nella Roma dei Cesari, pensò Peggy. Una di quelle vil-
le patrizie in cui abitavano i senatori. Era tutto magnifico, ma in uno stato di totale abbandono. Uno strano silenzio regnava sui luoghi. «A meno che non sia stata abbandonata dai suoi occupanti,» osservò Sebastian corrugando le sopracciglia «nessuno fa più le pulizie in questa casa da almeno dieci anni.» Libri e strumenti musicali erano gettati alla rinfusa ai piedi di una libreria. Un po' ovunque c'erano piatti ancora sporchi di rimasugli di cibo ormai rancido, come se i convitati si fossero alzati da tavola nel bel mezzo del pasto. Le fruttiere traboccavano di frutti andati a male che emanavano un odore acido. Su un vassoio d'oro, una buona dozzina di polli arrosto erano in avanzato stato di decomposizione. Alcuni recavano tracce di morsi... con ogni evidenza avevano solo cominciato a sgranocchiarli senza avere il tempo di andare oltre. Il cane blu si avvicinò a una finestra. Anche le strade erano deserte, e la città silenziosa. Le facciate bianche, sebbene maestose, trasudavano desolazione. «E sarebbe questo, il quartiere dei ricchi?» mormorò l'animale. «Una vera città fantasma! A prima vista non mi pare che ci sia da divertirsi molto di più che nella zona avvelenata!» Peggy annuì; eppure qui non si vedeva nessuna rovina, nessuna costruzione crollava sotto l'opulenza della sua architettura. Era un continuo susseguirsi di statue trionfanti su piedistalli d'oro, porticati di colonne, fontane d'acqua a getti multipli. Sembra proprio di essere in una città fantasma, disse tra sé. «Non ci sono crepacci, ve ne siete accorti?» osservò Sebastian. «Né sulle pareti né a terra. La Divoratrice non ha libero accesso da queste parti, a quanto pare.» «E perché mai dovrebbe venire qui» sibilò il cane blu «quando può trovare quello che cerca nei quartieri poveri? La gente che abita da queste parti, appena si apre una crepa, non deve far altro che chiamare un operaio o uno schiavo per farla richiudere. Non è difficile, basta versarci sopra tonnellate di ciottoli e il gioco è fatto. Ovvio quindi che la creatura del sottosuolo vada a rifornirsi dove è più facile...» Peggy Sue gettò una rapida occhiata nelle stanze adiacenti. Scoprì dei bambini vestiti con dei mantelli di un bel tessuto immacolato. Dormivano su letti ingombri di cuscini di seta. Non erano rinchiusi in gabbie d'acciaio,
e le pareti delle loro stanze non presentavano alcuna fessura. «Chi se ne importa» sospirò Sebastian. «Non siamo qui per fare i turisti, vediamo di trovare questo benedetto palazzo reale e facciamola finita!» Attraversarono una sala da banchetto i cui tavoli erano stracolmi di pietanze andate a male. Su un divano di velluto rosso, una donna fissava il soffitto con gli occhi spalancati. Indossava un abito patrizio in fine seta che lasciava trasparire le sue forme scheletriche. Peggy le si avvicinò, constatando con sorpresa che la sconosciuta, nonostante l'estrema magrezza che le scavava il viso dandole l'aspetto di una vecchia, non doveva avere più di vent'anni. «Qualcosa che non va, signora?» domandò la ragazza. «Ha bisogno d'aiuto?» La sconosciuta si sottrasse al suo torpore. Voltando la testa con stanchezza, posò lo sguardo su Peggy Sue. «Mi sento debole» disse con voce timida. «È da così tanto che non mangio.» Peggy aggrottò le sopracciglia. Come era possibile morire di fame in mezzo a un simile spreco di cibo? «Mi aiuti,» gemette la donna cercando di sollevarsi su un gomito «mi dia la mano.» Peggy Sue, credendo che le chiedesse un appoggio, ci si prestò. Ma non fece neanche in tempo ad avvicinare la mano alla spalla della donna che questa le morse il polso come se volesse staccarne un brandello. Peggy emise un urlo di dolore e si liberò con uno strattone, respingendo la donna sul letto. «No!» la supplicò lei. «Non se ne vada, ha un buon sapore... torni qui. Posso comprare il suo braccio: sono ricca, lo pagherò bene.» Si era alzata, vacillando, le mani protese in un atteggiamento supplichevole. «Resti» disse. «Possiedo un elisir magico, la anestetizzerà mentre le mangerò il braccio. Non sentirà nulla, glielo giuro. Un braccio, solo un braccio e sarà ricca per sempre! Le darò una cassa piena di monete d'oro.» Sebastian, indignato, la colpì con un manrovescio, catapultandola a testa in giù dalla parte opposta della sala. «Filiamocela,» gridò Peggy «siamo finiti in un manicomio!» Lasciata la donna, attraversarono i corridoi in cerca dell'uscita. A più ri-
prese si imbatterono in ospiti assopiti che presentavano tutti i segni di un dimagrimento anomalo. Delle anime in pena, con lo sguardo perso nel vuoto. Abbattuti, doloranti, sembravano in preda a un'incomprensibile malattia del sonno. Tutt'intorno a loro si notavano giare piene di un vino trasformato in aceto, o dei cosciotti su cui facevano festa battaglioni di mosche. «Non ci capisco nulla» bofonchiò il cane blu. «Come si può affermare di morir di fame dopo aver lasciato andare a male tutto questo ben di dio? Roba da pazzi!» Lasciarono la villa con un sospiro di sollievo. Tuttavia, poco più avanti, il salone di una taverna presentò ai loro occhi una scena analoga. Ai tavoli erano seduti uomini emaciati e sonnacchiosi, con la testa tra le mani, indifferenti ai latrati dei cani randagi attratti dagli aromi muschiati degli arrosti andati a male. «Ma che succede da queste parti?» domandò Sebastian. «Non so» ammise Peggy. «Devo consultare gli appunti che mi ha lasciato Servallon. La sua scrittura è così difficile da decifrare che ci avevo rinunciato. E poi ero troppo preoccupata all'idea di dover attraversare la prigione. Sediamoci sul bordo di quella fontana, darò un'occhiata.» Mentre Peggy sfogliava gli appunti, con le sopracciglia aggrottate, Sebastian e il cane blu stavano di guardia, ma nessuno intorno a loro diede segno di accorgersi della loro presenza. «Se ne infischiano di noi» osservò il cane blu. «In effetti si sentono talmente al sicuro che non c'è neanche un soldato per strada.» «Credo di aver capito» annunciò infine Peggy Sue. «Stando a Servallon, la gente è in questo stato a causa della deliziosa leccornia.» «La 'deliziosa leccornia'?» ripeté stupito Sebastian. «E di cosa si tratta, stavolta?» «Di una specie di droga» spiegò la ragazza. «Tutti gli abitanti dei quartieri ricchi ne fanno uso, è diventato un vero e proprio stile di vita. In origine la assumevano come tranquillante, per dimenticare la minaccia della Divoratrice, ma ben presto nessuno è stato più in grado di farne a meno. È quello che succede con le droghe. Uno crede di poter mantenere il controllo, e invece sono loro a ridurti in schiavitù.» «È per questo che sono così debilitati?» domandò il cane blu. «Sì. La deliziosa leccornia ti fa provare una sensazione di felicità inimmaginabile, come partecipare a un banchetto divino. La lingua scopre a-
romi mai sentiti prima, le papille gustative subiscono l'assalto di sapori che portano all'acme della beatitudine, tanto sono intensi. Ma questa droga ha due inconvenienti... per prima cosa, non possiede alcun potere nutritivo, poiché è come inghiottire aria, e poi...» «E poi?» «E poi attira una strana maledizione su chi la assume. Gli alimenti ordinari prendono un gusto di cenere fredda. Mordendo una coscia di pollo hai l'impressione di masticare dei mozziconi di sigaretta. Quando porti alle labbra un bicchiere di vino ti sembra di annusare pipì di gatto. È una maledizione terribile, che impedisce di nutrirsi e condanna al deperimento. Ecco perché abbiamo visto tante pietanze abbandonate sui tavoli. Chi ha cercato di assaggiarle non è riuscito ad andare oltre il primo boccone.» «Ma che ci stai raccontando?» la interruppe Sebastian. «Nessuna droga conosciuta produce effetti secondari del genere. Se questa maledizione esiste davvero, ci deve essere sotto lo zampino di qualche sortilegio!» «Proprio così» confermò Peggy. «Servallon, in queste carte, spiega che la deliziosa leccornia è un 'dono' della Divoratrice.» Nel pronunciare quelle parole si guardò con timore alle spalle, come se quel mostro potesse sentirla. «Il soffio che filtra dalle crepe,» spiegò in un mormorio «viene tutto da lì. In questa zona non è venefico. S'innalza verso il cielo e, al contatto con le nuvole, provoca strane nevicate. È questa neve che gli spacciatori di droga offrono come sorbetto a chi desidera provare i piaceri della deliziosa leccornia. Compiono i loro traffici su una montagna, nei dintorni della città. È una collina piena di fenditure, come una vecchia porcellana cinese.» «Chi se ne importa!» si spazientì Sebastian. «Non siamo qui per piangere sulle sventure dei ricchi signori di Kromosa. Andiamo al palazzo, qui abbiamo perso fin troppo tempo!» Peggy si risistemò in tasca gli appunti dello scriba. Il silenzio delle strade aveva qualcosa di opprimente. Nei negozi, nelle taverne, nelle botteghe regnava la stessa atmosfera di languidezza morbosa. Clienti e inservienti si muovevano al rallentatore, quasi come in un sogno, abbozzando gesti che rimanevano sospesi a mezz'aria. Uno scrivano pubblico, seduto sotto le arcate del foro, fissava il suo calamaio come se fosse in procinto di trasformarsi in una tartaruga che se ne va a zonzo. Solo i bambini in tenera età sembravano in buone condizioni fisiche. Le guanciotte rosse e paffute, gironzolavano tra la folla di fantasmi sussurrando e
ridendo di nascosto, per paura, forse, di svegliare gli adulti. Quel contrasto aveva qualcosa d'irreale. «È evidente che non hanno paura di essere rapiti» osservò sarcastico il cane blu. Peggy si sentì ben presto a disagio in quelle strade popolate di spettri. Si domandò se le creature dai volti emaciati, dai tendini sporgenti, non fossero per caso fuggite dalle tombe di un cimitero. Sebastian procedeva a zig zag tra i capannelli di sonnambuli, prestando attenzione a non toccarli. «Ma perché non emigrano?» mormorò senza rendersi conto di parlare a voce alta. «Le loro ricchezze sono qui» gli rispose Peggy. «E poi sono schiavi della droga. Se andassero altrove rimarrebbero senza. Servallon afferma che lo stesso re non disdegna di farne uso: cura i suoi eterni attacchi di malinconia rimpinzandosi di sorbetti magici.» Adesso si trovavano ai piedi di una monumentale scalinata di marmo fiancheggiata da statue d'oro, ognuna delle quali rappresentava il re Walner adorno di attributi guerreschi. Peggy Sue rimase colpita dall'espressione sorniona del monarca, che invano avevano cercato di abbellire. Era un adolescente spilungone, dalle labbra sporgenti e la fronte prominente. Le sue membra, slanciate come quelle di un levriero, tradivano l'appartenenza a un clan aristocratico dal sangue rarefatto i cui principi, come i faraoni, si sposavano con le loro sorelle per preservare la 'purezza' della schiatta. Soldati armati montavano di guardia ai piedi della scalinata, stretti in una corazza dorata. «I guerrieri sembrano svegli» notò Sebastian. «Saranno allergici alla droga?» «Il regolamento delle coorti è assai rigido» mormorò Peggy Sue. «I soldati che si drogano vengono condannati a morte.» Il ragazzo prese dall'astuccio di pelle il falso salvacondotto ricevuto da Massalia, che li qualificava come ambasciatori terrestri, e si avvicinò a un legionario. Il soldato esaminò la pergamena di malavoglia. Il giovane provò a spiegare il motivo della loro presenza, ma il militare non gliene diede il tempo. «Il re non è qui» disse con tono sgarbato. «Provate con Ranuck, il gran visir. Forse vi riceverà, se stamattina è riuscito a svegliarsi!» Peggy fu colpita da quella mancanza di riservatezza nei confronti di un membro della guardia reale. Era evidente che i militari non rispettavano
più il loro sovrano e che oramai si consideravano al di sopra della legge. Un pessimo segnale! Rinunciando a discutere, Sebastian si lanciò all'assalto della scalinata di marmo bianco. Le guardie appostate sui gradini li osservavano in tralice, con alterigia non troppo dissimulata. La maggior parte esibiva una tenuta trasandata, delle armature incomplete od opache. Alcuni se ne stavano appoggiati allo scudo, in una posa che non aveva nulla di militaresco. «Non mi piace per niente» borbottò il cane blu. «Secondo me il vostro Walner è un fantoccio. Credete davvero che ci sia qualcuno che abbia abbastanza autorità su questi soldati per ordinare l'assalto alla bestia dei sotterranei?» «Andiamo a vedere questo Ranuck» sussurrò Peggy, che condivideva in pieno il parere dell'animale. Faceva fresco all'interno del palazzo, eppure trovarono diversi cortigiani accasciati su alcuni divani disposti intorno a vasche e fontane, come in preda a uno spaventoso torpore. Erano tutti magri come scheletri, e i loro occhi bruciavano di febbre. Un odore di aceto risaliva dai calici di vino abbandonati sui portavivande. Una serva portava via in tutta fretta un maialino farcito ancora intonso. «Se non possono mangiare nulla, nel giro di poche settimane moriranno tutti» osservò Sebastian. «Non ho detto che non possono mangiare nulla» lo corresse Peggy con un certo fastidio. «Alcuni si sono assuefatti al gusto di cenere dei cibi e si costringono a mangiarli per sopravvivere... altri hanno optato per soluzioni più strane. Perlomeno stando a quel che racconta Servallon. Ma su questo punto è abbastanza parco d'informazioni. Devo confessare di non aver capito fino in fondo... parla per allusioni. È come se avesse paura di dire la verità. Mi preoccupa.» S'interruppe al passaggio di un domestico. A un tratto, un uomo dalla barba unta uscì da un baldacchino. Era acconciato con una lunga tunica di seta nera ricamata d'oro ed emanava un forte profumo. Nelle sue narici erano incastonati dei rubini, e aveva le unghie ricoperte di una pellicola dorata. «Sono Ranuck, il gran visir» annunciò con voce grave. «Mi hanno avvisato del vostro arrivo. Cosa posso fare per voi?» La sua mano pingue prese il plico che gli porgeva Sebastian; l'uomo esaminò il salvacondotto e si accarezzò la barba.
«È un bel problema» mormorò con aria di confidenza. «Sua Maestà, il nostro beneamato re Walner, è assente. Si è recato sulla montagna per curarsi i nervi. Devo presentarvi a lui. So che siete famosi, ma girare un film su Kandarta è un'impresa delicata... Non posso concedervi l'autorizzazione alla leggera. È una questione di soldi, ovviamente, ma non solo...» Si fermò lì, dando l'impressione di riflettere e continuando ad accarezzarsi la barba dai grassi ciuffi intrecciati. «C'è un'unica soluzione» aggiunse poi. «Dovete recarvi all'accampamento reale, sulla montagna delle delizie, e ottenere un ordine firmato dalla mano del re. Gli esporrete il vostro progetto in prima persona. È da tempo che non abbiamo più il cinema qui a Kandarta, ma ci ricordiamo di cosa si tratta...» Peggy Sue e Sebastian si scambiarono un'occhiata d'intesa. Su una terrazza in alto, dal lato opposto dei giardini, avevano appena intravisto la curvatura di una formidabile balestra azionata da argani. Ranuck colse lo sguardo dei due ragazzi ed emise un sospiro. «È un'arma simbolica» fece con noncuranza. «La sua freccia è talmente arrugginita che si spezzerebbe sotto l'impulso della corda, ma continuiamo a esibirla, come se nulla fosse, per non allarmare i sostenitori di questa modalità di sorveglianza. Il generale Massalia fa parte dei sostenitori dell'autodifesa. Pensa sia possibile andare all'assalto della creatura del sottosuolo... il che, a mio avviso, è una pura e semplice assurdità. La Divoratrice - come la chiama irrispettosamente la gente del popolo - non è ostile. Noi beneficiamo della sua presenza. In fin dei conti i vantaggi superano gli inconvenienti. Massalia, come tutti i militari, pensa sempre e soltanto a ferite e bernoccoli. Vorrebbe diventare un eroe, salvare il pianeta... salvare Kandarta! Ma da quale pericolo, mi chiedo?» Aveva pronunciato quelle ultime parole con una smorfia divertita, come se reputasse quella precauzione inutile e, tutto sommato, un po' ingenua. «Ma dovrete essere stanchissimi!» esclamò prendendo Peggy Sue per un braccio. «Venite a dividere il mio pranzo, poi ci prepareremo a partire per la montagna delle delizie.» Gli adolescenti si lasciarono guidare. Erano affamati. Gli sforzi compiuti nel corso degli ultimi giorni avevano risvegliato in loro una fame da lupi. «Andiamo nella sala da pranzo» disse il gran visir battendo le mani. All'istante un esercito di servitori in grembiuli di pelle si precipitò sugli ospiti. Ranuck condusse i visitatori in una sala di marmo nero sprovvista di
finestre. Era una sala privata, una sorta di rotonda cinta da un porticato e illuminata da torce fissate su supporti di rame. Il luogo aveva un'atmosfera inquietante. Sebastian e Peggy Sue esitarono sulla soglia. Il ragazzo dovette fare uno sforzo per scendere i quattro gradini che conducevano all'interno della sala. Il pavimento era coperto da tappeti scarlatti, e dal soffitto scendevano paramenti rossi. Un tavolo di pietra scura occupava il centro della sala. Era un mobile monumentale, che doveva provenire da qualche tempio, e a Peggy Sue fece venire in mente gli altari sacrificali. Una decina di sedie imbottite di velluto cremisi erano allineate intorno al tavolo. Una servitrice era già all'opera disponendo coltelli e forchette presi da un cofanetto di pelle. Ranuck si accomodò, esortando i visitatori a fare altrettanto. Peggy Sue sistemò il cane blu su una sedia e si sedette a sua volta. Per darsi un contegno, raccolse il coltello appoggiato davanti a lei e ne saggiò il filo sul pollice. Era un'arma temibile, un bisturi adatto a una sala chirurgica che sembrava fuori luogo in una tavola da banchetto. La ragazza strinse i denti, in stato d'allerta. Quella sala buia, isolata, aveva qualcosa di minaccioso. Faceva pensare alla cappella segreta di un culto proibito o immorale. Un luogo sospetto. Le massicce porte d'ebano erano state richiuse, e solo la luce delle torce rischiarava adesso i convitati, accendendo scintillii sulle lame dei coltellacci. Obbedendo a un segno di Ranuck, le servitrici si affrettarono ad annodare al collo degli invitati dei grandi fazzoletti rossi che assomigliavano a bavaglini per adulti. Il gran visir fece lo stesso e, afferrando coltello e forchetta, poggiò i gomiti sul tavolo. Peggy si sentiva sempre meno a suo agio: aveva appena notato, sulla superficie del tavolo di pietra, dei solchi di drenaggio che ricordavano quelli tipici degli altari sacrificali. «Immagino che non abbiate ancora avuto il piacere di provare la deliziosa leccornia» disse Ranuck in tono di conversazione mondana. «Se deciderete di farlo durante il vostro soggiorno sulla montagna, sappiate che andrete incontro a certi disagi quotidiani.» «Come la carne che prende il sapore di vecchi mozziconi?» azzardò Peggy Sue. «Sì» confermò il visir. «È una delle principali conseguenze. A meno che non si amino i mozziconi, la cenere fredda, o la pipì di gatto, diventa difficile alimentarsi correttamente. Il che spiega lo stato di deperimento fisico che colpisce molta gente a Kromosa. Alcuni riescono a vincere la ripugnanza e a nutrirsi di cibi dal sapore atroce, ma sono rari. Per quanto mi riguarda, non ci sono mai riuscito.»
«Anche voi fate uso della droga delle montagne? Quella neve con cui si fanno sorbetti?» chiese stupito Sebastian. «Eppure sembrate in buona salute.» Il visir sorrise. La luce delle torce accendeva riflessi rossi sul suo faccione rubicondo. «Dipende dal fatto che ho optato per la seconda soluzione. C'è un tipo di carne che non prende il sapore di vecchio mozzicone quando la si mastica. Sì, un tipo di carne, una sola.» «E quale sarebbe?» domandò Peggy Sue, temendo di aver già intuito la risposta. «Carne umana» rispose Ranuck. «A patto di mangiarla viva, cioè la carne di un essere umano in buona salute, e che non rischi di morire durante l'operazione.» «Ma è terribile!» sibilò la ragazza. «Vi comportate come un cannibale!» «Niente affatto!» protestò Ranuck con un sorriso indulgente. «I cannibali mangiano le persone contro la loro volontà, mentre io mi avvalgo dei servizi di chi accetta di lasciarmi prelevare una parte della sua anatomia in cambio di una grossa somma di denaro.» «Cosa?» tuonò Peggy. «State affermando che c'è gente che accetta di farsi mangiare? Che vende la propria carne un tanto al chilo o alla fetta?» «Certo, e vi dirò di più: si battono a decine davanti alla porta del palazzo per beneficiare di questo favore, perché li pago bene, molto bene. E poi, cosa sarà mai un braccio o una gamba al confronto di una cassetta piena d'oro, che può farvi vivere in ricchezza fino alla fine della vostra vita? Non ho alcuna difficoltà a reclutarli, vengono da soli, supplicano i miei cuochi di sceglierli.» «I vostri cuochi...» ripeté Peggy, costernata. «Il termine è improprio» ammise Ranuck, «poiché non si tratta affatto di mettere a cuocere quei poveracci. Dopo una selezione molto severa e una visita medica, ci limitiamo a insaponarli e a immergerli in un bagno bollente profumato, questo per ammorbidirne la carne. Poi diamo loro il premio pattuito: dell'oro, dei gioielli, a volte un piccolo appezzamento di terra, e infine li portiamo qui... di loro volontà, ci tengo a sottolinearlo. Ovviamente accettiamo soltanto adulti. C'è troppa gente che cerca di venderci i loro bambini, ma io mi sono scagliato contro questo genere di pratiche, sono un uomo con un forte senso morale, io.» Peggy Sue dovette fare uno sforzo prodigioso per tenere a freno la collera. Con fare disinvolto, Ranuck schioccò le dita. Un paramento rosso si a-
prì, cedendo il passaggio a una giovane ragazza. Aveva una pelle bianca e grassa, cosce forti e braccia cicciottelle. Peggy ipotizzò che non avesse più di vent'anni. Un domestico prese per mano la nuova arrivata e la condusse al tavolo, dove la fece distendere. «Nel menu di oggi» annunciò con voce squillante, «Ranya, che ha appena compiuto 19 anni. Si è classificata al primo posto nella selezione di questa mattina.» La ragazza sembrava in uno stato di trance. «È stata anestetizzata» spiegò il visir. «Rimarrà cosciente ma non sentirà nulla. Il medico di corte le ha dato un filtro che la renderà insensibile. Quando avremo finito, curerà la ferita.» «Ma è ripugnante!» protestò Peggy. «No,» la corresse Ranuck «è ripugnante mangiare carne dal sapore di mozzicone. Cosa avete contro questa bella coscia rosea? Non la trovate appetitosa? Sa di timo, di coriandolo. Non siete obbligati a partecipare, state tranquilli, ma ci tenevo a mettervi al corrente, per provarvi che è possibile aggirare la 'maledizione dei vecchi mozziconi'.» «Cosa ne sapete?» disse Peggy. «Non sarà proprio questa, la maledizione? L'obbligo di nutrirsi di carne umana? Di divorare i propri simili come un selvaggio, di diventare un mostro? Non capite che la Divoratrice vi ha messo in trappola? Costringendo gli uomini a divorarsi tra loro, ottiene il risultato di diminuire il numero dei suoi nemici! Vi ha abbindolati...» Ranuck alzò le spalle. «Mia cara, le vostre discussioni filosofiche non riusciranno a togliermi l'appetito. Se voi non morite dalla fame, permettetemi almeno di saziare la mia.» E con gesto brusco conficcò la forchetta nella coscia di Ranya, che non batté ciglio. Sebastian abbozzò un passo verso la ragazza, ma il visir lo fermò con uno schiocco di lingua. «Suvvia, giovane, niente scandali. Dietro quel paravento ci sono dieci guardie che vi tengono d'occhio. Suppongo che non vorrete finire crivellato di frecce.» Aveva cominciato a tagliare la carne sotto l'anca. Ranya restava impassibile; sorrideva perfino, persa in un sogno interiore. «Per questo genere di alimentazione sono necessarie buone conoscenze anatomiche» commentò Ranuck. «Bisogna evitare di segare un'arteria con una coltellata maldestra. Non mi augurerei mai la morte di questa ragazzina, che diamine! Per chi mi prendete, per un assassino?»
Peggy Sue voltò la testa all'indietro. L'orripilante cerimonia sembrava interminabile, punteggiata da sospiri di golosità. Alla fine Ranuck batté le mani. «Chiamate il chirurgo» ordinò. «Ho finito, bisogna ricucire la bua a questa graziosa creatura. Potrà tornare, se lo desidera, la sua carne era eccellente.» Spinse all'indietro la sedia e si alzò. Una domestica gli ripulì le mani e il viso con un panno umido. «E adesso un bel riposino!» annunciò con gioia. «Niente di meglio per accumulare grasso. Ordinerò che preparino la carovana e che vi siano servite pietanze più... tradizionali!» Sembrava contento della propria battuta. Ranya uscì, sorretta da due domestici. Al momento di oltrepassare la porta, riprese coscienza e si impegnò in un inchino, per ringraziare il suo benefattore. «Avevo un buon sapore, signore?» s'informò con voce tremante di speranza. «Ma certo, certo, piccola mia» fece Ranuck con tono bonario. «Sono molto soddisfatto. Hai meritato la ricompensa.» Si congedò a sua volta, lasciando soli Peggy e Sebastian. «Anche io l'avrei assaggiata volentieri, quella Ranya,» fece il cane blu con aria imbronciata «ma nessuno me lo ha chiesto!» 17 La montagna delle delizie Dopo che Ranuck si fu ritirato, Peggy Sue uscì in giardino. Aveva bisogno d'aria fresca per riprendersi. Seguita dai suoi amici, esitò per un momento tra le fontane e i cespugli di rose violette. C'erano dei giovani che dormivano sparsi qua e là, accovacciati su banchi di marmo. Quando ci si avvicinava a uno di loro, si mettevano a tremare, aprivano gli occhi e poi risprofondavano nel sonno. Dal lato delle cucine, il cane blu scoprì diversi individui ricoperti di medicazioni che abbandonavano il palazzo con una cassetta d'oro sotto il braccio. Peggy Sue ipotizzò che si trattasse dei precedenti 'pasti' di Ranuck. Più lontano riconobbero Ranya; aveva una coscia bendata e contava delle monete d'oro, con un'espressione gioiosa sul viso. Quando Peggy le si avvicinò per farle delle domande, la ragazza dichiarò a mo' di scusa: «Nella città bassa siamo poverissimi. Per molti ragazzi è
molto più grave morire di fame che farsi mangiare un po'. Grazie all'oro così guadagnato, potranno lasciare la città per stabilirsi in campagna, dimenticando la minaccia della Divoratrice. È quello che sto per fare anch'io. Ranuck non vi ha mentito: non costringe nessuno a distendersi sul suo tavolo da banchetto. Sono venuta di mia iniziativa, con la speranza di essere prescelta perché la selezione è molto severa, non ve lo nascondo. Non è facile essere scelti. Se i poveri non sono caduti nella schiavitù della droga, è solo perché non hanno abbastanza denaro per pagarsi un sorbetto magico sulla montagna delle delizie! Per i ricchi, al contrario, i prezzi proibitivi praticati dai venditori dei sorbetti magici non costituiscono alcun problema. Ecco perché tutti loro sono caduti sotto il giogo della deliziosa leccornia. Sono diventati gli schiavi della neve rosa.» Ranya si congedò con un sorriso. Diventata ricca, adesso contava di abbandonare Kromosa per andare a stabilirsi in un posto senza troppi crepacci per trascorrervi giorni felici. I tre amici si sedettero su un banco di marmo e restarono lì, nel dolce profumo dei fiori, a rimuginare pensieri cupi. «Volete sapere cosa penso?» disse a un tratto Peggy Sue. «I militari come Massalia hanno un solo chiodo fisso: la guerra. Credo che abbiano preso l'abitudine di chiamare 'stregone' chiunque cerchi di comprendere il funzionamento della creatura del sottosuolo. Se si riuscisse a saperne qualcosa in più, forse sarebbe possibile avviare dei colloqui, capirsi, siglare una tregua... Ahimé, basta che uno mostri appena l'intenzione di stabilire un contatto con la Divoratrice, che viene considerato suo complice e subito messo all'indice. La famosa 'guerra contro i maghi', in realtà, non è consistita in altro che nell'eliminare tutti gli scienziati di Kandarta. Queste persone erano maghi non più di quanto lo siamo io o voi, ma avevano commesso l'errore di studiare la bestia un po' troppo da vicino... Sono pronta a scommettere che alcuni tra loro pensavano che sarebbe stato opportuno inviare un ambasciatore al centro del pianeta per prendere contatto con la creatura. I militari non volevano neanche sentir parlare di un trattato di pace. Hanno sterminato gli scienziati a centinaia, a migliaia. Ecco perché Kandarta è tornata al Medioevo. Ha perso tutte le sue conoscenze scientifiche. Per concludere, direi: diffidiamo di Massalia, ambisce a prendere il potere. Ha tutto l'interesse a mantenere il pianeta nell'oscurantismo10.» «Sono d'accordo» approvò il cane blu. «Prima di uccidere la creatura, sarebbe il caso di cercare di discutere con lei.» «Siete dei pazzi!» scattò Sebastian. «È un mostro, divora i bambini... Bi-
sogna eliminarla. Appena riuscirò ad avvicinarmi alla balestra le scoccherò una freccia in pieno cuore. Non vedo l'ora che crepi!» Prima che Peggy avesse tempo di controbattere, un servitore si avvicinò per avvisarli che la carovana era pronta a partire; il gran visir aspettava solo loro per partire alla volta della montagna delle delizie. Lo seguirono. Ranuck si era preoccupato di nascondersi all'interno di un carro anonimo ma addobbato in modo sontuoso. Le guardie a cavallo di scorta al convoglio portavano delle cappe di tela sopra le corazze, e le loro armi erano nascoste in sacche di pelle appese ai due lati della sella. La carovana si mise subito in marcia. Peggy Sue e i suoi amici, seduti sui cuscini di pelliccia del carro di Ranuck, guardavano scorrere il paesaggio dallo spiraglio della tendina al finestrino. Il convoglio aveva preso la direzione dei bastioni. Appena superata la saracinesca della grande porta, i cavalli accelerarono il passo. «Questo tratto di strada non è sicuro» spiegò Ranuck. «Hanno rapinato certi buongustai in viaggio verso la montagna, con le tasche piene d'oro.» «Dei buongustai?» si stupì Peggy. «Sì, preferiamo questo termine a quello di 'drogati'. Se non avete mai provato la deliziosa leccornia non potete capire.» Fuori, la landa grigia si estendeva sconfinata. I cavalli si incamminarono su una stradina di montagna. Appena salirono un po' in quota, un denso banco di nebbia calò sulla carovana e la temperatura scese. Peggy Sue e Sebastian rabbrividirono sotto lo sguardo beffardo di Ranuck, che indossava un cappotto d'astrakan. «Ci stiamo avvicinando alla cima» disse versandosi un bicchiere di vino caldo. «Presto vedrete la neve prodotta dal respiro della Divoratrice. Questo fenomeno tuttavia non ha nulla di magico: alzandosi verso il cielo, l'alito della creatura, caldo e carico d'umidità, si trasforma in fiocchi... dei fiocchi rosa che rotolano giù tappezzando la vetta di uno spesso strato di neve. Tutta la zona è sotto il controllo dei trafficanti. Hanno eretto delle protezioni di filo spinato sul perimetro della vetta e montano di guardia giorno e notte. Sono aggressivi: meglio non discutere con loro. L'aristocrazia di Kromosa va a gustare i sorbetti nel luogo di 'raccolta', perché non è possibile trasportare la neve fino in città. È sottile, farinosa, e basta che la temperatura salga di un grado per farla evaporare in pochi secondi. È impossibile trasportarla in pianura.» Sebastian scostò il telo di protezione per dare un'occhiata all'esterno.
Una sorta di alone rosa avvolgeva il picco, annegando la vetta della montagna in una nebbia irreale. Dei fiocchi sottilissimi volteggiavano nella bruma come una polvere impalpabile. Su entrambi i lati del sentiero, la neve formava uno strato compatto, immacolato, color rosa intenso. «È lo spettacolo più bello che io abbia mai contemplato» disse Ranuck, estasiato. «I campi delle leccornie.» Peggy Sue scorse un gruppo di bambini che raccoglievano la neve a manate riempiendo grossi secchi. Avevano le dita livide per il freddo, e i piedi avvolti in stracci. Quando il convoglio passò accanto a loro, Peggy vide che portavano delle museruole di pelle; delle guardie armate di frustini sorvegliavano ogni loro mossa. «Le museruole...» commentò il gran visir. «È per impedire che mangino la neve. Se li lasciassero fare, se ne rimpinzerebbero tutto il giorno, quei piccoli ingordi! È per il loro bene, no?» Peggy si domandò se Ranuck si facesse beffe di lei o se fosse serio. Nel dubbio, preferì tacere. Fuori, i bambini lavoravano febbrilmente nel tentativo di scaldarsi. Avevano le mani chiazzate dai geloni. La burrasca rosa li avvolgeva col suo velo dolciastro, conferendo alla scena un'atmosfera fatata. Peggy si stropicciò gli occhi, ma lo spettacolo restava lì. Una guardia, indispettita dalla curiosità della ragazza, abbozzò un gesto minaccioso. Faceva sempre più freddo, Sebastian e il cane blu sbattevano i denti. «Sono desolato» sbadigliò Ranuck. «Avrei dovuto raccomandarvi di portare dei vestiti caldi. La mia distrazione è imperdonabile!» Ma Peggy Sue era sicura che aveva agito intenzionalmente, per dare una lezione a quegli stranieri insolenti che avevano avuto l'ardire di rimproverargli le sue abitudini alimentari. «Potremmo avere una coperta?» gemette la ragazza le cui labbra avevano assunto un colorito violaceo. «Noi Terrestri soffriamo le basse temperature.» «Davvero?» fece Ranuck con aria distratta. «Non ho portato nulla, ma tra poco faremo una sosta allo chalet, dove avrete la possibilità di comprare delle pellicce.» Non sembrava minimamente intenzionato a disfarsi del cappotto o a condividere la coperta di lontra in cui si era avvolto. «Bevete del vino caldo» disse, beffardo. «Immagino che degli avventurieri come voi non temano la tempesta di neve, non è vero? Avrete affrontato tanti di quei pericoli... siete o no degli eroi?»
Dalle sue parole trapelava un'intenzione di scherno. Sebastian si precipitò su una tazza bollente e ne vuotò il contenuto in un solo sorso. Essendo a digiuno da un'eternità, il vino denso, dall'aroma di miele, gli fece girare la testa, e ricadde nel suo cantuccio, gli occhi persi nel vuoto. Che idiota, adesso si è ubriacato, pensò Peggy, irritata. Che deficienti, i ragazzi! «Appena avremo raggiunto la vetta» annunciò Ranuck «cercheremo di incontrare il re. Sua Maestà in questi ultimi tempi non sta molto bene. Questione di nervi, ovviamente. La presenza costante di questa bestia che cammina su e giù nel sottosuolo del pianeta, sotto i nostri piedi... E poi l'eterno dilemma: dobbiamo o non dobbiamo abbatterla scagliandole contro una freccia attraverso l'apertura di un crepaccio, per far cessare una volta per tutte questa minaccia? Basterebbe una faretra ben piazzata per trafiggerla, è vero... ma cosa succederebbe, poi? Come esser certi che, una volta annientata la Divoratrice, Kandarta non si trasformerebbe in un inferno? L'atmosfera del pianeta potrebbe dissolversi, la forza di gravità scomparire... e allora cominceremmo a galleggiare nello spazio, a morire asfissiati... Chi ci assicura che non sia la magia della creatura a rendere l'uovo abitabile? I maghi di Kromosa avevano delle intuizioni sull'argomento, ma il generale Massalia li ha fatti decapitare col pretesto che veneravano la Divoratrice. Inoltre, i buongustai costituiscono adesso una forza d'opposizione tenace che non esiterebbe un istante a ribellarsi... e a prendere il potere, se a qualcuno venisse in mente di privarli dei benefici dispensati dalla bestia.» Era evidente che parlando a nome dei buongustai non faceva altro che esprimere le proprie opinioni. Chi regnava a Kromosa? Walner, il re debole, o Ranuck il drogato, che a tavola si cibava di carne umana? «Insisto a pensare che Massalia sia un cattivo elemento» ribadì il gran visir. «Non ama gli animali... mette in giro calunnie sulla creatura del sottosuolo. Lo sapete, miei cari ragazzi, non bisogna mai credere a tutto quello che si sente dire in giro. Il popolo esagera le malefatte dell'animale. Ci sarebbero grandi vantaggi a collaborare con lui, ha molto da insegnarci. Se la smettessimo di perseguitarlo, sarebbe meno di cattivo umore e cesserebbe di prendersela con i marmocchi della povera gente!»
Arrivati sulla vetta, il convoglio si arrestò davanti a una palizzata di tronchi che, sviluppandosi su quattro lati, formava una specie di fortino. Delle piccole costruzioni si allineavano al limitare di quella stazione invernale dall'aspetto piuttosto rustico. Qui non ci sono osservatori affabili e cortesi, pensò Peggy, ma solo guardie armate fino ai denti. «Non siamo ancora giunti in cima» spiegò Ranuck. «La deliziosa leccornia si assapora sulla vetta della montagna. Dei carri riscaldati e ricoperti di cuoio portano i buongustai alla sommità, dove si trova la neve più pura, e anche la più cara. Vedrete, del resto, che ha un colore senza eguali.» Con gesto trascurato, indicò un capanno dove si potevano affittare delle pellicce. Peggy e i suoi amici saltarono giù dal carro mentre il visir ordinava ai suoi uomini di controllare le briglie degli animali. I giovani viaggiatori si diressero verso la baracca di tronchi. Peggy Sue tremava dal freddo; dovette prendere in braccio il cane blu, che era scomparso sotto uno strato di neve ed emetteva dei guaiti angoscianti. I fiocchi rosa s'incollavano alla pelle, gelando i tre amici fin dentro le ossa. Inavvertitamente, Peggy si passò la lingua sulle labbra, inghiottendo così le minute particelle di neve che si erano depositate attorno alla bocca. Provò una tremenda sensazione di vertigine e, allo stesso tempo, un attacco di golosità irrefrenabile. Fu breve ma intenso; credette quasi di svenire. «Attenzione» sussurrò all'indirizzo di Sebastian e del cane blu. «Bisogna stare in guardia dai fiocchi e proteggersi il viso con un fazzoletto. Se leccate la neve, come ho appena fatto io, una fame insaziabile si impossesserà di voi. Gli spacciatori devono conoscere bene questo fenomeno. Osservate le guardie: sono tutte mascherate!» Era vero. Nessuna sentinella aveva la bocca scoperta. Oltre a essere avvolti nella pelle di lupo, portavano tutti una specie di museruola. Sebastian imprecò e si coprì il viso con la mano. Solo il cane blu si ostinava a tirar fuori la lingua per leccare i fiocchi svolazzanti. «Quant'è buona!» guaiva. «Miam! È buonissima! Ne voglio ancora!» Nell'istante in cui stavano per raggiungere la tettoia dello chalet, Sebastian li trasse in disparte. Dopo essersi assicurato che nessuno li ascoltasse, mormorò: «Possiamo fidarci di Ranuck? A mio avviso apprezza un po' troppo la Divoratrice! Credo che Massalia abbia ragione, è davvero il capo degli amici della piovra, la difende a spada tratta. Non accetterà mai di farci usare
la balestra: dovremo fare a meno del suo consenso.» Vedendo l'incertezza sul viso di Peggy Sue, aggiunse: «È evidente che la nostra missione va contro gli interessi di quest'uomo. Temo che ci abbia attirato in una trappola. Potrebbe benissimo avere in mente di eliminarci... Una volta oltrepassata la palizzata, saremo nelle mani degli spacciatori di sorbetti.» Sebastian sapeva di essere abbastanza forte da potersi battere con dieci uomini, ma temeva qualche insidia; inoltre la storia della neve deliziosa gli incuteva un certo timore. «Quell'uomo non m'ispira fiducia» scandì con forza. «Non ci attaccherà direttamente, lo farà in modo astuto.» «Puoi rimanere qui se hai paura» propose il cane blu. «Io ho voglia di arrampicarmi in cima per mangiare un po' di quei meravigliosi sorbetti.» «Imbecille che non sei altro!» sibilò il ragazzo. «Piccolo botolo ringhioso! Hai mandato giù tre fiocchi e sei già dalla parte di Ranuck. Chissà cosa succederà quando ne avrai mangiato un bicchiere intero!» Per porre fine alla lite, Peggy spinse la porta dello chalet. Una vampata di calore benefico le diede il benvenuto. L'interno puzzava di unto, grasso e pelliccia mal conciata. Un grosso braciere crepitava in un angolo, proiettando un fulgore rossastro su un bancone ingombro di pellame. La ragazza si avvicinò e affondò le mani nel cumulo di pellicce. Un ometto ossequioso uscì dall'ombra per decantare la qualità della merce. Peggy giudicò le pelli assai a buon mercato, e ne rimase sorpresa perché sulle prime aveva pensato che avrebbero cercato di imbrogliarli senza pudore. Il commerciante aveva forse identificato La vettura del visir? Sperava probabilmente di ingraziarsi i favori del Primo ministro. Sebastian scelse una cappa d'orso, Peggy Sue lo imitò. L'affabile negoziante procedette a rapidi ritocchi. Aveva grande maestria e accomodò gli abiti in meno di dieci minuti. Peggy prese tre monete dalla borsa che Massalia le aveva affidato al momento della partenza per la missione. Si sentiva meglio. Lasciarono la casupola, imbacuccati nelle loro pellicce e al riparo dal vento. Ritornarono al carro di Ranuck sotto gli sguardi beffardi dei soldati, divertiti dalla loro tenuta. Sebastian si appostò nel retro della vettura, in maniera da poter saltar giù in caso di necessità. Nulla provava che il re li aspettasse al termine del viaggio. Ranuck aveva potuto ordire quel tranello alla vista del falso salvacondotto. Forse ha intuito le nostre intenzioni, pensò il giovane. Ci ha portati qui per allontanarci il più possibile dalla balestra.
Il convoglio si rimise in marcia, oltrepassando la palizzata. Dall'altro lato, la nebbia era ancora più densa e attutiva i rumori. Si aveva come l'impressione di muoversi in un paesaggio tappezzato di cotone rosa. Peggy Sue provò un fugace malessere. Lo stomaco vuoto la torturava. E poi prendeva sempre più coscienza che i fiocchi di neve ingeriti inavvertitamente avevano acuito il suo appetito in maniera anormale. Non aveva mai avuto così fame. Immagini insolite sfilavano nella sua mente. Rivedeva Ranuck, seduto a tavola davanti al suo orrendo pasto, mentre tagliava senza esitazione la coscia di Ranya distesa sul tavolo. Ancor più strano, quella rievocazione non la disgustava più come prima. Si scosse per cacciare via l'allucinazione, ma la paura rimase come conficcata all'altezza dello sterno, una paura di cui non distingueva ancora pienamente i contorni. La vettura sobbalzava sulle pietre del sentiero. Dalla bruma emersero infine dei carri foderati di cuoio, disposti in cerchio. In quel punto la neve era di un rosa profondo, quasi rosso pallido. Dei servitori, muniti di museruola, riempivano di neve bicchieri d'oro che poi portavano fino alle vetture parcheggiate. Mani traboccanti di anelli uscivano allora dalle tendine per impossessarsene avidamente. La buona società di Kromosa era tutta lì, intenta a gustare la deliziosa leccornia che cadeva dal cielo. Alla vista di quella scena Ranuck si agitò sul sedile. Sudava, e le sue narici fremevano come quelle di un leone che fiuta la preda. «La neve migliore,» disse con voce cupa «il banchetto dei banchetti. Nettare degli dèi. Dopo averla assaggiata, le pietanze più rare vi sembrano di punto in bianco più nauseabonde di un mucchio di escrementi di capra.» Sebastian scivolò fuori dal carro. Una giovane donna avvolta nella pelliccia errava come una sonnambula nel paesaggio innevato, con un'espressione beata dipinta sul viso che le deformava i lineamenti. Aveva le labbra violacee e ansimava, ridacchiando stupidamente. Una serva, spaventata, cercava di farla risalire sulla vettura. «A volte camminano fino a quando il freddo non li congela» disse Ranuck. «Li ritrovano in un fossato, rigidi come statue.» «Ma è terribile» insorse Peggy. «Taci, piccola idiota!» tuonò Ranuck. «Non puoi capire. È una morte meravigliosa, al contrario.» Scostò bruscamente la tendina e aggiunse:
«La vettura del re è laggiù.» Non si controllava più: moriva dalla voglia di immergere la bocca nella neve. A dispetto del freddo, aveva la fronte grondante di sudore. Saltò fuori dalla vettura. Peggy lo seguì malgrado la ripugnanza che provava ad affondare i piedi nella neve. All'esterno, la nebbia aveva creato un'atmosfera crepuscolare. La tempesta di neve rosa ricopriva la terra e i carri come un tappeto incredibilmente soffice. La ragazza ebbe la sensazione di spostarsi in un universo di panna montata. Il paesaggio assomigliava a una pasticceria, e quell'incantesimo faceva venir voglia di mordere la corteccia degli alberi, che le sembravano fatti di cioccolato. «Il carro del re è lì!» ansimò Ranuck camminando sulla neve. Peggy Sue annuì col capo senza rispondere. Era intorpidita dal freddo e dalla meraviglia. Mi sono smarrita sulla superficie di una torta gigantesca... una torta gigantesca, si ripeteva. Avrebbe voluto reagire, riscuotersi, ma uno strano torpore si era impadronito del suo cervello. I fiocchi continuavano a incollarsi sulle sue labbra, a sciogliersi in bocca... Più avanzava, più la montagna, il terreno, gli alberi le apparivano come montagnole di zucchero, crema, pasta di mandorle. Il vento aveva un aroma di miele, i sassi scricchiolavano sotto le suole delle scarpe come pepite di cioccolato. Sto impazzendo, disse tra sé, sto impazzendo di golosità! Avevano raggiunto la carrozza reale presidiata da due centurioni imbacuccati in pelli di lupo. Ranuck scostò il telone di cuoio e si issò sul predellino. L'interno della vettura era rivestito di pellicce e riscaldato da una stufa di ceramica. Un giovane esile si agitava su un letto ingombro di cuscini di seta. Delle serve si affannavano ad asciugargli il sudore che grondava copioso sulla sua fronte. Peggy riconobbe Walner dalle statue che aveva visto nei giardini del palazzo reale. Occhi da cui trasparivano i riflessi della demenza illuminavano una grossa testa coperta da sottili capelli di colore giallo cenere. Si dimenava cercando di sottrarsi alle attenzioni delle serve, brandendo un cucchiaio d'oro e una tazza vuota. «Ancora!» urlava con voce da bambino capriccioso. «Voglio un altro sorbetto, presto!» Una donna si precipitò su di lui, portando una tazza di neve rosa. Walner ci affondò subito il cucchiaio. Aveva le labbra violacee per il freddo, ma continuava a sudare come se avesse la febbre. Le vene sulle tempie pulsa-
vano all'impazzata e dei brividi lo percorrevano dalla testa ai piedi. «Aaah, Ranuck!» ansimò mandando giù un grosso boccone di gelato. «È nettare degli dèi. Mio caro Ranuck, è come mangiare un angelo, un cherubino cotto a puntino. Si scioglie in bocca... È questo, sì, un angelo, un giovane angelo arrostito su uno spiedino, o meglio ancora una sirena dalle squame rosee. Una piccola sirena. Hai mai mangiato un angelo, Ranuck? Una sirena?» Adesso piangeva, al colmo della gioia. Aggiunse: «È... è la carne di un animale così fragile che muore appena lo si tocca. Un soffio d'aria basta a cuocerlo, e si scioglie sulla lingua appena lo si porta alla bocca. È dolce, cremoso come un fantasma battuto a neve. Sì, è un sorbetto di fantasma, una crema di spettro.» Aveva già svuotato la tazza e tendeva le mani per averne un'altra. Ranuck gli s'inginocchiò accanto e tentò di spiegare il motivo della visita, ma i suoi occhi non mollavano le tazze di gelato poste su un vassoio d'argento dorato ai piedi del letto, e le sue spiegazioni s'ingarbugliavano. Peggy Sue capì che doveva interromperlo prima che smarrisse il filo del discorso: «Vorremmo girare un film sul vostro pianeta» disse mentendo. «L'ambientazione è meravigliosa, avremmo bisogno di visitare il palazzo per fare qualche sopralluogo...» Ma Walner non l'ascoltava; lo sguardo fisso, sembrava perso nella contemplazione di un banchetto immaginario. «Delle gallette di luna alla marmellata d'argento» balbettò. «Bignè di stelle, mousse di nebbia alla vaniglia, iceberg all'anice, banchisa alla menta.» Peggy Sue allungò una mano per scuoterlo, ma Ranuck si frappose. «Sei pazza» disse scandalizzato. «È il re, non hai il diritto di toccarlo. Bisogna aspettare fino a domani: all'alba avrà smaltito la sbornia.» «Mangia, mio caro Ranuck» farfugliò Walner spingendo verso la bocca del visir un cucchiaio di sorbetto. «È confettura di vulcano, marmellata di sole, accende lo stomaco! Guarda, mi sembra di brillare come un lampione, il mio stomaco deve essere diventato trasparente!» Proruppe in una risata folle, mentre il visir mandava giù golosamente il cucchiaio di neve così ossequiosamente offerto. Peggy Sue si fece in disparte, scoraggiata. Walner era completamente incapace di intendere e di volere, e di lì a poco anche Ranuck l'avrebbe raggiunto nel suo delirio. Kandarta era dunque governata da irresponsabili? «Chi sono questa ragazza e questo cane blu?» chiese il re soffocando un
singulto imbecille. «È una sorpresa del tuo capo cuoco? Che si avvicinino, voglio assaggiare la loro coscia! La ragazza sembra molto tenera.» Aveva le lacrime agli occhi dalle risate e le sue costole sporgenti sobbalzavano in preda agli spasmi. Le serve si avvicendavano per asciugargli il sudore. Peggy batté in ritirata, furiosa. Quanto tempo sarebbe andata avanti quella follia? Senza neppure darsi la briga di salutare il monarca, saltò giù dalla carrozza per raggiungere Sebastian. Quando toccò terra ebbe la sensazione di penetrare la crosta di una meringa fresca e un attacco di golosità incontrollabile s'impadronì di lei. Sebastian, tremante dal freddo, le chiese subito: «Nulla da fare, vero? Come temevo.» «Sono in piena crisi» bofonchiò la ragazza, «questa stramaledetta neve gli ha scombussolato il cervello. Credono di mangiare angelo arrosto. Deve essere sempre così. La neve provoca delle allucinazioni gastronomiche. È come se partecipassero a un banchetto favoloso con la possibilità di mangiare ogni ben di dio senza il minimo sforzo. Sembra tutto così bello che poi non riescono più a mangiare cibi normali. Hanno l'impressione che abbiano tutti un sapore abominevole.» «Che si può fare?» le domandò Sebastian. «Il tempo passa.» «Non possiamo far altro che aspettare,» replicò seccamente Peggy Sue «nella speranza che la loro crisi di follia termini al sorgere del sole. Per adesso dormiamo.» Salì sul carro, si avvolse nel cappotto e chiuse gli occhi. Sebastian la imitò. In realtà Peggy non dormiva. Non le piaceva quello che stava sentendo dentro di sé: una fame da lupo che faceva del suo stomaco un pozzo senza fondo in attesa di cibo. I pochi fiocchi che aveva mangiato erano bastati a scatenare in lei una follia analoga a quella di cui soffrivano Walner e il suo gran visir? Accarezzò il cane blu, rannicchiato contro le sue ginocchia. Dal loro arrivo all'accampamento, l'animale non aveva cessato un solo istante di ingozzarsi di fiocchi. Aveva lo sguardo spento e non si teneva più sulle zampe. «Come ti senti?» gli domandò Peggy. «Hai un'aria strana.» «Benissimo» balbettò il cane. «Quelle farfalle rosa sono deliziose.» «Quali farfalle?» «Quelle lì... le... le farfalline che cadono dal cielo...» Peggy Sue capì subito che alludeva ai fiocchi svolazzanti. «Non devi più mangiarli!» gli ordinò. «Stai impazzendo!»
«Ma no...» scoppiò a ridere l'animale. «Mi sento in ottima forma... E poi, se ne mangerò abbastanza mi usciranno le ali e potrò volare con loro. Me lo hanno detto... dovresti provarci anche tu... sono troppo buoni.» Tutt'a un tratto sprofondò in una sorta di stupore catatonico, da cui Peggy Sue non riuscì a sottrarlo. Incapace di trovare il sonno, saltò a terra e si mise a camminare intorno ai carri. La nebbia rosa l'avvolgeva con le sue sferzate di neve farinosa, trafiggendole il viso di punture d'ago. La ragazza si coprì la bocca. Intorno a lei la tormenta di neve depositava sul terreno mucchietti di zucchero filato che ricordavano quelli delle sagre paesane. Peggy fece qualche passo; la fame le scavava un buco nello stomaco, una fame anomala che non aveva mai provato in tutta la sua vita. È l'effetto della neve rosa, pensò. Non saremmo mai dovuti venir qui, è stato un errore. Ranuck sapeva cosa sarebbe successo. Spera che anche noi cediamo al fascino dei sorbetti. Vuole che diventiamo suoi complici. Peggy avanzava in mezzo alla tormenta. I suoi occhi seguivano meccanicamente l'andirivieni delle schiave intente a riempire le tazze d'oro con la neve depositata sul terreno. La golosità la travolse, facendole venire l'acquolina in bocca. Bisogna resistere, pensò, domani lasceremo la montagna e il sortilegio cesserà. Dobbiamo resistere fino a quel momento. Sì, resistere. Si scosse. Il freddo penetrava nella sua mantella di pelliccia e le ghiacciava le mani. Resistere, si ripeteva, non cedere alla tentazione. Ma la malia era potente, terribile... e la neve sembrava così buona, così attraente. La nebbia scendeva, le raffiche di vento trascinavano adesso meno fiocchi. La Divoratrice si stava addormentando e il suo soffio non era più abbastanza potente da salire fin sulle nuvole. In pochi istanti la neve avrebbe cessato di cadere sulla montagna delle delizie. Peggy Sue camminò fino a un promontorio che dominava la città. Adesso che la bruma si diradava, si distinguevano le cupole dorate di Kromosa. In basso, gli ultimi raggi del sole calante illuminavano le due parti in cui era divisa la città. Le volute di fumo azzurrognolo sulle rovine del ghetto dei poveri e, dall'altro lato dei bastioni, la città di marmo immacolato, con le sue fontane, le sue statue... e i suoi cannibali vestiti di mantelle di seta! Il pensiero le andò a Goussah, che correva laggiù, e si sentì pervadere dalla tristezza. In quel preciso istante, un corvo col becco di ferro le sfiorò una guancia
con un'ala azzurrognola. Lei sussultò. Detestava quegli uccelli, la cui apparizione era sempre un presagio di cattivo augurio. Un secondo corvo si mise a volteggiare nel cielo, poi un terzo. Si libravano in cerchio, senza lanciare alcun grido, come se stessero scrutando la montagna alla ricerca di qualcuno. Un simile comportamento non lasciava presagire nulla di buono. Peggy sentì una fitta al cuore: mi stanno sorvegliando? Avvertendo una presenza alle sue spalle, si voltò indietro. Il gran visir era lì, con un sorbetto in mano. Glielo offrì. Incapace di resistere, la ragazza lo accettò. «Mangialo, mia cara bambina» disse Ranuck con tono sussiegoso. «Appena il tempo diventerà più clemente comincerà a squagliarsi, e ti sarai lasciata sfuggire un'ottima occasione di concedertene un po'.» Peggy immerse il cucchiaino d'oro nella tazza. Sentì che la bocca le si riempiva di saliva. «Basta con le sciocchezze» dichiarò a un tratto il gran visir con tono perentorio. «Andiamo al punto... Unitevi a noi. Diventate anche voi amici della piovra. Ne trarrete grandi vantaggi. Siete celebri, questo ci sarà utile. Immaginate... Potremo costruire dei parchi tematici qui, nelle vicinanze di Kromosa. Ognuno consacrato a una delle vostre avventure. Ci sarà il giardino delirante del Sonno del demonio, le balene sputasassi dello Zoo stregato, e così di seguito. Sarà facile da realizzare. I bambini si fidano di voi, vi amano... verranno a frotte.» «E a quel punto cosa faremo?» domandò Peggy portandosi un cucchiaio alla bocca. «Allora basterà condurli in scenari truccati, dove sarà ad attenderli la Divoratrice con i suoi tentacoli. Li potrà rapire facilmente, senza dover aver a che fare con porte blindate, gabbie, dormitori refrigerati.» «Vorreste che fossimo noi stessi a fornirle il suo pasto, vero?» «Sì, lei soffre, lo sapete... i contadini sono sempre più sospettosi. Oramai ha sempre più difficoltà ad alimentarsi adeguatamente. Bisogna aiutarla, se no ci punirà, cesserà di portarci la deliziosa leccornia! Non avremo più alcuna ragione per vivere...» Peggy mandò giù qualche briciola di neve rosa. Sapeva che non avrebbe dovuto, ma era più forte di lei, non poteva trattenersi. Rabbrividì dalla testa ai piedi, ed ebbe l'illusione che anche i suoi capelli cambiassero colore di minuto in minuto. Non aveva mai mangiato una cosa così buona, era meglio di tutte le cioccolate del mondo, era... era... indescrivibile! «Sento che ci intendiamo» ridacchiò Ranuck notando che la sua interlo-
cutrice era ormai sotto l'influsso della neve rosa. «Dobbiamo aiutare la creatura del sottosuolo. È sola contro tutti. Rappresenta il futuro. Con il vostro aiuto la salveremo.» Peggy annuì. Non ci vedeva più molto chiaro. Più rifletteva, più questa idea dei parchi tematici le sembrava buona... I bambini non avrebbero sospettato nulla; una volta scomparsi, la direzione del parco si sarebbe limitata a esprimere la sua indignazione verso la Divoratrice, che non rispettava nulla, neanche il parco Peggy Sue e gli Invisibili, e il gioco sarebbe stato fatto! «Ne riparleremo una volta di ritorno al palazzo» mormorò Ranuck. «Vi presenterò agli altri amici. Organizzeremo una piccola cerimonia per festeggiare il vostro ingresso nella nostra associazione. Sono molto soddisfatto di questa conversazione.» Dopo un ultimo sorriso, girò i tacchi e scomparve tra i fiocchi di neve. Peggy rimase immobile, in preda a un senso di vertigini. Non riusciva a dominare i suoi pensieri. Si rese conto che stava ridendo da sola. Sebastian le si parò davanti all'improvviso e provò a scuoterla. «Che ti succede?» gridò. «Hai un'aria da pazza.» Notando la tazza d'oro che la ragazza teneva ancora in mano, aggiunse: «Hai mangiato questa schifezza? Ma ti ha dato di volta il cervello?!» «Ho... ho trovato il modo di restare al palazzo...» farfugliò Peggy, a capo chino. «Faremo finta di allearci agli amici della piovra, così potremo circolare in tutta libertà e accedere alla balestra... geniale, no?» «Sì...» bofonchiò il giovane, con aria scettica. «Ma se continui a mangiare questa porcheria finirai per diventare davvero una di loro!» 18 La confraternita dei mostri Rientrarono al palazzo. Il re Walner uscì dalla vettura sorretto dai suoi servitori. Rideva in modo un po' sciocco e, di passaggio, fece una pernacchia al cane blu. Dovettero sorreggerlo fino in cima alla scalinata d'onore. «Sua Maestà è molto stanca» fu la diagnosi di Ranuck. «Va a distendersi un po' in camera.» Bel colpo per te, vecchio furfante! pensò Peggy. In questo modo potrai regnare al suo posto e organizzare le cose a tuo piacimento. «Potete considerarvi miei invitati» annunciò il gran visir con un'occhiatina. «Un domestico vi condurrà alle vostre camere, parleremo dei nostri
progetti questa sera stessa.» Peggy Sue e Sebastian scoprirono che erano stati loro assegnati degli appartamenti principeschi, pieni di sete, statue e oggetti d'oro d'ogni sorta. Il ragazzo uscì sul balcone per verificare se era possibile, arrampicandosi sulla facciata, issarsi fin sulla terrazza dove era posizionata la balestra gigante. «Sembra difficile» constatò, deluso. «La parete di marmo è liscia, non ci sono punti d'appoggio. Sarà necessario passare dall'interno.» Fingendo di visitare il palazzo, i giovani cercarono di avvicinarsi alla terrazza. Ma ancora una volta dovettero fare dietro front: il posto era presidiato da sentinelle che intimarono loro di tornare indietro, se non volevano finire infilzati. «Cominciamo male» bofonchiò Sebastian. «Dobbiamo escogitare uno stratagemma...» Degli schiavi servirono un pasto succulento nei loro appartamenti, ma Peggy Sue e il cane blu non riuscirono a mangiarne neanche un po'. «È disgustoso,» singultò l'animale «la carne ha un sapore di vecchio mozzicone.» «È vero,» fece Peggy «sembra di masticare cenere fredda...» Sebastian sbatté i pugni sul tavolo. «Ecco cosa succede quando ci si droga!» li rimbrottò. «Avete mangiato la neve rosa, e questa è la punizione! Nel giro di qualche tempo finirete per sedervi a tavola con Ranuck, diventerete dei cannibali.» «No... no...» farfugliò Peggy Sue. «Vedrai che passerà. Non abbiamo mangiato tanta neve al punto da rimanerne intossicati irrimediabilmente.» «Questo è ciò che credete voi» s'infuriò il ragazzo. «Siete caduti in pieno nel tranello del gran visir. Ecco perché ci ha portato sulla montagna delle delizie. Sapeva che una volta assaggiata la neve sareste diventati suoi complici.» «Passerà, vedrai» ripeté Peggy, pallidissima. «Non lo farò più.» «A me invece non dispiacerebbe affatto assaggiare una coscia umana» ammise il cane blu. «D'accordo, farò come Peggy...» Ranuck non tardò a ripresentarsi. Si era appostato dietro le colonne di marmo del palazzo per spiare a lungo Peggy Sue e il cane blu. Sa che abbiamo mangiato la neve, si disse la ragazza. Non attende altro
che la deliziosa leccornia faccia il suo effetto... Emergendo dall'ombra, il gran visir avanzò verso di loro. Sorrideva con aria complice e si esprimeva sussurrando, come se volesse escludere Sebastian da una discussione tra 'amici'. «È dura alimentarsi 'normalmente', quando si è stati iniziati ai prodigi della neve, vero?» sussurrò. «Mi sembri dimagrita.» Peggy Sue s'inquietò; era da due giorni che cercava di nutrirsi di frutta e pane, ma qualsiasi cibo aveva assunto un orribile sapore di mozzicone. Aveva vomitato due volte nei giardini, dietro i cespugli di rose. «Perché insistere?» si stupì Ranuck. «Sarebbe molto più semplice venire a mangiare alla mia tavola. Ti invito volentieri. Il mio cuoco mi ha avvisato che la selezione di oggi è eccellente. Delle belle ragazze sane e meravigliosamente paffutelle. Fremono d'impazienza all'idea di essere mangiate da dignitari d'alto rango.» Si asciugò il sudore della fronte con un fazzoletto profumato e disse, con voce a stento udibile: «Sarebbe ora che passassimo a discutere di cose serie. Ti verrò a prendere stasera per presentarti agli amici della piovra. Ti spiegherò in cosa consiste la cerimonia. Una volta che avrai accettato di unirti a noi non potrai più tornare indietro.» E con un sorriso enigmatico si eclissò, lasciando la ragazza al colmo dell'inquietudine. «Stai giocando col fuoco» imprecò Sebastian quando gli riferì la conversazione. «Quella è gente che non scherza, possono agire sulla tua mente, trasformarti... Se ti metterai a frequentarli finirai per diventare loro schiava senza neanche accorgertene.» «Sto solo cercando di guadagnare tempo» si difese la ragazza. «Mentre io faccio finta di stare al gioco, tu vedi di trovare un modo per arrivare alla balestra. È tempo di finirla, non vedo l'ora di tornare a casa.» «Non è così facile» ammise il ragazzo. «L'unica via per accedere alla terrazza è scalare la facciata, ma è liscia come il vetro e gli spigoli dei muri sono così taglienti che mi segherei le dita.» Il gran visir fece la sua comparsa al calar della notte. Era vestito con un abito di seta nera ricamata di stelline dorate. Così conciato aveva più che mai l'aria di un orco. «Vieni, piccola,» disse «ti presenterò alla confraternita. Ci sono dei grandi vantaggi a diventare amici della creatura.» Appoggiando la mano sovraccarica di anelli sulla spalla di Peggy Sue, la
condusse attraverso il dedalo di corridoi fino a una cripta la cui porta era presidiata da guardie munite di asce. Peggy e il cane blu si intrufolarono nella sala al seguito del visir. Erano lì ad attenderli un centinaio di congiurati, col viso nascosto da passamontagna a forma di cono. Attraverso i fori delle maschere, i loro occhi scrutavano la ragazza e il cane con diffidenza. In fondo alla cripta, un frammento di tentacolo mummificato era poggiato su un altare di marmo, come un idolo. «Ecco come tutto è iniziato» spiegò Ranuck. «Un giorno, questo pezzo di pseudopodo è stato tranciato a metà da una guardia che l'aveva visto spuntare fuori da una crepa. Anziché sbarazzarmene, non so perché, mi è venuto in mente di tagliarne una fetta e assaggiarla.» Peggy si sentì rivoltare lo stomaco e dovette compiere uno sforzo sovrumano per non vomitare sulle babbucce del gran visir. «Buffo, no? Senza la mia inguaribile golosità, non avrei mai stabilito un contatto con la creatura. Avrei continuato a credere alle favole raccontate dal generale Massalia.» «Avete avuto un contatto?» chiese l'adolescente, sorpresa. «Sì: quando mangi un frammento della Divoratrice senti la sua voce. Ti risuona dentro, tutta per te... ti spiega tutto. Ti rassicura, ti dice quello che è opportuno fare. Tutti gli amici della piovra devono assaggiare una fetta di tentacolo al momento della cerimonia di iniziazione.» «Una fetta soltanto?» bofonchiò il cane blu. «Ma io ne voglio almeno sei! Sembra un calamaro, ha un'aria che non mi dispiace, soprattutto se fosse possibile aggiungerci un po' di salsa piccante... avete previsto la salsa piccante, spero!» Peggy gli tirò un orecchio per farlo tacere, ma l'animaletto continuava a leccarsi i baffi. «Una volta terminata la cerimonia» continuò il visir «è impossibile tornare indietro. La creatura è dentro di te. Vede attraverso i tuoi occhi, sente attraverso le tue orecchie. Sei il suo ambasciatore sulla superficie del guscio... qualche imbecille dice: la sua spia.» «E che cosa si ottiene in cambio?» domandò la ragazza. «Chi mangia la sua carne diventa immortale» ansimò Ranuck. «Si accresce l'intelligenza, si capiscono cose che sfuggono alla comprensione dei comuni mortali. E poi... c'è la deliziosa leccornia!» Peggy avanzò di una decina di passi per esaminare il resto del tentacolo.
Dava l'idea di un'enorme lumaca di pelle rattrappita. Attorno all'altare era stato posizionato un tavolo. Dei piatti di marmo nero sembravano solo in attesa che qualcuno vi deponesse qualche pezzo dell'orribile lumacone. «Ne mangiamo a ogni riunione» si affrettò a spiegare Ranuck, «per fortificare i nostri poteri. Se accetterai di unirti a noi, sarai nostra ospite. La bestia sarà felice di accoglierti nelle nostre fila. Non dovrai far altro che domandarle quello che vuoi, te lo concederà. Tra di noi c'è chi vuole poter volare, o rendersi invisibile, attraversare le pareti o sentire quello che si dice in un raggio di trenta chilometri...» Le virtù del perfetto spione, rimarcò Peggy tra sé. Scrutò i cospiratori mascherati che la circondavano. Forse s'illudono soltanto di possedere quei poteri, pensò. La Divoratrice li inganna per manipolarli meglio. «Certo,» mentì «l'idea mi alletta...» «Non esitare troppo» l'avverti il gran visir. «Adesso che ti abbiamo svelato la verità non potremo farti andar via se non diventerai una dei nostri. Peraltro ho la sensazione che quel ragazzo, Sebastian, non ci ami molto... Avresti qualcosa in contrario se decidessimo di sbarazzarci di lui? Dopotutto, è solo un personaggio secondario, potresti benissimo continuare le tue avventure senza di lui...» «Cercherò di convincerlo a unirsi a noi» farfugliò Peggy. «In effetti non ho problemi a menarlo per il naso. Farà quello che gli dirò. E poi è fortissimo, potrebbe esserci utile.» «Se lo dici tu» disse Ranuck con un'alzata di spalle. «Comunque riflettici sopra. Domani sera siederai a questa tavola e mangerai il tuo primo pezzo di tentacolo. Allora diventerai una di noi, e i miei bravi amici non avranno più bisogno di indossare queste maschere. Ricorda: una volta firmato il patto, vietato tornare indietro. La creatura s'insedierà in te per l'eternità. Sarà nella tua testa, nel tuo corpo, guiderà la tua mente e ogni tuo singolo gesto. Non sarai mai più sola.» «Che bello» disse Peggy con un filo di voce, sentendosi svenire. «Non vedo l'ora...» Abbandonò la cripta rivolgendo sorrisi ai congiurati. «Ehi!» protestò il cane blu. «Ce ne andiamo, di già? Ma non abbiamo mangiato nulla! Aveva davvero un aspetto appetitoso, quella lumaca affumicata.» Le porte d'acciaio si richiusero alle loro spalle e le guardie si rimisero in
posizione, le asce in mano. Peggy si affrettò a ritornare ai suoi appartamenti, dove l'attendeva Sebastian. Gli raccontò tutto da cima a fondo. «Brutta situazione» commentò il ragazzo. «Ci siamo cacciati nella tana del lupo. Se ti rifiuti di diventare loro complice, ci uccideranno... o peggio, ci mangeranno!» «Bisogna passare all'azione» decise Peggy. «Non abbiamo più scelta, dobbiamo impossessarci della balestra.» «Ci ho riflettuto sopra, e non c'è molta scelta» sospirò Sebastian. «L'unica soluzione è attaccarli, prendendoli di sorpresa. Le guardie non sospettano di noi, ci credono dei ragazzini qualunque. Non conoscono la mia forza. Posso buttarli giù senza alcun problema. Non avranno nemmeno il tempo di capire cosa succede.» «Non esagerare» lo calmò Peggy. «Sai benissimo che la tua forza erculea dura al massimo tre minuti, dopodiché ti addormenti all'istante per lo sforzo. E se crollerai a terra ti trafiggeranno con le loro lance.» «Farò in fretta» la rassicurò il ragazzo. «Una volta abbattuta la Divoratrice, penso che gli amici della piovra perderanno tutti i loro poteri.» «Probabile.» «Allora non perdiamo tempo.» Col cuore in gola, i tre amici si diressero verso il settore del palazzo in cui era custodita la balestra gigante. Ma quando giunsero al corridoio che portava sulla terrazza, trovarono uno sbarramento di soldati. «Zona interdetta» abbaiò un centurione. «Nessuno può accedere alla terrazza senza essere accompagnato dal re o dal visir in persona. Smammate, ragazzini, o vi sculaccio!» Il cane blu ne approfittò per sgattaiolare tra le gambe del soldato e galoppò abbaiando fino alla porta proibita. «Il mio cane!» frignò Peggy recitando la parte della bambinella sconsolata. «Lasciatemi passare, voglio solo riprendere il mio cane... obbedisce solo a me...» «Zona interdetta» ripeté come un automa il soldato. «Nessuno può accedere alla balestra in assenza del re e del visir.» Sebastian accennò una mossa per scansarlo, ma dieci legionari balzarono all'istante da dietro le colonne e gli puntarono contro le lance. Senza indugio, il ragazzo si avventò su di loro sferrando una girandola di pugni. Sospinto da un furore demenziale, schiacciava caschi e corazze
come se fossero semplici scatole di conserva. Avanzava a grandi falcate, con rapidità inaudita, e colpiva senza tregua. Sbalordita, Peggy Sue lo osservava a bocca aperta. Non aveva mai visto il suo fidanzatino battersi con simile ardore. Non durerà molto, pensò con angoscia, tra due minuti sarà sfinito e cadrà addormentato all'istante. Non si sbagliava: purtroppo, i primi sintomi della fatica erano già evidenti. Sebastian sapeva di essere al limite delle sue energie. In pochi istanti sarebbe stramazzato al suolo, e i soldati allora ne avrebbero approfittato per ucciderlo. Devo farcela! si ripeteva. Devo sgombrare il corridoio e raggiungere la porta della terrazza... presto! Finché sono ancora un superuomo! Il corridoio era disseminato di feriti. Il cane blu galoppava a testa dritta, i canini all'infuori, ringhiando come un forsennato, e i soldati se la davano a gambe levate chiedendosi se avevano a che fare con un semplice bastardino o con un lupo mannaro. Sebastian saltava da una parte all'altra, rovesciando tavoli e sedie, bruciando in un tornado d'energia i suoi ultimi secondi di coscienza. I tre amici si trovavano adesso vicinissimi alla porta della terrazza. Bastava spingerla per arrivare alla balestra. Con un po' di fortuna, in poco tempo tutto sarebbe finito. «Che cosa sta succedendo qui?» tuonò all'improvviso la voce di Ranuck. «Signore,» ansimò il centurione «questi ragazzini stanno cercando di impossessarsi della balestra... Ci hanno colti di sorpresa, quel ragazzo è un vero demonio. Ha la forza di dieci leoni...» «Capisco» ringhiò il visir, lanciando un'occhiataccia a Peggy Sue. «Mi hai ingannato, piccola peste! Tu sei al soldo di quel vecchio folle di Massalia! Peggio per te! Visto come stanno le cose, dovrò punirti come meriti!» L'uomo sembrò gonfiarsi come un pallone pieno di gas. Si sentì un rumore di lacerazione e... Ranuck si squarciò da sopra a sotto! Il suo corpo si aprì come una banana. Ne emerse una creatura abominevole, nella quale era difficile riconoscere la fisionomia bonaria del gran visir. Era ridotto a un essere squamoso, più simile a una piovra che a un essere umano. La creatura si dibatteva per liberarsi dal corpo che lo imprigionava, e dalla sua bocca fuoriuscivano getti di gas infiammati. «La Divoratrice lo ha rimodellato a sua immagine!» balbettò Peggy Sue.
«Non mentiva, è davvero dentro di lui. Ci sorvegliava attraverso i suoi occhi!» Le stesse guardie non avevano potuto reprimere un moto di repulsione. Adesso la 'piovra' bluastra si molleggiava sui tentacoli, sputando brevi fiammate. «Uccidetelo!» urlò il capo dei soldati. «Uccidetelo, insomma!» I centurioni brandirono i loro archi per prendere di mira il mostro. «Ma è il gran visir» protestò una guardia, «non possiamo sparargli.» «Non è più il gran visir!» ruggì il capo, all'acme del terrore. «È un mostro!» Le frecce si conficcarono nel corpo squamoso della creatura senza arrecarle la minima ferita. «Guardate!» farfugliò Peggy agli amici. «Abbiamo davanti ai nostri occhi un ritratto in miniatura della creatura del sottosuolo. La sua copia, in qualche misura.» «Niente male» ammise il cane blu. «E poi ha anche un cattivo odore.» «Bisogna approfittarne» ansimò Sebastian. «Andiamo! Mentre le sentinelle se la vedono col mostro, filiamo dritti verso la porta.» All'improvviso altre piovre blu spuntarono dal fondo del corridoio per portare soccorso a 'Ranuck'. Peggy capì che si trattava degli altri cospiratori, di cui il gran visir era il capo. Dalle loro bocche scaturivano getti di fuoco. Ancora maldestre, le piovre esitavano ad attaccare le guardie, ma era chiaro che quella tregua non sarebbe durata. Appena avessero capito come non inciampare sui tentacoli, sarebbero passate all'attacco! Le frecce si conficcavano nei corpi gommosi senza ferirli, e le creature le spazzavano via con una zampata come se fossero moscerini importuni. «Forza!» ordinò Sebastian. «Ora o mai più!» Si lanciò verso la porta, procedendo a zig zag tra i soldati, per il momento troppo impegnati per prestargli attenzione. Peggy Sue lo raggiunse; mentre sgusciava nello spiraglio della porta socchiusa diede un'ultima occhiata alle sue spalle. Nel corridoio, i mostri avevano catturato due guardie. Stringendole alla vita, le tenevano strette come se volessero ballare con loro. I soldati si dibattevano strepitando, senza riuscire ad allontanare il viso dal muso dei mostri. Le fiamme emesse dalle creature bruciacchiavano loro il naso e i capelli. Sebastian e Peggy Sue sgusciarono sulla terrazza e richiusero la porta dietro di loro.
Il vento della pianura li fece rabbrividire. Si accorsero di essere a un centinaio di metri d'altezza, su una grande terrazza sporgente nel vuoto. La balestra era lì, con la freccia arrugginita pronta nella guida. Per tutti gli dèi dell'universo, pensò Peggy. Non è altro che un vecchio arnese! Sembra un pezzo di ferro dimenticato da un rigattiere. Non funzionerà mai. I tre amici avanzarono d'un sol balzo verso la balaustra a strapiombo sul vuoto. Giù in fondo si estendeva l'immenso crepaccio verso cui dovevano sparare la freccia. La ragazza si ricordò delle parole di Massalia: «È il miglior angolo di tiro di tutto il pianeta. Un corridoio rettilineo che arriva fino al centro dell'uovo. La freccia filerà dritta verso la Divoratrice e si conficcherà nel suo cuore.» Sebastian barcollò, sottraendo Peggy alle sue riflessioni. Era pallido e non si teneva più in piedi. «Stanco...» ansimò. «Sono stanco.» «Prima devi puntare la balestra!» gridò Peggy Sue, intuendo che l'amico stava per crollare. «Tu punta, io penserò al resto.» Sebastian era crollato in ginocchio, gli occhi socchiusi. Con un ultimo sforzo, sfrattò la sua forza erculea per far ruotare la macchina da guerra in modo da indirizzarla verso il crepaccio. Un attimo dopo stramazzò a terra privo di sensi, sbattendo la fronte sul marmo della terrazza. Peggy Sue capì che ormai doveva cavarsela da sola. Girò attorno all'apparecchio, alla ricerca della leva che azionava la freccia. Sapeva di correre un rischio enorme. Se la bestia fosse rimasta soltanto ferita, avrebbe potuto emergere dal suo nascondiglio, in preda al furore, facendo esplodere il guscio per poi abbattersi sul palazzo schiacciando tutti... ma non era più il momento di tergiversare, bisognava uccidere il mostro prima che gli amici della piovra riprendessero il sopravvento. Portò le dita sulla leva e l'abbassò, liberando il cavo. La freccia però saettò vibrando sulla guida e salì su in cielo. La ragazza comprese subito che il proiettile avrebbe mancato il bersaglio quando sarebbe sceso verso il suolo. Male diretto, deviava a causa del vento e prendeva quota. A circa cento metri da terra, scartò sulla sinistra. La sua ombra gigantesca oscurò i tetti delle case, sommergendo Kandarta nelle tenebre. Peggy strinse i denti, nell'attesa dell'impatto fatidico. Come aveva intuito, la freccia mancò l'ingresso del crepaccio e si conficcò nella
pianura, a una quindicina di metri dal bersaglio. Rimase conficcata lì, come un albero metallico. Peggy Sue si morse le labbra fino a farle sanguinare. Abbiamo fallito! pensò sull'orlo delle lacrime. Fallito! In quello stesso istante, un tentacolo si annodò intorno alla sua gola, soffocandola... 19 Il castigo Quando Peggy riprese conoscenza, si ritrovò incatenata in fondo a una segreta. Sebastian dormiva al suo fianco, anche lui in ceppi. Quanto al cane blu, l'avevano legato come una salsiccia. Ranuck, seduto sulla soglia della cella, li osservava con aria divertita. Aveva riacquistato l'aspetto umano, ma aveva la pelle disseminata di punti di sutura, a tal punto che sembrava una bambola di pezza cucita male. «Ti avevo avvertito» sogghignò. «La Bestia vede tutto. Io sono i suoi occhi, le sue orecchie, la sua vendetta. È dentro di me, mi fa dono della sua potenza quando ne ho bisogno. Avresti potuto diventare una dei nostri...» «Intende dire una piovra blu?» sibilò la ragazza con disprezzo. «Grazie tante, dopo quello che ho visto non ne ho molta voglia. Le ventose non mi donano.» «Come vuoi» sospirò Ranuck. «Non ho tempo da perdere con te. Ho ordinato alle guardie di gettarvi nel grande crepaccio, quello che comunica direttamente con il cuore dell'uovo. In questa maniera precipiterete dritti nelle fauci della bestia. E così la serie Peggy Sue e gli Invisibili volgerà al termine... I vostri lettori non avranno mai il piacere di leggere il settimo episodio! Devo ammettere che non mi dispiace, questa serie mi aveva sempre piuttosto annoiato!» Si girò in un gran fruscio di seta e scomparve nel corridoio, mentre un soldato chiudeva a doppia mandata la porta della cella. Dopo che se ne fu andato Peggy Sue cercò di spremersi le meningi per trovare un modo di evadere, ma senza successo. Lentamente, Sebastian riemerse dal suo sonno comatoso. Si sedette, gli occhi ancora gonfi di sonno. «A giudicare dalle catene che abbiamo addosso, direi che abbiamo fallito» bofonchiò. «Sì» mormorò la ragazza. «Il meccanismo della freccia era difettoso, ha
preso una traiettoria storta. Ha mancato la voragine di almeno una decina di metri.» «Che cosa succederà adesso?» Peggy glielo spiegò. Aveva appena terminato il racconto quando le guardie fecero irruzione nella cella. «È l'ora» annunciò il capo. «In marcia verso il crepaccio. La Divoratrice attende il suo pasto.» Il gruppetto abbandonò il palazzo reale per portarsi sulla pianura. Fino all'ultimo Peggy sperò in un miracolo. S'immaginò che Servallon, il vecchio scriba, o Goussah, il corridore, arrivassero in loro soccorso, ma non si vide nessuno e si ritrovarono ben presto sull'orlo dell'immensa voragine. La freccia gigante conficcata di traverso allungava la sua ombra sulla landa, come una sorta di meridiana. «Un ultimo desiderio?» chiese il centurione, che non era un uomo malvagio. «Slegateci le mani,» domandò Peggy «vogliamo morire come uomini liberi.» «D'accordo» fece il soldato, e ordinò che fossero liberati. «Non spingeteci,» aggiunse la fanciulla «lasciate che siamo noi a saltare.» Detto questo avanzò verso la voragine. Appena ebbe dato le spalle ai centurioni, prese la mano sinistra di Sebastian e afferrò il cane blu con l'altro braccio. «Ti sei ripreso, vero?» sussurrò al suo compagno. «Tienimi forte la mano. Quando salteremo, cerca di aggrapparti a qualcosa: una sporgenza, una radice... e schiacciati alla parete. Crederanno che siamo precipitati nella voragine e se ne andranno. Poi ti isserai in superficie.» «Ci proverò» disse il ragazzo. Giunti sull'orlo della fenditura si abbracciarono... e saltarono nel vuoto. Appena cominciarono a precipitare nel baratro, Sebastian allungò la mano destra verso la parete di granito e si aggrappò a una pietra sporgente. La loro caduta si arrestò bruscamente e i tre rimasero incollati alla roccia, sospesi nel vuoto. Sebastian si stringeva alla parete con le dita della mano destra, mentre con la sinistra teneva Peggy Sue la quale a sua volta stringeva a sé il cane blu. Restarono in silenzio per qualche istante, per dare ai soldati il tempo
d'allontanarsi, poi il giovane si mise a sgambettare tentando di individuare una sporgenza su cui appoggiare i piedi. «Santo cielo!» esclamò dopo aver brancolato a vuoto per circa un minuto. «Non c'è nulla... uno sbalzo che sia uno... niente... Non resisterò in eterno. Tu vedi qualcosa?» «No» sbuffò Peggy. «Questa parete di granito è completamente liscia. Granito, granito ovunque... niente radici, neanche una presa che sia una.» «Potrei cercare di farti oscillare a bilanciere» azzardò Sebastian, «e poi lanciarti verso l'alto: con un po' di fortuna ricadresti in superficie.» «No» protestò Peggy, «è troppo rischioso. E poi non sei sufficientemente forte da lanciarmi così in alto! Siamo a più di venti metri sotto terra.» «Allora siamo spacciati» mormorò Sebastian. «Quando le mie forze si esauriranno, sarò costretto a mollare la presa.» «Mi dispiace» gemette Peggy Sue. «Speravo che ci fossero delle radici, un punto d'appoggio... e invece è una vera canna fumaria, tutta dritta, tutta liscia...» «Non è colpa di nessuno» filosofeggiò il cane blu. «È stata una bella avventura.» Peggy Sue trasalì: qualcosa le aveva pizzicato il naso. In un primo momento pensò che fosse una ragnatela, poi si rese conto che qualcuno stava calando una corda nella voragine. Una grossa corda attorcigliata. «Ehi!» gridò. «Ho visto...» ansimò Sebastian. Peggy alzò gli occhi. In alto, sul bordo del crepaccio, si agitavano delle ombre. «Tutto bene?» tuonò una voce amplificata dall'eco. «Sono io, Massalia! Tenete duro, vi tiriamo fuori da lì.» Peggy visse un attimo di puro terrore quando Sebastian fu costretto a mollare la presa per afferrare al volo la corda, ma l'operazione si concluse felicemente. Appena i ragazzi si furono assicurati al cavo, gli uomini del generale li issarono all'aria aperta. Una volta in superficie, il cavaliere li spinse verso una carrozza ricoperta da un telo. «Presto!» ordinò. «Evitiamo di farci individuare dalle guardie di Ranuck. Il mio accampamento è a tre chilometri: lì sarete al riparo.» Il carretto partì cigolando. Massalia raggiunse i giovani e offrì loro una borraccia perché si dissetassero.
«Mi dispiace per la balestra» si scusò Peggy, «ha mancato il colpo.» «Lo so» mugugnò il cavaliere, «non è stata colpa vostra, il posizionamento non era dritto. Suppongo che Ranuck avesse preso la precauzione di sabotarlo in modo che la freccia non raggiungesse il bersaglio. Avrei dovuto pensarci, sono stato uno stupido. Dovevamo usare un'altra tattica.» «Avete intenzione di attaccare il palazzo?» s'informò Sebastian. Il vecchio cavaliere fece un sorriso amaro. «Non ho uomini a sufficienza, solo una piccola truppa. E poi la maggior parte sono anziani, come me. Vecchi compagni d'armi che dovrebbero essere in pensione già da tempo.» «Allora vuol dire che è tutto finito?» chiese tristemente il giovane. «Non ancora» mormorò il generale. «Ci resta ancora il piano B. Avete mai sentito parlare delle isole volanti?» 20 Il Capitano fantasma «Avete sentito parlare delle isole volanti?» ripeté Massalia. Peggy Sue e i suoi amici non sapevano nulla delle famose 'isole volanti'. Gli rivolsero mille domande, ma Massalia assunse un'aria misteriosa, fermamente deciso a non rivelare nulla in anticipo. Dovevano rendersene conto da soli, sosteneva. «È la nostra unica possibilità di distruggere la bestia» ripeteva. «Ho dei contatti con la gente che se ne occupa. Dei fuorilegge. Dei pirati... Ho chiesto loro di passare domani a prenderci. A mio avviso, se esiste una soluzione, la troveremo laggiù.» Come aveva annunciato, un veicolo dall'aspetto sinistro (a metà strada tra il carro armato e lo scuola-bus) si fermò l'indomani mattina davanti all'accampamento. Non ne discese nessuno, e fu già tanto se una delle portiere aprì uno spiraglio per permettere ai viaggiatori di salire. Peggy Sue e Sebastian fecero il viaggio a occhi bendati, stipati nel retro del camion militare i cui cingoli sollevavano schizzi di fango. Al momento di salire, Peggy Sue aveva intravisto le sagome di tre uomini vestiti come pirati: bandana rossa annodata sul cranio, cartucciera incrociata sul petto. Nella penombra aveva notato lo scintillio dei metalli: il rame dei bossoli, la lama delle sciabole. Quindi avevano dovuto sopportare gli scossoni dell'automezzo e il silenzio opprimente dei fuorilegge. Dopo diverse ore di strada i passeggeri era-
no stati ormai ritenuti incapaci di orientarsi, pertanto erano stati liberati delle bende. Peggy aveva sbattuto le palpebre, ammirata dallo scenario che le si offriva dinanzi agli occhi. Il camion procedeva in mezzo al paesaggio devastato di un'antica fabbrica di trattamento del gas, i cui serbatoi erano in gran parte esplosi. Le apparecchiature, parte delle quali distrutte, avevano preso uno strano aspetto, metà solido metà liquido, che ricordava quello di una tavoletta di cioccolato dimenticata al sole. Peggy Sue notò tre serbatoi ancora intatti. Dopo aver attraversato le rovine, il camion entrò in un accampamento. Degli stendardi svolazzavano in cima a grandi alberi. «Eccoci tra i pirati!» mormorò telepaticamente il cane blu. «Ma dove sono i galeoni pieni d'oro?» Le stradine dell'accampamento erano piene di uomini barbuti, armati fino ai denti. L'isola della Tortuga11..., pensò la ragazza. Ricordi di antiche letture le tornarono improvvisamente alla memoria. Il luogo faceva pensare a un covo di filibustieri, con la sua popolazione indomita di sciancati con una feluca a teschio, le pistole alla cintura e il pappagallo sulla spalla. Ma, a differenza dei corsari del mare, gli uomini che camminavano nelle stradine della bidonville avevano la pelle azzurrognola e gli occhi arrossati dalle esalazioni tossiche. I serbatoi perdevano gas! Le emanazioni aleggiavano sull'accampamento, corrodendo giorno dopo giorno i polmoni dei 'pirati' in attesa d'imbarcarsi. Le stradine troppo strette impedivano al camion di avanzare, ragion per cui i passeggeri dovettero scendere. Peggy Sue annusò l'aria. Sentiva un retrogusto amaro sulla lingua, come se avesse succhiato una caramella al ripieno di confettura di mummia. «È il gas» disse Massalia vedendola fare una smorfia. «Il betano B è estremamente volatile, e le apparecchiature sono in pessimo stato. È proibito accendere fuochi all'interno della fabbrica, si mangiano solo cibi freddi ed è vietato fumare.» «C'è stato un incidente?» s'informò Peggy, indicando i serbatoi deformati che si stagliavano come ombre cinesi all'orizzonte. «Parecchi» sospirò il generale. «La Divoratrice ha attaccato le apparecchiature a più riprese. Il betano B è molto sensibile al calore, basta una semplice scintilla per farlo esplodere.»
«E perché si ostinano a estrarlo?» «Perché garantisce una capacità di trasporto fantastica. Un pallone di gomma non più grosso di un pugno, riempito di betano, può sollevare un elefante. Ci troviamo in una fabbrica clandestina: le altre sono tutte state chiuse venti anni fa. È proibito estrarre i gas che filtrano dai crepacci del guscio. Ci sono state troppe catastrofi.» «Questo gas» domandò Peggy Sue «proviene dalla Bestia?» «Sì, è una delle sue esalazioni.» I pirati cominciavano a spazientirsi; con uno spintone fecero capire a Peggy che doveva avviarsi per le stradine della bidonville. La ragazza si stupì del loro mutismo: il silenzio che regnava nelle stradine della cittadella-labirinto era davvero sorprendente. «Sono muti?» finì per chiedere al suo cicerone. «Non proprio,» fece Massalia «ma il gas irrita le corde vocali: parlare è doloroso.» Peggy fece una smorfia. Presto le stradine si allargarono per sboccare in una piazza ingombra di argani e cavi. La ragazza trattenne il respiro e alzò gli occhi al cielo. Aveva visto qualcosa che mozzava il fiato: un enorme dirigibile, un pallone aerostatico affusolato, la cui linea ricordava quella di una balena. L'involucro semigonfio, lungo una cinquantina di metri, era imbrigliato in una rete a maglie fitte. I fianchi dell'aerostato palpitavano, come per effetto di una potente respirazione. Peggy si rese conto di essere finita nei pressi di una banchina d'imbarco. Dockers12 andavano e venivano, trasportando sulle spalle delle casse rettangolari. Si era formata una colonna che incamminava il carico verso l'aerostato. Le casse venivano poi accatastate le une sopra le altre, come i mattoni di un muro, e assicurate attraverso delle corde. Una maglia avvolgeva il tutto, formando una specie di navicella sospesa al pallone gigante. «Di che si tratta?» chiese Sebastian, spazientito. «Una scena molto pittoresca, non c'è dubbio, ma gradirei capirci qualcosa.» «Semplice» sospirò Massalia. «Molta gente ne ha abbastanza di vivere sulla terra, alla mercé della Divoratrice. Preferiscono l'esilio nel cielo, lontano dai suoi tentacoli. Ecco perché utilizzano questi dirigibili. Possono imbarcare fino a dieci o dodici famiglie, con viveri a sufficienza per resistere il più a lungo possibile lontano da terra. Restano in aria fino all'esaurimento delle provviste. Per bere raccolgono l'acqua piovana. Questi diri-
gibili sono soprannominati le isole volanti. Salgono molto in alto, più degli aerei. Certo, i pericoli non mancano.» «Soprattutto non bisogna soffrire di vertigini!» sbuffò il cane blu. Peggy Sue era affascinata dalla massa del dirigibile. «Questo pallone aerostatico è il più antico della flotta,» spiegò il generale «l'abbiamo battezzato Capitano fantasma.» «Perché?» domandò Sebastian. «Perché è sopravvissuto a tante di quelle avventure... e anche a diversi equipaggi.» Massalia s'interruppe per poi annunciare: «Ragazzi, vi presento l'ingegnere capo Hinker. È lui che dirige questo accampamento. È l'inventore delle isole volanti.» Peggy Sue farfugliò una formula di cortesia. Il volto del capitano faceva pensare a una maschera di Halloween confezionata da bambini maldestri. A dire il vero, tutta la sua testa sembrava scolpita in un candelotto rammollito dal calore. Forse un'esplosione di gas? pensò la ragazza, cercando di non dar prova di eccessiva curiosità. L'uomo disse qualcosa, ma aveva la voce arrochita. Peggy Sue puntò il dito verso l'aerostato e domandò: «Volete che ci imbarchiamo su questo pallone? E per fare cosa?» «Una volta gonfiati di betano B, i palloni sono in grado di sollevare dei pesi enormi» spiegò Hinker. «Potrebbero sollevare anche una casa, se volessimo, basterebbe calcolare il valore di miscela necessario al carico, tutto qui. Ma possono anche scendere a piacimento.» Parve esitare, si accarezzò i baffi e poi, avvicinandosi a Peggy, proclamò: «Non ho tempo di farvela troppo lunga. Ma con le nostre attuali cognizioni, è l'unico mezzo che abbiamo per mettere fuori combattimento la Divoratrice.» «E in che modo?» grugnì Sebastian. «Ecco il piano di battaglia, in estrema sintesi» annunciò Massalia frapponendosi tra l'ingegnere e gli adolescenti. «Voi utilizzerete il Capitano fantasma per infiltrarvi nel crepaccio che conduce al cuore dell'uovo. La miscela gassosa vi permetterà di scendere fino al centro del pianeta, dove la bestia se ne sta rannicchiata.» «E... e poi?» farfugliò il ragazzo. «Quando sarete laggiù deporrete una bomba a scoppio ritardato vicino al suo rifugio, l'innescherete e vi sbrigherete a risalire rigonfiando il pallone. Se tutto va bene, avrete il tempo di uscire all'aria aperta prima che la bom-
ba esploda.» «È pazzo!» guaì il cane blu. «Presto, una camicia di forza, un'ambulanza! Portatelo via! Rinchiudetelo e gettate la chiave in fondo a un pozzo!» «È un buon piano» riprese Hinker. «Il Capitano fantasma è l'apparecchio più evoluto mai concepito fino a oggi. È provvisto di perfezionamenti tecnologici sconosciuti ai suoi predecessori.» «Dei 'perfezionamenti'?» sibilò ironicamente Sebastian guardando l'aerostato, «Dei perfezionamenti... davvero? Un involucro con più toppe di un vecchio pneumatico da bicicletta, una rete e delle corde... Una vera meraviglia tecnologica!» «Non essere stupido» tagliò corto Massalia. «Hai paura, la tua reazione è comprensibile. Ma sai che ho ragione, e che non ci sono altre soluzioni.» Hinker fece un passo in avanti, e invitò i suoi onorevoli ospiti a visitare la nave. I tre amici dovettero rassegnarsi a seguire quella strana guida. Massalia si sforzava di illustrare i dettagli del suo piano, ma Peggy l'ascoltava in modo distratto. Visto da vicino, il pallone era ancora più impressionante. Le casse e le bombole di gas, ancorate al centro della rete, formavano un enorme fagotto con funzione di navicella. «Le casse contengono dei viveri, degli utensili, delle lampade... e degli esplosivi» annunciò Hinker. «Le bombole di gas servono a gonfiare il pallone. Vi insegneremo come manovrarlo, non è difficile. Il crepaccio è abbastanza largo perché il Capitano Fantasma possa entrarvi agevolmente. Per scendere, vi basterà sgonfiare l'involucro.» «E... la Divoratrice?» azzardò Peggy Sue. «Come ci accoglierà?» «Se siete prudenti, silenziosi, non dovrebbe vedervi. Non dimenticate che è notte fonda, là sotto. Saranno imbarcate con voi delle scorte di cavolo blu: la puzza terrà lontana la bestia. Vi basterà farne bollire una pentola piena perché la creatura si allontani dal pallone.» «Del cavolo blu! Ah sì, geniale!» ridacchiò Sebastian. «Così quando torneremo sulla Terra nessuno vorrà più starci vicini!» Nell'ora che seguì, ebbero modo di visitare ogni più piccolo angolo del Capitano fantasma. Hinker annuiva e sorrideva per confermare che tutto sarebbe andato per il meglio, ma quel sorriso di labbra mangiucchiate dal fuoco aveva qualcosa di sinistro. «Non perdete tempo» li supplicò Massalia. «Questo accampamento è
segreto, ma i soldati di Ranuck possono prenderla d'assalto anche domani se vengono a sapere della sua esistenza. Bisogna uccidere la Divoratrice prima che diventi abbastanza forte da far scoppiare il guscio. Ne va della nostra sopravvivenza.» Peggy Sue serrò le mascelle. Non riusciva a prendere una decisione. A chi doveva credere? Aveva forse dato credito troppo presto alle farneticazioni di Massalia? La Divoratrice era davvero cattiva? «Almeno provateci» sussurrò il generale. «Una volta scesi sotto terra, se la riterrete un'impresa impossibile potrete sempre risalire. Che ne dite?» Peggy era stanchissima, e aveva fame. Hinker fece loro segno di seguirlo. Lasciarono il dirigibile e ritornarono sulla banchina; di lì fecero sosta in una taverna dove mangiarono carne fredda e pesce crudo. L'ingegnere estrasse delle piante sgualcite da una tasca e provò a spiegare ai suoi interlocutori le meraviglie del Capitano fantasma. «La bomba è sganciabile» disse per rassicurarli. «Anche un bambino potrebbe farlo. Vi mostreremo come lanciarla in prossimità della Bestia. Una volta innescata avrete quattro giorni di tempo per risalire in superficie. Dopodiché, se non sarete ancora usciti dall'uovo, rimarrete uccisi dall'esplosione.» 21 Immersione nelle tenebre Impartirono ai ragazzi un addestramento di settantadue ore in modo che riuscissero a familiarizzare con le varie manovre. È come un corso di vela, si ripeteva Peggy, con l'unica differenza che in questo caso bisogna scendere nel ventre del pianeta! Assolta quella formalità, Hinker chiese loro di disfarsi di tutti gli oggetti metallici. «In basso» spiegò, «attraverserete strati di gas stagnante provenienti dai polmoni della Divoratrice. Alcuni sono infiammabili, possono esplodere alla minima scintilla. Il guscio contiene silice; se del materiale metallico strusciasse contro questo minerale si produrrebbero delle grosse scintille. L'esplosione vi polverizzerebbe. Bisogna ridurre al minimo i rischi. Il gas...» La sua voce, deformata dalla raucedine, dava a quelle parole uno sgradevole suono sibilante. «Il gasssss...» I ragazzi dovettero quindi spogliarsi per infilarsi la divisa riservata al
personale 'volante'. La tuta, di foggia alquanto rozza, era priva di chiusure lampo e si regolava per mezzo di cinturini e bottoni di legno. «In basso,» continuò Hinker «terrete le maschere dell'ossigeno a tracolla. Indossatele, quando avrete difficoltà di respirazione.» Per concludere, mise sulle loro teste un casco di pelle imbottito e dei grossi occhialoni. Così acconciati si sentivano ridicoli. Il cane blu, a cui quel travestimento era stato risparmiato, si rotolava nella polvere sganasciandosi dalle risate. «Si parte» annunciò Hinker. «Bisogna approfittare della foschia per portare il Capitano fantasma sopra il crepaccio. In questo modo i soldati di Ranuck non ci vedranno.» Non nascondeva la sua fretta di spedire al più presto il suo piccolo prodigio negli abissi del sottosuolo. Appena Peggy Sue e Sebastian si furono equipaggiati, l'ingegnere li condusse alla navicella. «Se non ti amassi a tal punto da seguirti anche all'inferno, sarei già filato via a rotta di collo» sussurrò il cane blu all'orecchio di Peggy. Sopra la testa della ragazza il pallone stava finendo di gonfiarsi, e la sua superficie tesa assumeva un aspetto lucente. All'improvviso i cavi d'ormeggio gemettero e il dirigibile s'innalzò di circa un metro, mentre i cassoni cigolavano e si muovevano sotto i piedi dei passeggeri. Lo stomaco di Peggy Sue entrò in subbuglio. Il 'ponte' beccheggiava come quello di una nave scossa dalle onde. La ragazza si aggrappò alle funi, il cui intreccio formava una specie di ragnatela intorno alla navicella. La portanza del pallone aumentava rapidamente. Sembrava impaziente di salire verso il cielo. Tirava sui cavi, facendoli gemere. «Che follia» ansimò Sebastian. «Se mi avessero detto che sarei sceso nel cuore di un uovo gigante...» In basso, i pirati avevano fissato il pallone a una decina di grossi camion zavorrati da blocchi di cemento. Quei veicoli avrebbero trasportato il Capitano Fantasma fino alla voragine, e lì Sebastian avrebbe cominciato a sgonfiarlo lentamente per farlo discendere nel precipizio del guscio. I camion partirono. «Devono fare presto,» spiegò Sebastian «altrimenti l'aerostato li solleverà da terra facendoli volare in cielo.» Peggy Sue osservò inquieta il ventre del pallone solcato da cuciture.
Sembrava sul punto di scoppiare. Grazie alla nebbia raggiunsero il crepaccio senza problemi. «Ci siamo» annunciò Hinker al telefono. «Potete cominciare a sgonfiare la camera d'aria. Ruotate la manetta di un grado verso sinistra. La portanza diminuirà e il Capitano fantasma s'inabisserà nel precipizio.» Sebastian obbedì. Istantaneamente, come per magia, l'aerostato si abbassò e scese di diversi metri. Peggy Sue fu colta da un senso di vertigine e si allontanò dal bordo. I cavi che collegavano l'apparecchio ai camion furono mollati. Finalmente libero di muoversi, il Capitano Fantasma si addentrò nelle tenebre sotterranee. «È orribile.» gemette il cane blu «ho come l'impressione di penetrare nello stomaco di uno squalo... Questa voragine ci sta inghiottendo!» «Lo so» ansimò Peggy. «Hai visto come diventa buio? Ci stiamo inoltrando nel ventre del pianeta!» «Sarebbe un'avventura fantastica, se non avessi tanta paura» frignò l'animale. «In nome di una salsiccia atomica! Non si vede un'acca!» Peggy Sue stringeva le funi così forte da segarsi le dita. Sotto le sue scarpe i cassoni oscillavano: beccheggio, rollio, beccheggio, rollio. «Neanche una sbarra a cui aggrapparsi» si lamentò. «Nient'altro che queste funi ingarbugliate.» Serrò le mascelle per non battere i denti e si calò il cappuccio dell'eskimo sulla testa per avere l'impressione di essere protetta. Cadrò, cadrò, cadrò... Quelle parole le risuonavano nella testa. Spostandosi da una fune all'altra, iniziò ad avvicinarsi alla tenda che gli uomini di Hinker avevano montato in cima alla catasta di casse. Era un riparo irrisorio, assolutamente inadatto a proteggerli dal vento. La sua forma arrotondata gli conferiva un aspetto da igloo. A tratti sembrava sul punto di volare via, tanto le sue pareti vibravano sotto le raffiche d'aria. «Eccoci qua» commentò il cane blu. «Siamo nel crepaccio e continuiamo a scendere... Il cielo comincia a restringersi sopra le nostre teste. Guarda! Ormai è solo una piccola striscia colorata d'azzurro. E tutto questo buio... È incredibile, come può essere così scuro?» Peggy Sue era madida di sudore. Sebastian si materializzò all'improvvi-
so davanti a lei. Si spostava come un marinaio abituato al beccheggio di una nave e non aveva bisogno del sostegno delle funi per tenersi in piedi. Come tutti i ragazzi era eccitato dalle avventure e si rifiutava di pensare ai pericoli cui andavano incontro. Peggy era urtata dalla sua spensieratezza, che non riusciva minimamente a condividere. «Non spaventarti per il mal d'aria,» disse Sebastian accarezzandola sulla guancia «ti ci abituerai presto. Questione di ventiquattr'ore al massimo.» Quanto avrebbe voluto credergli! Lui l'aiutò a entrare nella tenda, la cui apertura era mantenuta chiusa da alcuni lacci. «La dovremo tenere sempre chiusa» spiegò. «È l'unico posto in cui saremo al riparo dai gas. Se l'atmosfera all'esterno diventasse irrespirabile, ci rifugeremo qui e apriremo una bombola d'ossigeno. Ecco perché questo riparo è così importante. Se ti senti soffocare, vieni subito qui. Capito?» Entrarono a quattro zampe; Peggy si sentì subito meglio. L'igloo di tela ricreava un piccolo mondo a dimensione umana. Dalla cassa dei viveri usciva un odore di pesce essiccato e di pemmican13. Essendo impossibile accendere un fuoco, dovettero accontentarsi di quel cibo freddo che misero ad ammorbidire in una scodella d'acqua. Dei sacchi a pelo erano arrotolati vicino al baule delle vettovaglie. «Niente male» fece il cane blu, che lappava rumorosamente dalla scodella. «Resteremo sempre nell'oscurità?» si chiese Peggy preoccupata. «È orribile, e poi si rischia di cadere. Per adesso siamo ancora parzialmente illuminati dalla luce del giorno che filtra dal crepaccio, ma tra un po'...» «Stai tranquilla» rispose Sebastian. «Abbiamo delle torce elettriche. Le hanno coperte di vernice blu in modo da ridurne la luminosità. E poi ci sono questi occhiali, che permettono di vedere anche di notte... almeno finché non si scarica la batteria. Non dimenticarti mai di spegnerli quando vai a dormire.» Aveva estratto da uno zaino tre paia di grossi occhiali, che distribuì agli altri. Metterli al cane blu non fu affatto facile! Terminato lo spuntino, Sebastian incoraggiò i suoi amici a tornare all'esterno per abituarsi al pallone. Sistemò scodelle e bicchieri, richiuse la tenda e se ne andò ondeggiando verso prua. Peggy Sue rinunciò a seguirlo. Solo a vederlo sporgersi nel vuoto, con le mani in tasca, si sentiva lo stomaco in gola.
Per assuefarsi al rollio, fece qualche passo sul pavimento semovente. Le casse erano instabili. Quelle sbandate continue rendevano assai precario l'equilibrio dei viaggiatori. Facendosi forza si avvicinò a Sebastian, sempre piantato alla prua dell'apparecchio sull'orlo dell'abisso, le punte delle scarpe già nel vuoto. «A che profondità siamo?» lo interrogò. «Meno sessanta metri» disse il ragazzo. «Il pallone scende lentamente. Forse dovremmo sgonfiarlo per accelerare...» Osservava Peggy, con gli occhi protetti dai grossi occhiali per la visione notturna. «Ti senti bene?» le chiese. «L'atmosfera all'interno del guscio è un po' particolare. La composizione dell'aria cambia. I gas tendono a innescare negli esseri umani dei processi allucinatoli. Sono di breve durata ma spesso intensi. Bisogna prepararsi a quest'avventura.» «Diventeremo pazzi?» domandò il cane blu. «Come quando abbiamo attraversato la prigione?» «Possibile» mormorò Sebastian. «Grazie alle maschere antigas e alla tenda di sopravvivenza non rischiamo di perdere la bussola, ma di certo possiamo fare sogni bizzarri o essere assaliti da idee bislacche. L'importante è non farsi prendere dal panico.» Peggy rimase sul chi vive fino a sera. Il pallone oscillava di meno, ma l'aria era impregnata di un'umidità penetrante che faceva cigolare le funi. La ragazza aveva finito per sedersi in mezzo al ponte, il più lontano possibile dal vuoto. L'oscurità la terrorizzava. Avrebbe voluto che il Capitano fantasma fosse illuminato come un lampadario, ma purtroppo accendere una lampada avrebbe significato destare l'attenzione della Divoratrice... Se stanotte mi scappasse la pipì, pensò, sarei costretta a farla sporgendomi fuori bordo. 22 Incubo Quella notte Peggy Sue sognò la Divoratrice. La vide rannicchiata al centro del pianeta, un intrico vivente di tentacoli aggrovigliati; le sue mille membra brulicavano come una nidiata di serpenti. La ragazza non riuscì a distinguerne il muso perché la creatura era accovacciata nella penombra, rischiarata soltanto dai raggi di luce filtranti dalle crepe del guscio. Era pe-
sante, calda, irrorata di esalazioni mefitiche, e il suo respiro rimbombava sotto la volta screpolata del guscio. Attendeva, percorsa da sussulti, a volte risvegliandosi, altre riaddormentandosi, come un enorme pulcino in via di formazione. A tratti la fame la scuoteva dal torpore, e la spingeva ad allungare le zampe per esplorare le crepe sulle pareti. Era lì da diecimila anni, arrotolata su se stessa all'interno dell'uovo di pietra. Un animale mitologico l'aveva deposto nel cosmo nero come l'inchiostro, tra due pianeti, e, da quel giorno, aveva dovuto far ricorso a mille espedienti per procurarsi il cibo di cui aveva bisogno. Tre secoli prima, aveva sentito i primi esploratori terrestri calpestare il suo guscio; aveva sondato le loro menti, la loro carne, calcolando i loro bisogni organici. Aveva fabbricato ossigeno per convincerli a restare, iniettato nelle pareti dell'uovo oro e argento a sufficienza per risvegliare la loro cupidigia. Li aveva addomesticati, lei, la creatura di cui nessuno sospettava l'esistenza. Aveva fatto quello che le suggeriva l'istinto; era dotata di pazienza infinita e i suoi poteri erano illimitati. Aveva bisogno degli esseri umani per nutrirsi... ecco perché era necessario che si stabilissero su Kandarta e si moltiplicassero. Adesso il tempo della reclusione volgeva al termine. Il suo corpo stava lentamente giungendo a maturazione. Le mancava ormai poco per essere completa: qualche organo da affinare qua e là, degli strati di squame supplementari. Per questo doveva mangiare, per raggiungere l'ultimo stadio. Quando i suoi muscoli fossero stati inguainati da una pelle insensibile ai raggi cosmici, si sarebbe sollevata, avrebbe preso a testate le pareti dell'uovo, e lassù, in superficie, città intere sarebbero crollate, l'asfalto delle strade si sarebbe sbriciolato, le campagne si sarebbero sconquassate. Kandarta sarebbe esplosa sotto la spinta interna delle sue ali, e il pianeta sarebbe volato in pezzi, sparpagliandosi nello spazio. Allora la Divoratrice sarebbe finalmente uscita dalla sua prigione per lanciarsi nel cosmo, come un grande uccello più nero della notte, uno pterodattilo dei confini dell'universo. Mancava poco oramai, appena poche altre migliaia di bambini, un ultimo grande pasto. Aveva bisogno di quel surplus di cibo, quella materia prima senza la quale sarebbe ricaduta in ibernazione, per altri tre millenni... Affamata, sondava le crepe con furore febbrile. Dove si nascondevano i bambini? Era quasi completa. Se non avesse trovato nulla da mettere sotto i denti,
tutto sarebbe stato da rifare dal principio. Il sonno si sarebbe nuovamente impossessato della sua mente e il suo corpo si sarebbe rattrappito smarrendo le forme possenti. Doveva mangiare, a tutti i costi, doveva lanciare all'assalto l'armata dei suoi tentacoli, in ogni crepa, in ogni fenditura, doveva esplorare il mondo irrisorio che gli uomini avevano creato sulla superficie del guscio. Sapeva di essere bella e terribile, destinata a un avvenire grandioso. Dopo aver abbandonato l'uovo sarebbe volata di pianeta in pianeta, eclissando la luce del sole. Non voleva più attendere a lungo. Per il momento se ne restava lì, raggomitolata nell'intimità umidiccia di quella terra cava, così fragile. Raccoglieva tutte le sue energie, ascoltando da tutte le crepe il pigolio ostinato degli uomini al lavoro. Li spiava, incollando l'occhio agli spiragli della superficie. Li osservava agitarsi, con un appetito vorace nello stomaco. Ma l'attesa nell'oscurità era lunga, così lunga... 23 Temporali sotterranei Peggy Sue era di pessimo umore. Logico, visto che erano quattro giorni che Sebastian non si dava più neanche la briga di intrattenere una parvenza di conversazione con i suoi amici. Agiva come se fosse da solo a bordo, come se lei avesse lo stesso spessore delle volute di gas che avvolgevano il pallone. «Ma stai bene?» gli domandò. «Sono più di quattro giorni che non mi rivolgi la parola!» Sebastian sollevò gli occhi e disse: «Peggy, abbiamo lasciato la superficie da appena ventiquattro ore. E continuo a rivolgerti domande, ma sei tu che non mi rispondi. Sembri in uno stato di allucinazione, forse è a causa dell'aria degli abissi. Cerca di resistere alle idee bizzarre che ti passano per la testa...» Peggy Sue aggrottò le ciglia. Ventiquattro ore? Soltanto ventiquattro ore? Eppure aveva l'impressione di aver dormito quattro notti a bordo del dirigibile. Forse confondeva le notti con i semplici pisolini che schiacciava di tanto in tanto? Aveva le idee annebbiate, a tratti si sentiva stranamente lucida, in altri momenti confusa e a stento capace di decifrare tre righe consecutive del manuale di bordo. «Non bisogna agitarsi tanto» disse Sebastian. «Così sei soggetta a iper-
ventilazione14 e il gas ti paralizza il cervello. Se continui così rischi di bruciarti i neuroni e rimbecillirti.» Peggy Sue si chiese se doveva credergli. Stava uscendo di senno... oppure era Sebastian che non riusciva più a valutare correttamente lo scorrere del tempo? Andò nel panico: e se i loro cervelli si fossero consumati un po' ogni volta che aspiravano una boccata d'aria satura di gas? Quanto tempo sarebbero rimasti coscienti, di questo passo? Si infilò la maschera, ma l'arnese era abbastanza difficile da sopportare. «Mi dà prurito» disse al cane blu, «e poi si suda come in un bagno di vapore con questo coso addosso. Mi sento già le guance piene di brufoli!» Un'ora dopo si mise a piovere. Un acquazzone fitto, impietoso, sferzò le fiancate dell'aerostato, destando all'interno della camera d'aria degli eco inquietanti. La pioggia si trasformò presto in grandine, e Peggy Sue sentì il bisogno di uscire dall'igloo per verificare che le toppe del pallone non si staccassero. «Ehi!» gridò. «Non è acqua, è terra, sassi... viene dalla volta del crepaccio, sopra le nostre teste.» L'aerostato rimbombava come un tamburo. La ragazza sollevò le braccia per ripararsi il viso dalle sferzate di ghiaia. Il Capitano Fantasma avrebbe resistito a quel martellamento? Si morse la lingua sperando che il dolore avrebbe cacciato via l'angoscia. In quel momento le parve di udire un temporale, da qualche parte verso nord. Delle luci giallognole scintillarono in lontananza. Ci fu uno scricchiolio, secco, terribile, uno scintillio di lampi, poi un brontolio immenso, interminabile, si propagò sotto l'immensa volta del guscio. «Esplosioni di metano» fu la diagnosi di Sebastian. «La pioggia di sassi doveva contenere delle particelle di silice: urtandosi tra loro hanno prodotto delle scintille e i gas stagnanti hanno preso fuoco. Se dovesse verificarsi nel punto in cui ci troviamo noi, finiremmo carbonizzati come polli alla diavola!» Peggy strinse i denti; non si faceva alcuna illusione. In caso d'esplosione, né lei né Sebastian avrebbero avuto il tempo di vedersi morire. Il pallone pieno di gas si sarebbe trasformato in una palla di fuoco la cui incandescenza avrebbe illuminato le pareti dell'uovo in un raggio di svariati chilometri. Sarebbero evaporati. «Le frane sono cessate» annunciò infine il cane blu. «Il pericolo è passa-
to. In nome di una salsiccia atomica! Questi sassi mi hanno massacrato la schiena... mi sento come se avessi preso una scarica di bastonate.» 24 Nascondino... Nel corso della giornata Peggy Sue percepì dei curiosi stridii a babordo. «Hai sentito?» domandò al cane blu. «Vedi qualcosa?» «Sì» fece l'animale, la cui vista era molto più aguzza di quella degli esseri umani. «Un'ombra...» Peggy strabuzzò gli occhi. Esplosioni lontane squarciavano la notte con lampi intermittenti. Ancora il metano, pensò la ragazza. Sembrano flash di una macchina fotografica. Non si fa in tempo a vedere granché... Fu durante uno di quei 'flash ' che vide la mano. In un primo momento distolse lo sguardo, rifiutandosi di concedere la minima patente di plausibilità a quell'ombra che si muoveva nella foschia. Poi si costrinse ad affrontare la verità e attese il lampo successivo. Quando si verificò, cercò di localizzare l'apparizione, ma questa era già svanita. Peggy rimase immobile, senza fiato. Cosa aveva visto? Una mano? Una mano gigantesca con le dita divaricate. «Pensi anche tu alla stessa cosa?» domandò al cane blu. «Sì» fece l'animale. «O siamo stati vittima di un'allucinazione oppure...» Un'ora più tardi la ragazza rivide la mano. O piuttosto la sua ombra. Sussultò e prese il cannocchiale. Ma non fece in tempo ad avvicinarselo agli occhi che l'ombra era già scomparsa. Brancola, pensò. Si muove alla cieca. L'ombra ritornò il giorno dopo, stavolta più vicina, e Peggy ne percepì l'odore. Come in precedenza, ebbe l'impressione che un arto enorme brancolasse tra le nuvole per acciuffarli. Si apriva, si richiudeva, esplorando lo spazio circostante, a volte più vicino, a volte lontano... Stringendosi alle funi, la ragazza osservava il fremito di quelle lunghe dita adunche la cui forma - via via sempre più delineata - non aveva nulla
d'umano. «La vedi?» gridò a Sebastian. «La vedi o no?» «Sì» sussurrò il ragazzo. «So a cosa pensi, ma non ti spaventare! Può trattarsi di un'allucinazione, non diamo in escandescenze. Mettiamoci le maschere. L'aria che respiriamo probabilmente è satura di gas psicotropi.» Peggy pregava che lui avesse ragione, ma l'immagine persistette anche dopo che ebbe messo la maschera antigas. La mano... Sembrava reale. Troppo reale. E poi c'era l'odore. Un odore di torba e muffa, un odore di cripta. Peggy fiutò l'aria con prudenza: l'odore non svaniva. Ricordava l'acqua marcia; un tanfo che veniva dal basso, dagli abissi del pianeta, dal cuore dell'uovo. Era l'odore della Divoratrice. Era il fetore di una cella poco areata, in cui vegeta un prigioniero coperto di vermi. La creatura del sottosuolo aveva fiutato la loro presenza. Era affamata, voleva nutrirsi. Aveva allungato uno dei suoi innumerevoli tentacoli per afferrare quella sorta di cambusa volante che la provocava, lassù, tra le nubi gassose. Come un serpente smisurato, lo pseudopodo ondeggiava, cercando di ghermire la preda alla deriva nelle nuvole. Brancolava a casaccio, perlustrando la profondità della bruma. È impossibile, pensò Peggy Sue. Siamo a migliaia di chilometri dal centro dell'uovo: vorrebbe dire che... Dove aveva la testa? Perché meravigliarsi? Si trattava di una bestia il cui guscio era grande come un pianeta! Un essere gigantesco che, una volta nato, avrebbe potuto offuscare la luce del sole semplicemente distendendo le ali. Dato quell'ordine di grandezza, un tentacolo lungo trecento chilometri non era per nulla inverosimile. «Sebastian» farfugliò. «La Divoratrice... è qui! Non è un miraggio... sta cercando di catturarci.» Il giovane si limitò a una smorfia di scetticismo. Innervosita, Peggy si rimise a scrutare la nebbia. Era certa di aver ragione. Questa volta non si trattava di un'allucinazione come dentro la prigione, quando avevano creduto di essere attaccati da scheletri e mele canniba-
li... no, questa volta era reale! L'odore di catacomba lo provava. Lottando contro il panico, cercò di anticipare gli eventi. La mano della Divoratrice prima o poi sarebbe riuscita a localizzarli, abbattendosi sul pallone come un rampino dalla punta acuminata. Facendolo scoppiare. Peggy ricordava le unghie della mano mummificata intraviste nella metropolitana. Artigli gialli, dotati di una potenza distruttrice al di là di ogni immaginazione. Se quell'arma naturale avesse catturato il dirigibile lo avrebbe fatto a pezzi, per poi stringersi sugli occupanti della navicella e trascinarli in fondo alla sua tana. Sì, così sarebbe andata, e poteva accadere da un momento all'altro. Proprio adesso, ora, la zampa mostruosa poteva spuntare dalle nuvole e avventarsi sul pallone. Appena il Capitano fantasma era sceso nel crepaccio, la creatura aveva fiutato la loro presenza, e aveva deciso di ispezionarlo. Adesso brancolava, perlustrando le nuvole, come si rivoltano delle vecchie scatole piene di carta velina alla ricerca di un oggetto smarrito. L'ombra sarebbe tornata. L'ombra di quella 'mano' spalancata che raschiava la volta dell'uovo. Alla fine sarebbe entrata in collisione con il dirigibile: più il tempo passava, più l'incontro diventava inevitabile. Allora gli artigli, gli artigli giganteschi... Peggy sentiva di impazzire. «Calmati» le consigliò Sebastian. «Non sono affatto convinto che quell'immagine sia reale. Potrebbe essere frutto della paura.» Restarono in allerta, scrutando la bruma in ogni direzione, aspettando il ritorno della mano. La Divoratrice si sarebbe stancata? No! Un animale in attesa da mille anni possedeva una scorta di pazienza inesauribile. Avrebbe continuato a setacciare meticolosamente ogni angolo del cielo. D'altra parte, se non fosse stato per le correnti d'aria sotterranea provenienti dai crepacci che spingevano il pallone a destra e a sinistra, avrebbe localizzato la preda già da tempo. Fortunatamente il tentacolo finì per allontanarsi. «L'abbiamo scampata bella» sbuffò il cane blu. «Non era un miraggio.» «Lo so» fece Peggy. «Sebastian è troppo sicuro di sé. Da quando siamo saliti a bordo del pallone si atteggia a comandante. Mi dà sui nervi, è davvero pesante.»
«Gli passerà» bofonchiò l'animale, conciliante. «È tipico dei ragazzi.» 25 Il vento della follia Una tensione angosciosa contrassegnò il resto del pomeriggio, immergendo i naufraghi in un mutismo assolutamente involontario. Era come se, tutt'a un tratto, fosse diventato troppo pericoloso perfino pronunciare le parole. Peggy Sue aveva l'impressione di sentire la testa piena di vapori di benzina sul punto di esplodere. L'aerostato procedeva alla deriva in un paesaggio tormentato di nubi di gas che formavano strane isole volanti sotto l'immensa volta del guscio. Peggy si stropicciava gli occhi sempre più di frequente. Avendo le palpebre irritate, decise di indossare la maschera ed equipaggiò analogamente anche il cane blu. Quando suggerì a Sebastian di fare altrettanto, il ragazzo alzò le spalle con disprezzo. «Pensi che serva solo alle ragazze e ai cagnolini?» buttò lì Peggy, infastidita. «Ti credi più forte di noi?» Sebastian sorrideva come un ragazzino che vede per la prima volta cadere la neve. Puntò il dito verso la massa di una nube fosforescente ed esclamò in tono allegro: «Avete visto? Avete visto? Che bello!» Si esprimeva con voce ansimante e parlava a raffica, mangiandosi le parole. «Mettiti la maschera» insistette Peggy. «Stai respirando gas esilaranti... è pericoloso. È un'altra astuzia della Divoratrice... facendoci ridere spera di indurci a commettere delle imprudenze.» Cercò di avvicinarsi a Sebastian per equipaggiarlo, ma il ragazzo la respinse. Rideva a crepapelle, come uno scolaretto. Batteva le mani davanti alla forma 'strabiliante' di una nube luminosa. «Era un elefante! Un elefante! Avete visto che orecchie enormi?» Corse sul ponte, sporgendosi nel vuoto a rischio di precipitare. Poi si arrampicò sulle sartie, eseguendo graziose piroette degne di una gara di ginnastica artistica. Sospeso per i piedi, a testa in giù, si divertiva a contare le 'pecorelle' di nebbia che li avvolgevano. Peggy lo osservava con trepidazione, temendo che perdesse l'equilibrio e scomparisse nell'abisso.
«E aveva pure la faccia tosta di impartirci delle lezioni!» bofonchiò il cane blu. «Invece guarda come si è fatto fregare!» «Ma a voi non viene voglia di volare, con tutto questo cielo a disposizione?» gridò il giovane. «C'è tanto di quello spazio. Forse agitando le braccia come gli uccelli riuscirò a imitarli...» «Non è il 'cielo'» gli fece notare Peggy. «Siamo sotto terra, all'interno di un gigantesco uovo di pietra... non te lo ricordi?» Sebastian le fece una boccaccia e mise il broncio, bofonchiando che non era altro che «una rompiscatole, come tutte le ragazze». Peggy non sapeva cosa fare. La sola idea di doverlo inseguire sulle sartie le faceva girare la testa. Sebastian proseguiva il suo monologo, evocando di volta in volta il cielo, la libertà, l'opportunità che avevano di diventare degli uccelli. «È come fare il bagno nelle nuvole!» gridava. «Guardate che schiuma! Voglio insaponarmi con il sole.» A quella scarica d'energia seguì un'improvvisa e intensa prostrazione, e il ragazzo si lasciò scivolare a terra, il viso sconvolto, la bocca tremante. Peggy Sue lo tirò a sé, costringendolo a sedersi. Sebastian batteva i denti. «Non voglio risalire in superficie» singhiozzava come un neonato. «Sono felice, qui. Non voglio più risalire. Non mi costringerai, vero?» Peggy gli sussurrò delle parole di conforto. Le pareva di consolare un bambino di cinque anni svegliatosi in preda a un incubo. «Ora capisco... la Divoratrice mi ha parlato!» mormorò Sebastian. «È un'opportunità che ci viene concessa, bisogna prenderla al volo. Via via che scenderemo ci verrà svelata la Verità. È come un'iniziazione. Non dobbiamo cercare di resistere. La soluzione è laggiù, in fondo all'uovo, dove si nasconde la creatura. Il pallone scenderà, e tutto ci sarà rivelato. Tutto.» Peggy non volle contrariarlo tentando di farlo ragionare, ma quella febbre la spaventava. Strinse Sebastian a sé fino a quando s'addormentò. Rimasero così in quella posizione, uno rannicchiato sull'altra, mentre il pallone proseguiva la sua lenta discesa nelle correnti d'aria. Peggy si sforzava di respirare a piccole boccate, come se fosse in presenza di un cattivo odore. L'indomani, apparvero i primi fantasmi.
26 I fantasmi Peggy fu svegliata da uno strano bisbiglio nella sua testa, come di topolini che scorrazzano in un granaio. Da principio lo attribuì a una comunicazione telepatica del cane blu, ma non era così. Andiamo, si disse, ancora insonnolita. Non c'è nulla, nessuno, è un effetto del gas. Una pura e semplice allucinazione. Non farci caso. Ma i suoni si facevano sempre più pressanti. Le parve di distinguere un coro di voci infantili. Non bisogna aver paura, dicevano gli spettri. La creatura non è cattiva. Vieni da noi, stiamo benissimo con lei... non restare sul pallone, salta nel vuoto... ti aspettiamo. Peggy esitava ancora a svegliare Sebastian e il cane blu, quando apparvero i primi fantasmi, facendola restare senza fiato... Dapprima pensò si trattasse di una ventata di nebbia sospinta da una corrente d'aria. Era un fumo spesso che pareva incollarsi alle dita come zucchero filato. Peggy strabuzzò gli occhi, convinta d'essere rimasta vittima di una nuova allucinazione; ahimé, l'immagine aveva una nitidezza che la rendeva terribilmente convincente. La ragazza si accertò di indossare correttamente la maschera di protezione. Malgrado tutto, però, riponeva una fiducia limitata in quei vecchi arnesi. La gomma della maschera si è sciolta per metà, pensò. Molto probabilmente lascia filtrare il gas. Non protegge del tutto. Sotto i suoi occhi, le volute di nebbia modellarono sagome umane: ragazzini, ragazzine. Gomito a gomito, immobili, oscillavano nella corrente, a volte deformandosi. Peggy Sue si ripeté che si trattava di una visione dovuta alla tossicità dell'aria. La maschera era rotta... oppure la pastiglia15, satura, non filtrava più il veleno... In ogni caso, non doveva dare la minima importanza a quelle stupide apparizioni. Nel quarto d'ora seguente gli spettri bambini continuarono a radunarsi, riempiendo il ponte di una folla silenziosa. Adesso erano almeno un centinaio, disposti in plotone attorno alla tenda. Per quanto girasse la testa in tutte le direzioni, Peggy non vedeva altro che questa barriera di sagome bianche. Cominciò a sentirsi un po' a disagio e chiuse gli occhi.
Quando li riaprirò saranno evaporati: così, hop! Sfortunatamente, quando sollevò le palpebre i fantasmi si erano avvicinati. I loro lineamenti diventavano sempre più precisi. I visi guadagnavano in realismo. Nessuna collera, nessuna minaccia era visibile sui loro volti. Al contrario, sorridevano. Ciao Peggy Sue, dissero in coro i piccoli spettri. Non bisogna credere al generale Massalia... La creatura non è cattiva... Non ci ha divorati. Si annoiava, era tutta sola, e allora ha deciso di procurarsi dei compagni di gioco. È per questo che ci ha catturati... Siamo qui in basso con lei, cantiamo, balliamo... È fantastico! Raggiungici... niente più scuola, niente più doveri... vieni con i tuoi amici... Sarà felice di accogliervi... vieni, c'è posto per tutti... È una festa continua! Peggy si tappò le orecchie. Fu tutto inutile: il mormorio dei fantasmi penetrava dentro di lei attraverso i pori della pelle. Gli spettri biascicavano, instancabili, monotoni, e le loro voci finivano per formare un ronzio dall'effetto quasi di una droga. Mi stanno ipnotizzando, si disse la ragazza. Devo resistere. «Tacete!» urlò. «Non riuscirete a convincermi! Non voglio diventare l'amica del cuore della Divoratrice!» E si affrettò a risvegliare i suoi amici. Indispettiti, i fantasmi tacquero. «Che succede?» esclamò Sebastian rialzandosi. «I fantasmi...» ansimò Peggy. «La Divoratrice ci invia incontro i fantasmi dei ragazzini che ha mangiato...» «Sembrano piuttosto degli ometti di bismalva» osservò il cane blu. «Forse potremmo farci colazione?» «Niente panico» disse Sebastian. «Si tratta di un'altra allucinazione. Questi bambini non sono reali.» «Certo che no!» protestò Peggy. «Ti ho detto che sono dei fantasmi!» Adesso gli spettri li accerchiavano, riprendendo il loro mormorio. Questa volta erano di cattivo umore e proferivano minacce confuse. Detestavano Peggy Sue, ma soprattutto Sebastian, quel piccolo insolente che rifiutava di credere alla loro esistenza. Non vi permetteremo di far del male alla creatura! brusivano. Non pensate di poter scendere giù per ucciderla, siamo qui per difenderla... Da
queste parti i domestici del generale Massalia non sono ben visti. E cominciarono a strisciare sul sartiame, sollevandosi lungo le funi in direzione del pallone. Ondeggiavano come fragili volute di fumo, cercando di resistere al vento che li disperdeva. Peggy Sue vide che avevano sollevato le braccia e contratto le dita. Capì subito cosa volevano fare: graffiare il pallone, lacerarlo fino a farlo scoppiare! «Sebastian!» urlò. «Dobbiamo fare qualcosa! Faranno scoppiare il pallone! Impediamoglielo! Dobbiamo fermarli!» «Calmati» ripeté il giovane. «Sono immagini uscite dalla nostra fantasia. Non esistono. La Divoratrice cerca di convincerci a tornare indietro.» «Come puoi esserne così sicuro?» ribatté la ragazza. Il cane blu, per porre fine alla scaramuccia, si era già scagliato all'attacco. Prese a mordere uno dei giovani spettri al polpaccio. «Ehi!» abbaiò. «Non sono così immateriali come pensavo. Sembrano di gomma.» «Ma sì, certo!» ansimò Peggy Sue. «S'induriscono! Diventano solidi per poter attaccare il pallone.» Inizialmente fatti di fumo, gli spiriti si trasformavano in strane creature gommose. Un lattice che nel giro di tre minuti si sarebbe indurito ancora. Le mani di bruma sarebbero diventate solide, le unghie dure come artigli, e tutte quelle grinfie si sarebbero messe a grattare il pallone, alla ricerca di punti deboli delle cuciture. «No!» gridò Peggy Sue. «Non può succedere. Non siete reali!» Senza prestare la minima attenzione alle sue grida, gli spettri proseguirono la loro ascesa. A momenti le raffiche li sparpagliavano, scompaginandone la fragile coesione interna, ma ritornavano sempre alla carica, ostinatamente, come il fumo di un falò che sospinto via dal vento riprende subito la posizione. «Vi proibisco» gridò Peggy. «Vi proibisco...» I fantasmi se ne infischiavano dei suoi ordini! Si arrampicavano, strisciavano in verticale sulle sartie. Peggy Sue si sedette nascondendosi il viso tra le mani, sforzandosi di mantenere la calma. Doveva espellere il gas che le annebbiava il cervello, ridurre al nulla gli spettri prima che si materializzassero nuovamente. Sentì qualcosa o qualcuno toccarle la spalla e cacciò un urlo, credendo che si trattasse di un ectoplasma. Era Sebastian. «I fantasmi» balbettò Peggy. «I fantasmi...»
«Non esistono» ripeté dolcemente il ragazzo tentando di prenderla tra le braccia. «Calmati.» Nell'istante in cui pronunciava quelle parole, gli artigli degli spettri fecero scoppiare il pallone. L'energia della deflagrazione scaraventò Peggy nel vuoto. Sto cadendo! pensò con terrore. Finirò dritta nelle fauci della Divoratrice! E precipitò, ruotando su se stessa nelle tenebre degli abissi. 27 La foresta sotterranea Mentre precipitava vorticosamente nell'oscurità, Peggy avvertì un tentacolo che le si arrotolava intorno alla vita. La caduta si arrestò di netto, ma il suo terrore raddoppiò. Cedendo al panico, si mise a sgambettare e a sferrare calcioni in tutte le direzioni. Era una reazione stupida, perché se il tentacolo l'avesse lasciata andare proprio in quell'istante sarebbe andata a sfracellarsi come un pomodoro maturo centinaia di chilometri più giù, sul fondo dell'uovo! Dopo essersi sfinita inutilmente, fece una strana constatazione: Curioso, pensò, non sembra pelle. Non percepisco scaglie sotto le mie dita. Si direbbe piuttosto corteccia... Non sapendo che fare, sopportò pazientemente la sua disavventura. In lontananza, infine, apparvero delle luci... Non si trattava di esplosioni di metano, ma di vere e proprie fiamme resinose, le cui faville danzavano nelle correnti d'aria. Quei bagliori permisero alla ragazza di constatare che il tentacolo che le stava annodato intorno al petto era in realtà una radice. Una radice di lunghezza interminabile e di straordinaria elasticità. Non era stata catturata dalla Divoratrice, ma da una specie di liana che sbucava da una fessura della volta di granito. Non tardò a distinguere decine di radici simili brulicanti nella penombra, come una nidiata di serpenti. Ondeggiavano mollemente o sferzavano l'aria; a volte si mescolavano o si intrecciavano pigramente. Lo spettacolo era al tempo stesso grandioso e terrificante. Quei tubercoli irti di piccole radici avevano finito col tessere una sorta di ragnatela: una rete fitta, sospesa nel vuoto, che formava una specie di pista d'atterraggio» per tutto ciò che cadeva dai crepacci. Avvicinandosi, Peggy si rese conto che sulla superficie della reticella
vegetale correvano decine di bambini. La radice gigante che l'aveva intercettata durante la caduta la depose sulla 'ragnatela' e allentò la stretta. Incapace di mantenere l'equilibrio, Peggy cadde a quattro zampe. La rete è formata dalle radici, osservò. Le maglie sembrano vive... Si muovono! Una musichetta stridula le fece voltare la testa. Un ragazzino di una decina d'anni stava venendo verso di lei. Era coperto di stracci verdi e suonava un flauto. Altri bambini lo seguivano, con in mano delle torce accese. Sembravano folletti rivestiti di foglie. «Benvenuto fra i compagni della foresta sotterranea» le disse il ragazzo, smettendo di soffiare nel suo strumento. «Sono Pipoz, l'incantatore di serpenti. Lavoravo in un luna park. Il mio padrone era cattivo: per sfuggirgli un giorno in cui voleva picchiarmi - sono saltato in un crepaccio e mi sono ritrovato impigliato in un viluppo di radici. Le radici sembrano serpenti... Dato che avevo con me il mio flauto, ho cercato di incantarle, e ha funzionato!» Aveva una strana faccia costellata di lentiggini e un naso appuntito. I capelli rossi gli sfuggivano dal berretto sbrindellato. «Benvenuta» disse in tono serissimo un ragazzo di circa sedici anni, che brandiva una torcia. «Io sono Anaztaz, il capo di questa comunità. Pipoz ti ha appena salvato la vita, ordinando a questa radice di afferrarti al volo. Gli è bastato suonare un'arietta appropriata... e hoplà!» «Grazie,» balbettò Peggy Sue tentando di rialzarsi «ma dove sono i miei amici?» «Non avere paura» rispose Anaztaz in tono protettivo. «Sono stati catturati da altre radici. Saranno qui fra un momento.» «Siete davvero capaci di comandare queste liane?» fece la ragazza in tono stupito. «Sì» confermò Anaztaz, sollevando la torcia per illuminare la volta. «Inizialmente si trattava di radici dei grandi alberi piantati dai primi abitanti del pianeta sulla superficie dell'uovo. A forza di insinuarsi fra i crepacci, le radici hanno finito per sbucare qui, nello spazio interno del guscio, e i gas emessi dalla Divoratrice le hanno bagnate, producendo in loro incredibili mutazioni. A poco a poco sono cresciute, raggiungendo proporzioni considerevoli... soprattutto, sono diventate viventi!» Il ragazzo tacque, poiché due radici avevano appena deposto Sebastian e il cane blu sul bordo della rete vegetale. Peggy fu molto sollevata di veder-
li in piena forma, ma non osò correre loro incontro, perché provava grandi difficoltà a spostarsi sulle maglie grossolanamente intrecciate. «Ehi!» ansimò Sebastian. «Dove siamo?» «Ascoltami e lo saprai» gli intimò Anaztaz in tono autoritario. «Qui si devono rispettare le regole della comunità. Dato che le radici vi hanno salvato la vita, ormai appartenete anche voi alla confraternita dei sopravvissuti della foresta sotterranea. Di conseguenza, dovrete obbedire alle nostre leggi senza discutere. È il prezzo da pagare. Se non siete d'accordo, potete sempre saltare nel vuoto per raggiungere la Divoratrice.» Alle spalle di Anaztaz, i portatori di torce fecero un ghigno. Erano tutti vestiti di costumi di foglie o di fibre vegetali intrecciate, che davano loro l'aspetto di creature dei boschi. «Mezzi umani e mezzi ortaggi» borbottò telepaticamente il cane blu. «Gli piace giocare ai piccoli capi. Sento che le cose non andranno troppo bene, con questi giovani fusti.» «Calma, Anaztaz» intervenne Peggy Sue. «Non c'è bisogno di mostrare i denti. Ti siamo riconoscenti di averci salvato la vita... Eravamo su un dirigibile, dei fantasmi ci hanno attaccato. Hanno forato l'involucro con le unghie. È esploso e...» Anaztaz ridacchiò. «Non c'era nessun fantasma» fece con voce sprezzante. «Vi ho osservato col binocolo. Siete stati voi a forare il pallone, con le vostre unghie... I gas emessi dalla Divoratrice vi hanno fatto perdere la testa. Senza le mie radici viventi, sareste stati perduti. La Divoratrice vi ha abbindolato ben bene.» Pipoz fece un passo avanti, intenzionato a distendere l'atmosfera. «Vi insegnerò a suonare il flauto» dichiarò. «In dieci lezioni sarete in grado di comandare alle radici di media lunghezza.» «Questo è tutto da vedere» lo interruppe Anaztaz con voce nasale. «Bisogna che siano dotati per la musica. Che imparino prima di tutto a camminare sulla rete, poi si vedrà per cosa possiamo impiegarli.» Girandosi verso i tre amici, aggiunse: «Dovete darvi da fare: qui non sappiamo che farcene dei buoni a nulla. Se non rigate dritto, vi getteremo giù dalla rete.» «Simpatico, il ragazzo!» sibilò il cane blu. «Un altro cui il potere ha dato alla testa.» Peggy e i suoi amici, loro malgrado, dovettero unirsi alla piccola truppa. I compagni della foresta sotterranea saltavano agilmente da una maglia all'altra. I loro balzi facevano oscillare la rete, rendendo l'equilibrio dei
nuovi arrivati ancora più precario. Solo il cane blu (grazie alle sue quattro zampe) se la cavava egregiamente. Il plotoncino attraversò la rete in diagonale. Un po' ovunque, bambini e adolescenti suonavano il flauto per domare le radici. «Solo la musica può costringerle a obbedire» spiegò Pipoz. «Spontaneamente si comportano come dei serpenti. Se mia madre non mi avesse insegnato una dozzina di melodie magiche, non sarei mai riuscito a comandarle. Di fatto, sono alquanto selvagge. Gli capita di battersi fra di loro, di strangolarsi o di tagliarsi in due.» «Questa aggressività ha i suoi lati positivi» osservò Anaztaz. «Le radici sono combattenti di prim'ordine. Ci difendono dalla Divoratrice: respingono i tentacoli quando vengono a cercare qualcosa da mangiare sulla rete!» «Le radici si battono per voi?» fece Peggy, stupita. «Sì» rispose Anaztaz pavoneggiandosi. «Certo, bisogna conoscere le melodie di attacco e di risposta, e sapersi servire di un flauto come di un'arma da guerra, il che non è cosa da primi venuti.» «Figuriamoci!» lo derise mentalmente il cane blu. «Senza le radici mutanti... e senza Pipoz» continuò Anaztaz «saremmo morti da tempo. La rete si estende ormai per più di dieci chilometri, è opera nostra. Ci ha permesso di salvare un bel po' di ragazzi. I piccoli idioti che saltano nei crepacci finiscono qui. Quanto a quelli catturati dai tentacoli, mandiamo le radici a intercettarli. Non funziona sempre, ma spesso riusciamo a sottrarre alla Divoratrice le sue prede.» «Ottimo lavoro!» disse Peggy Sue. «Sì, ne vado fiero,» ribadì Anaztaz «ma per raggiungere risultati simili ci vuole disciplina. Ecco perché dovrete subito seguire dei corsi di musica e di cucito. Ricordate il principio fondamentale della rete: qui non c'è posto per le persone inutili: siamo tutti soldati!» Nei giorni seguenti Peggy Sue e i suoi amici dovettero adeguarsi alle regole della comunità. C'era poco da divertirsi. In primo luogo, il cibo si componeva di radici e rovi cotti, o poltiglie di corteccia tritata. Da bere c'era linfa o acqua piovana, mentre il fuoco si accendeva strofinando schegge di selci recuperate dai crepacci. La cosa peggiore era l'obbligo di seguire interminabili lezioni alla scuola di musica diretta da Pipoz, dove si apprendevano le melodie magiche che permettevano di comandare le radici viventi. Ogni sequenza di note produ-
ceva un'azione precisa: Attacca! Fai un nodo! Gira a sinistra (a destra)! Passa sopra (sotto)... e così via. La difficoltà consisteva nel suonare queste arie molto velocemente, d'istinto, e al ritmo giusto. Il ritmo contava più di tutto, perché altrimenti la magia non funzionava e le radici continuavano a rimanere in panciolle, come dei boa satolli sul fondo di un rettilario. Peggy Sue si annoiava a morte, poiché la magia le era sempre parsa una scocciatura. Le formule da imparare a memoria, gli incantesimi impronunciabili... tutto questo la tediava enormemente: ecco perché aveva rifiutato di seguire gli insegnamenti della nonna, Nonna Katy. «Usare la magia equivale a imbrogliare!» era solita affermare. «Io preferisco cavarmela con le mie forze.» Ovviamente, domare le radici mutanti la infastidiva profondamente. Per di più non era brava a suonare il flauto, e le sue stecche provocavano delle catastrofi: per ben due volte aveva rischiato di strangolare un altro allievo, causando un falso movimento della radice che avrebbe dovuto indirizzare! Sulla ragnatela non c'erano case vere e proprie, ma capanne composte da radici morte e fogliame intrecciato. Alcuni preferivano dormire dentro dei nidi, come gli uccellini, ma la maggior parte dei ragazzi viveva in rozze capanne in cui si raggruppavano per fasce di età e praticavano l'autodisciplina. Erano tutti molto interessati al cane blu, perché sulla rete non c'erano animali. Lui ne approfittava per darsi delle arie, come al solito: adorava fare la star. Di quando in quando, Anaztaz veniva a ispezionare la classe e si produceva in uno dei suoi discorsetti: adorava i comizi! «Le radici sono nostre amiche» farneticava. «Senza di loro la Divoratrice ci avrebbe tutti ingoiati da un bel po'. Senza di loro, niente rete, niente mezzi per respingere gli attacchi dei tentacoli o per recuperare i ragazzi rapiti dalla bestia. Grazie a loro possiamo starcene al sicuro. Pensateci, invece di piagnucolare perché il brodo non è buono! Siete più sicuri qui, sulla 'ragnatela', che in superficie, dove i vostri genitori sono incapaci di proteggervi! Quelli che vorrebbero risalire da loro sono dei piccoli imbecilli, che meriterebbero di essere gettati nel vuoto! Degli ingrati, proprio così! Ve lo ripeto: le radici ci difendono meglio di quanto potrebbero fare gli adulti.» Nel pronunciare quelle parole si eccitava e finiva col diventare tutto rosso. Peggy Sue lo trovava piuttosto carino, ma le faceva paura. «Gioca a fare il piccolo re» borbottava Sebastian quando Anaztaz usciva dalla classe. «Non so cosa mi trattenga dal tirargli un bel cazzotto.» «È vero che siamo un po' suoi prigionieri,» ammise Peggy Sue «ma bi-
sogna fare buon viso a cattivo gioco. Per il momento le cose vanno male. Io sono come te, non ho voglia di passare i prossimi dieci anni a mangiare radici bollite o a intrecciare fibre vegetali per trasformarle in calzoni. Pazienza... prima o poi mi verrà un'idea che ci permetterà di darcela a gambe levate!» Oltre che all'ammaestramento delle radici, bisognava partecipare alla tessitura della rete. I giovani dovevano cogliere le radici morte e utilizzarle per intrecciare nuove maglie. Così la rete cresceva. «Tagliate solo le radici morte» ripeteva Pipoz. «Quelle vive si ribellerebbero e devasterebbero la rete, dimenandosi per cercare di liberarsi. Ma fate ben attenzione a non confondere una radice morta con una addormentata! Se cercate di tagliare una radice addormentata, vi strangolerà come un boa constrictor o vi schiaccerà la gabbia toracica.» Armati di un'ascia di silice, Peggy Sue e Sebastian dovettero imparare a spostarsi nell'intrico di liane e di pseudopodi vegetali che pendevano dalle crepe. Non era facile. A volte, equivaleva ad arrampicarsi sul sartiame di un trialbero in pessimo stato. Peggy perse due volte l'equilibrio. Fortunatamente ricadde sulla rete, ma nell'impatto si ferì la schiena. «Sei rigata come una zebra!» le annunciò il cane blu, esaminandole i lividi. Ogni volta che si avvicinavano a una radice pendente, i due adolescenti si scambiavano uno sguardo inquieto, chiedendosi se fosse morta oppure addormentata. Non erano abbastanza esperti per capire la differenza a colpo d'occhio, basandosi sul colore della corteccia o sulla flessibilità del legno. «Hanno tutte lo stesso aspetto» borbottava Sebastian. Commisero diversi errori, che rischiarono di costar loro la vita. Scalfirono a colpi d'ascia una radice che stava schiacciando un pisolino, rischiando di farsi decapitare, dato che il serpente vegetale schioccò come una frusta per manifestare la propria ira. La vitalità delle appendici era stupefacente. Se non erano sotto l'influsso ipnotico della musica di un flautista, si comportavano come animali egoisti, non esitando ad attaccare le loro vicine per guadagnarsi uno spazio maggiore. «In realtà,» spiegò Pipoz «alle radici non piace lavorare. Aspirano soltanto a sonnecchiare nell'oscurità e stiracchiarsi pigramente come un uomo
addormentato nel proprio letto. Quando ci si trova in superficie e si contemplano le foreste piantate dai primi coloni terrestri, non ci si rende conto dell'importanza enorme che hanno le radici degli alberi. È come la punta di un iceberg: se ne vede sempre appena un decimo, mentre gli altri nove rimangono sott'acqua. Quanto alle radici, sono cento volte più lunghe dell'albero cui sono attaccate.» Pipoz era gentile, Peggy Sue lo trovava simpatico. Aveva l'aria di un folletto uscito da un cartone animato. Una specie di Peter Pan grassottello dalle guance costellate di lentiggini. Suonava magnificamente il flauto. «Mia madre faceva la strega in un circo» confidò un giorno alla ragazza. «Prediceva il futuro, fabbricava pozioni d'amore. È lei che mi ha insegnato le melodie magiche per comandare gli animali.» «Soltanto gli animali?» chiese Peggy. «No» ammise Pipoz, «funziona anche con le persone. Se volessi farti innamorare di me, mi basterebbe suonare una certa aria col mio flauto.. e tu.. mi baceresti... ma non lo farei, perché equivarrebbe a imbrogliare.» Pronunciando queste parole Pipoz era arrossito. «La magia è sempre un imbroglio...» filosofeggiò Peggy Sue, per dissimulare l'imbarazzo. «È per questo che non ho mai voluto diventare una strega.» Accorgendosi che Pipoz era in vena di confidenze, Peggy mormorò: «Non trovi che Anaztaz sia cattivo?» Pipoz alzò le spalle e si adombrò. Quando rispose, lo fece con voce spaurita. «Si sente in dovere di garantirci protezione» sussurrò. «È una grossa responsabilità. Ma è vero che a volte si mostra autoritario. Bisogna imparare a conoscerlo.» «Tu non hai intenzione di passare tutta la tua vita sulla rete, vero?» fece la ragazza in tono stupito. «Non lo so. Non ci ho pensato. Qui sono diventato importante. In superficie ero solo un piccolo incantatore di serpenti in un miserabile circo dal tendone tutto rattoppato. Il mio padrone mi prendeva a calci nel sedere e mi faceva spazzare la cacca degli elefanti. Se ritornassi lassù, dovrei ricominciare a vivere così. Non riuscirei più a tollerare che gli adulti mi diano degli ordini. Sono dei buoni a nulla, hanno devastato il pianeta. Senza le loro trivellazioni, le industrie e l'inquinamento, la Divoratrice non si sareb-
be mai risvegliata e noi vivremmo in pace sulla superficie del guscio.» La scuola di maglia e cucito era diretta da una ragazza sedicenne di nome Zita, che detestava Peggy Sue, perché la trovava maldestra nel lavoro di intreccio. «Sul tuo pianeta sarai forse una star» ripeteva, «ma sulla ragnatela non sei altro che una piccola apprendista, incapace di intrecciare correttamente una maglia. Spero che un tentacolo ti porti via al prossimo attacco, così mi sarò sbarazzata di te!» Dopo una settimana di quell'andazzo, Peggy, Sebastian e il cane blu si riunirono per decidere il comportamento da adottare. «Non possiamo rimanere qui» esordì il ragazzo, senza pensarci su. «Il flauto mi fa orrore, mi fa sanguinare le labbra... e poi quelle melodie assurde sono impossibili da suonare: bisognerebbe avere quindici dita e tre mani per eseguire correttamente gli accordi.» «Abbiamo due soluzioni» disse Peggy Sue. «O utilizziamo le radici morte per cercare di arrampicarci in superficie infilandoci in un crepaccio... o continuiamo la nostra missione, tentando di scendere sul fondo dell'uovo per incontrare la Divoratrice.» «Ma non abbiamo più le bombe!» protestò Sebastian. «Quando il pallone è scoppiato, il nostro equipaggiamento è caduto nel vuoto e si è schiacciato da qualche parte laggiù, nelle tenebre. Cosa farai quando ti ritroverai faccia a faccia con la bestia degli inferi?» «E poi, come pensi di riuscire a scendere laggiù?» chiese il cane blu. «Se vuoi saltare, dovremo almeno fabbricare un paracadute di fibre intrecciate, e non credo proprio che ci verrà concesso.» «Lo so» tagliò corto Peggy. «Anch'io ho fretta di tornare a casa, ma non possiamo abbandonare questi bambini al loro destino. Dobbiamo andare fino in fondo. Mi dico che è necessario tentare di stabilire un dialogo con la Divoratrice, capire chi è veramente. Da quando siamo arrivati a Kandarta non ho sentito altro che storie contraddittorie su di lei. Secondo alcuni è cattiva e mangia i marmocchi, secondo altri è gentile e attira i bambini nelle profondità del guscio solo per distrarsi dalla sua solitudine. Si dice che bisogna ucciderla per salvare il pianeta, o al contrario che è meglio lasciarla vivere, perché ammazzarla equivarrebbe a distruggere Kandarta. Non so più a chi dar retta.» «Neppure io» approvò il cane blu. «Ognuno ha una versione diversa. Difficile farsi un'opinione.»
Sebastian scosse le spalle. «Anch'io la penso come voi» mormorò. «Mi fa rabbia l'idea di abbandonare questi marmocchi alla loro sorte, ma non vorrei finire i miei giorni nel ventre della Divoratrice. Diamoci una settimana di tempo per escogitare un piano di battaglia, dopodiché risaliremo in superficie scalando le radici e chiederemo a Massalia di rispedirci sulla Terra. Non si può pretendere l'impossibile.» «Come mai voi non subite l'effetto dei gas allucinogeni emanati dalla creatura?» chiese Peggy a Pipoz, passeggiando insieme a lui sulla rete. «Sono i tentacoli a diffondere il gas, attraverso le ventose» spiegò il ragazzo dal volto di folletto. «Ma arrivano raramente fin qui, perché le radici li respingono. Finora siamo sempre riusciti a impedire che rompessero le stalattiti cui è ancorata la ragnatela. Se la creatura riuscisse a spezzare quei punti di attacco, la rete crollerebbe come un ponte di liane cui siano stati recisi i cavi principali, e noi precipiteremmo nel vuoto. La nostra sopravvivenza dipende dalle radici. Sono le nostre sole armi, le nostre uniche difese contro i pericoli che vengono dal basso. Per quanto riguarda il gas allucinogeno, esiste un altro rimedio: bere della linfa. Il succo delle liane funge da antidoto. Due sorsate al giorno bastano in genere a proteggersi dalle allucinazioni.» L'indomani, Anaztaz venne a interrompere la lezione di flauto per fare una dichiarazione. Aveva il volto fermo e gli occhi duri. «Cari bambini,» cominciò «cari sopravvissuti, cari compagni della foresta sotterranea. Mi presento a voi per portarvi cattive notizie. Le nostre vedette hanno percepito movimenti provenienti dal fondo, delle ombre sinuose. Sembrerebbe che dei tentacoli si stiano sollevando durante la notte con l'intenzione di attaccarci ancora una volta. Siete soldati, flautisti di guerra. Vi ordino di raggiungere senza indugio i vostri posti di combattimento e di tenervi pronti a difendere il nostro territorio. La battaglia sarà dura e avrò bisogno di tutti, anche dei principianti. Stavolta non si tratta più di un allenamento. I tentacoli possono colpire in qualunque momento, fra due giorni o fra un'ora. La nostra sopravvivenza dipende tutta dai vostri flauti.» Gli allievi si scambiarono sguardi preoccupati. La maggior parte di loro prendeva improvvisamente coscienza del fatto che non si erano mai veramente applicati e conoscevano troppe poche melodie magiche. Peggy e Sebastian erano fra questi.
«Benissimo» dichiarò Pipoz, il cui improvviso pallore tradiva l'angoscia, «ripasseremo gli accordi principali che permettono alle radici di muoversi.» Per la prima volta dall'inizio del corso, nessuno fece battute. Quando ebbero finito di ripassare le melodie di base, Pipoz ordinò agli allievi di seguirlo e indicò loro la posizione da occupare nei diversi punti strategici della rete. «Gli apprendisti si schiereranno come rinforzi dietro i flautisti più esperti» spiegò. «Osserveranno i loro gesti e ne memorizzeranno le melodie. Se i 'maestri' verranno portati via dai tentacoli, gli apprendisti prenderanno il loro posto e si sforzeranno di imitarli. Reagite in fretta, senza cedere al panico. Fuggire non vi sarà di alcuna utilità. Correre sulla rete è pericoloso, perché le oscillazioni si propagano lungo le maglie e finiscono per far perdere l'equilibrio a tutti. Se vi mettete a galoppare di qua e di là, la rete vibrerà come una pelle di tamburo e rotoleremo tutti a gambe all'aria. È il modo migliore per cadere nel vuoto. Mantenete il sangue freddo, qualunque cosa succeda.» Peggy Sue strinse nervosamente le dita intorno al suo lungo flauto di legno a venti fori. Non si sentiva all'altezza di quello che si stava annunciando. Fu separata da Sebastian, ma il cane blu le rimase al fianco. «Rimarrai insieme a me» le sussurrò Pipoz. «Così starai più al sicuro.» «È innamorato di te e ti vuole proteggere» osservò mentalmente l'animale. «Mi sento rassicurato, ti vedevo messa male!» Il maestro flautista si affrettò a disporre i suoi guerrieri musicali nei punti strategici della ragnatela. Tutti erano nervosi. A un suo ordine, imboccarono i flauti per intonare la melodia di base che avrebbe provocato il risveglio delle grosse radici addormentate. Farle uscire dal torpore non era mai facile, dato che niente piaceva loro di più che starsene a poltrire come dei boa ben satolli. I più giovani avevano avuto l'incarico di accendere le torce e sorvegliare il rischio di incendi. Due secchi pieni di linfa densa aspettavano di essere rovesciati sui focolai. Nessuno parlava. Tutti ascoltavano le eco lontane che risuonavano sotto di loro. Peggy Sue si sedette a gambe incrociate alle spalle di Pipoz. Le dispiaceva di essere stata separata da Sebastian, ma sapeva che il flautista l'aveva
fatto apposta, per gelosia. Era stato un pensiero carino, ma lei temeva che Pipoz si facesse venire l'idea di stregarla con una melodia magica. Sarebbe stata capace di resistere? E se mi costringesse a baciarlo? pensò all'improvviso. Sicuramente Sebastian la prenderebbe malissimo! «Attenzione!» gridò Pipoz. «Eccoli! Fate srotolare le radici per formare una barriera difensiva. L'impatto sarà duro.» Peggy Sue si sporse in avanti, scrutando fra le tenebre. Distinse qualcosa che saliva lentamente dagli abissi. Erano forme vaghe, sinuose. Tutti trattenevano il fiato. Intorno alla rete, le radici giganti della foresta sotterranea ondeggiavano emettendo scricchiolii di corteccia. All'improvviso, due tentacoli sbucarono fuori in piena luce. Le ventose li rendevano simili a quelli di una piovra, ma terminavano con mani artigliate. La ragazza dovette fare appello a tutte le sue riserve di coraggio per non battere in fuga alla vista di quelle cose terribili che si dirigevano verso la rete. «Sbarramento!» gridò Pipoz. «Presto, la melodia dello sbarramento!» I flautisti imboccarono gli strumenti; si levò un'aria stridula, strana. Non aveva nulla di gradevole, e nessuno avrebbe avuto voglia di ballare al ritmo di una simile canzone, ma le radici giganti si sollevarono subito come cobra infuriati per fronteggiare i tentacoli. Le radici, obbedendo agli impulsi della musica dei flautisti, si intrecciarono intorno ai tentacoli, imprigionandoli in un intrico di nodi complicati, che li immobilizzarono. Con gli occhi sbarrati per il terrore, Peggy rimase ad assistere a quello scontro di titani. Da entrambe le parti gli pseudopodi lottavano per avere la meglio sul proprio avversario. Le dita artigliate della creatura scalfivano la corteccia delle radici senza riuscire a far loro veramente del male, dato che queste ultime erano insensibili al dolore. Le scosse facevano tremare a tal punto la volta della caverna che delle pietre miste a terra ricaddero sulla testa dei bambini. I flautisti suonavano senza sosta, consentendosi appena di riprendere fiato. Tutti cercavano di imitare Pipoz, che come un direttore d'orchestra indicava loro la sequenza delle melodie necessarie per ottenere che le radici eseguissero movimenti sempre più complessi. Purtroppo i tentacoli erano molto più forti delle radici e non tardarono a forzare lo sbarramento. Peggy Sue credette che fosse arrivata la sua ultima ora!
Per una mezz'ora, la rete fu oggetto di assalti di un'aggressività inaudita. Ogni volta che un tentacolo si aggrappava alle maglie, interveniva una radice a stringerlo il più forte possibile per fargli abbandonare la presa. La ragnatela, scossa da tutte le parti, si tendeva in corrispondenza dei punti d'attacco. Peggy teneva rannicchiato in grembo il cane blu, per evitargli di essere sbalzato fuori. Anche lei faceva molta fatica a rimanere seduta. Le scosse l'avevano fatta rotolare lontano da Pipoz. Pietre, brandelli di corteccia e spezzoni di liana cadevano dalla volta, stordendo i flautisti. Un tentacolo riuscì a liberarsi e a tagliare una delle radici a metà. Ne sgorgarono getti di linfa, che cosparsero i ragazzi come uno strano sangue verdastro. Speriamo che Sebastian non rimanga ferito! si ripeteva la ragazza. La confusione si tramutò a poco poco in panico. I musicisti apprendisti cominciarono a rifluire in disordine. Alcuni si sbagliavano nell'esecuzione delle melodie, provocando delle catastrofi. Capitava che le radici si attaccassero fra loro invece di assalire gli pseudopodi della bestia! Anaztaz correva da un capo all'altro della rete per impartire degli ordini. Zita e le 'filatrici' rappezzavano alla meglio le maglie sezionate che minacciavano di sfilarsi come una calza... facendo rotolare tutti negli abissi. Vedendo una radice inattiva, Peggy prese il flauto e cercò di risvegliarla per trasformarla in un'arma terribile. Non era molto abile, ma riuscì lo stesso a strangolare un tentacolo, finché quello divenne quasi nero e batté in ritirata. Ogni volta che uno pseudopodo urtava la rete, la scossa faceva cadere di sotto un ragazzino. Era come gettare un elefante su un trampolino: la vibrazione era così forte che tutti quelli che ci si trovavano seduti erano scaraventati per aria. La battaglia durò un'eternità. Dovettero spegnere un principio di incendio, poiché le faville avevano appiccato il fuoco alle liane intrecciate. La squadra dei pompieri si affrettò a gettare secchi di linfa sui tizzoni, soffocando il focolaio prima che assumesse dimensioni catastrofiche. La Divoratrice cerca di sganciare la rete dai suoi punti di ancoraggio, constatò Peggy. Senza il baluardo delle radici ci riuscirebbe. La strapperebbe dalla volta proprio come una piovra gigante sradicherebbe un lampadario da un soffitto. Alla fine, dopo un'eternità di caos, assalti e contrattacchi, i tentacoli batterono in ritirata, ripiegando nell'oscurità delle tenebre. Non ripartivano il-
lesi: le radici li avevano tagliuzzati, lacerati e persino amputati di svariate decine di metri. Peggy si rimise in piedi. Intorno a lei si levavano pianti e grida. C'erano molti feriti. I capisezione facevano l'appello per cercare di determinare il numero degli scomparsi. Un terribile presentimento si impadronì della ragazza. Zoppicando di maglia in maglia fece il giro della zona posta sotto il comando di Pipoz. Ogni volta che incrociava uno degli allievi della scuola di musica, lo apostrofava gridando: «Hai visto Sebastian?» Alcuni la squadravano senza capire, troppo scioccati dalla battaglia, ma qualcuno rispondeva: «Di là... a destra, era con Andoriz.» oppure: «A un certo punto l'ho visto ritirarsi insieme a Martaroz e Zabilief. Poi l'ho perso di vista.» Alla fine si imbatté in Zita, la responsabile del corso di maglia. «Sì» annunciò lei, senza tante cerimonie, «era vicino a me... almeno finché una maglia non ha ceduto ed è precipitato nel vuoto. È caduto, il tuo amichetto. Veloce come un'incudine, e nessuno ha potuto far nulla per recuperarlo.» 28 Discesa agli inferi Peggy Sue non piangeva. «Sono sicura che non è morto» disse al cane blu. «Altrimenti penso che qualcosa si sarebbe spezzato dentro di me, e invece lo sento sempre lì. È vivo, lo so, devo corrergli in aiuto.» L'animale passò il muso fra le maglie della rete per scrutare l'abisso che si apriva sotto le sue zampe. «Hai ragione» disse. «D'altronde sento il suo odore. È riconoscibilissimo. I ragazzi hanno sempre un cattivo odore, perché non si lavano mai. In questo caso potrebbe rivelarsi utile. Sebastian puzzava soprattutto dal piede sinistro... Non so perché, ma la cosa ci fornirà un ottimo indizio quando si tratterà di ritrovare le sue tracce.» «Forse si è aggrappato a qualcosa» continuò la ragazza senza prestare attenzione alle parole del cane. «Una liana... una radice. O forse la sua cadu-
ta è stata interrotta da uno spunzone di roccia. Andremo a cercarlo. Fabbricheremo un paracadute e salteremo nel vuoto.» «Fantastico» fece il cane blu per non contrariarla. «È un'ottima idea.» «Prova a contattarlo telepaticamente!» «Già fatto, ma non funziona. Gli strati di gas bloccano le onde mentali. E poi, la distanza è troppo grande. Non ho abbastanza potenza per arrivare così lontano. Mi dispiace.» Solo Pipoz notò la tristezza di Peggy. Niente di che stupirsi: da una parte era innamorato di lei e dall'altra gli abitanti della rete erano troppo indaffarati nei lavori di ricostruzione per occuparsi dell'umore dei propri vicini. La battaglia aveva causato gravi danni alla ragnatela. Zita e le sue apprendiste lavoravano senza sosta per rammendare le maglie sfilate. I bambini scomparsi erano più di cinquanta. «Non abbiamo tempo per piangerli» dichiarò Anaztaz in un nuovo discorso. «La Divoratrice può tornare all'attacco anche domani. Dispone di migliaia di tentacoli, e quelli che le abbiamo ferito non la disturberanno affatto. La nostra sola speranza è che finisca con lo stancarsi di perdere una battaglia dopò l'altra e impari ad aver paura di noi.» «Cinquanta bambini scomparsi» borbottò il cane blu, «non so se la si possa considerare una grande vittoria...» Pipoz non si separava mai da Peggy. «Non puoi rimanere tutta sola» insisteva. «Se nessuno ti protegge, diventerai lo zimbello di Zita. È gelosa di te, e dato che è la fidanzata di Anaztaz, si darà da fare per mettertelo contro. Ti renderà la vita impossibile. Lo so che tenevi a Sebastian, ma siamo in guerra e bisogna affrettarsi a seppellire i morti, perché la tristezza ci rende vulnerabili e ci trasforma in facili prede. Se diventi la mia ragazza, ti insegnerò i segreti delle melodie magiche. Nessuno oserà più attaccare briga con te.» «Sei gentile, ma corri un po' troppo!» fece la ragazza, in tono interdetto. «Non abbiamo tempo per aspettare» rispose il flautista. «Domani forse saremo nello stomaco della Bestia: bisogna approfittare del presente.» Peggy Sue non voleva irritarlo e farselo nemico, poiché intuiva che l'influenza di Zita era forte, sulla rete. «Ci penserò» mentì. «Per il momento sono troppo triste.» «Non metterci troppo tempo» le consigliò Pipoz. «Anaztaz potrebbe attribuirti incarichi pericolosi, come il taglio delle radici ferite.»
Nei giorni che seguirono, in occasione dei lavori eseguiti in comune, Peggy cercò d'informarsi presso gli altri bambini. «Si sa cosa c'è laggiù?» domandò. «Non esattamente» le sussurrò una ragazzina di nome Zillia. «Non si è neppure sicuri che la creatura mangi gli esseri che cattura.» «Cosa vuoi dire?» «Tendendo l'orecchio, si sentono delle canzoni... delle risate. A volte mi dico che laggiù ci si diverte di più che qui sulla ragnatela. Un giorno ho riconosciuto la voce di un mio ex fidanzato, Marcuz. È caduto durante un attacco. Lo credevo morto, e poi...» «E poi?» «E poi una volta, mentre tutti dormivano e non c'era più nessun rumore, mi è sembrato di sentire la sua voce fra le eco che salivano dal fondo. Aveva una risata inconfondibile... Per questo ho capito subito che si trattava di lui.» «Dunque la caduta nel vuoto non l'aveva ucciso?» «No... So che Anaztaz direbbe che è una stupidaggine, ma in realtà non si sa come è fatto il fondo dell'uovo. Forse c'è uno strato enorme di schiuma. Oppure cacca. La cacca della Divoratrice... che ammortizza il colpo, quando si cade, in modo che non si rischi di rompersi il collo. Non ne so nulla, io. Bisognerebbe che qualcuno si decidesse ad andare a vedere.» Quando fu nuovamente sola con il cane blu, Peggy mormorò: «Hai sentito? Cosa ne pensi?» «Tutto è possibile. Dopo la storia del castello nero, ho imparato a non trarre conclusioni affrettate. La vera identità del Dottor Scheletro ci ha molto stupito, ti ricordi?16» In realtà l'animale non voleva dispiacere la sua padrona. Fra sé, pensava che Sebastian fosse bell'e morto. La cosa non gli dispiaceva particolarmente, dato che lui amava soltanto Peggy Sue, per la quale si sarebbe fatto tagliare a fettine. Come capita a molti animali, il suo affetto era esclusivo. E poi pensava che per la ragazza fosse ora di cambiare fidanzato... o meglio ancora, di non averne più affatto! Staremmo tanto bene insieme, noi due - diceva tra sé. Che bisogno c'è di un ragazzo? Questo Sebastian mi rompe le scatole. Lo preferivo quando si trasformava in sabbia, almeno non stava lì tutto il tempo a rimbrottarmi. Ma non lo diceva ad alta voce. Si sarebbe lasciato schiacciare da un rullo
compressore, piuttosto che dare un dispiacere a Peggy. «Cercherò di fabbricare un paracadute» decise la ragazza. «Bisognerà che riesca a rubare un bel pezzo della tela che viene tessuta con le fibre vegetali.» «Sarà difficile» obiettò il cane. «La vegliano come se fosse d'oro!» Peggy Sue non tardò ad accorgersi che il cane aveva ragione! Zita riponeva tutto ciò che usciva dai laboratori di tessitura in una capanna sorvegliata da ragazzi armati di coltelli. Peggy non se la sentiva di attaccare la capanna, tanto più che sospettava che Zita avesse intuito le sue intenzioni. «Cercherà di farti una carognata, puoi starne certa!» proclamò il cane blu. «Ha paura che Anaztaz si innamori anche lui di te e la ripudi. Non fidarti di lei, potrebbe venirle l'idea di gettarti nel vuoto mentre dormi. Monterò di guardia per dissuaderla dal tentare il colpo.» Come previsto da Pipoz, Zita ottenne che Anaztaz assegnasse Peggy al settore delle radici, con la missione di sfrondare quelle mortalmente ferite in battaglia. Peggy si vide quindi affidare un'ascia di silice, una corda e dei ramponi che avrebbero dovuto agevolarle la scalata. «Dovrai tagliare le radici troppo danneggiate» le spiegò Anaztaz. «Soprattutto quelle che sormontano la rete, perché una volta secche potrebbero staccarsi e caderci addosso. Fa' attenzione: hanno riflessi sorprendenti. Devi provare a tagliarle a poco a poco. Così potremo recuperarle e trasformarle in fibra per i vestiti.» Peggy non si ribellò. Sapeva che il lavoro era pericoloso, ma perlomeno quell'occupazione le avrebbe impedito di pensare continuamente a Sebastian. Si preparò uno zaino rudimentale in cui piazzò il cane blu, così avrebbe potuto trasportarlo con sé nelle alture conservando le mani libere. Così attrezzata si avvicinò al bordo della rete, e aggrappandosi ai filamenti che ricoprivano il corpo di una grossa radice iniziò a salire verso la volta. Le radici erano così grosse da dare l'impressione di scalare il tronco di un albero. Terrorizzato dalle vertigini, il cane blu si rannicchiò sul fondo dello zaino. Dopo un quarto d'ora di salita, Peggy si trovò così immersa nell'intreccio di liane e tubercoli di ogni sorta che perse di vista la rete. Gli sforzi che era costretta a fare le tenevano occupata la mente, impedendole di pensare a Sebastian, il che non era poi così male. Aveva l'illusione di inoltrarsi nel cuore di una giungla in miniatura, so-
spesa nel vuoto. Le radici si muovevano quando le toccava. «Sembrano coccodrilli addormentati» sussurrò il cane blu. «Coccodrilli di corteccia.» Bisognava imbracarsi, se non si voleva essere spinti nell'abisso quando una delle curiose 'bestiole' si scrollava di colpo. «Code di dinosauri» commentò ancora il cane blu. «Sì, sembrano proprio code di diplodochi. Specie quando si muovono.» Non aveva torto: il pericolo stava nelle dimensioni e nel peso delle radici. Non gradivano che si camminasse loro addosso. Se colpivano, c'era da rimanere subito stesi. Peggy si dedicò a individuare le radici ferite. Le cortecce erano segnate da lunghi graffi zebrati, da cui colava la linfa, come sangue verde pallido. La ragazza la raccoglieva nella sua borraccia, poiché Pipoz le aveva detto che berla era il solo mezzo per sfuggire alle allucinazioni provocate dal gas. «Senti un po'...» mormorò improvvisamente il cane blu. «A forza di guardare questa baraonda, mi è frullata in testa un'idea.» «Che idea?» «Hai notato che le radici tagliate a metà continuano a vivere? Si muovono, strisciano.» «Sì, penso che sopravvivano finché hanno abbastanza linfa, poi si seccano e muoiono, come i fiori in un vaso.» «Sì, sì...» tagliò corto l'animale, impaziente. «Il principio è lo stesso. Mi chiedo se non potremmo utilizzare una di queste radici per scendere sul fondo dell'uovo.» «E come?» «Basta sceglierne una grossa, e scavarci una sorta di abitacolo in cui installarsi. Poi, con l'aiuto di una melodia magica, potresti ordinarle di strisciare lungo la parete, come un bruco gigante, e di scendere poco a poco fino al centro del pianeta.» «Vuoi dire che dovremmo cavalcare la radice come se fosse una specie di serpente?» «Proprio così. Geniale, no? Kandarta è un pianeta piccolissimo, come un pallone da calcio perduto nel cosmo. La radice non ci metterà molto a strisciare fino in fondo all'uovo.» Peggy si mise a riflettere: l'idea sembrava folle, ma la stuzzicava. «Non abbiamo scelta» insisté l'animale. «Sai bene che non riuscirai mai
a cucire un paracadute. Zita ti sorveglia a vista. La sola maniera per scendere consiste nell'utilizzare una radice come veicolo. Bisogna sceglierne una che non sia troppo indebolita dalle ferite e... addomesticarla!» «D'accordo,» fece Peggy Sue «ripasserò il mio corso di flauto e chiederò a Pipoz di insegnarmi una melodia in grado di far strisciare una liana come se si trattasse di un bruco. Bisognerà mostrarsi prudenti: non credo che Anaztaz vedrà di buon occhio la nostra evasione.» Eccitati dal progetto, i due amici si rimisero con ardore al lavoro. Dopo molte delusioni trovarono finalmente ciò che cercavano: una radice ancora vigorosa, ma che un colpo di artiglio della Divoratrice aveva parzialmente separato dal tronco cui era attaccata. «Dobbiamo svuotarla» spiegò il cane «e scavarci dentro una specie di abitacolo, come se fosse un aereo. Ti aiuterò con i denti. Spero di non riempirmi la lingua di schegge!» Peggy impugnò l'ascia di silice e fece un largo intaglio nella scorza. Temeva un sussulto della radice, che li avrebbe scaraventati nel vuoto. Per fortuna, indebolita dalle ferite, non si ribellò. Il legno si rivelò morbido, più simile alla patata che alla quercia: tanto meglio, perché permetteva a Peggy di tagliare rapidamente. «Il problema» fece la ragazza ansimando fra un colpo d'ascia e l'altro «è che non sappiamo per quanto tempo sopravviverà. Hai pensato a cosa potrebbe accadere se morisse prima di aver raggiunto il fondo dell'uovo? Si staccherebbe dalla parete, come un bruco morto, e cadrebbe nel vuoto.» «Lo so» sospirò il cane blu. «Ma bisogna pur correre dei rischi, no? Speriamo che la fortuna ci assista e che questo coso sopravviva fino al momento in cui toccheremo il fondo.» «D'accordo» fece la ragazza. «Sono pronta a tutto per ritrovare Sebastian. Ma una volta arrivati laggiù, come risaliremo? Non ci saranno radici al centro del pianeta.» «Non lo so ancora,» ammise l'animale «ce ne preoccuperemo al momento opportuno. Forse potremmo cercare di ritrovare i brandelli del pallone e ricucirne l'involucro.» «Hai ragione» concordò Peggy entusiasta. «Il Capitano fantasma si trova da qualche parte laggiù, con la sua attrezzatura. C'erano delle bombole di betano B, il gas in grado di sollevare qualunque cosa. Se riusciamo a fabbricare un piccolo pallone con i resti dell'involucro lacerato, potremo volare via senza difficoltà.»
«Mi sembra un piano accettabile» concluse il cane blu. «Hai scavato abbastanza; adesso vai a ripassare i corsi di flauto, perché è indispensabile che tu sia in grado di guidare questa radice.» Peggy e il suo amico a quattro zampe ridiscesero sulla rete. Incrociando Zita, Peggy assunse un'espressione stravolta per la stanchezza, perché la sua rivale non doveva avere l'impressione che nel segreto della foresta sospesa si tramasse qualcosa. Per tre giorni, Peggy Sue seguì dei corsi di perfezionamento con Pipoz. Sosteneva di voler diventare più brava in vista del prossimo attacco. Il giovane incantatore di serpenti ne era affascinato e le insegnava con entusiasmo l'arte di comandare le radici. Malgrado la buona volontà, però, la ragazza si confondeva e continuava a collezionare una stecca dopo l'altra. Nel frattempo, il cane blu si dedicava a rubare un po' di provviste. Quando non suonava, Peggy si arrampicava fra le radici per terminare di intagliare l'abitacolo in cui si sarebbero rannicchiati durante la discesa. Ci aveva fissato delle cinture di fibra intrecciata, per potervisi legare nel caso in cui fossero stati costretti a viaggiare a testa in giù. «Non sei ancora abbastanza brava con la musica,» osservò il cane «ma non possiamo più aspettare: la radice si seccherebbe. Bisogna andare ora. Ho raccolto una quantità sufficiente di cibo per resistere due settimane, se lo razioniamo. Quando avremo sete berremo della linfa. Speriamo che la fortuna ci assista.» Aveva ragione. Peggy sapeva che le ci sarebbero voluti sei mesi per diventare una flautista di livello accettabile, e non aveva tanto tempo a disposizione. «Tu sei sicuro di volermi accompagnare?» chiese al cane blu. «Sei consapevole del fatto che questa spedizione è un po' un suicidio?» «Allora battezzeremo la nostra radice Capitan suicidio!» abbaiò l'animale. «Spicciati, invece di dire delle assurdità. Credo che Anaztaz cominci a sospettare qualcosa. Bisogna svignarsela prima che gli venga l'idea di farti sbattere in prigione.» Peggy confezionò anche un laccio per legarsi il flauto al collo, dato che non voleva correre il rischio di lasciarlo cadere nell'abisso. I due amici lasciarono la rete e si diressero verso la foresta sotterranea,
cercando di attirare il meno possibile l'attenzione. Il sacco contenente le provviste rallentava la scalata. Ritrovarono presto il loro 'veicolo', che sembrava godere ancora di una salute accettabile. In una decina di colpi di ascia, Peggy finì di separarlo dall'albero cui apparteneva. «Presto!» gridò. «Nell'abitacolo!» Subito dopo il cane blu, saltò anche lei nella cavità intagliata nel corpo della radice e si legò con le cinture. Dopo essersi così cautelata, prese il flauto e cominciò a suonare. Inizialmente la radice rimase immobile, poi la magia delle note cominciò a fare effetto e si mise a strisciare attraverso l'intrico di liane. «Oh la la...» gemette il cane blu. «Come si balla! Ho già il mal di mare!» Peggy Sue era troppo occupata a soffiare nello strumento per potergli rispondere. Dirigere la radice non era affare da poco. Ogni volta che prendeva una stecca, la corteccia del tubercolo fremeva tutta, come se fosse pronta a esplodere. Dopo un lungo zig zag in mezzo al groviglio vegetale, lo strano veicolo uscì dalla foresta sotterranea sospesa al 'soffitto' e avanzò sul granito del guscio, come un bruco mostruoso su un muro. Il viaggio ha inizio, pensò Peggy. Non ci si vedeva granché. L'interno dell'uovo era appena rischiarato dalla luce del giorno, che filtrava attraverso i crepacci, e a volte bisognava attraversare un'interminabile zona immersa nell'oscurità prima di ritrovare un raggio di sole. Peggy sperava di vedere presto apparire la curvatura del guscio: a quel punto avrebbero iniziato la vera discesa. «Mi sento già male» si lamentò il cane blu. «Ho avuto un'idea idiota. Saremo morti di paura prima di toccare il suolo!» Non esagerava affatto, e Peggy condivideva la sua preoccupazione. Soffiare nel flauto di legno, alla lunga, si rivelava faticoso. Si rese conto che si erano imbarcati con eccessiva leggerezza in quella folle avventura. Avrò la forza di suonare fino a laggiù? si chiese angosciata. La facciata interna dell'uovo non era liscia, ma tempestata da asperità di ogni sorta. Le radichette del veicolo vi si appigliavano come le zampe di un insetto. Ogni volta che la ragazza smetteva di suonare, la radice si fermava all'improvviso e si arrotolava su se stessa, come un serpente addormentato. «Ho le labbra infuocate e mi fanno male le guance» sospirò Peggy. «E
siamo appena usciti dal nostro rifugio.» «Io non posso aiutarti» rispose il cane. «Un flauto non serve a nulla se non si hanno dita per tapparne i fori.» Quando si fu un po' ripresa, la ragazza ricominciò a suonare: la radice uscì subito dal suo torpore e riprese a strisciare. Un bruco, pensò ancora Peggy. Un bruco minuscolo che avanza sulla muraglia di una roccaforte. 29 Nell'antro della Bestia La radice strisciante impiegò tre giorni per raggiungere la superficie interna del guscio e dare inizio alla discesa. Peggy Sue, che aveva sopravvalutato il suo talento di flautista, era sull'orlo dello sfinimento. Quando smetteva di suonare, lo pseudopodo si immobilizzava e rimaneva aggrappato alla volta sovrastante l'abisso, con le radichette avvinghiate alle asperità del terreno. «Va benissimo così, finché avrà ancora abbastanza forza,» osservò il cane blu «ma cosa succederà quando inizierà a indebolirsi?» I due amici dormivano saltuariamente, sgranocchiando biscotti e bevendo linfa fermentata, che sapeva di idromele17. «Sono preoccupata» confessò la ragazza all'amico a quattro zampe. «La scorza della radice diventa sempre più molle... hai visto? Potremmo inciderci sopra i nostri nomi con la punta dell'indice.» «Questa specie di carota ambulante si sta indebolendo» diagnosticò il cane blu. «La linfa si fa più rara e irriga sempre meno le fibre del legno.» «Credo anche che fatichi a muoversi: eppure non suono peggio del solito. Ho paura che stia quasi per staccarsi. Quando le sue forze diminuiranno, le radichette diventeranno incapaci di aggrapparsi alle rugosità della parete. E noi cadremo in picchiata... come un aereo che si schianta.» Nel pronunciare quelle parole si sporse al di sotto, cercando di sondare l'abisso. Notte fonda. Sebastian è da qualche parte laggiù, pensò. Lo ritroverò, costi quel che costi. E se è morto, allora tanto peggio, me ne infischio che la radice vada a schiacciarsi sul fondo dell'uovo! «Non essere pessimista» intervenne telepaticamente l'animale. «La situazione non è ancora disperata.»
Persero la nozione del tempo. La radice, benché indebolita, continuava a scendere, obbedendo alle arie del flauto maldestramente suonato da Peggy Sue. «Si avvicina la fine» disse ansimando la ragazza. «Ho le labbra insanguinate, non riesco più a soffiare, mi fa troppo male. Ho l'impressione che le mie guance siano triplicate di volume. A che profondità siamo arrivati, secondo te?» «Kandarta è un grosso uovo, ma un piccolo pianeta» rifletté il cane. «Direi che abbiamo percorso la metà del tragitto. Siamo probabilmente a mezza altezza.» «Precipitare dalla metà di un abisso significa sempre cadere da troppo in alto!» fece Peggy, scoppiando in un riso sardonico. «Maledizione! Avrei dovuto confezionare il paracadute, saremmo scesi dolcemente.» «Bando ai rimpianti: sai bene che Zita ti avrebbe colto con le mani nel sacco. Ti sorvegliava continuamente.» Dato che le provviste erano esaurite, furono costretti a sgranocchiare la polpa del tubercolo gigante. Il cuore della radice era morbido: era questo a consentirle di rimanere così flessibile. Purtroppo, oltre alla consistenza simile a quella di una patata aveva un gusto schifoso. Un altro problema: la linfa diminuiva, e i due viaggiatori cominciavano a soffrire la sete. Mentre Peggy dormicchiava, con le spalle segnate dalle cinture che le impedivano di cadere, il cane blu la svegliò leccandola. «Ascolta!» disse. «Si sentono delle risate... vengono dal basso.» «Ma no, hai le allucinazioni» sbadigliò l'adolescente, infastidita. «No, ti assicuro!» ripeté l'animale, intestardito. «Risate, risate di ragazzi... sembra che siano in centinaia a divertirsi un mondo, laggiù!» Peggy si degnò infine di aprire un occhio. «Hai ragione» ammise dopo dieci secondi. «Ridono come pazzi.» Si ricordò di quello che le avevano detto i bambini dei fuggiaschi prima di saltare nei crepaccio: «Ci si diverte, laggiù.» «Sarà la Divoratrice che imita voci di bambini» azzardò. «Possibile» ammise l'amico. «Ma io sento una varietà di odori, come se ci fosse molta gente. Una vera folla, in realtà. Ha l'aria di essere un luogo popolato.» «Credi che potrebbe trattarsi di una specie di campo per prigionieri? Un campo in cui sarebbero detenuti tutti i bambini prelevati dalla creatura?»
«Non so.» Tacquero per ascoltare la notte. A quella profondità, l'oscurità era totale. Di tanto in tanto, un'esplosione di metano accendeva un breve fulgore nel cuore dell'uovo, ma era così accecante che non si aveva il tempo di registrare quello che c'era intorno. «Strano,» fece il cane blu «ho un buon udito, come tutti gli animali, e da qualche minuto ho l'impressione che le risate salgano e scendano, proprio così. Si avvicinano e si allontanano, per poi ricominciare. Come se....» «Come se quelli che ridono ci stessero volando attorno?» suggerì Peggy. «Sì, forse. Ma direi, piuttosto, come se ci saltassero intorno.» «È assurdo!» «Lo so.» Come previsto, la radice si spostava sempre più lentamente, e alla fine si fermò. Rannicchiata su se stessa, rimase aggrappata alle asperità della parete, senza più rispondere agli incitamenti del flauto in cui Peggy Sue soffiava con tutte le sue forze. «Fermati, basta» fece il cane blu. «È stremata. Non farà un metro in più.» «Si staccherà,» ansimò la ragazza «è questione di minuti.» La radice oscillava sul baratro. Le radichette lasciavano una dopo l'altra la presa, man mano che la vita abbandonava le fibre del legno. «Che fare?» chiese il cane. «Dobbiamo saltare o restare nel 'veicolo'?» «Non so cosa sarebbe peggio» affermò Peggy. «So che cadremo comunque, ma ho paura di gettarmi nel vuoto.» Non ebbero il tempo di porsi altre domande. Bruscamente, la radice gigante si staccò, mettendosi a volteggiare fra le tenebre. Le cinture che tenevano legati i passeggeri cedettero sotto l'effetto della scossa. Peggy Sue e il suo compagno a quattro zampe si ritrovarono proiettati fuori dell'abitacolo. È la fine! pensò la ragazza. Questa volta finiremo per schiacciarci! Per dieci minuti volteggiò nel vuoto, con le mani tese nella speranza di aggrapparsi a qualcosa. Purtroppo, non c'era niente... a parte il baratro, e la notte. Il vento le deformava la pelle del viso e le mozzava il fiato. Ebbe la sensazione inspiegabile di 'sentire' il suolo che si avvicinava. Una specie di istinto animale la avvertì che da un momento all'altro avrebbe sbattuto sul fondo dell'uovo. Strinse i denti, preparandosi all'impatto.
E impatto fu... ma invece di rimanere schiacciata come un pasticcino di riso gettato dal trentesimo piano, Peggy Sue balzò di nuovo in aria! «Ehi» singhiozzò. «Cosa mi sta succedendo?» Non riusciva a capire. Era come se fosse caduta proprio su un trampolino. Il fondo dell'uovo era di gomma, e aveva assorbito una parte dell'impatto prima di rispedirla da dove veniva! Si innalzò e poi ricadde per rimbalzare nuovamente, ma molto meno in alto. La cosa si ripeté per cinque volte di seguito, finché tutta l'energia della caduta fu assorbita dalla morbidezza del suolo. Quando si ritrovò a quattro zampe nell'oscurità, le girava la testa. Esplorò i dintorni con mano prudente. «È di gomma» constatò palpando il fondo dell'uovo. «O di linfa di Hevea. Forma una specie di nido di caucciù. Ovvio, che scema! La bestia se ne è servita per migliorare il comfort del suo nascondiglio. Non voleva mica passare mille anni ad ammaccarsi la schiena su un letto di rocce appuntite!» «Sei lì?» le risuonò in testa la voce telepatica del cane. «Non ti muovere. Posso localizzarti facendomi guidare dalla lunghezza d'onda dei tuoi pensieri. Arrivo.» Peggy si mise a sedere nell'oscurità. Non osava più muoversi, per la paura di volar via di nuovo. Il cane blu non tardò a ritrovarla. «Che storia!» esclamò. «Ho ancora lo stomaco che gira vorticosamente.» «Una cosa è certa» mormorò Peggy. «Sebastian non è morto cadendo dalla rete. Deve essere da qualche parte qui intorno. Dovresti cercare di lanciargli dei messaggi telepatici. Ora che siamo vicini a lui, le tue onde dovrebbero riuscire ad attraversare la coltre di gas.» «Non si vede nulla» borbottò l'animale. «Hai sempre con te lo zaino? C'è dentro un lampada a olio, sarebbe forse il momento di accenderla.» «Così rischiamo che la Divoratrice ci localizzi.» «È vero, ma non possiamo fare granché se restiamo al buio. Bisogna correre il rischio.» Peggy frugò nello zaino, in cerca della lampada rudimentale che aveva portato con sé nel lasciare la rete. Mentre combatteva per accendere lo stoppino, delle risate risuonarono vicino a loro. Dei bagliori verdastri si misero a scintillare in aria, salendo e scendendo a un ritmo sfrenato. «Ragazzini!» constatò il cane blu. «Ragazzini che si divertono a saltare
sul pavimento di gomma. Ce ne sono a decine! Tengono in mano dei bozzoli fosforescenti, per fare luce.» Che strano spettacolo, quei bambini vestiti di stracci che facevano capriole in aria come se stessero partecipando a un concorso di trampolino. «Ecco dunque i famosi prigionieri della Divoratrice» osservò Peggy Sue. «Tutti i bambini che ha rapito. Non li ha divorati, contrariamente a quanto raccontava Massalia. Li tiene qui.» «Comunque sia, non hanno l'aria infelice né maltrattata» fece il cane. «Hai visto come ridono?» «Non hai ancora capito?» sussurrò Peggy. «La creatura fa respirare loro del gas esilarante! Così si sentono felici e non pensano a scappare. Gli scherzi più semplici, i giochi più banali li divertono alla follia, ma è solo un'illusione.» «Se hai ragione tu, perché noi non stiamo ridendo?» «Perché abbiamo bevuto la linfa, che funge da antidoto. Finché continueremo a berne, il gas euforizzante non avrà presa su di noi; purtroppo, appena la borraccia sarà vuota, diventeremo come questi poveri ragazzi. Tutto ci sembrerà troppo buffo! E passeremo le nostre giornate a fare capriole nell'oscurità, ridendo a crepapelle.» «Allora siamo in un campo di prigionia?» «Sì, un campo di prigionia in cui le risate servono al tempo stesso da serrature e da carcerieri.» Inquieti, i due amici estrassero la borraccia di linfa e si affrettarono a inghiottire una sorsata di antidoto. «Per quanto tempo riusciremo a resistere?» chiese il cane blu. Peggy scosse l'otre di cuoio. «Cinque o sei giorni, razionando le riserve» stimò la ragazza. «Bisogna trovare un sistema per risalire in superficie prima di soccombere anche noi al veleno della risata.» I bambini saltanti avevano finito per avvicinarsi. Non camminavano, ma si spostavano a saltelli successivi, approfittando della flessibilità del suolo. Sembravano una frotta di canguri. «Salve!» gridò uno di loro torcendosi dalle risate. «Benvenuti nell'uovo. Siete appena caduti, no? Preparatevi a una bella festa. Ci si diverte un sacco, quaggiù.» A queste parole, i suoi accompagnatori scoppiarono a ridere, come se il loro amico avesse appena pronunciato una battuta irresistibile.
«Siamo qui da anni,» riprese il bambino «e non ci stanchiamo mai. Per nulla al mondo torneremmo in superficie. Il giorno in cui la Divoratrice ci ha rapito è stato il più bello della nostra vita. Proprio così!» «Sì!» gli fecero eco i suoi compagni, sghignazzando sempre di più. Sono qui da tempo e non sono invecchiati, pensò Peggy. Significa che il gas ha arrestato la loro crescita. La Divoratrice impedisce loro di diventare grandi. Non vuole circondarsi di adulti. «So io perché!» fece la voce del cane blu nella testa della ragazza. «Ho capito tutto! La Divoratrice, per quanto sia gigantesca, è giovanissima, perché in realtà non è ancora nata! Il fatto che abbia mille anni non vuol dire granché per gli animali della sua specie. La creatura del sottosuolo è anche lei un bambino! Ecco perché non vuole essere attorniata da adulti! Cerca compagni della sua età. Si trova bene soltanto con loro.» «Ma sì, hai ragione!» fece Peggy, entusiasta. «Nessuno ci aveva mai pensato. La Divoratrice è una specie di ragazzina capricciosa che si annoia nell'oscurità, e questo la fa arrabbiare. È egoista, e non vede più in là della punta del proprio naso. Non riflette sulle conseguenze delle sue azioni... e non le importa se i suoi capricci scatenano delle catastrofi.» «Facciamo dei concorsi di capriole aeree» spiegò il bambino, divertito. «Inventiamo figure senza senso. Alcuni di noi riescono a saltare a tre chilometri di altezza, è troppo divertente!» «Quanti siete?» chiese Peggy Sue. «Non si sa. Molti, molti.» «E non vi secca vivere nell'oscurità?» «Ma no, che sciocchezza! Dopo un po' gli occhi si modificano e ci si vede perfettamente nel buio, come i gatti. È divertente.» Ancora un prodigio del gas, si disse la ragazza. La creatura si dà da fare per adattare i suoi amichetti alle loro nuove condizioni di vita. È proprio maligna! I ragazzini scalpitavano, impazienti di ricominciare a giocare. Deposero dei bozzoli luminosi ai piedi di Peggy. «Un regalo!» annunciarono. «Ti aiuterà, nell'attesa che i tuoi occhi si adattino. Non bisogna avere paura, la bestia è simpaticissima. Non ha mai fatto del male a nessuno, le piace che si canti per lei. Allora noi formiamo dei cori e andiamo a rappresentarle delle recite, che la cullano, permettendole di addormentarsi per un attimo. Dovrete inserirvi in un gruppo di cantanti: noi siamo specializzati in canti di Natale, se la cosa può interessar-
vi.» «Come ti chiami?» «Zoltan... sono il capo dei canguri gialli, è il nome della nostra banda. Ci conoscono tutti: l'anno scorso abbiamo vinto il campionato di figura libera.» «Andiamo, su!» scalpitarono i bambini alle sue spalle. «Questi due nuovi arrivati non sono divertenti. Non ridono. Alla creatura non piaceranno.» «È vero» ribadì Zoltan. «Dovete sciogliervi un po', altrimenti non apprezzerete il soggiorno. Sarebbe un peccato. Convincetevi che resterete qui per... l'eternità!» Su quest'ultima battuta, saltò in aria seguito dai suoi amici, che urlavano dal ridere. «Che brutte scimmiette!» borbottò il cane blu. «Grazie a loro ne sappiamo un po' di più su quello che accade qui» fece Peggy Sue. «Siamo atterrati in una galera. La galera degli amichetti della Divoratrice. Chi ha la sfortuna di essere scelto smette di crescere ed è costretto a ridere per il resto dei suoi giorni.» «Cerchiamo di ritrovare Sebastian» propose l'animale. «Poi vedremo il da farsi.» Peggy si mise il sacco in spalla e prese uno dei bozzoli luminosi nella mano sinistra. L'alone verdastro non permetteva di vedere molto lontano, ma riuscì comunque a farsi un'idea del mondo che la circondava. Il paesaggio era interamente composto di gomma. Colline, montagne, tutto sembrava modellato con un lattice di colore blu scuro. Non c'erano case e neppure capanne. I bambini dormivano per terra... e continuavano a ridere durante il sonno, come se fossero permanentemente visitati da sogni esilaranti! Qua e là, attraverso il paesaggio, si intravedeva il profilo interminabile di un tentacolo a riposo. Di quando in quando, le ventose espellevano delle bolle di color giallo vivo, che i bambini si affrettavano a divorare a quattro palmenti. «Ecco come la Bestia li nutre» osservò Peggy. «Sembra che il cibo sia buono» fece il cane blu. «Credi che potremmo mangiarlo anche noi?» «Per il momento è meglio essere prudenti. Suppongo che anche quel cibo sia drogato.»
Il cane blu fiutava l'aria circostante, alla ricerca di Sebastian. «Le onde telepatiche passano con difficoltà» annunciò. «Si direbbe che la creatura si diverta a confonderle. Non sarà mica in grado di intercettare le nostre comunicazioni?» Peggy sollevò la testa, scrutando invano le tenebre. Sapeva che il mostro era lì, da qualche parte, grosso come una montagna, ma non riusciva a vederlo. La vicinanza la terrorizzava. Ci osserva, pensò. Forse è divertita dalla nostra goffaggine. In ogni caso, non ha fretta di entrare in contatto con noi. Perché dovrebbe, d'altronde, dato che il tempo gioca in suo favore? Sa che la nostra riserva di linfa antiveleno si va esaurendo. Dopodiché, nulla ci proteggerà più contro i sortilegi del gas esilarante e diventeremo come quei piccoli cretini che giocano ai canguri: prigionieri volontari. I due amici erano costretti ad avanzare a passi prudenti, perché c'erano bambini addormentati da tutte le parti! Se non si stava attenti, si rischiava di camminar loro sullo stomaco. Dei canti si intrecciavano nell'oscurità. Alcuni erano bellissimi, altri piuttosto maldestri. Erano i cori che ripassavano prima di esibirsi al cospetto della Divoratrice. Carino, pensò Peggy, e subito trasalì, stupita di aver avuto un simile pensiero. «Forse la nostra immunità nei confronti del gas euforizzante è minore di quel che pensiamo» osservò il cane blu. «Devo ammettere che anch'io comincio a trovare questo ambiente piuttosto divertente.» «Beviamo un'altra sorsata di linfa!» decise la ragazza. «Non dobbiamo lasciarci catturare! È proprio quello che desidera la Divoratrice: farci perdere ogni senso critico.» Dopo aver vagato per lunghe ore sulla spianata di caucciù, riuscirono a ricongiungersi con Sebastian. Il ragazzo portava sempre la sua maschera antigas, che lo aveva parzialmente protetto dalle emanazioni esilaranti vaporizzate dal mostro. Acconsentì a toglierla soltanto per abbracciare Peggy, che gli si gettò tra le braccia. «Accidenti!» si lamentò il cane blu. «Eccoli di nuovo partiti per venti minuti di effusioni amorose! Sembrerebbe che quei due non si vedano da un secolo! Un po' di contegno, per favore, ragazzi!» «Non mi sono fatto male cadendo» spiegò Sebastian quando i tre amici cercarono di fare il punto della situazione. «Niente di ciò che il pallone tra-
sportava si è rotto. Le bottiglie di betano, la bomba... tutto si è sparpagliato sulla pianura di caucciù. Credo che persino l'involucro del Capitano fantasma sia finito in qualche angolo. Si potrebbe recuperare tutto, ma dovremmo esplorare i dintorni. Non è facile, nell'oscurità. È uno strano posto. Tutti questi ragazzini che saltellano in aria ridendo come dei pazzi. Ammetto che la cosa comincia a darmi un po' sui nervi.» «Hai individuato la creatura?» chiese Peggy. «No, ma i suoi tentacoli sono sparsi sulla landa elastica. Ogni tanto si alzano per fare un giro di controllo. C'è un occhio all'estremità di ciascuno. La Divoratrice li utilizza come periscopi, per sorvegliare ciò che accade intorno a lei.» «Dove si nasconde?» domandò il cane. «Al centro della pianura, in una specie di nido» spiegò il ragazzo. «Me lo hanno raccontato i bambini canguro. Vanno a trovarla per cantarle delle ninnananne. Secondo loro non è cattiva. Si annoia, cerca compagnia. Si sente a suo agio solo con i bambini. Non so se è vero. Forse è soltanto quello che cerca di far credere? Li controlla per mezzo del gas esilarante... e impedisce loro di crescere. Alcuni ragazzini sono qui da dieci anni e non si stupiscono di avere sempre lo stesso aspetto. Hanno perso il contatto con la realtà.» «È un pericolo che minaccia anche noi...» sottolineò Peggy Sue. «Lo so» sospirò Sebastian. «Ho provato a respirare senza maschera per due ore. Dopo trenta minuti trovavo questo posto stranamente simpatico, dopo un'ora ho cominciato a ridere da solo come un cretino. Tutto mi pareva divertente: i miei piedi, gli alluci. Il mio grosso alluce sinistro, in particolare, mi faceva morire dal ridere. Non so perché. Mi sembrava che avrei potuto rimanere due anni a contemplarlo sbellicandomi dalle risate. Un'esperienza piuttosto inquietante.» «Inutile stare a raccontarci delle storie,» dichiarò la ragazza, «non rimarremo a lungo in possesso delle nostre facoltà mentali. Bisogna organizzare sin d'ora la nostra fuga. Ritroviamo l'involucro del pallone e cerchiamo di ripararlo. Le bottiglie di betano ci permetteranno di spiccare il volo verso la superficie.» «E la bomba?» chiese preoccupato Sebastian. «Non sono dell'avviso di farla scoppiare» annunciò Peggy. «Massalia ci aveva garantito che la creatura era un mostro sanguinario, ma non sembra che le cose stiano così. Mentre raccoglierai i resti del pallone, io cercherò di saperne un po' di più su questo animale così diverso dagli altri.»
«Benissimo!» esclamò il ragazzo. «Ora che siamo di nuovo insieme le cose cominceranno a mettersi per il verso giusto!» Il fatto di aver ritrovato Sebastian rendeva Peggy Sue più ottimista (a torto, magari!). Accompagnata dal cane blu, si lanciò alla scoperta della pianura gommosa. Dopo tutto, si diceva, è meglio che stare a scuola ad annoiarsi ascoltando il vaneggiare di qualche professore brontolone. Ho una bella fortuna a poter fare una vita simile, mentre le ragazze della mia età sono costrette a imparare a memoria delle lezioni per dimenticarsele tre giorni dopo. Non lamentiamoci: molti vorrebbero essere al mio posto, anche se si trattasse di esplorare l'interno di un uovo abitato da una bestia gigantesca! In realtà stava cercando di farsi coraggio, poiché provava una grande apprensione all'idea di trovarsi improvvisamente faccia a faccia con quella bestia degli inferi. «Temo che stiamo per perderci» sospirò, alzando la bolla luminosa sopra la testa. «Non ho alcuna idea del luogo in cui ci troviamo.» «Basta seguire i tentacoli» suggerì il cane. «Partendo dalla punta abbiamo buone possibilità di scovare la bestiola.» «Mi sembri stranamente arzillo» notò Peggy in tono sospettoso. «Non avrai forse respirato un po' troppo gas?» «Non ho idea,» ridacchiò il suo compagno a quattro zampe «mi sento proprio benissimo.» «Mmmm...» borbottò la ragazza. «La cosa non mi sembra affatto rassicurante.» Si chiese se non sarebbe stato più prudente ingoiare un'altra sorsata di linfa: purtroppo, però, a quel ritmo la borraccia si sarebbe presto svuotata. Meglio aspettare. «Ehi, tu! Ragazza col cane!» gridavano i bambini salterini zompandole intorno. «Vieni a divertirti insieme a noi! Ce la spassiamo un sacco!» Peggy sobbalzava ogni volta che le si paravano davanti. Aveva appena il tempo di percepirne la presenza che loro erano già ripartiti nell'aria, come sospinti da molle invisibili. Come faranno a non vomitare? si chiese. Aveva voglia di gridare: «Svegliatevi, una volta per tutte! Siete prigionieri, qui! Credete di divertirvi, mentre in realtà siete vittime delle illusioni che la bestia vi ha instillato nell'animo. Non c'è niente di divertente. Le vostre battute sono idiote e la Divoratrice è un mostro che vi tiene in suo pos-
sesso.» All'improvviso, qualcosa si levò nella notte, sbarrandole il cammino. Inizialmente ebbe l'illusione di avere di fronte un cobra enorme, con la gola gonfia per la collera. Al chiarore fioco della palla luminescente Peggy distingueva male i contorni degli oggetti. Capì infine che un tentacolo si era messo di traverso sulla sua strada, come per segnalarle di non fare un passo di più. «Ohi ohi...» bisbigliò il cane blu. «Sarà l'inizio delle ostilità?» Peggy rimase immobile. A tre metri da lei, l'estremità pensile del tentacolo palpitava. «Non ha né unghie né denti» notò il cane. «Ma vedo i suoi occhi... Sembra un serpente.» «Forse esistono specie diverse di zampe?» suppose Peggy. «Ciascuna per un uso diverso?» Tacque, poiché non le piaceva il suono della propria voce tremante. «Me la sto facendo sotto dalla paura!» dovette ammettere. Il tentacolo si era messo a fare strane convulsioni. «Si deforma» constatò il cane blu. «In nome di una salsiccia atomica! Sembra che... che stia cercando di plasmare qualcosa... una specie di essere umano.» «Ma sì, proprio così!» ansimò la ragazza. «Guarda: la pelle ha cambiato colore... è rosa, e sta apparendo una testa.» «È una forma di mimetismo18 che non conoscevo!» fece l'animale, in tono estasiato. Peggy Sue aggrottò le sopracciglia. Le sembrava di riconoscere il viso che si formava di fronte a lei. «Ho già visto questa figura da qualche parte...» mormorò. «Certo!» esclamò il cane, «è la tua! Sta modellando una bambola a tua immagine e somiglianza!» Peggy si lasciò sfuggire un grido di sorpresa. Ma sì! L'estremità del tentacolo si era trasformata poco a poco in una replica perfetta della ragazza che aveva davanti. La Divoratrice aveva spinto la precisione dei dettagli fino al punto di attivare certi pigmenti nascosti sotto la sua pelle per riprodurre il colore dei capelli e degli occhi di Peggy Sue. Il risultato era una statua vivente... o piuttosto una marionetta, che muoveva le braccia e sorrideva con una grazia un po' languida. «Ehi!» fece l'adolescente in tono preoccupato. «Cosa significa tutto ciò?»
«Significa che finalmente posseggo l'arte di modellare un essere vivente» fece una voce enorme nella testa di Peggy. L'emissione telepatica era così forte che la ragazza credette che il sangue stesse per zampillarle dal naso e dalle orecchie. Il cane blu emise un latrato doloroso e nascose il muso sotto la zampa. «Chi... chi parla?» balbettò Peggy Sue portandosi la mano alla fronte per assicurarsi che non le fosse scoppiata. «Io...» disse la voce enorme «quella che chiamate la Divoratrice. È da tempo che aspettavo questo momento.» «Perdiana!» urlò la ragazza. «Abbassa il volume o la testa finirà per esplodermi.» «Scusami,» disse educatamente la creatura «ma sono così grossa che la mia voce è proporzionale alla mia massa. Faccio ancora fatica a dosarne la forza. All'inizio, ai miei primi tentativi di comunicazione, le onde che emettevo erano così potenti da far bollire il cervello dei ragazzini ai quali mi rivolgevo.» «Cosa?» sobbalzò Peggy, terrorizzata. «Scusami,» ripeté la creatura «sono molto eccitata. Inutile perder tempo, preferisco dirti subito la verità. Perché continuare a nasconderti le cose, dato che in ogni caso non uscirai più di qui? Ho rapito tutti questi bambini per studiarli a modo mio. Negli anni passati mi sono allenata a imitarne la voce e l'aspetto. Ho commesso molti errori, ma posso essere perdonata: la vostra anatomia è così diversa dalla mia!» «Cosa... cosa?» protestò la ragazza. «Io credevo che rapissi i bambini perché ti tenessero compagnia.» «Certo,» sogghignò la bestia «è quello che gli faccio credere. Il gas euforizzante li rende facili da convincere. Purché continuino a divertirsi, il resto gli è indifferente. Sono dei giovani imbecilli. Irrecuperabili. Respirano vapori esilaranti da tanti anni che non potranno mai più tornare normali. Passeranno il resto della loro vita a ridere e a saltare sul posto.» Peggy Sue lottava contro il dolore che le tormentava la testa. Il tono impiegato dalla bestia degli inferi le riempiva la schiena di brividi. «Per tutti gli dèi del cosmo» balbettò, «aveva ragione Massalia, sei davvero cattiva.» «Massalia è un vecchio imbecille» decretò la creatura. «Mi immagina nelle fattezze di un grosso mostro stupido, incapace di allineare due idee coerenti. Sono molto più intelligente del più intelligente dei sapienti terrestri. La mia razza esisteva già migliaia di anni prima della comparsa
dell'uomo. Sono l'ultima rappresentante della mia specie e la mia missione consiste nell'impadronirmi dell'intero universo.» «Ma questi bambini...» biascicò Peggy «perché rapirli, se non per divorarli? A che ti servono?» «Li studio, fungono da modelli. Li osservo per sapere come camminano, come parlano. Accumulo dati. Mi ci è voluto molto tempo per assimilarli e riuscire a fabbricare qualcosa di convincente.» «A fabbricare cosa?» «Dei doppioni.. dei sosia... Guarda quello che ho appena creato basandomi su di te. È perfetto, no? Sono diventata esperta nell'arte del modellare. Non è sempre stato così. Per molto tempo ho prodotto gnomi ripugnanti, orribili folletti che non somigliavano affatto ai loro modelli. Ho dovuto imparare. Ricominciare, ricominciare, ricominciare di nuovo... Ecco perché avevo bisogno di tanti esempi: siete così diversi l'uno dall'altro! Impossibile limitarsi a uno o due sosia da riprodurre in serie; no, me ne servivano decine.» «Ma a che scopo?» fece Peggy spazientita. «Di cosa stai parlando?» «Della mia armata di invasori» rispose la bestia gigantesca in tono dolce. «Dei miei soldati. Oggi ho quasi raggiunto il mio scopo: fabbricare dei sosia dei bambini che ho rapito. Dei sosia modellati con la mia stessa carne. Dei doppioni che in realtà sono parti di me stessa. Ho utilizzato l'estremità dei miei tentacoli per plasmare queste bambole, queste imitazioni perfette. Fra qualche giorno invierò le marionette in superficie. Emergeranno dai crepacci e tutti grideranno al miracolo. I genitori cadranno in ginocchio davanti ai loro figli ritrovati. Li accoglieranno singhiozzando e aprendo loro le braccia. Nessuno sospetterà che si tratta in realtà di repliche dei loro ragazzi. I loro veri figli, le loro vere figlie rimarranno quaggiù a ridere e saltellare fino alla fine dei tempi. D'altra parte, nello stato in cui sono, non riconoscerebbero più i loro genitori! Ho svuotato il loro cervello, gli ho rubato i ricordi. Non sono altro che dei canguri umani con l'intelligenza di una fetta di torta di mele.» «È un piano stupido» ghignò Peggy Sue. «La gente non ci cascherà. Tutti quei ragazzini che riemergono per miracolo: sembrerà una cosa sospetta.» «Niente affatto,» fece la creatura «dato che sarai tu ad averli salvati.» «Io?» «Sì, tu, il tuo cane e il tuo amichetto... o piuttosto i sosia che modellerò in base al vostro aspetto. Questa prodezza non sorprenderà nessuno, con-
siderato che voi siete degli eroi, non è così? Tutti si aspettano che riusciate lì dove tanti hanno fallito. Quando risalirete dal fondo dell'uovo con i piccoli prigionieri sarete accolti come semidei! Vi faranno delle statue! Gireranno dei film per celebrare il vostro trionfo. Ecco perché avevo tanto bisogno di voi. Mi servivano dei supereroi di cui tutto il mondo si fida. Andandovi a cercare sulla Terra, Massalia mi ha reso, a sua insaputa, un grande servigio. La vostra presenza su Kandarta ha reso il mio piano finalmente possibile! Ecco perché non ho mai realmente cercato di nuocervi. Se avessi voluto uccidervi, avrei potuto farlo nell'istante esatto in cui avete messo piede sull'uovo. Dato che avreste potuto trovare strano che non mi interessassi a voi, vi ho solo spaventato un pochino, ogni tanto, giusto per creare un po' di verosimiglianza. Niente di troppo cattivo. Qualche illusione nel cortile della prigione... Ranuck aveva l'ordine di portarvi da me, con le buone o con le cattive. Purtroppo, quell'imbecille ha doppiamente fallito.» «Non contare su di noi per aiutarti!» urlò Peggy al colmo della collera. «Piccola idiota!» ghignò la Divoratrice. «Non mi metterò certo a chiedere il tuo permesso. Studierò te e i tuoi amici, e quando sarò soddisfatta dei sosia che avrò modellato darò inizio alla fase finale del mio piano di invasione. Riporterò i miei fedeli soldati in superficie utilizzando il pallone con cui vi siete intrufolati all'interno del guscio. Massalia non capirà nulla. Crederà di avere a che fare con la vera Peggy Sue, tanto più che lei gli assicurerà che la Divoratrice è morta, uccisa dalla bomba, e che Kandarta non ha più nulla da temere.» «Ma qual è lo scopo di questa macchinazione?» mormorò la ragazza, annientata. «Non hai ancora capito? Ognuno di questi sosia è una parte di me. Ciascuno di questi frammenti è un altro me stesso! I miei 'figli' si daranno da fare per convincere i loro genitori a lasciare Kandarta e a emigrare su altri pianeti del sistema solare. Dovunque andranno, li seguirò. Questi sosia sono come dei semi. Una volta sul posto, si nasconderanno sul fondo di una caverna profondissima e si addormenteranno di un sonno millenario. Allora... nel corso dei secoli si trasformeranno in una bestia gigantesca, come ho fatto io qui. E il pianeta diventerà il loro uovo! È così che ci riproduciamo, per scissiparità19. Ci nascondiamo in una tana, in una caverna, aspettando di diventare adulti. Io non ho mai saputo come sono arrivata qui, nel cuore di questo pianeta cavo, ma mi ci sono lentamente sviluppata, come un pulcino. La mia missione è di offrire alla mia razza il massimo di
possibilità di sopravvivenza. Ero l'ultima, l'unica: ma grazie al mio stratagemma, il mio popolo rinascerà! Quando saremo abbastanza numerosi per formare un esercito, faremo scoppiare tutti i nostri gusci contemporaneamente e partiremo alla conquista dell'Universo, passando da una dimensione all'altra. Nulla potrà più fermarci.» Peggy Sue avrebbe dato qualunque cosa per una compressa d'aspirina, tanto forte era il suo mal di testa. «Quando avrai modellato i nostri sosia, ci ucciderai, vero?» mormorò. «Perché dovrei fare un simile sforzo?» sghignazzò la creatura. «Presto l'antidoto di cui disponete sarà finito. Quando la vostra borraccia di linfa sarà vuota, il gas euforizzante vi cancellerà il cervello e dimenticherete quanto vi ho appena detto. Tu e i tuoi amici avrete solo due preoccupazioni: ridere e saltare come dei canguri! Ve ne infischierete, allora, di quello che succede fuori del guscio.» La Divoratrice fece una pausa prima di concludere: «Meglio che me ne stia zitta, adesso, o le mie emissioni telepatiche distruggeranno il tuo cervellino prezioso: non voglio che ciò accada, prima che abbia potuto estrarne i ricordi di cui nutrirò la mia marionetta. Approfitta dei tuoi ultimi giorni di lucidità, Peggy cara.» Nella testa di Peggy e del cane blu scese il silenzio, ma i due amici rimasero boccheggianti, sull'orlo della nausea. A entrambi girava la testa. Un nuovo tentacolo si era sollevato. Dopo esser stato scosso da una serie di fremiti, cominciò a plasmare un'immagine del cane blu. La riproduzione prese rapidamente forma, come sotto le dita di uno scultore invisibile. «Ehi!» protestò l'animale. «Ma sono io, quello là!» La bestia lavorava con estrema abilità. Era capace di imitare alla perfezione peli e capelli. La resa di tessuti e colori era eccellente. «È terribile» ansimò Peggy. «Se quelle due marionette torneranno sulla Terra al posto nostro, nessuno si renderà conto dell'inganno!» «Nonna Katy non ci cascherà!» obiettò il cane blu. «Ne sono meno sicura di te, soprattutto se questi fantocci ci rubano i ricordi,» L'adolescente si sentiva sopraffatta dagli eventi. Non avrebbe mai pensato che le cose avrebbero preso una simile piega. A forza di ascoltare Massalia, aveva finito col convincersi che la creatura del sottosuolo non fosse altro che un grosso drago brontolone col cervello delle dimensioni di un pisello e l'intelligenza di una valigia di cartone. La realtà era ben diversa!
I tentacoli avevano terminato il loro lavoro di modellatura. I due sosia avevano le sembianze esatte dei loro modelli, a parte gli abiti e la cravatta. Si girarono e iniziarono a recidere con le unghie e coi denti la pelle che li teneva ancora attaccati alla Bestia. «Sembrano dei neonati che si tagliano da soli il cordone ombelicale che li lega alla madre» mormorò Peggy. «Stanno per rendersi autonomi. Ora potranno camminare liberamente e andare dove meglio credono, ma lo spirito della Divoratrice sarà sempre dentro di loro. Di fatto, non sono altro che un'estensione della bestia. È un po' come se il mio braccio potesse staccarsi dal corpo e partire in esplorazione del mondo.» «Pazzesco!» sbuffò il cane. «Questa bestiola mi somiglia come un fratello gemello. Ho l'impressione di contemplarmi in uno specchio. Che strano effetto!» Peggy provava un fastidio analogo, dato che il suo doppione si era avvicinato a lei per guardarla da sotto il naso. La 'ragazza' le somigliava come una goccia d'acqua. «Se non fosse completamente nuda, non riuscirei a distinguerla da te!» borbottò il cane blu. «Io sì» ribatté Peggy. «Ha qualcosa di cattivo nello sguardo. Gli occhi di una pantera quando fiuta la sua preda.» I due amici indietreggiarono, ma le 'marionette' sbarrarono loro la strada. Furiosa, Peggy volse le spalle al suo doppio e partì alla ricerca di Sebastian. Il cane blu la imitò... e così anche il suo sosia. «Non potremo più fare un passo senza averli alle calcagna!» esclamò Peggy. «Ci osserveranno notte e giorno per studiare i nostri atteggiamenti e la nostra maniera di parlare. Stanno imparando la loro parte.» Mentre avanzavano sulla pianura, la sosia di Peggy si fermò brevemente per spogliare dei suoi abiti un bambino che rideva nel sonno. Al momento, le marionette non sembravano in grado di parlare, ma il loro mutismo non sarebbe certo durato! Trovarono Sebastian impegnato a trasportare delle bottiglie di betano. Il ragazzo aveva iniziato a raccogliere i resti del Capitano fantasma. Contrariamente a quanto prevedeva Peggy, non fu sorpreso di scoprire i sosia. «Ehi! Fortissimo!» esclamò. «Così quando sarò arrabbiato con te potrò uscire con la tua sorella gemella!» «Tu non sei normale» osservò Peggy Sue. «La tua maschera non filtra più adeguatamente il gas esilarante.»
«Ma no!» protestò il ragazzo. «Mi sento in ottima forma: sei tu che non hai più il senso dell'umorismo. Carina, tua sorella! Ora sarete in due a coccolarmi. Sento che la situazione mi piacerà!» «Non hai ascoltato le mie spiegazioni!» ribatté Peggy, spazientita. «Qui c'è poco da ridere. La Divoratrice manderà questi burattini sulla Terra al nostro posto e noi resteremo qui per sempre, in questa 'ridente' prigione.» «È proprio intossicato» constatò il cane blu. «Stai parlando al vento. Il filtro della sua maschera antigas deve essere saturo... oppure la maschera ha una fessura che lascia passare il gas.» «Dovremmo dargli un po' di linfa.» «No, ne resta a malapena per noi due. Non possiamo sprecarla.» Da quel momento, divenne impossibile compiere un solo gesto senza che i sosia si mettessero subito a imitarli! Se Peggy si sedeva a gambe incrociate, la marionetta Peggy si sedeva a sua volta; se il cane blu si grattava, si grattava anche la marionetta cane. «Ah, ah! C'è da sbellicarsi dalle risate!» sbottò Sebastian, tenendosi la pancia, come se non avesse mai visto niente di così divertente in vita sua. Peggy Sue lo aiutava a raccogliere i resti del dirigibile. Casse e bombole erano sparpagliate per molte centinaia di metri. L'involucro del pallone, per quanto lacerato dall'esplosione, non era in pessimo stato, dato che aveva un unico grosso foro. «Ci sono delle toppe nella cassetta degli attrezzi,» fece il cane blu «delle grosse toppe. Le incolleremo fra loro per riparare lo strappo.» «La bomba si trova nelle casse marchiate con un teschio» sussurrò la ragazza. «Perché funzioni bisogna prima montarla, come un gioco di costruzioni. Spero che le istruzioni siano comprensibili: potremmo averne bisogno.» «Se fossimo dei veri eroi la faremmo scoppiare senza indugiare oltre» esclamò il cane blu. «Accetteremmo di sacrificarci per impedire alla Divoratrice di invadere l'universo.» «È vero,» sospirò Peggy «ma non siamo degli eroi da fumetto. Noi abbiamo voglia di vivere.» Peggy si stava caricando in spalla una bombola di betano, quando uno strano mostriciattolo sbucò fuori da una roccia di gomma. Aveva l'aspetto di un bambino, ma la sua anatomia sembrava costruita in assoluto spregio del buon senso. Aveva la bocca ai posto dell'occhio sinistro, e viceversa.
Le orecchie gli spuntavano da sopra le spalle e le braccia toccavano il suolo, come quelle di un gorilla. «Ehi! Non scappare» disse a Peggy con la voce piena di tristezza. «Non sono cattivo. Sono solo una marionetta malriuscita. Una delle prime che la Divoratrice ha realizzato. A quei tempi non era ancora molto abile. Puoi vedere il risultato.» «Oh!» fece la ragazza. «Scusami, sono rimasta sorpresa. Come ti chiami?» «Dovevo essere la copia di un ragazzino di dieci anni di nome Alzir, ma in realtà non sono nessuno. Non ho nome. La bestia si è separata da me e da allora vago per la pianura. Siamo in molti a trovarci in questa situazione. Il gas esilarante non ha alcun effetto su di noi, sicché non abbiamo neppure la consolazione di ridere come degli ebeti.» «Non hai più alcun contatto con la creatura?» «No, si è disinteressata completamente di noi da quando ha visto che eravamo malriusciti. Ci ignora. Non può distruggerci, perché siamo pezzi del suo corpo, ma ci ha cancellato dalla sua memoria. Non ci parla mai.» Alzir si mise a sedere su una cassa. Esaminò la marionetta Peggy e la marionetta cane, poi scosse il capo. «Non c'è che dire,» ghignò «la Divoratrice ha fatto dei bei progressi! Io e i miei amici non rischiamo certo di farci scambiare per dei terrestri!» «E tu sei sempre obbligato a obbedire alla creatura?» chiese la ragazza. «No» rispose Alzir, sollevando le orecchie incollate alle spalle. «I contatti sono interrotti. Siamo liberi di andare dove ci pare: il dramma è che non possiamo andare da nessuna parte. E poi i nostri corpi sono così mostruosi che noi stessi proviamo difficoltà a guardarci reciprocamente quando siamo fra noi.» «Quanti siete?» «Almeno trecento... forse più. Inizialmente la bestia non conosceva bene le tecniche del modellare. I nostri organismi rimangono instabili, gli organi si spostano di qua e di là. A volte i miei occhi cambiano posto, non posso impedirlo. Oppure le mie dita si mettono a restringersi e quando diventano troppo piccole non posso più afferrare nulla. Tendiamo a stare in gruppo: in due o tre è più facile assistersi reciprocamente. I nostri handicap si compensano.» «Conosci i progetti della bestia?» «Sì, ma non significano granché per noi, i 'malriusciti'. Non abbiamo idea di cosa ci sia fuori dall'uovo. Il mondo esterno è un grande mistero. È
normale, dato che abbiamo sempre vissuto qui. Da quando la creatura si è separata da noi, i suoi pensieri ci sono estranei. Non mi sento più obbligato a condividere le sue idee o a obbedirle. A volte ho voglia di arrampicarmi fino alla superficie, per vedere com'è... ma penso che gli abitanti di Kandarta non apprezzerebbero il mio aspetto, e allora me ne rimango qui, al buio, ad ascoltare i bambini canguro che ridono.» 30 L'esercito delle marionette Poco a poco, altri 'malriusciti' uscirono dal loro nascondiglio. Erano gli amici di Alzir. La maggior parte di loro non aveva nome, e tutti esibivano deformità spaventose. Alcuni cambiavano forma ogni due minuti, altri avevano l'aria di pozzanghere di fango viventi e si spostavano strisciando. «Ecco gli 'abbozzi', gli schizzi modellati dalla bestia» spiegò Alzir. «Allora faceva i suoi primi passi nella scultura di esseri viventi e risultava piuttosto maldestra. Niente a che vedere con gli splendidi sosia che ha plasmato prendendo voi come modelli.» Peggy sospirò. I sosia cui Alzir faceva riferimento le davano ai nervi! La 'ragazza', di fatto, aveva cominciato a parlare. Ripeteva come un pappagallo tutto ciò che diceva Peggy, variando le intonazioni. Il falso cane, a sua volta, si allenava ad abbaiare, senza grande successo. «Sembrano flatulenze di topo» ghignò il cane blu. «Non è esattamente così che si fa, amichetto mio! Devi produrre qualcosa di meglio, se vuoi ottenere il tuo diploma!» Peggy Sue, agghiacciata, dovette ben presto riconoscere che la 'ragazza' era piuttosto brava. Immagazzinava parole e frasi a velocità allucinante. Il suo vocabolario cresceva da un minuto all'altro, ed era in grado di copiare con impressionante fedeltà i gesti e la mimica del suo modello. «Che attrice!» esclamò il cane blu. «Sei fortunata: il mio sosia non è così dotato. Senti un po': sembra un maiale che grugnisce!» La situazione peggiorò quando apparve il sosia di Sebastian, che nel frattempo la Divoratrice aveva modellato. Subito il falso ragazzo si collocò accanto alla marionetta Peggy e carezzò il sosia del cane. «Per tutti gli dèi del cosmo,» balbettò Peggy Sue, «quel tipo è la replica esatta di Sebastian. Potrei lasciarmi ingannare, se lo sguardo non lo tradisse. È come quello della ragazza, cattivo. Ha occhi da predatore... da tigre
affamata. Purtroppo in superficie nessuno se ne renderà conto!» Non ci volle molto perché i due burattini si mettessero a parlare. Si scambiavano le loro impressioni sui modelli che avevano il compito di imitare. «Detesto il colore dei capelli di questa ragazza» disse la falsa Peggy. «Lo cambierei volentieri, ma la Madre di noi tutti, la bestia degli inferi, ha precisato che non dobbiamo apportare alcun mutamento alla fisionomia di quei tre.» «Lo so,» fece il falso Sebastian «ed è un peccato, perché la faccia di quel tipo che devo imitare non mi sta bene per niente. Non mi piace il genere messicano. Avrei voluto essere biondo.» «Non me ne parlare» sospirò l'altra. «Guarda un po' il naso di questa povera ragazzina: è davvero orribile. Se volessi, potrei facilmente aggiustarlo.» Stringendo la sua appendice nasale fra il pollice e l'indice, prese a modellarla come se si trattasse di un pezzettino di cera. In trenta secondi, la trasformò in uno splendido naso da top model. «Che ne dici?» fece in tono trionfante. «Non è meglio così?» «Fantastico!» approvò il 'ragazzo'. «Quanto a me, sono gli occhi che non vanno: sono a mandorla, che orrore! Vorrei che fossero così.» Afferrandosi il viso con entrambe le mani, si massaggiò le sopracciglia per arrotondare le palpebre. Il vero Sebastian, che si era seduto a osservarli sopra una cassa, si torceva dal ridere. «Ah!» esclamò. «Sono troppo divertenti! Non ne posso più!» «Smettila di sbellicarti, non c'è proprio niente da ridere. Queste creature ci stanno rubando la personalità.» «Ha ragione!» ringhiò il cane blu. «Questo cagnaccio di plastilina mi dà proprio sui nervi: credo che lo ridurrò in poltiglia!» Si gettò sul suo doppio, con l'intenzione di farlo a pezzi. Purtroppo fu costretto a desistere. Non appena piantò le zanne nel posteriore del sosia dovette fare un balzo all'indietro, sputando per il disgusto. «Berk!» esclamò. «Quella roba ha un sapore schifoso! Più amaro del fiele! Fa vomitare.» La falsa Peggy sorrise facendosi avanti. «Non potete farci del male» spiegò parlando con la voce dell'originale. «I nostri corpi sono modellati con la carne della bestia. Le ferite che ci infliggerete cicatrizzeranno in pochi minuti. Smettetela con queste reazioni
infantili.» Fissando Peggy negli occhi, aggiunse con un sorrisetto sprezzante: «Non muoio dalla gioia per il fatto di dover interpretare il tuo ruolo. Non sei così bella, e la tua pettinatura fa pena. Hai un naso catastrofico e troppe lentiggini. C'è da chiedersi come Sebastian si sia potuto innamorare di te.» «Io lo so» intervenne il sosia di Sebastian. «È un poveraccio non tanto intelligente, ecco tutto. Di fatto, i Terrestri nel loro insieme sono piuttosto stupidi.» «Esatto» rincarò la sua compagna. «Per non parlare dei loro corpi. Si può immaginare un organismo meno pratico? Non hanno un numero sufficiente di arti. Due braccia, due gambe... Che se ne possono fare? Non molto, in verità!» «E per di più non possono girarli in tutte le direzioni. Un tentacolo è molto più pratico: ci si possono anche fare dei nodi! Tu ti ci vedi a fare un nodo con un braccio o con una gamba?» «È una razza di poveretti» concluse la falsa Peggy. «Una specie che non merita di vivere. Li divoreremo uno per uno, fino all'ultimo esemplare quando saremo sulla Terra.» «Speriamo che abbiano un buon sapore!» ghignò il 'ragazzo'. Il falso cane non disse nulla, perché stava ancora cercando di abbaiare correttamente, attività per la quale non sembrava molto dotato. «Buffone!» gli gridò il cane blu. «Non ascoltateli,» intervenne Alzir «o vi faranno impazzire. Il meglio è fare come se non esistessero.» «Io li trovo simpatici, specialmente il ragazzo» dichiarò Sebastian fra uno scoppio di ilarità e l'altro. I tre amici si sistemarono fra le casse, per dormire qualche ora. Avevano fame. Alzir e i suoi compagni si offrirono di condividere il loro pasto. «Mangiamo questi semi» spiegò esibendo una zucca piena di grosse palle arancioni. «La Divoratrice li fabbrica per i bambini canguro. Sono zuccherati e contengono tutto ciò che occorre per sopravvivere. I tentacoli li espellono attraverso le ventose e li lasciano rotolare sulla pianura come palle da biliardo. Peggy pensò di non aver scelta. Si mise a sedere a gambe incrociate e portò alla bocca uno dei 'frutti'. «Sono mangiabili,» constatò «sembrano caramelle all'arancia. Preferisco non sapere di che sono fatte.»
«Squisite!» esclamò Sebastian, mettendosi a ridere ancora più forte. «In nome di una salsiccia atomica!» si lamentò il cane blu. «Temo che sarà ben presto maturo per andare a giocare ai canguri.» «È colpa della sua maschera» si lamentò la ragazza. «Non filtra più nulla.» I sosia li osservarono mentre mangiavano e poi si misero a imitare i loro gesti. «Voi non mangiate?» chiese Peggy. «Non a questo stadio della nostra evoluzione» rispose la ragazza in tono sdegnoso. «Quando diventerò a mia volta una bestia degli inferi, divorerò dei Terrestri, ma fino ad allora vivrò delle mie riserve. Sono capace di rimanere ibernata per mille anni. D'altra parte, se fossi al tuo posto eviterei di ingozzarmi: il tuo sedere è già abbastanza grosso!» Peggy Sue fu sul punto di scaraventarle addosso la sua palla di zucchero caramellato. Perdiana! - disse tra sé - ho davvero quella faccia lì? E tutti quei gesti snervanti... mi mollerei volentieri un paio di ceffoni. Terminato il pasto, i 'malriusciti' si ritirarono. Non avevano bisogno di dormire, ma conoscevano questa debolezza dei Terrestri. Peggy e il cane blu si stesero. Per quanto innervositi, non ce la facevano più a stare in piedi. Sebastian si addormentò di colpo. Rideva anche nel sonno. Peggy Sue sognò che un serpente le si insinuava nell'orecchio, e si svegliò di soprassalto. Constatò allora che il serpente in questione non era altro che l'indice del suo sosia! «Ehi!» gridò. «Cosa stai combinando? Perché mi ficchi le dita nell'orecchio?» «Sto copiando i tuoi ricordi» spiegò la marionetta con un sorriso gentile. «Facciamo sempre così. Ho bisogno di sapere tutto su di te per poter recitare correttamente il tuo ruolo. È piuttosto divertente. Si ha l'impressione di seguire una serie televisiva. Nel tuo caso, il titolo sarebbe 'le avventure di una povera ragazza nel paese dei mostri'!» Incapace di trattenersi, Peggy Sue le mollò una sberla. Ebbe l'impressione di colpire la ruota di un camion. «Ahi!» gemette, massaggiandosi il palmo dolorante della mano. «Ti avevo avvertito,» ghignò la marionetta «siamo invulnerabili. Rimettiti a dormire... devo copiare il resto della tua vita. Ho un occhio microscopico sulla punta dell'indice: è lui a leggere quello che c'è scritto nella tua
memoria. Il tuo cervello non è molto diverso da un CD. Se si dispone di una buona testina di lettura laser, si può copiare tutto ciò che contiene.» «Lasciami in pace!» esclamò Peggy. «Non ti avvicinare più.» La marionetta scosse le spalle. «Perché ribellarti?» disse con voce stupita. «Ricomincerò non appena ti sarai addormentata... e sarai obbligata a dormire prima o poi, no?» L'indomani, Peggy Sue si svegliò con il mal di testa. I sosia chiacchieravano fra loro. Avevano l'aria sospettosa. «Ci sono un sacco di cose che non capiamo, fra i tuoi ricordi» fece la 'ragazza'. «Delle abitudini terrestri che ci risultano incomprensibili. Ci devi spiegare il senso di tutto ciò, o non potremo recitare la nostra parte in maniera adeguata.» Peggy fu inizialmente tentata di rifiutare, poi pensò che sarebbe stato più furbo prendere tempo fingendo di collaborare. «D'accordo» sospirò. «Cos'è che non capite?» «I baci...» fece il suo sosia. «Perché vi baciate? Per nutrirvi? Mangiate le labbra dei vostri fidanzatini? E poi vi ricrescono? Quante volte al giorno bisogna baciarsi per avere un'alimentazione equilibrata?» Peggy scoppiò a ridere. «Effettivamente» ghignò «non ci capite granché!» Per mezz'ora cercò invano di spiegare alla marionetta il significato dei baci, ma la creatura non riuscì a capire la necessità di un comportamento così aberrante. Non ha sentimenti, pensò Peggy, non è in grado di provare niente. È una specie di macchina vivente. «Se non è per nutrirvi, non serve a niente!» concluse il suo sosia. «È come la moda... Perché siete tanto ossessionati dai vestiti? Sono solo degli imballaggi, degli involucri la cui funzione è proteggervi dal freddo. Colore e forma hanno poca importanza.» «E la musica!» intervenne il sosia di Sebastian. «A cosa serve? È una specie di grido di guerra, destinato a terrorizzare i vostri nemici?» «Non capite proprio niente!» esplose Peggy Sue. «Non riuscireste a ingannare nessuno per più di un minuto, sulla Terra. Vi prenderanno per matti e vi rinchiuderanno in un manicomio.» Le marionette si scambiarono sguardi inquieti. Il successo della missione era la loro unica preoccupazione. L'adolescente intravide il mezzo per negoziare con la Divoratrice.
«Ascoltate» propose. «Se la bestia mi fornisce una quantità sufficiente di linfa antidoto perché non mi metta a ridere come una deficiente in capo a due giorni, mi impegno a insegnarvi le abitudini terrestri.» I sosia sembravano interessati, dato che erano entrambi consapevoli di non essere all'altezza del compito. «D'accordo» dichiarò la 'ragazza'. «Accompagnami, sottoporrò la tua proposta a nostra Madre.» Con il cane blu alle calcagna, Peggy seguì la marionetta nella notte degli abissi. Senza i granelli luminosi disseminati sulla pianura, si sarebbe rotta dieci volte le ossa prima di aver fatto cinquanta passi. Così vide finalmente la creatura del sottosuolo. Un'esplosione di metano si produsse sopra di loro, rischiarando lo spazio interno del guscio come un fuoco d'artificio. Il chiarore delle fiamme permise all'adolescente di distinguere una forma gigantesca che si ergeva al centro della pianura di gomma. Era... era più alta di una montagna. Somigliava a una piovra blu, ma anche a una sfinge o a un leone inginocchiato. Era indescrivibile. Il numero dei tentacoli era così elevato che era impossibile farsi un'idea precisa del fantastico animale mimetizzato in quell'intrico di pseudopodi e ventose. La 'Cosa' brulicava da tutte le parti: i tentacoli si annodavano e si snodavano senza posa. Alcuni esploravano le fessure del guscio, altri si trascinavano sulla pianura. Ai piedi di quell'idolo vivente, che sembrava uscito da un incubo, dei bambini erano schierati in coro a cantare arie di Natale, sbellicandosi dalle risate. Peggy Sue rimase immobile, schiacciata dall'immensità di quello spettacolo. Quando le fiamme del metano si spensero e tornò l'oscurità, fu quasi sollevata. Si accorse che stava tremando. Era terrorizzata all'idea di ciò che sarebbe potuto avvenire se una creatura simile fosse riuscita a espandersi attraverso le galassie! La mano del suo sosia le si posò sulla spalla, facendola fremere. «Va bene» annunciò la marionetta. «Ho appena ricevuto una risposta telepatica. Nostra Madre si impegna a prelevare alcune radici sulla foresta sotterranea, così potrai disporre dell'antidoto che chiedi. In cambio, dovrai tenere dei corsi all'esercito dei sosia che si prepara a salire in superficie.» «Quanti sono?»
«Trecento: nostra Madre ritiene che bastino per conquistare l'Universo. A partire da questo momento, considerati ingaggiata come loro insegnante e preparati a rispondere alle nostre domande.» «Un bel divertimento!» borbottò il cane blu. Per Peggy fu un'esperienza alquanto bizzarra. Dai quattro angoli della pianura accorsero torme di marionette per assistere ai suoi corsi di perfezionamento. I falsi bambini modellati dalla creatura si sedettero a gambe incrociate intorno a lei e cominciarono ad assillarla di domande bislacche. «Perché avete capelli di colori diversi? E a che servono? Si tratta di piccoli tentacoli ancora troppo deboli per muoversi?» «Perché avete dieci dita e non dodici?» «Perché non si può cambiare di posto il proprio naso?» «Perché non si può fare un nodo con il proprio braccio?» Peggy cercò di rispondere senza perdere la pazienza, ma i più accaniti rimanevano la falsa Peggy e lo pseudo-Sebastian. Il 'ragazzo' esigeva che l'adolescente gli desse un 'bacio dimostrativo', perché temeva di risultare ridicolo se si fosse trovato obbligato a baciare una ragazza. «Non so come muovere le labbra!» gemeva, abbozzando una smorfia repellente che avrebbe fatto fuggire immediatamente le giovani terrestri. «Devi farmi vedere come si fa: sei il mio professore!» «Non se ne parla nemmeno!» replicò Peggy, terrorizzata all'idea di posare le labbra su quella bocca fatta di carne di piovra. «Allora, che sia il cane blu a mostrarmi come devo fare!» esigeva il sosia. «Non è possibile,» spiegò Peggy Sue «sulla Terra i ragazzi non baciano i cani sulla bocca.» «E perché no?» fece il suo interlocutore, stupito. Queste assurde conversazioni portarono Peggy sull'orlo di una crisi di nervi. Dal canto suo, il cane blu non se la passava meglio. Cercava disperatamente di insegnare al suo sosia come comportarsi da vero animale: purtroppo, però la marionetta a quattro zampe che doveva interpretarlo non la smetteva di scambiare la testa con la coda. «E il ballo?» chiese la falsa Peggy. «Che roba è? Sembra una cosa importante per voi. Perché vi scuotete in quel modo? Per digerire meglio? Per rimettere a posto i vostri organi quando restate seduti troppo a lungo? Per lisciarvi la pelle? Per....»
Se avesse potuto, Peggy Sue l'avrebbe strangolata! Terminata la giornata di lezioni, Peggy e il cane blu andarono a ricongiungersi con i 'malriusciti', i quali - rimpiazzando Sebastian, ormai troppo preso dalle sue risate - cercavano di rimettere insieme i brandelli del pallone. «Come vanno le cose?» chiese la ragazza. «Non male» sussurrò Alzir. «L'involucro è riparabile. Basterà colare un po' di linfa di Hevea sulla fessura, per farla richiudere. C'è anche abbastanza betano per sollevare duecento elefanti. E poi stiamo restaurando la navicella.» «E... la bomba?» domandò il cane blu. «L'ho esaminata» fece Alzir scuotendo la testa. «È di un tipo speciale. Non si tratta di un esplosivo classico, che fa 'boom' e riduce tutto a pezzi. Un ordigno infernale del genere non farebbe nessun male alla creatura, che assorbirebbe l'energia dell'esplosione e se ne nutrirebbe. Non le farebbe più effetto dello scoppio di un petardo sotto il sedere di un dinosauro. No, l'aggeggio di cui siete stati dotati è di un altro genere. Si compone di tre gas contenuti in altrettante bombolette. C'è un meccanismo a orologeria, che ha la funzione di mescolarli a un'ora determinata, in proporzioni complesse, in maniera da formare un veleno in grado di uccidere la Divoratrice... ma anche tutti quelli che abitano dentro l'uovo: sosia e umani...» «Massalia non sapeva che ci sarebbero stati dei bambini» osservò il cane blu. «A ogni modo, questa bomba è un'aberrazione» mormorò Alzir. «Se si uccide la Divoratrice, Kandarta cesserà immediatamente di essere abitabile. La gravità scomparirà, e così anche l'atmosfera che permette di respirare. L'uovo si trasformerà in un ciottolo sterile alla deriva nello spazio. Nel momento stesso in cui la bestia degli abissi esalerà l'ultimo respiro, tutti gli esseri umani che abitano sulla superficie del guscio moriranno soffocati, e i loro cadaveri si metteranno a galleggiare per aria.» «Allora Ranuck aveva ragione» sibilò Peggy. «Non si può uccidere la bestia senza causare la distruzione di Kandarta.» «Mi dispiace» si scusò il giovane mostro. «Tuttavia esiste un mezzo per neutralizzare la creatura. Ma preferisco avvertirvi subito che non è privo di pericoli.» «Di che si tratta?» «È possibile, modificando il dosaggio dei componenti, ottenere un gas
che, invece di uccidere la Divoratrice, la addormenterà per mille anni. Questo gas avrà effetto soltanto sulla bestia e sulle sue creature, i 'malriusciti' e i sosia, mentre sarà inoffensivo per gli esseri umani.» «Questo significa che ti addormenterai anche tu, per mille anni...» sottolineò Peggy Sue. Alzir alzò le spalle. «Che importanza ha? Io e i miei compagni siamo così orribili che fatichiamo a sopportarci perfino tra noi. Dormire ci risparmierà tristezza e sofferenza. Sogneremo di essere belli e di piacere a tutti.» «È triste» mormorò Peggy con un groppo alla gola. «Non ci si può far nulla» fece il mostro, in tono elusivo. «Almeno avrò la soddisfazione di vendicarmi di chi mi ha reso così. La bestia mi ha giocato un brutto tiro e non farò altro che renderle pan per focaccia.» «Riuscirai a dosare correttamente il nuovo miscuglio?» insisté il cane blu. Alzir fece una smorfia (il che ebbe la conseguenza di renderlo così brutto che Peggy e l'animale furono sul punto di lasciarsi sfuggire un grido di terrore!). «Il rischio c'è» ammise il mostro. «Non c'è nulla di garantito. Se mi sbaglio, moriremo tutti nell'istante esatto in cui il gas si diffonderà. Il veleno è stato ideato con grande abilità. Impiega ingredienti di estrema rarità, gli unici in grado di attaccare l'organismo della Divoratrice, e vi posso garantire che non ne esistono molti. Farò del mio meglio, ma se dovessi commettere il minimo errore, sarà la morte per tutti gli esseri che si trovano all'interno del guscio. Ve la sentite ugualmente di correre il rischio?» «Sì» balbettò Peggy. «Non ho voglia di rimanere prigioniera dell'uovo, a ridere e saltare come un canguro fino a ottant'anni!» «D'accordo» fece Alzir abbassando gli occhi. «Io e i miei amici ci dedicheremo alla fabbricazione della nuova bomba. Alla minima falsa manovra, la nostra morte sarà immediata: questa almeno è una consolazione.» «Fantastico!» ghignò il cane blu. «La cosa mi riempie di gioia.» «Quando la bomba sarà pronta» decise Peggy «salteremo sul pallone. Il betano ci spingerà verso la superficie. Tu sei sicuro che i bambini veri non soffriranno degli effetti del gas?» «No. Appena la Divoratrice si sarà addormentata, smetterà di emettere il suo veleno esilarante. I suoi piccoli prigionieri finalmente si risveglieranno e smetteranno di ridere e di saltare. Potrete finalmente fare la spola fra la superficie e il fondo dell'uovo per recuperarli. La bestia dormirà così profondamente che i salvatori non avranno nulla da temere dai suoi tentacoli.
Il mio piano è perfetto... almeno in teoria. L'unico pericolo è che i sosia capiscano ciò che stiamo tramando. Bisogna mantenere il segreto più assoluto. Non consentite più loro di visitarvi il cervello per registrare i vostri ricordi, perché si imbatterebbero in questa conversazione e il nostro progetto andrebbe in fumo.» «D'accordo,» approvò Peggy Sue «faremo attenzione. Cercherò di recitare il mio ruolo di istitutrice nella maniera più convincente possibile, per darti il tempo di preparare la nuova bomba soporifera. Ma mi dispiace molto sapere che ti addormenterai pure tu.» «Non fa nulla» fece Alzir, sforzandosi di sorridere (con l'effetto di scoprire le sue zanne spaventose). «Il fatto di averti incontrato mi ha scaldato il cuore. Grazie a te ho fatto qualcosa di utile in questa prima parte della mia esistenza. Me ne ricorderò ancora quando mi risveglierò, fra mille anni.» Si separarono, perché non volevano dare nell'occhio rimanendo insieme troppo a lungo. Peggy riprese il cammino verso la 'scuola', per rifinire l'educazione dei sosia. «Credi che Alzir sarà capace di giocare al piccolo chimico?» le chiese mentalmente il cane blu. «Lo spero» sospirò la ragazza. «Non dimenticare che è parte della bestia, dunque conosce a perfezione il suo organismo. Se c'è qualcuno che sa cosa può farle del male, quello è senz'altro lui.» Furono accolti dalle marionette, eccitatissime. «Abbiamo capito tutto sul bacio» annunciò la falsa Peggy. «Sì!» ribadì il finto Sebastian. «In effetti, la vostra bocca è l'unica ventosa di cui disponete, al contrario delle piovre, che ne hanno dappertutto.» «È un'arma,» fece la marionetta Peggy «e quando abbracciate il vostro nemico, aspirate tutti gli organi contenuti nel suo corpo. Baciare è una maniera di combattere e di nutrirsi. Non è così?» «Non esattamente...» gemette Peggy Sue, in preda allo sconforto. 31 Nebbia mortale Alzir e i suoi compagni mostruosi lavorarono indefessamente per rimettere a posto il pallone. Quel gran dispiegamento di energie non preoccupava la Divoratrice, la quale aveva previsto, in ogni caso, di utilizzare il Capitano fantasma per spedire le marionette in superficie. Tuttavia, dato che
non intratteneva più nessuna comunicazione telepatica con i 'malriusciti', ignorava che stavano mettendo a punto una bomba in grado di immergerla per dieci secoli in un sonno profondo. «È troppo sicura di sé, è il suo punto debole» spiegò il giovane mostro a Peggy Sue. «Prova disprezzo sia per voi umani che per noi 'malriusciti'. Non riesce a concepire che possiamo farle del male. Ai suoi occhi, siamo troppo deboli per rappresentare un pericolo. Nient'altro che dei vermi! Per quanto concerne me e i miei compagni, crede che ci diamo da fare per rientrare nelle sue grazie. Non sospetta che abbiamo in testa un'unica idea: vendicarci!» Peggy era nervosa. Era rimasta trepidante a guardare i 'malriusciti' manipolare le bombolette di gas della macchina infernale. Una falsa manovra avrebbe potuto ucciderli, tutti. Il dosaggio sembrava un'operazione di estrema complessità. «Bisogna programmare il timer perché mescoli i diversi gas al momento giusto e secondo le proporzioni esatte. Se ci sbagliamo anche solo di mezzo decilitro, sarà la fine per tutti. Invece di addormentarci, moriremo asfissiati.» L'angoscia di Peggy Sue era accresciuta dal fatto che Sebastian aveva cominciato a saltare. Da due giorni non riusciva più a stare fermo. Rifiutando di bere la linfa che fungeva da antidoto, giocava a fare il canguro, saltellando su e giù per le colline di gomma. «Tienilo d'occhio» ordinò la ragazza al cane blu. «Non bisogna che ci sfugga, quando verrà il momento di imbarcarci!» Era angosciata all'idea che la bestia degli abissi potesse scoprire all'improvviso il complotto che si stava tramando nell'ombra. Il pericolo veniva dai sosia, che al termine della lezione curiosavano dappertutto. Peggy si sforzava di tenerli occupati il più a lungo possibile, obbligandoli a danzare e cantare. Per dieci volte si sfiorò la catastrofe. Finalmente Alzir le annunciò: «È pronta. Sta a te prendere la decisione finale. Quando avrò avviato il timer, niente più potrà arrestarlo. Abbiamo fatto del nostro meglio, ma non posso garantirti che funzioni. Quando il conto alla rovescia avrà raggiunto lo zero, il gas che uscirà dalle bombole potrebbe anche ucciderci.» Peggy Sue scosse la testa. Non avrebbe fatto marcia indietro. «Sarebbe bene partire cinque minuti prima dell'esplosione» insisté Alzir. «In caso di problemi, prendervi un po' di vantaggio potrebbe salvarvi la vita. Con un po' di fortuna il pallone salirà più in fretta del gas mortale. Sarà
una corsa forsennata, ma il betano è molto volatile e vi permetterà di staccarvi dal suolo.» «Se la bestia vede decollare il pallone, sospetterà qualcosa» obiettò l'adolescente. «Le dirò che stiamo facendo delle prove. Tu e i tuoi amici vi nasconderete fra le casse. Non immaginerà neppure per un attimo che possiamo tramare qualcosa contro di lei. Ci crede troppo stupidi per farlo.» «Lo spero» sospirò Peggy per nulla rassicurata. «Quando passeremo all'azione?» «Il più presto possibile, non possiamo permetterci di aspettare. I sosia ficcano il naso dappertutto. Se dovessero maneggiare la bomba, può succedere il peggio. Bisogna evitare che si mettano ad aprire i rubinetti e a modificare i dosaggi: sarebbe una catastrofe!» «D'accordo» fece Peggy Sue. «Vado ad avvertire Sebastian e il cane blu. Preparaci un nascondiglio in mezzo alle casse.» Partì alla ricerca dell'animale. Non si sentiva tranquilla. Mentre camminava, ebbe l'impressione che l'enorme occhio della Divoratrice la fissasse attraverso le tenebre. Si sforzava di non pensare al caso in cui la creatura fosse stata tentata di leggerle la mente, ma fortunatamente non accadde. La bestia la disprezzava troppo per perdere tempo a sorvegliarla. Trovò finalmente il cane, trafelato e ansimante, con la lingua di fuori più lunga della sua cravatta. «Non ne posso più di correre appresso al tuo amichetto» protestò. «Non sta più fermo un istante. Fa dei salti demenziali. È come se indossasse degli stivali delle sette leghe: non riesco a seguirlo.» «Bisogna acchiapparlo» disse Peggy in tono affannoso. «Il pallone è pronto e Alzir sta per innescare la bomba.» «In nome di una salsiccia atomica!» ringhiò l'animale. «Avremmo fatto meglio a legare questo dannato Sebastian quando ha cominciato a ridere come una balena.» I due amici si lanciarono per aria, cercando di identificare il ragazzo in mezzo agli altri esseri saltanti. La mancanza di luce non facilitava la ricerca. «Sebastian!» gridava Peggy. «Scendi! Ho qualcosa da dirti!» Ma la sua voce si perdeva in mezzo agli scoppi di risa che provenivano dall'alto. «Là!» ringhiò infine il cane. «È lui!»
E saltò sul ragazzo proprio nel momento in cui stava toccando il suolo. Peggy lo imitò. In due tennero fermo Sebastian sulla pianura di gomma, per impedirgli di spiccare un ennesimo salto. «Ehi!» protestò il ragazzo. «Che fate? Sto preparando il mio doppio salto carpiato per il grande concorso annuale!» Senza lasciargli il tempo di reagire, Peggy Sue lo afferrò per le braccia e il cane blu gli piantò le zanne in uno dei calzini. «Vieni!» gli ordinò la ragazza. «È molto importante. Ti spiegherò dopo.» Il ragazzo lasciò fare, all'inizio di malavoglia. Gli altri 'canguri' lo apostrofarono: «Allora, te ne vai?» gridavano, fra gli scoppi di risa. Trascinare Sebastian fino al pallone non fu cosa da poco. Si dibatteva sbellicandosi dalle risate, come un bambino di cinque anni che soffre il solletico. «Spicciatevi, ho avviato il timer!» mormorò Alzir. «La bomba esploderà fra dieci minuti. Non potevo più aspettare, i sosia hanno iniziato ad ammassarsi intorno alle bombolette. Non smettono di chiedere a cosa serve questo affare. Credono che si tratti di bagni pubblici, come ce ne sono tanti sulla Terra, ed esigono una dimostrazione! Non so per quanto tempo ancora i miei compagni riusciranno a tenerli lontani dai rubinetti. Se si divertono a manipolare le valvole, modificheranno le dosi del miscuglio... e saremo tutti rovinati!» Peggy e il cane blu tirarono Sebastian verso la navicella e lo obbligarono ad accoccolarsi fra le casse. «Che gioco è questo?» chiese il ragazzo, continuando a ridere come un pazzo. Peggy gli mise una mano sulla testa, per obbligarlo a nascondersi. Gettando uno sguardo in un interstizio fra due casse, verificò che Alzir aveva ragione di preoccuparsi. I sosia si erano raggruppati intorno alla macchina infernale e come loro abitudine facevano domande balorde ai 'malriusciti' che fungevano da guardiani. «A cosa serve questo rubinetto? E quelli lì? Se lo giriamo esce della musica? Dove si fa la pipì? In questo tubo? Dov'è lo sciacquone?» Col passare dei minuti diventavano sempre più numerosi, e i poveri mostri correvano il serio pericolo di essere sopraffatti. «Via!» ansimò Alzir. «È il momento di immettere il betano nell'involucro. Il pallone si gonfierà. Rimanete ben nascosti. Io mi metterò alla prua, così la Divoratrice mi vedrà. Mi conosce, crede che sia un leccapiedi.»
Il betano ci mise poco a riempire l'involucro che si gonfiò sibilando. «Oh, che bel pallone!» gridarono i sosia. «Vogliamo salire anche noi! Vogliamo andare a spasso nell'aria!» Alzir si affrettò a levare gli ormeggi e ad aumentare il flusso del gas. L'aerostato si sollevò subito di una buona decina di metri. Le marionette emisero grida di delusione. «Che strazio!» commentò Alzir infuriato. «Le loro grida finiranno per risvegliare l'attenzione della Divoratrice. La bomba dovrebbe esplodere fra cinque minuti. Se il miscuglio è ben fatto, dovrebbe creare una nube rosa... se invece questi cretini di sosia hanno manipolato le valvole, la nube sarà blu... e ci ucciderà tutti.» Peggy Sue si mordeva le labbra e il cane blu tremava dal muso alla punta della coda. Solo Sebastian si ostinava a sganasciarsi dalle risate. Nel frattempo, il Capitano Fantasma continuava a salire nella penombra. Alzir si teneva dritto a prua, aggrappato al sartiame. Sapeva che a partire da una certa altezza la scusa delle 'prove' non avrebbe più retto. La bestia avrebbe finito per capire che stava assistendo a un tentativo di evasione e avrebbe reagito di conseguenza. «Tre minuti» annunciò. «Fra tre minuti sapremo se la bomba sputerà sonnifero o veleno. Io ho fatto del mio meglio. Se non funziona, non me ne abbiate a male.» Peggy si rese conto che si stava conficcando le unghie nel palmo delle mani. Il cuore le rimbombava nel petto. «Un minuto» annunciò Alzir. Come ogni volta in cui era troppo emozionato, il cane blu si mise ad abbaiare. Peggy gli strinse il muso per farlo tacere. «Oh!» gemette il giovane mostro. «Credo che la Divoratrice si stia preoccupando di quanto succede. Sta guardando nella nostra direzione e comincia ad agitare i tentacoli. Aumenterò il flusso del gas per accelerare la salita.» «Non troppo, però» gli consigliò Peggy Sue. «Se l'involucro scoppia, siamo rovinati! Non dimenticare che è stato rattoppato.» «Dieci secondi» balbettò Alzir. Peggy chiuse gli occhi e si strinse contro i suoi amici. Almeno, se la nuvola di gas fosse stata blu, avrebbero avuto la consolazione di morire tutti insieme. «Nove, otto, sette...» scandì Alzir.
Un'esplosione sorda scosse le pareti del guscio. Si udì un soffio stridulo. La bomba era appena esplosa e diffondeva il suo miscuglio sul fondo dell'uovo. «Che colore?» urlò Peggy. «Di che colore è?» «Non vedo nulla!» gemette Alzir. «È troppo buio!» Per una trentina di secondi, i fuggitivi furono in preda a un intenso terrore. «Blu o rosa?» si chiedeva Peggy Sue. «Rosa o blu... il sonno o la morte?» Per fortuna, in quota si produsse un'esplosione di metano, che illuminò lo spazio interno del guscio. «Rosa!» gridò il giovane mostro. «La nuvola è rosa... ha funzionato!» Non riuscendo più a trattenersi, Peggy saltò fuori dal nascondiglio per raggiungerlo alla prua dell'aerostato. Sporgendosi nel vuoto, verificò che una nebbia rosata stava invadendo la pianura, avvolgendo nelle sue volute la massa orrenda della creatura del sottosuolo. La bestia emise un ruggito raccapricciante, poiché aveva capito tutto. La sua voce possente produsse ondate di eco dolorose nella mente di Peggy. «Tu... tu mi hai ingannato, piccola Terrestre...» sibilò, «ma non crederti al sicuro... Non hai ancora vinto! Niente affatto.» «Maledizione!» singhiozzò il cane blu. «Sta dispiegando i suoi tentacoli. Guardate! Cercherà di afferrarci! Perché non si addormenta?» «È normale,» gemette Alzir «è così grossa che il sonnifero non può agire istantaneamente. Ci vorranno due o tre minuti.» «Tre minuti!» protestò l'animaletto. «Ma a quel punto saremo morti! Ci farà a pezzi!» In effetti, i tentacoli della Divoratrice si levavano già al di sopra della nebbia in direzione del pallone. Alzir tese la mano per aumentare l'afflusso del betano, ma Peggy Sue gli afferrò il polso. «No!» disse. «L'involucro scoppierà. Non possiamo più dilatarlo. Se insisti, le cuciture finiranno per cedere.» L'aerostato filava verso la superficie, ma non abbastanza in fretta da distanziare i tentacoli lanciati al suo inseguimento. Stavolta la bestia aveva dispiegato i suoi pseudopodi da combattimento, quelli che culminavano in dita artigliate. Quelle mani da incubo si aprivano e si chiudevano nervosamente nell'ansia di afferrare i fuggiaschi per schiacciarli. Pietrificata dalla paura, Peggy Sue sentì le terribili unghie raschiare il fondo delle casse, strappando brandelli di legno.
«Cucù!» gridava Sebastian sporgendosi dalla navicella. «Sono qui! Non ce la farai ad acchiapparmi! Marameo!» Rideva e moltiplicava le prese in giro nei confronti della bestia, come se quanto stava accadendo non fosse altro che un grande gioco da ragazzi. Il Capitano fantasma cominciò a beccheggiare, e i passeggeri dovettero aggrapparsi alle sartie per non cadere nel vuoto. Al prossimo colpo la navicella finirà per sfasciarsi, pensò Peggy, livida di paura. Una delle mani ricoperte di scaglie sbatté ad appena un metro di distanza dal punto in cui si trovava. «Tu... tu... non mi sfugg... ggi... rai...» le risuonò nella mente la voce della Divoratrice. «Si sta addormentando!» constatò la ragazza. «Il sonnifero la sta paralizzando.» I tentacoli si muovevano ormai pigramente, come se l'energia li stesse abbandonando. Smisero presto di aggrapparsi al pallone e si ripiegarono lentamente. «Ecco!» annunciò Alzir. «Si è addormentata. Rimarrà così per mille anni, immersa nei suoi sogni. Dillo agli umani che abitano sulla superficie del guscio. Si tratta di una tregua, di una semplice tregua. Fra dieci secoli si risveglierà e tutto ricomincerà di nuovo. Se i vostri simili non sono completamente stupidi, lasceranno Kandarta per andare a installarsi su un altro pianeta. Una tregua di mille anni lascia abbastanza tempo per organizzare il trasloco.» «E tu?» chiese Peggy. «Io» fece Alzir sollevando le spalle «salterò giù. Rimbalzerò tre o quattro volte sulla pianura di gomma e poi mi addormenterò accanto alla creatura che mi ha dato queste fattezze. Ti sognerò per i mille prossimi anni: è una prospettiva piuttosto gradevole.» «Non vuoi venire con noi?» insisté la ragazza. «No, grazie,» fece Alzir con un sorriso triste «non sarebbe ragionevole. Non ci tengo a finire in un circo o in un laboratorio, sezionato da studiosi troppo curiosi. Ritroverò i miei compagni. Non dimenticate di tornare giù a cercare i bambini canguro. Fra dieci minuti avranno smesso di saltare e di ridere. Ora che la Divoratrice si è addormentata, si sveglieranno dal maleficio che li obbligava a comportarsi come degli idioti. Avranno paura, non sapranno più dove si trovano. Non tardate a soccorrerli.»
Prima che Peggy avesse il tempo di rispondergli, Alzir scavalcò la navicella, agitò la mano in segno di saluto e saltò nel vuoto. La notte dei fondali lo ingoiò. Un buon amico, disse fra sé il cane blu. Senza di lui non avremmo mai potuto cavarcela. Peggy represse la sua voglia di piangere e si chinò su Sebastian. Il ragazzo aveva smesso di ridere. Una smorfia gli deformò il volto e si portò una mano alla fronte. «Che mal di testa!» gemette. «Dove siamo? Non ricordo nulla.» «Meglio così» ghignò il cane blu. «Ti vergogneresti di esserti comportato da vero cretino!» 32 Tre compresse blu... Tre giorni dopo, Peggy Sue e i suoi amici emersero dall'uovo attraverso il grande crepaccio che aveva consentito loro di accedere al regno della Divoratrice. Massalia e i suoi soldati li stavano aspettando. Peggy raccontò nel dettaglio quanto era avvenuto nei recessi del guscio. Nella settimana che seguì, su Kandarta si produssero grandi cambiamenti. Ranuck e i compagni della piovra persero tutti i loro poteri, la neve rosa smise di cadere, e scomparve anche la 'deliziosa leccornia'. La nebbia che imprigionava i quartieri poveri di Kandarta si dissolse. I gatti bianchi ripresero il loro colore originario. Grazie al Capitano fantasma, l'ingegnere Hinker organizzò numerose spedizioni di soccorso per recuperare i bambini prigionieri della pianura di gomma. Alcuni di loro, che vivevano là in fondo ormai da dieci anni, furono molto sorpresi di ritrovare i propri genitori. Nessuno era consapevole di essere rimasto tanto a lungo ospite della prigione delle risate. Loro non erano cresciuti, ma i loro vecchi amichetti rimasti in superficie avevano dieci anni di più! Curiosamente, Anaztaz e i suoi rifiutarono categoricamente di lasciare la rete: malgrado l'invio di tre ambasciatori, il piccolo popolo dei flautisti rimase aggrappato alla ragnatela, ostinandosi a proseguire la sua esistenza trogloditica fra le radici della foresta sotterranea.
«Dovete promettermi di non fare del male ai poveri 'malriusciti' che dormono accanto alla bestia» insisté Peggy Sue. «Senza il loro aiuto non saremmo mai riusciti a uscire da quella trappola.» «Lo giuro» affermò il generale, sollevando il suo guanto di ferro arrugginito. «Ecco,» concluse Peggy «noi abbiamo fatto il nostro lavoro. Avete mille anni per evacuare questo pianeta inabitabile. Se siete furbi, non rimarrete qui. Isolata nel suo uovo, la Divoratrice non farà più male a nessuno. Sarà come se fosse prigioniera di un'isola deserta dove non approderà mai nessuna nave. Ora vogliamo tornare a casa nostra. Mia nonna deve essere preoccupata.» «Le promesse vanno mantenute» enunciò Anabius Torkeval Massalia, deponendo un portapillole d'oro sulla mano aperta della ragazza. Sotto il coperchio c'erano tre compresse blu. Note 1
Vedi Peggy Sue e gli Invisibili - Il Castello nero. Vedi, della serie Peggy Sue e gli Invisibili, i romanzi Lo zoo stregato e Il Castello nero. 3 Stratagemma consistente nello scavare dei sotterranei sotto le muraglie di una roccaforte per introdurvisi passando dal sottosuolo! 4 Una specie di zampa. 5 Grande piazza dove la popolazione, nell'antichità, si riuniva per discutere dei problemi della città. 6 Antico grido di guerra dei cavalieri medioevali: fu il grido d'arme di Giovanni II di Francia nella sfortunata battaglia di Poitiers, segnata dalla disfatta dell'esercito francese (1356). 7 Enorme serpente che uccide le prede stritolandole. 8 Ricordiamo che un dolmen si compone di una lastra di pietra orizzontale appoggiata in equilibrio su due menhir aventi funzione di pilastri. 9 Vedi Peggy Sue e gli Invisibili - Il Castello nero. 10 Pensiero che rifiuta la modernità, la scienza, le scoperte, il progresso e si aggrappa alla superstizione, alla magia, alla fede nelle forze demoniache. 11 Celebre isola, rifugio dei pirati dei sette mari. 12 Operai portuali addetti alle operazioni di carico e scarico delle navi. 13 Carne affumicata ed essiccata a lunga conservazione, utilizzata dagli 2
esploratori e dai cacciatori. 14 Eccesso di ossigeno nel sangue dovuto a una respirazione troppo rapida. 15 Una maschera antigas è munita di un filtro, detto pastiglia, che trattiene le particelle tossiche trasportate dall'aria. Dopo un certo periodo di tempo si esaurisce e va sostituito. 16 Vedi Peggy Sue e gli Invisibili - Il Castello nero. 17 Liquore alcolico ricavato dal miele. 18 Il mimetismo è la facoltà di imitare qualcosa. In natura, molti animali hanno questo dono, che permette loro di sfuggire ai predatori. Alcuni si travestono da foglia o da ramo secco. Altri diventano invisibili, assumendo il colore esatto del terreno su cui si muovono. 19 Capacità, per un animale, un organismo vivente, una pianta, di riprodursi a partire da un frammento di se stesso. Così, una stella marina spezzettata dà origine ad altrettanti doppioni di se stessa quanti erano i pezzi! Strano, no? FINE